VIRGILIO NEL MEDIO EVO
VOLUME I.

VIRGILIO NEL MEDIO EVO

PER

DOMENICO COMPARETTI

Volume I.

2ª edizione riveduta dall'autore

FIRENZE BERNARDO SEEBER Libraio-Editore — 1896

FIRENZE-ROMA Tipografia Fratelli Bencini 1896INDICE ALLA MEMORIA

DI

GIANPIETRO VIEUSSEUX

VIRGILIO NEL MEDIO EVO

PREFAZIONE

Nel libro che qui pongo a luce io intendo esporre tutta intiera la storia della nominanza di cui godette Virgilio lungo i secoli del medio evo, segnarne le varie evoluzioni e peripezie, determinare la natura e le cause di queste e i rapporti che le collegano colla storia del pensiero europeo. Intraprendo adunque ciò che mai altri fin qui non intraprese, benchè il Virgilio medievale sia già stato soggetto di parecchie monografie. I piccoli scritti di Siebenhaar[1] e Schwubbe[2] non diedero che poche notizie e le più volgarmente note. Con dottrina più scelta e con qualche maggiore elevatezza parlarono di alcun lato di quella nominanza Piper[3] e Creizenach[4]. Michel[5], Genthe[6], Milberg[7] vollero invero abbracciare tutto intiero questo tema, ma consecrarono ad esso lavori relativamente brevissimi, limitandosi a trattarne in modo aneddotico e senza alcuna profondità scientifica. La parte più saliente e volgarmente visibile della rinomanza medievale di Virgilio, la più attraente per la speciosità e singolarità sua era la leggenda della magia virgiliana, che molti scrittori rammentarono, dandone qualche notizia incidentemente in opere e raccolte di varia natura, dal sec. XVII in poi, non altrimenti considerandola che come una curiosità, e senza fermarsi a studiarla da vicino[8]. Per primo prese a studiarla di proposito Du Méril[9] in un lavoro più notevole per ubertà e novità di notizie che per metodo e per critica. La vera e propria indagine storica su quella leggenda la intraprese per primo il Roth[10], il cui lavoro è senza dubbio quanto di meglio e di più serio vide fin qui la luce su tal soggetto. Ma il Virgilio mago non è che un lato e una fase nella storia della rinomanza virgiliana, e mal s'intende se si studi separato dal resto, È quella una idea che parte invero dalla plebe incolta o semicolta, ma pur si diffonde nella regione letteraria e dotta, il che non avrebbe potuto avvenire se in quella non avesse trovato elementi omogenei. Di qui la divisione del mio lavoro in due parti una delle quali studia le vicissitudini del nome virgiliano nell'ambiente letterario tradizionale, per tutto il periodo anteriore al risorgimento, periodo che per noi splendidamente si chiude col Virgilio dantesco, l'altra indaga e descrive l'aspetto che prende quel nome coll'introdursi delle leggende popolari nell'ambiente nuovo dovuto allo sviluppo delle letterature volgari, indipendenti dall'arte tradizionale. Per la prima parte, che è pur la più essenziale e difficile, ho trovato il terreno quasi vergine. Solo in qualche caso ed in piccola misura ha potuto essermi di qualche utilità un lavoro di Zappert[11], nella massima parte consecrato dall'autore ad illustrare, con grande ricchezza di esempi, un fatto che io ho studiato e formulato in maniera molto diversa[12]. Sensibile è stata sopratutto per me una lacuna che offre tuttora la scienza, voglio dire la mancanza di una storia ben completa e profonda degli studi classici nel medio evo. Gl'incrementi del sapere odierno hanno reso l'opera di Heeren cosa troppo elementare; certo essa è del tutto insufficiente per chi voglia rappresentarsi alla mente l'idea che nel medio evo si ebbe dell'antichità e dei grandi scrittori antichi. Gl'illustratori di Dante che pel Virgilio della Divina Comedia avrebbero avuto occasione di studiare i caratteri della nominanza del poeta nel medio evo letterato, troppo facilmente si contentarono, per questo lato, delle notizie comuni; talchè allo studio, per più ragioni importante, di quel personaggio del divino poema, io dovetti arrivare per una via non calcata finora, quantunque essa sia, parmi, la via maestra. Mentre però io tutto questo noto, non vorrei essere frainteso. Intendo solamente dire che io non vengo qui a rifare il già fatto; lontanissima però è da me l'idea di disconoscere i meriti di coloro che in qualunque maniera mi precedettero in simile lavoro. Quantunque io abbia concepito tutta questa trattazione con un piano intieramente nuovo e mio, con idee e fatti risultantimi in grandissima parte da studi e indagini mie, pure per talune parti non poca utilità ho tratta dal materiale già raccolto ed esplorato da uomini dotti, che verranno da me nominati ognuno a suo luogo, al sapere e alle nobili fatiche de' quali non vorrei mai detrarre alcunchè della dovuta giustizia.

Ciò che rende difficile trattare con pienezza di sintesi scientifica questo tema in tutta la sua estensione, e ciò che forse impedì che così venisse trattato fin qui, è il trovarsi troppo raramente coltivati da una stessa persona gli studi delle lettere classiche e delle romantiche. Nella storia del nome medievale di Virgilio queste s'incontrano e si mescolano tanto che concepire tutta intiera quella storia e i rapporti delle varie sue parti non può chi abbia limitato i suoi studi ad una soltanto di quelle discipline. Per le tendenze mie, felici o no ch'esse siano, e l'estensione del piano de' miei studi da quelle risultante, a me è avvenuto di coltivare ed amare egualmente questi due rami di sapere, che non mi sembrano poi tanto inconciliabili quanto pare a molti tuttora. Li ho coltivati ambedue con interesse e con piacere, per l'uno e per l'altro procurando di spingermi al di là del semplice dilettantismo. Mi è sembrato adunque che questo mio non essere estraneo ad alcuna di quelle due provincie del sapere odierno potesse trovare una opportuna applicazione in un'opera di questa natura, quantunque non mi dissimulassi quanto ardua cosa essa fosse. Un primo abbozzo ne diedi già un tempo nella Nuova Antologia[13], nel quale la parte più considerevole non era ancora tracciata che in modo rudimentale. Tempo e lavoro si richiesero per condurre a compimento quel primo disegno dell'opera, nella forma e nelle proporzioni definitive in cui oggi questa viene dinanzi al pubblico.

Parrà strano a taluno che il mio libro dia più di quello prometta il titolo, ed invece di tenermi nei limiti del medio evo, io cominci la mia storia dal tempo stesso in cui il grande poeta viveva. Questo però io doveva necessariamente fare per rendere intelligibile e spiegabile nelle sue cause e coi suoi precedenti l'idea medievale. Perciò di quanto precede questa ho soltanto parlato nella maniera e nei limiti che un tale scopo richiedeva. Pei secoli anteriori al medio evo non ho fatto che notare e definire i primi più essenziali lineamenti della nominanza virgiliana. Più evidente e più profondo avrei potuto essere in questa parte se mi fosse stato concesso dare una più piena idea della influenza che in quei secoli vedesi esercitata da Virgilio sulla produzione letteraria; ma ciò mi avrebbe condotto a dare a questa parte del mio lavoro un'ampiezza ch'io non poteva darle in un libro di cui essa non è la ragione principale. Potrà fare ciò colla dovuta pienezza di trattazione colui che scriverà la storia dello stile e del linguaggio letterario latino nei secoli dell'impero, come pure colui che scriva la storia delle dottrine grammaticali presso i Romani; lavori questi che ancora rimangono da fare, e pei quali neppure tutto il materiale può dirsi ancora preparato ed elaborato sufficientemente.

Nell'intento di dare intorno a Virgilio nel medio evo un libro quanto più completo io potessi, ho pensato sarebbe utile, e in ogni caso comodo pel lettore, corredarlo dei principali testi di leggende virgiliane, taluno de' quali inedito, i più sparpagliati in opere e pubblicazioni diverse neppur tutte facili a trovarsi. Dar tutto sarebbe stato dar troppo. Mi son limitato ai testi più importanti per la storia di quelle leggende, desunti principalmente dalle tre letterature nelle quali queste più sono rappresentate, italiana, francese e tedesca. Avendo poi avuto occasione di rammentare, a proposito di leggende virgiliane, il libretto popolare italiano relativo al mago Pietro Barliario, ho creduto opportuno aggiungere in fondo al volume anche il testo di quel libercolo fra noi più noto alla plebe che ai dotti, e intieramente ignoto fuori d'Italia.

La perspicacia del lettore troverà facilmente, in un'opera quale questa vuol'essere, il perchè di tali capitoli ne' quali meno apertamente e meno direttamente parlasi di Virgilio. Divertire e sorprendere narrando fole antiche e fatti bizzarri non è la ragione dell'opera mia. Ciò che mi fece amare questo studio e spendervi attorno molta e lunga fatica è tutta quella parte assai considerevole della storia dello spirito umano, che si riflette nei molteplici e numerosi fenomeni che ne compongono il soggetto. I lettori vedranno se io mi sia ingannato pensando che su tal tema si potesse meditare e comporre qualche cosa di più serio ed elevato che un'opera di erudita curiosità. Nè poi io italiano ho dimenticato essere il mio argomento italiano di natura e d'interesse. Ho scritto invero con animo calmo, studiandomi di eliminare o limitare quanto potessi ogni causa subbiettiva di allucinazione. Se un qualsiasi sentimento mi avesse condotto a travedere, me ne dorrebbe; pregherei però il giudice troppo severo a cercar bene nella propria coscienza se veramente a lui si addica scagliarmi per questo la pietra.

A queste parole che io nel 1872 premetteva alla prima edizione del mio libro, poco ho da aggiungere e nulla da cambiare oggi, nel darlo a luce per la seconda volta. Accolto con favore in Italia e fuori dall'antecedente generazione di dotti e studiosi, pare ch'esso non dispiaccia neppure alla presente, dacchè con fortuna oggi rara per libri di questa natura, dopo 23 anni lo veggo pur testè tradotto in inglese[14] e ricercato ancora tanto da indurmi a ripeterne l'edizione, essendo da un pezzo esaurita e divenuta introvabile la prima. In tanto estesa, rapida e mobile attività scientifica del nostro tempo, può ben esser contento quell'autore che, ridando alle stampe la sua opera dopo sì lungo intervallo, non si senta obbligato a rifarla. Ed invero nulla di quanto in questo corso di anni fu scritto sul mio libro o sul suo soggetto, nulla di quanto si è venuto innovando negli studi a cui esso si riferisce, richiede che l'opera sia oggi rifatta anzichè ristampata.

Con pochi ritocchi adunque e poche aggiunte l'opera vien qui riprodotta inalterata, messa però al corrente tenendo conto di quante pubblicazioni venute a luce in questi anni abbian rapporto con essa, sia in generale, sia ne' particolari. Alcune notizie furono aggiunte, particolarmente alla seconda parte, ma con sobrietà e solo là dove parvemi potesser servire a far più evidente la natura, la diffusione, la sopravvivenza di talune idee e leggende, evitando di accrescere con inutile farragine erudita la mole e la pesantezza, già forse troppo grave, del libro.

Dai molti che scrissero criticamente intorno a quest'opera o trattaron del Virgilio medievale prendendola per base[15], solo poche censure furono mosse, e queste, prese da me nella dovuta considerazione, mi hanno indotto a ritoccare in alcun luogo ed accrescere di brevi aggiunte qualche capitolo (1-3) della seconda parte, senza modificare il mio pensiero, ma spiegandolo meglio dove mi parve fosse frainteso, confortandolo di nuovi argomenti dove mi parve la mia tesi fosse a torto negata. Così ho inteso soddisfare a chi ha pensato che a torto io distinguessi fra tradizione letteraria e leggenda popolare, non essendovi a suo credere leggende virgiliane che non siano di origine letteraria; e così pure a chi ha negato l'origine napoletana del Virgilio mago, cosa, anzi fatto di cui sono oggi convinto anche più di prima. Non so se a soddisfare i dissenzienti sarò per tal modo riuscito; ben mi parrà però aver molto ottenuto se, con usar tal riguardo verso le loro opinioni pur senza dividerle, io abbia, a giudizio dei più, migliorata o resa meno imperfetta quest'opera mia.

Firenze, Giugno 1895.

PARTE PRIMA

VIRGILIO NELLA TRADIZIONE LETTERARIA FINO A DANTE

VIRGILIO NELLA TRADIZIONE LETTERARIA FINO A DANTE

Tityrus et fruges Aeneiaque arma legentur

Roma triumphati dum caput orbis erit.

Ovid. Am. I, 15, 25.

O anima cortese mantovana

Di cui la fama ancor nel mondo dura

E durerà quanto 'l mondo lontana.

Dante, Inf. 2, 28.

Virgilio rappresenta come principe quella scuola di poeti che i suoi contemporanei chiamavano poeti nuovi; ed erano infatti poeti nuovi di tempi nuovi. — Era quella un'epoca in cui la novità era un fatto ed un bisogno generale nel mondo romano. Quel colosso che con tanta abnegazione avea lavorato lungamente a farsi così grande, voleva ormai godersi la propria grandezza, vivere grandemente, espandere in mille forme il sentimento di sè stesso, nobilitare e raffinare la sua vita così materiale come intellettuale. Rozza, gretta e povera pareagli l'antica vita repubblicana, degna di grande ammirazione da lontano, ma ormai non più attuabile perchè non più proporzionata al suo essere e al suo sentire. Politicamente, e in vista delle sue conseguenze, quel grande rinnovamento, quel distacco dalla severa tradizione antica può giudicarsi con rigore; certo è però che negli ordini dell'arte e del sapere quelle nuove condizioni, generatrici di nuove tendenze per gli animi e per le menti, diedero origine a grandi prodotti artistici non più uguagliati, i quali costituiscono nella storia dell'arte e del pensiero romano il culmine più eccelso. A noi qui non è concesso trattenerci a studiare l'origine la natura e le vicende della nuova scuola poetica allora sorta, le cause della sua grandezza e del suo successo, i contrasti che pur dovette sostenere con quei partigiani del passato che non possono mai mancare in epoche di rinnovamento. L'economia del nostro lavoro, quale ci viene imposta da ciò che in esso è principale argomento, ci chiama ad occuparci qui esclusivamente di Virgilio, che è il più grande poeta di quella scuola ed insieme il più grande poeta romano. Una critica della poesia virgiliana fatta di proposito non potrebbe aspettarsi da noi, che abbiamo per ufficio il dire, non ciò che Virgilio è, ma ciò ch'ei parve, non come va, ma come fu giudicato. Certamente ciò non potremmo fare con certa razionalità, se un concetto non fosse in noi del reale valore di Virgilio, ma questo non è tanto subbiettivo e nostro esclusivamente, che non ci sia lecito dispensarci dal porlo in chiaro ed in sodo dal bel principio del nostro lavoro. Sia dunque senz'altro (poichè lunga assai è la via che dobbiamo percorrere) nostro punto di partenza quello che più necessariamente si richiede pel nostro soggetto, lo studio cioè della prima impressione che fece la poesia virgiliana nel mondo romano, impressione che raggiunge il suo massimo grado col poema dell'Eneide, pel quale essa acquista il più stretto rapporto colle ragioni della rinomanza virgiliana nei secoli successivi. Difatti, quantunque la fama di Virgilio cominciasse già grande colle Bucoliche e le Georgiche, opere di grandissimo valore, la massima grandezza di quel nome riposa propriamente sull'Eneide, che è il più alto portato della poesia latina, e che fa di Virgilio, non solo il principe, ma anche il più essenzialmente nazionale dei poeti latini. A questa dunque dobbiamo noi principalmente volgere lo sguardo nella storia che ora intraprendiamo.

CAPITOLO I.

Il supremo ideale dell'epopea era per gli antichi, com'è anche per noi, l'epopea Omerica: ad essa guardava il poeta epico nel comporre, ad essa il pubblico nel giudicare di lui. Quell'ideale era tanto alto che, mentre escludeva la possibilità di raggiungerlo, anche restando inferiori si poteva pur toccare un'altezza imponente e prodigiosa. Nel giudicare Virgilio i romani corsero subito all'inevitabile confronto; distinguendo fra la potenza divina di chi creò e l'ardua e faticosa opera di chi imitava, riconobbero invero l'inferiorità del poeta loro rimpetto all'antico greco (chè le esagerazioni di certi entusiasti non si possono prendere per la regola[16] ), ma videro altresì che di quanti tentativi in quel genere erano stati fatti in lingua greca e romana il più felice era il virgiliano. Questo giudizio, limitato ad un confronto assoluto ed esterno delle due poesie, era giusto senza dubbio. Ma quante volte il confronto si estendesse alla natura ed alle cause di quelle composizioni epiche, gli antichi, non conoscendo l'essere vero dell'epopea omerica come oggi noi lo conosciamo da Vico in poi, consideravano erroneamente Omero e Virgilio come due individui solo distinti per lontananza di tempi e grado di genio; talchè essi a rigore avrebbero dovuto giudicare Virgilio meno favorevolmente di quello che noi siamo oggi in grado di fare. Difatti, noi distinguiamo fra l'epopea primitiva, spontanea, d'origine non individuale ma nazionale, e la epopea imitativa e di studio, tutta opera individuale, nata in tempi di riflessione e di storia nei quali la prima diviene impossibile; come nell'una troviamo che l'epopea greca ha il primato sulla epopea di simile natura di tutti gli altri popoli, così nell'altra riconosciamo che fra i vari tentativi sia di greci, sia di latini come anche di noi stessi italiani, e di tutti gli altri popoli moderni, niun altro ha mai raggiunto quel grado di perfezione relativa che toccò l'epopea virgiliana. Nel fare questa distinzione noi collochiamo Virgilio nel suo vero posto, e se lo paragoniamo con Omero, teniamo conto dell'immenso divario che corre fra i due nella natura e nelle cause genetiche della loro poesia; noi abbiamo quindi della sua inferiorità spiegazioni o scuse che mancavano affatto ai romani. Ma se da questo lato le condizioni del sapere di quell'epoca sarebbero state sfavorevoli al poeta, o certamente men favorevoli che le presenti, gli effetti di ciò erano affatto cancellati e compensati con larga usura dall'accordo fra quella poesia e i sentimenti e i bisogni del popolo per cui era creata. Molti hanno detto già che l'epopea virgiliana solleticava la boria nazionale ed era quindi destinata a molto successo; ma questa idea ovvia e volgare, se in certo senso ha del vero, non va intesa com'essa volgarmente suona. Il popolo romano, o meglio il mondo romano, costituisce una individualità per natura, per vita, per composizione talmente eccezionale, che giudicarla colle stesse norme con cui si giudica qualunque altro popolo, è un errore. Esso è un ente storico per eccellenza; la sua vita è una espansione continua dalle minime alle più gigantesche proporzioni, nella quale egli obbedisce ad un impulso fatale, irresistibile, che comincia fin dal primo momento della sua esistenza, dal fatto politico della fondazione di Roma. Questo estremo limite dei suoi ricordi nazionali è il nucleo di un ingrandimento tanto costante, è tanto strettamente connesso colla natura della vita nazionale susseguente, che anche la favola delle origini come quella di altri fatti successivi ne acquista un carattere politico e prattico[17]. Il ricordo di un'età eroica estranea affatto all'attività politica, nella quale gli elementi nazionali rimanessero sparpagliati e non centralizzati con una mira che riguardasse tutto l'avvenire della nazione, non esiste presso i romani. La piccola gente latina, dal cui seno venne quell'embrione di grandezza, non fu certamente dimenticata; ma fra essa e Roma rimanevano ben visibili tutte le differenze che distinguono in due individualità, affini ma diverse, la madre e la sua prole.

Questo essere storico che fin dal primo momento della sua vita ebbe la coscienza di sè e della sua missione, che visse di attività storica mirando sempre ad una meta reale e determinata, che a sè stesso ed alla propria energia dovette il successo e la grandezza, doveva naturalmente trovare nella contemplazione della propria entità e della miracolosa sua vita una potente ispirazione poetica. C'era un sentimento di natura tutto speciale, che potremo chiamare storico, come quello che risultava dall'idea di una grandiosa attività storica, il quale, non ristretto nei limiti segnati dalla cerchia di una sola nazione, ma comune a genti le più diverse che Roma avea saputo, non solo sottomettersi, ma anche assimilarsi, si distingueva dal sentimento nazionale che è proprio di ogni popolo, pel suo carattere astratto ed universale, tanto che sopravvisse allo stesso dominio romano. Questo entusiasmava i dominati e i dominatori egualmente, e fra le tante espressioni di esso, che dal principio alla fine distinguono ed in gran parte anche compongono la letteratura latina, è impossibile trovare una differenza qualsivoglia fra tanti scrittori di nazione diversa, romani, greci, etruschi, galli, iberi, africani o altri[18].

Tornando dunque all'epopea, è chiaro che i romani dovevano avere una naturale tendenza all'epopea storica, ed il fatto stesso lo prova colla quantità di epopee storiche che essi ebbero da Nevio a Claudiano[19], fatto che non ha riscontro presso i greci, e per buone ragioni. Ma quel sentimento, che animava tutto il mondo romano e tanto avea bisogno di espansione, era di natura e di origine tale, che riusciva sommamente difficile trovarne l'espressione epica. Considerato nella sua causa ed astrattamente, esso è tale che s'intende come dovesse naturalmente spingere all'epopea; ma quando si cercasse per questa un subbietto in cui concretarlo e dargli una formola adeguata, subito si presentava la base storica su di cui esso riposava, e ciò a scapito; poichè il fatto storico, finchè sia presente alla mente come tale, non può in alcuna guisa servire all'epopea. Per tale scopo conviene che prima esso diventi fatto epico, è necessaria cioè una elaborazione della fantasia, non di un individuo ma della nazione, che lo tramuti in ideale poetico; opera giovanile di cui l'animo nazionale non è più capace in epoche di maturità storica. A sciogliere il difficile problema i greci non aveano fatto nulla, perchè un problema tale ad essi, popolo di natura affatto diversa, non si era mai presentato. Il più noto tentativo di epopea storica presso i greci fu, nell'epoca classica, il poema di Cherilo di Samo sulla guerra persiana, il quale, fondato su di un avvenimento che, quantunque glorioso, non figurava che come un incidente nella vita della nazione, nè rappresentava in alcuna guisa l'essenza stessa di quella, non ebbe che un successo politico momentaneo e passeggiero. L'idea nazionale greca si era già manifestata nella poesia ben più luminosamente e con forme ben più appropriate. Ma il sentimento dei romani era tanto gagliardo e potente, e la natura loro di popolo storico era tanto fortemente pronunziata che non solo le epopee storiche presso di loro furono più numerose che presso di altri, ma ebbero anche maggior successo di quello si sarebbe potuto aspettare dall'epopea storica anche la meglio concepita, quando la freddezza sua naturale non fosse stata compensata dal calore straordinariamente intenso e persistente del sentimento a cui era rivolta, e che anche l'avea suggerita. Ed infatti, cessato quello nell'epoca moderna, anche le migliori di esse sono affatto cadute a terra. Se però un certo relativo successo era possibile per quelle epopee storiche, ed anche per quelle di esse che riunivano (quelle di Ennio e di Nevio, per esempio) in uno strano connubio la favola e la storia, tanto per ragioni di forma quanto per la insufficienza poetica del soggetto, il bisogno nazionale non ne era rimasto completamente soddisfatto. Aver trovato una soluzione di questo problema difficile e complicato è appunto il merito fondamentale del mantovano, ed una causa principale di quell'entusiasmo che destò la sua epopea, e che durò in grandi proporzioni finchè rimase vivo quel sentimento di cui era la più nobile completa e fedele espressione poetica. Le mire nazionali di Virgilio come di altri poeti augustei sono sempre evidentissime, nè appariscono soltanto prodotte da impulsi istintivi e non avvertiti, come in tanti altri scrittori romani, ma sono spesso calcolate nell'intento artistico. Virgilio non volle comporre un'epopea che avesse un carattere puramente letterario o dotto, alla maniera degli alessandrini, e non iscelse quindi, come altri fece prima e dopo lui, un tema dalla ricca saga greca, quale la Piccola Iliade, la Tebaide, l'Achilleide od altro simile sprovvisto di ogni valor nazionale pei romani. Guidato da un istinto artistico maraviglioso in un epico di quel tempo, egli arrivò anche a scansare tutti quei temi storici che tanto tentavano altri poeti, ed aveano tentato alla prima anche lui, e si determinò pel solo che, fra le tradizioni allora in corso presso i romani, offrisse quel carattere eroico ideale che è indispensabilmente richiesto dall'epopea, ed insieme fosse nazionale, se non di origine, certo di significato[20]. Com'egli a ciò arrivasse per semplice sforzo di genio poetico, modificando gradatamente il concetto primordiale dell'opera sua, è cosa che si rileva da parecchi indizi con certa chiarezza, e che non può lasciare inosservata chi voglia equamente giudicare di lui. Imperocchè, per le ragioni generali che abbiamo dette, anche a lui, quando volle intraprendere la composizione di un poema nazionale, si presentò per prima l'idea di un argomento storico latino o romano. Già prima che scrivesse le Bucoliche avea pensato ad un poema sui Re di Alba; ma presto abbandonò quell'idea, come dice il biografo, «offensus materia»[21]. Più tardi, entrato già in rapporto con Augusto, si decise seriamente alla composizione di un poema, e di nuovo il soggetto che gli si affacciò primo alla mente fu di natura storica. La grandezza degli avvenimenti contemporanei, e l'amicizia del principe che tanto prevalse in quelli, lo condussero naturalmente a scegliere per tema le Gesta di Ottaviano[22]. Tale egli stesso dichiarava essere il lavoro da lui meditato, allorchè nel 29 leggeva in Atella[23] le Georgiche ad Augusto tornato d'Asia[24]. Da questo primo soggetto, a forza di modificare il piano primitivo secondo le esigenze del suo sentimento artistico, egli giunse a comporre l'Eneide nel corso di undici anni, cioè dal 29 fino alla sua morte. Nel 26 già Properzio conosceva alcune parti del lavoro e ne parlava entusiasticamente come di grande cosa che andavasi facendo, ma profondevasi più largamente nelle lodi delle Bucoliche e delle Georgiche sulle quali fin lì riposava la rinomanza del poeta. Dalle parole di Properzio, come anche da quanto scriveva Virgilio stesso in quel torno ad Augusto[25], si rileva[26] che le parti del poema allora composte appartenevano già a ciò che poi rimase l'Eneide, ma il poeta manteneva ancora il pensiero di arrivare col suo poema da Enea ad Augusto. Come oggi si vede, inoltrandosi nel suo lavoro egli con tatto felicissimo eliminò ogni idea di narrare fatti puramente storici, facendo così un poema epico-storico, ed invece diede corpo al suo disegno solo rammentando fatti e personaggi storici di volo e per via di occasioni artisticamente colte o procurate, senza che ne rimanesse menomata la natura propriamente eroica e poetica degli avvenimenti che formano il soggetto fondamentale del poema[27]. Della opportunità artistica di questo procedere si accorsero anche i critici antichi, i quali seppero pur ben definire quanto per questo lato Lucano siasi mostrato inferiore a Virgilio[28]. E così nacque l'Eneide, in un modo che agli occhi nostri mostra patentemente quanto chi la scrisse fosse nel concetto e nel sentimento della poesia superiore ai migliori poeti della sua epoca, della più splendida epoca che s'incontri nella storia dell'arte, dopo quella delle grandi creazioni greche.

La critica moderna ha potuto ragionevolmente distruggere certe vecchie idee sul valore storico della saga di Enea, e sulla provenienza di essa[29]; le sue negazioni non potranno mai estendersi a questo fatto indiscutibile, che questa saga già fin dal tempo della prima guerra punica la troviamo in corso fra i romani, e che resa popolare dai poeti, dagli storici, dal teatro, dalle arti plastiche, dal culto e dagli atti stessi dello stato, ai tempi di Virgilio essa aveva acquistato il valore di una saga nazionale estremamente simpatica a tutti gli uomini di cultura romana e del tutto armonizzante colla poesia propria del sentimento romano[30]. Certo se si fosse trattato di comporre un'epopea che fosse in tutto dell'indole dell'epopea omerica, a ciò si sarebbe prestata assai male anche quella saga per gli elementi e caratteri eterogenei che racchiudeva; ma ciò che doveva esprimere l'epopea virgiliana era ben diverso di natura da quanto avea espresso l'epopea omerica, e rimpetto a questo scopo i difetti del tema, pur rimanendo, erano assai meno sensibili. Omero si muove in un'atmosfera tutta ideale; egli non può mai volgere lo sguardo alla storia, che nascerà soltanto più secoli dopo di lui; i limiti e le proporzioni reali dell'essere umano e della sua attività sono tanto lontani dalla sua mente nell'opera poetica, che ben di rado, e solo come termine di paragone, richiama la povera mole dell'uomo vero e proprio (οἷοι νῦν βροτοί εἰσιν); figlio di una età senza storia, egli è l'interprete di una idealità nazionale che è già esclusivamente poetica di per sè stessa. Il poeta latino invece vivendo nella più alta fase dello sviluppo storico della nazione, doveva, tenendosi nell'ambiente ideale voluto dall'epopea, mirare pur costantemente alla storia nella quale avea le sue radici quell'universale sentimento che allora raggiungeva la sua massima intensità, più che mai bisognoso di grandiose espansioni[31]. Conscio di questo suo ufficio ed assistito nel compierlo da una genialità tutta sua propria[32], egli coordinò il suo poema, nel soggetto e nella trattazione, così strettamente colla storia romana, ch'esso può dirsi una preparazione a quella ed insieme un riassunto poetico dell'impressione ch'essa lasciava nell'animo di quanti la contemplavano[33]. Come accade sempre quando si trova la formula lungamente desiderata che esprima intieramente ciò che è nell'animo di tutti, il poema fu accolto con uno scoppio di generale entusiasmo in tutto il mondo romano.

È mirabile vedere con quanto interesse tutti gli uomini colti s'informassero dei progressi di quella grande composizione, e quanto forti, visibili influenze essa esercitasse, fin dal suo nascere sulle lettere latine. Mentre il poeta l'andava componendo, Augusto, Mecenate e tutta la schiera di amici, cortigiani, dilettanti, poeti, retori che li attorniava, erano più o meno al corrente del lavoro, di cui varie parti venivano dall'autore grado grado recitate in quei circoli. Quando Virgilio morì, non altra pubblicità che questa aveva avuto il poema, di cui niuna parte era stata condotta a quel grado di perfezione che meditava il poeta; ma un vasto pubblico ne conosceva l'esistenza e, per l'incontro avuto dai saggi recitati agli amici, grandissima era l'aspettazione. La pubblicazione ebbe luogo per opera dei due amici di Virgilio, legatari dei suoi scritti, Tucca e Vario, ai quali Augusto impose quell'incarico delicato. Quanto tempo impiegassero nel preparare quella pubblicazione non sappiamo, ma certamente dovette essere assai breve[34]. L'impressione fu profonda e universalmente vivissima. In quel poema, che divenne il primo titolo della nominanza dell'autore, tutti riconobbero la più grande opera della poesia latina[35], e per esso divenne Virgilio pei romani, come poi lo chiamava Velleio, il «principe dei carmi»[36]. Lo studio di Virgilio e della sua fraseologia si riconosce già nel suo grande contemporaneo Tito Livio, nel quale trovansi chiare reminiscenze anche di frasi dell'Eneide[37]. Ricco di tali reminiscenze mostrasi poi singolarmente Ovidio[38] che avea 24 anni quando morì il grande poeta, da lui però conosciuto soltanto di vista[39]. E deve notarsi che per Livio e per Ovidio ciò non si può certamente ripetere dall'uso fatto di Virgilio nella scuola, come poi accade per tanti altri poeti e prosatori latini. Dai ricordi di Seneca il vecchio[40] rileviamo pur chiaramente che nel primo decennio dopo la morte del poeta l'Eneide era conosciutissima e si citavano versi di essa come volgarmente noti. Singolarmente attraente per una certa parte del pubblico riusciva la patetica poesia delle avventure di Didone[41], che più tardi strappava le lagrime ad Agostino[42], e che troveremo sempre fra le parti del poema più ammirate nei secoli seguenti.

Una critica affettatamente severa, schifiltosa, paradossale e pregiudicata può dir quel che vuole su questo grande poeta come su tanti altri grandi scrittori latini. Se essa erra, il danno è tutto suo. La scienza potrà difficilmente perdonare gli eccessi di certe reazioni intellettuali, comunque queste possano essere feconde di progresso. L'opera di Virgilio, considerata, com'è dovere, nell'ordine suo e nelle sue ragioni storiche è e riman sempre un grande monumento che non ebbe l'eguale nè prima nè poi; legittimo è il fascino che per tanti secoli esercitò su tutti gli spiriti colti, dagl'infimi ai più grandi. Imitatore è Virgilio solo negli accessori ed anche come tale è grandissimo; lo è perchè doveva esserlo, nè v'era potenza di genio che a tal condizione potesse allora sottrarsi; una emancipazione totale dell'arte da quanto imponevano le ancor vivissime creazioni greche, era cosa che niuno desiderava, niuno voleva, e sarebbe stata accolta con indignazione come una anormalità mostruosa ed inintelligibile. Le vie del genio non possono essere sempre libere in qualunque momento e condizione dello spirito umano. Non per questo però esso si fa men manifesto a chi non si veli gli occhi per non vederlo; nè è lecito disconoscerlo e denigrarlo, dandogli sprezzantemente, come si è fatto per Virgilio, il nome di virtuosità. Per la natura, gli elementi, lo scopo affatto speciali dell'opera sua, Virgilio lavorò in un ordine di produzione tanto diverso da quello della poesia omerica e dell'epica greca in generale[43], che la sua opera, proporzionata com'è all'intento, costituisce una vera creazione. Una dose di ellenismo c'era nel pensiero romano, c'era quindi anche nel poeta, e sarebbe stato infedele se non l'avesse rappresentata nel suo poema; ma il primo più profondo carattere di Virgilio sta nell'esser egli, come con giusta intelligenza lo chiama Petronio essenzialmente Romano[44].

CAPITOLO II.

A quei risultati però non si poteva arrivare per semplice genialità naturale, chè questa sola non bastava nelle condizioni d'allora, come non basta mai a produrre grandi opere d'arte in epoche di grande cultura. Tanto la natura sua stessa e delle sue cause, quanto anche l'influenza dei greci contemporanei, davano alla poesia augustea, come in generale alla più gran parte della poesia romana, un carattere essenzialmente dotto. Molti studi filologici ed eruditi erano indispensabili al poeta per raggiungere una forma d'arte che stesse in armonia colle condizioni della cultura generale. L'indirizzo della poesia greca di quel tempo, dominata dagli alessandrini, era talmente dotto, che nè la lingua della poesia era cosa vivente, nè la poesia stessa era destinata ad esser patrimonio d'altri che di dotti. Se v'ha fatto che metta in rilievo quel tanto di genialità poetica che ebbero pure i romani, tale è senza dubbio il confronto fra essi e i greci nell'uso degli esemplari antichi. Da Alessandro in poi la decadenza della poesia greca è tale, che chi ne studia la storia, se vuol riempire la vasta lacuna che gli si fa dinanzi, conviene si rivolga ai latini, presso i quali soltanto trova una continuazione di quell'indirizzo e di quella produttività.

La dottrina e lo studio, non solo dei prodotti greci, ma anche degli antecedenti prodotti romani, non impedisce ai più eletti poeti latini di trasfondere nell'opera loro quella vera poesia e quel carattere nazionale di cui gli alessandrini sono affatto privi. Non iscrivono per una stretta cerchia di dotti, ma per un pubblico vastissimo di cui l'educazione è tale che nel poeta richiede ed apprezza anche il retore, il grammatico e l'erudito. In queste doti, essenzialissime in un poeta romano, niuno raggiunse Virgilio, il quale oltre ai molti delicati studi di arte, molto studiò pure la lingua nella sua natura presente, e nei suoi antecedenti letterari, per piegarla alla maggior possibile perfezione e farla organo adequato dei suoi concetti artistici; molto pure studiò, in libri e con viaggi, e località e miti e antichi usi e quante simili cose di fatto si connettevano col suo poema[45]. Egli ebbe il segreto di adoperare soltanto come mezzo, senza mai ostentarla, questa molta dottrina, e di non subordinare ad essa la poesia. Gli antichi di questo ben si avvidero[46], talchè egli riuscì a due intenti non sempre identici, quello di piacere ai dotti di professione ed a tutti gli altri ad un tempo. Le doti mirabili della poesia virgiliana nell'uso e nella creazione del linguaggio poetico, e nella struttura del metro, la minutezza delle ricerche erudite da lui fatte per dare al suo poema il colorito più fedele, sono cose tanto vere, che la più severa e maldisposta critica odierna ha pur dovuto in questo confermare gli elogi prodigati al poeta dagli antichi[47].

I bisogni e il carattere del pensiero romano erano tali, che l'impressione prodotta dalle caratteristiche più estrinseche e meccaniche del poema fu profondissima. Essa sopravvisse e dominò in tutte le variazioni che subì il concetto del poeta, e rimase, comunque contorta e deturpata, pur vivissima per tutta la tradizione letteraria del medio evo latino. La perfezione della lingua era pei romani di tanta importanza in un'opera d'arte, che si può dire fosse la principal cosa a cui si guardava nel giudicarne, ed essa sola tenesse luogo di molti altri meriti. Ed invero le condizioni degli scrittori romani erano per questo lato assai diverse da quelle dei greci, presso i quali le forme dell'arte, svoltesi per un moto naturale e spontaneo del pensiero nazionale, furono assecondate da un corrispondente svolgimento del linguaggio spontaneo e naturale, talchè i poeti questo piegavano e traevano facilmente ai loro intenti, senza bisogno di uno studio grammaticale e filologico. Il processo per cui si è svolta la letteratura romana è ben lontano da tanta naturalezza. Ridurre una lingua rozza aspra ed incolta a servire di organo a forme letterarie d'origine non nazionale e quasi repentinamente accettate dal di fuori, era cosa di grandissima difficoltà, colla quale ebbero a lottare i più antichi autori latini; ed essa costituisce la più forte loro preoccupazione[48]. Da questo aspetto può dirsi che da Livio Andronico a Cicerone e a Virgilio, la letteratura romana non sia che una serie di tentativi coi quali si cerca continuamente di piegare la lingua alle esigenze estetiche imposte al pensiero ed al gusto dalla influenza greca[49]. Così presso i latini, contrariamente a quanto avvenne fra i greci, per questa condizione di cose ed anche pel contenuto materiale della influente cultura greca, la ricerca grammaticale esiste già e domina, presso a poco, in ogni scrittore, assai prima che lo sviluppo completo della letteratura abbia avuto luogo, ed il pensiero nazionale siasi acquetato nel trovamento di forme che lo esprimano adequatamente. A questo ultimo risultato giungono Cicerone nella prosa e Virgilio nella poesia. L'uno e l'altro hanno tanto bene e tanto giustamente soddisfatto a quell'ideale di perfetto linguaggio, a quel bisogno di proprietà di finezza e d'armonia, che con essi la meta è raggiunta, ed ogni ulteriore tentativo non riesce che a male. Questo merito loro, certamente altissimo, fu il principale ad essere veduto dagli antichi, e fu senza dubbio in tanta intensità e universalità delle esigenze a cui soddisfaceva, una principalissima causa della loro rinomanza. L'efficacia così dell'oratore come del poeta era tanto dipendente da un merito di questa natura, che raggiungendosi per esso lo scopo, esso poteva servire anche a misurare l'oratore come oratore, il poeta come poeta.

Invero questo prevalere dell'importanza di una qualità formale sopra le altre nella pubblica estimazione, al punto da esagerare anche queste in grazia sua, od anche da tenerne luogo, non è certamente ciò che ci vuole per giudicare giustamente il valore artistico di uno scrittore. Senza soscrivere al giudizio troppo aspro di Mommsen sul merito di Cicerone come oratore, è indubitato che la grande rinomanza, anche oratoria, di questo scrittore è in grandissima parte un effetto del suo alto valore come scrittore latino, piuttostochè del vero suo merito oratorio[50]. Per questa maniera di giudizio Terenzio fino all'ultimo medio evo ebbe più voga di Plauto, quantunque inferiore ad esso in qualità di comico[51]. Se però il giudizio degli antichi su Cicerone fu fuorviato dalla loro predilezione per le qualità della lingua, talchè gli assegnassero un posto diverso da quello che in realtà gli compete nella storia dell'eloquenza, certo il giudizio loro su Cicerone si teneva in una sfera più prossima alla vera e più di loro competenza, che non quello su Virgilio; chè realmente gli usi prattici dell'arte oratoria, e la vita repubblicana, avean reso i Romani più competenti giudici d'oratori che di poeti; i quali meno che i primi avevano nella vita e nell'indole nazionale romana la prima causa dell'esser loro. Perciò è da notarsi che dei giudizi su Cicerone di un carattere generale, nei quali egli è, comunque, giudicato in qualità d'oratore, è definita la sua arte tanto in sè quanto in rapporto cogli altri oratori greci e latini, se ne trovano; su Virgilio invece un giudizio che lo definisca, non dico giustamente, ma completamente nella sua qualità di poeta, non lo troviamo. Molti scrissero su di lui, quanti su niun altro scrittore latino. Lo stesso entusiasmo che destò la sua opera, non solo appena fu pubblicata, ma anche mentre il poeta la componeva e non se ne conosceva che qualche libro o qualche saggio, provocò degli scritti e delle critiche assai[52]. Contro le buffonerie e le smodatezze di alcuni, piuttosto nemici che critici, stanno le numerose espressioni di ammirazione entusiastica, che senza dubbio fedelmente rappresentano il grado e la natura dell'impressione generale. Ma l'entusiasmo e il sarcasmo non sono la critica. Fino a qual punto gli scritti relativi a Virgilio di molti grammatici suoi contemporanei o del primo secolo dell'impero fossero di carattere estetico, e si occupassero di ciò che oggi dicesi l'alta critica, è difficile giudicare dalle notizie che ci rimangono; ma è chiaro che, se l'arte virgiliana avesse in quelle trovato una notevole e sufficiente definizione generale, la tradizione grammaticale a noi nota, che è tutta piena del nome del poeta, l'avrebbe pur conservata. Invece il meglio che questa ci conserva si riduce ad una osservazione di Domizio Afro, insufficiente quantunque giusta, la quale segna affatto esternamente il posto che compete a Virgilio in quella gerarchia di poeti di cui Omero è sovrano[53]. E del resto, come abbiamo veduto, solo esternamente potevano giudicare gli antichi con giustizia il rapporto fra la poesia omerica e la virgiliana. Dei giudizi dei contemporanei, uno solo ne vien riferito[54] che, quantunque espresso con parole maligne, definisce con qualche verità una caratteristica generale dell'arte virgiliana; ma esso considera il poeta unicamente dall'aspetto retorico, e potrebbe essere applicato anche ad un oratore[55]. Coloro poi che facevano un rimprovero a Virgilio del grande uso ch'egli ha fatto d'Omero, evidentemente erano animati da un sentimento d'inimicizia, poichè dimenticavano l'uso simile di tanti altri illustri poeti anteriori[56], così romani come greci, ed inoltre (come lo stesso Virgilio a ciò soleva rispondere)[57], non pensavano alla grande difficoltà di farlo convenientemente. L'uso assai libero che Virgilio ha fatto dei poeti anteriori, così greci come romani, aveva la sua giustificazione, o meglio la sua naturale ragione di essere in un modo di vedere ed in una tradizione fra gli antichi comune e regolare; il fargliene un addebito era cosa assai più evidentemente ingiusta ed odiosa allora, di quello possa parere oggi a noi che abbiamo su tali fatti idee molto diverse[58].

Generalmente la critica di quei grammatici si attiene ai particolari; giudica di parole, di forme, di struttura metrica, discute certe parti dell'organismo della narrazione, notando qualche inconseguenza, qualche contradizione, si trattiene in questioni di erudizione. Scarse, e sempre relative a luoghi particolari, sono le osservazioni di stile; per lo più si riducono a confronti; là è una immagine che Virgilio ha trattato meglio o peggio di Omero, qua una descrizione in cui è stato superato da Pindaro. Nell'assieme di tutte le osservazioni che ci rimangono[59] si scorge una certa libertà e indipendenza di giudizio, per la quale, quantunque considerato come altissima autorità nel campo grammaticale retorico ed erudito, Virgilio non è in questa prima epoca dai grammatici dotti ed assennati ammirato ciecamente; molti nei sono riconosciuti in esso e messi in evidenza, e li ammetteva in certa misura lo stesso Asconio Pediano nel libro che scrisse contro i detrattori del poeta. Ma quei detrattori che erano animati, nel criticare, da sentimenti nemici al poeta, durarono poco, e non si trovano che fra i suoi contemporanei. Le osservazioni critiche di Igino, di Probo, ed anche quelle più aspre e più numerose, ma meno giuste, di Anneo Cornuto[60] non ledevano in alcuna maniera il nome di Virgilio. Eran considerate come macchie inevitabili che si trovano in ogni opera umana, e che si notavano anche nello stesso Omero; generalmente si era convinti che il grande poeta le avrebbe tolte via, se la morte non gli avesse impedito di compiere l'opera sua. Taluno arrivava ad attribuirgli l'intenzione di mettere alla prova, introducendo certe difficoltà nelle sue poesie, il sapere e l'acume dei grammatici[61].

Così della poesia virgiliana già in questa prima epoca si sentiva più di quello si definisse. Come organo il più fedele del sentimento nazionale, come prodotto artistico in ogni parte finamente armonizzato col gusto le tendenze la coltura i bisogni dello spirito pubblico, essa esercita un prestigio immenso e ben giustificato, dinanzi a cui il nome stesso del grande oratore romano impallidisce e diviene troppo unilaterale. Ma allorchè da quella impressione vogliono risalire alle cause e ad una analisi dell'opera virgiliana, si arrestano ad una parte di essa puramente esterna e formale, tanto perchè l'indirizzo generale dello studio d'allora a questa parte sopratutto rivolgeva le menti, quanto perchè la teoria letteraria d'allora non poteva guidare a veder bene addentro nella vera natura dell'epopea. Quest'abitudine nella critica turbò non poco, come abbiamo notato, anche il concetto dell'eloquenza ciceroniana, quantunque l'oratoria fosse assai di competenza romana, e quantunque nel paragone fra Cicerone e Demostene si stesse su di un terreno assai più solido che in quello fra Virgilio ed Omero. Quanto a Virgilio, quella specie di critica ristringeva il valore del poeta in un campo troppo angusto per tanto nome, e per la qualità e la universalità dell'entusiasmo che avea destato. Il valore poetico e nazionale di questo nome, quella parte cioè che generalmente sentita pur non capiva in quel campo ristretto ed incapace di farla vedere nella sua vera e complessa natura, serviva come di lievito ad accrescere le proporzioni della parte che restava definita, dei meriti dotti, spingendo ad esagerarla. La idea della sapienza universale del poeta non si scorge ancora, ma c'è già quella di una sua universalità letteraria per la quale esso regna nella poesia e nella prosa, nella grammatica e nella retorica, ossia negli elementi primi e caratteristici della cultura del tempo; ognuno è prono a trascendere parlando di lui, esagerando più o meno il numero e la varietà dei suoi meriti; nè certamente Marziale esprimeva una idea esclusivamente sua, quando diceva che, se Virgilio avesse voluto provarsi nella lirica e nel dramma, avrebbe superato di leggieri i più grandi lirici e tragici[62]. Fin dal principio adunque si trovano nella nominanza del poeta i segni e le cause di un traviamento di cui vedremo poi le fasi e le proporzioni ulteriori.

CAPITOLO III.

Virgilio è del piccolo numero dei poeti fortunati sott'ogni aspetto. Ammirato per le rare doti del suo ingegno non solo, ma per quelle dell'animo eziandio che rendevanlo uno degli uomini più simpatici del suo tempo[63], quanti furono buoni poeti suoi contemporanei non dubitarono di riconoscere la sua superiorità, e tutti a gara e con parole di entusiasmo gli fecero onore, come scorgiamo da quei che ci rimangono. Non mancarono a lui nemici, chè al genio non mancano mai: ma glieli fece facilmente dimenticare la stima dei grandi d'ogni specie e del popolo romano che, udendo i suoi versi in teatro, unanime sorse in piedi, ed al poeta a caso presente fece segno di rispetto, come solea fare collo stesso Augusto[64]. Egli certamente da quanto ottenne coll'opera sua in vita, dovette argomentare della durevolezza e della immortalità del suo nome.

I segni della popolarità del poeta si ritrovano in ogni sfera. Nell'alta società, che per moda amava darsi l'aria di letterata, la donna saccente, descritta da Giovenale, (secondo lo scoliasta sarebbe Statilia Messalina moglie di Nerone), in mezzo ad un circolo di grammatici e di retori, trattava con molto sussiego e gran profluvio di parole le questioni letterarie più in voga; parlava di Didone; pesava e confrontava il valore di Virgilio e di Omero[65]. Polibio liberto di Claudio, cortigiano molto influente, e dilettante di lettere, assai probabilmente del calibro del suo padrone, intraprendeva una parafrasi latina di Omero ed una greca di Virgilio, ed a lui Seneca, nello scritto che gli ha dedicato, profondeva per tale suo lavoro[66] elogi tanto sinceri quanto gl'incensi che nello stesso scritto profonde al di lui signore, futuro eroe dell'Apokolokyntosis. Anche il teatro era un campo di ogni grande popolarità, nel quale trionfava il poeta. Non solo ivi già mentr'egli era vivo e per più secoli dopo la sua morte furono recitati i suoi versi[67], ma anche da questi si trassero speciali rappresentazioni. Nerone, minacciato da ogni parte, vedendo approssimare la fine, fece voto, se scampava, di rappresentare egli stesso una composizione pantomimica intitolata il Turno, desunta dall'Eneide[68]. Era poi una finezza di moda avere nei ricchi banchetti, fra gli altri divertimenti, anche recitazioni di versi omerici e virgiliani. Così anche alla mensa goffamente lauta di Trimalcione vediamo figurare gli Omeristi, e recitato con istrazio crudele da un servo il quinto dell'Eneide[69]. Fra i donativi (Xenia) che l'uso richiedeva si facessero in certe circostanze, erano anche taluni dei libri più in voga; fra questi qualcuna delle poesie minori, od anche tutte le opere di Omero e di Virgilio, scritte elegantemente in piccolo volume, e talvolta anche ornate del ritratto del poeta[70].

Nè il nome di Virgilio e dei poeti della nuova scuola rimase limitato alla sola Roma, ma corse in un attimo per le provincie. Fra le numerose iscrizioni che si veggono tuttora graffite sui muri in Pompei, alcune ci presentano versi di Ovidio e di Properzio, ma più assai di Virgilio[71]. Una di queste ci offre il verso 70 dell'8.ª egloga:

Carminibus Circe socios mutavit Ulyxis;

un'altra:

Rusticus est Corydon;[72]

un'altra, che fa una mesta impressione nella città rovinata e deserta:

Conticuere om[nes].

Queste iscrizioni probabilmente sono dovute a scolari, come ad essi probabilmente si debbono gli alfabeti o le parti di alfabeto che trovansi segnate sul muro in parecchi luoghi di Pompei[73]. Quando accadde la catastrofe di Pompei, nel 79 dell'era volgare, Virgilio era morto da 98 anni, ma quantunque senza dubbio la maggior parte delle iscrizioni graffite pompeiane debba collocarsi nell'intervallo fra l'ultima catastrofe e quella che la precedette sedici anni prima, molte sono certamente assai più antiche; una ve n'è che appartiene di sicuro al 79 prima di Cristo, ed anche uno degli alfabeti pare debba ascriversi al tempo della repubblica[74]. Il nome di Virgilio nella Campania, suo soggiorno prediletto, fu grande già mentre visse, e la sua sepoltura a Napoli lo localizzò in quella regione in un modo tutto particolare. Niente impedisce adunque di credere che sui muri di Pompei possano essere stati graffiti questi versi virgiliani che vi si leggono tuttora, in epoca molto vicina alla vita del poeta e forse anche mentr'egli ancora viveva. E quel «Rusticus est Corydon» ed il «Conticuere omnes» non sono tuttora due dei luoghi virgiliani più volgarmente conosciuti e rammentati da quanti hanno frequentato le scuole? Nè soltanto i graffiti pompeiani offrono prova della popolarità di Virgilio; anche fra le epigrafi propriamente dette s'incontrano, colla più singolar varietà di oggetti, versi del poeta; se ne son trovati su di un cucchiaio di argento, su di un tegolo, in un bassorilievo che rappresenta una venditrice di selvaggina, ed in iscrizioni funebri[75].

