VIRGILIO NEL MEDIO EVO
VOLUME II.

VIRGILIO NEL MEDIO EVO

PER

DOMENICO COMPARETTI

Volume II.

2ª edizione riveduta dall'autore

FIRENZE BERNARDO SEEBER Libraio-Editore — 1896

FIRENZE-ROMA Tipografia Fratelli Bencini 1896INDICE PARTE SECONDA

VIRGILIO NELLA LEGGENDA POPOLARE VIRGILIO NELLA LEGGENDA POPOLARE

Maint autres grant clerc ont esté

Au monde de grant poesté

Qui aprisrent tote lor vie

Des sept ars et d'astronomie;

Dont aucuns i ot qui a leur tens

Firent merveille por lor sens;

Mais cil qui plus s'en entremist

Fu Virgiles qui mainte en fist,

Por ce si vos en conterons

Aucune dont oi avons.

L'Image du Monde.

CAPITOLO I.

All'uomo odierno la poesia volgare del medio evo e la poesia classica appariscono come due cose tanto diverse per qualità di forme, per sentimenti e tendenze, che la prima pare debba essere figlia di una rivoluzione, prodotta e governata da una ragione antagonistica rimpetto all'altra. Ma quella lotta fra classicismo e romanticismo che si è potuta verificare nei tempi moderni, e sulla quale questa idea si basa, non ebbe luogo realmente nel medio evo. Le lettere volgari non nacquero da una ribellione o reazione vera e propria contro le antiche, più di quello nascessero da una rivoluzione antimonarchica le repubbliche del medio evo. Perchè la cosa avesse luogo, conveniva ci fosse un giusto e vivo sentimento della classicità antica, quale noi abbiamo veduto, nella prima parte del nostro lavoro, non esservi stato. Il concetto dell'arte antica non era molto più profondo e più vero nel chierico di quello fosse nel laico. Il latino, che allora aveva un uso assai simile a quello di una lingua vivente, serviva di veicolo fra la tradizione antica e la produzione nuova, che aveva una ragione indipendente da quella. Mentre esso serbava nel pensiero comune elementi antichi, era anche organo di sentimenti vivi, e per piegarsi a questi aveva anche assunto forme speciali nella poesia, e in generale aveva subito quel cambiamento che, rispetto all'ideale classico, chiamasi corruzione. È difficile trovare una narrazione tanto esclusivamente medievale quanto quella che serve di tema al Waltharius; pure questa vien trattata in latino, neppure in forma ritmica, ma in esametri, e con sì frequente ricorrenza di reminiscenze virgiliane, che si vede chiaro chi la scrisse essere stato un uomo di scuola e, come ogni altro chierico, lettore assiduo di quel poeta[1]. E questo può dirsi di una quantità di scritti latini del medio evo, in versi o in prosa, che hanno tema desunto dalla poesia volgare. La poesia volgare poi non disprezza l'antichità e la poesia antica, ma ne parla sempre come di grande cosa, e in certo modo si subordina ad essa, invocandone l'esempio e l'autorità, talvolta mostrando anche di rammentarne la parola[2]. Frequentissimo e quasi di moda è fra i narratori romantici indicare come fonte della loro narrazione qualche libro latino reale o imaginario[3].

Ben v'ha un più antico periodo della poesia volgare, presso taluni popoli d'Europa, in cui questa è esclusivamente nazionale e non si mescola ancora con elementi estranei alla nazione di cui è propria. È questo il periodo in cui i popoli scandinavi, germanici e celtici, nei canti epici dei padri loro, serbano ancora la memoria del loro passato anteriore alla civilizzazione romana e alla loro cristianizzazione. Ma, in quella parte che è rappresentata nei monumenti scritti oggi superstiti, questo periodo è d'assai breve durata. Già lo stesso porre in iscritto quei canti è un fatto che rivela l'influenza di una cultura non nazionale, tanto per sè stesso quanto per la forma in cui si compie, essendo latina la lettera di quelle scritture. Ben più numerosa è la classe di quelle poesie volgari medievali nella quale a quelle caratteristiche che ne fanno riconoscere la speciale origine nazionale si uniscono caratteristiche di natura più universale, quelle cioè che son dovute agli elementi che cementavano in un consorzio comune, civile, intellettuale e religioso più nazioni diverse. E per ultimo più ricca di ogni altra è quella in cui gli elementi specialistici nazionali si perdono di vista, e rimangono soltanto visibili, come moventi poetici, gli elementi comuni del sentimento, della civiltà e della religione. Questa categoria, meno propriamente epica delle altre, si risolve in una moltitudine di narrazioni fantastiche in verso e in prosa, e nella lirica romantica, organo di una subbiettività che non è esclusivamente locale in alcun paese. Nella poesia di queste due ultime categorie, singolarmente nella prima delle due, la grande fucina in cui è avvenuta la fusione, la permutazione e la trasformazione dei vari elementi nazionali fra loro e con le idee universali, quelle sopratutto dovute alla religione e alla cultura, ed in cui ebbe luogo il trapasso dei testi volgari al latino e nuovamente poi dei latinizzati al volgare, fu la società monastica, portatrice e dominatrice dell'idea civile e religiosa, ossia degli elementi assimilatori.

In tutta quest'opera di fusione e, dicasi pure, di confusione, la fantasia ebbe una parte enorme, godendo di una libertà smodata che risultava da una condizione eccezionale dello spirito. Ben si vede che le menti del medio evo hanno abitudini e procedimenti diversi da quelle di epoche più normali, e la prevalenza in quell'età dell'allegoria nelle più serie e profonde funzioni intellettuali già mostra chiaro come il ravvicinamento di idee disparate dovesse divenir familiare, come si stesse lontani dall'investigar per diritta via la reale natura delle cose e dal rappresentarsele giustamente, e come quindi la fantasia, sempre prona a sconfinare, non potesse trovare nell'azione del pensiero quelle remore e quei correttivi che trova in epoche avvezze universalmente alla critica. Fatto è che se per alcune fasi della produzione fantastica medievale trovasi un movente razionale che le spiega e le nobilita, ve n'ha una più estrema nella quale essa apparisce come cosa di ragion patologica e che mal si spiegherebbe se non si conoscessero le leggi di certi naturali tralignamenti. Chi ben consideri le diverse nature della poesia antica e della medievale, troverà facilmente che il fantasticare vuoto e il sentimentalismo convenzionale con cui finisce questa ha, in ultima analisi, la stessa ragione che ha la retorica e la declamazione in cui si spegne l'altra.

Con questo prevalere della fantasia identificavasi uno straordinario amore del maraviglioso, e quell'intenso universale desiderio di narrazioni d'avventure che conduceva alla personificazione di monna Avventura[4]. E poichè tutti amavano abbeverarsi a quella fonte, l'impegno di alimentarla era grande, nè v'era angolo da cui non si andasse ad attingere per soddisfare l'avido desiderio di nuovi racconti. L'antichità forniva anch'essa il suo contingente, e la narrazione antica come ogni altra si romantizzava travestendosi secondo gl'ideali del tempo. Questo fatto, strano per noi, accadeva allora senza sforzo, e quindi senza effetto ridicolo, poichè quel che noi chiamiamo travestimento non appariva allora quale a noi pare e non era in fatti che una formulazione un poco più recisa della maniera ingenua in cui quei fatti concepivansi assai generalmente; come si vede pure nell'opere di pittura che rappresentano gli uomini della società antica ebrea, cristiana, pagana con vesti, armi, suppellettili, abitazioni, edifizi del tempo del pittore. Tutti i vari temi, qualunque fosse la loro origine, venivano ad acquistare un colorito comune, e poichè minima era la forza che lo spirito adoperava per fare astrazione dai concetti della vita presente, sui quali ergevasi l'opera fantastica, tutto si riduceva a tipi, a ideali determinati e sempre identici, comunque cambiassero i nomi, i luoghi, le cose narrate. La narrazione chiesastica, la classica, la orientale, la mitologia e la storia, la leggenda celtica, scandinava o germanica, tutto è capace di servire alla narrazione romanzesca. La società antica viene imaginata simile alla società feodale, l'antico eroe è un cavaliere, l'eroina antica una dama, gli dei del paganesimo sono specie di maghi che hanno ciascuno una sua specialità; i pagani antichi non si distinguono gran fatto dagli altri non cristiani, Nerone passa per un adoratore di Maometto, come i Saracini hanno per dio Apollino; l'amore di cui parla la favola e la storia antica è l'amore romantico del sentimento contemporaneo; il poeta, lo scrittore antico diviene un filosofo, un savio, un chierico, di proporzioni e qualità medievali, colle esagerazioni e i travisamenti che già trovansi nella tradizione scolastica e dotta d'allora e che crescono naturalmente in questo libero regno della fantasia.

Uno dei nomi dell'antichità che più rimangono in evidenza in questa peripezia è il nome di Virgilio, il quale nella regione romantica serba in mezzo ai nomi degli altri antichi scrittori quello stesso posto più elevato, e quella più larga ed intensa celebrità che serbò nella regione dotta e scolastica. Qui però non soltanto il nome del poeta era esposto a nuovi casi, ma anche la stessa sua opera, come narrazione, doveva subirne; due fatti questi che hanno luogo affatto separatamente, ma che pure non sono senza rapporto e senza proporzione fra loro. Ciò che la poesia, la favola e la storia antica offrivano di più attraente pei compositori di romanzi era l'impresa eroica o guerresca, l'avventura maravigliosa, gli avvenimenti d'amore. Quanto la letteratura antica e la letteratura latina medievale basata su quella, offrivano per questi lati, fu adoperato in quelle composizioni, sia come tema sia come suppellettile. La storia Troiana desunta da Virgilio, dalla pseudo-Darete e da altri testi latini, la Tebana da Stazio, le favole maravigliose su Alessandro, desunte da testi latini provenienti da greci, la storia di Cesare e dei grandi conflitti romani tolta da Lucano, tutti i vari avvenimenti mitologici di cui il gran deposito allora usitatissimo erano le Metamorfosi d'Ovidio[5], tutto ciò diviene cosa domestica in quella letteratura, e serve anche di tema a lavori che sono traduzioni libere o rifacimenti nei quali al concetto antico si sostituisce l'idea e il sentire romantico. Centro e focolare di questa maniera di composizioni è la Francia dalla seconda metà del XII secolo in poi; di là esse si diffondono in traduzioni, imitazioni, rimpasti in tutta Europa; singolarmente allato alla Francia in ciò distinguesi la Germania. Benoit di Sainte-More, Lambert li Cors, Enrico di Veldeke, Alberto di Halberstadt, Herborto da Fritzlar ed altri produssero opere in tal genere che godettero di molto favore e notorietà[6].

Già il compiacersi della favola e del racconto antico ed anche il fantasticare su quelli, era cosa anteriore al romantismo propriamente detto; prima che le lettere volgari si producessero, prima che si combinassero cogli elementi della cultura e della tradizione, un lavoro simile erasi fatto nella letteratura dotta del medio evo fra i chierici, benchè taluni sentimenti ancora non vi avessero luogo e prevalesse in quello l'idea scolastica dell'antico e la tendenza chiesastica alla moralizzazione. Fra le altre favole antiche la più notoria e più spesso narrata in varie forme era la favola troiana[7]. Virgilio, che era la prima autorità per quella tradizione mitica che congiungeva le origini di Roma con Troia, e che, come vedemmo, avea reso di moda fra i popoli vari e le famiglie principesche del medio evo questa maniera di origini come principal titolo di nobiltà, aveva singolarmente influito a dare gran voga alla favola della guerra troiana e a tutto quanto con questa si connetteva, e singolarmente a determinare le simpatie piuttosto pei Troiani che pe' Greci. Questo vedesi già nel fatto notevole che il testo attribuito a Darete, supposto quindi scritto da un troiano contemporaneo degli avvenimenti e scritto realmente in senso troiano, avea più favore e più uso che quel di Ditti scritto in senso greco, e faceva anche dar del mentitore ad Omero là dove si sapeva che questi avea narrato taluni fatti diversamente[8].

Come tutta la parte nota della favola troiana messa e tenuta in evidenza per la celebrità dell'Eneide, fu romantizzata, a più forte ragione doveva esserlo l'Eneide stessa. Ed infatti Benoit di Sainte-More che componeva il Romanzo di Troia, fu anche il probabile autore del Romanzo di Enea[9]. Nell'Eneide considerata in questa regione così diversa dalla regione propriamente scolastica, rimaneva d'entità secondaria tutto quanto avesse significato storico, o troppo con idee mitologiche o altre serbasse presente l'indole antica del poema. V'era nell'Eneide un elemento più attraente d'ogni altro per l'opera romanzesca da fare su quel tema, e che fissava in modo preciso quel che in un'opera tale doveva prevalere; era l'elemento amoroso e sentimentale, la donna innamorata o disputata, Didone e Lavinia. Così, col materiale dell'Eneide, altro sopprimendo, altro cambiando, altro sviluppando, facevasi una composizione romantica in cui i nomi erano antichi, ma la natura de' fatti, i titoli de' personaggi, gli usi descritti, il colorito generale come il sentimento erano cose proprie della vita contemporanea, e rispondenti all'idea cavalleresca e cortigiana d'allora. E quella composizione ebbe grande successo; singolarmente più che il testo francese del Romanzo di Enea ebbe celebrità e influenza letteraria considerevole l'opera su quello composta dal limburgese Enrico di Veldeke, il quale per la sua Eneit figura come capo di una grande scuola di poeti tedeschi che lo venerano come maestro[10].

Questa trasformazione romantica di narrazioni antiche non è propriamente, come parrebbe a prima giunta, opera popolesca che si effettui fuori della conoscenza delle lettere classiche. È cosa fatta per una società superiore ed aristocratica, è un prodotto delle lettere volgari divenute cortigiane; gli autori sono uomini colti, laici o chierici che fossero di stato, e fanno quel lavoro di proposito, tenendo dinanzi agli occhi il testo latino, di cui anche sovente invocano l'autorità nel loro lavoro[11]. Essi non facevano niente di strano, per cui già tutto non fosse preparato e disposto, ma solo formulavano e riassumevano con opera più speciale e con certa intelligenza dello scopo e della cosa, ciò che già trovavasi elaborato nelle lettere romantiche e nella poesia volgare in generale. I nomi e i fatti antichi, separati com'erano anche nelle menti dei chierici da un giusto sentimento dell'antichità, eran passati nel modo il più naturale, come elementi del pensiero, nelle lettere volgari e nell'arte nuova; in queste trovaronsi a contatto coll'idea e il sentimento che le governava, si approssimarono a quello e si connaturarono con quello. Ogni poeta volgare conosce e rammenta i nomi di Enea, Didone, Lavinia, come tanti altri nomi antichi[12], servendosene naturalmente nell'interesse della sua poesia, e fra le varie narrazioni che i trovatori vantansi di sapere trovasi un numero di soggetti antichi mescolati a soggetti intieramente romantici[13]. Il fecondo Chrestien de Troies in un suo poema romanzesco ( Erec ) parla di una ricchissima sella sulla quale era scolpita tutta la storia d'Enea[14]. Naturalmente per tutti costoro, come anche per lo stesso chierico quando diveniva poeta di quella natura, il concetto del fatto antico non poteva essere antico, chè come tale avrebbe stonato. Ogni forma d'arte per la sua ragione psicologica impone uno special modo di vedere. D'altro lato però quella tal forma d'arte per cui questo avea luogo non assorbiva intieramente tutta l'opera del pensiero, ma coesisteva allato ad una cultura tradizionale, ad una operosità letteraria e dotta, anch'essa tradizionale, che passava dai chierici ai laici appunto nell'epoca in cui più si moltiplicano e diffondono que' romanzi. E così accade, fatto sorprendente per noi, che il rifacimento romantico gode di grande notorietà e favore, mentre la stessa notorietà gode il testo classico da cui tanto si diparte, e mentre anche si fanno in volgare per uso dei laici, traduzioni propriamente dette di quel testo; tutto ciò senza che il lavoro romantico appaia come parodia o cosa bizzarra e ridicola. Nè è questo il solo campo in cui il medio evo potè trovare naturale il connubio di cose che oggi a noi appariscono inconciliabili.

A questa peripezia dell'opera avremmo anche potuto passar sopra se un certo rapporto con quella del nome dell'autore essa non avesse. Ed invero un Virgilio ideale a cui si possa attribuire un'Eneide così rifatta si trova, e noi già lo abbiamo incontrato, benchè disgiunto da un'attività che possa dirsi poetica. È il Virgilio del Dolopathos. Quel tipo di grandissimo clerc presentato così in una società interamente feodale, contornato di duchi, baroni, vescovi, abati, fra cortigiani, damigelle e tornei, è anche poeta, e l'autore lo dà per tale[15], benchè per la parte che ha nel poema non abbia luogo a manifestare questa sua qualità. Se l'autore avesse voluto farlo agire come poeta, e ideare un poema su Enea da attribuirgli, che fosse proporzionato a quel tipo e a quell'ambiente, è chiaro che questo non avrebbe potuto essere l'Eneide reale, ma il Romanzo d'Enea. Ed infatti v'ha nel Dolopathos un racconto di ragione morale che è attribuito a Virgilio, e questo è per forma e per natura cosa del tutto romantica[16].

Noi abbiamo veduto che questo tipo di Virgilio nel Dolopathos proviene direttamente dalla idea letteraria e scolastica medievale. Il clerc e la discipline di clergie sono l'uomo di scuola e la dottrina di scuola quali si concepivano e si vedevano nella società reale del tempo. Nella poesia romantica affatto libera e indipendente dalla scuola, tutto quanto proviene da questa acquista un carattere specioso, come di cosa mirabile veduta da lungi e quasi da un altro mondo; il maraviglioso, che tanto ha parte in quella poesia, cinge facilmente della sua aureola i nomi che hanno quella provenienza. Questo accadeva per Virgilio anche più facilmente che per altri, poichè anche nell'ordine propriamente letterario e scolastico una buona dose di maraviglioso, d'imponente e d'incompreso contornava già il suo nome. S'intende dunque che il Virgilio della scuola nella regione romantica dovesse divenire il Virgilio del Dolopathos, come l'Eneide diveniva il Romanzo di Enea. In quel tipo di chierico c'è un'idea intieramente laica e popolesca del sapere, di cui la natura e i limiti, per l'effetto, diciam così, ottico del mezzo da cui è veduto, divengono fantasmagorici e miracolosi, anche quando l'autore sia chierico di stato o di cultura. Come ogni gran sapiente, Virgilio è astrologo, o come dicevano, astronomo, e dalla osservazione degli astri può conoscere fatti e avvenimenti lontani per ispazio o per tempo. Era cosa questa che allora niuno credeva impossibile, niuno negava intieramente, tutt'al più, come fa l'autore del Dolopathos, restringendosi i più scrupolosi a notare che solo per permissione di Dio poteva aver luogo. Fino a questo punto conduceva e poteva condurre l'idea letteraria trapassata nel romantismo, fino al concetto di un dotto, di un savio versato in tutte le discipline che allora costituivano la scienza, compresa l'astrologia più mirabile e più fantastica fra tutte.

Però il maraviglioso, essenziale ed integrante elemento dell'invenzione romantica, aveva una sua assai ricca suppellettile nella quale un posto notevole occupava l'idea e il tipo del mago, sì ovvio in que' romanzi, sorgente poco finamente poetica invero[17], ma pure speciosa ed efficace in tempi di tanta credulità, di avvenimenti fantastici, sovrumani e sorprendenti. È chiaro che ogni mago è un sapiente; non però ogni sapiente è mago; i due tipi esistono distinti e indipendenti uno dall'altro. Il mago è propriamente un accrescitivo del gran sapiente, in certo senso è anche un peggiorativo, come caratteristica morale; v'ha però un'idea intermedia secondo la quale la magia in certi limiti e con certi mezzi appare cosa lecita e di ragione puramente scientifica. Ma, conviene avvertirlo, l'idea del mago ha la sua origine fuori della scuola e della disciplina scientifica propriamente detta. Chi domandasse se di per sè solo il tipo scolastico di Virgilio, dovesse senz'altra occasione, per trasformazione naturale e per associazione d'idee, cambiarsi in quel tipo di mago che poi descriveremo, io non esiterei a rispondere di no. Che l'antico savio si cambi in mago è fatto di cui rari sono gli esempi, e quando accade ha luogo per puro cambio di nome e in modo momentaneo; non v'ha antico che arrivi mai a quel largo e completo ciclo di leggenda biografica che ebbe il Virgilio mago. Accadde bensì assai volte che uomini studiosi di matematica, meccanica, astronomia, astrologia, fisica che sono le risorse della così detta magia bianca, o naturale, passassero per maghi ed anche per maghi diabolici come accadde per Gerberto, per Alberto Magno e simili; ma la tradizione ed anche la leggenda letteraria che fece Virgilio onnisciente non dimenticò mai il suo primo essere di poeta e come vediamo in Dante non lo ridusse mai ad un fisico, astrologo, matematico capace di operar prodigi e fabbricar talismani ed altre simili opere magiche. Perchè ciò si producesse conveniva che su Virgilio esistesse un'idea speciale già elaborata presso il popolo indipendentemente dalla letteratura; ed infatti le indagini sull'origine di quella leggenda rivelano chiaro che l'idea di Virgilio taumaturgo e mago è di origine del tutto popolare, benchè accettata poi nella letteratura per gli elementi affini che trovava già preparati in questa. La paternità di quell'idea spetta ad un volgo italiano.

Uno dei caratteri pei quali il popolo italiano, anche nel medio evo, dà segno della sua superiorità storica e civile dinanzi agli altri popoli d'Europa, è l'essere esso quello che fra tutti gli altri più scarseggia di produzione fantastica. Il romantismo, in quanto è invenzione narrativa, poco si ebbe da noi, e in questo, come anche nella cavalleria che è un suo movente principale, l'Italia mostrasi in una condizione che può dirsi passiva; subisce per fatto d'infiltrazione inevitabile, ma dal poco che produce in quell'ordine vedesi chiaro esser quello cosa poco sua, e poco omogenea alle sue tendenze attive. Insieme a tanti altri romanzi venuti dal di fuori e allora sparsi dappertutto, ebbero qualche voga anche qui i testi francesi della Storia Troiana; ben poca ne ebbe il Romanzo d'Enea[18]. Virgilio, Ovidio e altri antichi furono presto tradotti in volgare[19] prosa italiana, senza grandi cambiamenti, salvo la giunta delle solite moralizzazioni, singolarmente per Ovidio. Guido da Pisa scrivendo i fatti di Enea mostrava invero talvolta in alcune espressioni l'influsso di certe idee del suo tempo, ma era lungi dal fare un'opera romantica, e non deviava dalla narrazione virgiliana che sull'autorità di altri antichi. La fantasia ebbe più remore qui che altrove, sia pel prevalere di facoltà più elette e più razionali nella tempra dell'ingegno italiano, sia perchè la cultura tradizionale, comunque molto abbassata anche in Italia, avesse qui più salde radici che altrove e più che altrove fosse cosa domestica. L'Italia nel medio evo, benchè vinta e dilaniata e anche imbarbarita, moralmente e idealmente figura sempre come un centro storico e civile, e di questo essere suo non si perde mai la coscienza fra gli italiani[20]. Perciò mal si cercherebbe qui ciò che può solo trovarsi in paesi nei quali meno fortemente e meno immediatamente agiva il peso di grandi ricordanze storiche, tanto universalmente intese come tali da non potere esse in alcuna guisa acquistare natura e forma epica. Con questo non s'intende dire che il popolo italiano fosse sfornito di leggende; ebbe anch'egli le sue aventi per soggetto l'antichità, e il passato e i primordi delle varie città italiane. Può credersi che col procedere degli studi storici fra noi, concepiti in quella più larga maniera che è loro propria oggidì, molte di queste leggende finora dispregiate, saranno messe a luce e accresciuta così la conoscenza, troppo insufficiente, che oggi abbiamo di tal materia. Però rimarrà sempre vero questo fatto, del resto ben naturale, che l'impressione fantastica prodotta dalle memorie dell'antico mondo romano, fu assai più vivace e feconda fra i barbari che fra gli italiani. Si può senza gran fatica provare che il numero delle leggende relative all'antichità romana nate in Italia è assai minore di quelle nate in suolo straniero, e che anzi non poche di quelle che si ritrovano in Italia, singolarmente nella letteratura, furono qui introdotte dal di fuori.

Le leggende nate in Italia hanno per soggetto talvolta antichi fatti storici o mitologici, più spesso antichi monumenti, e spesso ancora d'antico non hanno che i nomi dei personaggi che in esse figurano. Molti nomi illustri dell'antica Roma rimasero fluttuanti nella memoria del popolo, segregati dai fatti coi quali la storia li mostrava uniti, ma pur non del tutto sprovvisti di certe caratteristiche distintive procedenti dalle loro caratteristiche storiche, concepite queste com'era capace di farlo la mente limitata del popolano o della narratrice casalinga, di cui Dante dice che:

«.... traendo alla rocca la chioma,

Favoleggiava colla sua famiglia

De' Troiani, e di Fiesole, e di Roma.»

Attorno a questi nomi la fantasia popolare aggruppava racconti favolosi, comunque originati, attenendosi però alla special categoria d'idee popolari a cui ciascun nome per sua natura apparteneva. Quindi è che anche divenuti personaggi leggendari serbano un carattere ben distinto fra loro Cesare, Catilina, Nerone, Traiano, e simili. Nondimeno, siccome il numero dei tipi rappresentati dalle leggende è limitato ai soli ideali più spiccanti che il popolo è capace di concepire, da ciò viene che più nomi s'incontrino sotto una data categoria, come quella del savio, del mago, del tiranno ecc., e siano quindi compartecipi delle leggende a quella appartenenti, le quali talvolta all'uno, talvolta all'altro dai narratori vengono riferite.

Uno dei più luminosi esempi di quanto qui si dice è la leggenda virgiliana, di cui in questa parte del nostro lavoro vedremo come nascesse a Napoli e come di là poi si divulgasse nelle letterature d'Europa, assai più e prima fuori d'Italia che in Italia. Essa era originariamente in Italia un prodotto del tutto plebeo, estraneo ad ogni moto poetico e letterario, una credenza popolare di natura superstiziosa, fondata su ricordi locali, sul fatto della lunga dimora di Virgilio in Napoli, la presenza e la celebrità del suo sepolcro in quella città. Si riferiva a luoghi di Napoli, ad immagini, a monumenti che la decoravano, ai quali si credeva che Virgilio avesse dato un potere telesmatico. Questa credenza era rimasta propria di quel popolo, ingenuamente ritenuta da esso, senza essere espressa in alcuna forma che avesse carattere poetico o artistico in alcuna maniera; poco se ne sapeva nel resto d'Italia e poco ad essa si badava qui, mentre da forestieri che visitavano Napoli era raccolta e trasportata dalla sfera plebea alla sfera letteraria e colta, e passava contemporaneamente in opere volgari e romantiche, ed in opere latine di natura dotta. Nell'una e nell'altra sfera essa trovava Virgilio già ridotto ad un tal tipo di savio da poterla facilmente comportare. E dal XII secolo in poi, ossia dall'origine della poesia e prosa romanzesca di proprio nome, incontrasi quindi nei monumenti letterari una nuova fase del nome virgiliano che ha vari momenti e vari accrescimenti, e tutta una sua storia che deve servire di soggetto alla presente parte del nostro libro. Questa fase ha la sua natura in questo distinta dalle altre già da noi studiate, ch'essa procede originariamente da idee su Virgilio nate e sviluppatesi, non propriamente nella scuola, ma fra il popolo, benchè per la natura generale del pensiero, che si riconosce naturalmente in ogni strato della società, potesse esservi e vi fosse realmente certa proporzionalità ed anche continuità fra il concetto popolesco e l'ultimo concetto letterario del poeta. Non la diciamo popolare perchè rimasta estranea alle lettere e ai dotti, chè anzi ne dovremo desumere la storia da una moltitudine di scritti che in massima parte non hanno carattere di scritti popolari; ma perchè nata dal popolo, alimentata con idee popolesche. Senza questo, per quanto corrotta e imbarbarita, la tradizione letteraria a quella leggenda non avrebbe potuto condurre, nè difatti trovasi traccia di questa nelle epoche della più grande barbarie, prima del XII secolo, prima cioè che ci fosse chi dalla plebe napoletana l'attingesse e le desse adito nella letteratura.

Le opere dotte dell'ultimo medio evo, repertori, riassunti, enciclopedie, manuali o altri simili lavori scritti in latino o in volgare, mescolano ogni cosa con una assenza di critica tanto strana quanto strano è lo sfrenato moltiplicarsi delle produzioni fantastiche d'allora. C'è di tutto; tutto il detritus medievale di idee classiche, cristiane, e romantiche, mito, storia, leggenda, romanzo, tutto posto alla pari. Il Novellino che diverte le brigate, il Gesta romanorum che le edifica con racconti moralizzati stranamente, Vincenzo di Beauvais col caos del suo Speculum historiale, e tanti altri in tante opere di erudizione, parlano egualmente di Cesare, di Arturo, di Tristano, di Alessandro, di Aristotele, del Saladino, di Carlomagno, di Merlino senza distinzione di sorta, e con serietà eguale per tutti. Gualtiero Burley in un'opera che non vuol punto essere un romanzo, nelle Vite de' filosofi, scrive gravemente anche la vita di Virgilio che è filosofo perchè mago, perchè conoscitore di riposti segreti della natura. Così non v'ha libro di que' tempi in cui non possiamo aspettarci di trovare leggende virgiliane. In una epoca di credulità universale, il popolo non è soltanto quello che non ha parte alla cultura e al moto letterario; quantunque nel medio evo il numero della gente colta fosse assai minore di quello fu ed è dal risorgimento in poi, la distanza che allora separava l'animo dei colti e degli incolti era assai meno grande di quella che separa queste due classi nei tempi moderni.

Se difficile sempre riesce cogliere l'esatto punto di separazione fra le creazioni poetico-fantastiche popolari e le letterarie, ciò, più che in ogni altra età, si sente nel medio evo, e sopratutto in quelle peripezie che allora subiscono gli antichi nomi storici nel passare che fanno, già assai fantasticamente tramutati, dai letterati e dai semicolti al popolo, e nel tornar poi anche più tramutati da questo a quelli. Fra la tradizione letteraria tralignata e creatrice essa pure di leggende e i fantasmi popolari v'è continuità senza dubbio, poichè non altrimenti che pel tramite letterario, direttamente o indirettamente, i grandi nomi storici possono giungere e rimaner presenti all'animo delle plebi. Ma pur deve avvenire che entrando quei nomi in un ambiente intellettuale diverso, sian diversamente ideati ed acquistino un nuovo carattere per tratti fantastici novelli di indole affatto popolesca, comunque motivati od occasionati da quanto già imaginarono menti più colte ma non tanto nè così finamente da riuscir per certi lati molto superiori all'animo popolare. Chiaro esempio di tal fatto è il carattere diverso con cui si presenta il nome di Virgilio in queste due parti dell'opera nostra, le quali quantunque diversamente intitolate, pure sono tanto connesse fra loro che nei fatti esposti nella seconda ognuno che ci abbia ben seguiti potrà riconoscere gli effetti e l'ulteriore sviluppo di quelli riferiti e studiati nella prima, e vedere in qual rapporto sia col Virgilio delle scuole e della tradizione letteraria del medio evo inoltrato questo Virgilio, non più poeta, ma operatore di magici prodigi, questo Virgilio di quella che noi crediamo dover chiamare leggenda popolare, che ora ci facciamo ad esporre narrandone la storia, investigandone le origini e le fasi diverse. A scansar equivoci e malintesi che con nostra sorpresa abbiamo veduto prodursi fra taluni cultori di questi studi[21] ricordiamo che il popolare si distingue dal letterario anzitutto per la natura e l'indole sua e de' vari elementi suoi, sia qualsivoglia la condizione di chi lo riferisce e vi crede od anche lo idea; tale leggenda, pur sublimata dal sommo dei poeti, come quella p. es. di Traiano e della vedova in Dante, sarà e rimarrà una leggenda popolare, quand'anche si riesca a provare che scaturì dalla fantasia di un chierico che la scrisse in latino, come popolari sono le leggende relative ai monumenti di Roma nel Mirabilia e tante altre, quantunque, riferite e credute da chierici, possano anche essere state originate in menti di quella classe.

CAPITOLO II.

Dopo tutto quanto abbiamo premesso non parrà strano che le più antiche notizie che si abbiano intorno a leggende popolari relative a Virgilio trovinsi in iscritti, non già di provenienza plebea o destinati comunque alla plebe, ma bensì dettati da persone colte e di posizione elevata, non in volgare ma in latino, e destinati a gente della classe la più distinta della società. Fra gli altri autori, i più notevoli per ubertà di notizie rilevanti per le nostre ricerche, sono un Corrado di Querfurt cancelliere dell'imperatore Arrigo VI, suo rappresentante a Napoli ed in Sicilia, e poi vescovo di Hildesheim, un Gervasio di Tilbury che fu professore dell'università di Bologna e maresciallo del regno di Arles, un Alessandro Neckam fratello di latte di Riccardo Cuor di Leone, professore nell'università di Parigi, abate di Cirencester ed uno dei più sopportabili facitori di versi latini del suo tempo, un Giovanni di Salisbury ed altri di cui parleremo. Qui però, prima d'ogni altro, debbono fissare la nostra attenzione Corrado e Gervasio, come quelli che non solo sono i primi a farci conoscere in modo assai diffuso le leggende virgiliane, ma ci additano eziandio la loro origine napoletana, che sarà confermata da quanto poi avremo da aggiungere a questo primo indizio. Infatti essi riferiscono quelle leggende come viventi fra il popolo napoletano, dalla bocca del quale le raccolsero.

Corrado ne parla in una lettera[22] scritta di Sicilia nel 1194 ad un suo vecchio amico, preposto del convento di Hildesheim, nella quale narra le impressioni del suo viaggio in Italia. Questa lettera, oltre a quanto contiene di notevole per le nostre ricerche, è un curioso monumento che ci rivela lo stato dell'animo degli stranieri, anche colti, che in quel tempo visitavano l'Italia. Il gran nome di questo nostro paese esaltava talmente la loro immaginazione, e tale era l'ideale fantastico che se ne formavan da lungi, da non cedere neppure alla realtà veduta dappresso. Mille racconti strani già uditi rammentare, mille memorie classiche serbate in mente, non sempre con egual lucidità, dopo la scuola, si affollavano e si confondevano bizzarramente nello spirito del visitatore che, come in un paese fatto d'incanto, credeva vedere altro e più di quello realmente vedesse. È impossibile spiegare altrimenti certi grossi svarioni del bravo cancelliere messi giù con una serietà da far disperare. Quante cose non ha egli viste nell'Italia meridionale! Ivi l'Olimpo, ivi il Parnaso, ivi l'Ippocrene, ch'egli è beato di trovare dentro i confini del dominio tedesco. Poi, dopo esser passato con orrore profondo fra Scilla e Cariddi, trova, non so in qual luogo, Sciro dove Teti tenne Achille nascosto, e giunto a Taormina è lietissimo di trovarsi sott'occhio il labirinto del Minotauro, prendendo per tale l'antico teatro, e d'aver fatto conoscenza coi Saraceni, gente dotata, come già S. Paolo, dell'invidiabile facoltà di uccidere serpenti con la saliva. Chi si rammenta di Mandeville che dice d'aver veduto il sasso a cui fu legato il «gigante Andromeda», e de' tanti strani racconti dei viaggiatori d'allora non troverà sorprendente la lettera di Corrado. La rende però assai singolare la qualità dell'autore, il quale non era venuto in Italia come semplice dilettante d'archeologia, o come touriste, ma bensì come ministro di quell'esecrabile padrone che fu Arrigo VI, da cui ebbe ordine di smantellare la città di Napoli, cosa da lui eseguita puntualmente. Ad onta di ciò egli non esita di riferire, con piena fede, l'idea allora propria del popolo napoletano, che Virgilio avesse fondato quelle mura, come la città stessa di Napoli, e che di più egli ponesse in questa, come palladio, un piccolo modello della città racchiuso in una bottiglia fornita di collo strettissimo. Questo palladio, che dovea preservare Napoli da ogni attentato nemico, non impedì certamente che fosse presa dagl'imperiali, e se c'era qualcuno che potesse legittimamente dubitare della sua efficacia, tale doveva essere Corrado. Ma come non c'è uomo più sordo di chi non vuole udire, così non c'è fede più incrollabile di quella di chi vuol credere. Corrado osserva che se quel palladio virgiliano non fece il suo effetto, ciò va attribuito ad una screpolatura che gl'imperiali rinvennero nel cristallo quando l'ebbero in mano. Si crederebbe volentieri ad una celia, se a ciò non si opponesse il tono generale del suo scritto e gli altri assurdi che vi si trovano esposti con tutta serietà.

Altre opere maravigliose attribuite dai napoletani a Virgilio, sono, secondo Corrado, un cavallo di bronzo che, finchè rimase sano, preservava i cavalli dal fiaccarsi la groppa, una mosca di bronzo posta su di una porta fortificata che, finchè rimase intatta, allontanava le mosche dalla città, un macello nel quale la carne poteva conservarsi fresca per sei settimane. Inoltre, essendo Napoli infestata da una moltitudine di serpenti che scorrevano in essa per le molte cripte e costruzioni sotterranee, Virgilio li relegò tutti sotto una porta detta Ferrea e gl'imperiali, come dice Corrado stesso, nell'abbattere le mura esitarono dinanzi a quella porta, non volendo dar la via a tutti quei serpenti con grande molestia degli abitanti.

Temibile ed incomodo vicino è per Napoli il Vesuvio, ma Virgilio pensò a rimediare ponendogli incontro una statua di bronzo che rappresentava un uomo coll'arco teso e la freccia pronta a scoccare. Ciò pare bastasse a tenere per molto tempo in soggezione quel monte ignivomo; se non che un bel dì un contadino, non potendosi capacitare che colui stesse così eternamente coll'arco teso, fece in modo che la freccia scoccò, e questa andò a colpire l'orlo del cratere il quale d'allora in poi ricominciò a mandare fuori fumo e fuoco.

Premuroso di provvedere in ogni modo al pubblico bene, Virgilio fece presso Baia e Pozzuoli dei bagni pubblici, utili a tutte le malattie, ornandoli con immagini di gesso che rappresentavano le varie infermità e indicavano i bagni appropriati a ciascuna di esse.

A queste opere maravigliose di Virgilio Corrado aggiunge ciò che a Napoli si credeva intorno alle ossa del poeta. Queste, dic'egli, trovansi in un castello circondato dal mare, e se vengano esposte all'aria si fa subito scuro d'ogni dove, si ode lo strepito di una tempesta, il mare si commove tutto, si solleva, e mettesi a procellare, «e questo, soggiunge, noi abbiam veduto e provato.»

Gervasio di Tilbury che nei suoi Otia imperialia[23], dettati nel 1212 per servir di passatempo all'imperatore Ottone IV, raccoglie in una specie d'enciclopedia, notizie d'ogni sorta e assurdità d'ogni calibro, è una sorgente preziosa per chi fa indagini sulle credenze popolari[24]. Le sue idee intorno al maraviglioso ce le dice egli stesso in poche parole. «Maravigliose (dic'egli) chiamiamo quelle cose che sfuggono al nostro intendimento, quantunque siano naturali. Le rende mirabili l'ignoranza del perchè così siano.» Qui cita gli esempi della salamandra che vive nel fuoco, della calce che non si accende se non con acqua ed altri simili, quindi soggiunge: «Niuno creda sien cose favolose quelle che io scrivo.... Eccedono esse le forze della mente umana, e quindi è che spesso sieno stimate false, quantunque anche di quelle cose che vediamo tutti i giorni non possiamo render ragione.» È chiaro che con principî di questo genere si può andar lontano, e veramente l'autore se ne vale senza la menoma parsimonia. I lettori mi accorderanno il permesso di citar qui per intero un passo di quanto ei dice a proposito di Virgilio, il quale è sommamente caratteristico, come quello che ci trasporta a Napoli sul declinare del XII secolo e ci fa assistere ad una scena nella quale possiamo scorgere la leggenda vivente appunto nella sede sua prima.

Dopo aver narrato anch'egli il fatto del macello e dei serpenti, «un terzo fatto, soggiunge, è questo che io stesso sperimentai, benchè allora non ne fossi consapevole; però un caso fortuito avendomene dato la notizia e la prova, fui costretto ad esser convinto di una cosa che, se non l'avessi sperimentata, appena avrei potuto crederla possibile sulla relazione altrui.... L'anno in cui fu assediata San Giovanni d'Acri (1190), mentre io mi trovava a Salerno, mi sopraggiunse all'improvviso un ospite.... Filippo figlio dell'illustre patrizio, conte di Salisbury.... Dopo alcuni giorni deliberammo di recarci a Napoli, se per caso ci si offrisse occasione di far la traversata fra non molto tempo e senza molto dispendio. Arrivati in città ci recammo alla casa dello spettabile mio uditore in diritto canonico a Bologna, Giovanni Pinatelli, arcidiacono napoletano, illustre per sapere, per opere e per nascita; dal quale lietamente accolti gli spieghiamo il perchè della nostra venuta e saputolo, egli, per favorire il nostro desiderio, mentre si preparava il desinare, recossi con noi al mare. Appena in un'ora, con poche parole, si noleggia una nave pel prezzo che noi volevamo, e a nostra istanza viene accelerato il dì della partenza. Nel tornare a casa si andava discorrendo come mai e per quali buoni auspici così speditamente avessimo incontrato tutto quanto per noi si bramava. Vedendoci ignari, ed attoniti di tanto buon successo: — Dite su, dice l'arcidiacono, da qual porta siete voi entrati? — Avendogli io detto qual porta fosse, egli, uomo perspicace, soggiunse: — Sta bene adunque che così di leggeri v'abbia la fortuna favoriti; ma, di grazia, ditemi la verità appuntino, da qual parte dell'ingresso siete voi entrati? — Noi rispondemmo: — Giungendo innanzi alla porta, più prossimo era per noi entrare a sinistra, quando eccoti all'improvviso un asino carico di legna ci vien dinanzi per di là, sì che per evitarlo siamo stati costretti a prendere a dritta: — E l'arcidiacono: — Onde sappiate quali mirabili cose abbia fatte Virgilio in questa città, andiamo sul luogo e vi mostrerò come in quella porta egli abbia lasciato un bel ricordo di sè sulla terra. — Arrivati colà ci mostra infissa nella parete della porta a destra una testa di marmo pario in atteggiamento di riso e di grande ilarità; a sinistra stava infissa un'altra testa dello stesso marmo, ma molto diversa dall'altra, come quella che con occhi torvi offriva piuttosto l'aspetto di persona che pianga e si crucci deplorando le iatture di un triste avvenimento. Da queste così diverse configurazioni asseriva l'arcidiacono sovrastare a tutti coloro che entravano due contrarie fortune, purchè non si faccia, per espressa volontà, deviamento alcuno a destra o a sinistra, ma, trattandosi di destino, si vada a caso, e come viene viene. — Chiunque, diceva, entra in città da destra sempre riesce in ogni cosa e tutto gli va a vele gonfie; chi però si volge a sinistra fallisce in tutto e vien fraudato in ogni suo desiderio. Or dunque vedete come avendo voi dovuto, per lo scontro dell'asino, piegare a destra, presto e con successo compieste il vostro viaggio. — » Questo fatto, che colpì in modo strano la mente di Gervasio, poco manca non lo faccia diventar fatalista; dalla qual cosa però ei si difende esplicitamente umiliandosi dinanzi a Dio e ripetendo: «Dal voler tuo, o Signore, dipende ogni cosa e nulla v'ha che al tuo volere possa resistere.»

Parecchie delle leggende virgiliane raccontate da Gervasio sono in fondo identiche con quelle raccontate da Corrado, se non che, avendo ambedue attinto direttamente alla tradizione orale del popolo napoletano, offrono nei loro racconti tutta quella differenza di particolari che suol trovarsi appunto nelle versioni orali delle leggende[25]. Così il macello della carne incorruttibile, secondo Gervasio, deve la sua qualità ad un pezzo di carne posto da Virgilio in una delle sue pareti, ed in esso la carne si conserva non per sei settimane soltanto, ma per un tempo indefinito; i serpenti furono racchiusi da Virgilio sotto ad una statua ( sigillum ) presso porta Nolana. In ciò che riguarda i bagni di Pozzuoli van d'accordo ambedue; così pure quanto alla mosca. Quanto poi alla statua opposta da Virgilio al Vesuvio la versione di Gervasio offre una differenza assai notevole. Quella statua trovavasi sul Monte Vergine e non aveva in mano un arco colla freccia, ma bensì una tromba alla bocca, e questa tromba avea la virtù di ricacciare indietro il vento che trasportava verso quelle campagne il fumo e la cenere del Vesuvio. Disgraziatamente però, soggiunge Gervasio, sia che l'età l'abbia logorata, sia che gl'invidiosi l'abbiano abbattuta, ora per parte del Vesuvio si rinnovano sempre i guai di prima.

Gervasio non parla nè del cavallo di bronzo nè del palladio di Napoli, nè delle mura di questa città fatte da Virgilio, ma oltre alle due faccie di pietra della porta Nolana, delle quali non parla Corrado, egli è anche il primo a farci sapere che Virgilio «per arte matematica» seppe fare in modo che nella grotta di Pozzuoli non potesse mai aver luogo insidia nè agguato veruno, e che sul Monte Vergine egli pose un giardino nel quale trovavasi ogni sorta d'erbe dotate di proprietà medicinali. Fra queste, soggiunge, trovasi l'erba Lucia che tosto venga toccata da una pecorella cieca, le rende la vista.

Se si volesse stare a quanto asserisce Roth[26] nel suo interessante articolo intorno a Virgilio mago, anche Alessandro Neckam sarebbe stato a Napoli, e quindi avrebbe raccolto quanto racconta di leggende virgiliane dalla bocca del popolo napoletano. Il fatto è però che Neckam non solo non dice di aver visto egli stesso la mosca maravigliosa, conforme crede Roth, ma di questa non parla neppure. Vero è che il trattato De naturis rerum non era ancora stato posto in luce[27] quando Roth scriveva, e che questi non avea potuto procurarsi la dissertazione assai rara di Michel, nella quale il passo di quell'opera relativo a Virgilio mago trovasi riprodotto per intiero[28].

Le notizie che abbiamo sulla vita di Neckam sono così scarse[29] che è difficile stabilire in un modo positivo se ei fosse o no a Napoli. Nel poema De laudibus divinae sapientiae, scritto da lui in vecchiaia, egli parla della sua ripugnanza ai lunghi viaggi, alle nevi del Moncenisio, ed alle vie percorse da Annibale, e dice che non ha nessuna voglia di andare a Roma, allegando ragioni punto onorevoli per la capitale del cristianesimo[30]. Da ciò sembra potersi congetturare che Neckam non venisse mai in Italia. La data della sua opera De naturis rerum è incerta. Considerando però che egli nacque nel 1157 e morì nel 1217, che la sua opera si trova già nota verso la fine del XII secolo e che egli cita in essa altri suoi lavori di lunga lena[31], si può asserire con tutta verosimiglianza che quest'opera dovesse essere scritta nel penultimo decennio di quel secolo. Da ciò si rileverebbe che le leggende virgiliane aveano a quell'epoca già cominciato a rendersi note in Europa anche indipendentemente dagli scritti di Gervasio e di Corrado. Ma, come vedremo, la leggenda era nata a Napoli già prima della venuta di costoro, ed altri visitatori di questa città doveano averla diffusa.

CAPITOLO III.

Dopo avere escluso Neckam dal novero degli autori che impararono a conoscere le leggende virgiliane nel luogo stesso dov'erano nate, è tempo che ci occupiamo di esaminarle quali esse sono in questo più antico loro periodo storico, affine di determinare la vera natura e le ragioni dell'esser loro. I lettori avranno già notato che Virgilio, in questa più antica forma della leggenda, apparisce come protettore della città di Napoli, e che le opere maravigliose a lui attribuite consistono principalmente in talismani. Oltre alle tradizioni dell'antichità, oltre alle idee diffuse nel medio evo in Europa da popoli di stirpe semitica, la credenza nei talismani fu certamente rinvigorita nell'Italia meridionale dalla dominazione bizantina. Infatti come molte opere di tal genere furono a Napoli attribuite a Virgilio, così in Costantinopoli molte ne furono attribuite ad Apollonio Tianeo. Com'è naturale, certi monumenti della città eran quelli che dovean farne le spese. Così il famoso tripode di bronzo, di cui si vede una parte tuttora nell'ippodromo, fu per lunghi secoli considerato come un talismano. La leggenda[32] diceva che a tempo di Apollonio Tianeo Bizanzio fosse visitata dal flagello dei serpenti e che quindi fosse colà chiamato quel savio, onde allontanasse quella piaga. Costui elevò una colonna sulla quale era un'aquila che teneva nei suoi artigli un serpente, e d'allora in poi quegli animali scomparvero. Ai tempi di Niceta Coniate († 1216)[33] questa colonna coll'aquila esisteva tuttora; fu distrutta però, come tanti altri monumenti, quando la città cadde in potere dei latini. Ma la leggenda, che non si distrugge così facilmente, rimase, e fu applicata al nobile residuo dell'antico tripode, il quale appunto è costituito dalle spire di tre serpenti avviticchiati assieme. Inoltre le leggende costantinopolitane raccontavano anch'esse che Apollonio bandisse le mosche dalla città con una mosca di bronzo, e le zanzare con una zanzara di bronzo, e così pure gli scorpioni ed altri insetti[34]. La credenza poi a talismani di questo genere era ben lungi dal limitarsi a Napoli ed a Costantinopoli. A' tempi di Gregorio di Tours (VI sec.) la troviamo anche a Parigi. «Si diceva, ei narra, che anticamente la città fosse stata consecrata per preservarla dagl'incendi, dai serpenti e dai topi. Nel nettare la chiavica del Ponte-Nuovo, per togliere via il fango che l'ostruiva, non ha guari vi si trovò un serpe e un topo di bronzo[35]; furon portati via di là, e d'allora in poi innumerevoli topi e serpenti si videro, e cominciò la città a soffrire incendi»[36].

Vecchie tradizioni del paganesimo parlavano anche esse di mosche e d'altri insetti perseguitati da esseri superiori all'uomo. Così, delle mosche dicevasi ch'esse erano state bandite dal tempio di Ercole nel foro boario, e da una montagna dell'isola di Creta[37]. «Le cicale presso Reggio son mute, dice Solino[38], ciò che non è in alcun altro luogo, e questo silenzio è cosa tanto più miracolosa che quelle dei Locresi vicini si fan sentire anche più delle altre. Granio ci fa sapere il perchè: un giorno ch'esse facevano strepito mentre Ercole dormiva in quei luoghi, il Dio ordinò loro di stare zitte, e così d'allora in poi quel silenzio prese ad essere permanente.» Il cristianesimo, che tanto dovette concedere alle antiche credenze pagane, ebbe poi anch'esso non solo santi che scomunicarono mosche ed altri insetti, come san Bernardo, san Goffredo, san Patrizio ecc., ma anche formole di anatema ufficialmente stabilite per questi casi[39].

Non è da credere che a Napoli la credenza in questi talismani fosse semplicemente allo stato di racconto, senza un qualche oggetto a cui si riferisse[40]. Certamente anzi essa dovette nascere dalla presenza di opere di arte, sia antiche, sia bizantine, alle quali il popolo, come a Costantinopoli, attribuisse un'origine telesmatica. Una volta poi così avviata potè la fantasia popolare, od anche quella degli scrittori, amplificar la cosa, aumentando il novero dei talismani «che c'erano un tempo ed ora non esistevan più.»

Principale, e forse uno dei più antichi fra questi talismani, pare essere stata la mosca di bronzo. Uno scrittore anteriore a Corrado e Gervasio non solo ne parla, ma ci riferisce anche per intero la leggenda ad esso relativa. Questi è Giovanni di Salisbury che conosceva bene Napoli e l'Italia come colui che nel 1160 diceva di aver già passato le Alpi dieci volte e di aver percorso due volte l'Italia meridionale[41].

Quest'uomo veramente superiore, pieno d'ingegno e di spirito, ci racconta l'aneddoto seguente: «Dicesi che il poeta mantovano interrogasse Marcello mentre era fortemente intento a fare strage d'uccelli, se gli piacerebbe meglio che fosse fatto un uccello col quale si acchiappassero tutti gli uccelli, o una mosca che esterminasse tutte le mosche. Avendo Marcello parlato di ciò con Augusto, per consiglio di lui prescelse che si facesse una mosca che scacciasse da Napoli le mosche, e liberasse la città da questa piaga. E il desiderio fu compiuto; dal che si riduce che al proprio piacere è da preferire l'utile dei più»[42].

I nomi di Marcello e d'Augusto posti così in rapporto con Virgilio potrebbero forse a prima giunta destar dubbio circa l'origine popolare di questa leggenda applicata a quel tal talismano. Notiamo però che la leggenda popolare napoletana considerava appunto Marcello come governatore di Napoli, e Virgilio come suo ministro. Nella Cronica di Partenope della quale parleremo a suo luogo, i fatti di Virgilio sono riferiti «in nel tempo quando Octaviano ordenao Marcello duca de li Napoletani.» È questo il lato pel quale la leggenda napoletana si mostra connessa, come vedremo colla leggenda letteraria sorta sulla antica biografia del poeta. — L'autore anonimo di una poesia satirica contro gli ecclesiastici, dell'anno 1180, allude anch'egli alla mosca di Virgilio col verso:

«Formantem (video) aereas muscas Virgilium»[43].

Non altra mosca Virgiliana trovasi mai menzionata se non quella di Napoli, alla quale certamente si riferisce questo anonimo come pure esplicitamente Giovanni di Salisbury; e Giovanni è il solo a narrare per quale occasione fosse fatta da Virgilio quella mosca; non lo crederei però autore di quel racconto, il quale, come ognun vede, è ideato nello spirito delle moralizzazioni del Gesta Romanorum e simili, e si può attribuire a qualche chierico napoletano che volle dare un edificante involucro storico alla superstizione popolare su quella mosca. Questa mosca, della grandezza di una rana, che secondo Corrado trovavasi su di una porta fortificata, poi passò ad una finestra nel castel Capuano e poi in castel Cicala (chiamato in seguito castel Sant'Angelo, e diroccato dai preti di Santa Chiara), dove perdette la sua efficacia. La Cronica di Partenope cita un tale Alessandro il quale dice d'averla veduta. Nel testo oggi noto di Alessandro Neckam della mosca non è parola.

Le due facce di pietra nella porta Nolana, che, come dice un vecchio scrittore napoletano[44], «chiamavasi di Forcella» esistevano realmente, e questo scrittore, che è lo Scoppa, dice di averle vedute nel portico di quella mentre era ancor fanciullo, prima che il re Alfonso II d'Aragona lo demolisse e le trasferisse in Poggio Reale. Il cavallo di bronzo esisteva anch'esso; Eustazio da Matera sulla fine del sec. XIII ne parlava nel suo poema, oggi perduto, Planctus Italiae[45], e nel 1322 trovavasi ancora nella corte della primaziale di Napoli. Il tempo e la barbarie l'avean guasto; il popolo però diceva che i manescalchi, ai quali quel cavallo avea fatto danno, gli sfondarono il ventre, talchè venne a perdere la sua efficacia e quindi parve giusto che i preti della primaziale, per farlo servire a qualche cosa, lo trasformassero in campane nel 1322. Altri dice fosse distrutto per toglier di mezzo la superstizione popolare ad esso relativo[46]. Rimase la testa che si conserva tuttora nel museo nazionale di Napoli e che può darci un'idea delle proporzioni colossali di quella notevole opera d'arte[47]. Il racconto della statua che Virgilio contrappose al vento che veniva dalla parte del Vesuvio, par fondato sulla real presenza di una qualche statua che desse, in qualche modo, motivo a quella leggenda. Scoppa dice che essa trovavasi nella porta già chiamata Ventosa poi Reale «dove (soggiunge) rimangon tuttora alcune statue di marmo»[48]. Quanto al palladio di Napoli, di cui parla Corrado, esso certamente dovette essere quel ch'ei dice d'aver visto e toccato, cioè un modello della città posto in un fiasco di cristallo. Sono note queste curiosità che anche oggi sbalordiscono il volgo, nè v'ha di che maravigliarsi se nel medio evo producevano l'impressione di cose fatte con arti soprannaturali, e se vi si annettevano idee telesmatiche. Forse quel cimelio andò perduto fra le mani degl'imperiali. Fatto è che in seguito la leggenda ad esso sostituisce un uovo[49] posto in un fiasco di vetro, questo stesso riposto in un recipiente di ferro. Questa forma della leggenda, assai posteriore, si sostituì alla prima dopo che l'antico castello fabbricato nel 1154 da Guglielmo I, ed ampliato da Federigo II, ebbe mutato il suo nome di Castello marino o di mare[50] in quello di Castel dell'uovo. Non si conoscono, a mia notizia, documenti che adoperino quest'ultima denominazione prima del XIV secolo. Negli statuti dell'Ordine dello Spirito Santo, fondato nel 1352 da Luigi d'Anjou, esso è chiamato «Castellum ovi incantati»[51]. In un MS. napoletano della metà del secolo XIV si parla di questa leggenda sull'autorità di Alessandro Neckam, il quale però non ne dice nulla[52]. Alla denominazione e alla leggenda si riferisce pure la iscrizione enimmatica, anch'essa del secolo XIV, che ci ha conservato la raccolta Signorili[53]:

« Ovo mira novo sic ovo non tuber ovo,

Dorica castra cluens tutor temerare timeto.»

