LA DIVINA COMMEDIA
DI DANTE ALIGHIERI
CANTICA II: PURGATORIO
La Divina Commedia di Dante Alighieri
PURGATORIO
Purgatorio: Canto I
Per correr miglior acque alza le vele omai la navicella del mio ingegno, che lascia dietro a se' mar si` crudele;
e cantero` di quel secondo regno dove l'umano spirito si purga e di salire al ciel diventa degno.
Ma qui la morta poesi` resurga, o sante Muse, poi che vostro sono; e qui Caliope` alquanto surga,
seguitando il mio canto con quel suono di cui le Piche misere sentiro lo colpo tal, che disperar perdono.
Dolce color d'oriental zaffiro, che s'accoglieva nel sereno aspetto del mezzo, puro infino al primo giro,
a li occhi miei ricomincio` diletto, tosto ch'io usci' fuor de l'aura morta che m'avea contristati li occhi e 'l petto.
Lo bel pianeto che d'amar conforta faceva tutto rider l'oriente, velando i Pesci ch'erano in sua scorta.
I' mi volsi a man destra, e puosi mente a l'altro polo, e vidi quattro stelle non viste mai fuor ch'a la prima gente.
Goder pareva 'l ciel di lor fiammelle: oh settentrional vedovo sito, poi che privato se' di mirar quelle!
Com'io da loro sguardo fui partito, un poco me volgendo a l 'altro polo, la` onde il Carro gia` era sparito,
vidi presso di me un veglio solo, degno di tanta reverenza in vista, che piu` non dee a padre alcun figliuolo.
Lunga la barba e di pel bianco mista portava, a' suoi capelli simigliante, de' quai cadeva al petto doppia lista.
Li raggi de le quattro luci sante fregiavan si` la sua faccia di lume, ch'i' 'l vedea come 'l sol fosse davante.
<<Chi siete voi che contro al cieco fiume fuggita avete la pregione etterna?>>, diss'el, movendo quelle oneste piume.
<<Chi v'ha guidati, o che vi fu lucerna, uscendo fuor de la profonda notte che sempre nera fa la valle inferna?
Son le leggi d'abisso cosi` rotte? o e` mutato in ciel novo consiglio, che, dannati, venite a le mie grotte?>>.
Lo duca mio allor mi die` di piglio, e con parole e con mani e con cenni reverenti mi fe' le gambe e 'l ciglio.
Poscia rispuose lui: <<Da me non venni: donna scese del ciel, per li cui prieghi de la mia compagnia costui sovvenni.
Ma da ch'e` tuo voler che piu` si spieghi di nostra condizion com'ell'e` vera, esser non puote il mio che a te si nieghi.
Questi non vide mai l'ultima sera; ma per la sua follia le fu si` presso, che molto poco tempo a volger era.
Si` com'io dissi, fui mandato ad esso per lui campare; e non li` era altra via che questa per la quale i' mi son messo.
Mostrata ho lui tutta la gente ria; e ora intendo mostrar quelli spirti che purgan se' sotto la tua balia.
Com'io l'ho tratto, saria lungo a dirti; de l'alto scende virtu` che m'aiuta conducerlo a vederti e a udirti.
Or ti piaccia gradir la sua venuta: liberta` va cercando, ch'e` si` cara, come sa chi per lei vita rifiuta.
Tu 'l sai, che' non ti fu per lei amara in Utica la morte, ove lasciasti la vesta ch'al gran di` sara` si` chiara.
Non son li editti etterni per noi guasti, che' questi vive, e Minos me non lega; ma son del cerchio ove son li occhi casti
di Marzia tua, che 'n vista ancor ti priega, o santo petto, che per tua la tegni: per lo suo amore adunque a noi ti piega.
Lasciane andar per li tuoi sette regni; grazie riportero` di te a lei, se d'esser mentovato la` giu` degni>>.
<<Marzia piacque tanto a li occhi miei mentre ch'i' fu' di la`>>, diss'elli allora, <<che quante grazie volse da me, fei.
Or che di la` dal mal fiume dimora, piu` muover non mi puo`, per quella legge che fatta fu quando me n'usci' fora.
Ma se donna del ciel ti muove e regge, come tu di', non c'e` mestier lusinghe: bastisi ben che per lei mi richegge.
Va dunque, e fa che tu costui ricinghe d'un giunco schietto e che li lavi 'l viso, si` ch'ogne sucidume quindi stinghe;
che' non si converria, l'occhio sorpriso d'alcuna nebbia, andar dinanzi al primo ministro, ch'e` di quei di paradiso.
Questa isoletta intorno ad imo ad imo, la` giu` cola` dove la batte l'onda, porta di giunchi sovra 'l molle limo;
null'altra pianta che facesse fronda o indurasse, vi puote aver vita, pero` ch'a le percosse non seconda.
Poscia non sia di qua vostra reddita; lo sol vi mosterra`, che surge omai, prendere il monte a piu` lieve salita>>.
Cosi` spari`; e io su` mi levai sanza parlare, e tutto mi ritrassi al duca mio, e li occhi a lui drizzai.
El comincio`: <<Figliuol, segui i miei passi: volgianci in dietro, che' di qua dichina questa pianura a' suoi termini bassi>>.
L'alba vinceva l'ora mattutina che fuggia innanzi, si` che di lontano conobbi il tremolar de la marina.
Noi andavam per lo solingo piano com'om che torna a la perduta strada, che 'nfino ad essa li pare ire in vano.
Quando noi fummo la` 've la rugiada pugna col sole, per essere in parte dove, ad orezza, poco si dirada,
ambo le mani in su l'erbetta sparte soavemente 'l mio maestro pose: ond'io, che fui accorto di sua arte,
porsi ver' lui le guance lagrimose: ivi mi fece tutto discoverto quel color che l'inferno mi nascose.
Venimmo poi in sul lito diserto, che mai non vide navicar sue acque omo, che di tornar sia poscia esperto.
Quivi mi cinse si` com'altrui piacque: oh maraviglia! che' qual elli scelse l'umile pianta, cotal si rinacque
subitamente la` onde l'avelse.
Purgatorio: Canto II
Gia` era 'l sole a l'orizzonte giunto lo cui meridian cerchio coverchia Ierusalem col suo piu` alto punto;
e la notte, che opposita a lui cerchia, uscia di Gange fuor con le Bilance, che le caggion di man quando soverchia;
si` che le bianche e le vermiglie guance, la` dov'i' era, de la bella Aurora per troppa etate divenivan rance.
Noi eravam lunghesso mare ancora, come gente che pensa a suo cammino, che va col cuore e col corpo dimora.
Ed ecco, qual, sorpreso dal mattino, per li grossi vapor Marte rosseggia giu` nel ponente sovra 'l suol marino,
cotal m'apparve, s'io ancor lo veggia, un lume per lo mar venir si` ratto, che 'l muover suo nessun volar pareggia.
Dal qual com'io un poco ebbi ritratto l'occhio per domandar lo duca mio, rividil piu` lucente e maggior fatto.
Poi d'ogne lato ad esso m'appario un non sapeva che bianco, e di sotto a poco a poco un altro a lui uscio.
Lo mio maestro ancor non facea motto, mentre che i primi bianchi apparver ali; allor che ben conobbe il galeotto,
grido`: <<Fa, fa che le ginocchia cali. Ecco l'angel di Dio: piega le mani; omai vedrai di si` fatti officiali.
Vedi che sdegna li argomenti umani, si` che remo non vuol, ne' altro velo che l'ali sue, tra liti si` lontani.
Vedi come l'ha dritte verso 'l cielo, trattando l'aere con l'etterne penne, che non si mutan come mortal pelo>>.
Poi, come piu` e piu` verso noi venne l'uccel divino, piu` chiaro appariva: per che l'occhio da presso nol sostenne,
ma chinail giuso; e quei sen venne a riva con un vasello snelletto e leggero, tanto che l'acqua nulla ne 'nghiottiva.
Da poppa stava il celestial nocchiero, tal che faria beato pur descripto; e piu` di cento spirti entro sediero.
'In exitu Israel de Aegypto' cantavan tutti insieme ad una voce con quanto di quel salmo e` poscia scripto.
Poi fece il segno lor di santa croce; ond'ei si gittar tutti in su la piaggia; ed el sen gi`, come venne, veloce.
La turba che rimase li`, selvaggia parea del loco, rimirando intorno come colui che nove cose assaggia.
Da tutte parti saettava il giorno lo sol, ch'avea con le saette conte di mezzo 'l ciel cacciato Capricorno,
quando la nova gente alzo` la fronte ver' noi, dicendo a noi: <<Se voi sapete, mostratene la via di gire al monte>>.
E Virgilio rispuose: <<Voi credete forse che siamo esperti d'esto loco; ma noi siam peregrin come voi siete.
Dianzi venimmo, innanzi a voi un poco, per altra via, che fu si` aspra e forte, che lo salire omai ne parra` gioco>>.
L'anime, che si fuor di me accorte, per lo spirare, ch'i' era ancor vivo, maravigliando diventaro smorte.
E come a messagger che porta ulivo tragge la gente per udir novelle, e di calcar nessun si mostra schivo,
cosi` al viso mio s'affisar quelle anime fortunate tutte quante, quasi obliando d'ire a farsi belle.
Io vidi una di lor trarresi avante per abbracciarmi con si` grande affetto, che mosse me a far lo somigliante.
Ohi ombre vane, fuor che ne l'aspetto! tre volte dietro a lei le mani avvinsi, e tante mi tornai con esse al petto.
Di maraviglia, credo, mi dipinsi; per che l'ombra sorrise e si ritrasse, e io, seguendo lei, oltre mi pinsi.
Soavemente disse ch'io posasse; allor conobbi chi era, e pregai che, per parlarmi, un poco s'arrestasse.
Rispuosemi: <<Cosi` com'io t'amai nel mortal corpo, cosi` t'amo sciolta: pero` m'arresto; ma tu perche' vai?>>.
<<Casella mio, per tornar altra volta la` dov'io son, fo io questo viaggio>>, diss'io; <<ma a te com'e` tanta ora tolta?>>.
Ed elli a me: <<Nessun m'e` fatto oltraggio, se quei che leva quando e cui li piace, piu` volte m'ha negato esto passaggio;
che' di giusto voler lo suo si face: veramente da tre mesi elli ha tolto chi ha voluto intrar, con tutta pace.
Ond'io, ch'era ora a la marina volto dove l'acqua di Tevero s'insala, benignamente fu' da lui ricolto.
A quella foce ha elli or dritta l'ala, pero` che sempre quivi si ricoglie qual verso Acheronte non si cala>>.
E io: <<Se nuova legge non ti toglie memoria o uso a l'amoroso canto che mi solea quetar tutte mie doglie,
di cio` ti piaccia consolare alquanto l'anima mia, che, con la sua persona venendo qui, e` affannata tanto!>>.
'Amor che ne la mente mi ragiona' comincio` elli allor si` dolcemente, che la dolcezza ancor dentro mi suona.
Lo mio maestro e io e quella gente ch'eran con lui parevan si` contenti, come a nessun toccasse altro la mente.
Noi eravam tutti fissi e attenti a le sue note; ed ecco il veglio onesto gridando: <<Che e` cio`, spiriti lenti?
qual negligenza, quale stare e` questo? Correte al monte a spogliarvi lo scoglio ch'esser non lascia a voi Dio manifesto>>.
Come quando, cogliendo biado o loglio, li colombi adunati a la pastura, queti, sanza mostrar l'usato orgoglio,
se cosa appare ond'elli abbian paura, subitamente lasciano star l'esca, perch'assaliti son da maggior cura;
cosi` vid'io quella masnada fresca lasciar lo canto, e fuggir ver' la costa, com'om che va, ne' sa dove riesca:
ne' la nostra partita fu men tosta.
Purgatorio: Canto III
Avvegna che la subitana fuga dispergesse color per la campagna, rivolti al monte ove ragion ne fruga,
i' mi ristrinsi a la fida compagna: e come sare' io sanza lui corso? chi m'avria tratto su per la montagna?
El mi parea da se' stesso rimorso: o dignitosa coscienza e netta, come t'e` picciol fallo amaro morso!
Quando li piedi suoi lasciar la fretta, che l'onestade ad ogn'atto dismaga, la mente mia, che prima era ristretta,
lo 'ntento rallargo`, si` come vaga, e diedi 'l viso mio incontr'al poggio che 'nverso 'l ciel piu` alto si dislaga.
Lo sol, che dietro fiammeggiava roggio, rotto m'era dinanzi a la figura, ch'avea in me de' suoi raggi l'appoggio.
Io mi volsi dallato con paura d'essere abbandonato, quand'io vidi solo dinanzi a me la terra oscura;
e 'l mio conforto: <<Perche' pur diffidi?>>, a dir mi comincio` tutto rivolto; <<non credi tu me teco e ch'io ti guidi?
Vespero e` gia` cola` dov'e` sepolto lo corpo dentro al quale io facea ombra: Napoli l'ha, e da Brandizio e` tolto.
Ora, se innanzi a me nulla s'aombra, non ti maravigliar piu` che d'i cieli che l'uno a l'altro raggio non ingombra.
A sofferir tormenti, caldi e geli simili corpi la Virtu` dispone che, come fa, non vuol ch'a noi si sveli.
Matto e` chi spera che nostra ragione possa trascorrer la infinita via che tiene una sustanza in tre persone.
State contenti, umana gente, al quia; che' se potuto aveste veder tutto, mestier non era parturir Maria;
e disiar vedeste sanza frutto tai che sarebbe lor disio quetato, ch'etternalmente e` dato lor per lutto:
io dico d'Aristotile e di Plato e di molt'altri>>; e qui chino` la fronte, e piu` non disse, e rimase turbato.
Noi divenimmo intanto a pie` del monte; quivi trovammo la roccia si` erta, che 'ndarno vi sarien le gambe pronte.
Tra Lerice e Turbia la piu` diserta, la piu` rotta ruina e` una scala, verso di quella, agevole e aperta.
<<Or chi sa da qual man la costa cala>>, disse 'l maestro mio fermando 'l passo, <<si` che possa salir chi va sanz'ala?>>.
E mentre ch'e' tenendo 'l viso basso essaminava del cammin la mente, e io mirava suso intorno al sasso,
da man sinistra m'appari` una gente d'anime, che movieno i pie` ver' noi, e non pareva, si` venian lente.
<<Leva>>, diss'io, <<maestro, li occhi tuoi: ecco di qua chi ne dara` consiglio, se tu da te medesmo aver nol puoi>>.
Guardo` allora, e con libero piglio rispuose: <<Andiamo in la`, ch'ei vegnon piano; e tu ferma la spene, dolce figlio>>.
Ancora era quel popol di lontano, i' dico dopo i nostri mille passi, quanto un buon gittator trarria con mano,
quando si strinser tutti ai duri massi de l'alta ripa, e stetter fermi e stretti com'a guardar, chi va dubbiando, stassi.
<<O ben finiti, o gia` spiriti eletti>>, Virgilio incomincio`, <<per quella pace ch'i' credo che per voi tutti s'aspetti,
ditene dove la montagna giace si` che possibil sia l'andare in suso; che' perder tempo a chi piu` sa piu` spiace>>.
Come le pecorelle escon del chiuso a una, a due, a tre, e l'altre stanno timidette atterrando l'occhio e 'l muso;
e cio` che fa la prima, e l'altre fanno, addossandosi a lei, s'ella s'arresta, semplici e quete, e lo 'mperche' non sanno;
si` vid'io muovere a venir la testa di quella mandra fortunata allotta, pudica in faccia e ne l'andare onesta.
Come color dinanzi vider rotta la luce in terra dal mio destro canto, si` che l'ombra era da me a la grotta,
restaro, e trasser se' in dietro alquanto, e tutti li altri che venieno appresso, non sappiendo 'l perche', fenno altrettanto.
<<Sanza vostra domanda io vi confesso che questo e` corpo uman che voi vedete; per che 'l lume del sole in terra e` fesso.
Non vi maravigliate, ma credete che non sanza virtu` che da ciel vegna cerchi di soverchiar questa parete>>.
Cosi` 'l maestro; e quella gente degna <<Tornate>>, disse, <<intrate innanzi dunque>>, coi dossi de le man faccendo insegna.
E un di loro incomincio`: <<Chiunque tu se', cosi` andando, volgi 'l viso: pon mente se di la` mi vedesti unque>>.
Io mi volsi ver lui e guardail fiso: biondo era e bello e di gentile aspetto, ma l'un de' cigli un colpo avea diviso.
Quand'io mi fui umilmente disdetto d'averlo visto mai, el disse: <<Or vedi>>; e mostrommi una piaga a sommo 'l petto.
Poi sorridendo disse: <<Io son Manfredi, nepote di Costanza imperadrice; ond'io ti priego che, quando tu riedi,
vadi a mia bella figlia, genitrice de l'onor di Cicilia e d'Aragona, e dichi 'l vero a lei, s'altro si dice.
Poscia ch'io ebbi rotta la persona di due punte mortali, io mi rendei, piangendo, a quei che volontier perdona.
Orribil furon li peccati miei; ma la bonta` infinita ha si` gran braccia, che prende cio` che si rivolge a lei.
Se 'l pastor di Cosenza, che a la caccia di me fu messo per Clemente allora, avesse in Dio ben letta questa faccia,
l'ossa del corpo mio sarieno ancora in co del ponte presso a Benevento, sotto la guardia de la grave mora.
Or le bagna la pioggia e move il vento di fuor dal regno, quasi lungo 'l Verde, dov'e' le trasmuto` a lume spento.
Per lor maladizion si` non si perde, che non possa tornar, l'etterno amore, mentre che la speranza ha fior del verde.
Vero e` che quale in contumacia more di Santa Chiesa, ancor ch'al fin si penta, star li convien da questa ripa in fore,
per ognun tempo ch'elli e` stato, trenta, in sua presunzion, se tal decreto piu` corto per buon prieghi non diventa.
Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto, revelando a la mia buona Costanza come m'hai visto, e anco esto divieto;
che' qui per quei di la` molto s'avanza>>.
Purgatorio: Canto IV
Quando per dilettanze o ver per doglie, che alcuna virtu` nostra comprenda l'anima bene ad essa si raccoglie,
par ch'a nulla potenza piu` intenda; e questo e` contra quello error che crede ch'un'anima sovr'altra in noi s'accenda.
E pero`, quando s'ode cosa o vede che tegna forte a se' l'anima volta, vassene 'l tempo e l'uom non se n'avvede;
ch'altra potenza e` quella che l'ascolta, e altra e` quella c'ha l'anima intera: questa e` quasi legata, e quella e` sciolta.
Di cio` ebb'io esperienza vera, udendo quello spirto e ammirando; che' ben cinquanta gradi salito era
lo sole, e io non m'era accorto, quando venimmo ove quell'anime ad una gridaro a noi: <<Qui e` vostro dimando>>.
Maggiore aperta molte volte impruna con una forcatella di sue spine l'uom de la villa quando l'uva imbruna,
che non era la calla onde saline lo duca mio, e io appresso, soli, come da noi la schiera si partine.
Vassi in Sanleo e discendesi in Noli, montasi su in Bismantova 'n Cacume con esso i pie`; ma qui convien ch'om voli;
dico con l'ale snelle e con le piume del gran disio, di retro a quel condotto che speranza mi dava e facea lume.
Noi salavam per entro 'l sasso rotto, e d'ogne lato ne stringea lo stremo, e piedi e man volea il suol di sotto.
Poi che noi fummo in su l'orlo suppremo de l'alta ripa, a la scoperta piaggia, <<Maestro mio>>, diss'io, <<che via faremo?>>.
Ed elli a me: <<Nessun tuo passo caggia; pur su al monte dietro a me acquista, fin che n'appaia alcuna scorta saggia>>.
Lo sommo er'alto che vincea la vista, e la costa superba piu` assai che da mezzo quadrante a centro lista.
Io era lasso, quando cominciai: <<O dolce padre, volgiti, e rimira com'io rimango sol, se non restai>>.
<<Figliuol mio>>, disse, <<infin quivi ti tira>>, additandomi un balzo poco in sue che da quel lato il poggio tutto gira.
Si` mi spronaron le parole sue, ch'i' mi sforzai carpando appresso lui, tanto che 'l cinghio sotto i pie` mi fue.
A seder ci ponemmo ivi ambedui volti a levante ond'eravam saliti, che suole a riguardar giovare altrui.
Li occhi prima drizzai ai bassi liti; poscia li alzai al sole, e ammirava che da sinistra n'eravam feriti.
Ben s'avvide il poeta ch'io stava stupido tutto al carro de la luce, ove tra noi e Aquilone intrava.
Ond'elli a me: <<Se Castore e Poluce fossero in compagnia di quello specchio che su` e giu` del suo lume conduce,
tu vedresti il Zodiaco rubecchio ancora a l'Orse piu` stretto rotare, se non uscisse fuor del cammin vecchio.
Come cio` sia, se 'l vuoi poter pensare, dentro raccolto, imagina Sion con questo monte in su la terra stare
si`, ch'amendue hanno un solo orizzon e diversi emisperi; onde la strada che mal non seppe carreggiar Feton,
vedrai come a costui convien che vada da l'un, quando a colui da l'altro fianco, se lo 'ntelletto tuo ben chiaro bada>>.
<<Certo, maestro mio,>> diss'io, <<unquanco non vid'io chiaro si` com'io discerno la` dove mio ingegno parea manco,
che 'l mezzo cerchio del moto superno, che si chiama Equatore in alcun'arte, e che sempre riman tra 'l sole e 'l verno,
per la ragion che di', quinci si parte verso settentrion, quanto li Ebrei vedevan lui verso la calda parte.
Ma se a te piace, volontier saprei quanto avemo ad andar; che' 'l poggio sale piu` che salir non posson li occhi miei>>.
Ed elli a me: <<Questa montagna e` tale, che sempre al cominciar di sotto e` grave; e quant'om piu` va su`, e men fa male.
Pero`, quand'ella ti parra` soave tanto, che su` andar ti fia leggero com'a seconda giu` andar per nave,
allor sarai al fin d'esto sentiero; quivi di riposar l'affanno aspetta. Piu` non rispondo, e questo so per vero>>.
E com'elli ebbe sua parola detta, una voce di presso sono`: <<Forse che di sedere in pria avrai distretta!>>.
Al suon di lei ciascun di noi si torse, e vedemmo a mancina un gran petrone, del qual ne' io ne' ei prima s'accorse.
La` ci traemmo; e ivi eran persone che si stavano a l'ombra dietro al sasso come l'uom per negghienza a star si pone.
E un di lor, che mi sembiava lasso, sedeva e abbracciava le ginocchia, tenendo 'l viso giu` tra esse basso.
<<O dolce segnor mio>>, diss'io, <<adocchia colui che mostra se' piu` negligente che se pigrizia fosse sua serocchia>>.
Allor si volse a noi e puose mente, movendo 'l viso pur su per la coscia, e disse: <<Or va tu su`, che se' valente!>>.
Conobbi allor chi era, e quella angoscia che m'avacciava un poco ancor la lena, non m'impedi` l'andare a lui; e poscia
ch'a lui fu' giunto, alzo` la testa a pena, dicendo: <<Hai ben veduto come 'l sole da l'omero sinistro il carro mena?>>.
Li atti suoi pigri e le corte parole mosser le labbra mie un poco a riso; poi cominciai: <<Belacqua, a me non dole
di te omai; ma dimmi: perche' assiso quiritto se'? attendi tu iscorta, o pur lo modo usato t'ha' ripriso?>>.
Ed elli: <<O frate, andar in su` che porta? che' non mi lascerebbe ire a' martiri l'angel di Dio che siede in su la porta.
Prima convien che tanto il ciel m'aggiri di fuor da essa, quanto fece in vita, perch'io 'ndugiai al fine i buon sospiri,
se orazione in prima non m'aita che surga su` di cuor che in grazia viva; l'altra che val, che 'n ciel non e` udita?>>.
E gia` il poeta innanzi mi saliva, e dicea: <<Vienne omai; vedi ch'e` tocco meridian dal sole e a la riva
cuopre la notte gia` col pie` Morrocco>>.
Purgatorio: Canto V
Io era gia` da quell'ombre partito, e seguitava l'orme del mio duca, quando di retro a me, drizzando 'l dito,
una grido`: <<Ve' che non par che luca lo raggio da sinistra a quel di sotto, e come vivo par che si conduca!>>.
Li occhi rivolsi al suon di questo motto, e vidile guardar per maraviglia pur me, pur me, e 'l lume ch'era rotto.
<<Perche' l'animo tuo tanto s'impiglia>>, disse 'l maestro, <<che l'andare allenti? che ti fa cio` che quivi si pispiglia?
Vien dietro a me, e lascia dir le genti: sta come torre ferma, che non crolla gia` mai la cima per soffiar di venti;
che' sempre l'omo in cui pensier rampolla sovra pensier, da se' dilunga il segno, perche' la foga l'un de l'altro insolla>>.
Che potea io ridir, se non <<Io vegno>>? Dissilo, alquanto del color consperso che fa l'uom di perdon talvolta degno.
E 'ntanto per la costa di traverso venivan genti innanzi a noi un poco, cantando 'Miserere' a verso a verso.
Quando s'accorser ch'i' non dava loco per lo mio corpo al trapassar d'i raggi, mutar lor canto in un <<oh!>> lungo e roco;
e due di loro, in forma di messaggi, corsero incontr'a noi e dimandarne: <<Di vostra condizion fatene saggi>>.
E 'l mio maestro: <<Voi potete andarne e ritrarre a color che vi mandaro che 'l corpo di costui e` vera carne.
