CESARE PASCARELLA

PROSE

(1880 — 1890)

Edizione curata, integrata e sola riconosciuta dall'Autore

S. T. E. N. Società Tipografico-Editrice Nazionale (già Roux e Viarengo — Marcello Capra — Angelo Panizza) Torino, 1920.

TUTTI I DIRITTI DI RIPRODUZIONE, DI TRADUZIONE, D'ADATTAMENTO E D'ESECUZIONE SONO RISERVATI PER TUTTI I PAESI

Copyright 1920, by the Società Tipografico-Editrice Nazionale (S.T.E.N.), Turin. Gli scritti che si raccolgono in questo volume, meno il Caffè Greco, furono pubblicati fra il 1880 e il 1890 nel «Capitan Fracassa», nella «Nuova Antologia», nel «Fanfulla» e nel «Fanfulla della Domenica».

Il Caffè Greco, letto dall'Autore nel 1890 a Padova nell'aula della Gran Guardia e a Firenze nella sala maggiore del Circolo artistico, si stampa ora per la prima volta.

INDICE

MEMORIE D'UNO SMEMORATO

Nello studio dove eravamo non si poteva più vivere. Si stava in una soffitta al sesto piano di un casamento altissimo, dove, nell'estate si bruciava come in un forno, e nell'inverno, nei giorni di pioggia, anche i quadri ad olio diventavano all'acquarello. E come se questo fosse poco, sotto a noi abitava la più numerosa e più filarmonica famiglia che io abbia mai conosciuto, il cui capo, un omone con un barbone nero che gli scendeva fin sulla pancia, era impiegato nelle regie poste e suonava il trombone. Quando tornava in casa, mentre la moglie gli apprestava il desinare, egli si metteva a soffiare nel suo strumento e cominciava il terremoto.

Le sue figliuole poi, non facevano altro che tormentare un povero pianoforte con la coda, il quale mandava certi suoni, emetteva certi lamenti e certi guaiti, come se gliela pestassero.

Un giorno, mentre il trombone del nostro vicino brontolava più fastidiosamente del solito, il mio compagno di studio, misurando l'angusta soffitta col passo dell'uomo che ha da dire cose gravi, mi confidò come un nuovo tormento venisse ad aggiungersi al trombone e al pianoforte.

— A coda! — mormorai io.

— Già. Ed è a coda anche il nuovo istrumento di tortura.

— Cioè?

— Guarda! — mi disse allora l'amico; e aperta la finestra mi accennò una gabbia di vimini, entro la quale nereggiava un merlo spennacchiato. Poi richiuse le imposte e incominciò a discorrere per provarmi che noi due, lì dentro quella soffitta, ci logoravamo inutilmente l'intelligenza; che bisognava trovare uno studio decente; che non era possibile rimanere più a lungo in quel bugigattolo. E incrociando le braccia sul petto concluse: — Non hai mai pensato che se ci dessero l'ordinazione di dipingere un gran quadro saremmo costretti a rifiutarla per mancanza di spazio?

— Sarebbe doloroso.

— Per noi e per l'arte nazionale.

Insomma, restammo d'accordo sulla necessità assoluta di metterci alla ricerca di uno studio, dove, se mai qualcuno ce l'avesse chiesto, avremmo potuto dipingere il gran quadro, senza i borborigmi del trombone, senza i guaiti del pianoforte e senza i fischi del merlo.

* * *

Di studii se ne videro molti in via Sistina e lungo la via Margutta, nei nuovi quartieri e pei vicoli popolosi e pittoreschi della vecchia Roma. Alcuni avevano l'ampio finestrone aperto sui giardini e sui cortili, altri ricevevano la luce da una larga finestra aperta nel mezzo del soffitto. Quasi tutti conservavano sulle pareti le tracce di coloro che li avevano abitati, e sulle porte riverniciate di fresco si leggevano ancora nomi d'artisti e di modelle, sentenze e appuntamenti commentati allegramente da caricature e disegni.

Su la porta di uno di tali studii leggemmo questa iscrizione, che non m'è più uscita dalla memoria: Quando si sta dentro e non s'apre a chi bussa è una porcheria. Sono stufo di camminare e metto le carte in mano all'avvocato.

Quale dramma, racchiuso in così poche parole!

Fra i tanti studii da noi visitati l'unico che ci piacque fu un comodo stanzone in via Margutta; ma quel che non ci piacque affatto furono le ottanta lire al mese che ne chiedevano di pigione.

— Ottanta lire, come vedono, è tutt'altro che caro — ci diceva il suo proprietario accompagnandoci e sbatacchiando due chiavette con la destra. — E poi, come vedono — proseguiva — questo studio ha tutti i comodi: due porte, — e strizzava maliziosamente un occhio — acqua da bere...

— E questo è il guaio.

— Perchè?

— Perchè, — ripresi subito io mestamente — c'è qui il mio amico che all'età di sette anni ebbe la sventura di morire annegato nel Tevere, e da quel momento non può più soffrire la vista dell'acqua. — E mentre il padrone, che aveva finito di giocherellare con le chiavette, ci guardava trasecolato, noi ce ne andammo.

Finalmente, lo studio che ci conveniva lo trovammo in un misero fabbricato fra le vigne e gli orti, fuor di una porta della città.

Il fabbricato dai muri scalcinati e anneriti, sui quali si abbarbicavano piante parassite, si sarebbe scambiato a prima vista per un vecchio fienile se sulla porta d'ingresso non vi fosse stata inchiodata una targa di legno su cui sbiadita dal tempo si leggeva questa iscrizione: STABILIMENTO DI STUDII DI PITTURA E SCULTURA.

Difatti in quella casa c'erano parecchi studii per pittori e scultori. I primi occupavano il primo piano che era anche l'ultimo; i secondi stavano nelle camere terrene. Ma oltre alle stanze che servivano d'incomodo asilo agli artisti, nello stabilimento ce n'erano anche altre tre le quali, benchè in origine fossero state costruite anche loro per essere consacrate all'arte, avean finito con l'esser destinate all'industria. Nella prima abitava una torma di lavandaie e di stiratrici; nell'altra dimorava un vecchio contadino le cui figliuole all'occorrenza si adattavano anche a far da modelle; l'ultima era nè più nè meno che uno spedale per i cani, diretto da una vecchia popolana che a vederla quando cuoceva i medicamenti per le sue bestie inferme tra il fumo che usciva dalle pentole, pareva una strega che preparasse filtri per qualche incantesimo.

Il padrone dello stabilimento quando andammo a proporgli di cederci in affitto una stanza che stava per essere abbandonata da un pittore triestino, ci accolse affabilmente. Era in manica di camicia; e poichè il sole splendeva in quel giorno più del solito, ci forzò a sederci su un murello, accanto alla porta della sua casa, per fare insieme quattro chiacchiere. Ci parlò del Vaticano, della Sistina, del Bramante, di Michelangiolo, di Raffaello, e poi volle anche raccontarci la eroica difesa di Roma del quarantanove alla quale egli aveva preso parte; e non smise, se non quando la sua serva venne ad annunciargli che il pranzo era pronto. Allora, dopo averci chiesto i nostri nomi, e averli segnati con un mozzicone di lapis in un libricciuolo foderato di cartapecora, ci lasciò dicendoci che nel pomeriggio potevamo andare a pigliar possesso dello studio.

— Andateci pure — ci disse — e il triestino prima di andarsene vi consegnerà le chiavi.

Nel pomeriggio tornammo nello stabilimento con le nostre cartelle; salimmo una scaletta; traversammo un corridoio oscuro, e picchiammo alla porta del triestino.

Un concerto di furiosi abbaiamenti e guaiti ci rispose dal fondo del corridoio.

S'udì una voce urlare per rabbonire i cani irritati, e poi... Silenzio.

Bussai di nuovo più forte.

— E avanti perdio! — tuonò, allora, una voce minacciosa di dentro allo studio. E noi, entrammo e restammo ritti, impalati vicino all'uscio.

Nello stanzone un giovinotto radunava in una cartella alcuni disegni. Qualche quadretto stava gittato in terra, e un tavolino a tre gambe s'appoggiava al muro per non cadere.

— Buon giorno — disse il giovinotto senza neppure guardarci.

— Buon giorno! — rispondemmo noi all'unisono, e, posate in terra le nostre cartelle, restammo silenziosi a guardare la figura magra e donchisciottesca del pittore che dopo di aver chiuso nella cartella i disegni s'era messo a raccogliere in una piccola valigia alcuni pezzi di stoffa.

Quand'ebbe chiuso con una cordicella la valigetta si volse verso di noi e: — Se vogliono accomodarsi — ci disse — non facciano complimenti. — Nella stanza non c'era neanche l'ombra di una sedia.

Il pittore, allora, radunò entro un largo foglio di carta sudicia una quantità di boccette vuote, di pennelli logori e di colori andati a male; s'avvicinò al finestrone e li gittò fuori; quindi andò in un angolo dello studio, prese due ciabatte vecchie e le lanciò con forza fuori della finestra. Le due ciabatte mulinarono un istante sul cielo nuvoloso come due uccellacci neri, e scomparvero.

Intanto aveva cominciato a piovere, e il giovinetto come se ne provasse piacere, seguitava sempre a gittare gli oggetti inutili dalla finestra; poi, crescendo la furia dell'acqua, richiuse la vetrata e portandosi le mani ai fianchi, facendo arco della schiena, mugolò con voce nera: — Accidenti alla pittura e a chi l'ha inventata — E volgendosi ancora a noi, che eravamo sempre lì ritti come due coristi, seguitò: — Me lo sanno dire loro chi l'ha inventato questo flagello di Dio?

— I greci! — risposi io prontamente.

— Allora accidenti alla Grecia! — riprese con voce sicura il giovinotto; e appoggiando i gomiti al davanzale della finestra, rimase a guardare, col naso sui vetri, la campagna grigia che si distendeva sotto la pioggia dirotta fino ai colli ultimi ove si perdeva nel cielo tempestoso.

— Bah! — borbottò poi volgendosi bruscamente, come se volesse scacciare i pensieri tristi — non ci pensiamo! — E presa la valigetta e una cartella, soggiunse: — Stiano bene. Me ne vado. Ecco la chiave.

— Con quest'acqua?

— Ci sono abituato — ribattè il pittore alzando le spalle; e pigliato un disegno che aveva lasciato sul tavolino a tre gambe (una testina di ciociara segnata coi pastelli) porgendolo a noi, disse sorridendo: — Lo terranno per mio ricordo.

— Grazie! Ma lei non se ne va, ora. — disse il mio amico sbarrandogli la via dell'uscio.

— Non posso trattenermi, debbo partire.

— Parte?

— Vado a Napoli.

— Ma allora, le vogliamo augurare il buon viaggio. Qui sotto c'è un'osteria?

— Pur troppo! — fece il pittore.

L'acqua intanto rinforzava e il mio amico uscì e tornò di lì a poco, con un litro e tre bicchieri.

— Alla vostra salute e alla vostra fortuna.

— Alla vostra — soggiunse il pittore, e urtammo i tre bicchieri che mandarono un trillo allegro in quello stanzone triste.

— Evviva... Evviva... — esclamò allora una voce di sotto alle tavole del pavimento. — Nel mio studio piove acqua e nel tuo piove vino, eh!

— Oh, Mario! vieni su! — gridò il triestino, chinando la testa verso l'assito.

— Vengo. — rispose la voce di sotto al pavimento di tavole, e s'udì il colpo d'un uscio che si chiudeva.

— È lo scultore che sta qui sotto. — Ci disse il pittore: e non aveva finito di dirlo quando la porta dello studio s'aprì ed entrò un giovinotto tarchiato, vestito d'un camiciotto di tela gialla, con in capo un berretto rosso alla turca. Restò sorpreso nel vederci e poi chiese al triestino: — Non sei partito?

— Parto stasera. Bevi! — E vuotato il resto del vino in un bicchiere, lo porse allo scultore, dicendogli: — Ti presento i nuovi inquilini.

Noi ci inchinammo ed egli dopo aver toccati col suo bicchiere i nostri: domandò al pittore: — E tu? Non bevi?

Il litro era vuoto.

— Aspetta! — fece lo scultore, ed uscì.

— Bravo giovinotto! Bravo giovinotto! — ci disse il triestino posando il bicchiere vuoto sul tavolino: — È un siciliano; e loro che si trattengono qui...

— Accidenti come vien giù! — esclamò lo scultore rientrando di corsa, fradicio d'acqua, cavando un litro e un bicchiere di sotto al camiciotto.

Vuotato il nuovo litro, il triestino ne volle pagare uno anche lui, e allora ognuno trasse di tasca la pipa e s'incominciò a parlare come se ci fossimo conosciuti da cento anni.

* * *

Quando abbandonammo lo studio, sul cielo rasserenato brillavano le stelle e un venticello freddo e leggiero faceva svolazzare il fiocco della cravatta allo scultore, che, calcatosi in testa il cappello a cencio, parlava furiosamente, trinciando l'aria con le mani aperte.

— Michelangelo, Tiziano, Raffaello, Correggio! — diceva — Eccoli qua questi quattro nomi che ci stanno sospesi eternamente sul capo come quattro spade di Damocle. La forma, il colore, la grazia e il chiaroscuro. E noi eccoci qua a bussare alla porta del gran teatro dell'arte, dove si rappresenta quella bella commedia che è il vero. Cari amici, i buoni posti son presi. Non ci resta se non qualche posto di piccionaia. — E si sbottonava nervosamente la giacca. Poi accese un mozzicone di sigaro e scotendo la testa continuò: — Lavoriamo, sudiamo, sgobbiamo, facciamo la grande statua, il gran quadro; e l'ultimo imbecille che gitterà, passando frettoloso, una occhiata sulla nostra opera che sarà costata a noi tante lacrime e tanto sudore, mormorerà allontanandosi il solito Michelangelo per la forma, l'inevitabile Tiziano pel colore, l'ineluttabile Raffaello per la grazia e l'immancabile Correggio pel chiaroscuro. Siamo nati troppo tardi. I buoni posti son presi.

E gittando via il sigaro, ripigliava animandosi sempre più: — E il bello è, che ad ogni istante mi sento urlare alle calcagna da cento voci: lavora! lavora! Ma per chi debbo lavorare? Per il pubblico? Giusto! Proprio per questo ignorante e pitocco che dice di amare i suoi Michelangeli, i suoi Tiziani, i suoi Raffaelli e i suoi Correggi perchè il dirlo non costa niente. Per la gloria? E chi l'ha mai conosciuta questa strega? Dunque? Per chi debbo lavorare? Per chi? — E s'era fermato in mezzo alla via con le mani sui fianchi fissando il terreno fangoso.

— Per i posteri! — gli rispose il triestino, posando in terra la valigetta che tentava di liberarsi dalla cordicella che la stringeva troppo.

— Bravo! — riprese allora lo scultore — Proprio per loro voglio logorarmi la vita! Per questi scrocconi dell'umanità. E che obbligo ho io di lavorare per i posteri? Forse per dare il gusto, di qui a mille anni, a un lustrascarpe milionario di comperare una mia statua per un milione di scudi? Bella soddisfazione! E poi scusa, perchè mai io dovrei lavorare per i posteri? Che cosa hanno fatto loro per noi?

— Niente! — sentenziò il triestino — Niente!

Intanto il vento fresco fischiava nella stradicciuola solitaria, sul cielo brillavano le stelle e dalle vicine campagne venivano i canti tremolanti dei grilli e il gracidare rauco delle rane.

* * *

Il giorno dopo andai a far visita allo scultore e lo trovai che lavorava attorno a un busto di creta. Ci stringemmo la mano come vecchi amici e mentre volgevo gli occhi verso il suo lavoro: — Per carità — esclamò — non guardi. È roba da morire. Lavoro dalla fotografia ed è proprio un martirio! Ma come si fa? Vivere bisogna!

— Per altro somiglia. — dissi confrontando il busto con una fotografia che l'artista m'aveva presentata.

— Sentiremo che cosa ne penserà il committente. Giusto ora deve venire.

— Allora vuol dire che gli ultimi colpi di stecca glie li darà avendo a modello il vero.

— No, no — mi rispose egli ridendo. — Il committente è il figlio di questo busto.

— Dunque il busto...

— È morto. — soggiunse lo scultore accarezzandogli il naso col pollice; — lo modello per commissione del figlio che mi ha mandato questa orribile fotografia.

A questo punto s'udì picchiare alla porta.

— Le sono d'incomodo? — dimandai.

— No, resti — riprese; e volgendosi verso la porta, disse ad alta voce: — Avanti!

Un uomo sorridente, avvolto in un mantello di panno nero foderato di lanetta verde, comparve su l'uscio esclamando: — Bongiorno!

— Bongiorno! — rispose il giovinotto stringendogli la mano con effusione e forzandolo a non togliersi il cappello a cono.

Io intanto m'ero seduto in un angolo di un canapè, su la cui stolta sdruscita ai ghirigori del tessuto si mescolavano schizzi di gesso e sberleffi di argilla secca.

— Dunque? — chiese il provinciale sempre sorridente, asciugandosi con un ampio fazzoletto turchino il sudore che gli scolava giù per le gote infiammate.

Lo scultore s'era avvicinato al cavalletto e aspettava, con le mani nelle tasche dei calzoni, fermo accanto alla testa di creta. Nel silenzio s'udiva il ronzio di un moscone impigliatosi in una tela di ragno su l'ultimo vetro del finestrone.

— Dunque? Il busto? — riprese il buon uomo sempre sorridendo e girando qua e là per lo studio gli occhi tondi.

— Eccolo. — disse alla fine il giovinotto, accennando la sua ultima creazione.

Ci fu un altro istante di silenzio; poi il provinciale smise di sorridere e appuntando l'indice teso verso il busto e gli occhi spalancati in volto all'artista, esclamò con voce rassegnata: — Questo è mio padre?

— Non le piace? — domandò il giovinotto, aggrottando le ciglia.

— Mah!

— Mah! caro lei — interruppe allora il mio amico animandosi — caro lei, dalla fotografia, capirà che si lavora a un di presso.

— Eh! Già! Capisco! La fotografia è un di presso — balbettò il pover'uomo; — ma la bona memoria di mio padre non aveva la barba.

— Non aveva la barba? E questa che cosa è? — dimandò allora lo scultore impazientito, mostrando al provinciale il ritratto da cui aveva ricavato il busto.

Il buon uomo lo prese in mano, e come l'ebbe guardato esclamò: — Ma questo non è mio padre!

Era avvenuto un equivoco deplorevole. Il fotografo incaricato di spedire all'artista la fotografia, in luogo di un ritratto ne aveva mandato un altro.

— Ed ora — chiese lo scultore — come s'accomoda? Lei m'ha mandato una fotografia, m'ha scritto di ritrarne un busto; il busto l'ho fatto. Dunque?

Seppi di poi come s'erano accomodati. Per venticinque lire di più sul prezzo stabilito, l'alunno di Fidia s'era impegnato a togliere la barba al busto, e a consegnarlo in tutto e per tutto somigliante al nuovo ritratto che gli sarebbe stato mandato.

* * *

La stanza vicina alla nostra era stata presa in affitto da tre pittori paesisti. Tre figure, che a vederle insieme non si poteva fare a meno di sorridere. Il primo, grassoccio, e alto come un granatiere, andava sempre attorno vestito con un costume di velluto che, a seconda della maggiore o minor quantità di luce che vi pioveva sopra, cangiava di colore. Perciò lo chiamavano il camaleonte. Il secondo, un giovinetto lungo, secco e nervoso come una donna isterica, portava sempre in dosso una lunga palandrana nera, sempre sbottonata, che gli scendeva fino alle calcagna; l'ultimo, basso e tarchiato, con la faccia grassa come una luna piena, con una selva di capelli rossastri e ricciuti, girava per il mondo, tanto d'estate quanto d'inverno, con un soprabito verdastro e un paio di stivaloni alla scudiera. I primi due più che dipingerlo il paesaggio, lo ragionavano. Il terzo ascoltava sempre i suoi compagni accigliato e silenzioso, e all'ultimo, quando i due per il lungo parlare restavano senza voce, chiudeva tutte le discussioni con queste parole: — Non si può essere esclusivisti. È questione di coscienza. L'arte è una laguna.

Il camaleonte non ammetteva che si potesse togliere nemmeno un filo d'erba dalla scena che si ricopiava dal vero. L'altro invece gridava con la sua vocetta di galletto di primo canto, che il vero si deve copiarlo non come si vede, ma come si ama. E lui, lo amava come lo avevano amato Claudio di Lorena e il Pussino. Nutriva un odio furioso contro gli ortolani, e faceva risalire a quei poveri lavoratori della terra la causa della mancanza di buoni maestri di paesaggio.

— Ma se piantano gli alberi dove non stanno bene! — gridava, torcendosi come una biscia. E soggiungeva subito: — Fino a quando gli ortolani e i vignaroli non conosceranno il Liber Veritatis del grande Claudio, — e qui, se lo aveva in testa, si levava il cappello — fino a quando essi non sapranno piantar gli alberi dove devono essere piantati perchè stiano bene nel paesaggio, non avremo mai grandi paesisti. E io preferirò sempre di farmelo da me il mio paesaggio e di compormelo come lo amo io.

Allora il camaleonte, faceva una carica a fondo contro Claudio di Lorena; e quello dai capelli ricciuti, dondolando il suo testone, ripeteva invariabilmente: — Non si può essere esclusivisti. È questione di coscienza. L'arte è una laguna.

Del resto, benchè tutti e tre i nostri vicini avessero differenti idee sul paesaggio, in una cosa andavano perfettamente d'accordo: nel non dipingerlo mai.

Accanto ai tre paesisti abitava un vecchio copista, e tutti lo chiamavano il professore Calendario.

— Ma perchè mai lo chiamate così? — chiesi un giorno allo scultore siciliano col quale eravamo divenuti intimi.

— Perchè si tinge la barba.

— E che cosa c'entra la barba col calendario?

— C'entra benissimo. Vedi: il mese, come sai, è composto di quattro settimane.

— Ebbene?

— Ebbene: il professore si tinge la barba una volta al mese; per cui dal primo giorno del mese all'ottavo, la sua barba è nera. Dall'otto ai sedici diviene marrone; dai sedici al ventiquattro tutti i peli del professore diventano rossicci; dal ventiquattro in su diventano gialli, e quando la barba del professore è gialla, vuol dire che siamo alla fine del mese.

— E allora è orribile essere al verde — ripresi io ridendo.

Vicino allo studio del professore s'apriva una terrazzina scoperta dove i modelli andavano a sgranchire le membra nei momenti di riposo, e per solito dalle dieci alle dieci e mezza, tempo permettendolo, c'era rappresentazione: ci andavano spessissimo a passeggiare Torquati Tassi e Beatrici Cenci, cardinali Ippoliti e moschettieri, Danti e conti goldoniani, frati dalle tonache scolorite e guerrieri medioevali, apostoli ed evangelisti; e, qualche volta non era difficile di vederci qualche Padreterno con gli occhiali che fumava la pipa, leggendo il giornale, o discorreva a tu per tu con una ciociara di Sora.

Dalla terrazza salendo una scalettina di legno si andava in una specie di piccionaia, dove abitavano una pittrice tedesca vecchia come una mummia, e un giovinetto magro e sparuto che era venuto a Roma, mandatovi in pensione dal municipio di una piccola città delle Puglie.

Il giovinetto non appena arrivato qui era andato a visitare il museo vaticano per studiarvi la Trasfigurazione di Raffaello. Lassù aveva conosciuto la vecchia tedesca che copiava il quadro del grande maestro e avevan finito con l'unirsi, accomunando, a maggior gloria dell'arte, la loro miseria e il culto per il divino urbinate. Il giorno andavano in giro per i musei; all'imbrunire tornavano nel loro bugigattolo e quello che facessero là dentro nessuno lo ha mai saputo.

Un giorno, il pugliese venne nel nostro studio a dimandarmi non so più quale cosa, e mi raccontò che il suo municipio lo aveva mandato a Roma togliendolo dalla campagna dove guidava le pecore.

— Fin da fanciullo io scolpivo col temperino nel legno i ritratti dei miei compagni. — mi disse il pugliese, e cavato dalla tasca un quaderno che gli dava noia nel gestire, perchè parlando il giovinetto agitava nervosamente le braccia lunghe e magre, lo posò sul mio tavolino. Io gittai lo sguardo sul quaderno e vi lessi in cima alla prima pagina, scritto in bel carattere rotondo, questo titolo: Del modo come ti dovrai regolare per dipingere vecchie megere irate e brutte a guisa di furie infernali.

Non mi potei trattenere dal ridere, e come egli s'avvide che avevo letto il suo manoscritto, divenne di bragia, e con un atto brusco coprì con la mano il quaderno.

— Ma perchè — gli dissi — nasconde il suo lavoro e arrossisce? Dovrebbe esserne orgoglioso, mi pare.

E siccome io lo lodava del suo amore per l'arte si rabbonì e incominciò a parlarmi di un quadro che egli stava dipingendo (quadro che nessuno vide mai), e di certe preparazioni esperimentate con molta fortuna.

— È inutile illudersi — mi disse poi — gli antichi preparavano tutti. E questa è la ragione dell'eccellenza della loro arte. — Ah! se potessi avere nelle mani un quadro di Tiziano! Glielo vorrei far vedere io quello che c'è sotto.

— E che cosa vuole che ci sia?

— Ma lei si vuol levare un gusto? — riprese allora interrompendomi il pugliese. — Lei vada in una galleria, gratti il cielo di un quadro di Tiziano e vedrà che ci trova sotto...

— Per lo meno un paio d'anni di manicomio! — esclamai io, ridendo.

— Ma lasci andare gli scherzi! Lei raschi un cielo di Tiziano e vedrà che sotto al turchino ci troverà il cinabro. Eh! caro lei, oggi la pittura si fa a orecchio. Oggi non si prepara più. Non si vela più: e pure, dica quello che vuole, ma la forza dei veneziani consiste appunto nelle velature e nelle preparazioni. — E, mentre io lo ascoltavo, prese a discorrermi di Cennino Cennini, e di un professore suo amico che gli aveva dato consigli e precetti di pittura; e dopo di avermi spiegate talune astruserie sui varii sistemi di dipingere «in fresco», all'olio e all'acquarello; sprofondò una mano nella tasca del suo abito e ne cavò fuori due uova.

— Due uova? — dissi interrogandolo con gli occhi.

— Già, due uova. E sa che ne farò?

— Lo immagino.

— No... No... Con queste uova rafforzerò la spina dorsale del mio quadro.

Io lo guardavo sorpreso, ed egli contento della mia ignoranza posò le uova sul tavolino e rificcata la mano nella tasca ne cavò un involtino.

— Che cosa è? — gli chiesi.

— Guardi — disse aprendo la carta. — È miele, e ci dipingerò il terreno del mio quadro.

E siccome io rideva, egli alzando il pollice nel vuoto, riprese a dire: — Guardi bene. Qui nero d'avorio — E agitava il pollice come se desse il colore sulla sua tela. — Qui sopra una brava velatura di giallo battuto impastato col miele; e quando sarà diseccata, una buona lavata con questo.

— E lì che altro c'è? — chiesi additando un altro involto che egli avea cavato di tasca.

— È sapone. — E in così dire mi mostrò un pezzo di sapone nero da lavandaia.

Io non osando più di contradirlo allungai lo sguardo su un nuovo involto che gli usciva da un'altra tasca dell'abito. Il pugliese appena s'avvide della mia curiosità, cavò fuori anche quella carta e la svolse. C'era dentro una fetta di pane.

— E se è lecito con quello che cosa ci dipingerà? — ripresi io sorridendo e accennando il pane.

— Il mio pranzo, — ripigliò il pugliese fieramente: e se ne andò.

Il giorno dopo gli domandai quale successo avessero avuto i suoi esperimenti. Egli diventò rosso, annaspò poche parole, mi stese la mano e si allontanò.

Compresi tutto. Il disgraziato non aveva avuto la forza di resistere agli stimoli dello stomaco vuoto, e così il miele che dovea stemperar coi colori per il terreno del suo quadro, lo avea spalmato sulla fetta di pane; le due uova, invece di amalgamarle ai colori del cielo per dar luce e smalto al dipinto, le avea cotte al tegame, e il sapone... Oh! il sapone era l'unica cosa da lui serbata per la pittura: almeno a giudicarne dalle sue mani!

* * *

Ma forse il più bel tipo fra tutti era il segretario dello stabilimento: un vecchietto magrolino, con una barbettina biancastra su le guance rugose color di terra cotta, coi riccioli incolti della capigliatura che gli uscivano di sotto alla tesa unta di un cappellino a cencio. E perchè camminava a passi brevi e misurati con una certa languidezza di movimenti, benchè i suoi genitori lo avessero battezzato col nome di Nicola, lo chiamavano tutti Nicoletta.

Lo chiamavano anche segretario; perchè era lui che spazzava gli studii, faceva gli sgomberi, e portava in giro i quadri; infine perchè era lui che faceva qualunque altro servizio potesse occorrere agli artisti dello stabilimento.

Per lunghi anni aveva esercitata la professione del modello; ma poi l'aveva abbandonata perchè, come soleva dire, li tempi s'annuvolaveno. E mettendo insieme poche tegole tolte alle case vicine, qualche tavola tarlata presa negli studii e qualche albero secco portato via dagli orti vicini, s'era costruita una specie di capanna a ridosso di un muro dello stabilimento, e in quel rifugio passava tranquillamente le sue giornate, fumando la pipa e fabbricando torce di resina.

So' solo! — diceva sempre — So' solo, e sarv'ognuno, quanno ho magnato io, hanno magnato tutti.

Egli avea incominciato a posare da angioletto per Thorwaldsen; avea posato da Redentore nello studio di Podesti e da Immacolata Concezione in quello dell'Agricola. Tenerani lo avea effigiato in marmo con un paludamento greco: aveva indossato un robone serico da consigliere della Repubblica veneta nello studio del Celentano; Fracassini lo avea dipinto, ricoperto di stoffe preziose, in costume da grande di Spagna; Rosales da romano antico e Fortuny da vecchio nobile del settecento. Poi il buon Nicoletta, visto che li tempi s'annuvolaveno, si era ritirato dalla professione. Ma pur fabbricando torce a vento era rimasto ognora affezionato agli artisti che, anche se vecchi, egli chiamava « quelli regazzi! » Alle loro dimande rispondeva sempre: — Penso io! — Pur di rendere un servigio a un artista si sarebbe gettato dalla finestra. Dolcissimo di carattere, avea però due odii i quali non s'erano spenti in lui neanche dopo di aver abbandonato il mestiere del modello: odiava ferocemente la pittura di paesaggio e i manichini. I quadri di paesaggio a suo giudizio erano robetta da gentuccia volgare che, come solea dire, nun ci ha gnente nè qui — e così dicendo s'appuntava l'indice sulla fronte — nè qui — e si batteva con la destra il taschino vuoto del suo corpetto.

Così egli definiva l'arte del paesaggio. E soggiungeva poi: — A dipigne' l'arberi tutti so' boni. Puro le donne!

Ma per vedere andar fuori dei gangheri il buon vecchietto, bisognava nominargli il manichino. Allora non ragionava più. Stralunava gli occhi, stringeva i pugni e urlava con voce irata: — Canajie che rubbeno er pane a li poveri modelli! — diventando rosso e digrignando i pochi denti che gli erano rimasti, se ne andava tossendo rabbiosamente. Ma quando saliva negli studii per spazzarli, se gli riusciva di farlo senza che alcuno potesse vederlo, andava ad allentare le chiavi che servono a moderare le giunture ai manichini; e quando vedeva un povero manichino dinoccolato e cascante, s'allontanava saltellando e sghignazzando appagato e contento.

* * *

Dalla parte ove s'era composta la capanna il modello fabbricante di torce a vento, v'erano altri tre studii da scultore e una cantina che veniva chiamata il museo, dove si raccoglievano continuamente gli oggetti utili ed inutili che gli artisti, partendo, lasciavano nelle stanze o perchè fosse loro impossibile di trasportarli altrove, o più spesso in pagamento di qualche mese di fitto.

Visitai una volta il museo col padrone degli studii al quale avevo chiesto un cavalletto. Là dentro nella penombra si accumulavano alla rinfusa cavalletti e tavolini, cornici vecchie e divani con la stoffa strappata, cuscini sventrati e sedie senza paglia, cassette da dipingere sgangherate e disegni andati a male, busti di gesso senza naso e fagotti di cenci, statue senza testa e manichini ammuffiti, scheletri d'ombrelli da pittore e chitarre rotte, quadri sfondati e pennelli logori; e cento altri oggetti diversi.

Il museo si apriva quando qualche nuovo arrivato avea bisogno di un mobile per il suo studio, o quando se ne andava qualche vecchio inquilino; ma verso gli ultimi del mese, rimaneva sempre aperto chè ogni mese arrivavano nuovi affittuari.

Ne ho vista di gente arrivare e partire da quegli studii! Per lo più ci venivano molti giovinotti che facevano risuonare allegramente gli ampii stanzoni con la letizia dei loro canti. Arrivavano tutti con una cartella sotto il braccio, un pane in tasca e una pipa in bocca; si fermavano per qualche mese e se ne andavano allegramente, alcuni pochi per avviarsi a conquistare un posto nella storia dell'arte, e molti altri per andare a finire i loro giorni in un lettuccio di qualche ospedale.

Pure, di tanto in tanto, vi capitavano alcuni vecchi col volto giallo dalla fame e con gli abiti dimessi: quasi sempre figure sconosciute di copisti di galleria.

I copisti!

Io non ho mai conosciuta una classe di persone più tragicamente comica, e più dolorosamente umoristica dei copisti di galleria.

Bisogna vederli quando al mattino di buon'ora se ne vanno taciturni e serii al loro lavoro; bisogna osservarli quando seduti innanzi alle loro tele con le larghe e morbide pennellesse di martora velano di lacca rosea le carni delle veneri e delle ninfe nel cospetto dei capolavori dell'arte antica ed ascoltarli quando nei momenti di riposo, adunati in crocchio, parlano dei loro maestri favoriti: già, perchè ogni copista ha il suo autore prediletto. Anzi ce n'è di quelli che riproducono soltanto un quadro di un dato autore, e a lungo andare finiscono col persuadersi che il quadro copiato sia opera loro.

Uno di tali copisti lo incontrai nella galleria Borghese. Era sui cinquant'anni, e a vederlo, di primo acchito, si sarebbe scambiato per un alto impiegato delle pompe funebri. Soprabito nero, cravatta nera, cilindro nero, camicia... stavo per dire nera.

Lo conobbi quando era in voga l'autore che copiava, anzi il quadro dell'autore da lui riprodotto; perchè egli non faceva che riprodurre sempre il medesimo quadro: la Speranza di Guido Reni. Ne aveva fatte tante e tante di riproduzioni, tante e tante che nel suo mondo era chiamato: lo speranzoso. E sugli ultimi le sue copie le faceva a memoria. Ne dipingeva due al mese, e campava col frutto di quel suo lavoro. Ma un bel giorno, non so per qual ragione, ci fu ristagno nello smercio delle Speranze di Guido Reni, e al povero copista finirono i guadagni.

Lo rividi qualche tempo dopo, quando venne a chiedere in fitto una stanza nello stabilimento di studii. L'ebbe; e vi trasportò un cumulo di Speranze deluse. Poichè al povero copista che aveva continuato per tanti e tanti anni di seguito a dipinger due copie al mese del quadro di Guido, la forza dell'abitudine non gli permetteva di smettere. Per lui dipingere due Speranze di Guido Reni al mese era divenuta una necessità alla quale provava inutilmente di ribellarsi.

Verso i quindici di ogni mese egli diveniva malinconico, taciturno, intrattabile; la nostalgia del quadro del nobile e dolce pittore bolognese lo conquistava, e non ritrovava la pace se non di dopo essersi chiuso nello studio e d'aver dipinto le due copie mensili della ineluttabile Speranza, le quali, manco a dirlo, andavano ad accrescere il cumulo delle altre sue speranze purtroppo irrealizzabili.

Ne conobbi un altro che copiava sempre un affresco attribuito a Leonardo da Vinci. I quadri del Vinci li chiamava «i nostri capolavori». Sapeva a memoria la vita del grande pittore e la narrava così, come se raccontasse la propria. Le giornate le passava quasi tutte in S. Onofrio, e la sera, appena tornava in casa, andava a un tavolino, vi posava sù le mani aperte, chiamava Leonardo e ci si metteva a discorrere, chiedendogli pareri, giudizi e consigli. Un giorno ci narrò con le lagrime agli occhi come avesse litigato con Leonardo per una certa velatura di lacca che il grande pittore voleva si desse a una ultima opera del copista, e finì esclamando con voce desolata: — Non capisce che se gli diamo la velatura roviniamo il quadro.

La lite durò parecchio tempo e prese anche una brutta piega. Difatti qualche giorno dopo lo incontrammo con un braccio al collo.

— Guardate! come m'ha conciato Leonardo — ci disse mostrandoci il braccio appeso al fazzoletto. — L'altra sera sempre per quella tal velatura abbiamo questionato di nuovo e mi ha dato un pugno che ancora ne sono indolenzito. — E come noi ci provavamo a consolarlo egli incalzò: — Ma che forza ha quel grande! Eh! già, altre tempre! Altri uomini i nostri vecchi! — E guardandoci come se volesse rimproverarci la nostra fiacchezza si allontanò. Lo rivedemmo poi felice e contento. Ci venne incontro con un'aria di letizia ineffabile e ci disse: — Abbiamo rifatta la pace! Abbiamo rifatta la pace! Guardate un po' — e in così dire ci mostrava una palla da bigliardo che poi ripose immediatamente in tasca — ora non mi scappa più; l'ho fatto entrare qui dentro. Siamo ridiventati amici. Ieri sera l'ho condotto a teatro. Come s'è divertito! Era così contento che me lo sentivo ballar qui, qui! — e si toccava il cocuzzolo con la mano scarna. La manìa dello spiritismo lo aveva fatto impazzire.

Una delle sue fissazioni negli ultimi tempi era quella di comperare qualche uccellino e di lasciarlo libero. Così faceva Leonardo.

L'ultima volta che lo vidi fu una domenica di maggio a piazza del Popolo nell'ora del passeggio. Aveva comperato un mazzo di palloncini da due soldi gonfi di gas e sciogliendoli lentamente uno ad uno li mandava in aria, fra gli schiamazzi dei monelli, gridando che così faceva Leonardo.

Due guardie lo condussero, fra le risa della folla, prima in guardiola e poi al manicomio.

* * *

Ma fra i vecchi artisti che capitavano qualche volta fra noi i più ridicoli eran quelli i quali, benchè induriti nei vieti precetti dell'Accademia, avendo visto i giovani muovere a combattere in difesa dell'arte nuova che in quei giorni si chiamava «il vero», tentavano invano di sciogliersi dai tenaci legami che li avvincevano all'arte del Camuccini e dell'Agricola.

Non scorderò mai vino di costoro, che dovendo effigiare in un quadro d'altare il battesimo di Gesù, e non potendo andare a dipingere il suo quadro sulle rive del Giordano e non volendo d'altra parte perder l'effetto della verità, costrinse i suoi modelli, uno vestito da Gesù e l'altro da San Giovanni Battista, a restare in posa coi loro piedi immersi in una catinella, piena d'acqua marcia.

Però, ripeto, i vecchi che capitavano fra noi erano sempre pochi. Per lo più ci venivano molti giovinotti; sostavano qualche mese e se ne andavano lietamente.

* * *

Ma uno che ci venne pieno di letizia e raggiante di speranza, ci rimase.

Era un buon figliuolo, piccolo e bruno venuto di Spagna. Il giorno lavorava sempre cantando e la notte dormiva nello studio fra i suoi bozzetti e la sua miseria. Quando sull'imbrunire noi uscivamo dallo stabilimento, passando innanzi alla sua stanza, gli davamo la buona notte, ed egli di dentro ci rispondeva cantando a squarciagola una canzone dei suoi paesi: una canzone dove c'entravano un re moro e una gitana di Siviglia; e mentre ci allontanavamo tenendogli bordone, sentivamo la sua voce a poco a poco affievolirsi, e volgendoci, sul cielo d'un azzurro scuro vedevamo rosseggiare per la luce della lampada il finestrone dello studio, dove egli passava le sue notti, lieto e spensierato, fra i suoi bozzetti di creta, e la sua miseria. Una sera come al solito gli urlammo la buona notte, ma la canzone del re moro non risuonò nella quiete della campagna. Bussammo alla porta. Una ciociara venne a dirci che lo spagnuolo aveva la febbre. Entrammo. Lo scultore si levò a sedere sul lettuccio e facendosi schermo con le mani agli occhi per non vedere la luce che lo infastidiva ci ringraziò, sorridendo e soggiunse: — Non è niente. È un po' di febbre. Grazie! — E si raggomitolò fra le coltri.

Uscimmo rattristati e la ciociara rimase a vegliarlo.

L'indomani sapemmo che il poveretto era stato colto da una perniciosa. Venne un medico e l'ubriacò di chinino. Volevamo condurlo via dallo studio; ma il medico ci disse alzando le spalle:

— Oggi non è possibile. Sarebbe peggio. Vedremo domani, se il male scema. — E mentre parlava guardava curiosamente i bozzetti ch'erano disseminati nello studio. — Vedremo domani — disse ancora, e, dopo un'altra guardata ai bozzetti, se ne andò.

L'indomani lo scultore peggiorò, e, perduta la ragione, prese a discorrere del suo paese e della sua casa paterna. Delirava, e non appena il delirio cessava, ricadeva stordito sul lettuccio e il sudore gli gocciolava dalla fronte giù per le gote infiammate.

Agli ultimi momenti ebbe una allucinazione, che forse fu il suo estremo conforto.

A chi lo assisteva, dava nomi spagnuoli, forse quelli dei suoi cari; e quando l'agonia cominciò a straziarlo abbracciò teneramente la ciociara, che singhiozzava, e chiamandola con un filo di voce col dolce nome di mamma, baciandola e ribaciandola, le morì fra le braccia.

* * *

Ero innanzi allo studio del povero scultore, quando un signore vestito di nero, che Nicoletta, inchinandosi di quando in quando rispettosamente, onorava col titolo di signor commissario, venne a suggellarne la porta.

Nicoletta reggeva una candela, e il signore vestito di nero con qualche fettuccia bianca nella sinistra e un suggello in bocca, bruciava la ceralacca rossa sulla fiamma. Alcuni monelli, nè tristi nè lieti, interrotti i loro giuochi, stavano a guardarli. Il sole illuminava giocondamente il prato verde davanti allo stabilimento e i mandorli in fiore biancheggiavano sul cielo sereno. Un quadro!

Sopraggiunse una modella che andava in cerca di lavoro e vedendo i due che ponevano i suggelli alla porta, mi venne vicino e mi domandò che cosa stessero facendo.

— È morto! — le risposi.

— Chi?

— Lo spagnuolo.

— Poveretto! — esclamò la modella; e rimase a capo chino, per un poco immobile; poi rialzò la testa, guardò il signor commissario che accendeva il sigaro alla candela, e soggiunse, sospirando: — Proprio adesso che m'aveva promesso un par de stivaletti de brunella!

IL MODELLO

Mario, quand'io lo conobbi, era un povero vecchio tutto ossa e pelle, con una barba bianca bianca, che gli cadeva sul petto, e con una lunga zazzera che scendendogli come una pioggia di fili d'argento su le spalle, gli copriva quasi la metà d'una giacca di velluto marrone, deturpata e rosicata dagli anni.

Al Vicoletto della Scalaccia, ove andava a dormire in un cortiletto umido e nero, lo chiamavano er mago: e le comari del vicinato al vederlo gli andavano incontro ridendo e gli chiedevano tre numeri sicuri. Egli si schermiva come meglio poteva, s'afferrava con le mani scarne la barba, e scuotendo la testa si allontanava brontolando: — L'arte è ita! L'arte è ita! E qualche volta soggiungeva: — Mo Mario è vecchio! Che ve ne fate? Buttatelo a fiume!

Povero Mario! Allora l' arte nun era ita, nè egli pensava alla vecchiaja e alle bionde acque del Tevere, quando all'Accademia di belle arti, gonfiava, fra l'ammirazione degli artisti, i muscoli dell'ampio torace piegando la persona a raffigurare il Gallo moribondo o il Discobulo, l' Orazio ar ponte o il Muzio Scevola all'ara. Allora l' arte nun era ita, quando egli andava di corsa su pe' le spallette d'Acquacetosa pe' mantenesse sciorta la muscolatura, e saliva al museo del Campidoglio p'annà' a vede' come camminaveno e come se moveveno l'antichi romani. Perchè egli allora, e lo diceva a voce alta, non era adatto a tenere azioni da imbecille: ma azioni da potè' dà' er movimento a la vita e a la storia. Allora! Ma quando io lo conobbi, il vecchio modello affogato sino agli occhi nella miseria, de li tempi antichi se ne ricordava soltanto se qualche volta passava sotto i finestroni della sala del nudo, dell'Accademia e se poteva avvicinare qualche studente per parlargli di amori russi e di Padreterni in gloria, d'eroi del mondo greco e romano e di tanti artisti ai quali lui, proprio lui, aveva dato il mezzo di divenir celebri. E si doveva rider di cuore a sentirgli raccontare come una volta a uno straniero che voleva farlo posare da Giuda avesse risposto: — Musiù, 'sta faccia nun è faccia da traditore! — Ed era proprio una cosa pietosa il sentir dire da quel povero vecchio affamato com'egli avesse più volte acconsentito a posar da modello a un giovanotto che non poteva pagarlo, solo contento d'aver aiutato uno che un giorno sarebbe diventato un pezzo grosso dell'arte.

* * *

Mario, quand'era ancora giovanissimo, faceva il taglialegna.

Un giorno, stanco dalla fatica lunga, s'era buttato in terra e s'era addormentato al sole. Con la testa abbandonata all'indietro, saldamente piantata su d'un collo taurino, egli sembrava in quell'atto un gladiatore che si riposasse dalle fatiche del circo.

Un pittore, che per caso si trovò a passare, rimase colpito dalla maschia beltà del dormiente; s'avvicinò a lui; lo risvegliò e gli chiese se voleva posargli da modello.

Il giovinotto rimase un po' con gli occhi sbarrati a guardare curiosamente l'artista, senza capir nulla; ma alla fine sorrise e accettò; e l'indomani salì a via Sistina allo studio del pittore. Questi, ritto su di una scaletta, riproduceva col carbone sopra una tela ampissima e già piena di figure abbozzate, il contorno di una fanciulla, che stava in mezzo alla stanza, immobile come una statua. Ella era seminuda e i capelli neri ornati da alcuni ramoscelli d'edera le cadevano su le spalle bianche e sul seno: reggeva con la sinistra la pelle di una tigre, morta chi sa da quanto tempo, e con la destra levava in alto una tazza di legno dorato. Accanto a lei una vecchia ciociara faceva la calza.

Come il pittore vide il taglialegna, che appena entrato nello studio s'era fermato col cappello in mano, scese subito dalla scaletta, e dopo di aver detto alla fanciulla: — Vestitevi! — si avvicinò al giovinotto e gli disse: — Spogliatevi!

Mario divenne di bragia e non si mosse.

— Coraggio! — riprese, sorridendo, l'artista, e allora il giovinotto, mentre la fanciulla e la vecchia lo guardavano e ridevano, si levò lentamente di dosso la giacca; poi si tolse il corpetto; poi con un gesto energico si liberò dalla camicia e rimase col torso ignudo dinanzi al pittore.

* * *

Dopo qualche settimana lo spaccalegna non trovava il tempo per soddisfare tutti gli artisti che desideravano di disegnare, dipingere o scolpire la sua persona; e i professori dell'Accademia, quando alla fine dell'anno scolastico dovettero eleggere il modello da dare agli studenti dell'ultimo corso come soggetto per lo studio del nudo, fra quanti modelli si presentarono, scelsero Mario, e gli dettero per tema della posa l'azione del Combattente; ed egli la creò fra l'ammirazione unanime e la sostenne per quattro ore di seguito senza muoversi di una linea: un miracolo! Ma un bel giorno, mentre tutti gli artisti si disputavano l'intelligente modello, questi sparì da Roma. Nelle sale dell'Accademia, negli studii di scultura e specialmente in quelli di pittura se ne dissero di ogni colore. Qualcheduno arrivò perfino a raccontare come un altro modello, ingelosito dei successi del suo collega, lo avesse strangolato e gettato in un pozzo; altri strizzando gli occhi sussurrarono il nome di una signora polacca; molti, invece, giurarono che Mario se l'era portato via un signore russo, il quale, oltre all'avere molti milioni, aveva un culto anche per le belle arti.

Quasi tutti avevano dimenticato la strana avventura quando arrivò a Roma un bell'uomo con barba grigia e le dita piene di anelli, il quale, fumando sigari dell'Avana in un enorme bocchino d'ambra, andava visitando gli studii per acquistar quadri. Alcuni affermarono, non so con quanta ragione, che quell'amatore che parlava malamente il francese, scusandosi col dire che in Russia si parlava così, fosse Mario, non altri che Mario. Anzi i più arditi osarono di chiedere direttamente a lui che veniva da Pietroburgo notizia di un certo modello che doveva laggiù menar vita da gran signore; ma il mecenate rispose di non averlo mai conosciuto. — D'altronde — aveva soggiunto alzando le spalle e sorridendo — la Russia è tanto grande!

* * *

Ma in sul morir dell'autunno del settantasette, Mario, il vero Mario, tornò in Roma, e siccome vi fece ritorno con le tasche quasi vuote, invecchiato e pieno di malanni, nessuno s'occupò di lui.

Fino a quando potè farlo frequentò un'osteria ove i modelli andavano a giuocarsi, alle carte, i guadagni della giornata; e quando i quattrini finirono, si trascinò all'Accademia e chiese lavoro.

— Fatevi rivedere fra una settimana. — gli dissero. Egli si fece rivedere e fu fermato per una azione.

Il vecchio modello, che era stato là dentro, giovane e forte, provò come un senso di vergogna nel doversi spogliare; ma si spogliò; entrò nella sala piena di studenti, salì sul palco, incrociò le braccia sul petto ed aspettò che lo mettessero in posa.

— Provate! — gli gridarono dai banchi.

A quell'invito egli si sentì affluire il sangue in faccia; per un attimo un'onda di gioventù gli circolò nelle vene, e volle tentare l'azione del Combattente: protese il petto in avanti, strinse le pugna, e stralunando gli occhi, restò immobile. Tutti risero al vedere la figura contorta e grottesca del povero vecchio.

Mario si appoggiò al muro per riposarsi da quella fatica divenuta immane per lui, poi, col petto ansante, tornò innanzi e provò l'azione del Discobulo e poi tentò di provare anche quella del Gladiatore.

Giù nei banchi si rideva sempre e qualcuno borbottava che non era possibile di studiare con simili atteggiamenti. Alla fine un professore si fece avanti; mise il vecchio ritto, stecchito, con le mani ciondoloni e se ne andò scotendo il capo.

— Signori, la posa è messa. — gridò una voce, e gli studenti cominciarono a lavorare di mala voglia.

Il disgraziato non sapeva capire perchè l'azione da cui aveva avuto la fama, ora non piacesse più, e sentiva delle vampate di fuoco salirgli su la faccia, gli girava il capo, la luce che gli pioveva ne gli occhi l'accecava, fece un passo indietro e cadde come un cencio. Lo portarono via e qualche studente, dando un frego sul disegno, del quale non era riuscito a metter giù l'insieme, disse che era un'indecenza il far posare un vecchio di quell'età: un vecchio manierato e scimunito che non sapeva nemmeno alzare le braccia.

Il giorno dopo egli tornò all'Accademia per continuare la posa; gli diedero qualche soldo e lo licenziarono, e un inserviente molto intelligente e caritatevole gli spiegò che l'arte non era più quella di una volta; che i professori antichi non c'erano più e che allora si volevano modelli veri.

Ma, dunque io so' finto? — ruggì lo sciagurato afferrandosi con le mani ossute la barba bianca.

L'inserviente rise alle parole del vecchio; ma lo accompagnò ugualmente alla porta.

Mario allora girandolò di qua e di là per gli studii a mendicare qualche ora di lavoro, ma tranne qualche breve posa, nello studio di un professore conosciuto col nomignolo d'indiano perchè mandava nelle Indie i suoi quadri raffiguranti per lo più martirii di missionari, e tranne qualche seduta nella soffitta di un giovinotto che modellava per commissione del municipio del suo paese natale un busto di Garibaldi, non trovò altro.

* * *

Passò ancora qualche anno.

Verso la fine dell'ottantacinque, in una rigida mattina piovosa, gli studenti dell'ultimo corso dell'Accademia di belle arti, aspettando che il modello dopo il consueto riposo tornasse sul palco per continuare l'azione, avevano abbandonata la sala del nudo sparpagliandosi per i corridoi pieni di statue di gesso che mettevano freddo a guardarle. Molti s'erano già aggruppati intorno a una stufa di ghisa il cui condotto fumigante si arrampicava in mezzo a una parete bianca fra molte riproduzioni di disegni dei grandi maestri, quando alcuni studenti, i quali passeggiavano con le mani in tasca, avendo visto un loro compagno immerso nella lettura di un giornale gli si accostarono e gli chiesero che cosa stesse leggendo.

— La storia di un modello, che si butta a fiume! — rispose lo studente.

— L'hai scritta tu? — gli dimandò uno, ridendo.

L'altro non rispose; e, succhiando la cannuccia di una pipetta di radica che egli aveva fra le labbra, rimise gli occhi sul giornale.

— Leggi forte! esclamò qualcuno. E tutti quelli che gli si erano avvicinati, non ignorando come il loro compagno, oltre al sapersi sporcare le mani coi colori e talvolta con l'inchiostro, sapesse anche leggere assai bene, gli si strinsero addosso esortandolo a cominciare la lettura.

— Ma è troppo lunga! — osservò lo studente, mostrando il giornale.

— E che importa? Lèggine un pezzo. Tira via!

— E quale?

— Quello che vuoi.

Egli allora, lusingato dalle richieste insistenti dei suoi compagni sorrise, e, prima di mettersi a fare il cantastorie ci pensò un momento; ma poi si avvicinò alla stufa, vi battè sopra leggermente la pipetta per farne uscire la cenere, narrò in succinto quanto aveva letto dianzi, chinò la testa sul giornale e cominciò con voce sonora: — «Spintovi dalla fame un giorno tornò all'Accademia...».

— Chi? — interruppe uno arrivato allora.

— Zitto! — gridarono tutti volgendosi verso l'interruttore e facendogli cenno di tacere: e uno soggiunse a voce alta: — Si tratta di un modello che si butta a fiume! Silenzio!

Il lettore tentennò il capo e, pronunciando lentamente le parole, ricominciò: — «Spintovi dalla fame un giorno tornò all'Accademia e ne fu scacciato». — E dopo una breve pausa riprese: — «Allora il povero vecchio, appoggiandosi a un bastone, si trascinò fin sulla piazza dell'Aracoeli dove egli era solito di passare gran parte delle sue dolorose giornate. Colà...».

— Silenzio! — esclamarono anche una volta tutti insieme gli studenti e, voltando le teste, videro un professore che si avvicinava parlando con un usciere.

— Che cosa state a fare? — chiese il maestro, il quale infiorando, di solito, il suo insegnamento con molte barzellette era assai stimato dai suoi scolari.

— Stiamo a sentire la storia di un disgraziato. — gli risposero.

— Si tratta di un modello che si butta a fiume!

— tornò a dire la solita voce; ma questa volta sigillando le parole con un sospiro profondo.

— Ci si butta? Dunque vuol dire che non ci si è ancora buttato?

— Non ancora; ma siamo lì!

— Allora corro ad avvertire la Società degli asfittici! — esclamò il professore; e, allontanandosi in fretta con le mani nei capelli svolazzanti, aggiunse:

— Forse arriviamo in tempo!

Dopo una risata doverosa tutti si volsero verso il lettore dicendogli: — Vai avanti! — Ed egli aspettò che tutti si quietassero e, come vide che tutti lo guardavano in silenzio con le orecchie intente, riprese: — «Colà si sdrajò su uno dei primi gradini della grande scalinata della chiesa e s'addormentò. Quando riaperse gli occhi dall'alto della torre capitolina, dorata dagli ultimi raggi del sole cadevano sulla piazza i rintocchi di una campana. Il vecchio all'udire quel suono che prima di spegnersi ondeggiava gravemente nell'aria fredda si alzò e, scorgendo sulla cima della cordonata le statue colossali dei Dioscuri su le quali l'ombra già cominciava a salire, si ricordò di Marco Aurelio, e avvicinatosi a una delle balaustrate, dietro a cui fra il fogliame bruno dei ligustri cinguettavano i passeri, vi si appoggiò tentando di trascinarsi sulla piazza michelangiolesca; ma dopo pochi passi dovette fermarsi: le gambe gli tremavano. Tornò indietro ansimando e raccolta nel cavo delle mani un po' d'acqua gelida che dalla bocca di un leone di basalto cadeva in una conca di travertino la bebbe avidamente. Poi, dopo di aver guardato ancora la torre ormai fiammeggiante di sole soltanto nel vertice, e di aver abbassato anche una volta gli occhi velati dalle lagrime sulla cordonata, su quella cordonata dove egli in gioventù era passato tante volte correndo per andare a contemplare nel museo capitolino quelle statue, delle quali egli soleva con la sua bella persona imitare gli atteggiamenti, discese adagio adagio nella via angusta e solitaria di Torre degli Specchi, ove qualche lampione già acceso mandava un po' di luce giallognola su le mura squallide di un antico monastero; attraversò la piazza Montanara, e arrivò alla discesa di Monte Savello».

«Quivi alcuni robivecchi che uscivano, cantando a squarciagola, da una osteria lo presero a dileggiare: uno di loro gli mise le mani addosso e lo spinse su le pietre nere di un portone enorme, bagnate di liquido immondo, e un altro aprendo la bocca di un sacco gli andò incontro sghignazzando e dicendogli di volercelo mettere dentro. Il vecchio lo schivò; ma non s'era chinato per raccogliere un sasso, che una ciabatta lanciatagli alle spalle da uno di quei bruti gli portò via il cappello. Allora quanto più presto egli potè farlo si allontanò e, mentre gli ubriachi gonfiando le gote barbute e ponendosi le mani sudice sulle labbra congiunte e contratte continuavano a perseguitarlo con suoni osceni e scurrili, entrò nel ponte Fabricio»...

— Cioè? — chiese uno.

— Ponte Quattro Capi!... Ignorante! — gli rispose un altro.

Tutti sorrisero; e il lettore, dopo un gesto d'impazienza, riprese: — «... entrò nel ponte Fabricio, dove stremato di forze si appoggiò a un'erma quadrifronte, e abbassato il capo ignudo e canuto rimase a guardare il Tevere giallo e melmoso. Dopo qualche istante gli parve che il fiume si fermasse e il ponte incominciasse a muoversi e, sentendosi soffocato da un senso penoso di nausea, chiuse gli occhi; ma appena li riaperse gli sembrò che il moto del ponte si accelerasse e che questo, correndo sempre più veloce sulle acque immobili lo portasse verso un punto lontano lontano dell'orizzonte ove, sopra una linea di casipole brune, interrotta da qualche cupola e da qualche torre, moriva a poco a poco l'ultima luce del giorno.

Allora il povero vecchio fu vinto dalla vertigine; si aggrappò con le mani tremanti al parapetto del ponte; vi strisciò sopra e scomparve».

Gli applausi che avevano salutata la fine della dolorosa e commovente storia del vecchio modello, letta con tanto garbo dal giovine aedo, non s'erano ancora spenti, quando dal fondo del corridoio bianco, uscì fuori un bidello nero, assai grave d'anni, col berretto grave d'anni anch'esso, ma gallonato d'oro.

Al vedere il veglio onesto, degno di tanta riverenza in vista, che fermatosi sotto una delle statue di gesso aveva preso a battere le mani come se proprio volesse dire: — Qual negligenza, quale stare è questo? — gli studenti lasciarono il corridoio, rientrarono nella grande sala, ove sul palco era già risalito il modello (un giovane ignudo, alto, forte e bellissimo), ripresero i loro posti e ricominciarono a disegnare in silenzio.

IL MANICHINO

A ONORATO CARLANDI.

Mio caro Onorato,

Se un anno addietro mi avessero detto che io sarei entrato a far parte di quei tali seccatori del prossimo, conosciuti volgarmente sotto il nome di conferenzieri, avrei scommesso chi sa qual somma strepitando il contrario. Ma è purtroppo vero che a questo mondo si sa come si nasce e non come si muore! Un anno è passato, ed eccomi qua battezzato conferenziere e per di più conferenziere stampato.

Del resto, caro Onorato, se l'Italia conta ora un seccatore di più il merito mi par che sia tuo.

Ti ricordi? Eravamo in dieci o dodici nella taverna del nostro Circolo artistico e parlavamo delle conferenze che allora si tenevano nella sua sala maggiore: ed io ricordo di aver detto, che le conferenze, quando non divertono, annoiano. Poi il discorso seguitò fra il giocondo tintinnìo dei bicchieri e ci dividemmo in due campi. Tu per fare con la voce squillante l'elogio delle conferenze: io invece per dimostrare come l'uomo a questo mondo fosse già troppo infelice per infliggergli anche cotesto martirio.

Non potendoci mettere d'accordo, si passò a discutere se le conferenze si dovessero dire o leggere.

Si devono leggere. dicevi tu.

— No. Si debbono dire. — ripigliavo io.

— Non si debbono nè leggere nè dire. — ammonivano gli altri pestando i piedi.

Mentre il dibattito era più acuto, con uno di quegli scatti nervosi che ti sono abituali, tendendo le mani verso di me gridasti: — Tu dici che le conferenze non si debbono leggere? Ebbene, provalo, dinne una tu.