Ma il più notevole trionfo di Virgilio e degli altri poeti augustei fu propriamente quello che ottennero nell'insegnamento. Riempito per opera loro il vuoto che già da tempo si faceva sentire nelle lettere latine, sarebbe stata cosa pazza seguitare nelle scuole la vecchia tradizione, e non profittare del nuovo e vitale alimento che si offriva agli studi. Assai più che certe riforme augustee, dava occasione ad un incremento degli studi grammaticali come professione speciale, lo sviluppo a cui la lingua letteraria era arrivata, e il grado di perfezione che avea raggiunto con Cicerone e Virgilio. Appena poste in luce le nuove poesie, furonvi grammatici che se ne giovarono nell'insegnamento, e primo tra questi si crede fosse un Q. Cecilio Epirota, liberto di Attico, il quale, secondo dice Svetonio, per primo nelle sue lezioni elementari fece esercitare i giovanetti nella lettura di Virgilio e degli altri poeti nuovi[76]. È difficile oggi per chi non abbia fatto uno studio speciale sulle condizioni della coltura e degli studi in quell'epoca, figurarsi esattamente quanto grande fosse la potenza e l'influenza dei grammatici nel formare e promuovere le rinomanze letterarie. In quella febbre di produzione letteraria, non soltanto provocata dai gusti di un principe, ma resa di moda anche dalla eleganza dei tempi, per cui fin Trimalcione si atteggiava a letterato, i mezzi d'ottenere pubblicità e favore erano cercati avidamente; come nelle recitationes molti pagavano chi li applaudisse[77], altri ricorrevano ad ogni basso mezzo per ottenere l'accesso nelle scuole dei grammatici, e vedere così i poveri prodotti della loro musa quasi consecrati dall'insegnamento. Il disprezzo con cui Orazio parla di queste arti mostra quanto fossero adoperate[78]. Certo è che l'onore d'essere letti nelle scuole meritava la pena di occuparsene, ed era cosa di conseguenza, anche per noi tardi posteri; poichè i grammatici fecero la scelta di quel tal canone di poeti che per la via delle scuole, e non per altra, è giunto fino a noi. Molti scritti che sono andati perduti nol sarebbero se avessero avuto la fortuna di essere adoperati dai maestri come libri di testo; così pure molti altri furono conservati che non avrebbero meritato un tale onore. Finchè un certo buon gusto dominò fra coloro, principalissimo regnò nelle scuole Virgilio, ed insieme con esso Terenzio ed Orazio, nè mancò chi esponesse Ovidio, Catullo e gli altri che ci rimangono del buon tempo. Più tardi, quando la retorica ebbe più profondamente invaso il campo della poesia, si credettero degni di servir come testi Lucano, Giovenale, Stazio ed altri, ai quali il confronto coi primi riesce invero assai svantaggioso. Questi primi seguitarono però sempre ad essere letti e studiati insieme coi nuovi; e sopra tutti ed invariabilmente Virgilio, col quale e con Omero (finchè gli studi greci seguitarono a fiorire) soleva aprirsi il corso[79].

Durante tutto il primo secolo dell'impero e parte del secondo lo studio grammaticale prende un forte sviluppo e domina tutto il campo letterario, dando luogo per parte di uomini speciali ad opere dotte ed importanti, che saranno poi espilate dai grammatici dei tempi posteriori. Il procedere di coloro era modellato fino ad un certo punto sugli studi grammaticali dei greci. Però, benchè per illustrare Virgilio da essi molto si facesse di quanto si era fatto per illustrare Omero, l'uso ch'essi fecero di Virgilio come autorità grammaticale doveva essere naturalmente ben diverso dall'uso che i greci fecero in ciò di Omero. Anche in questo, come nelle cause fondamentali, la nominanza di Virgilio differisce profondamente da quella di Omero, colla quale pure esternamente ha tanti punti di contatto. Omero era stato molto studiato ed illustrato dagli alessandrini, ma la sua lingua e le sue forme non aveano allora che un valore storico, e quantunque potessero ancora essere e fossero adoperate in certe poesie di ragione intieramente artificiale ed academica, non avrebbero certamente potuto servire di base ad una teoria grammaticale destinata a governare l'uso generale degli scrittori. Virgilio invece, il più alto e definitivo portato dello sviluppo letterario latino, era e doveva essere la base e l'autorità più solenne[80] di ogni dottrina e di ogni studio grammaticale. Esso è infatti come la stella polare di ogni grammatico e nello studio di esso si approfonda chiunque si destina a quella professione[81]. Indubitatamente non vi fu altro scrittore latino sul quale tanti grammatici scrivessero quanto su Virgilio, non uno che servisse alla composizione di opere grammaticali tanto quant'egli.

Il suo valore letterario e la sua autorità grammaticale richiedevano molta sicurezza circa la genuina lezione del suo testo, e più critici se ne occuparono, non soltanto emendandolo secondo congetture, ma anche con l'uso di MSS. autorevoli provenienti dalla sua famiglia, ed anche dei suoi stessi autografi che si conoscevano ancora ai tempi di Plinio, di Quintiliano e di Gellio[82]. Oltre poi alla critica del testo, la illustrazione di luoghi difficili, di vocaboli, di fatti mitologici, geografici e simili, le osservazioni di stile sul tale o tal altro luogo considerato in sè o in confronto con qualche luogo simile di poeta greco, erano i soggetti di dotti trattati d'Igino, amico d'Ovidio e della nuova scuola[83], di Probo che può dirsi l'Aristarco latino, di Anneo Cornuto e di altri assai che sarebbe lungo annoverare, e che non sono poi neppure tutti conosciuti. Altri, come Aspro, facevano commenti che accompagnavano, illustrandole, le opere del poeta[84].

Oltre poi a quanto si scriveva direttamente intorno a Virgilio, moltissime opere grammaticali si dettavano nelle quali gli esempi erano tratti a larga mano da Virgilio assai più che da altri scrittori. Quindi quello scambio, che anche oggi si nota nella antica letteratura superstite, fra i commenti virgiliani e le opere grammaticali, per cui tale osservazione che fa parte di un commento trovasi riprodotta in un'opera grammaticale, e viceversa[85]. Direttamente queste opere non le conosciamo, ma i grammatici posteriori, che se ne servono nelle loro compilazioni, ci possono dare un'idea dell'uso che in esse era fatto del poeta. La primissima dote per cui Virgilio appariva in quelle come re degli scrittori, era la proprietà della lingua[86]. Un esempio luculento dell'autorità del poeta in questo presso i grammatici, lo abbiamo nell'opera di Nonio composta verso la fine del III secolo, nella quale l'autore mise poco o nulla di suo, limitandosi a compilare da opere anteriori, il che costituisce il suo pregio per noi. In quest'opera, che pur non è di gran mole, e che ci dà, per così dire, la somma delle varie autorità usate dai grammatici antecedenti[87], gli esempi desunti da Virgilio sono ben 1500. Nessun altro dei numerosi scrittori citati in essa, sia della repubblica sia dell'impero (il più recente è Marziale), raggiunge questa cifra neppur da lontano; neppur Cicerone che dopo Virgilio è l'autorità principale, nè Varrone che pure è dei più citati. Ed in tutto il campo degli studi grammaticali la stessa prevalenza ha luogo come può facilmente vedere chiunque dia un'occhiata agl'indici degli autori nella edizione del Keil. Per dire tutto in poco, l'uso che fecero di Virgilio i grammatici è cosa tanto sterminata che se tutti i codici di Virgilio fossero perduti, colle notizie che gli antichi ci danno sulle poesie virgiliane e i passi di queste che ricorrono citati, anche dai soli grammatici, si potrebbero ricostruire nella massima parte le Bucoliche le Georgiche e l'Eneide[88]. La maggior parte di quelli esempi avrebbe potuto essere scelta senza dubbio anche altrove; ma l'autorità dell'esempio virgiliano era massima, ed inoltre Virgilio era come la Bibbia di quella gente; era il primo dei libri scolastici, e tutti l'avean sempre per le mani.

La scuola e l'insegnamento orale era il centro dell'attività di tutti quei grammatici; però quel che indirettamente conosciamo dei loro scritti non appartiene certamente alle regioni basse ed elementari dell'insegnamento. Valerio Probo, il più distinto fra tutti gli illustratori di Virgilio, non tenne scuola propriamente detta, ma parlava di cose dotte confabulando in un circolo di pochi e scelti uditori. Nondimeno alcuni scritti anche assai dotti e importanti, come p. es. quello di Aspro, furono fatti appunto per l'insegnamento, ed in generale molte osservazioni e schiarimenti contenuti in trattati critici e dotti furono adoperati dagli autori di commenti fatti per l'uso scolastico. Attraverso alla letteratura dotta di quell'epoca oggi superstite, si può presso a poco indovinare ciò che avveniva nell'insegnamento più elementare. Virgilio era il primo libro latino che prendevano in mano i fanciulli dopo avere imparato a leggere e scrivere, e d'allora in poi esso serviva non meno all'insegnamento elementare che al superiore. Di esso si serviva dapprima il maestro per avvezzare lo scolaro a leggere a senso, distribuendo opportunamente le pause e le inflessioni della voce[89]. Questa scelta, come quella di Omero per lo stesso scopo, è lodata da Quintiliano, non solo per la bellezza di quella poesia, ma anche per gli onesti e nobili sentimenti che ispirano i carmi dei due poeti; «quantunque, soggiunge, ad intendere le loro belle qualità sia necessario un giudizio più maturo; ma per questo resta tempo, chè non saran poi letti una volta soltanto»[90]. Poi di quella lettura il grammatico deve approfittare per far esercitare i giovani a sciogliere in prosa il periodo poetico, a notare la quantità, a rilevare anche ciò che è irregolare, barbaro o improprio, «non però per biasimare i poeti, ai quali, per le leggi metriche che li stringono, molto si concede»[91]. E così su quel testo giungeva il giovane a fare ogni altro esercizio di interpretazione e di illustrazione. Ma tutto questo era più o meno ben fatto secondo il sapere dei grammatici, che nella generalità non era grandissimo. Assai ve n'erano rozzi e dappoco, per tacere dei molti cerretani. Ai più incolti Quintiliano raccomanda l'osservanza di quanto era scritto nei manualetti usati più generalmente nell'insegnamento elementare[92].

CAPITOLO IV.

Un posto simile a quello che teneva nell'insegnamento grammaticale occupava Virgilio anche nello studio retorico che faceva seguito immediatamente allo studio della grammatica e con esso strettamente si connetteva, tanto che alcuni precetti o esercizi di carattere retorico, già eran fatti dal grammatico[93], ed anche molti insegnanti, singolarmente in una più antica epoca, si erano occupati di ambedue gl'insegnamenti[94]. Ma mentre la grammatica nel primo secolo ha uno sviluppo nobile, la retorica si distingue in esso per una notevole decadenza. È una pianta parassita che ha perduto ogni alimento proprio col cadere della libertà, e si regge artificialmente invadendo tutto il campo letterario, dandogli il proprio colorito, paralizzandone o imbastardendone i prodotti. In quella frenesia di declamazione che tanto era generale da proporzionare ad essa gli intenti e le dottrine e i metodi dell'insegnamento e della generale educazione, vario era l'uso del poeta. Naturalmente nella teoria retorica, in tutto quanto si riferiva ai precetti, molto per la esemplificazione si traeva da esso, che era già noto ed usato assai nell'insegnamento antecedente, ed in cui già il grammatico aveva avvezzato i giovani e cercare le figure e i tropi. Nella parte prattica, che era propriamente la principale nelle scuole comuni, oltre ai temi per le declamazioni, ne traevano sentenze, immagini, idee, ed espedienti oratorii, ne imitavano le descrizioni, copiavano talune espressioni felici; e di quest'uso nella scuola e fuori, si ha già esempio fin dai primissimi tempi della sua rinomanza, fra i più distinti retori dell'evo augusteo contemporanei del poeta, fra i quali principalmente, per farsi amico Mecenate, distinguevasi nel prendere molto da Virgilio, Arellio Fusco, uno dei numerosi amici di Seneca il vecchio[95]. A questo aveva servito già, e serviva tuttavia anche Omero, nel quale gli antichi trovavano il più vetusto monumento dello studio retorico, ponendo che i discorsi degli eroi omerici da questo studio fossero guidati. Lo stesso sobrio Quintiliano si entusiasma parlando delle virtù della eloquenza omerica, grande in ogni genere[96]. Qualità retoriche era tanto più facile trovarle in Virgilio, che realmente egli non meno che tutti i poeti dell'evo augusteo, era uscito dalla solita scuola del grammatico e del retore. Ovidio porge colle Eroidi (Suasariae) il più chiaro esempio dello studio retorico di quei poeti. Può essere poi un fatto fortuito, ma forse non lo è tanto quanto pare, che le più antiche citazioni oggi note di versi Virgiliani ricorrano appunto in bocca di retori contemporanei del poeta, i quali o se ne servono per le loro composizioni, o ne parlano da un aspetto retorico[97].

Se i poeti augustei avevan saputo difendersi dalla retorica tanto da non connaturare con essa la loro poesia, ciò non accadde ai poeti posteriori, i quali subirono l'influsso di quell'essenziale efficiente delle lettere latine, in tanto alto grado che spesso, come Lucano, Silio Italico, Valerio Flacco, Stazio, non sono in realtà che retori i quali declamano in versi. Questo livellarsi della poesia e della retorica, portava naturalmente seco che dall'un campo all'altro ci fosse scambio di mezzi. La poesia guidata dal mal gusto generale che domandava ai poeti quanto ai declamatori, aveva bisogno di ricorrere al retore per tutta la suppellettile a ciò necessaria. L'eloquenza poi vuota com'era, non curante affatto dei mezzi logici che inducono la persuasione col raziocinio, ma solo limitata a mezzi puramente letterari o formali, spoglia inoltre di ogni fondamento subbiettivo e ridotta a temi sprovvisti di ogni realtà e di ogni interesse, poneva l'oratore nella condizione del poeta, dando tortamente ad un genere di arte che ha la sua ragione di essere unicamente nel fatto prattico e reale, il carattere astrattamente artistico e ideale della poesia. Declamando a freddo sopra soggetti puerili, fittizi, privi d'interesse e spesso dati anche all'improvviso, il calore e la vita e l'enfasi mancanti affatto all'animo dovevano essere simulati artificialmente ricorrendo al prestigio del linguaggio poetico, tanto più abusando di esso quanto più grande era il vuoto che doveva coprire, quanto più il gusto del pubblico era portato ad ammirare il gran risuono e il gonfio e l'affettato[98]. Quello fra i vari generi di poesia che meglio si adattava agli intenti di questa gente era naturalmente l'epico, tanto perchè il meno subbiettivo di tutti, quanto perchè il più ricco di ogni varietà di stili e di situazioni oratorie. Come nelle qualità poetiche così nelle qualità oratorie, Virgilio fra i poeti, nella stima comune, non era secondo che ad Omero; ed in ciò con gli altri si accorda anche Quintiliano, che pur non approva l'uso smodato dei poeti per parte dell'oratore, e definisce così anche la povertà poetica di Lucano, dicendo essere egli più opportuno per gli oratori che per i poeti[99]. Certo Virgilio fu grandemente adoperato dai retori d'allora, e ne vediamo un segno evidente nel retore-poeta Annio Floro, che, come più tardi Macrobio, sul principio del 2.º secolo trattava la questione «se Virgilio sia piuttosto oratore o poeta» in uno scritto speciale[100]. L'autorità di Cicerone era naturalmente grande nelle scuole dei retori, ma quella di Virgilio lo era al segno che, come osserva l'autore del dialogo De Oratoribus, era più facile trovare chi dicesse male di Cicerone che di Virgilio[101].

Questo poeta ebbe in sorte di rimanere sempre a galla, sia che limpida o torbida fosse la corrente che lo tramandava alle generazioni future. Seneca, spirito che sorprende ad onta dei molti difetti e che marita la declamazione e più eccessi retorici alla filosofia, niun altro autore cita così spesso come Virgilio, che venera altamente[102], e che suo padre aveva conosciuto di persona. Piacque ai retori di cattiva lega, e piacque anche a quanti si opponevano all'andazzo dei tempi; piacque a Quintiliano[103], che inutilmente cercò di ricondurre gli studi di stile sulla buona via; piacque all'autore del dialogo De Oratoribus, e, se non è tutt'uno, piacque a Tacito, uomo che fu grande a dispetto delle scuole e del gusto volgare, e che ne' suoi scritti non di rado mostra d'avere assai letto e studiato il Mantovano[104]. Ma la universalità di tanta ammirazione acquista una speciale caratteristica da questo, che ormai si appalesano nel campo letterario taluni elementi di reazione sfavorevoli ai poeti della scuola augustea; de' quali dobbiamo segnar la misura, spiegando come la voga di Virgilio e degli altri suoi compagni in poesia non ne patisse danno.

Fra i molti artifici con cui i retori di varie scuole cercavano di soddisfare al desiderio di novità in tanta voga di declamazioni, c'era il cercar di dare un carattere severo e solenne al dettato, rendendolo contorto ed oscuro. Scrivere in modo semplice, chiaro e disinvolto, sarebbe stato per molti, come per certuni anche oggidì, un delitto di lesa arte retorica. Un retore diceva ad un discepolo: Abbuja! abbuja!, e lo scolare abbujava; e il maestro contento diceva: bravo! ora sta bene; neppure a me riesce capirne nulla[105]. Questa specie di affettazione che voleva imporre con una apparenza di profondità e di dottrina, conduceva anche all'uso delle parole insolite e viete, e così ad una reazione contro gli scrittori della ultima più grande scuola, richiamando in vita lo studio dei più antichi. La serie di tentativi per cui la lingua letteraria si venne formando presso i latini portava naturalmente con sè che, anche dopo trovata una forma definitiva di prosa e di poesia, una certa autorità rimanesse a quelli scrittori che, se non toccarono la meta, pur contribuirono ad arrivarvi. Singolarmente, oltre ad un merito intrinseco che faceva venerare in certi limiti questi antichi poeti e prosatori, c'era una tradizione teoretica che ne teneva in vita l'autorità, in tutta quella disciplina di grammatica e di erudizione filologica che serviva indispensabilmente allo scrittore anche nella migliore epoca, e che in fondo da principio era basata su di essi. Così c'era propriamente fra i grammatici (in quella sfera cioè da cui emergeva l'educazione intellettuale di ogni scrittore) una continua occasione di rivolger lo sguardo alla letteratura antica. Il nuovo indirizzo letterario poi, risultante dall'influenza e dall'autorità di Cicerone e Virgilio, offriva bensì nei modelli che proponeva un largo tesoro di linguaggio eletto, ma non tanto facilmente maneggevole, per chi alle guide e alle norme puramente meccaniche della grammatica e della retorica non riunisse una finezza di gusto naturale. In un tempo in cui l'erudizione e la dottrina filologica era ammirata generalmente, ed anzi richiesta dal pubblico negli scrittori, in cui una parte cospicua del tesoro letterario della nazione era costituita da un gran numero di antichi scrittori, imperfetti bensì, ma pure non del tutto da gittarsi via, il gusto di chi scriveva era facilmente esposto ad essere fuorviato nella scelta e nell'uso degli esemplari da imitare. La parola antiquata ha invero una certa sua efficacia speciale[106], ed è facile pensare a servirsene come di mezzo retorico; ma il farlo senza cadere in gravi difetti è cosa che richiede squisitezza di criterio artistico quale a pochi è accordata[107]. Invero dei grammatici e degli scrittori che si mostrassero propensi per lo stile e i vocaboli antiquati non mancarono neppure nei più bei tempi della prosa e della poesia romana. Già Cesare[108] biasimava questa affettazione e così Orazio e Virgilio stesso[109], come più tardi Seneca, Quintiliano ed altri. Ma l'apice che toccò la prosa e la poesia ai tempi augustei, ed il gusto generalmente più fino e corretto che allora regnava, impedirono a quel movimento di prendere proporzioni considerevoli, e rimase assai oscuro. Esso però, col prevaler della forma nell'opera letteraria, e coll'accrescersi del vuoto che sotto quella si copriva, rendesi più visibile e notorio al tempo degli Antonini. Le tendenze greche di taluni imperatori, l'amore (singolarmente di Adriano) per certi prodotti degli alessandrini, l'ammirazione pel pomposo, pel misterioso, pel peregrino che domina in quell'epoca favorevolissima a cerretani d'ogni specie, il bisogno di supplire con mezzi artificiali alla mancanza di creazione artistica, consigliavano di ricorrere all'arcaismo, alla parola insolita, per dare prestigio ed apparente autorità e gravità a frasi vuote e pompose.

Il più noto rappresentante di questo indirizzo è il Cicerone di quell'epoca, il maestro di M. Aurelio e L. Vero, M. Cornelio Frontone, gran padre di ogni pedanteria, che insegnava ad andar pescando «insperata atque inopinata verba,» e a dare al dettato un certo coloretto di vetustà (colorem vetusculum appingere). Giudicando da quel che ci rimane di lui, egli dei poeti della scuola augustea fece pochissimo uso nei suoi studi di stile e di lingua. Qua e là nei suoi scritti qualche rara reminiscenza di Virgilio e d'Orazio si ritrova[110], ma da attribuirsi alla influenza delle comuni scuole da cui egli stesso era uscito. Virgilio è appena da lui citato una volta[111] e di Orazio egli parla come di poeta semplicemente «memorabilis»[112]. Frontone fu invero un caposcuola che ebbe non pochi seguaci, e lasciò dopo di sè una certa tradizione retorica che singolarmente dominò nella Gallia[113]. Ma propriamente la sua influenza si ristrinse al campo più limitato della prosa puramente retorica, e non se ne scorge molto evidente traccia negli scrittori che ci rimangono. Del resto mi pare che da certi indizi si possa conchiudere che non tutti i Frontoniani seguissero rigorosamente il maestro nei giudizi e nell'uso degli scrittori dell'evo augusteo. Nello stesso circolo degli amici ed ammiratori di Frontone troviamo uomini che, non solo fanno grande uso di Virgilio nelle loro lucubrazioni grammaticali ed erudite, ma anche ne fanno soggetto di lavori speciali, come p. es. Sulpicio Apollinare, maestro di Pertinace, il quale ad una sua edizione dell'Eneide premetteva i tre enfatici distici, che rimasero celebri, relativi all'ordine dato da Virgilio morente di bruciare quell'opera, e componeva le perioche in versi dei singoli libri, che pure possediamo[114]. Certo è che questo movimento Frontoniano occupa una regione limitata del campo letterario, e non si estende propriamente a quelle comuni scuole che nell'impero erano il fondamento della educazione generale. In queste l'uso e l'autorità di Virgilio e degli altri poeti rimasero intatti e non patirono danno dall'influenza di Frontone, nè corsero nè potevano correre rischio di essere scavalcati da Ennio, o da Lucilio, o da Lucrezio, che taluni ad essi preferivano.

Questa recrudescenza di venerazione per gli antichi e questo moto reazionario in favore di essi non era invero rappresentato dal solo Frontone e dai Frontoniani. Ma Frontone eccedeva, più invero nel metodo dello studio e nella scelta degli esemplari, che nella sua maniera di scrivere; chè altri, rimasti più oscuri, spinsero l'affettazione dell'antico a proporzioni ben più strane. Eccedeva però anche rimpetto agli uomini che aveano gusto simile al suo; poichè fra i tanti che veneravano la letteratura antica pochissimi spingevano la cosa al punto da trasandare lo studio di Virgilio.

Un libro importante per la conoscenza delle idee letterarie e dell'indirizzo degli studi di questo tempo è il libro di Gellio. Gellio non è un Frontoniano; neppure come grammatico può dirsi ch'egli appartenga ad una scuola piuttosto che ad un'altra[115]. Ei non è altro che un erudito dilettante il quale raccoglie appunti sopra soggetti svariati, tanto dai libri quanto dai vari circoli letterari che frequenta; predilige però principalmente le ricerche sulla storia della lingua; e tutto quanto concerne la proprietà e l'uso dei vocaboli ha per lui un incentivo particolare[116]. È antiquario in filologia, o amatore di curiosità filologiche, perciò venera i vecchioni della repubblica dinanzi ai quali si rimpiccolisce tutto, mentre tratta assai leggermente alcuni grammatici dell'impero[117], senza eccettuare l'autorevole Verrio Fiacco[118]. Non dice una parola nè di Tacito nè di Quintiliano e maltratta Seneca[119], come lo maltratta Frontone, perchè non solo trasandato nello stile e nella lingua, ma derisore dei cercatori di arcaismi e degli studiosi dei vecchi poeti. Così Gellio si muove in quella stessa atmosfera in cui si muove Frontone, del quale parla quindi con elogio, ed ha con questo comunanza di gusti. Quantunque però nel suo stile e nella sua lingua si riconoscano le sue predilezioni antiquarie, il suo campo è troppo distinto da quello di Frontone perchè ei si possa chiamare Frontoniano[120]. È degno di nota a tal riguardo un capitolo in cui Gellio riferisce e non disapprova certe parole di Favorino contro l'uso degli arcaismi[121]. Ma in questo libro, che tanto è prezioso documento della vita letteraria di quell'epoca a Roma e fuori, importantissimo per noi è il molto uso che si fa di Virgilio.

Presso Gellio, Virgilio figura come scrittore di grandissima autorità in fatto di lingua, di proprietà e di eleganza[122]. In questo campo, che è il proprio di Gellio, Virgilio non solo è citato come autorità, ma è anche difeso contro gli appunti dei grammatici dell'epoca antecedente[123], quali principalmente Igino ed Anneo Cornuto, censurati con parole anche aspre[124]. Di rado si concede che qualche parola sia stata usata impropriamente o inopportunamente da Virgilio[125]. Taluni appunti relativi a cose di fatto, a certe inconseguenze o contradizioni, sono riferiti, discusse le varie spiegazioni, ma non tolti di mezzo. Tutta questa critica di minuzie non va molto in là, nè si estolle in regioni più larghe e più alte quando tocca più da vicino l'arte virgiliana. In ciò essa è unicamente limitata a paralleli fra alcuni poeti greci e Virgilio, ma solo per tale o tal altro luogo. Virgilio in taluni casi è felice in altri infelice imitatore, qua e là egli è riconosciuto inferiore ad Omero. Favorino confronta la descrizione dell'Etna che è nell'Eneide, con la celebre di Pindaro (Pyth. I), e la trova inferiore assai[126] ); il che è vero senza dubbio. Ma le ragioni che adduce sono di poco o nessun momento; egli non sa far altro che confrontare espressione con espressione, nè sa addentrarsi nelle proprie ragioni dell'arte, distinguere fra ciò che la essenza stessa delle cose impone o accorda a due generi di poesia così opposti come sono la epopea e la lirica, singolarmente quando quest'ultima ha tutto quel miracoloso slancio che sa imprimerle la mente del poeta tebano. La scuola d'allora non andava fin là; se essa si mostra assai indipendente ancora e non esita a riconoscere i difetti di uno scrittore di grande autorità, i suoi giudizi (non sempre retti) si tengono all'esterno, a quella parte formale che era l'esclusivo soggetto della prammatica letteraria del tempo.

I grammatici erano gente alla moda che dava spettacolo del proprio sapere; c'era da per tutto un pubblico ghiotto di quel trattenimento. Era stato chiamato a Brindisi uno di costoro; quando Gellio giunse in quella città trovò che dava saggio di sè leggendo il settimo dell'Eneide e invitando il pubblico a muovergli questioni e difficoltà. Leggeva barbaramente, e ad una questione che Gellio gli mosse rispose in modo ridicolo[127]. Di simili cerretani parla Gellio assai spesso. Intanto vediamo quanto e quale uso si facesse di Virgilio in quella sfera, dai più alti agli infimi. V'erano invero degli uomini che preferivano Lucilio ad Orazio, Ennio o Lucrezio a Virgilio, ma erano eccezioni[128]. Uno dei più celebri fu l'imperatore Adriano[129]; ma pure la sua ammirazione per Ennio non gli impediva di consultare le sorti virgiliane anch'egli, e di avere spesso per la bocca i versi di Virgilio[130]. Le parole che Gellio adopera parlando di un tale che si voleva chiamare Ennianista e leggeva Ennio nell'anfiteatro di Pozzuoli, evidentemente mostrano che questa lettura pubblica di Ennio era allora cosa insolita. Marziale che per l'indole sua come poeta e come uomo non appartiene ad alcun gruppo letterario, e rappresenta il sentimento più generale in fatto di letteratura, era sicuro di trovare l'approvazione dei più quando notava come un torto dei romani l'aver seguitato a legger Ennio mentre viveva un Virgilio, e quando con un pungente epigramma derideva un di questi tenebrosi che a Virgilio preferiva l'inintelligibile Elvio Cinna[131]. Generalmente i dotti deplorano il poco studio che suoleva farsi degli antichi[132].

Del resto Virgilio fra tutti i poeti augustei fu quello che andò più a versi anche di coloro che aveano delle preferenze pei più antichi scrittori. Nelle Notti Attiche gli autori più frequentemente citati sono Ennio, Laberio, Plauto, Cesare, Cicerone, Lucilio, Nigidio Figulo, Catone, Sallustio, Varrone, Virgilio[133]. L'autorità grammaticale ed erudita di Virgilio è così equiparata a quella degli scrittori della repubblica. Degli altri poeti augustei il solo Orazio è citato nelle Notti Attiche due o tre volte. Lo stesso in proporzioni molto maggiori si nota nell'opera, già citata, di Nonio. La massima autorità è Virgilio, dopo di lui con grande intervallo vien Cicerone, poi Plauto, poi Varrone, e quindi in ordine di diminuzione, Lucilio, Terenzio, Accio, Afranio, Ennio e Lucrezio, Sallustio, Pacuvio, Pomponio, Cecilio, Nevio, Novio, Turpilio, Titinio, Laberio, Livio Andronico ecc. Le citazioni di qualche altro poeta augusteo, come in generale di scrittori dell'impero, sono in Nonio le più scarse di tutte. Oltre alle altre ragioni per cui Virgilio era considerato come suprema autorità grammaticale, questo mescolarlo cogli scrittori di un'epoca dalla quale l'arte sua è affatto divisa, aveva una ragione sua speciale. Virgilio è l'unico dei poeti augustei che ha saputo servirsi della parola antiquata senza cadere nell'affettazione; senza scapito di sorta, la sua poesia lascia riconoscere uno studio intenso e diligente degli antichi scrittori latini. Egli soddisfaceva così a tendenze diverse ed opposte, talchè non solo conservava la sua autorità fra gli uomini di gusto più moderno, come Seneca che è agli antipodi di Gellio e Frontone, ma i filologi antiquari volentieri davano a lui un alto posto anche in mezzo a quegli hircosi dai quali egli, come artista era tanto lontano. Quintiliano nel rilevare le difficoltà di servirsi con successo della parola antiquata, nota la maestria in ciò di Virgilio che, com'ei dice, è stato il solo che abbia saputo farlo[134]. Seneca crede che egli introducesse nella sua poesia quell'elemento arcaizzante per piacere al populus Ennianus[135]: ma questo giudizio, trattandosi di un uomo di così delicato sentire, è formulato troppo rozzamente ed è un risultato dell'ammirazione pel poeta combinata col poco rispetto per la vecchia letteratura, che distingue Seneca. Virgilio era anch'egli di quell' Ennianus populus, ma era tanto artista da sapere in quali limiti e come servirsi di Ennio e degli altri antichi; lo sapeva meglio di Orazio, più accorto nel formulare su ciò la equa massima da seguire[136] che studioso di applicarla, misurandosi nel difficile arringo.

La nominanza del poeta non soffrì adunque pur menomamente da quel moto reazionario manifestatosi in un certo campo degli studi, quantunque non sembri aver goduto le simpatie di Frontone. Ma la vitalità di quel nome era troppo potente perchè un traviamento qualunque potesse nuocerle. Al secolo che ammirò Apuleio, uomo di molto ingegno, ma scrittore ridicolo ed insopportabile per la gonfiezza più esagerata e per la dicitura più stranamente peregrina, al secolo che a lui innalzò una statua e udì con ammirazione parlata e scritta da africani una lingua latina di nuovo conio, a quel secolo certamente Virgilio avrebbe dovuto parere scolorato, snervato, molle ed insipido. Eppure tanto grande era questo nome, e tanta autorità aveano accumulato su di lui quanti erano stati uomini illustri e dotti insegnanti delle antecedenti generazioni, che in mezzo a quel nuovo trionfare del cattivo gusto, un prestigio irresistibile, ed il suo rapporto colla educazione generale, lo posero in salvo. Nelle scuole dei grammatici e dei retori, in ogni classe più o meno colta rimase venerato sempre, e lo vedremo grandeggiare costantemente in mezzo alle peripezie delle lettere latine che ancor più precipitosamente rovinavano da Marco Aurelio in poi.

Ma se il nome non diminuiva di grandezza e conservava il suo pristino posto fra i nomi dell'antichità classica, le mutate condizioni dell'ambiente intellettuale per cui passava gli faceano necessariamente cambiar natura. Creazione poetica vera e propria manca affatto a quest'epoca, come mancherà sempre d'ora innanzi nelle lettere latine. La retorica si è sostituita alla poesia, che vive d'imitazione, attenendosi a Virgilio come a supremo modello. E qui si scorge un'altra essenziale differenza fra le nominanze di Omero e di Virgilio. Omero esercita una influenza su quello sviluppo vitale della poesia e dell'arte greca di cui esso non rappresenta che un primo momento, col quale i prodotti successivi sono naturalmente collegati per legami intimi ed organici; Virgilio invece sulla successiva poesia latina, morente o già morta, poesia di forma più che di sostanza, esercita una influenza puramente formale. Lo studio intenso del poeta, l'uso e l'imitazione spesso servile del suo linguaggio poetico, non coprono in alcuna guisa l'immenso divario che è fra questi poeti posteriori e i poeti augustei nel modo d'intendere la poesia. Il pubblico però accordava a molti di essi grande favore e li trovava di suo gusto. Come credere che quella gente che si entusiasmava per le declamazioni poetiche di Stazio[137] avesse un giusto sentimento della poesia virgiliana, e nell'ammirazione pel grande Mantovano non portasse quello stesso falso e storto sentire che le faceva ammirare il gonfio e pomposo suo imitatore?

Senza dubbio il nome del poeta era superiore alle vedute del tempo; la malcompresa sua grandezza tradizionale imponendosi alle menti avea per effetto una venerazione quasi superstiziosa. Già troviamo sotto gli Antonini il costume, praticato anche da imperatori, di interrogare la sorte aprendo a caso il libro di Virgilio; le così dette sorti Virgiliane che interrogò Adriano, delle quali molti esempi ci offrono gli scrittori della Storia augusta, e che seguitarono poi per tutto il medio evo. Questa prattica non solo attesta della immensa popolarità del testo di Virgilio, ma anche di un carattere sommamente venerando che gli si attribuiva. Infatti Virgilio ebbe ciò in comune con altri libri venerati per la grande santità loro o la straordinaria sapienza che in essi si credette contenuta, Omero cioè e i libri sibillini, e poi anche la Bibbia[138]. Se un tempo quel pazzo di Caligola, quasi per far dispetto a tutti, poco mancò non facesse togliere dalle biblioteche le opere e le immagini di Virgilio[139], due secoli più tardi Alessandro Severo chiamava Virgilio il Platone dei poeti, e poneva la immagine di lui in un larario speciale, con quella di Achille e di altri eroi e scrittori[140]. Ma già prima l'entusiasmo di più poeti, in quei tempi di apoteosi, avea quasi deificato il Mantovano. Silio Italico celebrava la ricorrenza della nascita del poeta, visitando religiosamente il sepolcro di lui, come un tempio[141]; e come un tempio lo considerava anche il napoletano Stazio[142]. Marziale parla degli Idi di Ottobre come di una festa sacra a Virgilio, siccome lo erano ad Ecate quei di Agosto, a Mercurio quei di Maggio[143]. Virgilio era dunque il santo dei poeti. Delle tante apoteosi della Roma imperiale, questa senza dubbio era la sola che fosse ispirata da un sentimento veramente nobile, quantunque mal definito nelle cause e traviato negli effetti.

CAPITOLO V.

Sotto gl'imperatori del 3.º e del 4.º secolo quali vicende patissero le lettere latine, è noto a tutti. Fra le preoccupazioni di una corte e di un pubblico in cui dominava l'elemento militare, quando ogni villano o barbaro autorevole sulle soldatesche ignoranti, poteva assidersi sul trono dei Cesari, certo il vento non poteva spirare favorevole alle lettere. In tali condizioni, meno profondi divenivano i rapporti della produzione letteraria collo spirito pubblico, e questa veniva già confinata presso una classe di persone che aveva il primo suo impulso come il principale suo ambiente nella scuola. Per questo indebolimento di legami fra le lettere e il pensiero in generale, avveniva pure che il divario fra la lingua parlata e la scritta si facesse sempre più sensibile, e il latino volgare, plebeo o rustico che si voglia dire, prendesse incremento e anche ardire; talchè l'ufficio del grammatico diveniva cosa meno elevata, e già doveva parere assai se s'insegnava a scrivere correttamente. Proporzionata al bisogno e alla qualità di questo è la produttività dei grammatici di questi secoli della decadenza, produttività ricca per numero di opere ma estremamente misera quanto a originalità di vedute. In questo campo degli studi grammaticali, come in ogni altro vedesi uno straordinario impoverimento d'idee: niuno sa muovere un passo di forza propria, senza appoggiarsi ai più antichi. Come nell'arte tutto è poco intelligente imitazione, nell'opera dotta o scientifica tutto è poco intelligente riassunto o compilazione. Ormai la letteratura, disposta a vivere artificialmente e ristrettamente, riduce il suo armamentario, eliminando quanto appariva utensile superfluo, cercando scorciatoie e manifestando un gran desiderio di tutto compendiare. Di tali compendi o compilazioni, coi quali si voleva liberarsi dal leggere un gran numero di scrittori, è ricca l'età della decadenza, e a questa appunto appartengono la maggior parte delle opere grammaticali che ci rimangono. Grande è la iattura delle tante opere antiche che così scomparvero dinanzi alle infelici lucubrazioni di queste larve di dotti. L'impero seguitava a mantener grammatici, e qualche imperatore anche a proteggerli insieme ai filosofi e ai retori, ma più per lusso o per capriccio, che per altro, o anche per vigliaccheria, temendo le ingiurie della loro penna, come vien detto di Alessandro Severo[144]. Del resto il gusto imperiale, finchè favorì le lettere, aveva una predilezione per gli studi greci, nè era di tempra tale da esercitare una benefica influenza; al contrario, sempre più spingeva verso il futile e il vano. Geta che amava mostrarsi amico dell'alfabeto, ordinando pietanze i nomi delle quali cominciassero tutti con una certa lettera, si divertiva pur talvolta a far venire a sè grammatici per chieder loro, fra le altre cose, liste di verbi esprimenti le voci dei vari animali[145].

Da Alessandro Severo in poi, che pure fra le sue predilezioni greche venerava Virgilio (forse piuttosto considerandolo come filosofo che come poeta), il culto delle lettere divenne quasi affatto estraneo alla corte. La vecchia tradizione dell'impero è ormai rotta, e fra coloro che hanno o si disputano il supremo potere, uomini come Gordiano il vecchio[146] sono eccezioni rare ed anche di poco momento. Contrariamente a ciò che era avvenuto in altro tempo, la qualità di militare era ormai opposta a quella di letterato, e distraeva dall'amore per gli studi anche gli uomini che avevano ricevuto una certa cultura letteraria. Gli scrittori della Storia augusta, gente che si presenta a noi tal qual è, senza maschera o belletto di sorta, ci danno una idea assai chiara del livello intellettuale di quel tempo, singolarmente per tutta la regione politica e militare. Vopisco si maraviglia che suo nonno, narrandogli il fatto dell'uccisione di Apro, attribuisse all'uccisore Diocleziano le parole «gloriare Aper Aeneae magni dextra cadis»: «ciò, dic'egli, in un soldato mi reca meraviglia; benchè io sappia che moltissimi sogliono rammentare i detti dei comici e degli altri poeti sia in greco, sia in latino»[147]. Sulla fine del secondo secolo Clodio Albino, che non fu punto amoroso delle lettere, avea studiato anch'egli da fanciullo Virgilio nelle scuole; ma lo studio del poeta non gli avea servito che a manifestare i suoi istinti militari[148]. Ad onta di tutto ciò le reminiscenze virgiliane sono frequenti anche fra questa gente, chè una quantità grande di versi virgiliani avea un uso quasi proverbiale, e la conoscenza del poeta era, per effetto delle scuole ed anche del teatro, cosa volgare. Quindi non solo si trovano versi virgiliani, a proposito di faccende politiche, sulla bocca di Gordiano il vecchio, ch'era un uomo colto[149], ma ne troviamo pure in una lettera di Diadumeno a Macrino suo padre[150], ed in una di Tetrico il vecchio ad Aureliano[151]. Sotto Alessandro Severo, Giulio Crispo tribuno dei pretoriani, esprimeva il suo malumore con versi di Virgilio che gli furono fatali[152]. Con due emistichi virgiliani è composto un motto del circo in favor di Diadumeno contro Macrino[153], e parimenti un emistichio virgiliano ritrovasi fra le acclamazioni colle quali il senato chiamava Tacito, già vecchio, all'impero[154].

Ma se in mezzo alle orgie e ai delitti dell'aula imperiale talvolta seguitava ad udirsi un qualche eco della musa virgiliana, ciò era allora un fatto che non dava prova di alcuna finezza di sentire poetico; solo mostrava come la popolarità del poeta affrontasse i tempi e i luoghi meno propizi. Principale suo ufficio era divenuto l'insegnare ai fanciulli nelle scuole per poi servir di zimbello alle fanciullaggini degli adulti. Lo studiavano tanto a scuola che saperlo a mente da un capo all'altro era divenuto cosa comune. Da questa grande familiarità che si aveva con quel poeta in un tempo di tanta povertà di creazione artistica, traeva origine e occasione il passatempo de' Centoni. Combinando i versi e gli emistichi virgiliani in varie maniere si divertivano a far cantare a Virgilio ogni sorta di soggetti. L'idea di questi Centoni[155] poteva nascere soltanto fra gente, che avendo meccanicamente appreso Virgilio, non sapeva qual migliore utilità ricavare da tutti quei versi di cui si era ingombrata la mente. E del resto l'uso che da tanti poeti erasi fatto e facevasi di Virgilio in ogni maniera di composizioni, già si assomigliava assai all'opera di questi centonari e dovea condurre naturalmente a questa[156]. Nè trattasi del capriccio di uno o di due, ma di un uso che cominciò presto e finì tardi. Già ai tempi di Tertulliano un Osidio Geta avea con versi virgiliani composta una tragedia intitolata Medea, che possediamo tuttora; un altro avea nella stessa guisa composta una traduzione del Quadro di Cebete. Poi vi furono cristiani che ebber voglia di far parlare Virgilio della loro fede; così Proba Faltonia[157] compose con versi virgiliani una storia dell'antico testamento, Pomponio un carme intitolato Tityrus in onore di Cristo[158], Mario Vittorino (IV sec.) un inno sulla pasqua, Sedulio (V sec.) un carme sull'incarnazione, altri altro[159]. Valentiniano imperatore, quasi invidiasse a Virgilio la lode di scrittore pudico, coi versi di lui pose assieme un carme osceno, ed obbligò Ausonio a misurarsi con lui in questo esercizio; così nacque il celebre Centone nuziale che possediamo, e che è senza dubbio il migliore fra i centoni. Oggi tutto ciò si chiamerebbe ludibrio; allora non pareva generalmente che avesse nulla di men che rispettoso verso il poeta, e si ammirava la memoria e l'abilità di chi così componeva[160]. Virgilio doveva essere trattato in tutto come Omero; come vi furono centoni omerici, dovevano esservi centoni virgiliani. Per l'uno e per l'altro poeta v'erano uomini che si distinguevano come specialmente abili nel ricucirne i versi a quella maniera, e prendevano quindi il nome di poeti omerici o virgiliani[161]. Il massimo grado di questo giuoco ridicolo lo abbiamo in un Mavorzio, autore di un centone sul giudizio di Paride, il quale arrivava fino ad «improvvisare» centoni virgiliani, ed una di queste sue improvvisazioni colla quale ricusa modestamente il titolo di «Virgilio moderno» la possediamo ancora[162].

Sul modo di considerare quel poeta che era la pietra fondamentale dell'insegnamento letterario, molto dovevano influire i commenti coi quali era spiegato ed illustrato nelle scuole. Una storia critica dei numerosi commentatori di Virgilio, benchè tentata dal Suringar[163], è tuttavia un desiderio che non sarà soddisfatto prima che molte ricerche e studi speciali abbiano rischiarato questo campo intralciatissimo. I commenti virgiliani, moltiplicatisi fino all'ultimo medio evo, per l'uso continuo fattone nell'insegnamento, erano tutti soggetti ad una grande mobilità, ad incessanti e svariate peripezie. Niun maestro si faceva scrupolo di ridurre, modificare, postillare a suo modo. Chi compilava da più antichi dando alla compilazione il suo nome, chi postillava prendendo di qua e di là e serbando l'anonimo, chi raffazzonava o interpolava a suo modo i commenti già in uso ponendo tutto sul conto dell'autore primitivo. La massa dei commenti che oggi possediamo è giunta a noi come un torrente tutto intorbidato, ed ingrossato da confluenti diversi per natura e per provenienza. Tutti sono o compendi, o rifacimenti, o compilazioni; niuno ne possediamo nella sua forma originaria. Quelli che ci rimangono ancora col nome di Probo e di Aspro possono provare quanto l'attrito scolastico rimpiccolisse o corrompesse l'opera dei migliori grammatici. Come le principali compilazioni grammaticali, così le principali compilazioni di commenti virgiliani che ci rimangono, appartengono a quest'epoca di decadenza, nella quale per questo lato principalmente si distinguono due autori rimasti celebri nell'insegnamento grammaticale posteriore, Donato e Servio.

A giudicare del commento, oggi perduto, di Donato[164], che Girolamo discepolo dell'autore, rammenta fra gli altri commenti adoperati nelle scuole dei fanciulli[165], può servire quanto da esso riferisce Servio[166]. Donato voleva farla da critico e giudicava con molta libertà il poeta, in molti luoghi trovando da ridire; e non solo giudicava tortamente, ma spesso dava prova di tale oscitanza, da errare fino nelle più volgari leggi della prosodia. Le sue critiche non gl'impedivano invero di ammirare il poeta; ma la sua ammirazione era di natura tale che gli faceva presentare ai suoi allievi il poeta in una luce del tutto falsa, attribuendogli, come già da antiche scuole filosofiche erasi fatto per Omero, un sapere straordinario, e cercando nei suoi versi dottrine riposte e scopi filosofici ai quali certamente non aveva pensato mai. Egli spiegava l'ordine delle poesie virgiliane in questa maniera: «È a sapersi, diceva, che Virgilio, nel comporre le sue opere, seguì un ordine simile a quello della vita degli uomini. La prima condizione dell'uomo fu pastorale, e così Virgilio scrisse prima di tutto le Bucoliche; poscia essa fu agricola, e così Virgilio compose poi le Georgiche. Crescendo poi la moltitudine della gente crebbe insieme l'amor della guerra; quindi terza opera sua fu l'Eneide, che è tutta piena di guerre[167].» Vedremo più tardi quale sviluppo e quali proporzioni prendesse quest'uso di cercare allegorie in Virgilio.

Ma il più adoperato dei commentatori di Virgilio ed il solo che oggi ci rimanga completo, benchè tutt'altro che intatto, è Servio che fu usatissimo nelle scuole del medio evo, e riesce molto importante anche oggi, non tanto per la illustrazione di Virgilio, quanto per ogni sorta di preziose notizie che ci ha conservate. Giudicare del valore di questo lavoro di Servio da quello ch'esso è oggi, è cosa assai difficile[168]; poichè da un lato è evidente che Servio compilò da commenti e da opere grammaticali anteriori, dall'altro è pure evidente che, nel grande uso fattone, ha subìto alterazioni diverse, ed è stato interpolato lungo il medio evo, talvolta stupidamente al punto di fargli citare Servio stesso[169]. Certo però Servio era un grammatico distinto pe' suoi tempi e superiore a Donato, di cui spesso con molto senno e giusto sapere riprende gli errori. Ma non per questo egli ha potuto schivare molti difetti della dottrina del secol suo. Una certa stereotopia si ravvisa in tutta la tradizione grammaticale in quest'epoca, ormai irrigidita, quale durerà per tutto il medio evo, e si riconosce chiarissima anche in questa parte prattica dell'insegnamento dei grammatici, che era costituita dalla esposizione degli scrittori. Fra le molte cristallizzazioni di prodotti anteriori che si ritrovano in Servio, assai ve ne ha che provengono da un cattivo indirizzo già esistente in quello studio anche nell'epoca migliore. Quelle questioni futili che furono tanto in voga fra gli Alessandrini circa Omero[170], e delle quali tanto si dilettò Tiberio[171], ebbero luogo anche per Virgilio, e dalla formola uniforme molte si riconoscono ancora in Servio[172]. Una critica coscienziosa ed una solida dottrina non erano punto indispensabili per ciò che la moda domandava in questo esercizio, nel quale troppo spesso i grammatici si trovavano o erano spinti sul terreno della ciarlataneria[173], guardandosi, così ne' quesiti come nelle risposte, piuttosto al sottile, all'imprevisto e allo specioso, che all'utile, al giusto ed al vero. Un curioso esempio di ciò offrono quei 12 o 13 luoghi virgiliani che si credeva presentassero difficoltà insuperabili[174]. La loro insuperabilità era quasi un articolo di fede, e dinanzi ad essi il grammatico tirava di lungo, dicendo: è uno dei dodici. Eppure alcuni di quei luoghi che Servio pone in quel novero, non presentano davvero difficoltà ben reali.

Per quanto debba ammettersi che molto nel commento di Servio è opera di interpolatori, talune interpretazioni allegoriche, come p. es. quella relativa al ramo d'oro con cui Enea scende all'Inferno[175] e simili, sono troppo d'accordo colle idee di quel tempo perchè si possa credere non appartengano a Servio. Però se qua e là ad alcuni versi o a qualche parte del racconto virgiliano Servio attribuisce un significato filosofico, non c'è traccia in tutto il commento di una interpretazione allegorica sistematica e generale, che faccia convergere tutto l'insieme di un'opera virgiliana verso un solo concetto riposto. Di una interpretazione cosiffatta avremo a parlare diffusamente in appresso; allora potremo trattenerci a studiare più da vicino quest'ordine di fatti nella sua indole e nelle sue cause.

Virgilio invero fece uso dell'allegoria, ma piuttosto per cose di fatto che per idee, e ciò fece, come tutti sanno, singolarmente nelle Bucoliche. Un'antica tradizione che risale fino ad Asconio Pediano ed ai tempi stessi del poeta, sull'autenticità della quale non può cader dubbio, portava che il poeta nelle Bucoliche copertamente alludesse a casi della sua vita o ad avvenimenti del suo tempo. Ma questa notizia vaga e generica, lasciava poi indeterminato fino a qual punto egli avesse spinto quell'allegoria, talchè, come pare, fin dai primi tempi, gl'interpreti eran divisi sulla interpretazione di molti luoghi che taluni intendevano nel loro senso letterale o, come Servio si esprime, simpliciter, altri invece fantasticavano interpretandoli per allegoriam e credendosi obbligati a pescare fatti ai quali in quelli il poeta volesse alludere. Servio nel giudicare le varie opinioni mostra di tendere ad una ragionevole limitazione del senso allegorico[176] e spesso si pronunzia pel simpliciter escludendo l'allegoria come «non necessaria». Però non è sempre conseguente in ciò, e talvolta anch'egli ammette o lascia passare come possibili interpretazioni allegoriche affatto strane e prive di ogni fondamento[177]. Sarebbe un esagerare i meriti di questo grammatico e farlo troppo disuguale ai tempi suoi, l'attribuir tutto ciò agli interpolatori e credere che di tali peccati egli non porti alcuna colpa. Fino a qual punto giungesse la manìa di così interpretare vedesi subito sul principio del commento alla prima ecloga. Appena detto che sotto la persona di Titiro deve intendersi Virgilio «non però sempre, ma solo dove ciò ragionevolmente si richiede» viene interpretato sub tegmine fagi come una bellissima allegoria, poichè fagus viene dal greco φαγεῖν che vuol dir mangiare, e quindi col nome di quella pianta il poeta allude a quelle possessioni che erano il sostentamento della sua vita e che gli furono restituite per la benevola protezione di Augusto. Più sotto nelle parole «... ipsae te, Tityre, pinus, Ipsi te fontes, ipsa haec arbusta vocabant» si trova che Titiro è Virgilio, i pini Roma, i fonti i poeti o i senatori, e gli arbusti la gente di scuola. Forse non ha torto chi crede[178] che questa interpretazione non sia di Servio, ma a noi basta il fatto caratteristico che, come si rileva chiaramente dall'assieme del commento, interpretazioni siffatte si dessero, non solo al tempo di Servio, ma anche prima.