Quella stessa idea che presentando Virgilio come protettore benefico di Napoli avea fatto attribuire a lui quei talismani e le mura della città, e la città stessa, dovea fare a lui attribuire i salutari bagni di Pozzuoli che godettero di molta celebrità nel medio evo, per le loro virtù medicinali[54]. L'uso di porre nei bagni di questo genere delle iscrizioni[55] indicanti le malattie a cui potevano essere utili, particolarmente quando le sorgenti eran varie, non lo troviamo soltanto in quei di Pozzuoli, ma anche in altri bagni celebri dell'epoca, come, p. es., in quelli di Bourbon l'Archambault[56]. Beniamin di Tudela (morto nel 1173) parla[57] di una sorgente di petrolio che trovavasi in vicinanza di Pozzuoli, e parla anche dei bagni medicinali ivi esistenti e visitati da moltissimi malati; non dice nulla però di Virgilio. Riccardo Eudes[58] nel suo poema, composto nel 1392, mentre parla anch'egli delle iscrizioni, non dice nulla di Virgilio. Così pure La Sale in un trattato di morale citato da Le Grand d'Aussi[59], così Burcardo[60] che visitava quei luoghi nel 1494, ed altri. Che questi ed altri scrittori non parlino di Virgilio, prova che l'attribuzione di quei bagni al Mantovano era un fatto tanto esclusivamente popolare che o non giunse a loro notizia, o, se pure, non ne tenner conto come di fola puerile. Certamente non potè ignorarla, ma non ne fece caso Pietro da Eboli[61] che nel suo poemetto su quei bagni non ne dice parola, mentre il suo protettore ed amico Corrado di Querfurt, più credulo di lui e prono a fantasticare col popolo, raccoglieva e seriamente riferiva la leggenda, come fecero altri della stessa tempra quali Gervasio, Elinando e il napoletano autore della Cronica di Partenope. La leggenda popolare aggiunse alla realtà della cosa il nome di Virgilio e l'idea che quei bagni fossero utili per ogni malattia. Il benefico Mantovano avrebbe voluto così principalmente provvedere ai poveri onde potessero dispensarsi dai medici «li quali (come dice la Cronica di Partenope[62] ) senza alcuna charità domandano essere pagati.» I medici però che, come dice a tal proposito un vecchio poema francese, «ont fait maint mal et maint bien»[63] non trovavano in ciò il loro tornaconto, e particolarmente i celeberrimi della scuola salernitana videro talmente diminuire gli affari, che recatisi di soppiatto ai bagni virgiliani disfecero le iscrizioni; sicchè i poveri malati non seppero più da dove rifarsi. Ma Dio punì coloro, soggiunge la leggenda, poichè nel ritorno furon colti da una così furiosa tempesta che «annegaro intra Capre et la Minerva escepto uno lo quale manifestò questa cosa[64]. Questo fatto, anche narrato da Gervasio e Corrado, lo è pure da Burcardo e da altri che non mescolano al racconto il nome di Virgilio. La favola dandosi l'aspetto della storia riferiva anche un preteso istrumento notarile del 1409, nel quale si asseriva essersi trovata in Pozzuoli presso al luogo detto Tre Colonne la seguente iscrizione:

«Sir Antonius Sulimela, Sir Philippus Capogrossus, Sir Hector de Procita, famosissimi medici salernitani supra parvam navim ab ipsa civitate Salerni Puteolos transfretaverunt, cum ferreis instrumentis inscriptiones balneorum virtutum deleverunt et cum reverterunt, fuerunt cum navi miraculose submersi»[65].

Da quanto siamo venuti dicendo fin qui i lettori avran potuto farsi un concetto di ciò che era la leggenda virgiliana nell'origine sua. C'è un'idea prima e fondamentale, ed è questa, che Virgilio non solo abbia vissuto a Napoli, ma abbia avuto in mano il governo di quella città, o almeno per le alte sue relazioni in corte, abbia avuto parte a quel governo, ed in ogni caso abbia spiegato il più grande amore pel pubblico bene dei napolitani. Inoltre, esistevano in Napoli parecchi monumenti d'arte, antica o medievale, ai quali il popolo napolitano, come accadeva fra altri popoli altrove, attribuiva qualità maravigliose e telesmatiche. Abbiamo veduto di quale aureola di sapienza fosse stato decorato il nome di Virgilio presso i letterati del medio evo. Il popolo napoletano per la idea che universalmente si aveva di questo suo protettore, non poteva attribuire quei talismani ad altri che a lui.

Il mago propriamente detto non è ancora sorto. Quantunque Corrado parli di una ars magica o di magicae incantationes per mezzo delle quali Virgilio sarebbe riuscito a fare quei talismani, è chiaro che ciò va inteso in senso benigno di magìa naturale, o di cognizione dei più riposti segreti della natura[66]. Infatti la credenza d'allora portava che mediante certe combinazioni meccaniche, astrologiche e matematiche si potesse riuscire a produr cose maravigliose. Tutto ciò si considerava come affatto indipendente da arti diaboliche, e non rendeva necessariamente odioso il personaggio a cui si attribuiva, tanto meno quando le sue arti tendessero a bene. E realmente, come abbiamo veduto, Virgilio apparisce nella prima forma della leggenda non solo come innocuo, ma come grande benefattore, e nessuno degli scrittori che riferiscono le idee del popolo napoletano intorno a lui parla di arti diaboliche. Gervasio attribuisce le opere virgiliane ad una ars mathematica o vis mathesis. Boccaccio, il quale visse in un'epoca in cui, come vedremo, la leggenda avea già cambiato natura, non teme di offendere la fama del poeta da lui tanto venerato, dicendo che quelle tali cose furono da lui operate a Napoli «con l'aiuto della strologia», essendo egli «solennissimo strologo»[67], idea che già vedemmo anticamente sostenuta fin da Servio e da altri.

Il popolo adunque non faceva altro a Napoli se non trarre conseguenze materiali dal concetto che i letterati d'allora si formavano di Virgilio, e questo era tale che i letterati stessi non si maravigliavano di quei racconti. Siccome però quel concetto era universale e la leggenda è di origine esclusivamente napoletana, si può domandare come mai il nome di Virgilio fosse così familiare al popolo di Napoli, che questi se lo trovasse così alla mano quando volle dare un autore ai talismani a cui avea preso a credere. E questa è appunto l'ultima e più semplice formola a cui si riduce il problema dell'origine di queste leggende. Prima però di farci a dire la nostra opinione intorno a ciò, è d'uopo far parola di un fatto che non possiamo qui lasciar passare inosservato.

Gervasio di Tilbury narra quanto segue: «Ai tempi di Ruggero re di Sicilia un tal uomo dotto, inglese di nazione, si presentò al re chiedendo gli fosse dato qualcosa dalla generosità di lui. E pensando il re, chiaro di stirpe e di vita, che a lui questi richiedesse un qualche beneficio, rispose: — chiedi tu stesso il beneficio che vuoi ed io volentieri tel farò. — Imperocchè colui il quale chiedeva era un sommo letterato, forte assai ed acutissimo nel trivio e nel quadrivio, grandemente operoso negli studi fisici, e grandissimo astronomo. Disse dunque al re ch'ei non chiedeva efimeri piaceri, ma bensì ciò che agli uomini sembrerebbe cosa da poco, le ossa di Virgilio, dovunque potessero trovarsi dentro i confini del suo regno. Il re annuì, e il dotto, fornito di lettere regie, recossi a Napoli dove Virgilio in molte cose avea esercitato il suo ingegno. Presentate ch'egli ebbe le lettere, il popolo si preparò ad obbedire, e ignaro del luogo della sepoltura, facilmente promise ciò che gli parve dover credere impossibile. Finalmente però il dotto, guidato dall'arte sua, ritrovò le ossa nel loro sepolcro, nel bel centro di un monte, là dove neppur la menoma apertura o fenditura ne dava segno veruno. Si scava in quel luogo, e dopo lunga fatica si discopre un sepolcro nel quale si trova intero il corpo di Virgilio, e sotto al capo di questo un libro nel quale era scritta l'arte notoria[68] con altre scritture relative agli studi di lui. Si tolgon via le ossa e la polvere, e il dotto estrae il volume. Il popolo napoletano ponendo mente alla speciale affezione che Virgilio avea portato alla città, e temendo che, sottratte via le sue ossa, la città intiera ne venisse a soffrire un danno enorme, preferì eludere l'ordine regio piuttostochè, obbedendo, occasionare la rovina di una sì grande città. Imperocchè credeva che Virgilio appunto per ciò avesse posta sua sepoltura nel recesso segreto del monte, affinchè col portar via delle sue ossa non venisse meno l'efficacia degli artifici suoi. Il duca dei napoletani con una schiera di cittadini, riunite assieme le ossa e postele in un sacco, le recarono nel Castel di Mare dove dietro a certe spranghe di ferro si mostrano a chi voglia vederle. Interrogato il dotto che cosa avrebbe voluto fare delle ossa, rispose che per mezzo di uno scongiuro egli avrebbe fatto sì che quelle, dietro sua richiesta, rivelassero a lui tutta l'arte di Virgilio; diceva anzi ch'ei sarebbe soddisfatto se avesse potuto averle a sua disposizione per soli quaranta giorni. Contentandosi però di portar via il libro soltanto, ei se ne andò, e noi per mezzo del venerabile Giovanni da Napoli[69], cardinale del tempo di Papa Alessandro, vedemmo alcuni estratti di esso libro e con esperienza concludentissima ne facemmo la prova

Questo strano racconto di Gervasio trovasi riprodotto da Andrea Dandolo[70] verso il 1339 e trovasi pure nella Cronica di Partenope che lo ha anch'essa da Gervasio, e in Andrea Scoppa che lo ha dalla Cronica di Partenope. All'infuori di Gervasio, l'unico scrittore contemporaneo che alluda ad un fatto di questo genere è Giovanni di Salisbury, il quale nel suo Polycraticus dice di aver conosciuto un tal Lodovico «che (dic'egli) io vidi trattenersi a lungo nelle Puglie, onde dopo molte vigilie, lunghi digiuni, e moltissime fatiche e sudori, come prodotto di un siffatto inutile e triste esilio, riportare in Gallia le ossa, piuttostochè il senno, di Virgilio»[71]. È assai probabile che, come crede Roth, qui trattisi della stessa persona di cui parla Gervasio, sapendosi che Giovanni di Salisbury fu a Napoli appunto a' tempi di re Ruggero, e non formando grave difficoltà l'espressione in Gallias, di cui egli si vale parlando di un uomo che Gervasio qualifica di Anglus[72]. Il Roth però vuol vedere in questo fatto la principal circostanza che mise in moto sul conto di Virgilio la fantasia dei napoletani, e qui mi duole di non poter approvare l'opinione di questo dotto uomo.

Il fatto narrato da Gervasio presuppone l'esistenza della leggenda. Non è punto impossibile che un eccentrico inglese si ponesse in capo di ottenere le ossa di Virgilio, onde cavarne, per mezzo di una operazione magica, quel tesoro di scienza riposta che il mondo attribuiva allora al poeta. L'avere però il popolo napoletano ricusato di dargliele, e la ragione stessa di questo rifiuto, mostra evidentemente che già il nome del poeta erasi reso celebre a Napoli per la protezione che le sue opere telesmatiche, e le sue ossa stesse porgevano alla città. L'idea che in quella occasione si scoprisse il sepolcro di Virgilio, e che questa scoperta facesse grande impressione sul popolo napoletano a me pare non resista alla critica, quantunque Gervasio pretenda che il popolo napoletano fosse, prima di quel fatto, «ignaro della sepoltura.» Infatti quando si rifletta alla colossale rinomanza ed autorità di Virgilio nel medio evo, è chiaro che questo solo fatto della scoperta del suo sepolcro, avvenuta, per soprappiù, in modo così strano, sarebbe stato un avvenimento tale da commuovere non solo i napoletani, ma tutto il mondo letterario d'allora. Invece noi troviamo intorno a ciò un silenzio generale non interrotto che dal solo Gervasio. Se poi esaminiamo da vicino il racconto di costui, a me pare possa rilevarsene che il fatto dell'inglese a cui allude Giovanni di Salisbury, si complicò con una leggenda intesa a dare spiegazione di un sacco pieno di ossa che si mostrava dietro una inferriata in Castel di Mare, come quello che si credeva contenesse le ossa di Virgilio, e nello stesso tempo questa leggenda servì ad autenticare od accreditare (come soleva farsi allora e dopo) un qualunque libro d'arti segrete, che Gervasio dice aver veduto, dando ad intendere che esso provenisse dal sepolcro di Virgilio. Non dimentichiamo che lo stesso Giovanni di Salisbury parlando di quel tal Lodovico da lui conosciuto, ce lo presenta nel suo aspetto reale, e quindi ridicolo, mentre Gervasio, che scriveva qualche decennio più tardi, ce lo presenta con circostanze evidentemente leggendarie, e che di più lo stesso Giovanni di Salisbury conosce già la storia della mosca di bronzo, vale a dire che il nome di Virgilio, indipendentemente dalle pazze voglie di quel tal messer Lodovico, trovavasi già in Napoli applicato a talismani. Quindi a me pare debba del tutto eliminarsi l'idea che nel fatto narrato da Gervasio stia la principal causa dell'origine o dello sviluppo delle leggende virgiliane in Napoli[73]. È noto poi nel modo il più positivo che l'idea del protettorato di Virgilio su Napoli e del governo da lui ivi esercitato è anteriore al re Ruggero, poichè ne fa esplicita menzione Alessandro di Telese nel 1136, dicendo che per quel distico «Nocte pluit tota» ecc. Virgilio ebbe da Augusto in feudo la città di Napoli e la provincia di Calabria[74].

Se da quel che narra Gervasio noi non deduciamo le conseguenze che ne deduce Roth, non esitiamo d'altro lato ad affermare che la presenza a Napoli del sepolcro di Virgilio è uno dei fatti principali che spiegano la permanenza del nome di lui nelle tradizioni del popolo napoletano. Sia qualsivoglia l'autenticità di quello che oggi si crede essere il sepolcro di Virgilio, o di quello che forse nel medio evo passava per esser tale[75], è un fatto storico, sul quale non è possibile dubbio di sorta, che Virgilio volle esser seppellito a Napoli, e che ivi fu seppellito realmente, come dice la sua biografia, «sulla via puteolana a circa due miglia»[76]. Questa notizia deriva, molto probabilmente, nella Vita di Virgilio attribuita a Donato, dalla biografia del poeta scritta da Svetonio (98-138 d. Cr.) nel suo De viris illustribus, ed è confermata da altre notizie che mostrano come il sepolcro di Virgilio divenisse l'ornamento principale di Napoli, ed attirasse visitatori quasi come un tempio di una qualche divinità. Silio Italico, come abbiamo già notato altrove, era solito recarvisi come ad un tempio, adire ut templum, e Stazio chiama senz'altro il sepolcro di Virgilio un tempio. Nel V secolo Sidonio Apollinare considera ancora il sepolcro di Virgilio come vanto di Napoli[77]. È chiaro che il popolo napoletano, spettatore di questa specie di culto reso alla memoria del poeta, dovea, per lo meno, serbarne il nome nella mente. Le notizie ci mancano pel più fitto medio evo, poichè gli scrittori che avrebbero potuto darcene avevano allora la mente altrove. Da quello però che sappiamo intorno alla rinomanza grandissima e sempre continuata del poeta, possiamo conchiudere che il popolo napoletano per ben molti secoli dovette essere avvezzo a sentir ripetere il nome di Virgilio, e chieder della tomba di lui da quanti forestieri un po' colti visitassero la città. Nel X sec, cioè ne' tempi della più grande barbarie, l'autore della Vita di S. Atanasio tessendo un elogio entusiasta di Napoli, da lui ben conosciuta, se pur non era sua patria, ricorda Virgilio e la nota epigrafe da lui dettata per la sua tomba[78]. Più tardi, a mezzo il sec. XII, il trovatore provenzale Guilhem Augier per indicar Virgilio si limita a dire «cel que jatz en la ribeira — lai a Napols» ben sicuro che ognuno intenderebbe di chi volesse parlare[79]. Certo, non furono i Normanni che rivelarono o ricordarono alla piccola repubblica Partenopea, fiera della sua antica romanità, l'esistenza del sepolcro di Virgilio nel suo classico suolo[80].

Così non è impossibile che sia d'antica data l'idea popolare che il sepolcro di Virgilio fosse intimamente connesso col bene della città e l'altra da questa dipendente, che, come riferisce Corrado, le ossa di lui quando si ponessero all'aria suscitassero turbini e tempeste. E veramente abbiamo potuto notare che il sepolcro di Virgilio figura nelle più antiche leggende virgiliane, fra le quali notevolissima, da questo punto di vista, è quella dell'inviolabilità quasi sacra della grotta di Pozzuoli, vicino all'ingresso della quale scorgesi anche oggi il sepolcro creduto del poeta. Leggende di questo genere erano assai comuni anche ai tempi pagani. È noto come il possedere le ossa di Edipo fosse tenuto qual causa di prosperità dagli Ateniesi, e come la stessa cosa, per altre ossa, si credesse da altri popoli. Un'altra leggenda, relativa al colle che serviva di sepolcro ad Anteo, diceva che quando da questo toglievasi un poco di terra pioveva immediatamente, nè cessava di piovere finchè non si fosse rimessa al posto[81].

Il poeta che nato presso Mantova volle esser seppellito a Napoli molto dovette amare quella città in vita sua. E veramente da quanto ci resta di notizie autentiche intorno a lui rileviamo che molto egli visse colà, godendo in pace le agiatezze procurategli dall'eccelso suo protettore, e che in quell'incantevole soggiorno gran parte dei suoi versi immortali fu da lui composta. Come rileviamo da un passo della principale sua biografia, familiare era al popolo napoletano la sua figura dolce e modesta, e caratterizzandone il tipo e l'espressione in una parola, solean chiamarlo per soprannome Parthenias[82]. A me poi pare indubitato che il suo nome dovesse esser conservato anche da alcune terre da lui possedute in quelle contrade.

In prova di ciò è d'uopo richiami alla mente del lettore quel tal giardino che Virgilio, secondo la leggenda, ebbe sul Monte Vergine, del quale parla Gervasio dicendo che vi si trovavano erbe d'ogni sorta dotate di proprietà mediche. Il nome di questo monte ha subito vari cangiamenti. Oggi chiamasi Monte Vergine, ma in latino lo trovo chiamato nei documenti e negli scrittori Mons Virginis, Mons Virginum, Mons Virgilianus. Giovanni Nusco autore della Vita di san Guglielmo da Vercelli[83], fondatore della congregazione e della chiesa del Monte Vergine, dice che il monte chiamossi dapprima Monte Virgiliano, denominazione della quale egli stesso si serve esclusivamente. Questa asserzione è negata da Roth[84], il quale nota che in alcuni documenti contemporanei del Santo il monte è chiamato «Mons qui Virginis vocatur», e la chiesa «S. Maria Montis Virginis.» Che però, quando il monte cominciò a cambiar denominazione alcuni seguitassero a chiamarlo col nome antico, altri col nuovo, è cosa che non ha nulla di straordinario. L'autore della Vita di san Guglielmo fu anch'egli contemporaneo del Santo, come colui che fu ricevuto nella congregazione dei preti del Monte Vergine nel 1132[85] cioè dieci anni prima che san Guglielmo morisse, e sei anni dopo la consecrazione di quella chiesa. Quando egli tenendosi alle tradizioni locali seguita ad adoperare il nome di Monte Virgiliano, il voler porre in dubbio la sua autorità è un volersene sbarazzare ad ogni costo, tanto più che nella sua qualità di ecclesiastico e di aderente alla nuova congregazione, se non avesse trovato una tradizione ed un uso più forti di lui, certo avrebbe dovuto preferire il titolo di Monte della Vergine Maria al titolo pagano di Monte di Virgilio. Se poi alcuni devoti, in certi loro atti di donazione, si affrettarono ad adottare il titolo di Monte Vergine, la tradizione veniva tuttavia rispettata anche dalla suprema autorità ecclesiastica nel 1197, nella bolla di papa Celestino III, relativa a quel monastero, nella quale questo più d'una volta è chiamato «Monasterium sacrosanctae Virginis Mariae de Monte Virgilii»[86]. Non essendo punto strano che una località abbia più nomi ad un tempo, può essere che, oltre al chiamarsi Virgiliano, questo monte, prima di intitolarsi dalla Vergine Maria, si chiamasse anche Mons Virginum col qual nome appunto lo designa Gervasio. La presenza, probabile a' tempi pagani, del culto di Vesta e di Cibele in quei luoghi spiegherebbe ottimamente questa denominazione[87]. Comunque sia di ciò, il nome indubitato di Monte Virgiliano, e la leggenda napoletana e locale[88] che poneva ivi un giardino di Virgilio, non potrebbe meglio spiegarsi che colla reale esistenza di una possessione avuta da Virgilio in quei luoghi. Ora, stabilire positivamente che ciò fosse non si può, ma ben si può provare con tutta evidenza che appena un secolo e mezzo, e forse neppur tanto, dopo la morte del poeta c'era chi parlava di possessioni avute da lui in quei dintorni.

Aulo Gellio[89] dice di aver trovato scritto «in quodam commentario»[90] che quei versi

«Talem dives arat Capua et vicina Vesevo

Ora iugo, etc.»

fossero da Virgilio recitati e pubblicati dapprima colla lezione «Nola iugo», ma che poscia, avendo egli chiesto ai Nolani di poter portare l'acqua nella prossima sua campagna, e i Nolani questo favore non avendogli accordato, il poeta offeso per ciò, quasi a toglier via dalla memoria degli uomini il nome della loro città, lo espungesse dai versi suoi sostituendovi ora che poi sempre si lesse in quel luogo. Qui Gellio soggiunge che egli non si mette punto in pena per sapere se il racconto sia vero o falso, e noi faremo altrettanto. Notiamo però che uno scrittore del secondo secolo, basandosi sull'autorità di scrittori anteriori, accenna nel modo più esplicito a possessioni che si credette Virgilio avesse nei dintorni di Nola, cosa che niente distoglie dal creder vera[91] singolarmente trattandosi di un uomo che tanto soggiornò in quella regione. Ora, la leggenda pone il giardino maraviglioso di Virgilio a non molta distanza da Nola, cioè presso Avella[92] alle falde del Monte Vergine, rannodandosi così dopo dieci secoli alla notizia che desumiamo da Aulo Gellio, nella quale trova un precedente che le serve di spiegazione[93]. Quanto alle qualità speciali che a quel giardino attribuisce la leggenda, non è impossibile che l'idea ne provenga da un orto di piante medicinali che ivi esistesse realmente, come solevano trovarsene anche nel medio evo[94].

Su questo fatto ho voluto trattenermi alquanto, poichè a me sembra sia uno di quelli che meglio provano la permanenza continua del nome di Virgilio nelle tradizioni del popolo di quelle contrade, anche per quelle epoche nelle quali la storia e i documenti non ci dicono nulla intorno a ciò. Molte leggende medievali presentano lo stesso fenomeno. Preparate ed elaborate di lunga mano nell'oscurità, esse si presentano nella letteratura ad un tratto belle e formate. Questa di Virgilio è più notevole, poichè la storia ci fa assistere al primo contatto di quest'uomo col popolo napoletano, e alle prime profonde impressioni da lui lasciate fra questo, di mezzo al quale il suo nome dopo vicende di secoli rivien fuori, come dal crogiuolo di un chimico, tutto trasmutato e coronato dall'aureola della leggenda. In questa leggenda non si ravvisa più, è vero, il poeta augusteo, la più preziosa gemma della poesia romana, ma ben vi si ravvisa ciò che più interessava il popolo napoletano, cioè un ingegno altissimo e d'eterna rinomanza, che avea in modo invidiabile onorato la città di Napoli, ponendola talmente in cima ad ogni suo affetto che volle esserle vicino anche nella tomba. Quindi è che la parte più antica della leggenda debba essere l'idea di un protettorato che Virgilio esercitò in vita sua sulla città di Napoli; e realmente questa idea accompagna le più antiche notizie che noi possediamo di un Virgilio leggendario napoletano, quella cioè di Giovanni di Salisbury relativa alla mosca di bronzo, e quella più antica di Alessandro di Telese il quale parla di Napoli e della Calabria, date da Augusto in feudo a Virgilio. Con questa idea prima e fondamentale, in cui veramente la leggenda ha le sue radici, si collega un fatto curioso del tutto degno dell'erudizione medievale. Seneca nel sesto delle questioni naturali parla, in sul principio, di un fortissimo tremuoto che desolò la Campania sotto il consolato di Regolo e di Virginio, soggiungendo che mentre altre città della Campania ne soffrirono grandemente, Napoli non fu che «leniter ingenti malo perstricta.» Ora, è certo che vi fu chi in questo passo di Seneca lesse Virgilio in luogo di Virginio e, ignaro di ciò che fosse un console ai tempi del mantovano, ne dedusse che Virgilio fu «console di Napoli.» Il padre Giordano, abate di Montevergine, che raccolse nel 1649 le tradizioni e le cronache del suo monastero, seguita ancora a dire che, essendo Virgilio andato a Napoli, Augusto lo fe' console, e che ebbe per collega nel consolato Regolo, e parla poi dell'eruzione del Vesuvio, citando il luogo di Seneca summenzionato[95]. Vedendo che Alessandro di Telese, cioè un ecclesiastico che viveva nel Sannio a poca distanza da Napoli, parla di questa città come feudo di Virgilio, possiam supporre che a questa idea non fosse estraneo quel tal passo di Seneca, il quale, frainteso da qualche monaco dell'Italia meridionale, sarebbe venuto ad afforzare l'idea popolare del protettorato di Virgilio su Napoli.

Napoli che da Giustiniano fino a metà del sec. XII mantenne quasi costantemente intatta, quantunque non senza molti e grandi travagli, la sua indipendenza, fu in condizione di serbare meglio che altre città italiane le tradizioni antiche. L'abbassamento però della cultura, nei secoli della barbarie, non fu meno grande là che altrove, talchè gl'illustri nomi antichi serbati vivi nella memoria del popolo letterato o illetterato, con una coltura così ridotta, trasformaronsi allora tutti nelle menti di ogni grado, contornandosi di leggende. Già invero a metà del IX secolo si osserva qualche progresso sulla ruvida barbarie dei tempi anteriori; in taluni duchi quali Sergio e Gregorio III in taluni vescovi quali Atanasio I ed altri ecclesiastici si riscontrano segni notevoli di studi anche profani; nè senza sorpresa nelle tenebre del X secolo troviamo in questa Napoli medievale, tanto oscura per noi, il duca Giovanni III che, pieno di nobili istinti, come un piccolo Carlomagno, ama e predilige gli studi latini e anche i greci, si procaccia da ogni parte, anche da Costantinopoli, libri così sacri come profani nelle due lingue, e Giuseppe Ebreo, e Dionigi e la storia di Alessandro Magno in greco e nella traduzione latina e Tito Livio e altri scrittori, storici, cronografi ecc., chiamando anche alla sua corte, e ben ricompensando, dotti e scrivani che traducessero e copiassero opere greche[96]. Quanto poi fosse vivace il sentimento patrio dei Napoletani allora, qual vanto menassero della loro romanità, del nobile passato della antica città loro «non ad altra seconda in Italia che a Roma»[97] lo mostra l'enfatico elogio di Napoli in cui prorompe l'autore della Vita di S. Atanasio nell'esordio del pio suo scritto. Questo sentimento che traluce pure in tutta la più antica leggenda virgiliana ed è la più manifesta prova dell'essere essa essenzialmente napolitana, è il lievito che colà pone in moto le menti dei rozzamente colti e degli incolti, generando leggende sull'antica storia di Napoli romana; poichè anche gli uomini iniziati allora agli studi profani, lo erano poi tanto poco e così malamente che a fraintendere i nomi e i fatti e i monumenti antichi, a travisarli secondo le loro imaginazioni, a crear fantasmi su di essi ed a crederci poi, eran facilmente pronti quanto qualsivoglia dei più incolti. Un saggio ne dà lo stesso autore della Vita di S. Atanasio quando scrive: «La qual città quanto egregia sia lo mostra Marone Mantovano nei chiari versi dell'epitafio che morendo dettava per sè, quando la chiama Parthenope, cioè vergine, da certa fanciulla nubile che un tempo vi abitava. Per ultimo Ottaviano Augusto ordinò che fosse chiamata Napoli, cioè dominatrice di nove città (ἐννεάπολις) o come alcuni vogliono Città Nuova, il che è tanto assurdo da stentare a crederlo, poichè come si possa chiamare nuova una città tanto antica che se ne ignora l'origine, non è facile intendere, tanto più che non si ritiene fondata da lui»[98]. In questo cumulo di strafalcioni va notata la favola di Ottaviano che dà il nome a Napoli, la quale mostra come già la leggenda virgiliana dovesse esistere a Napoli nel X secolo, almeno in quanto concerne i favolosi rapporti fra Virgilio, Ottaviano, Marcello quali son presentati più tardi da Alessandro di Telese, da Giovanni di Salisbury, dalla Cronica di Partenope ecc. Infatti l'abate del monastero di San Salvatore presso Telese, il quale, quantunque vivesse in tempi più avanzati, non era men grosso in fatto di cultura classica dell'anonimo hagiografo napoletano del X secolo, non fa che ricordare nella dedica a re Ruggero il fatto di Virgilio che ebbe da Ottaviano per due versi in premio Napoli e la Calabria, come cosa ben nota; e doveva già esserlo certamente anche all'autore della Vita di S. Atanasio, poichè l'interesse leggendario di Ottaviano per Napoli va sempre accompagnato all'interesse suo per Virgilio ch'ei fa signore di quella, e ne è anzi nello sviluppo della leggenda una conseguenza. Altrettanto va detto di Giovanni di Salisbury il quale riferisce con un fertur la leggenda napoletana della mosca maravigliosa, ove intervengono Ottaviano e Marcello; leggenda pur questa che da tempo assai più antico deve essere stata messa in corso fra i rozzi chierici napoletani che, ai tempi certamente del ducato, aveano immaginato Marcello fatto da Augusto «duca dei napoletani.»

Tutta questa parte della leggenda virgiliana nella quale figurano insieme Napoli, Augusto, Marcello, Virgilio, mentre è per ispirito affatto napoletana e quindi popolare a Napoli come le leggende che la continuano di Virgilio taumaturgo, benefattore di Napoli, mostra col ricordo, che pur è storico, dei rapporti fra Ottaviano, Marcello e Virgilio d'esser nata fra il popolo letterato, fra il volgo dei chiostri e delle scuole monastiche medievali dell'Italia meridionale, animato da sentimento napoletano. Per questa parte ed in questo senso limitato, si può riconoscere l'origine prima letteraria della leggenda popolare napoletana su Virgilio. Infatti, come per ogni leggenda relativa all'antichità, si trova per questa un punto di partenza ed il movente primo nella tradizione letteraria delle scuole ed in qualche monumento superstite, cioè nella biografia del poeta letta e appresa nelle scuole e nel sepolcro del poeta, col suo epitafio, esistente a Napoli. La notizia che è nella biografia e nei commenti, del dono da Augusto fatto a Virgilio pei noti versi Tu Marcellus eris ecc. vien combinata colle parole dell'epitafio «Calabri rapuere, tenet nunc Parthenope» intese con popolesca libertà e napoletanamente, e se ne cava fuori che Augusto diede per quei versi a Virgilio, oltre a molto danaro, anche la signoria di Napoli e della Calabria. Virgilio che, secondo la biografia stessa, molto amò vivere a Napoli e volle esservi sepolto, diviene il protettore di Napoli, che pure è amata da Marcello, il quale per volere di Augusto ne fu signore con lui, ed Augusto stesso molto amò Napoli a cui diede il nome ed anche mura e torri[99].

Queste idee storico-fantastiche procedenti dalla biografia del poeta, si collegano e si continuano colle idee popolari dei tanti benefizi fatti a Napoli dal sapiente Virgilio, non più poeta, ma taumaturgo. C'è di mezzo la superstizione comune ai letterati ed al popolo, della prodigiosa efficacia del sepolcro di Virgilio per la salute ed incolumità di Napoli. Che questa città per la sua forte cinta di mura e più ancora per la sua posizione fosse difficile a prendere ed anche imprendibile lo vide già Belisario[100] e lo dice poi e lo ripete più di uno scrittore del medio evo. Ma la superstizione popolare, certamente assai antica, attribuiva questa imprendibilità di Napoli alla presenza in essa di un palladio che la preservava, anzi di più d'uno, poichè ve n'era uno profano ed uno cristiano, v'erano le ossa di Virgilio, protettore antico e profano della città di Napoli, e quelle pure dei due suoi protettori sacri S. Agrippino e S. Gennaro. Gli scrittori medievali, generalmente ecclesiastici, ricordano più volentieri il protettorato dei santi, ma non ignorano e neppur sempre passano sotto silenzio la credenza popolare e laica del protettorato di Virgilio. L'autore della Vita di S. Atanasio per l'indole religiosa del suo scritto non ricorda che il protettorato dei due santi pei quali la città è imprendibile[101]; ma Alessandro di Telese che, quantunque ecclesiastico, narra le gesta di un principe laico, si sente più libero e laicamente dimenticando S. Gennaro, ricorda invece Virgilio[102]. Una propagine di questa idea è l'ampolla contenente un modello della città di Napoli che si credeva al tempo di Corrado di Querfurt Virgilio dicesse per servir di palladio ad essa. Ma anche allora viveva tuttavia la credenza che il principal palladio fossero le ossa di Virgilio, come si vede nella storia di quel tal Ludovico che le richiedeva e i napoletani gliele rifiutarono temendo ne venisse danno alla città.

Tutte queste idee e leggende volgari, germogliate già in antico tempo, cresciute e propagatesi lungo i secoli del ducato, rimasero lungamente cosa domestica dei napoletani, poco o punto trasparendo al di fuori. Colla caduta del ducato col sorgere di un'era affatto nuova sotto la monarchia normanna, coll'invasione brutale degli imperiali che smantellano la vecchia città virgiliana, l' operosum opus Virgilii come la chiama il cancelliere stesso di Arrigo VI, l'incanto fu rotto, violato il penetrale delle credenze patrie, spento il fuoco sacro di quel sentimento che le vivificava e le nutriva. Gli stranieri ai quali poco diceva il nome, tutto locale, di S. Gennaro e molto il nome universale di Virgilio, con avida curiosità e ingenua credulità, già convinti della illimitata sapienza virgiliana, le raccolsero e le propalarono, e mentre in Napoli trasformata, non più romana e quindi non più virgiliana, ne cessava la produzione e se ne affievoliva la ricordanza, si propagavano e diffondevano crescendo e snaturandosi per tutta Europa.

Qui avendo esaurito tutti i dati che abbiam potuto trovare per gittar luce sulle origini di queste leggende napoletane, sarà opportuno restringerne il risultato in poche parole.

Nella sua più antica forma questa leggenda ci offre due elementi distinti, cioè 1º il nome di Virgilio accompagnato dall'idea di uno speciale affetto da lui portato alla città di Napoli, ch'ei vivente beneficò colla sua sapienza, morto proteggeva dal suo sepolcro, 2º la credenza in alcuni pubblici talismani attribuiti a lui, che li avrebbe fatti per bene della città. Il primo di questi due elementi è esclusivamente napoletano; fondato, come abbiam potuto vederlo, su fatti reali e su tradizioni locali provenienti da questi, esso è certamente tanto antico da poter risalire fino all'epoca stessa in cui il poeta visse a Napoli ed ivi presso si fece seppellire. Il secondo elemento non è esclusivamente napoletano, ed è in ogni caso posteriore al primo, dal quale è realmente distinto come quello che fa parte delle molte leggende che nei secoli della barbarie nacquero intorno ad antichi monumenti. Il rapporto pel quale questi due elementi si son fusi assieme, sta in ciò, che l'idea medievale della infinita sapienza di Virgilio combinata colla antica memoria napoletana dell'affetto portato da lui alla città di Napoli, fecero che ivi a lui fossero attribuite opere credute d'utile pubblico, e considerate come prodotti di profonda e riposta sapienza, quali in altre città ad altri venivano attribuite. In questa prima forma della leggenda Virgilio non è mai presentato sotto un aspetto ridicolo, ed è affatto esclusa ogni idea di maleficio o di arti diaboliche. La leggenda infine è essenzialmente napoletana di sentimento e di origine, ed è popolare quantunque per taluna parte si connetta colla biografia del poeta e vi si scorga l'opera della fantasia di rozzi chierici napoletani.

Nello stabilir così le origini della leggenda, possiamo constatare come la natura stessa ch'essa presenta in questa prima sua fase, ben si accordi con queste sue origini e con certe osservazioni generali da noi già fatte. Virgilio in essa figura come conoscitore profondo dei segreti della natura e come tale che ne usa in pro del suo popolo prediletto. Piuttosto che il mago, egli è il dotto per eccellenza che sa fare cose inaccessibili ai comuni ingegni. Ond'è che nel trasformarsi della rinomanza di Virgilio noi scorgiamo una legge presso a poco identica seguìta egualmente e presso il popolo napoletano, che serbava memoria del suo vecchio amico, e presso i letterati che avean continuato a leggerne i versi per consuetudine, e ad ammirarli per tradizione. Dal che proviene che quelle tali leggende napoletane appena riferite nel mondo letterario, pel concetto che i letterati allora aveano di Virgilio, trovarono il terreno così ben preparato ad accoglierle che vi allignarono ed anche, propagandosi, vi tralignarono con una rapidità veramente sorprendente.

CAPITOLO IV.

Che le leggende popolari trasmettendosi di bocca in bocca o anche passando da scrittore a scrittore vadan soggette a modificazione, è legge costante e notissima. Piccoli nuclei di leggenda sogliono crescere a dimensioni considerevoli per due modi diversi, sia, cioè, per una esagerazione ed amplificazione del dato primitivo creata in corso di tempo dalla fantasia popolare, sia coll'aggrupparsi attorno ad esso di altre leggende che già esistevano, vaganti, solette ed anonime, ovvero appartenenti ad altri cicli leggendari. Generalmente però la prima, più profonda modificazione è quella che subiscono le leggende nell'uscire dal suolo in cui sono nate, particolarmente quando ad esse abbia dato motivo un fatto locale, storico o tradizionale. Nel cambiar di paese una leggenda di tal genere, non potendo incontrare quei sentimenti affatto locali ai quali corrispondeva nella patria sua, deve necessariamente andar soggetta ad essere fraintesa ed a cambiar di natura. Se quindi nella sua prima forma napoletana, la leggenda di Virgilio non poteva parlare di arti diaboliche, perchè ripugnava al sentimento popolare dei Napoletani il credere che la loro città andasse debitrice ad arti siffatte di tutti quei pretesi benefizi, e se Virgilio, figurando in essa come protettore di Napoli, non poteva essere posto in una luce poco onorevole per lui e per la città, tutto ciò non aveva ragione di essere quando la leggenda uscendo da Napoli si diffuse in Europa. Ed infatti noi la vediamo, col traslocarsi, entrare in una seconda fase ben distinta dalla prima.

Dall' arte matematica, dalla scienza astrologica all' arte diabolica, com'è noto, non c'era che un passo, e se per le ragioni che ho dette, il popolo napoletano si trattenne dal farlo, quando la leggenda uscì di Napoli niente impediva che a Virgilio toccasse la sorte che toccò a Gerberto e ad altri illustri cultori di studi astrologici e matematici, divenendo un negromante nel senso più negro[103] di questa parola. Questo passaggio poi si rendeva tanto più facile trattandosi di un nome pagano. Imperocchè, come già provai altrove, molti fra i chierici amavano screditare gli scrittori illustri dell'antichità presentandoli come adoratori del diavolo, e come tali che dell'esimio sapere e talento principalmente alle potenze infernali da loro venerate andassero debitori; pregiudizi che, quantunque non divisi pienamente da tutto il clero, pur vedemmo esser durati lungamente.

Tenuto conto di tutto ciò, non sarà difficile spiegarsi le mutazioni e gl'incrementi che subì la leggenda virgiliana, allorchè percorrendo l'Europa civile con grande rapidità cadde in mano alla sbrigliata fantasia dei cantastorie e dei poeti da piazza. Posti nella necessità d'interessare l'uditorio sicchè non volgesse loro le spalle, stimolati anche dalla concorrenza che si faceano reciprocamente, essi doveano attendere non solo a narrare in modo da fissar l'attenzione e destar l'interesse, ma ad avere eziandio un ricco repertorio di racconti, in modo da poterli scegliere a seconda dei gusti dell'uditorio, e da poter sostituire un racconto ad un altro, in caso di disapprovazione[104]. Così taluni di essi nei loro cantari sciorinavano la lunga filastrocca di tutte le storie che dicean di sapere e d'esser pronti a narrare[105]. Intende ognuno con quanta avidità e con quale zelo di mestiere costoro s'impadronissero di un soggetto nuovo. Appena la leggenda virgiliana cominciò ad esser nota fuori di Napoli, cadde subito nelle loro mani, e sul bel principio del secolo XIII la troviamo già in loro balìa. In una lunga poesia del trovatore Giraud de Calançon, che dovette essere scritta fra il 1215 e il 1220[106], si parla a lungo delle abilità necessarie ad un giullare. Dopo avere annoverato i vari strumenti ch'ei deve saper suonare, i giuochi di destrezza e le capriole che deve saper fare, segue una lunga litania di racconti ch'ei deve sapere, siano romanzi, siano novelle verseggiate. Fra questi figurano anche le leggende virgiliane[107], fra le quali quella del giardino maraviglioso, ed altre, d'origine non napoletana, delle quali parleremo in seguito. Poeti, saltimbanchi e buffoni ad un tempo, quali erano i più di questi cantores francigenarum, unicamente intenti a divertire il pubblico per cavargli l'obolo di tasca, si può facilmente immaginare con quale libertà trattassero certi personaggi leggendari, cercando di renderli più interessanti o più divertenti che fosse possibile, ed è quindi superfluo il chiedere se in mano loro Virgilio dovesse o no divenire un negromante con tutti i fiocchi.

Non diversi gran fatto dai fati che il Virgilio leggendario incontrava su per le piazze, erano quelli a cui soggiaceva presso gli scrittori. È notevole che nel Dolopathos, quantunque Virgilio vi figuri come un personaggio affatto ideale, grossolana conseguenza di quel ch'egli era divenuto nella tradizione letteraria[108], pur nondimeno nessuna leggenda relativa a magia venga ad esso applicata. Nella versione francese in versi che ne faceva Herbers nel XIII secolo, la sola cosa che alluda alla magia virgiliana è un passo nel quale parlando del piccolissimo libriccino in cui, per comodo del suo discepolo Luciniano, Virgilio racchiuse tutte le sette arti liberali, è detto che quando Virgilio morì, serbò chiuso in mano quel libretto sì fortemente che non fu possibile trarnelo fuori, e che ciò ei seppe fare

«Par engin et par nigromance

Dont il sot tote la science»[109].

È una negromanzia, come ognun vede, di genere assai innocuo[110]. È difficile stabilire se Don Gianni, il primo autore del Dolopathos, eliminasse quei racconti per propria volontà, o non ne parlasse perchè quand'egli scriveva non fossero ancora tanto diffusi da giunger fino a lui. Certo è però che, già a quell'epoca, cioè anteriormente a Gervasio e, benchè di poco, anche a Corrado, parla delle maraviglie virgiliane il Neckam, il quale come abbiam veduto, non pare fosse a Napoli.

Oltre al macello che rendeva la carne incorruttibile, Neckam racconta[111] che Virgilio, con una sanguisuga d'oro[112], liberò Napoli da una miriade di sanguisughe che ne infestavano le acque, che costruì un ponte aereo per mezzo del quale poteva trasportarsi dovunque volesse, e che circondò il suo maraviglioso giardino d'aria immobile, impenetrabile come un muro: aggiunge poi un'altra leggenda di cui parleremo fra poco.

Un altro scrittore che, prima della pubblicazione dell'opera di Gervasio, già conosceva parecchie leggende virgiliane, è Elinando monaco, autore ben noto di una cronaca scritta in latino[113], inserita da Vincenzo di Beauvais nel suo Speculum historiale e molto letta nel medio evo. Questa cronaca va fino al 1204, ed è notevole perchè offre già a quell'epoca qualche dettaglio intorno alle maraviglie virgiliane, non menzionato da quelli che ne scrissero prima. Oltre alla mosca di bronzo, ai bagni, al macello, al giardino, nel quale, egli aggiunge, non piove mai, Elinando attribuisce a Virgilio un campanile che, quando si suonavan le campane, si muoveva a tempo con queste[114] e parla anch'egli, come Neckam, della Salvatio Romae. Le notizie che abbiamo intorno ad Elinando[115] e la natura stessa di qualcuna delle leggende da lui riferite non ci autorizzano a credere ch'ei fosse mai a Napoli. In lui come in Neckam ritroviamo i segni delle alterazioni subite dalla leggenda fuori del suo paese nativo. Non è poi da lasciar passare inosservato che Elinando prima d'esser monaco fu trovero illustre nel gran mondo d'allora, a cui molto piacquero le sue canzoni. Egli stesso, parlando di quel tempo, dice, deplorandolo[116], che ei menò allora ben lieta vita, nè v'era luogo di pubblico convegno, non festa o divertimento in cui non si facesse udire la sua voce. Forse per questo avviene che in tutta la parte della sua cronaca relativa ai suoi tempi, invece di raccontar fatti, egli narri ogni sorta di fantasticherie, come sogni, visioni, apparizioni, prodigi e leggende, le virgiliane fra le altre, nelle quali ben si riconosce l'antico trovero e che nondimeno furono diligentemente riferite da Vincenzo di Beauvais e da Alberico di Trois-Fontaines.

Certamente dai poeti popolari o colti della Francia appresero a conoscere Virgilio, come mago, i poeti imitatori di essi in Germania. Wolframo di Eschenbach nel suo Parzival, scritto fra il 1203 e il 1215, e tratto appunto da sorgenti francesi[117], fa discendere da Virgilio il mago Klinschor, nato, dic'egli, in Terra di Lavoro, e poi altri poeti tedeschi di quella scuola parlano di Virgilio nello stesso senso durante tutto il XIII secolo. Tali sono Boppo, Frauenlob, Rumeland, l'autore del Reinfrit von Braunschweig ecc.[118]. Così mentre da un lato giullari, menestrelli e poeti d'ogni sorta propagavano oralmente e per iscritto le leggende virgiliane, dall'altro grande notorietà era loro procacciata nel mondo letterario dal trovarsi consegnate in repertori e opere di erudizione, molto lette e consultate, come erano quelle di Gervasio, Neckam, Elinando, Vincenzo di Beauvais ecc.

CAPITOLO V.

Se ben si considerino le condizioni del mondo letterario del medio evo si troverà facilmente che il Virgilio leggendario, quale era uscito da Napoli, presentava un'anomalia da non poter sussistere a lungo, come quella che non permetteva alla leggenda di adattarsi a tutta intera la cerchia d'idee colla quale il nome del poeta trovavasi congiunto. Infatti, come i lettori han potuto notare, fin qui la leggenda, nata com'era a Napoli ed espressione di ricordi e di sentimenti napoletani, non poneva Virgilio in rapporto con altra città che con Napoli. Ciò non poteva durare allorchè essa fu uscita da quella città. Dinanzi alla tradizione letteraria i rapporti del poeta con Napoli non presentavano che un dettaglio affatto secondario della sua biografia. Virgilio era uno dei più eminenti personaggi dell'antico mondo latino, e il suo nome anche nella leggenda non poteva rimanere del tutto segregato dal gran centro di quello. Roma e Virgilio rappresentavano una grandezza tale e talmente omogenea, che questi due nomi dovevano per necessità attrarsi reciprocamente, ogniqualvolta s'incontrassero in uno stesso ambiente d'idee, e il Virgilio leggendario non poteva esistere indipendentemente dalla Roma leggendaria. Come pensare che delle arti sue egli tanto avesse usato in pro di Napoli e non avesse fatto nulla per Roma, Roma aurea, Roma caput mundi, egli che con un poema immortale ne avea immortalato le origini? La lacuna che da questo lato presentavano le leggende napoletane doveva esser colmata, e lo fu appena quelle cominciarono a diffondersi in Europa. Infatti in Alessandro Neckam e in Elinando troviamo già alle leggende napoletane aggiunta una leggenda romana. Grande lavoro di fantasia non si richiedeva, poichè, come a Napoli abbiam veduto che la credenza in quelle tali opere maravigliose ebbe luogo anche indipendentemente dal nome di Virgilio, e che il popolo napoletano non fece che applicare ad esse questo nome, così esistevano da lungo tempo racconti di un ordine presso a poco simile, relativi a Roma, e ci volle poco ad unire a questi il nome di Virgilio dopo l'esempio napoletano. La differenza sta per noi, in questo, che le leggende di Napoli divennero virgiliane in Napoli stessa e per opera del popolo napoletano, mentre quelle relative a Roma divennero virgiliane fuori di quella città, per opera degli scrittori e dei poeti, ed in ogni caso, in conseguenza delle napoletane.

Alessandro Neckam racconta che Virgilio costruì a Roma un bel palazzo nel quale erano statue rappresentanti i varii paesi soggetti al popolo romano, ciascuna delle quali avea un campanello in mano. Tosto che una qualche provincia pensasse a tendere insidie alla maestà dell'impero, la statua che la rappresentava facea suonare il campanello. Allora un guerriero di bronzo che trovavasi in vetta a quel palazzo, brandita la lancia, rivolgevasi dalla parte di quella provincia, e così avvertiti, i Romani inviavano truppe a reprimere i moti sediziosi e a punirne gli autori. Notiamo che lo stesso Neckam che qui attribuisce a Virgilio quella maraviglia, non mentova punto il nome di lui parlando di essa nel suo poema De laudibus divinae sapientiae[119], nel quale riassume il suo libro De naturis rerum. Con alcune varianti di poca entità, ma che mostrano non avere egli tolto questo racconto da Neckam, narra le stesse cose Elinando. Neppur egli è ancora ben sicuro che Virgilio sia autore di quell'opera, ma tempera l'asserto aggiungendo «creditur a quibusdam.»

Che il popolo romano nell'ignoranza in cui il clero e i barbari l'avean gittato nel medio evo, non sapesse più rendersi ragione dei monumenti che ancora rimanevano in Roma, e che ad essi applicasse molte leggende, è cosa tanto più facile a indovinarsi, che non ne mancano esempi fra le plebi neppure in epoche colte. L'ammasso di memorie che si era accumulato su Roma era talmente imponente, che il sapere il vero nome e scopo di ciascun monumento avrebbe richiesto cognizioni storiche superiori a quelle che possono aspettarsi dal popolo di una città qualsivoglia. Il sentimento d'essere romani e nobili figli d'un gran popolo non mancava, e la grandiosità dei monumenti superstiti lo manteneva, ma la memoria dei fatti speciali non poteva esistere che in qualche nome o in qualche leggenda. Quella grandezza però piuttostochè fra i Romani doveva far nascere molte leggende fra gli stranieri, che arrivando a Roma con quella freschezza d'animo che è propria dei popoli di recente inciviliti, e ignari affatto delle maraviglie che è capace di produrre una potenza ed una civiltà come fu la romana, rimanevano attoniti dinanzi ai residui sempre imponenti e maestosi dell'abbattuto colosso. Tornati alle loro case descrivevano quel che avean veduto, esagerando; chi ripeteva esagerava anch'egli, e così la leggenda si formava.

In molti racconti che ci rimangono, per lo più riferiti da scrittori stranieri, noi possiamo scorgere il prodotto di forti impressioni, elaborato dalla fantasia di chi era assente dai luoghi a cui le leggende si riferivano. Molto più semplici e meno fantastiche le leggende romane si riferivano a qualche monumento realmente esistente, che nella leggenda rimaneva tale qual'era, solo cambiando di nome e di scopo. Così la presenza di una nave votiva, accordata colle favole relative ad Enea, facea vedere in quella la barca con cui Enea avea approdato in Italia[120]. Il racconto di Traiano e della vedova, immortalato da Dante, esisteva già prima d'esser riferito a Traiano[121]. Probabilmente però un bassorilievo d'arco trionfale rappresentante quell'imperatore trionfante a cavallo, e dinanzi a lui la provincia sottomessa, in sembianza di donna in ginocchio, fece attribuir quel racconto a Traiano. Nell'opera che abbiam veduto attribuita da Neckam ed Elinando a Virgilio, ben nota nel medio evo sotto il titolo di Salvatio Romae[122], in versioni diverse che non istaremo ad esaminare, noi troviamo uno strano miscuglio di reminiscenze confuse del Pantheon, del Colosseo, e del Campidoglio, e delle statue delle varie nazioni che adornavano il teatro di Pompeo, dalle quali, nei momenti del rimorso, Nerone, credea vedersi aggredito; il tutto cementato con una idea superstiziosa sul modo come la vigilanza necessaria, in sì vasto impero, potesse esercitarsi. Questa leggenda, certamente nata fuori d'Italia, fu comunissima nel medio evo e narrata senza il nome di Virgilio assai prima che a questi fosse attribuita. Essa incomincia col riferirsi al Campidoglio e per essa il Campidoglio figura fra le sette maraviglie del mondo presso il greco Cosma nell'VIII secolo[123] e presso altri scrittori; il che m'induce a credere che il primo motivo di questa leggenda stia nel noto racconto delle oche del tempio di Giove, che dovette accompagnare la celebrità del Campidoglio e da Bizanzio divulgarsi in Oriente. Mi conferma in questa idea il trovare una reminiscenza di questo racconto in alcune leggende arabe, fra le quali per una notevole coincidenza ricorre, senza troppo essenziali modificazioni, l'idea della Salvatio Romae applicata all'Egitto, e quella altresì dello specchio maraviglioso di cui or ora dovremo parlare[124]. Più tardi essa è riferita da taluni al Pantheon[125] e da altri anche al Colosseo. Oltre a Cosma, uno scritto dell'VIII secolo attribuito al venerabile Beda l'annovera anch'esso fra le sette maraviglie del mondo[126]; se ne parla pure in un ms. di Wessobrunn parimente del secolo VIII[127]; nel X ne fa parola l'anonimo Salernitano[128] e poi un ms. vaticano nell'XI[129]. Ne parla pure quella guida di pellegrini nota sotto il titolo di Mirabilia urbis Romae[130], che subì varii cambiamenti in varie epoche, ma che certo era già conosciuta e adoperata nel XII secolo[131], e ne parla pure Iacopo da Voragine[132] nel XIII secolo, il quale, come molti altri, l'attribuisce ad arte diabolica[133]. Tutti questi ed anche altri posteriori parlano di quella maraviglia senza attribuirla a Virgilio, quantunque altri dopo Neckam ed Elinando a lui l'attribuissero[134]. Nell'applicare però questa leggenda a Virgilio, si volle unirla al suo nome con una specie di legame che è appunto l'ultima parte del racconto, nella quale il poeta riprende la sua figura ben nota nella tradizione letteraria del medio evo, di profeta di Cristo. Ma di ciò parleremo in altro capitolo. Per ispiegare come una così bella cosa non si vedesse più, l'anonimo Salernitano scriveva che quelle statue furono recate a Bizanzio e che ivi Alessandro imperatore († 915) per trattarle coi riguardi che meritavano, le vestì con abiti di seta; ma in seguito di ciò San Pietro apparve a lui di notte gridandogli crucciato: «Sono io il Principe de' Romani!» e il giorno dopo l'imperatore morì.

