MAROCCO

DI EDMONDO DE AMICIS Quarta Edizione. MILANO FRATELLI TREVES, EDITOR I. 1877.

MILANO. TIP. FRATELLI TREVES. Gli editori hanno compite tutte le formalità richieste dalla legge e dalle convenzioni internazionali per riservare la Proprietà letteraria e il diritto di riproduzione.

INDICE

Tangeri Pag. 1

Had-El-Garbìa 93

Tleta de Reissana 132

Alkazar-El-Kibir 150

Ben-Auda 165

Karia-El-Abbassi 181

Beni-Hassen 201

Sidi-Hassem 219

Zeguta 230

Da Zeguta al Tagat 244

Fez 251

Mechinez 429

Sul Sebù 450

Arzilla 468

TANGERI

Lo stretto di Gibilterra è forse di tutti gli stretti quello che separa più nettamente due paesi più diversi, e questa diversità appare anche maggiore andando a Tangeri da Gibilterra. Qui ferve ancora la vita affrettata, rumorosa e splendida delle città europee; e un viaggiatore di qualunque parte d’Europa sente l’aria della sua patria nella comunanza d’una infinità d’aspetti e di consuetudini. A tre ore di là, il nome del nostro continente suona quasi come un nome favoloso; cristiano significa nemico, la nostra civiltà è ignorata o temuta o derisa; tutto, dai primi fondamenti della vita sociale fino ai più insignificanti particolari della vita privata, è cambiato; e scomparso fin anche ogni indizio della vicinanza d’Europa. S’è in un paese sconosciuto, al quale nulla ci lega e dove tutto ci resta da imparare. Dalla spiaggia si vede ancora la costa europea, ma il cuore se ne sente già smisuratamente lontano, come se quel breve tratto di mare fosse un oceano e quei monti azzurri un’illusione. Nello spazio di tre ore, è seguita intorno a noi una delle più meravigliose trasformazioni a cui si possa assistere sulla terra.

L’emozione, però, che si prova mettendo il piede per la prima volta su quel continente immenso e misterioso che fin dalla prima infanzia ci sgomenta l’immaginazione, è turbata dal modo in cui vi si sbarca. Mentre dal bastimento cominciavo a vedere distintamente le case bianche di Tangeri, una signora spagnuola gridò dietro di me con voce spaventata:—Che cosa vuole quella gente?—Guardai dove accennava, e vidi, dietro le barche che s’avvicinavano per raccogliere i passeggieri, una folla d’arabi cenciosi, seminudi, ritti nell’acqua fino a mezza coscia, i quali s’accennavano l’uno all’altro il bastimento con gesti da spiritati, come una banda di briganti che dicessero:—Ecco la preda.—Non sapendo chi fossero e che cosa volessero, discesi nella barca, in mezzo a parecchi altri, col cuore un po’ inquieto. Quando fummo a una ventina, di passi dalla riva, tutta quella bordaglia colore di terra cotta, s’avventò sulle barche, ci mise le mani addosso, e cominciò a vociferare in arabo e in spagnuolo, fin che capimmo che le acque essendo basse tanto da non poter approdare, dovevamo traghettare sulle loro spalle; la qual notizia dissipò la paura d’uno svaligiamento e destò il terrore dei pidocchi. Le signore furono portate via sulle seggiole come in trionfo, ed io feci la mia entrata in Affrica a cavallo a un vecchio mulatto, col mento inchiodato sul suo cocuzzolo e le punte dei piedi nel mare.

Il mulatto, arrivato a terra, mi scaricò nelle mani d’un altro facchino arabo, il quale, infilata una porta della città, mi condusse correndo per una viuzza deserta a un albergo vicino, di dove uscii immediatamente con una guida per andare nella strada più frequentata.

La prima cosa che mi colpì, e più fortemente ch’io non possa esprimere, fu l’aspetto della popolazione.

Tutti portano una specie di lunga cappa di lana o di tela bianca, con un grande cappuccio quasi sempre ritto sul capo, cosicchè la città presenta l’aspetto d’un vasto convento di frati domenicani. Di tutto questo popolo incappato, una parte si muove lentamente, gravemente e senza far rumore, come se volesse passare inosservata; gli altri stanno seduti o accovacciati lungo i muri, davanti alle botteghe, agli angoli delle case, immobili e cogli occhi fissi, come le popolazioni pietrificate delle loro leggende. L’andatura, gli atteggiamenti, il modo di guardare, tutto è novo per noi; tutto rivela un ordine di sentimenti e d’abitudini affatto diverso dal nostro; una tutt’altra maniera di considerare il tempo e la vita. Quella gente non pare punto preoccupata delle sue faccende, nè del luogo dove si trova, nè di quello che accade intorno ad essa. Tutti hanno nell’espressione del viso qualchecosa di vago e di profondo, come di chi sia dominato da un’idea fissa, o pensi a luoghi e a tempi molto lontani, o sogni ad occhi aperti. Appena entrato nella folla, mi ferì un odore particolare, che non avevo mai sentito in mezzo alla gente in Europa; non so di che, ma punto gradevole, e nondimeno cominciai ad aspirarlo con una viva curiosità, come se mi dovesse spiegare qualche cosa. Andando innanzi, quella folla, che da lontano m’era parsa uniforme, mi presentava mille varietà. Mi passavano accanto faccie bianche, nere, giallastre, bronzine; teste ornate di lunghissime ciocche di capelli e cranii rapati e lucidi come palle metalliche; uomini secchi come mummie; vecchi d’una vecchiezza orrenda; donne col viso e tutta la persona ravvolta in un mucchio informe di cenci; bimbi con lunghe trecce; visi di sultani, di selvaggi, di negromanti, d’anacoreti, di banditi, di gente oppressa da una tristezza immensa o da una noia mortale; pochi o nessuno sorridente; gli uni dietro gli altri silenziosi e lenti come una processione di spettri per il viale d’un camposanto. Non so come, ma davanti a quello spettacolo, sentii il bisogno d’abbassar gli occhi sopra me stesso, e di dire dentro di me:—Io sono il tale dei tali, il paese dove mi trovo è l’Affrica, e costoro sono Arabi—e riflettere un momento per ficcarmi questa idea nella testa.

Una volta che vi fu, ci mettemmo a girare per le altre strade. La città corrisponde per ogni verso alla popolazione. È tutta un labirinto inestricabile di stradicciuole tortuose, o piuttosto di corridoi, fiancheggiati da piccole case quadrate, bianchissime, senza finestre, con porticine per le quali passa a stento una persona: case che paiono fatte per nascondervisi più che per abitarvi, ed hanno un aspetto tra di prigione e di convento. In molte strade non si vede che il bianco dei muri e l’azzurro del cielo; di quando in quando, qualche archetto moresco, qualche finestra arabescata, qualche striscia di rosso ai piedi dei muri, qualche mano dipinta in nero accanto a una porta, che serve a scongiurare gl’influssi maligni. Quasi tutte le strade sono ingombre di legumi fradici, di penne, di cenci, d’ossami, e in qualche punto di cani e di gatti morti, che ammorbano l’aria. Per lunghi tratti non s’incontra che qualche gruppo di ragazzi arabi incappucciati che giocano o canterellano con voce nasale i versetti del Corano; qualche povero accovacciato, qualche moro a cavallo a una mula, qualche asino sopraccarico, colla schiena sanguinolenta, sfruconato da un arabo mezzo nudo; cani spelati e scodati, e gatti d’una magrezza favolosa. Qua e là, passando, si sente odor d’aglio, di fumo di kif, d’aloè bruciato, di belgiuino, di pesce. E così si gira l’intera città, che ha per tutto la stessa bianchezza abbagliante e la stessa aria di mistero, di tristezza e di noia.

Dopo un breve giro riuscimmo nella piazza principale, anzi unica, di Tangeri, la quale è tagliata da una lunga strada che salendo dalla parte della marina attraversa tutta la città. È una piazzetta rettangolare, circondata di botteguccie arabe, che parrebbero meschine nel più povero dei nostri villaggi. Da un lato v’è una fontana sempre circondata d’arabi e di neri affaccendati ad attinger acqua con otri e brocche; da un altro lato stanno tutto il giorno sedute in terra otto o dieci donne col viso imbacuccato, che vendon pane. Intorno a questa piazza ci sono le modestissime case delle Legazioni straniere che s’innalzano come palazzi in mezzo alla moltitudine confusa delle casette moresche. In questo piccolo spazio si concentra tutta la vita di Tangeri, che è la vita d’un villaggio. V’è là vicino il solo tabaccaio della città, la sola spezieria, il solo caffè, che è una stanzaccia con un biliardo, e la sola cantonata dove si veda qualche volta qualche annunzio stampato. Là si raccolgono i monelli seminudi, i ricchi mori sfaccendati, gli ebrei che parlano d’affari, i facchini arabi che aspettano l’arrivo del piroscafo, gl’impiegati delle Legazioni che aspettano l’ora del desinare, gli stranieri appena arrivati, gl’interpreti, gli accattoni. Là s’incontra il corriere che arriva cogli ordini del sultano da Fez, da Mechinez o da Marocco, e il servitore che vien dalla posta coi giornali di Londra e di Parigi; la bella dell’arem e la moglie del ministro; il cammello del beduino e il cagnolino da salotto; il turbante e il cappello cilindrico; l’onda sonora del pianoforte che erompe dalle finestre d’un Consolato e la cantilena lamentevole che esce dalla porta della moschea. Ed è il punto dove l’ultimo flutto della civiltà europea s’infrange e ristagna nell’immensa acqua morta della barbarie affricana.

Dalla piazza, rimontando la strada principale, e passando per due vecchie porte, uscimmo, che cominciava a imbrunire, dalle mura della città, e ci trovammo in una piazza aperta sul fianco d’una collina, chiamata Soc de Barra, o mercato esteriore, poichè ogni domenica e ogni giovedì vi si fa il mercato. È forse di tutti i luoghi ch’io vidi nel Marocco, quello che mi fece sentire più profondamente il carattere del paese. È un tratto di terreno nudo, tutto gobbe e incavature, colla tomba d’un santo, formata da quattro muri bianchi, a mezza china; sulla sommità un cimitero; più lontano qualche aloè e qualche fico d’india; sotto, le mura merlate della città. In quel momento, vicino alla porta v’era un gruppo di donne arabe, sedute in terra, con mucchi d’erbaggi dinanzi; accanto alla tomba del santo una lunga fila di cammelli accosciati; più su, alcune tende nerastre e un cerchio d’arabi attoniti, seduti intorno a un vecchio, in piedi, che raccontava una storia; qua e là, vacche e cavalli; e sulla sommità, fra le pietre e i monticelli di terra del cimitero, altri arabi immobili come statue, col viso rivolto verso la città, tutta la persona nell’ombra, e le punte dei cappucci che spiccavano sull’orizzonte dorato dal crepuscolo. Su tutta questa scena una pace di colori, un silenzio, una mestizia, da non potersi efficacemente descrivere a voce, se non stillando parola per parola nell’orecchio di chi ascolta, come quando si confida un segreto.

La guida mi svegliò dalla mia contemplazione e mi ricondusse all’albergo, dove il mio dispiacere di trovarmi in mezzo a gente sconosciuta fu per la prima volta mitigato dal fatto ch’eran tutti Europei, cristiani e vestiti come me. V’erano a tavola una ventina di persone, tra uomini e signore, di nazione diversa, che offrivano una bella immagine di quello strano incrociamento di famiglie e d’interessi che segue in quei paesi: un francese nato in Algeri, marito d’un’inglese di Gibilterra; uno spagnuolo di Gibilterra, marito della sorella d’un console portoghese della costa dell’Atlantico; un vecchio inglese con una figliuola nativa di Tangeri e una nipotina nativa d’Algeria; famiglie erranti da un continente all’altro, o sparpagliate sulle due coste, che parlano cinque lingue, e vivono metà all’araba e metà all’europea. Appena cominciato il desinare, cominciò una conversazione vivissima, ora in francese, ora in spagnuolo, tempestata di parole arabe, sopra soggetti affatto estranei alla consuetudine delle conversazioni europee: come il prezzo d’un cammello, lo stipendio d’un Pascià, se il Sultano fosse bianco o mulatto, se era vero che fossero state portate a Fez dieci teste di rivoltosi della provincia di Garet, quando sarebbero arrivati a Tangeri quei religiosi fanatici che mangiano i montoni vivi, ed altre cose di questo genere, che mi facevano saltellare dentro all’anima il diavolo della curiosità. Poi vennero a parlare di politica europea con quel non so che di scucito che c’è sempre nei discorsi di gente di vario paese, e quelle solite gran frasi vuote con cui si parla d’una politica lontana, fantasticando alleanze spropositate e guerre favolose. E poi il discorso cadde su Gibilterra, argomento inevitabile; la gran Gibilterra, il centro d’attrazione di tutti gli Europei della costa, dove si mandano i figliuoli a studiare, dove si va a comprare il vestito, a ordinare un mobile, a sentire l’opera in musica, a respirare una boccata d’aria d’Europa. E finalmente venne in campo la partenza dell’ambasciata italiana per Fez, ed io ebbi il grandissimo piacere di sentire che l’avvenimento era assai più importante di quel che credevo, che se ne parlava in tutta Tangeri e in tutta Gibilterra e ad Algesira e a Cadice e a Malaga, e che la carovana sarebbe stata lunga un miglio, e che coll’ambasciata c’erano dei pittori italiani, e che forse ci sarebbe stato perfino un representante de la prensa. Alla quale notizia mi alzai modestamente da tavola e mi allontanai con passo maestoso.

Più tardi, a notte inoltrata, volli fare un altro giro per veder Tangeri addormentata. Non v’era un lampione, non una finestra illuminata, non uno spiraglio da cui trapelasse un barlume; la città pareva disabitata e non riceveva altra luce che quella del cielo stellato, sul quale biancheggiavano, come enormi tombe di marmo, le case più alte, e si disegnavano nitidamente le cime dei minareti e i rami delle palme. Andai sino in fondo alla strada principale: le porte della città erano chiuse. Girai per altre vie: tutto chiuso, immobile, muto. Due o tre volte inciampai in qualchecosa che a primo aspetto mi parve un mucchio di cenci, ed era un arabo addormentato. Sentii più volte, con raccapriccio, scricchiolare sotto il mio piede penne ed ossami, o cedere mollemente qualcosa che doveva essere la carogna d’un cane. Mi passò accanto, rasente il muro, come uno spettro, un arabo incappato; ne vidi un altro biancheggiare un momento in fondo a un vicolo; e a una svoltata sentii, senza veder nulla, un fruscìo affrettato di pantofole e di cappe, che mi fece sospettare d’aver turbato un conciliabolo. Andando, non sentivo che il rumore del mio passo; fermandomi, non sentivo che il mio respiro. Mi pareva che tutta la vita di Tangeri si fosse ridotta in me solo, e che se avessi gettato un grido, sarebbe risonato da un capo all’altro della città come uno scoppio di tuono. Pensavo alle tante belle arabe addormentate, alle quali passavo vicino, e agli strani misteri che avrei scoperti, se quelle case si fossero aperte tutt’a un tratto come una scena di teatro. Di quando in quando mi fermavo dinanzi alla splendida bianchezza di certi spazi di muro, su cui batteva la luna, che parevano illuminati dalla luce elettrica. In un vicolo oscuro incontrai un nero con una lanterna, che si fermò per lasciarmi passare, mormorando qualche parola che non compresi. Nel punto che sboccavo nella piazzetta, sentii sonare in quel profondo silenzio una risata sgangherata, che mi diede i brividi. Erano due giovanotti col cappello cilindrico, probabilmente due impiegati di Legazione, che passeggiavano discorrendo. In un angolo della piazza, sotto la tenda d’una bottega chiusa, un lumicino moribondo rischiarava confusamente un ammasso di cenci biancastri, da cui usciva un suono leggerissimo di chitarra e un filo di voce tremola e lamentevole, che pareva portata dal vento da una gran lontananza. Io stetti là immobile, sognando piuttosto che pensando, fin che i due giovani sparirono e il lumicino si spense, e allora tornai all’albergo, stanco, sbalordito, coll’imaginazione in tumulto, e con un sentimento nuovo e stranamente confuso di me medesimo, come ho più volte pensato che dovrebbe essere quello d’un uomo trasportato dalla terra in un altro pianeta.

La mattina dopo uscii per andarmi a presentare al nostro incaricato d’affari, Comm. Stefano Scovasso. Egli non avrebbe potuto dirmi che non ero puntuale al convegno. Il giorno otto d’aprile, a Torino, avevo ricevuto l’invito, coll’annunzio che la carovana sarebbe partita da Tangeri il giorno diciannove: la mattina del diciotto mi trovavo alla porta della Legazione. Non conoscevo di persona il Comm. Scovasso; ma sapevo di lui qualche cosa, che mi dava una gran curiosità di conoscerlo. Di due suoi amici che avevo interrogati prima di partire, uno m’aveva assicurato ch’era un uomo capace d’andare a cavallo da Tangeri a Tumbuctù, senz’altra compagnia che un paio di pistole; l’altro aveva biasimato la sua pessima abitudine di rischiare la propria vita per salvare quella degli altri. In grazia di queste informazioni lo riconobbi a primo aspetto, da lontano, prima ancora che l’interprete dell’albergo, il quale m’accompagnava, me lo indicasse. Era sulla porta della Legazione, in mezzo ad alcuni arabi immobili in un atteggiamento ossequioso, che pareva aspettassero degli ordini. Mi presentai, mi ricevette da par suo, mi volle sin da quel momento ospite del quartier generale, e mi diede notizie della spedizione. La partenza era rimandata ai primi di maggio, perchè a Fez, in quei giorni, v’era l’ambasciata inglese. S’aspettavano di là i cavalli, i cammelli, i muli e un drappello di cavalleria che ci avrebbe scortati in viaggio. Un bastimento da trasporto della nostra marina militare, il Dora, allora ancorato a Gibilterra, aveva già portato a Larrace, sulla costa dell’Atlantico, i regali che Vittorio Emanuele mandava all’Imperatore del Marocco. Lo scopo principale del viaggio, per l’incaricato d’affari, era di presentare le credenziali al giovine sultano Mulei el Hassen, salito al trono nel settembre del 1873. Nessun’ambasciata italiana era mai stata a Fez. Era la prima volta che si portava nell’interno del Marocco la bandiera della nuova Italia. Perciò l’ambasciata sarebbe stata ricevuta con straordinaria solennità. Il nostro Ministero della guerra aveva mandato un capitano di stato maggiore, il signor Giulio di Boccard; il Ministero della Marina, un capitano di fregata, il signor Fortunato Cassone, allora comandante del Dora, ora capitano di vascello. Questi, insieme col vice-console italiano di Tangeri e col nostro agente consolare di Mazagan formavano la parte ufficiale dell’ambasciata. Il pittore Ussi di Firenze, il pittore Biseo di Roma ed io eravamo invitati privatamente dal signor Scovasso. Tutti, eccetto l’agente di Mazagan, si trovavano già a Tangeri.

La mia prima occupazione, appena rimasto solo, fu di osservare la casa nella quale ero ospitato; e veramente la casa d’un Ministro europeo in Africa, d’un Ministro, in specie, che si prepara ad un viaggio nell’interno, è degna d’osservazione. L’edificio, per sè stesso, non ha nulla di straordinario: di fuori è bianco e nudo, ha un giardinetto davanti, un piccolo cortile nell’interno, e nel cortile quattro colonne sulle quali s’appoggia una galleria coperta che gira tutt’intorno all’altezza del primo piano. È una casa signorile di Cadice o di Siviglia. Ma la gente, la vita di questa casa mi riuscì affatto nuova. Governante e cuoco, piemontesi; una serva mora di Tangeri ed una negra del Sudan, coi piedi nudi; camerieri e stallieri arabi vestiti di grandi camicie bianche; guardie consolari, con fez, caffettano rosso e pugnale; tutta questa gente in moto per tutta la giornata. Poi, a certe ore, un andirivieni di operai ebrei, di facchini neri, d’interpreti, di soldati del Pascià, di mori protetti dalla Legazione. Il cortile era ingombro di casse, di letti da campo, di tappeti, di lanterne. A tutte le ore si sentiva picchiare il martello e strider la sega, e i servi chiamarsi fra loro con quei nomi strani di Fatma, Racma, Selam, Mohammed, Alì, Abd-er-Rhaman. E la mescolanza delle lingue! Un moro faceva un’imbasciata in arabo a un altro moro, che la trasmetteva in spagnolo alla governante, che la ripeteva in piemontese al cuoco. Era un continuo intrecciarsi di traduzioni, di commenti, d’equivoci, di dubbi, intercalati di Por dios, d’ Allá e di sacrati italiani. Nella strada una processione di cavalli e di mule. Davanti alla porta un gruppo permanente di curiosi, o di poveri diavoli, arabi ed ebrei, aspiranti, alla lontana, alla protezione della Legazione. Di tratto in tratto la visita d’un ministro o d’un console, a cui si inchinavano tutti i fez e tutti i turbanti. Ogni momento l’apparizione d’un messo misterioso, d’un vestiario sconosciuto, d’una faccia strana. Infine una varietà di figure, di colori, di gesti, d’accenti, di faccende, da non mancarvi che la musica per credere d’essere in teatro, alla rappresentazione d’un ballo mimico di soggetto orientale.

Il mio secondo pensiero fu d’impadronirmi di qualche libro del mio ospite per sapere in che paese mi trovassi, prima di mettermi a studiare i costumi. Questo paese, chiuso fra il Mediterraneo, l’Algeria, il deserto di Sahara e l’Oceano, attraversato dalla grande catena dell’Atlante, bagnato da larghi fiumi, aperto in pianure immense, dominato da tutti i climi, privilegiato, nei tre regni della natura, di ricchezze inestimabili, destinato, per la sua giacitura, ad essere una gran via di commercio fra l’Africa centrale e l’Europa; è ora occupato da circa otto milioni d’abitanti tra berberi, mori, arabi, ebrei, negri ed europei, sparsi sopra una estensione di terreno più vasta della Francia. I berberi, che formano il fondo della popolazione indigena, selvaggi, turbolenti, indomiti, vivono sulle montagne inaccessibili dell’Atlante, quasi indipendenti dall’autorità imperiale. Gli arabi, il popolo conquistatore, occupano le pianure, ancora nomadi e pastori e non in tutto degeneri dalla fierezza del carattere antico. I mori, arabi incrociati e corrotti, discendenti in gran parte dai mori di Spagna, abitano le città, ed hanno nelle mani le ricchezze, le cariche, il commercio. I neri, cinquecentomila circa, provenienti dal Sudan, sono per lo più servi, lavoratori e soldati. Gli Ebrei, presso a poco eguali di numero ai neri, discendenti la più parte dagli Ebrei esiliati d’Europa nel medio evo, oppressi, odiati, avviliti, perseguitati più che in nessun altro paese del mondo, esercitano le arti e i mestieri, mercanteggiano, s’industriano in mille modi coll’ingegno, la pieghevolezza e la costanza propria della loro razza, e trovano un compenso all’oppressione nel possedimento dei denari strappati ai loro oppressori. Gli Europei, che l’intolleranza mussulmana respinse a poco a poco dall’interno dell’Impero verso le coste, son meno di due migliaia in tutto il Marocco, abitano la maggior parte la città di Tangeri, e vivono liberamente all’ombra delle bandiere dei Consolati. Questa popolazione eterogenea, dispersa, inconciliabile, è, piuttosto che retta, oppressa da un governo soldatesco, che succhia come un immenso polipo tutti gli umori vitali dello Stato. Le tribù e le borgate obbediscono agli sceicchi, le città e le provincie ai Caid, le grandi provincie ai pascià, e i pascià al Sultano, grande Sceriffo, sommo sacerdote, giudice supremo, esecutore della legge che emana da lui, libero di mutare a suo capriccio monete, imposte, pesi, misure, padrone delle sostanze e delle vite dei suoi sudditi. Sotto il peso di questo governo, e dentro al cerchio inflessibile della religione mussulmana, rimasta immune da ogni influsso europeo, e snaturata da un fanatismo selvaggio, tutto ciò che negli altri paesi s’agita e procede, là rimane immobile o rovina. Il commercio è strozzato dai monopoli, dalle proibizioni d’esportazione e d’importazione, dalla capricciosa mutabilità delle leggi. L’industria, ristretta nella sua attività dai vincoli posti al commercio, è rimasta come prima della cacciata dei Mori dalla Spagna, coi suoi strumenti primitivi e coi suoi procedimenti infantili. L’agricoltura, oberata di balzelli, vincolata nell’esportazione dei prodotti, non curata che quanto richiedono le prime necessità della vita, è decaduta a segno da non meritar quasi il nome d’arte. La scienza, soffocata dal Corano, contaminata dalla superstizione, si riduce, nelle maggiori scuole, a pochi elementi, quali s’insegnavano nel medio evo. Non v’è stampa, nè libri, nè carte geografiche; la lingua stessa, corruzione dell’arabo, non rappresentata che da una scrittura imperfetta e variabile, si va sempre più degradando; il carattere nazionale nella generale decadenza si corrompe; tutta l’antica civiltà mussulmana deperisce. Il Marocco, questo estremo baluardo occidentale dell’Islamismo, già sede d’una monarchia che dominava dall’Ebro al Sudan e dal Niger alle Baleari, glorioso d’Università fiorenti, di biblioteche immense, di dotti famosi, d’eserciti e di flotte formidabili, non è più che un piccolo Stato pressochè sconosciuto, pieno di miseria e di rovine, che resiste colle ultime sue forze all’invasione della civiltà europea, sorretto ancora sulle sue fondamenta sfasciate dalle reciproche gelosie degli Stati civili.

Quanto a Tangeri, l’antica Tingis, che diede il nome alla Mauritania tingitana, e passò successivamente dalle mani dei Romani in quelle dei Vandali, dei Greci, dei Visigoti, degli Arabi, dei Portoghesi, degl’Inglesi, è una città di quindicimila abitanti, che le sue sorelle dell’Impero considerano come una «prostituta dei Cristiani», benchè non vi rimanga più traccia delle chiese e dei monasteri che vi fondarono i Portoghesi, e la religione cristiana non v’abbia che una piccola cappella, nascosta in mezzo alle case consolari.

Dopo ciò cominciai a fare per le strade di Tangeri qualche studio preparatorio per il viaggio, notando giorno per giorno le mie osservazioni. Ed eccone alcune, incomplete e slegate, ma scritte sotto l’impressione immediata delle cose, e perciò forse più efficaci d’una descrizione pensata.

* * *

Io mi vergogno quando mi passa accanto un bel moro vestito in gala. Paragono il mio cappelluccio al suo enorme turbante di mussolina, la mia misera giacchetta al suo lungo caffettano color di gelsomino o di rosa, l’angustia, insomma, del mio vestiario grigio e nero, all’ampiezza, al candore, alla dignità semplice e gentile del suo, e mi par di far la figura d’un scarabeo accanto a una farfalla. Sto qualche volta lungo tempo a contemplare, dalla finestra della mia camera, un palmo di calzoncino color di sangue e una babuccia color giallo d’oro, che spuntano di dietro a un pilastro, giù nella piazzetta, e ci provo un piacere, che non ne posso staccar lo sguardo. E più d’ogni cosa m’innamora e mi mette invidia il caìc: quel lungo pezzo di lana o di seta bianchissima, a striscie trasparenti, che si avvolge intorno al turbante, casca sulla schiena, gira intorno alla vita, si ripiega sulle spalle, e ridiscende fino ai piedi, e velando vagamente i colori pomposi dei panni, ad ogni alito di vento tremola, ondeggia, si gonfia, par che s’accenda ai raggi del sole, e dà a tutta la persona l’apparenza vaporosa d’una visione. In questo bellissimo velo avvolge e stringe sè e la sposa il mussulmano innamorato nella notte nuziale.

* * *

Chi non abbia visto, non può immaginare fino a che punto giunga, presso gli Arabi, l’arte di sdraiarsi. In angoli dove noi ci troveremmo imbarazzati a mettere un sacco di cenci o un fastello di paglia, essi trovano il modo di adagiarsi come sopra un letto di piume. Si arrotondano intorno a tutte le sporgenze, riempiono tutte le cavità, si appiccicano ai muri come bassorilievi, si allungano e si schiacciano sul terreno in maniera da non parer più che cappe bianche distese ad asciugare, si attorcigliano, piglian la forma di palle, di cubi, di mostri senza braccia, senza gambe, senza testa; così che le strade e le piazze della città paiono seminate di cadaveri e di tronchi umani, come dopo una strage.

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Più considero questa gente, e più ammiro la nobiltà dei loro movimenti. Fra noi non v’è quasi alcuno che o per l’impedimento degli abiti, o per la strettezza della calzatura, o per vezzo, non abbia un’andatura contraffatta. Costoro si movono colla libera eleganza di superbi animali selvaggi. Cerco e non trovo in mezzo a loro nemmeno uno di quei mille atteggiamenti da rodomonte, da ballerino e da innamorato svenevole, ai quali abbiamo l’occhio abituato nei nostri paesi. Tutti hanno nel loro modo di camminare qualcosa della compostezza d’un sacerdote, della maestà d’un re e della disinvoltura d’un soldato. Ed è strano che quella stessa gente che sta tante ore del giorno accovacciata, immobile, quasi intorpidita, spieghi, non appena è scossa dalla passione, un vigore di gesto e di voce che tocca la frenesia. Ma anche nel prorompere delle passioni più violente, serbano una sorta di dignità tragica, che potrebbe servir d’esempio a molti attori. Ricorderò per molto tempo l’arabo di stamane, un vecchio alto e consunto, il quale, avendo ricevuto, per quello che si disse, una mentita da un tale con cui fino allora era andato disputando pacatamente, impallidì, dette indietro, e poi si slanciò giù per la strada coprendosi il viso colle mani convulse e gettando un urlo di rabbia e di dolore. Io non ho mai visto una figura più terribile e più bella.

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La maggior parte non hanno addosso che una semplicissima cappa bianca; eppure quanta varietà fra di loro! Chi la porta aperta, chi chiusa, chi tirata da un lato, chi ripiegata sulla spalla, chi infilata, chi sciolta, ma sempre posta con garbo, variata di pieghe pittoresche, cascante, in linee facili e severe, come se l’avesse panneggiata, o piuttosto, come la vorrebbe saper panneggiare un artista. Ognuno di costoro arieggia un senatore romano. Stamattina l’Ussi ha scoperto un meraviglioso Marco Bruto in mezzo a un gruppo di beduini. Ma se non ci è abituata la persona, non basta la cappa a nobilitar la figura. Parecchi di noi n’han comperata una per il viaggio, e se la provarono; e m’è parso vedere dei vecchietti convalescenti infagottati in un lenzuolo da bagno.

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Non ho ancora visto tra gli arabi un gobbo nè uno storpio nè un rachitico; ma molti senza naso, effetto di morbo celtico; moltissimi ciechi, e i più fra questi colle occhiaie vuote; vista che mi fa rabbrividire quando penso che ad alcuni, forse, è stato strappato il globo dell’occhio in virtù della legge del taglione, che vige nell’Impero. Ma nessuna bruttezza ridicola in mezzo a tante figure strane e rincrescevoli. Il vestito ampio nasconde i piccoli difetti, come la gravità comune e l’apparenza lignea, terracea o bronzina delle carni, dissimula la differenza d’età. Il perchè s’incontrano ad ogni passo uomini d’un’età indefinibile, dei quali si può dire soltanto che non sono nè vecchi nè adolescenti; e o si giudicano maturi, e un lampo di sorriso rivela inaspettatamente la giovinezza; o si credono giovani, e il cappuccio rovesciato mostra tutt’a un tratto i capelli grigi.

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Gli Ebrei di qui arieggiano nei lineamenti del viso quelli dei nostri paesi; ma la statura più alta, il colorito più bruno, i lunghi capelli neri, e sopra tutto il vestire pittoresco li fa parere tutt’altra gente. Portano un vestito della forma presso a poco d’una veste da camera, di vario colore, per lo più oscuro, stretto intorno alla vita da una fascia rossa; una berrettina nera; calzoni larghi che sporgono appena un palmo disotto alle falde, e le pantofole gialle. Ed è strano il numero di «eleganti» che si vedono in mezzo a loro, vestiti di stoffe finissime, con camicie ricamate, ciarpe di seta, catene ed anelli d’oro; ma punto vistosi; austeri, invece, nell’insieme dell’abbigliamento, e pieni di grazia e di dignità signorile, eccetto quei pochi disgraziati che si prostituirono al cappello cilindrico e al soprabito nero. Fra i ragazzi vi sono delle figurine gentili; ma quella specie di veste da camera in cui si fasciano, non s’addice alla età loro. Ogni ragazzo ebreo mi par un dilettante da teatrino di collegio, vestito per far la parte del protagonista nel Campanello dello speziale.

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Trovo, sinora, che non è un’esagerazione quello che si dice della bellezza delle ebree marocchine, che ha un carattere suo proprio, sconosciuto in ogni altro paese. È una bellezza opulenta e splendida, di grandi occhi neri, di fronti nivee, di bocche porporine, di contorni statuarii, una bellezza da palco scenico, che abbarbaglia da lontano, e strappa piuttosto un applauso che un sospiro, e piace di raffigurarsela in mezzo alle fiaccole e alle tazze inghirlandate d’un banchetto antico, come nella sua cornice naturale. Le ebree di Tangeri non vestono in pubblico il ricchissimo costume tradizionale; son vestite presso a poco all’europea, ma di colori ciarlatanissimamente vistosi, blù solferino e rosso di carminio, giallo di zolfo e verde d’erba montanina, scialli e gonnelle che feriscon l’occhio da una collina all’altra; in modo che paiono donne ravvolte dentro a bandiere di tutti gli Stati del mondo. Il sabato, passando per le strade abitate dagli ebrei, si vedono da ogni parte quei colori, quei visi floridi, quegli occhioni dolci e ridenti, quelle treccie lunghe e nerissime; nidiate di ragazze chiassose e curiose; un rigoglio di gioventù e di bellezza sensuale, che contrasta vivamente colla solitudine austera delle altre vie.

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Mi fanno ridere i ragazzi arabi. Di quei piccini, che possono appena camminare, anch’essi insaccati nella cappa bianca, non si vede altro che il cappuccio, e paiono spegnitoi ambulanti. La maggior parte hanno la testa rasa nuda come la mano, eccetto una trecciolina sul cocuzzolo lunga un par di palmi, che si direbbe lasciata apposta per poterli appendere ai chiodi come le marionette. Alcuni l’hanno invece dietro l’orecchio o sopra la tempia, con qualche ciocca di capelli tagliati in forma di quadrato o di triangolo, che è il distintivo degli ultimi nati nelle famiglie. I più hanno un bel visetto pallido, un corpicino ritto e sciolto e un’espressione d’intelligenza precoce. Nelle parti più frequentate della città, non badano agli Europei; nelle strade appartate, si contentano di guardarli attentamente, coll’aria di dire:—Non mi piaci.—Qualcuno avrebbe voglia di dire un’impertinenza: glie la vedete scintillare negli occhi e guizzare sulle labbra; ma di rado se la lasciano sfuggire dalla bocca, non tanto per rispetto del Nazareno, quanto per paura del padre, che sente l’odore delle Legazioni. In ogni caso, però, alla vista d’un soldo si quetano. Ma bisogna guardarsi da tirare il codino, perchè ieri, passando, diedi una tiratina a un fantoccio alto un palmo, e lui mi si voltò contro inviperito, borbottando alcune parole, che significavano, mi disse l’interprete:—Dio faccia arrostire tuo nonno, maledetto Cristiano!

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Ho finalmente veduto due santi, che vuol dire idioti o pazzi, poichè qui, come in tutta l’Affrica settentrionale, è venerato come santo colui al quale Dio, in segno di predilezione, ha tolto la ragione per ritenerla prigioniera nel cielo. Il primo era davanti a una bottega, sulla strada principale. Lo vidi da lontano e mi fermai. Sapevo che ai santi tutto è lecito, e non volevo espormi a ricevere una legnata tra capo e collo come il signor Sourdeau, console di Francia, o uno sputo nel viso come il signor Drummond Hay. Ma l’interprete che m’accompagnava mi spinse innanzi dicendomi:—Vada franco; i santi di Tangeri han messo testa a partito dopo che le Legazioni fecero dare degli esempi sonori, e in ogni caso gli arabi stessi le servirebbero di scudo, per impedire al santo di compromettersi.—Allora passai davanti a quello spauracchio, osservandolo attentamente. Era un vecchio, tutto faccia e tutto pancia, coi capelli bianchi lunghissimi, una barbaccia che gli scendeva fin sul petto, una corona di carta intorno alla fronte, un mantello rosso sbrandellato sulle spalle e in mano una piccola lancia colla punta dorata. Stava seduto in terra, colle gambe incrociate e le spalle al muro, guardando con aria annoiata la gente che passava. Mi soffermai: mi guardò. Ci siamo—pensai—ora lavora la lancia.—Ma la lancia ebbe giudizio, e fui anzi meravigliato dell’espressione tranquilla e intelligente di quegli occhi e d’un risolino astuto che vi brillava dentro, come se volesse dire:—Tu aspetti ch’io ti dia addosso, eh? A esser minchioni! Era certamente uno di quegli impostori che, sani di mente, si fingono pazzi per godere i privilegi della santità. Gli gettai una moneta ch’egli raccolse con sbadataggine affettata, e tornai verso la piazzetta dove, appena arrivato, ne incontrai un altro. Questo era santo davvero. Era un mulatto, quasi tutto nudo, appena umano nel viso, tutt’una crosta immonda dalla testa ai piedi, e secco a segno che lasciava veder lo scheletro osso per osso, e pareva un prodigio che vivesse. Girava lentamente per la piazza sorreggendo a fatica una gran bandiera bianca, che i ragazzi correvano a baciare, e un altro pezzente accompagnato da due rabbiosi suonatori di piffero e di tamburo, chiedeva la limosina per lui di bottega in bottega. Gli passai accanto, mi mostrò il bianco dell’occhio; lo fissai, si fermò; mi parve che apparecchiasse qualcosa in bocca, mi scansai lesto lesto e non mi volsi più indietro.—Ha fatto bene, mi disse l’interprete, a scansarsi, perchè, se avesse sputato, lei non avrebbe avuto dagli altri arabi altra consolazione che di sentirsi dire: Non asciugare, fortunato Cristiano! Non cancellare il segno della benevolenza di Dio! Te benedetto, che il santo t’ha sputato sul viso!

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Sta notte ho inteso di nuovo il suono di chitarra e la voce della prima sera, e ho sentito per la prima volta la musica araba. In quella perpetua ripetizione dello stesso motivo, quasi sempre malinconico, c’è qualcosa che a poco a poco va all’anima. È una specie di lamentazione monotona che finisce per soggiogare il pensiero come il mormorio d’una fontana, il canto dei grilli e il battere dei martelli sulle incudini che si ode la sera passando vicino a un villaggio. Mi sento forzato a raccogliermi e a meditare come per afferrare il significato riposto di quella eterna parola che mi risuona all’orecchio. È una musica barbara, ingenua e piena di dolcezza, che mi fa risalire col pensiero fino alle età primitive, mi ravviva le impressioni infantili delle prime letture della Bibbia, mi richiama alla mente dei sogni dimenticati, mi desta mille curiosità di paesi e di popoli favolosi, mi trasporta a grandi lontananze, in boschi d’alberi sconosciuti, in mezzo a sacerdoti secolari curvi intorno a idoli d’oro; o in pianure sconfinate, in solitudini solenni, dietro le carovane stanche che interrogano collo sguardo l’immenso orizzonte infocato e ripiegano la testa raccomandandosi a Dio. Nulla di quello che mi circonda mi fa sentire un così mesto desiderio di riveder mia madre, come quelle poche note d’una voce fioca e d’una chitarra scordata.

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Una stranissima cosa son le botteghe moresche. Sono tutte una specie d’alcova, alta circa un metro da terra, con una sola apertura verso la strada, alla quale il compratore s’affaccia, come ad una finestra, appoggiandosi al muro. Il bottegaio sta dentro, seduto all’orientale, con una parte delle merci ammontata dinanzi, e una parte dietro, disposta in piccoli scaffali. È curioso l’effetto che fan quei vecchi mori barbuti, immobili come automi, in fondo a quei bugigattoli oscuri. Pare che non la merce, ma essi medesimi siano esposti in mostra, come i fenomeni viventi nelle baracche delle fiere. Son vivi? son di legno? dov’è l’ordigno che li fa comparire e sparire? E così immobili e silenziosi passano ore ed ore, e giornate intere, facendo scorrere fra le dita le pallottoline d’un rosario, e borbottando preghiere. Non si può immaginare l’aria di solitudine, di noia, di tristezza che spira là dentro. Si direbbe che ognuna di quelle botteghe è una tomba, nella quale il padrone, già separato dal mondo, aspetta la morte.