Io mi schermii osservando come le mie convinzioni politiche non mi permettessero di tenere conferenze artistiche. E tu allora ripigliasti: — Dunque sei buono solo a far ciarle! — E soggiungesti: — Guarda! Se tu fai una conferenza io scommetto duecento lire...

Quelle duecento lire ipotetiche, che riluccicarono all'improvviso fra il fumo delle pipe, fecero cessare il baccano. Io mi alzai e accettai la scommessa.

Ci stringemmo la mano, e, dinanzi a quattro amici come testimoni, furono stabiliti i patti.

La conferenza doveva durare non meno di tre quarti d'ora: nel dirla non dovevo avere nessun foglietto scritto sotto gli occhi e dovevo tenerla nella maggior sala del nostro Circolo artistico durante la stagione invernale.

Rimaneva da cercare il titolo.

— Dev'essere una conferenza artistica. — dissero tutti in coro.

— Benissimo. Il tema della conferenza l'ho già trovato.

— Quale è? — dimandarono molti.

— Il manichino! — risposi io.

Il vino sprizzò su la tavola dai vetri urtati festosamente. Passò qualche mese ed io, l'avversario accanito delle conferenze, il motteggiatore dei conferenzieri, divenni conferenziere a mia volta: e per un'ora e mezza parlai innanzi ad una folla di signore e di artisti, alla cui bontà dovetti il successo che ne riportai.

Ora, caro Onorato, la conferenza a cui tu hai dato origine con l'idea della scommessa, è data alle stampe, e voglio che il tuo nome vada unito al mio nella pubblicazione.

Convieni con me che in quest'affare della conferenza, non ti potevano capitare fastidi maggiori. Perduta la scommessa ora devi sopportare perfino la dedica di questa farragine di scioccherie.

Le disgrazie non capitano mai sole.

Sta' bene e ricevi una affettuosissima stretta di mano dal tuo

1º gennaio 1885.

Cesare Pascarella.

Signore e Signori,

Sapete? C'è stato un momento, un'ora fa, quando ho posto il piede in queste sale, che spaventato da un esercito interminabile di sedie vuote (Non potete immaginare quale effetto disastroso producano nell'animo di un conferenziere le sedie vuote!) spaurito da tutto questo apparecchio di tappeti verdi, e di bottiglie piene d'acqua inzuccherata ho avuto improvvisamente l'idea di ripigliarmi lo scialletto e il cappello, e d'andarmene.

Voi sorridete, Signora? Capisco ciò che significa il vostro sorriso. Voi pensate che se io me ne fossi andato, a quest'ora a voi sarebbe risparmiata la noia di ascoltarmi e a me lo scorno di stare quassù impacciato davanti a questo tavolino. Ma ora, o Signora, il rammaricarsi è vano; perchè io ci sono, voi, eh! voi ci siete; insomma noi ci siamo; e conviene, bene o male, a me di parlare e a voi di ascoltarmi.

Non potete immaginare quanto mi dispiaccia di non essere un valido e forte conferenziere! Eh, se lo fossi a quest'ora avrei già abbozzato una diecina di righe di preambolo, me ne sarei scivolato giù nell'argomento, e una volta nell'argomento felicissima notte! Poichè è proprio vero, che il difficile sta nel cominciare. Una volta incominciato, in fondo ci si arriva. Le idee son come le ciliege; una ne tira un'altra. Di ciliegia in ciliegia si arriva in fondo al piatto, come, bene o male, di idea in idea si arriva in fondo alla conferenza. Ma io, purtroppo! non sono un valido conferenziere. Io sono venuto quassù impacciato con la testa fra le nuvole; tanto che se io avessi bisogno di un bicchier d'acqua dovrei stare bene attento a non far accadere una inondazione su questo tavolino.

E giacchè sono in vena di fare delle confessioni, ci metto anche questa. Cinque minuti fa, quando sono sceso da quella stanza che mi parve l'anticamera dei sospiri, per venir qui, attraversando la sala ho gittato timidamente uno sguardo tra la folla ed ho visto tanti amici che mi guardavano ridendo e tante belle signore che mi osservavano curiosamente attraverso alle lenti degli occhialetti. I primi mi hanno rammentato la folla pigiata sotto ai funamboli che salgono sul soffitto del teatro per eseguire i loro difficili esperimenti, e mi è balzata alla memoria la considerazione che fa il popolano al vedere la vita dei poveri acrobati esposta al pericolo. Ricordate?

Quer che te dà piacere, poi, è l'artezza

Indove stanno a lavorà' 'sti giochi:

Si quarcuno viè' giù nu' la rippezza!

E a dirvi la verità, non vorrei davvero proprio io, stasera, venir giù dal soffitto di questa conferenza!

Le seconde, le signore, oh! le signore mi hanno ricordato la folla elegante che si stringe attorno alla fiala di vetro, ove nuota nello spirito un mostricino presentato dal Barnum in abito nero e cravatta bianca, come un fenomeno très intéressant.

Forse, a cercarlo bene, il mostricino c'è; ma se c'è il mostricino, manca lo spirito.

Difatti...

( Il conferenziere ad un signore che, sbuffando, si dimena fastidiosamente su la sedia ):

Come? Che cosa dice? Ah! Il manichino? Scusi tanto. Chiacchierando lo avevo dimenticato. Ma, prego, non s'impazienti! Guardi, incomincio subito.

( Qui l'oratore fa un passo indietro, si inchina e con voce solenne incomincia ):

Quand'è, o signori, che è comparso sulla scena del mondo il manichino? Quand'è? Quand'è? Curiosa davvero! Sento di essermi dimenticato di qualche cosa e non riesco a capire di che. Ah, per bacco! scusate tanto, nientemeno che m'ero dimenticato di bere il bicchier d'acqua di rito.

Io veramente non ho sete; ma siccome ho visto come tutti i conferenzieri prima di entrare nell'argomento bevano un bicchier d'acqua, io, ripeto, non ho sete, ma per non infrangere la consuetudine, giacchè lo bevono tutti, lo bevo anch'io.

( L'oratore vuota un bicchiere, poi manda un sospiro di contentezza e sorride ).

Ah! ora capisco perchè si beve il bicchier d'acqua. Ma davvero che questo bicchiere d'acqua mi ha dato una larghezza di vedute, una lucidità di mente tale, che incomincio a credere sul serio di arrivare fino in fondo senza fermarmi mai più. Dunque dicevamo? Ah! dicevamo: quand'è, o signori, che è comparso sulla superficie della terra il manichino? Per rispondere a questa dimanda sento il bisogno di ricorrere ad una frase fatta. L'origine del manichino, o signori, si perde, pur troppo, nella notte dei tempi. Ed ora, giacchè ci sono, sèguito. Accendiamo dunque il lanternino della storia, o per dir meglio, delle induzioni; e ricerchiamo questa origine.

Ci sono molti i quali affermano che il manichino c'era già prima che il mondo esistesse; e costoro aggiungono che basta gittare lo sguardo su tanti quadri, per vedere come su quelle pitture colui che si affanna con le braccia spalancate a creare tutto questo po' po' di mondaccio birbone, non sia altri che un manichino rivestito di stoffe aranciate e azzurre, campeggiante in una bella aureola di giallo di Napoli: ma questa può sembrare un pochino sballata, e così pare anche a me. Non teniamone conto. Scartiamola, e procediamo diritti per la nostra via. Però prima di addentrarci nella selva selvaggia delle induzioni, stabiliamo bene una cosa. Si conoscono o non si conoscono manichini preistorici? Qualcuno di voi potrebbe dirmi che i manichini preistorici esistono, e sono posseduti dal signor Dovizielli[1]; ma questo sarebbe uno scherzo e la gravità della mia conferenza ne andrebbe perduta. No, i manichini preistorici fino ad ora non si conoscono. Forse fra qualche mese, fra qualche anno, la scienza, che progredisce sempre nelle scoperte utili, inventerà anche il manichino fossile; ed allora sarà il caso di riparlarne: allora Temistocle Gradi ci farà sù un bel racconto. Paolo Lioy ci scriverà sopra un articolo per il Fanfulla della domenica e un Pascarella dell'avvenire lo illustrerà con una nuova conferenza. Auguro a quel Pascarella dell'avvenire la fortuna di avere innanzi a lui un pubblico così colto, numeroso, e gentile come questo che ora mi ascolta. Assodato, adunque, come i manichini preistorici non esistano, io mi risparmio di sciorinarvi le teorie darwiniane, e vado innanzi.

Assolutamente è chiaro, o signori, che il manichino ha dovuto comparire sulla superficie della terra subito dopo che l'uomo nella sua qualità di essere ragionevole, e di principe della natura, ha sentito il desiderio di possedere qualche cosa di falso somigliante al vero, ma che però cotesto vero non riuscisse a raggiungerlo mai. Mi spiego. Per ricercare l'origine del manichino, o signori, è necessario, logicamente parlando, di ricercare la origine dell'arte. Quando, o signori, è nata l'arte nel mondo?

Belle dimande direte, voi. Ma che sul serio, dico, vogliamo credere alla storiella dei due amanti di Sidone? All'amante maschio che parte proiettando nettamente sul muro l'ombra della sua persona, e all'amante femmina che resta, e che vedendo sul muro l'ombra del suo innamorato corre a graffiarne il contorno con un chiodo o con una lisca? Scioccherie. L'arte è nata con l'uomo, e l'uomo non appena è comparso su la scena del mondo, ha inteso la necessità, il bisogno ineluttabile dell'arte. E io me lo figuro, quest'uomo primitivo, che, aperti gli occhi alla luce, appena ha cominciato a passeggiare per le vie del mondo, invece di fabbricarsi un paio di brache per ripararsi dal freddo, un ombrello, magari da pochi soldi, per difendersi dalle piogge torrenziali, io me lo figuro, reggendosi con una mano la foglia di fico — l'unico tout de même allora di moda — segnare con l'altra, su di una pietra non ancora ricoperta di muschi, con una silice dura il ritratto del suo babbo, della sua mamma e della sua innamorata; me lo figuro e lo compiango. Badate bene però, che non mi arrischio di metterlo fuori qui questo compianto, perchè qui troppi pittori mi ascoltano. Anzi io qui dirò come l'arte sia prepotente bisogno nell'uomo e qualche volta anche nella donna, e sosterrò come l'uomo perfetto sia colui che dipinge quadri. Solamente io spero che lor signori vorranno essere tanto ragionevoli da lasciarmi aggiungere all'uomo perfetto che dipinge quadri, l'uomo perfettissimo: quello che li compra!

Accertata adunque l'esistenza del pittore nelle prime epoche mondiali, è appunto a quelle epoche che risale l'origine del manichino. Difatti, ammesso una volta il pittore, bisognerà logicamente ammettere la differenza d'ingegno di codesti pittori. E, se ci sono pittori a corto di moneta, ora che governi, comuni e Provincie Dio solo sa quanto spendono e spandono per proteggere l'arte e gli artisti; se vi sono pittori con le tasche vuote ora che si pagano migliaia e migliaia di lire pochi palmi quadrati di tela dipinta; ma figuratevi quali eserciti interminabili di pittori affamati han dovuto passeggiare sulla superficie della terra quando non esistevano nè governi, nè comuni, nè provincie; quando non c'erano Accademie entro le cui pareti si raccogliessero le speranze migliori dell'arte; quando non c'erano mecenati; quando ancora non eran nate quelle famose lotterie per vendere i rimasugli delle Esposizioni; quando non c'erano negozianti di belle arti; quando, o signori, non esistevano neanche gli americani, poichè a quell'epoca l'America ancora non era stata inventata.

Concludiamo. Ammesso il pittore, abbiam dovuto logicamente ammettere il pittore affamato. Ammesso il pittore affamato, il problema dell'origine del manichino è risoluto.

A me par di vederlo cotesto sventurato inventore. Un giovinotto alto e largo quattro volte me, con una folta capigliatura nera, spiovente sulle sue spalle quadrate con una barbettina a pizzo sul mento. A me par di vederlo, cotesto pittore allupato dell'antichità, con le mani strette nervosamente su la pancia vuota, passeggiare a passi concitati innanzi alla porta del suo studio. Figuratevi che studio! Una capanna immensa costruita coi rami di quegli alberi che ora si vedono verdeggiare soltanto negli scenari delle operette fantastiche. Mi par di vederlo passeggiare e mi par di udirlo bestemmiare in sanscrito, come un turco, perchè il modello da lui fissato non arriva ancora.

«Per gli Iddii immortali!...» è il pittore allupato che parla ed io traduco liberamente; «per gli Iddii immortali! Quel birbante di modello questa non me la doveva fare. È vero che gli son debitore di parecchie lire sanscrite; ma non gli ho io forse promesso di pagarlo ad usura quando il mio quadro otterrà il lauro della vittoria laggiù nella foresta delle sigillarie ove si terrà la prima esposizione mondiale? La stessa cosa ho promessa al padrone di studio, all'oste, al negoziante di colori, al corniciaio, che mi porterà qui fra non molto una bella cornice di felce dorata, e tutti costoro accondiscesero, e come possono si danno moto perchè il mio quadro abbia successo; e tu solo, vile ciociaro dell'Iran, birbante di un modello, tu solo, mentre tutti si danno moto perchè il mio quadro abbia successo, tu solo, mentre tutti si danno moto non vuoi star fermo? Va, sciagurato, anche senza il concorso della tua persona il mio quadro sarà finito ugualmente!». Questo mi par di sentir dire al pittore sanscrita e mi par di vederlo rientrare nel suo studio; mi par di vedergli adattare intorno a un bastone gli indumenti primitivi, che doveva indossare il modello, stringerli con una fune, rannodarli, allargarli, dargli approssimativamente la parvenza di una forma umana, e cominciare poi tranquillamente il lavoro.

Non altrimenti, signori, è nato il manichino. Così.

Però codesto manichino come lo abbiam visto ora uscire dalla fantasia del pittore famelico, non era se non un germe, non era che un embrione del manichino da noi ora conosciuto. Che lungo viaggio ha dovuto egli fare, prima di acquistare quella perfezione di forme, quella gravità di movimenti che lo fa somigliare così bene all'uomo pensante! Quale lunga evoluzione dal pittore affamato che lo intuì, fino a giungere a frate Bartolomeo della Porta da cui egli ebbe l'ultimo tocco!

E, nella lunga evoluzione, nel lungo viaggio molte altre razze di manichini nacquero e si sbandarono qua e là per il mondo, abbandonando il grosso della turba che sempre, sotto ogni stella, seguì la fortuna dell'artista. Alcuni non contenti di somigliare all'uomo per le forme, vollero somigliare all'uomo anche per la parola. E abbandonarono i facili trionfi dell'immobilità, per la difficile arte di Talia, e corsero il mondo empiendo di cose strane con la loro voce ridicola, che vollero dare ad intendere di avere acquistata, le anguste e sudice scene dei teatrucoli di legno. Ma come scontarono amaramente la fregola del parlare e l'ambizione della gloria! Di grandi e forti che erano, divennero piccini, mingherlini, malaticci; abituati alla luce viva dello studio furono costretti a star pigiati, al buio, entro i cassoni dei loro padroni, l'uno sull'altro, come le sardelle; avvezzi alle piene lodi e ai complimenti di quanti li riconoscevano nei quadri dipinti dai professori più illustri, furono obbligati a subire l'ignominia della folla, che gittò loro, ridendo, sul muso ammaccato dai patimenti e dalle sofferenze il nome ingrato di burattini. Altri vollero ricoprire le loro persone di abiti scintillanti d'oro e di porpora; vollero ornare le loro teste di corone gemmate; ma a qual prezzo dovettero acquistare tali ornamenti! Chiusi nelle vetrine dei musei ove non hanno accanto se non mummie, uccelli impagliati, mostri nuotanti nello spirito, oh! come debbono ripensare con dolore all'allegra dimora che abbandonarono! Altri più superbi, chiesero, oltre allo scintillìo delle vesti e al fulgore delle corone, anche l'omaggio e la venerazione, e salirono su gli altari.

Eppure, fra i manichini sbandati, ve ne sono anche dei più disgraziati di costoro. Ricordate, nelle fiere di provincia, quei poveri manichini costretti a servire da bersaglio ai tiratori novellini? Che orrore! E quelli altri che, senza averci nè colpa nè peccato, sono esposti nei gabinetti storici sotto i nomi dei più terribili malfattori, non vi hanno mai intenerito?

Avete mai visitato quei gabinetti?

Fuori, al chiarore rossiccio delle padelle di sego che fumigano, insozzando i tabelloni su cui stanno dipinte storie orribili di sangue, il povero saltimbanco passeggia gridando con la voce rauca dal sonno e dal digiuno: «Non si lascino rincrescere! Dieci centesimi non sono la rovina di una famiglia, nè la morte di un individuo. Favorischino in del nostro gabinetto indovechè noi ci andiamo a mostrare venti e passa assassini uno più interessante dell'altro. Osserveranno il terribile brigante Stoppa, il terribile Falsacappa, il terribile Ninco-Nanco e in ultimo passeranno a osservare il terribile Tropmann. Quest'ultimo lo vedranno, o signori, vita natural vivente, come me, come lui, come voi. Lo vedranno doppo di avere ucciso venti e passa individui fra maschi e femmine nonchè altri delitti ferocissimi, lo vedranno quando la mano della giustizia sta per colpirlo; ma il malfattore si butta in del fiume per salvare col suo proprio noto la sua propria esistenza. Ma la mano della giustizia lo colpisce, la mano della giustizia lo rattrappa, la mano della giustizia lo piglia, lo lega come un Cristo e lo conduce in questo nostro gabinetto, ove noi, o signori, abbiamo l'onore di presentarvelo».

Qualche raro visitatore, gittando i due soldi nel bacile di stagno ammaccato, entra nel gabinetto. I poveri manichini, al chiarore fioco di pochi lumi, stanno allineati su di un tavolaccio sudicio: chi stringe una lama, chi brandisce un'accetta, chi impugna una pistola, chi si stringe al petto un fucilacelo arrugginito. Poveri manichini! costretti là dentro a rappresentare la parte del malfattore e del brigante mentre in fondo poi chi sa che bravi e che onesti manichini saranno.

Vedete: certe volte, riflettendo alle orribili torture alle quali vengono assoggettati, io non vi so dire quanto dolore provi nel pensare come ancora non si sia fondata una società di protezione per i poveri manichini. Ce ne son tante; ce ne potrebbe essere ben una anche per loro.

Figuratevi! Voi bella e gentile signora quando andate dal vostro guantaio non vi siete mai sentita agghiacciare il sangue nelle vene, al vedere quella mano nera, quella mano rossa, che penzola su l'insegna, pensando a quel povero manichino a cui l'hanno strappata?

E quando passate innanzi alle vetrine dei parrucchieri, non vi siete mai sentita spezzare il cuore nel petto al vedere quelle povere figurine di manichini così belle, così giovani, e già così tanto infelici! costrette a girare eternamente, come un pollo infilzato allo spiedo, fra i vasetti di pomate e di balsami miracolosi? Quelle povere figurine hanno tutte, sul volto dipinto di cinabro, il sorriso; ma quel sorriso che hanno sui labbri non lo hanno nel cuore.

Ma noi abbiamo già troppo a lungo discorso dei manichini che abbandonarono lo studio. Lasciamoli ai loro rimorsi e fermiamoci a parlare del manichino rimasto ognora fedele all'artista nella fausta sorte e nella ria.

Proprio così; poichè, o gentili dame che mi ascoltate, non crediate che nello studio si rida sempre. Nello studio, purtroppo, si succedono talvolta giorni di dolore e di scoraggiamento.

Oh! in quei giorni come è triste quello stanzone che voi, dame gentili, vi figurate sempre come la sede della spensieratezza e dell'allegria! Allora, su l'ampio finestrone, batte assidua la pioggia; nell'aria non s'odono più le vibrazioni sonore della chitarra, di cotesto scacciapensieri dell'artista; sul tavolino i fiori, colti nel prato, diventano un mucchio di erbaccia fradicia; sui quadri la polvere oscura le tinte; sulla tavolozza i colori induriscono, e persino il vecchio orologio si dimentica di battere l'ora del pranzo! Nello stanzone s'ode l'eco d'un picchiettare assiduo, d'un martellare nervoso. È un giovinotto che nelle stanze terrene tormenta, con la punta d'acciaio, il seno bianco di una Venere di marmo. E l'acqua cade sempre sui vetri, attraverso ai quali si disegnano languidamente i colli lontani affondati nella nebbia grigia che ricopre gli orti e i pometi.

Allora, il pittore, solo nello studio, sdraiato sopra un divano ricoperto di stoffe orientali, dai cui angoli escono bioccoli di borra, fumando nella vecchia pipa, che gorgoglia rocamente, mentre il fumo sale, come un nastro, in alto, verso la tela, tesa a celare lo sconcio rincorrersi delle travi, sulla tela ove s'allungano le macchie nerastre dell'acqua, va dietro con la fantasia alle visioni dell'avvenire. A lui appaiono i meriggi assolati e le biade mature sotto l'azzurro purissimo delle giornate di luglio; a lui appaiono le fantasime della gloria che gli porgono con le braccia ignude corone di lauri; tutto quanto v'ha di bello e di lusinghiero appare alla fantasia dell'artista: anche l'esposizione mondiale di Roma! Poi, l'incantesimo cangia, all'azzurro succede il nero e allo sguardo sbarrato del pittore appare un lungo e squallido corridoio, ove si allinea una fila di lettucci; poi un carro nero che va sulla via fangosa fra due filari di cipressi bruni mentre nell'aria muore l'ultimo rintocco dell' Angelus. Allora egli si scuote, gitta sul tavolino ingombro di libri, di versi, di tavolozze, di penne e di pennelli, la pipa spenta e gira lo sguardo in un angolo dello studio, ove il manichino sta impassibile ad osservare. Oh! allora chi mi sa dire i muti colloqui che avvengono fra il manichino e l'artista?

Chi mi sa dire tutto ciò che egli in quei momenti confida al suo fedele compagno?

Ma il manichino non parla.

Guai se così non fosse.

E che direste voi se un manichino indiscreto e ciarliero, vi venisse a raccontare gli amori di un professore bianco per antico pelo con una gentile modella dalle trecce nere cadenti voluttuosamente sulla stoffa di un cuscino giallastro, e se venisse a raccontarvi le pose, i gesti, i corrugamenti di ciglia di un artista innanzi allo specchio, per istudiare un discorso da improvvisarsi più tardi in un Circolo artistico, in un Congresso artistico o innanzi a una bara bagnata di lagrime e ricoperta di fiori? Ma il manichino è discreto, il manichino non parla.

Ma sapete che scenette deliziose avverrebbero se il manichino parlasse!

Per esempio, incontrate per via un artista, e voi naturalmente fermandolo gli domandate: — Come va?

— Benone! — vi risponde lui tirandosi i peli radi della barbetta mefistofelica.

— Che fai?

— Lavoro.

— E il quadro?

— Quello piccolo? L'ho venduto.

— E quello grande?

— Ah, quello grande non ci penso neppure a venderlo.

— Come? Non pensi a venderlo?

— No; perchè quello grande l'ho fatto per me. Ho venduto il piccino a un americano per ventimila lire. È poco, lo so; ma glie l'ho dato perchè la galleria in cui sarà esposto è una galleria di primo ordine; ci sono Meissonier, Gérome, Laurens, Makart. Via, si sta in buona compagnia. D'altronde, anche ventimila lire per un quadrettino non sono poche: capisco ciò che vuoi dirmi; ma, sai, i tempi sono cattivi...

— Davvero. Guarda, giusto ora sta per piovere, ciao!

Che direste se il manichino di quel pittore vi venisse a rivelare che il quadro venduto all'americano per ventimila lire, invece di stare esposto nella galleria di New York, sta sepolto in un armadio, nello studio, preda dei topi e delle tignuole?

E che direste se, per esempio, vedendo passare un professore serio serio, impettito nell'abito nero, superbo del suo cappello a cilindro lucente tra la folla dei cappellini a cencio, coi nastri delle commende all'occhiello; che direste se un manichino vi venisse a dire, come lui quel professore lo abbia conosciuto quando, con la camicia che gli usciva dalle maniche rotte della giacca, urlava contro le Accademie, e quando, non potendo altrimenti dileggiare quelle istituzioni, di cui ora è orgoglioso di far parte, chiamava il suo cane col titolo di professore?

Ma il manichino, signori, è discreto, il manichino non parla. Ed è per questo che, quando la porta dello studio non s'apre ai colpi reiterati delle amiche e degli amici egli sta nello studio. Sta nello studio perchè non dirà a nessuno se una macchina fotografica prese il posto della tela sul cavalletto; nè farà sapere a nessuno se un quadro sarà accarezzato da un pennello e firmato da un altro.

Però, o signori, non tutti i manichini sono manichini, e come tra gli uomini così anche fra i loro ve ne sono di quelli che disonorano la loro razza.

Costoro hanno vita dolorosissima: randagi d'indole, vanno vagando senza posa da questo a quello studio; feroci e maneschi, sovente attaccano briga con l'artista, e non giovano cure e castighi per farli uscire da quella via di perdizione.

Io ne ho conosciuto uno di cotesti sciagurati. Che brutta figura! Scommetto che se l'aveste incontrato per via, gli avreste dato l'orologio e il portafogli, purchè vi avesse lasciata salva la vita. Aveva sul muso i tratti caratteristici del delitto, così bene marcati che io son certo che se il professore Lombroso lo avesse visto, non dico tastato, lo avrebbe giudicato come il prototipo del manichino delinquente. Di star fermo, non volea saperne. Vi lasciava incominciare un lavoro; poi, quando vi vedeva a lavoro inoltrato, crac, faceva un movimento brusco e addio pieghe, addio lavoro.

Lo mettevate ritto nella posa del guerriero che ritorna vincitore? Dopo cinque minuti, il guerriero vincitore si metteva a sedere. Lo atteggiavate seduto, nella posa del Tasso, che declama i suoi versi alla sorella del duca di Ferrara? Dopo aver letto appena due ottave Torquato Tasso si gettava in terra. Lo mettevate seduto in terra, nella posa dell'onesto agricoltore, che si riposa dalla fatica lunga della giornata o nella posa del gladiatore moribondo? Dopo pochi istanti, l'onesto agricoltore si stendeva lungo sul pavimento a dormire e il gladiatore moribondo era morto. Io ho visto, signori, dei pittori perdere la pazienza, afferrare un bastone e suonar giù botte da orbi. Come dire al muro!

A un pittore, che gli assestò un colpo di bastone sul cranio spelato, egli rispose gittandosi vigliaccamente per terra e allungandogli con la gamba legnosa un calcio sul volto che, se lo pigliava in pieno, lo spediva al Creatore.

Pure, io non li odio cotesti poveri manichini degenerati, perchè penso che il loro pervertimento è causato dall'organismo loro e dalla loro costruzione, e ripeto con Seneca: Fatis agimur cedite fatis!

Del resto, se vi sono manichini delinquenti e perversi, oh! infinito è il numero di quelli buoni, fedeli, incapaci di recare il più piccolo danno ai loro padroni.

Una notte, i ladri salirono in uno studio per rubare. Al chiarore freddo della luna, che battendo sui vetri del finestrone illuminava languidamente la stanza, videro in fondo ad essa un antico romano che vegliava, e fuggirono. Signori, quell'antico romano che vegliava, era un manichino.

Potrei citare centinaia di fatti comprovanti la bontà d'animo, il coraggio e le rare doti del manichino; ma non voglio dilungarmi troppo, e ne citerò uno solo rimasto pietosamente scolpito nella memoria di quanti ne furono testimoni. Nel dicembre del milleottocentosettanta, quando il Tevere dilagando per le vie di Roma fu cagione di tante sventure, uno scultore era restato chiuso dalle acque nel suo studio.

La via Flaminia era allagata; e il fiume trasportando alberi divelti dalle lontane campagne, carogne di buoi e di pecore, e frantumi di capanne urtava schiumando su gli stipiti marmorei della Porta del Popolo.

Lo scultore, spintovi dall'incessante salire delle acque, era già salito a sua volta sopra un armadio, e stava aspettando angosciosamente la morte, quando udì venire dalla prima stanza del suo studio un rumore come di qualche persona che si avvicinasse. Gridò. Nessuno rispose. Ma quando una più forte ondata entrò nella camera, spalancando mezza imposta dell'uscio, egli vide il suo manichino, nuotante placidamente, avvicinarsi a lui con le braccia levate e con le labbra sorridenti. Un urlo di gioia, come non si era mai più udito l'eguale, da quando i naufraghi della Medusa videro su l'infinito mare biancheggiare una vela, risuonò nello studio, e poco dopo le turbe invocanti il soccorso dai tetti delle case di via Flaminia, videro lo scultore e il manichino abbracciati strettamente, galleggiare sicuri su la furiosa fiumana.

Povero manichino! per opera sua lo scultore fu conservato all'onore dell'arte e alla speranza dei creditori; ma lui morì fradicio. E la sua lunga agonia non fu neanche confortata da un cenciolino di medaglia al valore civile!

Ed ora dirigo la mia parola agli artisti.

Vedete: se il manichino qualche volta non fa quanto gli domandate, non è che ci metta della cattiva volontà; è proprio perchè non può. Dovete anzi pensare che non v'ha cosa meglio maneggevole di lui; anzi, questa volta proprio si può dire che potete girarvelo come meglio vi talenta e accomodarvelo come meglio vi piace. Certo, però, che vi abbisogna un pochino di pazienza e anche un pochino d'occhio; perchè, è uno sbaglio il credere che tutti i manichini possano essere capaci delle stesse azioni.

Ve ne sono alcuni di forte e solida costruzione, che sdegnano di ornare la loro persona coi rasi e coi broccatelli del secolo scorso. Ve ne sono altri a cui si richiede invano di chiudere il loro esile torace nella corazza brunita del medio evo. Ve n'ha di quelli che amano la posa eroica e di quelli che prediligono la posa umile. Ve ne sono moltissimi che non possono posare se non seduti mollemente sui morbidi cuscini dei ricchi e malinconici sedioni medioevali.

È vero, pur troppo, che esistono manichini senza carattere, sempre disposti a posare indifferentemente e per Dio e pel Diavolo, per san Michele Arcangelo e per quello che gli sta sotto. Ma se vi sono manichini di questo stampo, non sono tutti così: se ne trovano anche di quelli che hanno un carattere, una fede, una coscienza: e i secondi sono di gran lunga più numerosi dei primi.

Alle volte non potete immaginare a quali torture si assoggettino i poveri manichini, costretti dai loro padroni a raffigurare cose e persone da essi odiate, da essi non sentite. Io ho conosciuto un valente acquarellista che volle costringere il suo manichino a posargli nientemeno che da tomba di Cecilia Metella e da acquedotto della campagna romana, e il poveretto piegò la sua persona a raffigurare quei bruni ruderi della civiltà latina; ma quali spasimi, quali dolori non deve aver provato quel povero manichino?

Io non conosco pena maggiore di quella di veder soffrire un povero manichino.

Egli è là, nella posa da lui non sentita, e non amata; è là muto, con gli occhi sbarrati, con la faccia pallida, con le dita nervosamente contratte, e soffre in silenzio senza mandare un lamento; solo di tanto in tanto s'ode uno scricchiolìo. Il pittore si stizzisce ed egli sgranchite le giunture ritorna immobile. Chi sa mai quali torture affliggono quella testa di legno? Chi può dire quali tristi pensieri passino, s'affollino in quella figura all'apparenza così calma e paziente? Chi sa quanti poveri manichini, malati, cagionevoli di salute... Già, poichè, non crediate, o signori, che il manichino non abbia anch'egli le sue malattie. Ne ha due fierissime: la calvizie e la debolezza.

La prima è incurabile, però non è mortale; la seconda è mortale, ma per compenso la si può curare facilmente. Il rimedio a codesto male, voglio dire alla debolezza, è il medesimo oggidì tanto in voga. Ma non crediate che il manichino se ne serva ora solo che viene indicato su le quarte pagine come la panacea universale. Quando il ferro, o signori, non era ancora conosciuto come efficacissimo rimedio, egli lo aveva già da lungo tempo nelle sue medicine. E bisogna vedere, quali effetti miracolosi produca il ferro negli organismi malati dei manichini. Io, o signori, ne ho visti alcuni infermi al punto da non reggersi sui piedi, io li ho visti, subito dopo aver ingoiato un palo di ferro, risorgere forti e robusti come per miracolo.

E bisogna vedere con quale stoicismo essi si assoggettano alle più difficili operazioni!

A un povero manichino s'era infradiciato l'omero. Rimasto abbandonato per parecchio tempo in una cantina, l'umidità gli aveva intaccato i tessuti e minacciava di incancrenirgli il torace.

Fu deciso di segargli il braccio.

Cosa incredibile! Durante la difficile e dolorosissima operazione non un lamento uscì dalla sua bocca, non uno sguardo doloroso contristò la sua faccia serena. E notate che non si era adoperato neanche il cloroformio!

Signore, Signori,

Il tempo fugge e già che, fortunatamente per voi, siamo ormai vicini al termine di questa mia chiacchierata, permettetemi di enumerarvi talune di quelle opere alle quali il manichino si gloria di aver dato origine.

Nelle arti belle, quando non sono brutte, egli ha ispirato quadri e statue in grandissimo numero, sì che sarebbe impossibile il contarle.

Nell'arte dei capperi ha ispirato al maestro Fétis «Il Manichino di Bergamo», un'opera comica di grande interesse nella storia del melodramma, perchè il suo autore scrivendola tentò per la prima volta di introdurre sul palcoscenico brani di musica scritti in note e parole. Nel campo letterario ha dato il modo a Guglielmo Teodoro Hoffmann, il simpatico narratore di istorie incredibili, di scrivere una delle sue più belle pagine raccontando l'amore ardente di uno studente di Gottinga per un manichino. Sulla scena di prosa il manichino ha avuto anche i suoi trionfi. Vi sovviene della farsa deliziosa «Il modello di legno?» Nella poesia egli ha pagine splendide e pagine sublimi e pietose ha nella forte e sana letteratura popolare. Ricordate la dolorosa e commovente istoria di quel povero pittore, il quale «per dispiaceri amorosi e anche più per l'esposizione, muore barbaramente suicidandosi con le sue proprie mani»?

Ve la dirò dal principio:

V'era un giovin di buona famiglia

Il quale, Peppino nomato

Che all'età di vent'anni arrivato

Si decise di fare il pittor.

La famiglia sua propria e i parenti

Gli dicevano no ad ogni costo;

Ma Peppino fuggì di nascosto,

Per studiare soletto da sè.

Era il tempo dell'anno passato

Quando v'era la gran discussione

Sul palazzo dell'esposizione

Che a novembre s'aveva da aprir.

Ma che invece per molte ragioni,

E anche più, perchè ancora quel sito

A novembre non era finito.

Si decise di aprirlo più in là.

E Peppino pensato il suo quadro

Ch'è la morte del conte Ugolino

Lo dipinse e al suo proprio destino

Lo mandava nell'esposizion.

Ma in quel tempo s'infiamma d'amore

D'una vaga, gentil damigella,

Che faceva il mestier di modella

E la volse per forza sposar.

Da principio fu sempre fedele

A Peppino la vaga sua sposa,

Ma più lardi poi fu un'altra cosa;

Sciagurata! Lo volse tradir.

Chè di lui un amico sincero,

Che fu poi un gran traditore,

Pria gli tolse la pace e l'onore,

Poi fu causa di gran crudeltà.

Ma intanto si apre il palazzo

Con le opere all'esposizione.

Interviene la gran commissione

Con i corpi dell'autorità.

E la morte del conte Ugolino

Vien da tutti i giornali lodato.

Il gran premio gli vien decretato,

Ma nessuno lo vole comprar.

Ma la sera in cui stava al quint'ordine

Dell'Apollo, nel mese passato,

Col biglietto d'onor d'invitato,

Viene e bussa il suo fido portier.

E gli reca un tremendo dispaccio,

Dove lui vi rompe il sigillo.

Cade in terra facendo uno strillo,

Che anche i sassi ne senton pietà.

Quando s'alza che torna in sè stesso

Corre a casa e che trova? La moglie

Che gridando fra orribili doglie

Di due figli lo fa genitor.

Lui li prende e li guarda i visetti

E li vede che sono il ritratto

Di colui che compiva il misfatto

Di quel vile del suo traditor.

E fu allora che ai gran dispiaceri

Del suo quadro, nonchè la consorte,

Lui decide di darsi la morte

Suicidando se stesso da sè.

E impugnato un tubetto di biacca.

Lo sorbiva piangendo, e tapino

Ed in braccio del suo manichino

Lui moriva fra grandi dolor.

Signore e Signori,

Nei secoli venturi molte cose nuove compariranno nel mondo, moltissime altre dilegueranno; ma il manichino, o signori, non potrà mai perire perchè sta troppo saldamente piantato su due basi, dalle quali nessuna forza umana lo potrà mai rovesciare: sull'economia e sulla morale. Sull'economia? Eh! Dio buono, finchè il mondo sarà mondo, esisteranno pittori; finchè vi saranno pittori, siatene certi, vi saranno sempre pittori affamati, e fino a che vi saranno pittori affamati vi sarà il manichino. Sulla morale? Eh, lo so bene che verranno tempi in cui i procaci atteggiamenti degli ignudi dei modelli e delle modelle che non son sempre modelle di virtù, pervertiranno i popoli; e allora il manichino si allontanerà in volontario esilio; ma quando gli uomini e, forse, le donne torneranno a chiedere nei quadri e nelle statue i concetti seri e pensati e la nota classica, allora egli ricomparirà a domandare il suo posto. Allora la folla delle damine che si raccattano il gonnellino, la processione dei conti e delle contessine, l'esercito dei cavalieri della rosa e dei moschettieri che fumano la pipa, che si arricciano i mustacchi e che alzano il bicchiere, gli sciami languidi e dinoccolati degli incroyables e delle merveilleuses fuggiranno, con le loro smorfie e i loro sdilinquimenti, e il manichino avvolto nelle rigide pieghe del suo mantello ricomparirà vittorioso. E, spazzato via tutto quel ciarpame di velluti, di rasi e di sete, di nastri, di frange e di trine, sarà lui, il manichino, che si pianterà fiero e gagliardo sulle travi rotte e cadenti del ponte Sublicio a rattenere l'impeto delle orde etrusche invadenti l'antica Roma; sarà lui che si coprirà il capo ordinando che i suoi figliuoli sien tratti al supplizio; sarà lui che stenderà il braccio sui carboni ardenti, innanzi alla faccia barbuta del re Porsenna; sarà lui che, avvolgendosi nella toga bianca, cadendo trafitto a morte in Senato sotto la statua di Pompeo, esclamerà dolorosamente con l'eloquenza del gesto: — Tu quoque Brute, fili mi: sarà lui infine che, ramingo per le terre d'Italia, cieco e vecchio, andrà supplicando la pietà dei passanti, mormorando col gesto triste: Date obolum Belisario! E quando sulle rovine dei bassi tempi sorgerà il gentil fiore azzurro dell'ideale, sarà lui, il manichino, che ritornerà di Terra Santa a cavallo d'un caval a riabbracciare la sua donna che lo attese per ben sette anni sul verone del maniero avito. Lui scenderà cinto di maglia nel torneo di Tolosa, e galopperà su un leardo pomellato, con la salda lancia in resta; lui, col liuto su la schiena, cacciato in bando, s'aggirerà solingo e pensoso nella selva bruna, fuggendo ogni chiaror fuor che la luna! Lui, infine, salirà trepidante, fra il fogliame verde scuro dell'edera, sopra il veron di gotica torretta, e lassù si stringerà al petto la castellana infedele, mentre la scaletta di seta oscillerà lievemente, nel bujo, baciata dalla tepida e dolce aura notturna!

E poi, o signori, dalla scimmia non dirò che ci siate venuti voi; ma io ci son venuto di certo. Chi potrà dire che cosa verrà dal manichino?

Forse nelle lontane epoche dell'avvenire, egli saprà rimediare al malanno che ora lo affligge, la calvizie, e saprà ornare di una bella barbettina bionda le sue gote pallide. Forse allora, egli avrà non più nelle vuote orbite due punti neri inanimati; ma due lucenti e mobili occhi, e nel suo corpo batterà un cuore ove pulseranno onde purissime di sangue. Sarà bene? Non lo credo.

Ah, meglio il manichino di legno che il manichino di carne e d'ossa!

Il manichino di legno non vi secca con la sua parola sciocca e vanesia, non vi annoia, per divertirvi, zufolandovi all'orecchio le ariette e le frasi udite ai concerti e nei teatri, non vi infastidisce ripetendovi le discussioni politiche da lui udite fra il fumo dei sigari, su le panche dei caffè, non vi punge con gli spilli della maldicenza, non vi scaglia nella schiena la freccia avvelenata della calunnia, non viene ad ammirare i vostri quadri per poi andare a sparlare delle opere vostre, non penetra amicamente nei vostri studii a rubarvi i bozzetti. Oh, meglio, meglio il manichino di legno, credete. Pure, la trasformazione si compirà, e sarà ancora una volta provato l'assioma della dottrina darwiniana sulla evoluzione, così detta, perfettiva degli esseri. Verrà un giorno in cui anche i manichini si agiteranno a chiedere diritti e guarentigie, a vociare discorsi e a unirsi in falange compatta e ordinata per soverchiare le prepotenti forze degli umani. In quel giorno il pittore sarà costretto dal suo manichino a posargli da modello. Forse allora i manichini invaderanno i pubblici uffici, le università, il parlamento, il senato, la reggia; e andranno a scacciare dalle cattedre delle Accademie di belle arti i professori, per diventare essi professori a loro volta. Il più onestamente mite si limiterà a chiedere il grado di sottotenente nella milizia territoriale. I più irrequieti chiederanno di far parte del Circolo artistico, e uno di costoro, acclamato dal plauso unanime, seduto sul seggio presidenziale avrà l'onore di governare le legioni artistiche.

Forse uno di loro chiederà al consiglio direttivo il permesso di annoiare il prossimo suo e terrà un corso di conferenze nella maggior sala dell'Associazione. E, quel manichino riconoscente, inizierà la serie tenendo una conferenza su questo bel soggetto: «Cesare Pascarella».

IN CIOCIARIA

I.

Dormivo profondamente, quando alla stazione di Valmontone lo sportello della vettura fu aperto ed una comitiva di uomini e donne entrò nel vagone.

Svegliatomi di soprassalto mi rincantucciai in un angolo dello scompartimento, e con gli occhi socchiusi, mi misi a guardare con curiosità i miei nuovi compagni di viaggio e le valige, le cappelliere, le sacche da notte ricamate di lana rossa e gialla, le borse di pelle e di tela, i canestri ed i fagotti di tutte le misure, che avevan portato con loro.

Un uomo sui sessant'anni, grasso e grosso, pareva essere il direttore della compagnia, e appena entrato nella vettura, non curandosi dei saluti dei vignaroli e dei contadini ch'eran venuti ad accompagnarlo fino agliu vapore e gli gridavano: — Forte, sor Piè'! addio sor Piè'! Stacce bene, sor Piè'! — egli si mise, seriamente, a disporre in alto su la rete le valige più buone ed a spingere sotto ai sedili i canestri ed i fagotti. Le ragazze, intanto, si litigavano i posti vicini agli sportelli, e ridendo si indicavano a dito l'una con l'altra i paesi arrampicati sulle montagne lontane, e chiamavano replicatamente Peppino e Maddalena perchè accorressero anch'essi a vedere, li ponti su li fiumi, piccoli piccoli, e le montagne che toccaveno el celo. Ma Peppino e Maddalena non si muovevano: seduti strettamente vicini si guardavano negli occhi, si sorridevano e, di tanto in tanto, si scambiavano qualche parola.

Mentre il treno correva afferrai questo brano di dialogo: — Dimme un po', Peppino, è vero che in certi punti nun se ne vede la fine? — E lui, pesando le parole: — Se capisce! Subito che el mare fenisce addòve comincia el cielo!

Quando sur un colle apparvero le case di Frosinone, il sor Pietro, dopo di aver paragonata la lentezza insopportabile delle diligenze con la rapidità fulminea delle ferrovie, si levò la giacca e diede el segnale della colazione, durante la quale, i discorsi e i bicchieri di vino rosso s'incrociarono con tanta abbondanza che io dopo appena cinque minuti, già sapevo vita, morte e miracoli del sor Pietro, i nomi dei componenti la comitiva, dove andavano, quanto tempo avevano deciso di fermarsi in riva al Sebeto, e, perfino, che la Guida di Napoli il sor Pietro l'aveva avuta in prestito da un parente di papa Pecci.

Verso la fine del pasto interminabile Maddalena, stuzzicandosi i denti con un ossicino di pollo, dimandava alquanto preoccupata a Peppino: — Ma come sarà che el mare è turchino?

E Peppino con gli occhi lustri, vuotando ancora un bicchiere: — Se capisce! In tutto el mondo l'acqua turchina è tutta salata. Il mare è tutto salato: dunque lui deve essere turchino per forza.

E s'addormentò.

Finita la colazione sopravvenne un po' di calma. Le donne si levarono i cappelli e il sor Pietro masticando un sigaro forte, che non tirava, e lagnandosi del caldo troppo troppicale, si tolse il panciotto.

Alla stazione di Pofi, metà della comitiva dormiva e il sor Pietro sbuffando si toglieva solino, polsini e cravatta, mandando un accidente a chi aveva inventato tutte quelle porcherie da signori.

Quando, a Ceprano, io lasciai il treno, egli s'era cavata anche una scarpa, accusando un forte dolore alla noce del piede, e s'era rimboccate le maniche della camicia, mostrando due braccia nere e pelose, come le code di due gatti infuriati.

Dio mio! Che cos'altro si sarà tolto di dosso il sor Pietro, prima di arrivare a Napoli?

* * *

Sullo spiazzo, dietro la stazione di Ceprano, un legno a cui erano attaccati tre cavalli scheletriti, flagellati da nugoli di tafani, stava ad arroventarsi al sole; il vetturino, un tipo selvaggio, dalla faccia annerita, dormiva sopra un mucchio di fieno, poco lungi, e russava profondamente. Altri legni per andare a Fontanaliri non v'erano. Mi avvicinai al vetturino e tentai di svegliarlo. Era di sonno duro. Allora una contadina, che stava, poco lungi, seduta, si alzò, e avvicinatasi al dormiente gli applicò due calci ove finiva la sua schiena, gridandogli: — Arrizzate, Ciccantò', ca s'è fatto juorno!

Ciccantonio, si alzò stropicciandosi gli occhi e la schiena e facendo brillare al sole, sul collo nero, una filza di medaglie; mi salutò con un: ben arrivato a signoria! e incominciò subito a decantarmi la comodità della sua carrozza, la bontà de' suoi cavalli e la sua grannissima abbeletà nel condurli. Io, poco persuaso della verità di tante lodi, accennai qualche dubbio, ma egli ribattè: — Lei, signoria, non indubiti: saglìte e sarete insoddisfatto. — Ed io convintissimo di quanto egli asseriva, comperai quattro arance da una bella ragazza, che vendeva anche ciambelle, vino e frutta, e salii nel legno ponendomi la valigia fra i piedi.

Ciccantonio saltò in cassetta, tempestò di frustate i cavalli, che non volevano muovere il primo passo, sfilò una corona di bestemmie di tutte le qualità e dimensioni, e allora le rozze si mossero finalmente, e giù di trotto per la via bianca e polverosa di Ceprano.

Bel tipo il mio vetturino! Egli bestemmia come un turco, dico come un turco perchè si dice così, ma io non credo che i turchi siano giunti a tanta perfezione, e a ogni chiesuola che incontra, a ogni croce che vede, si toglie il cappello, sul quale tiene legata una immagine sacra e grida: — Madonna aiutece!

Lungo la via, ove, di tratto in tratto, dalle siepi, bianche di polvere, sbucano branchi di gallinacci, condotti da qualche fanciulla alla pastura, incontriamo contadini sui somari che vanno al molino, mezzadri che portano ad abbeverare le vacche, e lunghe file di donne che scendono verso Ceprano, recando in testa pesanti canestre ricolme di ortaglie.

Mi tornano alla memoria li pupazzi der presepio.

Quando ci fermiamo davanti alle prime case di Ceprano, Ciccantonio s'accosta allo sportello della vettura e col cappello in mano, mi dice: — Simmai lei nun s'incommoda, metto lu belancino.

— E quanto ci vorrà a mettere questo bilancino?

Quanto piace a signoria! — mi risponde Ciccantonio, come un cortigiano antico.

— Alla mia signoria piace che tu tra un'ora ti trovi qui col bilancino.

Servo a signoria! — replica il vetturino inchinandosi; e dati a reggere i cavalli a un ragazzetto, si allontana fischiando.

Io per non saper che altro fare, comincio a girandolare per le vie di Ceprano, seguito da uno sciame di ragazzi gialli e verdi per la lebbre malarica, credo, e qualcuno forse anche per la fame.

Su la piazza, fuori della Porta, vi trovai il mercato.

Le venditrici di ortaglie e di frutta, di grano, di pane, di ciambelle, di stoviglie di creta e d'altri utensili famigliari erano disposte in lunghe file. Io mi addentrai tra quelle file, e ammirai gruppi di donne veramente stupendi. Finalmente, rimasto abbagliato dai colori vivaci delle vesti, dei busti, e degli scialli smaglianti al sole, sul fondo grigio de monti lontani, entrai in una modesta trattoria ove per pochi soldi, mangiai una buona bistecca e molte frutta così belle, fresche e saporite che le nipoti di Atlante me le avrebbero invidiate. Poi seguendo una strada lunga e polverosa, dopo di aver salutato il nome di Dante Alighieri che si leggeva scritto vistosamente su l'angolo di un vicolo, ov'era men che notte e men che giorno, pervenni in fondo al paese e sboccai in una piazza piena di sole e di mucchi di canapa ove sorge le cattedrale dedicata a Sant'Arduino.

Più innanzi trovai un piccolo ponte di ferro che serve a traversare il Liri, le cui acque allora scarseggiavano. Su la ghiaia lunghe file di contadine cantando canzoni piene di malinconia battevano la canapa. Il paesaggio lieto di sole, le donne che lavavano e maciullavano la canapa, i canti pieni di malinconia mi risvegliarono gl'istinti poetici, tanto che non potendo più frenarmi, scesi giù sulla sponda lirica e mi accinsi a scrivere una medesima; ma avevo appena cavato di tasca il taccuino, quando sentii gridare: — Signoria! Signoria! — Alzai la testa e vidi Ciccantonio che su dal ponte mi faceva cenno di risalire. Guardai l'orologio. In luogo di un'ora, senz'accorgermene, girando qua e là, ne avevo perdute due. Risalito sul ponte, egli mi disse subito ch'era stato sin allora a cercarmi per tutta Ceprano; che era tardi, che le salite da superare per andare a Fontanaliri erano molte e che bisognava partire senza indugio. Il legno era pronto. Innanzi ai tre cavalli era stato attaccato il bilancino, un misero cavalluccio bianco, pieno di gobbe e di piaghe e con la testa ornata da un pennacchio di penne di cappone.

Rientrai nella vettura, e, dopo le solite frustate e le solite bestemmie, i cavalli partirono al trotto.

* * *

Il caldo comincia a farsi sentire molesto e Ciccantonio, dicendomi: — Lei, permettete? — si toglie la camicia, apre un cassetto sul davanti della vettura, ne trae un giubbettino di tela e se lo infila. Durante l'operazione, quando il mio vetturino rimase col torace nudo, mi sembrò di avere dinanzi agli occhi il tatuato di Birma. Egli aveva nel mezzo del petto una larga incisione colorita di blu rappresentante la Santa Casa di Loreto, sotto la quale v'era una data: 29 giugno 1855, contornata da una quantità di geroglifici; poi sul braccio destro e sul sinistro portava incisi i segni della Passione, un Sacramento e una immagine della Madonna di Loreto.

Quando io gli manifestai la maraviglia che provavo nel vedere i suoi tatuaggi, egli mi disse che, dopo essersi fatto stampà', era stato lì lì per rimetterci la pelle. Ora però mostra con orgoglio le sue stampe, e spiega con piacere il metodo che s'usa laggiù, alla Santa Casa, pe stampà' li cristiani.

Ecco la spiegazione, che io trascrissi così come ei me la disse: — Apprima ce passeno lu rasore. Apò, strignenno la pelle, ce passeno via via co' 'na penna d'acciare, su la stampa che ci avo fatto apprima. Apò ce metteno lo gnuostro ( inchiostro ) e la fav'ascì'.

Quando egli ebbe finito di parlare, si baciò il braccio sinistro, ov'era effigiata la Madonna di Loreto e riprese subito a frustare i cavalli, e a bestemmiare.

* * *

Di tempo in tempo incontriamo molti carri enormi che vengono innanzi lentamente fra nugoli di polvere: trasportano a Roma i prodotti dei lanificii e delle cartiere che sorgono su le ripe amene e pittoresche del Fibreno e del Liri.

Alcuni di cotesti carri sono tirati fin da dieci e dodici cavalli, d'ogni razza e paese, tutti infronzolati da arnesi di metallo lucente che brillano al sole.

Le bestie sanno già la via che debbono percorrere, e, mentre i carrettieri sono vinti dal sonno, procedono lungo la strada bianca al suono monotono dei campanelli, scuotendo i ricchi pennacchi multicolori e i grossi fiocchi di lana rossa, che sbattono loro sul muso. Giù, in fondo, si levano sul cielo turchino le montagne di Sora, azzurre come il mare.

A Colle la noce, ove anticamente era il ponte di confine, fra lo Stato Pontificio e il Regno di Napoli, c'imbattiamo in una torma di uomini e di donne recanti in braccio bambini, verdi e macilenti.

La torma viene avanti sotto l'arsura del solleone, cantando le litanie. Dalle gole inaridite dalla polvere soffocante escono voci rauche ed affannate. Un vecchio cencioso, reggendo una croce, cammina faticosamente innanzi a tutti suonando un campanello, e di tanto in tanto, volgendosi a guardare i compagni che lo seguono, si ferma e intona le preci.

Domando a Ciccantonio dove vada tutta quella gente ed egli mi risponde secco secco: — A Santo Dominico.

— È distante di qui?

Eh! sicuro!

— E ci vanno a piedi?

'Nu poco a piede e 'nu poco cammenenno.

La torma s'era già allontanata d'un bel tratto, quando vidi avanzar solitaria una figura scarna e gialla di donna: portava su la testa un canestro coperto da un pezzo di panno rosso tutto sdruscito e le gambe di un bimbo vi penzolavano fuori: camminava appoggiandosi a un bastone su cui era legato con una corona un ramo d'ulivo; e, si sforzava di raggiungere le compagne che si allontanavano cantando. Le gettai pochi soldi. Essa si fermò, li radunò col bastone, si curvò a stento, li raccolse e, dopo di avermi ringraziato con un cenno, seguitò la strada.

La vista di quella poveretta mi mise di malumore. Accesi la pipa e per non più vedere mi rincantucciai nel fondo della vettura, e vi rimasi fino a quando Ciccantonio non mi indicò, con la punta della frusta, un paese su la cima di un monte.

— Che paese è? — gli domandai infastidito.

Chello è Verule. — mi rispose. — Là ci av'acciso Chiavone bon'alema (buon'anima). E in tono patetico mormorò fra i denti: — Povero Chiavone!

Gli chiesi se l'avesse conosciuto; ma egli invece di rispondermi, si mise subito a dar la voce ai cavalli. Decisamente il mio vetturino deve averlo conosciuto molto da vicino il famoso brigante.

Il paesaggio intanto comincia a cambiare. Su la destra le montagne vicine mostrano già i fianchi grigi di selce. Su una di coteste montagne s'aggrappa un paese non molto grande. Un antico castello diroccato, che s'intaglia bruno nel cielo sul vertice del monte, deve avergli dato il nome di Arce. Ora non si veggono più sui fianchi dei monti i lunghi filari di olmi, sui quali si appoggiano i tralci verdeggianti della vite, e su la terra smossa le pannocchie gialle del granturco; ma sul fondo grigio e ferrigno delle rocce, si contorcono freddi e monotoni soltanto gli ulivi.

Passato Santo Lauterio, un largo prato bagnato dal Liri, mi giunge alle nari un acuto odore di zolfo. Ne chiedo spiegazione al mio vetturino, ed egli accennando un filare di pioppi, mi dice che arreto a chelli chiuppi c'è un lago chiamato Zulufraga, ove vanno a gettarsi cinque o sei rigagnoli di acqua minerale della quale si fa un modesto commercio. Difatti nella notte se ne empiono piccoli fiaschi, e a dorso d'asino o sui carretti, all'alba, i venditori la van gridando per le vie d'Isola, d'Arpino e di Sora, a un soldo il fiaschetto, come la nostra acqua acetosa. I contadini, le attribuiscono una quantità di speciali virtù, e ne sono avidissimi.

* * *

Sulla sinistra il paesaggio seguita a divenire sempre più selvaggio. Ovunque massi enormi che sembrano dover rotolar giù al più lieve soffio di vento. Non più alcuna vegetazione, nè meno gli ulivi: solo le ginestre giallissime tra i sassi bianchi e grigiastri.

Ciccantonio mi addita un'enorme buca sul fianco dirupato di un monte.

— Che cos'è? — gli domando.

Chella, signoria lei, che siete 'struito lo sapete miejo de noi. È tutta robba vulcaneca — Egli mi risponde e mi narra una lunga serie di cose straordinarie, tutte, s'intende, a proposito della grotta che qui chiamano fossa agliu monte; e finisce col dirmi che gettandovi dentro un'arancia, questa dopo aver girato per lungo e per largo nel ventre della montagna, finisce con lo sbucare nel lago di Zulufraga.

Io, lo confesso con vergogna, avevo ancora una arancia, l'ultima delle quattro, comperate a Ceprano, ma in luogo di tentare l'esperienza mentre la salita incominciava a farsi ripidissima e i cavalli, fra gli urli e le bestemmie di Ciccantonio che si perdevano a valle, arrancavano disperatamente, l'ho mangiata.

* * *

Il sole cadeva dietro le case di Banco quando io con l'ossa rotte e bianco di polvere, entrai in un paesuccolo nero, sul sommo sassoso d'un monte vestito di ulivi, di querce e di frassini. Ero giunto a Fontanaliri.

II.

Un po' prima dell'anno mille era signore di Sora un tal conte Pietro, uomo di pessima vita. San Domenico lo andò a visitare, e il tiranno, tócco dalla divina misericordia, gli si gettò ai piedi chiedendogli la benedizione. Il Santo lo benedisse e lo abbracciò, e allora il conte Pietro gli parlò così: — Tu mi hai ridonato la divina salute; dimmi ora che cosa posso fare per ricompensarti.

E San Domenico, il quale non pensava ad altro che a fondare conventi e già ne aveva fabbricati o fatti fabbricare non so quanti in Umbria, nella Sabina e nell'Abruzzo, gli rispose subito: — Edifica un monastero. — Egli annuì, e l'indomani il Santo ed il conte galoppavano su due cavalli nei dintorni di Sora in cerca del sito più adatto alla costruzione della badia; e galoppa galoppa, quando arrivarono colà ove le limpide acque del Fibreno si gettano in quelle del Liri, San Domenico fermò il cavallo e disse a Pietro: — Ecco il luogo.

Fiat! — rispose il conte, e mentre il Santo se ne partiva per monte Montano a sorvegliare i lavori di un'altra abbazia, egli incominciò subito la fabbricazione del sacro edifizio; ma quando l'ebbe compiuta chiamò il suo maggiordomo e gli disse: — Badi bene che in questo cenobio io non ci voglio uomini.

Servo a Signoria! — balbettò il maggiordomo intelligente ed inchinandosi uscì.

E così il monastero, che doveva accogliere tra le sue mura i monaci, si cambiò in monastero di monache dove il conte Pietro si recava spesso a pregare.

Ma egli aveva fatto, come si suol dire, i conti senza l'oste. E l'oste che venne a rivedere i conti al conte fu Domineddio in persona, il quale mandò a San Domenico un angelo che, un pochino rosso in volto, lo informò di come andavano le cose nel sacro albergo del conte. Il Santo inorridì; e senza perder tempo ritornò subito a Sora, dove incontrato appena il suo uomo gli disse: — Oh, signor Pietro, a che giuoco giuochiamo?

Il peccatore si fece toccare per la seconda volta dalla divina misericordia e si ritirò nuovamente nel suo castello, e il Santo purificate le mura del monastero, vi chiamò i suoi monaci e ci rimase fino alla morte. Ora il suo corpo sta sepolto sotto l'altare massimo della chiesa, tutto intero, meno un dente che fu recato come reliquia a Cucullo.

Il dente ha oggi una virtù prodigiosa, poichè guarisce, a guardarlo solamente, morsi di cani rabbiosi e punture di vipere; e qui, quando qualche contadino vien punto o morso da uno di codesti animali, prima di correre agliu medeco se ne fugge a Cucullo, dove sa che toccare il prodigioso dente e risanare è tutta una cosa. E laggiù a Cucullo, nel primo giovedì di maggio, si porta in giro pel paese la famosa reliquia, e i contadini e le loro donne la seguono cantando le lodi di San Domenico e attorcigliandosi intorno alle braccia, al collo e alle gambe nude una quantità di serpentelli.

Queste e tante altre cose mi veniva raccontando un pretonzolo di Sora, mio compagno di viaggio, mentre i cavalli della messaggera, scuotendo le ricche sonagliere, trottavano su la via d'Isola del Liri, e io, tutto orecchio nell'ascoltarle, le fissavo nella memoria per indi trascriverle nel mio taccuino, rallegrandomi di aver trovato, mentre mi recavo alla festa di Santo Dominico, un servo di Dio che mi avesse narrato la storia del celebre santuario.

* * *

Quando arrivammo all'Isola del Liri le nove ore della notte battevano all'orologio della torre nera e quadrata dell'antico palazzo dei Boncompagni, e lunghe file di sciarabbà pieni di gente che gridava e cantava salivano di carriera la via delle Forme.