A Servio anche senza dubbio appartiene, come al suo tempo, la idea esagerata che si manifesta in più luoghi del commento, circa la dottrina immensa e non a tutti palese che trovasi in Virgilio. Con visibile compiacenza ei cita l'opinione di Metrodoro il quale scrisse che a torto Virgilio era accusato da taluni di non sapere di astrologia[179] ed al principio del 6.º dell'Eneide, che si credeva contenere la dottrina più riposta, pone questa nota: «Tutto Virgilio è pieno di scienza, nella quale tiene il primo luogo questo libro, di cui la parte principale è tolta da Omero. Alcune cose sono semplicemente dette, molte sono prese dalla storia, molte provengono dall'alta sapienza de' filosofi e teologi egizi; talchè parecchi hanno scritto interi trattati su ciascuna di tali cose che trovansi in questo libro.»

Il commento di Servio è più essenzialmente lavoro di grammatico e fatto per servire alla esposizione del poeta nelle scuole di grammatica; non mancano in esso osservazioni di natura retorica, poichè punti di contatto c'erano fra l'uno e l'altro insegnamento, ma la esposizione retorica delle poesie virgiliane non è lo scopo proprio di quel lavoro. Retorico invece è propriamente il commento all'Eneide di Tiberio Claudio Donato, di poco posteriore all'altro Donato di cui già parlammo. L'autore lo ha scritto, senza risparmio di parole, per riparare all'insufficienza ch'ei notava nei commenti allora in uso[180]. Egli crede che la prima qualità di Virgilio sia quella di retore, e che questo autore anzichè essere esposto dai grammatici dovrebb'esserlo dai retori[181]; perciò le sue osservazioni non sono di natura grammaticale o erudita, ma si limitano a dare il senso e la ragione retorica di ciascun luogo dell'Eneide. Per tal sua natura questo commento poco offre a noi di utile per la intelligenza del poeta e per la conoscenza dell'antichità; s'intende come i dotti così poco se ne siano curati, e non sia stato ristampato dal XVI secolo in poi[182]. A differenza di tanti suoi contemporanei, l'autore si è così poco curato di dare certa apparenza di dottrina all'opera sua, che ha eliminato di proposito ogni illustrazione erudita rimandandola ad altro lavoro, e neppure della tecnologia e dello schematismo retorico fa quell'uso che potrebbe aspettarsi in opera di tal natura. Per questa sua scolorata disinvoltura egli ha in qualche modo potuto esser più giusto di altri nel definire lo scopo reale dell'Eneide, non cercandovi altro che le gesta di Enea e la glorificazione di Roma e di Augusto, ed escludendo ricisamente l'idea che nell'Eneide debba riconoscersi un'opera scientifica e filosofica[183]. Con questo ei rispondeva ai critici che aveano ripreso certe inconseguenze o contradizioni nelle quali il poeta cade in fatto di principi filosofici: non si mostra però meno di altri convinto della vastità e varietà del sapere virgiliano, tale, a suo credere, che ogni ramo dell'attività umana può trovare nei versi del poeta utili ammaestramenti[184]. Ciò si accorda coll'idea del sommo e perfetto retore o oratore, il quale, come già diceva anche Cicerone, dev'essere uomo di sapere universale[185].

Veramente Donato non avea ragione di lamentarsi, quanto all'uso di Virgilio fra i retori. La prima esposizione ed illustrazione del poeta apparteneva naturalmente ai grammatici; ma l'uso che i retori facevano di Virgilio nelle loro scuole e nelle loro opere in quest'epoca, non lasciava nulla da desiderare. Negli scritti di retorica molto se ne servivano per l'esemplificazione dei precetti, singolarmente nel trattato sulle figure, il che poi si riconosce anche in più commenti, ed in certi brevi trattatelli sulle figure che accompagnano taluni manoscritti virgiliani[186]. Nel trattato sulle figure di Giulio Rufiniano gli esempi sono quasi esclusivamente desunti da Virgilio[187]. Da quattro principali autori scolastici, Virgilio, Sallustio, Terenzio, Cicerone, traeva Arusiano sulla fine del IV secolo i suoi « Exempla locutionum » ad uso delle scuole di retorica[188]. Nello stesso secolo i retori Tiziano e Calvo riunivano in un'opera speciale i temi desunti da Virgilio e ridotti ad esempi oratori per esercizio retorico[189]. Declamazioni in versi e in prosa su temi virgiliani tramandateci da quest'epoca, possediamo ancora[190]. Un esercizio retorico-erudito può dirsi il lavoro, oggi perduto, di Avieno che prendeva a trattare in versi diffusamente favole e fatti più brevemente toccati nelle poesie virgiliane[191]. In mezzo adunque alle morbose esagerazioni a cui arrivava allora la retorica divenuta regina delle menti[192] Virgilio seguitava a splendere di grandissima luce, mutandosi però, in ordine al gusto dei tempi, il colorito di questa, ed aumentando la irrazionalità di sua natura.

Così chi usciva da queste scuole di grammatica e di retorica aveva imparato a considerar Virgilio come il tipo del grammatico e del retore, e come l'autore principale che riassumeva in sè tutti quegli ideali di scienza e di cultura che erano propri di quel tempo. Quale fosse poi il frutto di questo seme nell'uomo adulto e nel dotto di professione, lo vediamo nei Saturnali di Macrobio, nei quali Virgilio viene glorificato come maraviglioso autore enciclopedico.

Macrobio (IV-V sec.) è autore della sola opera fra le superstiti (all'infuori dei commenti) che tratti di Virgilio in certo modo ex professo. Egli ha voluto riunire, per uso di suo figlio, gli appunti e le notizie di ogni sorta ricavate da molta e varia lettura. Per mettere assieme tutto quel materiale slegato e vario, non solo si è servito del dialogo convivale, come già tanti altri, ma riducendo la massima parte di quello ad una discussione sui meriti e il sapere di Virgilio, ha fatto servire il nome del poeta alla esposizione di conoscenze di varie categorie, mostrandoci così quanto larga parte esso occupasse nel sapere di quel tempo. Quantunque egli abbia voluto dare al suo lavoro l'apparenza di una discussione critica sui meriti delle poesie virgiliane, questo non è in realtà che una glorificazione di esse. Tale lo definisce il tono di ammirazione entusiastica che vi domina costantemente, tale il programma della parte dell'opera che si riferisce a Virgilio, quale viene stabilito nel primo libro. Distinto assai egli stesso e dotto, come e quanto lo comportavano i suoi tempi, Macrobio introduce a parlare nel suo libro uomini dei più dotti e distinti dell'epoca, sollevandosi con essi, nella contemplazione del grande poeta, in una sfera molto superiore alla volgare. Egli ha dinanzi alla mente il concetto scolastico di Virgilio[193] e giustamente lo trova piccolo, basso, inadequato; ei sente che nel poeta c'è molto di più di quello i grammatici del tempo fossero soliti a vedervi dentro. Vuole dunque addentrarsi ad esporre le doti più squisite del poeta, che altri poco o punto avvertivano. Nel fare però questo lavoro, che pur parrebbe dover essere come una reazione contro le false e piccole idee di quel tempo, il tempo stesso colle sue idee gli s'impone e travia stranamente il suo giudizio, senza ch'ei se ne accorga.

Per Macrobio Virgilio, non solo è dotto in ogni genere di sapere[194], ma è decisamente infallibile. Ei non ammette, come molti grammatici anteriori, che nelle poesie virgiliane si trovi qualche difetto od errore; ma fa dipendere unicamente dall'ingegno di chi le legge e le studia il trovare o non trovare la soluzione di talune difficoltà[195]. Tutta l'opera è diretta a mettere in chiaro l'immensa dottrina d'ogni sorta contenuta in quelle poesie, in gran parte occulta pei comuni lettori d'allora: «la gran copia di cose che è nelle sue opere e che la maggior parte degli spositori suol passare a piedi asciutti, quasi che ad un grammatico non sia lecito intendersi d'altro che di parole; ... noi ai quali sì crassa Minerva non si addice, non vorremo soffrire che recondito rimanga l'accesso al sacro poema, ma investigando la via di penetrare nei sensi arcani di esso, offriamone aperti i recessi alla venerazione dei dotti[196].» Nel dialogo, un tale Evangelo sostiene la parte contraria al poeta; ma questo personaggio non ha nulla di serio nè di reale; non può dirsi certamente che esso rappresenti l'opinione dei giudici spregiudicati di un'epoca più antica, molto meno dei tempi d'allora, nei quali senza dubbio un personaggio siffatto non esisteva. Egli è lì unicamente per servire coi suoi appunti d'occasione alle lodi di Virgilio, e quasi l'autore tema che le parole di lui, qualunque esse siano, possono essere prese sul serio, si dà ogni cura, nell'introdurlo in scena, di dipingerlo coi colori i più sfavorevoli, come un maledico, di carattere pessimo e di pessima compagnia. Appena è annunziato tutti danno segni di fastidio[197]; ogni volta che apre bocca, dicendo male di Virgilio, tutti inorridiscono[198]. Qualcuna delle osservazioni ch'ei fa l'aveva già fatta qualche antico critico; ma in generale egli s'oppone eccentricamente alle idee le meno contrastabili, ed arriva al punto di negare che Virgilio, nato in un villaggio veneto, potesse sapere qualche cosa di greco e di scrittori greci[199]. Una simile scempiaggine a cui non avrebbe neppur pensato il più crudele detrattore di Virgilio dei tempi augustei, serve di pretesto per esporre, rispondendo ad Evangelo, la profondità di Virgilio nella conoscenza e nell'uso dei greci, che è il tema di quasi tutto il quinto libro. E con una osservazione dello stesso Evangelo si apre la discussione intiera sui meriti di Virgilio, che è la parte più cospicua di tutta l'opera. Evangelo nega ricisamente di vedere in Virgilio qualcosa di più che un semplice poeta, ed anche tale che lasciò la sua opera piena di strafalcioni, e giustamente la riconobbe degna delle fiamme[200]. Simmaco invece sostiene che Virgilio non è soltanto atto ad istruire fanciulli, ma contiene qualche cosa di ben più alto. «Mi par che tu consideri i versi virgiliani come quando fanciulli li recitavamo alle lezioni dei maestri» dic'egli ad Evangelo; «ma la gloria di Virgilio è tale che non può crescere per elogi, nè per biasimi diminuire». E qui i vari interlocutori, collegati contro Evangelo, si pongono d'accordo, prendendo ciascuno ad esporre una parte della sapienza virgiliana e ponendo così il programma dei libri seguenti, oggi incompleti e lacunosi. In questi si vuol dimostrare partitamente, da Eustazio quale fosse la perizia di Virgilio nell'astrologia ed in tutta la filosofia, da Flaviano e Vettio, quanto profonda la sua conoscenza del diritto augurale e pontificio, da Simmaco quanto abile ei fosse in fatto di retorica, da Eusebio quanto grande nell'arte oratoria, da Eustazio quanto e come adoperasse gli scrittori greci; Furio Albino porrà in chiaro quanto Virgilio abbia preso dagli antichi latini nei versi, Cecina Albino quanto nelle parole; Servio, il principe degli espositori virgiliani, dovrà parlare intorno ad alcuni luoghi difficili del poeta. Tutta la parte dell'opera che concerneva l'astrologia e la filosofia è andata perduta, ma sappiamo quel che in questo può aspettarsi da un neoplatonico, ed anche un saggio ne abbiamo nello scritto sul Sogno di Scipione là dove Macrobio riconosce nel «terque quaterque beati» di Virgilio la dottrina pitagorica sui numeri[201]. Miglior fondamento ha, ad onta delle esagerazioni che qui non mancano mai, tutto quanto si riferisce al diritto augurale ed in genere alla erudizione virgiliana, come anche ai confronti coi greci e coi latini[202], che sono le parti dell'opera più importanti per noi, benchè da un tutt'altro aspetto. Tanto la molta conoscenza di un grande numero d'autori antichi latini e greci allora fuori d'uso, quanto una certa finezza di osservazione che trovasi in qualcuno dei confronti fra Virgilio ed altri poeti, sorprendono a prima giunta in uno scrittore, anche distinto, di quest'epoca. Ma il fatto è che Macrobio si è limitato in gran parte a compilare, non soltanto da Servio[203], che compilava egli stesso, ma anche da più opere anteriori di grammatica e d'erudizione ch'egli spesso, senza citarle, copia a parola[204], come è fra le altre quella di Gellio di cui, fra i tanti altri luoghi, ritroviamo copiato per intiero anche il parallelo fra Virgilio e Pindaro, nella descrizione dell'Etna. Nel riunire però tutti quei paralleli, desunti senza dubbio da studi virgiliani più antichi, Macrobio ha messo di suo una intenzione encomiastica ben manifesta. Prima egli riferisce i luoghi nei quali Virgilio è superiore ad Omero, poi quelli nei quali è uguale; di quelli nei quali è inferiore parla per ultimo, non senza premettere parole attenuanti[205]. Similmente, prima di parlare dell'uso che Virgilio ha fatto degli antichi poeti latini, egli ha creduto necessario provare che in ciò non è nulla di male, ma anzi si deve esser grati al poeta di aver conservato ed immortalato nell'opera sua qualche buona cosa contenuta in autori ormai negletti ed anche derisi; del resto, soggiunge, quei passi suonan molto meglio e fan più figura nella sua poesia, che negli originali da cui sono tratti[206]. Le due trattazioni relative a Virgilio come oratore e come retore non ci sono arrivate intiere. In quel che ci rimane della prima troviamo mossa la questione, che non può sorprenderci dopo quanto abbiamo già trovato nelle epoche anteriori, se per divenire buon oratore si possa imparare più da Virgilio o da Cicerone. Con tutti i riguardi verso Cicerone e con tutte le proteste di non volersi fare arbitro fra due tanto sommi, in fondo la risposta è favorevole a Virgilio. Cicerone, dice Eusebio, non ha che un solo carattere di stile (copiosum), Virgilio li offre tutti e quattro (copiosum, breve, siccum, pingue); egli è come la natura che è ricca d'aspetti svariati ed opposti; si potrebbe dire ch'ei riunisce in sè tutte le qualità dei dieci oratori attici, e neppur si direbbe tutto[207]. Questo entusiasmo di Macrobio per l'eloquenza virgiliana rammenta quello, che abbiamo già notato, di Quintiliano per le perfezioni e l'universalità dell'eloquenza omerica. Ma la parte più insulsa è quella che riguarda la retorica di Virgilio. Ciò che ne rimane concerne principalmente il movimento degli affetti, e si riduce ad una pura e semplice verifica dell'osservanza, per parte di Virgilio, delle leggi retoriche relative al pathos; esse sono passate in rivista, e grado grado sono citati i luoghi virgiliani che con esse si trovano d'accordo. I retori nello stabilire quelle leggi spesso citavano Virgilio come autorità, e taluni anche come principale autorità; Macrobio invece loda Virgilio perchè ha obbedito ai retori. Così quella parte del suo libro apparisce come un capitolo di retorica invertito, e tale credo sia in fatto.

Macrobio ha trovato il terreno preparato di lunga mano per la sua opera, non soltanto pel materiale di cui si è servito, ma anche per lo spirito in cui è scritta. La decadenza che in essa, quantunque l'autore si sforzi di sollevarsi al disopra dei suoi tempi, si mostra sì avanzata, avea già cominciato da un pezzo; noi abbiam veduto e notato i primi segni e il successivo ingrandire di quel tralignamento della nominanza virgiliana di cui essa segna una fase già inoltrata. Nata in sul disfarsi dell'antico mondo pagano, e figlia di un uomo notevole tuttavia appartenente a quello, quest'opera formula e caratterizza in modo luminoso l'indole di quella più alta idea che si avea del poeta negli ultimi momenti del paganesimo, allorchè il suo nome entrava nella nuova e trasformatrice atmosfera del medio evo cristiano, di cui siamo ormai sul limitare.

A quest'epoca di decadenza e ancora aderenti alla tradizione pagana[208] appartengono due autori che non furono senza influenza nel propagare la rinomanza di Virgilio lungo i secoli della barbarie; parlo dei due grandi luminari della grammatica, Donato e Prisciano. Questi due compilatori, sorti a circa due secoli di distanza l'uno dall'altro, dominarono con tanta forza nelle scuole dei grammatici, durante tutto il medio evo, che il loro dominio sopravvisse anche a questo, e sia direttamente, sia indirettamente, per l'uso che se ne fece nel fabbricare nuovi libri scolastici, si protrasse fino a' tempi nostri[209]. Il commento a Virgilio di cui già abbiamo fatto cenno, oscurato da quello di Servio, non procacciò a Donato la rinomanza ch'egli ebbe in grazia della sua grammatica, tanto adoperata nelle scuole e tanto familiare a quanti le avean frequentate, che il nome di Donato finì col significare quell'arte in generale. Prisciano, con lavori di compilazione più estesi e più dotti che quei di Donato, acquistò un'autorità tanto grande che la venerazione per lui spesso negli scrittori del medio evo si traduce colle più entusiastiche espressioni[210]. Non deviando dalla tradizione dei grammatici anteriori, dai quali compilavano, Donato e Prisciano da Virgilio assai più che da qualsivoglia altro scrittore attingono esempi, al punto che se fino allora Virgilio fosse stato poco letto e trasandato, essi soli, coll'autorità di cui godettero, sarebbero bastati a metterlo in voga[211]. Prisciano, in uno scritto speciale che fu molto in uso, ci dà un curioso saggio del modo col quale nelle scuole si faceva servire Virgilio all'insegnamento prattico della grammatica. Prendendo il primo verso di ciascun libro dell'Eneide, su quei dodici versi ei fa esercitare lo scolaro, chiedendogli ragione di ogni parola e l'analisi grammaticale e metrica; e così passando di domanda in domanda ei trova in quei versi tanto da far ripetere al discepolo le regole o le definizioni principali della grammatica e della metrica[212]. È notevole che Lucano, il quale fu di moda nel medio evo, vien citato da Prisciano quasi tanto sovente quanto Orazio. Ma il poeta ch'ei cita più sovente dopo Virgilio è Terenzio.

Anche all'infuori della sfera scolastica e dotta, il poeta non cessava di essere popolare, come prima lo era stato. Le rappresentazioni teatrali desunte dalle sue poesie continuavano tuttora, ed uno dei soggetti preferiti erano le infelici avventure di Didone, che commovevano le genti fino alle lagrime, ed erano tanto in moda che sulle tappezzerie, nelle pitture ed in ogni opera d'arte figurata erano rappresentate di preferenza[213]. Nè mancavano le letture pubbliche ed ancora nel sesto secolo il popolo affollato udiva leggere l'Eneide nel fôro Traiano[214]. Non conviene dimenticare però che nello stesso tempo destava entusiasmo la meschina poesia di Aratore sugli Atti degli Apostoli, e per ben sette volte era costui chiamato a farne pubblica lettura[215]. E già il nome di Virgilio si applicava ad uomini di così poco valore che Ennodio mostravasene grandemente irritato[216]. Una mano consolare trascriveva ed emendava il testo di Virgilio nel codice prezioso che ci rimane[217]; ma distinzioni di tal natura toccavano a quei tempi anche ad altri scrittori, poveri figli di povera epoca.

Quanto diversa da quella di un tempo era Roma allora, e quanto diverso il popolo romano! La retorica pomposa e vuota dei panegiristi e di Simmaco fra gli altri che giunge ad applicare al regno di Graziano i felici e ridenti presagi della quarta ecloga[218], non fa che rendere più lugubre lo spettacolo di tanta rovina. Ben più reale e giusto è il sentimento di Girolamo che, udendo nella sua solitudine in oriente come Roma fosse stata presa da Alarico, esprimeva con versi dell'Eneide il profondo dolore cagionatogli dalla tremenda notizia, ed esclamava col salmista: «Deus venerunt gentes in haereditatem tuam!»[219] Alle memorie di un passato glorioso si contrapponevano i tristi fatti della decadenza, il gelido ed umiliante contatto dei barbari ormai scatenati ed il presentimento di un avvenire tetro e luttuoso. Quantunque però Roma e il suo impero cadessero, quella unità civile di tanti popoli, ch'era la grande opera sua e la vera sua missione, rimaneva. Nell'animo di tutti Roma era sempre madre di ogni ricordo civile, simbolo di miracolosa potenza, ideale altissimo e poetico di ogni umana grandezza; quel forte ed universale sentimento romano a cui Virgilio avea così bene proporzionato la sua epopea, anche dopo distrutto l'impero, era troppo essenzialmente connesso colla cultura latina perchè potesse spegnersi finchè quella vivesse. La vasta orma che lasciava il dominio romano e i benefizi che l'umanità ne ereditava, danno alle infinite espressioni di quel sentimento che universalmente sopravvisse ad esso per lunghi secoli, una base reale e solida che non permette di vedere in quelle una riproduzione fredda ed automatica dall'antico. Certo però le condizioni del pensiero erano profondamente mutate, e per una grande parte dell'antica cultura questo non poteva essere che passivo, nè poteva, nella sua attività presente, armonizzare assai intimamente con quella. Il gusto era deperito affatto, ed ogni giusta idealità estetica ed artistica era del tutto spenta.

Quelle potenze psicologiche dalle quali l'arte risulta, dove non giacessero paralizzate, erano impiegate e sfogate in un campo novello a cui l'arte di vero nome era estranea. In queste epoche di grandi lotte e di grandi trasformazioni morali e sociali, c'è sempre un dispendio immenso di elatere poetico, il quale, piuttostochè una espansione artistica, ha per prodotto il fatto stesso gravissimo ed imponente del generale rinnovamento. Cristo non verseggiò, ma quanta poesia non assorbì nella personalità e nell'attività sua e in quella di tanti seguaci suoi! L'arte fra quel rimescolarsi ed urtarsi di elementi eterogenei, fra quell'imperfetto pensare e sentire di un mondo che si decomponeva e si rigenerava, avea difetto delle condizioni più indispensabili alla sua esistenza; l'animo delle genti era turbato, distratto vagamente, e come indurato alle impressioni estetiche, il sentimento artistico tralignato o spento. Irrigidita e come stereotipata seguitava intanto l'antica cultura: le menti aveano sempre dinanzi i prodotti dell'arte antica, ma il livello di esse era troppo abbassato, gli scopi e gl'ideali del pensiero erano troppo nuovi e diversi perchè si possa credere che quelle antiche opere, tuttavia studiate e ammirate, esercitassero realmente sugli animi un prestigio più ragionevole di quello di una brillante fantasmagoria. Come vediamo da Macrobio e dai grammatici e da ogni sorta di scrittori, il posto centrale in quel corpo di dottrina, in quel complesso di autorità tradizionali, scolastiche e dotte, era tenuto da Virgilio il quale appariva come l'astro più luminoso intorno a cui tutti gli altri gravitavano. Quelle qualità reali di dottrina che lo distinguevano e che già fin dai primi tempi della sua rinomanza avean condotto a giudizi inesatti, in quest'ultima epoca rimanevano sole in vista ed, in tanto prestigio di quel nome, erano intese ed esagerate in ordine alle tendenze ed alla natura del pensiero d'allora, spinto irresistibilmente al simbolo, all'allegoria ed al misticismo da più cause ed influenze diverse, che si riassumono nel predominio del neoplatonismo e più ancora del cristianesimo ormai trionfante. I poeti del tempo non riuscivano più che ad un verseggiare di rado mediocre, più spesso cattivo, generato e governato unicamente dalla scuola grammaticale e retorica. Tutta l'arte del massimo poeta latino appariva a quella gente come un mistero, di cui la chiave dovea cercarsi in una sapienza vastissima e recondita. Prova di fino ingegno e di sapere superiore al volgare pareva il trovarvi dentro conoscenze e dettami scientifici d'ogni maniera e sensi riposti di alta filosofia.

Centro e sommità del retaggio letterario lasciato dai latini, rappresentante della sapienza antica, interprete di quel sentimento romano universale che sopravviveva all'impero, il nome di Virgilio acquistava un ampio e alto significato che nell'Europa latina lo connaturava quasi colla civiltà stessa[220]. Con questa missione lo tramandava ai secoli avvenire la morente società pagana che nell'abbattimento e nell'agonia si adoperava a riassumere, con opera frettolosa, i portati della splendida e gloriosa sua vita. Parecchi secoli prima che Dante chiamasse Virgilio «virtù somma» Giustiniano, sul più tetragono monumento della sapienza prattica de' romani, era in grado di richiamarne il nome, ponendolo accanto a quello del divino epico greco che, per lui, è il «padre di ogni virtù»[221].

CAPITOLO VI.

Ma ormai possiamo inoltrarci a seguitare le vicende di Virgilio lungo il medio evo. I barbari ed il cristianesimo hanno fatto cambiar totalmente d'aspetto l'antico mondo latino. Da un lato le lettere minacciano di perire sotto i colpi del fanatismo religioso o d'affogare nel vasto pelago della letteratura teologica; da un altro gli invasori, gente ruvida ed incolta, per tutt'altra ragione mostrano di aver occupato i paesi civili che per amore della civiltà stessa o per gran voglia che abbiano di studi classici. Oppressi ed oppressori, laici ed ecclesiastici hanno troppe preoccupazioni materiali o troppo han da pensare per la salute dell'anima, perchè il gusto del bello classico possa fiorire fra loro. Nondimeno c'è un'àncora di salvezza per le lettere latine. Il latino è tuttavia la lingua degli scrittori e della chiesa singolarmente, ed è già un tempo in cui per iscrivere passabilmente in latino bisogna averlo studiato. Mentre esso è quasi affatto ridotto allo stato di lingua morta, i volgari dell'Europa latina, quantunque in istato di formazione più che incipiente, pure non sono ancora giunti a quell'organismo determinato e definitivo a cui mostrano di tendere, ed in cui soltanto potranno arrivare all'onore di lingue letterarie. Quindi le scuole, e principalmente le scuole dei grammatici, devono seguitare ad esistere, ed attorno alla grammatica dovranno seguitare ad aggrupparsi le altre discipline che sono pure o si credono necessarie anche al nuovo avviamento, sopratutto religioso, che han preso gli scrittori. Se i testi raccolti da vari dotti per provare l'esistenza delle scuole in tutte le epoche del medio evo non si avessero, a provar ciò basterebbe questo fatto dell'uso non interrotto di scrivere in una lingua di esistenza puramente letteraria, e differente dalla lingua parlata. Devesi però badar bene a non prendere queste scuole per qualcosa di più serio e importante di quel ch'esse erano in fatto. In esse s'insegnò per l'appunto quanto era necessario, o per meglio dire, quanto pareva necessario; poichè in fondo gli studi profani non erano più uno scopo, ma doveano servire materialmente come propedeutica a studi superiori di tutt'altro genere. Quindi le sette arti nelle quali già da tempo anteriore ad Augusto si era diviso il materiale della istruzione[222], e che poi si erano venute sensibilmente assottigliando, nel medio evo son ridotte ai minimi termini. Un tempo il compendiare in un riassunto ordinato gli elementi delle principali discipline, come fecero Catone e Varrone, era opera che, quantunque utilizzata, teneva un posto modesto fra le produzioni letterarie, a causa della vita reale e propria che animava ciascuno dei rami di sapere in quelle opere riuniti. Ora che quella vita era spenta e ciascun ramo del sapere laico, non più produttivo, veniva ridotto e ristretto nei più angusti limiti dell'indispensabile, i riassunti generali erano un risultato di quelle stesse cause che spingevano ai compendi di ciascuno studio speciale, e, come prodotti richiesti da un bisogno del tempo, doveano esser numerosi e ottenere nella letteratura un posto e una notorietà che prima non avrebbero potuto avere. Ciò spiega le enciclopedie delle sette arti di Cassiodoro, Capella, Isidoro, Beda e di altri che, con vario artificio, tutto il sapere profano racchiusero in picciol volume, e spiega pure la buona accoglienza che ad esse fu fatta e la celebrità di cui godettero per tutto il medio evo. Propriamente in queste enciclopedie si scorge che delle varie discipline in esse trattate, la più prossima e la più affine all'autore è in generale la grammatica, della quale le altre costituiscono come il corteo e il complemento; la natura dell'assieme e della trattazione è tale che mal si potrebbe dare all'autore, per l'indole della sua opera, altro titolo che quello di grammatico. E veramente la grammatica è trattata e considerata sempre come la prima fra le arti liberali, ed è bello udire un re barbaro che si ammanta alla romana, Atalarico, tesserne l'elogio in una ordinanza diretta al senato romano, perchè provvegga allo stipendio dei professori di arti liberali. «La prima scuola dei grammatici, dic'egli, è il più bel fondamento delle lettere, madre gloriosa di facondia che fa e ben pensare e correttamente parlare... È la grammatica maestra del dire, ornatrice del genere umano, che coll'esercizio di bellissima lettura sa giovarci dei consigli degli antichi. Lei non conoscono i barbari... chè le armi ogni altro popolo le possiede anch'esso, ma l'eloquenza solo accompagna i dominatori romani»[223].

E dove regnò la grammatica ivi regnò anche Virgilio, compagno inseparabile ed autorità suprema di essa. Virgilio e la grammatica si può dire che, nel medio evo, cessino di essere due cose distinte e divengano quasi sinonimi. Così quando Gregorio di Tours (VI sec.) ci dice che Andarchio fu in sua giovinezza istruito «nelle opere di Virgilio, nel codice teodosiano, e nel far di conti»[224], per questa istruzione «nelle opere di Virgilio» non si può intendere altro che l'insegnamento grammaticale; come infatti nella vita di S. Bonito è detto che questi fu istruito «negli elementi della grammatica e nelle leggi di Teodosio»[225]. Perciò a Virgilio si paragonava chi molto fosse creduto valere in grammatica[226]. Un altro curioso esempio di questo ch'io noto è quel grammatico di Tolosa, a quanto pare del VI o VII secolo, che insegnando un latino di stranissimo conio di cui parlerem poi, non crede poter trovare altro nome che meglio a lui si addica di quello di P. Virgilio Marone, che è appunto l'unico nome sotto il quale noi lo conosciamo.

Questa condizione di cose durò per quasi tutto il medio evo, fino al sorgere delle letterature moderne, allorchè il laicato ridestavasi all'attività intellettuale e gli studi secolari ritornavano ad esso. Le ragioni indirette che raccomandavano al clero medievale lo studio delle sette arti, non erano tali da produrre quel calore che infonde negli studi il moto e la vita e rende le lettere e il sapere capaci d'incremento; la tradizione antica, già stagnante e incadaverita negli ultimi tempi dell'impero e del paganesimo, attraversa quei secoli, nei quali il fervore cristiano domina esclusivamente nel sentimento e nel pensiero, come una sostanza che sospesa in un mezzo troppo eterogeneo e incapace di scioglierla, si coagula e separata dal resto precipita al fondo. Quanto ad essa tutti i secoli di quella età si rassomigliano; è materia morta che passa di mano in mano, senz'altra modificazione tranne quella che le fanno patire i ruvidi e strani contatti che deve sostenere. Se in qualche luogo quello studio decade tanto da cessare quasi affatto, gl'inconvenienti prattici che porta seco quella mancanza spingono qualche autorità a farlo risorgere; ma risorto, è quel di prima. Se innovazione si cerca, questa non riguarda che il modo di pigiare sempre più nello strettoio quella massa già tanto ridotta. Inventar nuove vie di compendiare quello studio e renderlo più sbrigativo, è la sola cosa che si cerchi e da molti in varie guise si tenti[227]. Carlo Magno potè bene rialzare gli studi classici caduti a terra e quasi smessi, ma innovarli no. La grammatica, che fu fra le sette arti la più beneficata da questo principe, salvo la puerilità e l'ignoranza di cui danno prova i compilatori e i rifacitori, nel suo essere rimane qual era negli ultimi tempi del paganesimo durante tutto il medio evo, fino al XII secolo, in cui la teorica grammaticale subisce anch'essa l'influenza della scolastica[228]. Erano già sorte le letterature moderne e il pensiero muovevasi già in una via novella quando la grammatica seguitava ancora, nell'idea comune, a tenere quel primo posto che le assegnava nel sesto secolo il re ostrogoto[229]. Quel che diciamo della grammatica va inteso anche di Virgilio, che con essa attraversò il medio evo, dominando negli studi profani, e serbando nello studio grammaticale l'antico suo posto. Insieme al materiale dell'insegnamento profano il medio evo prese dalla decadenza bell'e formate le nominanze degli antichi autori; nè fu più oculato e libero scrutatore degli antichi nomi di quello fosse delle dottrine. L'eco dell'antica nominanza virgiliana e di quella idea che al nome di Virgilio annettevano gli uomini della decadenza, si ripercote lungo tutto il medio evo, nelle forme ingenue che doveva produrre un grado di cultura così basso, ed un nuovo mondo d'idee talmente estraneo all'antichità pagana.

L'antichità classica adunque non sopravvisse al medio evo che afferrandosi alle panche delle scuole elementari, e quanti autori antichi godettero di qualche rinomanza in quell'epoca, ne andarono debitori ai maestri di scuola. Principali insieme con Virgilio, e quasi come pianeti del grande astro, troneggiarono in quelle scuole Ovidio e Lucano, Orazio, Giovenale, Stazio e poi altri a seconda delle preferenze dei maestri. Erano i primi nomi di antichi autori che, con quelli dei grammatici, l'istruzione elementare scolpiva nella mente dei fanciulli. Fatti adulti e anche divenuti scrittori, pur volendo, non riuscivano ad estinguere quelle reminiscenze della scuola che serbava sempre vive la lingua che adoperavano scrivendo. Quindi avveniva loro di citarli frequentemente, e quindi l'immenso numero delle citazioni di Virgilio e di scrittori pagani, che ricorrono presso gli scrittori cristiani, prima e dopo la totale estinzione del paganesimo e durante tutto il medio evo. Ma il sentimento e l'ascetismo cristiano doveva pur suscitare gravi ripugnanze contro questi rappresentanti dell'idea pagana, e noi dobbiamo qui studiare da vicino la posizione di Virgilio e degli altri antichi scrittori in mezzo ai fieri attacchi che subì il paganesimo per parte degli scrittori cristiani, e particolarmente dopo la vittoria completa riportata su di esso dalla nuova religione.

Gli scrittori ecclesiastici[230] potevano conservare una forte avversione contro gli scrittori pagani, slanciarsi contro di loro, come Arnobio e Tertulliano ed altri apologeti, gridando «adversus gentes» con una violenza che appena le persecuzioni e l'entusiasmo possono giustificare, ma dovevano anche leggerli e studiarli, sia per confutarli, sia per la ragione non meno potente, che essi erano il fondamento della generale cultura ed in essi soltanto s'imparava a scrivere nella lingua e secondo i gusti di quel mondo civile che si voleva convertire. Perciò parve odiosissimo il decreto di Giuliano imperatore col quale vietava ai cristiani l'insegnamento, e quindi lo studio, della grammatica e della retorica; quantunque con questo ei non facesse che richiamarli alla osservanza prattica di ciò che risultava dalle loro idee stesse. Ei diceva non esser bene che coloro i quali tanto si adiravano contro le dottrine morali e religiose degli scrittori pagani, prendessero poi questi scrittori per base della loro educazione[231], come appunto dissero molti dei più caldi e più intolleranti asceti cristiani. Ma quanti erano fra i cristiani illuminati e meglio forniti di talento prattico capivano che, quantunque tardo, pure il decreto di Giuliano era pieno di fina malizia; poichè in realtà separare il cristianesimo totalmente dall'antica cultura, imporgli una logica rigorosa che lo legasse nei limiti della sua natura antimondana e gl'impedisse di piegarsi a certe esigenze, era il miglior modo di combatterne o trattenerne i progressi in una società di cultura greco- romana. Ma le dighe più potenti erano rotte da un pezzo, e il decreto di Giuliano come ogni altro riparo imaginato da lui andò travolto dall'impeto della già irresistibile fiumana. Quando poi il paganesimo cessò affatto di esistere, e confutare i pagani divenne una cosa oziosa, la tradizione delle scuole cristiane era ormai formata e resa tale quale doveva rimanere per tutto il medio evo, e sarebbe stato impossibile farle cambiar natura. Ben vi fu chi disse che agli scrittori profani si potevano sostituire nelle scuole scrittori cristiani; ma come pretendere che i grammatici li trovassero equivalenti? Nelle nuove compilazioni grammaticali gli esempi tolti dalla vulgata e da taluni scrittori cristiani[232] si aggiunsero invero talvolta a quelli degli antichi, ma la massima autorità rimase sempre, come doveva, a questi ultimi.

La necessità di una radicale riforma non si faceva sentire, poichè ormai il paganesimo era morto per bene, ed ogni uomo che avesse un poco di senno intendeva che non potevano essere le scuole dei grammatici quelle che lo farebbero risuscitare. Perciò se cerchiamo atti ufficiali dell'autorità ecclesiastica che impongano di rinunziare a questi scrittori, noi non ne troviamo[233]. Troviamo invece questi fatti costanti, benchè in apparenza contradittori, che gli antichi sono sempre odiati e maledetti come pagani, ma sono letti e studiati assiduamente; e dagli uomini più illuminati della cristianità sono sempre stimati come scrittori, come dotti e come uomini d'ingegno. Il medio evo trovò già formato un uso tradizionale che seguì scrupolosamente. Gli antichi padri avean detto e scritto molto contro questi autori, ma ciò non li avea distolti dal servirsene. Si seguitava dunque a far lo stesso; si studiavano nelle scuole, si citavano all'uopo anche negli scritti e fin nelle controversie teologiche e nell'esegesi sacra; alla circostanza poi si maltrattavano come «cani idolatri». Alcuni fra i padri più autorevoli avean detto invero che leggerli non era cosa buona; ma come dar peso a questo ch'essi dicevano in un momento di fervore, se poi essi si contraddicevano colle parole e col fatto? Girolamo, già ben noto per l'amore che portò a Cicerone che gli valse quel famoso «Ciceronianus es, non Christianus» e le angeliche battiture nel sogno che tutti sanno, stimava Virgilio oltremodo e lo chiamava «non già il secondo Omero, ma il primo Omero dei latini»[234]. Egli però, nella epistola a Damaso sul Figliuol prodigo, biasima altamente quei sacerdoti «che posti da parte gli Evangeli e i profeti, leggono comedie, ripetono le parole amorose delle Bucoliche, hanno Virgilio per le mani e fanno un peccato di voluttà di quello studio che pei fanciulli è una cosa necessaria». Con queste parole non si accordano punto quelle di Agostino il quale osserva e non disapprova, che «i fanciulli leggono Virgilio affinchè fin dai primi anni imbevutisi di esso, questo grande poeta sovra ogni altro illustre ed eccellente non così di leggieri possa uscir loro di memoria»[235]. Queste reminiscenze di studi profani e pagani subìti per necessità, importunavano invero molte anime scrupolose, tanto che Cassiano eremita giunge fino ad escogitare e consigliare altrui un rimedio per liberarsene[236]. Quanto però fosse difficile cancellarle dalla mente, Girolamo stesso lo prova, non volendo, assai di sovente coi luoghi di scrittori classici che gli corrono giù dalla penna. Parlando[237] delle cripte che rinserrano a Roma le tombe degli apostoli e de' martiri, e dell'oscurità che regna in quei sotterranei: «Ivi si cammina, dic'egli, a passo a passo, e quando si è circondati da quell'oscura notte si possono rammentare quelle parole di Virgilio: «Horror ubique animos simul ipsa silentia terrent.» Una delle colonne della chiesa chiede ad un pagano le parole per esprimere i sentimenti che ispirano i più venerandi recessi del santuario! Chi direbbe che sia lo stesso Girolamo il quale, infervorato da tutto l'ardore della fede, esclama altrove: «Che ha che fare col saltero Orazio, coi vangeli Virgilio, coll'apostolo Cicerone?»[238] E ben molti luoghi si potrebbero citare dalle sue opere in cui lo si coglie a questa maniera sul fatto. Nè i suoi avversari gli risparmiarono disturbi per questo suo culto delle lettere classiche. Allorchè a Bethlem ei pose scuola di grammatica, spiegando ai giovanetti Virgilio ed altri scrittori profani greci e latini, Rufino gli scagliava per ciò accuse che lo ferivano profondamente[239].

Chi volesse raccogliere da tutti gli scrittori ecclesiastici i luoghi nei quali essi inveiscono contro la lettura degli scrittori pagani ed anche in modo generale contro ogni studio profano, troverebbe da fare una raccolta assai ricca; ma molto più ricca sarebbe quella dei luoghi che provano come tutto ciò non impedisse di occuparsi di studi profani e di leggere autori pagani. C'erano invero i poeti e gli autori cristiani, ma tutti quelli di essi che aveano un qualche merito letterario lo dovevano all'arte degli antichi dei quali si mostravano discepoli e imitatori e spesso copiatori servili; talchè non solo non distoglievano dallo studio di questi, ma anzi lo raccomandavano e lo incoraggiavano. Una lettera di Sidonio Apollinare (V sec.) c'introduce in un'amena casa di campagna della Gallia, nella quale il padrone avea riunito ogni sorta di diletti del corpo e dello spirito. Fra i libri ivi raccolti troviamo una assai disinvolta mescolanza di sacro e di profano, di cristiano e di pagano, che ci prova quanto poca corrispondenza nella vita reale avessero le declamazioni di certi burberi fanatici[240]. Quindi quando Cassiodoro inculca ai suoi monaci lo studio delle sette arti, egli è al caso di dire[241] che a ciò conforta l'esempio, non solo di Mosè il quale fu istruito di tutta la sapienza degli Egizi, ma quello eziandio «dei padri santissimi i quali non decretarono che dovessero rigettarsi gli studi delle lettere profane, ma anzi essi stessi diedero l'esempio del contrario, mostrandosi peritissimi di tali studi, conforme vedesi in Cipriano, Lattanzio, Ambrogio, Girolamo, Agostino ed altri innumerevoli. E chi ardirebbe più dubitare là dove esiste molteplice esempio per parte di uomini tali? E questo è il luogo comune al quale più spesso ricorrono quanti ecclesiastici scrivono di materie profane e credono doversene scusare[242]. Nei monasteri dove era di regola il silenzio si faceva uso di segni convenzionali per talune cose di cui si potesse aver bisogno; quando si voleva chiedere un libro di scrittore pagano, al segno che esprimeva libro si faceva succedere un gesto imitante il cane che sì gratta le orecchie «perchè non a torto un infedele vien paragonato a questo animale»[243]. Si disprezzavano, ma si leggevano. La regola di taluni ordini monastici meno antichi, come quello d'Isidoro, di Francesco, di Domenico, vietava la lettura di scrittori pagani o almeno non l'accordava che dietro speciale permesso[244]; ma altre regole di ordini più antichi e più autorevoli, non solo non la vietavano, ma l'ammettevano nelle scuole dell'ordine, ed imponevano senza distinzione di autori il copiar manoscritti[245], i quali, come ognun sa, ci sono giunti appunto per questa via. Che se veramente si fosse voluto stare al rigore prescritto dall'indole stessa del Cristianesimo, non soltanto qualsivoglia scrittore pagano si sarebbe dovuto vietare, ma principalmente quelli fra gli scrittori pagani si sarebber dovuti distruggere, gli scritti dei quali erano immorali rimpetto a qualsiasi religione, quali fra gli altri sono Ovidio e Marziale. Eppure l' Arte amatoria di Ovidio e gli osceni epigrammi di Marziale figurano nelle biblioteche monastiche in mezzo agli altri scritti profani non solo, ma accanto alla Bibbia e alle opere dei padri, e i manoscritti numerosi che ne possediamo furono copiati in gran parte da monaci e provengono da monasteri. Non sempre invero chi copiava aveva il coraggio di trascrivere per intero certi passi, che talvolta trovansi soppressi, talvolta anche arbitrariamente cambiati in ossequio alla morale[246]. Altri però più fedelmente copiavano tutto tal quale, salvo a sfogarsi in qualche appunto marginale, dando del birbante all'autore[247]. Ma la generalità era di manica larga assai più che oggi non si crederebbe. Orazio, di cui già anche fra i pagani Quintiliano non voleva che certe poesie licenziose fossero interpretate nelle scuole[248], non solo fu letto e copiato per intero, e glossato da monaci, ma anche qualche ode delle più amorose fu cantata da essi colle melodie di alcuni inni sacri, che trovansi ancora notate in più d'un manoscritto[249].

Ad alcuni arrabbiati si contrapponevano moltissimi moderati. Anselmo non solo approva, ma anche consiglia altrui la lettura di Virgilio[250], e così pure fa Lupo di Ferrières il quale, come apparisce dalle sue lettere, raccomandava a Regimberto lo studio di Virgilio[251], cercava dovunque manoscritti di classici, e fino a Papa Benedetto III si rivolgeva perchè gli mandasse in presto un Cicerone, un Quintiliano ed un commento a Terenzio[252]. Spesso certe invettive contro gli studi profani sono mere declamazioni, luoghi retorici che non hanno nulla di serio. Quando la retorica invade la letteratura è sempre difficile definire fino a qual punto certe frasi si hanno da prendere sul serio, cercando in esse la vera e reale opinione di chi se ne serve. Gregorio di Tours alza la voce contro le favole e la esiziale dottrina dei «filosofi» ossia degli antichi scrittori, e mentre scorrendo i principali fatti dell'Eneide e dell'antica favola poetica li esecra uno ad uno, non mostra di accorgersi ch'ei fa pompa della sua dottrina, e fa vedere col fatto di avere studiato e di tenere a mente assai bene questi scrittori che tanto riprova[253]. Ben più giusta e più seria apparisce la sua parola quando ei deplora, con tanti altri, la miseria dei tempi suoi, per la grande decadenza degli studi letterari[254].

Contro gli studi profani principalmente declamano gli scrittori di vite di santi, i quali, com'è naturalissimo, sostengono che è meglio leggere la vita di un santo qualsivoglia che i fatti di Enea[255]. Taluni di essi sono provvisti di qualche dottrina, ma moltissimi sono rozzi ed ignoranti. Scaturiti per lo più dal fondo del monachismo, disprezzano ogni cosa mondana anche in ciò che spetta alla cultura intellettuale, e si vantano cinicamente della loro ignoranza[256]. «Non badi il lettore, scrive uno dei molti, al brutto mucchio di barbarismi che è in questo libretto, piuttosto porga l'orecchio della fede alla verità che si contiene nel volgare dettato; legga semplicemente quanto qui troverà, e faccia come se in cerca di una gemma frugasse un letamaio». Altri non solo confessano di commettere solecismi e barbarismi, ma se ne vantano. All'occasione poi a questa bassa retorica degl'ignoranti ricorrevano anche persone alto locate[257], ed alle accuse d'ignoranza contro di sè o contro il clero rispondevano sdegnosamente col luogo retorico comunissimo che «il regno di Dio non consiste nelle parole, ma nelle virtù» e più spesso che «il vangelo fu confidato a pescatori rozzi ed incolti e non a faceti oratori»[258]. Così quando i vescovi della Gallia riuniti a Reims inveivano contro l'ignoranza del clero romano, il legato apostolico Leone, abate di San Bonifacio, nella sua epistola ai re Ugo e Roberto, rispondeva che «i vicari e i discepoli di Pietro non vogliono avere a maestri Platone, Virgilio, Terenzio e gli altri del filosofico bestiame, i quali superbamente volano come uccelli nell'aria, o come pesci si affondano nell'abisso del mare, o come pecore van camminando sulla terra; e fin dal principio del mondo gli eletti di Dio non furono oratori o filosofi, ma incolti ed illetterati»[259]. Frasi e nulla più, poichè era impossibile dir tali cose sul serio, mentre, per tacere, del resto, si spiegava un lusso ed un fasto dagli accusati e dagli accusatori tutt'altro che apostolico. Il fatto deplorato dai vescovi di Reims, non si poteva negare, ma la retorica ecclesiastica forniva un luogo per giustificarlo.

Conviene anche notare che talvolta in queste declamazioni contro gli studi profani si tradisce anche un poco di gelosia verso coloro che, probabilmente fra i correligionari di chi scriveva, erano stimati per un qualche valore che avessero in quelli studi. Però, prescindendo dai casi in cui avean luogo questi secondi fini, è d'uopo rammentarsi che gli scrittori ecclesiastici, anche i più illuminati, scrivevano sotto l'influenza di un sentimento religioso forte e profondo, il quale a seconda delle circostanze diveniva fervore, ardore ed entusiasmo. Continuamente preoccupati del sommo bene e della vita futura essi soggiacevano, come tutte le anime che si concentrano affatto nella religione, ad accessi di scrupoli, pei quali avveniva loro di dire e disdire. Agostino, che un tempo trovava una innocente ricreazione nella lettura giornaliera di un mezzo libro dell'Eneide, a quarantatre anni deplora quei giorni in cui si lasciava intenerire dalle lagrime di Didone, dimenticando che intanto ciò lo faceva morire dinanzi a Cristo[260]. Ma queste fervide parole, dettate in uno slancio dell'anima verso Dio, non gl'impedirono di fare poi gran conto del poeta, e nel De Civitate Dei, ch'egli condusse a termine nel 72 anno di sua vita, ne usa largamente. A 74 anni si pente di avere adoperato scrivendo il vocabolo fortuna troppo spesso, e di avere, benchè non sul serio rammentato le Muse a guisa di Dee. Alcuino che nella sua gioventù, come dice un suo biografo anonimo, avea letto «i libri degli antichi filosofi e le menzogne di Virgilio» e all'età di undici anni preferiva la lettura di Virgilio a quella dei Salmi[261], fatto vecchio non ne voleva più sentir parola, nè soffriva che i discepoli leggessero quel poeta, dicendo loro: «possono bastarvi i poeti divini, nè è necessario che siate contaminati dalla lussuriosa facondia del dire virgiliano»[262]. Nondimeno egli non riusciva ad imporre agli altri i suoi scrupoli, ed ebbe a rimprocciare severamente Sigulfo che, ad onta del divieto, seguitava a spiegare di nascosto Virgilio ai discepoli. A taluno[263] par duro credere a questo che racconta l'anonimo, perchè nelle lettere di Alcuino trovasi talvolta citato Virgilio. Credo però che da quanto son venuto dicendo risulti chiaramente che questo fatto non esclude l'altro[264]. Lo stesso vediamo accadere a Teodulfo, che si scusa nei suoi versi di aver letto Virgilio, Ovidio, Pompeo e Donato[265] e così pure a tanti altri che taccio per brevità. Nè Alcuino era il solo che credesse dover impedire o moderare il soverchio ardore altrui per questi studi[266].

E gli scrupoli di tal genere talvolta arrivavano fino a turbare i sonni di qualcuno. Erberto vescovo di Norwich racconta che una notte Cristo gli apparve in sogno e gli disse: Io sapeva che dalla tua gioventù fino alla canuta vecchiezza hai militato negli offici sacerdotali; ma perchè hai tu per le mani le menzogne di Ovidio, le invenzioni di Virgilio? non è convenevole che da quella stessa bocca che predica Cristo si reciti Ovidio. — Allora io rammentandomi quelle tali battiture di prete Girolamo: peccai, lo confesso, e non solo nella lettura degli scrittori gentili, ma sì pure nella imitazione di essi»[267]. L'autore della vita di S. Odone riferisce che costui, avendo voluto leggere Virgilio, ebbe un sogno di un vaso che al di fuori era bellissimo, ma dentro era tutto pieno di serpenti, i quali tosto lo attorniarono; e quando fu sveglio capì che il vaso era Virgilio e i serpenti che in esso si nascondevano, erano le dottrine degli antichi poeti[268]. Uno scrittore anonimo dell'XI secolo racconta pure di uno scolaro, che colto da grave malattia, in un accesso di delirio si pose a gridare ch'ei vedeva una falange di diavoli che prendevano la forma di Enea, di Turno e di altri personaggi dell'Eneide[269].