Tale è il primo rapporto in cui veggasi posto Virgilio con Roma dalla leggenda. Quantunque sappiamo che Virgilio possedeva una casa sull'Esquilino[135], pure dalle notizie che ci dà la sua biografia non pare che ei risiedesse abitualmente in quella città[136], e quand'anche vi avesse dimorato a lungo, non avrebbe potuto lasciarvi le memorie che lasciò a Napoli. Il popolo che abitava la capitale del più grande impero che sia mai esistito, avvezzo com'era a grandezze d'ogni sorta, non poteva ricevere grandi e durature impressioni dalla personalità di Virgilio, quantunque sapesse distinguerla ed apprezzarla in mezzo ad una folla di grandi d'ogni specie. Quindi se in Roma troveremo qualche monumento a cui si connetta il nome di Virgilio, troveremo ancora che ciò non avvenne per una tradizione qualsivoglia relativa al poeta serbata dal popolo romano, ma bensì ebbe luogo in epoca assai recente, per un riflesso delle leggende virgiliane nate altrove, mescolate colle leggende relative a quella città, e in questa portate dal di fuori.

CAPITOLO VI.

Nel secolo decimoterzo, essendosi pienamente diffusa in Europa la leggenda virgiliana, noi la troviamo ben nutrita ed assai accresciuta in opere volgari in versi, particolarmente in alcuni poemi francesi che furono molto letti. Tali sono l' Image du Monde, specie di enciclopedia[137], scritta nel 1245, e attribuita, senza buon fondamento, a Gualtiero di Metz, il Roman des sept Sages[138] scritto in versi e in prosa, tradotto in molte lingue e uno dei libri più popolari d'Europa, ed il romanzo in versi intitolato Cleomadès scritto da Adénès nell'ultimo scorcio del XIII secolo[139].

Nel 1319 trovasi la leggenda di Virgilio introdotta anche nel Renart contrefait, tuttora inedito[140] e nello stesso secolo XIV alcune leggende virgiliane, o comunque rese tali, furono introdotte in alcune raccolte di racconti e d'aneddoti fatte particolarmente per uso degli asceti, dei moralisti e dei predicatori, perchè se ne servissero, secondo l'uso che era invalso, interpretandole allegoricamente per edificazione de' fedeli. Tali sono alcune redazioni del Gesta Romanorum[141], e proveniente da questo il Violier des histoires romaines[142]. Al XIII secolo appartiene la Cronaca universale scritta in versi tedeschi di Gianni Enenkel cittadino di Vienna (1250) nella quale trovansi riuniti parecchi racconti virgiliani[143].

In queste versioni, come doveva essere, Roma era il principal campo dell'attività di Virgilio. Le leggende napoletane rimanevano, talvolta però trasportate a Roma e variate, e le leggende romane aumentavano. La leggenda del Castel dell'Ovo avea preso proporzioni formidabili; non si trattava più di un semplice talismano serbato in quel castello, ma si trattava, secondo l' Image du Monde, nientemeno che di tutta la città posta in bilico su di un uovo, in modo che se l'uovo si muoveva la città crollava tutta:

«Que quant aucuns l'uef remuait

Toute la cité en crolait.»

Il Cleomadès invece dice che eran due castelli in mare, fondati ciascuno su di un uovo, e che una volta vi fu chi si volle provare a rompere uno di quegli uovi, e tosto un castello andò giù; rimase però l'altro, che è ancora visibile sul suo uovo a Napoli:

«Encor est là l'autres chastiaus

Qui en mer siet et bons et biaus:

Si est li oes, c'est vérités,

Seur quoi li chastiaus est fondés.»

L'idea della Salvatio Romae fu ravvicinata ad una vecchia idea nota già anche fra gli orientali, che cioè ci fosse modo di fare degli specchi nei quali si potesse vedere tutto quello che avveniva a grandi distanze. Uno di questi specchi si diceva esistesse in cima al faro d'Alessandria, postovi, secondo Beniamin di Tudela[144], da Alessandro, e con esso si poteva vedere fino alla distanza di più di 500 parasanghe tutti i bastimenti da guerra che venissero contro l'Egitto[145]. La Salvatio Romae si cambiò in uno specchio consimile che a Virgilio si trova attribuito nel Roman des sept Sages, nel Cleomadés e nel Renart contrefait[146]. Ma disgraziatamente, come ogni cosa mortale, lo specchio maraviglioso doveva finire anch'esso, e il Roman des sept Sages ci dice come finì. Un re straniero, ungherese, cartaginese, tedesco, pugliese, secondo le varie versioni, non potendo soffrire d'essere tenuto così in soggezione dai Romani accettò l'offerta che tre cavalieri gli fecero di abbattere quello specchio. Venuti a Roma costoro, sotterrarono oro in più luoghi e si spacciarono per «trovatori di tesori.» L'imperatore avido di ricchezze, volle provare il loro sapere, e fecero bella figura trovando l'oro che avean messo essi stessi sotterra. Quando videro l'imperatore bene invogliato, dissero che un gran tesoro doveva trovarsi sotto il pilastro dello specchio, e subito furono incaricati di cercarlo. Dopo aver disfatto il piedistallo, posero sotto lo specchio puntelli di legno ai quali poi di notte diedero fuoco e fuggirono. Così lo specchio cadde in mille pezzi. Il popolo romano indignato per la perdita di una cosa tanto preziosa, onde punire l'avidità dell'imperatore lo condannò a ingoiare oro fuso. — Questo racconto, di cui la fine rammenta un aneddoto ben noto della storia romana, esisteva indipendentemente da Virgilio e dallo specchio maraviglioso. Lo ritroviamo nel Pecorone, nella novella che porta il titolo seguente: «Chello et Ianni di Velletri si fingono indovini per vituperare il comune di Roma. Sono ricevuti alla corte di Crasso, per cui scavano certi danari che avean nascosi in diversi luoghi. Gli dicono poi che sotto la torre detta del Tribuno v'è un gran tesoro. Crasso la fa mettere in puntelli ed essi vi appiccano il fuoco. Intanto si dilungano da Roma, e la mattina cade la torre con grande uccisione di Romani.»[147] Virgilio e lo specchio maraviglioso non hanno luogo in questa versione, nella quale trattasi soltanto di un monumento, detto la Torre del Tribuno, in cui «erano intagliati dal lato di fuori, di metallo, tutti coloro che ebbero mai triumfo o fama, et era tenuta questa torre la più degna cosa che avesse Roma.» Questa novella è in rapporto assai stretto con un curioso racconto riferito da Flaminio Vacca[148], archeologo del XVI secolo, il quale attribuisce la cosa ai Goti.

Divenuto che fu Virgilio mago per bene, non solo si attribuirono a lui parecchie maraviglie che si raccontavano di Roma, ma gli furono applicati ancora racconti già riferiti ad uomini a cui toccò la stessa sorte. Uno di questi, com'è notissimo, era il papa Silvestro II, o Gerberto, che colla rinomanza di magia pagò il torto che ebbe di occuparsi di meccanica e di matematica in un tempo in cui ciò in un ecclesiastico, e più in un papa, pareva uno scandalo. Fu tanto più facile confondere la leggenda sua colla virgiliana, che molti degli scrittori notissimi che riferivano questa, riferivano anche l'altra; tali sono, per esempio, Gervasio di Tilbury, Elinando e quindi Vincenzo di Beauvais, Alberigo ecc. Un esempio di questa confusione l'abbiamo nei poemi che ho già citati.

Leggesi nel Mirabilia, che dov'è la chiesa di Santa Balbina in Roma fu il mutatorium Caesaris e che ivi fu un candelabro fatto della pietra chiamata asbestos, il quale una volta acceso e posto all'aria, non poteva essere spento in alcun modo, secondo dice etimologicamente quel vocabolo greco. Questa leggenda è applicata a Virgilio nell' Image du monde, colla sola differenza che il candelabro è cambiato in due ceri ed una lampada inestinguibile. Nel Cleomadés e nei Sette Savi[149] però esso è mutato in un fuoco sempre ardente, dinanzi al quale trovavasi la statua d'un arciere pronto a scoccare la freccia contro di esso, e questo arciere portava una scritta in ebraico che diceva: Se alcun mi tocca, io ferirò. Uno sfaccendato che probabilmente non sapeva l'ebraico, toccò un giorno la statua, la freccia scoccò, il fuoco si estinse, nè mai più d'allora in poi si riaccese. Questa leggenda che qui è applicata a Virgilio[150] avea già servito per Gerberto. A proposito di costui dicevasi che nel Campo di Marte a Roma era una statua la quale teneva teso l'indice della mano destra e portava scritto in fronte: hic percute. Nessuno avea saputo capire il senso di questa iscrizione, ma Gerberto l'indovinò. Quando il sole trovavasi allo zenit della testa della statua, egli osservò dove cadeva l'ombra dell'indice, e, segnato il luogo, di notte andò con un servo a farvi scongiuri, e la terra spalancandosi diedegli adito ad un sotterraneo pieno d'ogni sorta di tesori. In questo era una sala nella quale di sopra a uno scudo raggiava un carbonchio, profondendo una luce maravigliosa. Una quantità di cavalieri tutti d'oro erano schierati nei portici all'intorno, e rimpetto al carbonchio era un fanciullo coll'arco teso. Appena si toccasse qualcosa di questi tesori, tosto i cavalieri facean risuonare le armi. Il famiglio che avea menato seco Gerberto, non resistendo alla voglia di portar via qualcuna delle tante belle cose che vedeva, tolto un piccolo coltellino lo intascò. Allora subito dall'arco del fanciullo scoccò il dardo, si spense il carbonchio, e se vollero uscire, convenne riporre il coltellino al posto[151]. — La prima parte di questo racconto, cioè il fatto della statua e del tesoro, trovasi anch'essa attribuita a Virgilio, con qualche variante, da Ians Enenkel[152]. Altri testi però riferiscono tutto il racconto, senza attribuirlo nè a Gerberto nè a Virgilio, ma ad un clericus qualsivoglia[153]. Notiamo per ultimo che questa leggenda non è che una variante del racconto di Zobeide nelle Mille ed una notte[154].

Nella stessa maniera, come si disse che Gerberto fece una testa che parlava[155] e prediceva l'avvenire, e che la sua morte accadde appunto per non aver egli bene inteso una predizione di essa[156]; un fatto simile raccontano intorno a Virgilio l' Image du monde e il Renart contrefait[157]. Un giorno che egli consultava quella testa per un viaggio che avea da fare, essa gli rispose che se ben custodisse la sua testa non gliene verrebbe che bene. Egli credette si trattasse della testa profetica, ma postosi in viaggio, senza troppo guardarsi dal sole, una infiammazione di cervello il tolse di vita. E qui abbiamo un fatto da unirsi ai molti altri che provano come l'applicazione di queste leggende a Virgilio avesse luogo, piuttostochè fra le plebi illetterate, fra la gente più o meno colta. E veramente che Virgilio morisse di malattia prodotta in viaggio dal calor del sole[158] è fatto storico narrato nella principale biografia del poeta. Di esso non sa nulla la leggenda napoletana, che è tutta d'origine sicuramente popolare nel senso odierno della parola.

Molti racconti puerili ho dovuto narrare fin qui, tediosi certamente pel lettore, al quale debbo chiedere scusa se non ho saputo presentarglieli in modo da diminuirgli la noia. Tanto più poi ho bisogno della sua indulgenza che, quantunque arrivato assai innanzi, non posso annunziargli di aver finito. Per quanto possa riuscir gravoso a lui ed a me l'andare anatomizzando queste fantasticherie, oso sperare che il frutto che se ne trae per la spiegazione di un fenomeno pur singolarissimo, conforterà lui, come me, a proseguire.

CAPITOLO VII.

All'epoca a cui appartengono tutte queste leggende della magia virgiliana erasi resa popolare l'idea che la Sibilla avesse profetato la venuta di Cristo. Questa idea nata dapprima fra gli apologeti, divulgatasi fra i padri e gli scrittori ecclesiastici, erasi fissata in un modo stabile nel medio evo: uscita dalla letteratura teologica era giunta a far parte delle nozioni volgari e comuni che accompagnavano l'idea religiosa, e dal XII secolo in poi la troviamo molto familiare così ai laici come ai chierici. Frequente è quindi la menzione della Sibilla anche nelle lettere volgari e romantiche come frequente è quel personaggio nelle rappresentanze artistiche fino al XVI secolo[159]. Era una di quelle idee più accessibili a tutti, desunte dalla parte più trita della dottrina cristiana elaborata dai teologi medievali, con cui la fede affermava sè stessa e su di cui intendeva essere saldamente appoggiata; ognuno intendeva bene che cosa volesse dire nel notissimo canto sacro del poeta francescano «teste David cum Sibylla»[160]. Questa grande notorietà data alla Sibilla o alle Sibille che si voglia dire, era opera della chiesa e risultava dai suoi modi di comunicare coi fedeli e di porgere ad essi la dottrina religiosa. Singolarmente l'ammaestramento religioso, la predicazione ed anche quel prodotto posto di mezzo fra le cerimonie liturgiche e la poesia popolare che sono le rappresentazioni sacre o Misteri, erano potenti mezzi per la diffusione di conoscenze e vedute siffatte. Quel drammatizzare credenze religiose fatto in modo ingenuo, intieramente popolare e scevro da ogni pretensione letteraria, era istrumento di popolarità che per la natura sua speciale, e i rapporti che ha colle origini e la storia del teatro moderno, contribuiva notevolmente ad introdurre quelle idee nelle nuove letterature che andavansi svolgendo.

Noi vedemmo già come e quanto il nome di Virgilio andasse unito, in quest'ordine d'idee, a quello della Sibilla, e quanto familiare fosse ai chierici del medio evo la quarta ecloga pel vaticinio sibillino che riferivano a Cristo. Virgilio seguì le sorti di questo personaggio nel suo farsi popolare, tanto più facilmente che anche, per altra via, era divenuto popolare egli stesso[161]. Nelle prediche, singolarmente in quelle del Natale, v'era occasione di rammentarne il nome con quello della Sibilla; nell'arte cristiana di soggetto sacro spesso dov'era rappresentata la Sibilla lo era anche Virgilio, o almeno venivano segnate le note parole della quarta ecloga[162]; ed in più di un Mistero fra gli altri personaggi aveano luogo anche Virgilio e la Sibilla[163]. Già nell'XI secolo nel noto Mistero latino della Natività che rappresentavasi nell'abbazia di S. Marziale a Limoges avea parte Virgilio fra gli altri profeti di Cristo[164]; e similmente in quello che recitavasi a Reims[165]. Dopo Mosè, Isaia, Geremia, Daniele, Habacuc, David, Simeone, Elisabetta, Giovanni Battista, il Procentor chiamava Virgilio dicendogli:

«Vates Maro gentilium

Da Christo testimonium»

e Virgilio facevasi innanzi in aspetto e in abito di giovane uomo, e diceva:

«Ecce polo, demissa solo, nova progenies est.»

Poi a render ciascuno la sua testimonianza venivan chiamati Nabuchodonosor e la Sibilla; dopo di che il Procentor rivolgevasi ai Giudei dicendo:

«Iudaea incredula

Cur manes adhuc, inverecunda?»

Simile ufficio ha Virgilio nel Mistero delle Vergini folli[166], ed in altri Misteri scritti anche in lingue volgari, in tedesco, in olandese ecc.[167] In una grande composizione drammatica di Arnoldo Immessen (XV sec), per una singolare inversione di parti, la Sibilla Cumea cita Virgilio come sua autorità[168].

Non sempre però nei Misteri ha luogo Virgilio; talvolta la Sibilla è sola a rappresentare i profeti gentili. In un Mistero latino del Natale la Sibilla conosce la venuta di Cristo dalla stella che guidò i re magi[169]. Questa stella secondo un antico poeta spagnuolo fu anche veduta da Virgilio[170].

In ordine a questa idea divenuta popolare e penetrata nel romantismo ha luogo una produzione leggendaria che, passando per varie forme, arriva a combinarsi colla leggenda del Virgilio mago. Già alle presunte disposizioni di Virgilio pel cristianesimo si riferiscono i versi latini che cantavansi a Mantova, da noi già citati[171], i quali parlano della visita di S. Paolo al sepolcro del poeta secondo una leggenda che non è esclusivamente mantovana, e trovasi più estesamente narrata nella Image du monde[172]. San Paolo (così dice questa leggenda), ch'era uomo di molta dottrina, allorchè venne a Roma, trovò che di fresco era morto Virgilio, e ne fu dolente; tanto più se ne addolorò quando nei libri del poeta trovò quei versi che sì bene applicavansi alla venuta del Salvatore. Vide ch'era un'anima disposta a diventar cristiana, e deplorò non essere arrivato a tempo per farla tale:

«Ah! se ge t'éusse trouvé

Que ge t'éusse à Dieu donné!»

come appunto dicono i versi latini. Prese tanto interesse pel morto poeta che arrivò a scoprire un luogo sotterraneo in cui trovavasi riposto. La via per arrivarvi era terribile; soffiava un vento impetuoso, e si udivano tuoni spaventevoli. L'apostolo potè vedere Virgilio assiso fra due ceri ardenti, tutto attorniato da libri gittati in terra alla rinfusa; alla volta era appesa una lampada, e dinanzi a Virgilio stava ritto in piedi un arciere che coll'arco teso la teneva di mira. Questo si vedeva dal di fuori, ma entrare era difficile, chè all'ingresso stavano due uomini di bronzo i quali con martelli d'acciaio facevano dinanzi alla porta un tal continuo martellare che guai a chi si attentasse a valicare la soglia. Tanto fece l'apostolo che riuscì a far cessare l'opera di quei martellatori; ma allora l'arciere scoccò la saetta contro la lampada e tutto cadde in polvere. San Paolo che avrebbe voluto prendere i libri del poeta, dovè tornare colle mani vuote.

Fra le leggende relative ai miracoli che precedettero immediatamente la venuta di Cristo e la fecero presentire ai pagani, celebre è quella che concerne la chiesa di S. Maria in Ara coeli di Roma. Augusto, secondo questa leggenda, fece venire a sè un giorno la Sibilla per interrogarla sugli onori divini che a lui aveva decretati il senato. La Sibilla risposegli che dal cielo verrebbe il re il quale regnerebbe in eterno; e tosto si aprirono i cieli ed Augusto vide una vergine di maravigliosa bellezza seduta su di un altare con un bambino in braccio, e udì una voce che disse, «questo è l'altare del figlio di Dio.» L'imperatore si prostrò pregando, e poscia rivelò la visione al senato. Là dove la visione ebbe luogo, sul Campidoglio, fu poi edificata quella chiesa che anche oggi porta il nome di S. Maria in Ara coeli. Questa leggenda trovasi già fino dall'VIII secolo in scrittori bizantini; poi fu introdotta nella Leggenda aurea, nel Gesta romanorum, nel Mirabilia e in altri libri molto letti che la resero notissima[173]. L'arte la rappresentò più volte, e frequentemente se ne trova menzione negli scrittori dal XII secolo in poi. Petrarca ne parla anch'egli in una sua lettera[174]. Il Mirabilia che riferisce questa leggenda, ne riferisce un'altra di simile significato e che trovasi pure in altri scritti dell'epoca[175]. Nel suo palazzo, ov'erano i tempi della Pietà e della Concordia, Romolo pose una statua d'oro, dicendo: «non cadrà finchè una vergine non partorisca»; e Cristo nacque e la statua cadde a terra[176]. Altri riferisce questo fatto al tempio di Pallade, altri a quello della Pace, che sarebbero caduti quando nacque Cristo; altri finalmente riferisce il fatto alla Salvatio Romae e la predizione di esso a Virgilio. Così Alessandro Neckam, dopo aver parlato della Salvatio Romae, soggiunge: «Allorchè veniva interrogato il glorioso poeta fino a quando gli Dei conserverebbero quel nobile edificio, soleva rispondere: rimarrà in piedi finchè una vergine non partorisca. Nell'udir ciò applaudivano e dicevano: dunque rimarrà in eterno. Quando però nacque il Salvatore dicesi che quel mirabile palagio rovinasse immantinente[177]. Così la leggenda, coll'introdurvisi del nome di Virgilio, perde il suo significato primitivo. La parola di Romolo è un vanto che poi il fatto fece riescir vano; la parola di Virgilio, dato il rapporto in cui era questo poeta con la Sibilla nella idea leggendaria, e il suo posto fra i profeti di Cristo, ha valore di profezia.

Uno sviluppo di questa leggenda, divenuta virgiliana, trovasi in un poema francese inedito, di cui esiste un esemplare MS. nella biblioteca di Torino[178]. È una strana rapsodia di più poemi, due dei quali già noti, che sono il poema di Vespasiano o della Vendetta di Gesù contro gli Ebrei, e la Gesta dei Lorenesi[179]. Per congiungere questi due poemi viene intercalato un terzo poema che serve d'introduzione all'ultimo e narra i fatti di S. Severino, congiunto genealogicamente con Vespasiano da un lato, con Hervis e Garin di Lorena dall'altro. Ma il rapsodo non si è contentato di questo. Nel romanzo di Vespasiano essendo narrata la vendetta della morte di Cristo, egli ha voluto premettere anche gli antecedenti di questo fatto, ed ha quindi aggiunto tutto un lungo poema, che comincia colla creazione del mondo, narra tutti i fatti dell'antico e del nuovo testamento e finisce colla morte di Cristo. Non ha creduto però dover esporre direttamente, come desunta dalla Bibbia, ed in proprio nome, la storia sacra. Ha inventato invece un racconto fondamentale fantastico, con cui, prendendo per base la leggenda di cui sopra abbiamo parlato, fa sì che Virgilio sia appunto il narratore di tutta quella lunga storia. L'unico manoscritto a me noto manca del principio; però quel che rimane di questa parte basta a farci capire di che cosa si tratta. Invece del buon Ottaviano o di Romolo, abbiamo qui un Noirons li arabis, un tristo imperatore, rispondente all'ideale di Nerone che troviamo nelle leggende medievali, adoratore del diavolo e di Maometto, personaggio intieramente fantastico, il quale edifica in onore de' suoi Dei un palagio votivo tutto ricco e splendente d'oro e di gemme; poi fa venire a sè Virgilio, e gli domanda: «tu che tutto sai, dimmi quanto durerà il mio palagio!» — Virgilio risponde: «durerà finchè una vergine non partorisca.» — «Dunque durerà in eterno, chè quel che tu dici non sarà mai.» — «Eppure un giorno sarà» soggiunge Virgilio. E infatti trent'anni dopo nasce Cristo e il palazzo di Nerone rovina. Grande ira di Nerone che fa chiamare Virgilio, e: «dunque, dice, tu sapevi che questa vergine partorirebbe; perchè non me l'hai detto?» E Virgilio entra a parlargli della nuova fede e ne nasce un alterco: chè Nerone di questa non vuol saperne. Infine l'imperatore stabilisce che abbia luogo una disfida fra di loro; quello dei due che vincerà taglierà la testa all'altro. Virgilio accetta, ma desidera, prima di scendere nell'arringo, dare una corsa a casa sua a vedere la sua gente e Ippocrate e i sapienti amici e parenti suoi. E va, e li riunisce tutti ed espone loro il suo caso. Ippocrate si dà a cercare ne' suoi libri e trova tutto quanto concerne la venuta di Gesù; comunica il tutto a Virgilio, il quale, fornito di questa invincibile armatura, parte sicuro del fatto suo. Nerone s'accorge che il suo avversario porta seco armi troppo poderose, prevede la propria fine, e dichiara a Virgilio l'essere proprio. Gli narra l'antica storia di Lucibello o di Lucifero e degli angeli ribelli cambiati in demoni: dice che egli è uno di questi; parla della loro missione sulla terra, della edificazione di Babilonia e di altre simili cose. Virgilio gli risponde ponendosi di piè fermo a narrare tutta la storia sacra, cominciando dalla creazione del mondo. Qui il rapsodo arrivato al suo scopo, sciorina giù un profluvio di versi a migliaia, perdendo affatto di vista Virgilio, e dimenticando anche alla fine di dirci come terminò la sfida fra Nerone e Virgilio; v'ha però in fondo una scena finale che ha luogo in inferno, nella quale parlano Nerone e Maometto, e da cui si desume che Nerone fu decapitato da Virgilio. — Questo poema, anche nella forma, è una delle più goffe cose che si possano immaginare.

Pel rapporto leggendario di Virgilio col Cristianesimo si connette con questa fantasticheria del trovero francese quella di un tedesco quasi contemporaneo, l'autore del Reinfrit von Braunschweig[180], col quale si accorda in ciò anche chi scrisse la Tenzone poetica di Wartburgo (Wartburgkrieg)[181]. Ecco la leggenda, quale si desume da queste due composizioni tedesche. Sulla Montagna della Calamita ( Magnetberg, Agetstein, di cui è spesso menzione in queste poesie germaniche medievali)[182] stavasi un gran negromante, principe babilonese o greco, di nome Zabulon (Diavolo) il quale già avea letto nelle stelle la venuta del Salvatore 1200 anni prima che questa avesse luogo, e adoperava tutte le sue arti per impedirla o allontanarla. Egli fu l'inventore della negromanzia e dell'astrologia e scrisse su tal materia più libri, sempre con questi mirando allo scopo sopra detto. I milledugento anni erano già quasi passati, e fra i viventi trovavasi Virgilio, uomo pieno di virtù, il quale per beneficare altrui erasi ridotto in grande miseria. Virgilio seppe di questo Zabulon e delle sue arti e del suo malvolere; e tosto si mise in mare e navigò verso il Monte della Calamita. Grazie all'aiuto datogli da uno spirito che era stato racchiuso in forma di mosca in un rubino che ornava un anello, Virgilio arrivò ad impadronirsi dei libri e dei tesori del mago; e intanto i milledugento anni si compivano e la Vergine partoriva Gesù.

Così la primitiva idea del Virgilio profeta di Cristo, modificandosi e passando per fasi diverse, veniva a combinarsi con una delle leggende relative alla magia virgiliana, quella che narrava come Virgilio fosse divenuto mago, ossia come si fosse procurato il libro che gli comunicò la conoscenza di quelle arti[183]. Riconosciamo qui il libro di ars notoria che, secondo il racconto di Gervasio, era stato trovato da quel tale inglese nel sepolcro di Virgilio, e che qui diviene il libro di Zabulon, come presso altri diviene il libro negromantico scritto da Salomone, il quale com'è noto ha gran parte nella letteratura della magia. Nella tenzone poetica di Wartburgo parlasi di questo libro di Zabulon con grande fatica conquistato da Virgilio[184]. — Ma la leggenda trovasi in altre versioni spoglia di ogni rapporto colla venuta di Cristo.

Verso la stessa epoca Enenkel nel suo Weltbuch narra in qual modo Virgilio, questo «figlio dell'inferno»[185] com'ei dice, si procacciasse le straordinarie sue cognizioni magiche. Mentre un giorno lavorava in una vigna, approfondò tanto la zappa nella terra che giunse a scoprire una bottiglia nella quale trovavansi racchiusi 12 diavoli. La tolse su e si rallegrò del suo trovato. Allora parlò un di quei diavoli e disse che s'ei li mettesse in libertà gl'insegnerebbero ogni sorta di arti segrete. «Insegnatemele prima, rispose Virgilio, e prometto di liberarvi.» E coloro insegnarongli tutta la magia, ed ei ruppe la bottiglia e li lasciò andar liberi. Enrico da Müglin, che visse verso la metà del sec. XIV, pose in versi anch'egli questo fatto in una forma più prossima alla versione del Reinfrit, ma senza parlare neppure egli della venuta di Cristo[186]. Virgilio parte da Venezia per far fortuna in compagnia di altri, e si mette in mare alla volta della Montagna della Calamita[187]. Colà trova uno spirito chiuso in una bottiglia il quale, per prezzo della libertà, gl'insegna il luogo dov'è riposto, sotto il capo di un morto, un libro di magia. Virgilio trova infatti quel libro e appena apertolo gli si fa dinanzi una legione di ottantamila diavoli che si pongono ai suoi comandi e ch'egli incarica di lastricare una lunga strada. Più tardi, nel secolo XV, Felice Hemmerlin[188] narra anch'egli come uno spirito ponesse Virgilio in possesso del libro magico di Salomone, nella speranza di esser liberato. Virgilio però fattolo uscire dalla bottiglia e vedutolo prendere grandi proporzioni, pensò non esser bene lasciar libero pel mondo un galantuomo di quella fatta. Con maniera astuta si fece a dirgli: «di certo tu ora non potresti rientrare in quella bottiglia.» Il diavolo affermava che sì e Virgilio negava, finchè, messo sul punto, il diavolo si rimpiccolì e fecegli vedere che avea detto vero; ma, ridotto che fu nuovamente nella bottiglia, Virgilio ripose su di questa il suggello di Salomone e lo lasciò chiuso là dentro per sempre. Così dal secolo XIII al XV vediamo, in questo fatto dello spirito imprigionato che pone le sue facoltà soprannaturali ai servigi del suo liberatore, applicata a Virgilio una leggenda ben nota, di provenienza rabbinica e maomettana, che non può certamente riuscir nuova ai lettori i quali devono già in essa aver riconosciuto un racconto che figura nelle Mille e una notte e serve di base al notissimo Diavolo zoppo. Come a Virgilio, così anche a Paracelso trovasi applicato questo stesso fatto il quale forma pure soggetto di alcuni racconti tuttora viventi sulla bocca del popolo[189].

Per tal guisa il concetto della magia virgiliana facevasi pieno ed intero, diveniva ovvio e volgare in tutti i paesi latini e germanici; non v'era scrittore di qualsivoglia ordine che non ne sapesse; ricca di fatti vari e di grande notorietà era quella leggenda, e quindi tanto più disposta ad aumentare, poichè anche per queste rinomanze leggendarie vale il proverbio «on ne prète qu'aux riches.» Una espressione più astratta di quel concetto di Virgilio che risultava da tutte queste favole trovasi in un curioso libro latino il quale, quantunque non contenga alcuna leggenda virgiliana, si collega con queste pel nome che si attribuisce l'autore e la natura delle cose in esso contenute. È intitolato Virgilii cordubensis philosophia[190], e questo Virgilio cordubense sarebbe stato un filosofo arabo e l'opera sua, scritta in arabo, sarebbe stata tradotta in latino a Toledo nel 1290[191]. Di certo l'autore non era arabo, e neppure sapeva gran fatto di cose arabiche, poichè non avrebbe mai potuto pensare che un filosofo arabo si potesse chiamare Virgilio, e molto meno a dare per suoi contemporanei a Cordova Seneca, Avicenna, Averroe e Algazel. È un cerretano qualunque il quale ha voluto darsi autorità, assumendo il nome di Virgilio e la qualità speciosa di sapiente arabo. Con una sfacciataggine mirabile ei racconta, in principio del suo scritto, che tutti i grandi dotti e studiosi che accorrevano da varie parti a Toledo, nei gravi problemi che discutevano sentirono il bisogno di rivolgersi a lui, poichè sapevano quanto grande fosse la conoscenza di ogni segreta ed astrusa cosa da lui acquistata mediante quella scienza «che, dic'egli, altri chiama negromanzia, noi chiamiamo Refulgentia.» Mandarono a pregarlo che si recasse a Toledo; ma egli non volle muoversi da Cordova, e invitolli a recarsi da lui, e vennero. Nel libro adunque vengono riferite le gravi discussioni che ebbero luogo intorno alla causa prima, al mondo, all'anima umana, e le importanti comunicazioni che l'autore fece a tutti quei filosofi su tali materie, secondo le rivelazioni avute dagli spiriti da lui interrogati in proposito. Di questi spiriti parla pure, come anche della ars notoria, che è scienza santa, di cui solo chi è senza peccato può sapere; autori di questa furono i buoni angeli i quali la comunicarono al re Salomone[192]. Questi rinchiuse li spiriti in una bottiglia, salvo uno che era zoppo il quale riuscì a rimaner fuori e liberò poi tutti gli altri. Quando Alessandro venne a Gerusalemme, Aristotele suo maestro, che era allora uomo dappoco e rozzo, riuscì a sapere dov'erano riposti i libri che Salomone scrisse su quella scienza, trovò modo d'impadronirsene e così divenne quel grand'uomo che tutti sanno. — La latinità di quest'opera è tutta piena delle più goffe sgrammaticature; l'idea filosofica è una mescolanza strana in cui si riconoscono idee giudaiche e rabbiniche miste a principî cristiani, fra i quali quello del Dio trino ed uno. Di Virgilio non c'è propriamente che il nome attribuitosi dall'autore. Però, come vedesi dalla natura dell'opera, la causa per cui questi assume quel nome sta nell'ideale del Virgilio mago, appunto come nella prima parte di questo lavoro abbiamo veduto l'ideale di Virgilio risultante dal rapporto di questo poeta collo studio grammaticale, condurre il non meno strano Virgilio grammatico a prendere questo nome. Questa corrispondenza fra i risultati di due fasi diversissime del nome virgiliano è veramente uno dei fatti più considerevoli nella storia di questo nome, il quale nelle sue peripezie, non solo subisce la influenza di più vicissitudini del pensiero, ma molte di queste riassume in sè tanto profondamente che ne diviene il simbolo e il rappresentante.

Nulla di quanto l'idea popolare attribuiva al mago, la leggenda lasciò mancare a Virgilio. Stabilita una volta e completata saldamente questa sua qualità, e reso volgarmente noto il nucleo leggendario da cui si desumeva, il resto veniva facilmente da sè. Siccome non c'era buon mago che non avesse fatto i suoi studi a Toledo, anche Virgilio, come Gerberto e tanti altri, doveva avere studiato in quella città. «I chierici, dice Elinando, vanno a Parigi a studiare le arti liberali, a Bologna i codici, a Salerno i medicamenti, a Toledo i diavoli e in nessun posto i buoni costumi»[193]. La rinomanza però di Virgilio mago e la parte che in quella aveva Napoli fece considerare anche Napoli come sorella di Toledo nel dare origine alla negromanzia[194]. Inoltre era inevitabile che nel mondo romantico, in cui s'incontravano tanti altri nomi di maghi, Virgilio si trovasse in rapporto con qualcuno di questi. Nel Parzival di Wolframo da Eschembach il mago Klinsor è nativo di Terra di Lavoro, e Virgilio è un suo antenato[195]. Anche qualche contatto col mago Merlino non mancò[196]. Per tal guisa la leggenda non era più un semplice catalogo di opere maravigliose alle quali si univa il nome di Virgilio, ma veniva a contenere una quantità di fatti particolari che definivano la personalità di questo mago e offrivano anche gli elementi di una biografia. Già abbiamo veduto come nella Image du monde e nel Renart contrefait la narrazione si chiuda colla morte di Virgilio. La persona del poeta trovasi così descritta nel primo di questi due poemi:

«Il fu de petite estature

maigres et corbes par nature,

et aloit la teste baissant,

toz jors vers terre resgardant:

Car coustume est de soutil sage

c'à terre esgarde par usage.»

Anche nel Dolopathos:

«Virgile de poure estature

et petite personne estoit;

com philosophe se vestoit.»

V'ha poi nelle leggende virgiliane una parte che può dirsi sporadica, come quella che è costituita da racconti ai quali il nome di Virgilio non trovasi applicato che di rado, nè entrano mai a far parte di alcuna raccolta di fatti relativi alla magia di Virgilio. Questo nome viene arbitrariamente introdotto in essi, per associazione d'idee, da qualche rifacitore o compilatore, senza che la cosa abbia seguito o si ripeta con qualche stabilità. Questo si ravvisa singolarmente nel Gesta Romanorum, repertorio che ha subìto le più varie vicissitudini. Certamente ebbe in mente la Salvatio Romae e lo specchio maraviglioso colui che sostituì il nome di Virgilio a quello di un magister qualunque in un racconto del Gesta relativo ad una statua maravigliosa che denunziava tutti i trasgressori della legge[197]. Così pure allo specchio magico di Virgilio pensò colui che diede questo nome nel racconto 102 al clericus, il quale mostra ad un marito la moglie e l'adultero che fanno un incantesimo per ucciderlo, e fa in modo che l'incantesimo uccide invece l'adultero. In simil guisa trovasi il nome di Virgilio introdotto in altri racconti del Gesta, singolarmente nei testi tedeschi ed inglesi, là dove nelle redazioni più antiche non c'è[198]; fra gli altri anche in quello del mercante di Venezia. Questa libertà di fantasia non sorprende, e solo prova quanto familiare fosse il nome di Virgilio mago ad ogni sorta di narratori. Così gli autori di narrazioni fantastiche, conoscendo dalla leggenda Virgilio come fondatore di Napoli facilmente attribuivano a lui edifici e città[199], singolarmente d'Italia. Nell'Italia meridionale, anche all'infuori di Napoli, venivano attribuiti a Virgilio taluni edifici, quali, ad esempio, quelli[200] dell'isola di Ponza non lontana da Gaeta. L'autore di un poema franco-italiano, tuttora inedito, attribuisce a Virgilio la fondazione di Brescia[201].

Chiudiamo queste notizie sulla parte sporadica della leggenda Virgiliana con un racconto poco diffuso, ma pur notevole, che combina la leggenda di Virgilio con quella di Giulio Cesare.

Il popolo romano credeva nel medio evo che la palla dorata posta in cima all'obelisco vaticano, racchiudesse le ceneri di Giulio Cesare[202]. Quindi l'iscrizione medievale che, insieme alla relativa leggenda, figura nel Mirabilia e che si attribuisce a Marbodo, vescovo di Rennes:

«Caesar, tantus eras quantus et orbis,

Et nunc in modico clauderis antro»[203].

Questa iscrizione, con due versi d'aggiunta:

«Post hunc quisque sciat se ruiturum

Et iam nulla mori gloria tollat.»

è da Elinando, in un suo sermone, attribuita a Virgilio[204]. Secondo una leggenda riferita nel Victorial di Gutierre Diaz de Games (XV sec), quell'obelisco fu fatto da Salomone, il quale volle che nella palla fossero riposte le sue ossa. Quando Giulio Cesare morì, Virgilio andò a Gerusalemme e chiese quel monumento agli Ebrei, i quali credendo burlarsi di lui, gli dissero che glielo darebbero purchè ei sborsasse loro una certa somma giornalmente, finchè l'obelisco non fosse arrivato a Roma. Ma Virgilio si burlò invece di loro, poichè fece colle sue arti in modo che l'obelisco in una notte passò da Gerusalemme a Roma: e così le ossa di Giulio Cesare presero il posto di quelle di Salomone[205].

Queste leggende che trovansi così isolate e sparpagliate non aggiungono gran cosa alla fisionomia del Virgilio mago; sono un effetto di quanto in questo tipo è già fissato da leggende più stabilmente connesse col nome del Mantovano; effetto di cui potrebbero moltiplicarsi gli esempi senza aggiungere gran che di essenziale al nostro studio. Però questo tipo leggendario, quale lo abbiamo descritto fin qui, non può ancora dirsi completo. Un personaggio così accetto e familiare al mondo romantico non poteva in tanto varia attività sua e in tanta celebrità dei suoi fatti rimanere del tutto estraneo al bel sesso. La leggenda infatti non lasciò per lui una lacuna che sarebbe stata tanto anormale, ed ora noi dobbiamo rivolgerci a quella parte di essa che mostra appunto Virgilio alle prese col sesso femminile.

CAPITOLO VIII.

Coloro i quali sostengono che di molto vada debitrice la donna al cristianesimo e alla cavalleria, evidentemente vogliono farsi illusione in favore di questi agenti storici, contro l'autorità dei fatti. L'ideale della santa e quello della dama degli antichi romanzi, sono prodotti d'idee utopistiche affatto inconciliabili coll'ordine sociale. Ognuno può domandarsi che cosa diverrebbe la società umana se ogni donna fosse una santa Teresa od una Isotta; due opposti egualmente esiziali per essa come quelli che, quantunque in modo diverso, ne escludono il principale fondamento, la famiglia. Gran bisogno delle inesauribili forze sue ebbe nel medio evo l'umanità, costretta a lottare contro questi due potenti principi: l'uno de' quali avrebbe voluto cambiarla in un vasto eremo dove la famiglia cessasse e rimanesse l'individuo puro e semplice, l'altro in una casa di dementi posti in continua opposizione colla morale e col senso comune. Da un lato i padri e gli scrittori ecclesiastici ad una voce encomiavano il celibato, come quello fra gli stati dell'uomo che solo è capace di condurre a perfezione: dottrina non solo assurda, ma eminentemente immorale perchè egoistica, perchè contraria alla prima base della società umana, e perchè tale che pone il perfezionamento umano in aperta contradizione colle leggi naturali e sociali e coll'esistenza stessa dell'umanità. L'aver santificato il matrimonio, che a molti sembra uno dei grandi meriti della chiesa cristiana, fa l'effetto di una derisione a chi conosce il medio evo ed ha veduto dappresso tutta quella immensa falange di uomini autorevoli, che ad ogni occasione il matrimonio e la donna pongono in iscredito colla voce, coll'esempio e collo scritto. Dall'altro lato e per via opposta, alle stesse mortifere conseguenze spingeva la cavalleria, fiaccando ogni saldezza dei vincoli coniugali, privando la donna della prima base su di cui possa riposare la dignità sua, che è l'onestà ed il rispetto di sè stessa. Così avveniva che, ad onta di certe purissime imagini presentate dall'hagiografia e dalla leggenda cristiana, ad onta degli incensi prodigati al sesso femminile nei romanzi, nei tornei e nelle corti d'amore, in verun'altra epoca fosse la donna più turpemente insultata, beffata, svillaneggiata di quello fu nel medio evo, cominciando dai più serii scritti dei teologi e scendendo fino alla poesia ed al teatro da piazza. Una incredibile quantità di racconti e di aneddoti, spesso triviali ed osceni, la cacciavano nel fango e, quel che oggi pare impossibile, non figurano soltanto nei repertori dei giullari che avevano il solo scopo di divertire, ma nei repertori dei predicatori che li narravano dal pergamo col pretesto di cavarne una morale qualsiasi, ma spesso in realtà, giullari in cocolla, per far ridere anch'essi[206]. Chi conosce quei repertori spiega lo sdegno del nostro poeta che grida:

«Ora si va con motti e con iscede

A predicare, e pur che ben si rida,

Gonfia il cappuccio, e più non si richiede.»

A questo spirito persecutore è informata tutta la parte più antica della leggenda virgiliana che si riferisce a donne. Nel primo e più comune racconto in cui Virgilio figura come innamorato, egli è posto in relazione con una giovane figlia di un imperatore di Roma. La viva fiamma che gli arde in petto non solo non è corrisposta, ma incontra grandissima crudeltà nell'oggetto amato, che non resiste alla tentazione di farsi beffe del grande uomo. Fingendo di accettare la sua dichiarazione e di piegarsi ai suoi voti, la giovane gli propose di introdurlo nascostamente nelle proprie stanze, facendolo tirar su di notte dentro una cesta fino alla finestra della torre da essa abitata. Tutto gioia, Virgilio accettò; e all'ora designata corse a mettersi nella cesta che trovò pronta appuntino, e con sua grande soddisfazione non tardò a sentirsi sollevare in aria. E fino ad un certo punto la cosa andava bene; ma giunta la cesta a mezza strada lì si fermò e vi rimase fino a giorno. Grandi furono le risa e il chiasso che fece la mattina appresso il popolo romano, a cui Virgilio era notissimo, quando vide un sì grave personaggio in quella pensile situazione. Nè qui finiva la cosa: chè, informato di tutto l'imperatore, Virgilio messo a terra di grave pena era minacciato, se coll'arte sua non avesse saputo sottrarvisi. Ma lo smacco rimaneva, e l'oltraggio non era perdonabile. La vendetta ch'egli immaginò fu terribile. Ei fece che il fuoco tutto quanto era in Roma si spegnesse a un tratto, notificando che, chi ne volesse, soltanto sulla persona della figlia dell'imperatore avrebbe potuto procurarsene, e che il fuoco così ottenuto non si potrebbe comunicare dall'uno all'altro, ma ognuno dovesse prenderne direttamente nel modo indicato. Fu duopo piegarsi ai voleri del mago. La figlia dell'imperatore posta sulla pubblica piazza nella più indescrivibile posizione, dovette soggiacere a quel lungo supplizio: i Romani riebbero il fuoco e Virgilio fu vendicato.

Questa novella consta di due parti distinte che in essa trovansi riunite, ma che esistettero anche separate: quella cioè della burla e quella della vendetta. Virgilio non figura veramente come mago che in quest'ultima. La prima appartiene al vasto ciclo dei racconti relativi alle astuzie femminili, ed esprime l'idea che non v'ha grandezza d'uomo a cui la malizia donnesca non si mostri superiore, come la stessa idea esprimevano mille altri racconti comunissimi nel medio evo, taluni desunti dalla storia sacra e profana e dalle tradizioni dell'antichità, altri totalmente leggendari. Cominciando da Adamo, David, Sansone, Ercole, Ippocrate, Aristotele e mille altri illustri figuravano nella lunga lista delle vittime degli inganni muliebri. Alcuni di questi non faceano che prestare un nome illustre ad un racconto favoloso, e se a ciò avean soggiaciuto Ippocrate e Aristotele, non poteva a meno di soggiacervi Virgilio, celeberrimo qual'era per infinita sapienza. Citiamo come esempio i seguenti versi francesi d'anonimo:

«Par femme fut Adam deceu

et Virgile moqué en fu,

David en fist faulx jugement

et Salemon faulx testament;

Ypocras en fu enerbé,

Sanson le fort deshonnoré;

femme chevaucha Aristote,

il n'est rien que femme n'assote»[207]

Eustachio Deschamps (XIV sec.) scrive anch'egli:

«Par femme fu mis à destruction

Sanxes li fort et Hercules en rage,

ly roy Davis à redargucion,

si fut Merlins soubz le tombel en caige;

nul ne se puet garder de leur langaige.

Par femme fut en la corbaille à Romme

Virgile mis, dont ot moult de hontaige.

Il n'est chose que femme ne consumme»[208].

E più tardi Bertrando Desmoulins nel suo Rosier des Dames faceva dire alla Verità:

«Que fist à Sanson Dalida

quant le livra aux Philistins,

n'à Hercules Dejanira

quant le fict mourir par venins?

une femme par ses engins

ne trompa-elle aussi Virgile

quant à uns panier il fut prins

et puis pendu emmy la ville?[209] »

E questa idea e questi esempi sono un luogo comune della poesia satirica, morale e burlesca nelle varie letterature d'Europa dal sec. XIII al XVI, di cui si potrebbero citare saggi innumerevoli[210]. Ad Aristotele era toccato un racconto d'origine orientale, secondo il quale il filosofo sarebbesi assoggettato a portare il basto per volere d'una donna da lui amata[211]. Ad Ippocrate toccò in un Fabliau[212] quella stessa avventura della cesta che toccò anche a Virgilio, e che a quest'ultimo rimase poi attribuita in modo assai più permanente[213]. Ma anche senza il nome di Virgilio nè d'Ippocrate, essa costituisce il soggetto di una novella del Fortini[214], di un canto popolare tedesco[215] e d'uno francese tuttora vivente[216].

La seconda parte affatto staccata dalla prima, incontrasi nella letteratura europea più secoli innanzi ch'essa fosse attribuita a Virgilio. Essa ricorre in un antico testo degli Atti di S. Leone taumaturgo[217], ov'è attribuita ad un mago Eliodoro vissuto in Sicilia nell'VIII secolo. Questi atti sono tradotti dal greco, ed il racconto è certamente d'origine orientale. Infatti noi lo ritroviamo con varianti di poco momento, in una storia dei Khan mongoli del Turkestan e della Transossiana, scritta in persiano e tradotta dal Defréméry[218] e in un aneddoto che serve di fondamento ad un proverbio arabo[219]. Certamente esso si divulgò, con altre leggende e novelle, fra i bizantini; in un libro neogreco del secolo scorso troviamo la prima e la seconda parte riunite, riferite ambedue all'imperatore Leone il filosofo[220]. E prima che ambedue le parti attribuite a Virgilio si fondessero assieme, ricorre applicata a lui questa seconda solamente. Il più antico esempio che io ne conosca, è quella poesia, già da me citata, del trovatore Giraud de Calançon, non posteriore al 1220, nella quale, fra gli altri fatti di Virgilio che il giullare deve conoscere, è annoverato anche quello «del fuoco ch'ei seppe estinguere» (del foc que saup escantir). Poi nella Image du monde tutta la seconda parte dell'avventura è narrata senza la prima. Non sarebbe impossibile però che questa si fosse unita al nome di Virgilio in un'epoca anteriore anche all'idea del mago, e quindi indipendentemente dalla seconda. Infatti in essa Virgilio figura soltanto come uomo di grande sapienza, e il suo gran nome serve a renderla più ridicola come novella, più autorevole come esempio. La seconda parte che ad essa fu aggiunta, quantunque dapprima sembri adattarvisi assai bene, pure lascia troppo visibile la commettitura. Virgilio che in essa figura come potentissimo mago, non è certamente tale nella prima, nella quale non sa nè prevedere la burla, nè sottrarvisi.

Così riunite le due parti in un solo racconto, questo ricorre in un testo latino del XIII secolo[221] e nella Cronica universale di Ians Enenkel[222]. Poi si ripresenta nel Renart contrefait e in un gran numero di scritti dei secoli XIV, XV e XVI, francesi e tedeschi particolarmente, ma parecchi anche inglesi, spagnoli e italiani. Anche fra le Rimur islandesi ve ne ha una[223] che narra lo sfregio e la vendetta, ma lo sfregio è doppio poichè la donzella dopo aver burlato Virgilio colla cesta lo riduce anche a servirle da cavalcatura, come altri narrarono di Aristotele. Indipendentemente da quelli che ne parlano insieme alle altre leggende virgiliane, i più narrano o richiamano questo racconto, particolarmente nella sua prima parte, con molti altri, nel declamare da burla o sul serio contro le donne e i peccati carnali. Così il poeta spagnuolo Juan Ruiz de Hita(1313) riferisce quel fatto a proposito del Pecado de Luxuria. Più tardi però ai tempi di Ferdinando e Isabella, quando appunto Diego de Santo Pedro nel suo Carcel de amor diceva, propugnando la causa delle donne, che: «le donne ci dotano delle virtù teologali non meno che delle cardinali e più che gli apostoli ci rendono cattolici» l'avventura di Virgilio era citata in vilipendio delle donne in un poemetto spagnuolo di cui neppure il titolo si può citare[224]. Combinato così colla morale, quel racconto non solo fu ripetuto a sazietà nella letteratura[225], ma fu spessissimo rappresentato dall'arte, e fin nelle chiese posto sott'occhio ai fedeli, scolpito in marmo, in legno, in avorio[226]. Servì pure di soggetto a molte pitture e incisioni, delle quali talune appartengono ad artisti illustri come Luca di Leida, Giorgio Pencz, Sadeler, Hopfer, Sprengel e più altri[227].

In Italia il più antico scrittore che, a mia notizia, racconti questa novella col nome di Virgilio è, oltre all'Aliprando di cui parleremo in seguito, il Sercambi (1347-1424) che la riferisce nella sua cronica, dalla quale essa fu già estratta e pubblicata a Lucca[228]. La fama del fatto era tanto diffusa, che si finì col designare una delle varie torri di Roma come quella che fu testimone della scena. Così spiego il nome di Torre di Virgilio dato in Roma alla torre dei Frangipani[229] e l'aneddoto stesso introdotto nella versione tedesca del Mirabilia del secolo XV, ed in uno scritto, parimenti tedesco e dello stesso secolo, intorno alle sette chiese principali di Roma[230]. Quel capo ameno del Berni annovera[231] fra le antichità che «pellegrini o romei» andavano a vedere a Roma:

«E la torre ove stette in due cestoni

Virgilio spenzolato da colei.»

Enea Silvio nel suo De Euryalo et Lucretia (1440), cita la prima parte dell'avventura come avvertimento morale. Come imprecazione però, fra le altre mille, figura essa nella Murtoleide:

«Possa come Virgilio in una cistola

Dalla fenestra in giù restar pendente.»

Nei testi a stampa dell'antico poemetto italiano Il padiglione di Carlomagno leggesi la seguente ottava:

«Ancora si vede Aristotil storiare

E quella femmina che l'ingannò,

Che come femmina lo facea filare

E come bestia ancor lo cavalcò,

E 'l morso in bocca gli facea portare,

E tutto lo suo senno gli mancò;

Da l'altra parte Virgilio si mirava

Che nel cestone a mezza notte stava»[232].

E molti altri testi italiani dei secoli XV e XVI potrebbero citarsi che provano come quell'avventura virgiliana fosse allora così popolarmente conosciuta qui come altrove. Mi limito a citare, perchè inedita, una Canzone morale in disprezzo d'amore[233] che leggesi in un codice magliabechiano del secolo XV, nella quale agli esempi di Giove, Aristotele, Salomone ecc. si aggiunge quello di Virgilio:

«Lett'hai d'una donzella che ingannava

Virgilio collocato in una cesta,

E fuor della finestra

Attaccato lasciollo infino a giorno.»

In un poemetto inedito contro amore, pur di quell'epoca, leggiamo:

«E tu Virgilio parasti le botte

Che sanno dar le donne a' loro amanti.

Tu ti pensasti rimetter le dotte

Con colei che ti fea inganni tanti.

A casa sua tu andasti una notte

. . . . . . . . . . . . . .

Fatto lo 'mposto cenno, ella fu presta,

E pianamente aperse la finestra.

Con una fune una cesta legoe,

Per dimostrare di farti contento,

E fuor della finestra la mandoe

Dove tu eri e tu v'entrasti drento;

Tirotti a mezza via e poi t'appiccoe

A un arpion per tuo maggior tormento

E fino al giorno istesti appiccato,

Dal popolo e da lei fosti beffato.»[234]

Nicolò Malpiglio in una canzone per Nicolò d'Este[235] scriveva, parlando ad amore:

«El Mantuan poeta nel canestro

Pose quest'altra cui tu lusingasti

E non ti vergognasti

Dar di tanta virtù solazzo al volgo.»

Nel Contrasto delle donne di Antonio Pucci[236], fra i numerosi esempi favorevoli e contrari al bel sesso, si rammenta in due ottave quello di Virgilio:

«Diss'una che Virgilio avia 'n balìa:

— Vieni stasera, ed entra nella cesta

E collerotti a la camera mia. —

Ed ei v'entrò, ed ella molto presta

Il tirò su; quando fu a mezza via

Il canape attaccò, e quivi resta;

E la mattina quando apparve il giorno

Il pose in terra con suo grande scorno.

Risp. Virgilio avea costei tanto costretta

Per molti modi con sua vanitade

Ch'ella pensò di farli una beffetta

A ciò che correggiesse sua retade;

E fe' quel che tu dì non per vendetta

Ma per difender la sua castitade;

Ver'è che poi, con sua grande scienza,

Fece andar sopra lei aspra sentenza.»

In altra poesia assai più antica, forse del XIII sec., nei Proverbi sulla natura delle donne[237] lo stesso fatto è attribuito al filosofo Antipatro:

«D'Antipatol filosofo udisti una rasone

Con la putana en Roma ne fe derisone

Q'entr'un canestro l'apese ad un balcone

Ogni Roman vardavalo con el fose un briccone.»

Così pure l'arte italiana di quel tempo spesso tolse a soggetto questo fatto della leggenda. Una stampa d'ignoto autore, ma d'antica scuola italiana, rappresenta la beffa e la vendetta, colla seguente scritta che è desunta dalle due ottave del Pucci sopra riferite:

«Essendo la mattina chiaro il giorno

Il pose in terra con suo grande scorno;

Ver'è che poi, con sua gran sapienza

Contr'a costei mandò aspra sentenza.»[238]

Una pittura di Perin del Vaga rappresentante la scena della vendetta fu riprodotta da E. Vico in una incisione che porta la data di Roma 1542 e la scritta: «Virgilium eludens meritas dat foemina poenas»[239]. In un manoscritto dei Trionfi del Petrarca, esistente nella biblioteca Laurenziana, una miniatura che illustra il Trionfo d'Amore rappresenta quattro fra le più illustri vittime dell'alato Dio: Ercole che fila, Sansone tosato, Aristotele col basto e Virgilio nella cesta[240]. Esiste tuttora vivente sulla bocca del popolo un racconto simile a Sulmona, ma in esso la vittima è Ovidio, che veramente per le sue poesie e avventure galanti lo meritò più di Virgilio[241].

