OSSERVAZIONI
SULLO STATO ATTUALE DELL'ITALIA
E SUL SUO AVVENIRE

DI

CRISTINA TRIVULZIO DI BELGIOJOSO

MILANO TIPOGRAFIA DEL DOTT. FRANCESCO VALLARDI — 1868.

PROPRIETÀ LETTERARIA.

INDICE

Al lettore pag. 3

Cap. I. — Situazione politica e materiale d'Italia 5

II. — Influenza del passato 35

III. — Carattere dell'italiano, sue varietà e sue conseguenze 75

IV. — Spirito di parte 113

V. — Nostri doveri 127

VI. — Risultati verso i quali tutti dobbiamo tendere 133

Note 149

AL LETTORE

Queste pagine non sarebbero state, me vivente, pubblicate, se avessi minor fiducia nella indulgenza e nella benevolenza de' miei lettori. — Se le mie osservazioni sembrassero ad essi senza fondamento, male esposte, inopportune o superflue, essi non sospetteranno almeno la rettitudine delle mie intenzioni; e questa convinzione basta a confortarmi, ed a farmi incontrare con mente serena e con animo saldo qualunque critica, per acerba che sia.

Per la prima volta mi dirigo al pubblico nella mia lingua nativa, in un momento in cui essa è l'oggetto di sapienti discussioni e di ardui problemi. Su questo punto ancora debbo confidare nell'indulgenza di chi mi legge. Nell'esporre i miei pensieri mi prefissi soltanto di essere facilmente intesa. L'eleganza dello stile non è dote ch'io possegga, e non ho mai preteso di aspirare a questo vanto. — Scrivo perchè parmi di avere qualche cosa da dire, che possa per avventura riescire non inutile al mio paese. — Se tacessi perchè so di non parlare con linguaggio elegante e forbito, arrossirei di questa mia puerile vanità. — Se chi mi legge m'intende senza durar fatica, mi terrò per pienamente soddisfatta. — Se chi mi ha intesa rende giustizia alla rettitudine delle mie intenzioni, e mi perdona la illimitata ed assoluta schiettezza del mio dire, sarò sempre più convinta della bontà e della cortesia de' miei compatriotti.

CAPITOLO PRIMO SITUAZIONE POLITICA E MATERIALE D'ITALIA

L'Italia non è più una semplice astrazione geografica. — L'Italia esiste come nazione, nel modo istesso nel quale esistono le altre nazioni europee o per dir meglio le più potenti e le più incivilite dell'Europa. — Ristretta intorno ad una sola bandiera, retta a monarchia da un re; posta sotto l'egida di uno statuto costituzionale che il governo non tentò mai di frangere, forte e superbo della propria indipendenza, dopo che l'ultimo soldato straniero ne sgombrò, e voltava le spalle ai confini di lei; difesa dagli italiani, da italiani amministrata, governata e rappresentata; solcata in ogni direzione da numerose ferrovie, corredata di una forte marina, proporzionatamente alla estensione del di lei littorale; l'Italia coi suoi 26 milioni d'abitanti e più, guarda con legittima soddisfazione a tuttociò ch'essa compiva nel brevissimo spazio di sei anni, e si prepara ad eseguire nuovi progressi.

Questi 26 milioni di abitanti sono ripartiti inegualmente sopra una estensione di circa 24,650,719 ettari quadri. Ognuno conosce la forma esterna della nostra penisola. Terminata a settentrione da una vasta catena di altissimi monti, dessa si allarga in ampie pianure, interrotte da amene regioni di colli e di laghi, occupando così tutto lo spazio che corre fra le provincie meridionali della Francia e la Dalmazia. — Questa gran parte di sè, che vien detta l'Italia settentrionale, comprende il Piemonte, la Lombardia, gli Stati Estensi e Parmigiani ed il Veneto e conta ad oltre nove milioni di abitanti.

Queste provincie d'altronde possono dirsi le più ricche dell'intero regno, e non ne sono certamente le meno incivilite. — Il Piemonte che fu sempre reputato assai povero, si è di recente arricchito per la libertà di cui godeva vari anni prima che il rimanente d'Italia dividesse tanta ventura. — Ad arricchirlo concorsero pure altre circostanze; fralle quali va numerata la cessione alla Francia della più povera fra le antiche sue provincie, ed il progresso della grande agricoltura, ossia dell'agricoltura irrigatoria, dei quali progressi vennero a fruire la Lomellina ed il Novarese, altre provincie dell'antico Piemonte. La Lombardia che fu sempre reputata assai ricca, perchè il suolo ne è veramente feracissimo, non ebbe mai una ricchezza stabilita sopra solide basi, mentre tutto il suo reddito provveniva da una fonte sola, la agricoltura. — È bensì vero che questo reddito era assai maggiore che non lo sono negli altri Stati Europei quella parte del pubblico reddito proveniente dalla stessa sorgente. — Cosicchè l'osservatore superficiale che metteva in raffronto il prodotto delle terre Lombarde con quello di qualsifossero altre terre di dimensione eguale e non si informava della condizione degli altri rami di pubblica prosperità, si formava uno stupendo concetto delle ricchezze dei lombardi, e le andava poi sempre magnificando e vantando come prodigiose. — Certo è però che in tutto il corso del dominio austriaco sulle provincie Lombardo-Venete, sebbene la Lombardia non avesse ancora soggiaciuto ai flagelli della criptogama e della malattia dei bachi da seta, e tutte le sue terre fossero in istato di pieno prodotto e valore; sebbene l'Austria non ristasse dall'opprimerne con gravissime e sempre crescenti imposte, il governo austriaco non riescì mai a pareggiare in queste sue provincie il dare coll'avere, e si vide sempre costretto a spendere per mantenerne soggetti più di quanto da noi riceveva.

Accadde poi ciò che naturalmente deve accadere di quelle ricchezze zoppe, cioè squilibrate e dovute ad una unica sorgente. — Questa si intorbidiva, cessava in parte, e l'intero edifizio della pubblica prosperità crollava e rovinava. — Se la Lombardia avesse posseduto in allora un sufficiente numero di stabilimenti industriali e di opificj, le braccia rimaste oziose per la mancanza degli usati lavori agricoli si sarebbero impiegate altrimenti, l'attività popolare si sarebbe rivolta verso quelle vie ad essa aperte, ed i flagelli sopra di noi scatenati non avrebbero avuto i fatali risultati che ebbero. — Nella condizione in cui ci trovavamo, invece nessuna risorsa ne fu presentata. — Tutte le terre situate al settentrione della città di Milano, i colli Euganej, e Brianzej, il Varesotto, l'intere provincie di Bergamo e di Brescia, ecc. ecc., sono come colpite di sterilità; cioè producono i loro soliti frutti, ma questi si corrompono e muojono prima di essere giunti a maturanza. — I possidenti privi con ciò del loro reddito usato, debbono inoltre condonare ai contadini l'affitto delle loro case, e provvederli almeno di grano turco, il che non facendo essi accadrebbe del contadino Lombardo ciò che accade di tratto in tratto del contadino irlandese, cioè di morire d'inedia, e di freddo sulle pubbliche strade o sul limitare delle abbandonate e chiuse loro povere case. — Ciò prevengono i nostri possidenti col prestare ai loro villici il pane ed il tetto; ma così facendo scemano le proprie risorse, per essi v'ha lucro cessante e danno emergente, e la totale loro rovina si fa ogni giorno più verosimile e più prossima.

La bassa Lombardia sebbene assai meno estesa dell'alta, poichè non comprende oltre la Lomellina ed il Novarese di cui abbiamo accennato più su, che il Pavese, il Lodigiano e parte del Cremasco è divenuta oggi pressochè la sola fonte del pubblico reddito in Lombardia. — I terreni irrigatorj le case poste nell'interno della città, ed alcuni pochissimi opifici appartenenti a famiglie plebee che lentamente, e copertamente vi si arricchirono anche prima del 59 e che ora vanno comperando tutto ciò che le nostre illustri e cospicue famiglie più non possono conservare, formando così una nuova aristocrazia, più in armonia colle idee e coi bisogni della moderna società: ecco le fonti da cui oggi scaturisce lo scemato e smunto reddito della Lombardia. L'Italia centrale si compone della Toscana e di una grande parte delle provincie che formavano prima del 59 o del 60 gli Stati romani.

La Toscana conta presso a due milioni di abitanti; è paese gremito di piccole, ma belle città, variato da colli ameni, da corsi d'acque, da sontuose ville, palazzetti, parchi, giardini, e villaggi che nulla presentano di quello squallore, che disadorna troppo sovente quelli del rimanente d'Italia. — Nessun angolo della Toscana possiede un aspetto grandioso e tetro, e le sue campagne fanno tutte presentire la vicinanza di una città. — Per quanto alcune di esse sieno solitarie e silenziose, vi si sente sempre che l'uomo è a pochi passi distante; ed il contadino toscano che vive sobriamente, respira un'aria salubre, lavora moderatamente ed è in frequente contatto cogli abitanti della città, nulla ha di rozzo, e non risveglia in chi lo incontra il doloroso pensiero di una ereditaria ed incurabile miseria. — Le donne o intrecciano i cappelli di paglia, o coltivano e vendono fiori; due mestieri che non affaticano le delicate membra, e non abusano delle forze giovanili, cosicchè le contadine toscane rimangono giovani per tutto il corso della loro gioventù, e per nulla rassomigliano quelle altre a cui incombono i più ardui lavori dei campi, e che bellissime a diciotto anni sembrano spesso decrepite appena passati i venti.

Tanta gentilezza, vaghezza di forme e di costumi, tanta agiatezza di vita, ed una certa coltura che si estende alle infime classi della popolazione, farebbe naturalmente supporre che la Toscana sia paese ricco, e che i suoi abitanti sieno ampiamente dotati di operosità, di intelligenza, di risoluzione e di perseveranza. — Chi formasse una simile conclusione, commetterebbe però un gravissimo errore.

L'agiatezza di tutte le classi popolari, la gentilezza dei loro modi e la durevole bellezza delle loro donne, provvengono da tutt'altra cagione, cioè dalla proporzione ed armonia esistente fra i desideri o diciam pure i bisogni, ed i mezzi di cui dispongono i popolani. — Il toscano non è un popolo ardente ed impetuoso come lo sono gli altri popoli d'Italia. Desso riflette alla condizione sua, sa che certe soddisfazioni non si possono ottenere se non col rinunziare a certe altre, e scieglie fra queste, quelle che più gli convengono, abbandonando con animo rassegnato quelle che sarebbero un ostacolo alle prime. — Tutto il sistema economico della Toscana è fondato sopra tale scelta. — Tra i desiderj o i bisogni più urgenti del popolo Toscano; il principale è il riposo; un riposo relativo s'intende e non assoluto. Il popolano ed il contadino Toscano, lavorano quanto è necessario per guadagnare ogni giorno i pochi bajocchi che bastano al sostentamento di lui e della famiglia perchè tanto l'uno quanto l'altra sanno di ciò accontentarsi. — La scarsità del denaro forma la ricchezza delle infime classi della popolazione, mantenendo bassi i prezzi degli oggetti di prima necessità. — Se un genio benefico versasse improvvisamente qualche milione di lire sulla Toscana, desso non riceverebbe in ringraziamento altro che maledizioni e busse, e produrrebbe in realtà un funesto squilibrio nella esistenza di quelle popolazioni, poichè gli oggetti di prima necessità aumenterebbero subito di prezzo. — Egli è ben vero che la mano d'opera sarebbe rimunerata più largamente, ma la concorrenza degli operai non toscani, si aggiungerebbe presto alle altre complicazioni, ed il toscano non conserverebbe il suo posto se non lavorando più o meglio che per lo passato. Ora il pensiero di lavorare più e meglio ch'esso non lavora oggidì, è pensiero per lui dolorosissimo, nè lo consolerebbe la prospettiva di un guadagno maggiore poichè ha pesato nella mente sua i vantaggi del riposo e della ricchezza ed ha preferito i primi ai secondi. Con tali sentimenti, e con siffatto carattere i progressi verso la civiltà ch'è quanto dire nella industria non possono essere che assai lenti se pure non sono nulli.

Nè vale il dire che la miseria non sentita nè rimpianta non può considerarsi come vera miseria. — Se il contadino ed il popolano toscano non deplorano la propria miseria, ma lo accettano come il prezzo del riposo cui godono, le classi più elevate della toscana società, poste in contatto coi pari loro di altre parti d'Italia e di Europa, sentono amaramente la condizione direi quasi subalterna e parassita a cui le condanna la loro povertà. — Firenze ebbe sempre una corte ed un corpo diplomatico che traeva dietro di sè molte famiglie straniere illustri e doviziose. — Queste esercitavano in Firenze la ospitalità, ed i Fiorentini a cui spettava siffatta parte, la abbandonavano a quelli che avrebbero dovuto ospitare, accettando invece per sè medesimi la parte dell'ospitato senza neppur ricambiare le cortesie dagli stranieri ricevute.

In nessuna provincia d'Italia il bisogno di aprire nuove vie alla prosperità nazionale è così evidente come in Toscana; ed in nessuna la introduzione di nuovi strumenti per la operosità della popolazione sembra a primo aspetto dover incontrare minori difficoltà. Il gran numero delle città ossia dei centri di popolazione, di operosità e di civiltà, un certo grado di coltura e di modi civili distribuiti in tutte le classi sociali, la circostanza che il popolo parla non già un dialetto non intelligibile per chi nacque una trentina di miglia più in su o più in giù, ma la lingua scritta leggermente alterata, l'intelligenza ed il naturale docile e quieto degli abitanti, sono cose che animar dovrebbero gli speculatori e gli spiriti intraprendenti a tentare qualche nuovo stabilimento commerciale ed industriale. — Il felice successo di un tale tentativo non sarebbe però così certo nè così probabile, come può sembrarlo a prima vista. — Il grande, il formidabile ostacolo sta appunto nel carattere della popolazione che nessun male considera come più intollerabile, della fatica e che resiste passivamente a qualunque sforzo si tenti per vincerne l'inerzia; e vi resiste senza rimorsi perchè la sua resistenza non è accompagnata da moti o da espressioni violenti, anzi direi quasi che il toscano considera quella sua ostinata resistenza come una virtù, detta la moderazione nei desiderj, la rassegnazione, ed il sapersi accontentare di poco.

Il governo gran ducale toscano fu sempre il più mite fra i governi dispotici che fecero per tanti secoli strazio dell'Italia. Il sovrano che conosceva personalmente una grandissima parte dei suoi sudditi conosceva e praticava con perfezione quelli artifizj di modi e di espressioni che toccano il cuore dei semplici, e rivestono agli occhi loro l'aspetto della benevolenza e della umiltà. Una passeggiata per le vie della città in abito borghese, e senza seguito apparente; una parola detta familiarmente ad un popolano, un soccorso largito in tempo opportuno ad un bisognoso, erano i mezzi con cui si mascherava agli occhi delle popolazioni il vicerè austriaco, il depositario delle massime imperiali. Una penna toscana gli strappò la maschera e lo presentò al popolo deluso in tutta la laidezza di un ipocrita tiranno, ma il popolo toscano rise della strana figura che gli si mostrava per la prima volta, ritenne nella memoria il mirabile ritratto di quello; che non è, nella lista dei tiranni, carne nè pesce; ma non cavò insegnamento alcuno dallo spettacolo, e forse noverò fra le virtù del sovrano la indulgenza con cui si lasciava dipingere coronato di papaveri e lattughe e permetteva a lui di ridere del dipinto.

Le popolazioni degli antichi stati romani, ammontano a circa due milioni; sono povere come tutte le popolazioni italiane, non posseggono industria di sorta, non si dedicano al commercio; e vivono su di un suolo quasi interamente incolto. Una gran parte dei poderi rurali, ed il terreno che circonda i villaggi, erano sino al 59 od al 60 posseduti dalle manimorte, ossia dalle corporazioni religiose o dalla chiesa. Tali possidenti non avendo nè molti bisogni, nè aspirazioni ambiziose, ma accontentandosi per lo più di mangiar bene e di essere al coperto dalle intemperie delle stagioni, al che provvedeva d'altronde la pietosa generosità dei fedeli, l'agricoltura era da essi trascurata e negletta, ed il viaggiatore che attraversava dieci anni sono le Romagne, le Legazioni, ecc. ecc., vedeva con dolore e con raccapriccio i villaggi situati nelle vicinanze degli innumerevoli conventi, o monasterj, squallidi, in rovina, schifosamente sudici, ed abitati da infelici che sembravano piuttosto cadaveri che viventi. — Piaghe di siffatta natura non si medicano in pochi anni, e tutto, meno le strade, è tuttora da farsi in quelle provincie. —

Il difetto principale dei governi costituzionali, è la debolezza della loro iniziativa. In qualsiasi direzione quei governi intendino di volgere le popolazioni, dessi trovansi ad ogni passo, o possono trovarsi in urto colle individuali volontà; e la prospettiva stessa di tali incontri basta a paralizzare le patriotiche intenzioni dei governi costituzionali anco più energici. — Non dubito che il nostro il quale non pretende ad una eccessiva energia, avrà risentito i frigidi effetti di simili previsioni; ma forse ch'esso incontrerebbe minori ostacoli fralle popolazioni degli antichi stati Romani che non fra quelle del rimanente d'Italia. I già sudditi della chiesa hanno sofferto assai, non solo moralmente, ma fisicamente eziandio e stanno ora aspettando pazientemente il compenso del lungo passato. — Materialmente la sorte loro deve aver peggiorato coll'acquisto della libertà poichè sono ora gravate di forti imposte, e nessuna nuova via fu ad essi aperta per guadagnare il denaro che pagano allo stato. — Eppure nessuno sintomo di malcontento apparve mai in quelle provincie. — I Romagnuoli non hanno speso nè in puerilità nè in frivolezze la esuberante gioja del loro riscatto. — Se ne rallegrarono e se ne rallegrano tuttavia con maschia gravità, come gente che non si crede in diritto di ottenere gratuitamente i due più preziosi doni a cui un popolo possa aspirare, la libertà e la indipendenza ma è preparato invece a pagarli a caro prezzo. — Tali erano nel 60; tali sono oggi e gli Italiani tutti potrebbero senza derogare prendere esempio dal contegno dei già sudditi della Chiesa.

Delle provincie Napoletane e delle loro popolazioni si è parlato assai, e parmi, dietro osservazioni troppo superficiali. — Il brigante feroce superstizioso e stupido, ed il Lazzarone inerte più che mezzo ignudo, e per tre quarti selvaggio, sono i due tipi dietro i quali ne raffiguriamo generalmente i Napoletani, seppure non vi si aggiunge un Principe o un Duca senza denaro, giuocatore, libertino, duellista e poco amante della guerra. — Non nego che tali tipi si incontrino più frequentemente nelle provincie Napoletane che altrove; ma in questi si spiegano ingranditi ed esagerati i difetti di tutti i popoli meridionali, e di quelli in particolar modo che non conobbero mai i vantaggi risultanti dalle virtù a tali difetti opposte. — Ma siffatte esagerazioni dei difetti comuni ai popoli meridionali, non sono da imputarsi al popolo Napoletano in massa. — Se v'ha una provincia d'Italia in cui la libertà e la indipendenza abbiano già prodotto dei risultati evidenti, oltre la costruzione di nuove strade, di nuovi ponti e di nuovi edifizi, quella è la provincia o per dir meglio lo stato Napoletano. Il tipo Lazzarone che viveva di maccheroni e di angurie, e dormiva in un canestro, è quasi interamente scomparso, trasformandosi e confondendosi nei pescatori. — L'immondezza delle pubbliche vie di Napoli degli atrj, dei cortili e persino delle scale dei più sontuosi palazzi scomparve anch'essa vinta dalle cure della edilità municipale, e del concorso che la immensa maggioranza di ogni classe di popolo gli prestava che se tale concorso non avesse esistito, o nulla o a ben poca cosa avrebbero giovato le misure della edilità.

Nel corso dei sei anni passati per Napoli sotto il benefico, ma talora pericoloso regime della libertà, il popolo Napoletano non ha tentato una sola volta di abusarne. — Desso ha accettato le leggi, i regolamenti, le istituzioni, i decreti che gli furono imposti, sottomettendosi al peso ed agli inconvenienti degli uni, e cavando vantaggi da altri con una spontanea docilità, ed una costante prudenza che da lui non si aspettava. — Si è sempre parlato della innata vigliaccheria del Napoletano, ma qui ancora i vecchi motteggi, ed i rancidi pregiudizii ebbero una solenne mentita. — La guerra del 66 fu combattuta dai Napoletani quanto da tutte le altre popolazioni Italiane, e nessun episodio fu narrato sin qui che testimoniasse della timidezza imputata ai Napoletani. — Le nostre sventure durante quella guerra furono la conseguenza della poca esperienza o della incapacità di alcuni capi, non già del difetto di valore della bassa forza; e fra i generali di una certa età e di un certo grado, quello che forse più d'ogni altro diede di sè, del suo sapere del suo valore prove migliori, si fu un generale Napoletano, il Nunziante, Duca di Mignano. — La classe che in Napoli si è mostrata sin qui meno intelligente dei proprii interessi, e meno tenera di quelli del paese, è la così detta aristocrazia. — In Napoli si trovano meglio distinte che altrove le tre classi sociali che compongono oggidì le nazioni civili; la aristocrazia cioè; la borghesia, o classe di mezzo, ed il popolo. — Sotto il dominio dei Borboni, la prima e l'ultima erano le predilette della corte; quella perchè rassomigliava e conseguentemente simpatizzava di più coi membri della reale famiglia; sì gli uni che gli altri ignoravano presso che tutto ciò che avrebbero dovuto conoscere; consideravano questa loro ignoranza come un privilegio della elevata loro condizione, e guardavano con ischerno e compassione agli sforzi che le classi inferiori facevano per acquistare il sapere ossia come quelli dicevano per guadagnarsi il pane. — La famiglia reale e la aristocrazia avevano comuni gli interessi, le speranze, i desiderii, i timori. — Il godimento materiale della vita, l'incremento delle loro ricchezze; la soddisfazione della puerile loro vanità componevano lo scopo della loro esistenza. — La nobiltà Napoletana stava attaccata alla stirpe Borbonica, come a quella inesausta sorgente di godimenti, e di onori che ne accarezzavano la vanità; mentre il sovrano e la famiglia di lui si specchiavano nella nobiltà, come in quella classe di persone che si divertiva dei divertimenti loro, nulla desiderava di ciò ch'essi temevano, e dalla cui bocca non esciva parola che contrastasse coi loro pensieri.

La classe infima della plebe Napoletana occupava il secondo posto nelle reali affezioni. — Romorosa nelle sue dimostrazioni, ma inocua nelle sue azioni, la plebe dei così detti Lazzari fanatica come presso che tutte le ignoranti moltitudini, era assolutamente in balìa del clero e dei frati che la volgevano e rivolgevano a loro capriccio. — Il re sapeva qual uso facesse il clero di tanto dominio, e si maneggiava in modo da tenerselo amico. — I Borboni d'altronde superstiziosi anch'essi non meno della plebe, erano pure un docile strumento nelle mani del clero, la cui ignoranza presso che eguale a quella dei principi e dei lazzaroni, gli permetteva di prestar qualche fede ad alcune delle cose ch'esso insegnava come dommi religiosi. — Tutte queste ignoranze erano fra di esse alleate, e dirette ad un medesimo fine, il perpetuarsi della società del medio evo, e l'impedire ogni progresso sì intellettuale, come morale o materiale. — Perciò ottenere il clero aveva bisogno dell'appoggio reale; ed il re non poteva sostenersi senza quello del clero. — Consapevoli l'uno e l'altro di tale reciproca dipendenza, non ad altro tendevano che a trarne vantaggio nel miglior modo possibile, per difendersi da quel formidabile progresso che agli occhi loro rappresentava il più orrendo cataclisma, la distruzione dell'edifizio sociale, lo scatenamento di tutte le fiere del creato sotto nome di filosofia, di diritto, di civiltà, di libertà, di indipendenza, di eguaglianza, di tolleranza, di filantropia, ecc. ecc; e per catastrofe finale, una guerra accanita contro il sacerdozio, cioè contro Dio e la religione, un macello di frati e di monache, il saccheggio degli altari, e le porte dell'inferno spalancate per inghiottire la moltitudine delle anime feroci ed empie i cui corpi più non potevano contenerle. — Per coloro che di buona fede vedono il moderno incivilimento sotto tale aspetto non è da meravigliarsi se mettono tutto in opera per impedirne il corso. — E non pochi fra i nemici della moderna civiltà, sono di buona fede, o per lo meno credono ciò che venne loro insegnato, e trovando in tale credenza il loro vantaggio non si sforzano di scoprire se riposi quella sul vero o sul falso.

Pei Borboni, per la nobiltà e pel clero napoletano, il progresso era personificato nel ceto di mezzo ossia nella borghesia. — Una certa somma di coltura intellettuale è necessaria per formare degli avvocati, dei medici, degli ingegneri, e persino dei militari; e sebbene i tre corpi che governavano in Napoli avessero volontieri fatto di meno di tutte quelle dotte professioni, e si fossero contentati di non avere sotto di essi altri che lazzaroni, pure conoscendo che la totale soppressione del ceto medico e della sua coltura intellettuale era cosa impossibile, dessi si limitarono sebbene con rammarico, a combattere questi rappresentanti del sociale progresso, perseguitandoli, ponendo ogni sorta di ostacoli sulla loro strada, mantenendoli per quanto il potevano nella condizione stessa in cui si erano trovati gli avvocati, i medici, gli ingegneri, ecc. ecc. dei secoli passati, ed aizzando contro di essi i pregiudizii e le passioni indomite della plebe.

Sintanto che le cose rimanevano in quello stato, il Re si teneva per certo di trovare, quando ne abbisognasse, il popolo armato in sua difesa e nemico dei suoi nemici; e la nobiltà siccome il clero avendo gli interessi comuni colla corte, fidavano anch'essi nelle armi che avrebbero consegnate ai lazzari in un momento di crisi rivoluzionaria e si confortavano pensando che il popolano così affezionato al suo Re e così devoto al clero avrebbe resistito a tutte le seduzioni del partito liberale.

Già sul finire dello scorso secolo, i lazzari si erano mostrati quali li volevano il Re, la nobiltà ed il clero, e se nel Maggio del 48 il sangue cittadino non fu sparso in tanta copia, quanto nei giorni di Championnet, non fu quella parsimonia da attribuirsi alla clemenza del popolo, ma bensì alla debolezza della resistenza che ad esso opposero i liberali, che in picciol numero erano rimasti in Napoli, mentre pressochè tutti correvano verso il Po ove speravano combattere e vincere l'austriaco.

Intanto sì il Re che la nobiltà ed il clero si confortavano colle dimostrazioni popolari che consideravano come sintomi importantissimi dello stato della pubblica opinione. — Quando il Re compariva a Chiaja o a S. Lucia era salutato con acclamazioni frenetiche dei lazzari-pescatori, ed esso rientrava nel suo palazzo convinto che il suo popolo lo adorava, e sicuro di trovar sempre una valida difesa contro il liberalismo ed i liberali, in quei semplici, ma fedelissimi petti. — La nobiltà divideva le illusioni del sovrano, e ben sapendo, che la privilegiata di lei condizione si manterrebbe quanto il potere assoluto del principe, dessa si stimava solidamente stabilita e secura. — Il clero anch'esso vedeva sempre lo stesso concorso di popolo nella chiesa di S. Gennaro il giorno del famoso miracolo; udiva le stesse preghiere, le stesse promesse, improperi ed acclamazioni secondo che il sangue era più o meno pronto a bollire, vedeva la stessa moltitudine seguirlo nelle processioni, la stessa calca nelle chiese, ai confessionali, dinanzi agli altari; vendeva lo stesso numero di reliquie, di messe, benedizioni, indulgenze, candele o acqua benedetta, ecc. ecc., e si confortava pensando che la fede non era scemata malgrado i tentativi e gli sforzi dei liberali, e dicendosi che molti secoli passerebbero ancora prima che si riescisse a trasformare il lazzaro napoletano, in un cittadino civile, istruito e spregiudicato.

Erravamo tutti. — Nè il re, nè la nobiltà nè il clero distinguevano ciò che vi era di semplicemente drammatico in quelle dimostrazioni popolari, da ciò che vi era di veramente sentito. — Il popolo napoletano era favorevolmente inclinato al suo re perchè ne riceveva qualche parola o qualche tratto famigliare, e perchè il despotismo borbonico non pesava direttamente sopra di lui. — Era disposto verso la nobiltà ad un dipresso come verso il suo re ed il clero gli appariva come una categoria di esseri qualche poco soprannaturali, capaci di operare alcuni miracoli, ed in relazioni segrete ma dirette cogli abitanti del paradiso.

Sapeva altresì che le sue acclamazioni, e le sue romorose dimostrazioni riescivano assai gradite a quei tre ordini di persone, la corte cioè, la nobiltà ed il clero, che le rimuneravano con qualche largizione o con altri favori, e siccome il porsi in iscena facendo dimostrazioni, acclamando, urlando e schiamazzando è cosa che nulla costa al popolo napoletano, così tanto la corte quanto il clero e la nobiltà erano sempre salutati dalla plebe con eguale entusiasmo.

Ma le società segrete e gli emissarii di esse non trascuravano allora la educazione politica del lazzarone. — La classe media della popolazione apparteneva quasi per intiero a quelle società segrete, ed andava ispirando al popolo con cui mantenevasi in relazioni strette e famigliari, l'odio dello straniero e dei suoi strumenti, l'amore della libertà e della gloria, e l'entusiasmo per quel Garibaldi il cui valore emulava la potenza del clero nel far miracoli, il che eccitava nel cuore dei lazzaroni un ardente desiderio di vedere e di acclamare quel prodigioso eroe, ed un certo raccapriccio al solo pensiero che il Borbone imponesse loro di combatterlo.

I progressi delle istruzioni e delle intimazioni date dal ceto medio al basso popolo, apparivano nella agitazione che subentrava alla naturale indolenza del popolo napoletano. — Il governo borbonico confiscava i giornali che trattavano delle cose d'Italia, e credeva con ciò di mantenere il popolo in quella assoluta ignoranza di cui si era fatto uno scudo; ma gli emissarii delle segrete associazioni spargevano a voce le notizie meglio adatte all'umore ed al carattere di quelle plebi; raccontavano i combattimenti e le vittorie conseguite sull'austriaco, la confusione e lo spavento del nemico, le prodezze del re Vittorio e di Garibaldi che apparivano come altrettanti Orlandi, presentavano alla immaginazione di quel popolo, un quadro così seducente che al confronto di questo impallidiva e si oscurava lo splendore delle cerimonie religiose, i miracoli di S. Gennaro ed altri, ed il magico sfarzo delle feste di corte.

Ognun sa come Garibaldi entrò a Napoli, accompagnato soltanto dal suo stato maggiore, e come attraversasse le vie ingombre di popolo e di soldati borbonici, salutato dalle entusiastiche acclamazioni di quelli su di cui faceva appunto il re per combatterlo. — Non un colpo di fucile fu tirato quel giorno a Napoli; e fu questo per noi grande ventura, poichè cessato l'incanto che attraeva quelle moltitudini a Garibaldi, troppo facile cosa sarebbe riescita l'impadronirsi di lui e lo annientare tutti gli effetti della spedizione Siculo-Napoletana. Fortunatamente però, l'incantesimo non fu rotto. — I soldati borbonici si ritirarono a Gaeta ove li aspettava il re, ed il popolo lasciato in balìa di sè medesimo, si abbandonò all'ebbrezza della sua gioja e della sua ammirazione per quell'eroe ch'era venuto per così dire disarmato a liberarlo.

Da quel momento sino ad oggi, Napoli ha subìto le varie peripezie che subiva il rimanente d'Italia; ma non ha dato segno di essersi pentito di quella sua rapida trasformazione. — Non camminò con passo veloce sulla via del progresso e della civiltà; ivi, non meno che altrove va deplorata la inerzia delle classi educate e colte; che poco o nulla hanno tentato per riscattare la plebe dalla sua secolare ignoranza. — Pure un certo quale progresso è evidente per chi visita oggi Napoli, e si ricorda come lo aveva lasciato alcuni anni addietro. — Le vie principali della città sono sgombre dalle immondezze e dai rottami che le disonoravano altre volte; alcuni ampj ed eleganti magazzini di stoffe, di ornamenti in oro o in corallo, adornano invece la città, e gareggiano già in estensione ed in lusso coi principali magazzeni di Parigi e di Londra, il popolo quasi ignudo che giaceva disteso in terra sulla sponda del mare, e sul lastrico delle contrade, è pressochè interamente scomparso. — I bambini di quei padri non istanno più li interi giorni rotolati ed aggruppati sui marmi delle chiese per godere un poco di fresco, intento favorito dal modo loro di vestire che consisteva nella assenza completa di qualsiasi pezza di tela o di stoffa che ne coprisse il corpo o le membra. — Da tutto ciò si vede che il popolo Napoletano, non ignora da qual lato dell'orizzonte spunti il sole del viver civile, e desidera uniformarsi anch'esso alle leggi della civile società.

Diciamo ancora che il Napoletano sottoposto per la prima volta a gravose imposte, condotto sul campo di battaglia per difendervi dei principii a lui poco noti ed apparentemente estranei ai suoi interessi, non ha mai dato segno di malcontento; e meno ancora di tendenza alla ribellione.

Tutto ciò ne dà liete speranze per l'avvenire, e poichè Napoli si mostra così bene disposta a lasciarsi guidare ed a porre la sua fiducia nel senno altrui, piuttosto che nei suoi naturali istinti, e nelle sue proprie impressioni, tanto più deploriamo la lentezza con cui il nostro governo e le classi più colte e più facoltose della popolazione si occupano di fondare associazioni ed istituzioni dirette alla educazione ed alla istruzione del popolo. Che cosa non siamo noi in diritto di aspettare da un popolo che per tanti secoli corrotto e depravato di proposito da un iniquo ed assurdo governo, acquistata in un giorno la illimitata libertà che si compete soltanto alle più incivilite nazioni, non abusa di così gran dono, e si sottopone di buona voglia a tutti i sacrificii che sono come il prezzo della sua libertà!

Non possiamo tributare le medesime lodi alla Sicilia. — Ivi la corruzione si mesce alla naturale ferocia di una popolazione derivata in parte dall'Arabo, e quell'isola che fu un giorno popolare e ricca oltre ogni credere, non ha fatto sin qui uso della acquistata libertà se non per compiere atti che non si possono paragonare che alle carnificine del medio evo, o dei popoli selvaggi. — La camorra che alleata al brigantaggio nel Napoletano, ritardava il progresso di quelle popolazioni verso la civiltà, opprime e disonora la Sicilia con una impudente tirannide che non ha pari. — L'isola che per due terzi della sua estensione è posseduta dalle corporazioni religiose e dalle manimorte, è pressochè deserta, ed è del tutto incolta. — La legge si sforza invano di ridurre sotto il suo scettro i Siciliani, che vi si sottraggono colla più odiosa violenza, minacciando di morte, e non sono le loro, vane minaccie, i magistrati, ed i testimonii che potrebbero convincerli di innumerevoli delitti. — La missione della polizia non può essere adempita poichè un sistema di falsificazione di tutti gli atti civili, seguito da lunghissimi anni rende vana qualsiasi vigilanza della autorità. — I depositarii degli atti civili di nascita, di morte, di contratto, matrimonio, ecc. ecc. avevano per costume di riempire varii fogli di carta per ogni uomo che temeva la luce del giorno, e l'esame della sua condotta. — Sopra uno di quei fogli l'individuo di cui trattavasi, era presentato come vivo; su di un altro come morto; sopra un terzo figurava come del sesso femminile; e quando le nuove autorità mandavano ispettori a verificare lo stato civile di un sospetto, gli si presentava ora l'uno ora l'altro di quei fogli, secondo lo richiedevano le circostanze. — La colonna mobile che durante gli scorsi anni ebbe per missione di purgare la Sicilia dalle orde di briganti che la infestavano, operò milaottocento catture, ed i catturati erano pressochè tutti assassini di molte vittime, esseri che dell'umana natura conservavano appena l'aspetto, e questo ancora corrotto e degradato. — Non parlerò della strana ostinazione colla quale i Messinesi inviarono per tre volte al Parlamento il contumace Mazzini sebbene dal Parlamento stesso avvertiti della illegalità di tale elezione. — Non parlerò degli ultimi fatti di Palermo in cui un popolo ferocemente fanatico ed istigato dallo spirito di vendetta che disonora pur troppo una gran parte di quel clero ignorante e sensuale, commise delle atrocità che non mi regge il cuore di descrivere; ma osserverò soltanto che un popolo il quale si vale della recentemente acquistata libertà, per assimilarsi alle fiere, ha bisogno di una rigorosa tutela, e di severe repressioni.

Pure anche in mezzo a sì luttuose scene, ed a così colpevoli eccessi, il naturale facile al progresso, e l'ingegno aperto agli insegnamenti morali e civili, si scorge chiaramente nel popolo Siciliano. — La vigliaccheria non è un vizio in cui lo trascinano gli altri molti vizii di cui è preda. — Tutti gli uffiziali che ebbero sotto gli ordini loro dei soldati Siciliani, li dichiarano valorosi, e riconoscono altresì che l'indole loro, cupa dissimulata e crudele, si dirada e si emenda sotto l'influenza della militare disciplina. — Dicono essi che il soldato Siciliano tornando alle proprie case vi porta dei germi fecondi di moralità, ed una certa quale inclinazione al bene a cui era affatto estraneo quando rivestiva per la prima volta la divisa militare.

I soldati licenziati potranno diventare i primi maestri del vivere civile pei loro concittadini, ma se ad essi è lasciata esclusivamente la missione di civilizzare la Sicilia, l'ardua impresa non sarà compita in un secolo. — Un uomo si è distinto in Sicilia per l'ingegno, l'operosità, la moralità ed il patriottismo, e quest'uomo è oggi Prefetto di Palermo. — Ciò dimostra che il governo è ansioso di impiegare gli strumenti di civiltà che gli fornisce il paese. — Ma desso non può crearli. — Ora spetta a tutti coloro che si sentono superiori alle basse passioni del volgo e capaci di cooperare fosse pure menomamente alla riforma di uno stato sociale così miserabile e vergognoso, il concertarsi fra di essi, ed il dedicarsi a sì nobile e così sacrosanta impresa.

Fondare delle scuole non solo pei fanciulli, ma per gli adulti altresì, ed ivi invitarli colla seduzione di insegnamenti variati e dilettevoli a cui non rimarranno a lungo indifferenti quelle nature curiose, e quelle menti accessibili ad ogni raggio di luce. — Stabilire dei piccoli centri di industrie, ove, sì gli uomini come le donne, trovino delle occupazioni poco faticose ed un guadagno equamente ripartito. — Aprire dei magazzini così detti cooperativi, in cui il compratore venga messo a parte dei profitti del venditore, e che rendino impossibile le congiure fra questi ultimi per ispogliare i primi, raddoppiando e triplicando il prezzo degli oggetti di prima necessità. — Nè vorrei si trascurasse o si sdegnasse di procurare a quelle popolazioni qualche opportuno divertimento che avesse per effetto di rasserenarne gli animi, e di ammansarne i costumi. — Insegnerei loro un po' di musica e le addestrerei a cantare dei cori, che il pubblico si recherebbe volontieri ad udire quando anche non si ammettesse se non pagando una frazione qualunque di franco, che verrebbe poi distribuita ai cantanti. — Questi tentativi, queste misure, debbono essere modificate in modo da adattarle ai variati caratteri delle popolazioni; ma qualunque istituzione avente per iscopo di occupare quelle genti, e di addolcirne i costumi senza aggiungere nuovi vizii agli antichi, sarebbe benefica, e la esperienza indicherebbe presto quali modificazioni convenisse introdurre nel piano primitivo. — Vediamo ora quali sono i progressi già eseguiti in Italia, dal 60 in poi, e quali mezzi impiegava il nostro governo per realizzarli.

I due principali strumenti di civiltà, di cui dispone un governo posto nelle condizioni in cui trovasi il nostro, sono la costruzione di nuove strade e lo stabilimento di scuole popolari. — I governi che lo precedettero, e che avevano per unico oggetto degli atti loro il mantenersi nella autorità di cui facevano così deplorabile uso, trascuravano di proposito quei due elementi del nazionale incivilimento, e perchè avrebbero voluto circondare i loro Stati di un muro inaccessibile come quello della China, e perchè tanto la costruzione di nuove strade come lo stabilimento di nuove scuole popolari costano molto denaro. — Nelle provincie meridionali del Napoletano, siccome nella Sicilia, le strade esistevano soltanto nei conti del Ministero dei lavori pubblici; ma in fatto, il percorrere la pittoresca Calabria, era altrettanto difficile, faticoso e pericoloso, quanto il percorrere il centro dell'Affrica o dell'Asia. — Nelle parti centrali e settentrionali d'Italia la stessa condizione di cose non era possibile, e perchè non poche strade vi erano state costrutte dai precedenti governi, ed in ispecie dal Napoleonico, e perchè l'incessante concorso di forestieri, che visitano ogni anno quelle contrade, avrebbe reso impraticabile l'abbandono dei mezzi di comunicazione dai paesi loro all'Italia, o per lo meno avrebbero trasformato quell'abbandono in uno scandalo europeo. — Fu dunque mestieri che l'Austriaco si rassegnasse a lasciare alle sue provincie d'Italia il benefizio che dalle opere dei suoi predecessori ricavavano; e lo stesso fece per le scuole comunali, ch'erano istituzioni dell'imperatrice Maria Teresa, e che ebbero per effetto di mantenere i contadini lombardi in una condizione morale ed intellettuale assai meschina per vero dire, ma superiore a quella delle popolazioni rurali del rimanente d'Italia, tranne però delle toscane.

Le ragioni medesime, che avevano indotto i sovrani assoluti d'Italia a non costruire nuove strade, e a non aprire nuove scuole, traevano il governo nostro a dotare senza frapporre indugio il paese così delle une come delle altre.

Una circostanza speciale rendeva vie più importante pel paese nostro, che le lacune lasciate espressamente dall'Austriaco nel sistema delle nostre strade fossero colme. — Voglio dire delle strade ferrate, che cangiarono radicalmente la condizione materiale, morale, intellettuale ed economica di tutte le nazioni che le adottarono, e di cui avevano soltanto alcuni stralci, ed alcuni progetti, contro la cui esecuzione tanti ostacoli andavano mano mano sorgendo, che un secolo non sarebbe bastato ad appianarli. — La ferrovia da Milano a Venezia era terminata nel 59, ma eransi impiegati più di venti anni a costruirla. — Del rimanente, alcuni chilometri da Milano a Monza, a cui si erano aggiunti coll'andar dei tempo altri non molti chilometri che mettono a Como: ecco in che consistevano in quel tempo le ferrovie lombarde. — Il Piemonte n'era assai meglio fornito; e la toscana, anch'essa, sebbene le sue ferrovie fossero esclusivamente destinate a facilitare le relazioni e le comunicazioni dall'una all'altra città toscana, e non importasse di congiungerle con altre ferrovie delle varie provincie italiane. — Egli è bensì vero che le ferrovie toscane avrebbero potuto congiungersi soltanto con quelle dell'Italia settentrionale, o per meglio dire con quelle del Piemonte; poichè nelle provincie situate al mezzodì della Toscana le ferrovie erano tuttora limitate a pochi chilometri, i dintorni di Napoli e gli Stati pontificii serbandosi mondi da quelle abbominevoli invenzioni della scienza moderna.