Mentre poi alcuni eran colti da tali scrupoli, altri spingevano l'ammirazione per Virgilio fino al fanatismo. Ratperto dava il suo parere in capitolo con versi di Virgilio. Per Virgilio e Cicerone il monaco Probo mostravasi tanto entusiasta, che i suoi confratelli, motteggiando, dicevano ch'ei voleva collocarli fra i santi[270]. Rigbodo, vescovo di Trèves sapeva, dicevasi, meglio l'Eneide che i vangeli[271]. Questo fanatismo, spinto all'ultimo eccesso, ci si presenta anche con certe caratteristiche della leggenda. Uno scrittore dell'XI secolo ci narra che: «A Ravenna Vilgardo coltivava con troppa assiduità lo studio della grammatica, conforme gl'Italiani, ebbero sempre costume di fare, trasandando il resto. Avea egli cominciato ad inorgoglire come uno stolto a causa del suo sapere, quando una notte i demoni, presa la forma dei poeti Virgilio, Orazio e Giovenale, gli apparvero e si misero con fallaci parole a ringraziarlo dello studio ch'egli poneva nei loro scritti e gli promisero di farlo partecipare alla loro gloria. Così depravato da queste male arti de' diavoli, incominciò ad insegnar molte cose contrarie alla santa fede e ad asserire che le parole dei poeti dovevano essere in tutto credute. Finalmente fu convinto d'eresia e condannato dall'arcivescovo Pietro. In Italia, soggiunge lo storico, si trovò che molti spiriti erano infetti delle stesse opinioni»[272]. Un'altra leggenda[273] narra di due scolari che andarono a visitare il sepolcro di Ovidio per averne qualche insegnamento; uno chiese di sapere qual fosse il miglior verso di quel poeta, e una voce dal sepolcro gridò:

«Virtus est licitis abstinuisse bonis»

L'altro volle sapere qual fosse il peggiore, e la voce rispose:

«Omne iuvans statuit Iupiter esse bonum.»

Pensando far bene a quella grande anima perduta, si posero i due studenti a pregare per lei, recitando dei Pater Noster e degli Ave: ma la voce, ignara della virtù di quella preghiera, gridò impazientita:

«Nolo Pater Noster: carpe, viator, iter»

Gli scrupoli e le ripugnanze durarono a lungo; neppure all'epoca del risorgimento parve superfluo a Boccaccio[274] il combatterli, e tutti sanno ch'essi, non senza molto rumore, si sono riprodotti anche ai nostri giorni. Ma nel medio evo come oggi la palma rimase sempre fortunatamente alla tradizione antica[275]. Nel secolo XII certo partito capitanato da un eccentrico individuo che, anche indipendentemente dalla religione, dichiarava infami gli storici e i poeti e scherniva i maestri di retorica, di grammatica e di dialettica, trovava un vigoroso oppugnatore nel dotto ed illuminato Giovanni di Salisbury[276]. Iacopo da Vitry, Arnoldo da Humblières toccavano anch'essi la questione, e non esitavano a riconoscere l'utilità dello studio degli antichi, quantunque raccomandassero molte cautele[277]. Uno dei più notevoli segni del classicismo trionfante ai tempi del risorgimento si può ravvisare nel catalogo della biblioteca privata di papa Niccolò V, tutta composta di antichi scrittori profani[278].

Le declamazioni adunque e le intolleranze di alcuni individui ebbero poca efficacia contro le necessità pratiche, che non permettevano studi sacri senza qualche preparazione di studi profani. Questi seguitarono quindi sempre a vivere, quantunque assai poveramente. Le scuole di grammatica seguitavano sempre, benchè in certi momenti più burrascosi venisser meno o diminuissero in qualche luogo, per mancanza di maestri o per altre ragioni; i monaci seguitavano a copiar manoscritti. Nei cataloghi che tuttora ci rimangono di parecchie biblioteche monastiche del medio evo scrittori ecclesiastici e profani figurano alla rinfusa[279], spesso designati come libri scholares; e fra questi ultimi primeggiano in numero Virgilio, e Donato maggiore e minore, e Prisciano ed una moltitudine di altre opere grammaticali[280]. Il numero straordinario dei manoscritti che ora possediamo di Virgilio è un'altra prova dell'uso che se ne faceva nelle scuole, e moltissimi di questi si vede evidentemente non esser fatti per altro che per servirsene in scuola, tanto son tirati via e poco, anzi punto servono alla critica del testo. Alcuni codici di Virgilio esistono tuttora portanti una dedica a qualche santo, come p. es. San Martino, Santo Stefano, il santo insomma della chiesa o del convento a cui un benefattore li avea regalati[281]. Questi codici che talvolta erano preziosi assai per miniature o legature o come opere calligrafiche, colle bibbie, i messali, i breviari, i candelieri, i calici, gli ostensori figurano stranamente negli inventari delle cose preziose dei conventi, delle abbazie e delle chiese.

CAPITOLO VII.

Il soggetto del capitolo antecedente ha invero un carattere assai generale, e forse a prima giunta potrebbe parere che ci siamo diffusi intorno ad esso più largamente di quello comporti il tema speciale del nostro scritto. Ma è facile riconoscere quanto strettamente connetta quel soggetto al nostro tema il nome di Virgilio, che abbiamo incontrato frequentissimo in mezzo alle varie opinioni e sentimenti che siamo venuti esponendo ed esaminando. È tale infatti l'uso che abbiamo veduto farsi di quel nome nelle espressioni d'odio o di disprezzo, di amore o di stima per gli antichi scrittori pagani, che evidentemente ne risulta essere, per tutti gli scrittori del medio evo, Virgilio il sommo rappresentante dell'antica tradizione classica. Così otteniamo una prima idea più generale della nominanza virgiliana in quella lunga epoca, e delle condizioni nelle quali potè esistere e mantenersi; ora è d'uopo procedere a studiare più da vicino e ne' suoi particolari, quella nominanza e le sue condizioni.

Quando le autorità ecclesiastiche e secolari volean promuovere gli studi delle sette arti, la principale ragione che adducevano in pro di questi era, oltre all'esempio dei grandi luminari della chiesa, il bisogno che se ne aveva per gli studi sacri. Così fanno Cassiodoro, Beda, Alcuino ed altri. Giovi rammentare, quale esempio principale, la circolare da Carlomagno diretta ai vescovi ed agli abati nel 787. In essa quel monarca dice aver notato negli scritti ufficiosi inviatigli da più monasteri, una rozzezza di dettato che certamente procedeva dal trasandare lo studio delle lettere. «Perciò, egli soggiunge, abbiamo cominciato a temere, che se nello scrivere il sapere venga a mancare, possa anche venir meno l'intelligenza che si richiede nell'interpretare le Sante Scritture. Quantunque gli errori di parole siano dannosi, tutti sappiamo che molto più dannosi sono gli errori di senso. Vi esortiamo adunque non solo a non trasandare lo studio delle lettere, ma eziandio a rivaleggiare nello zelo per imparare, affinchè possiate con facilità e sicurezza penetrare i misteri delle Sante Scritture. Ora, siccome nei libri sacri trovansi figure tropi ed altri simili ornamenti, è cosa indubitabile che ognuno, leggendo, debba cogliere tanto più presto il senso spirituale quanto meglio a ciò ei sia preparato dall'insegnamento delle lettere»[282]. E questo fu certamente il migliore baluardo che salvò le lettere classiche dalla totale rovina. Perciò Carlomagno, mentre stabiliva che le sacre scritture dovessero essere il primo fondamento dell'educazione[283], in pari tempo procacciava maestri di grammatica da ogni parte, ravvivando così potentemente, come a tutti è noto, anche la parte profana della comune istruzione[284]. Ma gli scrittori ecclesiastici non considerarono soltanto gli antichi autori pagani come grandi maestri di tropi e figure; quando trovarono nei loro scritti qualche luogo che poteva confermare i principi della fede, se ne valsero volontieri, talvolta anche a costo di contorcerne il senso ed anche di falsificare. L'autorità somma di cui godeva Virgilio come scrittore di un sapere straordinario, come primo fra gli antichi poeti ed anche come il migliore sotto il rapporto del buon costume, fece impressione su molti teologi cristiani, i quali trattarono a fidanza con lui meglio che con altri poeti pagani, e non isdegnarono citar la sua parola, sia in appoggio di taluni grandi principi del cristianesimo, sia a dimostrare che egli era fra i pagani colui che meglio a queste verità si era avvicinato. I numerosi centoni virgiliani di soggetto cristiano non mostrano soltanto come fra' cristiani Virgilio serbasse, nello studio letterario, quello stesso posto che teneva fra i pagani e soggiacesse quindi a quell'uso messo già in voga da questi, ma mostrano altresì un vivo desiderio di assimilare questa principale pastura della mente ai sentimenti che infiammavano il cuore, di accomodare la ammirata ed autorevole parola del poeta alle idee imposte dalla fede novella, di emendarla moralmente e purificarla dal solo errore che i cristiani trovassero in essa, lo spirito pagano[285]. Era egli il principale fra quei gentili a cui pareva si potessero applicare le parole del vangelo «si accorsero che Gesù passava»[286]. Parve cosa degna di compassione il vedere nato «al tempo degli Dei falsi e bugiardi» questo grande uomo, che le sue opere e le tradizioni sulla sua vita presentavano come un'anima candida e bella e tale che pareva eminentemente disposta ad accogliere la parola di Cristo. Quindi egli è il primo fra coloro che Dante, fedele e profondo interprete del sentimento religioso del medio evo, non osò riporre fra i dannati, ma collocò nel luogo destinato a chi avea la sola colpa involontaria di non essere nato alla fede di Cristo. Il sentimento di compassione trovasi meglio che altrove espresso in quei versi, spesso citati, che si cantavano a Mantova fino alla fine del XV secolo, nella messa di S. Paolo, nei quali si narrava che l'apostolo recossi a Napoli a visitare il sepolcro di Virgilio, ed ivi pianse a calde lagrime esclamando: oh quale t'avre'io reso, se ti avessi trovato in vita, o sommo poeta![287]. Da un altro lato dimostrare nei pagani stessi un certo spirito antipagano e dentro certi limiti tanto meno discosto dallo spirito cristiano quanto più essi erano stati grandi, era cosa resa tradizionale fin dai primi apologeti, tanto che a' tempi d'Arnobio pare fosse fatta dai pagani una petizione al senato perchè venissero distrutti certi libri, come il De natura deorum di Cicerone, nei quali il paganesimo troppo bene presentava il suo lato debole agli attacchi dei cristiani[288]. Da questo avviamento delle idee relative ai grandi pagani rimpetto alla fede cristiana, nascevano certe leggende, come quelle della conversione di Seneca, di Plinio e simili, che furono prese sul serio da uomini illuminati, e durarono a lungo. Io stesso da fanciullo in una scuola di Roma ho inteso ripetere che Cicerone morendo esclamasse «causa causarum miserere mei!»

Agostino, Girolamo, Lattanzio, Minucio Felice ed altri padri e scrittori ecclesiastici citano talvolta versi di Virgilio nei quali riconoscono principi filosofici o teologici che hanno qualche somiglianza con principi cristiani, quali p. es. l'unità, la spiritualità, l'onnipotenza di Dio e simili[289]. Ma su di ciò noi non ci tratterremo, non essendovi in fondo gran che di caratteristico da notare per la storia del nome del poeta, che la stessa cosa ha luogo per molti altri scrittori antichi[290]. Ben più degna di nota è la rinomanza che il poeta si acquistò fra i cristiani colla sua quarta ecloga, per la quale fu sollevato alla dignità dei profeti che predissero la venuta di Cristo[291]. Il presentimento che ispira tutta quell'ecloga, di un prossimo rinnovarsi del mondo in una era di felicità, di giustizia, d'amore e di pace, il rannodare che ivi si fa di questa aspettazione colla nascita di un bambino, l'antica autorità della sibilla su di cui tutta quella previsione si fa riposare, erano cose, conviene dirlo, troppo seducenti pei cristiani, perchè, leggendo quell'ecloga non dovessero rammentare la nascita di Cristo, e il rinnovarsi del mondo da lui promesso nella pura e mite dottrina che porgeva all'umanità. Lungo sarebbe qui rammentare le vicende e le cause del messianesimo presso i giudei e nel mondo greco-romano, e le curiose e lunghe lucubrazioni dei sibillisti, così in senso giudaico come in senso cristiano. Ci basti accennare che a questa storia complicata, e difficilissima a trattare senza prevenzioni o impressioni perturbatrici, appartiene la interpretazione cristiana della quarta ecloga, che già si manifesta assai in voga presso gli scrittori cristiani del quarto secolo. La più diffusa interpretazione di tal natura trovasi in un'allocuzione tenuta dall'imperatore Costantino dinanzi ad una assemblea ecclesiastica[292]. Stando a quanto dice Eusebio che riferisce quel discorso, l'imperatore lo avrebbe composto in latino e poi gl'interpreti lo avrebbero messo in greco[293]. Fatto è che la traduzione dell'ecloga in versi greci[294], quale oggi si legge in quel discorso, lascia scorgere l'antico guaio dei sibillisti; essa in più luoghi si scosta arbitrariamente dall'originale, alterandone il senso, collo scopo evidente di adattarlo alla interpretazione cristiana che è svolta nel discorso[295]. L'imperatore esaminando nelle varie parti quella composizione virgiliana, trova in essa la predizione della venuta di Cristo, designata con più circostanze; la vergine che riede è Maria; la progenie novella mandata dal cielo è Gesù; e il serpente che non sarà più è l'antico tentatore dei nostri padri; l'amomo che nascerà in ogni dove è la numerosa gente cristiana, monda dal peccato (ἄμωμος, irreprensibile); e di questa guisa procede interpretando altri particolari dell'ecloga. Egli ritiene che il poeta abbia scritto colla chiara coscienza di predire il Cristo, ma siasi espresso copertamente, mescolando al suo dire anche nomi di divinità pagane, onde non urtare troppo di fronte le credenze d'allora e non attirarsi la collera dell'autorità. Ma gli scrittori ecclesiastici che accolsero questo argomento in favore della fede non tutti si persuasero che Virgilio avesse inteso il senso da loro attribuito a quel vaticinio sibillino; più generalmente credettero che il poeta, non sapendo di che veramente si trattava, volesse applicarlo alla nascita del figlio di Pollione o di altro fanciullo d'illustre prosapia. Nello stesso secolo di Costantino, Lattanzio intende anch'egli quell'ecloga nel senso cristiano, ma essendo egli seguace della dottrina del millenario, la riferisce, non alla venuta di Cristo, ma al promesso ritorno di lui trionfante nel regno dei giusti[296]. Agostino, ammettendo l'esistenza fra i pagani di profeti che predissero la venuta di Cristo, cita anch'egli la quarta ecloga, singolarmente servendosi dei versi 13, 14 ch'ei riferisce alla remissione de' peccati pei meriti del Salvatore[297].

Girolamo insorge contro tali idee e si burla di coloro che credono Virgilio cristiano senza Cristo, e tratta ciò di fanfaluca, di baia degna di essere posta d'accanto ai centoni virgiliani e simili puerilità[298]. È da notarsi però che una certa dottrina teologica e qualche passo del vangelo spingeva a cercar profeti di Cristo anche fra i gentili, e che se esistevano oracoli sibillini i quali evidentemente parlassero di Cristo, come nel famoso acrostico, gl'increduli dicevano che questi erano apocrifi e fattura di cristiani; e siccome ciò era del tutto vero, difficile rimaneva dimostrare il contrario. Quindi l'ecloga di Virgilio fondata sull'oracolo sibillino, non potendosi in alcuna guisa tacciare di apocrifa, presentava il più alto valore, ed infatti da questo aspetto essa è considerata così nel discorso di Costantino, come anche da Agostino. Per tal guisa anche a coloro che credevano non avere Virgilio inteso il senso ch'essi attribuivano a quel'ecloga, questo poeta appariva come tale che, quantunque senza saperlo, offriva una testimonianza, un argomento alla fede. Perciò divulgatasi la cosa[299] e scesa anche fra il popolo, Virgilio divenne il compagno della Sibilla ed insieme con David Isaia e gli altri profeti, figurò fino ai tempi del risorgimento, nelle rappresentazioni sacre o misteri; e tale idea assumendo forme leggendarie andò con varia vicenda a mescolarsi all'idea popolare del Virgilio mago; di che parleremo a suo luogo. La pretesa irresistibilità di quell'argomento diede pure origine a leggende ecclesiastiche di conversioni prodotte dai versi della quarta ecloga, come quella di Stazio[300] resa celebre da Dante, e quella dei tre pagani Secundiano, Marcelliano e Veriano, i quali subitamente illuminati dai versi «Ultima Cumaei etc.» di persecutori dei cristiani divennero martiri di Cristo[301]. Un'altra leggenda narra di Donato vescovo di Fiesole (IX sec.) che presso a morire apparve in un'adunanza di confratelli e fece la sua professione di fede dinanzi ad essi, introducendo fra le sue parole quelle del poeta «Iam nova progenies etc.» dopo di che spirò[302]. Papa Innocenzo III cita quei versi virgiliani in conferma della fede in una predica del Natale[303], ed in senso cristiano essi furono intesi nel medio evo e poi, da uomini di grande autorità, come Dante[304], Abelardo[305], Marsilio Ficino[306], per tacere dei minori. E Virgilio entrato così nel corteo del cristianesimo trionfante, fu spessissimo rappresentato nelle chiese dall'arte cristiana, fra i profeti di Cristo. Negli stalli della catedrale di Zamora (XII sec.) in Spagna, fra le numerose figure di veggenti dell'antico testamento, si trova quella del poeta romano, accompagnata dalla parola progenies del noto verso[307]; così pure figura Virgilio nelle pitture del Vasari in una chiesa di Rimini; nelle pitture del Sanzio in S. Maria della Pace in Roma, le parole Iam nova progenies servono di distintivo alla Sibilla Cumea. Dal risorgimento in poi i dotti disputarono pro e contro l'interpretazione cristiana di quell'ecloga[308]; ed anche oggi che il medio evo è finito da un pezzo, ma molti tendono a conservarne certe eredità, non manca chi seguiti a prendere sul serio l'antica fola[309].

CAPITOLO VIII.

Se da questo lato c'era un merito che raccomandava i classici e principalmente Virgilio ai cristiani, da un altro lato c'era anche una via che serviva a diminuire quella ripugnanza che i cristiani dovevano provare per la immoralità e gli assurdi dell'antica favola; la qual ripugnanza era cosa tanto più naturale, che già assai prima dei cristiani l'aveano provata gli stessi antichi filosofi pagani. Taluni di questi, come Senofane, Eraclito ed altri aveano condannato, senza troppi riguardi, quelle favole e i poeti che n'erano i depositari e i propagatori; ma quelle e i poeti aveano troppo stretti legami con l'animo della nazione, perchè siffatte condanne potessero avere altro valore che quello di una eccentricità qualsivoglia. Altri più concilianti e più delicati apprezzatori dei prodotti, in altro rispetto sì maravigliosi, del genio nazionale, aveano cercato una via per mettere d'accordo miti, leggende e autorità di grandi poeti coi risultati della speculazione filosofica, e l'avean trovata, com'essa si offre in questi casi spontanea, nell'allegoria[310]. Molti usarono di questa, ma gli stoici principalmente le diedero quasi una consecrazione scientifica, come quelli che più di altri ad usarne erano spinti dal largo posto che nel loro sistema teneva l'idea religiosa, e dal nesso che ponevano fra questa e la morale prattica, per cui non potevano escludere affatto la credenza popolare esistente, ma doveano tenerne conto, come di elemento importante, e non trascurarla, ma anzi, riducendone il significato, conservarle autorità[311]. Ben più grande però doveva esser l'uso che di quel mezzo si fece allorchè l'antica religione non si trovò più alle prese con una classe di freddi pensatori, ma dovette combattere corpo a corpo con una religione novella più omogenea ai progressi del pensiero e del sentimento, e coll'ardore fanatico di chi a tutto si esponeva e tutto tentava per farla trionfare nel mondo. Fu allora, in quelle lunghe ed accanite lotte, l'allegoria un'arma difensiva delle più adoperate, e non meno in un campo che nell'altro, come cosa già familiare ad ambedue. I pagani erano spinti a ciò dall'ultima fase della loro religione che, sopraffatta dalla ormai vecchia maturità del pensiero, era naturalmente attratta a conciliarsi con questo, trovando un mezzo nell'allegoria. Quella idea religiosa si disfaceva nel misticismo, aprendo l'adito per una via sincretistica alle religioni d'oriente, positive, dogmatiche, più veramente teologiche, e più pregne di significato astratto di quello fosse il vecchio mito naturalistico; e preparava così il trionfo del cristianesimo. Una filosofia se non rigorosamente critica, certo caritatevole, gittava il suo manto sulle troppo crude nudità di quegli antichi Dei ed eroi, che pure erano mantenuti sempre dinanzi agli occhi di tutti dalle antiche e ancor vivaci fonti della universale cultura. Quel manto non difese certamente a lungo l'antica religione che dovette soccombere, ma pur protesse non poco le lettere antiche in grembo alla società cristiana o ancora pugnante, o ancor calda delle lotte, o già tranquillamente satollantesi dei suoi trionfi. Esso ebbe tanto maggiore efficacia rimpetto a questa che l'allegoria, l'anagoge, il simbolo eran cose tradizionali nel cristianesimo stesso, religione mistica di sua natura, e di lunga mano abituata dagli enimmi dei profeti e dalle parabole dei sapienti d'Israello e di Cristo stesso, a cercare nella parola un senso alto e riposto sotto il velo del significato materiale ed apparente. Nè poi, quantunque tanto diverso d'origine e di natura dagli scritti dei poeti classici, l'antico libro considerato come base divina del giudaismo e cristianesimo, aveva men bisogno di conciliarsi in molte parti, coi progressi dell'esperienza e della riflessione. Già i giudei alessandrini usavano largamente dell'allegoria per porre (dicevano essi, mentre in realtà facevano l'inverso) d'accordo la filosofia colla Bibbia. È noto quanto poi ne usasse l'esegèsi cristiana in ogni tempo[312]. Guardiamoci dal pensare a male, sia per l'una sia per l'altra religione, come spesso leggermente si suole, dinanzi a questo espediente, considerandolo come frutto di un freddo calcolo, come una pia impostura suggerita da uno scopo religioso. È una via nella quale quasi istintivamente e di buona fede sono condotti uomini la cui mente è dominata e contrastata da due autorità ad un tempo, opposte fra loro, eppur tali che niuna di esse puossi onninamente rifiutare. È una specie di allucinazione dialettica figlia di quei caldi convincimenti che hanno la loro prima base in un sentimento vivace e gagliardo.

L'allegoria fu applicata dagli antichi all'assieme dei fatti mitologici, e singolarmente alla parola dei poeti che, in mancanza di un codice religioso, erano le sole autorità scritte delle comuni credenze. I soli poeti antichi però che abbiano subìto una intiera interpretazione allegorica sono stati Omero e Virgilio, benchè per vie e per cause molto diverse. Per gli antichi che cercavano autorità scritte delle credenze popolari, niuna ve n'era naturalmente che avesse il peso di quella di Omero, sia per la sua antichità preistorica, sia per la miracolosa possa di genio che si rivela in quella poesia, sia pel carattere, l'importanza e l'uso nazionale di essa. Esiodo non veniva che in seconda linea. In una religione figlia della natura e sorella quindi della poesia, anzi tutta poesia essa stessa, il primo e il sommo dei poeti è la più alta autorità concreta, a cui, oltre al si dice degli uomini, si possono riferire le credenze religiose, ed è perciò pensiero naturale, quantunque in altro senso non accettabile, quello di Erodoto, il quale considera Omero come padre della religione e della morale greca. Quindi le numerose esposizioni allegoriche di Omero che partendo dai filosofi per le ragioni sopra dette, si divulgano poi anche all'infuori delle scuole filosofiche[313]. Virgilio, poeta essenzialmente moderno rispetto ad Omero, era ben lungi dall'avere questa sorta di autorità per la quale, oltre al resto, l'essere molto antico e l'avere valore di monumento era cosa indispensabile. Finchè dunque durò quella sua modernità, quantunque assai massime si traessero con grande rispetto da lui, pure niuno poteva pensare a considerare come composizione allegorica un poema che tutti sapevano non esser tale nè per l'indole del poeta nè per la nota natura del suo scopo. Un'autorità così universalmente nota e venerata era naturalmente da ciascuno contemplata in ordine alla propria sfera; Seneca ci dice come Virgilio fosse considerato dal grammatico, come dal filosofo[314]; questo non cercava ancora allegorie nel poeta (Seneca che era nemico di queste, com'è noto, l'avrebbe detto) e limitavasi a notare e a svolgere quelle fra le idee espresse da lui che erano di natura filosofica. Quando però l'ambiente intellettuale cambiò natura, ed in quello il nome del poeta ingrossò in forme ed in proporzioni irrazionali, subì anche Virgilio la tortura dell'interpretazione allegorica. Ma ciò ebbe luogo unicamente perchè, per le cause che abbiam veduto, l'allegoria era allora in voga, e perchè il pensiero, avido di fantastica speculazione, non poteva capacitarsi che un uomo tanto eccezionalmente sapiente, come si figurava Virgilio, non avesse nascosto sotto le ingenue favole dell'Eneide qualche cosa di più profondo e più importante. Virgilio adunque non subì l'allegoria come difesa dell'antica religione, e neppure come un mezzo apologetico di cui i pagani si volessero servire in favor suo contro i cristiani; chè realmente di fare una simile cosa per Virgilio i pagani non si occuparono mai; ei la subì unicamente da un aspetto filosofico e per effetto della idea stranamente esagerata che si avea di lui come filosofo; come una maniera d'interpretazione allora assai comune, non solo fra i filosofanti, ma anche fra i grammatici. Perciò essa gli fu applicata con eguali convincimenti e senza polemica, tanto da pagani quanto da cristiani, ed i sensi riposti che gli uni e gli altri trovarono in esso furono di un ordine puramente etico e filosofico, anzichè religioso; generalmente si riferiscono alle vicende della vita umana nelle sue aspirazioni verso il perfezionamento.

La perdita di molti monumenti fa che nella letteratura pagana oggi non ci rimangono che scarse tracce di quella interpretazione, e le abbiamo notate già parlando di Donato, di Servio, di Macrobio. Il più cospicuo saggio che ne possediamo è opera di un cristiano, di Fabio Planciade Fulgenzio, scrittore di cui l'età precisa non si è finora potuto stabilire[315], ma che di certo non può esser posteriore al sesto secolo. Il De Continentia Virgiliana, in cui Fulgenzio dichiara ciò che si contiene, o meglio ciò che trovasi riposto nel libro di Virgilio, è uno dei più strani e curiosi scritti del medio evo latino, e ad un tempo è il più caratteristico monumento della nominanza del poeta in mezzo alla barbarie cristiana[316]. In un preambolo l'autore si affretta a dichiarare ch'ei restringerà il suo lavoro alla sola Eneide, poichè le Bucoliche e le Georgiche contengono sensi mistici tanto profondi che non v'ha quasi arte capace di penetrarli appieno; il perchè egli a ciò rinunzia[317] non essendo cosa dalle sue spalle, chè troppa scienza ci vorrebbe, essendo il primo delle Georgiche tutto astrologico, il secondo fisionomico e medico, il terzo tutto relativo alla aruspicina, il quarto musicale, non senza essere in fine anche apotelesmatico; curiosa enumerazione che ha luogo anche per le Bucoliche. Il dabben uomo vuol essere propriamente filosofo; ma, dic'egli «lasciando in disparte l'acredine alquanto rancidetta dell'elleboro Crisippesco, parlerò alla buona colle muse»; e qui esce in cinque esametri nei quali, per tanta opera che intraprende, invoca l'aiuto delle muse «ma di tutte le muse, che una sola non gli basterebbe»[318]. Grazie a questa concessione propiziatoria fatta alle muse, ottiene di avere dinanzi a sè lo spettro di Virgilio stesso. L'atteggiamento di quella larva veneranda è imponente, serio, come di poeta assorto nella meditazione di novelle creazioni. Con una umiltà che contrasta in modo singolare colla presunzione cerretanesca che domina in questo libro, come in tutti gli altri scritti suoi, Fulgenzio gli chiede di scendere dalle altezze sue e di rivelare a lui i misteri delle sue poesie, non i più profondi, ma i più accessibili ad una povera e barbara mente[319]; al che il poeta annuisce, quantunque gli parli con un sussiego ed un cipiglio da far paura[320] e lo chiami costantemente omicciattolo (homuncule). Dichiara adunque ch'egli nei dodici libri dell'Eneide ha voluto porgere una immagine della vita umana. Facendosi a svolgere e mostrare questo filosofico senso nei particolari, si ferma assai lungamente sul primo verso in cui vien dichiarato il soggetto del poema, e con una farragine di stramberie incoerenti, arriva al riposto significato delle tre parole arma, virum, primus che quel verso contiene. «Tre gradi, dic'egli, sono nella vita umana: il primo è avere; il secondo è reggere ciò che si ha; terzo adornare ciò che si regge. Questi tre gradi tu li ritrovi in quel mio verso. Arma, cioè la virtù, si riferisce alla sostanza corporea; Virum, cioè la sapienza, si riferisce alla sostanza intelligente; Primus, cioè principe, si riferisce alla sostanza adornante; talchè tu hai qui per ordine avere, reggere, ornare. Così nel simbolo di un racconto abbiamo effigiato la normale condizione della vita umana; la natura in prima, poi la dottrina, terza la felicità». Dichiarato così il preambolo (antilogium), si accinge il poeta alla esposizione della materia contenuta nei singoli libri dell'Eneide; se non che ei fa poco caso del suo interlocutore, nè esita a dirgli, senza ambagi, che prima d'andare innanzi vuole assicurarsi di non parlare ad «orecchie arcadiche» e, quasi dubiti che colui abbia mai letto l'Eneide, gli chiede un sunto dei fatti narrati nel primo libro del poema[321]. Fulgenzio, senza punto mostrarsi offeso, condiscende al desiderio del poeta. Così rassicurato, intraprende Virgilio la esposizione del primo libro e dei seguenti. Noi qui non riferiremo che un sunto dell'assieme e le parti più spiccanti, chè riferir tutte dettagliatamente queste pazze cose sarebbe troppo pesante per noi e pei lettori.

Virgilio adunque dichiara che il naufragio d'Enea significa la nascita dell'uomo, il quale dolente e lagrimoso entra nelle procelle della vita; Giunone che muove il naufragio è Dea del parto, ed Eolo che la serve è la perdizione[322]; Acate significa i dolori dell'infanzia[323]; il canto di Iopa, è il canto delle nutrici. I fatti del II e del III libro si riferiscono tutti all'infanzia, avida di maraviglie e di racconti favolosi, come pure ad essa infine del III si riferisce il Ciclope, che ne simboleggia, coll'occhio unico sulla fronte, il poco intelletto e l'animo prono ad alterigia, il quale è domato da Ulisse, che è il senno. Il periodo dell'infanzia chiudesi colla morte ed i funerali del padre Anchise, cioè coll'uscire dalla tutela paterna. E allora (IV lib.) libero di sè stesso l'uomo si dà ai piaceri della caccia e dell'amore; e la vertigine della mente (bufera) lo conduce alle tresche illecite (Didone), finchè ammonito dall'intelletto (Mercurio) ritorna in sè e lascia quelle; l'amore abbandonato muore incenerito (fine di Didone). Tornato al senno, l'animo (V lib.) richiama gli esempî della memoria paterna e si dà a nobili esercizi (giuochi funebri in onore di Anchise), e l'intelletto trionfante annienta gl'istrumenti dell'aberrazione (le navi bruciate). Così corroborato (VI lib.) si rivolge alla sapienza (tempio di Apollo) non senza prima essere stato liberato dalle allucinazioni (Palinuro)[324], ed aver deposta la vanagloria (sepoltura di Miseno)[325]. Munito del ramo d'oro, cioè del sapere che apre l'adito alle riposte verità, intraprende il viaggio della filosofica investigazione (discesa all'inferno); e prima di ogni cosa a lui si rivelano nel triste essere loro i mali della vita umana, e passa, guidato dal tempo (Caronte)[326], l'onda agitata e torbida degli atti giovanili (Acheronte)[327], ode le querele e i litigi che dividono gli uomini (Cerbero latrante), e che il miele della sapienza sa acquetare. Così procede alla conoscenza della vita futura, delle sanzioni del bene e del male, e dinanzi a quelle ripensa alle passioni (Didone) ed agli affetti (Anchise) della sua gioventù. E l'animo fatto così sapiente (VII lib.) si libera dalla ferula precettrice (funerali della nutrice Caieta), e giunto alla desiderata Ausonia, cioè agl'incrementi[328] del bene, sceglie a consorte la fatica e la lotta (Lavinia)[329] e fa suo alleato (lib. VIII) l'uomo dabbene (Evandro); nella qual società impara i trionfi della virtù sul male (Ercole e Caco). Fattosi usbergo dell'ardente anima sua (armi fabbricate da Vulcano) si slancia nella lotta e combatte (IX, X, XI, XII) contro il furore (Turno)[330], il quale guidato dalla ebbrezza prima (Metisco), e poi dalla pervicacia (Juturna = diuturna) ha seco l'empietà (Mezentius, contemtor deorum) e l'irragionevolezza (Messapo)[331]. Tutto finalmente conquide la sapienza trionfatrice.

Per quanto possa parere strana cosa questa interpretazione nel sunto assai ristretto che ne abbiamo dato, difficile rimane sempre immaginare il grado di stranezza che raggiunge qual'è svolta e sostenuta nell'originale. È chiaro che sarebbe vano chiedere a simili fantasticherie una solida base; ma pure sono anch'esse suscettibili di una qualche finezza di congegno, e possono raggiungere una certa speciosità che le rende capaci talvolta di recar diletto ed anche, date certe disposizioni, di allucinare, come si è visto in assai esempi antichi e moderni. Ma il procedere di Fulgenzio è così violento ed incoerente, egli calpesta ogni regola di buon senso in modo così aperto, grossolano e quasi brutale, che mal s'intende come un cervello sano abbia potuto concepire sul serio un così pazzo lavoro e meno ancora come cervelli sani abbiano potuto accettarlo e prenderlo in seria considerazione. Egli è tanto lontano dal badare ad una legge qualunque, che neppure alla finzione da lui stesso immaginata si attiene costantemente, e in qualche luogo Virgilio, dimenticando di esser Virgilio, parla come fosse Fulgenzio[332]. E l'ignoranza accoppiandosi alla spensieratezza, in bocca al poeta è posta una citazione di Petronio ed anche una del più tardo Tiberiano! A questa grossa ed inescusabile oscitanza va pure attribuito che il libro, qual'è, non ha chiusa, poichè l'autore dimentica in fine che avendo fatto parlare Virgilio fin lì, deve riporsi in iscena egli stesso per congedarsi dal lettore[333]. Proporzionalità di parti nel lavoro non ce n'è alcuna; mentre sul primo verso dell'Eneide si dilunga per più pagine, passa poi a piè pari e con poche righe intieri libri. Il solo su di cui si trattenga con minor fretta è il sesto che, come vedemmo, parlando di Servio, fu considerato come il più ripieno di sensi profondi. Non parlo del linguaggio, strano aborto di una barbarie tanto deficiente di cognizioni quanto priva di gusto, che pur vuole affettare con molto sussiego grande ricercatezza, con frasi stranamente lambiccate e contorte e con vocaboli peregrini pescati d'ogni dove e usati anche impropriamente[334]; nè delle etimologie arbitrarie e tagliate coll'ascia assai peggio di quanto solessero farlo altri antichi.

Degno di nota è il tipo di Virgilio. Qui il poeta è un barbassoro accigliato, tenebroso, brusco e superbo, vale a dire precisamente il contrario di quella mite, dolce e modesta anima che spira nella sua poesia, che tutte le notizie biografiche gli attribuiscono, e che Dante ha così fedelmente ritratto. Per quelle menti barbare tale doveva essere il tipo ideale del sapiente, circondato di caligine come il sapere d'allora, che tornava quasi alle condizioni delle prime sue origini, nelle quali si copre di un poetico mistero. Fra questa gente, come vedesi non solo in Fulgenzio, ma già in Macrobio (singolarmente nello scritto sul Sogno di Scipione), e poi in Marziano Capella, in Boezio e in tanti altri, esso perdendo la sua base razionale e sottrattosi a quelle necessità dialettiche che spingono alla calma l'animo, quand'anche ispirato e divinante, del dotto, tradisce la sua debole natura accompagnandosi e reggendosi sempre nelle sue produzioni con una specie di orgasmo poetico più o meno intenso e pronunziato; come cosa che imponendosi dal di fuori all'animo rozzo e mal preparato, lo rende attonito e lo fanatizza stranamente. Quindi quel mescolare di verso e di prosa che distingue Capella, e Boezio ed anche Fulgenzio. In quell'orgasmo, che alle menti colte e addestrate alla critica scientifica par quasi morboso, niuno penserebbe mai a riconoscere quelle scintille di poesia che nascono nell'animo dalle sospirate e felici intuizioni del vero. In tal condizione di spirito il più alto sapiente apparisce come una natura mistica, divinamente ispirata e quasi estramondana. Tale è Virgilio per Fulgenzio. Chi ben consideri, questo tipo non è altro che uno sviluppo ulteriore di quello che già abbiamo trovato in Macrobio ed in generale fra i pagani della decadenza. Fulgenzio ha seguìto lo stesso indirizzo mettendoci di suo quanto poteva suggerirgli la barbarie e la rozzezza propria e del suo tempo, il quale benchè producesse taluni uomini a lui assai superiori, pure, singolarmente nell'ordine del sapere laico, è da lui assai adequatamente rappresentato, così nei gusti e nelle idee come nella misura delle cognizioni. Certo, il concetto fondamentale della sua interpretazione non può dirsi originale; chè l'idea di cercare in Virgilio un pensiero riposto relativo alla vita umana ed alle sue vicende, trovasi già, come vedemmo, presso altri anteriori. Nella stessa guisa, anzi anche molto meno, potrebbe dirsi originale l'idea dell'altra e maggiore sua opera il Mythologicon. Quanto abbia in queste messo di suo, quanto preso da altri, non sarebbe facile precisare, nè qui il luogo d'intraprenderne la ricerca. Quel che qui è necessario pel nostro tema notare molto attentamente è questo, che quantunque Fulgenzio sia cristiano e si mostri anche ferventemente tale, nè il Mythologicon nè il De Continentia sono scritti, come forse taluno potrebbe pensare, con un intendimento apologetico, onde conciliare la tradizione classica col cristianesimo. Non v'ha parola che alluda alla guerra dei cristiani contro di quella, non una che accenni ad una difesa di essa contro un attacco qualsivoglia. Il principio fondamentale, vero movente dell'opera, è puramente filosofico; la conciliazione delle favole antiche, non già col cristianesimo, ma colla filosofia. Evidentemente il De Continentia si connette direttamente col Mythologicon, di cui costituisce come un'appendice ed a cui infatti è anche di data posteriore[335]. Pel posto che occupava Virgilio nella cultura d'allora, colui che avea applicato l'allegoria ad interpretare filosoficamente la farragine delle antiche favole, era, per lo stesso momento, indotto ad una simile interpretazione della notissima favola dell'Eneide, che quasi costituiva un piccolo ciclo separato da non confondere col resto, che era principalmente greco. Come poi alla prima era criterio fondamentale l'idea generale dell'altezza del pensiero antico, così a questa lo era il concetto di uno straordinario sapere e di una maravigliosa profondità di mente del poeta. Perciò nel Mythologicon sono introdotte a parlare Urania e la Filosofia, nel De Continentia Virgilio stesso. Fulgenzio adunque trovasi sul piede degli stoici, come dei filosofi e dei grammatici della decadenza; la sua qualità di cristiano, quantunque incidentemente si manifesti, non contribuisce per nulla alla natura dell'opera. Ben si riconosce però nel De Continentia quella specie di condizione privilegiata che fra gli scrittori pagani ebbe Virgilio dinanzi ai cristiani. C'è l'idea che la miracolosa potenza del suo ingegno lo abbia avvicinato assai ai principî, singolarmente etici e filosofici, della nostra religione, tanto che quando ei pronunzia cosa che questa non potrebbe ammettere, Fulgenzio lo interrompe esprimendo la sua maraviglia che in quell'errore abbia potuto cadere colui che seppe dire «Iam redit et virgo etc.»[336]. Virgilio risponde: «Se fra tante verità stoiche non avessi errato con qualche principio epicureo, non sarei pagano. Poichè conoscere tutti i veri non è dato ad altri che a voi, pei quali brillò il sole della verità. Ma non sono qui venuto a parlare di queste cose». Lo stesso consenso e la stessa impazienza si manifesta in altri due luoghi nei quali Fulgenzio rammenta parole del testo sacro o principî cristiani che si trovan d'accordo con quanto dice il poeta; in altri due il poeta non risponde affatto[337]. Ed invero quelle interruzioni sono estranee allo scopo dell'opera, e come tali le considera l'autore stesso; ma erano naturalmente suggerite dal tipo ideale di Virgilio che viveva allora nelle menti dei cristiani. Così, senza nulla di violento, ma per una via naturale e continua che aveva il suo principio nella stessa tradizione classica, il Virgilio di Fulgenzio, ossia il Virgilio della barbarie cristiana, viene ad avere in sè delle cause di simpatia, che diminuiscono notevolmente le incompatibilità fra lo scrittore pagano e i seguaci di Cristo. Questo tipo nel quale domina già l'idea medievale che, in mezzo alle cause d'errore, la ragione umana fosse arrivata, per quanto poteva senza miracolo e senza rivelazione, a principî omogenei anche ad anime cristiane, non è che un rozzo precursore di quello che troveremo raffinato e sublimato nella poesia dantesca.

Fulgenzio è tutt'altro che un dotto od un pensatore, ma fa ogni sforzo per parer tale non esitando neppure ad inventar nomi di autori e di opere che mai non esisterono[338], affine di dare un carattere più peregrino al suo sapere; vecchia arte già adoperata, non senza successo, anche in tempi ben più illuminati[339], e di cui la decadenza e il medio evo offrono parecchi esempi[340]. Egli può considerarsi come la caricatura di quelli che lo precedettero e lo seguirono nello stesso arringo di queste interpretazioni allegoriche, fra i quali pur troviamo uomini di un valore incontestabile. Qual ch'ei fosse, egli era troppo naturale prodotto dell'epoca sua perchè questa non gli facesse buon viso. Il medio evo, colla ingenuità che lo distingue, credette davvero scorgere in lui un uomo di molta dottrina e di mente profonda e fece gran caso delle sue opere. L'uso che ne fece è attestato dai manoscritti superstiti che non sono pochi. Sigeberto di Gembloux (XI sec.) è quasi spaventato da tanto acume[341], ed ammira quest'uomo che ha saputo «cercar l'oro nel fango di Virgilio»[342]. Lo scoliasta di Germanico è interpolato con luoghi del Mythologicon, e qualche simile interpolazione trovasi anche nelle favole d'Igino. Il secondo e terzo mitografo vaticano ed in parte anche il primo hanno attinto, più o meno, da Fulgenzio; fatti questi di non lieve importanza quando si consideri che tanto le favole d'Igino quanto taluni dei mitiografi vaticani (singolarmente il primo) furono certamente libri di scuola[343].

Questa interpretazione allegorica vegetò assai bene sotto il freddo sole della scolastica. Bernardo di Chartres scrisse un commento ai primi sei libri dell'Eneide, nel quale sostiene che Virgilio in questi libri «come filosofo descrive la natura della vita umana.... e quel che faccia o soffra lo spirito umano mentre temporaneamente rimane posto nel corpo»[344]. Questa idea di Bernardo di Chartres è pure accolta da un altro uomo dei più ragguardevoli del secolo XII, Giovanni di Salisbury. Egli nota che Virgilio «sotto il velo delle favole esprime le verità della filosofia intiera»[345] e trova che il successivo svolgimento dell'anima umana è pur seguìto nei sei primi libri dell'Eneide. Enea, secondo lui, non è altro che l'animo, cioè l'abitatore del corpo «poichè ennaios vuol dire appunto abitatore». Così seguitando trova nel primo libro dell'Eneide, sotto l'imagine del naufragio, espresse le vicissitudini dell'infanzia che ha pur le sue procelle, nel secondo le espansioni e le curiosità ingenue dell'adolescenza che molto apprende di vero e di falso, nel terzo la gioventù coi suoi errori, nel quarto gli amori illeciti, nel quinto la maturità virile e prossima alla vecchiezza, nel sesto infine, col raffreddarsi delle passioni e col mancar delle forze, la vecchiaia e la imminente decrepitezza[346]. E come un tempo Donato nell'ordine in cui Virgilio venne componendo le tre opere sue, credette riconoscere un rapporto con tre grandi fasi della storia dell'umanità, così nel più avanzato medio evo non mancò chi in quelle volesse scoprire le tre categorie psicologiche della vita umana, distinte comunemente dalla filosofia d'allora, e riconoscere la vita contemplativa nelle Bucoliche, la sensuale nelle Georgiche, l'attiva nell'Eneide[347]. Non v'era libro, non fatto o racconto, che a quel tempo non si credesse capace di una interpretazione morale o filosofica, ed era comune la dottrina dei quattro sensi che possono trovarsi in una scrittura, il letterale, l'allegorico, il morale, l'anagogico. Una categoria d'idee preoccupava le menti e infervorava l'anima; in ogni cosa si cercava imagini di quella e rapporti palesi o nascosti con quella. Dopo di essere stata un mezzo di conciliazione fra la filosofia e i fantasmi poetico-religiosi dell'antichità, dopo di aver servito di arme difensiva a due religioni in conflitto, l'allegoria era rimasta, come ordigno di grande e comune uso, nell'armamentario teologico, attagliandosi perfettamente, ed assai meglio che alla filosofia antica, alle esigenze dialettiche della fede cristiana. Così essa ebbe parte notevole nella curiosa intelaiatura di quel fragile ma pur non inutile ponte, posto fra la teologia monastica e la speculazione laicale, che fu la scolastica, ed in epoca in cui que' due elementi influenzavano profondamente il pensiero, questo divenne tanto docile a quella palestra, oggi non più tollerabile, che non solo sostenne senza recalcitrare l'allegoria nell'esegesi e si avvezzò a darle peso nel raziocinio, ma anche nei suoi prodotti si sentì naturalmente condotto ad esprimersi per quella via indiretta e ad allegorizzare, come vediamo anche nella Divina Commedia, che è il più alto e significativo portato di quella età. Di questa dottrina parla Dante esplicitamente anche nel Convito, dove pure non lascia di farne applicazione a Virgilio rammentando «il figurato che del diverso processo delle etadi tiene Virgilio nell'Eneide» e spiegando poi nello stesso libro questo senso figurato dell'Eneide in modo poco diverso da quello di Giovanni di Salisbury[348]. Neppure il risorgimento rinunziò intieramente a questa esegesi allegorica di Virgilio, ammessa anche allora da uomini illustri quali Leon Battista Alberti, e Cristoforo Landino[349].

CAPITOLO IX.

Quantunque in libri di uso scolastico trovinsi alcuni miti interpretati allegoricamente secondo il Mythologicon di Fulgenzio, non è da credere che l'interpretazione allegorica dell'Eneide, quale trovasi nel De Continentia fosse svolta in quelle scuole elementari di grammatica alle quali propriamente apparteneva Virgilio come testo scolastico. Quella ricerca di sensi arcani nel libro del grande poeta, quello scrutare nelle profondità del sapere maraviglioso che a lui si attribuisce, è opera, come già vedemmo in Macrobio e vedesi anche in Fulgenzio, di gente che vuol essere affatto estranea alla scuola e tenersi molto al di sopra di essa[350]. Il maestro che avesse voluto esporre quella allegoria sarebbe stato obbligato ad un corso speciale su Virgilio, nel quale tutta l'Eneide fosse commentata in modo continuo, con uno scopo diverso da quello del materiale insegnamento della grammatica latina, a cui principalmente doveva servire l'esposizione di Virgilio nelle scuole medievali. Curioso e interessante sarebbe conoscere dappresso queste scuole e i maestri e il loro insegnamento, studiare l'uso di Virgilio in quelle e l'idea che ne riportavano gli scolari. Ma un'ombra fitta ricopre, nel medio evo, questo importante ramo di attività, allora più che mai modesto ed oscuro. A farci però un'idea assai sufficiente della natura e del livello di quell'insegnamento servono quelli che possiamo considerare come i monumenti scolastici dell'epoca, e che possediamo in buon numero, cioè le grammatiche, e i commenti a Virgilio e ad altri autori.

Il numero degli scritti grammaticali composti dopo la caduta dell'impero lungo tutto il medio evo, è assai considerevole. Taluni sono opera di uomini che ebbero in un'altra sfera di attività, per quei tempi più importante, la ragione di molta nominanza; altri sono opera di grammatici di professione che limitarono a questo genere di sapere laico la loro produttività. Il valore degli uni e degli altri è nullo; più oscuri, quantunque alcuni assai adoperati e citati, sono naturalmente i secondi. Quell'opera ha così poca pretensione di originalità, è ridotta ad un uso talmente materiale e quasi di mestiere, ed è considerata come di un ordine talmente secondario rimpetto alla meta della vita intellettuale del tempo, che molto facilmente essa diviene impersonale. Come per tante cose d'uso triviale che servono ai bisogni della vita giornaliera, il nome dell'autore poco importa. Perciò gli autori meglio conosciuti sono quelli che si distinsero nel campo ecclesiastico ed in questo campo istesso trovarono la ragione di scendere al più modesto ufficio di grammatici. Degli altri molto spesso non si conosce neppure il nome, e di rado qualche cosa più di questo; di non pochi in mancanza di dati esterni e d'ogni speciale caratteristica interna, oggi è impossibile segnare l'età precisa. Molti scritti grammaticali, che certamente non furono pubblicati anonimi, sono giunti a noi senza nome d'autore attraverso alle copie fattene pel volgare uso della scuola. Quelli scritti sono in generale considerati e trattati come proprietà comune; si aggiunge, si toglie, si modifica a capriccio e senza riguardo veruno; e quest'uso dura come cosa ammessa fino alle ultime epoche del medio evo. Alessandro da Villedieu (sec. XIII), nel prologo al suo glossario in versi, prega di fare aggiunte o modificazioni al suo lavoro con moderazione ed in margine; e deplora l'inconveniente che deriva dall'usare in questo troppa libertà[351]. Scopo propriamente filologico non c'è; tutti compongono per una ragione prattica. Così Cassiodoro, Isidoro, e i dotti, distinti per quel tempo, delle scuole irlandesi ed anglo-sassoni, Beda, Aldelmo, Clemente e gli altri; nè altrimenti i numerosi autori di scritti grammaticali che provocò il movimento di resurrezione impresso da Carlomagno a questi studi; Smaragdo, Alcuino, Rabano Mauro non iscrivono di grammatica che in vista delle scuole riaperte per cura di quel principe. Nè filologico è il nuovo carattere che presentano gli scritti grammaticali, influenzati nella parte teorica dalla scolastica, dal XII secolo al XV. In tanta decadenza degli studi laici il solo fare qualcosa in questo genere basta a dare un merito all'autore; non si chiede se fa bene o male, nè la critica si trattiene in queste materie. Dinanzi alla povertà d'idee e di cognizioni che è patente nei più distinti, spaventa il pensare al grado che la barbarie e l'ignoranza dovea raggiungere fra il gregge più basso e più triviale degli insegnanti di mestiere.