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Ho visto due bambini condotti in trionfo dopo la funzione solenne della circoncisione. Uno poteva avere sei anni, l’altro cinque. Erano tutti e due a cavallo a una mula bianca, vestiti d’abiti rossi, gialli e verdi, ricamati d’oro, e coperti di nastri e di fiori, in mezzo ai quali si vedevano appena i loro visetti pallidi, che serbavano ancora l’espressione dello spavento e dello stupore. Davanti alla mula, gualdrappata e inghirlandata come un cavallo di corte, camminavano tre sonatori col tamburo, il piffero e il cornetto, sonando furiosamente; dai lati e dietro, venivano i parenti e gli amici, uno dei quali teneva i bimbi fermi sulla sella, un altro porgeva loro dei confetti, altri li accarezzavano, alcuni tiravan schioppettate in aria saltando e gridando. Se non avessi saputo il significato della cerimonia, avrei creduto che quei poveri bimbi fossero due vittime condotte al sacrificio; e nondimeno era uno spettacolo non privo di gentilezza e di poesia. Ma l’avrei trovato anche più poetico, se non m’avessero detto che l’operazione sacra era stata fatta dal rasoio d’un barbiere.

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Stasera ho assistito ad una strana metamorfosi di Racma, la serva nera del ministro. La sua compagna mi venne a cercare, mi condusse in punta di piedi davanti a un uscio socchiuso, e spalancandolo tutt’a un tratto, esclamò:—Guardi Racma!—Io rimasi talmente meravigliato dell’aspetto in cui mi si presentò quella nera, ch’ero abituato a vedere nei panni di una modestissima schiava, che per un momento non credetti ai miei occhi. Avrei detto ch’era una sultana fuggita dal palazzo dell’Imperatore, la regina di Tumbuctu, una principessa di qualche regno sconosciuto dell’Affrica, venuta là sul tappeto miracoloso di Bisnagar. Non la vidi che per pochi momenti, non saprei dire esattamente com’era vestita. Era un bianco di neve, un rosso di porpora e uno sfolgorio di larghi galloni d’oro, sotto un gran velo trasparente, che presentavano insieme col viso nerissimo una così fragorosa armonia di colori e una ricchezza così barbaramente magnifica da non trovar parola per descriverla. Mentre m’avvicinavo per osservarne i particolari, tutta quella pompa scomparve sotto il lugubre lenzuolo maomettano, e la regina si trasformò in spettro, e lo spettro scomparve, lasciando nella stanza il puzzo nauseabondo di selvaggiume, proprio della razza nera, che finì di togliermi ogni illusione.

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Udendo un gran chiasso nella piazzetta, mi affacciai alla finestra e vidi passare un nero con tutto il busto nudo, a cavallo a un asino, fiancheggiato da alcuni arabi armati di bastoni e seguito da uno sciame di ragazzi che urlavano. Sul primo momento credetti che fosse uno scherzo e guardai col cannocchiale. Mi ritirai inorridito. I calzoni bianchi del nero erano macchiati di sangue, che gocciolava dalla schiena. Gli arabi coi bastoni erano soldati che lo battevano. Domandai informazioni. Aveva rubato una gallina.—Fortunato lui!—mi disse un soldato della Legazione:—pare che non gli taglieranno la mano.

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Sono da sette giorni a Tangeri, e non ho ancora visto il viso d’un’araba. Mi par di trovarmi in un grande veglione di donne mascherate da streghe, come se le figurano i bimbi, camuffate in un lenzuolo mortuario. Camminano a passi lunghi, lentamente, un po’ curve, coprendosi il viso col lembo d’una specie di mantello di tela, sotto il quale non hanno altro che una camicia a larghe maniche, stretta intorno alla vita da un cordone, come la tonaca d’un frate. Del loro corpo non si vede che gli occhi, la mano che copre il viso, tinta di rosso coll’henné alle estremità delle dita, e i piedi nudi, pure tinti, infilati in larghe pantofole di cuoio giallo. La maggior parte non lasciano vedere che mezza la fronte ed un occhio: l’occhio, per lo più, scuro, e la fronte color di cera. Incontrando un Europeo per una strada appartata alcune si coprono tutto il viso con un movimento brusco e sgraziato e passano stringendosi al muro; altre arrischiano un’occhiata tra diffidente e curiosa; qualcuna, più ardita, saetta uno sguardo provocatore e abbassa il viso sorridendo. Ma la più parte hanno un aspetto triste, stanco, avvilito. Son graziose le ragazzine, non ancora obbligate a coprirsi; occhi neri, visetto pieno, carnagione pallida, boccuccie rotonde, mani e piedi piccini. Ma a vent’anni son già vizze, a trenta, vecchie, a cinquanta, disfatte.

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V’è a Tangeri un mostro, una di quelle creature su cui non si può fissare lo sguardo, e che gettano per un momento anche nell’anima d’un credente lo sgomento del dubbio. Si dice che è una donna; ma non sembra nè donna nè uomo. È una testa d’urango, mulatta, coi capelli corti ed irsuti, uno scheletro colla pelle, coperta di cenci neri, quasi sempre distesa come un corpo morto nel mezzo della piazzetta, o seduta in un angolo, immobile e muta come un’insensata, quando non la molestino i ragazzi, ai quali si rivolta urlando o piangendo. Può aver quindici anni, può averne trenta: la sua mostruosità nasconde l’età. Non ha parenti, non ha casa, non si sa come si chiami nè donde venga. Passa la notte accovacciata per le strade, in mezzo alle immondizie e ai cani. Gran parte del giorno dorme; quando ha da mangiare, ride; quando ha fame, piange; quando è sole, è un mucchio di polvere; quando piove, è un ammasso di fango. Una notte, passandole accanto, uno di noi le mise nelle mani una moneta d’argento ravvolta in un pezzo di carta, affinchè la mattina avesse il piacere d’una sorpresa. La mattina la trovammo in mezzo alla piazza che singhiozzava disperatamente, mostrando una mano insanguinata: qualcuno, graffiandola, le aveva strappato la moneta. Tre giorni dopo la incontrai, a cavallo a un asino, tutta in lagrime, sostenuta da due soldati, seguita da una turba di ragazzi che le davan la baia. Qualcuno mi disse che la portavano all’ospedale. Non la rividi che ieri addormentata accanto al carcame d’un cane, più fortunato di lei.

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So finalmente chi sono questi uomini biondi dalla faccia di malaugurio, che passandomi accanto per le strade appartate mi gettano uno sguardo in cui pare che scintilli la tentazione dell’omicidio! Sono quei Rifani, berberi di razza, che non hanno altra legge che il loro fucile, che non riconoscono nè caid nè magistrato; i pirati audaci, i banditi sanguinarii, i ribelli eterni che popolano le montagne della costa da Tetuan alla frontiera algerina; che non riuscirono a domare nè i cannoni dei vascelli europei nè gli eserciti del Sultano; gli abitanti, in fine, di quel Rif famoso, dove nessun straniero può mettere piede che sotto la salvaguardia dei santi e dei sceicchi; a cui si riferiscono ogni sorta di leggende paurose; e i popoli vicini ne parlano vagamente come d’un paese lontano e inaccessibile. Se ne vedono di frequente per Tangeri. Son uomini alti e robusti; molti vestiti d’una cappa oscura, ornata di nappine di vario colore; alcuni col viso segnato di rabeschi gialli; tutti armati di fucili lunghissimi, di cui portano la guaina rossa attorcigliata intorno alla fronte in forma di turbante; e vanno a gruppi, parlando a voce bassa, col capo chino e gli occhi all’erta, come drappelli di bravi che cerchino la vittima. E appetto a loro gli Arabi più selvaggi mi paiono amici d’infanzia.

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Eravamo a desinare, a notte fitta, quando risonarono alcune fucilate nella piazzetta. Si corse fuori, e si vide ancora, da lontano, un bizzarro spettacolo. La stradetta che conduce alla porta del Soc di Barra era rischiarata, per un buon tratto, da grandi fiaccole, che apparivano al disopra delle teste della folla, intorno a qualcosa che pareva una cassa, posta sulla groppa d’un cavallo; e questa enimmatica processione andava innanzi lentamente, accompagnata da una musica malinconica, da un canto strascicato e nasale, da fucilate, da grida stridule, da latrati di cani. Rimasto solo in mezzo alla piazza, stetti qualche minuto almanaccando che cosa potesse significare quell’apparato lugubre, se in quella cassa ci fosse un cadavere, un condannato a morte, un mostro, un animale destinato al sacrifizio; e in quell’incertezza mi prese un senso di ribrezzo, che mi fece voltar le spalle e tornare a casa pieno di tristi pensieri. Un minuto dopo sopraggiunsero gli amici, ed ebbi da loro la spiegazione dell’enimma. Dentro la cassa v’era chiusa una sposa, e la gente intorno erano i parenti che la portavano a casa del marito.

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È passata per la piazzetta una turba d’arabi, uomini e donne, preceduta da sei vecchi che portavano sei grandi bandiere di colori diversi, e tutti insieme cantavano ad alta voce non so che preghiera, con un accento supplichevole ed un aspetto triste, che mi fece senso. Domandai: mi si disse che chiedevano ad Allà la grazia della pioggia. Li seguitai, andavano alla moschea principale. Non sapendo che qui è rigorosamente proibito ai cristiani di metter piede nelle moschee, quando fui davanti alla porta, feci l’atto d’entrare. Un vecchio arabo mi si slanciò contro e borbottando con voce affannata qualcosa che interpretai per:—Che cosa fai, disgraziato!—mi spinse indietro coll’atto di chi rimova un fanciullo da un precipizio. Mi dovetti dunque contentare di vedere dalla strada le arcate bianche del cortile, non dolendomi però gran fatto, dopo aver visto le gigantesche moschee di Costantinopoli, d’essere escluso da quelle di Tangeri, prive d’ogni aspetto monumentale, fatta eccezione dei minareti. Ma nè anco i loro minareti,—grosse torri quadrate od esagone, rivestite di mosaici di molti colori, e sormontate da una torricina a tetto piramidale,—valgono i minareti bianchi e leggerissimi che si alzano al cielo come smisurate antenne d’avorio dalla sommità delle colline di Stambul. Mentre stavo là guardando nel cortile, una donna, di dietro alla fontana delle abluzioni, mi fece un atto colla mano. Potrei lasciar credere che fosse un bacio; ma era un pugno.

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Son salito alla Casba, o castello, posto sopra una collina che domina Tangeri. È un gruppo di piccoli edifici circondati di vecchie mura, dove stanno le autorità, i soldati e i prigionieri. Non ci trovai che due sentinelle assonnate, sedute davanti a una porta, in fondo a una piazzetta deserta, e qualche mendicante disteso in terra, saettato dal sole e divorato dalle mosche. Di lassù si abbraccia collo sguardo tutta Tangeri, che si stende ai piedi delle mura della Casba e risale su per un’altra collina. L’occhio rifugge quasi da tutta quella bianchezza purissima, macchiata soltanto qua e là dal verde di qualche fico imprigionato fra muro e muro. Si vedono i terrazzi di tutte le case, i minareti delle moschee, le bandiere delle Legazioni, i merli delle mura, la spiaggia solitaria, la baia deserta, i monti della costa, uno spettacolo vasto, silenzioso e splendido, che rasserenerebbe la più cupa nostalgia. Mentre stavo contemplando mi riscosse una voce acuta e tremula, d’un’intonazione strana, che veniva dall’alto. Mi voltai, e solamente dopo aver un po’ cercato, scopersi sulla cima del minareto d’una moschea della Casba una piccola macchia nera, il muezzin, che invita i fedeli alla preghiera lanciando ai quattro venti il nome di Allà e di Maometto. Poi tornò a regnare tutt’intorno il silenzio malinconico del mezzogiorno.

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Farsi cambiare il danaro, in questo paese, è una calamità. Ho dato una lira francese al tabaccaio perchè mi rendesse dieci soldi. Questo moro feroce aprì una cassetta e cominciò a pigliare e a buttar sul banco manate di monetaccie nere e sformate, finchè ce ne fu un mucchio da farne il carico ordinario d’un facchino, diede una contata alla lesta e stette ad aspettare che me le intascassi.—Scusate—gli dissi, cercando di ripigliar la mia lira;—non sono abbastanza robusto da poter comprare nella vostra bottega.—Poi m’accomodai pigliando altri sigari e portando via una tascata soltanto di quel tritume di danaro per farmi spiegare che cosa fosse. È una moneta chiamata flu, di rame, la cui unità val meno d’un centesimo e va ancora scemando ogni giorno di valore, perchè il Marocco n’è inondato, ed è inutile aggiungere a qual fine l’abbia profusa e la profonda il Governo, quando si dica che il Governo paga con questa moneta e non riceve che oro ed argento. Ma ogni male ha il suo bene, e questi flù, questo flagello del commercio, hanno la inestimabile virtù di preservare i marocchini da molti malanni, e in specie dalla jettatura, in grazia del così detto anello di Salomone, una stella di sei punte che v’è impressa da una parte; immagine dell’anello vero chiuso nella tomba del gran Re, il quale governava con esso i buoni e i cattivi genii.

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Non v’è che un luogo dove passeggiare, ed è la spiaggia che si stende dalla città verso il capo Malabat, una spiaggia sparsa di conchiglie e di vegetali rigettati dal mare, e coperta in varii punti da larghe distese d’acqua, difficili a guadarsi durante l’alta marea. Questi sono i Campi Elisi o le Cascine di Tangeri. L’ora della passeggiata è la sera, verso il tramonto. A quell’ora vi sarà una cinquantina d’Europei che passeggiano a coppie o a gruppi, a qualche centinaio di passi gli uni dagli altri, in modo che dalle mura della città si riconoscono uno per uno alla distanza d’un miglio. Viene innanzi una signora inglese a cavallo, accompagnata da una guida; più in là, due mori della campagna; dopo i mori, il Console di Spagna colla sua signora; poi un Santo; poi una cameriera francese con due bimbi; poi uno stormo di campagnuole arabe che passano un’acqua, scoprendo le ginocchia e nascondendosi il viso, e più lontano, a intervalli, un cappello a staio, un cappuccio bianco, un chignon, fino all’ultimo che dev’essere il Segretario della Legazione di Portogallo coi calzoni chiari che gli hanno portato ieri da Gibilterra; perchè in questa piccola colonia europea tutti sanno tutto di tutti. Se non fosse irriverente il paragone, direi che mi pare una passeggiata di condannati a domicilio coatto, o di viaggiatori tenuti in ostaggio dai pirati d’un’isola selvaggia, che aspettino l’arrivo d’un bastimento col denaro del riscatto.

È assai più facile raccapezzarsi nell’immensità di Londra che in mezzo a questo pugno di case che starebbero tutte in un canto dell’Hayd-Park. Tutti questi vicoletti, cantucci, crocicchi, dove appena si può passare, si somigliano fra loro come le cellule d’un’arnia, e non è che un’attentissima osservazione dei più minuti particolari che possa far distinguere un luogo da un altro. Finora, appena uscito dalla piazza e dalla strada principale, mi smarrisco. In pieno giorno, in uno di questi corridoi silenziosi, due arabi potrebbero legarmi, imbavagliarmi e farmi sparire per sempre dalla faccia della terra senza che nessuno vedesse e sentisse nulla. Eppure un cristiano può girare solo per questo labirinto, in mezzo a questi barbari, di giorno e di notte, con maggior sicurezza che in qualunque nostra città. Qualche asta di bandiera europea, ritta sopra un terrazzo come l’indice minaccioso di una mano nascosta, basta a ottenere quello che non ottiene fra noi una legione d’armati. Che differenza di civiltà tra Londra e Tangeri! Ma ogni città ha i suoi vantaggi. Là vi sono i grandi palazzi e le strade ferrate sotterranee; qui si può attraversar la folla col soprabito sbottonato.

Non c’è in tutta Tangeri nè un carro nè una carrozza; non si sente strepito d’officine nè suono di campane nè grida di venditori; non si vede nessun movimento affrettato nè di cose nè di persone; gli stessi Europei, per non saper dove battere il capo, restano per ore immobili in mezzo alla piazza; tutto riposa e invita al riposo. Io stesso, che son qui da pochi giorni, comincio a sentir l’influsso di questa vita molle e sonnolenta. Arrivato al Soc di Barra, mi sento irresistibilmente risospinto verso casa; lette dieci pagine d’un libro, il libro mi sfugge di mano; una volta abbandonata la testa sulla spalliera della poltrona, ho bisogno di riepilogarmi almeno un paio di capitoli dello Smiles, per riescire a risollevarla; e il solo pensiero del lavoro e delle cure che m’aspettano a casa, mi stanca. Questo cielo sempre azzurro e questa città tutta bianca sono un’immagine della pace inalterata e monotona che diventa a poco a poco, in chi abita questo paese, il supremo desiderio della vita. Ed ecco la cagione per cui interrompo qui le mie note. La mollezza affricana m’ha vinto.....

Tra la molta gente che ronzava intorno alla porta della Legazione v’era un moro elegante, che fin dal primo giorno m’aveva dato nell’occhio; uno dei più bei giovani che io abbia visto nel Marocco; alto e snello, con due occhi neri e melanconici, e un sorriso dolcissimo; una figura da sultano innamorato, che Danas, lo spirito maligno delle Mille e una notte, avrebbe potuto mettere accanto alla principessa Badura, in vece del principe Camaralzaman, sicuro che non si sarebbe lamentata del cambio. Si chiamava Maometto, aveva diciotto anni ed era figliuolo d’un moro agiato di Tangeri, protetto dalla Legazione d’Italia, un grosso ed onesto mussulmano, che da qualche tempo, essendo minacciato di morte da un suo nemico, veniva quasi ogni giorno, colla faccia spaurita, a chieder aiuto al Ministro. Questo Maometto parlava un poco spagnuolo, alla moresca, con tutti i verbi all’infinito, e così aveva potuto stringere amicizia coi miei compagni. Era sposo da pochi giorni. L’aveva fatto sposare suo padre, perchè mettesse giudizio, e gli aveva dato una ragazza di quindici anni, bella come lui. Ma il matrimonio non l’aveva molto cangiato. Egli era rimasto, come dicevamo noi, un moro dell’avvenire, il che consisteva nel bere, di nascosto, qualche bicchiere di vino, fumare qualche sigaro, annoiarsi a Tangeri, bazzicare cogli Europei e almanaccare un viaggio in Spagna. In quei giorni però, quello che ce lo tirava intorno, era il desiderio d’ottenere, per mezzo nostro, il permesso d’unirsi alla carovana, e andare così a veder Fez, la grande metropoli, la sua Roma, il sogno della sua infanzia; e a questo fine ci prodigava inchini, sorrisi e strette di mano, con una espansione e una grazia che avrebbe sedotto tutto l’arem dell’Imperatore. Come quasi tutti gli altri giovani mori della sua condizione, ammazzava il tempo trascinandosi di strada in strada, di crocchio in crocchio, a parlare del nuovo cavallo d’un ministro, della partenza dell’amico per Gibilterra, d’un bastimento arrivato, d’un furto commesso, di pettegolezzi da donne; o rimanendo molte ore immobile e taciturno in un angolo della piazzetta del mercato, colla testa chi sa dove. A questo bellissimo ozioso si lega il ricordo della prima casa moresca in cui misi il piede, e del primo pranzo arabo a cui arrischiai il palato. Un giorno suo padre ci invitò a desinare. Era un desiderio che avevamo da molto tempo. Una sera tardi, guidati da un interprete e accompagnati da quattro servi della Legazione, s’arrivò, per alcune stradette oscure, a una porta arabescata, che s’aperse, come per incanto, al nostro avvicinarsi; e attraversata una stanzina bianca e nuda, ci trovammo nel cuore della casa. La prima cosa che ci colpì fu una gran confusione di gente, una luce strana, una pompa meravigliosa di colori. Ci vennero incontro il padrone di casa, il figliuolo e i parenti coronati di gran turbanti bianchi; dietro di loro, c’erano i servi incappucciati; più in là, negli angoli oscuri, dietro gli spigoli delle porte, faccie attonite di donne e di bambini; e malgrado tanta gente, un silenzio profondo. Credevo d’essere in una sala: alzai gli occhi, e vidi le stelle. Eravamo nel cortile. Quella, come tutte le altre case moresche, era un piccolo edifizio quadrato, con un cortiletto nel mezzo, su due lati del quale si aprivano due stanze alte e lunghe, senza finestre, con una sola gran porta arcata, chiusa da una cortina. I muri esterni erano bianchi come la neve, gli archi delle porte, dentellati, i pavimenti a mosaico; qua e là una finestrina binata e una nicchietta per le pantofole. La casa era stata addobbata. I pavimenti coperti di tappeti; accanto alle porte dei grandi candellieri, con candele rosse, gialle e verdi; sui tavolini, specchi e mazzi di fiori. Ma l’effetto di tutte queste cose, in sè medesime punto strane, era stranissimo. C’era un po’ della decorazione d’una chiesa, e insieme un’aria di teatrino, di sala da ballo, di reggia posticcia; ma piena di gentilezza e di grazia; e nella distribuzion della luce e nella combinazione dei colori, un effetto novo, un significato profondo, una corrispondenza meravigliosa con tutto ciò che noi avevamo sempre pensato e sentito, confusamente, di quel popolo; come se quella fosse la luce, per così dire, e il colorito della sua filosofia e della sua religione, e vedendo l’interno di quella casa, vedessimo per la prima volta dentro all’anima della razza. Si spese qualche minuto in inchini e in vigorose strette di mano, e poi fummo invitati a vedere la camera degli sposi. Io cercai inutilmente, con una curiosità da sfacciato europeo, gli occhi di Maometto: egli aveva già chinato la testa e nascosto il rossore sotto il turbante. La camera nuziale era una sala alta, lunga e stretta, colla porta sul cortile. Da una parte, in fondo, vi era il letto della sposa; dalla parte opposta quello di Maometto; tutti e due decorati di ricche stoffe, di un colore rosso carico, con sopra una trina; il pavimento coperto di grossi tappeti di Rabat; le pareti, d’arazzi gialli e rossi; e fra i due letti, il vestiario della sposa appeso al muro: busti, gonnelline, calzoncini, vestitini di taglio sconosciuto, di tutti i colori d’un giardino fiorito, di lana di seta e di velluto, gallonati e stelleggiati d’oro e d’argento; tutto il corredo d’una bambola da principessina; una vista da far girar la testa a un coreografo e morir d’invidia una mima. Di là passammo nella stanza da pranzo. Anche qui tappeti, arazzi, mazzi di fiori, grandi candellieri posati sul pavimento, materassine e guanciali di cento colori stesi a pie’ dei muri, e due letti addobbati con gran pompa, poichè era la camera nuziale del padrone. Vicino a uno dei letti era apparecchiata la tavola, contro l’uso degli arabi, che mettono i piatti in terra, e mangiano senza posate; e vi scintillava su, a dispetto del Profeta, una corona di vecchie bottiglie, incaricate di rammentarci, in mezzo alle voluttà del banchetto moresco, che eravamo cristiani. Prima di metterci a tavola, ci sedemmo, a gambe incrociate, sopra i tappeti, intorno al segretario del padrone di casa, un bel moro in turbante, il quale preparò il tè sotto i nostri occhi e ce ne fece pigliare, secondo l’uso, tre tazze per uno, spropositatamente inzuccherate, e profumate di menta; e tra una tazza e l’altra accarezzammo il codino e la testina rasata d’un bel bambino di quattr’anni, ultimo fratello di Maometto, il quale contava furtivamente le dita delle nostre mani per assicurarsi ch’eran cinque come quelle di tutti i maomettani. Preso il tè, sedemmo a tavola. Il padrone, pregato, sedette anche lui, per tenerci compagnia, e cominciarono a sfilare i piatti arabi, oggetto della nostra vivissima curiosità. Io assaggiai il primo con grande fiducia.... Eterno Iddio! Il mio primo pensiero fu di precipitarmi sul cuoco. Tutte le contrazioni che si possono produrre sul viso d’un uomo all’assalto improvviso d’una colica, o alla notizia del fallimento del suo banchiere, io credo che si sian prodotte sul mio. Capii sul momento come una gente che mangiava a quel modo dovesse credere in un altro Dio e pigliare in un altro senso la vita umana. Non saprei esprimere quello ch’io sentii nella bocca fuorchè paragonandomi a un disgraziato costretto a far colazione coi vasetti d’un parrucchiere. Eran sapori di pomate, di cerette, di saponi, d’unguenti, di tinture, di cosmetici, di tutto ciò che si può immaginare di meno proprio a passare per una bocca umana. A ogni piatto ci scambiavamo degli sguardi di meraviglia e di terrore. La materia prima doveva esser buona: era pollame, montone, caccia, pesce; piatti enormi e di bella cera; ma tutto nuotante in salse abbominevoli, tutto unto, profumato, impomatato, tutto cucinato in maniera da parer più naturale di metterci dentro il pettine che la forchetta. Pure bisognava mandar giù qualcosa, ed io mi confortavo al sacrifizio ripetendo quei versi dell’Aleardi:

Oh nella vita
Qualche delitto incognito ne pesa!
Qualche cosa si espia!

La sola cosa mangiabile era il montone allo spiedo. Nemmeno il cuscussu, il piatto nazionale dei mori, fatto con grano tritato della grossezza della semola, cotto a vapore e condito con latte o brodo,—perfido simulacro di risotto—, nemmeno questo famoso cuscussu, che piace a molti europei, mi è riuscito d’inghiottirlo senza cangiar colore. E ci fu qualcuno di noi che, per punto, mangiò di tutto! cosa consolante la quale dimostra che in Italia ci sono ancora dei grandi caratteri. A ogni boccone, il nostro ospite c’interrogava umilmente collo sguardo, e noi, stralunando gli occhi, rispondevamo in coro:—Eccellente! Squisito!—e buttavamo giù subito un bicchier di vino per ravvivarci gli spiriti. A un certo punto, scoppiò nel cortiletto una musica bizzarra che ci fece balzar tutti in piedi. Erano tre sonatori, venuti, come vuole il costume moresco, a rallegrare il banchetto: tre arabi dai grandi occhi e dal naso forcuto, vestiti di bianco e di rosso, uno colla tiorba, l’altro col mandolino, il terzo col tamburello; tutti e tre seduti fuori della porta della nostra stanza, vicino a una nicchietta dove avevano deposto le pantofole. Tornammo a sedere e i piatti ricominciarono a sfilare (ventitrè, comprese le frutta, se ben mi ricordo) e i nostri volti a contorcersi e i turaccioli a saltare in aria. A poco a poco le libazioni, l’odore dei fiori, il fumo dell’aloé che ardeva nei profumieri cesellati di Fez, e quella bizzarra musica araba, che a furia di ripetere il suo lamento misterioso, s’impadronisce dell’anima con una simpatia irresistibile; ci diedero per qualche momento una specie di ebbrezza taciturna e fantastica, durante la quale ognuno di noi credette di sentirsi il turbante sul capo e la testa d’una sultana sul cuore. Finito il pranzo, tutti si alzarono e si sparpagliarono per la sala, per il cortile, per il vestibolo, a guardare e a fiutare da ogni parte con una curiosità infantile. In ogni angolo oscuro si rizzava, come una statua, un arabo ravvolto nella sua cappa bianca. La porta della camera nuziale era stata chiusa colle cortine, e per lo spiraglio si vedeva un gran movimento di teste bendate. Alle finestrine superiori apparivano e sparivano dei lumi. Si sentivano fruscii e voci di gente nascosta. Intorno e sopra di noi ferveva una vita invisibile, la quale ci avvertiva che eravamo dentro le mura, ma fuori della casa; che la bellezza, l’amore, l’anima della famiglia s’era rifugiata nei suoi penetrali; che lo spettacolo eravamo noi e che la casa rimaneva un mistero. A una cert’ora uscì da una porticina la governante del Ministro, ch’era stata a veder la sposa, e passando per andarsene, esclamò:—Ah! se vedessero, che bottone di rosa! Che creatura di paradiso!—E intanto la musica continuava a suonare, e l’aloé continuava ad ardere, e noi seguitavamo a girare e a fiutare, e la fantasia lavorava, lavorava. E lavorava ancora, e più che mai, quando usciti da quell’aria piena di luce e di profumi, infilammo una viuzza solitaria e tenebrosa, al lume d’una lanterna, in mezzo a un silenzio profondo.

Una sera si sparse la notizia, da molto tempo aspettata, che il giorno dopo sarebbero entrati in città gli Aïssaua.

Gli Aïssaua sono una delle principali confraternite religiose del Marocco, fondata, come le altre, per ispirazione di Dio, da un Santo chiamato Sidì-Mohammed-ben-Aïssa, nato a Mechinez due secoli sono; la vita del quale è una lunga e confusa leggenda di miracoli e d’avventure favolose, variamente raccontata. Gli Aïssaua si propongono di ottenere dal cielo una protezione speciale, pregando continuamente, esercitando certe pratiche loro proprie, tenendo vivo nel loro cuore, piuttosto che il sentimento della fede, un’esaltazione, una febbre religiosa, un furore divino, che prorompe in manifestazioni stravaganti e feroci. Hanno una grande moschea a Fez, che è come la casa centrale dell’ordine, e di qui si spandono ogni anno a turbe, in tutte le province dell’impero, dove raccolgono intorno a sè, per celebrare le loro feste, i confratelli sparsi per le città e per le campagne. Il loro rito, simile a quello dei dervis urlanti e giranti dell’Oriente, consiste in una specie di danza sfrenata accompagnata da salti, scontorcimenti e grida, nella quale vanno via via infuriando e inferocendosi finchè, perduto ogni lume, stritolano legno e ferro coi denti, si brucian le carni con carboni accesi, si straziano coi coltelli, inghiottiscono fango e sassi, sbranano animali e li divoran vivi e grondanti di sangue, e cadono a terra senza forze e senza ragione. A questi eccessi non giunsero gli Aïssaua che io vidi a Tangeri, e credo che ci giungano raramente, e assai pochi, se pure qualcuno vi giunge ancora; ma fecero però abbastanza per lasciarmi nell’animo un’impressione incancellabile.

Il Ministro del Belgio c’invitò ad assistere allo spettacolo dal terrazzo di casa sua, che guarda sulla strada principale di Tangeri, dove sogliono passare gli Aïssaua per andare alla moschea. Dovevano passare alle dieci della mattina, scendendo dalla porta del Soc di Barra. Un’ora prima, la strada era già piena di gente e le case coronate di donne arabe ed ebree, vestite dei loro colori vivissimi, che davano alle terrazze bianche l’aspetto di grandi ceste di fiori. All’ora fissata, tutti gli occhi si voltarono verso la porta, all’estremità della strada, e pochi minuti dopo comparvero i forieri della turba. La strada era tanto affollata, che gli Aïssaua, fin che non furono vicini, rimasero confusi cogli spettatori. Per qualche tempo non vidi che una massa ondeggiante di teste incappucciate, in mezzo alle quali sorgevano, sparivano e ricomparivano alcune teste scoperte, che parevan di gente che si picchiasse. Al di sopra delle teste s’alzavano parecchie bandiere. Di tratto in tratto si udiva un grido simultaneo di molte voci. La folla veniva innanzi lentamente. A poco a poco si cominciò a notare, nel movimento di tutte quelle teste, un cert’ordine. Le prime formavano un circolo; altre, più in là, una doppia schiera; altre più lontane, un altro circolo; poi le prime, alla loro volta, si schieravano, le seconde si disponevano in cerchio, e così via via. Ma non son neanco ben sicuro di quello che dico, perchè in quella gran curiosità che mi affannava di osservare singolarmente le persone, è facile che la legge precisa del movimento comune mi sia sfuggita. In capo a pochi minuti, giunsero i primi sotto il nostro terrazzo. Il mio primo senso fu un misto di compassione e di orrore. Eran due file di uomini, rivolti gli uni in faccia agli altri, vestiti di cappe e di lunghissime camicie bianche, che si tenevano per le mani, per le braccia o per le spalle, e pestavano i piedi in cadenza, dondolandosi, rovesciando il capo avanti e indietro, e levando un mormorio sordo e affannoso, rotto da gemiti, rantoli, soffi e interiezioni di spavento e di rabbia. Solamente gli ossessi del Rubens, i morti risuscitati del Goya e il moribondo magnetizzato del Pöe potrebbero dare un’idea di quelle figure. Eran faccie livide e convulse, cogli occhi fuori dell’orbita e la bocca schiumosa; visi di febbricitanti e di epilettici; alcuni illuminati da sorrisi indefinibili, altri che non mostravano che il bianco dell’occhio, altri contratti come da uno spasimo atroce, o pallidi ed immobili come visi di cadaveri. Di tratto in tratto, facendo gli uni agli altri un gesto strano col braccio spenzoloni, gettavano tutti insieme un grido acuto e doloroso, come di chi riceva una pugnalata mortale; poi andavano alcuni passi innanzi, e ricominciavano la danza, gemendo e sbuffando; e allora si vedeva un ondeggiamento disordinato di cappucci, di grandi maniche, di treccie, di ciuffi, di folte capigliature spartite in lunghe ciocche ondulate, che parevano teste anguicrinite. Alcuni, più spiritati, andavano fra una schiera e l’altra, barcollando come ubbriachi, sbatacchiandosi contro i muri e le porte. Altri, come rapiti in estasi, camminavano ritti, lenti, col viso in alto, gli occhi socchiusi, le braccia abbandonate. Parecchi, sfiniti, che non potevano più nè gridare nè reggersi, eran tenuti su per le ascelle dai compagni, e travolti così, come corpi morti, nella folla. La ridda si faceva di mano in mano più scomposta, e il gridìo più assordante. Erano dondolamenti di testa da lussarsi le vertebre del collo e rantoli da spezzarsi la cassa del petto. Da tutti quei corpi grondanti di sudore, veniva su un puzzo nauseabondo come da un serraglio di fiere. Ogni tanto uno di quei visi stravolti si alzava verso il terrazzo e fissava nei miei due occhi stralunati, che mi facevano torcere indietro la testa. Di momento in momento, dentro di me, cangiava l’effetto di quello spettacolo. Ora mi pareva una gran mascherata, ed ero tentato di riderne; ora ci vedevo l’immagine d’una gran baldoria di pazzi, di malati in delirio, di galeotti ubbriachi, di condannati a morte che volessero stordire il proprio terrore, e mi stringevano il cuore; ora non consideravo che la bellezza selvaggia del quadro, e ci provavo la voluttà d’un artista. Ma a poco a poco, il senso intimo di quel rito, s’impose alla mia mente; il sentimento, che quelle smanie traducevano, e che tutti abbiamo provato molte volte, lo spasimo dell’anima umana che si agita sotto l’immensa pressione dell’Infinito, si risvegliò; e senz’accorgermene, accompagnavo quel turbinìo col linguaggio che lo spiegava:—Sì, ti sento, Potenza misteriosa e tremenda: mi dibatto nella stretta della tua mano invisibile; il sentimento di Te mi opprime, non ho forza di contenerlo, il mio cuore si sgomenta, la mia ragione si perde, il mio involucro di creta si spezza!—E continuavano a passare, fitti, pallidi, scapigliati, mettendo voci supplichevoli, in cui pareva che esalassero la vita. Un vecchio cadente, un’immagine di re Lear forsennato, si staccò dalla schiera e s’avventò come per spaccarsi il cranio nel muro: i compagni lo trattennero. Un giovane cadde di picchio in terra, fuori dei sensi. Un altro, coi capelli sciolti giù per le spalle, la faccia nascosta nelle mani, passò a lunghissimi passi, curvato fino a terra, come un maledetto da Dio. Passarono beduini, mori, berberi, neri, colossi, mummie, satiri, faccie di cannibali, di santi, d’uccelli di rapina, di sfingi, d’idoli indiani, di furie, di fauni, di diavoli. Potevano essere un tre o quattrocento. In meno di mezz’ora sfilarono tutti. Le ultime erano due donne (perchè anche le donne possono appartenere all’ordine), due figure di sepolte vive, riuscite a spezzare la bara, due scheletri animati, vestite di bianco, coi capelli rovesciati sul viso, gli occhi sbarrati, la bocca bianca di schiuma, sfinite di forze, ma ancora animate da un movimento di cui non parevano aver più coscienza, che si scontorcevano, urlavano e stramazzavano; e in mezzo a loro un vecchio gigantesco, una figura di negromante centenario, vestito d’una camicia lunghissima, che allungando due grandi braccia cadaveriche, posava la mano sul capo ora all’una ora all’altra, in atto di protezione, e le aiutava a rialzarsi da terra. Dietro a questi tre spettri si precipitò una folla di arabi armati, di donne, di pezzenti, di bimbi; e tutta quella barbarie, tutto quel furore, tutto quell’orrendo cumulo di miseria umana, irruppe nella piazza e scomparve.

* * *

Un altro bello spettacolo, che s’ebbe a Tangeri, fu quello delle feste per la nascita di Maometto; e mi fece un’impressione anche più viva perchè mi ci trovai dinanzi, posso dire, all’impensata.

Tornando da una passeggiata sulla riva del mare, sentii alcuni colpi di fucile dalla parte del Soc di Barra; v’accorsi e sul primo momento non riconobbi più il luogo. Il Soc di Barra era trasfigurato. Dalle mura della città fino alla sommità della collina v’era formicolìo d’arabi, una folla tutta bianca, straordinariamente animata. Saranno state tremila persone, ma sparse e raggruppate in maniera che parevano innumerevoli. Era un’illusione ottica singolarissima. Su tutti i rialti del terreno, come sopra altrettante loggie, v’erano gruppi di arabe sedute all’orientale, immobili, rivolte verso la parte bassa del Soc. Qui, da una parte, la folla divisa in due ali lasciava libero un grande spazio a un drappello di cavalieri che si slanciavano alla carriera, schierati di fronte, sparando i loro fucili lunghissimi; dall’altra parte, v’erano grandi cerchi d’arabi, uomini e donne, in mezzo ai quali davano spettacolo giocatori di palla, tiratori di scherma, incantatori di serpenti, ballerini, cantastorie, suonatori, soldati. Sull’alto della collina, sotto una tenda conica, aperta sul davanti, biancheggiava l’enorme turbante del vice-governatore di Tangeri, il quale presiedeva alla festa, seduto in terra, in mezzo a una corona di mori. Di lassù si vedevano giù in mezzo alla folla i soldati delle Legazioni vestiti dei loro pomposi caffettani rossi, qualche cappello cilindrico, qualche ombrella di consolessa, e i pittori Ussi e Biseo coll’album e la matita in mano; di là dalla folla, Tangeri; di là da Tangeri, il mare. Lo strepito delle fucilate, gli urli dei cavalieri, lo scampanellìo degli acquaioli, le grida festose delle donne, il suono dei pifferi, dei corni, dei tamburi, formavano tutt’insieme un frastuono inaudito, che rendeva più strano ancora quello spettacolo selvaggio, irradiato dalla luce sfolgorante del mezzogiorno.

La curiosità mi spingeva da dieci parti in un punto. Ma un grido d’ammirazione, partito da un gruppo di donne, mi fece correr prima dai cavalieri. Erano dodici soldati di alta statura, col fez a punta, la cappa bianca, i caffettani aranciati, azzurrini e rossi, e fra loro un ragazzo vestito con femminile eleganza, figlio del governatore del Rif. Si schieravano ai piedi delle mura della città, rivolti verso la campagna; il figlio del governatore, nel mezzo, alzava la mano, e si slanciavano tutti insieme alla carriera. Nei primi passi v’era un po’ d’incertezza e un po’ di disordine. Poi quei dodici cavalli, stretti, sfrenati, ventre a terra, non formavano più che un solo corpo, un mostro furioso, di dodici teste e di cento colori, che divorava la via. Allora i cavalieri, inchiodati sulle selle, colla fronte alta, colla cappa al vento, alzavano i fucili sopra la testa, li stringevano con un movimento convulso contro le spalle, sparavano tutti insieme gettando un urlo di trionfo e di rabbia, e sparivano in un nuvolo di polvere e di fumo. Pochi momenti dopo tornavano indietro lentamente, in disordine, i cavalli schiumosi e insanguinati, i cavalieri in atteggiamento stanco e superbo, e in capo ad alcuni minuti ricominciavano. Ad ogni nuova scarica, le donne arabe, come le dame dei tornei, salutavano il drappello con un gridìo loro proprio, che è una ripetizione rapidissima del monosillabo:, simile a un trillo acuto di gioia infantile.

Di là passai al giuoco della palla. Erano una quindicina d’arabi, ragazzi, uomini maturi e vecchi colla barba bianca, alcuni col fucile a tracolla, altri colla sciabola, e giocavano con una palla di cuoio grossa come un arancio. Uno la pigliava, la lasciava cadere e la ributtava in alto con un colpo del piede; tutti gli altri correvano per coglierla in aria; chi la coglieva, rifaceva l’atto del primo; e così il gruppo dei giocatori, seguitando la palla, s’allontanava man mano, e poi, di comune accordo, tornavano tutti insieme nel luogo di dov’eran partiti. Ma il curioso di questo gioco stava nei movimenti delle persone. Erano passi di ballo, gesti misurati, atteggiamenti di mimi, un fare quasi cerimonioso, una certa apparenza di contraddanza, un non so che di severo e di molle insieme, ed una corrispondenza di mosse e di giri, in quell’andare e venire, di cui non mi riuscì di scoprire la legge. Correvano e saltellavano tutti insieme in un piccolo spazio, si serravano, si rimescolavano, e non seguiva mai un urto, nè il più leggero scompiglio. La palla s’alzava, spariva, balzava in mezzo a quelle gambe e al disopra di quelle teste, come se nessuno la toccasse, e fosse rigirata in quella maniera da due venti contrarii. E tutto quel movimento non era accompagnato nè da una parola, nè da un grido, nè da un sorriso. Vecchi e ragazzi, eran tutti egualmente seri, silenziosi e intenti al gioco, come a un lavoro obbligato e triste, e non si sentiva che il suono dei respiri affannosi e il fruscìo delle pantofole.

