CAPITOLO PRIMO.
Gennaio.
Era il primo di gennaio del 1896. Salii la mattina sul tranvai del corso Vinzaglio, in via Roma. Per tutto il tragitto, di là a via Garibaldi, fu un continuo salire e scendere di signore e di signori, che pareva si fossero dati convegno nel carrozzone, poichè dentro e sulle piattaforme, all'entrare e all'uscire, era uno scambio di saluti, d'inchini, di levate di tuba e d'auguri, come in una sala di ricevimento. A metà di via Garibaldi vidi dentro un quadretto curioso. Stava seduta nel mezzo una contadina tarchiata, col fazzoletto in capo e un grosso involto di cenci sulle ginocchia; di fronte a lei una ragazza del popolo, col capo nudo e i capelli corti, un viso mal lavato di monella, vestita poveramente; e tutt'intorno signore e signorine elegantissime, indorate e impennacchiate, che ad ogni aprirsi dei battenti a vetri mandavan fuori un'ondata d'odori fini come da una bottega di profumiere. Mi maravigliai di non aver mai badato, in tanti anni, ad alcuno di quei contrasti sociali che pure sono così frequenti in quei carrozzoni; nei quali soltanto, non essendovi separazione di classi, può accadere che gente del popolo infimo si trovi per qualche tempo a contatto con gente della signoria, con tutto l'agio d'esaminarla, di fiutarla e di ascoltarne i discorsi. Osservai curiosamente allora l'attenzione viva e continua con cui quella contadina e quella ragazza esaminavano le loro vicine, dalle ciocche di fiori dei cappelli alle cernierine dorate dei guanti, tastando quasi con gli occhi le stoffe e le pelliccie, il portamonete dell'una, il libretto da messa dell'altra, e il loro modo d'alzarsi e di sedere e ogni più piccola mossa e quasi ogni piega che facesse il loro vestito; un'attenzione insistente, seria, scrutatrice, come se avessero avuto davanti creature piovute da un altro mondo. Da quell'osservazione uscì come un lampo nella mia mente. Cercai, ritrovai nella memoria altri quadretti simili a quello, e diversi, e d'un significato profondo; mi ritornarono alla mente scene, incontri, conversazioni, piccole avventure allegre e tristi, che non si possono dare che in quella specie di carrozza democratica, dove tutte le classi continuamente si toccano e si confondono; mi sfilò davanti una processione di personaggi che conoscevo soltanto per aver fatto delle “corse„ in loro compagnia, coi quali non avevo mai parlato che sulle piattaforme, e che formavano per me come una famiglia a parte di compagni abituali di viaggio; e mi suonò dentro un'esclamazione che per poco non mi sfuggì dalla bocca: — To'.... uno studio.... un libro.... la carrozza di tutti!
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Il giorno stesso questa idea mi fu attraversata da un'altra. Ripassando in rassegna i “personaggi„ che m'eran più vivi nella mente, mi fermai sopra due, sui quali fui tentato d'architettare un romanzo. Erano un giovine e una ragazza. Questa, che doveva abitare nel borgo San Donato, la trovavo sul tranvai della linea del Martinetto, alla prima corsa delle sette e mezzo, ogni volta che salivo in piazza dello Statuto per andar verso il centro di Torino. Il giovane saliva sullo stesso carrozzone ogni giorno, all'angolo di via Siccardi. La ragazza sedeva quasi sempre nell'angolo a dritta, dalla parte del cocchiere; lui, quando c'era posto, le si metteva sempre accanto o di faccia. Eran tutti e due piccoli, male in carne, di poca salute, pareva, e vestiti meschinamente, ma puliti; di quei poveretti la cui gioventù non consiste in altro che nella data della nascita, e che fanno più pietà perchè mostrano d'aver coscienza della loro miseria fisica, e di vergognarsene. Il giovine aveva un occhio chiuso, un viso che faceva pensare a una fanciullezza perseguitata ed esprimeva una rassegnazione antica alla povertà, al dolore, alle umiliazioni; della ragazza avrei detto, non so ben perchè, che era orfana da bambina e vissuta molti anni sotto la tirannia d'una matrigna. Pallida, uno scheletrino, un viso irregolare, con un naso a ballotta e una bazza di vecchietta: la natura non le aveva fatto l'elemosina che di due occhi belli e dolci: la sua gioventù, il suo sesso era tutto in quegli occhi, la sola cosa che ella avesse al mondo per ottener qualche volta dai suoi simili uno sguardo di simpatia. Egli poteva essere uno scrivano, un piccolo impiegato senz'avvenire; essa maestra in un asilo, governante o cucitrice in qualche istituto. M'aveva colpito fin dalla prima volta la serietà, la dignità semplice e triste del loro contegno. La ragazza scendeva sempre in piazza Castello; il giovine proseguiva per via di Po. Quando egli saliva si salutavano con un sorriso leggerissimo; quando ella scendeva si salutavano senza sorridere, ed egli sporgeva il capo fuor dell'uscio per accertarsi che non cadesse; non si scambiavano che poche parole, di rado guardandosi. E singolare: non guardavano quasi nessuno: ufficiali brillanti, belle signore, chiunque entrasse, non gli rivolgevano che un rapido sguardo distratto, come a un'ombra, che non destasse in loro alcun pensiero. Si capiva bene che c'era fra di loro qualche cosa d'irrevocabilmente determinato, non un amoretto, ma un fidanzamento; che eran due vite legate; e si capiva pure che per allora non avevan modo di star vicini altro che sul tranvai.
Mi commoveva l'amore di quei due poveri esseri così maltrattati dalla natura e dalla fortuna, così meschini e così umili, che s'erano forse stesa la mano per pietà l'uno dell'altro. Pensavo che s'eran forse detto, senza parlare: — O povero giovane, o povera ragazza, e chi ti vorrà bene al mondo se non son io? Vuoi unire la tua tristezza con la mia tristezza, la tua povertà con la mia, vuoi che soffriamo insieme e che ci amiamo tanto da non avvederci più che la natura ha messo le nostre anime in due corpi infelici? — E da questo pensiero mi nacque l'idea del romanzo: l'amore, il matrimonio, molti anni di miseria durissima, una sequela di calamità e di umiliazioni da condurli al proponimento del suicidio; poi le leggi della natura smentite: un amore di bambino, un fiore maraviglioso di bellezza e di robustezza, e con esso la vita mutata; e dopo questa altre creature somiglianti, una nidiata d'angioli, d'intelligenza pari alla bellezza, ammirazione e invidia di tutti, una famiglia di grandi ingegni precoci, di artisti ammirati a quindici anni e famosi a venti, la gloria, la ricchezza, la vita come un sogno d'oro.... Ma l'idea cadde dopo pochi giorni. Non erano più poetici, così come li vedevo, quei due poveri giovani sconosciuti, destinati a una vita oscura e stentata, ma confortata da un amore profondo; non era meglio ch'io non snaturassi con l'immaginazione quel sentimento di simpatia pietosa ch'essi m'ispiravano, accompagnata da molti pensieri quieti e buoni intorno alla vita e alla natura umana? Perchè contraffare con l'arte quella realtà così triste e così gentile? E buttai l'idea del romanzo nella gran fossa comune degli aborti della fantasia.
*
Ritornai alla prima idea una mattina presto osservando dalla finestra sulla piazza dello Statuto, già bianca di neve, i carrozzoni delle tre linee che vi s'incrociano, fermi, che aspettavano l'ora della partenza. La vista di quelle piccole case ambulanti che nella luce crepuscolare, ravvolte dal nevischio, con quei colori ciarlataneschi degli annunzi, offrivano l'aspetto strano e compassionevole d'un gruppo di baracche variopinte di saltimbanchi perdute in mezzo a una steppa, mi destò il capriccio di scendere, di ficcarmi in una e poi in un'altra, e di girar così tutta la mattina, come un vagabondo in cerca d'avventure. E così feci. I passeggieri salivano con le spalle bianche, la neve pioveva fittissima contro i finestrini; di dentro si vedevano a traverso i vetri bagnati e il velo dei fiocchi le case e la gente così in confuso da non raccapezzare più, di tratto in tratto, in che parte di Torino si fosse; e lo strepito dei cavalli che puntavano lo zampe e sdrucciolavano sul ciottolato, incitati dal vocìo continuo dei cocchieri, il frastuono di fischi, di grida, di frustate, di scampanellate, di scalpitii, di squilli di corno che raddoppiava ai crocicchi dove le linee si tagliano, le traversate delle vaste piazze candide dove altre grandi macchio oscure di carrozzoni s'avvicinavano e fuggivano, era per me quasi uno spettacolo nuovo, che mi ricordava certi diletti acuti che dà alla fanciullezza l'inverno. Poi, quando la neve fu più alta, le fermate improvvise, le file dei carrozzoni aspettanti, pieni di passeggieri immobili, come larve spaurite, l'affaccendarsi dei cocchieri e dei fattorini a ripulire e a sospingere le ruote, tutta quell'agitazione di forme nere su quella bianchezza quieta, sotto quella pioggia bianca, densa, continua, silenziosa, in cui si smorzavano le voci, i sibili e gli squilli che venivan dalle vie vicine e lontane, tutto questo mi diede il senso e l'illusione di quegli antichi viaggi in diligenza, pieni di peripezie e di sorprese, che i romantici rimpiangono, e mi fece riafferrare vivamente il proposito del primo giorno. Sì, uno studio.... un libro.... la carrozza di tutti.
Fu appunto quella mattina che mi si mostrò in piena luce l'animo di Giors, un cocchiere della linea Vinzaglio, col quale avevo già parlato più volte, perchè attaccava discorso con tutti, familiarmente. Quel maledetto tempo, che era la dannazione dei cocchieri, pareva che accrescesse il suo buon umore abituale. Insaccato nel cappottone, imbacuccato nella grossa cuffia di lana color cacao, piantato in un par di scarponi da cavatore di sabbia, coi suoi enormi guanti fatti di pezzi di cuoio, di panno e di calza, egli si pigliava il nevischio in faccia e sguazzava nella belletta della piattaforma con un'allegria di carnevale, salutando con grida e versi buffi i cocchieri dei tranvai che passavano e riprendendo ogni momento a zufolare un motivo della Carmen: toreador attento, che non sapeva finire. Invidiabile uomo! L'idea della colazione bastava a farlo felice. Ogni volta che facevo una corsa con lui ritornavo a casa con un appetito da cacciatore alpino. Ogni giorno verso quell'ora, quando principiava a stimolarlo la fame, egli cascava nei discorsi gastronomici, tormentando i colleghi con le più crudeli provocazioni. — Ebbene, camerata, ci staresti a un bel piatto di agnellotti, con un buon sugo e molto formaggio, caldi che fumino, eh? — o sillabava a voce alta i nomi delle ghiottonerie che vedeva di sfuggita nelle vetrine, come parlando all'aria: — Mor-ta-della di Bologna! Sa-lame di Alessandria! — e poi dava in una risata che scopriva i suoi forti denti bianchi, spiccanti nel sano color bruno del viso, attraversato da due grandi baffi neri e lucenti. Diceva d'aver quarant'anni; ma ne davan trenta le mosse vigorose, la voce sonora, il riso fresco, la giocondità di buon ragazzo che gli brillava negli occhi chiari e vivacissimi, sempre sorridenti. Ed era simpatico a tutti anche per il suo buon garbo ad aiutare a scendere e a salire vecchi, bambini, donne, malati, di qualunque condizione fossero, senza gradazione di cortesia.
Quella mattina mi divertì moltissimo. Salì in piazza Carlo Felice un quidsimile d'ortolano, con un canestro al braccio, che mandava un odore acuto di tartufi bianchi. Quell'odore eccitò subito Giors, che tra un fischio e una schioccata di frusta, tra una girata e l'altra di freno, prese a fare ogni specie d'allusioni facete al “frutto proibito„ strizzando l'occhio ora a questo ora a quel passeggiere, contento, come se quei tartufi fossero destinati alla sua tavola. — Ah che fior di patate! Saccorotto! Roba dell'orto del diavolo! — Il municipio avrebbe dovuto proibire di portar in giro quella razza di peste; egli n'avrebbe sentito il puzzo nella polenta per quindici giorni. Proprio quello ci mancava per aguzzargli l'appetito, quella mattina ch'egli si sarebbe mangiato le posate. Tutte le disdette! Per esempio, ci aveva anche un cavallo che si chiamava Risotto, che a nominarlo soltanto si sentiva aprire un vuoto nello stomaco.
Finì di metterlo di buon umore la comparsa d'un signore di sua conoscenza, che lo salutò amichevolmente: — Buondì, Giors! Brutto tempo, eh?
— Che! — rispose Giors. — È un tempo che rinforza.
— Cosa c'è questa mattina al Grand Hôtel della Barriera di Francia?
— Riso e paste.... con tartufi.
Giors aveva la famiglia alla barriera di Francia, suo capolinea, dove verso l'undici la moglie gli portava la colazione, ch'egli spacciava in cinque minuti, sedendo sul montatoio del carrozzone. Il Grand Hôtel era quello.
La breve conversazione che fece con lui quel signore, un quarantenne sferoidale, che aveva l'aria d'un buon benestante disoccupato, mi svelò un originale, un prodotto particolare dell'istituzione dei tranvai, appartenente a una famiglia numerosa, di cui non c'è lettore, son certo, che non abbia conosciuto qualche esemplare.
Il signore adocchiò i cavalli; poi domandò:
— Dov'è passerotto?
— È passato alla linea dei Viali —, rispose Giors.
— E Gabriella?
— Sempre all'infermeria.
— Già, quella è debole di nervatura alle gambe davanti; non farà servizio per sei mesi. E Ferrari, che non lo vedo?
— È in riserva.
— Quando metterete in circolazione il carrozzone nuovo?
— È in vernice.
— Tò: anche questo ha il difetto solito: bisogna che l'Amministrazione si decida a cambiare i freni.
Mi bastò per riconoscere un tranvaiofilo. Ne conoscevo già vari. Ogni nuovo servizio pubblico, che rappresenti un progresso cittadino, tira a sè un certo numero di questi amatori, che prendono a cuore il suo andamento, i suoi interessi, i suoi più minuti particolari come se fossero azionisti della Società che lo esercita. Il mio vicino era uno di quelli che sanno il numero esatto dei carrozzoni chiusi e delle giardiniere della Società Torinese e della Belga, che conoscono i regolamenti, il profitto medio quotidiano di ciascuna linea, il nome d'una cinquantina di fattorini, cocchieri e controllori, il nomignolo, l'età, le buone qualità e i vizi di altrettanti cavalli, che nelle loro corse quotidiane esaminano il materiale, interrogano gl'impiegati, notano gl'inconvenienti, danno una mano. se occorre, a rimettere sulle rotaie un carrozzone sviato, e fanno qualche volta delle proposte per lettera all'Amministrazione, e parteggiano quasi tutti per l'una o per l'altra Società, senza alcuna ragione determinata, per un sentimento spontaneo di simpatia, che non si saprebbero spiegare.
Ricominciò a celiare con Giors sul Grand Hôtel della barriera, e a ridere ad ogni sua risposta amena ammiccando ora all'uno ora all'altro come per dire: — Eh, che bell'originale? Ci son io soltanto che lo so stuzzicare. — Poi, essendo scesi parecchi, si rivolse a me solo, abbassando la voce: — Gran buon uomo, sa. È stato soldato. Prima d'entrar nei tranvai faceva l'imballatore. Già, è tutto un personale eccellente quello della Belga; l'avrà osservato lei pure. Anche quello dell'altra, non fo' per dire. Ah, non ci possiamo lamentare. Io son stato all'estero.... e non c'è Parigi, non c'è Londra. Per quello che è personale, badiamo bene. Non potrebbero fare una scelta migliore.... salvo rare eccezioni. — Poi soggiunse sorridendo: — Ce n'è di tutte le provenienze. Non troverà un altro personale di servizio pubblico che sia passato per tanti mestieri. Anche con quelli d'una Società sola lei può mettere insieme una pattuglia di carabinieri, di soldati di cavalleria, di guardie di finanza; ci trova chi le fa la barba, chi le canta l' Aida, chi le stampa un libro, chi le cucina un pranzo in tutte le regole. Ci son perfino dei marinai e dei segretari comunali. C'è un fattorino della Belga che sa mezzo Dante a memoria e parla latino. Non è vero, Giors, che c'è un fattorino che ha fatto il Liceo?
— E come! — rispose il cocchiere. — Ha sempre la testa nelle nuvole. Gli caricano tutti i soldi dell'Argentina.
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Quel benedetto “tranvaiofilo„ mi fece cambiar idea un'altra volta: fui tentato di fare uno studio soltanto sugli impiegati dei tranvai. L'argomento si prestava a rappresentare in un quadro forte la lotta disperata degli innumerevoli cercatori di piccoli impieghi, che, nuotando come naufraghi in tutte le direzioni, s'afferrano a tutte le travi e a tutte le tavole, e lascian l'una per avvinghiarsi all'altra, s'affondano e risalgono per riattaccarsi alla prima, da per tutto respinti, sospinti, adunghiati da cento mani che cercano la salvezza sullo stesso palmo di legno. La biografia d'una cinquantina di cocchieri e di fattorini sarebbe stata una storia maravigliosa, e non inutile, di famiglie fulminate e smembrate dalla sventura, dì piccoli commercianti falliti, di piccoli proprietari rovinati, di poveri diavoli travolti senza posa dalla caserma all'officina, dall'officina all'anticamera, alla bottega, alla portieria, alla cantina, all'ufficio, sbalzati sul tranvai dalla vettura, dal furgone, dalla carretta, dal carro funebre, diversissimi fra di loro d'educazione e di cultura, e nel modo di considerare il proprio stato, che è immutabile e soddisfacente per gli uni, e transitorio e insopportabile per gli altri, destinati in gran parte a nuove cadute, a nuove trasformazioni, a nuove avventure. Ed anche mi allettava allo studio la vita strana di costoro, che corrono la città tutto l'anno e tutto il giorno, mangiando a scappa e fuggi come soldati alla guerra, in contatto con gente d'ogni classe e d'ogni ceto, strisciati dalla veste profumata della signora, urtati dal gomito brutale del briaco, costretti continuamente a disputare, a ammonire, a comporre dissidi, spettatori e uditori obbligati d'amori, di pettegolezzi, di discussioni, di beghe, di ridicolaggini e di miserie infinite. E con questa nuova idea, per vari giorni, andai interrogando fattorini e cocchieri....
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Ma proprio in quei giorni fermarono la mia attenzione altri personaggi, che m'indussero da capo ad allargare il campo del mio libro.
La prima fu una vecchietta della campagna solita a venire a Torino sul tranvai che parte dalla barriera di Francia. Veniva forse da Pozzo di Strada. La trovavo quasi sempre sulla piattaforma, con accanto un sacco ritto, pieno di non so che, molto pesante, al vedere. Scendeva ogni volta al crocicchio di via Venti Settembre. Giors l'apostrofava di tratto in tratto come una conoscente: — Bondì, mare —; essa rispondeva con un cenno del capo. Non apriva mai bocca se non per chiedere scusa ai passeggieri dell'ingombro del suo sacco, che mutava di posto ogni momento, perchè impacciasse il meno possibile. Era una vecchierella piccolissima, con le braccia d'una cortezza straordinaria, vestita rozzamente, ma molto pulita, con un fazzoletto di colore sul capo: un viso umile e buono. Soleva star ritta in un angolo, con una spalla appoggiata alla colonnina, con la fronte bassa, con gli occhi fissi sui piedi dei vicini, come meditando, e non solo non guardava, ma pareva che non vedesse nessuno, e ogni tanto chiudeva gli occhi, e stava un po' così, come se dormisse. Per via Garibaldi si faceva il segno della croce quando il tranvai passava davanti alla chiesa di San Dalmazzo, alla Trinità e ai Santi Martiri, o quando incontrava una processione di Figlie verdi col crocifisso. Era evidente che aveva un pensiero fisso, un'immagine triste immobile davanti alla mente, un dolore chiuso e grave che non cercava conforti e che nessuna parola pietosa avrebbe potuto alleviare. Una mattina poco mancò che un sobbalzo improvviso del carrozzone non la buttasse giù: fece appena in tempo ad afferrarsi alla colonnina; ma non passò sul suo viso bruno e rugoso la più leggiera espressione di spavento: non le premeva la vita, si capiva. Che poteva esser stata la sua vita? La ricorrevo con l'immaginazione, guardando lei: curvata al lavoro fin da bambina, sfiorita a vent'anni, sposata per la dote d'un palmo di terra, maltrattata, abbandonata dai figliuoli adulti, rimasta sola, forse, dopo cinquant'anni di fatiche e di stenti, con un vecchio ingrato e malato.... Mi destava una grande pietà. All'angolo di via Venti Settembre scendeva, si metteva il sacco sulle spalle e, piegata sotto il peso, pigliava verso Porta Palazzo. Vista di dietro, nella strada, pareva una bimba, tanto era poca cosa: era veramente l'immagine della sua vita: una cosa di nulla, china sotto un gran carico, in mezzo a gente che la urtava e non le badava. Studiando la sua tristezza, l'ultima volta che la vidi, vi scopersi l'espressione d'un dubbio o d'una speranza, mi parve come un dolore che aspettasse, e che dovesse cessare un giorno o mutarsi in disperazione....
L'altro “personaggio„ fu una signorina che trovavo qualche volta sul tranvai del Martinetto, qualche volta su quello di corso Vinzaglio, sempre sola. La prima volta che la vidi, seduta in un angolo del carrozzone, il suo viso si disegnava di profilo sopra il vetro del finestrino, dov'era dipinto in colore azzurro e rosso di fuoco un annunzio figurato di pastiglie per la tosse; e pareva veramente un viso di vergine campeggiante nell'invetriata d'una cattedrale; così puro di linee, così casto d'espressione e d'una bianchezza così eguale e soave che avrebbe attirato il primo sguardo fra dieci visi di monache tutte belle. Fui anche più maravigliato quando si voltò, mostrando due grandi occhi chiari e sereni, che si fissavano un momento ora sull'uno ora sull'altro di quelli che la guardavano senza dare il più leggiero segno nè di stupore, nè di compiacenza, nè di suggezione, come gli occhi d'una creatura chiusa alle passioni umane. Aveva l'aria d'una ragazza che non potesse arrossire per ignoranza del peccato, che non avesse più mutato aspetto dall'età di cinque anni, e a cui mancasse la coscienza del proprio sesso: una di quelle figure serafiche, che non ci riesce d'immaginare intese a un'occupazione volgare, e quasi neppure alla soddisfazione d'un bisogno fisico, come se del corpo umano non avessero che le forme esteriori. Ebbi un disinganno, peraltro, quando la vidi levarsi in piedi e discendere: era molto alta di statura, stretta di spalle, un corpo di bambina allungata, così esile e leggiera, che un ragazzo l'avrebbe potuta portar via. Tutta la sua bellezza era nel capo, incoronato d'una stupenda capigliatura castagna: la natura le aveva abbozzato il resto senz'amore. Vestiva molto modestamente, con semplicità severa, come si vestirebbe una monaca costretta a smettere per un giorno l'abito religioso. Mi destò una viva curiosità. E fin dalla prima volta mi sorse nella mente un'immagine che non ne uscì più: Vittoria Colonna morta, del pittore Iacovacci: chi sa perchè? Vidi lei vestita di bianco, distesa sopra un catafalco, lunghissima, ravvolta in un velo bianco, coronataci fiori bianchi, in mezzo a quattro grandi ceri fiammanti, e la chiamai dentro di me: la vergine morta. Chi poteva essere, così bella e così strana, e sempre così sola? Non l'ombra d'un pensiero mi passò per la mente, che non fosse rispettoso, poichè s'ha un bel sapere per esperienza che i visi ingannano: ci sono dei visi su cui si giura. E mi rimase un desiderio acuto di sapere, e feci il proposito fermo di chiedere, di scoprire in qualunque modo chi fosse.
Il terzo personaggio mi destò una curiosità anche maggiore. Una mattina che nevicava, in via Garibaldi, fa fermare il tranvai un piccolo signore sulla cinquantina, con gli occhiali e il pizzo grigio, s'avvicina per salire sulla piattaforma davanti, e, visto me, mi lancia un'occhiata severa e scappa sulla piattaforma di dietro. Diavolo! Già una volta l'avevo visto fare quell'atto; ma non m'era nato alcun sospetto: poteva essere un caso o uno sbaglio. Ma la seconda volta non cadeva più dubbio. Ero proprio io la forza repellente. E perchè mai? Non lo conoscevo; non ricordavo d'avergli parlato mai. È però tanto facile il dimenticarsi d'aver offeso, anche non volendo, uno sconosciuto, o con una lettera asciutta, o col silenzio, o con uno sgarbo fatto per la via, che mi diedi a cercare rapidamente nella mia memoria. Ma non vi ritrovai nè il suo viso, nè un indizio qualsiasi della sua esistenza. Che fosse un'antipatia letteraria così violenta da rendergli insopportabile la mia vicinanza? Ma non m'aveva l'aria d'un cittadino che potesse patire di quella malattia: pareva d'una professione remotissima dal mondo delle lettere, come un notaro o un segretario d'agenzia, un padre di famiglia serio e posato. A un certo punto, voltandomi indietro, mentre i due usci erano aperti, lo vidi ritto sull'altra piattaforma, e incontrai il suo sguardo: egli dilatò gli occhi, come a una sorpresa sgradevole, e voltò bruscamente il capo dall'altra parte.... Ombre degli avi miei! Era veramente un'antipatia d'indole acuta; era un uomo che m'avrebbe dato fuoco da due parti. Ebbene, rimasi male; sì, alla mia tenera età! perchè son uno di quei poveri diavoli che non sanno rassegnarsi a essere odiati. Presi nota di quel viso nella mia memoria. L'“amico„ doveva star di casa su quella linea, l'avrei rivisto, avrei forse scoperto il suo perchè, e mi si poteva offrir il modo di levare a lui il verme dal cuore e a me l'osso dalla gola....
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Mi si presentarono intanto altri personaggi; la cosa s'avviava bene. Pensai che si potessero anche studiare sul tranvai gli effetti degli avvenimenti politici; ma mi persuasi presto che, per questo riguardo, c'era poco da cavare da un popolo dell'indole del torinese. Eran quelli i giorni della grande ansia pubblica per la sorte della fortezza di Makallè. Sui tranvai di Napoli avrei inteso chi sa che discussioni ed esclamazioni; su quelli di Torino non c'era nulla da raccogliere: la mattina leggevan tutti il Popolo e la Stampa, in silenzio, e solo i conoscenti barattavano qualche parola a voce bassa, per lo più dei: — ma! — secchi e solitari, come suoni di bottiglie stappate. Conobbi però un fattorino che s'occupava della guerra con gran passione, e che mi diede egli solo una forte spinta a scrivere il libro. Era una settimana sulla linea del Martinetto, un'altra su quella dei Viali: un lanternone biondiccio, con gli occhi lustri e le guance cave, che arieggiava lo Zanardelli. Lo chiamavano Carlin. Era acceso d'un sacro furore per la guerra d'Africa; diceva egli stesso che fin dal principio della campagna quello era un suo pensiero fisso, che non gli dava pace. Tendeva l'orecchio a tutti i discorsi guerreschi dei passeggieri, e quando sentiva biasimar la guerra o far presagi sinistri, faceva dietro le spalle del parlatore degli atti violenti di negazione. Le buone notizie lo inebbriavano, e allora parlava alto da sè: — Bravo Galliano! Ah non importa: si fanno un bell'onore! Ah, la vedremo! — E aveva il baco dello stratega: ripeteva ogni mattina che bisognava pigliarli fra due fuochi, e faceva l'atto con le braccia. — Ma perchè non li pigliano fra due fuochi? — Gli pareva così semplice! E non sapeva darsi ragione del perchè non lo facessero. — Non concluderanno niente — diceva —, fin che non li attaccheranno davanti e di dietro non concluderanno niente; non ne tornerebbe più uno a casa di quei maledetti negri, non uno! — Se la prendeva anche con la Francia per un pezzo d'articolo insolente che aveva letto tradotto in un giornale; avrebbe voluto che si “desse una lezione„ anche alla Francia. Era un esempio maraviglioso di atavismo bellico. Le sue idee sulla politica estera si riducevano in un solo concetto semplicissimo: — darle —; dandole, non importa a chi nè con qual fine, s'accomodava ogni cosa. Avendo un giorno udito parlare delle stragi d'Armenia, diceva che si doveva mandar là “in vcntiquattr'ore„ tutte le flotte: era molto semplice anche il suo modo di risolvere la quistione d'Oriente: — Bombardé tutt! (Bombardar tutto) — e accennava con un gesto largo tutto l'orizzonte. Ma pochi gli davan retta, perchè i blateroni, a Torino, fanno poca presa. V'era un solo passeggiere che gli rispondeva ogni tanto qualche monosillabo perchè lo doveva conoscere da un pezzo, un abbonato che saliva ogni mattina alla stess'ora sui tranvai diretto a Piazza Castello, un tipo di travet che ha del suo, grasso e severo, e correttamente vestito; che Carlin chiamava “cavaliere„. E anche questo era destinato ad essere uno dei miei personaggi prediletti. Era la figura ideale del bicchierino pacato e compassato. Si sedeva ogni mattina dentro, dalla parte posteriore del carrozzone, e se non trovava libero quell'angolo, anzichè sedersi in un'altra parte, restava in piedi di fuori. Appena seduto, ogni volta con lo stesso atto riposato tirava fuori dalla stessa tasca del soprabito la Gazzetta del Popolo, l'apriva lentamente, e leggeva sempre per prima cosa la cronaca cittadina, e poi il rimanente, ma senza mai tagliare il foglio, che voltava e ripiegava con tutti i riguardi, e senza dar mai nel viso il più leggiero segno di curiosità o di maraviglia, qualunque fossero le notizie del giorno; finchè arrivato in Piazza Castello tirava fuori l'orologio, ogni mattina con lo stesso gesto, e guardava l'ora prima di scendere. Un vero travet dello stampo antico, conservatosi intatto perfettamente. E d'un amor proprio campanilista così geloso! Una mattina, lui presente, vedendo che passava un carro sul marciapiede per lasciar la strada al tranvai, dissi forte a un mio amico: — Già, questa via Garibaldi è troppo stretta. — Egli alzò dalla Gazzetta il viso stupito e sgranando gli occhi verso di me, senza guardarmi in faccia, mormorò: — Stretta Via Ga-ri-bal-di? — Poi ricominciò a leggere con una sfumatura di sorriso ironico sulle labbra. Tutta l'anima del vecchio Torinese s'era rivelata in quelle tre parole. Me ne innamorai, e scrissi i suoi connotati nel mio taccuino.
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Pure in quei giorni feci un'altra scoperta che mi diede un impulso di più a colorire il mio disegno, la scoperta (non posso far di meno di quest'espressione barbarica) dell'“erotismo tranviario„ una delle “molte forme psicologiche di quella eccitazione sessuale„ che, secondo il Ferrero, è cagione della minore attitudine della razza latina al lavoro metodico, in confronto della razza anglo-sassone. Scopersi che v'è una famiglia d'uomini di tutte le età, ma i più dell'età matura e della classe agiata, facilmente riconoscibili, per i quali il tranvai è un nido errante di delizie erotiche del pensiero, una specie di arem continuamente cangiante, in cui per la via degli occhi, dell'olfatto e dei contatti fortuiti essi si procurano mille godimenti raffinati dell'immaginazione. Infatti, respirare come in un salottino un'aria pregna di delicati profumi femminili, seder per mezz'ora in mezzo a due belle signore che vi pigiano, sentirsi urtare il ginocchio dal ginocchio o premere il piede dal piedino d'una signorina che entra o che esce, o appoggiar la mano inguantata sulla spalla da un'altra che perde l'equilibrio nell'atto di sedersi, e altre cosette simili, sono piccole voluttà in nessun altro luogo così frequenti e così facili come nella carrozza di tutti. V'è in questa famiglia una varietà grandissima di dilettanti, da quello che cerca soltanto dei piaceri quasi spirituali, come il grazie e il sorriso della signora a cui cede il posto o apre l'uscio o porge il fazzoletto dimenticato o sorregge il bambino quando scende, via via, per una gradazione minuta, fino a quello che preferisce le voluttà più sensuali della piattaforma, dove le sere dei dì di festa, fra la calca della gente in piedi, si trova a strofinar la barba sulla capigliatura fresca d'una ragazza del popolo, o riceve sul petto e nel viso l'urto e l'alito d'una bella persona buttatagli addosso da un sobbalzo del carrozzone, o può premere col braccio un braccino imprigionato, di cui sente la morbidezza a traverso la manica. Studiare questi vari “amorosi„, e in special modo gli ultimi, del palcoscenico rotante, osservare le simulazioni diverse di fredda indifferenza o di raccoglimento filosofico con cui cercano di coprire le loro ebbrezze silenziose, e cogliere anche il contrasto comico che c'è qualche volta tra la gravità dei loro discorsi politici e la natura delle loro sensazioni e dei loro pensieri segreti, mi parve una cosa nuova e allettante. E apersi una colonna per gli erotici dei tranvai nello scartafaccio dei miei appunti.
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Ebbi ancora una spinta a scrivere esperimentando quante più cose abbracci e penetri la facoltà d'osservazione quando invece d'aspettare, come di solito, il richiamo degli oggetti, si fa una facoltà attiva, che interroga e cerca, acuita dalla curiosità e stimolata da uno scopo. Non ero ancora ben fermo nel mio proposito che già, in quegli ultimi giorni di gennaio, avevo raccolto una maggior quantità d'osservazioni che non avessi fatto per l'addietro in molti anni; alcune delle quali, d'ordine generico, m'avrebbero messo sulla via di farne molte altre curiosissime. Avevo osservato, per esempio, che signori e signore, rispetto al modo di considerare il tranvai, si dividono in due ordini: quelli che lo hanno accolto e se ne servono volentieri, senz'alcuna ripugnanza, anzi quasi compiacendosi della promiscuità delle classi che v'è inevitabile, e quelli che se ne giovano perchè non possono farne di meno, ma che, per quella ragione che lo rende ad altri piacevole, vi ripugnano, e fanno un piccolo sacrificio d'amor proprio ogni volta che vi salgono, e mostrano a mille segni sfuggevoli, mentre vi stanno, di adontarsi dei contatti plebei e di non veder l'ora di uscirne. Avevo notato, in special modo nella gente del popolo, e più che altro nel sesso femminile, altre due grandi famiglie: quella dei disinvolti, in cui è vivo e altero il sentimento dell'eguaglianza, che s'accomodano e discorron forte fra i signori come in casa propria, non vergognandosi, anzi facendo quasi ostentazione dei loro panni poveri; e quella dei timidi, giovani e ragazze per lo più, anche del ceto medio, che entrano impacciati e arrossendo come in casa d'altri, umilmente cerimoniosi, e siedono tenendo gli occhi sulle ginocchia, e aspettano per scendere che tiri un altro il campanello, per non attirar l'attenzione sopra sè soli. Mi s'era presentata fra i passeggieri d'ogni classe un'altra divisione notevolissima: la schiera dei noncuranti, che non hanno alcuna curiosità dei propri simili, che stanno là con gli occhi morti, senza guardar nè chi esce nè chi entra, come se fossero stufi dello spettacolo della vita e non avesse più alcun viso umano maggior significato per loro che una pietra del lastrico, e quella degli spiriti curiosi, che giran gli occhi continuamente da un viso all'altro, badando a ogni atto e a ogni parola di tutti, con la vivacità evidente d'un pensiero che scruta, indovina e commenta, come se ogni sconosciuto che entra nel carrozzone entrasse nella vita loro e dovesse un giorno esercitare un influsso sul loro destino.... E altre mille cose osservavo ogni giorno, maravigliandomi di non averle prima vedute mai, come se fosse stato sempre tra me e i miei compagni di corsa interposto un velo, che soltanto in quei giorni si squarciasse. Quante scene mute finissime e giochi riflessi di fisionomia e manifestazioni involontarie di pensieri e di sentimenti intimi fra quella gente che non si conosce, che si vede e si tocca per un momento, e non s'incontrerà forse mai più nella vita! Che baleni guizzano sul viso della ragazza povera, ma bella e opulenta di forme, quando siede di fronte alla signorina d'aspetto infelice e d'abbigliamento splendido, della quale si sente gli sguardi addosso e indovina i pensieri; quali ombre passano sul viso della signora elegante, regina del tranvai per cinque minuti, quando n'entra un'altra elegantissima, che svia da lei e attira a sè tutti gli sguardi e le siede davanti vittoriosa posando i piedi sulla sua corona caduta; e quante cose dicono gli occhi della vecchia ragazza malinconica quando le sta di faccia una florida mamma campagnuola con un gran pezzo di marmocchio rosato che le succhia l'anima dal seno! E che rapido e parlante scambio di sguardi e di sorrisi segue tra i passeggieri quando il sindaco della città, conosciuto da tutti, non trova più posto che accanto a uno spazzino municipale con tanto di scritta sul cappello, e quando una mondana dipinta, incipriata e petulante, riconoscibile alla prima occhiata, si viene a seder dirimpetto a una povera monachella che sfila il rosario col mento inchiodato sul petto, e quando un giovinotto attillato, che ha già preso un atteggiamento galante davanti a una bella signora, scendendo questa ad un tratto, si vede sedere di faccia in luogo suo un vecchio donnone in rovina con un cavolo enorme fra le braccia! E muta ogni tanto, come un quadro dissolvente, l'aspetto generale della compagnia. Predomina per un tratto il bel sesso signorile con un profumo misto d'essenze fini e di viole; poi si squaglia come per accordo, e prevale il popolo minuto — operai, erbivendolo, serve — con un odor forte di pipe spente e di cipolle; e poco dopo si trasforma il carrozzone in una stanza della Maternità, dove cinque o sei piccini sgambettano e gnaulano, rodono mele e pagnotte e succhiano poppaiole e caramelle; e dieci minuti appresso non ci son più che vecchi intabarrati, occhiali e barbacce, facce gravi d'uomini d'affari che consultano taccuini e discuton di cifre come in una sala d'agenzia. E in ciascuno di questi quadri mutevoli è un succedersi continuo di macchiette che spiccano vivamente sul fondo, ora un ufficiale in gran divisa, ora un prete che legge l'ufficio, o una signora con un mazzo di fiori, un ubbriaco che parla da sè, un malato che languisce, un contadino che dorme. Una piccola immagine della società umana, infine, un piccolo mondo pieno anch'esso di pompe e di miserie, di ravvicinamenti strani e di contrasti bizzarri, col suo baratto perpetuo d'invidie, di disprezzi e di danari; nel quale v'è chi scende, chi sale e chi casca, chi va fino a capo della corsa e chi s'arresta a metà, e chi non trova posto e chi n'occupa troppo, e gli uni lo disputano agli altri, e questi ridono, e quelli si lagnano, e tutti hanno premura di giungere, e il veicolo che porta tutto questo — come quell'altro — va, va, va senza posa
per tornar sempre là donde s'è mosso.
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A questo punto il libro mi si disegnò nel pensiero lucidamente: scrivere quello che vedevo sui tranvai, giorno per giorno, per il corso d'un anno, dipingendo le persone più notevoli che v'avrei rivedute più sovente; rappresentare le relazioni e l'azione che esercitano l'una sull'altra, mescolandovisi, le varie classi sociali, senza forzare il vero ad alcun fine; ritrarre, insomma, il più fedelmente possibile, quella varia commedia umana, sparsa e fuggente per quindici lunghissime linee, che, intersecandosi in cento punti, costituiscono nella circolazione generale della vita cittadina una circolazione più rapida, e quasi una vita volante al disopra di quella della popolazione che cammina. Ma dal concepire il disegno al cominciare risolutamente il lavoro c'è un passo, che in più d'un caso non si fa mai. A farlo occorre alle volte un ultimo impulso, un piccolo accidente, che è come la fiammella che dà fuoco a una grande architettura pirotecnica lungamente preparata.
Questo piccolo accidente m'occorse l'ultimo giorno del gennaio, verso il tramonto, sulla linea del Corso Vinzaglio. Il carrozzone era pieno. Sul Corso Vittorio Emanuele salì e rimase in piedi sulla piattaforma davanti una donna del popolo d'una trentina d'anni, vestita male, che teneva in braccio una bellissima bambina bionda di nove o dieci mesi. Stando lei rivolta verso i cavalli, la bambina, appoggiata alla sua spalla, volgeva il viso indietro, verso uno dei finestrini; dietro il quale, nell'angolo interno del carrozzone, sedeva una giovane signora, che avevo visto altre volte su quella linea, e che per il viso, il modo di vestire e il contegno ugualmente singolari m'aveva colpito. Era piccolina, ma bella, con due grand'occhi scuri e sporgenti; un viso bruno pieno di vita e improntato d'una bontà grave, calda, inquieta, ardita, come quella d'una suora di carità sul campo di battaglia; e avevo notato che quando parlava le veniva su di tratto in tratto un'ondata di sangue e le si gonfiava il collo e le s'alzava il seno con violenza come se la forza della passione le opprimesse il respiro. Ed era vestita bene, ma senza nulla di vistoso, con una discrezione evidentemente voluta, che appariva anche più modesta accanto all'eleganza della bambinaia che aveva con sè; e c'era nel suo vestito una certa trascuratezza inconsapevole, che s'accordava coi suoi capelli un po' scomposti, non per arte, si vedeva, ma per negligenza. Teneva in quel momento ritto sulle ginocchia un bambino d'un anno al più, vestito con lusso, bruno come lei, con gli occhi grandi e oscuri come i suoi; il quale stava appoggiato col viso e con le mani contro il vetro del finestrino.
Il bambino e la bambina si trovarono così di fronte l'uno all'altra, quasi toccandosi col viso, non separati che dal vetro.
Appena si videro, parve che si riconoscessero dopo essersi per lungo tempo desiderati e cercati. Non è raro il caso fra bambini di quell'età; ma uno così bello non l'avevo visto mai. Cominciarono a sorridersi, poi a ridere, a scuotersi e a tender le braccia, la bambina chinandosi, il bimbo alzandosi sulla punta dei piedi; palpavano il vetro con le manine, volevano toccarsi, avvicinavano i visi, cercavano di sguisciare dalle mani delle loro mamme, ed eccitati a vicenda da quella mimica amorosa, s'agitavano e ridevano sempre più forte, mostrandosi i sedici dentini incisivi che avevano fra tutte e due, ansando e accendendosi nelle guance, trillando e scattando con tal vivacità l'un verso l'altro, che prima le due madri dovettero voltarsi e trattenerli perchè non dessero delle capate nel vetro, e poi tutti i passeggieri ch'eran dentro si misero a guardare, sorridendo, maravigliati di quella espansione irrefrenabile di simpatia e d'allegrezza.
Tutt'a un tratto la signora balzò in piedi, aperse l'uscio con una mossa vigorosa e uscendo sulla piattaforma alzò il suo bimbo verso la bambina, che l'aspettava con le braccia tese. Volevano baciarsi, ma non sapevano, si misero le mani sul capo e intorno al collo, si strofinarono il viso l'un contro l'altro, e poi s'avviticchiarono, parendo per un momento un solo grosso bimbo con due teste, vestito per metà da povero e per metà da signore, con una capigliatura mezza bruna e mezza bionda....
— Ah che birichinaia grama! — esclamò Giors, dando una frustata ai cavalli, dopo aver visto la scena. — Maledetta razza di sfaccendati, di mangiapani a tradimento! — E voltando verso di me il viso esilarato: — Eh, a quell'età, in pieno tranvai! E il povero Giors che fa lume! — E diede in una risata. Ma vidi che aveva gli occhi inumiditi.
— Il libro è fatto — pensai.
CAPITOLO SECONDO.
Febbraio.
Un consiglio agli studiosi delle donne: osservino i loro diversi modi di far fermare il tranvai, di sulla strada e di dentro, e ne ricaveranno gran lume a giudicare del loro carattere. Alcune agitano l'ombrellino in alto, da lontano, come un capitano di cavalleria agita la sciabola, o gridano un alt imperioso, corrugando la fronte e tendendo il braccio come per dare un ordine perentorio a un marito ribelle; altre muovono la mano all'altezza della spalla, come chi chiama a sè qualcheduno, o l'alzano graziosamente con due dita tese e col capo un po' inclinato da una parte, sorridendo, nell'atto della scolaretta che chiede il licet alla maestra: mogline sottomesse, parrebbe. E infinita e piena di significati psicologici è la gamma degli alt argentini e gravi, tremoli e dolci come note di tortora o interiezioni amorose, o duri e taglienti come i no d'una virtù inespugnabile. Quelle che hanno l' alt soave, per lo più, s'affrettano a salire, chiedendo scusa del ritardo con uno sguardo timido e sorridente; le altre, invece, se anche sono d'un bel tratto lontane, fanno il comodo loro, non badando agli atti d'impazienza dei passeggieri che aspettano, o mostrando un viso di regine offese. E sono anche più diversi i modi di far fermare per discendere. Le une s'alzano di scatto e danno una strappata alla correggia del campanello come padrone irritate che chiamino il servitore; le altre fanno un cenno di preghiera al fattorino perchè tiri lui, o se stanno sulla piattaforma, premono delicatamente con l'indice la spalla del cocchiere e gli domandano all'orecchio, come in confessione, se vuol far il piacere di fermare un momento. E si capisce che in molte, specialmente della classe alta, deriva da un concetto esagerato della brutalità degli uomini del popolo e del loro mal animo contro i signori la cortesia eccessiva e quasi umile che usan con loro; con la quale cercano d'ammansirli, come cagnacci ringhiosi, per timore di villanie gratuite; ed è altrettanto palese che quelli rispondono malamente, in molti casi, a quella cortesia soverchia, appunto perchè ne intuiscono la cagione, e se ne adontano.
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Stavo riandando queste osservazioni, fatte per l'addietro, quando salì accanto a me sul tranvai dei Viali, vicino alla Mole Antonelliana, un bel giovanotto di mia conoscenza, una specie di fanciullo erculeo, sano e fresco come un fiore, figliuolo d'un ricco proprietario di case, dilettante di pittura a ore perse, simpatico per un misto originale d'ingenuità e d'arguzia, e compagno di chiacchiere piacevolissimo, perchè conosceva mezza Torino. Seguitai con lui a voce alta il corso dei miei pensieri.
— Ah! — esclamò, — lei fa degli studi sui tranvai. E anch'io. — Aveva fatto egli pure delle osservazioni sull'“erotismo tranviario„, ma s'occupava d'un ordine particolare di fatti: era uno specialista del bel sesso. S'interruppe per guardare una signora seduta dentro; poi mi domandò se mi ricordavo dove quella signora fosse salita. In piazza Vittorio Emanuele, mi pareva. — E scusi — ridomandò — ha osservato che abbia preso il biglietto di coincidenza? — Non l'avevo osservato. Rimase un po' pensieroso; poi disse piano: — L'ha preso di sicuro. È strano. Gira su tutte le linee e prende sempre la coincidenza. Ci dev'essere un perchè: forse per sconcertare i curiosi, o per sviare qualche spia, che sospetta d'aver alle calcagna. — Gli domandai chi fosse. Lo sapeva; ma non lo disse. — È la signora.... delle coincidenze — rispose sorridendo. E mi parlò della sua “specialità„. Egli si divertiva a indagare i misteri amorosi. C'era, per esempio, una signorina di famiglia conosciuta, che saliva sempre sul tranvai con la sua cameriera, ma fingendo di non essere in sua compagnia, e a un dato punto scendevano tutt'e due, e l'una pigliava da una parte, l'altra dall'altra, come se non avessero nulla a che fare fra di loro: c'era lì sotto un segreto, che non aveva ancora potuto scoprire. Ah i tranvai, che agevolezze avevano portato agli amori e che tormenti alle gelosie! Egli sapeva di mariti gelosi che proibivano assolutamente alla moglie di salirvi; che piuttosto di salire con essa sulla piattaforma affollata, quando dentro non c'era più posto, facevano due miglia a piedi sulla neve, e che quando eran costretti a ficcar la loro metà in quella calca d'uomini in piedi, vigilavano le facce circostanti con occhi di basilisco soffrendo delle torture d'inferno. Ne aveva inteso uno, in un salotto, chiamare l'istituzione del tranvai immorale, e definire i carrozzoni veicoli di scandalo, case ambulanti di mala fama. Ma d'altra parte, era un'“istituzione„ assai comoda per il servizio di polizia coniugale. Egli conosceva una signora che cercava gli scontrini negli abiti di suo marito per accertarsi ch'egli fosse veramente andato dove aveva detto, e che spesso, quando egli usciva dicendo: — Vado nel tal sobborgo — usciva essa pure, subito dopo, per pigliare un'altra linea convergente allo stesso punto; per il che accadeva qualche volta che in capo alle due corse, alla barriera di Nizza o di Casale, moglie e marito si ritrovavano di fronte, lei contenta d'averlo riconosciuto sincero, lui arrabbiato d'esser stato seguito; e ne seguìva una scena. — La linea dove avvengono più incontri d'amanti — disse poi —, è quella da piazza Castello alla barriera di Nizza. — Gli domandai perchè. — Non lo so — rispose —, ma è quella. Ne riparleremo. — E mentre stava per scendere, si rattenne per dirmi: — Guardi là, intanto, un quadretto curioso per lei.
Era un quadretto amenissimo, infatti; una famiglia numerosa, raggruppata da un lato del viale, due vecchietti, tre ragazze e due bimbi, che accennavano al cocchiere di fermare agitando tutti insieme nella nebbia una canna, quattro ombrelli e non so quanti fazzoletti, con le braccia in alto, con un movimento regolare e continuo, come un gruppo di naufraghi sopra uno scoglio, che chiedessero soccorso a un bastimento.
— Frequenti la linea della barriera di Nizza — mi ripetè il pittore discendendo; — ci troverà molti documenti.
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Dovetti appunto in quei giorni frequentar quella linea per andar a visitare un vecchio amico malato, che stava sul corso Galileo. E fu un piacere nuovo per me, in quelle mattinate grigie d'inverno, correndo quella lunghissima via diritta, a cui la grande stazione affumicata della ferrovia, i camini delle officine, il via vai fitto dei carri e la folla e la nebbia danno l'aspetto d'una via di Parigi o di Londra, osservare nella rapida corsa come la città via via dirada, rappicinisce e si acqueta fino alla barriera di Nizza, dove par che nelle cose e negli uomini incominci la pace della campagna. In pochi giorni conobbi la linea. Andando verso le dieci vedevo venir giù la vivandiera, il carrozzone consolatore che porta in piazza Emanuele Filiberto la colazione dei fattorini e dei cocchieri, il carico dei canestri sospirati, gli uni per gli scapoli, dati dalla Cucina economica della Società Torinese, gli altri portati alla Società o rimessi man mano al conducente lungo la via e raccomandati come bambini dalle mogli e dalle figliuole, appostate ogni giorno a quell'ora in quei dati punti, come per un convegno amoroso. Ritornando verso mezzogiorno incontravo il tranvai della “corsa degli impiegati„, quello che, partendo da piazza Castello alle undici e mezzo, raccoglie lungo il tragitto tutti i travet che vanno a desinare a casa in borgo San Salvario, sbadigliando a bocca squarciata, con la faccia lunga dalla fame e gli occhi rotanti dall'impazienza. Ritornando invece a notte fatta, trovavo nel carrozzone illuminato delle famigliole borghesi che andavano al teatro, eccitate dall'avvenimento insolito come se venissero a Torino da un'altra città, strette in conversazioni scolarescamente vivaci, come brigate giovanili partenti per un viaggio notturno d'avventure. E tra una corsa e l'altra, osservando i cavalli mentre aspettavo la partenza alla barriera, cominciai a prender simpatia per quelle povere bestie, venute la più parte dall'Ungheria, comprate alle fiere di Lunigo, di Novara e di Padova, alcune ancora belle e vigorose, altre con le gambe davanti già piegate e sformate dagli strapazzi, distinte con ogni specie di strani nomi, trovati dalla fantasia degl'impiegati intinti di lettere, — Sparta, Ovo, Falò, Rabagas, Romanziere, Ministro, Bibi, Colonnello, Episodio, Camelia, Passerotto, Senato, — destinate a passare un giorno dai tranvai alle cittadine, alle carrette, alle macine, ai carri mortuari, ai carrozzoni dei saltimbanchi, per dare poi all'uomo anche la carne e la pelle e le ossa, dopo aver faticato dieci anni al suo servizio e lasciato la vita sotto la sua frusta....
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Fin dal primo giorno conobbi su quella linea un cocchiere tipico; e do a questa parola il suo vero significato, perchè era un di quelli che in ogni famiglia d'impiegati o d'operai par che condensino in sè tutti i malumori, tutte le stizze, tutti gli spiriti ribelli della famiglia. Era un traccagnotto col capo nelle spalle, con un viso color di terra cotta, che pareva enfiato, con gli ocelli di bragia, la barba di setole, una voce di tuono. Gli muggiva in corpo una tempesta perpetua. Eruttava “accidenti„ smozzicati, di continuo, contro le biciclette che passavano, contro i monelli che spaventavano le bestie, contro i carrettieri che gl'ingombravan la via, contro chi saliva e chi scendeva, contro i cavalli, la frusta, il campanello, il colore del tempo. E quando non sacrava a voce, sacrava con tutti i moti della persona, col modo di frustare, di tirar le redini, di girar la testa e lo sguardo, di stringere il freno e di pestare i piedi; e quando non se la pigliava apertamente con nulla o con nessuno, faceva dei soliloqui stizzosi inintelligibili guardando in alto, come se dei nemici visibili a lui solo lo provocassero, danzandogli davanti per aria, o si sfogava soffiando nel suo fischietto, cacciando dei fischi prolungati, rabbiosi, senza necessità, come se fischiasse la creazione. Da piazza Castello alla barriera non lo vidi un momento rabbonito; pareva che portasse dentro l'ira d'un popolo; non potevo capire come non schiattasse. Pensai che, se aveva moglie, la povera donna doveva aver il paradiso assicurato. Intesi che lo chiamavan Tempesta, e il soprannome gli tornava a pennello. Dei passeggieri se ne lagnavano, brontolando; ma a me fece compassione, perchè un povero diavolo che passava la giornata a quel modo si condannava da sè al più miserando dei supplizi che gli potesse augurare la più vendicativa delle sue vittime; e mi pareva anche da compatirsi perchè per ogni Tempesta cocchiere c'era bene una decina di Tempesta passeggieri, che mettevan la pazienza dei suoi colleghi alla stessa prova a cui egli metteva la nostra.
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Apparteneva alla famiglia dei Tempesta il grosso signore coi baffi tinti e la caramella all'occhio, che la mattina dopo fece cenno di fermare all'angolo di piazza Carignano e di via Amedeo. Fece cenno in modo che il cocchiere, un perticone dal naso a becco, credè che lo facesse al tranvai di Vanchiglia sopraggiungente, e datagli un'occhiata, tirò via. Quegli si mise a correre accanto al carrozzone, col viso acceso, agitando la canna e gridando ira di Dio, e quando fu sulla piattaforma, ansante, investi il cocchiere. — Che maniere son queste? T'avevo fatto segno dì fermare; non ti faceva comodo, è vero? Queste sono facezie da birichin! — Il cocchiere, risentito, si difese; ne nacque un battibecco; venne innanzi il fattorino, un giovane biondo, dall'aria per bene, che ebbe il torto di pigliar le parti del compagno. L'altro imbestialì, gridò che sarebbe ricorso alla direzione.
— Quando avrà tolto una giornata di pane alla mia famiglia, — rispose il cocchiere, — non avrà ragione per questo. Intanto, non mi deve trattare col tu.
Il signore tinto lo guardò con stupore; parve più punto da quella osservazione che dall'altre parole. — Conosco la regola, — disse bruscamente — si dà del lei al controllore, del voi al fattorino e del tu al cocchiere.
— È una regola rispose l'altro — che riguarda il personale, noi fra di noi, non i passeggieri.
— È quello che saprò dalla direzione, — ribattè il signore, tirando fuori un taccuino per segnarvi il numero del carrozzone.
— Faccia pure.
— Non ho bisogno del suo permesso.
Il fattorino s'interpose da capo con buone parole, e quegli, borbottando, s'acquetò; ma rimase ritto sulla piattaforma nell'atteggiamento d'un nume corrucciato. Dove m'era già apparso quel viso? Non mi ricordavo; ma avevo visto certo molte persone che avevan con quella un'aria di parentela, ne avevo visto in ogni paese, in mille occasioni, leticare con camerieri d'albergo, con giovani di caffè, con commessi di negozio, con fiaccherai e con facchini, anche più vecchi di trent'anni di loro, dando del tu a tutti, con lo stesso piglio di quello, e mostrando con tutti quasi un risentimento d'istinto. Era uno di quei tanti per cui la società pare che si divida in bianchi e in negri, e che non capiscono come in questi ci possa essere qualche cosa di somigliante all'amor proprio; che, trattando coi negri, giudicano naturale e logico di adoperare il Galateo dei bianchi rovesciato; che non adoperano più il bastone, come i loro padri antichi, soltanto per paura dei pugni, ma, per forza d'atavismo, lo alzano ancora qualche volta, e più sovente ne parlano; e che con queste tendenze accordano per lo più le loro idee politiche, abbracciando tutti coloro che parlano di libertà, d'eguaglianza, di diritti degli umili con una sola e vasta designazione: — I baloss. — I mascalzoni.
L'uomo tinto discese sdegnosamente sul corso Vittorio Emanuele; il fattorino biondo lo seguitò un tratto con gli occhi, e poi mise un soffio.
— Cattiva pratica, eh? — gli domandò un passeggiere.
Quegli scrollò il capo. Lo conosceva da anni. Era una calamità di quella linea: vi faceva due corse il giorno; non passava settimana che non l'attaccasse con qualcuno. Una volta aveva fatto una scena perchè il fattorino, prima di dargli il resto, aveva esaminato il suo biglietto da una lira con diffidenza. Era ricorso un'altra volta alla direzione perchè a un suo rimprovero il cocchiere aveva risposto con un sorriso sarcastico. Un altro giorno aveva minacciato di ricorrere perchè lo stracciare gli scontrini, in segno di controllo, sulla faccia dei passeggieri, invece di bucarli con le tanagliette come fanno sulle strade ferrate, era una mancanza di rispetto. E “ricorreva„ infatti. Alla direzione ci dovevano aver già un mucchio di lettere sue. Tutto il “personale„ della Società lo conosceva. Lo chiamavano tintura Migone per via dei baffi. Quando saliva lui sul tranvai, si mettevan tutti sulle difese, preparati a un assalto. Poi soggiunse: — E se fosse il solo!
— Ce n'è dunque molti di quella semenza? — domandò il passeggiere di prima.
Il fattorino lo guardò e diede una forte soffiata nel corno, che fu insieme una risposta a lui e un segnale al tranvai del Valentino, che sopraggiungeva. Poi commentò la suonata. Di prepotenti come quello, pochi; ma di rompiscatole infaticabili, di stuzzichini, di brontoloni meticolosi e noiosi che attaccavano ogni momento una bega, o per gli scontrini troppo piccoli e di carta troppo sottile, o per i vetri che lasciavan passar l'aria, o per le tende delle “giardiniere„ troppo corte, o per il puzzo che mettevan nel carrozzone i cocchieri sedendovi dentro durante le fermate, o per il tavolato fradicio, o per le panche incomode, o per i battenti duri, ce n'era un reggimento. — Bisogna proprio dire — esclamò — che c'è della gran gente che non ha nulla da fare! Ah, non è la vita del Michelaccio la nostra... — Poi, accennando davanti a sè, disse con accento di rassegnazione filosofica: — Però, quando si vedon questi....
Guardai dove accennava e vidi venirci incontro un carrozzone pieno stipato, tutto di giovani. Quelli sulla piattaforma davanti stavan rivolti verso i cavalli, diritti, immobili, impettiti, col mento alzato, in atteggiamenti di statue: eran tutti imberbi e pallidi, con qualcosa di comune nell'espressione del viso, non so che di chiuso e di triste, come se avessero tutti un solo pensiero, come una squadra di condannati. Il carrozzone correva. Vidi dentro di sfuggita due schiere d'altri visi immobili, eretti, con quella medesima espressione indefinibile, quasi di raccoglimento severo, come se tutti fossero assorti nell'audizione d'una musica grave che venisse dall'alto e ciascuno di essi si credesse solo ad udirla. Anche la piattaforma di dietro era affollata di quelle statue viventi, dal viso scialbo e senza sorriso, rigide e mute, e v'eran tra quelli dei ragazzi che avevan la stessa espressione degli adulti, come se appartenessero a una razza non dotata che di una gioventù fisiologica, nella quale la vita dello spirito fosse già una vecchiaia pensierosa. Passarono così rapidamente che non ebbi il tempo di riconoscerli, e mi diede un brivido la voce del fattorino, che disse: — Sono i ciechi dell'Istituto di via Nizza; prendono sempre un carrozzone per loro soli, a prezzo ridotto.
*
Non vidi nessuna di quelle scene amorose che m'aveva preannunziato il giovine pittore: non era buona luna; ma mi toccò su quella linea, proprio l'ultimo giorno, una delle “migliori„ corse possibili; poichè (lo debbono aver tutti osservato) si danno sui tranvai le corse buone, in cui non s'hanno che incontri e impressioni gradevoli, e le cattive, che sono una sequela di piccoli dispiaceri. La buona ventura mi cominciò sulla linea del Martinetto, andando a piazza Castello per pigliarvi il tranvai della barriera. Era il tocco e mezzo, una giornata splendida. Trovai sulla piattaforma Carlin, il fattorino africanista, felice della partenza del colonnello Pittaluga per Assab, donde si diceva che sarebbe entrato nell'Harrar con un corpo di spedizione. Il suo piano di prender gli abissini fra due fuochi stava per attuarsi; egli ne discorreva con una guardia municipale. — Son suonati! — esclamava — son suonati! Cani di negri! Non uno, non uno n'ha da ritornare al suo canile! — Pareva che avesse suggerito lui l'operazione al ministro della guerra: raggiava vittoria dagli occhi. Ma riconobbi che la sua curiosità non si pasceva soltanto, nei giornali, di politica guerresca, poichè, poco dopo, gl'intesi domandar spiegazioni a un passeggiere intorno a quel “professore dell'Austria„ dotato, come dicevano, di due occhi diabolici, che vedevano dentro alle scatole chiuse. Capii dalla risposta che intendeva parlare dei raggi Röntgen e m'accorsi che la spiegazione gli confondeva, invece di chiarirgli le idee: cosa frequentissima, fra dotti e ignoranti, anche in politica. Che un uomo avesse una vista così forte da vedere a traverso il legno, per quanto fosse strano, lo poteva comprendere; ma la spiegazione dei raggi elettrici fece nella sua mente un buio fitto. Rimase un po' sopra pensiero; poi ritornò alla guerra d'Africa, nella quale, almeno, vedeva chiaro.
C'era sulla piattaforma posteriore il cavaliere Bicchierino, che non aveva trovato dentro il suo posto solito, e nell'interno, in fondo, la ragazza di borgo San Donato, poveretta, con una pezzuola verde sopra un occhio. All'angolo di via Siccardi, come sempre, salì il giovane, il suo supposto fidanzato, che la salutò col solito sorriso malinconico, e le sedette di fronte. Il cavaliere, ritto in faccia a me, leggeva la Gazzetta del Popolo: aveva certo la consuetudine di leggerla ogni giorno anche a quell'ora, forse per riparare alle dimenticanze della lettura mattutina, o, più probabilmente, la leggeva mezza la mattina e mezza fra il tocco e le due. Incontrando per un momento il suo sguardo capii che non m'aveva perdonato il mio giudizio offensivo per la via Garibaldi. L'aria era limpidissima: per le imboccature delle venticinque vie laterali il sole metteva altrettanti torrenti luminosi nell'ombra severa della via lunghissima, e da una parte le grandi Alpi bianche e azzurre, dall'altra la facciata classica del Palazzo Madama, con tutte le vetrate fiammeggianti, formavano uno dei prospetti più ammirabili che la natura e l'arte, fronteggiandosi, possan fare ai due capi d'una via cittadina. Essendo salito a un certo punto il primo segretario del Municipio, che è poeta e artista, gli dissi: — Guardi, che bellezza è via Garibaldi! Non par di essere nello stesso tempo a Parigi, a Napoli e ai piedi delle Alpi? — A quelle parole il cavaliere alzò il capo dalla Gazzetta, diede un'occhiata alla strada e alle Alpi, e poi una a me, rapidissima, e dignitosamente benigna, che significava quasi il perdono. Sia ringraziato il cielo, pensai; eccomi aperta la via alla conquista del suo cuore. — La corsa principiava bene.
All'angolo di via Botero un'apparizione straordinaria riscosse tutti i passeggieri. Salì e sedette dentro una coppia matrimoniale: inglesi, parevano; sposi, senza dubbio; ricchi, si vedeva; due dei più belli e poderosi esemplari della razza anglo-sassone ch'io avessi veduti mai, un atleta e un'amazzone, tutt'e due coi capelli d'oro, gli occhi di zaffiro e le guance di rosa, due splendori di gioventù, di forza, d'amore e di fortuna, di quelle creature che la natura sembra aver fatte l'una per l'altra, per mostrare quantunque ella può, e che lasciano per tutto dove passano un fremito d'ammirazione e d'invidia. Tutti gli occhi si fissarono su di loro; perfino Carlin uscì in un'esclamazione ammirativa: — Che bella pariglia! — Ah, quei due poveri fidanzati malaticci di San Donato, con quei panni logorati dalla spazzola, come parevano più poveri e più meschini vicino a quei due grandi e splendidi fiori britannici! N'ebbi un senso di pietà vivo, quasi doloroso, come a veder le vittime d'un atto d'ingiustizia crudele. La ragazza, in special modo, mi colpì. Guardava la signora, che le sedeva accanto e la sorpassava di tutto il capo, voltando il viso in pieno, per vederla con quell'occhio solo che aveva scoperto; la guardava come una creatura tanto al di sopra di lei che non la potesse neanche invidiare, e quel suo occhio dilatato e fisso esprimeva un'ammirazione così ingenua, una simpatia così buona e insieme una così dolce e umile rassegnazione all'inferiorità propria, che in quel momento era bellissimo, bello come una di quelle sante parole che in certe grandi prove della vita ci rivelano a un tratto, in un'anima, un tesoro infinito di bontà e di gentilezza. Osservai tutti i suoi movimenti. Dopo un poco essa fissò lo sguardo, con la stessa espressione benevola, ma meno viva, sul signore, e poi cercò quello del suo amico, e si guardarono tutti e due per qualche momento, e parve che si dicessero: — Come sono belli, come sono fortunati, non è vero? Ma, vedendoli, io mi stringo ancora più fortemente a te, perchè penso ch'essi hanno tanti altri beni ed io ho te soltanto, e che siamo fatti l'uno per l'altro noi due pure. — Quando essa s'alzò per discendere in piazza Castello, ed egli le tese la mano, il suo viso si colorì d'un leggiero rossore; forse perchè pensava che i presenti facessero in quel punto un confronto fra di loro e quegli altri due; e il suo rossore ebbe un riflesso leggerissimo sul viso di lui. Pudore della bruttezza e della povertà, più bello, più rispettabile di quello dell'innocenza.
Nella piazza, fra la gente che aspettava la partenza del tranvai della barriera, mi diede nell'occhio un ometto sbarbato di mezza età, con un viso e un vestito di commediante povero, il quale stava osservando con viva attenzione, e con gli occhi sorridenti, i due cavalli attaccati. Li osservai io pure. Si accarezzavano come due fratelli amorosi: l'uno faceva scorrere il muso sulla criniera dell'altro, ravvicinavan le teste toccandosi con le tempie, si strofinavano, si mettevano a vicenda la bocca accosto all'orecchio, socchiudendo gli occhi, come se si parlassero, come se si confortassero l'un l'altro della dura vita presente con la predizione dei lunghi sonni che avrebbero dormiti nei loro ultimi anni davanti alle porte dei teatri e delle stazioni, sotto la guardia dei fiaccherai sonnolenti. A un tratto l'ometto sbarbato mi rivolse la parola, come a un conoscente, con una vocina d'uccello: — Come si vogliono bene, eh? Effendi e Calice; quattro e cinque anni; sono ancora ragazzi; ma male appaiati: l'uno forte, l'altro debole: non fanno mica un buon servizio insieme. — Un “tranvaiofilo!„ Non m'occorse altro per riconoscerlo. Soggiunse subito dopo: — Gran bella linea questa! — Era un amatore della Società torinese. Riprese infatti il discorso sulla piattaforma, quando si partì, dicendomi i profitti quotidiani e straordinari della linea di Nizza “la regina delle linee„ con quell'accento di compiacenza e d'alterezza con cui sogliono molti poveri diavoli numerare e magnificare le ricchezze dei milionari celebri e farsi quasi suonar nella mente i loro sacchetti, come se dessero in quel modo a sè stessi l'illusione momentanea e il godimento del possesso.
Il tragitto da piazza Castello in là fu amenissimo. Vicino alla piazzetta Lagrange, mentre il tranvai correva, una giovane signorina, graziosamente vestita, che stava aspettando sul marciapiede, prese la corsa, spiccò un salto, e piantato un piede sul montatoio, senz'afferrarsi alla colonnina, restò un momento ritta in quell'atto, come un acrobata che aspetti l'applauso: poi aperse l'uscio ed entrò in mezzo all'ammirazione generale. Il mio vicino soltanto non mostrò alcuna maraviglia. — È una maestra di ciclismo per le signore, — disse, o meglio, gorgheggiò; — vinse anche un premio alle corse, due anni fa. — E inteso ch'era la prima volta ch'io vedevo una signora salir sul tranvai a quel modo: — Lo credo, — rispose, — è ben raro; a Torino non ce n'è che quattro.
La sicurezza con cui fece quell'affermazione, come avrebbe detto: — Non c'è che quattro monumenti equestri, — mi stupì. Egli specificò, contando sulla punta delle dita. — C'è questa, dunque; ce n'è una sulla linea della Crocetta, un'ex cavallerizza del Circo Amato, che prese marito; c'è una serva sulla linea del Valentino, mi pare.... ma quella è una mezza matta; e una fioraia, che sta dalle parti di Porta Palazzo.
Lo guardai con ammirazione: era un uomo prezioso per me. E continuò, dicendo che la più straordinaria era la fioraia, perchè, sebbene ancor giovane, era un pezzo da ottanta, un centinaio di chilogrammi a far poco. Saliva tutti i giorni alla stess'ora, sul tranvai di Ponte Isabella, a una cantonata di via Milano. Parecchi andavano là apposta per vedere il salto, e quando sul carrozzone c'erano dei giovani allegri, gridavano tutti insieme: Hop! Hop! nell'atto che essa pigliava la rincorsa, e poi: — Là! Brava! Bene! — applaudendo, e lei, ch'era una burlona, ringraziava prima di sedersi, col gesto d'una ballerina alla ribalta. — Ah sui tranvai, — concluse, — per chi non ha occupazioni.... è uno spasso.
Mentre egli parlava s'eran seduti dentro, nel mezzo, l'uno di faccia all'altro, un vecchio frate cappuccino, piccolo e secco come una mummia, e un sottotenente degli alpini giovanissimo, che si guardavano a vicenda con molta attenzione, come due esseri strani l'uno per l'altro, che avessero per la prima volta l'occasione di esaminarsi dappresso; e questi e una bella baliona di Viù, che era seduta in fondo, con la sua grande cuffia bianca e il grembiale rosso, imperlata come una madonna, facevano tra l'altra gente uno spicco così vivo e fra di loro un contrasto così forte d'aspetto e di natura, che gli occhi di tutti i passeggeri correvano vivacemente, sorridendo, dall'uno all'altro, come su tre personaggi di commedia che rappresentassero una “situazione„ straordinaria.
Stavo osservando il quadretto, quando il tranvai s'arrestò, l'ometto sbarbato discese, e salì e sedette dentro, con un ragazzino sulle ginocchia, una donna del popolo, dalle forme robuste e dal viso ardito.
Il fattorino le andò a porgere due biglietti. Essa porse due soldi soli. — Deve pagare anche il bimbo, — disse quello, con uno spiccato accento modenese.
— Un bimbo di questa età? — domandò bruscamente la donna.
— Appunto perchè è di quell'età, — rispose il fattorino. — Il regolamento non esclude che i lattanti. Il suo è lattante?
— Cosa vuol dire?
— Se prende il latte.
— Sicuro che lo prende, tutte le mattine appena levato.
— Non mi pigli in giro: voglio dire se prende il latte della mamma, — e accennando col dito alle fonti: — il suo.
— Oh, dico, — rispose la donna risentita, — porti rispetto! — Tutti diedero in una risata; essa girò sui passeggieri un occhio minaccioso.... e poi rise anch'essa, confessando così schiettamente, in quel modo, d'aver finto di offendersi per imbrogliar la questione, che risero tutti un'altra volta.
La compagnia era di buon umore. All'angolo di via Baretti, salì una grossa signora sui cinquanta, rotonda e fresca come un cavolfiore, e tutt'ansimante, con un cappellino che pareva un cespuglio e un vaso di fiori stretto al seno. Entrando, mentre i cavalli ripigliavan la corsa, per andarsi a sedere al posto rimasto vuoto nel mezzo, si voltò troppo presto, perdette l'equilibrio e cadde seduta sopra un ginocchio dell'ufficiale, gettando uno strillo. Fu un momento solo; ma lo spettacolo di quel donnone sfereggiante e ansante, con quel faccione rosso, con quel cespuglio in capo e quel vaso al seno, seduta come una bimba sulle ginocchia di quell'ufficialetto sgomentato, era così stranamente comico che ne schiattò dal ridere la compagnia, e poi l'ufficiale, e finì con ridere essa pure, benchè tutta confusa, mettendosi a sedere sulla panca, con una mano sul viso.
Ma non era finita. Arrivati in piazza San Salvario, fa cenno di fermare una piccola signora bionda, che tiene due bimbi per mano. Il cocchiere ferma. Quella s'avvicina alla piattaforma anteriore e porge uno dei bimbi al fattorino che lo tira su e lo fa entrare: un bel bimbo biondo d'un paio d'anni, sorridente, che è accolto con carezze. Subito dopo entra il secondo, somigliantissimo al primo, vestito tal quale, sorridente anche lui, e ricevuto a festa come l'altro. Pareva che fosse finito; ma non s'eran visti quelli che la signora aveva dietro di sè. Il fattorino ne tira su e ne mette dentro un terzo, una copia un po' ingrandita dei due primi. Allora la compagnia cominciò a esilararsi, a scherzare: — E tre! — È un collegio. — Staremo qui un'ora. — Ne comparve un quarto: fu un coro d'esclamazioni. Comparve ancora una ragazzina sugli otto anni: fu uno scoppio d'allegria. Salì finalmente la signora, il ritratto miniato di tutti e cinque, rosea e serena come loro, e al suo apparire tutti tacquero; ma al vedere che n'aveva in corso di stampa un sesto, tutti si rallegrarono da capo, con un sorriso di simpatia ammirativa e un mormorio rispettoso di congratulazioni; e la gaiezza di tutta quella gente che carezzava i bimbi, e quei cinque visetti biondi che sorridevano tutti insieme, senza saper perchè, eccitati dal sorriso degli altri, e la giocondità amorevole di quella mammina snella e fresca come una ragazza, felice della sua fecondità trionfante, furono per alcuni momenti uno spettacolo delizioso.
L'ultima la godetti io solo. V'erano sulla piattaforma due uomini sulla quarantina, che discorrevano a voce bassa, l'uno in piemontese, l'altro in lombardo. Questo non faceva che esclamare di tratto in tratto: — Ah che loder! Ah che baloss! —; l'altro raccontava in tuono di lagnanza una lunga storia d'un tale, che, essendo suo socio in un affare, aveva prima tentato di soppiantarlo, poi s'era valso del suo nome per riscotere dei crediti comuni, e, rotta l'associazione, oltre al negare con una faccia di bronzo le sur birbonate, aveva ancora preteso da lui dei risarcimenti, minacciandolo d'una lite. E concluse: — Questo ebbe la faccia di farmi, capisci: come si chiamano queste azioni? — A questa domanda, il lombardo si levò la pipa di bocca, e con l'accento più naturale del mondo, senza la minima pretensione apparente di dire un'arguzia, come chi si serve d'un motto già entrato nel patrimonio della lingua comune, rispose pacatamente, dando a me un'occhiata distratta: — Hin azion de comendator.
A un cento passi dalla barriera, mentre i cavalli galoppavano, la maestrina di ciclismo uscì sulla piattaforma, si mise ritta sul montatoio, col viso alto e il velo al vento, e dondolato un poco il piede nel vuoto, discese senza una scossa, come se l'avessero posata in terra due braccia invisibili. Fra i passeggieri che si affacciarono ai finestrini per vederla scendere, vidi il viso del vecchio frate, stupito, che pareva dire: — Ma che razza di donne si fanno adesso!
E così terminò la corsa fortunata, una di quelle rare corse a traverso al mondo, nelle quali i nostri simili non ci si presentano che in aspetti graziosi e lepidi, dandoci quasi una passeggiera illusione che la vita non sia che una commedia piacevole, di cui non si diverta che chi non l'intende o chi è
.... malventuroso, e di piaceri
o incapace o inesperto.
*
Ma, ahimè, che bruschi voltafaccia ci fa la fortuna anche sui tranvai! Trovo fra le note segnato il 9, domenica, come una giornata nefasta. Era un tempo freddo, piovigginoso, grigio, come se piovesse cenere. Il dopo pranzo, appena salito sul tranvai del Corso Vinzaglio, accanto al buon Giors, che la pioggia pareva mettesse di buon umore, mi seguì un piccolo accidente di malaugurio, che dovrebbe servir di ammaestramento ai fumatori spensierati. Addentai il regalo che m'aveva fatto un giornalista spagnuolo passando per Torino, uno di quei principeschi sigari di Cuba, foggiati a punta, che a noialtri poveri italiani fanno l'effetto che fa il pan bianco a chi vive di pan di segala. Alla prima boccata di fumo Giors si voltò, e mise un'esclamazione: — Ah che bel bonbon!... E che buon puzzo! — e cominciò a aspirare i nuvoli, mettendovi il viso dentro, e inarcando la schiena e ridendo dal gusto, come se succhiasse egli pure. Ma non tenendo il sigaro con la mano, per non parer mal pratico della roba fine, a un traballar che fece il tranvai nello svoltare in Via Cernaia, il bonbon mi sguizzò di bocca come una freccia e andò a cader capofitto nella mota. — Ah, malheur! — gridò Giors, con un accento di sincero rammarico, come se fosse saltato via dalle sue labbra; ma, guardatomi in faccia, vedendo che avevo l'aria del corvo della favola a cui casca dal becco il formaggio, diede in una risata di ragazzo. Si ravvide subito, però, osservando il mio riso forzato, e disse in tono grave di compatimento: — Già.... per fumare quei sigari lì.... è meglio prender la “cittadina„. — Ma fu egli stesso così colpito dall'arguzia della sua sentenza che diede in un nuovo scoppio di risa.
— Comincia male, — pensai; — su questa linea m'ha da capitare qualche disgrazia.
E non tardò. Salì all'angolo del Corso Vittorio un ex professore di ginnasio, mio antico conoscente, tutto zazzera e barba, un po' strambo, una di quelle facce rettoriche di vecchi letterati, che par che sian nati con gli occhiali; e mi si piantò davanti sulla piattaforma. Io mi vidi perduto. Era un recitatore spietato dei propri versi, che ammazzava gli amici a colpi di cetra. Questa razza crudele è particolarmente terribile sui tranvai, dove non potete sfuggire al supplizio e siete costretti a ricevere i colpi a bruciapelo, in piena faccia, col naso del carnefice a contatto col vostro. Per mia disgrazia appunto, essendo la piattaforma affollata, m'era impossibile movermi, ero in sua balìa con le braccia e con le gambe legate. Fatta una prefazione brevissima al suo ultimo “parto„, egli m'appuntò contro il petto un indice lungo e nodoso, e incominciò a dire i versi, prima a voce bassa, poi, infervorandosi, forte: — All'uomo! — Non era che un sonetto; ma steso tutto quanto in una forma interrogativa, che pareva stata scelta apposta per metter l'uditore alla berlina. Cominciava: Uom, chi sei tu? e a ogni coppia di versi ritornava questa domanda, alla quale il poeta, pessimista nerissimo, dava una serie di risposte vigorose, l'una più offensiva dell'altra per il re del creato — Uom, chi sei tu? — I passeggieri discosti, che non potevano capire ch'egli mi recitava una poesia, vedendo l'atto e non afferrando che qualche parola, credettero che m'apostrofasse insolentemente, e si voltarono tutti a guardare. E quegli da capo, appuntandomi il dito contro il mento: — Chi sei tu? Con te stesso empio e mendace. — L'attenzione dei passeggieri si fece più viva. — Chi sei tu? — I più vicini sorridevano; ma gli altri sporgevano il viso stupito e inquieto, aspettandosi ch'io alzassi le mani. — Chi sei tu? — E tirò via a darmi dell' insetto, della vana bolla, della larvata iena, un sacco d'ingiurie sanguinose, senza che il rossore che mi saliva alle guance e le smorfie di tormentato ch'io gli facevo sul viso gli destassero il più leggiero sospetto del mio stato d'animo. Il primo verso dell'ultima terzina terminando in stile, presentii con un fremito la botta finale, una patente di viltà solennissima; e tentai di pararla coprendo la sua voce con un colpo di tosse; ma l'aguzzino ripetè il verso. Eravamo in quel punto davanti alla stazione; io avrei dovuto proseguire; ma, vergognandomi di restar là dopo essermi asciugati in silenzio tanti improperi, e anche per disingannar la gente mostrando che s'era buoni amici, discesi con lui nella piazza, dove mi presi nel fianco destro un altro sonetto....
Mezz'ora dopo ritornai dov'ero sceso per prender la linea dei Viali, salii sulla piattaforma d'un carrozzone pien di gente, e mi trovai davanti.... Maledetta giornata! Ecco un altro caso fastidiosissimo, non possibile che sui tranvai: trovarsi faccia a faccia, a contatto, costretti a guardarsi e quasi a confonder gli aliti, con un antico amico, col quale s'è rotta l'amicizia da quindici anni, e che da quindici anni non v'ha più guardato in viso. Se è un nemico che v'odia e che odiate, se n'esce subito: gli voltate bruscamente le spalle, o ve le volta lui. Ma se la rottura non avvenne che per una discussione giovanile stonata, nella quale aveste tutt'e due una parte di torto, e di cui vi pentiste, e supponete ch'egli si sia pentito, se non solo siete certi che l'orgoglio soltanto lo trattenne per tanto tempo dal ritornare a voi, ma sentite che è il sentimento stesso che impedì a voi pure di fare quel passo, quanto è penoso allora l'incontro! Per fortuna, due passeggieri discesero dopo un momento, ed essendosi fatto un po' di spazio, quegli potè adagio adagio, scostandosi un poco, voltarsi dalla parte opposta, senz'aver l'aria di farmi uno sgarbo. Ma fu quasi peggio perchè, non avendo più il suo viso davanti, ebbi libero il pensiero, che prese la via dei ricordi. Egli era là, con la nuca a un palmo dal mio mento; da una contrazione appena visibile della sua guancia capii che doveva essere un po' commosso; gli vedevo per la prima volta molti capelli grigi; mi ricordai delle allegre serate che avevamo passate insieme, dei discorsi pieni di confidenze reciproche, delle lunghe passeggiate fuor di porta che avevo fatto con lui; mi ricordai del riso di buon figliuolo con cui accettava il soprannome di Siapure, che gli avevamo posto, perchè nelle discussioni diceva sia pure a ogni tratto, come un intercalare; mi ricordai che in fondo era un caro amico, un po' troppo pronto, un poco affettato, ma d'indole affettuosa, incapace d'un'azione ignobile; mi rivenne anche in mente che, sette o otto anni addietro, aveva perduto sua madre, morta miseramente, d'una caduta di carrozza, e che per vari mesi dopo l'avevo visto pallido e accasciato; pensai che sarebbe spettato a me di coglier quell'occasione, di toccargli la spalla con la punta delle dita, chiamandolo per nome, e di fargli, al suo voltarsi, un sorriso che fosse un invito, una preghiera.... E mi mancò il coraggio di farlo. E allora, vilmente, riandai col pensiero quella tal discussione, rimasticai le sue parole offensive, attenuai cavillando le mie, m'irrigidii nell'orgoglio, e stetti così, duro e muto, finchè egli discese senza guardarmi, e infilò via San Massimo, sotto alla pioggia. Ma allora rimasi male, pentito, con la coscienza d'essermi portato da anima piccola, e d'aver meritato la chiusa dell' Uom, chi sei tu. — Ah povero mondo! — pensai — Me ne riserba altre, quest'oggi, la carrozza di tutti?
Me ne riserbava ancor una, di fatti, e proprio sulla stessa linea, che presi in Corso San Maurizio per tornare a casa, dopo aver visitato gli apparecchi del carnevale in piazza Vittorio Emanuele. E anche questo fu un caso d'appiccicamento forzato; ma d'indole comica: uno di quei mezzi briachi espansivi che vi s'attaccano come mignatte. Era un operaio sui cinquanta, bassotto, col cappello arrovesciato indietro e un ciuffo di capelli grigi sulla fronte; che pareva si fosse preso tutta la pioggia della giornata, tant'era fradicio da capo a piedi. Stava solo sulla piattaforma, masticando un mozzicone di Virginia, con una faccia che mostrava un gran prurito di chiacchierare. — Appena salii, mi guardò fisso con due occhi lustri, e si rivelò meneghino alle prime sillabe: — Pisson d'on temp! — Con questo fiore di lingua attaccò la conversazione. Aveva fatto una passeggiata fuor di porta (si vedeva) cont on amis, nel quale s'era imbattuto la notte, a la vœuna e mezza, dopo tanti anni che non si vedevano, un compagno d'armi del 1866, che s'era trovato con lui a Rocca d'Anfo, sotto Garibaldi. — Hoo minga bevu tropp — disse, — .... duu gott.... — Era un po' allegro, ne conveniva; ma questo non gli avrebbe impedito d'andar la mattina dopo al lavoro: era lavorante in ferro. Poi disse ex abrupto: Vedaremm, vedaremm, queste prossime elezioni. Cossa el ne pensa lu? — Ma, senz'aspettar la risposta, mi guardò in viso, col capo un po' inclinato da una parte, sorridendo maliziosamente, e, appuntandomi l'indice al petto: — Lu el dev vess de l'oposizion!
Parendomi pericoloso il fargli delle confessioni politiche, mi contentai di sorridere. Egli picchiò il pugno nella mano in atto di trionfo e gridò: — Ah! el disevi mi! Mi conossi la gent da la fisonomia. — Egli aveva dato il suo voto allo Zavattari. — Cossa ne pensa lu del noster Zavattari?
La mia risposta lo soddisfece.
— El credi mi! — esclamò. — E del noster Cavallotti, sentimm on poo...? E del noster Imbriani?
Ma le mie risposte, troppo laconiche, non finivano di contentarlo. Me ne fece dell'altre, a cui non risposi più che con cenni del capo. Allora scrollò una spalla, dicendo: — Hoo capii: el vœur minga desbottonass. — E sorrise in atto di compatimento. Poi, tutt'a un tratto, come se gli fosse venuta su un'ondata di vino, mi fissò negli occhi uno sguardo torvo, e voltandosi verso di me con un movimento brusco che gli fece fare un traballone: — Ovèi, disi.... el me credariss forsi on confident de questura?
Caspita! Bisognava rispondere. — Che cosa le passa per la testa? — dissi con gravità. — So bene che uno che s'è battuto con Garibaldi non può far di questi mestieri.
— Ah! — esclamò rasserenandosi. — Ecco una parola giusta! — E provò a ripetersi la mia risposta per gustarla meglio. — Ben ditt!... Ah lu l'è fin! Lu el m'ha daa una risposta che ghe fa onor! — E poi da capo: — Ch'el me disa donca — domandò con un sorriso sarcastico —, cossa el ne pensa lu de Francesco Crispi?
Ma non aspettò la risposta: si voltò verso la strada e, tirando un moccolo, mostrò il pugno all'orizzonte, come se il fantasma del suo nemico sorgesse dietro la collina di Superga. E poi un'altra volta, con un'ostinazione mulesca: — Ma ch'el me disa propri quel ch'el pensa del noster Zavattari?