Le Forme sono un'appendice dell'Isola del Liri; una città nuova, che s'allunga fino al santuario. Sessant'anni addietro su la via che dall'Isola mena a Sora, non vi erano che poche e misere casupole di contadini; ma le industrie dei nostri tempi, servendosi a meraviglia delle acque del Liri e del Fibreno, fecero sorgere su le sponde dei due fiumi cartiere, lanifici, molini e ville splendide, che in pochi anni han cambiato quei luoghi, prima squallidi e deserti, in una regione ricca e popolata, piena di attività industriale e commerciale.

Sull'azzurro cupo del cielo s'allungano i pioppi e di tanto in tanto gruppi colossali di platani allargano nell'aria scura i rami fronzuti.

Gli sciarabbà passano di carriera, e i cocchieri, schioccando la frusta, gridano a squarciagola: — Santo Dominico! Santo Dominico!

Giù in fondo alla via, sul cielo sereno, fra miriadi di lanternine, rosse, gialle e azzurre, rischiarato dalle faci delle baracche, sorge il santuario.

Più si va innanzi, più la folla aumenta, e si cammina a stento fra lunghe file di sciarabbà, di vetture e di carretti, mentre dalle bancarelle, che si seguono numerose, s'alzano canti, grida, squilli di trombe, suoni di tamburelli e d'organetti e s'effondono odori acuti e nauseabondi di ciammaruche (lumache) fritte, di polli arrostiti, di pannocchie di granturco abbrustolite su la bragia, di cacicavallitti e di muzzarelle.

Di tanto in tanto fra i contadini che già presi dal vino saltano furiosamente al suono degli organetti, delle zampogne e delle chitarre, mentre le loro donne battendo le mani cantano con le voci stridule volgari canzoni d'amore, passano file interminabili di pellegrini coi bordoni ornati da sacri amuleti e dalle immagini di San Domenico e della Madonna di Canneto: passano, e aprendosi a stento una via tra la folla festante entrano nella chiesa, si gettano in terra e incominciano le penitenze, trascinandosi con le mani sotto le ginocchia verso l'altare maggiore, segnando con la lingua sul suolo lunghe croci e lasciandosi dietro orribili strisce di bava e di sangue. Ma non tutti hanno la forza di farle le penitenze; poichè molti stracchi, spossati e sfiniti come sono dagli affanni e i disagi del duro viaggio, coi piedi gonfi, rotti e sanguinanti per il lungo cammino, appena toccano con le ginocchia il pavimento del santuario vi si stendono sopra e s'addormentano.

Sui gradini degli altari, dentro e intorno ai confessionali, lungo le balaustrate delle cappelle e accanto alle basi delle colonne, di cotesti sciagurati ne vidi a centinaia distesi come se fossero morti, uomini e donne, vecchi e fanciulli tutti confusi insieme sotto la luce gialla e tremula delle candele che illuminava le loro membra coperte di stracci. Talvolta dai gruppi dei dormienti udii venire qualche lamento. Qualcuno, vinto dagli stimoli della fame, lo vidi destarsi e rompere il digiuno succhiando bucce di meloni e di cocomeri, raccolte da terra. Uno lo vidi correre a bere nella tazza dell'acqua santa.

In fondo alla chiesa, molto grande e tutta bianca, vi sono due scale per salire all'altare maggiore, e fra le due scale v'è la porta per scendere nel sotterraneo ove sta la sepoltura del santo. Vi discesi e lo trovai pieno di pellegrini che si affollavano a baciare una testa scolpita a bassorilievo sul davanti di un altare e a stropicciarvi sopra i loro bordoni. I baci schioccavano sonoramente. Una ricca lampada argentea mandava sprazzi di luce sui sordidi cenci dei contadini, che prima di lasciare il luogo sacro, mormorando preci, abbracciavano e baciavano le colonne tortili che sostengono le volte basse della cripta.

Quando uscii dal sotterraneo una folla di pellegrini che andava verso una cappella, ove sur un tavolino, tra quattro candele, sorgeva la statua di un santo, mi costrinse a seguire una donna, che sorretta da due uomini levava in alto un bambino che le si torceva fra le braccia piangendo. La poveretta appena arrivò dinanzi al simulacro lo baciò; poi, mentre i suoi vicini urlavano lamentevolmente: Grazia! Grazia! Grazia!, si cavò dal petto una pezzuola e dopo di averla strofinata sulla statua la passò più e più volte sugli occhi del suo bambino, mentre quelli che la circondavano, tutti con le mani tese verso la immagine sacra seguitavano sempre a urlare: Grazia! Grazia! Grazia!

Il povero bimbo era cieco, e la sua mamma per fargli riacquistare la vista era venuta a piedi non so da qual paese lontano, per recarlo davanti a quel pezzo di legno dipinto!

Esasperato dagli urli di quegli esaltati e commosso e turbato dalla vista di tante sciagure mi liberai dalla folla che continuava sempre a gridare: Grazia! Grazia! Grazia!, mi avvicinai alla porta della chiesa, ove un vecchio ben pasciuto, vestito di un sacco nero, scuotendo una scatola di latta piena di soldi gridava con voce imperiosa: — Fate l'elemosina a Santo Dominico! — uscii e, per avere un po' di pace, me ne andai in riva al Fibreno le cui acque inargentate dalla luna correvano sotto amene selvette di pioppi e di salici, fra il delizioso ondeggiare degli effluvii dei mentastri fioriti e il tremolio ininterrotto delle voci stridule dei grilli cantatori. M'ero appena seduto in terra con le spalle appoggiate al tronco scabro di un salice per ascoltare il canto soave di un rosignuolo, quando arrivarono due pellegrini: s'inginocchiarono, e rivolti verso la chiesa con le mani giunte incominciarono a pregare. Dopo un poco il più giovane si alzò, mi venne vicino e mi stese la mano aperta, chiedendomi qualche soldo. — Di dove siete? — gli domandai.

— Di Veroli. — mi rispose.

— E da dove venite?

Da la Madonna de Canneto. — riprese il pellegrino, e soggiunse: — So' quattro giorni, signoria, che jamo cammenenno giorno e notte pe' le montagne!

Gli rivolsi altre domande, ed egli allora mi raccontò come laggiù a Canneto vi sia un fiume con una corrente rapidissima e che passandolo a nuoto nove volte, si lucrano un sacco d'indulgenze; mi disse che addò' ce sta la chiesia ce jesce 'no capo d'acqua gelata, e che insieme coll'acqua ce jesceno melioni de stellucce d'oro, e finì col dirmi che la Madonna di Canneto era sorella bona a Santo Dominico.

Gli chiesi notizia di quei luoghi ove sta il santuario di Canneto, e il contadino me li dipinse efficacemente con queste poche parole: — La chiesia, signoria, sta in fonno a 'na montagna pessima assaie, e loco a terra, ohi mamma! nun vidi 'no pajese!

Quando il giovinetto tornò al compagno, che seguitava sempre a pregare, lo riscosse e gli diede i soldi che io gli aveva regalati, e lui come li ebbe in mano li contò, baciò la terra e si allontanò per andarli a mettere nel bussolotto del vecchio, che gridava sempre: — Fate l'elemosina a Santo Dominico!

* * *

All'alba tornai nel santuario. Le lampade e le candele erano quasi tutte spente e una luce bianca e fresca entrava dalla porta spalancata; qualcuno si batteva ancora il petto innanzi alla statua del santo, e un sagrestano, fischiando, spazzava via dalla chiesa le bucce di melone e di cocomero e le altre molte immondizie che vi avevano lasciato i pellegrini.

Fuori della chiesa, davanti alle baracche, le venditrici insonnolite, avvolte in panni listati di rosso, di giallo e di verde, gridavano con voci rauche, sperando di invogliare i pochi rimasti a comperare ancora qualche chilo di frutta, qualche ciambella, qualche padellata di ciammaruche, e intorno a loro, qua e là sui mucchi di fieno, sotto ai carretti, fra le canestre, gli orci e i barili vuoti molti contadini briachi fradici dormivano profondamente.

Poco lungi, al di là di un prato umido di rugiada e cosparso di fiori, su la via provinciale passavano di tanto in tanto le diligenze di Sora e Roccasecca coi cavalli sonanti e risonanti di tintinnanti sonagli.

* * *

Prima di partire mi venne il desiderio di comperarmi un ricordo della festa e chiesi a un pellegrino se voleva vendermi un suo bellissimo bordone, ornato di medaglie, di immagini sacre e di stelle lucenti di carta di argento.

Gnornò. — mi rispose seccamente il pellegrino guardandomi con sospetto — Chessa è robba de la Madonna: nun se venne.

— Ti do una lira.

Gnornò, chessa è robba de la Madonna, nun se venne.

— Te ne do due.

Gnornò.

— Se me lo dai te ne do cinque. — ripresi io; ma niente! Il contadino stringeva sempre più tenacemente fra le mani il bordone e ripeteva sempre: Gnornò, gnornò, chessa è robba de la Madonna: nun se venne!

La sua cocciutaggine mi indispettì; cavai fuori dal portafogli una carta da dieci lire, gliela mostrai e tentando un'ultima prova gli dissi: — Se me lo dai ti do questa! — Egli mi guardò rimanendo per qualche istante incerto se dovesse pigliarla o no, poi tremando allungò la mano verso il biglietto; ma come l'ebbe toccato fece un salto indietro; si strinse al petto il bordone, e facendosi il segno della croce se ne fuggì.

Sarei davvero curioso di sapere quante volle quel povero contadino avrà già raccontato ai suoi amici come qualmente mentre egli si trovava dinanzi alla chiesa di San Domenico, gliu diavolo, vestute da signore, co' 'no cappillitto janco in testa e co' 'na pipparella 'mmocca, che jettava fumo e foco, glie comparì innante e glie disse...

III.

Il sole tramontava dietro l' Ara degliu Volupitto mentre io e l'arciprete di Fonlanaliri, seduti al fresco, sotto gli olmi della Fontana a balle, parlavamo della festa che doveva essere celebrata a Monte San Giovanni Campano per commemorare il cinquantenario della Madonna Santissima del Suffragio; festa della quale si discorreva già da tanto tempo in tutte le farmacie e in tutte le sacrestie di tutta la diocesi di Veroli. L'arciprete dopo di aver speso molte parole, qualcuna anche in lingua latina!, per invogliarmi ad andarci si alzò, ed aprendo le braccia in atto di maraviglia, fini col dirmi che la festa sarebbe stata una festa di tre bande.

— Di tre bande?

— Di tre bande! — ripetè l'arciprete, e pronunciando le tre parole lentamente, in modo che fra l'una e l'altra ci fosse una breve pausa, piegò la persona sul lato destro; sprofondò la mano grassa nella tasca della sottana; ne trasse una scatolina di madreperla sul cui coperchio era dipinta una immagine dell'Addolorata; l'aprì, vi ficcò dentro il pollice e l'indice, e s'empì il naso di tabacco. Io gli lasciai compiere la delicata operazione e poi gli chiesi quale sarebbe stato a suo giudizio il mezzo migliore per andarci a cotesta festa, ed egli, dopo di aver starnutato tre volte mi rispose: — L'asino. — E soggiunse subito che sol che io l'avessi voluto egli si sarebbe volentieri incaricato di provvedermi della bestia e della guida. Io lo ringraziai della gentile offerta, e all'indomani quando mi recai, come s'era convenuto, a San Rocco, dinanzi alla chiesina bianca, illuminata dai primi raggi del sole, vi trovai un bell'asinello magnificamente bardato e un bel ciociaretto vestito col suo più bell'abito da festa: corpetto rosso, giacchetta turchina, calzoni gialli, camicia ricamata e cappello a cencio ornato di nastri multicolori e di penne di pavone.

Il ciociaretto appena mi vide mi venne incontro sorridendo e, dopo di avermi dati i saluti di don Michele, mi porse un foglio di carta rossa ove era stampato il programma dello spettacolo; anzi di tutti gli spettacoli che in quel giorno dovevano allietare i popoli di Monte San Giovanni Campano. Incominciai subito a leggerlo, e così, mentre l'asino trotterellava fiutando con la testa alta e le froge aperte la fresca auretta mattutina, seppi come «nella Collegiata riccamente e a studiato disegno parata» la musica dei vespri sarebbe stata diretta dal maestro Melchiade Martufi e cantata da «distinte voci romane»; appresi come nella «Collegiata» si sarebbe fatta discendere «dalla propria nicchia la statua di Maria Santissima del Suffragio che dal merito artistico pare divinamente scolpita», e in qual modo, finita la festa, la statua suddetta si sarebbe fatta tornare «nella propria nicchia»; imparai quanto i concerti di San Donato e di Sezze avrebbero reso «vieppiù brillante il trattenimento», e infine come molte migliaia di colpi di mortari avrebbero dato «continuo segno di gioia religiosa». Non vi parlo dei globi areostatici da innalzarsi nell'aria, dei fuochi artificiali preparati da valente pirotecnico e dell'estrazione di una tombola con relativo incasso devoluto naturalmente a scopo di beneficenza.

Dopo la lettura del programma, incominciai quella della mia guida, e domandai al mio ciociaretto: — Come si chiama quest'asino?

Ed egli mi rispose subito: — Vicienzino.

— E tu come ti chiami?

Io? Come a isso. Vicienzino paro.

— E quest'asino è tuo? — ripresi io ridendo.

Gnorsì, è d'un amico degliu mia.

* * *

La via si fa malinconica ed uggiosa; a destra e a sinistra, sempre gli eterni pioppi.

Su le rocce di tanto in tanto appare qualche casetta abbandonata e fra gli ulivi qualche chiesina, con curiose scene della vita dei santi, dipinte su le mura screpolate. Al Fosso della Faina lasciamo la via provinciale ed entriamo nelle scorciatoie, ora serpeggianti fra le rocce nude, ora fra la terra nera su cui s'allungano filari di ortaglie verdissime; e fra Capo Ciuffone, un monticello che porta tal nome perchè vi stette conficcato sopra un palo il capo di un brigante, e la Fonte Cupa incontriamo uno stuolo di contadini che va a seppellire un morto.

Innanzi a tutti un chierico reca un Cristo dipinto su una croce nera: lo segue un prete con la stola nera orlata di ghirigori gialli sul petto e con un fazzoletto bianco sulla berretta; poi viene la bara sorretta da quattro contadini e dietro la bara incedono alcune donne con le mani incrociate sul seno. Il prete ad ogni cinque o sei passi biascica paternostri e intanto, con un coltelluccio, va sfrondando accuratamente un ramo di nocciuolo per farsene un frustino, e le contadine, sempre con le mani incrociate sul seno, chiacchierano ad alta voce.

Quando il piccolo corteo arriva agliu Caputonno, il prete si tira sù la sottana sino alla cintola, il contadino si mette il Cristo su la spalla, e tutti pigliano la via della montagna.

* * *

All'Anatrella sur un ponte di ferro passiamo il Liri che scorre spumante fra una quantità di scogli maculati di musco e traversiamo i fabbricati della cartiera del conte Lucernari, tutti circondati da ridenti giardini. Sotto ai boschetti dei lauri e degli oleandri fioriti non solo godiamo un po' di frescura, ma riceviamo anche i rauchi omaggi di un bellissimo pavone, il quale appena ci vede scende dalla scogliera di una fontana quasi coperta dalle foglie larghe delle ninfee e dai fiori gialli e purpurei dei nenufari, e ci viene incontro aprendo la coda occhiuta e movendo graziosamente il collo smeraldino. Chi l'ha detto che i pavoni sono superbi?

Dopo l'ultima aiuola dell'ultimo giardino la via a poco a poco si restringe tanto da divenire un sentiero, e il sentiero a sua volta si fa così ripido e sassoso da obbligarmi a mandare dietro a me i due Vicienzini pel timore che cadendo non mi vengano addosso.

A mezza costa io e i miei due Vicienzini chiediamo tutti e tre un po' d'ombra alle vecchie mura di una chiesuola, e intanto che ci riposiamo ci passano davanti dei contadini vestiti a festa seguìti dalle loro donne. Alcune di esse invece delle cioce hanno ai piedi enormi scarponi chiodati che ogni tanto le fanno sdrucciolare e le costringono a battere sulle pietre arse dal sollione quelle parti del loro corpo delle quali si servono ordinariamente per mettersi a sedere. Ne ricordo ancora una di coteste contadine con la veste di seta verde e col petto coperto di collane d'oro, che dopo di esser caduta due volte si accoccolò per qualche istante accanto a una siepe, e rialzatasi coi piedi ignudi prese a salire, agile come una gatta, su per l'erta del monte reggendo con la sinistra le calzette ricamate e con la destra i due scarponi i cui chiodi brillavano al sole.

* * *

Arrivati alle prime casupole del paese ordinai a Vicienzino di provvedere di un comodo alloggio l'altro Vicienzino, e incominciai a salire i gradini di una infinità di vicolettacci neri inghirlandati di lauro. Non finivano mai! Quando finirono mi trovai in una piazza ove una quantità di gente ammirava a bocca aperta un lampadaro di carta dipinta. E l'ammirai anch'io, tanto più che sentii dire da tutti come il lampadaro una volta che fosse stato acceso avrebbe dovuto fare «un'eccellente visuale».

Nella piazza ove erano sonnambule che predicevano il più lontano avvenire, tavolini sui quali si giuocava ai dadi e alle carte e molte baracche, ove si vendevano orologi d'oro da un soldo, fiori artificiali, dolciumi di tutte le forme e bibite di tutti i colori, v'era anche un grande panorama «pittorico-artistico-scientifico-nazionale», davanti a cui un tipo olivastro dalla barba a pizzo, mentre una ragazza dalle chiome bionde, divorando una fetta di pane girava il manubrio di un organetto sfiatato, gridava: — Favorischino! Favorischino, signori! — Ma, ahimè, i signori non favorivano e andavano invece verso la «Collegiata» per sentire le «distinte voci romane». Ci andai anche io; ma quando vi arrivai e vidi che razza di lavoro s'aveva da fare per sentirle, mi allontanai tanto da loro che arrivai in fondo al paese ove in un prato, fra mucchi di peperoni e piramidi di pomidori, fra ceste di pere vizze e bigonce di fichi era stato innalzato un arco trionfale nel cui attico, sotto una immagine di Maria Santissima tremolante al vento, si leggeva questa epigrafe:

VENITE A CELEBRARE CON GIOIA LA FESTIVITÀ DI COLEI CHE FA L'ALLEGREZZA DI TUTTO IL MONDO.

Mentre io stavo ammirando l'arco, accanto a me due eleganti del paese parlavano del merito dell'iscrizione.

— La terzina è bella; però una terzina senza rime, io non la capisco.

— Ma io credo che «fosse» come dicono adesso una terzina «barbera». — osservò l'altro frustandosi le gambe con un bastoncino di canna d'India verniciato di rosso; e non aveva finito di osservarlo quando un assordante squillar di campane e un fragoroso rimbombar di mortari fecero tremare la terra ed il cielo.

— Che cosa succede? — chiesi a un contadino che mi passò accanto correndo.

Jesce la pricissione! — mi rispose; e via come un daino. Io lo seguii e a forza di gomiti e di ginocchia mi riuscì di penetrare in un vicolo ove la pricissione già incominciava a sfilare. Aprendosi a stento una via tra la folla passarono lunghe file di contadini vestiti con càmici bianchi, gialli, rossi e neri, e recanti, secondo il loro grado, candele, croci, insegne e stendardi di cento forme e colori; passarono preti allampanati con le persone ossute coperte dalle cotte bianche pieghettate, e canonici obesi con su le spalle ricche mozzette violacee, e finalmente, preceduta da un gruppo numeroso di cantori e di chierici che agitavano preziosi turiboli d'argento e da alcuni diaconi che circondavano ed assistevano un vecchio col capo canuto onorato da una mitria di broccato bianco, e seguìta da un concerto e da una moltitudine di donne, giù in fondo al vicolo, fra nuvole azzurre d'incenso e sotto a una pioggia di fiori, apparve la màchena tutta d'oro, su cui, tra una gloria di angeli, vestita di un ricchissimo abito di seta cilestrina ricamato di stelle d'argento e coronata da un alto diadema scintillante di gemme di molto valore, sorgeva la statua della Madonna del Suffragio.

La màchena ondeggiava su la folla come una barca sur un mare in burrasca e avanzava adagio adagio fra gli urli e le imprecazioni di quelli che la trascinavano, i quali, poveretti!, gocciolanti sudore e rossi dalla fatica insopportabile non sapevano come fare per tenere indietro coloro che per devozione volevano ad ogni costo toccare l'immagine miracolosa. Uno di cotesti poveretti, un contadino, mentre allontanava con le braccia nerborute un gruppo di fanatici che voleva per forza avvicinarsi alla màchena, lo udii gridare: — Arrèto! Arrèto, perdia! che la Madonna se va a fa' fotte'!

La processione scese e salì una quantità di vicoli e di vie, traversò diverse piazze e piazzette, passò sotto l'arco trionfale che io aveva dianzi ammirato, uscì dal paese, serpeggiò su le rocce fra gli ulivi, dai quali alcuni fanciulli agitando panni colorati gittavano fiori, arrivò in cima a un poggio davanti a una chiesetta inghirlandata da festoni di lauro e di mortella e si fermò. Dopo qualche istante tutti s'inginocchiarono in silenzio, e il vecchio con la mitria, aiutato dai diaconi, salì sulla màchena, alzò le braccia tremanti al cielo e diede la benedizione. Allora un grido solo uscì da mille bocche, le insegne e gli stendardi furono agitati festosamente, le trombe squillarono e centinaia e centinaia di colpi di mortari recarono l'annunzio della solenne cerimonia fino ai più rimoti paesi che di lassù si scorgevano appena biancheggiare sugli ultimi monti lontani.

* * *

Finita la processione le bettole e le taverne incominciarono a riempirsi di gente. Girai per lungo e per largo il paese in cerca di una trattoria, ma le mie più diligenti ricerche rimasero infruttuose. Allora, trovatomi davanti a una osteria su la cui porti fra le foglie secche di un ramo di quercia sventolava una bandieretta rossa, vi entrai.

Nella prima camera simile in tutto a una bolgia dantesca v'era la cucina.

In un camino profondo, scavato nella parete, entro caldaie nere, bollivano i maccheroni. E tra il fumo, che stringeva la gola, ondeggiavano effluvii di peperoni fritti e di pomidori cotti su la bragia. Appena giunsi nella seconda stanza ove alcune famiglie di contadini mangiavano, gridavano e bevevano, chiamai l'oste e gli dissi: — Voglio mangiare. Hai altre stanze?

Gnorsì, gnorsì. Saglite in coppa, signoria, saglite! — egli mi rispose subito cavandosi il berretto; ed io saglii su una scaletta di legno e accompagnato da lui entrai nelle camere superiori... non davvero ad ogni elogio.

V'era anche lassù gente che mangiava, e insieme alla gente che mangiava v'erano accostati alle pareti pagliericci e banchi di letti e mucchi di lenzuola.

L'oste mi portò in una stanza ove un enorme letto s'appoggiava alla parete più lunga e mi disse: — Cà, signoria, lei state come 'nu papa.

Io cavai il fazzoletto e fingendo di soffiarmi il naso: — Non avresti un luogo all'aria aperta? — gli dissi.

Vôi l'aria aperta, signoria? — riprese il bettoliere, e senza aspettare la risposta corse ad aprire la finestra.

— Che cosa mi dai da mangiare? — gli domandai ridendo.

Ah! A chesso apò ce penso io. Nun te n'incaricà', signoria. Làssete servì' da Loretuccio e saraie contento. — mi rispose l'oste portandosi le mani al petto, ed uscì.

Rimasto solo mi sedetti vicino alla finestra e mi misi a osservare la stanza ove al dire di Loretuccio io avrei dovuto stare come 'nu papa.

Incontro a me v'era il talamo, non saprei dire se inaccesso o no, e sul talamo una quantità di giacche e di cappelli di contadini. Altri abiti ed altri cappelli erano appesi alle pareti colorate di giallo sulle quali spiccavano molte stampe dipinte raffiguranti la fuga di Mazzeppa e moltissime immagini sacre di tutti i paesi. La camera era anche adornata da parecchie grandi canestre ricolme di pomidori, di peperoni e di granturco, e da alcuni mobili tanto mobili, che io avendone urtato uno, poco mancò che tutte le Madonne e le crocette e lampadine che vi erano sopra non precipitassero a terra.

Quando Dio volle venne un ragazzetto. Egli trascinò un tavolino in mezzo alla stanza; lo ricoprì di un panno bianco e vi posò sopra un boccale di vino nero, un piatto, che a prima vista, scambiai per una concolina, e una enorme pagnotta di pane scuro. Poco dopo tornò Loretuccio con una padella dove in un intingolo rosso, nuotavano, friggendo, i pezzi d'un pollo.

Chesto pullo, signoria, te l'àio acciso, appostatamente per lei — mi disse versandomelo nel piatto, e poi soggiunse: — Co' licenzia parlanno, signoria, t'hai da leccà' le deta.

Io gli feci osservare che non avevo nè forchetta nè coltello; ma Loretuccio, asciugandosi il sudore col dorso della mano, mi rispose: — Be', signoria, che vôi da me? Adàttete, si' benedetto! So' circostanzie eccezionabbile!

Ed io visto e considerato come le circostanzie fossero veramente eccezionabbile, mi adattai ed adattandomi mi avvidi che il povero Loretuccio, per servirmi a dovere, aveva tirato il collo a un gallinaceo il quale avrebbe fatto la fortuna di un gabinetto di curiosità ornitologiche. Difatti, dai pezzi che mi vennero fra le mani mi accorsi, come con quelli, si sarebbe potuto ricostruire un pollastro che, in quanto a teste, avrebbe potuto gareggiare con l'idra di Lerna; e io, novello Ercole, non facevo in tempo a distruggerle tutte. Una ne distruggevo e un'altra me ne saltava dinanzi. Alla fine non possedendo i polsi nè le mascelle dell'eroe, mi diedi per vinto e abbandonai il campo, sicuro che altri, con più fortuna di me, avrebbe continuata la lotta.

* * *

Nell'uscire dall'osteria di Loretuccio assistetti per pochi istanti a una scena orribile.

In mezzo a molti contadini, avvinazzati, che ridevano, gridavano e sghignazzavano, due, ritti in piedi, si riempivano la strozza di maccheroni. Era una sfida. Entro un bicchiere, sulla tavola ingombra di bucce di cocomero, v'erano due monete da una lira, destinate al vincitore, cioè a colui che avrebbe ingozzato più maccheroni. I piatti di maccheroni si rinnovavano sempre fumanti e i due contadini già sazii si spingevano giù nella gola manate di pasta, imbrattandosi di pomidoro la camicia e il petto su cui scintillavano gli abitini della Vergine e le medaglie benedette. Un orrore!

Tornai sulla piazza. Il sole bruciava. Qualche cane spelacchiato si leccava le zampe al sole e il proprietario del gran panorama «pittorico-artistico-scientifico-nazionale» dormiva su una stuoia gialla col volto nascosto fra le mani. Erano le due. La tombola era annunciata per le cinque. Non sapendo ove andarmi a nascondere, per ripararmi dai raggi del sole ardente, dopo aver sorbito due caffè, mi rifugiai in una bottega di barbiere, sul cui sporto riluceva un grande bacile di ottone.

Il figaro stanco del lungo lavoro compiuto durante la mattina, dormiva; ma quando udì il rumore dei miei passi s'alzò, e fregandosi la schiena indolenzita mi accennò una sedia, l'unica che era là dentro; poi, si armò di una lunga forbice e mi si avvicinò dicendomi: — Vôi il caróso, signoria?

— No, no! — esclamai io, spaventato, incominciando a pentirmi di essere entrato là dentro — Fammi la barba.

La barba? — riprese il contadino tastando la mia guancia con le sue dita di legno — Nun ci hai gniente, signoria, che te vôi fa'? Chello che nun ci hai?

Io restai mortificato. Egli allora appese le forbici a un chiodo infisso nella parete, coperta da una infinità di giornali illustrati, mi impiastricciò il volto di sapone, aprì un rasoio e incominciò a radermi chello che nun ci avevo.

Mentre mi levava la lanugine dalle gote, egli mi assicurò che non aveva appreso da nessuno a rader barbe: — Credi, signoria, — mi disse con un certo senso di orgoglio — credi ch'è stata tutta volontà de la natura.

Uscito dalle granfie del figaro fui preso dal desiderio di andarmi a sdraiare su un po' d'erba. Traversai una strada fiancheggiata da altissimi pioppi e dopo non molto arrivai sur un colle, ove fra bellissimi ulivi che svariavano vagamente al dolce soffiar del ponentino sorgeva una vecchia ed alta torre pronta a narrare a chi volesse ascoltarla la storia di Monte San Giovanni Campano. Benchè essa fosse più discreta di tanti illustri nostri autori, i quali, quando vogliono raccontare la storia di una città nostra, nata qualche secolo dopo l'êra volgare, ne iniziano la narrazione col racconto della creazione del mondo e i più svelti con le biografie di Adamo e d'Eva; benchè essa, la mia bella torre ai cui piedi io m'era coricato, la storia del suo paese la cominciasse soltanto da Carlo VIII, fui vinto dal sonno, chiusi gli occhi e non li riapersi se non quando ricominciarono li bòtti.

Ma è incredibile il numero dei quintali di polvere che si sciupa in queste contrade per manifestare la gioia religiosa! Li bòtti mi riportarono nel paese, ove sulla piazza della Cittadella un concerto, circondato da una folla di contadini, alcuni dei quali ballavano con le loro donne il salterello, suonava l'«Oh dolce voluttà!» di Marchetti. I musicanti, con le uniformi rosse e con su la testa gli elmi lucenti sormontati da lunghi pennacchi bianchi, quando ebbero finito di suonare, guidati dal loro capobanda che si trascinava dietro uno sciabolone in forma di scimitarra, traversarono il paese e si recarono, seguiti dal popolo, in un prato in mezzo a cui sorgeva un palco per l'estrazione della tombola. Colà il concerto rosso si unì ad altri due concerti e tutti e tre, fra l'entusiasmo generale, suonarono insieme una «sonata molteplice», così la sentii chiamare da un giovinotto che mi era vicino, e si puliva il cappello ricoperto di polvere con la manica del suo abito turchino.

Dopo la «sonata molteplice», s'incominciò l'estrazione dei numeri della tombola, e io, non avendo cartelle da bucare, ma avendo invece molto tempo da perdere, me ne andai a visitare la cattedrale, per vedere come era stata «riccamente e a studiato disegno parata dal signor Angelo Novembre», e la trovai tutta coperta da lunghe strisce di lana rossa, verde e gialla, da larghe trine d'oro e da lunghi galloni d'argento, che s'avvolgevano alle colonne rivestite di percallina bianca lardellata da pezzetti di talco, di tutti i colori, e da stelle di carta dorata, di tutte le grandezze.

Il signor Angelo Novembre del resto non aveva «parato» soltanto l'interno della chiesa, ma anche l'esterno. Egli ne aveva ornata la facciata con lunghi festoni di lauro e con due cartelloni, sui quali erano dipinte due figure più grandi del vero, che volevano essere San Pietro e San Paolo, ma non ci riuscivano.

Il sole era oramai prossimo al tramonto e le ombre s'allungavano. Riflettendo come il primo tratto della via del ritorno l'avrei dovuto percorrere in sentieri scoscesi e sassosi, decisi di lasciare il paese prima che annottasse e mi misi alla ricerca di Vicienzino. Dopo di averlo cercato invano fra la folla impaziente di vedere appicciare gliu sparo, lo trovai davanti al gran panorama «pittorico-artistico-scientifico-nazionale» che seguiva a bocca aperta e con gli occhi spalancati i gesti del cerretano il quale descriveva le meraviglie che si vedevano nell'«interno». Lo riscossi e gli dissi; — Vicenzino! È ora di andarcene.

Come? Te ne vôi ji, signoria? E gliu sparo?

— Lo vedremo strada facendo. — gli risposi.

Il povero Vicenzino abbassò il capo, come se una immensa sciagura lo avesse colpito, e mi seguì lentamente, volgendo a ogni passo gli occhi verso il panorama, che al chiarore giallo di due fiaccole di sego accese allora allora sorgeva luminoso su la massa scura del contadiname affollato.

Arrivati in un vicolo deserto che andava a morire in un oliveto il mio ciociaretto entrò in una stalla per sellarvi l'asinello, ed io per aspettarlo mi sedetti sur una pietra. Ero lì quando due donne, tenendosi strette per la mano, mi passarono accanto senza vedermi. Una aveva il capo quasi nascosto da un fazzoletto rosso dalle cui pieghe uscivano ciuffi increspati di capelli neri, l'altra, una giovane contadina, vestiva il costume del paese. Dopo pochi passi si fermarono, e quella che aveva il fazzoletto rosso, girati intorno gli occhi sospettosi, prese fra le sue mani una mano dell'altra; vi avvicinò sopra la testa e incominciò a parlare a voce bassa: poi si cavò dal seno un cordoncino bianco, lo baciò e lo annodò al polso della contadina, che dopo di essere rimasta ancora per qualche istante immobile con la testa bassa, corse a raggiungere una sua amica che l'aspettava nascosta dietro al tronco di un vecchio ulivo.

Le due contadine rimasero un momento insieme a discorrere e si allontanarono in fondo all'uliveto, e la donna col fazzoletto rosso, dopo di aver mandato un grido gutturale e strano si avviò adagio adagio verso il paese, ove incominciava a brillar qualche lume.

Senza volerlo avevo assistito ad un sortilegio.

* * *

La luna era già sorta dal monte di Rocca d'Arce e le girandole degliu sparo scoppiettando sul cielo tingevano di vivaci colori le rocce e gli alberi, quando io scendeva verso il Liri, le cui acque si sentivano crosciar da lontano. Prima di arrivarvi, oltrepassato appena un piccolo e misero borgo, mi trovai davanti alle rovine di una chiesa antichissima, da dove, nel silenzio, veniva il miagolare di un gatto.

— Come si chiama quella chiesa? — domandai a Vicenzino, ed egli insonnolito com'era, appoggiandosi al collo del suo omonimo mi rispose: — La chiesta sgarrupata.

Mentre l'asinello mi riportava a casa, non sapendo che altro fare di meglio per ingannar l'uggia della via apersi il mio album e sciupai una delle sue pagine bianche scrivendovi sopra col lapis queste quattordici mezze righe rimate:

Batte la luna gialla su l'arcate

cadenti d'una chiesa bizantina

e, ne la calma tepida d'estate,

ne lumeggia la splendida rovina.

E giù, nel buio, stridono volate

di vipistrelli e cade la calcina

sopra le sepolture istoriate

da la solenne epigrafe latina.

Fra i rottami del tetto alto, s'intaglia

sul cielo un caprifico e da le rare

pitture, che ricopron la muraglia,

guardano le madonne e nel chiarore

giallastro, su la pietra d'un altare,

due gatti bianchi spasiman d'amore.

IV.

Non era ancora giorno; quando, seguendo la mia guida, un vecchio contadino, battevo le scorciatoie per andare a Santopadre.

L'alba ci trovò in un bosco di vecchi castagni vicino a una fonte, detta di Santo Spirito. Sotto agli alberi altissimi fra enormi scogli rivestiti di musco e di capelveneri un rigagnoletto correva gorgogliando.

Un ciociaretto, curvo fra le foglie larghe delle piante, come un satiretto, beveva avidamente raccogliendo nel cavo delle mani l'acqua cristallina che ricadeva sull'erba verde e molle di rugiada come una pioggia di perle. Alcune capre bianche, arrampicate qua e là su gli scogli salutavano il giorno nascente, mandando belati. Poco lungi una fanciulletta seminuda guardava un branco di pecore brune.

Quando riprendemmo il cammino io recitai ad alta voce qualche verso di Virgilio, che il paesaggio mi aveva riportato alla memoria: e la guida al sentirmi slatinare mi guardò fiso e mi disse: — Lei, signoria, scusate, siete milòrdo frangese, è vero?

— Io? Ma tu sei matto, — gli risposi ridendo — io sono di qua.

Eh! Lei pazziate! Lei, signoria, ci avete 'na faccia frangese assaie!

Mingaccio, — tale era il nome della mia guida — non ci fu modo di persuaderlo. Io per lui dovevo essere frangese e per di più anche milòrdo, e fino a quando non glielo impedii, egli nel dirigermi la parola, mi onorò sempre con questi due appellativi.

* * *

Prima di lasciare la boscaglia di castagni, entrammo in una chiesetta, vicina a poche casupole di contadini, e vi trovammo su due panche coperte di fiori, fra due candele, una bambina morta. Ella era tutta vestita di seta e intorno al collo aveva avvolti due vezzi di coralli rossi. Due grandi orecchini d'oro a cerchio, le pendevano dai lobi degli orecchi, rilucendo su le guance cinerognole: fra le manine incrociate sul petto teneva un crocifisso d'argento.

Vicino alla coltrice improvvisata, una donna accovacciata in terra agitava un ramoscello di rosmarino, scacciando le vespe e le mosche, che come punti d'oro, vibranti ne l'aria, sciamavano attorno alla morticina: me le avvicinai per darle qualche soldo ma la disgraziata crollò le spalle, e si nascose il volto fra le mani. Quel rifiuto, mi arrivò al core. Uscii dalla chiesetta e vi rientrai con un mazzo di ciclamini. Mentre li stavo spargendo su la morticina, due contadini si fermarono su la porta e guardarono dentro. Dopo un istante il più vecchio alzando la voce e le spalle disse alla donna, che scoteva sempre nell'aria il ramoscello di rosmarino: — Fulomè!... nun ce pensà', ca chillo c'à fatto chessa ne fa n'àuta!

La poveretta nascose ancora una volta il viso tra le mani, e i contadini si allontanarono e sparirono nel folto del bosco.

Appena ripigliammo il cammino Mingaccio incominciò a parlare e a darmi notizie sulle usanze funebri di queste contrade. Qui, quando avviene che alcuno muoia, quelli che hanno avuto la disgrazia di perderla prima lo piangono sfogando il dolore con grida angosciose, e poi si mettono a banchettare. Il banchetto per solito s'inizia con un piatto di fave, a cui seguono i maccheroni e altra roba, se ce n'è. Il vino si beve a boccali, e l'ultimo si tracanna alla salute di quello che se n'è ghiuto! Non di rado accade che al levar delle mense molti dei convitati non trovino la forza di alzarsi. E cotesto banchettare non dura poco, poichè tutti i parenti e gli amici del morto sono obbligati ad offrire alla famiglia di lui il loro pranzo, e naturalmente fra gli offerenti è una gara a chi può dare il migliore.

Mingaccio seguitava ancora a parlare di cerimonie funebri, raccontandomi cose che mi facevano ripensare alla conclamatio, al silicernium, alla coena novendialis ed ai ludi novendiales, quando al di là di una siepe, sur un colle, apparve una torre antica, intorno a cui si aggruppavano molte casette non meno antiche di lei, come un branco di pecore sorpreso dal temporale si aggrupperebbe intorno al pastore.

— È Santopadre? — domandai.

Gnorsì!

Poco dopo al principio di una salita Mingaccio mi chiese licenza di andare a salutare certi suoi parenti e mi lasciò. Io seguitai la strada e arrivato alle prime case del paese dimandai ad alcune donne, che erano intorno a una fontana, dove avrei potuto trovare un caffè, e quelle donne mi risposero: — Dal tabaccaio. — Mi misi allora alla ricerca del tabaccaio; ma la ricerca fu vana. Alfine, perduta la pazienza, chiesi a un contadino: — Ma, dimmi un po', in questo paese dove si compra il tabacco? — Egli mi guardò curiosamente due volte dalla testa ai piedi e mi rispose: — Dal caffettiere.

— E dove sta il caffettiere?

— Il caffettiere sta in quella bottega addove tu vedi quella frasca di cerqua.

— Ma quella è un'osteria.

Non ci pensare! — riprese il contadino — Tu vai lì, e lei troverete tutto quello che gli serve.

Vi andai, e, dopo di aver letto sur una targa che era sopra all'arco della porta: GENERI DIVERSI, vi entrai.

Nella bottega non c'era nessuno. Picchiai. Dopo un po' un bambino uscì fuori da un cumulo di «generi diversi» e mi disse che il padrone era andato alla messa e che bisognava aspettare. Non sapendo quanto tempo avrei dovuto rimanere là dentro, dopo di avere osservato quanto mai fosse diversa la diversità dei «generi diversi» che ingombravano gli scaffali della bottega, stavo per andarmene, quando entrò un uomo alto, magro, vestito di panno bigio e con un cappellino a cencio che gli copriva appena la metà della chioma folta, crespa e rossastra; si avvicinò al banco e vi picchiò sopra ripetutamente col pugno, facendo ondeggiare i piatti di una stadera e rovesciando un bicchierino senza piede che si appoggiava a una bottiglia nera su la cui pancia rimaneva ancora qualche lettera della parola «Champagne»; tornò a picchiare e poi, scotendo il capo, esclamò: — Quest'animale l'è a la messa!

— Già! — ripetei io — l'animale l'è alla messa.

Allora egli si volse a guardarmi e aggrottando le ciglia, e storcendo la bocca mugolò: — Che paese!

— Che paese! — ripetei ancora io; poi cercando di farlo parlare, gli chiesi: — Ma voi siete di Santopadre?

— Io? Mi son de Milan! — mi rispose subito, e toccandosi il cappellino a cencio e inchinandosi soggiunse: — Fotografo, a servirla.

— Fotografo! E come mai siete quassù?

Mah! — rispose, sospirando — Che cosa mai vuol che gli dica? La vita porca! — Tacque per un momento, e poi vedendo quanto io mi interessassi alle porcherie della sua vita, dopo di avermi assicurato che la sua macchina fotografica con la quale aveva eseguito centinaia di Consigli comunali era una macchina strafinissima, prese a dirmi che lui vendeva anche un mastice vegetale di sua invenzione per accomodare in modo invisibile le rotture di vetri, bicchieri, bottiglie ed altri simili generi di terraglie, mastice a cui egli aveva dato il nome di attaccatutto: che aveva un deposito di oleografie sacre e profane, che parevano vere: e che, qualora se ne fosse presentato il bisogno egli, non soltanto avrebbe saputo adattarsi all'arte meccanica, ritornando al suo stato primitivo bastoni, ombrelli ed altre simili bigiotterie, ma in caso disperato avrebbe potuto anche cavare sangue, impiombare denti e guarire mille altre malattie tanto palesi quanto segrete. E concluse col dirmi: — Eppure, signore, con tutte queste abilità se si campa la vita, bisogna proprio dire che l'è un vero miracolo eccezionale!

Intanto che il milanese parlava, la bottega si era venuta popolando di tre contadini, di due cani e di un prete. Finalmente arrivò il padrone, un vecchio tremolante il quale si mise a soddisfar le richieste dei contadini con una tale lentezza che io sgomento uscii insieme col fotografo, che non la finiva più di portare a mia conoscenza le sue tristissime condizioni e di tessermi l'elogio della sua macchina strafinissima. Comprendendo dove voleva arrivare, per abbreviargli la strada gli dissi: — Volete farmi il ritratto?

— Ma di certo. — mi rispose lui, con gli occhietti che gli brillavano per la contentezza.

— Però bisogna farlo subito.

— Subitissimo.

— E dove avete la macchina?

— Nel mio laboratorio, qui vicino. — E incominciò a camminare. E io dietro!

Quando arrivammo in una viuzza ch'era un rompicollo, egli si fermò davanti a una porta sgangherata, l'aprì con un calcio, e, pregandomi di aspettarlo, vi entrò. Vi entrai anch'io, e appoggiandomi a un muro scalcinato e ammuffito, scesi due gradini di una scaletta, allungai il collo e vidi, fra due file di botti, il mio fotografo che illuminato da una debole luce rossa, frugava con le mani in una cassetta e ne cavava fagotti e involti che qualche gatto andava ad annusare. Poco dopo tornò su, e dicendomi che in un paese come quello in cui ci trovavamo non si potevano avere pretese e bisognava adattarsi, mi condusse in un orto; spolverò con la manica del suo abito la macchina strafinissima, la mise con non piccola fatica al punto focatico e mi fotografò. Poi si pose sulle spalle la macchina, e seguito da una torma di bambini andò a sviluppare la sua negativa: e io aspettando l'ora di sviluppare la mia colazione, mi arrampicai in un sentiero coperto di rovi e me ne andai a veder da vicino quella torre che avevo già visto da lontano.

Mentre la stavo osservando il fotografo venne ad annunciarmi come la fotografia fosse riuscita in modo superlativo, ed io, commosso fino alle lacrime, lo invitai a voler dividere con me un po' di pane, un po' di vino, una fetta di formaggio di Scanno e poche frutta che avevo fatto comperare da Mingaccio. Mangiammo su l'erba, all'ombra della torre, e poi ci recammo sul colle Campea per vedere le rovine di una chiesa antica, dedicata a S. Pietro, e alcuni ruderi romani i quali per i santopadresi sono nientemeno che gli avanzi di una villa appartenuta a Giunio Decimo Giovenale, il poeta satirico di Aquino.

Ma il mio fotografo, dopo di avere esaminati minuziosamente i ruderi e di averli anche contati, mi disse che, secondo lui, la villa di Giovenale l'era una bala.

— E perchè? — gli dimandai.

Perchè? — mi rispose subito con una sicurezza da non ammettere replica — Perchè l'è umanamente impossibile che un antico romano di talento il quale avrebbe potuto farsi una villa nella sua capitale se ne sia venuto a fabbricare una in un paese come Santopadre.

Il suo ragionamento filava! E poco dopo filò anche lui, dovendo andare a preparare i preparati e a caricare la macchina per eseguire il Consiglio comunale. Prima che mi lasciasse gli chiesi ridendo: — Quanti altri giorni rimarrete qui?

Mah! — mi rispose, alzando le braccia — Subet che avrò eseguito il Consiglio comunale scapperò via, fuggendo. — E si allontanò in fretta.

* * *

Io rimasi ancora lassù. Tornai a visitare le rovine della chiesa, e dopo di aver ammirato un olivo gigantesco e una quercia enorme il cui tronco misurava otto metri di circonferenza, mi sedetti su l'erba, appoggiai le spalle ad un rudero, accesi la pipa e mi misi ad ascoltare Mingaccio, il quale, cedendo alle mie dimande, prese a raccontarmi alcune istorielle su don Folco, il prete arguto e beone, sacrilego e buffone a cui il paese di Santopadre va debitore di quella fama che esso gode nelle contrade di tutta la Ciociaria. Tali storielle non mi arrivavano nuove poichè le avevo già udite a narrare qua e là nei paeselli che avevo già visitati; ma le risentivo con piacere: prima perchè le ascoltavo nel luogo istesso dove erano nate, e poi perchè sulla bocca e nelle mani di Mingaccio acquistavano un sapore di comicità irresistibile.

Quasi tutte quelle che egli mi ripeteva si riferivano alla lunga lotta sostenuta dal prete di Santopadre contro il vescovo di Sora: lotta che finì sempre con la vittoria di don Folco, il quale rifugiandosi, quando lo credeva opportuno, fra le rupi delle sue montagne, ove nè la mano nè il piede del suo superiore potevano raggiungerlo, era sempre padrone di fare tutto quello che gli pareva e piaceva infischiandosene altamente di tutti i rimproveri e di tutti i gastighi che gli venivano mandati da Sora. Del resto nella lotta egli era spalleggiato dai suoi compaesani, i quali tenevano l'insigne prelato in conto di un solennissimo jettatore, poichè quando questi in un giro che fece per visitare le parrocchie della sua diocesi si fermò in Santopadre, una forte scossa di terremoto costrinse i santopadresi a fuggire all'aperto e a dormire in terra, nei campi.

Il primo fatto, anzi il primo misfatto per il quale don Folco dovette andare a Sora per farvi la conoscenza del vescovo, se Mingaccio non mi ha male informato, fu il seguente. Poco lungi da Santopadre in una capanna agonizzava un contadino, e don Folco andò a dargli l'estrema unzione. Fece tutto quello che doveva fare e poi si rimise in cammino per ritornarsene a casa. Disgraziatamente, il diavolo, il quale ha la perversa abitudine di seminare di tentazioni le vie battute da coloro che ei vuol perdere, volendo insidiare la virtù del povero prete, fra la capanna da dove questi veniva e la casa verso cui andava ci seminò una osteria con entrovi alcuni contadini che giuocavano il tòcco, un giuoco che si giuoca annaffiandolo con molto vino.

I contadini appena videro passare don Folco lo salutarono cordialmente e don Folco rispose cordialmente ai saluti; gli offrirono da bere e don Folco bebbe; lo invitarono ad entrare nell'osteria e don Folco vi entrò; gli chiesero di giuocare e don Folco giuocò. E giuoca e bevi e bevi e giuoca, insomma il povero prete finì col doversi coricare sopra una panca. Nel coricarsi sentì in una delle tasche qualche cosa che gli dava noia; vi mise dentro la mano, ne cavò quella qualche cosa che lo infastidiva, la posò sur una botte e chiuse gli occhi. Quando li riaperse era notte. Due contadini lo ricondussero a casa. All'indomani l'oste spazzando la sua bottega vide in terra un oggetto che luccicava. Era il vasellino dell'olio santo.

Cinque minuti dopo tutto il paese risapeva l'orribile sacrilegio, e qualche giorno appresso don Folco riceveva l'ordine di recarsi a Sora per render conto del suo peccaminoso operare. Vi andò, e allor che il vescovo prese a tempestarlo di rimproveri egli rimase umilmente a capo chino, in silenzio, aspettando la fine della tempesta; ma quando vide che la tempesta non finiva più si decise di finirla lui, e, rialzato il capo rosso come un pomidoro maturo, si mise a gridare: — Neh, 'gnore vescove, ma che te cride ca co' l'uoglie ch'ajo lassato alla taverna ci avo fatto l'ansalata? Pe' regula de Signoria, dinto a lu vasillo ce ne steva accusi poco ca nun ce n'asciva manco pe' cundi' quatte peparuole. Sì capito mo tu? — E senza aspettare che il vescovo gli rispondesse, gli voltò le spalle e discese in istrada, ove per calmare i nervi esasperati non potè fare a meno di entrare in un caffè e di chiedere una qualche cosa stommateca. Il cameriere gli recò un bicchierino di vino squisito. Don Folco lo bebbe; si leccò le labbra e ne chiese un altro. Poi fece portare sul tavolino la bottiglia, e cercandone il fondo, dimandò al garzone: — Neh, chesto vino che nome tiene?

Lacrima Christi. — gli rispose il cameriere.

Veramènte? — ripigliò don Folco che cominciava a risentir gli effetti di quella lacrima.

— Ma certo! Noi non vendiamo roba adulterata.

E allora — si mise a urlare il prete, battendo il pugno sul tavolino — e allora nun ce lo potevate fa' sta' sino a mo in croce quanno che faceva 'ste lacrime?

Pochi giorni dopo don Folco venne privato dell'esercizio del suo sacro ministero. Quando egli seppe che non avrebbe più potuto celebrare la messa, ritornò a Sora, si appostò in un luogo ove egli sapeva che il vescovo avrebbe dovuto passare, e non appena lo vide da lungi gli gridò: — Neh, 'gnore Vescove, me si tuota la messa? E tu schiatta! Ca te cride che pe' campà' àjo bisogno de magnà' Cristo tutti li juorni? Io campo co gliu mia. — E prima che riuscissero ad agguantarlo se ne scappò su le montagne di Santopadre.

* * *

Una volta il busto di san Folco, che è appunto il patrono di Santopadre, era stato recato processionalmente fuori del paese in una chiesina e colà era stato lasciato esposto per qualche giorno alla venerazione dei fedeli. Finita l'esposizione il simulacro del santo doveva essere riportato al suo domicilio reale, cioè su l'altare maggiore della chiesa da dove era stato tolto, e don Folco si prese l'incarico di trasportarvelo. Andò nella chiesina, si mise sulle spalle il busto, e seguito da qualche contadino che biascicava paternostri, si avviò verso il paese. A metà di una scorciatoia piena d'inciampi, ov'egli s'era messo per abbreviare la via, sdrucciola, e il busto gli esce dalle mani, e brillando al sole si mette a rotolare fra i sassi. Egli prova a ripigliarlo; ma non ci riesce. Allora, rosso di collera si rizza sulla punta dei piedi e allungando le mani verso il santo che se ne andava precipitando a valle gli urla dietro: Ca te pozzino accide', voglio vedè' addò' te vai a fa' fotte'!

I contadini fuggono ancora.

* * *

Un'altra volta don Folco venne chiamato in una borgata vicina al suo paese per celebrarvi un triduo e per recitarvi un sermone. Egli appena salito sul pulpito si volge alle donne e incomincia a gridare senza tanti preamboli che la causa della loro perdizione era 'nu pezzetto de carne. I contadini sgranano tanto d'occhi e le contadine divengono rosse come i loro corpetti di scarlatto. Ma il sacro oratore prosegue imperterrito: — Sì. È 'nu pezzetto de carne. — E soggiunge: — Lo volite véde' qual è? — Le donne abbassano gli occhi pudibonde e don Folco cava fuori un palmo di lingua e ci appunta su il dito. Una clamorosa risata scoppia fra le bianche pareti della chiesa.

Finita la predica don Folco scende dal pulpito, sale i gradini dell'altare maggiore e di lassù dà la benedizione col santissimo. Mentre egli solleva in alto il sacramento un bambino incomincia a miagolare. La sua mamma tenta invano di rabbonirlo. Don Folco si stizzisce, gli va vicino e mostrandogli l'ostensorio: — Ohè, guagliò' — gli grida — vi' ca chesto è bòbbo, e se non le stai quèto le se tuoglie! Dopo la benedizione la chiesa si vuota e gliu prèute ripone il sacramento nella sua custodia e la chiude; ma quando va per estrarre la chiavetta dalla serratura la chiavetta non esce. Egli le tenta tutte per farla uscire; alfine perde la pazienza; dà un pugno sul ciborio ed esclama: — E che ce sta ca dinto? Gliu diavolo!

Il sagrestano che aveva incominciato a spazzare la chiesa gettò la scopa, si fece il segno della croce e scappò via inorridito.

* * *

Ma don Folco oltre alle molte virtù con le quali soleva ornare l'esercizio del suo ministero sacro, ne possedeva anche moltissime altre per adornare, qualora se ne fosse presentata l'occasione, l'esercizio del suo ministero profano; poichè non aveva rivali nel vendere giumente guerce, asini ciechi, vacche zoppe, e nello spacciare merci di cattiva qualità come se fossero state ottime. Egli era così furbo ed arguto e così pronto nella chiacchiera che trovava quasi sempre il gonzo da infinocchiare.

Un giorno andò in un paesello, ove tenevasi una fiera di bestiame, e vi portò un cavallo a cui per esser perfetto non gli mancava altro se non la parola. Un vecchio contadino lo comperò a buonissimo patto; ma dopo di averlo comperato s'avvide che alla povera bestia le mancava la metà della lingua.

V.

Il sentiero che da Santopadre porta a Casalvieri, dopo di aver serpeggiato per valli umide e verdi in fondo alle quali corrono rapidi i torrenti, s'arrampica sui fianchi rocciosi di monti aspri e selvaggi e va innanzi ora scoperto su pietre aride e brulle, ora nascosto sotto paurosi boschi di querce. Seguendo il mio fido Mingaccio io avevo già percorso un lungo tratto di cotesto sentiero e salivo il monte dei Sette Dolori, un monte coronato da una chiesuolina dinanzi a cui sorgono sette croci, quando il cielo incominciò a coprirsi di nubi e gli alberi sotto la sferza di un vento caldo e fastidioso principiarono ad agitare sonoramente i loro rami carichi di ghiande.

Tócca, tócca, signoria, ca ce cuoglie gliu temporale! — grugniva di tanto in tanto Mingaccio, esortandomi ad allungare il passo; ed io, difendendomi come potevo dalle raffiche del vento, lo seguivo ansimando.

A monte Cuoccio il vento cessò e caddero le prime gocce di pioggia segnando di punti neri il terreno; poi dal cielo oscuro precipitò il diluvio universale.

Tócca, tócca! — gridava sempre Mingaccio, facendosi il segno della croce ad ogni balenare di lampi. — Tócca, tócca! — Ed io toccavo con le mani e coi piedi quanto mai fosse piacevole e divertente il salire un monte sotto la furia degliu temporale. Quando Dio volle, bagnati fin nelle midolla ci potemmo rifugiare in un piccolo santuario. Colà, appena entratovi, Mingaccio trovò in una buca un leprotto morto. Ciò lo mise in grande allegria; aprì un coltelluccio e incominciò subito a scuoiarlo, e scuoiandolo, eccitato forse dal luogo che gli ricordava i giorni lontani della giovinezza, prese a raccontarmi una quantità di storie brigantesche.

Nun me fa' parlà'! — mi diceva ad ogni frase; e mentre i tuoni scoppiavano nell'aria fosca rimbombando fragorosamente sotto di noi, nelle forre dei monti Januli, seguitava a parlare, indicandomi con la punta insanguinata del suo coltelluccio i luoghi ove i fatti che mi narrava erano avvenuti.

Vedi chélla mòrra? — mi disse non appena ebbe finito di raccontarmi una storia piena di schioppettate, di morti e di feriti, accennandomi un monte velato dall'infuriare della pioggia: — Vedi chélla mòrra? Se tu sapessi quanto foco c'è ascito derèto a chelle prète! Se tu sapessi! — ripetè ancora, scotendo il capo: e poco dopo com'ebbe terminato di spellare il leprotto ne gittò le membra fuori del santuario, ne ripiegò con molta cura la pelle e se la pose in tasca; poi stringendo le pugna macchiate di sangue e guardandomi negli occhi esclamò dolorosamente: — Eh, signoria, a chélli tiempe che te dico io ce steva la gioventù e la moneta; mo simmo viecchi! Nun c'è che fa'!

La pioggia continuava sempre. Uscire non si poteva, ond'io non sapendo come passare il tempo mi misi a leggere sulle pareti del nostro ricovero le innumerevoli iscrizioni lasciatevi da coloro che vi si eran fermati. Una di coteste iscrizioni incisa con un chiodo o forse con la punta di un coltello sul manto turchino di una immagine diceva così: — Onorio Rechia latitande di Casalviero di matina di pesima piogia assai sono ricoverato qui senza timore delli nemici mia. Era il documento visibile di una delle istorie narrate allora allora da Mingaccio.

Alfine la pioggia cessò e potemmo lasciare il rifugio. Un raggio di sole pallido pallido cadeva da una immensa nube cinerea sulle croci del monte dei Sette Dolori, e da una valle lontana veniva nell'aria fredda un lungo e lamentoso rintoccar di campane.

— Che cosa dicono queste campane? — dimandai alla mia guida; ed essa portandosi le mani agli orecchi per meglio raccogliere il suono, dopo di essere rimasta per qualche istante in ascolto con la testa bassa, aggrottò le ciglia e mi rispose con voce commossa: — Sona a gràndina.

— Dove?

A Casalvieri. — E il buon vecchio, appena incominciammo a scendere il monte, dopo di essersi fatto il segno della croce, prese a recitare alcune preghiere le quali secondo lui dovevano avere un effetto portentoso contro il flagello della grandine, e non si tacque se non quando arrivammo a Colle Fosso, una borgatella di una ventina di casupole dorate dal sole già vicino all'orizzonte. Colà, per riposarci, ci sedemmo sul margine di una fontana. Intorno a noi gli alberi ancora bagnati brillavano sul cielo purificato dall'uragano, e giù dai sentieri che scendevan dai monti e si perdevano fra l'erba verdissima cosparsa di fiori ravvivati dalla pioggia, sotto al languido svariar degli ulivi dai poderosi tronchi rintorti e maculati di musco, gruppi di contadine vestite di nero e col capo quasi nascosto da larghi e lunghi panni bianchi ricamati si avvicinavano alla fonte, cantando e reggendo orci di terra gialla ornati di pitture sanguigne. La foggia del vestire di coteste contadine mi piacque tanto, che volendo serbarne una memoria nella cartella dei miei disegni, non appena arrivai a Casalvieri ordinai a Mingaccio di trovare una donna disposta a servirmi da modello e di portarmela. Egli si allontanò ridendo e poco dopo ritornò tenendo per la mano una bambina col piccolo capo ricciuto oppresso dal peso di una enorme brocca di rame, e presentandomela mi disse: — Chessa, signoria, è chéllo che t'aggio potuto trovà'; chelle grande àvo pavura.

Bisognava adattarsi. Atteggiai la bambina come meglio potei, e mentre la mia guida mi lasciava di nuovo per andare a cercare un luogo dove passare la notte, incominciai a disegnarla. Una folla di curiosi mi circondò subito con tutta la sua ammirazione e con tutti i suoi più strani e goffi comenti, fra i quali ne udii con terrore uno che mi bollava, niente di meno! quale un esattore delle imposte mandato dal Governo a Casalvieri per mettere nuove tasse. Avevo appena incominciato a cercare il modo più persuasivo per ispiegare alle genti come io non avessi niente da spartire col fisco e le gabelle, quando all'improvviso una vecchia orribile sfondò il cerchio dei miei ammiratori e mi venne addosso agitando furiosamente le braccia. All'apparire della megera la modellina se ne fuggì spaventata ed io rimasi sbalordito ed attonito in mezzo ai popoli di Casalvieri, i quali ridevano e strepitavano dietro alla vecchia, che dopo di aver raccolta la brocca di rame lasciata in terra dalla bambina si allontanava urlando: — 'Ste cose jàtele a fa' a li paesi vostri! Chesta è carne ca nun se venne! Apprima la voglio accide' co' le mano mee!...

Per cercar di comprendere la ragione dei gesti e delle parole della vecchia mi approssimai a un contadino interrogandolo con lo sguardo ed egli mi rispose seriamente: — È ignoranzità. Già. Lei mi capite, ci attaccano idea. — E dopo di avermi squadrato dall'alto in basso e viceversa, mi chiese a bruciapelo: — Ma, scusa, tu di dove sei?