A pochi passi di là, in mezzo a un altro circolo di spettatori, ballavano dei neri, al suono d’un piffero e d’un piccolo tamburo di forma conica, battuto con un pezzo di legno ritorto a mezzaluna. Erano otto omaccioni, neri e lucidi come l’ebano, senz’altro addosso che una lunga camicia bianchissima, stretta alla cintura da un grosso cordone verde. Sette si tenevano per mano, disposti in cerchio, l’ottavo era in mezzo, e ballavano tutti insieme o piuttosto accompagnavano la musica, senza quasi cangiar di posto, con un movimento di fianchi da non descriversi, che mi metteva un forte prurito nelle punte dei piedi, e quel sorriso di satiri, quell’espressione di beatitudine stupida e di voluttà bestiale, che è tutta propria della razza nera. Mentre stavo guardando questa scena, due ragazzi di una decina d’anni ciascuno, ch’erano fra gli spettatori, mi diedero un saggio della ferocia del sangue arabo, che non dimenticherò per un pezzo. Improvvisamente, non so per che ragione, si saltarono addosso, si avviticchiarono l’uno all’altro come due tigri, e cominciarono a lacerarsi il viso e il collo a morsi e a unghiate con una furia che metteva orrore. Due uomini robusti, usando di tutta la loro forza, li separarono a stento, già sgocciolanti di sangue, e dovettero trattenerli ancora perchè non tornassero ad avvinghiarsi.

Gli schermitori facevan ridere. Eran quattro, e tiravano di bastone a due a due. Non si può dire la stravaganza e la goffaggine di quella scuola; e la chiamo scuola perchè in altre città del Marocco vidi poi che tiravano nella stessa maniera. Eran mosse da funamboli, salti senza scopo, contorsioni, sgambettate, e colpi annunziati un minuto prima con un gran giro del braccio; ogni cosa fatta con una flemma beata, che avrebbe dato modo a un nostro tiratore di addossare a tutti quattro un prodigioso carico di legnate senza pericolo di toccarne una sola. Gli arabi spettatori, però, stavano là a bocca aperta, e molti di tratto in tratto mi guardavano, come per cercare nei miei occhi l’espressione della meraviglia. Io volli contentarli e finsi un’ammirazione benevola. Allora qualcuno si scansò perchè potessi spingermi un po’ più avanti, ed io mi trovai circondato, stretto da ogni parte dagli arabi, e potei soddisfare il mio desiderio di studiare un po’ quella gente nel suo odore, nei movimenti appena percettibili delle narici, delle labbra e delle palpebre, nei segni della pelle, in tutto ciò che sfugge all’osservatore che passa, e serve nonostante a far capir molte cose. Un soldato della Legazione italiana mi vide da lontano in quella stretta, e credendo che fossi prigioniero involontario, venne a liberarmi, mio malgrado, a suon di gomitate e di pugni.

Il cerchio del contastorie era il più piccolo, ma il più bello. Ci arrivai giusto nel momento in cui, avendo terminato la solita preghiera inaugurale, cominciava il racconto. Era un uomo d’una cinquantina d’anni, quasi nero, con una barba nerissima e due grandi occhi scintillanti, ravvolto, come tutti gli altri raccontatori del Marocco, in un amplissimo panno bianco stretto intorno al capo da una corda di pelo di cammello, che gli dava la maestà d’un sacerdote antico. Parlava a voce alta e lenta, ritto in mezzo al circolo degli uditori, accompagnato sommessamente da due suonatori di chiarina e di tamburo. Raccontava forse una storia d’amore, le avventure d’un bandito famoso, le vicende d’un sultano. Io non ne capivo una parola. Ma il suo gesto era così giusto, la voce così espressiva, il volto così parlante che un barlume del senso, in qualche momento, mi traspariva. Mi parve che raccontasse un lungo viaggio; imitava il passo del cavallo stanco; accennava a orizzonti immensi; cercava intorno a sè una goccia d’acqua, lasciava spenzolare le braccia e la testa come un uomo spossato. Poi, a un tratto, scopriva qualcosa lontano dinanzi a sè, pareva incerto, credeva e non credeva ai suoi occhi,—ci credeva,—si rianimava, affrettava il passo, arrivava, ringraziava il cielo e si buttava in terra tirando un gran respiro e ridendo di piacere all’ombra d’un’oasi deliziosa che non sperava più di trovare. Gli uditori stavano là immobili, senza rifiatare, riflettendo coll’espressione del viso tutte le parole dell’oratore; e così com’erano in quel punto, con tutta l’anima negli occhi, lasciavano vedere chiaramente l’ingenuità e la freschezza di sentimento, che celano sotto l’apparenza d’una durezza selvaggia. Il contastorie andava a destra e a sinistra, s’avventava, retrocedeva atterrito, si copriva il viso colle mani, alzava le braccia al cielo, e via via che s’infervorava e levava la voce, i suonatori soffiavano e picchiavano con maggior furia, gli ascoltatori gli si stringevano intorno più ansiosi, finchè il racconto finì in un grido tonante, gli strumenti saltarono per aria e la folla commossa si disperse per cedere il posto ad un altro uditorio.

Tre suonatori tenevano intorno a sè un altro cerchio più grande di tutti gli altri. Le figure, i movimenti e la musica di costoro mi fecero una singolare impressione. Erano tutti e tre strambi, di statura altissima e curvi dai piedi alla testa come le figurine grottesche che rappresentano la ci maiuscola nei titoli di certi giornali illustrati. Uno sonava il piffero, l’altro un tamburello a sonagli, il terzo uno strumento stravagante, una specie di clarinetto, mi parve, combinato, non so come, con due corni da caccia divergenti, che mandavano un suono non mai sentito. Questi tre sonatori, ravvolti in pochi cenci, stavano stretti l’un all’altro, di fianco, come se fossero legati, e sonando continuamente e disperatamente il medesimo motivo, l’unico forse che sonavano da cinquant’anni, facevano il giro dell’arena. Io non so dire come si movessero. Era un non so che tra l’andatura e il ballo, certi scatti come della gallina che becca, certi stringimenti di spalle, fatti da tutti e tre con una simultaneità macchinale, e così lontani da una qualunque somiglianza coi movimenti nostri, così nuovi, così bizzarri, che più li osservavo, e più mi davan da pensare, come se esprimessero una idea, o avessero la loro ragione in qualche proprietà caratteristica del popolo arabo, e ci penso ancora sovente. Quei disgraziati, grondanti di sudore, sonavano e ballonzolavano da più di un’ora, con una serietà inalterabile, e qualche centinaio di persone li stavano a sentire, pigiate e immobili, col sole negli occhi, senza dar segno nè di piacere nè di noia.

Il circolo dove si faceva più strepito era quello dei soldati. Erano dodici, tra giovani e vecchi, alcuni col caffettano bianco, altri colla sola camicia, questo col fez, quello col cappuccio, armati di fucili a pietra focaia, lunghi come lancie, nei quali introducevan la polvere sciolta, come fanno tutti i soldati nel Marocco, dove non s’usano cartuccie. Un graduato, vecchio, dirigeva lo spettacolo. Si mettevan sei da una parte e sei dall’altra, di faccia. A un segnale, cangiavano vicendevolmente di posto, correndo, e appoggiavano un ginocchio a terra. Allora uno di essi cantava non so che cosa, con un’acutissima voce in falsetto, tutt’a trilli e a gorgheggi, che durava parecchi minuti, ascoltato con un silenzio profondo. Poi, a un tratto, balzavano tutti in piedi, in circolo, e spiccando un altissimo salto, gettando un grido di gioia, rovesciavano il fucile e sparavano contro terra. Non si può immaginare la rapidità, la furia, e quello che aveva di pazzamente festoso e di diabolicamente simpatico quella ridda tonante e lampeggiante, intraveduta in mezzo a un nuvolo di polvere saettato dal sole. Fra gli spettatori, a pochi passi da me, v’era un’arabina di dieci o dodici anni, non ancora velata, uno dei più bei visetti ch’io abbia visto a Tangeri, d’un bruno pallido delicatissimo, la quale contemplava coi suoi begli occhioni celesti pieni di stupore uno spettacolo assai più meraviglioso per lei che la danza dei soldati: quello che le offrivo io levandomi i guanti; questa seconda pelle delle mani, come dicono i ragazzi arabi, che i cristiani si mettono e si tolgono a loro piacere, senza risentirne il menomo dolore.

Esitai se dovessi andare o no a vedere l’incantatore dei serpenti; ma la curiosità vinse il ribrezzo. Questi così detti incantatori appartengono alla confraternita degli Aissaua e dicono di ricevere dal loro patrono Ben-Aïssa il privilegio di poter sfidare senza pericolo la morsicatura di qualunque animale più velenoso. Molti viaggiatori, infatti, degni di pienissima fede, assicurano d’aver visto parecchi di costoro farsi morsicare a sangue, senz’effetto venefico, da serpenti di cui un momento dopo venne esperimentato il veleno potentissimo sopra altri animali; e dicono di non essere riusciti a scoprire di che mezzo si valessero quei destri ciarlatani per rendere innocua la morsicatura. L’Aissaua che io vidi, dava uno spettacolo orribile, ma incruento. Era un arabo piccolo, tarchiato, col viso smorto, una faccia di giustiziere, chiomato come un re merovingio e vestito d’una specie di camicia azzurrina che gli scendeva fino ai piedi. Quando m’avvicinai, saltellava grottescamente intorno a una pelle di capra distesa in terra, dalla quale usciva la bocca d’un sacco, dov’erano chiusi i serpenti; e saltellando cantava, accompagnato da un flauto, una canzone di motivo malinconico, che doveva essere una invocazione al suo Santo. Finito il canto, chiacchierò e gesticolò lungo tempo per farsi buttar dei denari, poi s’inginocchiò davanti alla pelle di capra, ficcò la mano nel sacco, ne tirò fuori, con molti riguardi, un lungo serpente verdognolo, pieno di vita, e lo portò in giro sotto gli occhi degli spettatori. Poi cominciò a maneggiarlo in tutti i modi, come se fosse stato un pezzo di corda. Lo afferrò per il collo, lo tenne sospeso per la coda, se lo attorcigliò intorno alla fronte, se lo nascose nel petto, lo fece passare per i fori del cerchio di un tamburello, lo buttò in terra, lo trattenne col piede, se lo strinse sotto un’ascella. L’orribile bestia rizzava la testa schiacciata, dardeggiava la lingua, si scontorceva con quei suoi movimenti flessuosi, odiosi, abbietti, che sembrano l’espressione d’una vigliacca perfidia; e schizzava dagli occhi piccolissimi tutta la rabbia che gli fremeva nel corpo; ma non m’accorsi che mordesse mai la mano in cui era imprigionato. Quando fu stanco di quel lavoro, l’Aissaua strinse il serpente per la nuca, gli aggiustò un piccolo ferro nella bocca in modo da fargliela rimanere aperta, e lo mostrò così agli spettatori più vicini, perchè osservassero i denti; osservazione affatto superflua, se pure la sostanza venefica rimaneva, perchè non v’era stata morsicatura. Dopo ciò afferrò il serpente con due mani, si mise la coda in bocca e cominciò a menar le mandibole: la bestia si scontorceva furiosamente; io me n’andai inorridito.

In quel momento comparve nel Soc il nostro Incaricato d’affari. Lo vide dall’alto della collina il vice-governatore, gli corse incontro, e lo condusse sotto la sua tenda, dove si radunarono tutti i membri della futura carovana, io compreso. Allora accorsero suonatori e soldati, si formò un grandissimo semicerchio di arabi davanti all’apertura della tenda, gli uomini dinanzi, il sesso gentile, a gruppi, di dietro; e cominciò un concerto indiavolato di danze, di canti, di grida, di fucilate, che durò più di un’ora, in mezzo a un denso nuvolo di fumo, al suono d’una musica spietata, fra gli strilli entusiastici delle donne e dei bambini, con paterna soddisfazione del vice-governatore e nostro vivo piacere. Prima che finissero, l’Incaricato d’affari mise qualchecosa di giallo nelle mani d’un soldato arabo, perchè lo portasse a chi aveva diretto lo spettacolo. Il soldato tornò poco dopo e riferì, tradotto in spagnuolo, il curioso ringraziamento del beneficato:—L’ambasciatore d’Italia ha fatto una buona azione; Allà benedica tutti i peli della sua barba!

La feste durò fino al tramonto. Strana festa! Tre venditori d’acqua pura bastavano a soddisfare i bisogni di tutta quella folla immobile per una mezza giornata sotto i raggi del sole d’Affrica. Un marengo era forse il massimo del denaro messo in giro da quello straordinario concorso di gente. I soli piaceri erano vedere ed udire. Non uno scandalo amoroso, nè un ubbriaco, nè una coltellata! Nulla di comune colle feste popolari dei paesi civili.

Oltre a godere di tutti questi spettacoli, facevamo, io e i miei futuri compagni di viaggio, delle frequenti passeggiate nella campagna di Tangeri, che non è meno curiosa a vedersi che la città. Intorno alle mura si stende una cintura di giardini e di orti appartenenti la maggior parte ai ministri e ai consoli, quasi tutti trasandati; ma coperti d’una vegetazione meravigliosa. Sono lunghe file di aloè, simili a lancie gigantesche confitte in mezzo a un fascio di enormi daghe ricurve, poichè tale è la forma delle loro foglie; la punta delle quali è usata dagli arabi, colla fibra della foglia medesima, a cucire le ferite. Sono fichi d’India, kermus del Inde, come si chiamano in lingua moresca, altissimi, di foglie spesse un pollice, che sporgono sui sentieri fin quasi a impedire il passo; fichi comuni, all’ombra dei quali si potrebbero rizzare dieci tende; quercie, acacie, leandri, arbusti d’ogni forma, che intrecciano i loro rami coi rami degli alberi più alti, e formano coll’edera, le viti, le canne, le siepi, degli ammassi inestricabili di verzura, sotto i quali spariscono fossi e sentieri. In molti luoghi bisogna camminare a tentoni. Si passa da un podere all’altro a traverso le siepi sforacchiate o sopra le cancellate abbattute, in mezzo all’erbe e ai fiori che s’alzano fino alla cintura d’un uomo; e non si vede nessuno. Qualche casetta bianca, mezzo nascosta fra gli alberi, e qualche pozzo a ruota, dal quale, per mezzo di canaletti incrociati, si spande l’acqua per le terre, sono le sole cose che diano indizio di proprietà e di lavoro. Molte volte, se non fosse stato con me il capitano dello stato maggiore, che è una guida abilissima, mi sarei smarrito in mezzo a quella vegetazione scompigliata; e infatti ci occorreva spesso di chiamarci l’un l’altro, come in un labirinto, per non perderci di vista, e godevamo a tuffarci, a nuotare in quell’immenso verde, ad aprirci la via colle mani, coi piedi e colla testa, coll’allegra furia di selvaggi tornati dalla schiavitù alle loro foreste.

Di là da questa cintura di orti e di giardini, non si trovano più nè alberi, nè case, nè siepi, nè alcun indizio di divisione della campagna. Sono colline, vallette verdi e piani ondulati dove pascola qualche raro armento, di cui non si vede il guardiano, e galoppa qualche cavallo sciolto. Una volta sola mi ricordo d’aver visto lavorare la terra. Un arabo stimolava un asino e una capra attaccati a un aratro piccolissimo, di forma bizzarra, costrutto forse come s’usavano quattromil’anni fa; il quale scavava un solco appena visibile in un terreno sparso di sassi e d’erbaccie. Qualcuno mi assicurò d’aver visto più d’una volta attaccato all’aratro un asino e una donna, e questo può dare un’idea dello stato dell’agricoltura nel Marocco. Il solo concime col quale governan la terra è la cenere della paglia che bruciano dopo il raccolto; e la sola cura usata per non stancarne la fecondità è di lasciarvi crescere l’erba per i pascoli il terz’anno, dopo avervi seminato grano e saggina nei primi due. Malgrado questo, la terra s’impoverisce dopo pochi raccolti, e allora i campagnuoli erranti vanno a dissodare nuovi terreni, che abbandonano poi alla loro volta per ritornare agli antichi; e così non è mai coltivata simultaneamente che una piccolissima parte delle terre arabili; di quelle terre che, anche mal coltivate, riportano cento volte la semenza che vi si sparge.

La più bella passeggiata fu quella al capo Spartel, l’ Ampelusium degli antichi, che forma l’estremità nord-ovest del continente africano: un monte di pietra bigia, alto trecento metri, tagliato a picco sul mare, e aperto sotto, sin da tempi antichi, in vaste caverne, la maggiore delle quali era consacrata ad Ercole: specus Herculi sacer. Sulla sommità di questo monte si alza il faro famoso, eretto da pochi anni, e mantenuto con una espressa contribuzione dalla maggior parte degli Stati d’Europa. Salimmo sulla cima della torre, fin dentro alla grande lanterna, che manda il suo all’erta luminoso alla distanza di venticinque miglia. Di lassù l’occhio spazia su due mari e due continenti. Si vedono le ultime acque del Mediterraneo, e l’immenso orizzonte dell’Atlantico, il mare delle tenebre, Bar-ed-Dolma, come lo chiamano gli arabi, che flagella i piedi della roccia. Si vede la costa spagnuola dal capo Trafalgar fino al capo d’Algesira; la costa africana del Mediterraneo fino alle montagne di Ceuta, i septem fratres dei Romani; e lontano, vagamente, lo scoglio enorme di Gibilterra, la sentinella eterna di questa porta del vecchio continente, termine misterioso del mondo antico, diventato Favola vile ai naviganti industri.

In queste passeggiate non incontravamo che pochissima gente: per lo più arabi a piedi, che ci passavano accanto senza quasi guardarci, e qualchevolta un moro a cavallo, che doveva essere un personaggio importante o per denaro o per carica, accompagnato da un drappello di servi armati, il quale, passando, ci lanciava uno sguardo sprezzante. Le donne s’imbacuccavano con maggior cura che in città, alcune brontolando, altre voltandoci bruscamente le spalle. Qualche arabo, invece, ci si fermava dinanzi, ci guardava fisso, mormorava alcune parole quasi in tuono di chi domanda un favore e poi tirava innanzi senza voltarsi. Da principio non capivamo che cosa volessero dire. Ci fu poi spiegato che ci pregavano di domandare a Dio una grazia per loro. È una superstizione molto sparsa fra gli arabi che la preghiera dei mussulmani essendo graditissima a Dio, egli suol tardare lungamente ad accordare le grazie che gli domandano, per godere più a lungo il piacere di sentirsi pregare; mentre la preghiera d’un infedele, d’un cane, come un cristiano od un ebreo, gli è tanto molesta, che per liberarsene, l’esaudisce ipso facto. Le sole faccie amiche che incontrassimo erano i ragazzi ebrei, che giravano a drappelli, a cavallo agli asini, di collina in collina, e ci gettavano un allegro: Buenos dias, caballeros! passandoci accanto di galoppo.

Malgrado però la vita varia e nuova che menavamo a Tangeri, s’era tutti impazienti di partire, per poter essere di ritorno nel mese di Giugno, prima dei grandi calori. L’Incaricato d’affari aveva mandato un corriere a Fez ad annunziare che l’ambasciata era pronta; ma dovevano passare almeno dieci giorni prima che fosse di ritorno. Notizie private dicevano che la scorta era in viaggio; altre che non era ancora partita; eran tutte voci incerte e contraddittorie, come se quella Fez sospirata non fosse a duecento venti chilometri, ma a duemila miglia dalla costa. E questo, da un lato, ci piaceva, perchè quella passeggiata di quindici giorni prendeva così, nella nostra immaginazione, l’apparenza d’un lungo viaggio, e Fez l’attrattiva d’una città misteriosa. Al quale effetto servivano pure le strane cose che ci dicevano di quella città, del suo popolo e dei pericoli del viaggio, coloro che v’erano stati con altre ambasciate. Ci dicevano che erano stati circondati da migliaia di cavalieri, i quali li salutavano con una tempesta di fucilate a bruciapelo, a rischio d’accecarli; che s’erano sentiti fischiar le palle all’orecchio; che a noi italiani assai più probabilmente sarebbe toccata nel capo, per sbaglio, qualche oncia di piombo, diretta alla croce bianca della bandiera, la quale parrebbe agli arabi un insulto a Maometto. Ci parlavano di scorpioni, di serpenti, di tarantole, di nuvoli di cavallette, di ragni e di rospi enormi che avremmo trovati per la strada e sotto le tende. Ci descrivevano con foschi colori l’entrata delle ambasciate in Fez, in mezzo a un turbinio di cavalli, a un’immensa folla ostile, per strade coperte, oscure, ingombre di rovine e di carcasse d’animali. Ci preannunziavano un monte di malanni durante il soggiorno a Fez: languidezze mortali, dissenterie furiose, reumatismi, zanzare mostruosamente feroci, appetto alle quali erano una vera dolcezza quelle dei nostri paesi. E infine la nostalgia; al qual proposito si parlava d’un giovane pittore di Bruxelles, andato a Fez coll’ambasciata belga, il quale in capo a una settimana era stato preso da una così disperata tristezza, che l’ambasciatore aveva dovuto rimandarlo a Tangeri a marcie forzate, per non vederselo morire sotto gli occhi. Ed era vero. Ma queste notizie non facevano che accrescere la nostra impazienza. Ed io mi ricordavo ridendo d’una certa scappata ironica che m’aveva fatto mia madre, dopo aver tentato inutilmente di distogliermi dal viaggio al Marocco collo spauracchio delle bestie feroci:—Oh poi, in fin dei conti, hai ragione: che importa essere divorati da una pantera? Purchè i giornali lo dicano!

Dopo tutto ciò, è facile immaginare che salto si sia fatto sulle seggiole il giorno che il signor Salomone Aflalo, secondo dracomanno della Legazione, si affacciò alla porta della sala da pranzo, e disse con voce sonora:—È arrivata la scorta da Fez.

Colla scorta erano arrivati i cavalli, i muli, i cammelli, i palafrenieri, le tende, l’itinerario fissato dal Sultano e l’annunzio che si poteva partire.

Bisognava però aspettare ancora alcuni giorni per lasciare un po’ di riposo agli uomini e alle bestie.

Le bestie erano state ricoverate alla Casba. Il giorno dopo le andammo a vedere. Erano quarantacinque cavalli, compresi quelli della scorta; una ventina di mule da sella e più di cinquanta mule da carico, alle quali se ne aggiunsero poi molte altre noleggiate a Tangeri; i cavalli piccoli e di forme svelte, come tutti i cavalli marocchini, e le mule robuste; le selle e i basti coperti di panno rosso; le staffe formate da una larga lastra di ferro ripiegata ai due lati, in maniera da sostenere ed abbracciare tutto il piede e servir insieme di sprone e di difesa. Queste povere bestie erano quasi tutte accovacciate, sfinite più che dalle fatiche del viaggio, dall’insufficienza del nutrimento, una parte del quale, forse, era stata secondo l’uso trasformata in metallo dai conducenti. V’eran là alcuni soldati della scorta. Si avvicinarono e cominciarono a parlare, ingegnandosi di farci capire coi gesti che il viaggio era stato faticoso, che avevano patito un gran caldo e una gran sete, ma che grazie ad Allà erano arrivati sani e salvi. Ve n’erano dei neri e dei mulatti, tutti ravvolti nella cappa bianca, uomini alti ed ossuti, faccie ardite, denti ferini, occhiacci che facevano quasi pensare che non sarebbe stata superflua una seconda scorta, schierata fra noi e loro, per tutti i casi possibili. Mentre i miei compagni gesticolavano, io cercai fra le mule quella che aveva negli occhi una più dolce espressione di generosità e di mansuetudine; era una mula bianca colla groppa rabescata; decisi di affidare ad essa la mia vita, e d’allora fino al ritorno, rimasero legate a quella sella tutte le speranze della letteratura italiana nel Marocco.

Di là andammo al Soc di barra, dov’erano state piantate le tende principali. Fu un gran piacere per noi il vedere quelle casette di tela dove dovevamo dormire trenta notti in mezzo a solitudini sconosciute, e vedere e sentire tante cose mirabili, e preparare chi una carta geografica, chi una relazione ufficiale, chi un quadro, chi un libro, formando tutti insieme una piccola Italia pellegrinante a traverso l’Impero dei Sceriffi! Erano tende di forma cilindro-conica, alcune grandi tanto da contenere più di venti persone, tutte altissime, di tela doppia, listate di guernizioni turchine e ornate sulla cima di grosse palle metalliche. La maggior parte appartenevano al Sultano, e chi sa quante belle del suo serraglio ci avevan dormito sotto nei viaggi da Fez a Mechinez e da Mechinez a Marocco! In un angolo dell’accampamento, v’era un gruppo di soldati della scorta, a piedi, e dinanzi a loro un personaggio sconosciuto che aspettava il ministro. Era un omo sui trentacinque anni, di aspetto maestoso, mulatto, corpulento, con un gran turbante bianco, la cappa turchina, i calzoncini rossi, e una sciabola col fodero di cuoio e il manico di corno di rinoceronte. Il ministro, arrivato pochi momenti dopo, ce lo presentò. Era il comandante della scorta; un generale dell’esercito imperiale, di nome Hamed Ben Kasen Buhamei, il quale doveva accompagnarci a Fez e riaccompagnarci a Tangeri, e colla sua testa rispondere al Sultano della sicurezza delle nostre. Ci strinse la mano con molta grazia e ci fece dire dall’interprete che sperava si sarebbe fatto un buon viaggio. Il suo viso e le sue maniere mi rassicurarono completamente riguardo ai denti e agli occhi dei soldati che avevo visti alla Casba. Non era bello; ma il suo volto esprimeva un’indole mite e un’intelligenza sveglia. Doveva saper leggere, scrivere e far di conto, essere insomma uno dei più colti generali dell’esercito, se il ministero della guerra gli aveva affidata quella delicata missione. In sua presenza si fece la distribuzione delle tende. Una fu assegnata alla pittura; della più grande, dopo quella dell’ambasciatore, pigliammo possesso il comandante di fregata, il capitano di stato maggiore, il viceconsole ed io, e fin d’allora si previde che sarebbe stata la tenda più chiassosa del campo. Un’altra, grandissima, fu scelta per sala da pranzo. Poi si fissarono quelle del medico, degli interpreti, dei cuochi, dei servi, dei soldati della Legazione. Il Comandante della scorta e i suoi soldati avevano le loro tende a parte. Altre tende si sarebbero aggiunte il giorno della partenza. In somma, c’era da prevedere che sarebbe riuscito un accampamento bellissimo, e io mi sentivo dentro degli accessi precoci di furore descrittivo.

Il giorno dopo l’Incaricato d’affari andò col comandante di fregata e col capitano a far visita al Rappresentante del governo imperiale, Sidi-Bargas, che esercita in un certo senso l’ufficio di ministro degli affari esteri a Tangeri. Io m’aggregai a loro.

Ero curioso di veder da vicino un ministro degli affari esteri, il quale, se gli stipendi non sono stati accresciuti da vent’anni in qua (cosa poco probabile), riceve dal governo settantacinque lire al mese, compreso il fondo per le spese di rappresentanza; lauto stipendio, nondimeno, appetto a quello dei Governatori, che è solamente di cinquanta. E non è a dire che questa carica sia una sine cura e vi si possa sobbarcare il primo venuto. Il famoso sultano Abd-Er-Rahman, per esempio, che regnò dal 1822 al 1859, non vi seppe trovare altr’uomo adatto che un Sidi-Mohammed-el-Khatib, negoziante di zucchero e di caffè, che pure facendo il ministro continuava a trafficare regolarmente a Tangeri e a Gibilterra. Le istruzioni, infatti, che questo ministro riceve dal suo governo, benchè sieno molto semplici, sono tali da mettere nell’imbarazzo anche il più sottile diplomatico europeo. Un console francese le ha formulate con molta precisione:—a tutte le domande dei consoli, rispondere con promesse;—di queste promesse differire fino al più tardi possibile l’adempimento;—guadagnar tempo;—suscitare difficoltà d’ogni natura ai reclamanti,—fare in modo che, stanchi di reclamare, desistano;—cedere, se minacciano, il meno che si può;—se poi il cannone se ne immischia, cedere, ma non prima del momento supremo. Ma convien dire che dopo la guerra di Spagna, e particolarmente sotto il regno di Mulei-el-Hassen, le cose son molto cangiate.

Salimmo alla Casba, dov’è la casa del ministro. Una schiera di soldati faceva ala davanti alla porta. Si attraversò un giardino, e s’entrò in una sala spaziosa, dove vennero incontro all’Incaricato d’affari il ministro degli esteri e il governatore di Tangeri.

In fondo alla sala v’era un alcova con un sofà e alcune seggiole; in un angolo un letto modestissimo; sotto il letto, un servizio da caffè; le pareti bianche e nude; il pavimento coperto di stuoie.

Sedemmo nell’alcova.

I due personaggi che ci stavano davanti formavano tra loro un contrasto ammirabile. L’uno, Sidi-Bargas, il ministro, era un bel vecchio, colla barba bianca, la carnagione chiara, due occhi d’una vivacità indescrivibile e una gran bocca, sempre sorridente, che lasciava vedere due file di grossi denti bianchi come l’avorio; un viso che rivelava a primo aspetto l’astuzia finissima e l’indole meravigliosamente pieghevole richiesta dalla natura del suo ministero. Gli occhiali, la tabacchiera, certi movimenti cerimoniosi del capo e della mano, gli davan quasi l’aria d’un diplomatico europeo. Si vedeva l’uomo avvezzo a trattare con cristiani, superiore, forse, a molte superstizioni e a molti pregiudizii del suo popolo, un mussulmano di manica larga, un moro inverniciato di civiltà. L’altro, il Caid Misfiui, pareva l’incarnazione del Marocco. Era un omo d’una cinquantina d’anni, di color bronzino, di barba nera, membruto, cupo, taciturno; una faccia che pareva non avesse mai sorriso. Teneva il capo basso, gli occhi a terra, le sopracciglia corrugate; si sarebbe detto che gl’ispiravamo un profondo senso di ripugnanza. Io lo guardavo di sott’occhio, con diffidenza. Mi pareva che quell’uomo non dovesse mai aprir bocca altro che per far rotolare una testa ai suoi piedi. Tutti e due avevano in capo un gran turbante di mussolina ed erano ravvolti dalla testa ai piedi in un caïc trasparente.

L’incaricato d’affari presentò a questi due personaggi, per mezzo dell’interprete, il Comandante di fregata e il capitano. Eran due ufficiali: la presentazione non richiedeva commenti. Presentando me, invece, bisognava spiegare presso a poco che specie di mestiere facessi. L’Incaricato d’affari lo spiegò in termini iperbolici. Sidi-Bargas stette un po’ pensando e poi disse alcune parole all’interprete il quale tradusse:

—Sua Eccellenza domanda perchè avendo codesta abilità nella mano, Vostra Signoria la porta coperta. Vostra Signoria dovrebbe levarsi il guanto perchè si potesse vedere la mano.

Il complimento era così nuovo per me che non trovai subito una risposta.

—Non è necessario,—osservò l’Incaricato d’affari,—perchè la facoltà risiede nella mente e non nella mano.

Pareva che fosse tutto detto. Ma quando un moro s’attacca a una metafora, non la lascia così facilmente.

—È vero, fece rispondere sua Eccellenza,—ma la mano essendo lo strumento è anche il simbolo della facoltà della mente.

La discussione si prolungò per qualche altro minuto.

—È un dono d’Allà—conchiuse finalmente Sidi-Bargas.

—Avaro Allà! dissi in cuor mio.

La conversazione durò un pezzo e s’aggirò quasi sempre intorno al viaggio. Fu una lunga citazione di nomi di governatori, di provincie, di fiumi, di valli, di monti, di pianure, che avremmo trovato sul nostro cammino; nomi che mi suonavano all’orecchio come altrettante promesse di avvenimenti meravigliosi, e mettevano in gran moto la mia immaginazione. Che cos’era la Montagna rossa? Che avremmo veduto sulle sponde del Fiume delle Perle? Che omo doveva essere un governatore chiamato Figlio della cavalla? Il nostro Incaricato fece varie domande riguardo alle distanze, all’acqua, all’ombra. Sidi-Bargas aveva tutto sulla punta delle dita, e da questo lato bisogna riconoscere ch’era molto al di sopra di Visconti Venosta, il quale non sarebbe certo in grado di dire a un ambasciatore straniero quante sorgenti d’acqua pura e quanti gruppi d’alberi si trovano sulla strada da Napoli a Roma. Augurò infine un buon viaggio colla formola:—La pace sia sulla vostra strada,—e accompagnò l’Incaricato fin sull’uscio, stringendo la mano a tutti coll’apparenza d’una grande cordialità. Il Caid Misfiui, sempre muto, ci porse la punta delle dita, senza guardarci nel viso.—La mano, veh!—dissi tra me stendendogli la mia;—non la testa.

Eravamo già fuori della sala, quando il ministro ci raggiunse.

—Che giorno partite? domandò al Comm. Scovasso.

—Domenica,—questo rispose.

—Partite lunedì!—disse in tono premuroso Sidi-Bargas.

L’Incaricato gli fece domandare perchè.

—Perchè è giorno di buon augurio!—rispose con serietà,—e fatto un nuovo inchino, disparve.

Sidi-Misfiui, mi fu detto poi, ha tra i Mori la fama di gran dotto, fu maestro del Sultano regnante, ed è, come gli si legge nel viso, un mussulmano fanatico. Sidi-Bargas gode la riputazione più amabile di gran giocatore di scacchi.

Tre giorni prima della partenza, la stradetta dove dà la porta della Legazione era già affollata di curiosi. Dieci grandi cammelli, che dovevano portare a Fez, prima del nostro arrivo, una parte delle provvigioni di vino, vennero l’un dopo l’altro a inginocchiarsi davanti alla porta per ricevere il carico, e partirono accompagnati da un drappello di servi e di soldati. Dentro la casa, in quegli ultimi tre giorni, raddoppiò il lavoro e il via vai. Ai servi e ai soldati della Legazione s’aggiunsero i servi venuti da Fez. Ad ogni ora del giorno arrivavano provvigioni. La casa pareva un’officina, un magazzino e uno scalo. Si temette un momento che non bastasse il tempo agli apparecchi per poter partire il giorno fissato. Ma la domenica sera, tre di maggio, tutto era pronto, compresa l’asta altissima d’una smisurata bandiera tricolore che doveva sventolare in mezzo alle tende; e la notte poterono essere caricati sulle mule tutti i bagagli, che partirono il lunedì mattina, molte ore prima di noi, affinchè, arrivando la sera alla tappa, trovassimo l’accampamento piantato.

Ricorderò sempre, con una emozione gradevole, quegli ultimi momenti che passammo nel cortile della Legazione prima della partenza.

C’eravamo tutti. Erano arrivati il giorno innanzi, per unirsi a noi, un vecchio amico dell’Incaricato d’affari, il signor Patxot, antico ministro di Spagna a Tangeri, e il signor Morteo, genovese, agente consolare d’Italia a Mazagan. C’era il medico della carovana, Miguerez, nativo di Algeri; un ricco moro; Mohamed-Ducali, suddito italiano, che accompagnava l’ambasciata in qualità di scrivano; il secondo dracomanno della Legazione, Salomone Aflalo; due marinai italiani, uno ordinanza del comandante Cassone e l’altro calafato a bordo del Dora; i soldati della Legazione in gran gala; i cuochi, gli operai, i servi, tutte persone sconosciute che due mesi di vita comune nell’interno del Marocco dovevano rendermi famigliari, e che io mi preparavo a studiare sin da quel momento, ad uno ad uno, per farli un giorno movere e parlare nel libro che avevo in testa. Tutti avevano nel vestito qualchecosa di particolare, che dava a quella riunione un aspetto straordinariamente pittoresco. Erano cappelli piumati, cappe bianche, grandi ghette, veli, bisaccie, coperte da campo di colori bizzarri. C’era da fare un bazar tra pistole, barometri, quaderni, album e cannocchiali. Pareva che fossimo preparati a partire per il Capo di Buona Speranza. Si fremeva tutti d’impazienza, di curiosità e d’allegrezza. Per giunta il tempo era bellissimo e soffiava un’auretta marina deliziosa. Maometto era coll’Italia.

Alle cinque in punto l’ambasciatore montò a cavallo e sulle terrazze delle Legazioni s’alzarono le bandiere in segno di saluto.

Preoccupato com’ero della mia cavalcatura, in quel tafferuglio pericoloso della partenza, non ricordo che confusamente la folla che ingombrava le strade, le belle ebree affacciate alle terrazze, e un ragazzo arabo che mentre uscivo per la porta del Soc, esclamò con un accento strano:—Italia!

Sul Soc si unirono a noi i rappresentanti di tutte le Legazioni, per accompagnarci, secondo l’uso, fino a qualche miglio da Tangeri; e prendemmo tutti insieme la via di Fez, confusi in una cavalcata rumorosa, davanti a cui sventolava la bandiera verde del Profeta.

HAD-EL-GARBÌA

Era una folla di ministri, di consoli, di dracomanni, di segretarii, di cancellieri, una grande ambasciata internazionale, che rappresentava sei monarchie e due repubbliche, composta per la maggior parte di gente che aveva girato mezza la terra. Fra gli altri, il console di Spagna, vestito del grazioso costume della provincia di Murcia, con un pugnaletto alla cintura; il console gigantesco degli Stati Uniti, antico colonnello di cavalleria, che s’alzava di tutta la testa al di sopra della comitiva, e cavalcava un bel cavallo arabo bardato alla messicana; il dracomanno della Legazione di Francia, un uomo di forme atletiche, piantato sopra un enorme cavallo bianco, col quale presentava in certi atteggiamenti i contorni fantastici e poderosi di un centauro; delle faccie inglesi, portoghesi, andaluse, tedesche. Tutti parlavano, ed era una conversazione in dieci lingue, accompagnata da risate, canterellamenti e nitriti. Davanti a noi cavalcava il portabandiera, seguito da due soldati della Legazione d’Italia; dietro venivano i cavalieri della scorta, guidati dal generale mulatto, coi fucili ritti sulle selle; dai lati uno sciame di servi arabi a piedi. Tutta questa comitiva, dorata dagli ultimi raggi del sole, presentava uno spettacolo così splendidamente pittoresco, che ognuno di noi lasciava trasparire sul volto la compiacenza d’essere una figura del quadro.

A poco a poco quasi tutti coloro che ci accompagnavano, si accomiatarono e tornarono a Tangeri; non rimasero più con noi che l’America e la Spagna.

La strada, per allora, non era delle peggio; la mia mula pareva la mula più docile dell’Impero; che cosa mi rimaneva a desiderare? Ma non c’è felicità intera sulla terra. Il capitano mi si avvicinò e mi diede una notizia spiacevole. Il vice-console, Paolo Grande, nostro compagno di tenda, era sonnambulo. Il capitano stesso l’aveva incontrato la notte prima, su per le scale della casa della Legazione, ravvolto in un lenzuolo, con un lume in una mano e una pistola nell’altra. I servi della casa, interrogati, avevano confermata la cosa. Dormire sotto la tenda con lui era pericoloso. Il capitano pregava me, poichè avevo maggiore famigliarità col vice-console, d’indurlo a rimettere a qualcuno le sue armi durante la notte. Io promisi di fare tutto il possibile.—Mi raccomando—; disse allontanandosi;—anche in nome del Comandante; si tratta di salvare la pelle.—Questa ci mancava!—pensai, e cercai subito il vice-console. Egli stesso mi venne accanto. Di domanda in domanda riuscii a sapere che aveva con sè un piccolo arsenale, tra armi da fuoco e armi da taglio; compreso un pugnalaccio moresco, di cui mi fece la descrizione, e che, non so perchè, mi pareva stato fabbricato apposta per farmi un buco nel cuore. Ma come fargli capire la cosa? E se non ne avesse avuto coscienza? Decisi di aspettare fino a notte, quando andassimo a letto, e per tutta la strada non mi potei più liberare da quel pensiero molesto.