E continuò così, implacabile, per tutto il tragitto. Salirono altri; speravo che s'attaccasse ad altri. Ma no, egli rimase incollato a me, seguitando a tempestarmi di domande, ora stizzendosi del mio laconismo, ora approvando calorosamente le mie mezze risposte, ora interrogando e rispondendo in vece mia, e lodandomi della risposta che s'era fatta egli stesso. Ma alla fine si dichiarò malcontento. — L'è inutil.... l'è inutil — concluse scrollando il capo, con un sogghigno amaro: — El se vœur propri minga desbottonà.... — E voltatosi ancora una volta a guardarmi prima di discendere, diede in una gran risata, e esclamò: — Ah! che politicon!... Ah che maggia!
Discese, respirai. Ma fatti appena quattro passi, mentre era ancora fermo il tranvai, si voltò indietro: tremai che risalisse; non risalì. Mi ripetè soltanto con un sorriso furbesco, tendendo la mano e tentennando sulle gambe: — E pur.... lu el dev vess de l'oposizion! — Detto questo, se n'andò. Ero libero; ma il divertimento era durato per la bellezza di duemila e quattrocento metri. E così si chiuse per me la nefasta giornata del 9, della quale, rientrato in casa, presi nota con dispetto, maledicendo alla poesia tranviaria, alle amicizie rotte e alla politica brilla, quasi infastidito del mio soggetto....
*
Mi rinfrescarono l'ispirazione tutt'a un tratto le “giardiniere„ che fecero la solita apparizione transitoria negli ultimi giorni di carnevale. Quelle grandi carrozze leggiere e aperte da ogni lato, in cui i passeggieri siedono gli uni dietro gli altri, tutti rivolti da una parte, in modo che, stando ritti sul davanti, un po' di sbieco, s'abbracciano con lo sguardo ventotto visi disposti in sette file, come nella platea d'un teatro minuscolo, presentano un molto più largo e più vario campo all'osservatore che i carrozzoni chiusi. Vi potei far subito delle osservazioni nuove sulla famiglia amenissima degli erotici, che, non potendo più giovarsi della confusione e del serra serra, vi si mostrano più scopertamente. I più arditi, i giovani per lo più, s'appoggiano con impostature eleganti al parapetto anteriore, voltando le spalle ai cavalli, e passano in rassegna il bel sesso della piccola platea volante, come usano di fare, tra un atto e l'altro, dalle sedie chiuse. I più timidi, che sono anche gli osservatori più profondi e i goditori più raffinati, stanno ritti in fondo, di dove non vedono i visi, ma godono di molti altri aspetti della forma femminile, che pare li compensino largamente di quella privazione. Di là, in fatti, possono accarezzare con lo sguardo i colli bianchi, i ciuffetti di capelli agitati dall'aria sulle nuche, i piccoli recessi candidi e rosati intorno alle orecchie, i saldi nodi delle capigliature morbide sporgenti sotto ai cappellini e le lunghe trecce cadenti sulle schiene giovinette; e possono anche osservare a bell'agio i diversi atti graziosi, risoluti o languidi, artificiosi o semplici, con cui le belle persone siedono e si assettano, e misurare con gli occhi le vite snelle e le braccia rotonde, e spingersi pure, senza farsi scorgere, ad osservazioni più delicate sulle passeggiere dell'ultima panca, chinando lo sguardo quasi a piombo sulle linee moventi che s'inarcano dai colli alle cinture e sulle curve ferme che scendono dalle cinture ai ginocchi. Si sale di rado in una giardiniera, in cui non si possa osservare qualcuno di questi osservatori cogitabondi, che col luccichìo delle pupille dicono chiaramente con che cosa si stia trastullando il loro pensiero.
Un bell'originale di questa famiglia conobbi sulla linea dei Viali il dopopranzo della domenica grassa. Stava ritto accanto a me, in fondo alla giardiniera. Era un signore attempatotto, rotondo e roseo, senza un pelo di barba, con una bella capigliatura grigia ondulata che gli scappava di sotto a un piccolo cappello a tuba: tutto vestito di nero e impiccato in un alto solino bianchissimo. L'avrei preso per un pastore evangelico se non avesse mandato intorno un profumo acuto d'essenza di rose. La giardiniera era piena di signore e di signorine. I suoi occhi celesti e vivi scorrevano senza posa su quella folla di cappellini che offriva l'aspetto d'un'aiuola fiorita, accompagnavano per un tratto ogni signora che scendeva, squadravano, avvolgevano, scrutavano ogni signora che saliva, non perdevano uno solo dei movimenti che faceva ciascuna per alzarsi, per voltarsi indietro, per aggiustarsi le vesti, per far posto ad un'altra: pareva che egli pigliasse degli appunti mentali. Ma non v'era ombra di sensualità nel suo sguardo: v'era un'espressione come di compiacenza artistica, un continuo leggerissimo sorriso di godimento puro e tranquillo dell'immaginazione. A un dato momento vidi i suoi occhi dilatarsi fissandosi sulla spalliera mobile dell'ultima panca, alla mia sinistra; guardai: egli aveva colto sul fatto una crestaina, salita poco prima con un giovanotto, la quale, tenendo le braccia ripiegate indietro sopra la cintura, e facendo l'indiana, agitava le dita fra le mani dell'amico, ritto dietro di lei, indianeggiante egli pure; e mi parve che quella scoperta lo rallegrasse, gli destasse un senso di gioia benevola, come quella d'un padre che vede scherzar la figliuola col fidanzato. Un tal colore, se altro non era, egli dava abilmente al suo sentimento. Lo giudicai uno di quei vecchi fortunati, sani di temperamento e di spirito, che dal bel sesso sono ancora attratti, ma non turbati, che ammirano una bella donna come una bella aurora, che davanti allo spettacolo della bellezza e della grazia femminile e degli amori e delle ebbrezze della gioventù, dignitosamente rassegnati alla parte di spettatori, non provano che un senso di dilettazione serena, scevra d'ogni invidia e d'ogni rimpianto. Seguitai un'altra volta il suo sguardo, che si fissò, con un'espressione di maraviglia, all'estremità d'una delle panche del mezzo.... e riconobbi là il profilo purissimo della “vergine morta„; la quale subito, nella mia fantasia, si distese sopra un panno nero, in mezzo a quattro ceri, con gli occhi chiusi e lo braccia in croce, ravvolta in un velo bianco e coronata di fiori.
Era anche questa volta sola, vestita con la semplicità di tutti i giorni, con una rosa bianca sul cappellino; bianca come il suo viso immutabilmente sereno di creatura sovrumana, che non potesse nè arrossire, nè ridere, nè piangere, intangibile ad ogni passione terrena. Il chiodo della curiosità mi si ficcò anche più addentro che la prima volta. Chi poteva essere? Qualcuna delle signore vicine, di tratto in tratto, si voltava a guardarla: pareva che non se n'avvedesse. Ma della sua impassibilità maravigliosa diede una prova anche maggiore. In un momento che s'era fermi, passò lentamente in bicicletta, venendo in direzione opposta alla nostra, dal lato dov'ella sedeva, un bel tenente dei bersaglieri, il quale la fissò, e tirò via. Ma appena si ripartì, quegli tornò indietro e prese ad accompagnare il tranvai, come un aiutante di campo una carrozza reale, col viso rivolto verso la ragazza. Molti s'accorsero della manovra e si misero a guardarli tutti e due. L'ufficiale sorrise, un po' confuso, ma non si scostò; essa non diede il minimo segno nè di compiacenza, nè di suggezione, nè di dispetto, come se sulla bicicletta ci fosse stato un bambino di sei anni: osservava le ruote e il movimento alternato dei pedali col suo sguardo tranquillo e limpido, come se studiasse il meccanismo. Quegli ci fiancheggiò ancora per un po', continuando a guardarla; poi fece forza, passò avanti e disparve; e lei girò sui passeggieri che la guardavano i suoi grandi occhi d'angelo senza sesso, nei quali non era indizio d'alcun pensiero, come se nulla avesse visto e nessuno l'avesse guardata. Ma era veramente un miracolo d'innocenza o d'austerità d'animo, oppure un prodigio di simulazione? Questo sospetto mi fece riflettere. E doveva aver fatto in tutti un'impressione assai viva poichè, quando discese all'angolo di via Gioberti, tutte le teste dei passeggieri, come se un colpo di vento le voltasse, si girarono a guardarla, e vidi che la sua smilza figura di bambina cresciuta in furia, la modestia monacale del suo vestire e la sua andatura stranamente fanciullesca accrebbero in tutti lo stupore, come in me la curiosità. Ma chi poteva mai essere? E avrei fatto la sciocchezza di scendere e d'andare a chiederne informazioni al portinaio della casa dov'entrava, se la mia curiosità non fosse stata attratta in quel punto dal viso d'un bimbo, che stava ritto sopra una delle prime panche, in mezzo a una signora e a una governante, e che mi pareva d'aver visto altre volte.
Mi pareva quello a cui sua madre aveva fatto abbracciare la bambina bionda, sul carrozzone di Giors, l'ultimo giorno di gennaio. Riconobbi infatti la madre ai capelli un po' scomposti e al profilo ardito, mentre si voltava a sinistra, a parlare con una persona che non vedevo. Essendoci un posto vuoto sulla panca dietro la sua, mi ci andai a sedere alla prima fermata, curioso di veder da vicino quella signora originale, a cui avevo ripensato molte volte, ricordando le vampate rosse che le salivano al viso quando s'accalorava e l'aria di suora di carità intrepida che spirava dai suoi grossi occhi neri. Parlava con una ragazzina povera di tredici o quattordici anni, col capo nudo, magrissima, che pareva convalescente, e tossiva. Mi stupì la sua voce robusta, calda, un po' velata, come di chi ha molto gridato; ma assai di più il modo com'essa parlava a quella poverina, alla quale rivolgeva delle domande e pareva facesse delle raccomandazioni, che il rumore del carrozzone non mi lasciava intendere. Era un'espressione del viso, un atteggiamento, un accento di sollecitudine e di cortesia, che rispondevano mirabilmente a un'idea ch'io avevo in capo della maniera da usarsi dai signori coi poveri; nella quale la benevolenza non abbia ombra di curiosità nè di sforzo, e sia delicatamente rattenuta la manifestazione della pietà, e questa non apparisca punto di natura diversa da quella che noi sentiamo per i dolori dei nostri eguali, e la familiarità non si mostri concessa per proposito, ma data per moto spontaneo dell'animo, senza coscienza di darla.
Eravamo a metà del corso Cairoli quando un pezzo d'uomo barbuto, una figura di fattor di campagna arricchito, che dava le spalle alla signora, non mostrando di sè altri connotati che due enormi orecchie vermiglie, accese un sigaro Cavour e si mise a far fumo come un camino.
L'aria mossa portò i nuvoli in viso alla ragazzina, che prese a tossir forte, torcendo il capo e schermendosi con le mani.
La signora stette un po' incerta; poi sporse il capo avanti e, con buon garbo, pregò il fumatore di smettere, accennandogli la ragazza che tossiva.
Quegli voltò il suo faccione rosso, sgraditamente sorpreso, diede un'occhiata alla signora e alla sua protetta, e continuò a fumare.
Alla signora venne su una delle vampate solite e si gonfiò il collo come a una cantante che prepara una nota poderosa. — Signore, — ripetè, meno cortesemente di prima —, abbia la bontà di smettere.... per umanità, non per cortesia.
L'uomo scrollò una spalla e cacciò fuori un altro nuvolo.
— Mettiti al mio posto —, disse allora risolutamente la signora alla ragazza, scattando in piedi, e soggiunse forte: — Che screanzato!
Quegli si voltò in tronco, con gli occhi larghi, dicendo con violenza: — Guardi come parla!
— Parlo come debbo!
L'uomo s'alzò.
— Oh s'alzi pure; sono una donna; ma non ho paura! — E ritta in faccia all'omaccione, mentre il fattorino ed altri s'interponevano, col viso eretto e acceso e l'occhio imperterrito, stringendo a sè con una mano il bimbo piangente e tenendo l'altra sulla spalla della ragazzina impaurita, la piccola e brava signora era bella da baciarla in fronte.
Sopraffatto da un coro di voci ostili, l'uomo si rimise a sedere, bofonchiando, senza levarsi il sigaro di bocca, ma non fumando più; e pochi minuti appresso, arrivando il tranvai allo sbocco di via Bonafous, la signora discese col bimbo e con la governante, dopo aver salutato la sua protetta, e si perdette in mezzo alla folla immensa accalcata intorno ai baracconi e alle giostre di piazza Vittorio Emanuele, donde s'alzava un frastuono infernale di grida e di musiche discordanti.
*
Per tre giorni le giardiniere furono infestate da un esercito di pierrots e di bébés, vestiti a centinaia d'un solo colore, come se li avesse arruolati e mascherati la Prefettura, e ripetenti tutti, dalla mattina alla sera, lo stesso eterno ciao e ti conosco, col medesimo grido in falsetto, acuto e molesto come i loro fiati vinosi e le esalazioni della loro biancheria sospetta e della loro pelle in sudore. Nel piccolo teatro del tranvai, con mio rammarico, si sostituiva alla commedia piacevole di tutti i giorni il veglione chiassoso, dove non potevo più osservare che la caricatura buffonesca della vita. Di mala voglia, il dopo pranzo del martedì grasso, feci una corsa da piazza Statuto alla Gran Madre di Dio. Erano giunte dall'Africa le brutte notizie dei combattimenti di Seeta e di Alequà coi ribelli. Intorno a me, fra i passeggieri, si commentavano i fatti, e alle parole tristi che si scambiavano intorno alla strage, alle sevizie usate ai feriti, alla morte dei tenenti Negretti e Caputo e dell'ufficiale arso vivo, e ai pronostici che si facevano di altri casi più funesti, si mescolavano le note festose delle trombette e dei corni, gli strilli e i canti delle maschere che passavano e i lazzi e le risa di quelle del tranvai; e in mezzo a quella baldoria mi parevano più miserande e più terribili le immagini di quelle povere vittime lontane della guerra maledetta. Ah, che cosa sono i lutti nazionali quando cadono nei giorni destinati dal Calendario alla gozzoviglia e al baccano!
Per un tratto di strada mi stette seduto accanto un uomo maturo, il quale non aveva altra maschera che un gran naso orizzontale, e con quel becco di cicogna sul viso, come se lo portasse per obbligo, leggeva con gran serietà la Gazzetta del Popolo; poi un operaio alticcio e mezzo assonnito, che, dimenticando d'essersi annerita la faccia con sughero bruciato per divertir sè ed il pubblico, discorreva con accento lamentevole di certi suoi dispiaceri di famiglia a un amico addormentato. A metà di via Po, una graziosa mascherina verde, scendendo dal carrozzone mi diede un lattone sul cappello e mi disse nell'orecchio: — Abbasso il socialismo! —; ma non me n'offesi perchè, agli occhi e ai modi, non mi parve, per quanto riguardava la sua persona, una troppo fiera nemica della proprietà collettiva. Al posto di lei salì poco dopo una vecchia signora, di capelli bianchissimi, d'aspetto dignitoso e buono, che serbava ancora i segni d'una bellezza gentile, e sulla panca davanti un giovanotto in maschera di pulcinella, con gli occhi accesi dalle libazioni, che stringeva un sacchetto di confetti con due mani rudi d'operaio. Ed ebbi allora un esempio di quanto valga la gentilezza più dello sdegno a imporre rispetto anche a un animo volgare. Colpito da quella bella canizie signorile, il giovane s'appoggiò alla spalliera della panca, proprio in faccia alla signora, sorridendole con familiarità impertinente, con l'intenzione manifesta di dirle qualche facezia grossolana. Cominciò con la formola solita: — Ah, ti conosco.... t'ho conosciuta quand'eri giovane.... cerca un po' di ricordarti.... — Una risposta secca avrebbe provocato un'insolenza. La signora rispose invece dolcemente, scrollando il capo: — Tu sbagli, povero figliuolo; quand'io ero giovane tu non eri ancora nato....
La pacatezza, la grazia sorridente, velata d'una certa mestizia, e l'accento di benevolenza quasi materna con cui ella disse queste parole, tanto diverse da quelle ch'egli s'aspettava, fecero rimanere il giovane come interdetto. Sorrise, scotendo il capo; volle ribattere, ma non osò, e per uscirne tuffò la mano nel sacchetto e porse alla signora due caramelle, che essa accettò; poi si mise a sedere, e non disse più nulla.
Il tranvai, come un barcone scendente da un fiume in un lago, entrò dentro alla folla enorme di piazza Vittorio Emanuele; e in mezzo a quella moltitudine bamboleggiante attorno alle grandi giostre scintillanti d'oro e di specchi, ai baracconi imbandierati, ai pagliacci urlanti, ai fantocci mostruosi, dinanzi allo spettacolo di tutta quella gente d'ogni condizione e d'ogni età che girava sui cavalli di legno, sulle barche, sui velocipedi, sulle altalene e accorreva agli squilli di tromba dei ciarlatani chiamanti a raccolta l'imbecillaggine umana, la persona più seria, l'unico che paresse un uomo, che mostrasse d'aver ancora un cervello nel cranio era il povero cocchiere, un gobbetto di pelo rosso, che, rattenendo i cavalli, s'affannava a fischiare, a gridare: — Attenti! — a rimovere dalle rotaie i rimbambiti, molti dei quali gli rivolgevano delle ingiurie, offesi dalla superiorità di giudizio ch'ei mostrava d'aver sopra di loro. Che respiro tirò il pover'uomo quando si trovò all'aperto sul ponte di Po, fuor del pericolo di storpiar senza colpa il suo prossimo e della necessità d'aver cervello per mille! Tirò fuori il fazzoletto turchino e s'asciugò la fronte grondante di sudore, e quando si arrivò in faccia alla Gran Madre di Dio, staccati appena e riattaccati i cavalli, afferrò il suo canestro, sedette sul predellino, e si mise a ingozzare in furia una povera minestra fredda di riso e fagioli. Io stetti osservandolo, aspettando che il tranvai ripartisse. Poteva aver trentacinque anni; doveva esser un contadino, perchè portava due cerchietti dorati alle orecchie, e all'udire il suo accento vercellese, pensai che fosse uno di quei lavoratori delle risaie, che i loro colleghi del tranvai chiamano burlescamente mangiarane, dicendo che la vita dura del cocchiere è una delizia per essi, appetto a quella d'inferno che menavano prima. Vedendo che l'osservavo, mi raccontò a parole rotte, masticando, la storia della sua colazione; la quale era in ritardo di quattr'ore, poichè quella mattina, essendo egli stato mandato all'improvviso dalla linea dei Viali a quella del Martinetto a supplire un assente, il canestro, che gli aveva portato sua moglie, s'era sviato. e passando di tranvai in tranvai, aveva girato per le linee dalle dieci alle due, prima di raggiungerlo. E il povero gobbetto, digiuno dall'alba, mentre mangiava a precipizio, si voltava a ogni boccone a guardar se l'altro tranvai arrivasse, già affannato dal pensiero della folla che avrebbe dovuto riattraversare, spolmonandosi a fischiare e a urlare, in piazza Vittorio Emanuele, in via Po, in via Garibaldi, fino al capo opposto di Torino.... — Ah il carnevale — esclamò — per noi altri!... Se conoscessi chi l'ha inventato! — E fece l'atto di scaraventare il canestro in faccia a qualcuno.
Ripartii con lui; si ruppe un'altra volta l'onda umana della gran piazza, in mezzo a un frastuono diabolico, e anche prima d'arrivare in via Po, il tranvai era stracarico. V'era una mescolanza di cappellini fioriti, di chepì, di tube, di capigliature arruffate, di berrettine rosse e di cappelli a pan di zucchero e di cappucci di maschere, un pigia pigia di gente con l'argento vivo addosso, che lanciavano risa e grida, come scoppi di razzi e di petardi, agli alti tranvai che passavano; dai quali rispondevano altre bocche spalancate e braccia fendenti l'aria, come da tanti gabbioni di matti. A ogni tratto la giardiniera si fermava, e molti scendevano, molti salivano, disputandosi il posto, cadendo seduti e rialzandosi, strofinandosi a vicenda per tutti i versi e scambiandosi urtoni, complimenti e pizzicotti, con un cicaleccio e un vocìo che assordava. In piazza Castello mi si venne a piantar davanti, sulla piattaforma posteriore, un mascherone colossale, insaccato in un dominaccio nero che gli dava l'aspetto d'un fratello della Misericordia, e costui e altri due mascherotti vinolenti, quando furono in via Garibaldi, cominciarono a tormentare una donna, che le loro schiene mi nascondevano, tempestandola di domande buffe, e chiamandola mare e nona, per canzonatura.
— O mare, come ve lo siete goduto il martedì grasso?
— Guarda che po' di sacco di confetti che ha vuotato!
— O una giratina sulla giostra a barche l'avete data?
— L'ho trovata io in un Gabinetto riservato agli adulti!
— L'ho vista in maglia nel Padiglione orientale!
Non udii alcuna risposta. Un minuto dopo, i tre buffoni saltarono giù, e io riconobbi all'estremità dell'ultima panca la vecchietta di Pozzo di Strada, che doveva esser salita, come sempre, all'angolo dì via XX Settembre. Aveva il fazzoletto in capo, il suo sacco vuoto sulle ginocchia, il suo solito atteggiamento umile e raccolto. Non mostrava alcun risentimento delle beffe, come se non le avesse neppure intese: guardava con lo sguardo attonito d'un bimbo le ragazze mascherate che passavano in bicicletta, i drappelli di maschere che sfilavano accanto al tranvai pestando i tacchi e ripetendo tutte in coro lo stesso grido come branchi di capre, la doppia processione nera che andava e veniva sui marciapiedi; ma pareva che non vedesse nulla. Vide però la chiesa dei Santi Martiri, quando vi si passò davanti, e si fece il segno della croce. Quel pensiero fisso, che già le avevo visto nel viso, pareva che si fosse fatto più profondo e più inquieto; più sovente essa socchiudeva gli occhi e chinava il mento sul petto e poi si riscoteva come da un breve sogno angoscioso, e m'appariva più piccola, più risecchita, più meschina, come se dall'ultima volta che l'avevo veduta non avesse più dormito e fosse diventata più povera. Che cos'aveva? Non immaginavo alcuna causa determinata del suo dolore; ma sentivo così in confuso che la cognizione di quella causa era celata in qualche parte della mia mente, e che quando l'avessi saputa mi sarei maravigliato di non averla scoperta io medesimo. Si segnò di nuovo quando passammo davanti alla chiesa di San Dalmazzo, chiuse gli occhi ancora una volta quando si sboccò in piazza Statuto, e più su, vicino al monumento del Fréjus, quando io discesi a destra per andare a casa, essa discese a sinistra verso lo stradone di Rivoli. La vidi allontanarsi col suo sacco vuoto sotto il braccio, a passi lenti e uguali, curva sotto il suo dolore misterioso, come sotto un giogo invisibile, solitaria in mezzo alla vasta piazza già oscura, piccola, compassionevole come una formica smarrita. E con quel povero punto nero che si perdette nell'orrizzonte silenzioso della campagna svanirono per me tutti gli splendori e tutti gli strepiti del carnevale.
*
La ritrovai pochi giorni dopo sulla stessa linea, alla prima corsa della mattina, e cercai subito un modo d'interrogarla, per scoprire il suo segreto; ma mi distrasse da lei un nuovo spettacolo, un corso d'osservazioni nuove sul singolare aspetto in cui si presenta all'occhio del passeggiere dei tranvai la battaglia elettorale. Ferveva già l'agitazione per quelle tanto aspettate elezioni amministrative, che dovevan decidere finalmente della prevalenza del partito cattolico o del partito liberale. I muri erano tappezzati di manifesti d'ogni forma e colore che s'alzavano superbamente fino ai terrazzini e scendevano umilmente fin sui marciapiedi, come per attaccarsi alle gambe dei signori e per leccare le scarpe ai poveri. Su tutte le linee si correva per lunghi tratti in mezzo a un coro visibile di esortazioni, di promesse, di accuse, di preghiere, di minacce, fra cui sonavano più alto, come note acute, centinaia di nomi noti ed ignoti, aristocratici, borghesi, plebei, quasi gridati dai muri, come da una folla, con mille diverse intonazioni allegre e solenni, imperiose e supplichevoli; alle quali pareva che il carrozzone sfuggisse, fischiando e scampanellando per dir di no, che non ci credeva, e che aveva altre cure per la testa. A ogni fermata, tutte quelle voci si facevan sentire più forti e più chiare, e poi si confondevano da capo in un mormorìo sordo e lontano, in cui non si raccapezzava più nè programmi nè nomi. Dentro al tranvai, peraltro, sorgevano dispute concitate, delle quali non m'arrivava all'orecchio che qualche parola, come baloss, ciarlatan, è tempo di finirla, la vedremo, e cose simili; e c'eran dei signori che, senza disputare, aprivano l'uno in faccia all'altro, in atto ostile, l' Italia reale e la Gazzetta del Popolo, altri che facevan pacatamente discussioni tutte aritmetiche, in cui ritornavano a ogni tratto i cinque mila, i sette mila, i dieci mila, come nei discorsi di guerra, e altri parecchi che, tendendo un orecchio a quei discorsi, guardavan la fuga dei manifesti sui muri con un sorriso canzonatorio continuo, come gente che si spassasse a un modo dei neri, dei rossi e dei tricolori. Sugli altri tranvai che passavano, intanto, vedevo dei giovani di mia conoscenza, che tenevan sotto il braccio dei pacchi di stampati, con l'aria di gente affaccendata, che corresse fin dalla prima mattina e dovesse correre fino alla sera, stimolata a un tempo da un obbligo e da una passione: servitori volontari e conscienti d'un'idea. E fu appunto uno di questi fattorini apostolici che mi fece fare la prima scoperta riguardo a uno dei miei compagni misteriosi di viaggio.
Ero sul tranvai del Martinetto, una mattina di nebbia, accanto al cavaliere Bicchierino, che leggeva la sua solita Gazzetta, in piedi. Salì sulla piattaforma un falegname mio conoscente, con un gran cappello alla calabrese e una giacchetta spelata di velluto color cacao, che gli vedevo addosso da cinque o sei anni, e un grosso pacco di stampe sotto il braccio. Era un originale curiosissimo d'indole come d'aspetto, che, a vederlo serio, con quel barbone rossastro e ispido, con quelle folte sopracciglia irsute e quel collo taurino, pareva un uomo terribile, e quando rideva, il più gran bonaccione di questo mondo, benchè avesse una voce di cannone Krupp. Era un filosofo, il quale esprimeva tutti i suoi pensieri in forma di sentenza, e ne notava una gran parte in un taccuino, che portava sempre con sè, spaziando di preferenza nel campo della morale, dei costumi, della rigenerazione della donna e dell'educazione dei fanciulli. Non un pensatore astratto, peraltro; ma “un propagandista individuale„ appassionato, un ragionatore infaticabile, capace di “lavorare„ un amico renitente per un anno di seguito, tutti i giorni, con la tenacia d'un missionario; e buon lavoratore con questo, sobrio per istinto e per proposito, tanto da privarsi del vino e del tabacco per dare il suo obolo alla causa e per comperare opuscoli, giornali e anche ritratti e calendari socialisti, di cui tappezzava le pareti della sua camera. Buono e semplice, in fondo, e arguto: canzonatore benevolo della borghesia; rallegrato da una sua idea fissa, che era di turbare i sonni al Prefetto, di esser vigilato continuamente dalle Autorità, delle quali soleva parlare con un tono comicissimo di compatimento, come se ogni giorno sventasse qualche loro trama e facesse loro qualche bel tiro; e prendeva in fatti per ogni suo atto più innocente ogni specie di precauzioni sopraffini e superflue, sorridendo maliziosamente nella sua grossa barba.
Appena salito, prese a discorrere con me, a bassa voce, ma con viva soddisfazione, del movimento elettorale, che s'avviava bene. Gli scappò una sola frase a voce alta: — Torino si scuote. — Il cavaliere Bicchierino la sentì, e, alzati gli occhi dalla Gazzetta, lo guardò un momento con un'espressione di grande stupore. Egli continuò a discorrere; altri salirono. A un certo punto, guardandomi intorno, vidi dall'altro lato della piattaforma gli occhiali e il pizzo grigio di quel tal mio nemico misterioso, che quando mi vedeva da una parte del tranvai saliva dall'altra. Egli guardava me e il mio conlocutore con due occhi così dilatati e sporgenti, tirando rapidamente fra l'uno e l'altro dei tratti di congiunzione così vigorosi, e con un'espressione di sdegno così viva, che la verità mi si scoperse come al chiarore d'un lampo. Era il socialista ch'egli odiava! E mi balenò nello stesso punto un vago sospetto che fosse lui l'autore d'una lettera anonima che avevo ricevuto il giorno dopo dell'assassinio del povero Carnot, intestata col vocativo: — degno amico di Caserio....
Ed io che avevo fatto il disegno di conquistarlo! Indovinata la causa dell'orrore che gli destavo, non c'era proprio da far altro che un atto di mesta rassegnazione. Ma, insomma, il mistero era svelato; avevo fatto nel mio piccolo mondo del tranvai la prima scoperta importante; e poi.... chi sa mai! Intanto gli affibbiai nelle mie note il nome di Guyot, il mangia-socialisti francese, per mio comodo.
CAPITOLO TERZO.
Marzo.
Per molta gente, che esce poco di casa e che per pigrizia o per età o per incomodi non si serve più delle gambe, il tranvai è diventato il solo mezzo di comunicazione col mondo, l'ultimo ponte mobile che li unisce ancora alla città in cui vivono solitari. Costoro fanno sul tranvai le loro passeggiate igieniche di “andata e ritorno„ o “il giro di circonvallazione„ come lo chiamano, per pigliare una boccata d'aria; sul tranvai cercano i piaceri della conversazione, fanno nuove conoscenze, raccolgono notizie, rivedono qualche volta gli amici, e quando rincasano, non parlano che della gente e dei piccoli casi veduti nelle loro corse, come se per essi non ci fosse più altra società fuori di quella che corre dalle sette e mezzo della mattina alle dieci della sera sulla gran rete di ferro della Società belga e della Società torinese. Posso dire d'aver fatto parte di questa famiglia per tutto il tempo che impiegai a mettere insieme il mio libro. Anche stando in casa, cercavo il più sovente col pensiero le persone che solevo trovare sui tranvai, a ogni passaggio di carrozzone sotto le mie finestre mi balzavano davanti le loro immagini, e ogni mia curiosità, quand'uscivo, si volgeva a chi avrei incontrato, a che sarebbe accaduto, a che avrei scoperto quel giorno nelle mie scarrozzate. Il tranvai era diventato per me quello che è per certi vecchi pensionati il caffè, dov'essi vanno a interrogare l'opinione pubblica intorno agli avvenimenti del giorno. E la mattina del due di marzo, riavutomi appena dallo sgomento delle prime notizie d'Abba Garima, corsi al mio caffè ambulante per osservarvi gli effetti dell'avvenimento terribile.
Capitai nel carrozzone di Carlin, sulla linea del Martinetto. C'eran seduti dentro sei o sette signori accigliati, tutti col giornale in mano, che non si guardavano, come se ciascuno avesse temuto di legger sul viso degli altri qualche notizia peggiore di quelle che aveva lette stampate; e mostravan tutti, oltre al dolore, un'amarezza sdegnosa, un'irritazione sorda, che mi pareva il rimorso e la vergogna della credulità stupida, degli entusiasmi bamboleschi con cui s'erano prestati per tanto tempo all'enorme inganno sanguinoso, dal quale uscivan bruscamente quella mattina, come da un sogno di briachi. Tutti tacevano: il carrozzone pareva un gabinetto di lettura d'ipocondriaci. Il solo Carlin era agitato. Quando venne da me sulla piattaforma, con la sua faccia zanardelliana più secca del solito, strappò lo scontrino dal libretto con un gesto nervoso, dicendo: — Inzipiensa! Inzipiensa! —; una parola imparata dai giornali, senza dubbio. — Cosa s'ha da dire d'un assortimento compagno? — Finalmente appariva chiara, pur troppo, la bestialità commessa, di non aver preso il nemico tra due fuochi, quando s'era ancora in tempo! Ma cercava di consolarsi, affermando (di scienza propria, poichè notizie al proposito non n'erano ancora arrivate) che le nostre artiglierie avevano fatto una strage inaudita; e poi aveva gran fiducia nel maggior Prestinari, e aspettava miracoli dal Baldissera, che avrebbe “spazzato tutto„. Invitto Carlin! Tutta la sua lunga persona spolpata fremeva guerra e vendetta. Egli voleva mandar laggiù cento mila uomini, duecento mila, quattrocento mila, e fino all'ultimo cannone dei nostri arsenali, pur di aver con quella canaglia di negri l'ultima parola. E dicendo questo continuava a staccar gli scontrini vigorosamente, come se ad ogni strappo avesse portato via un brandello della pelle del Negus.
Per alcuni giorni non ebbi altro oggetto d'osservazione che lui. Scopersi che non era soltanto un africanista ardente e un curioso della scienza; ma un osservatore dei suoi simili. Essendo in servizio da molti anni, conosceva su tutte le linee un gran numero di persone, di cui sapeva a che ora e dove salivano e a che punto scendevano, e sulla condizione e sugli affari loro, ignorando chi fossero, almanaccava con la fantasia, osservandoli con occhio scrutatore. E si capiva che quel continuo salire e scendere di gente conosciuta e sconosciuta e quei mille frammenti di discorsi che raccattava lungo il giorno lo divertivano. Un giorno me lo disse: — Se si guadagnasse un po' di più e si faticasse un po' meno, questa professione sarebbe di mio gusto. — Era uno di quegli uomini d'immaginazione viva e curiosa, pei quali lo spettacolo del mondo è un godimento. A ogni discorso che sentisse, su qualunque argomento, di persone che gli paressero colte, tendeva l'orecchio e l'arco dell'intelligenza; raccoglieva frasi, bocconi di notizie e mezze idee; le rimasticava in silenzio, e poi le smaltiva storpiate, impasticciate, trasformate nei modi più strani ai colleghi e ai passeggieri di condizione umile, mostrando di sapere assai più di quanto diceva, come un uomo che vivesse in una sfera intellettuale superiore al proprio stato. Sempre serio, con la fronte corrugata; soltanto quando entrava nel carrozzone qualche donna equivoca vistosamente elegante, socchiudeva un occhio e sporgeva le labbra in modo lepidissimo, dandosi l'aria d'un conoscitor fine e profondo del genere. Per attaccar discorso buttava là una parola, come un amo nell'acqua, non rivolgendosi direttamente ad alcuno, e se un passeggiere mordeva, egli scioglieva la lingua, se no, non aggiungeva altro, aspettando miglior occasione; oppure cercava un'entratura nominando a bassa voce le persone che salivano. — Quello lì è il segretario capo del municipio, quello che fa tutto: gran testa. — Quella è la signora Valdata, la prima donna del teatro piemontese, che sale ogni domenica a quest'ora, per andare al Rossini, alla recita diurna. — Questo è il cavalier Benotti, veterano del quarantotto, che va al caffè Londra.... col cane.
Era questi uno dei frequentatori della linea; l'avevo visto salir molte volte al numero 43 dì via Garibaldi; portava sempre all'occhiello il nastrino della medaglia commemorativa. Aveva settant'otto anni, e coglieva tutte le occasioni per far sapere la sua età, di cui era altero. Quando saliva, si scusava della lentezza, dicendo: — A settantott'anni non si può esser lesti.... — Quando i vicini sorridevano dell'atto con cui afferrava a due mani la colonnina a un sobbalzo del carrozzone, sorrideva egli pure e diceva: — Eh, non si scherza mica; son settantotto suonati.... — Era un vecchietto pulito e cortese, al quale un principio di rimbambimento dava un aspetto di grande bontà; sorridente a tutti, in specie ai bambini, a cui carezzava la guancia con la punta d'un dito, quando si trovavano col viso davanti al suo, stando in braccio alla mamma; espansivo, bisognoso tanto di discorrere, che qualche volta parlava da sè, scotendo il capo in atto d'approvazione continua. Era curvo; ma si drizzava di tratto in tratto, come se gli scattasse dentro una molla, alzando la fronte e guardando fieramente davanti a sè, riscosso forse all'improvviso da qualche ricordo delle antiche battaglie; per pochi momenti, però; poi ricascava nell'atteggiamento solito, come se la molla si spezzasse, e rifaceva il viso ilare e ossequioso. Aveva un piccolo cane che chiamava Ciuchetto, un volpino giallognolo con la coda arricciata, il quale accompagnava continuamente il tranvai, trottando accanto alla piattaforma e alzando ogni momento il muso a guardarlo; ed egli guardava lui, per lunghi tratti, sorridendogli amorevolmente, e lo cercava con occhio inquieto, voltandosi a destra e a sinistra, ogni volta che il passaggio d'una carrozza o d'un carro glielo nascondeva. E si capiva che quel cane era per lui un amico, una consolazione della vita, la sola compagnia ch'egli avesse durante le lunghe giornate in cui il cattivo tempo o gl'incomodi dell'età lo tenevano rinchiuso in casa. Era anche un po' sordo il vecchietto; ma tanto più cortese per questo, che acconsentiva spesso col capo, sorridendo, a persone che non parlavano con lui, e prolungava l'atto approvatorio anche quando non parlavano più, con un'aria d'attenzione profonda. E fu appunto uno di questi casi, di cui altri risero, che mi fece scrivere il suo nome, per impulso di simpatia, nell'elenco dei miei personaggi....
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Il marzo, peraltro, non s'annunziava bene; pareva che il disastro d'Abba Garima avesse disperso tutti i miei conoscenti; passavano i giorni, e su nessuna delle tre linee ch'ero solito di percorrere, anche percorrendole in ore insolite, non m'imbattevo più in alcuno di loro, nè mi si offrivano altre persone o casi che mettesse conto di registrare. Ahimè, mancava la materia! E mi prese un dubbio triste: d'aver fondato il mio edifizio sopra un'illusione; che la realtà non bastasse a sorreggerlo; che senza lavorar di mio, ossia, senza fabbricarlo diversamente affatto da come l'avevo immaginato, non lo avrei potuto compiere; e di giorno in giorno volgendosi il dubbio in certezza, stavo per rinunciare un'altra volta, tristemente scoraggiato, al mio proposito....
Furono quei due benedetti amanti di borgo San Donato che mi fecero riprendere la penna. Li trovai una mattina alla prima corsa sul tranvai del Martinetto, salendo in piazza Statuto. Era la prima volta che vedevo la ragazza venir dal sobborgo con lui, solito di salire all'angolo di via Siccardi. Stavan seduti l'uno accanto all'altro, vicino all'uscio anteriore. Al primo sguardo vidi un mutamento in tutti e due; in lei più notevole. Aveva un cappellino nuovo, un vestito che non le avevo mai visto, e non so che di più sereno nel viso, di più dolce negli occhi, un atteggiamento come di dignità nuova, un'espressione vaga quasi di appagamento della coscienza. Tutt'e due parlavan più liberamente, si sorridevano più spesso, con un'aria di sicurezza, che per l'addietro non mostravano. Avrei dovuto capir subito; ma non capii che dopo qualche minuto d'osservazione. S'erano sposati. Non c'era dubbio. Guardai la mano destra di lei: ci vidi l'anello. Ebbene.... n'ebbi un vivo piacere. Poveri ragazzi! Eran dunque contenti. Chi sa con quante privazioni avevano raccolto a soldo a soldo quel po' di fondo per metter su il loro quartierino in via San Donato! Poichè era certo che stavano lì e che dovevano avere una sola camera, con una nicchia di cucina, se pur non serviva di cucina il caminetto. Guardandoli, vedevo quella camera al terzo piano, mobiliata appena dello stretto necessario, con un vaso di fiori alla finestra, con un piccolo lume a petrolio sopra un piccolo tavolo, dove essa cuciva la sera, e lui, forse, faceva qualche lavoro straordinario di copiatura, dopo aver cenato con un po' d'insalata; e immaginavo la loro vita, nella quale eran contati i minuti e i centesimi, dette ogni giorno, in quei dati momenti, quelle medesime parole, letto per dei mesi uno stesso libro, una pagina per volta, vagheggiata per due settimane una serata in seconda galleria al teatro Alfieri; e in quella vita povera e oscura indovinavo un pensiero comune, l'aspettazione d'un essere desiderato, allietata dalla speranza d'una grazia della natura, d'un essere diverso da loro, florido e bello, che avrebbe portato fra quelle quattro povere pareti luce, allegrezza, alterezza, coraggio. Sì, certo, quel tenue chiarore che traspariva dal viso di quella donnina di nulla, consapevole della propria bruttezza e rassegnata al posto umilissimo che le aveva dato il destino nel mondo, era quella speranza, l'intimo albore della maternità, già biancheggiante nell'anima, prima che l'astro esistesse; il piccolo essere, forse non ancora concepito che nel pensiero, era già amato e accarezzato; essa vedeva già la forma indefinita, qualche cosa di bianco e di roseo, movere per la piccola camera, agitarsi accanto a lei nel tranvai, drizzarsi sulle ginocchia del giovane che le sedeva di fronte. Come al solito, essa s'alzò per discendere in piazza Castello: continuava dunque a andare al lavoro. Povera donnina! Nell'alzarsi fece un atto insolitamente vivace, e quanta grazia si poteva mostrare in quel piccolo corpo così poco femmineo vi si mostrò in quell'atto, che era tutto per il suo sposo, si capiva. Quando fu a terra, aspettando che il tranvai passasse, gli fece un saluto con la mano, sorridendo. Era la prima volta che faceva così: un saluto di moglie a marito. Fu per me come un annunzio indiretto di matrimonio.
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E subito, il giorno dopo, come se con quei due mi si fosse aperto un buon periodo, scopersi un'altra coppia, della quale era destinato che mi dovessi occupare curiosamente per tutto il corso dell'anno. Erano le quattro dopo mezzogiorno, quando salì sul tranvai della linea Vinzaglio, in via Garibaldi, una signora sui trent'anni, bruna e bellina, vestita con garbo, un po' timida, con due occhi chiarissimi e un bocchino di bimba; la quale, appena seduta dentro, in un angolo, girò sui presenti uno sguardo rapido, con una leggera espressione d'inquietudine, che immediatamente disparve. Era una di quelle figure di cui si suol dire al primo vederle: — Ecco una donna onesta. — Aveva un cappellino nero guernito di mazzetti di viole, che tornavano mirabilmente al suo visetto bianco e modesto di fanciulla. Dopo quella prima occhiata non guardò più nessuno, e parve che si raccogliesse nell'osservazione delle scarpette d'un bambino che teneva sulle ginocchia una donna seduta dall'altra parte. Quando il tranvai arrivò allo sbocco di via Roma in piazza Castello, dove s'aggruppano i giovani eleganti per veder sfilare le passeggiatrici dei portici, salì senza far fermare un bel capitano di fanteria, alto e snello, con un berretto nuovo fiammante e i guanti bianchi freschissimi, entrò e sedette dì fronte a lei. Si guardarono di sfuggita, e poi voltarono tutt'e due il capo dalle parti opposte, l'uno verso il marciapiede di destra, l'altra verso quello di sinistra. Che imprudenza! Se si fossero salutati e messi a discorrere, non avrebbero forse destato alcun sospetto. Ma quello scambio d'occhiate indifferenti e quello sguardo rivolto intorno da tutti e due insieme come per assicurarsi che nessuno avesse notato il loro incontro, li tradirono. E li tradì anche più un rossore leggerissimo che salì alle guance di lei, nonostante lo sforzo ch'ella fece per rattenerlo, accusato dal movimento del suo petto. Il rossore svanì in un attimo; ma rimase visibile il suo turbamento, un non saper che fare dei propri occhi, la coscienza d'essere osservata dai passeggeri, e come un sospetto pauroso della strada, alla quale lanciava ogni tanto, con simulata distrazione, degli sguardi furtivi, che percorrevano un tratto dei marciapiedi. Quel convegno sul tranvai doveva essere il primo, una concessione di compenso fatta da lei dopo aver rifiutato un convegno altrove. Fra quattro pareti, doveva aver detto, ma di legno e di cristallo, per ora. E chi sa per quante altre coppie il tranvai è un'anticamera! E chi sa perchè mi si piantò nel capo l'idea che quella signora fosse la moglie d'un impiegato delle Poste! Forse per una vaga rassomiglianza di visi, o per qualche ricordo nascosto nella mia mente. Il fatto è che il viso di suo marito mi si presentò inquadrato in uno sportello delle lettere raccomandate, e mi restò davanti in quella cornice così fermo e netto, come se ce l'avessi veduto davvero. E n'ebbi pietà al pensare che in quel momento, forse, a poca distanza di là, egli stava tastando con le dita una lettera, per assicurarsi che fossero saldi i suggelli. Ah, non c'è nulla di saldo a questo mondo, povero travet: tutto è fragile come la ceralacca e passeggiero come una lettera. Ma pensai a un punto che non sarebbe trascorso lungo tempo prima che la traditrice dello sportello fosse punita, perchè gli occhi scintillanti del capitano, mobilissimi e sorridenti come quelli d'un fanciullo, che si chinavano ogni momento sui galloni della manica o si fissavano sul vetro del finestrino in cui brillava il riflesso argenteo del berretto nuovo, non davano indizio d'una grande profondità di passione. E già incominciavano per lei i piccoli affanni dell'amor criminale. A ogni persona che saliva sulla piattaforma, il suo sguardo correva a cercar chi fosse; ad ogni passeggiere che entrava, il suo viso si rimbruniva, scemando in lei la speranza di rimaner sola un minuto con lui; e ogni volta che uno sguardo scrutatore la fissava, i suoi occhi eran costretti a rifugiarsi tra le scarpette del bimbo che le sedeva di faccia. Ah, signora: la camera di legno e di cristallo preserva la virtù dalla gran caduta, è vero; ma è pure una gran camera di tortura. Intanto, i loro sguardi s'incontravano di tratto in tratto, e dalla fiamma morente sotto le palpebre di lei, che si abbassavano subito, si capiva che il destino dell'uomo dello sportello era deciso. Ahimè, sì, la Società Belga avrebbe guadagnato ancora qualche soldo da tutti e due, e poi i suoi carrozzoni sarebbero riusciti insufficienti: si sa, per dieci centesimi non si può dar tutto. Quando discesi in piazza Carlo Felice non rimanevano più sul tranvai che cinque o sei persone. Mi parve che il capitano dicesse tra sè: — Un importuno di meno, — ed io gli risposi in cuor mio: — Due personaggi di più.
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A questo punto, poco mancò ch'io non mettessi da parte tutti i miei personaggi per dar corpo a una nuova idea che mi venne percorrendo per la prima volta tutta la linea da piazza Emanuele Filiberto al corso del Valentino: la descrizione di tante corse a traverso a Torino quante sono le linee di tranvai che l'abbracciano; una Guida, sì, una modestissima Guida, ma scritta con amor di figliuolo e di poeta, nella quale si succedessero di volo i quartieri, i monumenti, le memorie, le colline, le montagne, nella luce e nei colori diversi di ogni ora e di ogni stagione, come si succedono, fuggendo, allo sguardo di chi sta sul tranvai, portato via dai cavalli a trotto rapidissimo. Cedo l'idea a chi la vuole. Sarebbe stata la prima la linea del Valentino, la più serpeggiante e la più varia di tutte, che par stata tracciata, con diversità ed armonia d'intenti ad un tempo, da uno storico e da un artista. Si parte di mezzo ai banchi e alle baracche pittoresche del mercato di Porta Palazzo, e dopo un breve corso per quel grande viale Margherita, che dalla riva del Po par che giunga ai piedi delle Alpi, s'entra nella quiete ombrosa della via della Consolata, dove si succedono a breve distanza gli avanzi infossati delle mura romane, la statua aerea consacrata dal Consiglio civico del 1835 alla Vergine scongiuratrice del coléra, e l'obelisco mortuario del Foro ecclesiastico, sorgente in mezzo a quella malinconica piazza Savoia, che par che lo guardi in aria di pentimento e di rimprovero. Rotta l'onda rumorosa di via Garibaldi, si fiancheggia il vasto giardino della Cittadella, vedendo da lontano Angelo Brofferio che arringa le balie e i bambini ruzzanti in mezzo agli alberi e intorno alla fontana, si passa fra la statua del buon ministro Cassinis e la testa solitaria del giornalista Borella, ed ecco la bella via Cernaia, dove squillarono le trombe dei primi francesi nel '59 e la grande caserma merlata del Lamarmora, e il vecchio mastio coronato di guardiole, e il Micca di bronzo che brandisce la miccia, e di qua e di là portici e giardini e fughe d'ippocastani e colori ridenti di città giovanile. Svolta il carrozzone nell'ariosa e romita piazza Venezia, riesce per via Alfieri dietro al gran cavallo morente del duca di Genova in mezzo ai palazzi multicolori di piazza Solferino, passa accanto al Lafarina pensieroso, corre lungo l'Arsenale fumante e sonoro, e aperta la folla chiassosa delle scolaresche di via Oporto, e salutato in piazza San Quintino il vecchio Paleocapa sonnecchiante sulla sua poltrona di marmo, sbocca nell'allegra ampiezza di corso Vittorio Emanuele. Un po' più oltre, a sinistra, Massimo d'Azeglio disegna il suo bel capo d'artista sul gran pennacchio bianco della fontana, dietro al quale nereggia in lontananza il piccolo pennacchio nero di Emanuele Filiberto, e davanti, in fondo al corso, lontanissimo, biancheggia confusamente il monumento dei morti in Crimea sul fondo scuro delle colline di Val Salice. Si svolta ancora in via Nizza fra il moto affrettato di gente e di carri che rumoreggia intorno alla stazione di Porta Nuova, si svolta da capo nella piazza dove fu giurata nel '21 la libertà d'Italia, e per il largo viale che va diritto al fiume si arriva finalmente dinanzi al superbo castello di Maria Cristina, donde gli occhi e lo spirito affaticati dalla visione di tante cose e dal passaggio di tante memorie, si riposano nella solitudine silenziosa del parco del Valentino e sulla grande linea dei colli ondeggiante dalla cima della Maddalena alla vetta di Superga con una grazia lenta e leggera che par che sorrida.
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Se per tornare a casa di là non avessi preso a caso la linea di Borgo Nuovo, forse oggi ancora non saprei nulla d'uno dei personaggi più originali e più simpatici della mia compagnia. Fu una buona ispirazione che mi fece salire sul tranvai che parte dall'Orto botanico. Ed è quella pure, sotto l'aspetto storico, una delle linee più belle. Usciti dal grande viale del parco e percorso un tratto del corso Cairoli fino a pochi passi dalla statua di Garibaldi, che, ritto sullo scoglio, par che fissi lo sguardo sulla fiumana delle sue camicie rosse irrompente verso di lui per la via dei Mille, si svolta in via Giuseppe Mazzini. Quante memorie, non istoriche, mi s'affollano alla mente passando davanti agli sbocchi di quelle vie laterali per cui si vedevano un giorno i famosi giardini dei ripari, dove tanti amori sospirarono e si preparò il fallimento di tanti esami! Certo, ingombravano bruttamente la città quegli alti terrapieni a zig zag che tagliavano le vie come bastioni di fortezza; ma avevo vent'anni. Ah! fortuna che il tranvai va di volo! Ecco la porta della tomba del caffè Perla, dove, giovinetto, andavo a sorbir timidamente un moka apocrifo per contemplare di sott'occhio gli emigrati illustri e i giornalisti celebri della capitale. Ecco laggiù in fondo il conte Cavour, ritto in mezzo a piazza Carlina come un lungo fantasma bianco che si levi al cielo da un catafalco. Ecco qua il Lamarmora a cavallo che minaccia con la sciabola in pugno i socialisti accorrenti per piazza Bodoni al Comizio del vicino teatro Nazionale, convertito da palestra delle Muse in tempio malfamato dell'utopia vermiglia. Si svolta di corsa in via Lagrange, si passa dinanzi alle case dove il Gioberti mise il primo vagito e il conte Cavour l'ultimo sospiro, si sbocca in piazza Carignano dove tremano ancora nell'aria, fra il palazzo del parlamento e il teatro, le grida amorose di Adelaide Ristori e le apostrofi tonanti d'Angelo Brofferio, e poco più in là si vede riflesso il tranvai nelle vetrate del vecchio Cambio, la trattoria elegante dei ministri e dei deputati della Mecca antica. Ah, come sono antico io pure! E per liberarmi da questo pensiero mi volto a destra; ma torno a voltarmi subito dalla parte di prima per non vedere la libreria dell'editore di Pietro Cossa, di quel benedetto Casanova eternamente biondo, che può esser là dietro ai vetri a mettermi invidia e dispetto con la sua gioventù invulnerabile....
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Fu, come dissi, una buona ispirazione la mia di pigliar quella linea perchè arrivai in tempo per l'appunto a salire in piazza Castello sul tranvai del Martinetto, nel quale, stando sulla piattaforma di dietro, vidi seduta in mezzo ad altre signore la mia brava incognita dai capelli arruffati, la sfidatrice del fumatore, col suo inseparabile bambino sulle ginocchia; e mi riuscì poco dopo, per caso, di sapere chi fosse. Mentre, come al solito, lavoravo d'immaginazione sull'essere suo, vidi alla cantonata di via XX Settembre, dopo più d'un mese che non lo vedevo, quel simpaticone di pittore, che stava osservando gli stivaletti d'una signora che passava; lo chiamai e gli feci un cenno premuroso perchè salisse. Conosceva mezza Torino, mi poteva forse levar la curiosità. Salì d'un salto. Gli accennai la signora.
— Come? — mi domandò. — Lei non conosce donna Chisciotta della Mancia?
Accortasi che parlavamo di lei, la signora ci fissò in faccia un momento i suoi grandi occhi oscuri e sporgenti; ma con espressione di assoluta indifferenza; si capiva che era abituata a “veder„ parlare di sè.
Tutta Torino la conosce, — riprese il giovane. E la nominò. Donna Chisciotta o Chisciottina era un soprannome. Suo marito era un ingegnere putativo, ricco proprietario di case, e lei era la sua disperazione. — Una mezza matta — disse — cioè.... un'esaltata, diremo. Non l'intese nominare quattro anni fa quando ci fu il processo dei due bottegai di Borgo Nuovo, marito e moglie, che fecero morire il loro bambino? È lei quella signora che un giorno l'andò a strappare dalle loro mani, graffiando gli occhi a tutti e due, come una tigre, e buscandosi un pugno che la mise a letto. Durante il dibattimento, se si ricorda, non si parlò che di lei e della sua “deposizione„ di fuoco. — E seguitò. Era un'anima vulcanica, una specie di Santa Francesca d'Assisi, che si sarebbe ridotta sulla paglia a furia di beneficenza, e perciò in lite perpetua con suo marito, che, a darle retta, avrebbe finito con ridurre in ospizi pubblici tutte le sue case. Era conosciuta da tutta la poveraglia di Torino, ficcata in tutti i Comitati di soccorso, protettrice di tutti i ragazzi tormentati, di tutti i cavalli frustati, di tutti i gatti malmenati; sempre in giro per le soffitte dove si lasciava ingannare anche dalle più sfrontate simulazioni di malattia e di miseria; capace, in un accesso di mattana, di levarsi il mantello di dosso in mezzo alla strada per gettarlo sulle spalle d'una vecchia cerinaia intirizzita o di portare in braccio a casa sua un ragazzetto smarrito, raccattato sul marciapiede. Dopo che aveva avuto quel maschietto s'era quetata un po'; ma era raro il giorno che non ne facesse una delle sue. Il primo dell'anno egli l'aveva vista in un carrozzone levar di mano al suo figliuolo una bellissima “pecorella„ per darla a un ragazzetto povero che ci lasciava gli occhi addosso, e discendere subito, col bambino strillante in braccio, per andarne a comprare un'altra. Suo marito tremava ogni volta che la vedeva uscir di casa; ma n'era innamorato perso. — Chisciottina la chiamano. E non sarebbe mica brutta se non avesse sempre quel viso di spiritata, e si pettinasse meglio. Un bel tipetto, non è vero, per lei che scrive sui tranvai? Mezza socialista e mezza santa; una socialistoide, come ora dicono. Se fosse mia moglie, le farei fare le docce.
Mentre io guardavo donna Chisciotta egli saltò a parlare della signora delle coincidenze che aveva vista tre giorni prima, all'angolo di corso Oporto, saltar giù dal tranvai del Valentino facendo cenno di fermare al tranvai del Foro Boario. Ma di lei non gli era ancor riuscito di saper nulla, e d'altra parte non s'occupava più gran che di quelle cose. — Ora — disse — viaggio sui tranvai con un altro scopo.
Gli domandai quale. — Cerco moglie — rispose.
Credetti che celiasse; ma diceva sul serio. E continuò, in fatti, con la più grande serietà: — Mio padre vuole ch'io prenda moglie. Son tre mesi che due volte al giorno, a tavola, non fa che batter quel chiodo. Si capisce: è solo, son figliuol unico.... Del resto, c'inclino anch'io. Sono stufo di far questa vita imbecille.
Restava però a sapere perchè cercasse moglie nei carrozzoni della Belga e della Torinese. Glie lo domandai. — È una mia idea — rispose seriamente. — C'è stato un esempio in famiglia. — E mi raccontò che trent'anni avanti un suo zio, un po' stravagante, ma buon diavolo, e pien di quattrini, tormentato continuamente da sua madre perchè pigliasse moglie, un giorno, perduta la pazienza, le aveva risposto: — Ebbene, sì; ma io non son uomo da cercare; esco di casa e sposo la prima ragazza che trovo. — E detto fatto: aveva preso il cappello, era sceso in istrada e aveva seguitato la prima ragazza in cui s'era imbattuto. Era una maestrina d'asilo infantile, senza un soldo. L'aveva sposata ed era stato fortunatissimo: aveva trovato una moglie, una madre esemplare, che l'aveva fatto felice. — E poi — soggiunse — come fanno gli altri? Girano per i salotti, cercano nelle famiglie. Ebbene, e i tranvai sono salotti che corrono, e ci si trovano delle famiglie. Oh, son ben risoluto. Non so su che linea la troverò, se in un carrozzone chiuso o in una giardiniera.... ma questo non importa. Sono certo di trovarla sulla rete. Il mio destino dipenderà da uno scontrino di dieci centesimi, come da un biglietto di lotteria. Crede lei che sarò io il primo? Chi sa quanti matrimoni si son già decisi sul tranvai! — Qui troncò il discorso per dire: — Guardi quello là.... Quello è uno dei suoi erotici.
Era un bellimbusto già brizzolato e risecchito, un mezz'uomo tutto bazza, con due baffetti a punta di spilla e un fiore all'occhiello, che sedeva fra due giovani signore, quasi affogato in mezzo alle loro maniche enormi come fra due piumini da letto, e si raggomitolava per affogarvisi meglio, mostrando negli occhi socchiusi una dolce beatitudine. — Alle volte, sa, — continuò il pittore, osservandolo — quei sornioni lì, giocando con le mani, sotto la protezione dei grandi mantelli delle signore, fingono di sbagliar di ginocchio. Trovan qualche volta delle signore timide che, per non fare una scena, mostrano di non accorgersene; altre volte incappano male e ci fanno una figuraccia. È un gioco d'azzardo. — E soggiunse che, anni addietro, per un certo tempo, s'era diffuso questo bel vezzo, come una specie di prurigine epidemica; della quale avevano arrestato il corso parecchi ceffoni memorabili, femminili e maschili, con successivo intervento di guardie civiche.
Mentre mi diceva questo, all'entrar del tranvai in piazza Statuto, una signorina, salita poc'anzi e rimasta in piedi, s'era appoggiata con una spalla allo spigolo dell'uscio davanti, col viso rivolto verso l'interno, dove noi c'eravamo seduti. Era vestita di nero, con due grandi penne nere di struzzo sul cappellino, e la sua persona elegante si disegnava per metà sulle rocce del monumento del Fréjus e la sua testa impennacchiata spiccava fortemente sulla bianchezza delle Alpi che chiudevano il vano superiore dell'uscio. Quella figura nera e snella incorniciata a quel modo e campeggiante in quel fondo luminoso era bellissima. — Oh che bel quadro! — esclamò il giovane, rapito.
— Badi, — gli dissi, accennandogli lo scontrino che teneva in mano; — potrebbe essere lo scontrino decisivo.
Egli scrollò il bel capo erculeo, e rispose con la sua serietà ingenua di grande fanciullo: — No; ho in mente che non debba esser questa la linea.
E quando discese mi fece ancora cenno di no, con un sorriso, buttando in aria lo scontrino.
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Fu in quel torno che ebbi turbati i miei lieti studi da una contrarietà, di breve durata, ma forte. Cominciava allora e s'andava estendendo rapidamente l'uso degli annunzi esteriori sui carrozzoni. Dentro, questi n'erano già invasi da un pezzo: iscrizioni e figure dipinte sui vetri, cartellini appesi, avvisi d'ogni forma e colore appiccicati al cielo e alle pareti, che vi facevan l'effetto d'un vocìo discordante d'importuni, i quali v'affollassero di offerte e d'inviti, volendo lì per lì, a ogni costo, calzarvi e vestirvi, insaponarvi e profumarvi, farvi cambiar di casa, pigliar l'abbonamento a un giornale e intraprendere una cura idroterapica. S'aggiungevano a questi, in quei giorni, gli annunzi delle lunghe assi piantate dalle due parti del tetto, tinte di tutti i colori più chiassosi, con iscrizioni bianche e nere in caratteri cubitali, vere insegne di alberghi e di magazzini, leggibili a cento passi lontano, moleste agli occhi come grida sgangherate agli orecchi, stonanti nel colorito generale della strada come stecche acute in un coro di voci sommesse. Curioso che si fosse discusso nel Consiglio comunale se questa offesa al buon gusto si dovesse permettere nei tranvai, dopo che s'era permessa, e ben più grave e barbarica, sui teloni dei teatri! Per alcuni giorni ne fui veramente furioso. A salire in un carrozzone mi pareva d'entrare in un bazar dove dovessi contrattare anche il biglietto, e da cui non potessi uscire che con una bracciata di pacchi. O povera poesia! Ammirare il profilo poetico d'una bella signora spiccante sopra un vetro che annuncia delle pillole rilassative, veder due giovani innamorati che prendono degli atteggiamenti idillici sotto l'insegna della razzia per i topi, fantasticare sopra una signorina gentile che volge gli occhi in alto come se fissasse una larva amorosa dell'immaginazione e accorgersi che legge l'annunzio ciondolante d'un nuovo concime misto! O villano furor bottegaio che sfrutta, invade, ricopre, traveste, bolla, mercanteggia ogni cosa! Quando vedremo gli annunzi delle acque minerali e dei liquori ricostituenti sulla fronte delle statue e sui drappi delle bandiere? Ma l'uomo civile è così duttile che finisce con piegarsi a tutto. L'insolenza crescente dello sconcio, come spesso accade, attenuò il senso sgradevole prodotto dalla sua prima apparizione discreta. Prima mi ci rassegnai; poi ci divenni indifferente; poi, a poco a poco, quasi mi rallegrarono tutte quelle insegne scarlatte, gialle, celesti, volanti da ogni parte come stendardi spiegati al vento; e mi piacquero quelle pareti mobili che ricordan le camere in cui i pazzi attaccano ai muri tutto quanto di colorito e di stampato casca loro nelle mani; e quei volanti gabbioni umani che di dentro e di fuori, con parole, con colori e con disegni, vi offrono da bere, da mangiare e da leggere, vi danno dei consigli igienici e v'invitano a consulti medici gratuiti, e vi chiamano alle corse, alle regate, alle gare ciclistiche, al gioco del pallone e all'Esposizione dei quadri, mi allettarono come una viva e strana immagine dello spirito leggiero e irrequieto d'una grande città della fine del secolo, oppressa di faccende, affollata di capricci, smaniosa di strepito, affamata di piaceri, tormentata d'impazienze, portata via dalla furia di divorare il tempo e di tracannare la vita.
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Pneumatici Dunlop originali: ecco un annunzio che non dimenticherò più. Lo vedo ancora dipinto in caratteri bianchi su fondo rosso come lo vidi, pochi giorni dopo il mio incontro col pittore, sul primo carrozzone che passò la mattina per piazza Statuto; sul quale trovai il mio buon Giors, che tentava invano la solita arietta della Carmen, allegro come un uccello. E ci trovai pure, ritta dietro di lui, col suo sacco inseparabile, la povera vecchia di Pozzo di Strada, che non avevo più vista dall'ultimo giorno di carnevale, ancora più triste, ancora più chiusa in sè che quel giorno. Salì con me sulla piattaforma anteriore un giovane biondo che attaccò subito conversazione con un altro signore attempato, commentando l'ultimo assalto dato dai dervisci al monte Mocram. Mi ricordo sempre che c'eran dentro una vecchia signora, una guardia daziaria e due contadine. Era una bella mattinata limpida e fresca. L'aria viva agitava una ciocca di capelli grigi sulla fronte china della vecchia, che, secondo l'usato, guardava i talloni del cocchiere con gli occhi socchiusi, tenendo un braccio sull'altro, stretti alla vita. Mi pareva ancora rimpicciolita dall'ultima volta, tanto da capir nella bara d'un fanciullo. Non doveva pesare molto più del suo sacco, certamente. E non dava quasi segno di vita quella mattina; respirava appena. E pensava, pensava. Ma che covava dunque dietro quella fronte dolorosa, che pareva portasse confitto nel mezzo un ferro invisibile? Qual'era mai il pensiero implacabile che teneva sempre curvato quel capo come la mano d'un aguzzino che lo premesse alla nuca?
Dall'assalto dei dervisci i due signori vennero a parlare del viaggio dei Sovrani di Germania sulle coste d'Italia, e il più attempato diceva che era “una buona cosa„ un'“attenzione„ che “rialzava il nostro prestigio„ dopo la battaglia d'Adua. L'altro prese a parlare allora della battaglia e cavò di tasca un foglio grande, che spiegò sotto gli occhi del suo vicino.
Era una fotografia colorata che rappresentava il campo di Abba-Garima: le montagne in fondo coronate di turbe abissine e di nuvoli di fumo, i cannoni fiammeggianti qua e là sulle alture minori, torrenti di armati precipitanti giù dalle rocce, e sul davanti una mischia feroce, un viluppo orribile di carri d'artiglieria, di cavalli, di feriti, di morti, di negri e d'italiani dalle facce stravolte, lottanti a corpo a corpo con le lance, le daghe e le rivoltelle, insanguinati e furiosi, io mezzo a pozze e a rigagnoli di sangue.
Sporgendo il viso verso il foglio vidi con maraviglia accanto al mio braccio il capo della vecchia che, uscendo dalla sua immobilità di statua, si faceva anch'essa innanzi per vedere. Il giovine signore, cortesemente, si scansò un poco da una parte e le mise il foglio aperto sotto gli occhi dicendole: — La battaglia d'Abba-Garima.
Essa osservò un momento con gli occhi dilatati; poi contrasse il viso in un modo strano, come se ridesse, richiudendo gli occhi e mostrando le gengive sdentate. Mentre domandavo a me stesso perchè quell'orrendo quadro la facesse ridere, essa si coperse il viso con le mani e diede in uno scoppio di pianto che mi fece fremere.
Tutti e tre ci voltammo verso di lei, uno pigliandola per un braccio, l'altro per la mano, domandandole che cos'avesse. Non potè rispondere subito. Poi disse fra due violenti singhiozzi: — Ci avevo un figliuolo.... — e appoggiato un braccio al parapetto della piattaforma, lasciò cascar sul braccio la testa, in atto disperato, singhiozzando più forte.
E fu inutile scoterla, cercar di confortarla; neppure il buon Giors riuscì con la sua mano vigorosa, sciolta dalle redini, a farle rialzare la fronte, che era come inchiodata al parapetto. I singhiozzi scotevano violentemente tutto il suo povero corpo incurvato, ed era un pianto infantile, lamentevole, che pareva non dovesse finir mai più; pareva che ella versasse tutte le lacrime rattenute da cinque mesi, che tutta la vita le dovesse fuggire dagli occhi; e ripeteva fra gemito e gemito una parola rotta, sommessa e dolce, con l'accento d'una madre che parla al bambino in culla, una parola che non comprendemmo se non dopo averla intesa molte volte: — Giacolin —; il nome del suo soldato.
Ah, povera madre! Colpiva lei pure l'accusa di viltà che qualche giornale lanciava in quei giorni contro le madri italiane!
Riuscì Giors finalmente a farle rialzare il capo e a ottener qualche risposta. Insomma, che fosse morto di certo non lo sapeva, nessuno glie l'aveva annunziato; ma il cuore le diceva che era morto, che non l'avrebbe rivisto mai più.
— Ma che cuore! — le disse Giors, commosso. — Oh benedette donne! Se non lo sapete di certo.... Sarà fra quelli che ritorneranno. Lo troverete fra i nomi stampati.
Ma no, il parroco le aveva letto il giornale, il suo nome non c'era....
— Ma che parroco! ma che giornale! Cosa volete, in quella confusione.... Chi sa quanti ne hanno scordati.... Vedrete fra qualche giorno.... Andiamo, mare, non bisogna disperarsi.... Sarà fra i prigionieri.
Ma la donna diede in un nuovo scoppio di pianto. Prigioniero per lei voleva dire affamato, torturato, sepolto vivo, peggio che morto.
— O benedtie foumne! — ripetè Giors. — Aspettate un poco.... Tutti i giorni ne tornano.... tornerà anche Giacolin.... Siete tutte compagne, voi altre mare, quando vi mettete un chiodo nella testa. — Poi disse bruscamente: — Smettete di pianger così forte, giurabbaco, che mi spaventate le bestie!
Nessuno di noi osava più di parlare; il giovane aveva stracciato e buttato via il foglio; la vecchia continuava a piangere silenziosamente, col viso nelle mani; e pareva più disperato, faceva più compassione quel pianto in mezzo a quella via rumorosa, a tutta quella gente affaccendata che passava senza badarci. Alla cantonata di via Venti Settembre essa prese il sacco e discese. Giors sferzò i cavalli e tentò il motivo della Carmen; ma smise subito, e passandosi la punta del medio sull'occhio, esclamò con un sospiro: — Ah.... porca guerra!
*
Per vari giorni, in tutti i carrozzoni e su tutte le linee, io vidi l'immagine di quella povera vecchia curvata sul parapetto, col fazzoletto sciolto e i capelli grigi scomposti, scossa da capo a piedi dal singhiozzo violento della disperazione. E mi pareva più tragica l'immagine in quel gran risveglio amoroso della natura che si manifestava da ogni parte, nelle gemme degli alberi, nei bocciuoli dei fiori, nella chiarezza del cielo e negli occhi delle ragazze. Dalle piattaforme dei tranvai, andando per i sette bellissimi corsi alberati che fanno cintura al centro di Torino e per i grandi viali che corrono lungo il Po e lungo la Dora, si bevevano mille effluvi sottili, un misto di fragranze leggerissime d'erba fresca, di terra smossa, di campagna aperta, e si ricevevano nella fronte e nel collo carezze morbide dell'aria, quasi mossa da invisibili ventagli odorosi, soffi tepidi e puri, come aliti di bocche virginee, che facevan rifiorire nell'animo, per brevi momenti, speranze rosee, ricordi lieti dell'infanzia, simpatie spente, proponimenti giovanili di bontà, di lavoro, di vita avventurosa e memorie lontane di care feste campestri e di bei sogni sognati nei giorni più felici dell'età più bella. E si mostrava questo primo influsso della primavera nei cavalli più agili, nei cocchieri più allegri, nei fattorini più cortesi, nel modo di salire, di scendere e di salutar della gente più lesto e più amabile, e nella fioritura più rigogliosa e più vivace dei cappellini delle signore a cui l'aria corrente sulle giardiniere aperte agitava sul capo i nastri, gli steli e le penne, portando nel viso ai passeggieri ritti in fondo delle ondate di profumi confusi di cipria, di viole e dì giovinezza.
Avevano in quei giorni i tranvai una bellezza nuova: c'erano in quasi tutti, la mattina, delle ragazzine vestite di bianco, che occupavano in alcuni delle panche intere, spiccando fra l'altra gente come gigli e camelie nivee in mazzi di fiori e di foglie brune. Apparivano di sfuggita nelle giardiniere dei veli candidi scendenti sui vestiti e sui guanti bianchi, e a traverso i veli, sotto alle corone di rose e di margherite, occhi azzurri, bocchine purpuree, visetti d'una freschezza infantile, che facevano un contrasto graziosissimo con gli atteggiamenti raccolti e gravi delle piccole persone, ritte sul busto, con le mani intrecciate sulle ginocchia e le scarpette chiare congiunte. Da una parte all'altra delle piazze e dall'una all'altra strada si vedevano biancheggiare sui tranvai quelle farfalle gentili annunziatrici della Pasqua, e anche più della loro bianchezza risaltava l'idea, ch'esse esprimevano, dello sposalizio celeste e dello stato di grazia, in quelle carrozzate d'interessi mondani e di peccati mortali.
O carrozza di tutti, piccolo specchio del mondo, che raccogli e ravvicini gli estremi più lontani della società e della vita, qualche volta così gioconda e qualche volta così triste, dove si può veder mai, fuor che in te, quello che io vidi in quei giorni?
Due giornate di pioggia avevano fatto uscir da capo i carrozzoni chiusi; ma il cielo si rischiarava quando, verso l'undici della mattina dell'ultimo di marzo, salii sul tranvai della linea dei Viali, fermo nel corso Beccaria, sul punto di partire per Porta Palazzo. C'era seduta dentro una donna, sola, che è ancora viva adesso nella mia mente come se l'avessi avuta sempre davanti agli occhi durante un viaggio a traverso all'oceano. I suoi capelli radi, neri d'una tintura grossolana e mal diffusa, facevano parer più vecchio il viso giallo e rugoso, nel quale, sotto due archi nerissimi, dipinti da una mano frettolosa e malferma, sonnecchiavano due occhi glauchi e torbidi e rosseggiavano di belletto le guance flosce e una bocca amara e stanca, atteggiata come a un sorriso abituale, che appariva forzato, e quasi morto, come quello d'una maschera, poichè la luce dello sguardo non l'accompagnava. Se quel viso non avesse abbastanza chiaramente parlato, avrebbero tolto ogni dubbio un garofano rosso ch'essa portava nella treccia e una lunga traccia di polvere di riso che da una guancia le scendeva giù fino al collo scarnito, cinto d'un nastrino azzurro; e quel fiore appunto e quel nastro accrescevano tristezza all'espressione di vecchiaia precoce dei suoi lineamenti risentiti e come tesi da un sentimento sordo di rancore che ella covasse contro ai fantasmi a cui sorrideva per consuetudine la sua bocca cascante. Era una di quelle figure miserande in cui, caduto il velo lucente della gioventù, appare con un'evidenza spaventevole l'abbiezione della vita, e dietro alle quali la fantasia vede stanze immonde di lupanari, covi fumosi di taverne e di bische e oscurità misteriose e sinistre dove giacciono corpi di briachi e di feriti e lampeggiano coltelli e occhi feroci di belve umane.
Partito appena il tranvai, il fattorino entrò a porgerle il biglietto. Essa tirò fuori con le mani un po' tremanti una borsetta di lana verde, e ne cavò due soldi, che quegli prese, fissandola, con un barlume di sorriso.
Arrivato in fondo al corso Principe Eugenio, il tranvai si fermò, e prima s'udì un mormorio di voci argentine, poi salirono con allegra furia da una parte e dall'altra molte ragazzine vestite di bianco, accompagnate da due che parevano maestre, e sì slanciarono dentro il carrozzone, agitando i veli trasparenti e le gonnelle candide, come uno sciame di colombe con l'ali aperte. Fu come un soffio di primavera, come la luce d'un'alba improvvisa che entrò con esse fra quelle quattro pareti, e un vago odor d'incenso, di soppressatura e di capigliature fresche, che parve portato da un'ondata d'aria. Erano forse le alunne d'un piccolo collegio che avevan fatto la comunione e andavano a far colazione in campagna. Le maestre restarono sulla piattaforma; le alunne occuparono in un momento tutti i posti, cinguettando e ridendo; la donna tinta restò in mezzo a loro.
E allora segui una scena indimenticabile. L'aspetto di quella donna colpì qualcuna delle più grandicelle, che smisero di parlare e la osservarono. Il loro silenzio fece tacere le altre, che, naturalmente, si voltarono da quella parte dove le prime guardavano, e fissarono anch'esse lo sguardo su quel garofano e su quel nastro, su quella vecchiezza imbellettata e infarinata, su quella rovina d'ogni cosa, resa più orribile da una maschera grottesca di gioventù; ed esse pure fecero silenzio. Sul viso delle più piccole apparve un'espressione di stupore, in alcune uno sforzo d'attenzione scrutatrice; alle più grandi si stese sulla fronte corrugata come un'ombra di sospetto e d'inquietudine, simile a quella che ci dà la vista d'un insetto strano e sconosciuto. Guardai la donna, sola in mezzo a tutto quel candore d'anime e di vesti, e vidi sul suo viso una leggiera e istantanea contrazione dei muscoli come in una persona sorpresa in un nascondiglio. Lanciò un'occhiata rapidissima alle due maestre, a me, al fattorino; ma non guardò in faccia alle ragazze: guardò le loro mani, i libri da messa e le scarpette bianche con uno sguardo velato e fuggente; e dopo qualche momento, durando il silenzio e l'attenzione di cui si sentiva l'oggetto, piegò lentamente il capo all'indietro, appoggiò la nuca alla parete, e come presa tutt'a un tratto dal sonno chiuse gli occhi, e non gli aperse più.
Il fattorino, che la stava osservando con curiosità, comprese, e mi ammiccò sogghignando.
Ma io sentii una stretta di pietà che mi fece torcere lo sguardo da quella infelice come se l'avessi vista trapassata e confitta da un pugnale nella parete a cui s'appoggiava.
A Porta Palazzo essa si riscosse bruscamente e, senza guardar nessuno, discese; le ragazzine ricominciarono a discorrere e a ridere, e il tranvai riprese la sua corsa, allegro e sonoro come una gran gabbia d'uccelli.
CAPITOLO QUARTO.
Aprile.
Libero in questo mese da ogni altro pensiero, posso dedicar maggior tempo ai miei viaggi circolari intra muros, e scrivere distesamente, giorno per giorno, le mie osservazioni. Eccone una: il tranvai, istituzione educativa. E non è celia. Nel contatto quotidiano con gente d'ogni ceto i superbi perdono sul tranvai un po' della loro muffa; gli egoisti contenti odono discorsi di miserie e di dolori che li fanno pensare; la signora che tiene un figlioletto sano fra le braccia domanda pietosamente alla donna del popolo che cos'ha il bambino pallido che ripiega il capo sul suo petto, e la madre dura, che ha visto ammirata dai circostanti la floridezza e la grazia della sua creatura, discende col cuor raddolcito dalla carezza fatta al suo orgoglio. Ed è ancora una scuola di cortesia la carrozza di tutti poichè, a furia di veder altri cedere il posto alla donna, finisce con cederlo pure, quasi per istinto d'imitazione, il popolano che non ci aveva mai pensato; e dall'esempio dei cortesi che porgon la mano al vecchio che sale o sorreggono per il braccio la vecchia che scende sono indotti anche i villani a far l'atto stesso, e si corregge a poco a poco la volgarità degli atteggiamenti e delle mosse perfin nell'uomo più volgare sotto lo sguardo dei molti occhi in cui egli vede un'espressione di rimprovero o di disgusto, che lo ferisce nell'amor proprio. Sì, quei cento carrozzoni che girano per la città tutto l'anno sono cento piccole scuole ambulanti, dove le diverse classi sociali imparano l'una dall'altra molte cose utili; per esempio, che non c'è grande differenza fra di esse se non nella scorza; che basta a poveri e a signori l'astrarre un po' col pensiero da questa per sentirsi spinti gli uni verso gli altri dagli stessi impulsi che ravvicinano fra loro gli eguali; che molti dissensi e rancori cesserebbero fra chi è in alto e chi è in basso per il solo fatto di parlarsi e di conoscersi a vicenda; che le avversioni sociali non nascono tanto dalla disuguaglianza della fortuna quanto dal sospetto reciproco dell'odio e del disprezzo, e che la cortesia è un'alta sapienza e una grande forza benefica. Queste cose pensai stamani vedendo nel carrozzone un grosso signore e un giovane operaio chinarsi tutti e due a un tempo per raccogliere lo scontrino che una vecchia campagnuola aveva lasciato cadere sotto la panca. Vent'anni fa il secondo non si sarebbe chinato, e forse.... neppure il primo.
*
Una conoscenza nuova: il marchese. È un fattorino che, per rispetto al galateo, sta sulla sommità della scala, di cui Tempesta occupa l'ultimo gradino. L'ho conosciuto in questi giorni sulla linea del Valentino, andando a trovare Angelo Mosso. L'hanno soprannominato il marchese i frequentatori della linea. È una figura di tenorino: biondo, pallido, svelto, con gli occhi azzurri e una bocca d'occhiello, perpetuamente sorridente sotto due baffetti d'oro arricciati. Saluta porgendo lo scontrino, risaluta ricevendo i soldi, chiede “pardon„ nel passarvi davanti, aiuta le signore a salire e a discendere mettendo loro delicatamente la punta delle dita sotto il gomito, prende sul predellino degli atteggiamenti eleganti di cavallerizzo ritto sul cavallo, salta giù a raddrizzar l'ago alle biforcazioni e risalta su con una grazia di ballerino, e ha un suo modo particolare, amabilissimo, di mettere il resto nelle piccole mani inguantate, come si mette una chicca nella palma d'un bimbo, sorridendo col capo inclinato e fissando negli occhi della creditrice, senza varcare il segno del rispetto, uno sguardo soave, che la costringe a fare un cenno di ringraziamento. Appartiene alla famiglia degli erotici sentimentali. Pare un galante padron di casa che faccia gli onori del suo salotto a una comitiva d'invitate. Si capisce che l'aver che fare col bel sesso signorile è una dolcezza della sua vita. Un sorriso, un segno di compiacenza, uno sguardo di curiosità o di simpatia d'una signora o d'una signorina gli danno una scossa così viva, che per un momento par che gli manchi il respiro; e poi respira forte e s'arriccia i baffetti con la mano agitata, mandando baleni dagli occhi. Dev'esser stato ballerino al Teatro regio, o modello di pittore, o cameriere di fiducia di qualche vecchia nobile. Perfin nel segnare i numeri sul libretto ha un certo modo artistico di menar la matita come se schizzasse il ritratto delle sue passeggiere. Se ha un'innamorata della sua condizione, la povera ragazza dev'essere terribilmente gelosa al pensare che, mentre essa è a casa o in bottega al lavoro, lui se la scarrozza in mezzo alle gale e ai profumi del bel sesso, distribuendo scontrini e sorrisi e accogliendo ogni soldo come un fiore, e deve con l'immaginazione inquieta far sulla linea tutte le corse regolamentari, sospirando il fanale bianco dell'ultima, come un segnale di liberazione.
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Sulla stessa linea del Valentino, questa mattina, nell'atto che facevo fermare il tranvai, uscendo di casa del mio amico, rividi finalmente la “vergine morta„ che dal febbraio non avevo più ritrovata. Sedeva sull'ultima panca della giardiniera: bianca, serafica, impassibile come sempre, spiccante fra le altre signore come una madonna del Fiesolano in mezzo alle figurine d'un giornale di mode. Standole dietro ritto sulla piattaforma potei ammirare da vicino la ricchezza dei suoi finissimi capelli castagni, sotto la quale s'inchinava, come sotto un peso soverchio, il suo collo bianco e delicato; così bianco da far pensare che il bacio d'un bimbo v'avrebbe lasciato una traccia purpurea, così delicato da parer che una leggerissima stretta delle dita sarebbe bastata a soffocarvi la vita. Aveva sulle ginocchia non so che di rotondo, rinvoltato in un foglio della Stampa, e lo teneva fermo con una mano sottile e nivea come il suo collo; la quale non vi doveva pesar su più di un petalo di giglio. Il suo lungo corpo leggiero non aveva un fremito, come se per lei non fiorisse la primavera, come se la sua natura angelica fosse insensibile al mutare delle stagioni; nè le sue guance dalla linea purissima erano più colorite in quel tepore d'aprile che non fossero nelle giornate rigide dell'inverno; e non uno dei suoi capelli di seta si agitava sulle sue tempie fresche di bambina, benchè l'aria si movesse; e quieti come i suoi capelli erano senza dubbio anche i suoi pensieri. L'osservai per un pezzo, e mi riprese più acuta la curiosità di saper chi fosse, poichè non riuscivo a immaginare alcuno stato o occupazione o scopo delle sue corse che convenisse al suo aspetto tanto dissimile da ogni altra forma di fanciulla ch'io avessi veduta mai. E anche stamani cercavo con la fantasia, e tutto quanto trovavo mi pareva discordante, impossibile a conciliarsi con quel freddo candore, con quella serenità di cielo d'inverno, con quell'apparenza di ignoranza claustrale o di sovrana indifferenza pel mondo. Il mio pensiero non riposava che immaginandola come m'era apparsa la prima volta, coronata di rose e ravvolta in un velo bianco, distesa sopra un feretro, con le braccia incrociate e un sorriso sulle labbra, rivolto a un mondo sovrumano. Ebbene, mentre così l'immaginavo, in un momento che il tranvai, sboccando sul corso Vittorio Emanuele, faceva un sobbalzo, l'involto ch'essa aveva sulle ginocchia si schiuse, e la corrispondenza strana, quasi miracolosa di quello ch'io vidi con quello che immaginavo, mi diede un brivido di terrore.
Era un teschio.
Il mistero era svelato; ebbi come una visione istantanea di lei in mezzo agli orrori d'una sala anatomica, e rimasi come trasognato; la verità era l'ultima cosa a cui avessi mai potuto pensare. Studentessa di medicina!
*
È scritto: non riuscirò mai, mai a conquistare il cuore del cavalier “Bicchierino„. Quest'oggi gli sono caduto in disgrazia da capo. L'avevo accanto sul tranvai, in via Garibaldi, alla solita ora della mattina. Anche sulla giardiniera, come nel carrozzone chiuso, se non trova libero il posto a sinistra della panca in fondo, piuttosto di sedersi da un'altra parte, egli rimane in piedi sulla piattaforma. Avevamo in mano tutti e due la Gazzetta del Popolo. Io ritardai la lettura per ammirare la pacatezza e la precisione meccanica con la quale, dopo letto la prima pagina, per legger l'altra senza tagliare, egli ripiegò il foglio di mezzo e fece scorrer le dita sulla piegatura, e poi piegò un'altra volta il foglio intero, e corresse anche la seconda piegatura con la mano aperta e lenta, premendosi il giornale sul petto come una cosa sacra. E mentre faceva quel lavoro, lo vedevo nel suo ufficio fare ogni mattina quegli stessi passi contati, riporre sempre la penna allo stesso posto, appuntare il lapis ogni tanti giorni a quell'ora, uscire ogni giorno a quel dato minuto preciso, e pensavo che i suoi pensieri si succedevano e si riproducevano certamente con lo stesso ordine e la stessa lentezza, e che doveva essere un'immagine della sua mente la sua casa assestata e lucida di buon travet torinese, celibe e tranquillo. Celibe senza dubbio, perchè era impossibile che un uomo simile si fosse messo in casa il disordine vivente d'una moglie. E come mai, pensando a tutto questo, io potei commettere sotto i suoi occhi l'imprudenza imperdonabile che commisi? Per cercare una notizia nella seconda pagina della Gazzetta, vi cacciai dentro la mano e lacerai il foglio con le dita tese. Egli si voltò, come se un istinto l'avesse avvertito dell'atto vandalico, osservò con gli occhi allargati la dentellatura orribile che aveva fatto la mia mano nei margini, e poi, alzato lo sguardo al disopra degli occhiali, mi fissò per qualche momento con un'espressione indescrivibile di stupore e di riprovazione. Compresi allora l'enormità del mio sproposito, e dissi in cuor mio: — Son perduto; mai più, mai più mi potrò rialzare nella sua stima. — E infatti, nella cura ostentata con cui ripiegò il giornale prima di scendere vidi chiaramente l'intento di farmi comprendere che nessuna relazione amichevole sarebbe mai stata possibile fra di noi due. Ebbene, sì, egli ha ragione: ci dev'essere una differenza enorme di temperamento, di vita e di opinioni tra chi straccia il giornale come faccio io e chi lo ripiega come fa lui. Dimmi come tratti la Gazzetta del Popolo e ti dirò chi sei.