Nel 1859 tutte le provincie che formarono il regno d'Italia possedevano complessivamente 1,472 chilometri di strade ferrate, e fra queste erano comprese le ferrovie del Piemonte che ammontavano ad una gran parte di quella intera cifra. — Nel 1863 si erano aggiunti 1,287 chilometri di nuove strade ai 1,472 del 59; e noverando quelle allora in via di esecuzione, ammontavano a 4,464 chilometri; e quelle che debbono essere terminate nel 1869 non saranno al di sotto di 8,057 chilometri, cioè un terzo di più che non ne possiede la Francia e circa il triplo dell'Austria, proporzionalmente alla estensione del loro e del nostro territorio.

Giova poi osservare che la configurazione fisica dell'Italia presenta molti ostacoli alla costruzione di ciò che chiamasi una rete di strade di ferro. — Nelle vaste pianure del Belgio e dell'Olanda, come pure in quelle della Francia, segnate unicamente da leggiere ineguaglianze del terreno, i bisogni e la convenienza delle popolazioni sono le sole circostanze che si debbono prendere in considerazione per volgere in quella o in questa direzione una ferrovia. — Ma nella Italia, ossia su quella sterminata catena di monti che si chiamano l'Apennino, e che s'estendono sino a' suoi tre litorali, difficilissima riesce l'introduzione di una ferrovia fra quelle cime e quelli abissi. — Prova ne siano le strade da Torino e da Milano a Firenze, nella costruzione delle quali, sebbene si arrischiassero salite e discese come nessuna altra ferrovia le aveva prima tentate, si dovette percorrere per lungo tratto il letto di un fiume o torrente che sia, di modo che i costruttori medesimi confessavano, che le riparazioni della ferrovia la toglierebbero per gran parte d'ogni anno alla pubblica circolazione.

Per le strade ferrate del Napoletano, per quelle principalmente che debbono estendersi nelle Calabrie ed altre provincie situate al mezzogiorno di Napoli, le difficoltà saranno fors'anche maggiori; e per parlare soltanto di contrade a tutti ben note, ricorderò quanti ostacoli incontrano i costruttori delle strade che legano a Genova le sue due riviere.

Anche in Sicilia le ferrovie in gran parte non sono costrutte; e le strade ordinarie sono in picciol numero, e senza un concetto che le leghi fra di esse e le utilizzi. — Ora però si contano in quell'isola chilometri 114,779 di strade aperte al carreggio, e se ne debbono eseguire altri 166,840. — Quanto alle ferrovie, la Sicilia già ne possiede la lunghezza di 708 chilometri: cioè 160 da Palermo a Trapani, passando per Marsala; 280 da Palermo a Catania; 145 da Messina a Catania e a Siracusa; 76 da Girgenti a Licata; e 46 da Caltanisetta a Girgenti.

Anche le provincie napoletane posseggono a quest'ora un ricco tesoro di ferrovie; poichè queste comprendono poco meno di due mila chilometri, che si legano alle ferrovie dell'Italia centrale e settentrionale, per cui può dirsi che il problema di ravvicinare le funeste distanze che si opposero mai sempre all'unificazione d'Italia è stato sciolto nel corso degli ultimi sette anni. — Simili colossali imprese non si eseguiscono senza adequati sagrifizii; e le strade italiane, le ferrovie in ispecial modo, hanno costato e costano tuttora, in guarentigia d'interessi dei capitali impiegati dalle società, ingenti somme di denaro.

V'ha chi biasima il nostro governo perchè si accinse senza frapporre indugio ad opere di tale immensità, ed il cui costo oltrepassava i mezzi dei quali disponeva allora. Ma vi sono delle circostanze in cui la volgare prudenza è più pericolosa della massima temerità, e coloro, che avrebbero consigliato al nostro governo di costruire lentamente ed economicamente le nuove vie di comunicazione fra le varie e distanti provincie italiane, non riflettono che tali opere dovevano necessariamente essere compite prima che si pensasse a combattere l'Austria, e a torle quella parte del nostro suolo ch'essa calpestava tuttora dopo il nostro riscatto. Chi prese parte, o fu soltanto spettatore della guerra del 66, può dire di quale vantaggio riescissero quelle ferrovie, che da una estremità della penisola all'altra portavano, in poche ore, notizie, reggimenti, artiglierìe, munizioni da guerra, ecc. ecc. — La guerra fu breve; e sebbene il successo d'ogni particolare fatto d'armi non fosse a noi favorevole, il successo finale della guerra stessa oltrepassò le nostre speranze, cosicchè non esperimentammo grandi rovesci. Ma se le cose fossero andate altrimenti, se fossimo stati costretti a ritirate forzose e rapidissime dal campo di battaglia, a cangiamenti repentini di piani, a cercare rifugio e salvezza dietro le mura delle nostre fortezze, la mancanza di strade avrebbe potuto cagionare la nostra rovina. Un governo posto a fronte di eventualità di così gran momento, deve prevedere ogni possibile accidente e star parato a combatterlo. La guerra dell'Italia contro l'Austria, fatta prima che l'Italia possedesse i mezzi di comunicazione fra le sue diverse parti, sarebbe stata una deplorabile follia, e poteva recarne incalcolabili ed irremediabili pregiudizii.

L'Italia, sebbene abbondi di catene di altissimi monti, e possegga conseguentemente molte sorgenti, ed i vasti serbatoi che sono le nevose cime dei monti medesimi, non può comporsi un sistema conveniente di navigazione interna. — Ciò dipende in gran parte dall'altezza de' suoi monti, e dal poco spazio lasciato al declivio di essi per giungere al mare ove tendono. — Per tal modo i nostri fiumi percorrono dalla sorgente alla foce loro un breve e precipitoso cammino, spinti e risospinti di balza in balza, senza potersi mai distendere nè tranquillare le loro acque attraversando una vasta pianura, come avviene dei fiumi della Francia, dell'Inghilterra, del Belgio e di tante altre contrade; per cui questo utilissimo sostituto delle strade ordinarie e delle ferrovie, per quanto almeno concerne il trasporto delle merci, la navigazione interna dei fiumi o di canali che ne derivano, ne manca, e probabilmente ne mancherà in perpetuo. — Un parziale compenso a tanta mancanza possiamo trovarlo nella navigazione marina, detta di cabotaggio, e che ha luogo lungo le coste del nostro litorale; navigazione che presenta pochi pericoli, essendo le coste dei nostri mari piuttosto basse e piane, ed offre grandi vantaggi, per la frequenza dei porti, rade, ecc. seminati lungo le rive, che rendono l'approdo e lo sbarco dei piccoli navigli, percorrenti quei mari, facili e securi.

Tutte le cure del nostro governo per far progredire le popolazioni italiane verso la civiltà, non furono assorte dallo stabilimento dei nuovi mezzi di comunicazione. — Le scuole popolari sono un potente istrumento di civiltà, e queste sono ora numerosissime in tutta Italia. — Già nel 1863 ne esistevano circa 30,000; e sebbene buon numero di esse fossero di creazione anteriore al 59, nelle provincie meridionali però, ed in Sicilia particolarmente, quasi tutte le scuole elementari pei due sessi sono dovute al nostro governo; e gli sono dovute in due modi: e perchè istituite da lui, e perchè sostenute quasi per intero a spese dell'erario, mentre nelle altre provincie del regno molte scuole elementari stanno a carico dei Comuni, ed altre non poche sono sostenute da doni o da lasciti privati.

Se occorressero prove di fatto per dimostrare che tanta diffusione di luce intellettuale è cosa assai recente, basterebbe il porre a confronto di quelle 30 mila scuole il numero di analfabeti, che offuscano tanto splendore. Fra un 1,397,924 di giovinetti dai 12 ai 19 anni, cioè della età in cui dovrebbero avere terminati gli studi primarii, ed essere in grado di passare alle scuole tecniche o alle scuole secondarie, 938,637 di essi sono tuttora analfabeti, mentre 61,800 sanno leggere soltanto, e 361,725 sanno leggere e scrivere. — Speriamo che questi infelici 938,637 siano fra i nati prima del 50, ed avessero per conseguenza oltrepassata l'età in cui sogliono i fanciulli essere ammessi alle scuole primarie o comunali, quando il benefizio di codeste scuole fu largito al paese; e speriamo altresì che codesta enorme e vergognosa macchia nel nostro sole vada rapidamente impicciolendosi, e venga in breve coperta dai raggi sempre più splendidi che da esso si diffondono.

Oltre quel numero di scuole primarie, l'Italia contava già nel 63, 81 corpi scientifici ed accademie di scienze, lettere ed arti; 200 biblioteche; 10 osservatorii astronomici; 26 osservatorii meteorologici; 13 musei di archeologia; 13 società per la conservazione e l'illustrazione dei monumenti; 12 deputazioni di storia patria; 20 istituti speciali di belle arti e di musica; 5 alte scuole di perfezionamento; 19 università col corredo di 123 licei; 452 ginnasii pubblici; 177 scuole tecniche; e 65 scuole magistrali pei due sessi; tralasciando ancora di parlare delle scuole serali e delle festive, aperte recentemente in pressochè tutti i Comuni rurali di Lombardia, alle quali concorrono spontaneamente uomini di ogni età, e dove sono loro gratuitamente insegnate dagli uomini più colti del villaggio, come sarebbero il medico, il sindaco, il maestro ed il segretario comunale, le prime nozioni di storia, di geografia, di storia naturale, ecc. ecc.

Giova osservare che alcune delle cifre testè accennate non hanno tutta l'importanza che sembrano avere a primo aspetto. Quel gran numero di università non significa precisamente che il numero degli aspiranti all'insegnamento, che ivi si riceve, sia tale, che non bastino a contenerlo meno di 19 Università. — Questo numero, veramente smisurato, provviene dallo sminuzzamento che fece dell'Italia una agglomerazione di tanti piccoli Stati, gli uni degli altri gelosi e discordi; ognuno dei quali pretendeva di essere completo e perfetto nella sua picciolezza, possedendo ogni forma esterna di istituzioni scientifiche e letterarie, corpi insegnanti, ecc. Il Piemonte, la Liguria, la Lombardia, la Venezia, i due Ducati, il Bolognese, l'Umbria, la Toscana, e se non m'inganno il Principato di Lucca, la Sardegna, il Napoletano, la Sicilia, e non so se la repubblica di S. Marino, avevano ciascuna non meno di una Università; ed i riguardi con che il governo nostro nazionale ha creduto di dover trattare i pregiudizii autonomici delle provincie italiane sono tali, che non si è peranco accinto a ridurre questo superfluo numero di Università. — Lo stesso può dirsi verosimilmente di alcuni degli osservatorii astronomici e delle accademie letterarie, che erano considerate come un adornamento distintivo di una capitale; ed ora non si tolgono per non far sentire agli abitanti di coteste già capitali ch'essi sono decaduti da ciò che ad essi o ad alcuno di essi può sembrare una situazione assai elevata. Ma tali riguardi eccessivi non possono essere perpetuati, ed il numero degli istituti scientifici o insegnanti sarà messo in armonia coi bisogni del paese, cioè col numero degli studenti di esso.

Certo è però che se quel prodigioso numero di Università non ha tutto il favorevole significato che gli si potrebbe attribuire, ciò non significa per nulla che debba o possa farne arrossire; e se il numero dei nostri corpi insegnanti oltrepassa i nostri bisogni, questo difetto di proporzione non è cagionato dal recente scemarsi del numero degli studenti, bensì dalle cangiate circostanze del paese, dal concentramento nazionale, dalla distruzione di pressochè tutti i confini interni d'Italia, e dal rapido accrescimento delle vie di comunicazione fra le varie Provincie. Il numero delle Università italiane sarà indubitatamente ridotto; dubito però che possa mai esserlo nella misura della Francia e dell'Inghilterra, perchè la topografia e la figura stessa della nostra Italia osta ad un sistema troppo assoluto di concentramento. Se le provincie meridionali d'Italia come le Calabrie, gli Abruzzi, Terra di Bari e di Otranto, la Sicilia, ecc. dovessero mandarci i loro studenti a Pavia o a Padova, temo che finirebbero col rinunziare ai vantaggi di una educazione universitaria.

Prima di procedere alla soppressione di alcune delle nostre Università, conviene ponderare accuratamente quali fra di esse possono essere impunemente tolte, cioè senza che si interrompano e facciano sosta i progressi della pubblica e nazionale istruzione, che è quanto dire del nazionale incivilimento.

Questo rapido esame dell'incremento, ch'ebbero negli ultimi pochissimi anni i mezzi di comunicazione e d'istruzione popolare nel nostro paese, ne presenta in vero molte sorgenti di conforto. Una considerazione però tempra la soddisfazione, che vorremmo ritrarne; ed è questa la influenza, anzi la ingerenza piuttosto accresciuta che scemata del clero negli stabilimenti della pubblica istruzione. Eravamo preparati a codesta preponderanza nelle provincie meridionali; ma i dati statistici, ai quali mi riferisco per questo lavoro, non la mostrano minore nel Piemonte, nella Liguria, nella Lombardia e nella Toscana, che nel Napoletano e nella Sicilia stessa. — Se di tale scoperta non solo mi meraviglio, ma mi rammarico, ciò non proviene da avversione al clero cattolico, e molto meno poi da dispregio per la religione, di cui è detto il ministro; ma soltanto perchè il clero può essere considerato a buon diritto, meno qualche eccezione, irremissibilmente ostile all'ordinamento oggi in vigore in Italia, e perchè tale essendo, i nostri giovanetti a lui affidati non possono ispirarsi ai sentimenti di lealtà, di gratitudine e di rispettosa fiducia verso il nazionale governo, che si richiedono dai cittadini di un paese libero. — Il clero cattolico è naturalmente avverso alle libertà civili, ch'esso confonde talora colla libertà di pensiero e di coscienza, e che in ogni caso esso tiene per indissolubilmente legate fra di loro, e non a torto. Io non discuterò quì se più felice sia il popolo soggiogato civilmente e intellettualmente, ma che non sente il peso del giogo a cui è avvezzo, ed al quale si rassegna confortato da una cieca fede in tutto ciò che gli insegna il suo clero; o il popolo liberale ed indipendente, conquistatore dei proprii diritti e di essi pienamente conscio, ma a cui fu tolto l'intimo conforto, ed il forte sostegno di quella cieca fede. — Sono queste quistioni le mille volte discusse, senza ricevere una soluzione che ponesse fine ad ulteriori dibattimenti. — Ma il nostro popolo ha risoluto il quesito col fatto della sua scelta. Il popolo schiavo ha voluto essere libero ed indipendente a qualsiasi costo; ed ha realizzato diffatti questo suo ardentissimo desiderio. Oggi non si tratta di decidere se a lui convenga di acquistare la libertà, o se sia meglio per lui di rimanere qual era nel medio evo. — Trattasi d'imparare a far buon uso dell'acquistata libertà; di preparare la vegnente generazione al pieno godimento di quei beni che i padri suoi non seppero che imperfettamente sviluppare. Trattasi di riunire, di fondere tutti gli Italiani in un pensiero concorde di gratitudine pei singolari benefizi ricevuti, e nella invariabile risoluzione di sottoporsi ai maggiori sagrifizi, piuttosto che rinunziare alle conquiste fatte, o che mostrarsene poco degni. Tale essendo la parte che spetta all'attuale e alla futura generazione di Italiani, vorrei mi si dicesse che cosa pensano e quale scopo si prefiggono i parenti che affidano la educazione dei loro figli al clero, ed al clero regolare in particolar modo, cioè al nemico delle nostre istituzioni, a quello che vorrebbe ricondurne indietro sino alla servitù materiale ed intellettuale del medio evo, e che ha missione dal suo capo spirituale e temporale, da quel capo riverito e temuto, a cui nessun membro del clero cattolico può sottrarre la menoma parte di sè stesso, ha missione, dico, di non transigere mai coll'attuale ordine di cose in Italia, ma di creargli quanti ostacoli e quanti nemici può. — Molti sono i padri che così pensano e che così parlano del clero; eppure non pochi fra questi affidano i figli loro ai Barnabiti, o a qualche altra corporazione religiosa, specialmente dedita alla istruzione dei giovani. — Di tale singolarità essi si scusano coll'asserire che i collegi tenuti dai laici sono così male diretti, e la istruzione dispensatavi così meschina, che nulla può aspettarsi da educazioni così condotte. Forse non sono senza fondamento tali critiche, e tali osservazioni: tutto il sistema che ne diresse per tanti secoli, e che era basato sul più rigido assolutismo, cadde in un'ora, e diede luogo ad una illimitata libertà ossia ad una generale rilasciatezza. — I primi effetti di così repentino cangiamento non ponno essere che tristi. — Ma se invece di condannarli come tali, e di volgersi a ciò che rimane dell'antico sistema, come se questo potesse convenire ad una nazione libera, i padri di famiglia delle classi educate si applicassero ad emendare i difetti dei collegi tenuti da laici, essi non andrebbero incontro, e non esporrebbero i figli loro ad una serie d'incalcolabili danni, col risospingerli nel passato; e ciò nel momento appunto che questo passato crollò, e che ad esso subentrava un avvenire interamente opposto a quello.

Che che ne sia delle molte imperfezioni ed incapacità nostre, delle nostre impazienze, diffidenze ed inerzia, ecc. abbiamo fondate speranze di un felice e glorioso avvenire. — Mettendo a confronto ciò che abbiamo operato in questi ultimi sette anni, con ciò che operarono durante uno spazio di tempo assai più lungo, cioè dal 1821 e dal 1831 sino ad oggi, altri due popoli meridionali, repentinamente usciti di servitù ed assunti all'onorato seggio di libere nazioni, voglio dire dei Greci e delli Spagnuoli, troviamo occasione di confortarci, e di rinfrancarci nelle nostre speranze. — L'Europa tutta parla dell'Italia come di una nuova potenza di primo ordine, e chi ne avesse predetto dieci anni indietro che di noi si sarebbe oggi portato siffatto giudizio, sarebbe stato tenuto o per pazzo o pel più impudente degli adulatori.

Possano realizzarsi così le nostre speranze, come fu di gran lunga superata sin qui la nostra aspettativa. Poche parole aggiungeremo ancora sulla situazione d'Italia in quanto concerne la sua politica esterna, ossia le sue relazioni colle potenze estere.

Nata o, per meglio dire, rinata, per opera della Francia, col concorso di questa grande e generosa nazione, le altre potenze potevano considerarla come di lei satellite, e trattarla conseguentemente. con poco rispetto e poca benevolenza. Così non accade; e di ciò dobbiamo rendere infinite grazie al nostro governo, e specialmente agli uomini di stato che diressero la nostra rappresentanza diplomatica, e che seppero fare all'Italia un posto nuovo negli annali della storia di Europa, un posto onorevole e degno. Le amicizie politiche sono per lo più di fragile tessitura, mentre le nimicizie, che ad esse corrispondono, hanno profonde e saldissime radici. — Era dunque assai da temere che dopo il 59, o nel corso degli anni che gli succedettero, si allentassero, anzi si rompessero i legami della nostra alleanza colla Francia, e che la vendetta austriaca, trovandoci spogliati della protezione francese, ne perseguitasse sin che ne avesse ridotto nel pristino stato di suoi schiavi. — Se così fosse accaduto, potevamo lottare, e lottare con gloria, ma presto o tardi avremmo dovuto soccombere.

Accadde appunto tutto all'opposto. — Sebbene noi non tenessimo conto alcuno degli impegni assunti in nome nostro dall'Imperatore Napoleone nella pace di Villafranca, la protezione di lui non ne venne mai meno, e per conseguenza la nostra alleanza colla Francia non subì alterazione di sorta. — E tale persistenza non ebbe per effetto di indisporre contro di noi le altre potenze poco benevole verso la Francia o di essa gelose. — L'Inghilterra si manteneva nostra amica nei limiti da essa tracciati sino dal 48, vale a dire in tutto ciò che non implicava il di lei concorso a mano armata. — La Russia, che si astenne dal partecipare ad impresa alcuna che avesse per oggetto il danno nostro, non indugiò lungamente a riconoscere la nostra esistenza come nazione indipendente di diritto e di fatto; la Prussia, versando in gravi emergenze, cercava la nostra alleanza; e quell'Austria stessa che, un anno fa, sosteneva colle armi i pretesi o sognati suoi diritti sopra di noi, oggi costretta a rinunziarvi, li confessa non fondati in ragione, ma protesta di volere in avvenire farsi un'amica di quella Italia che pretendeva testè ridurre in ischiavitù. — Forse non si esprimono così apertamente nè l'Imperator d'Austria, nè i suoi ministri; ma se si leggono i vari periodici austriaci, si vedranno tali sentimenti e tali concetti espressi nei modi per noi più lusinghieri. — Insomma l'Europa intera ne porge oggi la mano. — Quell'Italia soggetta sempre ora dell'uno ora dell'altro, sempre discorde fra le varie sue parti, da tutti derisa e schernita per la sua frivolezza, per le sue vane iattanze, e per la sua impotenza a fare ciò che fecero da moltissimi secoli tutte le altre nazioni, quell'Italia dall'Europa perseguitata e tenuta come un semenzaio di rivoluzionarii assassini ciecamente avversi ad ogni idea di ordine e di autorità, superstiziosi ed empii allo stesso tempo, oggi non solo ha acquistato la libertà e l'indipendenza, cioè la vita, ma ha ottenuto la benevolenza di tutte le civili nazioni, che la accolgono nel loro consesso, e con lei si congratulano delle tante sue venture. Non è guari che l'Europa si credeva vicina ad una guerra che sarebbe stata generale, ed alla quale l'Italia avrebbe avuto verosimilmente a prender parte. — In tale occasione non traspirava in alcuna delle nazioni europee un sentimento di odio o di disprezzo verso l'Italia, e da qualsiasi parte si fosse rivolta coll'offerta della propria alleanza, essa non avrebbe certamente incontrata fredda accoglienza.

Dobbiamo rendere di ciò infinite grazie alla prudenza, alla lealtà e all'abilità del nostro governo, ed in particolar modo ai nostri ministri degli affari esteri; ma esaminando la cosa accuratamente in tutte le sue particolarità, essa ne sembra così portentosa, da doverla attribuire allo speciale intervento di una benefica Provvidenza che volle, in compenso dei tanti mali sofferti, dotarne di tutti quei beni che non abbiamo mostrato di disconoscere, e che non ci siamo resi incapaci di apprezzare e di serbare. Quanto alla parte che a noi stessi possiamo attribuire nell'acquisto di codeste generali simpatie, essa si riduce ad una sola virtù, colla quale abbiamo sorpreso l'Europa che ce ne supponeva intieramente privi. — Intendo parlare della moderazione. — L'Europa era stanca delle enfatiche esagerazioni di molti fra i nostri rifugiati politici; e credeva che gli Italiani tutti parlassero in quello stile, e dividessero quelle opinioni che non avevano per essa neppure il pregio della novità, mentre per molti anni le aveva lette ed udite dalla bocca o negli scritti dei rivoluzionarii francesi del 89, e poscia da quella di tutti i loro imitatori.

Quando le vittorie del 59 resero alle popolazioni italiane la facoltà di esprimere i loro pensieri, e di eseguire le loro volontà, l'Europa vide non senza stupore una nazione sorgere dalle sue stesse ceneri, confessare ed abiurare, aborrendoli, i proprii errori, ripudiare gli odi e le gelosie intestine, le esagerate od impraticabili utopie, e stringersi unanime e concorde sotto una monarchia costituzionale; e sotto tale monarchia rimanersene costante e soddisfatta per tutto quel tempo che è già caduto nel dominio della storia, cioè per tutto il tempo decorso dal 59 sino ad oggi. — L'Europa conobbe allora che gli emigrati italiani non erano tutta la nazione italiana; che l'Italia poteva godere di una saggia libertà, ed assumere l'importanza a cui il numero delle sue popolazioni, l'antica sua storia, ed il carattere de' suoi abitanti le danno diritto, senza che perciò un'orda di rossi sovvertitori si scatenasse sulle vicine contrade e togliesse loro la pace e la civiltà; conobbe che l'Italia riscattata ad un tempo dalla schiavitù, e dalle viete e funeste assurdità rivoluzionarie, doveva sorgere rapidamente al livello delle più colte ed incivilite nazioni; e ciascuna delle nazioni europee pensò di farsela amica, per poi trovarla tale quando il bisogno se ne facesse sentire.

Oggi l'Italia è senza nemici, e possiamo sperare che così rimanga per lungo tempo, imperocchè non v'ha occasione per essa di lottare o di competere colle altre potenze europee. — La nazione italiana non avendo esistito, come nazione, nel passato, non ha assunto impegni nè con sè stessa, nè con altre, che oggi le sieno d'inciampo al consolidamento della pace con l'Europa tutta. — La sola Inghilterra potrebbe vedere in un lontano avvenire l'Italia sua emula e sua rivale sul Mediterraneo; ma la potenza marittima dell'Inghilterra è talmente superiore a quella che noi potremmo acquistare, diciam pure, in un secolo, quand'anche nostra unica cura fosse appunto l'emularla nel mediterraneo, ch'essa può senza imprudenza aspettare almeno un mezzo secolo ad ingelosirsi di noi. — Quanto alle altre potenze europee, l'Italia non scenderà nell'arena per competere con esse. — Non contesterà alla Russia la signoria sopra l'Asia, nè alla Francia la signoria sopra l'Africa settentrionale, nè quella sul Belgio o sulle provincie situate sulla sponda sinistra del Reno, nè alla Prussia il progressivo assorbimento degli Stati germanici; nè all'Austria finalmente contesterà il compenso ch'essa tenterà di ottenere alle molte sue perdite, all'epoca dello smembramento dell'Impero d'Oriente, in alcuna delle provincie più occidentali di questo. E neppure al gran Signore si presenta minacciosa ed ansiosa di affrettare quello smembramento, dal quale nulla spera e nulla ambisce. Solo la Corte di Roma ne considera con timore, sospetto ed avversione; e n'ha ben d'onde, poichè essa e il Regno d'Italia non possono convivere pacificamente sul suolo italiano. Quindi la Spagna ciecamente divota, non dirò solo alla Chiesa di Roma, al suo pontefice ed alla religione cattolica, ma al potere temporale altresì, ne guarda anch'essa di mal occhio, e vorrebbe ricacciarne nel nulla. — Noi non affrettiamo con atti la caduta del potere temporale, ma lo prevediamo non molto distante, e non cospireremo certamente per prolungarne l'agonia.

Da ogni lato vediamo segni di futura pace per la patria nostra; nessun pericolo sembra minacciarla per parte dell'Europa. — Se non fabbrichiamo a noi stessi pericoli, nemici e catastrofi, abbiamo davanti a noi molti anni di tranquillità, nel corso dei quali possiamo procedere al nostro sviluppo e a quello delle nostre libertà.

CAPITOLO SECONDO INFLUENZA DEL PASSATO

Pressochè tutti gli Stati, e tutte le nazioni europee camminarono sopra linee parallele, e durante un numero quasi identico di secoli, dalla barbarie cioè dei bassi tempi alla odierna civiltà. — Alcune camminarono con più celere passo di altre, aiutate o dalla propria loro indole, o da circostanze favorevoli, alcune rimasero e tuttora rimangono qualche poco addietro: ma tutte hanno la faccia volta verso la stessa meta; tutte incontrarono ostacoli pressochè identici e della medesima natura, li combatterono con armi simili, e ne trionfarono in modo più o meno completo, a prezzo di maggiori o minori sacrifizi. Quelle nazioni o quelli Stati, che ancora non raggiunsero il punto in cui trovasi il più gran numero delle nazioni e degli stati di Europa, sono però assicurate di raggiungerlo esse pure in breve, seguendo i passi delle prime, cioè delle più celeri. Le tappe sono per così dire segnate dalla storia, che ne addita come i popoli si aggrupparono componendo gli Stati, e tendendo per prima cosa ad ingrandirsi a dispendio dei vicini; i piccoli gruppi, essendo come stati assorbiti e trangugiati dai maggiori, scomparvero dalla scena, e come i capi delle nazioni deposero di quando in quando la spada per assestare i loro possessi ed afforzare la loro autorità. Tutti ebbero a combattere il medesimo avversario, il feudalismo. — Quei potenti baroni dell'età media, che avevano aiutato uno dei loro ad accumulare armati e ricchezze sufficienti per mantenersi al di sopra delle altre picciole nazioni, o per incorporarsele, diventarono ben presto rivali del capo da essi scelto e creato. — Allora cominciò la interna lotta delle monarchie contro i feudatarii, lotta lunghissima e tremenda, nella quale le monarchie trionfarono mediante l'abuso della forza unita alla perfidia e alla crudeltà, e di cui, se non tutte, buon numero almeno delle Case regnanti di Europa, porta la pena, nella diffidenza e nella secreta avversione che la loro autorità, e qualche volta il solo nome di Re desta nei popoli che loro obbediscono.

L'Italia sola ha tenuto altre vie; l'Italia sola ha una storia tutta propria. — Mentre le altre nazioni europee, formate di elementi barbarici e di pochi avanzi degli antichi popoli soggetti dell'Impero Romano, muovevano i primi passi verso la civiltà, l'Italia, già signora del mondo allora conosciuto, decadeva e deperiva. — Culla di quel popolo straordinario, che si era fatto una civiltà anzi tempo e prematura, ma grande e bella, l'Italia fu sempre una eccezione nella storia. — Essa non ha mai nè dimenticata nè intieramente abbandonata la romana civiltà; anzi ne serba tuttora quei brani che non contrastano al cristianesimo e alle moderne nozioni del diritto e della morale.

Le arti e le scienze, che le nazioni barbare versate dal Nord e dall'Oriente sulla intera Europa ignoravano assolutamente, furono sempre onorate e coltivate dagli Italiani. — I popoli della nostra penisola non caddero mai in quel profondo abisso d'ignoranza e di servitù necessario alla formazione di un potere assoluto ed iniquo nell'esercizio suo, ma che solo poteva farsi rispettare ed obbedire dalle orde germaniche, elemento predominante delle moderne nazioni. — Agli Italiani mancò la barbarie e le sue sfrenatezze, ma loro fecero difetto altresì la cieca obbedienza a capi avveduti ed ambiziosi, la brutale energia degli odi e della rapacità, la ignoranza dei propri diritti, tutte quelle passioni e quei vizi insomma che la Provvidenza volgeva ad uno scopo benefico, e di cui oggi vediamo e conosciamo i definitivi risultati.

Mentre le nazioni europee si sdegnavano e spogliavano di tutto ciò che non era virtù guerriera, e guerriere come erano divenute, tremavano sotto il giogo dei loro capi, più esperti, più accorti, più crudeli e snaturati delle nazioni stesse; gli Italiani, superbi della loro civiltà e della loro supremazia intellettuale e civile, guardavano ai barbari con disprezzo, e credevano annichilarli con beffe e motteggi.

Più tardi, quando impararono a temerli, impararono altresì a volgerli ai loro fini; e il sentimento nazionale, ai nostri dì sì possente, non essendo ancora svegliato, accadde che gli abitanti di una città italiana invocarono le armi dei nuovi popoli europei, per castigare un'altra delle città italiane, o per trarne vendetta, o per ridurla a non potersi sostenere da sè. — Quella civiltà così generalmente sparsa ed egualmente ripartita in tutta la nostra penisola, e in tutte le classi de' suoi abitanti, si oppose sino da quei primi tempi all'ingrandimento di una parte di esse a prezzo della indipendenza delle altre parti; ed appena un cittadino predominava nella città sua e minacciava le città rivali, queste si riunivano per debellare l'ambizioso; e se a ciò non bastavano da sole, chiamavano le nazioni guerriere dal di là delle Alpi, adescandole con promesse di ricca paga o speranze di bottino e di accresciuto potere. — Il feudalismo stesso, che ebbe sulle prime una così gran parte nella formazione della nuova società politica dell'Europa, non potè svilupparsi in Italia fra quelle numerosissime città, che assorbivano ogni prosperità ed ogni operosità popolare, e riducevano ad inferiori condizioni i comuni rurali, vera e natural sede del potere feudale.

Le campagne italiane ebbero sempre poca parte nella vita politica, e quei signori stessi che dominarono in alcune città, e che corrispondono fra noi ai feudatari del Nord, erano cittadini, vivevano nelle città, dovevano assicurarsi il favore de' loro concittadini; e se fallivano in ciò, erano quasi sempre rovesciati e distrutti, i loro beni confiscati, e le loro famiglie e i loro aderenti mandati in esilio.

Dalla dissoluzione dell'Impero d'Occidente sino ai giorni nostri l'Italia tenne sempre le stesse vie, e non ebbe mai pace. — I suoi popoli vissero costantemente stimolati ed accecati da passioni cupide o ambiziose, rivaleggiando fra di essi, e vendendo la propria indipendenza a chi distruggeva quella dei loro vicini. — L'Italia possedeva ricchezze, energia, operosità, intelligenza, genio per le arti e le scienze, monumenti, biblioteche, cognizioni, tesori insomma, quanto e forse più che il rimanente dell'Europa presa in massa a quei tempi. — Ciò di che difettava l'Italia, non era solo l'elemento di barbara vigorìa, ma lo spazio. — Gli Stati, che in essa si formavano, non potevano svilupparsi ed estendersi a seconda dei loro bisogni; perchè a poche miglia del centro loro incontravano altri Stati, altre popolazioni egualmente ambiziose, egualmente operose ed intelligenti, spinte dalle stesse passioni e dagli stessi interessi, che disponevano dei mezzi medesimi, contro le quali si accendevano d'ira. — Tali infausti e ripetuti o, per dir meglio, perenni scontri e contatti, erano la cosa più opposta alla formazione e allo sviluppo di quel naturale istinto di nazionalità, che sì di buon'ora animò e fra di esse strinse le popolazioni provenienti da un tronco comune, ricoverate sotto il medesimo capo; e sebbene non distruggessero quell'altro sentimento ch'è l'amor di patria, e che si compone di tanti diversi elementi, lo falsavano, e lo diminuivano, riducendolo a ciò che ora chiamasi patriotismo di campanile, o municipalismo.

Queste disgraziate tendenze furono da noi seguite sino al principio del presente secolo. — Il popolo italiano, dotato d'intelligenza così pronta e così estesa, attraversò l'età di mezzo e l'êra moderna, senza comprendere ciò che accadeva in ogni dove, e senza scoprire il motivo delle proprie sventure. — Maestro della intiera Europa in tutto ciò che si riferisce alle arti ed alle scienze, esso era rimasto ingolfato nella più profonda ignoranza di tutto ciò che compone la scienza politica. — Il carattere italiano aveva subíto poche modificazioni. — In esso si ritrovava tuttora, nei primi anni del secolo decimottavo, quella pigrizia effeminata ch'è propria delle classi privilegiate, e di quelle nazioni che si sono innalzate al dominio delle altre, non colla sola violenza, ma con l'aiuto di una superiore civiltà.

I mirabili fatti dei Romani e del Romano Impero non erano da noi dimenticati, e li opponevamo con alterigia ai fatti moderni delle altre nazioni. — L'orgoglio umano è sempre destro nell'accomodarsi agli istinti ed alle circostanze di chi lo nutre e ad esso si appoggia. — Avvezzi da tanti secoli ad affidare alle altre nazioni tutta quella parte dei nostri interessi che richiedeva energia guerriera e materiale operosità, avevamo serbato il vecchio abito di considerare i fasti militari e la forza materiale come cose troppo basse e grossolane per noi, ed andavamo illudendoci col supporre che gli armati, da noi chiamati a vincere i nostri nemici, fossero tuttora le squadre mercenarie dei condottieri che ne servivano mediante rimunerazione pecuniaria, e di cui disponevamo a nostro capriccio, e secondo ne dettava la nostra avvedutezza e il nostro superiore ingegno. Gli effetti di una troppo prolungata civiltà pesavano sopra di noi. La giovine vigoría delle nazioni germaniche non ci aveva rinnovata la tempra qualche poco sdruscita. — Verso il finire dello scorso secolo, la coltura italiana abbondava nelle classi superiori della società, ma la qualità di essa non ne eguagliava la quantità. Le arti e le lettere non brillavano nè per originalità, nè per profondità o gravità. Si credeva supplire a questi esausti pregi coll'imitazione degli stranieri, e con puerilità. — La fede religiosa aveva subíto molti assalti, e non li aveva sostenuti degnamente, almeno fra la gente colta. — Ma la superstizione popolare nulla aveva deposto della sua intrinseca fierezza, nè della proverbiale sua cecità. — Insomma gli effetti di tanti secoli, vissuti senza che gli Italiani si proponessero un oggetto degno dell'operosità e dei sacrifizi di una nazione, cominciavano ad essere sentiti dagli Italiani stessi, che si erano insensibilmente ridotti ad occupare una situazione inferiore fra le nazioni dell'Europa, e questa situazione andava sempre più declinando. — Il legame che stringeva assieme gli abitanti di uno Stato e li costituiva in nazioni non era mai stato stretto da noi. — I Veneziani vedevano nei Genovesi i loro più fieri nemici e i loro più intollerabili rivali. — I Lombardi temevano la rapacità dei Savoiardi e Piemontesi; ed il famoso detto dell'articiocco li spingeva a cercare ora nel Tedesco ed ora nel Francese un difensore contro il temuto conquistatore. — La piccola Toscana, lungamente spezzata in tanti Stati quante erano le sue città, non aveva cominciato a fondersi in uno Stato solo se non dopo l'installazione di un arciduca austriaco come suo sovrano. — Il papa aveva in ogni tempo dato agli Italiani il letale esempio di chiamare lo straniero a sostenere le sue pretensioni e a difenderlo dai signori romagnuoli. — Il regno di Napoli, invaso dai Normanni e dagli Angiovini, non aveva mai conosciuto indipendenze, e non sapeva ancora di far parte d'Italia. — La Sicilia, greca sulle prime poi saracena, aveva avuto una monarchia normanna separata dalla napoletana, ed adottava le memorie di quell'epoca come monumenti della propria indipendenza, ribellandosi costantemente contro la nuova Corte borbonica che imperava a Napoli. — Le abitudini e le virtù guerriere non erano mai state nè onorate nè seguite in Italia; e a poco a poco la molle influenza del nostro clima aggiungendosi alla effeminatezza che naturalmente risulta dal viver sempre negli agi, negli ozii, nel lusso, e lunge da ogni pericolo, la società italiana era diventata oggetto di sarcasmi e di motteggi per gli stranieri, e per quei pochi virili ingegni che di quando in quando sorgevano ancora fra noi. — Le gare letterarie e gli intrighi domestici, che sono i frutti della scostumatezza e della immoralità, simulavano tuttora in noi come un fantasma di energia, e davano alcune scintille di passione. Ma l'osservatore avveduto, che avesse percorso l'Italia nella seconda metà del secolo decimottavo, per conoscere il carattere de' suoi abitanti e prevederne le future sorti, ne avrebbe fatto i più sinistri pronostici. — La società italiana sembrava giunta all'ultimo stadio della decrepitezza; e si poteva crederla destinata a presto scomparire dalla scena delle moderne società, abbandonando il ferace suolo e i tesori dei monumenti e delle memorie storiche, accumulati da tanti secoli, alle nazioni conquistatrici e vigorose che la circondavano. — Il nome d'Italiano sarebbe diventato pei posteri ciò che sono per noi i nomi dei Celti, degli Etruschi, degli Armeni, e di tanti popoli un dì forti e civili, ma che non seppero rinnovarsi e rattemprarsi, accettando le nuove circostanze che richiedevano nuove doti e nuove facoltà.

A tal punto trovavasi l'Italia quando le prime idee di libertà civile e politica spuntarono in Europa. Gli abusi del potere assoluto, e gli eccessi delle aristocrazie, che persistevano a trattare i cittadini ed i villici come i feudatarii dell'età media avevano trattato i servi della gleba, vantando impudentemente gli stessi diritti e la stessa superiorità di natura, avevano, col lungo andare del tempo e il costante ripetere delle offese, acceso nel cuore delle classi oppresse un profondo ed indomabile sdegno. — I cittadini ed i popoli delle campagne non possedevano diritti confessati e riconosciuti nè dalla legge nè dall'aristocrazia. — La coltura di alcune arti ed industrie avevano sparso nei cittadini un certo grado di civiltà, che più non tollerava un trattamento adattato soltanto alle nature brutali ed incolte degli antichi servi. La riforma religiosa, già da qualche tempo vittoriosa in Germania, in Inghilterra e nella Svizzera, aveva combattuto e trionfato della ignoranza dei popolani, e sosteneva la santità dei loro diritti, promettendo ad essi una completa vittoria sui loro tiranni. — In Francia, la terra delle novità, la riforma religiosa non aveva goduto che di un momentaneo favore, e la mano pesante, spietata e mal destra di Luigi XIV aveva schiacciato i novatori, e condannate le loro dottrine. — Questo re, che fu chiamato grande perchè il suo regno durò lungamente, credeva di acquistare la divina indulgenza alla sua scostumatezza, vendicando il Signore delle pretese offese che gli facevano i riformisti, e costringendoli, coi supplizi e le torture, a fingere delle credenze che ad essi ripugnavano. — Ma quando la luce ha penetrato nelle menti umane, non v'ha nè forza nè violenza che valga a spegnerla. — La Francia sembrava tranquilla e sommessa; ma quella non fu che una breve tregua, e la resistenza, che si credeva soffocata per sempre, ricomparve a suo tempo e fu invincibile.

I governi della Germania non erano molto avversi alle nuove dottrine, per le quali speravano trovare nelle moltitudini un elemento di difesa contro i discendenti e gli eredi dei feudatarii e della loro autorità. — Giuseppe secondo e Leopoldo, furono certamente i più liberali fra gli uomini che sedettero sopra di un trono. — L'Italia ricevette regolarmente da essi le prime nozioni della civile libertà, e dei comuni diritti; e li ricevette come vanno ricevute le idee perchè producano i loro salutari e legittimi effetti, cioè senza il miscuglio di violenti e brutali passioni, senza lo sprone della vendetta, dell'ira e della crudeltà, che spingevano quasi in pari tempo i popoli della Francia ad adottare, o realizzare ed esagerare quelle nuove dottrine. — E credo sia stata nostra somma ventura che le idee, dette poi rivoluzionarie, ne giungessero per quella regolare e pacifica via; poichè non so se la sempre crescente dissolutezza dei costumi, lo scetticismo dei culti e la superstizione degli ignoranti, se la smunta e paralizzata energia, che andava vieppiù spegnendosi negli animi nostri, ne avrebbero concesso di conquistarle, come fecero i Francesi, e se, supposta pure tale nostra conquista, non saremmo divenuti preda di una breve frenesia di libertà, che ne avrebbe lasciato, dopo il febbrile suo eccitamento, più prostrati ed impotenti di prima.