Se per veder la sua ombra restaro, com'io avviso, assai e` lor risposto: faccianli onore, ed essere puo` lor caro>>.
Vapori accesi non vid'io si` tosto di prima notte mai fender sereno, ne', sol calando, nuvole d'agosto,
che color non tornasser suso in meno; e, giunti la`, con li altri a noi dier volta come schiera che scorre sanza freno.
<<Questa gente che preme a noi e` molta, e vegnonti a pregar>>, disse 'l poeta: <<pero` pur va, e in andando ascolta>>.
<<O anima che vai per esser lieta con quelle membra con le quai nascesti>>, venian gridando, <<un poco il passo queta.
Guarda s'alcun di noi unqua vedesti, si` che di lui di la` novella porti: deh, perche' vai? deh, perche' non t'arresti?
Noi fummo tutti gia` per forza morti, e peccatori infino a l'ultima ora; quivi lume del ciel ne fece accorti,
si` che, pentendo e perdonando, fora di vita uscimmo a Dio pacificati, che del disio di se' veder n'accora>>.
E io: <<Perche' ne' vostri visi guati, non riconosco alcun; ma s'a voi piace cosa ch'io possa, spiriti ben nati,
voi dite, e io faro` per quella pace che, dietro a' piedi di si` fatta guida di mondo in mondo cercar mi si face>>.
E uno incomincio`: <<Ciascun si fida del beneficio tuo sanza giurarlo, pur che 'l voler nonpossa non ricida.
Ond'io, che solo innanzi a li altri parlo, ti priego, se mai vedi quel paese che siede tra Romagna e quel di Carlo,
che tu mi sie di tuoi prieghi cortese in Fano, si` che ben per me s'adori pur ch'i' possa purgar le gravi offese.
Quindi fu' io; ma li profondi fori ond'usci` 'l sangue in sul quale io sedea, fatti mi fuoro in grembo a li Antenori,
la` dov'io piu` sicuro esser credea: quel da Esti il fe' far, che m'avea in ira assai piu` la` che dritto non volea.
Ma s'io fosse fuggito inver' la Mira, quando fu' sovragiunto ad Oriaco, ancor sarei di la` dove si spira.
Corsi al palude, e le cannucce e 'l braco m'impigliar si` ch'i' caddi; e li` vid'io de le mie vene farsi in terra laco>>.
Poi disse un altro: <<Deh, se quel disio si compia che ti tragge a l'alto monte, con buona pietate aiuta il mio!
Io fui di Montefeltro, io son Bonconte; Giovanna o altri non ha di me cura; per ch'io vo tra costor con bassa fronte>>.
E io a lui: <<Qual forza o qual ventura ti travio` si` fuor di Campaldino, che non si seppe mai tua sepultura?>>.
<<Oh!>>, rispuos'elli, <<a pie` del Casentino traversa un'acqua c'ha nome l'Archiano, che sovra l'Ermo nasce in Apennino.
La` 've 'l vocabol suo diventa vano, arriva' io forato ne la gola, fuggendo a piede e sanguinando il piano.
Quivi perdei la vista e la parola nel nome di Maria fini', e quivi caddi, e rimase la mia carne sola.
Io diro` vero e tu 'l ridi` tra ' vivi: l'angel di Dio mi prese, e quel d'inferno gridava: "O tu del ciel, perche' mi privi?
Tu te ne porti di costui l'etterno per una lagrimetta che 'l mi toglie; ma io faro` de l'altro altro governo!".
Ben sai come ne l'aere si raccoglie quell'umido vapor che in acqua riede, tosto che sale dove 'l freddo il coglie.
Giunse quel mal voler che pur mal chiede con lo 'ntelletto, e mosse il fummo e 'l vento per la virtu` che sua natura diede.
Indi la valle, come 'l di` fu spento, da Pratomagno al gran giogo coperse di nebbia; e 'l ciel di sopra fece intento,
si` che 'l pregno aere in acqua si converse; la pioggia cadde e a' fossati venne di lei cio` che la terra non sofferse;
e come ai rivi grandi si convenne, ver' lo fiume real tanto veloce si ruino`, che nulla la ritenne.
Lo corpo mio gelato in su la foce trovo` l'Archian rubesto; e quel sospinse ne l'Arno, e sciolse al mio petto la croce
ch'i' fe' di me quando 'l dolor mi vinse; voltommi per le ripe e per lo fondo, poi di sua preda mi coperse e cinse>>.
<<Deh, quando tu sarai tornato al mondo, e riposato de la lunga via>>, seguito` 'l terzo spirito al secondo,
<<ricorditi di me, che son la Pia: Siena mi fe', disfecemi Maremma: salsi colui che 'nnanellata pria
disposando m'avea con la sua gemma>>.
Purgatorio: Canto VI
Quando si parte il gioco de la zara, colui che perde si riman dolente, repetendo le volte, e tristo impara;
con l'altro se ne va tutta la gente; qual va dinanzi, e qual di dietro il prende, e qual dallato li si reca a mente;
el non s'arresta, e questo e quello intende; a cui porge la man, piu` non fa pressa; e cosi` da la calca si difende.
Tal era io in quella turba spessa, volgendo a loro, e qua e la`, la faccia, e promettendo mi sciogliea da essa.
Quiv'era l'Aretin che da le braccia fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte, e l'altro ch'annego` correndo in caccia.
Quivi pregava con le mani sporte Federigo Novello, e quel da Pisa che fe' parer lo buon Marzucco forte.
Vidi conte Orso e l'anima divisa dal corpo suo per astio e per inveggia, com'e' dicea, non per colpa commisa;
Pier da la Broccia dico; e qui proveggia, mentr'e` di qua, la donna di Brabante, si` che pero` non sia di peggior greggia.
Come libero fui da tutte quante quell'ombre che pregar pur ch'altri prieghi, si` che s'avacci lor divenir sante,
io cominciai: <<El par che tu mi nieghi, o luce mia, espresso in alcun testo che decreto del cielo orazion pieghi;
e questa gente prega pur di questo: sarebbe dunque loro speme vana, o non m'e` 'l detto tuo ben manifesto?>>.
Ed elli a me: <<La mia scrittura e` piana; e la speranza di costor non falla, se ben si guarda con la mente sana;
che' cima di giudicio non s'avvalla perche' foco d'amor compia in un punto cio` che de' sodisfar chi qui s'astalla;
e la` dov'io fermai cotesto punto, non s'ammendava, per pregar, difetto, perche' 'l priego da Dio era disgiunto.
Veramente a cosi` alto sospetto non ti fermar, se quella nol ti dice che lume fia tra 'l vero e lo 'ntelletto.
Non so se 'ntendi: io dico di Beatrice; tu la vedrai di sopra, in su la vetta di questo monte, ridere e felice>>.
E io: <<Segnore, andiamo a maggior fretta, che' gia` non m'affatico come dianzi, e vedi omai che 'l poggio l'ombra getta>>.
<<Noi anderem con questo giorno innanzi>>, rispuose, <<quanto piu` potremo omai; ma 'l fatto e` d'altra forma che non stanzi.
Prima che sie la` su`, tornar vedrai colui che gia` si cuopre de la costa, si` che ' suoi raggi tu romper non fai.
Ma vedi la` un'anima che, posta sola soletta, inverso noi riguarda: quella ne 'nsegnera` la via piu` tosta>>.
Venimmo a lei: o anima lombarda, come ti stavi altera e disdegnosa e nel mover de li occhi onesta e tarda!
Ella non ci dicea alcuna cosa, ma lasciavane gir, solo sguardando a guisa di leon quando si posa.
Pur Virgilio si trasse a lei, pregando che ne mostrasse la miglior salita; e quella non rispuose al suo dimando,
ma di nostro paese e de la vita ci 'nchiese; e 'l dolce duca incominciava <<Mantua…>>, e l'ombra, tutta in se' romita,
surse ver' lui del loco ove pria stava, dicendo: <<O Mantoano, io son Sordello de la tua terra!>>; e l'un l'altro abbracciava.
Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello!
Quell'anima gentil fu cosi` presta, sol per lo dolce suon de la sua terra, di fare al cittadin suo quivi festa;
e ora in te non stanno sanza guerra li vivi tuoi, e l'un l'altro si rode di quei ch'un muro e una fossa serra.
Cerca, misera, intorno da le prode le tue marine, e poi ti guarda in seno, s'alcuna parte in te di pace gode.
Che val perche' ti racconciasse il freno Iustiniano, se la sella e` vota? Sanz'esso fora la vergogna meno.
Ahi gente che dovresti esser devota, e lasciar seder Cesare in la sella, se bene intendi cio` che Dio ti nota,
guarda come esta fiera e` fatta fella per non esser corretta da li sproni, poi che ponesti mano a la predella.
O Alberto tedesco ch'abbandoni costei ch'e` fatta indomita e selvaggia, e dovresti inforcar li suoi arcioni,
giusto giudicio da le stelle caggia sovra 'l tuo sangue, e sia novo e aperto, tal che 'l tuo successor temenza n'aggia!
Ch'avete tu e 'l tuo padre sofferto, per cupidigia di costa` distretti, che 'l giardin de lo 'mperio sia diserto.
Vieni a veder Montecchi e Cappelletti, Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura: color gia` tristi, e questi con sospetti!
Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura d'i tuoi gentili, e cura lor magagne; e vedrai Santafior com'e` oscura!
Vieni a veder la tua Roma che piagne vedova e sola, e di` e notte chiama: <<Cesare mio, perche' non m'accompagne?>>.
Vieni a veder la gente quanto s'ama! e se nulla di noi pieta` ti move, a vergognar ti vien de la tua fama.
E se licito m'e`, o sommo Giove che fosti in terra per noi crucifisso, son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?
O e` preparazion che ne l'abisso del tuo consiglio fai per alcun bene in tutto de l'accorger nostro scisso?
Che' le citta` d'Italia tutte piene son di tiranni, e un Marcel diventa ogne villan che parteggiando viene.
Fiorenza mia, ben puoi esser contenta di questa digression che non ti tocca, merce' del popol tuo che si argomenta.
Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca per non venir sanza consiglio a l'arco; ma il popol tuo l'ha in sommo de la bocca.
Molti rifiutan lo comune incarco; ma il popol tuo solicito risponde sanza chiamare, e grida: <<I' mi sobbarco!>>.
Or ti fa lieta, che' tu hai ben onde: tu ricca, tu con pace, e tu con senno! S'io dico 'l ver, l'effetto nol nasconde.
Atene e Lacedemona, che fenno l'antiche leggi e furon si` civili, fecero al viver bene un picciol cenno
verso di te, che fai tanto sottili provedimenti, ch'a mezzo novembre non giugne quel che tu d'ottobre fili.
Quante volte, del tempo che rimembre, legge, moneta, officio e costume hai tu mutato e rinovate membre!
E se ben ti ricordi e vedi lume, vedrai te somigliante a quella inferma che non puo` trovar posa in su le piume,
ma con dar volta suo dolore scherma.
Purgatorio: Canto VII
Poscia che l'accoglienze oneste e liete furo iterate tre e quattro volte, Sordel si trasse, e disse: <<Voi, chi siete?>>.
<<Anzi che a questo monte fosser volte l'anime degne di salire a Dio, fur l'ossa mie per Ottavian sepolte.
Io son Virgilio; e per null'altro rio lo ciel perdei che per non aver fe'>>. Cosi` rispuose allora il duca mio.
Qual e` colui che cosa innanzi se' subita vede ond'e' si maraviglia, che crede e non, dicendo <<Ella e`… non e`…>>,
tal parve quelli; e poi chino` le ciglia, e umilmente ritorno` ver' lui, e abbracciol la` 've 'l minor s'appiglia.
<<O gloria di Latin>>, disse, <<per cui mostro` cio` che potea la lingua nostra, o pregio etterno del loco ond'io fui,
qual merito o qual grazia mi ti mostra? S'io son d'udir le tue parole degno, dimmi se vien d'inferno, e di qual chiostra>>.
<<Per tutt'i cerchi del dolente regno>>, rispuose lui, <<son io di qua venuto; virtu` del ciel mi mosse, e con lei vegno.
Non per far, ma per non fare ho perduto a veder l'alto Sol che tu disiri e che fu tardi per me conosciuto.
Luogo e` la` giu` non tristo di martiri, ma di tenebre solo, ove i lamenti non suonan come guai, ma son sospiri.
Quivi sto io coi pargoli innocenti dai denti morsi de la morte avante che fosser da l'umana colpa essenti;
quivi sto io con quei che le tre sante virtu` non si vestiro, e sanza vizio conobber l'altre e seguir tutte quante.
Ma se tu sai e puoi, alcuno indizio da` noi per che venir possiam piu` tosto la` dove purgatorio ha dritto inizio>>.
Rispuose: <<Loco certo non c'e` posto; licito m'e` andar suso e intorno; per quanto ir posso, a guida mi t'accosto.
Ma vedi gia` come dichina il giorno, e andar su` di notte non si puote; pero` e` buon pensar di bel soggiorno.
Anime sono a destra qua remote: se mi consenti, io ti merro` ad esse, e non sanza diletto ti fier note>>.
<<Com'e` cio`?>>, fu risposto. <<Chi volesse salir di notte, fora elli impedito d'altrui, o non sarria che' non potesse?>>.
E 'l buon Sordello in terra frego` 'l dito, dicendo: <<Vedi? sola questa riga non varcheresti dopo 'l sol partito:
non pero` ch'altra cosa desse briga, che la notturna tenebra, ad ir suso; quella col nonpoder la voglia intriga.
Ben si poria con lei tornare in giuso e passeggiar la costa intorno errando, mentre che l'orizzonte il di` tien chiuso>>.
Allora il mio segnor, quasi ammirando, <<Menane>>, disse, <<dunque la` 've dici ch'aver si puo` diletto dimorando>>.
Poco allungati c'eravam di lici, quand'io m'accorsi che 'l monte era scemo, a guisa che i vallon li sceman quici.
<<Cola`>>, disse quell'ombra, <<n'anderemo dove la costa face di se' grembo; e la` il novo giorno attenderemo>>.
Tra erto e piano era un sentiero schembo, che ne condusse in fianco de la lacca, la` dove piu` ch'a mezzo muore il lembo.
Oro e argento fine, cocco e biacca, indaco, legno lucido e sereno, fresco smeraldo in l'ora che si fiacca,
da l'erba e da li fior, dentr'a quel seno posti, ciascun saria di color vinto, come dal suo maggiore e` vinto il meno.
Non avea pur natura ivi dipinto, ma di soavita` di mille odori vi facea uno incognito e indistinto.
'Salve, Regina' in sul verde e 'n su' fiori quindi seder cantando anime vidi, che per la valle non parean di fuori.
<<Prima che 'l poco sole omai s'annidi>>, comincio` 'l Mantoan che ci avea volti, <<tra color non vogliate ch'io vi guidi.
Di questo balzo meglio li atti e ' volti conoscerete voi di tutti quanti, che ne la lama giu` tra essi accolti.
Colui che piu` siede alto e fa sembianti d'aver negletto cio` che far dovea, e che non move bocca a li altrui canti,
Rodolfo imperador fu, che potea sanar le piaghe c'hanno Italia morta, si` che tardi per altri si ricrea.
L'altro che ne la vista lui conforta, resse la terra dove l'acqua nasce che Molta in Albia, e Albia in mar ne porta:
Ottacchero ebbe nome, e ne le fasce fu meglio assai che Vincislao suo figlio barbuto, cui lussuria e ozio pasce.
E quel nasetto che stretto a consiglio par con colui c'ha si` benigno aspetto, mori` fuggendo e disfiorando il giglio:
guardate la` come si batte il petto! L'altro vedete c'ha fatto a la guancia de la sua palma, sospirando, letto.
Padre e suocero son del mal di Francia: sanno la vita sua viziata e lorda, e quindi viene il duol che si` li lancia.
Quel che par si` membruto e che s'accorda, cantando, con colui dal maschio naso, d'ogne valor porto` cinta la corda;
e se re dopo lui fosse rimaso lo giovanetto che retro a lui siede, ben andava il valor di vaso in vaso,
che non si puote dir de l'altre rede; Iacomo e Federigo hanno i reami; del retaggio miglior nessun possiede.
Rade volte risurge per li rami l'umana probitate; e questo vole quei che la da`, perche' da lui si chiami.
Anche al nasuto vanno mie parole non men ch'a l'altro, Pier, che con lui canta, onde Puglia e Proenza gia` si dole.
Tant'e` del seme suo minor la pianta, quanto piu` che Beatrice e Margherita, Costanza di marito ancor si vanta.
Vedete il re de la semplice vita seder la` solo, Arrigo d'Inghilterra: questi ha ne' rami suoi migliore uscita.
Quel che piu` basso tra costor s'atterra, guardando in suso, e` Guiglielmo marchese, per cui e Alessandria e la sua guerra
fa pianger Monferrato e Canavese>>.
Purgatorio: Canto VIII
Era gia` l'ora che volge il disio ai navicanti e 'ntenerisce il core lo di` c'han detto ai dolci amici addio;
e che lo novo peregrin d'amore punge, se ode squilla di lontano che paia il giorno pianger che si more;
quand'io incominciai a render vano l'udire e a mirare una de l'alme surta, che l'ascoltar chiedea con mano.
Ella giunse e levo` ambo le palme, ficcando li occhi verso l'oriente, come dicesse a Dio: 'D'altro non calme'.
'Te lucis ante' si` devotamente le uscio di bocca e con si` dolci note, che fece me a me uscir di mente;
e l'altre poi dolcemente e devote seguitar lei per tutto l'inno intero, avendo li occhi a le superne rote.
Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero, che' 'l velo e` ora ben tanto sottile, certo che 'l trapassar dentro e` leggero.
Io vidi quello essercito gentile tacito poscia riguardare in sue quasi aspettando, palido e umile;
e vidi uscir de l'alto e scender giue due angeli con due spade affocate, tronche e private de le punte sue.
Verdi come fogliette pur mo nate erano in veste, che da verdi penne percosse traean dietro e ventilate.
L'un poco sovra noi a star si venne, e l'altro scese in l'opposita sponda, si` che la gente in mezzo si contenne.
Ben discernea in lor la testa bionda; ma ne la faccia l'occhio si smarria, come virtu` ch'a troppo si confonda.
<<Ambo vegnon del grembo di Maria>>, disse Sordello, <<a guardia de la valle, per lo serpente che verra` vie via>>.
Ond'io, che non sapeva per qual calle, mi volsi intorno, e stretto m'accostai, tutto gelato, a le fidate spalle.
E Sordello anco: <<Or avvalliamo omai tra le grandi ombre, e parleremo ad esse; grazioso fia lor vedervi assai>>.
Solo tre passi credo ch'i' scendesse, e fui di sotto, e vidi un che mirava pur me, come conoscer mi volesse.
Temp'era gia` che l'aere s'annerava, ma non si` che tra li occhi suoi e ' miei non dichiarisse cio` che pria serrava.
Ver' me si fece, e io ver' lui mi fei: giudice Nin gentil, quanto mi piacque quando ti vidi non esser tra ' rei!
Nullo bel salutar tra noi si tacque; poi dimando`: <<Quant'e` che tu venisti a pie` del monte per le lontane acque?>>.
<<Oh!>>, diss'io lui, <<per entro i luoghi tristi venni stamane, e sono in prima vita, ancor che l'altra, si` andando, acquisti>>.
E come fu la mia risposta udita, Sordello ed elli in dietro si raccolse come gente di subito smarrita.
L'uno a Virgilio e l'altro a un si volse che sedea li`, gridando: <<Su`, Currado! vieni a veder che Dio per grazia volse>>.
Poi, volto a me: <<Per quel singular grado che tu dei a colui che si` nasconde lo suo primo perche', che non li` e` guado,
quando sarai di la` da le larghe onde, di` a Giovanna mia che per me chiami la` dove a li 'nnocenti si risponde.
Non credo che la sua madre piu` m'ami, poscia che trasmuto` le bianche bende, le quai convien che, misera!, ancor brami.
Per lei assai di lieve si comprende quanto in femmina foco d'amor dura, se l'occhio o 'l tatto spesso non l'accende.
Non le fara` si` bella sepultura la vipera che Melanesi accampa, com'avria fatto il gallo di Gallura>>.
Cosi` dicea, segnato de la stampa, nel suo aspetto, di quel dritto zelo che misuratamente in core avvampa.
Li occhi miei ghiotti andavan pur al cielo, pur la` dove le stelle son piu` tarde, si` come rota piu` presso a lo stelo.
E 'l duca mio: <<Figliuol, che la` su` guarde?>>. E io a lui: <<A quelle tre facelle di che 'l polo di qua tutto quanto arde>>.
Ond'elli a me: <<Le quattro chiare stelle che vedevi staman, son di la` basse, e queste son salite ov'eran quelle>>.
Com'ei parlava, e Sordello a se' il trasse dicendo: <<Vedi la` 'l nostro avversaro>>; e drizzo` il dito perche' 'n la` guardasse.
Da quella parte onde non ha riparo la picciola vallea, era una biscia, forse qual diede ad Eva il cibo amaro.
Tra l'erba e ' fior venia la mala striscia, volgendo ad ora ad or la testa, e 'l dosso leccando come bestia che si liscia.
Io non vidi, e pero` dicer non posso, come mosser li astor celestiali; ma vidi bene e l'uno e l'altro mosso.
Sentendo fender l'aere a le verdi ali, fuggi` 'l serpente, e li angeli dier volta, suso a le poste rivolando iguali.
L'ombra che s'era al giudice raccolta quando chiamo`, per tutto quello assalto punto non fu da me guardare sciolta.
<<Se la lucerna che ti mena in alto truovi nel tuo arbitrio tanta cera quant'e` mestiere infino al sommo smalto>>,
comincio` ella, <<se novella vera di Val di Magra o di parte vicina sai, dillo a me, che gia` grande la` era.
Fui chiamato Currado Malaspina; non son l'antico, ma di lui discesi; a' miei portai l'amor che qui raffina>>.
<<Oh!>>, diss'io lui, <<per li vostri paesi gia` mai non fui; ma dove si dimora per tutta Europa ch'ei non sien palesi?
La fama che la vostra casa onora, grida i segnori e grida la contrada, si` che ne sa chi non vi fu ancora;
e io vi giuro, s'io di sopra vada, che vostra gente onrata non si sfregia del pregio de la borsa e de la spada.
Uso e natura si` la privilegia, che, perche' il capo reo il mondo torca, sola va dritta e 'l mal cammin dispregia>>.
Ed elli: <<Or va; che 'l sol non si ricorca sette volte nel letto che 'l Montone con tutti e quattro i pie` cuopre e inforca,
che cotesta cortese oppinione ti fia chiavata in mezzo de la testa con maggior chiovi che d'altrui sermone,
se corso di giudicio non s'arresta>>.
Purgatorio: Canto IX
La concubina di Titone antico gia` s'imbiancava al balco d'oriente, fuor de le braccia del suo dolce amico;
di gemme la sua fronte era lucente, poste in figura del freddo animale che con la coda percuote la gente;
e la notte, de' passi con che sale, fatti avea due nel loco ov'eravamo, e 'l terzo gia` chinava in giuso l'ale;
quand'io, che meco avea di quel d'Adamo, vinto dal sonno, in su l'erba inchinai la` 've gia` tutti e cinque sedavamo.
Ne l'ora che comincia i tristi lai la rondinella presso a la mattina, forse a memoria de' suo' primi guai,
e che la mente nostra, peregrina piu` da la carne e men da' pensier presa, a le sue vision quasi e` divina,
in sogno mi parea veder sospesa un'aguglia nel ciel con penne d'oro, con l'ali aperte e a calare intesa;
ed esser mi parea la` dove fuoro abbandonati i suoi da Ganimede, quando fu ratto al sommo consistoro.
Fra me pensava: 'Forse questa fiede pur qui per uso, e forse d'altro loco disdegna di portarne suso in piede'.
Poi mi parea che, poi rotata un poco, terribil come folgor discendesse, e me rapisse suso infino al foco.
Ivi parea che ella e io ardesse; e si` lo 'ncendio imaginato cosse, che convenne che 'l sonno si rompesse.
Non altrimenti Achille si riscosse, li occhi svegliati rivolgendo in giro e non sappiendo la` dove si fosse,
quando la madre da Chiron a Schiro trafuggo` lui dormendo in le sue braccia, la` onde poi li Greci il dipartiro;
che mi scoss'io, si` come da la faccia mi fuggi` 'l sonno, e diventa' ismorto, come fa l'uom che, spaventato, agghiaccia.
Dallato m'era solo il mio conforto, e 'l sole er'alto gia` piu` che due ore, e 'l viso m'era a la marina torto.
<<Non aver tema>>, disse il mio segnore; <<fatti sicur, che' noi semo a buon punto; non stringer, ma rallarga ogne vigore.
Tu se' omai al purgatorio giunto: vedi la` il balzo che 'l chiude dintorno; vedi l'entrata la` 've par digiunto.
Dianzi, ne l'alba che procede al giorno, quando l'anima tua dentro dormia, sovra li fiori ond'e` la` giu` addorno
venne una donna, e disse: "I' son Lucia; lasciatemi pigliar costui che dorme; si` l'agevolero` per la sua via".
Sordel rimase e l'altre genti forme; ella ti tolse, e come 'l di` fu chiaro, sen venne suso; e io per le sue orme.
Qui ti poso`, ma pria mi dimostraro li occhi suoi belli quella intrata aperta; poi ella e 'l sonno ad una se n'andaro>>.