*
Ho girato tutta la sera della domenica per godermi lo spettacolo curiosissimo degl'incontri delle giardiniere affollate. Strana è quella visione fuggitiva di trenta facce, che paiono d'uno sciame umano volante: facce curiose, facce esilarate, facce impassibili, facce istupidite dalla digestione difficile d'una mangiataccia domenicale, o brillanti d'una sbornietta discreta, o sorridenti della dolcezza d'un riposo onesto; begli occhioni neri o celesti che vi gittano un raggio di fuga, coppie d'amanti che conversano, vecchi coniugi che sonnecchiano, teste bionde di bimbi, che agitano le braccia in segno di festa verso di voi. È un momento; ma se sul tranvai che passa c'è una signora bella o un vestito elegante o un cappellino bizzarro, non sfugge all'occhio d'alcuna donna che stia sul vostro, e tutte le teste femminili si voltano; e in quei rapidi incontri persone si riconoscono di qua e di là, e si scambiano scappellate a scatto, apostrofi tronche e saluti della mano, che ripetono a distanza, come da poppa e da prua di due vaporini. Vedete prima trenta visi in pieno, poi trenta teste di profilo, poi trenta nuche e trenta dorsi: la comitiva vi si presenta sotto ogni aspetto come un gruppo statuario sopra il trespolo girante. Incontrate delle giardiniere allegre e chiassose in cui predomina la giovinezza e paion tutti compagni di festa; altre che par che portino un carico di musoneria, tutte facce gravi o insonnite; qualcuna con una guardia civica davanti e due carabinieri in fondo e qualche soldato dai lati, che pare una carrozzata di condannati tradotti alle carceri. E più curioso è lo spettacolo a notte fatta, quando passano di volo, illuminati dai raggi bianchi della luce elettrica o dai raggi gialli del gas, e variamente colorati dai lanternini dei carrozzoni, gli uni vermigli, altri verdi, altri mezzo accesi e mezzo oscuri, visi intontiti di briachi, visi languidi d'amanti, bambini addormentati, teste di donnine appoggiate sulla spalla del marito, braccia maritali strette intorno alla vita della moglie, e mani amorose intrecciate, e bocche e orecchie che si toccano, e musi lunghi di solitari, oppressi da una giornata di noia. Oh quante noie e delusioni, e rammarichi del denaro sciupato, e impazienze febbrili d'innamorati, e speranze e sogni d'amori nascenti, e presentimenti tristi d'amari diverbi coniugali portano a casa la sera tutti quei carrozzoni! E qualche cosa d'amaro ho portato a casa io pure. In una giardiniera che passava ho riconosciuto il mio buon nemico Siapure. Era ritto anche lui sulla piattaforma di dietro, e aveva accanto una ragazzina di otto o dieci anni, il suo ritratto, somigliantissimo; una figliuola di cui ignoravo l'esistenza, graziosa, con due grandi occhi neri e buoni, già un po' velati dal sonno. Ci passammo accanto alla distanza di due passi sotto la luce d'una lampada elettrica; i nostri sguardi s'incontrarono; avremmo avuto tempo di stringerci la mano.... e voltammo il viso tutt'e due dalla parte opposta. Ah vecchi bambini vergognosi!
*
Il tranvai, ottimo osservatorio per studiare la tirchieria. Ecco un signore obeso che scomoda dieci persone e si fa venir le budella in bocca per cercare un soldo caduto; ecco un facsimile di senatore, con tanto di pelliccia in dosso, che fa una scenata perchè il fattorino gli ha dato col resto un soldo greco; ecco un grasso provinciale che non vuol pagare un soldo di più per l'ultima corsa perchè il suo magnifico orologio d'oro non segna ancora le dieci precise. Era una famiglia agiata, si vedeva, quella che è salita questa sera sul tranvai della barriera di Casale, in piazza Solferino: marito e moglie, tre ragazze e un bimbo sui tre anni, che teneva in mano un cannocchiale da teatro; e il marito, che mi dava le spalle, aveva certo nei capelli tinti, divisi a filo sulla nuca, tanto di cosmetico quanto valeva il biglietto che s'è rifiutato di pagare per il posto del suo bimbo, disputando col fattorino dall'imboccatura di via Santa Teresa fino a piazza San Carlo.
— Il bimbo ha l'età....
— Ma su questa stessa linea, ieri l'altro, non ha pagato.
— Non c'ero io.
— Non sono obbligato a ricordarmene.
— Basta ch'io glie lo dica. Non debbo mancare al regolamento perchè ci ha mancato un altro.
— Eh, il regolamento ve lo fate ciascuno a modo vostro.
— Io non me lo faccio a modo mio: osservo quello della Società.
— La Società prescrive anche di rispondere in un altro tuono.
— Io rispondo nel tuono in cui mi parlano.
— Siamo educati!
— Ma tutti e due.
Apriti cielo! Mi sarò ingannato, perchè non l'ho potuto vedere in viso; ma dalla punta dei baffi e dall'accento con cui disse: — R icorrerò alla direzione — m'è parso quello stesso personaggio, soprannominato Tintura Migone, che aveva fatto una scena simile sulla linea della barriera di Nizza. Discese, voltandomi le spalle, all'angolo di via Plana, e lo vidi andar con la famiglia al Teatro Gerbino a spendere sessanta volte la moneta per cui aveva alzato tanta polvere. O miseranda pitoccheria signorile, che per vanità o per piacere butta via lo scudo da una parte e letica il soldo dall'altra con una tenacia rabbiosa che fa avvampar dalla vergogna chi veste gli stessi panni! O razza spregevole d'esosi, che con infinite piccole taccagnerie spandete intorno a voi tanti semi d'ira e d'avversione, veri eccitatori dell'odio fra le classi sociali, quando finirete di disonorarvi dieci volte al giorno per cinque centesimi?
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Mi è caro il tranvai anche perchè mi dà modo di studiare i bambini, che per la strada mi sfuggono. Lì posso averli sotto gli occhi per un po' di tempo e ammirarli a mio comodo, in specie sulle giardiniere, grazie al vezzo che hanno tutti d'inginocchiarsi sulle panche, dando le spalle ai cavalli, e di appoggiarsi alla spalliera come a una balaustrata di terrazzino, col viso rivolto verso i passeggieri. Faccio ogni giorno qualche conoscenza. Già due volte, tornando a casa dal Giuoco del pallone, ho potuto ammirare così una bambina di due anni, che padre e madre portano ogni sera verso le sei a fare il giro dei Viali. M'è simpatica questa buona coppia, un Taddeo e una Veneranda sulla quarantina, tutti e due piccoli, rotondi e floridi come i famosi amanti del Giusti, con l'aria di gente contenta dei propri affari. E scommetterei che quella bambina è il frutto unico e tardivo dei loro placidi amori, venuto quando più non lo speravano dopo averlo desiderato per molti anni, tante son le cure e le carezze di cui l'affollano, divorandola con gli occhi, tanta è la compiacenza con cui si sorridono a vicenda a ogni suo gesto e a ogni sua parola e ringraziano con lo sguardo chi la guarda e le sorride. Questa sera stava inginocchiata sulla panca in fondo e guardava me, ritto in faccia a lei, col visetto volto in su, come avrebbe guardato la Mole Antonelliana: un visetto rotondo di madonnina, illuminato da due begli occhi azzurri e incorniciato in una finissima capigliatura castagna, tagliata alla scozzese sulla fronte e ricadente sul vestitino color di rosa. E sorrideva vagamente, guardandomi, come se si ricordasse d'avermi già visto un'altra volta, con quella strana espressione tra di benevolenza, di curiosità e di canzonatura, tutta propria dei bimbi, che par che dicano: — Chi sei? Perchè mi guardi? Che vuoi da me? — e intanto moveva le labbra e gonfiava ora una guancia ora l'altra come se masticasse qualcosa. A un tratto si mise una mano in bocca e poi la tese aperta verso di me per mostrarmi quello che aveva sulla palma: un pezzetto di caramella; poi balbettò una parola che non capii, si rimise la caramella in bocca e riprese a sorridermi, dondolando la testina da una spalla all'altra. E io la guardavo, la guardavo, ostinato a cercare il segreto di quel fascino divino dell'infanzia, che, non parlando, ci dice mille cose dolcissime, confuse, lontane, quasi sovrumane, impossibili a tradursi in parole; della potenza di quello sguardo vago, che non penetra nell'anima nostra, ma davanti al quale si nascondono, friggono, si disperdono tutti i pensieri tristi ed impuri come un branco d'uccelli notturni al raggio dell'alba. E in cuor mio le dicevo: — Guardami, guardami ancora, fa fuggir le misere vanità, gli odî ignobili, le menzogne vili, l'egoismo, l'orgoglio; fa fuggir ogni cosa.... — Ma un cane che correva dietro al tranvai la distrasse dall'opera purificatrice, e non mi fu più possibile di ricondurre la sua attenzione da quel cane sulla mia persona, nemmeno mettendole una mano sotto il mento; benchè, per istinto amorevole, essa appoggiasse sulla mano la guancia. Quella carezza fece voltare il padre e la madre, sorridenti. Domandai loro che età avesse la bimba. Non si può dir l'accento con cui mi risposero a una voce: — Ventitrè mesi. — Non avrebbero detto con un altro accento: — Abbiamo ventitrè milioni. — Sentii che quel numero segnava per loro la data d'una seconda vita, che diceva da quanto tempo era discesa sulla loro casa la benedizione e la gloria. Com'è dolce augurare sinceramente il bene ai propri simili! Sentii una gioia vera a dir loro tra me: — Siate felici, vi sia lasciata sempre, possa non aver mai un brivido di febbre, mai un nodo di tosse, mai una notte agitata, mai il viso pallido neppur per un'ora!
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Sullo stesso tranvai, tre sere dopo, ritrovai l'operaio lombardo del desbotonass, quello che m'aveva dato del politicon perchè non m'ero voluto sbottonare sull'argomento della politica. Aveva anche questa volta festeggiato la domenica, e lo diceva il ciuffo che gli dondolava sulla fronte, e la cicca che gli spenzolava dalle labbra; ma era frenato dalla moglie, una donnina secca, più attempata di lui, seduta al suo fianco. Appena mi vide, mi piantò in faccia gli occhi lustri: tremai che mi riconoscesse e la ricominciasse con lo Zavattari; ma non mi riconobbe. Borbottò non so che della rivoluzione di Candia; voleva andare a Candia; e bruscamente, alzando la voce, mi fece la proposizione d'andar con lui. Ma lo distrasse il campanello del Viatico che passava dall'altra parte del Corso San Maurizio. E allora ebbe un litigio con la moglie. Quasi tutti, sul tranvai, si scopersero il capo; egli no. Sua moglie gli disse di scoprirei: non volle.
— Ma non rispetti nemmeno il Santissimo? — gli ripetè la donna, in dialetto piemontese, e allungò la mano per afferrargli il cappello. Egli si dibattè violentemente, dandomi delle spallate. — Dagh on taj — gridò — Corpo d'on...! Mì rispetti i idej di alter, vuj che rispetten i mè.... Mì sont per la libertaa del pensiero....
Ma la donna riuscì a scoprirlo; egli strepitò: poi, ripreso il suo cappello, per rifarsi, se la pigliò col fattorino perchè faceva fermare il tranvai per far salire la gente.
— Io faccio il mio dovere —, rispose quello; — non ha da salir chi vuole?
No, non aveva da salir chi voleva, e per questa buona ragione: — Cosa vœur dì tranvai? Tranvai el vœur dì marcià.... marcià semper, e se el se ferma tutt'i moment.... l'è minga pu on tranvai, l'è una tartaruga!
Voleva pagare anche due soldi di più, ma a condizione di andar accelerato, e ad ogni nuova persona che saliva, ribatteva il chiodo: — E on alter!... Ah sanguanon! Ma l'è ona robba de rid! — Poi, tutt'a un tratto, rivolgendosi a me col viso grave, disse in italiano: — Ed è così che si fa il servizio? — Ma, dicendo questo, mi fissò da capo, come se gli passasse per la mente un barlume di reminiscenza, e puntatomi l'indice al viso, soggiunse: — Lu.... me par de conossel.
Per quanto si sforzasse, però, non riuscì a ricordarsi della conversazione del desbottonass, e volle che gli rammentassi io dove c'eravamo incontrati. Mi guardai bene dal contentarlo. E per fortuna, fu distratto un'altra volta da una signora che saliva.
— E on'altra anmò! — ricominciò a esclamare. — E seguitemm inscì.... Ah questa sì che è una bella farsa! —
— Ma la finisca una volta, — gli disse il fattorino.
— Io la finisca? Ah faccia de bogher! — e, levandosi in piedi, tese il pugno verso di lui.
Ebbi una buona ispirazione: gli misi una mano sulla spalla e gli dissi all'orecchio: — Andiamo, un vecchio soldato di Garibaldi non deve far di queste scene.
Fu un effetto magico: si voltò a guardarmi, stupefatto. O come mai io potevo sapere ch'egli era stato con Garibaldi? Ma non me lo domandò. Mi guardò un pezzo, sorridendo; poi mi porse la mano e disse: — E ben.... lu el gh'ha reson.
Detto questo, scrollò il capo in atto di disapprovazione per sè stesso, e ricadde pesantemente sulla panca. E quando io discesi, non se ne accorse: dormiva.
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Sono in un periodo fortunato d'incontri e d'avventure. All'uscita dello Sferisterio, mi decisi a prendere il tranvai della linea di Vanchiglia vedendo sulla piattaforma quel porcospino di cocchiere Tempesta, che conobbi due mesi fa sulla linea di Nizza. La primavera non l'ha punto raddolcito. Salendo, gli ruppi in bocca un'invettiva feroce che faceva contro una cavalla chiamata Balia; dalla quale egli volse lo sguardo sopra di me senza mutarne l'espressione, come s'io fossi un complice della bestia. Tacque per un po', coi denti stretti; ma quando fummo in piazza Vittorio Emanuele, essendo salita una donna che depose ai suoi piedi un grosso cesto, egli cominciò contro il cesto una ruminazione sorda di sacrati, che protrasse fin che si sboccò in via Principe Amedeo; dove andò addirittura fuor dei gangheri contro una vecchietta sorda alle sue fischiate, urlandole nella schiena: O trombon! O terremot! O tamburnassa! — con quanta vociaccia aveva in canna. Poi ricominciò a grugnire vedendo di lontano la strada ingombra dalla folla, che usciva dalla rappresentazione diurna del teatro Gianduia. E forse la ragione di tutte quelle furie era nel canestrino ritto ch'era ai suoi piedi, nel quale si raffreddava il suo magro desinare, ch'egli aveva mangiato a mezzo alla barriera di Casale, e che gli premeva di finire in piazza Carlo Felice. Povero Tempesta! Si capisce come la fame, in un temperamento come il suo, dovesse fare un tristo lavoro. Fermò davanti al teatro, infatti, dando al freno una girata furibonda, come se lo volesse spezzare. E qui la sua violenta natura fu messa a una prova durissima. Doveva salire con un nuvolo dì figliuoli grandi e piccini una di quelle povere mamme piene di timori e di affanni, per le quali una salita nel tranvai è come un imbarco per l'America. Essendo sparsi qua e là i posti liberi, i figliuoli più grandi salirono da varie parti, e fu una faccenda interminabile il mettere al posto i più piccoli; e la mamma a gridare: — Dov'è Carlino? — Giulia, siediti là. — No, Augusto, in piedi non voglio. — Carlino, vieni qua che c'è posto. — Marietta, tienti bene alla colonnina —; e Tempesta, voltato indietro in atteggiamento minaccioso, fremeva come un mastino alla catena. Quando stava per sferzare i cavalli, la signora lo rattenne con un gesto perchè uno dei figliuoli s'aveva ancora da sedere. Finalmente, sbuffando come un bufalo, Tempesta ruttò l' avanti. Ma la mamma gridò: — Un momento! È proprio questo il tranvai che va a Porta Nuova? — Egli rispose un questo con sette esse, partì, e tirando giù tutti i santi, cominciò a flagellar la cavalla, che non andava a tempo e faceva delle scartate, e a soffiar nel suo strumento, fra un moccolo e l'altro, con tanta rabbia da parer che fischiasse Torino. Fischiò il monumento di Carlo Alberto, fischiò la Posta centrale, fischiò il palazzo dell'Accademia delle Scienze, e infilò via Lagrange con la furia d'un guidatore di carro falcato irrompente contro il nemico. Ma era destino che la finisse male. All'angolo di via Cavour si staccò dal gancio l'anello del bilancino, i cavalli s'impigliarono nelle tirelle, e s'arrestarono. Saltò giù Tempesta schizzando fiamme e, mentre il fattorino riattaccava, prese a martellar di pugni i poveri animali, saettando con gli occhi me e altri due che dalla piattaforma gli gridavano di smettere, e inferocendo in special modo contro la povera balia; la quale alzava ed agitava la testa, scalpitando, tutta convulsa e tremante, ma senza mandare lamento, come una povera donna che tace, per non chiamar gente, sotto la percossa del marito bestiale, di cui non comprende e perdona l'insania. Indignati, stavamo per scendere, quando accorse dalla cantonata un vecchietto in tuba, un ometto di nulla, ma ardito e risoluto come un cavaliere antiquo, e affrontò l'aguzzino, afferrandogli il braccio a due mani. Tempesta si svincolò con violenza e lo trattò di avvocato delle bestie. Cascava male. Era per l'appunto un avvocato delle bestie, membro della Società protettrice degli animali, e se ne vantò, e tirò fuori un taccuino per segnarci il numero della giardiniera, dicendo che sarebbe andato in persona alla direzione. Tempesta risalì sulla piattaforma con la faccia verde, masticando ira di Dio; ma, ripartito appena, udendo dire dietro di sè: — A l'a fait bin (Ha fatto bene) —, si voltò a guardare il temerario con due occhi di fuoco. Chi aveva parlato era un uomo sui quaranta, di viso serio a benevolo, che aveva l'aspetto d'un operaio istruito. Questi sostenne serenamente la sua guardataccia, e gli disse con pacatezza, in accento amichevole, e un po' a rilento, come chi vuol ripetere esatta una frase letta in un libro-; — Sicuramente.... le bestie sono i compagni di lavoro, non gli schiavi dell'uomo.
Tempesta non rispose.
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Siamo in piena primavera. I tranvai dei viali corrono per lunghi tratti sotto le grandi chiome degli ippocastani, dei tigli e delle acacie, ed escono al sole e si rituffano nell'ombra, come carrozze erranti in un parco; i vetri dei finestrini e i visi dei passeggieri si velano di riflessi verdi; i predellini delle giardiniere strisciano i cespugli che fiancheggian la via, e passan d'intorno per aria note d'uccelli, farfalle bianche e profumi di rami in fiore; e il buon Giors nuota e se la gode in tutta questa freschezza, aspirando a pieni polmoni l'aria imbalsamata, che gli scava lo stomaco. Glie lo scava così addentro, dice lui, che a rigor di giustizia, quando viene la primavera, la Società gli dovrebbe dar doppia paga. Povero Giors! Questa mattina, sul corso Vinzaglio, ebbe un vero dolore. C'era un garzonetto d'osteria, ritto accanto lui, con quattro dozzine d'agnellotti crudi posati sopra un'assicella, ch'egli teneva col braccio arrotondato fuor della colonnina, per non impedirgli il maneggio del freno. A un tratto, uno scossone della giardiniera gli fece perder l'equilibrio, l'assicella piegò, e gli agnellotti si rovesciarono sulla strada. Non si può descrivere l'atto di desolazione che fece il buon Giors a quella vista: non c'è per nulla quello che fa don Baldazar-Ferravilla quando la cuoca dei suoi ospiti gli porta via di sotto il naso il piatto prediletto. E lamentò per un chilometro la “disgrazia„ scrollando il capo tristamente; e messo così in un corso di pensieri tristi, mi raccontò altre “disgrazie„ consimili di cui era stato spettatore, e non ne pareva ancora consolato. Una vecchia signora venuta dalla campagna, scendendo male dal tranvai, era caduta sul suo panierino pieno d'ova, e n'avea fatto un lago, da cui l'avevan tirata su in uno stato! e ova freschissime, che mandavano una delizia d'odore.... che peccato! Un grullo d'ortolano, un'altra volta, aveva messo sotto la panca della giardiniera, a un'estremità, un piatto di fragole ammucchiate, che a ogni sobbalzo cadevano a mezze dozzine per la strada, dove un branco di monelli, correndo e facendo un baccano indiavolato, le raccattavano, senza che lui se n'avvedesse; e quando se n'era avvisto.... certi fragoloni come palle, che profumavano il corso, una vera grazia di Dio: disgraziato! A una povera ragazzina, in fine, proprio nel momento che il tranvai si fermava in piazza Statuto, in capo alla linea, s'era rovesciata dalla piattaforma una zuppierata di minestra, ch'essa era andata a prendere all'osteria per suo padre; e gli aveva fatto tanta pena quella povera morfela, a vederla inginocchiata in terra a raccogliere singhiozzando le pastine e i piselli, che lui e il fattorino avevano fatto una sottoscrizione, essi due soli, mettendo ciascuno dieci centesimi, perchè la morfela potesse andare a ricomprar la minestra. — Ma a me — disse poi con un sorriso trionfante — queste cose non sono mai accadute, nemmeno quando ero alto un palmo; l'appetito m'ha fatto sempre stare in guardia; guardi, potrei giurare che non m'è mai cascata di mano una ciliegia! — Bravo Giors! Egli m'ha l'aria d'un uomo che non abbia mai mangiato a sua voglia in vita sua. La vista delle tavole di trattoria apparecchiate all'aria aperta, questa mattina, gli dava dei brividi di voluttà. — Ah! — esclamava, adocchiandole di passata, — con che gusto mi ci metterei a sedere! — E si capisce come il sedersi a tavola, per lui che non ci siede mai, sia un ideale epicuréo, uno scialo da milionari, il non plus ultra delle raffinatezze della vita. E confessando che sarebbe disposto a mangiare a ogni ora del giorno, ride; e dicendo che trecento volte all'anno fa i suoi pasti sulle ginocchia, ride; e raccontando che s'è levato il pane di bocca per salvar dalle busse una povera bimba, ride. Ah, quanto è buono senza saperlo, e come mi fa bene il suo riso!
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Una corsa memorabile, ma che vorrei dimenticare, sulla linea del Foro Boario. Venivo di fuor di porta. Era una mattinata incantevole. Partito appena dalla cinta, il tranvai si fermò davanti alla porta delle carceri giudiziarie, dove salirono sei giovani, accompagnati da due guardie di polizia, pallidi e malamente vestiti, ciascuno con un involto di panni sotto il braccio. Erano sei prigionieri liberati che le guardie conducevano alla questura centrale a ricevere il commiato ammonitorio dell'autorità. Ma non occorreva che me lo dicesse il fattorino; lo compresi, nell'atto che salirono, dal modo come girarono lo sguardo intorno sugli alberi fioriti, sul corso inondato di sole e sui passanti, bevendo a bocca aperta e a nari dilatate l'aria luminosa delle libertà, che accendeva delle fiamme nei loro occhi e faceva correre pei muscoli della loro faccia dei fremiti di piacere, visibilissimi nonostante lo sforzo con cui cercavano di dissimulare la rinascente ebbrezza della vita. Allo svoltar del tranvai in Corso Vinzaglio, e poi nel Corso Oporto, a quell'aprirsi da ogni parte di viali verdi, di fughe di palazzine e di portici, di vedute delle Alpi e dei colli, voltarono il capo di qua e di là, con un movimento di stupore grave, come se ad ogni svoltata crollasse un muro delle carceri da cui non era uscita ancora tutta l'anima loro, e guardavano curiosamente ogni passeggiere che saliva, come per molto tempo avevano guardato ogni visitatore sconosciuto che s'affacciasse all'uscio della loro cella. Osservavo con meraviglia che, passata la prima ebbrezza, il loro viso s'andava già oscurando quasi dell'ombra d'un disinganno, come se quell'ora tanto desiderata non mantenesse tutte le promesse che aveva fatto alla loro fantasia, e li riafferrasse da lontano la tristezza della prigione, quando, al punto di attraversare il Corso Umberto, uno spettacolo anche più strano mi distrasse da loro: una giardiniera dalla linea di San Secondo, tutta piena di monache dell'ospedale Mauriziano, un mezzo monastero in carrozza, venti figure grigie e bianche, immobili e silenziose, che passavano rapidamente sulla curva, presentandosi tutte di profilo, con la fronte bassa e le braccia incrociate, come tante statue della Meditazione, e svoltate di corsa in Via Oporto, non mostrarono più che venti veli neri enfiati dall'aria, e come fuggenti insieme a una tentazione del diavolo.
I liberati dal carcere discesero all'angolo di via Alfieri, il tranvai proseguì verso via Santa Teresa. Eravamo a pochi passi dal crocicchio quando vidi lontano in via Venti Settembre un affollamento che la ingombrava da un lato all'altro. Mi voltai per domandare al fattorino: — Che sarà? — lo vidi pallido. Egli aveva già capito. Il cocchiere frenò i cavalli, che andarono lentissimi. Raggiunta la folla, ci fermammo. Alcuni ci s'avvicinarono. Il tranvai precedente aveva schiacciato un bambino di cinque anni, un povero orfanello, che una mendicante teneva con sè e faceva accattare. Egli era sfuggito di mano alla donna per attraversare la strada nel punto che i cavalli sopraggiungevano; le ruote della giardiniera gli eran passate sul corpo; era morto nell'atto; avevan portato il cadavere sotto il portone d'una casa vicina, che la folla chiudeva. Una moltitudine di curiosi s'accalcava intorno al cocchiere che era saltato giù, lasciando le redini al fattorino, che aveva proseguito la corsa. Nel mezzo della calca, al di sopra delle teste ondeggianti, spuntavano gli elmi di due guardie civiche e il cappello d'un carabiniere, e fra questi il berretto gallonato del disgraziato cocchiere, rovesciato indietro, che lasciava vedere delle ciocche di capelli grigi. Mi apparve mi momento il suo viso, bianco e stravolto, con la bocca aperta; poi si nascose. Parlava e gestiva; ma il mormorio della folla copriva la sua voce. Vidi le sue mani agitarsi per aria. M'arrivò all'orecchio un: giuro! rauco, come il grido di un ferito. A un tratto, la folla s'aperse come in due ondate violente e il cocchiere, stretto fra le guardie, si mosse; ma, fatti tre passi, si fermò, e alzate le braccia come un prete all'altare, girando intorno gli occhi smarriti e piangenti che non vedevan più nulla, gridò con voce soffocata dai singhiozzi: — Giuro per l'anima di mio padre e di mia madre, giuro che non l'ho visto! — Poi si rimise in cammino barcollando, e la folla lo riavvolse. Il tranvai ripartì.
Ah, perchè non tenni gli occhi fissi sulla mano tremante con cui il fattorino scriveva, invece di rivolgerli a terra, sulle rotaie? Non mi sarebbe stata così orribile la vista del misero corpicino schiacciato come mi fu quella del suo povero sangue sparso fra i ciottoli; orribile come qualche cosa di lui che vivesse e soffrisse ancora e implorasse soccorso dal fondo della fossa. E dovetti scendere, preso da un ribrezzo improvviso di quel carrozzone, come d'un complice della strage, d'una macchina sinistra, nella quale, come nell'altra, stesse rimpiattata la morte, in agguato, per afferrare al varco altri bimbi. Ma non mi giovò fuggire. Per tutta la strada intesi quel grido singhiozzante: — Giuro, giuro per l'anima di mio padre e di mia madre.... — quel grido desolato, supplichevole, solenne; nel quale ne sonava un altro esilissimo, la voce del sangue sparso, che anch'esso chiedeva pietà per lui, in tuono di preghiera infantile. E per vari giorni non scrissi più, e non potei salire sopra un tranvai senza un sentimento di repulsione, come se tutti avessero le ruote insanguinate. Ahimè! È dunque vero che anche la vita civile, come la creazione, è una ruota terribile, che non si può muovere senza stritolar delle ossa e dei cuori, e che l'uomo è condannato a sparger sangue in eterno?
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Maravigliosa leggerezza umana! Ma forse non è tanto leggerezza il parlare che si fa da tutti di cose futilissime anche fra gli avvenimenti più terribili, quanto spirito dì ribellione, bisogno di provare la libertà del proprio spirito davanti ad ogni argomento imposto di riflessione e di discorsi gravi. Avevano l'uno e l'altro il giornale in mano, questa mattina, i due signori che m'eran seduti davanti sul tranvai, e che discutevano vivacemente; avevano letto un momento innanzi la prima notizia della battaglia di Turcuf; era da supporsi che discutessero della vittoria per cui era liberata Cassala. Discutevano invece sul colore del fanalino che segna l'ultima corsa del tranvai del Martinetto.
— Le dico che è bianco, l'ho visto cento volte.
— Ma lei confonde con quello dell'ultima corsa di Vinzaglio.
Dalla voce riconobbi il mio buon “tranvaiofilo„ l'amico di Giors, benestante sferoidale e gran paladino della Società Belga. Il quale continuò: — Il fanale dell'ultima del Martinetto è rosso. Verde tutta la sera, rosso all'ultima corsa.
— Verde tutta la sera, sì, — rispose l'altro, — ma all'ultima corsa, bianco. Diamine! L'ho anche visto ieri sera.
— È impossibile.
— Oh cospetto! Mi vuol dare una smentita?
— Ma è lei che la dà a me, perdoni. Andiamo, vuol fare una scommessa? Fattorino!
Il fattorino s'avvicinò sul predellino, e intesa la domanda, rispose gravemente: — È bianco.
L'altro voleva ribattere, ma il “tranvaiofilo„ trionfante, gli tagliò la parola. — A me la vuol insegnare, che conosco tutti i colori, anche della Torinese? Bianco l'ultimo di Nizza, bianco Borgonuovo, verde San Secondo, rosso Foro Boario, bianco San Salvario, rosso Vanchiglia....
Sotto quel rovescio d'erudizione tranvaiesca l'avversario chinò il capo, e non ribatte più sillaba.
Il tranvaiofilo stette ancora un po' pensando, poi soggiunse: — E bianco l'ultimo dei viali.
Fu il colpo di grazia.
Suggellata così la sua vittoria, gittò gli occhi sul giornale che teneva aperto sulle ginocchia, e voltatosi verso di me, col viso spianato di chi passa da un discorso grave ad uno che ricrea lo spirito: — Ottocento morti! — esclamò sorridendo. — Una bazzeccola! Ora staranno quieti per un pezzo....
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Sono scampato a un pericolo grave e mi son goduto una scena curiosa.
Appena mi riconobbe dal capo opposto della giardiniera affollata e mi vide accanto un posto vuoto, l'uomo spietato sorrise di compiacenza feroce, e sceso sul montatoio, afferrandosi alle colonnine, s'avanzò verso di me come il ragno sulla tela per afferrare la sua vittima. Io capii che era armato d'un sonetto da piantarmi nel cuore, e tremai. Ma in quel punto saltò sulla giardiniera, proprio al mio fianco, mi ufficiale dei bersaglieri, che occupò il posto a cui lo scellerato mirava; e questi dovette ritornare indietro con le sue strofe nel gozzo. Vidi che fremeva. Ma fu subito distratto egli pure da un piccolo avvenimento comico. Salì sulla piattaforma davanti un signore, il quale, lanciato uno sguardo all'ultima panca, vi riconobbe un amico, forse non più visto da mesi, e dopo averlo salutato con molta effusione, prese a discorrer a voce alta con lui, che rispose nello stesso tono, senza darsi un pensiero al mondo dei trenta passeggieri che li guardavano e li ascoltavano con grande stupore. Appartenevano tutti e due a un ordine assai numeroso di originali a cui manca affatto un sentimento che si potrebbe chiamare “il pudore sociale„ e che hanno la facoltà singolare di far arrossire gli altri per loro.
— Tu a Torino! E da quando?
— Sono arrivato questa mattina.
— E riparti?
— Questa sera. Ho l' andata e ritorno.
— Son birbonate, dovevi scrivermi. E Gabriella?
— Benissimo. E a casa tua?
— Tutti bene. Gustavo è andato a Genova.
— Me lo scrisse l'avvocato. E l'affare di Troffarello?
— Niente di nuovo; son muli.
— Oh diavolo! — E strizzando un occhio, — Di', e a quando il Messia?
— (Sorridendo modestamente) Di giorno in giorno....
C'erano delle signorine; vidi dei visi di mamme che si cominciavano a inquietare. Come Dio volle, qualcuno discese, e i due poterono avvicinarsi e conversare in famiglia. Ma essendosi fatto spazio accanto a me, mi trovai di nuovo esposto al sonetto. Vidi infatti il poeta che scendeva da capo sul predellino. — Ah no! — dissi in cuor mio, ricordando il supplizio orribile dell' Uom chi sei tu; — una seconda volta non mi torturerai — e gridato un alt risoluto, che avvertì il cocchiere e lui ad un tempo, mi salvai dai quattordici colpi di pugnale che mi minacciava.
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Gran palestra di civetteria è la carrozza di tutti, e come vi si può studiare la potenza del “femminino eterno„! Salì sulla giardiniera, in via Maria Vittoria, una bella ragazza, che attirò lo sguardo di tutti: piccolina, bruna, mirabilmente tornita, con le fossette nelle gote, con un rosaio sul cappellino: vestita con un'eleganza un po' teatrale, ma piacente nella sua stranezza. Non avevo visto ancora un'arte di civetteria così varia, così profonda, così diabolicamente raffinata. Era una continuità di leggerissimi, appena percettibili movimenti ondulatori correnti dalle spalle ai piedi, un riso come represso e diffuso su tutta la persona, un modo di girare il capo e gli occhi, di guardar tutti e nessuno, di provocare e di fuggir gli sguardi, un'arte d'addentarsi le labbra, d'inarcarle e di stringerle, di far balenare le pupille, di velarle e di riaccenderle, qualunque cosa guardasse, come se avesse voluto sedurre anche le cose, un misto di monelleria, di finto pudore, di sensualità, di naturalezza, d'affettazione e d'ingenuità bambinesca, da far cadere la penna di mano al più potente descrittore di femmine della nuova scuola. Conquistò il tranvai di primo colpo. Tutti i passeggieri si misero ad esaminarla con occhio denudatore. Si voltava a guardarla di tratto in tratto anche il cocchiere, e perfino una grave guardia civica, ritta in fondo alla giardiniera, fissava su di lei uno sguardo affatto diverso dal solito sguardo di servizio. All'angolo di via Bogino fece fermare un vecchio generale in uniforme, un po' floscio di gambe, accompagnato dal suo aiutante, e nell'atto di salire la guardò così fissamente che mise male il piede sul montatoio e si dovè afferrare alla colonnina. A un certo momento essa s'alzò e risedette un po' a sinistra, per far posto a una signora, e in quell'atto così semplice e rapido mise tanti guizzi e vezzi e grazie di colomba e di gatta, che lampeggiarono, guardandola, gli occhi di tutti, come se tutti avessero bevuto a un punto un bicchierino di Benedectine autentica dei frati di Chambéry. Curioso che proprio al disopra del posto ch'essa occupava pendeva da una traversa del tetto un cartellino d'annunzi, sul quale era scritto in grossi caratteri: Da vendere, e il resto non si leggeva: una villa, probabilmente. Ma era certo una calunnia del caso, o, almeno, c'era d'aver dei dubbi per l'eccesso medesimo di quella civetteria; la quale poteva non essere altro che un istintivo ardentissimo amore dell'arte. Discese in via Plana. Le donne si voltarono a guardarla con occhio severo, gli uomini.... con un altr'occhio. Ed essa si allontanò col suo roseto sul capo, lievemente inclinato da una parte, con un'andatura disinvolta e graziosa, mostrandoci ancora uno spicchio di viso sorridente, da cui traspariva la coscienza d'aver lasciato una dozzina di frecciole confitte in petto ai suoi compagni di viaggio d'un quarto d'ora.
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Fu la vergogna stupida di mostrarmi per la strada con un pacco fra le mani, che mi fece salir sul tranvai di porta Susa per tornare a casa; e sul tranvai fui punito. Stavano in piedi sulla piattaforma un giovine operaio, sua moglie e un bambino, che non avevan trovato posto dentro al carrozzone. L'operaio faceva uno sfogo col cocchiere, in tono aspro. Era stato ingannato da un amico, che l'aveva fatto venir dal Vercellese, assicurandolo che a Torino c'era lavoro; ma, venuto qui, non aveva trovato nulla; da un mese batteva inutilmente a tutti gli usci; un suo parente benestante gli aveva rifiutato un piccolo imprestito; non sapeva più dove dar del capo. Il cocchiere gli consigliò di rivolgersi alla Camera del lavoro. — Ma che Camera di lavoro! — rispose scattando. — Buffoni! Se non trovo lavoro io, me ne troveranno loro! — E seguitò, smozzicando maledizioni fra i denti. Il suo bambino, intanto, succhiandosi la punta dell'indice, teneva gli occhi fissi sul mio pacco. Io l'apersi e gli porsi una caramella, ch'egli agguantò come se la rubasse, e prese a leccarla rispettosamente, sorridendomi. Il padre, appena se n'accorse, si voltò a guardarmi con occhio torvo, strappò il dolce di mano al bimbo e, prima che riuscisse ad afferrargli il braccio sua moglie, lo gettò nella strada. Mi sentii come il freddo d'una lama nel cuore, e poi una vampata di sdegno, un rivolgimento precipitoso d'idee recenti, un ritorno violento d'idee antiche, tutto in un punto, come se la mia anima si rovesciasse. Ma fu un punto solo. — Ah miserabile, — dissi a me stesso — basta dunque questo?... — Quegli riprese a sfogarsi col cocchiere, a voce più bassa però, e dopo qualche momento sua moglie — una povera donnina dall'aspetto buono e triste — voltandosi quasi furtivamente verso di me, mi diede uno sguardo timido, che voleva dire: — È povero, è disgraziato, è irritato.... lei capisce.... — E io le risposi con gli occhi: — Capisco. — Allora il suo viso si rischiarò un poco e parve che dicesse: — Gli perdoni.... — E io risposi con uno sguardo: — Ho perdonato. — Ahi mentivo. E non voglio mentire una seconda volta: non gli ho ancor perdonato....
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Un'avventura più piacevole stamani, sulla linea del Martinetto. Stavo sulla piattaforma di dietro con Carlin, il quale si fregava le mani, molto soddisfatto della venuta dei famosi tre principi abissini al collegio internazionale di Torino, ch'egli considerava quasi come una rivincita; e andava ripetendo: — Questi tre qui, intanto, li abbiamo nelle unghie! — Interruppe le sue espansioni un mio conoscente, che salì all'imboccatura di via Garibaldi, un operaio lattoniere, che aveva messo su bottega da poco, di trent'anni all'incirca, ma assai più attempato all'aspetto, basso di statura e tarchiato, e serissimo. Era un tipo degno di studio; un autodidattico di volontà ferrea, che aveva frequentato l'Università in un periodo di disoccupazione, inteso quasi unicamente a quistioni economiche e pratiche, intorno alle quali andava raccogliendo da libri e da giornali note ed articoli che trascriveva la notte in grossi quaderni; un socialista sui generis, non curante del programma massimo, ristretto all'idea dell'organizzazione del proletariato con lo scopo di conseguire una serie di riforme parziali non isperabili dall'azione spontanea delle classi dirigenti; legalitario, come egli stesso si chiamava, odiatore delle frasi, disprezzatore dei capi matti, metodico in tutte le cose sue come un impiegato, e così lucido e ordinato nelle idee e tenace nello studio d'ogni quistione e nello sforzo di esprimersi chiaramente, che era diventato in pochi anni uno dei parlatori più persuasivi del partito, ammirato anche dai compagni di fede più colti.
Salutatomi con un tocco della mano al cappello, com'era suo solito, si mise subito a discorrere d'un opuscolo sul Salario minimo, che aveva in tasca; ma restò in tronco, dopo poche parole, vedendo passare a traverso alla strada quattro giovani ammanettati, accompagnati da due guardie di polizia; borsaioli, a giudicar dalle facce; due dei quali vestiti decentemente, quasi con eleganza.
Carlin li giudicò con una delle sue frasi letterarie: — Ladri in guanti gialli.
Ma un passeggiere, ch'era salito sulla piattaforma in quel momento, un uomo sui cinquant'anni, dell'aspetto d'un capomastro malandato, che olezzava d'acquavite, espresse un altro parere. — Siamo sotto il primo maggio, — disse — sono socialisti. — E soggiunse, ammiccando a me, con un sorriso ironico: — Compagni.... Sì, adesso, sono compagni proprio!
Gli lessi in cuore sull'atto. Avevo l'aspetto d'un signore, dovevo odiare il socialismo; c'era nel suo scherzo l'intenzione ossequiosa di guadagnarsi la mia simpatia dicendomi una cosa gradevole; apparteneva alla famiglia degli striscianti. Per curiosità, l'incoraggiai con un sorriso, e subito egli volle chiarirmi meglio che le sue opinioni concordavano perfettamente con quelle che supponeva le mie.
— Ah che storie!... Un uomo che ha la testa a posto, un padre di famiglia che lavora.... non si ficca lì dentro. Il mondo è com'è. Si ha un bel far delle riforme, ci sarà sempre chi ne ha e chi non ne ha. Badar a lavorare: non c'è altro.
Carlin interloquì. — Però, — disse — noialtri ci fanno lavorar troppo....
— Ah quanto a questo — rispose l'altro — è un'altra quistione. — Io pensavo che Carlin rispondesse che la quistione, invece, era proprio quella, e che non si poteva risolvere non badando ad altro che a lavorare. Ma mi persuasi che nella sua mente, tutta data alla politica, l'idea dell'interesse della propria corporazione era affatto disgiunta da ogni altra, come un lumicino solitario nelle tenebre. Infatti, non seppe che cosa rispondere a quella risposta. E l'altro continuò, sorridendomi con espressione lusinghevole: — Non è vero?... Bei tipi, che vogliono rimpastare il mondo e non hanno che stramberie per la testa.... Compagni! — E soggiunse ridendo: — Si chiamano compagni, e son proprio compagni di pazzia!
A queste parole credetti che il lattoniere scattasse; ma, voltandomi a guardarlo, fui maravigliato dell'atteggiamento del suo viso, affatto diverso da quello che m'aspettavo. Egli guardava il parlatore con una espressione di così sincera e profonda e tranquilla commiserazione, che nessuna parola avrebbe potuto esprimere più chiaramente il suo sentimento. Si capiva che in quel suo eguale, chiuso all'idea e alla passione che avevan fatto di lui un altr'uomo, egli vedeva quasi una creatura di razza inferiore; che lo considerava, come doveva un cristiano dei primi tempi considerare un pagano, un impasto di ignoranza, di servilità e di stupidaggine, da non poter nemmeno movere l'ira. Ma quegli, tutto intento a finir di conquistarmi, non badò a lui, che credeva per me uno sconosciuto, e ripigliò: — Per me, quando qualcuno viene a tentarmi, lo mando a farsi scrivere. Non voglio finire come quei “compagni„ che son passati adesso. Se a loro piacciono quegli arnesi alle mani, si servano, branco di matti: ce n'è per tutti. Non ho forse ragione? — E sorrise da capo, aspettando i miei rallegramenti.
Allora il lattoniere fece un colpo di scena che meditava forse da un po'. — Ha visto — mi disse bruscamente — le dimissioni del nostro Barbato?
Risposi che lo sapevo e che me ne rincresceva; ma che mi parevano rispettabili le ragioni della persistenza nel primo rifiuto, le quali dimostravano un animo onesto, senz'ambizioni, profondamente persuaso di poter fare opera più utile fuori del campo parlamentare.
— È però un peccato, — rispose l'operaio, mettendo il piede sul montatoio per discendere, — perchè è un sant'uomo; — e nell'atto di stringermi la mano disse spiccando le sillabe: — Buon giorno, compagno.
— Buon giorno, — risposi, e mi voltai a guardare l'altro, che aveva gli occhi spalancati e la bocca aperta, interdetto dallo stupore, come il villano alla vista d'un gioco di prestigio. E un bel pezzo dopo, quando discesi, mi guardava ancora.
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Ah il socialismo sul tranvai! Sarebbe curioso a trattarsi, specie per i cattivi incontri che ci fa e i brutti quarti d'ora che ci passa, poichè la carrozza di tutti, finora, è assai più borghese che popolana. Questa mattina appunto mi ritrovai accanto sulla piattaforma della giardiniera, fra piazza Castello e piazza Carlo Felice, il mio onorevole nemico Guyot, il mangiasocialisti, il quale mi vibrava certe puntate di sguardi, in cui era evidentissimo l'influsso del 1.º maggio imminente. Certo egli domandava a sè stesso quali scelleratezze io andassi macchinando per domani, pensava ch'io girassi per Torino a soffiar negli odi di classe, e almanaccava forse che nascondessi qualche ordigno infernale sotto la sporgenza che mi faceva il soprabito dalla parte sinistra del petto, dove fissava gli occhi di tanto in tanto. E perchè no? Quattro anni prima, in quel giorno stesso, non avevano certi buoni amici fatto credere a un Consigliere comunale, eccellente uomo, ch'io ero stato arrestato perchè scoperto in corrispondenza epistolare col Ravachol, inducendolo per giunta a metter la sua firma a una loro petizione per ottenermi la libertà provvisoria? Quanto più guardava quel misterioso rigonfio del soprabito, tanto più il Guyot si rimbruniva: la sua immaginazione più benigna doveva essere di un pacco di proclami incendiari. Vedete un po'! Ed eran le memorie di Sant'Agostino, ch'ero andato a prendere dal legatore. Che strana cosa! pensavo. Desiderare ardentemente il bene di tutti, sognare la pace e l'amore fra gli uomini, avere della società un nuovo concetto, il quale, riferendo al suo ordinamento la causa dei mali che si attribuivano prima all'egoismo dei fortunati, sopprime ogni ragione d'odio contro di loro, sentire orrore della violenza e del sangue e sdegno di tutte le ingiustizie e pietà di tutti i dolori, e da questo desiderio del bene essere tormentati tanto da non godere più pace.... e in grazia di tutto questo vedersi guardare con occhio d'avversione come se portaste dentro tutto quanto di più tristo e di più feroce può covare un animo malvagio!... E pensare che chi vi guarda così è forse un uomo sensato e buono, il cui sguardo intellettuale vede in voi tutto rovesciato e falsato per il solo fatto ch'egli passa a traverso alle lenti di un preconcetto irragionevole, e che, pur non consentendo nelle vostre idee, quell'uomo vi diventerebbe amico se gli poteste parlar per un'ora, ma che non gli potrete parlar mai, e ch'egli per questo v'odierà sempre! Che strana cosa!
Mentre ciò pensavo il tranvai si fermò in piazza Carlo Felice per lasciar passare un battaglione di bersaglieri, e il Guyot girò da questi su di me uno sguardo acuto, in cui era manifesto il suo pensiero: — Ecco chi vi terrà in riga domani! Tu li devi odiare, costoro!
Ah le lenti! E dire ch'io amavo quei giovani tanto più di lui; non più, come un tempo, per quello che erano in quel periodo della loro vita, ma in loro stessi, nelle loro famiglie, nel loro avvenire, nei loro futuri figliuoli, d'un amor non legato ad alcun sentimento nascosto d'interesse di classe, ma purissimo e profondo e pensieroso, tanto che mi pareva così angusto e leggiero in confronto al nuovo l'affetto antico!
E così, quando il mio nemico discese e il tranvai infilò il Corso Vittorio Emanuele, fiancheggiato da quelle due interminabili ghirlande verdi e chiuso in fondo dalla gran mole del Rocciamelone, pensai che non volava una volta il mio spirito, come fa ora, di là da quel baluardo enorme, a dire a una moltitudine sconosciuta la santa parola dell'amor fraterno e la speranza divina d'un avvenire senz'odi e senza guerre di popoli. E confortandomi in questo pensiero, mi pareva che il suono delle trombe soldatesche che s'affievoliva dalla parte opposta del Corso morisse non nello spazio, ma nel tempo, come una voce del passato.
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Qui, mentre chiudo il mese d'aprile, mi si leva dinanzi uno stuolo di fattorini e di cocchieri originalissimi, che mi domandano: — E noi? — E hanno ragione; ogni uomo è un libro; peccato ch'io non possa dar di loro che i titoli! Ce n'è uno che fu maestro, frate e volontario con Garibaldi, una strana caricatura di Giove, con una gran testa bianca riccioluta, così grave e maestoso, che par che stia sul tranvai come sopra un carro di trionfo e dispensi gli scontrini come grazie celesti. C'è un antico becchino, cocchiere, un capo amenissimo, di razza nana, così buffo d'aspetto e di spirito, che fa torcer dalle risa tutti i colleghi con piccoli gesti e con mezze parole dette sottovoce, di cui nessun passeggiere riesce mai ad afferrare il significato. C'è un ex cocchiere di famiglia nobile che nomina i padroni e le padrone di tutte le carrozze stemmate che passano, con un sorriso vagamente misterioso di familiarità e d'alterezza, come un patrizio scaduto a cui la vista d'ogni stemma ricordasse un'amicizia o un amore de' suoi bei tempi. Ce n'è un altro, un fattorino tetro e taciturno, che ha la bizzarra passione di esercitarsi a scrivere in caratteri minutissimi, e che dedica ogni momento libero a quell'esercizio, di cui fa vedere i saggi ai passeggieri, senza parlare, dei pezzettini di carta come biglietti di visita, segnati di zampe di mosca non leggibili da occhio umano. E ci sono altri Carlin, divoratori di giornali e politicanti di color vario, altri Marchesi vezzeggianti che porgono lo scontrino come un fiore, altri Tempesta ringhiosi, che si mordon la coda dalla mattina alla sera. E le loro donne, quale collezione! Ne ho conosciuto in capo alle linee una varietà grande: mezze signore e cenciose, mogli canute di giovanotti, mogli che paion le figliuole dei loro mariti, visi di vittime rassegnate, scarmiglione ardite e appetitose che han l'aria di approfittar malamente delle lunghe assenze coniugali, donnine alacri e premurose, che, porgendo all'uomo affamato il canestro della colazione, gli fanno mille raccomandazioni supplichevoli di non mangiar troppo in furia, e stanno a vederlo mangiare spiando con occhio inquieto l'arrivo dell'altro tranvai e contando con l'anima in pena le bocconate e i secondi. Ah che dure e affannate esistenze ho indovinato durante quei pasti, ed anche quante buone nature, quante modeste virtù, quante belle e sane corrispondenze d'affetto!
E ieri sera appunto, sulla linea dei viali, verso il tramonto, assistetti a una scena gentile. C'era sul tranvai quasi vuoto un fattorino dai capelli e dai baffetti bruni, un bel giovane, di viso un po' malinconico e di belle maniere. A una fermata sul corso San Maurizio accorse da una via laterale una donnina in capelli, graziosa, con un bimbo in braccio; la quale salì in fretta sulla giardiniera, dopo aver lanciato intorno uno sguardo diffidente, come se venisse a un convegno amoroso. Il fattorino le tolse di mano il bimbo con premura, sedette, se lo mise sulle ginocchia e prese a accarezzarlo e a baciarlo in furia, come per saziarsene tutt'in una volta, mentre la giovine madre, seduta al suo fianco, guardava con un'espressione di grande dolcezza il figliuolo e lui, che ogni tratto alzava il capo per rivolgerle un sorriso, in cui appariva ancora l'affetto caldo e quasi la curiosità dello sposo. Essa aveva colto l'occasione del tranvai quasi vuoto per portare al marito quella consolazione del bambino, che gli era concessa così di rado a casa sua, e misurava con gli occhi quel che le rimaneva di cammino da fare insieme: un troppo breve tratto! Alla prima fermata, infatti, discese alla lesta col suo piccolo carico, che tendeva le braccia verso il babbo; e questi, ritenendola ancora con la mano quando era giù sulla strada, le disse: — A questa sera.
— A che ora? — domandò essa, mentre già il tranvai si moveva, fissandolo con uno sguardo d'amante, ma un po' triste, per il presentimento della risposta.
Ed egli rispose con lo stesso sguardo e con lo stesso accento: — Al solito.
— Alle undici?
— Alle undici, — rispose il fattorino, scotendo il capo.
La donnina mise un sospiro, e stette lì ferma in mezzo al Corso, rivolta verso la carrozza che le portava via lo sposo. Ed eran così belli quei due bei giovani che si guardavano a traverso lo spazio crescente, tutti e due col capo un po' inclinato, egli stando voltato indietro, essa porgendogli il bimbo da lontano, quei due poveri sposi a cui pareva così lunga una separazione di quattro ore perchè era il loro cuore che batteva i minuti e il loro bimbo che li voleva riunire!
CAPITOLO QUINTO.
Maggio.
Una mattinata bella.... e una conversazione sciocca di benpensanti, a proposito della data del mese, sul tranvai di Vanchiglia. Eran certo di quelli stessi che, quando il primo maggio era tumultuoso, dicevano: — Facciano la loro festa pacificamente, se voglion che sia rispettata! — Diventata la festa pacifica, si facevan beffe delle riunioni private e delle passeggiate campestri dei rinsaviti, attribuendo il rinsavimento a cagioni ignobili. Non c'è gente più stomachevole dei paurosi che, appena rassicurati, scherniscono e accusano di viltà chi li ha impauriti. E ragionarono un pezzo per dimostrarsi a vicenda una cosa di cui erano già tutti convinti: l'assurdità dell'Idea che la festa esprime. Ma li ascoltavo quasi con piacere, pensando al tempo in cui sarebbero parsi altrettanto strani quei ragionamenti quanto paion tali al presente i ragionamenti opposti. Strana cosa, infatti, degna d'una favola d'Esopo: l'onda del mare che si stupisce e s'adira d'essere incalzata da un'altr'onda, e le grida: — Va indietro! — Ma quel piccolo mormorio di voci ingrate si perdette ben presto in quello grande, ch'io sentivo nella mente, d'altri innumerevoli benpensanti come quelli, dicenti le stesse stessissime cose, percorrendo sui tranvai altre centinaia di città, vicinissime e lontanissime, di là dai monti e dai mari, di cento aspetti diversi, mentre si preparavano intorno a loro, come ai loro amici ignoti di Torino, altre adunanze e feste e passeggiate campestri, nelle quali, per la seconda volta sulla terra, milioni d'uomini avrebbero espresso in venti lingue gli stessi propositi e le stesse speranze che ai miei vicini parevan follia. E mi pareva che l'aria di maggio che m'alitava in viso mi portasse un'eco vaga di quelle voci infinite, confuse in un suono solenne e dolce, come un sospiro del mondo, risvegliato dal sentimento della primavera.
Eppure ero triste; con la data del mese mi ritornava in capo di continuo il pensiero d'un edifizio, già eretto e compiuto con cinque anni di fatiche, di cure amorose e di passione ardente; il quale un giorno, in un momento di potente chiaroveggenza critica, avevo visto tutt'a un tratto, come per un crollo di terremoto, spogliarsi del suo intonaco, aprirsi dal tetto alle fondamenta e rovinare in mille frantumi. Quella data riconduceva forzatamente il mio pensiero fra quelle rovine, che non avrei più potuto ricomporre che con altri più anni di duro lavoro, e dopo che mi si fosse rifatta serena la mente per concepire un nuovo disegno; e quel ricordo d'entusiasmi vani, di speranze deluse, di veglie perdute, e il dubbio che una prova eguale si potesse ripetere con una fine egualmente miserevole, mi sgomentava come l'idea d'una condanna alla tortura perpetua.
Fui scosso all'improvviso da una voce gaia: — Primo maggio! — e, voltandomi, mi vidi accanto sulla piattaforma un viso noto, un bel giovane biondo, vestito a festa, con un garofano all'occhiello, rosso come la sua bocca di vent'anni. Tutt'i miei pensieri tristi fuggirono all'aspetto di quella gioventù sfavillante d'allegrezza. Era un tipografo, uno dei credenti più appassionati e più sereni, di natura affettuosa e ingenua, un bersagliere ardente del partito, il più svelto e fervido dei galoppini elettorali, divoratore infaticabile di scale e di strade, sempre pronto a tutti i servizi, a conciliare, a ammansire, a metter bene; non mosso da alcuna speranza di vantaggio proprio nè prossimo nè remoto, ma pago e contento di esser l'ultimo soldato dell'esercito; e altero della sua fede, compreso di un così vivo sentimento di dignità di classe da accendersi di vergogna e da patire un vero tormento alla vista d'un operaio ubbriaco; e zelante come un missionario, primo sempre ad accorrere a tutte le riunioni, nelle quali la sua testa bionda brillava fra mille come una luna d'oro, e il suo fremito e il suo riso d'assenso agli oratori si trasfondeva nei vicini come un fluido elettrico. Era felice, quel giorno; l'idea della passeggiata campestre pomeridiana lo eccitava; aveva già corso non so quante linee del tranvai per andar a sollecitare dei compagni irresoluti; sapeva quello che si sarebbe fatto nelle principali città straniere, pregodeva il piacere del leggere le notizie del dì dopo, diceva: — I compagni di Bruxelles, di Berlino, di Vienna, di Parigi, — facendosi suonar quei nomi all'orecchio con un sorriso di compiacenza, come dei nomi di amanti; e interrompeva ogni tanto il discorso per indicarmi i garofani rossi sui tranvai che passavano, come avrebbe indicato dei trofei di vittoria. In fine, mostrandomi il suo garofano, mi disse che era un regalo inaspettato che gli aveva portato a letto la mattina la sua vecchia mamma, non perchè fosse “convertita„ ah! tutt'altro; ma per fargli una sorpresa piacevole, e che prima di darglielo gli aveva fatto mille amorose raccomandazioni d'aver giudizio almeno per quella giornata, povera vecchietta! come se fosse stata una giornata di battaglia. Poi saltò giù dalla piattaforma dicendomi che andava a comprare una mezza dozzina di numeri unici da distribuire agli amici stangati, e fattomi un saluto vivace con la mano, scappò, lasciandomi nell'anima un raggio della sua gioventù e della sua gioia.
*
Ma il giorno dopo scontai la festa. Pericoloso è il tranvai per quelli a cui tocca di tanto in tanto di “correre per le bocche„ dei loro fratelli in Cristo. Non sospettava certo ch'io stessi ritto dietro le sue spalle il grosso signore brizzolato che sedeva sull'ultima panca della giardiniera di corso Vinzaglio, sulla quale ero salito con lo scultore Costa per andare all'Esposizione triennale. Aveva fra le mani la Stampa della mattina, in cui era riassunto un discorso fatto da me il giorno avanti all' Associazione generale degli operai, e, parlando con un vicino, mi tartassava in un modo barbaro, con voce lenta e pacata. Ah se si potesse intendere tutto quello che dice di noi la gente che non ci conosce, saremmo le più volte meno offesi dalle ingiurie che stupefatti, divertiti dalla stranezza e dall'assurdità delle favole, impossibili a immaginarsi. Anche il Costa tendeva l'orecchio; ma senza comprendere chi fosse il tartassato. Il buon signore spiegava al vicino il vero perchè di quella ch'egli chiamava la mia rivolta (rivoltatura di giubba, voleva forse dire): egli lo sapeva di certa scienza. Perduto quel po' di ben di dio col crac della Banca Tiberina, avevo brigato, per campare, il posto di bibliotecario civico, che m'era stato rifiutato; e, ridotto al verde, invelenito, per puro sfogo di vendetta contro il mondo ingrato, avevo fatto il salto nefando. E presagiva dove sarei andato a finire: in un luogo dov'egli m'avrebbe chiuso subito, se avesse potuto. Illuminato a un tratto da una parola, il Costa mi diede di gomito, dicendo: — Senti, senti.... sei in ballo tu.... — e intesa la chiusa, ch'era un epiteto, soggiunse ridendo: — Beccati questa e serbala a Pasqua. — Stavo per ribattere; ma mi balenò una speranza di rappresaglia, che mi fece tacere. La speranza non fu delusa, in fatti. Svoltato il tranvai sul corso Vittorio Emanuele, quando fummo vicini alla piazza, il grosso signore, preso da un impeto improvviso di collera, tese il pugno verso l'assito del monumento, e gridò: — E anche quest'auro! O quando sarà finita? E bisogna essere minchioni come siamo noi.... — e taccio il resto. Allora toccai col gomito il mio buon amico e gli dissi: — Questa mi farai il piacere di beccarla tu e di serbarla a Natale. — Scoppiando tutti e due in una risata, facemmo voltare l'oratore che, messo in sospetto, non disse più nulla. Ma non occorreva che dicesse altro. Per i nostri dieci centesimi, come osservò il Costa, ne avevamo avuto abbastanza. Regola generale: andare a piedi il giorno dopo che s'è pronunciato un discorso in pubblico.
*
I discorsi che si sentono sui tranvai, che pascolo per la fantasia! Ne feci uno studio particolare in quei primi giorni di maggio e mi parve di raccoglier pagine e pezzetti di pagine di mille romanzi lacerati. Eppure in quella varietà infinita c'è anche una grande monotonia. Quei dialoghi a bassa voce fra ragazze del popolo, nei quali ogni venti parole, infallibilmente, come il paese nei discorsi elettorali, vien fuori la parola chiel — lui — l'eterno chiel, il protagonista anonimo del racconto; quei ragionamenti politici, in cui potete esser certi sempre di sentir pronunciare come giudizio proprio il giudizio che avete letto la mattina sul giornale che il ragionatore tien nella mano; quei discorsi sulla pioggia, sul caldo, sul freddo e sul vento, fatti di parole che milioni di bocche ripetono da tutti i secoli ad ogni variazione del tempo come se fosse sempre una cosa nuova, strana, inaspettata! Una gran parte delle conversazioni degli uomini non sono che sbadigli dell'intelligenza sonnecchiante. Ma va a giorni. Trovo fra gli appunti d'una sola corsa la storia interminabile del cambiamento d'un'unghia del piede, raccontata da un operaio al cocchiere, mentre un medico, che gli stava accanto, spiegava a un terzo in che modo dovesse far aprir le mascelle al suo cane da caccia per cacciargli in gola ogni mattina una cucchiaiata di sale, che l'avrebbe guarito dal raffreddore; poi una frase colta a volo da due ufficiali che parlavan d'un duello: — Quando uno la dà, che gl'importa degli arresti! — e una esclamazione soffocata: — Io la strozzo con le mie mani — intesa da un Tizio che faceva uno sfogo confidenziale con un amico, nel tempo stesso che due signori, dall'aria di gente di teatro, maltrattavano il maestro Leoncavallo chiamando i Pagliacci, con fine sarcasmo, i Pagliericci, e un tale che mi stava di dietro, discorrendo con non so chi, spacciava intorno all'Argentina, dond'era ritornato da poco, le più grosse panzane del mondo: per esempio, che ci si pagava dieci lire per farsi fare la barba. Poi, in quello stesso giorno, stralci di storie di malattie, di danari prestati e non resi, di liti coi vicini di casa, d'avventure galanti, di gite ciclistiche, e vari di quei discorsi che per un tratto par che si riferiscano a un dato argomento, ma che da una parola si comprende che riguardan tutt'altro, un cosa mille miglia lontana, senza parerci men balordi per questo. E non è uno studio inutile, perchè ci s'impara fra l'altro a proceder cauti nel far la critica su dei frammenti. Ecco ad esempio un dialogo che intesi fra due ragazze nella mia ultima corsa sul tranvai di via Cernaia.
— Uno tra due.... è vergognoso.
— Ma che! Nessuno è lì a vedere.
— Ma ci vedono entrare insieme.
— Che importa? Chi sa quante fanno lo stesso. — Dopo una pausa: — È un gran piacere.
— Sì, ci si sente meglio, dopo.
— È già più d'un mese.... Ne ho proprio bisogno.
— Diamine, — dissi tra me, — ci vuol della faccia. E mi sarebbe rimasto di loro un concetto orribile se non le avessi viste, quando discesero, entrare nello stabilimento di bagni di corso San Martino.
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Maggio, bel maggio, maggio amor dei fiori
e dei legumi, è bello anche sui tranvai che, passando la mattina dei giorni di mercato per le piazze Emanuele Filiberto, Bodoni e Madama Cristina, si trasformano in piccoli orti, magazzini alimentari e dispense ambulanti, piene di colori e d'odori. Vi salgon su da ogni parte, caricandovi le loro derrate, fantesche, bottegaie, cuochi di alberghi, ordinanze d'ufficiali ammogliati, signore con gabbie d'uccelli e vasi di fiori fra le mani; ed è tale qualche volta l'ingombro degli involti e dei canestri cacciati sopra e sotto le panche e dei grossi cavoli posati sulle ginocchia e dei cardi enormi tenuti ritti come torce e dei polli ciondolanti dal pugno delle serve, che non vi si può più muovere un braccio o allungare una gamba senza urtare in qualche cosa di commestibile. Ah! com'è curioso il contrasto fra i cuochi di case signorili che mettono superbamente in mostra le code delle trote e dei fagiani, e i piccoli borghesi dei due sessi che vanno a comperare per necessità economica o per raffinatezza di buongustai, facendo un sacrifizio d'amor proprio, con la speranza di non esser visti dai conoscenti, e dissimulando con mille piccole arti la roba comprata! Ma la signorina bionda ha un bel pigliare degli atteggiamenti poetici o un'aria distratta per far credere di trovarsi là per puro caso: io vedo bene rosseggiare i ravanelli delatori sotto il coperchio mal chiuso del suo canestrino elegante. E il vecchio maggiore giubilato ha un bel tamburinare con le dita la sua borsa di cuoio da viaggiatore, con la quale vuol dare ad intendere d'esser venuto or ora dalla stazione di Lanzo: il cuoio rigonfio disegna bellamente la forma d'un mazzetto d'asparagi, sua desiderata primizia. E non serve che la vecchia contessa, rovinata nel recente disastro delle banche, cerchi di nascondere con l'ombrellino stinto il pacco che si preme con la mano destra sul petto: vedo per uno spiraglio della carta verdeggiare la cicoria, che un tempo ella non toccava mai che con la forchetta e che ora, arrivata a casa, tagliuzzerà con le proprie mani, da cui sono scomparsi gli anelli. Ah povera contessa, chiudi un po' quell'ombrellino, col quale ti pari, non dal disprezzo come credi, ma dal rispetto e dalla simpatia delle anime gentili.... E la giardiniera va, spandendo odori di rosmarino, di basilico, di fragole, di pesci, di caci, di cipolle, d'un po' di tutte le cose, destinate a mense splendide di milionari, a tavole rotonde di stranieri, a poveri deschi di studenti, d'impiegatucci, d'operai, di malati, a luoghi e a mangiatori tanto diversi, quanto sono i modi con cui furono guadagnati i soldi che le pagarono, dalla fatica della schiena all'imbroglio finanziario, dalla vendita della scienza al mercato dell'amore. Poi, ad uno ad uno, tutti i carichi son posti giù, e il tranvai, ripigliato l'aspetto solito, continua la sua corsa leggera e inodora, fin che ritornerà nello stesso punto, dove ripiglierà altri colori e odori e vanaglorie culinarie e pudori aristocratici e peccati di gola mascherati. Tranvai stimolanti, consigliabili, sul serio, a quei pochi malati di anoressia che possono ancor essere sotto il bel sole d'Italia.
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Maggio, bel maggio, maggio amor dei fiori...
Mostravano di sentirne l'influsso, e come! il bel capitano di fanteria e la supposta moglie dell'impiegato postale, che ritrovai una mattina di maggio in un carrozzone chiuso della linea Vinzaglio. Che il loro amore non fosse uscito ancora dalle rotaie dopo un mese e mezzo di corse? Possibile, non credibile. Comunque fosse, era evidente che si trovavano tutti e due in quel periodo critico, nel quale all'amore divampante cominciano a riuscire intollerabili la tirannia del calendario e dell'orario, la simulazione, la menzogna e tutte l'altre astuzie e cautele del tradimento; in quel periodo in cui la passione, accecata dalla propria fiamma e insuperbita della propria forza, illudendosi d'aver dei diritti, ha voglia di buttar via tutti i veli, di scuoter tutti i gioghi, di spezzar tutti i lacci, e d'attaccar battaglia aperta col mondo e con le sue leggi. Sul viso di lei non c'era più segno di timidezza; non si parlavano, ma si fissavano liberamente, e guardavano gli altri con gli occhi arditi, come dicendo: — Ah, non crediate che si voglia fingere! Quello che sospettate è la verità, e non la frodiamo, ma la portiamo in trionfo, e ve la gettiamo sul viso. — Benedetto amore, segno eterno d'“immensa invidia„! Avete notato che in chi n'è spettatore v'è quasi sempre un'espressione di gelosia velenosa? che il mondo, che quasi sempre gode a veder due che s'odiano, par che si roda a veder due che s'amano? Fra i passeggieri che bersagliavano la coppia d'occhiate ostili c'era un signore serio e barbuto che, a giudicar dalla faccia, li avrebbe pugnalati. Non potea star fermo, si tormentava i baffi e soffiava; avrebbe voluto non guardarli e non ci riusciva; avreste detto che era lui il marito ingannato. Riconobbi in lui un erotico, ma d'un ordine particolare: il geloso di tutto il sesso femminile, quello a cui tutti gli amori sembrano un furto e un'offesa fatta a lui, e al quale par che ogni donna innamorata, vedendolo, si dovrebbe staccar dal suo amante, dicendogli: — Scusami tanto; mi sono innamorata di te perchè non conoscevo quel signore: ti pianto. — Come divampava quel carrozzone! Non pareva che lo tirassero i cavalli, ma che lo spingesse avanti la forza della passione, delle gelosie, dei cuori palpitanti e delle immaginazioni accese che portava dentro. C'erano due signorine col viso rosso, due vecchi che avevan tutta l'anima negli occhiali, un giovanetto che pareva magnetizzato; perfino il fattorino pigliava i soldi senz'esame per covar con gli occhi la bella coppia colpevole. Ed io pensavo con pietà a quel povero impiegato delle poste, che forse in quel momento diceva allo sportello, con voce placida: — Niente per lei! — Ah poveretto! E per lui c'era quel po' di roba.
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Maggio, bel maggio, maggio amor dei fiori...
Lo sentiva anche il mio buon veterano di via Garibaldi la sera che lo trovai, col suo cane inseparabile, sulla giardiniera della linea del Valentino, diretta verso Porta Palazzo: in piedi, trionfalmente. Era contento, si vedeva, di star bene, di respirar l'aria tepida, pregna del profumo dei fiori d'acacia: infatti, a ogni crocicchio, girava il capo con vivacità insolita, e guardava tutto, sorridendo alla gente, ai monumenti, alle case in costruzione, ai tranvai che passavano, alle strade lunghe e diritte, e alle Alpi lontane. Doveva esser per lui una di quelle buone giornate che i vecchi ricordano poi come squarci aperti nella loro vecchiaia, nei quali hanno rivisto da vicino e quasi risentito di sfuggita l'età migliore. E sorrideva anche al tranvai che lo portava, che era grazioso e allegro veramente: un giardinetto di cappellini Arton, Vittoria e Romeo, coronati di rose e di pizzi; una nidiata di bimbi bianchi, tutti in ammirazione della uniforme strana d'un ufficiale Bulgaro della Scuola di guerra; due belle ragazze del popolo, in capelli, d'un biondo abbagliante, e tre soldati del genio, un po' eccitati dal Barbéra, che facevan rider tutti con certi commenti comicissimi, accompagnati da risate infantili, sopra un desinare disgraziato che avevan fatto all'osteria. Attraversare la sua Torino in carrozza, per due soldi, con quella bella compagnia, con quel bel tempo, doveva essere per quel vecchio celibe uno dei godimenti più squisiti che gli restavano, qualche cosa come una brillante cavalcata in un passeggio pubblico per un signorino di diciott'anni; e non potè trattenersi dall'esprimermi la sua contentezza quando, nel passare per via Siccardi, lungo il giardino della Cittadella, ci venne in viso un'ondata di profumi dall'Esposizione dei fiori. Voltò verso di me la faccia piena di rughe sorridenti, ed esclamò: — Che bella serata! — Poi si rizzò un momento sul busto come per dire ai vicini, secondo il suo solito: — Son settantotto, sapete! — Poi m'espresse il suo desiderio di veder l'anno dopo l'“impianto„ dei tranvai elettrici e mi disse la sua ammirazione per i “progressi maravigliosi del giorno„ come un uomo che sentisse ancora in sè tanta vita da poterli godere per un pezzo; e s'interruppe per chiamare il suo Ciuchetto con una nota di voce insolitamente sonora, della quale si compiacque, come d'una prova di vigoria di petto. E s'interruppe da capo in via Garibaldi per fare una profonda scappellata, con una inclinazione reverente del capo. Era passata in carrozza la principessa Letizia. E capii che quell'incontro era per il suo cuore di buon vecchio piemontese monarchico il coronamento felice d'una giornata d'oro.
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Maggio, bel maggio: lo sentiva nelle vene anche il piccolo monello che mi fu affidato.... Una corsa calamitosa. Salii a Porta Palazzo sul tranvai, ancor fermo, della linea di Borgo San Salvario. Ero solo. Una donna — una nonna, mi parve — mi mise accanto sulla panca un bel bimbo bruno di circa sett'anni, dicendomi: — Scusi tanto, monsù; lei va a capolinea?... E allora, vorrebbe esser tanto buono da tener d'occhio questo bambino, che deve discendere da una sua zia in via Berthollet, numero sedici? — E ringraziatomi, ripetè la raccomandazione al fattorino, che appena le badò. Il tranvai partì. Io feci una carezza al mio raccomandato, per rassicurarlo; ma riconobbi subito che non n'aveva bisogno, poichè nell'atto stesso mi levò di mano la canna, dandomi del tu, senza preamboli, e tirò a disfarmi il nodo della cravatta.
È varia e dilettevole quella linea, che dal corso Regina Margherita svolta in un tratto di strada ariosa e chiara, aperta da poco; poi rientra in Torino antica, fra il duomo austero e i palazzi foschi del Chiablese e del Seminario, dove irrompe un soffio di vita giovane dalla Via Quattro Marzo; e, proseguendo per la via rumorosa del Venti Settembre, passa per quella nuovissima di Pietro Micca, in mezzo a una allegrezza chiassosa di architetture ornate, a vecchi crocicchi in rovina, che non si riconoscon più, a fughe di colonne snelle, di cantonate fresche, di prospetti nuovi, davanti ai quali ripassan nella mente visioni confuse di città straniere e ricordi di case sparite e d'amici morti e immagini di finestre e di terrazzi noti, che pare si sian dissolti nell'aria! Bello si, ma un po' triste, perchè tutto questo non è stato fatto per voi, e si sente di più la vecchiaia che s'avanza vedendo la città che ringiovanisce. — Tutto questo è fatto per te e per gli altri monelli della tua generazione — pensavo, guardando il mio piccolo protetto sconosciuto....
Un vero serpente questo piccolo protetto, che non mi dava requie un momento. Si voleva rizzare in piedi sulla panca, si sporgeva fuori del tranvai, agitava la mia canna per aria, metteva i piedi nella schiena ai passeggeri seduti davanti, i quali si voltavano a guardar me, come per domandarmi se era quella e non altra l'educazione che avevo saputo dare al mio figliuolo. Ed io fremevo; ma potevo commetter la viltà di dire che non era mio? E non ero che al principio delle mie tribolazioni.
Lo scellerato, nell'ultimo tratto di via Venti Settembre, durante una breve fermata, si mise a compitare a voce alta l'annunzio del Cacao Talmone dipinto sopra un altro tranvai pure fermo, insistendo con malizia perfida sulle due prime sillabe, tanto che m'attirò addosso dai vicini delle occhiate severe. — Vergogna —, gli dissi piano; ed egli mi rispose forte: — Vergogna a te — fraternamente. Poi, sul corso Vittorio Emanuele, essendo salito accanto a me un vecchio signore col gozzo, egli credette opportuno di darne la notizia al pubblico, dicendomi nell'orecchio, ma a voce spiegata: — A l'a 'l gavass! — Feroce mascalzone! Avevo il prurito alle mani; ma come si fa? dovevo frenarmi e inghiottire il disonore di padre putativo, contentandomi di fargli degli occhiacci, di cui si rideva: ero in sua balìa, e lo capiva. E me ne fece ancor una in via Nizza, dove, vedendo salire una donna incinta, esclamò con una intonazione prolungata di stupore: — O che pansa grossa! — E questa volta vidi correre per le panche un fremito d'indignazione contro di me, e la donna stessa disse: — Bela educassion! — guardandomi in faccia. Non ci reggevo più. Fu una vera liberazione quando potei gridar alt davanti al numero sedici di via Berthollet e rimettere il marmocchio al fattorino, dicendogli in cuor mio: — Va, piccolo carnefice, e mi colga il malanno se accetterò ancora la tutela d'un malfattore par tuo neanche per un tragitto di trenta passi!
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Su quella stessa linea, correndola in direzione opposta, rividi due giorni dopo donna Chisciottina, col suo bimbo inseparabile. Me li trovai seduti davanti sulla giardiniera, e stando voltato un po' di fianco, con l'aria di leggere le insegne fuggenti delle botteghe, potei sentire gran parte d'un discorso accalorato ch'essa faceva a un'altra signora; la quale l'ascoltava sorridendo, più attratta dall'originalità, a quanto mi parve, che dal soggetto della sua eloquenza. Aveva i capelli un po' scomposti, come sempre, e macchiato d'inchiostro un dito della mano con cui gestiva, come una scolaretta arruffona; e diceva, diceva, con la sua calda voce di contralto, sgranando gli occhioni e enfiando il collo. — Disgrazie su disgrazie, vede. La figliuola, figliuola unica, ch'era già malaticcia, peggiorò, e dopo quel colpo non s'è più riavuta. Io le mandai il dottor Rizzetti. Si figuri che ogni notte sognava la disgrazia e si svegliava spaventata, gridando. E poi la paura che le mettessero il padre in prigione e che perdesse il posto; una tristezza da morire, s'immagini; una ragazza senza madre, poveretta, tutto il giorno in casa sola.... Io lo andai a raccomandare alla direzione; ma già non c'era pericolo perchè non ci aveva avuto colpa. Lui però non è più quello di prima. Da principio s'era dato a bere, per stordirsi, si capisce. S'è fatto torvo, un po' strambo, con certe idee fisse, e parla più poco. Fa compassione a sentirlo, creda, quando dice quel che prova a ripassar di là, che rivede tutto, tutto, e gli prende il convulso ogni volta che un bimbo attraversa la strada....
Ebbi un barlume, a quel punto, che il suo discorso si riferisse a una persona e a un fatto che m'eran noti. Le parole che aggiunse me n'accertarono.
— No, proprio, non c'ebbe colpa. Bisogna sentirlo ripetere dieci volte, col pianto nella gola: — Giuro per l'anima della mia povera madre che non l'ho visto passare! — Chi dice quello a quel modo dice la verità. Se vedesse quella povera casa! La ragazza a letto, in quello stato; lui seduto davanti a un pezzo di polenta che non può mandar giù; e sempre quel povero morticino in mezzo a loro due, tutto in sangue, e quel grido, quel grido che sentono sempre! Ma ora almeno ha smesso di bere, tante glie n'ho dette. Dicono: chi ha preso quel vizio, è inutile di ragionarlo. Ma è perchè non ne han voglia. Ma quando io gli dissi: — Vedete, se diventate un briacone, diranno che lo siete sempre stato, e che è per questo appunto, per vostra colpa, che la disgrazia è seguita — questa ragione gli fece senso. E poi gli dissi: — Non voglio! Capite? Ve lo proibisco in nome della vostra povera moglie morta, e della vostra figliuola malata, che m'ha posto affetto come a una mamma! — Pover uomo, si mise a piangere e mi baciò le mani. Ah, quel che può fare una donna, quando ha un'anima! Ma io non posso esser da per tutto e far tutto....
E mentre diceva questo con quella voce calda e violenta e con quel gesto vibrante che faceva sorridere la sua amica, s'indovinavano in lei dei tesori d'amore ardente, la forza contro il dolore, il coraggio contro la morte, un disprezzo profondo delle false convenienze sociali, una semplicità virginea dell'animo e un vigore di fibra virile, e sul suo piccolo viso bruno e irregolare appariva una bellezza fuggente, come a bagliori, ma d'una forza di seduzione indefinibile, altera a un tempo e dolcissima, cento volte più seducente che la bellezza composta d'un viso bello davvero.
— Ecco dov'è accaduta la disgrazia — disse, quando il tranvai, attraversata la via Santa Teresa, s'inoltrò nel nuovo tratto di via Venti Settembre, e, dette quelle parole, si strinse al petto il suo bambino, coprendogli il capo con le mani, come per difenderlo da un pericolo. Si riscosse un momento dopo ed esclamò vivamente, toccando l'amica col gomito: — Eccolo là!
Ci veniva incontro un'altra giardiniera, sulla quale riconobbi al primo sguardo il cocchiere dai capelli grigi, che avevo visto passar fra le guardie in mezzo alla folla, la mattina della disgrazia. Egli passò col viso accigliato, con gli occhi fissi davanti a sè, senza veder la signora.
— Si volti indietro —, disse questa all'amica — e stia attenta. Vedrà che passando in quel punto si fa il segno della croce. Dice che se lo fa sempre dopo quel giorno.
Tutt'e due si voltarono, mi voltai anch'io, e benchè il tranvai fosse già distante un cinquanta passi, vidi benissimo l'atto del cocchiere, che si segnò.
— Ha veduto? — domandò la signora all'amica. — Ha veduto?
E disse queste parole con un tale accento che non mi maravigliai di vederla nello stesso tempo premersi un dito nel cavo dell'occhio come per arrestarvi una lacrima. E compresi: era una lacrima di contentezza: se quegli avesse continuato a bere, non avrebbe fatto quell'atto; non beveva dunque più; essa aveva vinto! — A me balenò un altro pensiero: — S'è forse segnato appunto perchè ha bevuto. — Ma subito mi rimproverai di quel pensiero. — Perchè non credere al bene? Credici, poichè anche il crederci è bene; credici tu pure. — E al vedere il bel sorriso, quasi di compiacenza materna, che brillava negli occhi umidi della signora, mi suonò in mente la dolce esclamazione del Fogazzaro: — Sì, è bella l'anima umana!
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Il “bel maggio„ mi fece rivedere anche il mio giovane pittore, sull'ultimo tratto della linea di Borgo San Secondo, proprio nell'ora della mattina in cui quel tranvai porta una raccolta tutta sua propria di passeggieri: monache, medici, impiegati del Magistero dell'ordine Mauriziano, e parenti e amici di malati, diretti al grande Ospedale, con pacchi, involti di biancheria, frutti e libri fra le mani, alcuni col viso sereno, i più tristi, tutti pensierosi. Nel punto che il tranvai usciva dall'abitato in mezzo ai prati verdi, in faccia al Monviso quasi svanito nell'azzurro del cielo, salì il bel giovanotto, roseo e fresco, che pareva il mese di maggio in persona, e col piede ancora sul montatoio mi accennò allegramente che n'aveva una curiosa da raccontarmi. No, non della signora delle coincidenze, che era ancora un mistero per lui, benchè credesse d'aver trovato certe tracce...; un altra, un caso amenissimo, destinato alla rubrica della gelosia coniugale in tranvai, visto da lui stesso. Si trattava d'una signora maturotta, la quale, salita sopra una giardiniera nel corso Cairoli, dalla parte di dietro, senz'esser vista dai passeggieri che stavan davanti, aveva scoperto sulla prima panca la schiena di suo marito, seduto accanto a una loro giovane amica, e stretto con questa in una conversazione fitta e viva, accompagnata da quelle mosse del capo, da quegli atteggiamenti adoratorii, da quella continuità e intensità d'attenzione sorridente, che non lascian dubbi sulla natura della relazione fra un uomo e una donna. Per veder meglio il fatto suo, la signora s'era messa in piedi sulla piattaforma, e da quell'osservatorio era stata un pezzo a contemplare con gli occhi dardeggianti e col viso livido il profilo amoroso del suo coniuge, bevente le parole amate, anzi i due profili, che parevan di due colombi che si beccassero, non perdendo un lampo dei loro occhi, non un guizzo delle loro labbra; e il mio amico era rimasto in osservazione di tutti e tre, aspettando la scenetta che poi avvenne. Alla prima fermata del tranvai, vicino al ponte di ferro, la signora era discesa come una freccia dalla piattaforma di dietro e salita come uno spettro su quella davanti, proprio in faccia al marito e all'amica.... Ah quel marito! Che mutamento di frontespizio! Una vera trasformazione dei connotati, a vista, come suol dirsi, e l'amica idem: due facce di defunti; e il colmo del comico era stato questo che, separandosi lui e lei per istinto come un corpo spaccato in due, la moglie s'era seduta d'un colpo in mezzo a loro, facendo una riverenza ad entrambi per salvare le apparenze, ma con due occhi che parevan due tizzoni d'inferno.... Ah no, il tranvai non era un nido d'amore da consigliarsi per i mariti infedeli.
Gli domandai, a quel proposito, a che punto fossero le sue ricerche matrimoniali sulla rete tranviaria. Con mio stupore, lo vidi arrossire un poco, e scrollare una spalla, come se gli avessi rammentato una sciocchezza di cui si vergognava, e che non avrei dovuto prender sul serio. Rimase pensieroso, però, qualche momento; e poi cambiò discorso ad un tratto, domandandomi: — Che cosa pensa lei delle studentesse?
Non capii la domanda. — Di quali? — domandai alla mia volta.
Ma mi accorsi subito che m'aveva fatto quella domanda non per sentire il mio parere, ma per dirmi il suo, e me lo disse con l'accento di chi desidera di non esser contraddetto, con un calore e un'abbondanza di parole insolita in lui. Mi disse che a lui quello che si diceva della sconvenienza di mandar le ragazze ai licei e alle Università pareva un pregiudizio ridicolo; che era stupido il parlar di pericoli e d'influssi immorali, poichè soltanto le civette nate li correvano e li subivano, e che anzi portavano esse appunto gli uni e le altre fra i maschi; che le ragazze veramente oneste e serie si facevano rispettare, non solo, ma esercitavano un influsso buono sui giovani, e che ne poteva citar degli esempi; che la virtù vera e solida non era quella che si fonda sull'ignoranza delle brutture umane, ma quella che vien dall'orrore che si risente conoscendole, e che in ogni caso il velo dell'ignoranza lo squarciavano alle ragazze le conversazioni che udivano ogni giorno e i romanzi e il teatro e i balli e i giornali, assai prima che arrivassero ai loro orecchi le volgarità dei condiscepoli volgari, e che in tutti i modi.... e che insomma.... e che quand'anche....
Ma vedendo che lo guardavo con maraviglia, arrossì da capo, e saltò in un altro discorso, domandandomi se avessi più visto la Chisciottina.
Gli raccontai il fatto, ed egli me ne disse un altro, che aveva saputo da un amico un mese addietro. Un giorno, sul tranvai, avendo visto un ragazzino del popolo che meditava sul disegno pornografico d'una scatola di fiammiferi, la signora gli aveva comprato la scatola con quattro soldi e l'aveva buttata sulla strada; e alcuni passeggieri intorno essendosi messi a ridere come d'una stravaganza, lei, indignata, gli aveva rimbeccati con un epiteto, come dire? un epiteto non proprio da signora riguardosa, ma da donna sincera....
Nel dir questo, mentre il tranvai entrava nel viale di Stupinigi, rompendo in due una festosa brigata di signori e di signore in bicicletta, egli si dondolava sul montatoio, con un piede per aria, pronto a discendere, e mi sorrideva; ma c'era sotto quel sorriso, su quel bel viso roseo, come l'ombra d'un pensiero nascosto, d'un leggiero turbamento, non momentaneo, ma consueto; un'ombra leggerissima, la quale mi fece sospettare ch'egli avesse già incontrato sulla rete d'una delle due Società quello a cui voleva far credere di non aver più pensato.