Il livello generale delle menti è bassissimo nè i maestri sono meno imbarazzati nello scegliere e nel porgere le dottrine, di quello siano gli allievi nell'intenderle e nel profittarne. Da questo imbarazzo e da questa preoccupazione nasce il continuo sminuzzare, abbreviare e rimpastare in mille maniere del vecchio materiale, «pro fratrum mediocritate» come dice umilmente il titolo di un compendio di Donato attribuito a torto ad Agostino[352]. Per molti altri esempi possono servire le seguenti caratteristiche parole che trovansi premesse ad un rimpasto di Donato che porta il nome di Beda[353]: «Il libro delle arti di Donato è stato da molti talmente guasto e corrotto, ciascuno aggiungendo liberamente ciò che gli piace o che prende da altri autori, oppure inserendovi declinazioni, coniugazioni e simili cose, che soltanto ne' più antichi manoscritti si ritrova puro ed intatto quale l'autore l'ha pubblicato. Il che onde non si creda che anche da noi si faccia, abbiamo voluto dire qui perchè sia stato posto assieme il presente scritto. Tutti coloro che di quest'arte sanno anche più di noi, ben conoscono che il prefato grammatico ha scritto la sua Ars prior per istruzione de' fanciulli, a domande e risposte, secondo ch'egli giudicò potesse bastare agli ingegni ed agli studi del suo tempo. Siccome però noi, ed altri come noi, siamo tanto ebeti ed ottusi d'ingegno, che per lo più non sappiamo nè come interrogare nè come rispondere, abbiam compilato, conforme alla pochezza del nostro intendimento, questo libricciuolo non necessario per le menti più acute e più destre, utile però, a nostro credere, alle più semplici e meno pronte.»

Allorchè Carlomagno rinfocolava e richiamava a vita i vecchi studi latini, già di mezzo al latino, tuttavia dominante nelle scritture, si facevano strada i volgari neolatini, come già prima avean fatto i volgari di popoli non latini o non latinizzati, di stirpe celtica o germanica: ed insieme, nel grande abbassamento della cultura e di mezzo alle gigantesche lotte di popoli, eransi anche pronunziate e distinte le varie nazionalità, prima confuse nell'unità romana. Il che naturalmente rendeva più ardua l'opera dei grammatici, che dovevano ricondurre al latino menti già divenute troppo estranee ad esso; e la massima parte di costoro essendo di stirpe non latina, ed avendo già la coscienza della propria nazionalità, nel maneggiare l'antico materiale latino, sentivano e spesso anche confessavano schiettamente la propria barbarie[354], e malamente lottavano colle difficoltà da quella procedenti. Così nella farragine di quegli scritti grammaticali regna una ignoranza ed una confusione d'idee da sorprendere spesso anche i meglio preparati. Il concetto della latinità è sempre vago e rozzo e profondamente turbato dalla influenza dell' uso[355], ossia di quel latino basso ed imbarbarito che viene generalmente usato come lingua che pur vive benchè di vita artificiale, e trovasi esemplato nella letteratura ecclesiastica, a cui non possono negare autorità, anche grammaticale, uomini che la forma comune del pensare rende affatto incapaci di porsi su piede esclusivamente profano[356]. Mancando quindi un criterio ben solido ed applicabile con rigorosa coerenza, tutto vacilla, e mentre tutto riposa sull'autorità, di questa stessa autorità non si ha alcuna giusta idea che ne determini e circoscriva la natura ed i limiti[357]. È un continuo andar tentoni, senza lume, senza direzione, senza guida, fermandosi alla parola di qualsivoglia libro capita dinanzi, senza badare a contradizioni, incompatibilità o controsensi.

Oggi cercare la via di quelle menti in questi lavori, tentare di seguirla, è impresa disperata, è uno strazio spietato del senso comune. Chi però si è abbastanza internato in quella Babele, ed è riuscito a ben concepire la natura ed il grado di quella confusione, non si maraviglia vedendo sorgere di mezzo ad essa quella enimmatica mostruosità, ridicola e trista ad un tempo, che è il Virgilio Tolosano[358], il quale considerato rispetto a ciò che lo attornia, e sul fondo da cui si distacca, fa l'impressione di una grottesca ironia. È questo il solo grammatico del medio evo che possa realmente dirsi affatto nuovo ed originale; ma quale originalità! Idee, fatti, nomi d'autori, parole, regole, teorie tutto inventa la feconda sua fantasia, fino a distinguere dodici specie diverse di latinità ed a riferire Virgilio ai tempi del diluvio. Questo strano scrittore che pretende ad una grandissima autorità grammaticale, e perciò vuol chiamarsi Virgilio Marone, nello squallore dei tempi a cui appartiene (VI-VII sec.), rammenta quei vegetali fetidi e di brutto aspetto che nascono dallo imputridire delle foglie cadute in autunno. Dinanzi a quel fatuo, incessante fantasticare si rimane perplessi ed attoniti, e mal se ne intende lo scopo e la ragione; niuno fino ad oggi ha saputo spiegarsi questo Virgilio intieramente. Dirlo un cerretano è poco, vista la estensione del suo lavoro e il distacco completo dalle idee e dalla tradizione comune; pensare ad una satira, non lo permette la natura e il tono dei suoi scritti; è facile chiamarlo un eccentrico o un mentecatto, scompiglia però non solo il non trovare in tutto il medio evo una voce che si levi contro di lui, ma il vedere anzi che più manoscritti hanno conservato i suoi lavori insieme a quelli di altri grammatici, che Beda, Clemente irlandese ed altri uomini stimati citano seriamente la sua autorità, ed il trovare nello scritto di un anonimo intitolato Hisperica famina[359], nel Polyptychum di Attone di Vercelli[360] e in più altri scritti medievali[361] una strana latinità convenzionale e misteriosa che fa ripensare a questo Virgilio, il quale senza dubbio apparisce come un caposcuola autorevole e rispettato. Son fatti questi che mostrano, in prodotti anormali e meramente patologici, il marcido stato degli studi classici del medio evo. C'è in quanto li concerne un'assenza di attenzione razionatrice, una sonnolenza morbosa, per la quale il sapere, perduti i legami logici e la tessitura teoretica che lo rendono vitale e compatto, rimane inerte nelle menti, mescolato e confuso con sogni e fantasmi d'ogni maniera.

I sommi autori della grammatica sono sempre Donato e Prisciano, e dopo di essi Carisio, Diomede e gli altri compilatori della decadenza; intorno a questi però si accumulano un numero di autorità nuove, che in fondo tutto desumono da essi e di nuovo non aggiungono che errori; il numero sopratutto degli abbreviatori, rifacitori e commentatori di Donato è veramente sorprendente. La confusione in più compilazioni grammaticali arriva al punto che, con una cecità inaudita, le fantasticherie del Virgilio grammatico sono citate di piè pari con Donato e con Prisciano[362]. La stessa irrazionale mescolanza e strana confusione si rivela nelle esemplificazioni delle dottrine grammaticali e negli autori spiegati nelle scuole. Virgilio domina sempre come prima autorità negli scritti grammaticali e come principale autore scolastico; la sua vecchia e meritata fama di gran maestro nella proprietà del dire non si perde mai[363]; ma agli antichi autori che in quest'uso venivano un tempo dopo di lui si sono aggiunti poeti e scrittori di picciol valore e anche d'infima lega, che pure sono citati quasi fossero buoni modelli dello scriver latino e grandi autorità di lingua. Prudenzio, Giuvenco, Sedulio, Avito, Prospero, Paolino, Lattanzio figurano accanto a Virgilio, Lucano, Stazio, Giovenale. E ciò comincia assai di buon'ora, come ognuno può vedere nel noto libro di Isidoro. Nel libro De dubiis nominibus, di cui i MSS. più antichi risalgono al IX secolo[364] l'autore più citato dopo Virgilio è Prudenzio, poi Giuvenco e poi Varrone; quindi Paolino, Lattanzio, Sidonio ecc. Talvolta uno stesso manoscritto riunisce glosse su poeti diversissimi sott'ogni rapporto, quali per es. Virgilio e Sedulio[365]. Fra i poeti cristiani colui che godette di maggior voga e più fu letto nelle scuole è Prudenzio, il «prudentissimus Prudentius» come lo chiama Notker il Balbo[366]. Difatti, questo poeta, imitatore anch'egli di Virgilio, è realmente il più notevole fra i poeti cristiani, e l'uso che se ne fece è provato dai MSS. numerosi che ce ne rimangono, fra i quali uno del VI secolo. Nè soltanto i poeti e i padri cristiani sono citati nelle opere di grammatica e letti nelle scuole insieme ai classici, ma anche al testo della vulgata la pia barbarie di quei grammatici attribuisce autorità di lingua, perchè «ispirato dallo Spirito Santo, più sapiente di Donato»[367].

E l'ignoranza è grandissima. Più d'uno e fra gli altri Smaragdo, prende l' Eunuchus comoedia e l' Orestis tragoedia che cita Donato, per due nomi di autori. Di greco non sanno neppur tanto da spiegare i termini più comuni della scuola, ai quali talvolta assegnano etimologie da sbalordire. Poema, secondo Remigio da Auxerre (IX sec.), vuol dire positio; emblema vuol dire habundantia[368]. Non parlo delle questioni futili, delle difficoltà immaginarie, delle bizzarre ed arbitrarie soluzioni. Nelle citazioni, spessissimo di seconda mano, non di rado un autore è citato in luogo di un altro[369]. Quanto poi la mente di questi uomini fosse altrove si vede in taluni casi, assai frequenti, nei quali applicando l'anagoge anche alla grammatica, ripensano, come fa un anonimo (IX sec.), alle persone della trinità divina a proposito delle tre persone del verbo[370], o, come fa Smaragdo, ai numeri biblici a proposito delle otto parti del discorso[371]. Nè più serio era lo studio dell'ortografia, ad onta dei molti trattati che si scrivevano su tal materia; e ciò vedesi dai tanti manoscritti nei quali si rivela evidente la pronunzia volgare e barbara del paese in cui furono copiati[372].

Qual cosa potesse essere la esposizione degli autori possiamo argomentarlo dai commenti che ci rimangono di quest'epoca. In essi la confusione, l'arbitrio e l'ignoranza si accusano anche più fortemente che nelle opere di grammatica. Anche qui lo stesso irrequieto compendiare, rifare, interpolare. Come fra i grammatici Donato, e fra i poeti Virgilio, così fra i commentatori Servio domina nelle scuole, quale satellite del grande poeta; ma la massa di note che il medio evo ha trasmesso a noi con quel nome, se in gran parte appartiene a Servio, in buona parte appartiene anche al medio evo stesso che, fino all'ultima sua fine nel XV secolo, non cessò di interpolare e di guastare quel testo. Oltre poi a Servio così interpolato, a Donato, Aspro ed agli altri commenti antichi che guasti ed interpolati egualmente, sono giunti a noi attraverso al medio evo, giacciono, in grandissima parte inediti, nelle biblioteche molti commenti di origine medievale, per lo più anonimi, su Virgilio ed altri autori. La indomabile pazienza degli odierni filologi non si è mostrata ancora abbastanza robusta per affrontare il disgustoso lavoro di cercare in questo enorme ammasso di chiose quello che potrebbe esservi di proveniente da fonti antiche. Gli scolii bernensi del nono secolo, già messi a luce dall'Hagen[373], proverebbero che qualche cosa da raccogliere potrebbe pure trovarsi. Ma in tutte quelle parti che sono opera propria del medio evo, quel che v'ha di più notevole è un'ignoranza talmente spettacolosa, che talvolta si domanderebbe se l'autore impazzi o vaneggi. Che cosa pensare di un commentatore che spiega efficiam per effigiem, imaginem?[374] o che in luogo di Quo te, Moeri, pedes legge Quot Emori pedes, e in questo trova un'allusione alle quattro zampe di una specie di velocissimo cavallo saracinesco detto Emoris?[375] Che dire di un altro che incomincia il suo commento (in latino stranamente barbaro) alle Bucoliche con queste parole: In quel tempo essendo Giulio Cesare a capo dell'impero, regnò Bruto Cassio sulle dodici pievi dei Tusci, e nacque guerra fra Cesare e Bruto Cassio, col qual trovavasi Virgilio, e Bruto fu vinto da Giulio; dopo di che Giulio fu ucciso a colpi di sgabello?[376] In un altro commento che lessi manoscritto a Venezia i tre generi di stile dei quali tocca anche Servio in principio al suo commento, vengono così distinti: «Stile sublime è quello che tratta di alti personaggi, re, principi, baroni; ed è lo stile dell'Eneide; il mediocre stile tratta di persone di ceto medio; ed è quel delle Georgiche; lo stile basso tratta di persone d'infima condizione, quali sono appunto i pastori, ed è perciò lo stile delle Bucoliche»[377]. V'ha un commentatore di Giovenale che pullula di spropositi incredibili messi giù con una disinvoltura maravigliosa[378]; elenco secondo lui, significa titolo di libro, e viene dal greco elcos (sic) che vuol dire sole «perchè come il sole illumina il mondo così il titolo rischiara tutto lo scritto»; provincia ha significato avverbiale e vuol dire celeremente, ed inoltre significa anche provvidenza, regione e patria; circenses deriva da circum enses, «perchè da una parte correva il fiume, dall'altra piantavano delle spade e lì nel mezzo facevan le corse»[379]. Non si finirebbe se si volesse riferire tutto il vaniloquio ignorante di costui e di tanti e tanti altri[380]. Questo è duopo avvertire, che molti errori di questa gente si spiegano dall'essere divenuto già, in molti paesi, il latino estraneo all'uso comune e dall'aver prevalso i volgari. Certamente in paese dove il latino fosse parlato e familiare, o si parlasse un linguaggio neo-latino, non sarebbe stato possibile prendere, come fa quello scoliasta, senza dubbio tedesco[381], di Giovenale, umbella per una specie di pietra verde, asparagus per un pesciolino od una specie di fungo.

La difficoltà che nell'intendere il latino provavano già i popoli non latini o non latinizzati, vedesi anche chiaramente nella sostituzione che ha luogo fin dal settimo secolo, dei volgari celtici e teutonici al latino nelle glosse. L'uso di spiegare in latino i vocaboli degli scrittori studiati, era divenuto incomodo o meno opportuno; quindi le numerose glosse celtiche, anglosassoni, o antico-alto-tedesche, oggi tanto preziose per la conoscenza e la storia di quelle lingue, che accompagnano i testi biblici, più scritti ecclesiastici, e i versi dei poeti classici e cristiani[382]. Dei poeti cristiani Prudenzio ha sempre la palma; Raumer annovera 21 MSS. di questo autore corredati di glosse antico-alto-tedesche[383]. Fra i classici il più ricco di tali glosse è naturalmente Virgilio; esistono anche antichi vocabolari latino-germanici esclusivamente desunti da glosse virgiliane[384]. Questo movimento doveva avere per ultimo risultato le traduzioni in quelle lingue. Non rammenteremo qui il più antico fatto di tal genere che si presenta presso i Goti, come quello che si collega con cause e condizioni più speciali. Re Alfredo, l'Augusto degli anglosassoni, nel IX secolo traduceva in anglosassone Boezio ed il De cura Pastorali di papa Gregorio. Egli che per fare queste traduzioni aveva avuto bisogno che altri ponesse quei testi in parole più semplici ed in forma più chiara[385], non si attentava a tradurre Virgilio, che però anch'egli, come tutti, considerava come il padre dei poeti latini e il discepolo di Omero[386]. Non così il tedesco Notker, che nel X secolo traduceva le Bucoliche, Marziano Capella, Boezio ed altri scrittori[387]. Questa scelta degli autori in voga coi quali Virgilio divide l'onore di queste prime traduzioni è piena di significato per la caratteristica del nome di questo poeta nel medio evo.

Assai meno che la grammatica offre da dire la retorica del medio evo, in quanto è continuazione della retorica classica. La retorica, come seconda delle sette arti, è tenuta in onore, ma essa è lungi dall'apparirci in realtà con quei colori splendidi di arte sovrana con cui la presentavano nella decadenza Ennodio, Capella ed altri. Commenti di opere antiche, rimpasti e compendi non mancano neppur qui; ma non raggiungono quel gran numero che toccano le opere grammaticali. Propriamente della retorica classica non sopravvive che lo schematismo, la terminologia, certe definizioni e singolarmente quella parte relativa ai tropi e alle figure che già da antico tempo la collegava alla grammatica, della quale diviene così come un'appendice[388]. L'oratoria cristiana ed in generale lo stile cristiano aveano natura e risorse del tutto proprie e particolari, e chi li consideri nell'essenza loro non si maraviglierà se il trattato di Alcuino sulla retorica[389] cominciando colle solite divisioni e definizioni delle parti e dei generi dell'orazione, insensibilmente si fuorvia in definizioni che spettano alla dialettica e finisce in morale con una serie di definizioni relative alle virtù.

Dato il carattere dello stile cristiano, e le idee e i sentimenti e gli scopi degli scrittori, qui assai più che per la grammatica era ovvio e giustificabile l'uso dei libri sacri, per la esemplificazione. Ed infatti anche per la retorica ha luogo quella stessa mescolanza di autorità che abbiamo notato per la grammatica[390]; ma l'uso degli esemplari sacri non giunge realmente mai alle proporzioni che potrebbero aspettarsi e che anche qualche dottore più fervoroso vorrebbe vedere raggiunte. La grande remora sta, più che in altro, nello studio grammaticale che era connesso assai intimamente col retorico, e fissava solidamente nella tradizione antica il primo fondamento e la naturale autorità dello studio profano, ad essa richiamando quindi anche per le altre discipline. Inoltre tutto il vecchio apparato di termini, definizioni, divisioni ecc. imponeva in modo inevitabile l'autorità antica, quando l'indifferenza per questi studi non era tanta da farli dimenticare affatto, e mancava d'altro lato per essi calore ed energia sufficiente a produrre un radicale rinnovamento[391].

Come autorità in fatto di retorica, Virgilio seguitava ad averne quel tanto che gli assegnavano gli antichi trattatisti ancora letti nelle scuole e la voga sua come autore universale; però la prevalenza, fra gli altri trattatisti, di Cicerone rendeva meno frequente l'occasione di rammentare il Mantovano nelle scuole dei retori. Pur nondimeno il posto suo nella grammatica e i rapporti fra questa e la retorica, insegnate da uno stesso maestro, portavano naturalmente all'uso del suo libro anche per quest'altro studio, com'era accaduto già in epoca più antica. Gerberto, come già i retori della decadenza, credeva indispensabile al retore lo studio dei poeti per la ricerca delle locuzioni, e spiegando Virgilio, Stazio, Terenzio, Giovenale, Persio, Orazio e Lucano introduceva alla retorica i suoi alunni[392]. Quella parte del libro di Macrobio che si riferisce alle virtù retoriche di Virgilio trovasi in qualche MS. unita alla biografia del poeta attribuita a Donato[393]. Certamente di quella parte, che, come vedemmo, può considerarsi come un compendio di retorica, il medio evo fece assai uso e ad essa vanno riferite certe curiose parole, che trovansi nel Fior di Retorica di Fra Guidotto, su Virgilio, come colui che in piccol volume riunì la somma di quest'arte[394].

Negli scrittori di prosa del medio evo le reminiscenze virgiliane sono frequentissime e s'incontrano in Orosio nel V secolo[395] come in Liutprando nel X[396]. Ma la retorica ebbe speciale influenza sulla poesia e, singolarmente nel primo medio evo, diede luogo a produzioni che riguardano Virgilio da vicino, delle quali dobbiamo avviarci a parlare, rivolgendoci per poco addietro sulla via che già abbiamo percorsa.

CAPITOLO X.

Le notizie che abbiamo sulla vita di Virgilio ci sono pervenute attraverso alle scuole dei grammatici e dei retori: singolarmente le dobbiamo all'uso ovvio ed antico, di premettere alla esposizione degli autori nelle scuole qualche notizia sulla loro vita; perciò le biografie virgiliane che ci rimangono, tutte più o meno compendiose, appartengono in generale o appartenevano a commenti d'uso scolastico. Quanto in queste biografie proviene da fonti antiche dei primi tempi dell'impero, non offre propriamente alcunchè di caratteristico pel nostro studio; tutto quello che per noi può avere qualche importanza appartiene ai tempi della decadenza e del medio evo; perciò abbiamo creduto differire fin qui a parlare di quanto concerne la tradizione relativa alla vita del poeta, onde studiare l'assieme delle varie notizie piuttosto nella luce di questa ultima età che in quella dell'epoca classica, dopo avere osservato le peripezie del nome virgiliano nell'ambiente retorico e grammaticale di più epoche successive.

Proporzionatamente alla sua nominanza ed al posto che occupava nelle lettere e nelle scuole, Virgilio è fra i poeti latini quello intorno alla cui vita più fu scritto e più ci rimane. Noi abbiamo intorno a lui un numero di notizie autentiche che ce lo fanno scorgere nella sua realtà storica in modo luminoso; e ciò è tanto più degno di nota che queste non sono tratte, come per es. accade per Ovidio, dalle opere stesse del poeta, ma da memorie e documenti biografici propagatisi parallelamente alla sua rinomanza. Nelle sue opere Virgilio, per la stessa natura loro, di rado ha, come Ovidio, Orazio ed altri, occasione di parlare di sè stesso; e quando lo fa, come accade nelle Bucoliche, in modo indiretto e coperto, l'allusione non si scopre che in grazia di notizie apprese esternamente e conservate per tradizione nei commenti. Naturalmente su di un uomo che in modo tanto eccezionale attirò su di sè l'attenzione, molto fu scritto e molto fu detto dagli stessi contemporanei[397]. Gli amici suoi Vario, Melisso[398] ed altri che godettero della sua intimità lasciarono scritti speciali sulla sua vita e sul suo carattere; poi scrissero su di lui altri che non lo conobbero, ma furono abbastanza prossimi al suo tempo per udire parlar di lui uomini che lo avevano conosciuto; così Asconio Pediano il quale non conobbe il poeta, ma scrisse il suo libro contro i detrattori di esso quando freschissima ne era ancora la memoria, e così potè colla testimonianza di uomini autorevoli parlare della vita e dei costumi di lui in quello scritto. Sulla fine del regno di Tiberio molto rammentava ancora su Virgilio il vecchio Seneca, già nonagenario, che avea conosciuto i più distinti uomini dell'evo augusteo[399]. E del resto, come sempre accade in queste nominanze, la fama doveva narrare più aneddoti, veri, o falsi, sul poeta e necessariamente non poche cose su di lui dovevano essere dette e ripetute per tradizione orale, comunque originata. Di questa tradizione orale, del riferirsi alle parole dei più vecchi in fatti concernenti Virgilio e le sue opere, trovansi esempi fino al principio del II secolo[400]. In questo tempo appunto Svetonio poneva assieme la sua dotta compilazione storico-letteraria De viris illustribus, e servendosi dei materiali sopra indicati, dava, nella sezione relativa ai poeti, un riassunto della vita di Virgilio. L'opera di Svetonio fu poi grandemente adoperata, come repertorio, dai grammatici, i quali da essa a preferenza estraevano le notizie biografiche che premettevano ai commenti, o alla esposizione degli scrittori nelle scuole. Da questa opera, oggi perduta, ma di cui ritrovansi numerosi e cospicui frammenti, provengono anche le principali notizie biografiche che oggi abbiamo su Virgilio e che ci sono offerte dalla biografia più ampia oggi superstite, quella che porta il nome di Elio Donato[401] perchè premessa da questo grammatico del IV secolo al suo commento virgiliano[402].

Così il fondamento delle notizie che ci rimangono non è propriamente un'opera speciale scritta di proposito sulla vita del poeta, ma un compendio, quale doveva esserlo un articolo di un repertorio storico-letterario. Donato non ha fatto che copiare Svetonio quasi sempre alla lettera; difatti in quella parte della biografia che può considerarsi come genuina e solo si trova nei MSS. più autorevoli ed antichi, ben si riconosce lo stile svetoniano secco e freddo, ed il modo proprio di questo scrittore di accozzare notizie di natura aneddotica senza cementarle con pensieri o sentimenti propri. Quantunque nell'assieme si riconosca che trattasi di un poeta eccezionalmente venerato e famoso, e si vegga anche un concetto di lui superiore a quello di qualsivoglia altro poeta latino, pure il tono della biografia è positivo e realistico, e non si riconosce in essa quel calore che siamo soliti incontrare presso quanti si trattengono a parlare di Virgilio. È questo il tono proprio di Svetonio che si ravvisa benissimo nelle sue biografie dei Cesari. Da Svetonio pure (il quale forse ne ebbe notizia da racconti orali, o da altri che simili voci avesse registrate prima di lui) proviene quella dose di maraviglioso che è nella parte sicuramente antica della biografia e consiste in presagi o segni della futura grandezza del poeta; come il sogno ch'ebbe sua madre, il non aver vagito quando nacque, e la grande altezza che tosto raggiunse il ramoscello di pioppo piantato, secondo l'uso, per la sua nascita[403]. Aneddoti di simile natura ritrovansi riferiti da Svetonio diligentemente in tutte le biografie dei Cesari, e nell'antichità sono cosa troppo ovvia perchè possano in qualche modo servire a dare un colorito speciale alla nominanza del poeta, benchè ne segnino la misura a livello delle più alte grandezze, e lo distinguano da tutti gli altri poeti latini. Perciò ha torto chi pone questi aneddoti accanto ai racconti favolosi del medio evo, che hanno una origine ben diversa. Forse non tutto quanto Svetonio scrisse su Virgilio nel suo articolo biografico fu riferito o copiato da Donato; comunque sia però, questa parte del commento ebbe maggior fortuna del resto e sopravvisse come opuscolo separato; fu letta durante tutto il medio evo, e servì di fondamento a non poche altre piccole biografie che accompagnano commenti e manoscritti virgiliani. Con essa rimase viva nella tradizione letteraria l'idea storica della personalità del poeta lungo tutta l'età di mezzo fino ai tempi nostri[404].

In generale in tutte le biografie prosaiche che ci rimangono non si trova quell'enfasi con cui siamo soliti udir parlare di Virgilio già nell'epoca classica e più ancora nella decadenza e nel medio evo. La tendenza a notare nel poeta qualche cosa di singolarmente specioso si riconosce in esse, ma tutte sono più semplici e più sprovviste di ogni colore subbiettivo o retorico di quello si potrebbe aspettare. La ragione di ciò sta in questo, che niuna di esse è un lavoro biografico intrapreso di piè fermo, ma tutte sono, come abbiamo accennato, raccolte di notizie messe assieme per servire all'uso prattico dell'insegnamento, come introduzioni ai commenti, dei quali serbano la maniera andante e senza elevatezza e il tono freddo e pedestre. Donato, sul quale si fondano più altri, non era certamente spinto dallo scopo scolastico del suo lavoro a supplire di suo alla mancanza di calore propria dell'opera svetoniana, e molto meno chi compendiava da lui. Lo stesso dicasi delle brevi e tumultuarie notizie biografiche che troviamo premesse ai commenti di Probo[405] e di Servio[406]. Ma se quell'iperbolico sentire che a riguardo del Mantovano regnava in tutto il mondo letterario non era rappresentato nello stile di queste disadorne e compendiose compilazioni, esso era come un fermento che doveva avere naturalmente per effetto di mescolare al retaggio delle notizie storiche non pochi fatti inventati o erronei o trasfigurati, taluni dei quali s'introdussero anche nel testo della biografia principale. Il medio evo infatti impresse il suo stampo in questa come in altre, ed è questo l'aspetto speciale da cui tal tema presenta un particolare interesse per noi[407].

Prima d'ogni altra cosa è d'uopo notare che questa invasione di elementi nuovi e falsi nella biografia virgiliana ha avuto luogo diversamente da quello fanno supporre i molti che hanno parlato di questa materia, i quali generalmente sogliono richiamare il fatto delle leggende di Virgilio mago, e considerare le interpolazioni della biografia Donatiana ed anche certi fatti che leggonsi in talune altre biografie medievali come dovuti a queste leggende. Questo errore, molto comune, riposa sulla confusione di due cose ben distinte per la loro natura, per la loro età e per la loro origine, quali sono le leggende popolari e le favole letterarie relative a Virgilio. Fra queste due categorie di prodotti favolosi c'è invero una comunanza di base, poichè ambedue partono da una idea esagerata della sapienza virgiliana; esse però sono diversissime tanto pel concetto di questa sapienza stessa, naturalmente molto più grossolano nelle popolari che nelle letterarie, quanto pel campo di attività totalmente diverso nel quale fanno esercitare lo straordinario sapere del Mantovano. Il Virgilio dei racconti popolari perde affatto il carattere di poeta; nella leggenda letteraria invece Virgilio riman sempre poeta, e la vasta e molteplice sapienza sua ha la poesia per organo e per prodotto. Di questa leggenda noi troviamo sufficienti ragioni e cause nei fenomeni storico-psicologici che siamo venuti studiando fin qui, i quali però non sarebbero sufficienti di per sè soli a spiegare l'origine delle leggende popolari, determinate da cause del tutto speciali, come vedremo. Naturalmente le une e le altre dovevano finire coll'incontrarsi; ma la leggenda popolare non esce dalla località ristretta in cui era nata e non acquista notorietà, divulgandosi nella letteratura, prima del XII secolo. Nelle biografie del poeta non se ne sente quindi l'influsso che assai tardi ed è anche un influsso lontano e limitato a poca cosa. Nella biografia di Donato, così in manoscritti del IX e del X secolo, come in manoscritti del XIV ed in stampe del XV, non si trova introdotto che un solo aneddoto favoloso, di cui parleremo altrove, nel quale si può riconoscere una influenza di quelle leggende, non perchè esso faccia parte di queste, ma perchè è il solo in tutta la biografia genuina e interpolata che faccia, come accade in quelle leggende, esercitare la sapienza mirabile del poeta in un campo estraneo alle lettere. Una biografia, pubblicata dall'Hagen[408] da un MS. bernense del nono secolo, contiene molte ingenuità, ma nulla che faccia pensare al Virgilio mago, come si trova in biografie posteriori, scritte dopo il secolo XIII. Vedremo nell'altra parte del nostro lavoro la leggenda popolare mescolata in uno strano connubio colle notizie biografiche desunte da Donato, da Bonamente Aliprandi, nel XV secolo.

La leggenda letteraria, intendendo con questo nome generico tutto quanto di non autentico trovasi riferito nella tradizione letteraria e creduto circa Virgilio come poeta, letterato, o dotto, non può dirsi offra una caratteristica speciale del poeta; essa caratterizza piuttosto, e ciò in piena armonia con quanto siamo venuti osservando, la natura di quel mezzo nel quale il nome del poeta si andò movendo fino a tutto il medio evo. Essa risulta da un numero di particolarità, o di aneddoti che s'incontrano sparsi, o mescolati alle notizie storiche, i quali non hanno evidentemente alcuna possibilità storica, ma pur non offrono nulla di soprannaturale. Procede direttamente dai grammatici e dagli studiosi di Virgilio; di rado è un prodotto puro e pretto della imaginazione, ma per lo più si collega con qualche fatto che amplifica o travisa, con qualche notizia o qualche verso che fraintende o spiega a suo modo. Fin dai primi tempi se ne trovano esempi in più di un si dice riferito da Asconio Pediano e poi da grammatici e da commentatori. Più tardi l'accumularsi degli esercizi poetici, ai quali presiedeva il nome e l'autorità del Mantovano, l'intorbidarsi e il perdersi di parecchie fila dell'antica tradizione e il crescere dell'ignoranza, allargava il campo e moltiplicava le occasioni alla produzione di idee erronee e leggendarie. È noto il distico: «Nocte pluit tota, redeunt spectacula mane, Divisum imperium cum Iove Caesar habet» e la storiella che narra come un plagiario si attribuisse questi versi, e Virgilio si lamentasse di ciò cogli altri versi, pubblicati anch'essi senza nome: «Hos ego versiculos feci; tulit alter honorem. Sic vos non vobis etc.» Quella storiella e i versi relativi, che di certo non sono di Virgilio, ebbero molta notorietà nelle scuole per tutto il medio evo, nè hanno cessato di averne a' nostri giorni[409]. In molti manoscritti di Virgilio di varie epoche que' versi trovansi segnati, e più d'uno scrittore medievale li rammenta. Il codice Salmasiano che li contiene[410], Cassiodoro[411] e Aldelmo[412] che li citano, provano evidentemente che nel VI e VII secolo erano già tanto noti quanto nelle epoche posteriori. Nella biografia di Donato essi e la storia relativa trovansi aggiunti soltanto nei manoscritti interpolati[413]. Indovinare precisamente come fossero attribuiti a Virgilio è difficile; forse essi furono introdotti in qualche MS. fra gli epigrammi di questo poeta, e passarono quindi come cosa sua nelle varie raccolte di poesie minori, delle quali abbiamo un saggio nel codice Salmasiano[414]. Non altrimenti si può spiegare come nello stesso codice Salmasiano trovisi attribuito a Virgilio un epigramma che non è altro se non un distico sentenzioso dei Tristia di Ovidio[415]. — Trovasi anche in corso fra i commentatori un'altra favoletta che si riferisce ad un emistichio dell'Eneide relativo ad Ascanio: «magnae spes altera Romae.» In questa l'ammirazione pel poeta è espressa facendolo brillare accanto al più grande luminare della prosa romana. Cicerone udendo cantare da Citeride in teatro la sesta ecloga, colpito dallo straordinario talento che in questa si rivelava, avrebbe chiesto di chi fosse e saputolo, avrebbe esclamato: «Magnae spes altera Romae!» (considerando sè stesso come la prima); queste parole sarebbero state poi introdotte da Virgilio nel suo poema riferendole ad Ascanio. Quella buona gente non ricordava che quando le ecloghe furono pubblicate Cicerone era già morto![416] La favola, che trovasi anche in Servio[417], è passata dai commenti nella biografia, come aggiunta alla notizia autentica del gran successo avuto dalle Bucoliche recitate in teatro. Evidentemente essa ha per base un qualche detto su Cicerone e Virgilio come principi della letteratura romana, nel quale a Virgilio si applicasse quel tale suo emistichio[418]. — La biografia interpolata si chiude con una serie di sette o otto sentenze dette da Virgilio in varie occasioni. Qualcuna di queste è basata sui versi stessi del poeta. Queste sentenze, che non offrono nulla di saliente e per lo più si riducono a luoghi comuni, non presentano Virgilio che dall'aspetto morale, come un uomo dolce e senza fiele, fornito di buon senso e di tatto prattico. Egli apparisce come tenuto in grandissima considerazione alla corte, e parecchie sentenze sono dette da lui in risposta a Mecenate o ad Augusto che lo consultano. L'ammirazione pel poeta rivelasi in taluni di questi aneddoti colle stesse parole ingenue che a lui vengono poste in bocca[419]. L'età di questa parte della biografia leggendaria è assai incerta; quantunque molto in essa tradisca il colorito e l'indole del medio evo, pur crediamo che qualche cosa di più antico vi sia, pel soggetto se non per la forma. Uno di questi detti virgiliani relativo ad Ennio trovasi già citato nel VI secolo da Cassiodoro[420]. È noto il gusto degli antichi per le raccolte di apoftemmi di grandi uomini. Probabilmente sentenze e motti di Virgilio figuravano in memorie sulla vita del poeta, e Svetonio nella sua compilazione, o Donato nel suo estratto di Svetonio, li lasciò da parte, ma da quelle fonti, poi perdute, si propagarono, turbandosi e mescolandosi con invenzioni, attraverso alla minor letteratura grammaticale meno avvertita e oggi nella massima parte perduta, ed anche attraverso alla tradizione scolastica. Un libro in cui si avrebbe diritto di aspettarne e a prima giunta si è sorpresi di non trovarne, sarebbe quello di Valerio Massimo. Ma questo insulso compilatore, che scrivendo in tempi tanto prossimi al poeta, avrebbe potuto essere per noi fonte di preziose notizie su di esso, ha adoperato servilmente fonti nelle quali, o per l'età o per la natura loro, non poteva essere menzione di lui; perciò in tutta l'opera non lo ha mai nominato neppure una volta.

Nelle biografie, desunte generalmente da Donato, che precedono commenti o accompagnano codici di Virgilio dei secoli IX, X, XI non si trovano aneddoti speciali che meritino la nostra attenzione; nè ancora trovasi in esse introdotto il soprannaturale nell'attività del Mantovano. Ben si rivela però un concetto esagerato della sapienza del poeta e singolarmente del suo sapere filosofico, quale non si trova nella biografia maggiore, quantunque tale idea esistesse già al tempo di Donato. Notevoli sono, da questo aspetto, certe strane etimologie del nome di Virgilio. In una biografia che trovasi in un codice del IX secolo questo nome è spiegato «quasi vere gliscens, essendo Virgilio maestro famosissimo di alta filosofia e molteplice nella sua fecondità, come la germinazione primaverile»[421]. Nel cod. Gudiano (IX sec.) di Virgilio, in cui trovasi tre o quattro volte narrata la vita del poeta, troviamo che «Marone ei fu detto dal mare, perchè siccome il mare abbonda di acque, così abbondava in lui la sapienza, più che in ogni altro»[422]. Dopo il XII secolo questa idea si accentua anche maggiormente in alcune biografie, nelle quali però già si scorge l'influenza delle leggende popolari introdottesi nella letteratura. In un codice Marciano del sec. XV che contiene un commento a Virgilio, trovasi una biografia nella quale l'autore dà libero corso alla sua ammirazione pel poeta: di Virgilio si può dire: «omne tenet punctum»; ed anche a lui possono applicarsi le parole del salmista: «omne quod voluit fecit»; e perciò di lui fu detto:

«Hic est musarum lumen per saecula clarum,

Stella poetarum non veneranda parum»[423].

All'intero commento serve di motto il verso:

«Omnia divino monstravit carmine vates.»

Ma fra le altre virtù virgiliane qui troviamo esplicitamente nominata la magia[424], di cui non è menzione in alcuna biografia anteriore al XII sec.

Oltre a quanto leggesi nelle biografie, trovansi negli scrittori del medio evo non poche idee erronee e notizie favolose su Virgilio. Già, come notammo altrove, i commentatori delle Bucoliche spesso imaginavano, senza alcun fondamento, fatti ai quali il poeta alludesse allegoricamente. Così secondo un commento che leggesi in un MS. del IX secolo, Virgilio avrebbe tenuto in Roma pubblica scuola di poesia, ed a ciò si riferirebbe il noto «formosam resonare doces Amaryllide sylvam»[425]. Curioso è il colossale anacronismo di un anglosassone il quale, prendendo alla lettera certe espressioni metaforiche, considera Virgilio come contemporaneo di Omero e suo discepolo ed amico[426]. Per una strana confusione di varie idee delle quali abbiamo già parlato, Pascasio Radberto asserisce che la Sibilla recitò in persona le dieci ecloghe dinanzi al senato[427]. È noto il soggetto del grazioso poemetto La Zanzara (Culex) attribuito a Virgilio; Alessandro Neckam riferisce quel fatto come avvenuto a Virgilio stesso e come occasione quindi di quella composizione poetica; ma poi si disdice, notando che avendo letto quel poemetto si è accorto di essere stato tratto in inganno da una falsa voce[428]. Una tradizione, che non ha nulla d'inverisimile, portava che Virgilio ricevesse non piccole somme dalla liberalità di Augusto[429]; particolarmente fra i grammatici era volgare la fama di una larga ricompensa data da Augusto al poeta pei commoventi versi: «Tu Marcellus eris etc.» che fecero una vivissima impressione sull'animo di Ottavia. Nel commento di Servio è detto che per quelli egli ebbe una somma solennemente pagata o contata in aes grave[430]. Quella somma viene stabilita nella biografia interpolata in diecimila sesterzi per ciascun verso[431]. Questa notizia la vediamo più tardi legarsi alla storia dei versi «Nocte pluit tota etc.» con singolari aggiunte. Benzone di Alba (XI sec.) dice che per questi versi Virgilio ebbe da Augusto danaro a profusione e la libertà[432]. La stessa cosa afferma Donizone[433]. Non contento di ciò Alessandro di Telese (XII sec.) dice che per essi Virgilio ottenne da Augusto in feudo la città di Napoli e la provincia di Calabria[434]; nella quale aggiunta noi vediamo la leggenda letteraria incontrarsi e mischiarsi colla popolare che allora già si divulgava nel Napoletano dov'era originaria; in questa Virgilio figura appunto come signore o patrono della città di Napoli. Di questi elementi che predisponevano il terreno letterario all'accettazione delle leggende popolari, è d'uopo rammentarsi per lo studio che intraprenderemo nella seconda parte di questo lavoro.

Se, per le ragioni che abbiamo accennate, quel tono enfatico con cui soleva parlarsi di Virgilio non avea luogo nelle biografie in prosa, esso avea un largo campo nelle composizioni poetiche che aveano per soggetto il poeta. La poesia di ragione classica, così nel medio evo come prima governata dalla retorica e confusa colla declamazione, si esercitava tenendo costantemente Virgilio dinanzi. In lui essa trovava il principale modello da imitare, in lui una specie di emporio retorico-poetico, da lui prendeva i temi per gli esercizi di versificazione declamatoria, e questi ultimi non soltanto dalle sue opere, ma dai suoi meriti e dai fatti principali della sua vita. Così avea origine la gonfia biografia virgiliana in versi, che ci è giunta incompleta, scritta nel VI secolo dal grammatico Foca, all'enfasi della quale serve di misura l'ode saffica che la precede[435]. Ma molte particolarità della vita del poeta erano volgarmente conosciute sia per le biografie annesse ai commenti e lette nelle scuole, sia per la esposizione scolastica delle sue poesie stesse, singolarmente delle Bucoliche. Le più spiccanti e notorie fra quelle particolarità furono speciali soggetti di esercizi poetici. Così la storia delle possessioni perdute e poi riacquistate per grazia di Augusto e per intercessione di Mecenate ed altri amici, era nota a quanti avean letto le Bucoliche, e più di un poeta latino trovò una ispirazione in quel fatto egualmente onorevole pel poeta e pel suo protettore; così Marziale[436], Sidonio[437] ed altri. In un codice del X secolo leggesi un esercizio poetico medievale consistente in una epistola in versi diretta da Virgilio a Mecenate allorchè le terre mantovane erano passate in possesso dei veterani[438]. Un epigramma dell'Antologia si riferisce al fratello di Virgilio, Flacco, immortalato dal poeta, secondo i commentatori e la biografia maggiore, nel Dafni della V ecloga[439]. Delle notizie provenienti direttamente dalla biografia niuna fu tanto trita quanto quella dell'ordine dato da Virgilio morente di bruciare l'Eneide; era questo un tema che si prestava assai alla declamazione, e difatti più d'una ne troviamo su tal soggetto. Già al tempo di Gellio e di Svetonio, Sulpicio Apollinare componeva su di ciò quei tre distici che troviamo riferiti nella biografia[440]. In epoca più tarda furono composti i distici che leggonsi nel codice Salmasiano, coi quali i Romani pregano Augusto di comandare che la volontà del poeta non sia eseguita[441]. Ma la declamazione su questo tema prende un tono assai più alto facendo parlare Augusto stesso, come troviamo nel famoso «Ergone supremis» etc., che forse faceva parte della biografia versificata da Foca, sopra rammentata[442].

Le composizioni stesse del poeta servivan poi di tema per esercizi di versificazione e di poesia. Ciò accadde anche per talune brevi poesie che trovansi riferite nella biografia. Così l'epigramma che, secondo il biografo, Virgilio giovanetto compose contro Balista maestro e ladrone, ebbe molta notorietà e trovasi in più codici, estratto certamente dalla biografia e mescolato con altre poesie di Virgilio e d'altri[443]. Esso fu imitato da più d'un poeta scolastico, e ben sei variazioni su questo tema, certamente di autori diversi, si trovano da un interpolatore introdotte nella biografia verseggiata da Foca[444]. Questi esercizi scolastici erano opera, non soltanto di scolari, ma anche di maestri; negli ultimi tempi della decadenza si trova l'uso di comporre in più su di uno stesso tema, a modo di tenzone, e se ne ha notevole esempio nelle composizioni dei dodici poeti scolastici o dodici sapienti[445], che prendono tanto larga parte dell'Antologia latina e, giudicando dalla cura con cui furono raccolte e conservate in più manoscritti, pare incontrassero molto favore. I temi sono vari; una descrizione, un fatto mitologico, le lodi di una persona; generalmente si preferiscono soggetti già trattati in modo celebre da qualche chiaro poeta, quale p. es. Ovidio[446], e più spesso Virgilio. Così il noto epigramma che leggevasi sulla tomba del poeta, e secondo la biografia sarebbe stato composto da lui stesso[447], trovasi rifatto in un distico e amplificato in due distici da ciascuno dei XII poeti[448]. A questo genere di esercizio appartengono anche gli argomenti in versi delle varie poesie virgiliane[449]. Il numero e la varietà di quelli che ci rimangono provano che anche questo esercizio era soggetto di una specie di certame scolastico. Taluni di questi riassunti versificati si riferiscono anche alle Bucoliche e alle Georgiche[450], ma i più si riferiscono all'Eneide. Si hanno argomenti a ciascun libro dell'Eneide composti di un sol verso, altri di quattro, di cinque, di sei, di dieci versi[451]. Una composizione di undici esametri, di incerta età, dà il numero totale dei versi di tutte le opere di Virgilio ed il contenuto di esse[452]. Il più antico esempio di questa sorta di lavori, ai quali per lo più Virgilio stesso presta non poco del suo, sarebbero gli hexastichi attribuiti a Sulpicio Apollinare; trovansi in un codice vaticano del V o VI secolo. Non sono certamente di molto anteriori a questa età i decastichi, preceduti da cinque distici nei quali Ovidio se ne dichiara autore[453]; nel che vediamo riflettersi il rapporto in cui erano realmente Virgilio ed Ovidio nell'uso scolastico di quel tempo. Poi composizioni di tal natura si fecero lungo tutto il medio evo. Non fu certamente Virgilio il solo a cui lavori simili si dedicassero, ma per lui si fece in tal genere assai più che per alcun altro poeta latino. L'Antologia offre anche parecchi epigrammi sulle lodi del poeta, generalmente fondati sul luogo comune del confronto con Omero per l'Eneide, con Teocrito per le Bucoliche, con Esiodo per le Georgiche[454]. In uno di questi epigrammi troviamo messo in versi il detto di Domizio Afro riferito da Quintiliano[455]. Due distici di stile metaforico e contorto pretendono dar consiglio a chi «con piccola barca si fa a percorrere il vasto pelago di Marone»[456].

Finalmente a questi esercizi della scuola fornivano materiali i luoghi delle maggiori opere virgiliane, quelli stessi che servivano di tema alle declamazioni in prosa. Più d'una composizione dell'Antologia è ispirata da luoghi siffatti[457], e singolarmente la scuola retorica si riconosce nei così detti temi virgiliani che sono studi su motivi retorici offerti dalle poesie virgiliane e propri alla declamazione, variazioni su versi del poeta, nelle quali il tono viene per lo più esagerato secondo la tuba e la pompa richiesta necessariamente dal gusto del tempo. Tali sono le parole di Didone ad Enea (Aen. IV, 365 sgg.), di Enea ad Andromaca (Aen. III 315 sgg.), di Sace a Turno (Aen. XII 653 segg.)[458]. Abbiamo inoltre una lettera di Didone ad Enea[459] in cui l'argomento virgiliano è trattato secondo la maniera di Ovidio, un lamento sulla rovina di Troia nel cui ritmo si riconosce evidente il medio evo inoltrato[460], ed altro di cui qui sarebbe superfluo parlare.

Propriamente il focolare di queste produzioni poetico-retoriche alle quali presiede l'autorità virgiliana, non può dirsi sia il pieno medio evo, ma piuttosto il principio di esso e gli ultimi tempi dell'impero. Il quinto e il sesto secolo sono singolarmente fecondi di questo genere di versificazioni nate nelle scuole, diffuse in quelle ed amorevolmente raccolte da uomini senza dubbio anch'essi di scuola, i quali senza scrupolo mescolavano le minori poesie degli antichi grandi maestri più note nelle scuole, ai prodotti scolastici più generalmente ammirati in quel tempo di cattivo gusto. Quindi quella strana confusione di nomi che complica le difficoltà dell'ordinamento critico dell'Antologia latina. Intanto colla importanza che così vediamo attribuita ai prodotti di una regione bassa e per lo innanzi condannata all'oscurità, si manifesta evidente l'ultimo spossamento della poesia classica che, ridotta ad anfanare miseramente nell'artificiale atmosfera della retorica, si consuma ed emacia al punto da mostrare le povere ossa sulle quali si regge. Quest'ultima nota smorta e scolorata della poesia latina, piuttosto che rimpetto all'antichità, abbiam voluto richiamarla rimpetto al medio evo, al quale con essa vengono tramandati e raccomandati i grandi esemplari antichi, ed essa soltanto dà l'intonazione per quel poco che quella età, tutta avviluppata nell'ascetismo monacale, potè produrre sulle orme della poesia classica.

CAPITOLO XI.

Se v'hanno due cose che stiano assolutamente agli antipodi, tali sono il sentimento pagano e il cristiano. È impossibile immaginare una differenza più grande, più profonda, nel modo di considerare il mondo esterno e l'interno. Il sentimento cristiano è assorbente in modo singolare, esso chiama a sè tutta l'anima dell'uomo, tutta la concentra in una idea; tutti i sentimenti, le passioni, gli affetti, gl'istinti che hanno tanta parte nelle produzioni artistiche, esso riforma e riduce, connaturandoli a sè stesso e facendoli convergere verso un solo scopo. Tutte le ispirazioni poetiche si incontrano in un obbiettivo solo: si ama in Dio, si geme in Dio, si esulta in Dio, si vive in Dio; Dio insomma è la base di ogni formola in cui si traducono, si risolvono o si acquetano gli affetti, i patemi, gli entusiasmi, le speranze, e le trepidazioni dell'anima umana. E l'orizzonte della vita è cambiato affatto, e con questo profondamente rinnovati tutti i principî escatologici di essa. L'occhio si figge ansiosamente sul problema della esistenza di oltre tomba, alla salvezza di questa tutta l'attività umana vuol coordinarsi. La vita terrestre è un peso, un pellegrinaggio, una prova dura e difficile, ed ora per la prima volta si ode dire che c'è una vita mondana, che c'è un mondo periglioso e nocivo, da cui l'uomo pio deve tenersi lontano. Una rivoluzione violenta bisogna che abbia luogo nella coscienza umana, perchè l'uomo possa arrivare a considerar così sè stesso e la società e la natura. Gl'ideali poetici concepiti in un'epoca di espansione spontanea, quando lo spirito non violentato nè torturato alcunamente, tutto il mondo, secondo natura, riconduceva a sè stesso, e con ingenua fiducia credeva in quello e l'amava e lo divinizzava, riconoscendovi, come in uno specchio fedele la propria immagine, doveano necessariamente ripugnare ad anime che vedevano in modo così nuovo e diverso l'essere umano, nei suoi rapporti col suo simile, colla natura, e colla divinità. Quel sentimento che potè avere per prodotto l'ascetismo eremitico e monacale quanta parte dell'animo poteva lasciare alla intelligenza del bello antico, alle idealità artistiche di Omero e di Virgilio?

Se il cristianesimo avesse continuato da solo là dov'esso era nato, limitandosi ad una riforma religiosa della stirpe giudaica, la natura sua propria e originaria lo avrebbe condotto ad una poesia di genere speciale che avrebbe potuto essere una seconda fase dell'antica poesia biblica, ad esso naturalmente più prossima. Sarebbe stata sempre una fase notevolmente diversa dall'antecedente; poichè c'è nella prima idea cristiana un sentimentalismo umanitario, una finezza e dolcezza di sentire religioso che dà a Cristo ed ai suoi un tipo ben distinto da quello di David, di Isaia, e delle più calde e poetiche anime dell'antica legge. In ogni caso però avrebbe certamente avuto in comune coll'antica poesia giudaica, il non essere figlia di una scuola e di uno studio che avesse l'arte per iscopo. Se c'era cosa che dovesse ripugnare alla natura di questo primo sentimento cristiano, tale doveva essere ed era in realtà, tutto quanto sapesse di convenzionalismo artistico, di affettazione, di ricercatezza, e mirasse ad uno scopo diverso dal puramente etico e religioso. In parte perchè ebreo di povera condizione nato e vissuto in Palestina e non tocco nè modificato in alcuna maniera, come tanti altri ebrei d'allora usciti dal suolo nativo, dalla civiltà greco-romana, in parte per la stessa natura eterea, sentimentale e mistica della sua dottrina, Cristo rimase estraneo e indifferente a qualunque cultura. La semplicità è nell'ideale cristiano la qualità prima fra le esterne, con cui si contrappone all'antico mondo civile. La più alta poesia cristiana non si produsse quindi nel campo artistico, dal quale i seguaci di Cristo, quanto più fedeli all'idea primordiale del Maestro, si tennero lontani. Essa, piuttostochè in forme, si rivelò in idee e in sentimenti espressi nel modo più ingenuo e pedestre; senza comporre un verso, senza pure immaginar di poetare, seguendo l'impulso che dava allo spirito la nuova idea ferventemente appresa e fomentata, produsse l'ideale di Cristo, che è senza dubbio il suo più alto portato poetico, e la cui entusiasmante efficacia non fu certamente piccolo elemento in quella magia che moltiplicò a milioni e neofiti e martiri. Non d'altra natura, ma semplici ed affatto non curanti della forma, sono le effusioni poetiche di Francesco d'Assisi e di chi scrisse della «Imitazione di Cristo», tardi ma fedeli e genuini echi della più vera e più originale cristianità.

