1847

PARTE PRIMA

Chi abbia scorsa la Lombardia nella prima parte di questo secolo, chi abbia studiato la storia d'Italia, chi abbia militato al fianco degl'Italiani negli eserciti imperiali, ed in ispezieltà veduti i ventisettemila o che soldati partiti dall'Alta Italia o dal reame di Napoli perire tutti nelle gelide pianure della Russia o nei flutti della Beresina, spirare da valorosi con la spada in pugno, senza gemiti nè omei, cadere aggelati nell'atto di locarsi tra le file, oppure percossi da accêtta nell'inchiodare l'ultimo cannone da essi colà trascinato, se oggidì scendesse di nuovo dall'Alpi, crederebbe a stento al testimonio degli occhi suoi propri, e si persuaderebbe forse di essere sceso frammezzo ad un popolo ignoto e nuovo per lui. Che avvenne egli mai in Lombardia da trent'anni a questa parte? Gl'Italiani e i Lombardi al par degli altri, sono stati in ogni tempo pur troppo agitati ed irrequieti. Leggi gli storici dell'Italia, e ti si pareranno dinanzi fazioni senza numero che cozzano fra loro; capi-parte che s'attraversan l'un l'altro, si scontrano a mezza la via, e a vicenda si tolgono amici, fautori e sussìdi; città che sollevansi contro i loro signori, e agevolmente discaccianli, chiamandone altri in loro vece, od ingegnandosi di farne senza, col governarsi a comune; signori discacciati che non di rado vengono richiamati prima di avere avuto tempo d'uscire da un angusto territorio; giurati loro nemici che fanno sacramento di servirli, mentre i loro successori escono dalla porta opposta a quella per cui i primi rientrano nella città capitale. Il papa, l'imperatore, il re di Francia, e in séguito anche il re di Spagna, quei quattro grandi indirizzatori di tutti i moti italici, da cui traevan profitto, si spartivano a vicenda le città e le province italiane; ned io saprei se si possa in tutta quanta la Penisola trovare una città che non abbia, ed anche con breve intervallo di tempo, aperto le sue porte, e accolto con tripudio pria questo, poi quello dei detti prìncipi. Non intendo già, nel dettar queste linee, a fare un elogio del carattere italiano. Potrà esso venir tacciato d'incoerenza, di leggerezza, di soverchia ambizione, di incostanza, d'infedeltà e simili vizi. Ma almeno non gli si può apporre l'inerzia, l'immobilità, la stupidità, la meticolosità, l'indifferenza per le cose politiche. E per non parlare qui d'altri che dei Lombardi, e della loro condotta nel tempo preceduto ai trent'anni ultimi scorsi, dirò ch'essi mai non cessarono di spiegare quell'operosità un po' irrequieta cui sono naturalmente disposti.

Dotato da Luigi XII d'una costituzione assai simigliante a quella onde godono a presente la Francia e l'Inghilterra, giacchè essa conferiva la potestà legislativa a due camere, la più alta delle quali era la sola di cui il principe eleggesse i membri; il ducato di Milano si serbò, più che tutti gli altri Stati italicii, in possesso del dritto e del costume di dirigere l'andamento del suo proprio governo. Gli Spagnuoli sminuirono le prerogative delle camere, senza però annichilarle, e Giuseppe II, ad esempio de' suoi predecessori, a pochissimo le ridusse. Ma questo principe, benefattore della Lombardia, in quanto l'arricchì del bel sistema d'amministrazione interna e di divisione territoriale, che con lievi modificazioni la regge pur ora, lasciolle inoltre una indipendenza assai grande; cui l'aristocrazia lombarda, la quale era allora in possesso di tutte le alte cariche dello Stato, sapea far rispettare, con commendevole e rara energia. Ricordasi tuttora in Milano una sovragiunta d'imposta che l'imperatore volea far riscuotere sopra non so qual reddito in Lombardia; e si rammenta che il conte Melzi, che allora teneva un ragguardevole posto nello Stato, si oppose risolutamente a questa novella imposta, e non avendo potuto indurre i Milanesi a ricusarla, partissene subito per a Vienna, ove fu più avventurato, e ottenne la rivocazione dell'ordine dato. E sì che di già in quel tempo le idee che addussero la rivoluzione francese ferveano in Italia, e fra i promotori di esse annoveravansi parecchi autorevoli membri dell'aristocrazia milanese, filosofi, leggisti, istorici, poeti. Aveva il Parini in un poema satirico, diviso in quattro parti, il Mattino, il Mezzogiorno, la Sera e la Notte, vôlto spiritosamente in beffa i rancidi e alquanto buffi costumi della eletta società. Gli è certo che l'aristocrazia italiana, erede ad un tempo dei costumi francesi, spagnuoli ed austriaci, ch'essa del resto aveva fusi insieme, facendosi così un carattere suo proprio e per certi rispetti originale, porgea molta materia ai sarcasmi del Parini. Allato ai personaggi gravi e studiosi che amministravano le cose dello Stato, una moltitudine di giovani signori e di giovani dame, tutti intenti agli amori ed ai piaceri, spendevano il loro tempo a visitarsi a vicenda ed a dir male del prossimo. Eranvi mariti che presentavano alle loro consorti il cavaliere servente, cui destinavano essi medesimi a compier l'ufficio indicato dal suo nome. Poche mogli inoltre teneansi paghe del cavaliere dato dal marito, e la maggior parte di esse si sarebbero vergognate di non trarsi dietro al passeggio e in casa delle loro amiche e al teatro un numeroso codazzo che rendesse testimonianza della possa dei loro vezzi. Era il codazzo composto per l'ordinario da un patito, o, per meglio dire, da parecchi patiti; perocchè come l'indica il nome (soffrente o sofferto) il patito era un amante sfortunato e universalmente noto per tale; eravi pure (e pur troppo dobbiam confessarlo) l' amante, se non che il buon costume d'allora portava ch'ei fosse unico. Avrei torto davvero se dimenticassi i galanti, che potevano essere non men numerosi che i patiti, e fra i quali annoveravansi parecchi abatini. Eran questi, per lo più, giovani cui non garbava applicarsi stabilmente, o che appartenevano a più dame; oppure, come ho detto, erano anche abatini, fratelli minori dei più grandi signori, che del sacerdozio non avean altro che l'abito nero, del letterato, che l'abilità di porre insieme malamente delle rime, e dell'uomo mondano, che la permissione di seguir da pertutto la dama eletta, di portarle attorno in braccio il cagnuolo prediletto, e di sopportarne umilmente le capresterie.

Cosiffatti costumi eran tali invero da eccitare il disprezzo e l'indignazione degli uomini di cuore e d'ingegno, che, nati nell'ordine privilegiato, aborrivano i privilegi, ed esposti a perdere tutto ove si mandassero ad atto le dottrine dell'uguaglianza, adoperavano pure con quanta autorità potevano a propagarle e ad inculcarle. La brigata chiamata il Caffè, e composta dei tre fratelli Verri, del marchese Beccaria, di Paolo Frisi, del Longhi, del Visconti e di molti altri, rappresentava il partito delle nuove idee. I vecchi dignitari dello Stato e la gioventù effemminata rappresentavano quello dei vecchi pregiudizi. E, come immancabilmente doveva accadere, i primi volgevansi verso la Francia, gli altri strettissimamente all'Austria aderivano. Quando gli eserciti francesi scesero il pendío italico delle Alpi, furono accolti con gran tripudio da una gran parte della popolazione, e appena s'accorsero dell'esistenza dei malcontenti, che se ne stavano quatti all'oscuro. Fuvvi in Lombardia un governo rivoluzionario, composto d'Italiani; fuvvi un Comitato di pubblica salvezza; e se non vi accaddero le sanguinose scene del 2 d'agosto e del 5 di settembre, non deesi ciò attribuire all'indifferenza popolare, ma sì al carattere benigno degl'Italiani, ed in ispezieltà dei Lombardi.

Vi fu veramente la sommossa di Pavia, che diede luogo al saccheggio di quella città; fatto sanguinoso e superfluo, che dagli avversari de' Francesi fu loro per un lungo tempo rinfacciato. Videsi in Milano e in tutta la repubblica Cisalpina un sentimento quasi universale di dispetto pel piglio un po' tracotante con cui il Primo Console e poi l'Imperatore faceva introdurre le riforme inviate di Francia nella costituzione della repubblica. Imponendo queste riforme a forza, quando non poteva farle accettare volonterosamente dalla contrada, egli facea precedere la promulgazione di quei novelli statuti da annunzi di protestazioni di riconoscenza e di giubilo, cui poneva in bocca dei popoli ricalcitranti. Furonvi in Lombardia nel 1809, al tempo della sollevazione del Tirolo a pro dell'Austria, molte congiure fra i nemici occulti della Francia e i perturbatori del Tirolo; ma queste nimicizie, questi contrasti sono cose, per così dire, da nulla in paragone delle guerre di rivoltosi che insanguinarono il mezzodì dell'Italia per tutto il tempo che durò la dominazione francese, o poco meno.

I due partiti rimasero per lunga pezza a fronte l'uno dell'altro; e mentre i difensori delle idee novelle si strignevano attorno ai Francesi, offrendosi loro devoti; i fautori dell'antico reggimento carteggiavano con Vienna, e speravano tutto dal tempo e dall'impetuosità dei loro avversari. Il broncio italiano non potrebbe tuttavia durar gran fatto; perocchè quegli che tiene il broncio condannasi da sè a non far nulla, e l'Italiano, poco contemplativo, vuole anzi tutto e ad ogni costo operare. A poco a poco i malcontenti si ammansarono, e negli ultimi anni del regno napoleonico in Italia le nobili case lombarde che non erano rappattumate col governo, e i capi delle quali non tenevano una carica di qualche fatta, erano assai poche. Tutta quanta l'amministrazione, tranne pochissime eccezioni, era affidata a' nativi, e gli uffizi dell'esercito italico erano per la massima parte dati ad uomini italiani. Con tuttociò l'entusiasmo col quale i Francesi erano stati accolti in Italia, era spento. I filosofi amici dell'eguaglianza dolevansi che non uno dei pregiudizi da loro aborriti fosse stato distrutto. La disuguaglianza fra' varii ordini di cittadini sussistea come in addietro, e se più agevol cosa era omai l'aver posto negli ordini privilegiati, ne conseguiva soltanto che, siffatta disuguaglianza non movendo più a sdegno il popolo come pria, trovavasi perciò stesso più sodamente fondata. Gli antichi amministratori del paese agevolmente riconoscevano essere le imposte divenute più gravose, e la novella interna amministrazione essere più dispendiosa, in onta che le entrate dello Stato non fossero accresciute se non transitoriamente e per poco, dal concorso di gente straniera venuta di Francia in Lombardia. Nè tralasciavano essi di notare che questi stranieri, poveri per lo più, anzichè arrecarvi un aumento di capitali, venivano ad arricchirsi; dal che conchiudevano che, sebbene il danaro girasse più rapido di pria d'una in altra mano, non erane perciò accresciuta la quantità. E come mai avrebb'essa potuto venire accresciuta intanto che nè il traffico nè l'industria aveano avuto giammai stimolo, soccorso od impulso veruno? Le genti pie e di austere massime non entravano nel palazzo del vicerè senza provare un certo quale segreto raccappriccio; chè di bocca in bocca correano novelle di donne sedotte, di zitelle a forza stuprate, di mariti o di padri maltrattati od anche uccisi. Le incestuose tresche della famiglia de' Buonapartidi parevano constatate. Gli stessi sollazzi con cui il vicerè argomentavasi di trarre alla sua una parte del popolo, a male volgeano per lui. Andavano subito fuori le voci: che in un tal ballo in maschera erano comparse vestimenta indecenti; che in una partita di caccia una coppia notoriamente adultera era per più ore scomparsa, e al suo ritorno era stata con istomachevoli acclamazioni salutata.

Tutte queste incolpazioni, quantunque certamente esagerate, non erano al tutto destituite di fondamento. I princìpi per cui era stata addotta la rivoluzione francese vedeansi ormai riguardati come massime di utopisti, e chi si fosse provato a ricordarne uno solo, quand'anche fosse stato un eroe, si sarebbe veduto riguardato come un pazzo, e un pazzo pericoloso. La contrada gemea sotto il peso delle imposte, che il governo non si curava di proporzionare ai sussidi di quella: le disonestà, infine, della corte delle Tuilerie e dell'altre da essa dipendenti non erano in tutto sogni della calunnia. Se non che sarebbe stata giustizia l'avvertire che i re legittimi non erano stati nemmen essi esemplari di puro e casto costume; sarebbe stata giustizia lo sceverare in quei racconti il vero dall'esagerato; come pure il porre nella lance del pubblico giudizio le virtù degli uni qual contrapeso de' vizi di alcuni altri. E se un tal genere di ricompenso fossesi ammesso, Milano avrebbe avuto, anzi che no, a lodarsi della famiglia del suo principe; chè la perfetta bontà della viceregina, la principessa Amelia di Baviera, la sua carità, inesauribile del pari che la sua pazienza, la sua rigida pietà, come i candidi e severi suoi costumi, doveano preponderare d'assai su quelle certe leggerezze di cui il principe Eugenio era di certo incolpato, e fors'anco colpevole.

Fra questa generale mala contentezza ebbe principio la spedizione contro la Russia. Meglio che vensettemila uomini partirono dalla Lombardia, entrante l'estate dell'anno 1812, sotto il supremo governo del vicerè, e quello secondario del generale di divisione Pino. L'esercito italico era giunto il 1° di luglio oltre il Niemen, e il vicerè si rallegrava in vedendolo, alla distanza di seicento leghe dall'Italia, in buona ordinanza e in florida salute. Ma ben presto cambiavasi l'aspetto delle cose. Le pugne continue e il freddo, che di giorno in giorno ingagliardiva, addecimavano le schiere italiane, a tal che il 13 di settembre, quando il generale Pino, che era rimasto al suo posto poco stante da Mosca, giunse con la sua divisione in quella città di già data alle fiamme, il numero delle soldatesche ch'ei comandava era ridotto da quattordicimila a quattromila. Eppure questa stessa divisione Pino fu quella che pochi giorni di poi si avventò con cieco impeto contro un polso di Russi che avevano discacciato i Francesi dalle occupate alture, e che, signoreggiando così la pianura, tribolavano l'esercito nel suo passaggio. Ripresero gl'Italiani quelle alture, ma la gloria d'impadronirsi d'un luogo ond'erano stati discacciati i Francesi, costò loro ben caro. Il freddo, la fame, la fatica e gli agguati dei Russi faceano ogni giorno perire i migliori dei nostri soldati. Gli uni s'allontanavano dalle file in cerca di cibo, e, soprapresi dai Russi, erano trucidati; altri sostavano un istante onde ricuperare con un po' di riposo le forze, e il freddo che li coglieva, non concedea più loro di risorgere. Era duopo passare a guado i fiumi, e immergersi talvolta nell'acqua fino al mento, e tirarsi dietro i carri di munizioni ed i cannoni, pei quali erano venuti meno i cavalli. Era forza sopratutto camminare di notte tempo, a fine di deludere la vigilanza nemica. Gli ufficiali ch'ebbero parte in quella spedizione ricordano tuttora che un giorno in cui il vicerè era accorso per mettersi alla testa della guardia regale italiana, egli vide repentinamente diradarsi le file di quella, e la confusione regnare per un istante in tutto il corpo. Appressatosi maggiormente, gli fu subito chiara la cagione del fatto; ed era che trentadue granatieri della guardia stessa erano tutti ad un tratto stramazzati a terra, morti dal freddo. Si narra di ufficiali superiori, i quali, scortati soltanto da una dozzina o che d'uomini, si videro assaltati nella meschina capanna in cui riposavano, da parecchie centinaia di Cosacchi, i quali non osando superare a viva forza gli steccati che la capanna circondavano, ritraevansi sull'alture vicine, donde minacciavano poi o di abbruciar la capanna, o di far fuoco sopra chiunque ne uscisse.

È noto ad ognuno come l'esercito italiano giugnesse alla sera sulle rive della Beresina, e come assai piccolo fosse il numero di quelli che si trovarono in grado di ubbidire agli ordini ricevuti e di passare la sera stessa il fiume. È noto altresì che il ponte fu rapito dall'impeto dell'acque nella susseguita notte, attalchè gl'Italiani s'avvidero, appena ridesti, che l'ultima speranza di salvezza era loro tolta. Non si perderono d'animo tuttavia; chè subito soldati ed ufficiali del corpo del genio e dell'esercito tutto si posero alacremente all'opera per costruire un nuovo ponte, benchè i lavori erano continuamente interrotti dal fuoco dei Russi, i quali senza posa tribolavano quel non più esercito, ma turba d'uomini estenuati e cadenti. Ei fu sulle rive stesse della Beresina, e in quella che si dovea tentare il passaggio, che il Ciavaldini, soldato del traino, inchiodò l'ultimo cannone che rimanesse agl'Italiani, dicendo: «Tu non ci puoi più servire; ma almeno non servirai ad altri contro di noi».

Poco stette l'imperatore a partirsene alla vôlta della Francia, lasciando a Murat il governo dell'esercito; ma questi non tardò molto a seguire l'esempio del suo signore, addossando al principe Eugenio l'imperiale vicariato. La partenza di quei due, che meriterebbe fors'anco il nome più tristo di abbandono, finì di gettar lo sgomento e la confusione fra le grame reliquie del grand'esercito. Gli ufficiali e soldati facevano a gara nell'abbandonare le insegne; o, per dir meglio, non fuvvi più corpo d'esercito, e i pochi soldati che giunsero a salvamento, fuggirono sbrancati, senz'armi, e quasi senza vestimenta, e, che fu più funesto, senza veruno indirizzamento. Giunto a Marienwerden, rassegnò il vicerè gli uomini che lo seguivano, e non ne trovò che dugentotrentatrè, di cui cenventuno ufficiali e centododici sottufficiali o gregari. Ad Heilsberg fece batter di nuovo la chiama per rassegnare le truppe, ma non vide sfilare altri alla sua presenza che quei dugentrentatrè passati di già a rivista in Marienwerden. Scrisse allora al ministro di guerra del reame d'Italia, esser l'esercito d'Italia ricisamente ridotto a quei duecentotrentatrè uomini; che tuttora sperava giugnessero due altre colonne, di cencinquanta all'incirca ciascuna; ma non rimanere altro certamente dei ventitremila trecentonovantasette soldati partitisi da Milano la primavera trascorsa. La perdita non fu però ad ogni modo tanta quanta supponevala il vicerè; conciossiachè, oltre a quei trecento ch'erano da lui aspettati, altri ancora raggiugnessero le file; per modo che il numero de' guerrieri italiani scampati dall'eccidio può essere determinato in un migliaio all'incirca.

Se una tanta sciagura doveva alienare i Lombardi dall'imperatore, più ancora conferirono ad esacerbare viemaggiormente gli animi in quell'occasione la condotta e le parole del vicerè. Nel carteggio di lui con quei della sua famiglia o con gli ufficiali dello Stato, ne' suoi manifesti, ne' suoi bandi cotidiani, trapela ad ognora quel sentimento fatale di soprastanza di cui un Francese stenta sempre moltissimo a sceverarsi inverso all'estrano. Eransi partiti i Lombardi dal loro bel paese, abbandonando il mite loro clima, rinunziando ogni conforto, ogni agio della vita, correndo ad esporsi ai più crudeli stenti, alle fatiche, ai geli, ai patimenti, alla schiavitù e alla morte, e tutto ciò per una causa tutt'altro che propria, e dalla quale non aspettavano alcun pro per la patria loro. Non era egli in debito di dar loro alcuna testimonianza di benivolenza, colui pel quale sagrificavano volonterosi persino le vite, e il quale avea di già acerbamente delusa la loro speranza, col non mai adempire la promessa loro fatta della nazionale independenza? L'Italia, la cui esistenza come Stato independente era mallevata dal trattato di Lunevilla, avrebbe potuto, senza parer troppo esigente, riguardarsi come lesa nei suoi diritti dalla Francia, e contro di essa chiarirsi; eppure, non che astenersene, consentiva a servirla, e faceale omaggio, non solo delle sue ricchezze, ma e del sangue generoso de' giovani suoi figli.

Pareva il vicerè ignaro affatto delle vere relazioni che tra la Francia e l'Italia passavano. Non avvisava la spedizione di Russia come una guerra sanguinosissima, da cui l'Italia non s'aspettava alcun pro, e cui essa accorreva con tutte le sue forze, unicamente per la migliore satisfazione della Francia; parea quasi ch'egli la tenesse per una festa, o in certo qual modo, uno spettacolo, nel quale i Francesi teneansi certi di fare comparsa immensamente avvantaggiata, mentre gl'Italiani, gente disadatta e balorda, eranvi ammessi alla coda de' Francesi, solo perchè non se l'avessero troppo a male, e per effetto della graziosa condescenderza de' Francesi medesimi. Buon pro per l'onore italiano che i fatti parlano alto abbastanza di per sè, e rendono onoratissima testimonianza della bravura e della gagliardia delle soldatesche italiche. Nè il vicerè stesso ricusava loro le lodi; ma in quel tuono con cui pronunziavale, eravi alcunchè di offensivo. Il tale corpo non mancò di coraggio, il tale altro si è diportato valorosamente, oppure si è mostrato degno di marciare a fianco dei Francesi, il tale ufficiale ha dato saggio di buon senno e di sangue freddo. Sono questi, in vero, elogi; ma chi non iscorge a prima vista che le parole, verbigrazia, di sangue freddo e di buon senno sono le più rimesse onde si possa far uso per designare il merito militare? Chi non s'avvisa che se un Francese, e non un Italiano, fossesi dovuto rimeritar di lode, sarebbero stati, invece di quei vocaboli, usati quelli d'intrepidità e di genio? Bastava dare una guardata ai bullettini del grande esercito, e paragonarli ai bandi fatti dal principe Eugenio all'esercito d'Italia, per vedere, dall'un de' lati, l'espressione quasi poetica d'una fiducia e d'un'ammirazione sconfinata, e dall'altro, freddi complimenti per una condotta affatto inaspettata. Eppur queste schiere italiane erano quella medesime da cui il maresciallo Macdonald ricusava di separarsi, perchè, a sua detta, la loro intrepidità, il loro ardore, la loro obbedienza riuscivangli troppa preziose; quelle dêsse che il generale Foix paragonava a lioni, che il maresciallo Suchet agognava di tener seco in Spagna, e delle quali l'imperatore stesso, parlando nel campo di Torgau col generale Fontanelli, diceva: «Con centomila soldati pari ai vostri, Eugenio sarebbe di già sul Danubio». Io cito questi varii, eppure uniformi giudizi per dar a divedere che il tuono freddo e un cotal poco disdegnoso del principe Eugenio, era effetto de' suoi privati sentimenti, ned era in verun modo giustificato dalla condotta delle truppe italiane.

La durezza di cuore è meno offensiva del disprezzo, ma però spiace talmente, che difficil cosa ella è il rimanere affezionato inverso a quegli che la dimostra. Fa stomaco il modo con cui il vicerè ragguagliava il conte Fontanelli, ministro di guerra, del quasi totale eccidio dell'esercito italico. Un capitano, per vero dire, non piange i soldati che gli cadono a fianco, perocchè lo stesso destino gli è forse riserbato, e coll'intenerirsi sopra chi non è più, ei può temere d'apparir timoroso per sè medesimo. Ned io vo' punto che il principe Eugenio avesse recitata l'orazione funebre dei ventisettemila Italiani sepolti nelle pianure della Russia, nè pretenderei che a loro riguardo egli avesse spesa alcuna frase patetica, e detto altrimenti che: i ventisettemila uomini partitisi meco sono ridotti a dugentrentatrè; fate altre leve, e mandatemi gente abbastanza per surrogare gli estinti; ma vorrei sotto queste parole, asciuttissime in vero, travedere un'angosciosa commozione ch'egli tentasse di occultare. Mi si opporrà certamente che la scrittura non dà altro che le parole, e che sarebbe irragionevole il pretendere ch'essa disveli commozioni che lo scrittore non volle esprimere. Una tale opinione può essere savissima; io però forte mi attengo all'opinione contraria. Mi si dieno due scritti contenenti l'uno e l'altro le stesse parole; ma il primo de' quali sia stato vergato sotto l'impulso d'un potente, benchè represso, affetto, e il secondo, all'incontro, non sia altro che il resultato di un calcolo; e la lettura del primo mi commoverà, forse a mia insaputa, mentre dall'altro non sarò punto punto commosso. Non si dà forse persona, per quanto io avviso, la quale non abbia provato alcun che di simile a quello ch'io dico. Saravvi alcuno che, leggendo un qualsiasi racconto, non siasi sentito di repente commosso e quasi colpito nel cuore da una parola semplicissima in sè stessa, e che per la centesima volta fors'anco gli cade sott'occhio senza che mai gli abbia fatto dianzi un tale effetto?

Il comico o risibile non sembra esso, del pari che il patetico, connesso per un certo quale misterioso vincolo con una tal parola, espressa in quel tal momento, con quella tale giacitura? E ciò donde deriva? da che lo scrittore, commosso egli stesso o dal dolore o dall'allegria, imprime nella frase uscita allora allora dal suo cuore o dal suo spirito, una parte della disposizione che gli diede la forma. Questa frase ha ricevuto dal suo autore una fisionomia, la quale, simile in tutto alla fisionomia del volto umano, non potrebb'essere attribuita a causa veruna fisica e materiale.

Tornando al principe Eugenio, io dico che quegli il quale si è sentito commosso nell'intimo del cuore dal racconto delle sciagure provate dai nostri nella Russia, sente dileguarsi rapidamente la sua commozione al leggere le lettere e i rapporti del vicerè d'Italia, tranne che l'indignazione sottentri allora alla mestizia. Da siffatti documenti sarebbe impossibile il ritrarre che si tratti d'uomini estinti e di altri destinati a perir come quelli. Vi troviamo prescritto che nel numero uno vadano a fondersi i numeri due, tre, quattro, cinque, tanti insomma che valgano a formare un soddisfacente complesso; che un tale stato di ufficiali di un corpo sia conservato, in difetto del suo reggimento; e particolarmente e anzi tutto che altri uomini giovani e atanti sieno strappati dalle braccia di un vecchio genitore, d'una consorte, d'una famiglia bisognosa, per mandarli, lontan lontano dalla patria loro, a compire le vuote file, a saziar la vendetta e l'odio del nemico: e ciò a qual fine? A quello di servire all'ambizione d'un uomo e di un popolo stranieri entrambi dell'Italia; di sorreggere alcuni istanti di più uno stato di cose per cui l'ultim'ora dovea ben presto scoccare, e che null'altro avea fruttato agl'Italiani che menzognere promesse, e quindi speranze deluse.

Conferivano pure altre circostanze ad aggravar l'avversione de' Lombardi inverso al vicerè. E diremo anzi tutto, per non omettere di notare le più puerili, che vi conferivano i portamenti dei conti Paradisi e Vaccari, due dei principali sostegni del partito francese in Italia. Il conte Paradisi, di Modena, era un dotto, un bell'ingegno, uomo d'aspetto aggraziato, di nobili e affabilissimi modi, ricco assai, di nome chiaro e di grande autorevolezza. Non così ben nato, nè così dovizioso, nè dotato di tanta grazia come il conte Paradisi, il conte Vaccari, suo amico, ponea, per così dire, in comune con lui il suo capitale d'ingegno e il bel conversare, a tal che l'uno e l'altro formavano come il centro d'una eletta brigata in cui difficil cosa era l'ottenere l'accesso. Coloro cui piace segnare attorno a sè stessi come un cerchio cui a pochi è dato superare, non sanno di quant'ire contro di sè medesimi facciano sacco. I begl'ingegni sono sempre un po' mal visti dal vulgo; ma una brigata di begl'ingegni che tengasi a bella posta appartata per non mischiarsi con esso, dee tenersi certa d'incorrere pienamente nell'odio e nell'ira sua. In una città poco ragguardevole per ampiezza e per frequenza di abitatori, in un tempo di generale irritazione, e di effervescenza delle passioni politiche, ambiziose, egoiste, non v'è calunnia, non beffa, non ischerno da cui una brigata di begl'ingegni possa preservarsi. In Francia, ai tempi della Rivoluzione, al boia davasi il carico di disciogliere siffatte brigate. Nell'anno 1814, in Milano, quantunque le cose non paressero disposte per nulla onde dar luogo ad un sì tragico scioglimento, poco mancò tutta via che il conte Paradisi e i suoi amici non iscontassero con la vita il fio di aver voluto godere il poco grave diletto di mostrarsi da più di quei che li circondavano.

Il segretario degli ordini del principe Eugenio, per nome conte Méjean, erasi tirato addosso, più ancora che non avessero fatto i conti Paradisi e Vaccari, lo sprezzo e l'odio de' Milanesi. Era il Méjean francese, e godea dell'assoluta fiducia del vicerè; talmente che se non vi si fosse attraversato l'espresso e formale divieto dell'imperatore, sarebbe salito in pochi anni alle più eccelse dignità dello Stato. Coloro che hanno praticato costui quand'era in auge, accertano ch'ei non difettava di abilità; ma quanto alle doti del cuore, egli non gode di fama sì buona. Questo difetto era in lui ricompensato da un'ammirazione cieca per l'imperatore e pel vicerè; ammirazione di cui esagerava talmente l'impressione, che non potea non irritare così lo spirito un po' beffardo de' Lombardi. Io ho in questo momento sott'occhio una lettera del Méjean al Villa, prefetto di polizia in Milano, data da Mantova il dì 30 marzo 1814, nella quale egli sclama contro la voce che correa d'un armistizio pattuito fra il principe Eugenio, e i duci delle truppe nemiche, asserendo esser quella voce non solo falsa, ma destituita d'ogni verosimiglianza; chè niuno era, a sua detta, in grado di dover pattuire alcunchè di simile, e non avea nemmeno le facoltà necessarie a tal uopo. L'armistizio, che fu sottoscritto di fatti il 16 aprile susseguente, diè poi una formale smentita alle previsioni del conte Méjean; ma il poco intendimento ch'egli in quell'occasione appalesava è ancora scusabile a paragone di quello ch'ei mostra nell'istessa lettera quando si prova a far giudizio della difficile condizione in cui si trovavano posti i suoi signori. Dopo di essersi lagnato che le mosse delle truppe nemiche attorno a Lione intercettavano le comunicazioni, per modo ch'egli era ignaro della marcia dell'esercito imperiale, aggiunge le seguenti parole: «Ma esse non possono ritardarle più a lungo (le notizie di Parigi). E poi, chi sa se le mosse del nemico attorno a Lione non sieno volute dall'imperatore? Per quanto a me, non ne stupirei».

Nel conte Méjean poneva il principe Eugenio, siccome ho detto, la massima fiducia. Questo prototipo dei cortigiani, degli uomini saliti in alto da abbietta fortuna, che si ostinava a non tenere i successivi e prolungati rovesci degli anni 1813 e 1814, che per effetti dei sublimi, comunque incomprensibili, segreti concepimenti dell'imperatore; e che degli sgraziati eventi d'allora non trovava possibili che questi due scioglimenti: o una splendida e decisiva vittoria riportata dall'imperatore, o un accordo onorato di pace tra l'imperatore stesso e gli altri potentati; con istentato disdegno parlava dei timori di quelli fra' Lombardi ch'erano amici dei Francesi, e delle speranze di quegli altri ch'erano o partigiani dell'Austria o fautori dell'independenza italica; e faceasi dagli uni e dagli altri odiare, perchè si mostrava non mai dimentico di appartenere alla nazione conquistatrice e di trovarsi accasato presso la vinta.

Giova qui riferire un fatto il quale, benchè accaduto dopo i tempi di cui parlo, può tuttavia essere contemplato nell'enumerazione delle accuse fatte al vicerè. Offese questi sconsigliatamente il generale Pino, affidandogli un poco rilevante comando in una delle città della Romagna; e questa mortificazione del Pino fu, se non una delle cause, uno almeno dei pretesti della defezione di lui, della quale mi toccherà parlare in appresso. Basti qui avvertire che l'accordo fatto tra Murat e Pino non rimase a lungo occulto al generale Zucchi, che ne venne in cognizione per una lettera del re di Napoli al Pino, cadutagli nelle mani, dalla quale evidentemente appariva il tradimento di quest'ultimo.

L'involontario ribrezzo che ogni uomo onorato prova a bella prima contro una delazione qualsiasi, un sentimento forse di amicizia per un antico commilitone, la vergogna fors'anche di svelare il tradimento di un concittadino, congiunti probabilmente ad altri motivi ch'io ignoro, trattennero il generale Zucchi dal recare al vicerè la lettera venutagli in mano. Correva allora la metà di febbraio, e il principe Eugenio, aggiugnendo alla passata una nuova imprudenza, lasciava intanto il generale Pino senza ufficio e bisogna in Milano, dicendo aspettare buona occasione per valersi del senno di quel generale. Il carteggio di quell'anno tra il vicerè e il Pino, ben mostra da quale insaziabile cupidigia fosse roso quest'ultimo; perocchè, sebbene avesse un salario di 145,000 franchi all'anno, non cessava perciò dal chiedere continuamente danaro, e dal lagnarsi della misera condizione in cui diceva essere. Nel vicerè poi si scorge da quel carteggio una dispettosa impazienza delle importunità di quel soldato in alto salito, il quale con un'entrata di 145,000 diceasi povero e tacciava d'ingratitudine altrui. Prudentemente avrebbe allora adoperato il vicerè, se avesse dissimulato il disprezzo che in lui eccitavano le instanze del generale; ma conviene tuttavia confessare non esservi cosa più atta a stomacare un cuore retto ed onesto, che il vedere un uomo fortunato il quale si lagna del suo destino, frammezzo alle pubbliche calamità. Conturbato dalle dolenti parole che gli volgevano da ogni parte i parenti dei giovani soldati morti in Russia, non che quelli dei soldati più giovani ancora, ch'erano chiamati allora all'armi ed alla difesa della patria; testimonio degl'immensi sacrifici di sangue e di sostanze che l'Italia continuava a fare a pro dell'imperatore; consapevole della gravità delle circostanze e della condizione quasi disperata delle cose; temendo per la propria consorte, pei propri figli, per sè medesimo; con quale occhio poteva egli il vicerè leggere queste lettere in cui il Pino faceva continue istanze per nuove elargizioni a suo favore? Non è però dubbio che il tuono asciutto e alcun po' beffardo con cui il principe Eugenio raccomandava al ministro della guerra le domande del generale, non abbia conferito ad accrescere la stizza e il malumore di questi.

Mi fo ora a parlare di quei giorni che tennero dietro immantinenti alla ritratta dalla Russia. Già prima di quegli sciaurati eventi il conte Fontanelli, ministro della guerra, aveva avviato verso il Nord la brigata Zucchi. La divisione Palombini fu in appresso richiamata di Spagna, e contemporaneamente con le novelle leve s'incamminò per alla Russia. Ventottomila Italiani raggiunsero il vicerè in Alemagna, e formarono sotto gli ordini suoi una parte di quell'immensa linea militare che distendevasi dal Baltico all'Adriatico. L'esercito degli alleati, più numeroso dell'esercito imperiale, e schieratogli dinanzi, procedeva mentre l'altro indietreggiava. Entrambi giunsero a tal modo, da un canto, fino al Reno, e dall'altro, per a traverso le Alpi, fino all'Adige.

Ond'ecco il vicerè risospinto di posto in posto, di piazza in piazza, da Mosca a Verona. Le province venete erano invase dalle truppe austriache, quantunque Venezia reggessesi tuttora contro il blocco. La neutralità svizzera poco stette ad essere violata, per lo che i Francesi poterono giustamente temere d'essere assaliti a' fianchi come pure quasi alle spalle; il re di Napoli parea vacillante nella fede dell'alleanza, e il grido che corse bentosto della sua defezione non permetteva al vicerè di volgersi confidentemente a lui. Nè deesi poi sdimenticare che grande era la defezione nell'esercito italiano fra' soldati che appartenevano alle province occupate dall'Austria. Il desiderio di difendere o almeno di proteggere le proprie case, il timore di tirar rappresaglie addosso alle proprie famiglie col rimaner nelle file de' Francesi, si affacciavano allo spirito dei Veneti come tanti motivi più gravi e più sacri, che non fosse il debito di fedeltà ad una causa straniera e ad un padrone parimenti straniero.

Le avversità che parevano piovere sopra l'imperatore e i suoi, ridestarono nei cuori degl'Italiani certi pensieri che la sola necessità avea fino allora attutati. Non era dunque più invincibile l'imperatore; l'arte di far chinare dinanzi a sè ogni cosa era da lui perduta; non era più altro che un uomo col quale si potea trattare, e cozzare altresì con successo. Non appena entrò questa convinzione negli animi degl'Italiani, che parve infranto subitamente il giogo e con esso il vincolo che univa a forza tutte le volontà italiane; di modo che sursero, quasi per incanto, un gran numero di partiti. Dei quali sarammi concesso menzionar qui i principali.

Gli antichi partigiani di Casa d'Austria vedeano le truppe del discendente di Maria Teresa e di Giuseppe II giunte in distanza di due giornate di cammino dalla capitale, e andare intanto ritraendosi su tutta quanta la linea quelle dell'usurpatore. Sentivano spirare dal canto loro quel soffio misterioso della vittoria che dà animo anche ai meno intrepidi, e che, volgendosi all'uno o all'altro dei campi nemici, sembra, per così dire, diffondere anticipatamente lo sgomento in quello degli eserciti che dee andare in rotta, e la letizia del trionfo in quello che è destinato a riportarlo di fatto. Pei veri e fidi partigiani di Casa d'Austria, com'erano i conti Giuseppe Gambarana, Alfonso Castiglioni, Ghislieri, Giulio Ottolini, il marchese Maruzzi di Venezia e parecchi altri, la rivoluzione e la dominazione francese nel reame d'Italia non erano altro che accidenti, passeggera tempesta che il sole del governo austriaco dovea dissipare ben presto. Non toccava loro far altro che affrettare quell'avventurato ritorno, e perciò potea giovare l'addormentare quegl'indisciplinati ragazzi ch'eransi infiammati all'udire le voci di progresso, di libertà, d'independenza, di gloria, e che non ancora sapevano pregiare al giusto suo valore l'amministrazione quieta, regolare e inalterabile di Casa d'Austria. Scaltri erano questi Austriaci puri, nè la dissimulazione in politica era loro punto ripugnante. Perciò la vinsero.

Dopo il partito austriaco rimaso vincitore, io pongo il partito italico che avrebbe dovuto vincere, riserbandomi d'accennare in seguito i partiti di mezzo, talmente vicini fra loro da confondersi insieme. Il partito italico, denominato anche muratista, proponevasi di separar l'Italia dalla Francia, non meno che dalle potenze collegate, e farla stare e camminare da sè, col mezzo delle forze che già in essa esistevano e delle quali potea valersi in sull'atto. Queste forze ad ostro erano comandate da Murat, a borea dal principe Eugenio. Opportuna cosa è qui pertanto l'investigare sino a qual punto il re di Napoli e il vicerè d'Italia fossero meritevoli dell'assoluta fiducia degl'Italiani.

Per corto che fosse il senno del re di Napoli, i fatti avevano parlato a sì alta voce, ch'egli pure doveva averne inteso il linguaggio. L'imperatore stava per cadere; suoi vicari dovevano essi cader secolui, oppure tentare di reggersi da sè? Non era difficile cosa il dar risposta ad una tale domanda; e certo coloro che hanno rimproverato Murat di tradimento, si son mostrati a trafatto esigenti in fatto di fedeltà. L'imperatore, per vero, era il benefattore del re di Napoli; ma la caduta di questo re non poteva fare aiuto alcuno all'imperatore; che anzi solo col serbare la sua corona avrebbe potuto Murat in alcun tempo render servigi all'imperatore o ai membri della famiglia di lui. Nè già dovea Murat volgere l'armi sue contro il cognato, ma dichiarare soltanto, che col salire il trono di Napoli egli avea cessato di tenersi per un luogotenente dell'imperatore dei Francesi, ed erasi fatto italiano, e come principe italico voleva difendere la propria patria contro una novella invasione. Un suo accordo a tal uopo col principe Eugenio; l'uso fatto dall'uno e dall'altro delle loro forze congiunte per custodire i passi dell'Alpi; l'aperta chiamata fatta da loro pel concorso dell'Italia intiera alla difesa della causa italiana, ecco quel tanto che doveasi fare, e che ai due membri della famiglia imperiale, fra' quali era allora diviso l'imperio della Penisola, avrebbe fruttato la gratitudine e la devozione della massima parte degl'Italiani, ed una splendida condizione, e la reverenza di tutta quanta l'Europa. Ho detto già che Murat aveva inteso i dettami dei fatti accaduti, ma debbo aggiugnere che inteseli solo imperfettamente. Imperciocchè, se avvidesi esservi per lui in Italia un cómpito da eseguire, se addiedesi che l'ostinarsi a cadere con l'imperatore, per ciò solo che l'imperatore cadeva, era sciocchezza, anzi che fedeltà, andò poi errato grandemente nella scelta di un appoggio. Da vero soldato qual era, Murat non vedeva altro che l'esercito, cioè le truppe imperiali dall'un canto, e quelle delle potenze alleate dall'altro; e perchè le prime cancellavano, ne trasse ch'era forza volgersi alle seconde e riunirsi con esse. Quant'è alla Italia, non pareva essa altro a Murat che una sedia sulla quale desiderava sedersi egli stesso, e non già un corpo animato, una nazione investita del dritto e della facoltà di determinare il proprio destino. Tenendo ad accordi colle potenze alleate, Murat incorse la taccia d'essersi collegato coi nemici del suo cognato e del suo signore, e in vece di farsi il capo d'un partito ragguardevolissimo, che solo sarebbe stato degno del nome di partito italico, videsi fatto seguace di quella cieca fazione che si aspettava dalla grandezza di una delle potenze confederate il ritorno dell'età dell'oro.

Il principe Eugenio poi non dava rêtta ad altro che a' consigli d'una fedeltà affatto cavalleresca. Egli non si era mai anzi tenuto per altro che per un luogotenente dell'imperatore, e non aveva governata altrimenti l'Italia, che come una provincia dell'ampio impero francese. Ciò appunto aveagli alienato gli animi della massima parte degl'Italiani; ma per altra parte è debito di giustizia il dire che quel suo affetto alla Francia ed all'imperatore non si dileguò nemmeno di poi che la Francia fu invasa e l'imperatore balzato dal trono. Fintanto che la proposta di separarsi dall'imperatore e di stabilirsi in Italia, a lui giunse dal canto delle potenze alleate per mezzo del re di Baviera, suo suocero, il principe Eugenio sempre la ributtò. L'esempio di Murat preoccupavagli e angosciavagli l'animo. Ma non lo vinse. Però egli pure tenea per nulla l'Italia, e quando venne il giorno in cui diliberossi di farla sostegno a sè medesimo, era già troppo tardi e l'Italia aveala rotta affatto con lui. Avrò più sotto occasione di parlare delle disposizioni personali del principe Eugenio; e qui mi basta indicare i motivi che indussero i partigiani dell'independenza assoluta dell'Italia a volgersi verso Murat, e contro Eugenio. Il generale di divisione Pino e il crocchio militare che gli si stringeva attorno, dandosi l'aria d'un partito, e ch'era composto degli amici, dei congiunti e degli aiutanti di campo del generale stesso, non che il conte Luino, capo della direzione generale di polizia, e il generale Giuseppe Lecchi, si erano indettati col re di Napoli. Vedesi dalla prima qual potente alleato fossesi procurato il partito muratiano, tirando dalla sua il direttore della polizia. Imperocchè la polizia imperiale aveva gran parte nella condotta della cosa pubblica; lo spionaggio largamente spaziava; il segreto delle private corrispondenze era violato senza scrupolo; e le precauzioni ingiunte alla polizia e i mezzi ond'essa disponeva doveano indurre in timore che nulla di quanto riguardava lo Stato potesse ad essa rimanere lungo tempo celato. Ora che cosa doveva accadere quando il capo stesso della polizia era egli pure complice di una cospirazione? Doveva, giusta ogni probabilità, avvenire che la cospirazione ottenesse il suo intento; perciocchè l'indole stessa degli uffici affidati al capo della polizia richiedeva che la potestà di questo ufficiale fosse assoluta e disciolta da ogni sopravegghianza, o, per dirla in più precisi termini, che i suoi andamenti e la sua condotta rimanessero celati alla vista di tutti. Mi si risponderà per avventura, che il partito muratiano non potè conseguire l'intento suo, ad onta della cooperazione del capo della polizia; ma io farommi ad esporre più sotto le cagioni che vi si opposero, e dirò intanto, che questo partito dovea, per seguire l'intendimento degli stessi suoi capi, nulla tentare a Milano se non contro il governo del vicerè. Questo partito, simile in ciò a tutti gli altri che ferveano allora in Italia (tranne, ben inteso, il partito francese), indirizzava i suoi sforzi contro la potenza di già vacillante dell'imperatore e dei suoi luogotenenti. Tutti volevano aspettare il giorno dopo la vittoria per ravvisarsi, numerarsi, dividersi, combattersi, perseguitarsi e spegnersi vicendevolmente. Ben sapevano i partigiani dell'Austria che, atterrato il governo esistente, non si frammetterebbe più ostacolo tra l'esercito austriaco e Milano; e i partigiani di Murat si teneano certi dal canto loro, che, non appena fossesi avverata la rimozione e la ritirata del vicerè, il re di Napoli, accorrendo a marcia sforzata, avrebbe occupata la Lombardia, prima che gli eserciti delle potenze alleate avessero fatto alcun passo. Un terzo partito, di cui entrerò fra poco a parlare, voleva esso pure, ed anzi tutto, la caduta dell'ordine stabilito.