A guisa d'uom che 'n dubbio si raccerta e che muta in conforto sua paura, poi che la verita` li e` discoperta,
mi cambia' io; e come sanza cura vide me 'l duca mio, su per lo balzo si mosse, e io di rietro inver' l'altura.
Lettor, tu vedi ben com'io innalzo la mia matera, e pero` con piu` arte non ti maravigliar s'io la rincalzo.
Noi ci appressammo, ed eravamo in parte, che la` dove pareami prima rotto, pur come un fesso che muro diparte,
vidi una porta, e tre gradi di sotto per gire ad essa, di color diversi, e un portier ch'ancor non facea motto.
E come l'occhio piu` e piu` v'apersi, vidil seder sovra 'l grado sovrano, tal ne la faccia ch'io non lo soffersi;
e una spada nuda avea in mano, che reflettea i raggi si` ver' noi, ch'io drizzava spesso il viso in vano.
<<Dite costinci: che volete voi?>>, comincio` elli a dire, <<ov'e` la scorta? Guardate che 'l venir su` non vi noi>>.
<<Donna del ciel, di queste cose accorta>>, rispuose 'l mio maestro a lui, <<pur dianzi ne disse: "Andate la`: quivi e` la porta">>.
<<Ed ella i passi vostri in bene avanzi>>, ricomincio` il cortese portinaio: <<Venite dunque a' nostri gradi innanzi>>.
La` ne venimmo; e lo scaglion primaio bianco marmo era si` pulito e terso, ch'io mi specchiai in esso qual io paio.
Era il secondo tinto piu` che perso, d'una petrina ruvida e arsiccia, crepata per lo lungo e per traverso.
Lo terzo, che di sopra s'ammassiccia, porfido mi parea, si` fiammeggiante, come sangue che fuor di vena spiccia.
Sovra questo tenea ambo le piante l'angel di Dio, sedendo in su la soglia, che mi sembiava pietra di diamante.
Per li tre gradi su` di buona voglia mi trasse il duca mio, dicendo: <<Chiedi umilemente che 'l serrame scioglia>>.
Divoto mi gittai a' santi piedi; misericordia chiesi e ch'el m'aprisse, ma tre volte nel petto pria mi diedi.
Sette P ne la fronte mi descrisse col punton de la spada, e <<Fa che lavi, quando se' dentro, queste piaghe>>, disse.
Cenere, o terra che secca si cavi, d'un color fora col suo vestimento; e di sotto da quel trasse due chiavi.
L'una era d'oro e l'altra era d'argento; pria con la bianca e poscia con la gialla fece a la porta si`, ch'i' fu' contento.
<<Quandunque l'una d'este chiavi falla, che non si volga dritta per la toppa>>, diss'elli a noi, <<non s'apre questa calla.
Piu` cara e` l'una; ma l'altra vuol troppa d'arte e d'ingegno avanti che diserri, perch'ella e` quella che 'l nodo digroppa.
Da Pier le tegno; e dissemi ch'i' erri anzi ad aprir ch'a tenerla serrata, pur che la gente a' piedi mi s'atterri>>.
Poi pinse l'uscio a la porta sacrata, dicendo: <<Intrate; ma facciovi accorti che di fuor torna chi 'n dietro si guata>>.
E quando fuor ne' cardini distorti li spigoli di quella regge sacra, che di metallo son sonanti e forti,
non rugghio` si` ne' si mostro` si` acra Tarpea, come tolto le fu il buono Metello, per che poi rimase macra.
Io mi rivolsi attento al primo tuono, e 'Te Deum laudamus' mi parea udire in voce mista al dolce suono.
Tale imagine a punto mi rendea cio` ch'io udiva, qual prender si suole quando a cantar con organi si stea;
ch'or si` or no s'intendon le parole.
Purgatorio: Canto X
Poi fummo dentro al soglio de la porta che 'l mal amor de l'anime disusa, perche' fa parer dritta la via torta,
sonando la senti' esser richiusa; e s'io avesse li occhi volti ad essa, qual fora stata al fallo degna scusa?
Noi salavam per una pietra fessa, che si moveva e d'una e d'altra parte, si` come l'onda che fugge e s'appressa.
<<Qui si conviene usare un poco d'arte>>, comincio` 'l duca mio, <<in accostarsi or quinci, or quindi al lato che si parte>>.
E questo fece i nostri passi scarsi, tanto che pria lo scemo de la luna rigiunse al letto suo per ricorcarsi,
che noi fossimo fuor di quella cruna; ma quando fummo liberi e aperti su` dove il monte in dietro si rauna,
io stancato e amendue incerti di nostra via, restammo in su un piano solingo piu` che strade per diserti.
Da la sua sponda, ove confina il vano, al pie` de l'alta ripa che pur sale, misurrebbe in tre volte un corpo umano;
e quanto l'occhio mio potea trar d'ale, or dal sinistro e or dal destro fianco, questa cornice mi parea cotale.
La` su` non eran mossi i pie` nostri anco, quand'io conobbi quella ripa intorno che dritto di salita aveva manco,
esser di marmo candido e addorno d'intagli si`, che non pur Policleto, ma la natura li` avrebbe scorno.
L'angel che venne in terra col decreto de la molt'anni lagrimata pace, ch'aperse il ciel del suo lungo divieto,
dinanzi a noi pareva si` verace quivi intagliato in un atto soave, che non sembiava imagine che tace.
Giurato si saria ch'el dicesse 'Ave!'; perche' iv'era imaginata quella ch'ad aprir l'alto amor volse la chiave;
e avea in atto impressa esta favella 'Ecce ancilla Dei', propriamente come figura in cera si suggella.
<<Non tener pur ad un loco la mente>>, disse 'l dolce maestro, che m'avea da quella parte onde 'l cuore ha la gente.
Per ch'i' mi mossi col viso, e vedea di retro da Maria, da quella costa onde m'era colui che mi movea,
un'altra storia ne la roccia imposta; per ch'io varcai Virgilio, e fe'mi presso, accio` che fosse a li occhi miei disposta.
Era intagliato li` nel marmo stesso lo carro e ' buoi, traendo l'arca santa, per che si teme officio non commesso.
Dinanzi parea gente; e tutta quanta, partita in sette cori, a' due mie' sensi faceva dir l'un <<No>>, l'altro <<Si`, canta>>.
Similemente al fummo de li 'ncensi che v'era imaginato, li occhi e 'l naso e al si` e al no discordi fensi.
Li` precedeva al benedetto vaso, trescando alzato, l'umile salmista, e piu` e men che re era in quel caso.
Di contra, effigiata ad una vista d'un gran palazzo, Micol ammirava si` come donna dispettosa e trista.
I' mossi i pie` del loco dov'io stava, per avvisar da presso un'altra istoria, che di dietro a Micol mi biancheggiava.
Quiv'era storiata l'alta gloria del roman principato, il cui valore mosse Gregorio a la sua gran vittoria;
i' dico di Traiano imperadore; e una vedovella li era al freno, di lagrime atteggiata e di dolore.
Intorno a lui parea calcato e pieno di cavalieri, e l'aguglie ne l'oro sovr'essi in vista al vento si movieno.
La miserella intra tutti costoro pareva dir: <<Segnor, fammi vendetta di mio figliuol ch'e` morto, ond'io m'accoro>>;
ed elli a lei rispondere: <<Or aspetta tanto ch'i' torni>>; e quella: <<Segnor mio>>, come persona in cui dolor s'affretta,
<<se tu non torni?>>; ed ei: <<Chi fia dov'io, la ti fara`>>; ed ella: <<L'altrui bene a te che fia, se 'l tuo metti in oblio?>>;
ond'elli: <<Or ti conforta; ch'ei convene ch'i' solva il mio dovere anzi ch'i' mova: giustizia vuole e pieta` mi ritene>>.
Colui che mai non vide cosa nova produsse esto visibile parlare, novello a noi perche' qui non si trova.
Mentr'io mi dilettava di guardare l'imagini di tante umilitadi, e per lo fabbro loro a veder care,
<<Ecco di qua, ma fanno i passi radi>>, mormorava il poeta, <<molte genti: questi ne 'nvieranno a li alti gradi>>.
Li occhi miei ch'a mirare eran contenti per veder novitadi ond'e' son vaghi, volgendosi ver' lui non furon lenti.
Non vo' pero`, lettor, che tu ti smaghi di buon proponimento per udire come Dio vuol che 'l debito si paghi.
Non attender la forma del martire: pensa la succession; pensa ch'al peggio, oltre la gran sentenza non puo` ire.
Io cominciai: <<Maestro, quel ch'io veggio muovere a noi, non mi sembian persone, e non so che, si` nel veder vaneggio>>.
Ed elli a me: <<La grave condizione di lor tormento a terra li rannicchia, si` che ' miei occhi pria n'ebber tencione.
Ma guarda fiso la`, e disviticchia col viso quel che vien sotto a quei sassi: gia` scorger puoi come ciascun si picchia>>.
O superbi cristian, miseri lassi, che, de la vista de la mente infermi, fidanza avete ne' retrosi passi,
non v'accorgete voi che noi siam vermi nati a formar l'angelica farfalla, che vola a la giustizia sanza schermi?
Di che l'animo vostro in alto galla, poi siete quasi antomata in difetto, si` come vermo in cui formazion falla?
Come per sostentar solaio o tetto, per mensola talvolta una figura si vede giugner le ginocchia al petto,
la qual fa del non ver vera rancura nascere 'n chi la vede; cosi` fatti vid'io color, quando puosi ben cura.
Vero e` che piu` e meno eran contratti secondo ch'avien piu` e meno a dosso; e qual piu` pazienza avea ne li atti,
piangendo parea dicer: 'Piu` non posso'.
Purgatorio: Canto XI
<<O Padre nostro, che ne' cieli stai, non circunscritto, ma per piu` amore ch'ai primi effetti di la` su` tu hai,
laudato sia 'l tuo nome e 'l tuo valore da ogni creatura, com'e` degno di render grazie al tuo dolce vapore.
Vegna ver' noi la pace del tuo regno, che' noi ad essa non potem da noi, s'ella non vien, con tutto nostro ingegno.
Come del suo voler li angeli tuoi fan sacrificio a te, cantando osanna, cosi` facciano li uomini de' suoi.
Da` oggi a noi la cotidiana manna, sanza la qual per questo aspro diserto a retro va chi piu` di gir s'affanna.
E come noi lo mal ch'avem sofferto perdoniamo a ciascuno, e tu perdona benigno, e non guardar lo nostro merto.
Nostra virtu` che di legger s'adona, non spermentar con l'antico avversaro, ma libera da lui che si` la sprona.
Quest'ultima preghiera, segnor caro, gia` non si fa per noi, che' non bisogna, ma per color che dietro a noi restaro>>.
Cosi` a se' e noi buona ramogna quell'ombre orando, andavan sotto 'l pondo, simile a quel che tal volta si sogna,
disparmente angosciate tutte a tondo e lasse su per la prima cornice, purgando la caligine del mondo.
Se di la` sempre ben per noi si dice, di qua che dire e far per lor si puote da quei ch'hanno al voler buona radice?
Ben si de' loro atar lavar le note che portar quinci, si` che, mondi e lievi, possano uscire a le stellate ruote.
<<Deh, se giustizia e pieta` vi disgrievi tosto, si` che possiate muover l'ala, che secondo il disio vostro vi lievi,
mostrate da qual mano inver' la scala si va piu` corto; e se c'e` piu` d'un varco, quel ne 'nsegnate che men erto cala;
che' questi che vien meco, per lo 'ncarco de la carne d'Adamo onde si veste, al montar su`, contra sua voglia, e` parco>>.
Le lor parole, che rendero a queste che dette avea colui cu' io seguiva, non fur da cui venisser manifeste;
ma fu detto: <<A man destra per la riva con noi venite, e troverete il passo possibile a salir persona viva.
E s'io non fossi impedito dal sasso che la cervice mia superba doma, onde portar convienmi il viso basso,
cotesti, ch'ancor vive e non si noma, guardere' io, per veder s'i' 'l conosco, e per farlo pietoso a questa soma.
Io fui latino e nato d'un gran Tosco: Guiglielmo Aldobrandesco fu mio padre; non so se 'l nome suo gia` mai fu vosco.
L'antico sangue e l'opere leggiadre d'i miei maggior mi fer si` arrogante, che, non pensando a la comune madre,
ogn'uomo ebbi in despetto tanto avante, ch'io ne mori', come i Sanesi sanno e sallo in Campagnatico ogne fante.
Io sono Omberto; e non pur a me danno superbia fa, che' tutti miei consorti ha ella tratti seco nel malanno.
E qui convien ch'io questo peso porti per lei, tanto che a Dio si sodisfaccia, poi ch'io nol fe' tra ' vivi, qui tra ' morti>>.
Ascoltando chinai in giu` la faccia; e un di lor, non questi che parlava, si torse sotto il peso che li 'mpaccia,
e videmi e conobbemi e chiamava, tenendo li occhi con fatica fisi a me che tutto chin con loro andava.
<<Oh!>>, diss'io lui, <<non se' tu Oderisi, l'onor d'Agobbio e l'onor di quell'arte ch'alluminar chiamata e` in Parisi?>>.
<<Frate>>, diss'elli, <<piu` ridon le carte che pennelleggia Franco Bolognese; l'onore e` tutto or suo, e mio in parte.
Ben non sare' io stato si` cortese mentre ch'io vissi, per lo gran disio de l'eccellenza ove mio core intese.
Di tal superbia qui si paga il fio; e ancor non sarei qui, se non fosse che, possendo peccar, mi volsi a Dio.
Oh vana gloria de l'umane posse! com'poco verde in su la cima dura, se non e` giunta da l'etati grosse!
Credette Cimabue ne la pittura tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, si` che la fama di colui e` scura:
cosi` ha tolto l'uno a l'altro Guido la gloria de la lingua; e forse e` nato chi l'uno e l'altro caccera` del nido.
Non e` il mondan romore altro ch'un fiato di vento, ch'or vien quinci e or vien quindi, e muta nome perche' muta lato.
Che voce avrai tu piu`, se vecchia scindi da te la carne, che se fossi morto anzi che tu lasciassi il 'pappo' e 'l 'dindi',
pria che passin mill'anni? ch'e` piu` corto spazio a l'etterno, ch'un muover di ciglia al cerchio che piu` tardi in cielo e` torto.
Colui che del cammin si` poco piglia dinanzi a me, Toscana sono` tutta; e ora a pena in Siena sen pispiglia,
ond'era sire quando fu distrutta la rabbia fiorentina, che superba fu a quel tempo si` com'ora e` putta.
La vostra nominanza e` color d'erba, che viene e va, e quei la discolora per cui ella esce de la terra acerba>>.
E io a lui: <<Tuo vero dir m'incora bona umilta`, e gran tumor m'appiani; ma chi e` quei di cui tu parlavi ora?>>.
<<Quelli e`>>, rispuose, <<Provenzan Salvani; ed e` qui perche' fu presuntuoso a recar Siena tutta a le sue mani.
Ito e` cosi` e va, sanza riposo, poi che mori`; cotal moneta rende a sodisfar chi e` di la` troppo oso>>.
E io: <<Se quello spirito ch'attende, pria che si penta, l'orlo de la vita, qua giu` dimora e qua su` non ascende,
se buona orazion lui non aita, prima che passi tempo quanto visse, come fu la venuta lui largita?>>.
<<Quando vivea piu` glorioso>>, disse, <<liberamente nel Campo di Siena, ogne vergogna diposta, s'affisse;
e li`, per trar l'amico suo di pena ch'e' sostenea ne la prigion di Carlo, si condusse a tremar per ogne vena.
Piu` non diro`, e scuro so che parlo; ma poco tempo andra`, che ' tuoi vicini faranno si` che tu potrai chiosarlo.
Quest'opera li tolse quei confini>>.
Purgatorio: Canto XII
Di pari, come buoi che vanno a giogo, m'andava io con quell'anima carca, fin che 'l sofferse il dolce pedagogo.
Ma quando disse: <<Lascia lui e varca; che' qui e` buono con l'ali e coi remi, quantunque puo`, ciascun pinger sua barca>>;
dritto si` come andar vuolsi rife'mi con la persona, avvegna che i pensieri mi rimanessero e chinati e scemi.
Io m'era mosso, e seguia volontieri del mio maestro i passi, e amendue gia` mostravam com'eravam leggeri;
ed el mi disse: <<Volgi li occhi in giue: buon ti sara`, per tranquillar la via, veder lo letto de le piante tue>>.
Come, perche' di lor memoria sia, sovra i sepolti le tombe terragne portan segnato quel ch'elli eran pria,
onde li` molte volte si ripiagne per la puntura de la rimembranza, che solo a' pii da` de le calcagne;
si` vid'io li`, ma di miglior sembianza secondo l'artificio, figurato quanto per via di fuor del monte avanza.
Vedea colui che fu nobil creato piu` ch'altra creatura, giu` dal cielo folgoreggiando scender, da l'un lato.
Vedea Briareo, fitto dal telo celestial giacer, da l'altra parte, grave a la terra per lo mortal gelo.
Vedea Timbreo, vedea Pallade e Marte, armati ancora, intorno al padre loro, mirar le membra d'i Giganti sparte.
Vedea Nembrot a pie` del gran lavoro quasi smarrito, e riguardar le genti che 'n Sennaar con lui superbi fuoro.
O Niobe`, con che occhi dolenti vedea io te segnata in su la strada, tra sette e sette tuoi figliuoli spenti!
O Saul, come in su la propria spada quivi parevi morto in Gelboe`, che poi non senti` pioggia ne' rugiada!
O folle Aragne, si` vedea io te gia` mezza ragna, trista in su li stracci de l'opera che mal per te si fe'.
O Roboam, gia` non par che minacci quivi 'l tuo segno; ma pien di spavento nel porta un carro, sanza ch'altri il cacci.
Mostrava ancor lo duro pavimento come Almeon a sua madre fe' caro parer lo sventurato addornamento.
Mostrava come i figli si gittaro sovra Sennacherib dentro dal tempio, e come, morto lui, quivi il lasciaro.
Mostrava la ruina e 'l crudo scempio che fe' Tamiri, quando disse a Ciro: <<Sangue sitisti, e io di sangue t'empio>>.
Mostrava come in rotta si fuggiro li Assiri, poi che fu morto Oloferne, e anche le reliquie del martiro.
Vedeva Troia in cenere e in caverne; o Ilion, come te basso e vile mostrava il segno che li` si discerne!
Qual di pennel fu maestro o di stile che ritraesse l'ombre e ' tratti ch'ivi mirar farieno uno ingegno sottile?
Morti li morti e i vivi parean vivi: non vide mei di me chi vide il vero, quant'io calcai, fin che chinato givi.
Or superbite, e via col viso altero, figliuoli d'Eva, e non chinate il volto si` che veggiate il vostro mal sentero!
Piu` era gia` per noi del monte volto e del cammin del sole assai piu` speso che non stimava l'animo non sciolto,
quando colui che sempre innanzi atteso andava, comincio`: <<Drizza la testa; non e` piu` tempo di gir si` sospeso.
Vedi cola` un angel che s'appresta per venir verso noi; vedi che torna dal servigio del di` l'ancella sesta.
Di reverenza il viso e li atti addorna, si` che i diletti lo 'nviarci in suso; pensa che questo di` mai non raggiorna!>>.
Io era ben del suo ammonir uso pur di non perder tempo, si` che 'n quella materia non potea parlarmi chiuso.
A noi venia la creatura bella, biancovestito e ne la faccia quale par tremolando mattutina stella.
Le braccia aperse, e indi aperse l'ale; disse: <<Venite: qui son presso i gradi, e agevolemente omai si sale.
A questo invito vegnon molto radi: o gente umana, per volar su` nata, perche' a poco vento cosi` cadi?>>.
Menocci ove la roccia era tagliata; quivi mi batte' l'ali per la fronte; poi mi promise sicura l'andata.
Come a man destra, per salire al monte dove siede la chiesa che soggioga la ben guidata sopra Rubaconte,
si rompe del montar l'ardita foga per le scalee che si fero ad etade ch'era sicuro il quaderno e la doga;
cosi` s'allenta la ripa che cade quivi ben ratta da l'altro girone; ma quinci e quindi l'alta pietra rade.
Noi volgendo ivi le nostre persone, 'Beati pauperes spiritu!' voci cantaron si`, che nol diria sermone.
Ahi quanto son diverse quelle foci da l'infernali! che' quivi per canti s'entra, e la` giu` per lamenti feroci.
Gia` montavam su per li scaglion santi, ed esser mi parea troppo piu` lieve che per lo pian non mi parea davanti.
Ond'io: <<Maestro, di`, qual cosa greve levata s'e` da me, che nulla quasi per me fatica, andando, si riceve?>>.
Rispuose: <<Quando i P che son rimasi ancor nel volto tuo presso che stinti, saranno, com'e` l'un, del tutto rasi,
fier li tuoi pie` dal buon voler si` vinti, che non pur non fatica sentiranno, ma fia diletto loro esser su` pinti>>.
Allor fec'io come color che vanno con cosa in capo non da lor saputa, se non che ' cenni altrui sospecciar fanno;
per che la mano ad accertar s'aiuta, e cerca e truova e quello officio adempie che non si puo` fornir per la veduta;
e con le dita de la destra scempie trovai pur sei le lettere che 'ncise quel da le chiavi a me sovra le tempie:
a che guardando, il mio duca sorrise.
Purgatorio: Canto XIII
Noi eravamo al sommo de la scala, dove secondamente si risega lo monte che salendo altrui dismala.
Ivi cosi` una cornice lega dintorno il poggio, come la primaia; se non che l'arco suo piu` tosto piega.
Ombra non li` e` ne' segno che si paia: parsi la ripa e parsi la via schietta col livido color de la petraia.
<<Se qui per dimandar gente s'aspetta>>, ragionava il poeta, <<io temo forse che troppo avra` d'indugio nostra eletta>>.
Poi fisamente al sole li occhi porse; fece del destro lato a muover centro, e la sinistra parte di se' torse.
<<O dolce lume a cui fidanza i' entro per lo novo cammin, tu ne conduci>>, dicea, <<come condur si vuol quinc'entro.
Tu scaldi il mondo, tu sovr'esso luci; s'altra ragione in contrario non ponta, esser dien sempre li tuoi raggi duci>>.
Quanto di qua per un migliaio si conta, tanto di la` eravam noi gia` iti, con poco tempo, per la voglia pronta;
e verso noi volar furon sentiti, non pero` visti, spiriti parlando a la mensa d'amor cortesi inviti.
La prima voce che passo` volando 'Vinum non habent' altamente disse, e dietro a noi l'ando` reiterando.
E prima che del tutto non si udisse per allungarsi, un'altra 'I' sono Oreste' passo` gridando, e anco non s'affisse.
<<Oh!>>, diss'io, <<padre, che voci son queste?>>. E com'io domandai, ecco la terza dicendo: 'Amate da cui male aveste'.
E 'l buon maestro: <<Questo cinghio sferza la colpa de la invidia, e pero` sono tratte d'amor le corde de la ferza.
Lo fren vuol esser del contrario suono; credo che l'udirai, per mio avviso, prima che giunghi al passo del perdono.
Ma ficca li occhi per l'aere ben fiso, e vedrai gente innanzi a noi sedersi, e ciascun e` lungo la grotta assiso>>.
Allora piu` che prima li occhi apersi; guarda'mi innanzi, e vidi ombre con manti al color de la pietra non diversi.
E poi che fummo un poco piu` avanti, udia gridar: 'Maria, ora per noi': gridar 'Michele' e 'Pietro', e 'Tutti santi'.
Non credo che per terra vada ancoi omo si` duro, che non fosse punto per compassion di quel ch'i' vidi poi;
che', quando fui si` presso di lor giunto, che li atti loro a me venivan certi, per li occhi fui di grave dolor munto.
Di vil ciliccio mi parean coperti, e l'un sofferia l'altro con la spalla, e tutti da la ripa eran sofferti.
Cosi` li ciechi a cui la roba falla stanno a' perdoni a chieder lor bisogna, e l'uno il capo sopra l'altro avvalla,
perche' 'n altrui pieta` tosto si pogna, non pur per lo sonar de le parole, ma per la vista che non meno agogna.
E come a li orbi non approda il sole, cosi` a l'ombre quivi, ond'io parlo ora, luce del ciel di se' largir non vole;
che' a tutti un fil di ferro i cigli fora e cusce si`, come a sparvier selvaggio si fa pero` che queto non dimora.
A me pareva, andando, fare oltraggio, veggendo altrui, non essendo veduto: per ch'io mi volsi al mio consiglio saggio.
Ben sapev'ei che volea dir lo muto; e pero` non attese mia dimanda, ma disse: <<Parla, e sie breve e arguto>>.
Virgilio mi venia da quella banda de la cornice onde cader si puote, perche' da nulla sponda s'inghirlanda;
da l'altra parte m'eran le divote ombre, che per l'orribile costura premevan si`, che bagnavan le gote.
Volsimi a loro e <<O gente sicura>>, incominciai, <<di veder l'alto lume che 'l disio vostro solo ha in sua cura,
se tosto grazia resolva le schiume di vostra coscienza si` che chiaro per essa scenda de la mente il fiume,
ditemi, che' mi fia grazioso e caro, s'anima e` qui tra voi che sia latina; e forse lei sara` buon s'i' l'apparo>>.
<<O frate mio, ciascuna e` cittadina d'una vera citta`; ma tu vuo' dire che vivesse in Italia peregrina>>.
Questo mi parve per risposta udire piu` innanzi alquanto che la` dov'io stava, ond'io mi feci ancor piu` la` sentire.