— Di Roma.

E si sei de Roma che venghi a fa' da 'ste parte?

Non sapendo come rispondergli mi diedi per ingegnere, e allora lui alzò le ciglia e, guardandomi con aria furbacchiotta, mi disse a voce bassa: — È inutile che fai, ho capito tutto. Tu venghi a fare il traforo.

— Bravo! — gli risposi subito, e avevo già principiato ad insegnargli il modo più pratico ed economico per bucare le montagne, quando Mingaccio venne ad annunciarmi di aver trovato il luogo ove avremmo potuto andare a dormire. Cominciava a farsi buio e ci mettemmo immediatamente in cammino. E cammina cammina, dopo di avere attraversato il paese e di avere percorsa una strada lunga e larga, sassosa e fangosa, fiancheggiata da vecchi olmi, arrivammo dinanzi a un grande casamento nero ove fummo accolti graziosamente dal furioso abbaiare di molti cani incatenati sotto a parecchi carretti carichi di ceste e di bigonce dalle quali usciva e si disperdeva nell'aria umida e tepida un calido e piacevole odore di frutta.

Mentre Mingaccio badava a rabbonire i cani e chiamava ad alta voce il padrone della locanda, gli occhi mi andarono in cima all'arco di un androne, che metteva ad un cortile pieno d'altri cani e di altri carretti, e rischiarata dalla luce fioca di una lanterna, intorno a cui svolazzava qualche nottola, vi lessi questa iscrizione: — SI AFFITTANO LETTI CON COMMODO DI STALLA.

Avevo appena finito di leggere le parole male auguranti e stavo aspettando, con la mia guida a lato, il locandiere, quando i cagnacci ripresero ad abbaiare con maggior furia. Allora qualche persona si mosse sui carretti, fra le bigonce e le ceste; alcune voci rauche ed irate ferirono l'aria oscura; una bestemmia fece tremare la terra; ma l'albergatore non venne. Aspettammo ancora. Alfine, dopo altre grida di Mingaccio, le quali inferocirono maggiormente i cani, il fondo buio del cortile incominciò a colorarsi di un debole chiarore rossigno; il chiarore a poco a poco divenne più chiaro e finalmente illuminato dalla fiammella oscillante di una misera candela da un soldo, che egli aveva in mano, e accompagnato da un grosso mastino, apparve il padreterno o, per esser più precisi, il padrone della locanda: un vecchio bianco per antichissimo pelo, il quale, dopo di averci rivolta qualche parola in un linguaggio incomprensibile, e di averci fatto salire una scaletta di legno molleggiante e scricchiolante sotto il peso delle nostre persone, ci introdusse in una stanza, ove su un letto enorme, fra una quantità di ombrelle di tutte le forme e di tutti i colori, stava seduto un altro vecchio che aveva sulle ginocchia una grande ombrella verde, aperta, e la rabberciava al lume di una lucerna di ottone il cui lucignolo fumigante ammorbava l'aria di un puzzo acre e fastidioso di moccolaia.

Il vecchio appena ci sentì entrare sollevò il muso bianco dall'ombrella verde e guardandoci con gli occhi di bragia incominciò a brontolare e a lamentarsi. Insomma, tutti i letti della locanda erano occupati e l'unico letto disponibile era quello dell'ombrellaio! Ridiscesi subito la scaletta di legno lasciando il canuto rabberciatore di ombrelle nel suo nido e mi rimisi in viaggio verso il paese trascinandomi dietro oltre a Mingaccio anche la speranza di trovare colà un letto senza «commodo di stalla». All'alba io e lui lo cercavamo ancora; e, mentre l'aurora con le sue dita rosate tentava invano di allargare le crepe di un denso velo di nubi, morti di sonno come eravamo, dopo di avere ingoiato una bevanda nera ribelle a qualunque addolcimento, montammo sopra a uno sciarabbà, pronto a partire per Atina, e ci addormentammo.

Quando io mi svegliai il cavalluccio della vettura, scotendo la testa coperta di fiocchi di lana e di medaglie, di coccarde e di sonagli, di pennacchi e di campanelli, col pettorale, la groppiera, il sottopancia e le tirelle di cuoio nero ornato da fregi di ottone lustro, arrancando e soffiando, ci trascinava su per una salita ripidissima, in cima a cui fra il verdeggiare cupo di querce antichissime si intravvedevano le case lontane di Atina.

Prima di arrivarci, ricordo di avere osservato con gli occhi non ancora bene liberati dal sonno, sui fianchi del monte Meta, la cui cima perdevasi nel cielo nebbioso, i paeselli di Settefrati e Picinisco; ricordo di aver visto le case di San Donato adagiarsi nella valle del Comino fra il verde giallognolo delle messi segate, e quelle di Alvito arrampicarsi sopra a un colle in cima a cui torreggiava un vecchio castello; rammento anche di avere ammirato un raggio di sole che uscito dal cielo plumbeo andò a spegnersi subito su le case brune di Vicalvo, e poi... e poi ricordo di non avere ammirato più nulla, perchè appena lo sciarabbà si fermò in uno sterrato fra piramidi di cipolle e di pomidori, di melloni e di angurie e di altri ortaggi, incominciò a piovere con tanta forza ch'io non vidi più niente, tranne un Cristo di pietra in cima a una porta, il quale stendendo la destra verso di noi, bagnato com'era, pareva che invece di benedirci ci chiedesse un'ombrella.

* * *

La porta di Atina vista dal di fuori appare tutta rammodernata e dipinta a strisce bianche e rosse; ma nel suo interno conserva ancora intatta la costruzione medioevale. E una impronta medioevale ha tutto il paese. Ovunque, nelle vie e per i vicoli, sulle case annerite dai secoli o bianchissime per la intonacatura recente qua e là si scorgono avanzi di portici, finestrelle binate, colonne, capitelli e frammenti di scolture romaniche. In fondo alla via principale sorge un castello dominato da una torre merlata. Una volta nel castello abitavano i signori di Alvito; adesso invece vi stanno di casa due muse, la Tragedia e la Commedia, cioè le carceri e il teatro. Quando lo visitai, dinanzi alla sua porta trovai due beccai che scannavano un bue. La povera bestia, legata con grosse funi ad una trave, si dibatteva furiosamente tentando di spezzarle e mandava fuori dalla gola squarciata da una ferita orrenda muggiti lunghi e lamentosi. Un ragazzetto raccoglieva in una secchia di legno il sangue che sgorgando con violenza dal collo calloso della bestia agonizzante, gli schizzava sul volto e gli tingeva di rosso i piedi ignudi imbrattati di mota e di sterco.

Mentre i due beccai arruotavano le manaiuole e le coltella, stropicciando con forza il filo dell'una su quello dell'altra, e si apparecchiavano a squartare il bue, io attraversai un andito oscuro ed entrai nel cortile del castello. Colà, una pioggerellina fina fina, lenta lenta, queta queta velava di mestizia profonda le mura alte ed antiche nelle cui crepe verdeggiavano le paretarie e le malve, le ortiche e i grispignoli. Sopra le pietre lisce, del color dell'acciaio, le gocce d'acqua scivolavano lentamente, brillavano per un istante come gemme preziose e cadevano nel fango. In un angolo, sotto a una tettoia mezzo rovinata, fra mucchi di fieno e di strame v'erano riparati muli e cavalli con le groppe coperte da ruvidi panni rossi e da pezzi di tela incerata. Quando una bestia raspava con lo zoccolo il terreno rammorbidito dalla pioggia, o chinava la testa verso lo strame s'udiva il tintinno di qualche sonaglio. Sui gradini di una scala parecchi ragazzi giocavano alle noci, e di tanto in tanto parlavano coi carcerati i quali accostando il volto alle sbarre delle inferriate rugginose s'interessavano alle sorti delle partite. Uno di cotesti sciagurati col braccio fuori di una inferriata stendeva la mano a una contadina che, reggendo un bambino, si rizzava sulla punta dei piedi per arrivare a stringergliela.

Sentendomi soffocare da tanta miseria stavo per lasciare il cortile quando alcuni carcerati mi chiamarono, e cavata fuori dalle spranghe di una grata una lunga canna dalla cui punta penzolava una borsetta di tela, dopo di avermi chiesto qualche soldo e un po' di tabacco, incominciarono a cantare. Mentre ascoltavo con le orecchie attente il canto grave, lento e malinconico, e seguendone il disegno melodico, mi sforzavo di intenderne le parole, da una chiesa vicina venne il suono funebre di una campana che piangeva un morto; allora le voci appassionate dei reclusi e i rintocchi lugubri della campana s'unirono insieme dolorosamente e risonarono fra le mura squallide del vecchio cortile fino a che non si persero tremolando nell'aria livida e lacrimosa.

Per andare alla locanda, ove Mingaccio mi aveva già fissato una camera, uscendo dal castello dovetti ripassare davanti ai macellari, e li rividi che spezzavano le membra del bue le cui interiora fumanti, appese a un grosso rampino, esalavano un fetore insopportabile. Intorno ad essi parecchi cagnacci macri e spelacchiati, si mordevano fra di loro, guaivano e leccavano avidamente il sangue, che sgocciolando dalle carni macellate scorreva lungo il muro e andava a rosseggiare nelle pozzanghere. Poco lungi, ai piedi di una statua decollata, due buoi aggiogati accanto a un baroccio, per null'affatto commossi dalla vista e dall'odore del sangue fraterno, guardavano con gli occhi tondi ora i cani ed ora i macellari, e di quando in quando sgretolavano adagio adagio qualche cannuccia tenera e verde.

* * *

Nella locanda di Atina ebbi una bellissima stanza piena di luce e d'aria e tutta rallegrata dal profumo delizioso di molti fiori di lana, dai canti soavi di molti uccellini imbalsamati e dalla santità immarcescibile di parecchie generazioni di Gesù bambini di cera. Nel salire a cotesta stanza, attraversando un corridoio, vidi sopra a una sedia un cavalletto da pittore.

— C'è un pittore, qui? — dimandai alla locandiera.

Sissignore, musiù!

— E chi è?

È 'nu frangese de Pariggi.

— Si può vedere?

Certamènte — mi rispose la buona donna — ma mo sta in campagna a pazzià co' li colori. Lei lo potrete vedere subbito che ritorna.

E difatti subbito che ritornò lo vidi, gli parlai e con mia grande maraviglia appresi da lui che egli non era francese, ma napoletano; e con non minore maraviglia ei seppe da me che io ero romano, perchè la padrona della locanda come aveva detto a me che lui era 'nu frangese de Pariggi così aveva detto a lui che io ero 'nu pariggino de Frangia.

A desinare ebbi l'alto onore di avere a commensale un mercante di grano, un bell'uomo panciuto, espansivo, comunicativo e tutto risplendente di oro e di brillanti, il quale, dopo di avermi chiesto molte notizie intorno al papa, al re, alla regina, ai ministri e al parlamento, mi dimandò se fosse proprio vero che nella piazza di Colonna Trojana volessero buttar giù la colonna per cercare sotto al suo piedistallo un tesoro chiuso in una enorme cassa d'argento.

— Eh, pur troppo, mio caro — gli risposi — a quest'ora la colonna sarà già stata abbattuta.

- -Ma lei mi parlate sul serio? — esclamò il mio uomo, spalancando gli occhi bovini e percuotendo col pugno robusto la tavola su cui i piatti, le bottiglie e i bicchieri tintinnarono allegramente.

— Così non fosse! — gli risposi ancora — Così non fosse! — E con queste parole lo lasciai a digerire il suo pranzo, non che il suo rammarico per la distruzione igonoclastica dell'ultimo avanzo della guerra di Troja, e me ne andai a passeggiare all'aperto.

Tornando alla locanda, m'ero fermato un momento vicino al tronco di un vecchio olmo per contemplare le vaghe stelle dell'orsa, scintillanti sopra il verde glauco di un uliveto, quando mi sentii picchiare dolcemente sopra a una spalla: mi volsi e mi trovai accanto un omino sbarbato e profumato il quale, dopo una profonda riverenza, mi disse con una vocina languida e tremolante: — Lei, musiù, siete pittore?

— Qualche volta! — gli risposi. Egli allora sorrise, strizzò gli occhi e facendo un gesto ambiguo, mi dimandò: — Vi serve una bella donna di campagna da dipingere?

Poco dopo, mentre nella mia stanza io stava dipingendo la bella donna di campagna, nella camera vicina alla mia, ove era il mercante di grano, intesi risuonare gioiosamente una risata argentina. Non v'era da dubitare. Il mercante di grano dipingeva anche lui.

IL PIANTO DELLE ZITELLE

I.

Benchè una voce stentorea avesse già gridato più volte: — Partenza! Partenza! Partenza! — il treno non s'era ancora mosso che i miei compagni di viaggio, tutti soci più o meno valorosi del Club Alpino, mi avevano già messo due limoni sulla bocca dello stomaco, un barometro e un contapassi nei taschini del panciotto, una bussola nella borsetta del tabacco, e due carte geografiche nelle saccocce della giacca: due maledette carte geografiche, le quali, quando per disgrazia mia venivano aperte non c'era più modo di poterle richiudere. Tutto questo materiale scientifico di cui i miei amici mi avevano infarcito mi fece pensare subito che io forse m'ero messo con soverchia leggerezza in una impresa troppo difficile per le mie gambe, e mentre la voce stentorea seguitava a gridare: — Partenza! Partenza! Partenza! — fui vinto dal vile pensiero di scendere e di squagliarmi; ma, ohime! proprio quando il mio pensiero stava per tramutarsi in azione, il treno sussultò, prese a muoversi piano piano, uscì dalla stazione e principiò a galoppare per la campagna.

Alea jacta est, mormorai fra me e me per darmi coraggio; guardai col cuore stretto la cupola di San Pietro che correva a nascondersi dietro gli archi di un acquedotto alla cui ombra riposavano alcuni buoi, e mi addormentai. I sogni che funestarono il mio sonno furono orribili. Prima mi parve di essere inseguito da un orso bianco il quale mi divorava con tutte le carte geografiche e le bussole che avevo indosso, cagionandomi il grandissimo dispiacere di non saper più da qual parte orientarmi; poi mi sembrò di essere non so più a quante migliaia di gradi sotto lo zero e diventare una granita di limone; da ultimo sognai di cadere da una montagna altissima in una valle bassissima: per l'effetto della caduta il barometro si spezzava, il mercurio scappava via e io dietro, di corsa, cercando di raccattarlo col cappello. E la corsa non fu breve davvero! Figuratevi che io il mio mercurio non lo potei ripigliare se non nella stazione di Frosinone, ove il treno si fermò ed io mi svegliai.

Fuori della stazione di Frosinone stavano ad aspettarci due vetture; vi salimmo, e dopo di aver percorsa una pianura gialla, ove scintillavano qua e là i falcetti dei mietitori, e di avere attraversato alquanti colli rivestiti di ulivi, di olmi, di querce e di pioppi arrivammo in Alatri. Colà ci ristorammo con un piatto di spaghetti eccellenti; visitammo le mura ciclopiche, eccellenti anche esse; entrammo in qualche chiesa; ci fermammo davanti agli avanzi di alcuni edifici gotico-romani; leggemmo due o tre iscrizioni latine; ci riposammo un momento nel Caffè della Dodicesima Legislatura e ripartimmo subito per Guarcino.

A Guarcino ci fermiamo in mezzo a una piazza, piena di bambini e di galline, per dare un po' di respiro ai cavalli; ed io ne approfitto per avvicinarmi a un omnibus verde, carico di attrezzi da circo, su cui leggo questa misteriosa iscrizione: Compagnia Cavallerizza Colorita. Accanto all'omnibus verde un cavallo bianco, magro e gobbo dorme sulle quattro zampe, e due saltimbanchi, curvi su una caldaia nera, rimescolano una broda giallastra. Quando lasciamo Guarcino il cielo si copre di nuvole, la pioggia cade e ci segue fino all'Osteria d'Arcinazzo. Quivi lasciamo le vetture, e mentre il cielo ritorna sereno, incominciamo a salire pian piano verso Vallepietra. A destra sotto di noi dal fondo della valle, il cui verde, velato dall'ombra del giorno morente, incupisce, s'ode venire un continuo rumore d'acque cadenti. È il Simbrivio, il quale appena nato scende già frettoloso verso Cominacchio per ivi finire la sua vita breve nelle acque dell'Aniene. Mentre il Simbrivio scende e noi saliamo per la ripida via mulattiera, da lontano, fra i rami degli alberi, vediamo brillar qualche lume. Poco dopo udiamo anche qualche voce e ci troviamo in mezzo a una torma di pellegrini che sale al santuario della Trinità.

— Da quale paese venite? — dimando a un'ombra, passandole accanto, e l'ombra mi risponde: — Da Ferentino.

— E quando ci arriverete alla Trinità?

— Domani.

E domani ci arriveremo anche noi; poichè noi non ci siamo mossi da Roma soltanto per fare dell'alpinismo, o, per esser più precisi, dell'apenninismo; ma anche per assistere ad una cerimonia sacra e caratteristica che si celebrerà dopo dimani nel santuario della Trinità; santuario fondato nel quinto secolo dai monaci di San Benedetto sur una rupe del monte Autore, poco lungi da Vallepietra, a mille e trecento metri di altezza. La cerimonia sacra a cui assisteremo si chiama Il Pianto delle zitelle: ed è, a quel che mi dicono, una rappresentazione della passione e morte di nostro Signore: un rimasuglio, forse, di quei componimenti ispirati quasi sempre dalla Bibbia, i quali, come tutti sanno, fin nel più lontano medio evo venivano recitati prima in forma di dialogo e poi come veri e propri drammi, e servivano con l'allettamento dell'arte a tener viva nei cuori la fede nei dogmi e ferma nelle menti la memoria delle leggende e dei miracoli della nostra religione. Cotesta rappresentazione ha luogo ogni anno nella domenica seguente alla Pentecoste, e per vederla migliaia e migliaia di pellegrini si partono dalle città, dai paesi e dai borghi del Lazio, dell'Abruzzo e della lontana Campania e salgono al santuario.

Ma il Pianto lo sentiremo piangere dalle zitelle dopo dimani; per intanto ci lasciamo dietro i pellegrini che salgono il monte lentamente, cantando di tempo in tempo giaculatorie, e dopo un altro po' di cammino arriviamo a Vallepietra. È già notte buia. Traversiamo il paese e andiamo subito a trovar l'arciprete, amico nostro e del Club Alpino, che gli ha affidato la direzione di un osservatorio termo-pluviometrico. Egli ci accoglie a braccia aperte, e dopo un po' di conversazione rallegrata da parecchi bicchieri di un vinetto squisito e riscaldata da un focherello scoppiettante in un enorme camino, ci conduce in una stanza, apre una finestra e ci mostra il suo osservatorio: due vasi di matricaria, un vasetto di basilico, un cassettoncino di pomidori, un piccolo recipiente di zinco ed un termometro.

Appena la finestra dell'osservatorio si richiude, la porta della stanza si riapre e appare ai nostri occhi la figura corpulenta e gioconda del signor Gazzetti, l'oste di Vallepietra, il quale col più dolce dei suoi sorrisi ci dà l'annuncio che la cena è pronta e ci invita a seguirlo. Lo seguiamo subito, ed egli appena è in istrada, prima ci manifesta tutta la sua allegrezza per aver ottenuto dalla sezione di Roma l'alto onore di poter fregiare la propria taverna con lo stemma del Club Alpino Italiano; e poi ci dice che volendo di cotesto onore rendersi degno ha pensato di recarsi nella prossima estate sulla cima del monte Velino da dove si gode un colpo d'occhio impossibile, perchè da una parte si vede il mare e dall'altra l'istesso. Noi lo incoraggiamo a tentare l'ardua ascensione, ed il buon uomo tutto ringalluzzito ci precede a gran passi, ansando; ma arrivato a una piazzetta, con la scusa di farci osservare due lunghi pali di faggio, innalzati davanti a una chiesa, si ferma. I due pali secondo un'antichissima consuetudine vengono confitti nel terreno dai fanciulli e dai giovinotti del paese, ogni anno, nel primo giorno di maggio e sono chiamati Kalendi. Il più alto è quello dei giovinotti ed ha sul vertice un ramo di frassino, l'altro ha la punta ornata da una frasca di ginepro. Sulla piazza vediamo anche un palazzo nero, e sul cielo palpitante di stelle una torre quadrata e merlata, costruita sei secoli addietro da un nipote di Bonifacio ottavo. Torre e palazzo appartennero già ai Caetani, poi agli Astalli, quindi ai Marefoschi ed ai Piccolomini, e ora sono dei Troili, i quali ne dividono le proprietà coi topi, coi pipistrelli, coi gufi e le civette. Il Gazzetti ci fa ancora ammirare, accanto a una delle finestre del palazzo, una vecchia trave infissa nel muro, la quale nei suoi bei giorni serviva a distribuire i tratti di corda a quei vallepietrani che se ne erano resi meritevoli; e poi ci conduce nella sua taverna, ove finalmente troviamo imbandita la cena, il cui piatto principale consiste in uno squisito arrosto di vitella con la barba, ovverosia di capra.

L'oste, servendoci in tavola, non perde una sillaba dei nostri discorsi, i quali su per giù, ma più giù che sù, si riferiscono a varie ascensioni e discese di aspre montagne, e ne rimane tanto entusiasmato da non saper più trattenersi dal confessarci il desiderio suo di salire il Gran Sasso: e quando la cena è finita egli, salendo col pensiero anche più in alto, non sa nasconderci la speranza di potere in un avvenire non troppo lontano recarsi su qualche vetta delle Alpi. Noi gli auguriamo di gran cuore che le sue speranze si realizzino; beviamo ancora un bicchiere e usciamo dalla bettola. L'oste ci segue e dopo qualche passo si avvicina a uno di noi, e trattenendolo per la giacca, con una circospezione grandissima, gli sussurra all'orecchio che il barlometro è di una difficoltà impossibile.

— Ma non hai letto il libro che ti è stato mandato? — gli chiede il nostro compagno.

L'ho letto — ripiglia l'oste, aprendo le braccia — ma non ci ho potuto capirci la più piccola parola.

— Vuol dire che non lo hai letto con attenzione. Capirai, sono cose scientifiche.

Ho capito. — balbetta allora il povero oste. — Ho capito. — E ripetendo fra sè: — Sono cose scentifiche! — ci augura la buona notte, e si allontana lentamente a testa bassa, cogitabondo.

* * *

La dolorosa e commovente istoria dell'oste di Vallepietra e del suo barometro vale la pena di essere tramandata ai posteri non soltanto per rallegrarli, ma anche per insegnar loro di quanto male sia cagione il cibarsi del pane della scienza quando non si possegga lo stomaco adatto a digerirlo.

Qualche mese addietro due alpinisti della sezione romana, scendendo dalla cima dell'Autore, si fermarono nell'osteria del Gazzetti; e stanchi ed accaldati com'erano, per godere un po' di frescura, si tolsero le giacche e deposero sopra a un tavolino due binocoli, una macchina fotografica, alcune carte topografiche, qualche libro, un termometro ed un barometro aneroide. L'oste, mentre i due giovinotti gli chiedevano un po' di vino, di pane e di prosciutto, non seppe dominare la curiosità di cui gli era cagione la vista dell'aneroide, e appena ebbe messo dinanzi ai due tutto quello che gli avevano chiesto, dimandò loro timidamente a qual razza di orologi appartenesse quell'orologio del quale egli non aveva mai visto l'uguale.

— Ma questo non è un orologio. — gli rispose sorridendo uno dei due giovinotti, pigliando in mano l'aneroide — Questo è un barometro.

Ho capito. — balbettò l'oste — Questo è un barlometro. — E tolto dalle mani dell'alpinista l'aneroide, dopo di averlo esaminato da ogni parte con grandissima attenzione, se lo avvicinò agli orecchi, e non sentendolo palpitare, esclamò: — Si ha fermato! Bisogna caricarlo.

— Ma il barometro non si carica.

Ho capito. Nun se carica, ma però, si lui nun se carica, come cammina?

— Ma non deve camminare. — ribattè il giovinotto, e soggiunse, ridendo: — Basta che cammini quello che lo porta.

Ho capito. Nun deve camminà'. Ma però si lui nun cammina che ve ne fate?

Allora l'alpinista, incominciando a divertirsi della curiosità del buon uomo, fra un sorso e l'altro di vino e fra una fetta e l'altra di prosciutto, prese a spiegargli come il barometro non servisse per distinguervi le ore, ma sì bene per misurare l'altezza dei monti e per prevedere il tempo buono e il tempo cattivo, il sereno e la pioggia.

Ho capito! — esclamò l'oste, spalancando gli occhi — Ho capito! — E, dopo qualche istante di silenzio, chiese: — Dunque uno de noi, con uno de questi giocarelli in mano, lui potrebbe sapé' quando che piove?

— Potrebbe.

E per comprà' uno de questi giocarelli quanto si impiega?

— Mah, una quarantina di lire.

Ho capito. E dove se vendeno?

— Dall'ottico.

Ho capito. Dal lottico. — balbettò ancora l'oste.

E non fiatò più. Ma da quel momento decise irrevocabilmente che non appena gli si fosse presentata l'occasione di andare a Roma avrebbe comperato un barlometro. Difatti qualche settimana dopo, avendo dovuto scendere nell'Urbe per sbrigare alcune faccende, si recò da un lottico ed acquistò un aneroide. Naturalmente il lottico, prima di consegnarglielo gli spiegò il modo di servirsene; ma alle parole dell'uomo della scienza l'uomo dell'ignoranza ci badò poco; e tutta la parte che si riferiva al modo di leggere i diversi gradi delle altitudini, come gli entrò da una orecchia così gli uscì dall'altra. Il barlometro non l'aveva comperato per questo! A lui il sapere di trovarsi un metro più su o un metro più giù importava poco; quello che gli importava moltissimo era il poter prevedere le variazioni dell'atmosfera, e, per precisar meglio il suo pensiero, il poter sapere prima degli altri quando il tempo sarebbe stato bello e quando brutto. E per capir questo non occorrevano spiegazioni. L'aneroide con la sua bella lancetta lustra e con le sue belle parole stampate sulla mostra parlava da sè. E l'oste, sbrigate le sue faccende, se ne partì da Roma felice e contento.

Ma, ahimè, la sua felicità e la sua contentezza dovette lasciarle per istrada; poichè lungo il viaggio da Roma a Frosinone e da Frosinone all'Arcinazzo, benchè il tempo fosse bellissimo, egli vide l'indice del suo barlometro inclinarsi su quel punto dove si leggeva: pioggia; e quando arrivò a Vallepietra, mentre il sole cadeva in una gloria di luce, s'accòrse con sua grande maraviglia che il suddetto indice non solo era sceso ancora, ma s'era fermato su quella parte della mostra ove si leggeva scritta a grandi lettere la parola: tempesta. Come mai? Che l'aneroide si sia guastato? — si domandò il pover uomo; ma si rispose subito: — Impossibile! — E allora? Allora come egli aveva dinanzi il barlometro, così si pose dinanzi le corna del seguente dilemma: — Va avanti lui o va indietro il tempo? Accomodò le cose pensando che l'aneroide anticipasse più di quanto avrebbe dovuto l'annuncio della burrasca; e, sicuro del fatto suo, andò attorno profetizzando agli amici e conoscenti che l'indomani sarebbe stato un tempo da lupi. Tutti credettero che scherzasse, e qualcuno arrivò perfino a dimandargli se non si fosse impazzito; ma il profeta, incrollabile nella sua fede, rispose agli increduli: — Ce ne riparleremo a domani! — E se ne tornò a casa. Quivi riprese in mano l'aneroide. Segnava sempre: tempesta. Prima di andarsene a letto esaminò a parte a parte il cielo per vedere se per caso qualche nuvoletta non incominciasse già a turbare l'immacolata serenità del firmamento; ma, pur troppo, dovunque ei rivolse gli occhi scrutatori non vide che un infinito scintillare di stelle. Si coricò e passò la notte sognando che molti diluvii universali e parecchie cascate del Niagara gli annacquavano il vino in tutte le botti della sua cantina, e quando i galli incominciarono a cantare e la prima luce del giorno nascente fugò le tenebre e i sogni, corse alla finestra, l'aprì e vide dinanzi a lui tutti i monti che circondano Vallepietra, come un vasto anfiteatro, alzare le cime azzurre e ridenti nell'aria serena; vide a poco a poco tutto il cielo divenire di porpora e d'oro; e vide finalmente sorgere il sole: non il solito sole di tutti i giorni; ma, direi quasi, un sole festivo: un sole talmente bello, radioso e abbagliante quale egli non l'aveva mai visto.

E il barlometro? Il barlometro segnava sempre: tempesta.

Per cercare di spiegarsi il procedere scandaloso del suo aneroide il povero oste le pensò tutte; ma non ci riuscì: non ci riusci perchè le pensò tutte meno una: quella cioè che tali barometri sogliono spostare il loro indice a seconda dell'elevazione dei luoghi ove vengono portati: così che se la lancetta del suo aneroide non s'era più mossa dalla parte ove era stampata la parola tempesta, ciò avveniva perchè cotesta maledetta parola trovavasi scritta proprio in quel punto della mostra ove l'indice doveva necessariamente fermarsi per segnare l'altitudine di Vallepietra.

Tutto quello che il povero oste soffrì per causa del suo barometro ve lo lascio immaginare.

Alfine, non ne potendo più, pensò di scrivere ai signori del Club Alpino perchè gli mandassero una istruzione che fosse bona a far camminare il suo barlometro, il quale subbito che era arrivato a Vallepietra, abbenchè il tempo fosse splentito, si aveva fermato con la sua sfera sulla tempesta e non c'era caso di farlo più movere.

Un'anima perversa gli mandò un vecchio opuscolo, pubblicato dalla Reale Accademia dei Lincei.

Il pover'uomo lo lesse, non ci capì nulla; ma concluse che il barlometro è di una difficoltà impossibile.

* * *

Ieri sera avevo già spento il lume, quando nella stanza vicina alla mia udii risuonare una voce femminile la quale dimandava che cosa fosse il Glubbe Albino. Dopo qualche istante di silenzio un'altra voce, maschile, le rispose gravemente così: — Il Glubbe Albino, cara Filomena, è una cosa che qui a Vallepietra poco se conosce: ma in quelle parte dove che lei è conosciuta la conoscheno tutti.

II.

Il sole è già alto e noi saliamo verso il santuario della Trinità, ove stanotte dormiremo alla meglio in una capanna, e domani assisteremo alla sacra cerimonia del Pianto e vedremo le zitelle. Quando la salita incomincia a farsi sentire ci fermiamo dinanzi a certe rocce dalle quali sgorga un filo di acqua, e sappiamo da un giovinetto di Vallepietra che il luogo ove siamo si chiama l'Acqua delle Donne.

— Perchè? — gli chieggo.

Perchè le donne quanno che loro ritorneno dalla Ternità se ce laveno sotto pe' devozione. — mi risponde il giovinetto, ridendo; e appena ci rimettiamo in cammino mi mostra un'altra sorgente chiamata l'Acqua Cornetta: e poichè vede l'interesse col quale io l'ascolto, dopo di avermi additata una cappelletta bianca che porta il nome non molto poetico di Porco Grasso, si ferma sotto a una quercia sul cui vecchio tronco nereggia una croce, e mi dice che la cerqua si chiama li Quarti de Baragà.

Sorpreso della stranezza del nome dell'albero rivolgo all'adolescente qualche dimanda, e dalle sue risposte riesco a sapere una storia orribile.

Molti anni addietro un francese, un tal Baragas, sotto alla cerqua vi uccise un pastore per derubarlo. Il francese fu arrestato e portato a Napoli e colà fu impiccato: poi il suo corpo venne chiuso in una bigoncia e spedito a Vallepietra, ove il maestro di giustizia, dopo di averlo squartato ne mise li quattro quarti su la schiena di un asino, li portò sulla faccia del logo del delitto e li appese ai rami della cerqua sotto alla quale era stato assassinato il pastore.

Mentre raccoglievo dalle labbra del giovinetto il racconto macabro alcuni pellegrini che passavano si fermarono dinanzi all'albero; si inginocchiarono, biascicarono qualche avemaria, buttarono qualche sasso sulla croce e si allontanarono. Dimandai per qual ragione i pellegrini, dopo di aver pregato avessero gittato i sassi sulla croce; ma nessuno me lo seppe dire. Mi risposero tutti: — Hanno fatto accusì, perchè fanno sempre accusì. Immaginai che forse la preghiera fosse per l'anima della vittima e il sasso per quella dell'assassino, e ripresi a camminare pensando come ad ogni modo la costumanza dovesse essere certamente un detrito dell'antichissima litholatria. E non mi parve per nulla affatto strano il veder conservato un tal culto in un paese ove di sassi ce ne sono anche troppi!

L'arciprete di Vallepietra che ci precede cavalcando un muletto interrompe le mie meditazioni pietrose, fermandosi per indicarmi una sua proprietà che ha nome Belvedere. Un burlone gli suggerisce subito di piantarvi molti cavoli per rivenderne i torsi ai musei. Oltrepassato il podere dell'arciprete il sentiero ove siamo, girando e rigirando in un labirinto di rocce, ci porta sul sommo di una altura e di lassù vediamo in tutta la sua imponenza la rupe gigantesca ai cui piedi il santuario sembra un giocattolo. La rupe di calcare azzurrino, macchiato qua e là dal giallo ranciato dell'ossido di ferro, sorge sul ripido pendio della montagna come una parete enorme, e si inalza a perpendicolo per circa duecento cinquanta metri. Mentre siam fermi ad ammirarla ci viene agli orecchi un romore di canti e di grida, interrotto di quando in quando da qualche fucilata.

— S'ammazzano? — chieggo, ridendo, all'arciprete.

— No — mi risponde serio serio dall'alto del suo muletto il buon prete — festeggiano la Trinità; — e scotendo il capo mi dice come cotesto modo di festeggiarla sia spesso cagione di gravi disgrazie, poichè al rintronare delle schioppettate dalla rupe solcata da enormi screpolature i sassi cadono sulla folla, sì che ogni anno qualcuno torna a casa, se pur ci ritorna, con la testa rotta.

Seguitiamo a salire, e a poco a poco sotto alla rupe incominciamo a distinguere qualche cosa somigliante a un brulicare nero di formiche intorno a piccoli cespugli: saliamo ancora, e via via i piccoli cespugli si trasformano in querce, in aceri ed in faggi colossali, le formiche diventano persone, e ci troviamo in mezzo a migliaia e migliaia di uomini e di donne di tutte le età, che pregando, cantando, urlando, e di tanto in tanto distribuendosi a vicenda solennissimi cazzotti, cercano di avvicinarsi al santuario. Il santuario, non molto grande, è tutto scavato nella roccia, e per entrarvi bisogna salire due scalette e passare su un terrazzino; ed è appunto sotto alle due scalette che la folla s'agita più fitta e più romorosa. Alcuni uomini armati di fucili provano a mettere un po' d'ordine nella moltitudine invasata dal furore religioso e dal desiderio di penetrare nel luogo sacro, ma non arrivano ad altro che ad accrescere il disordine. Quando dopo una lotta degna di miglior causa io riesco ad avvicinarmi ad una delle scalette, mi trovo accanto a uno stendardo su cui leggo scritto a grandi lettere: Compagnia di Anagni. Lo stendardo è sorretto da due donne e tutti quelli che vi sono intorno strillando: — Largo! Largo! Largo! — si chinano verso il terreno come se cercassero qualche cosa. Guardo anch'io ove tutti guardano, e veggo con ribrezzo due uomini e una donna che andando carponi con la faccia nel fango si muovono lentamente fra i piedi dei loro vicini. I tre sciagurati hanno incominciato a camminare con le ginocchia appena han visto da lontano per la prima volta il santuario, e per mantenere una promessa fatta alla Trinità, dovrebbero arrivare camminando sempre così fino dinanzi alla sua immagine miracolosa; ma al primo gradino della scaletta si fermano e non possono andare più oltre. La folla tenta di animarli coi gesti e con le parole, li esorta a proseguire e li stimola ad adempiere il voto; ma i tre disgraziati nello stato di esaurimento in cui sono non veggono e non sentono più nulla e rimangono immobili. Qualcuno spruzza sui loro volti un poco di aceto. Tutto è inutile. Allora si fanno avanti alcuni contadini; li legano con lunghe corde, e uno alla volta li traggono su in cima alla scaletta come se fossero fagotti di cenci, e mentre tutti alzando le braccia urlano: — Grazia! Grazia! Grazia! — li spingono nel santuario, ove li segue tutta la Compagnia.

Poco dopo, vincendo il turbamento cagionatomi da tanta abiezione, li seguo anch'io e li riveggo inginocchiati dinanzi a un altare chiuso dentro a una cancellata dalle cui sbarre di ferro pendono fucili, pistole, stampelle, vesti, grembiuli ed altri oggetti coperti di polvere messi lì a testimonianza delle «grazie ricevute». I due uomini coi volti insozzati di fango, col naso insanguinato e con gli occhi fuori delle orbite agitavano le braccia verso una pittura antica; e la donna, anche lei col viso imbrattato di mota e con gli occhi sbarrati, brancicava con le mani luride la tovaglia bianca dell'altare e tossiva; e ad ogni scoppio di tosse il sangue le usciva dalle labbra escoriate, le scendeva giù pel collo e le macchiava la camicia. Il resto della Compagnia era fuori della cancellata. Uomini e donne di ogni età, tutti ammucchiati in terra uno addosso all'altro pregavano, e di tanto in tanto, alzando le mani tremule, prorompevano in grida e lamenti che rintronavano sotto la volta bassa del santuario. Qualche lampada spandeva un po' di luce giallognola nell'aria densa impregnata di esalazioni stomachevoli.

Accanto all'altare due preti, seduti comodamente su due seggioloni, appoggiavano i gomiti sopra a un tavolino su cui erano un gran libro aperto e un piatto di metallo: il libro per notarvi tutte le messe, piane o cantate che, a richiesta dei fedeli, dovevano poi celebrarsi in suffragio dei morti, e il piatto per raccoglierne subito il prezzo a vantaggio dei vivi.

Difatti non appena qualcuno sorgendo dalla folla prostrata a terra e genuflessa si approssimava al tavolino, vedevansi i due preti curvarsi sul libro aperto e udivasi il rumore squillante dei soldi cadenti nel piatto metallico.

Nel breve tempo che rimasi con la Compagnia d'Anagni io vidi molte donne appressarsi al tavolino per lasciarvi i loro risparmi nelle mani dei preti; una fra le altre che oltre ai quattrini vi lasciò anche un involto. Uno dei preti lo prese con un gesto d'impazienza, l'aprì, e, scotendo il capo, ne cavò fuori due bellissime trecce di capelli biondi; le guardò un momento e le porse al suo vicino, e questi a sua volta le dette a un sagrestano che le appese a una sbarra della cancellata fra un mazzo di coltelli arrugginiti e una pistola rotta.

È robba d'un'ossessa. — mi disse subito un contadino; e seguitò: — Ah, signoria! Si tu l'avessi vista un anno de là! Era la più bella de lo paese! Era bianca e rossa come 'na rosa! Ibbè? Quanno che gliu diavolo, Dio ne libbera me, gli entrava in cuorpo e la scoteva, addoventava 'na pazza! Mo la Ternità gli ha fatto la grazia e lei se ha tagliato le trecce e ce l'ha donate.

Il contadino aveva appena finito di parlare quando i due preti, alzando e agitando le braccia, incominciarono a gridare: — Su, che basta! Jate fòra!

Nessuno si mosse.

Su, che basta! Jate fòra! — ripeterono i preti, e fatti rizzare per forza i tre inginocchiati dinanzi all'altare li mandarono fuori della cancellata. Allora si udì squillare un campanello: alcuni uomini armati di fucili, gridando anche loro: Fòra! Fòra! Fòra! entrarono nel santuario, e un po' con le buone e un po' con le cattive riuscirono a fare alzare i pellegrini e a spingerli verso la porta.

Mentre tutti se ne andavano, volgendosi di tanto in tanto a guardare l'altare, una donna rimasta indietro si trasse dal petto una moneta e la diede sottomano a un prete.

Lassate chesta. — borbottò una voce: e la contadina fissando con gli occhi sfavillanti di gioia l'immagine della Trinità andò a rimpiattarsi nell'ombra.

Uscendo dal santuario m'incontrai in un giovinetto col volto rigato di sangue. Due contadini lo portavano a spalla e lo seguiva una donna piangente. Altre donne intorno a lei urlavano: Grazia! Grazia! Grazia! Che cosa era successo? Un sasso, uno di quei sassi dei quali mi aveva parlato poco prima l'arciprete di Vallepietra, s'era staccato dalla rupe ed era caduto sul capo del giovinetto facendolo stramazzare a terra privo di sentimento: l'avevano rialzato ed ora lo portavano dinanzi alla Trinità. E la Trinità per guarirlo non si fece pregar molto. Affaccendata in tante faccende sbrigò le cose alla lesta! Difatti poco dopo, ripassando davanti al santuario, l'adolescente moribondo lo rividi in ottima salute: stava genuflesso devotamente e pregava con le mani giunte; e un vecchio gli tagliava i capelli intorno alla ferita bagnandogli di tanto in tanto la testa con un cencio intriso d'acqua santa.

* * *

La folla aumenta sempre. I pellegrini arrivano a torme da tutti i sentieri che dal fondo delle valli salgono al santuario, e le Compagnie si seguono una all'altra continuamente. Ogni Compagnia appena è giunta alla meta sospirata del suo viaggio si sceglie sotto gli alberi o fra le rocce al riparo dal vento il luogo dove passare la notte, e vi innalza subito una catasta di legna, il cui fuoco dovrà difenderla dal freddo. Sulla costa del monte, che pende sotto ed intorno al santuario, di coteste cataste formate per lo più di bellissimi e robusti rami di querce, di faggi e di carpini, tutte coronate da una croce, ve ne sono a centinaia, e accanto ad esse s'aggruppano migliaia di pellegrini. Alcuni vinti dalla fatica del lungo cammino col capo posato sui loro fagotti di cenci dormono; altri mangiano avidamente pane ruscio e formaggio o masticano guainelle e lupini; qualcuno rallegra i compagni col suono della cornamusa; qualche donna cava da una cesta di vimini piena di stracci un bimbo, lo bacia, se lo porta al seno e lo allatta; i più, eccitati dal fervore religioso e felici di trovarsi finalmente accanto alla casa addove abbita la Santissima Ternitane, cantano con le voci rauche e gutturali preghiere monotone senza mai fine.

Dopo di aver girato qua e là fra la folla dei pellegrini, mi rifugio in una capanna, costruita dalla sezione romana del Club Alpino addosso alla rupe, poco lungi dal santuario, per cercarvi un po' di riposo, e ci trovo invece diversi preti che stanno prendendo le ultime disposizioni per la festa di domani.

La capanna è, si può dire, il quartier generale della preterìa: ovunque, sulle panche e alle pareti vi sono fiori di carta e di talco, fasci di candele, arredi sacri, stendardi, croci e alcuni fucili, senza dei quali in questi paesi pare che non sia possibile di celebrare nessuna festa nè religiosa nè profana. Di tempo in tempo qualche festarolo, cioè qualcuno di quei contadini grassi i quali si assumono la direzione e l'impegno pecuniario della festa, entra nella capanna e va a confabulare coi preti. A uno di cotesti contadini uno dei preti dimanda: — Come va la cera?

Nun c'è male.

— E le messe?

Ringraziamo Iddio; se potemo cuntentà'.

— E per il Pianto è pronto tutto?

Tutto! Ogni cosa è al suo ordine.

Un altro festarolo si affaccia alla porta, guarda dentro e alzando un dito si avvicina a un prete dicendogli: — Don Luviggi! Una parola!

— Che vuoi? — chiede don Luviggi; e il contadino gli si avvicina ancora e gli dice abbassando la voce:

C'è 'nu peccatore che vo' la confessione.

— Ma questo non è il momento! — esclama il prete alzando le spalle.

Don Luviggi! — ripiglia subito il contadino aprendo le braccia — Don Luviggi! Quello tiene 'nu mazzo de cera accusì!

— Be', allora digli che aspetti: intanto piglia la cera — ordina il prete; e il festarolo esce, e poco dopo rientra con un fascio di candele.

Appresso a lui viene nella capanna un omicciattolo barbuto, una specie di gnomo con un cappellaccio da prete sul capo ricciuto e con un vecchio mantello color tabacco sulle spalle. È il romito che vive quassù ed ha in custodia il santuario. Egli appena mi vede mi presenta una scatola di latta facendovi ballare i soldi che vi sono dentro, e guardandomi con gli occhietti furbi mi dice: — Signò', stamo tutto l'anno qua per aspettà' 'ste giornate!

Uno dei preti lo guarda sorridendo e gli domanda:

— Come va?

Oggi va 'nu poco moscio: speramo a domani.

Il romito finisce per interessarmi e gli rivolgo qualche parola; ma appena egli incomincia a rispondermi son costretto a lasciarlo, poichè i miei compagni mi mandano a dire che mi aspettano per andare sulla cima del monte. I miei amici, che son tutti intorno alla guida, un omino piccolino, ma con tanto di fucile in spalla, quando mi veggono da lontano prendono subito a camminare, ed io li raggiungo e li seguo. Dopo non molto in un luogo chiamato il Campo della Pietra ove troviamo la neve, sentiamo suonare la marcia dell' Aida, e vediamo da lontano uno stendardo sotto cui si muovono molte persone le quali sulla bella distesa bianca sembrano tanti bacherozzoli. Lo stendardo si avvicina, e vi leggiamo scritto disopra: Compagnia di Riofreddo. I pellegrini han lasciato ieri l'ameno paesetto che piglia il nome dal gelido ruscello il quale separa la provincia romana dalla Marsica; han camminato tutta la notte ed ora scendono al santuario. Una vecchia è innanzi a tutti seduta su un somaro e canta; quattro musicanti in uniforme militare la seguono e suonano; gli altri affondando i piedi nella neve, camminano e pregano. Li lasciamo passare; poi, quando i canti, i suoni e le preghiere si spengono nella lontananza ripigliamo la salita; arriviamo al Fosso dei Volatri, e ci fermiamo. Quivi l'omino che ci accompagna mi viene accanto e indicandomi con un largo gesto il luogo in cui siamo mi dice: — Qua mo ce sta la neve, e lei, signoria, nun potete vedere gnente; ma, si lei vieni qua nel tempo che la neve è finita, lei vederessi una cosa che te piacerebbe assai!

— Cioè? — gli domando ridendo, ed egli per tutta risposta scava un po' di neve, discopre un tronco di faggio pieno di acqua congelata, e me lo mostra dicendomi: — De chesti scifi sai quanti ce ne stanno qua sotto? Centinara! — Poi spezza il ghiaccio che vela la superficie dello scifo e soggiunge: — Nell'està' a chesti scifi ce vengheno a béve' le bestie, e si lei puro vòi beve', sentirai che quest'acqua è più fredda de la neve. — Bevo un sorso dell'acqua gelata e mi affretto a raggiungere i miei compagni in un bosco di faggi altissimi sotto i quali si deve camminare con molta attenzione per non mettere i piedi fra i ramponi aguzzati di qualche tagliuola preparata per prendere i lupi, ma disposta, se mai le capitano, ad agguantare anche gli uomini, e poco dopo arriviamo sulla cima del monte dove godiamo una vista maravigliosa. Già, l'Autore per se stesso è bellissimo: densi e verdi boschi di faggi secolari lo rivestono quasi tutto; vasti e pingui altipiani, alcuni dei quali come quelli di Camposecco di Livata e dell'Ossa, sono sui mille e cinquecento metri di altezza, lo allietano con la loro verdura; ed è ricchissimo di acqua. Tutti i rivi cadenti nell'Aniene spumante e veloce sono dell'Autore e si può dire che a Roma è lui che dà da bere: l'acqua Marcia è roba sua.

Ma la vista che si gode dalla sua cima è maravigliosa! Tutte le montagne più alte dell'Appennino centrale: il Vettore, il Gran Sasso, il Velino, la Majella, il Cotento, il Viglio, il Sirente, il Fanfilli e la Semprevisa; gli sorgono intorno e par che si affaccino su gli altri monti per ammirarlo. E l'ammiriamo anche noi, mentre gli stiamo seduti sopra con la schiena appoggiata a una torretta di sassi; ma poi quando, come tutte le cose umane, la nostra ammirazione finisce, ci alziamo; ci grattiamo la schiena indolenzita e incominciamo la discesa. Scendendo io rimango colpito dall'allegrezza dei miei compagni; e allorchè osservo la gioia che provano nel levare i loro piedi dalle rocce aride e dure e nel posarli su l'erbetta verde tenera e fresca di un umido e dolce declivo vagamente fiorito di trifogli, di genziane, di verbene, di primule e di orchidee, e tutto odoroso di mentastri e di salvie, di maggiorane e di timi, comincio a pensare che l'uomo non è stato creato per salire, ma per discendere, e finisco col credere che se egli qualche volta si sobbarca alla dura fatica di arrampicarsi su un monte lo faccia per procurarsi oltre a tanti altri piaceri anche il piacere grandissimo di ritornarsene subito al piano.

* * *

Prima di arrivare al santuario c'incontriamo in un bel vecchio vestito di una larga palandrana e col capo canuto ricoperto da una berretta di panno verde, il quale, segando le corde di un violoncello più antico di lui, canta con un filo di voce lamentosa una lunga canzone. Egli sta sotto a un alto faggio i cui rami fronzuti e dorati dal sole cadente si stendono su alcuni scogli enormi coperti da un morbido tappeto di musco. Gruppi numerosi di pellegrini lo circondano e lo stanno a sentire. Quando l'aedo ha finito di cantare appoggia lo strumento al tronco annoso del grande albero, cava da una borsa di pelle un pacco di canzoni stampate, si leva la vecchia berretta, e le offre a lor signori dietro il modesto compenso di un solo e semplice soldo, cadauna. Due ne vende e due ne compero.

La prima che ha per titolo: «Canzone in lode della S. S. Trinità che si venera sulle montagne di Vallepietra», incomincia così:

Ti confesso in tre persone

Tutte e tre in un'essenza

Tutte e tre d'una potenza

Tutte e tre d'una maestà.

E prosegue narrando «un gran prodigio operato di recente» dalle sullodate tre persone. Ma sarà meglio di lasciar parlare il Poeta.

Si trovava sopra un poggio

Con i bovi un buon pastore

Quando un forte e gran rumore

Tutto quanto il rivestì.

E li bovi furon presi

Da sì forte e gran paura

Che cadendo da l'altura

Nell'abisso cadder giù.

A tal vista il meschinello

Si rimase afflitto e muto

Che credea d'aver perduto

Il suo paio d'animal.

Chi narrar la meraviglia

Può che s'ebbe quel villano

Quando vidde giù nel piano

I suoi bovi pascolar?

Egli allora ambe le palme

Verso il ciel levò la mente...

e ringraziò la SS. Trinità; ma, non aveva finito di ringraziarla, che

Vide, il dico? Tre persone

Tutte e tre d'una statura

Tutte e tre d'una figura

Tutte e tre d'una beltà.

Egli attonito a tal vista

Cade a terra come morto

E parea che il beccamorto

Lo dovesse sotterrar.

Ma appena gli riesce di alzarsi e di tornare «in se stesso» vede

Da quei duri ed alti scogli

Scaturir viva sorgente

D'acqua pura che repente

In gran copia si versò.

E allora

Va di corsa a quel paese

E racconta il caso strano

Il qual nulla avea d'umano

Ma era opera del ciel.

E a tal nuova, quelle genti

Colà vanno in processione,

A lodar le tre persone

Che degnaronsi mostrar.

E al vedere che quell'acqua

Scaturisce da un gran masso

Resta ognun come di sasso

Per sì grande novità.

E quell'acqua, non la sete

Spegne sol, ma ancora i mali

I più acerbi e più fatali

che fan guerra al miser uom.

La seconda canzone è di un altro genere, ma può stare degnamente accanto alla prima. In essa si tratta niente di meno di S. Anna benedetta, la quale «paga tre mesi di pigione»

A tre povere figlie

Afflitte e sconsolate

Che n'ebbero restate

Prive di genitor.

Una cosa da intenerire un macigno!

Piangevan le figliuole

Il cor più gli s'affanna

— Fatelo per S. Anna.

Di qui non ci scacciar.

Ed il padron gli disse

Non serve più lamento

Voglio l'accasamento

Ad altri appigionar.

Allora le tre povere figlie, vedendo che dal loro padrone di casa non c'è da sperar nulla, decidono di andarsi a raccomandare a S. Anna: escono «dall'accasamento»

E mentre che camminano

La più grossa zitella

Entra nella cappella

Che incontro al mare sta.

Dicendo all'altre due

Sorelle più minore

— S. Anna di buon core

Qui la vogliam pregar.

Ne furono inginocchiate

Disser: — Sant'Anna mia

Aprici tu la via

Come possiamo far.

Schiudeci a noi le porte

E manda in conseguenza

La santa provvidenza

Per potere pagar.

Insomma, mentre le tre povere zitelle sono «nella cappella che incontro al mare sta», S. Anna va «all'accasamento» del padrone di casa «barbaro e inumano» e

Picchiando quella porta

Gli dice voglio entrar.

Il padrone di casa apre l'uscio, e Sant'Anna, gli domanda subito:

Signor padron di casa

Dite, quanto avanzate?

Di pigioni arretrate

Ve le voglio pagar.

Tirate presto il conto

E più non dubitate.

Le pigioni arretrate

S. Anna le pagò.

Ma il «signor padron di casa» il quale se è «barbaro e inumano» è anche un ometto che ama di fare le sue cose con regolarità scrupolosa, dopo di avere intascato il denaro, si volge a S. Anna e le dice: —

Per farti ricevuta

Di quanto tu hai pagato.

Il nome ed il casato

Qui bramo di saper.

Ed essa gli risponde: —

Anna delle Marie

Io mi faccio chiamare,

Sto di casa accanto al mare.

Che sopra al monte sta.

E in quell'istante istesso

Divenne tutta d'oro,

Sant'Anna, con decoro.

Dagli occhi suoi sparì.

Ed il padron di casa

Restò meravigliato.

— Sant'Anna mi ha pagato!

Esclama con ragion.

Così, tutto contento.

Diceva andando via:

— Sant'Anna in casa mia!

Oh, che felicità!

Ed ora, se permettete, vado a pregare S. Anna per conto mio.

III.

Albeggia. Dal fondo oscuro della valle, ove s'ode crosciare il Simbrivio, leggieri strati di nebbia salgono a poco a poco a velare la rupe colossale, che, poggiato il capo enorme sul cielo, pare che dorma. Il piccolo santuario veglia e prega. Tutte le grandi cataste di legna le cui belle fiamme durante la notte allietarono il monte di luce e di calore sono diventate mucchi di cenere bigia sui quali cigola qualche tizzone moribondo. Qua e là fra le rocce e i sassi, fra l'erba e gli alberi, fin dove lo sguardo può andare, non si vede che gente distesa, immobile e immersa nel sonno. Di quando in quando però qualche dormiente offeso dal freddo si sveglia, rabbrividisce, si accosta alla cenere, vi allunga il piede e ne fa scaturire un nastro di fumo azzurro, che sale a perdersi nel cielo ove tremano ancora le stelle. Due carabinieri seduti su un fascio di paglia, davanti a una fragile baracca di tela, dalla quale si spargono intorno nauseabondi effluvii di cose fritte nell'olio, bevono, fumano, sputano e parlano un dialetto dell'Alta Italia. Appena mi mettono gli occhi addosso mi salutano e sorridono, come se volessero dirmi: — Anche lei, quassù? — Dietro alla baracca, da un luogo chiuso con frasche di dove viene odor di letame, esce di tanto in tanto e risona allegramente qualche nitrito. All'improvviso sotto i rami folti di un bosco di faggi scoppia una fucilata, e subito dopo una voce rauca grida: Evviva la Santissima Ternitane! Altre grida ed altre schioppettate le rispondono, e uno stormo di uccelli neri lascia, schiamazzando, la sommità della rupe, gira due o tre volte su gli alberi, che incominciano a muovere le foglie, e s'allontana verso l'oriente ove principia già ad apparire il roseo color dell'aurora.

Mentre, badando a non pestare quelli che dormono ancora, cerco di avvicinarmi al santuario, dalla cui porta spalancata e illuminata viene un canto lento e monotono, da una porticina fra le scalette veggo uscir fuori due contadini. L'uno e l'altro camminano come se fossero ubriachi, girano intorno gli occhi afflitti dalla luce del giorno, e con le mani tremanti tentano di nettarsi gli abiti fradici d'acqua e insudiciati dal fango.

— Che cosa c'è là dentro? — dimando a uno di loro, indicandogli il luogo da dove sono usciti; ed egli alzando la faccia pallida e lagrimosa e battendo i denti per il freddo balbetta: — Signò', là dinto ce stavo li sotterranei benedetti.

Mi approssimo alla porticina dalla quale emana un fetore insopportabile di cose putrefatte, e facendo forza a me stesso vi entro e mi trovo in una cantina, dove un filo di luce bianca, attraversando le sbarre nere di una inferriata e strisciando sulle pareti ricoperte di muffa verdognola, illumina fiocamente alcune ombre giacenti nel fango sotto l'acqua che sgocciola dal soffitto.

— Che diamine state a fare qua dentro? — chieggo a una di coteste ombre, e l'ombra aprendo lentamente le braccia mi risponde: — Signò', tengo li dolori pe' l'osse; nun pozzo chiù lavora': tengo moglie e figli piccerilli; so' poverello e voglio la grazia dalla Santissima Ternitane!

* * *

Appena il primo raggio del sole nascente orla di un filo d'oro le cime azzurre dei monti lontani, i pellegrini si adunano a poco a poco intorno a uno scoglio, sul quale, fra il formicolare della folla, davanti a una immagine sacra si veggono brillare sei candelieri di argento.

— Che cosa succede? — dimando.

J'esce la messa. — mi rispondono più voci ad un tempo. Difatti, annunciato dallo squillare di un campanello, un sacerdote vestito di una pianeta d'oro appare su la porta del santuario, e preceduto da un uomo col fucile in spalla, che gli fa largo, e seguito da un chierico col messale, si avvicina all'immagine sotto cui è una pietra consacrata, e incomincia a celebrare. Il momento della elevazione, quando egli rimane immobile col simbolo del sagrifizio alzato sulla moltitudine tutta prostrata ai suoi piedi e tutta raccolta in un silenzio profondo, è proprio di una solennità incomparabile. Ma è un momento; poichè non appena il prete si apparecchia a dare la comunione, intorno a lui scoppia un tumulto indescrivibile. Uomini e donne, impazienti di avvicinarglisi, cercano di sopraffarsi in tutti i modi, e, pur di arrivare ad ottenere la sacra particola, si ricambiano non solo molte cattive parole, ma anche molti buonissimi fatti, cioè scapaccioni, urtoni, calci, spinte, pugni ed altre simili tenere carezze, e se le ricambiano con tanto calore profano e con così vivo fervore religioso che alcuni contadini coi fucili in pugno, schierati innanzi all'immagine per regolare la distribuzione del pane eucaristico non riescono a tenere indietro gli affamati. Quando Dio vuole, la messa finisce e il prete s'allontana. Nessuno si cura più di lui e tutti si danno alla ricerca di un buon posto per vedere il Pianto e le zitelle.

I posti migliori sarebbero certamente quelli nel breve spazio davanti al santuario; poichè sulla sua terrazzina avrà luogo la funzione; difatti tutti vorrebbero occuparli; ma i più non potendo riuscirci, si rassegnano ad adattarsi dove e come possono, e si arrampicano sulle sporgenze e nelle fenditure della rupe; salgono sugli alberi; si appollaiano fra gli scogli e le rocce; s'accoccolano fra le balze e i greppi; montano sopra le sedie, le panche e le tavole; s'aggrappano alle armature delle baracche; insomma, si accomodano dove e come possono farlo meglio, e aspettano con una pazienza esemplare. E l'attesa non è corta! Alfine s'ode uno scoppiettio, e tutti si volgono dalla parte donde viene il rumore, e gridando: — Èssele!... Èssele!... Vèneno!... Vèneno!... — si additano a vicenda un punto della valle in cui si vede una nuvoletta di fumo. Poco dopo la nuvoletta si dilegua, e sul verde smeraldino di un prato lontano appare qualche cosa che si muove e biancheggia. È il Pianto. La processione viene da Vallepietra, e, ora nascondendosi sotto al verdeggiare degli alberi, ora camminando fra le rocce ignude, sale a poco a poco il dorso della montagna e s'avvicina al santuario.

Innanzi a tutti s'avanzano parecchi contadini vestiti di festa e armati di fucili. Di quando in quando essi si fermano e caricano gli schioppi; poi, gridando e agitando i cappelli ornati di fettucce multicolori, di fiori e di pezzetti di talco scintillanti, sparano e scompaiono sotto un velo di fumo. Dietro ai contadini ondeggia uno stendardo: lo precede un vecchio suonando il tamburo e lo seguono alcuni fanciulletti coperti di risplendenti tuniche argentee e con le ali di cartone indorato su le spalle, i quali di tanto in tanto affondano le manine in una canestra sostenuta dal più grandicello fra loro, ne traggono rose, violette e manciate di fiori di ginestra e le spargono, sorridendo, su la folla inginocchiata. Una ventina di giovinette viene appresso ai fanciulli. Sono le zitelle che piangeranno il Pianto. Abbigliate di abiti bianchi ricamati a fiori d'oro e d'argento e addobbate di lunghi veli candidi esse incedono a due a due, lentamente, in silenzio, a capo chino, tutte con la mano sinistra posata sul cuore, e reggendo con la destra un simbolo della Passione. Dopo di loro sorretta da una diecina di adolescenti, passa una bara adornata di fiori su cui sta disteso il simulacro di un Cristo morto, scolpito e dipinto così bene che, come dicono tutti, pare vivo. Due chierici con gl'incensieri, qualche prete, cinque o sei musicanti, i quali, quando il sentiero non è troppo erto, danno un po' di fiato alle trombe, e un gruppo di festaroli, sorreggendo i doni da offrirsi alla Trinità, seguono la bara; e un drappello di contadini, simile in tutto a quello che l'apre, chiude la pricissione, mescolando di tanto in tanto il fumo puzzolente dei suoi fucili a quello odoroso dei turiboli ondeggianti e rilucenti al sole nelle mani dei chierici.