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E “maggio, bel maggio„ rideva pure ai miei due piccoli sposi di borgo San Donato, che un dopo pranzo di domenica, andando al Pallone, rividi sul tranvai pieno zeppo della barriera di Casale, seduti sulla prima panca; lei con un cappellino guernito di fiori rossi, che pareva nuovo fiammante, e un ombrellino lilla; lui con un cappello di paglia gialla, fasciato d'un nastro azzurro, che doveva esser fresco di bottega. Quello sfoggio straordinario mi fece pensare che fosse toccata loro una piccola fortuna, una eredità di qualche biglietto da cento, o una “gratificazione„ inaspettata al marito, più probabilmente, e che andassero a festeggiarla con un modesto desinare in qualche modesta trattoria fuor di porta. Che fossero in uno stato d'animo insolito lo dimostrava il fatto che lui, sempre così timido e riserbato, tenesse un braccio disteso sulla spalliera attorno alle spalle di sua moglie, la quale piegava un po' il capo dalla parte sua. E nel guardar quell'atto, ch'egli faceva, di stringersi al cuore e quasi di difendere quella sua povera sposa, che nessuno si sarebbe mai sognato d'insidiargli, quell'atto che pareva dire: — Vedete, questa poveretta che a nessuno piace e che nessuno guarda è il mio amore, il mio tesoro, la mia vita, — mi commosse questa idea: che a pigliarsi una libertà simile egli era stato forse incoraggiato dal pensiero umile e triste che una dimostrazione d'affetto fra due povere creature come loro non avrebbe attirato l'attenzione d'alcuno, non sarebbe forse nemmen parsa una dimostrazione d'amore. Ma da queste considerazioni mi stornò un accidente strano, che non avevo mai visto sul tranvai. Disputavano da un poco, a voce bassa, ma in tuono aspro, due coniugi sulla quarantina, vestiti con decenza, seduti sur una delle panche di mezzo. Tutt'a un tratto il marito mise un braccio dietro la spalliera e picchiò un pugno nella schiena di sua moglie, sonoro come un colpo di tamburo. Tutti si voltarono, si levò un mormorìo di sdegno; ma la moglie non rifiatando, lisciandosi la barba il marito, immobili e tranquilli tutt'e due come se nulla fosse stato, tacque il mormorìo, e allo sdegno succedette nei passeggieri una stupefazione comica di quel pugno improvviso e solitario, che aveva troncato così di netto il diverbio, con apparente consenso della picchiata, come un segnale che fosse stato convenuto fra la coppia per rimettersi d'accordo nei momenti critici. E non ci fu altro. A guardar quella scena s'eran voltati tutti fuor che i due sposi; i quali non si mossero dal loro atteggiamento fino all'arrivo alla barriera. Qui, prima che il tranvai si fermasse, la sposa s'alzò, e vedendola così ritta di fianco, riconobbi nella sua persona gracile quella curva leggiera che è il primo indizio visibile d'una nuova vita umana. Allora compresi; compresi il perchè dello sfoggio insolito e del desinare fuor di porta e del braccio appoggiato sulla spalliera in atto di protezione amorosa! I fiori rossi, l'ombrellino lilla, la cappellina nuova e l'atto carezzevole erano per lui; per lui essi andavano a fare il rialto in campagna; per lui erano il lusso e la festa. E se non me l'avesse detto la curva, me l'avrebbe fatto pensare l'atto di premura e di rispetto gentile con cui il giovane, disceso prima, tese le due mani per aiutar lei a discendere, come se già scendessero in due. Mi fermai a guardarli mentre s'allontanavano, stretti l'uno all'altro, nel polverìo dello stradone. Poveri e buoni figliuoli! Se avessi avuto la lanterna miracolosa di Aladino avrei trasformato la loro trattoria in un palazzo e fatto cadere sulla loro povera mensa una pioggia di fiori e di diamanti.
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Ma il “bel maggio„ non rideva per la povera vecchietta di Pozzo di Strada. Mi bastò uno sguardo, la mattina che la vidi ritta in fondo al tranvai di via Garibaldi, con accanto il suo sacco solito e gli occhi fissi nel vuoto, per capire che non aveva ancora avuto notizie del suo Giacolin, ch'ella si torturava ancora il cervello e il cuore raffigurandoselo a volta a volta prigioniero, morto, mutilato, famelico, errante come una belva di tana in tana per la terra misteriosa, di cui non le era nota altra cosa fuor del nome maledetto. Erano i giorni che si faceva la questua a benefizio dei feriti e dei prigionieri d'Africa. Dei giovani signori, con una scritta sul cappello, salivano a raccoglier danaro sui tranvai, porgendo un bossolo di latta. A metà di via Garibaldi salì sul nostro un giovanotto elegante, che pareva uno studente, e passò di panca in panca, lungo i due lati, tenendosi sul predellino. Giusto, ecco uno dei tanti vantaggi che offre la carrozza di tutti: chi osa rifiutare un soldo per beneficenza lì sotto gli occhi della gente? Pochi. Vidi però tra questi pochi dei signori. Seguitai con lo sguardo il raccoglitore fin che arrivò accanto a me sulla piattaforma. Quando egli mise il bossolo davanti alla vecchia, questa non capì, e lo guardò con quanta maraviglia poteva ancora manifestare il suo viso quasi pietrificato nell'espressione d'un pensiero unico. — Per i prigionieri e i feriti d'Africa! — disse il giovane in dialetto, spiccicando le sillabe. A quelle parole si fece sul viso di lei come un chiarore vago di crepuscolo, e i suoi occhi socchiusi s'apersero. Lessi in quello sguardo il suo pensiero: dar qualche cosa era come fare atto di fede nella sopravvivenza del suo figliuolo, era quasi un comprarsi un po' d'illusione ch'egli potesse ancora ricevere un benefizio. Frugò in una tasca del grembiule, tirò fuori un soldo, ma lo ripose: le pareva poco: cavò una moneta di nichel — il suo pane d'un giorno, forse, o il vino che la teneva ritta per due, — e con l'atto d'una divota che fa l'offerta al santo a cui chiede una grazia, guardando il giovinotto con un'espressione triste di simpatia e quasi di gratitudine, come se proprio lui avesse dovuto portare al suo figliuolo il suo obolo, mise la moneta nel bossolo, trattenendovi su un momento la mano corta e rugosa, che tremolava; poi rifece il viso di prima, immobile e chiuso, con lo sguardo fisso lontano sulla visione di sangue e d'orrore che da sei mesi la torturava. Un passeggiere accanto a lei rifiutò bruscamente l'oblazione, dicendo forte al raccoglitore: — No, perchè son certo che ai prigionieri non ci arriva neanche un soldo! — Ah, barbaro, se anche il sospetto orribile fosse stato verità! Ma per fortuna passava il tranvai in quel punto davanti alla chiesa di San Dalmazzo, e la povera vecchia, voltandosi per farsi il segno della croce, non sentì.
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Ah, quante miserie, anche nel “bel maggio„ porta la carrozza di tutti! Non ne potevo immaginare una così triste come quella che scopersi la sera dopo in quel povero fattorino spersonito, che si chinò cortesemente a raccogliere lo scontrino cadutomi dì mano, sull'ultimo tranvai della linea di San Secondo, dove ero solo passeggiere. Nel ringraziarlo, lo guardai in viso, e vedendolo pallido, con un'aria spaurita, e parendomi che gli tremassero le mani, gli domandai se era malato. Rispose che non era; ma che era stato; e lì per lì non volle dir altro; ma pareva non aspettasse che una parola benevola, che gl'inspirasse fiducia, per dir di più, per dare all'animo uno sfogo di cui aveva bisogno. Gliela dissi: non ebbe effetto subito; insistetti, e allora parlò; parlò con una voce accorata e tremante, nella quale si sentiva una profonda sincerità. Mesi addietro, sopra un tranvai di quella stessa linea, tre sconosciuti presi dal vino, irritati d'una modesta osservazione fatta da lui per una quistione di scontrini, gli avevan menato al capo una bastonata terribile, che l'aveva mandato per un mese all'ospedale. Quei tre eran stati riconosciuti; la direzione della Società aveva mosso contro di loro una causa penale, chiedendo a vantaggio di lui un risarcimento di danni, e la causa era in corso; ma questo appunto lo angustiava. Egli avrebbe voluto che si desistesse dal procedimento perchè temeva una vendetta, e il suo timore, eccitato a poco a poco dal lavorìo continuo dell'immaginazione, era diventato un vero terrore. — Capirà — mi disse — noi siamo esposti giorno e notte. A fare un colpo.... è un momento. E se me lo fanno? E se mi rendono inabile al servizio? Io ho moglie e una bambina; una moglie così buona, una bambina che mi vuol già tanto bene....
La sua voce si strozzò; mi fece pietà; cercai di rassicurarlo. Ma fu inutile. Riconosceva giuste le mie ragioni, ma rispondeva: — Sono indebolito, non son più io; che cosa vuole? Ho paura. Di giorno, tanto va; ma quando vien sera, quando vedo accendere i lumi, mi comincia a pigliar l'affanno, a tremare il sangue addosso.... Che cosa serve? Non son più io, le dico, sono indebolito. Ho passato tante notti senza dormire, ho sofferto tanti dolori alla testa, che farneticavo per delle ore, e poi son stato un pezzo in convalescenza, a mezza paga, e quante sere sono andato a letto digiuno per lasciar da mangiare alla mia bambina! Eppure.... non li avevo mica offesi, una semplice osservazione.... Io son rispettoso con tutti.... Lei potrebbe vedere: tutti i passeggieri che mi conoscono mi salutano, mi vogliono bene.... Ma! Così son ridotto. — E ripeteva come un ritornello doloroso, che gli fosse confitto nel cervello: — Fin che è giorno, meno male; ma la sera, quando vedo accendere i lumi....
E ciò dicendo guardava qua e là, all'imboccatura delle strade buie, come per vedere se ci fosse gente appostata, e tornava a ripetere: — Sono indebolito.... Ho perso molto sangue....
E mi fece anche più pietà poco dopo, quando lo vidi chiedere i soldi ad alcuni passeggieri con una cortesia umile e quasi peritosa, come se in ogni persona egli vedesse un nemico che gli bisognasse ammansire, un difensore che gli convenisse d'assicurarsi. Povero ragazzo! E pensavo a chi sa quanti, per il ritardo d'un secondo a far fermare il tranvai o per una parola d'osservazione sopra un soldo sospetto, l'avrebbero quella sera stessa trattato d'infingardo o di villano e minacciato d'un ricorso alla direzione. Ah quante piccole inique crudeltà, quante piccole ingiustizie spietate si commettono continuamente, senza saperlo.
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E quante ingiustizie anche di puro pensiero! Trovo notato agli ultimi di maggio: il briaco, e ricordo un quadro, da cui si potrebbe cavare una forte scena di commedia satirica: un carrozzone chiuso della linea dei Viali, nel quale, in mezzo a una corona di signori e di signore eleganti, siede, piegato in due come un sacco mal ripieno, un uomo sconciamente briaco, a cui cascano i capelli grigi sulla fronte nera di carbone e pende dalla bocca bavosa un mozzicone di pipa spenta che gli piove cenere sulla giacchetta unta e strappata. Egli guardava i vicini con un sorriso d'ebete, soffregandosi le ginocchia con le mani nere e dondolando il capo da una parte, come se meditasse parole di scherno che non poteva più dire, e negli occhi socchiusi che ora brillavano ora si spegnevano mostrava a vicenda la coscienza triste del suo abbrutimento e un senso di acre dispetto per il ribrezzo che s'accorgeva di destare. Ribrezzo, infatti, e nausea e sdegno esprimevano i visi dei passeggieri costretti a respirare il lezzo di quell'alito e di quei cenci obbrobriosi; e fra quei visi c'era quello d'un signore sconosciuto, che mi conosceva; il quale, fissando me dopo aver guardato quell'uomo, mi disse chiaramente con l'espressione del suo sorriso: — Son questi che lei vuole portar su?
— Ebbene, sì, — gli avrei voluto rispondere. — Sono questi; questi prima degli altri, certamente. Ah lei s'inganna se crede che l'abbrutimento di costui sia vergognoso per lui soltanto. O come accade che nessuno di noi non si mostra mai in quello stato se non perchè sulla china che vi conduce siamo arrestati da cento ritegni dell'intelligenza, della coscienza, dell'educazione, della compagnia, che non son merito nostro, ma che furono messi in noi, o fra i quali siam nati, e che quest'altra gente non trova intorno a sè nè in sè stessa? E che cosa facciamo noi per mettere in loro questi ritegni? E che mai di bello e di nobile e d'accessibile a tutti mettiamo noi fra loro e la taverna, che li attragga e li svii? E siamo ben sicuri di non dar loro che dei buoni esempi?
Il mio soliloquio fu interrotto a Porta Palazzo da una comitiva chiassosa di signori che salirono alla rinfusa sulle due piattaforme, e che, ripartito il tranvai, continuarono a chiacchierare e a ridere rumorosamente, apostrofandosi da una parte all'altra, per gli usci aperti, con appellativi comici e gesti burleschi. Venivano dalla stazione di Lanzo, erano andati a fare una ribotta in qualche paese vicino, alla quale alludevano, scherzando su certi piatti riusciti male; avevano il viso acceso, la voce piena e vibrante, la parola ardita e pronta di chi ha trincato del vino generoso; eran tutti a cavallo del confine che separa l'ebbrezza decente dall'ubbriacatura volgare, in quello stato in cui certi oscuramenti improvvisi dell'intelligenza e certi impedimenti istantanei dell'organo della parola si dissimulano ancora con felice accortezza; e da certi accenni che si ripetevano in mezzo a quel guazzabuglio di voci, si capiva che la giornata non era finita, ch'essi vedevano davanti a sè, all'orizzonte, un'altra serie di libazioni, il quelque chose au de là consigliato dal Brillat-Savarin per far più vivo il piacere dei banchetti. Ed eran così riboccanti di vita e di buon umore che i signori e le signore del tranvai li guardavano con manifesta simpatia e ridevano dei loro gesti e dei loro motti; alcuni dei quali, un po' liberi, provocavano delle smorfiette graziose di scandalo, ma accompagnate da un sorriso di benigna indulgenza.
— Eppure, — pensavo guardandoli, — hanno troppo bevuto anche questi, che avrebbero potuto ricrearsi in tanti altri modi più degni. Se non sono briachi affatto come l'altro non è perchè abbiano bevuto meno, ma perchè hanno bevuto meglio. Se son più puliti di lui, è perchè fanno un lavoro più pulito del suo. Se non cascan dal sonno come quello, è perchè hanno meno faticato ieri e dormito di più questa notte. In realtà, se si tien conto delle condizioni diverse, essi rappresentano un'intemperanza non meno volgare, forse più colpevole di quella del briaco, e certo d'esempio più pericoloso. E perchè dunque essi sono scusati e paiono amabili, e non ci son scuse per l'altro, e il ribrezzo che desta costui non è accompagnato almeno da un sentimento di commiserazione?
A un certo punto il briaco attirò l'attenzione d'uno della brigata, il quale lo accennò agli altri, e tutti si misero a guardarlo, che già dormiva, facendogli addosso un fuoco di fila di frizzi e di risate. Buon Dio! Erano delle bottiglie da due lire che beffeggiavano un litro da otto soldi.
E anche dentro al carrozzone tutti ridevano.
Non tutti. Una signorina bionda, giovanissima, seduta in un angolo, restava seria e guardava quell'ubbriaco con un'espressione di tristezza e di pietà, corrugando la fronte ad ogni scherzo degli spettatori come per una sensazione penosa. Quanto mi parve bella! Il Parini avrebbe rifatto per lei il suo famoso verso, le avrebbe detto: — Tu sei giusta ed umana!
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Quel viso è notato con altri, fra i miei ricordi di maggio, nella colonna delle “simpatie di tranvai„ che in quel mese furono molte, forse per l'influsso della dolce stagione, che rischiara e addolcisce gli animi. Simpatie di tranvai! Forse che son di natura diversa dall'altre? No certo; ma da quelle che c'inspira la gente incontrata per via si distinguono in questo: che c'entrano più addentro e ci rimangon più a lungo perchè nella carrozza di tutti c'è maggior tempo a osservare i visi e s'aggiunge spesso all'effetto di questi quello del suono delle voci. Quanti ne ricordo, solo ch'io mi raccolga un poco: visi veduti in pieno, di profilo, a traverso ai vetri, accesi dai riflessi colorati dei fanaletti, incorniciati nel vano degli usci, appoggiati alle colonnine delle giardiniere, spiccanti sul verde degli alberi, disegnati sulle acque lucenti del Po, osservati per pochi minuti e scomparsi forse per sempre; visi di ragazze, di operai, di signore, di giovanetti, di vecchi, di mamme, esprimenti una santa rassegnazione al dolore, anime benevole e serene, spiriti forti e generosi pronti a ogni sacrifizio pel bene altrui, cuori ardenti d'ambizioni nobili e di nobili speranze, vite oscuramente operose e benefiche; visi, di cui il primo effetto simpatico mi fu affermato e accresciuto da uno sguardo, da un sorriso, da una parola, da un'espressione fugace degli occhi. Come in una cascata di ghiaia grigia si vedono brillare dei punti luminosi come diamanti, così nella moltitudine indifferente che vi passa davanti in quelle scarrozzate quotidiane si vedono balenare a quando a quando, certi giorni più e certi giorni meno, di questi aspetti umani consolanti, a cui si ripensa con amore e che si rivedono con piacere, che non si conosceranno mai e si ricorderanno sempre; sembianze d'amici della fantasia, che noi salutiamo con un barlume di sorriso e che ci rendono il saluto con un bagliore dello sguardo, immagini senza nome, raggi d'anime passanti, argomenti personificati d'una dolce filosofia, che vi tengon vivi nel cuore la fede nel bene e l'amore per i propri simili. Quanti ne ricordo, in forma di medaglioni, di busti o di statue, secondo l'atteggiamento in cui mi s'offrirono, con lo scontrino fra le labbra, col portamonete fra le mani, col braccio teso verso il campanello, veduti una volta sola, riveduti cento volte, intravvisti nell'incontro di due carrozzoni, fuggenti su tutte le linee; ma tutti raggruppati in disparte nella mia memoria come un'umanità privilegiata, come una Torino ideale! E nei momenti di sconforto della vita e d'odio del mondo i cari fantasmi mi s'affollano intorno, dicendomi: — E noi? E noi, dunque? Perchè ci dimentichi? Tu sei ingiusto! — E grazie a loro mi riconcilio col prossimo, e anche nei giorni grigi e freddi dell'inverno risento l'alito della primavera, l'influsso del “bel maggio amor dei fiori„ che raddolcisce il sangue e rischiara l'anima.
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E il “bel maggio„ si chiuse con un caso amenissimo, degno d'un sonetto del Belli. Immaginatevi una giardiniera domenicale, corrente alla luce del sole sul corso Regina Margherita, affollata di signori e di signore in ghingheri, fra cui luccicano cappelli cilindrici, fluiscono barbe gravi, nereggiano cappelli di preti e scintilla il chepì dorato d'un colonnello d'artiglieria: una carrozzata di borghesia silenziosa e seria, che par che vada a una cerimonia solenne, scortata da una guardia municipale in grande uniforme, ritta accanto al cocchiere. Un'altra giardiniera, sul binario accanto, le viene incontro di corsa, stipata essa pure di gente per bene, con la sua brava guardia impalata sulla piattaforma davanti, con sette schiere di facce dignitose di benestanti, di madri severe, di signorine composte. Ebbene, accadde questo. Nel momento che le due giardiniere passavano accanto l'una all'altra, un giovinotto, seduto sul davanti di quella dov'ero io, e una ragazza, seduta sul davanti dell'altra (due amanti, come poi si capì, che s'incontravano per caso, forse dopo una lunga separazione forzata) si riconobbero al primo sguardo, e scattando come due molle, con le braccia tese verso i cocchieri, lanciarono insieme due grida di gioia frenetica: — Alt! — Ferma! — I carrozzoni si fermarono alla distanza di dieci passi l'un dall'altro, i due giovani si precipitarono a terra, divorarono lo spazio frapposto e si abbracciarono furiosamente, scambiandosi quattro baci risonanti come colpi di carabina ad aria compressa. E dall'alto delle due giardiniere, lasciate ferme un momento dai due cocchieri stupefatti, come dall'alto di due tribune di spettacolo, borghesi gravi, mamme severe, signorine composte, e ministri della chiesa e ufficiali del regio esercito e rappresentanti armati del municipio.... stettero a vedere. Curiosa situazione! Appena i due tranvai ripartirono, un signore grasso e maestoso, ch'era vicino a me, espresse con parole risentite il pensiero comune, scrollando il capo dignitosamente: — Abbiamo fatto una bella figura! —
Eh sì, proprio, da cantori di maggio.
CAPITOLO SESTO.
Giugno.
Gran cosa la carrozza di tutti! Col sopraggiungere del caldo, che fa star molta gente a capo scoperto, mi si schiuse sul tranvai un nuovo campo di studio: quello delle teste; poichè dove mai, come sulle giardiniere, potete aver per un pezzo sotto gli occhi, così da vicino, in così piena luce, e, se ci state seduti di dietro, osservabili a così bell'agio, le teste dei vostri simili? Teste che, vedute di passata per la strada, vi appariscono ancora in buon stato, vi mostrano qui mille miserie. Radure, spiazzate, tentativi supremi di divise, che non son più sentieri fra l'erba fitta, ma stradoni in rovina a traverso a sodaglie desolate; liste di capelli ricondotti dalla nuca sull'occipite e fino alla fronte, in forma di salici piangenti sulla tomba del cervello; parrucche mal messe, che una brusca scappellata volta di sbieco, rivelandovi che la testa d'un tale non è tutta roba sua; tutte le più compassionevoli industrie senili intese a mascherare i guasti del tempo dalle orecchie in su vi si palesano sulle giardiniere. E qui scoprite le pennellature grossolane dei Luca fa presto, che lasciano i capelli bianchi alla radice, le capigliature tinte a prezzo ridotto, d'un nero lugubre, che danno ai visi vizzi a cui fan cornice l'aspetto di lettere mortuarie, e le chiome e le barbe variate di molti vaghi colori, che paiono state strofinate sopra una tavolozza. O tinti, il tranvai è traditore, guardatevene. Che c'è di più pietoso e di più comico insieme che il veder salire a stento, ansando, afferrandosi alle colonnine con le mani tremanti e ricascar di peso sulla panca, spossato dallo sforzo, un uomo con la barba e la capigliatura corvina d'un ventenne? Oh quante vecchiaie ribelli alla natura! Quant'è rara la gente che sa invecchiare in santa pace! E scopersi anche il segreto di alcuni personaggi noti, miei fieri avversari, pitturatori abilissimi, di cui nessuno sospetta l'inganno. Potrei fare più d'una vendetta politica. Non la farò. Ma non per generosità, lo confesso. Soltanto per rispetto dell'arte mia non denuncierò.... l'arte loro.
*
Intrapresi pure col principiar di giugno uno studio sui cappellini, attratto dalla varietà infinita che se ne vede fiorire sui tranvai in quella stagione; studio che, in fondo, si riduce anch'esso a uno studio delle teste. E così, alla lesta, feci una prima classificazione: cappellini amorosi, cappellini superbi, cappellini austeri, matti, buffi, impudichi, prepotenti, innocenti. Quasi tutti hanno un linguaggio, sincero o falso, di cui i fiori sono le parole. Ci son grandi rose erette ed aperte, che s'offrono; mazzi di viole e di mughetti che attirano insidiosamente gli sguardi e i desideri dentro ai capelli in cui si rimpiattano; accoppiamenti di fiori inconciliabili, stridenti fra di loro, che danno l'immagine di menti strane e disordinate; fiori troppo pomposi, rosseggianti petulantemente su teste grigie, di cui tradiscono gli ardori mal sopiti; fiori modesti e solitari, che esprimono il sentimento d'un affetto secreto e costante. Tutte le passioni, tutte le illusioni, tutti i capricci di tutte le età della donna si palesano in quella finta flora, in quelle infinite combinazioni di penne, di nastri, di pizzi, di tulle, di frecce, di frutti, di cose sottili, diafane, ondeggianti e tremolanti, che paiono una vegetazione vivente che abbia radice nei cervelli. E quei cappellini fanno fantasticare, vedere, sentir mille cose: piccole e grandi spese di contrabbando, conti adulterati ad usum mariti, sospiri dolorosi d'impiegati, baruffe coniugali, musonerie, concessioni strappate con le carezze, economie gastronomiche da anacoreti, lunghi lavori di raffazzonatura fatti in casa da manine pazienti e industriose, interrotti da pianti di bimbi, da scampanellate dì creditori, da ogni sorta di cure e di piccole miserie domestiche. Ma lì sul tranvai tutto brilla, ride e dissimula. Scendono mazzi di rose e di pensieri, salgono mazzi di papaveri e di peonie, s'incontrano e si confondono ramoscelli d'edera e di geranio, mazzetti di ciliegie e di fragole, fiori di tutte le stagioni, di giardino e di campo, sbocciati e in bocciuolo, in ghirlande, in corone, in ciuffetti, diritti, cascanti, intricati, ammontati, agitati come i pensieri che vi passan sotto; cappellini alla marinara, alla Rembrandt, alla Trianon, alla Rosa Syma, alla vattelapesca, ciascuno dei quali dice qualche cosa, e forman fra tutti come un frastuono confuso e continuo di grida, di mormorii e di sospiri: — Cerco un marito — Cerco un amante — Ho un amante — Ammiratemi — Rispettatemi — Sperate — Disperate — Vi supplico — Comando io! — Sono un angelo — Sono un diavolo — Sono un'infelice — Seguitemi — Fatevi in là — Il mondo è mio — Non son nulla; guardatene un'altra, vi prego.
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Dolci studi; ma troppo spesso interrotti da inconvenienti gravi, tutti propri del tranvai. Alcuni di questi esperimentai io stesso in quei primi giorni di giugno, altri imparai a temere vedendoli esperimentati dal mio prossimo. Capitare in un carrozzone chiuso accanto a una peccatrice così spietatamente profumata da uscirne con una spranghetta al capo assicurata per ventiquattr'ore; trovarsi seduti in mezzo a due amici sconosciuti che attaccano attraverso a voi una conversazione vivacissima, incrociando sul vostro viso i loro aliti, le loro risate e le loro asinerie; sentirsi passar sui calli tutta intera una di quelle famiglie alla buona per cui i piedi altrui sono res nullius, senz'averne neppure il leggiero conforto d'uno sbadato: mi scusi, sono incerti sgradevoli. Ma è anche più sgradevole l'aver diritto dietro alle spalle un fumatore che, spinto innanzi da un sobbalzo della piattaforma, vi pianta nella nuca la punta d'un grosso Minghetti infocato. Ma è ancor più doloroso lasciar la falda del soprabito nelle mani d'una pingue bottegaia che, perdendo l'equilibrio nel discendere, s'aggrappa a voi come a un albero sull'orlo d'un abisso. Ma c'è una disgrazia anche peggiore di queste. Ne trovo segnata la data nei miei appunti — 5 di giugno. Ore tre pomeridiane. Sulla giardiniera di via Nizza. Preso alle spalle dal poeta. — Non l'avevo visto salire: mi sentii tutt'a un tratto la sua voce nell'orecchio: m'era seduto dietro, la giardiniera era affollata, era impossibile sfuggirgli. Passò subito alle vie di fatto. Era un sonetto arcipieno di esse, un ronzio di zanzare intollerabile, un succedersi di sibili sottilissimi che mi penetravano nel cervello, come se m'avesse agitato accanto al viso un mazzo di serpentelli arrabbiati. Ai vicini che non sentivan le sue parole doveva parere un amico offeso che mi rinfacciasse una serie di cattive azioni, dì cui non mi potessi scolpare, o che mi raccontasse in segreto qualche avventura sporca, che io assaporassi con raccoglimento. Un supplizio vergognoso! Quella bocca implacabile che alla ripresa d'ogni verso mi si avvicinava alla tempia mi metteva un brivido come la bocca d'una pistola. Breve e amplissimo carme! Chi lo disse? Quello non era nè ampio nè breve: non finiva mai. E m'opprimeva un terrore: — Se avesse la coda! — Non l'aveva; ma durò per la lunghezza di cinque isolati, senza contare una variante su cui dovetti dare il mio parere. Non fui libero che sulla piazzetta di San Salvario, dove l'aguzzino discese, non sazio.
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La mia prima corsa piacevole di giugno fu la mattina del giorno dello Statuto, in via Garibaldi, all'ora in cui la gente s'avvia verso piazza Castello per la rivista delle truppe: una carrozzata di cittadini quale non si può vedere che in quel giorno e a Torino: quasi tutti vecchi militari giubilati, coi nastri stinti delle medaglie e delle croci agli occhielli, con le scarpe come specchi, pettinati e sbarbati bene, benignamente ilari e alteri, con l'aria di vecchi sposi celebranti le nozze d'oro: tutte brave persone assestate e regolate che, se lo Statuto fosse soppresso da vent'anni, continuerebbero a festeggiarlo lo stesso a conto proprio, per forza di consuetudine, come festeggiano il Natale i miscredenti. C'era al posto solito il cavaliere Bicchierino, appartenente anch'egli, non per età, ma per spirito, a quell'antica famiglia, pulito e lustro come un dado. Come gli altri egli volgeva degli sguardi di compiacenza sui tranvai imbandierati, sulle uniformi sgualcite dei veterani che passavano tra la folla, sulle bandiere sventolanti alle finestre; aveva negli occhi un lume insolito; si vedeva che l'anima sua respirava con placida voluttà patriottica le memorie del 48, di Torino capitale, dell'“egemonia piemontese„ e il soffio del conte Cavour e del generale Lamarmora ancora diffuso per l'aria. Lo tenni d'occhio per vedere se, nonostante lo stato d'animo straordinario, si ricordasse di confrontare il suo orologio, come faceva ogni mattina, con l'orologio elettrico dell'angolo di via Siccardi: se ne ricordò. Poi, incontrando il mio sguardo, egli si offuscò leggermente: si dovette rammentare del giorno ch'io avevo fatto quel certo strazio barbarico della Gazzetta del popolo. Avevo appunto il foglio in mano in quel momento e stavo per conciarlo a quel modo; ma, accorgendomi che m'osservava, mi ritenni, per suggezione, per non rendermegli anche più odioso. Ed ecco come il tranvai può perfezionare l'educazione d'una persona educata. A poca distanza dalla piazza s'intese suonar la marcia reale da una banda musicale d'operai. A quelle note tutti quei giubilati canuti si illuminarono e si scossero come i vecchi cavalli delle poesie agli squilli delle trombe guerriere. E allora mi sentii sbalzato dalla fantasia a trent'anni addietro. Quei visi, quei nastri, quelle bandiere alle finestre, quei veterani in divisa, quel vecchio Palazzo Madama che appariva in fondo, quel cavalier Bicchierino con la Gazzetta del popolo fra le mani, tutto quel complesso di cose viste in quella via Garibaldi al suono di quella marcia, era così piemontese, così torinese, così “ben conservato„ che ebbi per un momento come un senso di ringiovanimento della coscienza, un'illusione maravigliosa, il dubbio che l'anno corrente non fosse il 1896, l'anno di Abba Garima, ma quello dei primi entusiasmi per il Consorzio nazionale, quando avevo visto dei patriotti fanatici, in quella stessa via, bruciare le cedole del Consolidato gridando: — Viva l'Italia.
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La festa nazionale portò i forti calori e con questi un nuovo oggetto d'osservazione sulla carrozza di tutti: un accrescimento generale di irritabilità nelle relazioni dei passeggieri coi passeggieri, di questi con gl'impiegati, e degl'impiegati fra di loro, una maggior frequenza di malintesi, d'impazienze, di lagnanze e di battibecchi, come segue fra gli uccelli in gabbia nelle giornate afose. Si vedeva sui tranvai una agitazione quasi rabbiosa di ventagli, gente irrequieta che si sventolava con le cappelline, coi fazzoletti e coi giornali, senza “trovar posa„ sulle panche, facce infiammate e attonite, teste ciondoloni sui petti: vere carrozzate di noia e di malumore. Povera umanità! Qualche grado di più di calore e un po' di polvere per aria, ed ecco tutti i visi mutati, violate le leggi della cortesia, ridotti i cervelli come orologi guasti, e manifesti anche nella gente sana e contenta i vaghi segni del contagio psichico che moltiplica le risse, gl'impazzimenti e i suicidi! Come rimedio a questo male mi venne in mente l'istituzione di spugnature pubbliche obbligatorie una mattina che aspettavo la partenza del tranvai sotto le finestre di casa mia, vedendo lavar la testa a Faraone e a Ballerina, all'ombra dei tigli. Uno spettacolo da far meditare, veramente. Faraone fu il primo. Il cocchiere tuffava in un secchio una grossa spugna, gliel'appoggiava al sommo della fronte arsa e sudante, e premeva; e al sentir quei rivoletti che le scendevano per le mascelle, sul collo e di mezzo agli occhi giù per il muso fin dentro alle nari e alla bocca, biforcandosi e incrociandosi come le gore della pioggia per una china, la povera bestia alzava e scrollava il capo, corsa per ogni fibra da un brivido di piacere, e dilatava gli occhi e pestava le zampe, brillando tutta; mentre Ballerina, aspettando la sua volta, guardava, impaziente, agitata dal presentimento di quella voluttà, che già le balenava negli occhi e le guizzava tra pelle e pelle. Ah! che dolcezza; e come meritata dopo tante corse al sole e nella polvere, e tante strette violente di freno e bottate di frusta! Luccicava negli occhi di tutti i passanti un sentimento di compiacenza buona al veder riaversi e godere a quel modo quei poveri schiavi muti, così belli e così utili, e condannati a un lavoro così duro e mal compensato, quando tanti altri della famiglia loro vivono fra gli agi e le pompe, carezzati e amati come creature umane. E il cocchiere, intanto, li apostrofava con quel tono di familiarità un po' brutale, che si suol usare con le bestie che ci servono, forse per un timore istintivo ch'esse comprendano e abusino come gli uomini della troppa dolcezza: — Ah, vecchione, ci provi gusto, eh? Ma se tiri indietro la testa, zuccone, non si fa nulla! Ora a te, mala femmina, eccoti il fatto tuo; non ne vedevi l'ora, non è vero? T'ho ben sentita come cantavi alla fin della corsa! — e altre cose simili, dette con l'accento di chi parla a chi intende. E chi sa? Chi sa fino a che punto, almeno? Che cosa ne sappiamo noi, poveri presuntuosi che siamo? Siamo proprio ben certi di non essere in un enorme errore? Non dice anche l'Ecclesiaste: — Chi sa che lo spirito delle bestie scenda abbasso sotterra? — Ah quell'occhio di Faraone! Fu quell'occhio che mi fece sentire la prima volta per un animale quello che si sente per un bambino: il rispetto d'un grande mistero, del dolore che non ha parola, del diritto che non ha difesa; fu quell'occhio che mi disse più chiaramente ch'io non avessi mai pensato, che non saremo mai molto al disopra delle bestie fin che crederemo d'esser tanto più alti da non aver verso di loro il dovere della bontà e della gratitudine.
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Seguirono alcuni giorni monotoni, una serie di corse per i viali bianchi, fra gli alberi velati dal polverìo, senza un accidente notevole, senza alcuna conoscenza nuova, senza un incontro di persona conosciuta; poi una pioggia ostinata, e tre giornate avventurose, tre scene singolarissime, l'una sull'altra, non possibili che sulla carrozza di tutti. Della prima fu spettatore e parte, in un carrozzone chiuso della linea del Martinetto, Carlin; e la scena appunto interruppe un'apologia ch'egli stava facendo del bollettino meteorologico del Chionio, il quale aveva preannunziato la pioggia per quel giorno; ciò che, dopo altre profezie riscontrate giuste da lui, portava all'entusiasmo la sua ammirazione per la scienza in generale, e per il profeta in particolare. — Ah! quell'uomo! Quell'uomo parla con Domineddio! — andava esclamando; quando salirono ad un tempo, l'una a destra l'altra a sinistra della piattaforma posteriore, un'erbivendola in capelli e una signora in pompa magna, tutt'e due sulla trentina e d'aspetto fiero e risoluto; le quali, infilando l'uscio nello stesso punto, s'urtarono malamente ed esclamarono a una voce, guardandosi a vicenda: — Che maniera! — Pareva che la cosa finisse li; ma, appena furono sedute dentro, l'una di fronte all'altra, ed ebbero preso lo scontrino, l'una sporgendo una grossa mano pavonazza, l'altra mettendo in mostra un grosso braccialetto sul braccio inguantato, la riattaccarono vivamente: l'erbivendola con parole grossolane, la signora con un certo riserbo. Il diverbio, nonostante l'intromissione diplomatica di Carlin, s'inasprì a segno che la popolana disse forte: — O cosa crede, alla fine, perchè è una signorona? — E allora cominciò il meglio. La “signorona„ che da principio aveva scelto le parole e moderato la voce, a poco a poco, accalorandosi, si lasciò sfuggir le frasi e le note del suo linguaggio abituale, che era quello tal quale della sua avversaria. A capo d'un minuto, tutti i presenti capirono che le due contendenti, nate e cresciute nello stesso stato sociale e forse nello stesso sobborgo di Torino, avevano ricevuto l'educazione medesima, e che la signoria d'una delle due doveva essere d'acquisto recentissimo, e forse improvviso. E fu uno spasso per tutti la maraviglia crescente che l'altra mostrava in viso man mano che vedeva la signora tirar fuori le armi e le munizioni dallo stesso arsenale da cui essa cavava le sue, e chiarirsi sua degna competitrice nella scherma dello strofinacciolo e della ciabatta. Continuò a insolentirla, ma più a rilento e con meno asprezza, scrutandola con uno sguardo acuto e con un leggiero sorriso, quasi compiacendosi di riconoscere e d'ammirare in lei i colpi e le parate della scuola che le era familiare, e finì con rabbonirsi affatto quando fu ben certa di aver di fronte, non una nemica d'un'altra classe, ma una consorella travestita dalla fortuna; tanto che lasciò senza risposta l'ultima sua botta, e voltatasi verso la compagnia, disse ridendo: — A l'è na sgnora parei d' mi! (È una signora come me). — Tutti risero, la “signora„ si rimise in dignità, e Carlin osservò filosoficamente: — Eh, bisogna star sul tranvai per vederne d'ogni sorta e imparare a conoscere il mondo; il fattorino, vede, è il vero uomo enciclopedico, che non sì stupisce più di niente sulla terra.
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Ecco l'altra scena. Gli alberi del corso Vittorio Emanuele rinverditi e lustrati da un acquazzone, una fuga di nuvoloni neri a traverso al cielo, un tramonto infocato, le Alpi terse e come intagliate nella porpora di quell'incendio, e una giardiniera lenta che par che vada a servizio esclusivo di due coppie d'amanti appiccicati, l'una seduta sulla prima panca, l'altra su quella di mezzo, con le schiene voltate verso di me e un altro passeggiere, che mi sta ritto al fianco sulla piattaforma di dietro. Costui m'ha l'aria d'un buono e semplice massaro, o piccolo proprietario di campagna, di quelli che s'inurbano ogni dieci anni, e a cui la città grande riesce sempre uno spettacolo nuovo e sbalorditoio. E capisco che è nuovo per lui lo spettacolo di quelle due coppie di teste di “signori„ le quali ogni tanto si ravvicinano, si toccano e si staccano, come i bicchieri nei brindisi, e ciondolano languidamente l'una verso l'altra come se avessero l'osso del collo stroncato. Si vede che è un po' scandalizzato, molto stupito e anche più dilettato; si vede dall'attenzione viva che fa a tutti i movimenti di quei quattro ingattiti, con un sorriso curioso e continuo, lanciando tratto tratto uno sguardo a chi passa per la strada, come per dire: — Ma non vedete che cosa succede qua sopra! Ma son cose dell'altro mondo! — Arrivati alla piazza del monumento, sale accanto a noi un altro signore, lungo e arcigno, il quale, osservate le coppie, fa un atto d'uomo seccato, brontolando: — Potrebbero prendere una carrozza chiusa. — Ed ecco che all'uscita della piazza, salgono e siedono proprio davanti a noi un giovane, che pare un commesso di negozio, e una ragazza, che ha l'aria d'una sartina, e, appena seduti, ripigliando una conversazione interrotta, si mettono a tubare soavemente, con le punte dei nasi che quasi si toccano, e le mani intrecciate tra fianco e fianco. E allora il signore lungo dà una strappata collerica al campanello, e detto al fattorino: — Non è un mestiere per me! — salta giù e se ne va via. Il fattorino non capì, ma il campagnuolo diede in una risata grassa, saporita, giovanile, nella quale squillava la gioia pregustata di raccontar poi nella farmacia del villaggio il bel caso a cui aveva assistito, la sfacciataggine maravigliosa degli amanti di quella gran Torino, di quella Babilonia, di quella Gomorra, dove tutto è lecito e se ne vede d'ogni tinta.... Dopo un po', le coppie furono circondate e distratte da altri passeggieri; ma egli seguitò a tenerle d'occhio fino a piazza San Martino, dove discese dirigendosi verso la Stazione, ancora sorridente d'un sorriso di stupore e di malizia, che traduceva il suo pensiero: — Ah questa Torino! Questi tranvai! Che paradiso di Maometto! E che facce!
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La terza, sulla linea di Vanchiglia. Mi rifugio in una giardiniera per salvarmi da un'acquata improvvisa e casco proprio nel punto che scoppia una lite, non capisco perchè, fra due giovani operai e il cocchiere Tempesta. Il vento sbatte le tende in faccia ai passeggieri, che si restringono nel mezzo, tutti in piedi; ma la pioggia ci viene addosso anche fra le panche, dove le signore s'affannano a ripararsi i vestiti, lagnandosi della Società che non mette fuori i carrozzoni chiusi quando fa cattivo tempo. Son capitato male. Son tutti stizziti come d'una stizza attaccaticcia, tutti con l'anima per traverso, compresi due vecchi ufficiali pensionati che non vanno d'accordo sulle riforme militari del Ricotti, discusse in questi giorni al Senato, e si scambiano delle frasi che paion colpi di sciabola: — Mille e cento ufficiali tolti dai quadri! Ma mi burla! Ma a che si riduce la carriera? — Non è il Ricotti, è il Mocenni: ottocentoventisette erano già radiati. — E lei mi scusa il male col peggio? — Ma io non riconosco nè questo nè quello. — Ma come! Ma allora.... — E mentre un mio vicino tratta di barbara l'amministrazione che non mette delle tende da potersi agganciare alle panche per pararsi dai temporali, e tenta inutilmente, sbuffando, di tener tesa la sua, s'accalora la lite fra i due operai che gridano: — Pùrgati! — Va a far le docce! — Va all'istituto antirabbico! — e Tempesta, che rivolto a loro col viso torvo e infiammato, alterna frustate e sagratacci, scandalizzando un vecchio signore in cilindro, seduto alle sue spalle, il quale si volge a domandare al fattorino con voce pacata di basso: — Ma non è pro-i-bito al personale di servizio di parlare in codesta maniera? — Intanto la pioggia infuria, le tende ci schiaffeggiano, i malumori s'inaspriscono, i lamenti suonano più alto, Tempesta sagra più fitto, e la carrozza che porta quest'ira di Dio, sferzata dall'acquazzone, flagellata dal vento, illuminata dai lampi, vola, schizzando mota da tutte le parti, a traverso la piazza Vittorio Emanuele, dove s'incontra con un altro tranvai portante una comitiva di giovanotti fuggiti dal gioco del pallone, i quali, passandoci accanto, vedono e comprendono e ci mandano in faccia una risata in coro, ultimo oltraggio.... Ma non a me, spassato egualmente della carrozzata in festa e della carrozzata in collera, che mi mostran le due facce del burattino umano.
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Qui trovo notati a tre date successive, 14, 15 e 16, tre dei miei personaggi, riveduti in condizioni e fra circostanze straordinarie. La domenica del quattordici, segnata nell' Almanacco Storico della Casa Treves come giorno della rielezione del deputato Brena, sulla linea del Valentino, il Marchese, il fattorino dai balletti d'oro, bello e elegante come sempre; ma quanto diverso dal solito nel modo di trattare con le signore! Non più sorrisi fuggitivi, non più atteggiamenti d'ossequio amoroso, non più quell'atto di posar lo scontrino come una chicca nella mano inguantata, fissando sulla passeggiera uno sguardo soave. E subito non capii il perchè di quel mutamento; ma i cenni e i frizzi di due giovanotti suoi conoscenti, seduti vicino a me, me lo spiegarono. Quel riserbo insolito gli era imposto da un bel pezzo di ragazza bruna, ritta sulla piattaforma della giardiniera come un gendarme; la quale seguiva ogni suo passo ed atto con due grandi occhi neri e severi, sopra di cui si drizzava fino a mezza fronte la ruga distintiva del sospetto. Non riuscii a capire se fosse sua moglie o sua amante. Intesi dire però (e si vedeva) che, conoscendo il suo pollo, n'era gelosa, che soleva fare di tanto in tanto una di quelle corse di vigilanza, salendo inaspettata sul tranvai come un controllore, e che più volte, per uno sguardo o per una parola, aveva fatto una scenata al bel fattorino, e provocato anche signore e ragazze, con un'audacia di leonessa. Oh, cose terribili; minacce di ceffoni addirittura, e chiassi e scandali per conseguenza. Ma egli aveva oramai un così salutare terrore di quelle due lanterne nere che non s'arrischiava nemmen più a sorreggere per il braccio le signore che salivano. Mentre passava accanto a me, uno dei due giovanotti gli disse piano: — Pietro, riga dritt! — e diede in una risata: egli rispose con un sorriso forzato. E seppi che altre mogli di fattorini venusti facevano delle corse di sindacato come la bella bruna, comprandosi così ogni tanto dieci centesimi di fedeltà coniugale, con vantaggio dell'amministrazione e del servizio....
15 giugno. All'ora stessa che si presentava Li-Hung-Chang all'imperatore Guglielmo, comparve davanti a me sul tranvai di via Garibaldi il signor Guyot, coi suoi occhiali reazionari e il suo pizzo minaccioso. Appena mi vide, salendo sulla piattaforma opposta, mi saettò un'occhiata anche più truce dell'altre volte; e forse per il fatto, che mi venne in mente in seguito, dell'elezione del Turati nel quinto collegio di Milano, avvenuta il giorno avanti. Ma era destino ch'io dovessi dar sempre a quel pover uomo delle scosse violente. Pochi momenti dopo salì accanto a me un mio vecchio amico, procuratore del re, proprio nel punto che egli mi figgeva addosso uno di quegli sguardi foschi, in cui all'inquietudine e all'avversione si mescolava il sentimento di curiosità malsana che ci spinge verso i delinquenti. Al lampo che gli passò sul viso quando vide l'amico stringermi la mano ed entrare con me in conversazione gioviale, capii ch'egli sapeva chi era. Fece due occhi di polipo ed espresse con tutti i muscoli facciali un senso di maraviglia sgradevole, come se quella familiarità d'un magistrato con un par mio fosse un fatto scandaloso, un pubblico incitamento a delinquere, un indizio di sfacelo sociale, qualche cosa come il veder per la strada un carabiniere in divisa a braccetto con un borsaiolo famoso; e capii benissimo che andava domandando a sè stesso, con curiosità ansiosa, che cosa mai ci potessimo dire, e che se fosse stato in quel momento ministro di grazia e giustizia avrebbe fulminato sull'atto un decreto di destituzione. Ah, quanto deve aver sofferto! E vedo ancora l'ultima occhiata che lanciò al mio amico scendendo, come per dirgli: — E non si vergogna?... Faccia invece il suo dovere, perbacco!
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16. (Il giorno in cui gli Stati Uniti pagano cinquantamila lire per i nostri “linciati„ del Colorado). Oui, tout se paye, come dice un personaggio di romanzo; tutto si sconta anche quaggiù; e l'“eterna vendetta„ coglie qualche volta il reo anche sul tranvai. Fu per me una vera soddisfazione. Il tirannucolo rabbioso, il negriero fallito, il perpetuo strapazzatore di fattorini e di cocchieri, il signor Tintura-Migone, insomma, quel pezzo di superbia villana con le gote enfiate e coi baffi irti, stava seduto in un carrozzone chiuso e affollato della Torinese; e non aveva ancor finito di brontolar col fattorino perchè non era spolverata la panca, che già cominciava a dar segni d'impazienza contro un bel bambino di nove o dieci mesi, ritto accanto a lui sulle ginocchia d'una donna, la quale lo voltava ora di qua ora di là, come per farlo ammirare. Di ragione, doveva odiare anche e bimbi, che son dei deboli; e tutti i presenti, chi l'avevan pesato al primo sguardo, lo guardavano con manifesta antipatia. — Lo tenga seduto! — disse a un tratto alla donna, di mala grazia. Ma l'ebbe appena detto che saltò su indignato, vomitando fuoco e tirando fuori il fazzoletto. Ahi, troppo tardi! E l'ira sua non ebbe eco. Non solo; ma il contrasto fra la sua faccia fiammeggiante e il visetto sereno e innocente di quell'amore di putto che lo guardava con gli occhi azzurri, inconsapevole dell'avvenimento, fu così comico, che diedero tutti in uno scoppio di risa; il quale finì di fargli perdere i lumi. Ah sì, tutto si sconta, e infinite sono le fonti da cui la divina Provvidenza fa “zampillar„ la giustizia.
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Rieccolo, finalmente! È certo, pensai appena lo vidi, che la sua prima parola sarà sul discorso fatto dal Jaurés alla Camera francese intorno al lavoro dei fanciulli. E infatti il suo primo saluto, salendo sul tranvai, fu un allegro: — L'ha letto? — detto con quella voce di basso, che parea che uscisse da un trombone. Egli ne aveva letto un sunto in un giornale italiano e se l'era affisso a una parete, secondo il suo costume, nella sua bottega di falegname. Anche a mezzo giugno egli portava il suo cappellone alla calabrese e quell'eterna giacchetta di velluto cacao spelato; ma aveva la barba meno selvaggia del solito e un'aria di soddisfazione, come se avesse riportato qualche vittoria machiavellica sulla Prefettura.
Eravamo sul corso Cairoli; la giardiniera, piena di gente, correva all'ombra dei grandi platani, in vista delle acque del Po, solcate da barchette variopinte di canottieri, e dal fiume e dai colli spirava una freschezza di primavera. Tutti i passeggieri parevano di buon umore, un bambino cantava, e i miei vicini guardavano con curiosità simpatica quell'operaio dal collo taurino, che con quella grossa voce, con quell'aria di gravità bonacciona, parlando un piemontese intercalato d'italiano rude, ma corretto, faceva un minuto raffronto fra il discorso del De Mun e quello dell'oratore socialista, flemmaticamente. C'era fra gli ascoltatori una donna sulla quarantina, che non aveva trovato da sedere, una bottegaia, all'apparenza, ma vestita signorilmente, e di viso un po' pretenzioso, ma benevolo; la quale si voltava ogni tanto a guardarlo, stupita, come se fiutasse in lui un dotto signore travestito.
A un certo punto il falegname s'interruppe e, alzandosi in punta di piedi, piegò il capo da una parte e allungò il collo per leggere il titolo d'un grosso libro che teneva sulle ginocchia, coprendolo in parte con le mani, una signora seduta davanti a noi, sur una delle panche più vicine. — Diavolo! — esclamò. — Un trattato d'anatomia! — Ed era proprio lei, la vergine morta, seduta accanto a un signore dalla capigliatura e dalla barba bianchissime e ravviate con gran cura, dall'aspetto serio e quasi altero, come d'un vecchio colonnello, con due occhi chiari e un naso diritto e sottile, che lo dicevano indubbiamente suo padre. La vergine morta! Non la vedevo da due mesi, l'avevo quasi dimenticata. Era sempre quel viso bianco e delicatissimo, d'una purità angelica, d'una immobilità marmorea, d'una serenità di creatura superiore alle passioni umane e intangibile da ogni sozzura terrestre; ma alquanto smagrito e anche più niveo del consueto, e con gli occhi come velati da un'ombra di stanchezza. Eran certo le fatiche della preparazione agli esami; doveva forse dare in quel mese l'esame d'anatomia.
— Sarà una studentessa di medicina, — disse il falegname.
— Una signorina fuor di strada, — osservò un signore accanto a me.
— E perchè? — domandò il primo.
— Bah! — rispose l'altro. — Non è il loro mestiere. A pensar quello che vedono e che toccano, mi spoetizza.
Il falegname scrollò una spalla. — Allora, anche le monache infermiere degli ospedali.... Eppure, non spoetizzano nessuno.
— E poi, già, non ci riescono, — ribattè il signore. — Le donne non nascon per questo. Io non chiamerei mai una medichessa.
— Lei no, ma la sua signora....
— Io non ho signore, — ripose quello ridendo.
Allora interloquì la bottegaia: — Non la chiamerei nemmen io.
A quell'uscita, il buon falegname, che nella quistione femminile aveva la “specialità„ di moralista, si voltò di scatto, come punto, e capii che le voleva sciorinare un ragionamento coi fiocchi; ma non ebbe neppure il tempo di incominciarlo, perchè quella discese. Indispettito di non potersi sfogare con lei, si voltò dall'altro. — Ecco — disse; — che non ne voglian sapere neanche le signore è quello che non capisco. Almeno non dovrebbero ancalesse a dirlo (osar di dirlo). E la decenssa? E 'l pudour? Mi pigli una ragazza onesta. Può aver questo, può aver quest'altro: è vero? Ebbene, tanti scrupoli, tante delicatezze per tanti anni per custodirla come una madonna, ed ecco che viene un omaccione di medico, e tutto va per aria, e guarda di qui e tocca di là. A me pare una saloparia bella e buona, se l'ho da dire come la penso, scusi la parola. Proprio, mi pare impossibile!
Alcuni risero in segno d'approvazione, e rise anche il contraddittore, maravigliato di trovare un paladino del pudore sotto quel cappellaccio e dentro a quel giacchettone, e si mise a guardarlo come un originale di nuovo conio, che gli desse nel genio. E pareva anche disposto a stuzzicarlo per fargli vuotar tutto il sacco. Ma l'operaio, accorto, non ci si prestò. E poi si voltaron tutti a guardar la signorina che discendeva con suo padre allo svolto di corso Vittorio Emanuele, e fece senso a tutti quella sua lunghezza, la semplicità infantile di quell'andatura, quel non so che di strano, di monacale, d'incorporeo che era in tutta la sua figura.
— Ebbene, — disse il falegname, con l'accento di chi trova un argomento inaspettato in favor suo — ha l'aria d'una ragazza “come si deve!„
— Eppure, — rispose sorridendo il suo avversario — a pensare che adesso va alla sala anatomica.... Che cosa vuole? A me non mi va una ragazza che sa tutto.
— Già, se invece andasse al teatro Regio.... A loro piacciono le donne che non sanno niente e che mostrano tutto; a me mi par più onesta una donna che sa tutto e che non mostra niente.
Tutti risero. — Ben ribattuto! — esclamò il signore, con evidente sincerità, esilarato. E quando l'operaio discese, levandosi il cappello, tutti lo guardarono con viva curiosità, e il suo avversario espresse il pensiero comune, dicendo: — Non credo che ci sia al mondo un altro originale compagno!
— Eh, v'ingannate, — pensai — ne vengon su a migliaia. Fra cinquant'anni i tranvai ne saranno pieni. E quelli che parranno matti originali saranno gli altri.... se ce ne saranno ancora.
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La mattina dopo, un divertimento delizioso, uno degli episodi più belli di quei primi sei mesi di vita in carrozza. Il tranvai della linea Vinzaglio correva in mezzo alle palazzine e alle ville dello stradone di Francia, fra quelle due file sterminate di grandi olmi, che metton capo al castello di Rivoli; il quale appariva vicinissimo, roseo nell'aria limpida, e come sospeso sull'orizzonte. Giors sferzava i cavalli con l'allegrezza della fame che corre al pasto dopo il lavoro, ridendo tra sè e bevendo l'aria come un liquore, con gli occhi larghi e fissi alla barriera, come se ci vedesse il fumo della sua minestra, e con le nari dilatate e frementi, come se il vento glie ne portasse l'odore. Arrivato in capo alla linea avrei dovuto tirare avanti a piedi fino alla villa d'un mio amico, latinista illustre; ma, disceso all'apertura della cinta, non potei a meno di fermarmi, vedendo avvicinarsi al tranvai una donnina grassotta e bionda, con un bimbo in braccio da una parte e il canestro in mano dall'altra, accompagnata da due marmocchi, l'uno di cinque, l'altro di tre anni; nei quali riconobbi alla prima occhiata gli occhi e il naso giorgiani. Povero Giors! Doveva essere assai benvoluto, ed era certamente la sua colazione uno spasso quotidiano del vicinato, perchè, appena la giardiniera arrivò, mentre egli staccava e riattaccava i cavalli, gli vennero intorno, col viso curioso e ilare, le guardie daziarie, la rivenditrice d'erbaggi, altre tre donne e dei ragazzi, tutta la piccola società della barriera, presso la quale egli aveva domicilio, in una casetta fuor della cinta. Come afferrò il canestro! con l'atto d'un padre amoroso che tende le braccia al bambino non più visto da un anno. Sedette sul predellino della giardiniera, tirò fuori e si mise sulle ginocchia il vaso di latta della minestra, si passò una mano sui baffi, diede una risata in faccia agli spettatori che facevan cerchio, ed esclamando: — Al lavoro! — incominciò.
Subito i due figliuoli in piedi, due panciutelli di viso bruno, sani e puliti come lui, gli si accostarono, guardandolo mangiare come fanno i cani, che accompagnano con l'occhio il boccon del padrone dal piatto alla gola. — Bada che hanno già mangiato, — gli disse la moglie; — non facciamo la solita storia....
— Come? — domandò lui, con la bocca piena, fissandoli; — e avreste la faccia?
Quelli accennarono di sì, che avevano la faccia, e Giors alzò una mano per ammollare un duplice scapaccione. Ma essi non indietreggiavano: sapevano che non era che una spacconata paterna, che a quel baleno non teneva mai dietro il fulmine.
Il padre, infatti, ritirò la mano e sporse il cucchiaio, che uno dei due imboccò. — Ma non avete vergogna? — gridò la mamma, tirandoli indietro l'un dopo l'altro; ma il più piccolo le sgusciò di mano e si fece avanti a riscuotere la sua cucchiaiata; e dopo di lui ricomparve l'altro, fra le risate della platea.
— Ma ti mangian tutto! — esclamò la donna.
— Ma cosa vuoi? — rispose Giors. — Cosa ne posso io se non hanno fondo? Mi mangerebbero vivo coi miei cavalli, mi mangerebbero. Doveva toccare a me una razza di lupi compagni! No! — gridò poi risoluto — non vi do più un grano di riso se vi vedessi crepare di fame!... Ancora questo e poi finis.
E intanto diluviava, dando ogni tanto un'occhiata in fondo allo stradone, verso Torino, se comparisse l'altro tranvai; poichè eran già passati tre dei dieci minuti regolamentari. E invano sua moglie badava a dirgli: — Ma mangia adagio, non t'ingozzare, che c'è ancora tempo! —; benchè il tranvai non si vedesse ancora, egli mangiava in furia. Finita la minestra, tirò fuori la boccetta del vino, la mostrò agli astanti, disse: — Per uso interno! — e data una gran risata, se l'attaccò alla bocca. — Bah! — disse poi, staccandola, e osservando il calo: — Ci vorrebbe altro! — E soggiunse, rivolgendosi a me, col suo buon sorriso: — Non è mica andato in fondo, sa! Si è perso per le strade laterali....
Poi mise la boccetta alla bocca dell'uno e dell'altro ragazzo, dicendo: — A voi, malviventi! — La moglie gli afferrò il braccio; ma egli si svincolò e li fece bere, dicendo a me: — Due spugne, sa; mi beverebbero il sangue.
Riposta la bottiglia, addentò il pane e attaccò un pezzo di frittata, facendo degli elogi alla cuoca, e tra un boccone e l'altro apostrofò la piccina che quella teneva in braccio: — E tu, stoponëtta? (turaccioletta) — e ne chiese notizie, mentre porgeva dei pezzettini di frittata agli altri due. — Non ha che venti mesi di servizio, — disse, rivolto a me. E, masticando, mi raccontò come la bambina non lo riconoscesse per suo padre che da poco tempo, dopo che egli era di servizio fisso sulla linea Vinzaglio. Quando era sulle altre linee, dovendo far colazione e desinare qua e là, essa non lo vedeva mai, neppur la sera, perchè egli rientrava tardi, quando già era addormentata, e neppur la mattina, perchè se n'andava prima che si svegliasse. E per questo s'era dato lo strano caso che la bimba, già di più d'un anno, non conoscendo ancora suo padre, un giorno ch'egli era tornato a casa prima di sera, per essersi fatto male a una gamba, al veder entrar da padrone un uomo che non aveva mai visto, s'era spaventata e messa a gridare come un'aquila. E conchiuse il racconto esclamando con una risata: — Ah! che farsa di mestiere! Facciamo persin paura ai nostri citt! Ma non fa niente.... fin che la cassa è sana! — e si picchiò un pugno sul petto. Poi, eccitato, come se avesse fatto un lauto pranzo, alzandosi e scuotendosi dalla giubba le briciole del pane, rispose botta per botta alle facezie delle guardie e delle donne, che lo stuzzicavano; e infine, vedendo avvicinarsi l'altro tranvai, baciò l'un dopo l'altro i ragazzi, dicendo: — Ciao, lupotto! — Ciao, pancetta! —, prese in braccio la bimba e le fregò i baffi sul viso, disse alla moglie, restituendole il carico: — Brava, vecia! Una frittata fiamenga! — e, salito sulla piattaforma e impugnate la frusta e le redini, sferzò i cavalli e partì, voltandosi a mandare un altro saluto alla famiglia e un'ultima risata agli amici.
— Che brav'uomo! — disse una donna. — Un uomo contento —, soggiunse una guardia. — Un superuomo, — dissi tra me; ma sul serio.
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A questo punto mi saltano su dalle note non so quanti personaggi nuovi, che son costretto a respingere, come ne respinsi molti nei mesi andati, per non arrivare alla fin dell'anno con un esercito. Ma è un peccato, perchè conobbi fra gli altri in questo mese di giugno dei così curiosi tipi di “tranvaiofili„ amatori e studiosi paladini fanatici dell'istituzione! Ne conobbi di tutte e tre le classi in cui si possono dividere: degli inquisitori, che si piantano sempre accanto al cocchiere o al fattorino, per tempestarlo di domande: — Quanti anni ha questo cavallo? Quanti cavalli avete? Quanti cocchieri siete? Quanto costa questa carrozza? Quanto è lunga questa linea? — fin che la vittima perde la pazienza; dei calcolatori, azionisti, amministratori e cassieri in ispirito delle due Società, delle quali studiano gl'interessi, e almanaccano le entrate e le uscite; dei parteggianti, che, senz'averci un interesse al mondo, portano in palma di mano una Società e danno addosso all'altra con un ardore da parer pagati, attaccando con altri capi ameni del loro stampo delle dispute in cui rischiano arditamente di farsi cappottare per i begli occhi dell' Anonima del loro cuore. Generosi cavalieri, nobili idealisti! Poco mancò che venissero a pugni quei due campioni dell'ultima classe, che sul tranvai della linea di Nizza, il giorno diciotto, intavolarono una discussione sui meriti comparati della Belga e della Torinese a proposito del color rosso e verde dei carrozzoni dell'una e di quello giallo e sangue di bue dei carrozzoni dell'altra. I ferri si riscaldarono con una rapidità inquietante.
— E lei mi vuol confrontare i cavalli della Belga, tutti maremmani bisbetici, con quelli della Torinese, che vengono dalla Croazia e dall'Ungheria, più forti, più alla mano, più.... Mi faccia il piacere!
— Eh, i cavalli non fanno la grandezza d'una Società: la Belga ha trenta carrozze di più, e un personale che s'avvicina al doppio!
— Ma le carrozze della Torinese son più grandi e più comode; la Belga non ha cuscini.
— Ah, i cuscini! Niente di meno! Cospetto!
— Non c'è cospetto; e fa anche il servizio più intensivo e paga meglio gl'impiegati.
— Ma ha un orario più lungo.
— E se ne vanta! È la sola che faccia servizio fino alle undici!
— S'accomodi; ma la Belga ha le migliori linee, passa per le strade principali. Sa che il Martinetto e il Vinzaglio danno dalle settanta lire per giorno?
— Corbellerie! In ogni caso, dà più da sola la barriera di Nizza che quelle due messe insieme.
— Che sproposito!
— Non è una risposta da persona civile!
— Non è da persona civile voler dare ad intendere delle assurdità!
E così, agitando tutti e due il giornale della mattina che annunciava il maremoto del Giappone con quaranta mila morti e ottomila case distrutte, tirarono via fino al corso Vittorio Emanuele, dove si vide un carrozzone della linea dei Viali, uscito dalle rotaie, risospinto indietro a gran fatica dal cocchiere e dal fattorino, fra due ali di passeggieri impazienti. E il paladino della Torinese, voltandosi verso il suo avversario col viso lampeggiante, e accettandogli il carrozzone deviato: — Vede? — gli disse, — è della Belga. — Poi tacque, e assaporò il suo trionfo. O cervelli, appetto a cui il cranio d'una formica è palazzo Pitti! come diceva Francesco Domenico. Eppure, non è giusto, perchè vi sono anche nei cervelli e negli animi grandi dei ripostigli oscuri in cui s'annidano di queste idee nane e di queste passioncelle miserabili, che vengon fuori di tanto in tanto, e paion più nane e più miserabili e fanno più compassione e più dispetto.... appunto perchè escono dal Palazzo Pitti.
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Un altr'ordine d'osservazioni feci di quei giorni sui malati in tranvai. Ne avevo già osservati nei mesi addietro: un giovinetto tisico, che faceva ogni giorno, forse per ricreazione, il giro intero della linea dei Viali, sempre solo, e che guardava tutti e tutto con lo sguardo stupito e insistente di chi, sentendosi già diviso dal mondo, lo vede a una distanza in cui gli apparisce quasi sotto un aspetto novo; una signora ancor giovane, pallidissima, che ad ogni scossa del carrozzone si premeva una mano sul cuore, chiudendo gli occhi e torcendo la bocca, come per un colpo di coltello; ed altri, dei visi smunti e bianchi, sui quali i passeggieri fissavano lo sguardo, troncando ogni conversazione, come per scrutarvi il mistero della morte. Ma non mi s'era offerto mai uno spettacolo così triste come quello che vidi la domenica di San Luigi, penultima di Giugno, sull'imbrunire, quando sui tranvai s'accendono i lumi. In un carrozzone chiuso, pieno di gente allegra che tornava da scampagnate e da feste, salì con grande stento, sorretto per un braccio da un giovinetto, un uomo sui cinquant'anni, dalla faccia smorta e disfatta; il quale, appena messo il piede sulla piattaforma, si cacciò una mano sulle reni, come trafitto da un gran dolore improvviso, e rovesciando il capo indietro, si battè l'altra sulla fronte, e gridò con una voce d'angoscia da far rabbrividire: — Oh mi povr'omm! Mi povr'omm! — Doveva esser la sua una di quelle forme terribili di malattia della spina, accompagnate da sensazioni strane e spaventevoli, che paiono il principio d'uno sfacelo repentino dell'organismo e quasi l'annunzio della morte imminente. Entrò, più portato che sorretto, e cadde sopra la panca come un sacco di cenci buttato, volgendo intorno uno sguardo d'agonizzante, e mettendo un lamento sommesso, continuo, spaurito, infantile, tra il gemito e il pianto, che schiantava il cuore. Fra i passeggieri fu come se avessero gettato nel carrozzone un cadavere; ed era orribile veramente sotto la luce fioca della fiammella che ingialliva il suo viso chino, lasciandogli gli occhi nell'ombra, come già spenti. In tutta quella gente spensierata si destò bruscamente il sentimento della fragilità della vita umana, il pensiero d'una vecchiaia martoriata e disperata, la visione delle mille infermità miserande che ci aspettano, come mostri appiattati, sulla via degli anni, per saltarci sulle spalle e cacciarci a furia di morsi alla fossa. E vidi bene che fu in quasi tutti un effetto di sgomento più che di pietà. Alcuni impallidirono; una signora s'alzò e uscì sulla piattaforma; altri, per non vedere, torsero il viso verso la strada, e un signore vicino a me redarguì il fattorino, dicendogli che non era lecito, che era “un'indegnità„ il lasciar salire sul tranvai un uomo in quello stato. Un'indegnità! Gli avrei voluto ridire che tale non mi pareva; che se non l'avessero fatto salire, quell'infelice avrebbe sofferto doppia tortura a strascinarsi a casa a piedi, e ch'era giusto che la carrozza di tutti trasportasse anche i dolori, e ch'essa faceva del bene pure per questo: che costringeva qualche volta anche i felici a fissare in viso la disperazione e la morte, ad accogliere il grande pensiero che fuga ogni vanità e schiaccia ogni orgoglio. Ma avrei sciupato il mio fiato perchè proprio in quel momento, mentre passavamo accanto al giardino di piazza dello Statuto, si sparse una maledetta tempesta di note di flauto e di tromba da una giardiniera che veniva giù di corsa dallo stradone di Rivoli, tutta occupata da una banda musicale di dilettanti in cimberli, e lo spettacolo nuovo e comico di quel carrozzone sonoro, in cui si vedevano al chiarore dei lumi le facce rosse e enfiate di venti sonatori soffianti negli strumenti con una furia d'energumeni, ricondusse il pensiero di tutti dalla morte alla vita.
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Conobbi anche in quel torno altri personaggi singolarissimi tra gl'impiegati dei tranvai: un cocchiere che parlava a ogni proposito delle sue terre, e che possedeva infatti non so dove cinque magre “giornate„ di prato, per cui era ammirato e invidiato dai colleghi come un latifondista americano; un fattorino che leggeva e rileggeva continuamente da mesi e mesi un volumetto sbrindellato e sudicio del romanzo La mano del defunto, diventato per lui una specie di libro dei libri, in cui scopriva ogni giorno nuove maraviglie; e un altro cocchiere, il più originale di tutti, un rozzo montanaro gozzuto, il quale, manieroso con tutti gli uomini, riserbava tutto il suo orgoglio e la sua villania per il bel sesso, che parea che odiasse a morte; tanto che quando una signora gli toccava la spalla con la punta dell'ombrellino perchè fermasse, si voltava indietro furioso, come se gli avessero piantato uno spillone nelle carni. Chi sa perchè! Ci doveva esser sotto qualche segreto di tradimento coniugale, che gli aveva messo nell'anima l'orrore della gonnella. E una sera scopersi finalmente, dopo un pezzo che lo cercavo, il dantista, per caso, sulla linea della barriera di Milano. Salendo sul tranvai nel momento che finiva un diverbio fra il fattorino e un contadino che scendeva, intesi quello mormorare fra i denti: — .... in costà, malvagio uccello! — Un verso di Dante! — pensai —; che sia lui? — L'osservai. Era un giovine alto e bruno, di viso piccolissimo, con due occhietti neri pieni d'intelligenza e due baffetti arricciati di studente; sotto ai quali guizzava il sorriso ironico, e come abituale, d'un conoscitore precoce della vita, scettico e benevolo a un tempo. Sì, doveva esser lui. E glie lo domandai senza preamboli: — È lei che sa Dante a memoria? — Si mise a ridere; ma non parve maravigliato della domanda.
— Son fandonie —, rispose ridendo; — storie che hanno messe in giro i miei colleghi. Non ne so di più di quanto ne sanno tutti quelli che hanno fatto la prima Liceo. E poi, anche se l'avessi saputo, l'avrei scordato. — E mostrandomi il libretto degli scontrini, disse: — Il mio Dante è questo adesso. — E soggiunse con un sorriso: — Lo mio volume. — Gli domandai in che maniera dal Liceo fosse venuto a cascar sui tranvai. Me lo disse con disinvoltura. Suo padre, ingegnere, morto all'improvviso; la famiglia numerosa rimasta sul lastrico; un tentativo di commercio fallito; un impieguccio in una Società d'Assicurazioni, ottenuto e perduto un mese dopo, per riduzione di personale; la storia solita.
— E l'impiego attuale? — domandai.
— Ahi... Selvaggio —, rispose sorridendo —, et aspro e forte. — E mi disse tutto, familiarmente. Era la prima volta che sentivo giudicare il pubblico da un “signore„ ridotto in quella condizione, donde lo poteva vedere di sotto in su: mi disposi a ascoltarlo con viva curiosità. Ma fu assai temperato, se non nella sostanza, nella forma, come tutti quelli a cui la disgrazia non sfibra, ma fortifica l'animo.
Il peggio, a suo senso, non era l'orario dalle sedici alle diciott'ore, il dover mangiare come i briganti, e la pioggia delle multe per un ritardo, per una svista, per mille errori di nulla, quasi inevitabili. Il peggio era il continuo contrasto, la lotta continua col pubblico, il doversi guardare da ogni specie di piccole insidie di nemici. Cose da non potersi immaginare. Bricconi che salgono sul tranvai, ci stanno un bel pezzo, e poi, fingendo d'aver sbagliato linea, saltan giù senza pagare, per far lo stesso gioco col tranvai successivo; beceri che salgono in sei o sette, le sere di domenica, e attaccan lite apposta fra di loro perchè nella confusione riesca a qualcuno di non pagare; imbroglioni che tirano a appioppare al fattorino dei soldi falsi, affermando, per esempio, d'averli avuti col resto d'una lira, magari dopo un quarto d'ora che se li rimestano in tasca; prepotenti che vanno sulle furie perchè il fattorino non vuol cambiare un biglietto da dieci, gridando che non è vero che non abbia spiccioli, come se di questi egli volesse far commercio a vantaggio proprio; birboni, insomma, e birberie d'ogni stampo. E poi ci son quelli che hanno perduto un oggetto sul tranvai e accusano il fattorino d'averlo raccattato e intascato; quelli che se la pigliano con lui perchè hanno sbagliato linea, o lo investono perchè s'è dimenticato di indicar loro la cantonata dove volevan discendere; e quelli che, avendo fretta, vanno in collera perchè egli non taglia col tranvai il corteo funebre o il battaglione che passa, o perchè un cavallo cade o tutte e due vanno lenti, come se fosse colpa sua quello che dicono, che la Società non nutre abbastanza le bestie. — Così è — concluse celiando. — Il fattorino, vede, è l'uomo
Al qual si traggon d'ogni parte i pesi.
Entravamo allora in quel largo corso Vercelli, ai due lati del quale si aprono strade e vicoli che si perdono nei campi e s'alzano camini di officine da ogni parte, in mezzo a case disuguali e sparse, che paion d'un villaggio, ma che serbano ancora nell'architettura, nei colori, nelle botteghe, in qualche cosa che sfugge alla parola l'aspetto assestato e rigido dei quartieri centrali di Torino. Quando fummo all'imboccatura di via Carmagnola, il fattorino m'accennò una casetta di due piani, poco lontana, coi terrazzi tutti fioriti, e disse: — Guardi; io stavo là, nel tempo felice. Il mio povero padre è morto là, al primo piano. S'era come in campagna. Ora stiamo a un quarto piano di via Barbaroux, in due buche, e la mattina mi tocca a fare un par di miglia per trovarmi sul posto prima di giorno. — E soggiunse sorridendo: — Uomini fummo ed or sem fatti sterpi.
Poi riprese il discorso di prima. — No — disse — lei non si può figurare le pretensioni e le stramberie del pubblico con cui abbiamo da fare. — E le peggio, disse, non erano quelle della gente bassa, dei barabba che vogliono cantare in tranvai, e che rispondono alle preghiere con minacce, a cui convien rassegnarsi per non avere suon di man con elle; dell'erbaiola che vuol caricare a ogni costo un sacco grande come un armadio, senza un pensiero al mondo che il fattorino si buschi una multa per cagion sua; del briacone fradicio che si vuol sdraiare nella giardiniera come in una stalla. Più irritanti di costoro son le persone per bene che dovrebbero essere ragionevoli: il signore, per esempio, che pretende che il fattorino faccia alzare un tale per far posto a sua moglie, quello che vorrebbe ch'egli facesse smetter di fumare un tal altro che gli manda il fumo sul viso, la signora rimasta in piedi che se la piglia con lui perchè non c'è posto, dicendogli che ha pagato e ha diritto di sedersi, o anche lo minaccia di far rapporto perchè non fa tacere un signore vicino che “parla male„.
— Il pericolo per me —, disse — è che qualche volta mi dimentico della mia condizione e son tentato di rispondere da “signore„ come rispondevo una volta, che sarebbe la mia rovina. Che sforzo debbo fare per rimandar giù le parole che mi vengon su! E me ne vengono, sa! Ma...! D'essere stati poveri è facile scordarsi; ma d'esser stati signori, quanto è difficile!
E continuò, dicendo che non potevo immaginare con che razza d'accattabrighe, anche ben vestiti, s'avesse da fare sui tranvai: con implacabili che brontolano alle spalle del fattorino o del cocchiere per lo spazio di tre chilometri, che riattaccano il lucignolo risalendo sul tranvai il giorno dopo, che serbano in corpo l'amaro d'un diverbio per dei mesi, che si prendono a parole fra di loro per le cause più futili e trascinano dei piati di maestro Adamo e Sinon Greco da borgo San Salvario fino alla barriera di Milano, ripetendo trecento volte la stessa frase con l'ostinazione d'un maglio di macchina a vapore. E il primo, il primissimo torto, in ogni caso, è sempre del fattorino, sul quale cascan tutti d'accordo. Nessuna pietà per lui, anima prava. Gli accadeva qualche volta, stando in piedi da dieci ore, di sentirsi la schiena rotta e d'avere un gran bisogno d'appoggiarsi un momento al parapetto della piattaforma posteriore, per riaversi un poco. Ebbene, non c'era caso che uno dei passeggieri che vi s'appoggiavano, mentre le panche eran mezze vuote, indovinasse mai il suo bisogno e gli lasciasse il posto per misericordia. Mai. Ogni passeggiere tratta il fattorino come se si fosse levato da letto un'ora prima e dovesse tornare a letto alla fin della corsa; ognuno ha l'aria di dirgli: Omai convien che tu così ti spoltre.... Ah, se assaggiassero per una settimana la nostra piuma e la nostra coltre!
Ma tutto questo disse con tuono piuttosto di satira che di querimonia, e con la stessa vivacità studentesca riepilogò e concluse la sua chiacchierata. Sì, veramente: badare a chi sale e a chi scende, e a chi chiama da vicino e da lontano, saltar giù a raddrizzar gli aghi e a badare ai crocicchi, strusciarsi fra i passeggieri accalcati a pescare i soldi ritrosi, cambiare, notare, rendere i conti, rispondere a cento domande, rabbonire i litiganti, e pregare e leticare e spolmonarsi e beccarsi del villano e del buricco da gente bene e male educata, continuamente con le gambe in moto, con le braccia per aria, con la mente tesa e gli occhi all'erta e la multa sulla testa, per dodici ore filate, sotto il sole e sotto la pioggia, col vento e con la neve, tutti i santi giorni dell'anno, per cinquanta soldi al giorno.... è una dura vita. — E soggiunse in ischerzo: — Tanto è amara che poco è più morte. Se Dante tornasse al mondo, aggiungerebbe alle sue bolge delle linee di tranvai e metterebbe a fare i fattorini i peccatori della peggio specie.
Eravamo arrivati a quella piazza solitaria della barriera, che par la piazza d'un villaggio lontano da Torino, di là dalla quale s'allunga nell'aperta campagna la strada di Milano, e lì, al momento di scendere, l'arguto dantista spostato me ne disse ancor una, che mi parve la più amena di tutte, il più curioso esempio di pretensione indiscreta, ch'io avessi mai inteso citare, di passeggieri saccenti. Il giorno avanti, essendo salita sul tranvai una signora tedesca ch'egli non era riuscito a comprendere dove volesse andare, un signore pingue e dignitoso aveva detto con tutta serietà al suo vicino: — Bella figura che ci facciamo! La società dovrebbe prender dei fattorini che sapessero le lingue. — Ed egli, il dantista, gli aveva risposto: — Soltanto le lingue viventi, non è vero? Facoltativi il latino e il greco, tutt'al più. —
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Per tre giorni, nulla di nuovo, fuorchè una fuga atterrita di signore da un carrozzone chiuso, dove un matto originale, credendo di divertir la compagnia, s'era levato di tasca e messo sopra una spalla due topini bianchi addomesticati, che gli giravano intorno al bavero, come una collana vivente: uno stridìo, un sottosopra, per cui accorse una guardia civica, decorata della medaglia al valor militare ( Donne, da voi non poco la patria aspetta! ). E poi, la domenica del ventisette, andando e ritornando dallo Sferisterio, due incontri desiderati. Il primo, sulla giardiniera della linea dei Viali: Taddeo e Veneranda, con la loro bambina. Ma quanto mutati tutti e tre! Al primo sguardo, capii, vidi tutto: una malattia mortale della creatura adorata, una serie di giorni e di notti orrende, la casa risonante di singhiozzi, la mamma in ginocchio, il padre forsennato. La loro bimba era ancora smunta e pallida, e sui loro visi mutati, sotto la gioia della risurrezione, si vedevano ancora i segni dell'angoscia e del terrore. Come la prima volta, mi ritrovai dietro di loro, che avevano la piccina in mezzo, rivolta verso di me. Come si ricorda il viso di quelli che accarezzarono i nostri bambini! Mi riconobbero, mi sorrisero, e interrogarono con uno sguardo ansioso il mio sguardo, come dicendo: — La trova molto cambiata, non è vero? — e mostrarono meglio, in quel momento, i segni del grande dolore sofferto. i quali mettevan più pietà in quelle due nature placide, che dovevano aver vissuto per tanti anni una vita tutta tranquilla. E poi, senz'aspettar la mia risposta, mi diedero la triste notizia: il crup, un mese di letto, la bimba considerata perduta; e dopo la notizia, la storia, con un torrente di parole: i primi sintomi del male, il medico, i rimedi, l'aggravarsi della malata, le parole sue, che avevan credute le ultime in quella notte, in cui la loro ragione si smarriva e il mondo crollava sotto i loro piedi. Ah, no, è troppo terribile! Ah, chi non l'ha provato, non lo può pensare! E poi la sosta della malattia, i primi buoni indizi, le prime parole consolanti, e la gioia infinita; e qui un'effusione di gratitudine per il dottore, il cavalier Boni, un cuore! un ingegno! un angelo! L'altro, l'angelo piccolo, non lo portavan fuori che da tre giorni; era quella la sua terza passeggiata di convalescenza. — Comincia a riprender colore, — dissi. — Ah, sì? Comincia a riprender colore? — E mi guardarono con riconoscenza, come se fosse la mia parola che avesse soffuso un po' di roseo su quel piccolo viso, e con questo era il mondo intero che si ricoloriva ai loro occhi. E la covavano con lo sguardo, la carezzavano con le mani allargate come per afferrarla e per proteggerla. E a questo punto seguì una scena che mi commosse. Presentandosi il controllore a domandar gli scontrini, essi gli porsero anche quello della bimba. Quegli osservò che, se l'avessero tenuta sulle ginocchia, poichè non aveva ancora tre anni, avrebbero potuto non pagare il posto. Eh, lo sapevano! E capii bene il loro pensiero. Pigliare lo scontrino per lei come per una più grande e farle occupare un po' di spazio era per loro come un'affermazione che facevano a sè stessi, una volontaria e cara illusione che la sua persona fosse qualcosa di più di quello che era, una “quantità„ meno “trascurabile„ di quanto poteva parere. Con che dolce accento, quando discesi, mi dissero: — A rivederla! — E a me, vedendoli allontanarsi, passarono confusamente nel pensiero altri convalescenti che avevo visti seduti su quelle panche, in mezzo ai loro parenti racconsolati; e quel tranvai che dà anche al povero uscito di malattia, e alla sua famiglia, il conforto e la gioia d'una passeggiata in carrozza, che non potrebbero fare altrimenti, m'apparve sotto un aspetto nuovo, pietoso e benefico, come quello d'una carrozza futura, ch'io sogno, non destinata ad altro, e messa al servizio di tutti gli scampati dalla morte.
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Uscendo dallo Sferisterio, presi sul corso Margherita la giardiniera della linea di Vanchiglia, tutta piena di facce allegre, color di ribotta, che venivano dalla Madonna del Pilone, l'Auteuil di Torino. Eravamo a metà di via Vanchiglia, quando fra le sette schiere di nuche che mi stavan davanti ne vidi una, fra le più vicine, che mi parve di riconoscere: era d'un uomo, un operaio all'apparenza, che teneva aperto dinanzi il giornale Per l'idea. Dove avevo già visto quella larga nuca di testardo? Accanto a lui sedeva un ragazzetto, col capo appoggiato al suo braccio, e accanto al ragazzetto una donna giovane, che, voltandosi un momento di fianco, illuminò la mia memoria. Era quel tale operaio venuto dal Vercellese, disoccupato e arrabbiato, e sparlante della Camera del lavoro, il quale, due mesi addietro, sul tranvai di via della Cernaia, aveva strappato di mano al suo bimbo e buttato nella strada la caramella ch'io gli avevo regalata. Ah, maledetto sangue! Non feci in tempo a frenare l'ondata di sdegno che mi rivenne su, quantunque il giornale ch'egli leggeva mi dicesse che la sua mente s'era aperta a nuove idee, come il suo vestire e quello dei suoi mi diceva ch'egli aveva trovato lavoro, e che l'animo suo doveva essere quindi mutato. Ma fu un'ondata sola, che ricadde subito, sopraffatta da una viva curiosità. Vedendomi, si sarebbe egli ricordato di quell'atto, e m'avrebbe ancora mostrato nello sguardo il sentimento che gliel'aveva fatto compiere, o un sentimento opposto, o indifferenza soltanto? E stetti a aspettare che scendessero. Fecero fermare in via Lagrange e s'alzarono tutti e tre, presentandomisi di profilo, così vicini, che, scendendo, non potevano non vedermi. Incontrai prima lo sguardo della donna, che fissai per farmi riconoscere; e mi riconobbe infatti, dopo un momento d'incertezza, e arrossì leggermente, chinando gli occhi. Incontrai subito dopo lo sguardo di lui, che mi riconobbe alla prima. Quanto è puerile e finto l'orgoglio, che fa prendere all'offensore, per ingannare e mascherare insieme la sua coscienza, l'atteggiamento dell'offeso! Mi diede un'occhiata torbida e discese col viso adombrato. — Ho io dunque, — pensai, — una così odiosa faccia di borghese egoista, sfruttatore e disprezzatore d'operai, ch'egli non m'abbia ancora perdonato, dopo due mesi, un atto di cortesia? — E di nuovo stava per venirmi su l'ondata di sangue.... ma il grido di avanti! del fattorino la compresse, come una parola magica: mi ricordò l' avanti! col quale un giovine signore, apostolo ardente dell'Idea, una delle anime più generose ch'io conosca, soleva chiudere ogni suo racconto di atti d'ingratitudine e di diffidenze ingiuriose con cui era ripagato qualche volta dai lavoratori incolti e duri che catechizzava. — Avanti! — concludeva, e si ridava all'opera con un coraggio d'eroe e una pazienza di santo. Sì, che cosa sono questi risentimenti se non guaiti miserevoli di quello che ti resta dello stupido orgoglio antico? Avanti!