Tra l'altre vidi un'ombra ch'aspettava in vista; e se volesse alcun dir 'Come?', lo mento a guisa d'orbo in su` levava.
<<Spirto>>, diss'io, <<che per salir ti dome, se tu se' quelli che mi rispondesti, fammiti conto o per luogo o per nome>>.
<<Io fui sanese>>, rispuose, <<e con questi altri rimendo qui la vita ria, lagrimando a colui che se' ne presti.
Savia non fui, avvegna che Sapia fossi chiamata, e fui de li altrui danni piu` lieta assai che di ventura mia.
E perche' tu non creda ch'io t'inganni, odi s'i' fui, com'io ti dico, folle, gia` discendendo l'arco d'i miei anni.
Eran li cittadin miei presso a Colle in campo giunti co' loro avversari, e io pregava Iddio di quel ch'e' volle.
Rotti fuor quivi e volti ne li amari passi di fuga; e veggendo la caccia, letizia presi a tutte altre dispari,
tanto ch'io volsi in su` l'ardita faccia, gridando a Dio: "Omai piu` non ti temo!", come fe' 'l merlo per poca bonaccia.
Pace volli con Dio in su lo stremo de la mia vita; e ancor non sarebbe lo mio dover per penitenza scemo,
se cio` non fosse, ch'a memoria m'ebbe Pier Pettinaio in sue sante orazioni, a cui di me per caritate increbbe.
Ma tu chi se', che nostre condizioni vai dimandando, e porti li occhi sciolti, si` com'io credo, e spirando ragioni?>>.
<<Li occhi>>, diss'io, <<mi fieno ancor qui tolti, ma picciol tempo, che' poca e` l'offesa fatta per esser con invidia volti.
Troppa e` piu` la paura ond'e` sospesa l'anima mia del tormento di sotto, che gia` lo 'ncarco di la` giu` mi pesa>>.
Ed ella a me: <<Chi t'ha dunque condotto qua su` tra noi, se giu` ritornar credi?>>. E io: <<Costui ch'e` meco e non fa motto.
E vivo sono; e pero` mi richiedi, spirito eletto, se tu vuo' ch'i' mova di la` per te ancor li mortai piedi>>.
<<Oh, questa e` a udir si` cosa nuova>>, rispuose, <<che gran segno e` che Dio t'ami; pero` col priego tuo talor mi giova.
E cheggioti, per quel che tu piu` brami, se mai calchi la terra di Toscana, che a' miei propinqui tu ben mi rinfami.
Tu li vedrai tra quella gente vana che spera in Talamone, e perderagli piu` di speranza ch'a trovar la Diana;
ma piu` vi perderanno li ammiragli>>.
Purgatorio: Canto XIV
<<Chi e` costui che 'l nostro monte cerchia prima che morte li abbia dato il volo, e apre li occhi a sua voglia e coverchia?>>.
<<Non so chi sia, ma so ch'e' non e` solo: domandal tu che piu` li t'avvicini, e dolcemente, si` che parli, acco'lo>>.
Cosi` due spirti, l'uno a l'altro chini, ragionavan di me ivi a man dritta; poi fer li visi, per dirmi, supini;
e disse l'uno: <<O anima che fitta nel corpo ancora inver' lo ciel ten vai, per carita` ne consola e ne ditta
onde vieni e chi se'; che' tu ne fai tanto maravigliar de la tua grazia, quanto vuol cosa che non fu piu` mai>>.
E io: <<Per mezza Toscana si spazia un fiumicel che nasce in Falterona, e cento miglia di corso nol sazia.
Di sovr'esso rech'io questa persona: dirvi ch'i' sia, saria parlare indarno, che' 'l nome mio ancor molto non suona>>.
<<Se ben lo 'ntendimento tuo accarno con lo 'ntelletto>>, allora mi rispuose quei che diceva pria, <<tu parli d'Arno>>.
E l'altro disse lui: <<Perche' nascose questi il vocabol di quella riviera, pur com'om fa de l'orribili cose?>>.
E l'ombra che di cio` domandata era, si sdebito` cosi`: <<Non so; ma degno ben e` che 'l nome di tal valle pera;
che' dal principio suo, ov'e` si` pregno l'alpestro monte ond'e` tronco Peloro, che 'n pochi luoghi passa oltra quel segno,
infin la` 've si rende per ristoro di quel che 'l ciel de la marina asciuga, ond'hanno i fiumi cio` che va con loro,
vertu` cosi` per nimica si fuga da tutti come biscia, o per sventura del luogo, o per mal uso che li fruga:
ond'hanno si` mutata lor natura li abitator de la misera valle, che par che Circe li avesse in pastura.
Tra brutti porci, piu` degni di galle che d'altro cibo fatto in uman uso, dirizza prima il suo povero calle.
Botoli trova poi, venendo giuso, ringhiosi piu` che non chiede lor possa, e da lor disdegnosa torce il muso.
Vassi caggendo; e quant'ella piu` 'ngrossa, tanto piu` trova di can farsi lupi la maladetta e sventurata fossa.
Discesa poi per piu` pelaghi cupi, trova le volpi si` piene di froda, che non temono ingegno che le occupi.
Ne' lascero` di dir perch'altri m'oda; e buon sara` costui, s'ancor s'ammenta di cio` che vero spirto mi disnoda.
Io veggio tuo nepote che diventa cacciator di quei lupi in su la riva del fiero fiume, e tutti li sgomenta.
Vende la carne loro essendo viva; poscia li ancide come antica belva; molti di vita e se' di pregio priva.
Sanguinoso esce de la trista selva; lasciala tal, che di qui a mille anni ne lo stato primaio non si rinselva>>.
Com'a l'annunzio di dogliosi danni si turba il viso di colui ch'ascolta, da qual che parte il periglio l'assanni,
cosi` vid'io l'altr'anima, che volta stava a udir, turbarsi e farsi trista, poi ch'ebbe la parola a se' raccolta.
Lo dir de l'una e de l'altra la vista mi fer voglioso di saper lor nomi, e dimanda ne fei con prieghi mista;
per che lo spirto che di pria parlomi ricomincio`: <<Tu vuo' ch'io mi deduca nel fare a te cio` che tu far non vuo'mi.
Ma da che Dio in te vuol che traluca tanto sua grazia, non ti saro` scarso; pero` sappi ch'io fui Guido del Duca.
Fu il sangue mio d'invidia si` riarso, che se veduto avesse uom farsi lieto, visto m'avresti di livore sparso.
Di mia semente cotal paglia mieto; o gente umana, perche' poni 'l core la` 'v'e` mestier di consorte divieto?
Questi e` Rinier; questi e` 'l pregio e l'onore de la casa da Calboli, ove nullo fatto s'e` reda poi del suo valore.
E non pur lo suo sangue e` fatto brullo, tra 'l Po e 'l monte e la marina e 'l Reno, del ben richesto al vero e al trastullo;
che' dentro a questi termini e` ripieno di venenosi sterpi, si` che tardi per coltivare omai verrebber meno.
Ov'e` 'l buon Lizio e Arrigo Mainardi? Pier Traversaro e Guido di Carpigna? Oh Romagnuoli tornati in bastardi!
Quando in Bologna un Fabbro si ralligna? quando in Faenza un Bernardin di Fosco, verga gentil di picciola gramigna?
Non ti maravigliar s'io piango, Tosco, quando rimembro con Guido da Prata, Ugolin d'Azzo che vivette nosco,
Federigo Tignoso e sua brigata, la casa Traversara e li Anastagi (e l'una gente e l'altra e` diretata),
le donne e ' cavalier, li affanni e li agi che ne 'nvogliava amore e cortesia la` dove i cuor son fatti si` malvagi.
O Bretinoro, che' non fuggi via, poi che gita se n'e` la tua famiglia e molta gente per non esser ria?
Ben fa Bagnacaval, che non rifiglia; e mal fa Castrocaro, e peggio Conio, che di figliar tai conti piu` s'impiglia.
Ben faranno i Pagan, da che 'l demonio lor sen gira`; ma non pero` che puro gia` mai rimagna d'essi testimonio.
O Ugolin de' Fantolin, sicuro e` il nome tuo, da che piu` non s'aspetta chi far lo possa, tralignando, scuro.
Ma va via, Tosco, omai; ch'or mi diletta troppo di pianger piu` che di parlare, si` m'ha nostra ragion la mente stretta>>.
Noi sapavam che quell'anime care ci sentivano andar; pero`, tacendo, facean noi del cammin confidare.
Poi fummo fatti soli procedendo, folgore parve quando l'aere fende, voce che giunse di contra dicendo:
'Anciderammi qualunque m'apprende'; e fuggi` come tuon che si dilegua, se subito la nuvola scoscende.
Come da lei l'udir nostro ebbe triegua, ed ecco l'altra con si` gran fracasso, che somiglio` tonar che tosto segua:
<<Io sono Aglauro che divenni sasso>>; e allor, per ristrignermi al poeta, in destro feci e non innanzi il passo.
Gia` era l'aura d'ogne parte queta; ed el mi disse: <<Quel fu 'l duro camo che dovria l'uom tener dentro a sua meta.
Ma voi prendete l'esca, si` che l'amo de l'antico avversaro a se' vi tira; e pero` poco val freno o richiamo.
Chiamavi 'l cielo e 'ntorno vi si gira, mostrandovi le sue bellezze etterne, e l'occhio vostro pur a terra mira;
onde vi batte chi tutto discerne>>.
Purgatorio: Canto XV
Quanto tra l'ultimar de l'ora terza e 'l principio del di` par de la spera che sempre a guisa di fanciullo scherza,
tanto pareva gia` inver' la sera essere al sol del suo corso rimaso; vespero la`, e qui mezza notte era.
E i raggi ne ferien per mezzo 'l naso, perche' per noi girato era si` 'l monte, che gia` dritti andavamo inver' l'occaso,
quand'io senti' a me gravar la fronte a lo splendore assai piu` che di prima, e stupor m'eran le cose non conte;
ond'io levai le mani inver' la cima de le mie ciglia, e fecimi 'l solecchio, che del soverchio visibile lima.
Come quando da l'acqua o da lo specchio salta lo raggio a l'opposita parte, salendo su per lo modo parecchio
a quel che scende, e tanto si diparte dal cader de la pietra in igual tratta, si` come mostra esperienza e arte;
cosi` mi parve da luce rifratta quivi dinanzi a me esser percosso; per che a fuggir la mia vista fu ratta.
<<Che e` quel, dolce padre, a che non posso schermar lo viso tanto che mi vaglia>>, diss'io, <<e pare inver' noi esser mosso?>>.
<<Non ti maravigliar s'ancor t'abbaglia la famiglia del cielo>>, a me rispuose: <<messo e` che viene ad invitar ch'om saglia.
Tosto sara` ch'a veder queste cose non ti fia grave, ma fieti diletto quanto natura a sentir ti dispuose>>.
Poi giunti fummo a l'angel benedetto, con lieta voce disse: <<Intrate quinci ad un scaleo vie men che li altri eretto>>.
Noi montavam, gia` partiti di linci, e 'Beati misericordes!' fue cantato retro, e 'Godi tu che vinci!'.
Lo mio maestro e io soli amendue suso andavamo; e io pensai, andando, prode acquistar ne le parole sue;
e dirizza'mi a lui si` dimandando: <<Che volse dir lo spirto di Romagna, e 'divieto' e 'consorte' menzionando?>>.
Per ch'elli a me: <<Di sua maggior magagna conosce il danno; e pero` non s'ammiri se ne riprende perche' men si piagna.
Perche' s'appuntano i vostri disiri dove per compagnia parte si scema, invidia move il mantaco a' sospiri.
Ma se l'amor de la spera supprema torcesse in suso il disiderio vostro, non vi sarebbe al petto quella tema;
che', per quanti si dice piu` li` 'nostro', tanto possiede piu` di ben ciascuno, e piu` di caritate arde in quel chiostro>>.
<<Io son d'esser contento piu` digiuno>>, diss'io, <<che se mi fosse pria taciuto, e piu` di dubbio ne la mente aduno.
Com'esser puote ch'un ben, distributo in piu` posseditor, faccia piu` ricchi di se', che se da pochi e` posseduto?>>.
Ed elli a me: <<Pero` che tu rificchi la mente pur a le cose terrene, di vera luce tenebre dispicchi.
Quello infinito e ineffabil bene che la` su` e`, cosi` corre ad amore com'a lucido corpo raggio vene.
Tanto si da` quanto trova d'ardore; si` che, quantunque carita` si stende, cresce sovr'essa l'etterno valore.
E quanta gente piu` la` su` s'intende, piu` v'e` da bene amare, e piu` vi s'ama, e come specchio l'uno a l'altro rende.
E se la mia ragion non ti disfama, vedrai Beatrice, ed ella pienamente ti torra` questa e ciascun'altra brama.
Procaccia pur che tosto sieno spente, come son gia` le due, le cinque piaghe, che si richiudon per esser dolente>>.
Com'io voleva dicer 'Tu m'appaghe', vidimi giunto in su l'altro girone, si` che tacer mi fer le luci vaghe.
Ivi mi parve in una visione estatica di subito esser tratto, e vedere in un tempio piu` persone;
e una donna, in su l'entrar, con atto dolce di madre dicer: <<Figliuol mio perche' hai tu cosi` verso noi fatto?
Ecco, dolenti, lo tuo padre e io ti cercavamo>>. E come qui si tacque, cio` che pareva prima, dispario.
Indi m'apparve un'altra con quell'acque giu` per le gote che 'l dolor distilla quando di gran dispetto in altrui nacque,
e dir: <<Se tu se' sire de la villa del cui nome ne' dei fu tanta lite, e onde ogni scienza disfavilla,
vendica te di quelle braccia ardite ch'abbracciar nostra figlia, o Pisistrato>>. E 'l segnor mi parea, benigno e mite,
risponder lei con viso temperato: <<Che farem noi a chi mal ne disira, se quei che ci ama e` per noi condannato?>>,
Poi vidi genti accese in foco d'ira con pietre un giovinetto ancider, forte gridando a se' pur: <<Martira, martira!>>.
E lui vedea chinarsi, per la morte che l'aggravava gia`, inver' la terra, ma de li occhi facea sempre al ciel porte,
orando a l'alto Sire, in tanta guerra, che perdonasse a' suoi persecutori, con quello aspetto che pieta` diserra.
Quando l'anima mia torno` di fori a le cose che son fuor di lei vere, io riconobbi i miei non falsi errori.
Lo duca mio, che mi potea vedere far si` com'om che dal sonno si slega, disse: <<Che hai che non ti puoi tenere,
ma se' venuto piu` che mezza lega velando li occhi e con le gambe avvolte, a guisa di cui vino o sonno piega?>>.
<<O dolce padre mio, se tu m'ascolte, io ti diro`>>, diss'io, <<cio` che m'apparve quando le gambe mi furon si` tolte>>.
Ed ei: <<Se tu avessi cento larve sovra la faccia, non mi sarian chiuse le tue cogitazion, quantunque parve.
Cio` che vedesti fu perche' non scuse d'aprir lo core a l'acque de la pace che da l'etterno fonte son diffuse.
Non dimandai "Che hai?" per quel che face chi guarda pur con l'occhio che non vede, quando disanimato il corpo giace;
ma dimandai per darti forza al piede: cosi` frugar conviensi i pigri, lenti ad usar lor vigilia quando riede>>.
Noi andavam per lo vespero, attenti oltre quanto potean li occhi allungarsi contra i raggi serotini e lucenti.
Ed ecco a poco a poco un fummo farsi verso di noi come la notte oscuro; ne' da quello era loco da cansarsi.
Questo ne tolse li occhi e l'aere puro.
Purgatorio: Canto XVI
Buio d'inferno e di notte privata d'ogne pianeto, sotto pover cielo, quant'esser puo` di nuvol tenebrata,
non fece al viso mio si` grosso velo come quel fummo ch'ivi ci coperse, ne' a sentir di cosi` aspro pelo,
che l'occhio stare aperto non sofferse; onde la scorta mia saputa e fida mi s'accosto` e l'omero m'offerse.
Si` come cieco va dietro a sua guida per non smarrirsi e per non dar di cozzo in cosa che 'l molesti, o forse ancida,
m'andava io per l'aere amaro e sozzo, ascoltando il mio duca che diceva pur: <<Guarda che da me tu non sia mozzo>>.
Io sentia voci, e ciascuna pareva pregar per pace e per misericordia l'Agnel di Dio che le peccata leva.
Pur 'Agnus Dei' eran le loro essordia; una parola in tutte era e un modo, si` che parea tra esse ogne concordia.
<<Quei sono spirti, maestro, ch'i' odo?>>, diss'io. Ed elli a me: <<Tu vero apprendi, e d'iracundia van solvendo il nodo>>.
<<Or tu chi se' che 'l nostro fummo fendi, e di noi parli pur come se tue partissi ancor lo tempo per calendi?>>.
Cosi` per una voce detto fue; onde 'l maestro mio disse: <<Rispondi, e domanda se quinci si va sue>>.
E io: <<O creatura che ti mondi per tornar bella a colui che ti fece, maraviglia udirai, se mi secondi>>.
<<Io ti seguitero` quanto mi lece>>, rispuose; <<e se veder fummo non lascia, l'udir ci terra` giunti in quella vece>>.
Allora incominciai: <<Con quella fascia che la morte dissolve men vo suso, e venni qui per l'infernale ambascia.
E se Dio m'ha in sua grazia rinchiuso, tanto che vuol ch'i' veggia la sua corte per modo tutto fuor del moderno uso,
non mi celar chi fosti anzi la morte, ma dilmi, e dimmi s'i' vo bene al varco; e tue parole fier le nostre scorte>>.
<<Lombardo fui, e fu' chiamato Marco; del mondo seppi, e quel valore amai al quale ha or ciascun disteso l'arco.
Per montar su` dirittamente vai>>. Cosi` rispuose, e soggiunse: <<I' ti prego che per me prieghi quando su` sarai>>.
E io a lui: <<Per fede mi ti lego di far cio` che mi chiedi; ma io scoppio dentro ad un dubbio, s'io non me ne spiego.
Prima era scempio, e ora e` fatto doppio ne la sentenza tua, che mi fa certo qui, e altrove, quello ov'io l'accoppio.
Lo mondo e` ben cosi` tutto diserto d'ogne virtute, come tu mi sone, e di malizia gravido e coverto;
ma priego che m'addite la cagione, si` ch'i' la veggia e ch'i' la mostri altrui; che' nel cielo uno, e un qua giu` la pone>>.
Alto sospir, che duolo strinse in <<uhi!>>, mise fuor prima; e poi comincio`: <<Frate, lo mondo e` cieco, e tu vien ben da lui.
Voi che vivete ogne cagion recate pur suso al cielo, pur come se tutto movesse seco di necessitate.
Se cosi` fosse, in voi fora distrutto libero arbitrio, e non fora giustizia per ben letizia, e per male aver lutto.
Lo cielo i vostri movimenti inizia; non dico tutti, ma, posto ch'i' 'l dica, lume v'e` dato a bene e a malizia,
e libero voler; che, se fatica ne le prime battaglie col ciel dura, poi vince tutto, se ben si notrica.
A maggior forza e a miglior natura liberi soggiacete; e quella cria la mente in voi, che 'l ciel non ha in sua cura.
Pero`, se 'l mondo presente disvia, in voi e` la cagione, in voi si cheggia; e io te ne saro` or vera spia.
Esce di mano a lui che la vagheggia prima che sia, a guisa di fanciulla che piangendo e ridendo pargoleggia,
l'anima semplicetta che sa nulla, salvo che, mossa da lieto fattore, volontier torna a cio` che la trastulla.
Di picciol bene in pria sente sapore; quivi s'inganna, e dietro ad esso corre, se guida o fren non torce suo amore.
Onde convenne legge per fren porre; convenne rege aver che discernesse de la vera cittade almen la torre.
Le leggi son, ma chi pon mano ad esse? Nullo, pero` che 'l pastor che procede, rugumar puo`, ma non ha l'unghie fesse;
per che la gente, che sua guida vede pur a quel ben fedire ond'ella e` ghiotta, di quel si pasce, e piu` oltre non chiede.
Ben puoi veder che la mala condotta e` la cagion che 'l mondo ha fatto reo, e non natura che 'n voi sia corrotta.
Soleva Roma, che 'l buon mondo feo, due soli aver, che l'una e l'altra strada facean vedere, e del mondo e di Deo.
L'un l'altro ha spento; ed e` giunta la spada col pasturale, e l'un con l'altro insieme per viva forza mal convien che vada;
pero` che, giunti, l'un l'altro non teme: se non mi credi, pon mente a la spiga, ch'ogn'erba si conosce per lo seme.
In sul paese ch'Adice e Po riga, solea valore e cortesia trovarsi, prima che Federigo avesse briga;
or puo` sicuramente indi passarsi per qualunque lasciasse, per vergogna di ragionar coi buoni o d'appressarsi.
Ben v'en tre vecchi ancora in cui rampogna l'antica eta` la nova, e par lor tardo che Dio a miglior vita li ripogna:
Currado da Palazzo e 'l buon Gherardo e Guido da Castel, che mei si noma francescamente, il semplice Lombardo.
Di` oggimai che la Chiesa di Roma, per confondere in se' due reggimenti, cade nel fango e se' brutta e la soma>>.
<<O Marco mio>>, diss'io, <<bene argomenti; e or discerno perche' dal retaggio li figli di Levi` furono essenti.
Ma qual Gherardo e` quel che tu per saggio di' ch'e` rimaso de la gente spenta, in rimprovero del secol selvaggio?>>.
<<O tuo parlar m'inganna, o el mi tenta>>, rispuose a me; <<che', parlandomi tosco, par che del buon Gherardo nulla senta.
Per altro sopranome io nol conosco, s'io nol togliessi da sua figlia Gaia. Dio sia con voi, che' piu` non vegno vosco.
Vedi l'albor che per lo fummo raia gia` biancheggiare, e me convien partirmi (l'angelo e` ivi) prima ch'io li paia>>.
Cosi` torno`, e piu` non volle udirmi.
Purgatorio: Canto XVII
Ricorditi, lettor, se mai ne l'alpe ti colse nebbia per la qual vedessi non altrimenti che per pelle talpe,
come, quando i vapori umidi e spessi a diradar cominciansi, la spera del sol debilemente entra per essi;
e fia la tua imagine leggera in giugnere a veder com'io rividi lo sole in pria, che gia` nel corcar era.
Si`, pareggiando i miei co' passi fidi del mio maestro, usci' fuor di tal nube ai raggi morti gia` ne' bassi lidi.
O imaginativa che ne rube talvolta si` di fuor, ch'om non s'accorge perche' dintorno suonin mille tube,
chi move te, se 'l senso non ti porge? Moveti lume che nel ciel s'informa, per se' o per voler che giu` lo scorge.
De l'empiezza di lei che muto` forma ne l'uccel ch'a cantar piu` si diletta, ne l'imagine mia apparve l'orma;
e qui fu la mia mente si` ristretta dentro da se', che di fuor non venia cosa che fosse allor da lei ricetta.
Poi piovve dentro a l'alta fantasia un crucifisso dispettoso e fero ne la sua vista, e cotal si moria;
intorno ad esso era il grande Assuero, Ester sua sposa e 'l giusto Mardoceo, che fu al dire e al far cosi` intero.
E come questa imagine rompeo se' per se' stessa, a guisa d'una bulla cui manca l'acqua sotto qual si feo,
surse in mia visione una fanciulla piangendo forte, e dicea: <<O regina, perche' per ira hai voluto esser nulla?
Ancisa t'hai per non perder Lavina; or m'hai perduta! Io son essa che lutto, madre, a la tua pria ch'a l'altrui ruina>>.
Come si frange il sonno ove di butto nova luce percuote il viso chiuso, che fratto guizza pria che muoia tutto;
cosi` l'imaginar mio cadde giuso tosto che lume il volto mi percosse, maggior assai che quel ch'e` in nostro uso.
I' mi volgea per veder ov'io fosse, quando una voce disse <<Qui si monta>>, che da ogne altro intento mi rimosse;
e fece la mia voglia tanto pronta di riguardar chi era che parlava, che mai non posa, se non si raffronta.
Ma come al sol che nostra vista grava e per soverchio sua figura vela, cosi` la mia virtu` quivi mancava.
<<Questo e` divino spirito, che ne la via da ir su` ne drizza sanza prego, e col suo lume se' medesmo cela.
Si` fa con noi, come l'uom si fa sego; che' quale aspetta prego e l'uopo vede, malignamente gia` si mette al nego.
Or accordiamo a tanto invito il piede; procacciam di salir pria che s'abbui, che' poi non si poria, se 'l di` non riede>>.
Cosi` disse il mio duca, e io con lui volgemmo i nostri passi ad una scala; e tosto ch'io al primo grado fui,
senti'mi presso quasi un muover d'ala e ventarmi nel viso e dir: 'Beati pacifici, che son sanz'ira mala!'.
Gia` eran sovra noi tanto levati li ultimi raggi che la notte segue, che le stelle apparivan da piu` lati.
'O virtu` mia, perche' si` ti dilegue?', fra me stesso dicea, che' mi sentiva la possa de le gambe posta in triegue.
Noi eravam dove piu` non saliva la scala su`, ed eravamo affissi, pur come nave ch'a la piaggia arriva.
E io attesi un poco, s'io udissi alcuna cosa nel novo girone; poi mi volsi al maestro mio, e dissi:
<<Dolce mio padre, di`, quale offensione si purga qui nel giro dove semo? Se i pie` si stanno, non stea tuo sermone>>.