Che che ne sia, la Provvidenza volle risparmiarci questo pericolo. Quando l'eco della rivoluzione francese, e delle dottrine che ne decisero lo scoppio, ebbe varcato le Alpi, esse non portarono a noi, sudditi di Giuseppe primo, di Leopoldo e di Carlo Borbone, gran che di nuovo nè d'ignoto. — La parità delle nature e dei diritti, i doveri dei sovrani verso i popoli, la santità e la inviolabilità della legge, quando accettata e non imposta, la libertà religiosa e l'assurda tirannide di chi pretende comandare alle coscienze, i nuovi e svariati sistemi di pubblica economia e di finanze, tutte queste dottrine e gli innumerevoli loro corollarii, che piombarono come irresistibili proiettili sulla società europea, schiacciando e scompigliando e riducendo al nulla le antiche massime, le viete leggi e le guaste credenze, eransi gradatamente introdotte in Italia, ed avevano passo passo educato le classi colte. Il popolo poco vi badava, e rimaneva all'incirca quale era stato per l'addietro; ma la maggior parte di esso abitando le città, e le popolazioni della campagna essendo sempre rimaste al di fuori dei moti politici, nessuno si opponeva, e nessuno abbracciava impetuosamente le dottrine del secolo decimottavo.

Le passioni rivoluzionarie, che mettevano tutto a soqquadro in Francia, trassero su quel paese l'ira dei sovrani d'Europa, che consentivano bensì ad illuminare lentamente le classi più elevate dei sudditi loro, dalle quali non temevano eccessi rovinosi pel loro potere, ma che temevano il contagio della ribellione per le classi inferiori sempre inclinate alla violenza. — Le potenze del nord, del mezzodì e dell'oriente di Europa si allearono contro il popolo regicida, che dava agli altri popoli così terribili e così seducenti esempi; ed allora incominciò la importazione delle dottrine rivoluzionarie in tutta l'Europa, mediante le armi francesi. — Stretti e minacciati da ogni banda i Francesi, che tutto stavano distruggendo della loro secolare società, furono repentemente chiamati alla difesa del loro suolo, minacciato di pronta invasione da forze infinitamente superiori alle loro, da nemici collegati con tutte le vittime della rivoluzione dell'89. A quella notizia, a quell'appello alle armi, raddoppiarono le crudeltà contro i cittadini sospetti di non applaudire alla rivoluzione, e giunse al colmo il regno del così detto terrorismo. — Ma al tempo stesso, ed in pochi giorni, corsero sotto le armi moltitudini di ogni età e di ogni classe, risolute d'impedire ad ogni costo che la patria loro diventasse ciò che era divenuta l'Italia, preda dello straniero ed appannaggio di principi stranieri. — Il popolo francese era a quell'epoca in tale eccitamento di spirito e di passione, da tentare ed eseguire prodigi. — Legioni di cittadini mal vestiti ed in parte scalzi, quasi senza paga, perchè le finanze della rivoluzione francese erano per così dire rovinate, marciavano piene di entusiasmo e di ardore verso il confine, ne cacciavano i nemici, sbaragliavano e distruggevano interi eserciti di Austriaci, di Prussiani, di Inglesi, di Spagnuoli, ecc. e li inseguivano furibondi nei loro Stati. I soldati della repubblica francese erano consci di due missioni: vincere le armate della coalizione, assicurando con ciò la indipendenza, che è quanto dire la esistenza della patria loro; e chiamare alla riscossa colla sola loro presenza, colle loro parole e coll'esempio loro i popoli tuttora servi ed acciecati, che riempivano e componevano le schiere nemiche. — Tale duplice missione i Francesi la compirono, se non intieramente, in gran parte almeno. — I combattimenti si succedettero per molti anni, e le armi francesi trionfarono da per tutto e costantemente. — E sembrò propriamente che la Provvidenza considerasse allora la Francia come suo strumento pe' suoi fini futuri, poichè in quel momento appunto vi suscitò un giovane dell'isola di Corsica, che fu posto al comando di un esercito e che diventò in breve un colosso di gloria e di potenza. — Napoleone Bonaparte tornava dall'Egitto, dove avea conquistato i primi allori, e ne tornava al rimbombo delle prime vittorie delle truppe rivoluzionarie sull'Europa coalizzata; si tratteneva pochi giorni a Parigi, e quei pochi giorni gli bastavano per distruggere gli ultimi avanzi di un governo odiato e sprezzato dagli onesti cittadini, e a stabilire in sua vece un'autorità regolare che servisse ai bisogni della guerra e lasciasse respirare il paese; indi si partiva acclamato freneticamente dai popoli, ed andava ad incominciare contro l'Europa la sua meravigliosa epopea.

Durante il primo Impero francese, l'Italia fu conquistata e tolta alle potenze che ne avevano fatto una provincia loro; ma nessuno pensò, nè l'Imperatore dei Francesi, nè l'Italia stessa, ch'essa potesse o volesse far altro che cangiar padrone un'altra volta, come già tante volte aveva fatto. — La parte più illuminata della nostra penisola oscillava da qualche tempo fra il dominio francese e l'austriaco, mentre il mezzodì seguiva tuttora le sorti della Spagna, cioè formava come l'appannaggio del principe ereditario della Casa borbonica seduto sul trono spagnuolo. — La rivoluzione francese non ebbe in Italia grandi effetti; e non vi produsse quella commozione che si vide in altre contrade. — Gli ingegni più svegliati, arditi, ed amanti di cose nuove ripetevano enfaticamente gli assiomi e le massime rivoluzionarie, ch'erano state messe in così terribile pratica dai Francesi; ma le accettavano come dottrine filosofiche o legali, e non con quella entusiastica e robusta fede con cui le avevano concepite, confessate ed insegnate i Francesi. — Gli ingegni elevati, colti e profondi avevano scoperte e formulate quelle stesse verità prima ancora che la Francia le proclamasse; ma le consideravano come superiori alla intelligenza dei popoli, e pericolose alla salute sociale. — Le idee rivoluzionarie insomma, che formavano in Francia la regola imprescrittibile del vivere di ognuno, degli atti quotidiani, e di ogni umano sentimento, erano pei liberali italiani idee giuste, vere, ma astratte. — Il Francese voleva praticarle tutte, sempre e ad ogni costo; gli Italiani le credevano impraticabili. Per gli Italiani (mi si perdoni il ripeterlo) la principale conseguenza della rivoluzione e dell'Impero francese era il cangiamento di dominio, la ritirata dell'Austria, e la occupazione francese; e questi fatti già si erano prodotti altre volte.

Quando ebbero luogo le prime vittorie dei Francesi in Italia, la repubblica non si era per anco trasformata in Impero, e i conquistatori vestivano tuttora la foggia e parlavano il linguaggio di liberatori. — I liberali italiani composero dunque il partito francese, e gli amici delle viete cose, quelli che oggi chiameremmo conservatori, si strinsero intorno all'austriaco vessillo. Tale divisione degli animi durò sino al 1814 e 15, non per altra cagione, se non perchè era nata sotto l'impressione delle massime rivoluzionarie, che proferivano i conquistatori dell'anno primo e secondo di questo secolo.

In breve però tacquero quelle massime: cessarono le dimostrazioni repubblicane; i nomi, gli abbigliamenti, e le mobiglie che i Francesi avevano raccolto nelle memorie greche, latine, fenicie, frigie, galliche, ecc. fecero nuovamente luogo a nomi ed oggetti che meglio convenivano ai costumi moderni. L'Italia non assistette se non al tramonto di quella rivoluzione, che sembrava dovere svellere dalle radici il vecchio universo per sostituirvi un altro universo da essa creato. Le cose condannate come vecchie a scomparire dalla superficie del nostro globo rientrarono in breve sulla scena sociale, e nei luoghi da esse anteriormente occupati. L'osservatore superficiale che fosse giunto dal 5 al 15 di questo secolo in Europa, e l'avesse percorsa senza conoscerne la recente storia, altro non avrebbe veduto ed inteso, se non che una nazione belligera e potente si provava a conquistare le altre nazioni tutte, e sembrava vicina a raggiungerne l'intento. — Non avrebbe esso certamente sognato che quella nazione conquistatrice aveva giurato poc'anzi di distruggere il culto, la nobiltà, l'eredità delle ricchezze, la ineguaglianza delle condizioni sociali, la guerra stessa, e proclamata la legge agraria, e versato a torrenti il proprio sangue per raggiungere quell'intento.

Egli è fuor di dubbio che nè la Francia dell'Impero, nè i paesi da essa conquistati e ad essa incorporati, nulla godevano di quella libertà, che pochi anni innanzi i Francesi tenevano come altrettanto necessaria alla loro esistenza, quanto lo era l'aria che respiravano. — I trionfi delle armi loro li distraevano dalle perdite fatte, ed erano il loro solo compenso. — Gli Italiani poi, che non avevano partecipato alla febbre rivoluzionaria dei Francesi, nè divise le loro infinite speranze, non erano caduti dalla medesima altezza. Quando erano diventati Francesi, essi avevano inteso soltanto che più non erano Austriaci, e non avevano prestata molta fede alle promesse di libertà illimitata che ad essi portavano i conquistatori. — Perciò accettavano il potere imperiale francese a un dipresso come avevano accettato l'austriaco. — I novatori o liberali e i conservatori non erano però più così precisamente ripartiti fra la Francia e l'Austria, come lo erano stati al primo apparire dei tre colori francesi. Partigiani dei Francesi erano quelli che amavano le novità, gli ambiziosi di titoli, di autorità e di fama, le imaginazioni fervide, che inclinano al lusso, allo sfarzo e a tutto ciò che abbaglia il volgo; gli amatori di conversazioni, di piaceri e di eleganze, fra i quali si possono noverare un gran numero di giovani e colte donne; gli animi guerrieri e le menti affette di scetticismo che vedevano con dolore la superstizione popolare e la suprema influenza posseduta da un clero ignorante e scostumato; infine tutti coloro che amavano veramente lo studio e le scienze, e che rifuggivano al tutto da quello spirito di aristocrazia austriaca, il quale non tiene in alcun conto il valore morale ed intellettuale dell'uomo, e non gli permette di contendere coll'antichità della prosapia, nè di pretendere ai privilegi a quella concessi.

Erano Austriaci i timidi che vedevano nella plebe un serraglio di belve pronte a divorarli, per poco si allegerisse il giogo che su di essa pesava. Codesto giogo essendo assestato sul collo mediante il chiodo della ignoranza, quei paurosi abborrivano dalle nuove dottrine, che insegnavano essere la istruzione primaria un bene a cui tutti i popoli avevano un imprescrittibile diritto, ed il distribuirlo un sacrosanto dovere delle classi educate e colte; i superstiziosi, che attribuivano alle scienze ed ai scienziati la funesta azione di accendere l'ira divina, la quale poi non meno cieca a parer loro della collera umana, si riverserebbe per certo anche sugli innocenti, confondendoli tutti nella sodisfazione di una barbara vendetta. — Partigiani degli Austriaci altresì erano coloro che, ricolmi essendo di titoli e di onori, non sofferivano il pensiero di rinunziare ad essi, o di vederli ottenuti da chi non li aveva ricevuti nascendo. — Certa classe di ambiziosi, che adoravano il potere assoluto perchè ne avevano esercitata qualche frazione, o speravano di esercitarla un giorno. — Gli animi chiusi ad ogni dolcezza come ad ogni altezza di sentimenti, insensibili alle altrui sofferenze; duri, egoisti, intolleranti d'ogni verità, e principalmente di quelle che hanno per oggetto il sollievo e il lento perfezionamento delle plebi. — E per ultimo ai partigiani degli Austriaci ora annoverati si unirono a poco a poco tutti quelli ambiziosi della opposta parte, la cui ambizione non era stata sufficientemente accarezzata e soddisfatta.

Questi furono in gran numero. Ad essi si strinsero pure tutti i malcontenti del governo francese. I parenti di tante vittime che avevano versato il sangue loro per gonfiar maggiormente la insaziabile ambizione di un uomo. I cittadini smunti dalle ingenti e sempre crescenti tasse; gli artigiani respinti in una umiliante e rovinosa inferiorità dai rivali artigiani di Francia; i capi delle famiglie che attribuivano la rilasciatezza dei costumi della giovane generazione al cattivo esempio e alla comoda moralità dei Francesi. Per dirla in breve tutti quei malcontenti che ogni governo, ogni regime produce inevitabilmente, per la semplicissima ragione che è impossibile contentar tutti, e che tutti vogliono e pretendono essere contentati. Questo accumularsi del malcontento italiano contro il governo francese, era un continuo rinforzo al partito austriaco. Al primo apparire dei Francesi, molti li avevano accolti con entusiasmo e favore, perchè la pesante monotonia del governo austriaco li aveva stancati. Ma tutti, o pressochè tutti coloro che non si erano accostati ai Francesi per altra più seria e più degna ragione, erano di nuovo arruolati fra i partigiani dell'Austria, e più non aspettavano se non un'occasione propizia per dichiararsi tali, e per ricondurre al di quà delle Alpi gli antichi padroni. Se io scrivessi la storia degli anni 1814 e 15, mostrerei quali e quante misere passioni, quanti stolidi interessi, e quanti bassi intrighi contribuirono a procurarci quell'ultima rovina. La guerra di Russia portò all'estremo il malcontento degli Italiani. E la infausta campagna, che terminò colla quasi intera disfatta delle armate francesi e con una leva in massa dell'Europa contro l'esausta Francia, offriva agli Italiani la sospirata occasione di rientrare sotto il dominio austriaco.

La situazione politica dell'Italia non era però esattamente la medesima di quelle tante altre volte, in cui l'Italia era passata da un dominio straniero ad un altro, durante i molti secoli scorsi dalla caduta dell'Impero di Occidente ai dì nostri. — Le nuove dottrine inoculate nelle popolazioni dai principi della Casa d'Austria, e da Carlo di Borbone, non erano rimaste assolutamente sterili ed inoperose. Molti ingegni studiosi, ed inclinati alle speculazioni astratte, le avevano ricevute come dottrine filosofiche, di cui cominciavano a travedere la possibile applicazione. — Nelle file del nostro esercito non pochi erano saliti a condizione elevata, e dubitavano che l'Austria li conservasse in quella. Tutti riconoscevano che le promesse di libertà, portate in Italia dalle legioni repubblicane francesi, non erano state mantenute; ma le promesse medesime, fatte al popolo francese dal successore del governo repubblicano, avevano avuto la stessa sorte; e di ciò tanto gli Italiani quanto i Francesi davano la colpa alla smisurata ambizione dell'imperatore Napoleone. — Nacque da tale convinzione l'episodio dei cento giorni in Francia, e in Italia diversi tentativi per sottrarsi alla tirannide imperiale, mediante la conquista di alcune istituzioni liberali, e senza ricadere sotto la tirannide austriaca. — Si voleva ringiovanire e vivificare il governo napoleonico e quello dei suoi congiunti in Italia coll'introdurvi l'elemento animatore della libertà. — Questo desiderio, da pochi diviso perchè da pochi inteso, diede origine alle imprese di Gioachino Murat, e del vicerè Eugenio Beauharnais, siccome aveva dato origine in Francia alle esigenze liberali di Beniamino Cousbaut, Lafayette ed altri, che si sforzarono di conservare Napoleone togliendogli la illimitata autorità, mentre in Italia cercavasi di mantenere i luogotenenti dell'Imperatore, ma separandoli da lui e ponendoli alla testa di un governo costituzionale, altrettanto nuovo o sconosciuto ai proposti principi, quanto ai sudditi loro. — Ma nessuno, tranne l'Imperatore stesso, intendeva che il regime imperiale era una cosa sola colla persona dell'Imperatore, e che togliendogli l'assoluto potere il Napoleone degli anni trascorsi più non esisteva. — Non si sapeva neppure quanto fossero piccoli i luogotenenti imperiali, e che a nulla potrebbero giovare quando diventassero dall'Imperatore indipendenti. — Ciò apparve troppo chiaramente dopo la battaglia di Waterloo, in cui Napoleone, spogliato di ogni assoluta autorità, si trovò per la prima volta diffidare di sè stesso e de' suoi, e fu vinto dall'Europa coalizzata a vendetta.

In quel mentre l'Italia ricadeva sotto l'antico giogo. Ma qui pure debbo notare una circostanza che non si era manifestata in altre simili situazioni. Gli Austriaci avevano ripetute le promesse di libertà fatte dai Francesi agli Italiani nei primi anni di questo secolo. — Le libertà promesse nel 14 e nel 15 dagli Austriaci non erano le libertà rivoluzionarie dei Francesi, ma erano tuttavia libertà, libertà moderate, e perciò appunto dovevano essere più salutari e più durevoli. — Ebbimo promessa di un governo separato, e fino ad un certo punto indipendente da quello di Vienna: la Lombardia e la Venezia non sarebbero più provincie dell'Impero austriaco, ma un regno (il regno Lombardo-Veneto) annesso all'Impero. — Le nostre imposte dovevano essere misurate secondo i bisogni del regno e non secondo quelli dell'Impero. Il nostro esercito difenderebbe i nostri confini, e manterrebbe l'ordine e la tranquillità interna.

Queste promesse fatte dalla Casa di Absburgo ai deputati dell'alta Italia, ch'eransi recati tanto a Vienna quanto a Parigi al tempo dei celebri congressi radunati per dare un conveniente assetto alle cose di Europa, furono proclamate in Italia dai partigiani del dominio austriaco, non già come parole e lusinghe che potevano essere realizzate e potevano altresì non esserlo, ma come benefizi già ricevuti, sicuri, impossibili a distruggersi, che stabilivano sopra salde basi quella libertà vanamente promessa dai Francesi. — Nulla si farebbe nell'alta Italia senza il consenso degli Italiani, e gli Italiani esausti di ricchezze e di sangue, che facilmente si stancano di ogni giogo, e che non conoscevano ancora altra forma di reggimento se non il giogo, accettavano volonterosi un giogo nuovo, purchè fosse loro levato il vecchio, di cui sentivano il peso e le ammaccature. Nel rimanente d'Italia, i principi ch'erano stati cacciati dai Francesi mandavano le stesse promesse, ed ottenevano il medesimo facile successo. — In breve tutto fu combinato; e l'anno 1815, che vedeva Napoleone a sant'Elena, lasciava l'Italia nella identica condizione politica in cui trovavasi prima delle invasioni francesi. La Casa di Savoja, signora assoluta del Piemonte, del Genovesato, e dell'isola di Sardegna, il cui nome diventava quello dell'intero regno. — La Lombardia e la Venezia sotto il diretto dominio dell'imperator d'Austria, che vi teneva un arciduca col titolo di vicerè. Parma e Piacenza composte a ducato, per dare una corona alla figlia dell'imperatore d'Austria, che aveva tradito il marito quando lo tradirono la fortuna e gli alleati. — Modena e Reggio formarono un altro ducato, che fu presentato in dono ad un arciduca del ramo d'Este. — La Toscana rientrò sotto il comando de' suoi antichi padroni, anch'essi austriaci. — Roma cessava di essere un dipartimento francese, e si ritrovava nuovamente l'ovile del sacerdote re, del successore di s. Pietro, e di tanti sovrani che nulla avevano avuto di santo. — Napoli dopo di avere barbaramente ucciso il re napoleonico, che tentava difendere il suo trono contro i Borboni, aveva tese le insanguinate sue mani alla real coppia di Ferdinando e Carolina; coppia degnissima in vero di quel lurido omaggio. — L'Italia era ridiscesa nel sepolcro. Fra tutte le promesse fatte agli Italiani dai loro antichi padroni, non una fu mantenuta. — Non so se gl'ingannati partigiani dell'Austria reclamarono e protestarono; ma suppongo il facessero sulle prime, poichè non andò guari che diventarono sospetti ed odiosi a quei principi ch'essi avevano riposti in seggio. — Dopo pochi mesi di assoluto dominio dall'una parte, e di simulata e cupa obbedienza dall'altra, ricominciarono i così detti liberali, ossia i malcontenti del francese dominio, a tramar congiure contro gli Austriaci. — Le prime congiure ebbero per autori alcuni soldati e generali del disciolto esercito italiano, che non potevano tollerare la vista dei reggimenti austriaci (da essi posti tante volte in fuga,) e si vedevano delusi nella speranza di comandare di nuovo a truppe italiane. — Queste più non esistevano, nè si vedeva nell'alta Italia altro uniforme che il bianco. — I generali Lecchi, Demeester ed altri furono scoperti, ed espiarono nelle carceri di Mantova il fallo di avere prestato fede alle parole della Casa di Absburgo. — E da quel punto in poi, la storia d'Italia non ebbe più da raccogliere altri fatti che congiure e supplizi.

La libertà civile e politica è tal bene, che basta averlo traveduto nell'avvenire o sperato soltanto, perchè non sia possibile il dimenticarlo e il rinunziarvi. — Di quella libertà gli Italiani non avevano provato che la speranza; il solo parlarne era stato loro qualche volta concesso; e perciò quando i regnanti austriaci e i borbonici ne proscrissero il magico nome, e si mostrarono gli incurabili despoti che erano, sono e saranno mai sempre, gli Italiani sentirono forse per la prima volta l'intollerabile peso delle catene, le maledirono, e si trovarono pronti ai più fieri sacrifici, purchè fosse loro dato di spezzarle.

Un pensiero balenò allora nella mente di quelli Italiani ch'erano stati traditi dall'Austria e dalle proprie loro passioni. La Casa di Savoia nulla aveva di comune nè coll'Austria, nè coi Borboni. — I tre fratelli che si succedettero rapidamente sul trono sardo non avevano prole maschile, ed il presuntivo loro erede era un giovane principe del ramo di Carignano, cresciuto lungi dalle Corti, educato in Francia come un semplice cittadino ed in mezzo ai figli dei cittadini, colto, di mente elevata, ed imbevuto delle moderne dottrine civili e politiche. — Se gli Italiani liberali di quell'epoca fossero stati meno impazienti, avrebbero aspettato per accostarsi a lui e spingerlo ad alte imprese, che il corso naturale degli avvenimenti lo avesse portato sul trono di Savoja. — Ma i cospiratori credono sempre che il tempo sia loro nemico, che il momento in cui cospirano sia il solo propizio alla realizzazione dei loro progetti, e che chi non opera presto, non opera bene. — Coloro che avevano prestato fede alle menzogne dell'Austria, e che mal celavano l'ira da cui si sentivano divorati contro i menzogneri, fissarono l'anno ventesimo primo di questo secolo per l'epoca del nostro risorgimento e della loro vendetta. — Napoli, ch'era stata tradita non meno di noi, aveva aderito al loro divisamento, e promesso d'insorgere un dato giorno. — Il principe di Carignano esitava. — I suoi principii politici erano saldi e retti; ma la condizione sua era dilicata di troppo, e il suo carattere irresoluto.

I suoi migliori amici, gli uomini per ogni conto più considerevoli del Piemonte, l'illustre Santa Rosa, il principe della Cisterna, il marchese di S. Marsano, ed altri molti, insistevano perchè egli si dichiarasse apertamente il protettore delle libertà italiane; e incapace di resistere a tali istanze ed al suo proprio cuore, il principe di Carignano si arrendeva, e valendosi dell'assenza del re suo zio che avevagli affidato in parte il potere governativo, diede il segnale della insurrezione, e concesse agli insorti una costituzione; vale a dire promise loro che l'avrebbero. — Io non iscrivo la storia delle nostre congiure e delle nostre rivoluzioni dal 14 sino al 59. Faccio solo un cenno di questa, perchè fu il primo accordo stretto fra i liberali italiani, e la Casa di Savoja, e perchè dal 1821 in poi tutti gli Italiani che si sforzarono di dare al nostro paese la libertà e la vita si volsero con maggiore o minore insistenza, con maggiore o minor fiducia e successo ai rappresentanti di quella antica e reale stirpe.

La rivoluzione del 21 fu vinta come tutte le altre, perchè erano frutto di congiure, e perchè le congiure che debbono per natura essere limitate fra pochi individui, non hanno il carattere che le rivoluzioni debbono avere per trionfare; cioè la pubblicità e la universalità. — Le congiure ebbero felice ventura quando i popoli e le passioni loro obbedivano al comando di pochi, ed erano disposti a servire le cause che non intendevano. — Ai nostri giorni i popoli non si interessano e non si muovono se non per idee che essi intendono e per cose che evidentemente li concernano. — Ma una lunga e crudele esperienza poteva solo convincere i cospiratori della verità di questa sentenza; e sino a tanto che tale convincimento non ebbe penetrato tutti gli animi, si volle imputare ad alcuno la colpa dell'infelice esito di ciascuna di esse. — La rivoluzione del 21 fallì, e la colpa ne fu data al principe di Carignano. — Forse difatto egli fu cagione ch'essa fallisse in quel giorno ed in quel modo. — Egli si era arreso alle istanze de' suoi amici, ben sapendo che con ciò giuocava la sua corona e l'avvenire d'Italia, che egli si proponeva di liberare quando fosse assunto al potere. — Appena scoppiata la rivoluzione, chiaro gli apparve ch'essa sarebbe repressa. — Due vie gli erano aperte. — Persistere nella condannata impresa, e cadere, perdendo ogni speranza di succedere allo zio, e di redimere l'Italia col potere che da quello egli doveva ereditare; oppure ritirarsi prontamente, abbandonando gli amici e maneggiandosi in modo che lo zio rimanesse incerto s'egli era stato con cognizione di causa ribelle, o s'era stato invece vittima della naturale debolezza del suo carattere e dell'audacia dei liberali. — Quest'ultimo partito poteva mantenerlo nel posto ch'egli occupava e gli lasciava qualche speranza di succedere al trono de' suoi avi; ed a questo egli si attenne, traendo sopra di sè medesimo la diffidenza universale, cioè la diffidenza dei conservatori, della Corte, dell'Austria, e dei liberali. — Carlo Felice non gli perdonò mai il suo contegno nel 21, e lo trattò da quel tempo in poi come un uomo ch'ei tollerava per ragioni sue proprie, ma pel quale non aveva nè affezione nè rispetto. — La sua avversione al nipote era così evidente, che nessuno ardiva mostrargli quella considerazione ch'è dovuta ad un principe ereditario. Sarebbe esso escluso dalla reale successione? Tutti ne dubitavano, e molti ne erano convinti. — Ma Carlo Felice era anch'esso della Casa di Savoja. — Avverso alle nuove dottrine, superstizioso, bigotto e ligio al Papa ed al clero cattolico, di cuor duro e vendicativo, quasi sempre sordo alle voci della pietà, Carlo Felice abborriva l'Austria, e il dominio di essa in Italia. — L'Austria non risparmiò nè lusinghe nè promesse per indurlo a diseredare il nepote, ed a far suo erede il duca di Modena; un arciduca austriaco.

Essa ottenne ancora, per quanto si è detto, che il Papa unisse le proprie istanze alle sue; ma quanto più si mostrava ansiosa di escludere il principe di Carignano dalla successione dello zio, tanto più questo rifuggiva dal pensiero di dare all'Austria quella soddisfazione. — La lotta non fu lunga, ma accanitissima. — Pochi anni dopo il tentativo infelice del 21, Carlo Felice fu colpito da morbo letale. — Prevedendo il prossimo suo fine, egli chiamava intorno al suo letto gli uomini più rispettati della sua Corte e del Piemonte, e loro dichiarava che il principe di Carignano doveva succedergli, e che tale era l'ultima, la irremovibile sua volontà. — Carlo Felice morendo, compì un atto che doveva col tempo mutare le sorti d'Italia.

Un nuovo elemento, che contribuir doveva al risorgimento d'Italia, comparve in quel tempo sulla scena politica di questa nazione. Verso la Casa di Savoja cominciavano a volgersi gli sguardi dei liberali delle classi elevate e colte, che anelavano alla libertà e alla indipendenza del loro paese, ma che non avrebbero voluto comperarla a prezzo del disordine, del pazzo furore, e delle miserie che oscurarono il primo splendore della rivoluzione francese dell'89 e del 93. — In Italia non erano a temersi gli eccessi di furor popolare che la sete di libertà aveva svegliato in Francia. — La nostra plebe era pressochè indifferente alle generose nozioni della libertà e del patriottismo, e le classi educate, che avevano assistito alle sanguinose scene della repubblica francese, non ardivano scuotere dal suo letargo il nostro popolo, e preferivano vederlo indifferente, piuttosto che feroce o frenetico. — Ma all'epoca nostra non si compiono grandi rivolgimenti politici senza il popolare concorso. — Sebbene indifferenti alle idee di libertà, di diritto, di dignità e di onor nazionale, le nostre plebi conoscevano i loro materiali bisogni, e non si abbandonavano ciecamente fiduciose a chi non si mostrava capace e volonteroso di soddisfarli. — Chi prometteva ad esse l'alleviamento delle imposte e della coscrizione, e l'allargamento delle vie di lucro, ne disponeva a piacer suo; e i liberali italiani nulla potevano operare senza involgere il paese in momentanee, ma gravi difficoltà. — Erano dunque, per così dire, certi di non trovar favore nelle plebi, e di accendere la guerra civile insorgendo contro gli ultramontani oppressori, che avrebbero trascinate nelle fila dei loro armati le infime classi delle popolazioni. — Non so come i liberali italiani di quel tempo avrebbero trionfato di tale ostacolo, se il nuovo elemento di cui feci testè cenno non fosse felicemente intervenuto.

Primo a scoprirlo ed a valersene fu un avvocato genovese chiamato Giuseppe Mazzini. — Chi gli insegnasse il linguaggio del popolo, nol so; ma certo si è ch'egli seppe farsi intendere dalle masse popolari, e svegliare in esse sentimenti e passioni ch'erano rimaste intorpidite sino a lui. — Egli cominciò col volgere le sue parole al solo popolo, come alla sola classe degna della libertà, e capace di energici sforzi per ottenerla, lusingando così le passioni popolari, sempre pronte ad accendersi contro tutti quelli che per ricchezze e per natali stanno in una sfera più elevata, e godono piaceri ad esso inaccessibili. — I suoi scritti, che il Mazzini seppe spargere fra le plebi, contenevano poche idee, ma chiare, ed espresse con enfasi e calore. — Lo stile n'era talvolta ampolloso e poetico, troppo poetico per essere pienamente inteso dai suoi lettori; ma vi è un linguaggio che anche imperfettamente inteso possiede direi quasi un magico potere, e si fa accettare da uditori già accesi di entusiasmo. — Codesto linguaggio è cosparso di parole, il cui suono basta a svegliare le appassionate simpatie del popolo; e questo linguaggio era quello di Mazzini. — Egli parlava al popolo ch'ei chiamava gli oppressi; sebbene a quel tempo le classi popolari fossero quelle appunto sulle quali pesava meno ruvidamente l'oppressione straniera. — Egli parlava altresì ai giovani, agli ambiziosi, accertandoli che mediante un solo atto di coraggio o di audacia potevano acquistar fama, autorità, ed emergere dalla folla agli onori ed al potere; condannava tutto il passato, e chi al passato apparteneva o il passato studiava. — Egli chiamava la prudenza viltà, la moderazione debolezza. — Il titolo di Re costituiva un tiranno, e la sola forma di governo che convenisse ad un popolo degno della libertà era la repubblica. — Le imposte erano un furto legale mediante il quale si empivano le tasche dei re e dei cortigiani, alle spese e colla rovina dei popoli. — I nobili erano altrettanti piccioli tiranni, servilmente divoti al Sovrano, ed erano oltrecciò ridicoli, ignoranti, boriosi, deboli di corpo e crudeli. — E così mischiando e confondendo quelle cose e quelli uomini che il popolo abborriva, con quelle altre cose e quelli altri uomini su di cui voleva egli rivolgere lo sdegno e l'avversione popolare, faceva un gran fascio di ogni cosa e buona e pessima purchè avesse le radici nel passato. — L'universo secondo il Mazzini di quel tempo aveva sempre camminato per empie vie, progredendo di iniquità in iniquità. — Nel 89 e nel 93 dello scorso secolo, la nazione francese erasi ribellata contro l'universo e lo aveva vinto, dando per la prima volta alla umana famiglia insegnamenti ed esempi salutari e conformi alla giustizia ed alla verità. — Seguire le orme dei rivoluzionarii francesi era d'ora in poi il solo dovere che avessero i popoli.

Mazzini al suo primo apparire cercava di farsi un alleato di Dio; ma il suo Dio era quello dei rivoluzionarii francesi, e non quello che adorano i popoli d'Italia; era un Dio senza culto, senza ministri, senza tempii, e quasi senza leggi. Tutto il rimanente era una stupida e perfida superstizione, gettata sui popoli per accecarli, e renderli obbedienti ad un clero che si era fatto il primo strumento della tirannide dei re. Mi si farà osservare forse che tali dottrine nulla hanno di pellegrino nè di squisito; e sottoscrivo pienamente a tale giudizio. Mazzini però sapeva con chi parlava, e quale scopo egli si proponeva di raggiungere. Si è parlato molto di Giuseppe Mazzini, e di lui furono portati i più opposti ed esagerati giudizi. Fu portato alle stelle come il salvatore e il liberatore d'Italia; come lo scopritore o l'inventore di nuove dottrine politiche atte a produrre la rigenerazione italiana; come un eroe capace e pronto a tutti i sagrifici di cui potesse abbisognare il suo paese; un uomo dotato di tale potenza di azione sovra i popoli, che la sola sua presenza, e una sola parola ch'egli ad essi volgesse dovea bastare a trasformarli, infondendo in essi il suo meraviglioso coraggio e la sua energica risoluzione.

Altri non videro in Giuseppe Mazzini che un fanatico ambizioso e di limitato ingegno. Dissero le sue dottrine politiche false e viete, e lo accusarono di lusingare i popoli per renderli a sè stesso ligi, e per farli docili e ciechi strumenti della sua ambizione. Alcuni arrivarono sino a pensare, se pure nol dissero, che qualora il popolo italiano s'imbevesse realmente delle idee mazziniane, e imprendesse di realizzarle, minor male sarebbe per le classi colte e civili stringersi intorno al dominatore straniero, piuttosto che lasciarsi trascinare da una furibonda plebe in tutte le follie sanguinose che la rivoluzione francese non seppe evitare.

A me non ispetta di pronunziare fra così variati giudizi. Credo che le intenzioni di Giuseppe Mazzini fossero pure e rette, principalmente in quei primi tempi di ciò ch'esso chiama il suo apostolato. E credo altresì che le sue dottrine altro non sieno che un'eco delle dottrine rivoluzionarie francesi, ridotte a semplice teoria, e spoglie di quella violenza che l'azione e la resistenza degli oppositori sono atte a generare. Ma con queste dottrine false e viete, ma con questo suo parlare enfatico, ampolloso ed intralciato, Giuseppe Mazzini riescì nel corso di pochissimi anni a trasformare il popolo italiano, e ad ispirargli l'odio del dominio straniero, e l'amore della libertà e della indipendenza e quello della patria. Non so se Mazzini avesse la coscienza dell'opera sua; ma quest'opera fu da esso condotta al suo fine con mirabile rapidità ed ordinamento. Quelle popolazioni, che per tanti secoli non avevano avuto altro oggetto che di procurarsi i comodi della vita, nè altro furore, se non contro coloro ch'erano favoriti dalla sorte, abiurarono repentinamente gli odi antichi e le antiche aspirazioni, per confondersi tutte in un solo amore ed un solo odio: amor di patria ed abborrimento dello straniero dominatore.

Chi avesse visitata l'Italia negli anni che seguirono dal 40 al 48 avrebbe creduto di sognare. Quelle popolazioni, sepolte nella secolare ignoranza, che è il più prezioso strumento di qualsiasi tirannide, quelle popolazioni indifferenti a tutto ciò che non toccava direttamente i loro materiali e ristrettissimi bisogni o interessi, quelle popolazioni molli ed effeminate, amanti dei loro comodi, dei loro ozi, e dei loro personali piaceri o passioni, sorde ad ogni voce che tentasse ispirar loro l'amore di un bene non tangibile, quali sarebbero la libertà, l'indipendenza, la gloria; quelle popolazioni erano trasformate. Un non so che di fiero nobilitava quelle fisionomie pur sempre belle, ma per lo addietro troppo sensuali e piuttosto accorte che intelligenti. Gli ozi e gli amori più non assorbivano tutti i desideri della gioventù. Le proscritte parole di patria e di libertà, erano sopra tutte le labbra, e si vedeva che ivi erano spinte dai cuori. L'ignoranza, quella piaga letale imposta dal dispotismo agli schiavi, e così poco conforme al naturale degli Italiani, l'ignoranza, non era stata nè combattuta nè vinta regolarmente e scolasticamente; ma alcune idee fondamentali e chiaramente espresse dai discepoli del Mazzini erano bastate a distruggerne i più perniciosi effetti e a mettere questa stessa ignoranza in sospetto di mala cosa. Quasi in tutte le provincie italiane, e da tutte le classi sociali, si sapeva oramai quali erano a un dipresso i confini naturali d'Italia, e quali i diritti ed i doveri di tutti coloro ch'erano nati fra codesti confini. Si sapeva che il mondo abitato si divide in nazioni; che i popoli componenti queste nazioni sono fra di loro stretti da comuni interessi, diritti e doveri; che la sventura d'Italia era stata la ignoranza di queste verità, e l'aver sempre scambiato l'amore del luogo natio per l'amore di patria, nutrendo come legittimi e doverosi sentimenti la gelosia e la rivalità fra Italiani di diverse provincie, e una rispettosa fiducia negli stranieri che opprimevano una parte qual si fosse d'Italia. — Si sapeva che la ignoranza di codesti fatti era stata imposta e rigorosamente mantenuta dallo straniero, onde impedire all'Italia di vivere la vita delle nazioni indipendenti, e frazionarla in diverse greggie di schiavi. — Si sapeva che a cangiare simile stato di cose erano mestieri sagrifizi numerosissimi di ogni genere, e si sapeva che il rimanere nella condizione presente, piuttosto che esporsi a maggiori sventure o sottoporsi a costosi sagrifizi era vergogna e disonore. — Si sapeva che il maggior bene a cui debba aspirare un popolo è l'onore; la maggiore sciagura che a lui sovrasta, la perdita di quello. — Tutto ciò si sapeva e si teneva religiosamente per vero; e tali nozioni avevano siffattamente accese le passioni popolari, che ogni altro eccitamento era diventato inefficace e vano. Il pensiero del poco conto in cui il carattere degli Italiani era tenuto all'estero, era come una sferza che lacerava costantemente i nostri cuori, e il bisogno di riscattare il nostro buon nome riscattando la nostra libertà, diveniva di giorno in giorno più imperioso, e non ne lasciava più posa.

Tutto ciò era stato operato da alcune parole di Giuseppe Mazzini; e quando l'Italia avrà veramente riconquistato il seggio cui ha diritto fra le grandi nazioni europee, i nostri posteri dovranno scrivere quel nome sopra tavole di marmo, e ricordarsi sempre di quanto a lui si deve.

Quelle nozioni erano accompagnate, come già dissi, da non poche idee esagerate o radicalmente false. — L'odio o il disprezzo per tutto ciò che altre volte era tenuto in grande onore, siccome la nobiltà, la religione, e la monarchia. — Nessun governo tranne il repubblicano poteva rispettare la libertà dei popoli, ed ogni re era naturalmente e necessariamente un tiranno. — A chi si provava di richiamare al vero questi fervorosi ed inesorabili repubblicani, si rispondeva con degli squarci di Alfieri o delle strofe di Berchet. — L'idea dominante sopra tutte le altre in quell'epoca era la necessità della espiazione ed il valore del sacrifizio, sicchè se uno spirito benefico fosse venuto ad offrirci in grazioso dono la libertà e la indipendenza, senza chiedere da noi altro concorso che la nostra accettazione, credo che avremmo respinto il dono, e certamente avremmo sentito rancore verso il donatore. — Volevamo la indipendenza e la libertà, ma volevamo più ancora mostrarcene degni.

Un'altra scuola di liberalismo italiano era sorta contemporaneamente a quella di Giuseppe Mazzini. I fondatori, e le dottrine di essa in nulla rassomigliavano nè a Mazzini, nè a' suoi insegnamenti, se non se nel concetto fondamentale e generale di tutti, ch'era la liberazione d'Italia, la di lei concentrazione in un solo Stato, e la imprescrittibile legittimità de' suoi diritti alla indipendenza e alla libertà. — La scuola di cui parlo non si volgeva al popolo, e non sarebbe stata da questo ascoltata nè intesa. — Era una scuola di filosofia applicata alla speciale condizione d'Italia ed al suo avvenire. — Nata in Piemonte, da piemontesi, dispiegava essa quella saggia moderazione, quel rispetto per le cose del passato, che non impedisce di sostituire ad esse le cose del presente e del futuro, che sono più conformi agli attuali bisogni, quella fermezza e quel patriottismo che distinsero per tanti anni il liberalismo piemontese da quello di quasi tutto il rimanente d'Italia. Capi di questa scuola erano Gioberti, Rosmini, Balbo, e molti altri di minor fama, ma forse di non minore ingegno e di non minore virtù.

Non so quali frutti avrebbe prodotto quella scuola, se fosse stata sola a scuotere gli Italiani dal loro letargo; ma contemporanea e per così dire parallela a quella di Mazzini, essa si trovò riempire un vuoto che il Mazzini non poteva colmare, e che al momento dell'azione non sarebbe stato trascurato senza gravi danni del paese. — La scuola filosofica liberale di cui parlo ebbe d'altronde per effetto di persuadere alla gente colta e prudente d'Italia, che la liberazione della patria non era un sogno di fanatici repubblicani, ai quali nulla si poteva togliere perchè nulla possedevano; bensì l'oggetto delle speranze, delle aspirazioni, degli sforzi di uomini che meritavano il titolo di maestri di color che sanno. — Così si riconciliava colle idee rivoluzionarie quella classe di Italiani che vi era stata sino allora invincibilmente avversa, ossia i timidi, che avevano sempre tenuto come impossibile il buon successo di una sollevazione popolare a mano armata contro l'esercito regolare e la tirannide dell'Austria, e di amici quasi esclusivi dell'ordine e della pace.

Con ciò cessava l'ultimo ostacolo alla perfetta concordia e alla unanimità delle volontà italiane.

Così disposti ci avvicinavamo al 48. — Le nostre classi elevate non avevano piena conoscenza della trasformazione accaduta nelle classi inferiori, o per dir meglio ne ignoravano tutta la estensione e la importanza. — I più giovani rampolli delle nobili famiglie italiane erano in gran parte scritti nei ruoli della Giovane Italia; ma, siccome accader doveva, essi erano alieni da quelle esagerazioni che esercitano una irresistibile azione sulle immaginazioni non assistite da un'intelligenza coltivata. — Questi membri del nostro patriziato e della Giovane Italia ad un tempo erano come l'anello che univa quelle due frazioni dei liberali italiani. — Il loro concorso però non era dubbio in tutto ciò che i loro congiunti volessero intraprendere in favore della patria. — Da un capo all'altro della nostra penisola si sognava un sogno solo: l'indipendenza e la libertà. Del 31 al 48 si erano tentate molte insurrezioni, parziali e popolari, alle quali avevano cooperato varii dei giovani discendenti delle nostre più nobili famiglie. — Tutte queste insurrezioni, figlie di congiure ordite all'estero dai nostri profughi, il cui capo era sempre Giuseppe Mazzini, avevano avuto il più infelice successo, e il sangue dei nostri patrioti aveva cosperso tutti i patiboli d'Italia. — I primi rivi versati avevano accresciuto l'ira dei popoli contro i principi, e reso più che mai inaccessibile l'abisso che divideva questi da quelli. — Ma passo passo la disperata natura di quei tentativi apparve ai cospiratori ed agli insorgenti, e il buon senso degli Italiani insegnò loro che persistendo su quella via essi servivano le inique mire dei loro padroni, camminando ad una completa ed assoluta distruzione, che lascerebbe quelli nell'incontestato esercizio del loro odiato potere. — Era necessario trovare altri mezzi, altre vie, era necessario giungere allo scopo.

