(Losanna, Bonamici, 1846).
Il presente ristretto è stato scritto ad uso dell' Enciclopedia popolare che si viene stampando in questa cittá. Gentilmente richiestone, or fa l'anno, da quegli editori, io accettai molto volentieri l'incarico, l'occasione di raccogliere in uno e compendiare i vari studi di storia d'Italia che io era venuto facendo dal 1824 in qua. Ma il tempo, lo spazio or concedutimi erano brevissimi; e poi, quelle condizioni della pubblicitá in Italia che ognun sa, sforzavano quegli editori, ed, accettato l'incarico, me stesso ad alcune soppressioni. E di queste, ed anche piú di quella fretta, rimangono numerose tracce e nell'edizione dell' Enciclopedia, ed in quella staccatane e lasciata, salvo il sesto e l'errata, compiutamente conforme, affinché ella fosse sofferta dove era stata sofferta la prima. Quindi io avea premura, lo confesso, di sottoporre a' miei compatrioti un'edizione compiuta, e quanto sapessi, nel medesimo tempo, corretta.—E tale è questa.
Ma a malgrado la nuova o totale elaborazione, niuno sa meglio di me quanto rimanga questo lavoro pieno di difetti; irreparabili gli uni come dipendenti dalla natura dell'opera o da mie forze inadeguate, piú o meno correggibili gli altri. I quali ultimi poi possono essere di due sorte: errori e dimenticanze di fatti importanti, errori di giudizi, di opinioni.
Degli errori e delle dimenticanze di fatti, io desidero, io domando a' miei colti leggitori, di volermi donare quante piú correzioni vengano loro vedute possibili, serbando la natura, l'estrema brevitá dell'opera; e di donarmele privatamente o pubblicamente, in qualunque modo paia loro piú opportuno e piú comodo. Se mai con qualche lavoro precedente o col presente io mi sia acquistata la benevolenza di alcuni, io questi prego specialmente di essermi larghi di tale aiuto. Ed oso pur pregarne quegli stessi a cui lo scrittore rimanga indifferente, ma a cui tal non sia la storia di nostra patria, o l'uso che si può fare di essa. Finché non avremo un grande e vero corpo di storia nazionale, da cui si faccia poi con piú facilitá e piú esattezza uno di que' ristretti destinati ad andar per le mani di tutti, o come si dice, un «manuale», io non so se m'ingannino le mie speranze di scrittore, ma tal mi pare possa esser questo. Né mi porrò a dire l'utilitá che verrebbe d'un tal manuale ben fatto; ma è appunto a far questo intanto il men cattivo possibile, ch'io domando l'aiuto de' compatrioti. E giá il signor Predari direttore dell' Enciclopedia, a cui debbo inoltre l'occasione di questo libro, e via via i signori Carlo Promis, Federigo Sclopis, Luigi Cibrario, Roberto e Massimo d'Azeglio, Ricotti e Carena non mi negarono di tali aiuti; i quali io nomino ed a gratitudine ed a vanto, né senza speranza di poter a questi aggiugner altri onorati nomi, quando che sia.
Quanto alle opinioni storiche o politiche, io so bene, che voglia io o non voglia, me ne saranno fatte critiche, piú o meno moderate, piú o meno cortesi, piú o meno esatte, secondo la natura, l'educazione e gli studi di ciascuno; e che l'ultime di queste potranno certo esser utili agli studiosi di nostra storia. Ma non paia superbia se aggiungo, che queste critiche, cioè in somma queste esposizioni delle opinioni altrui, potran difficilmente mutar le mie; siccome quelle che sono non solamente sincere, ma da lunghi anni concepite e quasi fattemi passar in sangue, e dall'educazione ricevuta da un padre lungamente, onoratissimamente sperimentato ne' pubblici affari, e da quel poco di sperienza che potei acquistar io stesso dal 1808 al 1821, e dall'aver sofferto per esse poi, e dai non brevi studi fatti d'allora in poi. E mi si conceda aggiugnere, che pochi uomini, anche de' paesi piú liberi, hanno al par di me quell'indipendenza di opinioni che è somma forse di tutte, quella che viene a uno scrittore dall'aver poco a temere, nulla a sperare politicamente per sé. È vero, che, come ognuno che scriva, io tengo in gran pregio, io desidero con ardore quel consenso de' leggitori, quella simpatia de' compatrioti che si chiama «popolaritá», e che è insieme sanzione di ciò che s'è voluto far per la patria, e mezzo a servirla ulteriormente; ed è vero che quando io n'ebbi alcun cenno (da que' giovani italiani principalmente, nelle cui mani son per passare i destini della patria), mi venner dimenticate tutte quelle pene, che non son poche, dello scrivere in Italia, e dimenticate le risoluzioni di non iscrivere piú. Ma appunto la popolaritá mi parve sempre, come i pubblici uffici, mezzo di potenza, mezzo di servire la patria, e non piú; come scopo ultimo, nulla sono gli uffici, nulla la popolaritá. E quindi chi è ridotto a servir la patria d'«opere d'inchiostro», cioè d'opere di veritá, se abbandoni scientemente questa la quale sola può giovare, per correr dietro alla popolaritá, ei corre dietro a un mezzo senza scopo, a un nulla che porta a nulla. Ei mi fu detto giá, che alcune opinioni mie non sono popolari in Italia. Tanto meglio dunque l'averle scritte: quando si scrive con vero e vivo convincimento, non si suole scriver ciò di che tutti sien giá persuasi; si scrive appunto per far passare le proprie opinioni dalla minoritá alla pluralitá. E quest'è che dá sovente piú calore agli scritti della minoritá: la brama di diventar pluralitá colle ragioni. Il che poi, sol che si potessero far correr davvero e sufficientemente le ragioni, sarebbe forse piú facile in Italia che altrove; perché, tra tutti i vizi acquistati, ella serba indestruttibili, e prime forse del mondo, le sue facoltá, le sue virtú intellettuali.