La Francia, o, per meglio dire, l'imperatore, e più ancora il vicerè avevano essi pure i loro partigiani, i quali, benchè uniti per la difesa d'una stessa causa, erano però mossi da diversi motivi. La massima parte dell'esercito aderiva pur sempre al suo capo, perchè questo capo avealo spesso condotto alla vittoria, perchè il reggimento imperiale era un reggimento militare, perchè i prìncipi locati dall'imperatore sui varii troni dell'Europa, ed anzi l'imperatore stesso, non eran altro che soldati saliti da basso in alto grado; il che dava ad ogni soldato una segreta speranza di grande avanzamento. L'esercito e il principe Eugenio erano stretti fra loro da quell'invisibile vincolo onde sono stretti gli uomini che hanno insieme tentato grandi fatti, e durato stenti, fatiche e pericoli. Camerati ei sono, e questo titolo è più sacro talvolta, che non sia quello di amico. Avea pure il vicerè alcuni partigiani fra i membri dell'amministrazione, e quelli in ispezieltà che appartenevano all'antico ducato di Modena e Reggio. Gli abitatori di quella provincia d'Italia, gente svegliata ed operosa, perspicace e risoluta, eransi mostrati, fin dai princìpi della potenza napoleonica, caldi fautori delle novelle idee che la rivoluzione francese portava inscritte nei suoi vessilli. Giustamente pregiati dall'imperatore, che travedere seppe, frammezzo alla effervescenza delle passioni liberali, il pratico senno ond'essi erano copiosamente forniti, e chiamati nei consigli imperiali, concorsero efficacemente i Modenesi alla creazione di quel codice che forma per avventura oggidì il più bel titolo per cui l'imperatore debba essere con grata ricordanza onorato dalla posterità. Lo scambievole affetto dei Modenesi e del governo franco-italico fu poi in seguito sempre fomentato da meriti e rimeriti; talmente che, in occasione delle turbolenze insorte nella seconda metà dell'aprile del 1814, i membri della così detta fazione estense furono quelli che con maggior calore sostennero fino agli ultimi istanti il principe di già vinto.

Meriterei la taccia d'ingiusto inverso alla mia patria se non confessassi che il partito eugeniano non constava già solo di militari devoti per istinto ai loro capi, a quella guisa che il cane al padrone, di ufficiali del governo, ed in ispezieltà di ufficiali modenesi. Eranvi, eranvi certamente uomini prescienti del prossimo avvenire, i quali, veggendosi presi di mezzo tra la potenza imperiale tentennante, e quella floridissima degli alleati, e volendo sfuggire alle strette della prima, del pari che a quelle della seconda, e perciò conoscendo il bisogno imperioso di reggersi da sè medesimi, temevano sopra ogni cosa quella diminuzione delle forze italiane che potea provenire dal porle in opera intestinamente, e quell'indebolimento dei vincoli che stringevano ancora la nazione italiana, il quale dovea derivare dalla introduzione di mutamenti nella costituzione dello Stato. Eranvi, certo, uomini di tal fatta, ed io ne conobbi parecchi, i quali dicevano: «La nostra presente condizione non è beata, e siamo vogliosi di migliorarla; ma per ottenere l'intento è forza accordarci con potentati che non potrebber vedere di buon occhio le nostre riforme. Ci troviamo perciò in grado di dover esigere date condizioni in ricompenso dell'appoggio che daremo a questo, anzichè a quell'altro sovrano. Ma qual è di loro cui sia più necessario il nostro appoggio, e che perciò più volonterosamente si adatterà alle riforme chiestegli da noi in iscambio? Non è egli il più debole? Ecchè? Dobbiamo ottener grandi concessioni, e ci faremo a chiederle al più forte, a quello che può agevolmente far senza di noi? Sarebbe questa una vera mattía, perciocchè, se imponesi la legge al debole, il forte l'impone egli stesso».

Questi erano sensi veramente assennatissimi; ma non il senno, bensì la passione, la sconsigliatezza informa i partiti. Mentrechè i varii partiti surti contro il governo viceregale, affaccendavansi, cospiravano e trascorrevano a maneggi che difficile si è il qualificare, gli assennati, di cui ho testè fatto menzione, non avean nemmeno pensato a numerarsi, a conoscersi, e tampoco a pigliare alcun provvedimento per far prevalere la loro opinione. Deploravano essi l'acciecamento dei loro avversari; sforzavansi di aprir loro gli occhi coi ragionamenti; erano ascoltati con deferenza, ed anche con reverenza, ma appena erasi dileguato nello spazio il suono della loro voce, le ree passioni, l'invidia, l'ambizione forsennata, i privati rancori, gli stolti e ridicoli divisi superavano agevolmente la sana e incontrovertibile argomentazione di quei veri politici.

Ho sin qui parlato di tre partiti, l'austriaco, l'italico, il francese, promettendo di far poscia cenno degli altri partiti di mezzo, che s'incrocicchiavano fra loro e per certi versi si confondevano. Cionnonpertanto, ho di già accennato, relativamente al partito francese, che questo pârtivasi in due categorie, l'una dei fidiservitori dell'imperatore o del vicerè, ufficiali di milizia o civili; l'altra degli uomini saputi ed illuminati, che comprendevano il gran pericolo che traevasi dietro il tentare un interno ravvolgimento mentre il nemico affacciavasi alle porte, risoluto d'aprirvisi il passo a forza. Gli altri due partiti suddividevansi anch'essi, come il francese, in due categorie. Ed anzi la seconda categoria del partito austriaco e quella del partito italico rassomigliavansi talmente, che facile era lo scambiarle l'una per l'altra. Ed ecco il come.

Il partito austriaco puro volea, per così dir, cancellare con un tratto di penna i quindici anni della dominazione francese; unire di nuovo la contrada all'impero austriaco; riporla in quelle medesime condizioni da cui tratta aveanla gli eserciti francesi; far giuramento di fedeltà al discendente di Maria Teresa e di Giuseppe II. L'esercito austriaco era accampato sulla riva manca dell'Adige; l'esercito italiano si rannicchiava, ned era fuor di ragione l'immaginarsi prossimo il dì felice in cui quest'ultimo avrebbe cessato di far contrasto ai progressi dell'esercito nemico. In espettazione di questo giorno bramato non v'era da far altro che rimanersi tranquilli, scavar sordamente le fondamenta del governo viceregale, e dargli poi l'ultimo crollo quando fosse prossimo alla caduta, e infine aprir le porte all'esercito austriaco allorchè non vi fosse più per custodirle l'esercito italiano. Ben sapeva questo partito quel ch'ei si voleva; e se procedeva a rilento, la via battuta da lui guidavalo però dirittamente alla meta.

Allato a questi amici sviscerati di Casa d'Austria eranvene altri più timidi, od alquanto imbevuti delle idee moderne, i quali professavano di non riguardare l'Austria altrimenti che come una delle nazioni collegatesi per restituire all'oppressa Europa la pace, concedendo ad ognuno degli Stati europei buone leggi, independenza e libertà. Era l'Austria, a detta loro, la naturale protettrice dell'Italia; e ad essa aspettavasi più specialmente il brigarsi delle cose italiane. Solo una strettissima lega con l'Austria potea dare all'Italia le forze necessarie per costituirsi e reggersi, e all'Italia giovava per avventura una certa quale lieve dependenza dall'Austria a fine di risarcirla dei danni cui soffriva cotidianamente pel pro dell'Italia. Non era infatti giustissima cosa il pagare, almeno in parte, le spese d'una guerra sostenuta dall'Austria coll'unico intento di liberare l'Italia? Non si doveva egli desiderare di essere sempre custoditi da quei soldati austriaci che erano gli autori della nostra liberazione, contro le nuove irruzioni che i Francesi potessero tentare? L'imperatore Napoleone stava per cadere dal trono, e dovendo il principe Eugenio essergli compagno nella caduta, era forza offerire a un altro principe la corona italica. Ora a chi mai poteva essere più degnamente offerta questa corona, che ad un principe di quella medesima stirpe che sì nobilmente portavala prima della conquista francese, a un consanguineo di quel generoso e clemente sire che mai non avea cessato dal riguardare l'Italia con paterna benivoglienza? Per tutte queste considerazioni, l'Italia potea sperare di dipendere in certo qual modo e in forza d'una maniera d'accordo, per così dire misto, dall'imperatore d'Austria; porre le sue piazze forti nelle mani di presìdi austriaci, pagare all'Austria un tributo stanziato dalla gratitudine, ed ubbidire a un principe della schiatta austriaca. A siffatte condizioni, accettevoli certamente dopo la sconfitta, ma non mai pría della pugna, i partigiani mitigati dell'Austria ristrignevano i loro desidèri. E se può allegarsi una qualche ragione in favor loro, questa si è che l'Italia, in fatto d'independenza e di libertà, era ancora a peggior partito condotta sotto il regno dell'imperatore Napoleone, che non sarebbe stata sotto l'imperatore d'Austria ove i loro disegni si fossero incarnati.

Eccomi ora a parlare del partito che cagionò realmente la perdita dell'Italia e che mirabilmente servì ai disegni dell'Austria. Fu esso il partito dei liberali italiani, partito che pretendeva l'onorato titolo di italico puro, e che assai poco differiva da quello degli Austriaci mitigati. Gli ambiziosi mal soddisfatti dell'esercito, i membri non meno ambiziosi dell'aristocrazia milanese, i quali, avendo eletto l'aringo delle cariche di corte, anzichè di quelle della milizia e del governo, vedeano indispettiti fioccar gli onori, il credito e le ricchezze sopra i guerrieri e sopra i primari ufficiali dello Stato, e rimanerne privi i cortigiani; parecchi giovani doviziosi, rosi da gelosia del favore che il vicerè ed altri ufficiali francesi godeano presso alcune dame; un numero assai ragguardevole di teste matte o poco sode, che si studiavano di parlare il linguaggio degli eroi d'Alfieri; e certe altre di quelle teste irrequiete e agitate cui pare sempre bello ciò che non è, e sfornito di ogni pregio ciò che è; tali erano gli uomini che componevano il partito italico sedicente puro, ma che meglio sarebbe stato chiamato il partito italo-austriaco. Eravi allora in Italia una potenza dileguantesi; eravi un'altra potenza che faceasi innanzi covidosa per coglierne il retaggio; e, infine, eravi un'altra potenza ancora, la quale, spiccatasi dalla prima per non lasciarsi trarre con essa nell'abisso, sforzavasi di resistere alla seconda, procurando di tirar dalla sua tutti gli avanzi dell'una che poteano scampar dalle mani dell'altra. A quale di queste tre potenze vorrassi credere che il partito di cui parlo abbia voluto attaccarsi? A nessuna. Acciecato da un ineffabile soverchio di superbia, entrò in isperanza di poter dare l'ultimo crollo al governo imperiale, di potere sdegnosamente ributtare le proposte di Murat, e di far testa all'esercito austriaco. E come sperava esso di potere impedire i progressi di quest'esercito? Voleva forse adoperare a quest'uopo le schiere francesi rimaste in Lombardia? No e poi no. Proponevasi di conseguire il suo intento con bei discorsi, con deputazioni pacifiche, coll'invocare quei dilicati sentimenti d'onore, di probità, di generosità, dai quali i Sovrani collegati, ed in ispezieltà l'imperatore d'Austria, dovevano certissimamente essere informati. E come mai darsi a credere che le truppe austriache volessero passare il Mincio e venire a Milano, quando i Milanesi, dolcemente sì, ma nobilmente le richiedessero di non farlo? A pensare solamente ad un tal fatto, richiedevasi un grado di perversità raro veramente, e i Sovrani alleati a buon diritto avrebbero potuto chiamarsi offesi di un tale sospetto!

Non è egli da stupire che non uno di questi pretesi uomini di Stato abbia posto mente alla forza onde ogni corpo costituito è di per sè dotato? che non uno abbia detto fra sè: «Tristo è il governo presente; ma tal quale esso è, dobbiamo sorreggerlo a tutta possa in questo momento, per ciò solo che esiste e che noi stessi non esistiamo, qual nazione, altrimenti che per esso, cioè a patto di avere un governo stabilito. Stringiamocegli intorno; sorreggendolo, dirigiamolo; parliamo in suo nome; operiamo parimenti in suo nome. Non concediamo che infrangasi il vincolo che ci tiene insieme uniti, che il nemico ci colga appartati gli uni dagli altri, nè che si giovi della caduta del governo esistente per imporcene un altro a suo senno?» Siffatte considerazioni non vennero in mente ad alcuno di quei liberali; adoperarono essi senza posa a gittar via le armi, a spianare le mura, ad atterrare le porte; scagliarono in mare l'ultima loro áncora di salute, e quando poi la tempesta venne ad infuriare, quando gli eserciti austriaci ebbero inondato il territorio, quando uscì fuor la parola che della Lombardia faceva una provincia austriaca, quando gli avanzi delle antiche e preziose libertà nazionali furono spietatamente annichiliti, allora parve che si ridestassero come da lungo sonno; volsero attorno stupidi sguardi, e gettarono profondi sospiri. Un tale rammarichio non era, invero, una sofficiente espiazione.

Numeroso era questo partito, conciossiachè componessesi della massima parte dell'aristocrazia milanese. Ho detto già come i giovani membri di questa aristocrazia, che aveano ambìto le cariche di corte, credessero lesi i loro diritti dalla preferenza che il governo dava continuamente agli ufficiali dell'esercito e dello Stato sopra i ciambellani e gli scudieri. Un altro motivo, non meno puerile, ma più ancora assurdo di quello accennato, concorrea per avventura nel far ligi al partito sedicente liberale alcuni membri della nobiltà milanese. Strappar la corona dalle mani del principe Eugenio, non lasciarla afferrare da Murat, tale si era l'intento degli sforzi di questo partito. Ora da ciò dovea di necessità derivare che il trono italico rimanesse vacante. Sopra di chi andrebbe adunque a cadere la scelta delle potenze alleate? Dubbioso partito era quello di conferire il titolo di re d'Italia ad un membro d'una delle case regnanti, perchè così eccitavasi la gelosia di tutte le altre. Un principe nativo era per avventura più adattato, perciocchè non dava luogo, per la sua propria irrilevanza, alle rivalità e alle gelosie dei potentati. Posta una tale massima, vedeasi chiaro che ciascuno dei membri dell'aristocrazia milanese poteva aspirare a sottentrare in luogo del vicerè. Colui che avrebbe saputo ingraziarsi colle potenze alleate, mostrarsi più autorevole presso la popolazione milanese, contribuire più potentemente a far cadere il governo franco-italico; e che pel lustro del nome, l'altezza della propria condizione, la riputazione di accortezza, la pieghevolezza disinvolta del carattere, sarebbe apparso tale da giustificar la scelta dei sovrani alleati; costui diventerebbe lo stipite fortunato di una schiatta di re. Io non imputerò già questi matti pensieri ad alcuno in particolare, ma bensì dirò che assai temo, non abbiano essi influito nell'accrescere il fiero astio del partito liberale italico contro l'ordine di cose allora esistente. Chi sa quante menti furono allettate da quell'esca sgraziata, quanti cuori ambiziosi fremettero, in quel tempo, per l'ansia d'una corona, se non independente, simile almeno a quella degli altri prìncipi d'Italia, o a quella che i Visconti, i Gonzaga o gli Estensi possedevano un tempo?

Eranvi sì in questo partito, del pari che in tutti gli altri, alcuni uomini il cui animo, naturalmente onesto, era solo traviato da falsi raziocini e dalla passione. Coloro, per esempio, che non avevano occhi se non per vedere i torti del governo francese, credevano giusto il muovere mari e monti per atterrarlo. Coloro ch'eransi veduti sì crudelmente delusi e traditi da Napoleone, sentivansi tratti invincibilmente a confidare nei nemici dello stesso imperatore, ragionando all'un di presso in questi termini: «Abbiamo qui due partiti, l'uno a fronte dell'altro; se la slealtà, la mala fede, la durezza dell'animo e l'avidità sono il tristo corredo del primo, la probità, il candore, la mansuetudine, la generosità saranno certamente le doti dell'altro. Ora, il primo si è il governo francese; buttiamoci adunque con piena fiducia nelle braccia degli Alleati, e guardiamoci bene dal concepire il minimo sospetto contro di loro». Questo linguaggio, ch'è pure strano assai, era adunque parlato da due classi d'uomini; la prima composta di animi naturalmente piccioli e stolti, cui acciecava per altra parte una soverchia vanità; l'altra, di uomini talmente indispettiti contro il governo francese, che ottimo loro pareva tutto che non procedesse da quest'obbietto della loro avversione; di uomini i quali, avendo rivolta contro di esso ogni loro diffidenza, non si trovavano più nell'intimo del cuore che miti sentimenti da rivolgere al resto del mondo.

I capi di questo partito, che assumeva a vicenda il nome di partito liberale o di partito italico puro, erano i conti Carlo Verri, Federico Confalonieri, Luigi Porro, Benigno Bossi, il marchese Carlo Castiglioni, Jacopo Ciani, ecc. Potrei fare il nome di molti altri, se non dovessi ristrignermi ad accennare i membri più importanti di questo partito, che sono pur quelli di cui non si puonno mettere in dubbio da veruno le rette intenzioni.

Non so bene se giovi porre accanto di queste formidabili opinioni che cagionarono la rovina d'Italia, l'altra, più innocente, che si aspettava la salute e l'independenza della patria dalla generosità della Gran-Brettagna. Il lord Bentinck avea per vero pubblicato di fresco un bando od ordine del giorno, in cui si leggevano queste parole: «Pare e sembra che le potenze alleate, e la Gran Brettagna in particolare, abbiano stabilito di volere l'independenza italiana». Egli è vero altresì che l'istesso lord, che allora trovavasi a Genova, non ometteva di recarsi in compagnia de' liberali italiani e di lusingarli con belle parole: il che non so a qual altro fine tendesse, se non a quello di prendersi spasso di loro; perciocchè in che mai potea giovare alla Gran-Brettagna l'ingraziarsi presso un picciolissimo numero di Italiani? E la Gran-Brettagna, sì bene edotta, com'era, del destino che le potenze alleate apparecchiavano ai popoli, poteva essa ignorare che il desiderio anche unanime di tutta Italia non doveva essere riguardato per nulla? Checchè ne sia di ciò, il barone Trecchi, giovane noto per la sua eleganza e la sua anglomania, e uomo certamente onorato e ingegnoso del pari, ma pure incapace, in quell'epoca almeno, di alcun grave pensiero, recossi a Genova dal lord Bentinck per trattare con lui del destino dell'Italia. I particolari di quell'abboccamento non mi sono punto noti; io non so altro se non che vi fu di mezzo un vessillo coi colori italiani dato e ricevuto; ma ignoro poi se sia il Trecchi che l'abbia arrecato al Bentinck per fargliene omaggio, o se il Bentinck abbiane fatto dono egli al Trecchi per inanimirlo. Questo partito, che non fece parlare di sè gran fatto, non ebbe influenza nelle cose che trattavansi allora in Milano¹.

¹ Io non vo' già negare che l'Inghilterra non fosse in quell'epoca la potenza mossa da minor interesse a volere la perdita del regno d'Italia, e perciò quella altresì in cui più opportunamente poteva l'Italia confidarsi; ma dico che il passo fatto dal barone Trecchi presso il lord Bentinck era di niuna conseguenza: perocchè in Italia non eravi partito inglese, e l'Inghilterra, pria di prendersi briga, avrebbe richiesto non solo che un tale partito esistesse, ma altresì che fosse più potente di tutti gli altri insieme riuniti.

La cura di delineare e dipingere le disposizioni degli animi in questi tempi, mi ha costretto a trasandare in quest'ultime pagine la cronologica serie dei fatti. La ripiglio adesso per non più scostarmene.

Ho detto che il vicerè era al suo quartier generale di Verona, e le truppe della Lega accampate sulla opposta riva dell'Adige. Egli vi ricevette, entrante il novembre dell'anno 1813, una lettera dell'imperatore, il quale, vedendosi rispinto ogni dì e fino nei suoi propri Stati dalle forze soverchianti degli Alleati, ingiugneva al vicerè di abbandonare l'Italia e di ridursi in Francia con tutte le sue truppe italiane e francesi, onde raccozzare così lo sforzo intiero del suo partito. Fu il principe Eugenio immerso da questo comandamento nelle più crudeli perplessità. Contuttochè egli fosse sinceramente affezionato e devoto all'imperatore, suo padre adottivo e suo benefattore; contuttochè nodrisse una preferenza pur troppo viva per la sua patria, a detrimento dell'Italia, il vicerè era uomo tuttavia, e principe, e padre di famiglia: vo' dire che non avrebbe rinunziato senza rammarico ad un'alta condizione, ad uno splendido aringo, a una corona independente. Ritirandosi con le sue truppe in Francia, poteva Eugenio ritardar la caduta dell'imperatore; ma allontanandosi dal paese cui egli governava tuttora, e che poteva essergli conservato, ei rendeva certa la caduta propria. Difettava evidentemente il vicerè di idee chiare e ferme quanto a politica. Fra quali partiti aveva egli l'elezione? Serbar fede all'imperatore, servirlo sino all'ultimo e perire con lui;—o abbandonare l'imperatore, e volgersi dalla parte delle potenze alleate, come avea fatto il re di Svezia, e come parea volesse fare Murat;—o separarsi dall'imperatore, senza contrarre alleanza coi nemici di lui, lo sposar francamente la causa dei popoli a lui sottomessi, chiamandosi apertamente loro capo e loro difensore ad un tempo. Il primo partito sarebbe stato nobile, ma dissennato; il secondo, giudizioso, ma vile; il terzo, nobile, giudizioso e generoso ad un tempo. Ma Eugenio non seppe abbracciarne ricisamente alcuno. Non era già sì devoto all'imperatore da indursi a rifiutare una corona di cui potea non essere debitore ad altri che a sè stesso, e rifiutarla per ciò solo che non la dovrebbe all'imperatore. La rettitudine del suo cuore inducevalo a ributtar con isdegno le offerte che gli venivano fatte da parte degli Alleati. La condotta e i disegni di Murat eran tuttora per lui un enimma ch'ei si proponeva di spianare. «Alla fine poi», diceva egli fra sè, «ove tra me e Murat non possa seguire accordo, ove la caduta dell'imperatore diventi inevitabile, sarà giunto per me il tempo di provvedere ai miei interessi e di cercare appoggio là dove posso trovarne senza arrossire; cioè nel popolo italiano, e nell'esercito, che non ha mai ricusato di seguirmi».

Ma egli era troppo tardi, siccome ho detto, allorchè il vicerè s'appigliò al partito di rivolgersi all'Italia.

Se alcuno, impugnando le mie conjetture, ricusasse di ammettere che dal vicerè vennero fermati in quell'epoca tali progetti, io chiederogli il come si possa spiegare in quest'ultima ipotesi la sua contumacia agli espressi comandamenti dell'imperatore, il quale, chiamandolo a sè con tutte le sue truppe, ingiungevagli di abbandonare l'Italia. Un solo motivo, o per meglio dire, pretesto, allegò il vicerè per palliare la sua disubbidienza. Disse cioè di temere la diserzione dei soldati italiani, i quali, divelti dalla propria patria e tratti verso la Francia, verrebbero a sapere l'occupazione del loro paese per parte delle truppe nemiche. Ed allegava in prova le molte diserzioni recentemente accadute nell'esercito, di soldati nativi dei dipartimenti occupati dalle truppe nemiche. «Se i soldati delle province venete», diceva egli, «mi abbandonano per accorrere alla difesa dei loro propri lari, che fia per accadere allorchè tutto quanto l'esercito si troverà nella istessa condizione in cui si trovano ora le soldatesche native delle province venete?» E noi diremo che darsi potea veramente che una parte dell'esercito disertasse pria di passare le Alpi; e che inoltre le truppe italiane si comportassero in Francia con minor animo ed ardore che in Italia; ma soggiugneremo che in ricompenso le truppe francesi che il vicerè tenea presso di sè avrebbero pugnato con raddoppiato valore se fossero state condotte alla custodia dei confini della loro patria. Il vicerè non aveva egli ragione di temere che all'udire dell'irruzione in Francia delle truppe della Lega, i soldati francesi che erano da lui trattenuti in Italia, non disertassero da una contrada straniera per accorrere a salvare la loro terra natia? No, il timor puerile d'una diserzione in massa non fu quello che indusse il principe Eugenio a resistere ai comandamenti dell'imperatore, ma bensì il pensiero, forse non ancora del tutto fermato nel cuor suo, di non abbandonar la contrada in cui poteva ancora conseguire uno splendido posto. Il 9 di novembre del 1813 fu il giorno in cui il vicerè scrisse all'imperatore il come e il perchè non ottemperasse a' suoi comandamenti.

A mezzo circa il dicembre il re di Napoli e il vicerè d'Italia abboccaronsi nella città di Guastalla. Il vicerè andò in calesse al luogo convenuto; accompagnato da un segretario e da un aiutante di campo. Giunto a Guastalla, scese all'albergo in cui trovavasi di già il re di Napoli, e si trattenne con lui per tre ore. All'uscire dalla conferenza, il vicerè raggiunse i suoi compagni, che stavano aspettandolo sulla piazza posta davanti all'albergo medesimo, e comandò brusco si attaccassero i cavalli: salito poi nel calesse coll'aiutante di campo e col segretario, stette un lungo tempo pensoso e tacito. Finalmente con dispetto esclamò: «Non puossi far nulla con cotestui; egli non vuole punto farsi capace che la caduta del tronco si trae dietro necessariamente la caduta dei rami». Aggiunse in appresso alcune parole che parevano alludere ad un disegno che era stato da lui stesso inutilmente proposto a Murat. I due che lo accompagnavano in quella congiuntura, o certamente almeno uno di essi, ch'era uomo di alto intelletto ed eloquentissimo, tentarono di far capace il vicerè che il suo posto era in mezzo del popolo di cui aveva accettata la sovranità, anzichè al séguito di un capo che gliel'avea data dianzi. Era il vicerè una di quelle menti corte cui giova appuntellar con imagini i propri raziocini, e che non si sceverano facilmente da un'idea di cui sieno o autori o editori, per ciò solo che troppo arduo fora per loro il surrogarvene un'altra. Il poco frutto delle giudiziose instanze dei compagni del vicerè in quella congiuntura, non mi fa meravigliare. La comparazione dei rami che cadono inevitabilmente quando l'albero è atterrato, era pel principe Eugenio un argomento irrepugnabile, contro del quale l'acume dell'istesso Machiavelli sarebbesi spuntato. Sarebbe stato forse più fruttuoso il contraporre un'altra imagine a quella posta innanzi dal vicerè; il fargli, cioè, avvertire che prima di scagliare la scure contro l'albero o troppo vecchio o condannato a perire per qualunque altro motivo, l'ortolano spesse volte ne recide un ramo, e, ripiantatolo diligentemente, lo inaffia, lo pota, lo protegge, lo cresce, cosicchè diventi albero alla sua vôlta. Questa semplicissima risposta avrebbe fatto, o ch'io m'inganno di grosso, maggior impressione nell'animo del vicerè, che non le più sottili deduzioni della più sana politica.

Giunse il 16 di aprile dell'anno 1814. Ognun sa che l'esercito franco-italo, ritrattosi sul Mincio, vi si reggeva in buona condizione, e che gli ultimi fatti d'arme erangli iti a seconda. Le notizie dei fatti accaduti a Parigi indussero il vicerè ad appigliarsi a quei partiti dai quali aveva fino allora aborrito. Semplice ormai, e, per così dire, facile diventava il suo cómpito. Egli avea chiuso l'orecchio alle insinuazioni dei sovrani alleati, da cui era stato eccitato a scostarsi dall'imperatore e ad assicurare a sè stesso e a' suoi successori un trono in Italia. Avea ributtato i consigli e le instanze di Murat, che lo esortava a seguire il proprio esempio, aggiungendovi che, se troppo grave eragli il collegarsi coi nemici del suo benefattore, ei potea tuttavia, senza fraudare il debito della riconoscenza, adoperarsi da sè per la propria salvezza, e giovarsi pel suo proprio pro delle forze cui imperava. Avea in somma, finchè l'imperatore potè essere sorretto, consacrata a lui ogni sua possa e facoltà. Ma ora, caduto l'imperatore, pareva che i vincoli che univano il servitore al signore, il figliuolo al padre, il beneficato al benefattore, si fossero naturalmente disciolti. E, invero, la notizia dell'ingresso dei Sovrani alleati in Parigi, e della abdicazione dell'imperatore, data in Fontainebleau, mutò di repente e la posizione e i disegni del vicerè. Ei tosto depose l'intenzione di guerreggiare, chè bene addavasi di non potere da solo reggersi contro tutta quanta l'Europa, in quei pachi dipartimenti italici cui possedeva tuttora. Eragli aperta la via delle pratiche, ed egli entrovvi senza sostare. Le cose dettegli un tempo dal re di Baviera in nome de' Sovrani alleati gli ritornarono allora in mente, ed egli si diliberò di trarre profitto dalle favorevoli disposizioni onde credeva che quei principi fossero tuttora mossi a favor suo. Ben s'accorgeva allora che la nuova sua patria dovea essere l'Italia, e che non v'era altrove, fuori di questa contrada, posto per lui. Ond'è che non si fece pregare a conchiudere, il 16 aprile del 1814, col maresciallo Bellegarde, comandante le truppe austriache, un armistizio pel quale egli lasciava in mano degli Alleati le piazze forti poste al di là dell'Adige, e si obbligava a rimandare in Francia le truppe francesi, e ad inviare incontanente a Parigi oratori dell'esercito e del governo a chiedere ai Sovrani alleati la conservazione del reame d'Italia. Promettea Bellegarde, dal canto suo, di rimanersene col suo esercito entro i confini dei dipartimenti italici cui già occupava, e d'aspettare l'esito de' passi che si doveano tentare a Parigi.

Non appena fu sottoscritto quell'armistizio, che le truppe francesi avviaronsi alla vôlta dell'Alpi, e il vicerè, spediti a Parigi i generali Fontanelli e Bertoletti in qualità di oratori dell'esercito presso le Potenze Alleate, ragguagliò il duca di Lodi, presidente del Consiglio dei ministri del regno d'Italia, delle cose operatesi, ingiugnendogli di convocare il senato per la nomina di quei senatori che si doveano spedire oratori a Parigi. Raunò in pari tempo il vicerè presso di sè le truppe italiane, e con un bando od ordine del giorno loro notificò gli atti e' provvedimenti ai quali era devenuto, dichiarandosi pronto oramai a dedicarsi tutto per la salvezza della nazione italiana. Tentò pure in allora di tirar dalla sua alcuni ufficiali malcontenti, e fra essi il generale Mazzucchelli, cui nominò capo del suo stato-maggiore generale. Era il Mazzucchelli malcontento di fatti, e dal malumore erasi di già lasciato trasportare più oltre che non potesse supporre il vicerè. Affatto inaspettata gli pervenne in Milano la lettera della sua nomina, la quale trovò, tornando a casa sua da una congrega tenuta dai malcontenti coll'intenzione appunto di abbracciare un partito sul modo da tenersi per atterrare il governo del vicerè. Adescato forse quel generale dall'alto ufficio conferitogli, o timoroso di tradire sè stesso e i suoi disegni col farsi vedere poco sollecito di accettare quel novello favore, partì immantinenti alla vôlta di Mantova, dove il vicerè avea traslocato il suo quartier-generale, senza neppure farne edotti i suoi amici. I quali rimasero alla vôlta loro attoniti alla notizia della súbita partenza di lui alla vôlta del campo nemico, ed entrarono in tanta apprensione, che due di loro, il marchese Fagnani e l'avvocato Reina, si ricoverarono subito subito in Isvizzera. Vano fu tuttavia questo timore, nè il governo del vicerè ebbe sentore alcuno di quella cospirazione.

Ad onta dei bandi viceregali e delle promozioni testè menzionate, l'esercito italico rimase attonito e costernato in sulle prime dalla notizia dell'armistizio conchiuso fra il principe Eugenio e il maresciallo Bellegarde. Ma ben presto si dileguò quella costernazione. Il generale Teodoro Lecchi assicurò l'esercito che il vicerè non s'indurrebbe giammai ad abbandonarlo, e che ogni sforzo di lui tenderebbe, all'incontro, a stabilirsi fermamente in mezzo all'esercito stesso ed in Italia. Le quali assicurazioni mutarono repentinamente in trasporti di gioia e di riconoscenza le mormorazioni che prima si erano udite. Gli è certo, di fatti, che i generali Fontanelli e Bertoletti, partitisi pria del 20 d'aprile da Mantova per a Parigi, e latori di istruzioni ufficiali per non chiedere altro che la conservazione e l'independenza del reame d'Italia, erano stati inoltre incaricati, non solo dal vicerè, ma e dall'esercito, di far instanza acciò al principe Eugenio venisse data la corona italica. Intanto l'avviso ufficiale del conchiuso armistizio, e l'ordine di convocare il senato per la nomina dei due oratori del governo da spedirsi a Parigi, erano già pervenuti al gran-cancelliere guarda-sigilli e presidente del Consiglio dei ministri, il conte Melzi d'Eril, duca di Lodi.

I partiti che più sopra ho tentato di dipingere, scindevano anche i membri stessi del governo e del senato. Il duca di Lodi, i conti Paradisi, Vaccari e Prina, il conte Veneri, presidente del senato, e molti altri de' principali personaggi erano schiettamente additti all'ordine di cose allora esistente; ma il maggior numero dei senatori entravano a parte delle speranze e dei desidèri dei partiti che tenevano il di mezzo fra gli Austriaci-puri e gl'Italici. Credettero questi di giovare alla patria cospergendo di triboli e d'ostacoli la perigliosa via per la quale il governo franco-italico vacillante incedea. Essi pure preparavano, a propria insaputa, il trionfo dei fautori di Casa d'Austria; ma per quanto avversi fossero al governo esistente, si conduceano però, nel consesso di cui faceano parte, con un po' di quel pratico senno ond'erano dotati, e sopratutto con quello spirito di moderazione che dovea dispiacere a que' violenti ed irragionevoli che componeano per la massima parte le fazioni austriaca, liberale, muratista, ec., poste al di fuori del governo. Videsi di fatti, poco poi, quell'istesso senato che ricusava di chiedere alle potenze alleate per re d'Italia il vicerè, fatto segno alle invettive della plebaglia, e disciolto colla forza da essa, qual colpevole di abbietti sensi, e di servilità verso il principe Eugenio, e qual traditore dell'indipendenza italiana. Tale è pur sempre il destino di coloro che presumono di traccheggiarsi fra' partiti estremi, senz'abbracciarne o riprovarne alcuno.

La notte del 16 venendo al 17 aprile il duca di Lodi avea fatto convocare il senato pel dì susseguente. Riunitosi il senato, il conte Veneri, presidente, lessegli anzi tutto 1.° la lettera di convocazione del duca di Lodi; 2.° un messaggio di questi; 3.° un'idea di decreto. Nulla eravi di particolare nella lettera di convocazione. Il messaggio del duca di Lodi al senato non intendeva ad altro che a spiegare le cause che lo tenevano inchiodato in letto, e a far avvertire quant'attenzione richiedesse l'argomento per cui era stato convocato quel corpo. L'idea, infine, di decreto che il duca proponeva al senato, conteneva una breve esposizione di motivi, ed era concepita come segue:

Art. 1.° Una deputazione del senato si recherà senza dilazione presso l'imperatore d'Austria, e lo supplicherà di ordinare la cessazione delle ostilità fin dopo il definitivo stanziamento dei destini dell'Italia per parte delle Potenze Alleate.

Art. 2.° S. M. l'imperatore d'Austria sarà inoltre supplicato a volere intercedere presso gli altri Sovrani alleati a fine di ottenere che l'Italia sia ammessa a godere dell'independenza e di tutti i benefizi promessi all'Europa intiera.

Art. 3.° S. M. l'imperatore d'Austria sarà supplicato inoltre a voler ottenere dagli altri Sovrani che, conformemente al quarto articolo degli Statuti nazionali italici, l'Italia sia infine assoggettata ad un principe independente, ed in ispezieltà al principe Eugenio, il quale per le sue virtù, le sue cognizioni e la sua condotta si è meritato giustamente la reverenza e l'amore degl'Italiani, ec.

Non appena il presidente conte Veneri ebbe terminata questa lettura, il conte Guicciardi, austriaco mitigato, surse a parlare, e propose di investigare anzitutto se la convocazione straordinaria del senato fatta dal guarda-sigilli fosse regolare, o se, all'opposto, il duca di Lodi non paresse adoperare piuttosto da capo dello Stato, mentre in realtà non era altro che capo del governo. Aggiunse, non potersi procedere alla elezione d'un nuovo re senza prima avere ottenuta certezza che il trono era vacante di fatto e di dritto, cioè senz'avere ricevuto la notizia ufficiale della morte del re o della sua rinunzia, la quale ultima, inoltre, non si potea tenere per valida se non con certe date condizioni. Parve che il conte Guicciardi volesse trarre in lungo la cosa; e per chi pone mente che in questo momento le truppe francesi sgombravano la Lombardia, che l'armistizio non dovea durare se non fino all'adempimento della missione dei deputati lombardi a Parigi, e veniva naturalmente a cessare se questa non avea luogo, per chi pone mente a ciò non vi può essere dubbio intorno alle vere intenzioni di costui.

Rispose il conte Dandolo, doversi quistioni siffatte non altrimenti discussare che da una commissione; e fece instanza acciò in sull'atto si procedesse alla nomina di commissari, e si dessero a questi almeno due giorni di tempo per bene investigare la cosa. Indarno i conti Veneri, Paradisi e Vaccari cerziorarono il senato che il vicerè con sua lettera aveva fatto abilità al duca di Lodi di convocare il senato semprechè le congiunture lo richiedessero; che per isbaglio unicamente, e non a bella posta, egli si era espresso in modo che pareva adoperare piuttosto qual capo dello Stato, che qual capo del governo; invano invocarono un comitato segreto: «Non usò mai il senato», rispose il Guicciardi, «di ridursi in comitato segreto». Inutili furono eziandio le loro instanze acciò il senato venisse a diffinitiva risoluzione nel giorno stesso. Stanchi alla fine di tante contradizioni, pregarono i senatori: avvertissero che l'armistizio non avea altro scopo che quello di aspettare l'esito delle pratiche da affidarsi ai deputati lombardi; badassero che nulla farebbe sostare le truppe austriache al di là del Mincio e fuori di Milano, se il senato non mandava suoi deputati a Parigi. L'esercito raccolto in Mantova aver già (aggiugnevano i conti Veneri, Paradisi ed altri) acclamato re d'Italia il principe Eugenio.

Il ricusare, dopo questi assennati e forti avvertimenti, di nominar deputati e di dar loro le necessarie instruzioni era tuttuno che dichiarare apertamente che le truppe austriache sarebbero le benvenute; ed un certo quale nazional pudore non concedeva in quell'epoca una confessione siffatta. Coloro che in sulle prime si erano mostrati disposti a non fare alcun caso del messaggio del duca di Lodi, si tacquero; ed essendosi abbracciata la proposta del conte Dandolo, si stanziò che la commissione comporrebbesi di sette membri, dei quali ecco i nomi: i conti Dandolo, Guicciardi e Verri, il marchese Castiglioni, e i signori Costabili, Cavriani e Bologna. Non uno di quelli che avevano propugnata la proposta di un comitato segreto, o anche soltanto il messaggio del duca di Lodi, venne eletto membro di questa commissione, la quale fu tosto dal presidente Veneri invitata a riferire al senato sul datole incarico alle otto pomeridiane del giorno medesimo.

I conti Dandolo, Guicciardi e Verri andarono in nome della commissione suddetta dal duca di Lodi per essere ragguagliati delle facoltà ch'egli avea, e della gravità dei casi. Appagati intorno a questi due punti, riunironsi coi loro colleghi, e la sera medesima presentarono, giusta l'invito ricevuto, al senato il loro rapporto, nel quale faceano le seguenti proposte: 1.° Il senato invierà tre deputati alle grandi potenze per tributare loro il proprio omaggio, e supplicarle di far cessare le ostilità, e di concedere all'Italia l'independenza. 2.° Coglierà il senato con premura quest'occasione per offerire al principe Eugenio la protesta della perfetta sua stima e del sincero suo attaccamento.

Mal si potrebbero descrivere lo stupore e la costernazione degli uomini assennati e non traviati dalla passione, allorchè udirono cosiffatte proposte. Esclamarono che si doveva anzitutto o nominare il principe sotto il cui governo l'Italia volea rimanere, oppur nulla chiedere alle Potenze; perocchè il chieder loro la felicità, l'independenza e la pace in termini generali era lo stesso che darsi in balía, senza veruno schermo, al loro beneplacito. «Ecchè?» dicevano essi con ardore e quasi con disperazione; «non vedete voi che dal punto che il regno d'Italia rimane vacante, esso non esiste più? Non vedete voi che, abbandonando il principe Eugenio, voi stessi vi date in preda dei suoi nemici? Non istate già per recare proposte alle Potenze Alleate, ma state per deporre a' loro piedi le vostre libertà, la vostra independenza. E che cosa significano quelle proteste di stima e di attaccamento che fate al principe Eugenio, allora appunto che ricusate d'unirvi con lui? Possibile che non sentiate che queste vane formole diventano, in siffatte congiunture, un insulto anzichè un omaggio?»

Ragionarono a lungo, e bene, ma senza frutto veruno. Chi si oppose più ostinatamente, e diciamolo pure, con le più triste ragioni, all'instanze dei partigiani del vicerè, fu il conte Guicciardi. Chi non ha conosciuto costui, e si farà a leggere ciò ch'egli disse in quella occasione, potrà dirlo insensato. Quanto a me, che già tempo fui in grado di apprezzare la meravigliosa sagacità e la somma scaltrezza del conte Guicciardi, io debbo con mio rammarico fare di lui un tutt'altro giudizio. Rideva senza dubbio in sè stesso il Guicciardi dei meschini suoi raziocini; ma si avvedeva che, ad onta della meschinità di essi, bastavano quei raziocini agli animi prevenuti che lo ascoltavano; s'avvedeva che così impediva l'invio della deputazione, o almeno faceva in modo ch'essa non altro recasse alle potenze alleate che vane ciance; s'avvedeva che la potenza franco-italica stava per crollare, che l'imperatore d'Austria rientrerebbe trionfante nell'antiche sue province; e tutte queste cose vedendo, faceva a queste belle speranze il sagrifizio della sua riputazione di assennato parlatore.

Ecco adunque i motivi che il Guicciardi allegava, il 17 aprile del 1814, per opporsi alla proposta del duca di Lodi, del presidente Veneri, ec. Sia il lettore avvertito che ho sott'occhio il processo verbale della seduta del senato.

Diceva il Guicciardi: essersi i senatori astretti per giuramento ad osservare gli statuti organici del reame; il 1.° e il 4.° di quegli statuti porre nella linea di successione al trono un figliuolo legittimo del re, prima di un figliuolo adottivo; doversi pertanto offerire prima al re di Roma la corona d'Italia, tranne che fossegli già stata conferita la corona di Francia. Parve che il conte Prina non tenesse meritevole questa obbiezione d'una seria confutazione; ond'è che, ammettendo senz'altro che i dritti del re di Roma erano più sacri di quelli del principe Eugenio, propose di stendere un novello capitolo in questi termini: I deputati del senato recheranno a cognizione dei sovrani alleati il dritto eventuale alla corona italica, conferito dal 1.° e dal 4.° dei nostri statuti organici; dritto che l'ammirazione e la riconoscenza della nazione hanno viepiù consacrato. Ma il conte Guicciardi non si dovea dar vinto sì presto. Rispose che il dritto eventuale non poteva essere invocato insino a tanto che il dritto positivo non avea cessato di esistere. Procedette poscia a parlare della sconvenevolezza che i Lombardi proponessero ai Sovrani alleati, ed in ispezieltà all'ambasciatore d'Austria, di coronare il principe Eugenio, contro del quale aveano le tante volte combattuto.

La proposta del duca di Lodi e quella della commissione essendo state poste alle voci, vinse quest'ultima. I conti Moscati e Mengotti ottennero solo che le proteste di rispetto e di attaccamento al principe Eugenio sarebbero indirizzate dal senato ai Sovrani alleati, e non al principe stesso, in guisa che potessero queste proteste venire riguardate come un tacito e modesto voto. Invano il conte Vaccari tentò di fare stanziare il capitolo proposto dal conte Prina sul dritto eventuale del principe Eugenio, chè con poco stento il conte Guicciardi ne ottenne la reiezione. Infine, i deputati eletti dal senato furono appunto esso conte Guicciardi, il conte Castiglioni e il conte Testi, ministro.

Troppo per avventura mi sono diffuso a narrare i particolari di quella memorabile seduta del senato. I fatti di cui segue la descrizione varranno a mia giustificazione; perciocchè, in vedendo lo sdegno popolare prorompere bentosto contro la così detta bassa condescendenza del senato al minimo volere del principe Eugenio, mi si perdonerà d'avere per lo minuto descritto i sentimenti ostili da cui, all'incontro, era mosso il senato verso il vicerè.