La seconda parte della novella trovasi in uno dei tanti libretti popolari italiani che si ristampano continuamente e si diffondono fra la plebe. Essa però non è riferita a Virgilio ma ad altro mago, Pietro Barliario (scambiato a torto da taluni con Pietro Abelardo)[242], il quale, come Virgilio, più d'un fatto prodigioso ereditò dall'antico mago Eliodoro:

«Adirato si parte indi comanda

A' demoni che tosto abbiano spento

Tutto il fuoco che fosse in ogni banda,

Fosse da loro estinto in un momento.

Onde per compir l'opera nefanda

La donna fè pigliar con gran tormento,

E in piazza fu portata di repente,

Nuda, parea che ardesse in fiamme ardente.

Correa il popol tutto in folta schiera

A provveder di fuoco le lor case.

Fra le piante di quella in tal maniera

Sorgea la fiamma, onde ciascun rimase.

E l'uno a l'altro darlo invano spera

Chè presto si smorzava; intanto sparse

La Dea ch'ha cento bocche un gran romore

E l'avviso n'andò al governatore.»

Questo racconto, nato, come abbiam veduto fuori d'Italia, non era il solo che ponesse il mago Virgilio in rapporto col sesso femminile. — Residui di alcune antiche idee del mondo greco-romano e orientale, e più ancora le usanze nazionali proprie dei barbari invasori, resero nel medio evo familiare e comune, anche nella parte più nobile dell'Europa, l'idea fondamentale e l'uso dei giudizi di Dio; secondo i quali la divinità era chiamata a far trionfare, per mezzo di un miracolo, il vero ed il giusto. Nello scredito in cui la donna era caduta, queste forme di giuramento[243] rimanevano sempre fra i mezzi coi quali era chiamata a giustificare la propria condotta. Se la fantasia dei gelosi assai feconda si mostrava nel trovare difficili generi di prove, più feconda era in ciò la fantasia dei novellatori, romanzieri e moralisti e di quanti da burla o sul serio perseguitassero il sesso femminile, i quali nello scopo di mostrare che non c'era prova o terribile giuramento che una donna non sapesse deludere, inventavano a provar ciò, aneddoti d'ogni sorta. In questo l'Europa avea il torto di trovarsi d'accordo coll'oriente, e quindi di accettare racconti beffardi e disonorevoli per la donna, quali di là, dove la sua condizione era ed è la più bassa possibile, provenivano.

Ad uno di questi, che fu assai in voga in oriente e in Europa, fu mescolato il nome di Virgilio, sempre assecondando l'idea inerente all'avventura della cesta, quella cioè della più grande sapienza umana insufficiente contro le astuzie femminili. Virgilio[244], secondo questo racconto, fece in Roma una figura di pietra colla bocca aperta; le persone chiamate a dar prova della loro castità o fedeltà coniugale ponevano la mano in quella bocca, e se mentivano eran sicure di lasciarvi dentro le dita. Una donna però che avea una relazione illecita, chiamata a giustificarsi con questa prova dal marito venuto in sospetto, trovò modo di renderla vana. Disse al suo amante che, preso abito e maniere di pazzo, si trovasse là dove il giuramento doveva aver luogo, e appena la vedesse arrivare, corresse a lei e folleggiando l'abbracciasse. Così fu; essa finse sdegnarsi di quell'atto, ma il marito e gli astanti, trattandosi di un povero pazzo, non ne fecero caso. Allora la donna giurò che mai in vita sua non avea sofferto abbracciamenti di altr'uomo che di suo marito e di quel pazzo che tutti aveano visto abbracciarla; e siccome era ciò la pura verità, la sua mano uscì intatta dalla terribile bocca. Virgilio, a cui nulla si celava, accortosi dell'inganno, dovette confessare che le donne la sapevano più lunga di lui.

Questo racconto, cambiati i nomi e le circostanze locali, trovasi tal quale nel Çukasaptati, libro di novelle indiano, e nella storia di Ardschi Bordschi Chan, libro mongolico d'origine indiana ( Sinhâsanadvâtrinçat )[245]. In Europa però esso era già noto da tempi assai antichi; trovo in Macrobio un aneddoto (desunto certamente da antichi scrittori latini) il quale, ad eccezione dell'elemento amoroso, è del tutto simile a questo[246]. Come astuzia di donna galante, circolò poi in Europa indipendentemente dal nome di Virgilio, anche dopo che questo nome gli era stato da taluni narratori applicato. Ne abbiamo esempio nel romanzo francese di Tristano[247], nelle novelle di Straparola, in quelle di Celio Malispini, nel Mambriano del Cieco da Ferrara[248], nel Patrañuelo di Timoneda ecc. ecc.[249]. Il più antico scritto, a mia conoscenza, in cui si trovi applicato a Virgilio, è una poesia anonima tedesca, della prima metà del secolo XIV, intitolata: «di una effigie in Roma che strappava coi denti le dita alle donne adultere»[250]. Il racconto così attribuito a Virgilio e localizzato a Roma, riferivasi ad un monumento che ivi esiste tuttora in Santa Maria in Cosmedin e chiamasi Bocca della verità. È un antico mascherone da fontana, o da sbocco d'acqua piovana, di cui il Mirabilia dice che era considerato come una bocca che pronunziava oracoli. Una iscrizione postavi dappresso nel 1632 asserisce che servì a giurare ponendovi dentro la mano, il che è confermato dal titolo di Bocca della verità dato anche alla piazza adiacente e che di certo[251] risale al medio evo. Tutto ciò spiega come si arrivasse a dire che quel fatto fosse accaduto a Roma appunto alla Bocca della verità, e questa si considerasse quindi come opera di Virgilio. Infatti nella versione tedesca del Mirabilia fatta nel XV secolo, è introdotta a proposito di quella pietra la menzione di Virgilio e dell'aneddoto per cui poi la pietra perdette la sua efficacia[252].

CAPITOLO IX.

Tutti questi racconti che andavano attorno col nome di Virgilio, erano già, come ognun vede, assai numerosi; e chi avesse voluto riunirli assieme, ordinarli, sviluppare certi dati o supplire a certe lacune con un po' di fantasia, c'era da tessere tutta una biografia romanzesca dell'illustre mago. Ed infatti non mancò chi ciò facesse. Prima però di parlare di quest'ultimo e definitivo stadio della leggenda virgiliana, credo opportuno gittare uno sguardo su quel che essa era divenuta nel paese in cui avea avuto la sua prima origine, cioè in Italia ed a Napoli specialmente. I lettori avranno notato che ad eccezione di quelle udite a Napoli da Gervasio e da Corrado, tutte le altre leggende furono applicate a Virgilio fuori d'Italia; e quantunque queste fossero riferite in iscritti letterari molto conosciuti e letti nel medio evo, pur nondimeno ben poche di esse penetrarono presso gli scrittori italiani. Il più notevole documento napoletano che noi abbiamo intorno alle leggende virgiliane è la Cronica di Partenope[253] attribuita nella prima edizione falsamente a Giovanni Villani, e poi anche a «Bartolomeo Caraczolo dicto Carafa, cavaliere di Napoli» il quale però propriamente non è e non si professa autore che della seconda delle tre scritture di cui si compone questo curioso zibaldone di storia napoletana compilato verso la metà del sec. XIV. La prima e la più antica di quelle scritture è opera di un ignoto napoletano che la compose probabilmente poco dopo il 1326; essa consiste in una raccolta di narrazioni relative alle antichità sacre e profane di Napoli, ricavata da fonti diverse, anche da tradizioni orali, senza alcuna critica e con mescolanza di favole e leggende di varia specie, fra le quali sono pure le virgiliane[254]. Quantunque napoletano, il rozzo autore non si è tenuto soltanto a quel che di Virgilio dicevasi a Napoli ai tempi suoi, ma ha riferito nel suo scritto tutto quanto ha trovato in Gervasio ch'ei cita, e nell'opera di un tale Alessandro. Se questi fosse Alessandro Neckam, dovremmo dire aver egli letto il De naturis rerum in un codice mutilo e interpolato, oppure in un estratto incompleto e variato, presso qualche altro scrittore[255].

Quanto trovasi in Gervasio ritrovasi presso a poco in questa Cronica e, ad eccezione di alcune poche aggiunte fatte nello stesso spirito del rimanente, la leggenda rimane in essa tal quale l'abbiamo trovata a Napoli nel XII secolo. Virgilio vi figura come gran benefattore di Napoli nel tempo in cui era «consiliario et quasi rectore o vero maistro di Marcello» eletto da Ottaviano «duca de li napolitani.» Da lui furono fatti gli acquedotti, le fontane, i pozzi, le cloache di Napoli; egli istituì il Gioco di Carbonara[256] simile al Gioco del Ponte in Pisa, che cominciò come esercizio guerresco con finti attacchi, e finì con baruffe micidiali. Al novero dei soliti talismani si aggiunge una cicala di rame che scacciò tutte le cicale da Napoli, e un pesciolino di pietra posto nel luogo che serbò il nome di «preta de lo pesce», il quale attirava pesci in abbondanza[257]. Anche la leggenda relativa al Castello dell'Ovo che abbiamo veduto tanto trasmutata all'estero, rimane quel che era prima, cioè l'idea di un talismano che serviva come di palladio alla città. Il fatto narrato da Gervasio intorno alla richiesta di quell'eccentrico inglese è riferito, con qualche variante di nessun rilievo, anche nella Cronica. Come poi quel tale trovò il libro di segreti sotto il capo di Virgilio, così Virgilio stesso lo trovò, «secondo che se legge ad un chronica antiqua», (che non sappiamo qual possa essere, ma certamente napoletana) sotto il capo di Chironte in una grotta dentro Monte Barbaro, di dove egli andò a trarlo in compagnia di un certo Filomelo o Filomeno[258]. Quantunque questo libro chiamisi di negromanzia, e quantunque di negromanzia e di magia talvolta si parli nella Cronica a proposito delle opere virgiliane, pure l'autore ci fa in più luoghi capire chiaramente che per ciò egli intende quanto si può operare conoscendo la «mirabile influenza de le pianeta.» E realmente mai nulla di diabolico è da lui attribuito a Virgilio, del quale parla sempre col più grande rispetto e non cessando di chiamarlo «esimio poeta.» La grotta di Pozzuoli non è più soltanto, per le arti del poeta, protetta contro ogni misfatto, ma il poeta stesso l'ha fatta fare, non però col mezzo de' diavoli, come poi si disse altrove, ma per «Geometria.»

Certo, trovandosi il sepolcro di Virgilio sulla via Puteolana, appunto all'ingresso di quella grotta, s'intende ch'essa dovesse essere il centro delle tradizioni virgiliane. Più tardi lo Scoppa, riferendo quanto trovava di leggende virgiliane nella Cronica di Partenope, aggiunge a proposito della grotta di Pozzuoli «non ignoro che alcuni, appoggiandosi all'autorità di Plinio, sostengono a spada tratta che Lucullo e non Virgilio la facesse. Io però sto a quel che dicono le nostre croniche, imperocchè in fatto di antichità va creduto ai più antichi, particolarmente quando sono del paese.» Ed infatti quanto volgare fosse a Napoli quest'opinione lo mostra non solo il nome di Grotta di Virgilio, ma il fatto eziandio del Petrarca, il quale, com'egli stesso racconta, fu seriamente interrogato su tal proposito da re Roberto, e rispose: «non ho a mente aver mai letto che Virgilio facesse il tagliapietre[259]

Da tutto ciò possiamo conchiudere che la leggenda esisteva a Napoli ancora nel secolo decimoquarto e nel decimoquinto, e che in essa non c'è ombra di quel Virgilio diabolico e innamorato che trovammo altrove. Un sol fatto pare venuto dal di fuori, ed è la leggenda che troviamo nella Cronica di quattro teste di morto poste da Virgilio in Napoli, le quali rivelavano al Duca quel che si faceva in tutto il mondo. Questa leggenda ha per fondamento l'idea della Salvatio Romae e dello specchio maraviglioso, combinata con quella della testa parlante che vedemmo attribuita a Virgilio come a Gerberto, e può credersi venuta dal di fuori.

L'autore della Cronica sì è guardato bene dall'aggiungere alcun che di suo alla leggenda, per renderla più fantastica o per meglio farla spiccare. Quantunque rozzo, egli è scrittore ed ha una certa coltura che lo distingue dal volgo illetterato; vuol essere storico, e come tale nel narrare le leggende virgiliane, non solo ricorda il Virgilio reale della scuola e della poesia, ma applicando a questo Virgilio quelle leggende compila ed anche affetta di compilare da libri, non mai riferendosi alla tradizione popolare vivente, a lui ben nota. Alessandro Neckam, come abbiam visto, è da lui citato di seconda mano e quindi anche a sproposito facendogli dire quel che non da lui ma da altri fu detto; Gervasio di Tilbury, malamente e indirettamente conosciuto, sia dall'autore sia da altri che poser le mani in questa Cronica, diviene Santo Gervasio Pontefice ed i suoi Otia Imperialia i Responsi (vuol dire Riposi ) Imperiali. Prevale però la conoscenza delle fonti indigene sia citate, sia adoperate senza citarle, quali una anonima Cronica antica, l'oggi perduto Planctus Italiae di Eustazio da Matera, ed anche Alessandro di Telese e la Vita di S. Atanasio, o forse altri a noi ignoti, dai quali fu desunto quel che si narra di Virgilio e Ottaviano e Marcello e l'elogio di Napoli «signora di nove città» ecc.[260]. Ma registrate o no presso altri scrittori, le leggende qui riferite vivevano ancora, se non tutte, certo in gran parte nella tradizione popolare napoletana quando dapprima la Cronica fu scritta, e poi quando da numerose mani fu variamente trascritta e per ultimo quando con assai libertà di ricompilazione fu stampata. Traluce chiarissima la vivente leggenda là dove l'autore vuol farla da critico, correggendo l'errore volgare della gente grossa, benchè in verità ei non si mostri ben fino. Così, certamente popolare e vivente da antica data era la leggenda da lui riferita circa la grotta di Pozzuoli costruita da Virgilio che ivi presso ebbe la sua sepoltura; il popolo però aggiungeva che Virgilio quella prodigiosa opera facesse in un sol giorno, e questo pare poi troppo allo scrittore, il quale pur riferendo seriamente tutto il resto, fa qui una riserva: «E la preditta grotta, lo grosso popolo tene che Virgilio fatta la avesse in uno dì; e questo non è possibile se no a la divina potencia, quae de nihilo cuncta creavit »[261]. Così pur si vede che la leggenda circa il Castel dell'Uovo, mantenuta dal nome stesso che questo portava, seguitava ad esistere nella tradizione; ma che quel telesma virgiliano preservasse la città o il castello, non si credeva più nè si poteva dopo gli avvenimenti dal XII sec. in poi; quindi l'autore circa tal credenza si limita a riferire che v'era stata già fra «gli antiqui napolitani.» Quando la Cronica fu messa a stampa sulla fine del XV sec. col titolo promettente di «nobilissima et vera antica cronica» malgrado la falsa attribuzione nel titolo stesso a Giovanni Villani, e quando fu poi nel 1526 riprodotta, qualche passo fu soppresso, altro fu aggiunto raffazonando liberamente; ma che la leggenda seguitasse ad esistere e molto ancora si narrasse oralmente dal popolo su Virgilio oltre a quanto nella Cronica è riferito, si rileva chiaramente dalle seguenti parole onorevoli pel buon senso italiano che a nome dell'antico autore furono aggiunte in ossequio alla verità dall'Astrino che preparò la Cronica per la stampa nel 1526[262]: «Io potria del dicto Virgilio dicere molte altre cose le quali ho sentito dicerese de tale uomo, ma perchè in maior parte mi pareno favolose e false, non ho voluto al tutto implire la mente de li homini de sogni; et perchè molte cose sono state dicte de sopra de Virgilio a le quale io scriptore de quelle meno che gli altri credo, prego ciascuno lettore me habbia per excusato, perchè non ho voluto fraudare la fama de lo ingeniosissimo poeta, o vera o falsa, et la benivolenza la quale ipso portava a questa inclita cità di Napoli. Ma la verità de tutte le cose, la cognobbe et conosce solo Dio; questo ben dirò, che io non scrivo cosa falsa nè fabolosa che de quella lo lectore non sia facto accorto.»

Le leggende napoletane non si diffusero che poco e lentamente nell'Italia superiore: esse però erano ben note, anche fuori di Napoli, nell'Italia meridionale. La più antica menzione che io ne conosca fra i nostri poeti volgari trovasi in un componimento di Ruggeri Pugliese che non crederei posteriore alla prima metà del XIII secolo:

«Aggio poco senno alla stagione,

E saccio tutte l'arti di Virgilio»[263].

Nel resto d'Italia la leggenda virgiliana non si diffonde nella letteratura che nel secolo XIV, mescolando però all'elemento originale e indigeno l'elemento ascitizio e straniero, pei noti rapporti delle nostre lettere d'allora colla produzione letteraria forestiera. Taluni autori toscani però la conoscono, allora e prima, come quelli che furono a Napoli e dal popolo di quella città poterono udirla. Boccaccio che ben conosceva Napoli, nel suo commento a Dante (1373) parlando delle opere maravigliose fatte da Virgilio in quella città, non ne cita che tre, già ben note: cioè la mosca e il cavallo di bronzo e le facce di marmo di porta Nolana. Egli nota che Virgilio visse molto più a Napoli che a Roma e che ivi recossi da Milano[264] perchè avendo l'ingegno pronto alla poesia, avea saputo essere i poeti «nel cospetto d'Ottaviano accetti.» Prima di lui Cino da Pistoia[265] alludeva alla mosca maravigliosa nei versi satirici contro Napoli che il Ciampi non ha intesi:

«O sommo vate, quanto mal facesti

A venir qui; non t'era me' morire

A Pietola colà dove nascesti?

Quando la mosca, per l'altre fuggire,

In tal loco ponesti

Ov'ogni vespa doveria venire

A punger quei che su ne' boschi stanno.»

Il poeta popolare fiorentino Antonio Pucci, nel XIV secolo, fra gli altri appunti d'ogni specie che raccoglieva in un suo zibaldone di cui si hanno due MS. in Firenze[266], notava parecchie delle maraviglie che la leggenda attribuiva a Virgilio, la mosca, il cavallo, il castello posto in bilico sull'uovo, il giardino, due doppieri e una lampada sempre ardenti, la burla della donna, e la vendetta, la testa che parlava, e la relativa storia della morte del poeta, e quanto credevasi sull'efficacia delle sue ossa. Egli però, come molti romanzatori stranieri, colloca il sepolcro di Virgilio a Roma. È noto che questo cantastorie italiano conobbe e adoperò i prodotti dei cantastorie forestieri[267]. Egli però non parla di arti diaboliche, ma attribuisce le maraviglie virgiliane all'«arte della stronomia.» A conoscenza dei riposti segreti della natura le attribuisce, nello stesso secolo, Gidino da Sommacampagna, alludendo ad esse in un suo sonetto a Francesco Vannozzo[268], nel quale cita l'autorità:

«Dell'eccellente fisico Marone

Che circa il natural pose sua cura.»

In un bizzarro suo sonetto[269] di quel genere che poi prese il nome dal Burchiello, Andrea Orcagna, il grande artista del sec. XIV, dice

«E l'ampolla di Napoli s'è rotta»

certamente alludendo alla famosa ampolla di Castel dell'Uovo che da un pezzo avea perduta la sua virtù quia modicum fissa est, come scriveva già Corrado di Querfurt[270].

Se però i rapporti in cui la leggenda poneva Virgilio con la città di Napoli non aveano permesso che in questa s'introducesse quel personaggio parte ridicolo e parte anche odioso a cui Virgilio s'era ridotto altrove, la stessa cosa non aveva luogo pel resto d'Italia. Qualche eco della leggenda secondo la versione forestiera, noi ritroviamo a Roma nel nome di Virgilio annesso a qualche monumento o qualche località[271]. Così sappiamo che la Meta sudans fu chiamata dal popolo romano Torre di Virgilio[272], che questo nome diedesi agli avanzi della Torre dei Frangipani[273], e che il Settizonio fu chiamato Scuola di Virgilio[274]; su quest'ultimo leggesi nel curioso poemetto (XV-XVI sec.) intitolato Prospettiva milanese:

«Eravi di Virgilio un'academia

edificata nel più bel di Roma

et hor dintorno a lei vi si vendemia;

erano septe scole» ecc.[275].

Se queste denominazioni le poniamo assieme colla notizia dei guai che per parte della corte romana soffrì il Petrarca a causa dei suoi studi virgiliani, ci sarà facile indovinare che in Roma a quell'epoca il nome di Virgilio non fosse esente dalla taccia di magia nel più cattivo senso della parola. Notiamo però che tutto questo non va al di là del secolo in cui abbiamo veduto prodursi anche altrove, relativamente a Virgilio quella tale idea, ed è meramente una conseguenza di essa. Quando si pensi come in queste leggende virgiliane fosse mescolato il nome di Roma, come s'introducessero nelle guide di cui si servivano i numerosi visitatori di questa città, sarà facile comprendere come ciò bastasse a rendere noto ai Romani il nome di Virgilio mago, ed a fare che da essi o dai forestieri fosse applicato a monumenti e località di Roma. Infatti nei più antichi manoscritti del Mirabilia urbis Romae, che risalgono al secolo XII, Virgilio non è mai nominato, neppur come autorità come lo è p. es. il martirologio (i Fasti ) d'Ovidio, e neppure come profeta del Cristo là dove è riferita la leggenda d'Ottaviano e la Sibilla. È più che probabile che se a quell'epoca il nome di Virgilio fosse stato annesso a qualche luogo della città, il Mirabilia ne avrebbe parlato. Dopo la diffusione della leggenda incomincia però questo nome ad introdursi nel Mirabilia, e quindi s'introduce a Roma; poichè credevasi, secondo le fantasie estere, che propriamente a Roma Virgilio avesse esercitato la negromanzia ed anche tenutone scuola. Nel XIV secolo infatti Hans Folz, il barbiere-cerusico-poeta di Norimberga, scriveva in certa sua burlesca novella, che un tempo «correva voce esservi a Roma un maestro dotto in negromanzia, detto Virgilio, che dava risposta a tutti i quesiti rivoltigli da ogni parte del mondo»; e narra pure di tre curiose risposte date da lui a tre curiose domande[276].

In un MS. del Mirabilia, del XIII secolo, trovasi a proposito del monte Viminale, l'aggiunta: «di dove Virgilio preso dai Romani, invisibilmente se ne andò a Napoli; ond'è che si dice vado ad Napulum.» Questa rozza etimologia si riferisce al nome di una strada, che chiamasi tuttora Magnanapoli (corruz. di Balnea Pauli ) e che conduce al Viminale. La leggenda virgiliana che le serve di base non è altro se non il seguito dell'avventura della cesta e dell'estinzione dei fuochi. Come quest'ultima parte dell'avventura abbiamo veduto essere un racconto d'antica data, riferito prima al mago Eliodoro, dopo di lui a Virgilio, e poscia anche a Pietro Barliario tuttora noto al nostro popolo meridionale, così anco il seguito di quella avventura, al pari di altri fatti attribuiti a Virgilio ed a Barliario, era già stato appropriato ad Eliodoro. Costui, diceva la leggenda, per sottrarsi alla pena meritata, si mise a disegnare sulla parete con un bastoncello una nave colle sue vele e i suoi marinari, e per arte diabolica cambiato il disegno in nave reale, vi si pose dentro e fuggì di Sicilia[277]. Così di Virgilio si disse che anch'egli dopo aver fatto quel brutto tiro alla donzella che lo aveva burlato, fu posto in prigione, da cui però seppe liberarsi disegnando sulla parete un vascello, che divenuto reale e sollevatosi in aria, trasportò da Roma a Napoli lui e tutti gli altri carcerati[278]. Questo fatto che ricorre anche nella leggenda di Barliario[279], lo troviamo applicato a Virgilio, non solo nel Mirabilia ma anche nella cronica mantovana detta Aliprandina perchè scritta in versi da Bonamente Aliprando nel 1414, della quale appunto qui dobbiamo parlare.

In nessuna delle tre città principali che si collegano alla vita di Virgilio questi lasciò le impressioni che lasciò in Napoli. Mantova presso alla quale egli nacque, ma dove non istette, a quanto sembra, che poco, non diede alcun prodotto fantastico intorno a lui. Nel medio evo senza dubbio Mantova non dimenticò mai di esser patria di Virgilio, e come vediamo da Donizone[280], alcune località di quei dintorni portavano il nome del poeta o si congiungevano con questo come abitate o frequentate da lui. Ma ciò si riferiva, a torto o a ragione, alle reali memorie biografiche del poeta e non includeva in alcuna guisa l'idea di una sua attività miracolosa. Se Mantova coniò moneta colla sua effigie[281], se gli eresse una statua[282], ciò fu un omaggio a lui reso dalla classe istruita del paese, nel quale è impossibile riconoscere la presenza di tradizioni fantastiche relative al poeta. Una prova di questo che io asserisco è appunto il poema in terzine che sopra ho menzionato[283]. La rozzezza della composizione e le assurdità in esso accumulate mostrano nel modo più evidente che se Mantova avesse avuto tradizioni leggendarie speciali intorno a Virgilio, l'autore sarebbe stato uomo da conoscerle e da riferirle scrupolosamente. Ma in esso non troviamo assolutamente nulla di simile. Egli parla di Virgilio come di una delle glorie mantovane, e ne tesse una biografia in parte desunta da quella di Donato, ed in parte dalle leggende virgiliane dell'epoca, estranee a Mantova. Incomincia dal parlare, seguendo l'antico biografo, del babbo e della mamma di Virgilio, e del sogno fatidico avuto da questa, dopo il quale:

«La donna fece l'animo giocondo

E quando venne lei al partorire

Nacque il figlio maschio tutto e tondo.»

Poi parla delle fattezze, degli studi e delle opere di Virgilio, delle terre da lui perdute, ma che poi riacquistò, facendosi conoscere da Ottaviano mediante il famoso Nocte pluit tota etc. etc.

Dopo aver parlato della profezia del Cristo, viene l'Aliprando a narrare l'avventura del paniere, la vendetta, e la prigionia del poeta, il quale da questa si libera nel modo che ho detto di sopra. Aggiunge che in viaggio, Virgilio per procurarsi vivande mandò uno spirito a prenderne dalla mensa di Ottaviano, il quale vedendole sparire:

«. . . . senza mancamente,

Disse: Virgilio questo ha fatto fare;

E della beffa rallegrò la mente.»

È noto come, all'infuori del nome di Ottaviano, lo stesso fatto siasi raccontato di altri maghi; e del resto anche esso ritrovasi nel libretto popolare che ho già citato, relativo a Pietro Barliario[284]. Delle opere maravigliose di Virgilio l'Aliprando non conosce che poche. Quelle ch'ei nomina si riducono alla mosca incantata, che, secondo quel ch'ei dice, era una mosca posta in un vetro, ed al Castel dell'ovo ch'ei dice fabbricato in mare da Virgilio. A queste però aggiunge una fontana d'olio[285] fatta dal poeta per uso del popolo napoletano. La morte di Virgilio è da lui narrata a tenore della biografia attribuita a Donato, e dopo avere aggiunto qualche notizia sulla sepoltura, conchiude con la seguente orazione funebre, capo d'opera d'eloquenza, ch'ei pone in bocca ad Ottaviano:

«Di scienza è morto lo più valente

Non credo che nel mondo il simil sia.

Prego Dio che grazia gli consente,

Che l'anima sua debba accettare;

Le sue virtudi non m'usciran di mente.

Ben mi dolgo. Non posso io altro fare.»

Ad onta però di questa orazione funebre e ad onta della predizione del Cristo, Virgilio presso l'Aliprando è un mago in piena regola, in ottimi rapporti con Satanasso, e munito del suo indispensabile libro magico. Giunto a Napoli dopo la sua fuga da Roma, s'accorse d'aver dimenticato questo libro, e mandò a Roma Milino[286] suo discepolo a prenderlo, raccomandandogli di non aprirlo; il che era lo stesso come dirgli: «aprilo.» Infatti postosi Milino in via, gli venne voglia d'aprire quel libro e, senza troppo lottare colla tentazione, l'aprì. Tosto una moltitudine di spiriti gli si fece innanzi, urlando: che vuoi? che vuoi? Allora Milino, per levarseli d'attorno, ordinò che selciassero tutta la strada da Roma a Napoli. — Questo racconto era una semplice ampliazione dell'altro che abbiamo già menzionato, relativo alla grotta di Pozzuoli, alla quale infatti lo riferisce Felice Hemmerlin che nel 1426 aveva visitato Napoli[287]. Con lievi varianti esso ritrovasi nella poesia, già citata, di Enrico da Müglin (XIV sec.)[288], e ad esso certamente allude Fazio degli Uberti quando, descrivendo il suo passaggio da Roma a Napoli, rammenta nel Dittamondo[289]

«quella fabbricata e lunga strada

che di Virgilio fa parlare assai.»

L'Aliprando mescolando com'ei fa la leggenda e le notizie storiche, ci conduce ad occuparci della biografia virgiliana che porta il nome di Donato. Come io già feci notare nella prima parte di quest'opera[290], questa biografia contiene interpolazioni di diverso genere, le più di origine affatto letteraria, taluna di origine popolare. Quanto v'ha di estraneo all'attività propria e reale del poeta, si riduce ad un racconto nel quale Virgilio figura come un savio che principalmente si fa notare da Augusto per la sua abilità in fatto di mascalcia. Generalmente la ricompensa che Augusto gli facea dare consisteva in pane, trattandolo come uno stalliere qualsivoglia. Avendo egli un giorno perfettamente indovinato da quali genitori provenisse un cavallo. Augusto che avea qualche dubbio sulla propria origine, volle mettere il talento di lui alla prova, interrogandolo su di ciò. Virgilio rispose ch'ei doveva essere figlio d'un fornaio, e richiesto da che lo deducesse, soggiunse ch'ei se ne accorgeva dalle ricompense che aveva da lui ricevute. Ognun vede che qui trattasi piuttosto di una risposta più o meno spiritosa, che di un fatto in cui Virgilio figuri come mago. Il solo rapporto che vi troviamo coll'idea fondamentale della leggenda, è la sapienza quasi soprannaturale del poeta per la quale anche in fatto di mascalcia sa cose che altri non avrebber saputo. Da ciò il Roth argomenta che questo racconto possa essere stato introdotto nella biografia di Virgilio in Italia, da qualche napoletano, nella prima metà del XII secolo. Noi invece crediamo che ciò sia accaduto in epoca assai più recente. Il Roth nota egli stesso che l'aneddoto non s'incontra in esemplari di Donato anteriori al XV secolo, e che in un codice di Berna del X secolo esso manca affatto; di più, lo stesso aneddoto ricorre attribuito ad un savio greco nel Novellino (seconda metà del secolo XIII)[291] e ricorre pure nelle Mille ed una notte[292]. Noi aggiungiamo che Buonamente Aliprando, il quale fa tanto uso di quella biografia, ignora affatto l'aneddoto, e che questo non si incontra attribuito a Virgilio in veruno scrittore anteriore al secolo XV, che parli o no di Virgilio mago; mentre se, come crede il Roth, fra questo racconto e il cavallo di bronzo della leggenda napoletana ci fosse qualche rapporto, l'aneddoto dovrebbe pur trovarsi presso gli scrittori che riferiscono leggende virgiliane. Dopo tutte queste considerazioni a me par difficile persuadersi che l'aneddoto possa essere stato introdotto nella biografia virgiliana prima del secolo XV[293]. Comunque sia, certo è che esso sta da sè, e che quella biografia mentre si è ingrossata con racconti d'origine puramente letteraria, pochissimo ha subìto l'influenza delle leggende d'origine popolare. Piuttosto essa ha servito, come abbiam veduto, a dar qualche notizia a taluni scrittori di leggende virgiliane, i quali ne hanno fatto uso adattandola ai loro intenti. In qualche altra biografia del poeta scritta in latino per uso scolastico, in questa ultima epoca del medio evo, si ritrova anche più apertamente l'idea del mago e dell'astrologo, ma senza grandi sviluppi. In una biografia latina inedita che già ebbi occasione di citare[294], Virgilio è detto grande mago, medico e astrologo, e viene descritta la mirabile Salvatio Romae a lui attribuita.

Gittando uno sguardo su tutto questo che abbiamo notato intorno alla leggenda virgiliana in Italia, noi possiamo conchiudere che nel nostro paese essa non prese mai quelle proporzioni a cui giunse all'estero. La parte di essa che meglio trovò passo fra noi, fu l'avventura della cesta che, raccomandata dalla morale o dal burlesco, fece il giro dell'Europa. All'infuori di questo racconto, che, come abbiam visto, riconosce un'origine affatto separata dal resto della leggenda, il Virgilio mago e diabolico è fra noi un'eco vaga di quanto ripetesi al di fuori, piuttostochè un tipo riccamente caratterizzato come lo è altrove. Nel XIV secolo, mentre la leggenda avea avuto fuori quello sviluppo che abbiamo veduto, l'autore della Cronica di Partenope non ne sa gran cosa di più di quello se ne raccontava a Napoli prima che la leggenda si diffondesse in Europa. Boccaccio conosce appena due o tre fatti della leggenda napoletana; l'Aliprando, infine, sul principio del secolo XV non ha del Virgilio mago che una idea mal determinata e rozzamente contradittoria, mentre ignora la massima parte della leggenda, tanto napoletana che estera. Nè la Cronica inoltre nè l'Aliprando, nel narrare fatti leggendari, perdono mai di vista il Virgilio poeta, contrariamente a ciò che vediamo accadere presso tanti altri all'estero. Nel XVI secolo poi troviamo un fatto che mostra come in Italia poco piacesse veder mescolato il nome del poeta a quelle fiabe. L'anonimo scrittore dei Compassionevoli avvenimenti di Erasto nel rifare il testo del Roman des sept Sages che avea sott'occhio, riferisce bensì il fatto del fuoco inestinguibile e l'altro dello specchio maraviglioso che in quello trovava, ma in pari tempo sopprime il nome di Virgilio ed a Roma sostituisce Rodi. E veramente ben si può intendere come poco potessero quei racconti prosperare fra noi, quando si rifletta come fra noi appunto avesse luogo in quell'epoca il risorgimento degli studi classici. Quanto meglio si venivano studiando gli antichi scrittori con metodo serio, e nella realtà dell'esser loro, svincolandosi dalla cieca ammirazione tradizionale, tanto più si veniva dissipando l'aureola fittizia o leggendaria di cui il medio evo ne avea attorniato il nome. È chiaro adunque che essendo noi stati i primi a rialzare accesa la face del sapere, le leggende virgiliane dovean bruciarsi le ali fra di noi, e tenersi a distanza, solo in piccola parte circolando timidamente, a mala pena protette dalla superstizione, o dal burlesco.

CAPITOLO X.

Ed ora possiamo farci a dir qualcosa in succinto dell'ultima fase per cui passò la leggenda all'estero. Come abbiamo già detto, quest'ultima fase doveva essere una specie di sintesi delle antecedenti, e come la risultante di esse; e tale fu realmente. Riunite e sviluppate in un'ampia biografia, trovansi le leggende virgiliane nella cronica liegese di Jean d'Outremeuse intitolata Myreur des histors[295]. Questa cronica è una compilazione tolta da molti scrittori (di varie epoche fino al sec. XIV) che l'autore stesso nomina in principio e da molti altri che non nomina; particolarmente in ciò che concerne la storia antica, è un enorme guazzabuglio d'ogni sorta di leggende e di fantasticherie innumerevoli. La biografia di Virgilio trovasi in essa mescolata con altri racconti che l'interrompono a quando a quando, poichè l'autore non dimentica che, scrivendo una cronica, prima sua guida devono essere le date; ed a queste tiene talmente che, non avendole, le inventa; il che, trattandosi per lo più di leggende, gli avviene nella massima parte dei casi. Nondimeno lasciando a parte tutte le date immaginarie che la legano e la mescolano al resto, quella biografia può benissimo considerarsi come un lavoro staccato che l'autore ha composto separatamente prima di distribuirne le varie parti nella cronica secondo le date. E questo lavoro è curiosissimo a più d'un riguardo.

L'autore ha avuto sott'occhio l' Image du monde principalmente, ed oltre a questa altri testi francesi e latini nei quali si parlava di maraviglie virgiliane. Egli ha cercato di riunire più fatti leggendari che potesse, talvolta anche dando come fatti diversi due o più versioni di uno stesso fatto[296]. Altri fatti ha aggiunto del suo, altri ha sviluppati con un lavoro di fantasia che poteva esser meglio impiegato. In tutto questo però egli ha cercato di tener più lontano che fosse possibile il personaggio reale, e si è guardato bene dal fare come l'Aliprando ed altri, che mescolano le notizie tratte da Donato alle leggende. Il Virgilio ch'egli ci presenta offre tre differenti aspetti, tutti e tre leggendari, cioè il mago, il profeta di Cristo, il galante. L'esclusione di ogni fatto storico è tanto più notevole che essa è fatta di proposito, poichè l'autore era senza alcun dubbio uomo da conoscere le poesie e le antiche biografie virgiliane, e nel suo lavoro si vede chiaro ch'egli s'è dato da fare per accumular più notizie che poteva. Se poi egli ha tenuto ad allontanare ogni idea che rammentasse in modo troppo preciso il personaggio storico, ha anche rincarato sul personaggio leggendario, spingendo al massimo grado tutto quanto potesse caratterizzarlo nei tre aspetti summentovati.

La scena dei fatti di Virgilio riman sempre Roma e Napoli, ma la sua origine non è italiana: Virgilio era figlio di Gorgilio re di Bugia in Libia. Partito in cerca d'avventure, arrivò nel regno dei Latini dove il re, che era zio di Giulio Cesare, tanto gli parlò di Roma, che s'invaghì d'andarvi e vi andò. Tedioso però ed inutile sarebbe riferire qui tutta la farragine di bizzarre e balorde fantasticherie che trovansi ammassate in questa biografia. Noterò solamente quanto può servire a mostrare il rapporto di essa colle leggende che già conosciamo, in modo generale. — Tutto quanto abbiamo riferito intorno a Virgilio mago era più che sufficiente a caratterizzarlo con colori assai vivi come tale, e quindi Jean d'Outremeuse non avea bisogno per questo lato di aggiungere gran cosa a quanto aveva raccolto da varie parti. Nondimeno egli alcune cose ha aggiunto, talune delle quali non servono che ad aumentare in qualche modo il grandioso del genere di vita che la magia dovea procurare a Virgilio. Così, fra le altre, nuova è l'aggiunta di certi desinari che dà il mago, nei quali, per divertimento degli invitati, egli fa eseguire dai suoi folletti ogni sorta di giuochi e di beffe ridicole[297].

Molto più notevole è lo sviluppo che Jean d'Outremeuse ha dato all'idea di Virgilio profeta di Cristo. Abbiamo veduto altrove come e quando nascesse questa idea, di origine non popolare, ma poi divenuta tale. Alle leggende relative a Virgilio mago essa veramente non si mescolò che poco[298], quantunque non mancassero taluni contatti da noi già notati; ma Jean d'Outremeuse, che in questo genere faceva di ogni erba fascio, s'incarica di mescolarcela per bene. S'era detto che Virgilio nel riferire le parole della Sibilla avesse servito di testimonio alla fede, senza saperlo; ma s'era anche detto da qualcuno ch'egli coi noti versi della quarta ecloga intendesse realmente profetare il Cristo. Jean d'Outremeuse va più oltre, e siccome non pare che ami parlare dei versi del poeta, come quelli che ricorderebbero il personaggio reale, egli non rammenta nè quei versi nè la Sibilla, ma introduce Virgilio a fare ogni sorta di sermoni ai Romani ed anche agli Egiziani, nei quali non si contenta di predire la venuta di Cristo, ma entra in tutti i particolari della vita e morte del Salvatore, spiega l'unità di Dio, la trinità e tutti gli articoli del Credo, e così converte molti alla fede che dovea venire. Tutto ciò non gl'impediva di fare il mago; ma quando la famosa testa gli predisse la sua morte prossima, allora mandò in malora tutti i folletti che lo servivano, e s'umiliò dinanzi a Dio facendo il suo atto di fede, scrisse un libro sulla dottrina cristiana, diede un ultimo desinare per congedarsi e inculcar nuovamente le credenze cristiane, si fece anche battezzare in modo provvisorio, e finalmente si dispose a morire tenendo dinanzi un libro di teologia e stando seduto su di un seggiolone, sul quale di sua mano avea scolpito tutti i fatti del nuovo testamento, dall'Annunziazione all'Assunzione. E così rimase che neppur parea morto, finchè venuto San Paolo in cerca di lui e tiratolo pel manto, cadde in cenere. L'apostolo pianse credendolo morto pagano, ma si consolò leggendo il libro ch'ei lasciò scritto.

Come all'idea del profeta, così Jean d'Outremeuse ha saputo dare grande sviluppo all'avventura della cesta che, amplificata e modificata, costituisce il fondo di tutta la parte galante della sua biografia virgiliana. Poche donne furono così perdutamente innamorate quanto fu di Virgilio, che pur non avea mai veduto ma di cui molto avea inteso parlare, la bella Febilla figlia di Giulio Cesare. Tanto cocente ed irrefrenabile fu questo amore, che posto da banda ogni riguardo, chiamato a sè Virgilio, l'imperiale donzella gli fece la seguente troppo disinvolta dichiarazione: «Sire Virgile, dites-moy se vos aveis amie; car se vos me voleis avoir, je suis vostre por prendre à femme ou estre vostre amie; s'il vos plaiste.» Virgilio rispose che veramente, quanto a prendere moglie, non era ne' suoi desiderî, ma che l'amerebbe volentieri, se così le piaceva. Così incominciò fra loro una tresca amorosa che durò a lungo. Intanto Virgilio operava prodigi, e col crescere della sua fama, cresceva in Febilla a dismisura l'amore e la voglia di chiamarsi sua legittima consorte. Ogni volta però che Febilla toccasse questo tasto, e ciò accadeva sovente, Virgilio rispondeva che pel momento aveva altro a pensare, «ilh moy convient penser à outres chouses», e che i suoi studi non gli permettevano di ammogliarsi; se però un giorno gli venisse questa voglia, essa sarebbe la preferita. Ma quel giorno non arrivava mai, e Febilla insisteva; e Virgilio duro. Finalmente stanca di vedersi rimandare alle calende greche, un bel giorno inventò una favola del babbo che aveva tutto scoperto e minacciava terribili punizioni. Non l'avesse mai detto! Virgilio che la sapeva più lunga di lei, rispose che raccontasse ad altri quelle fandonie, e che di matrimonio egli non ne voleva sapere; però se le piacesse, volentieri continuerebbe la loro relazione come prima. Febilla sdegnata finse accettare, meditando vendetta; disse che il padre, per impedire ogni rapporto fra loro, voleva rinchiuderla in una torre; ch'essa però gli proponeva di farlo entrar dalla finestra, facendolo tirar su in una cesta. E qui ha luogo il fatto che già conosciamo, ma in modo ben diverso. Jean d'Outremeuse s'è accorto di ciò che abbiamo notato, che cioè il Virgilio mago della seconda parte del racconto mal si poteva accordare col Virgilio beffato della prima; quindi ha introdotto in questa una variante che toglie la contradizione. Virgilio, secondo il suo racconto, s'accorse della trappola che gli era tesa, ma per fare che a Febilla succedesse come ai pifferi di montagna, finse di non accorgersene, e nella cesta fece entrare uno spirito che animava un fantoccio di sembianza affatto eguale alla sua. Lo spirito recitò benissimo la sua parte, e quando il giorno dipoi l'imperatore, chiamato a punire lo scellerato seduttore di sua figlia, sguainata la spada, diede un gran colpo sul capo al supposto Virgilio, rimase tutto sconcertato vedendo uscire dalla ferita, in luogo di sangue, un fumo puzzolente e così denso che i Romani si trovarono al buio come di notte.

Non contento di ciò, Virgilio se ne andò da Roma portando via il fuoco, ma mosso dalle preghiere dell'imperatore e del popolo romano, si piegò a far la pace. Non potè tenersi però dal fare un altro brutto scherzo alla povera Febilla, poichè dispose in modo coi suoi incanti che tutte le donne che trovavansi in un certo tempio, si mettessero a proclamare ad alta voce ogni loro segreto; e fra queste era Febilla, che pare ne raccontasse delle belle. Intanto ha luogo la morte di Giulio Cesare, a cui succede Ottaviano, a dispetto della vedova che pretendeva il trono toccasse a lei. D'accordo colla figlia Febilla, essa cerca il modo di sbarazzarsi di Ottaviano e di Virgilio, grande ausiliare di lui. Ma Virgilio, che tutto sa e tutto prevede, organizza col mezzo dei suoi spiriti una nuova burla, che qui per brevità non raccontiamo, in seguito della quale le due donne, credendo avere ucciso Ottaviano e Virgilio, s'accorgono d'avere ucciso due mastini. Virgilio che però alla burla volea far seguire la punizione, va su tutte le furie quando sa che le due colpevoli si son dileguate per opera del senato, e, nell'ira, abbandona Roma per sempre, portando via il fuoco e facendo sapere ai Romani che se ne vogliono avere vadano a procurarsene sulla persona di Febilla. Costei costretta a sottoporsi a quel supplizio, muore di vergogna e di rabbia. E qui finiscono i rapporti di Virgilio col sesso femminile, secondo il Mireur des histors. Della Bocca della verità parla anche Jean d'Outremeuse, ma dell'aneddoto a questa relativo non fa parola.

Come i lettori avranno già osservato, Jean d'Outremeuse non ha fatto che amplificare più che ha potuto i vari dati della leggenda, riducendola ad un assieme più compatto, ritoccandone e rafforzandone i tratti principali. Ma questa sua versione rimasta confinata in una cronica voluminosa e di poco grido, mentre come sintesi ci offre il quadro di tutto uno stadio della leggenda, rimane un'opera individuale affatto sprovvista di conseguenze nella vita della leggenda stessa che non ne subì l'influsso. Infatti il libretto popolare relativo a Virgilio, che troviamo notissimo e diffuso in Europa fin dal secolo XVI, ha un carattere affatto diverso da questa versione, colla quale non ha in comune che alcuni racconti attinti alle stesse sorgenti. Basta un leggero esame per accorgersi che questo libro è nato certamente in Francia[299]. Non se ne conoscono manoscritti, ma non pare che la sua composizione sia anteriore all'invenzione della stampa, e la più antica versione stampata che se ne conosca è la versione francese, intitolata: Les faits merveilleux de Virgille, della quale esistono più edizioni rarissime del principio del secolo XVI e due stampe moderne, anch'esse assai rare[300]. La popolarità di questo libretto fu tale che passò tradotto a varie nazioni. Se ne conoscono a stampa tre traduzioni, inglese[301], olandese[302] e tedesca[303], oltre ad una inedita islandese[304]. Come accade nelle traduzioni dei libri popolari, queste presentano delle varianti, ma di poca entità, come quelle che se aggiungono un racconto o ne sostituiscono talvolta uno ad un altro, non alterano punto il carattere generale del romanzo.

L'idea del profeta, che è tanto sviluppata ed ha sì gran parte nella favola tessuta da Jean d'Outremeuse, manca totalmente nel libretto popolare. In questo inoltre, quanto ai fatti maravigliosi operati da Virgilio, non s'incontra quell'opera d'erudito che offre Jean d'Outremeuse, il quale ne cerca dappertutto, e non vuole ometter nulla di quanto ha trovato scritto intorno a ciò. Nei Faits marveilleux una quantità di queste opere, particolarmente di quelle che consistono in talismani, come la mosca, il cavallo e simili, sono omesse. In compenso, altre parti della leggenda sono trattate con assai maggior libertà, di quello lo siano presso Jean d'Outremeuse.

Incomincia il libretto con una leggenda relativa alla fondazione di Roma e della città di Reims, leggenda che esisteva già indipendentemente dal libretto virgiliano e che incontriamo nel Roman d'Atis et Profilias[305]. Virgilio nacque da un cavaliere delle Ardenne, non molto dopo fondata Roma, e quand'ei venne alla luce tutta Roma tremò. Mentre studiava a Toledo seppe che alla madre erano stati usurpati i beni, e chiamato da essa, accorse a Roma. Non avendo potuto ottenere giustizia dall'imperatore[306], egli perseguita i suoi nemici con incanti, e assalito dall'imperatore stesso nel suo castello, sa fare in modo colle arti magiche che questi deve rinunziare a fargli guerra, e deve reintegrarlo nei suoi beni. In questa aggiunta è facile riconoscere, come idea fondamentale, una reminiscenza di un fatto biografico tramandato dall'antichità intorno a Virgilio, e ben noto a chiunque ha letto la prima ecloga. L'avventura della cesta che in Jean d'Outremeuse ha subito tutti quei cambiamenti che abbiamo visto, nel libretto rimane intatta. A questa però ed all'aneddoto relativo alla Bocca della verità (cambiata in questa versione nella bocca di un serpente di bronzo), sono venuti ad aggiungersi altri fatti che danno al libretto tutte le caratteristiche del romanzo. Virgilio era ammogliato; e fra le tante cose di pubblica utilità avea fatto una statua che si teneva librata in aria ed era visibile da ogni punto della città. Questa statua avea la proprietà di scacciare da qualsivoglia donna la vedesse ogni men casto pensiero[307]. Ciò non parve bello alle Romane, che istigarono la moglie di Virgilio a toglier di mezzo quell'impaccio; e costei di fatti, in un momento in cui suo marito era assente, servendosi di un maraviglioso ponte fatto da lui, la buttò giù. Virgilio tornò, si crucciò, e ripose la statua al posto; la moglie di nuovo esortata dalle Romane, volle gittarla giù; ma questa volta il marito la colse sul fatto, e la mandò a raggiungere la statua. Scoraggiato allora ei rinunziò a lottare colle male voglie femminili: «pour bien je l'avoye faite (la statue); mais plus ne m'en meslerai et facent les dames à leur voulentè»[308].

Se anche questo aneddoto è aggiunto agli altri due nello stesso spirito persecutore del sesso femminile, non così le altre avventure galanti che a questo fan seguito. Disgustato della moglie, Virgilio si rammenta d'aver udito parlare di una bellissima figlia del Soldano di Babilonia. In un baleno arriva presso di lei, la seduce, e la trasporta per l'aria fino a Roma. Quando però la damigella volle tornare presso suo padre, egli immediatamente la riportò là dove l'avea presa e tornò a Roma. Il Soldano chiese alla figlia dove fosse stata e con chi, e questa raccontò tutto l'accaduto, tranne il nome del rapitore, a lei ignoto. — Quando egli ritorni, le disse il Soldano, pregalo di darti alcune frutta del suo paese. — E così essa fece; e il Soldano conobbe di qual paese fosse il seduttore di sua figlia. Ma ciò non bastava. — Quando egli ritorni, ingiunse di nuovo il Soldano alla figliuola, tu farai in modo che, prima di porsi a giacere, beva di una pozione soporifera che io ti darò; così sapremo chi egli sia. — Ma la vera ragione di questo agguato, era ch'egli voleva impadronirsi del seduttore per punirlo. Ed infatti Virgilio e la sua druda presi e legati e posti in prigione, furon condannati ad essere arsi vivi. Ma il giorno dell'esecuzione Virgilio fece un incanto tale che al Soldano e a tutti quanti lì erano parve che il fiume straripato allagasse. Tutti credendosi sott'acqua e minacciati d'affogare, facevano atto di nuotar disperatamente, mentre il mago, dinanzi agli occhi loro sollevatosi in aria, trasportava a Roma la sua bella. Proponendosi di darle marito e volendo accrescerle la dote, fondò per lei la città di Napoli, tanto bella, che l'imperatore di Roma, invogliatosi d'averla, l'assediò; ma Virgilio coi suoi incanti lo costrinse a ritirarsi, e la damigella allora fu maritata ad un nobile di Spagna che aveva aiutato Virgilio nella difesa della sua città[309]. In Napoli egli pose una scuola di negromanzia, fece un ponte per uso dei trafficanti, e molte altre belle cose, fissandovi la sua dimora finchè morì.

La leggenda per lo innanzi, come abbiam visto, aveva accettato, aggiungendovi certe circostanze, la tradizione storica relativa alla morte di Virgilio. Ma a chi compose i Faits merveilleux non parve degno di un tanto uomo il morire d'una semplice e volgare infiammazione cerebrale. Secondo la versione francese di questo libretto popolare, Virgilio un dì, essendosi posto in mare per diporto, fu sorpreso da una forte burrasca e non si rivide più, nè se ne seppe più nuova. Più grandioso e più degno della sua vita è il genere di morte che a lui fa fare la versione inglese, olandese e tedesca. Virgilio accortosi d'esser vecchio, volle aver ricorso alle sue arti per ringiovanire. Dopo aver dato tutte le istruzioni necessarie al suo servo fedele, si fece tagliare a pezzi e salare da costui. Tutto essendo stato eseguito con esattezza, la cosa procedeva assai bene e la rigenerazione già cominciava ad effettuarsi. L'imperatore però che, divenuto amico grande di Virgilio, molto stava in pena non vedendolo da più giorni, sopraggiunto inopportunamente, ruppe, senza saperlo, l'incanto. Allora fu visto un fanciullino tutto nudo fare tre volte il giro della tina che conteneva le carni di Virgilio, gridando: «maledetta l'ora che qui venisti»; dopo di che sparì, e il poeta rimase morto. Questo racconto che rammenta l'antica favola di Medea e Pelia, s'incontra non di rado negli scrittori del medio evo[310] senza il nome di Virgilio, al quale lo troviamo applicato assai tardi. Per una singolare combinazione esso fu applicato anche a Paracelso che nelle sue opere parla di Virgilio mago!

L'avventura colla figlia del Soldano affatto diversa nell'indole sua da tutte le altre, nelle quali Virgilio figura alle prese colle astuzie femminili e in guerra col bel sesso, è in questo libretto un'aggiunta presa certamente, come le altre aggiunte d'altro genere, da altri racconti popolari[311] e forse da qualche romanza spagnuola. Certo, benchè da lontano, non ad altro che a questo dei racconti virgiliani può ravvicinarsi il Romance de Virgilio[312] che troviamo nel Romancero del 1550. In esso il Virgilio della leggenda è appena riconoscibile; il mago potente e prepotente s'è dileguato, non però per cedere il posto al profeta, all'enciclopedico e molto meno al poeta. L'unica caratteristica che rammenti il Virgilio leggendario in questa romanza è quella dell'innamorato. Virgilio in essa è un buon hidalgo che punito per una colpa amorosa, sopporta la pena con santa pazienza, ed in premio della sua rassegnazione ottiene l'oggetto dei' suoi desideri, da cui è riamato, e con cui si marita in grazia del re e di monsignore arcivescovo[313]. Riferirò qui la romanza stessa tradotta pedestremente:

«Comandò il re che Virgilio fosse arrestato e posto in luogo sicuro per cagione di un tradimento ch'ei commise nel palazzo reale, poichè fece violenza ad una giovane chiamata donna Isabella. Sette anni lo tenne in prigione senza che di lui si rammentasse. E una domenica stando a tavola[314] di lui si rammentò. — Miei cavalieri, e Virgilio? che n'è di lui? — Allora parlò un cavaliero che a Virgilio portava affetto: — «prigione lo tiene tua Altezza, in carcere lo tiene.» — «Su mangiamo, mangiato che avremo si andrà a veder Virgilio.» — Allora parlò la regina: — «Senza di lui non mangerò io.» — Alle carceri sen vanno là dove Virgilio sta. — «Che fate qui Virgilio, Virgilio che fate?» — «Signore, pettino i miei capelli e pettino la mia barba. Qui mi crebbero e qui dovranno incanutire, che oggi compiono sette anni da che mi facesti arrestare.» — «Chetati, chetati Virgilio, che a dieci ne mancano tre.» — «Signore, se l'ordina tua Altezza, tutta la vita mia ci rimarrò.» — «Virgilio, in premio di tua pazienza verrai a mangiar meco.» — «Lacere sono le mie vesti, nè così posso presentarmi.» — «Io te ne darò, Virgilio, io ordinerò che te ne diano.» Ciò piacque ai cavalieri e piacque alle donzelle, e molto più piacque a una dama chiamata donna Isabella. Chiamano un arcivescovo e con Virgilio la maritano. Ei la prende per mano e seco la mena in un verziere.»