Camminavamo sopra un terreno ondulato a grandi curve, in una campagna verde e solitaria. La strada, se si può chiamar strada, era formata da un gran numero di sentieri paralleli, in alcuni punti incrociati, serpeggianti in mezzo a cespugli e pietroni, infossati come letti di rigagnoli. Qualche palma e qualche aloè disegnava le sue forme nere sull’orizzonte dorato. Il cielo cominciava a coprirsi di stelle. Non si vedeva nessuno nè vicino nè lontano. A un certo punto, sentimmo alcune fucilate. Era un gruppo d’arabi che dalla sommità d’una collina salutavano l’ambasciatore. Dopo tre ore di cammino, era notte fitta; cominciavamo a desiderare l’accampamento. La fame in qualcuno, in altri la stanchezza aveva troncate le conversazioni. Non si sentiva più che il passo dei cavalli e il respiro affannoso dei servi che ci seguivano correndo. A un tratto risuonò un grido del Caid. Ci voltammo e vedemmo un’altura, alla nostra destra, tutta scintillante di lumi. Era il nostro primo accampamento e lo salutammo con un grido.

Non saprei esprimere il piacere che provai mettendo piede a terra in mezzo a quelle tende. Se non fosse stata la dignità, che dovevo serbare, di rappresentante della letteratura italiana, mi sarei messo a fare delle capriole. Era una piccola città, illuminata, popolata, rumorosa. Da ogni parte scoppiettavano i fuochi delle cucine. Servi, soldati, cuochi, marinai andavano e venivano scambiandosi ordini e domande in tutte le lingue della torre di Babele. Le tende formavano un gran circolo, in mezzo al quale era piantata la bandiera italiana. Di là dalle tende erano schierati i cavalli ed i muli. La scorta aveva il suo piccolo accampamento appartato. Tutto era ordinato militarmente. Riconobbi subito casa mia e corsi a prenderne possesso. V’erano quattro letti da campagna, stuoie e tappeti, lanterne, candelieri, tavolini, seggiole a ìccase, lavamani colle asticciuole strisciate dei tre colori italiani e un grande sventolatore all’indiana. Era un accampamento principesco, da passarci volentieri un annetto. La nostra tenda era posta fra quella dell’ambasciatore e quella degli artisti.

Un’ora dopo l’arrivo ci sedemmo a tavola sotto la gran tenda consacrata a Lucullo. Credo che fu quello il pranzo più allegro che sia mai stato fatto dentro i confini del Marocco dalla fondazione di Fez in poi. Eravamo sedici, compreso il console d’America coi suoi due figli e il console di Spagna con due impiegati della Legazione. La cucina italiana riportò un trionfo solenne. Era la prima volta, credo, che in mezzo a quella campagna deserta s’alzavano ad Allà i vapori dei maccheroni al sugo e del risotto alla milanese. L’autore, un grosso cuoco francese venuto per quella sola notte da Tangeri, fu chiamato clamorosamente agli onori del proscenio. I brindisi scoppiarono l’un dall’altro in italiano, in spagnuolo, in verso, in prosa, in musica. Il console di Spagna, un bel castigliano dello stampo antico, gran barba, gran torace e gran cuore, declamò, con una mano sul manico del pugnale, il dialogo di don Juan Tenorio e di don Luis Mendia nel dramma famoso di Josè Zorilla. Si disputò sulla quistione d’Oriente, sugli occhi delle donne arabe, sulla guerra carlista, sull’immortalità dell’anima, sulle proprietà del terribile cobra capello, l’aspide di Cleopatra, dal quale si lasciano morsicare impunemente i ciarlatani marocchini. Qualcuno, in mezzo al clamore della conversazione, mi disse nell’orecchio che mi sarebbe stato riconoscente per la vita se nel mio futuro libro sul Marocco avessi scritto ch’egli aveva ammazzato un leone. Io colsi quest’occasione per pregare i commensali di darmi ciascheduno una nota bene ordinata delle bestie feroci di cui desideravano che li facessi trionfare. Il console di Spagna, per riconoscenza, improvvisò una strofetta castigliana in onore della mia mula, e cantando tutti insieme questa strofetta sopra un motivo dell’ Italiana in Algeri, uscimmo dalla tenda per andar a dormire.

L’accampamento era immerso in un profondo silenzio. Davanti alla tenda dell’Ambasciatore, che s’era ritirato prima di noi, vegliava il fido Selam, primo soldato della Legazione. Fra le tende lontane passeggiava lentamente, come una larva bianca, il Caid della scorta. Il cielo era tutto scintillante di stelle. Che beata notte, se non avessi avuto quella spina del sonnambulo!

Entrando nella tenda, il capitano mi ripetè la raccomandazione. Decisi d’intavolare il discorso quando fossimo a letto. Era indispensabile; ma mi costava un grande sforzo. Il viceconsole avrebbe potuto prender la cosa in mala parte e ne sarei stato dolentissimo. Era un compagno così piacevole! Da schietto siciliano, pieno di fuoco, parlava delle cose più insignificanti collo stile e coll’accento d’un predicatore ispirato. Profondeva gli aggettivi terribile—immenso—divino—ad ogni proposito. Il suo gesto più riposato era di agitare le mani al di sopra della testa. A vederlo discutere, con quegli occhi che gli uscivan dal capo, con quel naso aquilino che pareva volesse agganciare l’avversario, si sarebbe giudicato un uomo irascibile e imperioso; ed era invece la più buona, la più arrendevole pasta di giovanotto che si possa immaginare.

—Animo—disse il capitano quando fummo tutti e quattro a letto.

—Signor Grande,—io cominciai—lei ha l’abitudine di levarsi durante la notte?

Parve molto meravigliato della mia domanda.—No—rispose—e mi spiacerebbe che l’avesse qualchedun altro.

Quest’è curiosa! pensai.—Dunque—soggiunsi—lei riconosce che è un abitudine pericolosa.

Mi guardò.

—Scusi—disse poi—mi pare che su quest’argomento lei non dovrebbe scherzare.

—Mi scusi lei, io risposi,—non ho menomamente l’intenzione di scherzare. Non è mia abitudine di scherzare sulle cose tristi.

—È una cosa triste davvero, e toccherebbe a lei a scongiurarne le cattive conseguenze.

—Questa è bella! Pretenderebbe che andassi a dormire in mezzo ai campi?

—Dei due mi pare che ci dovrebbe andar lei e non io.

—È una vera impertinenza!—diss’io balzando a sedere sul letto.

—Oh stiamo a vedere adesso,—gridò il viceconsole alzandosi istizzito,—che è un’impertinenza il non volersi lasciar ammazzare!

Una gran risata del capitano e del comandante troncò la discussione, e prima ancora che essi parlassero, il signor Grande ed io capimmo d’esser stati corbellati tutt’e due. A lui pure avevan fatto credere che io giravo la notte per la casa della Legazione, con un lenzuolo sulle spalle e una pistola nel pugno.

La notte passò senz’accidenti, e la mattina mi svegliai in tempo per vedere l’aurora.

L’accampamento europeo era ancora immerso nel sonno; soltanto in mezzo alle tende della scorta si cominciava a mover qualcuno.

Il cielo era tutto color di rosa ad oriente.

Mi avanzai fino in mezzo all’accampamento e rimasi per molto tempo immobile a contemplare lo spettacolo che mi si spiegava d’intorno.

Le tende erano piantate sul fianco d’una collina tutta coperta d’erbe, di fichi d’india, d’aloè e d’arbusti fioriti. Vicino alla tenda dell’ambasciatore s’alzava una palma altissima, inclinata graziosamente verso oriente. Davanti alla collina si stendeva una grande pianura ondulata e florida, chiusa lontano da una catena di monti di color verde cupo, di là dalla quale apparivano altri monti azzurrini quasi svaniti nella limpidezza del cielo. Non si vedeva in tutto quello spazio nè una casa, nè una tenda, nè un armento, nè un nuvolo di fumo. Era come un immenso giardino chiuso ad ogni creatura vivente. Un’aria fresca e odorosa faceva stormire leggermente le foglie della palma: unico rumore che mi giungesse all’orecchio. A un tratto, voltandomi, vidi dieci occhi spalancati fissi nei miei. Erano cinque arabi seduti sopra un masso di roccia, a pochi passi da me: lavoratori della campagna, venuti durante la notte, chi sa di dove, per vedere l’accampamento. Parevano scolpiti nella roccia medesima su cui riposavano. Mi guardavano senza battere palpebra, senza dar segno nè di curiosità, nè di simpatia, nè di malevolenza, nè d’imbarazzo: tutti e cinque immobili e impassibili, coi visi mezzo nascosti nei cappucci, che parevano la personificazione della solitudine e del silenzio della campagna. Misi una mano in tasca; quei dieci occhi accompagnarono il movimento della mano; tirai fuori un sigaro; quei dieci occhi si fissarono sul sigaro; andai innanzi, tornai indietro, mi chinai a raccogliere un sasso, e quei dieci occhi m’erano sempre addosso. E non erano i soli. A poco a poco, ne scopersi molti altri, più lontano, seduti in mezzo all’erba, a due a due, a tre a tre, anch’essi incappucciati, immobili, cogli occhi fissi su di me. Parevano gente sbucata allora di sotto terra, morti cogli occhi aperti, apparenze piuttosto che persone reali, che dovessero svanire ai primi raggi del sole. Un grido lungo e tremulo, che veniva dall’accampamento della scorta, mi distrasse da quello spettacolo. Un soldato mussulmano annuciava ai compagni l’ora della preghiera, la prima delle cinque preghiere canoniche che ogni musulmano deve fare ogni giorno. Alcuni soldati uscirono dalle tende, stesero per terra le loro cappe, vi s’inginocchiarono su, rivolti verso l’oriente; si soffregarono tre volte le mani, le braccia, la testa e i piedi con una manata di terra, e poi cominciarono a recitare a bassa voce le loro preghiere inginocchiandosi, rizzandosi in piedi, prostrandosi col viso sull’erba, alzando le mani aperte all’altezza delle orecchie, e accoccolandosi sulle calcagna. Poco dopo uscì dalla sua tenda il comandante della scorta, poi i servi, poi i cuochi; in pochi minuti la maggior parte della popolazione del campo fu in piedi. Il sole, appena spuntato sull’orizzonte, scottava.

Rientrando nella tenda feci la conoscenza di parecchi personaggi assai curiosi, di cui mi occorrerà di parlare sovente.

Il primo a comparire fu uno dei due marinai italiani, ordinanza del comandante di fregata, siciliano, nato a Porto Empedocle, di nome Ranni, un giovanotto di venticinque anni, di alta statura, di forza erculea, d’indole buonissima, sempre grave come un magistrato, e dotato della singolare virtù di non stupirsi di nulla, di trovar tutto naturale, come il Goe delle Cinque settimane in pallone, di meravigliarsi soltanto della meraviglia degli altri. Per lui, Porto Empedocle, Gibilterra, l’Africa, la China dov’era stato, la luna se ce l’avessero portato, erano la stessissima cosa.

—Che ne dici di questa vita?—gli domandò il comandante, mentre l’aiutava a vestirsi.

—Che vuol che ne dica?—rispose.

—Oh bella! Il viaggio, il paese nuovo, tutto questo trambusto, non t’ha fatto nessuna impressione?

Stette un po’ pensando, e rispose ingenuamente:—Nessuna impressione.

—Ma come! Quest’accampamento, almeno, non è uno spettacolo nuovo per te?

—Eh no, signor comandante.

—Ma quando mai l’hai visto prima d’ora?

—L’ho visto ieri sera.

Il comandante lo guardò.

—Ma ieri sera—domandò poi reprimendo la stizza—che impressione t’ha fatto?

—Eh.... rispose candidamente il buon marinaio—; si capisce.... la stessa impressione di questa mattina.

Il comandante abbassò la testa in atto di rassegnazione.

Poco dopo entrò un altro personaggio non meno curioso. Era un arabo di Tangeri, che il viceconsole aveva preso al suo servizio, per tutto il tempo del viaggio. Aveva nome Ciua; ma il padrone lo chiamava Civo per maggiore facilità di pronunzia. Era un giovanotto grande e grosso, minchione quanto ce n’entrava, ma buono e pieno di buon volere; un fanciullone ingenuo, che a guardarlo, si metteva a ridere e nascondeva il viso. Non aveva altro vestito che una lunga e larga camicia bianca, sciolta, che quando camminava, gli sventolava addosso in una maniera ridicola, e gli dava l’aria d’una caricatura di cherubino. Sapeva una trentina di parole spagnuole, e con queste s’ingegnava di farsi capire, quando era costretto a parlare; ma col suo padrone s’esprimeva quasi sempre a gesti. Così a occhio gli avrei dati venticinque anni; ma cogli arabi è facile sbagliare. Glielo domandai.

Prima si coperse il viso con una mano, poi meditò qualche momento e rispose:

Cuando guerra España.... año y medio. Al tempo della guerra colla Spagna, che fu nel 1860, un anno e mezzo; aveva dunque diciasette anni.

—Che pezzo d’uomo per la sua età! dissi al vice-console.

—Immenso!—rispose.

Il terzo personaggio fu il cuoco dell’Ambasciatore, che ci portò il caffè; un piemontese pretto, tagliato tutto d’un pezzo in un pilastro dei portici di piazza Castello, il quale da Torino, ch’egli chiamava il giardino d’Italia, era piovuto, pochi giorni prima, a Tangeri, e non aveva ancora ritrovato sè stesso. Il pover’uomo non faceva che esclamare:—Oh che paese! Oh che paese!

Gli domandai se prima di partire da Torino, non gliel’avevan detto che paese fosse il Marocco, che città fosse Tangeri. Mi rispose di sì. Gli avevan detto:—Badate, Tangeri non è Torino.—Non sarà come Torino—egli aveva pensato—; pazienza! Sarà come Genova, come Alessandria, via!—E invece s’era ritrovato in una città di quella fatta! N mes ai sarvaj![1] E gli avevan messo ad aiutarlo due arabi che non capivano una parola di piemontese! O mi povr’om! E oltre a questo bisognava fare un viaggio di due mesi a traverso i deserti dell’Egitto! Egli prevedeva che non ne sarebbe tornato vivo.

—Ma almeno—gli dissi—quando tornerete a Torino, avrete qualche cosa da raccontare.

—Ah!—rispose con accento malinconico, andandosene via—che cosa si può raccontare d’un paese dove non si trovano due foglie d’insalata!

Fatta colezione, l’Ambasciatore diede ordine di levare l’accampamento.

Durante quella lunga operazione, alla quale lavoravano poco meno di cento persone, osservai un tratto singolare del carattere degli arabi, che è la passione smaniosa del comando. Non c’era bisogno di nessun’indicazione, per riconoscere alla prima in mezzo a quella folla confusa il capo mulattiere, il capo dei facchini, il capo dei servi delle tende, il capo dei soldati della Legazione. Chiunque era investito d’un’autorità, la faceva sentire e vedere, a proposito e a sproposito, colla voce, colle mani, cogli occhi, con tutte le forze dell’anima e del corpo. E chi non aveva autorità, coglieva ogni menomo pretesto per dare un ordine a un eguale, per illudersi d’essere qualchecosa più degli altri. Il più cencioso dei servi pareva beato di poter assumere per un momento un atteggiamento imperioso. La più semplice operazione, come d’annodare una corda o di sollevare una cassa, provocava uno scambio di grida tonanti, di sguardi fulminei, di gesti da sultano sdegnato. Persino Civo, il modesto Civo, sultaneggiava contro due arabi della campagna che si permettevano di guardar da lontano i bauli del suo padrone.

Alle dieci della mattina, sotto un sole ardente, la lunga carovana cominciò a discendere lentamente nella pianura.

Il console di Spagna e i suoi due compagni ci avevano lasciati all’alba; non rimanevano più con noi altre persone estranee all’ambasciata che il console d’America e i suoi figliuoli.

Dal luogo dove avevamo passato la notte, chiamato in arabo Ain-Dalia, che significa fontana di vino, per le vigne che v’erano nei tempi andati, dovevamo andare quel giorno a Had-el-Garbia, di là dalle montagne che chiudevano la pianura.

Per più d’un’ora si camminò sopra un terreno leggermente ondulato, in mezzo a campi d’orzo e di miglio, per sentieri tortuosi, che formavano coi loro incrociamenti un gran numero d’isolette coperte d’erbe rigogliose e di fiori altissimi. Non si vedea nessuno per la campagna, nessuno per la strada. Solamente dopo una mezz’ora di cammino, incontrammo una lunga fila di cammelli condotta da due beduini, i quali passandoci accanto mormorarono il solito saluto:—La pace sia sulla vostra strada.

Era una pietà per me il vedere quei poveri servi arabi che venivano accanto a noi, a piedi, carichi d’ombrelli, di pastrani, di cannocchiali, d’album, di mille gingilli, di cui ignoravano il nome e l’uso; costretti a seguitare correndo il passo rapido delle nostre mule, soffocati dalla polvere, arsi dal sole, mal nutriti, mezzi nudi, soggetti a tutti, non possessori d’altro al mondo che d’un cencio di camicia e d’un paio di ciabatte; venuti a piedi da Fez a Tangeri, per tornare a piedi da Tangeri a Fez; e poi, chi sa! seguitare qualche altra carovana da Fez a Marocco, e tirare innanzi così tutta la vita, senz’altro compenso che di non morire di fame e di poter riposare le ossa sotto una tenda! Pensavo, guardandoli, alla «piramide della esistenza» del Goethe. V’era, fra gli altri, un ragazzo mulatto di tredici o quattordici anni, bello e sveltissimo, il quale fissava sempre in viso ora a me ora ad altri dell’ambasciata due grandi occhi neri pieni di curiosità e di simpatia, che diceano e domandavano confusamente mille cose. Era un trovatello, frutto chi sa di che strani amori, che cominciava coll’ambasciata italiana la corsa faticosa, nella quale forse non doveva arrestarsi che per cadere nella fossa. Un altro, un vecchio tutt’ossa e pelle, correva col capo basso, cogli occhi chiusi, coi pugni stretti, colla rassegnazione disperata d’un dannato. Altri parlavano e ridevano ansando. A un tratto, uno spiccò la corsa, passò dinnanzi a tutti e disparve. Dieci minuti dopo lo trovammo seduto all’ombra d’un fico. Aveva fatto un mezzo miglio per guadagnare sulla carovana cinque minuti di cammino e goderseli all’ombra.

Intanto eravamo arrivati ai piedi d’una piccola montagna, chiamata in arabo la Montagna Rossa dal colore della sua terra; ripida, rocciosa e ancora irta degli avanzi d’un bosco abbattuto. Quella salita c’era stata annunziata fin da Tangeri come il passo più pericoloso del viaggio. Mula mia,—dissi tra me—ti raccomando il mio contratto coll’editore;—e la spinsi su coll’animo preparato a un capitombolo. I sentieri salivano serpeggiando in mezzo a grandi sassi che mi parevano stati acuminati e affilati apposta da un mio nemico personale per incidermi le parti posteriori; a ogni movimento incerto della mula, mi sentivo scappare dalla testa un capitolo del mio libro futuro; due volte la povera bestia, piegandosi sui ginocchi, slanciò la mia anima sui confini d’un mondo migliore; ma infine riuscii a toccare sano e salvo la sommità, dove m’accorsi con grande meraviglia d’essermi lasciato indietro i compagni, i due pittori eccettuati, i quali m’avevano preceduto per osservare dall’alto l’ambasciata che s’avanzava.

Lo spettacolo valeva veramente la fatica d’una salita forzata.

La carovana da mezzo il fianco della montagna s’allungava per più d’un miglio nella pianura. Il primo era il gruppo dell’ambasciata, fra cui spiccava il cappello piumato dell’Ambasciatore e il turbante bianco di Mohammed Ducali; e ai lati e dietro uno sciame di servi a piedi e a cavallo sparpagliati pittorescamente fra i massi e i cespugli della salita. Dietro a questi, venivano su a coppie, a gruppi, a piccole file, ravvolti nelle loro cappe bianche e turchine, curvi sulle loro selle scarlatte, i cavalieri della scorta che presentavano l’immagine d’una gran cavalcata di maschere; e dietro la scorta, la fila interminabile dei muli e dei cavalli, che portavan le tende, le casse, il mobilio, la cucina, i viveri, fiancheggiati da servi e da soldati, gli ultimi dei quali apparivano appena come una punteggiatura bianca e rossa nel verde della campagna. Non si può immaginare come questa processione variopinta, armata, luccicante, animava quella vallata solitaria, che spettacolo bizzarro e festoso presentava! Se in quel momento avessi avuto la virtù di pietrificarla in sull’atto, per poterla contemplare a mio comodo, non so se avrei resistito alla tentazione. Voltandomi per rimettermi in cammino, ebbi un’altra sorpresa—l’Oceano Atlantico—che si stendeva azzurro e queto come un lago a poche miglia dalla montagna. V’era un sol bastimento in vista, vicinissimo alla costa, che navigava verso lo stretto. Il Comandante guardò col cannocchiale: era un bastimento italiano. Quanto avremmo dato per esser visti e riconosciuti!

Dalla Montagna Rossa si discese in un’altra bellissima valle, tutta coperta di fiori, che formavano come tanti tappeti di color lilla, roseo e bianco. Nessuna casa, nessuna tenda, nessuna creatura umana.

L’ambasciatore decise di fare una fermata: scendemmo da cavallo e sedemmo all’ombra d’un gruppo d’alberi; il convoglio dei bagagli seguitò la sua strada.

Intorno a noi, a pochi passi di distanza, stavano seduti i servi, ciascuno tenendo in mano le briglie d’un cavallo o d’una mula. I pittori tirarono fuori i loro album per fare qualche schizzo. Tempo perso! Appena uno di quegli scamiciati si vedeva guardato, o voltava le spalle o si nascondeva dietro un albero o si tirava il cappuccio sugli occhi. Tre, l’uno dopo l’altro, s’alzarono e se n’andarono brontolando a sedere cinquanta passi più lontano, tirando con sè i loro quadrupedi. Non volevano nemmeno che fossero copiati gli animali. Chi non ha visto il signor Biseo in quei momenti, non ha mai visto in faccia la Stizza. Cercò di farli star fermi pregandoli, canzonandoli, offrendo danaro. Fiato sprecato. Rispondevano facendo cenno di no colla mano, indicando il cielo e sorridendo furbescamente come per dire:—Non siamo così gonzi!—Nemmeno il ragazzo mulatto, nemmeno i soldati della Legazione, cresciuti, si può dire, in mezzo agli Europei, e già quasi famigliari coi due artisti, non vollero permettere che la loro immagine fosse profanata dalla matita cristiana. Il Corano, come tutti sanno, proibisce la rappresentazione della figura umana e degli animali, come un principio o una tentazione all’idolatria. Il signor Biseo fece domandare dall’interprete a uno dei soldati per quale ragione non si voleva lasciar copiare.—Perchè,—rispose,—in quella figura che vuol fare, il pittore non è capace d’infondere l’anima. A che scopo dunque la vorrebbe fare? Dio soltanto può creare degli esseri viventi, ed è un sacrilegio pretendere d’imitarlo.—Fu interrogato il ragazzo mulatto.—Fatemi il ritratto,—egli disse ridendo,—mentre dormo; non me ne importa; non ci avrò colpa io; ma mentre io vedo, mai al mondo.—Allora il Biseo si mise a fare lo schizzo d’uno che dormiva. Tutti gli altri, raggruppati in disparte, stavano attenti, guardando ora il pittore ora il dormiente coi loro grandi occhi stupiti. A un tratto il servo si svegliò, girò gli occhi intorno, capì, fece un atto di dispetto e s’allontanò, mormorando, fra le risa dei compagni che avevan l’aria di dirgli:—Te l’hanno fatta, via; ora sei conciato per le feste.

Ci rimettemmo in cammino e in capo a un’ora circa vedemmo biancheggiare all’orizzonte le tende dell’accampamento.

Un drappello di cavalieri, sbucati non so di dove, ci vennero incontro, di grande carriera, gridando e sparando i loro fucili; a dieci passi da noi, si fermarono; il capo strinse la mano all’ambasciatore; poi si unirono alla scorta. Erano cavalieri del luogo dove sorgeva il nostro accampamento, soldati d’una specie di landwehr, che forma la parte più numerosa dell’esercito marocchino (se il complesso delle forze militari del Marocco si può chiamare esercito), ed è composta di tutti gli uomini atti alle armi dai sedici ai sessantanni. Alcuni avevano il turbante, altri un fazzoletto rosso annodato intorno al capo; tutti il caffettano bianco.

Quando arrivammo alla tappa, si alzavano le ultime tende.

L’accampamento era posto sopra un terreno arido e ondulato; da una parte, lontano, si vedeva una catena di monti azzurri; dall’altra, una catena di colline verdognole. A mezzo miglio dalle tende c’erano due gruppi di capanne di stoppia, mezzo nascoste dai fichi d’India.

Ci radunammo tutti sotto una tenda.

Appena eravamo seduti, arrivò correndo un soldato della Legazione, si piantò davanti all’Ambasciatore e disse con voce allegra:—La mona!

—Venga,—rispose l’ambasciatore alzandosi.

Tutti ci alzammo.

Una lunga fila di arabi, accompagnati dal Comandante della scorta, dai soldati della Legazione e dai servi, attraversò l’accampamento, si venne a schierare davanti alla nostra tenda e depose ai piedi dell’Ambasciatore una gran quantità di carbone, d’ova, di zuccaro, di burro, di candele, di pani, tre dozzine di galline e otto montoni.

Questo tributo era la muna. Oltre i gravi balzelli che pagano in denaro, gli abitanti della campagna sono obbligati a fornire a tutti i personaggi ufficiali, ai soldati del Sultano e alle ambasciate che passano, una certa quantità di viveri e d’altre provvigioni. Il Governo fissa la quantità; ma le autorità locali tassando gli abitanti a loro arbitrio, ne segue che la quantità di roba ricevuta, benchè sempre superiore ai bisogni, non è mai che una piccola parte di quella che è stata estorta un mese prima, o che sarà estorta forse anche un mese dopo il giorno della presentazione.

Un vecchio, che doveva essere un capo di tribù, rivolse, per mezzo dell’interprete, qualche parola ossequiosa all’Ambasciatore. Gli altri, tutti poveri campagnoli vestiti di cenci, guardavano a vicenda noi, le tende e la loro roba,—i frutti del loro sudore sparsi per terra,—con un’aria tra mesta ed attonita, che rivelava una profonda rassegnazione.

Fatta rapidamente la ripartizione della roba fra la mensa dell’ambasciata, la scorta, i mulattieri e i soldati della Legazione, il signor Morteo, ch’era stato nominato quella stessa mattina Intendente generale del campo, diede una mancia al vecchio arabo, questo fece un cenno ai suoi compagni, e tutti ripresero silenziosamente la via delle loro capanne.

Allora cominciò, come doveva poi accadere tutti i giorni, un gran battibecco fra servi, mulattieri e soldati per la ripartizione della mona. Era una scena amenissima. Due o tre di loro andavano e venivano per il campo a passi concitati, con un montone fra le braccia, invocando Allà e l’ambasciatore; altri gridavano la loro ragione battendo i pugni in terra; Civo faceva sventolare di qua e di là il suo camicione bianco colla profonda persuasione di esser terribile; i montoni belavano, le galline scappavano, i cani latravano. A un tratto s’alzò l’Ambasciatore e tutto tacque.

Il solo che brontolò ancora qualche momento fu Selam.

Selam era un gran personaggio. Veramente due dei soldati della Legazione portavano questo nome, tutti e due addetti al servizio particolare dell’Ambasciatore; ma come dicendo Napoleone, se non s’aggiunge altro, s’intende Napoleone primo, così fra noi, in viaggio, dicendo Selam intendevamo dir quello solo. Come l’ho sempre vivo dinanzi agli occhi! Lui, Mohammed lo sposo, e l’Imperatore, sono veramente per me le tre figure più simpatiche ch’io abbia viste nel Marocco. Era un giovane bello, forte, svelto e pieno d’ingegno. Capiva tutto a volo, faceva tutto in furia, camminava a salti, parlava a sguardi, era in moto dalla mattina alla sera. Per i bagagli, per le tende, per la cucina, per i cavalli, tutti si rivolgevano a lui; egli sapeva tutto e rispondeva a tutti. Parlava mediocremente lo spagnuolo e sapeva qualche parola d’italiano; ma si sarebbe fatto capir anche coll’arabo, tanto la sua mimica era pittoresca e parlante. Per indicare una collina faceva il gesto d’un colonnello focoso che accenni al suo reggimento una batteria da assalire. Per fare un rimprovero a un servo, gli si precipitava addosso come se l’avesse voluto annientare. Mi rammentava ogni momento Tommaso Salvini nelle parti d’Orosmane e d’Otello. In qualunque atteggiamento si mostrasse, da quando versava l’acqua fredda sulla schiena all’ambasciatore a quando ci passava accanto di galoppo, inchiodato sul suo cavallo castagno, presentava sempre una figura bella, elegante ed ardita. I pittori non si stancavan mai di guardarlo. Portava un caffettano scarlatto e i calzoncini azzurri: si riconosceva alla prima da un’estremità all’altra della carovana. Nell’accampamento non si sentiva gridare che il suo nome. Correva di tenda in tenda, scherzava con noi, urlava coi servi, dava e riceveva ordini, si bisticciava, montava in collera, prorompeva in risa; quand’era in collera pareva un selvaggio, quando rideva pareva un bambino. In ogni dieci parole che dicesse, c’entrava el señor ministro. Il signor ministro, per lui, veniva subito dopo Allà e il suo profeta. Dieci fucili appuntati contro il suo petto non l’avrebbero fatto impallidire; un rimprovero non meritato dell’Ambasciatore lo faceva piangere. Aveva venticinque anni.

Finito ch’ebbe di brontolare, venne vicino a me ad aprire una cassa. Mentre si chinava gli cadde il fez e gli vidi sulla testa rasa una larga macchia di sangue. Gli domandai che cos’era. Mi rispose che s’era ferito con uno dei grossi pani di zucchero della mona.—L’ho gettato in aria,—mi disse colla più gran serietà,—e l’ho ricevuto sulla testa,—Non capivo: si spiegò.—Faccio così,—mi disse,—per fortificarmi la testa. Le prime volte cascavo in terra tramortito, adesso non verso più che qualche goccia di sangue. Verrà il tempo che non mi scalfirò nemmeno la pelle. Tutti gli arabi fanno lo stesso. Mio padre si rompeva sul cranio dei mattoni spessi due dita, com’io ci romperei un pezzo di pane. Un vero arabo (conchiuse con aria altera, battendosi il pugno sul cocuzzolo) deve avere la testa di ferro.

L’accampamento, quella sera, presentava un aspetto assai diverso da quello del giorno innanzi. Ognuno aveva già preso le sue abitudini. I pittori avevano rizzato i loro cavalletti davanti alla tenda e dipingevano. Il capitano era andato a osservare il terreno, il vice-console a raccogliere insetti, l’ex-ministro di Spagna alla caccia delle pernici; l’ambasciatore e il comandante giocavano a scacchi sotto la tenda della mensa; i servi si saltavano l’un l’altro appoggiandosi le mani sulle spalle; i soldati della scorta discorrevano seduti in cerchio; degli altri chi passeggiava, chi leggeva, chi scriveva; sembrava che fossimo attendati là da un mese. Se ci fosse stata una piccola stamperia, mi sarebbe saltato il grillo di fondare un giornale.

Il tempo era bellissimo. Si desinò colla tenda aperta, e per tutto il tempo del desinare, i cavalieri di Had-el-Garbia festeggiarono l’ambasciata con cariche clamorose, rischiarate da uno splendido tramonto di sole.

A tavola sedeva dinanzi a me Mohammed Ducali. Ebbi modo per la prima volta di osservarlo attentamente. Era il vero tipo del ricco moro, molle, elegante e ossequioso; e dico ricco, perchè si diceva che possedesse più di trenta case a Tangeri, quantunque in quel tempo i suoi affari fossero un po’ imbrogliati. Poteva avere una quarantina d’anni. Era alto di statura, di lineamenti regolari, bianco, barbuto; portava un piccolo turbante ravvolto in un caïc del più fino tessuto di Fez, che gli scendeva sopra un caffettano di panno amaranto ricamato; sorrideva per far vedere i denti, parlava spagnuolo con una voce femminea, guardava, s’atteggiava e gestiva con una languidezza da innamorato. In altri tempi aveva fatto il negoziante: era stato in Italia, in Spagna, a Londra, a Parigi, ed era tornato al Marocco con idee ed abitudini europee. Beveva vino, fumava sigaretti, portava calze, leggeva romanzi, raccontava le sue avventure amorose. La ragione principale che lo conduceva a Fez era un credito ch’egli aveva col Governo, e sperava, coi buoni uffici dell’ambasciatore, di farsi pagare. Aveva portato con sè la sua tenda, i servi, le mule. I suoi occhi lasciavan capire che, se avesse potuto, avrebbe portato anche le sue donne; ma su quest’argomento serbava il più rigoroso silenzio. Le donne di cui parlava, raccontando le sue avventure, erano europee. L’arèm era anche per lui una cosa sacra. Arrischiai, con parole vaghe, una domanda: mi guardò, sorrise pudicamente e non rispose.

Dopo desinare, soddisfeci un desiderio vivissimo che avevo già fin prima della partenza da Tangeri; feci un’escursione notturna per l’accampamento.

Fu uno dei più bei divertimenti ch’io abbia avuti nel viaggio.

Aspettai che tutti fossero entrati nelle tende; mi ravvolsi in una cappa bianca del comandante ed uscii in cerca d’avventure.

Il cielo era tutto stellato; le lanterne, fuor che quella appesa in cima all’asta della bandiera, erano spente; in tutto l’accampamento regnava un silenzio profondo.

Adagio adagio, cercando di non inciampare nelle cordicelle delle tende, voltai a sinistra.

Fatti dieci passi, un suono inaspettato mi ferì l’orecchio. Mi arrestai. Mi parve un suono di chitarra. Veniva da una tenda chiusa, che non avevo mai vista, posta fra la nostra e quella dell’ambasciatore, una trentina di passi fuori del cerchio dell’accampamento. Mi avvicinai e tesi l’orecchio. La chitarra accompagnava un filo di voce dolcissima che cantava una canzone araba piena di malinconia. Di chi era quella tenda misteriosa? Che ci fosse dentro una donna? Feci un giro intorno. La tenda era chiusa da ogni parte. Mi stesi in terra per guardare per disotto; chinandomi, tossii; il canto cessò. Quasi nello stesso punto una voce soave, vicinissima a me, domandò:— Quien es? (Chi è?)—Allà mi protegga!—pensai—qui c’è una donna.—Un curioso!—risposi coll’inflessione più patetica della mia voce.... Una risata mi fece eco, e una voce maschile disse in spagnuolo:—Bravo! venga a prendere una tazza di tè!—Era la voce di Mohammed Ducali. Oh delusione! Ma fui subito compensato. S’aperse una porticina e mi trovai sotto una bellissima tenda, rivestita d’una ricca stoffa a fiorami, ornata di finestrine ad arco, rischiarata da una lanterna moresca, profumata di belgiuino, degna per ogni verso di ospitare la più bella odalisca del Sultano. Accanto al Ducali, sdraiato voluttuosamente sopra un tappeto di Rabat, col capo appoggiato sopra un ricco cuscino, stava seduto un suo servo, un giovane arabo d’aspetto gentile e pensieroso, che teneva fra le mani una chitarra. Era lui che cantava. Nel mezzo c’era un vassoio con un bel servizio da tè, da una parte fumava un profumiere. Spiegai al Ducali in che maniera fossi capitato vicino alla sua tenda, rise, mi offerse una tazza, mi fece sonare un’arietta, mi augurò buon viaggio, ed uscii. La tenda si richiuse e mi ritrovai nell’oscurità silenziosa dell’accampamento. Girai intorno a un’altra tenda, dove dormivano gli altri servi del Ducali, e mi rivolsi verso quella dell’ambasciatore.

Davanti alla porta dormiva Selam, disteso sulla sua cappa turchina, colla sciabola vicino al capo.—Se lo sveglio, e non mi riconosce subito,—pensai—m’accoppa! Usiamo prudenza.—M’avvicinai in punta di piedi e misi il capo dentro la tenda. La tenda era divisa in due parti da una ricca cortina: di qua serviva di sala da ricevimento, e v’era un tavolino con tappeto, carta, calamaio, e alcune poltrone dorate; di là dormivano l’ambasciatore e il suo amico ex-ministro di Spagna. Pensai di lasciare il biglietto di visita sul tavolino. M’avvicinai. Un maledetto grugnito mi arrestò. Era Diana, la cagna dell’ambasciatore. Quasi nello stesso punto la voce del padrone domandò:—Chi è?

—Un sicario! mormorai.

Riconobbe subito la mia voce.

—Ferisca—, rispose.

Gli spiegai il motivo della mia visita;—ne rise di cuore, e stringendomi la mano al buio, mi augurò buona fortuna.

Uscendo inciampai in qualcosa che m’insospettì: accesi un fiammifero: era una tartaruga. Guardai intorno e vidi a due passi da me un rospo enorme, che pareva che mi guardasse. Ebbi per un momento la tentazione di rinunziare all’impresa; ma la curiosità vinse il ribrezzo e tirai innanzi.

Arrivai davanti alla tenda dell’Intendente. Mentre mi chinavo per origliare, una figura alta e bianca si alzò fra me e la porta, e disse con accento sepolcrale:—Dorme.—Detti indietro come all’apparizione d’un fantasma. Ma subito mi rincorai. Era un arabo, servo del Morteo da molti anni, che parlava un po’ italiano, e che, malgrado la mia cappa bianca, m’aveva riconosciuto a primo aspetto. Come Selam, egli riposava davanti alla tenda del suo padrone, colla sciabola al fianco. Gli diedi la buona notte e continuai la mia strada.

Nella tenda vicina, c’erano il medico e il dracomanno Salomone. Un acuto odore di medicinali l’annunziava a dieci passi all’intorno. V’era il lume acceso. Il dracomanno dormiva; il medico, seduto al tavolino, leggeva. Questo medico, giovane, colto, d’aspetto e di maniere signorili, aveva una particolarità assai curiosa. Nato in Algeri di famiglia francese, vissuto molti anni in Italia, e marito d’una spagnuola, non solo parlava con uguale facilità le lingue dei tre paesi; ma ritraeva egualmente del carattere dei tre popoli, sentiva tre equivalenti amori di patria, era insomma un latino uno e trino, che si sarebbe trovato a casa sua così a Roma, come a Madrid, come a Parigi. Oltre a questo era dotato d’un senso comico finissimo; tanto che senza parlare, senza lasciarsi scorgere, con uno sguardo furtivo, con un leggerissimo movimento delle labbra, rilevava il lato ridicolo d’una persona o d’una cosa in modo da far scoppiare delle risa. Appena mi vide, indovinò la ragione dalla mia presenza, mi offerse un sorso di liquore, e alzando il bicchierino disse sottovoce:—Al felice successo della spedizione!—Coll’aiuto d’Allà!—risposi, e lo lasciai alla sua lettura.

Passai davanti alla gran tenda della mensa: era deserta. Voltai a sinistra, uscii dal cerchio dell’accampamento, passai in mezzo a due lunghe file di cavalli addormentati, e mi trovai in mezzo alle tende della scorta. Tesi l’orecchio: sentii il respiro dei soldati che dormivano. Davanti alle tende erano sparpagliati fucili, sciabole, selle, ciarpe, pugnali, caic e la bandiera di Maometto, come sopra il campo d’una mischia. Guardai la campagna: non si vedeva nessuno. Appena apparivano come due macchie nere ed informi i due gruppi di capanne.

Tornai indietro, passai in mezzo alla tenda del Console d’America e a quella dei suoi servi, tutt’e due chiuse e silenziose; attraversai il piccolo spazio di terreno dov’era piantata la cucina, e superata una barricata di botti, di tegami, di pentole, di brocche, arrivai alla piccola tenda del cuoco.

Con lui dormivano là sotto i due arabi, che gli facevan da sguatteri.

Misi la testa dentro:—era buio. Chiamai il cuoco per nome:— Gioanin!

Il poveretto, afflitto dalla mala riuscita d’una frittura, e forse anche inquieto per la vicinanza dei due «selvaggi», non dormiva.

A l’è chiel? (È lei?) domandò.

—Son io.

Tardò qualche momento a rispondere e poi, voltandosi sul letto, esclamò sospirando:— Ah! che pais!

—Coraggio,—dissi—, pensate che fra dieci giorni sarete dinanzi alle mura della grande città di Fez.

Rispose qualche cosa in confuso di cui non afferrai altro che la parola Moncalieri; dopo di che rispettai il suo dolore, e tirai innanzi.

Nella tenda accanto v’erano i due marinai: il Ranni, ordinanza del comandante, e Luigi, calafato a bordo del Dora, napoletano, un giovanetto gentile, sveglio, operoso, che in due giorni s’era cattivata la simpatia di tutti. Avevano il lume acceso e mangiavano. Tendendo l’orecchio, colsi qualche parola del loro dialogo. Era assai curioso. Luigi domandava a chi fossero destinati gli schizzi a matita che facevano i due pittori sui loro album.—Oh bella!—rispose il Ranni—al Re, si capisce.—Così senza colori?—domandò l’altro.—Eh no: tornati che saranno in Italia, prima ci metteranno i colori e poi li manderanno.—Chi sa quanto glieli pagano!—Eh molto, si sa. Magari uno scudo il foglio. Un re non bada ai denari.—Temendo d’essere scoperto e sospettato di spionaggio, rinunziai, mio malgrado, a sentire il seguito, e mi allontanai in punta di piedi.