In quel frattempo i liberali che accostavano le Corti, si sforzavano di eccitare nel cuore dei principi una generosa ambizione, che trovasse alimento nell'operare o per lo meno nel contribuire al risorgimento ed alla esaltazione della comune patria. — Si diceva ad essi: che cosa è un trono di secondo o di terzo ordine mantenuto colla forza straniera, e sul quale siete costretti ad obbedire i comandi di chi dispone di quella forza, a fronte della gloria di essere veramente il liberatore, il salvatore, il padre insomma della vostra patria? — Se bene vi riflettete vi sentirete preso dalla nobile ambizione di abdicare una corona che non portate se non a prezzo dell'onore del paese, e non consentirete a conservarla, a riprenderla, se non quando vi sarà presentata dagli Italiani rinati alla indipendenza ed alla libertà, e che sapranno essere a voi dovuto questo loro risorgimento.

Così per certo due lombardi, Ciro Menotti ed il Misley, avevano parlato al duca di Modena nel 1830 e nel 31. — Il duca era ambizioso, crudele, e di nulla curante tranne degli interessi suoi. — Esso aveva creduto scorgere nella via additatagli dai due imprudenti giovani un mezzo di allargare i suoi confini e di accrescere la propria importanza. — D'altronde, mostrandosi inclinato ai consigli di quei due, il duca era quasi certo di conoscere le trame che ordivano i liberali; e siccome la finzione non gli costava, finse, e trasse nell'agguato i nuovi suoi amici. — Ognuno conosce il risultato di quelle mene. — Menotti espiò sul patibolo il fallo di aver prestato fede ad una creatura dell'Austria; e Misley con molti altri andarono ad ingrossare le fila di quelli emigrati, a cui la Francia e l'Inghilterra furono per tanti anni larghe di ospitalità. —

Ma all'avvicinarsi del 48, l'aspetto delle cose era qualche poco emendato. — Nel prender possesso delle sacre chiavi, Pio IX aveva pronunziato parole che risuonarono in tutti i cuori italiani e li scossero profondamente. Pio IX si dichiarava italiano, amico della libertà e della indipendenza di tutti i popoli, ed alieno da ogni violenza. — Ciò bastò perchè gli Italiani vedessero in lui un nuovo Messia da Dio mandato pel loro riscatto. — Vi fu chi pensò a dargli su l'Italia intera il poter temporale ch'egli esercitava sovra picciola parte di essa. — Alcuni membri del clero, chiari per ingegno e per dottrina, scrissero libri di filosofia e di politica, in cui splendeva il più puro e il più razionale liberalismo. — Il solo difetto di quei libri era il non essere scritti in modo da farsi leggere da molti. —

Carlo Alberto era tuttora sul trono di Piemonte, e già da vari anni aveva manifestato l'animo suo tutto italiano e liberale. — Leopoldo regnava in Toscana, mentre Lucca era tuttora sotto il dominio del giovanetto che ivi aspettava la morte della arciduchessa Maria Luisa alla quale doveva succedere, lasciando Lucca a Leopoldo. A Napoli Ferdinando di Borbone, assorto dagli amori della famiglia, dai piaceri della tavola, e dagli scrupoli religiosi, sembrava incapace di partecipare attivamente in nessuna intrapresa, sia per coadiuvarla, sia per opporvisi, e lasciava supporre che la naturale indolenza, ed il peso degli anni avessero spento in lui quella innata crudeltà e scelleraggine, che mai non aveva abbandonato nessun membro della iniqua sua razza.

I liberali si divisero gli animi di quei sovrani, e si accinsero a muoverli verso la nobile passione del patriotismo. — Il popolo italiano poca parte poteva prendere a tali tentativi, e vi sarebbe rimasto completamente indifferente qualora fosse stato tuttora ciò ch'era al principio di questo secolo. — Ma Mazzini lo aveva destato, e i liberali delle classi colte lo sapevano desto, sicchè non dubitavano che il primo grido di fuori lo straniero metterebbe a tutti in mano le armi.

E così si andava innanzi, lavorando ed aspettando una occasione per operare.

A persuadere Carlo Alberto di consacrarsi alla salute ed alla liberazione d'Italia, non era mestieri nè degli sforzi, nè delle istanze dei liberali. — Il re di Piemonte non aveva avuto durante la vita sua altro desiderio, altro scopo alla sua ambizione. — Appena gli fu svelato l'accordo stretto fra i liberali delle varie provincie d'Italia, ch'egli abbracciò con trasporto le loro viste, le loro speranze, e pose sè stesso, la sua famiglia, la sua casa e la sua corona, al servigio dell'indipendenza italiana.

Dinanzi a lui si apriva un nuovo orizzonte; ed era quello stesso dei sogni di sua gioventù. — Egli vi si precipitò baldanzoso, senza dare al passato un ultimo sguardo.

Gli Austriaci, sempre pronti a chiamare su di essi i colpi della avversa fortuna, nulla avevano imparato di quanto si leggeva a chiare note nel contegno degli Italiani. — Gli Italiani gemevano da più di 30 anni sotto il ferreo giogo della Casa di Absburgo; vi obbedivano perchè non era loro possibile la resistenza. — Dunque sin tanto che il giogo della Casa di Absburgo non scemerebbe nè di peso, nè di rigore, la obbedienza degli Italiani non poteva venir meno. — E per accertarsi che il giogo della Casa di Absburgo non diventava più leggiero, l'Imperatore ed i suoi ministri vi aggiunsero nuove catene. I pieni poteri delle polizie e dei loro agenti, i tribunali militari, dinanzi a cui erano condotte persino le donne, la esorbitanza delle imposte, tasse, multe, prestiti volontarii o forzosi, che in nulla differivano gli uni dagli altri, i sequestri, le prigionie, gli ostacoli sempre crescenti allo sviluppo del commercio e della industria in Italia, quel trattar sempre l'Italia come paese conquistato, cioè come si trattavano i paesi conquistati quando la Casa di Absburgo era salita sul trono imperiale, senza riconoscere nè rispettare in essi alcuno dei diritti da Dio concessi a tutte le umane incivilite creature: componeva ciò che chiamavasi il sistema del governo imperiale, e gli Italiani tutti intendevano omai quanto era odioso, iniquo, inumano quel sistema. — Ma gli Austriaci si ridevano delle nozioni che gli Italiani avevano sì di recente acquistate. — I nostri argomenti sono le palle dei nostri cannoni, dicevano a chi tentava far loro intendere che gli Italiani del 40 non erano più quelli del 15 e del 20; e con questi argomenti metteremo in iscompiglio tutto il sapere di questi nuovi dottrinarii, rivoluzionarii, ecc. E così andarono diffatti calcando sempre la via che conduce gli oppressori al precipizio, sino all'anno 47, quando l'iniquità della tirannide austriaca aveva raggiunto il culmine della sfacciata sua forza, e non poteva andare più in là. — I liberali sparsi nelle varie contrade d'Italia, sicuri del concorso popolare, fiduciosi nella simpatia e nell'appoggio del Pontefice, soddisfatti delle disposizioni in cui credevano che l'esempio di Pio IX avesse posto gli animi del gran duca di Toscana e del re di Napoli, istrutti della prontezza e dello zelo con cui Carlo Alberto risponderebbe al primo appello degli Italiani, i nostri liberali, dico, decisero di tentare la sorte senza aspettare nuovi insulti e nuovi danni.

Le cinque giornate del marzo 1848 in Milano furono il primo colpo portato alla grandezza della Casa di Absburgo, e ad esse rispose l'Italia tutta con applausi, con offerte di aiuto, e con dichiarazioni energiche in favore della libertà e della indipendenza italiana. — Leopoldo di Toscana e Ferdinando di Napoli proclamarono subito una costituzione, che solennemente giurarono di conservare e di rispettare in ogni caso; e Carlo Alberto, che già da qualche tempo li avea preceduti su quella via, si accinse a compire l'opera gloriosa dei Milanesi, cacciando colle armi sue, e come si sperava con quelle di tutta Italia, l'Austriaco dalla intera penisola. — Carlo Alberto soleva dire: l'Italia farà da sè; e noi tutti ripetevamo quelle nobili parole, senza esaminare se esse fossero l'espressione di un patriottico desiderio, o di una ben fondata convinzione.

Ognuno conosce la dolorosa storia del 48 e del 49; ma pochi la giudicano con mente posata e scevra da pregiudizii, come da spirito di parte. — V'ha chi imputa i nostri rovesci alla perfidia e al tradimento dei principi; chi, più moderato, li incolpa soltanto di imperizia e di stoltezza. — I soli Milanesi, disarmati e senza capi, avevano trionfato degli Austriaci; come mai si può concepire che gli Austriaci vincessero, pochi mesi più tardi, l'intera Italia? Con questa domanda si credette di aver provato la esistenza di almeno un tradimento, e molti ripeterono quella domanda come irrefragabile prova di questo.

Ma le catastrofi pari a quella del 48 e del 49 non accadono mai, se non per un numeroso concorso di circostanze le quali tendono tutte ad un medesimo risultato.

In questo nostro particolar caso le circostanze che ne procacciarono la rovina sono evidenti; ma perchè numerose e richiedenti, da chi le considera, certa quale tensione dell'intelletto, riescono poco gradite alle moltitudini, che preferiscono attribuire le sventure nazionali al tradimento di chi le regge; appunto come vedono ciò accadere sulle scene teatrali.

Gli Italiani non avevano in comune che una sola passione o due al più: l'odio dello straniero dominio, e l'amore ossia il desiderio della libertà. — Ma non erano punto fissati intorno alla condotta da tenersi per assicurarsi il possesso di un tanto bene, quando lo avessero ottenuto. — Sembrava difatti che lo avessero afferrato, e con quella inclinazione alle illusioni, che forma gran parte del carattere italiano, noi tutti credemmo di aver conquistata l'indipendenza e la libertà, quando vedemmo i soldati austriaci abbandonare umiliati ed impauriti la città di Milano, ed i principi satelliti dell'Austria prodigarne le costituzioni ed i parlamenti, mentre stavano pronti alla fuga per poco che i sudditi loro non si mostrassero soddisfatti delle concedute istituzioni. — Gli Italiani si tennero sicuri della loro libertà, ma si sentivano disorganizzati, e desideravano di costituirsi nel modo migliore. — Non si pensava allora a contentarsi del possibile, dell'eseguibile, del praticabile; si voleva giungere col primo passo alla costituzione più perfetta, a quella cioè che presentava maggiori garanzie di libertà, di uguaglianza civile e sociale, di prosperità, di gloria, e di una vita comoda. — Si voleva una costituzione che trasformasse questa nostra terra in un paradiso, non riflettendo che il paradiso è la patria degli angeli, e che non v'hanno molti di questi sul nostro globo. — Chi voleva una federazione, e fra i federalisti, chi voleva una federazione sul modello della germanica, chi la voleva a modo della elvetica. — Nel settentrione d'Italia una imponente maggioranza voleva mantenere la Casa di Savoja e Carlo Alberto sul trono, che si ambiva soltanto di far più grande. — Altri ricordavano il 21, o ciò che ne avevano udito raccontare; e dando le loro interpretazioni di quei fatti misteriosi, come verità storiche documentate ed accettate dal mondo intero, sognavano tradimenti e gridavano: non vi fidate dei traditori. — V'era chi ripeteva le viete massime del Mazzini, e credeva di vincere il mondo e la sorte con poche parolone alto-sonanti, e vuote di significato; v'era chi sognava l'Italia del medio evo, le repubbliche di Venezia e di Genova, il vestire alla foggia del 500, e le parlate degli eroi di Alfieri. — V'era chi sognava la repubblica francese del 93, e protestava che nulla di grande si fonderebbe in Italia, se non si aprivano certe arterie, dalle quali doveva sgorgare molto sangue corrotto. — V'era chi sognava il primato di Gioberti, ed un papato universale politico sotto Pio IX. — Insomma varii ed innumerevoli erano in quel tempo i pensieri e i voleri degli Italiani; ma fra tanti e sì svariati pensieri e sistemi nulla vi era di eseguibile, e sembrava che gli Italiani si fossero spogliati di ogni senso pratico.

Se loro si additavano gli ostacoli, che dovevano necessariamente opporsi alla realizzazione delle loro utopie, vi rispondevano che la parola ostacolo era per essi vuota di senso, che non vi era cosa impossibile per chi voleva fortemente, ecc. — Se loro si chiedeva che cosa avrebbero fatto quando l'Europa tutta si fosse dichiarata risoluta a finirla con una nazione che si suppone sempre intenta ad introdurre novità pericolose per la civile società, essi stringevansi nelle spalle, e dicevano in tuono di compatimento, che la nazione italiana si componeva di circa 26 milioni di esseri, che si alzerebbero come un sol uomo quando fosse mestieri dare all'Europa una salutare lezioncina, e che ad un popolo così unanime, così valoroso e risoluto in favore di una idea, non v'era esercito, nè associazione di eserciti che potesse resistere. — Si pronunziavano sentenze in tuono cattedratico ed entusiastico, e si credeva aver profferito verità sacrosante, argomenti irresistibili. — Ai pericoli che ne circondavano, alla rovina che stava per piombare su di noi, nessuno pensava. — Gli Austriaci avevano abbandonate quasi tutte le città dell'alta Italia, e quelli fra i principi delle altre parti d'Italia che non li avevano seguiti sembravano trasformati in altrettanti liberali, smaniosi di sagrificare sè stessi e le loro dinastie per contribuire al risorgimento d'Italia. — Tutto ciò era stato operato dagli Italiani, dalla loro risolutezza o dal loro valore. — Che più v'era da temere? Come avevano già vinto, vincerebbero ogni volta che il bisogno della vittoria fosse loro dimostrato.

Intanto gli Austriaci si concertavano coi principi loro satelliti, si riavvicinavano al Pontefice, e ne guadagnavano l'animo incerto e titubante; ed intanto l'Europa assisteva al nostro dramma senza neppure fingere di interessarsi in favor nostro, e simulava ne' suoi fogli periodici di considerarne come impazziti per l'inaspettato apparente trionfo, ch'essa non avrebbe permesso qualora lo avesse considerato come vero e reale. — Presto si vedrebbe a che cosa si ridurrebbero questi nostri trionfi; ma qualora gli Italiani acquistassero veramente la libertà e la indipendenza, toccherebbe alle savie e bene ordinate nazioni dell'Europa il porli in tutela, e l'impedire che le loro pazze teorie e la loro tracotanza ponessero a soqquadro la civiltà e la quiete di questa parte del mondo.

Nessuno pensava di prestarci aiuto; nessuno desiderava vederci liberi e contenti; ma forse meritavamo questa generale malevolenza, poichè ne andavamo superbi e soddisfatti. — Non abbiamo bisogno nè di amici nè di alleati. — Bastiamo a noi stessi; ed insegneremo all'Europa ciò che siamo e ciò che possiamo. — Così parlavamo; e mi ricordo di un tempo in cui la maggiore nostra paura era quella di essere aiutati a nostro dispetto da qualche potenza educata alla scuola di Don Quisciotte.

Suonava l'ora dei rovesci. — Con mirabile valore e con deplorabile spensieratezza, la piccola armata piemontese ed alcune improvvisate legioni di volontarii, a cui si unirono i corpi universitarii, si cimentavano contro l'intera forza dell'impero austriaco, accresciuta ancora da non pochi Russi, che vestivano per obbedienza al loro Czar l'uniforme bianco. — Già il Borbone aveva deposto la maschera, e richiamate le truppe, che la paura di una rivoluzione lo aveva costretto a mandare nell'alta Italia. Già il Pontefice aveva fatto riflessione che gli Austriaci essendo cattolici erano suoi figli non meno degli Italiani, e che la nostra guerra essendo per conseguenza una guerra fratricida, egli non poteva parteciparvi, e richiamava pure le sue truppe. — Il gran duca di Toscana o non ne mandava, o ne mandava così parcamente, che non potevano recare gran danno al nemico nostro. — Attoniti e scorati per sì sfacciato ed inaspettato abbandono, i difensori che ne rimanevano, combattevano eroicamente, ma sentendosi già vinti. — In pochi giorni l'Austriaco toccava le porte di Milano, e dinanzi a lui andavano ritirandosi i nostri soldati umiliati ed impotenti.

I Lombardi fremevano, ed avrebbero preferito seppellirsi sotto le rovine delle loro città, piuttosto che vederle nuovamente occupate dall'odiato oppressore. — L'Italia tutta fremeva; ma i suoi fremiti erano vani. — I popoli non improvvisano le grandi risoluzioni. — Di nulla erano convenuti gli Italiani, se non di combattere e di vincere per prima cosa, e di pensar poi al modo di mettere la vittoria a profitto. La sorte delle armi ne era stata avversa, e non sapevamo far altro che fremere, sognare tradimenti, e maledire i traditori. — Chi voleva cacciare il Borbone, il Pontefice, il gran Duca, e persino Carlo Alberto, e costituirsi in republica. — Chi voleva ricondurre o per amore o per forza i principi sulla via del dovere; e rifuggivano dal pensiero della repubblica. — Mazzini imputava le nostre sventure alla fiducia che avevamo riposta nei Principi, e li dichiarava tutti, o traditori, o condannati ad incessanti disfatte per le colpe loro e per quelle dei padri.

L'ira contro le potenze europee, che ci vedevano cadere sotto la insanguinata scure dell'Austria senza stenderci la mano e salvarci; l'ira contro Carlo Alberto, al quale si attribuiva in quei giorni di avere pel primo profferite le mal augurate parole, l'Italia farà da sè, era generale, e si sarebbe potuto credere che il paese non avesse mai divisa l'erronea credenza nelle proprie sue forze.

Poniamo fine a queste dolorose ricordanze. — L'Italia non compianta ricadde sotto gli antichi ed abborriti dominatori, che si prefissero di opprimerla con sì pesante giogo, che più non potesse neppur sognare nuove rivoluzioni. L'Italia non cadeva tutta in un giorno stesso. Due città resistettero più a lungo delle altre, e in queste due città, che Mazzini o i suoi discepoli reggevano con forma popolare, la diplomazia esercitava poca influenza, e forse non ambiva di esercitarne una più grande. Voglio parlare di Roma e di Venezia: esse non caddero nel 48, ma bensì nel 49; ed in esse l'Italia diede per quella volta almeno gli ultimi aneliti di vita civile e libera.

Anche Brescia, lasciata in balìa del suo municipio, che è quanto dire di sè stessa, chiuse le sue porte agli Austriaci, armò tutti i suoi cittadini, senza eccezione di sesso o di età, e si preparò ad una eroica ma disperata resistenza. Per ben tre giorni gli Austriaci irrompevano dalle porte nelle strade della città, ed appena impegnati in queste le ingombravano dei loro cadaveri, da tutte le case, da tutte le finestre, dai tetti rovinando su di loro micidiali proiettili d'ogni sorta. Ma Brescia dovette cessare dalla pugna quando non ebbe più munizioni con cui tenere a distanza il nemico, e quando non ebbe più difensori che non grondassero del proprio sangue.

Gli Italiani diedero cospicua prova di animo valoroso e divoto alla patria; ma ciò non basta a costituire ed a fondare una nazione. — I Polacchi furono sempre ammirati pel singolare loro valore, ma non col solo valor militare si acquista un seggio fra le nazioni civili, libere ed indipendenti; e la storia del popolo polacco basterebbe a convincerne di ciò quando nol fossimo già a sufficienza.

Per undici anni ancora gli Italiani furono trattati come gli Iloti dell'antichità. — Derisa e non curata dall'Europa, martoriata, oppressa, straziata, e munta da' suoi padroni, l'Italia sembrava oramai condannata ad eterna ed ignominiosa servitù; e gli stranieri così opinavano. — Deve esservi, dicevano essi, qualche nascosto difetto, qualche pecca originale nel carattere degli Italiani; poichè ogni loro sforzo per diventare indipendenti e per ricostituirsi in nazione riesce vano; e sappiamo oggidì che non si cade se non perchè si difetta della forza necessaria per reggersi. È inutile tentar nuove prove, soggiungevano talvolta, e dovete rassegnarvi ad uno stato di cose ch'è evidentemente il solo cui siate propri.

L'Italia sola non aveva accettata la crudele sentenza; e protestava contro di essa con parole e con atti ogni qual volta le se ne presentava la opportunità. In quelli undici anni l'odio dell'oppresso per l'oppressore, e viceversa, giunse all'apice della violenza. Ma se a ciò si fossero limitati i nostri progressi, saremmo tuttora schiavi. Un genio benefico sorse presso ad un principe veramente liberale e patriota, nel tempo stesso che un amico d'Italia saliva al supremo potere e prendeva a reggere la più possente e la più energica fra le nazioni europee. — Una segreta alleanza fu giurata fra l'imperatore dei Francesi, e il re Vittorio Emanuele, sotto la ispirazione del conte Camillo di Cavour. — Ma ciò non sarebbe bastato, se una radicale alleanza non avesse composto in un sol corpo e in una sola volontà gli Italiani tutti. — Cavour si fece capo di una nuova scuola politica in Italia. — Egli fece brillare agli occhi degli Italiani queste verità semplici ed incontestabili: per conquistare la indipendenza e la libertà è necessario esser forti; e la unione può solo creare la forza.

Questa così ovvia verità fu prontamente afferrata dagli Italiani, che l'accettarono e la confessarono da quel momento in poi come un dogma, cioè con fede religiosa. — Tutto il passato apparve allora agli occhi nostri sotto un aspetto tutto nuovo. Le nostre sventure più non furono da noi imputate nè ad una sorte avversa e capricciosa, nè al tradimento di chi doveva guidarci. — La vera e patente origine delle nostre incessanti sciagure era appunto il difetto di unione e di unità di vedute, di scopo e di azione. — Sembrava che la segreta cagione dei nostri rovesci ne fosse stata tutto ad un tratto rivelata; e da quel momento in poi ogni gara, ogni rivalità, ogni differenza di opinioni, di tendenze, di gare politiche, fu condannata come delitto verso la comune patria. — Nessuno tentò più di volgere a suo talento gli avvenimenti che si succedevano, e una cosa sola si volle considerare: quale fosse la volontà della maggioranza degli Italiani. — Questa volontà non trovò più oppositori. — Anche i partigiani dell'assolutismo repubblicano di Mazzini sospesero la crociata bandita dal loro maestro contro ogni forma di governo che non fosse repubblicana. — La forma di governo che sarebbe più accetta al maggior numero degli Italiani, quella che sembrerebbe più atta a tenerli tutti uniti, e a crear loro interessi comuni, quella che all'Italia susciterebbe il minor numero di nemici possibile: quella sarebbe la forma di governo contro cui nessuno ardirebbe protestare. — E quando si parlava in tal modo, già si sapeva che la forma di governo necessaria al dì d'oggi era la monarchica. — Alcune città delle Romagne e della Lombardia avrebbero accettata la repubblica di buona voglia, quando questa fosse stata l'oggetto della preferenza di tutta Italia; ma i due principali Stati italiani, quelli che disponevano di eserciti, senza i quali sarebbe stata follìa l'intraprendere cosa alcuna contro la dominazione straniera, il napoletano ed il sardo erano affezionatissimi alla forma monarchica, e non l'avrebbero scambiata colla repubblicana, se non vi fossero stati costretti. — L'Europa d'altronde non lo avrebbe concesso; e gli italiani cominciarono a travedere, che le dichiarazioni e le proteste repubblicane dei nostri emigrati politici erano in gran parte la cagione della diffidenza che l'Europa manifestava verso di noi, e del poco conto in cui ne teneva. L'unico scopo a cui tendevano tutti gli italiani, era il costituirsi in nazione indipendente; e tutto ciò che facilitava il compimento di questo voto era da tutti accettato senza discussione e con trasporto.

Un fortunatissimo concorso di circostanze contribuì alla nostra salvezza. — L'avere sul trono di Francia un amico fedele, che conosceva l'Italia, e sapeva che cosa si poteva sperare, anzi aspettarsi da essa quando fosse pervenuta a rompere le sue catene e a costituirsi in nazione. — Questo amico sapeva altresì che l'Italia, ridotta al misero stato in cui l'avevano precipitata, e la mantenevano i suoi dominatori, non poteva muovere il primo passo verso l'indipendenza senza l'aiuto di una nazione già costituita, sviluppata e forte. — Questo aiuto iniziatore egli era in grado di darnelo, ed avea deciso che non ne mancherebbe. — L'avere alla testa di buona parte dell'alta Italia un re liberale, irremovibilmente schiavo della propria parola, animoso, risoluto ed onesto. — L'avere questo re alla direzione de' suoi consigli un ministro come il conte di Cavour, sagace e destro maneggiatore delle cose politiche, divoto alla salute della patria italiana, che seppe apprezzare le generose intenzioni ed il genio politico dell'imperatore Napoleone, come aveva saputo apprezzare il sincero amor patrio del re Vittorio Emanuele, e come egli medesimo era apprezzato da quei due; che sapeva persuadere e dirigere gli italiani di tutte le provincie d'Italia e di tutti i partiti. Intorno a Cavour si stendeva un'atmosfera di fiducia, tutta nuova per gli italiani, che da tanti secoli erano avvezzi a diffidare e a sospettare di ognuno. — Cavour fu l'anello che legò vicendevolmente Napoleone e Vittorio Emanuele, e questo all'Italia; Cavour fu l'iniziatore della spedizione sarda in Crimea, l'inspiratore del congresso di Parigi, ove per la prima volta i diritti degli italiani furono discussi seriamente, e finalmente riconosciuti. — Cavour aveva fuso gli italiani in un solo pensiero: quello di cacciare al di là delle Alpi lo straniero, e di costituirsi in nazione; e quando l'Austria, insospettita di quanto macchinavasi contro di essa tra la Francia e l'Italia, si accinse a distruggere, cioè a conquistare quel piccolo Piemonte che aveva l'audacia di dichiararsi protettore dell'Italia tutta, e suo nemico, Cavour, che aspettava una occasione propizia, si volse ad un tratto a Napoleone e all'Italia. — Tutti risposero alla sua voce. Napoleone condusse immediatamente i suoi eserciti nell'alta Italia, e gli italiani tutti insorsero contro i loro signori, e protestarono di voler essere italiani liberi ed indipendenti sotto il governo della Casa di Savoja. — Mentre ancora si combattevano gli austriaci, le principali città d'Italia, e gli stati italiani, mandavano deputazioni al re Vittorio Emanuele e al suo ministro, per chiedere di essere annessi al regno dell'alta Italia.

La pace di Villafranca sembrò sulle prime porsi come insuperabile ostacolo all'adempimento dei voti degli italiani; ma in breve quella infausta illusione si dissipava. — Mentre la diplomazia stabiliva a Villafranca e a Zurigo, che l'Italia rimarrebbe a un dipresso qual era prima del 59, che la Lombardia sola sarebbe annessa al Piemonte, che la Venezia sarebbe lasciata all'Austria, che i duchi e i principi scacciati rientrerebbero al possesso dei loro stati, e che tutti i sovrani d'Italia compreso l'imperatore d'Austria, formerebbero una confederazione sotto la presidenza del romano Pontefice; mentre Napoleone dettava tali condizioni, ed il nuovo ministero di Vittorio Emanuele le accettava, le annessioni dei ducati, della Toscana, delle Legazioni si compivano, e si rendeva impossibile il ritorno dei principi. — Si temeva che l'imperatore dei Francesi si adirasse contro questa audace resistenza a' suoi voleri; ma tale resistenza sanzionata dai plebesciti delle provincie, che volevano l'annessione, fu giudicata legittima e giusta.

Più tardi l'Umbria, la Sicilia e il napoletano invocarono l'annessione; e Garibaldi co' suoi mille andò a mettere in fuga i soldati borbonici, che impedivano l'aperta manifestazione della volontà popolare.

L'imperatore Napoleone aveva proclamato due principii, ch'egli imponeva all'Europa di rispettare. Eran questi, la onnipotenza del suffragio universale, ed il non intervento. — Tutto ciò ch'erasi operato in Italia era stato sancito dai plebisciti, ossia dal suffragio universale, ed il principio del non intervento non permetteva all'Europa di opporvisi. — Questi principii, che furono la nostra egida, Napoleone li proclamò in favor nostro; e ciò solo dovrebbe bastare ad assicurargli la nostra indelebile riconoscenza.

Ma la cessione della Savoja e del contado di Nizza fu per gli italiani un seme di discordia e di malcontento. — Col tempo impareremo a benedire quel sacrifizio come il vero fondamento della nostra indipendenza.

Gli italiani vogliono innanzi tutto, ed è ben naturale che così sia, vogliono, dico, ottenere l'intento loro; ma le loro forze non essendo sempre adequate alla grandezza dei loro concetti, essi o implorano o accettano l'aiuto di chi si dice loro amico; e questo aiuto gli italiani sognano sempre che abbia ad essere gratuito. — Se loro si chiede schiettamente un compenso, essi si sdegnano, e si tengono per sciolti da qualsiasi obbligo di gratitudine. — Essi non vedono essere il puntuale pagamento del compenso richiesto e convenuto la sola via per raggiungere e per conservare la loro indipendenza. — Dio ne liberi dal peso di un debito non definito e non pagato! Quel peso è come un fantasma minaccioso, che si frappone in perpetuo fra il beneficato e ogni atto di indipendenza ch'egli sta per compiere. Benedetto invece quel benefattore che fissa il prezzo dell'opera sua, e che ricevutolo, si tiene per soddisfatto, e dichiara il beneficato sciolto da ogni debito verso di lui! Ciò pattuiva il conte di Cavour coll'imperatore Napoleone, perchè l'imperatore doveva alla Francia di non sottoporla a sacrifizi senza compenso, e perchè il conte di Cavour voleva che l'indipendenza italiana non fosse più illusoria, ma vera e durevole, non quale era stata tante volte, il passaggio da una ad un'altra dominazione. — Abbiamo saldato il nostro debito verso la Francia; e sebbene dobbiamo ad essa i più sinceri sentimenti di gratitudine, non dobbiamo nè ad essa, nè ad altra potenza non italiana, il sacrifizio della benchè menoma frazione della nostra indipendenza.

La nostra nazionalità conta oggi sette anni di vita; e questi sette anni di goduta libertà, di pubblica tranquillità e di moderazione ne hanno fruttato il riconoscimento di tutte le potenze europee. — Ne hanno fruttato un bellissimo esercito, una marina considerevole, un sistema di ferrovie che rilega fra loro tutte le parti d'Italia, e facilita l'accomunarsi delle varie popolazioni e dei loro interessi: cospicui abbellimenti nelle principali città, e la universale simpatia dell'Europa, a tal segno che quando all'aprirsi della penultima stagione estiva chiedevamo all'Austria di cederne quella parte della patria nostra ch'essa teneva tuttora schiava, l'Europa tutta sclamò essere la nostra domanda giusta e legittima, e dovere la Venezia esser ceduta all'Italia. Chi ne avrebbe detto dieci anni sono, che i nostri diritti sarebbero oggi così spontaneamente confessati e sostenuti da quelle potenze, che per lo addietro dileggiavano le nostre pretese, i nostri sforzi sempre vani?

La sorte delle armi non ne fu, quanto lo avevamo sperato, propizia, e l'imperizia e l'inesperienza dei grandi comandi, e delle grandi battaglie, tanto dei capi militari di terra, quanto di quelli di mare, ne costò molto sangue, e ne fruttò poca gloria. — Ma nessuno si ingannò sulle cagioni di cotesti nostri problematici successi; e il valore dell'esercito intero, l'eroismo dei nostri soldati di marina, risplendettero così straordinariamente durante la guerra, che gli stranieri ne rispettarono dopo questa assai più che nol facevano per lo passato, e ne tributarono meritate, ma non aspettate lodi. — La Venezia è omai nostra col consenso dell'Austria stessa; e quel formidabile quadrilatero, perenne minaccia alla nostra libertà ed indipendenza, diventa ora per noi un baluardo quasi inespugnabile contro qualsiasi futuro tentativo d'invasione.

Tale è il passato che ne condusse, attraverso tante catastrofi e peripezie, al felice e glorioso nostro presente. — Ma il carattere dei popoli si compone delle passioni e dei costumi acquistati sotto l'influenza del loro passato. — Il passato può essere completamente distrutto, e trasformato in un presente tutto opposto a quello; ma le traccie del passato esistono nel carattere e nelle abitudini popolari che in esso si formarono. — Quando il passato più non esiste, ed ha dato luogo ad un presente che in nulla gli somiglia, le tendenze morali ed intellettuali create da quello più non convengono a questo. — Per noi del resto la necessità di spogliarci di quegli avanzi del passato è singolarmente evidente, in quanto che siamo stati educati dai nostri dominatori per compiacerci negli ozi della schiavitù, e per essere indegni della libertà. — Siamo stati educati a diffidare e a sospettare di tutto e di tutti; a stancarci di tutto ciò che dura da qualche tempo, a biasimare e criticare ogni cosa, a giudicare degli uomini e delle cose colla nostra imaginazione piuttosto che col freddo criterio; ad esaltarci fuor di misura per tutto ciò che riveste un aspetto drammatico di sublimità e di eroismo, senza esaminare se la sostanza corrisponde all'apparenza. — Siamo stati educati ad impiegare parole ampollose ed enfatiche, e a prenderle per l'espressione di sublimi concetti, a confondere l'enfiagione della vanità colla coscienza della nostra irresistibile forza, e non dubitare della nostra superiorità, e dei trionfi ch'essa ne assicura; e quando invece di trionfi raccogliamo rovesci, ad esagerarli, a darci in preda all'abbattimento e alla disperazione, e ad imputare altrui le sventure che la nostra imperizia e la nostra inesperienza ne hanno procurato. — Siamo stati educati a disprezzare la scienza e gli studi necessari ad acquistarla, e a vantarci del nostro ingegno svegliato, che conosce ogni cosa per intuizione, senza condannarsi alla noia dell'imparare. — Siamo stati educati da chi voleva mantenerci schiavi, in modo tale da renderne incapaci di costituirci in nazione libera ed indipendente; incapaci di compiere i doveri del cittadino, come di sacrificare le private ambizioni e i privati interessi alla salvezza e alla prosperità della comune patria.

Il nostro principale studio deve essere omai di spogliarci di tutte le letali influenze del passato.

Ricordiamoci che il nostro passato fu un'era di schiavitù, e che il popolo educato alla schiavitù deve trasformare sè stesso, se vuol diventare atto a godere della libertà e della indipendenza.

CAPITOLO TERZO CARATTERE DELL'ITALIANO SUE VARIETÀ E SUE CONSEGUENZE

L'Italia può oggidì considerarsi come fatta e compiuta. Lo scopo di tanti sforzi, di tanti sacrifizi, l'oggetto di tante aspirazioni e speranze, può dirsi raggiunto. — L'Italia ha veduto l'ultimo di quei soldati stranieri che la tennero sì a lungo soggetta rivarcare le Alpi, lasciandola erede dell'inespugnabile quadrilatero; e l'Europa tutta proclama la santità de' suoi diritti, e si dichiara stanca di vederli conculcati.

Un certo sentimento di orgoglio può essere scusato in noi, quando pensiamo alle cangiate nostre sorti, alla simpatia acquistata, al nostro rapido innalzamento al grado di potenza di primo ordine; in noi che otto anni indietro eravamo considerati come una mandra di servi austriaci. Ma l'ebbrezza della gioia e dell'ambizione soddisfatta riesce pericolosa a chi troppo vi si abbandona. — Abbiamo altro da fare che congratularci vicendevolmente per le conquiste ultimate. — Dobbiamo costituirci fortemente, e vincere quelle abitudini e quelle tendenze del nostro carattere, che si oppongono al nostro sviluppo morale, intellettuale e nazionale.

L'Italia fu sempre riputata ricchissimo paese, e fu questo un equivoco. Il suolo italiano è certamente il più ferace di Europa, e l'agricoltura vi è giunta, parzialmente almeno, ad un certo grado di perfezione che mal si accorda col limitato sviluppo delle scienze e dell'industria. — Il motivo di tale difetto di armonia è evidente. L'Italia non ha vissuto sin quì di sua vita propria, nè conformemente ai propri bisogni, ai propri interessi; ma fu diretta da' suoi padroni, secondo ad essi conveniva, e secondo risultava più confacente all'insieme di quei corpi politici mostruosi e diformi, di cui le provincie italiane erano parte. La frazione d'Italia che dipendeva direttamente dall'Austria (e l'Italia presso che tutta ne dipendeva indirettamente) fu detta paese agricolo, e tale è difatto; ma i tempi in cui la ricchezza pubblica delle nazioni si misurava dalla fecondità del terreno, e dalla salubrità del clima, sono lungi da noi. La ricchezza degli Stati è oramai la conseguenza dello sviluppo dell'umana operosità nell'industria e nel commercio, non meno che dello sviluppo dell'agricoltura.

L'impero austriaco, che si componeva di tante provincie e di popolazioni fra loro eterogenee ed avverse, considerava le sue provincie italiane come il suo giardino e il suo granaio. E di fatti nè la Boemia, nè l'Ungheria, nè la Gallizia, nè la Stiria, nè alcuna di quelle nordiche contrade possono competere coll'Italia per la feracità del suolo e per la mitezza del clima. L'Italia fu dunque dall'Austria destinata, o per dir meglio condannata a fornire all'impero i prodotti agricoli, e a consumare i prodotti dell'industria delle altre provincie. L'industria fu interdetta all'Italia, perchè all'impero conveniva di averla inoperosa ed incapace di sovvenire ai propri bisogni. Nel lungo corso del dominio austriaco in Italia, più d'una prova fu tentata da capitalisti italiani, per introdurre nel paese qualche industria che valesse ad arrestarne il rapido impoverimento. — Il governo austriaco conosceva la iniquità del suo procedere, e sentiva la necessità di mascherarlo. Per ciò non si opponeva apertamente a tali esperimenti; ma ben sapeva renderli vani, ed ottenerne l'abbandono. I capitalisti autori di quelle prove si vedevano subitamente decaduti dal favore del governo; incontravano non preveduti ostacoli ad ogni loro mossa; il prezzo degli oggetti necessari al progredire della industria loro cresceva ad un tratto smisuratamente. Se ad essi occorrevano macchine che non si potessero avere che dall'Inghilterra o dalla Francia, l'importazione di tali macchine era sottoposta a tasse e a difficoltà siffatte, che la nascente industria non poteva sostenerle, e il tentativo andava fallito. Certo che un simile procedere non avrebbe ottenuto in Inghilterra il successo che ottenne in Italia; ma gli italiani sono per natura poco inclinati al lavoro, e la fredda e pacata resistenza ad una mascherata persecuzione li stanca. — Essi resistono a qualsiasi costo quando l'ira li sprona; e in tal caso sdegnano i consigli della prudenza, si slanciano ad aperto combattimento, e spesse volte sono vinti dall'avveduto nemico che si era da lungo tempo preparato alla lotta. — Ma la costante e misurata resistenza ad una coperta persecuzione, il combattere nascostamente, nelle tenebre, e lungi da ogni spettatore, lascia l'italiano freddo, e gli toglie coll'ardore della pugna in campo aperto la forza materiale e l'energia morale. — Gli italiani accettarono dunque la parte che il governo austriaco loro destinava nella commedia politica di un impero, e questa parte era quella del compratore di oggetti manufatturati nelle provincie germaniche e slave. — Gli italiani ricuperarono in compenso la facoltà di abbandonarsi all'ozio; compenso fatale, perchè troppo conforme all'indole nostra e dei popoli meridionali in generale, cosicchè abbandonandosi all'ozio per necessità, vi si adagiarono senza rimorso, nè vergogna, e ne contrassero rapidamente l'abito. — Che la parte imposta agli italiani nella costituzione economica dell'impero dovesse condurli in breve ad una inevitabile rovina, era cosa preveduta da chiunque rifletteva alle condizioni finanziarie dell'Italia, e a quelle che i moderni progressi delle scienze e dell'industria hanno creato in Europa. — Non è da supporsi neppure che gli uomini di Stato austriaci ignorassero ove conduceva la via imposta agli italiani; ma al governo austriaco, come a tutti i governi dispotici, poco importa de' suoi amministrati, e se un sistema di governo o di amministrazione gli sembra conveniente, esso lo addotta, quand'anche lo sappia ingiusto, rovinoso e mortale per una parte qualunque de' suoi sudditi.

L'Italia possedeva tesori in oggetti di belle arti e di antichità, come sarebbero intagli, avori, smalti, cesellature in metalli, ecc. Le sue principali città vantavano famiglie nobili di smisurata ricchezza. Le repubbliche di Genova e di Venezia avevano creato, mediante il commercio, delle ricchezze private come non se ne conoscevano altrove in quei tempi, cioè sul principiare del secolo decimonono. Ma tutte queste dovizie, erano tesori accumulati da lungo tempo, e nessuna nuova sorgente erasi aperta per riacquistare il denaro che si spendeva con prodigalità più pazza che altro. — I tesori italiani dovevano dunque esaurirsi in un dato tempo; ma varie circostanze concorsero ad abbreviare quel tempo e ad affrettare il compimento della inevitabile rovina. — La rendita che rimaneva agli italiani traevasi, come ho già detto, dall'agricoltura; ed era prodotta in gran parte dai bachi da seta e dalle viti. Ognuno conosce la dolorosa storia di questi due prodotti agricoli, durante gli ultimi dodici anni. — Un morbo speciale e misterioso in quanto alla sua origine piombava sui bachi e sulle viti, nè ha per anco ceduto ad alcuno dei rimedi tentati. E non si vede nè come nè quando nell'avvenire l'industria sericola riprenderà il suo corso, e ridonerà qualche valore al suolo, da cui si traeva. — Parecchi possidenti, che godevano di un'annua rendita di circa cento mila franchi, cavati dalla coltura dei bachi, si sono trovati subitamente ridotti ad una pressochè assoluta povertà. — I bachi prosperavano e sembravano promettere un abbondante raccolto, quando tutto ad un tratto, mentre stavano avviandosi al bosco, o disponendosi a formare la loro buccia, cadevano morti, quasi colpiti da morbo pestilenziale. Da dodici anni queste scene si ripetono ogni primavera, ad onta dei lunghi e pericolosi viaggi intrapresi da giovani avventurosi nelle più remote e barbare contrade dell'estremo oriente, per procurare agli allevatori di bachi da seta, una semente più sana, e non ancora tocca dal morbo europeo. — Nulla valgono questi generosi tentativi; che dopo due o tre anni di mediocre raccolto, e di cure indefesse, la semente straniera risente l'azione della morbosa influenza, ed i bachi che ne nascono muoiono, come morivano dapprima gl'indigeni. — Si sono fatti studi variati ed estesi per conoscere la cagione del male, e per trovarvi un rimedio; ma dopo tanti anni, ancora non si giunse a stabilire con certezza se il germe infetto sia quello del baco, ovvero quello del gelso.