Così si chiude la lunga storia delle varie e bizzarre vicende che subì la grandiosa nominanza del poeta fino a tutto il medio evo. Dopo il secolo XVI le leggende virgiliane si dileguano e solo ne rimane la notizia agli eruditi. Il regno della credulità vacillava e cadeva; le fole e i fantasmi ch'esso generò, nudrì, e accreditò sparivano dinanzi alla luce viva della ragione e della critica irresistibilmente progredienti e trionfanti, dinanzi alla filosofia dell'esperienza che segnava per sempre la via unicamente sicura alla indagine del vero. Da queste irradiata, la più alta e nobile regione dell'attività umana liberavasi dai prodotti degli spiriti incolti, dai sogni di un'epoca di aberrazione, e li eliminava dall'opera del pensiero scientifico ed artistico. La cosa però non avveniva senza contrasti, e poichè già propriamente scientifica era la nuova via sulla quale il pensiero si spingeva, le tracce delle leggende virgiliane incontransi ancora per qualche tempo in talune opere dotte che hanno per soggetto le scienze occulte. Già nei secoli XV e XVI Tritemio, Paracelso, Vigenère, Le Loyer ed altri in opere di tal natura rammentavano le leggende della magia virgiliana, e ci credevano, ed anche le aumentavano[315]. Poi nel secolo XVII agitavasi fervidamente la questione se la magia e la stregoneria fossero veramente cosa reale[316], questione puerile adesso, ma paurosamente seria quando essa era sollevata dalle fiamme dei roghi e dalle grida dei torturati; e quelli che opinavano affermativamente rammentavano talvolta anche la magia virgiliana come verità storica. Uomini che per la tempra dell'animo e la forma del loro pensare aderivano ancora al medio evo, non riuscivano a persuadersi che un cancelliere quale fu Gervasio di Tilbury, avesse potuto narrare cose non vere[317]. Ma l'assennato e dotto Gabriele Naudé distruggeva quelle e tante altre simili favole in un libro che rimase celebre[318], e che oggi può parere opera facile ed ingenua, ma non era tale allora, nè infatti le mancarono oppositori. Il progresso ulteriore e il completarsi del rinnovamento intellettuale fece poi dimenticare a lungo il medio evo e vederlo come cosa lontana, poco degna di attenzione e poco intelligibile. Le leggende virgiliane rimasero allora rammentate talvolta dagli eruditi come una curiosità, e come curiosità si conservavano in talune raccolte di oggetti antichi alcuni specchi magici ai quali trovavasi attribuito il nome di Virgilio[319]. Nei tempi più prossimi a noi, quando cominciava quel movimento di studi sul medio evo che tanto ha arricchito e illuminato la scienza ai nostri giorni, l'idea che si aveva dell'antico poeta latino era tanto lontana dall'idea medievale che mal s'intendeva come mai quelle leggende avessero potuto prodursi, e più d'un dotto ricusò di credere che in esse si trattasse del grande poeta latino, preferendo riferirle a Virgilio vescovo di Salisburgo, o ad un altro qualunque Virgilio medievale[320]. L'idea era erronea certamente ed avea contro di sè ogni sorta di fatti evidenti che è facile rilevare dal nostro volume, certo però essa era più sbrigativa di quella via lunga e intralciata che noi abbiam dovuto seguire per intendere nelle sue cause, nella sua natura e tutto intiero il Virgilio delle menti del medio evo.

In quanto è tradizione orale popolare, le leggende virgiliane non rimasero vive dopo il medio evo che a Napoli e nel resto dell'Italia meridionale, ove nacquero prima[321]. Sul Monte Vergine erano in piena vita nel secolo XVII. Il P. Giordano, abate di quella congregazione, le accetta come cosa storica, tessendo una strana biografia del poeta, con opera di erudito, per la quale, oltre alle fonti storiche e leggendarie già conosciute, si appoggia anche alla tradizione orale, aggiungendo però anche molto che è evidentemente di sua invenzione[322]. Secondo il P. Giordano, Virgilio aveva l'idea fissa di intendere il significato dei libri sibillini, nei quali alludevasi alla venuta di Cristo. I versi che segnò nella 4.ª ecloga erano desunti da quelli, ma senza ch'ei ne intendesse il vero valore. Tanto studiò per intenderli e tanto si rammaricò di non riescire che ne ammalò; per rimettersi in salute chiese d'andare a Napoli, e Ottaviano lo fece console di questa città. Per riposarsi delle gravi cure del consolato andò a passare alcuni giorni in Avella, ove intese parlare del famoso oracolo di Cibele che allora trovavasi su quel monte che poi fu chiamato Montevergine. Andò ad interrogarlo sul significato delle profezie sibilline, ma non ottenne risposta; rinnovò la domanda e l'oracolo disse: «Satis est; discedite»; importunato però sempre più, l'oracolo rispose: «satis est; nondum tempus.» Credendo ciò promettesse una risposta per l'avvenire, Virgilio fecesi una villa su quel monte per dimorarvi e posevi il noto giardino maraviglioso e medicinale. Ma risposta non ebbe mai; di che venne in tanta malinconia che sempre gemeva e sospirava. Finalmente perduta ogni speranza, risolvette di abbandonare i libri sibillini e darsi alla composizione dell'Eneide e intraprese quel viaggio di Grecia e d'Asia che gli fu fatale. — In questa narrazione, esposta molto prolissamente dall'autore, troviamo una combinazione di elementi storici e leggendari con elementi fantastici del tutto nuovi, dovuti certamente al P. Giordano, che per essi non cita alcuna autorità orale o scritta, come suol fare quando può.

A Napoli seguitarono quelle leggende, non senza modificarsi, a vivere a lungo sulla bocca del popolo, ed ancora al principio di questo secolo ne fanno menzione parecchi visitatori di quella città[323]. Uno di questi parla di una visita ch'ei fece alla Scuola di Virgilio[324] e riferisce, non sappiamo quanto fedelmente, parte della sua conversazione con un vecchio pescatore da lui trovato colà e che dimorava ivi presso. Questi gli diceva: «Si sieda colà su quel muricciuolo; là soleva sedersi Virgilio. Ivi l'hanno spesso veduto col libro in mano. Era un uomo bello e florido; con arti magiche avea saputo conservar la sua gioventù. Su tutti questi muri stavan disegnati circoli e linee. Qui egli stava col principe Marcello e gl'insegnava i segreti del mondo degli spiriti. Spesso nelle più orribili tempeste, quando nessun pescatore ci si sarebbe arrischiato, essi si ponevano in mare su di una barca. Non v'era rematore che temesse quando egli trovavasi nella barchetta; e quando più orribilmente imperversava la tempesta, più si compiaceva di trovarsi qui. Spesso si poneva a stare su in cima al monte e di là contemplava il golfo. Molte cose furono da lui scritte colà. Potrebbe darsi che fossero profezie, perchè non era tempesta ch'ei non predicesse. Ei visitava i giardinieri e gli agricoltori, dava loro molti utili consigli, ed insegnava loro sotto quali segni meglio convenisse porre in terra la semenza. Spesso con potenti parole magiche soleva disperdere la tempesta e la bufera appena mostrasse venir giù dalla parte del Vesuvio, e per notti intiere lo vedevano rimanere collo sguardo fisso sul monte, quando fin sul suo capo sfolgoravano i lampi, probabilmente in tranquillo colloquio con gli spiriti. — Da lungo tempo si aveva l'idea di fare una strada che da Napoli passasse pel Posilipo. Ei vi provvide a un tratto. In una notte i suoi spiriti compirono la strada che va per la grotta scavata nel monte. Un'altra volta egli giovò ai napoletani in un modo maraviglioso. Le zanzare si erano tanto moltiplicate in questi luoghi quanto in Egitto ai tempi di Mosè. Ei fece una grossa mosca d'oro, che al suo comando sollevatasi in aria scacciò tutti quegli ospiti incomodi. Così pure una volta tutte le sorgenti e le fonti del regno eran divenute pericolose per le innumerevoli sanguisughe che v'erano nate; con una sanguisuga d'oro ch'ei fece e che gittò in una fonte tolse di mezzo anche questo guaio. —

Il vecchio (aggiunge il viaggiatore) avrebbe ancora continuato a lungo, ma già si era fatto scuro nella grotta. Lo ringraziai pei suoi racconti e tornai via[325].

Oggi però anche in Napoli quelle leggende si vanno spegnendo; qualche giovane dotto napoletano, studioso di cose popolari, mi assicurava di non averne udito mai nulla; tuttavia qualche traccia ancora se ne trova, singolarmente presso la grotta di Pozzuoli, ove un popolano descrivevami la casa che su quel monte ebbe Virgilio, e narravami come rimanesse forata da quella grotta; un altro diceva, circa uno de' spiragli che veggonsi in questa, esser quella la finestra da cui Virgilio era solito parlare colla sua bella. Neppure in altri luoghi dell'Italia meridionale ed in Sicilia la memoria del grande mago è ancora estinta. A Borghetto in Sicilia si narrava ancora due o tre decenni fa una curiosa novella[326] di «Virgillu magu putenti e putirusu che cummannava l'arti arbolica (diabolica) megghiu di qualunqui magu,» nella quale vediamo il ricordo vivente della magia virgiliana mescolato alle reminiscenze dei romanzi popolari di cavalleria o Rinaldi, tanto cari a quegli isolani, e posto in rapporto Virgilio con Malagigi, il gran mago di quelli. Si narra che Virgilio era ammogliato per sua sventura con una donna cattiva e infedele che davagli guai infiniti. Disperato ei si rivolse a Malagigi che erasi fatto amico ed era «lu chiu forti maestru di cummannari a spiriti e cavarcari la scupa», e confidategli le sue afflizioni tanto lo commosse che colui lo iniziò ai segreti dell'arte magica e al comando dei folletti, come solo mezzo a sottrarsi al dominio di quella megera, perchè «Senza forza di magarìa, La mugghieri cummanna e duminia.» Virgilio usò e abusò di questa sua potenza tanto facendo tormentare la mala donna dai diavoli, che, comunque lo meritasse, i diavoli stessi, pur costretti ad obbedire, ne erano impietositi; chè sempre è proprio così «cu' havi virga 'n manu, si jetta allura a l'abusu di potiri.» Quando però Virgilio venne a morte e l'anima sua dannata si presentò all'inferno, trovò la porta sbarrata, e i diavoli tutti d'accordo, temendo la sua prepotenza, ricusarono di riceverlo. Ciò dispiacque a Malagigi, il quale pensò a provvedere; raccolte le ossa e l'anima spersa di Virgilio le portò in un'isola vasta e fonda e le ripose in una sepoltura di pietra grande come una bella casa, senza coperchio, e dopo fattivi sopra potenti scongiuri, colà le lasciò. Chi vada a quella sepoltura e guardi le ossa, tosto il cielo si oscura rannuvolato e lampeggia e tuona e saetta, e il mare si mette in terribile burrasca ingoiando barche e bastimenti. — In questa novella, più che il riflesso del Virgilio alle prese col sesso femminile, d'origine non napoletana, è notevole quello della leggenda, certamente napoletana e antica, circa le ossa di Virgilio delle quali, come vedemmo[327] già almeno nel XII secolo, secondo Corrado di Querfurt, credevasi a Napoli che si trovassero lì presso in un castello tutto cinto dal mare «e se vengano esposte all'aria si fa subito scuro d'ogni dove, si ode lo strepito di una tempesta, il mare si commove tutto, si solleva e mettesi a procellare.»

Quella sapienza maravigliosa e riposta per cui si credette a Napoli che Virgilio facesse la grotta di Pozzuoli e altre mirabili opere di utilità pubblica, divenuta stregoneria e già applicata, come vedemmo[328], in leggende simili a Roma e ad altri luoghi, ritrovasi ricordata ancora a Taranto nella tradizione popolare che attribuisce a Virgilio quell'antica opera colossale che è l'acquedotto del Triglio. Dicesi colà che «lo stregone Virgilio disputava alle streghe il dominio di Taranto e quindi cercava di affezionarsi i tarantini con opere ad essi accette. I tarantini in quel tempo erano afflitti da lunga e penosa siccità, e niente avrebbe potuto essere a loro più gradito che di avere acqua. Onde Virgilio dalla parte del Triglio cominciò a costruire un acquedotto e lo condusse a termine in una notte; della qual cosa furono oltremodo contenti i tarantini. Le streghe dalla parte loro, non volendo rimanere inferiori al rivale, cominciarono anch'esse l'acquedotto di Saturo; ma sul far dell'aurora non avevano compiuto che la metà del condotto quando fu loro annunziato che l'acqua era già in Taranto per opera di Virgilio a cui la città faceva festa e plauso»[329].

A quell'estremo lembo d'Italia vedemmo giunta già la rinomanza della magia virgiliana nel XIII sec., in Ruggieri Pugliese che vi alludeva dicendo «e saccio tutta l'arte di Virgilio»[330]. Bello è vedere tuttora vivente colà dopo parecchi secoli la ricordanza di quelle «arti di Virgilio» a cui alludeva il rozzo benchè aulico poeta della scuola siculo-provenzale, nel seguente ben più fino, sincero e grazioso canto d'amore udito sulla bocca di una contadina in un piccol villaggio presso Lecce, a non molta distanza da Brindisi ove il poeta morì[331]:

«Diu! ci tanissi[332] l'arte da Vargillu!

'Nnanti le porte to' 'nducìa[333] lu mare,

Ca da li pisci me facìa pupillu[334]

'Mmienzu le riti to' enìa[335] 'ncappare;

Ca di l'acelli me facìa cardillu,

'Mmienzu lu piettu to' lu nitu a fare;

E suttu l'umbra de li to' capilli

Enìa de menzugiurnu a rrepusare.»

FINE.

TESTI DI LEGGENDE VIRGILIANE

I. CORRADO DI QUERFURT

(Ved. vol. II,pag. 24 ).

Vidimus etiam operosum opus Virgilii Neapolin, de qua nobis mirabiliter Parcarum pensa dispensaverunt, ut muros civitatis eiusdem, quos cantus fundavit et erexit philosophorum, imperialis iussionis mandato destruere deberemus. Non profuit civibus illis civitatis eiusdem imago, in ampulla vitrea magica arte ab eodem Virgilio inclusa, arctissimum habente orificium, in cuius integritate tantam habebant fiduciam, ut eadem ampulla integra permanente, nullum pati posset civitas detrimentum. Quam ampullam sicut et civitatem in nostra habemus potestate, et muros destruximus, ampulla integra permanente. Sed forte quia ampulla modicum fissa est, civitati nocuit. In eadem civitate est equus aereus, magicis incantationibus a Virgilio sic compositus, ut ipso integro permanente nullus equus possit redorsari, cum tamen de vitio naturali sit illi terrae proprium, ut ante equi illius compositionem, et post eiusdem equi quantulamcunque corruptionem, nullus equus sine dorsi fractura possit equitem aliquandiu vehere. Ibidem est porta firmissima, instar castelli aedificata, valvas habens aereas, quas nunc satellites tenent imperiales, in qua constituerat Virgilius muscam aeream, qua integra permanente, nec una musca civitatem potuit introire. Sunt ibidem in castro vicino in supercilio civitatis, undique mari incluso, ossa Virgilii, quae si libertati exponuntur aëris, totius facies aëris obscuratur, mare funditus evertitur, et tumidis aestuat procellis, insperateque consurgit strepitus tempestatis; quod nos vidimus et probavimus. Sunt in vicino loco Baiae quarum meminerunt auctores, apud quas sunt balnea Virgilii... Caeterum ad mentem reducimus quod apud Neapolin est quaedam porta, quae Ferrea nuncupatur, in qua Virgilius omnes serpentes illius regionis inclusit, qui propter aedificia subterranea et cryptas, quae ibi plurimae sunt, abundant, quam solam inter caeteras portas destruere timebamus, ne serpentes inclusi de carcere egredientes terram et indigenas molestarent. Est in eadem civitate macellum, sic a Virgilio constructum, ut caro animalis occisi in ipso per sex hebdomadas maneat recens et incorrupta; si exportetur, foetet et apparet putrida. Est ante civitatem Vesevus mons, ex quo ignis multos involvens cineres foetidos intra decennium semel solet exhalare. Cui Virgilius opposuerat hominem aereum, tenentem balistam tensam, et sagittam nervo applicatam. Quem quidam rusticus admirans, eo quod semper balista tensa nunquam percuteret, impulit nervum. Sagitta prosiliens percussit os montis, et continuo flamma prosiliit, nec adhuc certis vicibus cohibetur.

II. GERVASIO DI TILBURY

(Ved. vol. II, pag.27 ).

De domibus Podiensibus.

In Galliis, provincia Biturricensi, civitate Aniciensi, quam vulgus Podium S. Mariae nominat, est ecclesia miraculorum frequentia celebris, reliquiis sanctorum ditata, clero populoque honorata, et inter alias praecipuas sanctae Dei genitricis Mariae memoriis frequentata... In hac est refectorium ab antiquo aedificatum, in quo nulla musca detineri potest. Huius rei novitatem mihi per auditum cognitam ad probationem per experimentum ducturus, accessi sedulus exploraturus: ficomellis vel cuiusvis pinguedinis linimento scutellis repletis cum muscae, ut assolent, insiderent, profecto rem rumore comperiens veriorem, volens fallaciam ingeniosam cogitationis humanae frustratam quadam violentia adiuvare, muscarum venator effectus, praedam in refectorio melli, lacti ac pinguedini supersterno. Tunc maior excrevit admiratio, cum vim animi et violentiam corporis a me tentatam perpendo cassari, sicque tum fide facta de auditis stupor est augmentatus. Porro in Campania, civitate Neapolitana, scimus Virgilium arte mathematica muscam erexisse aeneam, quae tantae virtutis in se habuit experimentum, quod, dum in loco constituto perseveravit integra, civitatem late spatiosam nulla musca ingrediebatur.

De carne imputrescibili macelli.

Iam nunc ad civitatem Campaniae Neapolin redeamus, in qua macellum est, in cuius pariete insertum perhibetur a Virgilio frustum carnis tantae efficaciae, quod dum illic erit inclusum in ipsius macelli continentia, nulla caro quanto tempore vetusta nares olefacientis aut intuentis adspectum aut comedentis saporem offendet. Est et in eadem civitate porta dominica Nolam, Campaniae civitatem olim inclytam, respiciens, in cuius ingressu est via lapidibus artificiose constructa; sub huius viae sigillo conclusit Virgilius omne genus reptilis nocui: unde provenit, quod cum civitas illa in ambitu plurimum spatiosa, tota columnis subterrenis innitatur, nusquam in cavernis aut rimis interioribus, aut hortis infra urbis moenia conclusis vermis nocivus non reperitur. Tertium est quod illic expertus sum, tunc quidem ipsius ignarus, sed fortuito casu reapse mihi dante scientiam et probationem, coactus sum esse sciens eius, quod si non praeventus essem periculo, vix aliena relatione fieri posse assererem. Nempe anno, quo fuit Acon obsessa, circa imminens S. Johannis Baptistae festum cum essem Salerni, de subito supervenit mihi hospes iucundus, cuius sincera dilectio cum dignatione cum diutina in scholis et curia domini mei regis vetustioris Angliae, avi vestri, serenissime princeps, commansione firmata, non iam alterum a me, sed in ipso me alterum mihi obvenisse faciebat. Exultavit cor meum propter singularitatem affectionis, et propter rumores, quos recensiare mihi tam fidelis nuncius poterat, de nostrorum prosperitate propinquorum, quorum omnium hic non tam sanguine quam amore fuit propinquissimus. Properantem ad transitum et transfretationem diu reluctantem vici precum instantia. Philippus hic erat, filius patricii olim illustris comitis Sarisberiensis, cuius neptis ex fratre comitatum Sarisberiensem iure matrimonii transfundit in istum avunculum vestrum, domine imperator. Inter volentem et invitum meliore consilio trahitur amicus ad civitatem Nolanam, ubi tunc ex mandato domini mei illustris regis Siculi Guillielmi mansio mihi erat ob declinandos Panormitanos tumultus ac fervores aestivos. Quid plura? post aliquos dies deliberavimus ad Neapolitanum mare accedere, si quo fortassis eventu paratior ac minus sumtuosa nobis illuc occurreret transfretatio. Civitatem advenimus, in hospitio venerabilis auditoris mei in iure canonico apud Bononiam, Johanis Pinatelli, Neapolitani archidiaconi, scientia, moribus, et sanguine illustris, nos recipientes, a quo iucunde suscepti, causam adventus nostri pandimus, ipseque, comperta voti nostri instantia, dum parantur epulae, mare nobiscum accedit. Facto vix unius horae spatio, succinta brevitate verborum navis conducitur pretio optato, et ad instantiam viatorum dies data ad navigandum accelerat. Ad hospitium redeuntibus sermo est, quo successu quibusve auspiciis omnia nobis desiderata tam celeri manu occurrerint. Ignorantibus et stupentibus nobis de tanta felicitate successuum: «Heus! inquit archidiaconus, per quam civitatis portam intrastis?» Cumque, quae fuerit porta, explicarem, ille perspicax intellector adiecit: «Merito tam brevi manu vobis fortuna subvenit. Sed oro, mihi veridica relatione dicatis, qua parte aditus ingressi estis, dextra vel sinistra?» Respondemus: «Cum ad ipsam veniremus portam, et paratior nobis ad sinistram pateret ingressus, occurrit ex improviso asinus lignorum strue oneratus, et ex occursu compulsi sumus ad dextram declinare.» Tunc archidiaconus: «Ut sciatis, quanta miranda Virgilius in hac urbe fuerit operatus, accedamus ad locum, et ostendam, quod in illa porta memoriale reliquerit Virgilius super terram.» Accedentibus nobis ostendit in dextra parte caput parieti portali insertum de marmore Pario, cuius rictus ad risum et eximiae iucunditatis hilaritatem trahebantur. In sinistra vero parte parietis erat aliud caput de consimili marmore infixum, sed alteri valde dissimile, oculis siquidem torvis flentis vultum ac irati, casusque infelicis iacturam deplorantis praetendebat. Ex his tam adversis vultuum imaginationibus duo sibi contraria fortunae fata proponit archidiaconus omnibus ingredientibus imminere, dummodo nulla fiat declinatio ad dextram sive ad sinistram, et ex industria procuratio, sed sicut fatalia sunt, fato eventuique committantur. «Quisquis, inquit, ad dextram civitatem istam ingreditur, semper dextro cornu ad omnem propositi sui effectum prosperatur, semper crescit et augetur; quicumque ad sinistram flectitur, semper decidit et ab omni desiderio suo fraudatur. Quia ergo ex asini obiectione ad dextram deflexistis, considerate, quam celeriter et quanta prosperitate iter vestrum perfecistis.» Non tamen haec scripsimus, quasi Sadducaeorum sectam comprobemus, qui omnia dicebant in Deo et marmore consistere, hoc est in fato et casu fortunae; cum omnia in sola Dei voluntate sint posita, secundum illud: «In voluntate tua, Domine, cuncta sunt posita, et non est, qui possit resistere voluntati tuae» etc. Sed admirationem artis mathematicae Virgilii memorabimus.

De horto Virgilii et tuba aenea.

Erat in confinio eiusdem civitatis Neapolitanae velut ex opposito mons Virginum, in cuius declivo, inter praerupta saxorum aditu gravi, Virgilius hortum plantaverat multis herbarum generibus consitum. In hoc invenitur herba Lucii, quam oves coecae quandoque tangentes statim acutissimum visum recipiunt. In eodem erat imago aenea buccinam ad os tenens, quam quoties Auster ex obiecto subintrabat, statim ipsius venti flatus convertebatur. Quid autem conversio ista Noti commodi portabat, audite. Est in confinio civitatis Neapolitanae mons excelsus, mari infixus, subiectam sibi terram Laboris spatiosam prospectans. Hic mense Madio fumum teterrimum eructuat, et interdum ardentissima ligna proiicit, exusta in carbonis colorem. Unde illic quoddam inferni terreni spiraculum asserunt ebullire. Flante ergo Noto pulvis calidus segetes omnesque fructus exurit, sicque terra feracissima ad sterilitatem ducitur. Ob hoc tanto regionis illius damno consulens Virgilius in opposito monte statuam, ut diximus, cum tuba erexit, ut ad primum ventilati cornu sonitum, et in ipsa tuba flatus subintrantis impulsum Notus repulsus vi mathesis quassaretur. Unde fit, quod statua illa vel aetate consumpta vel invidorum malitia demolita, saepe pristina damna reparantur.

De balneis Puteolanis.

Est etiam in civitate Neapolitana civitas Puteolana, in qua Virgilius ad utilitatem popularem et admirationem perpetuam balnea construxit, miro artificio aedificata, ad cuiusvis interioris ac exterioris morbi curationem profutura, singulisque cochleis singulos titulos superscripsit, in quibus notitia erat, cui morbo quod balneum deberetur. Verum novissimis diebus, cum apud Salernum studium physicorum vigere coepisset, Salernitani invidia tacti titulos balneorum corruperunt, timentes, ne divulgata balneorum potentia lucrum practicantibus auferret aut diminueret. Ipsa tamen balnea pro maxima parte intacta, diversis morborum generibus medelam tribuunt. Suspecta quoque sunt illa, quae certam incolarum non habent notitiam, aut ad virtutem memoriam, eo, quod inter duo contrariorum effectuum infirmitas infici quandoque posset quam curari.

De rupe incisa, quae nullas admittit insidias.

In eodem confinio mira virtute est ad modum cryptae mons concavus, cuius tanta est longitudo, quod medium tenenti vix duo capita comparent. Arte mathematica haec operatus est Virgilius, quod in illo montis opaco inimicus inimico si ponit insidias, nullo dolo nullove fraudis ingenio suae malitiae in nocendo dare potest effectum.

III. ALESSANDRO NECKAM

(Ved. vol. II, pag.31 ).

Sed quid? Diebus nostris nec in Aegypto nec in Graecia vigent scholarium exercitia. Floruit in Italia studium, dubiumque est utrum plus armis debuerit an litteratoriae professioni. Iulii Caesaris virtus orbem subiugavit; Tulliana eloquentia totum mundum illustravit. Sed o felicia antiquorum tempora, in quibus et ipsi imperatores mundum subhastantes, seipsos philosophiae subdiderunt! Senecam et Lucanum nobilis genuit Corduba, Mantuano vati servivit Neapolis, quae cum infinitarum sanguisugarum peste lethali vexaretur, liberata est proiecta a Marone in fundum putei hirudine aurea. Qua evolutis multorum annorum curriculis a puteo mundato et eruderato extracta, replevit infinitus hirudinum exercitus civitatem, nec sedata est pestis antequam sanguisuga aurea iterato in puteum suum mitteretur. Notum est etiam quia macellum Neapolitanum carnes illaesas a corruptione diu servare non potuit, unde et carnifices summa vexati sunt inedia. Sed hanc incommoditatem excepit Virgilii prudentia, carnem nescio qua vi herbarum conditam in macello recludentis, quae quingentis annis elapsis recentissima et saporis optimi suavitate commendabilis reperta est. Quid quod dictus vates hortum suum, acre immobili vicem muri obtinente, munivit et ambivit? Quid quod pontem aërium construxit, cuius beneficio loca destinata pro arbitrio voluntatis suae adire consuevit? Romae item construxit nobile palatium, in quo cuiuslibet regionis imago lignea campanam manu tenebat. Quotiens vero aliqua regio maiestati Romani imperii insidias moliri ausa est, incontinenti proditricis icona campanulam pulsare coepit. Miles vero aeneus, equo insidens aeneo, in summitate fastigii praedicti palatii hastam vibrans, in illam se vertit partem quae regionem illam respiciebat. Praeparavit igitur expedite se felix embola Romana iuventus, a senatoribus et patribus conscriptis in hostes imperii Romani directa, ut non solum fraudes praeparatas declinaret, sed etiam in auctores temeritatis animadverteret. Quaesitus autem vates gloriosus quandiu a diis conservandum esset illud nobile aedificium, respondere consuevit: «Stabit usque dum pariat virgo.» Hoc autem audientes, philosopho applaudentes, dicebant: «Igitur in aeternum stabit.» In nativitate autem Salvatoris, fertur dicta domus inclyta subitam fecisse ruinam.

IV. L'IMAGE DU MONDE

(Ved. vol. II, pag.81 ).

Maint autres grand clerc ont estè

Au monde de grand poesté

Qui aprisrent tote lor vie

Des sept ars et d'astrenomie;

Dont aucuns i ot qui a leur tens

Firent merveille par lor sens;

Mais cil qui plus s'en entremist

Fu Virgile qui mainte en fist

Por ce si vos en conterons

Aucune dont oi avons.

Devant Jhesucrist fu Vergiles

Qui les arz ne tint pas a guiles,

Ains y usa toute sa vie

Tant qu'il fist par astrenomie

Maintes granz merveilles a plain.

Il fist une mousche d'arain;

Quant la drecoit en une place,

Si faisoit des autres tel chace,

Que nule autre mousche qui fust

Vers li aprochier ne péust

De deus archiës tout entour,

Qu' ele ne morust sanz retour

Tout maintenant qu' ele passoit

La bende qu' il li compassoit.

Si refist d'arain un cheval

Qui garissoit de chascun mal

Les chevaus qui malade estoient,

Maintenant que véu l'avoient.

Si fonda une grant cité

Sur un uef, par tel poesté

Que qant aucuns l'uef remuoit,

Toute le cité en croloit,

Et com plus fort le croloit on,

Tant croloit plus tout environ

La vile et en haut et en plain.

La monche et li chevaus d'arain,

Et la cage ou li uef estoit

Sont encor a Naples tout droit.

Ce diënt cil qu' en sont venu,

Q'aucune foiz les ont véu.

En une cite faillir fist

Tout le feu, ausi com on dist,

Que nus point avoir n'en pooit

Se la chandoile n'alumoit

A la naissance d'une femme,

Fille d'emperéor, mout dame,

Qui li ot fet aucun anui;

Ne cil ne pooit a autrui

Point doner, ains lor couvenoit

Chascun feu prendre la endroit;

Et a cele pas n'abeli:

Ensi se vancha cil de li.

Et fist par mi une eve un pont,

Le plus grant c'onques fust au mont;

Ne sé ou de pierre ou de fust,

Mes nus autres, tant soutis fust,

Cherpentier, macon ne ovrier,

Tant séussent bien encerchier

Dedenz eve, ne dedenz terre

Qu'il péussent raison enquerre

En quel point cil ponz faiz estoit,

Ne coument il se soutenoit

Por desoz, au chief, né enmi

Et passoit on bien tout par mi.

Un jardin fist tout clos entour

De l'air, tout sanz plus autre atour,

Espessement com une nue,

De terre mout haut estendue.

Deus cierges fist toz jorz ardanz,

Et une lampe a feu dedenz,

Qui toz jorz sanz estaindre ardoient

N'onques de rien n'amenrissoient.

Ces trois enclost il si souz terre

Q'on n'es péust trover pour guerre:

Jusq'a tant qu'il devroit faillir,

Ne sai s'on i porroit venir.

Mes qui autant comme il sauroit,

Ou ceus ou autres bien r'auroit.

Et un livre fist brief et petit

Comme son poins, ou il descrit

Totes les sept arz en tel forme

C'uns hons séust toute la forme

Dedenz l'espace de trois anz,

Mes qu'il éust ordene sens.

Celui livret tint il si chier,

Que nus hons n'i pourra prechier,

Fors un suen clerc qui fu sanz guile

Le filz a un roi de Cesile.

Il fist une teste parlant

Qui li respondoit erramment

De tout ce qu'il li demandoit,

Qui en terre avenir pooit.

Tant qu'une fois li demanda

D'un suen afaire ou il ala;

Mes ele li dist une chose

Dont il n'entendi pas la glose,

Que s'il gardoit sa teste bien

Il ne l'en anvenroit for(s) bien.

Lors s'en ala séurement;

Mes li solaus qui chalor rent,

Le cervel si li eschaufa,

Dont pas garde ne se dona,

Q'une maladie l'en prist

Dont il morut si com on dist.

Qant il parla a cele teste

N'entendi pas la soë teste;

De la teste q'a lui parloit

Entendi se bien la gardoit;

Mes miex avenist toute voie

Q'il éust bien garde la soie.

Qant morust, si se fist porter

Fors de Romme, pour enterrer,

A ung chastel devers Cezile,

Pres de la mer, a une vile;

Encor i sont les os de lui

Q'en garde miez que les autrui.

Qant on les soloit remuer

Et lui en l'air en haut lever,

Si s'enfloit la mers maintenant

Et venoit au chastel corrant,

Et com plus le levoit on haut

Tant croissoit plus la mers enhaut

Que le chastel tantost néast

Se on jus ne le ravalast;

Et qant en son droit leu estoit

Tantost la mers se rabaissoit,

Ensi com ele estoit avant;

Et cé a l'en prove sovent:

Encore i dure la vertu:

Ce diënt cil qui sont venu.

Soustis fu Vergiles et sages

Et vost prover touz les langages

Des clergiës a son pooir,

De tant com plus em pot savoir.

Et fu de petite estaiure

Le dos tort un peu par nature.

Et aloit la teste baissant

Et devers terre resgardant.

V. L'IMAGE DU MONDE

( Da un MS. parigino; bibl. naz. 7991 2 )

(Ved. vol. II, pag.94 ).

Saint Pol qui fu si haut prodom

Ala par mainte regïon

Pour aprendre et pour encerchier

Les boens clers qu'il avoit tant chier.

Apres la mort Virgile avint

Que Saint Pol a Romme s'en vint;

Qui mult sot des ars de clergie,

Ainz qu'il créust le filz Marie;

Dont maint Juys et maint païen

Converti et torna a bien.

Quant il fu venu en la vile

Et il sout la mort de Virgile

Qui mort estoit novelement,

Si l'en pesa moult durement:

Quar moult convertir le vousist

Par son sens dont maint bien féist.

Lors quist ses livres ou il sot

Et trova en l'un un haut mot

De la plus bele prophecie,

C'onques fust de païen oïe,

De la venue Jhesu Crist,

Qu'il méismes avoit escrit:

Qué une novele lignie

S'estoit del ciel haut abessie,

Et la virge estoit ja venue

Qui en rendroit la terre drue.

Quant saint Pol ot léu cel mot,

Si dist de Virgile un tel mot:

Ha! se ge t'éusse trouvé,

Que ge t'éusse a Dieu donné!

Puis quist tant qu'il trouva un lieu

Qu'il avoit claïte de feu

D'une lampe qui ardroit cler

Et deus cierges pour alumer.

Cil lieu parfont en terre estoit;

Mes nus hons entrer n'i osoit:

Quar la voie estoit si orrible,

Estroite, hisdouse et penible,

Plaine de vent et de tonnoirre,

Qu'a paine le péust l'en croirre;

Ne nus hons n'i povoit porter

Lumiere qui péust durer.

Toute voiës si pres s'en mist

Que l'ymage Virgile vit

Séant sus une grant chaiere,

Et ses livres en tel maniere,

Tout environ lui par monceaus,

Moult riches par semblant et biaus.

El poing destre tint un fermé,

Aussi comme par grant chierté.

Les deus cierges vit lez lui estre,

Ardanz a destre et a senestre:

Devant lui un archier estoit,

Qui droit vers la lampe visoit;

Mez la dedenz ne pout entrer

Pour chose qu'il séust penser:

Quar a l'entree avoit deu homes

De cypre, de moult laides formes,

Qui grans martiaus d'achier tenoient,

Dont vers terre tels cox dounoient

Qué on s'i n'osist aprechier,

Que nus ne s'i osast lanchier,

Ne n'i péust mettre riens nee

C'au premier coup ne fust cassee,

Et se la chose si fort fust

C'au premerain coup rechéust:

Le lieu crolloit si au ferir,

Qu'il sembloit tout déust finir.

Quanqu'en pres fuste a une mile,

Que Saint Pol ne tint pas a guille;

Mes tant fist puis, si comme on dist,

Que les deus martiaus cesser fist:

Et li archier tantost bruisa

La lampe, et tout en poudre ala.

Saint Paul qui bien quidoit avoir

Les livres, n'i pout riens véoir

Qui ne fust en poudre et en cendre:

Si s'en retourna sanz riens prendre.

VI. ADENÈS LI ROIS

ROMAN DE CLEOMADÈS

(Ved. vol. II, pag.81 ).

Bien savez que Virgiles fist

Grant merveile, quant il assist

Deus chastiaus seur deus oes en mer;

Et si les sot si compasser,

Que qui l'un des oes briseroit,

Tantost li chastiau fonderoit,

Ouens on auroit l'uef brisie.

Encor dist on qué essaie

Fu d'un des chastiaus, et fondi:

A Naples le dist on ainsi.

Encor est la l'autres chastiaus,

Qui en mer siet et bons et biaus:

Si est li oes, c'est vérités,

Seur quoi li chastiaus est fondés.

Pres de Naples une vile a,

Puchole la claime on pieca,

Ou Virgiles fist pluseurs bains

Qui faisoiënt malades sains;

Tot seur chascun baing (a) escrit

De quel maladië garit

Estoiënt ( sic ) cil qui s'i baignoient,

Par l'escripture le savoient;

Mais sachiez que fisicïen.

Qui ont fait maint mal et maint bien,

Depecierent tous les escrits;

Car ce n'estoit pas leur pourtis:

Encor se de tels bains estoient,

Croi je que pou les ameroient.

A Naples fist il de metal

Seur un piler un tel cheval

Qui chascun cheval garissoit

D'aucun mechaing sé il l'avoit,

Mais c'on le loiast au piler:

Ca y pour voir oy conter.

Li marechal qui lors estoient

Enz ou pays, ne gaaignoient

Nule riens a mareschaucier;

Pour ce le firent depecier;

Dont il firent mal et outrage,

Mais trop leur faisoit grant damage.

Je croi qui a Naples iroit,

K'encor le cheval trouveroit.

A Ronme fist, c'est verités,

Virgiles plus grant chose assez:

Car il i fist un miréoir,

Par quoi on povoit bien savoir,

Par ymage qu'il y avoit,

Se nus vers Ronme pourchacoit

Ne faussete ne trayson,

De ceaus de leur subjection.

Et fist une mousche d'arain,

De quoi encor le pris et ain.

A Naples cele mousche mist

Et de tel maniere la fist,

Que tant com la mousche fu la,

Mousche dedenz Naples n'entra.

Mais je ne sai que puis devint

La mousche, ne qu'il en avint.

Encor Virgiles fist un fu;

Qui longuement a Ronme fu;

Ades, et nuit et jour ardoit,

Grant aise a pluseurs gens faisoit.

Devant ce feu ot un arcier,

Qui n'ert ne de fer ne d'acier,

Ainsi ert de coivre; si sambloit

Qu'il vousist traire ou feu tout droit.

En son front escrites estoient

Lettres qui en ebrieu disoient:

Qui me ferra, je trairai ja;

Et uns musars passa par la

Qui d'un baston l'arcier ferì

Et il traist el feu, s'estaint si

Qué ains puis ne fu ralumés:

Ainsi avint, c'est verités.

Molt ot en Virgile sage honme

Et soutieu; car il fist a Ronme

Une chose molt engingneuse,

Molt soutieu et molt merveilleuse:

Briement la vous deviserai

Au plus a droit que je porrai.

Ne cuidiez pas que ce soit guile,

Car as quatre cors de la vile

Seur quatre tours de la cité

Qui erent de la fermeté,

Fist quatre grans homes de piere

De tres merveilleuse maniere.

Car fait erent par nigromance;

La longueur d'une droite lance

Erent grant et d'une facon:

Seur chascune tour tout enson

En mist un, quant si fais les ot

Comme lui sist et com lui plot.

En tel maniere fait estoient

Que tout droit ades se tenoient:

Chascuns tous ses menbres avoit,

Tels com au cors apartenoit.

Or vous dirai qui la faisoient

Cil home, ne de quoi servoient.

En la main d'un des homes mist

Virgiles, au jour qu'il les fist,

Une grant pomme de laiton:

Par cele pomme savoit on

Des quatre tans la verité,

Si com de printans et d'esté,

Et de gayn qui apres vient,

Et puis d'yver. Or me convient

K'entendre face clerement

De ces tans le departement:

Pour ce furent li honme mis

Seur les tours que je vous devis.

L'une des tours ot nom Printans;

La seconde, Estes li plaisans;

La tierce, Gayns li amés;

La quarte, Yver li redoutés.

Si tost comme printans passoit

Et li tans d'este revenoit,

Li hons qui ert desus la tour

De printans, ert de tel atour,

Qué il getoit droit en la main

Del home d'este tout a plain

La pomme que tenue avoit,

Et li hom d'este la getoit

Tout droit a l'oume de gayn

Quant ses termes avoit pris fin;

Et li hom de gayn l'avoit

Tant que ses droits termes venoit.

Adont la getoit, a ce point,

A l'oume d'yver tout a point.

Chascune main ert si bendee

De fer et si bien atornee,

Qué ele brisier ne povoit

Quant la pomme en li s'asséoit.

Ainsi aloit, n'i faillist ja,

Cele pomme qui doot fu la;

Car ades a point s'esmouvoit,

De l'une tour a l'autre aloit.

VII. RENARS CONTREFAIS

(Ved. vol. II, pag.81 ).

Virgille plus fu sapïens,

Plus clerc, plus sage et plus scïens

Que nul qui a son temps vesquist,

Et plus de grans merveilles fist.

Pour voir il fist de grans merveilles;

Homs naturel ne fist pareilles:

Et si fut il bien dechéu

Cil qui fut tant sage scèu.

Ung peu de son sens vous diray,

Et puis apres je vous liray

Comment dechut fu sans fausser,

Tout par deffault de bien gloser

Combien qu'il fu(s)t de gran sens duits.

Il fist de Naples les conduits:

Parsouls terre de pierre estoient,

Qui vin grec a Romme livroient;

De dix journeés la venoit

Par les conduits que fait avoit.

Il fist un pont sur la riviere,

Que ad ce temps si sage n'yere

Qui sceust de quoy fait il estoit

Ne d'ont le fondement venoit,

Et comment la pierre on y mist.

Cil une mouche d'arain fist

Que toutes mouches qui estoient

Celle approchïer ne povoient

D'un jet d'une pierre tenant,

Qu'el'(ne) morusse(nt) maintenant.

Il refist ung cheval d'arain,

Que tout cheval plain de mehain,

Tantost que ce cheval véoient,

De ce mehaing se garissoient.

Enmy Romme ung miroir fist,

Et tout enmy Romme le mist,

Que tous ceulx qui le regardoient

D'une journeë voir povoient

Toute humaine créature

Qui avoit volenté ou cure

De Romme nuire ou grever:

La le porrent v(o)ir et trouver.

Illec(ques) véoit qui venoit

(A) Romme, ou qui nuire y vouloit.

Mainte grant chose faire osa:

Or oyer comment mal glosa.

A une dame du pays

Fut il par grant amour bays,

Et a grant merveilles l'ama

Et son coeur en elle sema:

Pluseurs fois en veille et en pense,

Tant qu'il en pert la contenance.

Ceste dame est de grant atour,

Et demouroit en une tour

Qui fut plus haute de dix lances.

Cil qui la mist ses contenances

Lui tramist une mesagiere

Qui de s'amour lui fist prïere,

Qué elle le voulsist amer

Et de fait son amy clamer;

Et, se elle vouloit richesses,

Terrïennetes et noblesses,

Tant lui donroit a dire voir

Qué elle en voulroit avoir.

Celle qui eust le coeur faintif,

Qui eust au coeur moult de despit,

Et lui manda par malvais tour

Qué elle bien volloit s'amour

Et que sa voulente feroit

Et que de coeur bien l'ameroit,

Mais ne pooit a lui aller;

Mais s'il se volloit tant pener

Et que trop il ne lui anuit,

Tantost quant viendra a minuit

Qu'il veinst au pië de la tour,

La metteroit a point son atour;

Une corbeille descendroit,

Et Virgille ens se metteroit,

Et amont tantost vous trairons;

S'il vous plaist, ainsi le ferons:

A tirer ne faulrons nous mie,

Ainsi l'ordonne vostre amie.

Cil ne pensa ne ne glosa,

Tant a celle dame pensa;

A la tour est la nuit venus.

Illecques s'est tous quois tenus,

Et tant se vault illec tenir

Qu'il vit la corbeille venir,

Et cil s'est tost dedens bouté:

Adont fut il amont tiré.

Quant au droit millieu fut saquie,

Adont illec fut atacquie

Qu'il ne pot monter n'avaller:

Or poeult illec des mains voller,

Et illecques lyës se tint

Jusques par tout le beau jour vint.

Tout le monde y est venu

Et chascun s'est illec tenu;

Disoiënt: Vez cy grant merveille;

Véez Virgille en la corbeille.

Virgille qui tant ot savoir,

Pot illecques grant honte avoir:

Toute Romme y acourut;

A tout chascun cecy parut,

Et quant le mydi fu allé

Adonc fu de corde avallé...

Quant Virgille fut avalé,

De son meschief fut demalé

Et de honte qu'il pot avoir;

Lors prisa moult peu son savoir

Et dit: Jamais ne sara chier

Se de ce ne se poeut vengier.

Et lors mist sa scïence en coche,

Comme a la chose qui lui touche.

Il y a pensé et dité:

Lors fist qu'en toute la cité,

De dix lïeueës tout a point,

Il ne demoura de feu point;

Tout fust estaint sans detrïer.

Lors fist par ung varlet crïer:

Qui du feu voulroit acquerir,

Le voit a tel dame querir;

Entre ses jambes en ara,

Né ailleurs n'en recouvera.

Nul ne sceust ailleurs feu trouver:

Qui dont véyst la gent ouvrer;

Tantost fu celle tour brisee

Et celle grant dame escoursee;

Droit enmy la ville fu mise

Et en ung hault lieu fu assise.

Illec chascun son... tenoit,

Et chascun du feu y prenoit;

A son... chandeilles metoient,

Et a son... les alumoient,

Et cil qui alumé avoit

A aultrui aidier n'en pooit.

Il n'en pooit aidier nullui,

N'en avoit mestier que a lui.

Celle fu illec ordonnee

Tout le jour, de la matinee.

Jusques il fust la nuit obscure,

Toute nuë sans couverture,

Toutes jour chandeilles boutoient

Et toute jour les y alumoient.

VIII. LI ROUMANS DE VESPASIEN[336]

(MS. TORINESE)

(Ved. vol. II, pag.97 ).

A Roume fu Noirons li arabis

( mancano undici versi )

....ssement li fist Noirons merir,

Quant il le fist si faitement morir;

Mes c'est vretes on le trueve en escrist:

Qui mauvais sert maus gueredons i gist.

Quant ot ce fait li felons arabis

Il a fait faire un tel palais votis

Tout d'escharboncles ainsi safirs petis;

Li morcier fu de fin or esclarci.

Quant li palais fu fais et bien polis,

Ainsi reluist con solaus esclarcist;

Vergile apelle son mestre, si li dist:

Mestres, dist il, entendes envers mi,

Pour le grant sens que Dex a en toi mis,

Me lieve jou ades en contre ti;

Car le conseil ses tout de paradis.

Et jou d'emfer, car g'i ai des amis

Or me di, mestres, garde n'i ait menti.

Combien durra mes grans palais votis

Qu'il n'a si bel tant con chieus puet couvrir,

N'est hons el monde c'achater le peuist.

Et dist Vergiles: il durra trop petit.

Et dist Vergiles: vos palais tant durra

Que une verge pucelle enfant aura.

Lors le perdres en habisme cherra;

Ne ja puis ame en enfer n'entenra,

Duch'a ce jour que chieus qui tout crea

Au grant juisse son jugement tenra;

Encore ne sai ge se nus i entenra.

Et dist Noirons: grant piece duera,

Che ne puet estre, ne ja chou n'avenra

Que une verge pucelle enfant aura.

Et dist Vergiles: par ma foi si aura;

Et s'ensi n'est, trop mallement nos va.

Or entendes li grant et li petit

Si ores ja chancon de grinour pris

C'oisies onques tres que le tans David;

Coument li siecles fu en IIIJ partis

Com furent fait moustier et cruchefis

Saintes eglises et crois sus les chemins,

XXX. ans apre que Vergile ot ce dit,

Que damel dex en la virge se mist,

Perdi li rois son grant palais votis

Si que la terre reclot pardesus lui.

Dolans en fu li felons arabis;

Son maistre apelle maintenant si li dist:

Fis a putain, fel treitres mastins,

L'avenement savies bien Jhesu Crist,

Sachies de voir se le m'euissies dit

Je n'eusse mie si grant oevre asouvit

Voes tu donc dire, ne penses tu ensi,

Que Dex rait ja sa gent ne ses amis

Que nous avons par dedens enfer mis

V. M. ans a peu pres acomplis?

Nes puet rauoir que g'i ai garde pris,

Se pour jaus nest ses cors en present mis,

Et se vos Dex estoit mors ne ocis

Pour rachater ses gens et ses amis,

Coument porroit en vie revenir?

Se tu le ses, bons clers, si le me di;

Se tu nel fais, t'aras le chief parti.

Ce dist Vergiles: Noiron or m'entendes;

Dex rara bien ce que saisi aves

Et tout par droit, si le vous voel moustrer.

Vou saves bien de fine verite

Quant Dex ot fait Adam, le premier fe

Dont tous li mondes est partis et sevres;

Ne peut il mie ne venir ne aler

Oir, sentir ne veoir ne parler

Tres qu'il li eut en son cors alene,

Et tint sa bouche close em poeste,

Tant que le pris de la grant maieste

Li fu au cors atachies et fermes,

Coumanda lui le cors a gouverner

Qu'il le fesist et venir et aler

Oir, sentir et veoir et parler.

Quant peut chou faire de la grant maieste

Le roi des chieus fu dont fis apelles

Adans nos peres, dont nous sons tout jete,

Encore en puet Dex faire.I. trestout tel

De lui meismes, li grans de maieste,

Comme il ot ou cors Adam boute

Dont tous li peulles est partis et sevres

En une verge le puet faire aombrer,

Et penre vie, sane et charnalite,

Et peut par terre et venir et aler,

Et peut.I. honme confundre et sourmonter,

Puis puet morir celle charnalite

Pour nos armes ravoir et rachater

Que vos volles ens en enfer mener.

Mes li sains esperis dont vous m'oes parler

S'en puet lasus em paradis raler,

Avoec son pere, le grant de maieste,

Com li solaus resache sa clarte,

Et com les iaues entrent toutes en mer.

Ja n'en sera ne ocis ne tues,

Et s'en seront tout afait rachate.

Et dist Noirons: tu as dit verite;

Car en tel guise l'avoie jou pense,

Et ensi puet et venir et aler,

Et descendre et es chieus remonter,

Et ses amis ravoir et racheter.

Mes se li abres, par coi fumes dampne

Eust eut ame et vie com aves,

Ja pour tel chose ne fussies rachete;

O le fil dieu convenist demorer,

Et cors et ame tous en enfer aler,

Ou tous fussies perdu sans recouvrer.

Or te tien coi, je voel a toi parler

De loi contre autre voel a toi estriver;

Qui ert vaincus le chief ara cope. —

L'espee prent si l'aficha oupre.

Et dist Vergiles:.I. respit me dounes,

Tant que jou aie a Ypocras parle

Et a Florent et au boin conte Yde,

Et a Jehan, qui dou Latran est nes,

A Bonnifasse, mon oncle le sene,

Et Musicle, ma serour au vis cler,

Qui a le son des grans cloches trouve.

Et dist Noirons: faites, si vos hastes.

Et dist Vergilles: sire, ja me rares.

Ou cheval monte s'entra a la cite

Dusc a majour ne se vot arester.

Tout son lignage a Vergile asamble:

Signour, dist il, nous sons tout vergonde

Chis empereres c'avons tant hounere,

Est anemis, il le m'a bien moustre

A par.I. peu que il ne m'a tue

De loi contre autre doit a lui estriver.

Conselies moi ou plus ne me verres.

Ipocras l'ot, le sens cuide derver;

En son milleur livre a regarde

Les haus nons trueve Jhesu de maieste

Et sa grans force et sa grans dinite.

Il les trait hors, si les a embrieves,

Vient a Virgile, es dens li a glues;

Pui li a dit: biaus fis, tu es armes

N'est riens el monde qui te puisse griver;

Va t'ent ariere au diable estriver;

Se tu le vains si ait le chief cope.

Et puis ferons son enfant bien garder

De par sa mere et nos amis carnes.

Et chieus respont: peres, a vostre gre.

Ou cheval monte, sest ariere tornes.

Enpre Noirons est maintenant entres

Voille li rois sest contre lui leves.

Maistre, dist il li, soies mau trouves

Car t'as tel chose avoec toi aporte

Dont je seroi honnis et vergondes.

Or te voel dire la pure verite

De vostre Dex coument il a ouvre.

LX. M. ans et plus asses

Que ne poroie dusqua M. ans nombrer

Et encor plus que nauroit li celers

Que n'ait de gouttes d'iaue dedens la mer,

Fu vostres Dex, li rois de maieste,

En lui meismes et en sa dignite

Et en sa force et en sa poeste,

La sus eschiel en grant maieste,

Avoec ses angles, que je ne sai noumer,

Qui cherubins sont d'aucuns apelles

Et seraphin, ce sai par verite,

Ainsi qu' il vosist nulle chose former

Une cure fu de cest siecles apenses.

Lors deronpi les tenebres de mer

De sus turmie s'en vient dont reposer

Une gran roche qui stet de sus la mer,

Li aiemans est par non apelles,

La fist Michiel,.I. angle en pene,

Et puis Abel et puis mon parente,

Puis en fist tant en celle maieste;

Car en la roche ne poiens retourner,

La sus el chiel si lor presta oster

Avoec les angles que je ne sais noumer.

Puis retourna vostre Dex en la mer,

De sus la roche de viel antiquite,

La fist infer qui tout voet engouller,

La serpentine toute jeta en mer

Et l'ordeure quan qu'il en puet trouver.

Et lors crea les poissons pour noer,

Fist la serainne, le sturjon de son gre

Et maint autre que je ne sai noumer.

Mais quant il vot en paradis entrer

Lussiabiaus si li vot deneer,

.I. mauvais angles qui fu fais en la mer

Et vot Dex estre et contre lui aler

Maint felon angle fist au fait acorder

J'en suis li.I. si men doit mult peser.

Ain quans par force Dex ne nos vot grever,

Par jugement nous vot trestous mater;

Adont nos fist en abisme entrer

Et en enfier nous fist trestous verser;

M. ans i sumes acomplis et passes.

Puis retourna vos Dex a nous parler,

Si me manda moi et mon parente.

Grant joie eumes en enfer par vrete;

Car nous cuidiens bien la pais recovrer

Et par sa grase emparadis entrer;

Et il nos vot plus tranciller asses.

Coumanda nous la terre a trouver;

Ain quans pour lui n'i vosimes aler,

Car plus de mal ne poiens endurer

Tres qu'il nous eut baguingnies et loe.

Il nous pourmist.I. bel pumier rame

Quant il aroit de la terre a son gre

Et il aroit les ylles enmelles

De sa grant grase et de sa dignite.

Lors nous plungaumes plus de C. M. en mer,

.I. si grant tro feismes en la mer

C'on i poroit mucer XXX. contes.

De Sathanie est li goufre apelles.

De XXX. lieues que de lonc que de le

Ne la protroit barge, dromons, ne nes

Ne gogne nulle ne nus bargiaus ferres,

Ne fust pardue sans jamais recouvrer;

Car nous cuidiens tout le siecle effondrer,

Le fiermament abatre et verser.

Cheus ons nous fait quant Dex nos fis cesser.

Lors prist l'iaue tantost a avaler

Et ens ou goufre par tel forche a entrer

Comme.I. quariaus quant on le lait aler;

Si parut terre en mult de lieus par mer

Quil nest nus hons qui le peut nonbrer.