Uscii un’altra volta dall’accampamento e girai per qualche minuto in mezzo a lunghe file di cavalli e di mule, fra le quali riconobbi, con una dolce emozione, la mia bianca compagna di viaggio, che pareva assorta in profondi pensieri. Uscito di là, mi trovai davanti alla tenda del signor Vincent, francese, domiciliato a Tangeri, uno di quei personaggi misteriosi che han girato tutto il mondo, parlano tutte le lingue e fanno di tutti i mestieri: cuoco, negoziante, cacciatore, interprete, scopritore d’iscrizioni antiche; aggregatosi con tenda e cavallo all’ambasciata italiana in qualità di alto direttore delle cucine, per andare a vendere al governo di Fez delle uniformi francesi comprate in Algeri. Guardai dentro per uno spiraglio. Era seduto sopra un baule in atto meditabondo, con una grossa pipa in bocca, al chiarore d’un moccoletto confitto in una bottiglia. Che strana figura! Mi richiamò alla mente quei vecchi alchimisti dei pittori olandesi, che meditano in fondo alla loro officina, col viso illuminato dal foco dei lambicchi. Curvo, secco, ossoso, pareva che ogni peripezia della sua vita fosse rappresentata da una ruga del suo viso e da un angolo del suo corpo. Chi sa a che pensava! Chi sa che diavolìo di memorie, di viaggi avventurosi, di bizzarri incontri, di pazze imprese, di strani personaggi, gli turbinava nel capo!—Forse anche, invece che a tutto questo, pensava al prezzo d’un paio di calzoni da turcos o alla sua scarsa provvigione di tabacco.—Nel punto che stavo per dirigergli la parola, spense il lume con un soffio e disparve nell’oscurità come un mago.

A pochi passi di là, c’era la tenda del comandante della scorta; un po’ più oltre quella del suo primo ufficiale; e più lontano quella del capo dei cavalieri d’Had-el-Garbia.

Queste due erano chiuse; la prima era aperta e vuota.

Nell’atto che ci guardavo dentro, sentii alle mie spalle un passo furtivo, e quasi nello stesso punto una mano di ferro mi afferrò per un braccio. Mi voltai: mi vidi in faccia il generale mulatto.

Appena mi vide, ritirò la mano, dando in una risata, e disse in tuono di scusa:— Salamu alikum, salamu alikum! —(La pace sia con voi! la pace sia con voi!)

M’aveva preso per un ladro.

Gli strinsi la mano in segno di riconoscenza e mi rimisi in cammino.

Fatti pochi passi, mi parve di vedere a una certa distanza dalle tende un uomo incappato, seduto in terra, col fucile in mano. Mi venne in mente che fosse una sentinella. Guardai intorno, e vidi infatti che a una cinquantina di passi da quella, ve n’era un’altra, e poi una terza: una catena di sentinelle tutt’intorno all’accampamento. Seppi poi che quella vigilanza non era fatta per timore dell’assalto d’una banda d’assassini; ma per guardare le tende dai ladri della campagna, abilissimi in quel genere di furti, esercitati come sono a depredare le tribù arabe attendate.

Fortunatamente la mia franca andatura non insospettì alcuna sentinella, e potei finire la mia escursione.

Passai accanto a Malek e a Saladino, i due cavalli focosi dell’Ambasciatore, inciampai in qualche altra tartaruga e mi fermai davanti alle tende dei servi a piedi. Erano coricati sopra un po’ di paglia, senza coperte, l’uno a traverso l’altro; ma dormivan tutti d’un sonno così profondo, che non si sentiva un alito, e parevano morti ammucchiati. Il ragazzo dai grandi occhi neri, per la buona ragione ch’era il più piccolo, avea mezzo il corpo fuori della tenda, e poco mancò che non gli mettessi i piedi sul capo. Mi fece compassione; volli che la mattina seguente, svegliandosi, avesse un conforto; e misi una moneta nella mano che riposava sull’erba, colla palma aperta, come per chiedere l’elemosina ai genii della notte.

Un mormorìo di voci allegre, che veniva da una tenda vicina, mi distrasse di là. M’avvicinai. Era la tenda dei soldati e dei servi dell’Ambasciata. Pareva che mangiassero e bevessero. Sentii l’odore del fumo del kif. Riconobbi la voce del secondo Selam, di Abd-el-Rhaman, di Alì, di Hamet, di Mammù, di Civo. Era un’orgietta araba in piena regola. E avevan ben diritto di darsi un po’ di spasso, poveri giovani, dopo aver faticato tutto il giorno a piedi, a cavallo, alle tende, alle mense, chiamati da cento parti, in cento lingue, per cento servizi! Per questo non volli turbare la loro allegrezza e m’allontanai cautamente.

Fino a quel momento la mia escursione era riuscita a meraviglia; ma era destino che non finisse senza un triste accidente.

Non m’ero allontanato di venti passi dalla tenda dei soldati, quando sentii due mani vigorose serrarsi intorno al mio collo e una voce soffocata dall’ira urlarmi una minaccia nell’orecchio. Mi divincolai, mi voltai indietro...

Chi era?

Era l’autore della Cacciata del duca d’Atene, il mio buon amico Ussi, ravvolto come un fantasma nella sua lunga abbaia bianca, portata dall’Egitto, il quale era uscito pochi momenti prima dalla sua tenda per fare, in direzione contraria, lo stesso mio giro, e m’aveva colto alle spalle.

Allora appunto ero arrivato davanti alla tenda dei pittori che chiudeva il cerchio dell’accampamento; il mio viaggio notturno era compiuto, e mi rimbucai nella mia casetta di tela.

NOTE:

[1] In mezzo ai selvaggi.

TLETA DE REISSANA

La mattina seguente si partì prima del levar del sole con una nebbia umida e fitta che metteva freddo nelle ossa e ci nascondeva gli uni agli altri. I cavalieri della scorta avevano il cappuccio sul capo e i fucili fasciati; tutti noi eravamo ravvolti nei pastrani e nei mantelli; ci pareva d’essere in autunno, in mezzo a una pianura dei Paesi Bassi. Dietro a me non vedevo distintamente che il turbante bianco e la cappa turchina del Caid; tutti gli altri erano ombre confuse che si perdevano nell’aria grigia. Il sonno e il tempo uggioso mantenevano il silenzio. Andavamo per un terreno ineguale, coperto di palme nane, di lentischi, di ginestre, di pruni, di finocchio selvatico, raggruppandoci e sparpagliandoci di continuo secondo gli incrociamenti e le biforcature infinite dei sentieri. Il sole, apparendo sull’orizzonte, indorò per qualche minuto le nostre guancie sinistre; e poi si rinascose. La nebbia però diradò in maniera da lasciarci vedere la campagna. Era una successione di vallette verdi, nelle quali si scendeva e si risaliva quasi senz’accorgersene, tanto erano dolci i pendii. Le alture eran coperte di aloé e d’olivi selvatici. L’olivo, che in quel paese cresce prodigiosamente, è lasciato allo stato selvatico quasi da per tutto, e gli abitanti fanno lume e si alimentano col frutto dell’ argan. Di mano in mano che ci affacciavamo a una valle, cercavamo cogli occhi un villaggio, un gruppo di capanne, qualche tenda. Non si vedeva nulla. Ci pareva di viaggiare alla ventura per una terra vergine. Di valle in valle, di solitudine in solitudine, dopo tre ore circa di cammino, arrivammo finalmente in un punto dove gli alberi più fitti, i sentieri più larghi e qualche armento sparpagliato per la campagna, annunciavano la vicinanza d’un luogo abitato. Uno dopo l’altro alcuni cavalieri della scorta spronarono il cavallo, ci passarono innanzi di galoppo e scomparvero dietro un’altura; altri si slanciarono di carriera a traverso la campagna in direzioni diverse; i rimanenti si disposero in ordine. In capo a pochi minuti ci trovammo davanti all’imboccatura d’una gola formata da alcune piccole colline, sulle quali s’alzava qualche capannuccia di stoppia. Alcuni arabi cenciosi, uomini e donne, ci guardavano curiosamente di dietro alle siepi. Entrammo nella gola; in quel momento apparve il sole. A un certo punto la gola faceva un gomito quasi ad angolo retto. Svoltammo..., e ci trovammo davanti a uno spettacolo stupendo.

Trecento cavalieri, vestiti di mille colori, sparpagliati in un grandioso disordine, ci venivan incontro a briglia sciolta coi fucili nel pugno, come se si slanciassero all’assalto d’un reggimento.

Era la scorta della provincia di Laracce, preceduta dal governatore e dai suoi ufficiali, che veniva a dare il cambio alla scorta di Had-el-Garbia, la quale doveva lasciarci sul confine della provincia di Tangeri, dove appunto eravamo arrivati.

Il Governatore di Laracce, un vecchio prestante con gran barba bianca, arrestò con un cenno i suoi cavalieri, strinse la mano all’ambasciatore e poi, voltatosi un’altra volta verso quella turba fremente d’impazienza, fece un gesto vigoroso come per dire:—Scatenatevi!—

Allora cominciò uno dei più splendidi lab el barode (giuochi colla polvere) che noi potessimo desiderare.

Si slanciavano alla carica a due, a dieci insieme, a uno a uno, in fondo alla valle, sulle colline, davanti e ai fianchi della carovana, nella direzione del nostro cammino e in direzione contraria, sparando e urlando senza posa. In pochi minuti la valle fu piena di fumo e d’odor di polvere come un campo di battaglia. Da ogni parte turbinavano cavalli, lampeggiavano fucili, sventolavano caic, svolazzavano cappe, ondeggiavano caffettani rossi, gialli, verdi, azzurri, ranciati; scintillavano sciabole e pugnali. Ci passavano accanto ad uno ad uno, come fantasmi alati, vecchi, giovanetti, uomini di forme colossali, figure strane e terribili, ritti sulle staffe, colla testa alta, coi capelli al vento, col fucile disteso; e ognuno, sparando, lanciava un grido selvaggio che gl’interpreti ci traducevano.—Guai a te!—Madre mia!—In nome di Dio!—T’uccido!—Sei morto!—Son vendicato!—Altri dedicavano il loro colpo a qualcuno.—Al mio padrone!—Al mio cavallo!—Ai miei morti!—Alla mia amante!—Sparavano in alto, in terra, indietro, chinandosi e rovesciandosi come se fossero legati alle selle. Ad alcuni cadeva in terra il caic o il turbante; tornavano indietro di carriera, e lo raccoglievano, passando, colla punta del fucile. Parecchi roteavano l’arma al di sopra del capo, la buttavano in aria e la riafferravano con una mano. Eran gesti convulsi, atteggiamenti temerari, urli e sguardi di gente inebbriata che rischiasse la vita con una gioia furiosa. Molti slanciavano il cavallo come se si volessero uccidere; volavano, sparivano e non tornavano che lungo tempo dopo colla faccia stravolta e pallida di chi ha visto in faccia la morte. I più dei cavalli grondavano sangue dal ventre; i cavalieri avevano i piedi, le staffe, l’estremità delle cappe macchiate di sangue. Alcune figure, in quella moltitudine, mi rimasero impresse fin dal primo momento. Fra gli altri un giovane con una testa ciclopica, un par di spalle smisurate ed un ventre enorme, che portava un caffettano color di rosa, e gettava delle grida che parevan ruggiti d’un leone ferito;—un ragazzo d’una quindicina d’anni, bello, scapigliato, tutto bianco, che mi passò tre volte dinanzi, gridando:—Dio mio! Dio mio!—; un vecchio lungo ed ossuto, un viso di malaugurio, che volava cogli occhi socchiusi e un sorriso satanico sulle labbra, come se portasse in groppa la peste;—un nero, tutt’occhi e tutto denti, con una mostruosa cicatrice a traverso la fronte, che passava dibattendosi furiosamente sopra la sella, come per liberarsi dalla stretta d’una mano invisibile. Facendo questo, accompagnavano tutti la marcia della carovana, salivano e scendevano dalle alture, si raggruppavano, si disperdevano, formavano e disfacevano rapidamente ogni sorta di combinazioni di colori, che abbagliavan gli occhi come lo sventolìo di una miriade di bandiere. Tutta questa gente, questo movimento vertiginoso, questo strepito, scoppiato inaspettatamente, all’apparire del sole, in quella gola angusta dove lo spettacolo si presentava tutto insieme allo sguardo come dentro a un anfiteatro, ci colpì d’un tale stupore che per un pezzo nessuno aprì bocca, e le prime parole furono poi un’esclamazione unanime e calorosa:—È bello! È bello! È bello!

A poca distanza dall’uscita della gola l’Ambasciatore si fermò, e tutti scendemmo a terra per riposarci all’ombra d’un gruppo d’olivi.

La scorta della provincia di Laracce continuò le sue cariche e i suoi fuochi davanti a noi.

Il convoglio dei bagagli seguitò la sua strada verso il luogo fissato per l’accampamento.

Eravamo arrivati alla Cuba di Sidi-Liamani.

Nel Marocco si chiama Cuba, che significa cupola, una piccola cappella quadrata, coperta d’una cupola semisferica, nella quale è seppellito un santo. Queste Cube, frequentissime particolarmente nel mezzogiorno dell’Impero, poste la maggior parte in luoghi eminenti presso una sorgente e una palma, e visibili, per la loro nivea bianchezza, a grande distanza, servono di guida ai viaggiatori, vengon visitate dai fedeli e sono per lo più custodite da un discendente del Santo, erede della santità, il quale abita una casuccia vicina alla tomba e vive dell’elemosina dei pellegrini. La Cuba di Sidi-Lamani era posta sopra una piccola altura, a pochi passi da noi. Alcuni arabi della campagna stavan seduti dinanzi alla porta. Dietro a loro spuntava la testa del vecchio decrepito—il Santo—che ci guardava con una stupida meraviglia.

In pochi minuti divamparono i fuochi della cucina, e di lì a poco si fece colezione.

Una scatola di sardine, vuota, buttata via dal cuoco, fu raccolta dagli arabi, portata dinanzi alla porta della Cuba e fatta oggetto d’un lungo esame e di conversazioni animate.

Finito il lab el barode, quasi tutti i cavalieri della scorta, scesi a terra, si sparpagliarono per la piccola valle, parte per far pascolare i cavalli, parte per riposare. Alcuni, rimasti in sella, stettero di vedetta sulle alture.

In quel frattempo, passeggiando col capitano, osservai per la prima volta, colla scorta delle sue indicazioni, i cavalli marocchini. Sono tutti di piccola statura, tanto che tornato in Europa, coll’occhio abituato alle loro forme, i cavalli europei, anche di statura mezzana, mi parvero, sulle prime, enormi. Hanno l’occhio vivo, la fronte un po’ schiacciata, le narici molto aperte, le ossa zigomatiche molto sporgenti, la testa quasi tutti bellissima; lo stinco e la tibia un po’ curvi, ciò che dà loro una particolare elasticità di movimenti; la groppa manchevole, fuggente, per così dire, di sotto alla sella, il che li rende più abili al galoppo che al trotto; e non mi ricordo infatti d’aver mai visto andar di trotto un cavaliere marocchino. Visti quando riposano e quando vanno di passo, anco i più belli, non danno nell’occhio; slanciati alla corsa, si trasfigurano e riescon superbi animali. Benchè si nutriscano assai meno dei nostri e siano bardati assai più pesantemente, reggono alla fatica più dei nostri. Anche il modo di cavalcare è diverso. Le staffe sono tenute molto alte; il cavaliere sta sulla sella colle gambe piegate quasi ad angolo retto, tiene le redini lunghe e dirige il cavallo con movimenti larghissimi. La sella ha quei due rilievi, chiamati da noi con termine tecnico il pomo e la paletta, altissimi, che toccano il petto e la schiena del cavaliere, e lo ritengono in maniera da rendergli molto difficile la caduta. La maggior parte dei cavalieri, calzati di piccoli stivali di cuoio giallo senza talloni, non portano sproni e pungono il cavallo colla staffa; gli altri hanno per sproni due piccoli ferri acuminati, della forma d’un pugnale, fissati al calcagno con un cerchietto metallico e una catenella. Si dicono cose ammirabili del grande amore che nutre l’arabo per il cavallo, l’animale prediletto del profeta; si dice che lo considera come un essere sacro; che ogni mattina, al levar del sole, gli mette la mano destra sulla testa, mormorando: bismillah! (nel nome di Dio!) e si bacia poi la mano, che crede santificata da quel contatto; che gli prodiga ogni sorta di cure e di carezze. E saran cose vere. Ma questo suo grande amore, per quello ch’io vidi, non gl’impedisce di lacerargli i fianchi senza bisogno, di lasciarlo esposto al sole quando potrebbe ripararlo all’ombra, di condurlo a bere, a un’ora di cammino, colle zampe legate, di esporlo dieci volte al giorno, per puro spasso, a spezzarsi le gambe, e infine di trascurare la bardatura in maniera che il più diligente di loro, messo in un reggimento di cavalleria europea, passerebbe sei mesi dell’anno in prigione.

Il caldo essendo forte, si stette parecchie ore all’ombra; ma a nessuno riuscì di dormire, per cagione degli insetti. Erano le prime avvisaglie d’una guerra tremenda che doveva durare, inferocendo di giorno in giorno, fino alla fine del viaggio. Appena sdraiati in terra, eravamo assaliti, punti, solleticati da cento parti, come se ci fossimo buttati sopra un letto di ortiche. Non erano che bruchi, ragni, formiconi, tafani, cavallette; ma grossi, petulanti e ostinati in una maniera inaudita. Il Comandante, che per rallegrare la brigata aveva preso il partito di esagerare favolosamente i pericoli, e lo faceva con un garbo ammirabile, ci assicurava che quelli erano animalini microscopici appetto agli insettacci che avremmo trovati avvicinandoci a Fez e innoltrandoci nell’estate; e che di noi non sarebbe tornato in Italia che qualche resto riconoscibile a stento dai parenti più stretti e dagli amici più intimi. Il cuoco udendo quelle parole, fece un sorriso forzato e diventò pensieroso. Vicino a noi c’era una tela di ragno smisurata, distesa sopra alcuni cespugli, come un lenzuolo messo ad asciugare. Mi pare ancor di sentire il comandante esclamare:—Ma in questo paese tutto è gigantesco, formidabile, miracoloso!—Ed osservava con ragione che il ragno che aveva fatto quella tela doveva essere almeno grosso quanto un cavallo. Ma non riuscimmo a scoprirlo. I soli che dormissero erano gli arabi, coricati la maggior parte al sole, con una processione di bestiaccie addosso. I due pittori disegnavano, tormentati da un nuvolo di mosche feroci, che strappavano all’Ussi, a due a tre per volta, tutta la ricchissima litania dei sacrati fiorentini

Novi, arditi, da far testo di lingua.

Scemato un po’ il caldo, la scorta di Had-el-Garbìa, il Console d’America e il Vicegovernatore di Tangeri, venuto là per dare l’ultima volta il buon viaggio all’Ambasciatore, si congedarono; e noi ci rimettemmo in cammino, seguiti dai trecento cavalieri della provincia di Laracce.

Vaste pianure ondulate, coperte qui di grano, là d’orzo, più oltre di stoppia gialla, altrove d’erba e di fiori; qualche tenda nerastra e qualche tomba di santo; di tratto in tratto una palma; di miglio in miglio tre o quattro cavalieri che si riunivano alla scorta; una solitudine immensa, un sereno purissimo, un sole abbagliante: sono gli appunti che trovo nel mio quaderno intorno alla seconda marcia del cinque maggio.

Dopo tre ore di cammino arrivammo a Tleta de Reissana dov’era l’accampamento.

Le tende erano piantate, come al solito, in circolo, in una conca angusta e profonda, coperta d’erbe e di fiori altissimi che quasi c’impedivano il passo. Pareva di essere dentro a una grande aiuola di giardino. I letti e i bauli sotto le tende, erano quasi nascosti in mezzo alle margheritine, ai rosolacci, alle primavere, ai ranuncoli, a ombrellifere d’ogni grandezza e d’ogni colore. Accanto alla tenda dei pittori s’alzavano due aloé enormi con tutti i rami fioriti.

Poco dopo il nostro arrivo, giunse da Laracce, per visitare l’Ambasciatore, l’agente consolare d’Italia, il signor Guagnino, vecchio negoziante genovese, che vive da quarant’anni sulla costa dell’Atlantico, conservando gelosamente puro l’accento della lingua di Balilla; e verso sera venne, non so di dove, un arabo della campagna per consultare il medico dell’ambasciata.

Era un povero vecchio curvo e zoppicante; un soldato della Legazione lo condusse dinanzi alla tenda del signor Miguerez.

Il signor Miguerez, che parla l’arabo, lo interrogò, e conosciuto il suo male, si mise a frugare nella farmacia portatile per cercare non so che medicinale. Non trovandolo, mandò a chiamare Mohamed Ducali, gli fece scrivere in arabo, sopra un foglietto di carta, una ricetta colla quale il malato avrebbe potuto, tornando in mezzo ai suoi, farsi fare quello che gli occorreva. Era un medicinale di cui gli arabi fanno grande uso.

Mentre il Ducali scriveva, il vecchio mormorava una preghiera.

Scritta che fu la ricetta, il medico la porse al malato.

Questo, senza dargli tempo di dire una parola, afferrò il foglio e se lo ficcò in bocca con tutt’e due le mani. Il medico gridò:—No! no! Sputa! Sputa!—Fu inutile. Il povero vecchio masticò la carta coll’avidità d’un affamato, la mandò giù, ringraziò il dottore e si mosse per andarsene. Ci volle del buono e del bello a persuaderlo che la virtù della medicina non consisteva nella carta, e a fargli prendere un’altra ricetta.

Questo fatto non può destare meraviglia in chi sappia che cos’è la medicina nel Marocco. La medicina v’è esercitata quasi unicamente dai ciarlatani, dai negromanti e dai santi. Qualche sugo d’erba, il salasso, la salsapariglia per il morbo celtico, la carne secca di serpente o di camaleonte per le febbri intermittenti, il ferro rovente per le ferite, certi versetti del Corano scritti in fondo ai recipienti dei medicinali o sopra un pezzetto di carta che il malato porta appeso al collo, sono i rimedi principali. Lo studio dell’anatomia essendo vietato dalla religione, è facile immaginare a che cosa si riduca la chirurgia. Basterà dire che i chirurghi strappano le tonsille colle dita e tentano l’estrazione della pietra con un rasoio o col primo gancio di ferro che si trovano ad aver fra le mani. L’amputazione è aborrita. I pochi arabi assistiti da medici europei muoiono fra atrocissimi spasimi piuttosto di subire il taglio che salverebbe loro la vita. Ne segue che sebbene siano frequentissimi i casi di perdita d’un membro, specialmente per lo scoppio dei fucili, non si vedono nel Marocco che pochissimi mutilati; e i più di quei pochissimi sono disgraziati ai quali il carnefice tagliò le mani con un coltellaccio, e il catrame bollente, in cui, secondo l’uso, tuffarono i moncherini, arrestò l’emorragia. I loro rimedi violenti, però, e specialmente il ferro rovente, ottengono qualche volta degli effetti ammirabili; e si applicano questi rimedi brutalmente, temerariamente, senz’aiuti. Ma o per poca sensibilità nervosa o per la vigoria dell’animo indurito dalla fede fatalista, resistono con una forza prodigiosa ai più tremendi dolori. Si metton le ventose con vasi di terra e tanto fuoco da arrostirsi la schiena; si piantano il pugnale negli apostemi, alla cieca, a rischio di rompersi le arterie; si fanno scorrere una brace accesa sopra un braccio piagato, con mano ferma, cacciando col soffio il fumo delle carni, senza lasciarsi sfuggire un lamento. Le malattie più frequenti son le febbri, le oftalmie, la tigna, l’elefantiasi, l’idropisia: ma la più comune è la sifilide, trasmessa di generazione in generazione, alterata, che si produce in forme strane ed orrende, di cui tribù intere sono infette e migliaia di sventurati muoiono; e ne morirebbero assai più se non fosse la sobrietà estrema di nutrimento a cui la maggior parte son costretti dalla miseria e dal clima. Medici europei non ce ne sono che nelle città della costa; nella stessa Fez non v’è altro che qualche ciarlatano rinnegato, fuggito d’Algeria o dai presidii spagnoli. Quando l’Imperatore o un ministro o un ricco Moro s’ammala, manda a chiamare un medico europeo in una città della costa. Ma non mandano che quando son ridotti agli estremi, trascurano per anni ed anni le malattie, e il più delle volte il medico non arriva che per assistere alla morte. Nei medici europei hanno gran fede; la vista dei medicinali, delle preparazioni chimiche, degli strumenti chirurgici dà loro un concetto immenso del potere della scienza; se ne ripromettono prodigi; pigliano le prime medicine e seguono le prime prescrizioni colla docilità e l’allegrezza di gente sicura d’una guarigione immediata. Ma se la guarigione non è immediata, perdono ogni fede, interrompono la cura e ricorrono ai ciarlatani. Una cosa, sopra tutte, domandano vecchi e giovani, ricchi e poveri, ai medici europei, ed è ciò che l’imperatore Eliogabalo domandava ai suoi cuochi. E’ quando lo domandano? Quando quotidianamente non possono più varcare le soglie del paradiso di Maometto più di tante volte quanti sono i precetti fondamentali dell’Islam! A questo punto si tengon già decaduti! Onde ognuno può capire quanto sia generalmente precoce la decadenza vera, e a che abbominevoli pervertimenti siano trascinati i più dal furore delle passioni.

La sera passò senz’avvenimenti notevoli, fuorchè la scoperta ch’io feci d’uno scorpionaccio nero sopra il cuscino del mio letto, nel momento che stavo per coricarmi. Fu però un terrore passeggiero, poichè avvicinandomi a poco a poco col lume, lessi sul dorso dell’animale l’iscrizione rassicurante:— Cesare Biseo fece addì 5 maggio 1875.

La mattina all’alba partimmo alla volta della città d’Alkazar.

Il tempo era scuro. I colori pomposi dei trecento soldati della scorta pigliavano un vigore meraviglioso dal grigio del cielo e dal verde cupo della campagna. Lo stesso Hamed Ben Kasen Buhamei, fermo sopra un rialto di terreno vicino all’accampamento, pareva che guardasse con compiacenza quei bei cavalieri che gli passavano dinanzi a grossi drappelli, silenziosi, gravi, cogli occhi fissi all’orizzonte, come avanguardie d’un esercito la mattina d’una giornata di battaglia. Per un buon tratto, camminammo in mezzo ad olivi e cespugli altissimi; poi entrammo in una vasta pianura tutta coperta di fiori gialli e violetti, dove la scorta si sparpagliò per fare il lab el barode. Lo spettacolo in quel luogo aperto, sopra quel tappeto di fiori, sotto quel cielo minaccioso era così stranamente bello, che l’Ambasciatore si fermò più volte, e fece fermare tutto il suo seguito, per contemplarlo. Non posso credere che quella gente abbia un’arte segreta di raggrupparsi e di disordinarsi; ma quella mattina me ne venne il sospetto. Avrei detto che tutti i loro movimenti e tutte le loro combinazioni di colori, erano stati concertati da un coreografo. In mezzo a quel tal gruppo di cavalieri dalle cappe turchine, s’andava sempre a ficcare, come se ce l’avessero mandato, un cavaliere colla cappa bianca. In mezzo a un gruppo di caffettani bianchi, cascava sempre a proposito, come la pennellata d’un artista, un caffettano color di rosa. I colori armonici si cercavano, s’univano, amoreggiavano insieme per la durata d’una carica, e si separavano per formare altre armonie. Eran trecento e parevano un esercito; si vedevano da tutte le parti; ci svolazzavano intorno come uno sciame di uccelli; ci assordavano, ci abbagliavano, c’innamoravano, facevano disperare i pittori.—Canaglia!—diceva l’Ussi—se v’avessi nelle unghie a Firenze!

ALKAZAR-EL-KIBIR

A un certo punto l’Ambasciatore fece un cenno al Caid, la scorta si fermò, e noi, accompagnati da alcuni soldati, andammo poco lontano di là a visitare le rovine d’un ponte. Arrivati sulla sponda, ci fermammo: del ponte non rimanevano che pochi ruderi sulla sponda opposta. Si stette qualche minuto guardando alternatamente quei ruderi e la campagna, ciascuno assorto nei suoi pensieri. E il luogo era degno veramente di quella testimonianza muta di rispetto. Duecentonovantasette anni prima, il giorno quattro d’agosto, sopra quei campi fioriti tuonavano cinquanta cannoni e turbinavano quarantamila cavalli sotto il comando d’uno dei più grandi capitani dell’Africa, e d’uno dei più giovani, più avventurosi e più sventurati monarchi d’Europa. Per le sponde di quel fiume fuggivano alla rinfusa, rotolavano nel sangue, domandavano grazia, si precipitavano nelle acque per sfuggire alle scimitarre implacabili degli arabi, dei berberi e dei turchi, il fiore della nobiltà portoghese, cortigiani, vescovi, soldati spagnuoli e soldati di Guglielmo d’Orange, avventurieri italiani, tedeschi e francesi; e la cavalleria musulmana calpestava sei mila cadaveri di cristiani. Eravamo sul terreno di quella memorabile battaglia d’Alkazar, che costernò l’Europa e fece risonare un grido di gioia da Fez a Costantinopoli. Quel fiume era il Mkhacem. Su quel ponte passava, al tempo della battaglia, la strada d’Alkazar. In vicinanza del ponte era l’accampamento di Mulei Moluk, sultano del Marocco. Mulei Moluk veniva da Alkazar, il re di Portogallo veniva da Arzilla. La battaglia fu combattuta sulle rive di quel fiume, nella pianura che ci si stendeva dintorno. Quante immagini ci si affollavano! Ma fuorchè le rovine del ponte, non v’era una pietra, un segno che ricordasse qualcosa. Da che parte aveva fatto le sue prime cariche vittoriose la cavalleria del duca di Riveiro? Dove aveva combattuto Mulei-Amed, il fratello del Sultano, il futuro conquistatore del Sudan, capitano sospetto di codardia la mattina, re vittorioso la sera? In qual punto del fiume s’era annegato Mohamed il nero, fratricida scoronato, provocatore della guerra? In qual angolo del campo il re Sebastiano aveva ricevuto il colpo di fucile e i due fendenti di scimitarra, che uccidevano con lui l’indipendenza del Portogallo e le ultime speranze del Camoens? E dov’era la lettiga del Sultano Moluk, quand’egli spirò in mezzo ai suoi ufficiali mettendosi il dito sulla bocca? Mentre stavamo, su questi pensieri, la scorta ci guardava di lontano, immobile in mezzo a quella pianura famosa, come un manipolo di cavalieri di Mulei-Hamed risuscitati da terra al rumore del nostro passaggio. Eppure non uno forse di quei soldati sapeva che quello era il campo della battaglia dei tre Re, gloria dei loro padri; e quando ci mettemmo in cammino con loro, guardavano ancora qua e là con occhio curioso, come per cercare se in quell’erbe e in quei fiori ci fosse qualcosa di strano che spiegasse la nostra fermata.

Si passò il Mkhacem e l’Uarrur,—due piccoli affluenti del Kus, o Lukkos, il Lixos degli antichi, che dalle montagne del Rif, dove nasce, si va a gettare nell’Atlantico a Laracce;—e si continuò a camminare verso Alkazar a traverso a una serie di colline aride, non incontrando che di mezz’ora in mezz’ora qualche arabo e qualche cammello.

Finalmente, pensavamo strada facendo, s’arriverà a una città! Eran tre giorni che non vedevamo una casa e sentivamo tutti il desiderio di uscire per un giorno dalla monotonia della solitudine. Oltre a ciò Alkazar era la prima città dell’interno a cui giungevamo. Sapevamo d’essere aspettati. La curiosità era viva. La scorta si ordinava, via via che ci avvicinavamo. Noi stessi, quasi senza accorgercene, ci trovammo schierati in due linee come un drappello di cavalleria, l’Ambasciatore dinanzi, gl’interpreti ai lati.

Il tempo s’era rasserenato, e un’impaziente allegrezza animava tutta la carovana.

Dopo quattr’ore di cammino, all’improvviso, dall’alto d’una collina, vedemmo giù nella pianura in mezzo a una cintura di giardini, la città d’Alkazar coronata di torri, di minareti e di palme, e nello stesso punto ci ferì l’orecchio uno strepito di fucilate e il suono d’una musica infernale.

Era il governatore della città che ci veniva incontro coi suoi ufficiali, un drappello di soldati a piedi, e una banda.

Dopo pochi minuti c’incontrammo.

Ah! chi non ha visto la banda d’Alkazar, quei dieci sonatori di piffero e di corno, vecchi di cent’anni e ragazzi di dieci, tutti a cavallo ad asinelli grossi come cani, cenciosi, mezzi nudi, con quelle teste rase, con quegli atteggiamenti di satiri, con quelle faccie di mummie, non ha visto, credo, lo spettacolo più lagrimevolmente comico che si possa dare sotto la volta del cielo.

Mentre il vecchio Governatore dava il benvenuto, al ministro, i soldati tiravano fucilate in aria, e la banda continuava a sonare.

Ci avanzammo fino a un mezzo miglio dalla città, in un campo arido, dove si dovevano piantare le tende.

La banda ci accompagnò suonando.

Fu rizzata la tenda della mensa, sotto la quale ci riparammo, mentre i cavalieri della scorta facevano le solite cariche.

La banda, schierata davanti alla tenda, continuava a sonare con ferocia crescente.

Un gesto supplichevole dell’Ambasciatore li fece tacere.

Allora assistemmo a una scena assai curiosa.

Quasi nello stesso punto si presentarono concitatamente all’Ambasciatore, uno a destra e l’altro a sinistra, un nero ed un arabo. Il nero vestito signorilmente, col turbante bianco e col caffettano celeste, gli depose ai piedi un vaso di latte, una cesta di aranci e un piatto di cuscussù; l’arabo, d’aspetto povero, vestito della sola cappa, gli mise dinanzi un montone. Compiuto quest’atto, si scambiarono uno sguardo fulmineo.

Erano due nemici mortali.

L’Ambasciatore, che li conosceva e li aspettava, chiamò l’interprete, sedette e cominciò l’interrogatorio.

Erano venuti a chiedere un giudizio.

Il nero era una specie di fattore del vecchio gran sceriffo Bacali, uno dei più potenti personaggi della corte di Fez, proprietario di molte terre nei dintorni d’Alkazar. L’arabo era un uomo della campagna. La loro lite durava da un pezzo. Il nero, forte della protezione del suo padrone, aveva fatto più volte incarcerare e multare l’arabo accusandolo, e sostenendo l’accusa con molte testimonianze, d’avergli rubato cavalli, bestie bovine, derrate. L’arabo, che si diceva innocente, non trovando nessuno che osasse pigliar le sue difese contro il suo persecutore, un bel giorno aveva abbandonato il suo villaggio, era andato a Tangeri, aveva chiesto quale fosse l’Ambasciatore più generoso e più giusto, e inteso nominare l’Ambasciatore d’Italia, era andato a sgozzare un agnello davanti alla porta della Legazione, chiedendo in questa forma sacra a cui non si può opporre un rifiuto, protezione e giustizia. L’Ambasciatore l’aveva esaudito, s’era intromesso per mezzo dell’agente di Laracce, s’era rivolto alle autorità della città d’Alkazar; ma per la lontananza sua, per gl’intrighi del nero, per la fiacchezza delle Autorità, il povero arabo era rimasto nelle stesse peste di prima; fatto anzi vittima di nuove accuse e di nuove persecuzioni. Ora la presenza dell’Ambasciatore doveva sciogliere il nodo.

Tutti e due furono ammessi a dire le proprie ragioni: gl’interpreti traducevano rapidamente.

Nulla si può immaginare di più drammatico del contrasto che presentavano le figure e il linguaggio di quei due personaggi. L’arabo, un uomo sui trent’anni, infermiccio, d’aspetto triste, parlava con una foga irresistibile, tremando, fremendo, invocando Iddio, battendo i pugni in terra, coprendosi il viso colle mani in atto di disperazione, fulminando il suo nemico con sguardi che nessuna parola può esprimere. Diceva che aveva corrotto i testimoni, che aveva intimidite le autorità, che lo aveva fatto imprigionare per estorcergli dei denari, che come lui aveva fatto cacciare in prigione molti altri per poter violare le loro donne, che aveva giurato la sua morte, ch’era il flagello del paese, un maledetto da Dio, un infame, e così dicendo mostrava sulle braccia e sulle gambe nude le traccie dei ferri della prigione, e l’angoscia gli strozzava la voce. Il nero, una figura di cui ogni tratto confermava una di quelle accuse, ascoltava senza guardare, rispondeva senz’alterarsi, sorrideva impercettibilmente colla punta delle labbra, immobile, impassibile, sinistro come una statua della Perfidia.

La discussione durava da un pezzo, e pareva che non dovesse più finire, quando l’Ambasciatore la troncò con una risoluzione che fu accettata di buon grado dalle due parti. Chiamò Selam, che comparve sull’istante coi suoi grandi occhi neri spalancati, e gli ordinò di saltare a cavallo e andare di galoppo al villaggio dell’arabo, distante un’ora e mezzo da Alkazar, a chiedere informazioni agli abitanti intorno alle persone ed ai fatti. Il nero pensava:—Hanno paura di me: o mi sosterranno o non diran nulla.—L’arabo pensava invece, e con più ragione, che interrogati da un soldato d’un’Ambasciata, avrebbero avuto maggior coraggio di dire la verità.

Selam partì come una freccia; i due contendenti s’allontanarono, e non li rividi più. Seppi poi che gli abitanti del villaggio avevan tutti testimoniato in favore dell’arabo e a carico del nero, il quale, per sollecitazione dell’Ambasciatore, fu condannato a restituire alla sua vittima tutto il denaro che le aveva estorto.

In quel frattempo i servi e i soldati avevano piantato tutte le tende, i soliti infelici avevano portato la solita muna e qualche gruppo d’abitanti della città s’erano avvicinati all’accampamento.

Appena scemato un po’ il caldo, ci dirigemmo tutti insieme verso la città, a piedi, preceduti, fiancheggiati e seguiti da gente armata.