*
Sì, avanti: una bella chiusa di discorso, e com'è facile il dir delle parole nobilmente severe al nostro orgoglio! Il male è che l'orgoglio, quando gli si parla a quel modo, si rannicchia e lascia dire, e poi, alla prima occasione, ricomincia a fare il comodaccio suo. Delle belle parole glie ne dissi anche la sera dopo, trovandomi sopra una giardiniera di via Roma, seduto, a tre panche di distanza, dietro le spalle di Siapure, che aveva, accanto la sua ragazzina; e furon parole al vento. La bimba stava voltata un po' di sbieco, e mi guardava con una insistenza singolare. Certo, mi conosceva; certo, aveva “letto„ qualche cosa. Ma non riuscivo a capire il suo sentimento dal suo sguardo, che somigliava a quello con cui qualche volta si fissa una persona pensando ad un'altra. Aveva inteso suo padre parlar male di me? O gli aveva inteso esprimere con parole benevole il rammarico della nostra amicizia spezzata? Sentivo un malessere sotto lo sguardo pensieroso di quel giudice di dieci anni, che pareva mi frugasse nell'anima, e che ora aveva l'aria di dirmi dolcemente: — So che a mio padre vuoi ancora bene: perchè non gli stendi la mano? — e ora con espressione di rimprovero: — Tu odi mio padre; perchè l'odi? — No, bambina, — le risposi in cuor mio, — rassicurati, non l'odio; non potrei e non lo merita; ho dei torti io pure. Sì, certo, dovrei esser io il primo, come tu pensi, a tendergli la mano. Ma per far questo, vedi, dovrei esser ragionevole e buono; e non son nè l'uno nè l'altro, benchè abbia scritto qualche cosa che può farlo credere, e benchè tu mi veda i capelli grigi. Io son pieno d'orgoglio. Ah, se tu sapessi come questo povero orgoglio ci fa più piccini di voi! Ecco, vedo che c'è un posto vuoto vicino a voi due: sento una voce che mi spinge a scendere sul predellino e ad andarmi a sedere accanto a tuo padre; e sento un'altra voce che mi dice: — Sta lì! Non ti muovere! —; la prima è dolce e m'intenerisce; la seconda è aspra e mi sdegna; e non di meno io cedo a questa; e me ne vergogno in faccia a te, cara bambina; ma preferisco questa vergogna alla compiacenza profonda e gentile che proverei facendo quello che tu vorresti, e che io pure vorrei. Andiamo, volta il capo dall'altra parte, non mi guardar più; non merito lo sguardo dei tuoi occhi buoni e innocenti, te lo assicuro! — Si fermò in quel punto il tranvai e Siapure si voltò a guardare dove fosse diretta l'attenzione continuata della sua figliuola: mi vide e mi fissò. Sarebbe stato quello il buon momento! Ma lo lasciai passare. — Avanti! — gridò il fattorino, e il tranvai ripartì. Come mi suonò diverso quell' avanti da quello del giorno prima! Sì, avanti — voleva dir questo — avanti sempre così, orgogliosi, meschini, spregevoli fino alla morte.
*
E — avanti! — gridava Desbotonass ogni volta che il tranvai si fermava sul Corso San Maurizio, la sera della festa di San Pietro. Aveva accanto sua moglie; doveva aver festeggiato il proprio onomastico; era briaco fradicio. I lampioni, danzando e moltiplicandosi ai suoi occhi, confondevano le sue idee topografiche; credendo di essere al Valentino, si stupì di veder lì la Mole Antonelliana, che apostrofò; scambiò l'Arena torinese con una casa di canottieri; e la vista improvvisa del piazzale delle Benne lo riempì di maraviglia come un'apparizione fantastica. — Ma dovè che semm chi? — andava esclamando; — ma dovè che se va? — E sempre ripicchiava su quel chiodo di non voler che il tranvai si fermasse, e gridava: Avanti! con furore crescente. Poi s'assopì per qualche momento, e, ridestandosi, fu preso da un impeto di tenerezza malinconica per sua moglie, e messole un braccio dietro la schiena e il capo sulla spalla, cominciò a confessarle i suoi torti, a dirle che era una buona, una santa donna, ch'egli era indegno di lei, che voleva cambiar vita; e glie lo prometteva e glie lo giurava; ma prima voleva esser perdonato. E inutilmente essa gli rispondeva di sì, che gli perdonava, ma che si quietasse, che non facesse scene. Ogni sua assicurazione di perdono non faceva che dar la stura a una nuova e più larga ondata di parole di pentimento e d'affetto, rotte da singhiozzi di pianto e di vino. — Ah no.... meriti minga.... no, sont minga degn.... A ona donna come ti! La mia Mariettina! Dimm che te me perdonet! Te me 'l devet dì ancamò una volta, ancamò cent, ancamò mila volt!... — E di nuovo accennava a torti propri, a virtù di lei, all'assistenza ch'essa gli aveva fatta quand'era stato malato, al rimorso ch'egli avrebbe sempre avuto di non essersi portato con lei da buon marito, all'amore che le avrebbe dimostrato di lì avanti, cangiando condotta, e perseverando sulla buona via, fina al moment de sarà i œucc. E in quell'eruzione di parole briache, che mettevan disgusto, veniva pur fuori il fondo d'una natura buona, guasta, ma non pervertita ancora, che mi faceva pensar tristamente a quante altre nature simili il vizio aveva pervertito affatto e andava pervertendo di continuo; e alle miserie e ai martirii d'innumerevoli povere donne come quella, torturate e uccise dal veleno maledetto ch'esse non bevono; e tutte quelle larve d'uomini avvelenati e di donne infelici, che mi passavan davanti per l'aria, rendevano triste ai miei occhi quella bella sera stellata e tepida di fin di giugno. Triste di questo pensiero antico, misto di rimorso e di vergogna; che non facciamo nessuno il dover nostro, che dovremmo bandire una crociata universale, ardente e infaticabile contro il mostro, non per mezzo di leggi e di prediche, ma disputandogli ad una ad una le sue vittime, con amor paziente e intrepido, col consiglio, con la preghiera, con la carità, con la comunione intellettuale, con tutte le forze che mettiamo in opera per salvar dal suicidio un fratello.
CAPITOLO SETTIMO.
Luglio.
Calori, languori, esami: soffia il terror del cinque e dello zero anche sulle giardiniere. Il tranvai è come una gazzetta vocale viaggiante che ci tiene in giorno non solo degli avvenimenti politici, ma delle passioni predominanti a volta a volta nello spirito pubblico. Da una settimana, su tutte le linee, colgo a volo da passeggieri d'ogni condizione frammenti di discorsi scolastici, espressioni di timori e di speranze, accenni a difficoltà e a pericoli, esclamazioni sospirose di mamme, che parlano di “preferenze„ e d'“ingiustizie„, di “raccomandazioni„ e di “pressioni„ come se avessero i figliuoli sotto processo. Sui tranvai che passano davanti alle scuole verso il mezzogiorno, salgono ragazzi e giovinetti coi capelli arruffati, col viso acceso e con le mani sporche d'inchiostro; i quali parlano con voce eccitata e stanca di soldati che si raccontino a vicenda i casi d'una battaglia. Si sente nella voce d'alcuni l'intenzione di farsi ascoltare e il compiacimento altero della vita intellettuale, si vede negli occhi loro un balenìo di speranze lontane di gloria, di alti uffici sociali e di ricchezze conquistate con l'ingegno. Ahimè! E io penso a quanti di loro, dopo esser passati per la trafila d'altri cento esami, e aver tentato e abbandonato, sgomentati dalla moltitudine dei concorrenti, molte altre vie maestre e traverse, parrà una fortuna di potersi rifugiare in uno di quei carrozzoni, col libretto degli scontrini in mano e il corno appeso al collo. E non vedo l'ora che sian passati questi “giorni del terrore„ dell'istruzione pubblica, poichè i discorsi che ascolto mi fanno pensare a migliaia di cervelli strapazzati, di cuori trepidanti, di amari disinganni paterni, di castighi, di scene domestiche dolorose, ed anche a suicidi miserandi d'adolescenti; e all'udir quelle allusioni alla farraggine delle materie d'esame, mi domando con tristezza quanto tempo passerà prima che s'abbia il sapiente coraggio di procedere a una semplificazione degli studi, la quale ne faccia d'un carico opprimente un nutrimento sano e gradevole, e penso con dolore che passerà un tempo anche più lungo prima che siano migliorate in modo le condizioni del lavoro meccanico, che non paia più una condanna il dovervi rimanere e quasi una degradazione il discendervi; senza di che non vi è salvezza per la società civile, che sarà uccisa dalla pletora degli spostati infelici e violenti. Ma mi rallegra un caso ameno, e non raro. Mi trovo sopra una giardiniera con un arguto professore di liceo, il quale, dicendomi che dallo strapazzo intellettuale nascerà nel venturo secolo qualche nuova malattia, una specie di tabe scolastica, che istupidirà un'intera generazione, tace tutt'a un tratto per tender l'orecchio verso due signore, che salgono dietro di noi, seguitando un discorso in cui egli ha inteso il suo nome. Ah! sono pericolosi i tranvai, in questi giorni, per i professori! Tendo l'orecchio anch'io. — Il grande scoglio è quello —, dice la signora più giovane, sospirando; e ripete il nome. — L'anno scorso si sperava d'esserne liberati, poichè n'è stufo anche il preside; ma ha delle protezioni al ministero, dicono, e restò. Basta guardarlo in faccia. Un di quei cani!
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Ma il luglio, con l'aprirsi dell' Arena e del Teatro torinese, posti sulla linea dei viali, mi portò un divertimento nuovo, che trovo descritto fra gli appunti, in una pagina finita. È uno spasso per me il percorrere quella linea la sera della domenica, all'ora che finiscono le rappresentazioni diurne. All'imboccatura di via Vanchiglia, e poi davanti all'Arena e al Teatro, si fanno tre infornate successive di passeggieri che portano nel tranvai tre ordini di discorsi disparatissimi di argomento, d'intonazione e di mimica, discordanti all'occhio non meno stranamente che all'orecchio. La prima è tutta d'uomini, usciti dal gioco del pallone, che continuano i commenti e le discussioni sulle partite e sulle scommesse, ripetendo cento volte le stesse parole: quindici, quaranta, fallo, dividendo, battuta, rimessa, e imitando i colpi e le mosse con gesti impetuosi e esclamazioni ammirative, in cui spira un soffio sano di forza, di lotta, d'aria viva ed aperta. Davanti all'Arena, dove si rappresenta l'operetta, salgono dei giovanotti col viso acceso di tutt'altra fiamma, i quali commentano con risate e parole grasse le maglie piene, i gesti impronti e i motti equivoci, spandendo intorno un soffio di sensualità e di licenza, che desta nei vicini dei sorrisi lubrici e delle fantasie peccaminose. Un po' più là vengon su dal Teatro bottegaie, crestaine, qualche volta una famiglia intera, tutti coi lucciconi, ancora commossi dalla chiusa del dramma, esclamando tutti insieme: — Una bella produzione! — Fa troppo pena. — Hai visto com'è morto? — Ha fatto la fine che si meritava. — Povera ragazza! E son cose che succedono! — e spira nei loro discorsi lo sdegno contro il malvagio, la pietà per l'innocente oppresso, la gioia della virtù trionfante, una commozione buona, sincera, profonda, che fa comprendere quale grande forza, disconosciuta dai più, male usata da molti, inettamente trascurata da municipi e da governi, sia il teatro popolare. E da un capo all'altro della giardiniera gioco, musica e dramma, nomi di battitori e d'attori, ritornelli, volate, pistolotti, morte, amore, totalizzatore mi si confondono all'orecchio in una sola conversazione strana, antitetica, burlesca e triste come la vita: immagine della vita anche in questo: che a ciascun gruppo pare leggiero, stupido o odioso l'argomento dei discorsi dell'altro, e che basta l'accidente più futile, come l'apparizione d'un cappellino stravagante o il barcollare d'un ubbriaco che passa, a far sì che tutti si distraggono dai loro pensieri e mettan fuori in coro un Oh prolungato di stupore, che rivela il fondo fanciullesco di tutti.
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Pioggie, uragani, il mondo sottosopra: un'estate degna dell'inverno di Abba-Garima. Ma debbo ai carrozzoni chiusi d'essermi trovato in una delle congiunture più curiose che possano occorrere a un passeggiere di tranvai. Dopo tanto tempo ritrovai sulla linea di via Garibaldi il bel capitano di fanteria e la moglie ipotetica dell'impiegato delle Poste (lettere raccomandate). Alla prima occhiata mi parve che non fossero più audaci come l'altra volta, che la passione, quetandosi un po', avesse ridato luogo in loro alla prudenza dei primi giorni. Eran sedute dentro con noi altre persone, fra cui ricordo un giovanotto che aveva nella cravatta una grossa spilla di porcellana, con su scritto ad arco in caratteri leggibilissimi: — Cerco moglie; — ma questi e gli altri discesero in Piazza Castello, e restammo noi tre soli. Vidi allora negli occhi dei due, che sedevano l'uno di fronte all'altro, balenare un raggio come di speranza. Senza dubbio, s'avevano da dire qualche cosa d'importante prima di lasciarsi, come facevan sempre, come due persone che non si conoscessero, e aspettavano che io discendessi in via Po. Ma io dovevo fare ancora un buon tratto; oltrechè mi tratteneva lì la curiosità inseparabile dalla mia professione. M'accorsi ch'erano impazienti, incontrai uno sguardo di lui che mi disse chiaramente: — Se sapesse che piacere mi farebbe a discendere!
— Pensi un po' se non lo capisco! — gli risposi dentro di me. — Ma debbo trattenermi per ragion di studio: lei ci ha il suo amore, io ci ho il mio libro.
Il tempo passava. Uno sguardo della signora mi disse: — Se ne vada dunque una volta! — ma così apertamente, che ne fui offeso. E le risposi con gli occhi: — No, non è codesta la maniera: me lo chieda con più garbo e potrà essere ch'io la contenti.
Si scambiarono un'occhiata che equivaleva a un'esclamazione a due voci: — Che testardo importuno! — Egli tormentava con la mano la dragona della sciabola; essa l'anello dell'ombrellino.
Un momento dopo egli mi diede una guardata che fu un vero e proprio spintone; ma essa corresse subito l'effetto dell'atto brutale con uno sguardo ansioso e quasi umile, che diceva: — Lei ha capito; mi faccia questo favore; non abbiamo più che un minuto; la supplico.
Impietosito, feci l'atto di alzarmi; ma in quel momento sonò il campanello e il tranvai s'arrestò: saliva una famiglia.
E allora mi fulminarono tutti e due insieme con una tale occhiata, che mi parve di sentirmi entrare a un punto nelle carni la punta dell'ombrellino e la punta della sciabola, e m'affrettai a discendere, volgendo in mente questa pagina, che mi costa un rimorso. Ma non m'ero certamente ingannato: l'amore doveva esser già malaticcio, e mi diceva il cuore che un giorno l'avrei visto trasportar dal tranvai, come da un carro funebre, morto di consunzione.
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Seguita un tempo matto, variato d'acquazzoni violenti, di rasserenamenti repentini e di scrosci di pioggia rincalzanti; durante il quale faccio una scoperta preziosa che mi apre sul tranvai un nuovo ordine di godimenti artistici squisiti. Costretto a star sempre dentro al carrozzone, scopro che riescono bellissimi, all'apparire improvviso del sole, certi prospetti della città, veduti nel vano delle due porticine che li racchiudono come in una cornice oscura, giovando all'occhio come il far canocchiale della mano davanti a certi particolari d'un quadro. Quante piccole maraviglie! Da via Garibaldi immersa nell'ombra vedo un pezzo della facciata del Palazzo Madama, con dinanzi l'alfiere marmoreo del Vela, piccolo come una figurina di scacchiera, d'una bianchezza di neve, luminoso e vivo su quel fondo cupo, come se splendesse di luce propria e avesse sentimento della sua gloria. Nella via del palazzo di Città vedo inquadrato nell'uscio, illuminato di fianco, il gruppo violento del Conte Verde e dei Saraceni, in mezzo alle statue più lontane del principe Eugenio e di Emanuel Filiberto: un quadretto un po' manierato e teatrale, ma vivissimo, della vecchia Torino austera e guerriera. Vedo in via Roma, come dentro a una finestra, l'alta figura impennacchiata del vincitore di San Quintino, che spicca in nero sulla lontana facciata ad arco della Stazione, trasparente e ridente come la porta monumentale d'un giardino maraviglioso. In via Po, come pel vano di due opposte feritoie, ammiro da una parte la Gran Madre di Dio, lumeggiata dal sole che tramonta, spiccante sul verde fosco della collina, come un blocco smisurato di marmo roseo, e dall'altra parte la faccia posteriore del Castello, rude e tetra, nell'atto che n'esce e passa sul ponte una processione di Figlie verdi coi veli bianchi: un quadretto medioevale misterioso e severo, a cui non mancano che due alabardieri corazzati ai due lati del portone, minacciante ancora una sortita d'assediati. E ricordo altri innumerevoli quadri alti e stretti, che presentano sfondi lontani e vaporosi di vie diritte e lunghissime, segnati d'un tratto nero da un camino d'officina, somigliante a un dito titanico; quadri pieni del verde dei colli e dell'azzurro e del bianco delle Alpi, su cui s'intaglia vigorosamente la spalla enorme d'un passeggiere ritto sulla piattaforma; quadri semplici e profondi, d'un sol colore turchino carico, in cui brilla uno spicchio argenteo di luna, e sopra la luna una stella. E durante una corsa sola, cangiando il tempo, tutte queste vedute s'annebbiano e tornano a rischiararsi, perdono e riprendono i colori, e mentre il quadro davanti, su cui si disegna la testa del cocchiere, si riaccende, il quadro di dietro, sul quale spicca la testa del fattorino, si rioscura, tanto che di là par mattino e di qua sera; e poi tutto quanto, davanti e di dietro, si confonde in un solo color grigio, rigato dalla pioggia obliqua, dietro alla quale spariscono le case, le colline, le Alpi, il cielo, e le due piccole porte non son più che le cornici di due paesaggi confusi, che rappresentano l'uggia e il malumore.
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E acqua e fulmini e ira del cielo. I giubilati debbon scappare ogni momento dai viali per rifugiarsi nei tranvai chiusi, dove, raggomitolandosi e tossicchiando, si lagnano dello sconvolgimento delle stagioni, del mondo mutato, dell'estate che non è più estate come al loro buon tempo. E in loro posso esaminar gli effetti lamentevoli di questi improvvisi mutamenti atmosferici che aggravano il peso degli anni, sconvolgono i nervi, inacerbiscono tutti gl'incomodi, scolorano tutt'a un tratto il mondo e la vita a innumerevoli creature umane. Vedo delle vere carrozzate d'umor nero, tranvai che paion sale d'aspetto di medici consulenti, con dei visi di vecchi atteggiati a quella serietà cupa e immobile, che tradisce la mente inquieta, intenta a osservare i movimenti irregolari della macchina interna scomposta, minacciante qualche brutta sorpresa. Quant'è mutato anche il mio buon veterano di via Garibaldi! Me lo trovo davanti, rincantucciato in un carrozzone della linea di Vinzaglio, con la fronte solcata da una ruga verticale profonda, e al mio: — Come sta? — risponde con voce rauca: — Niente, niente bene. E come si può star bene? Non c'è più stagioni! Chi ne capisce qualche cosa? È il mondo che va a soqquadro.... E poi, e poi, sono settantott'anni! — Ma non dice più quel numero in tuono di vanto: intacca a metà della parola, che par che s'allunghi e s'appesantisca sulle sue labbra cascanti. E quanto gli resta di vita negli occhi lo spende a cercare dal finestrino il suo Ciuchetto, che trotterella accanto al tranvai, tutto impillaccherato, e ad ammonirlo col dito, quando ricompare dopo uno sviamento, perchè, dice, lui sa che egli vuole che cammini sempre accosto al muro, per cansare i pericoli e perchè egli lo possa vedere. E pare che col sentimento della propria decadenza fisica cresca in lui l'affetto per la povera bestiola, il suo unico amico, il quale tra non molto, dopo tanti anni di fida compagnia, egli dovrà lasciar solo nel mondo, a morire forse d'una morte atroce, dopo molti mesi di vita randagia e famelica, esasperata da persecuzioni crudeli. Fuggono intanto di qua e di là dal tranvai, sotto la pioggia dirotta, gli alberi frondosi dei viali, fuggono le colonne snelle dei nuovi portici, appaiono e dispaiono le imboccature delle grandi strade, e sopra ogni cosa scorre a traverso ai vetri il suo sguardo velato da un'espressione di tristezza, come se egli pensasse che è quella una delle ultime volte che gode quello spettacolo e il suo spirito pigliasse comiato quel giorno dalla sua cara e bella Torino. — Ah, bella, sì, e quanto! — par ch'egli dica con quello sguardo, — bella anche con questo tempo, bella anche così grigia e malinconica, anche così immollata e infangata come il mio povero cane....
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Una bella giornata, finalmente, e una bella scena, un esempio nuovissimo della potenza del femminino eterno, quale non può darsi che sulla carrozza di tutti. Una bella ragazza bruna, esuberante di vita, con un roseto vermiglio sul cappellino, stretta in un superbo vestito nero luccicante di perline nere, che le modella come una maglia il busto svelto e opulento, siede in capo a una panca della giardiniera, tenendo una gamba sull'altra e un piedino per aria; il quale sfida il mondo, di pieno accordo col viso, scintillante di civetteria, e sorridente d'una larga bontà consolatrice. La giardiniera corre sotto il sole giù per il viale Regina Margherita, dov'è costretta a rallentare perchè è smossa la strada, e lì s'incontra con un reggimento di fanteria che vien su in quattro file, di cui la prima a sinistra passa rasente la pedana, dalla parte dov'è seduta la bella. Primi i soldati della fanfara, passando con le trombe alla bocca, volgon gli occhi a quel viso bruno che sorride sotto quel cespo di rose rosse e a quello stivaletto giallo che segna il tempo della musica sotto quel vestito imperlato. E dalla fanfara pare che la scintilla trapassi lentamente per tutta la colonna. A tre, a cinque, a otto per volta, man mano che passano, tutti i chepì si voltano, tutti gli occhi s'avvivano, tutte le bocche si arrotondano; sul viso degli uni guizza un sorriso, dalla bocca degli altri scocca una parola; molti si girano indietro, parecchi perdono il passo, e chi dà di gomito al vicino, chi si sporge un po' in fuori per veder più da presso il piedino e il roseto. A dieci passi di distanza l'effetto della scintilla è già visibile. E via via, ufficiali, soldati, caporali, sergenti, teste bionde del settentrione e teste brune del mezzogiorno, visi barbuti e imberbi di piemontesi, di napoletani, di siciliani, di sardi, per quanto la colonna è lunga, tutti si voltano dalla stessa parte, come se sfilassero davanti a un generale d'armata, ed esprimono con lo sguardo il pensiero medesimo, con una regolarità preveduta, che finisce con mettere in allegria tutti i passeggieri del tranvai, adocchianti a vicenda i soldati e la ragazza, la quale sorride amabilmente a tutto il reggimento, come una sovrana contenta. Oh eterno femminino! E pensare che la grande forza dello Stato è formata da cento colonne d'uomini come quella, ciascuna delle quali, passando davanti a quel roseto, farebbe come quella fa; che quel visetto bruno darebbe una scossa elettrica a tutto l'esercito nazionale, se tutto l'esercito le sfilasse accanto a quel modo! Che cos'è mai un grande esercito visto dall'alto d'una giardiniera, quando sporge fuor di questa lo stivaletto d'una bella ragazza!
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E pioggia da capo, e vento, e tuoni: i cocchieri hanno il viso lavato dagli acquazzoni, i cavalli grondano, i vetri sgocciolano, le signore salgono con le vesti fradicie e con la bocca torta, e lanciano, entrando, occhiate feroci l'una all'ombrello dell'altra. La cortesia consueta si risente del cattivo tempo anche fra le persone più cortesi, e pure i visi più simpatici appariscono in una luce poco favorevole. No, non son questi i giorni da cercar moglie sui tranvai: non ci si vedono che signorine smorte, imbronciate contro il cielo: il mio bel pittore, se ancora non ha trovato, deve perdere il suo tempo. E argomento dal suo viso l'una e l'altra cosa, vedendolo salire sul carrozzone in via Madama Cristina; e più che dal viso, dall'atto rabbioso, in lui insolito, col quale dà uno strappo all'ombrello che non si vuol chiudere. Sul suo largo viso roseo di buon ragazzo v'è un'ombra di malinconia anche più scura di quando lo vidi l'ultima volta, e sotto quell'ombra un'altra, che par d'una irritazione abituale. Gli domando se ha trovato: egli scrolla le spalle d'atleta con un moto di dispetto fanciullesco, corretto da un sorriso forzato di cortesia, e inveisce contro il tempo. Ma è tutt'altra, capisco, la causa del suo malumore; lo capisco un momento dopo da una tirata rude e sconnessa ch'egli fa contro le ragazze torinesi, con la violenza improvvisa d'un uomo d'animo semplice, a cui manca ogni sentimento dell'arte delle transizioni. — Anime fredde, pezzi di ghiaccio, bambole; belle bambole, piene di tritura di legno. — C'è di mezzo una bambola — dissi tra me, — senza dubbio. — Per loro — continuò — tutto sta nel bel contegno; ma quando sotto il bel contegno non c'è nulla.... è la virtù delle statue. Manca la materia combustibile, questo è quanto. Angeli d'alabastro, santine di neve. Ha detto bene l'Alfieri: là dove Italia boreal diventa. Figliuole di Borea. — Io lo incoraggiai, paternamente. Che diavolo! Se non faceva breccia un uomo come lui, un Ercole gentile, bello, artista, sul fior dell'età, chi l'avrebbe fatta? — Ah sì, artista! Non è aria per l'arte qui; se fossi un uomo di scienza, o se portassi le cedole appese al collo, forse.... — E poi lo cominciava a seccare anche la città; anzi era un pezzo che lo seccava: tutta quella geometria, tutto quel giallo, quel girare e rigirare e parersi sempre nello stesso luogo! A giorni gli saltava il ticchio di far le valigie e di scappare come un cassiere. Non aveva alcuna meta determinata: gli sarebbe piaciuto di andare a caso, di città in città, lontano, fino all'ultima punta della Sicilia. — Guardi un po' queste case, queste strade, se non fanno pigliare in odio l'angolo retto e l'omologia. E la gente è tal quale. Non le pare che tutti si rassomiglino? Come no? Ma ci son centinaia di signorine che paiono state tutte calcate l'una sull'altra, ritagliate con un solo giro di forbici sopra un foglio piegato in cento.
— Ah! — gli dissi ridendo — ce ne dev'esser una che è sfuggita alle forbici....
Ma non mi badò, e insistette. Da qualche tempo vedeva delle carrozzate di gente che avevan tutti un'aria di famiglia; tutti i giovani gli parevano impiegati a mille e due, i vecchi, tutti sergenti pensionati, le signorine, tutte istitutrici di collegio, tirate a filo di regolamento....
— Eh, lasci andare, — gli osservai, — ci son pure delle belle ragazze....
— Oh per questo sì! — E qui si tradì. — Ci son dei tipi.... delle figure raffaellesche.... certi visi bianchi con gli occhi azzurri.... d'una purezza, d'una grazia! Ma manca la vita, la fiamma. N'ha più una siciliana nel dito mignolo che dieci di loro da capo a piedi....
Io ci volevo un core
Dentro a quel seno bianco....
E tacque un momento; poi riprese bruscamente: — Io, già, vedo delle gran facce antipatiche. — E chiamò la mia attenzione sui passeggieri. — Veda un po' che mutrie. Mi par di vedere un piccolo museo d'automi di cera. Sarà anche un po' effetto del tempo, forse.... Insomma, mi secco. — E dopo un po', nell'atto di scendere, soggiunse sorridendo, ma con accento di tristezza: — Mi darei per un nichel....
— È preso, — pensai, — non c'è dubbio; preso da un viso bianco con gli occhi azzurri. Oh, imbroccherò bene il tranvai dove ci saran tutti e due....
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Fu il pittore che me l'attaccò? Fu il brutto tempo? Fu una cattiva disposizione di salute? Per alcuni giorni soffersi anch'io del suo male — l'uggia del prossimo — un male bisbetico, il quale s'inasprisce in particolar modo nei tranvai, dove le facce antipatiche, che per la strada non si vedono che di sfuggita, ci rimangono sotto gli occhi per qualche tempo, e s'è quasi forzati a guardarle. Antipatiche, perchè? Non può esser altro che per questo, che son per noi delle maschere di nemici ipotetici, facce da cui argomentiamo opinioni, passioni, gusti, consuetudini opposte alle nostre, esseri, fra i quali e noi, se ci frequentassimo, non potrebbe correre nè affetto, nè stima, nè accordo alcuno. Quante ne vidi in quei giorni, e quante ne ricordai! E a chi non accade lo stesso? Son persone sconosciute con cui da anni, ogni volta che c'incontriamo, scambiamo uno sguardo malevolo, o indifferente ad arte, o facciamo uno sforzo per non guardarci; gente di cui lo sguardo, la voce, la sola vicinanza ci mette in impiccio, ci dà una molestia, un senso sgradevole come quello d'una punta di stecco fra i denti o dei capelli tagliati nel collo; disgraziate creature, di cui il passo, il modo di far fermare il tranvai, di salire, di sedersi, di pagare, di metter lo scontrino sul cappello, tutto ci è spiacevole, come se fossero stati impastati e ammaestrati per farci dispetto. Quando ce li vediamo all'improvviso daccanto, ne risentiamo una scossa, come per un urto, e un sentimento di suggezione ad un tempo, come se sotto il loro sguardo si tradisse il nostro pensiero, ed essi potessero misurare la piccolezza dell'animo nostro dal potere che hanno sopra di noi. E quella promiscuità forzata del tranvai ce li rende più uggiosi, come degli intrusi in casa nostra, ed è una vera liberazione quando discendono. Quanti ce ne sono, e come ci pullulano davanti in quei giorni di malumore! Pare che ciascuno ci perseguiti e che tutti si siano dati l'intesa per non lasciarci pace. Non ricordo bene quanto sia durato quel periodo; ma so che mi parve di riveder tutti quelli che avevo intoppati in vari anni. Feci delle corse calamitose, durante le quali cinque o sei, successivamente, mi si strofinarono addosso salendo e scendendo, m'infradiciarono coi loro ombrelli, mi soffiarono in viso il loro alito, mi gridarono all'orecchio degli alt e dei ferma stonati, nasali, villani, melliflui, irritanti, mi fecero sentir dei discorsi scipiti, vanitosi e pedanteschi, mi tormentarono coi loro sguardi insistenti coi quali parevano dirmi: — Siamo saliti apposta per te e spendiamo con piacere due soldi per farti soffrire. — Che rabbia e che vergogna! Sì, proprio, patimenti vergognosi, antipatie ignobili, rabbie miserabili, mosche e vermi dell'anima, che, se un atto della volontà si potesse rassomigliare a un atto meccanico, direi che vanno spazzati via con la scopa.
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Una commozione viva di pietà mi ruppe il corso di queste giornate maligne. In una giardiniera di via Garibaldi, su una delle prime panche, era seduto un soldato con l'uniforme d'Africa: un piccolo fantaccino macilento, che pareva non accorgersi d'essere guardato da tutti, e che alle domande di cui lo tempestavano alcuni vicini curiosi rispondeva a monosillabi, con l'accento d'una persona seccata, guardando qua e là, come se cercasse qualcosa per aria, con lo sguardo diffuso e fuggente, proprio degli scampati a una strage. Ebbi un rimescolo quando, voltandomi indietro, vidi ritta dietro all'ultima panca, col suo sacco solito, la vecchia di Pozzo di Strada, immobile, con tutta l'anima negli occhi, fissi sull'elmetto di quel giovane con l'espressione attonita e profonda dell'ipnotizzato, intento all'oggetto che lo affascina. Certo, essa viveva ancora tra la disperazione e la speranza, e la vista di quell'uniforme le risollevava nell'anima in tutta la prima violenza la tempesta dei due opposti sentimenti che se la contendevano. Era una povera divisa di tela come quella, che da quattro mesi eterni essa vedeva col pensiero, lacera, sforacchiata, insanguinata, fatta a brani e sparsa per le rocce e pei rovi del campo di battaglia scellerato. Chi sa mai che cosa pensasse, che cosa vedesse in quel momento nella figura di quel soldato? Che cosa le diceva mai quello spettro del suo figliuolo, sorto improvvisamente sulla sua strada: — Mamma, son vivo? Mamma, soccorrimi? Mamma, muoio? son morto? addio per sempre? — Le era un conforto o uno strazio il vederlo? Non si poteva comprendere da quel suo viso chiuso di vecchia contadina usata a soffrire, da quel suo occhio immobile, dilatato, asciutto, che pareva fisso in un punto solo di quella persona come in un altr'occhio che s'affisasse in lui, fisso come se non si fosse dovuto movere mai più se la corsa non avesse avuto più fine. E mi domandai perchè, appena vedutolo, essa non fosse corsa a interrogarlo con quell'ingenua illusione delle madri ignoranti che domandano allo sconosciuto reduce dall'America notizie del figliuolo emigrato. Pensai che forse ella aspettava che il tranvai si fermasse per andarsegli a sedere accanto; ma il tranvai si fermò ed ella non si mosse. Fu timidezza? O la ritenne il terrore di saper la verità? Discese, come sempre, al crocicchio di via Venti Settembre, e appena fu sul marciapiede, si fermò, col suo sacco in spalla, e si voltò indietro a guardare il soldato un'ultima volta. E poi tirò via, a guadagnarsi il pane, curva sotto il suo sacco e sotto il suo dolore.
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Ripiove, e riecco la noia dei carrozzoni chiusi; ma rallegrata da una “scena d'interno„ amenissima. V'è nel mezzo una signora secca e elegante, già sulla “detestata soglia„ della maturità, visibilmente stizzita dalla vicinanza d'una bella bionda giunonica di vent'anni, che la offusca con lo splendore del suo viso e con lo sfarzo dei suoi abiti, e a cui ella saetta delle occhiate di traverso come se le volesse dar fuoco. In un angolo, seduto sulle ginocchia di sua madre, un bimbo paffuto, inebbriato dal profumo d'un canestrino di lamponi, su cui lascia gli occhi, senza punto intenerire la servotta rosata e tutta curve che lo tien fra le mani; la quale finge di non sentire il gomito e il ginocchio audace d'un satirello canuto, con gli occhiali d'oro e il nastrino di cavaliere, che par che fonda al suo contatto. — Invidia, gola e lussuria, — mi dice all'orecchio quel diavolo di Schopenhauer, a cui nulla sfugge; un mio buon amico, pessimista marcio, ma galantuomo, che non avrebbe alcun difetto oltre la sua filosofia, se non fosse, nonostante questa, infiammabile come un arabo. Il tranvai si ferma per aspettare la pancia d'un signore che viene avanti di lontano a passo di lumaca, come se dormisse camminando. E l'amico scatta: — Ma costui s'infischia del mondo! — e se la piglia col fattorino: — O che dobbiamo aspettare il comodaccio di quel pachiderma?... E avanti dunque, maledetta l'accidia! — Accidia ed ira, — dico io, puntando il dito nel petto a lui, che sorride amaro. Sale finalmente l'aspettato, s'adagia, e si riparte. Ma ecco che, dopo pagato il biglietto, il nuovo entrato si lascia sfuggire dal portamonete bellissimo un soldino, che rotola fra i piedi dei passeggieri. Si china lui, si china il fattorino, si scomodano tutti, e il soldo non si trova, ed egli s'ostina a cercare e a scomodare il prossimo, che principia a brontolare, sudando e soffiando, col viso acceso e turbato, come se avesse perduto un diamante. — To' — dice allegramente lo Schopenhauer, — l' avarizia. — Ma la nostra attenzione è attirata in quel punto da una vecchia signora segaligna, entrata poc'anzi dall'altro uscio, la quale, all'atto di pagare, s'accorge, quasi spaventata, di non avere in dosso il portamonete. — Mi permetta di pagar per lei, madama, — le dice cortesemente un signore che le sta accanto. — A chi dovrò render la moneta? — domanda essa, con un'aria di diffidenza. — La darà a un povero, — risponde il passeggiere. Quella sta un momento pensando.... Che sarà mai passato per quel cervello di scarafaggio? Prende un'aria sostenuta, come se fosse stata offesa, tira il campanello, e discende. — E superbia! — esclama il mio amico ridendo. — Tutti e sette in una corsa sola! Ah, siamo proprio maturi per un nuovo diluvio. È un mondo finito!
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Sì, strano davvero un mondo in cui si fanno delle scoperte come quella che facemmo il giorno dopo, sulla linea della barriera di Casale, io e un mio amico emiliano, critico letterario acuto, e raccoglitore attivissimo di “documenti umani„. Questi, nell'atto di pigliare il biglietto, osservò e mi fece osservare la mano aristocratica del fattorino, piccola e bianca, con le dita affusolate; alla quale corrispondeva, più nell'espressione che nei lineamenti, il viso pallido, contornato d'una barba castagna finissima. Subito dopo il fattorino scambiò col controllore alcune parole in italiano, ma con un accento emiliano spiccato, in cui il mio amico riconobbe la pronuncia particolare della classe signorile della sua regione. Osservammo i suoi modi: era singolarmente cortese, ma un po' impacciato, un po' timido, come se fosse nuovo al suo ufficio; nel quale, peraltro, pareva che mettesse molto impegno. — Qui c'è un mistero, — disse il professore, investigatore eterno d'uomini e di cose; e appena il fattorino si fu scostato, domandò al controllore come si chiamasse. Costui, una figura alta di prete spretato, dalla voce e dai gesti rudi, sorrise, e gli diede la risposta nell'orecchio. L'amico ebbe una scossa. Era un conte, d'uno dei più illustri casati d'una città illustre, discendente, forse, della madre d'un poeta famoso.
Eccitati dalla curiosità, domandammo al controllore se sapesse da quali vicende quegli fosse stato ridotto in quella condizione. Non lo sapeva; ma conosceva l'uomo da vari mesi. Oh, un gran buon volere, una gran forza d'animo. Da principio ei gli aveva detto: — Badi, questo mestiere non fa per lei; vedrà che non ci può reggere. — Ma il conte gli aveva risposto con fermezza: — Vedrà che mi ci adatterò come gli altri. — E, infatti, aveva tenuto duro. Egli, peraltro, gli continuava a far delle raccomandazioni, di quando in quando: che non usasse con la gente troppe delicatezze, perchè eran mal ricambiate; che a chi trattava male rispondesse secco, se voleva che lo rispettassero; che certi villani, a trattarli coi guanti, s'insuperbiscono, e diventano più prepotenti. Ma sciupava il suo fiato: quegli era malato di gentilezza incurabile, e appunto per questo, che cos'è il mondo! i passeggieri, in generale, trattavan peggio con lui che con gli altri.
Mentre il controllore parlava, il fattorino girava dentro il carrozzone e con le sue mani patrizie pigliava i due soldi da signore, da donne del popolo, da operai; nessuno dei quali poteva immaginare per che lungo ordine di magnanimi lombi discendesse il sangue purissimo a quell'uomo che porgeva loro lo scontrino con tanto rispetto. Ed io lo guardavo, e pensando ai tanti che si bruciano le cervella per un rovescio della fortuna, sentivo una simpatia e un'ammirazione più viva per lui, che la mala sorte sopportava con così sereno coraggio, guadagnandosi il pane con un lavoro onesto, mostrandosi veramente nobile d'animo quale era di sangue.
Tornato accanto a noi, egli porse lo scontrino a una graziosa ragazza in capelli, salita un momento prima sulla piattaforma, con un grosso involto di panni sotto il braccio; la quale mostrò di compiacersi assai dell'atto e del sorriso cortese con cui egli prese i suoi due soldi e le disse grazie, inchinandosi leggermente. Il fattorino rientrò; il professore domandò alla ragazza: — Vuol diventare contessa?
Quella lo guardò, stupita.
— Ma sì, — riprese l'amico; — non ha che da innamorare quel fattorino, che è un conte.
La ragazza diede in un gran ridere; poi, accennando col piede il canestrino della colazione posato contro il parapetto della piattaforma, disse: — I conti non mangiano lì dentro.
Noi confermammo ed essa continuò a ridere; ma, cominciando a dubitare, arrossì un poco, e si mise a guardare il giovane, che era dentro il carrozzone, con una curiosità viva, che diventò seria a poco a poco, come se le sorgesse dietro un sentimento di pietà. E forse per dissimulare questo sentimento tornò a sorridere. Ma si rifece seria da capo e, messo fuori un mah! pensieroso, espresse il suo pensiero con questo proverbio filosofico: — Il mondo è fatto a scala....
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Sì, uno strano mondo veramente; e scopersi appunto in quei giorni, perdurando la pioggia, che in nessun modo se ne può veder meglio la stranezza che di dentro al carrozzone, osservando tutto ciò che passa di volo nel finestrino di faccia, quando si corre per una delle vie principali. È la lanterna magica della vita pubblica, la più bizzarra fuga delle più disparate immagini che si possano incalzare nella mente d'un febbricitante che sogna. Ecco una gran donna seminuda, dipinta a colori di pesca, che vi offre una bottiglia enorme d'un liquore miracoloso, e cede il posto subito all'annunzio d'una conferenza agraria; al quale succede una vetrina di decorazioni cavalleresche e una vetrina di burattini, e poi il vano d'una stradetta oscura della vecchia Torino e il cartellone della Figlia di madama Angot e il fondo nero d'una chiesa, stellato dalle candele accese dell'altar maggiore, nel momento che un gruppo di devoti uscenti alzano la tenda della porta. La cornice rimane immobile per pochi secondi inquadrando una gran testa di maiale esposta nella vetrina d'un salumaio; poi racchiude successivamente l'interno d'una bottega dove una bocca squarciata urla una liquidazione volontaria, l'annuncio del Fonografo a dieci centesimi, le Vergini di Torino, romanzo a dispense, e una vetrina piena di cedole e di marenghi, nell'atto che vi specchia la sua miseria una povera donna in cenci, con un bimbo al seno e uno per mano. Si va di tutta corsa, e nella cornice che fugge passano con rapidità crescente una elegante signora senza testa, col prezzo fisso sul petto, un uomo scorticato dalla fronte ai piedi, che vi mostra tutti gli organi dipinti, e cinquanta lire di mancia per chi ritrovi una cagna; e poi, più a rilento, un angolo di giardino tropicale, pieno di ananassi e di banani, e L'assassinio della corriera di Lione, dramma in sette quadri, “con sparo di pistole sul palco„, e le teste d'una ragazza e d'un giovanotto che amoreggiano al banco in fondo a una tabaccheria. Segue un'altra breve fermata, durante la quale il finestrino vi presenta un annunzio d' Indulgenza plenaria affisso alla porta d'una chiesa; e avanti da capo, a precipizio, l'immagine colorita d'un biciclista che par che v'irrompa addosso, il Pagamento gratuito dei coupons, la Colonia Eritrea a volo d'uccello, una gran madonna di porcellana che guarda il cielo e un giocatore che guarda il pallone in aria, seguìti istantaneamente da un crocchio di signori che bevon la birra dietro un lastrone di cristallo e da un piroscafo imbandierato che porta all'altro mondo mille affamati. L'occhio e il pensiero riposano per un breve tratto in cui non passa che l'assito nudo d'una casa in riparazione; e poi ricominciano a incalzarsi più rapidi gli abiti fatti, i libri di lusso, gli specifici portentosi, le ghiottonerie, la Società di Cremazione, il Cinematografo, il Sapone della Vergine, intercalati di cento grida stampate: — O anemici! — Tutti al Bazar! — Leggete tutti! — Incredibile! — Inarrivabile! — Occasione unica! — che vi par di sentirvi risuonare nell'orecchio; fin che, al momento di sboccar nella piazza, vi appare nel finestrino, ultima visione, un piccolo cane agitantesi sull'alto d'un carro carico e latrante furiosamente non si sa a chi o a che cosa.... forse a quel carnevale strambo della vita, a quella confusione matta di cose e di idee, a quella fuga ciarlatanesca di vanità, di pompe, di promesse, di menzogne e d'insidie, che gli dà le vertigini e gli muove la bile.
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Qui trovo segnato fra gli appunti un cambiamento generale nello stato psicologico dei tranvaioli (la bella parola non è mia: la coniò una povera pazza che saluta ogni giorno i passeggieri del tranvai a vapore di Pianezza da una finestra della Villa Cristina). “A una settimana d'acquate essendo succeduto un sereno fermo e un calore torrido e secco, succede alla musoneria, come nei primi giorni dell'estate, un sovreccitamento nervoso, che fa le discussioni più vivaci, la mimica più scomposta, la galanteria più ardita, e mette ogni tanto in volto alla gente delle vampe improvvise, da parer che piglin fuoco come covoni di paglia.„ Tra i più eccitati trovai una mattina Carlin, sopra una giardiniera dei Viali, acceso in viso e col berretto per traverso. Quando salii, tuonava contro l'Impero Ottomano: le notizie dei combattimenti seguiti in Macedonia con la peggio dei Turchi l'avevano invasato d'odio bellicoso contro i Turchi; ai quali imprecava morte e distruzione, mostrando il pugno a quello ch'egli credeva l'Oriente. Ma mutò a un tratto discorso, e teso il pugno proprio dalla parte opposta alla Svizzera, inveì contro Zurigo per la cacciata degli operai italiani, dicendo che si dovevan mandare centomila uomini, con gli alpini alla testa, contro quei patatucchi, a snidarli da quelle case che avevamo fatte noi, — noi — diceva, picchiandosi la mano sul petto, — noi, con le nostre sacrosante mani. — Poi si rasserenò alquanto parlando della mandata del Commissario civile in Sicilia, che per lui era un vicerè, dispotico di far quel che voleva. Ma anche su questo argomento si rinfiammò subito. — Per quella gente che non sta mai quieta, che non vuol intender ragione, non c'è altro che la mano di ferro d'un vicerè, che possa ridurla al dovere. — E diceva questo senz'aver la più vaga idea delle condizioni dell'isola, per un puro sentimento atavico d'idolatria del potere, per la compiacenza che gli dava il pensiero d'una qualsiasi forza che vincesse e comprimesse un'altra forza, fuori d'ogni considerazione di giustizia e di diritto. In fine, venne a una conclusione profonda: tutto il mondo andava per traverso; c'eran miserie e guai da per tutto; di contenti non c'eran che quelli che facevano all'amore. — Rien que l'amour, — disse con un sorriso che diede alla sua faccia un'espressione affatto nuova per me. — Avere una donnina che ci voglia bene, e fessla bonna, far la dolce vita insieme, così, come quei due là, che son sempre attaccati l'uno all'altro come due spicchi d'arancia, sempre d'amore e d'accordo, come se li avesse maritati nostro Signore in persona.... — E la coppia che m'accennava, sulla terza panca davanti a noi, eran proprio i piccoli sposi di borgo San Donato, che non avevo più visti dopo quel giorno alla barriera di Casale.
Potei veder bene lei perchè stava seduta un po' di fianco, col viso voltato indietro, in ammirazione di tre splendidi bambini biondi, con le vestine bianche ricamate; il più piccolo dei quali era tenuto sulle ginocchia da una balia in gran gala. La gestazione avanzata aveva ridotto anche più smunto e compassionevole quel suo povero viso a cui la natura aveva negato ogni grazia femminina e perfin la freschezza giovanile; ma vi splendeva in quel punto la dolcezza soave di quel primo sentimento della maternità, che in ogni bambino fa vedere alla sposa un fratello della creatura che aspetta, e istituire dei confronti amorosi fra quello e l'immagine che essa vagheggia; e questi pensieri balenavano nella bontà dei suoi occhi quando essa fissava il più piccolo di quei tre bimbi; il quale fissava lei e le sorrideva. Certo, guardando quello, essa parlava al suo. — Tu non sarai un piccolo signore come questo, — gli diceva forse, — la tua mamma è povera, non ti potrà mai vestire a quel modo; ma, in compenso, sarà la tua nutrice lei, ma non t'addormenterai mai su altro seno che sul suo, ma avrai tante cure, tanto amore quanto ne possa avere il figliuolo d'un principe; e se non sarai bello, se non sarai florido come questo, io t'amerò egualmente, io t'amerò anche di più, io sarò altera e felice lo stesso di tenerti sulle ginocchia così, di dire al mondo che sei la mia creatura, di consacrarti tutte le mie forze e tutta l'anima mia. — Ed era così intento e così affettuoso il suo sguardo che la balia, a un dato punto, indovinando forse i suoi pensieri, sollevò un poco il bimbo di sotto alle ascelle, e glielo porse; e quella, spinto il capo innanzi vivamente, come un'assetata alla fonte, lo baciò come potè, sulla testa, tre volte, avidamente, con gli occhi raggianti di tenerezza e di gratitudine....
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Il caldo cresce, il sole arroventa i crani, i cervelli levano il bollore, e i cocchieri, con gli occhi infocati e le tempie imperlate di sudore, gesticolano nei nuvoli del polverone come oratori alla tribuna, incitando con grida stridule di beduini i cavalli immollati e trafelati. Sulla linea di Vanchiglia, mi trovo seduto dietro a un di loro, che espande clamorosamente i suoi affetti con un amico ritto al suo fianco, trinciando l'aria con la mano libera come se impartisse una benedizione continua agli alberi e alle case. Alle prime parole m'accorgo che non è infiammato soltanto dal caldo, ma dall'acquavite, e appena afferrato l'argomento del suo discorso, riconosco in lui il poveretto a cui è toccata la disgrazia del bimbo schiacciato in via Venti Settembre. Non aveva la sbornia allegra, peraltro; non era sovreccitata nell'anima sua che la tristezza consueta, una pietà amara per quella sua povera figliola, sempre malata dopo quel giorno terribile, sempre distesa là in quel fondo di letto, con gli occhi infossati e con le mani color di cera, che s'ostinava dieci volte il giorno a riprender l'ago e le forbici, e li lasciava ricader sulla coltre, dicendo: — Non posso.... non posso più.... — Ma la grappa levava l'espressione del suo dolore all'altezza della lirica. L'amico lo confortava invano; egli rifiutava i conforti con dinieghi vigorosi del capo, dando al freno delle girate violente. Il rumore d'una locomotiva stradale mi coperse per qualche momento la sua voce: quando la risentii, era cambiato il soggetto del suo discorso e cresciuto l'ardore della sua parola. Raccontava come, tornato a casa una sera, aveva trovato sul tavolino da notte della sua malata un mazzetto di fiori, delle pesche, una scatola di Liebig, una bottiglia di Marsala. Chi aveva portato quel ben di Dio? Chila — la signora! Non c'era da domandarlo. Ma c'era dell'altro. La camera, ch'egli aveva lasciata sottosopra, come si trovava da vari giorni, con tutte le carabattole per aria, era ordinata, assestata di tutto punto come quando la figliuola era in gamba: una cappella in un giorno di festa.... E chi aveva fatto questo? Non mica la portinaia, che s'affacciava all'uscio la mattina e la sera, e scappava via come per paura della peste. Era stata anche chila! Era capitata là una mattina a visitar la figliuola, e, data un'occhiata in giro, aveva detto: — Ah! io non voglio mica che la mia malatina stia in mezzo a questo ciadel di casa di matti! A me! — E tic tac, alla svelta, senza neppur levarsi il cappellino, aveva dato sesto a ogni cosa. — Chila, capisci? con le sue proprie mani, come una donna a poste, seguitando a chiacchierare e a dir facezie per tenerla allegra, come una sorella. — E al momento d'andarsene, di sull'uscio, le aveva detto: — Di' al babbo che non beva, ricordati! — Qui il cocchiere si lasciò scappare il ridere; poi, rifattosi serio a un tratto, proruppe in un'esclamazione appassionata: — Ah, non ce n'è un'altra, no, non ce n'è un'altra come quella; non c'è, non c'è un'altra santa signora compagna!
E poichè l'amico, sorridendo, gli faceva cenno che si quietasse, egli s'eccitò di più, picchiando il pugno sul parapetto, come irritato da una contraddizione: — Sì, è una santa signora, è un angelo, è la madonna in corpo e in anima, e lo voglio gridare a tutta Torino, capisci!
E una nuova esortazione dell'amico spinse ancora il furore della sua gratitudine d'un grado più in su. Bestemmiò e ricominciò: — Sì, io mi farei ammazzare per quella donna lì, capisci; mi farei pestare, schiacciare, bruciar vivo, mettere a pezzi.... Oh che gioia di donnina! Oh che amore, che benedizione, che anima santa di donnina! — e si baciò il dorso della mano e attaccò un'altra serie di moccoli adorativi.
E quando scesi e mi voltai a guardarlo, lo vidi ancora col viso in aria e con la bocca aperta, che apostrofava il fantasma della Chisciottina, scotendo il capo a ogni parola come se scandesse il suo laudario, e agitando la frusta da destra a sinistra come per aprire il passaggio alla piena della sua passione.
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Sì, tutti sono sovreccitati, e più che altri gli attaccalite e i prepotenti dello stampo di Tintura-Migone; per i quali pare che del caldo, della polvere, d'ogni noia dell'estate sia colpevole tutta quella classe di persone con cui essi possono sfogare il proprio malumore senza pericoli. C'è chi se la piglia col cocchiere perchè vi sono trentadue gradi all'ombra, chi aspreggia il fattorino perchè il municipio non fa inaffiar le strade abbastanza, e perfino chi pretende dal controllore che dia ordine di accelerare la corsa perchè, andando come si va, corpo d'un cane, non s'è ventilati un bel corno. Ma vidi un bel caso di castigo l'ultima domenica di luglio, sul corso Regina Margherita. Dopo aver fatto fuoco e fiamme per una bazzecola, uno di questi neroncelli gridò scendendo: — Vado immediatamente a far rapporto alla direzione! — La direzione è lì, — gli disse garbatamente un operaio che m'era accanto, indicandogli la direzione della Società Belga, proprio di faccia alla giardiniera. Quegli, che la credeva invece chi sa dove, e non aveva alcuna intenzione d'andarvi, guardò l'iscrizione sulla facciata, indispettito, e dopo un momento di titubanza, comicamente contrastante con la sua risolutezza di poco prima, voltò le spalle ai sorrisi canzonatori dei passeggieri e s'avviò dalla parte opposta.... col viso di quel vecchio galante del Jean Tommeray che, quando la signora ch'egli corteggia fa l'atto di cedere, prende il cappello e se ne va via dicendo: — Saprò chi m'ha fatto questo tiro. —
— Poteva almeno ringraziarmi dell'indicazione — osservò placidamente l'operaio, senza sorridere. Era il lattoniere autodidattico, il socialista “legalitario„ e ragionatore, che andava, in un sobborgo a tenere una conferenza, stringendo sotto il braccio uno dei suoi registri pieni di estratti di giornali e di note; e aveva accanto un compagno tarchiato e serio come lui, un fabbro ferraio sui sessanta, tutto grigio, suo devoto amico e ammiratore, che soleva accompagnarlo in quelle gite, dandosi l'aria d'un segretario di gabinetto. Un curiosissimo personaggio costui, che avevo già incontrato più volte: entrato nel socialismo non per effetto di ragionamenti propri, ma per fede cieca nella ragione dell'altro; la cui cultura rapidamente acquisita e il progresso intellettuale continuo gli apparivano come un miracolo, più efficace di qualunque argomento a dimostrargli la giustizia della causa che aveva sposato. Il progresso del lattoniere era continuo, infatti: bastò un breve discorso a provarmi che anche nei due mesi da che non l'avevo più visto la sua mente s'era allargata e arricchita, e la sua parola fatta più facile e più esatta. Rimasi addirittura maravigliato a udirlo commentare le recenti elezioni generali del Belgio in confronto con quelle di due anni innanzi, spiegando la ragione del quasi assoluto annientamento del partito liberale; giustificando l'alleanza dei socialisti coi radicali, ch'era stata fatta dai primi senza alcuna concessione pericolosa alla loro indipendenza avvenire; calcolando come, se non ci fosse stato il voto plurimo, se tutti i partiti fossero scesi nella lotta ad armi eguali, non il clericale, ma il socialista avrebbe avuto la vittoria. Ma dall'uomo pratico ch'egli era, di questo non andava a parlare ai suoi uditori: andava a persuaderli della necessità d'un'associazione cooperativa, con argomenti tratti dalle loro condizioni e dai loro bisogni particolari, ch'egli conosceva perfettamente, come conosceva i bisogni, le condizioni d'ogni sobborgo o villaggio, industriale o commerciante od agricolo, in cui fosse chiamato a parlare; in ciascuno dei quali arrivava con un grande corredo di osservazioni, di notizie e di cifre, raccolte pazientemente da pubblicazioni statistiche e da conversazioni con gente colta, anche d'altri partiti. E mentre, scansandosi ogni momento per lasciar salire o scender qualcuno, egli mi esponeva la traccia della sua conferenza con quella semplicità modesta di linguaggio e d'intonazione, che faceva il miracolo di soffocare nei suoi eguali ogni gelosia della sua autorità e quasi ogni invidia della sua preminenza intellettuale, io osservavo il suo vecchio compagno, tutto intento alle sue parole; il quale guardava lui e me, alternatamente, con un'espressione viva di compiacenza d'amico e d'alterezza di collega, mista di non so che di paterno e di umile insieme; tanto più commovente in quanto era visibile che il suo cervello, intorpidito dal disuso, apertosi troppo tardi a quella nuova luce di idee, non lo capiva che per barlume. Punto dalla curiosità, tirai anche lui nel discorso; nel quale entrò volentieri, con una vivacità che mi stupì; ma per uscir dall'argomento quasi subito, con frasi indeterminate e strane, che attirarono fortemente la mia attenzione. Riconobbi sull'atto il caso, accennato dal De Vogüé, d'una di quelle dottrine che, seguendo la legge della caduta delle idee, discendendo, cioè, dalla mente eletta che le concepì nella gente semplice e inculta, si deformano, o, meglio, si contraggono e si cristallizzano in un piccolo residuo tenace, equivalente quasi a una forza d'istinto, nata con loro. In lui era la dottrina del Rénan, l' Avvenire della Scienza, ridotta in questa sola idea semplicissima: che grazie ai progressi indefiniti della scienza, e in particolar modo della meccanica, l'uomo sarebbe riuscito un giorno a provvedersi così abbondantemente e con così poca fatica quanto gli abbisogna, che ogni miseria, ogni ingiustizia, ogni lotta sociale avrebbe avuto fine come la tempesta al cader del vento. Per quale via fosse discesa, per quale spiraglio entrata nella sua mente, come un raggio in una grotta, quell'idea unica, nella quale egli aveva una fede assoluta, immobile, invincibile, e che era il tema di tutti i suoi discorsi e la fonte d'altri cento embrioni d'idee a cui non trovava parola, forse non sapeva dire egli stesso. Della sua stessa idea principale io non afferrai che la coda, quando, con una brusca transizione, egli venne a parlare dei futuri tranvai elettrici, e movendo da questi, precorse gli anni con la fantasia, eccitato come da una visione della città avvenire, che ritrasse in frasi vivaci ed informi, senza badare al sorriso di compatimento con cui il suo amico lo ascoltava. Egli vedeva le strade corse da ogni sorta di “automobili„ fitti come i moscherini per l'aria; i ragazzi portati a scuola, gli operai al lavoro, le donne al mercato; tutti i pesi trasportati a volo; le distanze sparite, le fatiche soppresse, un risparmio enorme di tempo e di forza, la vita agile e facile in tutte le sue forme: tutt coma la losna, tutto come il lampo; e faceva un gesto continuo con la mano come per indicare una cosa che guizzi e scompaia. Ed era ancora eccitato dalla sua visione quando scese con l'amico in piazza Vittorio Emanuele per prendere il tranvai a vapore di Moncalieri, e di lontano mi fece ancora quell'atto: — coma la losna, — che riassumeva tutta la sua dottrina e la sua speranza....
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Qui, tra gli ultimi appunti di luglio, trovo poche righe, che mi ricordano una serata afosa, in cui il tranvai corre sotto gli alberi non mossi da un alito, in mezzo a passanti che si fanno vento col cappello, mostrando al lume dei lampioni la fronte luccicante di sudore, fra due file di case alte, dove alle finestre, ai terrazzini e alle soffitte è affacciata gente che guarda il cielo e le montagne lontane, col capo rovesciato indietro e con la bocca aperta, come se gridassero: — Aria! Aria! Aria! — E: — aria! — invoco anch'io, bevendo con avidità il po' di fresco che mi manda in viso il ventaglio d'una signora vicina. Ma al passare lungo i quartieri popolari, dove pullulano migliaia di bimbi scalzi, sdraiati per terra, coricati sui marciapiedi, ammucchiati nei fossi, ravvoltolantisi tra i cocci e la bruttura, coi visi e i colli segnati di scaglie e di gore, con le braccia e le gambe nere fino ai gomiti e ai ginocchi, e la camicia e i panni ridotti a un solo colore dalla polvere addensata d'una settimana, un altro grido mi vien sulle labbra. Aria, sta bene. Ma e l'acqua? Sta bene la refezione scolastica. Ma e la disinfezione scolastica? E mi compiaccio a immaginare un gran carro inaffiatore che corra sulle rotaie lungo quei fossi e quei marciapiedi schizzando zampilli su quei mucchi brulicanti di piccole creature sudicie, o un'enorme tinozza ambulante d'acqua tepida, dove li tuffo e li sciacquo tutti per rimandarli ai loro giochi più vispi, più sereni e più buoni. Quanti malanni, quanti mali umori, e chi sa anche quanti piccoli germi d'infezione derivino all'animo da quella sporcizia! Di chi la colpa? Sì, certo, è in parte incuria colpevole; ma è più miseria, ignoranza, penuria di tempo, di spazio, di comodi, e mancanza di dignità e d'amor proprio che da tutto quello deriva. E allora.... allora non trovo a confortarmi che nella dottrina del vecchio fabbro ferraio: la scienza, la macchina vôlte a vantaggio diretto di tutti, la produzione moltiplicata dal perfezionamento dei processi e dal lavoro fatto universale, e il lavoro reso da queste due cause per tutti quale non è ora che per pochi, abbreviato e alleviato in modo che a tutti avanzi tempo, forza e libertà da dedicare alla cura del corpo e alla cultura dello spirito. Eh, bisogna pur giunger lì, per una via o per un'altra, se non si vuol rinunciare alla speranza! Ma mentre dico tra me queste cose, mi dà prima nell'occhio la mano tremante con cui il fattorino accende il lume del tranvai, e poi il suo viso malandato e turbato, che mi par di riconoscere. È lui, infatti; il povero fattorino che, dopo esser stato percosso, quasi mortalmente, da passeggieri sconosciuti, contro i quali la Società ha mosso causa, trema sempre al calar della notte, per terrore d'una vendetta. E allora mi raffiguro la scena selvaggia, penso a quelli sconosciuti che, non provocati, per puro istinto di malvagità, han messo in pericolo di morte e reso malato e infelice forse per sempre un uomo onesto e buono, e ritornando al mio ideale della miseria e dell'ignoranza soppresse, mi domando: — E la malvagità umana sarà soppressa mai?
E questa domanda, a cui non oso di rispondere, mi lascia triste e pensieroso. Ma per un minuto soltanto. Mi riviene in mente l'operaio lattoniere, mi salta su dinanzi il buon falegname dalla giacchetta di velluto stinto, penso a tanti altri che vengon su come loro, che diffondono nel popolo idee e sentimenti di giustizia, di fraternità, di pietà per i deboli, di orrore per la violenza, che lo educano alla vita intellettuale, alla dignità di classe e alla fede nella forza dell'idea e nel progresso della civiltà; e le mie speranze tornano ad accendersi l'una dopo l'altra, come i lumi che fuggono lungo la via.
CAPITOLO OTTAVO.
Agosto.
O novellieri antichi, ricercatori amorosi e descrittori lepidissimi di gente “semplice, grossa e di nuovi costumi„ quali tesori avreste raccolti nella carrozza di tutti se fosse stata inventata cinque secoli avanti! Ci sono sposi di campagna in viaggio di nozze, che fanno tre volte la corsa circolare dei Viali, dodici miglia a un dipresso, con l'illusione di far sempre nuovo cammino, fin che, mordendoli la fame, discendono, sbalorditi dall'immensità dì questa Torino che non finisce mai; montanari solitari che, arrivati alla barriera dov'eran diretti, salgono sur un'altra carrozza partente, credendo di continuate il viaggio, e ritornano per un'altra via al punto da cui partirono, dove si guardano intorno stupefatti, come gente piovuta dal cielo; e poveri villani che, addormentatisi durante la corsa, si svegliano a un miglio oltre il punto dove volevan discendere, furiosi contro il cocchiere, che avrebbe dovuto svegliarli, o almeno “gridar le stazioni„ come si fa sulle strade ferrate. Più amene, anche in questo, e più stranamente pretensiose sono le donne. Ho qui notata una balia che, non trovando da sedere, non vuol dare più d'un soldo, dicendo che un soldo, per stare in piedi, è già un bel pagare, e che dovevano “attaccare un altro vagone„; due contadine che, salendo, avvertono il cocchiere di fermare davanti alla casa d'un monsú Garet o d'un monsú Cimussa, sconosciutissimi, come si direbbe: — Fermate davanti al Palazzo reale; — e una giovane alpigiana, la quale, scendendo a Porta Palazzo con un grosso involto, prega il fattorino di aspettare, chè tornerà subito, appena portata la roba a una sua parente; e si risente della risata dei passeggieri, trattandoli di maleducati. Non c'è specola migliore del tranvai per vedere quanta ingenua ignoranza giri ancora per il mondo e comprendere perchè sia ancora tanto facile l'arte di gabbare il prossimo. E ci sono anche i timidi, gli affannoni, nuovi affatto a Torino, i quali, cercando il loro tranvai agl'incrociamenti delle linee, domandano informazioni di qua e di là ai cocchieri che passano e, non comprendendo le risposte affrettate, inseguono un carrozzone, si ravvedono, ne inseguono un altro, s'arrestano, salgono sopra un terzo, che non è quello, e scendon trafelati e disperati, maledicendo a quella confusione, a quella furia infernale di tutti e d'ogni cosa, dove un povero galantuomo perde il tempo e la testa. O povera gente, di cui il mondo ride, poveri naufraghi della città grande, come fate pietà a chi sotto il vostro affanno del momento indovina il pensiero inquieto della lite che v'ha condotti fra le cittadine infauste mura, o della moglie che v'aspetta all'ospedale, o del figliuolo che visiterete alle carceri, o del lavoro che cercherete invano, o del parente agiato, ultima vostra speranza, che vi chiuderà l'uscio sul viso!
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L'agosto cominciò lietamente con la scoperta d'un uso nuovo, a cui non avevo mai pensato che il tranvai potesse servire. Sboccando dal corso Valentino in via Nizza salii in fondo a una giardiniera, della quale occupava tutte le panche, fuor che l'ultima, una comitiva nuziale. C'eran nella prima lo sposo e la sposa, biondissima, tutta bianca, coronata di fiori e ravvolta in un gran velo; nelle altre una ventina di parenti e d'amici, donne grasse in abito di seta, uomini impomatati, con la barba fatta di fresco e un fiore all'occhiello, un vecchio con un cilindro d'altri secoli, un prete di campagna, delle ragazze in fronzoli, dei bimbi vestiti da festa. Si capiva che andavano al Municipio in quella forma economica non per tirchierìa, ma per capriccio, per un gusto originale di far mostra pubblica della loro allegria. Erano tutti allegri, infatti, come se avessero già festeggiato la coppia di prima mattina con molte bottiglie di vermut; le donne chiacchieranti, gli uomini sorridenti all'idea d'un pranzo di tre ore, i vecchi ringalluzziti, le ragazze agitate. Anche il cocchiere e il fattorino, che discorrevano con l'uno e con l'altro, parevano presi da quell'allegria, come dai vapori d'un liquor forte. La bianchezza della sposa velata annunziando lo spettacolo di lontano, molti si soffermavano sui marciapiedi, uscivan donne dalle botteghe, accorrevano ragazzi; i conducenti dei carri e i fiaccherai sorridevano, passando, dall'alto della cassetta, e lanciavan degli scherzi: — Oh che bella bionda! — Tanti buoni auguri! — Salute e figliuoli! — e i cocchieri degli altri tranvai salutavano il loro collega, auriga del settimo sacramento, strizzando gli occhi e cacciando fuori la lingua, mentre i passeggieri si voltavano a guardare tutti insieme, ilari e curiosi. E la comitiva, eccitata dall'ammirazione pubblica, parlava più forte, gesticolava più vivo, rideva più alto, incitava con la voce i cavalli, che andavan di galoppo per via Lagrange, al suon dei fischi raddoppiati del cocchiere, facendo sventolare come una bandiera il velo trasparente della sposa bionda, accesa ogni tanto dai raggi di sole irrompenti dalle vie laterali, e troneggiante nella sua bianchezza come sopra un carro di trionfo. E mi pareva davvero un carro di richiamo mandato in giro da un'agenzia di matrimoni o da qualche Società di propaganda coniugale, un po' carnevalesco, ma pure gentile e simpatico; e chi sa? forse la prima forma d'un carro da nozze del duemila, quando tutto sarà servizio pubblico, e si sposeranno con la stessa pompa le figliuole degli uscieri e dei ministri....
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Da più giorni spirava aria di nozze su tutte le linee; nei discorsi delle donne e delle ragazze sentivo ogni momento dei chiel e dei chila, pronunciati con un accento di rispetto insolito, che si riferivano tutti a una sola coppia, come ad un Adamo e ad un'Eva, dai quali dovesse discendere un'umanità nuova, e notizie vaghe e commenti fantastici sopra una bellezza femminea, che nessuna aveva vista, ma per cui pareva che tutte avessero l'animo preparato all'ammirazione. Ero una mattina sulla giardiniera della linea di Lanzo, ritto accanto al cocchiere e, stando voltato di fianco, vedevo un gruppo graziosissimo: sur una delle prime panche due giovani monache, con gli occhi bassi e le braccia strette alla cintura; dietro di loro, quattro ragazze del popolo, col grembialino di stiratrici; più in là un fattorino del telegrafo. In piazza Carlo Felice salirono accanto alle monache due signore eleganti che, appena sedute, aprirono in fretta un giornale illustrato comprato allora, e fissarono con viva attenzione la prima pagina. Voltandomi da capo un momento dopo, vidi le quattro ragazze in piedi, che sporgevano il viso, scintillanti di curiosità, piegando il capo di qua e di là per vedere il giornale, ora scoperto, ora nascosto dai cappellini delle signore. Era il ritratto della principessa Elena del Montenegro; il primo apparso in Italia, e che tutte, certo, vedevano per la prima volta. Il quadretto era curiosissimo. Gli sguardi acuti e riflessivi e le labbra strette delle due signore rivelavano un'analisi pacata e minuta, accompagnata da dubbi e da riserve di critici meticolosi; il sorriso muto e quasi risplendente delle ragazze esprimeva una curiosità ancor tanto forte da sospendere ogni giudizio; le due monache sole non avevano voltato il capo, ma non riuscivano a dissimulare il loro desiderio di vedere, e lanciavano sul giornale delle occhiatine rapide e oblique come sopra una cosa proibita; e anche il cocchiere torceva il busto indietro e adocchiava, e il fattorino, ritto sulla pedana, allungava il collo, e il telegrafista levava il viso sopra le spalle delle ragazze. A un certo punto, forse per respirare più libero, le due signore porsero cortesemente il giornale alle loro vicine, che l'afferrarono come una preda, frementi di piacere, e vi si curvarono sopra con le teste aggruppate, tirandolo di qua e di là e facendo un cicaleccio vivissimo. Il tranvai passò davanti alla stazione di Porta Nuova, donde usciva un'onda di gente, di omnibus d'alberghi e di carrozze, svoltò sul Corso di Genova in faccia alla gran muraglia azzurra delle Alpi, s'inoltrò fra i begli alberi e gli edifizi ridenti del Corso Re Umberto, e le quattro ragazze seguitavano il loro esame, senz'alzare il capo, non più chiacchierando, chè avevano sfogata la loro prima furia, assorte in una contemplazione immobile e silenziosa. Si vedevano passare nei loro occhi intenti l'ammirazione, la simpatia, il sentimento della distanza immensa che separava da loro la persona effigiata, lo sforzo della fantasia con cui cercavano su quel viso i segni della predestinazione gloriosa, il pensiero del corredo mirabile, delle grandi feste, della felicità sovrumana che l'aspettavano, l'invidia timida e reverente d'una vita che esse immaginavano tutta splendori, trionfi, ebbrezze, a cui la loro speranza non s'innalzava neppure nel sogno. Ed io non potevo staccar gli occhi da loro, e al pensare che altre migliaia di ragazze come quelle, che altri milioni di creature umane d'ogni età e d'ogni stato erano in quei giorni altrettanto smaniose di veder quell'immagine, e che quell'immagine d'una fanciulla illustre e gentile, sì, ma sconosciuta fino a ieri, sarebbe stata cercata, commentata, contemplata religiosamente così, come non fu mai quella d'alcun eroe, o uomo di genio o benefattore immortale dell'umanità in alcun paese e in alcun tempo, ero preso da uno stupore profondo, come davanti a un grande mistero, come all'intuizione confusa di qualche istinto non ancora scoperto o compreso dell'anima umana. E ancora dominato da questo stupore tenni dietro con lo sguardo alle quattro ragazze che s'avviavano al sobborgo solitario della Crocetta, ragionando ancora calorosamente di quell'immagine, come se portassero via con sè la spiegazione di quel mistero.
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Due giorni dopo (ricordo ch'era il giorno della morte della Riforma ), essendo scoppiato il settantesimo temporale della stagione, rivennero fuori i carrozzoni chiusi, ed io mi trovai il dopo pranzo, sulla linea della barriera di Casale, seduto in faccia alla studentessa di medicina, in mezzo a vari signori e signore, che l'osservavano, senza parlare. A questi, che forse non l'avevan mai vista, essa faceva la stessa impressione, m'accorsi, che aveva fatta a me la prima volta; ma su quel viso bianco e fermo, d'una purezza di vergine ideale, mi parve di veder qualche cosa d'insolito, il segno d'un pensiero nuovo e vivo, che mutava sede, mostrandosi ora negli occhi, ora sulla fronte, ora sulle labbra, come un'ombra guizzante sopra un'acqua limpida e queta. I suoi grandi occhi celesti, però, si posavano come sempre sulla gente con quella espressione vaga di chi guarda cose lontane, alle quali non pensa, e la sua bocca, col labbro di sopra leggermente inarcato, serbava quell'atteggiamento infantile, indefinibile, che attesta l'ignoranza del bacio amoroso. Con una mano accarezzava il lembo d'un nastro del cappellino che le scendeva sul petto; e vidi che parecchi guardavano attentamente quella mano lunga, bianchissima, quasi diafana, che pareva si sarebbe dissolta nel calore d'una stretta d'amante; ed era quella mano che palpava le teste tronche, che tirava via la pelle dagli arti recisi sulle tavole del laboratorio anatomico e s'insanguinava cercando i muscoli e i nervi nella carne infetta dei cadaveri mutilati. Eppure quell'immagine non mi destava per quella mano alcuna ripugnanza come se nessun sozzo contatto potesse far macchia, nessun lezzo attaccarsi alla purità virginea delle sue dita, nello stesso modo che non poteva, a mio giudizio, entrare nell'anima sua alcuna bruttura della vita e del mondo. Con questo pensiero osservavo il movimento di quelle dita che parevan petali di giglio agitati dal vento, quando, nell'ultimo tratto di via Maria Vittoria, il tranvai s'arrestò al cenno d'una ragazza ritta sulla soglia d'un portone: una brunetta svelta e messa bene, con un cappellino purpureo guernito di tre impertinenti penne di gallo; la quale salì rapidamente, e sedette nell'unico posto che rimaneva, accanto alla studentessa. Ah, che imprudenza! Ecco un nuovo pericolo, prima ignorato, che presenta alle peccatrici la carrozza di tutti. Se uscendo di dove usciva, quella sventata avesse preso la strada a piedi, certo che sarebbe venuto a molti, incontrandola, lo stesso pensiero che balenò a tutti noi al primo vederla; ma, guardata di sfuggita da uno alla volta, essa non si sarebbe trovata esposta, come fu in carrozza, all'osservazione minuta d'un'adunanza d'inquisitori, in cui la comunanza visibile dello stesso sospetto mutava il sospetto in certezza. Era una novizia, si capiva bene, perchè si turbò sotto il primo fuoco degli sguardi che non aveva preveduti, e cercò di larvare il suo turbamento voltandosi verso la strada, leggendo gli annunzi, guardando il ventaglio, fingendo di cercar qualche cosa nelle tasche. Ma invano, perchè, avendo fatto cinque passi, ansava come se avesse fatto una corsa, e quello che non diceva il suo respiro dicevano le pupille umide, le guancie rosse, le labbra febbrili. E c'erano ben lì delle persone delicate che sentivano la sconvenienza, la crudeltà dell'osservarla tutt'insieme e di tormentarla a quel modo; ma potendo la curiosità più della convenienza, gli sguardi insistevano, accusando il lavorìo impudico delle immaginazioni, e insistettero a segno, che sul viso di lei succedette alla vergogna l'irritazione, e poi un atteggiamento forzato d'audacia e di sfida, la tentazione visibile di dirci fuor dei denti: — Ebbene, sì! E con questo? Siete un branco d'indiscreti e d'insolenti! — e di fare una distribuzione circolare di ceffate. La studentessa sola mostrò di non vederla, di non accorgersi neppure che altri la guardasse, come se nessuno fosse entrato; non una volta essa girò lo sguardo verso di lei, non un'ombra, fuorchè quella del suo primo pensiero, passò sul suo viso bianco ed immobile; e mai non compresi, mai non sentii quanto nel confronto di quei due visi vicini la superiorità infinita dell'incanto che vien dall'anima sopra la forza che tenta i sensi. Essa acquistava dal confronto un lume maraviglioso di bellezza, di grazia e di dignità, che la faceva parere una creatura d'una razza superiore, a cui si sarebbe baciata la fronte, tirando indietro le mani.
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Dalla morte della Riforma alla cattura del Doelwick passò una serie di giornate senz'incontri di personaggi della compagnia; ma non vane, poichè da tre casi nuovi dedussi tre precetti di condotta d'una utilità indiscutibile per i passeggieri dei tranvai.
Dedico il primo ai giovani. — “Quando s'è in piedi in fondo a una giardiniera, in compagnia d'un amico, non esprimere mai il proprio giudizio sulle bellezze posteriori d'una passeggiera seduta sur una delle panche davanti, perchè fra i passeggieri ritti accanto a noi c'è qualche volta qualcuno a cui la cosa può non garbare.„ — Esempio. Un giovanotto: — Guarda che bellezza di collo che ha quella donnina, la prima a sinistra sulla terza panca, con quei ciuffetti arricciolati sulla nuca! Ah, che amore di collo! Ci metterei una collana di baci.... — Un signore accanto, seccato: — È il collo di mia moglie, badi.
L'altro precetto fa per le signore. — “Stando nel tranvai quando s'entra in una piazza, non pigliar mai per sè una frase ammirativa d'un passeggiere, se in quella piazza c'è un monumento.„ Esempio. Sale una signorina in un carrozzone chiuso, in piazza Statuto, e nell'atto che entra per l'uscio davanti, il suo cappellino intercetta la visuale che dagli occhi d'un forestiere seduto in fondo va alla sommità del monumento del Fréjus, e proprio nel momento che il forestiere dice al suo compagno: — Guarda che bell'angelo! — La signorina arrossisce, il compagno risponde: — L'ha fatto il Tabacchi, è fuso all'arsenale.... — e la signorina.... deve arrossire da capo.
Il terzo precetto si può rivolgere a chiunque. — “Uscendo di casa, non pigliar mai per le minute spese, senza previo esame, un rotoletto di soldi che trovate sul cassettone.„ — Io commisi questo sbaglio e, per disgrazia, m'imbattei sul tranvai, dove c'era altra gente, in un gran fattorino barbuto, dall'aspetto e dai modi d'un procuratore del re di malumore. Mi restituì il primo doppio soldo, dicendomi: — È argentino. — Mi restituì il secondo, con un'occhiata severa, dicendomi: — È argentino anche questo. — Mi restituì il terzo, squadrandomi da capo a piedi, e dicendomi: — È greco. — E il quarto era rumeno, e il quinto era di Pio nono.... Avevo preso un rotolo di soldi fuor di corso, stati messi in disparte per precauzione. Tutti mi guardarono; nessuno poteva pensare ch'io avessi in tasca per puro caso quella raccolta di falsità; arrossii come un gambero; la mia riputazione era perduta senza rimedio. Ah se fosse stato là il mio Guyot, come avrebbe trionfato!
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Povero Guyot! Egli si deve ancor ricordare della data della cattura del Doelwick perchè quel giorno passò un brutto quarto d'ora. Veramente, fui crudele. Ma, insomma, fu lui che la volle; doveva far la strada a piedi piuttosto di venirsi a cacciare in quel solo posto vuoto che rimaneva sulla giardiniera fra me e un giovanotto in cacciatora, che teneva spiegato fra le mani il Grido del popolo. Data una sbirciata a me e una al giornale, si ristrinse, si fece piccolo come preso da un freddo improvviso, per evitare il nostro contatto, e fu appunto quell'atto provocante che scatenò i miei istinti feroci. Per vendicarmi raddoppiai il suo tormento cavando di tasca e spiegando la Lotta di classe. Lo sentii fremere come un uomo a cui siano appuntate alle tempie due rivoltelle. Ah, fui spietato! Ma per poco. Un pensiero più alto mi sorse nella mente. Pensai che era stolto il maravigliarsi del lento cammino che fanno nel mondo anche le idee più grandi e più benefiche, poichè ne avevo accanto una ragione viva così evidente. Era un uomo che in tutta la sua vita, forse, non avrebbe mai letto nè un giornale nè un libro socialista, mai accettato nè voluto intendere una discussione su quella idea; che sarebbe passato a traverso a tutto questo gran movimento sociale con gli occhi chiusi e con le orecchie tappate per proposito, portando intatti in sè fino alla morte, come articoli di fede, tutti i pregiudizi più calunniosi e più insensati che contro la nuova dottrina e chi la professa aveva accolto alla prima senza ombra d'esame; che non avrebbe mai capito e nemmeno cercato se quella parola lotta di classe potesse avere un significato affatto diverso da quello che gli avevan dato ad intendere; che avrebbe sorriso di pietà se gli avessero detto che quella era una verità d'ogni tempo, una necessità storica manifesta, un fatto che è non perchè si voglia, ma perchè dev'essere, come il corso dei fiumi al mare e l'ascensione dei vapori al cielo, e che in virtù di quella lotta appunto egli possedeva quei diritti di cittadino che i suoi padri non avevan posseduti, e che quella lotta stessa egli combatteva con tutti i suoi pensieri, con tutti i suoi sentimenti e i suoi atti da che aveva l'uso della ragione. Povero Guyot! E che colpa ci aveva lui? Era in buona fede; lo sentiva proprio in fondo all'anima il ribrezzo che gli fece porgere il soldo al fattorino, sollevando il braccio con cautela per non toccare quei due fogli esecrandi in cui pensava che si predicasse lo sterminio e l'inferno! Perchè infierire contro chi, odiando noi, crede sinceramente di odiare la perversione e il delitto? E questo pensando, mosso da un senso di pietà, ripiegai il giornale e me lo misi in tasca. Nello stesso punto il giovanotto discese, Guyot prese il suo posto subito per iscostarsi da me, e tirò un respiro di sollievo, come un crocifisso distaccato dalla croce. Non gli restava più accanto che uno dei ladroni.
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Dopo quella mattina, per tre giorni, trovai la carrozza di tutti sotto l'influsso di Venere. Come accade in certe passeggiate sul lastrico, che da quando s'esce a quando si rientra in casa ci si vede volteggiare intorno l'amore come se al mondo non ci foss'altro, così segue qualche volta nelle passeggiate in tranvai che per un certo tempo, ad ogni corsa, e più volte in ogni corsa, ci batte l'ali sul viso, come per tentare noi pure a farci canuto spettacolo, il monello divino, che moltiplica i popoli e ingrullisce i ministri. La prima volta fu su quell'ultimo tratto del corso Casale, dove, correndo all'ombra dei grandi olmi che scendono fino alla sponda, si vede tra i fusti allineati, come per i vani d'una selva di colonne, luccicare il Po, sparso di barchette di pescatori e di birichini natanti. Qua e là, sulle panche della giardiniera, eran seduti un bersagliere, un vecchio signore arcitinto, due musicanti con le trombe fra le ginocchia, una contadina con un coniglio fra le braccia; e nel mezzo una ragazza e un giovanotto, che ai primi gesti riconobbi per sordomuti, stretti in colloquio amoroso. Amoroso, fuor di dubbio: gli occhi languidi e le guance infiammate di lei lo dicevano. Aveva l'aspetto d'una giovane di bottega: un viso largo, ma d'espressione infantile, un sorriso strano, come di chi sorrida soffrendo, ma simpatico; un busto forte e ben formato. Lo spettacolo era nuovo per me e lo potei godere a tutt'agio. Avevo osservato altre volte quella mimica misteriosa di magnetizzatori e di cabalisti, quei gesti vaghi di chi disegni nel vuoto o cacci farfalle o mova le dita sopra una tastiera invisibile. Ma non avevo idea del colorito, della modulazione singolare che a quel linguaggio aereo può dar la passione. Nei gesti di lei, in special modo, v'era non so che di morbido e di gentile, e anche negli atti improvvisi e più rapidi qualche cosa d'intraducibile a parole, che pareva corrispondere alla smorzatura, ai languori della voce, alle note argentine e quasi involontarie che sfuggono dal petto commosso d'una ragazza parlante. La sua mano si soffermava per aria, descriveva delle curve graziose, ricadeva sul ginocchio con un abbandono stanco o una vivacità capricciosa, e il suo sguardo, mentre gestiva il giovine, invece di fissarsi nel viso di lui, accompagnava i suoi gesti, come s'egli avesse gli occhi nelle mani, con una mobilità, con una vita, con un balenìo che rendeva tutti i moti dell'animo. Quella conversazione di dita e di pupille m'attraeva, mi faceva pensare a quella singolarità d'un amore che non conosce la dolcezza delle parole susurrate nell'orecchio; che nei momenti appunto in cui la passione cerca le espressioni più ardenti e pronuncia i nomi più soavi, non può più dir nulla, nemmeno a modo suo; d'un amore in cui l'amplesso tronca ogni comunicazione del pensiero e l'oscurità separa le menti, e le dolci apostrofi di angelo, cuor mio, anima mia escono dall'anima senza musica e senza tremito e non restano nell'anima che nella forma di due mani agitate. La mimica del giovane, intanto, s'accelerava, come se allo scendere dal tranvai si fossero dovuti separare e a lui premesse d'approfittar del tempo; e lei non faceva più che dei gesti radi e lenti, quasi sempre gli stessi, come la ripetizione d'una frase o d'una parola, accompagnata da un sorriso continuo, incerto e dolce. Era una negazione? Una promessa? Un'espressione di dubbio? Tutti e due erano eccitati; ma, benchè avessero addosso gli occhi di tutti, non davano segno alcuno di timidità e di suggezione, quasi che i presenti paressero loro gente d'un altro mondo, con la quale essi non potessero avere alcuna relazione di sentimenti o di riguardi; non altro che immagini, ombre, quali erano infatti; di cui nessuna parola poteva giungere all'anima loro, come se una distanza immensa li separasse. Poi “tacquero„ a un tempo tutti e due, ed essa si rivolse a guardare prima la cascatella del Po, della quale non sentiva lo scroscio, poi gli olmi della riva, dove cantavano uccelli di cui ignorava il canto, poi le trombe dei due suonatori, che eran per lei uno strumento misterioso come un apparecchio elettrico per un selvaggio. Quando il tranvai entrò in piazza Vittorio Emanuele riattaccarono una conversazione affrettata, in cui pareva ch'egli facesse a lei una calda raccomandazione, e lei lo rassicurasse; poi, all'imboccatura di via Po, essa fece fermare, gli strinse la mano e discese, avviandosi verso i portici; ed egli si spinse all'estremità della panca e la seguitò con gli occhi, con un sorriso singolare di curiosità amorosa e pietosa, fin che disparve. Il fattorino, che stava sulla pedana accanto a lui, gli fece un cenno del capo socchiudendo un occhio, come per dirgli: — È la tua bella, eh, briccone? — Ma rimase stupefatto quanto me udendosi rispondere con voce piena e con perfetta pronuncia, in accento affettuoso di compassione e di rispetto: — Povra fia! (Povera ragazza!) — Essa sola era muta.