Intanto che questi dibattiti avvenivano nell'aula del senato, i partiti del di fuori si agitavano, si credean prossimi al trionfo, e disponevansi ad afferrarlo. Pareva giunto per tutti l'istante di operare; chè l'imperatore Napoleone era caduto, e il vicerè non potea cansarsi dal cader esso pure, se non col sostegno degl'Italiani. Doveano dunque omai gl'Italiani accertar la caduta del vicerè, negandogli il loro appoggio. Gli Austriaci mitigati si deliziavano nel numerare anticipatamente i tanti benefizi di cui Casa d'Austria avrebbeli senza dubbio ricolmati. I Muratisti s'aspettavano di momento in momento l'arrivo della vanguardia del re di Napoli; i sedicenti Italiani-puri argomentavansi d'indovinare qual sarebbe il principe a cui le Potenze Alleate affiderebbero la cura della felicità della Penisola; infine gli Austriaci-puri faceano più retto giudizio delle cose, e si aspettavano il pieno conseguimento dei loro voti. Un solo timore angustiava ancora questi animi, altronde agitati, e turbava la loro letizia: ed era che l'esercito, come correane voce, fossesi dichiarito pel vicerè. Or quest'esercito, italiano di nascita, non meno che d'animo, non era privo d'alcun ascendente sul resto della nazione. Arrogesi che il governo, costituito e perciò stesso dotato d'una certa quale forza, era composto di ufficiali per la maggior parte fedeli e intendenti. La diminuzione d'alcune imposte, lo stanziamento di uno o due provvedimenti desiderati dal popolo, poteano trarsi dietro una subitanea resipiscenza della pubblica opinione, e far risorgere la devozione e l'affetto laddove testè non si udiva altro che il sordo mormorio della malacontentezza e dell'odio. Ad ogni patto era d'uopo impedire che avvenisse un tale cambiamento. Ed ecco il come si governarono, per conseguire il loro intento, i nemici de' Francesi.

Disciogliere violentemente il governo, far sì che la popolazione milanese trascorresse a tali eccessi da rendere impossibile ogni sua riconciliazione col principe Eugenio, tale esser doveva lo scopo degli Austriaci puri, degli Austriaci mitigati, dei Muratisti e degl'Italici sedicenti puri. Il senato era allora per la città di Milano, il corpo veramente investito della potestà amministrativa e politica. Importava adunque assai l'atterrarlo, e per quest'uopo si pose in opera due modi diversi. Fu sparsa anzi tutto la voce che il senato avea stanziata la perdita dello Stato, che i più formali impegni erano stati contratti nella seduta del 17 aprile col principe Eugenio, che questi era stato accertato nel modo più positivo come non si sarebbe accettato accordo di sorta co' suoi nemici, nè sottoscritto alcun trattato che non avesse per fondamento la ricognizione definitiva di lui qual re d'Italia. Dipendere, diceasi, i destini dello Stato dal buon volere delle Potenze Alleate; esser queste mosse verso gl'Italiani dai più propizi sensi, ma opporsi la dignità loro a che esse venissero mai sur un piede di eguaglianza a trattato con un soldato salito ad alto grado, ch'era stato sempre loro nemico. Eppure in siffatta congiuntura ostinarsi il senato ad esigere quell'unica cosa che le Potenze Alleate non consentirebbero giammai a concedere; cioè la ricognizione del principe Eugenio a re d'Italia; rigettar esso ogni altro compenso da questo all'infuori; ributtare ostinatamente le benevole ed amichevoli profferte delle Potenze, volere pertanto immerger di nuovo lo Stato nei guai della guerra e in tutti quegli orrori che ne conseguitano; esser pertanto il massimo flagello della patria e risoluto a spietatamente sagrificarla.

Mentre che queste accuse andavano attorno di bocca in bocca, e ridestavano nell'intimo de' cuori l'odio che vi si ammucchiava da lungo tempo, i capi delle fazioni austriaca-mitigata ed italica-pura, o italo-austriaca, preferendo apertamente le vie legali, apparecchiavano una protesta contro il senato ne seguenti termini concepita: «Dando retta alla pubblica voce, il senato nella sua seduta del 16 corrente, seduta intorno alla quale nulla è trapelato al di fuori, avrebbe discussato e deciso un affare della massima importanza per il reame. Ammettendo che nelle presenti congiunture sia necessario di appigliarsi a straordinari provvedimenti, i sottoscritti giudicano cosa indispensabile il convocare, conformemente ai princìpi della nostra costituzione, i collegi elettorali, nei quali soli è posta la legittima rappresentanza nazionale». E a quest'atto erano apposte meglio che cencinquanta firme, prime fra le quali eran quelle dei capi dei varii partiti. Allato dei nomi dei conti Confalonieri e Porro, dei Ciani, de' Verri, de' Bossi, de' Triulzi, ec., i più ragguardevoli degl'Italici sedicenti puri, vedeansi i nomi dei conti Alfonso Castiglioni, Giulio Ottolini e Antonio Greppi, austriaci puri; quello del conte Giovanni Serbelloni, austriaco mitigato, e quello perfino del barone Trecchi, partigiano, forse unico, dell'Inghilterra. Questa petizione o protesta, come che voglia appellarsi, era indirizzata al podestà di Milano, conte Durini, il quale, dopo averla sottoscritta egli pure, la trasmise al presidente del senato, conte Veneri.

Siffatti compensi erano certamente fatti per privare il senato d'ogni forza morale, e poteano anche aver per effetto lo scioglimento di quel consesso. Ma ciò non bastava; era duopo, come ho detto testè, di far trascorrere la popolazione talmente, che fosse poi impossibile il rappattumarla col governo esistente. Or quando mai una popolazione la rompe essa irremissibilmente con un governo? Ognun lo sa: egli è quando commette un gran misfatto. Era adunque duopo che il popolo milanese commettesse un misfatto contro alcuno de' primari ufficiali dello Stato. E a ciò s'intesero di comune accordo certi membri dei diversi partiti macchinanti contro il governo italo-francese.

Io sarò ora imperiosamente costretto a proferire nomi ben noti, irrogando a parecchi di essi un severo biasimo. Ogni giorno vengono meno alcuni degli uomini che furono oculari testimoni delle scene tremende di quel tempo, e la maggior parte di loro si portano seco nella tomba il segreto ch'ei possedevano, e cui la storia ha diritto di conoscere. Il perchè, lasciato in disparte ogni riguardo di persone, io mi affretto a raccogliere le mie ricordanze e quelle dei miei contemporanei, a fine di apparecchiar materiali agli storici futuri dell'Italia.

Il mese d'aprile dell'anno 1814 è certamente per molti de' Lombardi argomento di angosciosa e amarissima ricordanza; e più d'uno di essi tentò di poi di liberarsi da quell'angosciosa memoria, sagrificando alla patria le sostanze, la quiete, la sicurezza e la libertà. Altri, meno scrupolosi, furono cionnonpertanto puniti dal disdegnoso abbandono di quegli stessi in pro dei quali ei si fecero traditori ed assassini. I primi vogliono essere trattati con maggiore riguardo degli altri; ma la verità dee essere conta sia riguardo agli uni, che riguardo agli altri; e basterà avvertire, pria d'entrare in materia, che gli uni s'ingannavano nel far giudizio delle cose, gli altri nel far ragione degli effetti che queste cose doveano partorire per loro.

Il conte Gambarana, già promotore e indirizzatore della rivoluzione di Pavia, ed altro de' capi della fazione austriaca pura, era il più operoso e il più risoluto fra tutti i cospiratori. Trovò modo costui d'indettarsi col generale Pino, capo della fazione muratista, e di ficcarsi nella brigata liberale che tenea le sue congreghe in casa della damigella Bianca Milesi, e in casa di madama Traversa, moglie d'un avvocato nativo di San Nazzaro, terra della Lomellina. Confalonieri, Porro, Bossi, Ciani, ec., faceano parte di quella brigata, e se non si può facilmente supporre ch'ei rimanessero affatto stranieri di quanto faceavisi, la cosa non è tuttavia impossibile, poich'essi erano in quel mentre tutti intenti a far girare attorno la surriferita protesta contro il senato, e nell'infausto giorno 20 aprile furono veduti aggirarsi, anzi nei dintorni del palazzo del senato, che nel quartiere del Marino. Il conte Gambarana ben conoscea la mite e quieta tempra del popolo milanese, e sapea benissimo che la più fiera stizza ond'esso fosse capace, dovea sfogarsi in meri gridori, e non reggerebbe giammai contro le lagrime e le supplicazioni. È generale opinione ch'egli abbia conferito con Traversa intorno a siffatta difficoltà. Questo avvocato, nativo, siccome ho detto, della Lomellina, avea in sua gioventù accumulato immensi averi, coltivando, come fittaiuolo, un gran podere del Novarese, ed era pienamente edotto della tempra della popolazione di quella provincia, del carattere, bisogni di essa, ec. Giusta la voce pubblica, avrebbe il Traversa proposto al conte Gambarana di far scendere dal Novarese a Milano un numero assai ragguardevole d'uomini rozzi e risoluti, che, allettati in sulle prime dall'esca del lucro, sarebbero in seguito trattenuti dalla passione del trambusto, dei pericoli, e forse anco del sangue. Io non vo' già dire che il Traversa conoscesse appieno tutti i divisi del conte Gambarana; e crederei volontieri che li ignorasse, o pensasse almeno di non dar mano ad altro che ad una sedizione all'un di presso innocente, a minacce, a vociferazioni, e non già al più spaventevole assassinio. Nulla voglio tuttavia tacere di quanto può spargere alcuna luce sopra il tristo giorno 20 d'aprile, e perciò duolmi d'avere a soggiugnere che il Traversa credeva avere particolare ragione di lagnarsi del ministro delle finanze, il conte Prina, perocchè, essendo stato proposto per la dignità senatoria, non potè ottenerla; mortificazione o smacco ch'egli attribuì, fors'anco a torto, a male uffizio del ministro Prina. Contadini della provincia di Novara e d'altre circonvicine province giunsero successivamente, ma in gran numero, a Milano, nel giorno 19 e nel mattino del 20 di aprile. L'incarico loro dato era quello di uccidere un qualche gran personaggio, od anche parecchi, purchè ad ogni modo spargessesi sangue, A ognuno di essi erano promesse sei lire al giorno per tutto quel tempo che fossero assenti dalle case loro; ma quegli che finì di uccidere il ministro Prina ricevette grossa somma di danaro da parte, se non di propria mano, del conte Gambarana.

L'arrivo però di questa moltitudine di abitatori del contado, il sinistro loro aspetto, le armi che sforzavansi di nascondere, e le parole che loro uscivano di bocca, dovevano porre in trepidazione la pubblica autorità. Il signor De Capitani, segretario generale del ministro dell'interno, e fungente allora l'ufficio di ministro, recossi in persona, la mattina del 20 d'aprile, al ministero della guerra per chiedere quel numero d'uomini ond'eravi bisogno per mantenere il buon ordine. Or come dovette egli meravigliarsi all'udire che due corpi di soldatesche erano appunto partiti la notte precedente alla vôlta di Sesto Calende, che il nemico, per quanto diceasi, accennava volere sopraprendere! Ma crebbe bentosto il suo stupore dietro la negativa datagli poi subito dal generale Bianchi d'Adda, allora preposto provvisionalmente al ministero della guerra. «Le mie istruzioni», così risposegli, balbettando, quel generale, «non mi concedono di mettere le mie genti alla vostra disposizione; indirizzatevi a tal fine ad un ufficiale superiore, per esempio, al generale Pino». Replicava forte il De Capitani, che il generale Pino, benchè ufficiale superiore, non avea comando in Milano, ned era ministro della guerra, o faciente le veci del ministro, ma si trovava in Milano senza corpo d'esercito e senza ufficio determinato. Non potè ottenere altra risposta, e andossene convinto di non dover fare il menomo fondamento sopra il concorso della forza armata.

Le parole del generale Bianchi d'Adda chiudevano un senso della più alta gravità; poichè esprimevano il fatto che le truppe non erano più sottomesse ai loro capi legittimi e regolari, ma solamente ad uno dei capi della rivoluzione che stava per prorompere.

Che faceva egli allora il generale Pino, questo soldato salito in alto, questo congiurato, già riguardato da' suoi eguali e da' suoi superiori come loro capo, questo generale di secondo grado, che, testimone della caduta dell'imperatore, presumeva di potere assidersi nel seggio di lui? Egli era quel desso che avea fatto partire per a Sesto Calende i due corpi da me menzionati; ma non parendogli sufficiente questa precauzione, il mattino del giorno 20 facea chiudere tutte le truppe nei loro quartieri. Il che è sì vero, che essendo venuto fatto al signor Vercelloni di raccozzare quaranta o che granatieri de' veliti e quarantotto dragoni a cavallo sotto il comando del capitano Bosisio, cui condusse alla prefettura di polizia, che era pochi passi stante dal luogo in cui accadevano gli orrendi fatti che sto per descrivere, in quella appunto che questa poca soldatesca, giusta gli ordini del prefetto di polizia Giacomo Villa, stava per recarsi al luogo del tumulto, il colonnello Cima, aiutante di campo del generale Pino, frettoloso accorrendo, ingiunse al capitano Bosisio di ricondurre immantinenti i suoi soldati nel proprio quartiere, e di tenerveli chiusi fino a nuovo ordine. Io debbo qui riferire un'altra circostanza di fatto, toccante il generale Pino, che merita di essere ricordata: ed è che appunto nel mattino del 20 di aprile questo generale riscosse una somma di cinquantamila franchi, statagli da poco conceduta a titolo di gratificazione dal vicerè.

Due catastrofi, funeste entrambe del pari alla independenza italiana, segnalarono l'infausto giorno 20 d'aprile. Mi fo ora a descrivere la prima in ordine di tempo, la quale fu pure la meno deplorabile.

I senatori eransi indettati di raunarsi di bel nuovo il 20 d'aprile, sebbene i loro deputati, eletti nel dì 17, i conti Guicciardi e Castiglioni¹, fossero già pervenuti a Mantova per ricevere i passaporti e le credenziali dal vicerè, e insieme un salvocondotto del maresciallo Bellegarde, onde imprendere poi il viaggio per a Parigi. Benchè il tempo fosse piovoso, il che per lo consueto basta ad attutare la turbolenza della plebaglia, poterono agevolmente i senatori addarsi che l'accesso al palazzo era ingombro d'una moltitudine stranamente composta di cere mal note, nella quale uomini in assetto decente vedeansi frammisti ad altri che sembravano, all'incontro, appartenere agl'infimi ordini della società. Avvertirono certamente eziandio i senatori che il palazzo non era custodito giusta il consueto, giacchè vi era di guardia un drappelletto di forse otto o dieci reclute. Ma checchè volgessero in mente a tale proposito, le loro riflessioni furono tosto interrotte dal mormorio che sorgeva in quella moltitudine all'arrivo di quei senatori che la pubblica voce indicava come spalleggiatori della proposta del duca di Lodi, e dalle acclamazioni con le quali erano salutati i senatori noti per essersi dichiariti contrari a quella proposta.

¹ Il conte Testi era rimasto a Milano per cagione di mala salute.

Riuniti nella solita aula delle consulte, e non punto intimiditi dal romore che udivasi al di fuori, udirono i senatori la lettura del processo verbale della seduta precedente, e l'approvarono: dopo del che il presidente conte Veneri comunicò, non però ufficialmente, al senato la protesta di cui qui sopra ho riportato i termini, e la lettera d'invio del podestà Durini, che accompagnavala. Non appena fu terminata questa lettura, che il capitano Marini, additto al comando della piazza, chiese instantemente, in nome del corpo degli ufficiali della guardia civica, di essere ammesso al periglioso onore di custodire e difendere l'assemblea del senato. Ottenutane la venia, concedutagli con fidanza e riconoscenza, lo stesso capitano Marini accorse con una grossa mano di guardie nazionali, e discacciò brutalmente i soldati stanziali che erano appostati alle porte stesse dell'aula del senato.

Egli è omai costante che i capi del partito sedicente italico puro passeggiavano in quell'ora all'intorno del palazzo del senato, e ad alta voce ragionavano intorno alle domande contenute nella ridetta protesta, cioè intorno al richiamo dei deputati ed alla convocazione dei collegi elettorali. Il più ragguardevole di questi capi era senza contrasto il conte Confalonieri, e fu egli appunto il più gravemente accagionato degli eventi di quel tristo giorno. Credettesi egli stesso in debito di pubblicare un opuscolo, per propria difesa. Ma noi diremo che se è difficile l'indursi a dare retta a tutte le taccie appostegli, non lo è meno il rassegnarsi ad ammettere per intiero la sua propria apologia, aggiuntochè uomini degni di fede per ogni rispetto manifestamente gli contradicono in parecchi punti. Egli fu dipinto come l'istigatore di tutti i moti del 20 di aprile; ma sembra che egli voglia insinuare non solo d'esserne stato straniero, ma anzi d'averli intieramente ignorati, e d'essere stato spinto unicamente dal caso o dalla curiosità nel palazzo del senato il giorno 20 d'aprile. La prima ipotesi è troppo trista per non essere ammessa senza gravi ragioni, che al postutto non esistono; giacchè non v'è pruova alcuna che il conte Confalonieri abbia o provocato o diretto la sanguinosa catastrofe con cui si chiuse quella giornata. Quanto è al credere, com'egli dice, che la sola fatalità l'abbia condotto in quel giorno per le vie di Milano, la è cosa quasi impossibile. La protesta contro il senato era in gran parte opera sua, ed egli l'avea presentata qua e là a ciascuno de' suoi amici acciò la sottoscrivessero. Ei vi manifestava un invincibile mal fidanza verso il senato e i deputati da esso inviati; ed anzi vi proponeva di surrogare al senato i collegi elettorali, il che era lo stesso che atterrare il senato. Ben sapea egli che la sua protesta doveva esser discussa e dibattuta dai senatori; or crederemo noi ch'ei si trovasse a caso alla porta del senato, dov'ei poteva agevolmente conoscere l'esito della protesta medesima. Il popolo che attorniava il palazzo, e che poco poi lo invase, domandava per l'appunto le cose enunziate nella protesta; e il conte Confalonieri si fece poi ben tosto, come diremo, l'interprete del popolo stesso presso il senato. Dovremo noi credere che la protesta scritta e la protesta fatta con alte grida e col corredo di minacce e d'ingiurie siensi trovate concordi d'incanto, e sempre a caso? Chi potrà mettere in dubbio che queste popolari dimostrazioni non fossero state predisposte dagli autori medesimi della protesta?

Io, per me, desidero di non trovar colpevole alcuno de' miei fratelli di patria, e sono altronde pronto sempre ad ammettere che quelli altresì le cui azioni meritano il più acerbo biasimo, non sieno stati traviati se non dalla rettitudine medesima delle loro intenzioni. Ma non potrei lasciarmi trarre più oltre; e laddove i fatti non sono dubbi in verun modo, laddove le cagioni di questi fatti sono aperte, io non posso, nè per compiacenza, nè per privati riguardi, tacere la verità¹.

¹ Così, per quanto tocca la condotta del conte Confalonieri nel giorno 20 aprile, io credo giustizia non imputare a lui l'uccisione del ministro Prina. Ma solo coll'attribuirgli un'eccessiva condescendenza potrebbesi assolverlo del pari da ogni partecipazione alla sommossa ch'ebbe per iscopo ed obbietto l'abolizione del Senato. Ventura è per lo storico, il quale non senza grave rammarico condannerebbe il Confalonieri, che, mentre il primo di quegli atti fu un misfatto, il secondo non sia stato altro che un fallo ed un errore.

Il sostituire alla soldatesca stanziale la guardia civica nella difesa di un luogo attaccato dal popolo, egli è un favorire al trionfo di quest'ultimo. Non appena in fatti la guardia del palazzo senatorio fu essa affidata ai soldati cittadini, che la calca, tenuta pocanzi in rispetto da un drappello di truppa stanziale, passò arditamente dinanzi alla guardia civica, irruppe negl'interni cortili e fin nel vestibolo del palazzo. Il conte Confalonieri era in mezzo alla folla, e la sua voce, naturalmente sonora, faceasi talmente sentire, che il capitano Marini esortollo a recarsi a parlare al senato in nome del popolo; al che rispose il Confalonieri, non aver lui carattere ufficiale veruno che lo licenziasse a farsi organo del voto popolare.

Andava il tramestío crescendo al di fuori, e i senatori cominciavano a mettersi in apprensione. I conti Verri, Massari e Felici uscirono dall'aula, e recatisi in mezzo alla moltitudine, quella esortarono a dichiarare recisamente il suo desiderio. Non ottennero in risposta che grida confuse ed inarticolate, che davan suono di minaccia e d'invettiva anzichè di proposta e di domanda. Rientrati nel luogo delle consulte, ne uscirono un'altra, e poi di nuovo una terza volta, e sempre infruttuosamente, insino a tanto che il conte Verri, avendo ravvisato nella calca il conte Confalonieri, a lui difilato si volse, pregandolo di fargli conoscere che cosa si volesse quell'agitata moltitudine: al che il Confalonieri non si peritò di rispondere; volersi dal popolo il richiamo dei deputati e la convocazione dei collegi elettorali. Un ignoto pose in mano del conte Verri un polizzino scritto, dicendogli lo leggesse ai colleghi; e questo polizzino, che non fu letto pubblicamente, solo perchè non ebbevi il tempo da ciò, era di carattere evidentemente contrafatto, e suonava così: La Spagna e l'Alemagna hanno scosso il giogo francese; l'Italia dee fare altretanto.

Avea la calca oltrepassato il vestibolo, salita la scala, e affollavasi alla porta dell'aula delle consulte, e intanto la guardia civica, non che respingerla, parea lasciarle a bella posta aperto l'adito.

Erano di già entrati nell'aula delle consulte alcuni uomini d'alta statura, di cera terribile, male in assetto, che proferivano solo minacce e bestemmie, di quei tali insomma che vedonsi repentinamente apparire nei giorni delle rivoluzioni per isparire in appresso quando la quiete è ricondotta, e il cui concorso è riguardato come una sciagura, forse inevitabile, dagli amici della libertà; e di già s'appressavan costoro con curiosa premura ai vecchi senatori, fermi ed immoti, quando il conte Verri, accorrendo per l'ultima volta presso i colleghi, disse loro, non aver essi più di due minuti per deliberare, dopo del che tutto sarebbe perduto. Parecchi ufficiali della guardia civica, fra' quali trovavasi il capo di battaglione Pietro Ballabio, si precipitarono in quella nell'aula, pallidi e spaventati. Il conte Benigno Bossi, altro dei capi della fazione dei sedicenti Italici puri, esclamò doversi promettere al popolo il richiamo dei deputati e la convocazione dei collegi elettorali; altri a lui si unirono per indurre i senatori a questa sì grave concessione. Allora il presidente, ben s'avvedendo che a lui sarebbe data la colpa se avveniva una carnificina, scrisse di suo proprio moto e senza consultare alcuno de' suoi confratelli, queste parole sur un pezzo di carta: «Il senato richiama i deputati e convoca i collegi». Ma questa carta, recata subito al popolo, non fu accolta a quel modo che dovea aspettarsi il conte Veneri. Temevasi che, attutato il tumulto, il senato non venisse ad altra deliberazione che avesse per effetto di annullare la prima. Le grida continuarono, e il conte Bossi ricomparve nell'aula significando a' senatori come il popolo non acconsentisse a ritirarsi se non era anzi tutto disciolta la seduta. Fu forza sottomettersi di nuovo, e un altro scritto uscì dalle mani del presidente il quale diceva. «La deputazione è richiamata, i collegi convocati, e la seduta è sciolta».

Ma dopo che il senato ebbe in tal guisa sottoscritta la sua propria sentenza; dopo che quel corpo, autorevolissimo per le qualità de' suoi membri, e vero consesso nazionale, e conservatore naturale delle pubbliche libertà, fu per così dire scomparso dinanzi all'ira sciocca ed alle false prevenzioni d'una plebaglia demente, questa plebaglia, non che chiamarsi paga, ricusò di ritirarsi. Furono, all'incontro, i senatori violentemente detrusi dai loro seggi; e dovettero, inseguiti (alcuni almeno di loro) dagli schiamazzi e dalle invettive della moltitudine, traversarne lentamente le file, e ritirarsi mesti e confusi nelle loro case. Il popolo poi irruppe nell'aula ond'erano usciti i senatori, e in pochi istanti riempiè tutto quanto il palazzo. Ebbe allora principio il saccheggio, nel quale concorrendo l'odio degli uni con la cupidigia degli altri, tutti gl'imperiali emblemi, i mobili, le tende e perfino i vetri delle imposte furono o rotti o rubati. Corse voce allora, e fu replicata anche da poi, che il conte Confalonieri strappò di sua mano dal muro un ritratto dell'imperatore, e dopo averlo trapassato da parte a parte col suo ombrello, gettollo dalla finestra. Egli ha acremente impugnato quest'accusa, la quale non sembra tuttavia grave a trafatto. Il conte Confalonieri teneasi nelle file dei nemici dell'imperatore e del vicerè, e questa nimistà gli fu guida in quel tempo, influendo nelle sue opinioni. L'azione attribuitagli d'avere strappato e lacerato il ritratto dell'imperatore sarebbe stata senza dubbio screanzata; ma non era tale, al postutto, da far torto o danno ad alcuno; e ognuno sa che l'urbanità delle civili brigate non è la regola a cui i rivoluzionari sono tenuti d'attenersi sulla piazza pubblica.

I senatori eransi cionnonpertanto ritirati nelle proprie case senza impedimento; nè goccia di sangue era stata sparsa. Il popolo non era trascorso a sufficienza; e certi membri dei diversi partiti eransi indettati per provocare, come necessaria, una seria sommossa. Furono udite alcune voci, che proferivano un nome odiato dal popolo, perchè d'uomo riguardato generalmente come il rappresentante del vessatorio sistema delle finanze imperiali; ed era il ministro delle finanze, conte Prina. Nel concetto popolare questo ministro passava per ricco sfondato, e il sacco della sua casa credeasi dover fruttare almen quanto l'escavazione d'una miniera di diamanti. Non eravi forse uomo del popolo, il quale nel pagare le eccessive imposte che l'opprimevano, non ne desse al ministro istesso tutta la colpa. Ei passava per uomo che si studiasse di scoprire ogni giorno un qualche nuovo compenso per aggravar la miseria del popolo; e si supponea che, cessando egli di esistere, sarebbero tosto a terra le imposte. Così ragionava il popolo, e chi fece udire pel primo alla moltitudine accalcata nel palazzo del senato, il nome del Prina, ben sapea d'aprire con ciò un ampio aringo al furore ed all'avidità popolare.

Il palazzo senatorio, e i luoghi circonvicini furono ben presto deserti. La moltitudine avviossi rapida verso il palazzo del Marino, e s'ingrossò, via facendo, di tutti quelli ch'eransi riserbati per l'ultima scena. La moltitudine mal custodisce il segreto, e il grido della trama ordita contro il ministro era giunto e a lui e a' suoi congiunti ed amici. La mattina stessa del 20 d'aprile un congiunto del Prina l'avea scongiurato di cansarsi dai pericoli che lo minacciavano, e di lasciarsi condurre in una carrozza fino a Pavia, ove egli avrebbe potuto agevolmente rimanersi celato o passare in uno Stato straniero. Ributtò il Prina ostinatamente le instanze ed offerte del suo congiunto. «Perchè mai», diceva egli, l'ira del popolo dovrà volgersi contro di me piuttosto che contro gli altri membri del governo? E altronde che è mai l'ira del popolo milanese, che è il più bonaccio del mondo? Poche parole basteranno ad acchetarlo, e se non bastassero, la città è ella priva di forza armata? un drappello di granatieri passeggerà coll'arme al braccio dinanzi alla mia casa, e ognuno tornerassene a casa sua».

Pensava inoltre il conte Prina che in siffatte congiunture i membri del governo non doveano abbandonare il loro posto, e domandava agli astanti che mai sarebbe dello Stato se le minacce popolari e i privati timori potessero giustificare la fuga degli uomini cui esso era affidato. E avea certamente ragione; perocchè non sapea che la sua perdita era stata previamente giurata, non già dal popolo di Milano, ma da coloro che si celavano dietro di esso; e che l'istessa sua perdita doveva essere il segnale della caduta definitiva del governo, come pure della totale rovina dell'independenza italiana. Stavasi egli pertanto tranquillamente occupato nel suo gabinetto allorchè il sordo mormorío della moltitudine che ringhiosa appressavasi lo sorprese, senza turbarlo tuttavia; ma raddoppiatosi repentinamente il rumore, e mutato, per così dire, di carattere, alcuni domestici accorsero ansanti e gli gridarono, traversando in fretta le stanze per cercare un uscita, che le porte del palazzo erano state atterrate, e che la plebaglia saliva le scale. Colpito allora dall'inaspettato avviso, nè più potendo dissimularsi il pericolo che gli sovrastava, tentò egli di nascondersi sotto i tetti del palazzo, donde sperava poter passare in una casa vicina. Egli era altronde convinto pur sempre, che solo abbisognavagli guadagnar tempo, e che la forza armata non potea tardare gran fatto ad accorrere sul luogo del tumulto. Il suo nascondiglio fu bentosto scoperto. Vedendosi allora in balía d'un popolo furibondo, il Prina sforzossi di dire alcune parole, chiedendo che gli esponessero i loro gravami e si tenessero certi della sua premura nel farvi ragione; ma niuno diedegli retta. Lo gettarono a terra, lo trascinarono presso una finestra che dava sulla strada, e lo gettarono a capo in giù a quelli che lo aspettavan di fuori, ponendo cura tuttavia di non finirlo sul colpo.

La scena che tenne dietro è una di quelle che lasciano un'indelebile traccia nella storia della nazione che se n'è fatta colpevole. Il generale di divisione barone Pein fu il solo che, animosamente scagliatosi frammezzo a quella frenetica calca, scongiurolla di non bruttarsi d'un inutile delitto e di lasciare la vita al ministro. Non solo non gli si diè retta, ma rivoltosi per un istante contro di lui il furore popolare, gli furono lacerati o strappati gli abiti di dosso, e solo a grave stento ei potè scampar dal pericolo. Ho detto che le truppe erano chiuse ne' loro quartieri con ordine di non uscirne. Il generale Pino passeggiò per più ore col conte Luigi Porro poco stante dal luogo in cui commetteasi il più feroce degli assassinii. Ei disse alcune parole alla moltitudine, che, secondo gli uni, tendevano ad inanimirla, e, per quanto disse egli stesso, non erano, all'incontro, che rimostranze e consigli pacifici. Le vie per le quali il Prina fu strascinato erano gremite d'uomini in buon assetto, che si riparavano dalla pioggia con ombrelli di seta. Ma niuno di costoro fecesi innanzi nè a fine di ammansar con parole il furor popolare, nè a fine di strappargli di mano a forza la vittima.

Affranto dalla caduta e dai colpi che gli fioccavano addosso da ogni parte, il Prina giacea steso a terra nella via del Marino, dinanzi al suo proprio palazzo. Un vinaio, la cui casa sorgea lì presso, cogliendo un momento in cui la moltitudine parea titubante intorno a che avesse a farsi di quel corpo immobile, gli si avventò sopra, sel pigliò in braccio, corse a casa sua, entrovvi, chiuse la porta e la sbarrò; e lieto poscia di questo primo successo, portò il ministro nella sua cantina, ove sperava poterlo nascondere. Ma l'istessa azione di quell'onesto avea fatto ridesta dalla passaggera inerzia l'addensata moltitudine; credette essa avere perduta la sua preda, ed agognò subito un'altra vittima che ne tenesse il luogo; è anzi verosimile che non sarebbesi più appagata d'una sola. Scagliarono una grandine di sassi contro la casa del vinaio, ne ruppero le imposte; e taluno propose di appiccarvi il fuoco, acciò nessuno di quelli che vi si erano rinchiusi potesse scampare. Udiva il vinaio queste minacce, e non erane atterrito; ma il ministro, al quale pochi istanti di riposo aveano ridonato un po' di forza, comprese non esservi più scampo per sè, ed anzi aver egli a cagionare la perdita di chi avea tentato di salvarlo, se rimanea quivi. Alzossi pertanto, e trascinatosi a stento per la scala fino alla porta di strada, l'aperse e presentossi di nuovo alla moltitudine, dicendo: «Sfogate sopra di me l'ira vostra, e almeno ch'io ne sia la sola vittima». Volle pure pregare, ma l'inferocita impaziente moltitudine non gliene diede tempo; avventoglisi addosso con quell'impeto con cui il fanciullo afferra il trastullo da lungo tempo bramato, e sopra di esso intraprese le più orribili esperienze, come se avesse voluto conoscere qual somma di patimenti possa l'uomo durare senza morire, e libare a centellini il calice della vendetta. Il conte Prina fu strascinato vivo per le vie di Milano per ben quattr'ore, coperto di fango e d'oltraggi, battuto, spinto, punzecchiato dagli spuntoni degli ombrelli. Finchè ebbe voce, non cessò di proferire tratto tratto la sacra parola di misericordia, e finchè ebbe facoltà di muover le membra, sforzossi di tenere giunte le mani. Da taluno che in lui s'abbattè quand'esso avea già perduto e la voce e il moto, mi è stato detto ch'egli era allora sfigurato del tutto, nè dava più altro segno di vita che alcuni soffocati singulti. Cessò di vivere, non già che fosse mortalmente ferito, ma perchè evvi un termine alle corporali torture, e le forze dell'uomo sono limitate. Il suo cadavere fu recato nel palazzo del Broletto, e niuno dei tanti che dalla curiosità, dall'astio, o dall'affetto furono tratti a vederlo, potè ravvisarlo, tanto sfigurato era quel cadavere pei patiti strapazzi. A mala pena serbava aspetto di umana creatura, eppure i chirurghi chiamati a constatarne il decesso, dichiararono, niuna delle ferite ond'egli era coperto essere stata tale da determinarne la morte. Il soverchio dei patimenti e la disperazione l'aveano spento.

Tratto era il dado; tutte le fazioni opposte ai Francesi credeansi averla vinta, ma in realtà gli Austriaci puri erano i soli vincitori. Alla notizia della morte del ministro, le porte dei quartieri delle truppe furono aperte, e le soldatesche si sparsero per la città onde impedire novelli attentati. Urgentissimo era di fatti il bisogno del braccio della forza armata, perciocchè la folla, inebriata da quel primo sangue, proferiva di già altri nomi, e quello fra altri del duca di Lodi, e formava parecchi sinistri disegni. Non appena fu essa però edotta dell'appressarsi della truppa, che si disciolse, gettando grida meno spaventose, ma non meno significative delle prime, e quello fra altre: Viva il re Pino. Non si tralasciò di dire che, se la calca così subitaneamente si disciolse alla notizia dell'arrivo dei soldati, ciò avvenne perchè la sua sete di vendetta era saziata, e che più difficile cómpito sarebbe stato il ridurla al dovere quando il Prina tuttora vivea. Ma un fatterello atterra del tutto questa opinione. Intanto che la moltitudine era tuttora inferocita contro la sua preda, e che il palazzo delle finanze era saccheggiato e demolito, coloro che stavano nella strada scorsero un pezzo di grondaia, che, distaccato dal tetto, pendea sulla strada; parve loro che fosse un cannone, e gridarono esservi nel palazzo artiglieria e doversi far fuoco sopra di loro. Questo falso e ridicolo all'erta bastò pure a volgere in fuga un grandissimo numero di quegli assassini e di quei saccomanni; ma essendosi troppo presto riconosciuta la verità, gli uni e gli altri incontanente si riposero all'opera.

Una parola dobbiam dire ancora del conte Prina. La plebaglia, che spianò quasi affatto il palazzo di lui per la speranza di trovarvi tesori nascosti, non vi trovò altro che la mobiglia ond'è fornita ogni casa abitata. Quanto è al suo patrimonio, è cosa costante oramai che egli non ne avea, e che la sua famiglia alla morte di lui nulla eredò.

Ora qual esser dovea il destino di Milano? Qual partito abbraccierebbe il vicerè? Con qual occhio riguarderebbero le potenze alleate gli eventi del 20 d'aprile?

I conti Luigi Porro e Giovanni Serbelloni recaronsi alla sera del 20 nel quartier militare detto di Santa Marta, e gridarono entrandovi che le cose erano ite meglio di quel che potessesi ragionevolmente sperare. Con ciò intendevano a dire, certamente, che il furor della plebe erasi appagato d'una sola vittima. Pochi momenti dopo uscirono da quel quartiere e dalla città, e trasferironsi al quartiere generale austriaco per ragguagliare il maresciallo Bellegarde dei fatti operati, e dei cambiamenti sopragiunti nella condizione della contrada, e per invocare il possente patrocinio di lui.

Il partito sedicente italico puro brigavasi intanto della convocazione dei collegi elettorali, e lusingavasi colla credenza che lo Stato fosse omai posto in salvo; poichè la cosa stava per comporsi fra il paese stesso, rappresentato dai collegi, e i Sovrani alleati, solleciti e teneri della felicità di esso.

I Muratisti subivano in questo mentre una trasformazione. Già in occasione della conclusione dell'armistizio tra il vicerè e il maresciallo di Bellegarde, Murat avea tentato di appressarsi a Milano per la parte di Piacenza; ma erane stato impedito dagli Austriaci, i quali aveangli inoltre fatta minaccia, nel caso ch'egli proseguisse il cammino, di rompere ogni alleanza con lui e di entrare dal canto loro nel territorio milanese, come pure nel reame di Napoli. I progetti del re di Napoli essendo con ciò sventati, il generale Pino, capo del partito muratista, imaginava un piano novello, in cui la prima parte doveva essere la sua. Le grida Viva il re Pino! mandate da una parte della plebaglia il 20 aprile, non erano state proferite a caso, e il generale Pino, che aveale probabilissimamente suggerite, erasene tuttavia ringalluzzito e insuperbito; accadendo a lui ciò che accade non di rado all'autore d'una novella composizione dramatica, di sentirsi, cioè, commosso fino alle lagrime dai plausi pagati colla propria moneta. Gli è certo, almeno, che il generale Pino passò la notte del 20 venendo al 21 d'aprile nella speranza e nell'ansiosa espettazione del più glorioso degli avvenimenti. Un tale, degnissimo di fede, essendosi in quella notte recato da lui per essere edotto dei provvedimenti fatti onde assicurare la pubblica tranquillità, trovollo assiso dinanzi allo specchio, col capo tra le mani del parrucchiere, che gli pettinava, arricciava e impolverava la chioma. Ei s'aspettava probabilmente di essere chiamato dal popolo, nè volea presentarglisi in un disordine naturalmente poco imponente. La quale coniettura mi sembra avvalorata dalle parole che il generale Pino disse con lieto piglio, e fregandosi le mani, a colui che veniva così per tempo a visitarlo. Che avverrà mai ora? E chi sa? soggiunse dopo un breve silenzio. Chi era egli, al postutto, il primo re? Un soldato fortunato, e null'altro. Ecco a qual punto trovavasi, il 20 d'aprile, la fazione de' Muratisti.

Mi si conceda qui di ripetere, dopo tant'altre, una considerazione triviale. Egli è più difficile assunto l'attutare l'ira popolare, che non l'eccitarla. Tutti coloro che col massimo sforzo aveano preparati i fatti del 20 d'aprile, erano paghi ormai dell'accaduto, e volevano subitamente sostare sulla sdrucciolevole china delle rivoluzioni e degli attentati. Il senato non esisteva più, perocchè non ardiva congregarsi, ed era in sua vece convocata un'altra autorità. Il popolo milanese l'aveva rotta irremissibilmente per un misfatto col governo italo-francese. L'opera di distruzione era compiuta, e doveasi sollecitamente riedificare alcun che sopra quelle recenti rovine. Malagevole era l'impresa, anzi tutto, perchè le diverse fazioni ch'eransi indettate per atterrare il governo esistente discordavano essenzialmente fra di loro intorno al novello governo da instituirsi, e poi, perchè la plebaglia, assaggiato che ebbe il sangue e il sacco, non pareva disposta a sostare in sì bel cammino a piacimento di quei medesimi che l'aveano da principio sguinzagliata. Ho accennato testè la trasformazione subìta dalla fazione muratista, e l'ansiosa espettazione in cui il generale Pino, capo di essa, avea passato la notte del 20 venendo al 21. Le ore intanto erano scorse, e giunto il giorno, il generale Pino aveva scorse in grande assisa le vie della città, senza essere stato acclamato monarca. In queste congiunture, non rimaneva al Pino altro partito da abbracciare che quello di unirsi alla fazione degl'Italici sedicenti puri, a quella fazione che riguardava i sovrani alleati come tanti protettori disinteressati, e forse in segreto si lusingava colla speranza che alcuno de' membri dell'aristocrazia milanese fosse chiamato dall'imperatore d'Austria per salire sul trono d'Italia. Unendosi con questo partito, che reggeva per ora la somma delle cose, il generale Pino ponevasi fra' candidati alla corona d'Italia, fra' quali l'Austria dovea dare sentenza. Erasi perciò operata la unione dei Muratisti e degl'Italici sedicenti puri. Quanto è agli Austriaci puri ei se ne rimasero quieti; chè dal 20 aprile in poi poterono tenersi sicuri della vittoria.

La mattina del 21 l'aspetto della città era cupo e terribile. Uomini armati, collo sguardo torvo e il portamento altiero, scorrevano le strade, biastemmiavano nomi fino allora riveriti, segnando le case dei ricchi cittadini, proferendo minacce e facendosi animo a vicenda alle vie di fatto. Le guardie daziarie avevano abbandonato il loro posto alle porte della città, non valendo a difenderle contro la moltitudine armata che accorreva dal contado per partecipare il sacco generale, cui ognuno aspettavasi.

I due partiti momentaneamente riuniti, quello cioè dei Muratisti, ond'era capo il generale Pino, e quello degl'Italici liberali o Italici sedicenti puri, fra' quali era inscritto il podestà conte Durini, provvidero in quel modo che parve loro acconcio al ristabilimento dell'ordine e della quiete. Alla sera del 20 d'aprile il conte Durini fece promulgare un bando in cui diceva al popolo: il senato, propriamente parlando, non esistere più; essere convocati pel giorno 22 i collegi elettorali; doversi nel seguente giorno riunire il Consiglio comunale, e sedere permanentemente insino a tanto che le congiunture lo richiedessero; avere il generale Pino assunto il comando di tutte le forze allora esistenti nella città.

La mattina del 21, e mentre che la plebaglia furibonda stendeva tavole di proscrizione, il Consiglio comunale elesse una reggenza provvisoria, composta del generale Pino, dei conti Carlo Verri, Giacomo Mellerio, Giberto Borromeo, Alberto Litta, Giorgio Giulini, e del signor di Bazzetta: tutti i quali, tranne il generale Pino e il conte Carlo Verri, erano Austriaci più o men puri.

Il generale Pino pubblicò poscia un suo bando od ordine del giorno nel quale esortava il popolo a confidare in lui, e ad aspettare pazientemente l'esito degli accordi che il novello governo stava per fare con le Potenze alleate. Eccitavalo nel tempo stesso a dichiarirsi intorno alla forma di governo cui preferisse, poichè, diceva, i collegi elettorali sono convocati quali rappresentanti della nazione, la quale dee, significando loro il voler suo, porli in grado di uniformarvisi. Aggiugnea poscia alcune parole per giustificare il duca di Lodi, più d'altri esposto all'ira del popolo, rovesciando ad un tempo sopra altri senatori la colpa e il biasimo di cui tentava sgravare il duca di Lodi. Il vicario generale capitolare unì la sua voce a quelle del generale e del podestà, e ordinò pubbliche preci pel ristabilimento della pace e dell'ordine. Appostaronsi truppe attorno ai principali palazzi ed alle case in ispezieltà minacciate. Il generale Pino accorreva dall'uno all'altro di quei corpi così appostati, procurando d'inanimirli con le sue parole; ma la folla, che il giorno innanzi avea mandate quelle grida ed acclamazioni ond'egli erasi inebbriato, vedendoselo ora contro, l'oppresse di motti acerbi e contumeliosi, e lo inseguì con oltraggioso schiamazzo. Anche i soldati furono attaccati, e si videro più d'una volta costretti ad isgombrare la piazza posta davanti al palazzo del vicerè, ed a nascondere in quel palazzo i suoi cannoni.

Il corpo tutto dei mercanti stava intanto trepidante pel timore che la città tutta da un istante all'altro venisse funestata dalle stragi e dal sacco. Mentre che il Consiglio comunale e il generale Pino chiamavano all'armi tutti i cittadini; questi, antivenendo la chiamata, uscivano armati dalle case loro, si raccoglievano in drappelli e scorreano le strade, e quelle a preferenza che conduceano all'ampia dogana attinente all'Uffizio del Dazio-grande.

La plebaglia non parea contuttociò in verun modo intimorita da questi apparecchi di difesa. Le truppe stanziali erano in poco numero; i cittadini accorsi spontaneamente all'armi non erano assuefatti alle pugne; cosicchè la plebaglia potea, mercè della prevalenza del numero e dell'impeto, prevalere sugli uni e sugli altri. Una fortuita circostanza mutò lo stato delle cose.