La pricissione s'apre il cammino fra la calca, giunge al santuario, e vi entra. Le grida, i canti, i suoni e le schioppettate cessano, e quando due chierici vengono ad ornare il davanzale della terrazzina con un tappeto giallo, il silenzio è tale che s'odono soltanto i piccoli gridi delle rondini volanti intorno ai nidi innumerevoli, attaccati alla rupe, ormai tutta quanta illuminata dal sole: non altro. Appena i chierici se ne vanno, un prete con la persona magra ricoperta di una bella cotta candida e pieghettata e con un libro sotto al braccio esce dalla porta della chiesuola. È il suggeritore. Egli si ferma un momento a guardare dall'alto la moltitudine, che giù da basso, immobile e silenziosa guarda lui; si appoggia con le spalle al muro; apre il libro; fa un cenno con la testa; e la rappresentazione incomincia.

Tre zitelle si fanno avanti adagio adagio; s'inchinano e si mettono a cantare una specie di prologo che s'inizia con questa invocazione:

Sant'Amore in noi venite

E del vostro dolce affetto

Riempite il nostro petto

Nè da noi giammai partite.

Tutti le ascoltano con piacere e salutano la loro partenza con un lungo mormorio di approvazione. Poco dopo vien fuori un'altra zitella avvolta in un manto turchino, tenendo in mano un calice di legno dorato; descrive con parole strazianti gli spasimi di Nostro Signore nell'orto, e finisce col dire che il Nazareno

In terra cade per dolore interno.

Due giovinette la seguono. La prima ci fa vedere due gomitoli di cordicella, e ci dice che quei gomitoli sono le corde con le quali fu legato il Salvatore; e la seconda, presentandoci un guanto bianco imbottito di bambagia ci fa sapere che quel guanto, niente di meno, è la mano che ha schiaffeggiato Gesù; e prima di andarsene, alzando il guanto perchè tutti lo veggano, canta:

Destr'empia che rendesti sì dolente

Quella faccia divina e più che umana

Maledetta sarai eternamente.

Appresso alle due giovinette ne viene una terza, sostenendo una corona di spine, e principia subito a recitar la sua parte; parla bene, ma nel meglio s'impappina, ammutolisce e scoppia in un pianto dirotto. Il prete stacca le spalle dal muro, le si accosta e cerca di rimetterla sulla buona via; ma la poverina non ci va. La folla s'agita e mormora, e un contadino che mi sta accanto, tentennando il capo, osserva con voce severa che quanno uno nun tene fritto non si àve da espone'!

Tre belle ragazze nel pieno vigore della loro sana e gagliarda giovinezza fan dimenticare subito a tutti il pietoso incidente. Le ragazze, appena incominciano a muovere le labbra rosee, ci dicono con nostra grande maraviglia che esse sono Erode, Pilato e il Cireneo; e come se fossero proprio il buon Simone di Cirene, il noto prefetto romano e il ferocissimo sire della Giudea, rimangono tutte e tre a ragionare seriamente fra loro, e poi se ne vanno, cedendo il luogo ad alcune fanciullette, che ci portano a far vedere tre cimelii preziosissimi: una canna, tre chiodi e una lancia. Dopo l'esposizione dei cimelii entra in scena la Veronica, e appresso a lei si fa innanzi un'altra femina che alzando le braccia e sporgendosi col seno fuori del terrazzino grida con la voce squillante:

È morto Gesù Cristo e non v'inganno.

All'orribile annuncio s'ode qualche singulto, e la messaggiera, dopo di avere eseguita una controscena che le ottiene l'approvazione unanime, lascia il posto a una strana e misteriosa figura muliebre col volto nascosto sotto un fitto velo nero, coperta da un manto rosso ed armata di una lunga spada brunita, lampeggiante al sole. È Giuda! Appena essa senza dire una parola si allontana, seguìta da qualche commento ostile, una zitella di grandi forme si avanza maestosamente reggendo una croce di legno: rimane per qualche istante con la testa bassa come se tosse trafitta dal più profondo dolore; poi, alzando un braccio in atto di comando e volgendosi verso il santuario, esclama:

O angeli correte assai veloce

Di Gesù Cristo a sostener la croce.

Quattro bambini, con le ali di carta indorata tremolanti sulle loro tenere spalle, escono subito saltellando dalla chiesuola, si appressano alla donna, le si aggruppano intorno e rimanendo immobili in varii atteggiamenti studiati, formano insieme con lei un quadro vivente che tutti quanti ammirano e lodano. Quando il quadro se ne va, la folla passa rapidamente dall'ammirazione all'impazienza e comincia a dar segni visibili di una commozione vivissima: ondeggia come un campo di biade mosso dal ponente, s'increspa come la superficie di un lago sotto la brezza mattutina, e ritorna immobile; ma nella sua immobilità ci si sente l'annuncio di qualche cosa di grosso che sta per accadere: difatti mentre tutti son fermi e ritti sulle punte dei piedi, quelli intorno a me io li sento esclamare: — Èsselo veh!... Èsselo veh!... È isso!... Mo vène!... Mo arriva!...

— Chi arriva? — dimando a una contadina.

Gliu Cristo de la bara! — mi risponde subito la donna con voce tremante; e, stringendosi al seno un bambino, si volge con gli occhi lustri per la tenerezza verso il santuario dalla cui porta escono quattro giovinette, reggendo i lembi di un lenzuolo bianco che rappresenta anch'esso la sua parte, quella di sacra sindone. Le adolescenti vengono avanti pianino pianino, in silenzio; e la folla le accoglie silenziosamente; ma quando si accorge che nel loro lenzuolo c'è dentro gliu Cristo de la bara non sa trattenersi dal salutarlo con le stesse parole e con gli stessi gesti coi quali il pubblico di una arena saluterebbe l'entrata in scena del suo attore favorito.

Le quattro giovinette incominciano a cantare, e la folla, dopo di aver manifestata con un lungo mormorio la propria soddisfazione, si accheta per ascoltarle; ma appena esse cavan fuori dalla sacra sindone il simulacro del Cristo morto e piagato, scoppia in un urlo formidabile che rintrona sotto la rupe colossale. Allora tutti i fucili sparano insieme; le detonazioni interminabili di centinaia e centinaia di mortaletti rimbombano nelle forre della montagna, e il cielo, le rupi e gli alberi si velano di un fumo acre e soffocante entro cui migliaia e migliaia di uomini e di donne, di vecchi e di fanciulli presi tutti da una follia spaventosa gridano, battono le mani, gittano i cappelli in aria, sventolano i fazzoletti, le sciarpe e le giacchette, s'inginocchiano, baciano la terra, si contorcono, ed eccitandosi a vicenda si abbraccian fra di loro, piangono, ridono, tendono le mani verso l'immagine miracolosa dicendole parole insensate, ed anche ingiurie; e seguitano così per un pezzo, fino a quando, mezzo stroncati dalla tensione eccessiva dei nervi e stremati di forze, non cadono a poco a poco inerti, insensibili e istupiditi in una calma bestiale.

Il fumo delle schioppettate e dei mortaletti si dilegua e una donna, l'ultima delle zitelle, s'affaccia al parapetto del terrazzino, recita in fretta pochi versi di commiato e rientra subito nella chiesuola. Il prete chiude il libro e la segue. Allora alla rappresentazione sacra tien dietro un'altra profana; poichè tutta la gente volta immediatamente le spalle al santuario e si allontana con tanta rapidità che, in brevissimo tempo, i luoghi ove si accalcavano tante migliaia e migliaia di persone rimangono deserti: e tutto il dorso del monte si vede istantaneamente gremito da torme interminabili e variopinte di pellegrini, che simili a fiumane vorticose, invadendo i sentieri e le scorciatoie, scendono al piano cantando e portandosi via lunghi rami frondosi di faggio, ottimi per bacchiare le noci e le mandorle; orciuoli rilucenti pieni d'acqua benedetta, eccellente per estinguere la sete e le tentazioni del demonio; e fasci di erbe aromatiche verdi e fiorite, raccolte intorno alla casa addove abbita la Santissima Ternitane, e da servire all'occasione come rimedio infallibile contro le insidie di quei mali «che fan guerra al miser uom».

Finchè lo potei, io seguii con lo sguardo commosso le turbe che divenivano via via sempre più piccole e sempre più lontane; e quando le vidi sparire nell'ombra della valle pensai che come le nubi salgono sui monti per ivi disciogliersi in pioggia e ritornare al mare, così quei pellegrini dopo di esser saliti sulla montagna ora ricalcando la via per cui eran venuti se ne scendevano ai loro paesi per ritornare nel gran mare delle fatiche penose e delle tribolazioni infinite; nel gran mare del dolore, ove la più gran parte di loro non avrebbe mai e poi mai avuto la speranza di un porto!

* * *

Prima che il santuario venisse chiuso vi rientrai; e mentre un chierico si affaccendava a riporre in un cassone alcuni arredi sacri, potei osservare con agio l'affresco sopra all'altare. Esso rappresenta la Trinità, e mi pare curiosissimo, perchè il mistero fondamentale e impenetrabile della nostra santa religione non è raffigurato come al solito da un vecchio, da un giovane e da una colomba; ma da tre persone, le quali, come dice benissimo la lauda che comperai dal vecchio aedo, sono:

Tutte e tre d'una statura,

Tutte e tre d'una figura,

Tutte e tre d'una beltà.

Cotesta immagine della Santissima Trinità non odora un po' d'eresia? Forse. Ma, ad ogni modo se la Chiesa la tollera, non veggo per qual ragione non dovrei tollerarla anch'io. Alcune pitture raffiguranti varii episodi della nostra Redenzione adornano le pareti del santuario, e secondo il parere di chi se ne intende o finge d'intendersene, dovrebbero risalire fino al settimo secolo, ma non glie la fanno, tanto son deturpate dai restauri; tuttavia fra quelle pochissime riuscite a salvarsi, non so come, dalla scopa del restauratore, potei osservare l'immagine di un fraticello pieno di grazia, di sentimento e di iscrizioni lasciategli addosso dai suoi ammiratori. Altre iscrizioni scarabocchiate col carbone o incise con una punta nell'intonaco vidi anche sparse qua e là sulle mura: talune in greco, molte in latino e la maggior parte in italiano, più o meno italiano. Mentre il chierico, fischiando, seguitava a riporre gli arredi sacri nel cassone, ne lessi parecchie e ne ricopiai queste tre:

Hic fuit Antono Batista de

Talacozzo 12 de Austo

1536

Hic fuit sacerdos

Joannes de Cellis

sub Alino 1491

dic. XV.

Hic fuit Antonius Malosius

1402 die ... Januarij.

Sazio alfine di iscrizioni e di pitture, di pellegrini e di preti, di Trinità e di Redenzioni lasciai il santuario e me ne andai a far quattro passi lungo il sentiero che costeggia la rupe. Camminavo già da qualche tempo in mezzo a un incanto di odori e di colori, respirando un puro e fresco venticello di ponente, quando una qualche cosa che vidi biancheggiare sotto un groviglio di rovi e di sterpi mi fermò. Ruppi col bastone le spinose piante salvatiche e scopersi un femore umano. Mossi ancora un po' di terra e uscirono fuori altre ossa. Mentre io le stavo radunando sopraggiunse un contadino: le guardò ridendo e mi disse:

— Signò' chesso è asino.

— Ma che asino! — gli risposi — Chesso è uomo.

— Nonsignora, è asino. — ribadì il contadino.

— È un uomo. — ripetei io, e, dopo di aver disposto le ossa in modo che apparisse lo scheletro, — lo vedi? — gli dissi. Egli allora divenne serio, si fece il segno della croce, e se ne andò lentamente, borbottando: — È robba de briganti.

* * *

Nel pomeriggio torniamo a Vallepietra, per dormire; e al primo schiarire del giorno, seguendo il corso del Simbrivio scendiamo a Cominacchio, ove il fiumicello irrequieto confonde le sue acque sonore con quelle dell'Aniene. Ivi all'ombra amica di una selvetta di arboscelli accanto a un vecchio ponte medioevale divoriamo la colazione; quindi riprendiamo il cammino e, costeggiando sempre il fiume veloce, dopo di esserci arrampicati sui fianchi dirupati di un monte, sul cui vertice illuminato dal sole ridevano nel cielo sereno le casette di Jenne, per visitarvi una caverna paurosa che porta il nome di Grotta dell'Inferniglio, e dopo di aver percorso una lunga valle formata dalle pendici del Livata e da quelle del monte Carpineto, così chiamato, credo, perchè le sue balze scoscese son tutte rivestite da grandiosi boschi di carpini, perveniamo dinanzi a una parete di rocce, in cima alla quale, dietro ai rami contorti di annose piante di ulivi e presso a un bosco di lecci secolari, vediamo risplendere da lontano i vetri delle finestre innumerevoli del superbo monastero di Santa Scolastica.

Eravamo fermi a contemplare il paesaggio maraviglioso rallegrato dal crosciare dell'Aniene fuggente di balza in balza fra quei greppi ove su le rovine della villa di Nerone nacque, diffondendosi poi prodigiosamente nel mondo, l'ordine monastico occidentale, e, risalendo col pensiero il corso lungo dei secoli, cercavamo su le sponde verdi del fiume famoso le ombre gigantesche degli imperatori e dei santi, dei papi e degli abati, dei cardinali e dei guerrieri; quando una vecchia cenciosa con un fascio di strame sopra le spalle ossute, sbucando all'improvviso da un viottolo incorniciato da due siepi spinose, ci venne incontro, e appena si accorse che noi, seguendo il costume di coloro che ritornano dal santuario della Trinità, avevamo i cappelli ornati da mazzetti di fiori di carta e da qualche immagine sacra, ci chiese se potevamo darle notizie di un grandissimo miracolo operato dalla Santissima Ternitane su una giovane posseduta dal demonio. Sorpresi dalla dimanda della vecchia noi non sapemmo che cosa rispondere; e allora essa, mentre la guardavamo sorridendo, prese a narrarcelo lei il grandissimo miracolo, e, poi che ce ne ebbe descritte tutte le fasi con una ricchezza di particolari veramente sorprendente, chiuse il racconto con queste precise parole: — Vòi v'avete da pensà' che quanno gliu prete l'ha benedetta, alla povera figlia c'è ascito dagliu cuorpo 'nu pesce longo tanto co' la testa d'animale!

— Ma, dimmi un po', tu ci sei stata al santuario della Trinità? — le chiesi.

Nonsignora.

— E allora tutte queste cose come le sai?

Le so perchè me l'ha ditte un'amica mia ch'è revenuta mo. — mi rispose subito la vecchia con la voce ferma, guardandomi negli occhi; e, agitate in fretta le mani scarne in segno di saluto, traversò la strada ed entrò in un sentiero, ove dopo qualche passo si fermò, si volse e con quanto fiato aveva in corpo gridò: — Evviva la Santissima Ternitane!

— Evviva! — le rispondemmo tutti noi ad una voce; e quando curva sotto il peso dello strame la vedemmo alfine scomparire fra le rocce sulle quali s'allungavano le ombre azzurre degli ulivi dorati dal sole cadente, riprendemmo il cammino, e accompagnati dal suono continuo di una campana che veniva dal monastero di San Benedetto, poco dopo eravamo a Subiaco.

MONTE GIANO

I.

Nel vagone di terza classe viaggiano con noi un buttero dalla barba folta, che sonnecchia avvolto nel suo cappotto nero foderato di lana verde, una donna con un bambino sulle ginocchia, e un bel pretone il quale passa il tempo pigliando tabacco, starnutando e recitando il breviario. Quando sui colli della riva sinistra del Tevere incominciano ad apparire i vigneti già dispogliati del loro frutto succoso, la donna ci dice che a Arbano c'è ancora da fa' quindici giorni a la mózza, e il buttero sentenzia che da quelle parte de monno l'arie so' assai più frigide de queste.

S'ode gridare il nome di una stazione. Il prete si affaccia al finestrino della vettura e chiede a un inserviente di aprire; ma questi gli risponde: — Non si muova, reverendo, la macchina fa manovra e si parte subito.

Nelle stazioni seguenti il prete torna ad affacciarsi e ad implorare qualche minuto di fermata; ma il treno continua vertiginosamente la sua corsa inesorabile. Finalmente rallenta un poco il suo moto veloce, lo rallenta ancora e si arresta dinanzi ad una cisterna perchè la macchina deve far acqua. Il prete scende e fa altrettanto.

Quando torniamo a muoverci, il paesaggio principia a diventar montuoso. Narni, la patria di Coccejo Nerva, di Giovanni decimoterzo e del Gattamelata, non avendo niente altro da fare, sdraiata sur un colle, fra gli ulivi, guarda un fiume verdastro dalle cui acque schiumose emergono gli avanzi di un ponte romano e di una torre medioevale. Lo guardo anch'io, e dimando al buttero: — Come si chiama questo fiume?

— La Nera. — mi risponde subito il buon uomo, ammirando la mia ignoranza, e prosegue, quasi cantando:

Il Tevere nun sarebbe Tevere,

Si la Nera nun je dasse da bevere.

A Terni scendiamo dal treno di Ancona e montiamo su quello di Aquila, accomodandoci alla meglio in una vettura, ove abbiamo la fortuna di trovare un signore il quale, appena arriviamo a Papigno, un paesello dietro a cui si vede un pezzetto di Cascata delle Marmore, ci dice con voce commossa che la linea Terni-Aquila non solo è la più bella linea ferroviaria della penisola, ma anche la più ardita, perchè in alcuni punti raggiunge una pendenza fra i trentacinque e trentasette gradi.

Lungo la via tutte le stazioni son piene di gente che ci saluta battendo le mani: in quella di Rieti oltre alla gente ed agli applausi ci troviamo anche dieci minuti di fermata, e noi ne approfittiamo volentieri per sorbire un caffè e per riverire la culla dei Flavii. Non appena ci rimettiamo in cammino il signore delle pendenze china a poco a poco la testa sul petto, chiude gli occhi e comincia a ronfare come un contrabbasso: lo lascio stare, ma quando arriviamo a Cittaducale, una città che nel mille e trecento fu messa da Roberto d'Angiò, duca di Calabria, su la groppa di un colle, ove sta ancora, io, infastidito dal suo russare, lo risveglio e gli chieggo premurosamente: — Scusi, che pendenza abbiamo?

— Le cinque meno venti. — mi risponde subito lui, guardando con gli occhi velati dal sonno l'orologio, e dopo un lungo sospiro se ne ritorna fra le braccia di Morfeo.

Il treno intanto attraversa in gran fretta una vasta pianura e s'arresta davanti ai Casali di Paterno. Un acuto odore di zolfo, due laghetti, in uno dei quali, secondo Dionigi d'Alicarnasso, c'era una volta un'isola galleggiante dedicata dai Sabini alla dea Vacuna, e alcuni ruderi informi ci informano che siamo nel luogo ove un tempo fiorì l'antica città di Cutilia, tenuta da Marco Terenzio Varrone come l'ombelico d'Italia, e famosa per le sue acque ferruginose e sulfuree, buone, anzi buonissime per guarire da qualunque malanno: tant'è vero che Vespasiano essendosene servito per curarsi di non so quale sua malattia finì col lasciarci imperialmente la pelle.

Oltre i Casali di Paterno il treno varca più volte su ponti di ferro il Velino, s'indugia in vallette amene e solitarie, passa dinanzi a casolari fumanti, penetra fischiando in gallerie nere di fuligine, ne esce fra nuvole di vapore, e, dopo qualche istante di riposo, incomincia a inerpicarsi, brontolando, sui fianchi dirupati di un monte dietro a cui sorgono altri monti coi fianchi coperti di faggi e con le cime risplendenti di neve. Il signore delle pendenze, che s'è risvegliato definitivamente, s'avvicina al finestrino della vettura; guarda tutto estatico i monti, gli alberi, la neve e il cielo; apre le braccia in atto di maraviglia ed esclama: — Questa è la Svizzera dell'Italia!

— È vero — soggiungo io. — Ma però, signor mio, se lei conoscesse l'Italia della Svizzera....

— In Svizzera non ci sono mai stato. — mi risponde lui.

— E io nemmeno. — gli rispondo io; e appena ho finito di dirglielo il treno manda una salva di fischi e si ferma. Siamo a Antrodoco.

* * *

Antrodoco giace in riva al Velino; e accerchiata com'è da gole profonde, ha la fortuna inestimabile di trovarsi ai piedi del monte Giano, in una posizione strategica di prim'ordine; la quale posizione le ha procurato il grandissimo piacere di essere stata distrutta e riedificata non so più quante volte e di essere stata sempre il teatro sanguinoso di orrende carneficine. Per tali ragioni essa, pur vantandosi di poter leggere il suo nome nel quinto libro della geografia di Strabone, non possiede nessuna reliquia illustre della grandezza passata. Difatti, quando vi andai, di cose e di case le quali mi rammentassero i tempi dell'insigne geografo greco, io non vi trovai se non l'albergo dell'Europa e il suo desinare. Però se alla piccola città abruzzese non è dato di poter mostrare ai visitatori nè mura, nè archi, nè terme, nè templi, nè castelli, nè torri, li può sempre rallegrare e confortare con la salubre abbondanza delle sue acque sane, limpide e sonanti, con la frescura delle sue valli ombrose, verdi e fiorite, e con la vista dei monti che le sono d'intorno e la proteggono, levando sul cielo immacolato, quando non è nuvolo, i loro capi venerandi canuti di neve.

Dopo il desinare i miei compagni aprirono una carta geografica e si misero a cercarvi il modo per salire sulla vetta del monte Giano; ed io, lasciandoli alla geografia, me ne andai a far quattro passi nelle vie solitarie della cittaduccia, illuminata senza risparmio dal plenilunio sereno, nella speranza di incontrarmi in qualche cosa degna di ammirazione.

Fui fortunato. In una strada che saliva dolcemente verso la campagna e vi si perdeva, m'imbattei in alcuni contadini che facevano una serenata. Un vecchio, soffiando nel cannello di una cornamusa e stringendosene al petto l'otre rigonfio ne traeva suoni gravi e solenni come quelli che talvolta s'odono echeggiare sotto le volte delle chiese: accanto a lui un giovinetto, alzando di tanto in tanto un braccio verso una finestrella illuminata da un modesto chiarore rossiccio, cantava con voce fresca, giusta, piana e soave: gli altri nell'ombra, avvolti in ampii mantelli scuri, con le spalle appoggiate al muro, fumavano, e, pestando coi piedi il terreno, accennavano il movimento e le divisioni del canto. Le parole appassionate del cantore salivano soavissimamente nell'albore lunare, quando dalla parte della via, ove sopra alle ultime case appariva un ceruleo ondeggiare di monti, venne il rintoccare di un campanaccio. Il vecchio staccò le labbra dal cannello del suo strumento, e, mentre l'otre gli si sgonfiava fra le braccia, disse ridendo: — Le pecore!

— Le pecore! — replicò il giovinetto.

E l'uno e l'altro si avvicinarono ai loro compagni, e tutti insieme, ridendo, sparirono nel vano oscuro di un angiporto.

I rintocchi del campanaccio si fecero più vicini; divennero più forti e una pecorella bianca uscì dall'ombra azzurra, che velava il fondo della strada, si guardò intorno sospettosa e si fermò, belando. Un'altra pecorella la seguì subito e le si strinse accanto. Ne vennero altre e poi altre, e poi altre ancora, e si fermarono tutte formando una massa compatta, biancastra ed immota. S'udì un fischio rapido e acuto, e due grossi cani neri saltarono innanzi, abbaiando. Le pecorelle ondeggiarono un poco e ritornarono immobili. Allora un pastore ne afferrò una per il collo, se la trascinò appresso per qualche passo e tutte le altre la seguirono. Quante ne passarono? Migliaia! Scaturivano dall'ombra come l'acqua da una sorgente, percorrevano un tratto di strada inargentato dalla luna, alzando ed abbassando la testa con moto uniforme, e scomparivano nell'ombra. Talora si fermavano tutte istantaneamente; ma un grido ed un sibilo bastavano a farle camminare di nuovo. Quante ne passarono? Migliaia! Non finivano mai! Quando finirono, dietro un vergaio, incominciarono a passare le capre. A branchi. Ogni branco era preceduto da qualche uomo intabarrato, che se allungava il passo mostrava di aver le gambe ricoperte da pelli villose, ed era seguìto da alcuni caproni barbuti i quali di tratto in tratto si alzavano sulle zampe posteriori e davano spettacolo, urtandosi fra di loro con le corna poderose. Appresso alle capre sfilarono asini e muli stracarichi di attrezzi pastorali, parecchie pecore azzoppate e diversi grossi cani con la gola coperta da collari di ferro irti di punte per salvargliela dai morsi dei lupi. Ultimo in fondo alla via, annunciato da un allegro tintinnìo di campanelli e sonagli, apparve un carretto. Venne innanzi trascinato da tre cavalli, adagio adagio, scricchiolando, e quando mi fu vicino si fermò. Sui carretto fra una confusione indescrivibile di arnesi di legno, di seggiole, di panche, di casse, d'imbasti, di fiscelle, di fagotti, di secchie, di caldaie e di canestre, insieme con una donna, c'erano tre vecchi, tutti inviluppati in ruvide coperte di lana bianca: tre patriarchi! Uno di costoro, con le spalle addossate a una cesta intessuta di salci, da cui uscivano belati argentini e tremolanti, cavò un braccio fuori dalla coperta e me lo stese chiedendomi qualche fiammifero.

— Da dove venite? — gli chiesi, dandogli la scatola dei cerini.

Dalla montagna.

— E dove andate?

Allo piano.

Il carretto riprese a camminare lentamente, sgretolando con le ruote cigolanti i sassi che incontrava sul terreno, e si allontanò barcollando fra un pittoresco alternarsi di ombre azzurre e di luci argentee, alle quali si unì per due o tre volte anche il chiarore rosso dei miei cerini; raggiunse l'estremo lembo della strada da dove veniva ancora qualche belato, e si dileguò nella notte.

Avevo già incominciato a dileguarmi anch'io e scendevo piano piano la via silenziosa, tutta piena dì polvere e di un grave lezzo caprino, ripensando alle emigrazioni delle genti ariane sui pingui altipiani dell'Asia bagnati dall'Indo, nonchè ai miei compagni, i quali forse mi aspettavano con impazienza sui non pingui altipiani dell'albergo dell'Europa bagnati dal Velino, quando dietro a me udii risuonare di nuovo gli accordi della cornamusa. Mi voltai. I contadini erano tornati ai loro posti e ripigliavano la serenata.

Il giovinetto con la voce resa più chiara dal breve riposo cantava:

Gliu tempo a darme freddo e io tremare,

L'amore a darme pena e io suffrire.

La luna piena, immobile sulle nevi del monte Giano, dopo di avere illuminata la strada ai pastori, pareva che si fosse fermata in mezzo al cielo per ascoltare il giovinetto innamorato.

II.

Fra i non molti piaceri, elevati e profondi, dei quali un alpinista può godere nella sua breve permanenza in questa misera valle di lagrime io credo che non ve ne sia uno superiore a quello di trovarsi nel cuore della notte, su un monte, dinanzi a due sentieri, e non sapere quale scegliere. Prima di decidersi a mettere i piedi stanchi nell'uno o nell'altro, bisogna consultare la carta geografica; ma per poterla consultare è necessario di accendere la lanterna, e dieci volte su nove, quando dopo molto cercare s'è trovata la lanterna, non si trova la candela; e se si trova la candela, non si trova la lanterna.

E allora? Eh, allora si tenta di illuminare la geografia coi cerini. Il vento gelido ve li spegne fra le dita. Intanto da lontano vengono lunghi abbaiamenti. Son cani di guardia in qualche addiaccio i quali vi lasciano interamente liberi nella scelta del sentiero, ma vi avvertono di non accostarvi nemmeno per burla alle reti ove riposano le pecorelle, perchè se no, saranno guai! Insomma, dopo una lunga sosta davanti ai due sentieri, non potendo pigliarli tutti e due, si finisce per pigliarne uno, e dopo qualche ora di cammino faticoso si finisce anche, ohimè, con l'accorgersi che se si voleva andare diritti bisognava pigliare l'altro, quello che s'è lasciato! Qualche cosa di simile, su per giù, accadde a noi la notte che lasciammo Antrodoco per salire sulla vetta di monte Giano. Dal fondo della valle eravamo già arrivati felicemente a metà del monte quando, per nostra disgrazia, sperando di risparmiarci un tratto di salita, entrammo nella gola di un fosso, del più perverso e malvagio dei fossi, il quale ci seppe così bene ingannare che noi, dopo qualche ora di aspro e disagioso cammino, invece di trovarci in cima a un monte, ci trovammo in cima a un piano, sotto Rocca di Corno, senza poter vedere nè la Rocca nè il Corno; perchè la luna se ne era andata per i fatti suoi, lasciandoci al buio.

— E ora che cosa si fa qua in mezzo? — dimandò uno di noi. Per fortuna la risposta gliela diede subito un lumicino che incominciò a brillare da lontano nelle tenebre. Quel lumicino fu per noi il più bel giorno di quella notte! Difatti guidati dai suoi deboli raggi, dopo di esserci perduti e ritrovati un'altra volta, potemmo finalmente entrare in una umile capanna, ove, oltre a uno stizzo verde ardente da l'un dei capi e gemente e cigolante dantescamente dall'altro per il vento che andava via, vi trovammo una bottiglia d'acquavite, tre contadini, una donna addormentata sur una sedia, e un vecchio seduto sopra una madia il quale si infilava un paio di brache rattoppate. I miei compagni, appena ebbero saputo dal vecchio il nome e cognome del luogo ove eravamo, ripresero subito a studiar geografia, umettandola con qualche sorsatina di acquavite; io non potendo più reggere al supplizio del fumo uscii dalla capanna con gli occhi lagrimosi e mi trovai davanti a un porco grasso e grosso il quale levando il grifo verso l'oriente, ove apparivano già i primi bagliori antelucani, mi diede fraternamente e fragorosamente il buon giorno. Ohimè! Quale delusione! Sapete? Se qualcuno vi viene a dire che i porci abruzzesi sono violetti guardatevi bene dal crederlo; se no, capitando una volta o l'altra quassù, voi dovrete subire, come è avvenuto a me, la più atroce delle delusioni. No! I porci abruzzesi non sono violetti, ma sono dello stesso colore di quelli romani, nè più nè meno. Tutto il mondo è paese. Ma a proposito di delusioni. Quando io e i miei compagni ci radunammo in una stanza del Club Alpino per mettere insieme il programma della nostra escursione a monte Giano, qualcuno, come avviene sempre in simili circostanze, prese ad enumerare le molte maraviglie e d'arte e di natura che avremmo incontrate per via. Lo lasciai dire; ma appena egli finì di parlare delle cose mirabili, io a mia volta incominciai a favellare di quelle incredibili di cui, secondo alcuni, si gloria questa Terra Vergine, forte e gentile.

— Vedrete, vedrete! — dicevo ai miei amici. — Vedrete quale straordinario paese è l'Abruzzo. — E mentre qualcuno per principiare a vedere s'aggiustava sul naso gli occhiali, io seguitavo: — Figuratevi! Una quercia nei nostri paesi da qualunque parte uno la guarda è sempre una quercia, non è vero? Ebbene in Abruzzo invece una quercia non è mai una quercia, ma è sempre un atleta che leva le braccia al cielo. E i pioppi? Qui da noi i pioppi sono di legno; nel paesaggio abruzzese invece sono di metallo come i soldatini da quarantotto centesimi la scatola. Ridete? Ma laggiù non solo troveremo di metallo gli alberi, ma anche le persone, perchè gli uomini e le donne colà sono o di rame o di bronzo: da questi due metalli non s'esce. E fra gli uomini ne troveremo certamente anche qualcuno fuso in bronzo antico; e quando lo avremo trovato, lo sentiremo vibrare, perchè nelle contrade abruzzesi tutte le cose vibrano in modo così sonoro da sembrare perfino impossibile.

— Ma tu ci dài a bere frottole alquanto madornali! — esclamavano in coro i miei amici, ridendo.

— Frottole? — ribattevo io. — Frottole? Ma verità sacrosante, scritte e stampate — e seguitavo: — Vedete, da per tutto la luna, quando c'è è d'argento; in Abruzzo invece è di platino ed ha il vantaggio inestimabile di non essere mai attaccata dall'ossido dell'aria; colà il cielo per lo più è di cobalto e le nubi son quasi sempre di madreperla come i bottoni delle mie mutande; gli alberi or sì e or no sono consapevoli, ma le loro radiche son tutte fatte di vipere morte; i fiumi sono ognora fedeli ed hanno la superficie piena di piastre d'oro e di lamine d'argento: e quando gli uomini vi nuotano dentro cotesti uomini diventano immediatamente tutti cefali bianchi; difatti ai pescatori di canna avviene spessissimo di dover sbrogliare l'amo dalla bocca di qualche nuotatore e di doverlo ributtare nell'acqua dicendogli: — Scusi tanto, sa, l'avevo preso per un cefalo. — Ma tutto questo poi è nulla in confronto di quanto vi farò vedere io che conosco i luoghi.

— Come? Conosci i luoghi? Ma se tu in Abruzzo non ci sei mai stato.

— E che vuol dire? Se non ci sono mai stato ne ho lette, viste e sentite tante descrizioni in prosa e in poesia, in pittura e in musica che è come se ci fossi nato. Ed è proprio per questo che io, quando saremo laggiù, vi potrò far vedere certe cose non solo incredibili, ma incredibilissime. In Abruzzo noi ci resteremo per qualche giorno. Ebbene, in una sera di uno di cotesti giorni, non appena i velami insensibili del crepuscolo saranno discesi a poco a poco sulle cime del pioppi discreti, io vi condurrò sulla riva di un fiumicello e colà, mentre le cose dormiranno in un letargo vegetale nella mansuetudine della luna, io vi mostrerò....

— Che cosa?

— La Venere d'acqua dolce.

— Cioè?

— La Venere d'acqua dolce.

— Ma sei matto? — mi chiedevano gli amici, sbarrando tanto d'occhi.

— Matto? — ripigliavo io. — Matto? Ma più savio di tutti e sette i savi messi insieme. — e continuavo: — Del resto la vostra sorpresa non mi sorprende. Voi ignorate che la Venere d'acqua dolce....

— Ma, insomma, questa Venere d'acqua dolce che cos'è?

— La Venere d'acqua dolce è il più maraviglioso fenomeno che mente umana possa immaginare. Esso avviene in Abruzzo, e si svolge, tempo permettendolo, in parte sulle rive e in parte nelle acque dei suoi fiumicelli. E quando uno lo vuol vedere, non ha da far altro che scendere sulle sponde di uno di cotesti fiumicelli, mettersi a sedere su l'erba, fra il rabbrividire delle canne tendenti a rifiorire, e aspettare: il resto viene da sè. E questo resto non solo viene da sè, ma, tranne qualche piccola variante, viene sempre nello stesso modo. Tu, per esempio, sei seduto e aspetti? Ebbene, quando meno te lo aspetti, all'improvviso, il vento ti reca un sentore di carne. Tu ti volti dalla parte del sentore, e vedi scendere verso il fiume una donna dalla pelle bronzina di mulatta, florida e bionda non che seminuda. È la Venere fluviale! Tu la lasci scendere e rimani fermo a vedere che cosa succede. Una cosa semplicissima! Ella appena è arrivata sulla sponda della riviera prima, per necessità della rima, si mette a fiutare il vento come una levriera, e poi si gitta nel fiume e vi si immerge, fra un gregge di foglie, fino all'ombelico. Tu la lasci fare, ma quando ti sembra arrivato il momento opportuno incominci a bramire come un cervo in disio. Allora la donna dalla pelle bronzina si volta e, invece di scappar via o di pigliarti per matto, si mette a imitare anche lei il bramito del cervo, e di bramito in bramito ti viene accanto. Tu allora, senza tanti complimenti, la pigli per le braccia e irrigidisci come forse non ti sei mai irrigidito e come certamente non t'irrigidirai mai più. E questo è tutto! Però qualche volta ci potrebbe essere anche dell'altro, perchè se mai l'irrigidimento accadesse nel plenilunio di calendimaggio allora nel momento più culminante dell'irrigidimento suddetto i pioppi che sono consapevoli incomincerebbero a cantare in coro e il letargo vegetale sarebbe rotto da un fragoroso scampanìo. Ma del resto anche se ciò avvenisse non ci si dovrebbe badare, prima perchè i pioppi se sono consapevoli sono anche discreti, e poi perchè lo scampanìo non verrebbe da nessun campanile vicino, ma dal peccato d'Eva squillante a gran martello nelle giovini carni come sopra sonore lamine di metallo.

Ohimè! Come ve la potrei descrivere la sorpresa dalla quale io fui fulminato, quando appena messo il piede in Abruzzo io mi avvidi che di tutte quante le cose mirabili ed incredibili delle quali avevo parlato ai miei amici, qui, in questa Terra Vergine non ne esisteva neppure l'ombra?

Ohimè! Le querce e i pioppi? Ma che metalli d'Egitto! Sono proprio di legno come gli alberelli della nostra Via Nazionale. Gli uomini e le donne? Ho picchiato con le nocca sulle loro carni, perchè talvolta l'apparenza inganna, e invece di trovarli di bronzo e di rame, li ho trovati tutti di carne e d'ossa come noi. La luna di platino, il cielo di cobalto, le nubi di madreperla, le foreste di ametista, le radiche degli alberi fatte di vipere morte, i pioppi consapevoli e discreti, i fiumi fedeli, i cefali bianchi e le altre mille cose straordinarie, che io avevo lette tante volte in poesia, ed ero certo di trovare qui in prosa, le ho ancora da vedere. Son rimasto seduto non so più quanto su le rive di un fiumicello in attesa della Venere fluviale: è venuta una contadina: le ho fatto il bramito del cervo in disio, e se non scappavo presto m'accoppava! Ho seguito per lunghe e lunghe ore la gente delle città e delle campagne nella speranza di udire qualche vibrazione: tempo buttato! Le nari non le ho sentite vibrare altro che quando questo popolo forte e gentile si soffia il naso, magari con le dita; le terga.... Ah! le vibrazioni delle terga le ho intese una volta e m'auguro di non sentirle mai più.

Eppure anche senza vibrazioni poetiche di alcun suono e senza cose e persone provenienti da preziose fonderie letterarie questa degli Abruzzi è certamente la bellissima fra le più belle regioni d'Italia. Ricordo ancora le parole di maraviglia che fiorirono sulle labbra dei miei amici allorchè essi, usciti dalla capanna miserabile, ove ci aveva portati l'inganno tenebroso del fosso maledetto, videro il sole sorgere trionfalmente dalla cima candida del monte Giano e percuotere coi suoi raggi d'oro un rincorrersi glorioso e infinito di montagne azzurre e violacee rivestite di castagni e di querce, di faggi e di carpini, e sfavillanti di neve.

Era una di quelle mattine limpide ed abbaglianti d'autunno nelle quali talvolta il cielo e la terra, i monti e le acque, gli alberi e le piante, prima di inoltrarsi nella tristezza invernale, par che vogliano ancora una volta allietare il viandante con gli incanti innumerevoli delle loro forme e dei loro colori. Dovunque volgevamo gli sguardi, fra l'erbetta verde, e rilucente di rugiada, migliaia e migliaia di piccoli fiori gialli, rossi, bianchi e turchini tremolavano e risplendevano nell'aria vitrea e profumata sotto al sonoro ronzio delle api. Intorno a noi, via via che il sole s'innalzava sui monti, tutto pareva ingrandirsi a poco a poco e farsi più bello, più lucente, più vivo: e un venticello frizzante, ma piacevole ci invogliava a camminare.

Per isfuggire alle insidie di altri fossi prendemmo con noi un contadino esperto conoscitore dei luoghi, e mentre dalle macchie basse e vicine veniva un festoso zirlare di tordi, lasciammo la strada bianca che porta a Rocca di Corno, e per sentieri umidi di brina, fra le cui siepi vive svolazzavano i pettirossi e gli scriccioli, salimmo alle Vignòle, ove alcuni pochi filari di viti avean già coperto il terreno con le loro foglie gialle e cineree; entrammo nel letto ghiaioso di un torrente e incominciammo la salita del monte. All'improvviso la terra ci tremò sotto ai piedi e dietro a noi scoppiò un fragore infernale. Un treno uscì dalla bocca nera di una galleria, traversò fischiando come un rettile enorme un breve spazio di roccia, entrò in un'altra bocca nera di un'altra galleria, che sembrò inghiottirlo, e disparve. Figlio d'un cane! Gli bastarono pochi istanti per insudiciare col fumo del carbone il cielo sereno e per impuzzolire l'aria pura con un nauseoso fetore di olio rancido e di grasso abbruciacchiato.

A liberarci dal fetore ferroviario ripigliamo subito il cammino, e quando, dopo una non piccola fatica, ci riesce di levare i piedi dal letto del torrente ci troviamo dinanzi a macigni colossali: strisciandovi addosso con molta pazienza li giriamo, e allora, fra le giogaie vicine del monte Terminillo e quelle lontane del Gran Sasso appare ai nostri occhi una immensa pianura ondulata e verde, solcata da fiumi e seminata di paesi, digradante nell'azzurro fino all'Adriatico. Alla vista del maraviglioso spettacolo noi ci sentiamo conquistare da una letizia indicibile; ma il contadino che ci accompagna, serio e taciturno, la nostra letizia non la divide per niente affatto.

Il superbo panorama di cui noi godiamo ei non lo degna neppure del più modesto dei suoi sguardi, e tutta l'attenzione della quale egli può disporre la concentra sulle nostre umili persone e rimane a guardarci a bocca aperta. Insomma per lui il suo panorama siamo noi! Ciascuno ha il panorama che si merita.

Dopo un breve riposo proseguiamo la salita: traversiamo a gran fatica vasti campi di neve molle, affondandovi fino a mezza gamba; torniamo ad arrampicarci su rocce aspre, e dopo di aver pestata ancora neve e superate altre rocce, finalmente arriviamo sulla cima. Un vento che ci porta via ci costringe ad accovacciarci subito fra alcuni scogli; e quivi al riparo della formidabile borea confortiamo i nostri occhi con la vista di un panorama magnifico. e il nostro stomaco con una modestissima colazione. Ma appena finisce la colazione finisce anche il vento, e col vento finisce, ahimè, anche il panorama; poichè gruppi numerosi di nuvole grige, salendo a poco a poco da tutti i lati del monte, ci avvolgono, piovigginando, in una nebbia fitta fitta, e ci consigliano di incominciare la discesa.

Poco prima di rientrare in Antrodoco incontriamo l'ombra umida della sera, che, uscita appena dalle gole del Velino, incomincia a salire adagio adagio sul monte da cui noi discendiamo. Le auguriamo il buon viaggio, e, dopo una breve sosta nell'albergo dell'Europa, ci rechiamo alla stazione. Colà un vecchio contadino mi si avvicina, guarda con molta attenzione le mie scarpe, e mi dice a voce bassa, come se volesse rubarmi un gran segreto:

Che sei stato a fa' lassù in cima?

— Dove?

Lassù in cima! — ripete il contadino, indicandomi il monte Giano su la cui vetta si spengono gli ultimi chiarori del crepuscolo.

— Niente! — gli rispondo — Lassù in cima ci sono stato per divertimento.

Per divertimento? — esclama il vecchio con voce incredula. — Per divertimento? — e rimane per qualche istante in silenzio: poi guardandomi con gli occhietti arguti, soggiunge tentennando il capo: — Ma scusa, lei non tieni niente de meglio da fare a casa tua per venirete a scapiccollà' fra 'sti sassi?

Fortunatamente il treno arriva in buon punto per liberarmi dal contadino e dalla risposta che pur troppo, dovrei rispondergli.

UN CONGRESSO ALPINO (1887)

Due anni addietro, allor che fui sul punto di lasciar Roma per recarmi a visitare i mercati di Bombay, le rovine dell'antica Delhi e il sacro Gange, nelle cui acque si specchiano i templi della santa Benares, le parole di commiato che mi sentii ripetere a sazietà da quanti si interessavano al mio viaggio furono queste: — Preparati bene la tua valigia delle Indie, e di laggiù scrivici: non far l'indiano! — Nell'estate dell'anno scorso mentre stavo per andarmene in Ispagna non mi riusciva di incontrare un amico senza che egli non mi offrisse un vermouth per poi potermi dire: — Bevi ora, perchè quando sarai in riva al Manzanare non beverai più. Lo spagnuolo non beve! — E quando infine qualche giorno fa partii da Roma per pigliar parte alle gite del decimonono congresso del Club Alpino Italiano, le parole che mi perseguitarono non soltanto lungo le vie dell'Urbe, ma anche durante il viaggio furono le seguenti: — Se vai al congresso alpino, divertiti; ma non ascendere il Monte di Pietà! — E le suddette parole mi molestarono tanto che, per non sentirmele più ripetere, feci ovunque ogni sforzo per dissimulare la mia qualità d'alpinista, e appena il treno arrivò a Vicenza, e un signore con una coccarda azzurra all'occhiello mi venne incontro a dimandare se io era del Club Alpino io senza rispondergli, fuggii fuori della stazione e salii nell'omnibus dell'albergo dei Due Mori ove il signor Tito Libetta aveva già pigliato posto con la sua valigia, sul cui dorso il nome e cognome di lui si leggevano ricamati in seta rossa non che in bellissima calligrafia.

Mentre l'omnibus attraversava una vastissima piazza ombrata da splendidi filari d'ippocastani, il signor Tito mi fece sapere che veniva a Vicenza per farvi delle ricerche storiche, e non appena il carrozzone entrò nella porta della città, ove una torre medioevale illuminata dal sole rosseggiava sul cielo azzurro mi confidò che la storia di Vicenza era una storia molto interessante.

Non temete che io vi ripeta tutto quello che egli mi disse, mentre l'omnibus sobbalzava sulle pietre delle vie vicentine imbandierate. Sarebbe anche inutile, perchè la storia antica di una nostra città moderna è sempre la medesima storia; e chiunque, sol ch'ei lo voglia, se la può cucinare da sè. Ne volete la ricetta? Eccola. «Si pigliano degli aborigeni, dei pelasgi, degli etruschi, dei greci e dei romani con qualche Giulio Cesare, dei galli e, se se ne trovano, dei cartaginesi con due o tre pezzetti di Annibale, figlio di Amilcare Barca, e si mescolano insieme. Quando sono bene uniti ci si mette sopra un po' di Costantino con un pizzico di «quanto mal fu matre», e si fanno cuocere a fuoco lento. Poi, appena incominciano a rosolarsi, si insaporiscono con una salsa di goti, visigoti, ostrogoti, vandali, unni, longobardi e franchi con uno spicchio di Carlo Magno, con una cucchiaiata di Leone terzo e con un pochino di Pipino (volendo, secondo i gusti, vi si possono aggiungere anche dei guelfi e ghibellini con qualche filetto di Barbarossa), si levano dal fuoco, si lasciano raffreddare, e al momento opportuno si serve in tavola».

* * *

Prima di visitare la città mi recai alla sede della sezione vicentina del Club Alpino dove trovai moltissimi alpinisti di tutti i monti e di tutte le pianure della penisola, che ritiravano le tessere per prender parte alle gite indicate nel programma del congresso. Della sezione romana vidi pel primo il nostro segretario Abbate, poi il pittore Zoppi, il roseo e biondo Bonfiglietti, Memmo Ricci, l'ingegnere Minerbi e l'amico Dino Spadini, valente alpinista e incomparabile costruttore di bisticci, di freddure e di altre simili scimunitaggini. All'uscire m'imbattei con Guido Fusinato, che, arrivato allor allora da Torino, veniva anch'egli a ritirare le sue tessere. Non ci eravamo più visti fin da quando avevamo lasciato la Spagna, e dopo esserci abbracciati rievocammo con calda parola i ricordi di Madrid, di Toledo e di Barcellona. L'amico Spadini osservò subito che non valeva la pena di starci tanto a commuovere, perchè tra il viaggio di Spagna e questo di Vicenza non v'era per noi altra differenza se non un semplice e meschino «i». Difatti — ci disse — in Ispagna eravate sui colli iberici, qui invece siete su quelli berici.

* * *

In piazza dei Signori sorge la mirabile basilica: il vecchio palazzo della Ragione, che il Palladio restaurò, aggiungendovi le logge esterne. Come tutte le opere del sommo architetto, la grande fabbrica va famosa per la semplice eleganza delle linee e per la grandiosa correttezza delle proporzioni. Ora, nella maggior sala dell'edificio nobilissimo, v'è un'esposizione di piccole industrie, ordinata a cura della sezione vicentina del Club Alpino Italiano.

Visitai la piazza dei Signori, in compagnia dello Spadini mentre l'ultimo raggio del sole dorava la cima della torre maggiore, che sorge a fianco della basilica, i cui marmi son pittorescamente coloriti dal tempo, il quale, dopo il Tiziano, è il più grande coloritore che io mi conosca. In fondo alla piazza un grande palco per l'estrazione di una tombola sorgeva sulla folla nera, fra due colonne antiche, sopra una delle quali sta fieramente posato il Leone di S. Marco, e su l'altra sta mite e ignudo il Redentore, che guardando il suo vicino sembra dirgli: — Tu hai le ali; ma io come faccio se voglio scendere? — Dai balconi si affacciavano gruppi pittoreschi di donne, e di tempo in tempo s'udiva fra il brusìo della folla la voce stentorea di un banditore che annunciava i numeri che un signore vestito di nero estraeva da un'urna di vetro. Mentre ero lì lo sguardo m'andava insistentemente sulla altissima torre, ove una lapide ricorda i nomi dei vicentini che caddero difendendo le loro terre dalle soldatesche austriache. Fu appunto sulla sua cima che nel 1848 venne inalzata la bandiera bianca per annunciare agli assedianti che la città, flagellata dalle artiglierie, straziata dalla fame e da mille tormenti era costretta a chieder tregua; ma al vederla il popolo ruggì di rabbia, e, tumultuando, urlò che si abbattesse. Allora s'udirono echeggiare alcuni colpi di moschetto. Gli eroi non soffrendo tanta umiliazione, colpivano con le ultime cartucce rimaste nelle loro giberne il segno della resa.

Uno squillo di tromba mi fece tornare alla realtà del momento presente. Un rimescolio avveniva fra la folla, in mezzo alla quale un uomo agitando il cappello ed aprendosi a stento un varco andava a riscuotere il premio della tombola.

Quando il fortunato vincitore, accompagnato da una tempesta di fischi, riuscì a salire sul palco, e la vasta piazza cominciò a spopolarsi, io e lo Spadini riuscimmo ad avvicinarci al monumento del Palladio, che sorge accanto alla basilica. Il feroce freddurista, appena vide che intorno alla statua c'erano molte venditrici di ortaglie, dopo di avermi indicato i mucchi di pomodori, di zucche, di melloni e di angurie, disposti in bell'ordine, come un ricco tappeto multicolore, ai piedi del monumento non si lasciò scappare l'occasione di farmi osservare come tutti quegli ortaggi fossero giustamente al posto loro, perchè il grande architetto avendo passata la vita a lavorare sulle piante lo si poteva considerare come un insigne botanico.

La freddura atroce mi agghiacciò lo stomaco: e poichè qualche fiammella di gas incominciava già a illuminare, oltre alle colonne e agli archi degli edifici palladiani, anche il mio appetito, mi rifugiai in una trattoria in piazza del Duomo ove ebbi il piacere di trovare un Vittorio Emanuele di marmo, il quale per tutto il tempo del mio desinare si degnò di rimanere davanti a me, reggendo con la destra il suo elmo piumato, in atto di reverente saluto.

Dopo pranzo andai alla Società del Casino nelle cui sale, affollate di congressisti, vidi il sindaco di Vicenza Giovanni Zanella, fratello del poeta della «Conchiglia fossile»; il presidente del Club Alpino Lioy; Almerigo da Schio presidente della sezione vicentina; il segretario della medesima Alessandro Cita... E non cito più altri nomi perchè altrimenti non la finirei più.

Nelle belle sale del Casino rimasi fino a ora tarda, ammirandole, e bevendo birra; poi, dopo di aver presentato i miei ossequii al simpatico presidente dell'associazione, l'avvocato Gasparella, uscii.

Mentre m'avviavo verso l'albergo dei Due Mori con l'amico Spadini il quale non la finiva più di manifestarmi la sorpresa da lui provata dianzi nell'avere rimarcato che l'avvocato Gasparella non aveva gli occhiali, perchè secondo lui tutti gli avvocati debbono esser sempre «con su lenti», a un tratto da una finestra aperta, in una via silenziosa, venne il suono di un pianoforte. Stavo per fermarmi ad ascoltare quando il mio amico, afferratomi per un braccio, mi trascinò via dicendomi: — Vedi, io amo tutti gli strumenti, compresi quelli notarili, ma, abituato come sono a vivere sui monti, non posso soffrire il piano, massime quando è forte. Vieni! — Dovetti rassegnarmi a seguirlo e a sentire ancora altre scemenze: difatti, appena arrivammo davanti alla porta dell'albergo, egli intanto che i chiodi delle sue scarpe, urtando sulle pietre, mandavano scintille, dopo di avermi fatto osservare quale e quanta importanza avessero nella vita del vero alpinista le freddure e la poesia, mi disse — vedi: io fra tutti i poeti preferisco il Monti. E tu?

— Anch'io — gli risposi —; ma quando il cielo non è Foscolo!

E lo lasciai con le sue lepidezze. La mezzanotte era di già passata e alle sei dovevamo trovarci tutti in piazza Castello per andare a visitare i colli berici. Lo lasciai, dunque. Ma l'avevo appena lasciato che egli mi richiamò subito per raccomandarmi di non guardar mai i due mori che reggevano l'insegna della locanda perchè tanto l'uno quanto l'altro erano tutti e due «con turbanti».

* * *

Dopo qualche ora di sonno mi recai al convegno e vi trovai pochi congressisti che aspettavano gli altri. Aspettai anch'io, fino a che la piazza si venne popolando di una infinita varietà di tipi, fra i quali ne osservai uno, che mi fece fare gravi riflessioni sull'alpinismo e sulle dolorose conseguenze che può arrecare a chi ne abusa. Egli aveva il capo a metà nascosto da un elmo coloniale allietato da un mazzetto di edelweiss; indossava una giacca verde all'ussera con alamari neri e un paio di brache di velluto marrone, e aveva gli stinchi foderati da un paio di gambali di cuoio giallo; e camminava a gran passi, facendo risuonare i chiodi delle scarpe sulle pietre della via, e palleggiando un lungo bastone di faggio, con la punta ferrata e con la sommità ornata da un corno di camoscio, sul quale si leggevano scritti in italiano, in francese e in tedesco i nomi delle montagne sulle cui vette egli certamente non era mai stato.

Lo Spadini, che fin allora ci aveva rallegrati ed abbrutiti con le sue freddure, appena lo vide, gli andò incontro, lo salutò, se lo prese a braccetto e rimase a parlare con lui; poi atteggiando comicamente il volto a una inconsolabile mestizia venne a dirci che quell'infelice gli aveva confessato di essersi dato all'alpinismo per dispiaceri domestici. E illustrando le parole bislacche con gesti ridicoli seguitò: — Egli mi ha detto che la sua vita era un Gran Paradiso, quando per sua disgrazia, innamoratosi di una giovanetta: di una Iungfrau, come direbbero in Svizzera, la sposò. Da allora la esistenza di lui divenne un ghiacciaio della Tribolazione: insomma il disgraziato ha le prove di essere un Cervino... — E mentre noi lo urlavamo concluse: — Ora non gli resta altro di meglio da fare che legarsi un Gran Sasso al Colle del Gigante e di andarsi a buttare nel Bacchiglione.

* * *

Quando Dio volle ci mettemmo in cammino, e seguendo un lungo porticato ove i venditori di immagini sacre, di rosarii e di scapolari avevano alzato le loro baracche, arrivammo alla Madonna del Monte, a fianco della quale in memoria delle battaglie ivi combattute nel 1848 sorge un monumento scolpito dal Tantardini. Poco lontano da esso ve n'è un altro inalzato nel 1860 dall'Austria ai suoi soldati che caddero come dice l'epigrafe: pro Austriae incolumitate.

Dopo una visita al Santuario ove ammirammo il famoso quadro del Veronese, La cena di San Gregorio Magno, ci avviammo verso la villa Pasini, uno splendido edificio del settecento, un pezzo di paradiso fra l'azzurro del cielo, i colori smaglianti dei fiori e il verde intenso degli alberi secolari. Colà, il padrone di casa Eleonoro Pasini ci offrì una colazione, dopo la quale tornammo a Vicenza, recando con noi un ricordo incancellabile dell'affettuosa accoglienza prodigataci dal gentiluomo vicentino.

Nel pomeriggio mi recai al teatro Olimpico per assistere al decimonono congresso degli alpinisti italiani. Il grandioso teatro, che il Palladio incominciò a costruire per deliberazione degli accademici olimpici, e lo Scamozzi, sui disegni del grande architetto, trasse a fine, lo trovai affollato di alpinisti, di signore e di statue. Parlava ai convenuti con dotta parola Almerigo da Schio. Trovandomi disgraziatamente molto lontano dall'egregio oratore, purtroppo del suo lungo discorso non posso riferirvi, ahimè!, che queste parole che ritrovo segnate in una pagina del mio album: — «...difatti, o signori, il mecaschisto... eccoci dunque arrivati al periodo pliocenico... perchè, o signori, non si può... l'origine di tali conglomerati è di tale natura... le dolomiti non sono che... e troviamo il calcare schistoso... lo gneis... le rocce metamorfiche... nel periodo giurassico... il trias... il gres... i lepidodendri... le licopoditi... le aracauriti... le rocce mesozoiche... i sedimenti». — Coi sedimenti l'orazione convincente ed efficace dell'insigne geologo ebbe termine e un fragoroso applauso risuonò nella sala vastissima.

Ma il momento della più alta commozione fu quando il presidente e il vicepresidente del Club Alpino tridentino furono invitati da Paolo Lioy a voler salire al suo fianco per dividere con lui la presidenza del congresso. Il barone Emanuele Malfatti e il professor Giovanni Marinelli s'avvicinarono al Lioy, e come questi li ebbe vicini, esclamò: — Ora il Club Alpino Italiano è completo!

Un uragano di evviva e d'auguri scoppiò nella vasta sala a quelle parole e seguitò per lungo tempo fra la commozione unanime.

Quando la calma ritornò fra gli adunati, seguirono le relazioni, le discussioni, le proposte e le letture, e appena il congresso ebbe fine s'usci e s'andò tutti al teatro Eretenio, ove ci attendeva un banchetto: il banchetto sociale. In platea e sul palcoscenico erano state imbandite le tavole, ed era veramente uno spettacolo lietissimo il vedere tanta gente mangiare e bere allegramente mentre dall'alto dei palchetti affollati di signore piovevano fiori e sorrisi. A metà del pranzo coi fiori e coi sorrisi piovvero anche i discorsi.

I discorsi! C'è molta gente che li odia; io li amo. L'unica cosa che distingue qualche volta l'uomo dalla bestia non è la parola? Immaginate che un cignale domestico potesse dire: — Io sono un porco — e dovrete convenire con me che quel cignale domestico non sarebbe più un porco; ma sarebbe un uomo. — Si! I discorsi, massime quelli che dopo di averli scritti e mandati a memoria si improvvisano fra l'arrosto e l'insalata, a me piacciono molto. Quelli poi che udii pronunciare al teatro Eretenio debbo dirvi che mi piacquero moltissimo. Parlarono Lioy, Grober, Malfatti, Brentari, Marinelli, Budden, Almerigo da Schio e per ultimo il caro Magnaghi, sollevando intorno a lui la più schietti allegria.

Dopo il banchetto molti si recarono a udir l'Africana al Politeama comunale e moltissimi altri si sparsero per le vie illuminate dalla luna per ammirare i superbi edifici del Palladio, dello Scamozzi e dell'Arnaldi.

* * *

Eravamo una diecina e si passeggiava pel Corso Umberto, una via stretta e irregolare, ma ricca di palagi maravigliosi, quando uno di noi si fermò dinanzi a una bottega di tabaccaio. Stava per entrarvi, ma lo Spadini, che ne faceva una ad ogni pie' sospinto, sbarrandogli la via prese a dirgli: — Per l'amor di Dio! Férmati! Non mettere in pericolo la tua fama di alpinista!

— E perchè? — gli chiese il nostro amico.

Per tutta risposta l'implacabile freddurista gli indicò con la punta del suo bastone l'insegna della bottega, ove sotto uno stemma si leggevano queste maleauguranti parole:

SALI E TABBACCHI.

GITA SENTIMENTALE

Un tempo i popoli che abitarono i monti e le valli dei Sette Comuni, cioè i romani, i reti, i tigurini, gli alemanni, i franchi, i goti, i cimbri, gli unni e gli altri, lavoravano a seppellire nel suolo lance e fibule, monete e medaglie, idoli e pentole a onore e gloria degli archeologi, degli storici e dei filologi di là da venire; ora invece i moderni abitanti degli altipiani, adoperando il legno degli abeti che verdeggiano severamente attorno alle loro capanne, fanno scatole, fabbricano cappelli di paglia, seguendo per tradizione le norme recate di Levante nel secolo passato da un tal Nicoletto del Sasso, e parlano la lingua cimbra. L'industria delle scatole procede benissimo, quella dei cappelli di paglia così così; ma quella del parlar cimbro va di molto male. Purtroppo questo linguaggio nel quale le consonanti sembrano starnuti e le vocali sbadigli, va trascinando la sua lenta agonia per le bocche sdentate dei vecchi e fra non molto sparirà da queste terre.