Et Dex sour terre si prist a labourer,

Si fist mainte herbe et maint abre rame

Et mainte beste et maint oisel voler,

Paradis fist qu'e terrestre clames

D'escharboucles est li vergies fermes,

Qui plus reluisent que solaus en este

Li mur per haut quan c'om puet regarder.

Entour les murs a.I. mult grant fosse,

Qui purgatoire est par non apelles,

M. ans apres quant Dex fu pourpenses

Fourma Adam et Evain autrestel

Dont estes tout et parti et sevre;

Si lor livra en tel vergier ostel

Tout quanqu'il virent lor fu abandonne,

Fors le pumier qu'il nous avoit donne.

Ils en mangierent et nous furent livre.

Et la lignie que dials s'ert puis sevre

Ravoir les voet, nos anemis mortes,

Qu'en la verge est de nouvel aombres.

Et quant je vi la fine verite,

Que tous li mondes nos fu quite clames,

G'issi d'infer jou et Esgarines

Babiaus,.I. autres li angles foursenes;

Adont fesimes Babilone funder,

Une cite outre la rouge mer,

XXV. lieues d'achainte a la cite

Et XX. portes e XX. ponts leves,

Et la ens croist et pains et vins et bles;

Dedens XX. ans ne seroit afames

Tous li gens puelles qui est en la cite.

Et la gran tour nos feimes lever,

La tour Babel, en ois tu parler,

Quantois c'on soit au daerains degre

XXX. C. M. i poroit ont conter

VIJ. lieues d'ombre peut bien la tour durer.

Que nous volimes a damel dex aler

Qui le quidiens guerroiier et grever,

Mes dames dex nelvot mie endurer.

La tour rompi.I. soir a la vesprer.

Li rois Babiaus la cuida recombler;

Mes vostres Dex nel vot mie endurer,

Que li langage si furent la mue.

Li uns a l'autre ne sot onques parler.

Quant demandoient le mortier destempre,

Ou la pierre dont devoit machonner

On lor portoit a boire et a disner.

Adont cuida li rois Esgarines

Que li ouvrier d'Inde l'eussent gabe

Tous maintenant ster bani dou regne;

Et si le mist dedens nonnante nes,

Fames, enfans lor fist oans mener,

Si lor donna et farines et bles

Pourpens compas et gens pour aus garder

Aviaisons faire et fours a mouliner;

Et il s'esparsent par les yles de mer,

Si sunt jeant, sarrazin et escler.

Adont prist fame li rois Esgarines

Li rois Babiaus et l'autres malhaines;

IX. fiex en orent dont Mahons est l'ainnes.

Par Mahonmet qu'est de nos parente

Nous est dou monde IIJ. pars delivre

Paiens, juis, sarrazin et escler,

Turc et anfage et indois doutre mer

Seront tout nostre, n'en puet arier aler,

Li rois des chieus quant si nos voet grever

Qui de la verge est noviel aombres.

Et quant je vi la fine verite

Tous mes lignages s'est fors moi bien prouves;

Et je fis Ronme et faire et funder

Et si fis faire.I. palais liste

Tout d'escharbondes et d'or fin esmeres.

Tolut le m'a en abisme est entres.

Vien si me trenche le chief sans demorer,

Je ne puis plus sus terre demorer,

Ains me convient en enfer retourner,

Pour les portes et tenir et garder

En contre Dex que il nous voet grever.

Jou ai.I. fil, Floriens est noumes,

Je le clainc quicte le roi de maieste.

Et dist Vergilles: merveilles me contes;

Ne place a Dex que vous ramenteves

Que de par moi soies mors ne tues,

Se ne vous puis par jugement mater.

Sire Noiron, dist Vergille dausit

Se vous fustes banis de paradis

C'est a bons drois, si le vous dirai chi,

On ne doit mie garder son anemi,

C'est verites nous l'avons en escrit,

Que Moyses, sachies, le nous y mist.

Quant Adans fu banis de paradis,

Dou bon roiaume ou damel diex l'ot mis

Et il sen vient el mont de Sineis,

Ne cuidies mie, il fu mult abaubis.

II. C. ans fu sans Evain la gentis,

Ains ne degna retourner envers lui.

Souvent li dist: ne t'es maier amis,

Pour toi m'estuet mult gent paien soufrer.

Adonques jut Adams avoecques li,

Si engenra VIJ. enfanchons petis

Les IIIJ. filles et li IIJ. furent fil

Li.I. Abiaus et li autres Chains

L'autres fut Sept, si fu li plus gentis.

Quant li prumier enfanchons furent ne etc.

fol. 82 (ved. vol. II, p.99 )

Et Mahons a l'aneme conjure,

Che fu Noirons qui tant le sieut amer.

Il vint a lui, puis dist: mes que voles?

Et dit Mahons: je suis pour vous ires;

Rois deussies estre, servi et honneres,

Et deussiez Roumenie garder;

Mes par Virgille eustes le chief cope.

IX. JANS ENENKEL

(Ved. vol. II, pag.82 ).

Ain man ze Rôme saz alsus,

Der was genant Virgilius,

Der was ze Rôme alsô kluok,

Daz er zaubers vant genuok,

Als ich eu wil beschaiden,

Er was ain rechter haiden,

An rechtem glauben was er blint,

Er was gar der helle kint,

Ich wil eu sagen, wie er gewan,

Virgilius der helbe man,

Daz er kunde zaubers vil,

Vor nieman ich daz heln wil,

Ich sage eu ze rechte

Von dem selben knechte,

Wie er dâ daz zauber vant.

Daz ist mir von im bekant:

In ainem wein garten haut'er

Vil gar nâch seines herzen ger,

Vil vast er in die erde slouk,

Daz ez deu hauwe kaum vertrouk;

Sô grôz sein hauwen, sein slag was,

Daz er kam auf ain glas,

Daz was teuvel alsô vol,

Daz ich sein nicht sagen sol;

Daz glas er auz der erde nam:

«Vil wurme ich in dem glase hân,»

Sprach der selb' Virgilius

«Ich wil ez hie behalten sus,

Des hân ich vrum und êre,

Swa ich in dem land' hin kêre.»

Dô sprach der teuvel auz dern glas,

Der dar in verslozzen was:

«Virgilius, lâz uns varn,

Wir wellen dich immer bewarn

Vor aller hande laide:

Lâz uns vam auf die haide,

Wir wellen dich kunst lêren vil,

Daz dû hâst vröude unde spil

Immer unz an deinen tôt,

In disem glas ist grôzeu nôt,

Zwên und sibenzig ist unser schar,

Wir sagen dir sicherleich vür wâr.»

Dô sprach Virgilius der man:

«ich mag mich nicht an euch gelân.

Lêrt ir mich granze lêre,

Sô swer ich eu des sêre,

Daz ich daz glas zerbrechen wil;

Lêrt ir mich kunst alsô vil,

Daz ich sein vrum gewinnen mak,

Ich swer eu noch an disem tak,

Daz diz glas von meiner hant

Zerbresten muoz sâ ze hant.»

Ze hant die teuvel alle

Lêrten in mit schalle

Die zauber list ân' ârbait,

Als sie noch in der Kristenhait

Allenthalben umbe gât,

Wer zaubern kan, ân' missetât.

Dô er die kunst von in enpfie,

Ze ainem staine er dô gie,

Er brach daz glas, und lie sie varn,

Die teuvel alle mit irn scharn.

Ze hant gedâcht' Virgilius:

«Ich mouz ir kunst versuochen sus,

Seit die teuvel sint von hinnen,

Nu getrauw' ich wol gewinnen,

Baideu, êre unde guot,

Wie wol daz meinem herzen tuot,

Daz ich vrum und êre

Gewinn' ân, herzen sêre!»

Virgilius der selbe man

Begunde nû ze Rôme gân

Unt versuocht' sain maisterschaft,

Ob ez waer' wâr der teuvel kraft.

Er macht' ze Rôm' ain stainein wei,

Von künste deu het ainen leip,

Swann' ain schalk, ain bœser man

Wolte ze ainem weibe gân,

Daz er gie ze dem staine,

Der bœse, der unraine,

Daz im was bei des staines leip,

Recht als ob er wær' ain weip.

Nicht vür baz ich eu sagen sol,

Mein mainung' wizt ir alle wol.

Des zaubers traib er genuok,

Er was ain man unmâzen kluok,

Ich mag ez nicht gar gesagen,

Der wârhait muoz ich vil verdagen,

Wan ainez waiz ich vür wâr,

Daz sag' ich eu offenbâr,

Daz er umb ainer vrauwen min

Warb, deu was ain burgærin

Und was ze Rôm' in der stat

Gesezzen, wan er sie dikke bat,

Daz sie seinen willen tæte:

Doch was deu vrauwe stæte,

Daz sic in nicht wolte gewern,

Des er an sie mochte gern.

Doch liez er nicht sein werben,

Er jach, er muest'ê sterben,

«E daz ich von eu lâze;

Eur minne kumt mir ze mâze.»

Sie sprach: «euer unsin eu lait gebirt,

Wan ich sag' ez meinem Wirt;

Und wært ir schœner dann' Absolôn,

Mein minne ist eu versaget schôn;

Ich wil eu sein gar ze rain;

Ez muesten bresten alle stain'

E ich eu wærleich wolt' gewern,

Des ir welt an mich begern.

Gêt hin, lât mich âne nôt,

Mein man tuot eu den tôt,

Dem wil ich ez sagen sicherleich,

Euwer red' ist gar unbilleich.»

Virgilius sein nicht enliez,

Silber, gold er ir gehiez,

Der vrauwen sicherleiche,

Er was ân' mâzen reiche.

Dô er die vrauwen wol getân

Von dem gewerb nicht wolte lân,

Dô gie sie zuo irm wirt

Und sprach: «ain weiser man ir birt,

Unde seit nicht ze alt;

Achtet nû, wie ich behalt'

Meine weipleiche êr',

Die ich von meiner kinthait her

Mit züchten hân behalten;

Mit êren muoz ich alten,

Ob ez nû euwer wille ist.

Nû râtet mir in kurzer vrist,

Daz ich Virgiliô engê;

Der tuot mir nôt unde wê

Z'wâr umb meine minne;

Nû nemt in euwer sinne,

Wie ich sein kunst umbe gê,

Daz mir mein êr' von im bestê.»

Ir êleich man sprach ze hant:

«Vrauw', dein laster und dein schant

Wære mir von herzen lait;

Swie vol er ist der kündikait,

Sô wil ich trachten, vrauwe mein,

Daz er muoz geschant sein.

Nû volg', vrauw', meinem râte,

Sende nâch im drâte,

Und glob' im, liebeu vrauwe mein,

Dû wellest gar den willen sein

Laisten heint bei diser nacht,

Des habest dû dich vil wol bedacht

Dû solt im deu mæere

Sagen, ich sei mit swære

Von dir geriten und mit zorn,

Dû habst mein huld umb sust verlorn.

Sag' im, er müge nicht schier

In daz haus komen zuo dir,

Ich habe dich in starker huot;

Sprich: «mich dunket guot,

Daz ich eu liez' ainen korp ze tal,

Dar in sô sizt ir âne schal;

Deu sorge euch vil gar verbirt,

Wan sein nie man innen wirt;

Eurn willen tuon ich sicherleich,

Auf zeuch ich euch vrôleich

In den turn den ich hân,

Euwern willen wil ich begân.»

Sô er sicht den willen dein,

Sô wil ich ân' angest sein.

Swaz ir der wirt vor sprach,

Deu vrauwe tet ez alleznâch:

Sie sante nach Virgilium,

Sie sprach: «seit ir ein degen vrum,

Daz sült ir mir heint erzaigen:

Ich gib' mich eu vür aigen

Heinte bei diser nacht;

Mein man hât sich nicht bedâcht,

Wan er mich sêr geslagen hât:

Dâ von sô ist daz mein rât,

Daz ir heinte kumt ze mir,

Des ir mich bit, daz tuon ich schier

Heint bei dirre nachte zeit;

Mir ist in den landen weit

Nicht sô laides, sô mein man;

Laides ich im vil wol gan.»

Dô der her Virgilius

Von der vrauwen hôrt' alsus

Die rede die sie het getân,

Er sprach: «sol ich heint zuo eu gân?»

Sie sprach: «ich vürchte die huot,

Ich râte, daz ir sô wol tuot:

Lât euch in ainem korbe schier

Her auf sicherleich zuo mir

Ziehen, daz ist recht getân.»

«Vil gerne, vrauwe» sprach der man.

«Wan ich ez immer dienen sol,

Ir seit aller tugent vol.»

Des nachtes dô ez spate wart,

Virgilius gie auf die vart

Zuo dem selben turne hin,

Er warf mit ainem stainlin

In daz venster, daz ez erhal.

Dô gie deu vrauwe âne schal

Und entslôz daz venster schier,

Ir êleich man gie mit ir;

Sie sach her ab, und sprach alsus:

«Seit ir dâ, her Virgilius?»

Er sprach: «vrauwe wol getân,

Den korb sült ir her abe lân.

Dâ wil ich sizzen in.» —

«Ir habt dar an weisen sin.»

Ze hand sie den korb liez,

Als sie Virgilius dâ hiez.

Dâ saz schôn Virgilius in:

«Ir habt dar an weisen sin.»

Wan sie in auf mit sinne gar

In den turn zôch z'wâr

Wol dreier gadem hôch ;

Nicht vür baz sie in auf zôch,

Sie strikt' in zuo, und liez in hangen;

Sein wille was nicht ergangen;

Sie was ein vil reinez weip,

Keusch und schœne was ir leip.

Des morgens dô ez tagte,

Den Rômern man ez sagte,

Daz der weis' her Virgilius

Wær' an ainen turn erhangen sus;

Dô sprach vil manig man :

«Ich glaub' sein nicht, ich seh' ez an;

Wan z'wâre, sein weiser leip

Ist weiser, denne man oder weip ;

Dâ von ez nicht ergên mak,

Sein leip ist weise nacht unt tak.»

Dô sagt' man in deu mære,

Daz ez deu wârhait wære ;

Dô giengen die Rômære dar

Und nâmen seiner nôt war.

Ze jungest kam ir êleich man

Schôn zuo im geriten dan,

Sam er wær' von dannen gewesen.

Virgilius mochte kaum genesen.

Wan er het swær' und ungemach.

Iegleich Rœmer zuo im sprach:

«Wie ist daz komen, Virgilius,

Daz ir hie hanget alsus?»

Virgilius sprach in stille:

«Ez was z'wâr mein wille.»

Dô sprach der vrauwen êleich man:

«Wer brâcht euch zuo dem turne dan,

Daz ir hangt an meiner maur?

Ich wæn', ez sei eu worden saur.

Doch ist ez mir an eu lait,

Ir habet erliten smâchait.»

Der wirt ze hand den weisen man

Liez in von dem turne dan,

Daz in daz volk allez sach.

Er het grôzen ungemach

Unt vil grôzen smerzen

An leibe und an herzen.

Dô man Virgilium her ab geliez

Als in des hauses wirt hiez,

Dô begund' er sêre trachten

Und in dem herzen achten,

Wie er dem getæte

Daz deu vrauwe stæte

Von im laid gewünne,

Und auch alz ir künne

Von dem laid geschant würde,

Daz was ain swæreu bürde.

Dâ mit der ungeheure

Schuof, daz daz veure

Erlasch, daz in Rôme was;

Wunder was, daz icht genas,

Man mochte nicht gebachen,

Noch ezzen gemachen,

Man mocte nicht gebreuwen;

Sie beten vil der reuwen,

Sie wâren nâch des hungers tôt

Da von sie liten grôze nôt.

Dô die Rômære

Liten grôze swære

Dô begunden sie trachten,

Wie sie daz gemachten,

Daz sie gewunnen veuwer;

Daz vas nie man sô teuwer,

Der ez betrachten kunde.

In der selben stunde

Sprach ain Rômær' under in:

«ich wil eu sagen meinen sin,

Ich rât', daz man Virgilius

Bite vleizikleich alsus,

Der ist gar ain herre,

Dem sagen wir, waz uns werre,

Sô wirt unser ungemach

Verkert» alsô der Rômêr sprach.

Der rât begund' in allen

Vil rechte wol gevallen;

Dô giengen leicht' unde vrum,

Alle vür Virgilium,

Und sprâchen: «herre, euwern rât

Suochen wir, umb ain missetât,

Sie tuot uns alsô grôze nôt,

Vor hunger wellen wir ligen tôt,

Wir mügen nicht gebachen,

Wir mügen nicht ezzen machen,

Des muezen wir verderben

Und hie ze Rôm' ersterben:

Nû wizzen wir, her, dein weistuom,

Der ist uns unmâzen vrum.»

Virgilius sprach: «ich wil eu sagen,

Ir mügt der rede stille dagen,

Wan sag' ich eu die wârhait,

Daz wurd' eu âne mazen lait,

Ir litet ser und ungemach.»

Alsus Virgilius gen in sprach.

Dô sprâchen gar mit swære

Die weisen Rômære:

«Herre, sein ist nicht ze vil,

Swaz dü, vreunt und herre, wil,

Daz tuon wir gern mit sinnen,

Daz wir veur gewinnen,

E wir alsus verderben

Unt hie ze Rôme sterben:

Der hunger machet uns blint.

Uns stirbet weib unde kint.»

Er sprach: «ist eu der hunger lait,

Sô sweret mir des ainen ait,

Daz ich euch haize tuon in zeit,

Daz ir da wider nimmer seit,

Und daz ich euwer hulde

Hab' umb die selben schulde,

Wan ich durch euwern willen

Wil hie daz veuwer vinden.»

Dô wurden sie ze râte,

Daz sie vruo und spâte

Im nimmer wolten wider sein.

Sie sprâchen: «wir wellen den willen dein

Tuon vil gar, nâch deinem rât;

Ob sich under uns ie man hât

Versaumt gegen dir, daz lâz dû varn,

Wir wellen uns gen dir vür baz bewarn.

Er sprach: «daz swert mir hie ze stet»

Alsus Virgilius gen in ret;

Des swuoren sie im mit laide

Iegleicher zwên' aide. —

«Mit hulden ich ez sprechen sol,

Euch bewart nie man sô wol,

Der euch von laide schaide,

Daz sag' ich eu bei mainem aide,

Sô deu vrauwe sicherleich,

Deu dâ ist in dem turne reich.

Dâ ich mit nœten an hienk.»

Vil maniger nâch der vrauwen gienk,

Die ir mâge wâren,

Die sach man nâch ir vâren.

Ir man mit vlêge und mit bet'.

Doch er ez ungerne tet,

Wan er muost' in des günnen,

Er und al sein künne,

Daz sie zuo her Virgilio gie.

Virgilius sie schôn enpfie;

Er sprach: vrauwe wol getân,

Welt ir daz land nicht lân zergân

Und die leut' dar inne,

Sô volget meinem sinne

Unt tuot nâch meinem râte.

So gewint ir veuwer drâte,

Oder ir muezt verderben

Und mit samt in sterben.»

Sie sprach: lieber herre mein,

Möcht' ez in euwern hulden sein,

Sô bæte ich euch vil gern,

Ob ir mich woltet gewern,

Sô liezt ez sein ain ander spil:

Ich hân doch von eu laides vil.

Er sprach: vrauw', des mag nicht gesein,

Ez muest ê trukken sein der Rein,

Ob ich ez liez' an disem tak:

An' euch, ez nie man geschaffen mak.»

Deu vrauwe sprach: lât mich sehen,

Swaz mir hie sülle geschehen.»

Dâ mit Virgilius sprach,

Dô er sie schône vor im sach:

«Vrauwe, seht ir disen stain,

Dar auf sült ir sten al ain,

Daz gewant sült ir ab ziehen,

Ab dem stain sült ir nicht vliehen,

Ir sült nicht haben, wan ain hemde

Ander klaider sint eu vremde,

Und sült ir daz after muoder z'wâr

Hinden auf heben gar,

Und an allen vieren stân:

Ze hand sô sol weib und man

Zünden vor dem hinder tail.

Swer dan gewinnet daz unhail,

Der zuo dem andern zünden wil.

Sô wirt in baiden nicht ze vil,

Wan sie erleschent baid' daz liecht;

Daz man ez nimmer brinnen sicht;

Wellen sie aber veuwer hân

Sô muezen sie hin wider gân

Und muezen wider zünden,

So beginnet der after lünden.»

Dô sprach deu vrauwe wol getân:

«Ê wolt' ich den leib lân,

E ich hete solhe schant,

Ich wolt' ê raumen alleu lant.»

Dô sprach Virgilius der man:

«Alsô mag ez nicht ergan,

Im muoz anders geschehen:

Weln sie vröud' und wunne sehen,

Sie muezen euch dar zuo twingen,

Sô mag in wol gelingen.»

Dô daz erhôrten ir mâge,

Dô heten sie manige vrâge;

Auch sach ez ze hand ir man,

Daz ez nicht anders mocht' ergân;

Dô griffen sie an mit vleg' mit bet.

Deu vrauwe ez ungerne tet,

Wan sie schamt' sich sêre,

Ir laides des ward mêre;

Sie jach: «ich láz' mich tœten ê,

Ê ez alsô an mir ergê.»

Dô nicht half weder drô, noch bet',

Nû hœret, wie ir wirt tet:

Er wolt' des nicht erwinden,

Er hiez die vrauwen binden,

Daz gewand hiez er ir ab ziehen,

Des mocht' sie nicht enpfliehen,

Er stalt' sie nider auf den stain,

Ir scham was da nicht klain:

Dâ muost' deu vrauwe mit schal

Daz veuwer geben über al,

Wan sie muost' auf dem staine stân,

Des wolte man sie nicht erlân;

Der aine truog ain kerzen dar,

Der ander unslit z' wâr,

Der dritte truok ainen schaup,

Der vierde ainen boschen laup,

Der vünfte truog ain buechein her,

Der sechste ainen brand swær'.

Alsô zunten sie alle samt:

Daz was der vrauwen ain bitter amt;

Alsô muost' sie ez leiden

Und mocht' ez nicht vermeiden,

Sie muost' die scham und die nôt

Leiden, sie was nâhen tôt.

Dâ mit Virgilius drât

Vuor von Rôm, und baut' ain stat,

Als sie heute ist bekant,

Die ward Napels genant,

Mit listen er ez ane vie.

Daz ez nâch seinem willen gie,

Rechte als er wolde

Und als er mit listen solde,

Wan ez ze recht alsô ergienk;

Die stat er an dreu eijer hienk,

Daz ez von im noch hât die kraft

Unt von seiner meisterschaft,

Swer sie zerbraech, deu stat versünke,

Daz volk vil gar ertrünke.

Daz bewart man in der stat wol.

Swer gegen dem eije greifen sol,

Sô zittert deu stat über al

Und die heuser âne zal.

Dar nâch Virgilius der her

Vant dennoch liste mêr,

Er macht' ain bilde êrein,

Daz bilde muost' von gold sein,

An dem bilde was gegraben

Mit guldeinen buoch staben:

«Dâ ich hin zaig', daz ist ain hort;

Swer in begreift, daz ist ain ort

Seiner armuot ab bekomen.»

Dô daz die leute heten vernomen,

Dô kamen der leut' ain michel tail,

Iegleicher versuocht' sein hail,

Ob im der hord würde,

Daz im der sorgen bürde

Muest' dâ von geringet sein

Und ganzeu vröude werden schein.

Die ain band het daz bilde

Geleit auf den bauch wilde;

Der ander arm stuond gerakt,

Des maniger dikke lacht',

Daz bilde dâ zaigen began

Mit seiner hand wol getân

An ainen berg, der gegen im lak;

Alsô zaigt' ez nacht unt tak;

Mit dem vinger vür sich hin:

Dâ suochte maniger den gewin

Und gruoben den berg umbe,

Der weise und der tumbe.

Sein vinger im gerekket was

Gegen dem berg, als ich ez las;

Der ander vinger zaigen began

Gegen dem bauch den hort an.

Des verstuont sich nie man dâ:

Sie vuoren nâch dem vinger sâ,

Der dâ stuond nâch dem berk,

Dar inne so worchten sie manig werk,

Wan sie wânden, daz sie dort

Vünden in dem berg den hort:

Den hort dâ nie man gesach,

Aines tages ain trunken man sprach:

Wie lang sol uns daz bilde

Effen an dem wilde?

Ich wil die leut' an im rechen

Un wil ez genzleich zerbrechen.»

Seinen kolben er bei dem orte vie,

Vil trunken er gegen im gie,

Und sluog ez dâ an seinen nak,

Daz ez auf der erden lak,

Seinen hals und seinen nak,

Dannoch schain nicht der tak,

Wan ez bei der nacht was:

Daz golt viel nider auf daz gras.

Dar an sol man gesehen wol,

Wer grôzez guot haben sol,

Dem muoz ez werden beschaffen,

Ez sein laijen oder pfaffen;

Als dem trunken manne geschach,

Der daz bilde dâ zerbrach, —

Diz bild' sol nie man effent sein —

Der west' nicht, daz daz guot was sein,

Unz er daz golt truok von dan:

Dâ ward er ain reicher man,

Im wart beschert grôzez guot.

Owê, wie sanft ez manigem tuot,

Daz er gewinnet sæld' und hail.

Owê, wurd' uns des auch ain tail!

Des helf' uns Got von himel reich,

Z'wâr, sô würden wir vröuden reich.

X. ENRICO DA MÜGLIN

(Ved. vol. II, pag.101 ).

1.

Venedig ist ein gute stat, die hôrt man lobin.

dar in wâren edler herren vil, die wolten ziehen hin

uber mer von kinden und von frouwen,

si wolten gut gewinnen, dar nâch stund ir sin.

ein schrîber hiez Virgilius der zôch mit in

ûf einem kiel, der was sô wol erpouwen,

si nâmen urloub sâ zehant.

dô sprâchen si zu wiben und zu kinden:

«und kumb wir wider her ze lant,

wir trouwen Got, das wir ûch frôlich vinden.»

hin an den kiel sô was in gâch.

und ûf das mer mit alsô klûgen sinnen.

Virgilius der volgt in nâch:

«und wil er Got, wir wollen gut gewinnen,

wan Got sol uns pfleger sîn, wô wir der land hin varn.

Marîâ muter, reine meit

bhut uns vor leit!

wir sweben ûf wildes meres vlut, Got der sol uns bewarn.»

2.

Si nâmen gut mit in, als vil si wolten hân,

zwên vogel, hiezen grîfen, fûrtens mit in dan,

gar west versmitt mit keten zu dem kiele,

si vûren jâr und tag wol ûf dem mere preit,

si pâten das in hulfe Got und die reine meit

zu dem agetstein, der in sô wol geviele,

dô si den kiel gefulten gar,

ir herz das wart mit jâmer gar umbfangen:

geloubend sicherlich fur wâr,

der kiel begund in an dem agtstein hangen,

dô si nû mit der rîchen hab

von dannen wolten schiffen, das geloubet:

die grifen rizzen sich beide ab

und vlugen hin, die herren wârn petoubet:

«ach Got thu uns din hilfe schîn in disem jâmer swinde!

soll wir hie lîden solche nôt

und ligen tôt,

wir komen nimer mêr hin heim zu wiben und zu kinden.»

3.

Virgilius der gieng hin ûf den perg gerecht,

dâ vant er stân in einem glas des tiefels knecht,

er sprach zu im: «wer hât dich her gesetzet?»

der tiefel zu dem schriber sprach pald an der stat:

«Virgilius lâst du mich ûs, ich gip dir rât,

daz du der dinen sorgen wirst ergetzet.»

Virgilius sprach sâ ze hant:

«kanst du mir helfen ûf die rechten strâzen

und wider pringen heim ze lant

mich und mîne herren, ich wil dich selbst ûs lâzen.»

der tiefel antwurt ûs dem glas:

«gê ûf den perg, dâ vinst du ain besunder,

der hât ein brief in siner nas,

dâ leit ein tôter man ein puch dar under;

und wirt dir das, sô pistu wis und kumbst ouch wol ze lande;

dar in sint vil gesellen gut

gar hoch gemut,

die pringent dich und al dïn herren heim alsô ze lande.»

4.

Virgilius gieng fur paz ûf den perg hin dan,

vii schier vant er den selben vînten vor im stân

mit enim kolbin ob eins grabes grunde.

der selbig vînt het einen brief in siner nas

mit einem kolm er umb sich slug in grôzem has.

zu mittem tag rast er ein kleine stunde,

den brief zucket er im ûs der nas,

dâ viel der tiefel nider zu sinen gnôzen.

als im der tiefel vore las,

das puch begund er an dem arme vazzen.

als pald und er das puch ûf spart,

dar ûs sô vûren vil der helle kunder,

achtzigtûsent tiefel ûf der vart.

Virgilius den nam des michel wunder,

si sprâchen pald: «wâ soll wir hin, wir megen nicht lenger piten?»

er sprach: «vart in den grûnen walt,

und macht mir palt

eine gute strâz, das man dar nâch muge varen und ouch riten.»

5.

Her wider kam das tieflische gesinde drât

und in das puch, als in Virgilius gepôt.

er slôz ez zu mit alsô klûgen sinnen.

er gieng zu sînen herren an dem abend spât,

si empfiengen in schôn und klagten im ir grôze nôt.

si sprâchen all: «was soll wir hie beginnen?»

Virgilius sprach sâ ze hant:

«ich net û gern, und wolt ir min gedenken,

ich bring ûch wider heim ze lant

ân alles meil, dar an solt ir nicht wenken.»

die herren globten im grôze gab,

si sprâchen: «um das gut durft ir nit veilen.

was wir hie pringen richer hab,

das well wir alles frôlich mit û teilen.

dâ mit solt in gerîchet sin, pringt ir uns heim ze lande»

er sprach zu in: «ir herren gut

sît wolgemut!»

si vûren gên Venedig hin gar pald und sâ ze hande.

XI. ANONIMO TEDESCO

(Ved. vol. II, pag.130 ).

Von einem pild ze Rôme daz den êprecherinnen die vinger ab peiz.

Virgilius die künste sin

ze Rôme an einem pild wol liez werden schîn,

daz er germachet het mit sînen handen:

swelhe frowe zerprach in êr,

sô het daz pild die kraft, die kunst und ouch die lêr,

daz ez sî prâcht vor männiclich ze schanden,

vil manige frowe zwên vinger muost dem pild ze wandel geben,

die legt im man in sînen munt,

die peiz ez dan den valschen ab und macht si wunt,

daz si dan fürbaz muostn in schanden leben.

Nu hoert wie ez dar nâch ergienc,

ein keiserin ze Rôm des pildes haz gefienc,

wan si gedâcht wie si ez möcht zerstoeren,

ir êr die hiet si gem zerprochn,

sô forcht si niur daz pild liez ez nicht ungerochn,

wie dem geschach, daz mugt ir gerne hoeren.

die keiserin des nicht enliez, si prach ir wiplich êre

mit einem rîtter daz geschach:

alsâ zehant man an dem keiser wachsen sach

ûz sînem houbt ein horn, daz muot in sêre.

Der keiser fuor hin ûf dem mer,

pî im sô wâren riter und knecht ein grôzez her,

die liez er al daz wunder ane schouwen.

er chlagt vil manigem man sin nôt:

er sprach «und wolt ez Got, sô waere ich lieber tôt.

ich fürcht die scham trag ich von mîner frouwen.»

der keiser het vil wîser raet, mit den begunder sprechen.

dô frâgt er einen wîsen man,

er sprach «nu gib mir rât, wie sol ichz grîfen an,

daz ich mich môcht an miner frowen rechen?»

Der wîse man sprach wider in

«waerlîchen, herre, ez dunket mich ein kluoger sin,

wir sollen wider heim ze lande rîten.

ich redez wol ân allen haz,

doch solt ir iuch der maer ein teil erfaren paz.»

der keiser sprach «ich wil niht langer piten.

ich wil mîn frowen besprechen paz und frâgen umb die schulde.

si hât unreht an mir getân,

daz si einen andern hât zuo ir gelân:

si hât verworcht ir êr und ouch mîn hulde.»

Dem keiser stuont hin heim sîn gir.

er sprach ze sîner frowen pald «nu sage mir,

du hâst mich mit eim andern übergeben.

ei du poese vâlentinn,

daz horn an mînem houbt trag ich von dîner minn,

daz gilt dir hiut din êr und ouch daz leben.»

die frowe plict den keiser an, si gunde froelich lachen.

si sprach «dâ für sô wil ich swern

wol tûsent eide und wil michs mit dem rechten wern,

daz ich kein schult gewan an disen sachen.»

Der keiser sprach «daz muoz geschehen

vor dem pilt, daz ez muoz menniclich an sehen,

daz du ze schanden wirst vor alien frouwen.»

die keiserin sprach «daz tuon ich gern,

sît ir sîn an mir armen wîb nicht welt enpern,

sô wil ich Got und sînen gnâden trouwen,

wan ich der sach unschuldic pin. ich wil iu sweren rechte.

sô fürcht ich dan daz pilde klein,

daz recht wil ich volfüeren als ein frowe rein,

daz sollen sehen die ritter und die knechte.

Ê daz si für gerichte trat,

ir hoeret wes die keiserin den keiser pat,

einer pet si gund an ir begeren.

si sprach «pescheid mir einen tac,

daz ich die mînen friunt pî mir gehaben mac.

der keiser sprach «des wil ich dich geweren,

wan ûf den tac solt dû nâch dînen pesten friunden senden.»

si kund der iren friunt enpern,

und sant nâch einem ritter, wan den sach si gern.

si sprach ze im «die sach helf mir volenden.»

Nu hoert waz si den ritter lêrt,

daz er sich pald in eines tôren wîs verkêrt,

si sprach «geselle, lâ dichs niht verdriezen.

swenn ich gê für gerichte her,

sô wirf mich under dich, daz ist mîns herzen ger:

mit dînen armen soltu mich umsliezen.

smück mich ze dir, ein halsen, ein küssen daz soltu mir geben.

villîcht vindich dann einen funt,

dâ mit daz ich dem pilt versliuz den sinen munt,

sô halt wir peide êr und unser leben.

Der ritter tet swaz si in hiez.

wie pald er im ein tôren platten scheren liez!

tôren kleider liez er sich an snîden.

er macht sich vor hin an die schar.

dô er die edelen keiserin sach füeren dar,

den iren zarten lip gunder niht miden,

mit peiden armen ers umbfienc er gundes zuo im smücken.

ein halsen, ein küssen was bereit

der edelen keiserinne, daz was ir niht leit

vil sleg und stoez der tôr dâ muost verdrücken.

Dô si nu für gerihte gienc,

in hoert, wie wislich ez die keiserin an fienc.

ir rede liez si gên dem pilde schiezen.

dô si ez zuo dem êrsten sach,

ir hoeret, wie die frowe dem pilde dô verjach,

dar mit begundes im der munt versliezen.

si sprach «hie sint zwên einic man, dâ für wil ich niht sweren.

die wil ich offenbar hie nenn,

dâ dû si, pilt, und alle welt wol maht erkenn.»

dâ mit begundes sich des pildes weren.

«Nu hoer an, pild, und merk mich eben,

ich stân alhie umb triwe umb êr und umb daz leben,

daz du kein unreht laezest mir geschehen,

daz mir kein man sô nâhent kam,

wan niur der keiser und der leidic tôre sam,

den ieder man hât hie pî mir gesehen.

nu merk mich, pilt, waz ich dir sag: daz reht wil ich volfüren.»

die finger legt sim in den munt.

si sprach «nu, pilt, swer ich unreht, sô mach mich wunt.»

das pilde stuont und torstes niender rüeren.

Nu hoert wes ir die frowe gedâcht,

dô si dem pilt die finger ûz dem munde prâht,

si kêrt sich zuo dem keiser umb ze stunden.

si sprach «sihstu, min lieber man,

daz du mir armen frowen unreht hâst getân.

schow an, mîn finger habent niender wunden.»

der herre dô zer frowen sprach nâch keiserlîchen sitten

«ich ab allez wol gesehen,

für wâr, iu sol sîn fürbaz nimmer nôt geschehen:

vergebt mir daz, dar umb wil ich iuch pitten.»

Die frowe sprach «daz sî getân,

ich will ez allez durch den Gotes willen lân,

der mach mich mîner scham gar wol ergetzen,

die ich al hie erliten habe.»

alsâ zehant dem keiser spranc daz horen abe.

er gund sîn frowen friuntlich zuo im setzen.

der keiser zuo der frowen sprach «ir habt mit recht gewunnen.»

dô si den eit aldâ geswuor,

alsâ zehant daz pilt ze tûsent stücken fuor:

ez peiz nicht mêr, der kunst was im zerunnen.

XII. LA CRONICA DI PARTENOPE

(Ved. vol. II, pag.132 sgg.)[337].

Como lo Imperatore Ottaviano fece Marcello duca de Napoli, e como Virgilio fundò le chiaviche in Napoli.

Dice Floro Agnieo ne la soa opera..... sopra Titu Livio: non solamente de Italia, ma de tutto lo mondo, la più bella provincia è quella de Campagnia; perchè etc.[338]. Et Eustasio de lo Pianto de Ytalia[339], carissimo poeta et autore, dice de Napoli: la inclita Napoli, generosa, ornata de gracie, Partenope, cità riale, molto famosa. E recita molti altri lochi che in quillo tempo foro: volesse Dio che umde fosse remasa la terza parte a li suoi citadini.

E quando Ottaviano imperatore de Roma ordinò Marcello Duca de' Napolitani, in de lo tempo de quillo Marcello, essendo consiliario e quasi rettore suo o vero maistro [un] omo sagace e discipolo delle muse, chiamato Virgilio Mantoano, si forono fatte le chiavi[che] sotterra, che, in de la cità de Napoli, aveno curso a lo mari [e] li puzi propinqui per le strate maiestre, con condutti de acqui, per diverse vie e suttile artificio. Le quale acque congregate in uno alto de uno monticello, clamato Santo Pietro ad Cancellaria, correno a le fontane puplice, fatte e edificate ne la ditta cità, per la sagacità de lo ditto Marcello, e per pregaria de lo ditto Virgilio. Lo preditto Imperatore clamò Napoli donna de nove cità, oppido o vero castello murato. Lo quale Virgilio, ne la predicta cità[340], scrisse lo libro de la Georgica, nel tempo quando Ottaviano ordinò Marcello Duca de li Napolitani.

Qui si narra como Virgilio fece la mosca in Napoli.

In de la quale cità, per lo airo delle padule, [le] quale a lei son propinque, in quillo tempo lì era grande abundancia de mosche, in tanto che quasi generavano mortalità. E lo sopraditto Virgilio per la gran affectione la qual'avea a la ditta cità e a li soi citadini, sì fece per arte de nigromancia una mosca de oro, e fecela forgiare grande quanto una rana, sub certi punti de stelle, che [per] la efficacia e virtù de la quale mosca, tutte le mosche create ne la cità fogeano, secondo che Alessandro parla in una sua opera, che isso vedette la preditta mosca in una fenestra de lo castello de Capuana. E Gervasi in de la soa coronica, la quale se intitula li Responsi Imperiali, prova questa cosa essere stata cussì. De poi, la ditta mosca levata da quillo loco, e deportata a lo castello de Cecale, si perdio la virtù.

Como Virgilio fece la sanguisuca in acqua.

Et eciamdio fe' fare Virgilio una rana o vero sangue suca, che al presente cussì ei chiamata, de oro, formata sotto certe costellaciuni de stelle, la quale fo gettata a lo profundo de uno puzo, per la efficacia e virtù de la quale sangue suca, tutte le sangue suche forono scazate dalle acque de la cità de Napoli, le quale [c]e abundavano [in] gran quantitati. E como al presente manifestamente vedimo, operante la divina gracia, senza la quale nisuna cosa si potè fare perfetta, la preditta gracia e virtù dura fino al dì de oge, e durarà in aeternum.

Como Virgilio fece uno cavallo de metallo, per arte di nigromancia, lo quale guario tutti li cavalli che se appressemavano ad ipso.

Anche lo ditto Virgilio fece forgiare uno cavallo de metallo, sotto costellacione de stelle, che per la visione sola de lo cavallo, o sulo per se li appressemare altri cavalli stimolati da alcune infirmitati, si aveano remedio de sanità; lo quale cavallo li menescalchi de la cità de Napoli, avendo de ciò gran dolore, imperzò che no aveano guadagno alle cure de li cavalli infirmi, sì andarono una notte e perforarolo in ventre. Da poi, per la quale percussione e rottura, lo ditto cavallo perdìo la virtute; unde de poi fo convertuto a la construccione delle campane della maiure ecclesia de Napoli in de l'anno del nostro Singnor Iesù Cristo MCCCXXII. Lo quale cavallo si stava guardato ne la corte de la preditta maiore ecclesia de Napoli; de lo quale cavallo si crede che la piaza o vero segio de Capuana porte le arme o vero insegna, zoè uno cavallo in colore de oro senza freno. Per la quale cosa, quando lo serenissimo prencepe re Carlo I intrao in ne la cità de Napoli, maravegliandosi delle arme de questa piaza e de la piaza de Nido, la quale anche per arme avea uno cavallo tutto de nigro, senza freno, sì comandò che fossero scritti dui versi, li quali in questa forma dissero:

Hactenus effrenis, nunc freni portat habenas;

Rex domat hunc aequus Parthenopensis equum.

De li quali versi la sentencia in vulgare si ei questa, che lo re iusto de Napoli doma quisto cavallo sfrenato; a li uomini senza freno, li apparecchia le retene [de lo] freno.

Como Virgilio fece forgiare una cecale, socta costillacione delle stelle.

Et eciamdio quillo chiarissimo supra ditto poeta, sì fece fare una cicala o vero cantatrice de rame, per arte de nigromancia incantata, e sì la appicò ad uno arbore con una catenella; e per la efficacia e virtù de la quale cicala, si fogieono da la dita cità tutte le cicale, le quale erano tanto infestante e contrarie a li citatini, per loro brutto cantare, che quasi non poteano de notte dormire, nè riposare. La quale gracia dura per fin al dì de oge, che da quillo tempo in qua, no sinci trova ni aude niuna, quanto gira lo circoito de la preditta città, in niun tempo.

Como Virgilio fe' providimento che potesse tenere la carne ad Napoli, fresca e salata.

Niente de meno, volendo lo ditto Virgilio providere a la utilità de quilli, li quali sentiva danno, molte volte, a la carne fresca e salata, imperciò che molti fiate fetiva per un vento austro, lo quale a la ditta cità è molto contrario, imperzò che quando lui suffiava se corrumpeano le ditte carni; per la quale cosa lo ditto Virgilio fece appendere diversi pezi de diverse carni, per la supra ditta arte magica, in uno arco, alla bucciaria de la piaza de lo mercato vechio, dove, in quel tempo, se vende a la carne. Per la virtù de la quale carne appesa per Virgilio, tutta la carne che restava a vendere, sì se conservava per più dì e semmane, senza corucione, e la carne salata se conservava gran tempo senza macula nisuna.

Como Virgilio fece providimento a la conservazione de li frutti e fiuri fruttiferi, che lo vento non le guastasse.

Per lo vento, lo quale è chiamato Favonio, o vero furàno, lo quale vento guasta li arbori, e comunemente sole ventare a la intrata de lo mese de aprile, ne la ditta cità, et ei distrugitivo delle frundi, frutti, fiuri teneri de li arbori, lo supraditto poeta fece forgiare una imagine de rame, sotto certi singni e coniuraciuni de pianete, la quale imagine tenea una tromba in bocca, la quale, percossa o spenta da lo ditto vento favonio, per la virtù delle ditte pianete, de la tromba uscìa uno altro vento contrario a lo ditto favonio; de che era de necessità che tornasse in dereto. Per la quale cosa cresseano li láburi e frutti senza nocimento, e perveneano a maturacione perfetta.

Como Virgilio ordinò uno loco, che sinci trovassero onne raione de erbe.

Volendo anche lo esimio autore e summo poeta providere le infermitati de li omini con erbe salutiferi e medicinali, le quali besongnano per li suchi e per siroppi, le quali erbe in molti parti de lo mundo non si trovano, e massimamente la estate; unde a piedi, o vero sotto la montagna, dove è la ecclesia de santa Maria de Monte Vergene, sopra Avelle, presso de Mercugliano, lo quale monte al presente è chiamato Monte Vergene, per le maravigliose soi arti ed ingegni fece ordenare uno iardino maraveglioso e fertile de onne generacione de erbe; lo quale iardino o vero orto, a tutti quilli che gi andano per cogliere delle erbe, per li cure di li infirmi, le erbe e la via se demostrava legeremente; a quilli che gi andavano per destrugerelo, o vero per farlo seccare, o per levare le ditte erbe, per pastenare altrove, no si lassavano vedere, e non trovavano mai via donde gi potessero andare. In de lo quale iardino, eciamdio infine a lo nostro tempo, vi se coglieano erbe de gran vertute e medicinali, le quali no si trovano alcune in altro loco, se no in quillo iardino.

Como Virgilio fece ordinare uno loco in mare, dove li Napolitani avessero de onne tempo pesce frisco.

Allora vedendo lo preditto poeta la ditta cità, la quale con gran voluntà desiderava de si magnificare, per fama e per recheza, recercava in onne atto e modo, grande e piccolo, utele che lui possea fareli; la quale cità no era fertile de pesce, per lo poco fundo de lo mari. Volendo providere a la utilità de li citatini, fece lavorare una preta, e fecici intagliare uno piscitello bene scolpito, lo quale fe' frabricare in quillo loco, dove oge si chiama la Preta de lo pesce, a lo quale loco, finchè vi stette la ditta preta, iammai non mancò che non gli fosse de lo pesse o grande o piccolo, quando poca quantità, quando molta copia.

Como Virgilio fece intagliare doe imagine, l'una de omo allegro, e l'altra de donna che piangea, le quale stavano a la porta Nolana.

In ne la intrata de la ditta cità, sopra la porta Nolana, incorrendo ad essereli mirabile influencia delle pianete, fece mirabilmente edificare e inscolpire doe teste umane, per fine a lo petto, de marmore; l'una de omo allegro che redea, e l'autra de donna trista che piangea, avendo diversi augurii et effetti. Si alcuno omo trasea a la ditta cità, per ottenere alcuna gracia, o per espedire alcuna soa facenda, e casualmente declinava a la soa intrata, da lo lato de la porta, dove stava lo omo o imagine che redea, conseguitava bono augurio, e tutto suo desiderio avea bono effetto, in tutta sua facenda; ma si inclinava a la intrata, de lo lato de la porta, dove era la testa che piangeva, onne male augurio era, et niuno spazamento li avenea nelle soi facende. Le quale imagine fini al dì de oge, sì appareno sopra a la ditta porta, la quale al presente ei chiamata porta de Forcella.

Como Virgilio ordinò lo ioco de Carbonara, per esercitare li Napolitani che fossero valenti.

Et in quillo tempo anche ordenò, che onne anno si facesse lo ioco de Carbonara, non con morte de omini, come fo fatto de poi; ma ciò fece per esercitare li omini in li fatti delle arme, e in quilli tempi se donavano certi doni a quilli ch'erano vincitori. E lo dito ioco abe principio de menare melerange, a le quale poi succese lo menare delle prete, dapoi co li bastuni; vero è che gi andavano co lo capo coperto de ferro o vero de coiro; de poi più innanti, poi la morte de lo nostro Singnore Iesù Cristo MCCC LXXX, de quilli che gi iocavano, non ostante che si armavano de infinite arme, molti giende moreano, e quillo loco ei chiamato [ Caronara o] Carbonara; imperciò che là si soleno gettare le bestie morte e la mondatura de li carbuni. Anche ordenò lo preditto Virgilio, in de la ditta cità, per la sua arte magica, quattro capi umani, che longo tempo innanti morti erano stati, li quale capi davano vere resposte de tutti li fatti, che si faceano in tutti le quattro parti de lo mundo, azò che tutti li fatti de lo mundo fossero manifesti a lo duca de Napoli.

Como Virgilio ordinò che dentro la cità de Napoli non senze trovasse niuno verme nocivo, che fosse venenuso.

Anche ne la dicta cità de Napoli, a la preditta porta Nolana, la quale al presente è chiamata la porta de Forcella, como è ditto de sopra, et è una via de prete, artificiosamente construtta et ordinata; et a la ditta via pose uno sigillo lo ditto Virgilio, non senza gran ministerio, lo quale concluse e anullao onne generacione de serpenti e altri vermi nocivi; la quale cosa, per la divina misericordia, per fine a mo' ne ei osservata, intanto che, per niuna cava de fondamenta de edificio, sotta terra o vero per puzo, o vero per chiaveca, mai non fo trovato serpe ni altro verme nocivo, nè vivo nè morto, eccetto si con feno o strama fosse portato alcuno casualemente. Et a magisterio de dottrina de' Napolitani, nati in fertile patria et abindevele, stando isso Virgilio a Napoli, compose lo libro de la Georgica, nelli anni de la soa etate XXIIII. In ne lo quale libro se insengniano li modi como et in quali tempi, se debiano arare e cultivare li campi, e semenarelle, et in quali tempi se deveno li arbori piantare e tagliare et incertare, secondo che isso attesta a la fine de la ditta opera, dove dice: in quello tempo sì me notricava de la dolce Partenope, molto nobile in ocio, e florido in de lo studio. Lo quale Virgilio, per nacione lombardo, abbe principio de una villa mantoana, chiamata [Andes o] Pictacolo; el quale Virgilio fiorì in fama, nel tempo de Iulio Cesare sotto Ottaviano, ne li anni XXV de lo suo imperio. La soa vita finìo ne la città de Brindisi; unde de poi, in poco tempo fo ratto suo corpo per li Calabrisi, e fo portato in Napoli, e fo seppellito a lo capo de la grotta Napolìtana, perforata per isso Virgilio, in quillo loco, dove è oge una piccola ecclesiola chiamata santa Maria dell'Itria, in una sepoltura a piccolo tempio quatrata, fabricata de tegole a la antiqua manera, sotto de uno marmoro scritto e ornato de lo suo epitaffio de antiche littere, lo quale marmoro fo integro e sano ne li anni de lo nostro Signore MCCCXXVI; ne lo quale epitaffio erano scritti dui versi, li quali in sentencia diceano: Mantua me generò, li Calabresi me rapero, mò me tiene Napoli, lo quale scripsi in versi la Buccolica, la Georgica et la Eneida[341].

Como Virgilio ordinò li bagni, per utilità de' Napolitani, e como li medici de Salerno ne guastaro le imagine, che insingniavano per scrittura li remedii, secundo la infirmitate.

Considerò anche el ditto poeta, che in de la parte de Baia, de presso de Cume, erano le acque calide, avendo certi cursi de sotto terra, per le vene e materie de diverse operaciuni de sulfure e de lume e de argento vivo, secundo la opinione de molti, le quale acque abundano de certi virtuti. Considerato adunque, de là edificare, per la comune salute de li citatini de Napoli, e per utilità de tutta la republica, edificò molti e diversi bagni, e massimamente quillo bagnio, lo quale ei chiamato Tritola. In de lo quale bagno erano intagliate e scolpite cotali imagine, le quali, colle loro mano, insingniavano le infirmità; imperciò che a lo membro zascuno le mano tenea, chi a lo capo, chi a lo petto, chi a lo stomaco, chi a lo ventre, chi a la cossa e chi a li pedi, e sopra de loro teste, de littere scolpite e intagliate gi erano, incegnando li bangni chi utili erano alle preditti infirmitati, fatti con suttile artificio e magisterio; azochè li poveri malati, senza aiuto e consiglio de' medici, li quali senza alcuna caritati domandavano essere pagati, potessero de la desiderata sanità remedio trovare delle loro infirmitati. E lo quale bagnio, remedio de li poveri infirmi, li [cattivi medici] de Salerno demostraro le loro poche caritati e grande loro iniquitati; imperciò che una notte navigaro da Salerno perfini a lo ditto bagnio, e deguastaro tutte le scritture e parte delle sopraditte imagine, con feri et altri istromenti, e opere da dirompere li ditti edificii. Per la quale cosa, la iusta e condegna virtù de Dio le ponìo; imperciò che come li ditti medici si retornavano a Salerno per mari, forono assaltati da una grandissima tempestate e fortuna de mare, unde tutti si annegaro, eccetto uno che decampò, lo quale manifestò questa cosa; e dice che anegaro intra Crapi e la Minerva [promontorio de Salerno].

Como Virgilio fece fare e perforare quillo monte, che se va da Napoli a Pizuolo.

Avendo quisto poeta anche avertencia alle fatiche e tedii de li citatini de Napoli, che voleano gire spesso a Pizuolo et a li bagni soprascritti de Vaia, si andavano per gli arbusti de uno durissimo monte, lo quale è principio de affanno de quilli che passare voleano lo ditto monte, tanto allo gire, quanto allo venire indereto. E considerando per suttile geom[etr]ia, con una retta mesura ordinò che lo preditto monte, con molta operacione umana sotto terra cavato e perforato [fusse]; e fece fare una cava o vero grotta de longheze de passi milli, la quale grotta fo con tanta sottilità ordenata, co' uno spiracelo in mezo a la ditta grotta, che per lo nascimento de lo sole [la metate luce da parte de levante, da la matina per fi a mezo dì, et da mezo dì per fi a posta del sole luce l'altra metate da pate de ponente][342]. E però che quilli che passavano per la ditta grotta, la quale ei oscura e tenebrosa, e per questo parea male secura, in tali disposicione de pianete e cusì de stelle fo la ditta grotta cavata, e de tale gracia dottata, che per nissun tempo nè de guerra nè de pace, no' gi fo fatto atto disonesto, per omicidio, ni de robbaria, nè sforzamento de femmene, per fini a' nostri tempi. Per la grotta parla Seneca a Lucilio, ne la terza epistola dove dice: quando io dovessi petere Napoli, mi pigliaria una grotta de Napoli chiamata Alphe: niuna cosa è più longe de quillo carcere, ni una cosa de quelle bocche ei più oscura. E la preditta grotta, lo grosso popolo tene che Virgilio fatta la avesse in uno dì; e questo non ei possibile, si no a la Divina potencia quae de nihilo cuncta creavit[343].

Como Virgilio consacrò uno ovo, lo quale fece mettere dentro una carrafa, e fecelo conservare ne lo castello dell'Ovo, e che lo ditto castello dovesse tanto durare quanto dura lo ovo.

Era nel tempo de Vergilio preditto, edificato uno castello dintro mari, sopra uno scoglio propinquo alla cità de Napoli, lo quale oge appare et ei chiamato castello marino o vero de mari. In de la opera del quale castello, Virgilio delettandosi, con soi arti consacrao uno ovo, lo primo che fece una gallina, lo quale ovo pose dintro una carrafa, per lo più stretto forame de la carrafa preditta, la quale carrafa la pose dintro a una cabia; [et la dicta cabia] dintro a una piccola camera, sotto lo preditto castello alogare fece. La quale camera secreta e ben rechiusa con gran sollicitudine e diligencia guardata fo, e da quello [ovo] lo ditto castello pigliò lo nomo; imperciò che al presente ei chiamato castello dell'Ovo, che primo chiamato era castello de mari, comò è ditto de sopra. E li antiqui Napolitani teneano claramente, che da lo preditto pendeano li fatti e la fortuna de lo ditto castello, e che durare devea tanto quanto l'ovo se conserva sano e salvo, e cusì ben guardato.

Como perchè Virgilio sapea operare e fare tante mirabili cose.

Onde no è da maravigliare, si lo ditto Virgilio abe tante sciencie e tante virtute, imperò che ne lo tempo de la sua iuventute, secondo se ce lege ad una antica coronica, intrò la grotta incantata del monte Barbaro, cavata ad infinito profondo, con uno suo compagno chiamato Filomeno, volendo avere chiara noticia de li ditti miracoli de la ditta grotta o profunda cava. Avea Chironte de sotto la sua testa uno libro, lo quale lo ditto Virgilio lo tolce, e con quillo si fece dottissimo et ammagistrato ne la nigromancia, e poi tornò indereto de la ditta grotta o vero cava.

Como poi la morte de Virgilio, uno medico de re Rogeri se impetrò l'ossa de lo ditto Virgilio, per le quale se credea sapere l'arte de lo ditto Virgilio.