Fra i moschetti di cui i cittadini aveano potuto armarsi aveavene di quelli rimasti fuor d'uso per un lungo tempo, e la cui baionetta era come inchiodata dalla ruggine alla cima della canna. Erasi dato ordine che le baionette fossero tolte via, ma uno dei drappelli di quei volontari non poteva ubbidire per la narrata cagione. Comparve esso pertanto frammezzo alla calca colle baionette in asta: la moltitudine mostrossene indegnata e gridò: abbasso le baionette. Ma quel drappello non poteva ubbidire al grido, come non avea potuto al comando; epperciò, quasi non facesse caso del popolar desiderio, proseguì a marciare; e vedendosi assalito a sassate, pose le baionette in resta, ed inoltrandosi a passo concitato contro la plebe, fecela indietreggiare disordinata. L'esempio dato da quel drappello fu tosto imitato dall'altre schiere armate: la resistenza militare diventò di repente più grave ed acre, e gli assembramenti popolari si disciolsero.

Ma non appena dileguaronsi i timori cagionati dalla perseveranza del tumultuar della plebe, che gli autori o promotori dei fatti del 17 e del 20 d'aprile, si riposero all'opera e mossero con passo sicuro verso lo stabilimento d'un novello ordine di cose. Il Consiglio comunale avea convocato i collegi elettorali, i quali, instituiti da prima unicamente per proporre al governo i candidati a certe cariche determinate, si trovarono trasformati subitamente in depositari della sovrana potestà. Assembratisi il giorno 22, benchè in numero insufficiente, confermarono la novella provvisionale Reggenza, riserbandovisi di aggiugnervi altri membri appartenenti ai dipartimenti non ancora invasi dalle truppe alleate. E non solo confermarono nel comando di tutte le forze dello Stato il generale Pino, ma disciolsero tutti i pubblici ufficiali lombardi, sia civili che militari, dal giuramento di fedeltà inverso al governo del vicerè, loro ingiungendo di prestare alla reggenza un altro giuramento giusta la formola da essa già compilata. La deputazione mandata a Parigi dal senato fu dichiarata, da questi effimeri despoti, richiamata da ogni ufficio, e, quel che più montava, l'istesso senato fu dichiarato abolito. I captivi per reati d'opinione, di coscrizione, di frodo delle tasse furono liberati, e si bandì l'amnistia pei disertori, pei contumaci o refrattari ed altri. Cosiffatti decreti sono, a parer mio, piucchè sufficienti per dimostrare irrefragabilmente come i collegi elettorali erano allora in uno stato di mente che ritraeva della pazzia; ma ove il lettore, proclive all'indulgenza, non volesse attribuire quella farraggine di decreti stanziati in sull'orlo, per così dire, del precipizio, ad altro che a soverchio d'impreveggenza, io aggiugnerò ancora ai già riferiti particolari, la risoluzione che nel giorno 22 precedette la chiusura della seduta dei collegi elettorali. Ordinavasi per essa che i Sovrani o i ministri delle grandi Potenze, i comandanti in capo delle truppe degli Alleati, e quelli dell'esercito italiano venissero immantinenti ragguagliati dei provvedimenti dati dai collegi elettorali, e fra altre cose, della nomina del generale Pino; aggiugnendovisi qual coronide, che si avesse a compilare un indirizzo per richiedere le Potenze Alleate di concorrere a stabilire la felicità dell'Italia. In tal modo un corpo illegalmente convocato, abusante le facoltà conferitegli dalla legge, un corpo assumentesi in proprio e senza veruna legale autorizzazione la parte di sovrano, un corpo, infine, a trafatto rivoluzionario e privo d'ogni appoggio, si dava, pieno di folle fidanza, in balía di coloro che ambivano il suo posto, e si lusingava pazzamente con la speranza di essere sorretto da loro! Inutil cosa è ormai il mostrare la sciocchezza di quei disegni; che furono dal fatto spietatamente atterrati.

I collegi elettorali e i loro partigiani avevano cionnonpertanto parecchi giorni ancora di rispitto, duranti i quali potevano impunemente e senza ostacoli far la parte di sovrani. La seduta del 23 aprile ebbe principio con la nomina del consigliere di Stato Lodovico Giovio a presidente d'essi collegi, dopo del che il presidente novello esortò i collegi a meglio esprimere le loro domande alle potenze alleate, chiedendo loro, esempigrazia, instituzioni liberali e un capo independente, il quale, ignoto a tutti ancora per alcuni istanti, potesse tuttavia fin d'ora accogliere nel suo cuore i nostri voti e ricevere le nostre benedizioni.

Piacque il consiglio ai collegi, i quali, senza pure demandare, come porta l'usanza delle assemblee deliberanti, la cosa alla disamina di una commissione, furono solleciti di compilare, nella seduta medesima, il futuro statuto italiano.

Mi saprà grado per avventura il lettore del divisamento di cansargli la fatica di leggere il minuto ragguaglio delle operazioni dei collegi, e crederassi istruito sufficientemente con la cognizione dei capitoli contenenti le domande formali dei collegi elettorali alle Potenze Alleate. Gli è ben inteso che i collegi parlavano in nome della nazione italiana, e domandavano per essa quanto seguita:

Art. 1.° L'independenza assoluta del novello Stato italiano destinato a tenere il luogo dell'antico regno d'Italia, sia ch'esso serbi la stessa denominazione, sia che assuma quella che sarà preferita dalle PP. AA.

Art. 2.° La maggiore possibile estensione del novello Stato, ma però tale che possa conciliarsi con gl'interessi e le vedute delle PP. e col novello equilibrio d'Europa.

Art. 3.° Una costituzione liberale, di cui sieno base la divisione delle potestà esecutiva, legislativa e giudiziaria, e l'assoluta independenza di quest'ultima; una rappresentanza nazionale esclusivamente incaricata a fare le leggi e a regolare le imposte; costituzione che assicuri la libertà individuale, la libertà del commercio e la libertà della stampa, e che astringa a strettissimo sindacato tutti i pubblici ufficiali.

Art. 4.° La facoltà di fare questa costituzione, attribuita ai collegi elettorali.

Art. 5.° Un governo monarchico, ereditario giusta il grado di primogenitura, e un principe la cui origine e le cui doti possano farci sdimenticare i mali che abbiamo sofferti durante il governo ora caduto.

La massima parte degli elettori avvisava che questi capitoli avevano ancora un senso troppo vago, ed avrebbeli desiderati più espliciti; ma essendo stato risposto da taluno che non convenivasi legar le mani alle PP. AA., una tale considerazione prevalse. Aggiunsesi solamente nella susseguente seduta, doversi chiedere un principe nuovo, onde rimuovere il sospetto che il paese serbasse tuttora un po' di affezione al principe decaduto. Volsesi ai Sovrani una preghiera per ottenere la libertà di tutte le vittime sagrificate ad una causa ingiusta, che viene a dire di tutti quelli ch'erano imprigionati per avere cospirato contro il governo franco-italo. Stanziarono infine i collegi che un'ambasceria composta d'illustri cittadini avesse a recarsi al quartiere generale delle Potenze Alleate per manifestare ai sovrani i voti della rappresentanza nazionale italiana. E furono eletti a tale uopo Marcantonio Fè, di Brescia, il conte Federico Confalonieri, il conte Alberto Litta, il marchese Giangiacomo Trivulzio, Giacomo Ciani e Pietro Ballabio, milanesi, sei membri in tutto, non noverato Giacomo Beccaria, che facea l'ufficio di segretario della deputazione.

Ond'ecco tre deputazioni mandate dalla Lombardia alle PP. AA., ma con istruzioni ben diverse. La prima, composta dal vicerè coi generali Fontanelli e Bertoletti, era nunzia d'una potestà stabilita, e recava ai Sovrani alleati le proposte d'una potenza allora declinante, ma non ancora spenta. La seconda era quella del senato, e parlava in nome di un corpo costituito, benchè riluttante col capo dello Stato. Non già proposte recar doveva essa ai Potentati, ma sì preghiere, alquanto però avvalorate dalla dignità del corpo che le proferiva. La terza, infine, rappresentava un'autorità usurpata, una rivoluzione intrapresa ed operata contro il capo dal quale procedeva la prima deputazione, e il quale era il solo che potesse tuttora trattare da pari a pari coi Sovrani alleati, e contro il corpo costituito da cui procedeva la seconda deputazione, e che poteva solo in certo qual modo legalmente eredare la potestà strappata al principe.

La rivoluzione, come abbiam detto, era trionfante in Milano, e tutti i disegni dei rivoluzionari erano stati coronati da un pieno esito. Il senato era abolito, il paese dichiarito contro il governo italo-francese; l'armistizio stipulato dal principe Eugenio col maresciallo Bellegarde, annullato col fatto; un nuovo governo stabilito, voglioso di trattare direttamente in nome della contrada cui rappresentava, con le PP. AA. Giova ora sapere come fosse accolta al di fuori la notizia di questi avvenimenti.

L'arrivo a Mantova dei conti Guicciardi e Castiglioni, e le istruzioni del senato ch'e' vi arrecavano, aveano chiarito il vicerè delle disposizioni del popolo milanese verso di lui, senza però immutarne (almeno in apparenza) i disegni. I deputati dell'esercito, ch'eran pure i suoi, doveano già allora esser giunti vicino a Parigi. E quelli del senato, che non poteano giugnere se non molto dopo, se doveano in fatto ricusare di dichiarirsi in suo pro, non aveano però a chiedere la sua esclusione dal trono d'Italia. Nè le PP. AA. sarebbero per determinarsi a seconda dei desideri più o meno espressi del senato italiano, ma sì a seconda delle scambievoli convenienze, e di altri riguardi non meno rilevanti. Avrebbe il vicerè adoperato con troppo precipizio ove indietreggiato avesse alla vista delle istruzioni date dal senato ai conti Guicciardi e Castiglioni; ma la sua fidanza nell'avvenire e nella benivoglienza dei Milanesi fu scemata d'assai.

Non tardò però guari a ricevere l'ultimo colpo. Le notizie del 20 d'aprile pervennero a Mantova. Grande e generale fu la costernazione in quella città. I conti Guicciardi e Castiglioni si affrettarono a pigliare il commiato dal vicerè e tornarono a Milano, ove furono accolti come traditori per avere comunicato con lui. L'esercito raunossi al grido: Viva il principe Eugenio! e i capi suoi accorsero a recargli le più calde proteste di devozione dei loro soldati. Supplicarono anzi acciò fosse loro concesso di muovere a Milano, pigliandosi essi l'assunto di ridurre, senza spargimento di sangue, a migliori sentimenti e a miglior senno la popolazione milanese. Caldissime erano le loro istanze; procedeano da nobili cuori, devoti alla gloria della patria, da animi semplici, ma retti, che nella pratica dei pericoli avevano acquistato un senso squisito per iscorgere subito i veri mezzi di salvezza.

Se il principe Eugenio fosse stato italiano, egli avrebbe potuto aderire alle instanze dell'esercito; ma, straniero qual era, nessuno sarebbesi mosso a credere che s'egli facea violenza al voler nazionale, proponevasi tuttavia il miglior pro della nazione istessa; nè quel che più monta, la sua stessa coscienza l'avrebbe ricisamente assolto. No, il principe Eugenio non provava per l'Italia quel tale sentimento sì forte e sì puro ad un tempo, che nel seguirne le ispirazioni non debbasi mai temer di misfare; egli era privo di quella infallibile guida. Che aveva egli in quella vece? Il suo interesse particolare. Or chi potrà biasimarlo di non avere ascoltato suggerimenti che egli stesso poteva attribuire ad un così ignobile consigliero?

La condotta del vicerè in quel punto fu onorata per ogni verso. Fu semplice, schietta, ricisa; ma fu terribile per gl'Italiani. «Non voglio», diss'egli a tutti, a' suoi generali, ai suoi soldati, ai suoi congiunti, alla consorte, ai nemici, «non voglio pormi per forza a capo di una contrada che non mi desidera. L'Italia è già pur troppo da commiserarsi; essa lo è da gran tempo, e sta per esserlo vieppiù; io non debbo aggravare i suoi guai aggiugnendovi la guerra civile, e tutti i flagelli che l'accompagnano. Io mi pensava potermi reggere ancora dopo la caduta dell'imperatore, e ciò per la speranza di trarre a salvezza la contrada che mi è stata affidata. Questa contrada ributta il mio appoggio; e ciò basta. Me ne ritorno al mio benefattore, al mio capo, al padre mio, a colui del quale io aveva sempre desiderato di condividere il destino». Era il vicerè edotto, in allora, del trattato di Fontainebleau, che assicurava a Napoleone uno Stato fuori di Francia, vale a dire in Italia. Sordo ormai alle instantissime suppliche di tutti coloro che faceano retto giudizio della condizione dello Stato italiano, il principe Eugenio conchiuse il 23 di aprile col maresciallo Bellegarde un'altra convenzione, per la quale quest'ultimo entrava in possesso non solo della capitale, ma e dei dipartimenti da cui per lo innanzi era stato escluso. Questa convenzione, rimasta segreta fino al giorno 26, e sospettata soltanto dalle truppe italiane, sparse fra esse la più angosciosa inquietudine. Pensieri di ribellione covavano in tutti quegli animi, e parole di minaccia uscivano dalle labbra di tutti i soldati, insieme con le espressioni della più intiera devozione verso il principe Eugenio e con le più calde suppliche acciò non partisse. Ma tutto era omai indarno. La principessa Amalia, sgravatasi quindici giorni prima, era venuta a raggiungere il principe Eugenio, suo marito, in Mantova, seco portando la numerosa sua famiglia. La guardia regia recossi il 26 a Milano, ov'era stata chiamata dalla provvisionale Reggenza. Il principe Eugenio avea di già fatto rimettere, la mattina del giorno stesso, al prefetto Vismara del dipartimento dell'Olona; lo scettro e la corona d'Italia, che prima egli avea tolti seco, per tema che si preziosi oggetti non cadessero in mano dei nemici. Alla sera del 26 l'ultima convenzione del vicerè e del maresciallo Bellegarde fu pubblicata; e un reggimento austriaco entrò tosto nella città di Mantova per pigliarne possesso. Alle quattro antimeridiane del seguente giorno, 27 d'aprile, il principe Eugenio, la principessa Amalia, i loro figliuoli, scesero lo scalone del palazzo, seguiti soltanto da alcuni fidi servitori, ma aspettati alla porta dagli ufficiali e dai soldati dell'esercito italiano, che li salutarono piangendo, non senza rinnovellare ancora una volta le loro proposte, le loro offerte, le loro preghiere. Il principe mostrossi forte commosso, e disse poche parole; ma questa volta fu dalla commozione impedito di proferirne di più. Dolsegli forse allora di avere sì tardi cominciato a riguardare l'Italia come la sola contrada in cui potevano avverarsi per lui splendidi destini.

La è cosa da notarsi che nè il principe Eugenio, nè il maresciallo Bellegarde si diedero il minimo pensiero del novello governo instituito in Milano, e dei tanti atti col quale sforzavasi questo d'illustrare il suo avvenimento. Come era facile a prevedersi, nè l'uno nè l'altro non faceano caso se non delle potestà costituite e riconosciute per legali, se non per legittime. Due eranvene in Italia a fronte l'una dell'altra; la potestà franco-itala e la potestà austriaca. Dichiarandosi contro di quella, la contrada non faceva altro che dichiarirsi a pro di questa, e a tal modo fecero ragione delle cose la potestà trionfante non meno che quella decaduta. Quant'è al governo rivoluzionario, che, non essendo sostenuto dall'esercito, avea creduto di piantarsi di mezzo tra i due partiti nemici e farsi riverire da entrambi, non ne fu fatto pur cenno nella novella convenzione che dava l'Italia agli Austriaci. Solo questi fecero le viste di riguardarlo come una congrega di buoni cittadini, solleciti di scampare la patria loro dagli orrori dell'anarchia e di farla passare, senz'agitazioni e trambusti, nelle mani dei suoi signori legittimi. Si può inoltre supporre che, affrettandosi di consegnare tutta la Lombardia agli Austriaci, il principe Eugenio realmente avvisasse di preservarla in tal modo dalle sciagure d'una guerra civile che facilmente poteva accendersi fra l'esercito e i cittadini milanesi. Ma se questa fu sollecitudine del nostro meglio, fu certamente sollecitudine funesta; perocchè per noi, che abbiamo assaggiato i frutti ch'essa produsse, è ormai evidente che meglio sarebbe stato l'incorrere nei più sanguinosi ravvolgimenti, e immergerci in tutti gli orrori della guerra civile, anzichè aprir l'ádito nelle nostre città a un solo dei soldati austriaci.

Quanto stupore dovette allora occupare gli animi degl'Italiani sedicenti puri, che teneano in Milano la somma delle cose unitamente con gli Austriaci mitigati e gli Austriaci puri, quando furono edotti della convenzione conchiusa tra il vicerè e il maresciallo Bellegarde, nella quale niun cenno faceasi di loro e dei fatti loro, e in conseguenza della quale le truppe austriache marciavano alla vôlta della capitale! Checchè ne sia, niun d'essi parve sgomentato; e quanto a me, son disposto a credere che attribuirono la mossa delle truppe austriache, non già alla convenzione conchiusa col principe Eugenio, ma alla segreta missione dei conti Luigi Porro e Giovanni Serbelloni, partitisi da Milano alla sera del 20 alla vôlta del quartiere generale austriaco. A tal modo gli animi traviati trovano pur troppo frequentemente degl'ingegnosi compensi per prolungare la durata delle grate loro illusioni! Altronde, quando pure alcuni di coloro che reggevano allora in Milano, non avessero data alla gita dei conti Porro e Serbelloni maggior importanza di quella ch'essa avea, l'appressarsi dei reggimenti austriaci poteva essere da loro spiegato favorevolmente e conformemente ai sogni degl'Italiani. La deputazione dei collegi elettorali era partita per a Parigi, e non alla vôlta del quartiere generale austriaco. Qual meraviglia se il maresciallo Bellegarde conducea le sue truppe verso la città che, sollevatasi contro il nemico di lui, era rimasta senza forze militari in cui poter fidare, senza protezione? Qual dubbio che il maresciallo e le sue genti non si ritraessero sollecite e non isgombrassero senza indugio la città, il giorno dopo il ritorno degli statuti fondamentali del regno d'Italia e dell'atto di nomina del novello monarca? Chi ponga mente che tutti i nemici del governo franco-italo non altrimenti riguardavano la spedizione delle Potenze Alleate, che come una crociata contro il dispotismo militare e a pro dei popoli, potrà farsi per avventura capace di quell'acciecamento sì strano, ma del quale mi fo ad arrecare le pruove.

L'esercito non era ancora rassegnato a sottomettersi. Uno de' suoi capi, col quale mi sono abboccato in quel torno, diceami: «Siamo avvezzi da sì lungo tempo a vederli (gli Austriaci) fuggire dinanzi a noi, che non possiamo indurci ad accettarli per padroni». Aveva il vicerè esortato gli ufficiali del suo esercito a ben ponderare le cose prima di pigliare un partito; «perocchè», diceva egli loro, «se ricusate di sottomettervi, ad onta della convenzione da me sottoscritta, vi farete rei di ribellione militare, e vi esporrete ai più gravi pericoli».

Ma ad onta di queste ammonizioni, la tentazione fu troppo forte pei generali italiani ch'erano allora in Mantova. La fortezza era ben munita di vettovaglie e di munizioni da guerra, in guisa da poter reggere anche per un anno. Le truppe francesi, non ancora uscite d'Italia e malcontente del destino loro apparecchiato in Francia, offerivansi pronte a combattere di conserva coi generali italiani ed a militare sotto i loro ordini. I generali Grenier e Serras ne aveano fatta formale promessa. Parecchie piazze forti reggeansi tuttora a fronte degli Austriaci; Murat non era lontano. Se l'esercito italiano non conseguiva l'intento d'impedire agli Austriaci l'occupazione definitiva della Lombardia, esso poteva almeno ottener patti migliori. I generali Teodoro Lecchi, Palombini e Paolucci, e il segretario Ignazio Prina partirono la notte del 23 da Mantova, e giunsero a Milano il 24. Recaronsi tosto in casa del generale Pino, il quale si alzava appunto da tavola quando gli venne annunziata la loro visita. Parecchie persone erano allora in casa del generale, il quale, chiamati i deputati di Mantova nella sala stessa ov'era raccolta la brigata, abboccossi con loro alla presenza di tutti. Erano venuti quei generali ad offrire al generale Pino, allora comandante di tutte le truppe del regno, il comando, più rilevante certamente e più onorifico, dell'esercito italiano raccolto in Mantova, che si proponeva di far testa alla invasione austriaca. Dopo avergli descritte le forze che avevano a disposizione e manifestate tutte le loro speranze, i generali Lecchi, Paolucci e Palombini caldamente esortarono il Pino di farsi egli pure a riparare lo Stato dalla occupazione austriaca, e andavano infiammandosi nel dire, all'avvenante che i pericoli della patria e la contentezza di preservarnela si venivano rappresentando più fortemente alla commossa fantasia. Ignorando il Pino l'obbietto della visita dei suoi colleghi, ei gli aveva accolti col sorriso sulle labbra, e per prevenire in certo qual modo le congratulazioni che si aspettava, erasi mosso incontro ai tre generali con cera d'uomo contento, dicendo: «Ebbene! che avete voi detto laggiù di quanto è qui accaduto? La cosa è stata condotta assai bene; giacchè al postutto, voleavi una vittima: bastò una sola, e l'elezione non fu cattiva». Ma il piglio aggraziato del Pino mutossi bentosto quando il Lecchi ebbegli risposto che il conte Prina era un valent'uomo, onestissimo e ragguardevolissimo, e che non avea meritato per verun modo il funesto destino che lo aveva percosso. Le proposte dei generali di Mantova finirono d'indispettire il Pino. Non dava già egli più retta che con mente distratta alle loro istanze, quando gli venne in mente doversi antivenire l'effetto che siffatti ragionamenti potevano produrre sull'animo degli astanti. Perciò interruppe le parole de' suoi colleghi, esclamando con isdegnosa impazienza: Non parliamo, non parliamo, cari amici, di queste cose; eseguite la convenzione; abbiate piena ed intiera fiducia nelle intenzioni degli Alleati, perocchè essi vogliono, siatene ben certi, l'independenza italiana quanto e più di quello che sia da noi medesimi desiderata. Furono queste le parole dette dal Pino. All'udirle, il generale Palombini s'istizzì; predisse al Pino il disprezzo che concepirebbero di lui gli Austriaci, l'abbandono in cui ognuno lo lascerebbe, lo scapito che ne soffrirebbe la sua riputazione: ma tutto fu indarno. Non se n'offese nemmeno, il Pino: strinsesi nelle spalle e continuò a replicare ch'era d'uopo scuotere il giogo de' vecchi pregiudizi, porre dall'uno dei canti gl'ingiusti sospetti, riconoscere i buoni intendimenti delle PP. AA., ec. Andaronsene i generali di Mantova colla disperazione in cuore; ma, come dirò più sotto, non abbandonarono sì presto i loro divisi.

Il giorno 26 di aprile entrava in Milano, seguìto da un polso di truppe, il commissario imperiale Annibale Sommariva, e vi promulgava il bando che seguita.

«Il commissario imperiale Annibale di Sommariva, ciambellano, capo dell'ordine di Maria Teresa, generale, tenente maresciallo, e colonnello proprietario d'un reggimento di corazzieri di S. M. l'imperatore d'Austria, prende possesso in nome delle Alte Potenze Alleate dei dipartimenti, distretti, città e luoghi tutti appartenenti al regno d'Italia e che le truppe alleate non hanno ancora conquistato;

»Esorta il popolo italiano a stare aspettando con calma e fiducia quella più felice sorte che bentosto daranno all'Europa (mercè i gloriosi fatti d'arme degli Augusti Sovrani Alleati) i preziosi benefizî della pace.

»Conferma la Reggenza provvisionale di Milano, del pari che i pubblici ufficiali che sono in carica presentemente e nella città suddetta e negli altri luoghi summenzionati.

»Milano, il 26 aprile 1814.

»SOMMARIVA».

Tutto era adunque perduto. Il reame d'Italia non esisteva più, pel fatto dello scioglimento del suo governo e dell'abdicazione del suo principe. Dei due eserciti che contendevansi il possesso dell'Alta Italia, l'uno, cioè l'esercito nazionale, non avea più capo che volesse condurlo, nè parola sacra per rannodarlo. Gli Austriaci, quegli eterni nemici di ogni libertà, quei giurati nemici della italica independenza, occupavano tutta quanta la contrada, confermavano od abolivano i magistrati stabiliti, e cominciavano a far le viste di non addarsi dell'esistenza dei collegi elettorali, testè tanto potenti, predisponendosi in tal guisa a dichiarirli aboliti; il che avvenne di lì ad un mese.

Le illusioni non erano tuttavia distrutte peranco pienamente. Eravi presso ai Sovrani alleati, raccolti allora in Parigi una deputazione dei collegi elettorali, e da questa aspettavasi la salvezza dell'Italia. Toccare ad essa, dicevasi, l'esporre i bisogni della contrada, e il pattuire le condizioni della sottomissione ad un novello governo. Non si poneva mente che sgraziatamente il paese erasi di già sottomesso, e che non v'era più cosa da offrire in iscambio delle instituzioni e della indipendenza richiesta.

I deputati dei collegi a Parigi non tralasciarono di affaccendarsi. Fecero visite agli ambasciatori, ai ministri; le loro proposte non erano dissennate; i princìpi che invocavano erano sacri certamente. Fuvvi uno di quei ministri (quello di Prussia, se non erro) il quale mostrossi premuroso per loro, ed abboccossi più volte con uno di essi, il conte Alberto Litta, uomo di grande ingegno e di squisitissimo garbo. «Io vorrei pure aiutarvi», diceva un giorno quel ministro al Litta, «e parecchi de' miei colleghi vorrebbero essi pure assicurare alla bella vostra contrada una certa quale indipendenza. Ma eccovi tutto il nodo della faccenda: potete voi tenere in arme, per poche settimane ancora, trenta o che mila uomini? Con questo puntello è facile che ottenghiate l'intento; ma senza di esso, non pensateci nemmeno».

Mentre che siffatti discorsi faceansi in Parigi, i soldati Francesi valicavano a rilento, coll'arme al braccio, le Alpi, col cuore contristato e sgomentato, e nell'istesso mentre i generali italiani ch'erano venuti ad offrire il comando dell'esercito al generale Pino, a patto ch'ei si chiuderebbe con loro nella fortezza di Mantova e ne serrasse le porte in faccia agli Austriaci, ritornavansene ributtati disdegnosamente da quel generale, che gli aveva esortati a confidare in tutto e per tutto nella generosità degli Alleati. Ahi! ch'io non so se la dolorosa istoria dei nostri errori gioverà a farci far senno in avvenire!

La Reggenza provvisionale proseguì per alcun tempo ancora ad esercitare gli uffici suoi, adempiendoli nel modo che ci facciamo a narrare. Nel 27 di aprile del 1814 promulgò essa un bando al popolo del regno d'Italia, nei termini che seguitano. Trattasi di un documento autentico, poichè venne inserito nel Bullettino delle leggi, ond'io credo prezzo dell'opera il riferirlo.

«Gli eserciti delle Alte Potenze alleate entrano ora in questa parte del territorio italiano ch'essi non avevano ancora occupata. Queste Alte Potenze vogliono il buono stato e la felicità della nazione. Italiani! voi avete dato saggio di nobiltà di carattere, e il sentimento di patria è in voi sì potente, che non lascia campo allo spirito di parte. Gl'interessi privati sono al tutto postergati da ciascuno di voi; la brama della quiete e della tranquillità, il desiderio d'avere un governo savio ed indipendente sono scolpiti nel cuor di tutti; nè havvi un solo italiano che non pruovi il bisogno di un novello ordine di cose. Le Alte Potenze Alleate non hanno impugnate le armi se non pel massimo pro dei popoli, nè alcuno combattè mai per l'impulso di princìpi più generosi. Saranno questi princìpi tramandati alla tarda posterità dalla storia, la quale registrerà fra' nomi immortali quelli dei Sovrani oggidì regnanti. Sovvengavi, o Italiani, di queste benefiche sovrane intenzioni; accogliete come vostri veri liberatori i soldati che hanno esposto le vite per la vostra salvezza; accoglieteli con l'affettuosa ospitalità loro dovuta. Aprite loro le vostre domestiche mura, confidando in tutto e per tutto nelle sagge disposizioni che saranno date dalla Municipalità. Fate che i trasporti dell'universale letizia sieno e vivi e dignitosi e tranquilli ad un tempo, e non permettete che cosa alcuna venga ad intorbidare questa calma generale che le autorità civili, militari e religiose a sì grave stento hanno ristabilita.

»La Reggenza provvisionale di governo, fidente nella cognizione che possiede del carattere italiano, e assicurata delle intenzioni dei vostri liberatori, vi avverte che le loro truppe entreranno domani nella capitale, e che il debito e le circostanze portano che alloggi privati sieno posti a disposizione degli ufficiali. Ella è inoltre persuasa che la riconoscente accoglienza della capitale sarà ottimo esempio per tutto il regno.

»Milano, 27 aprile 1814.

»VERRI, presidente,—Giorgio GIULINI,—Giberto BORROMEO,—Giacomo MELLERIO,—PINO, generale di divisione,—Giovanni BAZZETTA.

»S.-G. STRIGELLI».

Il tempo che trascorse da questo giorno veramente nefasto e il 12 del seguente mese di giugno fu speso dalla Reggenza ad ampliare il dritto di caccia, a sminuire alcune imposte, e a rimuovere il ministro della guerra generale Fontanelli, per surrogargli il generale Bianchi d'Adda, quel desso che avea ricusato il 20 di aprile al De Capitani le truppe da questi richieste per frenare i tumulti.

In questa giugneva in Milano il maresciallo conte di Bellegarde; il quale promulgò il 25 di maggio l'editto imperiale che lo costituiva commissario plenipotenziario per le province del regno d'Italia, «ora distrutto, e già appartenenti alla Lombardia austriaca», compresovi lo Stato di Mantova, e i dipartimenti situati sulla riva sinistra del Po. Confermava il Bellegarde la Reggenza provvisionale nell'ufficio, arrogandosene la presidenza; e dichiarava disciolti il Senato, il Consiglio di Stato e i collegi elettorali.

Finalmente, il giorno 12 di giugno del 1814, la popolazione milanese, ridestata dai pubblici preconi, che vendevano gli esemplari di un bando novello, vi lesse quanto seguita:

«Noi, Enrico conte di Bellegarde, ciambellano, consigliere, ec., ec., ec., ec.

»La pace conchiusa in Parigi il 30 del prossimo passato maggio ha stabilito sopra sicure e salde fondamenta la tranquillità e i destini dell'Europa.

»Fu anche per essa determinata la sorte di questa contrada.

»Popoli della Lombardia, degli Stati di Mantova, di Brescia, di Bergamo e di Crema, una sorte felice vi è destinata; le vostre province sono diffinitivamente aggregate all'impero d'Austria.

»Voi rimarrete tutti riuniti ed egualmente protetti sotto lo scettro dell'augustissimo imperatore e re Francesco I, padre adorato de' suoi sudditi, sovrano desideratissimo degli Stati che godono della felicità di appartenergli.

»Dopo avere compiuta con la gloria dell'armi la massima delle imprese, egli si reca in mezzo a' suoi sudditi, a' suoi popoli, alla sua capitale, ove la prima sua cura sarà il dare alle vostre province una forma di governo soddisfacente e durevole, ed un ordinamento acconcio ad assicurare la futura vostra felicità.

»Noi ci affrettiamo a far conoscere ai popoli delle suddette province le graziose intenzioni di S. M., e siamo convinti che gli animi vostri saranno pieni di gioia nel contemplare un'epoca felice del pari che memorabile, e che la vostra riconoscenza trasmetterà alle rimote generazioni una pruova indelebile della vostra devozione e della vostra fedeltà.

»Milano, 12 giugno 1814.

»BELLEGARDE».

Io torno qui a dire, perocchè il mio racconto è, a mio avviso, molto inverosimile, io torno qui a dire che trascrivo i documenti ufficiali. Ma non ho ancora finito di riportare i monumenti del nostro scorno. Debbo altresì riferire il decreto pubblicato il 13 di giugno dalla Reggenza provvisionale, che era concepito nei seguenti termini:

«Veduto il bando d'ieri, che dichiara questa contrada definitivamente assoggettata al felice e paterno reggimento di S. M. l'augustissimo imperatore Francesco I, tutti gli emblemi, ec., ec. del governo cessato, sono soppressi, e gli emblemi, ec., ec., dell'impero d'Austria sono loro surrogati.

»La coccarda introdotta dal Consiglio Comunale di Milano e appruovata dalla Reggenza provvisionale in un tempo che poteva giovare, è interdetta.

»Negli atti, ec., in capo ai quali le parole: Durante la Reggenza provvisionale erano inscritte dal 22 d'aprile in poi, s'iscriverà quind'innanzi l'anno del regno di S. M. l'imperatore e re Francesco I».

Seguitano poi altre determinazioni della medesima fatta.

Che era egli dunque diventato quel regno italiano, ricco di begli ordini, independente di fatto e di diritto, sottoposto ad un principe che non avrebbe a render conto del suo operato ad altri che alla nazione, e in cui le tre potestà, legislativa, esecutiva e giudiziaria sarebbero l'una dall'altra ben separate, e l'independenza dei pubblici ufficiali posta fuor d'ogni dubbio? Che era dunque diventato quel sogno di animi sconsigliati? Qual esito avevano adunque avuto quelle benevole disposizioni delle PP. AA., di cui sarebbe stato delitto diffidare, quella tenera sollecitudine con la quale tutti quei potentati, ed in ispezieltà l'Austria, si erano esposti a mille pericoli coll'unico intento di assicurare la prosperità, la pace, la libertà e l'independenza di tutta Europa, e in particolare dell'Italia? E che fecero essi quei traviati che aveano tratta a perdizione la loro patria quando si vide chiara la fraude ond'erano stati ludibrio? Si scagliarono essi bell'e vivi nell'abisso dalle mani loro scavato, per ricolmarlo? Protestarono essi coll'armi in pugno? Protestarono essi almeno con nobili parole? Umiliaronsi essi, riconoscendo il funesto loro errore e chiedendone perdono a Dio e agli uomini? Vestirono essi abiti di corrotto? Coprironsi il capo e il volto di cenere? Mainò. Accettarono rassegnati il flagello che aveano tirato addosso alla patria loro, e studiaronsi di farlo volgere a proprio pro. Si dichiararono paghi e contenti, resero grazie all'imperatore d'Austria, lo servirono, accorsero alla corte, e taluni anzi in assisa di ciambellano.

Non è ella, per Dio, troppa bonarietà il supporre che siffatta gente si trovasse delusa?

Io parlo qui della maggior parte. Ebbevene alcuni che, delusi davvero questa volta, tentarono in processo di tempo di sottrarre la contrada natia al giogo cui erano concorsi a ribadirle sul collo; ebbevene di quelli che posero a repentaglio per questo fine, l'avere, la libertà, e perfino la vita. Pagarono questi il ricatto delle colpe dell'età prima, e l'Italia, spettatrice dei loro patimenti e della loro espiazione, gli ha generosamente assolti.

Io farò più sotto novella menzione di essi.

PARTE SECONDA

La prima parte del cómpito ch'io mi sono imposto è terminata; e per quanto essa siami stata penosa, ancor più lo sarà quella che mi rimane a tessere. Io ho dato a conoscere quanto irrequieto e turbolento fosse lo spirito dell'aristocrazia milanese, e a quanti diversi e sconsigliati progetti esso la traesse; ho mostrato come risoluti ed anzichenò feroci fossero gli abitatori del contado lombardo, e come, chiamati ad incarnare i disegni dell'aristocrazia, vi adoperassero con brutale energia. Sono alieno a trafatto dal far plauso allo spirito e ai fatti di quel tempo; e di fatti ho deplorato abbastanza nel corso della mia narrazione il funesto acciecamento di cui sembravano tutte colpite le diverse fazioni che brulicavano allora in Milano. Ma pure, se la Lombardia procedeva allora da cieca, non era essa tuttavia immobile; se tristi affetti bollivano nei cuori, non vi si annidava almeno la stupida indifferenza; se i membri dell'aristocrazia si lusingavano con la speranza vana di troppo splendidi destini, sentivano almeno la voce dell'ambizione; se lo spirito nazionale pareva affetto da demenza, il male derivava tuttavia da soverchio, anzichè da difetto di vitalità. Ora, per quale politico processo avvenne egli mai che quel soverchio di vitalità, quei sensi ambiziosi, quelle triste e terribili passioni, quello spirito di vertigine e di turbolenza si sieno spenti così pienamente, che il popolo lombardo è oramai non meno straniero ed indifferente ad ogni pensiero di progresso, ad ogni diviso di mutazione, di quello ch'ei sarebbe se fosse vissuto rinchiuso, dal principio dei secoli, in un'isola ignota al rimanente del mondo?

Questa trasformazione sì rapida, poichè operossi nello spazio di trent'anni, questo trapasso dalla vita alla morte è opera della polizia austriaca, è effetto de' suoi provvedimenti, intesi a convincere i Lombardi: 1.° che il più segreto pensiero di ognuno di essi le è conto bentosto; 2.° che il menomo pensiero liberale, il menomo desiderio di libertà, e qualsivoglia giudizio emesso intorno agli atti del governo o dei membri di quello, costituisce un reato, alla pena del quale dee soggiacere tosto o tardi il colpevole; 3.° che ogni sentimento che non vada a versi del direttore della polizia, è parimenti un reato; 4.° che non v'è cosa al mondo che possa smuovere il governo austriaco, nè indurlo a concedere ai suoi sudditi riforme, ordini novelli, ecc.

Uom si rappresenti un popolo convinto appieno della verità di siffatti aforismi, e poi faccia ragione del grado di energia onde possa essere capace un tale popolo; ed egli avrà un adequato concetto dell'oppressione dei Lombardi. Domandasi ora il come sia venuto fatto all'Austria di inculcare siffatte massime negli animi del popolo italiano? Eccoci a chiarire alquanto un tale subbietto colla breve sposizione dei tentativi di affrancamento fatti dai Lombardi nei trent'anni ultimi scorsi, e dei provvedimenti repressivi mercè dei quali tutti quei tentativi furono sventati.

Ho di già raccontato il come l'Austria prendesse possesso della Lombardia; ho riferito il bando col quale i Milanesi furono edotti che il già regno d'Italia non era più altro che una provincia dell'impero d'Austria. Ho detto che nissuno fece protesta in contrario, che i collegi elettorali cessarono le loro assemblee, e che la Reggenza provvisionale, in cui presiedea il maresciallo Bellegarde, continuò a porre la sua firma in calce ai decreti fatti da quel commissario plenipotenziario.

Recavano quei decreti, per la massima parte, un'impronta che allora poteasi non avvertire, ma ebbe in appresso una precisa spiegazione.

Il regno d'Italia possedeva in realtà un governo completo, il cui capo, residente in Parigi, ma imperante in Italia nella qualità di re d'Italia, e non già d'imperatore dei Francesi, deferiva l'esercizio della sua potestà ad un vicerè. Eranvi in Milano, cioè nella capitale di quel reame, un senato, un Corpo legislativo e consultivo, un Consiglio di Stato ordinato a foggia del Consiglio di Stato di Francia, una corte dei conti, un ministro della guerra, un ministro delle finanze, un ministro dell'erario, un ministro delle cose interne, un altro degli affari stranieri, ecc., ecc. Eravi una direzione generale della polizia e una prefettura di polizia; e niuno di questi collegi od uffiziali dipendeva dai collegi od ufficiali di simil fatta stabiliti in Parigi. Il regno d'Italia stava in somma da sè; e se i suoi interessi politici erano sempre ed ingiustamente fatti dipendere da quelli della politica francese, non v'era tuttavia capitolo costitutivo e fondamentale degli statuti nazionali che legittimasse quella dependenza. E in fatti il legame che, sotto l'Impero, avvinceva l'Italia alla Francia, o per me' dire, la catena per cui quella era strascinata dietro questa, potea venire infranta senza che la costituzione dei due Stati avesse perciò da subire alcuna trasformazione.

Non intendeva già l'Austria a fare che le sue relazioni con l'Italia fossero di tal maniera. Tutt'altro proponevasi essa che di creare in Italia un reame più o meno independente, e di dargli solo quel tanto d'independenza che non potesse nuocere all'Austria istessa. Voleva dall'un canto annichilire ogni esistenza propria all'Italia, e dall'altro curvarla sotto il giogo senza farsi mormorare. Un decreto della Reggenza provvisionale, in cui presedeva sempre il maresciallo Bellegarde, dato il 27 luglio 1814, abolì la carica di ministro della giustizia, lasciando sussistere la commissione legale, ed avocando alla Reggenza stessa una gran parte degli uffizi di quel ministro. Un altro decreto dello stesso giorno abolì la carica di ministro dell'interno, surrogando pure al medesimo in molti casi l'istessa Reggenza. Così pur fecesi per le cariche del ministro delle finanze e di quello del culto. Due giorni di poi venne la volta della corte dei conti e del ministro dell'erario. Alla fine il giorno 16 d'agosto fu soppressa la carica di ministro della guerra e della marineria, e creata in quella vece una commissione straordinaria per terminare le rilevanti operazioni che rimaneano pendenti in quel ministerio. Ma essendo poi stata disciolta il 20 d'ottobre successivo anche questa commissione, gli uffici di essa devolsersi al comandante militare della piazza, il quale era un ufficiale austriaco ed anzi viennese. Quanto è alla commissione legale, essa non rimase lungamente in ufficio, ed abdicò il 14 dicembre dell'anno stesso nelle mani di un Ufficio fiscale, composto d'un procuratore regio, di cinque avvocati del fisco, d'un assistente, d'un protocollista, d'un registratore, d'uno speditore e di un commesso. Il quale Ufficio, di pochissimo rilievo, come apparisce per la qualità de' suoi membri, era esso pure meramente provvisionale.

È fatto degno di essere avvertito, che la Reggenza provvisionale veniva ad eredare essa stessa quasi tutte le facoltà ed uffizi ch'erano assegnati in addietro ai ministri e agli altri corpi dello Stato aboliti dal commissario plenipotenziario; e può ben darsi che i membri della Reggenza e il partito austriaco mitigato non risguardassero altrimenti una tale arrota d'autorità, spontaneamente conferita ad un corpo che in origine era stato eletto popolarmente, che come un segno di ossequio a quel principio dell'elezione, e come un atto di condescendenza inverso alla Lombardia ed a' suoi rappresentanti. Ma tale non era certamente il divisamento del commissario plenipotenziario e del suo governo. La Reggenza essendo essa pure provvisionale, non potevano essere intese a pro di essa le accennate spogliazioni, ma bensì a pro di quella autorità che doveva poi eredare definitivamente le attribuzioni tutte della Reggenza medesima. La quale autorità era poi, come vedremo a suo tempo, l'autorità centrale, il gabinetto di S. M. l'imperatore d'Austria, il governo stabilito in Vienna, il quale regola le cose delle sue province lombarde.

La tendenza minuziosamente oppressiva, che è uno de' principali tratti del carattere della politica austriaca, chiarivasi fin d'allora. La società segreta dei Liberi-Muratori, ed altre società segrete furono espressamente proibite con un decreto del 26 agosto 1814, e comminata a' rei del delitto di associazione la pena della prigionia, per uno spazio di tempo non maggiore di tre anni. Un altro decreto del 25 d'ottobre prescrivea severe pene contro i disertori, e rammentava a tutti i cittadini dabbene l'obbligo che loro correva non solo di negare ogni soccorso ai disertori, ai coscritti contumaci o refrattari, ecc., ma anche di denunciarli ai magistrati, del pari che i loro ricettatori o fautori. Ben presto dovea venire in pieno fiore il sistema dello spionaggio e delle delazioni.

Intenti a ristabilire in tutta l'Europa l'antico ordine di cose, aveano gli Austriaci pochissime truppe da porre all'opera in Lombardia. Poche migliaia di soldati erano distribuiti in tutta l'Alta Italia, e chiusi nelle fortezze ond'è coperta la contrada. Milano era perciò privo quasi di presidio austriaco; e intanto l'esercito italiano, all'un di presso numeroso egualmente, era tuttora in armi. Riunito nel paese compreso tra Mantova e Milano, esso ubbidiva ancora a quegli stessi capitani che tante volte lo aveano guidato alla vittoria contro gli Austriaci. Non richiedeasi di più per indurre i generali italiani a rinfrescare il divisamento concepito alcuni mesi prima, e abbandonato in allora per l'opposizione del generale Pino. Il generale Teodoro Lecchi scrisse al fratello Giuseppe, che stava allora al soldo del re di Napoli, esortandolo a chiedere l'aiuto di quei re pel caso che l'esercito italico insorgesse contro gli Austriaci. Soddisfacentissimo fu il riscontro, perocchè dava formale promessa che il re di Napoli accorrerebbe prontamente in soccorso dell'esercito insorto.