Tutto passa quaggiù! Tutto cade, come cadono le nostre illusioni, simili alle foglie che, divelle alle rame degli alberi dai primi venti autunnali, vanno a finire nei fango! Cadono; ma coloro che ci vengono appresso nel cammino faticoso della vita, trovandole in terra le raccolgono, le ripuliscono, e se le ripongono gelosamente nel cuore, riperdendole magari poco dopo per farle ritrovare agli altri che li seguiranno. Il vecchio è sempre nuovo. Ma quanto è più triste pensare che il nuovo è sempre vecchio!

Questi ed altri malinconici pensieri mi venivano in capo mentre, precedendo una numerosa comitiva di alpinisti, in compagnia di alcuni amici taciti e pensierosi, traversavo, nel silenzio di una notte serena, l'altipiano di Asiago per andare a Valstagna. Ma appena il sole fiammeggiante uscì dai monti facendo brillare i prati molli di rugiada, e appena gli uccelli principiarono a cantare noi smettemmo di pensare e incominciammo tutti a discorrere.

Un solo, dopo di avere bisbigliata qualche parola continuò a tacere: un giovinetto biondo il quale di tanto in tanto, arrampicandosi sui rialzi che fiancheggiavano la strada andava raccogliendo margherite.

Il caro ragazzo era di una città del Trentino: recatosi a Vicenza per assistere alle feste in onore degli alpinisti, ora tornava a casa seguendo il nostro itinerario. Ci era venuto sempre appresso, e ovunque aveva visto una bandiera tricolore, s'era fermato col cuore palpitante; in qualsiasi luogo aveva udito suonare l'inno reale, aveva pianto di tenerezza.

— Vuoi un edelweiss? — gli chiesi un giorno offrendogliene uno.

Egli mi guardò crucciato, e poi abbracciandomi affettuosamente: — Senti — mi disse; — fammi il piacere di non chiamare mai più questi bei fiori con quel brutto nome!

— E come vuoi ch'io li chiami?

— Chiamali «stelle delle Alpi» — mi rispose, e, vedendomi sorridere, con accento soavissimo soggiunse: — Chiamali così, fammi il piacere, ti prego!

Una sera, ricordo, ci eravamo fermati in un paese a ristorarci. Al momento di partire il trentino mancava all'appello. Andammo in parecchi, battendo sentieri diversi per rintracciarlo, ed io, dopo di avere inutilmente urlato più volte il suo nome, stavo per tornarmene indietro, quando mi venne agli orecchi il suono flebile di un violino che miagolava l'inno di Garibaldi. Pensai subito che il giovinetto dovesse essere innanzi a quello strumento: infatti, com'ebbi superata una rupe, lo trovai davanti a quattro figure grottesche di suonatori: quattro contadini che noi avevamo scacciato poco prima ed egli aveva seguiti per far loro suonare i nostri inni patriottici.

Mi fermai commosso; poi me gli avvicinai e gli dissi: — Vieni! Si parte! Andiamo!

Eh! ciò! Che furia! — mi rispose; e dopo di avere pagati i suonatori, i quali, riposti gli strumenti nelle borse di panno, se ne andarono per un sentiero che si perdeva in un bosco di abeti, mi seguì esclamando: — Ti capissi che gh'averò da star chissà mai quanto tempo senza sentirla più 'sta musica benedeta!

* * *

Il sole era già alto quando, dopo un malagevole cammino, arrivammo innanzi ad una caverna scavata dalle acque di un fiume che va a gittarsi nel Brenta. La grotta viene chiamata il Buso, e si crede, non senza ragione, che in certe notti vi si diano convegno l'orco, le streghe e i sanguanelli: nani piccolissimi e saltellanti, per lo più vestiti di fiamme, i quali godono moltissimo quando possono scompigliare le chiome dei bimbi o annodare inestricabilmente le code e le criniere dei cavalli. Poco lungi dalla caverna ride un candido santuario fabbricato in onore della Vergine da un eremita di Agordo. Ci fermammo pochi istanti accanto alla chiesetta, poi, mentre un'aquila roteava sul cielo, ripigliammo la via. A un certo punto uno di noi fermandosi esclamò ridendo: — Sembriamo contrabbandieri! — Nessuno gli rispose; ma a me quella esclamazione fece tornare in mente una malga che pochi dì innanzi avevo visitato sul Pian della Fugazza: una malga, ove cinque contrabbandieri accumulavano, coprendole di strame e di stracci, molte cassette di latta piene di spirito. Debbo dirlo? Quei cinque contadini idioti in mezzo a tanto spirito, mi fecero tanta nausea che mi rammaricai di non essere una guardia doganale. Ma già, se fossi stato una guardia doganale, forse non avrei fatto niente di meglio di quello che faceva quel finanziere che incontrai poco dopo: il quale, fischiando il quartetto del Rigoletto, se ne andava a spasso, con la daga sul fianco, col fucile ad armacollo e con un romanzo sbrendolato di Paul de Kock che gli usciva allegramente dallo sparato della tunica sbottonata.

* * *

Davanti alle prime casette di Valstagna trovammo due stendardi di mussolina bianca, rossa e verde, legati in cima a due antenne, e un calzolaio in maniche di camicia, il quale, abbandonati sul deschetto unto due paia di stivali da rattoppare, andava incollando sulla porta di una vecchia osteria il suo giovanile entusiasmo o, per meglio dire, alcune strisce di carta rossa sulle quali chi sapeva di lettere poteva forse anche leggere: «W. gli Alpinisti». Due asinelli biondi, attaccati ad una carretta piena di casse, di bauli, di valige e di fagotti, presenziavano muti e seri il lavoro del calzolaio. Intorno alla carretta dormivano in terra molte donne e moltissimi bambini: erano emigranti che abbandonavano i loro paesi per andare a lavorare in quelli d'America. Il crosciare delle acque del Brenta conciliava il sonno di quella povera gente, e il sole, battendo in cima alla porta della bettola, illuminava senza risparmio un antico leone di marmo, il quale aprendo le ali e mostrando il Vangelo su cui c'era scritto: «Vino e Cucina» pareva che dicesse, ruggendo a voce bassa: — Oh! guardate un po' anche a me la sorte a qual duro ufficio mi ha serbato! Oh! guardate un po'!

Mi allontanai commosso, e seguitando una strada in riva al fiume, poco dopo, entro una trattoria modestamente intitolata Il Mondo ritrovai i miei compagni in una stanza piena di sole, di oleografie patriottiche e di mosche.

Eravamo tutti già da un pezzo là dentro a mangiare quando insieme al suono di un organino che balbettava il miserere del Trovatore entrò nella stanza un vecchio senza un braccio.

Uno di noi, osservando come il poveretto sotto la giacca rattoppata lasciasse vedere una camicia rossa, gli domandò: — Sei stato con Garibaldi?

— Sì — rispose il vecchio.

— Allora guarda là, guarda là! — ripigliò il nostro compagno accennandogli una delle oleografie appese al muro, nella quale era volgarmente effigiata una battaglia garibaldina. Il mutilato si avvicinò lentamente alla oleografia e rimase immobile con la testa alta a guardarla. Mi accostai anch'io ad osservarla e avendo visto fra le figure dei combattenti quella di un frate, mi volsi al vecchio e gliela indicai.

— Oh — egli mi rispose subito, sorridendo — in Sicilia con noi ce n'erano parecchi. Poi, dopo un istante di silenzio seguitò: — Ne ricordo uno piccolo, nero, agile come una scimmia. Quando aveva caricato il fucile s'inginocchiava e recitava una preghiera: poi si alzava e bum! Un borbonico cadeva in terra. Tirava benissimo. Una volta gli chiesi perchè recitasse quelle orazioni prima di sparare, ed egli mi rispose: — Raccomando l'anima di quello che ammazzo.

Mentre il garibaldino parlava, sempre guardando l'oleografia, dalla porta spalancata venivano più che mai strazianti i gemiti dell'organino; poi s'udì una girandola di stonature e il suono cessò. Allora egli s'aggiustò sulla spalla la manica vuota della giacca, cavò fuori dalla camicia un piattino di stagno, e girò per la stanza a mendicare qualche soldo.

Quando mi tornò accanto non appena mi vide mettere la mano in tasca per trarne una moneta, ritirò prontamente il piattino e accennandomi con lo sguardo la pipa che avevo accesa allora mi disse a voce bassa: — Mi regali piuttosto da fumare.

— Ma il fumo non esclude l'arrosto — gli risposi; e gli diedi un po' di tabacco e pochi soldi.

Più tardi, seguendo la strada in riva al Brenta per andare a Fonzaso, rividi ancora una volta il vecchio che aiutato da un ragazzo trascinava un piccolo carretto sul quale era legato l'organino.

Egli mi riconobbe da lungi. Fermò il carrettino, corse al manubrio e riprese a suonare il miserere del Trovatore. Lo salutai sventolando il cappello; lo risalutai ancora; poi entrammo tutti in un sentiero nell'ombra verde e trasparente di un bosco di querce e lo perdetti di vista.

* * *

Fra Valstagna e Fonzaso stanno i forti militari di Fastro e del Tombione: nell'attraversarli facendo stridere i chiodi aguzzi delle scarpe su le lastre di ferro dei ponti levatoi, guardando le torri, dalle cui finestre s'affacciavano, sbadigliando i cannoni, io non potei fare a meno di ripensare a quei tempi beati quando dugento fanti cum sui schioppetti over archibusi, riparati in una meschina ridotta bastavano a fermare un esercito. E i dugento fanti cum sui schioppetti mi accompagnarono fino alle porte di Fonzaso.

Oltrepassato il paese, sotto un gruppo di case, su la sponda del fiume Cismone, vidi da lontano una folla di contadini ferma attorno ad una carrozza su cui una figura ritta gesticolava energicamente. Credendo che fosse un ciarlatano il quale vendesse i suoi medicamenti specifici affrettai il passo. La figura ritta sulla carrozza era invece una povera pazza che veniva condotta via dal paese per esser forse rinchiusa in un manicomio. La poveretta, giovine e bella, urlava parole strambe, e agitando nell'aria le mani aperte, rideva, mentre copiose lacrime le colavano per le guance infiammate. I più vicini per chetarla, accarezzandola le sussurravano parole affettuose, con la gola stretta dal pianto; i più lontani ridevano.

La demente appena mi vide, protese verso di me le braccia, e, accennandomi a quelli che la circondavano, prese ad urlare: — Enrico! Enrico! Enrico! — Allora un uomo alto, pallido e barbuto si fece innanzi e diede al vetturino una valigia che questi si pose subito fra i piedi; abbracciò una vecchiarella vestita di nero che piangeva dirottamente; e ingrossando la voce, comandò alla mentecatta di sedersi. La disgraziata si rannicchiò in fondo alla carrozza tremando; l'uomo le sedette accanto, il vetturino schioccò la frusta, il cerchio dei curiosi s'aprì e la vettura sollevando nuvoli di polvere si allontanò rapidamente sulla via bianca arroventata dal sole.

Raggiunsi i miei compagni avendo negli orecchi le grida della pazza; e nella mente un tumulto di pensieri tristissimi. Sui lati della strada di tratto in tratto sulle rocce grigie fra folti cespugli d'erbacce giallastre appariva qualche croce di legno; in fondo alla valle di quando in quando un vecchio ponte vestito di erica e di piante salvatiche cavalcava il fiume veloce e sulle vette dei monti, coperti di oscure foreste di abeti, si scorgevano le rovine di grandi castelli popolate spesso di corvi neri e crocidanti e sempre di paurose leggende.

Mentre passavamo sotto uno di cotesti castelli il giovinetto trentino mi si accostò per dirmi con voce commossa che eravamo poco lontani dal confine. Non so più quali cose io gli dissi per consolarlo, ma ricordo che egli, seguitando a camminarmi accanto, sospirando, si tolse dal cappello le margherite, e le ripose a una a una, insieme con qualche lacrima, entro le pagine di un taccuino.

Dopo un poco mi afferrò per un braccio e forzandomi a restar fermo: — Varda! — mi disse, additandomi una casinetta bianca — Varda! La xe l'ultima casetta italiana.

Ci fermammo qualche istante a guardar la casetta che dall'alto di un poggio verde sembrava salutasse il fiume Cismone che arrivava fresco fresco dall'Austria e seguitammo la via.

* * *

Al Pontetto è il confine.

Uscendo dall'Italia, a destra sta la casa della imperial regia dogana; a sinistra quella dei nostri doganieri. Un'osteria è vicina alla casa italiana, e una stamberga di legno, sulle cui tavole imbiancate di recente si legge scritto col carbone: Otel zur Kaiser Krone, si appoggia alle mura della imperial regia dogana austriaca. Appena entriamo in un portico basso, ove sono allineate parecchie carrozze e legati molti muli e cavalli, un doganiere biondo e roseo, tutto vestito di nero, visita solennemente i nostri sacchi volgendosi di tanto in tanto a sorridere alla moglie del suo brigadiere, affacciata a guardare sulla porta della casetta austriaca.

— «Non contrabbando, signore?» — mi domandò l'imperial regio doganiere, dopo aver rovistato nel mio sacco, accennandomi alle tasche dalla parte del cuore e volgendosi ancora a sorridere alla donna.

— No. — gli risposi. E vedendo che la donna guardando il doganiere movea le labbra a un sorriso, pensando che egli forse non avrebbe potuto rispondere, come io risposi a lui, se il suo brigadiere indicandogli le tasche dalla parte del cuore gli avesse chiesto: «Non contrabbando?» mi allontanai.

Eravamo in Austria. Eppure non pareva. Intorno a noi gli alberi sorgevano lieti e verdi come quelli delle nostre terre; il Cismone spumeggiava fra i sassi, giù in fondo alla valle, così come lo avevamo visto spumeggiare poco prima nelle gole dei nostri monti; gli uomini ci salutavano, dicendo: «buon viaggio!»; le donne al pari delle nostre donne conducevano i buoi all'abbeveratoio; i cani abbaiavano scodinzolando attorno ai casolari, nè più nè meno dei cani delle nostre campagne: qua e là negli orti in riva al fiume le zucche fiorivano rigogliose simili in tutto alle zucche italiane, e gli asini ragliavano sonoramente col muso all'aria come gli asini dei nostri paesi.

— Allegro, tu! Allegro! — dissi allora al giovinetto trentino, picchiandogli sulla spalla, mentre scendevamo nella valle di Primiero, ma egli mi guardò con gli occhietti azzurri, e piegando il capo sospirò: — La xe un altra aria! La xe un'altra aria! — E in così dire due lagrime gli scendevano per le gote.

Seguitammo tutti a camminare in silenzio, e poco prima del cadere del sole arrivammo a Fiera.

La piccola città la trovammo appiattata fra il verde dei campi di canape e fra le piantagioni di tabacco in riva al Cismone, sotto alle cime della Pala di S. Martino, del Cimon della Pala, della Fradusta, della Rosetta e del Sasso Maggiore. Essa nel mille e trecento ebbe un glorioso succedersi di giorni lietissimi quando in un monte che le sorge accanto vennero scoperte alcune vene di argento. Allora una moltitudine di uomini, di donne, di vecchi e di fanciulli invase la valle silenziosa ove abitava il monte milionario. Oh! che giornata deve essere stata quella per lui che fin allora aveva vissuto selvaggio e solingo, quando un bel mattino risvegliatosi al primo apparir della luce e levato il capo dal roseo origliere di nubi udì da mille bocche cantar le sue lodi e sentì intorno a sè un festoso e continuo picchiare di mazze e di martelli. Certo che, se le avesse avute, il povero monte si sarebbe fregate le mani per l'allegrezza. Ma ohimè vennero anche per lui i giorni dolorosi della miseria, poichè tutta quella gente che gli era intorno vivendo alle sue spalle col suo argento, appena gli ebbe vuotate le tasche e gli ebbe tolto fin l'ultimo picciolo se ne andò altrove, senza neppur voltarsi a salutarlo, lasciandolo solo come un cane! Poveraccio! Il giorno che andai a fargli visita quando, dopo di essermi aperta con fatica una via fra selvette spinose di cardi e di piante cineree sotto i cui fiori gialli e violacei guizzavano i ramarri, io mi trovai dinanzi a una delle sue buche di dove tanta gente aveva tratto fuori tanta ricchezza, fui preso da una pietà così profonda che se non fossi stato vinto dal timore di offendere la sua dignitosa miseria gli avrei dato cinque lire.

Ma ora Fiera s'è data pace della fine delle sue miniere, le quali, come dice efficacemente un nobile scrittore, «appartengono alla storia», la quale non sa che farsene!, e vive modestamente, con quel poco che le è rimasto, in riva al Cismone, dove a chi ha la fortuna di andarla a vedere essa mostra subito quel che possiede: una chiesa gotica con un alto campanile a fianco, un teatro, un imperial regio capitanato distrettuale, un ufficio di posta e telegrafo, un negozio di generi di privativa, una bottega dove si vendono pipe tirolesi, si fabbricano dolciumi e si imbalsamano uccelli, un palazzone nero ove una volta si rinchiudevano le streghe, le donne possedute dal demonio, e, se si potevano acchiappare senza bruciarsi le dita, anche i sanguanelli; e nessun monumento a nessun grande uomo.

Tutte queste belle cose, meno l'ultima, s'intende, chi vuol vederle le trova subito, senza camminar molto, in tre vie che si distinguono coi nomi di contrada lunga, contrada di sopra e contrada di sotto, e in una piazza che non solo si chiama modestamente piazza di sotto; ma verso le cinque pomeridiane viene anche adoperata come sferisterio. Allora che vi andai, difatti, vi trovai sei giovinotti che vi stavano a giocare una partita alla palla. Avevo appena incominciato a seguire le sorti della partita quando un giuocatore mal destro mandò una palla sur una finestra del regio imperial capitanato distrettuale e un vetro andò in frantumi. Caspita! pensai subito, ora viene il regio imperial capitano distrettuale e ci impicca tutti; ma non avevo finito di pensarlo che invece del regio imperial capitano distrettuale venne un gendarme grasso e rubicondo con la canna di una lunga pipa di porcellana fra le labbra. Egli aprì adagio adagio la finestra, guardò il vetro rotto, sorrise e buttò a basso la palla che era rimasta sul davanzale, e dietro alla palla un'occhiata che pareva volesse dire: — Eh, cari miei, altre palle ci vogliono per farmi perdere la pazienza! — Poi sorrise di nuovo, richiuse adagio adagio la finestra e se ne andò.

I sei giovinotti ripresero, ridendo, il loro giuoco e un omino storpio accoccolato sopra una sedia seguitò a gridare con voce stridula i punti della partita.

* * *

Un delizioso giardinetto allieta il maggior albergo di Fiera. Dopo di aver desinato in gaia compagnia vi scesi, mentre un chiarore opalino che andava a poco a poco spargendosi nel cielo annunciava il sorgere della luna. Per vederla uscire dalle cime dei monti io m'era appena seduto sotto una pianta di rose, i cui rami spinosi abbracciavano il tronco di un larice, quando un canto doloroso ruppe il silenzio del piccolo giardino. I singulti dell' Ich grolle nicht di Schumann venivano da una finestra dell'albergo, si fermavano per qualche istante sulle rose e si perdevano nell'aria impregnata di acuti aromi resinosi. Appena il canto si tacque mi parve di sentire una voce che sussurrasse: — Enrico! Enrico!... — e un fiore mi cadde sul cappello. Balzai in piedi; alzai la testa e udii subito il cigolio di una finestra che si richiudeva in fretta.

Raccolsi il fiore e, ripensando alla pazza di Fonzaso, mi avviai lentamente verso la mia stanza.

Nel corridoio vi trovai una donna con un bambino sulle ginocchia, che dondolandosi sur una sedia, canterellava con un filo di voce:

Quanno che la mi' mamma me cunava

Cantava 'na canzona de Turchia.

Le fasse co' le quale me fassava

Era' tessute de malinconia.

Quanno che la mi' mamma me cunava

Cantava 'na canzona de Turchia!

Mi trattenni un poco ad ascoltare la cantilena, forse recata anch'essa dall'Oriente con le norme per la fabbricazione dei cappelli di paglia da Nicoletto del Sasso, e ne fermai, come meglio potei, sur un pezzo di carta, le parole; poi entrai nella mia cameretta ed apersi la finestra.

L'ultimo quarto della luna inargentava le acque del Cismone, che correvano scrosciando. Anche loro cantavano la ninna nanna ai larici ed agli abeti che sotto il cielo stellato s'addormentavano, sulle ginocchia della notte, nell'ombra tacita e densa delle umide sponde scoscese.

LE “CAPANNE„ DI RIPETTA

Il barcarolo che mi traghettava ieri all'altra sponda del Tevere, dove, sotto ai begli alberi fronzuti, sorgono dall'acqua bionda le stuoie gialle dello stabilimento dei bagni, mi diceva con molta serietà: — Caro lei, troppi stabilimenti! Troppi! Napoli, Livorno, Civitavecchia, Vicarello! Ar giorno d'oggi ce so' più stabilimenti che bagnanti: se capisce che l'affari vanno male.

Il Caronte che per due soldi trasporta le anime e i corpi dall'una all'altra riva tiberina e viceversa, è un vero lupo di fiume: magro; ma robusto, con la barba bianca e lanosa che gli onora la faccia abbrunita dal sole, siede gravemente sulla poppa di una sua barca, chiamata l'arca di Noè, e non abbandona il suo posto se non per raccogliere dignitosamente nella berretta il prezzo del breve viaggio fluviatile. Ordinariamente non è molto verboso. Le gravi responsabilità della navigazione non gli permettono di perdersi in chiacchiere; tuttavia se i «passeggeri» son pochi e di sua conoscenza, mentre egli maneggia il vecchio timone, che sa le tempeste e ad ogni scossa miagola come un gatto soriano, parla volentieri.

I suoi discorsi favoriti non mai più lunghi della traversata, sono due: la spiegazione der machinismo de la girella, che scorrendo sulla corda tesa fra le due rive del fiume tiene assicurata la barca; e la descrizione di un viaggio da lui fatto in gioventù per risalire il Tevere da Ripetta a Stimigliano; un viaggio con burrasche, burraschette, riggiri, mulinelli, crescenti, crescentini, murelle, pennelli, mollacce e mollaccioni: roba, Dio ne scampi e liberi tutti, da non ritornare più a casa.

È inutile dire che tanto il primo quanto il secondo discorso finiscono sempre con questa giaculatoria: — Caro lei, tutto va bene; ma ar giorno d'oggi ce so' troppi stabbilimenti. Napoli, Livorno, Civitavecchia, Vicarello! Troppi stabbilimenti! Li tempi de 'na vorta so' finiti.

Li tempi de 'na vorta! Allora, difatti, quando al cominciar dell'estate non era ancora venuta la moda di fuggirsene sulle rive del Tirreno azzurro e dell'Adriatico verde, l'inaugurazione delle «Capanne» era davvero per la vita romana un avvenimento; ma adesso invece è divenuta la cosa più semplice del mondo. Quando le tende e le stuoie sono distese sui pali ben confitti nell'arena del fiume; quando tutte le sedie sono allineate e la pesante scrivania è al suo posto, si appende sulla porta d'ingresso una tabella su cui sta scritto a lettere di scatola: SI PAGA ANTICIPATO, e la stagione dei bagni fluviali è inaugurata.

* * *

Appena si entra nelle «Capanne» è di rito il domandare gravemente al primo che vi capita dinanzi: — Com'è l'acqua?

— Bu... bu... bu... o... na — vi risponde invariabilmente l'interpellato, asciugandosi il petto con l'asciugamano.

Esaurita la prima domanda si deve passare subito alla seconda: — Fredda?

— Un br... br... br... o... do! — replica allora egli battendo i denti e tremando.

Ottenute alle due domande rituali le due risposte inevitabili, potete pure consegnare, se li avete, i vostri valori al proprietario dello stabilimento, ricevendone in cambio una medaglietta infilata a una cordicella, e, dopo di aver pagato il prezzo del bagno, siete padroni di fare quel che vi pare e piace, anche di annegarvi, tanto potete esser certi che in ogni caso il maestro di nuoto vi verrà a ripescare.

Il maestro di nuoto, come non è difficile di immaginarlo, dopo il pizzardone, il quale vigila per conto del municipio sulla morale dello stabilimento, cioè sulla maggiore o minor lunghezza delle mutandine dei signori bagnanti, è la prima autorità delle «Capanne». Egli, oltre alle lezioni di nuoto che impartisce con una chiarezza di eloquio ed una sicurezza di metodo veramente ammirabili ai suoi scolari, è sempre disposto, dietro un modesto compenso, ad insegnare a loro, ogni qual volta lo desiderino, anche i primi rudimenti di un suo speciale sistema scientifico di ginnastica educativa, consistente in capriole, salti mortali e lotta romana; ed è sempre dispostissimo, qualora se ne presenti l'occasione, a salvare dalla morte quegli sciagurati, i quali, volenti o no, si trovano in procinto di andare a fare conversazione co' li pescetti. Difatti, il brav'uomo nelle grandi solennità nazionali ed estive non si priva mai del piacere di esporre sul suo petto all'ammirazione pubblica parecchie medaglie d'argento, di bronzo e di altri metalli più o meno artefiziati, avute in premio per i molti salvamenti da lui felicemente compiuti. Però, bisogna dirlo a suo elogio, alle medaglie ci bada poco: quello a cui tiene assai è di fare il proprio dovere e di riscuotere quell'ambìto guiderdone col quale i parenti dei salvati, da che il mondo è mondo, sogliono rimeritare i salvatori.

Una volta, ricordo, fra una lezione di nuoto e un'altra di ginnastica educativa, mise gli occhi addosso a un giovinetto il quale fra le sue abitudini, non tutte buone, aveva anche quella di affogarsi una volta al mese. Il giovinetto era il figlio di un padre discretamente danaroso, e il bravo maestro, immaginando quale dolore il figlio avrebbe arrecato al padre, se mai fosse andato in fondo al Tevere a fare conversazione co' li pascetti, come lo vedeva allontanarsi dalla sponda lo seguiva con gli occhi vigili e al momento opportuno lo salvava.

Il povero padre aveva già ricompensato per ben due fiate il filantropo, unendo al vile metallo i più cordiali ringraziamenti, quando, con sua grande meraviglia, se lo vide ricomparire dinanzi ancora una volta con la notizia di un terzo salvataggio. Giacchè non c'era modo di poter fare altrimenti, il povero genitore tornò a rimunerare e a ringraziare il salvatore; ma poi, impensierito della triplicità dei naufragi e relativi salvamenti, gli disse: — Sentite, se mai d'ora innanzi vi accadesse di vedere mio figlio che se ne va giù in fondo al Tevere, lasciatecelo andare, perchè se lo salverete una quarta volta io non vi darò più nemmeno un centesimo.

Non occorre dire che da quel giorno il giovinetto, che aveva contratta la brutta abitudine di affogarsi una volta al mese, non s'affogò più.

Ma il maestro di nuoto delle «Capanne» di Ripetta non è soltanto un filantropo a tutta prova, un nuotatore pronto a sfidare ogni rischio e un ginnasta degno di qualunque circo, anche equestre; ma è eziandio un pescatore senza rivali e un navigatore espertissimo, poichè il letto del Tevere lo conosce assai meglio di quell'altro letto ove ei suol dormire con la sua signora. E, come se ciò già non bastasse, a coteste belle qualità fisiche e morali che adornano il suo corpo e la sua anima egli ne può aggiungere ancora un'altra simpaticissima: quella di essere un maestro impareggiabile nell'architettare burle e mistificazioni, le quali ei suole romanamente nobilitare col nome di fregature, e di saperle mettere in esecuzione con una salsa così saporita di serietà allegra da conciliarsi quasi sempre il perdono dei burlati.

Una volta, ricordo, venne annunciato sui giornali l'arrivo a Roma di un americano, un certo capitano Boyton, inventore di un vestiario nero nonchè insommergibile, che permetteva al suo proprietario di poter galleggiare in tutti i mari, per tutti i fiumi e su tutti i laghi del Globo. L'americano aveva l'atto sapere, con manifesti appiccicati alle cantonate, il giorno, e press'a poco anche l'ora, in cui egli sarebbe giunto a Roma da Terni, percorrendo la Nera ed il Tevere, per mostrare la sua invenzione impermeabile ai pronipoti del console Cajo Duilio.

I pronipoti del console s'erano già affollati sulle rive del fiume, ansiosi di ammirare l' omo galleggiante, quand'ecco che scorgono da lontano un gruppo di barchette imbandierate. Le barchette s'avvicinano e, mentre i vogatori gridano a perdifiato: — Viva il Capitano! Viva Boyton! Viva Cristoforo Colombo! Viva la scoperta dell'America! — in mezzo a moltissimi nuotatori, che galleggiano muovendo furiosamente le braccia e le gambe, tutti distinguono un uomo vestito di nero, disteso sulle acque bionde passare immobile, trasportato dalla corrente.

Dalle finestre, dalle loggette, dai mignani e dalle terrazze delle case, che si specchiano da secoli nelle onde gialle del fiume famoso all'universo, vien cavata fuori qualche bandiera; la folla accalcata sui gradini del porto di Ripetta applaude e saluta l' omo galleggiante; e questi, sempre immobile sul pelo dell'acqua, prosegue il suo viaggio fra una cagnara di casa del diavolo, e, arrivato a ponte S. Angelo, prende terra fra un multicolore sventolìo di stendardi e fra un assordante scoppiettare di crepitacoli e di applausi che l'acqua, buona conduttrice del suono, questa volta, aiutata anche dalla corrente, porta lontano lontano, forse fino al mare.

L'animoso Boyton, il quale non era altri se non il maestro di nuoto delle «Capanne», prima di lasciare la riva di Castel S. Angelo ringraziò e salutò con suoni e con gesti, veramente non tutti americani, la gente addensata sul ponte Elio; e quindi, accompagnato rumorosamente dai suoi seguaci, se ne tornò glorioso e trionfante a Ripetta, ove sotto gli alberi fronzuti numerosi ammiratori gli offrirono un solennissimo e lauto simposio, non che i mezzi per potere agevolmente dimostrare come e quanto ei sapesse essere insommergibile non soltanto nell'acqua, ma anche nel vino.

Ma il più bello di tutto fu questo: che poco più tardi quando il vero capitano Boyton arrivò a Roma, sia che tutti temessero una nuova mistificazione o sia che tutti avessero esaurita, non importa come, la provvista del loro entusiasmo, il fatto sta che al vero Boyton non ci credette nessuno, e l'audace capitano nonchè notatore insommergibile dovette notare quanto mai sia difficile, anche sulle rive del Tevere, alla verità di poter galleggiare su l'apparenza.

* * *

Le «Capanne» si dividono in due parti. La prima formata da un largo recinto di stuoie, libero a tutti, viene chiamata superbamente il «Capannone»; la seconda, una lunga fila di piccoli recinti, porta il modesto nome di «Capannelle».

Come le «Capanne» si dividono in «Capannone» e «Capannelle», così i loro assidui frequentanti si possono distinguere in nuotatori che nuotano e in nuotatori che non nuotano.

Il nuotatore che nuota lo si riconosce subito: quasi sempre indossa, quando lo indossa, un costume molto scostumato: è l'amico di tutti, saluta tutti, e scherza volentieri con tutti, massime con quelli che non hanno nessuna voglia di scherzare; conversa ad alta voce e in gergo coi «capannari»; stringe la mano e dà del tu al maestro di nuoto; organizza merende all'aria aperta e banchetti all'aria chiusa, mette sù barchettate ai Polverini e partite di pesca nell'Aniene; e parla continuamente dell'Albero Bello, una parte del Tevere, fra ponte Milvio e Ripetta, malamente famosa per i molti suoi mulinelli vortici e gorghi pronti ad inghiottire i nuotatori inesperti. Egli appena entra nell'onda esce subito dalle «Capanne», e il suo bagno se lo va a pigliare nel bel mezzo del fiume ove fischia, canta e schiamazza affinchè tutti possano ammirare la sua forza e la sua destrezza nei più difficili esercizi del nuoto; ma se mai rimane nel «capannone» arranca sempre, cioè va sempre contro corrente.

Il nuotatore che non nuota, invece, come si può facilmente pensare, è la perfetta antitesi del nuotatore che nuota. Egli, benchè faccia sempre le sue evoluzioni natatorie indove ce se tocca, è sempre inappuntabilmente vestito di un costume irreprensibile; parla poco, è timido, è sospettoso, non dà confidenza a nessuno, e non accetta scherzi, specialmente nell'acqua; e quando entra nel «capannone» gli si sviluppa in tutto il suo essere una simpatia straordinaria per i pali, tant'è vero che appena ne vede sorgere uno rigido e muto dall'onda sonora e corrente, si sente immediatamente attratto verso di lui da una forza irresistibile; gli si avvicina, se lo stringe al petto e non lo lascia più. Ma per solito il nuotatore che non nuota il suo bagno se lo piglia di nascosto, solo, in una «capannella» fischiando quasi sempre la romanza più in voga.

Ai nuotatori che non nuotano bisogna aggiungere gli apprendisti, ossia quei tali frequentatori delle «Capanne», i quali, pur non avendo nessuna attitudine al salutare esercizio del nuoto, cercano in tutti i modi di ottenere con la volontà quello a cui la natura li ha irremissibilmente negati. Ve ne sono di tutte le età e di tutte le condizioni: vecchi venerandi dalle lunghe barbe fluenti e giovinetti di primo pelo, capi divisione nei pubblici ministeri e studenti di quarta ginnasiale, signori e poveretti, uomini di guerra e uomini di pace, professionisti e artigiani. La prima caratteristica dell' apprendista è quella di amare, almeno fino a quando rimane nell'acqua, il prossimo suo più di se stesso. Difatti l'attaccamento da lui sentito per il suo simile diviene in certi momenti così allarmante da far ripensare a quella massima dello Schopenhauer che dice: — Se l'uomo conoscesse i pericoli che provengono dall'attaccamento, se ne andrebbe a vivere nella foresta, solo, come un rinoceronte.

Del resto gli apprendisti per lo più si attaccano tra loro; poichè nel «capannone» non ci vanno mai a uno a uno, ma sempre a due a due come i frati minori e le monache maggiori, come le guardie di pubblica sicurezza e i reali carabinieri, e come le uova al tegame: e una volta nell'acqua si consigliano, studiano, non apprendono e bevono.

La quantità di Tevere che essi son capaci di ingurgitare durante i loro studi natatorii è incalcolabile; tanto incalcolabile che se il Nestore e la Chiana, il Topino e la Paglia, la Nera e l'Aniene finissero di soccorrerlo con le loro linfe abbondanti, io credo che il nostro povero vecchio Tevere finirebbe col seccarsi.

Ma prima che egli si secchi, e prima che vi secchiate anche voi, sarà bene di rammentare, sia pure brevemente, due altri gruppi di frequentatori delle «Capanne»: quello dei cacciatori i quali portano con loro i proprii cani per risciacquarli nelle acque tiberine, e quello di quanti vanno alle «Capanne» per diventar neri. Questi per lo più amano la solitudine: se posseggono una barchetta sono capaci di risalire il fiume per ore ed ore, vogando; se non posseggono la barchetta nè un amico a cui chiederla in prestito, si scelgono un luogo della sponda ove il sole batte più rovente, si stendono su l'arena torrida, e nuotando nel proprio sudore, rimangono lì a crogiolarsi in una specie di torpore stupido, dal quale non si destano se non per accertarsi del progresso del loro annerimento. I cacciatori invece amano la compagnia, non più dei proprii cani, s'intende; ma l'amano, e amano anche di chiacchierare. Difatti, mentre si spogliano, non la finiscono più di parlare di quaglie, di starne, di pernici, di lepri, di cignali e di caprioli, punteggiando i lunghi discorsi con certi bum-bum che fanno trasalire dallo spavento la guardia municipale la quale, dormendo su una sedia, vigila sempre per conto del municipio sulla moralità dello stabilimento; e quando si sono spogliati si mettono a insaponare e a lavare i loro cani sulla riva bollente sotto il tormento del sole ardentissimo. Qualche volta però il sole produce i suoi effetti! Io ricordo di aver visto coi miei occhi mortali uno di cotesti cacciatori che dopo di avere insaponato e ben bene risciacquato il suo cane pretendeva niente di meno che la povera bestia imparasse a fare il braccetto.

* * *

Dopo di esser uscito fuor del pelago alla riva, di aver guatato l'acqua perigliosa e gialla e di essersi bene asciugato, il nuotatore che si rispetta, prima di rivestirsi, per risvegliare col moto il calore nelle sue membra infreddolite dal bagno, giuoca una partita a morra. La partita viene giuocata in due e più spesso in quattro, e il premio del vincitore, o vincitori che siano, è sempre un bicchierino di un certo liquido giallognolo imprigionato in una bottiglia nera ed antica, la quale, forse in un tempo assai lontano, ospitò fra le sue fragili pareti di vetro un litro di quel vino bianco scelto e aromatico a cui il Rigutini e il Fanfani danno il nome di vermutte.

I frequentatori delle «Capanne» il liquido giallognolo lo chiamano arnica.

Una volta i vincitori della morra solevano aggiungere all'arnica qualche pagnottella imbottita o qualche croccante amaretto che un vecchio storpio a cui avevano dato il nome di Spillman, cioè il nome del più famoso fra i pasticcieri romani, difendeva accanitamente dalle mosche agitando di continuo una verghetta flessibile sul cui vertice ondeggiava un fiocchetto minuscolo di carta velina; ma adesso il povero storpio, dopo di aver perduto ogni speranza di vedersi onorato in modo soddisfacente dagli ambiti comandi della sua rispettabile clientela, sulle rive del Tevere non ci viene più, e i bevitori di arnica alla pagnottella e al croccante ci han dovuto rinunziare.

Povero Spillman! Dove sarà andato ora a vendere i suoi dolciumi?

Le ultime volte che venne alle «Capanne», sebbene si sforzasse a dissimularlo, era di un umore assai nero. Vedendo che ogni giorno la sua clientela rispettabile si allontanava sempre più da lui, presentiva l'avvento del giorno fatale in cui egli avrebbe dovuto a sua volta allontanarsi da lei.

— Come va? — gli domandavano al vederlo; e lui, sostenendo a fatica sul petto la canestra dei dolci, mentre si avvicinava alla scrivania del proprietario dello stabilimento accanto alla quale era solito di mettersi a sedere, rispondeva, alzando gli occhietti verdastri verso il tetto delle «Capanne»: — Ringraziamo il Signore! — E, dopo di aver ringraziato il Signore, posava la canestra sur una sedia e aspettando invano gli ambiti comandi dei signori bagnanti incominciava a caccià' le mosche.

Un giorno un «capannaro» molto intelligente gli manifestò il dubbio che forse i bevitori di arnica non si avvicinavano volentieri alla canestra perchè erano impensieriti dalle troppe mosche che ci volavano sopra, e gli suggerì di coprirla con un velo.

Spillman trovò il suggerimento molto ragionevole e difatti la mattina appresso adornò le pagnottelle imbottite e i croccanti amaretti di un velo candidissimo simile a quello con cui quel dolce di Calliope labbro, prima di renderlo in grembo a Venere celeste, adornò Amore, nudo in Grecia e nudo in Roma; ma i signori bagnanti pur ammirando la leggerezza del velo e approvando senza riserve il mezzo ingegnoso col quale egli aveva saputo difendere la sua pasticceria dagli oltraggi dei ditteri fastidiosi, i quali, se è vero quel che dice Plutarco, venivano adorati dagli Acarnani, di pasticceria ne comperarono poca. Allora il «capannaro» che prendeva sempre molto a cuore le tribolazioni del povero Spillman, anche perchè alla fine della giornata soleva riscuotere una piccola percentuale sui meschini incassi del pasticciere, vedendo come il velo non avesse raggiunto gli effetti sperati, lo consigliò di unire ai dolci, articolo di vendita dubbia, un articolo di esito certo: il sapone. E gli disse: — La pasticceria, sì, è un genere bellissimo; però si nun se venne subito s'inacidisce e bisogna buttalla; ma er sapone, no. Er sapone è sempre sapone e sfida li secoli peggio der travertino. Dunque?

— Proviamo! — mugolò lo stroppiato, e qualche giorno dopo mise accanto alle pagnottelle e ai croccanti due dozzine di saponette rosse, gialle, verdi e turchine, le quali, non solo promettevano di essere più dure del travertino, ma facevano venire la colica soltanto a guardarle.

E fu proprio allora, quando vide sfondarsi tutte le speranze da lui fondate sul felice esito delle saponette, che il disgraziato mi dimostrò come col racconto della sua vita il poeta Dante Alighieri avrebbe potuto scrivere un romanzo di Perino.

Era, ricordo, un tepido e luminoso pomeriggio di agosto. I passeri cinguettavano sul tetto delle «Capanne». Una luce quieta e dorata, traversando i giunchi e le cannucce fesse delle stuoie, scendeva dall'alto a rallegrare le acque bionde del fiume; e di quando in quando qualche barchetta nera radendo la sponda limacciosa, ombreggiata dalle acacie verdi fra i cui rami frondosi strillavano le cicale, passava adagio adagio lasciandosi dietro, oltre al rumore tenue e cadenzato dei remi, una frangia d'oro vaghissima.

Mentre i passeri cinguettavano, le cicale strillavano e le barchette passavano, lo stroppiato, volgendo di tratto in tratto gli occhietti verdastri e rassegnati verso le saponette invendute, mi confidò che egli era nato negli agi e mi disse che essendo rimasto orfano di pochi anni venne affidato alle cure di un tutore il quale a poco a poco gli mangiò tutto il suo avere. Uscito appena dalla adolescenza il meschino fu colpito da una grave malattia: riavutosi si trovò solo e costretto a dover risolvere giorno per giorno, ora per ora il difficile problema della esistenza. Provando e riprovando lo risolvette mettendosi a fare il materassaio. Dopo di avere impuntito non so più quante migliaia di materasse, si impiegò nella «Nettezza Urbana», e per qualche tempo, secondo quel che mi disse, campò «portando via la nettezza dalle case». Alfine, dopo di avere esercitati parecchi mestieri, uno meno rimunerativo dell'altro, cercando di sbarcare il suo lunario, sbarcò, dopo molte tempeste, in una bottega di pasticciere, e gli riuscì di mettere insieme, fra un pasticcio e l'altro, un modesto peculio. Se la passava discretamente bene quando per sua disgrazia gli venne in capo l'idea di voler aggiungere alle dolcezze dei pasticci anche quelle del matrimonio, e si ammogliò. La moglie, passato qualche mese, gli morì ed egli stesso cadde gravemente ammalato. I pochi quattrini messi insieme con tante fatiche se ne andarono in medicine, e lo sciagurato quando dopo lunghe sofferenze ritrovò la salute perdette l'uso delle gambe; e allora, non potendo quasi più camminare, divenne pasticciere ambulante: si legò al collo con una cordicella un paniere di vimini; l'empì di robe dolci, e reggendosi a stento sulle cianche rattrappite, incominciò a strascicare amaramente la vita per le vie dolorose del mondo nella speranza di trovarci gente allegra e festante, disposta a comperare e a gustare dolciumi.

Povero e caro Spillman dove sei ora con le tue pagnottelle, coi tuoi croccanti e con le tue saponette? Chi potrebbe dirlo? Quello però di cui tutti son certi è che le «Capanne» con la tua partenza han perduto il più buono e più simpatico dei loro frequentatori; e quello che io posso dire è che il ricordo dei tuoi croccanti mi resterà sempre dolce nella memoria. Ma, se hai creduto bene di andartene, è inutile di starsi a rammaricare; tanto più che oramai, qui sulle due belle nostre rive del Tevere, noi ci siamo assuefatti e rassegnati da tempo a vedere che tutto se ne va. Tutto! Non soltanto i tuoi croccanti amaretti, le tue pagnottelle imbottite e le tue saponette rosse, gialle, verdi e turchine, caro e povero Spillman; ma le usanze e i costumi, gli abiti e le abitudini, i giuochi e le feste, i gesti e le parole, i giardini e le ville, le mura e i palazzi, le strade e le botteghe, gli alberi e le torri, le Porte e i monumenti. Tutto!

E fra non molto, ahimè!, dovranno andarsene anche le «Capanne»; scacciate dai muraglioni, bianchi, monotoni e uggiosi dei Lungo Tevere, i quali tra poco si metteranno a sedere sulle sponde boscose e pittoresche del nostro bel fiume biondo ed antico, per non rialzarsi mai più, dovranno andarsene anch'esse.

E poichè tutto se ne va, poso la penna e, per non restar solo, me ne vado anch'io.

IL MIO PELLEGRINAGGIO

— Ma lei ci vada — mi disse la signora Ermelinda, un'affittacamere che da molti anni mi onora della sua benevolenza, — ci vada, e vedrà che quando ritorna non avrà parole per ringraziarmi. Ecco il biglietto. Ma faccia presto, corra, altrimenti non arriverà in tempo.

Presi il biglietto, scesi in istrada, salii su una vettura e dissi al vetturino: — A San Pietro!

* * *

Il vetturino, appena il cavallo si muove, incomincia subito a chiacchierare, e fra una frustata e l'altra mi descrive diffusamente le antiche funzioni papali, mi partecipa le ultime notizie della salute di Coccapieller, mi spiega l'interno de Castel Sant'Angelo, avvertendomi che si può anche chiamarlo la mola adriana per via che è tonno; e quando entriamo in piazza Rusticucci, indicandomi con la punta della frusta la più gran cuppola dell'Umanità, mi dice sorridendo come se pregustasse la mia sorpresa: — La vede quella palla che de quaggiù a lei gli pare un merangolo? Be', lì drento per sua regola sappia che ci vanno non meno di sette persone.

— Ma davvero?

Non meno. — ribadisce il vetturino; poi, felice della mia sorpresa accennando, sempre con la punta della frusta, le due fontane in mezzo alle quali passiamo, continua: — E queste due fontane le vede? Sono due bellissime fontane perenne che le fece fare Sisto Quinto assieme all'obilisco di Nerone: e dice la storia che quanno lui le fece vedere ar re de Napoli, er re de Napoli se crese che fossero finte e disse ar papa... Un cordone di bersaglieri impedisce alla vettura di poter andare più innanzi, ed io son costretto a lasciarla insieme a Nerone, a papa Sisto e al re di Napoli.

Mentre la lascio, il grande orologio del Valadier con la sua voce sonora mi avverte che sono le dieci e tre quarti. Non c'è tempo da perdere: e mi avvio a passo accelerato verso la Sagrestia, davanti alla cui porta ci trovo una folla di preti, frati, monache e seminaristi che si stringe addosso a due «sampietrini».

Aiutandomi coi gomiti mi faccio innanzi insieme ad alcune «figlie di Maria», e presento il mio biglietto a uno dei «sampietrini», il quale appena lo vede mi dice: — Questo nun è bono.

— Come? Non è buono?

No. Lei è un pellegrino e li pellegrini deveno entrà' dar Portone.... — Sfido io!

...de bronzo.

Vado al Portone di bronzo; colà mostro il biglietto a un gruppo di signori in abito nero e cravatta bianca, ed entro. Appena muovo i primi passi nel corridoio del Bernini, uno svizzero mi si avvicina e mi offre una crocetta di panno bianco e una breve carta su cui sono stampate le istruzioni per le udienze pontificie. Ringrazio il pronipote di Guglielmo Hötel, scendo nel vestibolo della basilica, saluto i miei due vecchi amici Carlo Magno e Costantino ed entro nel tempio.

Sotto alla colossale pila dell'acquasanta due gendarmi cór bonettóne a pelo si appoggiano alle loro durlindane. I due putti giganteschi li guardano e sorridono. Alcuni pellegrini con le gambe aperte e con la testa bassa son fermi ad osservare e forse a leggere le iscrizioni che segnano sul pavimento la misura delle principali chiese d'Europa; altri, parlando a voce alta, passeggiano facendo stridere i chiodi delle scarpe sulle pietre lucide e perfino su quel porfido ove un tempo gl'imperatori venivano a farsi incoronare; ma la chiesa è vuota.

— Come mai? — domando a una guardia palatina.

Eh — mi risponde il pacifico armigero, guardandomi dall'alto in basso, — che gli rimane di novo? Non lo sa che ne la gran grandezza tutto pare piccolo e che San Pietro pare sempre vòto? Lei giri e vederà si quanta gente incontra.

Seguo subito il consiglio palatino: mi unisco a parecchi pellegrini sardi i quali camminano adagio adagio, fermandosi di quando in quando a guardare in alto con le bocche aperte, e arrivo alla Confessione ove c'è un brulichio di gente nera che le famose ottantanove lampade di Mattia De Rossi non arrivano a illuminare. Mentre sto ammirando una guardia nobile, che deve essere certamente molto più nobile di quello che pare, arriva un branco di pellegrini d'ambo i sessi guidato da un pretonzolo sul cui volto pallido brillano due cristalli incastrati in due cerchietti d'oro.

Egli appena si ferma alza subito un braccio verso una delle quattro colossali colonne di bronzo e incomincia a dire: «Questo, signori, è il famoso baldacchino del Bernini. Per costruire questa mole superba il grande artista impiegò un milione ottocento sessantatre mila trecento novantadue libbre di metallo e per dorarla spese quarantamila scudi; circa duecento mila lire della nostra moneta corrente».

I pellegrini manifestano coi gesti e con le parole la loro meraviglia, e il pretonzolo con la voce monotona, come se recitasse una lezione mandata a memoria, continua imperturbabile: «La mole superba che abbiamo dinanzi è alta ventotto metri; e il sommo pontefice Urbano ottavo la inaugurò nel giorno della festa di San Pietro nell'anno milleseicentotrentatre».

Arrivato all'anno milleseicentotrentatre il pretucolo si concede un attimo di riposo; poi girando lentamente intorno a se stesso sempre col braccio alzato ripiglia: «Le quattro statue colossali che lor signori vedono nelle nicchie dei quattro pilastri che sostengono la cupola rappresentano San Longino, Sant'Elena, Santa Veronica e Sant'Andrea. Nella loggia che sta sopra alla statua di Santa Veronica, nelle grandi festività, vengono mostrate alla venerazione dei fedeli le sagre reliquie che fanno sommamente venerabile questa basilica, la quale, oltre alla metà dei corpi dei santissimi apostoli Pietro e Paolo, possiede il santissimo Sudario, la lancia che trafisse il santissimo costato di nostro Signore, un gran pezzo della Croce su cui si compì la nostra redenzione, la testa ed un braccio di Sant'Andrea apostolo, una spalla di San Stefano protomartire, la testa di San Sebastiano, il corpo di Santa Petronilla figlia di San Pietro, ed oltre ad infinite altre reliquie, che sarebbe troppo lungo ora di ricordare, i corpi dei primi dieci pontefici».

Appena compiuta l'enumerazione del tesoro sagro posseduto dalla basilica vaticana, il pretonzolo fa un gesto brusco con la mano aperta come se volesse dire: sbrighiamoci!, e si mette a camminare a passo svelto verso il monumento di Alessandro settimo. Tutti lo seguono; ed io mi avvicino ar Chiavettaro, e, dopo di esser rimasto fermo un momento a guardare la gente che gli si accalca intorno per baciargli il piede, entro nella navata destra. C'è folla. Preti di tutti i gradi, frati di tutte le razze, monache di tutti i colori, contadini di tutti i paesi e pellegrini di tutti gli odori si ammassano sotto al sarcofago di Gregorio decimoquarto, ove, davanti a un panneggiamento di stoffe rosse orlate di una frangia d'oro, veggo biancheggiare da lontano la spalliera di una sedia e riluccicare la punta di qualche alabarda.

Ignorando il programma dello spettacolo mi rivolgo a un canonico e gli chieggo: — Scusi, reverendo, il papa...

— Sì, figlio, viene di qua. — mi risponde lui subito, senza neppure lasciarmi finire la dimanda.

— Ma ritarda! — esclama una donna.

Il canonico cava fuori la sua saponetta, se l'accosta all'orecchia, la guarda e aggrotta le ciglia. Sono le undici e tre quarti.

La ponctualité c'est la politesse des rois. — mormora un signore, sorridendo.

— Sì, ma il papa non è più re, — osservo io.

Il canonico si inchina maestosamente e s'allontana.

E m'allontano anch'io per avvicinarmi a una bella pellegrina, seduta sul dorso marmoreo di una balaustra, nella speranza di poterle dire qualche cosa; ma ohimè prima che io le domandi: «Che vuoi dirmi in tua favella?» essa mi annuncia che il papa non verrà più con le ventole.

— Ma ne è proprio sicura?

— Sicurissima.

Per liberarmi dal dubbio angoscioso fermo un bellissimo «sediaro» roseo e paffuto il quale passa pavoneggiandosi nel suo vistoso abito cremisino e gli chieggo: — Scusi, è vero che Sua Santità non verrà più in sedia gestatoria?

Fijo mio — egli mi risponde alzando il mento e aprendo le braccia — aveva da venì' in sedia; ma pare che abbia cambiato idea.

— E allora come verrà?

In portantina.

— Sarà sempre una bella cosa, però! — insisto io, e il «sediaro» inchina lentamente il capo assentendo; ma storce la bocca.

Dal fondo della navata viene un brusìo confuso: mi volto e veggo su la massa oscura e ondeggiante qualche cosa che brilla.

— È una croce? — domando.

Macchè croce! So' bajonette! — mi risponde subito una popolana alta come un granatiere; e una monachella piccola piccola che, poverina, per quanto provi a rizzarsi sulle punte dei piedi non arriva a veder nulla, commenta con una vocetta deliziosa: — Si lei mi assicura che sono propio baglionette, allora vuol dire che viene lui.

Un rumore di voci bianche e nere, vicine e lontane esclamanti tutte insieme: — Viva il papa-re! Viva il santo padre! — e uno sventolìo prolungato di fazzoletti ci dicono che la monachella ha ragione.

Quando la calma e i fazzoletti rientrano nelle tasche e negli animi dei pellegrini, sotto le volte aurate della basilica enorme si fa un gran silenzio; ed io allungando il collo riesco a distinguere da lontano fra un gruppo di cardinali purpurei, di monsignori violacei, di guardie nobili rosse e di svizzeri multicolori, il sommo pontefice che si soffia il naso.

Dopo un po' ritorno ad allungare il collo e veggo ancora il papa, vestito di una mozzetta paonazza rallegrata da una ricchissima stola d'oro, volgersi con la persona magra ora a destra ora a sinistra, alzando e abbassando le braccia.

Le cose vanno per le lunghe, e intorno a me tutti si dolgono di non poter sentir nulla. Per fortuna la popolana, trovandosi in grado con la sua alta statura di arrivare a vedere qualche cosa, di tanto in tanto ci informa di quello che succede, e a un certo punto con la sua bella pronuncia armoniosa ci dice: — Sapete? Er papa sta a fa' un bellissimo discorso; ma disgraziatamente la voce nun l'assiste!

La monachella che fino ad ora, poverina, per quanti sforzi abbia fatto non è riuscita a poter vedere neppure un pezzetto di papa, abbassa gli occhi e sorride; e la popolana esclama: — Ah, Pio nono! Quello davero era un sommo pontefice! Me ricordo che er giorno de la messa novella quanno s'affacciò a la loggia pe' dacce la benedizione inurbis e torbis disse un orèmuse che s'intese a Monte Cavallo.

Tutti ridono, e una guardia palatina, raccogliendo il discorso della popolana dove essa lo ha lasciato cadere, continua a tessere le lodi dì Pio nono; e di lode in lode, scandalizzando e spaventando la povera monachella, arriva a raccontare le bojate de la notte der sedici lujo, ossia di quella notte memoranda in cui la salma del pontefice al lume discreto e pio de le torce de li preti e al chiarore indiscreto e reo de li bengalli de li frammassoni fu trasportata da San Pietro a San Lorenzo for de le mura.

Quanno fossimo a li novi quartieri — seguita a dire la guardia, commentando le parole con gesti solenni — le serciate se spregaveno. A me me ne passò una qui, che si fortunatamente nun pijava su la schina de Pippo, io nun ritornavo più a casa.

Un lungo applauso tronca sul più bello, con mio rincrescimento, il racconto della guardia palatina; i fazzoletti come uno sciame di farfalle bianche ricominciano a svolazzare sulla folla bruna, e una voce robusta grida: — Viva il sommo pontefice, cattolico, apostolico, romano! — Un lungo batter di mani segue il grido, e quando lo scoppiettìo degli applausi sta per cessare una vocetta stridula di galletto accapponato urla: — Abbasso Umberto! — Due gendarmi cór bonettóne a pelo pongono subito le loro quattro mani inguantate addosso al galletto accapponato e lo portano via, forse per rimetterlo in gabbia. Intanto la folla si riversa correndo nella navata centrale: mi ci riverso anch'io e aspetto con lei il passaggio del papa il quale a dir vero non si fa molto desiderare; difatti dopo qualche minuto di attesa fra due file di guardie palatine col fucile, di svizzeri con le alabarde e di guardie nobili con le scimitarre sfoderate, seguendo un crocifero incominciano a passarci davanti seminaristi con le cotte bianche pieghettate, chierici con le zimarre nere e col roccetto, canonici con le mozzette pelose, prelati vestiti di seta, frati con le tonache di panno ruvido, e cento altre figure con gli abiti di tutte le stoffe, di tutte le forme e di tutti i colori, le quali al loro apparire suscitano la curiosità della folla e provocano commenti bizzarri, motti impertinenti e dimande e risposte spesso ridicole, ma qualche volta anche argute.

Di un signore lungo come una pertica, con le spalle coperte da un ricco mantello di saja scarlatta, sento dire che egli nella Corte pontificia deve avere una carica altissima. Un altro, piccoletto, con la testa grossa, il petto largo e le gambe corte lo sento qualificare per il segretario dei brevi.

Una donna vedendo un vescovo barbuto, con la dalmatica e con una specie di corno dogale in testa, che incede solennemente in mezzo ad altri vescovi imberbi, domanda: — E lui perchè ci ha la barba? — Perchè nun ci avrà avuto tempo de farsela! — le rispondono.

Un signore attempato, vestito di nero come Carlo quinto, che cammina tronfio e pettoruto, lo veggo additare da tutti come un cameriere di spada e scappa.

Un cantore della cappella Sistina dalla chioma grigia lucida, folta e profumata, passandoci accanto, volge verso di noi il suo volto simile a una prugna gialla insecchita e ci guarda con gli occhietti languidi velati di mestizia. — Poveretto! — mormora una donna del popolo — se deve esse' perso quarche cosa!

La processione si ferma un momento come se volesse ripigliar fiato, e si rimette subito in moto.

Un sardo che mi sta vicino, impettito nel suo giubbone di pelle gialla, con la faldetta nera e con le brache bianche entro le ghette di orbace che gli arrivano al ginocchio, rimane sorpreso nel veder passare un bel tipo alto, robusto e rubicondo, in sottana e mantellone, e domanda chi egli sia. Una ragazza gli risponde, non so con quanta ragione: — È uno scopatore segreto.

Il sardo poco pratico delle diverse qualifiche, più o meno onorevoli, che allietano i componenti della numerosa Famiglia pontificia, credendo che la giovane voglia scherzare, alza le spalle e sorride nella barba ispida e nera; ma un giovinotto voltandosi verso la ragazza le osserva come lo scopatore non possa essere uno scopatore segreto, perchè se egli scopasse veramente in segreto lei non potrebbe saperlo.

Ella si mette a ridere, mostrando per qualche istante fra le sue labbra rosee i denti bellissimi, e si volta subito a guardare la portantina che arriva.

Attorniata da molti svizzeri e guardie nobili, preceduta da un gruppo numeroso di cardinali e seguìta da una folla acclamante, la portantina sostenuta dai «sediari» ci passa davanti adagio adagio. Molti si inginocchiano strillando: — Santo padre! La benedizione! — e, appena veggono uscir fuori dalla finestra della bussola un braccio a benedire, alzano le mani piene di rosarii, di medagliuzze, di immagini sacre e di scapolari perchè la benedizione papale scenda non soltanto su le loro teste, ma anche sui loro «generi di devozione».

La portantina, intanto, fra un ricco e variopinto ondeggiare di rasi, di sete, di saje, di velluti, di frangie, di fiocchi, di pennacchi e di piume, nel quale, tra un velo azzurrino e leggero di incenso, di quando in quando lampeggiano croci e corazze, pastorali e alabarde, candelieri e fucili, si allontana a poco a poco, seguìta dalle acclamazioni; piega a sinistra ed entra nella cappella del Sagramento. Colà, mentre la folla rimane di fuori dei cancelli del Borromini, sempre acclamando e sventolando i fazzoletti, alcuni cavano fuori il papa dalla bussola, gli mettono su le spalle magre un mantello di scarlatto; gli coprono il capo canuto con un cappello rosso, alla don Basilio, e lo accompagnano verso una porticina. Egli vi rimane fermo davanti per qualche istante; poi, mentre tutti si inchinano, vi entra e sparisce.

La funzione è finita.

La gente alza ancora qualche grido che non arriva di certo alle orecchie di musaico degli apostoli e dei profeti i quali ci guardano dall'alto, e s'avvia allegramente, in fretta, parlando a voce altissima, verso la porta spalancata del tempio.

Mentre scendo nel vestibolo della basilica e mi rallegro nel rivedere il cielo azzurro, una donnetta vestita di nero con una lunga mantiglia di seta tagliata all'antica mi si avvicina, osservando le asole della mia giacca e mi dice: — Guardi che lei non ha la croce.