Ed elli a me: <<L'amor del bene, scemo del suo dover, quiritta si ristora; qui si ribatte il mal tardato remo.
Ma perche' piu` aperto intendi ancora, volgi la mente a me, e prenderai alcun buon frutto di nostra dimora>>.
<<Ne' creator ne' creatura mai>>, comincio` el, <<figliuol, fu sanza amore, o naturale o d'animo; e tu 'l sai.
Lo naturale e` sempre sanza errore, ma l'altro puote errar per malo obietto o per troppo o per poco di vigore.
Mentre ch'elli e` nel primo ben diretto, e ne' secondi se' stesso misura, esser non puo` cagion di mal diletto;
ma quando al mal si torce, o con piu` cura o con men che non dee corre nel bene, contra 'l fattore adovra sua fattura.
Quinci comprender puoi ch'esser convene amor sementa in voi d'ogne virtute e d'ogne operazion che merta pene.
Or, perche' mai non puo` da la salute amor del suo subietto volger viso, da l'odio proprio son le cose tute;
e perche' intender non si puo` diviso, e per se' stante, alcuno esser dal primo, da quello odiare ogne effetto e` deciso.
Resta, se dividendo bene stimo, che 'l mal che s'ama e` del prossimo; ed esso amor nasce in tre modi in vostro limo.
E' chi, per esser suo vicin soppresso, spera eccellenza, e sol per questo brama ch'el sia di sua grandezza in basso messo;
e` chi podere, grazia, onore e fama teme di perder perch'altri sormonti, onde s'attrista si` che 'l contrario ama;
ed e` chi per ingiuria par ch'aonti, si` che si fa de la vendetta ghiotto, e tal convien che 'l male altrui impronti.
Questo triforme amor qua giu` di sotto si piange; or vo' che tu de l'altro intende, che corre al ben con ordine corrotto.
Ciascun confusamente un bene apprende nel qual si queti l'animo, e disira; per che di giugner lui ciascun contende.
Se lento amore a lui veder vi tira o a lui acquistar, questa cornice, dopo giusto penter, ve ne martira.
Altro ben e` che non fa l'uom felice; non e` felicita`, non e` la buona essenza, d'ogne ben frutto e radice.
L'amor ch'ad esso troppo s'abbandona, di sovr'a noi si piange per tre cerchi; ma come tripartito si ragiona,
tacciolo, accio` che tu per te ne cerchi>>.
Purgatorio: Canto XVIII
Posto avea fine al suo ragionamento l'alto dottore, e attento guardava ne la mia vista s'io parea contento;
e io, cui nova sete ancor frugava, di fuor tacea, e dentro dicea: 'Forse lo troppo dimandar ch'io fo li grava'.
Ma quel padre verace, che s'accorse del timido voler che non s'apriva, parlando, di parlare ardir mi porse.
Ond'io: <<Maestro, il mio veder s'avviva si` nel tuo lume, ch'io discerno chiaro quanto la tua ragion parta o descriva.
Pero` ti prego, dolce padre caro, che mi dimostri amore, a cui reduci ogne buono operare e 'l suo contraro>>.
<<Drizza>>, disse, <<ver' me l'agute luci de lo 'ntelletto, e fieti manifesto l'error de' ciechi che si fanno duci.
L'animo, ch'e` creato ad amar presto, ad ogne cosa e` mobile che piace, tosto che dal piacere in atto e` desto.
Vostra apprensiva da esser verace tragge intenzione, e dentro a voi la spiega, si` che l'animo ad essa volger face;
e se, rivolto, inver' di lei si piega, quel piegare e` amor, quell'e` natura che per piacer di novo in voi si lega.
Poi, come 'l foco movesi in altura per la sua forma ch'e` nata a salire la` dove piu` in sua matera dura,
cosi` l'animo preso entra in disire, ch'e` moto spiritale, e mai non posa fin che la cosa amata il fa gioire.
Or ti puote apparer quant'e` nascosa la veritate a la gente ch'avvera ciascun amore in se' laudabil cosa;
pero` che forse appar la sua matera sempre esser buona, ma non ciascun segno e` buono, ancor che buona sia la cera>>.
<<Le tue parole e 'l mio seguace ingegno>>, rispuos'io lui, <<m'hanno amor discoverto, ma cio` m'ha fatto di dubbiar piu` pregno;
che', s'amore e` di fuori a noi offerto, e l'anima non va con altro piede, se dritta o torta va, non e` suo merto>>.
Ed elli a me: <<Quanto ragion qui vede, dir ti poss'io; da indi in la` t'aspetta pur a Beatrice, ch'e` opra di fede.
Ogne forma sustanzial, che setta e` da matera ed e` con lei unita, specifica vertute ha in se' colletta,
la qual sanza operar non e` sentita, ne' si dimostra mai che per effetto, come per verdi fronde in pianta vita.
Pero`, la` onde vegna lo 'ntelletto de le prime notizie, omo non sape, e de' primi appetibili l'affetto,
che sono in voi si` come studio in ape di far lo mele; e questa prima voglia merto di lode o di biasmo non cape.
Or perche' a questa ogn'altra si raccoglia, innata v'e` la virtu` che consiglia, e de l'assenso de' tener la soglia.
Quest'e` 'l principio la` onde si piglia ragion di meritare in voi, secondo che buoni e rei amori accoglie e viglia.
Color che ragionando andaro al fondo, s'accorser d'esta innata libertate; pero` moralita` lasciaro al mondo.
Onde, poniam che di necessitate surga ogne amor che dentro a voi s'accende, di ritenerlo e` in voi la podestate.
La nobile virtu` Beatrice intende per lo libero arbitrio, e pero` guarda che l'abbi a mente, s'a parlar ten prende>>.
La luna, quasi a mezza notte tarda, facea le stelle a noi parer piu` rade, fatta com'un secchion che tuttor arda;
e correa contro 'l ciel per quelle strade che 'l sole infiamma allor che quel da Roma tra Sardi e ' Corsi il vede quando cade.
E quell'ombra gentil per cui si noma Pietola piu` che villa mantoana, del mio carcar diposta avea la soma;
per ch'io, che la ragione aperta e piana sovra le mie quistioni avea ricolta, stava com'om che sonnolento vana.
Ma questa sonnolenza mi fu tolta subitamente da gente che dopo le nostre spalle a noi era gia` volta.
E quale Ismeno gia` vide e Asopo lungo di se` di notte furia e calca, pur che i Teban di Bacco avesser uopo,
cotal per quel giron suo passo falca, per quel ch'io vidi di color, venendo, cui buon volere e giusto amor cavalca.
Tosto fur sovr'a noi, perche' correndo si movea tutta quella turba magna; e due dinanzi gridavan piangendo:
<<Maria corse con fretta a la montagna; e Cesare, per soggiogare Ilerda, punse Marsilia e poi corse in Ispagna>>.
<<Ratto, ratto, che 'l tempo non si perda per poco amor>>, gridavan li altri appresso, <<che studio di ben far grazia rinverda>>.
<<O gente in cui fervore aguto adesso ricompie forse negligenza e indugio da voi per tepidezza in ben far messo,
questi che vive, e certo i' non vi bugio, vuole andar su`, pur che 'l sol ne riluca; pero` ne dite ond'e` presso il pertugio>>.
Parole furon queste del mio duca; e un di quelli spirti disse: <<Vieni di retro a noi, e troverai la buca.
Noi siam di voglia a muoverci si` pieni, che restar non potem; pero` perdona, se villania nostra giustizia tieni.
Io fui abate in San Zeno a Verona sotto lo 'mperio del buon Barbarossa, di cui dolente ancor Milan ragiona.
E tale ha gia` l'un pie` dentro la fossa, che tosto piangera` quel monastero, e tristo fia d'avere avuta possa;
perche' suo figlio, mal del corpo intero, e de la mente peggio, e che mal nacque, ha posto in loco di suo pastor vero>>.
Io non so se piu` disse o s'ei si tacque, tant'era gia` di la` da noi trascorso; ma questo intesi, e ritener mi piacque.
E quei che m'era ad ogne uopo soccorso disse: <<Volgiti qua: vedine due venir dando a l'accidia di morso>>.
Di retro a tutti dicean: <<Prima fue morta la gente a cui il mar s'aperse, che vedesse Iordan le rede sue.
E quella che l'affanno non sofferse fino a la fine col figlio d'Anchise, se' stessa a vita sanza gloria offerse>>.
Poi quando fuor da noi tanto divise quell'ombre, che veder piu` non potiersi, novo pensiero dentro a me si mise,
del qual piu` altri nacquero e diversi; e tanto d'uno in altro vaneggiai, che li occhi per vaghezza ricopersi,
e 'l pensamento in sogno trasmutai.
Purgatorio: Canto XIX
Ne l'ora che non puo` 'l calor diurno intepidar piu` 'l freddo de la luna, vinto da terra, e talor da Saturno
- quando i geomanti lor Maggior Fortuna veggiono in oriiente, innanzi a l'alba, surger per via che poco le sta bruna -,
mi venne in sogno una femmina balba, ne li occhi guercia, e sovra i pie` distorta, con le man monche, e di colore scialba.
Io la mirava; e come 'l sol conforta le fredde membra che la notte aggrava, cosi` lo sguardo mio le facea scorta
la lingua, e poscia tutta la drizzava in poco d'ora, e lo smarrito volto, com' amor vuol, cosi` le colorava.
Poi ch'ell' avea 'l parlar cosi` disciolto, cominciava a cantar si`, che con pena da lei avrei mio intento rivolto.
<<Io son>>, cantava, <<io son dolce serena, che' marinari in mezzo mar dismago; tanto son di piacere a sentir piena!
Io volsi Ulisse del suo cammin vago al canto mio; e qual meco s'ausa, rado sen parte; si` tutto l'appago!>>.
Ancor non era sua bocca richiusa, quand' una donna apparve santa e presta lunghesso me per far colei confusa.
<<O Virgilio, Virgilio, chi e` questa?>>, fieramente dicea; ed el venia con li occhi fitti pur in quella onesta.
L'altra prendea, e dinanzi l'apria fendendo i drappi, e mostravami 'l ventre; quel mi sveglio` col puzzo che n'uscia.
Io mossi li occhi, e 'l buon maestro: <<Almen tre voci t'ho messe!>>, dicea, <<Surgi e vieni; troviam l'aperta per la qual tu entre>>.
Su` mi levai, e tutti eran gia` pieni de l'alto di` i giron del sacro monte, e andavam col sol novo a le reni.
Seguendo lui, portava la mia fronte come colui che l'ha di pensier carca, che fa di se' un mezzo arco di ponte;
quand' io udi' <<Venite; qui si varca>> parlare in modo soave e benigno, qual non si sente in questa mortal marca.
Con l'ali aperte, che parean di cigno, volseci in su` colui che si` parlonne tra due pareti del duro macigno.
Mosse le penne poi e ventilonne, 'Qui lugent' affermando esser beati, ch'avran di consolar l'anime donne.
<<Che hai che pur inver' la terra guati?>>, la guida mia incomincio` a dirmi, poco amendue da l'angel sormontati.
E io: <<Con tanta sospeccion fa irmi novella visiion ch'a se' mi piega, si` ch'io non posso dal pensar partirmi>>.
<<Vedesti>>, disse, <<quell'antica strega che sola sovr' a noi omai si piagne; vedesti come l'uom da lei si slega.
Bastiti, e batti a terra le calcagne; li occhi rivolgi al logoro che gira lo rege etterno con le rote magne>>.
Quale 'l falcon, che prima a' pie' si mira, indi si volge al grido e si protende per lo disio del pasto che la` il tira,
tal mi fec' io; e tal, quanto si fende la roccia per dar via a chi va suso, n'andai infin dove 'l cerchiar si prende.
Com'io nel quinto giro fui dischiuso, vidi gente per esso che piangea, giacendo a terra tutta volta in giuso.
'Adhaesit pavimento anima mea' sentia dir lor con si` alti sospiri, che la parola a pena s'intendea.
<<O eletti di Dio, li cui soffriri e giustizia e speranza fa men duri, drizzate noi verso li alti saliri>>.
<<Se voi venite dal giacer sicuri, e volete trovar la via piu` tosto, le vostre destre sien sempre di fori>>.
Cosi` prego` 'l poeta, e si` risposto poco dinanzi a noi ne fu; per ch'io nel parlare avvisai l'altro nascosto,
e volsi li occhi a li occhi al segnor mio: ond' elli m'assenti` con lieto cenno cio` che chiedea la vista del disio.
Poi ch'io potei di me fare a mio senno, trassimi sovra quella creatura le cui parole pria notar mi fenno,
dicendo: <<Spirto in cui pianger matura quel sanza 'l quale a Dio tornar non possi, sosta un poco per me tua maggior cura.
Chi fosti e perche' volti avete i dossi al su`, mi di`, e se vuo' ch'io t'impetri cosa di la` ond' io vivendo mossi>>.
Ed elli a me: <<Perche' i nostri diretri rivolga il cielo a se', saprai; ma prima scias quod ego fui successor Petri.
Intra Siiestri e Chiaveri s'adima una fiumana bella, e del suo nome lo titol del mio sangue fa sua cima.
Un mese e` poco piu` prova' io come pesa il gran manto a chi dal fango il guarda, che piuma sembran tutte l'altre some.
La mia conversiione, ome`!, fu tarda; ma, come fatto fui roman pastore, cosi` scopersi la vita bugiarda.
Vidi che li` non s'acquetava il core, ne' piu` salir potiesi in quella vita; er che di questa in me s'accese amore.
Fino a quel punto misera e partita da Dio anima fui, del tutto avara; or, come vedi, qui ne son punita.
Quel ch'avarizia fa, qui si dichiara in purgazion de l'anime converse; e nulla pena il monte ha piu` amara.
Si` come l'occhio nostro non s'aderse in alto, fisso a le cose terrene, cosi` giustizia qui a terra il merse.
Come avarizia spense a ciascun bene lo nostro amore, onde operar perdesi, cosi` giustizia qui stretti ne tene,
ne' piedi e ne le man legati e presi; e quanto fia piacer del giusto Sire, tanto staremo immobili e distesi>>.
Io m'era inginocchiato e volea dire; ma com' io cominciai ed el s'accorse, solo ascoltando, del mio reverire,
<<Qual cagion>>, disse, <<in giu` cosi` ti torse?>>. E io a lui: <<Per vostra dignitate mia cosciienza dritto mi rimorse>>.
<<Drizza le gambe, levati su`, frate!>>, rispuose; <<non errar: conservo sono teco e con li altri ad una podestate.
Se mai quel santo evangelico suono che dice 'Neque nubent' intendesti, ben puoi veder perch'io cosi` ragiono.
Vattene omai: non vo' che piu` t'arresti; che' la tua stanza mio pianger disagia, col qual maturo cio` che tu dicesti.
Nepote ho io di la` c'ha nome Alagia, buona da se', pur che la nostra casa non faccia lei per essempro malvagia;
e questa sola di la` m'e` rimasa>>.
Purgatorio: Canto XX
Contra miglior voler voler mal pugna; onde contra 'l piacer mio, per piacerli, trassi de l'acqua non sazia la spugna.
Mossimi; e 'l duca mio si mosse per li luoghi spediti pur lungo la roccia, come si va per muro stretto a' merli;
che' la gente che fonde a goccia a goccia per li occhi il mal che tutto 'l mondo occupa, da l'altra parte in fuor troppo s'approccia.
Maladetta sie tu, antica lupa, che piu` che tutte l'altre bestie hai preda per la tua fame sanza fine cupa!
O ciel, nel cui girar par che si creda le condizion di qua giu` trasmutarsi, quando verra` per cui questa disceda?
Noi andavam con passi lenti e scarsi, e io attento a l'ombre, ch'i' sentia pietosamente piangere e lagnarsi;
e per ventura udi' <<Dolce Maria!>> dinanzi a noi chiamar cosi` nel pianto come fa donna che in parturir sia;
e seguitar: <<Povera fosti tanto, quanto veder si puo` per quello ospizio dove sponesti il tuo portato santo>>.
Seguentemente intesi: <<O buon Fabrizio, con poverta` volesti anzi virtute che gran ricchezza posseder con vizio>>.
Queste parole m'eran si` piaciute, ch'io mi trassi oltre per aver contezza di quello spirto onde parean venute.
Esso parlava ancor de la larghezza che fece Niccolo` a le pulcelle, per condurre ad onor lor giovinezza.
<<O anima che tanto ben favelle, dimmi chi fosti>>, dissi, <<e perche' sola tu queste degne lode rinovelle.
Non fia sanza merce' la tua parola, s'io ritorno a compier lo cammin corto di quella vita ch'al termine vola>>.
Ed elli: <<Io ti diro`, non per conforto ch'io attenda di la`, ma perche' tanta grazia in te luce prima che sie morto.
Io fui radice de la mala pianta che la terra cristiana tutta aduggia, si` che buon frutto rado se ne schianta.
Ma se Doagio, Lilla, Guanto e Bruggia potesser, tosto ne saria vendetta; e io la cheggio a lui che tutto giuggia.
Chiamato fui di la` Ugo Ciappetta; di me son nati i Filippi e i Luigi per cui novellamente e` Francia retta.
Figliuol fu' io d'un beccaio di Parigi: quando li regi antichi venner meno tutti, fuor ch'un renduto in panni bigi,
trova'mi stretto ne le mani il freno del governo del regno, e tanta possa di nuovo acquisto, e si` d'amici pieno,
ch'a la corona vedova promossa la testa di mio figlio fu, dal quale cominciar di costor le sacrate ossa.
Mentre che la gran dota provenzale al sangue mio non tolse la vergogna, poco valea, ma pur non facea male.
Li` comincio` con forza e con menzogna la sua rapina; e poscia, per ammenda, Ponti` e Normandia prese e Guascogna.
Carlo venne in Italia e, per ammenda, vittima fe' di Curradino; e poi ripinse al ciel Tommaso, per ammenda.
Tempo vegg'io, non molto dopo ancoi, che tragge un altro Carlo fuor di Francia, per far conoscer meglio e se' e ' suoi.
Sanz'arme n'esce e solo con la lancia con la qual giostro` Giuda, e quella ponta si` ch'a Fiorenza fa scoppiar la pancia.
Quindi non terra, ma peccato e onta guadagnera`, per se' tanto piu` grave, quanto piu` lieve simil danno conta.
L'altro, che gia` usci` preso di nave, veggio vender sua figlia e patteggiarne come fanno i corsar de l'altre schiave.
O avarizia, che puoi tu piu` farne, poscia c'ha' il mio sangue a te si` tratto, che non si cura de la propria carne?
Perche' men paia il mal futuro e 'l fatto, veggio in Alagna intrar lo fiordaliso, e nel vicario suo Cristo esser catto.
Veggiolo un'altra volta esser deriso; veggio rinovellar l'aceto e 'l fiele, e tra vivi ladroni esser anciso.
Veggio il novo Pilato si` crudele, che cio` nol sazia, ma sanza decreto portar nel Tempio le cupide vele.
O Segnor mio, quando saro` io lieto a veder la vendetta che, nascosa, fa dolce l'ira tua nel tuo secreto?
Cio` ch'io dicea di quell'unica sposa de lo Spirito Santo e che ti fece verso me volger per alcuna chiosa,
tanto e` risposto a tutte nostre prece quanto 'l di` dura; ma com'el s'annotta, contrario suon prendemo in quella vece.
Noi repetiam Pigmalion allotta, cui traditore e ladro e paricida fece la voglia sua de l'oro ghiotta;
e la miseria de l'avaro Mida, che segui` a la sua dimanda gorda, per la qual sempre convien che si rida.
Del folle Acan ciascun poi si ricorda, come furo` le spoglie, si` che l'ira di Iosue` qui par ch'ancor lo morda.
Indi accusiam col marito Saffira; lodiam i calci ch'ebbe Eliodoro; e in infamia tutto 'l monte gira
Polinestor ch'ancise Polidoro; ultimamente ci si grida: "Crasso, dilci, che 'l sai: di che sapore e` l'oro?".
Talor parla l'uno alto e l'altro basso, secondo l'affezion ch'ad ir ci sprona ora a maggiore e ora a minor passo:
pero` al ben che 'l di` ci si ragiona, dianzi non era io sol; ma qui da presso non alzava la voce altra persona>>.
Noi eravam partiti gia` da esso, e brigavam di soverchiar la strada tanto quanto al poder n'era permesso,
quand'io senti', come cosa che cada, tremar lo monte; onde mi prese un gelo qual prender suol colui ch'a morte vada.
Certo non si scoteo si` forte Delo, pria che Latona in lei facesse 'l nido a parturir li due occhi del cielo.
Poi comincio` da tutte parti un grido tal, che 'l maestro inverso me si feo, dicendo: <<Non dubbiar, mentr'io ti guido>>.
'Gloria in excelsis' tutti 'Deo' dicean, per quel ch'io da' vicin compresi, onde intender lo grido si poteo.
No' istavamo immobili e sospesi come i pastor che prima udir quel canto, fin che 'l tremar cesso` ed el compiesi.
Poi ripigliammo nostro cammin santo, guardando l'ombre che giacean per terra, tornate gia` in su l'usato pianto.
Nulla ignoranza mai con tanta guerra mi fe' desideroso di sapere, se la memoria mia in cio` non erra,
quanta pareami allor, pensando, avere; ne' per la fretta dimandare er'oso, ne' per me li` potea cosa vedere:
cosi` m'andava timido e pensoso.
Purgatorio: Canto XXI
a sete natural che mai non sazia se non con l'acqua onde la femminetta samaritana domando` la grazia,
mi travagliava, e pungeami la fretta per la 'mpacciata via dietro al mio duca, e condoleami a la giusta vendetta.
Ed ecco, si` come ne scrive Luca che Cristo apparve a' due ch'erano in via, gia` surto fuor de la sepulcral buca,
ci apparve un'ombra, e dietro a noi venia, dal pie` guardando la turba che giace; ne' ci addemmo di lei, si` parlo` pria,
dicendo; <<O frati miei, Dio vi dea pace>>. Noi ci volgemmo subiti, e Virgilio rendeli 'l cenno ch'a cio` si conface.
Poi comincio`: <<Nel beato concilio ti ponga in pace la verace corte che me rilega ne l'etterno essilio>>.
<<Come!>>, diss'elli, e parte andavam forte: <<se voi siete ombre che Dio su` non degni, chi v'ha per la sua scala tanto scorte?>>.
E 'l dottor mio: <<Se tu riguardi a' segni che questi porta e che l'angel profila, ben vedrai che coi buon convien ch'e' regni.
Ma perche' lei che di` e notte fila non li avea tratta ancora la conocchia che Cloto impone a ciascuno e compila,
l'anima sua, ch'e` tua e mia serocchia, venendo su`, non potea venir sola, pero` ch'al nostro modo non adocchia.
Ond'io fui tratto fuor de l'ampia gola d'inferno per mostrarli, e mosterrolli oltre, quanto 'l potra` menar mia scola.
Ma dimmi, se tu sai, perche' tai crolli die` dianzi 'l monte, e perche' tutto ad una parve gridare infino a' suoi pie` molli>>.
Si` mi die`, dimandando, per la cruna del mio disio, che pur con la speranza si fece la mia sete men digiuna.
Quei comincio`: <<Cosa non e` che sanza ordine senta la religione de la montagna, o che sia fuor d'usanza.
Libero e` qui da ogne alterazione: di quel che 'l ciel da se' in se' riceve esser ci puote, e non d'altro, cagione.
Per che non pioggia, non grando, non neve, non rugiada, non brina piu` su` cade che la scaletta di tre gradi breve;
nuvole spesse non paion ne' rade, ne' coruscar, ne' figlia di Taumante, che di la` cangia sovente contrade;
secco vapor non surge piu` avante ch'al sommo d'i tre gradi ch'io parlai, dov'ha 'l vicario di Pietro le piante.
Trema forse piu` giu` poco o assai; ma per vento che 'n terra si nasconda, non so come, qua su` non tremo` mai.
Tremaci quando alcuna anima monda sentesi, si` che surga o che si mova per salir su`; e tal grido seconda.
De la mondizia sol voler fa prova, che, tutto libero a mutar convento, l'alma sorprende, e di voler le giova.
Prima vuol ben, ma non lascia il talento che divina giustizia, contra voglia, come fu al peccar, pone al tormento.
E io, che son giaciuto a questa doglia cinquecent'anni e piu`, pur mo sentii libera volonta` di miglior soglia:
pero` sentisti il tremoto e li pii spiriti per lo monte render lode a quel Segnor, che tosto su` li 'nvii>>.
Cosi` ne disse; e pero` ch'el si gode tanto del ber quant'e` grande la sete. non saprei dir quant'el mi fece prode.
E 'l savio duca: <<Omai veggio la rete che qui v'impiglia e come si scalappia, perche' ci trema e di che congaudete.
Ora chi fosti, piacciati ch'io sappia, e perche' tanti secoli giaciuto qui se', ne le parole tue mi cappia>>.
<<Nel tempo che 'l buon Tito, con l'aiuto del sommo rege, vendico` le fora ond'usci` 'l sangue per Giuda venduto,
col nome che piu` dura e piu` onora era io di la`>>, rispuose quello spirto, <<famoso assai, ma non con fede ancora.
Tanto fu dolce mio vocale spirto, che, tolosano, a se' mi trasse Roma, dove mertai le tempie ornar di mirto.
Stazio la gente ancor di la` mi noma: cantai di Tebe, e poi del grande Achille; ma caddi in via con la seconda soma.
Al mio ardor fuor seme le faville, che mi scaldar, de la divina fiamma onde sono allumati piu` di mille;
de l'Eneida dico, la qual mamma fummi e fummi nutrice poetando: sanz'essa non fermai peso di dramma.