La crittogama della vite non è così misteriosa come la malattia dei bachi; ma è tenace non meno di quella, e la distruzione di quei due prodotti della nostra industria agricola sembra farsi di giorno in giorno più probabile. E quei due generi erano veramente e considerevolmente i due più ricchi prodotti della nostra agricoltura; quelli che le davano una certa importanza come sorgente della pubblica ricchezza, ed una certa superiorità sull'agricoltura delle altre contrade d'Europa. — A noi lombardi rimangono i terreni inaffiati o paludosi, le praterie a marcite, le risaie, ecc.; ma questi terreni sono necessariamente assai ristretti, e tutto il rimanente del suolo italiano è limitato attualmente alla produzione dei cereali, cioè alla produzione medesima delle altre parti d'Europa; alla produzione di cereali che possono bene bastare al nutrimento del contadino, ma che a nulla montano come oggetti commerciabili, destinati ad impedire che il tesoro pubblico si esaurisca intieramente.

Altre cagioni di rapido impoverimento si sono aggiunte a quelle già accennate. Il mostruoso incremento del lusso, e il disgraziato abito, contratto dalla gioventù d'ogni classe, di fuggire qualsiasi occupazione che non sia di puro divertimento. E siccome il vigore giovanile vuole uno sfogo, i giovani che hanno imparato a considerare le occupazioni dello studio o di un impiego, in una parola quelle occupazioni che compongono una professione, ossia una carriera amministrativa, militare, magistrale, scientifica o artistica, come un mezzo per guadagnar denaro, come una necessità per chi non ne ereditava dalla propria famiglia; i giovani, dico, disgraziatamente imbevuti di tali falsissimi concetti, non trovano altro pascolo alla loro operosità che nell'imitare servilmente i costumi dei giovani della aristocrazia inglese, francese e russa, i quali disponendo di beni di fortuna assai superiori ai nostri, ne porgono rovinosi esempi. I nostri giovani, i quali ereditarono dai padri loro una rendita che i padri non riescivano a spendere, la ricevettero già ridotta dalla parte che la legge garantisce ai fratelli e dalla dote delle sorelle, gravata inoltre d'imposte che non pesavano sui padri loro; e si credono tenuti di far onore alla nobiltà della stirpe coll'eseguire in Italia tutto ciò che i loro pari inglesi, francesi e russi, eseguiscono a Londra, a Parigi e a Pietroburgo. I nostri giovani rappresentanti le antiche famiglie della nostra storia, non sono contenti di possedere dei buoni e bei cavalli, delle carrozze comode ed eleganti, e tutto ciò che costituisce dei ricchi e convenienti equipaggi; ma vogliono essere ammirati come gli esatti fac simili dei giovani inglesi di alto grado; e siccome tanto le importazioni quanto le imitazioni inglesi non si ottengono in Italia se non si pagano a peso d'oro, così la soddisfazione degli innocenti e puerili desideri dei nostri giovani basta talora a mandarli in rovina. Non uno forse degli eredi delle nostre più cospicue e più doviziose famiglie ha saputo conservare intatti i suoi beni e la condizione elevata che essi gli procuravano. Con una rendita ridotta e frazionata, i nostri giovani, a nulla intenti se non all'esatta riproduzione dei costumi oltramontani, spendono assai più che non spendevano i loro padri. Nel secolo passato l'anglomania spuntava appena, e gli uomini di qualche valore morale, intellettuale o anche soltanto sociale, avrebbero arrossito di scendere dalla loro elevata condizione per cambiarla con quella d'imitatori delle straniere singolarità. — Quando gli animali o gli oggetti qualsifossero, che servivano ai loro comodi o ai loro divertimenti, riempivano di fatto la missione loro imposta, i nostri antenati non si tormentavano lo spirito a ricercare se i lord inglesi non avrebbero richiesto di più: possedevano dei magnifici palazzi, delle ville pressochè reali; ma non trasformavano queste loro sontuose dimore in una perenne occasione d'ingenti spese. L'addobbamento dei loro palazzi era in armonia coi palazzi medesimi, e si componeva in gran parte di oggetti d'arte, pitture, sculture, bronzi, porcellane e sete; ma nessuno pensava a rinnovarli prima che il tempo li avesse contaminati e distrutti, perchè in altri paesi le case dei ricchi si ammobigliano in diverso modo.

Non mi tratterrei così lungamente sopra queste apparenti inezie, se non si traessero dietro gravi e tristissime conseguenze. Non credo, ripeterò, siavi nell'Italia del nord un solo dei rappresentanti delle nostre famiglie illustri, che non abbia più o meno sciupato l'ereditato patrimonio, e che non sia avviato verso una maggiore rovina; e ciò senza aver imparato cosa alcuna, senza avere acquistato nè oggetti preziosi, nè introdotto o tentato d'introdurre nel proprio paese altre novità, fuorchè le stranezze di oziosi stranieri, che non formano nei paesi loro che una derisa minoranza. Poichè nè in Inghilterra, nè in Francia, nè tampoco in Russia prevale quella assurda opinione, che lo studio o la scelta di una professione o di una pubblica carriera sieno cose riservate ai poveri, che hanno bisogno di lavorare per guadagnarsi il vitto. Fatale errore! Il lavoro non è soltanto il mezzo più onesto di guadagnar denaro, è il dovere di ogni cittadino, o, diciam meglio, di ogni essere dotato di ragione, che possiede un'anima intelligente, di cui dovrà un giorno render conto al creatore. Lo studio e il lavoro sono il mezzo che una benefica provvidenza ne largisce per sviluppare e perfezionare l'intelletto nostro; sono il mezzo col quale ciascuno può servire il proprio paese; sono la scala per cui la creatura umana sale dalla terra al cielo, dalla vita materiale, che ha comune coi bruti, alla vita spirituale a cui può sola aspirare.

L'avversione al lavoro, e il disprezzo per chi è costretto a dedicarvisi, sono una inesauribile sorgente di danni pel paese nostro. — Il popolo, e particolarmente gli abitanti della campagna, inclinano per la naturale loro pigrizia all'ozio, e non potendo abbandonarvisi interamente (chè ad essi lo vieta la necessità di procurarsi vitto, casa e vestimenta), si contentano del puro necessario; e, questo ottenuto, nessuno al mondo li saprebbe indurre a prolungare di un'ora l'opera loro. Perciò avviene che ogni nuova imposta, o tassa, per poco gravosa e per equa che siasi, pare al nostro contadino una misura vessatoria, iniqua ed intollerabile; solo perchè essa lo toglie momentaneamente a quell'ozio ch'egli considera come suo privilegio e suo diritto. Come potrebb'egli giudicare altrimenti, circondato qual è da altri contadini che la pensano come lui, da un clero che si studia di mantenerlo nell'ignoranza, e quindi nella soggezione e nella dipendenza de' suoi voleri, ed alla presenza di un padrone, che lungi dall'inspirargli l'energia e l'amore al lavoro, come alla unica fonte di ogni prosperità, gli dà il deplorabile esempio di sprezzare il lavoro e di astenersene ogni qual volta lo può?

D'altra parte nè l'abilità al lavoro, nè l'attitudine all'applicazione, non s'acquistano in un giorno. — Un'intera generazione non basta a formare una nazione laboriosa ed energica, nè ad imprimerle quel carattere di creatrice, che distingue così eminentemente fra tutte le altre la inglese, e fa sì che un'impresa industriale da essa tentata, è giustamente considerata dalle altre nazioni, come una impresa felicemente compita. — Io pure vorrei che gli italiani prendessero gli inglesi per modelli; ma non per imitare le puerili stravaganze di alcuni ricchissimi oziosi, bensì per emulare la maravigliosa operosità delle moltitudini. E si osservi altresì che quegli stessi ricchissimi oziosi cui la nostra gioventù tributa tanta ammirazione, non sono poi così oziosi come lo crediamo, e lo sono in tutt'altro modo di noi. I loro passatempi, i viaggi, le caccie, le corse e gli esercizi equestri, nulla hanno per certo di effeminato; anzi allo sviluppo delle forze intellettuali unendosi così lo sviluppo delle forze fisiche, come a concepire essi riescono atti a compiere le più ardue imprese. I viaggi più pericolosi di questo secolo, le scoperte di nuove terre, e di nuovi passi per recarvisi, sono dovuti in gran parte ai rampolli della inglese aristocrazia; e quelli poi che non hanno acquistato fama di grandi viaggiatori, non si sono però addormentati nell'ozio e nell'effeminatezza; ma o proseguono nei maschi diporti della caccia e del cavalcare, o si dedicano all'agricoltura, all'industria, al commercio, o a qualche dotta professione, impiegando così nell'età matura quell'eccesso di energia che li aveva traviati nella primissima gioventù. In Inghilterra gli uomini che non si consacrano ad una occupazione, o ad uno studio, o ad uno scopo di pubblica beneficenza, insomma che non impieghino la esistenza loro al servizio del loro paese, formano una impercettibile minoranza; mentre da noi, i giovani forniti di beni di fortuna, che si dedicano ad un proposito patriottico, formano la volta loro, rarissime eccezioni. Abbiamo veduto che il numero dei rappresentanti delle nostre più illustri e più ricche famiglie i quali abbiano conservato intatto il patrimonio loro, non è superiore a quello dei giovani che si dedicano ad una virile occupazione; e di ciò siamo oltremodo dolenti, perchè il rapido deperimento di una classe di cittadini così importante come la nobiltà italiana, in cui erano concentrate le maggiori ricchezze del paese e tutta l'autorità e l'influenza che sono come i corollari delle ricchezze, non può decadere senza produrre un adequato e funesto squilibrio in ogni classe della società.

Parlerò meno diffusamente del carattere e dei costumi delle popolazioni dell'Italia centrale e meridionale, perchè non sono spettatrice costante dei fatti loro, come lo sono dei nostri. Pure quel poco che ne so non mi mostra gli italiani di quelle provincie più esperti e più intelligenti di noi in materia di libertà e di governo costituzionale. Il fatto, per citarne uno a tutti noto, che la città di Messina, la seconda città della Sicilia e in realtà eguale alla prima in estensione, in ricchezza, in coltura e in civiltà, deputò ripetutamente a rappresentarla al parlamento l'esule Mazzini, prova sufficientemente che i suoi elettori nulla intendono del sistema di governo detto costituzionale. Se la Sicilia avesse inteso di protestare contro il governo attuale, doveva mandare al parlamento insieme con Giuseppe Mazzini altri uomini di fama repubblicana; e soddisfatta di avere con ciò espresse le proprie aspirazioni, non ostinarsi in quella espressione dopo che il parlamento l'avea respinta come incostituzionale. — I messinesi si condussero altrimenti. Nominarono un solo repubblicano, Giuseppe Mazzini, insieme con altri molti che avevano protestato della loro divota adesione alla nostra monarchia; e quegli elettori medesimi che avevano votato con entusiasmo per Mazzini, facevano pochi giorni dopo una rumorosa dimostrazione in onore di Vittorio Emanuele, più non ricordo in quale particolare occasione, togliendo con ciò ogni possibile significato al singolare loro voto. Poi quando il parlamento, condannando la illegalità della elezione, la cassò, i messinesi la rinnovarono, mettendosi così in urto ed in ostilità non più col governo, ma colla rappresentanza nazionale, che è quanto dire colla nazione e con sè medesimi.

Lo stesso ha fatto più recentemente Palermo, nell'occasione della legge votata dal parlamento per l'abolizione degli ordini religiosi. Tutti conoscono le orribili scene che scaturirono dalla fanatica superstizione dei palermitani, ad istigazione evidente dei frati e delle monache, inferociti per l'abolizione dei loro privilegi. Nessuno vorrà dire che un popolo capace di simili eccessi sia maturo per godere di una regolare libertà; e i più indulgenti confessarono che un poco di educazione civile e politica, non sarebbe superflua pei siciliani. Ora, questa educazione chi pensa a darla, e come sarà data?

I napolitani hanno l'aspetto e le forme più civili dei siciliani. Oltre ciò hanno una intelligenza così aperta ed una fantasia così svegliata, che prontamente imparano, e si fan proprie le cose, o almeno l'apparenza delle cose che loro passano sotto gli occhi. Aggiungiamo pure che se non le idee, le parole di costituzione, di parlamento, ecc. non giungono ad essi nuove, mentre ebbero un principio di effettuazione nel 21, ed un altro ne avevano avuto sul finire dello scorso secolo. La presenza di cospicue famiglie straniere che a Napoli accorrevano, ivi attratte dalla bellezza del cielo e dalla mitezza del clima, vi avevano introdotto alcune abitudini civili, e sparso una certa gentilezza di modi sopra una popolazione naturalmente alla gentilezza inclinata, quando non sia trasportata da passioni violenti e sfrenate. Napoli diffatto ed il suo popolo hanno progredito verso la vita civile dal 60 in poi. Certe immondezze scomparvero dalle pubbliche vie: certe nudità permesse dal clima, ma vietate dalla civiltà, più non si incontrano per le strade, sulle piazze e nelle chiese; le scuole normali e popolari sono frequentate dai figli di padri e di madri analfabetici.

I napolitani non si mostrano avversi alle leggi della vita civile[1]. Ma tutto ciò non significa ch'essi sieno in grado d'intendere e di apprezzare i benefizi di un governo costituzionale, nè di compierne i corrispondenti doveri: ed in varie occorrenze gli antichi sudditi dei Borboni mostrarono invece di avere inteso soltanto che la dinastia dei loro re era mutata. Si ricordino i miei lettori certe elezioni avvenute nel 65, e confesseranno meco che i napolitani anch'essi hanno bisogno di essere educati alla libertà. Le doti che la natura ha loro compartito serviranno a rendere la educazione loro più facile e più pronta; ma converrebbe invero supporre ch'essi possedessero la così detta scienza infusa, per ammettere che i diritti ed i doveri dei popoli liberi e civili potessero essere noti a chi non ha mai goduto gli uni, nè avuto chi gli insegnasse gli altri, ad un popolo che fu sempre retto da un despota e da un clero fomentatore della superstizione e della ignoranza, che non conosce insomma via di mezzo fra una cieca obbedienza ed una sfrenata libertà.

Questa educazione civile e politica, chi pensa a darla ai napoletani? Si pubblicano giornali, o quotidiani o settimanali o mensili, accessibili per ogni conto al povero, e in cui si esponga il significato delle nuove istituzioni ad esso largite? Si sono aperti corsi pubblici e gratuiti in convenienti locali, ove il povero possa ricoverarsi, imparando a benedire la Provvidenza per la libertà acquistata ed intesa? Io non avrei scritte queste pagine, se avessi udito che una sola delle tante cose da farsi fosse stata fatta. Ma vedo gli anni succedersi rapidamente; vedo gli effetti della generale ignoranza rallentare e talvolta impedire il progresso del nostro nazionale sviluppo; e non vedo che si tenti rimediare a tale ignoranza dell'attuale generazione. Si insegna a leggere alla generazione futura, e si spera forse che questi nuovi letterati faranno buon uso della scienza acquisita per istruirsi in ciò che loro spetta di sapere. Ma parmi questa una vana speranza. I contadini lombardi hanno tutti, o pressochè tutti, frequentato, nell'infanzia loro, le scuole comunali; ma sino a che in codeste scuole non si acquista altro che uno strumento per imparare ciò che veramente è necessario sapersi, non si può sperare che il giovanetto, licenziato dalla scuola perchè ha raggiunto il duodecimo anno di sua vita, e rimandato alle fatiche ed alle sofferenze domestiche col solo vantaggio di poter leggere, scarabocchiare il proprio nome, ed eseguire le due prime operazioni dell'aritmetica; non si può sperare, dico, ch'esso impieghi utilmente il suo magro corredo di cognizioni per acquistarne altre indispensabili ad un popolo che vuol essere libero. Ciò che deve invece accadere, e che accade diffatto, si è che il giovinetto stesso che sapeva leggere a dodici anni più non lo sappia passati i venti.

Della Toscana, e delle provincie che componevano prima del 59 e del 60 gli stati romani, non posso parlare in modo assai diverso da quello con cui ho parlato sin qui delle altre parti d'Italia. Il toscano ad altro non aspira che ad un dolce ed innocente riposo. Si accontenta di una mediocre agiatezza; si accontenta ben anco del puro necessario, purchè gli si conceda di goderne pacificamente e senza sforzi nè fatiche. Così ci figuriamo ad un dipresso la vita dei pastori arcadici; ma nulla v'ha al mondo di meno arcadico dell'attuale società. Già lo dissi più sopra: chi non lavora, chi non tende ad uno scopo che non può raggiungere senza sudori, chi si compiace nell'ozio, e soltanto nell'ozio, non trova spazio ove adagiarsi nel trambusto del perpetuo progresso, e viene schiacciato sotto il pesante carro di Zaggernaught delle scienze, dell'industria, del commercio, della civiltà e della ricchezza.

La Toscana è un piccolo e povero paese, abitato da un popolo gentile ed intelligente, ma pigro, inerte, che non mosse mai passo sulla via che percorrono oggidì le nazioni libere e civili. — Tutto rimanevagli a fare quando fu annessa all'Italia, che si veniva allora costituendo. Sono ora due anni, se non più, che una combinazione per essa fortunata trasportò sul suo territorio la sede del governo italiano. Firenze fu prescelta per succedere a Torino; e siccome Torino erasi amaramente risentita di ciò ch'essa considerava come una sciagura, era naturale che Firenze se ne rallegrasse come di un acquisto. Ma Firenze prese la cosa in tutt'altro modo. — Che la sua popolazione si raddoppiasse numericamente in pochi giorni, che molti nuovi edifizi s'innalzassero nelle sue mura, che il denaro circolasse in quantità e con rapidità assai maggiore che per lo passato, che nessun forastiere distinto e ricco che visitasse l'Italia potesse d'ora in poi trascurare di visitare anche Firenze; tutto ciò poco ad essa importava, anzi le cagionava rammarico ed inquietudine. E perchè? Perchè una cosa sola le apparve fra tutte le altre; e fu che tanta affluenza di nuovi abitanti farebbe crescere il prezzo degli affitti, ed il prezzo corrente altresì degli oggetti indispensabili alla vita di ognuno. Egli è pur vero che se le case di Firenze crescevano di valore, queste essendo proprietà dei fiorentini, il vantaggio era loro altresì; e lo stesso poteva dirsi degli oggetti necessari alla vita di tutti, come le farine, le carni, gli ortaggi, i latticinii, ecc., ecc. I fiorentini non sono punto gonzi, e intendono tutto ciò come lo intenderebbe l'uomo più versato negli studi economici. Ma un'altra cosa intendevano pure; ed era, che il cresciuto consumo dei viveri, ed il cresciuto bisogno di abitazioni, sola cagione dell'aumento dei prezzi, renderebbe necessario un accrescimento di produzione, e per conseguenza di lavoro e di fatica. Nè valse far loro osservare, che insieme coi consumatori verrebbero dal di fuori, cioè dalle altre parti d'Italia e dallo stesso toscano contado, dei produttori, cioè degli operai, che si assumerebbero con lieto animo quell'eccesso di lavoro, che essi fiorentini non potrebbero o non vorrebbero eseguire. — In tal caso, rispondevano i fiorentini, nascerà la concorrenza: dovremo contendere coi nuovi arrivati per ottenere quel poco di lavoro che ne bastava sin quì; l'opera nostra non sarà più così gradita a chi la riceve; i nuovi arrivati faranno altrimenti, e si dirà che fanno meglio di noi; dovremo studiare, esercitarci, ecc. E piuttosto che esporsi ad un accrescimento di occupazione, che produrrebbe loro un sicuro aumento di guadagno, i fiorentini hanno in gran numero emigrato dalla capitale, per ritirarsi sui territorii di Pescia, di Prato, di Pistoia, di Lucca, ecc., come in oasi non ancora invase dalla moltitudine e dalla civiltà, e dove si può tuttora vegetare placidamente in un ozio decente e dolcissimo. Il sagrifizio costò loro assai, e non poche maledizioni salutarono l'arrivo di quelli irrequieti, cupidi ed ambiziosi che nulla rispettano, e che sconvolgono senza rimorsi il placido andamento degli affari in Toscana. Ma per amaro ch'ei fosse, il sagrifizio si compì, ed oggi un certo numero degli opifici più prosperosi della capitale sono nelle mani di piemontesi o di lombardi; chè a fronte dei fiorentini noi lombardi siamo prodigi di energia e di ambizione.

Io non mi maraviglio punto che ciò accada in Italia; e saremmo invero esseri di una tempra più che umana, se la perpetua servitù in cui vivemmo non avesse lasciato traccia alcuna nel nostro carattere. Nè suppongo un solo istante che tale nostra piaga sia incurabile. Anzi sono convinta ch'essa cederà tosto ad una cura conveniente, e che la seguente generazione sarà fors'anco perfettamente sana e robusta. Ciò che mi accora si è il non vedere che alcuno si accinga a medicare quella piaga; e neppure in Toscana, ove la capitale raduna in sè le forze vive della nazione, ove tanta coltura fu sempre onorata, nessun farmaco fu ancora proposto e discusso.

Di ciò mi lagno, e non del bisogno che abbiamo del farmaco; il quale bisogno è la cosa più naturale del mondo.

Le provincie che componevano prima del 59 e del 60 gli stati romani, come le Legazioni, l'Umbria, ecc., ecc. non hanno dato sin qui segni manifesti di non intendere i diritti e i doveri di un popolo libero, o le leggi della moderna civile società. Quelle popolazioni, rette e tiranneggiate dal clero, non diedero sin qui un solo indizio di fanatismo o di superstizione: hanno accettato ed eseguito tutti i sacrifici richiesti, senza dare mai segno di malcontento, e vanno gradatamente migliorando le loro condizioni coll'apertura di nuove strade e ferrovie, colla applicazione di un discreto governo comunale, collo stabilimento di nuove scuole e di nuovi tribunali rispettabili, e coll'esercitarsi nelle cose della guerra. Quelle popolazioni dovrebbero in vero servire a tutte le altre di esempio e di modello; ma v'hanno alcuni passi che i popoli non possono dare, se l'iniziativa non è presa da qualche individuo o da qualche associazione più di loro esperti e più ricchi. Le popolazioni degli antichi stati romani sono ad un tempo maschie e prudenti. — Sanno soffrire, sanno tacere, sanno combattere; e credo che saprebbero anche studiare ed imparare. — Ma non furono mai ciò che volgarmente si chiama popolazioni industriali, ossia dedite alla industria ed al commercio. Debbono però diventar tali e diventarlo in breve tempo, poichè l'agricoltura non vi si può sviluppare in vaste proporzioni, per la natura del suolo. Sino al 59 e al 60 quelle popolazioni vivevano in gran parte della elemosina degli innumerevoli conventi d'ambo i sessi; ma ora quella è una fonte disseccata ed esausta. Se alcuno tentasse di fondare stabilimenti industriali, opifici, ecc., non vedo quali ostacoli incontrerebbe, e sono convinta che la popolazione andrebbe a gara per prestarvi l'opera sua. Nulla si ottiene senza lavoro e senza fatica. Ma la buona volontà e l'attitudine non bastano quando manca la direzione; e la direzione non appartiene alle moltitudini, bensì all'individuo.

L'Italia può dirsi materialmente fatta, in quanto che la intera o pressochè intera penisola è raccolta sotto un unico reggimento, e più non vi sono padroni stranieri. L'Europa tutta ha riconosciuto il diritto che noi abbiamo di esistere come nazione indipendente. Nel corso dei sette anni, che compongono l'età nostra come nazione, abbiamo ottenuto dei mirabili risultati: la distruzione del brigantaggio; l'abolizione dei conventi; il nuovo assetto che sta per darsi all'asse ecclesiastico; il traslocamento del governo e della rappresentanza nazionale da Torino a Firenze; la riunione delle provincie venete al rimanente d'Italia; e la probabilità di trovarci fra poco in condizione di trattare direttamente col Santo Padre; la cessione del potere temporale, e i compensi che può meritare simile cessione. E l'avere ottenuto tutto ciò senza attraversare quelle tristissime e sanguinose crisi di rivoluzioni, di reazioni e di guerre civili, che lasciano indelebili tracce e dolorose memorie nelle popolazioni che vi soggiacquero, sono benefizi di cui non possiamo mai essere abbastanza grati alla Provvidenza ed agli uomini che la Provvidenza scelse per suoi strumenti. Ma appunto perchè siamo stati così evidentemente e gratuitamente protetti sin quì, dobbiamo mostrarci degni di tale protezione, porci arditamente e devotamente all'opera, e nulla lasciare intentato, nè stancarci, nè disgustarci od annoiarci di ciò che può contribuire a porre il nostro paese fra i più inciviliti e i più rispettati del mondo.

Quali sono gli ostacoli che si oppongono al nostro progresso? Due sono i principali.

1.º La depravazione lasciata nel carattere delle popolazioni da una tirannide di tanti secoli, astuta ed iniqua, che non contenta di ridurci colla violenza e coi mali trattamenti ad una cieca obbedienza, lavorava a renderci incapaci di usare, senza però abusarne, di una saggia libertà.

2.º La scarsezza del denaro, mentre avremmo così ingente bisogno di abbondanti ricchezze, per dotare il nostro paese di tutte quelle conquiste della scienza e della industria moderna, strade ferrate, canali navigabili, opifici, macchine, ponti, per mantenere un poderoso esercito, una forte marina: cose tutte che i nostri antichi padroni non si curarono di procurarci.

Il primo di questi due ostacoli, è certamente il più grave e il più difficile a superarsi; potendo il secondo considerarsi come conseguenza del primo.

Ma per trovare la via di vincere questi ostacoli è primieramente necessario di studiarne attentamente la natura, il carattere, la potenza e l'azione sull'indole e sui costumi delle popolazioni italiane. Abbiamo veduto come la secolare oppressione, sotto cui visse l'Italia sino al 59, ne ha spogliati della energica operosità, che è forse la prima delle condizioni indispensabili alla vita di una nazione, ed è propriamente ciò che corrisponde alla forza vitale dell'individuo. Ma questo difetto di vitalità si strascina dietro di sè una deplorabile sequela d'infiniti danni. Il despotismo ha fra gli altri effetti quello di offuscare e di traviare il sano giudizio delle sue vittime. I fatti e gli avvenimenti non portano più con essi le naturali loro conseguenze, che sono altri fatti ed altri avvenimenti. L'uomo ignorante non aspetta di veder succedersi i futuri eventi, a seconda della tendenza degli eventi anteriori. Le nozioni di causa e di effetto si confondono nella mente di lui, poichè a sconvolgere il corso regolare delle cose, sempre interviene la capricciosa volontà del despota, che di nulla tien conto, fuorchè della soddisfazione delle private sue mire. Un uomo tenta una pazza speculazione, e la tenta senza possedere alcuni di quei mezzi che potrebbero renderla meno rovinosa; ed il pubblico argomenta accuratamente che una terribile catastrofe sta per piombare sul temerario speculatore. Ma questi gode la protezione di qualche oscuro membro della casa del padrone; il quale conosce le vie ingannevoli e tenebrose che conducono all'orecchio di quello, e se ne vale in favore del pericolante amico. — Ed ecco che all'ultima ora, quando il precipizio si apre sotto i piedi dell'imprudente, quando la sua caduta è certa, la mano onnipotente del despota lo afferra, lo solleva, e lo depone sovra un solido terreno; e di ciò non contento, impedisce talvolta a' suoi creditori di costringerlo al rimborso del danaro che loro è dovuto. Il principale insegnamento che i popoli traggono da tali fatti è questo: che il favore del principe è la sola áncora di salvezza su cui è ragionevole di affidarsi. La quotidiana esperienza nulla insegna oltre ciò. La imprudenza non è più una sorgente di disastri, la sapienza, l'avvedutezza, la moderazione, la precisione delle vedute, la fecondità degli spedienti, la puntualità nell'adempire gli assunti impegni, non sono più una garanzia di felice successo. Il favore del sovrano tien luogo di qualsiasi dote, e senza di quello nulla si ottiene. Quando viene repentinamente a cessare la onnipotenza di tal favore, o quando una costituzione vieta ad esso d'intervenire negli affari dei cittadini, a chi si rivolge per ottenere una direzione o un appoggio il popolo educato da più secoli a non fare assegnamento che sulla protezione del padrone?

Così avviene di noi. — Dal 59 in poi si sono tentate molte cose; ma si sono tentate come se il felice o l'infelice successo di esse fossero accidenti di nessun conto, indipendenti dal modo con cui si dirigono e si conducono gli affari. Si suol dire che gli speculatori italiani si affidano nella stella d'Italia; ma il fatto è questo, che la immensa maggioranza dei nostri speculatori non ha mai studiato le condizioni in cui deve esser posta una speculazione perchè se ne possa sperare un favorevole risultato. V'ha di peggio. Benchè nulla attendano dal sovrano favore, gli speculatori che soggiacciono a qualche sventura, ne incolpano nel segreto de' loro cuori la poca benevolenza del governo. Il ministro non ha mai veduto di buon occhio questa infelice impresa, dicono a chi li interroga sulla loro sventura; non so che cosa il segretario generale abbia contro di me, ma egli non mi ha mai dimostrato nè interessamento, nè simpatia; e se la mia impresa andò fallita, ciò accadde perchè il governo nulla fece per salvarmi, mentre egli poteva facilissimamente impedire la mia caduta. E mentre lo speculatore fallito parla con tale apparente moderazione, esso accusa sovente in suo cuore il governo di mala fede, di animo vendicativo, di venalità, di corruzione, ecc., ecc.; perpetuandosi in tal modo fra i cittadini e i membri del governo quella diffidenza e quel malumore, che sono di sì grande impedimento al regolare sviluppo della nostra prosperità.

Lo speculatore non si inganna però sempre, quando dice che il governo avrebbe potuto salvarlo se lo avesse voluto. Ma il governo avrebbe allora oltrepassato i limiti della sfera di azione a lui prescritta. Il governo di un paese libero non deve intervenire nelle faccende dei privati, se non per far eseguire le leggi che possono riferirsi ad essi. Un governo costituzionale non deve assumere il carattere paterno: il governo è il delegato della nazione, non ne è il tutore, e molto meno il padrone. Questo è quello che non sappiamo ancora intendere. Dai precedenti governi, tanto dall'austriaco pretto, quanto dagli altri più o meno indirettamente austriaci, non aspettavamo che persecuzioni, vessazioni, ingiustizie, violenze, ecc. e la nostra aspettativa era sovente superata dal fatto. Ora aspettiamo dal nostro governo tutto l'opposto di ciò che aspettavamo dall'Austria, e ci troviamo necessariamente delusi nelle nostre speranze; perchè non abbiamo imparato ancora che da un governo costituzionale si richiede principalmente che esso si astenga da qualsiasi intervento negli affari dei privati, almeno sino a tanto che le leggi non sono da questi violate. Quel costante bisogno di appoggio, di protezione, di favore e di direzione, è la più profonda piaga che ci abbiano lasciato le nostre infrante catene. È questo un sintomo troppo evidente della debolezza del nostro carattere, del nostro criterio e della nostra volontà; è una tentazione pel governo, il quale vedendosi implorato dai cittadini perchè intervenga negli affari loro, e sentendo che il suo rifiuto eccita mali umori e risentimento, è necessario che conosca perfettamente i propri impegni, e sia fornito di singolare onestà per non cedere, e per non trasformarsi insensibilmente in ciò che chiamasi governo paterno ossia dispotico.

L'ignoranza in cui vegetiamo e in cui ci mantennero scientemente i nostri padroni, combinata colla naturale indolenza, propria a tutti i popoli meridionali, ci rese sin qui incapaci di competere colle nazioni vicine nelle industrie e nel commercio, e ne lascia senza difesa contro la superstizione, l'assoluto, il tirannico e talvolta immorale dominio del clero, non meno ignorante, è vero, e non meno inerte dei laici, ma che riceve le sue istruzioni e la sua parola d'ordine da Roma. L'Italia meridionale è per così dire esclusivamente ligia al suo clero, e a quelle torme di frati e di monache che la divorano. L'Italia settentrionale non è così acciecata, o almeno gli abitanti delle sue città si sono sottratti alla tutela clericale; ma le popolazioni delle nostre campagne sono nelle mani del clero tanto quanto le popolazioni del mezzodì. Il clero delle provincie settentrionali d'Italia è meno sensuale e meno ignorante del clero napoletano e siciliano, e della moltitudine di frati che occupavano tutte quelle contrade; ma in compenso esso è forse meno sincero. Obbediente ad alcune sommità clericali, le quali sono in perenne ribellione contro il governo italiano, e sempre intento a macchinare congiure contro il medesimo, il clero delle nostre campagne dispone come gli piace de' suoi popolani, e mentre finge tendenze liberali, mentre deplora di essere impotente a fare il bene, si oppone copertamente a tutto ciò che potrebbe sollevare il contadino dalla sua secolare ignoranza, e illuminarlo sui veri suoi interessi, e lo mantiene in uno stato di stolida ostilità contro i naturali suoi protettori.

I possidenti delle campagne dell'Italia settentrionale avrebbero cento mezzi per combattere l'influenza del clero e per sostituirvi la loro. Ma nulla si ottiene senza qualche sforzo e senza qualche fatica. Ora la fatica è la cosa che più ripugna all'attuale generazione italiana. Le terre più produttive, quelle che danno tuttora qualche valore alla possidenza fondiaria, sono situate in quella parte che chiamasi la bassa Lombardia, e che comprende il Lodigiano, il Pavese, il Cremasco, il Piacentino, il basso Novarese e la Lomellina: paese tutto di pianura, e spoglio di quelle attrattive di cui abbondano i paesi di montagna. Oltre a ciò l'aria di quei fertilissimi luoghi è sovente impregnata di miasmi palustri, e gli abitanti vi sono esposti a ricorrenti febbri intermittenti, che degenerano talvolta in perniciose, e forniscono ai possidenti di quelle terre un plausibile pretesto per non visitarli. Tali poderi, che formano ora tutta la ricchezza effettiva dei signori dell'Italia settentrionale, poderi assai più estesi di quelli situati sulle sponde dei nostri laghi, o sui colli della Brianza o del Varesotto, sono affittati ad una classe di cittadini che non esiste forse altrove che in Lombardia ed in alcuni stati dell'America.

Parte della classe degli affittaiuoli della bassa Lombardia trae la sua origine dalla classe dei contadini, ed ha tuttora comune con questi la profonda ignoranza e un eccessivo amore del lucro.

Alcuni affittaiuoli emergono dalla moltitudine degli uomini di contado, quando uno di essi, o più fortunato o più accorto o meno tenero di coscienza de' suoi compagni, è riuscito a mettere insieme qualche migliaio di lire. — Esso prende un piccolo podere in affitto, e vi si stabilisce colla sua famiglia, incominciando una nuova esistenza. Ogni legame di consanguineità o di amicizia cogli antichi suoi pari è da lui spezzato. Da quel momento in poi il contadino diviene il renitente, l'infedel servo dell'affittaiuolo; e questi assume il carattere di tiranno volgare, brutale, e talvolta crudele.

Il contadino che riesce a salire in più elevata sfera e a prendere posto tra gli affittaiuoli, deve necessariamente possedere qualche dote naturale di cui sieno privi i compagni de' suoi primi anni. Queste doti sono per lo più l'accortezza, la dissimulazione, l'avidità di lucro, ed un certo istinto che lo strascina verso alcune speculazioni piuttosto che verso certe altre. Convien pure ch'egli non sia nè trattenuto nè incomodato da delicatezze o da scrupoli di coscienza, nè da pietosi riguardi per le sofferenze de' suoi dipendenti, o pel danno ch'ei cagiona altrui affine di giovare a sè medesimo.

Queste facoltà naturali non sono già quelle che formano e che distinguono l'onesto uomo ed il cristiano; e le ricchezze, che vanno cumulandosi nelle mani di siffatti uomini, sono e rimangono sterili pel paese. A quelle facoltà, che meglio sarebbero chiamate vizi, si aggiunge a poco a poco l'orgoglio e la vanità generale del successo; poi l'ambizione di ulteriori successi ed un odio acerbissimo contro tutto ciò che gli si oppone, o che giova ad altrui piuttosto che a sè stesso.

Avvezzo dalla più tenera infanzia alle privazioni dell'estrema povertà, il contadino arricchito tratta col massimo disprezzo i lamenti che gli fanno i contadini rimasti poveri; ma ritiene di avere acquistato il diritto di compensare a sè medesimo le sofferenze antiche colla più ampia soddisfazione di tutti gli istinti materiali. Siccome però le delicatezze, e le ricercatezze del lusso elegante, sono ad esso sconosciute, gli istinti ch'ei vuol soddisfatti sono limitati al mangiare, al bere, al fumare, all'annusare tabacco. I contadini che da esso dipendono non hanno agli occhi suoi diritto alcuno di voler migliorata la loro sorte. Perchè non seguono essi il suo esempio? Perchè non seppero arricchirsi? Il povero deve patire; tale è la moralità del contadino arricchito.

Un'esistenza così spoglia di aspirazioni elevate, di tenere affezioni e di onesti propositi, deve necessariamente corrompere e degradare la condizione morale di chi se ne accontenta; ed è cosa veramente deplorabile che la sola industria in cui l'italiano abbia progredito con qualche successo anche sotto il dominio straniero, la sola industria che produce qualche vantaggio al paese, sia in parte almeno affidata ad una classe d'uomini sì poco degna della sua missione. Nè v'ha speranza che quel senso di religiosa fede, che regna generalmente negli animi dei poveri abitanti delle campagne italiane e li mantiene entro certi limiti, possa produrre simili effetti anco sui contadini arricchiti. Questi ultimi si credono superiori alla semplice legge di Cristo, e si assicurano della tolleranza e della condiscendenza del loro curato con qualche dono o qualche invito alla loro mensa.

Ma se il contadino arricchito è il naturale nemico del contadino rimasto povero, cotale inimicizia non è la sola che turbi ed avveleni l'animo del primo; anzi è questa notevolmente superata dal timore e dall'odio che l'affittaiuolo nutre verso il possidente del fondo da lui coltivato, o come esso lo chiama, verso il padrone. Il povero contadino è considerato dall'affittaiuolo come uno strumento, di cui si vale per arricchirsi, ed al quale concederà qualche frazione delle ricchezze acquistate per mantenerlo in istato di servirlo con eguale efficacia ed alacrità. Ma il così detto padrone è il possessore delle ricchezze da lui ambite, e di cui esso pretende spogliarlo. Al cospetto del padrone il contadino arricchito si maschera e simula principii e sentimenti di cui ride nel cuor suo. Col povero contadino il ricco non si cura di sembrare diverso dal vero; e questa libertà di cui gode col povero, posta a confronto della dissimulazione che gli è forza usare verso il ricco, fa sì che esso abborre l'ultimo assai più del primo. Questo è d'altronde compiutamente in sua balìa, mentre il padrone può interrompere ad ogni momento il corso de' suoi guadagni. Dunque il contadino arricchito teme il padrone, ed è temuto dal povero; per cui ella è cosa naturalissima che il padrone sia l'oggetto dell'odio più acerbo di cui è capace il cuore dell'affittaiuolo.

Non dovrebbe essere necessario di notare, che codesta pittura del carattere di alcuni fra i nostri ricchi agricoltori non va applicata ad ognuno di essi. Non solo v'hanno delle eccezioni, ma ve n'hanno molte; ed eccezioni sarebbero forse meglio dette quei primi. Gli agricoltori che prendono in affitto dei grossi tenimenti, non sono contadini arricchiti, e non pochi fra questi appartengono a famiglie benestanti e civili, poichè debbono necessariamente essere forniti di grossi capitali per procacciarsi le così dette scorte del fondo, ossia le mandre, e il bestiame da tiro e da soma, oltre il denaro occorrente per l'anticipazione di un anno d'affitto, e per far fronte alle eventualità di uno o di più falliti raccolti. Questi agricoltori ebbero naturalmente un'educazione non inferiore a quella dei cittadini che si dedicano alle professioni dell'ingegnere, dell'avvocato e del medico; e di tale educazione le leggi ed i principii morali di onestà e di onore formano parte integrante. Questi non ambiscono disonesti guadagni, e per ciò non considerano il padrone del fondo come il nemico loro. Tali eccezioni però non sono numerose abbastanza, perchè pochi sono gli uomini, che cresciuti fra la gente colta, e le agiatezze della vita civile, scelgano di rinunziare a queste e a quelle, per condurre una vita faticosa, scevra d'ogni dolcezza civile, fra gente rozza, ignorante, e più propensa al male che al bene. Alcuni, spinti da circostanze speciali o da inclinazioni possenti, abbracciano la professione dell'affittaiuolo. Avviene allora non di rado una trasformazione, che vale sempre più a provare come la classe sociale degli affittaiuoli non sia in armonia coi bisogni e coi progressi della nostra vita civile. Accade sovente che l'uomo colto, educato per esser membro di una società colta, trovandosi tutto ad un tratto fuori di essa, lasciato digiuno di ogni alimento intellettuale, costretto ad applicarsi esclusivamente alla realizzazione del maggior lucro che ottenere ei possa, non va guari che si vede rapidamente cadere negli andamenti dei rozzi suoi compagni, cercarsi delle distrazioni nei piaceri più volgari, e dimenticare a poco a poco l'abito più elevato e spirituale de' suoi primi anni.

Altre eccezioni e più numerose s'incontrano in una categoria di ricchi agricoltori, degni dell'universale rispetto. Evvi delle famiglie di affittaiuoli che rimasero tali per più e più generazioni, il padre morente affidando al primogenito l'incarico di proteggere e di reggere l'orbata famiglia, questi assumendo l'autorità paterna, e i minori fratelli sottomettendosi di buon animo alla sua autorità.

Codeste famiglie si sono serbate quasi intatte per più generazioni; ed ebbero l'origine al tempo stesso in cui la stretta osservanza della morale cristiana e cattolica, e il vivere al di fuori del turbine cittadino una vita operosa e tranquilla, bastava a preservarle da ogni corruzione di costumi e di principii.

Esse rimangono tuttora come monumenti di una età che lasciammo lungi dietro di noi; le rispettiamo perchè rispettabili; non temiamo da esse raggiri, nè perfidie, nè atti crudeli verso i poveri giornalieri; ma sappiamo che la esistenza loro è oramai vicina al suo termine. Tali esistenze patriarcali non ponno riprodursi nell'età nostra. Nessuna campagna, per remota che sia, può difendersi ormai dalla invasione della vita cittadina. Altre volte la società progrediva a lentissimi passi, e le generazioni si sviluppavano a seconda della educazione ricevuta nella infanzia, quando questa educazione fosse onesta e comprendesse gli acquisti già compiuti della civiltà. Il padre poteva servire di esempio e di modello al figlio. Oggi tutto è cangiato: l'educazione anche la più completa non basta alla vita naturale dell'uomo, se questi non la perpetua, ma commette l'errore di crederla sufficiente e di chiuderla.

I progressi delle scienze a cui si appoggia la civiltà sono ora così rapidi, incessanti ed infiniti, che la vita di un uomo basta appena a seguirli e a registrarli. L'età del riposo era aspettata dai nostri padri, e giungeva per essi colla vecchiaia; oggi chi vuol riposare deve isolarsi assolutamente dalla società, chiudere gli occhi, turarsi le orecchie, ed ignorare le sorti de' suoi simili, perchè in tutto il consorzio umano non v'ha più un angolo dedicato al riposo. Siamo entrati nella sfera del progresso continuo, del moto perpetuo e sempre più rapido. — Colui che dopo un decenne riposo rientrasse nella società umana, troverebbe ogni cosa così cangiata, che gli sembrerebbe di stare fra gente che non ha comune con lui neppure la origine.