Fu allora ordita una congiura militare, a cui accederono: i generali Fontanelli (già ministro della guerra), Lecchi Teodoro, Bellotti Gaspare e Demeester, i colonnelli Moretti, Olini, Varese, Pavoni e Gasparinetti, il comandante Cavedoni, l'aiutante maggiore della guardia civica Lattuada, il caposquadrone Ragani, l'ispettore alle rassegne Brunetti, il celebre Rasori, Marchal, oriundo francese, e molti altri ancora, cui troppo lungo sarebbe l'enumerare partitamente. Divisavasi di suonare in una data notte le campane a stormo; al qual segnale i soldati italiani ch'erano in Milano doveano riunirsi tutti in arme, e prima che gli Austriaci fossero risensati dallo stupore in cui quel suono a stormo gli avrebbe immersi, impadronirsi di loro, come pure dei principali personaggi in carica, o vivi o morti. Il generale Fontanelli doveva indirizzare questa mossa, e proclamar poscia un governo italiano. I varii corpi italiani, acquartierati lungo la via da Milano a Mantova, dovevano accorrere in aiuto del Fontanelli. La città, o almeno la fortezza di Mantova non potea reggere col debole presidio che vi stava, contro l'esercito italiano. Murat promettea d'accorrere sollecito. Napoleone era nell'isola d'Elba. Le congiunture erano assai propizie; e nel caso pure che la fortuna non fosse del tutto favorevole all'armi italiane, rimaneva aperta a queste la via per ritirarsi in Toscana, e il modo di venire a patti e per l'esercito e per la patria con gli Austriaci. Ogni cosa era apparecchiata; solo rimaneva da prefiggersi il giorno. L'ispettore Brunetti recossi alla villa del generale Fontanelli, e, avvertendolo esser pronta ogni cosa per l'esecuzione, lo richiese a dare gli ordini opportuni. Era il Fontanelli un militare valoroso ed onoratissimo; ma non si dovea già allora dar dentro ad un battaglione nemico o superare all'assalto un ridotto. Sintantochè i progetti dei congiurati gli erano apparsi come destinati ad essere recati in atto in un lontano avvenire, aveali egli riguardati come una pugna da ingaggiarsi, od una incamiciata da tentarsi. Ma giunto l'istante di operare, la cosa mutò per lui d'aspetto. Quella segretezza con cui si doveano condurre le cose, gliele vestiva di misteriosa e tremenda apparenza. Pensava egli che gli Austriaci non avrebbero certamente tutti fatto contrasto coll'armi, e con raccapriccio investigava il come si avrebbe a trattare i feriti, o quelli che di buon grado si arrendessero. Era pure preoccupato dal pensiero di quanto si dovea fare dopo occupata la contrada. Egli era stato un lungo tempo ministro, ma ricevea allora dall'alto gli ordini che tramandava al di sotto. Ormai doveva assumersi il carico delle più gravi risoluzioni, e, caso che la fortuna gli fosse contraria, non sapea qual destino avesse ad incogliere e lui e gli amici. Non era già minacciato, come sul campo di battaglia, da una palla di cannone, ma da un processo, dal carcere da una condanna ignominiosa, lo scorno della quale ricadrebbe sopra i suoi figli. Affacciandosegli affollate alla mente tutte queste considerazioni, egli era talmente agitato che, appressatosi al Brunetti per pigliare nella tabacchiera di questi una presa di tabacco, fu dal Brunetti notato il tremito convulsivo della sua mano. Un uomo in tale stato non si pone a capo di un insorgimento, e ben gli sta, chè, volendo farsi indirizzatore, trarrebbe gli altri a perdizione. Fontanelli pertanto si schermì, e vane furono tutte le instanze del Brunetti.

Ritornatosene questi dai congiurati, e ragguagliatili del rifiuto del Fontanelli, la costernazione si sparse fra loro. Proposero alcuni di sostituire al Fontanelli il generale Teodoro Lecchi, ma questi, mosso per avventura da soverchia modestia, opponeva, non essere il suo nome splendido abbastanza per dare splendore ad una intrapresa di tal fatta; la mitezza ben nota dell'indole sua farlo altronde male acconcio a indirizzare una mossa della fatta di quella che si dovea tentare in Milano, e in cui non si doveva indietreggiare in faccia alla necessità di sbrigarsi ad ogni costo del presidio austriaco; non essere in Milano i reggimenti dei quali potea disporre; doversi lui recare a pigliarli per condurli a quella vôlta quando la mossa fosse stata operata. Le ragioni allegate dal Lecchi per ischermirsi dall'onore di dare il primo e più tremendo colpo agli Austriaci, furono poi anche poste innanzi alla vôlta loro dagli altri congiurati. Non potendo invero tentarsi una mossa militare di tanto rilievo senza un capo ben noto, si riconobbe con dolore doversi per allora deporre il pensiero e le speranze. Separaronsi i generali con gli occhi lagrimosi e il cuore angosciato, non osando nemmeno proporsi di differire la cosa ad altra occasione, che non erano sicuri di saper afferrare.

Progetti sì presto abbandonati, macchinazioni rimaste affatto ineseguite impacciavano il maresciallo Bellegarde. Il pericolo era passato, e per impedirne il ritorno, il 18 novembre fu dato ai capi dei reggimenti italiani l'ordine di recarsi in Alemagna, ed eseguito il 21. Ma la brama austriaca di vendetta non era appagata, e sì dovea venir fatta paga; ed ecco il come il maresciallo Bellegarde avvisossi di conseguire l'intento:

Savoiardo di nascita, il Bellegarde aveva ancora in patria dei congiunti poveri e oscuri, i quali, chiusi nelle cupe valli dell'Alpi, s'affidavano nel cugino per trovar mezzo di uscirne. Uno di questi congiunti era noto al maresciallo per la sua valenzia nell'arte degl'intrighi e della menzogna, e a lui si volse egli per tendere ai liberali italiani un agguato. Partì costui dietro la chiamata del cugino da Ciamberì nella diligenza per a Milano; ma non appena fu lungi dai luoghi in cui era troppo conosciuto, spacciossi per vegnente da Parigi, e assunse il nome di visconte di Saint-Aignan, dicendo di appartenere alla nobile famiglia di tal nome, la quale nel servire all'imperatore avea tenuto di servire alla Francia, e di buon grado erasi allora rappattumata coi discendenti degli antichi suoi re. Per mala ventura, uno de' compagni di viaggio di questo impostore fu il Marchal, altro de' complici della congiura militare testè abbandonata; presso il quale l'impostore, ufficioso ed entrante, come sogliono essere gli uomini di tal fatta, s'insinuò ben presto, e venne con lui in tanta intrinsechezza, che non durò stento a conoscerne le opinioni politiche, e i sensi ch'esso nodriva verso il governo austriaco. Giunto a Milano e venuto in casa del Marchal, il visconte parve di repente risoluto ad aprirsi a lui. Gli confessò che il re di Francia Luigi XVIII, il reggente d'Inghilterra, e specialissimamente poi il duca di Angulêmme l'aveano spedito a Milano per iscandagliare le disposizioni della popolazione. Il re Luigi, il reggente d'Inghilterra e il duca suddetto non poteano sopportare in pace che questa bella contrada, stata unita per tanto tempo alla Francia, ne fosse ora staccata, non già per godere della propria independenza, ma per subire un giogo straniero. Angosciati erano i loro cuori da un tale spettacolo, ond'è che avevano concepito il pensiero di infrangere le catene di cui era l'Italia gravata. Ora, l'Italia era essa disposta ad accogliere le generose proposte? Era essa impaziente dell'oppressione austriaca? Era essa parata a far qualche sforzo per conseguire l'intento? ad esporsi a qualche pericolo? a tentare alcuna mossa? Ciò desideravasi conoscere.

Io ho già riferito più tristi esempi della credulità italiana, e se invece di ristrignermi a raccontare i fatti avvenuti dopo il 1814 avessi rivangate le cose accadute fin dal primo ingresso in Lombardia degli eserciti repubblicani, ne avrei riportato un numero assai maggiore. Ed ecco una novella congiuntura in cui ebbe quella credulità i più funesti effetti. Al Marchal parve quella una occasione favorevolissima per ravviare le già dismesse fila della congiura. Il medico Rasori andava cotidianamente in casa del Marchal, la cui consorte era ammalata, e il Marchal propose subito al visconte di parlare al Rasori. La proposta essendo stata alacremente accolta, ecco che il falso Saint-Aignan e il Rasori si trovarono insieme. Ricominciò il Savoiardo la patetica sua sposizione del rammarico ond'erano crucciati Luigi XVIII, il reggente e il duca d'Angulemme. Trasse fuori lettere e mandati, da cui egli appariva un inviato plenipotenziario dei re di Francia e d'Inghilterra presso i liberali italiani. Raccomandando a quei due la massima segretezza, disse loro essere necessaria dal canto loro e dei loro amici un'intiera fiducia per condurre a buon fine i loro disegni. Lieti di vedersi inopinatamente aperta una via novella nello stesso mentre che erasi chiusa quella per la quale speravano uscir di servaggio, il Marchal e il Rasori approvarono checchè loro disse il visconte, assicurandolo che non si attraverserebbero con indegni sospetti ad una sì nobile e sì grande intrapresa. Il Rasori nell'accommiatarsi pregò il visconte di recarsi da lui il 23 di novembre per imparare a conoscervi alcuni dei principali congiurati, ed indettarsi con loro.

Il visconte e il Marchal recaronsi di fatti il dì prefisso in casa del Rasori, che stava aspettandoli con l'avvocato Lattuada e il colonnello Gasparinetti. Entrato il visconte, presentollo il Rasori a' suoi amici, dicendo: «Eccovi, signori, il signor visconte di Saint-Aignan, di cui mi fo io mallevadore»; e poi rivoltosi al visconte, gli disse: «Eccovi, o signore, i signori Lattuada e Gasparinetti, di cui mi fo parimenti mallevadore». Si pigliò tosto a ragionare, gl'interrotti progetti furono riposti in campo, i nomi dei congiurati passati a rassegna, novelli disegni discussati. Non ne farò minuto racconto, perocchè niuno di questi novelli disegni fu seriamente stabilito. Troppo acceso era il desiderio dell'insorgimento nei liberali italiani; laonde non era possibile che ne investigassero profondamente i mezzi, le speranze e i pericoli. Quello che si fermò, egli era di ristaurare ad ogni costo il passato, di cancellare dalla storia italiana i due mesi ultimi scorsi, di tentarlo almeno, di non trascurare perciò veruna occasione, e di non badare ai pericoli. Avea il Lattuada portato le varie minute di costituzione fra le quali tra' congiurati militari non era ancora stata fatta l'elezione; ed a speciale richiesta del visconte si assunse l'incarico di compilare colla scorta di quei diversi progetti una costituzione. Il colonnello Gasparinetti promise di stendere un bando per l'esercito, e il Rasori un manifesto al popolo. Il Marchal dovea incontanente recarsi dal re di Napoli per assicurarsi della cooperazione di lui; e il Rasori partire alla vôlta di Douvres per porre sotto la protezione del Reggente il novello Stato italiano; dopo del che, reduce in Francia, otterrebbe, volendo colà accasarsi, giusta le promesse del Saint-Aignan, un'onorata e lucrosa carica. Il visconte poi dovea far pagare al Lattuada per mezzo d'un banchiere di Lugano un milione di franchi, destinato a pagare la diserzione che facea di mestieri nei reggimenti italiani partiti alla vôlta dell'Austria. Indettatisi in questi termini, i quattro congiurati si separarono promettendo di riunirsi di nuovo il 26 di novembre, e di recare al convegno un progetto definitivo di costituzione, un bando all'esercito e un manifesto al popolo. Furono tutti fedeli alla promessa nel giorno prefisso; ma l'impostore, che giunse per l'ultimo, entrò trepidante e smanioso nella sala della conferenza, dicendo ch'era stato seguito da emissari di polizia, che aveane veduti parecchi cammin facendo, ed eragli forse venuto fatto di sottrarsi alla vista loro coll'allungare il passo; ma che in tale condizione di cose era necessario deliberar prontamente e subito separarsi. Facea l'impostore egregiamente la sua parte. Sembrava sbigottito e sdegnato ad un tempo, volgeasi bruscamente di quando in quando per vedere se non aveva alcuno dietro, e coll'occhio ardente, col volto acceso, parlava ad alta voce, gestiva, si dimenava. Trasse anzi di tasca una pistola da due colpi, cui disse carica, e depostala sul tavolino, presso il quale i congiurati, rimasi a tale atto interdetti, erano raccolti, esclamò: «Vengano, vengano questi bricconi, questi sciaurati, e se alcuno fa mostra di pormi le mani addosso, avrà a che fare, per Dio! con la mia pistola». Acchetatosi poscia alquanto, pregò gli amici di entrar presto in materia. Avevano i signori Lattuada, Rasori e Gasparinetti deposto sul tavolino le carte che arrecavano e ch'erano state dall'impostore bene adocchiate. Non appena le ebbe egli prese in mano e cominciatane la lettura, che l'aia della figliuola del Rasori entrò a furia nella sala e avvertì il padrone che la strada era piena di gente, e la casa accerchiata da agenti della polizia e soldati. A questa notizia, il visconte è côlto da un nuovo accesso di furore; biastemmia, si frega il fronte colle mani, si dimena proferendo parole interrotte; e approfittando dello stupore che a bella posta destava nelle sue vittime, s'avventa anzi tutto sopra la sua pistola, poi sopra la minuta di costituzione, il bando e il manifesto, e gridando voler andare a rompere il cranio a quegli sfacciati bricconi, non li temer punto, ec., balza fuori rapidamente dalla sala e dalla casa, lasciando i signori Rasori, Lattuada, Gasparinetti e Marchal più inquieti di quella gran furia e delle conseguenze che aver potea per chi vi si era dato in preda, che non pensosi di sè stessi.

Ov'erasene egli andato l'impostore? Chi lo avesse seguito, avrebbelo visto sguizzare in mezzo agli agenti della polizia, parlare a bassa voce coi principali di loro, ricevere graziosamente le loro congratulazioni, e poi trottare sollecito alla casa del suo congiunto il maresciallo Bellegarde, per annunziargli l'esito felice della sua frode. Volendo finir presto di parlar di costui, licenzierommi a romper l'ordine cronologico per riferire quanto gli accadde molt'anni di poi. Reduce in Francia, passeggiava un giorno il Marchal sotto i portici del Palazzo Reale, quando l'aspetto d'un uomo che camminava pochi passi stante, ridestò in lui repentinamente angosciose memorie. In pochi momenti potè il Marchal convincersi che punto non s'ingannava e che aveva realmente dinanzi agli occhi il falso visconte di Saint-Aignan. Corsegli contro difilato, e tenendolo afferrato con una mano gagliarda, gli sferrò con l'altra quante bastonate potè.

Torniamo ai congiurati. La precipitosa partenza del visconte, e la scomparsa delle rilevanti carte ch'erano sul tavolino non tardarono a destare in loro forti sospetti. Pensarono certamente a salvarsi fuggendo in istraniere contrade; ma non vi si seppero indurre presto abbastanza. A rilento sempre si suole fare una risoluzione penosa, e solo all'ultima estremità si cede ad una convinzione angosciosa. Rasori, Gasparinetti, Lattuada e Marchal pensavano sì sgomentati alla scomparsa del segreto emissario della Francia e dell'Inghilterra, ma non erano però lungi dal credere che si tenesse nascosto in alcun luogo; non doversi, dicevano anche fra loro, fare giudizio d'alcuno con tanta precipitazione; avere il tempo chiariti ben altri misteri. Niun d'essi, altronde, avea fatto sperimento della politica austriaca. Nei tempi che corrono si fugge, si emigra, si abbandona la patria senz'avere di gran lunga motivi così gravi di inquietudine.

Due o tre giorni dopo la narrata scena, il medico Rasori e i suoi tre amici vennero arrestati. Il maresciallo Bellegarde aveva in mano prove esuberanti per trarre a perdizione quei quattro infelici; ma ciò non bastavagli. Ei volea porre addosso le mani sopra i complici della congiura militare, e a questo fine soltanto aveva fatta ordire la picciola congiura secondaria in cui si erano immischiati quei quattro soltanto. Aveva già egli per via dei rapporti del falso visconte, piena cognizione dei particolari della congiura militare; ma non sapea come recare dinanzi ai giudici cosiffatti rapporti, e arrovellavasi dal desiderio di strappar di bocca ai captivi delle confessioni simili a quelle ch'erano state fatte all'impostore, suo cugino. Un uomo, divenuto poi celebre nei fasti dell'austriaca polizia, uno di quelli che più adoperarono nel fabbricare quella ampia ed inestricabile rete che avviluppa tutti i Lombardi, e che talmente costringe le facoltà naturalmente libere del loro intelletto, da annichilirle, vo' dire il signor Pagano, si prese l'assunto di captare la confidenza dei captivi. Ed ecco il come vi si accinse.

Il colonnello Gasparinetti era interrogato da un maggiore austriaco, cui assisteva il signor Pagano. Negava egli tutto, e così le promesse, come le minacce erano state indarno adoperate per espugnare la sua costanza. Una mattina, il maggiore austriaco interruppe l'interrogatorio per uscire un istante, lasciando il prigioniero solo col signor Pagano. Il quale, appressatosi tosto guardingo al colonnello Gasparinetti, non senza guardarsi attorno, quasi per tema di essere sorpreso: «Colonnello», dissegli a bassa voce e con tuono commosso, «colonnello, guardate che cosa vi facciate. Non vi avvedete voi che vi perdete, nell'impugnare ostinatamente quello che tutti i vostri complici hanno confessato? Nissuno di loro vi ha risparmiato, e voi, per timore forse di metterli in pericolo vi attenete a questo fatale sistema d'impugnativa! Ahi! perchè non avete un po' più di confidenza in me? Non sono io pure italiano? Poss'io vedere un Italiano, un compatriota correre ciecamente alla perdita senza gemere, senza tentare d'oppormici?» Fattisi udire in quella i passi del maggiore austriaco, il Pagano tornossene tacito al suo posto. Rientrato il maggiore, fu ripigliato l'interrogatorio, ma il colonnello Gasparinetti rimase alcun tempo senza rispondere, assorto nelle sue meditazioni, tetro, costernato. Alzossi alla fine, e movendo il passo verso la tavola sulla quale il maggiore scrivea, dissegli lentamente e col tuono di un uomo che si è indotto ad una difficile risoluzione: «Scrivete, signore. Io, colonnello Antonio Gasparinetti, eromi fermamente proposto di lasciarmi mozzare il capo anzichè proferire una sola parola che potesse nuocere ai miei amici; ma poichè essi stessi hanno parlato, poichè hanno preferito il compenso della confessione a quello della impugnativa, farò com'essi in quest'occasione, come ho fatto in molt'altre. Dichiaro pertanto ec…..» E qui sì lo scopo della congiura, che i nomi dei congiurati, i mezzi di cui poteano valersi, i loro disegni, i sussidi nei quali speravano, ogni cosa, in somma, fu esposta coi più minuti suoi particolari dal colonnello Gasparinetti.

Convien dire che la confessione sia un atto che corrisponde a un qualche segreto istinto del cuore umano, perocchè non solo vediamo gli uomini determinarvisi agevolmente, ma anche compierla con trasporto allorchè vi si sono determinati. E invero il Gasparinetti non si ristrinse in questa circostanza a narrare i fatti noti agli altri captivi, e cui potea supporre essere stati svelati da loro; ma espose perfino i propri pensieri, le speranze ch'egli avea concepite, le parole dettegli in privato da questo o quello dei congiurati non ancora arrestati. Riferì fra altre cose che, avendo un giorno incontrato il generale Teodoro Lecchi, questi aveagli detto, stringendogli la mano: «Animo, mio caro Gasparinetti; se Fontanelli ricusa di condurci, ho buona speranza che Zucchi sottentri in sua vece». Il che era vero; ma perchè riferirlo dacchè non era stato udito da testimoni e dacchè il generale Lecchi era tuttora libero? Questo bisogno di dir tutto spiattellatamente, anche a giudici, fu ancor più forte pel comandante Cavedoni, il quale, sostenuto pochi giorni poi ed esortato a confessare progetti già ben noti altronde, non si fece molto pregare. Dopo avere risposto alle interrogazioni fattegli, trascorse più oltre, esponendo le idee sue proprie, e come ei si proponesse d'unirsi ai rivoluzionari di Modena dopo avere aiutato il trionfo della rivoluzione di Milano. Il quale soverchio di confidenza fu poi cagione che il Cavedoni, poich'ebbe terminato di espiare in Mantova il reato di congiura contro l'imperatore d'Austria, fu consegnato nelle fiere mani del duca di Modena. Nè con ciò finirono le sue sciagure. Arrestato un'altra volta a Modena, nè meglio schermitosi dalle instanze de' suoi interrogatori, fu nuovamente condannato. Arrestato poi finalmente la terza volta, e di nuovo in Modena, e prevedendo un trattamento eguale a quello che aveva di già subito due volte, si uccise colle proprie mani con una pistolettata, e giunse in tal modo a preservarsi dal fatale sdrucciolo delle confessioni; sdrucciolo da cui i ministri della polizia austriaca sanno ottimamente trarre partito.

L'Austriaco non si affretta mai, eppure avviene di rado che le sue vittime gli sfuggano di mano; perocchè valentissimo è nell'attutare la loro vigilanza mentre si accinge a colpirle mortalmente. Nulla aveva il Gasparinetti taciuto o travisato; e il Lattuada, edotto di ciò, si era appigliato al partito di dire d'aver porto orecchio ai disegni di congiura unicamente per conoscer bene le cose e renderne edotto il governo. La cattura degli altri congiurati potea seguitare davvicino queste deposizioni, eppure parecchi giorni trascorsero nei quali il governo lentamente arrotava l'armi sue, apparecchiava le insidie in cui volea far cadere i suoi nemici, facea chiamare gli uomini nei quali maggiormente confidava, ec. ec.; nè di questi giorni giovaronsi i congiurati per ripararsi in luogo di salvezza. Ma conviene sapere che il governo austriaco vi provvide come mi fo a narrare.

Il conte Alfonso Litta, colonnello al soldo d'Austria e fratello del duca Litta, erasi ognora segnalato per la sua devozione all'imperatore Francesco. Il suo figliuolo aveva all'incontro militato nell'esercito franco-italico in qualità di scudiere del principe Eugenio, ed erasi ognora portato da leal guerriero. Aveva il cuore assai freddo e corto il senno; ma era tutt'altro uomo da quello che avrebbe dovuto essere per abbandonare gli antichi amici o rinnegare i sentimenti cui professati aveva una volta. Ad onta del suo affetto inverso alla Casa d'Austria, il conte Alfonso Litta era non meno onesto del figlio, nè più avveduto di lui. Ben conosceva costoro il governo; ond'è che uno de' principali personaggi in carica di quei tempi studiò il modo di far assapere destramente al conte Litta che l'imperatore conosceva appieno tutta la congiura militare, ed era risoluto di non punire per questa volta uomini traviati da antichi affetti, ma che questa generosa determinazione non si estenderebbe fino a coloro che si facessero rei d'un secondo attentato, ec. ec. Queste consolanti assicurazioni furono tosto dal conte Alfonso Litta partecipate al figliuolo, il quale corse subito in cerca del generale Teodoro Lecchi. Trovatolo, al teatro della Scala, lo trasse in disparte e dissegli, sapersi dal governo ogni cosa: «Parto incontanente», rispose il generale. «No», replicò il contino, «ciò non è necessario, io so per buon canale che il governo vuole lasciar cadere questa cosa: nulla avete a temere per ora, ma guardatevi bene a quello che farete per l'avvenire. La clemenza usata ora dell'imperatore, lo indurrebbe ad essere doppiamente severo in un'altra occasione».

I due amici, ciò detto, si separarono, lieto il Litta di avere sconsigliato al generale un passo falso qual era l'abbandono della patria, e rassicurato il Lecchi, il quale conosceva il come la famiglia Litta fosse in grazia del governo. Ma non passarono tre giorni ch'ei venne catturato, e con esso il generale Bellotti, e i signori Cavedoni, Brunetti, Pagani, Gerosa e Caprotti.

Tutti i particolari della congiura erano stati così esattamente esposti dal colonnello Gasparinetti e dal Lattuada, che ai novelli arrestati era impossibile l'attenersi alla impugnativa. La sola quistione che potesse tuttora venir dibattuta fra' giudici e gli accusati era quella dell'esistenza d'un comitato direttore; esistenza di cui i giudici diceansi di già accertati, e la quale era dagli altri impugnata risolutissimamente. La giunta a cui venne affidata l'istruzione del processo e il giudizio componeasi del conte Cardani, presidente, dei giudici Freganeschi, Bonacina, Borghi e Gianni, e del regio procuratore Draghi; tutti di già celebri per l'astio feroce che aveano mostrato contro i liberali nei fatti del 1799.

Furono gl'inquisiti tratti a Mantova, e chiusi in una torre le cui fondamenta sono piantate nel lago fangoso che circonda la città: dati in balía ad uomini della fatta di quelli che componevano la commissione, aveano fortissima cagione di temere, e difficilmente perciò poteva essere serbato il segreto intorno alla esistenza del comitato direttore. Ma pure dovendo essi venire tuttora processati e giudicati secondo il codice di processura criminale del regno d'Italia, avevano difensori, doveano comparire in pubblico, e potevano protestare contro quei violenti o crudeli trattamenti che loro fossero stati fatti: era perciò duopo valersi di nuovo della astuzia.

Essendo il generale Teodoro Lecchi il più ragguardevole tra' congiurati, non era possibile che l'esistenza del comitato direttore fossegli rimasta occulta; epperciò sopra di lui pose in opera la giunta i suoi artifizi. Il signor Ghisilieri, nuova maniera che era di giudice-dilettante, avea per costume d'entrare ogni mattina per tempo nella camera del generale, sorprendendolo così appena desto. Egli conosceva l'indole mite ed affettuosa di lui, l'affetto quasi appassionato ch'esso nodriva per la propria famiglia, la divozione di lui inverso la madre, la quale dal canto suo, pia e tenera com'era, lo prediligea fra tutti i suoi figliuoli, e non potea rassegnarsi a quella sciagura, tanto più che, sentendosi presso a morte, temeva di non più rivederlo. Non ignorava il Ghisilieri alcuno di questi particolari, e studiavasi di trarne profitto. Dopo chieste affettuosamente notizie della salute e della disposizione d'animo del generale, diceagli: «Vengo in questo punto di casa vostra. Ah quanto siete amato! Quante lagrime fa spargere la vostra sventura!» Nominava allora le persone più strettamente congiunte col generale, attribuendo ad ognuna di esse commoventi parole. Poi veniva a parlare della madre del generale. Moribonda allora nel letto per un insulto apopletico, essa era priva di cognizione; ma il figlio non erane edotto, e il Ghisilieri gliela dipingeva, all'incontro, come unicamente preoccupata del destino del figliuolo, e solo intenta a trovare il modo di procacciarsi l'immensa felicità di vederselo presso. «Vostra madre», soggiugneva il Ghisilieri, «è una santa donna, ma non può stare senza di voi, e se non ritornate nelle sue braccia, essa morrà disperata». Continuava il Ghisilieri in su quest'andare finchè avesse tratto a forza le lagrime agli occhi e sulle guance al generale; poi quando lo vedea tutto commosso e tremante, quando leggevagli in volto o ne' sussulti del petto agitato, il veementissimo desiderio di tornare fra' suoi, allora, facendo le viste di seguire il naturale corso del suo pensiero che da questo subbietto del discorso lo conduceva ad un altro, veniva a parlare del processo. «E questo comitato direttore», diceagli, «perchè mai vi ostinate a negarlo? Il vostro processo sarebbe finito bentosto, se mutaste favella, e così disporreste tutti i giudici in vostro pro. Io vi parlo in nome di vostra madre, datemi fede», nè cessava dal ragionare in tal modo se non in quanto il generale cessava di rispondergli. Egli è inutile l'avvertire che il generale, uscito di prigione, seppe non senza stupore che il signor Ghisilieri non era mai stato una volta in casa di lui, nè mai avea veduto alcuno dei membri della famiglia Lecchi! Il comitato direttore non fu confessato da veruno, e forse non esisteva nemmeno.

Compiutasi l'istruzione del processo, venne l'ora della sentenza. Riuniti nella grand'aula del palazzo, accerchiati da numerosi soldati, avevano di già gli accusati udito la lettura dell'atto di accusa e le dispute dei loro difensori, quando giunse colà un messo latore di una lettera indirizzata al presidente del tribunale. La prese questi, e lettala, la consegnò al giudice che sedeva a destra di lui, il quale la diede all'altro, e così via via, sicchè fu letta da tutti i membri del tribunale. Tutti, leggendola, davano segno non dubbio di soddisfazione, di rispetto e di commozione, alcuni perfino sorrisero nel guardare i prigionieri, e il presidente, facendo le viste di non potersi tenere, proferì a mezza voce le parole buona notizia. Per quanto significative fossero quelle testimonianze, non poterono rassicurare i prigionieri contro l'effetto probabile delle conclusioni fiscali, lette subito dopo dal regio procuratore, e nelle quali richiedeasi dal magistrato contro di loro la capitale condanna. Ond'è che quando, usciti dalla sala, furono ricondotti nel carcere, la curiosità loro intorno alla lettera la cui lettura avea tanto visibilmente commosso il tribunale, era indebolita d'assai. Non tralasciarono però essi d'interrogare intorno al contenuto di quella lettera le guardie che gli accompagnavano, e seppero che vi si leggeva la formale assicurazione delle misericordiose disposizioni di S. M. inverso a loro.

S'imagini ora quale fosse lo stato di questi uomini accusati di congiura militare, indeboliti da una prigionia di già assai lunga, e da morali torture, e i quali dopo avere udito il regio procuratore far contro di loro instanza per la capitale condanna, venivano ricondotti nel carcere per aspettarvi la lettura della loro sentenza. Gl'istanti che passano tra la chiusura dei dibattiti e la lettura della sentenza non sono essi più angosciosi di quelli che precedono la morte? Non si concentra essa su quei brevi istanti la compassione che sentesi pei condannati a pena capitale?

Ora in questa sì terribile condizione, in questa crudele espettazione, di cui si tenta di sminuir la durata per gli stessi malfattori, il governo austriaco lasciò gli accusati per ben tre anni! Non mancò tuttavia un pretesto per colorire questo inconcepibile obblio delle leggi dell'umanità; e questo pretesto, al par di tutti quelli cui l'Austria s'appiglia, fu da goffo e da ipocrita. A udire i membri e gli amici del governo, per mera pietà furono gli inquisiti lasciati in dubbio del loro destino. E perchè la condanna non poteva essere altrimenti che asprissima, e perchè, d'altra parte, S. M. avea fatto promettere una rilevante mitigazione degli effetti di quella inevitabile severità; perciò in sulle prime il pretesto potea parere plausibile; ma apparve poi chiaramente l'impostura quando, scorsi i tre anni, tornò la sentenza da Vienna. Si vide allora che il giudizio della commissione, tutt'altro era che spaventevolissimo per gl'inquisiti, perocchè non eravi riconosciuta l'esistenza d'una congiura. Or dunque, perchè mai i pretesi autori d'una congiura che non era esistita, erano essi lasciati da tre anni a gemere nel fondo d'una prigione? perchè mai lasciar loro ignorare il proprio destino? E in ciò appunto si ravvisa in tutta la sua bruttura l'austriaca doppiezza. Si sarà già avveduto il lettore che ciò non poteva avere altro fine che quello di prolungare l'orribile incertezza da cui trovavansi angosciati i captivi. Ma perchè mai, con quale pretesto erano essi tenuti in carcere, mentre del fatto di cui erano accusati non constava punto? Si rammenti quella lettera consolante che nel giorno del giudizio era andata in giro per le mani dei giudici, e avea sui pallidi loro volti ricondotto i segni della contentezza e della tenerezza. Quella lettera, scritta dall'istesso maresciallo Bellegarde al presidente della giunta, contenea, siccome ho detto, l'assicurazione delle intenzioni di S. M. di usar clemenza; ma aggiugneva che acciò l'imperiale clemenza potesse brillare in tutto il suo splendore, era d'uopo apparecchiarle un bel campo, una degna occasione. Ond'è che i membri della giunta venivano eccitati a procedere col massimo rigore contro gli accusati, a condannarli ad ogni modo ed alla massima pena applicabile, a fine di lasciare alla sovrana generosità un libero corso.

Quella lettera, che non sarebbe stata scritta ove il maresciallo Bellegarde non avesse avuto notizia che la giunta non riconoscea l'esistenza della congiura, trasse di angustia i giudici, che mal sapevano porre d'accordo i dettami, alquanto sommessi, della loro coscienza e le ben note brame del governo. Dacchè l'imperatore obbligavasi a non ratificare la condanna che venisse da loro proferita contro gl'inquisiti; ogni scrupolo si dileguava. Se la forza della verità costringevali a dichiarare la non-esistenza della congiura, rimanea però tuttora il reato di non-rivelazione, del quale constava in realtà, e sopra del quale poteasi senza troppa vergogna fondare una condanna anche severa. Per le quali cose, dichiarò la giunta: 1.º non esservi stata congiura; 2.º essersi proferite parole contro il governo, e formati vaghi disegni, e non averne gli accusati ragguagliata la pubblica autorità. Condannò essa perciò gli accusati alla massima pena comminata pel reato di non-rivelazione, cioè a cinque anni di carcere duro. Ma non si dovea essa frapporre l'imperiale clemenza? Sì; e di fatti, tre anni dopo che gli accusati erano stati, all'uscire dall'ultima udienza della giunta, ricondotti nel carcere, la sentenza che li condannava a cinque anni di carcere duro, ritornò da Vienna a Mantova, colla commutazione della pena in diciotto mesi della detenzione medesima. Dietro le massime del vigente diritto, i tre anni trascorsi avrebbero dovuto essere riguardati come una più che sufficiente espiazione della pena commutata, ma S. M. volle altrimenti. La detenzione degli accusati fino a quel punto, era stata, in sua sentenza, non una pena, ma un mero provvedimento per la pubblica sicurezza, nè potea diventare una pena se non dal momento in cui veniva pubblicata la sentenza. Poco montava che quegl'infelici gemessero in carcere da tre anni, mentre la pena da infliggersi loro doveva essere una detenzione di soli diciotto mesi; fu forza dopo i tre anni di carcere già sofferti subire ancora altri diciotto mesi di detenzione, cosicchè la grazia imperiale valse ai captivi la liberazione dalla pena per soli sei mesi. E sì che la promessa fatta fare dall'imperatore di perdonare ogni cosa era quella sola che aveva indotta la giunta, tutta composta dei più caldi zelatori di Casa d'Austria, a proferire una condanna che ad essi stessi pareva non a bastanza fondata.

Ho voluto descrivere insino all'ultimo la sorte toccata ai congiurati del 1814, ed ho taciuto perciò gli avvenimenti accaduti nei quattro anni ch'essi passarono in carcere. Ritorno ora indietro per adempire il mio debito, cioè per far conoscere la storia della Lombardia dall'anno 1814 sino ai dì nostri: storia invero assai incompleta, siccome quella che non registra altro che congiure sventate o editti promulgati, e nella quale non vedesi la nazione operare cosa veruna, esercitare nè influenza nè autorità, spiegare nè facoltà nè tendenze, fare in somma alcunchè nè per sè nè per mezzo de' suoi rappresentanti.

La nuova dell'incorporazione definitiva della Lombardia nei domini austriaci, la cattura dei più ragguardevoli uffiziali dell'esercito del cessato regno d'Italia, e il fatto della riscossione delle imposte come per lo passato e senza il menomo alleviamento, avevano ingenerato il malumore nel popolo. Gli avvenimenti accaduti nel mese di marzo dell'anno 1815, o pur solo l'espettazione di essi ridestarono nei cuori degl'Italiani la speranza di giorni migliori, e con la speranza l'energia. Due personaggi fra' principali di Milano, uno de' quali portava un nome illustre nell'aristocrazia; due personaggi che già si erano mescolati nei fatti del 17 e del 20 aprile del 1814, e dei quali ho taciuto i nomi, onde assegnar loro un posto appartato e non porgere al lettore l'occasione di confonderli con altri autori dei fatti medesimi, recaronsi dai primari ufficiali del governo e loro proposero di far venire in città un grosso polso di contadini in occasione della festa della Madonna di marzo, e di volgere poi la piena di que' subillati contadini contro le case dei Milanesi di cui era noto l'attaccamento al cessato governo. Per proporre scopertamente l'assassinio, anche politico, vi vuole un capitale d'impudenza che dalla educazione viene riprovato e distrutto. Ond'è ch'io credo che quei due non osassero dire che volevano toglier la vita ai partigiani del governo franco-italico; ma dicessero all'incontro di non volere far altro che incuter loro timore, onde far loro passare la voglia di ribellarsi e strignerli fors'anche ad abbandonare la patria. Suppongo anzi che le vere loro intenzioni non fossero diverse da quanto io credo che dicessero. Checchè di ciò ne sia, il governo, più timoroso che pago d'un siffatto appoggio, memore altresì di quanto era accaduto il 20 marzo 1814 e di quanto erasi forte temuto di veder accadere nel giorno appresso, e schivo al postutto dall'ammettere qualunque cooperazione popolare, ributtò le pericolose proposte. Io dubito anzi, che la forsennata devozione di quei due abbiagli mai inspirata una piena fiducia. Ad ogni modo Milano fu quella volta preservato, mercè la prudenza austriaca, dalle sciagure che apparecchiavanle i Milanesi devoti di Casa d'Austria.

La guerra che poco stette a prorompere pose il governo austriaco nella trista necessità d'imporre un accatto forzoso sopra i trafficanti della Lombardia. E sebbene fosse di poco rilievo la somma accattata, e favorevoli pei creditori i patti a cui astrignevasi il governo, quell'accatto forte dispiacque all'intiera popolazione, la quale però non fecevi contrasto veruno. Intendendosi nella seconda parte di questo scritto a mostrare il come abbia il governo austriaco potuto annichilire lo spirito pubblico e traviare il giudizio dei Lombardi, non sarà inopportuno il riportare qui il bando promulgato intorno alle cose di Napoli il giorno 5 aprile del 1815 dal maresciallo Bellegarde. Così strana si è la favella del maresciallo in quel bando, e così contraria ai più ovvii dati della storia e ai più chiari dettami del buon senso, che quasi quasi gli si potrebbe attribuire un'intenzione d'ironia. Il che facendo si andrebbe tuttavia di gran lunga errato. Gli ufficiali del governo austriaco e l'istesso imperatore usano sempre tali modi di parlare che per l'esagerazione loro sembrano ironici; ma col mostrare insieme volto serio e cera d'uomini convinti, ne danno ad intendere al popolo ed ai ragazzi. I quali, coll'ascoltare abitualmente i ragionamenti di quei magistrati, nè trovar mai chi faccia loro conoscere la verità, finiscono per tenere quei ragionamenti come una precisa espressione dell'opinione generale.

Il menzionato bando è nei sensi che seguitano: «L'Europa cominciava appena a rammarginar le sue piaghe. Riuniti in congresso a Vienna, i potenti suoi padroni adoperavano con rara concordia a fermare le basi d'una lunga pace, quando un impreveduto avvenimento astrinse di nuovo tutte le nazioni (di già ammaestrate dall'esperienza, degli effetti dell'ambizione d'un solo uomo) ad impugnare le armi. Potea tuttavia l'Italia lusingarsi colla speranza di rimanere tranquilla frammezzo a questi passeggeri sovvertimenti, e di già numerose truppe erano scese dall'Alemagna a sua difesa; ma ecco che il re di Napoli, gittando la maschera che dianzi l'avea sottratto al pericolo, senza premettere alla guerra dichiarazione veruna, di cui altronde non potrebbe allegare alcun motivo, contro la fede dei trattati coll'Austria, di quei trattati cioè, ai quali egli deve la sua esistenza politica; ecco che il re di Napoli minaccia col suo esercito di turbare la tranquillità della bella Italia, e non contento di addurre il flagello della guerra, tenta altresì di allumare dappertutto, mediante il vano simulacro dell'independenza italiana, l'incendio devastatore della rivoluzione che già gli spianava le vie della possanza per salire dalla condizione di privato a quella di sovrano.

»Non meno straniero dell'Italia che nuovo nell'ordine dei sovrani, egli volge con ostentazione agl'Italiani parole che appena si addirebbero ad un Alessandro Farnese, ad un Andrea Doria, ad un Trivulzio il Magno; e si dà per capo della nazione italiana, la quale pure possiede proprie dinastie, regnanti da secoli ed ha veduto nascere nelle più liete sue contrade tutta l'augusta famiglia che regge col paterno suo freno un sì gran numero di nazioni. Or questo re d'una dell'estremità dell'Italia vorrebbe traviare gl'Italiani con la speciosa idea dei naturali confini, e farli correre dietro alla fantasima di un unico regno, a cui sarebbe appena possibile assegnare una capitale: tanto è vero che la natura stessa vuol che l'Italia sia pârtita in più Stati, ammaestrandoci con ciò, non dall'ampiezza del territorio, non dal massimo numero della popolazione, non dalla forza dell'armi assicurata essere la felicità dei popoli; ma bensì piuttosto dalle buone leggi, dalla reverenza degli antichi costumi e dallo stabilimento di una parca amministrazione. Ond'è che la Lombardia ricorda tuttora con sensi d'ammirazione e di gratitudine i nomi immortali di Maria Teresa, di Giuseppe II e di Leopoldo.

»Non pago d'ingannare le moltitudini eccitandole a correre dietro alla fantasima dell'independenza italiana, il re di Napoli vuol pure trarre in errore gl'Italiani poco prudenti, e indurli a credere che una segreta disposizione ad assecondare i suoi disegni nutriscano quei potentati medesimi che con meravigliosa prestezza rinnovellano ora appunto i loro formidabili armamenti terrestri e marittimi, e che bentosto con un atto pubblico daranno al mondo una pruova novella della loro unione indispensabile sotto il vessillo delle stesse massime. Non pare egli invero che, assoggettata al re di Napoli, l'Italia potrebbe chiamarsi indipendente? Chi può dubitare che i potentati non siensi fatti ormai capaci, non potersi dare nè pace nè tregua con un uomo che non ha il menomo riguardo alle proprie promesse, nè agli atti di generosità ond'è stato ricolmo dai suoi vincitori?

»I benefizi sparsi dal nostro augustissimo imperatore e re, 1.^o su tutto l'esercito italiano, niun membro del quale (purchè suddito) è stato lasciato privo di mezzi di sostentamento; 2.^o su tutto il numeroso ordine degli uffiziali civili; la cura paterna adoperata dal governo austriaco, non appena restituito in Italia, a riunire tutti i partiti in un solo ed a trattarli tutti come figliuoli, senz'aver riguardo nè all'opinioni politiche, nè agli anteriori portamenti di ognuno, seguendo anzi per quegl'istessi che l'hanno astretto ad usar rigore, l'ispirazione di un sentimento affatto paterno; sono tutte cose talmente notorie, che senz'altro distruggono le calunnie con tanta enfasi spacciate dal re di Napoli!

»Lombardi! Naturalmente sincero e in niun modo vantatore per sistema, il governo austriaco vi ha promesso la tranquillità, il buon ordine pubblico ed una amministrazione paterna. Egli atterrà quanto vi ha promesso. Sovvengavi dei tempi felici anteriori al 1796, delle instituzioni di Maria Teresa, di Giuseppe II e di Leopoldo; paragonate quel sistema di governo con quello che vi toccò sopportare di poi, e che, fondato sopra i medesimi princìpi, vi fu annunziato con le stesse mendaci espressioni che ora vengonvi indirizzate. La vostra soverchia credulità alle promesse della democrazia francese, vi ha tratti di già in rovina; siate omai più prudenti e non dimenticate che dopo l'esperienza la vostra colpa sarebbe più grave che non sia stata dianzi. La docilità del vostro carattere, la riflessione, frutto delle vostre cognizioni, e l'attaccamento che il vostro augusto principe si merita per tanti titoli, vi scorgano, v'inducano a protegger sempre il buon ordine pubblico, e a difendere il trono e la patria.

»Milano, il 5 d'aprile 1815.

» Il Governatore generale »Maresciallo BELLEGARDE.»

Ora che era egli Murat? Re d'una parte dell'Italia. Quali erano le sue truppe? Truppe italiane. Quali i suoi divisamenti? Discacciar gli stranieri dall'Italia, e riunire la Penisola sotto uno stesso governo. E questi fatti emergono essi dalla lettura del bando di Bellegarde?

L'Austria non istava però senza inquietudine, e il possesso delle novelle sue province non pareale assicurato a bastanza. Troppo pieno era stato il trionfo, sicchè non poteano non tenergli dietro alcuni rovesci; e la prudente Austria è più tranquilla allorchè ha fatto ai suoi avversari alcune concessioni di poco rilievo, di quello che sia quando gli ha spietatamente maltrattati. I fatti del 1815, la rinnovellazione della guerra, il malumore che essa non potea non ravvisare nel popolo milanese, furono per essa come i segni forieri del rovescio che tien dietro al troppo splendido trionfo, e le fecer provare un certo quale pentimento di essersi allora lasciata trascinare dalla foga del trionfo, talmente da porre in disparte il sistema delle transazioni. L'Austria si mostrò giudiziosa, perocchè fece, senz'esservi in verun modo costretta, una concessione. Quanto essa concedette era ben poco certamente; ma ciò non monta. In politica non vi è concessione facile quando è spontanea, ed il governo che ne fa una in grazia delle congiunture è meglio che accorto, perchè si può dir saggio.