Il desiderio di rimanere indipendente, non solamente da altrui ma per cosí dir da me stesso, da ciò che possa essere in me men ragione che sentimento, mi fece fermarmi all'anno 1814. Giá lungo tutta l'opera m'era paruto penosissimo quell'ufficio storico del giudicar cosí brevemente tanti fatti, tanti uomini grandissimi; la brevitá aggiugne inevitabilmente alla severitá; le parole stringate e tronche prendono naturalmente aspetto di assolute, aspre, superbe. E giá, appressandomi a' tempi nostri, mi si era raddoppiata tal pena. Ma ei mi sarebbe riuscito intollerabile cosí giudicare gli uomini viventi, e a me non ignoti, né per benefizio né per ingiuria. Io mostrai in altro scritto non aver ripugnanza, non timor forse al discorrere delle cose presenti; ma appunto ne discorsi lá distesamente, e prendendo agio a quelle eccezioni e spiegazioni, che sole fan tollerabile un tal discorso alla coscienza d'uno scrittore. Ei fu detto giá, doversi ai morti non piú che la veritá, ma ai vivi anche riguardi. Ma io non so fino a qual punto sia giusta tal distinzione; parendomi che a morti e vivi si debbano veritá e riguardi; salvo un solo di piú ai vivi, quello di lasciarli finir lor vita prima di giudicarli definitamente e assolutamente. Iddio stesso fa cosí; finché dura lo stato di prova, ei lascia a tutti di poter giustificare e ricomprar le opere fatte colle fattibili: non tronchiamo a nessuno il tempo conceduto da Dio.—Del resto, l'aver appunto parlato del tempo presente in un altro studio mio, m'era nuova ragione di non riparlarne qui. Io desidero che il presente studio rimanga introduzione o compimento a quello.
Finalmente, parrá forse ad alcuni che un semplice sommario avrebbe potuto e dovuto scriversi sciolto da qualunque opinione, e che cosí scritto avrebbe potuto durar utile piú a lungo. Ma prima, ei mi parve sempre materialmente impossibile scrivere una storia, o un compendio, o una stessa tavola cronologica, senza esprimere piú o meno le proprie opinioni: chi si vanta di cosí fare, nol fa all'opera; e per applicar qui un modo di dire napoleonico, le opinioni si scopron fin dietro alle date ed alle virgole. E poi, elle mi paiono forse piú necessarie e piú utili ad esprimersi in un compendio che in una storia distesa; piú necessarie, perché quanto meno si scende ai particolari, tanto piú diventa indispensabile spiegar i fatti con quelle esposizioni generali, che in somma sono esposizioni di opinioni; piú utili, perché quanto piú si accumulano e si ravvicinano fatti a fatti, tanto piú ne risultano a vicenda spiegate e quasi commentate le opinioni. E cosí, per vero dire, veggo essere stato fatto da Bossuet, da Hainault, que' modelli de' compendiatori, ed anche da Mignet e Zschokke a' nostri dí. Che anzi, perché non dirlo? non che vergognarmene, io me ne vanto: un compendio destinato non agli eruditi, non ai letterati; ma a' semplici colti, e cosí ai piú numerosi e piú pratici uomini d'una nazione, porge un'ottima occasione a persuadere i compatrioti, una di quelle occasioni che non si lasciano sfuggire da nessuno sinceramente convinto delle proprie opinioni, e caldo quindi a promuoverle. E quanto al durare o non durare, io temo che duri pur troppo lungamente opportuno l'inculcare nelle menti e nei cuori italiani quel principio d'indipendenza che è il nucleo, il substrato di tutte le mie opinioni storiche o politiche. E venga pur il tempo che non si tratti piú d'acquistare ma solamente di applicare quel principio, quella fortuna, quella virtú. Non che invecchiare, io credo che ella sará allora ringiovenita, piú cara a tutti; ed io la veggo aver cosí ispirate le migliori storie delle piú indipendenti nazioni del mondo. Del resto, porti pur questo libretto le tracce del tempo suo: è destino di ben altri e maggiori, e le storie specialmente (se ne persuadano leggitori, scrittori, critici e governi), o bisogna spegnerle del tutto, o lasciarle ritrarre insieme e i tempi di che elle scrivono, e quelli in cui elle furono scritte.
Torino, 16 novembre 1846.