L'era delle famiglie e dei costumi patriarcali è chiusa. Me ne duole perchè erano monumenti di moralità, di doveroso affetto, e di pietà sincera. Ma la società, che tende a' suoi fini, ha bisogno di altri strumenti. Non mi estenderò più lungamente a parlare di questa categoria di ricchi agricoltori italiani, sebbene sia oggidì non poco numerosa, perchè la credo destinata a scomparire in breve dal nostro suolo. Non vedo per essa nè posto, nè missione nella moderna società industriale.

Un problema che tutti i nostri ricchi agricoltori sono chiamati a risolvere, e che dà loro molto da pensare, si è quello della educazione dei figli.

Alcuni fra i padri di famiglia vogliono arricchire i figli del bene di una educazione cittadina, e si preparano dei successori dottori in legge o in medicina, che hanno imparato molte cose, ma nessuna di quelle a cui sono destinati ad attendere. Altri padri al contrario si sdegnano al solo pensiero che i figli loro abbiano da sapere ciò ch'essi ignorano, e trasmettono loro esattamente la somma di cognizioni che ricevettero dai padri loro.

Codeste educazioni hanno i peggiori risultati. L'ignoranza ch'era pressochè innocua nei padri, perchè posti in un'atmosfera in armonia con quella, diviene deplorabile e direi quasi mostruosa nel figlio, quando esso trovasi in contatto con cose e con individui di troppo a lui superiori. Ogni passo ch'esso muove, ogni via ch'esso tenta, lo rende l'oggetto del pubblico scherno. Esso non sa difendere sè medesimo, nè i propri interessi, se non coll'astuzia, colla bugia; e non potendo misurare la propria inferiorità, nè giudicare accuratamente il valore delle sue risorse, le adopera tutte, persuaso che danneggiando altrui, giova a sè stesso.

Mi sono trattenuta così a lungo sulla classe dei nostri ricchi agricoltori, perchè essa forma realmente uno degli strumenti principali della nazionale prosperità; l'industria agricola essendo la sola che possa sostenere il confronto colle industrie straniere, e trovandosi essa assolutamente abbandonata alla classe dei ricchi agricoltori. Non è superfluo che il paese, e la classe dei possidenti in particolare, sappia su chi riposa la ricchezza della nazione.

Quando la nuova legge comunale italiana fu promulgata ed attivata nelle nostre campagne, alcuni dei nostri affittaiuoli si accinsero ad una ambiziosa intrapresa. Un certo numero di essi concepì il pensiero di impadronirsi delle autorità che lo Statuto concedeva alle classi popolari rurali. In molte località i voti dei contadini furono o comperati o strappati con minaccie, ed andarono a favorire l'affittaiuolo più ardito, più ambizioso del luogo. Volevano gli affittaiuoli occupare tutti i sindacati, riempire i consigli comunali di creature ad essi ligie e divote, imporre a loro capriccio i comuni, impedire le riforme e i progressi della pubblica istruzione, la costruzione di nuove strade che favoriscono le relazioni fra le varie provincie italiane, farsi eleggere deputati, nutrire ed invigorire il goffo malcontento dei contadini, mantenendoli oppressi sotto il triplice flagello della miseria, della ignoranza e della superstizione, e preparare il ritorno della dominazione straniera, ch'essi desiderano, non per altro se non perchè considerano gli austriaci come i nemici della classe dei possidenti.

Queste avare, ambiziose, e poco oneste mire non ebbero sin qui effetto per varie ragioni. In qualche località furono tacitamente combattute da alcuni uomini dabbene, che svelarono al popolo le trame ordite, e li protessero contro le minacciate conseguenze della loro ribellione. Ma nel maggior numero dei casi le congiure andarono a vuoto, perchè concepite senza prudenza nè abilità di sorta. Il più vivo desiderio degli agricoltori ambiziosi era il farsi eleggere deputati. Ciò credevano di conseguire trascinando al collegio elettorale la maggioranza dei voti del loro comune, maggioranza che si trasformava in una impercettibile minoranza quando trovavasi a fronte dei votanti dell'intero collegio.

Il perno dell'ambizione del nostro contadino arricchito essendo appunto la deputazione, lo scacco toccatogli nelle elezioni gli tarpò le ali. Ma questo sgomento non si perpetuerà; ed il ricco agricoltore, risoluto di rappresentare al parlamento gli interessi agricoli, tesserà nuove trame per rendersi gradito agli elettori. Se un certo numero di codesti ambiziosi si fa strada nel parlamento, gli interessi agricoli della nazione (interessi interamente estranei ai possidenti fondiari) verranno presentati sotto falsi colori al pubblico e all'assemblea; i pretesi rappresentanti di questi interessi acquisteranno una notevole influenza sui loro colleghi, perchè saranno da essi considerati a priori come i soli che bene li conoscano, e che abbiano ragione di volerli protetti. Nessuno sognerà che l'agricoltore voglia arricchirsi rovinando l'agricoltura e il paese; e ciò non accadrebbe diffatto, se la ignoranza e la malignità del contadino arricchito non fossero del pari grandissime, e se la noncuranza dei possidenti non le uguagliasse.

Importa assai che mentre le cose sono ancora in questo stato, i possidenti prendano cognizione della condizione delle loro terre e dell'agricoltura, dei trattamenti a cui soggiacciono i loro contadini, delle conquiste operate nelle scienze naturali dalle vicine nazioni e dei loro effetti sull'agricoltura, delle leggi economiche e finanziarie, alle quali deve uniformarsi una nazione che voglia prosperare e non sentirsi inferiore alle altre. In una parola il possidente deve assumere per conto proprio quella parte della società agricola che l'agricoltore tenta di usurpare per fini suoi privati e dannosi. Perchè permettere che fra il contadino ed il signore, fra il popolo e la classe dei cittadini colti, direi volontieri tra il padre e il figlio, sorga un intruso, il cui intento è di seminar zizzania fra questo e quello, di presentare l'uno all'altro sotto falsi e calunniosi colori, per rovinare il ricco e per dominare il povero, e ciò perchè vittime anch'essi della più profonda ignoranza e delle perverse passioni generate da questa, credono (ed a torto il credono), di potersi innalzare sulle universali rovine?

Facciamo tutti ed ognuno di noi il nostro dovere. Ricordiamoci che in un paese libero, governato dalla nazione stessa per mezzo de' suoi rappresentanti, ogni uomo, per grande o per infima che sia la condizione sua propria, è un servitore del pubblico, e non v'ha colpa o sciagura nazionale di cui non debba sentire anch'esso rimorso e danno. L'oppressione, sotto cui abbiamo troppo a lungo trascinata la vita, ne ha insegnato a considerare il riposo come il degno oggetto delle nostre legittime aspirazioni.

Fatale errore è quello che trova nella nostra costituzione fisica, come popoli meridionali, un deplorabile ausiliario. Nessuno ha il diritto di riposare, mentre la nazione sta componendosi ed ha bisogno di aiuto. Gli infingardi sogliono giustificare la infingardaggine loro dicendo, che v'hanno braccia sufficienti per compiere le opere incominciate, e per portare il peso delle pubbliche faccende. Tale asserzione è falsa. Il cittadino che non deve alla patria una parte delle sue facoltà, non può essere che un uomo privo affatto di facoltà; ma colui che è capace di operare qualche bene, non può rifiutare alla sua patria una parte de' suoi talenti, della sua operosità, delle sue forze. Nè la nazione, nè il governo non sono esseri distinti e divisi dal singolo cittadino, chè il cittadino forma parte integrante dell'una e dell'altro. I governi despotici hanno un'esistenza indipendente da quella della nazione governata, e per conseguenza da quella degli individui di cui questa si compone. Vi è quasi sempre un latente antagonismo fra il governo despotico e la nazione governata dispoticamente; ma tale antagonismo non si manifesta se non per accessi intermittenti, e negli intervalli di calma l'osservatore superficiale può figurarsi che il governo e la nazione altra relazione non abbiano oltre quella del padrone col servo. — Ma in un paese libero, che si governa da sè medesimo, mediante i suoi rappresentanti, non vi è atto governativo, non vi è vicenda nazionale a cui un cittadino possa rimanere estraneo ed indifferente. Ognuno porta la parte sua della responsabilità delle risoluzioni governative, siccome ognuno divide e risente le conseguenze delle sciagure nazionali e dei nazionali vantaggi.

Questo è quello che molti fra gli italiani ignorano, o fingono d'ignorare, per non essere costretti dalla loro stessa coscienza ad abbandonare le dolcezze dell'ozio ed arruolarsi fra gli operosi.

Pur troppo v'hanno fra noi molti giovani nati da illustri e cospicue famiglie, educati a tutte le eleganti delicatezze della vita civile, che menano vanto della loro inerzia e della loro indifferenza per le pubbliche cose, che si dichiarano spettatori neutri dello svolgimento nazionale, e credono di dar prova della superiore natura dell'ingegno loro, criticando e deridendo tutto ciò che nel paese e dal paese si opera. Non sanno essi forse che deridendo l'Italia e chi la rappresenta, deridono sè stessi? E come possono essere rispettati dallo straniero, se gli insegnano a sprezzare l'Italia? Se ad essi sembra che i rappresentanti del paese nostro non lo rappresentano degnamente, lo dichiarino schiettamente, ed espongano ad un tempo come dovrebbe essere rappresentato, si dispongano a rappresentarlo, e facciano ogni sforzo per mostrarsi più saggi e più benefici di chi li precedeva. Ma starsene colle mani alla cintola, pavoneggiandosi della propria inerzia, e contenti di versare biasimo, sospetto e ridicolo sopra coloro che alla patria e al dovere hanno consacrato la vita e le facoltà, è questo un contegno così odioso, che la innata generosità della giovinezza dovrebbe bastare a preservarne la crescente generazione.

Quella tendenza al biasimare e al volgere in ridicolo qualsiasi cosa o persona che a noi si presenti con aspetto grave, è una delle piaghe d'Italia.

L'uomo educato e colto non sa frenare la vena sarcastica, e crede far prova d'ingegno fino ed accorto, lasciandole libero il corso. Il popolano che vede il nobile, il ricco, il potente trattare ogni cosa con ischerno e leggerezza, impara a tenere in poco o nessun conto le cose così derise. Quando venne pubblicato il nuovo codice italiano, non vi fu legge o capitolo di esso che potesse sottrarsi alla sferza, non dirò dei giureconsulti, ma di tutti coloro che sanno o che non sanno che cosa sia un codice. I giornali criticavano ogni espressione del nuovo libro, e la critica loro non era già la critica grave e ragionata che si conveniva al soggetto; era la critica esagerata e contorta del Pasquino e Marforio, ed era ripetuta da gran parte dei lettori, non perchè giusta, vera e coraggiosa, ma perchè atta a promuovere le risa. Che cosa ne risultò? Ne risultò questa deplorabile conseguenza, che una gran parte del popolo non ha per la legge del suo paese quel rispetto, nè quella cieca obbedienza, senza la quale il buon ordine e la moralità pubblica sono impossibili. Mi si dirà forse, che se il popolo non rispetta la legge, ciò avviene perchè gli esecutori della stessa non sanno farla rispettare, o perchè la legge medesima non è rispettabile. — Vane asserzioni. Il popolo non è in grado di giudicare del merito della legge, e non dovrebbe creder lecito il tentarlo. Quanto alla taccia che si appone agli esecutori di essa, l'accusa è facilmente rintuzzata; poichè se gli esecutori della legge non la impongono con sufficiente autorità e fermezza, ciò proviene dal disprezzo con cui la vedono accolta da coloro che dovrebbero ciecamente seguirla. Se gli esecutori della nostra legge meritano la taccia di debolezza, nessuno sapeva che essi la meriterebbero, quando appunto fu pubblicato il codice, e la derisione della legge non aspettò per manifestarsi che tale debolezza fosse conosciuta. Se il popolo non si cura della legge, si è perchè vide i suoi maggiori deriderla e farne soggetto dei loro motteggi. Se il buon senso nazionale non pone rimedio a questa malaugurata condizione di cose, verrà un giorno che il disprezzo popolare della legge produrrà delitti e disordini infiniti; e la colpa di questi peserà sul cuore e sulla coscienza dei beffeggiatori spensierati e frivoli, che non sanno por freno alla sbrigliata loro lingua. — Lo stesso accadde per le nuove imposte. Ella era cosa generalmente intesa e conosciuta che il peso delle imposte, cadendo tutto intero ed esclusivamente sulla possidenza fondiaria, era un'enorme ingiustizia, e rendeva impossibile il progresso dell'agricoltura. La tassa sulla ricchezza mobile, cioè sui capitali e sulle professioni, era desiderata e acclamata da tutti coloro che possedevano le prime nozioni della pubblica economia, e considerata come un futuro sollievo per la possidenza fondiaria, che è quanto dire per l'agricoltura. Eppure non appena fu promulgata la legge che imponeva la ricchezza mobile, ecco levarsi da ogni banda un coro di lamenti e d'invettive, come se la nuova tassa fosse destinata a rovinare l'intero paese, e giungesse improvvisa ed a tutti inaspettata. Egli è vero che la legge era male concepita in alcune sue parti, e che il regolamento per l'applicazione di essa, aggiungeva altri errori a quelli contenuti nella legge stessa. Egli è vero, a cagion d'esempio, che il minimum della rendita tassabile, fu stabilito troppo basso, poichè colui che guadagna col lavoro delle sue mani 400 franchi all'anno, ed ha una famiglia da mantenere, non può sottrarre una parte anche minima dal suo meschino guadagno per soddisfare l'esattore, senza risentirne un grave danno. Egli è vero altresì che i poveri non sono mai stati esonerati dal pagamento delle imposte; che ogni capo di famiglia, per povero ch'ei fosse, pagava altre volte il così detto testatico, ossia tassa personale, dalla quale erano esclusi i soli mendicanti, e che il testatico ammontava ad una somma pressochè tripla della tassa sul minimum della rendita, tassa che non giunge a due franchi annui. — Ma chi riflette a queste cose? La tassa sulla ricchezza mobile era nuovamente imposta; e d'altra parte nessuno ama di spendere il suo denaro altrimenti che per l'uso suo proprio. Dunque la nuova tassa spiacque a tutti quelli che vi soggiacquero; e perchè spiaceva loro, non si volle riconoscerne nè la giustizia nè la necessità, e si gridò contro il governo come tiranno e spogliatore. La tassa era stata stanziata dai rappresentanti della nazione; che importa? al solo governo fu imputata, e chi avesse giudicato secondo quanto si vociferava nelle conversazioni, sulle piazze e nei caffè, avrebbe concluso che il governo aveva ordinata arbitrariamente questa nuova imposta per arricchire sè stesso, e non per mettere il paese in condizioni tali che si potesse mantenere libero ed indipendente. — La nazione italiana attraversa ora una difficile prova, per acquistare e consolidare la sua libertà. Questa libertà, essa la possiede, e ne gode così pienamente, che non potrebbe oltrepassarla, senza cadere nel disordine e nell'anarchia. Ma l'acquisto di tanta libertà le costò caro, ed ora essa ne sta pagando il prezzo. — Nulla v'ha di più naturale, di più inevitabile. In sei anni abbiamo dovuto raggiungere sulla via della civiltà tutte le nazioni che vi camminavano da secoli, mentre noi eravamo rimasti immobili nelle tenebre dell'ignoranza e della servitù, in cui ci tenne il dispotismo straniero. Se gli italiani riflettessero freddamente, intenderebbero senza fatica che le conquiste operate debbono costare sagrifizi ingenti, ed avendo risoluto di operare tali conquiste, ne pagherebbero il costo senza lagnarsi e senza accusare alcuno. Ma gli italiani, per quanto appare, non sanno riflettere freddamente, e si consolano delle loro angustie, imputandole ora a questo ed ora a quello. Somigliano in ciò i bambini, che urtando in qualche mobile, si adirano contro lo stesso, e lo battono fieramente, o per castigarlo o per dare sfogo all'ira loro e al loro dispetto. Si direbbe che nessuno o quasi nessuno in Italia avesse preveduto di dover comperare e pagare la sospirata libertà e l'indipendenza, altrimenti che con pochi giorni di combattimento e di entusiasmo. Occorrono invece lunghi e numerosi sacrifizi; e chi non sa incontrarli con animo sereno e tranquillo, non è degno di quei sommi beni, che sono la libertà e l'indipendenza. Ed è appunto la perpetua ribellione contro la necessità di tali sacrifizi che li rende più gravi e meno fecondi. La tassa sulla ricchezza mobile non era soltanto un atto di giustizia e di convenienza; era altresì e principalmente un atto di necessità, poichè senza un aumento determinato della rendita pubblica, il paese era esposto ad un disonorevole fallimento. La commissione pel riparto dell'imposta doveva raccogliere la somma voluta; ma essa non poteva regolarne la distribuzione se non fondandosi sulle dichiarazioni dei possessori di ricchezze mobili. Se questi avessero tutti operato onestamente, dichiarando senza menzogna i capitali da essi posseduti, o la rendita prodotta tanto dai capitali quanto dall'industria loro, la tassa sarebbe caduta su quelli ch'erano atti a portarla, e che appena ne avrebbero sentito il peso. Ma, cosa dolorosa e vergognosa a dirsi, pochi furono quelli che non ricorsero alla menzogna. Persone che spendono una grossa rendita, ne dichiarano la terza o la quarta parte. Molti possessori di carte pubbliche si astennero dal dichiararle, e menarono vanto di questa loro simulazione. Eppure la somma totale prefissa doveva trovarsi, perchè necessaria alla conservazione del credito pubblico; e molti di coloro ch'erano in grado e in obbligo di pagarla, essendosi disonestamente sottratti all'adempimento del loro dovere, i poveri si trovarono naturalmente assai più gravati che non dovevano esserlo. Quindi lagnanze, malcontento ed accuse contro il governo spogliatore, che levava il pane di bocca ai miseri. Chi diceva loro che il governo non avea parte nella distribuzione della tassa, che le menzogne dei ricchi e non la crudeltà del governo, erano la cagione dei loro patimenti, non era ascoltato, e taluni cadevano in sospetto di intendersela col governo, per ingannarli e spogliarli impunemente.

Nelle campagne abbandonate all'influenza dei contadini arricchiti, vi fu di peggio. Gli affittaiuoli riescirono facilmente a farsi nominare membri delle commissioni di riparto, dai consigli comunali che loro obbediscono ciecamente; ed una volta in possesso della tassa, essi trattarono sè medesimi e gli amici loro con tale indulgenza e predilezione, che non pochi fra i poveri artigiani o mercantucci di contado, infelici che non arriverebbero a mantenere le loro famiglie, se la carità del padrone non venisse loro in aiuto, si videro tassati di maggior somma che gli stessi ricchi agricoltori membri della commissione. La nequizia di tale distribuzione era evidente, e doveva essere imputata agli autori di essa, cioè ai membri delle commissioni; ma questi insinuarono ai contadini che le vessazioni di cui erano le vittime emanavano dal governo; e siccome il contadino sa di poter maledire il governo impunemente, e teme di porsi in ostilità colla classe degli affittaiuoli, perciò credette o finse di credere alle menzogne dei commissari, e proruppe contro il governo in improperi e in minacce, sapendo altresì che così facendo otteneva il favore del suo clero. Il governo italiano rispetta la libertà del cittadino, direi quasi con troppo scrupoloso rigore, e non si prende la libertà d'intervenire nelle faccende che la costituzione ha riservate al cittadino, e che al cittadino spetterebbero giustamente, quando esso fosse onesto, sensato ed illuminato. Ma simili cittadini sono in picciol numero fra di noi. Il cittadino, a cui viene affidata tanta parte del governo nazionale, commette errori o colpe, o è vittima di accorti raggiratori; e quando ha rovinato sè stesso e le cose a lui affidate, accusa il governo dell'universale rovina, e biasimando amaramente quello, si dispensa dal biasimare e dal correggere sè stesso.

Così accadde pure in proposito della emissione dei biglietti di banca a corso forzoso. Simili misure, che pur troppo sono talvolta necessarie, traggono sempre dietro di sè molti guai e molti disastri. Spetta ad ogni cittadino di scemare la gravità di quelle tristi conseguenze, accettando la propria parte nel danno comune, ed evitando di far pesare sugli altri più di quanto deve agli altri toccare. Se tutti sentissero la necessità di tal dovere, il danno prodotto dall'emissione della carta moneta non sarebbe intollerabile per nessuno. Ciò che costituisce la ricchezza dei facoltosi, non è il valore intrinseco del denaro ch'essi posseggono; bensì il valore convenzionale che al denaro viene attribuito. Sì fatto valore può essere trasportato ed applicato ad altri oggetti, senza cagionare direttamente un gran turbamento nella condizione finanziaria degli individui. Ciò che rende codeste misure pericolose, si è il discredito che nasce dalle medesime, mentre tutti sanno che nessun governo si appiglia ad esse se non per mancanza di altre risorse. E questo gli nuoce ne' suoi negozi colle banche straniere, e conseguentemente può arenare il commercio e l'industria. Ma quanto agli effetti immediati della carta moneta sul ben essere dell'individuo cittadino, questi sarebbero appena sensibili, se tutti vi si rassegnassero onestamente. Ma così non accade. Non solo v'hanno molti che non vogliono soggiacere nè a danni nè ad incomodi, ma v'hanno pure di quelli che non esitano a trar profitto della sventura altrui, e che speculano su di essa. Quanti comperarono immediatamente tutto il denaro coniato già in circolazione, e negarono di cangiarlo coi biglietti di banca se non ricavavano una somma assai maggiore dalla somma che davano, attribuendo così alla carta un valore arbitrario assai al di sotto di quello che le dava la legge! Allora incominciarono gli imbarazzi, i danni reali, la confusione dei valori e dei loro surrogati. Il corso forzoso della carta non valse a mantenerne il valore, poichè i mercanti quasi tutti ricusavano di rimborsare, sia in denaro sia in carta, il di più del valore degli oggetti che si pagavano colla carta. Voglio dire che se uno voleva comperare un oggetto stimato cinquanta franchi, dando un biglietto di cento franchi, e ricevendone indietro cinquanta, questi incontrava un'invincibile resistenza nel mercante, e si vedeva costretto o a pagare cento ciò che valeva cinquanta, o a comperare un supplemento di mercanzia che lo addebitasse di cento franchi, o a costituirsi debitore per l'oggetto di cinquanta, o a rinunziare all'acquisto di esso.

Sulle prime s'imputavano questi inconvenienti all'inavvertenza del governo, che aveva emessi soltanto dei biglietti di cento franchi, invece di emetterne di venti, di dieci, di cinque, e persino di un franco. Il governo si decise dunque di aderire al pubblico voto e di emettere biglietti di minor valore. Ma appena questi comparvero, che di bel nuovo sparirono: gli speculatori se n'erano impadroniti, e l'illecito mercato, che li aveva arricchiti col cambio della carta contro il denaro, ricominciò sul cambio dei grossi biglietti contro i piccoli. Ed il pubblico, poco intelligente delle vere cagioni de' suoi danni, si adirava contro il governo, che sebbene avesse promesso di emettere gl'indicati biglietti, li emetteva in così piccola quantità che diventava quasi impossibile di ottenerne. Certo che il governo avrebbe potuto farne una nuova emissione; ma a che pro? Gli speculatori che avevano fatto monopolio dei primi, lo avrebbero fatto anche dei secondi, e la condizione del popolo non sarebbe punto migliorata.

Poscia fu promulgato il prestito forzoso. La somma chiesta dal governo fu assai minore di quella generalmente aspettata. Le condizioni fatte ai fornitori del denaro erano così favorevoli, che un capitalista avrebbe trovato difficilmente un migliore impiego de' suoi capitali. I capitalisti non hanno durato fatica ad intendere il loro interesse; ma non soddisfatti del lecito profitto ad essi riservato dalla legge, alcuni di essi, sotto il manto di una lodevole sollecitudine pel pubblico bene, hanno come preso ad appalto il debito di certe località, anticipando i capitali a chi ne difettava (e questi disgraziatamente sono molti), vendendo il loro denaro a caro prezzo, ed usurpando con ciò il profitto che la legge aveva destinato a tutti. Quando i ricchi, e generalmente parlando le persone poste in condizione eminente, danno l'esempio della cupidità e della rilasciatezza nei principii di moralità, tale esempio è seguito con ardore da ogni classe di persone. Ella è cosa dolorosa e vergognosa ad un tempo il vedere i pubblici impiegati, sia delle ferrovie, sia d'altre pubbliche aziende, rifiutare la carta che vien loro presentata, e rispondere ai meritati rimproveri che loro si fanno con un ghigno malizioso ed insolente, che tali sono gli ordini del governo, che al governo debbono rivolgersi per ottenere giustizia, risarcimento, ecc. ecc. E le vittime della disonestà cittadina maledicono il governo, che altra parte non ebbe nei loro danni, se non col forse soverchio rispetto dell'individuale libertà, e coll'astenersi d'intervenire nelle private convenzioni quando non ne era richiesto da alcuna delle parti. Il nostro governo, il ripeto, rispetta la cittadina libertà, come va rispettata da un governo costituzionale, in un paese libero, le cui popolazioni apprezzano il benefizio della libertà, e se ne mantengono degne, seguendo i dettami di una rigorosa moralità. Disgraziatamente il paese nostro non corrisponde al rispetto che a lui mostra il governo. Questo tratta il paese come degno e capace di una libertà pressochè illimitata; ma il paese non è per anco nè degno nè capace di esercitare senza tutela i privilegi di tanta libertà. In certe classi cittadine l'amore del lucro domina ogni altro sentimento, e la libertà è impiegata ad ottenerne gli intenti con qualsiasi mezzo. In altre l'amore dell'ozio si è impadronito dei cittadini, riducendoli alla indecorosa condizione di spettatori dei pubblici eventi, mentre dovrebbero prendere in essi la loro parte. Tutte le istituzioni che assicurano la patria libertà, cadono in disuso e sono neglette per la pigrizia di chi dovrebbe difenderle.

Vedete la guardia nazionale, che arma il paese contro qualsiasi usurpazione, sia del governo, sia delle fazioni; che mette l'ordine e la sicurezza pubblica sotto la salvaguardia dei cittadini, e li avvezza al maneggio delle armi, sicchè possano, quando ne nasca il bisogno, trasformarsi prontamente in soldati. Gli amatori dell'ozio, fanno le beffe di così bella istituzione, per iscusarsi di non assumerne i pesi; e le file della milizia nazionale vanno di giorno in giorno diradandosi. — Vedete l'istituzione dei giurati. Le liste dei cittadini, destinati a sentenziare sulla colpabilità degli accusati, si compongono in gran parte di persone ignoranti, o svogliate, che considerano questo privilegio e questo diritto cittadino come un attentato contro i loro comodi e quell'altro loro diritto di starsene colle mani alla cintola. — Vedete il più importante, il più prezioso di tutti i diritti cittadini; quello cioè che concede alle popolazioni di mandare al parlamento i loro deputati, ch'è quanto dire di esercitare mediante i loro rappresentanti la sovrana autorità. Tale istituzione anch'essa fu prima beffeggiata e poi negletta; per modo che ai collegi elettorali non interviene ormai che una piccola frazione degli elettori iscritti, e la deputazione forse nulla più rappresenta, che i maneggi di alcuni ambiziosi e la colpevole indifferenza dei più. Ed anche di ciò si scusano i pigri, trattando con disprezzo quell'istituzione, prima colonna della nazionale libertà. Udite con che scherno parlano gli oziosi della rappresentanza nazionale! I deputati altro non fanno che ciarlare ed attendere ai privati loro interessi. Se si risponde loro che, ciò supposto vero, tanto più corre ad essi l'obbligo di scegliere con maggior accuratezza i nuovi deputati, alzano le spalle, affermando che tutti gli aspiranti alla deputazione sono della medesima tempra, che l'occuparsi di elezioni altro non è che un perditempo, ecc. ecc.

Sembra a vederli e ad udirli che in questi sei anni essi abbiano penetrato nelle profondità del governo costituzionale, e ne abbiano riconosciuta tutta la inanità. Le istituzioni che l'Inghilterra difende e mantiene con gelosa cura da tanti secoli; le istituzioni che la Francia ha comperato con tante rivoluzioni e tanto sangue, che non seppe conservare, e dietro le quali sospira con rammarico e dolore; le istituzioni che l'Europa intera si sforza di ottenere, e che ottenute soddisfano le aspirazioni liberali dei popoli più civili; le istituzioni che nel corso di due secoli crearono l'America, e la resero l'oggetto dell'universale meraviglia; queste benefiche, queste nobili istituzioni, noi, nati ieri, le abbiamo giudicate nello spazio di sette anni, e le abbiamo condannate come cose puerili, vane ed indegne del nostro rispetto. Mi perdonino i miei compatrioti, se dico loro che un tale giudizio è indegno di una nazione che rispetta sè medesima, e che vuol essere libera ed indipendente.

La guerra del 66 ha messo in chiaro una verità importantissima, ed è che la scienza, l'intelletto e la coltura intellettuale valgono più del numero, della forza e del coraggio anche sui campi di battaglia. A qual cagione si attribuiscono i mirabili trionfi della Prussia? Alla scienza de' suoi generali, e al fatto che nessun cittadino è ammesso nelle file dei difensori del paese, se non ha seduto pel corso di sei anni sulle panche delle pubbliche scuole. Questa verità, questa superiorità del sapere sovra la forza materiale fu confessata da tutti; e si confessava altresì che il poco successo delle nostre armi deve essere imputato alla nostra ignoranza. Ne gioverà essa questa lezione? L'avvenire risponderà; ma quanto al passato fa d'uopo avvertire che in questi ultimi sei anni l'ignoranza nostra andò sempre crescendo. Gli studenti disertano le università, i professori, stanchi di professare nelle aule vuote, disertano le cattedre; e l'ultimo ostacolo posto alla prepotenza dell'ignoranza, il rigore dei pubblici esami, è rovesciato dagli studenti, che tratto tratto si ribellano, si rifiutano agli esami, ed esigono che il governo abbandoni il sistema che li costringe ad aprire qualche libro. E il governo cede a tali deplorabili esigenze, per evitare il disordine, gli scandali e la taccia di pedantesca tirannide. Il governo dovrebbe resistere, punire i rivoltosi, e mantenere la regola stabilita; ma egli è pur troppo vero che l'intolleranza degli oziosi è giunta a tale estremo, che la resistenza e la fermezza del governo darebbe luogo sulle prime ad ogni sorta di calunniose imputazioni e forse anco a scene scandalose. Il governo in questa occasione, come in tante altre, si comporta come dovrebbe comportarsi verso una nazione civile e degna della libertà: lascia che la nazione si governi da sè, seguendo i proprii lumi, le proprie facoltà. Ma si è egli assicurato che noi siamo in grado di governarci da noi? Se il governo volesse sciogliere questo problema, scoprirebbe tosto la nostra insufficienza; ma esso non si crede in diritto di varcare i confini stabiliti dallo statuto. Lo statuto costituzionale suppone una nazione civile, intelligente ed onesta; perciò ha fissato al governo certi limiti, oltre i quali esso non si è mai spinto. Esso si mantiene scrupolosamente fedele al giuramento prestato, e nessuno può di ciò biasimarlo: la nostra disgrazia consiste nell'avere uno statuto forse troppo largamente liberale; ma quando questo fu promulgato doveva reggere una sola provincia italiana, una delle più incivilite ed illuminate, se non la più civile e colta. La libertà di cui questa non avrebbe abusato, diventa eccessiva quando concessa all'intera nazione.

Noi non pretendiamo che i componenti il nostro governo non abbiano commesso errori, ed errori gravi. Ne abbiamo notati parecchi, e li abbiamo amaramente deplorati. — Ma ciò che vorremmo chiarire agli occhi della nazione si è il fatto, che codesti errori non furono commessi da un ente morale da essa distinto e ad essa estraneo. Il governo italiano altro non essendo se non una rappresentanza della nazione italiana, da questa stessa emanata, i difetti che si osservano nel nostro governo, sono i difetti nostri; i suoi errori, gli errori nostri, ai quali esso partecipa come partecipa alle nostre virtù.

La più cospicua di queste ultime, quella però da cui sorgono per noi e pel governo nostro molti danni, si è l'immaculato rispetto delle nazionali libertà, e dello statuto che a noi le assicura e le garantisce. — Vi è chi parla ancora del governo repubblicano come del solo sotto cui sieno sicure codeste libertà; ma nessuno che non sia traviato ed illuso dal vano rimbombo di sonore parole, nessuno che non abbia interamente perduto il senso comune, non vede che le libertà nostre sono piuttosto eccessive che imperfette. — La prova ne sta appunto nell'abuso che di esse facciamo, e nella costanza con cui il governo si astiene dall'approfittare dei nostri falli per abolirle. Chi può dire che vi sia maggior libertà nei cantoni elvetici (la sola repubblica esistente in Europa), o che si godessero maggiori libertà in Francia, quando questa reggevasi a repubblica, e i suoi cittadini espiavano col sangue la terribile colpa di chiamare i loro figli coi nomi dei padri loro, o di pregare Iddio nel modo che ad essi era stato insegnato dalle loro madri? La stampa non è forse piuttosto licenziosa che libera? Il diritto di riunione non fu esso sempre rispettato, sino a che non divenne sinonimo di disordine? Ed oggi ancora, dopo tanti sfortunati esperimenti, un tal diritto non è forse mantenuto, e ristretto soltanto in particolari circostanze, in casi affatto eccezionali? Le elezioni dei deputati al parlamento non sono esse così libere, che vediamo poi la camera stessa, formata da quelle, cassarne un gran numero? Non parlerò della stranezza delle opinioni così rappresentate nel parlamento: ricorderò solo che vi fu una elezione cassata dalla camera, perchè l'eletto aveva subìto condanne infamanti, non già per delitti politici, ma per delitti ordinari, e che il governo italiano non era intervenuto ad impedirla, fidando pazientemente nella revisione parlamentare. Credo che così facendo il governo seguisse religiosamente la via che gli tracciava lo statuto e la legge elettorale; ma, lo ripeto per la centesima volta, vi sono dei paesi e dei tempi in cui la stretta legalità può essere fonte di gravi danni.

Una gran parte degli uomini che ne governano, e la real famiglia intorno alla quale va stringendosi l'Italia, governarono sino al 59 un picciol paese, una picciola, ma forte e saggia popolazione: quindi si trovarono quasi magicamente trasportati alla testa di una nazione di oltre venti milioni di anime, sparse lungo la penisola italica, colla missione di formare uno stato compatto di tanti stati divisi, e spesso stati nemici fra di loro; di comporli a nazione; di correggere, o, diciamo meglio, di distruggere i letali effetti di tanti secoli di servitù e di pessimo reggimento; di dotare le provincie annesse dei benefizi di una civiltà, da cui i loro governi assoluti e tirannici le avevano tenute deliberatamente lontane, e al tempo stesso di difendersi dai nemici che tuttora rimanevano sul nostro territorio, e di metterci in grado di scacciarnelo al più presto. Tutto ciò richiedeva ingenti somme di danaro; attività straordinaria; acutezza d'intelletto, prudenza instancabile, impero assoluto sulle proprie passioni, che mai non debbono dominare l'uomo di stato; coraggio a tutta prova, sì morale che fisico, sagacità, perspicacia, prontezza e sicurezza di concetto, fermezza e precisione nell'esecuzione dei ponderati disegni, disinteresse personale, probità riconosciuta, onoratezza, lealtà, veracità, ossia avversione invincibile alla menzogna. Tali sono, (e ne ho tralasciate altre molte) le doti, in parte naturali ed in parte acquisite, che debbono distinguere i ministri di uno stato retto costituzionalmente. Uomini siffatti sono poco numerosi in qualsiasi contrada: rarissimi tra noi, così di recente nati alla vita sociale e politica. — Uno ne avevamo, che sarebbe stato il primo fra i sommi delle nazioni più incivilite e colte, come la Francia e la stessa Inghilterra. Si sarebbe detto in vero che la Provvidenza ne aveva fatto dono di uno di questi, per sottrarci a quella secolare servitù, che ci disonorava, e minacciava di perpetuarsi a nostro danno. Ma se la Provvidenza ce lo aveva dato, convien dire ch'essa ce lo ha ritolto; e lo ritolse prima ch'egli provasse nella sua piena amarezza l'ingratitudine di una nazione che da lui teneva l'esistenza, ossia l'indipendenza e la libertà. Forse che la Provvidenza volle farne conoscere, e toccare con mano, quanto era per noi malagevole il guidarci nei torbidi mari della politica, della diplomazia, e dello spirito di parte. — Fra tanti ministri che si sono succeduti al nostro governo dopo la morte del conte Cavour, non credo che si possa senza ingiustizia condannarne un solo come assolutamente inetto, o come disleale e traditore. E difatto nessuno fra i più accaniti oppositori che alcuni collegi elettorali mandarono al parlamento colla espressa missione di rovesciare almeno un gabinetto, nessuno fra quegli stessi deputati che ricevono da Giuseppe Mazzini le loro inspirazioni, si provò d'intentare una formale accusa contro un ministro. Se i nostri ministri commisero errori, chi non ne avrebbe commessi al loro posto? Gli errori di coloro che reggono uno stato, vanno annoverati fra le piaghe inerenti alla natura degli uomini e delle cose, che nessuna umana prudenza e previdenza potrà mai cicatrizzare o evitare. Al governo italiano spettava il dovere di fare un'Italia, dotandola di libertà e d'indipendenza. L'Italia è fatta, libera ed indipendente. Si dovrebbe condurre il nostro governo al Campidoglio, piuttosto che alla Rupe Tarpea.

CAPITOLO QUARTO SPIRITO DI PARTE

Con questa locuzione, Spirito di parte, intendo accennare ad un sentimento che lega fra loro i partigiani di una dottrina, o i seguaci di un uomo qualunque egli siasi, quando questo sentimento abbia raggiunto l'esaltamento della passione, a tal segno da acciecare chi da esso è dominato, da offuscarne l'intelletto, e far sì che la dottrina, o l'uomo oggetto di quella idolatria, si anteponga ad ogni altra cosa, e che il sostenere questo o quella sembri il primo, anzi l'unico dovere imposto al partigiano.

Una fazione composta di uomini così fatti è sempre pericolosa pel paese dove si è formata. I cittadini che ad essa appartengono non conoscono più nè patria, nè patriottismo, e più non si curano nè di libertà, nè di nazionalità, nè d'indipendenza; o, per dir meglio, confondono tutte queste cose, le credono concentrate nella loro stessa fazione, e pretendono che adoperandosi al suo trionfo, adempiono ai loro più imperiosi doveri verso la patria, e le procurino ogni sorta di beni, libertà cioè, nazionalità, indipendenza, prosperità, fama, ecc. ecc.

Convincere dell'error suo un uomo invaso dallo spirito di parte, è cosa pressochè impossibile; ed è perciò che, non solo gli uomini di opinioni moderate, i patriotti, e gli amici dell'ordine nell'amministrazione delle pubbliche cose, rifuggono da tutto ciò che riveste l'aspetto di fazione, ma che i faziosi stessi, i meno accecati ad ogni evento, si mostrano bene spesso desiderosi di non essere confusi con quelli che accettano il titolo di faziosi; e vanno ripetendo: che non appartengono a fazione veruna; che sono indipendenti da qualsiasi legame di parte; che parlano per convinzione loro propria, e non perchè così parlano i loro amici, ecc. ecc.; e tali proteste hanno per iscopo di ottenere l'attenzione di chi li ascolta o li legge, essendo a tutti noto che le opinioni dettate dallo spirito di parte non sono generalmente tenute in alcun conto. — Il che solo dovrebbe bastare ad emancipare dallo spirito di parte ogni uomo di sano intelletto e di buona volontà.

Ma appunto perchè dallo spirito di parte si ripetono molti scandali, disordini e sciagure, non di rado avviene che ad un fantasma di fazione o di spirito di parte s'imputino i poco fondati malcontenti, le assurde pretese, le esagerate opinioni, la intolleranza di ogni salutare disciplina, il negato rispetto alla legge, e tutte quelle pecche civili e politiche, a fronte delle quali riesce troppo difficile il governare, e diventa pericolosa la libertà, mentre l'accusato spirito di parte non esiste di fatto. Ciò si verifica sovente in Italia, e ne vediamo ogni giorno gli esempi.

Molti sono da noi i malcontenti. — Ambiziosi, delusi nelle loro speranze, animi poco generosi e poco divoti alla patria, feriti nei loro interessi, e costretti a pagare le sempre crescenti imposte, senza le quali non sussisterebbe l'Italia; oziosi, turbati nel pacifico godimento degli agi loro; timidi, che sentono per la prima volta rossore della loro codardia; impazienti, che vorrebbero seminare e raccogliere nello stesso giorno; stolti, che non intendono perchè occorra di aver seminato per raccogliere; fanatici, che sognavano la creazione spontanea di un nuovo paradiso terrestre. Tutti questi e molti altri ancora, che tralascio di nominare per amore di brevità, sono e si dichiarano malcontenti del modo con cui siamo governati, perchè al governo s'imputano sempre gli errori dei governati. Codesti malcontenti, che malcontenti sarebbero sotto qualunque reggimento o forma di reggimento, si sforzano di dare al malcontento loro un certo aspetto di disinteresse, che lo nobiliti e lo innalzi al di sopra delle puerili loro lagnanze.

Essi cercano inoltre di appoggiarsi ad altri malcontenti, che sappiano farsi un'arma del loro malcontento, e collegarlo a certe dottrine politiche, imputando le sventure di cui si lagnano al poco gradimento che codeste dottrine incontrarono nel maggior numero degli italiani. — In tal modo quei pochi repubblicani, che si mantengono ostili al nostro governo e all'Italia, perchè sono divoti alla forma di reggimento repubblicana più che all'Italia stessa, si vedono sovente seguiti, ascoltati, invocati, e portati alle stelle, da una turba di malcontenti, che loro si stringono intorno, perchè da essi sperano udire parole di conforto, in armonia coi loro sentimenti; e per parlare schiettamente e senza velo, perchè sono certi di udirsi dire che hanno ragione di maledire l'attuale ordinamento di cose, e gli uomini posti al governo del paese. Così si compongono le moltitudini che assistono ai così detti meetings, tenuti da qualche famigerato repubblicano che trovasi di passaggio nelle nostre città. Così si fanno le elezioni, quando gli amici delle agitazioni politiche affiggono sulle mura delle città o dei borghi cartelloni, su cui sta scritto il nome di un agitatore con simili raccomandazioni: Elettori! se volete por fine agli abusi, alle illegalità, alle malversazioni, ecc. ecc. di cui a ragione vi lagnate, scegliete per vostro rappresentante il cittadino N. N. Così acquistano abbonati e lettori i fogli periodici, qualunque ne sia il valore ed il merito, che si diedero la missione di biasimare e di condannare ogni atto governativo.