Vediamo di lontano, passando, un edifizio singolare, posto fra l’accampamento e la città, tutto archi e cupolette, fra cui è chiuso un cortile che ha l’aspetto d’un cimitero. Ci dicono che è una di quelle zauia, ora decadute, che quando fioriva la civiltà dei Mori, contenevano una biblioteca, una scuola di lettere e di scienze, un ospedale per i poveri, un albergo per i viaggiatori, oltre alla moschea e alla cappella sepolcrale; e appartenevano, e appartengono ancora la maggior parte, agli ordini religiosi.—Ci avviciniamo alla porta della città.—La città è circondata di vecchie mura merlate; vicino alla porta per cui entriamo, s’alzano alcune tombe di santo sormontate da cupole verdi. Entrando, sentiamo uno strepito in alto: guardiamo in su. Son grandi cicogne, ritte sui tetti delle case, che battono il becco rumorosamente, come per avvertire gli abitanti del nostro arrivo. Infiliamo una strada: alcune donne si rifugiano in casa, i bambini fuggono. Le case son piccole, senza intonaco, senza finestre, divise da vicoletti oscuri e immondi. Le strade paiono letti di torrenti. In alcuni angoli ci sono carcami interi di asini e di cani. Camminiamo sul letame in mezzo a pietroni e a buche profonde, saltellando e inciampando. Gli abitanti cominciano ad affollarsi sui nostri passi, guardandoci con grande stupore. I soldati ci fanno largo a pugni e a colpi di calcio di fucile con uno zelo che l’Ambasciatore è costretto a frenare. Una turba di gente ci precede e ci segue. Quando uno di noi si volta indietro bruscamente, tutti si fermano, qualcuno scappa, altri si nascondono. Di tratto in tratto una donna ci chiude la porta in faccia e un bimbo getta un grido di spavento. Le donne paiono fagotti di panni sudici; i più dei bimbi sono tutti nudi; i ragazzi di dieci o dodici anni non hanno che la camicia stretta da una corda intorno alla vita. A poco a poco la gente che ci accompagna piglia un po’ più d’ardimento. Ci guardano con particolare curiosità gli stivali e i calzoni. Alcuni ragazzi si arrischiano a toccarci le falde del vestito. Però l’espressione generale dei volti non è benevola. Una donna, fuggendo, slancia alcune parole all’Ambasciatore. L’interprete traduce:—Dio confonda la tua razza!—Un giovanetto grida:—Dio ci accordi una buona giornata di vittoria sopra costoro!—Arriviamo in una piazzetta, montuosa e rocciosa dove appena si può camminare. Passiamo dinanzi a una schiera di orribili vecchie quasi completamente nude, sedute in terra, con qualche fuscello e qualche pane dinanzi, che aspettano compratori. C’innoltriamo per altre strade. Ogni cento passi c’è una gran porta arcata che si chiude la notte. Le case sono per tutto nude, screpolate, lugubri. Entriamo in un bazar coperto da un tetto di canne e di rami d’albero che cascano da ogni parte. Le botteghe paiono nicchie; i bottegai, statue di cera; le merci, robuccia da ragazzi messa in mostra per burla. In ogni angolo si vede gente accovacciata, sonnolenta, attonita, triste; bambini tignosi; vecchie che non han più forma umana. Par di girare per i corridoi d’uno spedale. L’aria è pregna d’odori aromatici. Non si sente una voce. La folla ci accompagna silenziosamente come una turba di spettri. Usciamo dal bazar. Incontriamo dei mori a cavallo, dei cammelli carichi, una megera che mostra il pugno all’Ambasciatore, un vecchio santo incoronato d’alloro, che ci ride in faccia. A un certo punto cominciano a spesseggiarci intorno certi uomini vestiti di nero, capelluti, col capo coperto d’un fazzoletto turchino; i quali ci salutano umilmente e ci guardano sorridendo. Uno di essi, un vecchio cerimonioso, si presenta all’Ambasciatore e lo invita a visitare il Mellà, il quartiere degli ebrei, chiamato dagli arabi con quel nome oltraggioso che significa terra salata o maledetta. L’Ambasciatore accetta. Passiamo sotto una porta a volta, c’innoltriamo per un labirinto di vicoletti più miserabili, più luridi, più fetenti di quei della città araba, in mezzo a case che paion tane, a traverso piazzettine che paion stalle, dalle quali si vedono dei cortili che paion fogne; e da ogni parte di questo immondezzaio s’affacciano donne e ragazze bellissime, che ci sorridono e mormorano:— Buenos dias! Buenos dias! In alcuni punti siamo costretti a turarci il naso e a camminare in punta di piedi. L’ambasciatore è indignato.—Come mai,—dice al vecchio ebreo,—potete vivere in questo sudiciume?—È l’usanza del paese,—quegli risponde.—L’usanza del paese! Vergogna! E voi chiedete la protezione delle Legazioni, parlate di civiltà, chiamate i mori selvaggi! Voi che vivete peggio di loro, e avete la sfrontatezza di compiacervene!—L’ebreo abbassa il capo sorridendo come per dire:—Che strane idee!—Usciamo dal Mellà, la folla torna a circondarci. Il viceconsole fa una carezza a un bambino: molti fanno segno di meraviglia; si alza un mormorio favorevole; i soldati sono costretti a disperdere la ragazzaglia che accorre da ogni parte. Prendiamo a passo affrettato una strada deserta, la gente a poco a poco rimane indietro, arriviamo fuori delle mura in una strada fiancheggiata da fichi d’India enormi e da palme altissime, tiriamo un gran respiro, siam soli!

Tale è la città d’Alkazar, chiamata generalmente Alkazar-el-Kebir, che significa «il grande palazzo.» La tradizione dice che fu fondata nel secolo duodecimo da quell’Abù-Yussuf Yacub-el-Mansur, della dinastia degli Almoadi, che vinse la battaglia d’Alarcos contro Alonzo IX di Castiglia, e fece innalzare la famosa torre della Giralda in Siviglia. Si racconta che una sera, cacciando, si smarrì; che un pescatore l’ospitò nella sua capanna, e che il califfo, riconoscente, gli fece costrurre nel luogo stesso un gran palazzo e parecchie case; intorno alle quali sorse a poco a poco la città. Fu un tempo una città popolosa e fiorente; ora è abitata da cinque mila al più tra mori ed ebrei, e poverissima, benchè ritragga qualche vantaggio dall’esser posta sulla strada delle carovane che vanno dal nord al sud dell’Impero.

Ripassando vicino alla porta per cui eravamo entrati, vedemmo un ragazzo arabo di circa dodici anni che camminava stentatamente colle gambe aperte e rigide, dondolandosi in una maniera bizzarra. Altri ragazzi lo seguivano. Ci fermammo; venne verso di noi. Quando ci fu dinanzi, vedemmo che aveva una grossa spranga di ferro, lunga un par di palmi, fissata alle gambe con due anelli posti sopra la noce del piede.

Era un ragazzo macilento, sudicio e di fisonomia sgradevole. L’ambasciatore lo interrogò per mezzo dell’interprete.

—Chi ti ha messo quel ferro?

—Mio padre,—rispose arditamente il ragazzo.

—Per che motivo?

—Perchè non imparo a leggere.

Stentavamo a credere; ma un arabo della città, là presente, confermò la risposta.

—E l’hai da quanto tempo?

—Da tre anni, rispose sorridendo amaramente.

Pensammo tutti che fosse una bugia. Ma l’arabo confermò la cosa aggiungendo che il ragazzo dormiva pure col ferro e che tutti in Alkazar lo conoscevano.

Allora l’Ambasciatore, mosso a compassione, gli fece un discorsetto, esortandolo a studiare, a togliersi quella vergogna, a non disonorare in quel modo la sua famiglia; e quando l’interprete ebbe finito di tradurre, gli fece domandare se aveva qualcosa da rispondere.

—Ho da rispondere,—rispose il ragazzo, —che porterò il ferro per tutta la vita, ma che non imparerò a leggere mai, e che son risoluto a farmi uccidere, piuttosto che a imparare.

L’Ambasciatore lo guardò fisso; egli sostenne lo sguardo imperterrito.

—Signori,—disse allora l’Ambasciatore rivolgendosi a noi,—la nostra missione è finita.

Noi tornammo all’accampamento e il ragazzo rientrò in città col suo strumento di tortura.

—Fra qualche anno,—disse un soldato della scorta,—sopra una porta d’Alkazar si vedrà spenzolare quella testa.

BEN-AUDA

La mattina seguente, al levar del sole, guadammo il fiume Kus, sulla destra del quale è posta la città d’Alkazar, e ci avanzammo di nuovo per una campagna fiorita, ondulata, solitaria, di cui non si vedevano i confini. La scorta s’era sparpagliata sopra un vasto spazio, in un gran numero di drappelli, che parevano altrettanti piccoli cortei di sultani. I pittori galoppavano di qua e di là coll’album e la matita in mano, a schizzar cavalli e cavalieri. Gli altri dell’ambasciata parlavano dell’invasione dei Goti, di commercio, di scorpioni, di filosofia, ascoltati avidamente dal gruppo dei servi a cavallo che ci venivano dietro. Civo prestava una particolare attenzione ai discorsi di filosofia. Hamed, invece, era tutto attento al signor Pacxot, suo padrone, che raccontava una caccia al cinghiale nella quale egli aveva rischiato la vita. Questo Hamed era, dopo Selam, il personaggio più notevole di tutta la categoria dei soldati, servi e palafrenieri. Era un arabo sui trent’anni, altissimo di statura, bruno, muscoloso, forte come un toro; ed aveva per contro un viso sbarbato, due occhi dolcissimi, un sorriso, una vocina, una grazia in tutti i movimenti, che facevano col suo corpo possente un contrasto singolarissimo. Portava un gran turbante bianco, una giacchettina azzurra e i calzoni alla zuava; parlava spagnuolo, sapeva far di tutto, piaceva a tutti, a segno che Selam, persino il glorioso Selam, n’era un tantino geloso. Gli altri pure, chi più chi meno, eran giovani belli, svegli e pieni di ossequiosa sollecitudine; tanto che quando un di noi, strada facendo, si voltava indietro, incontrava sempre tutti i loro occhioni che gli domandavano se gli occorresse qualcosa.—Peccato,—dicevo tra me,—che non ci assalti una banda di ladri, per poter vedere tutti questi lestofanti alla prova!

Dopo due ore di cammino cominciammo a incontrar qualcheduno. Il primo fu un nero a cavallo, il quale teneva in mano quel piccolo bastone segnato d’iscrizioni arabe, chiamato nella lingua del paese herrez, che i religiosi danno ai viaggiatori per preservarli dai ladri e dalle malattie. Poi alcune vecchie cenciose, che portavano sulle spalle grossi fastelli di legna. Oh potenza del fanatismo! Curve com’erano, stanche, sfiatate, ebbero ancora la forza, passandoci accanto, di scagliarci una maledizione. Una mormorò:—Dio maledica quest’infedeli!—L’altra disse:—Dio ci salvi dagli spiriti maligni!—Dopo un’altr’ora di solitudine incontrammo un corriere a piedi; un povero arabo macilento, che portava le lettere in una borsa-di cuoio, appesa a tracolla. Giunto davanti a noi si fermò per dire che veniva da Fez e che andava a Tangeri. L’Ambasciatore gli diede una lettera per Tangeri ed egli riprese il suo cammino a passo frettoloso.

Questo, e non altro, è il servizio postale del Marocco, e nessuna vita è più miserabile di quella che menano quei corrieri. Non mangiano, strada facendo, che un po’ di pane e qualche fico; non si fermano che poche ore della notte per dormire, con una corda legata al piede, alla quale appiccan fuoco prima di addormentarsi, per essere svegliati presto; camminano giorni interi senza trovare nè un albero, nè una goccia d’acqua; attraversano boschi infestati dai cignali, superano monti inaccessibili ai muli, passano i fiumi a nuoto, vanno di passo, di corsa, ruzzoloni giù per le chine, a quattro gambe su per le rupi, sotto il sole d’agosto, sotto le piogge interminabili dell’autunno, contro il vento infocato del deserto, in quattro giorni da Tangeri a Fez, in una settimana da Tangeri a Marocco, da una estremità all’altra dell’Impero, soli, scalzi, seminudi, e quando sono arrivati... ripartono! E fanno questo viaggio per poche lire!

A mezza strada, circa, tra la città d’Alkazar e il luogo dov’eravamo diretti, il terreno cominciava a sollevarsi, e a poco a poco, quasi senza accorgercene, giungemmo sopra un’altura, di là dalla quale si stendeva un’altra pianura immensa coperta per vastissimi spazi di fiori gialli, rossi e bianchi che presentavano l’apparenza di grandi strati di neve rigati di porpora e d’oro.

Per quella pianura ci venivano incontro di galoppo duecento cavalieri coi fucili ritti sulle selle, preceduti da una figura tutta bianca, che Mohammed Ducali riconobbe ed annunziò ad alta voce:—Il governatore Ben-Auda!

Eravamo arrivati al confine della provincia dei Seffiàn, chiamata pure Ben Auda, dal nome di famiglia del suo governatore, che significa figlio della cavalla; il nome che m’aveva fatto tanto fantasticare prima di partire da Tangeri.

Discendemmo nella pianura; i duecento cavalieri dei Seffiàn si schierarono sopra una sola linea, accanto ai trecento di Laracce, e il governatore Ben-Auda si presentò all’Ambasciatore.

Se vivessi cent’anni, non dimenticherei quella faccia. Era un vecchio secco, coll’occhio truce, col naso forcuto, con una bocca senza labbra, tagliata in forma d’un semicircolo rivolto in giù. La prepotenza, la superstizione, Venere, il kif, l’ozio e la sazietà d’ogni cosa, gli erano scritti sul viso. Un grosso turbante gli copriva la fronte e le orecchie. Un pugnale ricurvo gli pendeva al fianco.

L’Ambasciatore congedò il comandante della scorta di Laracce, che s’allontanò subito di galoppo coi suoi cavalieri; e ci rimettemmo in cammino colla scorta nuova, che cominciò immediatamente le cariche e i fuochi.

Erano faccie più nere, vestiti più variopinti, cavalli più belli, grida più strane, cariche più selvaggiamente impetuose di quelle che avevamo visto fino allora. Più andavamo innanzi, e più ogni cosa pigliava colore e contorno schiettamente marocchino.

Fra quella moltitudine ci diedero nell’occhio alla prima dodici cavalieri vestiti con eleganza principesca e montati su cavalli bellissimi, che gli stessi arabi della scorta guardavano con ammirazione. Cinque di questi eran giovanotti di forme colossali che parevan fratelli; tutti e cinque di viso pallido e di grandi occhi neri scintillanti all’ombra di turbanti enormi; che ci passavano e ci ripassavano accanto, a briglia sciolta, col capo rovesciato indietro in un atteggiamento superbo. Come ci sarebbero state bene, su quelle selle color di porpora, fra quelle dieci braccia convulse, cinque odalische rapite al serraglio d’un Sultano! Belli! noi gridavamo; stupendi! splendidi! Ed essi rispondevano al nostro applauso con una spronata ed un urlo, e sparivano in mezzo al fumo, roteando in alto i lunghi fucili damascati d’oro colla gioia febbrile del trionfo.

Quei cinque eran figli, gli altri nipoti del governatore Ben-Auda.

Le cariche e le fucilate durarono per più d’un’ora, fin che giungemmo a un giardino del Governatore, dove si discese per riposare.

Era un boschetto di limoni e di aranci, piantati a file parallele, e fitti in maniera che formavano una volta intricatissima di verzura, sotto la quale si godeva un’ombra, un fresco e un profumo di paradiso.

In pochi momenti quell’oasi deliziosa fu ingombra e circondata di cavalli, di mule, di fuochi per le cucine, di servi affaccendati, di soldati dormenti.

Il governatore scese con noi e ci presentò i suoi figliuoli.

Ah! giuro che in quel momento, se avessi visto le cinque odalische slanciarsi al loro collo, non avrei nemmeno osato d’invidiarli, tanto eran belli, maestosi ed amabili. L’uno dopo l’altro ci strinsero la mano facendo un leggero inchino, e abbassando gli occhi sorridenti con una timidezza infantile.

Subito dopo cercarono il medico.

Il signor Miguerez si presentò domandando che cos’avevano.

In presenza di tutti noi, senza profferir parola, si scopersero tutti e cinque, quasi nello stesso tempo, il braccio sinistro....

Oh povere le mie odalische!

Avevan tutti e cinque il braccio, dalla spalla alla mano, coperto d’un’orribile erpete sifilitica.

—Ereditaria,—disse un di loro.

E il padre, là presente, soggiunse freddamente:—Ereditaria.

—Ed hanno qui vicine le acque sulfuree,—esclamò il medico;—potrebbero facilmente curarsi! Ma no signori! Bisogna che perdano il tempo e la salute coi versetti del Corano e cogli amuleti dei ciarlatani!

Diede loro un medicinale, si ricopersero il braccio e s’allontanarono pensierosi.

Poco dopo ci sedemmo in mezzo al giardino sopra un bellissimo tappeto di Rabat, su cui ci fu servita la colezione. Il governatore Ben-Auda sedette sopra una stuoia a venti passi da noi, e si fece egli pure portar la colezione dai suoi schiavi. Allora seguì uno scambio curiosissimo di cortesie fra lui e l’Ambasciatore. Il Ben-Auda mandò per il primo ad offrire un vaso di latte; l’Ambasciatore gli fece portare in ricambio una bistecca. Al latte tenne dietro il burro, alla bistecca una frittata, al burro un piatto dolce, alla frittata un scatola di sardine; tutto questo accompagnato da mille gesti freddamente cerimoniosi, e posar delle mani sul petto, e sguardi rivolti al cielo con un’espressione comicissima di voluttà gastronomica—Il dolce, tra parentesi, era una specie di torta fatta di miele, d’ova, di burro e di zucchero, della quale gli arabi sono ghiottissimi, e a cui si riferisce una strana superstizione: che se mentre la donna sta cuocendola, entra per caso un uomo nella stanza, la torta va a male, ed anco potendo, non è più prudente il mangiarne.—E il vino?—domandò uno.—Non gli si manda a offrire del vino?—Qui nacque una discussione. Si assicurava che il governatore Ben-Auda fosse, in segreto, devotissimo alla bottiglia; ma come avrebbe potuto ber vino in presenza dei suoi soldati? Fu deciso di non mandargliene. Mi parve però che volgesse alle bottiglie degli sguardi molto soavi; assai più soavi di quelli che rivolgeva a noi. Per tutto il tempo che stette là sulla stuoia, fuorchè nell’atto che ringraziava dei doni, serbò una serietà, un cipiglio, un’espressione di dispetto e d’orgoglio, che mi fece più volte desiderare d’aver là ai miei ordini, per farglieli sfilare sotto il naso, i nostri quaranta battaglioni di bersaglieri.

Mohammed Ducali mi raccontò in quel frattempo un episodio molto notevole della storia dei Ben-Auda, nelle mani dei quali è da tempo antico il governo della terra dei Seffiàn. Gli abitanti di questa terra hanno fama di turbolenti e di valorosi; e si dice che han dato prove splendide di valore nella recente guerra contro la Spagna, nella quale morì, alla Battaglia di Vad-Ras, il 23 marzo del 1861, Sidi Absalam ben-Abd-el-Krim ben Auda, allora governatore di tutta la provincia del Garb. A questo Absalam succedette il figlio maggiore Sidi-Abd-el Krim. Era un uomo violento e dissipatore, che spogliava il suo popolo coi balzelli e lo torturava con capricci feroci. Un giorno, fra le altre, intimò a un tal Gileli Ruqui di dargli una grossa somma di denaro. Questo si scusò dicendo ch’era povero. Egli lo fece caricar di catene e cacciare in prigione. Allora la famiglia e gli amici del prigioniero, vendettero tutti i loro averi e portarono a Sid-Abd-el Krim la somma richiesta. Gileli uscì di prigione, e appena uscito, radunò tutti i suoi, e fece con loro il giuramento solenne di uccidere il Governatore. La casa del Ben-Auda era posta a due ore di strada circa da quel giardino. I congiurati l’assalirono, in gran numero, nel cuore della notte, inaspettati. Uccisero le sentinelle, irruppero nelle sale, straziarono a pugnalate Sidi-Abd-el-Krim, le sue belle, i bimbi, i servi, le schiave, devastarono e incendiarono la casa, e poi si gettarono a traverso il paese innalzando il grido della rivolta. I parenti e i partigiani dei Ben-Auda raccolsero in furia tutta la loro gente e andarono incontro ai ribelli. I ribelli li dispersero e la rivolta si propagò per tutto il Garb. Allora il Sultano mandò un esercito; la ribellione, dopo una lotta accanita, fu domata; le teste dei principali rivoltosi spenzolarono dalle mura di Fez e di Marocco; la terra dei Beni-Malek venne divisa dalla provincia; la casa del Governatore fu ricostrutta; e Sidi-Mohamed Ben-Auda, fratello dell’ucciso, ospite dell’Ambasciata italiana, assunse il governo della terra dei suoi padri. Una passeggera rivincita della disperazione sulla tirannia, seguìta da una tirannia più dura: in questo fatto si riassume la storia d’ogni provincia e di tutto l’Impero. E forse in quel tempo era già predestinato un Ruqui anche per Sidi-Mohamed Ben-Auda.

Prima del tramonto del sole ci trovavamo tutti all’accampamento, ch’era posto poco lontano da quel giardino, in un piano solitario, ai piedi d’una piccola altura sulla quale si alzava una Cuba fiancheggiata da una palma.

Appena arrivato l’Ambasciatore, fu portata la mona e deposta come sempre davanti alla sua tenda, in presenza dell’Intendente, del Caid, dei soldati e dei servi. Mentre eran tutti occupati a far la solita ripartizione, vidi, alzando gli occhi verso la cuba, un uomo di alta statura e d’aspetto strano che scendeva a lunghi passi giù per la china verso l’accampamento. Non c’era da dubitarne: era il romito, il santo, che ci veniva a fare una scena. Non dissi nulla: aspettai. Invece di entrare nell’accampamento, girò infuori, per giungere inaspettato dinanzi alla tenda dell’Ambasciatore. S’avvicinò in punta di piedi. Era una figura sepolcrale, coperta di cenci neri, che metteva schifo e paura. Tutt’a un tratto spiccò la corsa, si cacciò in mezzo a noi, e riconosciuto al vestito l’Ambasciatore, gli si scagliò contro urlando come un ossesso. Ma ebbe appena il tempo d’urlare. Con una rapidità fulminea, il Caid lo afferrò alla strozza e lo stramazzò furiosamente in mezzo ai soldati, i quali in un batter d’occhio lo portarono fuori del campo soffocando colle cappe la sua voce tonante. Il signor Morteo si affrettò a tradurci le invettive di quel disgraziato:—Sterminiamoli tutti questi maledetti cani di cristiani, che vanno dal Sultano, e fanno tutto quello che vogliono, mentre noi moriamo di fame!

Poco dopo la presentazione della mona obbligatoria, arrivarono all’accampamento più di cinquanta servi arabi e neri, disposti in fila, che portavano in grandi scatole rotonde, chiuse da altissimi coperchi conici di paglia, ova, polli cotti, torte, dolci, arrosti, cuscussu, insalate, confetti; tanta roba da saziare una tribù affamata. Era una seconda mona, spontaneamente offerta all’Ambasciatore da Sidi-Mohamed-Ben-Auda, forse per farsi perdonare il cipiglio minaccioso della mattina.

I piatti non erano ancora messi in terra, che comparve il governatore coi suoi cinque figli, tutti a cavallo, seguiti da uno stuolo di servi.

L’Ambasciatore li ricevette nella sua tenda e conversò con loro per mezzo dell’interprete.

Che conversazione! Che gente! L’Ambasciatore domandò a uno dei figliuoli se aveva mai inteso nominar l’Italia. Rispose che l’avea intesa nominare parecchie volte. Uno di loro domandò quale dei due paesi, l’Inghilterra e l’Italia, fosse più lontano dal Marocco. Domandarono quanti cannoni abbiamo, come si chiama la nostra città capitale e in che modo è vestito il nostro Re. Parlando, osservarono attentamente tutti e sei il nodo delle nostre cravatte e le catenelle dei nostri orologi. L’Ambasciatore rivolse al governatore alcune domande intorno all’estensione e alla popolazione della sua terra. O che non sapesse nulla, o che, secondo l’uso, non volesse dire quel che sapeva per timore di qualche secondo fine misterioso, non ci fu modo di cavargli di bocca una risposta soddisfacente.—La popolazione,—mi ricordo che disse—non si può sapere esattamente quanta sia.—Ma press’a poco, gli fu osservato.—Ma è anche difficile il saperlo presso a poco,—rispose. Poi fecero a noi altre domande. V’è piaciuta la città d’Alkazar? Che ne dite del paese? L’acqua è buona, non è vero? Stareste volentieri nel Marocco? Perchè non avete condotte con voi le vostre donne? Quanti soldati può avere ai suoi ordini il capitano dell’esercito che è con voi? Quanto è grande il bastimento che comanda il capitano di marina? Facendo questi discorsi, bevettero il tè, e dopo molti inchini e strette di mano ed augurii, rimontarono a cavallo, diedero di sprone e disparvero. E dico sempre pensatamente disparvero, invece di se ne andarono, come dico apparire per giungere, perchè non vedendo mai da nessuna parte nè un villaggio nè una casa, tutti coloro che arrivavano e partivano ci facevano l’effetto di gente che uscisse di sotto terra e si dileguasse nell’aria.

Quella, come tutte le altre giornate, fu chiusa da un tramonto splendido e quieto, e da un desinare rumorosamente allegro. Ma la notte fu una delle più agitate del viaggio. Forse perchè la terra dei Seffiàn richiedeva che l’ambasciata fosse guardata con maggiore cautela che altrove, le sentinelle notturne si tennero reciprocamente sveglie cantando di quarto d’ora in quarto d’ora dei versetti del Corano. Una intonava la preghiera, tutte le altre rispondevano in coro, ad alta voce, accompagnate dai nitriti dei cavalli e dal latrato dei cani. Appena addormentati, ci svegliammo e non ci riuscì più di chiuder occhio. Per giunta, poco dopo la mezzanotte, in uno di quegli intervalli di silenzio, tuonò improvvisamente in mezzo alla campagna una voce squarciata e selvaggia che non tacque più fino all’alba. A momenti s’avvicinava, a momenti si sentiva appena, poi tornava a risonare più vicina, in tono di minaccia, di lamento, di disperazione, e prorompeva di tratto in tratto in grida acutissime e in risa sgangherate, che mettevan freddo nelle vene. Era il Santo che errava intorno all’accampamento, chiamando sopra di noi la maledizione di Dio. La mattina, quando uscimmo dalla tenda, era ancora ritto come uno spettro davanti alla sua cuba solitaria, colorata di rosa dai primi raggi del sole, e continuava a maledirci con voce roca, agitando le braccia spossate al disopra del capo.

Io cercai il cuoco per dimandargli che cosa pensasse di quel personaggio. Ma lo trovai tanto affaccendato, che non ebbi cuore di scherzare. Stava facendo il caffè e aveva intorno una folla impaziente che gli toglieva il respiro. Gli sguatteri gli parlavano arabo, il Ranni siciliano, il calafato napoletano, Hamed spagnuolo, il signor Vincent francese.— Ma se i ’v capisso nen, facie da forca! —gridava lui disperato.—Ma questa è una Babilonia! Ma lasciatemi respirare! Volete vedermi morto? Oh che pais, mi povr’om! Tutti a parlo e nssun a l’è bon a fesse capì! (Tutti parlano e nessuno è buono a farsi capire).

Appena riebbe un po’ di fiato gli accennai il Santo che continuava a urlare, e gli domandai:

—Ebbene, che cosa ne dite di quelle impertinenze?

Alzò gli occhi verso la cuba, guardò fisso il Santo per qualche momento, e poi facendo un atto di profondo disprezzo rispose con accento piemontese:

Guardo e passo!

E rientrò maestosamente nella tenda.

KARIA-EL-ABBASSI

Levato l’accampamento, ci mettemmo in cammino nell’ordine solito, e fra le grida e le fucilate dei duecento cavalieri del Ben-Auda, arrivammo dopo due ore a un piccolo corso d’acqua che segna il confine della terra dei Seffiàn.

Nel momento che il portabandiera si voltava per dire:—Ecco il fiume;—di dietro a un rialto di terreno della riva opposta uscì improvvisamente una gran folla di cavalieri, in mezzo ai quali ci colpì a primo aspetto la figura elegante e gentile del Governatore.

Era Bu-Bekr-ben-el-Abbassi, governatore della provincia che si stende fra la terra dei Seffiàn e il grande fiume Sebù.

La scorta del Ben-Auda ci voltò le spalle e disparve; l’ambasciata guadò il fiume e si trovò circondata dalla scorta nuova.

Bu-Bekr-ben-el Abbassi strinse vivamente la mano all’ambasciatore, fece un saluto amichevole al Ducali, suo antico compagno di scuola, e diede il benvenuto a tutti gli altri con un gesto pieno di maestà e di grazia.

Ci rimettemmo in cammino.

Per un pezzo, nessuno di noi potè staccar gli occhi da quell’uomo. Era il più simpatico governatore che avessimo incontrato fino allora. Di statura mezzana, di forme snelle, bruno, aveva un occhio penetrante e dolce, un bel naso aquilino e una folta barba nera; e sorridendo, mostrava due file di denti bellissimi. Era tutto ravvolto in una cappa fine e bianca come la neve, col cappuccio tirato sul turbante; e montava un cavallo nero corvino, con tutta la bardatura color celeste. Doveva essere un uomo generoso, amato e contento. E fu un inganno della mia fantasia, o anche l’aspetto dei duecento cavalieri di Karia-el-Abbassi rifletteva vagamente la gentilezza del Governatore. Mi parvero visi aperti e pacati di gente che da molti anni godesse la grazia miracolosa d’un governo umano. E quest’apparenza, e le capanne che cominciavano a farsi più frequenti per la campagna, e il tempo sereno raffrescato da un’arietta odorosa, mi diedero per qualche momento l’illusione che quella provincia fosse un oasi di prosperità e di pace in mezzo al miserando impero dei Sceriffi.

S’attraversò un villaggio, formato da due file di tende di pelo di cammello, chiuse con canne e fascine: ogni tenda fiancheggiata da un orticello cinto da una siepe di fichi d’India. Di là dalle tende pascolavano vacche e cavalli; davanti, sulla nostra strada, v’era qualche gruppo di bimbi mezzi nudi, accorsi per vederci; le donne e gli uomini coperti di cenci, ci guardavano di dietro alle siepi. Nessuno ci mostrò i pugni, nessuno ci maledì. Appena fummo fuori del villaggio, tutti uscirono dalle loro capanne, e allora vedemmo una turba di qualche centinaio di pezzenti neri, luridi, attoniti, che ci fecero l’effetto della popolazione risuscitata d’un camposanto. Alcuni, correndo, ci tennero dietro per un pezzo; altri disparvero dopo pochi momenti dietro un rialto del terreno.

La configurazione del paese che percorrevamo, dava luogo a una mirabile varietà d’effetti pittoreschi della scorta e della carovana. Era una successione di valli profonde, parallele, formate da grandi onde di terreno, tutte fiorite come giardini. Passando d’una valle in un’altra, si perdeva di vista la scorta per qualche momento; poi si vedevano spuntare sulla sommità dell’altura, dietro di noi, prima tutte le punte dei fucili, poi i fez e i turbanti, poi i visi, e man mano le persone intere e i cavalli, come se uscissero dal seno della terra. Arrivati sopra un’altura vedevamo, voltandoci indietro, scorazzare quei duecento cavalli giù nella valle piena di fumo e rimbombante di fucilate; e via via su tutte le alture che ci eravam lasciate alle spalle, cavalli, muli, servi, soldati, che apparivano un momento sulle sommità e sparivano subito come se precipitassero in un burrone. Vista a traverso tutte quelle valli, la carovana pareva interminabile e presentava l’aspetto grandioso d’un esercito di spedizione o d’un popolo emigrante.

Arrivammo finalmente a un villaggio, Karia-el-Abbassi, formato dalla casa del Governatore, e da un gruppo di capanne e di casupole ombreggiate da qualche fico e da qualche olivo selvatico.

Il Governatore ci offerse di riposare in casa sua: la carovana tirò innanzi fino al luogo designato per l’accampamento.

S’attraversarono due o tre cortiletti chiusi fra quattro muri nudi, e s’entrò in un giardino, sul quale s’apriva la porta principale della casa di Ben-el-Abbassi: una casetta bianca, senza finestre, silenziosa come un convento. Il governatore era scomparso. Alcuni schiavi mulatti ci fecero entrare in una piccola stanza a terreno, pure bianca, senz’altra apertura che la porta principale, e una porticina in un angolo. V’erano due alcove, tre materasse bianche stese sul pavimento a musaico e qualche cuscino ricamato. Era la prima volta che riposavamo fra quattro pareti dopo la nostra partenza da Tangeri! Ci sdraiammo voluttuosamente nelle alcove e stemmo aspettando con viva curiosità la continuazione dello spettacolo.

Il Governatore ricomparve, ravvolto in un caic bianchissimo, che gli scendeva dal turbante fino ai piedi. Lasciò le babbuccie gialle in un canto e sedette, coi piedi nudi, sopra una materassa, in mezzo al Ducali e all’Ambasciatore. Gli schiavi portarono vasi di latte e piatti di dolci, ed egli stesso, Ben-el-Abbassi, fece il tè e lo versò in bellissime tazzine di porcellana chinese, che il suo servo favorito, un giovane mulatto dal viso rabescato, portò in giro ad una ad una. Non si può dire la grazia e la dignità che aveva nell’aspetto e nei modi quel governatore, probabilmente ignorantissimo, di poche migliaia d’arabi attendati, che forse in tutta la sua vita non aveva avuto che fare con cinquanta persone civili! Messo nel più aristocratico salotto d’Europa, nessuno avrebbe avuto una sillaba a ridire sopra il menomo dei suoi movimenti. Era pulito, lindo, odoroso come un’odalisca uscita dal bagno. Ad ogni movimento che facesse, il caic rimosso lasciava trasparire qui un po’ di color di rosa, là un po’ d’azzurro, qua un po’ di ranciato, tutti i colorini pomposi del vestimento nascosto, che mettevano una gran voglia di strappargli il velo per vedere che meraviglie ci avesse sotto, come fanno i bambini ai fantocci. Parlava con dolcezza, sorridendo e guardandoci senza apparenza di curiosità, come se ci avesse visti il giorno prima. Non era mai uscito dal Marocco, diceva che avrebbe visto volentieri le nostre strade ferrate e i nostri grandi palazzi, e sapeva che in Italia c’eran tre città che si chiamavano Genova, Roma e Venezia. Mentre egli parlava, si aperse la porticina ch’era dietro a lui, e fece capolino una bella ragazzetta mulatta di dieci o dodici anni, che volse intorno rapidamente due grand’occhi spaventati e curiosi, e disparve. Era una figliuola del governatore e d’una nera. Il governatore se n’accorse e sorrise. Seguì un lungo intervallo di silenzio. In mezzo alla stanza fumava l’aloè nei profumieri; davanti alla porta v’era un drappello di schiavi attoniti; dietro agli schiavi s’alzava un gruppo di palme; dietro le palme rideva il sereno purissimo del cielo d’Africa. Tutt’a un tratto, non so come, rimasi profondamente stupito di trovarmi in quel luogo e pensai a me stesso, seduto nella mia cameretta a Torino, come a un’altra persona. Il Governatore, alzandosi, mi richiamò al sentimento della realtà. Strinse la mano a tutti, infilò i piedi nelle babbuccie, s’inchinò con bel garbo e disparve per la porticina.—Va a portar notizie alla sua favorita—disse uno. Se potessi sentire quello che gli domanda!—pensai—Come sono? Cosa sono? Come parlano? Che vestiti hanno? Oh lasciameli vedere, amor mio, un momento solo, a traverso le fessure della porta ed io ti colmerò di carezze!—E probabilmente l’amante cortese cedette, e la bella misteriosa, spiandoci all’uscita, esclamò:—Allà mi protegga! Che spaventose figure!

Andando all’accampamento, ch’era a un mezzo miglio dalla casa del Governatore, sopra un altopiano coperto d’erba secca, ci sentimmo per la prima volta scottar dal sole in maniera che ognuno di noi cominciò, come dice della plebe milanese, ai tempi della peste, il Tadino, «a chiudere li denti et inarcare le ciglia.» E non erano che gli otto di maggio! E non eravamo ancora a cento miglia dalla costa del Mediterraneo! E ci rimaneva da attraversare la grande pianura del Sebù!

Nonostante il caldo, l’accampamento di Karia-el-Abbassi fu rallegrato, verso sera, da un insolito concorso di gente. Da una parte una lunga fila d’arabi, seduti in terra, assistevano alle cariche dei cavalieri della scorta; dalla parte opposta altri arabi giuocavano alla palla; un po’ più lontano, un gruppo di donne imbacuccate nel loro rozzo caic ci osservavano con stupore gesticolando fra loro; e frotte di bambini scorazzavano tutt’intorno. Il popolo di Ben-el-Abbassi pareva veramente meno selvaggio dei suoi vicini del Garb.

Il Biseo ed io ci avvicinammo ai giuocatori. Appena ci videro, smisero di giuocare, si consultarono gli uni cogli altri e poi ricominciarono. Erano quindici o venti, la maggior parte pezzi di giovani larghi, lunghi e nerboruti, che non avevano altro addosso che una camicia stretta intorno alla vita, e una specie di mantello di tela grossolana e sudicia, rigirato intorno al corpo come un caic. Giocavano diversamente da quelli che avevo visti a Tangeri. Uno con un colpo del piede buttava la palla a una grande altezza; tutti gli altri facevano ad afferrarla in aria quanto più in su fosse possibile, spiccando in direzione verticale dei salti altissimi, come se si levassero a volo; e chi riusciva ad afferrarla, la buttava in aria alla sua volta. Spesso, in quel serra serra, uno dei più robusti, cadendo, travolgeva nella caduta alcuni altri, i quali si trascinavan dietro i rimanenti, e allora rotolavano per un lungo tratto tutti insieme intrecciati e confusi sgambettando e ridendo, senza darsi pensiero al mondo di ciò che esponevano al sole. Più d’uno, in quel rotolamento, lasciò intravvedere un pugnale ricurvo legato alla cintura; altri una borsicina appesa al collo, che conteneva probabilmente qualche versetto del Corano preservatore dalla tigna. Una volta la palla cadde ai miei piedi. Mi venne un’idea. La raccolsi, la misi sopra una palma aperta, vi feci su coll’altra mano due o tre gesti di negromante e la ributtai. Per qualche momento nessuno dei giuocatori osò riprenderla. Vi si avvicinarono, la guardarono, la toccarono col piede in atto di diffidenza; e solo dopo avermi visto ridere e accennare che era stato uno scherzo, il più ardito la raccolse e la rilanciò ridendo ai suoi compagni.

Intanto quasi tutti i ragazzi che scorazzavano qua e là ci s’erano affollati intorno. Saranno stati una cinquantina, e di tutta la roba che avevano addosso fra tutti non si sarebbe trovato un rigattiere che offrisse cinquanta centesimi. Alcuni erano bellissimi, molti tignosi, la maggior parte color caffè, alcuni così tra il verdastro e il giallognolo, che parevano impastati di sostanze vegetali. Parecchi avevano il codino alla chinese. Da principio ci stavano discosti una decina di passi, guardandoci con sospetto, e scambiandosi, a bassa voce, le proprie osservazioni. Poi, vedendo che non facevamo nessun atto ostile, ci si avvicinarono a poco a poco fin quasi a toccarci e cominciarono ad alzarsi in punta dei piedi, a chinarsi, a piegarsi di qua e di là, per vederci bene da tutte le parti, come avrebbero fatto intorno a due statue. E noi due immobili. Uno ci toccò una scarpa colla punta del dito e ritirò subito la mano come se si fosse scottato; un altro mi fiutò la manica. Eravamo circondati, sentivamo ogni sorta d’odori esotici, ci pareva già che ci brulicasse addosso qualchecosa.—Andiamo,—dissi al Biseo,—è tempo di liberarsi—Io ho un mezzo infallibile,—rispose. Così dicendo tirò fuori bruscamente l’album e la matita e fece l’atto di mettersi a copiare una di quelle faccie. In un batter d’occhio si dispersero tutti come uno sciame d’uccelli.

Poco dopo ci si avvicinarono alcune donne.—Oh miracolo!—si disse noi altri.—Purchè non vengano a darci una pugnalata in nome di Maometto!—E ci tenemmo sull’avviso. Erano invece povere malate, smunte, che avevano appena la forza di reggersi in piedi e di tener su il braccio per coprirsi il viso col caic; fra le quali una giovane, che gemeva da metter compassione, non lasciando vedere che un occhio azzurro velato dalle lagrime. Capii che cercavano il medico e accennai dove dovevano andare. Una di esse, spiegando la parola col gesto, mi domandò se si pagava. Risposi di no. Allora s’avviarono vacillando verso la tenda del medico. Volli assistere al consulto.—Che cosa vi sentite?—domandò il signor Miguerez, in arabo, alla prima che si presentò.—Un gran dolore qui,—rispose, indicando una spalla.—Che cosa ci avete?—(Non ricordo che cosa abbia risposto).—Bisogna ch’io ci veda,—disse il medico; scopritevi un momento.—La donna non si mosse. Ecco il gran punto! Ho una cosa qui, più sotto, più sopra, di qua, di là; ma nessuna, nemmeno una vecchia nonagenaria, vuol lasciarsi vedere, e tutte pretendono che il medico indovini.—Insomma, volete o non volete scoprirvi? ridomandò il Miguerez.—La donna non si mosse.—Quand’è così, vediamo le altre.—E interrogò le altre, mentre quella si allontanava tutta malinconica. Le altre non avevano bisogno di scoprirsi; il medico distribuì loro delle pillole e delle polveri, e le mandò con Dio. Povere creature! Nessuna di loro toccava forse ancora i trent’anni, e la gioventù era già passata per tutte, e col passare della gioventù, eran cominciate le fatiche smodate, i trattamenti brutali e il disprezzo che rendono orribile la vecchiaia della donna araba: strumento di piacere fino a vent’anni, bestia da soma fino alla morte.

Il pranzo fu rallegrato da una visita di Ben-el-Abbassi, e la notte funestata da una spaventosa invasione d’insetti.