— Ma io non sono cavaliere, — le rispondo: ed essa mettendosi subito un dito sul petto, ove tiene appuntata una crocetta di panno bianco, ripiglia: — No, no, io dicevo di questa: parlavo della croce del pellegrinaggio; — e vedendo che io non capisco mi guarda con gli occhietti acuti e mi chiede: — Ma lei è pellegrino o non è pellegrino?

— Pellegrinissimo!

— E dunque perchè non ha la sua croce?

Non sapendo dirle altro apro le braccia e balbetto: — L'ho smarrita.

— Smarrita?! E le indulgenze?

— Quali?

— Ma come? Non lo sa?

Io accenno col capo di non saper nulla, e allora lei, scandalizzata della mia lagrimevole ignoranza, dopo di avermi detto più volte: — Ma legga, legga il suo biglietto! — se ne va tentennando la testa e scrollando le spalle come se volesse dire: — Ma guardate un po', Signore mio Dio, se che bei tipi di pellegrini vanno in pellegrinaggio per il mondo!

Quando la donnetta è lontana ripesco in una delle mie tasche il biglietto offertomi dalla signora Ermelinda, lo leggo ed imparo che se quella crocetta di panno bianco che lo svizzero mi diede nel corridoio del Bernini, invece di averla regalata poco dopo a un bambino piangente per farlo star quieto, me la fossi appuntata sul petto, io non soltanto avrei lucrato «tutte» le indulgenze, ma sol che lo avessi voluto avrei potuto «applicarle in modo di suffragio anche alle anime sante del purgatorio».

Sarà per un'altra volta!

* * *

Entrando nella via di Borgo Nuovo un ingombro di vetture mi costringe a fermarmi accanto a un gruppo di gente che parla lamentandosi di Sua Santità perchè non è scesa nella basilica in sedia gestatoria coi flabelli; e sento dire a una donna: — Per me er papa è sempre er papa; ma però, si lui non viè' co' le ventole, nun vale gnente.

CARCIOFOLATA

Su l'angolo del vicolo solitario, ove non s'ode altro romore se non il gorgòglio di una fonte invisibile, un lumicino rischiara fiocamente una madonnina. Intorno a lei, fra mazzetti di fiori appassiti, luccica qualche cuore d'argento. Le casupole una appoggiata all'altra come le pecorelle nelle reti, dormono quasi nascoste da molte file di panni di tutte le forme, risciacquati nella giornata e appesi a canne e a corde perchè il vento della notte gli asciughi. Sui parapetti delle finestre i ramoscelli dei garofani e delle viole a ciocche si aggrovigliano intorno ai vasetti di matricaria, di ruta, di persa e di basilico e scendono addosso ai muri umidi e scuri, ove fra i mattoni rotti o corrosi dai secoli, s'intravvedono nell'ombra tronconi di colonne, pezzi di capitelli e frammenti di sculture antiche. Qua e là, tra le inferriate, le scalette e le loggette di legno, ingombrate da oggetti inutili, qualche condotto di latta arrugginita serpeggia nel buio e sale a congiungersi con le gronde da cui pendono ciuffi d'erbacce nere. Giù in fondo su la miseria dei tetti bruni, ove tra le tegole e i docci sorgono innumerevoli cappe di camino, sul cielo palpitante di stelle, campeggia una cupola enorme, coi vetri della lanterna inargentati dalla luna.

* * *

Nel silenzio viene da lontano un trillare leggiero di mandolini e le ultime case del vicolo si veggono colorire a poco a poco da una pallida luce giallognola. Due gatti balzan fuori da un mondezzaio e spariscono nella feritoia d'una cantina, e un cane «lupetto» si mette a correre verso il chiarore, abbaiando.

I trilli dei mandolini si avvicinano; il chiarore cresce e all'improvviso una festa di luce e di colori, una allegrezza di suoni e di canti invade la stradicciuola. Le finestrelle, le loggette e i mignani s'empiono subito di ragazze dai begli occhi neri e curiosi e i portoncini e le scalette si affollano di giovinotti e di vecchi che allungano il collo verso il fondo del vicolo, da dove rischiarato con fiaccole e bengala s'avanza un gruppo numeroso e pittoresco di suonatori strimpellando mandolini e chitarre. Essi hanno in capo grandi tube ornate di fiori e son tutti vestiti con abiti vistosi di forme disusate, i quali fan ridere i giovani e ricordano ai vecchi gli anni lontani della loro adolescenza. Le esclamazioni di sorpresa e le dimande si incrociano fra i portoncini e le finestrelle: — Che è successo?... — Che d'è?... — È ritornato carnevale?... — Chi so'? E una voce, superando il frastuono delle voci, degli strumenti e delle risate di cui ormai il vicolo è pieno, risponde: — So' li pittori che vanno a magnà' li carciofoli, in Ghetto. — All'udire tali parole gli uomini battono le mani e le donne sorridono. Forse qualche giovinetta ripensa alla Fornarina e qualche vecchio, rammenta Bartolomeo Pinelli.

Li pittori intanto, mentre fiori e foglie di erbette odorose cadono sui loro cappelli, seguendo i suonatori, passano, tenendosi a braccetto, ridendo, cantando e rispondendo ai saluti ed ai sorrisi con un arguto scoppiettare di motti; penetrano in altri vicoletti, sboccano in una piazzetta, la traversano fra una folla di gente che è là da qualche ora ad aspettarli per vederli passare, ed entrano nell'osteria di Pacifico, dalla cui porta pacificamente spalancata esce un odore acuto e appetitoso di carciofi fritti nell'olio.

In tutte le stanze dell'osteria sul candore delle tovaglie di bucato sotto il tremolare delle fiammelle innumerevoli delle lumiere i piatti e i bicchieri luccicano; le forchette e i coltelli brillano e le lunghe file di bottiglie, piene di un vino che ha il colore dell'ambra mandano qua e là su le salviette, ornate di rose sprazzi di luce gialla. Le tavole vengon prese d'assalto e ciascuno, come può, si conquista il suo posto. Gli attaccapanni inchiodati alle pareti, ove sono dipinti varii paesaggi che fan ripensare a Claudio di Lorena e al Pussino, spariscono in un attimo sotto a cumuli di giacche, di tabarri, di fasce e di cappelli, sui quali vengon posati in pittoresco disordine mandolini, chitarre e tamburelli; e comincia subito un rumore infernale di stoviglie percosse. A questo chiasso se ne aggiunge un altro; quello che fa la folla fuori dell'osteria.

Molti vogliono entrare per forza. Il sor Pacifico, un bell'uomo panciuto e prosperoso, rubicondo e ricciuto, un po' con le buone e un po' con le cattive, cerca di persuaderli ad andarsene, dicendo loro: — Me dispiace, signori: ma stasera nun se pò!... Stasera el locale è tutto preso da li pittori... Stasera chi nun è pittore nun magna. — Poi, quando vede che le sue ragioni non vengono ascoltate, chiude la porta in faccia a tutti mandandoli tutti all'inferno. Ma quelli sempre più ostinati a voler entrare, non ci vanno e seguitano a far baccano. Un vetro va in frantumi. Bisogna sbarrare l'entrata dell'osteria con un tavolino. Durante il lavoro dello sbarramento il rumore delle stoviglie percosse si attenua e un bel tipo ne approfitta subito per alzarsi e per mettersi a parlare: — Signori! — egli dice seriamente — Prima di mettervi a mangiare sarà bene che voi sappiate come il carciofo appartenga alla famiglia delle composte ed alla singenesia di Linneo. Coltivasi negli orti... — Un urlo formidabile costringe lo sconsigliato oratore a smettere e non appena egli si siede, ricomincia più che mai violento un fracasso di mille strepiti insieme, in mezzo al quale si sentono squillar cento voci che chieggono i carciofi con cento favelle: — Volemo li carciofoli... Les artichauts... Los alcachofas... Die artischochen... The artichokes...

Il sor Pacifico si fa innanzi, accolto da una tramontanata di fischi, di urli, di applausi e di risate, sale sur una sedia e con le mani alzate fa cenni per implorare un po' di pazienza; poi scende ed apre la porta di un meschino cortiletto, dove alcuni omini vestiti di bianco, fra nuvole di fumo azzurro, si affaccendano intorno a caldaie nere, piene d'olio bollente, per estrarne i carciofi, che sembrano d'oro, e gittarli entro a canestre coperte da candidi tovaglioli.

Appena il sor Pacifico apre la porta della cucina ne esce subito uno degli uomini bianchi, sorreggendo con le braccia robuste una di coteste canestre. Dopo qualche istante è vuota! Altre canestre colme di carciofi vengono recate sulle tavole, altre e poi altre, e non appena vi sono posate mostrano il fondo.

Tutti mangiano ghiottamente e bevono. I carciofi, si sa, prosciugano la gola e il vino per bagnarla non è mai troppo. I litri si vuotano senza contarli. E il vino dà un dolce calore alle vene, arrossa i volti, rinforza i corpi e intenerisce gli animi. I «filetti di baccalà», una specialità del locale!, vengono dopo i carciofi ad accrescere in tutti la voglia di bere; e quando una enorme zuppa inglese, scortata da qualche bottiglia di liquore, segue i «filetti», i ricordi gli aneddoti le rimembranze e le memorie si propagano da una tavola all'altra, recandovi ora una sincera allegrezza ora una soave mestizia.

Un vecchio parla, e i suoi vicini coi gomiti sulla tovaglia lo ascoltano assaporando le parole.

— Se l'ho conosciuto?! — dice il vecchio staccando le labbra dall'orlo di un bicchierino di alchèrmes e rispondendo a una domanda che gli viene rivolta — Se l'ho conosciuto?! Ma fin dai primi giorni che venne a Roma. Aveva lo studio fuori della Porta del Popolo, a Papagiulio. Quanto lavorava! Sempre! Ricordo ancora quale impressione noi provavamo la domenica tutte le volte che andavamo a cercarlo; quando, dopo di aver percorso la via Flaminia, piena di gente allegra e spensierata, che si recava a Ponte Molle a far bisboccia, lo trovavamo nel suo studio, davanti al suo cavalletto. Solo! Quanto lavorava!

— Povero Fortuny! — esclama qualcuno.

Altri rammentano un altro pittore spagnuolo: Eduardo Rosales.

E pensare — osserva uno battendo col pugno la tavola su cui una rosa accartoccia i petali, manifestando il dolore che prova nel trovarsi in mezzo a scorze di arance, a foglie di finocchi e a croste di pane! — E pensare che quando egli morì, qui in Roma, si dovette ricorrere alla pietà degli amici per le piccole spese, occorrenti ai modesti funerali!

Le pipe cominciano a mandare verso il cielo delle stanze qualche nuvoletta azzurra di fumo e le bottiglie seguitano a vuotarsi. E a riempirsi.

Alcuni giovani parlano di un quadro del Faruffini. Uno di loro allontana con un gesto rapido bicchieri e bottiglie e con l'unghia traccia poche linee sulla tovaglia. Cinque o sei teste si chinano a guardarle. E intorno alle linee divampa un violento dibattito, al quale piglian parte dieci o dodici, parlando tutti in una volta. Gridano, strepitano e, come avviene sempre quando quelli che disputano, sono parecchi, e i bicchieri vuotati sono anche di più, così passano rapidamente da un argomento all'altro, con una facilità che pare fino impossibile.

Più in là, tra il fumo del tabacco e del caffè, sorge un'altra discussione. L'accende un giovanetto, rammentando Salvator Rosa e recitando qualche verso delle sue satire; l'attizza uno scultore, dicendo, fra l'altro, che il Thorwaldsen una volta, essendo stato invitato a una festa dal re di Danimarca, vi andò col petto ornato dalla sola commenda dell'ordine del bajocco, che egli aveva ricevuta nelle grotte di Cervara; e la spegne un bel vecchio con una lunga barba bianca, che gli scende sul petto, il quale, dopo di aver raccontato come lui si ricordasse di aver visto in gioventù l'Overbeck scendere in ciabatte dal suo studio e percorrere così un lungo tratto della via Sistina per entrare in una modesta bottega, ove egli aveva l'abitudine di andare ogni giorno a sorbire il caffè, conclude con l'affermare gravemente che una volta la vita dell'artista era più semplice.

Mentre tutti convengono in questa affermazione rampollata dal caffè e dalle ciabatte dell'Overbeck, due giovinotti pigliano due chitarre, ne risvegliano, pizzicandole, le corde indormentate; ne cavano alcuni accordi, ai quali s'unisce subito il trillare di un mandolino e si mettono a suonare il passagallo: quelle poche note lunghe, insistenti, strascicate penosamente in un ritmo lento e monotono, che talvolta i popolani, obliandosi, amano di cantare, allorquando il sole indora i selciati delle piazzette trasteverine o il plenilunio inargenta le acque del Tevere, popolando di fantasmi le rive deserte. Tutti ascoltano in silenzio e più d'uno, con la sensibilità propria dell'artista, acuita dall'eccitazione del vino, negli accordi gravi e solenni delle chitarre, ritrova lo squallore tragico e sublime della nostra campagna, il tardo e paziente incedere dei buoi che trascinano gli aratri e il roteare maestoso delle pojane su le vaste solitudini fra il Tevere e l'Aniene; e nei trilli rapidi e argentini del mandolino rivede in fantasia le mozzatore che tornano danzando dalla vendemmia con le chiome nere ornate di pampini, i salterelli ballati sotto le pergole e fra i roseti nei giardini del Monte Testaccio e i cocchi infiorati e veloci, pieni di minenti e di fanciulle che, sonando gnacchere e tamburelli, gittano alla luce infocata dei tramonti d'ottobre gli appassionati stornelli d'amore.

Quando il passagallo finisce e gli ultimi arpeggi delle chitarre si dileguano nell'aria, oramai tutta annebbiata dal fumo delle pipe, le stanze dell'osteria si vuotano a poco a poco, e appena gli ultimi ne sono usciti, sorreggendosi alle sedie, vi entrano varie donne coi capelli crespi e negletti le quali, mentre il sor Pacifico si mette a segnare col gesso qualche numero sur una piccola lavagna, aprono le finestre; raccolgono le salviette biancheggianti qua e là sotto le tavole; rialzano le sedie rovesciate; gittano in terra insieme ai bicchieri rotti, i rimasugli delle vivande che imbrattano le tovaglie; sparecchiano e di tanto in tanto si avvicinano alla porta e rimangono a guardare ridendo li pittori che adunati accanto a una fontana vivamente colorata dai bengala, gridano: — Al Colosseo!... Al Colosseo!...

— Al Colosseo? La via è lunga! — osserva qualcuno. Ma i suonatori, dopo di avere accordati gli strumenti, principiano a strimpellare la marcia del Carlo il Guastatore, s'avviano verso un vicolo e vi entrano. Il vicolo muore oscuramente davanti a un voltone enorme, sorretto da alcune colonne scannellate. Tutti vi passan sotto cantando e rammentando il Piranesi; poi traversano in silenzio la piazza Montanara, ove qua e là, sul selciato, dormono gruppi di contadini, aspettando che l'alba li svegli; girano in un labirinto di stradicciuole deserte e, lasciandosi dietro un grande e vecchio palazzo nero e disabitato, il quale per non morire di inedia s'è dovuto mettere a fare il magazzino di legname, proseguono verso una torre così rovinata e desolata che par che mediti il suicidio, e sboccano alfine in un largo sterrato, dirimpetto una strada lunga diritta e solitaria in fondo a cui, sul cielo scintillante di stelle, sorge un colle, coronato di cipressi: il Palatino.

— Qui, una volta, si tagliavano le teste! — dice un vecchio. Nessuno aggiunge niente, e tutti seguitano a camminare finchè un altro, fermandosi davanti ad alcuni ruderi, esclama: — Ecco tutto quello che rimane del Circo Massimo! — E dopo una breve pausa, alzando le braccia, soggiunge:

Muoiono le città, muoiono i regni:

Copre i fasti e le pompe arena ed erba.

Nell'aria fresca, che incomincia a odorare di erbette aromatiche, viene da lungi l'uggiolare di un cane.

— Avanti!... Camminate!... — gridano diverse voci, e uno che già sente la lunghezza della strada, polverosa, dimanda: — Ma dove andiamo? A Frascati?

Le abitazioni cedono via via il posto alle siepi di pruni e di sterpi, interrotte di tempo in tempo da qualche albero annoso, da qualche casolare abbandonato o da viottole che si perdono nel buio. Indicandomi una di coteste viottole, un pittore un po' innanzi negli anni mi dice: — Guarda! Qui ci nascondemmo per salvarci dai gendarmi pontifici.

— Quando? — dimandano parecchi.

— Nel sessantasette.

— Tombola! — esclama subito uno, che sorretto pietosamente da altri due, gli cammina alle spalle.

Il pittore si volta, lo guarda, sorride e continua: — Ci avevano detto di andare ad assaltare la caserma di San Paolo. — Ma le armi? — Andate a villa Matteini — ci risposero — e le troverete. Andammo a villa Matteini e laggiù, invece di trovarci le armi, ci trovammo i gendarmi. Mi pare ieri! Mi par proprio di risentire lo scalpitare dei cavalli dei dragoni sulla terra dura e i passi spietati delle pattuglie che ci davano la caccia.

— Ma camminate! — gridano ancora altre voci lontane — Vi pesano le gambe? Muovetevi! — E noi ci muoviamo ed entriamo in uno stradone fiancheggiato da vecchi olmi che non finiscono mai; raggiungiamo un arco gigantesco e, finalmente, dinanzi a noi, appare il Colosseo.

Le chitarre e i mandolini ripigliano a suonare; e mentre faci e bengala ci avvolgono in un puzzo di zolfo insoffribile, passiamo sotto ad arcate maestose su le cui pietre antiche le nostre ombre moderne si allungano e si accorciano bizzarramente, ed entriamo nell'arena. Una civetta ci vola sul capo, stridendo, e alcuni pipistrelli, spaventati dal chiarore insolito, ci svolazzano intorno.

Prima che le faci e i bengala si spengano uno si arrampica sopra a un rudero e accompagnandola col suono della chitarra canta con voce stanca una canzone; e non appena l'ha finita, un altro prende subito a dire: — Signori! In questo luogo, ove i cristiani divoravano le belve... — Seguita per un po' a infilzare scemenze; ma poi le parole gli muoiono sulle labbra e s'azzitta. La grandezza tragica del luogo non vuole scherzi. Difatti a poco a poco ognuno sentendosi oppresso dal peso delle memorie, finisce col tacere e incomincia a sentire il desiderio di andarsene. E appena uno guardando l'orologio mormora: — È tardi! Mi pare che sarebbe ora di ritornare... a Roma! — e s'avvia verso l'uscita dell'arena tutti lo seguono a piccoli passi, in silenzio, quasi temessero di svegliare la Storia che dorme nelle rovine auguste.

* * *

Quando tutti son fuori dell'anfiteatro un mandolino, a cui è rimasta la metà delle corde, aiutato da una chitarra scordata, intona una marcia e tutti si allontanano in fretta.

Due che camminano barellando, rimangono indietro. All'improvviso uno di loro piega le ginocchia e si ferma: guarda qua e là in terra, come se cercasse qualche cosa, poi, levando lentamente l'indice della mano destra verso il cielo stellato, si volge all'amico che lo sostiene e gli dice: — Vedi: il Colosseo, non si può negarlo, è una gran cosa antica; è una grandissima cosa storica; però tu puoi esser certo che se domani, al mondo, non ci fosse più il Colosseo, il mondo seguiterebbe a camminare lo stesso; ma se, invece, domani, al mondo non ci fosse più il vino, tu devi convenire, con me, che il mondo non potrebbe più camminare. Ne convieni?

— Ne convengo. — gli risponde l'altro, ridendo e sorreggendolo. E mentre lo sorregge e ride, pensa che il mondo non cammina più, anche quando ne ha bevuto troppo.

IL CAFFÈ GRECO

AL MARCHESE GIUSEPPE VITELLESCHI.

Il Caffè Greco, o per dir meglio l'«Antico Caffè Greco», come si legge sulla insegna in cima alla sua porta d'entrata, la quale non disdegna di esercitare a tempo e luogo anche il modesto ufficio di porta d'uscita, abita in Roma nel suo domicilio legale in via Condotti numero ottantasei, ove vive agiatamente con la mobilia inalterata, come le vecchie abitudini, in tre stanze e mezza: dico tre stanze e mezza perchè se la prima, la seconda e la terza hanno su per giù cinque metri di larghezza ed altrettanti di lunghezza, l'ultima, denominata per la sua forma l' omnibus, è larga appena due metri e lunga otto metri all'incirca.

La prima camera non è molto ricca di luce; tuttavia quella che riceve dalla strada la divide con la seconda: a illuminare la terza ci pensa l' omnibus, il quale ha per soffitto una invetriata su cui sovente i gatti del vicinato amano di andare a passeggiare con le loro innamorate.

Tre specchi, quattro quadri raffiguranti alcune vedute di Venezia, opera di Ippolito Caffi, e un orologio, che potrebbe gareggiare in precisione col più esatto cronometro ginevrino se disgraziatamente oltre al tic e tac non avesse di quando in quando anche il tic di suonare il mezzogiorno verso le cinque pomeridiane, adornano la prima stanza; due specchi e sei quadri decorano le pareti della seconda; la terza invece si accontenta di avere per suo abbellimento un solo specchio ed un busto di gesso, il quale, poveretto, non è mai riuscito a sapere chi egli sia.

Una ridente veste di esilaranti pitture ricopre per tutta la lunghezza le mura dell' omnibus. A chi le guarda dovrebbero far credere, anche nelle più rigide serate dell'inverno più crudo, di trovarsi in un delizioso giardino fra il cui verde fogliame illuminato e riscaldato dal sole primaverile s'aprano, imbalsamando l'aria coi loro profumi inebrianti, centinaia e centinaia di rose di ogni forma e colore; ma, purtroppo, nessuno fra quanti ora si siedono nello stanzino presta più fede alla finzione. E non vi crede più nemmeno il padrone del negozio: difatti egli ha ficcato un chiodo nel cielo azzurro sopra al roseto e vi ha impiccato un orologio, che in tutte le sue ore è sempre in lite con quello della prima stanza. Ma alla discordia dei due orologi i frequentatori della bottega ci badano poco, perchè per essi il tempo non ha valore. Dice una antica massima inglese: il tempo è moneta. Se la massima oltre all'essere antica ed inglese fosse anche vera, Dio mio! chi mai saprebbe calcolarlo il numero dei milioni che si sciupa in capo all'anno nell'«Antico Caffè Greco»?

Dietro all' omnibus sta il bancone del negozio, e sul bancone, chiuse in una specie di gabbia, vi sono le paste. Esse si distinguono in due categorie: semplici e composte. Le semplici valgono un soldo l'una, e se il loro aspetto è alquanto modesto non sono per ciò meno buone di quelle composte, le quali costano due soldi, e spesso hanno le loro forme esuberanti rivestite di un manto di colori così vivaci da vincere al paragone il più variopinto pappagallo che abbia mai passeggiato e chiacchierato su le lontane rive dell'immenso Orenoco. Del resto tanto le une quanto le altre passano la vita, non breve, lungi da qualunque umano contatto nella loro dolce prigione dalla quale non desiderano di allontanarsi: difatti, se talvolta, per caso, la gabbia ove sono rinchiuse rimane aperta, esse non si muovono, perchè sanno, per dolorosa esperienza, che se ne uscissero vi tornerebbero indubbiamente con l'epidermide graffiata, con le carni ferite, con le ossa rotte.

Un giovane scultore tutte le volte che entrava nella bottega soleva chiedere al cameriere caffè e paste, e questi, secondo il costume del locale, glie ne portava tre in un piattino. L'alunno di Fidia, appena il cameriere si allontanava, con una operazione rapidissima, in cui egli sapeva mettere tutta la sua abilità di modellatore eccellente, dalle tre paste faceva uscire una quarta e se la mangiava; beveva il caffè che qualche volta pagava, e le paste con un pretesto o con l'altro le rimandava sempre indietro.

Non dico poi che cosa accadesse di solito a certe paste le quali, per loro disgrazia, avevano la pancia rigonfia di crema. Come uscivano dalla gabbia vi rientravano sempre con la pancia vuota: e il loro padrone, prima di andarsene a letto, doveva nuovamente e pietosamente tornare a riempirle di panna. Stanco alfine di compiere ogni sera cotesto delicato lavoro sospese la fabbricazione delle così dette bombe alla vainiglia. Pure, bisogna dirlo a sua lode, benchè all'onest'uomo il fabbricar dolciumi abbia ognora fruttato molte amarezze egli continuò sempre a stampar paste, seguendo in tutto e per tutto, per la forma e il peso, per le dimensioni e i colori, i semplici, leali e diritti procedimenti dei suoi antecessori; al punto che se oggi, nell'anno di grazia mille ottocentonovanta, le vaghe e imbellettate dame di qualità, seguite dai vezzi dei cicisbei e dai madrigali degli abati, potessero tornare nella bottega di via Condotti, io credo che oggi, come allora, vi troverebbero le stesse paste.

Vi meravigliate forse nel sentirmi parlare di dame di qualità, di cicisbei, di madrigali e di abati? Ma il Caffè Greco non è venuto al mondo oggi; e tutti sanno come in sui primi anni della seconda metà del settecento abitasse già in via Condotti. Questo lo sanno tutti; ma, purtroppo, la data esatta della sua nascita, come quella della fondazione di Ninive, di Babilonia e di Memfi, non la conosce nessuno: però, come fortunatamente ognuno sa che Memfi, Babilonia e Ninive furono fondate da Nino, da Belo e da Menete, così tutti noi possiamo andare orgogliosi di sapere che il Caffè Greco fu messo al mondo da un greco, il quale, a quanto si legge nelle pagine di un vecchio registro della parrocchia di S. Lorenzo in Lucina, si chiamava Nicola della Maddalena.

L'infanzia del Caffè non fu troppo lieta, e il suo babbo dopo di averlo tenuto parecchi anni, ricavandone non grandi utili, lo cedette a un tal Carnesecchi, il quale, anche lui, dopo di averci speso molto e guadagnato poco, lo diede a un certo Salvioni.

Venuto nelle mani del Salvioni il Caffè, passando da un padrone all'altro, era anche passato dall'infanzia all'adolescenza: le vecchie vesti non s'addicevano più al suo nuovo stato, e il buon uomo lo fece ricoprire di pitture da un certo Maderno, e lo corredò di nuova mobilia. Tutto bene; ma il povero Caffè, anche così rinnovato e abbellito, seguitò a tirare innanzi la vita stentatamente come il suo padrone. Questi però non pensò mai di abbandonarlo. E di non averlo abbandonato non ebbe davvero a pentirsi; poichè coll'avanzar degli anni la bottega fondata dall'uomo di Levante, uscendo finalmente dall'adolescenza debole e malsicura ed entrando in una virilità gagliarda e prosperosa, seppe così ben ricompensare il suo padrone di Ponente da assicurargli, se non la ricchezza, un'agiatezza invidiabile.

La gratitudine, questa dolcissima catena i cui anelli una volta arrivavano perfino a stringere con legami di benevolenza un Caffè che riceveva un benefizio al padrone che glielo aveva fatto, chi me lo sa dire dove si trova più ai giorni nostri?

La cosa da cui il Caffè Greco trasse i mezzi per poter rimunerare con buona moneta sonante il suo benefattore fu giusto appunto quella da cui tutta l'Europa ebbe tanti dolori: il Blocco continentale.

Le strade nelle quali si diletta di camminare la Provvidenza per assettare i cosi ed i casi di questo mondo, facendo quasi sempre il bene degli uni col male degli altri e viceversa, sono davvero incalcolabili! Chi mai lo avrebbe pensato che essa per favorire l'umile bottega di via Condotti si sarebbe servita di Napoleone, dettandogli a Berlino, nel novembre del 1806, quel decreto dal quale egli doveva poi esser messo sulla via di Sant'Elena? Eppure fu così. Il decreto famoso, vietando ogni commercio ed ogni corrispondenza fra il Continente e le Isole Britanniche, fece salire i prezzi dei così detti generi coloniali a tale altezza che gli uomini più alti, anche rizzandosi sulle punte dei piedi, non arrivavano a toccarli: il caffè, quando se ne trovava, valeva uno scudo alla libbra, e i caffettieri romani non sapendo più quali cose mettere a bollire nelle cogome, invece dei semi della coffea arabica, ci mettevano i ceci, i fagiuoli e le castagne di Ciociaria.

Il Salvioni ebbe una idea felicissima da cui derivò la sua fortuna: rimpicciolì di un terzo la misura delle tazze che, ricolme della aromatica bevanda, nella sua bottega valevano allora due baiocchi e mezzo, e per cinque le offrì ai suoi avventori ripiene di vero caffè. Più tardi, cessato il Blocco, il galantuomo tornò a riempire, sempre di caffè eccellente, per due baiocchi e mezzo le antiche tazze; gli avventori vecchi non si mossero; i nuovi, chiamati in gran numero dalla sua idea felicissima, non se ne andarono, e la fama del Caffè Greco fu assicurata. E via via arricchitosi di nuove stanze, ornatosi di altre pitture e confortato da sempre maggior numero di frequentatori procedette sicuro e tranquillo per la sua strada gloriosa senza mai più incontrare ostacoli sul suo cammino; e pur vedendo intorno a sè mutarsi e rimutarsi tante e tante parti della terra, salire e discendere dalla cattedra di S. Pietro tanti pontefici, apparire e sparire dalla scena del mondo tanti re e imperatori, sorgere e tramontare tante rinomanze e nascere e morire tanti suoi colleghi, il vecchio Caffè romano, in mezzo a così immenso, tumultuoso, tragico e comico avvicendarsi di uomini e di cose, se pur talvolta fu obbligato a cangiar padrone, non cangiò mai bandiera e rimase ognora un Caffè onesto e morale.

Onesto? Eh, il caffè col quale conforta lo stomaco dei suoi frequentatori odierni... e notturni costa tre soldi alla tazza, nè più nè meno di quanto costava ai bei tempi in cui ebbe l'alto onore di essere visitato da Ippolito Taine, il quale, nel suo Voyage en Italie così scrive, rammentandolo: C'est une longue pièce, basse, enfumée; point du tout brillante ni coquette, mais commode. Il est vrai que presque tout y est bon et à bas prix; le café, qui est excellent, coute trois sous la tasse.

Dal 1864 molte cose son cambiate su tutti e sette i Colli; ma nella bottega di via Condotti il prezzo del caffè è rimasto inalterato a tre soldi la tazza.

E come nè il desiderio smodato di maggiori guadagni nè l'avidità di laute ricchezze ebbero mai la potenza di far alzare al Caffè Greco quei bassi prezzi di cui parla il Taine, così nessuna cosa al mondo ebbe mai la forza di farlo uscire da quel diritto sentiero di moralità austera nel quale camminò sempre, sorretto e seguìto dalla sua virtuosa clientela. Altri Caffè sursero a centinaia intorno a lui e cercarono coi lenocinii delle forme, con gli splendori abbaglianti delle lumiere e con gli adescamenti lascivi delle cantatrici e dei mimi, di attrarre nelle loro sale un numero sempre maggiore di frequentatori; ma il Caffè Greco, ah no, mai si abbassò a tanto, e rimase ognora, mi è caro il ripeterlo, un Caffè onesto, morale e a tre soldi.

Ma a queste tre qualità, già più che sufficienti da sole ad assicurargli la stima e il rispetto di ogni uomo dabbene, esso ne può aggiungere un'altra onorevolissima: quella di essere stato anche un Caffè liberale e della vigilia, difatti i sentimenti del suo amore per la libertà, se pure non si vuol tener conto delle prediche che, a quanto afferma l'Ojetti, Ennio Quirino Visconti vi faceva fra il 1797 e il 1799, risalgono, almeno a quanto io ne so, al 1831; poichè fu appunto in uno di quei moti scoppiati qui in Roma in quell'anno, i quali se furono non tutti belli nè di grande importanza, servirono tuttavia ad educare gli animi alla virilità dei sacrifici, fu proprio in uno di quei moti che il Caffè Greco manifestò coraggiosamente la sua fede nell'idea liberale.

La rivoluzione dei Ducati s'era già propagata nello Stato Pontificio, e già durante i pontificati di Leone XII e di Pio VIII, erano avvenute qui fra il Vaticano e il Quirinale sollevazioni e ribellioni, più o meno sanguinosamente represse dalla polizia, quando parecchi artisti romani, alcuni pensionati dell'Accademia di Francia e qualche medico dell'ospedale di S. Spirito, per reagire contro le inquisizioni, gli arresti, le condanne, le delazioni, le proscrizioni e i supplizi che rendevano la vita intollerabile, decisero di assaltare una caserma di granatieri, in piazza Colonna, precisamente nel piano terreno di un vasto edificio ove era l'archivio pubblico e dove fu poi costruito il portico di Vejo. Per mettere in esecuzione il loro ardito disegno essi scelsero una sera di carnevale: una sera in cui nel palazzo Piombino si festeggiava il matrimonio di Costanza Boncompagni col Duca di Fiano.

All'ora stabilita, quei pensionati dell'Accademia francese che avevano giurato di pigliar parte alla non facile impresa, scesero al Caffè Greco e vi trovarono i romani ai quali all'ultimo momento s'erano uniti taluni romagnoli: quivi, secondo quanto io appresi da un vecchio frequentatore della bottega, il quale mi raccontava di essersi trovato presente al momento solenne, i francesi, i romani e i romagnoli prima si abbracciarono e baciarono ripetutamente a vicenda e poi usciti dal Caffè, in silenzio, si diressero verso piazza Colonna, dove altri congiurati, quasi tutti popolani, stavano ad aspettarli.

Uno scultore, un certo Lupi, figlio di un medico di Santo Spirito, guidava gli artisti. Egli, sempre a quanto mi narrava il mio vecchio amico, ci vedeva poco e camminava appoggiandosi a un suo compagno; e quando arrivò in piazza Colonna disse alla sua guida di condurlo quanto più potesse accosto alla sentinella di piantone sulla porta del quartiere, e appena questa ve l'ebbe condotto, il Lupi tirò un colpo di pistola al soldato. Altri colpi di pistola risuonarono qua e là nella piazza; e mentre la gente radunata sotto alle finestre illuminate del palazzo ove celebravasi la festa nuziale fuggiva in preda allo spavento, un gruppo di congiurati balzò fuori dalla penombra che velava il vicolo Cacciabove, e gridando: Viva Filippo Primo! corse verso la caserma esortando i granatieri a non pigliare i fucili; ma questi li presero, li spianarono contro i ribelli, e spararono.

Il Lupi sanguinante per una ferita non grave fu arrestato subito; la maggior parte degli altri riescì a salvarsi con la fuga, e due soldati rientrarono nel quartiere feriti leggermente. Chi pagò per tutti fu il povero portiere di casa Piombino, il quale mentre si affrettava a chiudere il portone del palazzo fu colpito da una palla, stramazzò in terra, e non si alzò più.

Nei giorni seguenti la polizia essendo venuta a sapere qual parte avessero avuto gli artisti nella zuffa, ne mandò qualcuno a villeggiare in Castel S. Angelo, e ordinò ai carabinieri di sorvegliare la bottega di via Condotti. Ma non per questo i liberali smisero di frequentarla. In quei giorni i pensionati dell'Accademia francese s'univano spesso ai confratelli italiani, massime con quelli di fede liberale, e questi li accoglievano sempre a braccia aperte, anche perchè, qualora ce ne fosse stato bisogno, sapevano di poter trovare presso di loro aiuti e protezioni contro le insidie poliziesche: l'Accademia di Francia allora godeva del diritto di asilo, ed era vicina al Caffè Greco.

L' entente cordiale fra gli artisti nostri e quelli francesi continuò strettissima per molti anni, poi venne a poco a poco allentandosi finchè nel 1849 si spezzò violentemente. Mentre le bombe dell'Oudinot piovevano su Roma, un pensionato dell'Accademia commise la grande imprudenza di entrare nella bottega di via Condotti, e quella anche più grande di entrare in una discussione che alcuni tenevano sugli avvenimenti del giorno, e, poveraccio, finì con l'uscire dalla discussione e dal Caffè portandosi via due solennissimi schiaffi datigli da un certo Casciani, un pittore romano, il quale sapeva adoperare le mani meglio dei pennelli.

Ristabilita la dominazione pontificia, di quando in quando, qualcuno dei pensionati francesi rientrò nelle stanze del Greco, è vero; ma ormai il legame che univa l'Accademia di Francia alla bottega di via Condotti s'era spezzato, e un po' per le vicende politiche e un po' per altre ragioni bene bene non si riallacciò più mai. Invece i legami fra la bottega famosa e i liberali nostri divennero sempre più stretti, poichè con l'avanzar degli anni la maggior parte di coloro che venivano in Roma dalle diverse provincie, o per scopo di propaganda o per altri motivi, preferì sempre agli altri luoghi di ritrovo il Caffè Greco. Si capisce facilmente come a costoro, che di solito giustificavano la verità dei loro nomi falsi con passaporti americani, inglesi, maltesi o di altre parti del mondo, tornasse comodo di darsi per artisti e di intrufolarsi fra i frequentatori di un luogo il cui pubblico in massima parte era composto di stranieri. Gli sbirri, è vero, talvolta visitavano la bottega nonchè le tasche degli avventori, ma prima di andare più in là ci pensavano due volte e anche quattro, perchè temevano, in caso di un errore, di dover poi fare i conti con le diverse ambasciate, i quali conti, dopo somme non indifferenti di rimostranze e di rabuffi, finivano sempre, dopo procedimenti lunghi e fastidiosi, con un totale di scuse umilianti che la polizia pontificia era costretta a fare ai rappresentanti dei governi esteri. Per questo dunque la bottega del Greco divenne uno dei ritrovi più favoriti dei liberali; e negli anni vicini al 1870 servì spessissimo come luogo di riunione per cospirazioni o per la preparazione di moti e di imprese patriottiche di ogni genere.

Giuseppe Monti, quando fu invitato ad unirsi a Gaetano Tognetti per esplorare i sotterranei della caserma Serristori e poi collocarvi i barili di polvere necessari a far crollare una parte dell'edificio, alle esortazioni assidue di chi lo istigava ad assumersi la difficile e perigliosa fatica rispondeva sempre: — Ma io ho moglie! Ho un figlio che non ha ancora due anni! Questo lavoro che mi chiedete di fare non potrebbe esser fatto da un altro? — Per sua disgrazia era scritto che il lavoro funesto dovesse farlo proprio lui! E una sera, alcuni ideatori di quel programma d'insurrezione; il quale, se doveva dare alla storia del nostro Risorgimento i due gloriosissimi episodi di Villa Glori e del Lanificio Ajani, doveva anche, purtroppo, interamente fallire, per indurre il Monti ad unirsi al Tognetti, lo condussero nel Caffè di via Condotti, dove, fra le molte persone ivi raccolte, gli indicarono un signore (Leone Vicchi vuole che fosse il Castellazzo) seduto incontro a loro a un tavolino presso il quale era altra gente, e poscia che glie lo ebbero qualificato come un personaggio di grande importanza, mandato qui dal Rattazzi per dirigere la ribellione destinata ad aprire all'Italia le porte di Roma, gli dissero: — Vedi, se tu accetti di fare quanto ti si chiede, comunque vadano le cose, puoi essere sicuro di non avere niente da temere, perchè il governo italiano non ti abbandonerà mai, e quel signore ti darà sempre tutto quello di cui avrai bisogno per sistemare stabilmente l'avvenire tuo, della tua moglie e del tuo figliuoletto. — Il Monti che era un povero muratore e sosteneva la sua famiglia lavorando a tanto la giornata in una delle prime case che sorgevano in via Nazionale, tracciata allora allora dal De Merode, prima di impegnarsi tentennò ancora; ma alfine, soppraffatto dalle molte parole e forse ammaliato dalle promesse lusinghiere, uscì dalla bottega accettando di unirsi al Tognetti e di eseguire insieme con lui quanto gli domandavano.

L'indomani, lo portarono con molta cautela in una casa in via del Pantheon ove ritrovò il gran personaggio da lui visto la sera innanzi al Caffè Greco, e glielo fecero giurare solennemente. Povero Monti! Superando ostacoli e difficoltà inenarrabili, egli quanto aveva giurato di fare, lo fece, e finì col lasciare, unitamente al suo compagno, la gioventù e là vita su le tavole insanguinate di un patibolo.

Ma la bottega di via Condotti, negli anni vicini al 1870, fu per i liberali qualcosa di più di un luogo di riunione; poichè essi ogni qualvolta ne avessero avuto bisogno erano sicuri di trovarvi in tutte le ore qualcuno pronto, dietro certi segnali di riconoscimento stabiliti, a ricevere notizie urgenti, a dar loro ordini e consigli o, se fosse necessario, a metterli in contatto coi capi del «Comitato di azione».

Fra le molte testimonianze da me raccolte, le quali confermano la verità di quanto io dico, mi basta riferirne una sola.

Anni addietro, trovandomi in Udine, ebbi la fortuna di conoscere colà Giusto Muratti, uno dei Settanta di Villa Glori; e spesso nelle mie escursioni nel Friuli mi rallegrai di averlo compagno caro, indimenticabile, e guida preziosissima. Quasi sempre, mentre trottavamo lungo le strade e i sentieri della dolce campagna friulana, io desiderando vivamente di sentire narrare da lui qualcuno degli episodi gloriosi del nostro Risorgimento, a cui egli aveva dato tanta parte della giovinezza, gli rivolgevo qualche dimanda; ma per quella repugnanza che han sempre gli uomini d'azione, quando hanno veramente e disinteressatamente agito, a parlare di se stessi, schivava di rispondermi: e se talvolta si piegava alle mie insistenze vi si piegava in modo così breve da farmi perdere la voglia di più dimandare.

Nondimeno, durante le nostre gite, io le tentavo tutte per indurlo a discorrere e talora riuscivo a metterlo sulla buona via; ma dopo poche parole una cosa qualunque su cui mettesse gli occhi era per lui un eccellente pretesto per non andare più innanzi: una contadina curva sotto il carico di una grossa gerla ricolma di foglie; un vecchio, che, seduto davanti all'uscio di una casa rustica, tenendo sulle ginocchia un bambino e fumando la pipa si godeva gli ultimi raggi del sole cadente; due ragazzi che ruzzavano con un cane; qualche cascina, col tetto pieno di voli festosi e canori di passeri, dalla cui porta spalancata usciva, insieme con qualche mugghio, un acre e pur piacevole odore di stabbio; un gruppetto pittoresco di alberi annosi; la forma slava e il colore ferrigno di un campanile coronato di colombi; una macchia di lichene sopra una pietra antica; un fiore che si piegava sotto il peso di un'ape; una linea di montagne azzurre, in cima alle quali s'eran fermate alcune nuvolette rosee, come se avessero voluto riposarsi un poco prima di rimettersi a camminare per le vie del firmamento; insomma, una cosa qualunque bastava a sviarlo dal soggetto dove io l'avevo portato con tanta pazienza, ed era più che sufficiente a fargli rompere il filo del discorso in modo tale da non poterlo più riannodare. E come se tutte coteste cose e coteste case, non fossero state già bastanti a farmi disperare, non di rado a render vani i miei tentativi ci si mescolavano anche Giulio Cesare con la decima legione, Attila con gli unni, Paolo Diacono e Gisulfo coi longobardi, e Napoleone con Campoformio! Se a costoro riesciva di penetrare, ospiti da me non desiderati nè graditi, nei nostri ragionamenti non c'era più verso di mandarli via. Un giorno, ricordo, in un discorso, provocato da una delle mie solite domande, vi entrarono i patriarchi d'Aquileja, e il disastro fu irreparabile.

Ma una volta, proprio quando meno me lo sarei creduto, il mio caro amico, che avevo tante volte importunato invano, potei finalmente sentirlo parlare come io desideravo.

La cosa andò così. In una delle nostre gite, attirati da un lieto verzicare di alcune collinette lontane, avevamo abbandonata la strada che porta a Cividale, e per raggiungerle ci eravamo messi a camminare nei campi; quando, non so come, ci trovammo in una vallicella in mezzo a un labirinto di piccoli fossi legati fra loro da un intrico di ruscelletti allegri e sonori, i quali indorati dal sole prossimo a tramontare, come se fossero impauriti dalla nostra presenza, luccicavano per qualche istante e correvano a rimpiattarsi nel folto dell'erba densa, grassa e giallognola. Dopo di esserci impantanati più volte, un sentiero molle e appiccicoso coperto di foglie morte ci fece la carità di riportarci sulla via maestra.

Il sole era scomparso. Un po' di luce violacea agonizzava ancora nell'aria e mandava un debole riflesso sulla campagna grigia ove incominciava a sbocciar qualche lume. Faceva freddo e noi dopo di aver pestato più volte coi piedi il terreno solido e asciutto ci avviammo in fretta verso un chiarore lontano che sorgendo dietro a una prominenza bruna si diffondeva dolcemente sul cielo stellato.

— Udine! — disse il Muratti accennando il chiarore. E dopo di aver percorso in silenzio un breve tratto di strada mi chiese: — E tu a Roma dove passi le serate?

Io in quel tempo ero solito di andare quasi ogni sera nella bottega di via Condotti, e però gli risposi: — Al Caffè Greco.

— Al Caffè Greco? — esclamò il mio amico fermandosi di botto.

— Al Caffè Greco. — Replicai io fermandomi a mia volta e sorpreso della sua sorpresa.

— Vicino a piazza di Spagna?

— Precisamente.

— Ah! — seguitò il Muratti — lo conosco bene. Quando fui a Roma prima del settanta vi andai sovente insieme al Cucchi, al Guerzoni, all'Adamoli e ad altri. — E dopo una breve pausa, abbassando il capo e la voce, soggiunse: — L'ultima volta che ci sono stato fu quando Enrico Cairoli mi ci mandò da Villa Glori.

— Ti ci mandò Enrico Cairoli? — gli chiesi subito io. — E perchè?

— Perchè? — ripetè il mio amico, macchinalmente; e per tutta risposta fece un gesto brusco, agitò nell'aria scura le mani aperte e, scrollando le spalle, riprese a camminare.

Ma questa volta io non lasciai cadere l'occasione di sentirlo discorrere. L'argomento mi interessava troppo; e perciò messo da parte ogni riguardo ed abusando magari della sua pazienza tante glie ne feci e tante glie ne dissi che egli alfine impietosito dalle mie preghiere, o forse anche per liberarsi dalle mie domande insistenti, rallentò un poco il passo; fissò un momento gli occhi nel chiarore che veniva via via crescendo in fondo alla strada, e masticando le parole incominciò a parlare lentamente così: — La ragione per cui, invece di sbarcare alla Passeggiata di Ripetta, noi dovemmo fermarci poco prima di Ponte Milvio la conosci: l'hai scritta così bene in poesia, dunque è inutile di starla a ripetere, perchè la tua poesia...

— Ma lascia stare la mia poesia! Racconta!

— Ecco. Dunque, come sai, dopo di aver passato la notte in un canneto sulla riva sinistra del fiume, non sapendo quale esito avesse avuto l'insurrezione di Roma, che noi volevamo aiutare, nella speranza di vedere arrivare qualcuno con qualche ordine, all'alba, salimmo a Villa Glori. Lassù in alto, in ogni caso, ci saremmo sempre potuti difendere meglio di quanto avremmo potuto farlo giù in basso sulla sponda del Tevere. È chiaro?

— Chiarissimo. E allora?

— Eh, allora le cose non si mettevano bene. La necessità di avere notizie da Roma per noi si faceva sempre più urgente, ma le ore passavano e da Roma non veniva nessuno. Enrico Cairoli, prima di salire a Villa Glori, aveva mandato a Roma uno dei nostri, un romano, un certo Candida; ma non tornò più. Allora Enrico mi chiamò e mi disse: — Senti, Giusto, quassù non possiamo rimanerci troppo a lungo: occorre di pigliare una decisione; ma prima di pigliarla, è necessario di sapere che diamine è successo a Roma. Su Candida oramai non ci si può più contare. Bisogna che vai tu.

A sentirmi dare quest'ordine io feci un gesto di sorpresa; e non potei fare a meno di pronunziare qualche parola di rammarico.

Enrico Cairoli, come sai, era di carattere impulsivo; e, appena vide il mio turbamento, aggrottò le ciglia e guardandomi in faccia esclamò: «Ah! Non vuoi andare?», e, senza darmi il tempo di rispondere, seguitò: «Va bene! Allora vado io». Mi voltò le spalle e si mise a camminare con passo risoluto verso il cancello della Villa. Io gli corsi subito dietro, lo fermai e gli dissi: «No, guarda, Enrico, delle mie parole non tenerne conto; mi sono state suggerite dal dolore che provo nel dovermi allontanare da te, da Giovannino e dai compagni: del resto, se tu credi che a Roma ci debbo andare proprio io, comandami». «Sì, devi andar tu», mi rispose Enrico con voce ferma. E dopo un istante di silenzio continuò: «Dispiace anche a me di doverti chiedere questo sacrificio; ma non si può fare altrimenti. Tu a Roma ci sei già stato; a Roma conosci molti dei nostri amici; sai in quale strada si trova il luogo dove ti debbo mandare; dunque bisogna che vai tu». Io chinai la testa in silenzio, ed Enrico, dopo di essersi guardato intorno, mi si avvicinò, abbassò la voce e mi disse: «Ecco, Giusto, quello che devi fare: appena sarai a Roma vai in via Condotti; entra nel Caffè Greco; siediti a un tavolino e fai i nostri gesti d'intesa. Certamente qualcuno ti verrà vicino, ti saluterà con le parole che sai; ti stenderà la destra e risponderà ai tuoi cenni coi cenni relativi: quando ti sarai assicurato bene di tutto, fagli conoscere la nostra posizione, digli quanti siamo e domandagli come ci dobbiamo regolare: sentilo e cerca di ritornare più presto che puoi. Vai!»

Io, come forse non ignori, ero il furiere dei Settanta; avevo nel mio sacco una cartella comperata a Terni; la presi, ci misi dentro due o tre fogli di carta pulita e mi avviai verso il cancello della Villa.

— Perchè pigliasti la cartella? — gli chiesi.

— Ma, ti dirò, io sapevo quanti studi di pittura e di scultura vi fossero lungo la via Flaminia: dovevo entrare a Roma per la Porta del Popolo: se mai mi avessero fermato mi sarei dato per pittore tedesco — rispose. E seguitò: — Dunque, come ti dicevo, mi avviai verso il cancello. Passando davanti alla casetta del guardiano incontrai un ragazzetto di circa otto o nove anni. Carino! Aveva una faccetta intelligente quanto mai! Appena lo vidi, mi venne subito l'idea di portarlo con me. Se sarò costretto a fingermi pittore, lo farò passare per un mio modellino, pensai; e pensai ancora che forse avrebbe potuto indicarmi qualche scorciatoia. Insomma, me gli avvicinai e gli dissi: — Vuoi venire a Roma? — Il caro ragazzo si mise a ridere e acconsentì prontamente. Io gli diedi la cartella e scendemmo insieme a Porta del Popolo.

La Porta la trovammo barricata. Una sentinella ci fermò. Venne un graduato, ci rivolse qualche domanda, si persuase della verità di quanto gli rispondemmo e ci lasciò passare; ma appena io entrai in Piazza del Popolo alcuni carabinieri mi fermarono di nuovo e mi portarono in una caserma, che era lì presso alla Porta. C'è ancora?

— Si — gli risposi sorridendo — sì, la caserma c'è ancora; ma i carabinieri pontifici non ci sono più. Adesso, grazie a Dio, ci sono i nostri.

Il Muratti sorrise anche lui, e dopo un istante di silenzio riprese: — Nella caserma fui interrogato lungamente da un ufficiale che poi m'ingiunse di seguire uno dei suoi uomini. Costui mi fece entrare in una stanza; chiuse le finestre e mi ordinò di spogliarmi. M'ero appena levata la camicia quando all'improvviso dal di fuori venne un rumore confuso. Tesi le orecchie e nel rumore distinsi uno scalpitare di cavalli. Il carabiniere buttò subito sopra a una sedia la mia giacca che aveva incominciato a esaminare minuziosamente, corse verso la porta e scomparve; ed io rimasi lì, solo, a passeggiare in su e in giù nella camera come il padre Adamo nel paradiso terrestre. Di lì a poco il calpestìo dei cavalli risuonò più forte; diminuì come se si allontanasse e si spense. Udii ancora qualche grido e poi non sentii più nulla. Avvicinai pianino pianino la testa ai vetri di una finestra e vidi un soldato che correva, qualche cavallo e cinque o sei uomini intorno a un ufficiale che parlava facendo gesti energici e concitati. — Deve esser successo qualche cosa di grave —, dissi fra me, e un pensiero orribile incominciò a ficcarmisi nel cervello. Per non lasciarmi andar giù, ripresi a passeggiare per la camera.

Dopo un quarto d'ora, lungo come un quarto di secolo, l'uscio della stanza s'aprì e apparve un altro carabiniere: rimase un momento sorpreso nel vedermi e mi chiese con mala grazia: «Che cosa state a fare qua dentro?». Gli risposi in tedesco: «Aspetto la visita». Capisse o no, alzò le spalle bruscamente, mi guardò con gli occhi torvi e additando la porta grugnì: «Andate via!». Figurati! Mi rivestii in un attimo, uscii dalla caserma, chiamai con un cenno il ragazzo che stava ad aspettarmi, seduto con la cartella sulle ginocchia su la scalinata di una chiesa, e mi diressi verso il Babuino. Naturalmente io cercai di conoscere quale fosse stata la cagione di tutto quel chiasso da me udito poco prima, e seppi che mentre io mi trovavo coi carabinieri una pattuglia di dragoni era arrivata da Ponte Milvio; s'era fermata davanti al quartiere annunciando l'entrata di Garibaldi a Villa Glori, e aveva proseguito al trotto giù per il Corso. I nostri, dunque, erano stati scoperti. Mi si gelò il cuore! Affrettai il passo; attraversai volando la piazza di Spagna ed entrai nel Caffè Greco.

La bottega era quasi deserta. Mi sedetti a un tavolino, chiesi un caffè e feci i nostri gesti. Un giovanotto mi si avvicinò sorridendo e salutandomi come doveva; mi diede la mano; rispose puntualmente a qualche parola che gli dissi e mi invitò con un cenno della testa ad uscire. Appena fummo in istrada egli si fermò davanti alla vetrina di un negozio di oreficeria e indicando gli oggetti esposti bisbigliò: «Dobbiamo andare da Piatti in Via Panico». E senz'altro s'incamminò verso il Corso. Io lo lasciai allontanare di un centinaio di passi e poi gli andai appresso, avendo sempre a lato il mio ragazzetto con la cartella sotto al braccio.

In via Panico non ci si arrivava mai!

Finalmente il giovanotto dopo di essersi fermato un momento davanti a un portoncino di una vecchia casa e di essersi voltato a guardarmi vi entrò. Lo raggiunsi per le scale: salimmo insieme fino all'ultimo piano e trovammo il Piatti. Senza aspettare di essere interrogato, gli dissi subito chi ero, da dove venivo e chi mi mandava. Il Piatti si turbò, strinse le pugna, e con voce sommessa, accostando le sue labbra al mio orecchio, balbettò: «La rivoluzione è fallita. Non c'è più niente da fare. Bisogna tornare immediatamente a Villa Glori e dire ai Cairoli che si ritirino. Non c'è un minuto da perdere!».

Atterrito dalle sue parole gli stesi la mano per licenziarmi; ma lui mi fece cenno di aspettare. Prese un foglietto di carta velina, vi scrisse sopra qualche parola col lapis; piegò e ripiegò più volte il foglietto e lo fece diventare una pallottola della grossezza di un cece, rivestì la pallottola con un involucro di stagnola e me la diede ripetendo ancora: «Bisogna far presto! Non c'è un minuto da perdere. Fra poco i papalini saranno a Villa Glori!». Mi misi in bocca la pallottola; scesi giù per le scale a precipizio, e col mio fedele ragazzetto che avevo lasciato in istrada, corsi a Porta del Popolo. «Non si passa!». Parlando un po' in tedesco e un po' in italiano pregai un ufficiale di permettermi di ritornare nel mio studio di pittura a Papagiulio, dove gli dissi che abitavo; ma non ottenni nulla. Le provai tutte e tutte inutilmente. Figurati! Arrivai perfino a proporgli di farmi accompagnare da un milite!

— Caspita! — interruppi io — Se l'ufficiale avesse acconsentito, ti saresti trovato in un bell'impiccio! Che avresti fatto?

— Ah! — rispose il Muratti, calmo calmo — Se l'ufficiale avesse accettato di farmi accompagnare da un carabiniere, io sarei uscito; ma puoi esser certo che il carabiniere nella città eterna non ci sarebbe più entrato.

Non stentai a crederlo. Qual forza il Muratti avesse nelle mani lo sapevo. Pochi giorni innanzi me ne aveva offerto un piccolo saggio. Passando vicino ad una venditrice di frutta che aveva accanto un canestro ricolmo di mele, egli ne aveva presa una, se l'era messa fra l'indice e il medio della sua destra, e con la sola pressione delle due dita l'aveva spaccata come se fosse stata di burro.

— Dunque non potesti uscire? — ripresi io, affrettandomi a riallacciare il racconto spezzato dalla mia interruzione.

— Non fu possibile. — rispose seccamente il mio amico; e dopo qualche istante di silenzio, spintovi da un'altra mia domanda, seguitò: — Che volevi che facessi? Quando fui persuaso della inutilità di ogni insistenza tornai indietro; feci un lungo giro e andai a Porta Salaria; anche lì non potei far nulla. Provai a Porta Pia: tutti i miei tentativi furono vani. Allora, perduta assolutamente ogni speranza di poter passare, guardando il ragazzetto che m'era venuto sempre appresso e mi stava davanti con la cartella sotto al braccio, mi venne in mente che quello che non riusciva a me avrebbe potuto riuscire a lui. Ci pensai sù qualche minuto, e mi decisi. D'altronde non si rischiava niente. Lo portai in un punto di un vicolo dove non potevamo essere osservati e gli dissi: «Dimmi un po', tu saresti buono di ritornare a Villa Glori, solo?». «Sicuro!», rispose prontamente il ragazzo. «Bravo!» esclamai io subito; e mostrandogli la pallottola che racchiudeva il biglietto del Piatti, continuai: «Vedi questo 'confetto'? Se tu riesci a portarlo a quei signori che stanno a Villa Glori, quei signori ti faranno un gran regalo. Vuoi andare?». «Sicuro!», tornò a rispondere il ragazzo, tendendo il braccio verso il 'confetto'. «No, guarda», gli dissi io, allora «questo 'confetto' non lo devi portare in mano e nemmeno in saccoccia, perchè potresti perderlo: l'hai da tenere come l'ho tenuto io fino ad ora: apri la bocca!». Il caro figlietto, ridendo, mi guardò con gli occhietti intelligenti e aprì la boccuccia. Io, raccomandandogli di stare bene attento a non inghiottirlo, gli ci misi dentro il 'confetto'; poi lo accarezzai, gli diedi un bacetto, gli raccomandai ancora di non inghiottire il 'confetto', e lo lasciai partire.

Dopo di aver fatto una cinquantina di passi egli si voltò sorridendo e mi disse addio con la manina. Gli risposi. Mi si inumidirono gli occhi e non lo vidi più.

— E gliela fece a passare?

— Gliela fece! — esclamò il Muratti, battendo una su l'altra le palme delle mani: poi, aprendo le braccia, soggiunse: — Come e dove riuscisse a passare non lo so e non lo saprò mai; ma passò: tornò a Villa Glori e diede il 'confetto' a Enrico. Ma ormai Enrico aveva già risoluto di non indietreggiare.

Quello che avvenne poco dopo lo sai.

Appena egli ebbe finito di parlare rimase un istante con gli occhi fissi nel chiarore della città vicina, divenuto ormai più vivido sotto il cielo stellato; poi abbassò la testa sul petto, diede un calcio a una pietra, mandandola a ruzzolare sulla proda della via, e allungò il passo quasi che si volesse allontanare in fretta dalle ultime parole con le quali aveva chiuso il racconto!

Percorremmo, senza dire più nulla, un brutto borgo oscuro, fermandoci di quando in quando per lasciar passare qualche carretto; traversammo un lungo portico scarsamente illuminato da pochi fanali, e rientrammo in Udine.

Trascorso appena un anno dalla sera memorabile in cui egli, cedendo alle mie reiterate preghiere, mi aveva narrato il commovente episodio dell'animosa sua giovinezza, il Muratti venne a Roma: vi rimase parecchi giorni, ed io ebbi la gioia di poter salire con lui a Villa Glori.

Nella luce sfolgorante del dolce pomeriggio primaverile il cielo sereno inchinandosi sui monti rosei della Sabina e del Lazio pigliava nel toccarli la trasparenza e il colore dell'ambra. Al di là delle siepi, sulle quali accanto a qualche bacca lucida e rossa fioriva già il biancospino, le biade alte e verdi ondeggiavano lentamente; e gli ulivi, movendo le foglie brillavano sul fondo luminoso della campagna come se fossero stati d'argento. Ovunque, sotto alle ficaje, fra gli olmi e i gelsi, tra i ciliegi e i peri, fra i mandorli e i peschi, insieme al continuo ronzìo delle pecchie, delle vespe, dei calabroni e delle cantaridi rilucenti di fiore in fiore, nel sole, risuonava un fischiettare giulivo di capinere, di cardellini, di fringuelli e un cinguettìo prolungato e vivace di cingallegre e di passeri. Di tempo in tempo una lucertoletta ci guizzava fra i piedi; si fermava a guardarci con la testina alzata, e spariva in una fenditura del terreno cosparso di margheritine e di anemoni, o fra le pietre e i tufi d'una vecchia macèra; e qualche calandra balzando fuori all'improvviso da una zolla rossastra s'alzava rapida a volo, cantando: saliva in alto, più in alto ancora, e sempre cantando si perdeva nello spazio.