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Amour, toujours! come dice la canzonetta. Fu questo un bel caso (non raro, mi dissero) di persecuzione amorosa in tiro a due. Sul corso Vittorio Emanuele una bella signora arresta la giardiniera con un alt imperioso, sale con impeto e siede con dispetto; e ripartiti appena i cavalli, salta sulla piattaforma di dietro un signore, col cappello d'alpinista e la lente all'occhio, e resta lì come un piolo, con lo sguardo fisso sopra la bella, da cui lo separano sei panche, aspettando che le si faccia un posto vicino. All'incrociamento dei corsi Vittorio ed Umberto, riman vuoto un posto proprio nella panca dietro la signora, e lui, lesto, con una faccia imperterrita, corre per la pedana afferrandosi alle colonnine, e si va a sedere alle spalle di lei, che lo sente, senza vederlo, e dà un guizzo come per un pizzicotto. Non passa un minuto che si vede venire innanzi il tranvai dei Viali. In quel momento appunto il persecutore cominciava a farsi avanti, dondolandosi, come chi cerca un'entratura di dichiarazione; ma ecco che la signora balza in piedi, dà uno strappo con la mano sinistra alla correggia del campanello, e con la destra, brandendo l'ombrellino, comanda al cocchiere dell'altro tranvai di fermare. Tutt'e due si fermano, l'inseguita salta giù, raggiunge l'altro tranvai di corsa, vi sale come un lampo; e l'inseguitore ostinato, giù anche lui d'un salto, e via come una freccia, e su, sul tranvai della fuggitiva. La scena, osservata da tutti, suscitò un vivo mormorio di commenti seri e faceti: — Bellina! — Che sfrontatezza! — Questa è nuova. — Ma è un'indegnità! Gli dovrebbe rompere l'ombrello sul muso! — Un signore celione disse che ci sarebbero voluti dei carrozzoni di salvataggio, per signore sole, circolanti per le vie principali. Ma un mio amico, che m'era accanto, quello dei sette peccati capitali, lo Schopenhauer, gli osservò, con un sorriso sarcastico, che sarebbe stato un “servizio passivo„. E soggiunse che, secondo lui, c'era invece un altro servizio speciale di tranvai chiusi, sul modello delle carrozze cellulari, il quale avrebbe dato agli azionisti un grasso dividendo. — Carrozzoni.... a che scopo! — domandò l'altro. Ah! lingua sacrilega. Rispose: — Allo scopo.... opposto.
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E ancora l'amore. Vedo sulla prima panca due teste giovanili così vicine che mi si disegnano tutt'e due sulla schiena del cocchiere come sul fondo scuro d'un quadro: l'una bionda dorata, senza cappello; l'altra, con un grazioso cappellino da marionetta, ornato di tre cardenie; il quale lascia scoperta una salda massa di capelli bruni, lucidi e freschi, che pare un turbante di velluto nero. Dalla piattaforma in fondo, dov'io sto, non posso vedere i due giovani in viso; ma capisco dagli atti che si parlano senza dir nulla, come fanno gli amanti in ebbrezza, non per altro che per accarezzarsi con le parole e baciarsi con la voce, sorridendo alla gente, alle case, agli alberi, al sole, come per ringraziare il mondo della propria beatitudine. A un tratto la testa bionda si gira indietro, e riconosco il mio tipografo entusiasta del 1.º maggio, che, appena vedutomi, schizza via dalla panca e si slancia sulla pedana verso di me, mentre la testa bruna, voltandosi curiosamente, mi mostra un adorabile visetto di diciott'anni, tutto vermiglio di passione, nel quale par che scintillino non due, ma dieci occhi. — Eccomi qui. Buon giorno. Che bella giornata! Ebbene, che ne dice del Congresso di Londra? Ha veduto? La maggioranza, insomma, ha accettato il programma socialista.... — Ma io capii di volo che non veniva da me per gli affari dell'Inghilterra. E infatti, dopo avermi domandato chi fossero i Fabiani, non stette a sentir la risposta e m'annunziò d'un colpo il suo matrimonio. Era sposo da un mese e sette giorni; non disse le ore. — Ah! ma non creda — s'affrettò a soggiungere — io sarò sempre lo stesso.... è una donnina di testa, sa. — E mi disse tutto. Era una lavorante in maglierie, istruita, che aveva fatto i primi due anni della Scuola professionale; s'eran conosciuti l'inverno passato al Nazionale, dov'essa era andata con suo padre a sentire una conferenza sul lavoro delle donne e dei fanciulli; la madre di lui era stata un po' incerta, da principio, per via delle idee della ragazza; ma aveva finito con dir di sì, innamorata anche lei del visetto. Oh, egli la conosceva, e n'era ben sicuro. Non era di quelle che fanno le socialiste per il matrimonio, e poi, acchiappato il marito, ripiegano la bandiera, e addio conferenze, addio oblazioni, addio riunioni. C'erano delle idee nette e ben piantate in quella piccola testa; era una compagna di coscienza e di cuore. Se fossero state tutte così non si sarebbero visti tanti compagni che giravano nel manico dopo aver fatto il passo al Municipio. E continuò a tesserne l'elogio lanciandole delle lunghe occhiate azzurre, che la misuravano amorosamente dalle tre cardenie del cappellino ai due piccoli tacchi neri luccicanti sotto la panca. Poi, parendogli d'aver troncato troppo alla leggiera il primo discorso, si rifece serio per calcolare che al Congresso i centottantacinque delegati delle Unioni dei mestieri rappresentavano su per giù ottocentomila soci organizzati, mentre gli altri trecento delegati inglesi non ne rappresentavano forse duecentomila.... Ma che! Io vedevo bene che c'era un'altra unione che in quel momento gli premeva assai di più di quelle di cui discorreva, e, pietosamente, gli apersi la via d'uscita che cercava, avvertendolo che stavano per prendergli il posto. E in un attimo egli si ritrovò seduto accanto alla sua bella socialista, con la quale riprese a solfeggiare il duetto interrotto, sorridendo alla gente, alle case, agli alberi, al sole. Oh i buoni borghesi che guardavano con simpatia quel bel ragazzo innamorato e felice, erano ben lontani dal pensare ch'egli appartenesse a quella setta orribile che vuole fra gli altri istituti, com'essi dicono, quello della “ moglie in comune „. Con che immonda gente ci mette in promiscuità, a nostra insaputa, la carrozza di tutti!
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All'influsso amoroso succedette sul tranvai un influsso maligno. Ahimè! S'ha un bel fuggire per le strade senza toccar la terra e non guardando da alcuna parte: la miseria, la sventura, il dolore c'inseguono, ci raggiungono anche su quelle tavole fuggenti e ci costringono a guardarli in viso. Fu come uno schianto di fulmine fra tutta quella gente allegra che riempiva la giardiniera della linea Ponte Isabella. Il povero cocchiere scherzava e rideva con un amico ritto al suo fianco quando, arrivato in piazza Carlina, nello stringere a tutta forza il freno per non urtare in un carro, si lasciò sfuggir di mano il manubrio che, girando rapidissimamente, lo colpì nel costato destro e lo gettò riverso fra le braccia dei passeggieri, bianco come un morto. Fu creduto morto, scoppiò un grido, tutti s'alzarono, una signora svenne, dei bimbi si misero a piangere, accorsero il fattorino e una guardia, alcuni passeggieri discesero, e pigliandolo per le spalle e per le gambe lo calaron giù come un cadavere e lo portarono a traverso alla piazza verso la farmacia più vicina. Il passaggio istantaneo di quell'uomo dall'espressione della forza e dell'allegrezza a quella immobilità molle e cascante di tutte le membra che aveva l'apparenza della morte, destò prima nei presenti un senso di terrore che imbiancò tutti i visi, come se tutti comprendessero in quel punto per la prima volta la fragilità miseranda della vita; e poi una grande pietà, che l'accompagnò con un mormorio doloroso fin che disparve in mezzo a una folla spintagli intorno da quella curiosità frenetica delle disgrazie, che è uno dei segni più odiosi di quanto rimane nell'uomo civile della barbarie antica. Uno solo dei passeggieri, un omuccio secco e grigio, dal viso itterico, con gli occhiali affumicati, alzò la voce fra quel mormorio di pietà, sforzandosi invano di colorire di questo sentimento il dispetto messogli in corpo dalla scossa violenta che gli aveva sconvolto i nervi. O povera natura umana, quando ti cade la maschera! A sentirlo, pareva che il colpo l'avesse avuto lui. — Ci mancava questa! — esclamò con voce acre e tremola. — Un bel momento che ci fa passare! Benedetta gente, sempre sbadata, che rischia la vita.... Guardate se debbono accadere di queste cose.... Un uomo rovinato! E poi.... lo spavento dei passeggieri. Eh sì, fa pena anche a me; come no? Ma facciano attenzione, in nome di Dio, anche per riguardo al pubblico.... Pare che se le cerchino.... Un giorno è uno scontro, un altro è il freno.... Ce n'è sempre una.... Non è più un servizio.... Non è più un vivere questo.... Oh santa pazienza benedetta!... — Sopraggiunse il controllore, e ritornò un momento dopo il fattorino; il quale, pigliando le redini, annunciò che il cocchiere si riaveva. Tutti respirarono, il tranvai ripartì; ma il signore dagli occhiali scuri restò imbronciato. E si capiva perchè: il triste caso l'avrebbe forse impietosito, invece d'irritarlo, se fosse seguito tre ore prima; ma era l'ora del desinare, e l'appetito, per quel giorno, era perso senza rimedio. — Ah tristo animale! — gli dissi in cuor mio. Ma queste parole mi svegliaron dentro un'eco inaspettata; l'eco d'una voce severa che mi domandava se c'era al mondo un uomo, il quale, riandando la sua vita, non trovasse d'esser stato qualche volta irritato, non impietosito dalla sventura d'un suo simile, per la stessa misera, vile, disonorante ragione.... E quella voce mi fece abbassare la fronte.
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Così è: come dalla faccia placida e azzurra del mare spuntano qua e là teste deformi di pescicani e tentacoli orrendi di polipi, così per le vie della città dalla lieta pace della vita ordinaria erompono a quando a quando improvvisi la violenza, la barbarie, il delitto, la morte, a rammentarci che sotto all'ordine e all'armonia apparente della civiltà infuria la lotta eterna delle passioni e delle forze nemiche. È l'ora della siesta; il tranvai va a rilento sotto il sole, per una strada solitaria, tirato da due cavalli in sudore, che par che s'assopiscano al suono cadenzato e pesante del proprio passo; una lavandaia tarchiata, seduta in fondo, si appisola sopra una bracciata enorme di biancheria che le preme il ventre; accanto a lei un giovanotto di dubbia eleganza, inanellato e infiorato, dorme col capo ciondoloni sul petto e la sigaretta spenta fra le labbra; tutti gli altri tacciono; il fattorino sonnecchia; parlano soltanto due vecchietti, seduti davanti a me, che commentano senza fine, con voce monotona, l'ultima estrazione del lotto. A un tratto, in mezzo a quella quiete narcotica, scoppia un grido selvaggio: — Ladro! Ladro! T'ho visto! Sei tu! Rendimi i miei danari! — e voltandoci, vediamo il giovane della sigaretta dibattersi, pallido, fra le braccia poderose della lavandaia che l'ha agguantato con una mano alla strozza e cerca di cacciargli l'altra in una tasca del soprabito, seguitando a urlargli sulla faccia: — Ladro! Ladro! Sei tu! Rendimi i miei danari! — Il cocchiere ferma, il fattorino accorre, altri s'interpongono, la donna è spinta in là, il giovane è afferrato, parecchie mani lo frugano, il portamonete vien fuori.... — Aaaaah! — grida la donna con un riso feroce di trionfo. Il ladro, col capo scoperto e i capelli arruffati, bianco e stravolto, cessata ogni resistenza, cerca intorno con due occhi stupidi il cappello caduto e con un moto meccanico della mano libera si tasta la cravatta snodata.... fin che sopraggiunge una guardia civica, che fa scender lui e la donna, e il gruppo s'allontana dalla parte opposta al tranvai, che riprende la corsa, mentre s'affaccia gente a tutte le porte e da tutti i canti accorrono ragazzi. Dire che in tanti anni da che sono al mondo non avevo mai visto acciuffare un ladro in flagrante! Quello spettacolo mi rimescolò il sangue come se non mi si fosse mai presentato neppure all'immaginazione. — Baloss! — udii gridare intorno a me. — Brigante! — Canaglia! — E per un tratto di strada feci eco in cuor mio a quelle invettive; ma sempre più fiocamente, via via che la scena avvenuta mi s'andava tramutando al pensiero in un'altra; nella quale la donna era rappresentata dall'immagine dell'Italia e il giovane da un personaggio coperto di nastri e di croci; ma con queste circostanze diverse: che nella mia visione i vicini voltavano la testa dall'altra parte per non dar noia al ladro, e i lontani s'inchinavano, e la guardia gli faceva il saluto con la spada.
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E ancora il malo influsso, ancora un incontro triste, sul tranvai della linea Vinzaglio, in via Roma: il mio buon Giors, che non guarda più le botteghe dei salumai, che non fischia più l'aria della Carmen, che non sorride più, che ha un altro viso, ch'io non gli vidi mai, e una voce che non riconosco. Tra una fermata e l'altra, lentamente, con un accento triste e sempre eguale, come se parlasse a sè stesso, egli mi discorre di sua moglie malata che “prende una cattiva piega„ e lo tiene in affanno. Anche questa mattina essa gli disse: — Va, Giors, va tranquillo, tutto andrà bene. — Ma egli non ne è punto persuaso e dice di no, con un dondolio del capo continuo. Ieri il medico fece una brutta faccia, una faccia.... che egli non avrebbe voluto vedere. — E quando penso! — esclama, voltandosi verso di me. — Una donna che non ce n'è un'altra. Non è il caso di vantarsi, capirà bene; ma quello che è giusto.... Levata la mattina alle quattro, tutta la giornata al lavoro, la sera su fino alla sant'ora, a aspettarmi con l'ago alla mano.... E mai un capriccio, mai un soldo male speso, mai un pensiero per sè, mai, mai un dispiacere che m'abbia dato. Ma che dispiacere! Mai una parola che è una parola non c'è stata fra di noi.... — E dopo una pausa: — E cosa faccio io se mi manca?
E dopo una girata di freno: — Già, e cosa faccio io se mi manca?
E non serve fargli animo; egli segue il corso dei suoi pensieri senza badare alle mie parole, esclamando di tratto in tratto, con accento di profonda pietà per sè stesso: — Ah, povero Giors! — Quello che lo tormenta di più è di dover restar lì al freno mentre essa è là, senz'assistenza, a rodersi l'anima perchè la casa è in disordine e i piccini son per la strada e lui non troverà pronta la colazione. — Eppure, come si fa a perder la giornata? Come si fa? Bisogna ben mangiare, prima di tutto! — E ripete dopo un po', come se avesse scoperto allora quella verità: — Già, bisogna ben mangiare.
E poi riprende l'elogio della moglie, ricorda atti suoi di bontà, sacrifici fatti per la famiglia. Anni sono, quando egli era senza impiego e senza aiuti, e avevano già un bimbo di due anni, che stentavano a nutrire, una sera, rientrando in casa con un po' di legna che era andata a prendere alla parrocchia, la povera donna vacillò e gli cascò quasi fra le braccia. — Cos'hai? — le domandò. Si mise a ridere: era passata da Catlinin, una sua amica che teneva un banchetto di liquori, e, invitata a bere, ne aveva mandato giù un sorso di troppo. — Ah, non è vero! — disse lui; — fa sentire il fiato. — Che! niente. — Tu hai digiunato! — E allora a lei era scappato da piangere. Non aveva mangiato in tutto il giorno per empire il marmocchio. — Ma se ci fu verso di farglielo dire!... No, non ce n'è un'altra compagna. Ah, povero Giors!
In quel punto fermò per lasciar salire un signore e rimise subito i cavalli in moto. Ma quegli strepitò e fece rifermare: — Ma non vede, corpo di...., che ha ancor da salire mia moglie! — Poi, guardatolo bene in viso, soggiunse fra i denti: — La mattina almeno non dovrebbero bere.
E Giors, con una mitezza che mi commosse più di quanto aveva detto fino allora, — Ca scusa — rispose; — non avevo proprio visto. Eh, ho la testa per aria.
E ripartito che fu, disse di nuovo a mezza voce, tentennando il capo e guardando lontano davanti a sè: — Già, e cosa faccio io se mi manca?
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Poi, per vari giorni, trovai qualcuno dei miei attori quasi a ogni corsa, come se ci fossimo dati convegno. Trovai una mattina, sulla linea del Ponte Isabella, il fattorino marchese, che dedicava tutte le sue eleganze e le sue grazie a una donna non più giovane, ma d'aspetto signorile, profumata come uno zibetto; la quale lo accompagnava di panca in panca con uno sguardo morente. Era una maschera variopinta di attrice smessa, di quelle donne indiavolate, in cui ricomincia con la quarantina una seconda gioventù più matta della prima, e che per un traviamento dei sensi e della fantasia cercano le avventure al di sotto della propria classe, come certi briaconi aristocratici, giunti sul pendio del vizio, precipitano all'osteria. Ah, malcauta! Io le previdi sul belletto la traccia delle cinque dita di quella terribile bruna gelosa, in presenza della quale avevo visto il signor marchese timido e contegnoso come un seminarista....
Rividi un altro giorno il “tranvaiofilo„, l'ardente paladino della Belga.... in qual lavoro occupato! Non avevo pensato mai che la passione per la carrozza di tutti potesse salire a un tal grado d'ardore da far discendere il dilettante a dare una mano al cocchiere per rimettere sulle rotaie la giardiniera fuorviata. E con che entusiasmo spingeva, con una spalla contro il parapetto, puntando i piedi e gonfiando il collo, nell'atteggiamento d'un prodigo dell'inferno dantesco, fiammante nel viso e superbo di faticare per una “santa causa....„
Rividi il mio persecutore sonettista, che mi si venne a sedere accanto sull'ultima panca, con un sorriso d'aguzzino; ma questa volta mi salvò un operaio, seduto davanti a noi, con una pipaccia orribile fra i denti, la quale mandava in viso al poeta dei nuvoli di fumo così pestifero che, dopo avermi tossito nell'orecchio una quartina, dovette, soffocando e sagrando, rimangiarsi gli altri dieci versi per non sputare i polmoni. O imprecata Regìa italica, tu fosti almeno una volta benedetta!
E ritrovai sulla linea di Lanzo, dopo cinque mesi, quel certo erotico sereno dalla zazzera bianca e dagli occhi azzurrissimi, arieggiante un pastore evangelico, ritto in fondo a una giardiniera occupata quasi tutta dalle alunne d'un collegio, dai quattordici anni ai diciotto, vestite di color lilla, con una mantellina minuscola di seta nera; le quali, conversando vivacemente da panca a panca e torcendo i busti snelli come solleticate da mani invisibili, presentavano ai suoi occhi il profilo grazioso dei loro nasini scolareschi e dei loro petti virginei: la sua giardiniera ideale! Oh come il suo sguardo chiaro di erotico intellettuale scorreva agile e lieto su tutte quelle spalle e su tutti quei colli adolescenti, come si tuffava in tutte quelle capigliature fresche, come nuotava in quella primavera rosata! Come si godeva i suoi dieci centesimi! Si capiva che non sarebbe disceso per cento lire. Ma, in via Milano, lo distrasse da quello un altro spettacolo anche più allettante. Mentre il tranvai andava di tutta corsa, un bel pezzo di bruna sui trent'anni, senza cappellino, con un canestro di fiori alla mano, prese l'abbrivo dal marciapiede e, adocchiato un posto vuoto in capo a una panca, spiccò un salto.... e là, ritta sulla pedana, con una mano alla colonnina e il canestro per aria, nell'atteggiamento d'una cavallerizza che, passato il cerchio, ricasca sulla sella e chiede l'applauso. Era la famosa fioraia di Porta Palazzo, nota a tutti gl'impiegati del tranvai per quella sua destrezza acrobatica. Seduta che fu, in mezzo all'ammirazione delle ragazze, parve che l'erotico raccogliesse su di lei, in un con lo sguardo, tutti i suoi pensieri, e stette un pezzo così, immerso in una meditazione profonda e tranquilla, di cui sprizzava la dolcezza dagli occhi socchiusi e dalle labbra sorridenti....
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E rividi anche il cavalier Bicchierino, miracolo! non nella solita via Garibaldi, ma sulla linea dei Viali, più rotondo e più lustro che mai. Doveva fruire d'una breve licenza estiva e far quella corsa per ricreazione, perchè non l'avevo visto mai in un atteggiamento di così placido riposo, così chiaro nel viso, così palesemente libero da ogni pensiero del “cancello„. Egli spaziava con lo sguardo sui corsi e sulle piazze, osservava i lunghi filari d'alberi, le botti inaffiatrici che passavano, gli operai occupati a sparger ghiaia e a piantare nuove acacie, e dalla sua serietà abituale trapelava l'alterezza del vecchio torinese innamorato della sua Mecca, il godimento della linea retta, l'ammirazione della simmetria, la compiacenza per il buon andamento dei servizi municipali, la soddisfazione di vedere tutti i passanti che andavan verso il Po tenere la destra, e tutti quelli che venivan su, il lato opposto, come si deve fare in mia città civile, e come non si fa, dioumlo pura (diciamolo pure) che a Torino. Ma in vicinanza del Teatro Torinese la sua quiete fu turbata. Il fattorino esclamò; — Ah, eccole qui quelle dello sciopero! — e vedemmo venire dal ponte delle Benne una lunga processione di donne d'ogni età, che ingombravano tutta la strada, levando polvere come un armento, e mandavano fino a noi un mormorio sordo e confuso come d'un fiume rotto tra i sassi. Erano le operaie di non so che opificio del Parco, scioperanti da due giorni, che andavano alla Prefettura. Il cavaliere si voltò bruscamente a guardarle, ed io vidi sul suo viso un mutamento istantaneo, maraviglioso, come d'uno a cui si attorcano tutt'a un tratto le viscere. Non avrei meglio compreso quello che passava nell'animo suo se si fosse sfogato con un discorso. Compresi che quel fatto d'uno sciopero, per sè solo, astratta ogni idea di ragione o di torto che gli scioperanti potessero avere e di condotta pacifica o tumultuosa a cui fossero per attenersi, urtava violentemente tutti i suoi sentimenti e i suoi principî, offendeva in modo intollerabile tutti i suoi istinti, gli faceva l'effetto d'un abuso enorme, d'una violazione temeraria di tutte le leggi, d'una perturbazione criminosa dell'ordine sociale e naturale, come se avesse visto le case e gli alberi del corso rompere le file e ballare la tarantella. Il tranvai lasciò presto la processione a distanza; ma egli continuò a guardarla, voltato indietro in una positura incomoda, con una fronte così rimbrunita, con gli occhi così dilatati e torbidi, che mi fece pietà; tanto si vedeva che soffriva, che non poteva sopportare lo spettacolo di quell'“anomalia„ in quel corso così diritto, fra quelle case tutte d'un'altezza, in quella sua Torino dove tutti camminavano con quel bell'ordine per viali così ben tenuti. Povero cavalier Bicchierino! Se la vedeva così, non era già per cattivo cuore; il suo viso diceva che era uomo da comprendere e da sentire le miserie umane, da dar ragione ai deboli quando chiedevano il giusto e l'onesto. Ma occorreva che la pietà, il sentimento della giustizia e tante altre belle cose gli entrassero senza urtare quelle quattro idee piantate ai quattro canti della sua mente come i quattro soldati intorno al monumento di Carlo Alberto, ossia, che gli scioperanti scioperassero senza cessar dal lavoro, e andassero alla Prefettura a tempo avanzato, a uno a uno, in punta di piedi, per trecento strade diverse, con un bel foglio alla mano, in cui tutto fosse esposto e spiegato in ben conteste frasi d'ufficio. Senza cuore il cavalier Bicchierino! Ma per pensarlo converrebbe non sapere che di tutti i teatri d'Italia sono i torinesi quelli in cui i drammi commoventi strappano dalle tasche un maggior numero di pezzuole e dai petti i bravo più somiglianti a un singhiozzo! E lo vidi alla prova in quella stessa corsa, allo svolto di via Vanchiglia, dinanzi al caso, non raro, d'una famiglia che dava l'ultimo addio, sul predellino del tranvai, a una persona cara, diretta alla Stazione di Porta Nuova. Era una ragazza che partiva; il suo vecchio padre e una sorella sciancata l'abbracciarono; la mamma le chinò il capo sul seno, piangendo dirottamente; il fattorino e il cocchiere non osavano di lagnarsi del ritardo; tutti le guardavano commossi. Ma il primo a prendere l'involto della ragazza fu lui, Bicchierino, e con un atto così rispettoso, con un viso così compassionevole, con un: — Ca permetta! — così tremolo e così buono, che lì per lì feci giuramento di non dargli mai più un dispiacere. — No, povero Travet, ancora così mal conosciuto in Italia anche dopo la gran commedia che t'ha dato il nome, non dirò mai più che è stretta via Garibaldi, non taglierò mai più il Popolo con le dita, e se avrò un giorno la fortuna di conoscerti, farò uno sforzo per parlarti il più puro piemontese che sia mai risonato sul palcoscenico del Teatro Rossini, e non urterò alcuna delle quattro idee guardiane del tuo cervello, anche a costo di mettere al laccio le mie....
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Peccato che non ci fosse lui.... Ma no, perchè forse, anche commovendosi, egli avrebbe visto in quella scena un esempio di confusione di classi, che poteva offendere nell'animo suo il sentimento dell'ordine sociale. Ma per me fu la scena più gentile che mi fosse occorsa mai sulla carrozza di tutti. La giardiniera s'arrestò all'angolo di via Maria Cristina e di via Baretti, dove l'aspettava un vecchio muratore, con la giacchetta sulle spalle, sostenuto per un braccio da un murator giovane, che l'aiutò a salire, facendogli qualche raccomandazione, e lo salutò, dicendogli: — In gamba! — Quello sedette a sinistra d'una bella signorina bionda, un'adolescente precoce dal viso di bimba, alla quale i capelli d'oro, le carni rosee, il vestito bianco davano come uno splendore diffuso, in cui il sorriso, ogni volta ch'ella sorrideva alla cameriera seduta alla sua destra, pareva una luce nella luce, e rivelava il pensiero ancor fanciullesco. L'operaio, si capiva, era stato colto da qualche male improvviso e costretto a lasciare il lavoro: teneva ancora il cappello di sghembo sui capelli grigi arruffati, come forse glie l'avevan messo rialzandolo da terra; stava come accartocciato, col viso smorto e col mento sul petto, e i suoi occhi esprimevano quel senso di tristezza scorata e paurosa che desta ogni malore repentino in quell'età, insidiata dalla morte. Davanti e dietro di lui c'erano signore e bambini eleganti; sulle altre panche la solita gente varia; da ogni parte uno sventolìo vivace di ventagli e di cappelline. A un tratto, mentre si sboccava sul corso Vittorio, s'intese un grido. Era la signorina bionda, a cui il muratore, preso da deliquio, aveva abbandonato il capo sulla spalla. Il suo primo senso fu di sgomento, e scattò indietro; ma si riebbe nell'atto stesso per sorreggere il vecchio che cadeva, e non potendo tenerlo con le mani, lo rialzò facendo forza con tutta la persona, lo rimise nell'atteggiamento di prima e porse la spalla al suo capo morto, che vi ricadde su pesantemente, perdendo il cappello. Tutto questo in un attimo. Ah, brava tota! Com'eran succeduti pronti sul suo bel viso d'inglesina al terrore la risoluzione e al ribrezzo la pietà, e com'era angelicamente bella, così, pallida dalla commozione, ma ferma e quasi altera, con quella fronte splendida inclinata verso quella povera testa di vecchio operaio senza vita, che s'appoggiava a lei come a una figliuola! Il tranvai si fermò; accorsero alcuni per prendere il malato; ma una boccetta d'essenza, ch'era passata di mano in mano, gli aveva già fatto riaprire gli occhi e rialzare la fronte. La signorina raccolse il cappello chiazzato di calce e glie lo rimise sul capo con garbo, sfiorando con le sue piccole mani bianche i suoi capelli grigi, gli riaggiustò la giacchetta sulle spalle, lo aiutò a discendere mettendogli le palme sotto i gomiti, lo guardò mentre s'allontanava accompagnato da due passanti, e quando il tranvai ripartì, espandendo l'animo oppresso dalle commozioni diverse, prima sorrise ai presenti che la guardavano, e poi ruppe in pianto.
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O benedetta carrozza di tutti!... Eppure c'è chi dice corna di te e ti vorrebbe a terra. Fu un atto d'accusa in tutte le forme, un vero stroncamento dell'istituzione quello che fece l'ultimo giorno del mese, in un carrozzone chiuso di via Lagrange, in cui m'aveva cacciato la pioggia, un grosso medico panciuto e arcigno, dai capelli rossi e dagli occhiali verdi. Egli si sfogava con un amico seduto in faccia; ma tutti gli altri ascoltavano e se la godevano, approvando, per eccitargli la vena. Aveva preso le mosse da un suo nipote, un giovanottone di diciott'anni, forte come un bufalo, che non era più buono a andar da Piazza Savoia a Piazza Venezia senza farsi tirare da due rozze. Era una vera epidemia di pigrizia, diceva, quella che i tranvai avevano portato nella cittadinanza. Tutti quelli che avevan dei soldi da buttar via non camminavano più. In verità. Egli conosceva centinaia di poltroni sani come lasche, per i quali il fare un chilometro a piedi era diventata una delle dodici fatiche d'Ercole. — Si sfibra la razza, positivamente; gli uni perdono le gambe, gli altri il cervello. Non vedete i due eccessi opposti? C'è una razza di vecchi matti che per far del moto si sciupano i polmoni e arrischian le ossa sulla bicicletta, e un esercito di giovani che non fanno più trecento passi al giorno coi propri piedi. È un incarognimento generale, mi scusino, è la vera parola; e lascio stare che se si spendesse in beneficenza la metà dei denari che si sprecano per farsi portare da una cantonata all'altra, si darebbe del pane a migliaia d'affamati. Ma certo. I tranvai! Ma sono un'istituzione funesta all'igiene, veicoli d'aria viziata, che hanno soppresso la passeggiata stimolante prima del pranzo, la passeggiata digestiva dopo cena, le camminate regolari da casa all'ufficio.... Non vedete quanta obesità gira per Torino da dieci anni a questa parte? Non c'è da ridere. Vi dico che cresce l'adipe in un modo spaventoso. Si vedon delle signore di trent'anni che paion palloni, degli uomini di quaranta che paion botti. Un incarognimento, ripeto. E chi vivrà fra cinquant'anni vedrà passare dei carrozzoni che parranno stie piene di galline faraone e di tacchini ingrassati per il Natale! — Tutti ridevano. E benchè ridessi anch'io, m'inquietò nondimeno un poco il timore di addossarmi col mio libro una parte anche minima di colpa della futura pinguedine d'Italia. E rimasi pensieroso davanti a quella visione comica d'un popolo di lune piene e di pancie enfiate. — Però, — pensai, — per il popolo italiano.... c'è tempo.
CAPITOLO NONO.
Settembre.
Il settembre porta sui tranvai un soffio di vita nuova. Vi comincio a rivedere figure note di travet, ch'erano scomparsi, rinverditi da un mese di licenza, signore imbrunite dai venti del mare, visi vivaci su cui preluce la gioia del “viaggio circolare„ o della vendemmia, e reduci dalla villeggiatura, i quali si riconoscono allo sguardo quasi di forestieri che girano su Torino, non più veduta da un pezzo, salutandola con un sorriso che rivela il gusto rinascente degli agi e degli svaghi della vita cittadina, e facce esotiche di viaggiatori di passaggio, che ad ogni crocicchio si voltano di qua e di là a guardar la fuga delle vie sconosciute. Famiglie intere in abito di campagna, tornanti dai bagni o dai monti per ripartire per la collina, ingombrano le giardiniere di valigie e di scatole, tutti eccitati dal piacere del viaggio, e spandono sulla noia dei passeggieri abituali, sonnecchianti durante le corse obbligate per le vie polverose, un alito di frescura, degli effluvi d'alghe e di boschi, che danno loro miraggi confusi di ville bianche, di valli verdi e di marine azzurre. E cresce la noia quando il tranvai riprende il suo aspetto solito per le lunghe vie solitarie, dove non s'incontrano che pochi passanti col cappello da una mano e il fazzoletto dall'altra, in mezzo alle lunghe file di finestre chiuse, che par che dai vani delle persiane versino giù il silenzio morto dei quartieri abbandonati e tenebrosi. E per i relegati nella cinta daziaria s'aggiunge alla noia il dispetto al veder quell'eterna collina e quell'Alpe eterna che appaiono ai capi opposti delle strade come un invito beffardo, come una provocazione maligna. Tra questi son io, e per giunta alla noia e al dispetto ho il rammarico di non veder più che assai raramente, fra quel succedersi continuo di facce nuove, che invadono la mia sala di studio ambulante, i cari attori della mia compagnia.
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I primi che rivedo, discesi freschi freschi dalla montagna col loro idoletto, sono Taddeo e Veneranda, sulla linea solita dei viali, tutti e due ingrassati ancora, con due facce che paiono il ritratto della beatitudine. Sono stati venti giorni all'Ospizio di San Giovanni d'Andorno: mi decantano il paesaggio, l'aria, l'acqua, il pane, la cortesia della gente; ma son felici sopra tutto d'aver riportato la bambina fiorente di salute. È, infatti, uno splendore, ed io assisto al suo trionfo. Ritta in mezzo a loro sull'ultima panca, vestita di rosa, coi suoi folti capelli castagni tagliati sulla fronte e sparsi sulle spalle, coi braccini nudi segnati ai polsi di due risegoli da lattante, essa tempesta padre e madre di domande, apostrofa i vicini, ride e trilla agitando le manine per aria, spande tutt'intorno la luce della sua bellezza e la musica della sua allegria. Quel visetto di Madonna, quell'esuberanza di vita richiamano a poco a poco l'attenzione di tutti. Si voltano prima dalla panca davanti due signorine, che le rivolgon la parola e le carezzano i capelli; poi dalla panca più in là si volta tutta una famiglia a guardarla e a farle dei cenni, a cui essa risponde mandando dei baci; poi altri più distanti, ragazzi, ragazzine e signore, attirati da quel continuo trillìo, si girano e le sorridono; e sotto tutti quegli sguardi ammiratori, al suono di tutti quei saluti amorevoli la piccola attrice raddoppia di vivacità, si fa più rosea e più bella, sfavilla e trionfa come un angiolo in gloria. Che diveniste allor, poveri Taddeo e Veneranda? Si danno anche nella vita dei più oscuri di queste giornate gloriose, che rimarranno nella mente loro fino agli ultimi anni, come raggi di sole. Un padre e una madre che vedessero incoronare il figliolo in Campidoglio non potrebbero dar segno d'un'ebbrezza più grande di quella che splende sulle facce rotonde di questi due buoni pacioni, ai quali brilla una lacrima negli occhi ed esce il fiato a stento dalle labbra tremanti, come se la gioia li soffocasse. E fanno uno sforzo per contenersi; ma a un certo punto la mamma non ci regge più: bisogna che si stringa al cuore quella creatura benedetta a cui deve l'ora più bella della sua vita; e Taddeo, per dissimulare la sua commozione, voltando verso di me il viso raggiante sotto al velo d'un'indifferenza forzata, mi dice con voce tremula e quasi spirante: — Pare che il tempo si sia rimesso; ma.... è difficile.... che duri.
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Il secondo che ritrovai fu il pittore, che mi saltò accanto una mattina sopra una giardiniera di via Roma, allegro come se avesse avuto il primo premio all'Esposizione triennale. — Già rinurbato? — gli domandai. — No, — rispose, — sto ancora a Perosa; ma mi rinurbo tre volte la settimana. — Tre corse a Torino la settimana, per uno che non aveva affari e che stava a due ore e mezzo di strada ferrata, mi parvero molte; e raffrontando la sua nuova allegria con l'umor nero dell'ultima volta, pensai che dovesse avere qualche forte cagione. Gli domandai in qual modo gli fosse passata quella grande avversione per la geometria di Torino, per le file dei cubi gialli, per le strade tutte pari, dove gli pareva di ritrovarsi sempre alla stessa cantonata. Mi rispose sorridendo che era passata; ma in qual modo, non disse. — È l'antipatia per le figliole di Borea, per gli angioli d'alabastro, per le signorine tutte ritagliate con un solo giro di forbici sopra un foglio ripiegato in cento? — Ah! — rispose, — era un brutto periodo per me.... Tutti ne hanno. Ma ora.... tutto è cambiato. —
— Ha dunque rinunciato alla ricerca coniugale sui tranvai? o ha già trovato?
Si mise a ridere, colorandosi un poco alla sommità delle guance, e cambiò discorso subito, affollando le parole. Aveva rinunziato definitivamente a scoprire il mistero della signora delle coincidenze. — Ah, è più forte di me! — disse. — Non ce la posso! — E mi raccontò che un giorno, incaponito, aveva voluto tenerle dietro a ogni costo. Trovatala sulla linea dei Viali, l'aveva vista scendere all'imboccatura di via Cristina e salire sul tranvai di Ponte Isabella; ed era sceso e salito anche lui; ma, arrivata in piazza Cavour, quella era scesa, e aveva preso il tran vai della barriera di Casale; e lui giù e su da capo; e lei giù per la terza volta in piazza Vittorio Emanuele, dov'era rimasta a aspettare il tranvai di Vanchiglia; e giù lui pure ad aspettare lo stesso tranvai a venti passi di distanza; ma all'arrivo di questo, vedendo ch'essa lo lasciava passare, benchè ci fosse posto, per aspettare il successivo, egli aveva finalmente desistito dall'impresa e se n'era andato via, con la curiosità in corpo, più arrabbiata di prima.
Durante una di quelle corse, appunto, le aveva visto aperto fra le mani uno di quei piccoli album da dieci centesimi, della casa di pubblicità del Massarani, nei quali sono segnate in rosso, sul tracciato delle strade, tutte le linee di Torino, ed essa l'andava sfogliando e osservando pagina per pagina, come un ufficiale di Stato Maggiore che studi la carta topografica delle grandi manovre. Chi sa che vasti piani di strategia tranviaria, che intricate combinazioni andava escogitando, di corse e di controcorse e di finte mosse e di giri viziosi, e chi sa mai con che scopo, e per forviare chi, e per riuscire dove? Mistero profondo! Era meglio non pensarci più; l'impresa era disperata.
Ma mentre diceva questo io vedevo bene che pensava ad altro, che aveva in cuore una contentezza a cui quel racconto serviva come il ventaglio alle signore per nascondere certe espressioni involontarie del viso. Tra una frase e l'altra guardava di qua e di là tutti i tranvai che passavano vicino o lontano, aguzzando gli occhi, come se in ciascuno ci potess'essere qualche persona ch'egli cercava; e il suo aspetto e i suoi modi eran quelli di chi ha un pensiero bello e felice che s'intromette in tutti i suoi pensieri, un'immagine a cui parla in segreto anche parlando ad altri d'altre cose, e che danza tra lui e tutti gli oggetti come i globi di fuoco che vediamo per aria dopo aver fissato gli occhi nel sole.
A un certo punto non mi potei più tenere e gli dissi ex abrupto: — Andiamo, a che serve fingere? Mi dica la verità. Lei ha trovato, e non mi vuol far la confidenza per timore ch'io la metta nel mio libro.
Questa volta diede in un ridere così forzato e stonato che tenni per certo d'aver colto nel segno. Sì, il timore soltanto di esser messo in stampa lo tratteneva dal farmi la confessione. E continuò a dir di no, scrollando il capo e sorridendo, e guardandosi la punta d'uno stivaletto, come se ventilasse in cuor suo se doveva persistere a negare o sfogar la sua voglia di dirmi tutto. — Ebbene.... — cominciò.
Io porsi l'orecchio per ricever la confessione.
— Ebbene.... no — disse ridendo — se fosse vero.... cioè, quando sarà vero, lo dirò a lei prima che a ogni altro; ma.... non è ancora.
— Il suo non è ancora è una traduzione traditrice di è già. Non mi può dire almeno la linea su cui l'ha veduta la prima volta? È un indizio così vago!
— Ebbene.... la linea del Ponte Isabella.
— Carrozzone chiuso o giardiniera?
— .... Carrozzone chiuso.
Ed era tanto rimbambinito nella sua passione che, detto quello, mi guardò con una certa diffidenza, come se io avessi già tanto in mano da poter scoprire la persona. — Non importa, — gli dissi — le assicuro che la scoprirò prima che lei si confessi. — E mentre scendeva, gli domandai se fosse proprio preso sul serio.
Egli mi mise una mano sulla spalla e la bocca all'orecchio e con un accento di passione di cui non l'avrei mai creduto capace, così inaspettatamente caldo e profondo che mi diede una scossa: — Ah! — esclamò — da perderne la testa!
E messo il piede a terra, mentre il tranvai ripartiva, si voltò da un'altra parte per nascondermi la vergogna d'essersi tradito così, da quel buon fanciullone ch'egli era.
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E finalmente, dopo tre mesi e più, riecco una mattina donna Chisciotta, che esce quasi di corsa dalla Stazione di Porta Susa e sale sul tranvai della barriera di Casale, tirandosi dietro tre marmocchi e un facchino carico di roba, tutta infiammata nel viso, con un cappellino bellicoso messo alla diavola e un panierino alla mano, dal quale spuntano delle ciambelle. Dove aveva preso quei tre piccoli mobili, dalla testa rapata, vestiti tutti a un modo e puliti come specchi, ma visibilmente di razza povera, che le stavano appiccicati e le sorridevano come a una mamma? Che ne avesse fatta “qualcuna delle sue„ lo indovinai alla prima; ma per capire di che specie fosse dovetti aspettare ch'essa attaccasse conversazione con una vecchia signora, che la interrogò per indiretto, accarezzando i bimbi, e guardando lei curiosamente. I due maschietti, disse, s'eran rimessi bene; bastava guardarli in viso; ma la bimba non era migliorata gran che. Le bisognava una cura lunga, e per questo ella si sarebbe intesa con sua madre, a cui la riportava. E si diffuse in particolari sulla malatina, fissando ogni tanto su quel visetto pallido l'occhio inquieto e amoroso, come se volesse colorirlo con lo sguardo. In fine, capii che erano poveri ragazzi mezzo rachitici, di tre famiglie diverse, ch'essa aveva presi in tre soffitte della propria casa, e portati per venti giorni in Val Sesia, nella sua villa, dove da vari anni manteneva ogni estate, a spese proprie, una piccola colonia alpina di bimbi gracili. E poichè la vecchia signora la lodò, dicendole dolcemente che se tutte le signore avessero fatto altrettanto, migliaia di ragazzi poveri avrebbero riacquistato la salute, essa respinse la lode, scrollando il capo, rattristata tutt'a un tratto, sconfortata dal pensiero della propria impotenza, della povertà dei suoi sforzi solitari di fronte all'immensità dei bisogni, alla moltitudine innumerevole dei bambini malaticci che rimangono in città nei mesi caldi a bere l'aria avvelenata di stamberghe sudicie e oscure. E ripeteva, certo senza saperlo, il grido del Tolstoi: — Che cosa fare? Ma! Che cosa fare? — con un accento così caldo e così doloroso, da far comprendere che quel pensiero le soffocava in cuore ogni soddisfazione dell'opera buona compiuta; e anche più del suo accento lo dicevano aperto i suoi grandi occhi neri e sporgenti che, nel fissarsi su quei tre visi, esprimevano una pietà scontenta, un amaro rammarico che fossero così pochi, tre! tre soli, e non trenta, e non trecento, e non trenta mila, come la sua ardente carità avrebbe voluto. — Ma! Che cosa fare? — Fui a un punto dal risponderle: — Quello che fai tu, intanto, o anima bella! — Ma vedete un po': questa risposta così gentile e rispettosa, se glie l'avessi fatta davvero, anche col lei, m'avrebbe valso una presa d'impertinente o di matto; tanto le convenienze fittizie, nel commercio sociale, fanno a pugni con la sincerità e con la poesia! Ma poichè la risposta glie la posso dar con la stampa, imprimatur.
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Per vari giorni non ritrovai più altri; ma in compenso, raccogliendo dei frammenti di discorsi nei carrozzoni e nelle giardiniere, feci la scoperta d'una nuova famiglia d'originali: gli sbeffatori della villeggiatura e dei villeggianti: cittadini che, trovandosi bene a Torino anche nel cuor dell'estate e preferendo il Caffè romano e le corse serali in tranvai a tutte le delizie campestri, si burlano di tutti quegli imbecilli, i quali, per ubbìe igieniche o per ostentazione di signoria, rinunciano a tutti i comodi della città e si vanno a rintanare in bicicocche solitarie, anche in rasa pianura, dove arrostiscono dal caldo e cascano a pezzi dalla noia. Giorni fa era un grosso signore sbracato che canzonava con molt'arguzia certe famiglie, le quali dalla villa tempestano di lettere supplichevoli gli amici lontani perchè vadano a sbattere con una visita la malinconia mortale delle loro giornate, e quando uno ce ne casca, lo accolgono con tale espansione di gratitudine da moverlo a compassione della loro esistenza. Avantieri era un impiegatuccio rinfichito che si rallegrava della stagione pessima pensando ai villeggianti di montagna, i quali, sorpresi dal freddo precoce, condannati alla reclusione dalla pioggia, devono covare il fuoco come in gennaio, per giornate eterne, sospirando amaramente Torino, rabbiosi di non aver il coraggio di ritornarvi. E ieri sera, da un vecchietto elegante, con la bocca tutta da una parte, intesi mettere in burletta una famiglia che, per la vanità di farsi credere in campagna, tien tutte le persiane chiuse e non esce che di notte, menando una vita miseranda e vergognosa di malfattori braccati dalla polizia. Non tutti, peraltro, sentono il bisogno feroce di condire il proprio piacere con rimmaginazione del dispetto altrui. Trovo sul tranvai delle facce ilari di giubilati che si godono l'estate con tutti i sensi, nuotando voluttuosamente nel caldo addormentatore dei loro incomodi, contenti della città meno affollata e meno rumorosa, e delle giornate lunghe che dimezzano il tormento dell'insonnia, riavuti dal sole come le biscie. Fra questi è il mio buon veterano, il quale, uscendo una mattina dal suo numero 43, sale sulla giardiniera di via Garibaldi con Ciuchetto fra le braccia, e mi rivolge la parola amichevolmente, con quell'effusione allegra e verbosa che dà ai vecchi il sentimento insolito della piena salute. E sta bene davvero, e sarebbe pienamente felice se il suo piccolo amico non avesse avuto una zampa sciupata dalla ruota d'un carretto; per cui da una settimana egli è costretto a portarlo in braccio a “prender aria.„ Povero vecchietto! Sentendosi forte, ha fatto uno sproposito: una gita ai laghi d'Avigliana, con biglietto d'andata e ritorno, tutto solo, e ne è tornato soddisfatto, niente stanco. E poi è contento dei “grandi onori„ con cui è stato ricevuto da Makonnen il Nerazzini, uomo di testa, che dà a sperar bene dei negoziati, ed esprime tutta la sua gioia di devoto monarchico per il matrimonio del principe di Napoli, e una tenerezza paternamente ammirativa per la principessa; — bella persona, bella persona. Parla di questo matrimonio come d'un avvenimento ch'egli avesse bisogno di vedere per viver tranquilli i suoi ultimi giorni e chiudere gli occhi in pace. — Se mi guarisse presto questo qui! — dice poi, accarezzando il cane, che mugola dalla gratitudine e tira a leccargli il viso. — Creda, è stato un dispiasì gross. È l'ultimo amico del povero vecchio. Già, non si scherza: son settantotto e mezzo, sa lei? Del resto, non mi lamento. Digerisco bene da un tempo in qua, e non tutti, all'età mia, possono dire altrettanto. Giusto, ci ho un vecchio camerata, che non sta punto bene. Vado ora a trovarlo. Questo tranvai mi porta proprio sull'uscio. Gran comodità, non è vero? Con queste belle giornate, in special modo. Lei scende già? Ah no, badi; non scenda fin che sia fermo. Si ha un bell'esser giovani, una disgrazia è presto accaduta. Così, grazie, e altrettanto. Buona passeggiata. Cerea. — È felice! O anima umana, mal paga del mondo, assetata dell'Infinito, e contenta di così poco!
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Faccio un'altra scoperta, di natura opposta alla precedente e ristretta al solo bel sesso: quella d'uno stato d'animo che si potrebbe definire: la musoneria settembrina. Vedo sui tranvai molti visi di signore e di signorine di cattivo umore, come tormentate da un dispetto sordo e immobile, che traspare dagli occhi fissi e guizza sulle labbra strette; e ne leggo la cagione nelle occhiate oblique che, al passar vicino alle stazioni, lanciano sulle signore in abito da viaggio, a piedi e in carrozza, che vanno dal lato della partenza, con un gran corredo di cappelliere e di borse. Ah, esse non appartengono, no, alla famiglia degli sbeffatori della campagna. Sono mogli e figliuole di poveri borghesi, ai quali la professione o la borsa vietano le dolcezze del “silenzio verde„, sono condannate e non rassegnate al domicilio coatto cittadino, rabbiose contro Torino, e contro la schiavitù o la pitoccheria coniugale o paterna, e contro le amiche partite, di cui prevedono, al ritorno, gli sguardi trionfanti e le interrogazioni compassionevoli. Come s'indovina tutto quel che mulinano quelle piccole teste fiorite durante le lunghe corse delle giardiniere! È il mese dei viaggi, delle gite alpestri, delle regate sui laghi, delle feste d'addio nelle case di bagni, delle chiassose scarrozzate da villa a villa, rallegrate d'incontri inattesi e d'ardite galanterie e di dolci colloqui nell'ombra e d'una gioconda libertà spensierata che la città coi suoi mille occhi aperti e la casa con le sue mille piccole cure non consentono. Tutte queste visioni danzano davanti a quegli occhi socchiusi che guardan lontano, al di sopra delle teste ciondolanti dei cavalli, in fondo ai viali lunghissimi e bianchi, l'orizzonte velato dai vapori estivi. E dietro a quelle fronti accigliate si preparano intanto le allusioni amare, le satire coperte, le rampogne, che ricadranno all'ora di desinare e di dormire, in suono di lamento o di condanna, sulle spalle d'un infelicissimo, ridotto ad aver paura della tavola e del letto come di due macchine di tortura. In verità, vedo dei bei visetti in cui la musoneria settembrina è così dura e provocante che, quando salgono o scendono, mi scanso con timore, come si fa con quegli spadaccini attaccalite che cercano un pretesto per bucar la pelle al primo venuto. E sono alle volte molte insieme, son giardiniere cariche di rancori coniugali, di polvere da guerra domestica, nelle quali mi piglia un malessere come a viaggiare in un treno che porti delle sostanze esplosive. E toccano anche a me degli sguardi ostili che dicono: — Devi essere anche tu uno di quei mariti aguzzini che fanno spasimar la moglie in città nel mese di settembre; — e se mi par qualche volta che uno di quegli sguardi s'addolcisca incontrando il mio, la mia vanità è castigata subito da uno sbadiglio mal frenato, che mi dice in faccia: — Ooooh.... non s'illuda; mi secca anche lei.
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Eppure, anche sul tranvai, aiutandosi un po' con la fantasia, si può goder la campagna. Io ci fo delle escursioni piacevolissime. Percorsi per la prima volta tutta la linea della barriera di Lanzo, e fu per me un vero viaggio di scoperta: l'osservatore s'ingrandisce il mondo. Passato il ponte sulla Dora e svoltato da via Ponte Mosca sul largo corso Emilia, si sente come il piacere dell'uscir da una folla: il respiro, lo sguardo, il pensiero più libero, un rasserenamento dello spirito che mette voglia di cantare. Attraversata la strada ferrata di Lanzo, non par più di essere a Torino. La città, a poco a poco, si traveste di gran signora in borghesuccia di campagna, spianando la fronte e prendendo un aspetto placido e ingenuo. Le case diradate si parano di lenzuola e di pezze di bimbi, come per il passaggio d'una processione; le botteghe sporgon fuori le insegne di cent'anni fa; le piazzette si congiungono con gli orti, le vie laterali si stringono in viottole che si perdono nel verde ai campi, e si va fra lunghi muri di cinta d'officine e di ville solitarie, fra assiti di giochi di bocce e larghi fossi, dove corre l'acqua fino agli orli, cantando la ninna nanna alla via che sonnecchia. Poi appaiono i primi terrazzini di legno, con le scale di fuori, le prime aie, i primi usci a cui è attaccata l'immagine d'un Santo da un lato e dall'altro un avviso della Prefettura; e qua e là vacche pascolanti, bimbi arsi dal sole e donne coi piedi scalzi; e in ogni parte una quiete, un silenzio, che il rumor del tranvai, dov'è con me un solo passeggiere addormentato, vi echeggia ed empie l'aria come lo strepito d'una corriera in un villaggio deserto. E là veggo scritto sopra un usciolo chiuso: Teatro Gianduja, e trovo degli annunzi in stampatello d'altri teatri sconosciuti: Teatro della barriera di Lanzo, Teatro Manzoni; nel quale si rappresenta Kean, sublime capolavoro di Alessandro Dumas. O che malinconia è questa che mi salta addosso tutt'a un tratto di venirmi a chiudere in una di quelle piccole case dormenti, pure sapendo che ci vivrei di tristezza, anzi appunto per viverci così, per sentir più profondamente la solitudine sul confine della città rumorosa? Tentazioni nere di soldato imbelle della vita! Ma questi pensieri volan via alla barriera, dove la piccola stazione della Madonna di Campagna, il sobborgo arioso che mi s'apre di fronte, e il via vai delle guardie daziarie, dei carrettieri e delle donne in mezzo ai carri e ai banchi di frutta e sull'alto cavalcavia della strada ferrata, mettono una vita, una gaiezza di movimento cittadino e di lavoro campestre, che m'entra nell'animo. Discendo per aspettare che si riparta, m'affaccio per curiosità all'uscio d'un carrozzone senza finestre, e là dentro, in un gruppo di fattorini e di cocchieri pasteggianti allegramente in mezzo alla batteria dei canestri, riconosco il giovane dantista, che sgranocchia una frittata col tegame in mano, e che, appena vedutomi, — Oh diamine — esclama; — come mai è venuto fin qua, ai confini del mondo abitato! Guardi, guardi che bella sala da pranzo....
e come il pan per fame si manduca.
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Il tranvai s'era già mosso quando lo fece fermare un operaio che veniva dalla parte di Madonna di Campagna, barcollando e brontolando, con la testa ciondoloni. Ci mise un bel pezzo a salire e si lasciò cascare sulla panca come un sacco. Allora soltanto riconobbi Desbottonass, che si doveva essere sborniato in qualche osteriaccia dì fuor di porta, impolverato da capo a piedi, coi capelli sulla fronte, una cicca in bocca e la cravatta sciolta. M'accorsi subito che in quei due mesi caldi trascorsi dopo l'ultimo nostro incontro la briachite cronica aveva fatto in lui dei guasti terribili. Mi fissò un momento con gli occhi imbambolati; ma non mi riconobbe. Si capiva dal modo come girava intorno lo sguardo irritato che aveva una gran voglia di attaccar lite. E l'occasione era bell'e pronta.
Quando il fattorino dantista sì presentò a domandargli: — Da due o da tre! — egli stette un po' pensando, e poi bofonchiò: — Mi voo a la Crocetta; — e senza dubbio s'era fissata quella meta lì per lì, senza un determinato proposito, per quella smania che hanno i briachi d'andar lontano, alla ventura, verso osterie sconosciute, per allargar l'orizzonte della sbornia.
— Allora, — riprese il fattorino — da tre.
L'uomo tirò fuori lentamente un soldo dalla tasca dei calzoni e glie lo mise nella mano; poi, dopo aver molto frugato in un'altra tasca, ne tirò fuori un altro e lo aggiunse al primo; e punto.
— Per la Crocetta son tre — ripetè il fattorino; — ancor uno.
Quello scattò. — Ma che tre! Questa l'è nœuva! E perchè tre?... Mi ne paghi duu.... Mi n'hoo semper pagaa duu....
E insistendo il fattorino, egli si voltò verso un signore che aveva accanto, e gli dimandò col viso sul viso: — E lù, ch'el disa, quanti ghe n'ha pagaa lù?
Il signore rispose che n'aveva pagato due.
— Ah! el ved donca.... e perchè lù duu e mi trii? Oh questa l'è ona bella giustizia!
— Ma il signore, — gli osservò il fattorino, — va soltanto fino a piazza Carlo Felice, e fa due soldi; lei va a capo linea, e fa tre.
— Ma che capo linea! Mi g'hoo minga ditt a capo linea!... Mi disi la Crocetta.... Soo nanca coss'el sia el capo linea.... El regolament el dis: — Duu! — e il resto son mangerìe.
E seguitò un pezzo, smozzicando le parole fra i denti e la cicca, declamando, apostrofando ora l'uno ora l'altro dei passeggieri. Non era chiara? Chiedevano di più per intascarli; era una camorra impiantata per spogliare il popolo; tutti parenti di Casa Mangioni. Il fattorino tentò ancora di persuaderlo, un po' sul serio, un po' ridendo; ma dovè smettere per andar da altri, e passandomi accanto mi disse piano: — Ha visto che tipo? A momenti lo piglio per la cuticagna; non c'è altro. — Poi ritornò da lui e ricominciò la prova.
Ma quello non gli badava, inveiva contro un biciclista che accompagnava da un lato la giardiniera, come un cavaliere di scorta a una carrozza, discorrendo tranquillamente con un passeggiere suo amico, seduto all'estremità d'una panca. Quell'accompagnamento in bicicletta, non so perchè, pareva a Desbottonass un abuso enorme, una intollerabile mancanza di rispetto alla “compagnia„. Gridava al biciclista che se n'andasse per i fatti suoi, che l'era minga permess, ch'egli non aveva mai visto un'impertinenza simile.... Poi, tutt'a un tratto, balzò in piedi, e appoggiandosi alla spalliera davanti come a una tribuna, gridò ai baracconi di Porta Palazzo: — Mi sont de l'opposizion! — e ripiombò sulla panca.
Dopo un po', il fattorino ricominciò a ragionarlo, e pareva già quasi persuaso, quando in piazza Carlo Felice, essendo salito accanto a lui un signore che pagò due soldi per la Crocetta, egli mise un grido di trionfo: — Ah! el ved donca.... quest chi el và a la Crocetta e ne paga duu.... Ma se 'l disevi!... E mi trii, eh, fiœui de cani, e mi trii? E perchè mi trii?
— Ma il signore è salito qui, — rispose il dantista, — e lei ha già fatto due terzi di strada. Animo, tiri fuori il soldo; vuol obbligarmi a chiamar le guardie? — E, ripassandomi accanto, mormorò: — O sovra tutte mal creata plebe! Veda con che razza d'animali abbiamo da fare! — mentre che l'altro continuava a barbugliare: — La reson l'è la reson.... el regolament l'è el regolament.... E ben venga la forza.... Se se paga duu, se paga minga trii. Oh fiœu d'on todesch!...
Come sia andata a finire non so; l'uomo tornava a dichiarar solennemente di appartenere all' opposizion quando io discesi dalla giardiniera, rattristato d'aver ritrovato un gran tratto più giù sulla china dell'abbrutimento quell'operaio che doveva esser stato buono, onesto e intelligente; turbato dal pensiero che tutti gli sforzi coi quali si combatte il vizio orribile non ne impediscano in alcun paese l'incremento mortale; oppresso dal dubbio che ogni lotta col mostro debba riuscire inutile, che l'umanità sia sospinta come da una condanna fatale ad un segno, da cui l'immaginazione rifugge atterrita....
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Son queste le linee ed è questo il mese in cui più sovente si fanno lunghi tratti di corsa senza compagnia o con un compagno unico; nel quale occorre spesso d'osservare l'espressione d'un sentimento curioso, somigliante a quello che si prova in certi giardini o sale splendide di grandi palazzi, quando vi si è soli: l'illusione fugace della padronanza, la compiacenza immaginaria della ricchezza e del fasto. Si vedono di questi passeggieri solitari, contenti e alteri d'esser tirati per mezzo miglio da due cavalli che paiono correre per loro soltanto, con un cocchiere davanti e un fattorino di dietro, che hanno l'aria d'esser lì al loro servizio esclusivo; e si leggono sul loro viso dei soliloqui fantastici di gran signori. Dove si potrebbe comprare per dieci centesimi un altro così dolce diletto della fantasia? E sono anche i tratti di strada in cui fattorini e cocchieri, liberi dal pubblico e felici di quella breve libertà, chiacchierano, solfeggiano, fischiano, salutano allegramente i colleghi che passano sugli altri carrozzoni vuoti, e si lanciano a vicenda frizzi e saluti; nei quali si manifesta quella familiarità fanciullesca che stringe tutti coloro che hanno comuni occupazioni e noie e argomenti di riso, di lamento e di critica, siano essi deputati o soldati o commedianti o collegiali. Sono gli “incerti„ piacevoli, le ore di ricreazione di questi poveri servitori di tutti; durante le quali, se gli riesce d'agguantare qualche ascoltatore, il fattorino Carlin vuota con un gusto matto il sacco di una intera settimana. Lo feci parlare per un pezzo in una di queste corse solitarie, e compresi meglio che mai quale strana, mostruosa confusione tutte quelle varie notizie di politica, di scienza, di viaggi e di avvenimenti pubblici, ch'egli attinge giorno per giorno dalle gazzette o dai discorsi dei passeggieri, possano produrre nel cervello d'un uomo del popolo, in cui alla mancanza della cultura necessaria a comprenderle e a coordinarle s'unisca un certo ingegnaccio naturale e un'immaginazione vivace. In pochi minuti accennò e commentò tutti i fatti principali del mese, collegandoli coi più bizzarri ragionamenti e tirandone le più stravaganti deduzioni che si possano immaginare. Nei terremoti dell'Islanda e di Messina, nelle inondazioni del Ferrarese e nel ciclone di Messina egli vede gl'indizi di qualche cosa di guasto nella macchina del mondo, i segni coordinati d'uno sfacelo universale, che lo impensieriscono seriamente. — Che cosa accadrà? E tutta questa gran scienza non può proprio far nulla per prevenire quello che sta per accadere? — Poi si lancia d'un salto nella politica con la mancanza assoluta, propria dei bambini e degli uomini incolti, di quel pudore intellettuale che impedisce a noi di saltar da un argomento importante ad un altro, per non mostrare d'aver esaurito sul primo tutte le nostre idee e d'essere incapaci d'insistere a lungo in un solo pensiero. Si è varata alla Spezia la corazzata Carlo Alberto e a Sestri l'incrociatore Colon, destinato alla Spagna; dunque c'è un'alleanza della Spagna con l'Italia. Si parla del trattato italo-tunisino: dunque una nuova triplice: l'Italia, la Spagna e la Francia. Contro chi? E poi un altro salto. Quel Nansen che ritorna, tanto festeggiato, a Cristiania, ha scoperto un nuovo mondo, non è vero? Si discorre in questi giorni della scoperta dell'oro nella Nuova Zelanda: ecco la scoperta del Nansen: un mondo pieno di tesori. Ed ecco, forse, perchè i Sovrani russi si dirigono verso la Danimarca e la Norvegia, che son da quelle parti: per accaparrarsi l'oro pei primi: è chiarissima. E tirò via in questo modo, fabbricando ogni specie di castelli informi coi materiali disparati e monchi che s'ammucchiavano nel magazzino semioscuro della sua testa; ed io, visto che le mie spiegazioni non facevan che accrescere il disordine dei suoi concetti, pensavo sospirando, senza più interromperlo, che fin che le migliorate condizioni dei lavoratori non aprano a tutti gli adulti la scuola, ci sarà sempre nel mondo la stessa quantità d'ignoranza, o una ignoranza idropica di idee dimezzate e confuse, nella quale è forse più difficile d'innestare un'idea netta che nei cervelli vergini d'ogni coltura.
Maraviglioso Carlin! Il suo cervello è in uno stato permanente di ebullizione, e ci bolle un po' d'ogni cosa; ma son pur sempre i sogni e i propositi di guerra quelli che gli vengon su più di frequente. Altri seicento armeni macellati a Karput! Ma quando finirà questa storia infama? — Ah giuraddio! — esclama, stringendo il pugno. — Andar là coi nostri “colossi marini„, correre tutte le rive maledette, e bum e bum e bum, far saltare in aria e bruciare ogni cosa fin che non resti un brandello d'un turbante sulla faccia della terra! — E detto questo, dà di mano al suo taccuino e segna i biglietti con un viso risoluto come se facesse il conto dei cannoni occorrenti all'impresa; poi, rimesso il taccuino nella borsa, si pianta sulla piattaforma con le braccia incrociate e con gli occhi fissi all'orizzonte, nell'atteggiamento d'un ammiraglio che spia dal ponte della corazzata le fortezze nemiche.
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E qui mi toccò un periodo (non il primo nel corso dell'anno) somigliante a quei numeri di giornali della stagione morta, nei quali non si trova da cima a fondo un cencio d'articoletto o di notizia, non una riga di cronaca, non una parola che c'importi un'acca, come se la vita del mondo, che il foglio rispecchia, fosse sospesa. Chi non ha esperimentato sui tranvai di questi periodi morti? Per vari giorni non ci trovate un uomo singolare, una donna bella, un bambino attraente; vi son tutti sconosciuti i passeggieri come se la popolazione della vostra città si fosse barattata con quella d'un'altra; tutti frontespizi nuovi, per uno strano caso, gl'impiegati; e nè un accidente, nè un discorso, neppure un inconveniente di servizio, nulla assolutamente che rompa l'uniformità delle vostre corse, come se la gioventù, l'amore e l'allegria avessero abbandonato l'“istituzione„ vecchia decrepita oramai, e sul punto di morire alla sua volta, come gli omnibus di antica memoria. Non vidi altro di notevole che una giardiniera, sulla linea di San Secondo, tutta occupata da povere vecchie dell'Ospizio di Carità, per le quali era il giorno settimanale d'uscita, vestite tutte di grigio e curvate come da un vento che soffiasse dietro, e sopra quella carrozzata di secoli, segnati sui visi da migliaia di rughe, un grande annunzio arcato, in cubitali caratteri bianchi su fondo azzurro, che diceva: — Biblioteca romantica Sperani. — Finalmente, una domenica, trovai sulla linea di Madama Cristina il buon falegname propagandista, con la sua eterna giacchetta di velluto stinto, stretto in un vivo colloquio con un fattorino tarchiato e barbuto, dalla testa enorme, piccolissimo di statura, che gli arrivava appena con la fronte alle spalle.
Al primo sguardo indovinai che lo stava catechizzando, e pensai che fosse una sua consuetudine di valersi di quelle ore morte del servizio per portare il verbo tra gl'impiegati del tranvai. Appena mi vide, in fatti, mi venne accanto, e m'accertò che non m'ero ingannato: egli faceva delle corse apposta per predicar la sua fede a fattorini e a cocchieri, e n'avea già convertiti parecchi. Soltanto quello là, quella specie di nano irsuto, che non rideva mai, era duro e resistente come un masso, per motivo di quattro palmi di mota e di sabbia che possedeva sulla riva del Tanaro, dalle parti d'Alba: una proprietà ridicola, che spariva ogni tanto sotto l'acqua e che non gli rendeva la croce d'un centesimo; ma che aveva piantato nel mezzo, come un albero di bastimento naufragato, un grande faggio, da cui egli sperava di ricavare, abbattendolo, una sessantina di lire. — È un uomo che capisce, — mi disse — non è mica corto di comprendonio.... Seguita il mio ragionamento: da una cooperativa di produzione, di consumo e di mutuo soccorso a un gruppo di cooperative di corporazione, e poi a un gruppo di gruppi, e via via, dai comuni alle province, dalle province a tutto il paese. L'idea gli piace e si capacita. Soltanto, quando si passa dalla proprietà industriale a quella della terra, ecco che gli si drizza davanti l'albero, e lui ci s'attacca, e non c'è più verso di smoverlo. — Quell'albero era per il fattorino l'ultimo e invincibile argomento in contrario all'Idea; il fusto di quel faggio si cacciava in mezzo ai congegni della nuova gigantesca macchina sociale, che pure egli ammirava, e ne arrestava di punto in bianco il movimento enorme, sconquassando ogni cosa. E mentre il falegname diceva questo, fissando per di dietro il fattorino che s'era scostato, io capivo che col pensiero egli non vedeva la persona, ma l'albero maledetto, il supremo impedimento alla sua conquista, il grande nemico, e che escogitava il modo di abbatterlo facendo un lavorìo vivace dell'immaginazione, visibilissimo nei moti impazienti delle dita, con cui si tormentava il barbone rossastro e stropicciava un pacco d'opuscoli che teneva in mano. Gli domandai dove andava: mi rispose, battendo la mano sugli opuscoli, che andava a distribuirli all'estremità di Borgo San Salvario, dove degli amici l'aspettavano. E quell'idea gli risvegliò tutt'a un tratto un ricordo, che gl'illuminò il viso e gli fece dare una risata; il ricordo d'un suo trionfo, d'uno di quei tiri fortunati ch'egli faceva alle autorità, e che erano la sua gloria. Oh, un'avventura impagabile. La polizia aveva fatta un'apparizione nella sua bottega, sospettando ch'egli ci tenesse un deposito d'opuscoli proibiti. Di roba proibita egli non ci aveva nulla e nemmeno di roba permessa, perchè i libri e i giornali non li teneva lì; e strizzò un occhio. Il brigadiere aveva adocchiato e frugato per tutto senza trovare il più piccolo pezzo di carta stampata. Ma proprio sulla parete di fronte all'uscio era attaccato un gran Calendrier de l'an 1896, nel quale era segnato a ogni data, con una parola fiammante di commento, un avvenimento socialistico. Il brigadiere ci aveva dato un'occhiata e, credendolo un calendario innocuo, era passato oltre e se n'era andato via, salutando lui con buona maniera. Ah, che farsa! A quel ricordo lo assaliva una ilarità irresistibile, una gioia come s'egli avesse fatto all'autorità uno di quei tiri magistrali, superbamente buffi e temerari ad un tempo, che rimangono nella storia delle grandi astuzie rivoluzionarie, a perpetuo ludibrio delle tirannidi. E ne rise per un pezzo fregandosi le mani e rinsaccando il capo nelle spalle. Poi si fece serio ad un tratto per parlarmi del congresso femminista internazionale di Berlino, perchè era pur sempre la questione della donna il primo dei suoi pensieri; e a questo proposito mi fece vedere sopra un taccuino logoro certe sue sentenze contro la pornografia, scritte con la matita, in carattere minutissimo. In fine, quando discesi all'angolo del Corso Valentino, porgendomi la sua grossa mano, mi disse all'orecchio, con quel suo vocione di basso: — Ora ritorno all'albero.... Oh, ci lavorerò anche sei mesi, ma lo butterò giù.... Glielo farò sapere. — E dalla piattaforma, quand'ero già sulla strada, mi fece ancora, ridendo e strizzando un occhio, l'atto di chi vibra un colpo d'accetta in un tronco.
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Due giorni dopo, sulla linea di Nizza, cascai sopra Tempesta. Ecco un soggetto che il buon falegname non convertirà mai. Era in un periodo di furor nero contro le biciclette per via d'un caso occorsogli la settimana addietro: d'un biciclista avventato che, volendo attraversare il binario al sopraggiungere del tranvai, era stato urtato dal parapetto anteriore e buttato a terra con le gambe in aria. Il danno e il malanno eran stati tutti dalla parte sua: la macchina in pezzi, la testa fessa e uno spavento maiuscolo, senza neanche la consolazione di poter gridare un — Si prutesta — come quel tale della banda di Cécina, nel sonetto del Fucini. Eppure Tempesta n'avea perso i lumi, come se avesse fatto lui il capitombolo. Da una settimana, mi disse il fattorino, non sbolliva più. La vista d'una bicicletta gli faceva erompere dalla gola dei fasci di saette. E quel giorno pareva che i biciclisti si fossero dati convegno in via Nizza per tafanarlo. Egli li vedeva spuntare in fondo alla strada a una distanza incredibile, come i gauchos vedono i nemici all'orizzonte della pampa, ne accompagnava la corsa con un monologo imprecatorio, li apostrofava al passaggio, e quando qualcuno correva per un tratto accanto alla giardiniera, squadrava con la coda dell'occhio le ruote, stringendo i denti, come se si rodesse di non poterci dare delle pedate. Lo irritavano in special modo i biciclisti attempati. — Passa via, vei balotta! — Scendi giù, vecchio deposito! — Che il diavolo ti porti te e il tuo ciarafi! — Allo sbocco di via Burdin passarono due signore, e contro queste non imprecò; ma il sorriso sardonico con cui si voltò a guardarle era da dipingere: valeva un libello di venti facciate. Poichè dovevo andare dal mio amico Licia, direttore della Torinese, mi godetti lo spettacolo fino alla barriera, dove ci venne incontro di fuori porta un nuvolo di biciclette, e Tempesta, sopraffatto dai nemici, non potendo più inveire contro ciascuno, dovette ricorrere alla maledizione collettiva, gettata intorno a ventaglio, come semente di disgrazia. E lì ebbi una sorpresa. Feci la conoscenza della sua famiglia: la moglie e due ragazzi fra i cinque e gli otto anni, che l'aspettavano col canestro della colazione. Avevo tante volte pensato alle povere vittime condannate alla sua convivenza, che, vedendole finalmente, mi feci a guardarle con pietosa curiosità. Ma ebbi un senso di sollievo. Ah, erano tipi da poterci reggere. La moglie pareva sua sorella: una tarchiatona di viso sanguigno e fiero, coi capelli per aria, con due occhi di lottatrice, capacissima di far fronte alle sue furie, e non soltanto a parole; i figliuoli, rassomiglianti a lui a un segno da far ridere, due facce strane e torve da ragazzi del Dorè, due predestinati provocatori della Società protettrice delle bestie, ai quali si capiva ch'era già familiare una gran parte dei moccoli paterni. La moglie gli porse il canestro con un gesto virile; egli lo afferrò con un grugnito e, sedutosi sul predellino, si mise a mangiare senza far parola, dando delle ganasciate da orso, sotto gli sguardi fissi dei due orsacchiotti, accigliati e silenziosi. — È il solo momento della giornata in cui si queti —, disse il fattorino, che l'osservava con me, un po' discosto. E soggiunse sorridendo, con un certo accento benevolo: — Rustica progenie.
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Trovo qui fra gli appunti, sotto il titolo di rustica progenie, varie osservazioni fatte in quei giorni sulla cortesia degli uomini con le donne sulla carrozza di tutti, e in special modo sull'usanza di cedere a queste il posto da sedere; alla quale io non credevo che ci fossero ancora tanti ribelli, e non in una sola classe sociale. E che amena varietà c'è anche in questa maniera di villania! Il buon Valentino Carrera, che aveva in petto un libro su I villani in Italia, avrebbe raccolto sui tranvai un tesoro di documenti. Ci sono gl'incoscienti che, stando seduti dentro a tutto comodo, guardano in aria d'ammirazione la bella signora ritta sulla piattaforma a due passi da loro, senza un sospetto al mondo di premere con le natiche il Galateo, e quelli che restan seduti per pigrizia invincibile, ma che ne senton vergogna e sfuggon gli sguardi della postulante, fingendo di non accorgersi della sua presenza. Ci son quelli che s'alzano per le signore, ma non si scomodano per le donne del popolo, e quelli che cedono il posto alle giovani e lasciano sui pioli le vecchie. E c'è chi nella villania raggiunge il sublime: chi sta seduto proprio con la signora ritta davanti a lui e barcollante, costretta ad afferrarsi alle maniglie in alto per non cadere, e qualche volta con un bimbo in braccio o.... nascosto. Ma il caso più comico e più memorando fu quello che vidi in via Garibaldi il giorno stesso della mia corsa con Tempesta. Era notte, pioveva a dirotto; dentro al carrozzone chiuso, dove non c'era più posto, discorrevano con giovialità rumorosa cinque o sei omoni dell'aspetto di grassi negozianti, che alle facce vermiglie, luccicanti sotto il raggio della fiammella, parevano usciti da una ribotta; e sulla piattaforma posteriore stavano in piedi due signore, a cui il vento sbatteva la pioggia sulle spalle. Quegli allegri amiconi, seduti vicino all'uscio, non solo le vedevano, ma lanciavan loro ogni tanto delle occhiate di curiosità galante; ed esse, celiando, ci facevan su dei commenti esclamativi: — Oh che cavalieri! — E pare anche che ci canzonino! — E ci vuole una bella disinvoltura! — Ma furono per ricredersi a un tratto vedendo uno dei cavalieri alzarsi un po' dalla panca e tendere la mano verso la maniglia interna dell'uscio.... Che baie! Il cavaliere gentile non fece che chiuder meglio perchè non passasse il vento pel fessolino. E allora le due signore diedero in uno scoppio di risa cordiale, a cui fecero eco gli altri passeggieri ritti intorno a loro, mentre nel carrozzone ripigliava più allegro il cicaleccio fra i faccioni rossi e luccicanti, beati di star lì dentro, a bell'agio, al riparo dalla pioggia che immollava il bel sesso Latin sangue gentile.
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Ed ecco un'altra volta il conte, a proposito di cortesia. Il carrozzone chiuso correva per via Cernaia, a notte fatta, sotto una pioggia minuta. C'era in mezzo a noi, sulla piattaforma affollata, il nobile fattorino che, allungando le mani bianche al disopra delle spalle dei passeggieri, pigliava i soldi e porgeva i biglietti con la sua solita garbatezza timida e premurosa di novizio zelante. Un signore con due gran baffi a roncolo, mio conoscente di saluto, gli diede un biglietto da una lira sbiadito. Quegli lo alzò di contro al fanalino e lo esaminò attentamente. Il signore se n'ebbe a male e disse forte: — Bella maniera.
Il fattorino arrossì. — Io debbo assicurarmi, — rispose.
— Ma che direbbe lei, — ribattè l'altro, — se io esaminassi il suo resto in quella maniera?
— Ma.... — rispose il fattorino timidamente — direi che è padrone di farlo.
— Già — replicò il signore — ciascuno intende la delicatezza a suo modo.
Il fattorino lo guardò un momento, chinò il capo come per inghiottire la pillola, e si scostò.
Allora io dissi al mio conoscente che quello era un conte, un conte autentico, e glie ne feci il nome. Credette che celiassi; gli accertai la cosa, e allora, rimasto un po' sopra pensiero, esclamò: — Ma! Non lo potevo immaginare. — L'accento di quella esclamazione mi colpì. Era spontanea, esprimeva un senso di rammarico, voleva dire, insomma: — Se l'avessi saputo, sarei stato meno duro, o non avrei detto nulla. — Curiosa! E perchè? mi domandai. Perchè quello ch'egli credette uno sgarbo, venendogli da un conte, che deve dare a ogni atto il suo peso, non l'offende di più che venendogli da una persona incolta e volgare, in cui si può supporre inconscienza della sgarbatezza? Perchè gli duole di essere stato scortese e ingiusto soltanto perchè l'offeso è un par suo, o di famiglia più signorile della sua? — Ma subito, interrogando me stesso, pensai che se fosse occorso a me un caso eguale, avrei forse fatto irriflessivamente, mosso dallo stesso sentimento ingiusto, la stessa esclamazione illogica. — E per qual ragione? — Ma per nessuna ragione! Quelle parole di rammarico sarebbero state in me, come in lui, la voce improvvisa di certe idee sepolte, ma non morte, di vecchi sentimenti ereditati, confusi, ravvolti nell'animo nostro dentro alle idee e ai sentimenti nuovi d'eguaglianza e di giustizia, rimpiattati in una parte di noi che noi stessi ignoriamo, e di cui restiamo stupefatti quando per caso e per un momento ci si discopre; la voce d'una coscienza antica, nella quale non penetra che a lampi e di rado il nostro pensiero, ma che, se la scrutassimo a fondo, ci chiarirebbe come non tutta la resistenza ostile che si oppone nel mondo alle nostre più alte aspirazioni umanitarie e civili si eserciti fuori di noi medesimi, come anche il più ardente apostolo delle nuove idee porti rannicchiato nel cuore un nemico della propria fede.... E mi confermai in questo pensiero osservando che il signore dai baffi a roncolo, quando il conte ricomparve, evitò il suo sguardo.
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25. Giornata morta. 26. Sine linea. 27. Domenica. Suor Teresa, dramma in cinque atti, rappresentazione diurna. — Dall'Arena torinese sgorga sul Corso San Maurizio un'onda umana, e salgono tre coppie matrimoniali sulla giardiniera, dove non c'è più posto che per loro. L'ultima siede davanti a me.... To'! I miei due piccoli sposi di borgo San Donato. Ho tanto pensato e penso così spesso a loro che mi pare strano che non mi conoscano, che non mi salutino come un amico. O povera donnina! E che idea le è venuta, nello stato in cui si trova, d'andare a farsi straziare il cuore dalla monaca agonizzante del Camoletti? L'ultima scena l'ha fatta singhiozzare, il suo petto ansa ancora, i suoi occhi sono ancora gonfi di lacrime; e la pallidezza del suo viso dice che la commozione è stata troppo forte, che essa è andata a un punto dallo svenire, e lo dice anche la sollecitudine ansiosa e amorosa con cui suo marito la cova con gli occhi e la riconforta. — La colpa è mia, — le dice, — non ti ci dovevo condurre. — Ma no, essa lo scusa, e incolpa sè; è lei che ebbe la prima idea, e d'altra parte, benchè abbia sofferto, non se ne pente. È la prima volta che sento la sua voce buona, umile, un po' velata, e come stanca; la quale forse tra un mese, forse tra pochi giorni, si farà anche più dolce e più carezzevole per dir mille parole d'amore al capezzale della culla che già aspetta in casa sua. Vecchio fanciullo incorreggibile! O non ho messo tanto affetto a questi due poveri giovani sconosciuti da pensare con inquietudine al giorno che essi sospirano, e che potrebbe essere un giorno di sventura? La buona donnina è così poca cosa che, a guardarla, debbo scacciar quel pensiero per non cedere al presentimento triste di non averla a riveder mai più dopo quest'oggi. E appunto, mentre il tranvai svolta sul corso Margherita, vedo allontanarsi giù per il viale del Regio Parco un piccolo carro funebre nudo, seguitato da due sole persone. Povera donnina! Il suo, forse, sarebbe seguitato da una persona sola. Ma per uno di quei bruschi mutamenti che son propri delle donne in quello stato, tutt'a un tratto essa s'asciuga gli occhi e si mette a ridere; egli tira un sospiro e sorride; e il mio presentimento svanisce. Come volentieri sporgerei il viso fra quelle due teste e direi loro: — Non lo sapete che sono un vostro amico? Mi volete per padrino del vostro bimbo? — Ed eccomi, vecchio fanciullo incorreggibile, a lavorar d'immaginazione su quella traccia. — Come continuerei? Che cosa direbbero? Che penserebbero di me? — Eppure.... un giorno o l'altro farò quel colpo; lo prevedo.
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Un altro par di teste, fra le quali non avrei voluto sporger la mia, lo vidi due sere dopo, a notte chiusa, in una giardiniera di via Garibaldi; una coppia in tutt'altra condizione psicologica da quella dei miei due sposi. Quantunque, stando ritto sulla piattaforma davanti, li vedessi in faccia a tre panche di distanza, non li riconobbi subito, perchè l'uomo era sotto “mentite spoglie.„ Solo in un punto che mi si presentarono tutti e due di profilo, voltandosi l'un verso l'altro per barattare una parola, ravvisai il bel capitano, in abito borghese, elegante come un figurino, e la moglina ipotetica dell'impiegato delle Poste (lettere raccomandate). Ahimè! Tutto finisce. Alla prima occhiata vidi sui loro visi l'annunzio nero della felicità defunta. Dovevano essersi scambiati, durante la corsa, delle frasi di un sapore “di forte agrume.„ Essa aveva l'aria afflitta e pareva ancora agitata; il viso di lui non esprimeva che una noia compressa, la quale cercava delle vie di fuga in rapidi sguardi lanciati a destra e a sinistra sui caffè illuminati, sugli ufficiali “liberi„ che passavano sui marciapiedi, sulle signore chiaro vestite che si scansavano al passaggio della giardiniera; e lo sguardo di lei, ogni tanto, accompagnava il suo, come per vedere dove s'andasse a posare. A un certo punto, senza voltarsi, essa gli disse una parola, uno di quei monosillabi, m'immagino, che sono come lo scoppio improvviso d'un lungo soliloquio muto, ed egli le voltò un poco la spalla, rovesciando il viso indietro e alzando gli occhi al cielo della giardiniera, come per invocare il soccorso d'un Santo protettore. Non rifiatarono più. Ma v'è nell'atteggiamento di certe persone sedute l'una accanto all'altra qualche cosa d'indefinibile, da cui si capisce che i loro spiriti sono divisi. Essi mi davano l'immagine d'un tronco spezzato in due parti, le quali si toccano ancora, ma mostran la linea della spaccatura. Il tranvai era stato il carro di trionfo, ed era allora il carro funebre dei loro amori. Chi sa quante coppie consimili, quanti altri amori morti o moribondi portavano in giro quell'altre giardiniere affollate e illuminate, che correvano davanti, accanto e di dietro; amori che, come quello, eran nati sulla carrozza di tutti, e ci s'eran dati i primi ritrovi e ci avevan provato i primi terrori d'essere spiati e inseguiti e pagato dieci centesimi le loro prime dolcezze! Chi sa quanti altri amori avevano preso quella sera l'ultimo scontrino! Quando, uscendo da questi pensieri, tornai a voltar lo sguardo alla panca, Marte era volato via, e Venere, tutta sola, guardava lontano davanti a sè, con gli occhi torbidi e fissi, che parevan dire l'ultima parola dell'annunzio funebre apparsomi alla prima occhiata sul loro viso; — Una prece.
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Era quella una serata limpida e fresca, come di primavera. Non ricordo d'aver mai goduto come in quell'ora lo spettacolo mirabile che presenta una città grande, vista così dal tranvai, in una bella notte d'estate. Sotto le lunghe ghirlande di lampade voltaiche sospese in alto sul mezzo delle strade, corrono i fanali delle altre carrozze, somiglianti a grandi occhi rossi, verdi, bianchi, azzurri di grandi teste invisibili, che ci vengano incontro di lontano; i mille lampioni delle piazze e dei viali, fiammeggianti da ogni parte tra il fogliame degli alberi, danno alla città l'apparenza d'una vastità infinita, e quella moltitudine di gente che si vede di sfuggita, affollata davanti ai caffè, a crocchi sugli usci, a gruppi sui terrazzi, a processioni sui marciapiedi, quei visi innumerevoli che ci passano accanto, ora imbiancati dalla luce elettrica, ora velati dall'ombra, ora dorati dal gas, ora neri nell'oscurità, ora mezzo accesi dai fasci di luce che erompono dalle botteghe, paiono d'un popolo fantastico, vivente in una vicenda continua di giorno e di notte, sotto un cielo in cui danzi senza legge una pleiade di lune. E qua e là appaiono altri contrasti lontani di chiarori diffusi e di oscurità fitte, di masse brune di vegetazione, che offrono aspetto di boschi stelleggiati dai fuochi d'un bivacco, e di ampi spazi aperti in cui s'inseguono e s'incrociano stelle multicolori, di file di case confuse in una sola enorme muraglia nera e di schiere di palazzi su cui par che batta la luce dell'alba. E a fuggir così fra quei mille giochi di luce, in mezzo a quel brulichìo di gente riposata e svagata, in quell'aria profumata dall'erbe e dai fiori dei giardini, nella quale si succedono e si confondono note di cantanti di caffè, suoni d'orchestre di birrerie, ritornelli di canzonette popolari e musiche erranti di mandolini e di fisarmoniche, sembra d'attraversare una città maravigliosa, dove rida una festa perpetua e siano sconosciuti gli affanni, le fatiche e la miseria. Ma si rompe l'incanto se osservate il fattorino e il cocchiere. Ah, i loro visi stanchi, in cui gli occhi si chiudono, le loro povere gambe, ritte dalle quattro della mattina, che irresistibilmente si piegano, e la loro voce fioca e sonnolenta vi richiamano al pensiero la moltitudine di tutti quegli altri che, mentre una parte degli abitanti corre ai piaceri, posano le ossa affrante sopra un povero letto, per ridestarsi prima dell'alba a una rude vita di lavoro e di stenti.