Morto finalmente lo ditto Virgilio ne la cità de Brindisi, secundo como è ditto de sopra, che pot[ette] ave[nere] delle soe osse no è cosa da taceresi e lassaresi sub silencio. In de lo tempo de Rogeri re de Cicilia, de lo quale innanti faremo mencione, seguendo nostra materia, fo uno fisico inglese inclito, de lo preditto re, lo quale, impetra[o] littere da lo ditto re mandate a la università de Napoli, che liberamente devessero dare a lo ditto medico l'ossa de lo ditto Virgilio, le quale ossa isso donate li avea co onne altra cosa che intro la sepoltura vi fosse. A la qual littera e comandamento, la preditta università obedire non volce, temendo che, per lo rimovere delle ditte osse da la preditta cità, non incuressero in alcuna mortalità o alcuno altro danno. Et in parte obedienti foro; imperò che la ditta università de Napoli, conciò sia cosa che lo ditto fisico, una con loro, a lo sepulcro andaro, dove trovaro alcuni libri de nigromancia e de arte magica, li quali stavano in uno vasello de rame chiuso, e posto sotto lo capo de Virgilio, li quali libri lo ditto fisico sinde portò, e l'ossa lassò, chè dare no le volceno li Napolitani. Et azò che le ditte ossa furate non fussero da la ditta sepoltura de notte da lo ditto fisico, che con gran voluntà delle avere cercate le aveva, forono recolte le ditte ossa in uno sacco de coiro per la università de Napoli, e reposte forono a lo castello dell'Ovo. Le quale ossa, in quillo tempo, como una reliquia se mostravano per una grata de ferro, a qualunca vedere le voleano. De poi, ademandato lo fisico, che cosa volea e intendea fare delle ditte ossa; disse che intendea fare una coniuracione, e demendare le ditte ossa de Virgilio con coniuracione, li diceano e manifestavano tutta la arte de Virgilio, si le avesse possute avere per quaranta dì. Ma de po' che la cità de Napoli convertuta fo a la fede de Cristo, le ditte ossa frabicate forono strettamente in uno muro de lo ditto castello, dentro ad uno scringno.

De li quali libri de Virgilio, testifica santo Gervasio pontefice, dicendo: che ne lo tempo de papa Alessio[344], vidi Joanni cardinale de Napoli fare per quilli libri alcuni esperimenti e prove, le quale son tutte trovate verissime. E credesi e tenesi che lo cardinale de Spagnia, in de la notte de la nativitate de Cristo, celebrò tre messe, in tre remote parti de lo mondo, e che isso lo fece per arte de nigromancia acquistata per li libri de Virgilio, li quali in quillo tempo se guardavano dintro de lo tesoro de Roma.

Le soprascritte cose foro tutte fatte innanti la venuta de Cristo, innanti che Cristo si adorasse in Napoli. In de lo quale tempo, li citatini napolitani, secundo la costumanza de li gentili o vero pagani, faceano li sacrifici a li Dei, sopra uno monte appresso Napoli, lo quale mo ei chiamato Ara Petri, che sta poco lontano a la cità; e in quisto loco largo e piano, aveano in uso fare li sacrificii innanti la venuta de Petri apostolo; e poi, ad onore e reverencia de lo gloriosissimo apostolo preditto, vi fo edificata la ecclesia. E quisto loco ei chiamato santo Petri ad Ara[345].

XIII. ANTONIO PUCCI

(Ved. vol. II, pag.141 ).

Prisciano portò e porta il pregio della gramaticha, Tulio della rettoricha, Aristotile della logicha, Tubalchai della musicha, Tolomeo della a[s]trologia, e Uclide della geumetria e Pittagra d'arismetricha: e ciascuno de' detti filosafi fece mirabili cose e poi molti altri per solecito istudio ne vennero in grande fama, secondo che d'alchuno faremo mençione e poi seguiremo brievemente d'alquanti vuomini vertuosi e valentri.

Vergilio fu fra gli altri di quegli che grande parte n'aprese, e spetialmente seppe ottimamente astrologia, e dirovi parte delle cose che fece mirabili per ingiengno della detta arte, e quantunche paiono a grossi huomini favole perchè iloro chuore nolle possono conprendere, abi quelle che udirai per vere e per molte picchole arrispetto dell'altre che fare si potrebbono per la detta arte.

Truovasi ch'egli fece una moscha di rame che dove la posa niuna moscha apariva mai presso a due saettate che incontanente non morissi.

Fece uno chavalo di rame che qualunche altro chavallo vivo fosse con qualunche malitia, incontanente, veduto quello, lascia ongni difetto.

Fondò una città overo chastello insù uno vuovo, e quando l'uovo si menava tutta la terra si grollava; e alcun'dicono che questo è il Chastello dell'Uovo da Napoli ch'è ancora in piede.

Fece a una città manchare il fuocho per modo che niuna persona ne potea avere sennone andasse ad acciendere alla natura d'una donna chellavea inghannato e schernito, e non ne potea dare l'uno all'altro. Chosì si vendichassero gli altri huomini delle donne!

Fece uno ponte lunghisimo tutto di marmo che nonne fu mai maestro che sapesse dire in che modo per magisterio umano potesse essere fatto.

Fecie uno giardino che nonne avea altra chiusura che di nùoli bui, e niuno ardiva d'entrarvi se dallui non fosse guidato.

Fece due doppieri che senpre ardevano e non si potevano ispegnere e niente si logoravano.

Fece una lanpana che senpre ardeva sança mettervi olio o altra cosa.

Fece una testa d'uomo di rame con tanta maestria ch'ella rispondeva acciò ch'egli domandava, e una volta fra l'altre la dimandò d'uno viagio ch'egli doveva fare e come ne dovesse arrivare; la testa gli rispuose: se guardi bene la testa arriverai bene. Virgilio intese di quella testa e non della sua, onde per lo chammino il sole chaldissimo gli percosse la tessta tutto giorno e gravollo sì ch'egli se ne puose a giaciere, e crescendo il male ordinò d'essere soppellito a uno castello fuori di Roma, nel quale poi che fu morto per la detta cagione fu soppellito, e ivi sono ancora l'ossa sue; le quali si soleano molto guardare, però che una volta i Romani le vollono rechare irroma, e com'elle furon mosse il mare si turbò maravigliosamente e ghonfiò sì forte chel chastello e Roma ne fu a pericolo; e riposte l'ossa nel luogo loro tornò in bonaccia, e poi non si toccharo mai. E tutte le dette cose e molte magiori fece Vergilio per l'arte della stronomia; e questo fu quello Vergilio sopra il chui dire Dante si fonda, e di chui disse così:

«Or se' ttu quel Vergilio e quella fonte....

. . . . . . . . . . . . . . . . . .

lo bello istile che mm'à fatto onore.»

( Dal cod. Riccardiano 1922 a c. 135ª).

XIV. BUONAMENTE ALIPRANDO

(Ved. vol. II, pag.147 sgg.).

Di Virgilio Mantovano gran Poeta, dalla sua natività fino alla morte.

Mantova un suo cittadino avia,

Per dritto nome Figulo chiamato;

Ricco e pieno tra gli altri si tenia.

Era in natural molto riputato.

La donna sua Maja chiamava,

Ch'era nata da un uomo scienziato.

Una notte la donna se sognava,

Che fuor del corpo suo producia

Un ramo lauro, che fior si portava.

E quello ramo poi pomi facia.

E una verga le parea di vedire

Che fiore e frutto assai si se avia.

Questa donna pur si volea sapire

Quel, che questo suo sogno le indicava

Innanzi che venisse al partorire.

Un astrologo grande domandava,

Che 'l suo sogno le dovesse spianare.

E quello a lei molto la confortava.

Dicea: «voi vi dovete confortare

Di questo sogno: che vi so ben dire,

Che voi v'avete molto a rallegrare.

Un figlio maschio avete a partorire.

Sarà saggio, e di scienza ben'imbuto.

Non si troverà simil', al ver dire.

E perchè 'l sogno vostro sia compiuto,

Per segno della verga de li fiori

Virgilio per suo nome sia mettuto.

Il figlio alleverete con amore.

Simil di lui alcun non sarà al mondo.

Per lui avrete ancora grand'onore.

La donna fece l'animo jocondo.

E quando venne lei al partorire:

Nacque il figlio maschio tutto, e tondo.

Grande allegrezza si fe' con desire

Per lo padre, e per lo suo parentado.

Di quel figlio ciascun si avia a dire.

Virgilio per suo nome fu chiamato.

Cresciuto al tempo a la scola 'l mandava,

Allo maestro molto accomodato.

Più degli altri poi s'imparava.

Da tutta la gente era desiato.

E da i scolari, che in scola usava.

Nella scola si fu pronominato,

Per la testa grossa che lui avia,

Da' scolari Marone era chiamato.

Le fattezze dirò che lui seguia:

Grande di persona, livido colore,

La faccia quasi a rustican trasia.

Omo fu saggio, e di gran valore.

In suo tempo undici libri compose.

I quali al mondo gli fan grande onore.

Farotti lo nome con chiara vose:

Bucolica e Georgica fece.

E lo terzo chiamato Eneidose.

Ancor Moretum libro si comprese,

Con fabulazion d'Egitto ancore,

Æthnam, et Culicem ancor distese.

Priapeja e Catalecton di valore,

Epigrammata ancor compiloe.

Coppam, e Diras gli fan grande onore.

Altre gran cose, che menzion non foe,

Lui fece, che poi fur de grande fama.

D'assai gran fatti per scritture trattoe.

Al mondo ciaschedun molto si brama

Le sue opere ciascun si desia.

Per la virtù di quelle ogn'omo l'ama.

Torniamo ora a Virgilio, che stasia

Alla scola per voler'imparare,

E tutto l'animo a quello si mettia.

Venne saputo, che non era suo pare.

Scienza di medicina s'imparoe.

Quella sapea molto ben'oprare.

D'apprender'oltre molto desidroe.

Nel Studio de Milano e de Cremona

Stette tempo. Poi partirsi curoe.

Tornò a Mantova con la sua persona.

Non li piacea ben voler lì stare.

La terra e li suoi beni si abbandona.

E pur'in Grecia si se mise andare,

Dove de ogni scienza s'imparava.

Volle ad Atene andare a studiare.

Stette buon tempo, e poi si ritornava;

A Mantova ritornò scienziato.

Di sua venuta ciaschun s'allegrava.

Dietro a questo pochi anni stato,

Gran guerra fue tra lo Imperatore,

E Antonio grande Romano chiamato.

Di vittoria Ottaviano ebbe l'onore.

A Roma con sua gente si tornava.

Gran festa fu per Roma fatta allore.

Ottaviano subito pensava

Rimunerare li suoi Cavalieri.

E in questo modo lui si se ordinava,

In Lombardia fece suoi pensieri,

Che quelli che servito lui avia

D'ogni gente cavalieri e scudieri,

Per meritar le terre li scrivia,

Che di ben d'altri fosse dato allore,

Di case e possessione darli balia.

Chè quando quella guerra fu tra lore,

Cremonesi con Antonio tenia,

Contro d'Ottavian con suo valore.

Per lo simil la città di Pavia,

Piacenza, Parmigiani, e Modenesi,

E anco Mantova pure ne sentia.

E per questo Ottavian sì fesi,

Che i ben di que' cittadini tolese;

Per vendicar le ricevute offesi,

De' suoi mandò, che stribuir devese

Tutti li beni, come a lor piacia.

Compito fu, chè non ci fur difese.

Tutto quel di Cremona dato avia.

Ario Centurione fu mandato.

Venne a Mantova con sua compagnia.

Tutti li beni di Virgilio dato

Furono ad Arrio integramente.

E Virgilio ne fu molto turbato.

Notabilmente verso scrisse di presente: Mantua vae miserae nimium vicina Cremonae! Di Mantua partì immantinente. Verso di Roma si prese ad andare,

Per voler esser dallo imperatore,

Con speme de' suoi ben recuperare.

In Mantova si era gran dolore.

Li cittadini rubar si vedia.

Gran pianti per la terra furo allore.

Arrio con sua grande tirannia,

Consentia a ciaschun ogni malfare;

Dando loro e alturia e balia.

La Torre del Comun fece ammezzare,

Che Campanil ad esso si se chiama

Di Santo Pietro, come ad esso pare.

Ritorniamo a Virgilio che si brama

D'essere a Roma con Ottaviano

Male contento e con la mente grama.

Giunto a Roma pensier fece non vano,

Dimestichezza d'alcun non avia;

Pur la prese di un valente romano.

E con quello parlava, e li dicia

Del suo fatto, e come gli era stato,

E quali modi a lui si paria

Tener dovesse. Lui ebbe pensato,

Che supplicanza a Ottaviano desse,

E per tal modo lui saria ascoltato.

A Virgilio non parve che piacesse.

Da lui partito, termina altro fare,

Che a Ottavian voglia venisse

Di volerlo conoscere, e parlare.

Così nella sua mente ebbe pensato

Di voler tempo un poco aspettare.

Lo Imperatore ordin'avia dato,

Di voler l'altro giorno cavalcare

Fuor della terra, dov'era ordinato.

La notte gran pioggia con gran tonare.

Lo giorno fatto 'l tempo si chiaria.

L'Imperator si mise a cavalcare.

Virgilio due versi si facia

Li quali aviano questo tenore.

Sulla scranna imperial li mettia.

Nocte pluit tota: redeunt spectacula mane,

Divisum Imperium cum Jove Caesar habes.

Questi versi vide lo Imperatore.

Volle sapere chi fatti gli avia.

Egeus poeta si dava l'onore.

Gran vergogna dietro ne ricevia.

Come Virgilio messi nella Catedra imperiale d'Ottaviano altri versi, si fece grande onore.

Quando Virgilio questo sapia,

Volle che l'imperator si sapisse,

Che de' versi gli era detto bugia.

Altri versi di subito lui scrisse,

E in questa forma si fu lo suo dire,

E alla scranna imperial li misse.

Hos ego composui versus: tulit alter honorem.

Sic vos non vobis.

Sic vos non vobis.

Sic vos non vobis.

Sic vos non vobis.

Lo Imperatore si volle sapire,

Qual'era che questo scritto gli avia.

Alcuno di Virgilio viengli a dire.

Ordinoe che per lui mandato sia.

Volle da lui sapere la certezza,

Se quelli versi lui pur scritto avia.

Rispose, gli parea gran follezza,

Ch'alcuno nome si volesse dare

Di quello, che non era sua fattezza.

E che dovesse per Egeus mandare,

Che i versi manchi compire dovesse

Chi fece gli altri, lo sapea ben fare.

Ordinò che per Egeus si mandesse.

Venuto, l'Imperatore gli dicia,

Che i versi manchi compire dovesse.

Egeus di presente rispondia,

Che quelli versi non sapria compire.

E Virgilio a lui sì gli dicia.

«Imperator, questo vi so ben dire;

Chi fece gli altri, saprà anco fare,

Se comandate, che si dean compire.»

Lo Imperatore si ebbe a comandare,

Che quelli versi compir si dovesse.

E Virgilio si ebbe a cominciare.

Sic vos non vobis vellera fertis oves.

Sic vos non vobis fertis aratra boves.

Sic vos non vobis mellificatis apes.

Sic vos non vobis nidificatis aves.

Egeus col suo animo dimesse,

Con vergogna disse all'Imperatore.

Che di lui misericordia si avesse,

Che non guardasse al suo grande errore

Di quello che lui si se avea vantato:

Aveal fatto per avere onore.

Lo Imperatore gli ebbe perdonato.

Conobbe di Virgilio 'l gran sapire,

Di presente l'ebbe ricomandato.

Pollione e Mecenate, al vero dire;

Possenti eran coll'Imperatore,

E tra di loro si ebbono a dire,

Per fare a costui un grande onore,

Togliemo a far con lui domestichezza,

E a udire nello dire il suo valore.

Furon con lui con piacevolezza.

Virgilio con loro si parlava,

L'ebber'udito, e n'ebber allegrezza.

Virgilio ancor si lor contava

Di sua venuta la vera cagione;

E ambedue molto lo ascoltava.

Mecenate dicea a Pollione,

L'Imperatore dovesse pregare,

Che render gli facesse sue ragione.

Di presente si fecero a parlare

Allo Imperatore gli dicia

Di Virgilio gli viene a recitare.

L'Imperator che volontier gli odia,

Per Virgilio subito ebbe mandato.

Che lui a bocca udire lo volia.

Virgilio 'l fatto suo ebbe contato.

Lo Imperator'allora comandava,

Ch'a Mantova fosse scritto e mandato.

E lettere al presente si ordinava,

Che gli suoi beni gli fosser renduti.

Virgilio comiato si pigliava.

Infra certi termini compiuti

Promise lui a Roma di tornare.

Giunse a Mantova. Furo a lui venuti

Tutti gli amici suoi a visitare,

Domandando come lui fatto avia.

Virgilio a loro gli ebbe a contare.

Poscia da Arrio lui si se ne gia,

Le sue lettere si gli appresentava.

Comandò che i suoi ben renduti sia.

Come gli ebbe lui si se ordinava

De' suoi fatti come si dovea fare;

E verso Roma tosto ritornava.

Giunto a Roma si fece appresentare

Avanti d'Ottaviano Imperatore.

E lui lo fece ben molto accettare.

Pollione allora e Mecenate ancore

Lo videro con gran piacevolezza,

Ciascun di lor mostrando grande amore.

Poco stete ch'egli ebbe un'allegrezza.

Fatto fu Cancellier d'Imperatore,

E 'l maggiore tenuto per certezza.

Ciascuno gli facea grande onore.

Filosofo, e Poeta di grandezza,

Di Rettorica si era lo maggiore,

L'avvenimento di Crist profetizoe:

Nella Bucolica sua di valore

Questi notabil versi compiloe:

Jam redit et Virgo, redeunt Saturnia Regna,

Jam nova progenies Coelo demittitur alto.

La gran scienza di lui si se spande.

Pollione e Mecenate lo pregare,

Che far lor debba una grazia grande.

A lui piacer debba di dover fare

Alcun'Opera, che gli renda fama,

La qual si sia nello poetare.

Voglia far questo, ch'e' n'hanno gran brama.

Come Virgilio compilò tre Libri Poetici, i quali li fanno e faranno al mondo grande onore.

Virgilio, che molto lor si amava.

Per Pollion la Bucolica compose,

Per Mecenate Georgica apparava.

Ancora Ottavian con la sua vose,

Volle che d'Eneas si descrivesse.

Di farlo volontier lui si dispose.

Come Virgilio s'innamorò in una giovane figlia d'un grande Cavaliero Romano, e come quella lo svergognò.

In questi tempi mostra che nascesse,

Che Virgilio si se innamorava

D'una giovine, che assai gli piacesse.

Quella donna poco di lui curava.

Figlia era d'uno cavalier valente.

Ma pur Virgilio molto la cacciava.

Virgilio era di persona possente.

E passati trent'anni si se avia,

Quando a quella donna pose mente.

Quella Donna allo suo patre dicia

Dell'assedio che Virgilio le dava.

Quel cavalier dispetto ne prendia.

Il suo animo subito pensava,

Di vergognar Virgilio grandemente.

Colla figliuola modo si trattava.

Questo cavalier' in Roma possente,

Un Palazzo con una Torre avia,

Che di bellezza era appariscente.

Alla figliuola ordine dasia,

Ch'essa a Virgilio dovesse mostrare

Con tutti gli atti, che ben gli volia.

E col suo messo dovesse trattare,

Lo quale a Virgilio dicesse,

Ciò ch'e' volea, era contenta fare.

Ma una cosa volea, ch'e' sapesse.

Che lo palazzo allora era chiavato.

Non c'era modo ch'aprir si potesse.

Ma una cosa si avia pensato:

Che per la torre lui possiasi andare,

Se lui serbasse l'ordin per lei dato.

Con una fune si possia mandare

Una corba, in la quale lui entrasse,

E quella suso si faria tirare.

Lo messo andò a Virgilio, che pigliasse

Ordin del dì, che ciò far si dovia.

Al cavalier grande allegrezza nasse.

Venne lo giorno che l'ordine avia.

Virgilio andò con quell'ordine dato.

Di notte nella corba si mettia.

A mezzo della torre fu tirato;

E la fune di sopra si firmava.

Si rimase Virgilio vergognato.

La mattina i Romani se ne andava

A veder Virgilio com'e' stasia

Nella corba. E ciascuno lo beffava.

Ottaviano, che questo sentia

Mandò, che giuso fosse assogato.

Fu fatto. E molto lo riprendia.

Come Virgilio si vendicò della vergogna ricevuta dalla donzella, e svergognolla.

Virgilio che si vede vergognato,

In suo animo subito pensava,

Di far vendetta ebbe terminato.

Fece che 'l foco tutto s'ammorzava.

Non si trovava alcun che foco avesse.

Lo popolo Roman si lamentava.

Ottaviano, al qual molto rincresse,

Per tutti gli suoi savi mandava,

Che d'aver foco modo si trovesse.

Tutti quanti a lui si se scusava,

Che d'aver foco nol saperia fare.

E per Virgilio allora si mandava.

Lo Imperatore si prese a pregare

Virgilio, che modo debba tenire,

Che di foco Roma faccia abundare:

Virgilio allora si li viene a dire,

Che se foco si devia ritrovare,

Convien, che 'l cavalier faccia venire

Sua figlia in piazza, e quella acconciare

In quattro piè col cul scoperto stia;

Chi vorrà foco, al cul vada a impizzare.

A lo Imperatore quest'increscia,

Ch'era figlia di nobil cavaliere.

E gran vergogna a lui si ne saria.

E pur di foco si facea mestiere.

Che senza quello non si possia stare,

Fu mandato per quello cavaliere.

Lo Imperator sì gli prese a parlare:

«Io mi scuso, ma pur convien che sia,

Che senza foco non possemo stare.

Per tua figliuola si convien fia.

Da Virgilio noi così si abbiemo,

Altro modo non c'è a ricuperare.

E pur vendetta noi ben sì veggemo,

Che Virgilio si è ora la cagione;

Ma fatto che sia, ben lo pagheremo.»

Lo cavalier con mala intenzione

Rispose: «Sia pur quello che a voi piace.»

Di far vendetta avea cor di lione.

La donna in quattro piè posta si giace,

Lo culo discoperto si tenia.

Per foco va a chi bisogno face.

L'uno all'altro dar foco non potia,

Perchè e l'uno e l'altro s'ammorzava.

Per se ogni casa tor ne convenia.

Molti giorni passati già si stava,

Anzi che Roma di foco fornesse.

Lo cavaliere gran dolore portava.

Ma Virgilio che a lui non incresse

Per vendicarsi, allegrezza facia.

Contento era, che ciascun sapesse,

Che quello incanto lui fatto avia,

Per voler la sua beffa vendicare,

Non curando di quel che si dicia.

Di foco fornita senza mancare

Che fue Roma tutta a compimento,

La donna a casa fu fatta tornare,

Lo cavalier facea gran lamento

A lo Imperatore, e si dolia,

Che fatto gli era sì gran tradimento.

Che di questo giustizia far debia;

Che la figliuola e lui son vergognati;

O che Virgilio a lui dato ne sia.

L'Imperator rispose: «Non dubitati,

Che questa cosa io lasci passare.

Sarà punito de li suoi peccati.»

Per Virgilio allora fe' mandare.

Presente il cavaliero a lui dicia:

«Dura morte hai meritata fare.

Voglio che di te giustizia si fia:

Questo cavaliere hai vergognato;

Gran male è stato per la fede mia.»

Quando Virgilio ebbe ascoltato

Lo Imperator, sì cominciò a parlare:

«Santa corona, dite, che ho fallato?

La verità non si può già celare.

Qual più di me è stato vergognato?

Chi offende, offesa convien portare.

Questo gentilomo non ha guardato

Nel suo fare se non a vergognarmi.

Far lo simile a lui ho proccacciato.

E se alcuno colpa volesse darmi

Che quello che a me fece fu ragione,

Perchè in diletto io volia starmi

Con la figliuola, che mi die' cagione

D'aver con lei piacere e diletto;

Cercava ben di darvi compigione.

Lui che del fatto sapea lo effetto,

Dovea la sua fiola castigare,

Nè vergognarmi con tanto diletto.

Se 'l fosse savio, avria saputo fare,

Che lui non me non saria vergognato.

Al suo voler si volle soddisfare.

Tutte queste ragioni v'ho allegato.

Voi ben sapete quello, ch'è l'amore:

Che molti saggi in quello ha fallato.»

L'uno e l'altro udia l'Imperatore.

Ma in effetto più duro gli paria

La vergogna fatta e lo disonore.

E compiacere al cavalier volia.

Virgilio in prigion fece cacciare.

Lo cavalier contento avia.

Come Virgilio fu imprigionato, e come egli uscì di prigione per incantamento.

Le prigioni di Roma è da notare.

Un muro d'intorno alto si gia,

E accasato dove li posia stare.

Nel mezzo gran cortile si se avia

Dove lo dì li prigionieri stava,

E lì tra lor piaceri si desia.

Virgilio d'andarsene pensava

Nel cortile una nave disegnoe.

Li prigionieri tutti dimandava.

D'andar seco tutti loro pregoe,

Dicendo, se con lui volia andare.

Alcun per beffa d'andar' accettoe.

In quella nave si li fece entrare.

A ognun per remo un baston dasia.

In sua poppa si se mise assettare.

E a ciascuno di loro sì dicia:

«Quando comanderò che navigari,

Ciascun di voi a navigar si dia;

E niente a farlo non ve indusiati

Da le prigioni tutti ci usciremo.

Condurrovvi. E sarete liberati.»

Quando gli parve, disse: «Date al remo.»

Ciascun mostrava forte navigare.

La nave si levò. Disse: «Anderemo.»

Fuor del cortile si vedeva andare;

In verso Puglia la nave tirava.

Per aria la detta si vedea tirare.

I prigionieri, che in prigione stava,

Che nella nave non vollero entrare,

Veduto il fatto, tutti lamentava.

Virgilio la nave fece calare.

Quando fu in luogo dov'egli volia,

In terra piana la fece assettare.

Que' ch'eran dentro tutti fuori uscia.

Virgilio con loro si parlava,

E da quelli comiato si prendia.

La nave subito se disfantava.

E quelli ch'eran dentro, se n'andoe.

Virgilio verso Napoli tirava.

La guardia de la prigione portoe

Questa novella allo Imperatore,

Di Virgilio fuggito recitoe.

De li prigionier gli disse ancore,

Ch'in una nave disegnata andoe.

Ottavian sì maraviò allore.

Contra li suoi baroni allor parloe,

Dicendo: «Io credo per la fede mia,

Che tutto il cielo seco s'accordoe,

Tutte le scienze che nel mondo avia,

Di darle a Virgilio integramente

Più ch'a alcun altro che vissuto sia,

Ch'io lo perda, sì ne son dolente.

Se aver lo posso, pur' ancor lo voglio.

Non è da perder' uomo sì valente.

Se lui torna, più onore che non soglio

In mia corte vo' che fatto gli sia.

Di sua partita troppo me ne doglio.»

Ritorniamo a Virgilio, che sen gia

Con un compagno, per volere andare

A Napoli: credia tegnir la via.

Pur lo sentiero si venne a fallare.

Passati li vesperi si se trovava

Appo una casa, chiedendo albergare.

Lo pover'uomo così gli parlava,

«Volentier di quel ch'ho, io vi daroe.»

Virgilio e lo compagno accettava.

Dentro la casa loro si se entroe.

Da ber non c'era, e poco da mangiare.

Virgilio la femina domandoe.

«Averemo niente da cenare?»

La femina allora si respondia.

«Del pane avremo, che potrai mangiare.

Vino non c'è:» la femina dicia.

Disse Virgilio al suo compagno:

«Convien che teniamo un'altra via.»

Disse al buon'uomo: «Ritrova un cavagno

E a quella vigna si te ne va un tratto,

Recalo pieno d'uva, nè aver lagno.»

E a lui rispose: «Questo sarà fatto.

L'uva non è matura. Com farete?»

Virgilio disse: «Ben faremo patto.»

Disse alla donna: «Un vascel troverete,

Dove dentro l'uva farai gittare.

Poscia d'acqua voi sì lo impierete.»

Ordinato il vino, prese a parlare

Virgilio al suo compagno si dicia:

«Qualche cosa averemo da mangiare.»

Tosto uno spirito ne mise in via,

Che a Roma subito lui sen'andasse,

E che alla cena d'Ottaviano sia.

Che senza fallo lie gli portasse

La imbandigione de Ottaviano.

Gisse presto, e che tosto ritornasse.

Quello spirito non andonne invano.

Un gran tagliero di carne allesse

Con molti polli si se portò in mano.

Di questo a Ottaviano non incresse.

E disse allo donzel, che lo servia,

Se l'ha veduto chi'l taglier togliesse.

Di vergogna il donzel si riprendia.

Rispose: «Questo mi par'incantamente.

Non so pensar, che cosa questa sia.»

Ottaviano senza mancamente

Disse: «Virgilio, questo ha fatto fare.»

E della beffa rallegrò la mente.

Torno a Virgilio, che vuole zenare.

Al botticino incanto si facia.

L'acqua perfetto vin si fe' tornare.

A cena tutti insieme si mettia.

Avean molto bene da mangiare,

E molto ben da bevere si avia.

Andossene la sera a riposare.

La mattina per tempo si levava.

Virgilio allo villan prese a parlare.

E molto lui e le ringraziava.

Del vascello del vin gli viene a dire,

Che quel per ben'andata gli lasciava.

Che non volesser mai loro vedire,

Che fosse dentro di quel botticino,

E notassero ben tutto il suo dire.

«A questo non mancherà mai lo vino:

Ma se dentro voi mai ci guarderete,

Lo vascel non si renderà più vino.»

Virgilio allora: «A Dio, rimarrete.»

Col suo compagno a Napoli s'andava.

In poco d'ora a Napoli si vete.

Fece l'entrata che non demorava.

A una osteria poi si se n'andoe.

All'albergatore lui si parlava.

«In lo tuo albergo io mi staroe

Alquanti giorni. Mi farai le spese.

Tosto verrà ch'io ti pagaroe.»

L'oste la risposta gli fe' cortese;

Che parve a lui homo di virtù grande.

Rispose: «Son contento; ho ben intese.»

Poco stette che la fama si spande.

«Questo è Virgilio,» ciaschedun dicia.

«Chi l'ha condotto qui?» fan parlar grande.

Co' saggi domestichezza prendia.

I valenti lo gian' a visitare,

E tutti loro grande onor facia.

Alcuno lo cominciò a pregare,

Che in Napoli memoria lasciasse

Del gran saper, che di lui fa parlare,

E che questo prego lui accettasse.

Come Virgilio, essendo in Napoli, mandò a Roma per Milino suo discepolo, che gli portasse da Roma un libro de Negromanzia. E come fece in Napoli gran cose, e ivi morì.

A quel tempo si mostra, che avesse

Virgilio uno discepolo valente,

Che Milino per nome si dicesse.

A Roma gli scrisse, che di presente

A Napoli da lui debba venire.

Del suo venire alcun non senta niente.

Melino di Roma si fe' il partire.

A Napoli subito si arrivoe.

Virgilio a lui sì gli ebbe a dire.

Tornare a Roma sì li comandoe:

«A Roberto di', che 'l mio libro ti dia.»

Di non legger su in quello lo pregoe.

Melino tosto si se mise in via.

Dì e notte non cessò di camminare,

Tanto che lui a Roma si giugnia.

Andò da Ruberto a dimandare

Lo libro del suo Mastro, che 'l mandava.

Gliel die' Ruberto senza dimorare.

Avuto il libro in dietro ritornava.

Di Roma uscito voglia gli venia

Di legger lo libro lui si bramava.

Come a legger lo libro si mettia,

Di spiriti moltitudine granda

Contra di lui tutti se ne venia.

«Che voi tu; che voi tu?» tutti dimanda.

Melino allor tutto si spaventoe

E de morir'ebbe la tema granda.

Melino si prese ad argumentare,

E di presente a loro comandava,

Che quella via debban salegare,

Da Roma a Napoli a compimenti,

Che sempre quella netta debba stare.

Gli spiriti sì furono ubbidienti.

Quella strada si fece salegare

Di sassi vivi senza mancamenti.

Melino a Napoli vien'a arrivare.

Virgilio molto forte 'l riprendia.

Dicea: «Rott'hai lo mio mandamento;

Pena ne porterai per fede mia.

Ancora ti dico, e sì non mento.

Tu ti messi a risico di morire.»

Con lui di questo facea gran lamento.

Virgilio lasciò di più non dire.

Ricordandosi quel, ch'era pregato

Di fare alcuna cosa vuol vedire.

E in suo animo ebbe deliberato,

Nigromanzia voler operare,

E per gran fatti esser nominato,

Castel dell'Ovo quello si fe' fare,

E nell'aqua quello si fabricoe,

Che ancor si vede e per opera pare.

Ancora oltra di quello si incantoe,

Una mosca in un vetro incantava,

Che tutte l'altre mosche si caccioe.

Alcuna mosca in Napol non entrava.

Questo al popol grandemente piacia.

Ma un'altra fece che più si montava.

Una fontana d'incanto facia,

La quale sempre olio si gittava,

E dal gettare mai non s'astenia.

E quello olio si continuava

A bastamento di quella cittade.

Grand'allegrezza il popolo menava.

Altre cose e di grandi novitade

Virgilio in quella terra facia,

Maravigliose e di grande beltade.

Ottaviano, che questo sentia,

Di Virgilio non pote comportare,

Che fuor di Roma lui stare debia.

E di presente fece comandare,

Che per Virgilio sia rimandato,

Che a Roma lui debia ritornare.

Virgilio fue a Roma ritornato

E appresentandosi allo Imperatore,

Da lui fu molto bene accettato.

Con Ottaviano si fermoe allore,

E da lui grande onore si se avia,

E tra li suoi si fu fatto maggiore.

Virgilio che troppo si valia,

Da tutta la gente era ben'amato,

E grande onor da ciascun gli venia.

In questo tempo ch'io t'ho recitato,

Nacque che Ottavian convien'andare

Nell'Asia colla sua gente armato.

Si stette grande tempo in armeggiare,

E in quella parte si ebbe vittoria.

Poscia pensò a Roma ritornare.

Virgilio, che avia grande gloria

Del suo Signore ch'a Roma tornava,

E che ottenuto avia tanta vittoria,

Incontro fino a Napoli si andava,

Come se non l'avesse mai veduto.

In quel tempo lo sol molto scaldava.

Dallo gran caldo si fu combattuto.

Infermo a Brindisi si fe' portare.

Poscia a Napoli ancor si fu riduto.

La morte che a nessun vuol perdonare,

L'anima dal corpo si se partia.

Tutta la gente facia lamentare.

In Napoli sepelito venia

In via Puteolana a grand'onore.

Di sua morte quel popol si dolia.

Anni cinquantasett'avia allore;

Ben quindici anni trapassati era,

Quando nacque lo nostro Creatore.

Ottavian, che venia con sua schiera,

De la morte di Virgilio udia;

Di gran dolor fe' lamentanza fera.

A i suoi Baroni allora si dicia:

«Di scienza è morto lo più valente;

Non credo che nel mondo il simil sia.

Prego Dio, che grazia gli consente,

Che l'anima sua debba accettare.

Le sue virtudi non m'usciran di mente.

Ben mi dolgo. Non posso io altro fare.»

XV. LES FAICTZ MERVEILLEUX DE VIRGILLE

(Ved. vol. II, pag.163 ).

Cest bien raison que je vous compte des histoires de Virgille de Romme, lequel en son temps fis moult de merveilles. Vous pouvez bien sçavoir que Romme a esté de grant auctorité et les habitans dicelle ont esté bien prisez durant le temps Romulus, qui fut empereur de Romme, et qui son frere occit par envie pource quil luy sembloit qui valloit mieulx que luy, Celuy frere avoit nom Remus, lequel quicta à son frere toute Romme et tout le palays, quil avoit avant comme luy; mais il emporta les tresors en lentrée d'Ardenne sur une petite riviere qui a nom Veille, et fonda une cité qui estoit riche, noble et de grant ouvrage; car elle estoit toute enclose de pierre et les murs estoient tous fais en ymages par dedans et par dehors, et toute la ville estoit creuse par dessoubz la terre, si que toutes les ordures dicelle cité sen alloient par dessoubz la terre en la riviere de Veille qui estoit au plus prés. Que vous en devise de la façon dicelle cité, ce fut la plus belle que deviser on pourroit, et tant que aucuns la nommerent la seconde Romme. Mais il la fit appeler Remus et ainsi eut nom seconde Romme Remus.

Comment Romulus occit Remus son frere, et comment le filz de Remus occit Romulus son oncle.

Quant Romulus son frere ouyt parler de Remus, des faictz quil faisoit en la dicte cité de Remus, il en eust si grant dueil pource que les murs de Remus estoient tant haulx que une arbalestre pourroit à peine tirer jusques aux carneaulx du fons des fossez, et les murs de Romme estoient bien bas et navoient point de fossez, et ne demoura gueres que Remus dist quil yroit voir Romulus. Si y alla et laissa sa femme quil avoit prinse à Ardenne, et ung petit enfant, en sa cité de Remus et amena assez autre mesgnée. Et tant alla quil vint à Romme, et quant il vit les murs de Romme, si dit quilz estoient trop bas de la huitiesme partie, et dit encore quil sauldroit oultre à pied joint. Si osta son mantel et saillit oultre pour la bassete qui estoit. Quant Romulus louyt, si dit que mal avoit fait de saulter par dessus les murs et quil en perdroit la teste. Quant Remus vint à son frere à son palays à Romme, son frere le fit prendre et luy mesmes luy couppa la teste, et puis assembla ses gens à grant erre et sen vint à Remus, en Ardenne, et entra dedans et la fit toute destruire et abattre les tours, le palays et les murs et tout autant quil y avoit de edifices. Mais il ne pouvoit trouver la femme de Remus, son frere, qui sen estoit fuye à tout son enfant par dessoubz terre en son pays en Ardenne, et fut icelle de haulte lignée. Si eut assez fait Romulus, quant il eut le palays ainsi destruict et la dicte cité de Remus ainsi fondue, il sen retourna à Romme. Et quant la femme de Remus sçeut que retourné sen estoit, se conseilla à ses amys et à ses parens et sen vit bien accompagnée à Remus à laquelle avait serré ung grant tresor en terre. Si le fit ouvrir, et puis manda maçons et toutes manieres d'ouvriers et fit refaire la cité de Remus moult belle et moult riche à son povoir; mais ne la fit pas de si grant noblesse comme par avant avoit esté, ne si haulte, ne si riche. Etant garde la bonne dame son enfant quil devint grant, fort, puissant à porter armes. Si lui dist sa mere ung jour: Mon filz, quand vengerez-vous la mort de votre père, que Romulus, Impereur de Romme, occit? Mere, dit-il, est-il vray? Et croyez que men vengeray dedans trois moys, s'il plaist à Dieu. Lors assembla tous ses parens et amys de par sa mere, et sen alla à Romme, à grant puissance, et entra dedans Romme sans nulle deffense, et commanda à ses gens que à nulz des Rommains, mal ne feissent et quilz estoient tous à luy. Si sen allerent au maistre palays où lempereur estoit, lequel entendit et ouyt dire que le filz de son frere venoit à gran puissance, et dit à ses hommes: que pourray-je faire! Et que voulez-vous faire? dit un de ses barons qui estoit ung des senateurs de Romme, vous occistes son pere, aussi vous occira il. Ainsi le damoyseau entre dedans le palays sans de nul estre contredit, par la grant force des gens quil avoit avec lui. Et quant il fust entré dedans, il vit son oncle Romulus devant son siege. Il s'approcha près de luy et le print par les crains, que oncques ne contredist, et lui couppa la teste; puis demanda aux barons silz luy vouloient porter guerre, lesquels luy respondirent que non; ains luy octroyoient lempire comme au droit hoir et seigneur. Ainsi fut fait empereur de Romme. Si manda sa mere et ses parens quilz venssent à Romme, et ilz y vindrent et agrandirent moult Romme, et fut fermée à murs et a fossez, et fut Romme de grant renom et le sire Remus grandement honoré. Et quant aucuns etrangiers y venoient, ilz faisoient faire moult dedifices belles et riches et y demouroyent. Et fut le filz Remus fort et puissant de corps et riche de chevance et conquit bien presque tout le monde luy et son hoir. Celluy Remus eut ung chevalier de par sa mere, moult preux et sain, qui estoit venu devers Ardenne. Si print à femme une moult belle damoiselle qui estoit du plus hault lignage de Romme, et estoit fille à ung des senateurs. Si advint que Remus quis estoit empereur mourut, et son filz quil avoit fut empereur après luy. Et celluy chevalier qui avoit espousé la fille du senateur meut une grant guerre qui moult le greva et fit despendre du sien. Celluy chevalier eut ung filz de sa femme qui à grant peine nasquit, ne naistre ne vouloit, et fut contendue grant temps la nature de la mere, et après nasquit et le convint longuement veiller. Et pourtant fut il nomme Virgille.

Du naissement de Virgille et comment il fut mis à lescolle.

Et quand Virgille nasquit si crousla toute la cité de Romme de lun des boutz jusques à lautre bout. Et si tost que celuy enfant eut entendement, son pere le fit aprendre à lire. Mais petit luy dura son pere, et sa mere ne voulut oncques puis retourner à mariage, tant ayma son seigneur, ne oncques puis ne voulut autre amy avoir. Toutesfois les siens mesmes lui vouloient ses rentes, ses chasteaulx et heritages tollir, quelle avoit entour Romme, et ung des plus fors et vertueux qui fust en toute la cité. Et la dame par maintesfois se clamoit à lempereur qui estoit parent à son mary; mais il estoit dur et maulvaix et nestoit pas aymé des barons de Romme. Celluy empereur mourut, et ung sien filz, nommé Parcides, fut empereur après lui et ne tarda guaire longuement quil ne soumist tous ceulx de Romme soubz lui, si durement qu'ils ne se osoient trouver devant luy. Virgille sen estoit allé à Tollette pour apprendre, car il apprenait trop voluntiers, et moult fut sage des ars de nigromance. La mere de Virgille estoit devenue faible et ne se pouvoit ayder des torts quon lui faisoit. Si dit un jour à ung sien serviteur: Je te prie, vaten à Tollette et dis à Virgille mon filz quil vienne ordonner de son heritage de dedans la ville de Romme et de dehors, et quil laisse lescolle et la clergise; si fera que sage, car il deveroit estre lun des plus grans hommes et des plus riches qui soient en toute la dicte ville de Romme. Adonc le messagier sen partit et vint à la cité de Tollette où il trouva Virgille qui apprenoit des plus grans seigneurs du pays et dailleurs et estoit bel homme et saige de toutes sciences; mais plus savoit de nigromance que nul homme vivant.

Le messaigier luy raccompta les besongnes de sa mere et comment ses parens lui avoient tout tollu. Virgille, qui fut moult de grant savoir et de grant couraige et de grant autorité, ne se desconforta de chose quil ouyst. Si print robbes, deniers et richesses tant comme il lui pleut, à son plaisir, et fit la charge de quatre sommiers et les envoya a sa mere, et ung petit palefroy blanc. Le messaigier revint à Romme avec tout lavoir et le presenta à la mere de Virgille, qui pourchassoit moult pour avoir le sien contre ceulx qui luy avoient tollu. Et Virgille, qui fut demouré à la cité de Tollette, se pensa quil envoyroit tout son avoir à Romme, puis sen yroit après. Et ainsi quil le pensa il le fit et sen vint à Romme et avec luy des clercz de grant arroy, et vint veoir sa mere qui moult voluntiers le reçupt, car il y avoit plus de douze ans quelle ne lavoit veu.

Comment Virgille sen vint à Romme et se complaingnit à lempereur.

Virgille vint à Romme et fut moult honorablement reçeu de ses parens et amys, et non pas de ses plus riches parens qui avoient le sien tollu et à sa mere, lesquelz ne firent compte de sa venue; ainsi en estoient dolens et ne mangerent point avec luy. Et Virgille donna à tous ceulx qui navoient detenu du sien contre la volonté de sa mere, robbes, chevaulx, deniers en or, ou en monnoye, et joyaulx moult riches. Et pareillement fit moult de biens à ses voisins à sa venue; puis sejourna grant piece avec sa mere et ses compaignons, tant que le jour des grandes assises de lempereur fust venu. Si convint que tous ceulx de lempire qui tenoyent de luy y fussent, si que Virgille et ses compaignons et grant foison de ses parens y fussent. Si vint Virgille devant lempereur et fist sa clameur de ceulx qui desherité lavoyent, et requist que ses choses luy fussent rendues. Lempereur dist quil en auroit conseil; si se conseilla à ceulx qui naimoyent pas Virgille et lui dirent: Sire, vous ne devez pas vos bons amys qui bien vous peuvent ayder à vostre besoing desheriter pour ung clergastre voise gaigner à tenir les escolles. Adonc lempereur dit à Virgille quil avoit enquis de ce quil luy demandoit et quil navoit point droit, et quil endurast encores quatre ou cinq ans, et lors il seroit plus certain. Mais Virgille vit bien quil estoit forgé et qu'il ployoit la courroye. Si en fut trop ire et dist quil sen vengeroit bien. Lors alla Virgille à son hostel et manda tous ses bons amys et leur livra de beaulx manoirs qu'il avait à Romme et les fit incipez et aises tant que vint à la Saint Jehan, que blez devoient estre meurs aux champs. Lors atourna si bien les biens de ses ennemis, que quand ilz furent meurs, ilz ny pouvoyent advenir ne à toucher, car il les couvrait de laer en telle maniere que ceulx à qui ilz estoient neurent rien de leurs vignes, ne de leurs vergiers, et fist leur fruyt cueillir, moyssonner et mener à ses manoirs. En telle maniere gouverna Virgille ses ennemys, et fist recueillir leur bien aux champs et à la ville, si que de tous leurs fruytz qui estoyent advenus en icelle année nen eurent la vaillance de ung denier. Quant ilz virent celle chose, se assemblerent a puissance et dirent quilz arderoyent tous les manoirs de Virgille et lui prendroyent tant quil avoit, et à luy mesme couperoyent la teste. Et quant ilz furent assemblez grant route, et bien puissans, combien que petit de chose ilz firent tant quilz firent issir lempereur hors de Romme tant estoient, car ilz etoient douze senateurs obeys par tout le monde; mais ilz tenoient tous honneurs et tant quilz avoient de par lempereur. Et Virgille en devoit estre ung des douze; mais pource quilz lavoyent desherité, ilz lavoient debouté et sa mere, pour cause quilz detenoient leurs biens et quilz le vouloient occire. Et luy qui sçeut bien leur venue si fist clore ses manoirs et ses maisons et ses possessions de laer, si que nulle creature vivante ny peust entrer ni habiter contre la voulenté de Virgille.

Comment lempereur de Romme assalit Virgille en son chastel.

Quant ceulx qui pour Virgille grever, guerroyer vindrent devant la closture, ils ne peurent aller avant et si noserent. Parquoy ilz furent moult esbahis et esmerveillez et dirent lun à lautre: Il nous conviendra arriere retourner, de rien ne pourrons grever nostre ennemy. Et Virgille vint bien près deulx et leur dist: Vous me voulez detenir le mien, et si nen puis avoir raison, si vous en garderay, que jà nen aurez pouvoir, et si vous fais sçavoir que jamais tant que je viveray, vous ne cueillerez ne leverez aucun bien de terre tant que aurez ung denier du mien, et pouvez dire à lempereur que doresnavant je attendray bien pour son conseil lespace de quatre à cinq ans et ne demanderay à playder; mais recueilleray le mien jusques à ung seul denier. De sa guerre ne de la vostre, je nen tiens compte. Atant, retourna Virgille avec ses parens, qui avaient esté bien poures furent bien aises et eurent tout ce quil leur convenoit, et ses ennemys retournerent arriere honteusement, si ne sçeurent que faire, ne quel conseil prendre. Si vindrent à lempereur et se clamerent de Virgille et luy dirent comment Virgille avait dit de luy, et que riens ne le doubtoit, ne tout son pouvoir. Quant lempereur ouyt ce que Virgille avait dit, si le manda et en fut si fort troublé, et en eut si grant dueil quil en perdit toute contenance. Si leur dist: Or sachez que je luy confondray son manoir, et si luy couperay la teste. Lors ne tarda plus; ainsi manda ceulx quil pouvoit avoir et assembla les ungz par prieres, les autres pource que venir devoient à son mandement; et quant lempereur eut tout assemblé les ungz par amytié et les autres par mandament, si sen alla et chevaucha tant que ses gens vindrent devant la closture que Virgille avoit fait à lenviron de ses manoirs, et eulx là venus ne peurent plus aller avant, pour chose quilz peussent, et quant ilz furent là, Virgille sen alla derriere lost et fist closture de laer en telle maniere quil les encloit, quilz ne pouvoient reculler, ne retourner, ne aller avant vers le chastel pour chose quils sçeussent faire.

Comment Virgille avoit enclos lempereur et son ost de murs.

Lors fist Virgille un enchantement quil sembloit à lempereur et à tous ceulx qui avec luy estoient que grant eaue environ de lost estoit et si en telle maniere estoient pris quilz navoient pouvoir daller avant, ne de retourner arriere. Et quant lempereur se vit ainsi enclos, luy et tous son ost, et quilz navoient puissance de remuer, ne de partir, ne nulz, que dehors fust, ne pouvoit à eulx venir, se ne cetoit par le consentement de Virgille, et en cestuy enchantement, vint Virgille à lempereur et lui dit: Sire empereur, vous ne avez pouvoir de moy grever pour chose quil en adviengne, et se vous etiez saige, vous feriez bien de moy, car plus vous pourroys ayder que tous les autres. Et lempereur luis dist: Certes, faulx cafart, je vous honniray, sentre mes mains je vous tiens. Par mon chief, dit Virgille, je ne vous doubte; mais bien sachez que je vous chastiray, car vous me deussiez aymer et honorer comme celuy qui est de vostre lignage, et vous me voulez desheriter et ma mort pourchasser. Adonc sen alla Virgille à son hostel et fit venir, cuyre et appareiller ses viandes entre son manoir et lost en telle maniere, que tous ceulx qui le voyoient, lodeur en avoient, et non autre chose avoir nen pouvoient, pource que laer et la closture leur defendait le passage. Ainsi fist Virgille à lempereur et à tous ceulx qui avec luy estoient souffrir faim et soif et mainte autres malaise, et ny avoit homme en lost qui sen peust destourner, ne qui an peust conseil donner pour y remedier.

Comment lempereur fit paix avec Virgille.

En celle maniere et en celluy point, Virgille tint lempereur et tous ceulx qui avec luy estoient en lost que onc ne beurent, ne mangerent en deux jours et une nuyt. Et vint Virgille à lempereur et luy dist: Sire empereur, en ferez-vous plus, garderez-vous toujours ce chemin, et nyrez-vous ne avant ne arriere? Et lempereur luy dist: Virgille, oste-moy dicy et je te rendray et te delivreray ta terre et si aura du mien à ta voulentè. Et Virgille luy dit: le promettez-vous à garantir comme empereur de Romme? Ouy, dit-il, vrayement, et vous recongnois de mon lignage et vous retiens de mon amytiè. Lors diffist Virgille sa closture et emmena lempereur et ses gens à son manoir, et habandonna son or et son avoir et si les fist servir au disner de tant de manieres de viandes que oncques nen eurent autant. Et fut lempereur servy à si grant estat, que oncques navoit esté et ne fut depuis, et donna Virgille joyaulx et plusieurs autres choses à tout chacun selon son estat. Quant ilz eurent disné bien aise et à loysir, si prindrent congié de Virgille moult reveramment et sen retournerent chacun en son repaire, et incontinent lempereur luy fit rendre et delivrer tout ce quil demandoit; et fut maistre conseiller de lempereur par dessus tous. Et tant advint que Virgille ayma une damoiselle, fille dune grant dame des plus grans gens de Romme, et la fit requerir damour par une vieille sorciere. Quant la damoiselle sçeut quil estoit assote delle, si se pensa comme elle le tromperoit et decevrait, et au commencement luy dist quil y avoit grant dangier, et en la fin luy dist quelle navoit peur de luy octroyer sa voulenté fors que en une maniere, et que si vouloit coucher avec elle, il convenoit venir tout quoy auprès de la tour où elle gisoit, quant toutes gens seroient couchez, et elle luy avallerait une corbeille à terre bien encordée, et il entreroit dedans, et elle le tireroit à mont jusques en sa chambre. Et luy accorda, et dit que voulentiers le feroit.

Comment la damoiselle pendit Virgille en la corbeille.

Le jour fut prins quil devoit aller en celle tour qui seoit au marché de Romme. En toute la cité navoit si haulte tour. Virgille alla à la tour où la damoiselle lattendoit et de la grant haste quil eut dy fouyr, il sen alla tout nud en pure chemise, sans robbe, sans chausses ne brayes; et quant il trouva la corbeille descendue, il entra dedans, et la damoiselle le fist tirer amont jusques au second estage de la tour, et quant il fut ainsi que à dix piedz de la fenestre, ilz attacherent la corde et le laisserent pendu là à plus de cinquante piedz de hault. Lors luy dist la damoiselle: Maistre, vous estes trompé, car demain sera jour de marché; vous serez de tous regardé et verrà chacun vostre ribaudise qui cuydez avec moy coucher; sire ribault, clerc enchenteur, vous demourez là. Et elle clouyt la fenestre et sen alla. Et Virgille demoura toute nuyt là pendu et lendemain, tant quil fust sçeu par tout Romme, et lempereur, qui dolent en fut, manda la damoiselle quelle fist avaller Virgille, qui moult en fut hontoux. Si dit par son chief quil sen vengeroit briefvement, et vint à son palais qui estoit le plus bel de Romme, et lavoit embelli depuis qu'il fut revenu de Tollette. Si print Virgille ses livres et fist tant que tout le feu de Romme fut esteint et ny avait nul qui en peust apporter en la cité de dehors Romme, et dura ce temps une journée que sans feu Romme estoit; mais Virgille en avoit assez et nulz des autres nen avoient point et si nen pouvoient faire.

Comment Virgille estaingnit le feu de Romme.

Lempereur et tous les barons et toute Romme estoient tous esbahis et emerveillez que ce pouvait estre, et dirent à lempereur quilz cuidoient que Virgille leust fait estaindre. Si le manda lempereur et luy pria quil les conseillast comment ilz pourroient recouvrir du feu. Et par ma foy, dist Virgilles, vous en aurez se vous voulez, et par tout Romme. Sire, font-ilz, dictes-nous comment. Et Virgille leur dist; Vous ferez ung escharfault au marché, et en iceluy escharfault vous ferez monter toute nue en sa chemise la damoiselle qui devant hier me pendit en la corbeille, et ferez crier par toute Romme que qui vouldra avoir du feu viennent à lescharfault en prendre, et allumer à la nature dicelle damoiselle, ou autrement ilz nen auront point. Et sachez que lun nen pourra donner à lautre, ne vendre, ne prester, ne autrement nen pourra allumer.

Comment la damoiselle fut mise en lescharfault et y allait chacun allumer sa chandelle ou sa torche entre ses jambes.

Lempereur et tous les barons de Romme virent bien que faire leur convenait, dont ilz furent moult dolens, et firent faire lescharfault et venir la damoiselle. Si fut montée sur lescharfault en pure chemise, et tous ceulx qui du feu avoient besoing en venoient querir à sa nature entre ses jambes. Les riches y boutoient des torches et les pauvres des chandelles ou de lestran. Trois jours convint à la damoiselle y estre, ou aultrement ilz neussent point eu de feu, tant que Romme en fut garnie. Lors sen alla la damoiselle honteusement et ben sçavait que Virgille luy pourchassoit ceste villennie. Puis ne tarda guaires quil ne se mariast et print femme. Et ung jour dist à lempereur quil faisoit faire ung beau palays moult merveilleux et tout quarré, et quant il fut fait et lempereur dedans, il oyoit tout ce que lon disoit en la quarte partie de Romme en un des quarrés, et sil alloit en lautre, il oyoit ce que lon disoit en lautre partie, et ainsi des deux autres quartiers, et par ainsi oyoit il tout, si bas ne sçavoit on parler les ungs aux autres.

Comment Virgille fist une lampe qui tousjours ardoit.