Superata una breve viottola erta e sassosa arrivammo alfine davanti all'‘albero dei Cairoli’, fra i cui rami fioriti, mossi lievemente da un'auretta soave, e risplendenti nell'azzurro, scorgevasi lo scheletro di una corona votiva dalla quale pendeva, tremolando, un nastro mortuario consunto dal tempo.

Il Muratti, passandosi di tratto in tratto le mani sugli occhi, rimase per qualche tempo in silenzio col capo chinato sul petto, dinanzi al mandorlo sacro; poi sempre in silenzio si avviò a passo lento verso la villa. Quando vi giunse si avvicinò alle vecchie mura; e dopo di averle osservate con molta attenzione, alzando la destra, m'indicò alcuni buchi che apparivano chiaramente nell'intonaco.

— I papalini? — gli domandai.

Egli abbassò più volte il capo; e avvicinatosi a un cespo di rose bengaline, ne colse una appena sbocciata; guardò un momento il suo colore sanguigno e me la diede; poi, come se si destasse da un sogno, mi chiese: — Dov'è il Tevere?

— Qui sotto — gli risposi accennandogli un piccolo bosco verzicante, dove qua e là sui rami ignudi delle querce accanto alle gemme pronte ad aprirsi c'era ancora qualche foglia ingiallita.

— Andiamoci! — ripigliò subito il mio amico. — Vorrei rivedere il luogo dove siamo sbarcati.

Dopo di aver rotto coi bastoni un impaccio inestricabile di pruni rigidi e feroci che s'attaccavano ai panni, e di esserci liberati da una sterpaglia di ramoscelli sfrondati stretti insieme tenacemente dall'edera, penetrammo in un boschetto di querciole, di acacie, d'elci, di allori e d'ailanti, e affondando i piedi in un viluppo d'erbacce umide che ad ogni passo ci mandava sul viso ora una tanfata di fracidume e di muffa, ora un delicato e delizioso profumo di violette, lo traversammo e scendemmo in un canneto sulla riva melmosa del fiume.

Il Muratti esitò alquanto prima di riconoscere il punto preciso dove egli era sbarcato coi Settanta; ma alfine, dopo di aver girato più volte gli occhi intorno attentamente e lentamente, aguzzando le ciglia, additandomi un vetrice gobbo e rugoso che si specchiava nell'acqua immota di una piccola insenatura della sponda, esclamò con voce risonante: — Là, là sbarcammo! Proprio là! — e lasciandosi dietro sulla creta le impronte dei passi frettolosi si avvicinò al vecchio albero e ne accarezzò con la mano aperta e leggera il tronco deforme, e, mentre un ramoscello da lui appena toccato si rialzava oscillando, rimase a guardare all'oriente verso Mentana.

Una rondine strisciò col petto bianco sull'acqua gialla, si posò per un attimo sulla riva assolata e s'allontanò stridendo.

Lungo la via del ritorno egli mi rivolse appena qualche breve parola; ma quando rientrammo in piazza del Popolo, dopo essersi fermato davanti alla caserma dei carabinieri e di averla guardata a parte a parte, prima di ritornare a muoversi mi disse: — Vedi, se tu mi porti in via Panico, io son sicuro di ritrovare quella casa dove andai con quel giovanotto che conobbi al Caffè Greco. — E, toccandosi la fronte, aggiunse: — Ho la certezza di ritrovarla perchè la sua immagine ce l'ho stampata qui dentro.

Il sole illuminava ancora la più alta balaustrata del Pincio, l'obelisco e le cupole. Andammo in via Panico e colà, verso Monte Giordano, egli riconobbe facilmente la casa del Piatti.

— E dimmi un po' — gli chiesi poi sorridendo — al Caffè Greco non ci vuoi ritornare?

— Sì! — mi rispose subito — Sì, andiamoci, e così avrò rivisto tutto. Però — soggiunse, mentre imboccavamo l'antica e pittoresca via dei Coronari, — però non lo riconoscerò più.

— Non dubitare; chè lo riconoscerai perfettamente. — gli risposi. Difatti, appena egli vi entrò, non seppe nascondermi il suo stupore e, prima di mettersi a sedere, aprendo le braccia in atto di maraviglia, esclamò: — Hai ragione, è proprio tale e quale. Non v'è nulla di cambiato. Nulla. D'altronde io credevo che dopo tanti anni...

— Ah! — lo interruppi io ridendo — gli anni per il Caffè Greco non contano; forse i secoli.

Nella bottega, tutta immersa in una penombra deliziosa non v'era nessuno, e noi vi rimanemmo fino a quando accesero i lumi. Allora ci alzammo, e dopo di esserci fermati qualche momento nella prima stanza per ammirare ancora una volta le pitture di Ippolito Caffi, morto gloriosamente a Lissa, sulla Palestro al fianco di Alfredo Cappellini, uscimmo.

* * *

Forse la prima descrizione che sia stata fatta del Caffè Greco è quella che Giacomo Casanova ci ha lasciato di quel 'Caffè di strada Condotta' ove egli, chiamatovi dall'abate Gama, entrò nell'ottobre del 1743, trovandovi quella eletta radunanza di maldicenti, di ruffiani, di castrati e di abati che ci descrive con tanta vivezza: dico forse, perchè l'avventurier farabutto, allora al servizio del cardinale Acquaviva, il nome del 'Caffè di strada Condotta' non lo dice. Chi lo dice in tutte lettere è Pierre Prudhon, il quale essendovisi recato qualche volta insieme col suo amico Bertrand ne disegna la fisonomia artistica con queste precise parole: — Là tous les maitres sont passés en revue et ne sont point épargnés. On critique celui-ci, on dechire celui-là. Tous ceux qui ne peuvent entrer en comparaison avec Raphäel sont proscrits. Raphäel lui-mème est blàmé de ne s'ètre pas assez servi de l'antique. Le mieux de tout cela, c'est que tous ces messieurs les beaux parleurs n'étudient ni l'antique ni Raphäel et s'amusent chez eux à ne rien faire qui vaille.

Qualche mese dopo che il dolce e malinconico pittore borgognone scriveva al suo amico Fauconnier queste parole, Wolfango Goethe era in Roma. Vi andò forse egli mai, il gran pagano, nella bottega fondata dal greco? Non saprei dirlo: ma se, come è certo, il Tischbein ed il Moritz, suoi intimi amici, la frequentarono, è probabile che qualche volta vi sia andato anche lui; tanto più che non soltanto da una lettera del Moritz, ma da alcuni scritti dello scultore Schaeffer e da qualche pagina del romanziere Gian Giacomo Guglielmo Heinse impariamo come fin dal 1780 il Caffè Greco fosse già, per i tedeschi residenti o di passaggio in Roma, un luogo di ritrovo. Difatti più tardi vi si radunarono i «nazareni»: quegli artisti i quali, venuti qui dalle varie provincie della Germania e aggruppatisi intorno a Federigo Overbeck, essendo rimasti profondamente impressionati dalla suntuosità delle chiese romane, dalla magnificenza delle funzioni papali, dai Miserere della cappella Sistina e dalla bontà del vino de li Castelli, si fecero cattolici, iniziando in sul principio del secolo nostro quel periodo di conversioni che per lunghi anni nella colonia tedesca di Roma fu una specie di contagio.

Per loro l'arte era una preghiera, e i quadri e le statue non avevano altra ragione di essere se non quella di recare lustro e decoro alla religione: si erano radunati nel piccolo convento di S. Isidoro, abbandonato allora allora dai francescani irlandesi, e ci vivevano tutt'insieme. Al primo apparire del giorno, chiamati da una campana, si riunivano tutti in una cappella, e dopo aver cantato in coro il Veni creator spiritus, se ne tornavano nelle celle a lavorare. Niente ignudi, s'intende; niente donne, niente anatomia e sopratutto niente mitologia. Degli Dei pagani non se ne doveva parlare nemmeno per burla. Agli abitatori ed alle abitatrici dell'Olimpo, gente immorale quant'altra mai, non si aveva da chieder nulla: per qualunque cosa occorresse, San Luca bastava e avanzava.

Cotesti «nazareni» (così li chiamò per derisione la mala lingua dello scultore Wagner), allorchè l'ombra della sera scendeva sul cenobio, avevano l'abitudine di scendere a loro volta al Caffè Greco e di trattenervisi per qualche ora. Lo Schopenhauer, quando venne a Roma, ve li trovò ancora quasi tutti, e non è difficile immaginare come e quanto li punzecchiasse col suo sarcasmo, esortandoli a dipingere ed a scolpire gli Dei di Omero: li punse tanto che alfine i poveretti, non ne potendo più, gli fecero dire che avrebbe fatto bene ad andarsene con la sua filosofia e a non più ritornare a intorbidare con le sue bestemmie i loro caffè e latte e le loro coscienze.

Una sera il filosofo di Danzica, seguìto come al solito dal suo cane barbone bianco, a cui aveva dato il modesto nome di Alma, che voleva dire 'anima del mondo', entrò nel Caffè; e arrivato nella stanza ove erano i «nazareni», dopo di averli salutati, disse loro: — Vedete: la nazione tedesca è la più stupida delle nazioni della terra; tuttavia in un punto è superiore a tutte le altre: cioè nel poter fare a meno della religione, e voi... — Uno scoppio formidabile di urli e di contumelie coprì le parole del filosofo; e tutti, levatisi di scatto dai loro posti, alzando i bastoni e le ombrelle, lo spinsero verso la porta della bottega; ed egli sempre seguìto dal suo cane barbone, ovverosia dall'anima del mondo, se ne andò mormorando: — La patria tedesca in me non s'è allevato un patriota! — Se ne andò, e nel Caffè Greco non mise più il piede.

Ma neppur loro, i «nazareni», durarono ancora molto a radunarvisi, poichè il Cornelius fu chiamato a Monaco per dirigervi l'Accademia di belle arti, e colà, chiusa la Bibbia dalla quale da buon «nazareno» ei traeva i soggetti dei suoi quadri, prese a dipingere gli episodi più celebri delle leggende germaniche; Schadow, eletto direttore della Scuola d'arte a Düsseldorf, prese la via dell'insegnamento; il Woghel, lasciati i temi chiesastici, si mise ad illustrare il Dante; Weit andò a Francoforte: e così lo Schnoor, il Pför, i due Müller, Colombo e gli altri lasciarono via via la bella Roma, ove Dio pensa a tutto, e se ne tornarono ai loro paesi. Soltanto l'Overbeck non si mosse: e qualche anno dopo scriveva al Weit: «Io mi aggiro solitario fra le rovine di Roma e mi pare che io stesso sia diventato una rovina».

Presso a poco nello stesso tempo in cui il Caffè Greco veniva abbandonato dai «nazareni», esso ebbe l'onore di accogliere lo Stendhal, il quale vi capitò spintovi da una circostanza che vale la pena di essere riferita.

L'autore della Chartreuse de Parme era andato a vedere la Cascata delle Marmore; e, dopo averla ammirata dal basso e dall'alto, se ne scendeva a Papigno, quando s'imbattè in una contadina che gli andò incontro salutandolo come una vecchia conoscenza. Sorpreso dalle parole e dagli atti della donna egli rivolge qualche domanda a un giovinetto che lo accompagnava, e questi gli risponde, guardandolo furbescamente: — Eh, ho capito; voi, signor Stefano, non volete essere riconosciuto. — Mentre alcune altre donne gli vanno incontro manifestandogli il piacere che provano nel rivederlo, egli torna ad interrogare il giovinetto, e dalle sue risposte arriva finalmente a sapere che tutti lo pigliavano per il signor Stefano Forby, un pittore francese il quale pochi mesi innanzi aveva dimorato in Papigno per dipingere i diversi punti di vista della Cascata famosa. Rallegrato dalla comicità dello scambio, lo Stendhal lasciò correre; ma quando arrivato alle prime case del paese si trovò in mezzo a una folla giubilante di uomini, di donne e di bambini, cercò di mettere le cose a posto. Tutto fu inutile. Più lui si sgolava a dimostrare di non essere il Forby, e più tutti gli dicevano ridendo: — Ah, signor Stefano, ma voi volete scherzare! — Insomma, giacchè non c'era altro da fare, l'autore della Chartreuse accettò di buon grado le role del pittore; rispose come meglio potè alle dimostrazioni di affetto di quanti gli si stringevano addosso; li portò tutti da un 'salamiere'; offrì a tutti da mangiare e da bere; rimase con loro allegramente fino al cadere del giorno e se ne scese a Terni seguìto dalle loro benedizioni.

Ritornato a Roma lo Stendhal seppe che il Forby frequentava il Caffè Greco: vi andò subito e, ohimè!, fu choqué di trovare nel pittore a cui egli somigliava tanto un uomo sans doute fort bien au moral mais si peu beau!... — La qual cosa fa chiudere all'illustre psicologo il racconto della sua comica avventura con questa malinconica osservazione: — Il est singulier combien l'homme le moins fat pervient encore à se faire illusion sur sa taille et sa figure!

Fra l'autunno del 1830 e l'inverno del 1831 la bottega di via Condotti, arrivata all'apogeo della sua fama, ebbe, fra gli altri molti, due illustri visitatori; forse sarebbe meglio dire due illustri denigratori: il Berlioz e Felice Mendelssohn-Bartholdi. Difatti il Mendelssohn, in una lettera al suo babbo, del povero Caffè Greco ne parla così: «L'una stanza piccola e buia, larga circa otto passi, e da un lato di quello stambugio si può fumar tabacco, dall'altro no. Tutti siedono all'intorno sui banchi con in testa larghi cappelli e con tutto il viso e il collo coperto dai capelli; fanno un fumo orribile e denso e si dicono reciprocamente delle volgarità: hanno accanto grossi cani da macellaio, i quali sono incaricati della diffusione degl'insetti. Ciò che sul loro volto è libero dalla barba è coperto dagli occhiali; un fazzoletto da collo e un frack sarebbero novità; ingoiano caffè e parlano di Tiziano e di Pordenone come se questi sedessero accanto a loro». Non c'è male! Ma anche il Berlioz, che vi andò subito appena arrivò a Roma, la sera stessa del suo ingresso all'Accademia di Francia, non scherza: ecco con quali graziose parole egli ne tesse l'elogio: — Le fameux Café Greco c'est bien la plus detestable taverne qu'on puisse trouver: sale, obscure et humide, rien ne peut justifier la préférence que lui accordent les artistes de toutes le nations fixés a Rome.

Povero Caffè Greco! Nondimeno se tutti ne dicono male, tutti ci vanno, e lo stesso Berlioz deve confessare che la plus detestable taverne qu'on puisse trouver quando egli vi andò era talmente frequentata dagli artisti stranieri che la maggior parte di essi vi si faceva indirizzare la corrispondenza, e deve dire che gli artisti, arrivando a Roma, se volevano trovare i loro compatrioti dovevano cercarli al Caffè Greco. Difatti non mai come allora la bottega di via Condotti fu onorata da un così gran numero di avventori illustri; non mai come allora, quando i due celebri alunni di Euterpe ne parlavano con tanto dispregio.

Per ricordare soltanto gli stranieri che la frequentarono in quei giorni, o poco più tardi, basta nominare fra gli altri e su gli altri lo scultore danese Alberto Thorwaldsen, Mickiewicz, Orazio Vernet, Ampère, che visitando i nostri monumenti e osservando i nostri costumi raccoglieva già gli elementi per la sua Histoire Romaine a Rome, Thomas il futuro autore dell'«Amleto» e della «Mignon», Barbier il poeta della Curée, dell' Idole e del Pianto, Delaroche, Corot, Dupré, il mistico Orsel, lo Schnetz, che doveva poi essere eletto per due volte direttore dell'Accademia di Francia, e Leopold Robert il pittore dei Moissonneurs e di quegli altri molti quadri raffiguranti i vari episodi della vita dei briganti; i quali quadri e i quali briganti diedero a lui la gloria e a noi quella tal rinomanza da cui non ci siamo ancora liberati. Ma però la verità bisogna dirla tutta: s'egli è certo che cotesta non davvero invidiabile rinomanza il Robert fu il primo a procurarcela non è nemmeno dubbio che gli artisti nostri fecero quanto poterono perchè ci venisse conservata!

Il Raggi in un opuscolo da lui stampato nel 1836 intorno alla vita e alle opere di Bartolomeo Pinelli, dopo di aver ammonito gli artisti di astenersi dal dipingere e dallo scolpire «gli orridi fatti di quei malandrini che in sulle vie assalivano lo infelice viaggiatore che spesse fiate per le scellerate mani di quegli empi rinveniva la morte» e dopo di averci detto che il Pinelli «tali spettacoli orrendi, che sono un'onta per l'umanità, li ritraeva sì al vero che glie ne venivano commessi moltissimi», ci fa sapere come il conte Gourieffe, oltre a cinque quadri, allogasse all'artista trasteverino anche ventiquattro incisioni (i cui rami poi vennero portati in Russia) nelle quali dovevano essere rappresentate «le principali azioni di una mano di perfida gente che infestava le vicinanze di Frascati».

Del resto quando si pensa con quale insaziabile brama gli «orrendi spettacoli» dei quali parla il Raggi, effigiati sulle tele o scolpiti nel marmo, venissero allora ricercati, ammirati e, quel che più importa, comperati da tanti e tanti amatori, fra i quali erano in prima linea il re del Belgio, il re di Prussia, il re d'Olanda, i Bonaparte, i Demidoff, i Souwaroff, i Rothschild, i Fitz-James, i Basilewski, i Metternich e gli Schoenbrunn, non può davvero recar maraviglia se gli artisti nostri invece di fermarsi ad ascoltare il Raggi si mettessero a camminare per la strada brigantesca aperta dal Robert. Che se poi si volesse dimostrare fino a qual punto essi desiderassero di percorrerla cotesta via, basterebbe solamente ricordare come il Robert per soddisfare le richieste insistenti di coloro che volevano acquistare uno dei suoi quadri intitolato: Femme de brigand veillant sur le sommeil de son mari, fosse costretto a doverne dipingere in poco tempo quattordici repliche! E basterebbe dire che molti, quando perdettero la speranza di avere il quadro, pur di ottenere dal pittore qualche cosa dipinta da lui, lo supplicarono ad accontentarli dicendogli: — Mon cher monsieur Robert, un petit brigand, S. V. P.!

Ma la causa che spinse il Robert ad illustrare col suo pennello la vita dei malandrini fu abbastanza curiosa. Egli non era certamente venuto a Roma dal Canton di Neufchatel per questo! Tanto è vero che quando arrivò qui, benchè il brigantaggio infierisse da per tutto nello Stato Pontificio, agli avvenimenti briganteschi ei non chiese alcun soggetto per i suoi quadri, e mentre le bande del famigerato Gasperone assalivano le strade fin presso alle porte dell'Urbe, e le numerose squadre dei carabinieri facevano inutilmente del loro meglio e del loro peggio per disperderle, riproduceva nelle sue tele interni di chiese e di sacrestie, scorci di vie e di cortili e prospettive di chiostri: e, forse, da cotesto genere di pittura non si sarebbe allontanato se la polizia, fra le tante cose che in quei giorni pensava e metteva in opera per distruggere i banditi, non ne avesse pensata una la quale non distrusse niente e diede al modesto pittore di interni non solo il modo di diventare un grande artista, ma anche i mezzi per poter divulgare con la sua arte le gesta dei masnadieri e renderle popolari in tutto il mondo.

La bella pensata della polizia fu questa: arrestare l'intero paese di Sonnino, ove essa riteneva che si formassero le bande dei malviventi, e portarlo a Roma! Difatti un bel giorno (Veramente per i sonninesi il giorno dovette esser brutto!), una formidabile armata di carabinieri salì dalle paludi Pontine verso il paese, lo circondò, incatenò quasi tutti i suoi abitanti e li portò trionfalmente a Roma, dove uomini, donne e bambini, vennero chiusi parte in Castel S. Angelo e parte in un vasto edificio a Termini, accanto alle Terme di Diocleziano.

Il Robert andò a vederli e rimase profondamente colpito dall'energia e dalla purezza delle loro fisonomie, dalla linea statuaria delle loro persone, dalla eleganza e fierezza dei loro gesti, e specialmente dalla originalità dei colori e delle forme dei costumi che indossavano. Tornò ancora a visitarli e ammaliato dalla bellezza superba di due donne, una certa Teresina e una tal Maria-Grazia, le quali poi rimasero in Roma e divennero due modelle famose fece chiedere a Monsignor Governatore, il Bernetti, un permesso per poterle andare a disegnare: l'ottenne e dopo qualche mese di lavoro assiduo espose nel suo studio, con i ritratti delle due belle sonninesi, alcuni quadri di soggetto brigantesco, i quali sì per la novità del genere come per la maestria con cui eran composti, disegnati e dipinti ebbero un successo straordinario, e furono l'origine di quella enorme quantità di pitture, sculture, disegni, incisioni e litografie di scene e rappresentazioni della vita dei banditi, che spargendosi per il mondo ci procurò, come dissi dianzi, quella fama, non del tutto immeritata, del resto, in grazia della quale chiunque veniva fra noi vedeva briganti da per tutto. Perfino nel Caffè Greco! Par credibile? Eppure è così.

In un volumetto pubblicato a Parigi nel 1869, un certo Auguste Villemot incomincia un suo scritto, intitolato Brigands et Voleurs, precisamente con queste parole: — En 1847 j'étais à Rome. J'y frequentais le Café Grec, établissement très pittoresque... e lo prosegue dicendoci come proprio in cotesto établissement egli avesse il piacere di conoscere un signore sulla sessantina, con occhiali e parrucca, il quale, niente di meno, era il famoso capobrigante Carmagnola, che, ritiratosi dalla professione con quarantamila scudi, viveva in uno dei migliori alberghi di Roma e recavasi tutte le sere nella bottega di via Condotti per leggervi le gazzette e per giuocare qualche partita a dòmino, conversando piacevolmente con gli amici.

Lo scritto del Villemot non ha di certo una grande importanza nella storia della letteratura francese, ma ne ha, mi pare, una grandissima in quella del nostro Caffè, poichè ci dimostra come questo, sol che lo volesse, potrebbe onorarsi di avere ospitato nelle sue stanze, fra le tante persone celebri, anche un capobrigante. Potrebbe; ma, siatene certi, non lo farà. La bottega illustre, che pur avendo la fortuna di poter annoverare nella lunga serie dei suoi avventori un re, non se ne è mai vantata; figuriamoci un po' se vorrà farsi avanti per gloriarsi di avere accolto fra le sue oneste pareti il famoso Carmagnola!

Lasciamo stare dunque il brigante e parliamo del re.

Luigi primo di Baviera nei lunghi soggiorni che fece in Roma, per passarvi ogni anno lietamente i mesi dell'inverno, dall'alto della sua Villa Malta, in cui abitava, scese spesso nel Caffè Greco per cercarvi i suoi amici tedeschi, dai quali era adorato, e per portarli in qualche osteria romanesca. Le osterie dove, senza far torto alle altre, egli soleva più di frequente condurre gli artisti, eran due: una in riva al Tevere presso Ripagrande, sempre fornita di eccellente marsala, e un'altra all'insegna della Campanella, in piazza Montanara, ove il Goethe incontrò la bella Faustina da lui poi immortalata nelle Elegie Romane. Con quale gioia gli artisti accogliessero gli inviti del buon Luigi e con quanta prontezza abbandonassero per seguirlo il loro ritrovo abituale, non occorre dirlo; ma non occorre dire nemmeno che vi ritornavano presto.

Der Kaffée in dem Kaffé Grec

Den Katzenjammer jaget weg.

Questi due versi che ci fan sapere come il caffè del Caffè Greco fosse allora ritenuto dagli artisti tedeschi un rimedio eccellente per far svanire i fumi delle sbornie, possono servire, io credo, anche a farci intendere come, in ogni caso, la loro lontananza dalla via Condotti non dovesse certamente prolungarsi al di là dello stretto necessario! Vi tornavano dunque; ma appena Luigi veniva a rivolger loro nuovi inviti, se ne allontanavano ancora per seguire il buon re nelle sue osterie predilette, ove egli amava di mangiare e di bere allegramente ammirando, se se ne presentava l'occasione, le belle popolane di Trastevere, cantando le dolci canzoni della patria lontana, e recitando fra un bicchiere e l'altro qualche epigramma composto nella giornata. Uno appunto di cotesti epigrammi del re Luigi ha per argomento la bottega di via Condotti; e lo Schiaparelli lo ha tradotto così:

D'alemanni ritrovo meglio tedesco chiamarte,

Ma noi stringe coi greci l'affinità dell'arte.

E fra gli artisti italiani quali furono quelli che più o meno assiduamente visitarono il Caffè? Tutti. O, almeno, quasi tutti; poichè si può dire, senza esagerare, che fino al 1870 il Circolo artistico internazionale di Roma fu il Caffè Greco.

Negli anni oramai lontani, quando incominciai a frequentare la bottega di via Condotti, al vecchio Frezza, che precedette nell'esercizio del locale l'attuale proprietario, io solevo chiedere spesso notizie sulla preistoria del negozio allora suo, e ricordo che dopo di avermele date egli mi diceva sempre di averle apprese sfogliando un grosso libro posseduto da un certo Raffaele, un vecchio cameriere da lui trovato nella bottega e conservato per qualche tempo al suo servizio. Il libro, a quanto affermava il Frezza, era «un museo», e conteneva firme, indirizzi, poesie, pezzi di musica, disegni, caricature e motti di coloro che avevano frequentato o visitato il Caffè.

Dove sarà andato a finire il cimelio prezioso? E chi lo sa!

Un giorno che il Frezza mi parlava lungamente del libro, dicendomi, fra l'altro, di averci vista una pagina scritta da un famoso romanziere russo, il quale abitava in via Sistina ed era assiduo frequentatore della bottega (doveva essere certamente il Gogol), io gli chiesi se ricordasse di averci visto anche qualche cosa del Pinelli e del Leopardi; ma non mi seppe rispondere.

Il Leopardi durante la sua permanenza in Roma, ove corse il pericolo di vestirsi da prelato e di andare con l'abito paonazzo a governare una provincia, dimorò precisamente nella casa vicina a quella dove abitava, ed abita ancora, il Caffè Greco; dunque può darsi che il poeta della Ginestra, se non altro per rapporto di buon vicinato, almeno una visita alla bottega famosa gliel'abbia fatta; ma il Pinelli io credo che non vi sia mai andato. L'amaro e reo caffè al sor Meo piaceva poco. Al caffè di Portorico e di Moka egli preferiva il caffè de li Castelli, e specialmente quello che matura e s'indora nell'autunno sui dolci colli tuscolani. Per ciò tutto, non si rischia di correr troppo pensando che se pure il bizzarro artista romanesco vi è entrato qualche volta, nelle stanze del Greco, vi sia entrato per sbaglio.

Al Frezza un'altra volta io ricordo di aver dimandato se fra i disegni conservati nel libro, di cui s'è discorso, rammentasse di averne visto qualcuno di Massimo d'Azeglio, ed ei mi rispose affermativamente e mi parlò di un «guerriero a cavallo». Del resto il buon uomo, quando io lo invitavo a darmi qualche notizia sugli artisti che avevano frequentata la bottega prima che questa fosse divenuta sua, dopo di avermene discorso brevemente a voce bassa e solenne, come se si trattasse dei suoi antenati, forse temendo di non ricordar bene, taceva; ma se invece io gli chiedevo quali persone illustri egli potesse dire di aver visto coi suoi occhi entrare e trattenersi nel suo Caffè, allora il caro vecchio si animava tutto, sorrideva, si accarezzava con la piccola mano aperta la bella barbetta argentea, alzava un pochetto la voce e vinto da una commozione profonda in cui si sentiva un po' d'orgoglio mi nominava Wagner, Liszt, Gounod e Bizet, Gregorovius, Gibson e la sua allieva Enrichetta Hossmer, che, fuggita a sedici anni dalla famiglia, venne qui, sola, dall'America per studiare scultura; Barrias, Wurzinger, Harpignies, Hamon, Rosales e Mariano Fortuny, il Riedel, Regnault, Hébert, Celentano, Morelli, il Catel, il Mayer, che morì di un colpo apopletico proprio nella bottega, il Pollak, Carlo Coleman e Federigo Faruffini; poi, dopo di avermi indicato il posto ove alcuni di costoro erano soliti di mettersi a sedere, finiva quasi sempre col mostrarmi una vecchia fotografia di un quadro dipinto nel 1845 dal Passini: un quadro in cui è effigiata la prima stanza del Caffè, ove allora era il banco, che adesso invece sta nell'ultima, e mostrandomela mi faceva osservare fra le figure quella del cameriere che è appunto il ritratto di quel tal Raffaele, il proprietario del libro ove era, si può dire, la storia del Caffè Greco.

Ma dove sarà andato a finire il cimelio prezioso? E chi lo sa?!

* * *

Da quanto può vedersi nel quadro del Passini, parrebbe che quando ei lo dipinse nella bottega di Via Condotti di cameriere ve ne fosse uno solo; ora invece ve ne son due, i quali rispondono, ma non con troppa premura, ai nomi di Nunzio e Salvatore.

Nunzio e Salvatore pur essendo abbastanza vecchi vengono comunemente chiamati «i due giovani», e tanto l'uno quanto l'altro dal continuo contatto con gli artisti hanno appreso un certo disprezzo per le forme esteriori, massime per ciò che riguarda il rispetto verso gli avventori, e un'aria di indipendenza indomabile che molto li onora. Ambedue servono, è vero; però quando vanno attorno per le stanze sorreggendo i vassoi scintillanti sui quali tintinnano e fumigano urtandosi insieme i bricchi, le tazze e i bicchieri, il loro passo, come direbbe la buon'anima di Francesco Domenico Guerrazzi, è quello di servi liberi in Caffè libero. Del resto tutti e due dalla lunga permanenza nella bottega e dal diuturno esercizio delle loro funzioni hanno imparata una certa tal qual filosofia, non senza una discreta dose di pessimismo bonario, che li porta a pigliare il mondo come viene e l'avventore come Dio lo manda. E questo di solito per i gusti e per le abitudini differisce assai dal maggior numero dei suoi simili i quali popolano ordinariamente tutti i Caffè dell'orbe terracqueo. Una delle sue caratteristiche, se non la prima, è quella di preferire l'acqua a tutte le bevande multicolori più o meno dolci ed amare. Difatti il numero dei bicchieri d'acqua che giornalmente e seralmente si consuma nelle pittoresche sale del Greco è inaudito. Chi di cotesti bicchieri volesse farne in capo all'anno un computo, anche approssimativo, dovrebbe, io credo, prima di mettersi al lavoro, inventare molti numeri nuovi! Ma a proposito di acqua mi torna a mente una graziosa storiella.

Un giovanotto, assiduo frequentatore del Caffè, oltre all'aver molto ingegno, aveva, cosa molto naturale, un picciol debito col padrone del negozio e, cosa più naturale ancora, cotesto debito non lo pagava mai. Rebus sic stantibus il suo nome, che più tardi doveva esser scritto a lettere d'oro nel libro glorioso dell'arte, per allora rimaneva, purtroppo, vergato col nero inchiostro in un vile scartafaccio ove erano annotati i nomi di coloro che dovevano denaro alla bottega.

Il giovanotto, ogni giorno, giuocava or con questo or con quello qualche partita a scacchi e, abilissimo com'era, vinceva quasi sempre la posta: il prezzo di una tazza di caffè. Una volta i suoi amici furono sorpresi di sentirgli chiedere al cameriere, invece dell'abituale «tazza nera», un bicchierino di un liquore bianco ferocissimo, fabbricato, Dio ce ne scampi e liberi tutti!, coi nòccioli delle ciliegie.

— Non pigli il caffè? — gli chiesero.

— No — rispose il giovanotto, vuotando in fretta il bicchierino — no. Il caffè m'urta troppo i nervi.

La risposta era persuasiva: gli amici non gli domandarono più nulla e lui seguitò ad annaffiare le sue vittorie con l'infernale mistura: non gli domandarono più nulla; ma ogni volta che veniva pronunciato il suo nome, non sapevano trattenersi dall'esclamare: — Che peccato! Buono, bravo, giovane... Rovinarsi così! — E se qualcuno chiedeva qual cosa facesse egli mai per rovinarsi così, gli rispondevano con voce accorata: — S'è dato ai liquori. — E soggiungevano: — Li beve come noi beviamo l'acqua.

Proprio vero!, poichè la bottiglia del famoso liquore bianco, fabbricato coi nòccioli delle ciliegie, conteneva soltanto acqua pura.

In conclusione egli beveva bicchierini di acqua; gli altri li pagavano come se fossero pieni di liquore, e il cameriere, che sapeva tutto, portava il danaro al suo padrone. E fu così che il bravo giovanotto si fece, è vero, la fama di un indurito ubriacone, ma pagò il suo debito fino all'ultimo centesimo.

Ma oltre al grande amore ch'ei nutre per l'acqua l'avventore del Caffè Greco si differenzia non di rado dai frequentatori degli altri Caffè per il conto in cui tiene la negra infusione arabica; poichè, mentre ovunque cotesta infusione si suol berla per digerire il desinare che s'è mangiato, nella bottega di via Condotti invece la si beve sovente per digerire il pranzo che non si mangerà. Gli artisti, è risaputo, più di ogni altra classe di persone, vanno soggetti a distrarsi, e perciò come talora si dimenticano di pagare la pigione dello studio, così qualche volta si scordano di desinare. Io di artisti afflitti da cotesti fastidiosi svagamenti dello spirito ne ho visti parecchi. Ne ricordo uno fra gli altri, che mi venne presentato da un mio conoscente, il quale, avendo con lui una certa affinità di temperamento si onorava di essergli discepolo.

Era un francese; parlava poco e male il nostro linguaggio; e benchè sapesse lavorare discretamente, un po' per colpa sua e un po' per colpa degli altri, quando arrivava alla fine della giornata gli ci mancavano sempre venti soldi a mettere insieme una lira. Poveretto! Aveva continuato per varii anni a combattere contro l'avversa fortuna, e dalla lotta terribile alfine era uscito così malconcio che, forse per consolarsi, s'era messo a studiare astronomia. Quando io ebbi il piacere di stringergli la mano, egli nella scienza degli astri aveva già fatto progressi spaventosi: tali, quali Ipparco, Tolomeo, Copernico, Keplero, Galileo, Newton e Laplace non glieli avrebbero sicuramente invidiati. La volta del cielo era, si può dire, per lui la volta della sua camera da letto. Le stelle le conosceva tutte e di ciascuna sapeva il nome, il cognome, la patria e la condizione: nessuna delle loro abitudini gli era ignota, e poteva descrivere esattamente le più segrete caratteristiche della loro fisonomia.

Il suo discepolo, trovandosi senza dubbio in condizioni tali da poterlo affermare senza correr pericolo di essere smentito, una sera mi assicurò che il suo maestro se lo avesse voluto avrebbe potuto anche parlarci, con le stelle, perchè ne conosceva la lingua. Veramente di questo io ho sempre un po' dubitato; quello però di cui non sono mai stato dubbioso è che il francese spesso nelle notti serene s'inoltrava nella campagna con una lanternina e una cartella per andare a ritrattare una stella della quale s'era invaghito. Quando la trovava già alta nel cielo si metteva subito a disegnarla; se invece al cader della notte non era ancor sorta, l'aspettava; e appena la vedeva brillare fra le nebbie del lontano e sconsolato orizzonte accendeva la lanternina, vi accostava un foglio di carta e incominciava a lavorare; e al primo apparire del giorno spegneva il lumicino, e mentre intorno a lui si alzavano a volo trillando festosamente le allodole, se ne tornava a Roma, voltandosi di tanto in tanto per salutare la sua stella che vaniva tremolando nella luce fredda dell'alba.

Il discepolo io lo vedevo spesso, perchè, avendo saputo che io scrivevo nel «Capitan Fracassa», nella speranza di potermi indurre a stampare sui giornali qualche poesia in onore del suo maestro, godeva a intrattenersi con me per raccontarmene le gesta; e io a dire la verità godevo non poco a sentirlo parlare. Una volta gli chiesi se alle gite notturne, delle quali mi discorreva sovente, prendesse parte, e mi rispose, turbandosi, di sentirsi troppo piccolo per poter andare in campagna di notte con un uomo tanto grande. La risposta non mi parve molto chiara: gli rivolsi altre domande e mi riuscì di fargli confessare come una notte certi brutti cani, attirati dal chiarore della lanterna del maestro, lo avessero assalito e quasi divorato.

— Sicchè da quella notte...

— Non ci sono più andato. — mi rispose subito; e, dopo di aver fatto un gesto di terrore, alzò una gamba, si toccò il polpaccio e riprese con grande sincerità: — Non ci sono più andato perchè, sebbene la mia venerazione per il mio maestro e per la sua arte astronomica sia eccezionale, io la vita umana la ritengo una cosa troppo sacra per essere data in pasto ai cani. Dico male?

— Benissimo! Però il vostro maestro ci va sempre in campagna, di notte?

— Sempre. Del resto — aggiunse, crollando il capo — per tutto quello che riguarda la vita non abbiamo, purtroppo!, le stesse idee. Le nostre opinioni sono molto diverse.

— Cioè?

— Ma, per esempio: lui non porta mai la camicia perchè la crede inutile, io invece la trovo necessaria; lui dice che meno si mangia e meglio si sta, io invece questo non lo posso ammettere; lui mi raccomanda sempre nel caso trovassi uno che mi offrisse un milione, di buttarglielo in faccia, e io questa raccomandazione la trovo...

— Superflua?

— No, ingiusta. E per quale ragione io dovrei rispondere con una villania a chi mi vuol fare una gentilezza? Ma niente affatto! Se domani uno viene da me e mi dice: «Giovannino, eccovi un milione», io lo ringrazio, mi piglio il milione, e me lo metto nel portafoglio. Ma non basta. Lui, per esempio, vorrebbe anche persuadermi che se mi abituassi a mangiare il carbon fossile io potrei correre e fischiare come una locomotiva, e questa sua idea, a dire la verità, io la credo molto discutibile. Insomma, se lui mi ragiona sull'arte astronomica, io, secondo le mie forze, sono sempre disposto ad andargli appresso con gli occhi chiusi; ma se invece mi parla delle cose che riguardano la vita, io non lo posso seguire.

— Ma l'andare in campagna, di notte, a disegnare le stelle mi pare che sia una cosa che riguarda l'arte.

— Ah! mille perdoni! È una cosa che riguarda l'arte, sì; ma anche la vita, perchè ci sono i cani. — mi rispose; e ripetendo quel gesto di terrore, già fatto poco prima, e tornando a toccarsi il polpaccio, seguitò: — Del resto lui è lui, e certe cose se le può permettere. E poi se non se le permettesse, non potrebbe fare quello che fa.

— Ma che cosa fa? — gli domandai: ed egli, felice di potersi allontanare dai cani, il cui ricordo gli faceva ancora vedere le stelle, s'aggrappò immediatamente alla mia domanda e incominciò a discorrere con grande enfasi cercando di spiegarmi quale e quanta fosse la grandezza fisica e morale dell'opera sublime del suo maestro incomparabile. Non ci potei capir nulla. Ma appunto per questo fui assillato dalla curiosità di vedere che diamine di roba il maestro incomparabile mettesse sulla carta nelle sue gite notturne; e qualche giorno dopo avendolo incontrato nel Caffè Greco, me gli avvicinai e gli chiesi se mi permetteva di visitare il suo studio.

Impossibil! — mi rispose subito, e alzando lentamente l'indice della destra verso il soffitto della stanza, proseguì; — Il mio atelier non rimane sulla terra; mais si trova in cielo, e si apre seulement quand vous dormez.

Rimasi male. Allora egli, che in fondo era buono e gentile, avvistosi della impressione sgradevole cagionatami dalle sue parole, mi disse, sorridendo: — Mais pourtant non vi dispiacete: si vous non potete pas venir da me, j'aurais le plaisir di venir io a cercare voi chez vous. — Il giorno dopo, difatti, mantenne la promessa e mi portò a far vedere una cartella piena zeppa di fogli di carta di tutti i colori, sui quali tra un inferno di linee c'erano disegnate centinaia e centinaia di figure geometriche contornate da migliaia di punti, di virgole e di parole incomprensibili. Rimasi sbalordito; e non sapendo dir altro gli domandai a qual cosa avrebbe mai potuto servirgli tutta quella roba: e lui, dopo di avermi detto più volte, ridendo, che gli astronomi erano des fous, absolument des fous, divenne istantaneamente serio, e, abbassando la voce, come se mi svelasse un gran secreto, mi disse che ne avrebbe ricavato una serie di disegni astronomici per riordinare da cima a fondo tutto il sistema planetario dell'universo.

Purtroppo l'impresa formidabile lo sciagurato non potè condurla a termine; poichè dopo qualche settimana ch'egli m'avea palesato il suo arcano, due caprari lo trovarono morto poco lungi dalle mura aureliane in un campo d'erbe selvatiche rilucenti di rugiada al primo bacio del sole.

Il suo discepolo inconsolabile ce ne portò l'annuncio al Caffè Greco dicendoci fra le altre cose come il poveretto dovesse certamente esser morto di fame perchè erano tre giorni che non mangiava.

— Tre giorni! — esclamò con voce incredula un bell'uomo panciuto; e avvicinata alle sue tumide labbra una tazza fumante colma di buon caffè la rimise in fretta sul piattino; vi gittò dentro due pezzetti di zucchero e dopo qualche istante di silenzio dimandò: — Ma come si fa a rimanere tre giorni senza mangiare? — Fissò con gli occhietti lustri il vuoto quasi per cercarvi la risposta, poi, rimescolò il caffè, guardò i suoi vicini e, facendo spallucce, soggiunse: — Eh, già! Sempre originali gli artisti.

Proprio vero! Sempre originali gli artisti. Ma del resto tale originalità nelle stanze del Greco è più comune di quanto si crede; poichè, come osservava giustamente il mio amico Angelo Conti, è scritto nel libro del Fato che i pazzi più strani, quelli che noi potremmo chiamare l'aristocrazia della demenza, siano essi romani, italiani o dei più remoti paesi, debbono lasciare un segno della loro esistenza nella bottega di via Condotti.

Una sera, rammento, entrò nel Caffè un vecchietto macro, rosso in volto e vestito di nero. Nessuno di noi l'aveva mai visto, ma egli ci strinse a tutti la mano; poi, dopo un inchino solenne, ci disse che egli era Donato Sacchetta, albergatore in Bomba, un piccolo paese dell'Abruzzo, ed ex professore di filologia comparata; e, con nostra grande meraviglia, ci comunicò di esser venuto apposta a Roma per esporre agli amici del Caffè Greco il suo sistema di cosmologia. Chiese un caffè, se lo bevve, e poi, mentre noi non ci eravamo ancora rimessi dalla sorpresa, incominciò a dire a voce alta: — Illustri signori! Il vero mezzo per scoprire la ragione delle cose è offerto dal linguaggio. Ogni parola racchiude la rivelazione di un mistero dell'esistenza universale. In questa maniera io ho potuto tuffarmi nel gran mare dell'Essere fra l'eterno flusso e l'eterno riflusso. Ora, se lo permettete, lo farò vedere a voi tutti. Io sono il mistico cignale che trionferà sul carro del possibile contro l'impossibile, io sostituirò alla matematica la filologia, io...

A questo punto, mentre tutti tacevano guardandolo esterrefatti, e qualcuno si allontanava prudentemente, si fece avanti il professore Spetrino, autore di un saggio critico e inedito, su Jean-Baptiste Racine e libero docente di lingue vive e morte nella nostra Università. Allora fra i due professori si accese una disputa furibonda, tanto furibonda che per farla cessare dovettero intervenire altri tre interlocutori: il barbuto e placido proprietario del Caffè e due guardie di pubblica sicurezza. E forse non fu il sistema di Donato Sacchetta che, pochi giorni dopo, spinse lo Spetrino ad entrare nella caserma dell'artiglieria al Macao ove prese a bastonare i cannoni, gridando che era giunta l'ora di distruggere tutte quelle orribili macchine da guerra? Povero Spetrino! Lo fermarono, lo legarono e, mentre egli urlava: — Portatemi nel tempio della Fratellanza e della Pace! — lo portarono al manicomio.

Un altro ne ricordo: un pittore milanese caduto rapidamente da una gloriosa giovinezza in una oscura e precoce vecchiaia. Lo riveggo ancora, vestito d'estate e d'inverno con un soprabitone di colore giallognolo non fatto certo per le sue spalle, entrare nella bottega, traversarla a piccoli passi e andarsi a mettere a sedere in un angolo quasi buio. Non parlava mai con nessuno. Il suo volto scarno aveva l'impassibilità di una maschera. Se mai qualcuno gli rivolgeva la parola, rispondeva con un lento movimento del capo e ritornava subito immobile. Un giorno lo trovarono insanguinato e morente sopra uno dei gradini dell'obelisco del Popolo. S'era tagliate con un pezzo di vetro le vene dei polsi, e dopo di avere scritto sul travertino col proprio sangue: «Siate onesti», era caduto. Il disgraziato, fra i commenti della folla, venne condotto all'ospedale, e le due parole formidabili furono cancellate subito con l'acqua di Trevi delle vicine fontane. Ma prima che le cancellassero, mentre illuminate dal sole spiccavano ancora fosche su la pietra gialla, un signore le lesse e domandò chi le avesse scritte. Tutti gli risposero: — Un pazzo.

Non sempre però il sanguigno e lugubre ammanto della tragedia ricopre le persone di coloro che nelle stanze del Greco rappresentano la follìa artistica internazionale. Fra cotesti illustri rappresentanti me ne torna alla memoria uno il quale sapeva travestire con tale sottile ironia e con tanta volgare buffoneria il suo nero pessimismo, inasprito continuamente dai disinganni e dalla fame, che al vederlo e all'udirlo non si poteva fare a meno di ridere. Di quanto gli era accaduto o gli accadeva realmente, non parlava quasi mai: lo lasciava raccontare alle rughe numerose e profonde del suo volto, al suo abito sbrandellato ove erano più asole che bottoni, ed a tutta la sua figura macra ed ossuta. I suoi discorsi, spesso illuminati da lampi inaspettati di comicità irresistibile e da stravaganze inaudite, si aggiravano ognora intorno a invenzioni meravigliose o sopra a visioni fantastiche di mondi strani e sconosciuti, e finivano quasi sempre con motti feroci che stroncavano una reputazione scroccata o frantumavano un'opera, così detta, d'arte, o frustavano a sangue un artista mediocre favorito dalla fortuna.

Un giorno entrò nel Caffè e ci disse di aver trovato finalmente dopo molte prove e riprove il modo di fare l'oro. Qualcuno sorrise; e un pittore, noto a tutti per i favori ottenuti umiliandosi dinanzi ai potenti, volendolo canzonare gli disse: — Fai l'oro? Ciò mi fa piacere, ma non mi sorprende. Io faccio l'argento. — Già! Come le lumache: strisciando. — gli rispose il pazzo; e per quel giorno di oro e di argento non si parlò più.

Un'altra volta ci fece un lungo discorso sul noto proverbio: Impara l'arte e mettila da parte; e, dopo di averci dimostrato come per lui fosse giunto il momento di mettere da parte l'arte e di darsi all'industria, ci comunicò di avere impiantato un opificio per fabbricare i pennelli con le code dei pesci. Ma l'industria non gli riuscì. Allora si diede a fabbricar colori, e ne inventò uno giallo che aveva la densità delle terre, e, sia detto senza malizia, la trasparenza delle lacche, e, non so perchè, gli diede il nome di «capitone». Era buono. Lo vendeva a una lira il tubetto e molti lo comperarono; ma adoperandolo, turbati da qualche sospetto, furono assillati dal desiderio di voler sapere con quali sostanze venisse fabbricato. Ohimè! un giorno strinsero il suo inventore con molte dimande, gli nominarono la materia prima con la quale essi temevano che il «capitone» fosse composto e si sentirono da lui rispondere: — Può essere!

La rivelazione del segreto rovinò interamente l'industria del «capitone»; quei che ne avevano ancora si affrettarono a buttarlo via, e il suo inventore per passare in più spirabil aere si mise a scrivere un «opuscolo di estetica» intitolato: Viaggio patologico nella clinica dell'arte moderna in Italia, nel quale dissertava sui premi di incoraggiamento istituiti dal Governo a vantaggio degli artisti. Egli ragionava così: — I premi per qual fine sono stati decretati? Per comprare col danaro del pubblico le opere degli artisti. Benissimo! Ma quando un'opera d'arte è veramente buona, chi la compera lo si trova sempre. Colui, dunque, che vende il suo lavoro non ha bisogno di essere incoraggiato da nessuno: si incoraggia da sè. Coloro i quali non vendono i loro quadri e le loro statue, coloro che producono pessime opere d'arte, questi debbono essere incoraggiati perchè, se a costoro non pensa il Governo ad aiutarli, chi mai ci penserà?

Dopo qualche mese che io avevo viaggiato patologicamente con lui in una stanza del Caffè Greco, mentre una luce tenue e dorata entrava dalla porta socchiusa e spargevasi dolcemente nelle camere silenziose, ove i camerieri dormicchiavano sdraiati su le panche vedove di avventori, lo incontrai per istrada, precisamente in via Nazionale, ove allora allora s'era chiusa una esposizione di belle arti. Appena egli mi vide da lontano, mi venne subito incontro agitando un giornale aperto e mi disse: — Ha visto? Ha inteso? Ha letto quali quadri sono stati comperati dalla Giunta Superiore per adornarne la Galleria di arte moderna? Si ricorda? Se la rammenta la mia lettura? Lo vede come la mia idea si fa strada? Lo capisce ora come il mio modo di pensare s'impone? — E, senza darmi il tempo di poter aprire la bocca, scoppiò in una risata fragorosa che fece fermare i passanti, mi voltò le spalle e agitando ripetutamente il giornale si allontanò.

* * *

Il pubblico del Caffè Greco non è più adesso simile a quello che io vi trovai quando incominciai a frequentarlo. Oggi molti di coloro che vi conobbi allora o son savi o son sepolti; tuttavia la massima parte di quanti vi si recano al presente è data dagli artisti; e nelle serate in cui la pioggia è vicina, mentre i barometri romani inclinano gl'indici verso il segno della tempesta, vi si accendono ancora discussioni furibonde su argomenti più o meno artistici, le quali non si spengono se non quando la pioggia principia a cadere fragorosamente sul soffitto di vetri dell'ultima stanza. Non sempre però la pioggia arriva in tempo a pacificare gli animi inacerbiti.

Una sera due giovinotti, dopo di aver sorbito i loro caffè e di averli trovati semplicemente borgiani, non avendo altro di meglio da fare, impresero ad esaminare quale delle due arti sorelle fosse più difficile ad essere esercitata, se la pittura o la scultura. I due contendevano già da un pezzo su l'arduo argomento quando un loro vicino, buttando via un mozzicone di sigaro, da lui dichiarato assolutamente infumabile, entrò buon terzo nella discussione: poco dopo, lagnandosi delle scarpe che glieli stringevano troppo, vi mise i piedi un altro; poi un altro ancora, e la controversia si ingigantì talmente che la stanza dove essa era nata non bastando più a contenerla, si sparse a poco a poco nelle altre camere della bottega. Allora tutto il Caffè si divise in due schiere di combattenti: una guidata dagli scultori e l'altra dai pittori. La lotta ardeva furiosa e gli urli, le contumelie, le risate e gli applausi coprivano a volta a volta le voci squillanti degli oratori, quando un signore, senza riflettere a quanto avrebbe per avventura potuto capitargli fra capo e collo, ebbe il fegato di farsi avanti ad affermare che, secondo Spencer, la scultura era un'arte inferiore. All'udire il nome del filosofo gli scultori rimasero per qualche istante silenziosi, ma riavutisi subito dalla sorpresa chiusero la discussione con tali argomenti che il pover'uomo, se ancora campa, se li deve ancora ricordare.

Quietato il baccano, mentre le prime gocce di pioggia incominciavano a battere sui vetri del soffitto dell'ultima stanza, uno chiese: — E chi è questo Spencer?

— E chi vuoi che sia? — gli risposero in parecchi. — Sarà uno dei soliti giornalisti.

Perchè queste parole siano intese nel loro giusto valore, è bene avvertire che per la maggior parte dei frequentatori della bottega di via Condotti, il vocabolo giornalista, massime se viene pronunciato atteggiando le labbra a una smorfia di disprezzo, non serve mai a designare chi scrive in un giornale, ma colui che in un giornale scrive di 'cose d'arte' in genere e di quadri e di statue in specie. Del resto giornalisti veri e proprii io nel Caffè Greco non ce ne ho mai visti. Qualcuno forse può esserci capitato; ma se mai sarà stato un giornalista senza giornale, e allora sarà andato a confondersi fra quei frequentatori, dirò così, sporadici della bottega, fra i quali non è difficile di incontrare maestri di musica che non conoscono altre note all'infuori di quelle del trattore e del sarto, professori di pittura in qualche ospizio di ciechi, architetti senza archi e, quel ch'è peggio, senza tetto, ingegneri privi oltre a tante altre cose anche d'ingegno, medici che non esercitano più la professione, forse per filantropia, vecchi impiegati giubilati i quali non hanno altro giubilo tranne quello, come sogliono dire, di avere un'anima di artista, negozianti senza negozi, avvocati senza cause e quindi senza effetti, poeti in cerca di una lira, e talvolta qualche modello.

Fra questi, nei primi anni che io frequentai la bottega, ne conobbi uno che non ho mai più scordato.

Era un moro. Alcuni missionarii ritornando in Italia dall'Africa, dove avevano predicato la verità evangelica agli infedeli, se l'erano portato appresso, e lo avevano battezzato imponendogli il nome lietissimo di Natale: ma, purtroppo, il nostro buon Dio del povero Natale non si era curato tanto quanto forse, se l'avessero lasciato stare a casa sua, se ne sarebbe curato il suo Allah; difatti, quando io lo incontrai in un angolo del Caffè Greco, il povero africano moriva di fame peggio di un europeo, e passava le sue giornate cercando inutilmente un'ora di lavoro, masticando qualche pezzo di sigaro, tossendo di tanto in tanto convulsivamente e bevendo a sorsettini lentissimamente, se poteva procurarselo, qualche bicchierino di rum di cui era ghiottissimo. Non era bello, no; ma le forme caratteristiche della sua persona, le sue movenze svelte e sempre eleganti e il modo singolare con cui soleva manifestare i suoi pochi pensieri e le sue molte sensazioni me lo rendevano simpatico, e se entrando nel Caffè mi avveniva di vederlo da lontano, rannicchiato dietro il marmo bianco di un tavolino, me gli avvicinavo e dopo di avergli stretta la mano lunga, ossuta, scimmiesca, provando l'impressione di toccare un tessuto di seta, gli sedevo accanto.

Quasi sempre io gli offrivo un bicchierino di rum, ed egli avvicinandovi le labbra grosse e guardandomi di sotto in sù con gli occhietti socchiusi, mi ringraziava mandando fuori dalla gola un suono roco e tremolante simile a quello che fanno i gatti quando si accarezza loro la nuca. Parlava poco e alle mie domande rispondeva sempre con monosillabi; ma la povertà del suo dizionario sapeva compensare con gesti efficacissimi. I suoi discorsi li finiva sempre con le mani. Talvolta sorrideva mostrando i denti forti e bianchi, ma non rideva mai. Poveretto! Dove ei fosse nato non sapeva dirlo: quelli che lo avevano messo al mondo non li aveva conosciuti; e se gli chiedevo di raccontarmi qualche cosa della sua infanzia, alzava le spalle e le riabbassava dicendomi: — Non so. — Le sue rimembranze non andavano al di là della sua adolescenza, ed erano tutte assai più nere della sua epidermide. Quei tali che l'avevano lavato dal peccato originale, stimando forse con cotesta operazione idraulica di essersi liberati da qualsiasi altro obbligo verso di lui, lo avevano abbandonato, ed egli, discesi ad uno ad uno i gradini dolorosi della più obbrobriosa miseria aveva finito a trovarsi in mezzo a certi saltimbanchi girovaghi, i quali, dopo di averlo incatenato e rinchiuso in una gabbia di ferro, lo andavano mostrando come un ferocissimo antropofago vivente e proveniente dalle foreste vergini della Patagonia: e, come se questo non bastasse, ogni sera, affinchè il rispettabile pubblico potesse avere una piccola idea del modo col quale il povero Natale divorava il suo simile, gli gittavano nella gabbia una gallina, ed egli, urlando e contorcendosi come un ossesso e scuotendo orribilmente le catene, la ghermiva, la spennava e la strangolava dinanzi agli spettatori inorriditi.

Dopo di averne fatte più di Carlo in Francia, capitato in Roma, senz'arte nè parte, si incontrò con un pittore il quale cercava un nero per effigiarlo, non so veramente con quanta esattezza storica, in un quadro rappresentante lo sbarco di Cristoforo Colombo in America, e da allora incominciò a frequentare gli studi ove trovò una certa Rosina, la figliuola di un ubriacone, che girava per le strade suonando un organetto a manovella, e se ne innamorò. Non la lasciava mai, e quando essa era a posare in qualche studio, se non poteva esserle vicino, l'aspettava in istrada pazientemente per poi accompagnarla fino all'uscio sgangherato di una casupola miserabile in un vicoletto nei pressi di Santa Maria Maggiore, ove ella abitava col padre e con l'organetto a manovella.

Un mio amico che li conobbe al tempo dei dolci sospiri, un giorno mi diceva sorridendo, come ogni volta che li aveva visti salire, tenendosi stretti per la mano, su per la scalinata della Trinità dei Monti, ove morivano i rintocchi dell'avemaria, e ogni volta che li aveva incontrati in via Sistina, mentre nella luce azzurra del crepuscolo tremolavano le fiamme gialle dei lampioni, non avesse mai potuto fare a meno di pensare allo Shakespeare. E, forse, chi sa? Chi sa se la povera Rosina non si fosse veramente innamorata dell'africano udendolo narrare le sue sventure? E chi sa se egli, il moro, non la ripagasse di amore per la pietà che n'ebbe?

Erano arrivati al punto di volersi sposare; ma questa volta Brabanzio giunse in tempo per impedire alla natura di cadere in tanto errore. Non valsero nè pianti, nè preghiere. Se la disgraziata osava di nominargli il suo Natale, la risposta del birbaccione era sempre una: — Nun vojo turchi a casa mia. — E se la poveretta, pur avendo di lui un terrore indicibile, gli faceva osservare che Natale era un cristiano, egli ribatteva prontamente: — Io a li cristiani neri nun ce credo. — Viveva alle spalle della sua figliuola e non voleva che gliela portassero via: ecco la verità. Non si sposarono dunque; ma seguitarono sempre a volersi bene, e si può dire che l'africano la sua Rosina non la lasciò se non quando, vinto da una tisi galoppante, fu obbligato di ritornarsene nel grembo del nostro Dio o forse in quello del suo Allah. La poveretta lo pianse con molte lacrime e poi passò ad altri amori meno neri, ma non meno disgraziati e, perduto il padre, cadde sotto le ugne di un brutto tipo: un formatore, il quale impadronitosi dell'organetto a manovella prese a suonarlo per le strade e più spesso sotto gli olmi, i ligustri e le acacie delle varie osterie suburbane; ma poi, annoiato dal dover sempre sentire la stessa musica, vi incollò sopra un foglio di carta con questa iscrizione: — Da vendersi o da affittare. Per le trattative diriggersi a me. — E quando in seguito a trattative laboriosissime gli riescì di disfarsene, dopo di essersi mangiato, giocato, e bevuto quel poco che ne aveva ritratto, ritornò a sporcarsi le mani col gesso, e, cavate le impronte di quasi tutte le parti del corpo della misera Rosina, che egli soleva chiamare ghignando «la mia signora» le andava offrendo per pochi baiocchi ai signori pittori di via Margutta.

Tutti e due finirono male. Lui, dopo di averne fatte tante, una meno legale dell'altra, non sapendo che cosa fare di peggio, essendosi messo a riempire con un metallo bianco di sua invenzione, molto simile all'argento, le forme cave di certe monetine da due lire, un giorno fu visto in mezzo a due guardie di pubblica sicurezza e non se ne sentì più parlare; lei, povera figlia!, una sera uscendo da una bettola si trovò trascinata, senza volerlo, in una rissa e fu raccolta morente per una grave ferita di coltello. La portarono in un ospedale e colà, dopo qualche ora di tormenti atroci, quella pace che ella aveva cercato tante e tante volte invano nella vita la trovò nella morte.

* * *

Ed ora, giacchè è necessario di concludere, permettimi, o amico lettore, che io chiuda questo mio «Caffè» più o meno «Greco», il quale conclude questo volume, rivolgendoti una domanda.

Dimmi la verità, ti ho annoiato?

Senti: una sera io mi trovavo nella vecchia bottega fra le cui storiche pareti ho cercato di intrattenerti come meglio ho potuto, quando un signore venne a sedersi a un tavolino accanto a me; chiese un caffè e se lo bevve in fretta; poi torcendo le labbra in segno di disgusto, chiamò con voce alterata il cameriere, e, dopo di avergli accennato con un'occhiata bieca il vassojo, gli disse: — Non vi vergognate di avvelenare il prossimo con questi intrugli?... Non vi vergognate?...

Il cameriere lo lasciò sfogare; guardò la tazza ove di caffè non ce n'era rimasta neppure una goccia, e gli rispose: — Caro signore, che cosa vuol farci? Oramai l'ha bevuto!

NOTE:

1. Venditore di colori e di manichini, conosciutissimo a Roma.

INDICE

Memorie d'uno smemorato Pag. 9

Il modello 39

Il manichino 53

In Ciociaria :

I. 89

II. 101

III. 113

IV. 131

V. 147

Il pianto delle zitelle 161

Monte Giano 205

Un congresso alpino (1887) 225

Gita sentimentale 239

Le «Capanne» di Ripetta 255

Il mio pellegrinaggio 273

Carciofolata 287

Il Caffè Greco 301