Nel diffondersi pel mondo greco-romano, il cristianesimo trovava invero il terreno assai preparato negli elementi sì positivi che negativi della decadenza, e non era esso il solo nuovo prodotto che desse al pensiero e al sentimento di quell'epoca un carattere nuovo, ben diverso da quello dei periodi più splendidi irreparabilmente passati. Per un processo lento, di cui con sufficiente studio si trovano e si spiegano chiaramente le vie e le fasi, esso riuscì ad infiltrarsi nella società greco-romana, modificando questa, non però senza modificare sè stesso in proporzioni considerevoli. Lo spirito di proselitismo che era nella sua natura tanto gagliardo e invincibile quanto lo era per Roma lo spirito di conquista, lo ridusse a piegarsi a necessità ed a transazioni inevitabili. La prima concessione che dovette fare fu quella di istruirsi, di divenir colto, d'iniziarsi alla civiltà greco-romana, ed essendo questa troppo vitale per poterla estinguere, cercare di assimilarsela, per poterla influenzare nei suoi effetti ulteriori e modificare. Così (fatto strano quando si pensi all'ideale di Cristo e della società evangelica) i cristiani poterono divenire pittori e scultori, poeti d'arte e verseggiatori, e cercare un organo del loro sentimento religioso là dove Cristo non avrebbe nè immaginato di cercarlo, nè voluto che si cercasse. E in tal guisa avea luogo una prima e principale di quelle mille contradizioni appena palliate da ogni sorta di pii ripieghi suggeriti dalla fede, in mezzo alle quali il cristianesimo è venuto vivendo fino ai dì nostri.

L'idea cristiana indossando le forme dell'arte poetica antica non approdò mai ad altro che ad una specie di singolare travestimento, del quale l'abilità di qualche poeta non potè riuscire che a diminuire la stranezza. Non di rado il contrasto fra le forme e le idee tocca il grottesco e il ridicolo, per chiunque non abbia gli occhi velati dal fervore della fede che tutto scusa ed ammira in una parola guidata da questa. E veramente, se l'idea cristiana trovava una sufficiente preparazione ed elementi favorevoli nel campo in cui si andava propagando, non per questo essa trovava in quello forme artistiche appropriate e corrispondenti. Il misticismo e la nuova tendenza del pensiero che favorirono i trionfi del cristianesimo nella decadenza, appunto perchè prodotti di un deperimento e non di un rinnovamento, di una fiacca e delirante decrepitezza, non di una calda e giovanile energia, non determinavano quel grado di sentimento ardente che rinnova e crea l'arte plasmandola secondo la natura propria: essi ad altro non aveano servito che a malmenare l'arte antica, trascinandola in basso. Questa trovò dunque il cristianesimo così ridotta; la trovò viva apparentemente nelle scuole e nella cultura, ma spenta in realtà nell'intelletto e nel cuore. Quelle forme ormai vuote che erano proprietà domestica del mondo civile ed esemplate dai più grandi nomi del patrimonio intellettuale d'allora, il cristianesimo si occupò di trarle dai subbietti profani e pagani ai subbietti sacri e cristiani. L'uso di esse era realmente cosa tanto meccanica ed inerte, che parve naturalissimo considerarle come aperte al primo occupante, e capaci di adattarsi ad un sentimento qualunque. Eppure, nate in Grecia, esse avevano già fatto il salto non piccolo dalla grecità alla romanità, nè senza molto sforzo, e sol coll'aiuto dei più splendidi rappresentanti del genio latino, erano riuscite ad adattarsi a quest'ultima. Ora trarle ad una seconda trasmigrazione, ben più violenta della prima, perchè negazione recisa del pensiero poetico ed artistico ch'esse avevano seguito e servito in Grecia e in Roma, era una velleità che solo poteva nascere in una epoca in cui il dominio della retorica su tutta la letteratura avea fatto perdere il sentimento di quel rapporto necessario ed intimo che deve esistere fra le forme dell'arte e le condizioni dello spirito.

Insomma l'imitar Virgilio, come fanno Prudenzio, Sedulio, Aratore, Giuvenco e tanti altri poeti cristiani[461], mettendo in esametri la vita di Cristo, o vite di santi o fatti biblici, l'imitare Orazio, Ovidio ed altri poeti antichi componendo distici e carmi trocaici e giambici su fatti e idee cristiane, era un lavoro di sforzo, nel quale convincimenti, raziocini, moralizzazioni potevano esser cosa seria, ma la poesia propria del sentimento cristiano non poteva avere che pochissima parte, poche e stentate espansioni. Versificare il vangelo era un cristianizzare l'esercizio scolastico, ma era anche un togliere alla ingenua narrazione evangelica la poesia sua propria, per darle un ornato ripugnante alla sua natura. Però gli uomini educati nella cultura romana, che aveano sempre dinanzi agli occhi gli esemplari antichi, accolto il cristianesimo, dovevano vedere con compiacenza riempiuto, quantunque in modo insufficiente e posticcio, un vuoto che questo presentava per essi. La descrizione della tempesta negli esametri di Giuvenco prete richiamava alla mente loro la bella descrizione virgiliana; più d'un carme di Prudenzio li faceva ripensare ad Orazio. Che poi della poesia antica soltanto la forma ci fosse in quelle composizioni, che della poesia cristiana vera e propria non ci fosse che una parte troppo tenue, era cosa che poco importava in un'epoca in cui la poesia non si apprezzava che come retorica e versificazione. Per tal guisa la poesia cristiana, seguendo i tipi classici, era cristiana nell'argomento, pagana nella forma; quante volte un poeta cristiano uscisse dall'argomento sacro, i tipi classici gl'imponevano tanto e tanto che, come vediamo in Ausonio, a stento si riesce a distinguerlo da un pagano. Ciò si verifica sopratutto ai tempi della decadenza e del risorgimento, che sono quelli nei quali la poesia latina dei cristiani più si permette di divagare nel campo laico e mondano. E questa va contata fra le altre ragioni per cui, nel predominio dell'ascetismo, la poesia latina viene tanto generalmente consecrata ai subbietti sacri, e rifugge tanto dai profani. Ma anche ai tempi della decadenza, finchè seguitò a vivere il paganesimo, i cristiani che erano tali ferventemente e per elezione ed eran resi esaltati dalle lotte, concentrandosi intieramente nell'idea religiosa, poco accordavano nelle loro poesie ai temi non religiosi. Già in quest'epoca la cultura cristiana è rappresentata in massima parte dal clero e così anche la poesia; rari sono i laici cristiani di cui questi secoli ci abbiano tramandato qualche composizione. Fin da quest'epoca adunque già si prevede che cosa dovrà essere la società e la cultura quando il paganesimo sarà affatto estinto e tutto il mondo civile cristianizzato. È il carattere del medio evo; la prevalenza dell'autorità religiosa e dell'idea religiosa in tutti gli atti e in tutti gli ordinamenti della società che ne è penetrata fino alle più intime viscere; è il concetto della cristianità che si va sviluppando e applicando nei successivi trionfi del cristianesimo, il quale non è assorbito dalla società romana da cui nacque lontano e diverso, ma è invece assorbitore di essa. Le sfere dell'attività umana vengono ripartite con distacco e divisione profonda fra gli stati e condizioni varie degli uomini. La prima radicale divisione che si completa col completarsi del trionfo sul paganesimo è quella dei laici e dei chierici; ai primi rimane tutta la vita materiale, agli altri la cultura e la vita intellettuale; al laico par naturale che la cultura non sia cosa sua, nè si vergogna di non averne più di quello si vergogni di non essere chierico; la differenza netta e recisa finisce col riflettersi nei nomi, e chierico acquista il significato di uomo di studio, laico il contrario; il primo è distinto, ma non per questo l'altro è sprezzato; ognuno fa il suo mestiere. Così la cultura e la vita intellettuale resa privativa di una casta religiosa, si concentrava nella religione; tutti gli ordini sociali sentivano l'influenza di quella casta invaditrice per natura, per missione, e per tradizione, che aveva in mano il cuore e la mente di tutti, dal principe più potente fino all'ultimo dei villani.

Tutto ciò definisce la natura propria di quella continuazione che la poesia latina di forma classica potè trovare nel medio evo. Figlia della scuola e prodotto artificiale essa è opera del clero; il campo suo è principalmente religioso; a sentimenti ed affetti d'altra natura essa non viene applicata, ed anche quando il suo tema è profano, come p. e. nelle narrazioni versificate di fatti storici, le idee, le moralizzazioni mostrano sempre la tendenza ed il punto di vista schiettamente clericale e religioso. Nelle formole, nel metro, nell'applicazione dei mezzi poetici antichi si scorge sempre quella stessa barbarie e quella stessa ignoranza che abbiamo veduto dominare nelle scuole grammaticali e retoriche di quest'epoca, alle quali essa unicamente deve la propria esistenza. Non si cercava con essa nè lo sfogo di una passione o di un sentimento, nè la imitazione fina ed intelligente di un determinato tipo di arte, ma unicamente un esercizio di versificazione, un passatempo e nulla più; era un riposo, una distrazione alla quale si consecrava qualche ora, sempre però «ad maiorem Dei gloriam». Un poeta, o compositore di versi di professione, il quale non avesse altro carattere che questo ripugnerebbe troppo a quella gente, e mal potrebbe trovare chi lo stimasse. Ciò si scorge in modo evidente quando si osservano uomini come Lattanzio, Aldelmo, Alcuino, Beda, Rabano, Mauro ed altri dei più gravi far versi latini per trastullo come oggi si farebbe una partita di bigliardo, e divertirsi a scrivere in versi centinaia di enimmi, logogrifi, anagrammi, acrostichi ed altre simili puerilità. Il carattere proprio della poesia latina della decadenza si ritrova in queste composizioni metriche latine dei monaci del medio evo, salvo che le antiche forme sono assai più rozzamente trattate e ben si vede che, pel radicale cambiamento avvenuto, esse hanno anche meno di prima una ragione di esistere fuori della scuola[462]. E del resto è cosa chiarissima che nella letteratura chiesastica le forme letterarie si sono fissate, con quella stereotopia che in ogni cosa è propria della chiesa, sotto l'influenza di quel gusto e di quella condizione delle lettere che esistevano quando la società ecclesiastica si organizzò nel mondo romano. La retorica e la declamazione, la ripetizione eterna, illogica ed inconcludente di frasi e luoghi comuni, l'epitetare convenzionale esagerato e falso, le lumeggiature tolte da questo o da quell'altro scritto autorevole e venerato, e altre simili qualità rimasero nella letteratura ecclesiastica latina tanto invariabilmente quanto la liturgia e il rituale; le troviamo in Agostino, in Cassiodoro, in Gregorio, in Tommaso, come le riconosciamo in qualunque più recente allocuzione o circolare pontificia e nei moderni scrittori religiosi di fede cattolica, i quali appunto perchè medievali nella cultura, nel sentimento e nella dialettica, invano tentano di misurarsi col sapere odierno che non può badare ad essi.

Gravi incompatibilità rendevano grande il disagio in cui trovavasi l'idea cristiana e la poesia del cristianesimo nelle forme classiche. L'antica religione e l'antica poesia erano sorelle, e tanto aveano di comune nelle cause, nelle origini e nello sviluppo loro, che in grandissima parte s'identificavano. La mitologia, creazione poetica essa stessa, avea tanta parte nelle espressioni, nelle imagini, nei concetti e nel frasario poetico, per non parlare della parte ancor più essenziale che avea negli ideali poetici, che era impossibile ridurre le forme antiche a cantare Cristo e i santi senza che c'entrassero Apollo, le Muse e tutto l'Olimpo pagano. Ben è vero che, appunto per la natura schiettamente poetica di tutti quei fantasmi, potè avvenire che, dinanzi alla nuova idea religiosa, questi si spogliassero affatto del loro valore religioso e serbando, come nomi e fatti fantastici, il loro valore poetico, s'infiltrassero nella poesia e nell'arte cristiana e sopravvivessero anche nel pensiero moderno europeo fino ad un punto che può alla prima parer sorprendente[463]. Questo però potè avvenire, come fatto naturale e senza scapito, in tutta l'arte di forma nuova, nella quale quanto era superstite dell'antica idea era giustamente rappresentato, secondo il posto e la natura che le assegnava lo spirito modificato grandemente; nell'arte imitatrice e di forma antica non poteva avvenire senza che ci scapitasse l'arte stessa, o, come vediamo nel risorgimento, la nuova idea a cui si voleva adattarla. Tali incompatibilità, tanto più gravi quanto più intieramente il sentimento cristiano assorbisse l'anima, erano vivamente sentite da ben molti asceti, i quali vedevano l'inconveniente[464] e volevano evitarlo; ma, se salvarono il loro sentimento, l'arte rimase offesa e vulnerata dai comici ripieghi a cui ricorsero spesso, come quando invece delle antiche invocazioni poetiche sostituivano il «Domine labia mea aperies», o peggio ancora invocavano: «Colui che fe' parlare l'asina di Balaam»[465].

Però quel sentimento che era vivo e reale ed abbastanza intenso per far provare il bisogno di una libera espansione, non tardò ad emanciparsi. Rompendo le barriere che lo inceppavano nelle forme classiche, esso cercò e trovò uno sfogo nella latinità triviale e senza presunzione, figlia dell'epoca e nata sotto la sua influenza, come stabile organo della liturgia e della fede cristiana; seguì l'orecchio che udiva l'accento e più non udiva la quantità, avvivandosi alle fonti della poesia popolare che per fatto naturale si svolgeva con ritmi novelli risultanti dalla speciale indole melodica ch'era propria dei volgari viventi e parlati. Così nascevano molte poesie ritmiche latine nelle quali, confrontate colle altre, è facile riconoscere che il medio evo si adagia assai più liberamente e comodamente, rivelando l'animo suo e la sua fede con più schietta e men preoccupata maniera. Per quanto Prudenzio ed altri poeti cristiani di scuola abbiano talvolta potuto essere felici nelle loro versificazioni, mai niuno di essi non riuscì a riporre nei suoi versi tanta dose di vera, sentita e vivida poesia quanta se ne trova nel Dies irae ed in simili composizioni, per lingua e per verso affatto lontane dai classici della scuola. Ivi sentiamo l'anima ingenua che palpita e che trema, che si atterrisce e che spera, ne vediamo gli slanci e gli entusiasmi e non abbiamo bisogno di essere anche noi credenti per riconoscere e rispettare quella poesia bella e sensibile, perchè figlia genuina dell'animo e collegata psicologicamente con sentimenti di ragione universale. Dinanzi ai retorizzanti e forzati compositori di odi e di esametri troppo spesso siamo tentati di chiedere se parlino davvero sul serio.

Quella nuova poesia di cui i più notevoli antichi monumenti spettano al latino delle chiese e dei chiostri, e al sentimento religioso, pullula da quella stessa fresca e vivida sorgente da cui dovrà scaturire per altri sentimenti e altre lingue la nuova poesia dei laici e delle lettere volgari. Essa e le forme sue erano tanto omogenee all'indole del tempo, che coesistendo per lunga epoca allato alla poesia di scuola, a questa faceva sentire assai fortemente la sua influenza; mentre da essa, o meglio dal materiale della cultura che la scuola conservava, la poesia popolare traeva qualche idea, qualche nome o qualche fatto, ad essa dava assai spesso i suoi ritmi, o ne guastava gli antichi stampi metrici spingendo alla noncuranza della quantità, all'uso dell'accento e della rima.

Queste poche osservazioni sulla poesia latina del medio evo hanno per iscopo di mostrare come l'idea classica fosse in realtà poco presente alle menti di quella casta che allora dominò la cultura; e ciò non soltanto nell'opera dello studio, conforme risulta dai precedenti capitoli, ma anche nell'opera attiva e produttiva della imitazione dei modelli antichi. Dal che riman confermata e meglio dichiarata la poca attitudine di quella classe alla intelligenza estetica della poesia virgiliana. È quindi questo capitolo quasi la controprova di ciò che risulta dagli antecedenti, rimanendo per esso dimostrato come alle deficienze nello studio passivo corrispondano simili deficienze nella produzione da questo governata. Per questa via siamo arrivati anche a toccare delle letterature volgari e della nuova poesia, e tutto ci chiama a considerare ormai il nome del poeta nostro in mezzo a questo nuovo elemento. Prima però di farci a seguirlo attraverso ad una atmosfera tanto diversa da quella in cui l'abbiamo contemplato fin qui, crediamo necessario fare una sosta per segnare i principali tratti caratteristici di quell'ideale dell'antichità che fu proprio del medio evo.

CAPITOLO XII.

Lo sparire degli studi greci dall'occidente europeo nel medio evo è un fatto considerevole di non poca conseguenza pel concetto che dell'antichità si ebbe allora, ed anche pel posto che in questo occupò il nome di Virgilio. Quella divisione che, ponendo capo ai due grandi centri, Roma e Bizanzio, si manifesta fra l'occidente e l'oriente d'Europa col cadere dell'impero e col progredire del cristianesimo, che tanto si accentua da Giustiniano in poi, che nell'ordine religioso finisce collo scisma di Fozio e la separazione delle due chiese, si ripercote in modo egualmente reciso nella cultura e negli studi. Quantunque greca fosse la lingua con cui dapprima si presentò il cristianesimo ai popoli di cultura latina, greco il testo dei vangeli, greci Basilio, Crisostomo, Dionigi Areopagita e tanti altri padri venerati da tutti i cristiani, pure il centro del cristianesimo essendosi fissato a Roma, ed esercitando colà nell'ordine religioso quella universalità d'impero che era propria di quella sede, la chiesa fu essenzialmente romana e latina, e adottando l'organo più universale che era il latino, tenne vive esclusivamente, benchè colla solita noncuranza e parsimonia, quanto agli scopi puramente profani, le lettere romane. La decadenza poi era generale così nei paesi di cultura latina come in quelli di cultura greca, e fra questi paesi erano in parte distrutti quei legami che un tempo li facevano gravitare uno verso l'altro ed attraevano tanto grande numero di letterati greci nel mondo latino; erano sorte invece fra loro gravi cause di divisione, di diffidenza ed anche di antipatia e d'inimicizia. Così dalla cultura dell'occidente europeo dileguavasi quell'elemento greco che tanto profondamente erasi infiltrato nella cultura romana, che tanto ha parte nei prodotti letterari latini, e tanto è indispensabile a spiegarli e intenderli intieramente. Qua e là qualcuno che sappia di greco si trova, qualche dilettante che balbetta gli elementi di quella lingua, qualche maestro che nelle scuole ne dia qualche idea agli alunni[466]. Ma sapere il greco è considerato come una rarità, ed anche di coloro che passano per saperne qualche cosa, i più ne sanno in realtà tanto poco da non arrivare a tradurre una linea senza cadere in grossi errori. Gli esempi d'ignoranza che da questo lato offrono gli uomini, anche più distinti, del clero latino sono numerosissimi e gravi. Le parole greche più ovvie e di uso più indispensabile nel linguaggio della chiesa e della scuola, trovavansi dichiarate nei glossari e nei repertori enciclopedici. Di qui l'errore di taluni moderni che dall'uso di certi vocaboli greci presso qualche scrittore del medio evo hanno argomentato una conoscenza di greco, che questi in realtà non aveva. Salvo alcuni libri di Aristotele che conoscevano in traduzioni latine, dell'antica letteratura greca e dell'antica Grecia in generale non sapevano più di quello potessero rilevare indirettamente dalle opere degli antichi scrittori latini. Omero non era noto che dall'epitome in versi latini a cui si dava spesso senz'altro il nome dell'antico poeta greco, od anche non si sa perchè, quello di Pindaro Tebano; opera di un Italicus, che può pur essere l'autore dei Punica; certo, è di quel tempo, e se pur non fu fatta per la scuola, fu in questa assai e per lunghi secoli adoperata[467].

Allorchè adunque gli scrittori del medio evo, come fanno frequentissimamente, nel rammentare i grandi dell'antichità accoppiano i nomi di Omero e di Virgilio in quello stesso modo come ciò soleva farsi nei tempi romani, essi non fanno in realtà che ripetere meccanicamente le notizie e le idee che desumono dagli scrittori latini e dalla tradizione della scuola. Del rapporto fra Virgilio ed Omero non avevano direttamente alcuna idea ed un tal confronto era impossibile per essi. Omero era rimasto un nome e nulla più; il più grande poeta antico allora realmente conosciuto e studiato nella scuola, come primo autore profano, era Virgilio. Questo poeta adunque tiene in quell'età, nel complesso della letteratura antica superstite e nota, e nell'insegnamento, una posizione più alta e più assoluta di quella da lui tenuta presso gli antichi, che leggevano e studiavano nelle scuole anche le opere dei poeti greci. Ma d'altro lato questa più assoluta supremazia di Virgilio nella tradizione classica era accompagnata anche da un considerevole abbassamento della tradizione classica stessa. Nell'attività intellettuale e nelle idee colle quali si coltivava lo spirito a questa tradizione non rimaneva che uno spazio limitato, reso di entità secondaria, reso sospetto e posto in luce falsa da pregiudizi ed errori. Tutti quei chierici che dessero opera a qualche produttività intellettuale, anche occupandosi di studi profani e promovendoli, aveano altre preoccupazioni. Cassiodoro, mentre raccomanda ai suoi monaci questi studi, non lascia di premettere che si può benissimo arrivare alla vera sapienza anche senza lettere. «Nondimeno, soggiunge, può essere opportuno prenderne parcamente e con moderazione qualche notizia, non perchè in esse stia la speranza della nostra salvezza, ma perchè studiandole come di passaggio, desideriamo che dal Padre dei lumi ci sia concessa la sapienza proficua e salutare»[468]. Queste parole bastano a qualificare nel modo il più esatto l'atteggiamento del clero rimpetto agli studi profani durante tutto il medio evo. E veramente tutta la forza, il nerbo dell'attività intellettuale dirizzavasi alla teologia ed all'ascetismo, estendendosi alle astrazioni della dialettica e della filosofia speculativa. In faccia a queste gravi discipline che riempivano di sè i migliori intelletti d'allora, ogni altro studio letterario era pei fanciulli una preparazione necessaria a cose maggiori, per gli adulti un trastullo, un passatempo, ed occuparsene esclusivamente e sul serio pareva frivolezza e cosa indegna della dignità di un ecclesiastico. Anche chi non accusava Silvestro II di magia pel suo sapere di meccanica e matematica, confessava ingenuamente che era «troppo dedito agli studi secolari»[469]. Tal modo di vedere era generale: non era proprio soltanto di coloro che facean la guerra agli studi profani e li disprezzavano o condannavano, come fondati sopra autorità pagane, ma anche di coloro che li apprezzavano e in certa maniera cercavano di promuoverli. Ciò spiega certe contradizioni che si notano anche fra contemporanei; come cioè, mentre alcuni più equi deplorano la decadenza degli studi letterari, altri ne parlano come di cosa che fiorisce anche troppo[470]. Come certe ripugnanze non impedissero agli studi profani di vivere, lo abbiamo visto; ma certo la loro vita così permessa era una vita stentata, e fiorire in quelle condizioni non era possibile. La loro esistenza a quell'epoca è come epilettica, il deliquio è frequente, e frequente la minaccia che la vita si spenga. L'idea che quella età offre di sè è tale, che lo storico indica come un fatto notevole e quasi inaspettato la sopravvivenza degli studi classici. La loro storia è una miserabile storia di richiami a vita e di segni di vita. Come mendichi vanno da un chiostro all'altro; raro, precario e povero è il favore che qualche principe accorda loro. A Carlomagno, che li protegge malamente, succede Ludovico Pio che li detesta[471]. Non era soltanto l'indole pagana delle lettere antiche che le allontanava dagli spiriti, era anche in generale la mondanità di questi studi. Ciò che può chiamarsi soddisfazione o piacere estetico appariva come una sensualità peccaminosa o traviatrice. Anche la ricreazione doveva essere edificante ed aver luogo piamente. Lo scopo della cultura, dominata dal monachismo, non era più abbellire e raffinare lo spirito, ma edificarlo, purificarlo, santificarlo in ordine al suo fine estramondano e secondo i principî teleologici che costituiscono l'essenza stessa del cristianesimo. In luogo della concorrenza degli scrittori greci, gli antichi latini subivano nel medio evo quella, ben più ad essi dannosa, dei libri sacri. Eran questi i veri classici dell'epoca, quelli sui quali lo spirito si plasmava, nei quali trovava il pascolo più omogeneo e che costituivano il cardine precipuo della vita morale. In questi, singolarmente nei libri dell'antico testamento, troviamo già quella universalità dell'idea religiosa che penetra e pervade tutta l'enciclopedia umana, come governa tutto l'organismo sociale, e che fu tanto essenzialmente propria dell'ideale cristiano quanto lo era stata del giudaico. In quei libri così prossimi allo spirito, qual esso era in quel tempo, stava il primo fondamento dell'educazione morale e religiosa. Allato ad essi stavano Virgilio e gli altri vecchi ordigni della educazione profana, ma con tutta quella enorme distanza che separa la parola dell'uomo dalla parola di Dio, la stima letteraria dalla venerazione religiosa. E comunque considerare quei libri come opere letterarie e metterli a livello dei classici potesse parere una profanazione, pur nondimeno un carattere letterario loro speciale essi lo hanno; singolarmente in fatto di poesia l'uso continuo di quelli nella lettura edificante, nella liturgia, nella preghiera esercitava una influenza considerevole, avvezzando a formole poetiche, ad imagini di un conio speciale, ad un tipo insomma di poesia affatto particolare distinto e diversissimo dal tipo classico, e ben più che la poesia classica armonizzante coi più caldi sentimenti dell'animo che credeva nella divinità di quella parola. Era questa una delle cause più potenti che, come già abbiamo veduto di sopra, spogliava di ogni segno di vita reale le forme classiche superstiti nell'uso scolastico, e che in pari tempo allontanava lo spirito dal penetrare nella natura della poesia antica, rendendolo inabile a giudicare indipendentemente da qualunque preoccupazione religiosa e con occhio assolutamente laico o profano. Per intendere appieno una poesia essenzialmente diversa da quella che è propria del tempo in cui si vive, si richiede uno sforzo dello spirito teorizzante che si sollevi in quella più alta regione da cui esso possa abbracciare con giusto sguardo più fasi e forme diverse della produttività umana; si richiede una speciale palestra estetica che renda il gusto raffinato tanto da poter sentire molto di più di quello sia abituato a sentire dai fenomeni volgari e comuni della vita nella quale si spiega. Per fatto di sola natura a ciò non si arriva; è necessario un lavoro non piccolo nè qualunque di educazione e di cultura, così individuale come universale, quale lo troviamo presso gli uomini del risorgimento e sarebbe vano cercarlo presso i monaci del medio evo. La cultura del medio evo in tutta la sua parte profana e tradizionale è cosa troppo povera, debole e trasandata perchè possa sollevar le menti molto al disopra del livello popolare e volgare. L'umanismo di proprio nome è estraneo a questa età. Il monaco il più mondano, il più innamorato degli antichi scrittori, è sempre infinitamente più prossimo al popolano di quello possa mai esserlo l'ultimo dei latinisti del risorgimento. Perciò in quanto è poesia profana il monaco come il laico del medio evo avea l'animo più aperto alla poesia nuova del tempo, nazionale o popolare, che alla poesia di forma classica. Se ciò non fosse, niuno potrebbe spiegare la grande invasione della poesia popolare nei chiostri, e come i monaci siano fra i più antichi rappresentanti o raccoglitori di quella, così nelle forme sue latine come nelle volgari. Niuno che non abbia bene inteso la natura e le cause di questa aberrazione dagli ideali letterari antichi, della incapacità d'intenderli anche tenendoli dinanzi, che caratterizza le menti medievali, potrà mai capire completamente il fatto del risorgimento.

Invero il chierico medievale, per la natura della sua fede, non accettava che una piccola parte del sapere antico, e questa stessa parte ch'egli accettava, per l'attitudine del suo spirito e la qualità della sua cultura, ei non la conosceva che esternamente, vedendola come in lontananza e in una luce falsa; ma ciò non vuol dire che nella mente sua quell'antico sapere non rappresentasse una grandissima cosa. Il più bigotto e fanatico asceta, anche odiando gli antichi, non esita mai a crederli sapientissimi, a quella maniera com'ei crede sapientissimo, quantunque malvagio e tentatore, lo spirito delle tenebre, al quale non di rado giunge ad attribuire i miracoli dell'arte antica. Questo giudizio non è invero mai dettato da un apprezzamento diretto; in gran parte esso è dovuto alla secolare autorità ed all'aureola imponente con cui, per tradizione irrecusabile, suonavano alle orecchie di costoro i nomi di Platone, di Aristotele, di Omero, di Cesare, di Cicerone, di Virgilio; in parte anche a ragioni puramente negative, e più di tutto alla ignoranza che contribuiva anche ad ingrandire ed a falsare il concetto di quella sapienza. Non solo l'idea cristiana non spingeva a negare i miracoli della ragione, ma spingeva ad esagerarli, ingrandendo così il merito della fede. All'idea di un conflitto necessario fra ragione e fede, di una contradizione costante fra di esse, il cristiano non si poteva certamente adattare; perciò non tutto quanto era dell'antichità condannava, ma, distinguendo le sfere proprie a ciascuna e i punti nei quali s'incontrano e quelli nei quali stan separate, era indotto a fare armonizzare ragione e fede, mostrandole divise piuttosto da confini che da ostilità o da flagranti contradizioni. L'asceta del medio evo considera quindi l'antichità come quella che ha fatto grandi e stupende cose, ma pure ha errato grandemente per mancanza di lume superno, e perciò è sirena tanto più pericolosa quanto più grandi sono le sue illecebre. L'opera della ragione, secondo l'idea cristiana, non è esclusa, ma è corretta e completata dalla fede. Naturalmente in questo concetto, per chi prende la fede sul serio, il primato è di quest'ultima e quanto più l'anima che l'accoglie si concentra e vive in essa, tanto minor libertà accorda allo spirito raziocinatore. Imperocchè il dilemma era chiaro quanto triviale: o la ragione ci dice cose diverse da quelle della fede, ed allora erra, o si accorda con questa, ed allora a che pro metterla in opera? Tale era la condizione del pensiero nel monachismo medievale; il valore che si diede al raziocinio in quel gran movimento filosofico che comincia con Scoto Erigena, provocava gli sdegni dell'autorità religiosa, e non fu certamente col beneplacito di questa che cominciò il moto fecondo, più timido dapprima, più energico poi, dell'attività razionatrice, che finì col rimandare la fede nel campo suo proprio, nel passivo delle coscienze e dei sentimenti, e coll'escluderla affatto dalla investigazione speculatrice del vero, creando così la scienza odierna.

Da tutto ciò nasceva un modo esagerato e falso di concepire la sapienza antica. Imperocchè come una era l'idea che penetrava e plasmava tutta la produttività cristiana di ogni ordine, così credevano i cristiani d'allora dover pensare della produttività antica, nella quale cercavano e vedevano unicamente il lato morale e religioso, sia patente, sia recondito, sia nei limiti noti, sia negli ignoti o supposti od immaginari. Nell'ideale dell'antichità adunque il momento estetico era estinto e prevaleva il momento morale o filosofico.

Coerentemente a ciò ed in seguito alle cause medesime era anche grandemente alterato e viziato il concetto storico dell'antichità stessa, veduta in quell'orizzonte che dominavano gli uomini del medio evo. Ai libri ed alle memorie storiche superstiti, che ricordavano gli antecedenti di quella tradizione civile in mezzo a cui si viveva, eransi aggiunti i libri giudaici, che s'imponevano irrecusabilmente come autorità di fede, ed aprivano la storia ab ovo fissando una cosmogonia ed una antropogenia profondamente connesse col concetto monoteistico giudaico e cristiano; e non solo imponevano la fede per una quantità di narrazioni favolose, intieramente diverse per l'indole loro dalla favola antica rammentata dalla tradizione letteraria, ma imponevano eziandio un modo speciale ed esclusivo di considerar la storia. L'idea cristiana, uscita dal giudaismo, avea rotto i suoi primi limiti nazionali, sollevandosi ad abbracciare tutta l'umanità rimpetto a Dio da quello stesso aspetto da cui rimpetto a Dio consideravasi il popolo giudaico, ed «In exitu Israel de Aegypto» era divenuto l'inno simbolico dell'umanità redenta. L'idea dell'agnello divino che purga i peccati del mondo, e i conseguenti fruttiferi fervori dell'apostolato chiamavano naturalmente a contemplar la storia universale con quella distinzione di momenti che suggeriva quella grande e duratura illusione; il regno di Dio, il tralignare degli uomini, e lo scindersi con errori diversi, e il ricondursi poi tutti in un gregge solo e sotto un sol pastore, illuminati e ribenedetti pel benefizio della morte di Cristo. La storia universa presentava così due grandi momenti ben distinti; una lunga epoca di errore e di cecità ed un'epoca di purificazione e di verità, separate l'una dall'altra per la croce del Golgotha. La più prossima e la più simpatica di queste storie era quella del mondo rigenerato e redento, storia di lotte e di martirî, storia patetica e poetica di trionfi e di glorie pei credenti; tutto il resto si considerava in ordine a questa, sia come negazione, sia come lontana armonia, sia come preparazione. Due città grandeggiavano in questa idea; la Gerusalemme del popolo di Dio e di Cristo, la città del passato, e Roma bagnata del sangue dei martiri, sede di Pietro e dei successori, santuario e centro della cristianità vivente. La storia di quelle due città non s'incontrava pei cristiani che in un punto, ma in un punto estremamente solenne, la nascita e la vita di Cristo e il principio del grande apostolato. Da questo momento in poi Gerusalemme spariva e sostituivasi ad essa Roma. Ma questa Roma dei ricordi cristiani era propriamente la Roma imperiale, e niuna epoca della storia era tenuta così presente e così spesso rammentata dagli uomini del medio evo quanto questa degli imperatori romani. Il papato, i padri, i rapporti del cristianesimo coll'impero nei suoi primordi, nelle sue lotte, nei suoi trionfi, la storia dello sviluppo organico della chiesa, gli elementi stessi della cultura sacra e profana, tutto riconduceva a quest'epoca, più prossima sott'ogni aspetto. Come Cristo nei ricordi religiosi stava al culmine della storia cristiana così nei ricordi politici si partiva dal primo imperatore, Ottaviano Augusto, sotto di cui Cristo nacque[472]. Per un fatto sul quale i credenti cristiani non cessarono mai di declamare, trovandovi del miracoloso, i primordi del cristianesimo coincidevano coi primordi dell'impero, e Cristo nasceva quando Roma più fioriva, per potenza, ricchezza ed ingegni, quando la pace regnava nel vasto dominio romano, ed un'epoca di rinnovamento cominciava con auspici apparentemente felicissimi. Eppure Cristo stava agli antipodi di questi splendori, e se in quella coincidenza v'ha qualcosa di notevole, gli è questo che appunto allora nascesse chi, scientemente o no, doveva spingere il mondo tanto lontano dalla vetta che allora raggiungeva. Ma, senza miracoli, le ragioni storiche dicono chiaro che realmente la nuova religione non avrebbe vinto se non avesse trovato un'epoca disposta ad un generale rinnovamento, una società stanca ed avida di novità, e le sue mire universali sarebbero rimaste allo stato di utopia se non avessero trovato preparati tanti elementi di omogeneità fra popoli diversi dal braccio virile dei romani. Questo videro anche i cristiani, e parve, come pare tuttora ai credenti che veggono la storia attraverso al prisma della fede e del sentimento religioso, che l'opera di Dio si dovesse riconoscere in questa preparazione, di lunga mano elaborata onde recare la maturità dei tempi opportuni alla missione del Salvatore[473]. Questo ripetono quanti credono che l'idea della provvidenza debba essere la chiave dei fatti storici, come lo credevano gli Ebrei, che anche fra la cultura alessandrina attribuivano ai fatti della storia antica cause divine[474]. E senza dubbio assai proni rendevano a ciò fare i fatti di Roma, la cui gigantesca grandezza suggerì anche ai romani stessi e agli antichi in generale l'idea di una speciale protezione della divinità. Questa idea comune fra i romani, singolarmente al tempo di Augusto[475], e così solennemente rappresentata da Virgilio, che un destino antico, ed una volontà divina persistente avesse preparato e guidato gli avvenimenti che doveano condurre alla fondazione e alla grandezza di Roma, benefattrice e centro del genere umano, era continuata così e riprodotta in senso cristiano dai cristiani; e nel medio evo, come fra i padri e i poeti cristiani più antichi, tutti ritenevano che Dio avesse permesso e voluto quella città e le sue conquiste grandiose, perchè colla sua centralità mondiale potesse servir di sede ai vicari di Cristo[476].

Col cadere della potenza politica di Roma la universale influenza di questo centro non era venuta meno, ma erasi cambiata; il papato e la chiesa cattolica eransi sostituiti all'impero caduto, lo avevano fatto rivivere nella universalità della loro natura, delle loro istituzioni, dei loro scopi. Alla forza del braccio erasi sostituita la forza dell'idea, forza non del tutto nuova, poichè non soltanto materiali erano i mezzi che cementavano la vasta compage romana, ma anzi c'era in quella una unità morale, gagliarda e persistente, che sopravvisse a lungo allo smembramento politico. Erede e riformatrice di questa grande creazione romana, la chiesa era arrivata a sostituirsi all'impero con una medesimezza tale, quanto a robustezza e latitudine di potere, che la potestà pontificia potè giungere a considerarsi ed essere anche considerata e subìta come la prima potestà del mondo, a cui tutte le altre erano subordinate. Continuatrice dell'impero nella sua parte astratta ed assoluta, la chiesa riverberava quella sua natura anche sulle potestà laiche, che tutte gravitavano verso il grande ideale dell'impero; ideale che volle attuare Carlomagno, non come cosa nuova, ma come restaurazione e continuazione, e quindi facente capo a Roma. Il rozzo Kunec Germanico aspirava a diventare Caesar (Kaiser) e insuperbiva talvolta assai volentieri, dimenticando che l'autorità ei l'attingeva ad una fonte superiore; e quantunque talvolta spezzasse la briglia retta malamente da quello o da quell'altro individuo, pure in realtà sotto il peso di quel potere curvò il collo e si abbassò talvolta nella polvere anche più di qualsivoglia conquiso dall'antico impero; sola e povera soddisfazione che offrano a noi latini le lunghe pagine di quella storia desolante. Così questa idea dell'impero universale, nel medio evo e singolarmente dopo Carlomagno[477], diventa tanto esclusiva che la storia della umanità non si concepisce altrimenti che come una successione di grandi monarchie, dall'una all'altra delle quali il volere divino fece passare la forza e il potere e il dominio su molti popoli[478]. Quindi in questo concetto storico per la Grecia, non conquistatrice, non c'è che un posto esiguo; ce n'è uno cospicuo però per Alessandro; per la Roma anteriore all'impero, benchè nella parte più antica tanto più edificante dell'impero quanto a moralità, non c'è posto che pei ricordi di talune principali conquiste; il medio evo non si adagia che nell'idea dell'impero già costituito e completo, e foggiato con quello scaglionamento piramidale di autorità che costituisce l'ideale suo della società politica e della monarchia imperiale. Perciò per lo più saltano a piè pari dalla fondazione di Roma a Cesare e ad Augusto.

La parte principale adunque della storia dell'antichità allora nota, è la storia dell'impero subordinata alla storia del cristianesimo, mescolata con questa, veduta e immaginata secondo il sentimento cristiano, e quindi tutta travisata e piena di leggende. Roma rimane sempre moralmente caput mundi, e niuna città dell'occidente in tutto il medio evo, in mezzo a tanta potenza di popoli nuovi, acquista, neppur da lungi, lo splendore, l'importanza che conserva quella maestosa e veneranda rovina; neppure alcuna se ne scorge che raggiunga almeno il lustro che la romanità seppe dare a Bisanzio. Le città dei principi del medio evo, quale ad es. l'Aquisgrana di Carlomagno[479] non figurano nella storia che in modo oscuro e non proporzionato agli atti di alcuni di essi. Ed invero, le nazionalità si andavano bensì distinguendo assai ricisamente nel campo morale come nel politico, nelle nuove letterature, come nei nuovi gruppi politici in cui si divideva l'Europa, ma ciò avveniva per un moto lento e quasi inavvertito. Opera di riflessione che riducesse, come oggi, ad un principio quel sentimento che forte, ma oscuro, agiva nelle coscienze preparando l'Europa moderna, non c'era. Il diritto pubblico non riposava in alcuna maniera sul concetto dei diritti dei popoli risultanti dal sentimento e dal fatto delle nazionalità, ma si basava invece sui principî opposti, che si formulavano nel feudalismo e nel concetto dell'organizzazione imperiale. Del resto le nazionalità stesse non erano neppure di fatto ben definite e determinate ancora, quantunque tendessero ad esserlo. Risultanti dalla combinazione di vari elementi, esse si andavano enucleando, ma la loro attività storica doveva essere ben più lunga e caratteristica perchè potesse fissarsi intieramente e saldamente la loro individualità morale. Per questa condizione di cose avveniva che, ad onta degli sviluppi nazionali, ribellione vera e propria contro certe idee non ci fosse, ma anzi queste seguitassero ad essere vagheggiate. Erano singolarmente a fronte e distinte per vive antipatie, storicamente legittime, le nazionalità germaniche e le nazionalità latine. La gente germanica, presto corrotta anch'essa, ma serbatrice di certe idee ereditate dai selvaggi e semplici padri suoi, che Tacito contrapponeva ai dissoluti romani come avrebbe potuto contrapporli ad ogni popolo molto civile, considerava i «Welschen» o i popoli latini come gente malcostumata e corrotta; ma d'altro lato non esitava a chiamar sè stessa barbara e rozza[480] ed a riconoscere la nostra superiorità intellettuale e civile e il nobile primato della stirpe nostra. Quindi quella unanimità di ossequio e di riverenza, non certo nel campo materiale, ma nella regione ideale, che dava ai popoli tutti d'Europa indistintamente un tale alto concetto di Roma da allontanare qualunque pretesa di rivalità e di concorrenza. Essa si rivela in mille guise diverse, nelle parole, nelle idee, negli atti degli imperatori germanici, sedicenti romani, nell'affluenza dei pellegrini al palladio della civiltà e della cristianità, nelle ingenue guide scritte per loro uso sulle «Maraviglie dell'aurea città di Roma» nelle espressioni enfatiche in cui prorompono parlando di Roma i mille scrittori del medio evo, ed in tanti altri fatti che lungo e superfluo sarebbe qui enumerare[481]; fra i quali però non vogliamo omettere, perchè molto significativo, quello della ingenua pretensione di tanti popoli nuovi e di tante famiglie principesche d'imitar Roma e i romani sin nella favola delle origini, derivandosi, come i romani e come Augusto, dagli eroi di Troia, e congiungendosi col nobile passato di Roma mediante cento leggende diverse[482]; nel determinare la qual tendenza ognuno intende quanto gran parte dovesse avere l'Eneide e la popolarità di cui questa godeva[483].

L'imperfetto e ancora confuso sviluppo delle nazionalità, singolarmente nei concetti astratti, rendeva possibile l'idea dell'impero risultante dagli elementi tradizionali della cultura ed anche dai più ovvi e visibili rapporti del presente politico e religioso col passato. Ma la rendeva possibile soltanto come idea e non altrimenti. La restaurazione dell'impero antico era una chimera impossibile; l'aggregazione di popoli diversi sotto uno scettro dovea esser cosa posticcia e precaria. Dell'antico cemento romano si era perduto il segreto, ed in ogni caso le vitalità individuali dei singoli popoli erano già troppo sviluppate perchè si potessero fondere come prima e mantenere uniti in un solo organismo. Del resto, quella razza che nell'indebolimento della più nobile avea preso il disopra, era, come si mostrò sempre fino ai dì nostri, affatto sprovvista di ogni facoltà assimilatrice, ed anzi, non che assimilare, grandi masse di essa scomparivano assimilate in grembo a più d'una nazionalità neolatina. Nondimeno le condizioni del pensiero producevano necessariamente l'idea imperiale, che troviamo viva in menti elette di quell'età sia nella nobile utopia di un pensatore, sia negli atti di grandi principi. Qui si osserva di nuovo quella sproporzione fra il contenuto della cultura e del pensiero e i fatti dell'esistenza prattica, che dà al medio evo un carattere tanto particolare. È un'età cotesta che forma e prepara tutto il rinnovamento moderno senza accorgersene e senza volerlo, mirando sempre al mondo antico, cercando di continuarlo o restaurarlo; essa si assomiglia ad uomo che, per una strana allucinazione, cammini avanzando mentre crede e vuole indietreggiare. Non c'è una età a cui, badando a ciò che dice e a ciò che pensa, l'idea del progresso e della rivoluzione sociale paia più antipatica, che più di questa sembri tendere alla immobilità e alla stereotipia; eppure d'altro lato non ve n'ha una in cui il moto sia di fatto tanto vivace, generale, molteplice e trasformatore, non una in grembo a cui la società, il sentimento, il pensiero tanto radicalmente e incessantemente si trasmutino. In questa condizione eccezionale sta la chiave precipua che spiega le tante anormalità e deviazioni che sono proprie di quest'epoca, in tante cose nelle quali l'antichità e i tempi moderni si trovan d'accordo.

Secondo questi ideali Virgilio doveva essere, com'era infatti, il più ammirato e il più simpatico dei poeti antichi; c'era nell'animo degli uomini colti che lo leggevano come un riverbero storico di quel sentimento romano ch'egli avea sovranamente interpretato e rappresentato[484]. Anche il momento storico a cui egli appartiene e nel quale figura tanto distintamente, era il più volgarmente noto e celebre, il più centrale e brillante in quelle conoscenze e in quel concetto dell'antichità. Il grande principato d'Augusto, il cominciamento dell'impero, la prossimità a Cristo ponevano Virgilio nelle più favorevoli condizioni storiche in cui un gran nome letterario potesse presentarsi a menti medievali, e nel concetto che avevasi del poeta, costituivano un lato ed un significato storico di non piccola entità. Unito a questo andava il lato religioso e filosofico di quel nome, come di uomo che molto si accostò all'idea cristiana, e fu fornito di un sapere universale, recondito e straordinario. Tutti gli antichi, che fossero prosatori o poeti, erano allora considerati come filosofi; ma la scuola grammaticale e retorica teneva sopratutto fra gli altri in vista i poeti, fra i quali Virgilio era primo. Ha quindi Virgilio più notorietà volgare e quasi popolare che qualsivoglia altro scrittore antico, benchè nel concetto degli uomini più colti e più distinti egli non figurasse realmente come il solo sapientissimo degli antichi. Allorchè nell'ardore scientifico e nel forte movimento intellettuale che si fa manifesto col principiare del sec. XII, Aristotele ebbe acquistato quel posto nella scuola filosofica e quella notorietà che tutti sanno, anch'esso apparve onnisciente; ma Virgilio rimase al posto di prima, poichè il suo nome, quantunque conducesse all'idea del filosofo, non aveva il proprio ambiente nella scuola filosofica, ma in quegli studi latini più comuni e più elementari ai quali Aristotele era affatto estraneo. Centro di Virgilio rimaneva sempre la scuola grammaticale, che ci presenta un altro lato del suo nome medievale, e propriamente il lato fondamentale. Anche nelle scuole di grammatica si fece sentire il nuovo indirizzo e il nuovo movimento degli studi che è rappresentato dalla scolastica; maestri, che furono allora di gran fama e la conservarono a lungo, componevano libri poetici d'uso scolastico che ebbero un grande successo. Ma l' Alessandreide di Gualtiero da Lilla, composta con grande imitazione di Virgilio, quantunque molto letta e adoperata nelle scuole, non nocque al nome e all'autorità grammaticale e scolastica del grande poeta antico, più di quello nuocessero al nome e all'autorità di Donato i libri grammaticali usitatissimi di Alessandro da Villedieu, Pietro Elia e simili.

Riassumendo, nel nome medievale di Virgilio c'è un lato storico, un lato filosofico-religioso, un lato grammaticale e retorico; quest'ultimo è il più basso e triviale, il più barbaro e rozzo, ma nello stesso tempo è materialmente quello su di cui si elevano gli altri. Quanto al lato estetico, artistico, propriamente detto, esso in quel concetto è ridotto a nulla, poichè tutto il resto sta in vece sua, nè ci sarebbe o in gran parte non sarebbe qual'è, se esso ci fosse.

CAPITOLO XIII.

Ciò che principalmente costituisce il concetto del medio evo e dà ragione di questo nome nella storia della vita intellettuale, è un'idea negativa risultante dai rapporti che si scorgono fra il risorgimento e l'antichità. Per tal guisa il medio evo figura come un'età di aberrazione, al disopra della quale l'antica e la moderna Europa si stendono la mano, si ricongiungono e si continuano. Questo concetto che si formula in modo reciso nell'ultima somma dei fatti, si sfuma e si gradua, com'è naturale, allorchè dalle negazioni si vuol procedere alle affermazioni, studiando i rapporti dei tre momenti storici che in esso trovansi posti a confronto, le cause e le vie di quei passaggi che non possono mai essere bruschi, o non preparati e non governati da leggi fisiologiche. Analizzato il pensiero medievale in quanto concerne l'ideale dell'antichità, la continuità dei rapporti coll'antichità stessa da un lato e col risorgimento dall'altro si fa di leggieri manifesta. Si trovano nell'epoca che precedette il medio evo elementi tali che spiegano come potesse aver luogo ed arrivare a grandi proporzioni quell'aberrazione che caratterizza questa età, e nel medio evo stesso trovansi gli elementi che precedettero e prepararono il risorgimento. Due principali aspetti si distinguono in questo grande periodo storico, i quali congiunti fra loro e paralleli fino ad un certo punto, finiscono poi col costituire due epoche distinte, o se si vuole, due sezioni distinte della stessa epoca. Abbiamo il medio evo latino, appunto quello che ha il maggior rapporto coll'antichità ed è come il centro di quanto nella cultura risale a questa; abbiamo il medio evo volgare, che ha la sua ragione di essere in elementi nuovi e nella emancipazione da ogni tradizionalismo. Le due classi, chierici e laici, la schietta distinzione delle quali, come già dicemmo, è uno dei più caratteristici prodotti del medio evo, si mescolano assai in questi due indirizzi, non così però che abbiano egual parte in ambedue. Pel primo l'iniziativa, la preponderanza, come anche l'anteriorità (nei limiti del medio evo) è del clero, nell'altro l'iniziativa e la preponderanza è del laicato; la prevalenza del laicato nella cultura e nella vita intellettuale si afferma luminosamente nel risorgimento, ch'è opera laica, ed ha psicologicamente, come vedremo, i suoi antecedenti nelle lettere laiche e volgari[485].

L'antichità classica con a capo Virgilio, trascinata in mezzo al ripugnante ed eterogeneo moto delle menti chiesastiche del medio evo può assomigliarsi all'astro della luce che attraverso ad un'atmosfera densa e pregna di vapori perde i raggi e il calore, non illumina, non riscalda e non feconda. Questa grande ecclissi non cessò che col tornare di quegli studi in mano del laicato, il che ebbe luogo gradatamente. La prevalenza del clero e del sentimento religioso, in generale la prevalenza della fede sulla ragione era nel medio evo un risultato necessario della recente conversione dell'Europa al cristianesimo. È impossibile che un fatto di tal natura avvenga in sì grandi proporzioni e con sì persistente intensità di sentimenti, senza che duri a lungo la forte effervescenza che deve accompagnarlo. L'Europa doveva avere quel periodo di entusiastiche illusioni, di concentramento fanatico in una idea sola che è indispensabilmente proprio di tutti i neofiti. Questo periodo che avea per risultato di sua natura di concentrare il moto intellettuale nella classe ieratica, dura finchè la riflessione non prende il di sopra, finchè non nasce la speculazione filosofica e razionale, ed i laici non riprendono l'iniziativa nella cultura e nel lavoro intellettuale.