Il giorno dopo l'incorporazione della Valtellina e delle contee di Bormio e di Chiavenna nella Lombardia austriaca, che fu il 16 d'agosto del 1815, un bando novello del maresciallo Bellegarde annunziava ai Lombardi che, mossa dal sentimento di predilezione sempre mai dimostrato a' suoi Stati d'Italia, S. M. Imperiale e Reale erasi degnata di porre l'ultima mano all'adempimento delle benefiche sue intenzioni, formando coi detti suoi Stati un regno Lombardo-Veneto. L'atto della creazione di questo regno andava unito al bando. La nomina di un vicerè, che facesse dimora per sei mesi dell'anno in Milano e per altretanto tempo in Venezia, l'istituzione di una corte e dei grandi ufficiali di essa, la conservazione dell'ordine della Corona ferrea, l'obbligo imposto ad ogni re del regno Lombardo-Veneto di cignersi il capo con la famosa corona dei re longobardi, la divisione del reame in due governi, di cui Venezia e Milano dovevano essere i capiluoghi, la suddivisione dei governi in più province, delle province in distretti e di questi in comuni, e la promessa di un pronto ordinamento del novello reame; tali erano le disposizioni contenute nell'atto promulgato in Vienna il 7 agosto 1815 per la creazione del Regno Lombardo-Veneto.

Alcunchè era in fatti pei Lombardi, che avevano perduto tutto, il trovarsi di nuovo in possesso del loro nome e della loro qualità d'Italiani. Fin qui, dal 12 di giugno dell'anno precedente in poi, eransi chiamati austriaci, e la bella loro contrada veniva designata in tutti gli atti solenni come una provincia dell'imperio austriaco, senz'avere nemmeno un nome suo proprio. L'annunzio della creazione d'un vicerè che avesse a risiedere in Italia poteva intendersi come una promessa d'independenza di questa contrada, o almeno come un obbligo implicito di appartare in certo qual modo il governo lombardo-veneto dal gabinetto di Vienna, lasciando che quello dêsse sesto alle sue proprie cose nel modo che piacessegli o poco meno.

In questo senso i partigiani dell'Austria faceano le viste d'intender quell'atto, e in questo senso parimenti l'intendeano in Vienna alcuni della stessa casa imperiale. Ond'è che l'arciduca Antonio, stato dall'imperatore il 7 di marzo del 1816 innalzato alla dignità di vicerè del Regno Lombardo-Veneto, umilmente espose a S. M. ch'ei s'intendeva di esercitare in questo reame le facoltà istesse ch'erano già state attribuite all'arciduca Ferdinando. Ma a questo modo non la intendeva l'imperatore; il quale anzi proponevasi d'invigilar l'amministrazione del suo novello reame più strettamente di quanto erasi fatto da' suoi antenati quando la contrada era in grado di semplice provincia del loro imperio. Dovè l'arciduca persuadersi come non altro gli toccherebbe avere che il mero titolo di vicerè, e come, nello Stato Lombardo-Veneto, quale voleasi dal fratello ch'esso fosse, non vi era posto di mezzo tra il governatore e l'imperatore, che viene a dire non dovervi esser posto per un vicerè. L'imperatore si avvide dal canto suo di essersi ingannato nel proporsi di conferire al fratello un simulacro soltanto di potestà; e con poco stento si arrese alle instanze dell'arciduca, che lo supplicò di dare ad altri la dignità ch'eragli stata esibita. Fu a lui pertanto surrogato l'arciduca Ranieri, la scelta del quale corrispose pienamente alle intenzioni dell'imperatore.

Dei primi anni dell'austriaca dominazione poco altro mi rimane a dire, se non che, essere stata la Reggenza provvisionale disciolta il 1.º di gennaio del 1816 per dare luogo ad un consiglio di governo, di cui fu presidente il governatore conte Saurau, e che era composto di dieci consiglieri, fra i quali il vicepresidente fu il conte Jacopo Mellerio; non essere stato in alcuna guisa alleviate le imposte, nè anche quando venne raffermata la pace; essere stato abolito l'antico ufficio di polizia del dipartimento dell'Olona, e date le attribuzioni di quello alla direzione generale di polizia di Milano; essere stati i sudditi italiani di S. M. l'imperatore d'Austria dimoranti fuor dello Stato, richiamati nello Stato medesimo, sotto pena, in caso di contumacia, di essere puniti a' termini dei decreti dell'anno 1812; agl'Italiani sudditi dell'Austria che militavano pel re di Napoli essere stata comminata la morte civile e la confisca dei beni se non si toglievano immantinenti da quegli stipendi; essere stata (per legge del 26 agosto 1815, sottoscritta in nome della Reggenza dal suo segretario Strigelli, e la quale tuttora è in vigore) promessa una mercede di sei fiorini a qualunque persona non militare che arrestasse un prigioniero di guerra fuggitivo, e il quale si tenesse nascosto o errasse senza scorta. I termini con cui conchiudevasi quella legge sono i seguenti: «La presente determinazione è specialmente applicabile ai militari ed agli ufficiali civili delle nazioni francese ed italiana, i quali, appartenendo in origine al reame di Napoli, sono stati mandati sotto buona scorta militare nell'interno della monarchia austriaca». Farò quivi notare che tutte le leggi repressive di un qualche misfatto o delitto contengono la formale ingiunzione ad ogni buon cittadino di denunziare il colpevole. I medici e i chirurgi non sono già eccettuati da un tale avvilitivo obbligo; chè anzi una legge del 9 di maggio de 1816 minaccia loro un'aspra pena ove tardino più di ventiquattr'ore a ragguagliare i maestrati delle ferite cui sono chiamati a medicare, oppur anche delle malattie, accidenti, ec., che possono essere effetto di un qualche delitto e in cognizione delle quali sono venuti per l'adempimento del loro ufficio. Aggiugnerò inoltre che i dazi tra la Lombardia e l'altre parti dell'impero austriaco non furono aboliti; il che privò la contrada dell'unico e tenue vantaggio che avrebbe potuto curarle la sua riunione a un grande Stato; che le prefetture, le sotto prefetture, i tribunali e tutti i corpi amministrativi o giudiziari componenti l'amministrazione franco-italica mano mano si cessarono; e le circoscrizioni del territorio vennero ristabilite come a' tempi di Maria Teresa. Ma a questo riguardo conviene dire che una tale spartizione, del pari che l'ordinamento comunale antico e riposto in vigore, erano certamente da preferirsi a quelli che l'imperatore Napoleone aveva importati di Francia. Un novello codice civile fu promulgato o per meglio dire, con regia patente del 28 settembre 1815, fu esteso alla Lombardia il codice vigente nel resto della monarchia, con questo però che non cominciasse ad aver vigore che dal 1.^o di gennaio del 1816. I dritti matrimoniali vennero ordinati dal 1.^o di luglio 1815 in poi con una patente del 20 aprile dell'anno medesimo. Il codice dei delitti e delle gravi trasgressioni politiche, promulgato il 9 di luglio del 1815, fu posto in vigore pel 1.^o di novembre successivo. Venne regolarmente instituito l'ufficio di censura della stampa, e i due giornali ch'erano allora pubblicati in Milano furono bentosto soppressi per cessare ogni competenza con la Gazzetta di Milano, giornale a cui dava aiuto il governo. I monachi e frati d'ambi i sessi riebbero i loro monisteri e' loro antichi privilegi; e i benefizi ecclesiastici tornarono ad essere una sorgente inesauribile di agi ed anche di ricchezze pel clero.

Non rimanea più omai nello Stato e nelle leggi vestigio alcuno dei princìpi rivoluzionari pocanzi trionfanti. Non solo era vinta la democrazia, ma niuno degli ordini del popolo era in verun modo partecipe del governo del paese. Nè solo era sbandito il principio della libertà illimitata di coscienza; ma niuno potea pubblicare un pensiero che non fosse in tutto conforme alle particolari dottrine dei censori. Lo spirito del decimottavo secolo erasi affatto dileguato; e il clero tornato non meno potente di quanto ei fosse stato, non dirò ai tempi di Maria Teresa e di Giuseppe II, ma a quelli della dominazione ispanica. Il divorzio era abolito; restituite le antiche linee daziarie, riposta nel pristino suo splendore la nobiltà di nascita; persino i nomi venuti in uso a' tempi della rivoluzione e del regno italico per indicare i varii corpi dello Stato o le parti diverse del territorio aveano dato luogo ai nomi disusati del precedente secolo.

Ma non istavano già in questo i guai della Lombardia. Perdendo repentinamente tutti i beni acquistati duranti i moti rivoluzionari, e ridotta all'andazzo antico delle istituzioni meramente monarchiche e dei pregiudizi di cui siffatte istituzioni sono, al postutto, l'espressione, la Lombardia avea perduto altresì ogni reliquia d'independenza, ogni segno d'una propria esistenza. Portava essa, invero, il titolo di regno Lombardo-Veneto; ma le sue soldatesche, mandate in Austria, erano vestite di bianca assisa; il vessillo giallo-nero sventolava su tutti gli edifizi; l'aquila bicipite campeggiava nel suo stemma. E per toccare d'altri più rilevanti riguardi, ad onta dell'incontrastabile pro della novella spartizione del territorio e del novello ordinamento comunale, tutte le attribuzioni dei maestrati di comune, di distretto, di provincia ed anche di capoluogo si ristrignevano nel presentare a Vienna i divisi dei quali utile o necessaria stimavano l'effettuazione. Il dritto austriaco tornava ad essere il dritto lombardo-veneto; i tribunali di prima e di seconda instanza erano, per vero dire, indipendenti dai tribunali dell'istesso ordine sedenti in Vienna; ma il tribunale supremo di revisione, stanziato in Verona, non era altro che un brano del tribunale supremo di giustizia sedente in Vienna. Tutte le nomine da Vienna procedevano, e tutto, nel modo di amministrazione cui era stata assoggettata la Lombardia, attestava la condizione secondaria e dipendente cui essa trovavasi condotta. Dovrassi far avvertire che i princìpi in onore presso gli Austriaci erano in ogni modo ripugnanti col senno e con l'onestà della popolazione lombarda? Chi non comprenderà a bella prima il sentimento di avversione e di fastidio che travagliare dovea i cuori dei Lombardi alla lettura di quelle leggi che loro prescriveano formalmente la delazione e lo spieggiare? Il senno italiano poteva esso non trovarsi stomacato nel leggere l'esposizione dei motivi delle leggi più oppressive, e nel veder quivi vantate ora la predilezione di S. M. inverso a' suoi Stati italiani, ora la paterna sua sollecitudine a pro de' sudditi, il suo incomparabile amore e cose simili? I Lombardi, ch'eransi testè aperto il passo per a traverso l'Europa, e aveano così di fresco spiegata tanta energia, potevano essi vedersi senza stizza trattati come fanciulli da quella nazione che mispregiavano più d'ogni altra, costretti a rimettersi in tutto quanto riguardavali all'arbitraria determinazione del governo, e tacciati poi d'ingratitudine se tentavano di muoversi e di respirare a loro senno? Potevano essi rassegnarsi senza ripugnanza ad uno stato di cose che pienamente annullava la loro esistenza politica?

La repubblica Cisalpina avea avuto a dolersi gravissimamente e dell'imperatore Napoleone e della Francia. Aveangli essi promessa l'independenza e la libertà; e poi, giunta la congiuntura propizia di adempir la promessa, aveanla ridotta alla condizione di uno Stato dipendente. Ma le congiunture in cui l'imperatore e la Francia eransi costantemente trovate, erano certamente estraordinarie. La Francia potea dire all'Italia: «Lasciatemi fare sintanto ch'io abbia preso stabilmente il posto che mi compete in Europa; aiutatemi anzi in questo intento, ed io vi restituirò poi la libertà che ora confisco a mio pro»; e l'Italia potea credere a queste parole: perocchè il regno d'Italia era, in somma costituito per modo da sussistere di per sè, e il fatto della riunione delle due corone francese ed italica sul capo d'un sol uomo, era anzi un accidente che una conseguenza regolare degli statuti organici dello Stato. La cosa fu ben diversa, quanto all'Austria, dal 1815 in poi. Chiamata ad assicurare al regno d'Italia quella piena independenza ch'eragli già stata tante volte promessa, l'Austria non avea contratto coi Lombardi che segreti e perciò invalidi obblighi: seppure si può dire che ne avesse contratti di fatta veruna, non potendosi di ciò allegare pruova alcuna. I liberali lombardi del 1814 erano ciechi abbastanza per tendere a sè stessi una trappola, e gittarvisi poi dentro a capo chino senza che alcuno ve li spignesse. Leggansi i primi bandi del maresciallo Bellegarde, pubblicati da lui al primo suo ingresso in Milano, e vedrassi ch'ei non vi fa motto nè di libertà nè d'indipendenza. Annunzia in vece, averlo il suo signore incaricato a pigliar possesso, in suo nome e vece, delle antiche province della sua monarchia, ch'erangli state tolte a forza, e sopra le quali non avea perduto giammai i suoi dritti. Ond'è che tutti i Lombardi che aveano militato nell'esercito o negli uffizi civili sotto il principe Eugenio, venivano con ciò ritenuti quali sudditi infedeli dell'imperatore d'Austria e quali semiparricidi. S.M. l'imperatore Francesco perdonava agli uni, gastigava gli altri a suo senno; ma sopra ed anzi tutto ristabiliva tra la Lombardia e l'Austria le relazioni ch'eranvi prima del 1796, cioè da servitore a signore, da provincia a capitale, da minori a tutore perpetuo. E ciò definitivamente e per sempre. Affisando lo sguardo nei segreti dell'avvenire, doveano i Lombardi vedere nell'anno 2000 la loro contrada soggetta all'Austria non altrimenti che nel 1816; le stesse leggi in vigore, la censura in pieno fiore, la polizia regnante senza sindacato veruno e coll'attributo dell'onniscienza e della onnipotenza, lo spieggiare onorato, ecc., ecc. Se non che potrebbero imaginarsi che allora le cose procederebbero meglio ordinate, perchè i Lombardi avrebbero a poco a poco deposta la sconsigliata speranza di esistere di per sè, sdimenticate le assurde pretensioni covate dal 1796 fino al 1814, cessato in fine di sentirsi e di chiamarsi Italiani, per diventare Austriaci; il che farebbe veramente il regno di Dio sulla terra.

Non mi sia data taccia di esageratore nè di inventore. Tale, sì, tale era il senso, ed anche non bene dissimulato, di tutti i bandi austriaci, di tutti i discorsi fatti dagli Austriaci e dai loro fautori. E se pure oggidì taluno si pigliasse lo spasso di leggere con tuono serio e con cera d'uomo convinto quel tanto ch'io dico, ad un magistrato austriaco, io sono certo che questi, dolcemente commosso, gli stringerebbe la mano, esclamando che così egli pure la pensa. Or chi dovrà mai meravigliare che pensieri di rivolta covassero sempre nei cuori dei Lombardi?

L'Italia condividea altronde tutta quanta cosiffatti pensieri; perocchè tutti gli Stati della Penisola erano ricaduti sotto il reggimento della potestà assoluta, da cui divezzati gli aveano i princìpi democratici diffusisi in conseguenza della rivoluzione di Francia. Una società propagatasi l'anno 1779 dalla Svizzera e dalla Germania in Italia, promossa nell'anno 1811 dal re Murat ed arruolata sotto il vessillo francese contro la fazione dei Sanfedisti, parlo della società dei Carbonari, adoperava nell'anno 1820 ad apparecchiare in tutta Italia una generale sollevazione. Avvalorati erano quei disegni dalla speranza che vi cooperassero i governi di Napoli e di Piemonte. Non possedendo in proprio nè truppe nè finanze, la Lombardia non poteva pensare a discacciar essa gli Austriaci, ma dovea star pronta ad aprire le sue città a quelli de' suoi compatrioti che venissero con un esercito a farle spalla contro l'Austria. Una società sì numerosa, com'era in quel tempo la società dei Carbonari, non poteva per un lungo tempo sfuggire al vigile sguardo di un governo fondato sopra lo spionaggio; e di fatti nell'anno stesso 1820 una notificazione del governo di Milano, sottoscritta dal presidente conte Strassoldo, e dal vice-presidente conte Guicciardi (quel desso che avea perorato nel senato italiano il 17 d'aprile 1814 contro il progetto del duca di Lodi), annunziava l'esistenza della società suddetta, ne dichiarava pericoloso per lo Stato e reo in sè stesso l'intento, vietava a tutti i sudditi di S.M. l'imperatore d'entrarvi, comminando loro, in caso di disobbedienza, le pene prescritte contro il reato di fellonia: pene le quali dichiaravansi, al solito, incorse da tutti coloro che avessero omesso di denunziare i fatti venuti a loro cognizione intorno alla società dei Carbonari o alcuno dei membri di essa.

Non valse questa notificazione ad impedire i progressi del carbonarismo. Una giunta straordinaria fu bentosto nominata ed instituita in Venezia per iscoprire le trame ordite dalla società e i nomi dei sudditi italiani di S. M. Francesco I, che vi si erano affigliati. Il Salvotti, resosi poi celebre pur troppo, faceva in quella giunta l'ufficio di giudice inquisitore, e diè fin d'allora bei saggi della sua perizia. Si può almeno attribuire a lui l'invenzione d'un mezzo singolare posto in opera da uno dei preposti al carcere di Venezia per istrappare di bocca ad un inquisito, per nome Confortinati, la confessione di fatti che, giusta ogni apparenza, non aveano alcuna realtà. Non aveva il Confortinati nè l'animo nè l'aspetto di un congiurato. Era un omicciattolo, gracilino, timido, semplice, di corto ingegno, che non si brigava per nulla delle cose della politica: per modo che non si può imaginare che cosa in lui fosse, che avesse provocati i sospetti del governo. Checchè di ciò ne sia, il giudice inquisitore ardea della brama di trargli di bocca alcuni schiarimenti che l'inquisito non era in grado di dargli. Tentò, ma invano, il Salvotti d'intimorirlo; perocchè havvi una certa semplicità di spirito e di cuore che vieta di prevedere e le grandi catastrofi e gli esiti tragici e straordinari. Secondo gli animi di questa tempra, ogni cosa dee avere l'esito il più semplice e il più naturale. «Sono stato incarcerato senza merito alcuno. Uscirò dal carcere tosto che sarà riconosciuta la mia innocenza, il che non può andare in lungo». Ecco il come ragionava il Confortinati, ed io non so veramente se sarebbe stata in lui maggiore l'angoscia o lo stupore ov'egli fosse stato condannato. Questa poco intelligente intrepidità sconcertava i giudici. Un ufficiale di polizia, per nome Lancetti, si propose di fiaccarla nel modo seguente. Introdusse il boia nella segreta in cui era chiuso il captivo, e pregò questi acciò lasciasse che il suo compagno gli pigliasse la misura precisa del collo, perocchè fra poco dovrebbe impiccarlo, ed in certa guisa per cui richiedeasi un laccio bene accomodato. Quell'ignobil sceda dell'uffiziale di polizia e del boia non ebbe l'esito sperato. Porgendo il collo alla disamina del carnefice, il Confortinati dicea probabilmente tra sè e sè (e questa volta con ragione), che la cosa non avrebbe seguito, e che non gli toccherebbe altro a subire che quella pruova. Non isbigottì di soverchio, e nulla aggiunse ai precedenti suoi costituti; e sì che la sua prigionia durò assai tempo. Erasi il carbonarismo larghissimamente diffuso in tutta Italia; ma i governi che contro questa società s'indracavano, non impugnavano altro con ciò che l'espressione di un fatto incontrastabile, quale si era la profonda malacontentezza eccitata in tutta quanta l'Italia dai portamenti de' suoi principi. In Lombardia, in particolare, era tempo che l'antica fazione dei sedicenti italici puri riconoscesse i falli che avea commessi nel 1814, e, maledicendo alla fede posta nell'Austria, sagrificasse ogni cosa per ammendare il suo torto. Quasi tutta l'aristocrazia milanese, e quella in ispezieltà che più efficacemente avea contribuito ad abbattere il regno d'Italia, congiurava contro l'Austria. Il conte Confalonieri col facile ed infiammato suo dire instigava contro quella potenza gli animi ancora tiepidi, e l'odio già mostrato da lui contro la Francia toglieva all'attuale sua indegnazione contro l'Austria ogni colore di parzialità o fazioso. Il conte Porro, il giovine marchese Pallavicini, e Bossi e Ciani e molt'altri, sia dei nobili che del medio ceto, mossi da un comune desiderio d'independenza, si riunivano per indettarsi intorno ai mezzi da porre in opera per sottrarre la patria alla dominazione austriaca. Ma, come ho già detto, niuno si proponeva di effettuare in Milano una rivoluzione. La mossa dovea accadere in Torino. Il principe di Carignano, presuntivo erede della corona, erasi assunto l'impegno di guidarla. E l'esercito piemontese, seguendo i suoi capi, l'avrebbe operata. Tostochè il principe di Carignano avesse afferrate le redini dello Stato, tostochè la costituzione fosse promulgata in Piemonte, le truppe piemontesi doveano valicare il Po e il Ticino, e venire a Milano. Pavia, città posta sui confini tra la Lombardia e il Piemonte, e abitata dalla scolaresca, sarebbesi unita co' liberatori. Milano pure terrebbesi pronta; i cittadini avrebbero impugnate le armi, altri avrebbero instituito immantinenti un governo provvisorio. Le province sarebbero concorse al grand'uopo; l'Italia sarebbe rimasta debitrice della propria liberazione a' suoi propri figli; e per la prima volta forse, dopo tanti secoli, lo straniero non sarebbe stato cacciato da un altro straniero sottentrante in sua vece. Bei sogni, quanto tempo avete voi durato?

La rivoluzione piemontese proruppe in marzo dell'anno 1821; ma non l'esercito intiero, bensì soltanto compagnie staccate di ciascun reggimento si sollevarono. Alessandria si trovò occupata dalle truppe sollevate, il rimanente delle quali era in Torino. Benchè incompleta, la mossa del Piemonte fu sentita in Lombardia. Il marchese Giorgio Pallavicini e Gaetano Castillia, giovanissimi entrambi, recaronsi dai capi del moto di Piemonte per indettarsi con loro del modo di procedere contro gli Austriaci. Parata sempre alle azioni generose, la scolaresca di Pavia formò un battaglione, intitolato di Minerva, ed entrò nel territorio piemontese. Intanto il conte Confalonieri non poteva farsi capace che alcuni reggimenti piemontesi valessero a far testa all'esercito austriaco e costrignerlo a rivalicare le Alpi. Nè infondati erano questi timori; ma gli uomini che apparecchiano una rivoluzione, non debbono concepire speranza che ogni cosa proceda appuntino nel modo previamente stabilito, a quella stregua, all'un di presso, che gli atti di un dramma si tengono dietro l'uno all'altro in sul teatro. La Lombardia sperava d'avere in aiuto una gran parte dell'esercito piemontese, e alcune compagnie soltanto si dichiarirono. Dovea ella per questo la Lombardia abbandonare i suoi disegni e la sua intrapresa? E chi sa mai se la sollevazione lombarda non si sarebbe tratta dietro quella del resto dell'esercito piemontese e degli altri Stati italiani? Chi è da tanto di prevedere tutto, nè si trova in caso di dovere per alcuni punti mettersi in balía del caso e della fortuna? Quale è di fatti l'esito di queste congiure rimaste prive di effetto? Gli è questo, che i governi ne vengono in cognizione ed aspramente le puniscono, mentre, per altra parte, affatto ingloriosi rimangono i nomi dei loro autori. I congiurati in pensiero sono puniti dai nemici delle rivoluzioni non altrimenti che sarebbero se queste avessero avuto effetto; ma non sono onorati del pari dagli amici della libertà. Volendo allora mostrarsi prudente, il Confalonieri scrisse al conte di San Marzano, altro dei capi della mossa piemontese, esortandolo a non affacciarsi, giusta il convenuto, al confine infino a tanto che tutto l'esercito piemontese, o poco meno di tutto, si fosse dichiarito per la costituzione. Questa lettera fu recata dalla contessa Frecavalli, che la nascose nella fitta sua chioma. Io non potrei descrivere l'effetto prodotto da quella lettera, e mi dorrebbe di dover attribuire al Confalonieri le ulteriori risoluzioni del principe di Carignano. Ognun sa che quel principe se ne stava a Torino, attorniato dai suoi ministri. Alla sera del 17 di marzo ei ragionò lungamente col conte di Santa Rosa, allora ministro della guerra, e con alcuni altri, e promise loro nel ritirarsi di pubblicare nel seguente giorno un bando che irreparabilmente lo astrignesse a far causa coi sollevati. Si sciolse dietro di ciò la conferenza, con ferma fiducia per parte dei seguaci della rivoluzione; giacchè l'ultime parole del principe, per quanto disse di poi il conte di Santa Rosa, erano sembrate concludentissime e lo avevano rassicurato sul futuro. Ma la mattina seguente si diffuse per tempo la notizia della partenza del principe, la quale immerse i rivoluzionari nella costernazione. Era egli di fatto partito alla vôlta della Lombardia. Giunse a Milano sotto nome supposto, e scese in un piccolo albergo all'insegna del Pozzo, poco stante dalla chiesa di Sant'Alessandro. Recossi dal maresciallo conte di Bubna, il quale all'annunzio della sua visita non fu poco meravigliato, e narrogli minutissimamente i progetti dei rivoluzionari, gli accordi fatti tra' Piemontesi e Lombardi, e tutto quanto importava al maresciallo di ben conoscere¹. E, ciò fatto, se ne ritornò.

¹ L'autore nel dar contezza di questo colloquio si è, giusta ogni apparenza, consigliato con l'imaginazione; chè non è a credersi abbia alcuno dei due interlocutori narrato a lui o ad altri, che nel potessero ragguagliare, le cose dette in quella congiuntura. Spaziando nel campo delle probabilità, si può supporre che il principe abbia detto abbastanza per porre l'Austria in grado di ripararsi dagli effetti della congiura; ma il sèguito dei fatti che narra l'istesso autore è una pruova patente che l'Austria non ebbe da lui indizio alcuno delle persone che erano implicate nella trama. Era giustizia il fare quest'avvertenza, com'è il dire che l'imaginazione dell'autore, per quanto apparisce, ha anche in altre congiunture supplito alla scarsa notizia avuta dei fatti, e che talvolta pure egli sembra avere esagerate le cose, generalizzato dei fatti particolari, e attribuito a malignità del gabinetto o dell'imperatore quel ch'era effetto della lentezza austriaca, degli ordini viziosi dello spaccio degli affari, o del maltalento o goffaggine degli uffiziali inferiori. ( Nota del traduttore.)

Non mi tocca riferire gli avvenimenti, altronde ben noti, di cui fu teatro il Piemonte in quel tempo. Mi basta indicare l'aiuto dato dalle truppe austriache al re di Piemonte; e la parte che esse ebbero nel ristabilimento dell'antico ordine di cose. Il re di Piemonte spietatamente si ricattò sopra i suoi sudditi della debolezza de' suoi mezzi, per cui era astretto ad invocar forze dall'Austria. Questa poi, paga di occupare, benchè momentaneamente il Piemonte, paga del male esito delle macchinazioni dei rivoluzionari, e della cognizione acquistata degli accordi tra i sollevati piemontesi e i malcontenti lombardi, paga, infine, di vedere il re, suo protetto, arrischiarsi sulla sdrucciolevole china dei supplizi capitali e delle confische, astenevasi da ogni provvedimento di tal fatta, ostentando così clemenza e dolcezza. Alcuni mesi di tal guisa trascorsero, dopo i quali il re di Piemonte parve desiderar la partenza delle truppe austriache, e ne fece domanda, che fu incalzata da quelle degli altri sovrani d'Europa, sospettosi forse che la dimora delle truppe austriache in Piemonte si protraesse oltre il dovere. L'Austria però non intendeva a ritirare sì presto le sue soldatesche. E giova qui notare quanta importanza pone l'Austria nelle brevi sue occupazioni delle varie parti del territorio italiano. Non appena le si affaccia l'occasione d'inframmettersi negli Stati pontifici, nel reame di Napoli, nel Piemonte, nel ducato di Modena, in quello di Parma, essa premurosamente l'afferra. Allorchè le cagioni per cui fu chiamata non esistono più, allorchè il principe che ne ha invocato l'aiuto, e i sovrani emoli dell'Austria, e l'Europa intiera la richieggono di ritirarsi, essa studiasi di mandare in lungo le cose, allega un pretesto, accampa un qualche diritto, oppone un qualche ostacolo; in somma, benchè essa sappia che il suo definitivo stanziamento negli Stati che non le sono stati concessi dai trattati di Parigi e di Vienna, non potrebb'essere tollerato, pure si sforza di rimanervi quanto più lungamente sia possibile. È questa mera fanciullaggine; perocchè, sapendo l'Austria per certo di non potere definitivamente impadronirsi di questi Stati, qual maggior pro può essa mai trarre da un'occupazione durata tre mesi, che non da una durata un mese solo? Spera essa forse che, protraendo di giorno in giorno la partenza, si farà gradire qual signora permanente? Spera essa di avvincersi colla sua presenza e co' suoi modi i cuori delle popolazioni di cui si fa carceriera? Acciò questo divisamento non fosse privo di fondamento, sarebbe necessario che l'Austria si travisasse affatto, e ciò non solo agli occhi delle popolazioni italiane che non le sono soggette, ma anche a quelli dei suoi sudditi lombardi. Perocchè, insino a tanto che essa mostrerassi oppressiva in Lombardia, pochi cuori italiani le saranno propensi.

Dopo una dimora di sei mesi in Piemonte, protratta ad onta dei riclami del re Carlo Felice e dei gabinetti europei, le truppe austriache non erano in verun modo disposte a far ritorno entro i loro confini. Il governo imaginò allora di chiarire i sospetti che di già aggravavano un gran numero di Lombardi, e di atteggiarsi come se fosse particolarmente minacciato dai fatti del Piemonte e interessato ad impedirne il rinnovellamento. Da quel punto l'occupazione del Piemonte per parte delle truppe austriache vestiva un tutt'altro carattere di prima. La cosa non avea più luogo a chiesta del re di Piemonte, nè più bastava che questo monarca rendesse grazie all'Austria per accommiatarla; ma all'incontro il Piemonte era dall'Austria occupato per essere ciò necessario alla propria tranquillità, sicchè toccava ad essa il far giudizio del quando potesse lasciarlo libero senza suo scapito.

Nove mesi pertanto dopo il termine della rivoluzione piemontese, che viene a dire in novembre del 1821, venne istituita in Milano una giunta estraordinaria per inquisire intorno agli accordi ch'eransi fatti tra i rivoluzionari piemontesi e i malcontenti lombardi. Quieta era cionnonpertanto la Lombardia in quel tempo; le madri dei giovanetti scolari arruolatisi nel battaglione di Minerva avevano riportata promessa dal conte di Strassoldo, presidente del governo di Milano, che la partecipazione di quei giovinetti alla sollevazione sarebbe risguardata come una scappata da scuolari; e fidenti nella promessa, quei giovani erano venuti di nuovo a sedersi sui banchi dell'Università. Il marchese Pallavicini e Gaetano Castillia, reduci anch'essi, nè mai stati molestati, credevano che il passo fatto da loro fosse ignorato o scusato. Ognuno era dunque scevro di apprensioni quando l'istituzione di quella giunta estraordinaria e i nomi dei membri di quella, quasi tutti Tirolesi, vennero ad insospettire la contrada. Erano però i sospetti mitigati dal considerare che nove mesi eran trascorsi da che il principe di Carignano era stato a Milano, vale a dire da che l'Austria era stata ragguagliata delle trame dei liberali milanesi; dietro del che stentavasi a credere che ella avesse intenzione di processarli da senno, giacchè altrimenti non avrebbe lasciato ai sospetti un larghissimo tempo per togliere di mezzo tutti gli obbietti che potevano servire a redarguirli. Conghietturavasi altresì, e non a torto (o ch'io credo), volesse l'Austria con queste dimostrazioni avvalorare unicamente una qualche segreta negoziazione. Può darsi invero che tale e non altra fosse l'intenzione dell'Austria, e allora convien dire, da un funesto concorso di fortuite circostanze essere stati addotti i tristi casi del 1821 e degli anni seguenti. Il primo mandato di cattura spiccato dalla giunta estraordinaria trasse nelle carceri Gaetano Castillia, quel desso ch'era ito in Piemonte col marchese Pallavicini. Uno de' suoi fratelli, Giovanni Castillia, era testè giunto d'Inghilterra, ove avea fatto incidere sopra un suggello le sue iniziali G. C. e quest'impresa, tratta dall'Alfieri: Leggi e non re, l'Italia c'è. Conoscendo egli l'indole aombrosa della Polizia di Milano, e la condizione sospettosa del fratello, erasi guardato dal recare a casa sua quel suggello e avealo deposto presso la signora Camilla Fè, la quale, per ragione del sesso, era creduta al sicuro dalle persecuzioni austriache. Trovandosi un giorno in casa di quella signora, rammentossi Giovanni Castillia d'una lettera del console delle corti di Spagna a Genova, per nome Beremendi, pervenutagli alcuni giorni prima ed alla quale non avea fatto risposta. Prese tosto la penna e scrisse di fretta alcune linee, cui sottoscrisse colle sue iniziali G. C., e veduto poscia sul tavolino il suo suggello, se ne valse spensieratamente per suggellare la sua lettera, cui mandò incontanente alla posta. In Ispagna fervea allora la rivoluzione, e il Beremendi era console delle corti ispaniche; bastava perciò a destare i sospetti della Polizia il semplice indirizzo d'una lettera ad un tale personaggio: or quanto più quando lo spaventoso esergo Leggi e non re, l'Italia c'è, ne contrasegnava il suggello! Il direttore della posta aperse pel primo quella lettera, cui attribuì senza peritanza a Gaetano Castillia, quel desso che era andato in Piemonte. Bolza, Cardano ed un altro di cui non rammento il nome ebbero pertanto incontanente l'ordine di recarsi a frugar nelle carte e robe di Gaetano Castillia e di catturarlo nel caso che da quella inquisizione emergesse un qualche gravame contro di lui. Gaetano Castillia avea ricevuto alla sera una lunga lettera di Emmanuele Marliani, che allora trovavasi in Ispagna e venne in fama di poi per la luminosa sua comparsa in quella contrada. Vi si conteneano dei particolari intorno alle cose della Spagna, delle considerazioni sul probabile scioglimento di quelle faccende, come pure delle considerazioni sull'Italia, congiunte a voti per essa, e forse altresì intorno agli ultimi tentativi fattisi in Piemonte, e l'ammaestramento che si dovea trarre da quei fatti. Subito erasi posto il Castillia a rispondervi; e, spesavi una parte della notte, avea poi chiuso diligentemente la lettera e la risposta in un cassettino frammezzo a pannilini, proponendosi di ardere alla mattina per tempo la lettera e di mandar la risposta. Ma fu antivenuto dagli agenti della Polizia. Non aggiornava ancora quando questi agenti gli si presentarono, esortandolo a nulla occultare. Ei consegnò loro le sue chiavi, e se ne rimase tranquillo spettatore della loro disamina sintanto che li vide intenti a frugare nel suo scrittoio e nello scrigno delle sue scritture; ma ben dovette fare forza a sè stesso quando li vide volgersi all'armadio delle biancherie, aprirne i cassettini, porre le mani sui pannilini che coprivano quelle lettere, ed estrarnele. Il solo fatto di avere occultate quelle carte era motivo di sospetto contro il Castillia, e bastava ad autorizzarne la cattura; ond'è che il Bolza lo avvertì che una vettura da nolo aspettavalo alla porta, e gl'intimò di venirgli dietro in carcere. Uno dei fratelli del Castillia¹ avendo ottenuto il permesso di accompagnarlo alla prigione, giovossi di quella congiuntura per dargli alcuni consigli, e recossi poscia difilato dal marchese Pallavicini a narrargli la disgrazia accaduta al fratello, e ad esortarlo di sottrarsi con la fuga ad un simile destino.

¹ Non era già quello di cui ho fatto menzione qui sopra, e il quale fu causa prima, benchè innocente, di tante sciagure.

Ho detto che il Pallavicini era giovane assai. Egli avea certamente nudrita la sua mente con la lettura di Plutarco e di Tito Livio, e imparatovi come i grandi uomini dell'antichità si sagrificassero pei loro amici e sapessero morire con essi quando non potean salvarli. E in vero non ebbe appena udito della cattura dell'amico, che attribuendone subito la causa al viaggio fatto di conserva con esso in Piemonte, esclamò: «volere, ben lungi dal fuggire, voler condividere il destino del Castillia; il massimo torto essere stato il suo; aver lui proposto quel viaggio; non averlo seguìto l'amico se non per condescendenza, ec., ec.». Nè fu pago di dir queste cose fra le domestiche pareti; ma, fatto sordo ai consigli, e direi quasi alle suppliche instanti del fratello del Castillia, il quale sforzavasi di fargli intendere i tristi possibili effetti del passo ch'egli stava per fare, uscì precipitoso fuori di casa e corse senza prendere fiato all'ufficio della Polizia, ove richiese ad uno ad uno tutti gli ufficiali in cui si abbattè, di chiuderlo in carcere col suo amico. Quelle strane instanze non ebbero lo sperato esito. Il Pallavicini fu ributtato burberamente; gli dissero non bastare il voler essere incarcerato per venir chiuso in carcere, e lo esortarono ad andarsene. Io non so invero se questa mattia fosse necessaria per cagionare l'arresto del Pallavicini; perocchè la sua gita in Piemonte veramente ponealo fra' primi nella lista dei sospetti; e se l'Austria era allora determinata a porre in chiara luce gli accordi che eransi fatti nel 1821 fra i Lombardi e i Piemontesi, essa non potea cominciar meglio l'opera sua che con la cattura del Pallavicini. Fatto è che questi non dovette sospirare un lungo tempo pel carcere. Due giorni dopo la strana sua domanda all'ufficio della Polizia, il conte Bolza, appressatoglisi all'uscir dal teatro, invitollo a venirgli dietro, nè lasciollo se non dopo ch'esso fu chiuso in una segreta poco lontana da quella in cui era il Castillia.

Troppo avea presunto di sue forze e di sua fermezza il Pallavicini. Schietto, generoso e disposto a prodezza, ma semplice ed ingenuo, viziato da quella levità di carattere per cui l'animo va fluttuando fra le più contrarie disposizioni, si empie oggi di matte speranze per isprofondarsi domani nello sterminato abisso della disperazione, era il Pallavicini uno di que' tali che sono in grado del pari o di commetter le più grandi o le più nocive azioni, o di starsene inerti del tutto, secondochè portano le circostanze, e sempre senza premeditazione, tranne però il primo caso. Com'ei si vide in carcere, tosto s'accorse che la sua propria sciagura non punto alleggiava quella dell'amico, e concepì un ardente desiderio della libertà. Sua madre, da cui era amato teneramente, desiderava ch'ei fosse liberato, più ancora che nol desiderasse egli stesso; e la Polizia, o, per dir meglio, il governo, proposesi di avvantaggiarsi dei sentimenti della madre e del figliuolo. Non appena i membri del tribunale straordinario e il giudice istruttore, Menghini, vennero in cognizione della levità ed impetuosità del carattere del captivo, che prepararono le loro macchine. Obbliava di già l'Austria in quel tempo, che la faccenda non era stata ad altro fine indirizzata che a somministrarle un pretesto per prolungare l'occupazione del Piemonte e del reame di Napoli. Avendo essa posto in campo sospetti, volea giustificarli. Ben sapea esservi stata congiura, perocchè aveane avuto contezza dal principe di Carignano, e dacchè erasi posta scopertamente ad inquisire in proposito, temea di apparire melensa ove non la rinvenisse. Impegnato che fu il suo amor proprio, il governo si rassegnò a trovar dei colpevoli, e non fu malagevole il suo cómpito.

Cominciossi per parlare al Pallavicini della congiura come di un fatto notorio ed incontrastabile; poscia, trovando perseverante il prigioniero nel negare un fatto così constatato, e veggendolo domandare con tanta sollecitudine e commozione della propria madre, s'invocò l'opera di questa, la quale, dopo la cattura del figliuolo, non cessava dall'assediare l'anticamera del tribunale. Uno dei giudici chiamolla nel suo gabinetto, l'accolse affabilissimamente, e datele notizie confortanti del figliuolo, la cui fragile salute avea pur troppo a scapitare per una lunga prigionia, aggiunse che la caparbietà di esso nel negare una macchinazione della quale il governo conoscea i più minuti particolari, era cosa fatta per indisporre gli animi contro di lui; che la confessione richiesta al medesimo non era altro che una formalità, un atto di sottomissione indispensabile affatto, ma però tale, che non potea portare sinistre conseguenze per lui nè per altri. Proseguì egli a parlarle in questi sensi, finchè la contessa, interrompendo il discorso, accertollo ch'essa ben comprendeva le benefiche intenzioni di S. M., nè potea dubitare che il figlio non le comprendesse al pari di lei, e non vi si arrendesse con premura e riconoscenza. Interrogò il giudice la contessa Pallavicini se potess'ella sperare d'indurre il figliuolo alla confessione che a lui veniva richiesta, e dietro la risposta affermativa ch'ella diede, la fece introdurre nella prigione del figlio. La storia non dee toccare di quello che sia stato detto allora dalla madre e dal figliuolo, ed è suo debito di rispettare il segreto intorno a simili scene; debito tanto più facile a servare, quantochè il racconto delle medesime potrebbe solo indebolire quell'interesse che ne emerga. Fatto è che il Pallavicini, dopo la visita della madre, confessò quel tanto che gli si richiedea e ch'ei non credea ignorato ormai da veruno. Nelle prigioni dell'Austria è d'uopo eleggere tra un sistema assoluto di diniego, spinto sino all'assurdo, per cui si impugni risolutissimamente tutto quanto può, dappresso o da lungi, direttamente o indirettamente, toccare ad un fatto incriminato, e un sistema di piena confessione, per cui si rinunzi ad occultare una sola delle circostanze del fatto medesimo. Colui che spera di ristrignersi a confessare quel tanto che riguarda sè stesso, senza pregiudicare i suoi sozi, e vorrebbe usare schiettezza da un lato e dissimulazione dall'altro, è perduto; perciocchè il giudice procede a tal modo: ponendo per istabilito il fatto confessato dal reo, mette subito in campo, come conseguenza di esso, un altro fatto ch'ei fa le viste di tenere come confessato implicitamente col primo. E se l'inquisito ricusa di ammettere quest'altro fatto, gli oppone ch'ei distrugge la prima sua confessione, che pecca contro la logica, ec., insino a tanto che esso venga quasi ad arrossire del diniego. Ond'è che l'inquisito è condotto quasi per forza ad ammettere questa conseguenza della prima sua confessione, ed ecco subito messo a lui dinanzi un terzo annello, un'altra conseguenza di secondo grado, che gli è forza ammettere come la precedente; e così si va procedendo via via, insino a tanto che non vi sieno più segreti da propalare. Era il Pallavicini senza dubbio fermamente risoluto di non compromettere altri che sè medesimo, ma compromise di fatti molti altri. Quando se ne fu addato, tentò di ritrattarsi, cadde in disperazione, e rimase come fuori di senno per lungo tratto di tempo. Sicchè troppo acerbo sarebbe il rimproverargli un momento di debolezza che fu espiato così crudelmente.

Come il Pallavicini, così anche il Castillia si persuase di non avere a compromettere altri che sè medesimo, con isgravarsi dal peso d'una perpetua menzogna. E di fatti io non ho pruova alcuna che le sue confessioni abbian portato danno a veruno. Checchè ne sia, il nome del conte Confalonieri venne proferito dinanzi alla giunta, e la cattura di lui fu posta in discussione. Uno degli amici di lui era tuttora in relazione con un antico ufficiale della polizia al quale avea prestato servizio in altri tempi. Questo ufficiale, ora defunto, scrisse subito a quell'amico per avvertirlo del pericolo che il Confalonieri correa. Sospettato egli pure, e persuaso che la casa del Confalonieri doveva essere invigilata attentamente, quell'amico recossi anzitutto dal consigliere Marliani, la cui figliuola era stretta in amicizia e col Confalonieri e coi principali liberali. Parlò con questa signora del modo di ragguagliare il Confalonieri di quanto riguardavalo, e si stabilì fra loro ch'essa invierebbe da lui il servo fidato di suo padre, persona sicura e devotissima. Il Berchet, appressatosi a quella signora nel mentre ch'essa ragionava con l'amico del Confalonieri, udì le loro parole, e immantinenti si diliberò di scampare in estero Stato, nè pose tempo in mezzo ad eseguire quel proponimento. Ricevette pertanto il Confalonieri la notizia che gli amici erano impazienti di fargli giugnere, ma non ne fu punto commosso, e ricusò di fuggire. Alla sera del giorno medesimo, il menzionato ufficiale di polizia scrisse di bel nuovo all'amico suddetto, essere stata stanziata la cattura del Confalonieri. Gli amici si riposero in moto; ed anzi la stessa figliuola del consigliere Marliani recossi dal Confalonieri per fargli presente l'imminenza del pericolo e scongiurarlo ad andarsene.