Ma se alcuno da questi fatti credesse di concludere che la moltitudine accorsa ad udire le parole di un ben noto repubblicano, o gli elettori che lo scelsero a loro rappresentante, o tutti quelli che leggono avidamente le sue quotidiane diatribe contro il governo, ne approvano, e ne dividono le opinioni e le dottrine; egli commetterebbe un madornale errore, e mostrerebbe di non conoscere la natura di quelle genti. — Credo che da per tutto i malcontenti tendano ad associarsi ad altri malcontenti, senza indagare se la cagione del comune malcontento sia la stessa per gli uni come per gli altri; ma nel nostro paese questa tendenza deve essere più diffusa ancora che altrove, perchè le passioni vi sono più ardenti, impetuose e spensierate, che nei paesi più freddi e meglio assestati. — Se ai partigiani delle dottrine repubblicane non si unissero i partigiani di ciò che non esiste, ossia gli oppositori di tutto ciò che esiste, si vedrebbe a che si riduce da noi la fazione repubblicana. — E lo vedrebbero ben tosto i pochi repubblicani che tuttora si mantengono tali, e sono per così dire monumenti dell'epoca dei lunghi esilii politici, e della patria servitù, se per uno di quelli accidenti, impossibili a prevedersi, si trovassero un giorno assunti al potere: vedrebbero ben tosto, con qual fondamento supposero che i malcontenti di un governo monarchico dovessero essere partigiani divoti di un governo repubblicano. E siccome i repubblicani, che ora suppungo assunti al potere, non potrebbero nè prodigare gli onori e gli impieghi agli oziosi, nè contentarsi delle spontanee largizioni di coloro che si sdegnano contro il regolare sistema delle imposte, nè pesare ed apprezzare il valore di ogni singolo cittadino colla bilancia della sua individuale ambizione; i repubblicani saliti in seggio si vedrebbero tosto abbandonati da coloro che li seguivano un tempo, non perchè ne dividessero le opinioni, ma perchè li consideravano come malcontenti di ciò che non era di loro soddisfazione.

A parer mio lo spirito di parte propriamente detto non esiste in Italia, per quanto si riferisce alla fazione repubblicana.

In tutti i paesi che furono subitamente sconvolti da rivoluzioni politiche, e che mutarono rapidamente un reggimento in un altro affatto opposto, rimangono certe memorie, certe abitudini, certe tendenze a vedere e a giudicare ogni cosa sotto l'aspetto in cui si sarebbero vedute e giudicate altre volte, certa facilità di obliare gli inconvenienti del distrutto governo, e di anteporlo a quello che gli è subentrato, i cui difetti, perchè presenti, appaiono assai più odiosi di quelli di cui più non esiste che la memoria; e da tutte queste abitudini, da queste tendenze, da queste memorie nasce una fazione politica, che ha per oggetto il ritorno al passato, e da cui si dà nome di retrograda, o di partito della reazione, perchè i suoi seguaci reagiscono difatti contro il primo e forse esagerato amore dei mutamenti e delle novità che producono le rivoluzioni. — Questo ritorno alle idee e al modo di sentire del passato, fu quasi sempre la vera cagione degli eccessi a cui si portarono troppo sovente i novatori, o rivoluzionari, perchè il pensiero di ricadere nell'abisso, da cui con tanti sacrifizi, e con tanti sforzi riescirono di recente ad uscire, sembra ad essi la maggiore sventura e la più vergognosa catastrofe che mai possa loro accadere; cosicchè i retrogradi sono dai novatori considerati come propri nemici e nemici della pubblica salvezza, e fra gli uni e gli altri si accendono le ire più implacabili e violenti.

Da noi non esiste la fazione politicamente retrograda, e perciò non sono neppure da temersi gli eccessi dei novatori. — V'hanno bensì taluni che confrontando l'amministrazione dei cessati governi, o il regolare andamento della procedura civile, o tale altra frazione del vecchio ordinamento, con ciò che fu loro sostituito, giudicano le prime superiori alle seconde; e se tale confronto è fatto da chi abbia appartenuto all'antica e non appartenga all'attuale amministrazione, può darsi che la inferiorità di quest'ultima non sia da lui riconosciuta senza un segreto contento. Ma nessuno fra gli italiani, neppure fra coloro che hanno perduto, per gli avvenimenti del 59 e del 60, potere e ricchezze, rimpiange il cessato dominio, ed ardisce desiderarne il ristabilimento, foss'anco nel più segreto del cuor suo. — Dicesi che fra i principi e i duchi della corte Borbonica si trovano dei dolenti per quella antica casa reale, e degli invincibili renitenti all'ordine attuale delle cose nostre. — Di ciò sono ignara; ma ciò di cui sono convinta si è, che quei renitenti (supposto che ve ne sieno di fatto) non sanno precisamente nè che cosa rimpiangono, nè che cosa desiderano. E se stesse nelle mani di uno di essi l'avvenire del regno d'Italia, dubito assai che gli reggesse l'animo di distruggerlo. Molte cose si dicono, che non si direbbero se le parole avessero l'importanza dei fatti. — Il piangere sulle sventure di una casa caduta dal trono nel nulla, ha un non so che di poetico e d'innocuo, che può sedurre chi non ha mai veduto oltre l'esterno delle cose, e non ha mai pensato alla parità dei diritti concessi da Dio a tutte le sue creature, e per conseguenza alla somma di benefizi necessari perchè il potere assoluto dei sovrani sia legittimo o per lo meno giustificato. Ma chi parla senza riflettere, non opererebbe sempre colla egual leggerezza ed inconsideratezza. D'altra parte questi divoti agli antichi padroni non saranno mai in numero sufficiente per formare neppure un nucleo di fazione politica. Il passato non ha lasciato fra noi che amarissime memorie, dolorosissime cicatrici; e se a quei malcontenti, che più aspramente si lagnano del governo italiano, venisse dimostrato che colle loro lagnanze essi rendono possibile il ritorno del passato, tutti farebbero silenzio, ed in questo persisterebbero quanto lo permetterebbe il loro naturale, oltremodo inclinato alla critica ed al biasimo. — Il solo partito che potrebbe far valere alcun titolo al nome di fazione politica, ed i cui membri siano veramente sostenuti, animati, e condotti dallo spirito di parte, si è il partito così detto clericale. Questo sa che cosa vuole, e perchè lo vuole, riconosce dei capi, e da questi si lascia guidare.

Ogni fazione politica si divide in due categorie: l'una comprende gli uomini di buona fede, che si sforzano di conseguire un risultato, perchè lo credono giusto e salutare; l'altro si compone di ambiziosi o di cupidi, che dal trionfo della loro fazione aspettano il privato loro vantaggio. — Di questi ultimi non occorre parlare, poichè sono in ogni tempo e in ogni condizione i medesimi; ma i primi hanno un carattere proprio, che li distingue dai clericali politici di qualsiasi altro paese, e di questi parlerò con qualche estensione.

La fazione clericale è naturalmente e in ogni dove la più formidabile delle fazioni politiche: non solo perchè ne è la più compatta, la meglio disciplinata, la più docile ai comandi de' suoi capi, e quella i cui capi sono più prudenti, più accorti e più illuminati di tutti; ma altresì perchè i faziosi che ad essa appartengono credono, mantenendosi tali ed operando come tali, di compiere un sacrosanto dovere, e sono convinti di riceverne quindi una rimunerazione che di gran lunga avanza ogni terrena, ogni mondana prosperità o ventura. La superiorità di tale fazione sopra qualsiasi altra è dovuta inoltre alla sua tendenza ad unirsi e ad associarsi a tutti coloro che piangono altri beni perduti, e che per un motivo o per l'altro sono a buon diritto annoverati fra i retrogradi. — Questo nome di retrogradi si applica generalmente ai clericali, che vorrebbero ricondurre le moderne società ai tempi in cui il clero primeggiava per la sua superiore istruzione e coltura, e gli venivano attribuite autorità e virtù speciali, come suoi esclusivi privilegi. Questa tendenza della fazione clericale ad impossessarsi e ad inscrivere su' suoi roli tutti i retrogradi, non si verifica nei clericali italiani del secolo decimonono. — In primo luogo il rinforzo, che i retrogradi fornirebbero alla fazione clericale coll'unirsi ad essa, sarebbe di pochissimo momento; ma il discredito in cui sono fra noi caduti i retrogradi è tale, che la loro alleanza colla suddetta fazione potrebbe riescirle dannosa ed indebolirla, distaccando da essa molti de' suoi partigiani, i quali essendo di buona fede vogliono conservare i beni politici acquistati nel 59, cioè la libertà e l'indipendenza, segnando loro per limite le prerogative e le immunità ecclesiastiche o clericali; quelli insomma che sottoscrivono alla massima del Cavour, libera Chiesa in libero Stato, dando però a quelle parole un significato assai diverso da quello che loro dava lo stesso Cavour, cioè confondendo la libertà della Chiesa coll'autorità e col potere de' suoi ministri. — Cavour intendeva dire, che il capo dello Stato non doveva considerarsi come capo della Chiesa, nè seguire in ciò l'esempio di Enrico VIII d'Inghilterra, nè quello degli Czar della Russia, nè di alcuni altri sovrani di nazioni che professano la religione cristiana riformata; ma che la Chiesa italiana doveva essere indipendente nelle sue relazioni colle coscienze dei fedeli, e in tutte quelle cose che non cadono sotto il dominio della legge civile; mentre i clericali che sottoscrivono al detto, libera Chiesa in libero Stato, intendono che la Chiesa, ossia il clero sia libero di modificare l'ordinamento politico e civile, opponendosi ad esso quando ciò gli sembra opportuno, e debba conservare nella sua qualità di clero quelle immunità e privilegi, di cui godeva nel passato, ed a cui nessun laico pretende. — Ognun vede quale differenza passi fra codesti clericali ed i retrogradi, i quali vorrebbero richiamare il passato con tutte le sue sciagure e le sue vergogne. Ed i nostri clericali sentono così fortemente il bisogno di appoggiarsi a tale differenza, loro salvaguardia rispetto alla pubblica opinione, che ne menano gran vanto; e quand'anco i retrogradi fossero assai più numerosi che non lo sono di fatto fra noi, credo che i clericali ne respingerebbero l'alleanza, piuttosto che correre il pericolo di essere confusi con loro.

La rivoluzione, o per meglio dire il risorgimento della nazione italiana, ha creato un inevitabile antagonismo fra il clero e la parte laica di essa. — La più apparente origine di tale antagonismo si fu la quistione romana, cioè la pretesa (giusta a parer nostro) di considerar Roma come qualunque altra città italiana, di lasciare ai romani la facoltà di disporre di sè stessi, e di scegliere se vogliono rimanere sudditi del Pontefice, o unirsi a tutto il rimanente d'Italia, di cui la città loro sarebbe necessariamente, perchè naturalmente, la capitale. — Contro sì fatta pretesa insorgeva e protestava la Corte romana, asserendo esserle il potere temporale affidato dallo stesso Supremo ordinatore delle cose create, non altrimenti che le affidava l'autorità spirituale come capo della Chiesa, per gli stessi fini, e per tutto il tempo che si manterrà questo nostro pianeta e questa nostra razza di esseri organizzati.

Di tale asserzione si sdegnava alla sua volta l'Italia, e più fervorosamente sosteneva i diritti dei romani a disporre di sè medesimi come tutti gli altri popoli inciviliti, a cui la moderna società riconosce gli eguali diritti. — Così nacque l'antagonismo che tuttora esiste fra il clero ed i laici d'Italia; e nel suo nascere poteva trascinarci ad atti violenti, se la Francia non fosse intervenuta a porre il Pontefice sotto l'egida della propria bandiera. — Ed ora, sebbene gli abbia levata una tale protezione, la suppliva mediante una convenzione che ci preclude ogni via di fatto in favore dei diritti del popolo romano. — Ma questi diritti sussistono, sebbene non sieno apertamente confessati dalla maggioranza delle nazioni cattoliche, alle quali conviene verosimilmente che il capo della chiesa cattolica sia in una condizione elevata e in apparenza indipendente, e non le richiegga di protezione o di sussidio ogni qual volta l'esigessero le sue circostanze. — Tale convenienza può essere discussa e sostenuta con argomenti che hanno certo il loro valore, e si può mettere in bilancia coi diritti della popolazione romana e cogli interessi dell'Italia tutta, senza suscitare fra i difensori di quella e dell'altra opinione nè atti, nè sentimenti di nimicizia. — Ma ciò che eccita lo sdegno degli italiani, è appunto quel confondere la convenienza politica degli uni e degli altri coi doveri del cristiano, e quel far intervenire la santità della religione, e tutto ciò che ad essa ne lega, in una quistione tutta mondana e politica, benchè interessi il ben essere del clero, e le prerogative a cui esso non vuol rinunziare. — Di ciò appunto si sdegnano gli italiani; e se la quistione politica non è degenerata in quistione dommatica, in uno scisma o in una eresia, dobbiamo renderne grazia al profondo senso religioso della nazione italiana, che si mantenne sin quì non meno salda nella convinzione e nella difesa de' suoi diritti civili e politici, che nella integrità della sua fede. La religione cattolica è tuttora professata e rispettata dagli italiani, ma il clero è da essi veduto con diffidenza e sospetto. — Da ciò risulta che la fazione clericale, sebbene comprenda nelle sue file pressochè tutto il clero, non conta molti partigiani nella parte laica della nazione, ed ha poca probabilità di farsi mai più numerosa. — Ora, sino a tanto che il clero solo propugna i propri interessi, la fazione clericale non può dirsi veramente fazione politica, o per lo meno non può essere come tale di molta importanza e gravità. — Il clero superiore, che guida e regge il basso clero, non manca di prudenza nè di destrezza nella condotta degli affari di questo mondo; e giudica con bastevole accorgimento lo stato suo, e le conseguenze che potrebbero avere le mosse avventurate che alcuni gli consigliano. — Esso intende benissimo che non può tentare alcun passo sulla via della resistenza aperta, se non ha ottenuto in prima il concorso di buona parte della società laica; e tale concorso si sforza di ottenerlo operando sulle coscienze più timorose, ed in particolare sulle coscienze femminili, e su quelle dei giovanetti, la cui educazione è ad esso affidata. Ma tali sforzi, sebbene sostenuti con zelo indefesso, non sono però confortati dalla speranza di un prossimo e felice successo. — I capi della fazione clericale, e molti dei loro militi altresì, giudicano assennatamente la condizione loro, e vedono che l'opinione pubblica, sebbene oscillante e malferma in molte quistioni che si riferiscono alla nuova vita civile e politica a cui testè rinacquero gli italiani, non si volge però mai verso di essi con fiducia e favore. Coloro, i quali difendono i propri privilegi dicendoli a loro concessi da Dio stesso e per tutti i secoli avvenire, non possono ispirare confidenza alle nostre popolazioni, tutte intente ad affrancarsi o rinforzarsi nel possesso dei loro diritti, contro ogni potere che vanta per sua origine il diritto divino. — Le pretensioni pontificie ad una teocrazia senza limite e senza fine, suonano agli orecchi degli italiani come l'ultima e la più esagerata espressione di quelle consimili pretensioni, sostenute sino ai giorni nostri da tutti i sovrani assoluti, la cui caduta fu la nostra salvezza.

La fazione clericale ha dunque poche eventualità di felice successo; ed i suoi capi, saggi ed avveduti, sentono come vacilla il suolo su cui posano, ed agiscono quindi con somma prudenza e cautela. Noi dobbiamo aspettarci dai clericali una guerra coperta, mascherata, senza tregua; ma nulla abbiamo a temere da essi che sappia di violenza, e che ad essi soltanto imputare si possa. — In una parola, l'ora del risorgimento d'Italia fu per essi l'ora della decadenza come corpo civile e politico; al che non si rassegneranno, se non quando alla rassegnazione si vedranno costretti dalla necessità. Sino a quel momento essi saranno irreconciliabili nostri nemici; ma nemici prudenti, nemici non per passione di nimicizia, ma soltanto in quella misura che richieggono gli interessi loro come classe privilegiata della società e della nazione.

Prima di chiudere questo esame delle fazioni politiche contro cui l'Italia deve stare in guardia, è necessario ch'io dica alcune parole in proposito di una di esse, nata recentemente, inaspettatamente, laddove appunto sembrava che nessuna fazione potesse germogliare; fazione che nel breve corso di sua esistenza è già stata di grave danno all'Italia, creando nuovi ostacoli alla libera azione del suo governo, e risvegliando nelle estere nazioni una certa diffidenza del carattere italiano, di cui avevano salutato la trasformazione con favore e simpatia.

Voglio parlare della fazione conosciuta sotto il nome della Permanente, e che si compose sulle prime di un gran numero di cittadini torinesi, sdegnati sino al delirio dall'inaspettato annunzio della convenzione stabilita fra i governi d'Italia e di Francia, per la quale la sede del nostro governo si trasferiva da Torino a Firenze. — Gli animi inaspriti, le menti offuscate e forviate dall'ira, non ascoltarono che la voce della passione, e giunsero sino a sospettare, che dico? ad affermare come cosa provata e certa, che il Piemonte era ceduto alla Francia, e che la partenza di Vittorio Emanuele da Torino altro non era che il prologo alla entrata che vi farebbe in breve Napoleone. — Lodi sieno rese al Piemonte, che non seguiva l'impulso dato dalla sua capitale, ma rimaneva freddo e dolente spettatore delle lugubri, sebbene puerili scene, che insanguinarono Torino nel settembre del 1865.

Il grosso della popolazione torinese però non durò lungo tempo in quel delirio, e riparò degnamente i suoi errori di un giorno, facendo ciò che avrebbe dovuto far subito, e che avrebbe fatto se non lo avessero trascinato i direttori del movimento; cioè esaminò coraggiosamente i danni che ad esso poteva produrre il trasferimento della capitale, e ricercò le vie aperte alla notevole sua energia, per rimediarvi, bilanciarli e compensarli. — Le burrascose discussioni, che seguirono in quegli stessi giorni nel parlamento, e dalle quali i malevoli speravano nuove provocazioni e nuove catastrofi, non eccitarono la minima agitazione popolare; e il popolo torinese col suo contegno dignitoso diede il più sicuro indizio che il pentimento era stato in lui piuttosto contemporaneo che posteriore all'offesa, e che sulla sua sagacità come sul suo patriottismo l'Italia poteva tuttora e doveva fidare. E di tanta moderazione e virtù ricevette prontamente la meritata mercede; imperocchè chi vuol essere veritiero e di buona fede riconosce, che la città di Torino non ha sofferto dal trasferimento della sede governativa tutti quei danni che la minacciavano sulle prime; che essa non è rovinata ad un tratto dalla condizione di capitale di uno stato di primo ordine a quella di città di provincia, come sono le città francesi; ma che la energica ed intelligente operosità della sua popolazione le ha creato parecchie fonti di prosperità, parecchi centri d'industria, che tirando a sè i forestieri coi loro capitali formano un abbondante compenso al movimento ed alle ricchezze piuttosto apparenti che reali e sostanziali che circondano le Corti. — La fazione detta la Permanente non si compone dunque più che di pochi signori torinesi, fra i quali v'hanno dei partigiani del passato, dei così detti retrogradi, che dissimularono sulle prime il loro rammarico e il loro dispetto, perchè temevano appunto di essere additati come retrogradi, e che oggi credono di aver trovata una maschera sotto la quale possano dare sfogo ai loro odi e alle loro avversioni, senza che alcuno sospetti la vera origine degli uni e delle altre. Come in ogni fazione, v'hanno anche in questa degli uomini forviati, accecati, ma di buona fede, che credono o che si sforzano di credere che avversano il trasferimento della capitale per motivi patriottici; perchè il trasferimento della capitale a Firenze ne ritarda il trasferimento definitivo a Roma, perchè l'allontanamento della sede governativa dal Piemonte abbandona questa parte importante d'Italia alle ambiziose mire della Francia, ecc.

Ma tali pretesti non possono illudere lungamente chi li adopera per giustificare i propri errori; e la sola conclusione che possiamo da essi cavare si riduce a questo: che se col trasferimento della capitale a Firenze il nostro governo si è esposto a qualche imbarazzo o qualche pericolo, spetta a' suoi veri amici, agli amici cioè del paese ch'esso rappresenta, di stringersi vie più a lui d'intorno, di prestargli vieppiù valido aiuto; mentre il creare nuovi ostacoli alla sua libera azione, per fargli sentire che alienandosi l'animo di alcuni suoi vecchi amici, esso si è spogliato di gran parte della sua forza, altro non è che una puerile ed ingiusta soddisfazione, procurata all'amor proprio di alcuni pochi, a spese dello stesso governo, ossia del paese.

La fazione detta la Permanente, nata dal dispetto di un certo numero di cittadini torinesi, è condannata dalla stessa sua origine e natura alla sterilità, cioè a non estendersi mai al di là del piccol centro che le diede la vita; e se la opposizione piemontese nel parlamento spiega talvolta proporzioni ragguardevoli, ciò accade per circostanze fortuite, e non già perchè s'ingrossi il numero dei Permanenti. Il numero di questi andrà anzi sempre più scemando, secondochè si stancheranno dell'isolamento in cui si sono posti, e dell'obblìo in cui vanno cadendo. Un pronto ed aperto ritorno a sentimenti migliori, un abbandono esplicito delle loro indebite pretese, e dell'aria minacciosa che presero in faccia al governo, possono solo redimere ancora quelli che persistono a presentarsi come i direttori e i capi della Permanente.

Da questo rapido esame dello stato delle fazioni politiche in Italia parmi si possa concludere, che lo spirito di parte non vi giunse ad un grado di sviluppo e di forza tale da svegliare i timori dei veri amici d'Italia. — Il fatto è che gli italiani si lasciano trasportare dalla vivacità del loro carattere e delle loro passioni, e dalla naturale loro disposizione a criticare e censurare tutto ciò che viene presentato al giudizio loro; a proferire delle parole spesse volte violenti ed amare, che fanno supporre in essi sentimenti ostili al governo ed all'ordine di cose esistenti: sentimenti che in verità non esistono, o che si spengono nelle parole stesse che li esprimono. — Ciò che distingue gli italiani dagli altri popoli meridionali è questo, che alla vivacità della fantasia e delle passioni, comune ad essi tutti, gli italiani accoppiano una forte dose di buon senso pratico, come si suol dire, che non appare sempre nei loro discorsi, ma fa sentire il suo impero quando si vuol passare dalla sfera delle parole a quella degli atti. Nonostante i lamenti degli uni, e le declamazioni degli altri, non v'ha per così dire italiano, che non sappia che tutte le piaghe di cui soffre oggi il paese, non sono imputabili al governo, e nulla hanno che fare con questa o quella forma di costituzione. Un paese che si regge e si governa coi propri rappresentanti, non può accusare de' suoi danni che sè stesso, o le circostanze a sè stesso avverse. Gli italiani ben sanno che se il numero degli uomini di stato a cui si possa affidare la direzione degli affari nazionali è ristretto, esso non si accrescerebbe perchè alla monarchia subentrasse la repubblica, e perchè un presidente occupasse il seggio ora riserbato al re. Gli italiani ben sanno che la composizione delle camere, in cui nessuno riesce a formare una maggioranza durevole, è l'effetto dell'ignoranza e della indifferenza degli elettori, e non già dell'azione governativa. Gli italiani sanno inoltre che la virtù ad essi negata sin qui dall'Europa tutta, quella che per la prima volta fu in essi riconosciuta dopo il 59, e che ottenne loro la simpatia e la benevolenza delle estere potenze, è la costanza, e la moderazione nella costanza; e che quand'anco fosse per noi evidente, il che non è, che i plebisciti di quell'epoca erano basati sopra una erronea nozione di ciò che all'Italia occorreva e conveniva, il confessarlo oggi, ed il mostrarci disposti ad un nuovo cangiamento di stato, sarebbe poco onorevole per noi, e ne toglierebbe ad un tratto tutto ciò che abbiamo acquistato dal 59 in poi nella pubblica opinione. — Tutte queste riflessioni, che riescirebbero forse impotenti a combattere uno spirito di parte quale lo abbiamo veduto in altri tempi ed in altri paesi, hanno bastato sin qui, e spero che basteranno ancora nell'avvenire, a trattenere gli italiani da qualsiasi atto, che potesse scuotere nelle sue basi il nostro governo, il governo da tutti acclamato or sono sette anni, o che solamente facesse credere ai nostri vicini che tale sarebbe il nostro desiderio.

Il governo rappresentativo ossia parlamentare lascia un vasto e libero campo alla diversità delle opinioni. — Le dottrine più svariate e contradditorie possono manifestarsi e conquistare il primato sopra le altre, purchè coloro che le sostengono giungano a renderle accette alla maggioranza dei cittadini, senza che l'edificio supremo governativo nè crolli, nè minacci di crollare. Il più eminente fra i pregi della monarchia costituzionale è questo appunto, che essa non è il frutto del trionfo di una fazione, e non è necessariamente legata ad un assieme di dottrine politiche, ma le domina tutte coll'accettarle alla prova, senza dare alle estere potenze il temuto scandalo di ripetuti sconvolgimenti. Se le opinioni del partito che dicesi d'azione non furono sinora applicate dal nostro governo, ciò non dipende da incompatibilità nessuna di quelle colla forma monarchica di questo; ma soltanto dal fatto, che nessuno fra i rappresentanti di tali opinioni si è sentito sin qui abbastanza forte e sicuro di una maggioranza nel parlamento come nel paese, da indurlo ad accettare il potere che ad alcuni di essi fu più di una volta offerto.

Gli italiani o la immensa maggioranza degli italiani sanno tutte queste cose; e se la scienza loro non li trattiene dal proferire parole poco assennate e per nulla in armonia coi loro serii pensieri, essa ha però un'azione sufficiente per impedire che dalle parole si passi ai fatti.

Riflettiamo altresì, che la sola fazione che meriti veramente un tal nome, e che potrebbe suscitare ne' suoi membri il pericoloso spirito di parte, è così specialmente costituita, che il suo desiderio più ardente è quello di nascondere sè stessa, di farsi dimenticare dal pubblico, e di non accrescere di troppo il numero dei suoi partigiani, per timore di venire da essi compromessa. La fazione clericale aspetta il suo trionfo dal tempo, da scaltri maneggi diplomatici e segreti, non da lotte materiali e violenti. — Noi crediamo al contrario che il tempo impiegato da essa in intrighi, dissimulazioni e maneggi, sarà il suo più fiero nemico. — Ma in ogni caso, e qualunque sia l'esito che l'avvenire serbi alle nostre dissensioni, vero è però che oggidì quella fazione non ne minaccia imminenti pericoli, ed è totalmente assorta nella conservazione di sè medesima. Ricordiamo ora a qual segno di acciecamento e di passione erano giunte le popolazioni della Francia, dell'Inghilterra, dell'America e di tutti i paesi che attraversarono le burrascose regioni di un politico sconvolgimento, e renderemo grazie a Dio che maggiori sciagure non abbia chiamato sul nostro paese lo Spirito di Parte.[2]

CAPITOLO QUINTO NOSTRI DOVERI

Nel descrivere il carattere dei popoli d'Italia, accennando alle cause che lo hanno prodotto, ed agli effetti che ne derivano, ho spesse volte ragionato dai doveri che ne spettano; per cui temo di cadere nel corso di questo capitolo in frequenti ripetizioni dello stesso pensiero. Per sottrarmi in parte almeno a simile inconveniente, altro non mi rimane che di ristringermi quanto più posso, e compendiare ciò che dovrò pure ripetere. — Ho detto, e parmi di averlo dimostrato, che una parte considerevole delle popolazioni italiane, non è abbastanza educata ad un libero e civile reggimento; anzi, ch'essa è tuttora ingolfata nei vizi che risultano da una lunga servitù ad un potere straniero e nemico, che le tolse o paralizzò a bello studio in essa ogni nazionale e patriottica virtù, nella scellerata speranza di renderla cieca ed insensibile al proprio avvilimento, pervertendola a tal punto che fosse incapace di vivere libera e civile.

Se non riescì interamente nel suo proposito il dispotismo che dall'Austria si diffuse sull'Italia, vi riescì però in parte; e questo infelice risultato è appunto ciò che oggi fieramente ne travaglia, e che dobbiamo distruggere. — Non riescì il dispotismo a farci amare la schiavitù, la quale al contrario ci divenne di giorno in giorno più abborrita, in modo che primo nostro pensiero, nostro sogno, nostro impaziente desiderio, era l'infrangere le secolari catene, e cacciare al di là delle Alpi ogni satellite del dominio straniero. — Non vi era sagrifizio che a noi sembrasse tale quando avesse per iscopo la fine della nostra cattività; e cotesta nostra accanita e costante resistenza che ci opprimeva, questo nostro inveterato abborrimento del giogo, fu appunto ciò che ne tenne luogo per molto tempo di ogni altra civile virtù, che ne ottenne finalmente la simpatia dei generosi, e ne diede la forza di combattere e di vincere i nostri tiranni.

Riescì in parte nell'iniquo suo intento il dispotismo; poichè partendo ci lasciò molte piaghe, che le sue catene e le sue sferzate ne avevano aperte. — Ci lasciò un criterio confuso di ciò che merita il nostro rispetto o il nostro disprezzo, cosicchè ci fidiamo e diffidiamo di tutti, secondo il capriccio del momento; un folle amore dell'ozio, che sotto il dispotismo straniero vestiva agli stessi occhi nostri l'aspetto di resistenza passiva al non legittimo Signore, d'invincibile ripugnanza all'idea di servire l'odiato governo, ma che oggi dovremmo gettare lungi da noi. — Ed invece di ciò, questo sciagurato amore dell'ozio lo conserviamo gelosamente; e, ciò ch'è peggio ancora, tentiamo di onestarlo col medesimo pretesto che nei tempi passati poteva essere giusta ragione per astenerci da ogni ufficio. — E diciamo tuttora, che siam mal governati, che non abbiamo tutta la libertà che eravamo in diritto di aspettare; oppure diciamo (ciò che più si avvicina al vero), che abbiamo troppa libertà, che il governo difetta di forza, di fermezza, di coraggio, di sagacia, di risolutezza, d'ogni dote insomma necessaria a ben reggere una nazione; e ne concludiamo, che il nostro concorso, che l'opera nostra a nulla rimedierebbe, e che non dobbiamo consumarci senza frutto pel paese. — Pretesti miserabili, pretesti creati al solo scopo di non ispogliarci di un abito che lusinga il nostro istinto, nel quale si compiace l'indole nostra.

Altra piaga lasciataci dal dispotismo straniero, come già dissi, è l'inclinazione ad imputare ogni nostro danno, ogni sventura, ogni calamità al governo. — Durante la dominazione straniera, il governo portava l'azione sua in ogni direzione e sopra ogni cosa che gli sembrasse di tale azione meritevole o bisognosa, senza essere trattenuto dal rispetto dei diritti altrui nè delle altrui libertà, in una parola senza essere frenato da legge, da istituzione o costituzione di sorta. — Un individuo che al governo diventasse sospetto, era tosto o arrestato ed indefinitamente tenuto prigione, o esiliato, o confinato in qualche povera borgata di una remota provincia. — Un opificio industriale che potesse giovare al paese, ma che poteva recare eziandio qualche danno ad un'altra provincia dell'impero, era dichiarato pericoloso e soppresso. — Un libro, un dramma destinato a risvegliare nelle popolazioni qualche scintilla di amor patrio, erano proibiti, e l'autore spietatamente perseguitato. — In quei tempi si poteva, senza pericolo di errare, vedere difatto la mano del governo in tutte le sventure che ne toccava di subire. Ma ora le cose camminano in modo al tutto diverso. — Il governo non interviene nelle faccende dei privati individui, se non quando le leggi sono da questi violate; e d'altra parte il governo costituzionale non è un essere a sè, un essere sui generis, diviso dalla nazione: egli è il rappresentante della nazione, eletto in modo più o meno diretto da essa; mutabile di giorno in giorno, non si regge e non esiste se non col concorso e l'appoggio della maggioranza dei rappresentanti del paese. — Che cosa significano dunque queste incessanti accuse che si muovono al governo, come s'egli esistesse a nostro dispetto o per nostra sventura? Significano una cosa sola: cioè che noi non intendiamo ciò che sia un governo nazionale, costituzionale e rappresentativo.

Queste sono le piaghe più profonde e d'indole più maligna che ne lasciò il passato, rimettendo per brevità di parlare della ignoranza, della superstizione, e di altri malanni, che ereditammo dai nostri padri, i quali vissero e morirono schiavi.

Non però tutti gli italiani sono infetti di cotai morbi. — Ve n'hanno molti, che dalla natura favoriti d'ingegno singolarmente docile e sano, o di una educazione eletta, o di fortuite e fortunate circostanze, pensano, sanno e sentono, come pensano, come sanno e come sentono gli uomini rispettabili dei paesi più inciviliti e più liberi. — Che di tali uomini non difetta l'Italia, chiaro risulta da tutto ciò che abbiamo tentato e condotto a buon fine nel corso degli ultimi sette anni. — A questi uomini spettano ora doveri immensi: ad essi spetta il salvare la patria dai molti pericoli che le sovrastano, ed a cui la espongono gli ignoranti, gli oziosi ed i malevoli, funesti prodotti del dispotismo straniero. — Non v'ha uomo dotato di qualche criterio e di una dose qualunque di senso comune, che non sia sino ad un certo punto responsabile dei pericoli che minacciano la patria, e dei danni che a lei ne possono risultare. Quando gli italiani decisero di strappare l'Italia allo straniero, e di rimaner padroni della loro terra natia, assunsero il dovere di guidare il paese in modo tale, che esso potesse mantenersi indipendente, e prosperare nella sua libertà. — Altrimenti, cioè se gli italiani assennati ed amanti della patria, che tanto sacrificarono per dare ad essa l'indipendenza, avessero pensato di rimanere poi inoperosi e di lavarsi le mani dell'uso che le moltitudini starebbero per fare della acquistata indipendenza, essi sarebbero colpevoli non solo, ma positivamente indegni di perdono.

Essi avrebbero esposto scientemente la patria a pericoli maggiori di quelli che le sovrastavano nel passato, e le avrebbero preparato un avvenire funesto, che chiamerebbe su essa ad un tempo il disprezzo dei contemporanei, la pietà dei posteri, e servirebbe di esempio alle future generazioni.

Mi si risponderà forse che singoli individui, per operosi e desiderosi del bene che sieno, nulla possono sulle moltitudini. — Io credo invece che chiunque, per debole che naturalmente sia, acquista una ragguardevole autorità sulle masse, quando cammini a faccia scoperta ed a fronte alzata sulla retta via. — Del resto non vedo perchè gli individui che hanno opinioni, volontà e sentimenti comuni, debbono rimanere isolati gli uni dagli altri. — Riuniscano le loro forze, si associno, come già si associarono segretamente quando intrapresero di liberare la patria. — Quella era una impresa in cui l'individuo era pressochè impotente, poichè non poteva essere condotta a buon termine se non colla forza. Allora le associazioni erano interdette; e cionullameno una trama nascosta ordivasi in tutta Italia, e non so se un solo fra i patrioti italiani possa dire di non avere appartenuto ad una delle tante società che avevano per oggetto la liberazione del paese. — Oggi le associazioni fra i cittadini sono permesse non solo, ma raccomandate e protette; per cui nessun individuo può scusare la propria inazione col pretesto che gli sia vietato di operare.

Non registrerò qui per minuto i vari oggetti che tali associazioni potrebbero e dovrebbero proporsi, variando essi ad ogni passo, perchè in ogni città, in ogni provincia d'Italia, vi sono dei bisogni speciali. Dirò soltanto che i popoli sono suscettibili di progresso; e che con quella medesima facilità con cui gli italiani furono corrotti e pervertiti dal dispotismo, possono essere emendati ed illuminati dalla libertà e dalle istituzioni a cui questa serve di base. Osservino gli uomini assennati di ogni città, di ogni provincia italiana, quali più funesti effetti produsse nei loro concittadini il dispotismo straniero; e quindi riuniti, stretti fra loro da patriottico nodo, si accingano a combatterli, chiamando in loro sussidio il buon senso popolare, che in Italia così facilmente si risveglia, e dimostrino a tutti la falsità delle loro credenze, la vanità dei loro sospetti e dei loro pregiudizi, l'assurdità delle loro esigenze e delle loro pretese, le conseguenze inevitabili e funestissime della loro condotta, la necessità delle civili virtù, fra le quali la più cospicua è forse la tolleranza dei mali individuali, quando questi abbiano per risultato il maggior bene del maggior numero. — Facciano noto a chi lo ignora, che la libertà e l'indipendenza di una nazione, già schiava dalla caduta del romano impero sino ai giorni nostri, non sono beni che si acquistano con poca spesa e con poca fatica; e che il perdersi d'animo perchè pagandoli si scema il nostro avere, è un condursi da vile o da spensierato. — E mentre insegnano a chi le ignora le prime e più semplici verità fondamentali della vita nazionale e civile, si applichino a rimediare in qualche parte almeno ai danni reali che cagionano il malcontento delle moltitudini. — Si aprano dei negozi cooperativi, delle banche popolari, ed altre simili istituzioni, atte a combattere gli intrighi di certi capitalisti, che si arricchiscono speculando sulla miseria e sulla ignoranza del volgo, e mentre l'erario o i varii municipi sono costretti a gravare di qualche imposta gli oggetti di prima necessità, ne esagerano pel proprio loro illecito guadagno i prezzi correnti, e fanno credere al popolo che tale aumento rovinoso per lui sia opera del governo.

Insomma io vorrei che si formasse in Italia una vastissima associazione, nella quale s'inscrivessero tutti gli uomini dotati di buon senso, di patriottismo e di onestà, allo scopo di mettere in comune le loro facoltà, i loro mezzi ed i loro pensieri, per sollevare il povero dalla sua miseria, l'ignorante dalle sue tenebre, e per procurare a tutti l'opportunità di lavorare e di fruire dei vantaggi dell'industria e del commercio. — E finchè tale immensa associazione sia formata ed eserciti l'opera sua, vorrei che gli uomini più operosi, più esperti e più colti delle varie città d'Italia, si unissero e formassero delle associazioni parziali, tendenti tutte a quel medesimo fine, non tralasciando al tempo stesso di adoperarsi, anche come semplici individui, a persuadere gli ignoranti ed i forviati dei loro errori, e del danno che ad essi e al paese tutto risulta dai pregiudizi loro. — Quando ogni uomo di senno ed amico del proprio paese abbia scolpito nella mente l'idea de' suoi doveri verso il paese stesso, quando questa idea gli sia sempre presente, avrò ottenuto il fine ch'io mi prefissi scrivendo questi fogli; chè i mezzi non verranno meno a chi persiste nel cercarli, ed è risoluto di adoperarli quando ad esso si presentino. — Ciò di cui difettiamo è la costanza della volontà e della risoluzione.

CAPITOLO SESTO ED ULTIMO RISULTATI VERSO I QUALI TUTTI DOBBIAMO TENDERE

Lo scopo che ogni italiano deve prefiggersi, è la conservazione e la consolidazione della nostra indipendenza, insieme collo sviluppo delle nostre libertà, le quali produr debbono la nazionale prosperità.

Queste però sono nozioni troppo generali, e su di cui ognuno conviene, differendo poi sul significato dei vocaboli libertà, indipendenza e prosperità nazionale, come pure sui mezzi più atti a procurarne lo sviluppo. — Credo perciò di dover definire che cosa intendo di raccomandare a' miei compatriotti, quando li esorto a consolidare la nostra indipendenza e le nostre libertà, sviluppando queste ultime in modo da produrre alla nazione il ben essere e la prosperità.

Una nazione può dirsi indipendente, quando nessuna parte del suo territorio è occupato e soggetto allo straniero, e quando essa possiede forze e volontà sufficienti per difendersi efficacemente contro chiunque tentasse invaderne i confini. Perchè una nazione possa dirsi a buon dritto indipendente, non occorre ch'essa ripudii qualunque influenza straniera: il che la porrebbe tosto o tardi in ostilità con questo o con quell'altro de' suoi vicini, ed avrebbe per conseguenza più o meno remota, di esporre a gravi pericoli la stessa di lei indipendenza. — Ciò osservo, perchè v'ha in Italia una scuola politica di fierissima indipendenza, la quale considera ogni atto di condiscendenza verso gli alleati come un principio di soggezione, e lo biasima come intollerabile viltà. — Codesti fanatici della indipendenza, vorrebbero che la nazione camminasse sempre nella direzione che più spiace, più offende, o più minaccia le nazioni vicine; e se l'una di esse ne fu un giorno benefica, veggono nella nazionale gratitudine un pericolo per la patria indipendenza, ed appunto verso quella benefica potenza si volgono con sospetto e con avversione maggiore, e sono più ansiosi di mostrarsele nemici.

Le pacifiche relazioni fra le potenze, che si dividono questa parte del mondo chiamata Europa, sono necessarie alla generale prosperità, e si alimentano e si mantengono mediante reciproche concessioni, sagrifici e buoni uffizi. — L'urtarsi di proposito contro chi non ha provocato l'offesa, non è atto d'indipendenza, bensì di assurda jattanza, e di non giustificata prepotenza. — L'esagerazione di qualsiasi virtù, così delle politiche e civili, come delle famigliari o domestiche, si avvicina al vizio opposto, piuttosto che alla stessa esagerata virtù. — Virtù significa forza, e non vi è vera forza senza moderazione e giustizia.

Una nazione può dirsi a buon dritto libera, quando non è richiesta di obbedire ad altri che alla legge, e quando nessun comando abbia forza di legge sinchè non sia stato dichiarato tale ed approvato dalla maggioranza dei rappresentanti la nazione. — Queste sono le basi di una bene ordinata libertà, e possono trovarsi parimenti sotto qualsiasi forma di governo, cioè monarchico o repubblicano. Se ci scostiamo da codesta massima, se oltrepassiamo questa linea di confine tra il vero ed il falso, cadiamo nella confusione e nella contraddizione di noi stessi e delle nostre dottrine. — Qualunque resistenza incontrino i desideri di un cittadino, sarà da questo dichiarata tirannica, e gli sembrerà tanto più intollerabile, quanto è più ardente (non già più legittimo) il desiderio combattuto. — Si chiamerà dispotica e tirannica la volontà dei rappresentanti della nazione, che è quanto dire la volontà della nazione stessa, dimenticando così che l'indelebile carattere del dispotismo, ciò che distingue l'arbitrario comando dalla legge, è appunto il non essere quello sancito dalla nazione. — Una legge emanata dal parlamento può essere improvvida, mal concepita, diciam pure ingiusta, chè non vi ha modo quaggiù di prevenire radicalmente e sicuramente gli errori o i vizi degli uomini; ma una legge così fatta non sarà mai, ed in nessun caso, arbitraria o dispotica. — Gli ultra liberali, che non si accontentano della libertà come l'ho testè definita, non hanno peranco scoperto il rimedio specifico contro la umana fallibilità, nè credo sieno avviati verso tale mirabile scoperta. — Il criterio del giusto e dell'ingiusto considerati in modo assoluto non esiste quaggiù; esiste bensì quello del legittimo e dell'illegittimo, ossia arbitrario comando, e ciò è appunto, come già dissi, l'essere il primo sancito dalla volontà nazionale, e il non esserlo il secondo.

E di ciò dobbiamo contentarci, per una semplicissima ragione; cioè perchè è impossibile l'ottenere di più. — Non già perchè la libertà, quale la sognano gli ultra liberali, sia circondata da tali ostacoli, difesa e gelosamente custodita da chi vorrebbe defraudarne i popoli, che impossibile ci riesca l'impadronircene; ma non possiamo ottenerla perchè non esiste; e ciò che da lungi ne simula l'aspetto, altro non è veramente che un fantasma, una illusione, che si trasforma in confusione, in nebbia, nella peggiore delle tirannidi, l'anarchia, ossia nel libero esercizio di ogni individuale volontà. Di ciò fecero memorabile esperimento i Francesi quando nell'89 e nel 95 stabilirono, come criterio e misura della nazionale libertà, la libertà di ogni singolo individuo.