Già nelle ore calde della giornata, avevo pronosticato male dal brulichìo straordinario che si vedeva fra l’erbe. Le formiche formavano delle lunghissime strisce nere, gli scarabei c’erano a mucchi, le cavallette fitte come le mosche; e con questi un gran numero d’altri insetti, non visti mai negli altri accampamenti, che m’ispiravano pochissima fiducia. Il capitano Di Boccard, intendente di Entomologia, me ne faceva la nomenclatura. C’era, tra gli altri, la cicindela campestris, trabocchetto vivente, che chiude colla grossa testa l’apertura della sua tana, e fa sprofondare, abbassandosi, gl’insetti incauti che vi passano sopra; il Pheropsophus africanus, che slancia dall’ano, contro il nemico che l’insegue, un buffo di vapori corrosivi; la Meloe majalis che strascina a stento, come un’idropica, l’enorme addome gonfio d’erba e d’ova; il Carabus rugosus, la Pimelia scabrosa, la Cetonia opaca, il Cossyphus Hoffmanseggi, foglia animata, di cui Vittor Hugo farebbe una descrizione fantastica da metter freddo nelle ossa. Più un gran numero di lucertoloni, di ragnacci, di centopiedi lunghi un palmo, di grilli cantaioli grossi come un pollice, di cimici verdi larghe come un soldo, che andavano e venivano come se s’apparecchiassero d’accordo comune a una qualche impresa guerresca. Come se questo non bastasse, appena seduto a tavola, nel punto che stendevo la mano per versarmi da bere, avevo visto far capolino dal mio bicchiere una spropositata locusta, la quale, invece di volar via a un mio gesto minaccioso, s’era messa a guardarmi con un’aria d’impertinenza inaudita. E infine, per colmo di spavento, mentre ci alzavamo da tavola, era comparso il servo Hamed, col viso di chi ha corso un grande pericolo, e ci aveva messo sotto gli occhi, infilata in uno stecco, nientemeno che una tarantola, una lycosa tarentula, il ragno terribile, che cuando pica á un hombre, quando punge un uomo, diceva lui, Allà ce ne guardi! il disgraziato comincia a ridere, a piangere, a cantare e a ballare, e non c’è che una buona musica, ma buona! la musica della banda del Sultano, che lo possa guarire. Ora immagini il lettore, con che animo io sia andato a dormire. Nondimeno, i miei tre compagni ed io eravamo già a letto da parecchi minuti, avevamo già spento il lume e cessato di parlare, e nessuno sentiva nulla. Ma fu una gioia passeggera. Tutt’a un tratto il Comandante balzò a sedere sul letto e gridò:—Io mi sento popolato!—Allora anche noi cominciammo a sentir qualche cosa. Per qualche tempo non furono che contatti furtivi, punture timide, stuzzicamenti, piccole provocazioni di esploratori e di sentinelle avanzate, alle quali si poteva non badare. Ma entrarono in campo ben presto le grosse pattuglie e allora diventò necessaria una vigorosa resistenza offensiva. La lotta fu feroce. Più ci dibattevamo, e più gli assalitori raffittivano. Venivan dal capezzale, salivan dai piedi, scendevano dall’alto della tenda. Pareva che eseguissero degli assalti coordinati ad un vasto concetto strategico di qualche insettaccio d’ingegno. Era evidentemente una guerra di religione. In breve non fummo più capaci di resistere.—La luce!—gridò il viceconsole. Saltammo tutti e quattro in terra, s’accese il lume, si cominciò la strage. La soldataglia l’ammazzavamo senz’altro; i capi, i pezzi grossi, classificati prima dal capitano e giudicati dal comandante, erano messi sul rogo dal vice-console, ed io ne facevo l’elogio funebre in prosa e in versi sciolti che saran pubblicati dopo la mia morte. In poco tempo il terreno fu seminato d’ale, di zampe, di gambe, di teste, i superstiti si dispersero, e noi, stanchi dell’eccidio, dopo esserci nominati reciprocamente cavalieri di varii ordini, rimettemmo la testa sul guanciale. Ma che chiasso! Che matta allegria, benchè non fossimo più nessuno di primo pelo! Che risate che venivano proprio d’in fondo e facevano bene all’anima e al corpo!

La mattina seguente, al levar del sole, il governatore Ben-el-Abbassi si presentò all’ambasciatore per accompagnarlo fino ai confini della sua provincia.

Appena discesi dall’altopiano dell’accampamento, ci si spiegò dinanzi agli occhi l’orizzonte immenso della pianura del Sebù.

Questo fiume, uno dei più grandi del Magreb, scende dal fianco occidentale della catena di montagne che si allunga dall’alto Atlante verso lo stretto di Gibilterra, e con un corso di circa duecento quaranta chilometri, ingrossato da molti affluenti, si va a versare, descrivendo un grande arco, nell’Oceano atlantico, presso Mehedia, dove l’ammontamento delle sabbie, comune alle foci di quasi tutti i fiumi marocchini di quel versante, impedisce l’entrata ai bastimenti e produce grandi innondazioni al tempo delle cresciute. La vallata di questo fiume, che abbraccia, alla sua apertura, tutto lo spazio compreso fra le due città di Laracce e di Salé, e tocca alla sua estremità superiore l’alto bacino della Muluia (il grande fiume che segna il confine orientale del Marocco), apre agli Europei, per il litorale e per Teza, la via della città di Fez; comprende, oltre a Fez, la grande città di Mechinez, terza capitale; raccoglie in sè tutta, si può dire, la vita politica dell’Impero, ed è la sede principale della ricchezza e della forza dei Sceriffi. Il Sebù, particolarità da notarsi, segna, dalla parte del settentrione, il confine che i Sultani non oltrepassano mai fuor che in caso di guerra, poichè rimangono a mezzogiorno del fiume le tre città, Fez, Marocco e Mechinez, nelle quali essi soggiornano alternativamente, e la doppia città di Salé-Rabatt, dove passano per recarsi da Fez a Marocco. E fanno questo giro per non valicare la catena dei monti che chiude a mezzogiorno la vallata del Sebù, il versante della quale è abitato dalla tribù dei Zairi, di razza berbera mista, che hanno fama d’essere, coi Beni-Mitir, i più turbolenti e i più indomiti abitatori di quei monti.

Dopo un’ora di cammino arrivammo al Sebù.

Mi parve di vedere il Tevere nella Campagna romana.

In quel punto era largo un centinaio di metri, color di mota, grosso, rapido, incassato fra due rive altissime, quasi verticali, aride, ai piedi delle quali si stendevano due zone di terreno fangoso.

Due barconi antidiluviani, spinti a remi da una decina d’arabi, s’avvicinavano alla nostra riva.

Basterebbero quei barconi, quando non ci fosse altro, a far capire che cos’è il Marocco. Da centinaia d’anni, sultani, pascià, carovane, ambasciate passano il fiume su due carcasse di quella fatta, coi piedi nell’acqua e nella mota, qualche volta con pericolo d’affondare; e quando le carcasse, come segue spessissimo, sono bucate, carovane e ambasciate e pascià e sultani aspettano che i barcaiuoli abbian turati i buchi col fango, o in altro modo, qualche volta per due o tre ore, al sole o sotto la pioggia; e da centinaia d’anni, cavalli, muli e cammelli, per la mancanza d’un pezzo di tavola lungo due metri, rischiano di rompersi le gambe, e se le rompono, saltando dalla sponda nei barconi; e nessuno ha mai pensato a costrurre un ponte di barche, e nessuno ha mai portato sulle sponde un pezzo di tavola lungo due metri, e chi rimprovera a quella gente la mancanza dell’una e dell’altra cosa, è guardato con un’aria di profondo stupore, come se li rimproverasse di non aver fatto un prodigio. In molti luoghi si attraversano i fiumi sopra barche di canne, e gli eserciti li passano per lo più sopra ponti galleggianti, formati con otri rigonfi d’aria e coperti di rami e di terra.

Si smontò tutti da cavallo, e si discese per un sentiero ripido fino alle barche.

La prima barca facendo due o tre larghi giri per scansare le correnti e i ringorghi, portò all’altra sponda tutti gli italiani.

Di là assistemmo al passaggio dell’intera carovana.

Che bel quadro! Me lo vedo ancora dinanzi nel momento della sua maggior vivezza. Nel mezzo del fiume, scivola un barcone pieno di cammelli e di mori d’una carovana mercantile, e un po’ più oltre l’altro barcone che porta i cavalli e i cavalieri della scorta di Fez, in mezzo ai quali sventola la bandiera di Maometto e spicca il viso nero e il turbante di mussolina del Caid. Di là dal fiume, in mezzo a una grande confusione di cavalli, di mule, di servi, di casse, che ingombrano un lunghissimo tratto di sponda, biancheggia la figura gentile del governatore Ben-el-Abbassi, seduto sopra un rialto di terreno, in mezzo ai suoi ufficiali, all’ombra del suo bel cavallo nero dalla sella color celeste. Sull’alto della riva, che si mostra come il muro d’una fortezza, dietro una lunga fila d’arabi della campagna, seduti sull’orlo colle gambe spenzoloni, sono schierati i duecento cavalieri del Governatore, che visti così in alto, sul fondo azzurro del cielo, presentano l’apparenza di duecento giganti. Alcuni servi neri ignudi si tuffano e si rituffano nell’acqua spruzzandosi e gridando. Parecchi arabi lavano i loro cenci sulla sponda, all’uso moresco, ballonzolandovi sopra con movimenti di marionetta. Altri attraversano il fiume a nuoto. Sul nostro capo passano degli stormi di cicogne; lontano, sulla riva, s’alza una colonna di fumo da un gruppo di tende di beduini; i barcaiuoli cantano una preghiera al Profeta per la buona riuscita dell’impresa; le acque mandano scintille d’oro, e Selam, ritto a dieci passi dinanzi a noi, col suo famoso caffettano, fa su questo gran quadro barbaresco e festoso, la più armoniosa macchietta rossa che possa immaginare un pittore.

Il passaggio durò parecchie ore, e via via che passava, la carovana si rimetteva in cammino.

Quando gli ultimi cavalli furono sulla sponda sinistra, il governatore Ben-el-Abbassi rimontò in sella e raggiunse i suoi soldati sull’alto della riva opposta.

Sul punto di partire, l’Ambasciatore e tutti noi alzammo la mano in segno di saluto.

La scorta di Karia-el-Abbassi rispose con una tempesta di fucilate e disparve; ma per qualche momento vedemmo ancora in mezzo al fumo la bella figura bianca del Governatore, ritta sulle staffe, col braccio teso verso di noi in segno di buon augurio e d’addio.

Accompagnati dalla sola scorta di Fez, c’innoltrammo nella terra dei Beni-Hassen, tristamente famosa.

BENI-HASSEN

Per più d’un’ora, si camminò in mezzo a campi d’orzo altissimo, dai quali usciva qua e là una tenda nera, una testa di cammello, un nuvolo di fumo. Per i sentieri dove passavamo, correvano scorpioni, biscie e lucertole. Il sole, in quel poco tempo, ci aveva infocate le selle per modo che quasi non vi si poteva tener sopra la mano. La luce ci offendeva gli occhi, il polverìo ci soffocava, tutti tacevano. La pianura che ci si stendeva dinanzi come un oceano mi dava non so che sgomento, come se la carovana dovesse camminare eternamente. Ma la curiosità di veder da vicino quei fieri Beni-Hassen, di cui avevo tanto inteso parlare, mi rianimava.—Che gente sono?—domandai a un interprete.—Ladri e assassini—mi rispose;—faccie dell’altro mondo, la peggior genìa del Marocco.—Ed io spiavo ansiosamente l’orizzonte.

Le faccie dell’altro mondo non si fecero aspettare lungo tempo.

Vedemmo lontano, davanti a noi, un gran nuvolo di polvere, e pochi momenti dopo fummo circondati da una turba di trecento selvaggi a cavallo, verdi, gialli, scarlatti, bianchi, violetti, cenciosi, scarmigliati, ansanti, che pareva che venissero da una mischia. In mezzo al fitto polverìo che ci avvolgeva, vedemmo il loro Governatore, un gigante con lunghi capelli e gran barba nera, seguito da due vicegovernatori canuti, armati tutti e tre di fucile, avvicinarsi all’Ambasciatore, stringergli la mano e sparire. Subito dopo cominciarono le cariche, gli urli e le fucilate. Parevano frenetici. Sparavano fra le gambe delle nostre mule, sopra la nostra testa, rasente le nostre spalle. Visti da lontano, dovevan sembrare una banda d’assassini che ci assalisse. V’eran dei vecchi formidabili con lunghe barbe bianche, ridotti a ossa e pelle; ma che parevan fatti per resistere ai secoli. V’eran dei giovani con lunghissime ciocche di capelli neri che ondeggiavano al vento come criniere. Molti avevano il petto, le gambe e le braccia nude, turbanti in brandelli e cenci rossi attorcigliati intorno al capo; caic laceri, selle disfatte, briglie di corda, sciabolaccie e pugnali di forme strane. Le faccie poi!—È assurdo,—diceva il comandante, facendo la caricatura di don Abbondio,—è assurdo il supporre che questa gente possa fare il sacrifizio di non ucciderci!—Ognuna di quelle faccie raccontava una storia di sangue. Ci guardavano passando, colla coda dell’occhio, come per nasconderci l’espressione del loro sguardo. Cento ci venivan dietro, cento a destra, cento a sinistra, sparsi per i campi a grande distanza. Questa guardia dai lati era nuova per noi; ma non tardò ad essere giustificata. Più andavamo innanzi, più spesseggiavano le tende nella campagna, fin che passammo in mezzo a veri villaggi circondati di fichi d’India e d’aloé. Da tutte queste tende accorrevano arabi, vestiti d’una semplice camicia, a gruppi, a piedi, a cavallo, in groppa agli asini, due, persino tre sopra una sola cavalcatura; le donne coi bimbi appesi alle spalle, i vecchi sostenuti dai ragazzi, tutti affannati, smaniosi di vederci, e forse non di vederci soltanto. A poco a poco ci fu intorno un popolo. Allora i soldati della scorta cominciarono a disperderli. Si slanciarono al galoppo di qua e di là contro i gruppi più numerosi, urlando, percotendo, rovesciando cavalcature e cavalcatori, tirandosi dietro da ogni parte improperii e maledizioni. Ma i gruppi dispersi si riannodavano e continuavano ad accompagnarci correndo. A traverso il fumo e il polverìo, rotto dai lampi delle fucilate, vedevamo per quei vastissimi campi, in lontananza, tende, cavalli, cammelli, armenti, gruppi di aloé, colonne di fumo, frotte di gente rivolta verso di noi, immobile, in atteggiamento di stupore. Eravamo finalmente arrivati in una terra abitata! Esisteva dunque, non era una fiaba, questa benedetta popolazione del Marocco! Dopo un’ora di passo accelerato, ci si trovò di nuovo in una campagna solitaria, non accompagnati da altri che dalla scorta; e fatto appena un altro miglio, svoltando intorno a una macchia di fichi d’India, s’ebbe l’inaspettato e sempre vivissimo piacere di veder sventolare la bandiera italiana in mezzo alla nostra piccola città vagante, di cui s’alzavano in quel momento appunto le ultime case.

L’accampamento era sulla sponda del Sebù, il quale descrive un grand’arco dal punto dove l’avevano passato fino a quello dove eravamo giunti.

Una fitta catena di sentinelle a piedi, armate di fucile, si stendeva tutt’intorno alle tende.

Il paese era dunque pericoloso davvero.

Se ne avessi ancora potuto dubitare, me ne avrebbero arcipersuaso le notizie che raccolsi poi.

I Beni-Hassen sono il popolo più turbolento, più audace, più manesco, più ladro di tutta la vallata del Sebù. L’ultima loro prova fu una rivolta sanguinosa scoppiata nell’estate del 1873, quando salì al trono il Sultano regnante, la quale cominciò col saccheggio della casa del Governatore, a cui rubarono perfino le donne. Il latrocinio è il loro mestiere principale. Si raccolgono in bande, a cavallo, armati, e fanno delle scorrerie di là dal Sebù o nelle altre terre vicine, rubando quanto possono portare o trascinare, e ammazzando, per precauzione, quanti incontrano. Sono disciplinati, hanno dei capi, degli statuti, dei diritti riconosciuti, in un certo senso, persino dal Governo, il quale si serve qualche volta di loro per riavere quello che gli è stato rubato. Rubano per via d’imposte forzate. La gente depredata, invece di sciupare il tempo in ricerche e in ricorsi, ricupera l’aver suo pagando una somma convenuta al capo dei ladri. Per i ragazzi, specialmente, è ammesso come cosa naturalissima che debbano tutti rubare. Se si pigliano una palla nella schiena o si fanno spezzare il capo da una sassata, peggio per loro; si sa che nessuno vuol lasciarsi rubare; e poi non c’è rosa senza spine. I padri lo dicono ingenuamente: un figliuolo di otto anni rende poco, uno di dodici anni assai di più, uno di sedici molto. Ogni ladro ha il suo genere proprio: c’è il ladro di biade, il ladro di bestie bovine, il ladro di cavalli, il ladro di mercato, il ladro di duar[1], il ladro di strada. Ci sono persino i ladri che riscuotono un’imposta fissa da tutte le donne che fanno derrata di sè, non rare nemmeno fra quelle tribù vagabonde. Per le strade, assaltano particolarmente gli Ebrei, ai quali è proibito di portar armi. Ma il latrocinio più comune è quello a danno dei duar. In questo sono artisti insuperabili, non solo fra i Beni-Hassen, ma in tutto il Marocco. Vanno a rubare a cavallo, e la grand’arte consiste più nella rapidità che nell’accortezza, più nel non lasciarsi raggiungere che nel non lasciarsi vedere. Passano, afferrano e dispaiono, senza dar tempo alla gente di riconoscerli. Son furti a volo, fulminei, giochi di prestidigitazione equestre. Rubano pure a piedi e anche in questo son maestri. S’introducono nei duar, nudi, perchè i cani non abbaiano agli uomini nudi; insaponati da capo a piedi, per sguisciare dalle mani di chi li afferri; con un fascio di fronde tra le braccia, perchè i cavalli, pigliandoli per alberi, non si spaventino. I cavalli sono la preda più ghiotta. Vi si attaccano al collo, stendono le gambe sotto il ventre, e via come saette. La loro audacia è incredibile. Non c’è accampamento di carovana, sia anche d’un pascià o d’un’ambasciata, dove non penetrino, malgrado la più oculata sorveglianza. Strisciano, guizzano, si schiacciano contro terra, coperti d’erba, di paglia, di foglie, vestiti di pelli di montone, in apparenza d’accattoni, di malati, di pazzi, di soldati, di santi. Rischian la vita per un pollo, fanno dieci miglia per uno scudo. Giunsero persino a rubare dei sacchetti di denaro sotto il capo ad ambasciatori che dormivano. E appunto quella notte, malgrado la catena delle sentinelle, rubarono un montone legato al letto del cuoco, il quale, accortosi la mattina del furto, stette una mezz’ora immobile davanti alla tenda, colle braccia incrociate, e lo sguardo fisso all’orizzonte, esclamando di tratto in tratto:— Ah! madona santa, che pais! che pais! che pais!

Ho nominato i duar: non si può parlare del Marocco senza descriverli, e lo posso fare ampiamente con quello che vidi, e quello che ne seppi dal signor Morteo, il quale ci vive in mezzo da vent’anni.

Questo signor Morteo, fra parentesi, è un singolare stampo d’uomo. Genovese di nascita, ancora giovane, marito d’una bella inglese, padre di due bambini vezzosissimi e ricco da poter vivere splendidamente in qualunque città d’Europa, se ne sta invece, relegato volontario, a Mazagan, piccola città posta sulla riva dell’Atlantico, a duecento chilometri da Marocco, in mezzo agli arabi e ai mori, non occupato d’altro che della sua famiglia e del suo commercio, non vedendo, per mesi e mesi, la faccia d’un europeo, e non serbando col mondo civile altra relazione che quella d’abbonato a due giornali illustrati. Di tempo in tempo viene a fare un giro in Italia o in Francia, ma vi s’annoia appena arrivato, e dai palchetti della Scala e del Grand-Opéra sospira la sua casetta moresca bagnata dalle onde dell’oceano, i suoi armenti, i suoi duar, la vita ignorata e tranquilla della sua seconda patria affricana. In quel paese, dove, non è molto, un agente consolare di Francia, preso da una malinconia disperata, diventò pazzo, e un altro cercò di seppellirsi vivo nelle sabbie della marina; egli non ha mai avuto un giorno di spleen. Parla l’arabo, mangia all’araba, vive tra gli arabi, li studia, li ama, li difende; ha contratto qualcuno dei loro difetti e parecchie delle loro buone qualità; non ha più d’europeo, insomma, che la famiglia, il vestito e la pronuncia genovese. Contuttociò, egli non avrebbe potuto mostrarsi più amabilmente italiano di quel che fece dal primo all’ultimo giorno del viaggio. Interprete, intendente, guida, compagno, riuscì caro ed utile a tutti, e nessuno dissentì mai da lui che sopra un punto: noi auguravamo al Marocco la civiltà; egli sosteneva che la civiltà avrebbe reso quel popolo due volte più tristo e quattro volte più infelice; e bisogna confessare che, sebbene avesse torto, s’era qualche volta tentati di dargli ragione.

Il duar è formato ordinariamente da dieci, quindici o venti famiglie, che per lo più son legate fra loro da un vincolo di parentela; e ogni famiglia ha una tenda. Le tende sono disposte in due ordini paralleli, distanti una trentina di passi l’uno dall’altro, in modo che formano nel mezzo una specie di piazzetta rettangolare, aperta alle due estremità. Queste tende sono quasi tutte eguali. Consistono in un gran pezzo di stoffa nera o color di cioccolatte, tessuta con fibre di palme nane o con pelo di capra e di cammello; la quale è sostenuta da due pali o due grosse canne, unite insieme da una traversa di legno, che regge il tetto. La loro forma è ancora quella delle abitazioni dei Numidi di Giugurta, che il Sallustio paragonava a una nave rovesciata colla carena in alto. Nell’inverno e nell’autunno, la tela è distesa fino a terra e fissata per mezzo di corde a pioli, in maniera che non v’entri nè vento nè acqua. In estate, è lasciata tutt’intorno una larga apertura per la circolazione dell’aria, protetta da una piccola siepe di giunchi, di canne o di rovi secchi. Con questo mezzo, le tende sono più fresche in estate e meglio chiuse nella stagione piovosa, che le stesse case moresche delle città, le quali non hanno nè usci nè vetrate. L’altezza massima d’una tenda è di due metri e mezzo; la massima lunghezza di dieci; quelle che superano questa misura appartengono a qualche sceicco opulento, e son rare. Una parete di giunchi divide la casetta in due parti: di qua dormono il padre e la madre, di là i figliuoli e il rimanente della famiglia. Una o due stuoie di vimini, un cassone di legno variopinto e arabescato, in cui tengono la roba; uno specchietto rotondo di Trieste o di Venezia, un alto treppiedi di canna, che ricoprono d’un caic, per lavarvisi sotto; due pietre per macinare il grano, un telaio della forma di quei dei tempi d’Abramo, un rozzo lume di latta, qualche vaso di terra, qualche pelle di capra, qualche piatto, una rocca, una sella, un fucile, un pugnalaccio, sono tutta la suppellettile d’una di queste case. In un angolo v’è una chioccia e una covata di pulcini; davanti all’entrata un fornello, formato di due mattoni; da un lato della tenda un piccolo orto; più in là alcuni fossi rotondi, rivestiti di pietre o di cemento, nei quali conservano il grano. In quasi tutti i grandi duar v’è una tenda appartata dove sta il maestro di scuola, al quale il duar dà cinque lire il mese, oltre a molte provvigioni di viveri. Tutti i ragazzi vanno là a ripetere centomila volte gli stessi versetti del Corano, e a scriverli, quando li sanno a mente, sopra una tavola di legno. La maggior parte, lasciando la scuola prima di saper leggere, per andar a lavorare coi genitori, dimenticano in breve tempo il poco che hanno imparato. I pochissimi che hanno volontà e modo di studiare, continuano fino a vent’anni, per andar poi a compiere gli studi in una città, e diventare taleb, che significa scrivano o notaro, ed equivale a prete, poichè è una cosa sola, presso i Maomettani, la legge religiosa e la civile. La vita che si fa in questi duar è semplicissima. All’alba, tutti si levano, dicono le loro preghiere, mungono le vacche, fanno il burro, e bevono il latte agro che ne rimane. Per bere si servono di gusci di conchiglie e di patelle che comprano dalle popolazioni della costa. Poi gli uomini vanno a lavorare alla campagna, e non tornan più che verso sera. Le donne vanno a pigliar acqua e a cercar legna, macinano il grano, tessono le rozze stoffe di cui si vestono esse e i loro uomini, fanno le corde delle tende con fibre di palma nana, mandano da mangiare ai mariti, e preparano il cuscussù per la sera. Il cuscussù è mescolato con fave, zucche, cipolle e altri erbaggi; qualchevolta inzuccherato, pepato e condito con sugo di carne; nei giorni di scialo, mangiato con carne. Tornati gli uomini, cenano e per lo più, al tramonto del sole, vanno a dormire. Qualche volta, dopo cena, un vecchio racconta una storia in mezzo a una corona di parenti. Durante la notte il duar rimane immerso nel silenzio e nelle tenebre: solo qualche famiglia tiene davanti alla tenda un lumicino acceso, che serve di richiamo ai viaggiatori smarriti.—Il vestire degli uomini e delle donne non è che una camicia di tela di cotone, una cappa e un caic grossolano. Le cappe e i caic non li lavano che tre o quattro volte l’anno, in occasione delle feste solenni, per cui son quasi sempre del colore della loro pelle o più neri. La pulizia del corpo è più curata, poichè senza far le abluzioni prescritte dal Corano, non potrebbero pregare. Le donne per di più si lavano ogni mattina tutta la persona, nascondendosi sotto il treppiedi coperto col caic. Ma lavorando come fanno, e dormendo come dormono, son sempre sudici a un modo, benchè facciano uso, miracolo! del sapone. Nei ritagli di tempo molti giocano alle carte, e quando non giocano, un gran divertimento degli uomini è di stendersi supini in terra e di sballottare i loro bambini; per i quali però si raffreddano via via che diventan grandi, e così è dei figliuoli per loro. Molti di questi figli del duar, giungono all’età di dieci o quattordici anni senz’aver mai visto una casa, ed è curioso il sentir raccontar dai mori o dagli europei delle città, che li prendono al proprio servizio, lo sbalordimento che provano entrando per la prima volta in una stanza: come palpano le pareti, come pestano il pavimento, con che viva emozione s’affacciano alle finestre e ruzzolano giù per le scale.—Gli avvenimenti principali, in questi villaggi erranti, sono i matrimoni. I parenti e gli amici della sposa, con grande strepito di fucilate e di grida la conducono, seduta sulla groppa d’un cammello, al duar dello sposo, ravvolta in una cappa bianca o turchina, tutta profumata, colle unghie tinte di henné e le soppraciglia nere di sughero bruciato, e per lo più ingrassata, per quell’occasione, con un erba particolare chiamata ebba, di cui fanno grande uso le ragazze. Il duar dello sposo, dal canto suo, invita alla festa i duar vicini, da cui accorrono spesso cento o duecento uomini a cavallo, armati di fucile. La sposa scende dal cammello dinanzi alla tenda del suo futuro marito, siede sopra una sella infronzolita e infiorata, ed assiste alla festa. Mentre gli uomini fanno il giuoco della polvere, le donne e le ragazze, disposte in circolo davanti a lei, saltellano al suono d’un tamburo e d’un piffero, intorno a un caic disteso in terra, nel quale ogni invitato, passando, butta una moneta per gli sposi, e un banditore annunzia ad alta voce l’offerta, facendo un buon augurio all’oblatore. Verso sera, il ballo cessa, i fucili tacciono, tutti siedono in terra, vengon portati enormi piatti di cuscussù, polli arrosto, montoni allo spiedo, tè, dolci, frutta; e la cena si prolunga fino a mezzanotte. Il giorno seguente, la sposa vestita di bianco, con una ciarpa rossa stretta intorno al viso, che le nasconde la bocca, e il cappuccio tirato sul capo, accompagnata dai parenti e dagli amici, va per i duar vicini a raccoglier un’altra volta denaro. E dopo questo, lo sposo ritorna ai campi, la sposa va alla macina, e l’amore vola via. Quando uno muore, ripetono le danze. Il parente più prossimo del defunto ne ricorda le virtù; gli altri, affollati intorno a lui, danzano con gesti e atteggiamenti dolorosi, si coprono di fango, si graffiano il viso, si stracciano i capelli; poi lavano il cadavere, lo ravvolgono in una tela nuova, lo portano, sopra una barella, al cimitero, e lo sepelliscono appoggiato sul lato destro, col viso rivolto a oriente.—Questi sono i loro usi e i loro costumi, per dire così, patenti; ma gl’intimi chi li conosce? Chi può seguire i fili di cui s’ordisce la trama della vita d’un duar? Chi può sapere come parla il primo amore, come s’intrica il pettegolezzo, in che strana forma, con che strani accidenti si producano e lottino l’adulterio, la gelosia, l’invidia; che virtù brillino, che sacrifizi si compiano, che abbominevoli passioni imperversino fra quelle pareti di tela? Chi può rintracciare l’origine delle loro favolose superstizioni? Chi può chiarire quel bizzarro miscuglio di confuse tradizioni pagane e cristiane: le croci segnate sulla pelle, la vaga credenza ai satiri di cui trovano le orme forcute sulla terra, la bambola portata in trionfo al primo spuntare del grano, il nome di Maria invocato in soccorso delle partorienti, le danze circolari che rammentano i riti degli adoratori del sole?—Una sola cosa loro è certa e manifesta: la miseria. Vivono degli scarsi prodotti della terra mal coltivata, scemati ancora da imposte gravissime e mutevoli, riscosse dal Sceicco, o capo del duar, eletto da loro e direttamente sottoposto al Governatore della provincia. Rimettono al Governo, in danaro o in natura, la decima parte del raccolto, e una lira in media per ogni bestia. Pagano cento lire l’anno per ogni tratto di terreno corrispondente al lavoro di due buoi. Fanno al Sultano, nelle principali feste annuali, un regalo obbligatorio, che equivale presso a poco a un’imposta di cinque lire per tenda. Sborsano denaro o forniscon viveri, ad arbitrio dei governatori, quando passa il Sultano, un pascià, un’ambasciata, un corpo di soldati. Oltre a ciò, chiunque abbia denari è esposto alle estorsioni dei Governatori, non velate, non scusate da alcun pretesto, ma sfacciatamente violente. Aver fama di agiato è una sventura. Chi ha un piccolo peculio, lo sotterra, spende di nascosto, finge la miseria e la fame. Nessuno accetta in pagamento uno scudo annerito, anche se è certo che sia buono, perchè può parer levato di sotto terra e mettere in sospetto chi dà la caccia ai tesori. Quando un agiato muore, i parenti, per scongiurare la rapina, offrono un regalo al Governatore. Offrono regali per chieder giustizia, per prevenire le persecuzioni, per non esser ridotti a morir di fame. E quando finalmente la fame li strazia e la disperazione li accieca, disfan le tende, impugnano i fucili e lanciano il grido della rivolta. Che succede allora? Il Sultano sguinzaglia tremila furie a cavallo a seminare la morte nel paese ribelle. Questi tagliano teste, predano armenti, ruban donne, incendiano messi, riducon la terra un deserto coperto di cenere e di sangue, e ritornano ad annunziare alla reggia che la ribellione è domata. Se poi la ribellione si allarga, e mandando a vuoto le arti con cui il Governo tenta di smembrarne le forze, disperde gli eserciti e riman padrona del campo, che vantaggio ne ricava, fuorchè quei brevi giorni di libertà guerresca, che le costan migliaia di vite? Eleggeranno un altro Sultano, e provocheranno una guerra dinastica tra provincie e provincie, a cui terrà dietro un dispotismo peggiore; ciò che da dieci secoli accade.

La mattina del 10 la carovana si mise in cammino, all’alba, accompagnata dai trecento cavalieri dei Beni-Hassen e dal loro Governatore Abd-Allà, servo di Dio.

Per tutta quella mattina si continuò a camminare in pianura, in mezzo a campi d’orzo, di grano e di saggina, interrotti da grandi spazi coperti di finocchio selvatico e di fiori, e sparsi di gruppi d’alberi e di tende nere, le quali di lontano presentavano l’aspetto di quei grandi mucchi di carbone che si vedono tratto tratto per la maremma toscana. Incontravamo più sovente che nei giorni innanzi, armenti, cavalli, cammelli, brigatelle d’arabi. Lontano, dinanzi a noi, si stendeva una catena di monti d’un color cenerino delicatissimo, e a mezza distanza, fra i monti e la carovana, biancheggiavano due cube, la prima illuminata dal sole, la seconda, visibile appena. Erano le cube di Sidi-Ghedar e di Sidi-Hassem, fra le quali passa il confine della terra dei Beni-Hassen. Presso alla cuba più lontana si doveva piantare quel giorno l’accampamento.

Molto prima però di giungere al confine, il Governatore Sidi-Abd-Allà, che fin dal momento della partenza pareva pensieroso e irrequieto, si avvicinò all’Ambasciatore e fece cenno di voler parlare.

Mohamed Ducali accorse.

—L’Ambasciatore d’Italia mi perdonerà—disse il fiero Governatore—se io oso domandargli il permesso di tornar indietro colla mia scorta.

L’ambasciatore domandò perchè.

—Perchè,—rispose Sidi-Abd-Allà corrugando i suoi grandi sopraccigli neri,—la mia casa non è sicura.

Nientemeno! pensammo noi. A due miglia di distanza! Che delizia di mestiere ha da essere quello di governare i Beni-Hassen!

L’Ambasciatore acconsentì; Sidi-Abd-Allà gli prese la mano e se la strinse sul petto con una energica espressione di gratitudine. Ciò fatto, voltò il cavallo, e quella turba variopinta, cenciosa, terribile, slanciati i cavalli a briglia sciolta, in pochi momenti non fu più che un nuvolo di polvere all’orizzonte.

NOTE:

[1] Si chiama duar un accampamento d’arabi.

SIDI-HASSEM

La provincia dove stava per entrare la carovana, era una specie di colonia, divisa in poderi fra un gran numero di famiglie di soldati, in ognuna delle quali il servizio militare è obbligatorio per tutti i figli maschi; anzi ogni figliuolo nasce, per così dire, soldato, serve, come può, fin dall’infanzia, e riceve una paga fissa prima di essere in grado di maneggiare il fucile. Di più queste famiglie militari vanno esenti dalle imposte, e la loro proprietà è inalienabile fin che esiste la progenitura mascolina. Costituiscono perciò una milizia regolare, disciplinata e fedele, colla quale il governo può tranquillamente divorare, giusta l’espressione del paese, una qualunque provincia ribelle senza temere che gli ciurli nel manico; e si potrebbe dire una milizia d’esattori, che rende al governo assai più di quello che gli costa, poichè nel Marocco l’esercito serve specialmente alle finanze, e l’ordigno principale della macchina amministrativa è la spada.

Appena oltrepassato il confine dei Beni-Hassen, si vide lontano uno stormo di cavalieri che venivano di galoppo verso di noi, preceduti da una bandiera verde.

Cosa insolita, erano schierati in due lunghissime linee, l’una dietro l’altra, cogli uffiziali dinanzi.

A venti passi da noi, si arrestarono bruscamente tutti in un punto.

Il loro comandante, un grosso vecchio dalla barba bianca, d’aspetto benevolo, con un turbante altissimo, porse la mano all’ambasciatore dicendo:—Siate il benvenuto! Siate il benvenuto!—e quindi a noi:—Benvenuti! Benvenuti! Benvenuti!

Ci rimettemmo in cammino.

I nuovi cavalieri erano molto diversi dai Beni-Hassen. Avevano i vestiti più puliti e le armi più lucide; quasi tutti gli stivali gialli, ricamati di filo rosso; le sciabole col manico di corno di rinoceronte, le cappe turchine, i caffettani bianchi, le cinture verdi. Molti eran vecchi, ma di quei vecchi pietrificati, per i quali pare che sia cominciata l’eternità; parecchi giovanissimi; due, fra gli altri, non più che decenni, belli, pieni di vita, che ci guardavano con un’aria sorridente come per dire:—Via, non siete poi quelle faccie patibolari che c’eravamo figurate!—V’era un vecchio nero di tale statura, che, stendendo le gambe fuori dalle staffe, avrebbe quasi toccato terra coi piedi. Uno degli uffiziali aveva le calze.

Dopo mezz’ora di cammino, incontrammo un altro drappello, colla bandiera rossa, comandato pure da un vecchio caid, che s’unì al primo; e via via, andando innanzi, altri gruppi di quattro, otto, quindici cavalieri, ognuno colla bandiera, che vennero tutti a ingrossare la scorta.

Quando la scorta fu completa, cominciarono le solite cariche.

Si vedeva ch’eran soldati regolari: si raggruppavano e si scioglievano con più ordine di tutti quelli che avevamo visti fino allora. Facevano un nuovo gioco. Uno si slanciava innanzi a briglia sciolta; un altro dietro subito ventre a terra. A un tratto il primo si rizzava sulle staffe, si voltava indietro con tutto il busto e sparava il fucile nel petto a quello che l’inseguiva, il quale, nello stesso punto, scaricava una fucilata a lui contro il fianco, in modo che se si fossero tirati a palla, sarebbero tutti e due precipitati di sella morti nello stesso momento. A uno, andando di carriera, il cavallo gli cadde sotto, e lo sbalzò al di sopra della sua testa ad una tale distanza, che per un momento credemmo che si fosse ammazzato. Quello invece, in un batter d’occhio, risaltò in sella e tornò alla carica più indiavolato di prima. Ognuno lanciava il suo grido.—Guardatevi! Guardatevi!—Siate tutti testimoni!—Son io!—Ecco la morte!—Meschino me! (uno a cui era mancato il colpo)—Largo al barbiere!—(Era il barbiere dei soldati)—E un altro gettò questo curioso grido:— Alla mia dipinta! —che fece ridere tutti i suoi compagni. Gl’interpreti ci spiegarono che voleva dire: alla mia amante che è bella come se fosse dipinta; cosa strana per gente che non solo ha in orrore la pittura di figura, ma non ne ha neppure un’idea chiara. I due ragazzi fecero una carica insieme gridando:—Largo ai fratelli!—e spararono in terra curvando la testa fin quasi a toccare la sella.

Così arrivammo in vicinanza della cuba di Sidi-Hassem, dove si doveva piantare il campo.

Povero Hamed-Ben Kasen Buhamei! Finora io non ne ho parlato che di volo; ma ricordandomi che quella mattina lo vidi, lui generale dell’esercito dei Sceriffi, aiutare i servi a piantare i piuoli della tenda dell’Ambasciatore, sento il bisogno di esprimergli la mia ammirazione e la mia gratitudine. Che buona pasta di generale! Dal giorno della partenza egli non aveva ancor fatto bastonare nè un soldato nè un servo; non s’era mai mostrato un minuto di cattivo umore; era sempre stato il primo ad uscir dalla tenda e l’ultimo a andar a dormire; non aveva mai lasciato trapelare, nemmeno agli occhi più indagatori, che il suo stipendio di quaranta lire il mese gli paresse un po’ scarso; non aveva ombra d’albagia; ci aiutava a montare a cavallo, s’assicurava che le nostre selle fossero salde, dava una legnata, passando, alle nostre mule restie; era sempre pronto a tutto e per tutti; si riposava, accovacciato come un umile mulattiere, accanto alle nostre tende; ci sorrideva ogni volta che ci vedeva sorridere; ci offriva del cuscussù; balzava in piedi, a un cenno dell’ambasciatore, come un fantoccio a molla; faceva la sua preghiera, da buon mussulmano, cinque volte il giorno; contava le uova della muna, presiedeva allo sgozzamento dei montoni, guardava l’album dei pittori senza dar segno di scandalo; infine era l’uomo più ad hoc, io credo, che sua Maestà Imperiale potesse scegliere per quella missione in mezzo alla folla dei suoi scalzi generali. Hamed Ben-Kasen rammentava sovente, con alterezza, che suo padre era stato generale nella guerra contro la Spagna, e parlava qualche volta dei propri figli, che stavano colla madre a Mechinez, sua città natale.—Son tre mesi,—disse un giorno sospirando,—che non li vedo!—Forse voleva dire:—che non la vedo;—ma disse li per pudore.

Quel giorno, dopo aver assistito alla presentazione della muna, fra cui v’era un piatto spropositato di cuscussù, portato a stento da cinque arabi, ci rifugiammo, come sempre, sotto la tenda, a godervi i soliti quaranta gradi centigradi che duravano fino alle quattro dopo mezzogiorno; nel qual tempo l’accampamento rimaneva immerso in un profondo silenzio. Alle quattro, la vita si ridestava. I pittori mettevano mano ai pennelli, il medico riceveva i malati, uno andava a bagnarsi, un altro a tirare al bersaglio, chi a caccia, chi a passeggio, chi a visitare un amico sotto la tenda, chi ad assistere alle cariche della scorta, chi a vedere il cuoco alle prese coll’Affrica, chi a visitare i duar vicini, e così ognuno, a tavola, aveva qualcosa da raccontare, e la conversazione scoppiettava come un fuoco d’artifizio.

Quella sera, al tramonto del sole, andai col comandante a vedere i soldati della scorta che facevano le cariche in un vasto prato vicino all’accampamento.

C’era un centinaio d’arabi, seduti in una sola fila sulla sponda d’un fosso, che guardavano.

Appena ci videro, prima alcuni, poi cinquanta, poi tutti, si levarono da sedere e a poco a poco si vennero ad affollare dietro di noi.

Noi fingemmo di non vederli.