Diè saggio il Confalonieri in quella occasione d'una levità di carattere, che può servire di spiegazione e di escusazione dei falli ch'egli avea precedentemente commessi. Gl'iterati avvisi mandatigli da' suoi amici erano avvalorati altresì dalle insinuazioni abbastanza chiare del maresciallo conte di Bubna, che teneva in quel tempo il comando militare in Milano, ed era uomo retto e capace di attaccamento. Nelle frequenti visite ch'egli faceva al conte ed alla contessa Confalonieri, non mancava egli di ostentare molta ansietà della mala salute del conte, e dal consigliare a lui ed alla contessa un viaggio di alcuni mesi. Ben comprendeano entrambi il fatto per cui mostravasi inquieto il maresciallo, e raffrontando questi replicati consigli con gli avvertimenti venuti altronde, non potevano dissimularsi il pericolo. Ora perchè mai trascurò egli il Confalonieri l'occasione propizia che gli si offeriva? Perchè mai non volle egli andarsene e starsene fuori per alcun tempo? Voleva egli punirsi della funesta fidanza da lui posta l'anno 1814 nell'Austria? Desiderava egli tergere col martirio la lieve macchia contratta dalla sua riputazione in quel tempo? Benchè questa ipotesi sia molto onorevole pel Confalonieri, difficil cosa è tuttavia il conciliarla coi provvedimenti ch'ei non mancava di fare onde aprirsi al caso una via di scampo. Diceva egli bensì agli amici: «Non partirò; non mi ritirerò a fronte della tempesta, voglio anzi affrontarla; sarà di me quello che Dio vorrà, ec., ec.»; ma intanto facea praticar nel solaio di sua casa un buco che dava nella casa vicina (la casa Bonacina), e per quel buco proponeasi di fuggire camminando sui tetti finchè trovasse od una finestra od un abbaíno aperto per entrare in una qualche casa. Io non so dire s'ei si proponesse di rimanervi celato sotto la salvaguardia dell'ospitalità, o se sperasse di scendere le scale di quella casa e d'uscirne pel portone senza essere veduto o notato. Ben era peccato che il Confalonieri, risoluto, come pare ch'ei fosse, di sguizzar via, non abbia meglio ideato il modo di farlo; ch'egli abbia voluto aspettare fino all'ultimo istante per effettuare il suo disegno, e siasi determinato a tentare una fuga pericolosa pei tetti, quando non solo la porta della sua casa, ma quelle pure della città e dello Stato erangli aperte. Che se alcuno dubitasse della verità della mia asserzione, e credesse in quella vece che il Confalonieri avrebbe forse incontrato maggiori ostacoli alla fuga di quelli ch'io suppongo, io gli risponderei col racconto di un fatterello singolare. Sei settimane prima della sua cattura, il Confalonieri abitava una villa sulle rive del lago di Como, nel sobborgo di questa città chiamato Borgo-Vico. Per festeggiare il giorno onomastico della consorte, egli convitò parecchie persone a pranzo il 15 di ottobre, giorno della festa di santa Teresa. Vennero i convitati all'ora prefissa; trovarono apparecchiata la mensa, raccolta la brigata, ma assenti i padroni. Più ore trascorsero, duranti le quali gli amici colà convenuti rimasero inquietissimi intorno al destino del padrone di casa. Giunse egli finalmente a piedi, preceduto da sua moglie e da' signori Francesco Arese e di Fellberg. Erasi egli spassato nell'approfittare della vicinanza della Svizzera e della libertà con cui passava e ripassava il confine per empire la carrozza di oggetti in frodo de' dazi. Dietro la denunzia di una spia, la sua carrozza era stata visitata e confiscata. Or non poteva egli fare un uso migliore della libertà con cui recavasi cotidianamente in Isvizzera?

Gli è forza pertanto supporre che il Confalonieri, mentre ricusava di fuggire quando gli amici vel consigliavano, proponessesi di andarsene quando a lui paresse opportuno. Nè sarebbevi perciò ragione di rimbrottarlo gravemente; se non che era almeno da desiderare che gli apparecchiamenti da lui fatti a tal uopo fossero stati così bene ideati come quelli suggeritigli dagli amici. Ora a questo proposito egli è da stupire che, dopo aver fatto aprire un varco nel muro divisorio tra la propria casa e la casa Bonacina, il Confalonieri non siasi poi data la briga d'invigilare a fine che quel varco non fosse chiuso. Il che appunto accadde.

Era il Confalonieri male in salute, come ho detto. Giaceva egli a letto quando vennero ansanti i suoi famigliari annunziandogli che agenti della polizia entravano in casa. Balzar fuori del letto, ghermire in fretta gli abiti, e scampar da una porta situata dietro le cortine del letto per andare sul solaio, donde sperava passar nella casa vicina, fu pel Confalonieri la faccenda d'un istante. Di già appressavasi egli al varco, e potea credersi salvo. Vi giunge ansante e trepidante. Tremenda delusione per lui! Il varco era stato chiuso dal padrone della casa vicina, a detta di alcuni, o da un servo dello stesso Confalonieri, a detta di altri. Ognuno però concorda nel dire che quello sgraziato accidente fu mero effetto del caso, e sarebbesi facilmente cansato se il Confalonieri fossesi data la briga di invigilare sopra i mezzi apparecchiati pel proprio scampo. Vedendosi côlto nel laccio, tentò il Confalonieri di scampare per una scala segreta, ma non appena ebb'egli sceso alcuni gradini, che udissi chiamare per nome da un uomo che l'aspettava appiè della scala medesima. Era questi il conte Bolza, l'esecutore di tutte le catture politiche, il quale, armato di due pistole, intimavagli d'arrendersi. Non tardò il Confalonieri a sottomettersi. Le sue carte furono esaminate, ed egli in compagnia degli agenti della polizia e della gendarme, fu condotto in carcere.

Si è questo per avventura il luogo opportuno per dire alcune parole intorno al carattere del conte Confalonieri, che mi è toccato di rappresentare or come fermo, or come leve, or come ambizioso, or come devoto, or come poco scrupoloso, or come di soverchio fidente, e, in una parola, proteiforme. Non è infatti cosa infrequente il trovare accoppiati in un istesso uomo le qualità e i sentimenti più contrari fra loro: e se i caratteri di simil tempra sono uno scoglio da cui debbono guardarsi pel meglio dell'opere loro i romanzieri ed i poeti; lo storico, che è schiavo de' fatti, dee fedelmente ritrarli, non senza aver cura d'avvertire il lettore dello strano spettacolo cui è costretto a porgli sott'occhio.

Ebbe il Confalonieri dalla natura poca sensitività ed un temperamento capacissimo di esaltazione. Non si è venuto in cognizione ch'egli abbia provato forti passioni; ma spesso egli fu veduto commuoversi ed infiammarsi contro certe cose o contro certe persone che dispiaceangli. Egli è inoltre capacissimo di ammirazione; ma io non avviso di fargli torto con dire, essere questo sentimento in lui per lo più raffreddato da un certo quale scetticismo, così comune però in Italia, che non si può farne un particolare rimprovero al Confalonieri. Cresciuto in una famiglia stata devota in ogni tempo all'Austria ed alle idee ch'essa rappresenta, sullo scorcio del secolo decimottavo e frammezzo ad una generazione tutta imbevuta delle dottrine rivoluzionarie, il Confalonieri subì ad un tratto l'influenza dell'orgoglio aristocratico, dello scetticismo volteresco, dell'entusiasmo liberale onde ridondavano i giornali francesi e i bandi dell'esercito francese, e di quell'entusiasmo altresì che era stato messo in voga dall'Alfieri per la libertà de' Greci e de' Romani. L'imaginazione, facoltà dell'animo sì esuberante in Italia, è altresì la facoltà predominante nel Confalonieri; ed una tale facoltà in lui, del pari che in chiunque non la faccia servire ad una forte passione o ad una profonda convinzione, e la lasci esaltarsi e reggersi da sè, non ha mai prodotto alcunchè di veramente bello o grande. L'uomo, il cui animo e il cui cuore non abbiano una base solida da appoggiarvisi, nè scorta illuminata e fida da seguire, vo' dire affetti profondi e massime invariabili, scagliato che sia nella vita pubblica, sarà capace ora di un'azione magnanima, ora di un fatto men che onorato; muterà parere secondo che vel trarrà la versatilità connaturale all'umano genere; benchè forte, cadrà in debolezze; benchè generoso, si abbasserà alla pari di coloro che sono men che generosi; benchè schietto ed aperto, offenderà la verità; benchè accorto e dissimulato, farà le più stolte confessioni; errerà insomma a casaccio, qual nave priva di piloto e di bussola, nell'immenso pelago delle sensazioni, dei pensieri, dei desideri e degl'interessi, lasciandosi andare in balía di quelli e di questi, facendo il saggio di tutto, e sarà vinto alla fine e unicamente dalla stanchezza.

Io non ho fatto con ciò il ritratto del Confalonieri, bensì ho descritto un tipo di cui il Confalonieri è una varietà. L'animo del Confalonieri è naturalmente elevato; la sua mente naturalmente portata ai pensieri nobili o generosi; ma standosi anche rinchiuso nel cerchio del giusto e del bello, il Confalonieri si è dimenato assai, ed ha mutato frequentemente parere e proponimento. Spesse volte altresì egli si è mostrato incoerente, e parve mosso ad un tratto da varii e contrari impulsi, e chiudere in sè parecchi individui diversi.

Nella congiuntura di cui facciamo qui discorso, il Confalonieri seguiva il suo nobile e coraggioso istinto col dichiarare a' suoi amici di non voler partire; cedeva ai dettami della prudenza col far aprire il varco pel quale dovea fuggire, e pagava infine, col trascurare d'invigilare sopra quel varco, il suo tributo alla levità del carattere (chè così può essere chiamata una siffatta impreveggenza). Chi non direbbe che si tratta qui di tre uomini diversi?

Interrogato come il Pallavicini e il Castillia, non doveva il Confalonieri cedere com'essi. Ma la sua impreveggenza tornò agli amici suoi non meno funesta, di quello che a lui fosse stata la fiacchezza del Pallavicini. Desiderando egli far conoscere alla moglie quanto era accaduto fra lui e i suoi giudici, volle scriverle due righe, e s'appigliò a quest'uopo ad uno di quei mezzi che sono da gran tempo usati dai prigionieri, sicchè da niuno sono ormai ignorati. Spiccò dalla invetriata un pezzo di piombo, fecene un rotolino appuntato e se ne valse a guisa di toccalapis per iscrivere una lettera sur un pezzetto di carta. Ciò fatto, era d'uopo trovare un messaggero; ed io non so veramente il perchè siasi il Confalonieri indotto a scegliere per quest'ufficio uno degli uomini della gendarme da cui era custodito. Parve costui intenerito dalle preghiere del nobile captivo; acconsentì alla domanda, promise fede, e recò la lettera al giudice inquisitore. Erano in questa lettera nominati il Fellberg, il Comolli, il Borsieri e alcuni altri, che vennero tosto catturati.

Incalzato dalle interpellanze, e addatosi altronde che la congiura era ben nota al governo, il Confalonieri, nell'atto stesso che confessò d'aver saputo delle macchinazioni dei congiurati, tentò di giustificarsi, allegando di essersi opposto sempre alla loro effettuazione. E in prova di ciò addusse il fatto di avere scritta una lettera al marchese di San Marzano, con cui esortavalo a non affacciarsi al confine lombardo. Interrogato del mezzo con cui avea potuto far capitare questa lettera al San Marzano il Confalonieri nominò la contessa Frecavalli, la quale ebbe a sopportare pochi giorni di poi una visita degli ufficiali della polizia, ed una cattura di tre giorni nelle proprie stanze. Taluno sarà forse desideroso di conoscere il come si osservino dalla polizia austriaca i riguardi che si debbono usare alle donne. La contessa Frecavalli ebbe per custodi nella sua propria stanza due agenti di polizia ed un uomo della gendarme. Uno di questi agenti, per nome Fedeli, giovane ed avvenente, non era privo di una certa quale urbanità di tratto; ma i precisi ordini datigli non gli permisero di accondiscendere al desiderio della contessa Frecavalli, coll'uscir fuori un solo istante dalla camera di lei, nei tre giorni e nelle tre notti dell'arresto della medesima. Ond'essa non volle andare a letto, nè abbandonare la seggiola su cui si era gittata quando vide entrar nella camera gli agenti di polizia, sopportò con piena calma quella soggezione, non tralasciando di tribolare co' suoi sarcasmi quegli agenti, e in particolare il Fedeli, per l'uffizio rozzamente vile cui avevano accettato verso ad una donna. Non era essa più giovinetta in quel tempo, e lo sforzo che fece per non dar a conoscere di sentirsi affetta di soverchio da quella brutalità, le guastò la salute per sempre.

Non debbo omettere di far edotto il lettore del modo col quale venne osservata la promessa fatta dal conte Strassoldo, presidente del Consiglio di governo, alle famiglie dei giovanetti che si erano arruolati nel battaglione di Minerva. Non appena fu in piede la giunta straordinaria per istruire il processo contro i congiurati, che tutti quegli scuolari furono catturati. Invano se ne richiamarono le loro madri presso il presidente del governo; perocchè questi non avea promesso che quel tanto cui credea poter attenere, e il gabinetto di Vienna, poco sollecito dell'onore de' suoi ufficiali, avea testè nominato dei commissari, le cui attribuzioni erano affatto independenti dal presidente del Consiglio di governo. Parecchi di quei giovanetti vennero poi condannati come rei di ribellione; altri furono discacciati dall'Università e ributtati da ogni aringo, come rei di poco attaccamento alla Casa d'Austria.

La casa di correzione riboccava di catturati politici, e novelle catture accrescevano cotidianamente il numero di questi. Tutte le famiglie erano immerse nella costernazione. Niuno usciva di casa senza guardarsi dietro, e senza vedersi seguito da uno o due uomini, male in assetto, e di cera ignobile, come sono per lo più gli agenti segreti di qualunque potestà, e quelli in ispecie di una potestà arbitraria. Quante volte ho io veduto dalla mia finestra un uomo da' cinquanta a' sessant'anni, vestito d'un abito verde, con un cappellaccio calato sul viso, un fazzoletto a colori annodato attorno al collo, la schiena arcata, l'incesso tardo, passeggiar tristamente in istrada, e sostare tratto tratto sotto il portone dalla casa posta dirimpetto, guardando ora all'uno, ora all'altro dei capi di quella strada, o sforzandosi di spinger lo sguardo a traverso le cortine dietro le quali io mi stava. Era costui uno spione ben noto, simile a tutti quelli che erano egualmente appostati in ogni altra strada o davanti ad ogni casa sospetta. Non poteano due persone salutarsi cammin facendo per le vie della città, senza che il direttore della polizia ne fosse subito ragguagliato. Niuno si accostava ad un altr'uomo senza diffidenza; niuno si arrischiava di andare per due giorni di seguito nella istessa casa, per tema di destare sospetti.

Chiari vedeansi sopra tutte le lettere affidate alla posta i segni dell'infrazione del suggello. Quante persone furono chiamate dal direttore della polizia, o tratte a lui dinanzi in sembianza di malfattori, per essere da lui interrogate, per esempio, sur un discorso fatto in loro presenza in un dato giorno e in un dato luogo! Potevano ben esse negare il fatto, fosse o non fosse vero realmente; ma non poteano con ciò raddolcire l'umore aspro del direttore, il quale, contento di incutere loro un momentaneo terrore, le avvertiva con tuono d'oracolo, essergli noti i loro minimi pensieri, biasimarsi questi da lui fortemente, e poco voler tardare a dargliene pruova. Nella città non si parlava d'altro che dei tormenti inflitti ai prigionieri politici, e le segrete dell'Inquisizione pareano un nulla a udire quel che si diceva delle segrete della casa di correzione di Milano. Bucinavasi di cibi o bevande dati ai captivi per alterarne il senno e strappar loro il segreto: ma questa tortura non fu mai e poi mai posta in uso in Milano, nè dagli Austriaci; e si dee lasciarne l'ignominia al duca di Modena, che se ne valse. Se non che i mezzi posti in opera dalla giunta estraordinaria di Milano, dacchè in ispezieltà il Salvotti era stato chiamato da Venezia a Milano per farvi l'ufficio di giudice inquisitore in luogo del Menghini, questi mezzi, men grossolani certamente, erano tuttavia crudeli ed iniqui. Non posso tacere qui di un fatto che varrà di risposta a coloro i quali, per troppa ingenuità di animo, dicessero non potersi dare in Europa un governo capace di sancire, inscrivendole nel suo codice, disposizioni simili a quelle che io debbo menzionare. Ed è, non esservi negli Stati austriaci codice di processura determinato per le giunte estraordinarie, e condursi da queste i processi che sono loro demandati, a seconda delle momentanee occorrenze. Facciasi da ciò ragione dell'estensione veramente sconfinata delle facoltà concesse a queste giunte.

Il Salvotti entrava talvolta a mezza la notte nelle segrete de' prigionieri, e destandoli di repente, facea loro, prima che risensassero dallo stupore e dallo spavento, interrogazioni insidiose, per le quali vantavasi di possedere una rara perizia. La mancanza d'aere libero, e di esercizio, le angoscie d'animo ond'erano oppressi i captivi, tutto in somma conferiva a guastar loro la sanità. Parecchi caddero infermi; alcuni corsero rischio di perder la vita, mentre il Salvotti richiedeva la più piena confessione per concedere agli uni la visita del medico, agli altri il conforto di abbracciare un'ultima volta una persona carissima, o alla maggior parte l'ultimo colloquio con un confessore. Ebbevi un moribondo al quale fu negato un confessore di sua propria scelta, per imporgliene uno il quale, giusta ogni apparenza, era una spia. Avendo l'ammalato risposto che si confesserebbe a Dio, non si osò fare più lunga instanza in proposito e chiamossi il sacerdote desiderato del moribondo. Fecesi però una picciola vendetta sopra il sacerdote istesso, mandando in cerca di lui per modo da indurlo a credere ch'ei fosse chiamato in prigione per rimanervi.

Gli interrogatorii aveano luogo tra l'accusato e il giudice istruttore Salvotti, in presenza d'un cancelliere, il quale scrivea le domande e le risposte. Componea poscia il Salvotti un epilogo di tutti questi interrogatorii, di cui lasciava copia, dopo terminati i costituti, all'inquisito, esortandolo ad apparecchiare pel giorno seguente la risposta, cui davasi il nome di difesa; perocchè in siffatti processi l'accusato non può nè affidare la propria difesa ad un avvocato, nè tampoco giovarsi della dottrina e dei consigli altrui. Il captivo trovavasi adunque improvvisamente e pel breve spazio di ventiquattro ore, costretto a prendere in disamina la voluminosa raccolta delle interrogazioni ch'erangli state fatte, e delle risposte da lui datevi mesi e mesi prima, ed a difendersi. Uno di quegl'inquisiti, fra altri, stette diciotto mesi in carcere, nel quale tempo fu interrogato due sole volte, la prima, subito dopo la cattura, entrante la primavera del 1822, per non altro uopo, che per constatare l'identità della persona; la seconda alla fine dell'anno 1822; dopo del che non vide più i suoi giudici se non nel mese di ottobre dell'anno seguente, in cui fu riposto in libertà. Un captivo può egli assicurarsi dell'esattezza od inesattezza di costituti avvenuti da sì remoto tempo, quando inoltre essi sieno, come furono quelli per esempio del Confalonieri, in tanto numero da giugner quasi ai cento? Se l'inquisito tentava di ridursi le cose a memoria, se pigliava a rettificare i fatti stabiliti dai costituti, se ardivasi ad entrare in discussione col proprio giudice, egli era irreparabilmente perduto. Alcuni appigliaronsi ad un felice compenso. Pregarono l'istesso consigliere Salvotti di stendere le loro difese, in quel modo che avea steso le accuse, dichiarando di rimettersi in tutto e per tutto al suo senno e alla perfetta sua probità. Ed egli, pago di questo tratto di confidenza, si diede con una certa quale vanagloria a fare con eguale acume due parti, l'una opposta all'altra, a sostenere con l'impegno medesimo il pro e il contro. Ond'è che gl'inquisiti che posero le proprie sorti nelle mani di quello strano avvocato, furono meglio difesi che non quelli i quali vollero pigliarsi essi medesimi questa briga.

Ebbevi in questa occasione dei fratelli incarcerati e condannati per non avere voluto farsi accusatori l'uno dell'altro; furonvi persone condannate per non avere tradito il segreto ch'era stato confidato loro; e per meglio dire, quasi tutti coloro de' cui gemiti risuonarono poscia le segrete dello Spielberg non per altro vennero condannati che pel reato di non-rivelazione. Io non preterirò qui l'occasione di encomiare una volta almeno senza miscuglio di biasimo il procedere del conte Confalonieri. Non appena si fu egli addato delle vere intenzioni dell'Austria, e si persuase ch'era certa la sua perdita, e che la speranza con cui lo aveano in sulle prime lusingato, era meramente un'insidia tesa contro la fedeltà sua agli amici, che si appigliò e aderì fermamente al sistema di negar tutto. Allora spiegò quell'irremovibile forza di volere, che fino allora eragli stata sì male in aiuto. Facendo egli forse in allora giusto giudizio dei passati suoi portamenti, riguardò con occhio sereno i patimenti che gli erano destinati e cui poteva accettare a titolo di espiazione. Fatto è che niuno de' suoi compagni di sciagura ebbe a rimproverargli un momento di debolezza; e l'Italia tutta quanta, ponendogli a merito i tanti e sì angosciosi anni di captività, e la nobile rassegnazione con cui egli seppe fare il sagrificio della propria vita e della propria libertà, sdimenticossi gli sgraziati fatti del tempo addietro, e diedegli un posto fra' suoi figliuoli prediletti. In un tempo di crisi e di rivoluzioni come si è quello in cui viviamo da poco meno d'un secolo, gli uomini politici che non s'ingannino mai sono in poco numero; ma minore ancora è il numero di quelli che si purghino in tal guisa di un fallo con un eroico procedere serbato sì a lungo. Gli altri inquisiti si diportarono bene, e quanto a me, io sono accertato che non uno di loro mancò al proprio debito, e che i più fiacchi non peccarono se non contro sè stessi, vale a dire che si persuasero di non confessare se non a proprio danno. Io recherò qui di nuovo un esempio del modo adoperato dalla giunta per istrappare il segreto di bocca agl'inquisiti. Un notaio di Brescia, per nome Bontempi, avea fatto un istromento di donazione o di cessione dei beni dei fratelli Camillo e Filippo Ugoni a pro del loro zio Francesco Ugoni. Quell'istromento fu impugnato come nullo, perchè destinato a conservare ai fratelli Ugoni le loro sostanze, che secondo le leggi portate contro gli spatriati doveano soggiacere a sequestro. Il notaio fu incarcerato e assalito in mille varii modi per trarlo a confessare la simulazione di quella donazione. Ma sia che realmente egli avesse fatto quell'istromento in buona fede, sia che comprendesse essere d'uopo pel proprio scampo il dirlo, fatto è ch'ei negò risolutamente di saperne di simulazione, e sostenne inconcussamente di avere creduto di fare un istrumento valido, e che l'atto era stato fatto nella debita forma, ec., ec. Uno dei testimoni che aveano sottoscritto l'istromento, per nome Panigotti, ricoveratosi in estero Stato subito dopo la cattura del notaio Bontempi, e condottosi a Brusselle, ove stette alcun tempo, era un amico dello stesso notaio. Conoscea la giunta l'amicizia che passava tra 'l Bontempi e il Panigotti, nè ignorava, perchè esperta oramai in siffatte materie, il sentimento angoscioso e cocente da cui viene affetto un uomo posto a fronte di un altro per sostenergli in faccia ch'esso ha mentito; il qual sentimento, ove i due confrontati sieno stati amici fra loro, ne rende il confronto affatto insopportabile. Dietro la cognizione che avea di un tale fatto e, sto per dire, d'una tale legge, il giudice istruttore disse al Bontempi, che il Panigotti, anch'esso captivo, avea confessato quel tanto ch'ei s'ostinava a negare. E aggiunse che, ostinandosi egli tuttora nella impugnativa, gli avrebbero condotto dinanzi l'amico per vedere quello che saprebber dire entrambi in un tale frangente. Udendo e della cattura dell'amico e della confessione del medesimo, rimase il Bontempi costernato. Non reggendo al pensiero di dover dare una mentita all'amico e di passare presso di lui per mentitore, interruppe frettoloso le parole del giudice, che facea le viste di ordinare che colà conducessero il Panigotti, e confessò quanto si volle da lui confessato. Venne perciò condannato ad un anno di carcere. Era egli tratto con buona scorta dalla prigione degl'inquisiti a quella dei condannati per iscontarvi la pena, quando gli venne in mente la speranza di poter conoscere la sorte dell'amico. Trovandosi vicino ad uno dei custodi, lo interrogò se il Panigotti fosse condannato alla stessa pena, se avesse a subirla nell'istesso carcere, e se non fosse soverchiamente afflitto dalla sua sventura. Avrebbe detto anche di più se il custode, che non era edotto di tutti i lacciuoli tesi agl'inquisiti dalla giunta, non l'avesse interrotto ridendo, per assicurarlo che il Panigotti, anzichè essere in carcere, era scampato e stava ottimamente in Brusselle. Il povero notaio s'accorse allora soltanto dell'abisso che gli aveano scavato sotto i piedi, e il raccapriccio cagionatogli dalla scoperta di tanta iniquità fu sì fiero, ch'egli stramazzò tramortito a terra, e non appena risensato, fu côlto da una febbre nervosa, dalle conseguenze della quale non potè mai pienamente riaversi. Il suo gastigo non dovea però finire con la fine della sua prigionia. Ricuperando la libertà, egli non ricuperò già la carica, statagli tolta per effetto della sentenza contro di lui proferita. Avanzato in età, estenuato dal carcere, e sprovvisto di sostanze, il Bontempi visse ancora alcuni anni con le limosine che gli faceano or l'uno or l'altro de' suoi soci di sciagura. Alla fine parecchi mesi trascorsero senza ch'ei fosse veduto recarsi da veruno di loro, com'era il suo solito, per chiedere, quand'era angustiato dal bisogno, un qualche soccorso. Più sollecito degli altri, uno di costoro andò in cerca del vecchio notaio, e le sue indagini lo condussero allo spedale, ove trovò il nome del Bontempi inscritto fra quelli dei defunti nella settimana precedente.

Mesi e mesi erano scorsi dacchè era stata posta in seggio la giunta estraordinaria. Contradittorie voci andavano in giro per la città. I genitori, le mogli, i figliuoli, i congiunti degl'inquisiti assediavano del continuo le anticamere dei giudici, riportando parole di conforto degli uni, minacce terribili degli altri. Il popolo, sempre mal disposto inverso quelli che la pubblica potestà perseguita, obbliava che quegli accusati erano stati già oggetto per lui di reverenza e di affetto, e omai risguardavali come malfattori. La polizia si era data molta briga per ottenere questo effetto. Essa avea calunniato gli inquisiti, dipingendoli come empi, come riprovati dalla nostra santa madre Chiesa, come biastemmiatori, come fabbricatori di veleni, rapitori di fanciulli. Quei nobili cuori, sentendosi abbandonati dal popolare interessamento, erano prostrati. L'Austria poteva esser crudele o generosa a suo senno, ma non fu nè crudele nè generosa.

Il re di Piemonte, il re di Napoli, il duca di Modena e la duchessa di Parma aveano sparso il sangue dei loro sudditi. L'Austria non imitò in questo il loro esempio. Ed ecco il perchè si può dire ch'essa non fu crudele. Ma è egli d'uopo spiegare il perchè non si può encomiarla per clemenza?

Giunsero alla fine le determinazioni dell'imperatore Francesco intorno alle conclusioni della giunta. Alcuni degl'inquisiti furono riposti in libertà, ma assoggettati alla invigilanza della polizia, e astretti a rimanere in città. Quelli fra loro che testè occupavano una carica o esercitavano una professione dependente in qualsivoglia modo dal governo, ne erano privati. Inoltre, aggravando la disgrazia e il danno di questi uomini che avevano sfuggito la condanna, non tralasciò il governo di sparger voci sinistre contro i medesimi; voci che il pubblico accolse premurosamente. Laonde ne avvenne che, usciti dal carcere, privati della carica o della professione, rovinati per l'abbandono delle cose loro, posti in un'ingrata soggezione, pregiudicati gravemente nella salute, esclusi dal posto che aveano lasciato vacante nella società, epperciò doppiamente bisognosi, per poter sopportare la vita nei termini in cui gliel'aveano ridotta, di essere sorretti dalla stima e dalla simpatia generale, ei si trovarono all'incontro isolati frammezzo agli antichi loro amici, videro sul volto di questi non dubbi segni di diffidenza, e dovettero comprendere che nulla ormai rimaneva loro, nemmeno la stima di coloro a pro de' quali aveano posta a repentaglio ogni loro cosa. Tale si era il destino di tutti gli inquisiti riposti in libertà. Omisi di far avvertire che quasi tutti furono rimandati liberi per difetto di pruove legali, cosicchè il loro processo rimaneva aperto, ed essi potevano ad ogni istante essere tratti in carcere di bel nuovo.

I conti Confalonieri e Pallavicini, il barone Arese, Gaetano Castillia, il Borsieri e il Tonelli furono condannati a morte per crimine di alto tradimento. Se non che l'imperatore commutò poi la pena di morte, riguardo al Confalonieri, in quella del carcere duro in perpetuo; riguardo al Pallavicini, al Castillia e al Borsieri in quella del carcere duro per venti anni; riguardo al Tonelli in quella del carcere duro per dieci anni, e infine riguardo al barone Arese in quella del carcere per tre anni.

Or ecco l'accaduto in Vienna relativamente alla condanna del Confalonieri. Il padre e la moglie di lui, un vecchio cioè ed una donna già affetta dalla crudele infermità che la trasse a morte pochi anni di poi, recaronsi a Vienna per implorare a suo favore la grazia imperiale. Durante il processo contro il marito, la contessa Confalonieri erasi mostrata simile a quelle matrone dell'antica Roma, di cui i poeti, anzichè gli storici, ci hanno tramandata la dignitosa imagine. Giovane ancora e dotata di somma avvenenza, ella si chiuse nel proprio palazzo, ne sbandì i piaceri e la compagnia de' suoi coetanei, s'interdisse persino i meri e semplici sorrisi dell'urbanità, per non più attendere ad altro che alle cose del marito e ai mezzi di salvarlo. Un sì nobile dolore avea toccato persino i cuori dei primari ufficiali austriaci, o almen di quelli che non erano stati corrotti dall'abito dell'ipocrisia. Giunse a Vienna, preceduta da una gran riputazione e munita delle più instanti commendatizie pei membri più autorevoli del gabinetto. Uno dei quali, proponendosi veramente di giovarle, avvertilla come un corriere stesse pronto a partire alla vôlta di Milano onde recarvi l'ordine di giustiziare il conte; ed anzi (ma io non so bene se fosse l'istesso od un altro de' suoi colleghi) le fu in aiuto per trattenere con arte quel corriere, quell'istessa mattina in cui ella e lo suocero dovevano essere ammessi ad udienza dall'imperatore.

Francesco I imperatore era d'aspetto così pacato, che sembrava impassibile, e l'imperio che aveva di sè stesso facealo parere mite e dolce. Egli è severo, diceano di lui i cortigiani, ma non iroso; e s'ei punisce, sì il fa per giustizia, e non per passione. La presenza del vecchio padre del Confalonieri turbò tuttavia quella serenità. Gettatoglisi dinanzi ginocchione, il vecchio chiedeagli grazia: esponeva le seduzioni a cui era stato esposto il figliuolo, rammentava i servigi da lui in altri tempi prestati, la devozione da lui e dalla sua famiglia sempre nutrita pei discendenti di Maria Teresa. Parlò alcun tempo, con favella interrotta da' singhiozzi e dalle lagrime, cui asciugava per tornare a supplicare. L'imperatore taceva, ma l'ira che bollivagli in petto parea viepiù gonfiarlo. Proruppe alla fine. Alzatosi, e, deposto repentinamente il sussiego dignitoso e l'usata dissimulazione, si fece presso al vecchio infelice, il quale, sempre inginocchioni, chinava il capo e tenea giunte le mani; gli si chinò all'orecchio e alzando le braccia, come se, suo malgrado, avesse a percuoterlo, dissegli con amaro sorriso e con voce chioccia, ma forte: «Conte Confalonieri, conte Confalonieri, date retta a queste parole: a quest'ora voi non avete più figli».

Pronta fu la contessa a sorreggere il vecchio suocero, che era stato come colpito da fulmine all'udire quelle parole. E, compressi gli affetti ond'era agitata, ripigliò ella le preghiere, cui l'imperatore, pentito forse dell'impeto a cui erasi lasciato andare, diede ascolto finalmente. Parve egli commosso, esitò e finì per promettere di spedire all'indomani lettere di grazia. Per l'indomani ei promise! e il corriere latore del comando di morte stava aspettando, trattenuto unicamente dal protettore della contessa! Raccapricciò la povera donna, perocchè rammentava un episodio dell'antica dominazione austriaca in Lombardia, il fatto cioè di un condannato a morte (era un conte di cui non ricordo il nome), il quale era stato giustiziato un'ora prima che giugnesse l'ordine di grazia. Mostrossi tuttavia lietissima della promessa imperiale, e all'uscir dalla reggia corse dall'amico che avea trattenuto il corriere. Lo zelo di quell'amico non s'intiepidì, chè anzi ei fece ogni sua possa onde ottenere che le lettere di commutazione di pena fossero spedite pria del comando di morte; e la contessa Confalonieri, impaziente d'ogni ritardo al giugnere nella città ove la scure pendea sul collo del marito, si pose in viaggio incontanente con lo suocero alla vôlta di Milano, tremante dalla paura che la tremenda sentenza non venisse eseguita. Dio nol volle. Confalonieri e gli amici suoi viveano, ma destinati a tal vita che allora teneasi quasi peggio che morte.

Evvi legge che comanda l'esposizione pubblica di tutti i condannati a pena del carcere per cinque anni o per tempo più lungo. Io ben ricordo tuttora il giorno destinato all'iniquo spettacolo. I cittadini onesti ed illuminati eransi chiusi in casa, sfuggendo checchè potea loro rammemorare che valentuomini doveano essere in quel giorno trattati a guisa di malfattori, pel loro troppo amore alla propria patria. Il popolo però avea subito l'influenza della doppiezza austriaca. Aveva udito leggere nei templi l'editto contro i carbonari; e avea sentito ripetere tante volte che i liberali macchinavano contro la vita dei poveri, contro la quiete dello Stato e la pubblica felicità che ne deriva, che avea finito per crederlo. Gl'infelici condannati soffrirono certamente di più al veder lo spettacolo di quel popolo traviato, che non soffrissero poi nel subire le umiliazioni cui vollesi altrove assoggettarli. Confalonieri, Andryane, Pallavicini, Castillia, Borsieri e Tonelli, uscirono dal carcere col saio grigio dei prigionieri indosso, e incatenati a coppia. Giunti dinanzi al palazzo di giustizia, salirono sur un palco od armadio di legno, che serve solitamente per queste esposizioni; e di colà udirono leggere la loro sentenza, e subirono gli sguardi insultanti e il mormorare espressivo della plebaglia.

Dopo essere colà rimasti per più d'un'ora, vennero tratti di nuovo nella guisa stessa in carcere, ove passarono ancora alcuni giorni pria di partire alla vôlta dello Spielberg. Invano i loro congiunti arrecaron per essi quei materiali conforti che non sono interdetti nè ai ladri nè agli assassini, i quali sieno in grado di procacciarseli. Volle l'imperatore che i condannati politici avessero a soffrire di più che i galeotti. Ad un pittore amico della casa Castillia, il quale seppe che a Gaetano Castillia era concesso di recare con seco un libro di orazioni, venne in mente di delineare sur un foglio di quel libro i ritratti della sorella e del vecchio genitore del prigioniero; ma essendosi i custodi addati che quest'ultimo tenea per un lungo tempo il libro aperto all'istesso luogo senza voltare la pagina, vollero vedere che cosa ci fosse dentro, o il libro fu incontanente confiscato.

Alla fine il tristo convoglio si avviò; e i condannati, scorrendo quelle vie sì piene per loro di grate memorie, quelle campagne che avevano sì spesso percorse e alcune delle quali loro appartenevano, disperarono certamente di rivederle un'altra volta. Dissero un lungo ed eterno addio all'incomparabile verzura de' nostri prati, al placido azzurro del nostro cielo, alla splendida luce, e ai caldi raggi del nostro sole. Abbandonavano la patria e avevano perduta la libertà; si può egli dare maggiore sventura?

«La buona compagnia che l'uom francheggia »Sotto l'usbergo del sentirsi pura»

non veniva loro meno certamente. Io però non saprei dire se l'animo mio sia più fiacco di quello degli altri uomini, o se siamo tutti soggetti alle istesse debolezze; ma, in quanto a me, confesso che difficilmente potrei serbare ferma ed intatta la stima di me medesimo, a dispetto del biasimo universale. Trattisi un uomo virtuoso come si tratta un malfattore; gli si dimostri disprezzo, avversione, commiserazione all'uopo; sia egli esortato a pentirsi; non gli si lasci udire giammai la verità; sia un tale supplizio per un lungo tempo prolungato, e vedrassi che costui finirà per dubitare di sè stesso. Fra' condannati di quei tempi, ebbevene forse taluno per cui un tale tormento s'aggiunse agli altri, assai meno fieri di questo. Il contegno della popolazione milanese in tutto il tempo dell'esposizione pubblica dei condannati politici fu tale invero dal far entrare quel dubbio cocente negli animi timorati. Il difetto di simpatia o, per meglio dire, l'indifferenza che i condannati videro sui volti nel loro passaggio, ne esacerbò certamente l'angoscia. Un grand'amore di patria richiedesi per esporsi a siffatta ventura; e la storia di queste splendide annegazioni è il più valido argomento che si possa addurre per ismentir formalmente le parole di tutti coloro che ritraggono l'Italia come un mucchio di rovine abitate da una schiatta tralignata.

Poichè ho fatto cenno dell'indifferenza delle popolazioni lombarde inverso a quei condannati, mi tengo in debito di rettificare la esposizione di un fatto, il quale, narrato da un testimonio di buona fede, è stato cionnonpertanto falsamente e calunniosamente interpretato, per modo che una città se ne tenne offesa tutta intiera. L'Andryane lagnossi delle fischiate e delle vociferazioni con cui i condannati vennero accolti al loro passaggio in Verona: ed ei non è uomo che possa cadere in sospetto d'aver alterato scientemente i fatti; perocchè, chiuso com'era in una carrozza, all'udir le fischiate al di fuori, dovette credere che quegl'insulti erano scagliati contro di lui e de' soci. Ma pure altrimenti è spiegata la cosa dai Veronesi. Un ufficiale superiore d'un reggimento del presidio di Verona, temendo certamente di veder prorompere il popolo a qualche dimostrazione di affetto, era uscito dalla città alla testa de' suoi soldati per movere incontro al convoglio dei condannati e scortarlo fino alle carceri della città. Il comandante di Verona avvisò, per lo contrario, che quel provvedimento avesse a far prorompere più facilmente quei sentimenti che importava comprimere, e mandò frettolosamente al detto ufficiale superiore l'ordine di tornare in città e di non far che la cosa dêsse nell'occhio al pubblico. Non pervenne quest'ordine se non dopochè l'ufficiale suddetto avea già incontrato il convoglio, e nell'atto che disponeva i soldati a scortarlo. Ubbidì egli, ma per ricattarsi della contrarietà, e fare un atto di autorità nel mentre stesso che venivagli ingiunto un atto di sommessione, ordinò che venisser calate le gelosie delle carrozze in cui eran chiusi i prigionieri. Il popolo, affollato attorno a quelle carrozze e bramoso di conoscere le nobili vittime, proruppe allora in quelle vociferazioni e fischiate, che i prigionieri tennero per fatte a sè stessi, mentre in realtà andavano a ferire l'autorità militare per la sua premura d'impedire ogni comunicazione fra il popolo stesso e i prigionieri. Duolmi invero che una tale spiegazione non sia stata data più presto ai captivi dello Spielberg, chè sollevati gli avrebbe da un angoscioso pensiero.

Noti sono gli stenti e i patimenti che ebbero a soffrire quei prigionieri. Nè niuno ignora ch'ei non poterono mai comunicare coi loro congiunti, nemmeno sotto l'invigilanza dei custodi; che il Confalonieri non ebbe contezza della morte di sua consorte se non all'uscire dal carcere, che viene a dire più anni dopo il fatto; che l'imperatore Francesco aveva a sè avocata la direzione della polizia dello Spielberg, e che i suoi prigionieri erano a lui rappresentati con cifre. Ond'è che dalla fortezza gli si scrivea, verbigrazia: «Evvi un prigioniero di meno; porremo il N.° 12 al posto del N.° 11, il N.° 13 a quello del N.° 12, e così via via». Il che veniva a dire che il prigioniero indicato col N.° 11 era morto. E così pure niuno ignora l'affanno di quel carceriere che non volea lasciar mozzare al Maroncelli la gamba cancrenata, dicendo: «Io ho ricevuto un prigioniero con due gambe; ora che dirà mai il mio capo se glielo rendo con una gamba di meno?»

Intanto che queste cose avvenivano nelle carceri dello Spielberg, i congiunti dei prigionieri riceveano, due volte all'anno, un polizzino sottoscritto dal governatore della fortezza contenente queste parole: «Il signor (e qui il nome del prigioniero) gode buona salute»; oppure: «è ammalato». I passi fatti da questi congiunti a pro dei prigionieri avevano un esito diverso a seconda dei casi. Agli uni si rispondea che S. M. non avrebbe indugiato gran fatto a perdonare ogni cosa; agli altri, per lo contrario, che S. M. era stata pur troppo misericordiosa per l'addietro, ed era ormai risoluta di non più usare clemenza. L'imperatore non si tenne dal venire a Milano nel 1825, ove fu assediato dalle suppliche delle famiglie involte nel lutto. Il padre di Gaetano Castillia, vecchio venerabile, e pur costante nella sua devozione inverso all'Austria, presentossi all'imperatore, il quale dissegli con affabilità: «Tranquillatevi, mio caro Castillia; io ben vi conosco per un servitore fedele, e ben presto farò per voi ciò che tanto bramate». Andossene il vecchio, commosso, soddisfatto e quasi riconoscente; ma più anni trascorsero senza che si vedesse alcun frutto delle promesse dell'imperatore. Giunse alla fine uno dei soliti polizzini semestrali alla casa Castillia, con triste nuove dello stato di salute del prigioniero; e ciò bastò per far ammalare gravemente il vecchio genitore. Quello stesso fratello il cui sigillo era stata la causa, almeno occasionale, di tante sciagure, recossi incontanente a Vienna per rammentare all'imperatore la promessa. Fu ammesso ad udienza, e scongiurò l'imperatore a non permettere che un vecchio servitore, la cui fedeltà era stata da lui medesimo riconosciuta, chiudesse gli occhi senza poterli per l'ultima volta affisare sul caro volto del suo figliuolo minore. «Che volete?» risposegli l'imperatore con quel tuono di bonarietà che sempre pigliava parlando coi Viennesi, e talvolta altresì con chiunque: «Pensate a quel che mi chiedete; fareste voi grazia a costoro se foste in mia vece?»—«Io vengo, sire, ad impetrare una grazia, e non ad offrirvi un consiglio», rispose Giovanni Castillia. «Guardate un po' in qual modo cotesti liberali sentano la riconoscenza», riprese a dire l'imperatore: «Guardate quel Pellico! Chi non direbbe, al leggere le sue Prigioni, che tutti sono buoni, tranne me solo, che sono un tristo? Egli si guarda però dal dire che la sua pena era di venti anni di carcere duro, ch'io l'ho da prima ridotta a dieci anni, e che l'ho fatto riporre in libertà al principio del quarto anno. Egli non dice neppure che, preso da compassione della sua distretta, io gli ho fatto rimettere, deponendolo sul territorio piemontese, cento ducati d'oro. Andate, andate; siffatta gente è incorreggibile, nè si guadagna nulla a trattarli con dolcezza».

È superfluo l'aggiungere che il vecchio Castillia, essendo sceso nella tomba alcuni mesi prima dell'imperatore Francesco, morì senz'avere riveduto il figliuolo. Affranto dall'età e dalla malattia, accerchiato dagli altri suoi figliuoli, ma sempre affisato col pensiero in quello che avea perduto, ebbe gli ultimi suoi giorni pieni d'angosce e d'affanni. Pareagli continuamente di vedere agenti di polizia appressarsi al suo letto e porre le mani or sull'uno or sull'altro de' suoi figliuoli. Voler parlare, diceva, al direttore generale, volere accertarlo che niuno de' suoi congiurava, voler supplicarlo di lasciarlo morire in pace. Nè quel tremendo delirio cessò che allo spegnersi in lui della vita.

Null'altro mi rimane a dire intorno ai fatti dell'anno 1821, o nulla almeno di cui io possa accertare l'esattezza e che sia ignoto tuttora al pubblico; perocchè non la finirei più s'io volessi narrare l'infinito numero degli aneddoti che corsero per le bocche degli uomini intorno ai tormenti inflitti ai prigionieri, e alla fredda crudeltà dei giudici. Avrei dovuto per avventura riferirne alcuni per additare tutte le cause dello sgomento ormai generale in Lombardia; ma non volli farlo, perocchè mi parve essere sofficiente, anche per ottenere questo intento, la verità incontrastabile.