La libertà come io la intendo sagrifica in una certa misura l'individuo alla nazione, e non considera quello se non come parte integrale o come rappresentante di questa. — La libertà come la intendono gli ultra liberali, la libertà non definita e non definibile, non confessa la necessità di sagrificare nè l'individuo alla nazione, nè la nazione all'individuo, ma di fatto li sagrifica ambedue ad una illusione, ad una falsa dottrina. — L'esercizio dell'assoluta libertà dell'individuo, e di tutte quelle individuali libertà radunate come in un fascio che comporrebbero la nazionale libertà, è una di quelle teorie belle e seducenti per sè stesse, ma che non reggono alla pratica, perchè la libertà sfrenata di un individuo si urta necessariamente colla libertà sfrenata di un altro individuo, e tutte queste libertà osteggianti fra loro, formano non già la nazionale e universale libertà, ma un caos tenebroso, ove si combatte ciecamente, e si perdono in breve persino le nozioni del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto, del diritto e del dovere. Dio ne salvi da una siffatta libertà! — La libertà come io la intendo è oggi rispettata e stabilita fra noi in tutta la sua pienezza, e direi anche con troppo rigore per parte del nostro governo, che ha accettato lealmente la missione affidatagli nello Statuto; e segue la via che questo gli ha tracciata, senza dipartirsene mai di una linea. — Lo Statuto, che fu sulle prime accordato al solo Piemonte, ammette come fatto incontestabile ch'esso debba reggere una popolazione civile, ordinata, e discretamente istruita, una popolazione insomma degna delle più liberali istituzioni. — Parmi avere dimostrato nel corso di questo volumetto, che alcune parti dell'Italia meridionale non sono ancora giunte a quel grado medesimo di civiltà, che già da molti anni si osservava nel Piemonte. — Vorrei dunque che le istituzioni, le quali debbono reggere il Piemonte non solo, ma tutta Italia, fossero leggermente modificate in guisa da potersi adattare ai vari stadii di civiltà a cui sono giunte le varie popolazioni. — Nè vorrei che tale riforma fosse operata dall'autorità governativa; bensì dal parlamento, che riconoscesse il bisogno di proteggere le popolazioni contro i proprii loro errori, mentre si stanno educando al governo di sè medesime e del paese nostro. Nè vorrei che codeste leggieri modificazioni rivestissero un aspetto di stabilità, ma quello soltanto di misure provvisorie, e destinate a brevissima vita. — E ciò vorrei, perchè temo che le nostre popolazioni agricole, non comprendendo il significato e lo scopo delle nostre istituzioni, si stanchino della parte che ne venne ad esse affidata, e considerandola come l'effetto di un capriccio dell'autorità, si astengano affatto dal concorrervi, rompendo così il buon accordo che risultar doveva dalla esatta osservanza delle istituzioni nostre. L'Italia, abbiam detto, deve aver cura di mantenersi libera, e deve far uso di questa sua libertà come di uno strumento per attivare lo sviluppo delle sue facoltà, o disposizioni naturali, che spingere la debbono a successi commerciali ed industriali non minori di quelli che compiono ogni giorno le nazioni più civili e più ricche del mondo.

Di molti elementi di prosperità difetta però l'Italia. La mancanza considerata sin qui come incurabile di carbon fossile, ed il caro prezzo a cui dobbiamo procurarcelo da lontane contrade, è un grave ostacolo allo sviluppo di ogni industria, e specialmente delle industrie metallurgiche, le quali richiedono un eccesso di calore, che non si ottiene se non dal carbon fossile. E questo ostacolo al progresso delle industrie metallurgiche è una sorgente di danni per tutte le altre industrie, perchè ne costringe ad acquistare all'estero le varie ed innumerevoli macchine, che sono il principale elemento della industriale prosperità di ogni paese. — Altro ostacolo alla nostra commerciale prosperità, è la circostanza dell'aver noi respinto il sistema commerciale protettore, come tirannico e vessatorio, e adottato in sua vece il principio del libero scambio: principio che fruttò all'Inghilterra vantaggi infiniti, perchè le nazionali sue industrie essendo già pervenute ad un alto grado di perfezione e di superiorità, rispetto alle corrispondenti industrie dei continenti europeo ed americano, essa non teme da queste nè concorrenze nè rivalità. E di fatto la facoltà concessa alle nazioni tutte, di mandare i loro prodotti industriali in Inghilterra, senza sottoporli a tassa alcuna, implicando naturalmente per l'Inghilterra un diritto reciproco, essa si trovò ad un tratto signora e padrona di tutti i mercati esteri, che invase co' suoi superiori prodotti industriali. Per tal modo il principio del libero scambio diventò per l'Inghilterra una ricchissima fonte di lucro e d'influenza. — Ma la condizione intrinseca dell'Italia essendo appunto tutto all'opposto di quella dell'Inghilterra, gli effetti che risultare debbono per essa dall'attuazione del principio della illimitata libertà di commercio, sarebbero dei più funesti, imperocchè nessuno fra gli italiani stessi si accontenterebbe dei proprii prodotti, imperfetti, poco durevoli, costosissimi, quando sapesse di potersi procurare i più eccellenti prodotti esteri, senza perdere nè più tempo, nè più denaro. — Quando i prodotti delle industrie straniere ingombrassero le nostre piazze ed i nostri mercati, le industrie nazionali d'Italia sarebbero condannate a certa ed imminente rovina, nè potrebbero prolungare d'alcun poco la loro agonia, se non imitando e falsificando i prodotti degli altri paesi, cioè vendendo i proprii prodotti come fossero prodotti stranieri. Ma simili mezzi non valgono ad assicurare la prosperità di una nazione, nè quella tampoco di una provincia o di una singola industria.

Perchè un popolo sia veramente soddisfatto della sua condizione politica e civile, conviene ch'esso si accorga di progredire sulla via della prosperità materiale, come su quella dello sviluppo intellettuale. Se malgrado le compiute conquiste della libertà, della indipendenza e di un seggio onorevole fra le altre potenze, il popolo riscattato conosce di scendere di giorno in giorno più rapidamente il funesto pendìo della povertà; se si avvede della inutilità dei mal diretti e mal concepiti suoi sforzi per migliorare la sua sorte; quando pure questo popolo non avesse contratto sotto il già franto giogo il malaugurato vizio della intolleranza, e la tendenza ad imputare tutte le sue sventure al governo, ed a' suoi maggiori in generale; quando pure fosse libero da ogni pregiudizio e da ogni preconcetto errore, non saprebbe obbliare i suoi patimenti per godere degli acquistati beni. E qualora il possesso di quelli stessi beni gli venisse contestato, esso non ne risentirebbe nè quel dolore, nè quello sdegno, che avrebbe risentito se i patimenti suoi proprii non ne avessero assorbito pressochè tutta la sensibilità. — L'eroismo che ne fa dimenticare noi stessi e gli attuali nostri dolori, per godere della prospettiva delle gioie e dei trionfi che l'avvenire serba in premio ai pazienti, non è tal cosa che si possa chiedere alle moltitudini; e perchè queste non sono dotate della facoltà dell'astrazione, e perchè difficilmente sanno imaginare ciò che ad esse prepara l'avvenire. Se dunque vogliamo vedere le popolazioni italiane affezionarsi alle istituzioni che le reggono, ed alla nobile, alla splendida esistenza che le aspetta, dobbiamo applicarci senza indugio a medicare ed a cicatrizzare le loro piaghe, ed a guidarle verso uno stato materiale meno penoso di quello in cui si trovino oggidì. Quando avremo fatto qualche passo su questa nuova via, quando avremo condotto le moltitudini in luoghi da cui sia ad esse dato di scorgere il ridente aspetto delle contrade ad esse destinate, le vedremo prender lena e coraggio; come fece un tempo il popolo ebreo, quando stanco e scorato del suo lungo pellegrinaggio attraverso il deserto, fu da Mosè condotto sulle alture in vista della terra promessa, ed ammirò schierate fra le sue tende i maravigliosi prodotti del paese di Canaan. — Che facciamo noi? Perchè non seguiamo l'esempio del legislatore ebreo? Noi tentiamo di condurre le nostre popolazioni attraverso il deserto che circonda la terra fertilissima della libertà e della moderna civiltà; ma siamo guide silenziose e maestri intolleranti; facciamo le meraviglie perchè l'ardore di chi ne segue non si sostiene al pari del nostro, dimenticando che l'aspettativa del futuro, la quale alimenta la nostra costanza, non conforta le moltitudini. — Noi tolleriamo di buon animo le privazioni e i sacrifizi, perchè ne vediamo il termine, e sappiamo che cosa ne debbono fruttare; ma il popolo lo ignora, e quando esso ci vede camminare innanzi, ed invitarlo a seguirci per le balze e dirupi sotto la sferza del cocente sole, che asciuga i ruscelli e le fontane, quando ci vede innoltrarci nel deserto con fronte serena e con passo animato, esso ne sospetta di pazzia, o talvolta ancora di tradimento. Perchè non lo confortiamo? perchè non cerchiamo di rianimare le sue forze con quel farmaco stesso che sostiene le nostre? Noi gli abbiamo detto: siete liberi, e la libertà è la bella cosa che vedete. Perchè non dirgli invece: queste sono le vie che conducono al libero ordinamento della civile società, questi sono i confini che dividono le schiavitù dell'età di mezzo dalla bene regolata libertà dell'età nostra e dell'avvenire? Varchiamoli animosi, con passo veloce, senza cedere nè agli stenti, nè alla stanchezza, sicuri di trovare conforti e compensi non appena saremo giunti al termine del nostro viaggio. — Se così gli parleremo, lo vedremo tosto rasserenarsi; e forse fra non molto troveremo in lui, nelle sue forze, naturalmente superiori alle nostre, quell'appoggio che ora siamo in debito di prestargli, e di cui per avventura potremmo quando che sia alla nostra volta abbisognare.

Ricordiamoci dunque, che le moltitudini non possono mantenersi costantemente affezionate ad un ordine di cose da cui non traggono alcun benefizio materiale, nè qualche fondata speranza di futuri e prossimi vantaggi. — Sforziamoci di migliorare la sorte delle classi più povere delle nostre popolazioni; e sino a tanto che tale miglioramento non sia da esse effettuato e conosciuto, mostriamo loro le conseguenze che risultar debbono dalle istituzioni nostre, e come fra non molti anni possiamo sperare di porre in fuga gli ultimi avanzi della popolare miseria, della popolare ignoranza e barbarie. — Presentiamo al nostro popolo una imagine succinta e fedele della società a cui lo vorremmo guidare; mostriamogli nell'avvenire l'unione delle varie classi sociali, ossia l'associazione loro all'intento di sollevare il povero dal peso della sua miseria e della sua ignoranza: non già col vieto e limitatissimo mezzo dell'elemosina, che operata largamente, come dovrebbe esserlo per ottenere un sensibile cangiamento nelle condizioni del povero, avrebbe per effetto d'impoverire il ricco, con che si porrebbe fine all'intero sistema dell'elemosina; ma con ciò che a quel sistema deve sostituirsi nell'avvenire, ossia coll'associazione dei capitali, degli elementi industriali, e degli artigiani che forniscono al commercio i prodotti dell'industria loro. Il principale oggetto di sì fatta associazione sarebbe di sopprimere le spese superflue, e i disonesti guadagni di coloro che oggi dispongono dei capitali, e che dirigono l'industria al solo fine di arricchire sè medesimi, ingannando i compratori, a cui dispensano mercanzie guaste o scadenti, non concedendo al povero artigiano che quella minima paga che basti a sostenergli miseramente la vita, per abbandonarlo poi alla carità degli ospedali e dei luoghi di ricovero, tosto che la gioventù e la forza ne sono esaurite.

L'Inghilterra maestra di tutto ciò che tende al perfezionamento dell'industria, ed allo sviluppo della carità bene intesa, (non già della elemosina), possiede un gran numero di tali associazioni; ed il concetto loro è così penetrato nella intelligenza di ogni classe di persone, che la miseria non vi si trova quasi mai, se non unita ad un eccesso d'immoralità, di perversità e di corruzione, che ne spiegano abbastanza la torbida sorgente. — Un artigiano laborioso ed onesto, la cui famiglia, per quanto possa essere numerosa, segua l'esempio dal suo capo, è sicuro di non trovarsi mai al disotto di una modesta agiatezza; e per poco che la sua intelligenza si apra e si eserciti, o che le circostanze gli sieno favorevoli, egli può sperare di giungere in breve tempo ad un certo grado di ricchezza, al quale pervenuto ch'ei sia, nulla osta al suo innalzamento fra quei Cresi della industria britannica che destano la meraviglia del mondo intero. Imitando le associazioni filantropiche dell'Inghilterra, ed adattandole al carattere ed alle speciali condizioni nostre, noi otterremo i medesimi effetti, senza sagrificare altro che i disonesti speculatori e i loro illeciti guadagni. — E partecipando sin d'ora alle nostre popolazioni l'intento nostro, le nostre mire e le nostre speranze, infonderemo loro il coraggio di seguirne attraverso gli sterpi e le spine, che ingombrano tuttora la nostra e loro via.

Quando il popolo sia convinto che il risultato finale dei nostri sforzi e l'oggetto delle nostre istituzioni, è il suo maggior bene, cesserà senza alcun dubbio dal mostrarsi indifferente e dal mettere in dileggio quelle istituzioni e tutto ciò che noi difendiamo, sosteniamo e comprendiamo sotto il nome di libertà. Egli si affretterà al contrario di studiare il significato delle parole da noi usate e delle cose da noi commendate, per conoscere in qual modo gli è concesso di prendervi parte, affine di agevolare il compimento dei nostri disegni, e gli elettori si recheranno puntualmente ai loro collegi, per dare a sè medesimi dei rappresentanti atti ad ordinare delle buone e provvide leggi, che assicurino il destino della nazione. — L'istituzione della Guardia Nazionale, invece di essere considerata come una vessazione governativa, sarà giustamente considerata come una garanzia pel paese, e cesseranno dal maledirla. E così di tutti i funesti pregiudizi, che ora offuscano la mente delle nostre popolazioni, e le rendono intolleranti di un civile reggimento.

Quando il nostro popolo abbia imparato a giudicare sanamente le intenzioni degli speculatori disonesti, che vorrebbero trasformare il nostro nazionale riscatto in una illimitata prerogativa che li autorizzi a spogliare impunemente altrui di ogni cosa che risvegli la loro cupidigia, non si lascerà più ingannare da essi come al presente, e più non crederà che le vessazioni e le spogliazioni, di cui è vittima, sieno combinate e ordinate dai ministri del re per arricchire sè stessi. — Quando gli occhi delle popolazioni italiane fossero bene aperti sopra i raggiri e le menzogne di siffatti speculatori, i loro trionfi avrebbero fine; e quando essi tentassero di prolungarli, il popolo, conscio dei loro inganni, potrebbe dar loro una lezione che li disgutasse da nuovi colpevoli tentativi. Allora, cessando quelli illeciti ed immensi guadagni, la sorte del povero, alle cui spese si fanno per la massima parte, sarebbe mirabilmente migliorata.

Per riassumermi dirò, che lo scopo a cui dobbiamo tendere innanzi tutto, si è lo spargere luce nelle menti delle povere classi delle nostre popolazioni, onde renderle consapevoli dei loro diritti e dei loro doveri, e dar loro i mezzi di sfuggire ai sanguinosi artigli degli spogliatori di ogni genere, che oggi le fanno loro preda. — Le nostre popolazioni ricevettero dalla natura una intelligenza tanto pronta quanto retta, che le sforza a seguire il giusto, tosto che lo hanno veduto e conosciuto. — Con questi due doni della natura, che formano la parte più elevata del carattere del popolo italiano, come si spiega l'infinita serie di errori e di pregiudizi, che lo dominano oggi ancora, e che lo fanno traviare ad ogni passo? Non è questa una irrefragabile prova che nessuno si è accinto a dir loro la verità? Andiamo sempre ripetendo, che le nostre popolazioni agricole ed artigiane sono nelle mani del clero, che le istruisce a modo suo, ed a cui credono ciecamente; sappiamo che la maggioranza del clero vede di mal occhio, anzi biasima e condanna tutto ciò che fu fatto in Italia dal 59 in poi, e nulla tentiamo per togliere al clero le menti ed i cuori delle nostre popolazioni, e per sostituirci ad esso nella loro confidenza. Di chi dunque è la colpa, se il nostro popolo è così poco informato delle massime fondamentali del vivere civile?

Un piccol numero dei nostri possidenti fondiarii incomincia a sospettare che nessuno possa avere tanto a cuore l'interesse loro quanto essi stessi. — E perciò, e perchè inoltre il vivere in città è più dispendioso che il vivere in campagna, questo picciol numero dei nostri signori abbandona per tempo i conforti e i diletti dei teatri, delle conversazioni, dei ritrovi, ecc., e si ritira in mezzo a' suoi campi, nelle sue ville, e fra i suoi villici, per accudire ai lavori che procurare gli debbono un aumento di entrata. È questo un progresso compito da questi nostri possidenti; ma il profitto che ne trarrebbero e i possidenti ed il paese intero, sarebbe di gran lunga maggiore, se un altro intento aggiungessero a quello di dirigere la coltura dei terreni. — I contadini di un paese libero non sono unicamente gli strumenti dell'agricoltura, come gli aratri, le vanghe, i mulini, i trebbiatoi, ecc. Essi sono le membra del corpo sociale e politico, i possessori di ogni diritto civile, i produttori della pubblica prosperità, i difensori della indipendenza nazionale e del buon ordinamento civile, e possono diventare i rappresentanti della nazione e gli amministratori delle sue ricchezze.

Queste moltitudini, destinate a così nobile e così splendida missione, sono quelle appunto che più si lagnano, direi quasi che più abborrono i rivolgimenti accaduti dal 59 sino ad oggi, e che oppongono una ostinata, una disperata forza d'inerzia al conseguimento delle nostre mire. — È egli possibile di attribuire tale stranezza ad altra cagione, se non ad un equivoco, ad un difetto d'intelligenza in quelle moltitudini pregiudicate e sdegnate contro chi vuol farsi loro benefattori, e contro gli stessi benefizi ad esse offerti?

Ora poichè tale equivoco, oltre all'essere evidente, è pure singolarmente assurdo, e minaccia di diventare funesto alla patria ed alla nazione stessa, non è forse un preciso, un assoluto dovere per quelli, a cui spetta d'illuminare le moltitudini perchè istrutti ed in grado di guidarle rettamente, non è forse loro sacrosanto dovere di tutto porre in opera affinchè cessi l'equivoco, e cessi al più presto?

Si suol dire, per iscusare la inerzia delle classi educate, nulla esservi di più difficile, che il mostrare la luce ai ciechi, di sottomettere alla ragione i zotici, d'insegnare agli ignoranti. L'impresa può essere ardua, e deve apparire doppiamente tale a chi non ha mai tentato passo alcuno in quella direzione. Ma le difficoltà non sono però tali da disanimare la buona volontà di un vero filantropo, di un vero patriotta, di un vero cristiano. — Ricordiamoci che acquistando la libertà e l'indipendenza, costituendoci in nazione, ed ottenendo come tale un posto onorato fra le potenti e civili nazioni europee, abbiamo acquistato dei diritti non solo, ma abbiamo contratto altresì dei doveri verso le vicine potenze, e verso noi medesimi. — Siamo stati rispettati sin quì, dobbiamo mostrarci degni di rispetto. Dobbiamo tollerare con forte pazienza i mali inseparabili da ogni sociale rivolgimento; non perdere il tempo e la lena in vani lamenti, in puerili ed irate recriminazioni, in urti ed assalti reciproci, in garruli od inutili dibattimenti; ma prefiggerci per iscopo d'ogni nostro atto la consolidazione di quanto abbiamo fatto, e perchè non potevamo far cosa migliore, e perchè ciò che abbiamo fatto liberamente non possiamo ripudiarlo senza confessarci inetti e bisognosi di severa tutela: confessione che sarebbe troppo umiliante per una nazione come la nostra, che per tanti anni aspirava ai beni di cui gode oggidì, e che acquistati appena non ha il diritto di sprezzarli, o di dichiararsene stanca. — Ricordiamoci che il pentimento nelle nazioni non è virtù, ma debolezza, leggierezza, o indizio dell'una e dell'altra.

Sforziamoci d'inspirare ai nostri compatriotti, a qualunque classe di persone appartengano, la tolleranza, la costanza e l'energia. — Scacciamo le tenebre della ignoranza, che tolgono al povero delle campagne, come a quello delle città, la necessaria luce; ma mentre ammaestriamo il povero, non trascuriamo di ammaestrare noi medesimi.

Chi semina la discordia fra i cittadini non è il povero. — Chi sparge sospetti, proteste e calunnie sui nomi sin qui più onorati del paese nostro, sì che più non si trovi un uomo meritevole di stima e di rispetto che assumere si voglia di succedere a chi sottostava alle ingiuste ed alle assurde accuse de' suoi concittadini; chi operava simili nefandità non è il povero nè l'incolto. — Chi consiglia agli elettori di scegliersi a loro rappresentante un avversario dell'attuale ordine di cose, che non accetta l'incarico affidatogli, o lo accetta per aggiungere nuovi ostacoli a quelli che già ingombrano la via ove camminar debbono il governo e il paese, non è nè il povero nè l'ignorante. — Chi biasima gli operosi, senza additar mai ciò che sarebbe da farsi, e senza por mano ad opra alcuna, non è il povero, che si accontenta di ripetere le insulse diatribe de' suoi maggiori. Chi profetizza, ed annunzia come imminenti, rovinose catastrofi, senza dir mai come si potrebbero evitare, eccitando così il terrore, lo scoraggiamento e la diffidenza nell'animo delle moltitudini, non è il povero. — Dobbiamo farci maestri del popolo, ma dobbiamo altresì correggere noi stessi, sicchè egli possa vedere in noi il modello di ciò che esser deve il cittadino di un paese libero.

Mi si potrebbe opporre ch'io raccomando ad un tempo due cose che non possono camminare di pari passo; cioè che raccomando alle classi più elevate della nostra società di farsi educatrici delle più povere e più rozze, mentre dichiaro che le prime abbisognano non meno che le seconde di una educazione politica, e si potrebbe ancora soggiungere che codesta educazione io non accenno chi debba ad esse compartirla.

Poche parole basteranno a chiarirmi su tale apparente contraddizione. Se le modificazioni, ch'io vorrei suggerire alle classi più colte ed illuminate de' miei concittadini, richiedessero lungo tempo ed ardui studii per essere effettuate, meriterei invero la taccia di proporre degli scolari per maestri delle classi più povere e più ignoranti. — Ma le modificazioni di cui parlo dipendono unicamente dalla volontà di coloro che dovrebbero eseguirle. — Gli italiani educati e colti sanno benissimo, che un paese non può governarsi costituzionalmente, se i cittadini di questo non partecipano al maneggio degli affari suoi; che non v'ha linea stabile di confine tra i governati e i governanti, ma che l'autorità passa dagli uni negli altri, secondo le varie circostanze, secondo pure che si scoprono nuovi cittadini atti ad assumerla e ad esercitarla. E se gli italiani capaci di partecipare al governo del loro paese, se ne stanno inoperosi, fuori della sfera in cui si trattano gli affari, contenti di biasimare chi assunse l'incarico di governare, non è già perchè essi non sappiano che quando tutti i cittadini se ne stessero come essi stanno colle mani alla cintola, il governo parlamentare o rappresentativo sarebbe pel nostro paese una utopia. Non è neppure che ad essi poco o nulla importi che esista o non esista il governo parlamentare: ma perchè vanno dicendo a sè medesimi, che gli aspiranti all'esercizio del potere non sono mai in numero troppo ristretto; che la loro propria cooperazione non sarebbe di vantaggio alcuno al paese, e che a loro è concesso di starsene oziosi, sicuri essendo che l'autorità non difetterà mai di esercenti. — Se v'ha un solo fra i nostri censori inoperosi, che rimproverato da qualche amico per la sua inerzia, non abbia tentato di giustificarsi adducendo per argomento la propria incapacità, e la certezza che non mancano cittadini disposti ad accettare la responsabilità del governo ed atti a sostenerla degnamente, si faccia innanzi, e mi dimostri la falsità del mio supposto.

Quando fosse vinta l'inerzia che opprime e domina una gran parte degli italiani più colti ed illuminati, sarebbero sanate molte delle piaghe che ne lasciarono i nostri antichi padroni. — Il cittadino, assorto negli affari dello stato o in quelli dell'amministrazione, non avrebbe nè il tempo, nè la volontà di volgere in ridicolo e di biasimare tutto ciò ch'egli vede; e quando avesse contratta l'abitudine di occuparsi di cose serie, non crederebbe più che gli manchi il tempo di applicarsi alla educazione delle classi povere ed incolte. Insomma le nostre classi illuminate ed istrutte sono atte a reggere lo stato, ed a guidare la pubblica opinione, che abbandonata a sè medesima, troppo spesso è soggetta ad errare; sono atte in una parola ad educare il popolo ed a perfezionare sè medesime, purchè così vogliano. — Così risolva la volontà loro, e le sorti del nostro paese seguiranno un corso regolare e placido, nè inciamperanno ad ogni passo negli ostacoli che loro suscitano pochi spensierati o maligni oppositori.

Sia vinta l'inerzia che ne tiene prostrati, e tosto vedremo chiarirsi il nostro orizzonte. Gli elettori si recheranno ai rispettivi loro collegi, e manderanno al parlamento, non già dei nomi in qualsiasi guisa famosi, ma degli uomini assennati, versati nel maneggio degli affari, onesti e prudenti. — Allora il parlamento si dividerà in una maggioranza compatta, e in una minoranza che servirà a mantenere la maggioranza sulla retta via. — Allora i ministeri sapranno su chi possono appoggiarsi, e formeranno progetti che spereranno di condurre a buon fine. — Allora cesseranno le deplorabili scene di violenza e di disordine, che alcuni degli attuali nostri deputati suscitano a bello studio, perchè le considerano come una incontestabile prova del loro ascendente. — Furono eletti perchè avevano fatto parlare di sè, ed ora mettono sottosopra il parlamento per mostrarsi non inferiori a sè stessi. — E gli uomini assennati di cui abbonda l'Italia permettono tali scandali!

Sia vinta l'inerzia che ne tiene prostrati, ed il popolo imparerà a fidare ne' suoi rappresentanti, e nei maestri che a lui spontaneamente si offriranno per renderlo atto a trarre dalla libertà la materiale prosperità a cui ha diritto. — Allora saremo veramente liberi ed indipendenti, quando pure Roma dovesse rimanere, per qualche tempo ancora, in balìa del Pontefice. — Allora saremo ricchi, perchè non avremo bisogno di spendere ingenti somme per combattere la noia compagna dell'ozio, e perchè la ricchezza dello stato ci consolerà delle scemate nostre ricchezze. — Allora avremo degli speculatori onesti, e delle speculazioni che arricchiranno i singoli leali speculatori, e con essi il paese. — Allora progrediranno le nazionali industrie, perchè i capitalisti le sosteranno, e gli artigiani vi lavoreranno con zelo indefesso.

Gli stranieri conosceranno quali tesori di forza, di costanza e di patriottismo serbi tuttora questa povera terra, tanto calunniata e derisa, e che sembra talvolta voler giustificare le accuse di cui è fatta bersaglio. Vere ed incalcolabili sarebbero le conseguenze di questo primo passo sulla via della pubblica salvezza. — Faccia ognuno ciò che sa e sente di poter fare, e nel giudicare della propria attitudine non si lasci ingannare dall'amore dell'ozio, ma faccia di sè uno scrupoloso e serio esame.

Questi sono i risultati verso i quali tutti dobbiamo tendere, nella misura delle nostre forze e della nostra capacità. — Abbiamo creduto troppo ingenuamente che, dopo le vittorie del 59 e del 60, le cose nostre avessero a progredire da sè sole, senza forviarsi mai, e senza che alcuno si prendesse la briga di guidarle. — Da quell'epoca in poi abbiamo deviato non poco; e se non vi si pone pronto rimedio, potremo trovarci in breve smarriti nel deserto. Per buona sorte però non abbiamo ancora perso di vista la diritta via. — Torniamo senz'altro indugio ad essa, e non consentiamo mai più che vizio o passione ce ne allontani. — Cessiamo una volta dallo scambiare fra di noi accuse, sospetti e rimproveri; ma risolviamo invece unanimi e concordi di conservare i beni conquistati, educando noi stessi ed il popolo ad accrescerli sempre più, e a trarne quei vantaggi materiali e morali, che simili beni producono alle nazioni che già da molti anni ne godono, e che sanno giustamente apprezzarli.

FINE

NOTE

1. Quando io scriveva quelle righe, già si sussurrava di una tacita resistenza al pagamento delle nuove imposte; ma si sperava che in essa non vorrebbero persistere ed ostinarsi i napoletani. — Si cercavano ad essi scuse, e si trovavano facilmente nel fatto, che sino al 59 i sudditi dei Borboni non sapevano per così dire che cosa fossero le imposte, nè perchè si decretassero, nè a qual uso servissero. Tanta ignoranza doveva diradarsi rapidamente, ed era o sembrava impossibile che una popolazione intelligente e svegliata come la napoletana non intendesse che le strade non si aprono, che le scuole non si creano, che la sicurezza e la tranquillità pubblica non si ottengono senza denaro, e che il denaro a ciò impiegato deve essere fornito dal popolo che fruisce di siffatte opere ed istituzioni.

Forse che la indulgenza usata verso i primi che si astennero dal pagare le nuove imposte persuase ai napoletani che, persistendo essi nella loro resistenza, si manterrebbero immuni da ogni disturbo fiscale. — Il fatto si è che le nostre provincie meridionali pagano in effetto circa il 20 per cento della quota che ad esse spetterebbe di pagare. — I deputati napoletani sono però fra i più accaniti detrattori del governo italiano, perchè esso non propone un mezzo facile ed economico di ragguagliare l'avere ed il dare dell'annuo bilancio. — Nè è da supporre ch'essi ignorino la principale cagione di quella pretesa incapacità del nostro governo; ed un bambino non durerebbe fatica a convincersi che quando il consuntivo non giunge al 50 per cento del preventivo, il deficit non può essere evitato.

La conseguenza necessaria di tale dissesto è la creazione incessante dì nuove imposte, le quali non rendendo allo stato nemmeno la metà della somma aspettata, e ciò perchè circa una metà degli abitanti del regno non paga la parte sua, rimangono e rimarranno in perpetuo insufficienti. Intanto l'Italia settentrionale che, di mala voglia sì ed imperfettamente paga, ma pure paga, va impoverendosi di giorno in giorno, e potrà fors'anco cadere in rovina, se le cose continuano su questo piede.

Chi ha pagato i molti milioni impiegati a costruire strade carreggiabili e ferrovie, a stabilire telegrafi elettrici, a fondare nuove scuole primarie in tutti i comuni delle provincie meridionali? chi, se le provincie meridionali stesse non li hanno pagati, e non li pagano? — Noi non siamo fra quelli che si figurano il governo come un essere sui generis, possedente beni suoi propri e tesori inesauribili, indipendenti dalle imposte e dalle somme che ne ritrae. — Se dunque i napoletani fruiscono gratuitamente dei lavori eseguiti nelle loro provincie, siccome il denaro che costarono non può provenire da altra fonte che dal pagamento delle imposte, dobbiamo concludere, che i benefizi largiti ai napoletani furono pagati dall'Italia settentrionale in gran parte, e dall'Italia centrale nella misura delle sue forze.

Noi non avremmo desiderato che il governo sospendesse i lavori intrapresi nell'Italia meridionale, ed aspettasse per condurli a buon fine che i suoi abitanti si adattassero a pagare le imposte. — Le opere eseguite e le istituzioni attivate erano necessarie alla fusione delle varie popolazioni, che è quanto dire al consolidamento della nostra unità politica, ed è questo uno scopo che deve essere raggiunto a qualunque costo. Nè ci rifiuteremmo di pagare i conti dei napoletani anche nell'avvenire, se credessimo la cosa possibile; ma camminando di questo passo, andremo in rovina, senza vantaggio alcuno pel paese. Ciò che a noi sembra urgente si è di ristabilire l'equilibrio tra le finanze delle varie provincie, insieme con quello degli annui bilanci, costringendo i napoletani a pagare la quota che ad essi spetta. — Tosto o tardi sarà necessario adottare tale partito; e le dilazioni altro effetto non hanno se non di persuadere ai napoletani che, durando nella loro resistenza, rimarranno vincitori.

2. Mentre io stava scrivendo queste pagine, gli avvenimenti sembravano disposti a darmi una solenne e decisiva mentita. — Un pugno di giovani imprudenti, sedotti da irreconciliabili nemici dell'attuale ordinamento delle cose nostre, e guidati da un uomo il cui nome esercita un fascino singolare sulle giovanili imaginazioni, fidando sul fatto che la Presidenza del Consiglio dei Ministri era caduta nelle mani di chi sa persuadere a tutti i partiti di essere cosa loro, e la cui presenza al Ministero fu sempre seguita da una sciagura nazionale, levavano lo stendardo della ribellione, ed irrompevano sul territorio pontificio. — Confesso che i partigiani del generale Garibaldi formano una fazione politica, che si appoggia, non già ad un corpo di dottrine politiche, ma ad un uomo di cui si sono fatti un idolo, quantunque lo riconoscano scevro di criterio politico, di prudenza, di sagacità, di tutte le doti infine che costituiscono l'uomo di stato, e ne lodano soltanto il coraggio, la lealtà ed il patriottismo: virtù che bastano a meritargli la erezione di una statua sulla pubblica piazza, ma non ad ottenergli il titolo ed i diritti di un dittatore. — Il generale Garibaldi ed i suoi partigiani pretendevano impadronirsi di Roma, cacciarne il Pontefice, stabilirvi verosimilmente la dittatura repubblicana, e sostenere quindi la guerra contro la Francia. — L'impresa era così disperata, così rovinosa, che i romani stessi lo conobbero, e si astennero dal parteciparvi. — Il successo non era dubbio; ma i pericoli che tanta caparbietà minacciava alla patria erano grandi e numerosi. — Il governo nostro trovavasi nella più critica situazione. — Legato dai trattati, e costretto dalla più volgare prudenza a non partecipare a tentativi violenti contro il governo pontificio, esso non poteva nè attaccarlo nè difenderlo, e perchè la pubblica opinione si sarebbe opposta così all'uno come all'altro partito, e perchè i trattati non lo autorizzavano ad intervenire negli stati romani, nè in favore del Pontefice nè in favore de' suoi avversarii. — D'altra parte, se le nostre truppe avessero occupato il territorio pontificio, e più ancora se si fossero portate dentro le mura di Roma, un tal passo ci avrebbe condotto alla guerra civile, ed alla guerra contro la Francia, che avrebbe considerato la nostra occupazione a mano armata di Roma come una sfacciata infrazione ai trattati testè conclusi, e come un atto di violenza contro il Papa, in una parola come una conquista; mentre dall'altro lato il nostro governo non poteva accettare e sanzionare la dittatura del generale Garibaldi, nè tutti gli atti e le illegalità che da tale dittatura sarebbero derivati. Le due armate trovandosi a fronte l'una dell'altra, e le volontà dei rispettivi capi essendo fra loro discordi, non vedo come si sarebbe evitata la guerra civile, o forse anche lo smembramento d'Italia.

A tali estremi pericoli ne esponeva la ostinazione e la singolare imprudenza del generale Garibaldi; e la sagacità che giunse ad allontanarli non fu per certo volgare prudenza. Anche questa volta però il grandissimo numero degli italiani, ed i romani pressochè tutti, diedero nuova testimonianza del buon senso che predomina nelle nostre popolazioni; poichè nessuno, tranne gli agitatori incorreggibili cresciuti ed educati nelle lunghe e ripetute emigrazioni politiche, tranne pochi giovani la cui fantasia si accende in guisa che ne offusca totalmente il criterio, ed alcuno forse di quei sciagurati che non si sentono al sicuro se non nel disordine e nella illegalità; nessuno, dico, approvava l'impresa del generale Garibaldi e ne desiderava il successo, sebbene lo scopo di essa, cioè la riunione di Roma al rimanente d'Italia, sia oramai il principale oggetto dei voti degli italiani.

Questa crisi per buona sorte giunse al suo fine, senza avere cagionato la rovina che sembrava ne minacciasse; del che devesi render grazie alla moderazione dell'Imperatore dei francesi, e al sincero desiderio, anzi al bisogno di pace, che predomina tanto in Italia quanto in Francia. — Che il governo italiano non potesse operare come ausiliario di un branco di giovani indisciplinati, inspirati dai meetings di Ginevra, di Milano e di altre città d'Italia, di poche bande di volontari le quali portavano inscritti sulle loro bandiere principii e sentimenti rivoluzionari, e si dichiaravano seguaci di Mazzini e de' suoi luogotenenti, creando nelle borgate da essi occupate dei governi provvisorii, che sapevano di repubblica assai più che di monarchia costituzionale, ed operando come avrebbero operato prima del 59, cioè come se la nazione italiana ed il regno d'Italia non esistessero, o ne ignorassero la esistenza; che il governo acclamato dalla intera Italia, e che la rappresenta, non potesse entrare in campo come ausiliario delle bande dette garibaldine, è cosa troppo evidente perchè possa mettersi in discussione. — E tale evidenza appare maggiormente ancora, se si riflette che le popolazioni degli stati pontificii, e la romana in particolare, non si mostrarono per nulla consenzienti ai tentativi fatti sotto pretesto di liberarle, e che il successo degli assalitori non avrebbe avuto luogo senza spargimento di sangue italiano per mano italiana. — Se dunque il nostro governo, il governo di Vittorio Emanuele, si fosse indotto ad unirsi ai garibaldini, esso avrebbe mancato ai trattati, avrebbe condotto i suoi soldati contro gente italiana; e tutto ciò per assicurare il trionfo di una fazione a lui avversa, e così debole ed impotente, che a nulla poteva riescire se non coll'aiuto del regno d'Italia. — D'altra parte il governo del nostro re non poteva combattere direttamente le bande garibaldine, senza incorrere in una guerra civile ed imbrattarsi di sangue italiano; e ciò per difendere diritti ch'esso non riconosce, e contro la cui legittimità egli si è dichiarato. — Le cose stando in tale stato, l'intervento francese, sebbene pieno anch'esso di pericoli, era però il solo mezzo di evitare a noi la guerra civile, e di mettere il Pontefice al sicuro da una catastrofe, la cui responsabilità sarebbe ricaduta sulla nazione italiana e sul suo governo. — Ora che la tranquillità ed un certo buon ordine, compatibile con un pessimo governo, sono ristabilite, le truppe francesi lasceranno il paese ove sono una vivente violazione del principio che la Francia stessa proclamava del non intervento nelle dissensioni intestine dei vari stati europei. Ma siccome i recenti avvenimenti hanno dimostrato che la convenzione del 65 tra la Francia e l'Italia, nei termini in cui fu concepita e redatta, non produce quei risultati che da essa si aspettavano; siccome il governo italiano, a cagion d'esempio, non può impedire che il territorio pontificio sia assalito da bande di volontari, senza combatterle, ciò che ripugna ad ogni cuore avverso alla guerra civile; nè può impedire che la città di Roma cada difatto nelle mani dei volontari o delle popolazioni insorte, mentre i trattati gli vietano di occupare esso medesimo quel territorio; per questi e molti altri motivi, la cui enumerazione riescirebbe troppo lunga, si comporrà un nuovo trattato che ponga al sicuro la persona del Pontefice da ogni offesa, e garantisca il rispetto dovuto alla religione della civiltà, a tutto ciò che si riferisce ad essa, come sarebbero i suoi monumenti, le sue chiese, i suoi ministri, ecc.

Possiamo dunque sperare, malgrado le immeritate invettive e le imprudenti dichiarazioni di alcuni fra i ministri ed oratori della Francia, che codesta nazione, più sensata e più giusta di que' suoi rappresentanti, rispetterà le costanti e legittime aspirazioni dell'Italia; e si terrà soddisfatta d'intervenire in ciò che vi è veramente di universale nella così detta quistione romana, cioè di assicurare la conservazione della religione cristiana e cattolica, e di quanto la concerne, lasciando agli italiani la cura d'intendersi col Pontefice su ciò che appartiene esclusivamente all'Italia, cioè sulla questione dell'annessione di Roma, purchè ci asteniamo dall'uso della forza materiale, della violenza. Riconosciuti una volta i nostri diritti, e posti alcuni limiti all'esercizio loro, spetterà a noi l'approfittare con somma prudenza dei nostri vantaggi, mostrarci capaci di contenere i nostri desideri, e aspettare il momento opportuno per soddisfarli. — Se l'Italia sa mantenersi nazione libera ed indipendente, ordinata e tranquilla, sotto un governo costituzionale ed italiano, che l'Europa ha riconosciuto e rispetta, non v'ha per me dubbio che Roma debba in breve entrare a parte delle nostre sorti. L'incertezza si riferisce soltanto al come e al quando sarà compiuto questo finale e solenne avvenimento; e a tale incertezza dobbiamo rassegnarci sinceramente, come ad una invincibile necessità politica e sociale.

Ma perchè tale rassegnazione sia possibile, e porti i suoi frutti, dobbiamo rientrare nelle vie di una regolare ed ordinata libertà, e rinunziare alla politica sentimentale, che già troppo sovente ne fuorviava. — Nessun paese può dirsi libero, se concede ad un uomo, sia pur esso il più virtuoso ed il più amato, di mettere in non cale la legge, e di seguire soltanto la propria volontà. — Il re è sottomesso alla legge, ed alla legge obbedisce. Perchè si permette al generale Garibaldi di sprezzarla, e di non tenerla in alcun conto? Egli non aveva che un solo mezzo per conservarsi in una condizione così eccezionale, ed era l'usarne assai di rado, ed il non abusarne mai. — Garibaldi invece si è fatto lo stromento di Mazzini e dei Mazziniani in Italia, e si accinse a realizzarvi i loro sogni. — Con ciò ne ha posto due volte sull'orlo della guerra civile e della guerra contro la Francia. — Questi due fatti, quello di Aspromonte e quello di Monterotondo, lo hanno balzato dal trono fantastico su cui lo aveva posto la nostra gratitudine, e ridotto alla condizione di semplice cittadino di un paese libero; condizione, di cui, mi sia permesso il dirlo, non v'ha eroe che non possa e non debba tenersi per soddisfatto ed onorato.

Sia dichiarato una volta, e nessuno lo contesti, che Garibaldi deve obbedire alla legge come ogni altro cittadino d'Italia, non solo quando l'obbedienza non gli pesa, ma sempre ed in qualsivoglia circostanza, e che qualora egli tentasse una terza volta d'infrangerla, sarà richiamato al dovere coi mezzi stessi dalla legge prescritti. — L'uguaglianza dei cittadini innanzi alla legge è la prima fra le grandi conquiste che la rivoluzione francese dell'89 compì sulla tirannide dei governi assoluti, il principio più fecondo e più benefico della moderna civiltà, e chi non sa contentarsene e rendergli omaggio, si mostra indegno di far parte di un consorzio civile e libero.