Certe tendenze personali di Carlomagno e certe misure sue relative all'insegnamento profano hanno fatto da molti considerare questo principe come autore di un primo risorgimento. Che indirettamente egli riuscisse utile a quelli studi non si potrebbe negare; ma egli non li favorì che in grazia degli studi sacri, e quel che potè produrre colle sue misure non ha assolutamente nulla che fare con ciò che costituisce il risorgimento. Non so se a giudicare questo principe con rigore m'inducano le prevenzioni che può suscitare in un italiano la colpa sua della pur troppo robusta potenza temporale data al papato, che fruttò immensi danni alla Europa tutta e fu fino ad oggi la maledetta piaga del nostro paese. Certo mi pare nondimeno che alla sua personalità storica di principe laico, di legislatore e di guerriero si unisca un assai antipatico puzzo di sacristia. Egli fu l' homo Papae per eccellenza, e niun altro principe cristiano fu più gradito agli abitatori dei conventi, i quali contribuirono largamente ad elaborarne la leggenda, da cui uscì quel tipo di buon Carlone che giustamente parve ridicolo ai poeti italiani di sentimento moderno, e con tanta maliziosa finezza fu rappresentato da Ludovico Ariosto. Dell'insegnamento secolare Carlomagno non ebbe altro concetto che il concetto chiesastico, e colle sue misure invece di portarlo nel moto vitale dell'attività laica, lo lasciò barbaro, stagnante e sterile nelle mani del clero, sempre più confermandolo a questo ed estendendo il dominio di questo su di esso con fondazioni nuove. Egli mirò sopratutto, e giustamente, a sollevare il clero dalla inaudita barbarie ed ignoranza in cui era caduto in Francia; volle bensì istruiti anche i laici, ma dal clero, ed allo scopo che i cantori di chiesa capissero quel che cantavano, che chi serviva la messa intendesse la parola latina della liturgia[486]. Ebbe forse egli in mente anche l'istruzione obbligatoria[487], non però mai laica; i genitori dovean mandare i figli alla scuola del monastero o del parroco «per imparare correttamente la fede cattolica e la preghiera del Signore e queste insegnare anche ad altri in casa[488]. Carlomagno fu uomo grande per alta e ferrea energia, e spiegò un talento di organizzatore, insolito nei principi laici dei suoi tempi, ma egli fu tedesco anzi tutto e mancò a lui tutta quella finezza e lunghezza di vedute che distinse i grandi organizzatori chiesastici italiani, i quali crearono l'edificio in sè stesso mirabile e straordinariamente solido della chiesa romana; gli mancò l'idea e l'ardimento di ciò che sarebbe stato la più grande e feconda riforma del suo tempo, di purgare la società civile dalla invasione clericale, di chiamare il laicato a riconquistare il suo dominio intellettuale. I tempi una rivolta intiera non l'avrebbero permessa, ma una mente geniale e divinatrice dell'avvenire avrebbe potuto prepararla; ed ei fece appunto il contrario. Forse per le tradizioni, per l'indole nazionale e l'atteggiamento naturale dello spirito, soltanto un laico italiano avrebbe potuto a quei tempi meditare la felice rivolta; ma disgraziatamente mille cause impedivano che un italiano potesse allora arrivare a quella altezza di potenza laica a cui arrivò Carlomagno; il quale però, come dalla Italia e dal Papato molto apprese per la sua politica imperiale, ed assai appoggio ebbe per la attuazione di quella, così dal suo soggiorno in Italia, tanto più colta e civile, trasse l'ispirazione alle riforme per l'insegnamento e per le scuole, ed ivi si provvide pure di più d'un maestro per queste[489].

Però la mancanza d'impulso vero e proprio per parte di quel principe, non fa che rendere più imponente il grande fenomeno del ridestarsi di tutta un'attività psicologica che pareva spenta, del risuscitare di tanti sentimenti assopiti, e ricominciare un moto di vita potente e fruttifero che passo passo conduce fino a Dante, a Michelangelo, a Galileo. Noi però qui nello studio attraente di questo fenomeno non ci potremo trattenere se non per quanto concerne l'idea dell'antichità e Virgilio.

Come un ruscello per lunga pezza scorre non visto e inavvertito sotto il terreno, finchè giunge a versare la vivida acqua nella luce, le lingue volgari di Europa a lungo vennero vivendo e movendosi inosservate sotto la coperta della romanità e delle lettere latine, finchè affievolendosi sempre più il rapporto di queste collo spirito, incominciarono a mostrarsi, senza troppo rossore, nella rozza e fresca loro semplicità; e due sono le guise per le quali si mostrano, ambedue significative. Dall'un lato esse appariscono nella regione propria della cultura antica, si manifestano in glosse, in traduzioni di scritti antichi latini, profani o chiesastici; dall'altro si manifestano come organi di sentimenti vivi, come portatrici di idee e di tradizioni nazionali non prima rivelate letterariamente, e come tendenti a sviluppare una letteratura loro propria indipendentemente dalla tradizione classica. Questo combinarsi di due offici, apparentemente contraddittori, nello spontaneo avanzarsi di lingue viventi, non avrebbe potuto accadere, se la cultura e l'ideale dell'antichità fossero stati ciò che furono poi al tempo del risorgimento, allorchè l'umanismo e il classicismo scacciava dalla letteratura l'elemento popolare e lo spegneva. Abbiamo veduto quanto nel medio evo la cosa fosse differente. La legittimità di quell'avanzamento ed emancipazione dei volgari era tanto grande, che conquisero anche la rigidità e la immobilità claustrale, e per essi il monaco potè bene spesso ricondursi dalla violenta condizione dell'animo suo al sentimento naturale e ritornare uomo, almeno momentaneamente. Neppur qui gli scrupoli mancavano, poichè le antiche idee pagane dei vari popoli d'Europa aveano una larga parte nelle poesie volgari nazionali, e non di rado si ode levar la voce contro questi vanissimi e futili canti volgari. Ma se le coscienze trovavano una via per accomodarsi colle lettere antiche, imposte allo spirito affatto artificialmente, ben doveano trovarla per ciò che la natura invincibile imponeva, per questi cari ricordi della patria, della lingua materna, delle impressioni prime, cose tutte che non chiedevano sforzo per essere apprese, ma anzi per essere dimenticate. Ed era questo un fatto apparentemente di poca entità, ma pregno di gravi conseguenze. La poesia popolare, indifferente com'è alla cultura, è laica per l'essenza sua stessa, e riman sempre tale quand'anche, come accadde nel medio evo, il clero contribuisca alla sua produzione. Con essa il clero viene a confondersi col popolo e non solo si perde la divisione fra chierici e laici, ma anzi il laicato si pone sulla via di riassumere il primato intellettuale. Così il clero, senza volerlo e senza saperlo, secondava un moto che dovea finire col privarlo della sua influenza non disputata sulla mente e sul cuore degli uomini, e condurre poi la chiesa a lanciare molti anatemi. Ma accadeva quel che doveva accadere, e cento altri fatti morali e materiali dello stesso tempo provano che il dominio assoluto della fede dovea essere cosa transitoria e la ragione domandava imperiosamente i propri diritti.

Le cause che producevano la poesia volgare erano tanto potenti e talmente di ragione psicologica, che estesero la loro influenza fin sul latino, producendo quella poesia latina popolare e ritmica che fu essenzialmente medievale, ebbe i suoi classici[490], e visse parallela alle lettere volgari fino all'ultimo medio evo. Ciò mal si spiegherebbe se non si sapesse quale eccezionale genere di semiesistenza avesse il latino a quell'epoca, non come lingua vivente nel proprio senso della parola, ma come lingua d'uso e di tale uso che in essa dovè manifestarsi un moto non del tutto identico invero, ma certo simile a quello che si manifestò nel volgare. Col XII secolo si appalesa quel prodigioso movimento che tanto produce nelle sfere dell'arte e della scienza, e segna una grande epoca nella storia dello spirito umano. In questo moto il primato rimane ai secolari che ne sono la molla più potente; presso di essi propriamente ha luogo in modo efficace il connubio intimo, benchè alla prima quasi paradossale, fra la poesia romantica e cavalieresca di origine affatto popolare, e la cultura, la tradizione e il sapere; dal che la poesia popolare finisce coll'essere sollevata a poesia d'arte. Di qui il fatto apparentemente singolare che i Goliardi o Vaganti, componendo poesie latine ritmiche di conio tutt'altro che classico ed essenzialmente moderne e popolari, ossia laiche nella forma come nel sentimento, pure scrivendo latino, ed essendo uomini di studio e apparendo anche tali nei loro versi, si considerano come chierici e mostrano il più profondo disprezzo pei laici, ossia per gli uomini che per istato non appartenevano alla scuola[491]. Tale uso del latino e i rapporti suoi col volgare, come organo di pensiero e di sentimenti, rendeva prossimi alla letteratura popolare, più assai di quello avrebbero potuto esserlo in condizioni più normali, i nomi della tradizione antica, i quali venivano per tal maniera a trovarsi come sospesi in quel mezzo eterogeneo, sia che il sentimento nuovo, o la poesia popolare, si esprimesse in lingua volgare, sia che si esprimesse in lingua latina. Da tutto ciò nasceva che l'antichità trasportata in quella corrente di nuova natura subiva un'altra peripezia, nuova e diversa da quella che avea subìto attraverso alle idee ecclesiastiche e claustrali, talchè la troviamo curiosamente travestita secondo le idealità romantiche. Accade che uno stesso autore, in uno stesso tempo, come p. es. Ovidio, venga da taluno moralizzato o interpretato allegoricamente secondo un senso morale, da altri romantizzato, si trovino cioè i fatti patetici o sentimentali dei quali egli parla travestiti secondo il sentimento romantico e cavalleresco di quella età. Il nuovo moto poetico popolare era tanto gagliardo che influiva sugli elementi della cultura e li trascinava seco, la lingua, le forme e i fatti poetici antichi riducendo a modo suo, e rendendo inavvertita la stonatura che in ciò tanto offende noi.

La produttività artistica e intellettuale veniva ad avere per tal guisa due indirizzi, il dotto o scolastico, il popolare o romantico, e quindi l'ideale dell'antichità scindevasi anch'esso in due, lo scolastico e il romantico. Il primo aderiva ai concetti propri dei chierici del più antico medio evo, e purificandosi, correggendosi e completandosi gradatamente si separava dall'altro arrivando al risorgimento, quest'altro, nato dall'idea secolare propria dell'ultimo medio evo, rimase proprio delle lettere popolari e romantiche e fu rappresentato nella letteratura finchè in questa potè avere accesso l'elemento popolare. Non è quindi da maravigliare se i due concetti coabitano spesso in una stessa mente, essendo cosa comune allora che uno stesso uomo componesse opere di natura dotta e poesie volgari o latine d'indole romantica. Il concetto scolastico dell'antichità, qual'era allora, non imponeva gran cosa dal lato estetico o sentimentale, e lasciava posto al concetto romantico che in certo modo lo completava. Noi non istaremo qui a seguire Virgilio in quanto subì per l'indirizzo romantico; di ciò dovremo occuparci nella seconda parte di questo lavoro.

Non in tutti i paesi dell'occidente europeo l'antichità fu egualmente romantizzata, altri più altri meno si mostrarono inclinati a vederla così travestita, a quella maniera come varia ne' vari paesi è la cronologia delle lettere volgari, le quali incominciarono più presto in alcuni che in altri. Questi fatti rientrano l'uno nell'altro, procedendo da una sola precipua ed ovvia cagione, quella cioè dell'essere gli studi antichi più omogenei allo spirito, più propriamente indigeni e più vitali in alcuni paesi che in altri. S'intende perchè i popoli celtici o germanici non latinizzati se ne allontanassero primi, perchè in ciò li seguissero Francia e Provenza e ultime Italia, Spagna e Portogallo. L'Italia era naturalmente il paese in cui doveano essere cosa domestica più che in qualunque altro, il paese considerato anche allora da tutti gli altri come classico per eccellenza. Qui il volgare e il latino si contrapponevano molto meno ricisamente che altrove; non solo il volgare era figlio del latino, trasformazione naturale e fisiologica di esso, ma anche, quantunque avesse acquistato una esistenza e una individualità sua propria, portava tanto in sè della natura del suo genitore da potersi facilmente piegare più che tutti gli altri volgari alle forme classiche. Fu quindi fra le lingue viventi la lingua classica del risorgimento, il quale ebbe luogo, come doveva, prima in Italia e poscia, per influsso italiano, altrove.

Parecchie espressioni di scrittori non italiani del medio evo e la menzione che trovasi di scuole tenute allora da laici fra noi hanno fatto credere a più dotti odierni che già in quel periodo del medio evo che precedè la letteratura volgare, la cultura dei laici fosse presso di noi maggiore che altrove; e questo essi pongono in rapporto col fatto del risorgimento[492]. Che realmente il laicato italiano fosse gran fatto più colto del restante laicato europeo, io, lo confesso, non lo credo, nè credo si ricavi da quei tali vaghi indizi da cui altri ciò vuole desumere. In tal questione qui non potrei fermarmi, ma mi si può concedere di notare che il laicato italiano, prima delle lettere volgari, non si mostrò in alcuna guisa più produttivo di qualunque altro laicato. Gli è che, per quanto ciò possa parere paradossale, i veri precedenti del risorgimento non sono da cercarsi negli elementi tradizionali antichi, ma sì negli elementi del rinnovamento, non nelle lettere latine, ma nelle volgari. C'è presso i laici italiani un desiderio evidente d'iniziarsi alla cultura classica, ma questo si manifesta parallelamente allo svolgersi delle lettere volgari, nè se ne trova traccia notevole prima di queste[493]. Le idee che troviamo presso di essi allorchè questa tendenza si spiega, mostrano chiaramente che anche qui l'iniziativa in questi studi era stata propria del clero e che, se pure i laici ebbero qualche cultura maggiore qui che altrove, questa non fu in alcuna guisa diversa per limiti, indole, ufficio e tendenze da ciò ch'essa era presso il clero. L'ideale dell'antichità, l'apprezzamento di essa, il suo collocamento nell'enciclopedia umana fu dapprima pel nostro laico, quello stesso ch'era pel monaco, e molto ci volle perchè il laico, anche italiano, si sbarazzasse del concetto medievale e giungesse a quello studio amoroso e intelligente dell'antico che si osserva nel risorgimento. Trattavasi, per giungere a ciò, di riformare intieramente lo spirito che la influenza chiesastica avea chiuso alla intelligenza dell'antico, espanderlo, innalzarlo, esercitandolo in una palestra in cui tutte le sue forze già rese inerti e assopite fossero richiamate a vita. Questa palestra ei la trovò in tutta la sua attività nuova e indipendente dalla tradizione, colla quale secondo un processo tanto più vigoroso quanto più naturale e spontaneo, ei gradatamente raffinò e nobilitò sè stesso e giunse a innalzarsi fino alla regione propria dell'arte antica. Realmente fu il moto in cui la poesia volgare e l'arte novella pose lo spirito, quello che condusse a ritrovare e purificare il sentimento dell'antichità perduto o falsato. Il latino e il suo uso secondo i tipi classici di per sè stesso non conduceva che ad una stagnazione e non ad un moto fecondo. Ciò vediamo chiaramente nella differenza di originalità e genialità artistica che si manifesta in uno stesso uomo, come Dante e tanti altri, secondo che scriva latino o volgare.

Il punto di partenza degl'italiani adunque all'entrare nel movimento della vita moderna è, quanto al materiale ed al carattere della cultura, quello stesso da cui partono tutti gli altri popoli; ma, per le ragioni che abbiamo dette di sopra, quell'innalzamento dello spirito che nasceva dalla creazione e dal perfezionamento di un nuovo tipo di arte, fu più potente assai e più rapido presso di noi che presso altri popoli, per modo che, quantunque degli ultimi ad avere una letteratura volgare, questa avemmo più grande, più artistica e monumentale degli altri, e prima degli altri giungemmo all'arte colta e di riflessione, allontanandoci dalla plebea. Nella regione schiettamente popolare, poco si trattenne, rispetto ad altri paesi, la poesia italiana[494]. Epopea nazionale di carattere e di origine fantastica e popolare, non diede, a differenza di tutti i popoli d'Europa, nè poteva darne perchè nel pensiero e nella coscienza italiana, anche indipendentemente dalla cultura e presso la plebe, c'era la storia e l'antichità reale, elementi incompatibili colla produzione epica; e questa condizione psicologica era mantenuta, non soltanto da quanto pensavano gl'italiani, ma anche dal concetto che dell'Italia avevano tutti i popoli dell'Europa. Neppure di liriche latine popolari fu così ricca l'Italia medievale come lo furono altri paesi[495], ed anche la lirica volgare si allontanò dall'indole plebea e si alzò a perfezionamento artistico più rapidamente qui che altrove.

E realmente chi consideri nel loro complesso le varie letterature volgari del medio evo, così delle lingue latine come delle germaniche, troverà di leggeri che non tutte ebbero la forza di acquistare carattere classico e divenir quindi elemento di cultura anche per le età successive. In Germania, in Provenza, in Francia esse si tennero assai prossime al livello popolare, e assai mediocre fu la nobilitazione artistica a cui pervennero; rappresentarono una fase transitoria che si riflette evidente nella transitorietà e nella varietà popolesca e dialettale delle lingue che con esse si fecero innanzi nella letteratura e che non riuscirono per esse a nobilitarsi intieramente acquistando uno stabile tipo letterario. Perciò fu assai grande il distacco che il fatto del risorgimento produsse fra esse e il momento veramente moderno delle rispettive nazioni, le quali per lungo tempo le dimenticarono affatto, ed anche oggi non le conoscono che da lontano e per opera de' dotti, essendo la lingua di quelle letterature tanto diversa dalla presente da rendere necessaria la grammatica e il dizionario e la traduzione. La sola nazione che sapesse innalzare la lingua e la letteratura volgare alle proporzioni della classicità e creare con quella un linguaggio letterario nobile e duraturo, fu l'italiana che più di ogni altra ebbe occasione e motivo di non perdere di vista nelle opere del suo pensiero l'idea del classicismo, e che già pensava con opera di riflessione teoretica al volgare illustre ed alla nuova ragione poetica[496] quando altri a ciò non pensavano in alcuna guisa. Questa meta seguì essa dapprima indipendentemente da ciò che potrebbe dirsi imitazione o riproduzione dell'antico, sviluppando una forma di arte novella che, come l'antica arte romana, avea per condizione inevitabile e suprema «la gloria della lingua» e «il bel parlar gentile»[497]. Così avvenne che gli scrittori del trecento rimasero e sono realmente classici nostri, come quelli che hanno intimi rapporti di continuità colla successiva letteratura e cultura italiana, e fino al momento presente noi li sentiamo assai più prossimi a noi di quello ciò accada presso altri popoli per gli scrittori e poeti nazionali di quell'epoca. Ed invero è ben esageratamente largo il significato della parola classici che oggi vediamo da taluni applicata in Germania a Wolframo da Eschenbach, Goffredo da Strasburgo e simili distinti poeti del mittelhochdeutsch, i quali appena possono dirsi tali per quel periodo letterario che certamente rappresentano; ad onta dei molti sforzi dei dotti, mirabili pel sentimento nazionale che li guida, questi autori non riusciranno mai, per la grave interruzione che li separa affatto dal presente, ad avere quella parte nella cultura nazionale che presso di noi hanno i nostri antichi, che vediamo schierati intorno al nome eccelso e profondamente italiano di Dante Alighieri.

CAPITOLO XIV.

Dopo quanto abbiamo detto s'intenderà facilmente la ragione storica per cui la più alta sintesi e ad un tempo la maggior nobilitazione delle idee medievali su Virgilio che abbiamo fin qui esposte ed esaminate, si trovi alla fine del medio evo in Italia, e sia opera, non di un ecclesiastico, ma di un secolare. Chi ha seguito questo nostro studio, notando i rapporti fra le evoluzioni del pensiero e le vicende del nome Virgiliano, non potrà certo attribuire al caso quella tale invincibile attrazione che prova Dante per Virgilio, il più grande poeta italiano pel più grande poeta latino.

Dante, se noi lo consideriamo nelle sue conoscenze e nelle tendenze speciali della sua attività mentale, appartiene tutto al medio evo e si distingue profondamente dagli uomini del risorgimento. Egli non è grammatico, nè filologo, nè umanista di professione. È un'anima calda ed entusiasta, di fibra eminentemente poetica, aperta ad ogni grande e nobile sentimento, governata da una mente profonda che ha un bisogno irresistibile di dilatarsi e spaziare in alte e vaste speculazioni. Egli abbraccia l'enciclopedia medievale o scolastica, sempre però con tendenza speciale per la parte speculativa di questa, subordinando alla speculazione la disciplina letteraria anche nel campo delle lettere volgari, nelle quali egli introduce, così nel grande poema, come anche nelle liriche e nelle prose, una profondità che mai non avean raggiunta nè in italiano nè in alcun'altra delle lingue moderne. Quella tendenza speculativa era invero la tendenza delle menti studiose d'allora, alla categoria delle quali Dante apparteneva. Ma ciò in cui Dante si distingue da tutti gli altri dotti dell'epoca gli è che la speculazione in lui si marita colla poesia ed appunto con quella poesia volgare da cui tanto la tenevano divisa altri dotti, i quali non consideravano i volgari che come organi possibili del pensiero popolare. Perciò Dante che per istudi e per operosità di mente è nominalmente chierico, è di fatto laico non solo per istato, ma per sentimento, per opinione e per tendenza, e presso niun altro scrittore medievale prima di lui il sapere diviene tanto schiettamente laico quanto lo diviene con lui. Ormai si sente che i volgari e la produttività laica dall'umile sfera popolare sono innalzati a quella dell'arte di proprio nome e dell'attività scientifica. Questo solo fatto, di ardimento miracoloso per quel tempo, di chiamare il volgare a servir di organo ad un'opera così vasta e profonda pei momenti storici e scientifici che abbraccia e per le vedute di alta speculazione storico-filosofica che incarna, mostra di per sè quanto quella mente divina sapesse sollevarsi al di sopra delle più alte cime del pensiero contemporaneo, dominandone tutti gli elementi presenti e tradizionali, e, con originalità tutta propria, spingendolo ad armonizzare ed a concatenarsi col passato e coll'avvenire[498]. Volgarizzare la scienza, far che cessasse di essere privativa di una casta, era un bisogno in molte guise manifestato e che in mezzo a molti contrasti suscitati da vieti pregiudizi, era inteso e assecondato da uomini superiori. Ben lo intese anche un contemporaneo di Dante, il robusto intelletto e l'ardente animo di Raimondo Lullo; ma quel ch'ei fece per tale indirizzo, come scrittore di volgare e poeta, riuscì ben povera cosa; allato all'opera dantesca la sua non serve ad altro che a rendere più manifesta, pel confronto, la miracolosa potenza creatrice prodigata dalla natura a quel genio divino[499]. Questo è propriamente ciò che congiunge Dante col risorgimento, di cui veramente è un precursore, e questo va detto anche per quella parte che più caratterizza il risorgimento, cioè lo studio dell'antichità classica.

La grande opera dantesca è di natura sua enciclopedica; l'enciclopedia non è invero scopo di essa, ma è la larga base su di cui poggia. I due grandi moventi dialettici del lavoro intellettuale d'allora, ragione e religione, tendono nel concetto grandioso di quella vasta mente ad equilibrarsi e la poesia si fa derivare non dalla loro separazione e molto meno dai loro antagonismi, ma sì bene dalle loro armonie. Anche per Dante come per tutti gli scolastici la teologia sta alla vetta dello scibile e la filosofia è subordinata ad essa come ancella. Ma la ragione tiene per lui un posto d'onore ben più alto che nelle scuole filosofiche d'allora, poichè ei non la considera soltanto come organo che serve presentemente, ma la considera nella nobile sua storia e s'infiamma d'entusiasmo nella contemplazione delle belle sue conquiste. Questo ei vede nell'antichità, le cui opere studia con amore e direttamente, non conoscendole soltanto dai florilegi, massimari e repertori, come accade a taluni principali luminari della scolastica[500], i quali, concentrati nella speculazione militante, non pensano a corroborarsi colla conoscenza diretta della storia del sapere e dei grandi prodotti dell'intelletto umano. L'antichità adunque era così tratta da Dante in quell'alta regione a cui egli sollevava il volgare e la produttività laica; ivi già la vediamo più liberamente spiegare le sue attrazioni e ne presentiamo il risorgimento[501].

Invero, ognuno intende che Dante era ben lontano dall'avere quel concetto dell'antichità che poi n'ebbe Poliziano, e dallo studiarla così come questi la studiò. Dante ha nello studio dell'antichità parecchi elementi comuni col clero medievale, anzi si trova sullo stesso piede di questo in generale. I suoi studi classici sono circoscritti alla solita cerchia comune della tradizione scolastica medievale. Ignora il greco[502] e conosce un numero limitato di scrittori latini, non più di quello ne conosca Rabano Mauro o Giovanni di Salisbury, anzi forse meno[503]. I suoi studi di grammatica non superano quella linea di mediocrità molto umile che è il loro massimo nel medio evo[504]; i soliti difetti della scuola medievale si riconoscono in non pochi casi nei quali gli antichi autori sono da lui fraintesi, in certe etimologie, in certe definizioni ed anche in certe idee di teoria letteraria[505]. Come latinista è anche assai lontano dagli umanisti che verranno poi; scrive il solito latino usuale dell'epoca, ed in tal qualità non solo non si distingue gran fatto dagli altri contemporanei o anteriori, ma anzi convien dire che altri vi sono assai più distinti di lui.

Inoltre, in quanto concerne l'antichità, la sua cultura ha questo di comune colla cultura chiesastica medievale, che l'antichità anch'egli la vede attraverso a un prisma il quale gliela presenta sotto un aspetto poco reale. Egli come dotto è scolastico anzi tutto, e la meta del suo spirito è il vero raggiunto per la speculazione filosofico-teologica; questa tendenza medievale e scolastica ei la porta nella contemplazione dell'antichità, e quindi gli è familiare l'interpretazione allegorica; al che il suo intelletto profondo è tanto prono, che allegorizza sè stesso, e nel lavoro poetico i concetti filosofici e teologici gli si rappresentano con imagini e simboli che hanno una grande parte nella compage complicata delle sue creazioni poetiche. Quindi egli trova facilmente allegorie negli autori antichi che venera tutti, e non soltanto in Virgilio, ma in Lucano, in Ovidio e in altri[506], non limitando tali interpretazioni alle finzioni poetiche, ma anche talvolta applicandole, come appunto è l'uso del medio evo, agli stessi fatti storici, i quali senza perdere nulla della loro realtà, sono considerati come opportuni simboli di una idea allegoricamente o anagogicamente ritrovabile in essi.

Questo ha Dante in comune con gli scrittori ecclesiastici, quanto allo studio dell'antichità. Differenze però ve ne sono e notevoli. Dante laico e secolare, pio ma non asceta, ha un'alta idea della ragione umana e, pur considerandola come limitata, venera coloro che la rappresentarono indipendentemente dalla rivelazione e anteriormente alla missione di Cristo; perciò gli antichi ei non li conosce soltanto per fatto della scuola grammaticale, nè si limita a tollerarne lo studio come una necessità inevitabile, ma li studia direttamente, non come filologo o grammatico e neppure come umanista, ma come pensatore e poeta. Con esso l'uso pedagogico e scolastico di quegli scrittori lo perdiamo quasi affatto di vista, e li troviamo invece chiamati a servire all'attività scientifica. Nella qual cosa Dante non era certamente il primo, poichè la scolastica avea posto in vista Aristotele, ma Dante tutti i grandi dell'antichità sa venerare egualmente, non soltanto i filosofi, ma tutti e prosatori e poeti[507]; e per questi ultimi ha una predilezione che la tempra e le tendenze dell'anima sua spiegano a sufficienza e che è di gran lunga superiore e più libera di quanto in tal genere siamo soliti trovare presso gli uomini di chiesa del medio evo. Qui non solo non c'è più traccia dell'odio per questi pagani che ispira tanti antichi chierici ed asceti, ma neppure di quei sospetti, timori, restrizioni e renitenze che accompagnano gli uomini di chiesa meno avversi ad essi. In questo egli era talmente diverso da coloro che dominarono la cultura medievale, che non solo egli tratta a fidanza coi poeti antichi quanto quei chierici non osarono mai di fare, ma, ciò che è notevole e quasi sorprendente in un uomo che pure è tanto cristiano, quei poeti cristiani che tanta voga aveano presso gli ecclesiastici[508], Prudenzio, Sedulio, Giuvenco e simili, ei li lascia del tutto in disparte e non li nomina neppure, quantunque sia tutt'altro che estraneo alla letteratura teologica, ed ai cantici della chiesa dia assai valore poetico, come si vede in più luoghi del divino poema. Dante poetizzò l'idea cristiana assai più felicemente di coloro, non già adattando a questa forme viete, e ripugnanti ad essa, ma creando una formula di suo conio, la quale però, convien notarlo, è propriamente adattata al sentimento cristiano teologizzante e filosofante, quale risultava dalla chiesa cattolica, ossia dal connubio del cristianesimo colla civiltà greco-latina e colla romanità. In tredici secoli di esistenza il cristianesimo erasi per modo combinato con mille elementi della tradizione antica che non pareva potessero più disunirsi. Dante rappresenta in modo altissimo il momento in cui si bilanciano quasi e si comportano reciprocamente, momento che dovea essere transitorio, ma che Dante non considerò come tale e non avrebbe mai voluto fosse tale. Poichè veramente egli non è ribelle in alcuna guisa all'idea religiosa, nè ciò che oggi dicesi libero pensatore[509], nè prevedeva nè poteva prevedere che l'ulteriore sviluppo di quella attività raziocinatrice che richiamava in onore l'antichità vilipesa e trasandata, dovesse finire come poi finì gradatamente, con un affievolimento del sentire religioso ed una reale e continua diminuzione della cristianità, se non nelle formole e negli usi, certo nelle coscienze. Questo conobbe la chiesa che si dichiarò nemica a quel moto, come lo fu a Dante che era uno dei principali rappresentanti di quello, e i fatti han provato che, non certamente nell'interesse nostro ma nel suo, essa aveva ragione.

Questa stima dell'antichità e questa propensione per essa sta in diretto rapporto col sentimento che Dante ha della poesia antica. La sua anima è anima di poeta anzitutto, ed il sentimento poetico lo accompagna sempre dovunque si conduca il suo spirito; la donna, la patria, la natura, la fede, la scienza, tutto vede poeticamente, di tutto sente profondamente la poesia. Perciò, quantunque, come dicemmo, anch'egli vegga l'antichità attraverso alla filosofia e alla teologia, in modo simile a quel dei monaci, allato a questo fatto della sua mente sta il fatto dell'animo suo che sente rivivere in sè il sentimento poetico antico quanto a niun monaco non accadde mai. La sua mente, speculatrice e sintetica in grado straordinario, tende a coordinare filosoficamente tutti i vari obbietti del suo sentire poetico, la fede cristiana e la tradizione antica, l'amor della donna e della patria, e l'amore del vero; ma il fatto più essenziale sta in questo, che propriamente l'anima sua trovasi a quell'altezza in cui il sentimento poetico cessa dall'essere unilaterale e diviene universale, non concentrandosi nella poesia di una cosa sola, ma rendendosi aperto all'efficacia poetica di cose diverse: egli è già quasi a livello dell'uomo moderno che sente la poesia di Eschilo e di Virgilio, come sente quella di David, di Shakespeare e di Goethe. Questo lo distacca profondamente dal medio evo monastico. È realmente tanto vivace quel sentimento della poesia antica nell'anima sua geniale ed essenzialmente poetica, ch'ei non ha punto d'uopo ad esprimerlo della lingua e della versificazione latina, anzi il volgare è per questo, come per ogni altro suo sentire, l'organo più simpatico per lui, il più opportuno, come infatti è il più naturale. Allorchè un poeta sa coniarvi di suo una imagine com'è quella:

«Quale ne' plenilunii sereni

Trivia ride fra le ninfe eterne

Che dipingono il ciel per tutti i seni»

e tante altre simili, vivamente poetiche, quali da più secoli niun versificatore latino ne sapeva creare, sarebbe vana cosa chiedere se quel poeta sente veramente la poesia antica; e chi intende sa ch'io ciò non dico soltanto per quei nomi di Trivia e di ninfe. Quest'uomo ha dinanzi alla mente l'antichità e i poeti antichi come cosa tanto familiare che nella poesia gli si presentano sempre irresistibilmente, e ciò senza mai essere ciò che dicesi imitatore. Le imagini e le similitudini spesso le prende dalla natura, e dalle reminiscenze dei luoghi visitati nelle sue peregrinazioni, ma in grandissima parte le prende, e con vivezza e verità poetica non minore, dall'antichità così storica come poetica o fantastica. Niun poeta del medio evo volle o seppe ciò fare quanto lui o come lui, niuno si era ancora mostrato tanto intimo con quell'antico materiale poetico[510].

In Dante primeggiano due grandi sentimenti, l'amor patrio, l'amore del vero intellettuale. Tutti gli affetti si riassumono per lui nella formola Amore, a cui dà un'ampia portata, combinando col resto anche l'amore della donna idealizzata, ch'egli arriva ad intendere in alto e mistico senso. Quei due amori principali si combinano nella sua idea politica e storica, come nella sua idea filosofico-teologica, per modo che è impossibile definire s'egli arrivi da quella a questa o viceversa. Riconosciamo ambedue nell'ardore con cui studia lo scibile intiero, trovando il pascolo più geniale nell'antichità che gli rivela la parte più propriamente umana di quello, nel posto che tiene l'ideale antico in quella organizzazione politica ch'ei vagheggiava, e nel fondamento storico su di cui basa le sue idee patriotiche. L'amor d'Italia è in lui di una intensità straordinaria, e con questo ha stretto rapporto anche l'amore dell'antichità; poichè la continuità fra i romani e gl'italiani ei la concepisce intera e non interrotta mai; la storia dei latini comincia con Enea e giunge fino al tempo suo; tutta la gloria latina ei la sente come gloria italiana, e l'anima sua di poeta e di patriota si entusiasma per quella. Egli non domina altra visuale storica che quella che abbiamo veduto esser propria generalmente degli uomini dotti del medio evo, e che si concentrava essenzialmente nella storia di Roma, conducendo all'idea dell'impero universale. Questo che uomini d'altra nazione concepivano solo astrattamente e come al di sopra della loro idea nazionale, guidati dalla storia della cultura e dell'idea religiosa, egli, oltre al resto, lo sentiva profondamente come italiano e lo vedeva come fondamento a legittime aspirazioni nazionali, alla nobiltà, ai diritti e alla meta degli italiani. Le belle effusioni di questo suo sentimento nella Divina Comedia e nelle prose sono cose troppo note perchè qui dobbiamo rammentarle.

Tanta potenza di sentimento nazionale italiano ci fa intendere una delle precipue ragioni della simpatia e della preferenza che ha Dante per Virgilio. Infatti è chiaro che Dante considera Virgilio come poeta eminentemente nazionale «la nostra maggior Musa» «il nostro maggior poeta». La sua anima d'italiano si è commossa fortemente a quella lettura, riconoscendo nei fatti narrati dal poeta l'antica storia d'Italia, e pensando che fu bene per questa Italia nostra che

«morio la vergine Camilla

Eurialo e Niso e Turno di ferute».

E qui rammentiamo al lettore quanto abbiamo detto in principio di questo studio sull'epopea virgiliana, considerata come la più alta manifestazione poetica del sentimento romano. Numerosi luoghi ben noti della Divina Comedia, fra gli altri il bel canto sul corso trionfale dell'aquila latina, e il libro sulla Monarchia, e quanto ivi è detto sulla legittimità dell'impero romano, singolarmente appoggiandosi su Virgilio, mostrano quanto quel sentimento rivivesse potentemente in Dante, e quanta armonia ci dovesse essere in tal rapporto fra il sentire suo e quello del Mantovano. Questo sentimento che conduceva Dante a quella utopia politica che tutti conoscono, avea, strano a dirsi, le sue radici appunto in ciò che rendeva impossibile l'attuazione di quella utopia, cioè nel concetto di una individualità nazionale. Ha un bel dirci Dante ch'egli è cittadino del mondo[511]; le sue effusioni patriotiche, le sue predilezioni manifestate in verso e in prosa per i latini antichi e moderni, il suo entusiasmo per questa Roma grandiosa che è gloria italiana, l'ardore intenso con cui afferma colla parola e coll'esempio la nobiltà del nostro volgare, le terribili parole ch'egli usa contro quegli uomini abominevoli che preferiscono il volgare straniero a quello della patria loro[512] e tante altre simili cose, fanno di lui il più grande e più antico rappresentante della nostra idea nazionale, mostrano ch'egli si sente italiano ben più assai e prima che cosmopolita. Qual posto competa all'Italia in quell'idea dell'impero, la storia lo dice. Essa, come già rammentammo, non fu propria soltanto di Dante, e sempre per quanti la vagheggiarono, sia qualsivoglia il rapporto che segnassero fra papato e impero, l'Italia apparve come il baricentro della tradizione imperiale. Dante nell'Eneide non trovava adunque soltanto la base per una fredda teoria politica, ma trovava anche un pascolo opportuno e gradito ad un amore vivissimo che gl'infiammava l'animo. Oggi la cosa può esser molto diversa, ma chi sa trasportarsi colla mente nei vari momenti della storia deve intendere che cosa dovesse parere Virgilio ad un pensatore e patriota italiano di quella tempra, nel secolo decimoterzo. Arrivare al concetto della loro nazionalità senza passare per quello dell'antichità latina era moralmente impossibile per gl'italiani. Il prestigio che esercita l'antichità su di essi al ridestarsi del loro pensiero e al principiare del loro rinnovamento, sieno qualsivoglia le idee e le utopie a cui conduce, ha la sua prima base nel sentimento nazionale. Però per quanto paia e sia pure una pazza cosa, la tragicomedia di Cola di Rienzo ha nelle cause da cui muove tanto di nobile e di grande che riesce simpatica e poetica oltremodo. L'idea dell'impero doveva essere un'idea italiana, come l'impero fu un fatto italiano.

Dante adunque non è ammiratore di Virgilio soltanto perchè è un gran nome imposto dalla tradizione. Egli riconosce che la tradizione ha ragione di considerarlo come il più grande poeta latino, e se quella non glielo dicesse, lo vedrebbe da sè; la dipendenza di tanti altri poeti da lui, l'essere egli loro onore e lume ei vede appieno; sa che tutti gli fanno onore, e sa pure che di ciò fanno bene. Conosce il posto che la storia assegna ad Omero, e sa che Omero è quegli «che le muse allattar più ch'altri mai»; ma in fatto egli Omero non lo conosce[513], e per lui l' altissimo poeta, al quale Omero stesso fa onore venendo innanzi agli altri come sire, è Virgilio. Le perfezioni dell'opera virgiliana, come vero poeta, le sente tutte; e di quel miracolo dell'arte egli è superbo come italiano, poichè latino e italiano sono egualmente lingua nazionale d'Italia, e Virgilio è la «Gloria dei latini» per cui

«Mostrò ciò che potea la lingua nostra.»

La vivacità e la profondità delle impressioni prodotte su di lui dalla lettura dell'Eneide, assai più che del bucolico canto, si scorge in luoghi numerosissimi delle sue opere che mostrano quanto ei dicesse vero parlando del «lungo studio e 'l grande amore» che gli fero cercare il volume del Mantovano. E quanta efficacia egli riconoscesse nella parola virgiliana ei lo fa esprimere da Beatrice a Virgilio, quando nell'affidare a lui il poeta smarrito gli dice ( Infer. II, 112):

«Venni quaggiù dal mio beato scanno

Fidandomi nel tuo parlare onesto

Ch'onora te e quei ch'udito l'hanno.»

Egli stesso ci fa sapere che l'Eneide la sapeva tutta quanta[514]. Ma quanto era diversa questa sua conoscenza da quella dei centonari di un tempo che facevano strazio della poesia virgiliana a cui erano affatto sordi! Dante sentì vivamente scaldarsi dalle faville

«della divina fiamma,

Onde furo allumati più di mille;

Dell'Eneide dico»[515].

L'uso che Dante fa di Virgilio nelle opere minori mostra che questi era veramente, com'ei dice, il suo autore prediletto, di cui niun altro fu più omogeneo e simpatico al suo spirito, e che era già da molto tempo compagno inseparabile del suo pensiero, prima ch'ei lo facesse compagno del suo mistico viaggio. Non v'ha cosa più bella e più stupenda nella storia del pensiero italiano di questa simpatia che congiunge con prodigiosa, segreta, irresistibile attrazione due grandi rappresentanti delle due epoche più luminose di esso, e segna così in modo imponente la continuità mirabile che esiste fra quelle[516].

Come poeta Dante è del tutto creatore e nulla v'ha che sia a lui tanto estraneo quanto l'imitazione. Ciò si rende manifesto appunto da questo fatto, che ad onta del suo culto per gli antichi poeti e per Virgilio sopratutto, la mente sua robusta non ha subito l'influenza di questi nella produzione di natura artistica. Gli uomini di questa tempra non possono imitare, e anche quando vogliono imitare, creano. Nella poesia dantesca si conosce quanto il poeta abbia familiari gli antichi, e reminiscenze dello studio di questi s'incontrano numerosissime in fatti, in nomi, in talune formole; ma in generale il tipo dell'arte dantesca è intieramente nuovo ed originale, ed intimamente diverso dall'arte antica. Per convincersi di ciò basta esaminare quei luoghi nei quali il poeta ha avuto dinanzi incontestabilmente un esemplare antico, come fra gli altri è la celebre descrizione del supplizio di Pier delle Vigne, del quale, com'ei dice esplicitamente, Virgilio gli ha dato l'idea nel fatto di Polidoro. Ognun vede chiaro che fra i due poeti non v'ha di comune che il tema, mentre lo stile e l'arte sono al tutto diversi. L'ornato retorico, il cumulo di epifonemi, la facondia grandiloquente, proporzionata al tono epico secondo l'idea antica e romana singolarmente, che troviamo in Virgilio, stanno agli antipodi della semplice naturalezza ed evidenza, lontana da ogni ornato retorico, e da ogni tendenza declamatoria, che distinguono Dante. Di certo quand'ei chiudeva dicendo «e stetti come l'uom che teme» sapeva bene di non imitare il risonante e magnifico «obstupui steteruntque comae et calor ossa reliquit» di Virgilio. Di queste profonde differenze non è possibile ch'egli non avesse coscienza, e quand'ei dice a Virgilio:

«Tu se' solo colui da cu'io tolsi

Lo bello stile che m'ha fatto onore»

non bisogna intendere grossamente ch'egli abbia voluto poetare secondo lo stampo virgiliano, cosa che sarebbe falsa, ma bisogna cercare quel significato di quelle parole che la realtà giustifica, in quella guisa come ciò conviene fare per Eschilo allorchè ei dice che le sue tragedie altro non sono che bricioli raccolti dalla mensa omerica. Alle forme caratteristiche della poesia dantesca quelle parole non si possono riferire; chè infatti se la Divina Comedia non offre opera d'imitazione artistica dell'antico, molto meno ne offrono le poesie anteriori, alle quali pur soltanto debbono riferirsi quelle parole, essendo appunto quelle poesie per le quali Dante avea già acquistato celebrità prima di comporre l'opera sua maggiore. Le liriche di Dante non hanno assolutamente che fare coll'arte antica, e molto meno coll'arte virgiliana; esse, così nel sentimento come nella forma, sono tutte di ragione moderna. Dante però dichiara altrove che cosa egli intenda per quello stile che gli ha fatto onore[517]. Il carattere fondamentale del «dolce stil nuovo», del quale egli tanto si compiace di essere introduttore, ei lo stabilisce in questo che ( Purg. XXIV, 52):

«quando

Amore ispira, noto, ed a quel modo

Ch'ei detta dentro, vo significando».

Subordinare la poesia agli impulsi del sentimento reale, far ch'essa vada sempre «dietro al dittatore» è ciò ch'ei chiama suo stile e ciò di cui è superbo. Così lo stile viene a riferirsi, non tanto alle forme dell'arte, quanto alla ragione subbiettiva di questa, ragione che può essere identica anche in due poeti diversissimi per ordine di produzione poetica e per qualità di forme artistiche. Convien notare che nella parola Amore, secondo l'uso dantesco, principalmente sono poste in rilievo le tendenze intellettuali.

Lo stile poetico di Dante risulta dall'opera armonizzata del sentimento e della riflessione; è tutto prodotto di un lavoro interno che ricusa ogni imitazione ed ogni convenzionalismo. Non è nè improvvisazione scomposta e tumultuaria, nè fredda versificazione di dottrine e pensieri filosofici allegorizzati[518]: è poesia vera e propria, ma grande poesia di riflessione. Giustamente il poeta la contrappone a quella poesia priva di profondità e di rispondenza subbiettiva che era rappresentata da Buonaggiunta, da Iacopo notaio e simili, come pure da quei grossi dei quali parla nelle prose. Per la sapienza della elaborazione artistica, ed anche per la profondità del pensiero che si racchiude sotto le forme poetiche (secondo le idee medievali), la più alta misura di nobile ed illustre poesia, ei la riconosce in Virgilio. Insomma la poesia dantesca è grande poesia di riflessione individuale, che si slancia ricisamente e s'innalza al di sopra della poesia popolare o convenzionale; è poesia classica, non per imitazione dei classici, ma perchè raggiunge quel livello di nobiltà artistica che costituisce la classicità. Tale è «lo bello stile» di Dante, e s'intende che Virgilio, il più grande poeta classico allora conosciuto, fosse il più grande esempio a lui noto dell'arte poetica così concepita[519]. Chi entra bene in questo concetto deve intendere ch'esso non implica punto l'imitazione delle forme poetiche altrui, ma anzi l'esclude.

CAPITOLO XV.

Tutto ciò può introdurci a intendere la genesi e la natura vera del Virgilio della Divina Comedia. — Se si tien conto di quanto abbiamo osservato sull'idea che si aveva dell'antichità e di Virgilio nel medio evo, è chiaro che con questo si trova d'accordo ne' suoi lineamenti generali il Virgilio dantesco, il quale non è certamente il Virgilio reale augusteo, ma il Virgilio ideale che risultava dai concetti propri di quell'età. Nondimeno sarebbe un errore il credere che la ragione per cui Dante sceglieva Virgilio per sua guida fosse intieramente esterna, quasi ch'egli, cercando nelle sue cognizioni un nome che meglio si adattasse a quell'ufficio, fosse indotto dall'aureola con cui si presentava il nome di Virgilio a scegliere questo. Il grande poema dantesco è tale che in esso, tanto per la stessa finzione poetica, quanto pel modo come questa è trattata, la persona e la subbiettività dell'autore è tenuta in vista continuamente. Dante ha voluto mostrarci il suo cosmo ideale, non fuori di sè e senza di sè, ma in sè e con sè. La scelta dunque delle simboliche sue guide non poteva esser fatta a caso, nè determinata da ragioni esterne, ma doveva essergli prescritta inevitabilmente dalla storia del suo pensiero e della sua coscienza. Se egli avesse voluto fare un poema puramente didattico, in cui di sè e dell'anima sua punto o poco si trattasse ed in cui la sua persona figurasse soltanto artificialmente come avrebbe potuto figurarvi quella di un altro, di leggieri avrebbe potuto scegliere altri personaggi, od anche come altri fecero in casi simili e il simbolismo medievale invitava a fare, sceglier nomi di niente altro significativi che d'idee personificate, quali, a mo' d'esempio, Pistis e Sofia o altri di tal natura, in luogo di Beatrice e Virgilio. Ma l'indole del suo poema era tale, ed il rapporto che questo aveva colla storia del suo pensiero e dei suoi affetti era così profondo, che egli dovette chiedere non ad altri che alla sua coscienza due nomi che fossero stati realmente compagni del suo spirito nelle varie vicende sue e potessero giustamente chiamarsi sue guide nell'ideale e psicologico suo viaggio. Tali erano Beatrice e Virgilio.

Il nome di Beatrice è nome di persona reale, e rammenta al poeta un primo suo affetto, ma la elaborazione ideale di questo oggetto del suo amore, finì col far rappresentare a questo nome una idealità mistica, sempre scopo di profondi affetti, ma lontanissima dal significato primitivo; talchè pel lettore della Divina Comedia che altro non sapesse di Dante e ignorasse la Vita Nuova, Beatrice apparirebbe alla prima come un nome inventato. Virgilio, pur seguendo il processo del pensiero dantesco, rimaneva sempre cosa reale e concreta e non soltanto un puro nome segno d'idee e di affetti. Esso fu l'autore favorito di Dante, in esso Dante trovò pascolo a più di una idea fervorosamente coltivata e sostenuta, ed anch'esso, come Beatrice, fu tratto quindi nella maestosa corrente di quello spirito, seguendone gl'ideali e idealizzandosi esso pure. Gl'ideali a cui risponde Beatrice non sono intera creazione di Dante, ma sono alte sintesi del pensiero medievale; e questo stesso ha luogo per Virgilio, con tal differenza che mentre il nome di Beatrice è applicato agli uni soltanto per un processo della mente dantesca, per gli altri taluni caratteri si trovano nel medio evo già aderenti al nome virgiliano, per modo che, per quanto concerne Virgilio, Dante, innamorato di questo poeta, non ha fatto fino ad un certo punto che concretare in una sintesi personificatrice quanto sparpagliatamente risultava dalle idee medievali su di esso. S'intende però, ch'ei ciò non fece come raccoglitore, ma come interprete del pensiero medievale, che pur viveva in lui. Il tipo di Virgilio, come personaggio e come simbolo, quale ei lo ha ideato e rappresentato, è di gran lunga più nobile e più grande di quello risultasse dai comuni concetti delle menti d'allora.

Dante non si riferisce mai nei vari suoi scritti, nei quali tanto si serve di Virgilio, ad autorità alcuna relativa al poeta; Macrobio e Fulgenzio pare ch'ei non li conosca; certo non si trovano mai nominati da lui, e non v'ha nei suoi scritti segno alcuno da cui possa dedursi ch'ei li leggesse. Egli conosce una interpretazione allegorica dell'Eneide che certamente non è sua, ma di cui non nomina l'autore, rammentandola come cosa ammessa generalmente; e questa non è l'interpretazione di Fulgenzio, ma quella che, forse ispirata dapprima da Fulgenzio, ebbe corso presso gli scolastici, quali Bernardo di Chartres e Giovanni di Salisbury. Di questa egli può aver avuto contezza nei suoi studi filosofici a Parigi. Del resto Dante dalla lettura di Fulgenzio non avrebbe potuto essere che nauseato, tanto barbaramente concepito e opposto alla sua idea è il tipo di Virgilio in quell'opera, oltre che esso è unilaterale e non mostra che malamente e stupidamente una parte di ciò che Dante vedeva e sentiva in Virgilio. Intorno a Virgilio Dante non conobbe altro scritto che la biografia[520].

Noi non c'impegneremo in mezzo alle polemiche degli espositori, che con vari sistemi han voluto spiegare ciò che nel concetto dantesco rappresentino l'una e l'altra guida che il poeta ha scelto pel suo viaggio. La natura del nostro lavoro c'impone di cercare i rapporti del Virgilio dantesco con la tradizione letteraria, quanto lo ravvicina al Virgilio dei chierici medievali e quanto lo distingue da quello.