E per esser vivuto di la` quando visse Virgilio, assentirei un sole piu` che non deggio al mio uscir di bando>>.
Volser Virgilio a me queste parole con viso che, tacendo, disse 'Taci'; ma non puo` tutto la virtu` che vuole;
che' riso e pianto son tanto seguaci a la passion di che ciascun si spicca, che men seguon voler ne' piu` veraci.
Io pur sorrisi come l'uom ch'ammicca; per che l'ombra si tacque, e riguardommi ne li occhi ove 'l sembiante piu` si ficca;
e <<Se tanto labore in bene assommi>>, disse, <<perche' la tua faccia testeso un lampeggiar di riso dimostrommi?>>.
Or son io d'una parte e d'altra preso: l'una mi fa tacer, l'altra scongiura ch'io dica; ond'io sospiro, e sono inteso
dal mio maestro, e <<Non aver paura>>, mi dice, <<di parlar; ma parla e digli quel ch'e' dimanda con cotanta cura>>.
Ond'io: <<Forse che tu ti maravigli, antico spirto, del rider ch'io fei; ma piu` d'ammirazion vo' che ti pigli.
Questi che guida in alto li occhi miei, e` quel Virgilio dal qual tu togliesti forza a cantar de li uomini e d'i dei.
Se cagion altra al mio rider credesti, lasciala per non vera, ed esser credi quelle parole che di lui dicesti>>.
Gia` s'inchinava ad abbracciar li piedi al mio dottor, ma el li disse: <<Frate, non far, che' tu se' ombra e ombra vedi>>.
Ed ei surgendo: <<Or puoi la quantitate comprender de l'amor ch'a te mi scalda, quand'io dismento nostra vanitate,
trattando l'ombre come cosa salda>>.
Purgatorio: Canto XXII
Gia` era l'angel dietro a noi rimaso, l'angel che n'avea volti al sesto giro, avendomi dal viso un colpo raso;
e quei c'hanno a giustizia lor disiro detto n'avea beati, e le sue voci con 'sitiunt', sanz'altro, cio` forniro.
E io piu` lieve che per l'altre foci m'andava, si` che sanz'alcun labore seguiva in su` li spiriti veloci;
quando Virgilio incomincio`: <<Amore, acceso di virtu`, sempre altro accese, pur che la fiamma sua paresse fore;
onde da l'ora che tra noi discese nel limbo de lo 'nferno Giovenale, che la tua affezion mi fe' palese,
mia benvoglienza inverso te fu quale piu` strinse mai di non vista persona, si` ch'or mi parran corte queste scale.
Ma dimmi, e come amico mi perdona se troppa sicurta` m'allarga il freno, e come amico omai meco ragiona:
come pote' trovar dentro al tuo seno loco avarizia, tra cotanto senno di quanto per tua cura fosti pieno?>>.
Queste parole Stazio mover fenno un poco a riso pria; poscia rispuose: <<Ogne tuo dir d'amor m'e` caro cenno.
Veramente piu` volte appaion cose che danno a dubitar falsa matera per le vere ragion che son nascose.
La tua dimanda tuo creder m'avvera esser ch'i' fossi avaro in l'altra vita, forse per quella cerchia dov'io era.
Or sappi ch'avarizia fu partita troppo da me, e questa dismisura migliaia di lunari hanno punita.
E se non fosse ch'io drizzai mia cura, quand'io intesi la` dove tu chiame, crucciato quasi a l'umana natura:
'Per che non reggi tu, o sacra fame de l'oro, l'appetito de' mortali?', voltando sentirei le giostre grame.
Allor m'accorsi che troppo aprir l'ali potean le mani a spendere, e pente'mi cosi` di quel come de li altri mali.
Quanti risurgeran coi crini scemi per ignoranza, che di questa pecca toglie 'l penter vivendo e ne li stremi!
E sappie che la colpa che rimbecca per dritta opposizione alcun peccato, con esso insieme qui suo verde secca;
pero`, s'io son tra quella gente stato che piange l'avarizia, per purgarmi, per lo contrario suo m'e` incontrato>>.
<<Or quando tu cantasti le crude armi de la doppia trestizia di Giocasta>>, disse 'l cantor de' buccolici carmi,
<<per quello che Clio` teco li` tasta, non par che ti facesse ancor fedele la fede, sanza qual ben far non basta.
Se cosi` e`, qual sole o quai candele ti stenebraron si`, che tu drizzasti poscia di retro al pescator le vele?>>.
Ed elli a lui: <<Tu prima m'inviasti verso Parnaso a ber ne le sue grotte, e prima appresso Dio m'alluminasti.
Facesti come quei che va di notte, che porta il lume dietro e se' non giova, ma dopo se' fa le persone dotte,
quando dicesti: 'Secol si rinova; torna giustizia e primo tempo umano, e progenie scende da ciel nova'.
Per te poeta fui, per te cristiano: ma perche' veggi mei cio` ch'io disegno, a colorare stendero` la mano:
Gia` era 'l mondo tutto quanto pregno de la vera credenza, seminata per li messaggi de l'etterno regno;
e la parola tua sopra toccata si consonava a' nuovi predicanti; ond'io a visitarli presi usata.
Vennermi poi parendo tanto santi, che, quando Domizian li perseguette, sanza mio lagrimar non fur lor pianti;
e mentre che di la` per me si stette, io li sovvenni, e i lor dritti costumi fer dispregiare a me tutte altre sette.
E pria ch'io conducessi i Greci a' fiumi di Tebe poetando, ebb'io battesmo; ma per paura chiuso cristian fu'mi,
lungamente mostrando paganesmo; e questa tepidezza il quarto cerchio cerchiar mi fe' piu` che 'l quarto centesmo.
Tu dunque, che levato hai il coperchio che m'ascondeva quanto bene io dico, mentre che del salire avem soverchio,
dimmi dov'e` Terrenzio nostro antico, Cecilio e Plauto e Varro, se lo sai: dimmi se son dannati, e in qual vico>>.
<<Costoro e Persio e io e altri assai>>, rispuose il duca mio, <<siam con quel Greco che le Muse lattar piu` ch'altri mai,
nel primo cinghio del carcere cieco: spesse fiate ragioniam del monte che sempre ha le nutrice nostre seco.
Euripide v'e` nosco e Antifonte, Simonide, Agatone e altri piue Greci che gia` di lauro ornar la fronte.
Quivi si veggion de le genti tue Antigone, Deifile e Argia, e Ismene si` trista come fue.
Vedeisi quella che mostro` Langia; evvi la figlia di Tiresia, e Teti e con le suore sue Deidamia>>.
Tacevansi ambedue gia` li poeti, di novo attenti a riguardar dintorno, liberi da saliri e da pareti;
e gia` le quattro ancelle eran del giorno rimase a dietro, e la quinta era al temo, drizzando pur in su` l'ardente corno,
quando il mio duca: <<Io credo ch'a lo stremo le destre spalle volger ne convegna, girando il monte come far solemo>>.
Cosi` l'usanza fu li` nostra insegna, e prendemmo la via con men sospetto per l'assentir di quell'anima degna.
Elli givan dinanzi, e io soletto di retro, e ascoltava i lor sermoni, ch'a poetar mi davano intelletto.
Ma tosto ruppe le dolci ragioni un alber che trovammo in mezza strada, con pomi a odorar soavi e buoni;
e come abete in alto si digrada di ramo in ramo, cosi` quello in giuso, cred'io, perche' persona su` non vada.
Dal lato onde 'l cammin nostro era chiuso, cadea de l'alta roccia un liquor chiaro e si spandeva per le foglie suso.
Li due poeti a l'alber s'appressaro; e una voce per entro le fronde grido`: <<Di questo cibo avrete caro>>.
Poi disse: <<Piu` pensava Maria onde fosser le nozze orrevoli e intere, ch'a la sua bocca, ch'or per voi risponde.
E le Romane antiche, per lor bere, contente furon d'acqua; e Daniello dispregio` cibo e acquisto` savere.
Lo secol primo, quant'oro fu bello, fe' savorose con fame le ghiande, e nettare con sete ogne ruscello.
Mele e locuste furon le vivande che nodriro il Batista nel diserto; per ch'elli e` glorioso e tanto grande
quanto per lo Vangelio v'e` aperto>>.
Purgatorio: Canto XXIII
Mentre che li occhi per la fronda verde ficcava io si` come far suole chi dietro a li uccellin sua vita perde,
lo piu` che padre mi dicea: <<Figliuole, vienne oramai, che' 'l tempo che n'e` imposto piu` utilmente compartir si vuole>>.
Io volsi 'l viso, e 'l passo non men tosto, appresso i savi, che parlavan sie, che l'andar mi facean di nullo costo.
Ed ecco piangere e cantar s'udie 'Labia mea, Domine' per modo tal, che diletto e doglia parturie.
<<O dolce padre, che e` quel ch'i' odo?>>, comincia' io; ed elli: <<Ombre che vanno forse di lor dover solvendo il nodo>>.
Si` come i peregrin pensosi fanno, giugnendo per cammin gente non nota, che si volgono ad essa e non restanno,
cosi` di retro a noi, piu` tosto mota, venendo e trapassando ci ammirava d'anime turba tacita e devota.
Ne li occhi era ciascuna oscura e cava, palida ne la faccia, e tanto scema, che da l'ossa la pelle s'informava.
Non credo che cosi` a buccia strema Erisittone fosse fatto secco, per digiunar, quando piu` n'ebbe tema.
Io dicea fra me stesso pensando: 'Ecco la gente che perde' Ierusalemme, quando Maria nel figlio die` di becco!'
Parean l'occhiaie anella sanza gemme: chi nel viso de li uomini legge 'omo' ben avria quivi conosciuta l'emme.
Chi crederebbe che l'odor d'un pomo si` governasse, generando brama, e quel d'un'acqua, non sappiendo como?
Gia` era in ammirar che si` li affama, per la cagione ancor non manifesta di lor magrezza e di lor trista squama,
ed ecco del profondo de la testa volse a me li occhi un'ombra e guardo` fiso; poi grido` forte: <<Qual grazia m'e` questa?>>.
Mai non l'avrei riconosciuto al viso; ma ne la voce sua mi fu palese cio` che l'aspetto in se' avea conquiso.
Questa favilla tutta mi raccese mia conoscenza a la cangiata labbia, e ravvisai la faccia di Forese.
<<Deh, non contendere a l'asciutta scabbia che mi scolora>>, pregava, <<la pelle, ne' a difetto di carne ch'io abbia;
ma dimmi il ver di te, di' chi son quelle due anime che la` ti fanno scorta; non rimaner che tu non mi favelle!>>.
<<La faccia tua, ch'io lagrimai gia` morta, mi da` di pianger mo non minor doglia>>, rispuos'io lui, <<veggendola si` torta.
Pero` mi di`, per Dio, che si` vi sfoglia; non mi far dir mentr'io mi maraviglio, che' mal puo` dir chi e` pien d'altra voglia>>.
Ed elli a me: <<De l'etterno consiglio cade vertu` ne l'acqua e ne la pianta rimasa dietro ond'io si` m'assottiglio.
Tutta esta gente che piangendo canta per seguitar la gola oltra misura, in fame e 'n sete qui si rifa` santa.
Di bere e di mangiar n'accende cura l'odor ch'esce del pomo e de lo sprazzo che si distende su per sua verdura.
E non pur una volta, questo spazzo girando, si rinfresca nostra pena: io dico pena, e dovria dir sollazzo,
che' quella voglia a li alberi ci mena che meno` Cristo lieto a dire 'Eli`', quando ne libero` con la sua vena>>.
E io a lui: <<Forese, da quel di` nel qual mutasti mondo a miglior vita, cinq'anni non son volti infino a qui.
Se prima fu la possa in te finita di peccar piu`, che sovvenisse l'ora del buon dolor ch'a Dio ne rimarita,
come se' tu qua su` venuto ancora? Io ti credea trovar la` giu` di sotto dove tempo per tempo si ristora>>.
Ond'elli a me: <<Si` tosto m'ha condotto a ber lo dolce assenzo d'i martiri la Nella mia con suo pianger dirotto.
Con suoi prieghi devoti e con sospiri tratto m'ha de la costa ove s'aspetta, e liberato m'ha de li altri giri.
Tanto e` a Dio piu` cara e piu` diletta la vedovella mia, che molto amai, quanto in bene operare e` piu` soletta;
che' la Barbagia di Sardigna assai ne le femmine sue piu` e` pudica che la Barbagia dov'io la lasciai.
O dolce frate, che vuo' tu ch'io dica? Tempo futuro m'e` gia` nel cospetto, cui non sara` quest'ora molto antica,
nel qual sara` in pergamo interdetto a le sfacciate donne fiorentine l'andar mostrando con le poppe il petto.
Quai barbare fuor mai, quai saracine, cui bisognasse, per farle ir coperte, o spiritali o altre discipline?
Ma se le svergognate fosser certe di quel che 'l ciel veloce loro ammanna, gia` per urlare avrian le bocche aperte;
che' se l'antiveder qui non m'inganna, prima fien triste che le guance impeli colui che mo si consola con nanna.
Deh, frate, or fa che piu` non mi ti celi! vedi che non pur io, ma questa gente tutta rimira la` dove 'l sol veli>>.
Per ch'io a lui: <<Se tu riduci a mente qual fosti meco, e qual io teco fui, ancor fia grave il memorar presente.
Di quella vita mi volse costui che mi va innanzi, l'altr'ier, quando tonda vi si mostro` la suora di colui>>,
e 'l sol mostrai; <<costui per la profonda notte menato m'ha d'i veri morti con questa vera carne che 'l seconda.
Indi m'han tratto su` li suoi conforti, salendo e rigirando la montagna che drizza voi che 'l mondo fece torti.
Tanto dice di farmi sua compagna, che io saro` la` dove fia Beatrice; quivi convien che sanza lui rimagna.
Virgilio e` questi che cosi` mi dice>>, e addita'lo; <<e quest'altro e` quell'ombra per cui scosse dianzi ogne pendice
lo vostro regno, che da se' lo sgombra>>.
Purgatorio: Canto XXIV
Ne' 'l dir l'andar, ne' l'andar lui piu` lento facea, ma ragionando andavam forte, si` come nave pinta da buon vento;
e l'ombre, che parean cose rimorte, per le fosse de li occhi ammirazione traean di me, di mio vivere accorte.
E io, continuando al mio sermone, dissi: <<Ella sen va su` forse piu` tarda che non farebbe, per altrui cagione.
Ma dimmi, se tu sai, dov'e` Piccarda; dimmi s'io veggio da notar persona tra questa gente che si` mi riguarda>>.
<<La mia sorella, che tra bella e buona non so qual fosse piu`, triunfa lieta ne l'alto Olimpo gia` di sua corona>>.
Si` disse prima; e poi: <<Qui non si vieta di nominar ciascun, da ch'e` si` munta nostra sembianza via per la dieta.
Questi>>, e mostro` col dito, <<e` Bonagiunta, Bonagiunta da Lucca; e quella faccia di la` da lui piu` che l'altre trapunta
ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia: dal Torso fu, e purga per digiuno l'anguille di Bolsena e la vernaccia>>.
Molti altri mi nomo` ad uno ad uno; e del nomar parean tutti contenti, si` ch'io pero` non vidi un atto bruno.
Vidi per fame a voto usar li denti Ubaldin da la Pila e Bonifazio che pasturo` col rocco molte genti.
Vidi messer Marchese, ch'ebbe spazio gia` di bere a Forli` con men secchezza, e si` fu tal, che non si senti` sazio.
Ma come fa chi guarda e poi s'apprezza piu` d'un che d'altro, fei a quel da Lucca, che piu` parea di me aver contezza.
El mormorava; e non so che <<Gentucca>> sentiv'io la`, ov'el sentia la piaga de la giustizia che si` li pilucca.
<<O anima>>, diss'io, <<che par si` vaga di parlar meco, fa si` ch'io t'intenda, e te e me col tuo parlare appaga>>.
<<Femmina e` nata, e non porta ancor benda>>, comincio` el, <<che ti fara` piacere la mia citta`, come ch'om la riprenda.
Tu te n'andrai con questo antivedere: se nel mio mormorar prendesti errore, dichiareranti ancor le cose vere.
Ma di` s'i' veggio qui colui che fore trasse le nove rime, cominciando 'Donne ch'avete intelletto d'amore'>>.
E io a lui: <<I' mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch'e' ditta dentro vo significando>>.
<<O frate, issa vegg'io>>, diss'elli, <<il nodo che 'l Notaro e Guittone e me ritenne di qua dal dolce stil novo ch'i' odo!
Io veggio ben come le vostre penne di retro al dittator sen vanno strette, che de le nostre certo non avvenne;
e qual piu` a gradire oltre si mette, non vede piu` da l'uno a l'altro stilo>>; e, quasi contentato, si tacette.
Come li augei che vernan lungo 'l Nilo, alcuna volta in aere fanno schiera, poi volan piu` a fretta e vanno in filo,
cosi` tutta la gente che li` era, volgendo 'l viso, raffretto` suo passo, e per magrezza e per voler leggera.
E come l'uom che di trottare e` lasso, lascia andar li compagni, e si` passeggia fin che si sfoghi l'affollar del casso,
si` lascio` trapassar la santa greggia Forese, e dietro meco sen veniva, dicendo: <<Quando fia ch'io ti riveggia?>>.
<<Non so>>, rispuos'io lui, <<quant'io mi viva; ma gia` non fia il tornar mio tantosto, ch'io non sia col voler prima a la riva;
pero` che 'l loco u' fui a viver posto, di giorno in giorno piu` di ben si spolpa, e a trista ruina par disposto>>.
<<Or va>>, diss'el; <<che quei che piu` n'ha colpa, vegg'io a coda d'una bestia tratto inver' la valle ove mai non si scolpa.
La bestia ad ogne passo va piu` ratto, crescendo sempre, fin ch'ella il percuote, e lascia il corpo vilmente disfatto.
Non hanno molto a volger quelle ruote>>, e drizzo` li ochi al ciel, <<che ti fia chiaro cio` che 'l mio dir piu` dichiarar non puote.
Tu ti rimani omai; che' 'l tempo e` caro in questo regno, si` ch'io perdo troppo venendo teco si` a paro a paro>>.
Qual esce alcuna volta di gualoppo lo cavalier di schiera che cavalchi, e va per farsi onor del primo intoppo,
tal si parti` da noi con maggior valchi; e io rimasi in via con esso i due che fuor del mondo si` gran marescalchi.
E quando innanzi a noi intrato fue, che li occhi miei si fero a lui seguaci, come la mente a le parole sue,
parvermi i rami gravidi e vivaci d'un altro pomo, e non molto lontani per esser pur allora volto in laci.
Vidi gente sott'esso alzar le mani e gridar non so che verso le fronde, quasi bramosi fantolini e vani,
che pregano, e 'l pregato non risponde, ma, per fare esser ben la voglia acuta, tien alto lor disio e nol nasconde.
Poi si parti` si` come ricreduta; e noi venimmo al grande arbore adesso, che tanti prieghi e lagrime rifiuta.
<<Trapassate oltre sanza farvi presso: legno e` piu` su` che fu morso da Eva, e questa pianta si levo` da esso>>.
Si` tra le frasche non so chi diceva; per che Virgilio e Stazio e io, ristretti, oltre andavam dal lato che si leva.
<<Ricordivi>>, dicea, <<d'i maladetti nei nuvoli formati, che, satolli, Teseo combatter co' doppi petti;
e de li Ebrei ch'al ber si mostrar molli, per che no i volle Gedeon compagni, quando inver' Madian discese i colli>>.
Si` accostati a l'un d'i due vivagni passammo, udendo colpe de la gola seguite gia` da miseri guadagni.
Poi, rallargati per la strada sola, ben mille passi e piu` ci portar oltre, contemplando ciascun sanza parola.
<<Che andate pensando si` voi sol tre?>>. subita voce disse; ond'io mi scossi come fan bestie spaventate e poltre.
Drizzai la testa per veder chi fossi; e gia` mai non si videro in fornace vetri o metalli si` lucenti e rossi,
com'io vidi un che dicea: <<S'a voi piace montare in su`, qui si convien dar volta; quinci si va chi vuole andar per pace>>.
L'aspetto suo m'avea la vista tolta; per ch'io mi volsi dietro a' miei dottori, com'om che va secondo ch'elli ascolta.
E quale, annunziatrice de li albori, l'aura di maggio movesi e olezza, tutta impregnata da l'erba e da' fiori;
tal mi senti' un vento dar per mezza la fronte, e ben senti' mover la piuma, che fe' sentir d'ambrosia l'orezza.
E senti' dir: <<Beati cui alluma tanto di grazia, che l'amor del gusto nel petto lor troppo disir non fuma,
esuriendo sempre quanto e` giusto!>>.
Purgatorio: Canto XXV
Ora era onde 'l salir non volea storpio; che' 'l sole avea il cerchio di merigge lasciato al Tauro e la notte a lo Scorpio:
per che, come fa l'uom che non s'affigge ma vassi a la via sua, che che li appaia, se di bisogno stimolo il trafigge,
cosi` intrammo noi per la callaia, uno innanzi altro prendendo la scala che per artezza i salitor dispaia.
E quale il cicognin che leva l'ala per voglia di volare, e non s'attenta d'abbandonar lo nido, e giu` la cala;
tal era io con voglia accesa e spenta di dimandar, venendo infino a l'atto che fa colui ch'a dicer s'argomenta.
Non lascio`, per l'andar che fosse ratto, lo dolce padre mio, ma disse: <<Scocca l'arco del dir, che 'nfino al ferro hai tratto>>.
Allor sicuramente apri' la bocca e cominciai: <<Come si puo` far magro la` dove l'uopo di nodrir non tocca?>>.
<<Se t'ammentassi come Meleagro si consumo` al consumar d'un stizzo, non fora>>, disse, <<a te questo si` agro;
e se pensassi come, al vostro guizzo, guizza dentro a lo specchio vostra image, cio` che par duro ti parrebbe vizzo.
Ma perche' dentro a tuo voler t'adage, ecco qui Stazio; e io lui chiamo e prego che sia or sanator de le tue piage>>.
<<Se la veduta etterna li dislego>>, rispuose Stazio, <<la` dove tu sie, discolpi me non potert'io far nego>>.
Poi comincio`: <<Se le parole mie, figlio, la mente tua guarda e riceve, lume ti fiero al come che tu die.
Sangue perfetto, che poi non si beve da l'assetate vene, e si rimane quasi alimento che di mensa leve,
prende nel core a tutte membra umane virtute informativa, come quello ch'a farsi quelle per le vene vane.
Ancor digesto, scende ov'e` piu` bello tacer che dire; e quindi poscia geme sovr'altrui sangue in natural vasello.
Ivi s'accoglie l'uno e l'altro insieme, l'un disposto a patire, e l'altro a fare per lo perfetto loco onde si preme;
e, giunto lui, comincia ad operare coagulando prima, e poi avviva cio` che per sua matera fe' constare.
Anima fatta la virtute attiva qual d'una pianta, in tanto differente, che questa e` in via e quella e` gia` a riva,
tanto ovra poi, che gia` si move e sente, come spungo marino; e indi imprende ad organar le posse ond'e` semente.
Or si spiega, figliuolo, or si distende la virtu` ch'e` dal cor del generante, dove natura a tutte membra intende.
Ma come d'animal divegna fante, non vedi tu ancor: quest'e` tal punto, che piu` savio di te fe' gia` errante,
si` che per sua dottrina fe' disgiunto da l'anima il possibile intelletto, perche' da lui non vide organo assunto.
Apri a la verita` che viene il petto; e sappi che, si` tosto come al feto l'articular del cerebro e` perfetto,
lo motor primo a lui si volge lieto sovra tant'arte di natura, e spira spirito novo, di vertu` repleto,
che cio` che trova attivo quivi, tira in sua sustanzia, e fassi un'alma sola, che vive e sente e se' in se' rigira.
E perche' meno ammiri la parola, guarda il calor del sole che si fa vino, giunto a l'omor che de la vite cola.
Quando Lachesis non ha piu` del lino, solvesi da la carne, e in virtute ne porta seco e l'umano e 'l divino:
l'altre potenze tutte quante mute; memoria, intelligenza e volontade in atto molto piu` che prima agute.
Sanza restarsi per se' stessa cade mirabilmente a l'una de le rive; quivi conosce prima le sue strade.
Tosto che loco li` la circunscrive, la virtu` formativa raggia intorno cosi` e quanto ne le membra vive.
E come l'aere, quand'e` ben piorno, per l'altrui raggio che 'n se' si reflette, di diversi color diventa addorno;
cosi` l'aere vicin quivi si mette in quella forma ch'e` in lui suggella virtualmente l'alma che ristette;
e simigliante poi a la fiammella che segue il foco la` 'vunque si muta, segue lo spirto sua forma novella.
Pero` che quindi ha poscia sua paruta, e` chiamata ombra; e quindi organa poi ciascun sentire infino a la veduta.
Quindi parliamo e quindi ridiam noi; quindi facciam le lagrime e ' sospiri che per lo monte aver sentiti puoi.
Secondo che ci affiggono i disiri e li altri affetti, l'ombra si figura; e quest'e` la cagion di che tu miri>>.
E gia` venuto a l'ultima tortura s'era per noi, e volto a la man destra, ed eravamo attenti ad altra cura.
Quivi la ripa fiamma in fuor balestra, e la cornice spira fiato in suso che la reflette e via da lei sequestra;
ond'ir ne convenia dal lato schiuso ad uno ad uno; e io temea 'l foco quinci, e quindi temeva cader giuso.