Encores fist il autres choses, car il fist ung grant pilier de marbre et une arche qui alloit jusques au palays. Et du palays alloit bien Virgille sur le pillier. Le palays et le pillier estoient assis tout au millieu de Romme, et sur ce pillier fist une lampe de voirre qui tousjours ardoit sans destaindre; car pour riens estaindre ne la pouvoit on. Et allumoit la dicte lampe la cité de Romme tout entieremente depuis ung bout jusques à lautre. Et ny avoit rue si estroite peut elle estre que lon ne veist aussi cler comme qui eust mis ung sierge tout ardant. Encores fist il bien autre chose, quant en la voye des meurs du palays en hault, sur ung des cameaux mist ung homme de cuivre, moult grant et gros, et fort bien moullé, et tenait en ses mains une arbalestre de cuivre et visoit celuy villain à la lampe estaindre, jusques à ung jour que Virgille ne demouroit plus au palays pource que Romme fut destruite, et ne fut pas refaicte si grande comme elle avoit esté. Et tousjours ardoit la dicte lampe et allumoit par tout Romme.

Ung jour alloyent le filles des bourgeois sesbattre parmy le palais, à vint une delles au villain de cuivre qui tenoit larbalestre, et visait tout droit à la lampe ferir. Si lui dist par gabbes: Ha, sire villain, que ne tirez-vous? à quoy tient-il? puis fiert du doyt sur larbalestre, et la vire eschappe qui fiert la lampe que Virgille avoit faicte. Bien trois cens ans avoit duré auprès sa mort. Et à peu quelles nen yssirent hors du sens pour la grant hideur et peur quelles en eurent; car elles virent fouyr le villain de cuivre soubdainement, ne oncques puis ne fut veu.

Cy apres parle du vergier que Virgille fist à la fontaine de lestang.

De grants merveilles fist assez Virgille en son temps, et sçachez qu'il fist ung vergier derriere le palays où il mist de toutes manieres darbres portant fruits, et aussi dherbes portant fruits et dherbes croissantes sur terre. Et en tous temps vissiez au vergier fruits. fleurs et semences. Au millieu de ce beau vergier avoit une fontaine que oncques de plus belle ne fut veue en tout le pays de Rommanie ne ailleurs, et estoit le jardin peuplé de toutes manieres doyseaulx, lesquelz chantoient tout le jour et toute la nuyt. Et en celui jardin navoit paint de closture fors que de laer, si ny eust sçeu rien entrer dedans ne aussi saillir dehors. Et oyoit on les chants des oyseaulx qui estoient seans dedans chantans, et si ne les veoit on point, au moins ceulx qui estoient par dehors ledit jardin. Et aussi de toutes manieres de bestes sauvaiges et privées qui proffitables estoient, vous en eussiez trouvé et veu leans dedans icelluy beau jardin.

Encores fist Virgille de leaue qui sailloit de celle belle fontaine qui estoit dedans le vergier, ung bel estang tout autour du vergier, le plus cler que oncques fut, et nestoit maniere de poissons deaue doulce que dedans icelluy estang ny en eust et faisoit tout ce beau veoir.

Autre chose il fist bien encores, car il fist une voulte en terre où il avoit son tresor et y mit deux grans hommes de cuyvre pour garder lhuys, et chacun deulx tenoit ung maillet en son poing et en frappoient lun après lautre sur une enclume si druement que nulz oyseaulx ny eussent sçeu passer entre deux quilz ne fussent mors. Autre garde ny mist pour son tresor garder.

Lymage que fist Virgille à sa femme.

Encores fist il bien autre chose, car il fist ung ymage hault en laer qui ne pouvoit nullement cheoir, et si ne pouvoient ceulx de Romme ouvrir huys ne fenestre quilz ne veissent celluy ymage. Et estoit de telle vertu que toute femme qui lavoit veu navoit voulenté de faire le pechè de fournication. Et de ce furent moult courroucées les dames de Romme qui aymoyent par amour, quand elles ne peurent mettre le pied hors de leurs maisons quelles ne veissent celuy ymage, et si ne pouvient avoir soulas de leurs amours. Puis le dirent à la femme de Virgille que ainsi perdoient leurs esbattemens et deduytz, et elle leur promist quelle mettroit peine de le faire descendre; si espia Virgille, car aucunes fois il alloit par le pont fait en laer. Et ung jour advint que Virgille n'estoit pas au pays, mais estoit allé dehors de la ville de Romme pour son esbat. Si alla ladicte femme de Virgille à lymage et le prit par lepaulle et le fit trebuscher la teste dessoubz, et de là en avant firent les dames de Romme à leur voulenté et à leur plaisance, et furent bien ayses de lymage qui fut abattue.

Comment Virgille refist lymage et trabucha sa femme, et comment il fist ung pont sur la mer.

Adonc quant Virgille revint et il ne trouva point son ymage, si en fut dolent et dist quil le remettroit et jà rien ne leur vauldroit ce quilz avoient fait, et jura quil sauroit qui abattue lavoit. Si la releva et remist comme devant et demanda à sa femme si elle avoit lymage abattue, et elle dit que non. Puis vindrent les dames à la femme de Virgille et dirent quil valoit pis que devant, et elle leur dist quelle labattroit encores, et Virgille, qui vouloit sçavoir qui lavoit abattue, se mist en ung lieu secret et espia sa femme, et vit aucunes femmes qui se complaignoient à elle dicelle ymage. Et la dicte femme de Virgille y vint et y monta elle mesme et la print par la teste et fit trebuscher. Et Virgille, qui caché estoit, y vint et print sa femme et la trebuscha et au dyable la commanda et dist: Pour bien je lavoye faicte, mais plus ne men mesleray et facent les dames à leur voulenté. Lors prit Virgille sa femme en haine et autrefois avoit ouy parler dune damoiselle qui estoit fille du souldan et la tenoit on la plus belle du monde. Si fist tant Virgille quelle se consentit a sa voulenté, et si ne lavoit veu que de nuyt. Ung jour dist la damoiselle quelle vouloit aller en son hostel sçavoir quel homme il estoit et quelz manoirs il avoit, et il dist que voulentiers luy meneroit et passeroit maintz pas de terre et ne marcheroit sinon par laer, car il avoit fait ung pont en laer par dessus la mer. Si la prist incontinent et la mena à Romme parmy laer, et la garda que oncques homme ne la vit et ne parla sinon à Virgille. Et Virgille luy monstra son palays et son vergier, et sa voulte, et son tresor, et le villain qui fist semblant de ferir. Et luy monstra tout son tresor et toute sa richesse, et luy en presenta, mais oncques nen voulut rien emporter avec elle, car elle en avoit assez en garde qui à son pere estoit. Et la tint Virgille longtemps en son vergier. Le pere à la damoiselle fut courroucé et sesmerveilla de sa fille, car il ne sçavoit quelle estoit devenue, si fut à guetter partout, mai elle ne fut pas trouvée.

Comment Virgille reporta la damoiselle en son pays.

Lors si advint que la damoiselle dist à Virgille quelle sen vouloit retourner en son pays devers son pere. Lors la print entre ses bras et la porta sur le pont en laer et la mit en la chambre de son pere, puis la commanda à Dieu et sen revint à Romme. Quant vint le lendemain, le grant souldan de Babilone qui moult courroucé estoit de sa fille, par une damoiselle sçeut que venue estoit, et estoit couchée en son lict. Et incontinent alla par devers elle et luy demanda dont elle venoit, et de quel pays, et qui lavoit ramenée. Sire, dist la damoiselle sa fille, ça esté ung tres bel homme; parmy laer memmena en son pays, et quant nous fusmes là il me monstra son palays le plus beau du monde, ainsi comme je crois, et puis après il me monstra son tresor, lequel est grant à merveilles, et puis il me monstra son vergier, lequel est si tres beau quil ne fault rien. Mais je ne parlay oncques à homme ne à femme sinon à luy, et si ne sçay quel pays cest. Or entendez, ma belle fille, la premiere fois quil vous emportera plus, demandez luy des fruictz de son pays et men apportez, si sçauray par adventure de quel pays il est. Sire, dist la damoiselle, voulentiers. Puis après ne demoura gueres que Virgille sen retourna en Babilone, puis print la belle damoiselle sa dame par amours, laquelle nen fit pas grand frime et lemporta en son pays, et la tint tant quil luy pleut, et quant elle se voulut retourner, elle print noix gauges et des autres fruictz ce quil luy en pleut prendre, et quant Virgille leut retournée là ou il lavoit prise, elle monstra à son pere ledict fruict. Si luy dist: Ha, belle fille, il est de devers France celuy qui ainsi vous demaine.

Comment Virgille fut pris avec la damoiselle et comment il eschappa et emmena la damoiselle.

Lors dit le souldan à sa fille: Regardez quant il viendra; mais avant que le faictes coucher à vostre lict, vous luy ferez semblant de grant amytié, et je vous donneray ung breuvaige de quoy vous luy en donnerez à boire; mais gardez que nen beuvez. Et tantost quil en aura beu il sendormira. Lors le faictes sçavoir, si le prendrons et sçaurons quel homme cest. La damoiselle fist ainsi comme son pere luy avoit commandé, et Virgille fut pris, lyé et gardé jusques au lendemain matin quil fut admené devant le souldan, et devant tous les barons de sa terre qui y furent. La fille du souldan fut aussi menée au palays, et là monstra à veoir à toute la baronnerie celuy qui menée lavoit et emportée par plusieurs fois en sa contrée, mais ne sçavoit dire où cestoit. Par mon chief, dist le souldan, tu es mal venu qui ainsi as ma fille emblée et deçeue et fait delle à ton tallent. Tu en seras demené à nostre loy et de toy fait justice à nostre voulenté. Sire souldan, dist Virgille, se jeusse voulu, jamais ne leussiez veue; laissez-moy retourner à mon pays, jamais verse elle ne retourneray. Nous nen ferons rien, dist le souldan à tous ses barons; vous avez encouru et desservi mort villaine et ne pouvez eschapper. Seigneur, dist la fille, si vous le mettez à mort, je mourray avec lui. Par mon chief, dist le souldan, nous avons assez dautres amys meilleurs que toy, tu seras arse et bruslée avec luy. Par la foy que je dois, dist Virgille, sire souldan, vous mentirez.

Comment Virgille eschappa et ramena la damoiselle et fonda la cité de Naples.

Adonc commença Virgille ung enchantement tel quil sembloit à tous ceulx qui là estoient, que le fleuve de Babilone couroit parmy et nageoyent tous, ce leur sembloit advis, et se gettoyent à ventrillons et pouldrilloient comme grenouilles; et Virgille print la damoiselle, si lemporta par laer, et quant il fut sur le pont avec sa mye, si fit faillir ses enchantemens et le virent aller parmy laer, dont le souldan et tous ses barons furent tous esmerveillez et dolens oultre mesure; mais autre chose nen sçavoyent que faire. Ainsi sen revint à Romme avec sa mye et furent bien ayses et bien heureux de la damoiselle, car cestoit la plus belle creature que lon sçeust regarder. Et pensa quil la mariroit bien haultement, car il avoit de moult grandes possessions, terres et heritages sur la mer, et estoit moult riche en sa terre. Si pensa quil feroit une cité en fonds de mer. Si y ficha ses enchantemens et fonda cette cité moult riche et noble, et toute fut assise sur ung œulf, et fit une tour carrée et au couplet dicelle tour fist une empolle et y mist ung travail de fer par enchantement si que tout le monde ne leust sçeu oster sans le briser, et en icelluy traveil mist ung tref, et en celluy mit ung œuf et y pendit celle empolle par le col en une chaine, et encore y pent il; et qui croulleroit icelluy œuf, toute la cité trembleroit, et qui le briseroit la cité fondroit. Quant Virgille eut fait celle cité il lappela Naples, et y mist de son tresor une grande partie, et y mist sa dame par amours, la fille du souldan; et luy donna la cité et la terre dalenviron à elle et ses hoirs, et puis ne tarda point longtemps quil la mariast à un chevalier d'Espaigne. Lors advint que lempereur de Romme luy voulut tollir sa cité de Naples, pource que cestoit la plus belle et la plus noble que en celuy temps fust en toute la contrée et province du pays, et si estoit assise en la meilleure marche de toute Rommanie. Si sen alla lempereur de Romme dehors couvertement à petite compagnie; mais avant quil partist il avoit envoyé devant ses lettres à ses barons quilz se assemblassent devant la cité de Naples. Mais celuy à qui Virgille eut donné la damoisselle fut bon chevallier et hardy et tint bien sa cité et le fit sçavoir à Virgille.

Comment lempereur de Romme assiega la cité de Naples.

Quant Virgille le sçeut, si gecta ses sors et ses enchantemens en telle maniere, que toutes les eauls douces qui estaient entour Naples se retirerent ensemble tout ainsi comme pluye, et si nestoit homme ne femme de lost de lempereur qui peust avoir une goutte pour besoin quil eust, et ceuls de Naples en avoient assez. Et en ce temps Virgille assembla son pouvoir et sen voulut venir à Naples. Mais lempereur ne pouvoit plus demourer en lost, car les chevaulx et autres bestes mouroient par faulte deaue, et sen retourna tout confus.

Ainsi que lempereur devoit entrer à Romme et Virgille en yssit et tous les siens, et vint à lempereur, si luy dist; Sire, pourquoy avez vous jà laissé le siége de Naples? Lors sçeut bien lempereur que Virgille le gaboit, si en fut moult yre, et Virgille à tout sa route sen vint à Naples faire serment aux seigneurs et borgeois de la cité que jà nentreroit en leur ville homme Rommain, ne jamais tribut ne rendroient à seigneur terrien, ains seroient francs et la cité franche

Comment Virgille fist peupler la cité descolliers et de marchandises.

Quant Virgille eut ce fait, si sen revint à Romme et print ses livres et de ses meubles grant partie, et fist tout mener à Naples et le tresor quil avoit enfermé laissa à Romme, car bien sen cuydoit revenir et son manoir laissa en garde à ses amys. Et quant il eut toutes ces devises ordonnées et il fut retourné à Naples, si manda clercz et fist crier escolles, et les clercz fist il venir à Naples et leur assist rentes à la ville pour tenir escolliers en telle maniere que qui lescolle laisseroit sa rente failloit. Quant il eut bien peuplé la ville descolliers, si y fit ung baing bien peuplé, communs, chaulx, où chacun se baignoit qui vouloit, et ilz sont encores à present et furent les premiers baingz que oncques furent. Et après il fist le plus beau pont qui oncques fust et y pouvoit-on veoir toute beaulté comme nefz marchandes et tous vaisseaulx de mer, et si fut la ville tant belle et tant gente et si riche que tout le monde navoit pareille, et estoit tant renommée que de toutes autres y venoient, et Virgille lisoit de la science de nigromance, car plus en sçavoit que les autres qui y avoient esté devant luy et après luy. Sa femme estoit pieça morte et navoyent nulz enfans, et sur toutes gens il cognoissoit les clercz et leur faisoit grant feste, et leur donnoit de ses richesses pour avoir des livres, et moult noblement se demenoit comme il pouvait faire, et estoit lun des plus puissans hommes du monde, car sil eust voulu, il eust estè le plus grant seigneur du monde et le plus honoré de toutes gens.

Comment Virgille fist ung serpent à Romme.

Par art de nigromance Virgille fist ung serpent d'airain, et quiconque boutoit sa main en sa gueulle par cause de serment, sil se parjuroit il perdoit sa main, et sil faisoit vrai serment il la ramenait toute saine et sans peril. Advint que ung chevalier de Lombardie mescrut sa femme dun sien varlet chartier, mais bien s'en deffendoit et se offroit à faire serment à la gueulle du serpent à Romme comme dit est. Le chevalier luy accorda, et quant ilz furent en la voie, le chartier, par le conseil de la dame, en guise de fol leur alla au devant de tous ses gens, et Virgille qui par lart de lennemy sçavait bien leur malice, si pria à la dame quelle se voulist deporter de jurer; mais elle nen voulut rien faire, mais bouta sa mains avant dedans la gueulle du serpent, et elle jura devant son mary en faisant serment quelle navoit eu affaire au chartier dont on chargeoit, non plus que à celuy qui au plus près delle se tenoit, et pource quelle disait vray, elle retira sa main toute saine de la gueulle du serpent. Lors en ramena le chevalier sa femme, et oncque puis ne la mescrut. Et Virgille par grant despit abattis son serpent pource que la dame deçeut son seigneur, et Virgille dist ainsi que les femmes sont sages en leur malice. Aussi sont les preudes femmes là où elles sont desirantes de leur salut.

Comment Virgille mourut.

Quant Virgille eut fait toutes les choses devant dictes, il sen entra en ung basteau et sen alla esbattre sur mer luy quatrieme par compagnie; et ainsi quilz alloient devisant sur leau, vint ung estourbillon de vent si merveilleux et tant horrible, quil fist lever les ondes de la mer en telle maniere, quilz ne attendoient que lheure de la mort. Si furent enlevez en haulte mer, puis apres nul deulx ne fut veu ne aperçeu, ne oncques homme mortel ne vit telle aventure, et deulx ny avoit creature qui sçeust dire quilz estoient devenus. Combien que depuis on a dit que aucuns furent par tous les portz de mer et aulx isles, mais nullement nen fut trouvé nouvelles et furent ravis soudainement. En tous les clerz et escolliers de la cité de Naples et Romme et toutes nations et contrées en furent moult troublez et dolens. Lempereur et tous ses barons, ennemys et amys de Virgille, et tous autres bourgeois et autres manieres de gens grans et petis, en furent tous esmerveillez et en firent grant dueil, et par especial ceulx de Naples que ainsi les avoit faitz et sainctement establis. Lempereur cuydoit prendre le tresor quil avoit à Romme; mais il ne peut, et ny avoit homme si hardy quy osast toucher; ainsi en furent tous esperdus et estoit advis à chacun qui y alloit que les hommes de cuivre les occiroient. Et par ainsi ne sçeut nul que le tresor que Virgille avoit à Romme estoit devenu. Et qui de ce ne croira dampné jà ne sera. Si fist Virgille des faitz merveilleux, qui point tous ne sont escriptz en ce livre.

LEGGENDA DI PIETRO BARLIARIO

(Ved. vol. II, pag.126 ).

Mille cinquantacinque anni volgea

La mentitrice etate in lieta calma

Vittorio Secondo il soglio avea,

Alla Chiesa portando amica palma,

Enrico Quarto il scettro allor reggea

Con fausta sorte, fortunata, ed alma;

Chè se eserciti contro altrui già spinse

O vincente o perdente ei sempre vinse.

Ma prima di solcar i flutti e l'onde

Febo che mi raggiri entro l'ingegno

Per scriver le voragini profonde,

Acciò non si sommerga il fragil legno;

Tu infondi al mio cantar luci gioconde

E vegga pur de' tuoi favori un segno;

Chè se sol da un tal raggio io sarò scorto

Bacio l'amica terra e giungo in porto.

Or ritornando alla mia storia ordita,

Correa la sesta età quando in Salerno,

Che fra l'altre cittadi è più fiorita,

Di Partenope alzando il nome eterno,

Nacque con gran ricchezze, e stirpe avita

Che già mise terrore al cieco Averno,

Nacque Pietro Barliario, e fu allevato

Dal suo nobile e ricco parentato.

Cresciuto poscia in tenerella etade

Fece tutti gli studi, un gran portento,

Tanto che ai genitori persuade

Di un futuro sperare alto e contento;

Ma come in petto giovanile accade

Tentar ciò che si vuol con ardimento,

Di desir arse (e mostra mente ria)

Per dotto diventar nella magia.

Ma l'inimico dell'umana gente

Che sol per nostro male è destro ognora

E così fa nascere sovente,

Come a Pietro fe senza dimora,

Fece un dì che il garzone afflittamente

Dalla natia città n'uscisse fuora,

E a spasso andasse ove di verdi erbette

Eran dipinte vaghe collinette.

E trovò quivi a caso una caverna

Che avea oscuro e sotterraneo ingresso.

Egli benchè la via qui non discerna,

Vuol penetrar nel rustical recesso.

Spintovi pur da cupidigia interna

Pose le piante e non pensò a sè stesso,

Come il guerrier che tanto si rinoma

Col suo precipitar liberò Roma.

E giunto colaggiù vidde una stanza

Con due altre da quella separate.

Un vecchio qui facea sua dimoranza

Sotto dell'empie soglie disperate;

Qual subito l'accolse con istanza

Di cerimonie e con parole grate,

Gli domandò chi in quelle stanze ombrose

L'avea condotto; a cui Pietro rispose:

La mia curiosità, dicea, m'ha spinto;

Non cercherò altra cosa in questo mondo

Se non che il saper vero e distinto,

Il modo di magia sommo e profondo;

E perchè venni in questo laberinto,

Sperando di trovar in questo fondo...

Volea pur dir, ma il vecchio tutto umano

In quell'istante il prese per la mano.

Si volse a tergo e tosto gli ha additato

Un colosso inalzato in quel soggiorno

Qual in mano tenea libro serrato,

D'indegne note e stigi nomi adorno.

Gli disse il tuo pensier pago è restato

Di ciò che mi chiedesti in questo giorno;

Prendilo, disse; e il prese, e una sol banda

Da lui fu aperta, e udì tosto: comanda.

Lieto lui gli soggiunse: io vi comando

Che fuor da questo centro mi portiate,

Senza insulto però vi raccomando,

E che danno nessuno mi facciate.

Siccome avesse dato al suono bando

Fuori si ritrovò delle incantate

Mura, per forza solo empia e nefanda.

Aprì di nuovo il libro e udì: comanda.

Comanda che in città volea andare,

Ed in piazza trovossi immantinente

Con gli altri cavalieri a passeggiare,

Come solea fare continuamente.

A casa se ne andiè senza tardare,

Sicuro già di sua virtù potente.

Riaprì il comando e con sua voce propria

Disse di tutti i libri voler copia.

Di tutti i libri sparsi in questo mondo

Che trattin di magia voglio portiate,

Ossian in mar ossian in cupo fondo

Ossian in terre occulte o inabitate.

Finì appena di dir, che con gran pondo

Di scritture diaboliche segnate

Venner molti; d'Averno in quell'istante

Molti libri gli portaron davante.

Barliario allor vedendosi arricchito

Di quella scienza che cotanto amava

E che il suo desiderio era compito,

Con fervor grande notte e dì studiava,

Talchè così perfetto era riuscito

In quella scienza maledetta e prava

Che fece cose di tal maraviglia,

Che inarcherete al mio cantar le ciglia.

Trovavasi in quel tempo abitatrice

Donna in Salerno di sovrana bellezza

E celebre e famosa incantatrice,

Come la fama a noi ci dà contezza.

Per questa Pietro ardea mesto e infelice

Al cor portando avvelenata frezza.

Porta Pietro nel sen immenso ardore,

Angelina per lui di gelo ha il cuore.

Angelina chiamavasi la bella

Che di un vago garzon viveva amante.

Quanto Barliario l'ama, altrettanto ella

Crudel gli si dimostra ed inconstante.

Così il suo cuor si strugge, mentre quella

Del suo diletto adora il bel sembiante.

Di questo accorto Pietro fu ripieno

Di geloso timore, e di veleno.

Stava a diporto un giorno la crudele

In un giardin con il suo drudo a lato;

Pietro vi apparse e fece all'infedele

Veder l'amante in sasso trasformato,

E per sfogar della sua rabbia il fele

Fece a colei, che tanto l'ha sprezzato,

La sua persona e il volto così bello

Trasformar in un florido arboscello.

Ritrasse poi le piante da quel loco;

Mentre Angelina tutta a parte a parte

Ricolma il seno di rabbioso foco,

Per liberarsi opra la magica arte.

Tanto disse e parlò e di lì a poco

Ripigliorno ambedue le forme sparte.

Ritorna nella sua sembianza adorna

Angelina e l'amante ancor ritorna

Ritornò Pietro, e vide liberati

I due amanti e ripieno di furore

Mormorò allora con terribil fiati

Che spaventò sino di Pluto il cuore,

E comandò agli Angioli dannati

Che in un punto l'amata e l'amatore

Diventino, con forma assai più strana,

L'amante un tronco, ed ella una fontana.

Finta così vedendosi la bella

Ricorse indarno dai Stigi numi.

Con singhiozzi interrompe la favella

E di lagrime fa scorrer due fiumi;

E tanto si lamenta e si querela

Che la sua gran bellezza li consumi;

Pietro, mosso a pietà, più non comanda,

Scioglie l'incanto e liberi li manda.

Attuffato i corsieri in grembo al mare

Avea di Delo il nume e tolto il giorno,

Quando portossi Pietro a ritrovare

Un cavalier amico, al suo soggiorno.

Facea costui vago festino fare

Di canti, suoni, balli in moto adorno.

Qui donna vi trovò di vago aspetto

Che l'alma gli passò per mezzo il petto.

Pietro la mira, ed arde nella mente

E gli stimola in cuore un santo onore.

O non s'avvede o non si cura niente

Che per lei nutre in seno un vast'ardore.

Di lì Pietro partissi di repente

E la bella aspettò che uscisse fuore.

Giunse la donna, a casa, che non pensa

Che abbia Pietro per lei l'anima accensa.

Era la porta chiusa e ben serrata,

Perchè la donna allor volea dormire

E degli abbigliamenti era spogliata,

Quando Pietro si vidde comparire

Che con voglia proterva ed infiammata

Scopriva li suoi affetti e il suo desire.

Tutta irata colei con gran baldanza

Gli dice, che abbandoni la sua stanza.

E in vece in lei di tema entrò lo sdegno

E: importuno, gli disse, ed arrogante

Scaccia di mente pure il tuo disegno

E dalla vista mia torci le piante.

Pietro si parte, e con turbato ingegno

Dicea tra sè, mi schernisti amante

Mi troverai fiero nemico e rio,

Chè brama sol vendetta il pensier mio.

Adirato si parte, indi comanda

Ai demoni che tosto abbino spento

Tutto il fuoco che fosse in ogni banda,

Fosse da loro estinto in un momento.

Onde, per compir l'opera nefanda,

La donna fe pigliar con gran tormento

E in piazza fu portata di repente

Nuda, parea ch'ardesse in fiamma ardente.

Correa il popol tutto in folta schiera

Per provveder di fuoco le lor case,

Fra le piante di quella in tal maniera

Sorgea la fiamma, onde ciascun rimase,

E l'uno all'altro darlo invano spera

Chè presto si smorzava; intanto spase

La Dea ch'ha cento bocche un gran rumore

E l'avviso n'andò al Governatore.

Il qual di un tal misfatto molto irato

Il Bargello chiamar fece ben presto

E pena il viver suo gli ha comandato

Pietro imprigioni senza alcun pretesto;

In altro modo non sarà scusato.

Partì il meschin, ma molt'afflitto e mesto

Pensando se l'andava a carcerare,

Poco guadagno vi poteva fare.

E, per fuggire un sì fatal comando

Dalla città si risolvè partire;

Ma pria di far un volontario bando,

Volle Pietro Barliario riverire

A lui l'ordine imposto dichiarando,

Dirgli come per lui volea fuggire,

E se di vendicarsi egli desira

Contro il Governator rivolga l'ira.

Ma Pietro già per infernale avviso

Era stato informato del successo

E vedendo il Bargel, dicea con riso:

So che il Governatore appunto adesso

Che mi mettessi in prigion t'ha commiso.

Disse il Bargello allor tutto dimesso:

Vero è Signor, ma per fuggir tal sorte

Or di Salerno vuò lasciar le porte.

Soggiunse Pietro allor: per mia cagione

Tu giammai farai questo, così spero;

Va corri, e di' a colui che io son prigione

Che d'andarvi giur'io da Cavaliero.

Scacciò allor il Bargel tanta afflizione

E corse a darne avviso a quell'altiero

Il qual, con volto minaccioso e tetro,

Discese alla prigione e trovò Pietro.

E incominciò: quanti misfatti io sento

Di voi che siete un Cavalier di pregio!

Perchè così oscurate in un momento

Di vostra antica stirpe il nome egregio?

Un Signor siete voi di gran talento

Che racchiudete in sen animo regio;

Tanti richiami in tribunal ci sono

Che luogo non vi trovo di perdono.

Volea più dir ma Pietro, interrompendo

Disse, che se voleva predicare

Andasse altrove, pur di lì partendo,

Chè gran gente lo staria ascoltare:

Chè sentir correzioni io non intendo,

Diceali, il tuo mestiero è giudicare,

Pensa d'amministrar d'Astrea l'impero

Con giustizia, con senno e cor sincero.

Tanto studio che posso in quel che vuoi

Darti senza fallir gran correzione

Non solo a te, ma alli ministri tuoi

Empi ministri di un crudel Nerone.

Più non volle ascoltar li detti suoi

Il giudice adirato e la prigione

Abbandonando, in stanza s'era messo

Per fabbricar di lui il processo.

Qual seppe ordir con tanta crudeltade

La sentenza scrivendogli di morte;

Quando a un tempo si vider spalancate

Delle prigioni le serrate porte,

E delle afflitte genti carcerate,

Si fa lui condottiere, mago forte,

Mirando ognuno e di letizia pieno

Il ciel scoperto e l'aere sereno.

Indi, aperto il comando, in quell'istante

Alzar fur viste le prigion da terra

Come se niuna fosse scossa innante

L'insidioso seno al ciel disserra;

Così per vendicarsi il dotto Atlante

Fe veder sì rovinosa guerra,

Ma se prestate al mio cantar orecchia,

Udite quel che far poi s'apparecchia.

Sorgea la notte oltre l'usato oscura

Cinta di orride nubi in fosco velo;

Ma pria di proseguir l'impresa dura

Prestami aita, biondo Dio di Delo;

Tu le nubi al mio dir discaccia e fura

E d'un vile timore un freddo gelo;

Sorgea, dico, la notte allora quando

Aprì Pietro il terribile comando.

E disse agli empi spiriti: adesso voglio

Portiate questo rio Governatore,

Ignudo come sta, sopra quel scoglio

Che fra l'onde del mar spunta più fuore.

Fu ubbidito il suo cenno e con orgoglio

Pietro mirava quello in gran dolore

Sopra quel sasso esposto in mezzo al mare

Che non meno di un sasso ignudo pare.

Ma intanto poi nel liquido elemento

Ei disserra dai suoi chiostri i venti

E nasce gran tempesta in un momento

Con soffi d'Aquiloni empi e tremendi;

Parea che contro il ciel con ardimento

Del gran tridente i numi più possenti

Mostri marini, gregge, la canaglia

Insultasse per fare aspra battaglia.

Un dì e una notte la tempesta algente

Durò pria che tornasse in lieta calma

Il mar furioso; il misero dolente

Al Creator stava per render l'alma,

Quando poi fu veduto dalla gente

E ognun correa per riportar tal palma

E acciò che in terra si conduca in fretta

Fu spedita dal lido una barchetta.

S'accostò il legno al rilevato sasso

Et in terra buttollo immantinente,

Ripien di doglia tutto afflitto e lasso,

Con somma maraviglia della gente.

Fu condotto al palazzo a lento passo,

E sulle piume posto incontanente

E qui gli si appresenta, in varie forme,

Cose di gran spavento, allor che dorme.

Pareagli ad or ad or che in aria eretto

Fosse gran fuoco, e in cenere temea

Spesso che il suo nobile e bel tetto

Che rovinar volesse gli parea;

Così di gran timor riscosso il petto

In tal mestizia, in tal dolor cadea

Che in quattro dì, ahi disperata sorte!

Poichè temea morir, ebbe la morte.

Poichè Pietro si vidde vendicato

Di quel Governator che l'avea offeso

Di Salerno la patria ebbe lasciato,

Verso Palermo il suo cammino ha preso.

Quivi giunto un compare ebbe trovato

Che gran sospir fuor del suo petto acceso,

Lagnandosi ad ognor, mandava all'aria,

Per aver la fortuna empia e contraria.

Avea fornaci il miser'uom più d'una

E molta robba avea del suo lavoro

Ma la sua minacciosa e ria fortuna

Gli dava di miserie un gran martoro.

Pietro trovollo ch'era l'aria bruna

E dando ai suoi lamenti un gran ristoro,

Gli dicea: non temer, ch'io son venuto

Per riparar tuoi danni e darti aiuto.

Pietro intanto si parte e il cieco orrore

Già dispiegato avea la notte, quando,

Per consolar del suo compare il cuore,

Aprì Pietro il terribile comando

E costrinse il Demon, che per quattr'ore

Venga in giù dal ciel precipitando

Grandine tale e tanta (ahi fiero scempio!)

Che rovini ogni casa ed ogni tempio.

Non vuoto andò il desio, e gran spavento

Di repente Palermo avesti in seno,

S'ode l'aria fischiare e in un momento

Manca di stelle amiche un sol baleno,

E grandine sì grossa con fier vento

Spinse dal ciel, e ognun di tema pieno,

Colla sua famigliuola accolta intorno,

Pensò che fosse allor l'estremo giorno.

Dopo tanto travaglio e tanta guerra

Portò l'aurora il bel mattin rosato;

Quando scorse l'infelice terra

D'ogni casa il suo tetto rovinato,

E ai pianti ognun le luci sue disserra

Vedendo quegli tutto al suol prostrato

Il suo tugurio, e per destin infido

Piange quell'altro il caro antico nido.

Per rimediar dunque a tal danno allora

E di tevole i tetti ricuoprire,

Dal compare ne andiè senza dimora

Qual volentieri ebbe tal sorte a udire,

Nè passasse cred'io neppur un'ora,

Che il miser fornaciar s'ebbe arricchire,

Spacciando la sua robba; in un momento

Pigliò gran quantità d'oro e d'argento.

Ma divulgò la fama in un istante

La venuta di Pietro e la sua scienza,

Onde ogni cittadino ed abitante

Stima per opra sua tal violenza,

E altri dispetti ricevuti innante

Fanno che Pietro sia di scusa senza

E per sfogare la mente lor sdegnata,

Fecero un stuol di molta gente armata.

Già benissimo Pietro lo sapea

Come a suo danno armata era la gente,

Ma dentro del suo cuor se ne ridea,

Che alla giustizia avea già posto mente

E disegnando nella propria idea

Una burla di fargli assai valente,

In piazza si trovava allora quando

Venne la turba contro lui infuriando.

E di crudel ritorte circondato

Pietro guidorno in tenebrosa stanza

In un fondo di torre rinserrato,

E qui facea penosa dimoranza.

Con rigor fu il processo fabbricato,

E conclusero alfin, senza speranza

Di esser dalla pena liberato,

Senza indugiar che sia decapitato.

Venne l'ora fatal che dee morire

E al patibolo giunto immantinente

Già salito sul palco s'udì dire:

Datemi un poco d'acqua amica gente.

Un vaso d'acqua ebbe apparire;

Ma prima che bevesse, lietamente:

Signori di Palermo, gli ebbe detto,

Io vi saluto e a Napoli vi aspetto.

Ridea il popolo al dir del sventurato

E che allor vaneggiasse ognun pensava.

Dopo bevuto, al ministro voltato,

Che presto oprar volesse lo pregava;

Ma quel, tutto atterrito e spaventato,

Temea di qualche scherzo e dubitava;

E discacciato alfin qualche timore,

Il colpo gli vibrò con gran furore.

Ma chi potria ridir con molti accenti,

Lingua non ho da raccontarvi appieno

In ridire il sussurro delle genti

Se tu Calliope non m'aiuti almeno

Tanto che per più avvenimento ( sic )

Ne cant'io sol di meraviglia pieno.

Sparì Pietro; il ministro in quell'istante

Un asino trovossi in tra le piante.

Alza la testa, e con furore tanto

Si mise in un gridar che spaventava.

Ma a Pietro, ch'è sparito, io torno intanto

Che già disse che in Napoli aspettava.

Pria che la notte spicchi il nero manto

Di Partenope al lido si trovava,

Quando ad un spirto di valletto in forma

Gli dà una lettera e del suo dir l'informa.

E che in Palermo vada indi gl'impone,

Che la consegni a quel Governatore,

Chi la mandi però non gli ragione.

Sparve a quel dir allora il rio latore

Ed in Palermo giunto in conclusione

La lettera presenta a quel Signore;

Vi giunse che la gente ancor ridea

Di quel gran caso che veduto avea.

Diede dico la lettera al superbissimo

Giudice che ripieno era di furia

La qual dicea: o Signor riveritissimo,

Dottore come voi non ha l'Etruria,

Nella vostra città vedo benissimo

Che non ci avete d'asini penuria;

Nel mondo mai s'intese tal notizia

Che si facesse d'asini giustizia.

Imparate però, e avvertite bene

A conoscere prima le persone;

Perchè darvi potrei tormenti e pene,

Se conoscessi in voi senno e ragione;

E se voi camminate queste arene

Credete che è la mia bontà cagione,

Chè potria ben farvi pagare il fio.

Questo vi sia d'eterno avviso. Addio.

Diè appen la lettera lo spirito immondo

Che dispiega verso dell'aria i vanni

E il giudice lasciò che con gran pondo

Rimase d'afflizion, e di altri affanni.

Per il dolor fu per uscir dal mondo

E sempre mesto poi condusse gli anni

E come di quaggiù fosse diviso

In bocca sua non si vedea più riso.

Or Pietro per Lisbona s'incammina

E in un momento giunse a quelle porte

Per virtù di sua magica dottrina

Che avvien che altrui tante ruine apporte;

E camminando in Lisbona una mattina

Vidde dentro una casa un pozzo a sorte

E ad un uom domandò con forme liete

Un poco d'acqua per smorzar la sete.

Ma rispose colui che se ne vada

E ritirossi entro sue stanze allora.

Pietro irato si parte e senza spada

E senz'altre armi il rio punito fora.

La mattina seguente nella strada

Avanti quelle case il pozzo fuora

Fu ritrovato; per far l'empio umile,

Udite che trovò nel suo cortile.

Le forche si vedeano ben piantate

Nel luogo ove già il pozzo si vedea;

Il figlio di colui con crudeltate

A un demon da carnefice facea;

Il capestro e l'altr'armi apparecchiate

Il provido suo figlio allora avea.

Tal spettacol vedendo il padre intanto

Forte gridò spargendo un mar di pianto.

Gli sgridava lasciar l'uffizio rio,

Ma quel sorridendo e non curando

La dura impresa lui già proseguia

E sopra il rio demon giva montando.

A tante strida a tanto mormorio

Gran popolo concorse rimirando

Lo spettacolo enorme e ognuno presto

Per farlo alla giustizia manifesto.

Che sia magico incanto ognuno crede,

E per virtude d'infernal magia;

Ma il tribunal che lo spettacol vede

La cosa vuol sapere come stia.

Il padron della casa che si avvede

Che questo è solo per vendetta ria,

Fu mandato a chiamar afflitto e mesto,

Il qual fe alla giustizia manifesto

Che in casa un forestier era venuto

Per chieder acqua e gliel'avea negato

E come la mattina avea veduto

L'obbrobrio, l'ignominia, il duro fato.

Gli disser se l'avesse conosciuto

Se per città l'avesse riscontrato;

Lui rispose di sì con gran duolo;

E presto armar fu fatto un grosso stuolo.

Qual seguitando allor le sue pedate,

Giunsero in piazza e quivi ritrovorno

Il forestiere, e quelle genti armate

A quel subito corsero d'intorno,

E la vita e le mani incatenate,

In un oscuro carcer lo guidorno,

Dove, senza di vita amica speme,

Sei banditi di vita erano insieme.

Entrato Pietro disse a quelli allora

Cosa in quel luogo ci volean fare.

Ma quelli, rispondendo; e voi ancora

Per qual cagion veniste qui abitare?

Credon che Pietro sia di mente fuora

A quella gran stoltezza di parlare,

E benchè dica liberar li vuole

Non però danno fede a sue parole.

Già il sol coi suoi bei raggi fatto il giorno

Avea del nostro mondo come appare,

Che Pietro cominciò con viso adorno

Con quelli carcerati a ragionare.

Gli domandò che cosa in quel soggiorno

Gli dava la giustizia da mangiare.

Rispose un di coloro in modo irato:

Sol che pane, ed acqua ci vien dato.

Rispose Pietro allor: povera gente

Così trattati male ora voi siete;

Ma vi prometto lesto qui presente

Che tutti consolati resterete.

Si vidde in quella grotta immantinente

Circondare di lumi le parete

E una mensa si vide apparecchiata,

Di preziose vivande era adornata.

Cena Pietro con gli altri carcerati

Ed era ognun di maraviglia pieno,

E sazi delli cibi che portati

Furon dai Spiriti in quell'oscuro seno,

Quando Pietro gli disse: amici grati,

Io partir vuò e non fia laccio e freno;

Se volete venir, io sarò scorta

Per fuora uscir dalla serrata porta.

Preso un picciol carbone a disegnare

Incominciò una barca in quell'istante,

Indi poi i compagni ebbe a chiamare

Che ponessero in quella le lor piante;

Ridevan quelli e pur per soddisfare

Il suo pensier, che a liberarli è amante,

Di sei ch'erano entrar un sol non vuole,

Perchè fede non presta sue parole.

Ma lo stolto n'avrà doglia e rancore.

La barca è presto in aria sollevata

E se ne uscì dalla prigione fuore,

Benchè la porta fosse ben serrata.

Per l'aria se n'andava, o gran stupore!

Ed in parte lontana è già arrivata;

E come l'aurora i raggi spase

Ognun di quei trovossi alle loro case.

Ma è d'uopo tornare alla giustizia,

Che Barliario volea esaminare.

Al carcere ne andò molta milizia

Per farlo avanti il giudice parlare,

Ma pieni i Saraceni di tristizia,

La porta apriro e nol poter trovare;

Sol trovato a dormir quel così stolto

Che per far da sapiente in lacci è avvolto

Il qual, interrogato, disse come

E quanto fatto avea quell'uom straniero

Il qual non sa chi sia, nè sa il nome

Ma che lo stima il rio Plutone invero.

Arricciorsi ai ministri allor le chiome

Sentendo raccontar il caso intero;

Condusser quello dal Governatore

Per fargli raccontar tutto il tenore.

Udito il tutto, il giudice in persona

Andiè a vedere se rottura v'era,

E la porta trovò valida e buona

Sol v'era scritta una leggenda altiera.

Dicea: Pietro Barliario s'imprigiona,

Ma lui, per isfuggir tal sorte fiera,

Con le porte serrate osò scappare;

Andate un'altra volta a ben studiare.

Tornò confuso nella sua maggione,

Mentre Pietro in Salerno è già tornato,

Che si sentia nel cor tanta afflizione

Udendo un suono giorno e notte allato

Che in cor gli favellava: empio fellone,

In questa estrema età tu sei arrivato

Nè ancor vuoi contemplar con luci vaghe

Del Crocifisso le pietose piaghe

Sicchè Pietro ogni giorno, benchè rio,

Cinque Pater dicea inginocchione

Pensando alla bontà del sommo Dio,

Che per l'uomo patì tanta afflizione,

Era buono il voler, ma il cor restio,

Perchè a morbo invecchiato invan si pone

O da chirurgo o da persone astute

Erba ed impiastro ad apportar salute

Ammaestrando i suoi alunni un giorno,

Di celeste voler o gran portento!

Li suoi nipoti in una stanza entrorno,

Che due lustri compiti aveano a stento;

E Fortunato, e Secondino osorno,

Che con tai nomi rinomar li sento,

Entrorno dico in quella libreria

Un libro aprire d'infernal magia.

E per scherzo pueril givan passando,

Con una penna, quelle note atroci,

Quando uno stuol di spiriti minacciando,

Con urli apparve o con terribil voci;

Sbigottiti i fanciulli allor tremando

A quei gridi diabolici e feroci,

Sorpresi dal timor, caddero spenti

E dal numero uscir delli viventi.

Corse Pietro e i parenti alla vicina

Stanza e mirando l'infelice caso,

L'infausta morte e la fatal ruina

Delli nipoti suoi giunti all'occaso,

Barliario tocco allor da man divina,

Già dentro del suo cuor è persuaso

Detestando abborrire in tutti i modi

L'inganno di Satanno e l'empie frodi.

Tutti portando i libri incontanente

Ove a S. Benedetto è sacro tempio,

Fe con proprie sue man un foco ardente

E quei libri vi pose a fare scempio

Pluto con i libri arse repente;

Il suo gridar fu sì crudel ed empio

Che il gran Tartareo, sbigottito e lasso,

Guardava indarno il maledetto passo.

Così Pietro rivolto ad un altare

Che vi era un Crocifisso, assai divoto

Cominciò si forte a sospirare

E per tre giorni fu sempre immoto;

Con un sasso alla mano a lacerare

Incominciossi il petto e con gran core

Di contrizione fe in un momento

Che ondeggiasse di pianto il pavimento.

Dicea: Signor di schiavitù comprare

Col tuo prezioso sangue ti è piaciuto

Me peccatore e somigliante fare

A chi del ciel dagli Angeli ha saluto.

Dal niente mi creasti, ed aspettare

In questa estrema etade m'hai voluto;

Or pentito a te vengo, o Redentore,

D'ogni mia colpa e d'ogni altro errore.

Lavar può solo il prezioso Sangue

Le bruttezze ch'il cor m'hanno macchiato;

Pietà, Signore, all'anima che langue

Considerando ogni primier peccato;

Pietà, se già di Stige all'orrid'angue

Più d'un alma, d'un cor ho consagrato,

E per giustizia io già incapace sono

Di ricever da te grazia e perdono.

Ma perchè tu Signor c'insegni a sorte

Che non vuoi che si perda un peccatore,

Ma che ben si converta e pianga forte,

Che detesti ogni passato errore,

E perchè avemmo sì felice sorte

Che dell'anime foste il Redentore,

Confido che non già tra' maledetti

Ma scrivermi vorrai fra li tuoi eletti.

La tua pietà la mia miseria implora,

Nel tuo santo costato me nascondi,

Nelle viscere tue fa ch'io muora,

Tu che per noi di compassione abbondi

Non far ch'io sia di redenzione fuora

Condannato fra i spiriti empi ed immondi;

Solo per mia cagione, ahi core atroce!

Sei conficcato in quella dura croce.

Con li misfatti miei ti ho flagellato,

L'osceno fui che ti sporcai il bel viso,

Di spine col mio oprar t'ho coronato,

I piè, le mani t'inchiodai, m'avviso,

Ho riaperta la piaga al tuo costato,

Nè ancor per il dolor restò conquiso;

Ben cieco fui che sin ad or non venni

Ubbidïente dei divini cenni.

Risguarda me, o Signor, con luci grate,

Come già festi degna Maddalena;

Rimira me con luci dispietate,

Come già nella deserta arena

Alla gran penitente fur mostrate,

Che per voler di tua grazia serena

S'ode ad esempio ognor alto ed invitto,

La pazienza sua vantar l'Egitto.

A questo suon di sì dolente voce

Che allor usciva da un contrito cuore

Il Santo Crocifisso dalla croce

Ferì dagl'occhi il lucido splendore.

Signor, non basta, il mio fallire è atroce,

Pietro vorrei, dicea, segno maggiore.

E ad un tal dir con voce mesta,

Il Crocifisso allor chinò la testa.

Vanne, o alma felice, all'alto regno

A goder tra le schiere alme beate

E di contrizion tu lascia un pegno,

La fama il narri alla futura etade,

E a me di Pizzo abitatore indegno

Che già cantai di te l'opre incantate

Intercedi da Dio tal dolce sorte

Che alla tua paragoni la mia morte.

Di ricche pietre e di marmoree foglie

L'urna in quel tempio fu subito eretta,

Al tumulo vicino della moglie,

Estinta un tempo ed Agrippina detta.

Ed appresso un sepolcro, il quale accoglie

Di tenerella età coppia diletta,

Delli due nipoti io parlo intanto

Che causa fu del fortunato incanto.

Anni novantatrè, sei mesi e giorni

Visse nel maggio quel forte Atlante

E mille quarantotto e cento adorni

Anni gridava allor l'età volante.

Morì di marzo allorchè pene e scorno

Cristo soffrì per noi, pene cotante;

La Settimana Santa estinto giacque,

Ma all'occaso suo presto rinacque.

Della Chiesa reggeva allora il freno

Eugenio Terzo e con felice impero

Di pace scintillava il bel sereno,

Era lungi Bellona e Marte fiero,

Nè percoteva a Teti il molle seno

Con legni armati il timido nocchiero;

In lieta calma allor l'età correa

Come quando Ottaviano il scetro avea.

Corrado Terzo Imperatore egregio

Li suoi popoli avea fidi e costanti

E del suo forte ardir mostrò gran fregio

Debellando ad ognor nemici tanti,

Regnava con valor, con spirito regio.

Troppo sariano a dir sue glorie e canti,

E di alloro ornandogli la chioma

L'elesse per suo Re l'inclita Roma.

Beato chi di divozione armato

A questo mondo porta il seno e il cuore!

Chè l'eterno martoro avrà scampato;

Perchè dopo il goder alfin si muore.

INDICE

Prefazione Pag. vij-xv

PARTE PRIMA

VIRGILIO NELLA TRADIZIONE LETTERARIA FINO A DANTE.

Cap. I Valore dell'Eneide per la rinomanza di Virgilio. Tendenza dei Romani per la produzione epica e condizioni di questa fra loro. Ragione nazionale dell'Eneide e suoi rapporti col sentimento romano. Prime impressioni prodotte da quel poema Pag. 5

Cap. II Valore dell'elemento grammaticale, retorico, erudito nell'opera virgiliana, e importanza di esso nell'apprezzamento del Poeta. Natura dei primi lavori critici su Virgilio e carattere dei primi giudizi intorno ad esso 20

Cap. III Segni della popolarità del Poeta nei migliori tempi dell'impero. Virgilio nelle scuole e nelle opere grammaticali 32

Cap. IV Virgilio nelle scuole e nelle opere dei retori. Moto reazionario in favore dei più antichi autori e posizione di Virgilio in questo; Frontone e i Frontoniani; Aulo Gellio. Venerazione pel Poeta; le sorti virgiliane 45

Cap. V I secoli della decadenza. Notorietà dei versi virgiliani. I Centoni. Commentatori; E. Donato e Servio; interpretazioni filosofiche; esagerazioni dell'allegoria storica nelle Bucoliche. Virgilio considerato come retore e suo uso come tale: commento retorico di T. Cl. Donato. Macrobio; idea della onniscienza e infallibilità di Virgilio. Autorità grammaticale del Poeta; Donato e Prisciano. Segni della rinomanza virgiliana e natura di questa al cadere dell'impero 66

Cap. VI Cristianesimo e medio evo. Sopravvivenza dell'antica tradizione scolastica; natura e limiti in cui sopravvive. Virgilio rappresentante della grammatica. Posizione di Virgilio e degli altri classici pagani in mezzo all'entusiasmo cristiano; ripugnanze, attrazioni e vie d'accomodamento 99

Cap. VII Virgilio profeta di Cristo 129

Cap. VIII L'allegoria filosofica. Natura e cause della interpretazione allegorica di Virgilio; Fulgenzio; Bernardo di Chartres; Giovanni di Salisbury; Dante 139

Cap. IX Gli studi grammaticali e retorici nel medio evo, e uso di Virgilio in questi 159

Cap. X La biografia virgiliana; sue vicende; favole letterarie sulla vita del poeta; distinzione di queste dalle leggende popolari. Esercizi retorici di versificazione su temi virgiliani di varia natura 179

Cap. XI Considerazioni sulla poesia latina di forma classica prodotta nel medio evo; poca attitudine dei chierici medievali per questo genere di poesia; poesie ritmiche 207

Cap. XII Caratteri dell'ideale dell'antichità che fu proprio dei chierici del medio evo. Posizione che occupava Virgilio in quell'ideale e conseguente natura della sua celebrità in quell'epoca 220

Cap. XIII Precedenti psicologici del risorgimento nel medio evo; produttività di provenienza o di ragione laica; lettere popolari e volgari. Condizioni speciali dell'Italia a tal riguardo 243

Cap. XIV Dante. Carattere e tendenza della sua attività intellettuale; limiti della sua cultura classica; in che per questo lato si approssimi ai chierici medievali, in che se ne distingua, e come sia un precursore del risorgimento. Suo sentimento della poesia antica. L'antichità romana e il sentimento nazionale italiano in Dante. Ragione della simpatia di Dante per Virgilio. Lo bello stile di Dante e Virgilio 259

Cap. XV Virgilio nella Divina Comedia ; ragione storica e simbolica del suo collocamento in questo poema; perchè Virgilio è guida di Dante; perchè non Aristotele. In che il Virgilio di Dante differisce dal Virgilio del medio evo; eliminazione di talune idee, nobilitazione di altre. Virgilio e l'idea cristiana nel poema dantesco. Sapienza e onniscienza di Virgilio; suo carattere. La profezia di Cristo; rapporto fra Virgilio e Stazio. Virgilio e l'idea dell'impero 278

Cap. XVI Virgilio nel Dolopathos , Passaggio dall'idea dotta tradizionale all'idea romantica 308

PARTE SECONDA

VIRGILIO NELLA LEGGENDA POPOLARE.

Cap. I Le lettere romantiche nei loro rapporti colla tradizione classica. L'antichità classica romantizzata; il Romanzo d'Enea ; ancora sul Virgilio del Dolopathos . Il mago e il savio nelle composizioni fantastiche. L'Italia e la produzione romantica. La leggenda di Virgilio mago ha origine in Napoli: accolta nelle lettere romantiche e nelle opere dotte. Che cosa s'intenda per Leggenda popolare Pag. 1

Cap. II La leggenda a Napoli nel secolo XII; Corrado di Querfurt, Gervasio di Tilbury, Alessandro Neckam 23

Cap. III Natura e cause della leggenda napoletana. Efficacia miracolosa attribuita dai napoletani al sepolcro ed alle ossa di Virgilio. La leggenda in Montevergine; rapporti colla tradizione storica. Origine meridionale ed essenzialmente napoletana dell'idea di Napoli protetta da Virgilio con Ottaviano e Marcello; travisamenti in senso napoletano di notizie date dalla biografia e dall'epitafio del poeta, non meno antichi del X sec; la Vita di S. Atanasio , Alessandro di Telese; Virgilio, S. Agrippino, S. Gennaro protettori di Napoli 33

Cap. IV Diffusione della leggenda fuori d'Italia. Troveri e dotti 66

Cap. V Attività leggendaria e miracolosa di Virgilio riferita a Roma. La Salvatio Romae 73

Cap. VI Accrescimenti e variazioni della leggenda nel secolo XIII; Image du Monde, Roman des sept sages, Cléomadés, Renart contrefait, Gesta Romanorum, Jans Enenkel 81

Cap. VII Combinazione dell'idea di Virgilio profeta di Cristo coll'idea di Virgilio mago. Virgilio e la Sibilla nei Misteri . Virgilio profeta di Cristo e la Salvatio Romae; Roman de Vespasien . Leggende sul libro magico di Virgilio. Espressione astratta dell'idea di Virgilio mago nella Philosophia del Pseudo-Virgilio Cordubense. L'idea del mago completata con particolari biografici. Parti sporadiche della leggenda 90

Cap. VIII Virgilio mago e il bel sesso. L'avventura della cesta; sua provenienza e diffusione. La Bocca della verità 111

Cap. IX Vicende della leggenda a Napoli e nel resto d'Italia. Cronica di Partenope , Ruggeri Pugliese, Boccaccio, Cino da Pistoia, Antonio Pucci, etc. La leggenda a Roma. La leggenda a Mantova; Buonamente Aliprando. L'antica biografia virgiliana nei suoi rapporti colla leggenda 132

Cap. X Prodotti riassuntivi della leggenda virgiliana o biografie romanzesche di Virgilio; Les faits merveilleux de Virgille; La fleur des histoires di Jean d'Outremeuse. — Romance de Virgilio . Scomparsa della leggenda dalla regione dotta e letteraria dopo il secolo XVI; sua sopravvivenza nella tradizione orale del popolo meridionale italiano fino ai dì nostri 156

TESTI DI LEGGENDE VIRGILIANE.

I Corrado di Querfurt Pag. 185

II Gervasio di Tilbury 187

III Alessandro Neckam 192

IV L'image du monde 194

V Id. 199

VI Adenès li Rois, Clèomadès 202

VII Renars contrefais 207

VIII Li Roumans de Vespasien 212

IX Jans Enenkel 222

X Enrico da Müglin 237

XI Anonimo tedesco 241

XII La Cronica di Partenope 246

XIII Antonio Pucci 258

XIV Buonamente Aliprando 260

XV Les faitz merveilleux de Virgille 282

Leggenda di Pietro Barliario 303