Il viaggio dantesco è figurato come una peregrinazione d'interesse e di scopo psicologico. È una visione graduata nella quale, per arrivare ad intuire la parte più eccelsa, l'anima deve prima purificarsi dalle impurità che la ottenebrano, passando dinanzi al «temporal fuoco e l'eterno», ritemprandosi nella meditazione di quanto la guasta e la minaccia, del male morale e delle sue sanzioni eterne. Così purificato e giunto a tuffarsi nelle acque rinnovatrici di Lete e di Eunoè, lo spirito si rende capace di accedere alla contemplazione della eterna idea. Due sono quindi le guide di Dante in questo psicologico viaggio, una più reale e concreta per la parte negativa, per quella parte in cui l'anima, rimanendo in regione umana, non fa che purificar sè stessa e rendersi degna e capace della visione beatifica; l'altra più mistica, ideale ed eterea per quella parte in cui l'anima estatica e trasumanata vien sollevata alla sfera sublime della perfezione e della beatitudine, ove più limpida e fulgida risplende «La gloria di colui che tutto move». Quest'ultima essendo la meta del viaggio, e la parte prima compiendosi soltanto come necessaria per giungere a questa, la principale guida è Beatrice, da cui dipende Virgilio, il quale da essa è mandato a Dante, tutto fa e tutto ottiene per Beatrice nei regni che percorre, ed a questa in ogni più grave dubbio rimanda. Così, nella meditazione purificatrice delle più tristi e dolorose realtà, guida, maestro e conforto di Dante è un onestissimo pagano di gran nome e di grandissima sapienza; nella contemplazione dell'idea suprema appetita dall'animo come perfezione e felicità, guida è una donna simbolica e ideale il cui nome corrisponde pel poeta ad un affetto intenso e purissimo; la qual donna incarna in sè l'alta speculazione dello spirito in quelle condizioni di lume e di grazia che solo trovansi nel cristianesimo. La prima guida è di tal natura che quantunque molto s'inoltrasse nella via della purificazione e del perfezionamento, non potè giungere a rinnovarsi nelle acque di Lete e di Eunoè, nè potè retrocedere tanto verso quel puro stato da cui l'uomo si allontanò, da togliere fra sè e Dio l'albero fatale ad Adamo; l'altra è guida perfetta che usufruì nell'intera pienezza il beneficio del sangue di Cristo. Beatrice sa quindi tutto quanto sa Virgilio, ma Virgilio non sa quanto sa Beatrice. Di mezzo alla storia curiosa e poco edificante dei tanti sistemi d'interpretazione che sono stati sostenuti e dei tanti vocaboli che sono stati messi innanzi per ispiegare ciò che simboleggiano Virgilio e Beatrice (sopratutto quest'ultima), riman sempre fuori di questione il fatto che Beatrice (sia la Teologia, la Filosofia rivelata, o altro che si voglia chiamare) ha la sua essenza e la sua ragione di essere unicamente nel cristianesimo, e ciò per cui si distingue profondamente da Virgilio è la rivelazione e la fede. Questa distinzione è del resto in più luoghi segnata a chiare note dal poeta, ed uno de' più espliciti è quello ove fa dire a Virgilio[521]

«.... quanto ragion qui vede

Dir ti poss'io, più in là t'aspetta

A Beatrice, ch'è opra di fede.»

Fra Virgilio e Beatrice non c'è opposizione veruna, chè Dante fa armonizzare intieramente ragione e fede; c'è anzi affetto e buona intelligenza, e nel senso più profondo della idea che rappresentano si può anche giustamente dire che si riducono ad una stessa cosa. Ma di questa stessa cosa essi rappresentano momenti e condizioni diverse tanto che ci è permesso occuparci qui, secondo il nostro intento, esclusivamente di Virgilio senza più toccare di Beatrice.

Le ragioni per cui Virgilio è guida di Dante sono molteplici; alcune le abbiamo già accennate parlando in generale di ciò che era Virgilio per Dante indipendentemente dalla Divina Commedia; riassumiamole ora tutte in breve venendo a parlare di ciò che è Virgilio nella Divina Commedia.

In primo luogo Virgilio era l'autore prediletto di Dante e il più grande poeta ch'ei conoscesse. Grande poeta egli stesso, Dante intese ed apprezzò la nobiltà dell'arte virgiliana con più intelligenza di quello facesse mai alcun uomo del medio evo, e considerò Virgilio come suo maestro in fatto di stile poetico, in quel senso che noi sopra abbiamo dichiarato. Con entusiasmo egli ammirò in lui il cantore di una grande gloria italiana, un poeta di sentimento italiano ed una gloria esso stesso d'Italia. Con esso più che con qualunque altro autore egli meditò e maturò l'alta idea dell'impero, e con esso ne sentì tutta la grandiosa poesia; alla quale idea Virgilio non serviva per Dante semplicemente come teorista, ma sì come testimonio, tanto pel soggetto del suo poema, quanto pel momento storico a cui la sua persona appartiene. Inoltre, secondo il sistema d'interpretazione allegorica allora in voga, Dante trovava espresso allegoricamente nell'Eneide appunto quel peregrinare dell'uomo sulla via della contemplazione e della perfezione, ch'ei faceva subbietto del suo poema. Nel suo concetto dei rapporti fra la ragione e la fede, e della potenza dell'ingegno non rischiarato dalla rivelazione nel raggiungere certi grandi veri, di mezzo alla schiera dei grandi antichi e principalmente dei poeti, brillava Virgilio come colui che, secondo l'idea medievale, appariva più puro e più illuminato di ogni altro, materialmente più prossimo a Cristo, ed anche profeta, benchè inconsapevole, di questo. Finalmente nell'ideare il materiale organismo del suo grande poema, da Virgilio egli prende la prima idea e molti particolari del suo viaggio fra i morti, e di lui più che di qualsivoglia altro autore fa uso in quella vasta tela, in varie guise[522].

Tutto ciò farà intendere, spero, com'io credo intenderlo, fino a qual punto sia profondamente vero e legittimo l'ufficio di guida sua che Dante attribuisce a Virgilio, e come la scelta di Virgilio per tale ufficio non sia, qual generalmente viene considerata, una mera invenzione determinata da ragioni esterne, ma corrisponda ad una realtà interna e psicologica tanto vera quanto quella a cui corrisponde la scelta dell'altra guida, Beatrice. Unitamente alle precedenti osservazioni che conducono a questa maniera d'intendere quella scelta, è necessario non dimenticare mai questo fatto essenziale, che Dante è ingegno creatore, non già in fatto di scienza, ma sì in fatto di poesia e d'arte, e con uno sforzo titanico di cui egli solo fu capace, la speculazione ei la trae nell'ambiente poetico, che è il proprio dell'anima sua, e la poetizza. Egli è poeta e si sente poeta anzi tutto; venerando sempre tutte le sommità dell'ingegno umano, se fra un filosofo e un poeta, grandissimi ambedue, egli deve scegliere un suo intimo, di certo sceglie il poeta. Perciò nel suo poema quelli coi quali si trattiene più a lungo sono artisti e poeti, Virgilio per primo, e Stazio, e Sordello, e Arnaldo e Casella, e quegli uomini «di cotanto senno» fra i quali egli è sesto nel Limbo, sono tutti poeti. Poeta egli si vede nella più ardente brama sua; questo è il merito suo supremo pel quale spera ottenere l'agognata cessazione dell'esilio e il ritorno, com'ei dice, «al bell'ovile ov'io dormii agnello;» e poetica è la corona ch'egli aspira a prendere nel suo «bel San Giovanni» ove prese il carattere di cristiano:

«Con altra voce omai, con altro vello

Ritornerò poeta, ed in sul fonte

Di mio battesmo prenderò il cappello.»[523]

La sua natura di poeta, e le sue predilezioni come tale, condivise dal suo duca, ei le ritrae mirabilmente in tal bellissimo punto ove guida e guidato, con grandissima loro confusione, s'accorgono d'aver dimenticato la seria meta della loro via, sotto il fascino di un dolce cantare[524].

In generale i dotti, anche più seri, che hanno parlato del Virgilio dantesco han trovato naturale che Dante, cercando un antico che potesse servir di simbolo alla ragione umana indipendente dalla rivelazione, si fissasse sul nome di Virgilio, di cui volgarmente è nota, benchè in modo vago e confuso, la fama di onnisciente e di quasi cristiano che ebbe nel medio evo. Niuno si è fermato a domandarsi come mai Dante, scolastico, non scegliesse Aristotele. Eppure al tempo di Dante, come Dante stesso lo dice, il «maestro di color che sanno» era Aristotele e non Virgilio, e la onniscienza si attribuiva allo Stagirita non meno che al Mantovano, e Dante, come gli altri, considera Aristotele come autorità suprema in filosofia, come maestro e duca della ragione umana[525], ed anzi, come ognuno sa ed intende, nella regione propria della scolastica il nome di Virgilio è di gran lunga vinto da quello di Aristotele[526]; leggende relative alla sapienza di quest'ultimo non mancarono; anche di lui si credette che fosse tanto cristiano quanto mai si poteva esserlo prima di Cristo, e si disputò seriamente se l'anima sua fosse in paradiso[527]; finalmente anche per l'idea dell'impero Dante non lascia di far uso, nelle parti teoriche, dell'autorità del grande maestro. Ma ad onta di tutto ciò, Aristotele estraneo a Roma, greco e non latino[528] affatto ignoto a Dante come poeta, non avea quella intimità e quell'affinità con Dante che avea Virgilio, e d'accordo con quanto sopra abbiamo osservato, non poteva realmente essere scelto da lui per sua guida.

Il Virgilio della Divina Comedia rivela anch'esso, come ogni prodotto dantesco, fino a qual punto Dante aderisse al medio evo, ed insieme fino a qual punto si separasse da questa età, superandola grandemente. Il concetto medievale di Virgilio lo ritroviamo qui, ma la mente geniale e creatrice del poeta gli ha impresso il suo stampo originale, e di mezzo a quei rozzi elementi che più di una volta ci han fatto sorridere, ha saputo trarre un tipo nobilissimo, che è creazione sua. Delle idee medievali su Virgilio talune sono da lui sapientemente eliminate, altre purificate e finamente elaborate[529]. Al tempo di Dante, oltre a quanto già abbiamo riferito della tradizione letteraria su Virgilio, erasi già anche diffusa la leggenda popolare relativa a questo nome ed erasi già anche introdotta nella letteratura, sì nella romanzesca che nella dotta. Dante, che non era estraneo nè all'una nè all'altra, di certo ne avea contezza, come mostra di conoscerla il suo dolcissimo Cino, che l'avea appresa dal popolo a Napoli. È un errore ben grande però il pensare, come ha fatto qualche commentatore antico e quasi tutti i moderni, a quelle leggende a proposito del Virgilio dantesco. Dante non ne ha tenuto il menomo conto, e non c'è luogo nel suo poema in cui pur da lontano Virgilio apparisca come mago o taumaturgo o si accenni in qualche maniera a quanto si pensò su di lui in tal qualità[530]. Basta fermarsi un poco a riflettere sulla grande idea che ha Dante del poeta, e sul culto, non punto triviale e cieco, che professa per lui, per intendere come quelle fole che si spacciavano dalla plebe napoletana sul suo Virgilio e che altri accoglievano troppo leggermente, dovessero ripugnargli. E del resto il modo com'ei tratta i maghi e gli astrologhi nel suo poema mostra chiaro che, nel suo concetto, non solo quelle arti non avrebbero per lui costituito il profondo sapiente che costituivano pel popolo, ma anzi l'esser così sapiente com'ei presenta Virgilio escludeva affatto l'occuparsi di quelle. Secondo il concetto suo, sarebbe stato obbligato a collocare Virgilio all'inferno con Guido Bonatti, con Asdente, e con gli altri, dei quali invece Virgilio si mostra in quel canto tutt'altro che amico ed ammiratore[531]. Ma Dante non ha cercato pel suo Virgilio idea alcuna che fosse estranea agli ideali suoi, coi quali egli congiungeva il nome del poeta, e la magia in questi ideali non c'era davvero.

La parte puramente popolare che aderiva ad un nome letterario non poteva essere accettata da un uomo che conduceva l'arte così in alto e che tanto altamente pensava dei poeti antichi. In fatto di arte e di opera intellettuale Dante è fieramente aristocratico. Neppure ciò che in mezzo alla tradizione letteraria accompagnava allora il nome del Mantovano, si addiceva intieramente all'alto concetto dantesco ed all'uso che Dante fa di Virgilio come simbolo di nobilissima cosa. Egli ha purificato quindi quel nome da più d'una macchia che lo deturpava agli occhi dei cristiani. Certo, Virgilio non è un poeta osceno, e fra gli altri si distingue per certa sua pudica riserbatezza[532]; pur nondimeno gli amori che canta nelle Bucoliche e anche nell'Eneide destavano scrupoli in più di un asceta medievale, che condannava quella poesia come cosa sensuale e lasciva; inoltre tali fatti leggevansi nella biografia del poeta ed anche avean riscontro nelle Bucoliche, secondo i quali Virgilio avrebbe dovuto esser collocato nel cerchio dei violenti contro natura[533] là dove il poeta non esitò a collocare, come prototipo dei maestri di scuola, Prisciano, e il proprio maestro istesso Brunetto. Finalmente quanto alla purezza della dottrina virgiliana, c'era bensì nel medio evo l'idea che il grande poeta latino si fosse grandemente accostato ai principî cristiani, ma c'era anche quella ch'egli come pagano fosse poi anche caduto in più d'un errore, singolarmente epicureo. Questo già vedemmo essergli apposto da Fulgenzio stesso, e si accordava colla sua biografia che lo presenta come discepolo di un epicureo, ed anche col fatto, poichè realmente principî d'indole epicurea, com'è naturale in un poeta di quella età in cui l'epicureismo era tanto in favore presso i romani, non mancano nelle sue opere. Tutto ciò Dante ha lasciato intieramente da parte, sia perchè queste a lui si presentassero come macchie di poco rilievo dinanzi a tanta grandezza di meriti, sia perchè le interpretazioni allegoriche gli permettessero di non vedere nel poeta quel male che altri in esso trovava. Nella cerchia dei violenti contro natura, Virgilio non dice parola, e il modo amorevole ed affettuoso con cui ivi Dante parla a Brunetto suo maestro, mostra quanto in casi simili i meriti gli facessero dimenticare certe colpe. Dell'epicureismo poi Dante non ha una idea diretta intiera e adeguata. Sa da Cicerone De finibus che Epicuro considera fine dell'uomo la voluttà; ma lo sa vagamente[534]. La principal colpa per cui egli colloca gli epicurei in inferno è questa ch'essi «l'anima col corpo morta fanno», principio ch'ei non poteva attribuire al suo poeta, che avea descritto egli stesso il regno dei morti. Perciò Virgilio in quel canto gli parla degli epicurei senza mostrare di averne condiviso alcun errore. E questo processo di purificazione è proprio di Dante, nè soltanto nel suo Virgilio si ravvisa. Tutto traendo in regione astratta e ideale, egli di ciascuna cosa non considera che i caratteri più profondamente tipici, trascurando le imperfezioni di fatto, o le deviazioni che una piccola critica troppo realistica avrebbe avvertito. Così il suicida Catone non ha luogo nella cerchia dei violenti contro sè stessi, fra i quali pur troviamo figure tanto patetiche, ma occupa quell'alta dignità, ed è quella veneranda e santa figura che tutti sanno. Similmente nell'idea di Roma e dell'impero, tanto assiduamente seguìta e profondamente rappresentata nel suo poema, Dante rammenta i grandi tipi ideali di Enea, Cesare, Augusto, Traiano, Giustiniano; ma i brutti tipi di antichi imperatori che la tradizione storica e la leggenda medievale gli avrebbe inevitabilmente impedito di collocare altrove che fra i dannati, come p. es. Nerone, ei non nomina mai.

Virgilio apparisce nella Divina Comedia molto più ricisamente cristiano di quello apparisca nella tradizione del medio evo; ma riman sempre chiara la distinzione che fa il poeta fra ciò che Virgilio fu mentre visse e ciò ch'egli è dopo morto. Virgilio parla sempre come anima di morto, che da lunghi secoli vive nel luogo assegnatole secondo i suoi meriti; colla morte il velo le cadde dagli occhi, e la vita di oltre tomba le rivelò quei veri che prima non avea conosciuti e le fece intendere il suo errore, benchè involontario, e le giuste conseguenze di questo. In questo Virgilio non trovasi in una condizione privilegiata; ei non sa più di ciò debba aver appreso qualunque morto, senza escludere i dannati. Questa è idea cristiana, non propria di Dante soltanto, e da questo lato il Virgilio di Dante si accorda col Virgilio di Fulgenzio. Anche presso Fulgenzio Virgilio parla come ombra suscitata dal regno dei morti: lo scopo a cui serve essendo diverso da quello del Virgilio dantesco, non dice quale fra i morti sia la sua condizione, ma si vede chiaro che certe verità e certi suoi errori ha riconosciuti nella vita di oltre tomba, e che tal soggetto è per lui penoso ed umiliante, nè su di esso ama trattenersi. Ben più espansivo, diverso affatto per iscopo, significato e carattere, il Virgilio di Dante sa e dice quanto la morte gli apprese; sa che erano «falsi e bugiardi» gli Dei che si adoravano al suo tempo, sa che cosa è il Dio dei cristiani ch'ei prima non conobbe, e quindi Dante lo prega:

«Per quel Dio che tu non conoscesti,»

sa che questo Dio è «una sustanzia in tre persone», conosce il beneficio del «partorir Maria.» Queste ed altre simili cose sa Virgilio per la stessa ragione per cui conosce molti fatti posteriori alla sua vita terrena, anche dei contemporanei di Dante, di recente venuti in inferno; ed anche dei fatti anteriori sa quanto prima non avrebbe potuto sapere, conosce Nembrotto[535] e cita il Genesi insieme ad Aristotele[536]. Tutto quanto egli ora sa lo fa riflettere tristamente sulla sua condizione e su quella di Platone e di Aristotele e di tanti altri grandi antichi, che perderono la beatitudine eterna perchè non seppero quanto col solo lume della ragione era impossibile sapere[537]. Però, se le verità cristiane che Virgilio rammenta o anche spiega, le sa come morto, ciò non vuol dire ch'ei le sappia come un morto qualunque; il poeta dando valore e significato di simbolo ad un nome reale avente caratteristiche già ben note e determinate, non poteva presentare questo sapere oltramondano di Virgilio come indipendente al tutto, o diverso e intieramente diviso dal suo sapere mondano. C'è quindi fra le due vite del poeta continuità e non mai opposizione. Quello ch'egli ha appreso dopo morto non lo spinge a disdire nulla di quanto la sua ragione gli dettò vivendo; anzi v'ha tal caso in cui Dante muove un dubbio e Virgilio gli prova che il suo:

«Desine fata deûm flecti sperare precando»

quando giustamente s'intenda, non si oppone affatto alla dottrina cristiana sull'efficacia della preghiera per le anime purganti[538]. Questo accordo si cerca di mantenerlo sempre nella regione ideale alla quale appartiene Virgilio come simbolo; di certe deviazioni neppur qui si tien conto e deliberatamente son passate sotto silenzio. Così, benchè Dante prendendo da Virgilio l'idea fondamentale del viaggio fra i morti, l'abbia poi notevolmente alterata nei particolari, secondo certi concetti suoi e certe esigenze della idea e della tradizione cristiana, pur nondimeno queste differenze fra i luoghi che percorrono e quelli descritti da Virgilio non sono mai accennate o toccate in alcuna guisa nel suo poema. Dante nei poeti antichi distingue nettamente l'idea significata in modo aperto o figurato, e l'espressione e finzione poetica che ne è l'involucro; perciò fa anch'egli uso dei nomi e delle imagini mitologiche, non soltanto come simboli, ma anche come elementi puramente poetici[539]. Del viaggio di Enea all'inferno egli prende sul serio l'idea di cui lo considera come figura o simbolo; della parte formale e fantastica egli prende talune cose, altre lascia fuori, altre cambia, senza che ciò possa esser soggetto di discorso nel rapporto, tutto ideale, che è fra lui e Virgilio[540].

Il concetto della purificazione dello spirito e della intuizione di grandi veri, avvenute per semplice sforzo di mente eletta e privilegiata, e senza alcun aiuto esterno, là dove si trovasse applicato ad un nome avente già un carattere letterario o dotto, portava necessariamente con sè l'altro concetto di una sapienza straordinaria e di una dottrina vasta ed enciclopedica. Perciò il Virgilio di Dante è così sapiente come lo vede Macrobio, Fulgenzio e tutto il medio evo. Virgilio nella composizione dantesca ha occasione di presentare soltanto taluni lati del suo sapere enciclopedico; nondimeno si vede chiaro che questo virtualmente esiste in lui, solo limitato là dove comincia il campo di Beatrice; ed anche qui ei sa come ombra, ma la sua veggenza di ombra armonizza colla già sua sapienza di uomo, poichè, non conviene dimenticarlo, per quanto Virgilio sia qui idea e simbolo, la realtà sua di uomo vissuto e di poeta non è mai perduta di vista, anzi è frequentemente richiamata. Perciò la grande sapienza e onniscienza virgiliana che abbiamo trovata nelle idee del medio evo, la ritroviamo in Dante, a cui quella idea, non solo serviva pel suo intento nel poema, ma si presentava da sè anche indipendentemente da questo, come cosa evidente e non punto assurda; giacchè in realtà, le proporzioni e la natura del sapere del medio evo rendevano possibile, anzi necessario, il concetto dell'enciclopedia come concetto di dottrina completa, ed enciclopedica è la tendenza dei dotti di quel tempo, come di Dante stesso. Il medio evo propriamente considerava gli antichi poeti principalmente come savi e come filosofi; Dante si accordava con esso e se ne discostava, in quanto anch'egli li considerava come savi[541], ma non dimenticava punto ch'essi erano poeti, e veramente poeti. La profondità del pensiero nella poesia, è appunto ciò per cui egli si ravvicina, come poeta, agli antichi, a capo dei quali è Virgilio. Virgilio adunque, come il più alto poeta antico, è anche il più sapiente e più dotto fra gli antichi poeti, e riconosciamo le idee del medio evo intorno ad esso quando Dante lo chiama «virtù somma» e «quel savio gentil che tutto seppe» e «tu che onori ogni scienza ed arte» e «mar di tutto senno» ecc. Questa distinzione la ottiene Virgilio principalmente fra i poeti; in altre categorie di grandi antichi altri vi sono che non appariscono, secondo Dante, meno dotti o sapienti di lui; poichè Dante, come già abbiamo notato, è pieno di entusiasmo per ogni illustre antico, ed è ben lieto di trovarsi nel limbo dinanzi a quelli «spiriti magni» de' quali ei dice: «che di vederli in me stesso m'esalto.» Con Dante si giunge a fare distinzioni che i monaci medievali non facevano, e il nome di Virgilio, benchè non torni intieramente al suo vero posto, è già sulla via di tornarvi. Se adunque la scelta di Virgilio come rappresentante della ragione e del sapere umano corrisponde al posto che occupa nella tradizione medievale questo antico, dato quel concetto dell'antichità più elevato che è proprio di Dante, per ispiegare la scelta dobbiamo sempre ricorrere alle ragioni interne che abbiamo già esposte.

Le varie anime colle quali trovasi Virgilio nel limbo, e la ragione per cui ivi con quelle si trova, costituiscono già dal principio del poema una caratteristica generale di quel tipo che dev'essere proprio al poeta, di cui l'indole individuale è in tutto il poema tratteggiata con una maravigliosa delicatezza. Virgilio è una delle anime pure che senza lor colpa rimasero prive del bene eterno. Dio lo ha posto «fra color che son sospesi» perchè fu «ribellante alla sua legge» e «non per fare, ma per non fare» e «per non aver fè» e perchè «se fu dinanzi al cristianesmo, Non adorò debitamente Iddio.» Ivi con lui sono grandi d'ogni specie, poeti, scienziati, filosofi, eroi, eroine, personaggi storici, fra i quali anche il Saladino, come c'erano pure, prima che Cristo scendesse a liberarli, Mosè, Rachele ed altri grandi dell'antica legge. Insieme con tutte queste anime venerande, che ivi stanno

«con occhi tardi e gravi

Di grande autorità ne' lor sembianti»

trovansi anche i pargoletti neonati che morirono prima che il battesimo li purificasse della sola colpa loro. Tale è la compagnia in cui vive Virgilio:

«Quivi sto io co' parvoli innocenti

Dai denti morsi della morte, avante

Che fosser dell'umana colpa esenti.

Quivi sto io con quei che le tre sante

Virtù non si vestiro e senza vizio

Conobber l'altre e seguir tutte quante.»

La comune condizione in cui trovansi tutti questi abitanti del limbo stabilisce e suppone fra di essi certa comunanza di sentimenti, non toglie però che ciascuno debba avere un carattere suo particolare, determinato dal suo nome e da ciò ch'ei fu in vita. Il genio del poeta, così abile nella pittura dei caratteri e nel coglierne le varietà, non avrebbe mai confuso i tipi diversi, e se avesse scelto a sua guida Aristotele, Ovidio o Lucano, senza dubbio li avrebbe presentati con lineamenti diversi da quei di Virgilio. Anche in questo troviamo raffinato e nobilitato il barbaro e grossolano ideale del medio evo; anzi qui la cosa ha luogo al punto che l'ideale dantesco, piuttosto che essere basato sui concetti del medio evo, apparisce d'accordo colla realtà storica. Quando si riflette a quanto vien pure determinato dalla finzione del poema, dall'essere cioè Virgilio abitante del limbo e messo di Beatrice e simbolo, sorprende la straordinaria armonia di concetti per cui uno risultando dall'altro e tutto combinandosi in una idea sola che pur trae Virgilio tanto al di là dell'esser suo reale, pur nondimeno senza stonatura di sorta, ma in pieno accordo col resto, troviamo in Virgilio un tipo assai più prossimo al vero di quello mai mente medievale lo concepisse. Infatti il carattere del Virgilio dantesco è in fondo, non solo quale viene indicato nella biografia, ma quale realmente trasparisce nell'indole di tutta la poesia virgiliana. È un'anima dolce e mite che ha un nobile sentimento di sè, affatto lontano da alterigia, dotata di una sensibilità delicatissima, che anche quando si adira rimane piena di candore, assennata e giusta, e dove sia pur leggermente malcontenta di sè arrossisce e si confonde come una verginella[542]. Dinanzi ad un tipo siffatto è impossibile non rammentarsi il soave carattere d'uomo che trasparisce nella poesia virgiliana, l'«anima candida» che Orazio riconosce in Virgilio, il titolo di Virgo che si volle trovare in questo nome e di Parthenias che applicarono al poeta i suoi contemporanei napoletani. Non credo possa dubitarsi che lo studio intenso ed intelligente del Mantovano deve avere ispirato e guidato il poeta nel fissare i lineamenti ideali di questa elevata e nobilissima figura.

Questo carattere sta poi in pieno accordo con quanto è Virgilio come simbolo. Dante considera il genio e la sapienza umana con entusiasmo e con venerazione, ma anche con giusta intelligenza; ei non la vede lontana e misteriosa come una fantasmagoria, nè crede doversi rimpicciolire dinanzi ad essa. Egli ha la coscienza della propria superiorità ed ha anche, nè lo nasconde, tutto quel legittimo sentimento di sè che deve accompagnarla. Dinanzi al suo Virgilio ei non si trova punto a disagio, anzi c'è simpatia evidente, affetto e stima reciproca fra i due poeti. Dante tratta Virgilio con rispetto e venerazione, ma senza bassezza, come un maggiore della bella famiglia a cui anch'egli sa di appartenere; e Virgilio verso di lui non tiene atteggiamento di uomo superbo, ma si mostra amorevole, premuroso, e paterno, quantunque superiore per la posizione di maestro e duce che Dante stesso gli assegna[543]. Una mente eletta che intendeva giustamente la poesia e il sapere e conosceva in che veramente stesse la nobiltà loro, non poteva fare di Virgilio, come fece Fulgenzio, un superbo, tenebroso e antipatico barbassoro, nè di sè stesso un povero homunculus qualsivoglia. Il Virgilio di Fulgenzio è figlio della barbarie stolida e ignorante che abbassa ciò che vorrebbe innalzare, quel di Dante è figlio di un rinnovamento genialmente manifestato e rappresentato, che riscatta e rialza quanto la barbarie abbassava e deturpava.

Il tatto delicatissimo con cui Dante ha tratteggiato questa bella figura del suo Virgilio è posto in chiaro anche da certe leggere ombreggiature, mediante le quali, senza toglier nulla di molto essenziale alla sua purezza, egli ha mostrato, conseguentemente alla finzione del suo poema, Virgilio inferiore ad altri quanto a perfezione. Egli non solo ammette che nell'antichità anteriore a Cristo ci fossero uomini più perfetti di Virgilio, ma anzi dalli stessi versi del Mantovano desume l'idea del collocamento di Catone, e il nome di quel Rifeo, il quale perchè da Virgilio indicato come «iustissimus unus qui fuit in Teucris» ei colloca in paradiso. Il tipo di Catone sovranamente delineato, e idealizzato anch'esso secondo idee tradizionali[544], santo, maestoso, venerando, ma severo, stoico, atrox animus, e spoglio di ogni sentimentalità terrena, trovasi ad un gradino notevolmente superiore a quel di Virgilio, così nel merito come nel carattere. Tanto in là Virgilio non arrivò, e Dante con maestria tutta sua, non solo lo mostra più prossimo e familiare a sè prima di giungere alla purificazione, ma anche, senza introdurre alcun elemento storico o realistico desunto dalla biografia, e solo tratteggiandone il carattere, lo mostra suscettibile di talune leggere debolezze che a Catone non potrebbero attribuirsi e molto meno a Beatrice. Caratteristico è il luogo ove Virgilio si lascia soverchiamente trattenere dal canto di Casella; ma molto più evidente, pel contrasto dei due tipi posti a fronte l'uno dell'altro, è il luogo ove Virgilio parlando a Catone crede di poterlo commuovere pregandolo per Marzia sua. Le parole placidamente severe colle quali Catone ricusa quella lusinga, solo avendo riguardo alla «donna del ciel che muove e regge» Virgilio in quella via, segnano nel modo il più manifesto la differenza nel grado di purificazione a cui giunsero quelle due anime.

La varia gradazione nell'ordine della purificazione e del perfezionamento, volendo esser fedeli al concetto del poeta, è la prima base da cui conviene partire per determinare ciò che simboleggiano coloro che guidano o rischiarano Dante nel suo viaggio. Virgilio, che non ebbe fede, lo guida con passo sicuro attraverso all'inferno, ma nel purgatorio in cui già comincia il regno più esclusivamente cristiano della grazia, egli è incerto e di molto ignaro e guida Dante dietro informazioni altrui. È quella la parte della via del perfezionamento ch'ei non percorse intiera nè con passo sicuro, mancandogli la scorta delle «tre sante virtù.» Ad un certo punto adunque a lui si unisce, nell'accompagnar Dante, Stazio che è presentato quasi una emanazione di Virgilio, come quegli che, non solo per lui fu poeta, ma per lui fu anche cristiano, quale sarebbe stato Virgilio se fosse nato dopo Cristo. In questo luogo del poema, con artificio profondo e delicatissimo e con grande opportunità, viene posta innanzi per prima volta l'idea medievale sulla profezia relativa a Cristo contenuta nella 4.ª ecloga. Virgilio che fu profeta di Cristo, ma senza saperlo, e di Cristo non parla mai in tutto il poema, trova, per così dire, un supplemento a questa sua deficienza nell'accompagnar Dante, in Stazio, il quale, nato dopo Cristo, potè intendere il significato di quella profezia e per quella si convertì al cristianesimo. Stazio, come Dante, ammiratore entusiasta del Mantovano arriva a dire:

«E per esser vissuto di là quando

Visse Virgilio assentirei un sole

Più ch'io non deggio, al mio uscir di bando.»

Di qui il bel movimento di affetti e il calore delle vive effusioni sue allorchè sa che Virgilio gli sta dinanzi, e il motivare della sua riconoscenza verso il poeta:

«........... tu prima m'inviasti

Verso Parnaso a ber nelle sue grotte,

E prima appresso Dio m'alluminasti.

Facesti come quei che va di notte

E porta il lume dietro, e sè non giova,

Ma dopo sè fa le persone dotte,

Quando dicesti: — secol si rinnova,

Torna giustizia, e primo tempo umano,

E progenie scende dal ciel nuova. —

Per te poeta fui, per te cristiano, ecc.»

Ma ad onta della sua conversione qualche impurità rimase a Stazio, che lo tenne al di qua della suprema perfezione; di questa però ei sta a purgarsi in quel regno ed ormai la sua purgazione è intera. Perciò Virgilio all'apparire di Beatrice sparisce, Stazio segue invece, e con Beatrice e con Dante esce dal purgatorio ed entra in paradiso; ma quivi è del tutto dimenticato dal poeta, il quale omai d'altra guida che Beatrice non ha duopo.

Tale è il momento principale da cui risulta la natura ed i limiti di ciò che simboleggia Virgilio nella Divina Comedia. Dante ha una sua idea ben nota, sul migliore ordinamento dell'umanità; egli non aspira soltanto al perfezionamento di sè stesso, aspira all'attuazione di un ideale della società umana ch'ei considera come il più perfetto, il più consentaneo alle leggi della giustizia, della morale e della religione, e perciò come il più appropriato anche al perfezionamento e alla felicità individuale. La distinzione fra spirituale e temporale, fra papa e imperatore, sta alla cima e alla base di questo concetto, che è fondamentale nella Divina Comedia. Enea e Paolo sono i due suoi predecessori in viaggio siffatto, e in fondo all'universo ei vede collocati i più grandi peccatori ch'ei conosca, i traditori di Cesare e di Cristo. Quest'ordine di cose ei non lo presenta come un progetto, ma come un fatto voluto con legge eterna da Dio, reso manifesto in gran parte dalla ragione e dalla storia dell'umanità e confermato dalla fede. Conseguentemente, quell'ideale ei lo trova vivo in tutte le rette coscienze oltramondane e principalmente nelle sue guide. S'intende come di questo concetto, risultante dalla speculazione filosofica e storica, tutta quella parte che si riferisce all'impero e alla potestà temporale, debba essere inclusa nella sapienza virgiliana, e debba trovarsi in Virgilio così nel senso letterale, come nell'allegorico[545]. Virgilio, storicamente, è contemporaneo del buon Augusto, ossia dei principî dell'impero nella pace, prossimo al gran fatto per cui la provvidenza preparava Roma a divenire

«lo loco santo

U' siede il successor del maggior Piero»

ed era il cantore dell'impero universale. Ma Virgilio era anche colui che allegoricamente avea cantato la vita contemplativa, e in ordine a questa avea inteso quel più perfetto ordinamento della società umana. Sarebbe dunque tanto ingiusto il dire che Virgilio in Dante non rappresenta altro che l'idea dell'impero, quanto lo sarebbe il dire che la Divina Comedia non contenga nulla di più che l'idea politica di Dante. Come personaggio storico Virgilio deve essere ed è posto in istretto rapporto coll'idea dell'impero; ma questa idea che a Dante risulta da ragioni di alta speculazione, Virgilio deve contenerla anche in quanto egli è simbolo, poichè, secondo Dante, la ragione la prudenza, il sapere, l'intelligenza umana debbono necessariamente riconoscere la legittimità dell'impero romano e la perfezione di quel grande ideale di società civile ch'ei concepisce.

Se si chiede sino a qual punto la tradizione medievale precorresse a Dante nel porre Virgilio in rapporto coll'idea imperiale, troviamo che anche qui la mente eccelsa del nostro poeta non ha trovato prima di sè che elementi, già esistenti bensì oscuramente nelle coscienze, ma ancora affatto privi di una formula determinata. L'idea dell'impero, come abbiam veduto, non venne mai meno nel medio evo e fu l'obbiettivo di molti principi. Niuno avea però raccolto e sviluppato quell'idea, come fece Dante, in una teoria politica avente le sue radici in una vasta speculazione di obbietto universale che include anche la storia dell'umanità. Invano adunque si cercherebbe un altro scrittore del medio evo presso di cui Virgilio e l'idea imperiale si mostrino così storicamente e filosoficamente congiunti, come presso Dante[546].

Qui dobbiamo fermarci. Quanto pel nostro tema abbiam trovato da dire sul Virgilio dantesco, ormai l'abbiam detto. Procedendo più oltre verremmo ad occuparci troppo esclusivamente di Dante, perdendo di vista quei rapporti del suo Virgilio colla tradizione che ci hanno condotto a studiare questo personaggio del suo immortale poema.

CAPITOLO XVI.

Senza dubbio, in tanta celebrità sua e fra tanto e così incessante entusiasmo espresso in cento guise diverse, Virgilio da Augusto in poi non aveva mai ottenuto una glorificazione così grande e nobile, e sopratutto così vera e seria quanto è quella che Dante seppe dargli. Conviene dire però che in questa, come in tutto il lavoro di quella mente privilegiata, mentre si riconoscono le basi medievali su di cui si solleva, c'è poi, rimpetto al medio evo, assai di trascendente che supera e sorpassa i limiti di quella età. Dinanzi a chi studia il pensiero medievale la Divina Comedia sorge repentina e inaspettata, e nulla di quanto la circonda ha mole proporzionata alla grande sua elevatezza. Il partito che Dante sa trarre dalle idee del suo tempo è cosa interamente sua e senz'altro esempio. Altri non arrivarono allora a concepire Virgilio così com'ei potè fare, e noi abbiamo potuto vedere che in questo suo personaggio c'è assai più e meglio di quanto il nostro studio ci ha additato nel Virgilio delle comuni menti medievali. Ma in quanto il Virgilio dantesco eccede il medio evo può servire di correttivo un'altra personificazione del Virgilio medievale, anch'essa ideata nello stesso secolo di Dante. Parmi debba essere conveniente chiusa di questa parte del nostro studio un'occhiata a questo Virgilio del Dolopathos, opera di una mente di volgare levatura e mediocremente colta, opera romantica di un monaco, nella quale il concetto di Virgilio ci si presenta in quell'ultimo gradino dell'idea letteraria che più si approssima al livello popolesco, come il Virgilio di Dante appartiene a quella più alta sfera intellettuale in cui il morto tradizionalismo letterario del medio evo già si vede tramutarsi nel reale e vivo sentimento classico del risorgimento.

Il Dolopathos fu scritto in latino sulla fine del XII secolo da un tal Giovanni monaco dell'abbazia di Hauteseille in Lorena e poscia messo in versi francesi fra il 1207 e il 1212 da un tale Herbers conoscente dell'autore[547]. La favola narrata in questo libro è, in poche parole, la seguente: — Dolopathos, re di Sicilia del tempo di Augusto, ha un figlio di nome Luciniano ch'ei manda a Roma ad istruirsi presso Virgilio. Questi istruisce Luciniano in ogni maniera di sapere e singolarmente nell'astronomia. Intanto muore la moglie di Dolopathos; costui sposa un'altra donna e manda a richiamare suo figlio. Per divinazione astrologica Virgilio conosce che Luciniano è minacciato di una grande sciagura e, perchè possa uscirne salvo, gl'impone di serbare assoluto silenzio finch'ei non gli dica il contrario. Giunto Luciniano presso il padre, non risponde ad alcuna interrogazione e rimane ostinatamente muto. Ogni mezzo riuscendo inutile, la regina prende impegno di farlo parlare, lo mena seco e, usata ogni arte inutilmente, finisce col dichiararsegli amante; ma senza pro. Irritata di tale sfregio e temendo le conseguenze del suo passo, medita di far morire Luciniano e lo accusa di averla voluta violentare. Il re condanna il figlio a morte; ma giunge a tempo un savio e raccontando una novella ottiene che l'esecuzione sia sospesa per un giorno. Così fanno altri savi successivamente, fino al settimo giorno in cui arriva Virgilio, narra anch'egli la sua novella e ordina a Luciniano di parlare. Questi rivela tutto e la regina vien bruciata viva. — Poi il racconto seguita fino alla morte di Dolopathos e di Virgilio; dopo di che ha luogo la venuta di Cristo, la predicazione in Sicilia di un discepolo di Gesù e la conversione di Luciniano, che muore santo.

È questa, come ognun può vedere facilmente, una versione del solito popolarissimo racconto dei Sette Savi, di origine indiana, del quale si hanno tanti testi nelle varie letterature di oriente e di occidente[548]. Però mentre tutti gli altri testi occidentali si rannodano assai strettamente l'uno all'altro, il Dolopathos per varie sue caratteristiche, occupa un posto separato e riman solitario in questa famiglia di libri popolari. La principal differenza che interessa noi qui in modo particolare sta nella parte che in questo testo, diversamente dagli altri, viene attribuita a Virgilio. Nei testi occidentali generalmente il principe è dato da istruire, non ad uno, ma a sette savi; nei testi orientali però, in quelli almeno di cui oggi si ha notizia, a capo dei quali sta un antico libro arabo oggi perduto, il Libro di Sindibâd[549], quest'ufficio è dato a Sindibâd, come al sapientissimo fra tutti i savi del regno. Pare che il monaco di Hauteseille avesse dinanzi un testo, o forse più probabilmente avesse udito una narrazione di quella favola, più fedele alla forma che aveva in oriente; mantenendo l'unità del savio precettore e riducendo liberamente il racconto secondo la natura delle composizioni romantiche, e le idee del pubblico a cui era stato destinato, sostituì Virgilio nel posto che in oriente davasi a Sindibâd in quella narrazione. Nel far questo egli fu guidato o ispirato dalle sue idee di chierico, non avendo di Virgilio una conoscenza puramente popolesca, come accade ad altri autori di composizioni romantiche, ma mostrando di conoscerlo direttamente e citando anche qualche verso di lui nel corso del poema[550]. È tanto reale la conoscenza ch'egli ha di Virgilio che la cornice cronologica dell'opera sua è stata da lui inventata appunto secondo richiedeva l'introduzione di un tal personaggio in essa. Il fatto ha luogo al tempo di Augusto, e la moglie che Augusto diede a Dolopathos[551] è figlia di Agrippa. In altri testi occidentali dei Sette savi, ne' quali Virgilio non ha parte, l'imperatore è un Diocleziano o Ponziano o un altro qualsivoglia di un'epoca del tutto imaginaria. Anche il nome greco di Dolopathos, di cui vien dichiarato il significato e la ragione[552], è inventato dall'autore e dà prova della sua cultura, come pare la cultura e la condizione di monaco rivelansi nel citar S. Agostino[553] e nel dare al libro una chiusa di significato religioso.

Benchè però questo poema sia evidentemente opera di un uomo di scuola, esso è per natura, concetto e tendenza opera del tutto romantica, e quindi quanto l'autore ha aggiunto di suo ai dati del racconto orientale essendo pretta invenzione sua, invano si cercherebbe in questa un rigore storico assai conseguente. Egli sa che Virgilio è di Mantova, e crede suo debito farlo morire in questa patria sua, ma colloca Mantova in Sicilia. Nondimeno non chiama Sicilia Napoli, come altri autori del suo tempo, e sa che Palermo è la principale città di quel paese. Ma i diritti della ragione storica ei non li rispetta che fino ad un certo punto. Nel suo poema si parla di «vecchio testamento»[554] fra pagani, prima che Cristo sia venuto, e si parla pure di vescovi, monaci e abati, come si parla di duchi, conti e baroni e come si fa Augusto imperatore di Romania e re di Lombardia e Dolopathos un principe feodale. Proporzionato a questo concetto intieramente romantico è il tipo di Virgilio, ma ridotto a tale, secondo risultava dall'idea scolastica, veduta dal punto di vista liberamente fantastico del romantismo. Per ispiegarlo non c'è bisogno di pensare alle idee di provenienza popolare e indipendenti dalla scuola, che costituiscono la leggenda del Virgilio mago, comunque quel concetto scolastico così ridotto si approssimi già assai al concetto che risultava da quelle. Virgilio è qui il grande maestro di tutta la sapienza profana; altro difetto non ebbe che quello di esser pagano, ma fu tale quanto meno si poteva esserlo prima di Cristo; solo mancò a lui la conoscenza dell'unità di Dio; fu uomo di specchiato costume e grande filosofo; niuno fu più celebre di lui, niuno più onorato da Augusto[555]; dinanzi alla sua parola autorevole inchinavansi re e imperatori; non altri v'ebbe che fosse più dotto, non altri che più valesse in poesia; egli era il «chierico» per eccellenza:

A icel tans à Rome avoit

I. philosophe, ki tenoit

La renomée de clergie;

Sages fu et de bone vie;

D'une des citez de Sezile

Fut néz; on l'apeloit Virgile;

La citéz Mantue ot à non.

Virgile fu de grant renon;

Nus clers plus de lui ne savoit;

Par ce si grant renon avoit;

Onkes poëtes ne fu tex

S'il créust qu'il ne fust c'uns Dex[556].

Questo re dei sapienti viveva da grande, esercitando l'ufficio di maestro; ma, come il primo di tutti i maestri, egli aveva un uditorio aristocratico. Luciniano giunto a Roma fu accolto con grande cortesia dal suo futuro istitutore. Entrando nella scuola di Virgilio trovò costui assiso sulla sua cattedra: aveva indosso una ricca cappa foderata di pelo, senza maniche, sul capo portava una berretta di pelle preziosa, e aveva tirato indietro il cappuccio. Seduti a terra dinanzi a lui stavano i figli di molti grandi baroni, e tenendo in mano il libro ascoltavano quant'egli insegnava:

Assis estoit en sa chaière;

Une riche chape forrée

Sans manches, avoit afublée,

Et s'ot en son chief un chapel

Qui fu d'une moult riche pel;

Tret ot arrier son chaperon.

Li enfant de maint haut baron

Devant lui à terre séoient,

Qui ses paroles entendoient,

Et chacun son livre tenoit

Einssi comme il les enseignoit[557].

E l'insegnamento incomincia dai primi rudimenti. Virgilio insegna a Luciniano a leggere e scrivere; poi l'istruisce nel latino e nel greco, e per ultimo lo fa dotto totalmente insegnandogli le sette arti, cominciando dalla grammatica, mamma di tutte le altre, e riducendole tutte, espressamente per lui, in un libriccino così piccoletto che poteva capire tutto nella mano chiusa:

Torne ses feuilles et retorne;

Les VII ars liberaus atorne

En I. volume si petit

Que, si com l'estoire me dit,

Il le poïst bien tot de plain

Enclorre et tenir en sa main.

. . . . . . . . . . . . .

Premier li enseigne Gramaire

Qui mere est, et prevoste, et maire,

De toutes les arts liberax etc.[558].

È facile accorgersi, dopo quanto abbiamo veduto in questo studio, che sotto questo personaggio così travestito c'è il Virgilio delle scuole medievali, il Virgilio dei grammatici e degli autori di compendi delle sette arti. La qualità di astrologo, non identica, come vedremo, a quella di mago, entra come elemento integrante nell'ideale del savio o del sapiente secondo i concetti romantici[559]; e del resto qui veniva imposta dalla natura del racconto qual'esso è costantemente così in oriente come in occidente. Il pio monaco crede alla possibilità di quella divinazione solo come a cosa voluta o permessa da Dio[560]. E con tal qualità si accordava anche l'idea sulla predizione del Cristo. Infatti dopo la morte di Dolopathos e di Virgilio e la venuta di Cristo, i noti versi della IV ecloga[561] figurano fra gli argomenti che convertono Luciniano al cristianesimo. — Fin qui il Dolopathos può servirci in questo luogo, poichè qui cessano i suoi rapporti colla tradizione letteraria.

Col Virgilio della Divina Comedia, e il Virgilio del Dolopathos termina ad un tempo e si riassume questa parte del nostro lavoro. Essi rappresentano due estremi del nome Virgiliano, nel medio evo letterato; il concetto nobile di una mente eletta e straordinaria, il concetto ingenuo e triviale di una mente volgare posta intieramente a livello del romantismo. Appartengono a due diversissime regioni, ambedue separate dalla scuola; ma pure procedono da questa, l'una sorpassandola in altezza e nobiltà, l'altro in povertà e rustichezza. Dopo Dante quanto troveremmo da dire di nuovo nell'ordine dell'idea propriamente dotta e letteraria, appartiene al risorgimento, ossia al pensiero moderno, e ci farebbe uscire dal limite che ci siamo imposto, che è il medio evo. Il Virgilio del Dolopathos invece, ultima sfumatura del Virgilio della tradizione letteraria, per l'elemento romantico con cui lo troviamo mescolato, ci chiama allo studio della nominanza del poeta in una regione diversa da quella in cui l'abbiamo considerata fin qui, e mentre chiude la prima c'invita alla seconda parte di quest'opera nostra.

FINE DEL VOLUME PRIMO.

INDICE

Prefazione Pag. vij-xv

PARTE PRIMA

VIRGILIO NELLA TRADIZIONE LETTERARIA FINO A DANTE.

Cap. I Valore dell'Eneide per la rinomanza di Virgilio. Tendenza dei Romani per la produzione epica e condizioni di questa fra loro. Ragione nazionale dell'Eneide e suoi rapporti col sentimento romano. Prime impressioni prodotte da quel poema Pag. 5

Cap. II Valore dell'elemento grammaticale, retorico, erudito nell'opera virgiliana, e importanza di esso nell'apprezzamento del Poeta. Natura dei primi lavori critici su Virgilio e carattere dei primi giudizi intorno ad esso 20

Cap. III Segni della popolarità del Poeta nei migliori tempi dell'impero. Virgilio nelle scuole e nelle opere grammaticali 32

Cap. IV Virgilio nelle scuole e nelle opere dei retori. Moto reazionario in favore dei più antichi autori e posizione di Virgilio in questo; Frontone e i Frontoniani; Aulo Gellio. Venerazione pel Poeta; le sorti virgiliane 45

Cap. V I secoli della decadenza. Notorietà dei versi virgiliani. I Centoni. Commentatori; E. Donato e Servio; interpretazioni filosofiche; esagerazioni dell'allegoria storica nelle Bucoliche. Virgilio considerato come retore e suo uso come tale: commento retorico di T. Cl. Donato. Macrobio; idea della onniscienza e infallibilità di Virgilio. Autorità grammaticale del Poeta; Donato e Prisciano. Segni della rinomanza virgiliana e natura di questa al cadere dell'impero 66

Cap. VI Cristianesimo e medio evo. Sopravvivenza dell'antica tradizione scolastica; natura e limiti in cui sopravvive. Virgilio rappresentante della grammatica. Posizione di Virgilio e degli altri classici pagani in mezzo all'entusiasmo cristiano; ripugnanze, attrazioni e vie d'accomodamento 99

Cap. VII Virgilio profeta di Cristo 129

Cap. VIII L'allegoria filosofica. Natura e cause della interpretazione allegorica di Virgilio; Fulgenzio; Bernardo di Chartres; Giovanni di Salisbury; Dante 139

Cap. IX Gli studi grammaticali e retorici nel medio evo, e uso di Virgilio in questi 159

Cap. X La biografia virgiliana; sue vicende; favole letterarie sulla vita del poeta; distinzione di queste dalle leggende popolari. Esercizi retorici di versificazione su temi virgiliani di varia natura 179

Cap. XI Considerazioni sulla poesia latina di forma classica prodotta nel medio evo; poca attitudine dei chierici medievali per questo genere di poesia; poesie ritmiche 207

Cap. XII Caratteri dell'ideale dell'antichità che fu proprio dei chierici del medio evo. Posizione che occupava Virgilio in quell'ideale e conseguente natura della sua celebrità in quell'epoca 220

Cap. XIII Precedenti psicologici del risorgimento nel medio evo; produttività di provenienza o di ragione laica; lettere popolari e volgari. Condizioni speciali dell'Italia a tal riguardo 243

Cap. XIV Dante. Carattere e tendenza della sua attività intellettuale; limiti della sua cultura classica; in che per questo lato si approssimi ai chierici medievali, in che se ne distingua, e come sia un precursore del risorgimento. Suo sentimento della poesia antica. L'antichità romana e il sentimento nazionale italiano in Dante. Ragione della simpatia di Dante per Virgilio. Lo bello stile di Dante e Virgilio 259

Cap. XV Virgilio nella Divina Comedia ; ragione storica e simbolica del suo collocamento in questo poema; perchè Virgilio è guida di Dante; perchè non Aristotele. In che il Virgilio di Dante differisce dal Virgilio del medio evo; eliminazione di talune idee, nobilitazione di altre. Virgilio e l'idea cristiana nel poema dantesco. Sapienza e onniscienza di Virgilio; suo carattere. La profezia di Cristo; rapporto fra Virgilio e Stazio. Virgilio e l'idea dell'impero 278

Cap. XVI Virgilio nel Dolopathos , Passaggio dall'idea dotta tradizionale all'idea romantica 308