Lo duca mio dicea: <<Per questo loco si vuol tenere a li occhi stretto il freno, pero` ch'errar potrebbesi per poco>>.
'Summae Deus clementiae' nel seno al grande ardore allora udi' cantando, che di volger mi fe' caler non meno;
e vidi spirti per la fiamma andando; per ch'io guardava a loro e a' miei passi compartendo la vista a quando a quando.
Appresso il fine ch'a quell'inno fassi, gridavano alto: 'Virum non cognosco'; indi ricominciavan l'inno bassi.
Finitolo, anco gridavano: <<Al bosco si tenne Diana, ed Elice caccionne che di Venere avea sentito il tosco>>.
Indi al cantar tornavano; indi donne gridavano e mariti che fuor casti come virtute e matrimonio imponne.
E questo modo credo che lor basti per tutto il tempo che 'l foco li abbruscia: con tal cura conviene e con tai pasti
che la piaga da sezzo si ricuscia.
Purgatorio: Canto XXVI
Mentre che si` per l'orlo, uno innanzi altro, ce n'andavamo, e spesso il buon maestro diceami: <<Guarda: giovi ch'io ti scaltro>>;
feriami il sole in su l'omero destro, che gia`, raggiando, tutto l'occidente mutava in bianco aspetto di cilestro;
e io facea con l'ombra piu` rovente parer la fiamma; e pur a tanto indizio vidi molt'ombre, andando, poner mente.
Questa fu la cagion che diede inizio loro a parlar di me; e cominciarsi a dir: <<Colui non par corpo fittizio>>;
poi verso me, quanto potean farsi, certi si fero, sempre con riguardo di non uscir dove non fosser arsi.
<<O tu che vai, non per esser piu` tardo, ma forse reverente, a li altri dopo, rispondi a me che 'n sete e 'n foco ardo.
Ne' solo a me la tua risposta e` uopo; che' tutti questi n'hanno maggior sete che d'acqua fredda Indo o Etiopo.
Dinne com'e` che fai di te parete al sol, pur come tu non fossi ancora di morte intrato dentro da la rete>>.
Si` mi parlava un d'essi; e io mi fora gia` manifesto, s'io non fossi atteso ad altra novita` ch'apparve allora;
che' per lo mezzo del cammino acceso venne gente col viso incontro a questa, la qual mi fece a rimirar sospeso.
Li` veggio d'ogne parte farsi presta ciascun'ombra e basciarsi una con una sanza restar, contente a brieve festa;
cosi` per entro loro schiera bruna s'ammusa l'una con l'altra formica, forse a spiar lor via e lor fortuna.
Tosto che parton l'accoglienza amica, prima che 'l primo passo li` trascorra, sopragridar ciascuna s'affatica:
la nova gente: <<Soddoma e Gomorra>>; e l'altra: <<Ne la vacca entra Pasife, perche' 'l torello a sua lussuria corra>>.
Poi, come grue ch'a le montagne Rife volasser parte, e parte inver' l'arene, queste del gel, quelle del sole schife,
l'una gente sen va, l'altra sen vene; e tornan, lagrimando, a' primi canti e al gridar che piu` lor si convene;
e raccostansi a me, come davanti, essi medesmi che m'avean pregato, attenti ad ascoltar ne' lor sembianti.
Io, che due volte avea visto lor grato, incominciai: <<O anime sicure d'aver, quando che sia, di pace stato,
non son rimase acerbe ne' mature le membra mie di la`, ma son qui meco col sangue suo e con le sue giunture.
Quinci su` vo per non esser piu` cieco; donna e` di sopra che m'acquista grazia, per che 'l mortal per vostro mondo reco.
Ma se la vostra maggior voglia sazia tosto divegna, si` che 'l ciel v'alberghi ch'e` pien d'amore e piu` ampio si spazia,
ditemi, accio` ch'ancor carte ne verghi, chi siete voi, e chi e` quella turba che se ne va di retro a' vostri terghi>>.
Non altrimenti stupido si turba lo montanaro, e rimirando ammuta, quando rozzo e salvatico s'inurba,
che ciascun'ombra fece in sua paruta; ma poi che furon di stupore scarche, lo qual ne li alti cuor tosto s'attuta,
<<Beato te, che de le nostre marche>>, ricomincio` colei che pria m'inchiese, <<per morir meglio, esperienza imbarche!
La gente che non vien con noi, offese di cio` per che gia` Cesar, triunfando, "Regina" contra se' chiamar s'intese:
pero` si parton 'Soddoma' gridando, rimproverando a se', com'hai udito, e aiutan l'arsura vergognando.
Nostro peccato fu ermafrodito; ma perche' non servammo umana legge, seguendo come bestie l'appetito,
in obbrobrio di noi, per noi si legge, quando partinci, il nome di colei che s'imbestio` ne le 'mbestiate schegge.
Or sai nostri atti e di che fummo rei: se forse a nome vuo' saper chi semo, tempo non e` di dire, e non saprei.
Farotti ben di me volere scemo: son Guido Guinizzelli; e gia` mi purgo per ben dolermi prima ch'a lo stremo>>.
Quali ne la tristizia di Ligurgo si fer due figli a riveder la madre, tal mi fec'io, ma non a tanto insurgo,
quand'io odo nomar se' stesso il padre mio e de li altri miei miglior che mai rime d'amore usar dolci e leggiadre;
e sanza udire e dir pensoso andai lunga fiata rimirando lui, ne', per lo foco, in la` piu` m'appressai.
Poi che di riguardar pasciuto fui, tutto m'offersi pronto al suo servigio con l'affermar che fa credere altrui.
Ed elli a me: <<Tu lasci tal vestigio, per quel ch'i' odo, in me, e tanto chiaro, che Lete' nol puo` torre ne' far bigio.
Ma se le tue parole or ver giuraro, dimmi che e` cagion per che dimostri nel dire e nel guardar d'avermi caro>>.
E io a lui: <<Li dolci detti vostri, che, quanto durera` l'uso moderno, faranno cari ancora i loro incostri>>.
<<O frate>>, disse, <<questi ch'io ti cerno col dito>>, e addito` un spirto innanzi, <<fu miglior fabbro del parlar materno.
Versi d'amore e prose di romanzi soverchio` tutti; e lascia dir li stolti che quel di Lemosi` credon ch'avanzi.
A voce piu` ch'al ver drizzan li volti, e cosi` ferman sua oppinione prima ch'arte o ragion per lor s'ascolti.
Cosi` fer molti antichi di Guittone, di grido in grido pur lui dando pregio, fin che l'ha vinto il ver con piu` persone.
Or se tu hai si` ampio privilegio, che licito ti sia l'andare al chiostro nel quale e` Cristo abate del collegio,
falli per me un dir d'un paternostro, quanto bisogna a noi di questo mondo, dove poter peccar non e` piu` nostro>>.
Poi, forse per dar luogo altrui secondo che presso avea, disparve per lo foco, come per l'acqua il pesce andando al fondo.
Io mi fei al mostrato innanzi un poco, e dissi ch'al suo nome il mio disire apparecchiava grazioso loco.
El comincio` liberamente a dire: <<Tan m'abellis vostre cortes deman, qu'ieu no me puesc ni voill a vos cobrire.
Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan; consiros vei la passada folor, e vei jausen lo joi qu'esper, denan.
Ara vos prec, per aquella valor que vos guida al som de l'escalina, sovenha vos a temps de ma dolor!>>.
Poi s'ascose nel foco che li affina.
Purgatorio: Canto XXVII
Si` come quando i primi raggi vibra la` dove il suo fattor lo sangue sparse, cadendo Ibero sotto l'alta Libra,
e l'onde in Gange da nona riarse, si` stava il sole; onde 'l giorno sen giva, come l'angel di Dio lieto ci apparse.
Fuor de la fiamma stava in su la riva, e cantava 'Beati mundo corde!'. in voce assai piu` che la nostra viva.
Poscia <<Piu` non si va, se pria non morde, anime sante, il foco: intrate in esso, e al cantar di la` non siate sorde>>,
ci disse come noi li fummo presso; per ch'io divenni tal, quando lo 'ntesi, qual e` colui che ne la fossa e` messo.
In su le man commesse mi protesi, guardando il foco e imaginando forte umani corpi gia` veduti accesi.
Volsersi verso me le buone scorte; e Virgilio mi disse: <<Figliuol mio, qui puo` esser tormento, ma non morte.
Ricorditi, ricorditi! E se io sovresso Gerion ti guidai salvo, che faro` ora presso piu` a Dio?
Credi per certo che se dentro a l'alvo di questa fiamma stessi ben mille anni, non ti potrebbe far d'un capel calvo.
E se tu forse credi ch'io t'inganni, fatti ver lei, e fatti far credenza con le tue mani al lembo d'i tuoi panni.
Pon giu` omai, pon giu` ogni temenza; volgiti in qua e vieni: entra sicuro!>>. E io pur fermo e contra coscienza.
Quando mi vide star pur fermo e duro, turbato un poco disse: <<Or vedi, figlio: tra Beatrice e te e` questo muro>>.
Come al nome di Tisbe aperse il ciglio Piramo in su la morte, e riguardolla, allor che 'l gelso divento` vermiglio;
cosi`, la mia durezza fatta solla, mi volsi al savio duca, udendo il nome che ne la mente sempre mi rampolla.
Ond'ei crollo` la fronte e disse: <<Come! volenci star di qua?>>; indi sorrise come al fanciul si fa ch'e` vinto al pome.
Poi dentro al foco innanzi mi si mise, pregando Stazio che venisse retro, che pria per lunga strada ci divise.
Si` com'fui dentro, in un bogliente vetro gittato mi sarei per rinfrescarmi, tant'era ivi lo 'ncendio sanza metro.
Lo dolce padre mio, per confortarmi, pur di Beatrice ragionando andava, dicendo: <<Li occhi suoi gia` veder parmi>>.
Guidavaci una voce che cantava di la`; e noi, attenti pur a lei, venimmo fuor la` ove si montava.
'Venite, benedicti Patris mei', sono` dentro a un lume che li` era, tal che mi vinse e guardar nol potei.
<<Lo sol sen va>>, soggiunse, <<e vien la sera; non v'arrestate, ma studiate il passo, mentre che l'occidente non si annera>>.
Dritta salia la via per entro 'l sasso verso tal parte ch'io toglieva i raggi dinanzi a me del sol ch'era gia` basso.
E di pochi scaglion levammo i saggi, che 'l sol corcar, per l'ombra che si spense, sentimmo dietro e io e li miei saggi.
E pria che 'n tutte le sue parti immense fosse orizzonte fatto d'uno aspetto, e notte avesse tutte sue dispense,
ciascun di noi d'un grado fece letto; che' la natura del monte ci affranse la possa del salir piu` e 'l diletto.
Quali si stanno ruminando manse le capre, state rapide e proterve sovra le cime avante che sien pranse,
tacite a l'ombra, mentre che 'l sol ferve, guardate dal pastor, che 'n su la verga poggiato s'e` e lor di posa serve;
e quale il mandrian che fori alberga, lungo il pecuglio suo queto pernotta, guardando perche' fiera non lo sperga;
tali eravamo tutti e tre allotta, io come capra, ed ei come pastori, fasciati quinci e quindi d'alta grotta.
Poco parer potea li` del di fori; ma, per quel poco, vedea io le stelle di lor solere e piu` chiare e maggiori.
Si` ruminando e si` mirando in quelle, mi prese il sonno; il sonno che sovente, anzi che 'l fatto sia, sa le novelle.
Ne l'ora, credo, che de l'oriente, prima raggio` nel monte Citerea, che di foco d'amor par sempre ardente,
giovane e bella in sogno mi parea donna vedere andar per una landa cogliendo fiori; e cantando dicea:
<<Sappia qualunque il mio nome dimanda ch'i' mi son Lia, e vo movendo intorno le belle mani a farmi una ghirlanda.
Per piacermi a lo specchio, qui m'addorno; ma mia suora Rachel mai non si smaga dal suo miraglio, e siede tutto giorno.
Ell'e` d'i suoi belli occhi veder vaga com'io de l'addornarmi con le mani; lei lo vedere, e me l'ovrare appaga>>.
E gia` per li splendori antelucani, che tanto a' pellegrin surgon piu` grati, quanto, tornando, albergan men lontani,
le tenebre fuggian da tutti lati, e 'l sonno mio con esse; ond'io leva'mi, veggendo i gran maestri gia` levati.
<<Quel dolce pome che per tanti rami cercando va la cura de' mortali, oggi porra` in pace le tue fami>>.
Virgilio inverso me queste cotali parole uso`; e mai non furo strenne che fosser di piacere a queste iguali.
Tanto voler sopra voler mi venne de l'esser su`, ch'ad ogne passo poi al volo mi sentia crescer le penne.
Come la scala tutta sotto noi fu corsa e fummo in su 'l grado superno, in me ficco` Virgilio li occhi suoi,
e disse: <<Il temporal foco e l'etterno veduto hai, figlio; e se' venuto in parte dov'io per me piu` oltre non discerno.
Tratto t'ho qui con ingegno e con arte; lo tuo piacere omai prendi per duce; fuor se' de l'erte vie, fuor se' de l'arte.
Vedi lo sol che 'n fronte ti riluce; vedi l'erbette, i fiori e li arbuscelli che qui la terra sol da se' produce.
Mentre che vegnan lieti li occhi belli che, lagrimando, a te venir mi fenno, seder ti puoi e puoi andar tra elli.
Non aspettar mio dir piu` ne' mio cenno; libero, dritto e sano e` tuo arbitrio, e fallo fora non fare a suo senno:
per ch'io te sovra te corono e mitrio>>.
Purgatorio: Canto XXVIII
Vago gia` di cercar dentro e dintorno la divina foresta spessa e viva, ch'a li occhi temperava il novo giorno,
sanza piu` aspettar, lasciai la riva, prendendo la campagna lento lento su per lo suol che d'ogne parte auliva.
Un'aura dolce, sanza mutamento avere in se', mi feria per la fronte non di piu` colpo che soave vento;
per cui le fronde, tremolando, pronte tutte quante piegavano a la parte u' la prim'ombra gitta il santo monte;
non pero` dal loro esser dritto sparte tanto, che li augelletti per le cime lasciasser d'operare ogne lor arte;
ma con piena letizia l'ore prime, cantando, ricevieno intra le foglie, che tenevan bordone a le sue rime,
tal qual di ramo in ramo si raccoglie per la pineta in su 'l lito di Chiassi, quand'Eolo scilocco fuor discioglie.
Gia` m'avean trasportato i lenti passi dentro a la selva antica tanto, ch'io non potea rivedere ond'io mi 'ntrassi;
ed ecco piu` andar mi tolse un rio, che 'nver' sinistra con sue picciole onde piegava l'erba che 'n sua ripa uscio.
Tutte l'acque che son di qua piu` monde, parrieno avere in se' mistura alcuna, verso di quella, che nulla nasconde,
avvegna che si mova bruna bruna sotto l'ombra perpetua, che mai raggiar non lascia sole ivi ne' luna.
Coi pie` ristretti e con li occhi passai di la` dal fiumicello, per mirare la gran variazion d'i freschi mai;
e la` m'apparve, si` com'elli appare subitamente cosa che disvia per maraviglia tutto altro pensare,
una donna soletta che si gia e cantando e scegliendo fior da fiore ond'era pinta tutta la sua via.
<<Deh, bella donna, che a' raggi d'amore ti scaldi, s'i' vo' credere a' sembianti che soglion esser testimon del core,
vegnati in voglia di trarreti avanti>>, diss'io a lei, <<verso questa rivera, tanto ch'io possa intender che tu canti.
Tu mi fai rimembrar dove e qual era Proserpina nel tempo che perdette la madre lei, ed ella primavera>>.
Come si volge, con le piante strette a terra e intra se', donna che balli, e piede innanzi piede a pena mette,
volsesi in su i vermigli e in su i gialli fioretti verso me, non altrimenti che vergine che li occhi onesti avvalli;
e fece i prieghi miei esser contenti, si` appressando se', che 'l dolce suono veniva a me co' suoi intendimenti.
Tosto che fu la` dove l'erbe sono bagnate gia` da l'onde del bel fiume, di levar li occhi suoi mi fece dono.
Non credo che splendesse tanto lume sotto le ciglia a Venere, trafitta dal figlio fuor di tutto suo costume.
Ella ridea da l'altra riva dritta, trattando piu` color con le sue mani, che l'alta terra sanza seme gitta.
Tre passi ci facea il fiume lontani; ma Elesponto, la` 've passo` Serse, ancora freno a tutti orgogli umani,
piu` odio da Leandro non sofferse per mareggiare intra Sesto e Abido, che quel da me perch'allor non s'aperse.
<<Voi siete nuovi, e forse perch'io rido>>, comincio` ella, <<in questo luogo eletto a l'umana natura per suo nido,
maravigliando tienvi alcun sospetto; ma luce rende il salmo Delectasti, che puote disnebbiar vostro intelletto.
E tu che se' dinanzi e mi pregasti, di` s'altro vuoli udir; ch'i' venni presta ad ogne tua question tanto che basti>>.
<<L'acqua>>, diss'io, <<e 'l suon de la foresta impugnan dentro a me novella fede di cosa ch'io udi' contraria a questa>>.
Ond'ella: <<Io dicero` come procede per sua cagion cio` ch'ammirar ti face, e purghero` la nebbia che ti fiede.
Lo sommo Ben, che solo esso a se' piace, fe' l'uom buono e a bene, e questo loco diede per arr'a lui d'etterna pace.
Per sua difalta qui dimoro` poco; per sua difalta in pianto e in affanno cambio` onesto riso e dolce gioco.
Perche' 'l turbar che sotto da se' fanno l'essalazion de l'acqua e de la terra, che quanto posson dietro al calor vanno,
a l'uomo non facesse alcuna guerra, questo monte salio verso 'l ciel tanto, e libero n'e` d'indi ove si serra.
Or perche' in circuito tutto quanto l'aere si volge con la prima volta, se non li e` rotto il cerchio d'alcun canto,
in questa altezza ch'e` tutta disciolta ne l'aere vivo, tal moto percuote, e fa sonar la selva perch'e` folta;
e la percossa pianta tanto puote, che de la sua virtute l'aura impregna, e quella poi, girando, intorno scuote;
e l'altra terra, secondo ch'e` degna per se' e per suo ciel, concepe e figlia di diverse virtu` diverse legna.
Non parrebbe di la` poi maraviglia, udito questo, quando alcuna pianta sanza seme palese vi s'appiglia.
E saper dei che la campagna santa dove tu se', d'ogne semenza e` piena, e frutto ha in se' che di la` non si schianta.
L'acqua che vedi non surge di vena che ristori vapor che gel converta, come fiume ch'acquista e perde lena;
ma esce di fontana salda e certa, che tanto dal voler di Dio riprende, quant'ella versa da due parti aperta.
Da questa parte con virtu` discende che toglie altrui memoria del peccato; da l'altra d'ogne ben fatto la rende.
Quinci Lete`; cosi` da l'altro lato Eunoe` si chiama, e non adopra se quinci e quindi pria non e` gustato:
a tutti altri sapori esto e` di sopra. E avvegna ch'assai possa esser sazia la sete tua perch'io piu` non ti scuopra,
darotti un corollario ancor per grazia; ne' credo che 'l mio dir ti sia men caro, se oltre promession teco si spazia.
Quelli ch'anticamente poetaro l'eta` de l'oro e suo stato felice, forse in Parnaso esto loco sognaro.
Qui fu innocente l'umana radice; qui primavera sempre e ogne frutto; nettare e` questo di che ciascun dice>>.
Io mi rivolsi 'n dietro allora tutto a' miei poeti, e vidi che con riso udito avean l'ultimo costrutto;
poi a la bella donna torna' il viso.
Purgatorio: Canto XXIX
Cantando come donna innamorata, continuo` col fin di sue parole: 'Beati quorum tecta sunt peccata!'.
E come ninfe che si givan sole per le salvatiche ombre, disiando qual di veder, qual di fuggir lo sole,
allor si mosse contra 'l fiume, andando su per la riva; e io pari di lei, picciol passo con picciol seguitando.
Non eran cento tra ' suoi passi e ' miei, quando le ripe igualmente dier volta, per modo ch'a levante mi rendei.
Ne' ancor fu cosi` nostra via molta, quando la donna tutta a me si torse, dicendo: <<Frate mio, guarda e ascolta>>.
Ed ecco un lustro subito trascorse da tutte parti per la gran foresta, tal che di balenar mi mise in forse.
Ma perche' 'l balenar, come vien, resta, e quel, durando, piu` e piu` splendeva, nel mio pensier dicea: 'Che cosa e` questa?'.
E una melodia dolce correva per l'aere luminoso; onde buon zelo mi fe' riprender l'ardimento d'Eva,
che la` dove ubidia la terra e 'l cielo, femmina, sola e pur teste' formata, non sofferse di star sotto alcun velo;
sotto 'l qual se divota fosse stata, avrei quelle ineffabili delizie sentite prima e piu` lunga fiata.
Mentr'io m'andava tra tante primizie de l'etterno piacer tutto sospeso, e disioso ancora a piu` letizie,
dinanzi a noi, tal quale un foco acceso, ci si fe' l'aere sotto i verdi rami; e 'l dolce suon per canti era gia` inteso.
O sacrosante Vergini, se fami, freddi o vigilie mai per voi soffersi, cagion mi sprona ch'io merce' vi chiami.
Or convien che Elicona per me versi, e Uranie m'aiuti col suo coro forti cose a pensar mettere in versi.
Poco piu` oltre, sette alberi d'oro falsava nel parere il lungo tratto del mezzo ch'era ancor tra noi e loro;
ma quand'i' fui si` presso di lor fatto, che l'obietto comun, che 'l senso inganna, non perdea per distanza alcun suo atto,
la virtu` ch'a ragion discorso ammanna, si` com'elli eran candelabri apprese, e ne le voci del cantare 'Osanna'.
Di sopra fiammeggiava il bello arnese piu` chiaro assai che luna per sereno di mezza notte nel suo mezzo mese.
Io mi rivolsi d'ammirazion pieno al buon Virgilio, ed esso mi rispuose con vista carca di stupor non meno.
Indi rendei l'aspetto a l'alte cose che si movieno incontr'a noi si` tardi, che foran vinte da novelle spose.
La donna mi sgrido`: <<Perche' pur ardi si` ne l'affetto de le vive luci, e cio` che vien di retro a lor non guardi?>>.
Genti vid'io allor, come a lor duci, venire appresso, vestite di bianco; e tal candor di qua gia` mai non fuci.
L'acqua imprendea dal sinistro fianco, e rendea me la mia sinistra costa, s'io riguardava in lei, come specchio anco.
Quand'io da la mia riva ebbi tal posta, che solo il fiume mi facea distante, per veder meglio ai passi diedi sosta,
e vidi le fiammelle andar davante, lasciando dietro a se' l'aere dipinto, e di tratti pennelli avean sembiante;
si` che li` sopra rimanea distinto di sette liste, tutte in quei colori onde fa l'arco il Sole e Delia il cinto.
Questi ostendali in dietro eran maggiori che la mia vista; e, quanto a mio avviso, diece passi distavan quei di fori.
Sotto cosi` bel ciel com'io diviso, ventiquattro seniori, a due a due, coronati venien di fiordaliso.
Tutti cantavan: <<Benedicta tue ne le figlie d'Adamo, e benedette sieno in etterno le bellezze tue!>>.
Poscia che i fiori e l'altre fresche erbette a rimpetto di me da l'altra sponda libere fuor da quelle genti elette,
si` come luce luce in ciel seconda, vennero appresso lor quattro animali, coronati ciascun di verde fronda.
Ognuno era pennuto di sei ali; le penne piene d'occhi; e li occhi d'Argo, se fosser vivi, sarebber cotali.
A descriver lor forme piu` non spargo rime, lettor; ch'altra spesa mi strigne, tanto ch'a questa non posso esser largo;
ma leggi Ezechiel, che li dipigne come li vide da la fredda parte venir con vento e con nube e con igne;
e quali i troverai ne le sue carte, tali eran quivi, salvo ch'a le penne Giovanni e` meco e da lui si diparte.
Lo spazio dentro a lor quattro contenne un carro, in su due rote, triunfale, ch'al collo d'un grifon tirato venne.
Esso tendeva in su` l'una e l'altra ale tra la mezzana e le tre e tre liste, si` ch'a nulla, fendendo, facea male.
Tanto salivan che non eran viste; le membra d'oro avea quant'era uccello, e bianche l'altre, di vermiglio miste.
Non che Roma di carro cosi` bello rallegrasse Affricano, o vero Augusto, ma quel del Sol saria pover con ello;
quel del Sol che, sviando, fu combusto per l'orazion de la Terra devota, quando fu Giove arcanamente giusto.
Tre donne in giro da la destra rota venian danzando; l'una tanto rossa ch'a pena fora dentro al foco nota;
l'altr'era come se le carni e l'ossa fossero state di smeraldo fatte; la terza parea neve teste' mossa;
e or parean da la bianca tratte, or da la rossa; e dal canto di questa l'altre toglien l'andare e tarde e ratte.
Da la sinistra quattro facean festa, in porpore vestite, dietro al modo d'una di lor ch'avea tre occhi in testa.
Appresso tutto il pertrattato nodo vidi due vecchi in abito dispari, ma pari in atto e onesto e sodo.
L'un si mostrava alcun de' famigliari di quel sommo Ipocrate che natura a li animali fe' ch'ell'ha piu` cari;
mostrava l'altro la contraria cura con una spada lucida e aguta, tal che di qua dal rio mi fe' paura.