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Era una serata, l'ultima di settembre, limpida e fresca come quella, quando sulla giardiniera di corso Vinzaglio, salendo all'angolo di via Cernaia, trovai un buon amico mio, cav. avv. prof., e giornalista pieno d'arguzia, con due ragazzine; delle quali riconobbi subito la più grande, figliola sua; la sola ch'io sapevo che avesse. Era disceso allora alla stazione di Porta Susa, venendo da una sua villa dei dintorni d'Ivrea a ricondurre a casa la figliuola d'un suo parente, ch'egli aveva ospitata per una settimana. — Lei lo deve conoscere, — mi disse. Era la figliuola di Siapure! Stava seduta davanti a me, in modo che la sua treccia bruna cadente toccava quasi le mie mani appoggiate sulla canna; si voltò in quel momento, e la riconobbi. Era cresciuta assai nei tre mesi da che non l'avevo più vista, e dai suoi begli occhi neri, che si fissavano nei miei, compresi che anche la sua intelligenza doveva aver fatto un gran passo. Tirai il discorso a un altro argomento; ma per tutta la corsa non potei più staccare il pensiero da quella bimba; la quale, voltatasi di fianco per ascoltare la nostra conversazione, continuava a fissarmi in viso i suoi occhi intelligenti e buoni, come se comprendesse che, pure parlando d'altro, io pensavo a lei e a suo padre. Mi guardava, col capo un po' inclinato dalla mia parte, come se volesse dirmi: — Oh, tu parlerai questa volta; tu mi dirai di salutarlo; sarò io che porterò la parola della riconciliazione; dilla dunque una volta quella buona parola. — E anche questa volta la buona parola mi venne alle labbra dieci volte, e dieci volte la rattenni. Mi dicevo: — Quando il tranvai sarà all'angolo di Corso Oporto, la dirò. — E poi: — Quando sboccherà sul Corso Vittorio Emanuele. — E poi: — Quando saremo vicini al monumento. — Ma al buon punto la parola restava dentro, e ne pativo, e quella treccia che ogni tanto mi sfiorava la mano mi dava il senso della punta d'un dito che mi stimolasse, e quegli occhi fissi pareva che mi dicessero sempre più dolcemente: — Ma parla; non hai che da dire: — Saluta il babbo, — e tutto sarà finito, e tornerete buoni amici come prima, perchè vi siete sempre stimati e voluti bene. — Ah svergognato! S'era passato già il Corso Umberto e non avevo parlato ancora; l'amico doveva scendere in piazza Carlo Felice; non mi restavano che tre minuti, avevo sdegno di me, e pure sentivo che non avrei fiatato. Ma da che può dipendere il fare o non fare una buona azione! Quando fummo vicini alla piazza, dall'orchestra all'aria aperta del Caffè Mogna mi venne all'orecchio il motivo della sinfonia dei Vespri, quel motivo largo e dolce, che è uno dei primi ch'io ritenni da ragazzo, e che sempre mi ridesta mille ricordi della fanciullezza, le prime commozioni del teatro, mia madre giovane affacciata al palchetto, la scena riveduta in sogno, un misto d'immagini liete e tristi, confuse, lontane, come d'un'altra vita. O musica benedetta, nobile amica, misteriosa e benefica ispiratrice di bontà e di gentilezza!
— Bambina, saluta tuo padre per me....
E il suo sì vivo e soave mi parve una nota di quella musica.
CAPITOLO DECIMO.
Ottobre.
Sulla soglia dell'ottobre trovo un controllore colosso, che è uno dei più bei tipi ch'io abbia intoppati nell'annata. Tocca col capo il cielo del carrozzone, con le spalle chiude gli usci e ferisce in viso i passeggieri con le punte di due baffi enormi, che paiono due S da cartellone d'arena. Fu carabiniere, ed è ancora; non ha fatto che mutar divisa; presta il nuovo servizio con gli stessi modi e con lo stesso linguaggio che usava nell'antico. Ha un aspetto terribilmente severo. Quando si pianta in faccia a un passeggiere, par che lo voglia invitare a declinar le generalità, ed esamina lo scontrino come un passaporto, e glie lo rende fissandolo in viso, come se dicesse fra sè: — Costui mi ha l'aria d'un pregiudicato. — Non attacca discorso, non sorride con nessuno. Non intesi ancora che due parole sue, e furono una frase carabinieresca: disse bruscamente a uno che stava ritto sul predellino: — È difeso! — Ho un forte sospetto che porti in tasca un par di manette. Certo, tutte le sue idee sociali e politiche sono in armonia col suo essere visibile. E io penso, guardandolo, al grande numero di quegli altri cittadini che dalla forma della professione o mestiere o stato in cui furono chiusi per caso riescono modellati moralmente in quel dato modo come quei bimbi che si facevan crescere dentro vasi di varia foggia quando fioriva l'industria dei mostricciattoli e dei balocchi umani, e vedendo all'opera con la fantasia le fabbriche innumerevoli di spiriti conservatori che la società tiene in moto, dico che hanno da lavorar molto e bene le officine avverse per far concorrenza efficace a una produzione così vasta, forte di tanti privilegi e avviata così bene. Mi apparve per la prima volta questo controllore Golia sulla linea di Vanchiglia, dove, avendogli fatto aspettare un pezzo lo scontrino che non trovavo, me lo restituì, dopo un serio esame, dandomi uno sguardo profondo, che pareva dire: — Te tegnerò d'oeucc! — Mentre si voltava, gli vidi dietro un orecchio una cicatrice: forse d'una coltellata tiratagli da qualche arrestato ribelle. Quando discese, rimase ancora un momento duro come un pilastro in mezzo alla strada, a guardare con occhio sospettoso il tranvai che s'allontanava, come avrebbe guardato in altri tempi una carrozza cellulare non ben sicura....
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Dopo questo spauracchio per vari giorni non trovai che gente contenta. L'ottobre si presentava col sorriso in fronte. Il primo fu il mio buon Giors, sulla linea di Vinzaglio, allegro e fresco come la mattinata. Gli domandai subito della moglie. Guarita! Guarita da un pezzo, salda sui trampoli, ardita come una sposa, e sana anche la frittura, tre sacchetti senza fondo, una rovina quotidiana. E, sorridendo, soggiunse in un italiano suo proprio una frase proverbiale che gli avevo inteso dire altre volte: — Tuto va bene, trane la gran miseria; — e si provò a fischiare il motivo della Carmen, ma senza riuscirvi. Poi mi diede notizie della veja, e poichè non capivo a chi volesse alludere: — Non si ricorda? La vecchia di Pozzo di Strada, quella del soldato d'Africa, che si mise a piangere a veder la battaglia stampata? Matta dalla contentezza, la povera vecchia! — Era stata nel tranvai quella mattina: un'altra faccia; pareva risuscitata; il figliuolo era vivo; le avevan mandato dal Ministero degli “affari della guerra„ per via del Comando del distretto, un pezzetto di carta sporca con quattro parole del ragazzo prigioniero, un foglio arrivato di laggiù, da ca' del diau, in un gran pacco, con molte altre lettere, che aveva raccolte e spedite quel prete mandato dal Papa. Ma proprio fuor di sè, da parere che avesse alzato il gomito, felice da allargare il cuore a vederla, povera anima tribolata! Portava il foglietto in seno, in un portamonete di pelle di pecora, e l'aveva fatto vedere a lui, e lo faceva vedere a tutti. — È venuto il foglio, va bene; ma quando verrà il figliuolo? Chi lo sa? Quando faranno la pace? Ne sa qualche cosa lei? Io non leggo la gazzetta perchè mi fan male agli occhi le parole piccole.... — E diede in una risata. C'era sulla prima panca un ostricaro con la berretta rossa e col canestro sulle ginocchia. Egli prese a stuzzicar l'ostricaro. Roba per aguzzar l'appetito, non è vero? E non c'era già abbastanza appetito per il mondo da portare in giro delle diavolerie per aguzzarlo? Che gusto avevano quelle bestie senza testa? Egli non n'aveva mai assaggiato in vita sua, e sentiva quella mattina un maledetto prurito di farne la conoscenza. E dicendo questo, fra una scossa di redini e l'altra, si voltava a guardare il canestro con un'espressione così comica di curiosità e di diffidenza, che l'ostricaro, esilarato, prese un'ostrica, l'aperse e glie la porse. Giors la sorbì, e trattenendola in bocca come per meditarne il sapore, domandò quanto costasse. — Un soldo e mezzo — rispose l'altro. — Baloss d'un lader! — gridò lui, trangugiandola con una smorfia di spaventato —, e hai la faccia di far pagare quanto un pane una porcheria compagna? — Tutti i passeggieri risero, e quel riso lo eccitò. Eppure, sì, quell'acquolina “amaricante„ stuzzicava la fame, ed egli avrebbe dovuto tribolare il doppio quella mattina per arrivare all'ora della macinatura. Ma già era destino che glie ne capitasse una ogni giorno per scavargli lo stomaco. E raccontò quella del giorno avanti. Stava discorrendo con una guardia daziaria, alla barriera, quando, al momento di partire, era salita una bella contadinotta, un fior di ragazza, che n'aveva quanto tre balie, un vero capitale, una cosa, una cosa.... insomma, una cosa magnifica. E lui, così in celia, l'aveva presa a complimentare, maravigliandosi, però, di vederle fare il viso verde invece di rosso. A un tratto quella gli aveva detto nell'orecchio, presto e secco: — Ciuto, c'a son d'tomin! — (Zitto, che sono caciole). Erano caciole di Rivoli! E qui una gran risata. Naturalmente, egli era stato zitto, non l'aveva tradita. Ma il più bello era stato poi: che, partito il tranvai, pigliando sul serio una sua facezia sul diritto a un compenso che gli dava la connivenza nel frodo, la bella ragazza s'era cavato dal seno e gli aveva dato un tomin, un po' ammaccato, ma fresco e di quei grassi, d'un odor squisito di panna, ch'egli aveva aggiunto, con gran piacere, alla sua colazione. Ah, che delizia di tomin! Mai da che era al mondo egli s'era messo nel laboratorio un boccone così saporito, gli era colato giù fino alle polpe, gli aveva fatto montare alla testa mille grilli. E seguitò un bel pezzo a scherzare così sui cento sapori di quel boccone, senza mai eccedere, con una discrezione quasi istintiva d'uomo sano di nervi e di spirito, rifuggente dalle sudicerie, spandendo intorno la schietta allegria del suo buon appetito e del suo buon cuore e sorridendo coi denti bianchi all'aria viva d'ottobre, che accarezzava la sua bella faccia di galantuomo....
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Trovai un'altra anima contenta sulla linea di Vanchiglia. Bastò il suo cerea a rivelarmi l'uomo mutato. Una vera trasfigurazione. Era il povero fattorino stato ferito da una bastonata e rimasto malato di terror cronico. Al primo vedere la sua nuova faccia pensai che fosse stato accomodato l'affare della querela, e glie ne domandai. Gli passò un'ombra sulla fronte. No, non ancora; la cagione della sua contentezza era un'altra, e, raccontandola, tornò a rischiararsi. Gli era caduta sul capo una di quelle carte da visita della fortuna, che fanno data nella vita dei poveri diavoli come le vittorie in quella dei generali. Tre giorni avanti, arrivando col carrozzone vuoto alla barriera di Casale, raccattò sotto una panca un portafogli di bulgaro rinvoltato in un pezzo di giornale, se lo ficcò in tasca senz'aprirlo e, secondo la regola, lo rimise nella corsa di ritorno al controllore, perchè lo portasse alla direzione. Rivenendo verso la barriera, arrivato in piazza Vittorio Emanuele, vede correre incontro al tranvai, col viso spaventato, un signore grasso; il quale salta sulla piattaforma e gli domanda con voce di moribondo: — Avete trovato...? — e al sentirsi rispondere: — Sì, è stato trovato.... — si lascia cascar di picchio sulla panca, con le braccia aperte e gli occhi in su, ansando come un mantice. Atto finale: comparsa del signore alla direzione, interrogatorio e riscontro, restituzione del portafogli, tanto per cento secondo l'uso: cento lire al fattorino. — Cento lire, m'intende; un biglietto rosso nuovo fiammante, coi due occhi di civetta, che pareva stampato il giorno prima! Ah, benedetto Iddio, son venute a tempo! — Dopo quella disgrazia che l'aveva tenuto tre mesi a mezza paga non gli era più riuscito di riassestarsi; la famiglia menava una vita d'angustie; si dovevan misurare il pane per pagare i debiti, e non vedevan la fine di quel purgatorio.... — Ed ecco tutt'a un tratto.... Ah, bisogna dire che c'è un Dio! — Splendeva una tal contentezza sul suo viso pallido, e abitualmente spaurito, che metteva pietà; metteva pietà il pensare che cento lire possano operare un tal rivolgimento nell'anima d'un uomo da guarirlo anche dal terrore abituale d'essere ammazzato. E ragionava sulla sua fortuna per gustarla meglio. Su tante linee, si sa, tutti i giorni si trova qualche cosa: fazzoletti, spille, chiavi, scatole di sigarette, perfin delle lettere amorose; ma dei portamonete con migliaia di lire, bazzica, è un caso raro. E proprio doveva toccare al figliuolo di sua madre! Si chiamava nascer fortunati. E mi descrisse la scena della sera, quando, rientrando in casa, aveva sventolato il biglietto, come una bandiera, sul viso di sua moglie e sulla testa dei bimbi addormentati: la povera donna s'era messa a piangere, i bimbi s'erano svegliati e buttati giù dal letto, e poi tutti a ridere e a ballonzolare insieme da parer quattro villeggianti della Villa Cristina. — E che sarà allora — gli domandai — quando piglierete mille lire d'indennità a causa guadagnata? — A quella domauda si rioscurò, e parve ripreso dalla paura solita. — No —, rispose a voce bassa — quelle.... preferisco di non averle. — E rimase un po' pensieroso. — Ma! — esclamò poi rianimandosi. — Se non mi capitano altre disgrazie! — E soggiunse umilmente: — Io non faccio del male a nessuno, non voglio male a nessuno; nessuno dovrebbe volerne a me, non è vero? Perchè mi dovrebbero far del male? — Poi, dopo una pausa, guardandosi intorno, disse con un accento d'inquietudine, che mi fece pena: — Come si son già accorciate le giornate! — Non era ancora guarito, pover'uomo.
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Il terzo contento fu un personaggio nuovo, un vecchio pretino che vidi uscire dalla stazione di Porta Susa, con la valigia e l'ombrello, e salire sul tranvai chiuso della linea di Casale. Dal modo come girò lo sguardo per la piazza, soffermandosi, e come lesse l'insegna del carrozzone prima di salirvi, e come vi salì, osservando ogni cosa con un sorriso di curiosità e di maraviglia, argomentai che non avesse mai visto Torino o non ci fosse più stato dal tempo dei tempi. Aveva l'aria d'un prete di montagna, un viso roseo, gli occhi chiarissimi, un'espressione ingenua e buona, quasi infantile. Entrò come in una casa d'amici, sorridendo a tutti, in atto di ringraziare della buona accoglienza, e, appena seduto, mi domandò se il tranvai passava per la piazza Vittorio Emanuele. Il tono con cui gli risposi gli fece subito attaccar discorso familiarmente. Da trent'anni non era più stato a Torino, era quello il primo tranvai sul quale saliva. Aveva bene inteso parlar della cosa; ma dall'immaginare al vedere c'è un gran tratto. Si voltava a osservare il fattorino e il cocchiere, le panche, i vetri colorati, gli annunzi, gli altri tranvai che passavano, come un bambino. Mi ricordò un altro prete di montagna che, anni avanti, sul ponte di Po, m'aveva manifestato la stessa maraviglia per l' Angelo Brofferio, ch'era il primo battello a vapore ch'egli vedesse. — Ma guardiamo un po', ma guardiamo un po'.... E si fa fermare quando si vuole, non è vero? E ogni strada ha il suo?... E va così sulle rotaie, da per tutto, come sulla strada ferrata? — E quando il tranvai si mosse, diede segno di viva soddisfazione. — Ma è un bell'andare, proprio.... senza scosse.... e come si corre.... Una bella cosa, veramente, una bella cosa. E ora si farà andare con l'elettrico, dicono.... Sarà una maraviglia.... Ah, son cose che fa piacere di vederle! — E sorrideva intorno ai passeggieri, come a compagni d'un lungo viaggio, sconosciuti ancora, ma coi quali dovesse far poi conoscenza; ringraziò come d'un regalo il fattorino che gli porse il biglietto; stette un minuto in ammirazione del congegno del campanello, e quando m'alzai per discendere in piazza Solferino, s'alzò egli pure, e fattomi un cenno di riverenza col capo come a un conoscente, si rimise a sedere, visibilmente lieto di non avere ancor da discendere, di doversi trattenere ancora in quella “bella compagnia„ esilarata dal sorriso gentile con cui egli rispondeva al suo sorriso canzonatorio, credendolo un segno abituale della squisita cortesia cittadina....
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Ma anche la “bella compagnia„ in quei giorni dava ragion di ridere alle sue spalle. Trovo notato fra gli appunti: — Galileo Ferraris. — È il ricordo d'una corsa fatta con lui per un tratto del viale Margherita. I giornali avevano pubblicato in quel torno le proposte fatte dalla Società al Municipio per l'istituzione dei tranvai elettrici, e spesso, tra i passeggieri, s'udivano su quell'argomento delle uscite amenissime. Sarebbero forse state più guardinghe le due eleganti bottegaie o modiste o quidsimile, che ci divertirono per cinque minuti, se avessero saputo che quel bel signore bruno e pallido, dal sorriso dolcissimo e dagli occhi socchiusi, il quale stava leggermente chino per raccogliere, senza farsi scorgere, i loro discorsi, era un elettricista di fama mondiale. La più giovane, con un cappellino incoronato di magnolie, giurava che sui nuovi tranvai elettrici non avrebbe mai messo piede, e domandata dall'altra del perchè, rispondeva vivamente: — Ma come? E s'a se scianca 'l fil? (E se si strappa il filo?) Tutto va per aria! — Ma l'amica non si curava di quel rischio: aveva inteso dire che il maggior pericolo era un altro: se per inavvertenza, salendo o scendendo, si toccava la cassetta dov'era “il deposito delle scintille„ c'era da pigliare una scossa da cadere in terra stecchiti come per una nerbata sulla testa. Come se la godeva il buon Ferraris, lisciando la barba nera con la sua piccola mano femminea! Ma non era quella la più amena ch'egli avesse udita in quei giorni. La sera innanzi, sulla linea del Martinetto, aveva inteso un vecchietto ciaccolone fare i più neri pronostici su quei novi fili che stavano per aggiungersi ai troppi altri già distesi fra casa e casa; i quali, saturando l'aria di elettricità, erano cagione di tanti sconcerti nervosi, di tante malattie bisbetiche e stravaganze d'idee e audacie matte di partiti sovversivi, per cui il mondo andava diventando un inferno. Che strana cosa, non è vero? In una delle città più colte d'Italia, intorno alle maraviglie della scienza, forza e gloria d'una civiltà di cui insuperbiscono tutti, udire presso a poco gli stessi discorsi che s'udrebbero sulle rive del Victoria Nianza o in mezzo alle foreste del Gran Chaco! — Basta — concluse la modista giovane — non sanno proprio più che diavolerie inventare per accorciarci la vita. — Delizioso! — disse il Ferraris. Quella si voltò, e al vedere quel bel signore bruno che, pur avendo l'aria d'intendersene più di lei, pareva che consentisse nel suo giudizio, gli fece un sorrisetto di simpatia e di gratitudine.
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È di quei giorni una pagina sui “fenomeni d'elettricità erotica„ che posso trascrivere tal quale. “È l'avvicinarsi, che si sente nell'aria, della stagione sentimentale, è il pensiero che sia questo l'ultimo mese delle giardiniere, così propizie all'osservazione del bel sesso, e l'ultimo dei leggieri e scarsi vestiti estivi, ai quali succederanno tra poco gli alti colletti che fasciano i colli e gli ampi mantelli che nascondon le vite, son queste od altre le cagioni, per cui noto ora negli erotici un'intensità di sguardo, una fissità di contemplazione, un languore di voluttà più cascante che nei giorni dei grandi calori? Curiosissimo il tipo osservato stamani sulla linea di Madama Cristina: un signore vestito correttamente, con gli occhiali d'oro e una barba di sultano, d'una pallidezza e d'una serietà d'Amleto maturo; il quale, stando ritto in fondo alla giardiniera, con una spalla appoggiata alla colonnina, a ogni signora che salisse o scendesse da quella parte, sporgeva in fuori il busto e il capo per conoscere da quale calzoleria provenisse il suo stivaletto; ma con un piegamento guardingo, percettibile appena, della persona, che io gli vedevo preparare con un moto avanti del piede su cui doveva appoggiare, ogni volta che da quel lato della strada suonava un alt femminile. Quell'atto ripetuto di scolaresca curiosità sessuale, fanciullescamente dissimulata, faceva un contrasto altamente comico con la quasi tragica gravità del suo viso barbuto, e anche più comico all'immaginare i pensieri ch'egli doveva volgere in capo, ma di cui non un lampo appariva dietro agli occhiali d'oro, in quegli occhi sporgenti, grigi, muti come due palle di cristallo. Ah, se si potesse, in un solo tranvai, penetrar con la mente dietro al velo misterioso di tanti visi gravi, freddi, innocenti o indifferenti, che mostruoso guazzabuglio si scoprirebbe di pensieri e d'immaginazioni, di desideri e di propositi, infinitamente diversi da quelli che le maschere fanno supporre! Un viso eccettuato, peraltro: quello della “vergine morta„ che salì al crocicchio del corso Valentino, e per la quale gli occhiali d'oro si sporsero avanti come per l'altre; un viso così bianco, così puro, così virgineo da far giurare che non nascondesse mai neppur l'ombra d'un pensiero che la bocca non potesse esprimere, e che non sarebbe potuto arrossire nemmeno s'ella avesse saputo che lo sguardo di quegli occhiali vedeva a traverso ai panni la sua nudità. Come sempre, si voltarono tutti a guardarla; ma sul suo viso di marmo candido neanche questa volta non tremò un muscolo, non passò un lampo, non guizzò il barlume d'un sentimento di compiacenza. Soltanto, quando fu seduta, cosa insolita, girò il capo a destra e a sinistra, con un movimento vivace, come se cercasse per la via qualcheduno, da cui sospettasse d'esser cercata....„
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Feci riguardo agli erotici, i giorni appresso, quest'altra osservazione: che si possono ascrivere alla famiglia loro quasi tutti quei baldanzosi, i quali, nonostante il peso degli anni e della pancia, che li dovrebbe render prudenti, rischiano ogni momento d'andare a letto per quaranta giorni, saltando sul tranvai mentre corre. La più parte, in fatti, saltano per la donna. Hop! Hop! E là! Cinquant'anni e vedete che leggerezza! È divertente studiare i diversi campioni. Per parte d'alcuni, che la compiono con disinvoltura, la prodezza può far colpo; ma ad altri tolgono ogni virtù di seduzione lo sguardo ansioso che fissano sul punto di mira, gli atti scomposti della rincorsa, lo sgomento che mostrano in viso del pericolo corso, e la pena che durano, dopo seduti, a ricomporre la carcassa, soffiando come foche: quando pure non cascan sulla panca malamente, aggrappandosi alla colonnina come a una corda di salvamento, col cappello sbiecato e la parrucca andata di traverso. Ah, vecchi peccatori impenitenti e temerari! Ma se sul tranvai non c'è bel sesso, non c'è caso che si cimentino. E gareggiano nobilmente tra di loro, e sono gelosi del salto più snello e più aggraziato dei giovani. Ne fui testimonio la mattina sulla linea di via Cernaia. Uno di questi vecchi acrobati galanti, con tanto di panama e di sottoveste bianca, che pareva tinto col granatino, aveva fatto la sua prova in piazza San Martino. Poco dopo, mentre s'andava di tutta corsa, un giovanotto biondo e asciutto, vestito da damerino, saltò su egli pure, ma da tre passi distante, e senz'afferrarsi alla colonnina: un vero salto da maestro. Non era che il primo saggio. Passato il corso Siccardi, saltò giù, corse a un banco, prese un giornale, raggiunse di volo il tranvai, e vi saltò sopra come prima. Le signore si voltarono a guardarlo. All'imboccatura di via Santa Teresa, saltò giù un'altra volta, corse alla buca delle lettere, vi buttò dentro una cartolina, e poi da capo una corsa, e un salto, e ritto là sulla piattaforma. S'alzò un mormorio di stupore: non s'era mai vista una cosa simile: le signore n'erano ammirate; fu un vero trionfo. Ma l'uomo del panama, ingelosito, ruppe l'incanto. Si chinò un poco verso le signore dell'ultima panca e disse abbastanza forte: — È il Tony della compagnia equestre del Balbo, quello che salta otto cavalli. — Poi soggiunse, scrollando una spalla: — Sfido io; è la sua professione! — e detto questo, dopo aver dondolato un po' il piede fuori del montatoio, si lasciò andar giù sulla strada con mollezza elegante, — vendicato.
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Uno che non salta, per esempio, è il cavalier Bicchierino. Lo vidi salire il giorno dopo sulla giardiniera di via Garibaldi, mentre stavo sulla piattaforma in fondo con l'operaio lattoniere, vestito dei suoi panni da lavoro, con un tubo da gas acciambellato sotto il braccio. Posato e preciso in ogni cosa, egli fece fermare alzando e abbassando tre volte la canna come un antico capo tamburo, non salì che dopo aver guardato se i cavalli eran ben fermi, e non sedette sull'ultima panca che dopo averla spolverata accuratamente col fazzoletto. Poi, per riassestarsi addosso i panni scomposti nella salita, scrollò un po' il capo e le spalle, come fa la gallina per scoter le penne, e, compiuta quell'operazione, non si mosse più. Era proprio un destino ch'io non potessi mai conquistare durevolmente l'animo suo. Il lattoniere, con la sua serietà e lentezza solita di pensatore, aveva avviato un discorso sulle nuove funzioni dei municipi in Inghilterra, delle quali s'occupava da qualche tempo, nelle ore rubate al sonno, con la diligenza che gli era propria, ritagliando notizie da giornali e trascrivendo periodi da riviste nel suo grosso vademecum di conferenziere. Interrottosi un istante per osservare l'operazione d'insediamento del signore sconosciuto, ripigliò: — Quando lo diciamo noi, pare che sian cose dell'altro mondo. Ma il municipio di Birmingham, per esempio, quando saranno passati i settantacinque anni per cui diede in enfiteusi agli impresari il terreno per lo sventramento, resterà ben padrone di tutte le case costrutte, con un reddito annuale di cento mila sterline. E questo è bene un passo sulla strada che condurrà il municipio ad essere come il direttore d'una grande impresa cooperativa di cui ogni cittadino sarà azionista.... —
Un movimento leggerissimo delle spalle del cavaliere m'avvertì ch'egli aveva inteso le ultime parole e un'inclinazione appena visibile del suo capo m'avvertì che stava in ascolto.
Il lattoniere, accarezzandosi il mento con la mano nera di piombo, continuò a citare, pacatamente, col tono d'uno che dettasse. — Un gran numero di città inglesi avevano convertito in servizi municipali, con piena soddisfazione del pubblico, i servizi dell'acqua potabile, del gas, della luce elettrica, ricavandone benefizi enormi e ribassando i prezzi. Il municipio di Glascow s'era assunto anche l'esercizio dei tranvai, riducendo l'orario degl'impiegati, aumentando i salari e istituendo le corse di cinque centesimi per mezzo miglio, con un profitto molto superiore al canone che gli pagavan prima le Società private.... —
Tutta la disapprovazione che possono esprimere la nuca e la schiena d'un cittadino io la vidi espressa a quelle parole dall'aspetto posteriore del cavalier Bicchierino; il quale doveva credere esagerati iperbolicamente i dati di fatto, se pur non credeva tutte una fantasia quelle citazioni.
Il lattoniere continuò, insistendo sull'esempio del municipio di Glascow, che da qualche anno esercita con vantaggio proprio e del pubblico anche altre funzioni di indole più privata. — Giusto, perchè il municipio non potrebbe anche incaricarsi di far lavare la biancheria?
A quest'ultimo colpo, il buon cavalier Bicchierino non si potè più contenere e si voltò a guardarci mostrandoci negli occhi arrotondati e nella bocca aperta tutta la stupefazione che può contenere un'anima umana. Diede uno sguardo all'oratore e un altro a me, che avevo l'aria d'approvare, e in quello sguardo lessi la mia sentenza. Un uomo che stava a sentire, acconsentendo, delle stravaganze così spropositate, delle assurdità così mattamente ridicole, non poteva essere che un insensato, meritevole della più profonda commiserazione; un uomo da perdonargli che gli paresse stretta via Garibaldi e che tagliasse il Popolo con le dita. E dal modo come voltò le spalle e riprese il suo atteggiamento capii che non mi restava più nessuna, nessuna speranza di risollevarmi nella sua stima.
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Feci un'altra corsa disgraziata pochi giorni appresso: il ventidue, memorando. Era incominciata bene, peraltro. Ero occupato da qualche tempo a far raccolta fra i passeggieri di tutte quelle espressioni: — Io dico la verità.... diciamo la verità.... per dir la verità.... siamo sinceri.... francamente parlando.... parliamoci schietto, ecc., che, appunto perchè occorrono così maravigliosamente fitte sulla bocca di tutti, sono una prova patente della quasi universale bugiarderia degli uomini, nei quali deriva dalla coscienza di mentir quasi sempre il sospetto di non esser creduti mai. Infervorato in questo lavoro, ero molto contento quella sera d'avere fatto una buona collezione in dieci minuti sulla giardiniera del Foro Boario, e stavo osservando con piacere, nella conversazione di due signori, che c'è anche un modo cortese e usatissimo di darsi a vicenda del bugiardo con le formole: — Dice la verità?... Ma è vero proprio?... Mi dà la sua parola?... — quando quel senso misterioso che ci annunzia la presenza d'un nemico alle spalle mi fece voltare il viso indietro.... e riconobbi gli occhi malevoli e il pizzo ostile di Guyot; il quale discorreva piano con un grosso signore sonnecchiante, seduto alla sua destra. Ero ben certo che mi avrebbe sempre odiato; ma il suo sguardo mi fece capire in quel punto che la scena del Grido e della Lotta aveva invelenito terribilmente il suo odio, e che egli covava in petto il proposito d'una vendetta. — È la sua volta — pensai — non c'è che rassegnarsi. E stetti aspettando, con l'orecchio all'erta.
Il cuore non m'aveva ingannato. Non passò un minuto che l'udii parlare con quella particolare sillabazione di chi vuol farsi sentire da qualcuno, che non è la persona a cui parla. Aveva una curiosa voce, che pareva uscirgli dalle narici, con un soffio di siringa vuota. Galeotto della vendetta fu il giornale che teneva fra le mani.
— Ha visto? — domandò al suo vicino. — Hanno sciolto la Camera di lavoro di Livorno.
E dopo una pausa: — Pare anche che il Codronchi, in Sicilia, si decida a procedere con energia. Ha sciolto la federazione socialista di Corleone.
Il signore insonnito rispondeva con monosillabi d'approvazione.
— Ah, quello rimetterà presto le cose al posto. Ha anche fatto sequestrare il libro di quel Giuffrida....
— Scritto in prigione.
— Scarabocchiato in prigione.
Credevo che fosse finita. Ma l'uomo era ben provvisto di materiali da guerra. Accennò ancora (e sentii fremere di gioia la sua voce) alla “bella accoglienza„ fatta ai deputati socialisti francesi e agli altri fondatori della vetreria d'Alby dagli operai di Carmaux — a fischiate. — Ora sarò libero, — pensai. No, fu spietato. Biasimò ancora l'amnistia per i condannati politici, che s'annunciava in quei giorni. — Sa che comprende anche i facinorosi che son dentro per i fatti di Sicilia e della Lunigiana.... E ci fanno un bel regalo!
Mi prese una tentazione, e fu un punto che non vi cedessi. Volevo voltarmi a domandargli perchè non annunciava pure, per amareggiarmi l'anima, ch'era stato ammazzato il brigante Tiburzi nelle macchie d'Orbetello. Ma non volli turbare la sua gioia. Ah, la sentivo! Egli doveva sorridere infernalmente come Giacinta Pezzana nella Maria Stuarda quando grida:
Ella si parte
Col pugnale nel cuore. Oh vendicata
Io son! Divina gioia!
Eppure, io non avevo in cuore che un sentimento di stupore: che due uomini, viventi nello stesso tempo e appartenenti alla stessa classe, potessero pensare e sentire così oppostamente intorno alla più alta delle quistioni del tempo loro, ed esser così certi tutti e due di esser nel vero, da provar odio e pietà l'uno per l'altro, come due creature diverse e nemiche di civiltà, di religione e di razza. Guyot non parlò più; pensava certamente ch'io non avessi più fiato nel corpo. Io feci il morto, per mantenerlo nell'illusione. Ma la parola facinorosi, detta da lui, mi ridestò un sospetto: quella parola, me ne ricordavo bene, ricorreva due volte in quella certa lettera anonima che avevo ricevuto dopo l'assassinio del presidente Carnot. Che la lettera fosse proprio sua? Mentre ventilavo quest'idea, egli discese all'imboccatura di via dell'Arcivescovado, e s'allontanò con passo di trionfatore, senza degnare d'un ultimo sguardo quello che restava di me sul tranvai. Da tutta la sua persona traspariva la superba certezza d'avermi finito.
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Sulla stessa linea, partendo dalla barriera del Foro boario, all'ora dell'uscita libera dei soldati, vidi la sera seguente un quadretto nuovo e bellissimo: una carrozzata d'artiglieri, con una monaca nel mezzo, di quelle addette alle prigioniere delle vicine carceri; la quale dava l'immagine di Santa Barbara, protettrice dell'arma, scortata da un drappello dei suoi guerrieri, che la conducessero in trionfo a Torino. C'era al freno il protetto di donna Chisciotta. Appena lo riconobbi, m'andai a sedere accanto a lui, per vedere se era in bernecche. Non era, o non pareva; aveva la faccia rossa, peraltro, e rannuvolata, come sempre. Mi diede un'occhiata, come a un viso noto di frequentatore di tranvai, e partì. Subito dopo attaccò un moccolo solenne. Erano state tese le catene a traverso il viale, dovendo passare il treno di Milano: c'era qualche minuto da aspettare. Ahimè! L'uomo non perdeva che il pelo: appena fermato il tranvai, saltò giù e corse verso un bancuccio vicino, dove si dava il bicchierino di “rabbiosa„.
Il fattorino gli gridò dietro: — Guardati che c'è madama!
A quel grido egli si fermò e girò intorno uno sguardo sospettoso. L'altro diede una risata, e allora egli scrollò le spalle e andò a bere. Quella madama non poteva essere che donna Chisciotta, nota ai colleghi di lui come sua protettrice, e precettrice severa e vigilante di temperanza. Ebbene, se quel guardati aveva avuto forza d'intimidirlo, voleva dir che l'uomo non era ancora perduto affatto sulla via della combustione spontanea. Risalì sul tranvai forbendosi la bocca col dorso della mano, e sferzati i cavalli appena il passaggio fu libero, principiò a dar fuori quel tanto di filosofia che s'era messa in corpo per cinque centesimi. Cadevano le foglie secche dagli alberi di Corso Oporto: egli si mise a dissertare sulle foglie, come parlando ai cavalli. E una, e due, e tre, e via senza fine: erano le annunziatrici dell'inverno. Ah, quante cose gli annunciavano: le lunghe eterne giornate con la pioggia e col vento in faccia, le nebbie fitte e gelate, la notte alle cinque pomeridiane, le corse interminabili nella neve, interrotte da lunghe fermate, da cadute di cavalli, da sviamenti, da fatiche di negri. A un tratto si rivolse a me, come a un conoscente. E quella povra fia come avrebbe passato l'inverno con quella scellerata tosse che le schiantava l'anima? Gli dicevano che le avrebbe giovato l'aria della riviera. Eh si! Ma l'insegna dell'albergo dove l'avrebbero tenuta gratis, quella non glie la dicevano. Con chi non ha di questi la morte non fa cerimonie. Sono soltanto i signori che possono pregarla d'aspettare. — E soltanto dopo questo sfogo, mi diede la notizia che aveva una figliuola unica, la quale s'era ammalata e non più rimessa dopo una certa disgrazia. Ma non disse che disgrazia fosse.
Quando il tranvai fu per attraversare il Corso Umberto, il suo sguardo si fece fisso e il suo viso s'incupì anche di più, senza ch'io ne capissi subito la cagione. Non la capii che quando vidi il Corso Oporto ingombro di sciami di ragazzi che uscivano dalla Scuola municipale di Monviso. Allora principiò per il pover'uomo una vera tortura. I ragazzi, inseguendosi in giro e strillando, passavano e ripassavano a traverso le rotaie, a pochi passi dai cavalli, come per giocare col pericolo, e il disgraziato cocchiere, mutato in viso, pregava, minacciava, sagrava invano, stringendo le briglie con le mani tremanti e volgendo intorno gli occhi dilatati e spauriti, a cui s'alzava davanti la visione del bambino travolto ed ucciso; e nel viso e in tutti i movimenti della persona mostrava un contrasto violento e doloroso tra la furia di uscir di quel passo e la ripugnanza, quasi lo sgomento di procedere, come se oltre ai ragazzi scorrazzanti qualche altro impedimento terribile, veduto da lui solo, gli sbarrasse la strada. Quando finalmente si svoltò in via Venti Settembre, tirò un lungo respiro e si asciugò il sudore della fronte.
E per tutta la via Venti Settembre non parlò più. Stetti attento quando si passò nel punto dov'era seguita la disgrazia; ma egli non voltò il capo: tenne lo sguardo diritto davanti a sè, in fondo alla strada; con la fronte così alta, però, e con un'attenzione così fissa, da non lasciar dubbio che fosse forzata. Solo quando si sboccò sul viale Margherita, tornò a guardare le foglie che cadevano e riprese le sue considerazioni sull'inverno. — E una, e due, e via, a poco a poco, l'una dopo l'altra, vengon giù tutte; gli alberi perdono i capelli. Si sente già l'odore del giorno dei morti. Quest'inverno vuol essere anche più tristo dell'estate. Cosa ne dice? C'è mai stata un'annata pì malheureusa? Avremo una gran mortalità, certamente. Oh, per quel che è di me!... Andarsene, è tanto di guadagnato. Ma è veder andar gli altri.... Oh che brutto mondo!
Ma qui, curvandosi e cacciandosi avanti tutt'a un tratto come per gettarsi fuori del parapetto, urlò un: — Via! — sgangherato, che mi diede un rimescolo. Un ragazzo scalzo aveva attraversato le rotaie sfiorando il muso ai cavalli col capo.
— Ah! questi ragazzi! — esclamò poi con voce quasi di pianto. — Questi ragazzi mi faranno morir disperato! — e fermato il tranvai vicino al casotto di piazza Emanuele Filiberto, sbattè le redini sul parapetto con un atto di desolazione....
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Quelle ultime giornate del mese furono per le mie escursioni le più piacevoli dell'annata. Era il mio punto di partenza Porta Palazzo, donde passano o si diramano otto linee dirette ai sobborghi più lontani, e la mia linea preferita quella del Ponte Isabella; la quale percorsi l'ultima volta in una di quelle mattinate dolci e chiare di fin d'ottobre, in cui si confonde col sorriso della stagione che se ne va la malinconia di quella che viene, e si sente nell'aria come la mestizia d'un addio. Attraversato il centro della città, e percorso un gran tratto di quella interminabile via Cristina di cui sfugge il fondo allo sguardo, si svolta nel viale ridente di Raffaello, e di là si esce all'aperto, fra la fuga dei nuovi edifici universitari, ai quali i camini altissimi dalla forma di minareti danno l'aspetto d'un enorme falanstero orientale, e l'ultimo lembo del grande parco del Valentino, che si ristringe lungo la riva e va a finire con un bacio nel fiume. Qui nulla parla del passato, tutto è giovinezza e speranza, e par che non ci giunga il rumore e il fumo della battaglia della vita. Si attraversa una piccola città adolescente, tutta nomi di poeti e d'artisti, dove poche case rustiche resistono ancora all'assalto dei villini e dei palazzi, brillanti avanguardie cittadine, che da ogni parte le incalzano e le avvolgono; si arriva allo sbocco del corso Dante, di là dal quale sorge ancora un altro sobborgo bambino, che va fino al corso Galileo, ultima onda di Torino, a morire fra i campi; e si giunge sulla strada di Moncalieri, alle falde dei colli, dove il tranvai si ferma, in mezzo alla solitudine e al silenzio. E là discesi, ad aspettare che si ripartisse, ammirando il paesaggio vasto e sereno. Di qua le rive serpeggianti e solitarie del Po, ristretto e imbrunito dalle ombre dei boschetti, e la piramide del Monviso all'orizzonte, già tutta bianca; di là le acque larghe e lucide, rispecchianti il villaggio medioevale; più oltre, il castello rosso del Valentino; la mole Antonelliana nel cielo; e dietro di me la collina che cominciava a ingiallire, macchiata da un folto di pini, come una testa grigia da una ciocca nera. Tutto era terso e fresco, e l'aria odorava di vegetazione autunnale; ma pareva che vi corresse ancora un fremito della primavera e vi passasse già un brivido dell'inverno. Salì sul tranvai una coppia d'innamorati, che si tenevan per mano; di ritorno da una passeggiata romantica, forse: rosati in viso, eccitati dalla frescura e dal moto, luminosi d'amore. Il cocchiere solfeggiava un'arietta guardando le Alpi. Il grande silenzio non era rotto che dal filo di quella voce e dai picchi sonori delle lavandaie del fiume, che non si vedevano. Era uno di quei momenti in cui ci coglie come a tradimento il pensiero della vecchiezza, e ci rattrista. Guardavo i due amanti, e pensavo: — Essi sono l'Aprile, ed io.... il mese corrente. — Vedevo di là dal ponte la trattoria dell' Olimpo, appartata e chiusa, che mi ricordava dei festosi banchetti giovanili, dei cari amici, delle ardenti discussioni letterarie. Come mi pareva tutto lontano, e la casa, e gli amici, e le idee discusse! Eppure provavo un conforto vago in quella pace, come il sentimento d'una dolce rassegnazione, e il principio d'un riposo infinito. E udii con rammarico il grido brusco del fattorino: — Via! — come se mi dicesse: — Andiamo! Torniamo allo strepito della città e alle cure della vita; torniamo a lavorare.... e a invecchiare.
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Ebbi un altro momento, di quelli che non si scordano, sulla linea della Crocetta, uno di quegli incontri inaspettati che ci lasciano stupefatti e pensierosi come se avessero il significato recondito d'un avvertimento del destino. Allo svolto da Piazza Carlo Felice in via Sacchi salì sul tranvai un controllore sui cinquant'anni, piccolo e pingue, con due enormi baffi rossicci brizzolati, che gli mascheravano mezzo il viso; e incominciò il suo giro sulle pedane per chiedere i biglietti. Dalla cautela con cui s'aggrappava alle colonnine e posava i piedi per non cascare, argomentai che fosse nuovo al proprio ufficio, al quale anche si prestava male la sua corpulenza. Quando mi fu vicino sulla piattaforma, ancora parato ai miei occhi da due persone interposte, gl'intesi dir forte al fattorino: — È al numero 136; — e quella voce risvegliò qualche cosa nella mia memoria, ma così lontano e confuso, che subito disparve, come l'ombra d'un uccello che passi. Essendo vuota l'ultima panca, il controllore s'infilò tra questa e quella accanto, per prendere i biglietti dei passeggieri ch'erano in piedi. Quando fu davanti a me, mi disse, toccandosi il berretto con una mano: — Il biglietto, signore.... — e restò con la bocca aperta e la mano per aria, fissandomi in viso. Ci fissammo così a vicenda, per qualche secondo, in atto interrogativo, e poi, nello stesso punto, uscì dalla sua bocca il mio nome e il suo dalla mia. Un intimo impulso gli fece sporgere il viso, ma si tirò indietro; io mi spinsi innanzi e gli baciai la guancia; egli mi rese il bacio, e volle dir qualcosa; ma non potè. Sorridemmo tutti e due, col respiro un po' oppresso. E un'onda di memorie attraversò la mia mente in un lampo: la Scuola di Modena, il suo lettuccio di ferro in un angolo del camerone della quarta squadra, una discussione sull'utilità dell'“ordine sparso„ sotto un albero del giardino ducale, il cappotto bigio chiaro ch'egli aveva portato dal Collegio militare d'Asti, e un nostro breve incontro per le vie di Piadena durante la guerra del 66. Da trent'anni non c'eravamo più visti, e non avevo più avuto notizie di lui. — Ebbene?... — Ebbene?... — Ma la conversazione s'arrestò lì; c'era gente intorno; vidi che gli tremavan le labbra; non si poteva proseguire. Fece un cenno con la mano, come per dirmi: — A più tardi, — e riprese il suo giro. Controllore! Dopo trent'anni! Lui! Per che vicende era passato? E ricordai i suoi bei disegni topografici con un tratteggio di montagna che gl'invidiavo, il suo costante buon umore, la rassegnazione di buon figliuolo con cui una volta era andato alla cella di rigore, estratto a sorte per un tumulto della compagnia, al quale non aveva preso parte. Poi, rifrugando nella mia memoria, mi parve di ricordarmi d'aver inteso dire molti anni innanzi ch'era andato in America, dove faceva il maestro elementare. E aspettai con impazienza che i vicini scendessero per interrogarlo e per dirgli la buona memoria che avevo sempre serbata di lui. Ma, tutt'a un tratto, egli discese. Dalla strada mi fece ancora un saluto con la mano, sorridendo, ma con una leggiera espressione di tristezza; poi voltò le spalle e s'avviò verso il Corso. Aveva ancora quell'andatura, tal quale, con quell'atteggiamento del capo, con quelle spalle curve, da cui scappavano le cinghie dello zaino. E lo seguitai con gli occhi fin che potei, con un senso di stupore misto di sgomento, pensando che un giorno solo, un caso, un punto della mia vita avrebbe potuto far sì che un altro mio amico, in quello stesso giorno, ritrovasse me su quel tranvai, con quel berretto gallonato sul capo, in atto di dire a lui: — Signore, il biglietto.... — Dopo quel giorno non lo vidi più.
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A questa avventura di romanzo succedette una scena di farsaccia, che vorrei non aver veduta, e che racconto soltanto per non lasciar nulla da parte di quanto può accadere sulla carrozza di tutti. Ma chi avrebbe potuto prevedere una scenata simile osservando quella giardiniera pochi minuti avanti, quando la raggiunsi in piazza dello Statuto? Era proprio una carrozzata di gente per bene, alla quale disdiceva intollerabilmente un cartello sospeso al di sopra della panca di mezzo, con su scritto in grossi caratteri: — Letame di cavallo. Trovasi in vendita a pressi convenientissimi presso la Società Belga. — Vedo ancora sulla panca in fondo un consigliere comunale e un medico militare in divisa; più in qua un generale di brigata pensionato, con la Gazzetta di Torino fra le mani; due maestre della Scuola Sclopis; signore, signorine, faccie rispettabili di grossi contribuenti e d'impiegati da tremila in su. Regnavano tra quella eletta di passeggieri la pace e il Galateo; il mormorio discreto delle conversazioni era coperto dallo scalpitìo dei cavalli lanciati al galoppo; nulla dava indizio dello scoppio che doveva avvenire. All'improvviso, dando le spalle alla compagnia, sentii il suono d'una ceffata e due grida furenti: — Baloss! — e: — Canaia!, e voltandomi, vidi alle prese nel mezzo due signori senza cappello, che con una mano si tenevano afferrati a vicenda per la cravatta e con l'altra si barattavano delle mazzate sul capo; una signora che gridava, altre che si preparavano a svenire, uomini saliti sulle panche per separare i lottatori, e poi un gruppo stretto intorno a questi, di cui non m'apparivano più che le due teste scarmigliate e i due bastoni branditi. La lotta cessò subito; ma i due nemici non s'allentarono, e rimasero in quell'atto di rappresentanti della “situazione europea„ ciascuno tenendo l'altro per la gola, come per dire: — Se non mi picchi, non picchio; se ti muovi, t'accoppo. — E quella coppia così atteggiata, su quella carrozza che correva, faceva uno strano effetto, come d'un quadro plastico, concorrente al premio, portato in giro sopra un carro di carnevale. Il cocchiere aveva appena fermato, che i due campioni si allentarono e si rimisero a sedere, improvvisamente racquetati dal pensiero del cappello volato via; e allora la corsa ripigliò. Ma non mi riuscì neanche allora di vederli in viso perchè restavano in piedi i loro vicini, intesi a sedare la contesa verbale che ricominciava; nè potei capire che cosa dicessero, perchè il cicalìo dei commentatori soverchiava la loro voce. Le notizie che arrivarono fino a me eran contradditorie. Chi diceva che fosse nata la lite dal fumo che l'uno dei due mandava in viso alla moglie dell'altro; chi diceva invece d'un piede dato nelle reni alla signora per sbadataggine; chi asseriva che non si trattasse d'un piede sbadato, ma d'una mano investigatrice. Quello in cui tutti concordavano era che alla ceffata maritale aveva dato la mossa decisiva un boric nudo e crudo opposto dall'altro ad un'osservazione vivace. Finalmente, quando i pacieri sedettero, riconobbi la triade alle facce pallide e convulse e ai due cappelli magagnati: una bella donnina col nasino all'in su, un marito col viso bitorzoluto, e un biondo secco coi baffi sovversivi, all'ultima moda. E fu il cocchiere, una faccia di ex carrettiere burlone, che, rivoltando in bocca una cicca, dedusse la morale dell'avvenimento. — S'ha un bel dire —, disse, fra due sputate nere —, bene educati, male educati.... signori e povera gente, quando c'è di mezzo la fumela, se le ammollano tutti ad un modo....
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Con quest'avventura volgare dovrei chiuder l'ottobre, se proprio la penultima sera del mese, per andare allo Sferisterio, non avessi avuto la buona ispirazione di salire sulla giardiniera della linea dei Viali, nel punto dove il Corso Oddone sbocca sul Corso Margherita. Salendo, vidi alzarsi un cappello a cencio da una testa che a tutta prima mi riuscì nuova; ma nell'atto di sedere sulla panca davanti riconobbi un muratore venuto tre anni addietro a casa mia per darmi dei ragguagli intorno al lavoro dei garzoni, quando pensavo di scrivere sulle fatiche precoci dei ragazzi; e nell'atto stesso vidi accanto a lui l'operaio della caramella, sua moglie e il piccino, seduti anch'essi sulla stessa panca. Vidi passar nell'occhio del marito, nel momento che si fissò nel mio, il ricordo di quella scena: non altro che un'ombra sfuggevole, ma che era ancora di rancor voluto, più che di rammarico, e al tempo stesso una mal celata espressione di stupore ch'io fossi conosciuto e salutato quasi amichevolmente dal suo compagno. Sedetti, voltando le spalle a lui e agli altri tre, e stetti in una vaga aspettazione, non so ben di che, inquieta, e pure piacevole, pensando che la curiosità gli avrebbe fatto domandare all'amico chi fosse lo sconosciuto ch'egli aveva offeso, e che una parola di quello sarebbe bastata a mutargli in tutt'altro senso quell'antipatia cieca, ch'era nata, come tante nascono, non dal risentimento d'un torto patito, ma dalla coscienza amara e dispettosa d'un torto fatto.
Appena seduto, in fatti, udii delle voci sommesse, da cui compresi che le teste si erano avvicinate; ma durarono pochi secondi, e la brevità del colloquio, appunto, m'accertò di quanto già l'altra volta m'aveva fatto supporre il giornale che gli avevo visto leggere: che, soltanto il mio viso essendogli sconosciuto, non gli sarebbe occorsa alcun'altra notizia o spiegazione quando avesse inteso il mio nome. Seguì un silenzio lungo, durante il quale mi parve di sentirmi entrar per la nuca e scendermi dal cervello nel cuore i suoi pensieri. L'ascoltavo, udivo le sue parole come se veramente le pronunciasse. E gli rispondevo dentro di me: — Vedi che ti sei ingannato. Ah certo, fu una trafittura al cuore che tu m'hai dato. Ma non credere, non t'ho serbato rancore. Io ho capito. Eri senza lavoro, abbandonato, infelice; eri sdegnato contro la società, e ti è parso uno scherno ch'essa porgesse un dolce al tuo bambino mentre negava il pane a te, a lui e a sua madre. Pensa se non t'ho capito e scusato! — E pensavo pure ch'egli avrebbe voluto fare un atto, dirmi una parola che m'esprimesse il suo sentimento; ma non immaginavo in qual modo si sarebbe potuto esprimere senza fare al proprio orgoglio una violenza che sapevo difficile, io che in tanti altri casi simili non ero riuscito a farla al mio. — Non farà e non dirà nulla — pensavo — mi saluterà al momento dì scendere, e sarà tutto. Ma basterà questo. Purchè io sia certo che ha mutato sentimento; che importa che me lo dichiari a parole?
Ebbene, m'ingannavo. Nel punto che si svoltava sul corso San Maurizio, udii di nuovo un rapido bisbiglio dietro di me, poi un breve silenzio, poi qualche cosa come un peso mutato di posto, e mentre mi domandavo che cosa potesse essere quell'armeggio, mi sentii prima un alito nell'orecchio, poi una piccola mano sopra la spalla, poi una bocca infantile che strisciò la mia guancia. Ah, caro bambino! Me lo porgevano. Era lui il messaggiero muto, il pegno palpitante della riconciliazione. Potete immaginare come me lo presi....
CAPITOLO UNDECIMO.
Novembre.
Quanto più s'avvicinava la fine dell'anno, tanto più sovente pensavo al giorno in cui avrei abbandonato la “carrozza di tutti„ che era da molto tempo il mio pensiero assiduo; e presentivo che sarebbe stato triste per me, come per il romanziere il separarsi dal mondo del suo romanzo; con questa differenza, ch'io non mi separavo da fantasmi, ma da gente viva. Avrei continuato a correre sui tranvai, certamente, e a vedere i miei personaggi e scene e casi curiosi; ma con la mente occupata da altri pensieri, non osservando più che per caso, non facendo più gite con quel proposito, non più tendendo l'orecchio, nè cercando o interrogando; e i miei personaggi familiari si sarebbero sbiaditi a poco a poco ai miei occhi, per rientrare poi e finir con perdersi nella folla. Sì, col novantasei si sarebbe chiuso un anno veramente singolare della mia vita, e benchè ne desiderassi la fine per riacquistare la mia libertà di spirito, pure avrei voluto insieme che si allontanasse; e per questo moltiplicai le corse, in quell'ultimo periodo, e cercai e osservai con più viva alacrità avvenimenti e persone, come per vivere più intensamente e prolungare nel mio pensiero il breve tratto di tempo che mi rimaneva. Intanto, qualche cosa essendo trapelato del mio disegno, io cominciavo a vedermi guardato da cocchieri e da fattorini con un'espressione insolita di curiosità, assai diversa negli uni e negli altri secondo il concetto che s'erano formati di quello ch'io intendessi di fare, e dello scopo del mio lavoro. Alcuni, quando li interrogavo, mi guardavano con un'aria di stupore comico, come una bestia rara, un bel capo matto, che stillasse sul loro conto qualche stramberia misteriosa, inaccessibile affatto a qualsiasi sforzo della loro immaginazione. Altri pensavano ch'io volessi dare una gran battaglia con la piuma in loro favore, e, comunque esordissi con le mie domande, tiravano subito il discorso sul servizio duro e sulla paga scarsa e su torti fatti a loro o ad altri, suggerendomi proposte dì riforme ab imis e argomenti di tirate tribunizie. Ma ne trovai anche parecchi, che, sospettando in me un ferro di polizia della Belga o della Torinese, un furbo mariuolo che, col pretesto di fabbricare un romanzo, tirasse a far cantare gl'impiegati per regola e norma delle Amministrazioni, stavano in guardia, e ad ogni mia più innocente domanda, anche lontanissima dall'argomento sospetto, s'affrettavano a rispondere: — Ah, io non potrei dir nulla; non ho da lagnarmi; faccio il mio dovere, son trattato bene.... cosicchè.... —; e il cosicchè voleva dire: — Non mordo all'amo; ne peschi un altro. — Quello che diede più vicino al segno fu Carlin; il quale, la prima sera di novembre, sul tranvai dei Viali, mi si piantò in faccia sorridendo, e con l'aria di chi ha scoperto in un amico l'intenzione di fargli un tiro burlesco: — Ah, dunque, — mi disse, — lei ci vuol metter tutti in poesia?
*
È quella una corsa che deve fare, il giorno dei Santi, chi cerca lo spettacolo, non frequente a Torino, d'una grande moltitudine. Per il corso Margherita, per tutte le strade che vanno dal centro alla riva della Dora, sui ponti, sui viali del Regio Parco e per i sentieri a traverso i prati, s'allungavano cento processioni umane dirette al cimitero, cento torrenti e rigagnoli neri, che travolgevano nelle loro onde lente una profusione mirabile di fiori, come se avessero spogliato nel loro corso tutti i giardini della campagna di Torino. Il tranvai spezzava in due, a ogni tratto, delle grandi frotte di gente, così fitte e restìe a separarsi da parere stuoli enormi tutti di parenti e d'amici; famiglie numerose come tribù, dal nonno curvo ai nipotini condotti per mano, precedute dall'uomo più robusto, portante una grande corona; file di uomini e di donne, con corone piccole fra le mani, che facevano ala per un momento al nostro passaggio, mostrando una varietà infinita di visi pensierosi, spensierati, tristi, sereni, alcuni improntati d'un dolore recente, i più di indifferenza o di noia; e in quella grande moltitudine un grande silenzio, come in un esercito disarmato e prigioniero. Sulla giardiniera c'era un carico di corone e di ghirlande, adagiate o tenute ritte sulle ginocchia da signore e da donne del popolo; alcune di viole del pensiero e di rose bellissime; e forse ci sedeva già vicino e le adocchiava il ladro mortuario che ne avrebbe rubato il nastro la notte. O carrozza di tutti, piccolo panorama del mondo a dieci centesimi! Stando ritto in fondo, vedevo dentro il vano d'una gran corona di mirto e di semprevivi le teste combaciate d'un giovane e d'una ragazza che tortoreggiavano sulla panca davanti, e quell'idillio chiuso in quella cornice funebre mi faceva pensare a quante altre parole d'amore si sarebbero scambiate quel giorno, a quanti innamorati avrebbero pedinato le belle in mezzo alle croci e alle tombe, spandendo qua e là sulle iscrizioni dolorose la gioia degli sguardi e dei sorrisi corrisposti. Una povera donna, seduta davanti a me, teneva fra le mani una piccola corona di crisantemi violetti, da pochi soldi, che doveva esser destinata a un bambino, e parlava, parlava con voce accorata, come facendo uno sfogo, al marito duro, che non rispondeva. Ah, che pietà! Da qualche parola capii che la corona le pareva troppo misera, indegna del suo caro morticino, e che rinfacciava all'uomo l'avarizia crudele o il danaro sciupato all'osteria, che le aveva tolto di comprare una corona più bella. — Pover cit, va! — diceva. — Pover cit! — con un accento di compassione e di tristezza che stringeva l'anima, e guardava e rivolgeva la corona fra le mani con l'atto d'una bambina delusa e umiliata del regalo lungamente desiderato, lanciando tratto tratto delle occhiate d'invidia triste alle altre corone grandi e ricche, che le stavano intorno. Ci son piccoli dolori che fanno più pena delle grandi sventure. Mi dovetti voltare da un'altra parte, quando la povera madre discese al ponte delle Benne; dovetti guardare verso il Corso San Maurizio, che altri tranvai risalivano, pieni anch'essi di gente e di corone, tagliando una grande processione nera riversantesi da via Rossini in via Reggio, simile anche essa a un torrente su cui galleggiassero tutti i fiori delle sue rive predate.
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Rifeci la stessa strada il giorno dei morti; ma la gente era scarsa, e velata da una nebbia umida, in cui le file dei lontani apparivano come processioni d'ombre, che ritornassero dalla città al cimitero, dopo aver reso ai parenti la visita del giorno innanzi. Pareva una serata d'inverno. Sulla giardiniera c'eran poche persone. Tutta la mia attenzione fu attratta da una sola. Sedeva sopra una delle ultime panche, in mezzo a uno spazio vuoto, una signora di quarant'anni, vestita di seta nera sbiadita, con una miseria di cappellino nero, guernito di rose selvatiche, e una piccola corona fra le mani, di perline nere e gialle, sulla quale erano disegnate due iniziali. Quelle povere rose, benchè pallide e sciupate, parevano ancor fresche e d'un rosso vivo appetto alla pallidezza cadaverica del suo viso infossato alle guance, smunto e secco come un teschio con la pelle; nel quale brillavano d'una fiamma febbrile due occhi dilatati e fissi, esprimenti una stanchezza mortale, una tristezza infinita. Quella veste logora disegnava le forme non d'un corpo, ma d'uno scheletro, e dalla pelle delle tempie e del collo trasparivano le vene come le righe d'uno scritto dalla carta velina. La corona diceva: — Sono afflitta; — la veste: — Son povera; — il viso: — Son moribonda. — Pareva che portasse quei fiori al camposanto per sè medesima. Aveva l'aspetto d'una vecchia ragazza; era senza dubbio una signora caduta in povertà; sola al mondo, forse. Tutt'a un tratto, le prese un accesso di tosse; con un brusco movimento appoggiò un braccio sulla spalliera davanti, chinò il capo sul braccio, e si mise a tossire, riscotendosi tutta a ogni schianto, violentemente, come alle strette d'un artiglio che le frugasse le viscere, e inarcando le spalle ossute e il busto lungo, d'una eguale strettezza dalle spalle alla cintura, come un tronco d'alberella incurvato, che un colpo di vento può infrangere. E tossì, tossì, senza tregua e senza fine, in un atteggiamento d'abbandono sconsolato, facendo dondolar le rose del cappellino e tenendo la corona in là col braccio teso per non sciuparla; tossì d'una tosse fischiante, faticosa, implacabile, che quando pareva sul punto di cessare ripigliava più fitta e più aspra, come se non fosse dovuta cessare mai più, come se fosse stata un linguaggio, un'effusione di parole confuse, il racconto appassionato d'una lunga vita di miserie e d'angoscie, un'invocazione ardente, ostinata, disperata della morte. I pochi passeggieri stavano a guardarla con un'espressione mista di pietà e di ribrezzo. — Quella lì, — disse forte il fattorino, — non farà le feste di Natale. — Bruto! — gli dissi col cuore e con gli occhi. Un ragazzetto, voltato verso di lei dalla panca vicina, rideva. Finalmente, quando il tranvai fu a cento passi dal piazzale delle Benne, la disgraziata smise di tossire, e rialzato il capo, sfinita di forze, s'assicurò subito che la corona non si fosse guastata, palpandola qua e là con la sua mano di morta; poi, come ricordandosi a un tratto dello spettacolo che aveva dato di sè, girò sui vicini uno sguardo velato, umile, quasi vergognoso, come di chi chiede scusa d'un'offesa involontaria, e alzò a stento il braccio che pareva un osso, per far cenno di fermare. Quanto è male giudicare il cuore della gente incolta da una parola villana! Fu il fattorino, fu il bruto, che prima di lei saltò giù dalla carrozza e con un atto di premura rispettosa e triste le porse la mano per aiutarla a scendere. Io non avrei detto quella parola; ma non avrei fatto quell'atto. Ah, la rettorica dei cuori gentili!
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Il principio dl novembre mi portò ancora un'altra tristezza. Pochi giorni dopo, in una mattinata piovosa e malinconica, salii in Piazza dello Statuto sul tranvai del Martinetto, dove trovai Carlin, che mi diresse subito la parola per espandere un suo caldo sentimento d'ammirazione. — Ha letto, eh? Quel Kossuth! Quelli son vecchi di polso! A quell'età, battersi in duello! Hanno un bel dire; ma non ne nasce più.... Sacrestia! Ebbene, mi fa piacere. — Aveva letto nel giornale la notizia del duello seguito a Pesth fra i deputati Kossuth e Ugron per una quistione politica, e credeva che si trattasse del padre, di cui ignorava la morte. Egli lo conosceva, il grand'uomo; glie l'avevano indicato una volta in tranvai sulla linea della barriera di Casale, e gli pareva miracoloso, giustamente, che quell'uomo facesse ancora valere le sue ragioni col saber. Quando gli dissi che il duellante era il figlio, e che il vecchio Kossuth era morto l'anno prima, rimase stupefatto. Poi, essendoglisi chiarita la memoria, per dissimulare la vergogna del granchio, voltò all'improvviso la sua ammirazione verso il Chionio, l'autore del Tempo che farà, il quale aveva predetto la pioggia appunto per quel giorno: — Un altro grand'uomo quello, una testa che fa onore a Torino. — Intanto s'era infilato via Garibaldi. Passato appena il canto di via delle Scuole, il tranvai fu arrestato da un convoglio funebre: un meschino carro di terza classe, a cui era appesa una piccola corona di edera, preceduto da una ventina di figlie verdi, e seguito da un prete e da poche altre persone, la più parte vecchi, curvi e zoppicanti sotto gli ombrelli: una cosa misera e triste quanto si può dire, sotto quell'acqua fitta, in quella strada rumorosa, dove nessuno si voltava neanche a guardare, in mezzo a quei muri tappezzati d'annunzi teatrali raggrinziti dalla pioggia. Mentre notavo che i più di quei vecchi avevano un nastro all'occhiello, vidi davanti a loro, sotto il carro, un piccolo cane tutto impillaccherato, che mi parea di riconoscere.... Eh, sì, proprio, era Ciuchetto. O mio povero buon veterano! Era lui, dunque, che portavano via! E infatti, voltatomi a guardar la porta da cui il carro s'era mosso, lessi il numero 43, la porta donde avevo visto uscir tante volte il caro vecchio, con la mano in alto, per accennare al cocchiere che fermasse. Povero mio buon veterano! L'avevo trovato l'ultima volta così contento della sua gita ai laghi d'Avigliana e del matrimonio del principe di Napoli. E anche quella mattina, all'ora solita, in quel luogo solito, egli aveva fatto fermare il suo tranvai; ma non più alzando la mano, poveretto, e non più per salire: egli era salito sopra un'altra carrozza, tutta per lui, e diretta fuor della cinta; e il suo povero Ciuchetto, il suo ultimo amico, lo accompagnava per l'ultima volta, rimasto solo al mondo, solo e senza pane, com'egli aveva tristamente previsto. Ebbene, egli aveva compiuto il suo cammino, il buon vecchio, e andava a riposare in pace; ma quel povero cane infangato, che andava in capo al corteo come il parente più prossimo, abbandonato e triste come un orfano, era più compassionevole a vedere del carro che gli portava via il suo padrone. E per un pezzo non mi potei più liberare dall'immagine di lui, che sarebbe ritornato dal cimitero solo, verso la grande città annebbiata, dove non aveva più tetto e non l'amava più alcuno....
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Fu il professore azzeccasonetti il mio primo incontro lieto del mese; lieto non per suo merito, ma in grazia del caso. Mi colse in un momento buono per lui, una sera di festa, sopra una piattaforma dov'eravamo già in sei più del numero legale, stretti, accalcati in maniera che non avrei potuto fare il minimo atto di difesa; ma, con mia gran meraviglia, non m'investì subito. Era d'un umore orrendo, coi baffi irti come penne d'istrice, furibondo contro il direttore d'un giornale letterario che aveva rifiutato i suoi versi: un asino, un cretino che avrebbe “cestinato„ un canto anonimo del Leopardi ed empiva le colonne di porcherie. — Già, ha pubblicato anche delle cose sue, — mi disse senz'ombra d'intenzione offensiva; — lei lo deve conoscere. — E mi credevo già al sicuro, quando egli aggiunse: — Senta però come l'ho conciato.... un sonetto che è un vero schiaffo di quattordici dita.... — Mi vidi perso; ma fui salvato. Salì sulla piattaforma, ridendo sonoramente, un bel fusto di ragazza rosata, scarmigliata, sfrontata, abbondante di tutto, mezza brilla e col diavolo in corpo; la quale mise lo scompiglio in quel serra serra e tagliò in bocca a lui il primo verso. Tentò d'entrare nell'uscio, non potè; si cacciò avanti e disse una facezia grassa al cocchiere; poi si rifece indietro, e poi a destra e a sinistra; in mezzo minuto scomodò tutti e rise con tutti, rigirando sopra sè stessa e cascando a ogni sobbalzo del tranvai ora addosso agli uni ora agli altri, che le scoccavano in viso degli scherzi, a cui essa ribatteva con una risata, mettendo in tutte le nari l'odore dei suoi capelli e il calore del suo fiato. E fu un bel vedere la scintillaccia che diè fuori da tutti quei visi barbuti e gravi, senza distinzione d'età nè di classe. Fu come l'effetto d'una candela accesa in mezzo a uno sciame di farfalloni assopiti. C'erano degli operai, dei padri di famiglia in cilindro, un consigliere della Corte d'Appello con una faccia che pareva il frontespizio del Codice, un vecchio impiegato dell'Intendenza di finanza, e degli studenti, che poco prima si guardavano per traverso, uggiti dal contatto reciproco, e imbronciati gli uni contro gli altri. Ed eccoli ora, quasi riconciliati e affratellati per incanto, mostrare tutti negli occhi il luccichìo d'un giolito comune e scambiarsi dei sorrisi quasi amichevoli, come gente che trinchi insieme toccando i bicchieri. Eterno femminino! E anche il poeta, attaccato dal contagio, teneva fissi gli occhi su quella capigliatura scomposta e insolente che di tratto in tratto sfiorava la bazza a lui pure, e mi pareva che il velarsi improvviso del suo sguardo accusasse ogni tanto un movimento indagatore del ginocchio; ma guizzava a un tempo sulla sua bocca l'espressione d'un altro sentimento. Era un sentimento di dispetto, un'umiliazione amara al pensare che poca cosa fosse la potenza della poesia, sua consolazione e suo orgoglio, se bastava l'apparizione d'una qualunque giovine asinella in calore, non solo a distogliere gli altri dall'ascoltarlo, ma a scompigliare nella sua mente stessa i “sudati carmi„ e a mutare in tutt'altro ardore il suo fuoco sacro. Quando la ragazza, lanciato in giro un cerea burlone che mostrava la coscienza degli effetti prodotti, discese d'un salto, egli aprì la bocca per ricominciare; ma, anch'io discendendo, non ebbe più che il tempo di vibrarmi la prima metà del primo endecasillabo, che mi restò confitto nella schiena come un dardo spezzato.
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Il secondo che ritrovai fu Desbottonass, una sera di domenica, sul corso Cairoli, in uno stato miserando. Egli salì a stento sulla piattaforma, sorretto per le ascelle da sua moglie grigia e rannuvolata come il cielo, e appena su, si aggrappò alla colonnina e resistette ostinatamente alle istanze della povera donna, che lo voleva tirar dentro, per timore d'una caduta. Rimase lì, afferrato con una mano al ferro e appoggiato con l'altra al parapetto, piegato e tentennante sulle gambe flosce, fissando stupidamente le rotaie che parevano fuggire in direzione opposta al carrozzone, come avrebbe fissato un acqua corrente, col capo ciondoloni sul petto. Era ancor molto dato giù dopo l'ultima volta che l'avevo visto sulla linea della Crocetta. Aveva il viso ingiallito e risecchito, diventato piccolo come quello d'un bambino, rigato di grinze lunghe e simmetriche come grandi gambe di ragno; la bocca cascante, come se non avesse più muscoli, in un atteggiamento tra di disprezzo e di nausea, e dei moti involontari e fitti del capo come se rispondesse continuamente di sì e di no alle domande d'un fantasma.
Ah, certo, egli non aveva più il capo alla politica, non si vantava più d'appartenere all' opposizione! Ma più triste a vedersi era la sua povera moglie, alla quale si leggeva in viso, sotto un resto di sollecitudine per lui, la stanchezza di soffrire, un'ira sorda contro il destino, e l'odio che le si era addensato in cuore contro quell'uomo, con cui era condannata a trascinare una vita di supplizio, come un prigioniero chiuso nella cella d'un pazzo. A un tratto, l'uomo alzò la testa e mi fissò in viso uno sguardo di stupore profondo, come se gli fossi cascato davanti dal cielo; uno sguardo in cui riconobbi alla prima ch'era impossibile che mi riconoscesse. Poi mi sorrise d'un sorriso stupido e torvo, nel quale appariva un'intenzione di scherno provocante, e mosse le labbra come per dire un'ingiuria, che non potè articolare. Era già a quel punto in cui il veleno accumulato dell'alcool si volge nel briaco in odio contro tutti, in bisogno di offendere e di ferire, anche il primo venuto, senza ragione nè pretesto, non per altro che per placare il demonio che gli morde le viscere. Ed io pensavo con grande pietà che quell'uomo s'era battuto per il suo paese, che aveva ammirato ed amato caldamente uomini politici cari a me pure, che un mio semplice accenno al suo Garibaldi era bastato a farlo vergognare d'un atto brutale; ma che allora, per certo, se anche fosse stato meno ubbriaco, nessuna mia parola, nessun nome caro, nessun richiamo al suo passato di soldato avrebbe più destato in lui alcun sentimento nobile e forse neppur più risvegliato nel suo cervello alcuna memoria. E continuava a guardarmi fisso, con quel sorriso beffardo sulle labbra bavose, dondolando il capo in atto di sfida, tentando e non riuscendo a cacciar fuori l'insulto che gli gorgogliava come il catarro d'un moribondo nella gola bruciata dall'acquavite. All'improvviso, come se fosse stato percosso alle gambe, si piegò e stramazzò sulla piattaforma. Sua moglie gittò un grido e si chinò per rialzarlo, sfogando a un tempo in atroci parole la rabbia fino allora compressa: — Ah schifoso! Ah assassino! Te lo avevo ben detto! È questa una vita da farmi fare? Tu vuoi farmi morire, impazzire, eh? Su, su, svegliati, levati, su, sporca bestia, su! — Il cocchiere fermò; l'uomo fu levato di peso da lei e dal fattorino, calato giù e deposto sulla proda del fosso; e il tranvai ripartì. Vidi ancora per un tratto il corpo inerte, disteso come un cadavere, col capo nudo nella polvere, e accanto a lui la donna, che continuava a gridare col pugno teso, come se espandesse all'aria tutto l'odio del suo sesso contro il veleno infame che gli muta la casa in inferno e gli dà dei figli maledetti, predestinati all'ospedale e all'ergastolo. Poi un gruppo di gente me lo nascose. E presentii che non l'avrei visto mai più.
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Un'ora d'oro, finalmente, e sotto un bel cielo di novembre, terso e lucente come l'acciaio. Salendo all'imboccatura della strada di Francia, trovai ritta sulla piattaforma di dietro, col suo sacco inseparabile, la vecchia di Pozzo di Strada, non trasformata proprio come Giors me l'aveva dipinta, ma con un viso in cui pareva si fossero ingranditi la fronte e gli occhi e diradata la rete delle rughe. Traspariva ancora dal suo sguardo un pensiero fisso; ma questo pensiero era: — È vivo —; c'era ancora sulla sua fronte un'ombra di tristezza: ma d'una tristezza in cui il figliuolo sterminatamente lontano non le appariva più steso a terra insanguinato, ma ritto in piedi, col braccio teso verso di lei, in atto di dirle: — Coraggio! Un giorno forse ci rivedremo. — Essa chiudeva gli occhi a quando a quando, e il suo viso assumeva in quei momenti l'espressione come d'un proponimento risoluto e saldo di campare, d'un animo preparato a vivere per molti anni sospeso dolorosamente al filo d'una sola speranza, con l'ostinazione invitta di chi aspetta il soccorso ancor lontano, afferrandosi a un cespo sopra l'abisso. Era il giorno quindici. Son date che non si dimenticano. C'era accanto a me un signore, con la schiena appoggiata al parapetto e la Stampa fra le mani: un pezzo d'uomo che teneva il posto di due, con una barba fratesca, assorto profondamente nella lettura. Quella mattina io non avevo letto il giornale. Dando un'occhiata al foglio, ch'egli teneva spiegato, lessi in capo a una colonna un titolo in grandi caratteri che mi diede una scossa: — La pace con l'Abissinia. La restituzione dei prigionieri. — Poco mancò che non gli strappassi il giornale di mano. Guardai la vecchia: essa ignorava, senza dubbio. Dissi allora nell'orecchio al signore che quella donna aveva un figliuolo prigioniero del Negus, e non sapeva della pace, e che se m'avesse favorito il giornale le avrei data io la notizia. Quegli si voltò sull'atto a guardar la donna, ma non mi diede il foglio. Era anche lui un artista del sentimento. — Oh diavolo! — esclamò. — Ma glie la do io! — E l'apostrofò, quasi con violenza: — O, la buona donna! La pace è fatta. Non lo sapete? Ecco qua. C'è il dispaccio nel giornale. La notizia è arrivata stanotte; ma la pace è conclusa fin dal ventisei d'ottobre. Vuol dire che il vostro figliuolo è libero da venti giorni. I prigionieri si son messi in marcia per l'Harrar appena firmato il trattato. Qui è fatto il calcolo. Saranno all'Harrar fra un mesetto. Una ventina di giorni per arrivare a Zeila.... S'imbarcheranno a Zeila ai primi dell'anno. Dunque!... Prima della fin di gennaio lo avrete qui. Volete vedere il giornale?
O che non avesse capito nulla o che lo sbalordimento sospendesse in lei ogni altro senso, la vecchia non diede lì per lì alcun segno di commozione; prese il giornale, fissò sul punto indicato uno sguardo morto d'analfabeta, e poi guardò in viso il signore, corrugando la fronte, come per preparare l'intelligenza alla spiegazione che i suoi occhi chiedevano.
— Oh santa pazienza! — esclamò il signore ridendo. — Eppure ho parlato chiaro! C'è qui la notizia, per dispaccio. È fatta la pace in Africa. Menelik, il re di quelle parti, restituisce i prigionieri. Il vostro figliuolo è libero. Non avete un figliuolo prigioniero laggiù? Ebbene, fra un paio di mesi sarà a Torino.
Allora, finalmente, il suo viso si mutò, ma a grado a grado; poi, con un moto brusco, voltandoci le spalle, essa appoggiò la fronte alla colonnina e si mise a singhiozzare, come nascondendosi, a modo dei bambini che piangono in un angolo.
Il signore si mise a ridere; ma con la bocca contratta. Poi si chinò a raccogliere il giornale che la donna aveva lasciato cadere, lo piegò accuratamente e glie lo pose sul sacco. Poco dopo, essa staccò il viso dalla colonnina e sorrise intorno a tutti noi, come se vedesse il mondo cangiato; pareva ringiovanita; prese il giornale, ringraziò e domandò al signore se sul foglio c'era tutto stampato quello che egli aveva detto. Quegli rispose di sì. Essa s'infilò il giornale nel petto, con riguardo. Il tranvai passava in quel momento davanti alla chiesa di San Dalmazio: si fece il segno della croce.
— Dunque, — le dissi, — rivedrete Giacolin?
Sorrise, e non parve punto stupita ch'io sapessi quel nome, che per lei riempiva il mondo; ma come se in quel punto le si affollassero alla mente ad un tratto tutti i dolori, tutti i terrori, tutte le veglie angosciose d'un anno, s'oscurò in viso, e scrollando il capo e alzando gli occhi al cielo esclamò con un accento di tristezza inesprimibile, mista d'un fremito di sdegno: — Ah, ma i l'ai tribulà tant! — Poi si rischiarò da capo, e quando discese, col suo sacco stretto contro il fianco, nell'atto che passava davanti al signore del giornale, sorridendogli con gli occhi umidi, gli fece scorrere la mano sul braccio in atto di carezza materna.
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In quei giorni il freddo cominciava a mordere, gli ultimi villeggianti eran tornati, Torino aveva già preso il suo aspetto invernale d'affaccendamento gaio e frettoloso, i tranvai riboccavano, la circolazione della vita cittadina era su tutte le linee in pieno vigore. Un accidente usualissimo mi fece conoscere di questa vita friggente un momento singolare, che ancora non m'era occorso. Ero sul tranvai dei Viali, verso sera. Davanti al caffè Ligure, un grande carro tirato da tre cavalli, carico d'un mucchio enorme di legname da lavoro, s'era affondato nel terreno, smosso per un cambiamento di rotaie, a traverso al passaggio dei carrozzoni; e i carrettieri frustando e molti altri spingendo a braccia e facendo leva con spranghe e sbarre sotto le ruote, a suon di grida e d'aneliti, non riuscivano a smoverlo. In pochi minuti sopraggiunsero e rimasero fermi in tre file i tranvai di tutte le linee che s'incrociano in quel punto; quelli dei Viali, di San Salvario, di Vanchiglia, del Corso Valentino, del ponte Isabella, come se avessero affrettato la corsa, attratti dalla notizia del caso. Ed eran curiosi a vedersi tutti quei macchinoni variopinti, schierati come le case ambulanti dei saltimbanchi in una fiera, immobili gli uni dietro gli altri nella nebbia, affollati di gente seduta e ritta, che si spingeva fuori dalle piattaforme e dai finestrini a guardar l'impedimento lontano, trinciando l'aria con gesti oratorii. Era un agglomeramento di gabbioni umani pieni d'impazienza verbosa per quella sosta che ritardava convegni d'affari, ritrovi amorosi, desinari, visite, faccende d'ogni natura, provocando in altre cento persone lontane altre inquietudini, altre noie, altri dispetti; una piena d'irritazione, di furia semicomica, che metteva in mostra il lato debole della soverchia regolarità della vita civile, in cui ogni più piccolo accidente fa l'effetto d'un disordine grave. Un laudator temporis acti avrebbe sorriso, dicendo che, in un caso simile, i vecchi omnibus avrebbero fatto un giro e tirato avanti, mentre il tranvai, che li aveva vinti e scacciati, rimaneva prigioniero e impotente. Sì, sarebbe stata quella un'umiliazione dura per il mio tranvaiofilo. E possono ben far dei progressi le macchine locomotrici, ma l'uomo ch'esse portano resta sempre il medesimo, puerilmente curioso e affamato di distrazioni come uno scolaro. Ad ammirare un così comune accidente s'era da ogni parte affollata gente sulla strada, sotto i portici, davanti agli usci, alle finestre delle case intorno; e quando, per disperazione di rimover l'ingombro, si staccarono i cavalli da tutti i tranvai per fare il trasbordo, sei sciami di passeggieri accorsero di qua e di là in gran confusione, uomini e donne d'ogni età e d'ogni classe, pigliando d'assalto le piattaforme con grida, risa e spintoni, con la furia allegra di frotte di collegiali, eccitati da una avventura straordinaria, che rompa l'uniformità della loro vita quotidiana. Poi, in ogni tranvai che partiva, si vide un gesticolare concitato della gente che commentava il gran fatto. Avevo accanto il mio amico Schopenhauer, quello dei sette peccati mortali. — Come l'uomo è bambino! — gli dissi, accennandogli lo spettacolo. E lui, accennandomi i tre poveri cavalli del carro, che i carrettieri seguitavano a frustare senza pietà, mi rispose col suo sogghigno solito: — Bambino e belva. — Poi soggiunse con accento di stizza: — Tu non vedi mai l'uomo che per metà. — Strano! A quelle parole esperimentai in me un caso di doppia coscienza: l'uomo se ne compiacque, pensando: — È tanto meglio! — lo scrittore se n'ebbe per male. E, ahimè! la compiacenza cessò dopo un breve tratto; il risentimento non è morto ancora....
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Ma qui, proprio alla data del 18, trovo una pagina diretta all'amico Schopenhauer, nella quale s'oppone alla sua filosofia un argomento di fatto, domandandogli a che serva il formulare sull'anima umana dei giudizii, a cui, per fortuna, si è costretti a fare ogni momento delle eccezioni. In realtà, noi diamo sull'uomo una nuova sentenza ogni quindici giorni, e anche parecchie ogni ventiquattr'ore, e c'è da sospettare che chi ripete sempre la stessa mentisca cinque volte su dieci per cornaggine. L'argomento di fatto lo trovai la sera del 18 sul tranvai di Corso Vinzaglio. Erano occupati dentro tutti i posti, meno due: signore, signorine, due ragazze del popolo, un paino, un vecchio paglietta che conoscevo di vista. All'angolo del Corso Vittorio salì una donna.... che avrebbe fatto meglio a non salire. Non so se il regolamento ponga quelle infelici creature fra quelle che non si debbono lasciar entrare nei carrozzoni. Se sì, non fu vista dal fattorino. Era una donna sui cinquanta, mal vestita, senza cappellino, che si teneva con una mano davanti al viso una mezza maschera nera. Al viso? La disgraziata non aveva più viso: le era stato divorato tutto, tra il sommo del naso e la bocca, dal cancro, e pareva da una belva che l'avesse dilaniata e rosa fino all'osso; e sopra la piaga orrenda, che la maschera non nascondeva a chi la guardava di fianco, si movevano due piccoli occhi grigi, in cui era espressa tutta l'infelicità che può sopportare un'anima umana. Io stavo fuori: quand'essa entrò e sedette, vidi in tutti i passeggieri un movimento d'orrore. Non la volevan guardare, ma non potevano, e la tornavano a guardare, torcendo il capo in là dopo ogni sguardo. Ma la resistenza fu breve. S'alzarono prima le due signore che le stavano accanto e uscirono sulla piattaforma a lagnarsi col fattorino che l'avesse lasciata salire; poi uscì una terza, e le altre si raggrupparono dall'altra parte del carrozzone; ne rimase una sola in fondo, separata dall'infelice dal solo spazio d'un posto: una signora piccolina e bruna, con due grandi occhi neri e i capelli un po' arruffati. E anche questa, dopo un momento, s'alzò; ma non per fuggire: diede un'occhiata al posto da cui s'era alzata, come se si fosse accorta che la panca non era pulita, fece un passo a sinistra e sedette accanto alla donna. Ah, mi parve di sentire il mio amico: egli avrebbe chiamata quella una “donchisciottata„ della pietà, e gli sarebbe parso appioppato bene il soprannome della signora. Eppure no; egli non avrebbe detto quella parola se avesse visto la dignità tranquilla, la semplicità gentile, inesprimibile di quell'atto. Sedutasi, essa non guardò punto le signore fuggite, come una vanitosa avrebbe fatto, in aria di vanteria e di rimprovero; non rivolse punto la parola alla disgraziata per farle comprendere l'intenzione pietosa dell'atto suo: se ne stette lì immobile, senza parlare, non per altro che perchè l'infelice non rimanesse sola in quel vuoto sepolcrale che le si era fatto intorno come a un cadavere, come a una cosa immonda che avventasse dei miasmi di morie, perchè vedesse che c'era ancora qualche creatura umana a cui non metteva orrore, che essa non era ancora reietta affatto dal mondo. E quella capì, perchè si voltò a guardarla, e non un sorriso, no, perchè nè il suo viso nè l'anima sua non potevan più sorridere, ma un baleno passò nei suoi occhi, che disse: — Ho capito e ti ringrazio. — Eh, che m'importa che ci sia nell'umanità tanto egoismo e tanta vigliaccheria! Uno solo di questi atti la lava ai miei occhi da mille sozzure, una sola di quest'anime ne illumina mille, e mi spezza l'odio nel cuore, e mi fa riaprir le braccia ai fratelli. O buona e brava Chisciottina! E dire che soltanto dopo, ripensandovi, compresi ch'essa aveva finto di trovar non pulito il suo posto per togliere alla sua mossa l'apparenza d'un atto di compassione!