La storia delle congiure lombarde non è già chiusa con la congiura del 1821. Quando la Francia bandì nuovamente le massime che avea recate giù dall'Alpi nell'anno 1796, l'Italia credette che un governo democratico, fondato sopra l'osservanza dei dritti d'ogni cittadino, dovesse sforzarsi di avere attorno altri governi fondati sopra analoghi princìpi, e non potesse, senza nota di follía, rassegnarsi a lasciar occupare l'Alta-Italia dall'Austria. Si parlò pertanto assaissimo di propaganda nei primi mesi trascorsi dopo l'avvenimento al trono della dinastia orlienese, ned eravi personaggio, per grande, che disdegnasse di darvi mano. Ben presto però cessarono i membri del governo di parlare di propaganda, e vi surrogarono la parola di non-intervento. La Lombardia avea fondate le sue speranze nella propaganda; quando le fu tolta quella speme, si ristrinse a desiderare che non venisse così presto abbandonato il principio del non-intervento. E invero, se questo principio non potea bastare alla Lombardia, soggetta di presente all'Austria, potea esso tuttavia assicurare la liberazione degli altri Stati italiani, i cui governi, troppo deboli di per sè, non si reggono che in grazia del soccorso dell'Austria. Società segrete avevano apparecchiata in tutta l'Italia, tranne la Lombardia, una generale sollevazione, ed un numero assai grande di Lombardi erano complici della congiura, sì per la loro qualità d'Italiani, e sì per la speranza di conseguire più tardi quel tanto che volevano cooperare ad ottenere a pro dei loro compatrioti. Io non vo' qui ripetere ciò che è stato tante volte e da per tutto replicato: che i liberali improntarono i moti di Bologna, di Modena, di Parma, ecc., con un carattere affatto esclusivo, per tema di non dare appiglio alcuno a rimproverarli d'immischiarsi nei fatti dei vicini, e di violare con ciò il principio del non-intervento; che la notizia dell'appressarsi delle truppe austriache non fu mai udita che con disdegno dai cittadini degli Stati sollevati, per essere i medesimi persuasi della inviolabilità del principio del non-intervento; che l'ingresso definitivo di queste truppe, e l'impossessamento per parte loro delle contrade sollevate, fu cosa al tutto inaspettata, e vero sovvertimento del principio dietro il quale erasi operata la rivoluzione. Notissime sono tutte queste cose, e la sposizione degli ulteriori particolari ch'io potrei soggiugnere intorno a quelle congiure e a que' congiurati, porrebbe in pericolo tutti coloro che sono stati sdimenticati dai governi nelle loro persecuzioni. Avvertirò soltanto che se la congiura del 1821 fu ordita di conserva col principe ereditario di Piemonte, quella del 1831 fu concertata col duca di Modena. L'ambizione di fare una bella comparsa sedusseli entrambi; la paura di perdere uno Stato sicuro, benchè mezzano, col volersene creare un altro glorioso, ma incerto e pieno di pericoli, trattenneli entrambi. Le leggi della probità non furono da veruno di essi servate; il duca di Modena si rivolse contro i rivoluzionari ch'egli avea inanimiti, a quel modo istesso che avea fatto dieci anni prima il principe piemontese. Ma questi, più felice dell'altro, non ebbe a condannare di propria mano le macchinazioni che aveva approvate, nè a sottoscrivere di proprio pugno le sentenze di morte contro i suoi partigiani. Abbandonando i rivoluzionari, non fece altro che denunziarne i disegni al maresciallo Bubna e al re Carlo Felice. Il duca di Modena, all'incontro, fece mozzare egli stesso il capo al Menotti, suo amico e suo complice.

Potrei descrivere le trame dell'altre congiure ordite dopo il 1831. Ma le stesse ragioni che mi hanno costretto a tacere delle circostanze tuttora ignorate che si riferiscono alle sollevazioni del 1831, mi sforzano di tacere eziandio di queste nuove macchinazioni, che non ebbero effetto alcuno. Io mi sono proposto di mostrare il come e per quali mezzi sia venuto fatto all'Austria di trasformare un popolo irrequieto, energico, operoso, ambizioso, sindacatore, impetuoso, in quell'altro popolo freddo, inerte, indifferente, sgomentato, cupo e disanimato che abita ora l'Alta-Italia. Se io non ho fallito lo scopo, avrò adoperato per modo che il lettore non ne abbia smarrita la vista, e che, tenendo dietro a' miei passi sulla via da me percorsa, egli abbia, per così dire, sentito l'oppressiva influenza del sistema austriaco calarsi lentamente sul popolo da me descritto, e tarpargli a poco a poco la vita istessa. Per proseguire e condurre a termine l'opera mia non è necessario narrare novelle congiure. Basterà ch'io spieghi alquanto minutamente i mezzi posti in opera dall'Austria, sì per impedire che si rinnovelli o si tenti alcun moto rivoluzionario, e sì per conoscerne e punirne l'intenzione.

Mi sia concesso di riepilogare in poche parole quel tanto che ho già detto a tale proposito. Ho menzionata la legge austriaca che ingiugne ad ogni cittadino di denunziare i delitti politici o d'altra fatta, così nel caso che siangli stati in segreto manifestati, come in quello ch'egli medesimo abbiali scoperti. In certe date circostanze il suddito austriaco è anche in grado di aver a fare di più che non sia il denunziare i colpevoli; perocchè gli è ingiunto di arrestarli, e gli è promessa una mercede per quest'opera. Dal che ne avviene che i soli pubblici uffizi di cui il cittadino austriaco possa attribuirsi l'esercizio senza esservi specialmente autorizzato da una nomina imperiale, sono gli uffici del birro, ed anche del carnefice; perocchè in siffatta congiuntura l'individuo arrestato che faccia contrasto può essere ucciso da chi si è fatto innanzi per arrestarlo, e la colpa dell'omicidio non è allora ad altri imputata che alla vittima. Una popolazione onesta ed intelligente, quale si è certamente la lombarda, si sdegna alla prima lettura di queste odiose leggi; ma non si dà popolo, per illuminato, che valga a sottrarsi agli effetti dell'abitudine. Chi oggi si è sdegnato furiosamente, non proverà più altro domani, per la stessa cagione, che un certo quale dispetto; e il nobile rubellarsi dell'animo suo andrà di giorno in giorno scemando, insino a tanto che si riduca ad un freddo sentimento di biasimo, il quale cederà alla sua volta il luogo al sentimento, più freddo ancora, dell'indifferenza. Ora che avverrà ove i fatti concordino con le leggi, ove tutti i tratti esterni, e come tutti gli accessori del delitto, la pena e il biasimo dell'autorità pubblica, accompagnino l'infrazione di queste inique leggi? L'onestà non è già obbietto per la moltitudine di grandi passioni, di quell'eroico entusiasmo che fa possibile il martirio. L'uomo di volgo non s'indurrà a perdere la libertà, nè gli strumenti della sua arte od industria, nè si rassegnerà a vedersi chiusa la bottega dalla gendarme, piuttostochè appalesare parole dette in sua presenza o nominar persone che sieno passate dinanzi alla sua porta. Io conosco in tutti gli ordini della società degli onesti che sclamerebbero, e a santa ragione, contro questa mia asserzione; il numero di essi sarebbe ancor maggiore in certe congiunture, verbigrazia, negl'istanti di crisi; ma io parlo qui dell'effetto che la pubblicazione e l'esecuzione cotidiana di siffatte leggi dee necessariamente produrre sopra il popolo; e in questi termini niuno potrà accusarmi d'avere infoscato di troppo i colori della mia pittura.

Non è picciolo il numero degli uomini che anteporrebbero la sciagura all'infamia; ma coloro che, edotti del pericolo annesso all'adempimento di una buona azione, avrebbero il coraggio di consigliarla ai loro figliuoli, sono pochi. Le donne sono incomparabilmente più vili in questo particolare che gli uomini. Dovremo pertanto meravigliare che tutti i genitori non crescano la loro prole nella stretta osservanza delle leggi dell'onore, cotanto fatali a coloro che le riveriscono? Io confesso che onesti genitori non s'indurranno giammai ad educare i loro figliuoli per lo spionaggio; ma procureranno di eludere la quistione; ed ove, passando con essi sulla piazza del pretorio, vi veggano un infelice esposto alla berlina per non avere appalesato un segreto ch'eragli stato affidato, ben pochi di loro, interrogati dal fanciullo del delitto commesso da quello sventurato, avranno il coraggio di rispondergli: il suo preteso reato è virtù, e se tu vuoi che la nostra benedizione ti accompagni per a traverso la vita, adopera in quel modo che ha adoperato costui, e sappi soffrire al pari di lui.

Io non voglio, come ho detto e ridetto, esagerare cosa alcuna; ma non è già esagerazione il dire che in una contrada retta da simili leggi, la morale politica non tarda gran fatto ad essere rilassata di molto. Il sentimento che viene a prevaler di gran lunga sotto l'influenza d'una giurisprudenza di tale fatta, si è la paura, la paura di commettere una viltà, la paura di apparire reo d'averla commessa, la paura di esporsi ad affanni per non commetterla. La paura più forte è poi quella che la vince; e da una tale proporzione dipende spesse volte l'onore o l'ignominia di tutta la vita di alcuno. L'uomo prudente non vede in tal caso altro mezzo per uscir dalle strette che quello di cansarsi dal cadere nell'acerba postura da cui non si esce che a prezzo dell'infamia o della condanna; ma l'ottener questo intento è opera di tutta la vita. Chi o per istinto o di proposito si propone un tale intento, deve invigilar di continuo sopra sè stesso. Abbattendosi, cammin facendo, in taluno di cui non bene conosca le opinioni politiche, dee far le viste di non ravvisarlo. Se un amico gli si accosta dicendo volere chiedergli consiglio, l'uomo prudente dee pregarlo di astenersene, e assicurarlo che qualunque altra persona sarà più acconcia pel fatto suo; conciossiacchè questo amico potrebbe volere consigliarsi con lui sulla risposta da farsi ad un emissario dei nemici del governo. Se il proprio figliuolo si mostra mesto e abbattuto, ei dee guardarsi bene dal chiedergliene il motivo, chè quella mestizia potrebbe pur essere mala contentezza politica. Ogni colloquio gli è grave, potendo il discorso repentinamente volgersi alle cose del governo. Gli uomini di questa tempra non sono rari, e sono essi i più onesti fra' vili; ma ove uno d'essi venisse arrestato, oppure solamente interrogato dal direttore della polizia, ov'ei si avvedesse che tutte le sue cautele per reggersi in quel periglioso equilibrio non gli giovarono punto, non dovrassi temere ch'egli rinunzierebbe all'onore, anzichè rinunziare alla propria salvezza? Se tale si è la prudenza delle persone allevate sotto il reggime dello spionaggio austriaco, chi potrà meravigliarsi della diffidenza sparsa generalmente negli animi tutti? Basta che un uomo d'indole amabile e insinuante, di genio compagnevole, frequenti parecchie diverse brigate per essere tosto battezzato col nome infame di spia. Officiosi zelanti corrono in tutte le case aperte dianzi all'amabile persona, e ragguagliano ognuno delle notizie raccolte intorno ad essa. Ed è strana cosa veramente il vedere con somma facilità creduti questi ragguagli. «In fatti», esclama come da repentina luce illuminato il padrone di casa, «in fatti, perchè mai viene egli costui in casa mia? perchè mai vi si mostra egli sempre così amabile? Io non posso invero giovargli in guisa veruna. E da ultimo, quando la sventura che è scesa sovra di me, e le sorde persecuzioni della Polizia mi avevano condannato alla solitudine, perchè mai non si è egli allontanato da me? Ei nulla dunque temeva per sè medesimo? Alla larga da quest'uomo pericoloso».—Basta parimenti che un tale altro si apparti dal mondo e ristringasi a vivere nell'angusto ámbito della propria casa, per dire subito ch'egli ha fatto la spia per un lungo tempo, e che essendo stato svergognato, si è ridotto in solitudine. Chi si mostra apertamente affezionato a Casa d'Austria è naturalmente cansato dagl'Italiani come un nemico; e chi, all'incontro, biasima gli atti del Governo cade in sospetto di voler adescare la confidenza altrui e tendere insidie. Quel ricco non ha egli accresciuto l'avere col prestare alla Polizia segreti servigi? Quel povero resisterà egli alla tentazione d'uscire dalla miseria a patto di commettere qualche viltà? Nissuno è in sicuro da simili sospetti, cosicchè non si dà forse oggidì un Lombardo che possa vantarsi di non temere di nulla. Gli uni, come ho toccato qui sopra, hanno paura di trovarsi compromessi senza saperlo nè volerlo; gli altri paventano di non esser forti abbastanza per non commettere turpitudini; altri ancora temono di trovarsi côlti nel bivio della persecuzione o dell'infamia; e quelli, infine, che sono securi di sè medesimi, nol sono a sufficienza dei loro amici o conoscenti. Ond'io replico, non esservi forse in Lombardia un uomo la cui fiducia nei più intrinseci suoi amici non abbia vacillato ben più d'una volta.

La presente generazione non è già quella del 1814 o del 1821. L'ordine naturale delle cose non porta che i figliuoli sieno formati dai genitori in guisa da rendere nel presente e nell'avvenire intiero omaggio al passato. Ogni generazione può essere, in fatti, risguardata come un gradino dell'ampia scala dell'umanità. Ma in Lombardia la generazione del 1821 non ha nemmeno adempito l'ufficio suo verso la generazione presente che gli è sottentrata. I captivi dello Spielberg, e la moltitudine degli spatriati ricoveratisi in Francia, in Inghilterra, in Ispagna o in Grecia, erano giovani quando abbandonarono la patria. Lasciarono essi per lo più una giovane famiglia, che trovossi priva repentinamente del suo capo e che perciò rimase derelitta. I profughi che tornarono in patria, trovaronvi i loro figliuoli fatti adulti ed anzi fatti uomini; ma quale fu la scorta illuminata che aiutò quei fanciulli a superare il difficile varco dalla puerizia alla virilità? chi ha per essi adempiuto l'importante uffizio paterno? Fu per lo più una donna timida e di corto senno, la quale riguardava le opinioni liberali come mostri devastatori che l'avevano dannata ad una precoce e sforzata vedovanza, e che avrebbe tenuto sè stessa per una madre snaturata se non avesse fatto ogni sforzo per preservare i figliuoli dal pericolo di lasciarsi sottrarre da cotali seduzioni; furono in altri casi vecchi congiunti, naturali e giurati avversari di ogni idea liberale, oppur frivoli amici, scampati dal naufragio che ingoiò gli uomini generosi, solo perchè eran troppo diversi da questi. Io conosco dei giovani, pieni certamente di ottime intenzioni, insigniti dei più splendidi nomi, e possessori d'immensi retaggi, che da una madre pia e divota sono stati cresciuti nel più alto abborrimento d'ogni pensiero politico. È veramente curioso spettacolo il vedere l'aria di candore e di soddisfazione colla quale, alla prima parola di politica proferita da altri in loro presenza, interrompono il discorso per dichiarare che non si sono brigati giammai di tali cose, e che non saranno mai per brigarsene. Chi gli ode e gli esamina attentamente, vede chiaro che la politica è stata loro rappresentata come un vizio depravante, al par del giuoco, della crapula, della lussuria. Confessano bensì questi giovanetti che le materne esortazioni non sono state tutte del pari fruttuose, che certi peccati non sono loro rimasti affatto ignoti; ma pure non sono del tutto corrotti, no, la Dio mercè; fra questi brutti vizi evvene uno almeno, del quale non si sono bruttati, ed è la politica; e per quanto io avviso, questa convinzione giova a rinfrancare la loro coscienza intorno all'altre mende da loro contratte. Ma chi doveva aspettarsi di più da giovanetti allevati per mano di donne e di vecchi? da giovanetti cui null'altro venne insegnato che pregiudizi, e i quali sono stati rinchiusi in un'atmosfera priva de' suoi più salubri elementi, della forza, vo' dire, e della costanza, che sono il pregio dell'uomo e che l'uomo solo può inspirare al fanciullo?

La legge dello spionaggio e la scomparsa quasi totale d'una generazione, per cui furono tolti a tante famiglie i loro naturali capi e custodi, non sono già le sole sorgenti attoscate onde i Lombardi attingono la sonnolenza e la morte. Nulla trascurandosi dall'Austria per anneghittire la contrada, io non posso esimermi dal passare a rapida rassegna i varii rami della sua amministrazione a fine di ragguagliar degli effetti ch'essa produce.

L'istruzione pubblica è assai bene ordinata in Lombardia, vo' dire che il beneficio dell'istruzione vi è sparso da per tutto. Gl'infimi Comuni hanno un maestro ed una maestra di scuola, che insegnano ai figliuoli dei contadini il leggere, lo scrivere, il catechismo, l'aritmetica e la storia sacra. Pochi altri paesi d'Europa sono in questo particolare tanto avvantaggiati quanto è la monarchia austriaca. Il suo governo poche cose spinge all'estremo, ed è anzi propenso assai ai termini di mezzo e ai partiti moderati. Egli è appena più entusiasta dell'ignoranza che nol sia della scienza; ma lo scopo a cui tendono i suoi sforzi, il bene onde vorrebbe arricchire i suoi sudditi, si è la mediocrità. Mediocrità d'ingegno e di dottrina, non curanza di carattere, insensitività di cuore, attutamento delle passioni, scarsità di coraggio e di volontà; ecco quel che vi vuole per l'imperatore d'Austria. Un popolo formato giusta un tale modello non si ribella mai; ubbidisce, paga, ammira il suo padrone, e, se natura il concedesse, lo amerebbe.

Le scuole primarie sono pertanto protette in Austria, perocchè fanno entrar nelle menti del popolo quel primo e fievol barlume del sapere, che trionfa degl'istinti barbarici, e che, signoreggiando il selvaggio, lo guida sino al primo grado della civiltà, all'obbedienza. Benchè imperfettamente costituiti, i ginnasi e i licei potrebbero agevolmente venire riformati. Ma sulle Università particolarmente l'Austria appunta tutte le sue batterie, spiega intiera a tal uopo la sua perizia e la sua tattica, e appalesa pur troppo l'ardente sua brama di soffocare sin da' primordii ogni nobile e generosa tendenza.

Nulla dirò intorno al modo con cui sono nominati i professori, e regolati i pubblici esperimenti dei concorrenti a quei posti; nulla dei maestri mandati direttamente da Vienna, a dispetto dei corpi accademici e degli scuolari; nulla dei quesiti spediti da Vienna per temi degli esperimenti pubblici degli aspiranti alle cattedre; quesiti i quali, stesi in italiano da un Austriaco, sono spesse volte inintelligibili, e quasi sempre assurde. Questi inconvenienti, che sono assai più numerosi ch'io non dica qui, e che in pari tempo sono gravissimi, non possono però venire imputati al mal volere dell'Austria. Le scelte sono mal fatte e i pubblici sperimenti mal diretti, però che gli Austriaci sono di lor natura melensi; i quesiti proposti ai candidati sembrano destinati a muovere il riso e per la stessa cagione; e cosiffatti quesiti sono inviati da Vienna, perchè gli Austriaci presumono assai di sè stessi; i professori viennesi occupano molte cattedre a dispetto di tutto il corpo accademico, perchè è più bello il tener per sè un posto lucroso, che non sia il darlo ad un altro. Sono questi meri inevitabili effetti della straniera signoria, nè in tali fatti, veramente incresciosi, puossi riconoscere l'espressa intenzione di nuocere alla Lombardia. Ma quando io poi veggo scuolari dai venti ai ventiquattro anni d'età, stivati nelle scuole, inchiodati sui loro scanni, non poter permutare il posto fra loro ned appressarsi gli uni agli altri senza incorrere in un solenne e pubblico rabbuffo del professore; quando veggo i professori interrompere la propria lezione ed intimare agli scuolari di ripetere ad alta voce quel tanto che hanno udito; quando io so che l'infrazione di siffatti regolamenti, o l'essere entrato nella sala col cappello in capo, l'essersi affacciato alla porta con un cane dietro, il non avere rasa la barba, ec., bastano per condannare uno studente a ricominciare da capo gli studi; allora io comincio a riconoscere nella costituzione delle Università quella istessa tendenza che già ho notata altrove, a spogliare il Lombardo del sentimento della propria dignità, del proprio valore, della propria forza. Il Consiglio nelle cui mani sono posti i destini dei candidati alla laurea viene a deliberazione intorno a questi tre punti: Il candidato è egli istrutto? È egli stato diligente? Ha egli buoni costumi? Se lo studente ha imparato molto senza essere stato diligentissimo, non si tien conto della sua dottrina, e gli s'ingiunge di ricominciare gli studi dell'anno trascorso. Che se non è stato diligente per nulla egli è scacciato dall'Università, quand'anche egli fosse un Galileo redivivo. Evvi altronde la diligenza così propriamente chiamata, ed evvi la reverenza delle usanze e dei regolamenti universitarii, ch'entra a far parte della diligenza richiesta. Basta, per così dire, che uno studente annodi il collare altrimenti che i suoi condiscepoli, per infrangere le usanze universitarie e tirarsi addosso lo sfratto dall'Università. Passiamo ora a dire del giudizio sui buoni costumi. Questa materia soggiace alla direzione speciale della polizia centrale, che è come il riepilogo di tutte le polizie aizzate sugli studenti; perocchè essi sono invigilati dalla polizia dell'Università stessa, da quella del vescovado, da quella del delegato della provincia, da quella particolare della città, da quella del corpo municipale, e da non so quante altre polizie. Se uno studente ha omesso in un dato giorno festivo di andare ad ascoltare la messa, se ha mangiato carni in un giorno di magro, se ha fischiato od applaudito in teatro, se ha altercato con qualsiasi agente del governo, se gli è uscita di bocca una qualche parola un cotal poco leggermente detta contro i pubblici ufficiali o i loro atti, se ha un libro condannato, se ha contratto una qualche relazione disonesta con alcuno, ed uno di questi mancamenti gli viene apposto da alcuna delle dette polizie, tutta la dottrina di un Cuvier o d'un Humboldt, accoppiata con un'applicazione da Benedittino, non varrà a preservarlo da un avvilitivo sfratto. Ora sono queste le cose che i professori dell'Università hanno dritto di esigere dai giovani confidati alle loro cure? L'Università è essa un convitto di putti? I giovani in procinto di diventare uomini devono essi venir trattati come fanciulli? Sì, certamente, in Austria, ove l'intento così del legislatore, come dell'esecutore delle leggi, o altrimenti l'idea sulla quale è fondato il sistema della pubblica amministrazione, è appunto l'attutamento dell'energia umana, la trasformazione degli uomini in ragazzi, di creature ragionevoli, imputabili e dotate di volontà in creature passive, obbedienti ciecamente, che non presumano di giudicare nè di volere. I fanciulli di cui ho parlato di sopra, la cui educazione non è stata diretta dalla mano ferma ed abile del padre, la cui puerizia non è stata preparazione all'adolescenza, troveranno essi negl'istituti di pubblica istruzione il mezzo di riparare il tempo perduto, potranno essi coltivare, nell'adolescenza, i germi della virilità? Passano essi i giorni dell'adolescenza all'Università, in quel modo che hanno passato gli anni della puerizia presso una madre poco scorta o presso vecchi congiunti acciecati da rancidi pregiudizi. Non v'è nulla in quell'educazione di acconcio a formare un uomo, a maturarne il carattere e il senno, ad addestrarlo a comprendere ed a volere. Vi sono in Lombardia cuori onesti, sensitivi e buoni; vi sono ingegni ben colti, ma ben pochi sono i caratteri virili. Gli uni sono frivoli e leggeri come fanciulli, gli altri sono semplici e candidi, parimenti come i fanciulli; haccene di quelli che amano lo studio, che comprendono facilmente, e che tengono a mente senza sforzo, ma parecchi fanciulli posseggono queste belle doti. Il divario che passa tra l'uomo e il fanciullo non consiste soltanto nella cognizione che dee aver l'uomo di sè stesso e d'altrui, ma anche, ed anzitutto, nel sentimento della propria importanza, di quanto si aspetta da lui, di quanto ei vale ad operare, dell'influenza cui può esercitare, dell'idea cui vuole dedicarla. Tolgasi tutto ciò di mezzo, e non rimarrà cosa nell'uomo, che non appartenga egualmente al fanciullo, non rimarrà cosa che gli si possa invidiare; null'altro insomma gli rimarrà che un cuore meno espansivo, una mente meno vivace, un sorriso meno aggraziato, uno sguardo meno sereno, e delle fattezze appassite.

Il Lombardo non esce mai dall'atmosfera snervante preparatagli dall'Austria. I ricchi godono d'una certa quale libertà, in quanto però non si mostrano disposti a farne uso altrimenti che nell'angusto cerchio dei puerili sollazzi. Chi compra cavalli e carrozze, chi rinnovella ogni anno la mobiglia, chi mantiene concubine con grave spesa è ben veduto dal Governo. Ma chi impegni il nome e i capitali in qualsiasi intrapresa, chi si faccia a proteggere le arti e il commercio, chi apra istituti di beneficenza; chi inventi od introduca macchine, chi proponga miglioríe in qualsivoglia ramo della pubblica amministrazione, chi si dia a scientifiche investigazioni, diventa ben presto sospetto. S'ei batte la via delle cariche, deve deporre ogni speranza di avanzamento, e apparecchiarsi a soffrire le sorde persecuzioni di un governo ipocrita ed implacabile. Se aspira ad un posto vacante, non l'otterrà, perocchè la Polizia, o, per dir meglio, le innumerevoli polizie che stendonsi a guisa d'inestricabil rete su tutto il paese sono interrogate relativamente ad ogni nomina, e basta che alcuna di esse dica: il candidato N. non è ben pensante, i suoi sentimenti sono biasimevoli, o qualche generale taccia gli apponga della stessa fatta, per troncargli la via. Sarà aggravato dal soverchio lavoro, sarà a bella posta trattato sdegnosamente, ad ogni piè sospinto sarà rimproverato, gli si supporranno mancamenti per rabbuffarlo o punirlo, gli si apporranno a colpa le relazioni con persone malvedute dal Governo, gli si imputerà d'avere proferite lagnanze o di averne udite. Una sua domanda a pro dello stabilimento cui è addetto, per quanto siane rilevante od utile lo scopo, non sarà mai ascoltata. I suoi congiunti, i suoi figliuoli, ove battano parimenti la via delle cariche, incorreranno essi pure nel disfavore in cui egli è caduto, sicchè alla fine ei dovrà riguardare sè stesso, ed a ragione, come il flagello della propria famiglia. Sonovi in Lombardia stabilimenti commerciali che caddero d'improvviso in disgrazia del Governo, e ve ne furono di quelli che succumbettero sotto le persecuzioni, perciò che uno de' figliuoli del proprietario avea sposato la figliuola d'un uomo in mala vista dell'autorità. Nè speri alcuno in tal caso ottenere giustizia, venire in cognizione dei torti che gli sono imputati, discussare i fatti, farne accettare la giustificazione. Qualunque instanza tendente a quest'uopo sarà un novello gravame aggiunto ai precedenti. Il direttore della Polizia lo farà chiamare, l'accoglierà a quel modo che i cadì turchi accoglievano, dugent'anni fa, i venditori d'aranci del loro risôrto che contrafacevano alle leggi; gli chiederà adirato, di che abbia a lagnarsi, e se creda che i magistrati sieno tenuti di giustificare presso di lui i sentimenti che inverso a lui nutrono, ed esorterallo alla fine ad interrogare a tale proposito la sua coscienza. Dopo del che ei sarà ancora più malveduto di pria, poichè sarà apparso in fatto poco disposto a riverire i capricci de' suoi padroni e della moltitudine dei loro cagnotti. Tale si è il destino dei pubblici ufficiali, i quali abbiano, anche con una sola parola, esternato i virili loro sentimenti o il loro amore del bene.

Evvi per avventura un ordine di cittadini che potrebbe viversene ed anche lietamente in onta delle malevoli disposizioni del Governo. Che può di fatti temere colui il quale, ricco essendo ed indipendente, nè possedendo nè desiderando onori o dignità, si sta sempre nei termini della legge e non si espone perciò a legali processure? Costui, invero, non ha nulla a temere, ad eccezione però di quell'infinito numero di soprusi e di contrarietà che sono fatte a bella posta per porre alla pruova qualunque pazienza umana, e per affrontare le quali richiedesi forse maggior coraggio che non se ne richiegga per affrontare la bocca del cannone. Nelle città lombarde picciola essendo la compagnia, i varii partiti vi si incontrano continuamente; e il dovizioso che sia in mala vista del Governo vi è esposto agl'insulti continui di tutti i partigiani di questo; insulti altronde con sufficiente accortezza combinati acciò non gli sia concesso di porvi termine con un duello. Tutti i regolamenti di polizia e di finanza, così vessatorii che non sono mai eseguiti, verranno posti ad effetto contro di lui col massimo rigore; talmentechè non potrà uscir di città nè entrarvi senz'essere fermato alla porta e assoggettato a minutissima investigazione; che le guardie daziarie gl'imporranno l'istessa penitenza ogniqualvolta in lui si avverranno sia in città, sia nel contado; ch'ei sarà costretto di andare di passo in certi quartieri o in certe vie; che il direttore di Polizia lo farà tratto tratto chiamare per rimproverarlo da senno perch'egli non si sia cavato il cappello nel passare dinanzi al vicerè, non abbia salutato il governatore, ec. Se in teatro egli avrà fatto le fischiate ad un tristo attore, un agente di polizia lo minaccerà subito di porgli le mani addosso. Nè qui sta il tutto. Le persone o le cose per le quali egli pigliasse interesse, saranno perciò solo malvedute e perseguitate. Se a lui fosse data l'amministrazione di un instituto di beneficenza, quell'instituto avrà tosto a cozzare contro il Governo, cui non mancano i mezzi di nuocergli, e vedrassi inoltre spossessato della pubblica confidenza, che se ne scosterà come da un corpo che sta per disfarsi. Se un Comune lo scegliesse per suo deputato politico, ad esso Comune non verrà più concesso di aprire una strada, di scavare un canale, d'intraprendere in somma qualunque opera pubblica per la quale richieggasi l'approvazione del Governo. Basterà che un libro sia a costui dedicato per portarne il divieto, ch'ei faccia venire un giornale straniero per veder chiuso a quel foglio il confine: nulla, per dirla in breve, potrà riuscirgli a bene. Per un lungo tempo fu in uso un altro genere di persecuzione, il diniego cioè di passaporto. Se una persona sospettata presentavasi alla Direzione della Polizia per ottenere un passaporto, era condotta dal Direttore, il quale, cupamente guardandola, cominciava ad interrogarla in questi termini: «Volete andare in Francia, signore?»—«Appunto, signor Direttore».—«E perchè, di grazia?» Supponendo che l'instante, male accogliendo questa interrogazione, avesse risposto di non esser tenuto a render ragione delle cose sue alla Polizia, di voler andare in Francia perchè tale era la sua intenzione, e così via via, il Direttore, facendosi brusco, rispondeagli: «Non vi parrà male, signore, che, per non esser meglio giustificato il vostro progetto di viaggio, io vi neghi il passaporto»; e accommiatavalo poscia, non senza dargli a conoscere che un'ulteriore sua instanza sarebbe un tal fatto da compromettere gravemente l'autore. Era questo il trattamento che toccava ad un chieditore di passaporti stizzoso. Ora ecco il destino di quello che fosse più umile. Rispondeva questi all'interrogazione del Direttore: «Io mi reco in Francia per affari».—«Di qual natura sono questi affari?» L'instante esponevali alla meglio, ma riportava per lo più questa risposta: «Io non veggo, o signore, che si tratti qui d'affari importanti e pei quali sia indispensabile la vostra presenza. Potete mandare una procura». A dei giovani, i quali alla domanda del Direttore intorno al motivo che gl'induceva ad andare in una contrada straniera, risposero volervisi recare per cagione di salute o per fare i loro studi, replicò il Direttore: «L'aria di Vienna vi farà meglio»; oppure: «Andate a studiare in Vienna».

Ond'è che l'uomo il quale, malveduto dal Governo per essersi lasciato intendere, stretto perciò dall'urgente bisogno di sottrarsi per alcun tempo all'acerba soggezione in cui sentivasi posto, e speranzoso altronde di farsi sdimenticare da' suoi persecutori e di ammansirli col tenersi lontano da loro, diliberavasi ad uscir dallo Stato, non poteva ottenerne il permesso. Era egli fieramente rituffato nell'atmosfera letale che lo soffocava, una ferrea mano tenealo fermo in luogo, e le sue instanze aggravavano la mala disposizione altrui.

Duopo è, mi si dice, il saper resistere alle persecuzioni e non piegarsi sotto di esse. La qual cosa so anch'io; ma quegli che condanna lo sgraziato oppresso dalla soma, non è mai stato certamente nel caso di doverne portare una eguale. Si resiste per un tempo più o meno lungo; si surroga un'intrapresa novella ad una che sia stata sventata; si pone in opera novelli mezzi; picchiasi ad ogni porta, nè si cade d'animo insino a tanto che si spera ottenere un resultato, per quanto sia tenue. Ma giugne il giorno in cui la convinzione di nuocere alla causa cui vorrebbe servire s'impadronisce dell'uomo anche animoso. Gli sovvengono ad un tratto alla mente tutte le faccende che sono ite a male nelle sue mani, tutte le persone cui ha recato danno col volere proteggerle; e questa ricordanza, questa convinzione mortalmente lo feriscono. Tutta la sua energia da quel punto vien meno; ei si rimprovera i suoi sforzi, vergognasi del suo errore e delle sue illusioni, abbandona ogni intrapresa, e col cuore straziato ei corre a nascondere il suo scoramento in un qualche luogo solitario, in una qualche villa remota, ove si fa agricoltore od artiere. Ne ho vedute io pur tante di queste ammirabili angosce, di queste acerbe abdicazioni!

Non cada al lettore di mente che un tale sistema aggrava la Lombardia di già da due generazioni. La prima resistè valorosamente, nè cedette senza pugna; la seconda, allevata per l'obbedienza, si è sottomessa più prontamente.

Dirò, per compendiare il fin qui detto, che il perno del Governo austriaco è la Polizia; che questa gode di un'autorità sconfinata; che non la trattiene riguardo di giustizia o di lealtà; ch'essa fa anzi pompa della sua ingiustizia e della sua slealtà; che non è sottoposta a verun sindacato, nè ad alcuna responsabilità, tranne quella delle idee liberali che potrebbero diffondersi, o delle mosse che potrebbero tentarsi; che nulla accade in Austria senza che essa abbiavi parte; che non è conferita una carica, sia nei tribunali, sia negl'istituti della pubblica istruzione, sia nelle finanze, sia nella Chiesa, nella Corte o nell'esercito, non è concesso favore alcuno, nè inflitto gastigo, nè fondato un istituto, nè dato, infine, qualsivoglia provvedimento senza che la Polizia potentemente abbiavi cooperato. L'onnipotenza della Polizia e del suo direttore si deriva ed estende a tutti i suoi ufficiali. Ogni uomo che abbia che fare con la Polizia per segreti o palesi relazioni, è posto al di sopra delle leggi; la sua testimonianza non potrebb'essere rivocata in dubbio, le sue pretensioni sono sempre ben fondate. Se non che il titolo o la qualità che gli conferisce di sì bei diritti alla infallibilità, il titolo cioè o la qualità di inserviente alla Polizia, lo priva ad un tempo del titolo e della qualità d'uomo onesto ed onorato; donde avviene che l'ordine più infamato della società è appunto per questo l'ordine più potente. Arrogi che quest'ordine è assai numeroso e sempre più cresce di numero, perocchè la spia essendo tal fatta d'uomo che inspira minor fiducia d'ogni altro, non appena è trovato, che si pruova subito il bisogno di farlo spieggiare da altri. Ed ecco in quali termini stieno le cose, verbigrazia, in un villaggio. L'invigilatore d'offizio del Comune per la polizia, è il commissario di Distretto; ma in cambio di far fondamento sopra di lui, il direttore dà all'aggiunto l'incarico d'invigilare attentamente sopra di esso; ma non appena l'aggiunto ha accettato l'onorato incarico, che la sospettosa sollecitudine del direttore è di nuovo ridestata. Perocchè, come può egli confidare che costui sarà più fedele del suo capo, mentre ha un salario minore? Per lo che il primo commesso è fatto invigilatore sopra l'aggiunto, e fa riguardo a questi l'istesso ufficio che l'altro fa riguardo al commissario. Lo spionaggio forma in tal guisa una catena in cui vengono ad annodarsi anche i contadini che hanno un po' di intendimento e d'ambizione. Il parroco è anch'egli talora uno degli annelli principali di questa catena; e il suo esempio, accompagnato dalle sue esortazioni, non basterà esso a persuadere ai semplici abitatori del contado che lo spionaggio è il punto in cui coincidono e felicemente si uniscono l'interesse e il dovere?

Ho detto che gli uomini della presentanea generazione, sottentrante a quella del 1821, si trovarono posti fin dalla più tenera infanzia nella condizione di orfanelli allevati da una madre timida e di corto senno, o da vecchi congiunti, ancor più timidi e meno assennati. Ho detto che l'educazione pubblica che ricevettero nella loro adolescenza non tendeva ad altro scopo che a fiaccare in loro ogni energia, ad inspirar loro l'unica virtù dell'obbedienza, ad inculcar loro queste massime: dovere l'uomo prudente cansare ogni briga; esser tenuto l'uomo giusto e buono a nodrire una sconfinata riconoscenza inverso al sovrano, che, nello spogliarlo d'ogni diritto, lo esime da ogni imbarazzo per non lasciargli altro debito da adempire che quello della sommessione. Ho detto che all'uscir dalla Università, colla mente ancora colpita dalle mostruose dottrine che loro sono state insegnate, quei giovani si trovano oppressi effettivamente sotto il sistema di spionaggio e di tirannia che è stato loro annunziato o, sto per dire, promesso come il migliore possibile governo. Veggono gli uomini generosi ridotti alla impotenza di procurare il bene, perseguitati ed angustiati persino nelle loro cose domestiche; e scorgono, dall'altro canto, i vili ed imbecilli servitori che hanno posto a frutto i funesti ammaestramenti della loro infanzia, insigniti dei segni esteriori della pubblica considerazione, conseguire l'intento di tutte le loro intraprese, passeggiare fastosi per le vie della città, col sorriso sulle labbra, la cera d'uomo contento, grassi e ben pasciuti. Chi meraviglierà che il più gran numero di questi giovani esposti senza schermo ad una serie di seduzioni, ch'ebbe principio, per così dire, fin dalla loro nascita, si lasci trascinare dalla corrente, cada in un certo quale torpore e si persuada da senno che la sua resistenza non avrebbe buon esito? Chi meraviglierà, perimenti, che il picciol numero di quelli il cui animo non può piegarsi a mostrarsi soddisfatto di un tale stato di cose, non sappia trovare altro migliore compenso che quello di abbandonare le città e il mondo per andare a sospirare liberamente ne' campi?

Il governo austriaco ha trionfato della vigoria lombarda; l'ha intorpidita, se non l'ha distrutta. Ma egli stesso sconta ora il fio della sua lunga ipocrisia, dell'intollerabile soggezione impostaci. Col continuo trattarci da fanciulli, si è privato egli pure d'ogni virilità; col continuo fingere e dissimulare, ha contratto il vezzo che contraggono per lo più i menzogneri, ha perduto cioè la coscienza della sua esistenza, o la sua identità. Egli ha conservato l'apparenza della vita che ha logorata contro di noi, ma la vita se n'è da lui sfuggita come dal cadavere sottoposto all'azione galvanica. È come uno di quei leoni di cui sono ora popolati i musei di storia naturale, il cui aspetto è ancora terribile, ma che solo valgono a spaventare i fanciulli. Egli è stato forte ed oppressore dal 1815 fino al 1830; ha scoperto congiure ordite con molto accorgimento, ed ha repressi tutti i tentativi di sollevazione in cui l'Italia aveva posto sue speranze; e ciò mercè la vigilanza della sua Polizia e il numero grande de' suoi soldati. Non pose all'opera il carnefice, nè venne a battaglie armatamano. Le sue truppe mossero coll'arme al braccio, e i congiurati lombardi non diedero mai principio all'esecuzione dei loro disegni. La cosa sarebbe diversa presentemente. L'Austria teme quei rivoluzionari che ha conquisi. I Lombardi temono le persecuzioni austriache, le quali si sono logorate da sè stesse nè puonno più riprodursi. Un attento osservatore ben vede esser l'Austria in preda al terror panico che le inspira la malacontentezza dei Lombardi; ma ei vede pure che questi sono in preda ad un terrore non meno forte e non men puerile, che loro inspira la ricordanza delle vendette austriache. Conferisce assai a conservare all'Austria il suo aspetto terribile la permanenza in alcune cariche di quelle stesse persone che le occupavano nel 1821. Il direttore della Polizia, per esempio, è quello stesso d'allora; ei possiede le tradizioni politiche di Francesco I; ei parla con quel tuono medesimo di vent'anni fa, prorompe nelle stesse minacce, fa gli stessi rimproveri, tiene a' propri cenni un esercito di spie non men numeroso di quello di cui l'anno 1821 o l'anno 1814 videro le prime geste. Ma in ciò consiste la somiglianza tra la Polizia di quel tempo e quella dei giorni nostri. Accade bene spesso che le spie del direttore si pongono ai cenni di quei medesimi cui devono spieggiare. Stendono di conserva con essi le relazioni al Direttore, e li ragguagliano dei sospetti concepiti contro di loro, come pure dei provvedimenti loro relativi. Usa tuttora il direttore di far chiamare i cittadini nel suo gabinetto per rimproverarli o delle loro azioni o delle loro parole, od anche soltanto delle loro opinioni, e minacciarli di un pronto gastigo. Ma questo gastigo non giunge poi, e le persone abbastanza coraggiose per farsi a rispondere dignitosamente al Direttore, non si veggono per questo molestate maggiormente. Potrebbesi scrivere un volume se si volesse riferire le strane e goffe vessazioni commesse dalla censura della stampa¹; ma la sua stessa goffaggine invita ad ingannarla, e si può farlo impunemente. La domanda di un passaporto è tuttora seguìta da una chiamata del direttore della Polizia e da un interrogatorio sul far di quello accennato qui sopra. Il consiglio di andare a Vienna è dato oggidì pure, come vent'anni fa; l'instante è obbligato ad andare e venire più volte dall'uffizio dei passaporti all'anticamera del Direttore, e da questa a quello; vede gli uffiziali strignersi nelle spalle quando ei si mostra inquieto sull'esito di tanto andare e venire, ode confidenzialmente dichiararglisi che avrebbe fatto meglio a non chieder passaporti; ma pure s'ei la dura, senza lasciarsi intimorire, si può scommettere mille contro uno, ch'egli otterrà alla fine l'intento. Una circostanza giovò efficacemente a scavare le fondamenta del governo austriaco; ed è la cognizione recentemente acquisita dai Lombardi della corruzione sconfinata degli impiegati viennesi. Poche sono le cose che non si possano ottenere a Vienna col tempo e col danaro; e i Lombardi, che se ne sono addati, pigliano spesse volte questa via, tirando addosso così agl'impiegati milanesi frequenti mortificazioni.

¹ Per riferirne una sola, diremo che un libraio ricevette una volta un libro (era tedesco) intorno alla botanica, nel quale trattavasi particolarmente della generazione de' semi di certe piante. Non mi ricordo più del titolo del libro; ma so ben che vi si trovava la parola Pollen. Spaventato il Censore, manda chiamando il libraio, e gli dice: «Non potere il libro licenziarsi, il suo subbietto poter aprire un troppo bel campo ai demagoghi, la Polonia (Pohlen) esser morta oramai, ecc., ecc.» E molto stentò il libraio a comprendere che il Censore avea inteso per Pollen, polline dei fiori, Pohlen, la Polonia.

Se alcuno volesse convincermi della vigoria presentanea del governo austriaco, io gli dimanderei se esso ardirebbesi ora di porre alla berlina i più bei nomi della Lombardia, benchè ne sieno ora rivestiti uomini-ragazzi, ben diversi da quelli che li portavano nel 1821. Gli domanderei se la Polizia oserebbe pur solo far ora una perquisizione in uno dei palazzi dell'aristocrazia milanese; e s'egli mi rispondesse di sì, io chiederei qual cagione la trattenga, in tal caso, dal farne laddove essa non ignora esservi ammucchiati ben molti libri e giornali proibiti. Gli chiederei quale sia la fantasima che fa battere di notte tempo la chiama delle truppe austriache, solo per vedere se accorrano e se uomo possa far fondamento sopra di esse in caso di bisogno; che fa minacciare di morte i soldati sbrancati e ingiunger loro di non andare che attruppati; che pone in trambusto la Polizia per l'arrivo di uno straniero, o per un errore d'ortografia che trovisi sul suo passaporto; che fa fare divieto agli Austriaci di bere l'acqua delle fontane; che induce a far loro distribuzioni straordinarie di cartocci da carica, a tenerli chiusi nelle case d'arme, a farli marciare di notte da una città all'altra, e ciò nel mentre che la contrada è tranquilla, che niuno sogna nemmeno di congiurare o di sollevarsi, e che (dirò anzi) ogni sollevazione è considerata dai Lombardi istessi come una mattìa d'impossibile riuscita. Risponderei poscia, che questa fantasima è il terrore d'una coscienza troppo aggravata, d'uno spirito snervato dall'abuso dei mezzi estremi; terrore vano, inesplicabile, e che da noi soli però dipenderebbe il giustificare e il giovarcene pel nostro pro. Vorrei che i Lombardi conoscessero la vera condizione dell'Austria, ripigliassero animo, non si tenessero per chiusi in eterno dentro una tomba, facesser pruova delle loro forze in una progressiva e lenta tenzone con l'Austria, e si proponessero, per esempio, fermamente, di ubbidir solo alle leggi e di resistere legalmente alla potestà arbitraria. Vorrei che facessero questo tentativo; perocchè il fragile impalcato sul quale s'appoggia la potenza austriaca, fieramente scosso, s'agiterebbe un istante per isprofondarsi e scomparire per sempre.

FINE