Poi vidi quattro in umile paruta; e di retro da tutti un vecchio solo venir, dormendo, con la faccia arguta.
E questi sette col primaio stuolo erano abituati, ma di gigli dintorno al capo non facean brolo,
anzi di rose e d'altri fior vermigli; giurato avria poco lontano aspetto che tutti ardesser di sopra da' cigli.
E quando il carro a me fu a rimpetto, un tuon s'udi`, e quelle genti degne parvero aver l'andar piu` interdetto,
fermandosi ivi con le prime insegne.
Purgatorio: Canto XXX
Quando il settentrion del primo cielo, che ne' occaso mai seppe ne' orto ne' d'altra nebbia che di colpa velo,
e che faceva li` ciascun accorto di suo dover, come 'l piu` basso face qual temon gira per venire a porto,
fermo s'affisse: la gente verace, venuta prima tra 'l grifone ed esso, al carro volse se' come a sua pace;
e un di loro, quasi da ciel messo, 'Veni, sponsa, de Libano' cantando grido` tre volte, e tutti li altri appresso.
Quali i beati al novissimo bando surgeran presti ognun di sua caverna, la revestita voce alleluiando,
cotali in su la divina basterna si levar cento, ad vocem tanti senis, ministri e messaggier di vita etterna.
Tutti dicean: 'Benedictus qui venis!', e fior gittando e di sopra e dintorno, 'Manibus, oh, date lilia plenis!'.
Io vidi gia` nel cominciar del giorno la parte oriental tutta rosata, e l'altro ciel di bel sereno addorno;
e la faccia del sol nascere ombrata, si` che per temperanza di vapori l'occhio la sostenea lunga fiata:
cosi` dentro una nuvola di fiori che da le mani angeliche saliva e ricadeva in giu` dentro e di fori,
sovra candido vel cinta d'uliva donna m'apparve, sotto verde manto vestita di color di fiamma viva.
E lo spirito mio, che gia` cotanto tempo era stato ch'a la sua presenza non era di stupor, tremando, affranto,
sanza de li occhi aver piu` conoscenza, per occulta virtu` che da lei mosse, d'antico amor senti` la gran potenza.
Tosto che ne la vista mi percosse l'alta virtu` che gia` m'avea trafitto prima ch'io fuor di puerizia fosse,
volsimi a la sinistra col respitto col quale il fantolin corre a la mamma quando ha paura o quando elli e` afflitto,
per dicere a Virgilio: 'Men che dramma di sangue m'e` rimaso che non tremi: conosco i segni de l'antica fiamma'.
Ma Virgilio n'avea lasciati scemi di se', Virgilio dolcissimo patre, Virgilio a cui per mia salute die'mi;
ne' quantunque perdeo l'antica matre, valse a le guance nette di rugiada, che, lagrimando, non tornasser atre.
<<Dante, perche' Virgilio se ne vada, non pianger anco, non pianger ancora; che' pianger ti conven per altra spada>>.
Quasi ammiraglio che in poppa e in prora viene a veder la gente che ministra per li altri legni, e a ben far l'incora;
in su la sponda del carro sinistra, quando mi volsi al suon del nome mio, che di necessita` qui si registra,
vidi la donna che pria m'appario velata sotto l'angelica festa, drizzar li occhi ver' me di qua dal rio.
Tutto che 'l vel che le scendea di testa, cerchiato de le fronde di Minerva, non la lasciasse parer manifesta,
regalmente ne l'atto ancor proterva continuo` come colui che dice e 'l piu` caldo parlar dietro reserva:
<<Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice. Come degnasti d'accedere al monte? non sapei tu che qui e` l'uom felice?>>.
Li occhi mi cadder giu` nel chiaro fonte; ma veggendomi in esso, i trassi a l'erba, tanta vergogna mi gravo` la fronte.
Cosi` la madre al figlio par superba, com'ella parve a me; perche' d'amaro sente il sapor de la pietade acerba.
Ella si tacque; e li angeli cantaro di subito 'In te, Domine, speravi'; ma oltre 'pedes meos' non passaro.
Si` come neve tra le vive travi per lo dosso d'Italia si congela, soffiata e stretta da li venti schiavi,
poi, liquefatta, in se' stessa trapela, pur che la terra che perde ombra spiri, si` che par foco fonder la candela;
cosi` fui sanza lagrime e sospiri anzi 'l cantar di quei che notan sempre dietro a le note de li etterni giri;
ma poi che 'ntesi ne le dolci tempre lor compatire a me, par che se detto avesser: 'Donna, perche' si` lo stempre?',
lo gel che m'era intorno al cor ristretto, spirito e acqua fessi, e con angoscia de la bocca e de li occhi usci` del petto.
Ella, pur ferma in su la detta coscia del carro stando, a le sustanze pie volse le sue parole cosi` poscia:
<<Voi vigilate ne l'etterno die, si` che notte ne' sonno a voi non fura passo che faccia il secol per sue vie;
onde la mia risposta e` con piu` cura che m'intenda colui che di la` piagne, perche' sia colpa e duol d'una misura.
Non pur per ovra de le rote magne, che drizzan ciascun seme ad alcun fine secondo che le stelle son compagne,
ma per larghezza di grazie divine, che si` alti vapori hanno a lor piova, che nostre viste la` non van vicine,
questi fu tal ne la sua vita nova virtualmente, ch'ogne abito destro fatto averebbe in lui mirabil prova.
Ma tanto piu` maligno e piu` silvestro si fa 'l terren col mal seme e non colto, quant'elli ha piu` di buon vigor terrestro.
Alcun tempo il sostenni col mio volto: mostrando li occhi giovanetti a lui, meco il menava in dritta parte volto.
Si` tosto come in su la soglia fui di mia seconda etade e mutai vita, questi si tolse a me, e diessi altrui.
Quando di carne a spirto era salita e bellezza e virtu` cresciuta m'era, fu' io a lui men cara e men gradita;
e volse i passi suoi per via non vera, imagini di ben seguendo false, che nulla promession rendono intera.
Ne' l'impetrare ispirazion mi valse, con le quali e in sogno e altrimenti lo rivocai; si` poco a lui ne calse!
Tanto giu` cadde, che tutti argomenti a la salute sua eran gia` corti, fuor che mostrarli le perdute genti.
Per questo visitai l'uscio d'i morti e a colui che l'ha qua su` condotto, li prieghi miei, piangendo, furon porti.
Alto fato di Dio sarebbe rotto, se Lete' si passasse e tal vivanda fosse gustata sanza alcuno scotto
di pentimento che lagrime spanda>>.
Purgatorio: Canto XXXI
<<O tu che se' di la` dal fiume sacro>>, volgendo suo parlare a me per punta, che pur per taglio m'era paruto acro,
ricomincio`, seguendo sanza cunta, <<di`, di` se questo e` vero: a tanta accusa tua confession conviene esser congiunta>>.
Era la mia virtu` tanto confusa, che la voce si mosse, e pria si spense che da li organi suoi fosse dischiusa.
Poco sofferse; poi disse: <<Che pense? Rispondi a me; che' le memorie triste in te non sono ancor da l'acqua offense>>.
Confusione e paura insieme miste mi pinsero un tal <<si`>> fuor de la bocca, al quale intender fuor mestier le viste.
Come balestro frange, quando scocca da troppa tesa la sua corda e l'arco, e con men foga l'asta il segno tocca,
si` scoppia' io sottesso grave carco, fuori sgorgando lagrime e sospiri, e la voce allento` per lo suo varco.
Ond'ella a me: <<Per entro i mie' disiri, che ti menavano ad amar lo bene di la` dal qual non e` a che s'aspiri,
quai fossi attraversati o quai catene trovasti, per che del passare innanzi dovessiti cosi` spogliar la spene?
E quali agevolezze o quali avanzi ne la fronte de li altri si mostraro, per che dovessi lor passeggiare anzi?>>.
Dopo la tratta d'un sospiro amaro, a pena ebbi la voce che rispuose, e le labbra a fatica la formaro.
Piangendo dissi: <<Le presenti cose col falso lor piacer volser miei passi, tosto che 'l vostro viso si nascose>>.
Ed ella: <<Se tacessi o se negassi cio` che confessi, non fora men nota la colpa tua: da tal giudice sassi!
Ma quando scoppia de la propria gota l'accusa del peccato, in nostra corte rivolge se' contra 'l taglio la rota.
Tuttavia, perche' mo vergogna porte del tuo errore, e perche' altra volta, udendo le serene, sie piu` forte,
pon giu` il seme del piangere e ascolta: si` udirai come in contraria parte mover dovieti mia carne sepolta.
Mai non t'appresento` natura o arte piacer, quanto le belle membra in ch'io rinchiusa fui, e che so' 'n terra sparte;
e se 'l sommo piacer si` ti fallio per la mia morte, qual cosa mortale dovea poi trarre te nel suo disio?
Ben ti dovevi, per lo primo strale de le cose fallaci, levar suso di retro a me che non era piu` tale.
Non ti dovea gravar le penne in giuso, ad aspettar piu` colpo, o pargoletta o altra vanita` con si` breve uso.
Novo augelletto due o tre aspetta; ma dinanzi da li occhi d'i pennuti rete si spiega indarno o si saetta>>.
Quali fanciulli, vergognando, muti con li occhi a terra stannosi, ascoltando e se' riconoscendo e ripentuti,
tal mi stav'io; ed ella disse: <<Quando per udir se' dolente, alza la barba, e prenderai piu` doglia riguardando>>.
Con men di resistenza si dibarba robusto cerro, o vero al nostral vento o vero a quel de la terra di Iarba,
ch'io non levai al suo comando il mento; e quando per la barba il viso chiese, ben conobbi il velen de l'argomento.
E come la mia faccia si distese, posarsi quelle prime creature da loro aspersion l'occhio comprese;
e le mie luci, ancor poco sicure, vider Beatrice volta in su la fiera ch'e` sola una persona in due nature.
Sotto 'l suo velo e oltre la rivera vincer pariemi piu` se' stessa antica, vincer che l'altre qui, quand'ella c'era.
Di penter si` mi punse ivi l'ortica che di tutte altre cose qual mi torse piu` nel suo amor, piu` mi si fe' nemica.
Tanta riconoscenza il cor mi morse, ch'io caddi vinto; e quale allora femmi, salsi colei che la cagion mi porse.
Poi, quando il cor virtu` di fuor rendemmi, la donna ch'io avea trovata sola sopra me vidi, e dicea: <<Tiemmi, tiemmi!>>.
Tratto m'avea nel fiume infin la gola, e tirandosi me dietro sen giva sovresso l'acqua lieve come scola.
Quando fui presso a la beata riva, 'Asperges me' si` dolcemente udissi, che nol so rimembrar, non ch'io lo scriva.
La bella donna ne le braccia aprissi; abbracciommi la testa e mi sommerse ove convenne ch'io l'acqua inghiottissi.
Indi mi tolse, e bagnato m'offerse dentro a la danza de le quattro belle; e ciascuna del braccio mi coperse.
<<Noi siam qui ninfe e nel ciel siamo stelle: pria che Beatrice discendesse al mondo, fummo ordinate a lei per sue ancelle.
Merrenti a li occhi suoi; ma nel giocondo lume ch'e` dentro aguzzeranno i tuoi le tre di la`, che miran piu` profondo>>.
Cosi` cantando cominciaro; e poi al petto del grifon seco menarmi, ove Beatrice stava volta a noi.
Disser: <<Fa che le viste non risparmi; posto t'avem dinanzi a li smeraldi ond'Amor gia` ti trasse le sue armi>>.
Mille disiri piu` che fiamma caldi strinsermi li occhi a li occhi rilucenti, che pur sopra 'l grifone stavan saldi.
Come in lo specchio il sol, non altrimenti la doppia fiera dentro vi raggiava, or con altri, or con altri reggimenti.
Pensa, lettor, s'io mi maravigliava, quando vedea la cosa in se' star queta, e ne l'idolo suo si trasmutava.
Mentre che piena di stupore e lieta l'anima mia gustava di quel cibo che, saziando di se', di se' asseta,
se' dimostrando di piu` alto tribo ne li atti, l'altre tre si fero avanti, danzando al loro angelico caribo.
<<Volgi, Beatrice, volgi li occhi santi>>, era la sua canzone, <<al tuo fedele che, per vederti, ha mossi passi tanti!
Per grazia fa noi grazia che disvele a lui la bocca tua, si` che discerna la seconda bellezza che tu cele>>.
O isplendor di viva luce etterna, chi palido si fece sotto l'ombra si` di Parnaso, o bevve in sua cisterna,
che non paresse aver la mente ingombra, tentando a render te qual tu paresti la` dove armonizzando il ciel t'adombra,
quando ne l'aere aperto ti solvesti?
Purgatorio: Canto XXXII
Tant'eran li occhi miei fissi e attenti a disbramarsi la decenne sete, che li altri sensi m'eran tutti spenti.
Ed essi quinci e quindi avien parete di non caler - cosi` lo santo riso a se' traeli con l'antica rete! -;
quando per forza mi fu volto il viso ver' la sinistra mia da quelle dee, perch'io udi' da loro un <<Troppo fiso!>>;
e la disposizion ch'a veder ee ne li occhi pur teste' dal sol percossi, sanza la vista alquanto esser mi fee.
Ma poi ch'al poco il viso riformossi (e dico 'al poco' per rispetto al molto sensibile onde a forza mi rimossi),
vidi 'n sul braccio destro esser rivolto lo glorioso essercito, e tornarsi col sole e con le sette fiamme al volto.
Come sotto li scudi per salvarsi volgesi schiera, e se' gira col segno, prima che possa tutta in se' mutarsi;
quella milizia del celeste regno che procedeva, tutta trapassonne pria che piegasse il carro il primo legno.
Indi a le rote si tornar le donne, e 'l grifon mosse il benedetto carco si`, che pero` nulla penna crollonne.
La bella donna che mi trasse al varco e Stazio e io seguitavam la rota che fe' l'orbita sua con minore arco.
Si` passeggiando l'alta selva vota, colpa di quella ch'al serpente crese, temprava i passi un'angelica nota.
Forse in tre voli tanto spazio prese disfrenata saetta, quanto eramo rimossi, quando Beatrice scese.
Io senti' mormorare a tutti <<Adamo>>; poi cerchiaro una pianta dispogliata di foglie e d'altra fronda in ciascun ramo.
La coma sua, che tanto si dilata piu` quanto piu` e` su`, fora da l'Indi ne' boschi lor per altezza ammirata.
<<Beato se', grifon, che non discindi col becco d'esto legno dolce al gusto, poscia che mal si torce il ventre quindi>>.
Cosi` dintorno a l'albero robusto gridaron li altri; e l'animal binato: <<Si` si conserva il seme d'ogne giusto>>.
E volto al temo ch'elli avea tirato, trasselo al pie` de la vedova frasca, e quel di lei a lei lascio` legato.
Come le nostre piante, quando casca giu` la gran luce mischiata con quella che raggia dietro a la celeste lasca,
turgide fansi, e poi si rinovella di suo color ciascuna, pria che 'l sole giunga li suoi corsier sotto altra stella;
men che di rose e piu` che di viole colore aprendo, s'innovo` la pianta, che prima avea le ramora si` sole.
Io non lo 'ntesi, ne' qui non si canta l'inno che quella gente allor cantaro, ne' la nota soffersi tutta quanta.
S'io potessi ritrar come assonnaro li occhi spietati udendo di Siringa, li occhi a cui pur vegghiar costo` si` caro;
come pintor che con essempro pinga, disegnerei com'io m'addormentai; ma qual vuol sia che l'assonnar ben finga.
Pero` trascorro a quando mi svegliai, e dico ch'un splendor mi squarcio` 'l velo del sonno e un chiamar: <<Surgi: che fai?>>.
Quali a veder de' fioretti del melo che del suo pome li angeli fa ghiotti e perpetue nozze fa nel cielo,
Pietro e Giovanni e Iacopo condotti e vinti, ritornaro a la parola da la qual furon maggior sonni rotti,
e videro scemata loro scuola cosi` di Moise` come d'Elia, e al maestro suo cangiata stola;
tal torna' io, e vidi quella pia sovra me starsi che conducitrice fu de' miei passi lungo 'l fiume pria.
E tutto in dubbio dissi: <<Ov'e` Beatrice?>>. Ond'ella: <<Vedi lei sotto la fronda nova sedere in su la sua radice.
Vedi la compagnia che la circonda: li altri dopo 'l grifon sen vanno suso con piu` dolce canzone e piu` profonda>>.
E se piu` fu lo suo parlar diffuso, non so, pero` che gia` ne li occhi m'era quella ch'ad altro intender m'avea chiuso.
Sola sedeasi in su la terra vera, come guardia lasciata li` del plaustro che legar vidi a la biforme fera.
In cerchio le facean di se' claustro le sette ninfe, con quei lumi in mano che son sicuri d'Aquilone e d'Austro.
<<Qui sarai tu poco tempo silvano; e sarai meco sanza fine cive di quella Roma onde Cristo e` romano.
Pero`, in pro del mondo che mal vive, al carro tieni or li occhi, e quel che vedi, ritornato di la`, fa che tu scrive>>.
Cosi` Beatrice; e io, che tutto ai piedi d'i suoi comandamenti era divoto, la mente e li occhi ov'ella volle diedi.
Non scese mai con si` veloce moto foco di spessa nube, quando piove da quel confine che piu` va remoto,
com'io vidi calar l'uccel di Giove per l'alber giu`, rompendo de la scorza, non che d'i fiori e de le foglie nove;
e feri` 'l carro di tutta sua forza; ond'el piego` come nave in fortuna, vinta da l'onda, or da poggia, or da orza.
Poscia vidi avventarsi ne la cuna del triunfal veiculo una volpe che d'ogne pasto buon parea digiuna;
ma, riprendendo lei di laide colpe, la donna mia la volse in tanta futa quanto sofferser l'ossa sanza polpe.
Poscia per indi ond'era pria venuta, l'aguglia vidi scender giu` ne l'arca del carro e lasciar lei di se' pennuta;
e qual esce di cuor che si rammarca, tal voce usci` del cielo e cotal disse: <<O navicella mia, com'mal se' carca!>>.
Poi parve a me che la terra s'aprisse tr'ambo le ruote, e vidi uscirne un drago che per lo carro su` la coda fisse;
e come vespa che ritragge l'ago, a se' traendo la coda maligna, trasse del fondo, e gissen vago vago.
Quel che rimase, come da gramigna vivace terra, da la piuma, offerta forse con intenzion sana e benigna,
si ricoperse, e funne ricoperta e l'una e l'altra rota e 'l temo, in tanto che piu` tiene un sospir la bocca aperta.
Trasformato cosi` 'l dificio santo mise fuor teste per le parti sue, tre sovra 'l temo e una in ciascun canto.
Le prime eran cornute come bue, ma le quattro un sol corno avean per fronte: simile mostro visto ancor non fue.
Sicura, quasi rocca in alto monte, seder sovresso una puttana sciolta m'apparve con le ciglia intorno pronte;
e come perche' non li fosse tolta, vidi di costa a lei dritto un gigante; e baciavansi insieme alcuna volta.
Ma perche' l'occhio cupido e vagante a me rivolse, quel feroce drudo la flagello` dal capo infin le piante;
poi, di sospetto pieno e d'ira crudo, disciolse il mostro, e trassel per la selva, tanto che sol di lei mi fece scudo
a la puttana e a la nova belva.
Purgatorio: Canto XXXIII
'Deus, venerunt gentes', alternando or tre or quattro dolce salmodia, le donne incominciaro, e lagrimando;
e Beatrice sospirosa e pia, quelle ascoltava si` fatta, che poco piu` a la croce si cambio` Maria.
Ma poi che l'altre vergini dier loco a lei di dir, levata dritta in pe`, rispuose, colorata come foco:
'Modicum, et non videbitis me; et iterum, sorelle mie dilette, modicum, et vos videbitis me'.
Poi le si mise innanzi tutte e sette, e dopo se', solo accennando, mosse me e la donna e 'l savio che ristette.
Cosi` sen giva; e non credo che fosse lo decimo suo passo in terra posto, quando con li occhi li occhi mi percosse;
e con tranquillo aspetto <<Vien piu` tosto>>, mi disse, <<tanto che, s'io parlo teco, ad ascoltarmi tu sie ben disposto>>.
Si` com'io fui, com'io dovea, seco, dissemi: <<Frate, perche' non t'attenti a domandarmi omai venendo meco?>>.
Come a color che troppo reverenti dinanzi a suo maggior parlando sono, che non traggon la voce viva ai denti.
avvenne a me, che sanza intero suono incominciai: <<Madonna, mia bisogna voi conoscete, e cio` ch'ad essa e` buono>>.
Ed ella a me: <<Da tema e da vergogna voglio che tu omai ti disviluppe, si` che non parli piu` com'om che sogna.
Sappi che 'l vaso che 'l serpente ruppe fu e non e`; ma chi n'ha colpa, creda che vendetta di Dio non teme suppe.
Non sara` tutto tempo sanza reda l'aguglia che lascio` le penne al carro, per che divenne mostro e poscia preda;
ch'io veggio certamente, e pero` il narro, a darne tempo gia` stelle propinque, secure d'ogn'intoppo e d'ogni sbarro,
nel quale un cinquecento diece e cinque, messo di Dio, ancidera` la fuia con quel gigante che con lei delinque.
E forse che la mia narrazion buia, qual Temi e Sfinge, men ti persuade, perch'a lor modo lo 'ntelletto attuia;
ma tosto fier li fatti le Naiade, che solveranno questo enigma forte sanza danno di pecore o di biade.
Tu nota; e si` come da me son porte, cosi` queste parole segna a' vivi del viver ch'e` un correre a la morte.
E aggi a mente, quando tu le scrivi, di non celar qual hai vista la pianta ch'e` or due volte dirubata quivi.
Qualunque ruba quella o quella schianta, con bestemmia di fatto offende a Dio, che solo a l'uso suo la creo` santa.
Per morder quella, in pena e in disio cinquemilia anni e piu` l'anima prima bramo` colui che 'l morso in se' punio.
Dorme lo 'ngegno tuo, se non estima per singular cagione esser eccelsa lei tanto e si` travolta ne la cima.
E se stati non fossero acqua d'Elsa li pensier vani intorno a la tua mente, e 'l piacer loro un Piramo a la gelsa,
per tante circostanze solamente la giustizia di Dio, ne l'interdetto, conosceresti a l'arbor moralmente.
Ma perch'io veggio te ne lo 'ntelletto fatto di pietra e, impetrato, tinto, si` che t'abbaglia il lume del mio detto,
voglio anco, e se non scritto, almen dipinto, che 'l te ne porti dentro a te per quello che si reca il bordon di palma cinto>>.
E io: <<Si` come cera da suggello, che la figura impressa non trasmuta, segnato e` or da voi lo mio cervello.
Ma perche' tanto sovra mia veduta vostra parola disiata vola, che piu` la perde quanto piu` s'aiuta?>>.
<<Perche' conoschi>>, disse, <<quella scuola c'hai seguitata, e veggi sua dottrina come puo` seguitar la mia parola;
e veggi vostra via da la divina distar cotanto, quanto si discorda da terra il ciel che piu` alto festina>>.
Ond'io rispuosi lei: <<Non mi ricorda ch'i' straniasse me gia` mai da voi, ne' honne coscienza che rimorda>>.
<<E se tu ricordar non te ne puoi>>, sorridendo rispuose, <<or ti rammenta come bevesti di Lete` ancoi;
e se dal fummo foco s'argomenta, cotesta oblivion chiaro conchiude colpa ne la tua voglia altrove attenta.
Veramente oramai saranno nude le mie parole, quanto converrassi quelle scovrire a la tua vista rude>>.
E piu` corusco e con piu` lenti passi teneva il sole il cerchio di merigge, che qua e la`, come li aspetti, fassi
quando s'affisser, si` come s'affigge chi va dinanzi a gente per iscorta se trova novitate o sue vestigge,
le sette donne al fin d'un'ombra smorta, qual sotto foglie verdi e rami nigri sovra suoi freddi rivi l'Alpe porta.
Dinanzi ad esse Eufrates e Tigri veder mi parve uscir d'una fontana, e, quasi amici, dipartirsi pigri.
<<O luce, o gloria de la gente umana, che acqua e` questa che qui si dispiega da un principio e se' da se' lontana?>>.
Per cotal priego detto mi fu: <<Priega Matelda che 'l ti dica>>. E qui rispuose, come fa chi da colpa si dislega,
la bella donna: <<Questo e altre cose dette li son per me; e son sicura che l'acqua di Lete` non gliel nascose>>.
E Beatrice: <<Forse maggior cura, che spesse volte la memoria priva, fatt'ha la mente sua ne li occhi oscura.
Ma vedi Eunoe` che la` diriva: menalo ad esso, e come tu se' usa, la tramortita sua virtu` ravviva>>.
Come anima gentil, che non fa scusa, ma fa sua voglia de la voglia altrui tosto che e` per segno fuor dischiusa;
cosi`, poi che da essa preso fui, la bella donna mossesi, e a Stazio donnescamente disse: <<Vien con lui>>.
S'io avessi, lettor, piu` lungo spazio da scrivere, i' pur cantere' in parte lo dolce ber che mai non m'avria sazio;
ma perche' piene son tutte le carte ordite a questa cantica seconda, non mi lascia piu` ir lo fren de l'arte.
Io ritornai da la santissima onda rifatto si` come piante novelle rinnovellate di novella fronda,
puro e disposto a salire alle stelle.