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Varie lunghe corse in mezzo agli alberi gialli e spogliati a mezzo, sotto il cielo grigio, dentro a una nebbia somigliante a una sottilissima polvere diffusa, in cui volteggiano le foglie inaridite; e nessun passeggiere di mia conoscenza; ma, in compenso, parecchie conoscenze nuove, e nuove osservazioni sulla carrozza di tutti, come palcoscenico dell'ambizione e vetrina della vanità. Uomini noti o smaniosi di notorietà, donne belle e Apolli in soprabito amano tutti il tranvai dove possono offrirsi per mezz'ora all'ammirazione di una decina di concittadini, costretti a guardarli, anche se non vogliano, e a portarsi via nel cervello la “negativa„ della loro effigie. Ci sarebbe da scriver qualche pagina sull'arte di figurare in tranvai. C'è chi, per mettersi in mostra, attraversa il carrozzone, come un salotto, da una piattaforma all'altra; chi, fattolo fermare, lo raggiunge a passo lento per dar tempo ai passeggieri d'ammirare la grazia o la maestà del suo incesso; chi nell'atto di rizzarsi per tirar la correggia del campanello cerca degli “effetti„ di slancio e d'impostatura, come gli attori e le attrici nel saltar su dalla poltrona per accennar la porta a un insolente. E ci son fra questi degli originali che vanno in tranvai per mettere in mostra la loro rassomiglianza con uomini celebri. Avevo già visto su parecchie linee un falso Vittorio Emanuele, un facsimile del d'Azeglio, una brutta copia del Cialdini; ma non m'era passato mai per la mente che si potesse ostentare con compiacenza anche la rassomiglianza con un brigante. Rinvenni il tipo una sera, rincantucciato in un carrozzone della linea del Martinetto, sul quale c'era Carlin. Una signora era scappata fuori e lo guardava impaurita dalla piattaforma di dietro. Altre tre, rimaste dentro, s'erano rannicchiate nell'angolo opposto, e l'osservavano con diffidenza. E c'era di che: una grinta da farsi arrestare non per altro che per i connotati. Era ravvolto in un gran mantello alla spagnola, ricacciato dietro una spalla, sotto al quale pareva che nascondesse un trombone; aveva un largo cappello alla calabrese calcato sopra un orecchio, e di sotto alla tesa rotava due occhioni di gufo e metteva avanti un naso criminoso e due grossi baffi provocatori. L'ombra del cappellaccio e il lume che lo rischiarava dall'alto davano alla sua faccia dei rilievi accesi e delle infossature nere di testa satanica. Girava la testa lentamente, come un automa, e fissava gli occhi, dilatandoli, ora sull'uno, or sull'altro dei suoi osservatori, che abbassavano tutti lo sguardo. Chi poteva essere quell'originale? Non certo un povero diavolo perchè quanto si vedeva del suo vestiario era fine e pulito. Le supposizioni, fra i passeggieri della piattaforma, erano diverse. Chi pensava che fosse un evaso dalle patrie galere, chi un brigante delle Calabrie di passaggio per Torino; un giovanotto espresse il dubbio che potesse essere Jack lo sventratore. — Ma a delle faccie così, — disse un vecchietto con tutta serietà — dovrebbe esser proibito d'entrare, per regolamento! — (Oh se si lasciassero legiferare gli spauriti, che orrenda tirannia! E si vedrà). Tutti aspettavano che scendesse, per vederlo meglio. Fummo soddisfatti in piazza Castello. S'alzò. Non era molto alto: la lunghezza del busto ci aveva illusi. Quando comparve sulla piattaforma, tutti gli fecero largo. E in quel momento un sorriso che gli guizzò sulle labbra mi svelò il segreto. Era semplicemente un capo ameno, un buon diavolaccio forse, che si serviva della sua figura di spauracchio a scopo di vanità, armonizzando con la propria faccia il vestiario e gli atteggiamenti, per il gusto strambo di spandere il terrore sui tranvai notturni; e quei piccoli trionfi teatrali d'ogni sera eran forse per lui l'alimento principale, se non unico, de l'orgueil qui nous fait vivre, come dice lo Zola; poichè di tutte le passioni umane è l'orgoglio quella che si pasce di cose le più disparate, dall'eroismo al delitto. Appena fu disceso, si ripresero i commenti a voce alta. — Dev'essere un pazzo — disse Carlin. — Una donna esclamò: — Ma è un parente del diavolo! — E una graziosa signora, ancora un po' spaventata, mi disse sorridendo: — È un socialista, di sicuro.
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Un soggetto di quadro per Giacomo Grosso, il giorno dopo, in via dell'Accademia Albertina: un carrozzone chiuso in cui troneggia una signora splendida in mezzo a un gruppo di povera gente, come una castellana che dà udienza ai suoi servi. Al contrasto che facevan con lei i suoi compagni di corsa accresceva forza la lordura del tavolato, imbrattato di mota e sparso di pezzetti di carta, di bucce di arancia e di castagne, su cui si posava il suo vestito di principessa. La guardavan tutti attentamente, in silenzio, come avrebbero guardato un'opera d'arte in una vetrina. Non dava più di vent'anni; era bella e bianchissima; uno di quei visi di signore torinesi, d'un carattere mal determinato tra franco e italico, in cui nessun tratto ha una bellezza singolare, ma tutti insieme una grazia squisita; una sposa recente, pareva; vestita d'un panno nero ricamato, con un superbo mantello di lontra, coronata di grandi penne di struzzo e di rose incarnatine, e lampeggiante di diamanti ai polsi e agli orecchi. Aveva tanto indosso quanto per ciascuno di quelli che la guardavano sarebbe stato un capitale, un rivolgimento della sorte, un sogno luminoso avverato. Eppure il suo viso, di un contorno ancora un poco infantile, aveva un'aria d'ingenuità così schietta e così amabile, il leggiero rossore che davano alle sue guance la suggezione e la compiacenza insieme d'esser fissata a quel modo, così a lungo e da vicino, da tutti quegli occhi, esprimeva una modestia e una semplicità d'animo così graziosa, e pareva ella stessa così ad agio in mezzo a quella gente, senza un pensiero al mondo che la potessero insudiciare la cesta della vecchia erbivendola seduta accanto a lei e i piedi del bambino tenuto sulle ginocchia dalla donna di rimpetto, che tutti la guardavano con un'espressione manifesta di rispetto e di simpatia. E questo mi fece dubitare se quel che si dice del lusso, che offende e irrita il povero, non si debba attribuir piuttosto al modo vanitoso col quale si ostenta, all'aria abituale di — Fatti in là — di chi lo sfoggia, che non proprio al lusso per sè medesimo, che è bellezza e splendore, di cui s'alletta anche l'occhio di chi n'è privo. Ma il quadretto era attraente in special modo per le riflessioni diverse che si leggevano, sotto alla simpatia e al rispetto, negli occhi di quegli ammiratori, chiarissime per me come se le vedessi scritte sulla loro fronte. La vecchia mostrava di fare uno studio comparato dei prezzi del velluto e della lontra con le entrate ed uscite del suo bilancio domestico. La madre del bimbo, che pareva la moglie d'un operaio, dall'aspetto affaticato, la guardava più che altro nel viso, con l'aria di pensare alla vita beata che quella signora menava, levandosi la mattina alle dieci per oziare dolcemente tutta la giornata, senza l'ombra d'un sopraccapo. C'era una ragazza del popolo che lasciava gli occhi addosso agli orecchini, come affascinata, e diceva con gli occhi che per portare un'ora al giorno quelle due stelle appese al capo avrebbe acconsentito allegramente a campar di pan duro e di mele verdi. Un giovine operaio la covava con uno sguardo fiso e luccicante da cui traspariva l'immaginazione delle voluttà sovrumane che doveva dar l'amore di quella semidea, così bianca, così fine, fasciata e coperta di tanta roba odorosa e preziosa. E c'era in un angolo un vecchio mal messo, dal viso di ritontito, che la osservava con un'espressione attonita come se meditasse in lei, senza comprenderlo, il gran mistero della legge sociale che interpone una così enorme distanza tra l'una e l'altra creatura umana. Ma quello che la mangiava con gli occhi più avidamente era il fattorino marchese, ritto accanto a me sulla piattaforma. Aveva però un bell'arricciarsi i baffetti biondi con le dita agitate e pigliar delle impostature di tenore e levarsi il berretto per passarsi la mano sulla fronte accesa: egli non riusciva ad attirar lo sguardo della bella signora, la quale guardava soltanto i suoi ammiratori di dentro, a uno a uno, coi suoi begli occhi lenti e sereni, in cui brillava il riflesso della simpatia che vedevan negli altri. Ma che bussolotto da gioco è mai il cuore umano! All'angolo di via Mazzini, essa fece fermare e discese; tutti, di dentro, mossi da quella curiosità che cerca l'andatura d'una persona come un indizio dell'animo, misero il viso ai finestrini per vederla camminare.... Era zoppa! Ebbene, in quasi tutti quei visi passò un sorriso leggiero di soddisfazione, anche su quello della ragazza, che esclamò: — Che peccato! — E non era una malignità. O buon Dio! Era una piccola consolazione di dannati. Aveva avuti tanti doni dalla natura, era tanto più fortunata, tanto più felice di loro.... che almeno la sua felicità avesse una tacca! Questa non pareggiava le partite, di certo; ma almeno d'un piccolissimo che faceva parer loro meno enorme, meno umiliante la disuguaglianza. Tutti si rimisero a sedere con questo pensiero negli occhi, e il marchese, alzato il naso come un can da caccia, si consolò come potè del suo insuccesso: aspirando il profumo ch'essa aveva lasciato nel suo marchesato.
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Gli effetti d'un dramma in tranvai: fu uno degli ultimi e dei più piacevoli episodi del mio novembre. La sera della domenica, ch'era già notte, il tranvai del Martinetto s'arrestò in via Po davanti al teatro Rossini, donde usciva la folla dopo la rappresentazione diurna della Compagnia piemontese. Un signore mise sulla piattaforma un piccolo spazzacamino e salì con la moglie e con due signorine. Siccome al Rossini s'era rappresentato quel dopopranzo Gli spazzacamini, il vecchio dramma risuscitato del Sabbatini, che faceva singhiozzar Torino da quindici giorni, io pensai che il piccolo spaciafornel fosse l'attorino Eugenio Testa, protagonista minuscolo del dramma e principalissimo distillatore del pianto pubblico, e che i suoi parenti lo riportassero a casa così, col vestito del palcoscenico, per un capriccio. Ma no: era uno spazzacaminuccio autentico, raccattato alla porta del teatro, nell'impeto della commozione, da una buona famiglia borghese ancora lacrimante, che lo portava per suo conto e piacere al borgo San Donato, dov'egli aveva detto di star di casa col proprio padrone. Sedutisi tutti dentro, il signor padre si mise il ragazzino sulle ginocchia, con una certa ostentazione provocante di carità cristiana e di tenerezza poetica, e prese a carezzarlo paternamente, adocchiando gli altri passeggieri, mentre le sue donne lo guardavano con gli occhi umidi, rivolgendogli molte domande. Il padre e la madre avevan l'aspetto di due bottegai danarosi, ma d'origine povera, ai quali le figliuole, istruite e ingentilite dalla scuola, avessero rifatto una specie d'educazione letteraria e sentimentale: queste, benchè pure commosse, serbavano una compostezza dignitosa; quelli avevano l'espansione dell'affetto un po' volgaruccia; ma sincera. Strana potenza del teatro! Essi vedevano veramente in quel bimbo il protagonista del dramma, che corre per il palcoscenico per scansar le pedate del padrone bestiale, il povero montanarino che è venduto nel primo atto, martirizzato nel secondo, e restituito alla famiglia nel terzo, dopo esser stato creduto morto d'asfissia in una gola di camino, e riversavano sopra di lui tutta la pietà affettuosa che avevano insaccata in galleria. Ed egli accoglieva tutte quelle tenerezze senza mostrare sul visetto nero alcuna maraviglia, tra indifferente e triste, come se pensasse che quella sua avventura non era che la fortuna d'un momento, che tutta quella bontà non gli toglieva di doversi levare la mattina dopo avanti luce per rigirar la ruota della dura vita d'ogni giorno. Dentro, alcuni guardavano la scenetta con simpatia, altri con un sorriso un po' canzonatorio per quella effusione di sentimento, che pareva loro un po' teatrale, e forse non meritata. Un signore rotondo, che era accanto a me, mi tradusse in parole quel sorriso. — Eh, son furbacchioni che vanno apposta all'uscita del teatro per sfruttare la commozione del pubblico e scroccar qualche soldo! — Furbacchioni! Oh diamine! Gli avrei voluto domandare se, quando egli aveva qualche favore da chiedere a un suo superiore, giudicava una furberia disonesta l'andarglielo a chiedere in un momento in cui gli paresse meglio disposto a concederglielo. Che raffinate delicatezze pretendono da chi non mangia abbastanza i delicati ben pasciuti! Continuavano intanto le interrogazioni e le carezze al ragazzo, e non cessarono che in piazza dello Statuto, dove la famiglia fece fermare per discendere. Il padre lo baciò, le signore gli passarono la mano sotto il mento senza timore d'insudiciarsi. — Ciao, pover cit. — Ricordati dove stiamo di casa. — Bada a non lasciarteli prendere. — Alludevano ai soldi che gli avevano messi in tasca. Infatti, appena furon discesi, il ragazzo si cacciò una mano nel petto, tirò fuori il gruzzolo e contò quanto c'era. — Ah, vede! — disse trionfando il mio vicino, — vede il furfantello! Sono i soldi che gli stanno a cuore, non le carezze. — È proprio vero, — gli risposi. — Ah ingordo quattrinaio! Esoso Shylock! Vile adoratore dell'oro! — Il curioso fu che, pur comprendendo l'esagerazione scherzosa, egli mi credette sincero in fondo, e sorrise di soddisfazione. Razza d'un cane! Era il rappresentante d'una legione, lui, e credette della sua legione me pure. E quando scesi, mi disse col tono d'un confratello: — Buona sera! — Ma a me non venne alle labbra che il saluto pisano: — Tremoti a chi t'affetta il pane.
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La stagione, intanto, benchè non fosse ancor nevicato, incrudiva, e i tranvai correvano la mattina presto fra gli alberi e lungo le siepi dei viali biancheggianti di brina, come in mezzo a una maravigliosa vegetazione di filigrana, e sotto i fili del telefono e delle lampade voltaiche tutti bianchi, somiglianti a fasci di cordoni di lana; e cominciavano i cocchieri e i fattorini a pestare i piedi e a mandar fumo dalla bocca, mettendo mano alle provvigioni dei sagrati invernali. Fu una di queste mattine brinate che, strizzato dall'aria fredda di Via Garibaldi, non potendo più reggere sulla piattaforma, mi cacciai dentro al carrozzone, dove mi trovai davanti la studentessa di medicina e suo padre. Essa sedeva nell'angolo vicino all'uscio, bianca come la filigrana degli alberi e i baffi paterni; e il suo bel viso d'angelo imperturbato, invulnerabile dalle passioni umane, sorgeva con la grazia d'un giglio fuor dal bavero a tromba della mantellina nera che le avvolgeva il collo. Suo padre stava seduto col busto ritto e col petto sporgente come doveva stare a cavallo alla testa del suo reggimento. Non si parlavano. Gli occhi grandi e dolci di lei si volgevano qua e là, secondo il solito, guardando tutti come se non vedessero alcuno, ed io mi potei compiacere meglio dell'altre volte nell'immaginazione del suo corpo vestito di bianco e coronato di rose, disteso fra quattro ceri, con le mani incrociate sul petto virgineo, che non conobbe l'amore. Prima che s'arrivasse a metà della via, il carrozzone era pieno dentro e affollato sulla piattaforma. Molti la guardavano; ma, come sempre, pareva che essa non se n'avvedesse. Tutt'a un tratto s'animò, scosse vivamente il capo, sorridendo, come se salutasse qualcuno a traverso al vetro dell'uscio, ed io vidi una cosa strana, inaspettata, incredibile: un'onda di porpora le coperse il viso fino alle tempie e i suoi occhi raggiarono d'una luce nuova, vivissima, dolcissima, che mi fece l'effetto d'un prodigio, come se in quel momento ella si fosse trasformata da statua di marmo in donna di carne e di sangue. Suo padre pure aveva salutato con un sorriso e uno sguardo amichevole. Mi voltai prontamente a sinistra per vedere a traverso al finestrino chi avesse operato il miracolo; ma mi trovai in faccia un maledetto vetro colorato con l'annunzio della China-Migone, che intercettava la vista: vidi soltanto per aria, di là dall'uscio, un cappello a cilindro che salutava, e che scomparve subito come un'ala di falco. Ah, quel cilindro non poteva essere che d'un giovane, quel giovane non poteva essere che un amante, quell'amante non poteva essere che un fidanzato. Gli occhi di lei, che rimasero fissi, sfavillando, sulla persona invisibile, la porpora che si fece men viva, ma non disparve, e la bocca semiaperta e parlante che tradiva il palpito accelerato del cuore, mi tolsero ogni dubbio. La vergine morta innamorata! La vergine morta sposa! Era dunque possibile? E mi riprese una così smaniosa curiosità di sapere chi fosse lui, che per poco non commisi la villania d'alzarmi per guardar fuori. Ma non potei rattenermi a lungo, e per levarmi quel chiodo, tirai il campanello prima del tempo. — Chiunque sia — pensai — lo debbo riconoscere agli occhi. — Il tranvai si fermò, apersi l'uscio.... e mi trovai davanti il pittore in tuba, con un viso fiammeggiante, che diceva tutto. Fece un atto di forte sorpresa, arrossendo, e mi balbettò con un sorriso d'uomo impicciato: — Le darò poi una notizia. — Ah, non occorre! — gli risposi scendendo. — Mi darà delle spiegazioni; la notizia la so già, e me ne rallegro. — E lo lasciai lì stupefatto. Ma non quanto me. Era lei, dunque, la dea misteriosa; lei, la vergine morta! Chi se lo sarebbe sognato? Eppure, lo avrei dovuto sospettare fin dal giorno ch'egli m'aveva fatto quella curiosa difesa delle studentesse di medicina. Ma già, era uno di quegli indizi che si riconoscono a cosa scoperta. Era lei! Il colosso s'era innamorato d'uno spirito. E perchè no? Un matrimonio d'antitesi. Una bella coppia, del resto. E mi durò la maraviglia per un pezzo. La vergine morta!... Ma che vergine morta? La visione era mutata: ancora vestita di bianco e distesa come una morta; ma con le guancie di porpora e con le braccia aperte.... Oh, tutt'altra cosa. Infine, non poteva accader di meglio per il mio interesse di scrittore. E me ne tornai a casa soddisfatto.
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Ma non doveva finire così lietamente il mese di novembre. Finì con un triste incontro. Fu l'ultimo giorno appunto, il giorno dell'uccisione della contessa Lara. L'aria era nebbiosa, gli alberi del Corso San Maurizio tutti bianchi come d'una incrostatura di sal gemma, e il sole senza luce nel cielo grigio, come un occhio enorme di moribondo. Salendo sul tranvai che andava verso il Corso Margherita, vidi dentro, a traverso al vetro dell'uscio, il viso del signor Taddeo, e gli feci un cenno di saluto. Egli mi guardò fisso e non mi salutò. Allora soltanto, al secondo sguardo, lo vidi così miseramente mutato, che m'attraversò la mente un pensiero improvviso come un fulmine: — La bambina è morta! — Sporgendo il capo un po' a destra vidi anche il viso della signora, e lo stesso sinistro pensiero mi ribalenò: — La bambina è morta! — Erano pallidi, d'aspetto invecchiato, improntati d'una tristezza tragica, immobile, disperata, somigliante all'espressione di stupore infinito che è qualche volta sul viso dei cadaveri. Il mio primo senso fu quasi di terrore, una tentazione di discender subito per non vederli, per non sapere. Ma mi rattenne una speranza: che qualche altra disgrazia li avesse colpiti, non quella: la perdita d'ogni avere, la morte del padre o della madre, uno spavento mortale per qualche tremendo pericolo corso. La bambina poteva essere nel carrozzone, non in mezzo a loro come le altre volte, ma alla sinistra della madre, in un posto che dal difuori io non potevo vedere. Ma benchè non avessi che a fare un passo a destra per veder se c'era, non ebbi il coraggio di farlo, come se avessi temuto di vedere accanto a lei, invece della bambina, una piccola bara. Eppure, com'era possibile? Mi ricordai dell'ultima volta che l'avevo vista, poco tempo addietro, così bella e vispa, ammirata da tutti, splendente di salute e d'allegrezza in mezzo ai suoi parenti trionfanti. E questo ricordo dandomi animo, feci il passo a destra. Ah! non vidi la piccola bara; ma fu come se l'avessi vista: vidi un mazzo di fiori sopra un ginocchio della mamma. Dei fiori fra le mani, con quel viso, essa non li poteva tenere che per portarli al camposanto, e su quella fossa. Soprastetti nondimeno, sperando ancora, con viva ansietà, per vedere se si fermavano sul piazzale delle Benne per prender la via del cimitero. Chi sa mai? Se non si fermavano, poteva darsi che la bambina vivesse. Furono pochi minuti d'aspettazione; ma mi parvero così lunghi! Tenevo gli occhi fissi su di loro, e mi batteva il cuore. Il tranvai sboccò sul piazzale e svoltò verso il Corso Margherita.... — È viva! — pensai. Ma in quel punto il padre s'alzò col braccio teso, e intesi un suono di campanello che mi fece rabbrividire come un — No! — inesorabile, risposto alle mie parole. Il tranvai si fermò: i due sventurati mi passarono davanti; il padre mi guardò e mi riconobbe. Io non osai di salutarlo. Egli mi diede uno sguardo torvo e mi disse con voce aspra: — È morta, sa; — la madre passò senza guardarmi.
CAPITOLO DODICESIMO.
Dicembre.
Col nuovo mese fui preso da un nuovo ardore di correre su tutte le linee alla caccia dei personaggi e delle avventure, illuso da questa ingenua speranza d'almanaccone superstizioso: che perchè avevo un libro da finire m'avrebbe aiutato la fortuna, presentandomi casi e scene singolari, adatti a dare alla Carrozza di tutti una chiusa di romanzo; e già covavo sotto a quella speranza la tentazione di far tutto di fantasia l'ultimo capitolo, se la fortuna mi fosse fallita. Incurabile malato di romanticismo, tormentato dal bisogno di cucinar la natura in salsa piccante e di servirla in forme architettoniche come i bodini nei pranzi di gala! Proprio all'ultimo mi ridava fuori il malanno ereditario, dopo che m'ero attenuto fino allora all'intento di ritrarre la vita libera e sparsa come me la vedevo correre intorno, risoluto di fare un'opera informe, ma sincera. Ma l'illusione durò pochi giorni, l'ardore di correre fu spento fin dal primo da una di quelle solenni nevicate torinesi che fanno rientrare in petto i propositi di vagabondaggio poetico come i nasi nei baveri e le mani nelle tasche, e con quell'ardore pericoloso mi fuggì ogni tentazione di chiusa romanzesca. E fu tanto meglio, credo, per il mio scartafaccio.
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Nevicava fitto, a fiocchi larghi come scontrini di tranvai, la lunghissima via Nizza era tutta coperta d'un tappeto bianco, che smorzava il rumore dei carrozzoni nevosi, correnti sulle rotaie invisibili, e in mezzo a tutta quella bianchezza alpina nereggiava come un orso Tempesta, imberrettato e incappucciato, con tanto di guantoni e di zoccoli, non mostrando del viso che il naso a pera e i baffi a spazzola, agitati dal soffio d'un sagrato perpetuo. Se la pigliava coi fiocchi che gli entravano in bocca, con gli spalatori che ingombravano la strada, coi passeggieri che, salendo, gli scotevan sui piedi l'ombrello fradicio, e dava ogni tanto una stratta furiosa alla tenda immollata, che pareva si ritirasse per dispetto, lasciandolo scoperto all'intemperie.
— Brutto tempo, eh? — gli domandai con buon garbo. Mi rispose brusco: — A me lo dice? Una bella notizia! — Ne avremo forse per un pezzo, — soggiunsi. — Non lo so, — grugnì.
Ah povero Tempesta! Mi ricordai d'un matto della Villa Cristina che disegnava con la matita le varie parti del corpo che gli dolevano, schizzando in ciascuna una bestia feroce, la quale, secondo lui, rodendogli le carni, era causa del suo dolore; e mi domandai se proprio egli non avesse in corpo qualche animalaccio rabbioso, se non un serraglio intero, che lo dilaniasse. Ma già, non ce n'abbiamo uno tutti, non fosse che un bruco o un tarlo piccolissimo che ci dà delle giornatacce scellerate? Eppure, quanto più lo studiavo, tanto più mi pareva che, a casa sua se non altro, non dovess'esser un cattiv'uomo, perchè, insomma, egli sputava tanto tossico in servizio da non comprendersi come ne potesse ancor serbare per la famiglia dopo una giornata di dodici ore. A momenti ero tentato di battergli una mano sulla spalla e di dirgli amorevolmente: — O me lo vorresti dire, benedetto porcospino, da che parte si potrebbe toccarti per non pungersi? — Ci si punse in quel momento una vecchia signora, che avendogli detto timidamente, perchè fermasse: — faccia grazia.... — n'ebbe per risposta una spallata, con questo complimento: — Che faccia grazia!... Si dice fermi, si dice. — La cortesia gl'irritava i nervi come la musica fa andar del corpo certe bestie.
In piazza San Salvario, dove facevano la battagliola dei ragazzi, gli passò a un palmo dal naso una palla di neve: egli girò sui combattenti un'occhiata sterminatrice e mise un bramito di leopardo. Poi se la pigliò con uno dei cavalli, Livorno, che zoppicava, chiamandolo assassino, ladro, ciampicone da forca, e rincalzando ogni epiteto con una frustata. Uno dei cinque passeggieri che stavano sulla piattaforma s'arrischiò a fargli un'osservazione garbata: — Ma se zoppica, che colpa ci ha? — Si voltò come un'istrice: — Sì signore, è un vizio, una malizia; zoppica soltanto quand'è con me, ha da sapere! — E sbuffò. Poi soggiunse: — Bisogna conoscer le bestie prima di parlare. — Quell'altro rispose pacatamente: — Già, è proprio vero: prima di parlare... bisogna conoscer le bestie. — Tutti risero. E allora seguì un miracolo: sorrise anche Tempesta. Ma fu come un lampo sur una rupe. Subito si rioscurò, rimenò una frustata a Livorno, trattandolo di boia infame e di Giuda porco, e ricominciò a spandere per la lunghissima strada bianca il soffio della sua rabbia implacabile.
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Seguitò a venir giù neve, senza posa, così fitta da parere che se ne potesse far delle palle cogliendola a due mani per aria, densa al punto che i tranvai apparivano come ombre dietro al velo dei fiocchi, e non si vedevano ancora quando già li annunziavan vicini lo scalpitìo faticoso dei cavalli e il gridìo continuato dei cocchieri, affacciati ai finestrini delle tende come vedette alle feritoie d'una fortezza mobile. Ma tutta quella neve non smorzava il fuoco bellicoso di Carlin, che trovai un dopo pranzo sulla linea di Vinzaglio, furibondo per l'eccidio della spedizione del Cecchi, sopra tutto contro il Ministero perchè aveva dichiarato di non aver alcun proposito di “occupazioni militari„. Il bombardamento di Gezira e la fucilazione dei cinque Somali, invece di quetarlo, l'aveva irritato, come farebbe a un affamato un minuscolo antipasto di ghiottonerie stimolanti. Come sempre, egli avrebbe voluto bruciare, sterminare, disperdere ogni cosa, cancellare il Benadir dalla faccia dell'Africa. — Insomma — fremeva — tutti ce le danno e noi non le rendiamo a nessuno! Figure da nasconder la faccia nei calzoni! — E non riusciva a capacitarsene considerando che avevamo gente a bizzeffe, milioni d'uomini senza lavoro, una sovrabbondanza di gregge umana da dover benedire ogni occasione che si presentasse di spedirne fuori una gran quantità, per alleggerire l'Italia e invader “le terre dei cani„. — Cosa ne voglion fare di tutta questa gente? Siamo in troppi. Tutti i nostri guai vengon da questo. È il multiplicamini che ci rovina... — E della nostra eccessiva fecondità mi addusse una prova singolare. Giusto tre giorni avanti, su quella stessa linea, nel numero 139, una donna era stata presa dalle doglie, e c'era mancato poco che scodellasse un “passeggiere„ lì per lì, durante la corsa: s'era dovuto fermare il tranvai, e s'era fatto appena in tempo a trasportarla in una portieria di via Roma: al ritorno del tranvai l'amico era già fuori, che cantava come un gallo. — Vede dunque! — Proprio, la nascita intempestiva di quel bacherozzolo, per lui, era l'argomento Achille In favore d'una politica belligera in Africa. — Bombardè! Bombardè! — e ripetendo questo suo “delenda„ dall'alto della piattaforma, con le braccia incrociate sul petto, fissava lo sguardo su piazza Castello bianca di neve con l'espressione di Napoleone primo nel milleottocento quattordici del Meissonnier. Ma che diversi pensieri si volgono qualche volta nell'interno del tranvai e sulla piattaforma! Appunto in quel momento c'eran dentro da un lato parecchie belle signore; nei due angoli in fondo due signori in tuba, con la cravatta bianca, che andavano a qualche pranzo di gala; in faccia alle signore una mezza dozzina di giovani e brillanti ufficiali della Scuola di guerra, fra i quali un bellissimo tenente belga; e si vedeva negli occhi di quella compagnia silenziosa la fiammella della galanteria, si indovinava nell'aria di quel salotto ambulante una vibrazione di piccola corte d'amore, l'incrociarsi delle simpatie e delle attrazioni frenate dalla convenienza, un lavorìo vivo di immaginazioni eccitate, vagheggiaci tutt'altre conquiste da quella del Benadir, tutt'altre battaglie da quelle che il povero Carlin invocava mostrando il pugno alla neve.... Un simbolo anche questo: la politica che sbraita e vuol rifare il mondo, e l'amore, padron del mondo, che le ride alle spalle. Ma non espressi questo pensiero a Carlin per non scemargli quello che era forse il maggior conforto della sua vita. E come se, comparendo per l'ultima volta nei miei appunti, egli dovesse per me sparire dal mondo quella sera, gli feci, scendendo, un saluto cordiale, ch'egli interpretò come un'approvazione generale di tutta la sua politica del 1896, e che mi valse in risposta un buon sorriso di ministro soddisfatto a deputato devoto. E muoia la sua politica e viva la sua memoria....
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Continuò a nevicare, e anche io presi gusto quelle sere a cacciarmi nei carrozzoni, attirato dall'aspetto di intimità familiare, dall'immagine dì brigate raccolte a veglia, che offrivano i passeggieri pigiati dentro, soddisfatti d'essere al riparo dalle intemperie e particolarmente disposti, in quella comunione non ingrata di calorico animale, alle conversazioni amichevoli. Trovai in una di queste comitive fortuite, la sera della festa della Concezione, sulla linea di via Cernaia, il sindaco di Torino, rannicchiato in un angolo, e non riconosciuto da alcuno, fuorchè dal fattorino, che, stando fuori sulla piattaforma, lo guardava a traverso il vetro dell'uscio, curiosamente. Certo che l'illustre sindaco, vedendo quel povero fattorino col capo imbacuccato in un cuffione, infradiciato dalla neve, che lo guardava dal di fuori come il pezzente infreddolito guarda dalla strada il signore seduto al caldo nella trattoria, era a mille miglia dal pensare che quello fosse un conte come lui, forse di più antica famiglia della sua, certo d'un casato più famoso nella storia d'Italia. Ma di nessun pensiero malinconico dava indizio il viso del conte incognito, atteggiato all'espressione consueta di serena rassegnazione: pareva che egli si dilettasse della vivacità insolita della compagnia, composta di piccoli borghesi e d'operai puliti, fra i quali s'incrociavano conversazioni diverse. Parlavano dell'esposizione finanziaria del Luzzatti, del capitale perduto del Banco di Napoli, della proposta d'una tassa militare, con le frasi raccolte nei giornali della mattina, e con quel tono misto di sfiducia amara e d'indifferenza canzonatoria con cui in Italia si suol ragionare della cosa pubblica. A un tratto si fece silenzio; poi un passeggiere, di cui il lume rischiarava soltanto la parte inferiore del viso, adombrato dal naso in su da un grande cappello, saltò fuori con la legge sugli infortuni del lavoro. — Ahi! — dissi tra me — siamo al Senato —; e tenni d'occhio il sindaco senatore. E il Senato, che aveva per la seconda volta rinviata la legge all'Ufficio centrale, fu da quel gran cappello e da un altro dello stesso taglio, che gli s'allargava daccanto, conciato barbaramente. — “Quegli scatarroni mezzi morti„ — quei vecchi reazionari della malora... — la legge sarebbe stata in vigore da un pezzo se non fosse dovuta passare per quell'anticamera del camposanto dove tutte le riforme in pro del popolo erano ferocemente combattute... — e altre gentilezze su quest'andare. Deliziosa corsa per un Senatore! Ed ecco che un terzo, facendo un salto da Roma a Torino, vien fuori a lagnarsi del servizio di sgombero della neve, dicendo con un vocione di contrabbasso che, per questo riguardo, si facevano le cose meglio, ma molto meglio, non ricordo bene in quale piccolo comune del circondario, dove egli aveva sortito i natali! Ah, questa carrozza di tutti, che covo d'insidie per gli uomini in carica! Ma il bravo sindaco sostenne intrepidamente la seconda come la prima scarica, fissando con un vago sorriso filosofico un annunzio del Cioccolatte Talmone attaccato fra due finestrini. Il fallimento della Banca di Como, che venne dopo sul tappeto, lo liberò, e mentre la nuova conversazione s'andava accalorando, altri tranvai passavano, in cui si vedevano di sfuggita altre comitive illuminate dall'alto, sale correnti di club e di caffè, farmacie di villaggio ambulanti, piccole aule di Consigli comunali, pieni di visi gravi o ilari di politicanti, di maldicenti, di pettegoli, di sonnacchiosi, di brilli, che apparivano un momento e sparivano nel turbinìo della neve.
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Dopo la neve venne la nebbia, quella nebbia invernale di Torino, densa e fredda, d'un sapore irritante quasi di bruciaticcio, che invade ogni vuoto e copre la città come un immensa nuvola di cenere immobile, quasi palpabile, e nasconde case, alberi, gente, carrozze, lampioni, circoscrivendo in un raggio di cinque passi lo spazio visibile a ogni persona; che intercetta come un muro grigio la vista delle piazze e dei corsi e riempie i portici come un fumo uscente da migliaia di cantine incendiate, e dà a ogni tratto l'illusione che quartieri interi siano scomparsi, inghiottiti dalla terra, fra i vapori d'un cratere enorme. Si correva come dentro a un'oscurità bianca, a traverso a una sequela infinita di veli umidi, che il tranvai lacerava, non vedendo gli altri carrozzoni che all'ultimo momento, come se sorgessero per incanto dal suolo, e non altri passanti fuor che larve che scappavano spaventate al sopraggiungere dei cavalli; e quel continuo succedersi e incrociarsi affrettato di fischi e di squilli in quell'aria opaca dava l'idea d'una città agitata da un grave affanno, oppressa dalla minaccia di qualche grande pericolo misterioso.
Stavo sulla piattaforma, pigiato da tutte le parti, in compagnia d'un giovane poeta cubano, nuovo a Torino e a quello spettacolo, il quale accresceva la sua naturale malinconia. Venuto per la prima volta in Europa, e arrivato il giorno avanti dalla Francia, non si poteva persuadere d'essere in Italia, dove s'era immaginato che anche le città settentrionali avessero un inverno mite e sereno come quello della sua isola nativa. Guardava intorno quasi spaurito e mi diceva di tratto in tratto in un suo italiano transatlantico: — Ma questa è Siberia! Questo è lo Spitzberg! E come piace a lei quest'orrore?
— Sì — gli risposi — ho dei gusti di Eschimese. La nebbia m'eccita l'immaginazione. Non vedo nulla, non riconosco i crocicchi, non so molte volte in che punto mi trovi; la città mi pare ingigantita; suppongo d'essere a Londra, a Pietroburgo o a Nuova York. Mi piace qualche volta di sentire l'umanità senza vederla. La nebbia mi rompe la monotonia della vita, mi dà mille sorprese e sensazioni insolite. Questa risonanza strana, smorzata di tutti i rumori, mi alletta come un linguaggio nuovo delle cose. Mi fa più piacere che alla luce del sole rincontrare l'amico in questa oscurità livida, come nell'ombra d'una foresta vergine, vedermi davanti tutt'a un tratto il viso d'una bella donna come se m'apparisse nello squarcio d'una nube, sentir voci conosciute di conoscenti invisibili e risa di ragazze misteriose, che si perdon nell'aria come voci di folletti. E poi, che vuole? La sera, in special modo, la città piena di gente e di lumi, che lavora e si diverte, mi sembra una espressione più potente della civiltà umana sotto questo gran mantello lugubre che la natura le getta addosso senza riuscire a soffocarne la vita e l'allegria.
Il cubano non pareva persuaso. Se avesse dovuto vivere in Italia, non avrebbe piantato le tende a Torino. E mi domandò se la città mi paresse confacente al lavoro artistico, abbastanza italiana d'aspetto da dare all'ispirazione d'un poeta tutti gli aiuti esteriori che dovevan dare Venezia, Napoli, Firenze, Roma; se non ci sentissi la monotonia.
— No — risposi — non c'è monotonia nella libertà. Qui sento la mente libera. Mi par che il pensiero si dilati spaziando nelle vaste piazze e vada più lontano lanciandosi per le vie lunghissime, per la grande raggiera dei viali fuggenti da tutte le parti verso la campagna. Gli edifizi non attirano lo sguardo; ma perciò appunto non lo distraggono dalla grandezza del tutto e dalla bellezza della natura; si ritraggono anzi di qua e di là per lasciar maggiore spazio al volo dell'occhio e della mente verso le Alpi e la collina. In nessun'altra città si vede tanto verde, tanto azzurro, tanta bianchezza; in nessun'altra ha un riso così fresco e così splendido la primavera, che qui pare un ricominciamento del mondo. E poi, essendosi in tanti anni trasformata la città sotto i miei occhi, vedo ed amo sempre negli aspetti nuovi gli aspetti scomparsi, m'avvolge un nuvolo di memorie a ogni passo, sento mille voci di persone e di cose passate che mi chiamano, ribevo dei sorsi d'aria della gioventù della patria e della mia. Godo qui delle bellezze che non sono che per i miei occhi perchè le illumina e le colora un raggio che esce dal mio cuore. Vedo in fondo a ogni strada una città d'Italia e nelle rondini che volano attorno al palazzo Madama le mie speranze fuggite, che cantano e mi salutano ancora.
Il giovane scrollò il capo. — E trova in armonia con la sua — domandò ancora — anche l'indole degli abitanti? Non le riescono un po' freddi e chiusi... un po' troppo nordici, come ho inteso dire?
— Non li può giudicare uno straniero, e neanche un italiano d'altre province, se non vive qui da molti anni. La benevolenza è velata, il cuore non s'apre e non si dà tutto di primo slancio; ma tutto quello che dobbiamo conquistare ci è poi più caro quando è nostro. La cortesia discreta, la promessa guardinga prevengono disinganni e amarezze, e così nel buoni si trova sempre maggior bontà che non s'aspettasse. I loro difetti sono negativi, incavi, non punte, e per questo non feriscono. Le possono parer duri; ma per ciò lei li può afferrare e tenere, e non le sgusciano di mano. V'è nell'affetto che gli occhi esprimono e la bocca tace una dignità che ne raddoppia il valore. E chi ha dei difetti opposti a queste virtù, e n'ha coscienza, ama la gente che glie li comprime più di quella che glieli accarezza. Per questo io son legato alla città anche dalla gratitudine; legato da tanti vincoli del cuore, del pensiero e del sangue, che non potrei più vivere altrove a nessun patto, neppure a quello di diventar ricco se fossi povero, sano se fossi infermo, e di trovar cento nuovi amici se qui non mi restasse un amico; e sono ben certo e m'è un conforto il pensare che morirò qui.
Mentre dicevo quest'ultime parole, un signore, che m'era stato accanto fino allora senza che lo vedessi nel viso, girò il capo adagio adagio come una statua semovente, e mi fissò gli occhi negli occhi. Ah, l'avevo conquistato finalmente! Capii a volo dal suo sguardo che la critica di via Garibaldi e la lacerazione della Gazzetta del popolo ed anche quelle matte teorie di socialismo municipale m'erano perdonati per sempre. Il buon Bicchierino, il “controemarginato„ signor cavaliere Bicchierino, impiegato modello di non so qual regia amministrazione, il più puro e più geloso di tutti i torinesi nati e da nascere, era intenerito, era vinto, era mio. Quando discese si toccò con la mano l'ala del cilindro, e prima di perdersi nella nebbia rivolse verso il tranvai un leggerissimo sorriso benigno, che mi tolse l'ultimo dubbio: avevo un amico di più. Sia ringraziata Cuba! L'avvenimento era un buon auspicio per una lieta fine dell'anno.
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Svanì la nebbia e splendette il sole, che ci parve di rivedere dopo una notte di sette giorni. I tranvai ricominciavano a correre liberamente per la città chiara e come ritinta di colori più vivi, dorata in ogni parte da larghi sprazzi di luce, e fattorini e cocchieri, usciti da una settimana di ansie e di fatiche penose, salutavano con un'allegrezza di liberati dal carcere l'aria limpida in cui si drizzavano le Alpi bianche nitidissime, che pareva si fossero avvicinate durante i giorni dì cattivo tempo. A Porta Palazzo, dove aspettavo il tranvai della barriera di Lanzo, verso l'ora della colazione, era una festa; da tutti i carrozzoni che arrivavano da tutte le barriere saltavano giù cocchieri e fattorini e, seduti sui montatoi, dentro al casotto dei biglietti, sulle ceste rovesciate della verdura, facevano il loro pasto, alternando con le bocconate fameliche apostrofi chiassose alle erbivendole e ai colleghi arrivanti e partenti; e così incappottati com'erano, con quei cuffioni e quei guanti enormi, in mezzo alla neve della vasta piazza, dove qua e là ardevano dei fuochi, sarebbero parsi una banda di cosacchi bivaccanti tra i carri della provianda durante una fermata in mezzo alla steppa; se non avessero fatto una macchia italianissima in quel quadretto russo i mucchi d'arance siciliane che brillavano sui banchi in mezzo all'erba montanina e ai rami di alloro annunciatori del Natale....
Salito sul mio tranvai, mi trovai daccanto sulla piattaforma il giovane tipografo biondissimo, lo sposo novello, fresco e gaio come l'aria. M'abbordò con Antonio Maceo, domandandomi se credevo che gl'insorti cubani avrebbero proseguito la lotta non ostante la sua morte; ma io m'accorsi bene che aveva qualcos'altro da dirmi, e indovinai ch'era una lieta notizia, e ch'egli cercava un'entratura garbata per darmela. Dopo qualche preambolo, infatti, smettendo a un tratto la serietà politica, m'annunziò con una gioia visibilissima che forse... fra qualche mese... se tutto andava bene... la causa socialista avrebbe avuto un soldato di più. Restava soltanto a sapersi se sarebbe stato un compagno o una compagna. Mi congratulai. E allora diede la stura a un'allegrezza infantile. Fatti certi calcoli, egli s'era messo in capo che dovesse nascere in Aprile, verso la metà, forse il giorno stesso della nascita di Ferdinando Lassalle: data di buon augurio. In ogni modo aveva già fissato, se era un maschio, di mettergli i tre nomi: Ferdinando (Lassalle), Federico (Engels) e Carlo (Marx). E si diede una fregatina alle mani. Poi tessè l'elogio della sua sposa. Oh, sempre, sempre più contento. Forte ancora al lavoro, nonostante il suo stato, buona e amorosa con la mamma di lui, e non punto mutata d'idee, come tante altre, dopo il matrimonio. Era lei stessa che gli diceva: — Ernesto, ricordati di non mancare alla riunione della tal sera.... Non dimenticare di rinnovar l'abbonamento al giornale.... Mettiamo qualche cosa anche noi per la Cassa elettorale.... — E appunto quella mattina era lei che l'aveva sollecitato a portare i denari d'una piccola colletta a un compagno disoccupato e malato, che abitava in borgo San Salvario. Passavano la serata assieme a leggere dei volumi presi alla biblioteca dell' Associazione dei lavoratori del libro; ma preferivano gli opuscoli di propaganda, che compravano del proprio. Essa si appassionava in special modo per la storia delle socialiste celebri: Eleonora Aveling, Annie Besant, Severina. E in questi discorsi duravano fino a tardi, fin che la mamma s'addormentava con la calza in mano. Poi, all'improvviso, parendogli d'avermi parlato con troppa familiarità dei fatti suoi, fece di nuovo il viso serio per domandarmi se credevo alla voce corsa dello scioglimento prossimo di tutti i circoli socialisti e di tutte le Camere di lavoro della Liguria; ma, vedendomi sorridere, e insistendo io perchè mi riparlasse della sua famiglia, che m'avrebbe fatto molto piacere, m'afferrò il braccio in segno di gratitudine e ricominciò con maggior effusione. Sì, era felice, gli era toccata la più buona e brava ragazza che potesse desiderare. Era una così bella cosa andar d'accordo, essere uniti in quell'idea, avere quella speranza comune. Qualche volta, quando sentivano insieme una buona musica, senza bisogno di parlarsi, essi si commovevano tutti e due fin quasi a piangere, pensando ai compagni degli altri paesi, all'opera di tutti, all'avvenire, al loro bambino che avrebbe visto un mondo migliore. Ed io alla mia volta, guardando quel bel giovane, quel “nemico della famiglia„ così innamorato e felice, pensavo quanto la famiglia lo nobilitava e gli dava forza, quanto era sano e fecondo l'amore in lui, in quella prima giovinezza in cui il matrimonio appare ancora alla più parte dei giovani della borghesia una cosa lontana, una fine da farsi dopo molti anni d'amori vagabondi, dì seduzioni, d'adulteri, un buon contratto per arrotondare il patrimonio o una buona alleanza per affrettar la carriera; e mi confermavo nella fede che fosse davvero un mutamento sociale benefico e santo quello per cui si sarebbe diffuso nella gioventù un tale amore, data la famiglia a tutti in quell'età, che ora non la vuole o non può averla per dure ragioni d'interesse o per ignobili ragioni di convenienza. Mentre io facevo queste riflessioni ed egli si disponeva a discendere, lo vidi mettere alla lesta non so che cosa nella tasca d'un signore che ci stava ritto davanti. Maravigliato, gli domandai spiegazione dell'atto. Egli sorrise: era un opuscoletto di sesto minimo, intitolato I calunniatori del socialismo, a cinque centesimi; egli soleva ficcarne così delle copie nelle tasche dei borghesi, sui tranvai, senza farsi scorgere; oh, non per convertirli, ci voleva altro; solamente per “chiarire le loro idee„, per distruggere le leggende assurde che s'andavano formando intorno al socialismo nella mente di molti, i quali finivano con crederlo tutt'altra cosa da quello che è. — Arrivati a casa — disse — leggono per curiosità, e forse si ricredono di qualche pregiudizio: è sempre quel po' di guadagnato. — E mi raccontò che altri usavano quel modo, di far entrar l'idea per la via delle tasche non potendo per la via degli orecchi, e che n'aveva avuto il primo pensiero il falegname di mia conoscenza, il quale seminava opuscoli in tutti i soprabiti, senza grande spesa, essendoci su ogni centinaio il ribasso del quaranta per cento. E accennandomi con una strizzata d'occhio il signore, soggiunse: — Ne ho già serviti tre questa mattina, — e contento e trionfante, come se avesse fatto tre conversioni, saltò giù in piazza San Carlo, dove vidi allontanarsi e perdersi fra la gente la sua bella testa bionda dorata dal sole.
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Ed ecco un altro sorriso sulla fronte del mio anno morente, un'altra pagina lieta per l'ultimo capitolo, un altro uomo felice: il giovane pittore che mi salta accanto sulla piattaforma, in via Garibaldi, con una stella di montagna all'occhiello e con un viso rosato, che è un annunzio di matrimonio in sembianza umana. Prevenni la sua parola raccontandogli come l'annunzio mi fosse stato dato il mese avanti da un'ondata di porpora che avevo visto salire alle guance d'una bella signorina, l'ultimo giorno che c'eravamo incontrati. S'imporporò un poco anche lui, e gli feci le mie congratulazioni: una creatura angelica, che avevo mille volte ammirata, pensando sempre che sarebbe stato fortunato il cittadino d'Italia su cui ella avesse racchiuso le sue ali. Folgorò dagli occhi; ma si mantenne serio e mi fece un discorso molto pacato. Si, era tutto fissato per il gennaio. Egli era contento. Buona indole, carattere sodo, giudizio, istruzione, molto affezionata a suo padre, un ex colonnello di fanteria, decorato di due medaglie al valore: sarebbe stata certo un'ottima madre di famiglia e sarebbero vissuti insieme di buon accordo. Ma io capii che quella pacatezza di psicologo ragionatore era una delle solite imposture d'innamorato; sotto a quelle parole compassate sentivo divampar l'anima, ed ero ben certo che se anche ella non avesse avuto la “buona indole„ e il “carattere sodo„ e “il padre decorato„ e tutte le belle doti d'“un'ottima madre di famiglia„ egli l'avrebbe amata furiosamente ad un modo e chiesta e voluta a tutti i costi. — Sa che è studentessa di medicina? — mi domandò. Finsi di non saperlo, e gli chiesi celiando s'egli le avrebbe lasciato continuar gli studi. — Ah, neppur per sogno! — rispose con slancio, non ricordandosi l'apologia delle studentesse che m'aveva fatto un giorno; ed io sentii nel suo accento una vampata di gelosia otelliana, che abbracciava nelle sue spire tutta quanta la Facoltà medica, e tutta la studentesca insieme, e tutta la clientela possibile, non esclusi i malati di dentizione. Mi restava la curiosità di sapere se proprio l'avesse conosciuta sul tranvai, come mi aveva detto, e gli domandai anche questo. Ne rise di cuore: era stato così, veramente, sulla linea di Ponte Isabella, gli ultimi giorni di maggio. — Non si ricorda — mi disse — del fatto raccontato dai giornali in quei giorni, d'un carrozzone della Belga che, sboccando sul corso Valentino, urtò e rovesciò una vettura postale, gettando a terra il cocchiere, che si ferì gravemente? — Non mi ricordavo. Ebbene, egli s'era trovato con lei per la prima volta su quel carrozzone, e gli aveva “fatto senso„ il veder lei, lei sola, mentre le altre signore strillavano o svenivano, discendere ardita e tranquilla e accorrere in soccorso del caduto e sollevargli da terra il capo insanguinato e posarselo sulle ginocchia per asciugargli la ferita col fazzoletto. — Ecco una ragazza di polso e di cuore! — aveva detto. Ed era rimasto ferito anche lui, ma d'una ferita per cui il fazzoletto non serviva. Poi... l'aveva rivista. E a poco a poco.... Ma sorvolò alle prime manifestazioni non corrisposte, al periodo, che doveva esser stato abbastanza lungo, quando egli inveiva contro le ragazze torinesi, figlie di Borea, fredde come le Alpi, calcate tutte l'una sull'altra come figurine di carta, e saltò subito a dire della conquista immediata, fulminea ch'ella aveva fatto di suo padre, la prima volta che gliel'aveva indicata in tranvai. — Già, fu proprio così — concluse — sulla linea di Ponte Isabella, in un carrozzone chiuso della Società belga, che portava il numero 125. — E non accorgendosi ch'io ridevo a sentirgli rammentare anche il numero, tirò fuori il portafogli, e come avrebbe fatto della reliquia d'un santo, ne cavò fuori con riguardo e mi mostrò lo scontrino bianco di quella corsa memorabile, ancora intatto, come se fosse del giorno stesso. — Così — disse col suo sorriso ingenuo — se un giorno mi farà disperare, io le mostrerò lo scontrino, e le dirò: Ah, come ho speso male i miei dieci centesimi! — Ma l'amore, la felicità che scintillava sul suo buon viso di fanciullone erculeo smentivano l'apparente sincerità di quella supposizione. E ripose accuratamente nel portafogli il suo biglietto di partenza per il paradiso terrestre. Era felice, sì, proprio. E me lo confermò lo sguardo e l'accento involontario di pietà col quale, per cambiar discorso, mi domandò se procedeva il mio lavoro, come domanderebbe un milionario a un parente povero se è bene avviata una sua lite per un'eredità di qualche centinaia di lire; felice al punto che, nel domandarmi ancora se nel mio libro ci sarebbe stato anche lui, mi lasciò quasi comprendere che non gli sarebbe spiaciuto di entrarci. Ma quando discesi mi salutò con un sorriso che mostrava già il pensiero assai lontano da me: il buona sera era per me; il sorriso era già per la signorina del numero 125. Ma io avevo un mezzo permesso di incastrare il suo romanzetto nella mia Carrozza, e me n'andai soddisfatto della mia corsa.
*
Un altro felice; ma non con soddisfazione mia; anzi un brutto momento per me in un carrozzone caratteristico della vigilia di Natale, partito da Porta Palazzo, pieno stipato di signore e di ragazzi carichi di presepi, di Gesù bambini, di pastori, d'asini e di bovi, mezzo nascosti fra i rami di mirto e di lauro, con giocattoli fra le braccia, scatole di fichi sulle ginocchia e arance e melagrane nelle tasche e fra le mani: un misto d'Arca di Noè, di boschetto e di dispensa, da cui usciva un fremito e un trillìo confuso d'anime in festa. Davanti a me, sulla piattaforma posteriore, c'eran due carabinieri, che davan le spalle all'uscio; alla mia sinistra un gruppo di persone attempate e gravi, che discorrevano amichevolmente del voto dato dalla Camera alla lotteria per le Opere pie di Torino. Dopo aver ascoltato per un po' i loro discorsi, tornando a guardare dentro al carrozzone, incontrai lo sguardo di Guyot, seduto fra due presepi. Subito egli voltò gli occhiali e il pizzo da un'altra parte, corrugando la fronte, con l'espressione di chi torce lo sguardo da un serpente boa. Barbaro Guyot! Non era pago della vendetta atroce di due mesi avanti; m'odiava dunque a morte veramente; era proprio un nemico implacabile! E aspettai che il suo sguardo si fissasse un'altra volta nel mio, risospinto dall'odio stesso che glie lo faceva fuggire, per fargli comprendere con uno sguardo che non m'eran rimaste nelle carni, com'egli forse credeva, le sue frecce avvelenate, che godevo d'una buona salute ed ero ancora in grado di far del male alla società. Ma invano. Non si voltò più. La mia vista, pensai, è davvero per lui un supplizio insopportabile, quando non mi debba guardare per torturarmi! E pazienza. Intanto salì sulla piattaforma altra gente, forzando a cambiar di posto quelli che già c'erano, e tutti insieme si rimescolarono, urtandosi e pigiandosi, cercando ciascuno la posizione meno incomoda per tirare il respiro e per resistere ai trabalzi. Cessato appena il serra serra, parecchi discesero, fu un'altra volta visibile dalla piattaforma l'interno, e quale non fu la mia maraviglia, riguardando dentro, al veder gli occhi del mio nemico vaganti sulla mia persona con un leggero sorriso che pareva di benevolenza! Doveva esser seguito un miracolo. Pensai che, dopo il primo moto invincibile di repugnanza destatogli dal mio aspetto, ripensando alla vendetta passata, egli avesse avuto un senso di resipiscenza, un pentimento d'aver passato il segno, d'avermi offeso troppo nel vivo, e volesse farmi capire che, se non pentito, era appagato della rivalsa che s'era presa, e intendeva di desistere, cominciando da quel giorno, dalle ostilità. Eppure, il suo sorriso non diceva questo ben chiaro, era un sorriso ambiguo, c'era sotto un barlume di compiacenza maligna. E, fissandolo, m'accorsi che il suo sguardo sorridente oscillava su di me come un pendolo, oltrepassando di qua e di là la mia persona. Che cos'era mai? Mi guardai a destra e a sinistra.... Abbominevole furfante! Era seguito,
come suole avvenir per alcun caso,
che i due carabinieri, separati dal rimescolio dei passeggieri salenti e scendenti, avevan dovuto spostarsi, e dopo vari giri sopra sè stessi s'eran ritrovati l'uno alla mia sinistra, l'altro alla mia destra, ed io stavo in mezzo a loro come un arrestato. L'iniquo Guyot si deliziava della vista di quel quadro. Il quadro gli rappresentava l'adempimento d'un suo desiderio, l'attuazione d'una profezia, la mia fine meritata e inevitabile, il vero posto che spettava a me nella società. Ed io che m'ero illuso.... Ma quello che più mi irritò non fu la sua gioia di quel momento: fu il pensare che avrebbe portata quella gioia a casa, descritto il quadro in famiglia, esilarato gli amici al caffè; che quel mio ammanettamento ideale sarebbe servito in gran parte — oh, senza dubbio! — ad abbellirgli le feste di Natale. Fui tentato di scender subito; ma mi rattenne un altro poco il pensiero ch'egli avrebbe goduto anche di quella fuga, dicendo: — Eh, già, si capisce, si sentiva a disagio... — Ma poi non ci potei più reggere, tirai il campanello e lacerai il quadro saltando giù, dopo avergli lanciato un'occhiataccia, che deve avergli fatto dire: — Che sguardo! Ha rivelato la sua vera natura. E adesso? Chi sa? Quella gente lì è capace di tutto....
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Ma fu questa la sola brutta avventura ch'io ebbi in quell'ultimo mese.
La mattina di Natale, rallegrata dal sole, i tranvai riboccavano di signore impellicciate, di bimbe con grosse bambole dai riccioli biondi strette contro al petto, di signori che portavano a casa la ghiottoneria supplementare per il pranzo, di bottegaie in gala e d'operai con la barba fatta; tutte faccie serene e vivaci; con le quali non contrastavano che quelle rannuvolate dei cocchieri e dei fattorini, tristi o stizziti della rude giornata di lavoro che si vedevan davanti, incominciata per loro al lume delle stelle e destinata a finire fra chiassi e prepotenze d'ubbriachi, dopo quattro bocconi ingozzati alla disperata. Ah, le feste solenni, per quanta gente sono terribili! Salito in piazza Carlo Felice per andare in piazza Statuto, mi parve di ritrovarmi sullo stesso carrozzone in cui avevo fatto la stessa corsa il primo giorno dell'anno: era un continuo salire e discendere di signori e di signore, uno scambio di scappellate e d'inchini, un baratto di sorrisi e di cerimonie, come in una sala di ricevimento. Per un tratto, da piazza San Carlo a piazza Castello, il tranvai fu tutto signorile: tutto penne di struzzo, manicotti di martora, luccichìo di braccialetti e di spille, di libretti da messa e di borse di confetti, tutto eleganza, complimenti e profumi. Quanti eran là dentro che pensavano al “fanciul celeste„ nato fra un asino e un bue mille e ottocento novantasei anni avanti, e alle parole ch'egli aveva dette al mondo: quod superest date pauperibus? Ahimè! Il bambino voleva dir per l'uno il principio del carnevale, per l'altro l'apertura del Teatro Regio, per questo una festa chiassosa in famiglia, per quello una strenna splendida; e i soli altari su cui molti altri l'adorassero erano le lucide vetrine di bottega dinanzi a cui correva il tranvai rapidamente, piene di capponi, d'aragoste e di gelatine. In non uno forse di quei mille battezzati che vedevo passare si formava il proposito di mutare, cominciando da quel giorno, pensieri e consuetudini dell'animo, di esser buono, giusto, sincero, umile, di amar tutti e di perdonar sempre come il maestro sublime di cui ricorreva il dì natalizio. E studiavo appunto a uno a uno tutti quei visi che non spiravano altro che compiacenza del lusso, vaghezza di attirar gli sguardi e desiderio e aspettazione di piaceri mondani, quando, in piazza Castello, salì una coppia coniugale, che, non trovando più posto dentro, si piantò in faccia a me sulla piattaforma. Era la supposta moglie dell'impiegato postale, la nostra capitanessa, come dice il Ferravilla nel Calzolar di donn, stretta al braccio d'un placido ometto di quarant'anni, suo marito senz'alcun dubbio, che sorrideva vagamente con gli occhi socchiusi, come compiacendosi dell'abbandono di ragazza innamorata con cui gli si lasciava andare addosso la sua graziosa donnina. Il capitano era dimenticato! E se quella dolcezza amorosa di lei non derivava dalla successione d'un tenente, significava un ritorno del cuore pentito e spoetizzato della colpa al sano affetto matrimoniale, alla modesta ma salda felicità circoscritta dallo sportello delle lettere raccomandate. E me ne rallegrai, anche perchè potevo così chiudere in forma edificante nel mio libro la storia della sua avventura. Un momento essa mi guardò, e parve che mi riconoscesse, ricordandosi forse del giorno che lei e l'altro mi volevan mettere fuori del carrozzone. Vidi passare un'ombra sul suo viso.... Ma che aveva a temere? Ch'io le preparassi il tiro che le faccio per le stampe non se lo poteva sognare. Infatti, si rinfrancò subito e si strinse più forte al marito, che questa volta chiuse gli occhi affatto, con un sorriso più soave. Dormi, fanciul celeste.
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Dopo il Natale passarono alcuni giorni senza ch'io vedessi più alcuno. Pareva che i miei personaggi m'avessero già tutti abbandonato e fossero scomparsi nella nebbia che tornava ad avvolgere la città, umida e densa, nascondendo ogni cosa. Solo il terzultimo giorno ne ritrovai due nel carrozzone del Martinetto, in via Garibaldi, sotto un raggio fuggitivo di sole. Stando sulla piattaforma, un po' a sinistra dell'uscio, vidi dentro, di profilo, la sposa del borgo San Donato, col capo inclinato dalla parte opposta alla mia, nell'atto della Madonna della Seggiola. Mi passò un'idea. Sporsi il capo.... Ebbene, non credevo d'aver messo tanto affetto a quei due poveri esseri. Fu una vera gioia quella che sentii. Essa teneva sur un braccio un bambino in fasce. Alla sua destra, in fondo, sedeva suo marito. Ma era lei veramente? Aveva nell'atteggiamento del capo e del busto tutta la grazia che può dare la maternità a un corpo infelice; nel viso una luce nuova, come la coscienza altera e forte d'essere una creatura necessaria e sacra a un'altra creatura, e gli occhi più grandi e più dolci, con l'intensità di sguardo di chi fissa un orizzonte, come se in quegli altri due piccoli occhi in cui fissava i suoi ella vedesse come per due spiragli un mondo misterioso e lontano. Era venuto dunque l'aspettato, la grande consolazione dell'iniquità della natura e della sorte, la cara speranza di tutti i giorni e di tutte le ore, quello che la poneva in alto come una regina e le ingrandiva la vita come il concetto d'un'impresa eroica! E proprio in quel punto parve ch'egli rispondesse: — Sì, son venuto! — con una voce acuta e imperiosa, che era segno d'un corpicino sano e gagliardo. Essa sorrise, si guardò intorno con aria timida, interrogò con lo sguardo suo marito, e con una mano in cui si vedeva la titubanza, arrossendo leggermente, fece sguisciar due bottoni dagli occhielli del petto; poi, con un atto risoluto e pudico insieme, che porgeva e nascondeva ad un tempo, appagò la boccuccia avida, che subito tacque, per bere la vita. Allora essa rialzò il viso rosato e trionfante. Ah santa maternità! In parola d'onore, era bella. E il povero giovane guardava quel visetto enfiato dallo sforzo del succhiare con un occhio fisso e amoroso, che pareva dirgli: — Bevi, bambino; piglia da lei col latte l'anima bella, l'amor del lavoro, la rassegnazione alla povertà, il coraggio, la dolcezza, la forza; succhia la vita della mia sposa, e sarai buono e onesto; bevi l'anima di tua madre, e sarai la nostra ricchezza e la nostra gloria! — E in quell'atto li lasciai, mandando un buon augurio a tutti e due, e uno al nuovo personaggio, che avevo amato io pure, di cui ero stato padrino in cuor mio prima che nascesse, e che sarebbe stato un ricordo gentile di tutta la mia vita.
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Ed eccoci all'ultimo giorno, che per me fu solenne. Uscito verso sera dalla direzione della Società Torinese e attraversata la piazza solitaria della barriera di Nizza, salii sul carrozzone della linea di piazza Castello, qualche minuto avanti che partisse. I lampioni della barriera rompevano appena la nebbia fittissima, in cui si movevano come larve fattorini, cocchieri e guardie daziarie, espandendo in risa e in facezie l'allegria bevuta dai liquoristi vicini per festeggiare la fin dell'anno. Mi parve di riconoscere tra quelle voci i grugniti di Tempesta; ma li coperse subito il canto squarciato d'una brigata di beoni, uscenti da un'osteria della piazza, di cui non appariva che la lanterna vermiglia. Quando il carrozzone partì, io ero solo dentro, in un angolo. Era l'ora in cui sono affollati tutti i tranvai che vanno ai sobborghi e quasi vuoti affatto quelli che vanno dalla cinta al centro di Torino. Avrei potuto allungarmi sui cuscini della Torinese e dormire tranquillamente; ma nonostante la stanchezza che m'aveva lasciata una notte insonne e una giornata di corse, non mi riuscì nemmeno d'assopirmi un po': mi distraeva la vista della strada nebbiosa, dove la fuga dei caffè sconosciuti e delle imboccature di strade che non riconoscevo e i larghi vani oscuri delle interruzioni del fabbricato, nei quali indovinavo la campagna dai lumi lontani, mi davano l'illusione d'entrare in una grande città straniera. Era quella l'ultima mia corsa dell'anno. Al pensarci, seguiva nella mia mente, per effetto dell'intento unico che in tutto quell'anno m'aveva guidato, una confusione di immagini singolarissima: si legavano i ricordi di tutte le corse, come se queste non fossero state interrotte dalle altre mille occupazioni della mia vita, e mi pareva d'aver fatto un viaggio continuo, a traverso alle quattro stagioni, di giorno e di notte, scendendo da un carrozzone per salire in un altro, andando avanti e indietro senza posa per tutte le vie, come se non avessi avuto altro domicilio che la carrozza di tutti. E tutte le persone, le scene, gl'incontri, gli accidenti che m'erano occorsi su quelle tavole mobili mi si affollavano alla memoria, distinti dagli altri avvenimenti della mia esistenza, come se questi avessero riguardato un altro me stesso, come se per un anno fosse stata separata nella mia esistenza e nei miei interessi l'umanità corrente sulle rotaie da quella che avevo visto e praticato fuori delle linee dei tranvai.
Ma, forse a cagione della solitudine e della stanchezza, e anche del tempo uggioso, erano le persone e le scene più tristi quelle che m'apparivano più vive. Lontano, come dentro alla nebbia, passavano le coppie amoreggianti sulle giardiniere domenicali, gli erotici appiccicati alle signore, le maschere del martedì grasso, le brigate brille, le teste tinte, le passeggiere saltatrici, una confusione bizzarra di monache e d'avventuriere, di contesse e d'erbivendole, di balione fiorenti e di zitellone malinconiche, di magistrati, di carabinieri e di “sovvertitori„; passavano e svanivano. Ma vicino, immobili, e come sotto il lume del carrozzone, vedevo l'angoscia della vecchia madre singhiozzante alla visione di Abba-Garima, la disperazione cupa di Taddeo e Veneranda fulminati dalla morte della loro creatura, il carro funebre del buon veterano che attraversava la strada al tranvai, e il cadaverino sanguinoso del bimbo schiacciato, e il finto sonno miserando della vecchia meretrice trafitta dagli sguardi dell'innocenza coronata di fiori. Quanti dolori, quante miserie anche in quelle poche gabbie volanti, dove pure i dolori e le miserie maggiori non salgono! Ruppero un momento quella tristezza, passando a braccetto, il pittore e la “vergine morta„, il tipografo biondo e la sua compagna, e gli sposi di borgo San Donato, felici. E poi un'altra ondata di gente dolorosa mi passò davanti: la povera donna sformata dal cancro, la tisica schiantata dalla tosse, la mamma angosciata della corona mortuaria troppo povera, e il fattorino percosso a sangue, e tutti i suoi compagni intirizziti, fradici, rotti dalla stanchezza, che mostravan negli occhi velati il tormento del sonno e il terrore della multa, e in mezzo a loro il mio buon camerata della Scuola di Modena, nella sua uniforme di controllore, che mi faceva un cenno triste di saluto....
Mi ruppe il corso di questi pensieri una brusca fermata. Dov'eravamo? Riconobbi vagamente piazza Nizza a traverso al velo della nebbia. Alcune persone salirono. Il tranvai si rimise in moto e io mi rituffai nei ricordi.
Miserie, sventure, dolori. Ed anche quante tristizie, quante viltà, quante vergogne! Ma qui seguiva una lotta nell'animo mio. Dietro la faccia bestiale di Tempesta martirizzatore dei cavalli s'alzava il viso onesto e buono di Giors, che mi diceva sorridendo: — Hai conosciuto me solo; ma ci sono molti altri Giors, te lo assicuro. — Mi sorgeva davanti Desbottonass, abbrutito e inferocito dall'alcool, e dietro a lui una schiera d'altri briaconi suoi pari; ma subito si cacciava tra me e la sua immagine l'operaio lattoniere, che mi accennava una folla d'amici suoi, ai quali brillava sulla fronte, come a lui, una dignità nuova, il raggio della vita intellettuale, l'ardore d'un santo e infaticabile apostolato di civiltà, d'amor fraterno e di pace. Mi veniva innanzi uno stuolo di signore e di signori orgogliosi, sdegnosi del contatto del popolo e spiranti in ogni atto un disprezzo insultatore della miseria e provocatore dell'odio; ma al momento stesso lo stuolo s'apriva per lasciarmi vedere la dolce signorina bionda, intenerita e altera di sorregger con la spalla la testa grigia del vecchio muratore svenuto. Mi rivedevo di fronte il ricco egoista ed esoso, incredulo della fame, calunniatore della povertà, lesinatore arrabbiato del centesimo; ma m'appariva accanto a lui la buona famiglia borghese, impietosita dal dramma, che accarezzava il visetto nero e ficcava il gruzzolo in tasca allo spazzacamino. Mi si rizzava in faccia la persona tronfia di Tintura Migone, il negriere fallito, insolente con gli umili, prepotente coi deboli, aborritore dei bambini; ma spuntava al di sopra dei suo capo il viso ardente, copriva il suo brontolìo la santa voce di donna Chisciotta, che mi diceva: — Ci son io, e valgo io sola un esercito di costoro! — Poi da capo m'avvolgeva una folla di superbi, di sordidi, di depravati, di vili, che mi schernivano e mi dicevano: — Che cosa sogni, imbecille! Il mondo siamo noi —; e un'altra volta accorrevano donna Chisciotta e Giors e la signorina bionda e il lattoniere e gli sposi di San Donato e il tipografo dalla testa d'oro, e mi dicevano tutti insieme: — No, quelli non sono il mondo come non sono il cielo le nubi nere, se anche lo coprano intero. Spera in noi, credi in noi, confortati in noi; noi siamo le avanguardie d'un'umanità bella; noi abbiamo l'avvenire sulla fronte e la vittoria nel cuore; sarà nostro il regno del mondo.... —
Fui un'altra volta interrotto; il tranvai si fermò; riconobbi nella nebbia l'obelisco dei ribelli del 1821: eravamo in piazza San Salvario; salirono altri passeggieri; si ripartì.
Allora la stanchezza mi vinse, chiusi gli occhi, mi sentii salire il sonno al cervello, e rimasi non so quanto in uno stato come di dormiveglia febbrile, agitato da immagini vivacissime. Vedevo a traverso ai vetri del carrozzone la strada rischiarata da torrenti di luce bianca, corsa da una moltitudine fitta di carrozzoni luminosi e di enormi carri sovraccarichi, non più tratti da cavalli, di carrozze d'ogni grandezza e d'ogni forma, mosse da una forza occulta, che s'incrociavano e s'incalzavano rapidissimi, come nella previsione confusa del vecchio fabbro, amico del lattoniere; e pensando al tempo in cui le vie risonavano di schiocchi di frusta e di grida di carrettieri e di cocchieri, mi pareva che fosse un tempo remotissimo, del quale serbassi appena la memoria. Guardavo il tranvai che mi portava, ampio e elegante come una sala, e la gente che lo riempiva mi pareva anch'essa mutata. Erano diversamente vestiti; ma non più con grandi differenze, come se i signori e i poveri si fossero ravvicinati, quelli discendendo e questi salendo a una mediocrità decorosa; e non vedevo più nei modi un contrasto di volgarità e di gentilezza, ma una garbatezza uniforme, meno manierata della presente, una cortesia dignitosa e semplice, senz'alcun indizio di ostentazione o di sforzo. E alcune cose mi riuscivano strane e mi facevan pensare. Due passeggieri in faccia a me discorrevano d'amministrazione comunale, e mi stupivo che parlassero così familiarmente, vedendo che l'uno aveva le mani delicate e bianche e l'altro due grosse mani brune di lavoratore, e più sentendo che il primo diceva: — Quando apersi la seduta.... — e che l'altro gli faceva in accento di rimostranza delle osservazioni a cui egli prestava un'attenzione viva e rispettosa, come da pari a pari; e mi sembrava d'aver visto quei due visi lungo tempo addietro, come nei primi anni della mia infanzia. Così non mi riusciva nuovo il viso del conduttore in bella divisa, che ogni tanto vedevo di profilo sulla piattaforma, nell'atto d'avvertire garbatamente quei che scendevano di badarsi dalle carrozze che passavano; e mi destava una vaga reminiscenza l'aspetto d'un ragazzino seduto in un angolo, con un fascio di libri sotto il braccio, lindo e sorridente; e domandai a me stesso: — Dove ho visto costui? — vedendo un operaio che smise di leggere il giornale e s'alzò rispettosamente per cedere il posto a una vecchietta ben messa, che entrava salutando tutti con un sorriso, e che mi fece anch'essa l'impressione d'una conoscenza antica, ma dimenticata da molt'anni. Poi, a poco a poco, spuntò nella mia memoria come un raggio, che rischiarò quei visi l'un dopo l'altro. Nei due che parlavano degli affari del Comune riconobbi il sindaco di Torino e il falegname propagandista, il conduttore era Tempesta rincivilito, il ragazzo era lo spazzacamino redento, l'operaio del giornale, Desbottonass, rigenerato, e la vecchietta ultima entrata, la madre del soldato, rifatta. E quel contrasto fra le immagini antiche e quella novità degli abiti, dei modi, degli sguardi, degli accenti, che rispondeva a una mia vaga e ardente speranza del tempo passato, quando a sperar quelle cose s'andava in carcere, mi riempiva il cuore d'una dolcezza inesprimibile, d'una gioia che mi mandava agli occhi le lacrime. E avevo bisogno di sfogarmi, di far festa con gli altri, di gridare: — Non era dunque un sogno, no! Com'è bello! E come s'è potuto credere un sogno? — e stavo per fare il mio sfogo con uno sconosciuto mio vicino, quando questi mi prevenne afferrandomi una mano e sciamando: — No, non era un sogno; ed è bello, sì; e come ho potuto creder questo una follia scellerata? — Mi voltai, vidi due occhiali e una barba a pizzo: era Guyot!
Ma la mia esclamazione di maraviglia e il sogno con essa furono rotti da un alt vigoroso, che risonò nel tranvai, e che mi svegliò come un pugno. Apersi gli occhi e riconobbi nella nebbia il corso Vittorio Emanuele, dove avevo da scendere per andar a pigliare il tranvai di corso Vinzaglio, che m'avrebbe portato in piazza Statuto. Trovai a stento un po' di posto sulla piattaforma davanti affollata, dove salirono ancora, all'imboccatura di via Roma, altri due; uno dei quali rimase sul predellino, in barba al regolamento, con una gamba spenzoloni, come un acrobata sopra un trapezio.
Eran tutti cappottoni di buon panno, tube lustre, “risotti„ freschi, baffi arricciati, caramelle luccicanti, tutta gente per bene, eccitata dal pensiero allegro della cena di mezzanotte, e anche dal solo pensiero della fin dell'anno; chi sa perchè? e ridevano di quel pigia pigia, cacciandosi a vicenda dei nuvoli di fumo nel naso, negli orecchi e nella nuca, e domandandosi scusa l'un con l'altro delle fiancate e delle pestate di calli, con una familiarità da veglione. Di tratto in tratto il tranvai si fermava per lasciar discendere o salire una signora; e allora raddoppiava il buon umore e il chiasso, dovendo saltar giù quattro o cinque per aprirle il passaggio, e sforzandosi gli altri per far rientrare i petti e le pancie; non tanto però da non sentire il contatto morbido dei mantelli e dei manicotti e i profumi delicati delle capigliature, che facevano scintillare gli occhi e dilatare le nari. E così si percorse il primo tratto di via Roma, si passò accanto a Emanuele Filiberto grandeggiante nella nebbia e s'infilò la strada tra piazza San Carlo e Piazza Castello. Qui, per lasciar passare un grosso signore che scendeva, girai sui talloni e mi trovai davanti, quasi a naso contro naso, nella piena luce d'una lampada elettrica, Siapure; il quale aperse gli occhi e la bocca con quella particolare espressione di brusco stupore che suol provocare l'apparizione inaspettata d'un nemico, e che io sentii riflessa nello stesso punto sul mio viso. Fu un momento solo, che mi bastò a dir tra me: — Tocca a lui, poichè lo mandai a salutare dalla figliuola, — e un impulso brutale dell'orgoglio mi fece girar di nuovo su me stesso, voltandogli le spalle; pentito dell'atto, peraltro, avanti che fosse compiuto. — Ah, impostore! Non era dunque sincero il saluto alla bimba se non hai osato di ripeterlo al padre! — Ma era troppo tardi, dopo quell'atto. — È finita, dunque, — pensai — fuggita quest'occasione, non se ne offrirà un'altra mai più; resteremo nemici per sempre! O miseria dell'anima mia!
— Edmondo, — sentii dire in quel punto da quella voce, che da tanti anni non avevo più intesa.
E allora mi voltai di scatto, gli misi un braccio intorno al collo e lo baciai sul viso; egli fece l'atto stesso, e mi rese il bacio. E restammo un momento così, col respiro oppresso, senza poter parlare. C'era lì sulla piattaforma il controllore colosso, l'ex carabiniere, che ci lanciò un'occhiata severa, non parendogli forse regolare una scena simile sopra un tranvai in servizio. Ma Siapure non se ne accorse; aveva gli occhi umidi, il mio buon Siapure. Mi strinse ancora una mano fra le sue; poi diè uno strappo alla correggia del campanello, dovendo scendere.
— Voglio rivederti domani, — gli dissi.
— Verrò da te con la bimba, — rispose.
E discese. Sentii una grande contentezza; ma fu breve, chè subito vi succedette un sentimento amaro di commiserazione per me stesso. O Dio buono! E c'eran voluti tanti anni per fare una cosa così semplice, così ragionevole, così buona per tutti e due!
Ma mi distrasse Giors, al quale mi trovai daccanto, essendo scesi tutti gli altri in via Garibaldi. Era allegro; gli piaceva la nebbia, che secondo non so quale sua teoria fisiologica “rinforza l'uomo„ e lo stuzzicava la vista dei buoni bocconi esposti nelle vetrine illuminate dei salumai. Mi parlò con molte esclamazioni ammirative d'un tacchino in gelatina che aveva visto in via Roma. Ah, sacrista! che bel bestione! che maraviglia! una rotondità di mappamondo di cavalla, una bianchezza di latte dentro a quell'oro, tre chilogrammi di ben di dio, una tentazione che non se la poteva levar dalla mente, che gli ballava davanti agli occhi per la strada, e la bocca gli faceva acqua come una fontana. E rideva, dicendo questo, e faceva la gobba come se quel ben di dio l'aspettasse alla barriera di Francia, sul piccolo desco dei lupicini; al quale nemmen quella sera, pover'uomo, non si sarebbe potuto sedere. Ma troncò quel discorso per fare i suoi complimenti a una giovine bambinaia che salì sulla piattaforma, con una bellezza di bimba in braccio, d'un anno al più, bionda come il sole, colorita come una pesca, vestita d'una cappottina azzurra elegantissima, tutta guernita di pelo bianco sopraffino, che le faceva come una corona di gelsomini intorno al viso incappucciato. Giors si voltò indietro per aprir l'uscio; ma la ragazza gli accennò di no, che non s'incomodasse: la bimba era capricciosa, non voleva star dentro ai carrozzoni; guai a portarcela; le piaceva star sul davanti a veder correre i cavalli; non era ancor di sei mesi, che già aveva manifestato risolutamente quella volontà. E detto questo, rimase accanto a lui, tenendo la bimba su, col capo all'altezza del suo, tanto accosto che quasi si toccavano. La vicinanza di quella bimba eccitò Giors fuor di modo. Diede in una risata enorme. — Ah, la bella totina! Lei vuol star fuori, vuol stare; vuol star qui accanto a Giors; non ha mica paura dei suoi grossi baffi da spaventapasseri. Ah, che amore di creatura! È l'amica dei cocchieri, lei. Ecco una signorina che sa stare al mondo! — E chinando il viso verso di lei, godeva a far scorrere la guancia sulla guarnizione bianca e morbida del suo cappuccio, e rideva, esclamava, la guardava negli occhi con la dolcezza d'un padre e l'allegria d'un fanciullo.
Non m'era mai parso tanto buono come mi parve in quel momento, mai tanto retto e sano il suo sentimento della vita; mai non avevo compreso così chiaramente da quali pure e profonde sorgenti di bontà innata derivasse la sua allegrezza, il suo coraggio, la sua energia al lavoro, l'amabile e forte serenità della sua anima onesta.
— Ah, la mia bella totina! — continuò a esclamare. — Guardate che begli occhietti azzurri e che botton di rosa d'una bocca! Che pan di burro! Ecco una ragazza che troverà marito anche senza dote! Parola d'onore, se non n'avessi già tre, ne vorrei aver una compagna....
Ed eravamo già in piazza Statuto, tutta grigia di nebbia, ch'egli seguitava a fare le sue dichiarazioni d'amore. Lo pregai di fermare; fermò, e mi disse con la sua voce cordiale: — Buon anno, monsù!
— Buon anno, Giors! — gli risposi.
Egli parve colpito dall'accento con cui gli feci quel saluto. Mi guardò, e poi mi rispose la parola che da molto tempo ripeto sempre, e che mi pare la più dolce e la più sapiente delle parole umane: — Speriamo!
Sì, mio buon Giors: speriamo!
Fine.
INDICE
Capitolo Primo (pag.1 a 30 ).
Gennaio.
La prima idea del libro. — I due amanti di Borgo S. Donato. — La nevicata. — Giors il cocchiere. — Il dilettante di tranvai. — Cocchieri e fattorini. — La vecchia di Pozzo di Strada. — La vergine morta. — Il mio nemico. — Il fattorino Carlin e la politica africana. — H cavaliere Bicchierino. — Studi sui passeggieri. — L'ultimo impulso. — I due bambini.
Capitolo Secondo (pag.31 a 79 ).
Febbraio.
Il pittore e i gelosi. — La linea di Nizza. — Il cocchiere Tempesta. — Lei, voi e tu. — I prepotenti. — Carlin. — Gli sposi inglesi. — I cavalli. — Hop! hop! — Una corsa fortunata. — Il poeta. — Siapure. — Politica brilla. — Ah! che politicon! — Le giardiniere. — Il biciclista e la vergine morta. — La donnina intrepida. — Il carnevale. — La vecchietta addolorata. Agitazione elettorale. — Il falegname socialista.
Capitolo Terzo (pag.80 a 112 ).
Marzo.
Abba Garima. — La mente di Carlin. — Il veterano e il suo cane. — Sposi! — Un convegno sul tranvai. — Il bel capitano. — La linea del Valentino. — La linea di Borgo Nuovo. — Chisciottina. — Il pittore che cerca moglie. — L'invasione della réclame. — Giors e la madre del soldato. — La madre del soldato. — Prime aure di primavera. — Le comunicande.
Capitolo Quarto (pag.113 a 155 ).
Aprile.
Il cocchiere marchese. — La studentessa di medicina. — Il buon travet. — I tranvai della domenica. — Tintura-Migone. — Taddeo e Veneranda. — Desbottonass. — Tempesta affamato. — Tempesta punito. — Il cuore di Giors. — I liberati dal carcere. — Una disgrazia. — Quistione di colori. — Mancanza di pudor sociale. — La civetta. — Caramella rifiutata. — Passaggio d'ammanettati. — Il lattoniere e il capomastro. — Guyot. Macchiette varie. — A che ora, stasera?
Capitolo Quinto (pag.156 a 193 ).
Maggio.
Primo Maggio. — Il tipografo biondo. — Una per uno. — Discorsi intesi a frullo. — Il mercato. — Il capitano e la signora. — Il veterano felice. — Il mio piccolo raccomandato. — La protettrice del cocchiere. — Donna Chisciotta trionfante. — Gelosia coniugale. — Il pittore, avvocato delle studentesse. — Il terzo aspettato. — La questua per i prigionieri. — Il fattorino bastonato. — L'operaio ubbriaco. — Il litro e la bottiglia. — Simpatie. — L'incontro dei due amanti.
Capitolo Sesto (pag.194 a 242 ).
Giugno.
Le teste del prossimo. — I cappellini delle signore. — Inconvenienti dei tranvai. — La festa dello Statuto. — I primi calori. — La signora e l'erbivendolo. — Le tre coppie. — Una corsa tempestosa. — L'amante del marchese. — Uno scandalo. — La punizione del tiranno. — Il falegname e la studentessa. — La colazione di Giors. — Per la Torinese e per la Belga. — Il malato. — Personaggi comici. — Il fattorino dantista. — La piccola convalescente. — Avanti! — La bambina di Siapure. Desbottonass intenerito.
Capitolo Settimo (pag.243 a 281 ).
Luglio.
Gli esami. — L'uscita dai teatri. — Il terzo incomodo. — Quadretti di Torino. — Effetti del cattivo tempo. — Eterno femminino. — Le malinconie del pittore. — Le figlie di Borea. — Visi antipatici. — Il reduce dall'Affrica. — I sette peccati capitali. — Il fattorino conte. — La fuga delle botteghe e degli annunzi. — Carlin e l'amore. — Amor materno. — Gratitudine briaca. — Vado alla direzione! — Visioni dell'avvenire. — Aria e acqua. — Scoraggiamento e speranza.
Capitolo Ottavo (pag.282 a 319 ).
Agosto.
Grulli ed ingenui. — Il tranvai nuziale. — Il ritratto della principessa. — La mano della vergine. — Il peccato e l'innocenza. — Precetti utili. — Fra due fuochi. — L'amore muto. — L'inseguita. — Il tipografo sposo. — Il cocchiere ferito. — Al ladro! — La moglie di Giors. — Vecchie conoscenze. — Bicchierino in licenza. — Bicchierino e lo sciopero. — Il muratore svenuto. — I tranvai e la pinguedine.
Capitolo Nono (pag.320 a 360 ).
Settembre.
I reduci dalla campagna. — Il trionfo della bimba di Taddeo. — Il pittore innamorato. — La colonia alpina di donna Chisciotta. — Gli sbeffatori dei villeggianti. — Il veterano felice. — La musoneria settembrina. — Alla barriera di Lanzo. — L'ubbriaco e il dantista. — I passeggieri solitari. — Confusione d'idee. — Le vecchie dell'Ospizio. — Il falegname e l'albero. — Le biciclette. — La famiglia di Tempesta. — I ribelli al Galateo. — Fra conte e borghese. — Suor Teresa. — Amore morto. — Notte estiva. — Saluta tuo padre.
Capitolo Decimo (pag.361 a 394 ).
Ottobre.
Il controllore colosso. — La povera vecchia. — Giors e le ostriche. — Un biglietto di cento lire. — Il pretino forestiere. — Galileo Ferraris. — Fenomeni d'elettricità erotica. — I saltatori — Il cav. Bicchierino e il socialismo municipale. — La bugiarderia. — La vendetta di Guyot. — Le foglie secche. — La linea del ponte Isabella. — Pensieri d'autunno. — L'amico della scuola di Modena. — Busse in tranvai. — L'operaio della caramella e il suo bimbo.
Capitolo Undecimo (pag.395 a 431 ).
Novembre.
Il giorno dei santi. — Il giorno dei morti. — Una moribonda. — L'ultima uscita del veterano. — Il poeta umiliato. — Desbottonass, finito! — Giacolin ritorna. — La vecchia ringiovanita. — Bambino e belva. — La donna con la maschera. — L'ultima apparizione di Chisciottina. — L'uomo spauracchio. — Una bella torinese. — Gli effetti d'un dramma. — La vergine morta fidanzata. — Il segreto del pittore. — La bimba è morta.
Capitolo Dodicesimo (pag.432 a 472 ).
Dicembre.
Tempesta nella neve. — L'ultima sfuriata di Carlin. — Siamo in troppi! — Il sindaco incognito. — Torino nella nebbia. — I Torinesi. — Gli sposi socialisti. — Considerazioni sul matrimonio. — La propaganda per le tasche. — Come s'innamorò il pittore. — Fra due carabinieri. — Il giorno di Natale. — È venuto! — L'ultima corsa. — Una visione. — Un sogno. — Il risveglio. — La riconciliazione. — Buon anno!