Per qualche momento, nessuno fiatò; poi cominciò uno a dir un non so cosa, che li fece ridere tutti. Dopo quello, parlò un altro, e poi un terzo, e via via, e ad ogni parola, tutti ridevano. Evidentemente ridevano di noi, e non tardammo ad accorgerci che le osservazioni e le risate corrispondevano per l’appunto ai nostri movimenti e a certe inflessioni della nostra voce. La cosa era naturalissima: ci trovavano ridicoli. Ma che cosa dicevano? Questa era la nostra grande curiosità. Passò in quel momento il signor Morteo, lo chiamai con un cenno furtivo, e lo pregai di star coll’orecchio teso, senza farsi scorgere, e di tradurmi letteralmente le canzonature di que’ furfanti. Mi servì a meraviglia.

Uno fece subito un’osservazione che, al solito, provocò una risata.

—Dice—tradusse il Morteo—che non sa capire a che cosa serva la falda di dietro del nostro vestito, a meno che non sia fatta per nascondere la coda....

Un momento dopo, un’altra osservazione, un’altra risata.

—Dice che la divisa dei capelli che lei ha sulla nuca è la strada dove i pidocchi fanno il lab el barod.

Una terza osservazione, un terzo scoppio di risa.

—Dice che son curiosi questi cristiani, che per l’ambizione di parere alti di statura, si mettono un vaso sulla testa e due puntelli sotto le calcagna....

In quel punto un cane dell’ accampamento venne a accovacciarsi ai nostri piedi.

Una quarta osservazione, e questa volta una risata sgangherata.

—Questa è forte!—disse il Morteo.—Dice che questo cane è venuto ad accovacciarsi vicino agli altri cani.... Ora li accomodo io.

Così dicendo, si voltò indietro bruscamente e disse qualche parola araba in tuono di minaccia.

Fu un colpo di fulmine. In un momento non se ne vide più uno.

Ma, povera gente, siamo giusti! Lasciando da parte le cariche dei pidocchi e la fratellanza coi cani, non avevan ragione di pensare di noi quello che pensavamo noi stessi, paragonandoci con loro? Dieci volte il giorno, mentre ci scorazzavano intorno quei superbi cavalieri, ci dicevamo gli uni agli altri:—Sì, siamo civili, siamo i rappresentanti d’una grande nazione, abbiamo più scienza nella testa, noi dieci, che non ce ne sia in tutto l’Impero dei Sceriffi; ma piantati su queste mule, vestiti di questi panni, con questi colori, con questi cappelli, in mezzo a loro, per dio, siamo brutti! Ah! quant’era vero! L’ultimo di quegli straccioni a cavallo era più gentile, più maestoso, più degno dello sguardo d’una donna, che tutti, messi in un fascio, i bellimbusti d’Europa.

A tavola, quella sera, ci fu un’altra scenetta curiosa.

Vennero a visitare l’Ambasciatore e sedettero accanto a lui, i due più vecchi Caid della scorta.

L’Ambasciatore domandò loro:—Avete mai inteso nominare l’Italia?

Tutti e due insieme, accennando vivamente di no colla mano, risposero col tuono di chi si affretta a dissipare un sospetto:—Mai! mai!

Allora l’Ambasciatore, colla pazienza d’un maestro, diede loro alcune nozioni geografiche e politiche intorno al nostro misterioso paese.

Stettero a sentire cogli occhi spalancati e la bocca aperta come due bambini.

—E quanta popolazione ha il vostro paese? domandò uno.

—Venticinque milioni,—rispose l’Ambasciatore.

Fecero un atto di meraviglia.

—E il Marocco,—domandò l’altro—quanti milioni ha?

—Quattro,—rispose l’Ambasciatore per tastare il terreno.

—Quattro soltanto!—esclamarono ingenuamente, guardandosi.

Quei due bravi generali non sapevano del Marocco più che dell’Italia, e forse neanche più della loro provincia che del Marocco. Ma prima d’andarsene, ne dissero un’altra assai più comica.

Il signor Morteo mostrò loro una fotografia della sua signora, dicendo:—Vi presento mia moglie.

La guardarono e la riguardarono con compiacenza e poi domandarono tutti e due ad una voce:—E le altre?

O non sapevano, o piuttosto non si rammentavano in quel momento che i Cristiani,—infelici,—non possono averne che una.

Quella notte non ci fu verso di dormire. Chiocciavano le galline, latravano i cani, belavano i montoni, nitrivano i cavalli, cantavano le sentinelle, tintinnavano le campanelle dei venditori d’acqua, disputavano i soldati sulla ripartizione della muna, incespicavano i servi nelle cordicelle della tenda: l’accampamento pareva un mercato. Ma non v’erano più che quattro giorni di viaggio e noi avevamo una parola magica che ci consolava di tutto:—Fez!

ZEGUTA

Si partì per Zeguta, di buon mattino, tutti rallegrati dal pensiero che quel giorno si sarebbero viste da lontano le montagne di Fez. Spirava un fresco d’autunno, e una leggera nebbia velava la campagna. Una folla d’arabi imbacuccati nelle cappe ci facevano ala all’uscita dell’accampamento; i soldati della scorta, tutti infreddoliti, ci seguivano stretti in un gruppo; i bambini dei duar ci guardavano cogli occhi pieni di sonno di dietro alle siepi e alle tende. Ma dopo pochi minuti brillò il sole, i curiosi accorsero, i cavalieri si sparpagliarono, l’aria risuonò di fucilate e di grida, tutto pigliò colore, anima e luce, e immediatamente, come suol accadere in quei paesi, succedette al fresco autunnale l’ardore dell’estate.

Fra i miei appunti di quella mattina ne trovo uno che dice laconicamente:—Cavallette. Saggio d’eloquenza di Selam.—Mi ricordo, infatti, d’aver visto un campo che da lontano pareva che si movesse, e quest’apparenza era prodotta da un grandissimo numero di cavallette verdi che s’avanzavano saltellando verso di noi. Selam, che in quel momento cavalcava al mio fianco, mi fece una descrizione ammirabilmente pittoresca delle invasioni di quegl’insetti formidabili, ed io la ricordo ancora parola per parola; ma come rendere l’effetto del suo gesto, del suo sguardo, della sua voce, che esprimevano assai più delle parole?—È uno spavento, signore! Vengon di là (e accennava a mezzogiorno). È una nuvola nera. Si sente il rumore da lontano. S’avanzano, s’avanzano, ed hanno il loro Sultano, il Sultano Ieraad, che le guida. Coprono strade, campi, case, duar, boschi. La nuvola cresce, cresce, va, va, va, rode, rode, rode, passa fiumi, passa fossi, passa muri, passa fuoco; distrugge erbe, fiori, foglie, frutti, grano, scorze d’alberi, e va va. Nessuno la ferma, non le tribù colle fiamme, non il Sultano con tutto l’esercito, non tutto il popolo del Marocco riunito insieme. Mucchi di cavallette morte? Avanti le cavallette vive. Muoion dieci? Nascon cento. Muoion cento? Nascon mille. Vedute a Tangeri. Strade, coperte; giardini, coperti; riva del mare, coperta; mare, coperto; tutto verde, tutto in moto, vive, morte, marcie, puzzo, peste, carestia, maledizione del cielo!—Così infatti accade. Il fetore che emana dalle miriadi di cavallette morte produce qualchevolta delle febbri contagiose, e, per citare un esempio, la peste spaventosa che spopolò nel 1799 le città e le campagne della Barberia, scoppiò dopo una delle loro più grandi invasioni. Quando si presenta l’avanguardia dell’esercito devastatore, gli arabi le movono incontro, in frotte di quattro o cinquecento insieme con bastoni e con fuoco; ma non riescono che a farle deviare per poco dal loro cammino, e segue spesso che una tribù cacciandole verso le terre d’una tribù vicina, la guerra alle cavallette si cangia in guerra civile. La sola forza che può liberare il paese da questo flagello, è un vento favorevole che le spinga nel mare, dove s’annegano, e vengon poi, per parecchi giorni, rigettate a mucchi sulle coste; e il solo conforto che rimanga agli abitanti quando il vento favorevole non soffia, è di mangiare, come fanno, le loro nemiche, prima che abbian deposte le uova, bollite e condite con sale, pepe ed aceto. Hanno un sapore di granchiolino di mare e se ne possono mangiare fino a quattrocento in un giorno.

A due miglia circa dall’accampamento, raggiungemmo una parte della carovana che portava a Fez i regali di Vittorio Emmanuele. Erano cammelli uniti a coppie, l’uno dietro l’altro, con due lunghissime sbarre sospese alla groppa, sulle quali posavano le casse. Li accompagnavano alcuni arabi a piedi e qualche soldato a cavallo. Alla testa della carovana v’era un carro tirato da due buoi: il primo carro che vedevamo nel Marocco! stato fatto apposta a Laracce sul modello, credo, dei primi veicoli apparsi sulla superficie della terra: tozzo, pesante, deforme, colle ruote d’un sol pezzo, senza raggi; il più strano e più ridicolo arnese che si possa immaginare. Ma per gli abitanti dei duar, i più dei quali non avevan forse mai visto un carro, era una meraviglia. Da tutte le parti accorrevano a vederlo, se lo accennavano gli uni agli altri, lo seguivano, lo precedevano, ne parlavano con gesti concitati. Persino le nostre mule, non abituate alla vista di quell’oggetto, passandovi accanto, davan segni di sorpresa e o si piantavano in quattro o facevano una giravolta. Selam stesso lo guardava con una certa compiacenza, come dicendo tra sè:—È stato fatto nel nostro paese!—Ed era compatibile, poichè in tutto il Marocco non esiste forse un maggior numero di carri che di pianoforti; i quali, se è giusta l’asserzione d’un console francese, non passano la dozzina; e oltre a questo, pare che vi sia in quel paese un’antipatia nazionale contro ogni specie di veicoli. Le autorità di Tangeri, per esempio, proibirono al principe Federico d’Assia Darmstadt, che fu in quella città nel 1839, di uscire in carrozza. Il principe scrisse al Sultano offerendosi di fare lastricare a proprie spese le strade principali, purchè gli permettesse quello che le autorità gli negavano.—Lo permetto,—rispose il Sultano,—e di buon grado; ma ad un patto: che le carrozze sian senza ruote, perchè, come protettore dei fedeli, non posso lasciare i miei sudditi esposti al pericolo d’essere schiacciati da un cristiano.—E il principe, per mettere la cosa in ridicolo, si valse del permesso ed osservò il patto, e v’è ancora a Tangeri chi si ricorda d’averlo visto attraversare la città in una carrozza senza ruote, sospesa alla groppa di due mule.

Finalmente s’arrivò a quelle benedette colline a cui si pensava da tre giorni con desiderio impaziente. Dopo una lunga salita, s’infilò una gola strettissima, chiamata in arabo Beb Tinca, dove bisognò passare ad uno ad uno, e si riuscì sopra una bella valle fiorita e solitaria in cui la carovana discese festosamente, empiendo l’aria di canti e di grida.

In fondo alla valle s’incontrò un’altra scorta del territorio delle colonie militari, la quale diede il cambio alla prima.

Erano cento cavalieri, tra i quali dei vecchissimi e dei giovanissimi, neri e capelluti; alcuni su cavalli stupendi, bardati con insolita pompa. Il caid, Abù-ben-Gileli, era un vecchio tarchiato, d’aspetto severo, di modi recisi, del quale e dei suoi soldati, si sarebbe potuto dire quello che diceva Don Abbondio dell’Innominato e dei bravi:—Per tenere a segno quelle faccie lì, non ci vuol meno di questa faccia qui; lo capisco anch’io.—Senza un riguardo al mondo per il grano e per l’orzo maturo ch’era dai due lati della strada, i soldati lanciarono i cavalli al galoppo di qua e di là, e cominciarono le solite cariche a due, a cinque, a dieci insieme, buttando i fucili in aria, rovesciandosi in dietro, a destra, a sinistra, contorcendosi sulla sella in mille maniere e urlando come anime dannate. Uno, fra gli altri, faceva il molinello col fucile con una rapidità che quasi l’arma non si vedeva. Un altro, passando, gridò con voce tonante:—Ecco il fulmine!—Un terzo, essendogli deviato il cavallo, mancò un pelo che non c’investisse e ci buttasse tutti in terra a gambe levate.

A una cert’ora l’Ambasciatore e il capitano, accompagnati da Hamed-ben-Kasen e da alcuni soldati, si staccarono dalla carovana per andar a far l’ascensione d’un monte, chiamato Selfat, poche miglia lontano; e noi seguitammo senza di loro il cammino prestabilito.

Pochi minuti dopo seguì un caso che non mi uscirà mai più, credo, dalla memoria.

Veniva verso di noi un ragazzo di sedici o diciott’anni, arabo, mezzo nudo, che mandava innanzi, con un grosso bastone, due buoi recalcitranti.

Il caid Abù-ben-Gileli arrestò il cavallo, e lo chiamò.

Si seppe dopo che quel ragazzo doveva andare ad attaccare i due buoi al carro che avevamo visto poco prima, ed era in ritardo di qualche ora.

Il poveretto, tutto tremante, si presentò al caid.

Questo gli fece non so che domande, a cui il ragazzo rispose balbettando e facendosi smorto come un cadavere.

Allora il caid si voltò verso i soldati e disse freddamente:—Cinquanta bastonate.

Tre robusti soldati saltarono giù da cavallo.

Il povero ragazzo, senza aspettare che lo afferrassero, senza profferire una parola, senza nemmeno alzare lo sguardo in viso al suo giudice, si buttò bocconi in terra, secondo l’uso, colle gambe e le braccia distese.

Tutto questo accadde, si può dire, in un batter d’occhio. Il bastone non era ancora in aria che già il comandante ed altri s’eran cacciati in mezzo e avevano fatto dire al caid che non potevano permettere quel brutale castigo.

Il caid chinò la testa.

Il ragazzo s’alzò pallido, convulso, guardando con un’espressione di meraviglia e di spavento i suoi liberatori e il caid.

—Va,—gli disse l’interprete,—sei libero!

—Ah!—gridò con un accento inesprimibile,—e disparve.

Noi ci rimettemmo in cammino.

L’ho da dire? Ho visto uccidere un uomo, ma non provai un sentimento così profondo d’orrore come quello che m’assalì alla vista di quel ragazzo seminudo disteso in terra per ricevere cinquanta bastonate. E dopo l’orrore, mi salì il sangue al capo dall’indignazione e vituperai nel mio cuore il Caid, il Sultano, il Marocco, la barbarie colle parole più fulminanti del linguaggio umano. Ma è proprio vero che bisogna sempre aspettare i secondi pensieri.—Ma e noi,—pensai qualche momento dopo;—quanti anni sono che abbiamo abolito il bastone? E quanto tempo è che s’è abolito in Austria? E in Prussia? E negli altri Stati d’Europa?—Questa riflessione mi fece cadere lo sdegno dal cuore e non mi lasciò che un sentimento d’amarezza. Per chi poi desiderasse di sapere in che modo si bastona al Marocco, basterà dire che qualche volta, terminata l’operazione, si porta la vittima al cimitero.

Di là fino a Zeguta la carovana passò di collina in collina, di valle in valle, sempre tra campi di grano e d’orzo e prati verdissimi, circondati d’aloé, di fichi d’India, d’olivi selvatici, di quercie nane, di cisti, di corbezzoli, di mirti, di cespugli fioriti. Non si vedeva una tenda, non s’incontrava un’anima viva. La campagna era tutta lussureggiante, solitaria e tacita come un giardino fatato. Giungendo sulla sommità d’un’altura, vedemmo le cime azzurre delle montagne di Fez, che subito si rinascosero come se avessero alzata la testa un momento per vederci passare; e nel più forte del caldo arrivammo a Zeguta.

Era uno dei più bei luoghi che si fosser veduti in tutto il viaggio.

L’accampamento era posto sulla china d’un monte, in una grande cavità rocciosa, della forma d’un anfiteatro, nella quale appunto i massi e le piccole incavature formate a poco a poco, l’una sull’altra, con una certa regolarità, dal passaggio della gente e degli animali, presentavano l’aspetto d’una vasta gradinata; e giusto in quell’ora, la gradinata era affollata d’arabi seduti a schiere semicircolari, come spettatori d’un anfiteatro vero. Dinanzi, s’apriva in forma di conca una grande valle tutta scompartita dalla varietà delle coltivazioni in quadrati verdi, gialli, bianchi, rossi, violetti, che pareva un immenso scacchiere di pezzi di velluto e di seta. Guardando col cannocchiale, si vedeva, sulle colline più lontane, qua una fila di tende, là una cuba nascosta fra gli aloé, più in là un cammello, più oltre un arabo accovacciato, un armento, un gruppo di donne; una vita sparsa e lenta che faceva sentire anche meglio d’una completa solitudine la profonda pace del luogo. Su tutta questa bellezza, si stendeva un cielo bianco, infocato, abbarbagliante, che costringeva a star col capo basso e cogli occhi socchiusi.

Ma assai più che per il paesaggio, ricorderò perpetuamente l’accampamento di Zeguta per l’esperimento che vi feci del famoso kif.

Il kif, per chi non lo sappia, è la foglia d’una specie di canapa, chiamata hascisc, conosciuta in tutto l’Oriente per la sua virtù inebriante. Nel Marocco se ne fa grandissimo uso, e si può dire che sono quasi tutte vittime di questa foglia deleteria, quegli arabi e mori, molto frequenti nelle città, che guardano chi passa cogli occhi sbarrati e stupidi, e camminano, quasi strascicandosi, come gente sbalordita da una percossa nel capo. La maggior parte fumano il kif, mescolato con un po’ di tabacco, in piccolissime pipe di terra cotta; altri lo mangiano in una specie di pasta dolce chiamata madjun, fatta con burro, miele, noce moscata e garofani. Gli effetti sono stranissimi. Il dottor Miguerez, che ne aveva fatto esperimento, me ne parlava sovente, dicendo, fra le altre cose, ch’era stato preso da un accesso di riso irresistibile, e che gli pareva di sentirsi sollevato da terra, tanto che, passando sotto un portone alto due volte lui, aveva chinato la testa per paura d’urtare. Stimolato dalla curiosità, io l’avevo pregato più volte di darmi una porzioncina di madjun, poca, per non perdere affatto la bussola, ma bastante a farmi vedere e sentire qualcuna almeno delle mille meraviglie ch’egli mi raccontava. Il bravo dottore per i primi giorni si scusò, dicendo che sarebbe stato meglio fare l’esperimento a Fez, con tutti i comodi; ma io continuai a sollecitarlo, e a Zeguta, finalmente, un po’ a controvoglia, mi presentò in un piattino il boccone sospirato. Eravamo a tavola. Con me, se non m’inganno, ne presero un po’ l’Ussi e un altro po’ il Biseo; ma di quello che abbia prodotto in loro, non mi ricordo. Era una pasta molle, di colore violetto e di sapore di pomata. Per una mezz’ora circa, dalla minestra alle frutta, non sentii nulla, e già canzonavo il dottore per le sue paure. Ma lui mi rispondeva:—Aspetti, aspetti—e sorrideva. I sintomi dell’ebbrezza, infatti, si manifestarono alle frutta. Fu da principio una viva ilarità e una rapidissima parlantina. Poi cominciai a ridere di tutto quello che sentivo dire e che dicevo io stesso; ogni parola mia e d’altri mi faceva l’effetto d’un’arguzia finissima; ridevo dei servi, degli sguardi dei miei commensali, della mia seggiola squilibrata, delle figurine dipinte sui tondi, della forma di certe bottiglie, del colore del cacio che mangiavo. All’improvviso m’accorsi che non avevo più la testa a segno e mi diedi a pensare a qualche cosa di serio per contenermi. Pensai al ragazzo che volevan bastonare la mattina. Povero ragazzo! M’inteneriva. Avrei voluto condurlo in Italia, farlo educare, fargli abbracciare una carriera. L’amavo come un figlio. E anche il caid Abù-ben-Gileli, povero vecchio. Il caid Abù-ben-Gileli l’amavo come un padre. E i soldati della scorta? Eran tutti buoni ragazzi, pronti a difenderci, a rischiar la vita per noi. Io li amavo come fratelli. Amavo pure li Algerini, e perchè no? pensavo; non sono della stessa razza dei Marocchini? E poi, che razza! Siamo fratelli tutti, siamo stretti ad un patto, bisogna amarci, io amo, io sono felice, e mettevo il braccio intorno al collo del dottore, che scoppiava dalle risa. Da quest’allegrezza caddi a un tratto in una mestizia confusa e profonda. Ricordai le persone che avevo offese, i dolori di cui ero stato cagione a coloro che m’amavano, mi sentii oppresso da mille rimorsi e da mille rammarichi, mi parve di sentire delle voci che mi parlavano nell’orecchio con un accento d’amore e di rimprovero, mi pentii, domandai perdono, mi asciugai furtivamente una grossa lacrima che mi tremolava nell’occhio. Poi mi si levò nella memoria un turbinìo rapidissimo d’immagini disparate e bizzarre che svanivano l’una nell’altra: certi amici d’infanzia dimenticati, certe parole di dialetto non più pronunziate da vent’anni, dei visi di donna, il mio antico reggimento, Guglielmo il Taciturno, Parigi, l’editore Barbera, un cappello di castoro che avevo da bimbo, l’Acropoli d’Atene, il conto d’un albergatore di Siviglia, mille stranezze. Ricordo confusamente che i commensali mi guardavano sorridendo. Di tratto in tratto chiudevo gli occhi e poi li riaprivo e non sapevo se avessi o no dormito, se fossi stato così un minuto o mezz’ora. Avevo un pensiero lucido nel capo, cominciavo a parlare, dicevo:—una volta sono andato.... Dove sono andato? Chi è andato? Tutto era svanito. I pensieri brillavano e si spegnevano come lucciole, fitti, intricati, inestricabili. A un certo punto vidi l’Ussi con una testa allungata come un’immagine riflessa da uno specchio convesso; il Viceconsole con un viso largo due palmi; tutti gli altri assottigliati, gonfi, scontorti, contraffatti come caricature fantastiche, che mi facevano delle smorfie inesprimibilmente buffe; ed io ridevo e dondolavo il capo e sonnecchiavo e pensavo ch’eran tutti matti, che ci trovavamo in un altro mondo, che nulla di quel che vedevo era vero, che stavo male, che non capivo che cosa fosse accaduto, che non sapevo dove fossi. E poi tutto fu buio e silenzio. E quando rinvenni in me, mi trovai sotto la mia tenda, steso sul letto, col dottore accanto, il quale, guardandomi al lume della candela, disse sorridendo:—È passata, via; ma dev’esser la prima e l’ultima volta.

DA ZEGUTA AL TAGAT

Mentre io corro qua e là in cerca della mia cavalcatura, che non so come, ritrovo poi appiattata in mezzo ai bagagli, l’Ambasciata parte. Avrei ancora tempo di raggiungerla; ma all’uscita dall’accampamento, scendendo per una china rocciosa, la mula vacilla, la sella si slaccia, la letteratura precipita, ci vuole una mezz’ora per riassestare ogni cosa, e addio Ambasciata! Mi tocca fare il viaggio solo, seguito alla lontana da un servo zoppicante, che arriverà appena in tempo, quando io sia assalito, a vedermi dare gli ultimi tratti. Sia fatta la volontà d’Allà! La campagna è deserta e il cielo nuvoloso. Di mezz’ora in mezz’ora vedo comparire, sulla sommità delle alture lontane, una cavalcata variopinta e sparsa, in mezzo alla quale riconosco il cavallo bianco dell’Ambasciatore e il caffettano rosso di Selam; e per qualche momento mi pare di non esser più solo; ma la cavalcata sparisce, e la solitudine mi torna a pesare sul cuore. A un’ora dall’accampamento raggiungo una retroguardia di dodici cavalieri, condotti dal vecchio Abu Ben Gileli, il caid delle cinquanta bastonate, il quale mi lancia uno sguardo terribilmente espressivo rasente la schiena. Sorrido umilmente e passo oltre. Esco dalla bella valle che si dominava collo sguardo dall’accampamento, e m’inoltro in un’altra valle spaziosa, fiancheggiata da alture ripidissime, vestite d’aloé e d’olivi, che formano come due grandi muraglie verdi a destra e a sinistra d’una immensa strada diritta, chiusa, in fondo, da una cortina di monti azzurri. Incontro parecchi arabi, che si fermano per vedermi passare e guardano intorno, stupiti ch’io non sia scortato. Mi assaltano? non mi assaltano? Uno s’accosta a un albero, ne stacca in fretta e in furia un grosso ramo, e mi corre incontro. Ci siamo! Arresto la mula, afferro la pistola. Egli si mette a ridere e mi porge il bastone, spiegandomi che l’ha staccato per me, per picchiare la mula, che non vuol camminare. In quel momento mi vedo venir incontro, di gran galoppo, due soldati della scorta. La mia ora, si vede, non è ancora sonata. I due soldati mi si mettono uno a destra e uno a sinistra, come due carabinieri, e mandano innanzi il mio quadrupede col calcio dei fucili,—dicendo:— Embasciador! Embasciador! —Li ha mandati l’Ambasciatore a vedere che cosa è accaduto di me. Meritano una ricompensa. Mi fermo, ed offro loro una bottiglietta di vino che porto in tasca. Non dicono nè si nè no; si guardano sorridendo, mi accennano che non ne han mai bevuto.—Assaggiate,—dico io col gesto. Uno prende la bottiglia, versa una goccia sulla palma della mano, dà una leccata e rimane un momento pensieroso. L’altro fa lo stesso. Poi si guardano, si mettono a ridere e fanno cenno di sì.—Bevete dunque.—Uno vuota mezza la bottiglia d’un fiato; l’altro, d’un fiato, la finisce; poi si metton tutti e due una mano sul petto e guardano il cielo cogli occhi luccicanti di voluttà. Ci rimettiamo in cammino. Incontriamo altri arabi, uomini, donne e ragazzi, che mi guardano con grande stupore. Uno, fra gli altri, dice alcune parole, alle quali i soldati rispondono con un brusco cenno negativo. Ho poi saputo che, credendomi arrestato, aveva detto:—Ecco un cristiano che ha rubato all’Ambasciatore.—Si vede qualche villaggio di case bianche sulla sommità delle alture che fiancheggiano la valle; spesseggiano le cube, le palme, gli alberi fruttiferi, i leandri fioriti, i roseti; la campagna è tutta verdissima, e comincia a mostrare qua e là qualche traccia di divisione di poderi. Entriamo finalmente in una gola angusta e tortuosa, formata da due muraglie di roccia; uscendo dalla quale, ci troviamo sul terreno dell’accampamento. Siamo sulla sponda del Miches, affluente del Sebù, vicino a un piccolo ponte di muratura costrutto diciassette anni sono, in una conca formata da un semicerchio di colline rocciose. Il cielo grigio come una vôlta di piombo piove una luce smorta e uggiosa, che ci costringe a star sette ore immobili sotto le tende. Il termometro segna quarantun grado. L’aria è infocata e grave. Fra le tende non si sente altro che il canto dei grilli e il suono della chitarra del Ducali. Una noia profonda pesa su tutto l’accampamento. Ma verso sera tutto cangia. Una passata d’acqua rinfresca l’aria, un fascio di raggi abbarbaglianti, prorompendo come una corrente di luce elettrica per l’apertura della gola, indora una metà del campo; arrivano corrieri da Tangeri, corrieri da Fez, curiosi dai villaggi; due terzi della carovana si tuffano nel fiume; e il desinare è rallegrato dall’apparizione d’un nuovo personaggio, venuto dalla gran città dei Sceriffi: il moro Scellal, un altro dei protetti della Legazione d’Italia che ha una lite pendente col Governo del Sultano: il più voluminoso turbante, il più rotondo faccione, la più beata pinguedine moresca che siasi veduta da Tangeri in poi. La mattina seguente, all’alba, ci rimettiamo in cammino, senz’altra scorta che i quaranta soldati comandati da Hamed Ben Kasen. È scoppiata una rivolta nelle terre confinanti coll’Algeria, e tutta la cavalleria della provincia di Fez è stata immediatamente mandata contro i ribelli.—Vedremo molte teste appese alle porte di Fez,—dice il Ducali. Per due ore camminiamo fra le colline in mezzo alle ginestre e ai lentischi. Poi sbocchiamo nella vastissima pianura di Fez, coronata di montagne e di colli, biondeggiante di grano, sparsa di grandi duar, percorsa dal fiume della Fontana azzurra, che si va a versare nel Miches, e dal Fiume delle perle, affluente del Sebù, che va a dividere in due la città sacra dell’Impero; sorvolata da stormi di grù, d’oche selvatiche, di tortore, di pernici, d’aghironi; lussureggiante di vegetazione, piena di luce, quieta e ridente come un immenso giardino. Piantiamo l’accampamento sulla riva del fiume della Fontana azzurra. La giornata passa in un lampo, tra le caccie, le visite ai duar, gli ebrei che vengon da Fez a raccontarci dei grandi apparecchi dell’esercito, i messi della corte che portano i saluti del Sultano; le famiglie arabe che guadano il fiume, in lunghe file, prima il cammello, poi gli uomini, poi le donne coi bimbi sul dorso, poi i ragazzi, poi i cani a nuoto; le carovane che passano, le frotte di curiosi che accorrono, un tramonto che innamora e la notte più luminosa ch’abbia mai contemplato occhio umano. La mattina all’alba di nuovo in cammino. Si rientra fra le colline, si torna a discendere nella pianura, e s’infila una strada serpeggiante incassata fra due rive, che ci nascondono l’orizzonte. Tutt’a un tratto una voce sonora grida:—Ecco Fez!—Tutti si fermano. Diritto, davanti a noi, lontano parecchie miglia, ai piedi delle montagne, si vede una vasta selva di torri, di minareti e di palme, velata leggermente dalla nebbia. Un allegro:—Ci siamo!—prorompe nello stesso punto da tutte le bocche in italiano, in spagnuolo, in francese, in arabo, in genovese, in siciliano, in napoletano; e al breve silenzio della prima meraviglia, succede una conversazione rumorosa. Ci rimettiamo in cammino e andiamo ad accamparci, per l’ultima volta, ai piedi del monte Tagat sulla riva del Fiume delle perle, a un’ora e mezzo da Fez. Qui per tutta la giornata è un andirivieni e un affaccendamento che ci pare il quartier generale d’un esercito in guerra. Sono messi del Sultano, messi del primo ministro, messi del gran cerimoniere, messi del Governatore di Fez, ufficiali, maggiordomi, negozianti, patenti de’ mori della carovana, tutta gente ben vestita, linda, cerimoniosa, circonfusa dell’aura della corte e della metropoli, che parla con voce grave e gesti maestosi dell’esercito formidabile, della folla immensa, del palazzo delizioso che ci aspetta. L’entrata a Fez è stabilita per le otto della mattina seguente. All’alba tutti sono in piedi. È un gran lavorìo di rasoi, di spazzole, di pettini, di striglie, e un’allegrezza che ci rifà ad usura di tutte le fatiche del viaggio. L’Ambasciatore si mette il suo berretto dorato, Hamed Ben Kasen la sciabola di gala, Selam un caffettano color di rosa, Civo un fazzoletto verde intorno al capo, segno di grande solennità; tutti i servi, la cappa bianca; tutti i soldati della scorta, le armi lucide; tutti gl’italiani, la roba più sfoggiata dei loro bauli. Siamo, fra tutti, un centinaio, e si può affermare che l’Italia non ha mai avuto un’ambasciata più bizzarramente composta, più pomposamente colorita, più allegramente impaziente, più impazientemente aspettata di questa. Il tempo è bellissimo, i cavalli scalpitano, i caic ondeggiano al venticello della mattina, tutti i volti brillano, tutti gli sguardi si fissano sull’Ambasciatore che conta i minuti sull’orologio. Son le otto—un cenno—tutti a cavallo—e avanti. Ah! che vuol dire essere eternamente bambino! Mi sento battere il cuore!

FEZ

Non abbiamo ancora fatto mezzo miglio verso la città, che siamo già circondati da una folla d’arabi e di mori accorsi da Fez e dalla campagna, parte a piedi, parte a cavallo a mule ed a asini, a due a due per cavalcatura, come gli antichi Numidi, smaniosi a tal segno di vederci che i soldati della scorta, perchè non ci si stringano addosso, sono costretti a spazzare la strada a colpi di calcio di fucile. Il terreno essendo basso, la città di Fez, della quale si vedevano le mura merlate dall’accampamento, ci rimane per un buon pezzo nascosta. Poi, tutt’a un tratto, riapparisce e vediamo dinanzi alle mura un immenso formicolìo bianco e porporino, che pare una miriade di gigli e di rose che tremolino al vento. La città si nasconde daccapo e daccapo ricompare, ma questa volta vicinissima, e fra noi e le sue mura, il popolo, l’esercito, la corte, una pompa, uno splendore, una bizzarria, una bellezza che in quel punto mi fece cadere di mano le briglie, e in questo momento la penna.

Una schiera di ufficiali a cavallo ci viene incontro di galoppo, saluta, si divide in due e s’unisce alla scorta.

Dietro costoro, un grosso stuolo di cavalieri vestiti pomposamente, montati su cavalli bellissimi, preceduti da un moro di alta statura, col turbante bianco e il caffettano roseo, s’avanza verso di noi. È il gran cerimoniere Hadje Mohammed Ben Aissa, cogli ufficiali di corte, che dà il benvenuto all’Ambasciatore in nome del Sultano, e s’accompagna alla scorta.

Andiamo innanzi, fra due ali di soldati di fanteria che trattengono a stento la folla.

Che soldati! Sono vecchi, uomini maturi, e ragazzi di quindici, di dodici, persino di nove anni, vestiti di rosso scarlatto, colle gambe nude, colle pantofole gialle, schierati, senz’ordine di statura, sopra una sola riga, coi comandanti dinanzi. Ci presentano, ognuno a modo suo, i loro fucili rugginosi, colle baionette scontorte. Chi tiene un piede innanzi, chi sta a gambe larghe, chi col mento sul petto, chi colla testa chinata sopra una spalla. Alcuni si son messi la giacchetta rossa sul capo per ripararsi dal sole. Di tratto in tratto v’è un tamburino, un trombetta, cinque o sei bandiere le une accanto alle altre, rosse, gialle, verdi, ranciate, tenute come si tengono le croci nelle processioni. Non si vede nessuna divisione di squadre o di compagnie. Paiono soldatini di cartone messi in fila da un ragazzo. Vi son dei neri, dei mulatti, dei bianchi, faccie d’un colore indefinibile; uomini di statura ciclopica accanto a bimbi che appena possono reggere il fucile; vecchi con una lunga barba bianca, curvi, che s’appoggiano col gomito ai vicini; figure selvaggie che fan l’effetto, con quell’uniforme, di scimmie vestite ed ammaestrate; tutti ci guardano cogli occhi attoniti e la bocca aperta e si stendono dinanzi a noi in due file a perdita d’occhio.

Una seconda folla di cavalieri ci viene incontro, a sinistra. È il vecchio governatore Gilali Ben Amù, seguito da diciotto sotto-governatori e dal fiore dell’aristocrazia di Fez, tutti vestiti di bianco da capo a piedi, come uno stuolo di sacerdoti: visi austeri, barbe nere, caic di seta, bardature dorate. Salutano, ci girano intorno e s’uniscono alla scorta e alla Corte.

Andiamo innanzi, sempre in mezzo a due schiere di soldati, dietro ai quali ondeggia una folla bianca e incappucciata che ci divora cogli occhi. Son sempre gli stessi soldati, per buona parte ragazzi, col fez, la giacchetta rossa e le gambe nude. Alcuni hanno i calzoncini turchini, altri bianchi, altri verdi; molti sono in maniche di camicia; chi tiene il fucile al piede, chi sulla spalla; chi sta avanti, chi sta indietro. Gli ufficiali son vestiti a capriccio, da zuavi, da turcos, da spahì, alla greca, all’albanese, alla turca, con divise gallonate e arabescate d’oro e d’argento, con sciabole a scimitarra, spade, pugnali ricurvi, pistoloni, daghe, stivali alla scudiera e stivaletti gialli senza tallone; alcuni color di porpora da capo a piedi, altri tutti bianchi, altri tutti verdi che paiono mascherati da diavoli. Di tratto in tratto si vede fra loro un viso europeo che ci guarda con un’espressione di simpatia e di tristezza. Si vedono fino a dieci bandiere schierate insieme. Al nostro passaggio, squillano le trombe. Qualche braccio di donna s’intromette fra le teste di due soldati e s’agita col pugno chiuso verso di noi in atto di minaccia. Le mura della città par che s’allontanino via via che andiamo innanzi, e le due schiere di soldati si allungano dinanzi a noi come due siepi sterminate di roseti vermigli.

Un’altra folla di cavalieri, più pomposi dei precedenti, ci viene incontro. È il vecchio ministro della guerra. Sid-Abd-Allà ben-Hamed, nero, montato sopra un cavallo bianco bardato di color celeste; e con lui i governatori militari della provincia, il comandante del presidio di Fez, e un folto stato maggiore di generali coronati di turbanti bianchi come la neve e vestiti di caffettani di cento colori.

Ci rimettiamo in via. Ormai è più di mezz’ora che camminiamo in mezzo ai soldati e qualcuno ne ha contati oltre a quattro mila. Da una parte è schierata la cavalleria; dall’altra un’accozzaglia che non ha più nome; uomini e ragazzi vestiti di cento uniformi diverse, o piuttosto di brandelli d’uniformi, metà armati e metà senz’armi, colla cappa, senza cappa, con un cencio intorno al capo, col capo scoperto, scamiciati; visi del deserto, del litorale dell’Oceano, delle montagne dell’Atlante, del Rif, della provincia di Sus; teste rapate e teste ornate di lunghe treccie; colossi e nani, ceffi di belve e faccie di morti—disotterrati, larve, fantocci, comparse teatrali, gente razzolata Dio sa dove per far numero e paura. E dietro costoro, su due grandi rialti di terreno che sorgono a destra e a sinistra della strada, due turbe innumerevoli di donne velate, che gridano e gesticolano in atto di meraviglia, di sdegno, d’allegrezza, sollevando i bambini sopra la testa.

Ci avviciniamo alle mura, in direzione d’una porta monumentale, coronata di merli. Scoppia il suono d’una banda e nello stesso tempo tutte le trombe e tutti i tamburi dell’esercito prorompono in un fragore infernale. Allora si sciolgono gli ordini del ricevimento e tutti ci si affollano intorno, magistrati, generali, cortigiani, ministri, ufficiali, schiavi; la nostra scorta è scompigliata, i nostri servi dispersi e noi stessi separati gli uni dagli altri. È un torrente di turbanti e di cavalli, che ci avvolge e ci travolge con un impeto irresistibile; un barbaglio di colori, una fantasmagoria di faccie strane, un frastuono di voci stridule, una furia, una confusione di battaglia, uno spettacolo grandioso e selvaggio che innamora e sbalordisce.

Passiamo per la gran porta, ci guardiamo intorno credendo di veder le case della città: siamo ancora in mezzo a mura e a torri merlate; a sinistra v’è una cuba, colla cupola verde, ombreggiata da due palme; gente intorno alla cuba, ai piedi delle mura, sulle mura, sulle torri, da ogni parte. Passiamo sotto un’altra porta, ed entriamo finalmente in una strada fiancheggiata da case.

Non ricordo che molto confusamente quello che vidi in quel tragitto, tanto ero sbalordito dallo spettacolo dell’entrata e intento a salvarmi la vita, poichè si camminava sui pietroni in mezzo a una calca di cavalli, e guai a chi avesse fatto un capitombolo. Passammo, mi ricordo, per parecchie strade strette, deserte, fiancheggiate da case molto alte, salendo, scendendo, soffocati dal polverìo e assordati dallo scalpitìo dei cavalli; e dopo una buona mezz’ora di cammino, attraversato un labirinto di vicoli in salita dove ci toccò passare a uno a uno, scendemmo dinanzi a una piccola porta, in mezzo a due file di soldati scarlatti che ci presentarono le armi, ed entrammo in casa nostra.

Fu una sensazione deliziosa.

Era una casa principesca di puro stile moresco con un piccolo giardino ombreggiato da filari paralleli d’aranci e di limoni. Dal giardino s’entrava nel cortiletto interno per una porta bassissima, e un corridoio appena tanto largo da potervi passare una persona. Tutt’intorno al cortile s’alzavano dodici pilastri bianchi, congiunti da altrettanti archi a ferro di cavallo, che sostenevano all’altezza del primo piano una galleria arcata e munita d’una balaustrata di legno. Il pavimento del cortile, della galleria e delle stanze era tutto uno splendido musaico a quadrettini smaltati di vivi colori; gli archi arabescati e dipinti; la balaustrata lavorata a giorno con una delicatezza finissima; tutto l’edifizio disegnato con un’armonia e una grazia degna degli architetti dell’Alhambra. Nel mezzo del cortile v’era una fontana, e un’altra, a tre getti d’acqua, dentro a un vano del muro rivestito di musaico a stelle e a rosoni. Dal mezzo d’ogni arco pendeva una grande lanterna moresca. Un braccio dell’edifizio si stendeva lungo uno dei lati del giardino, e aveva una graziosissima facciata a tre archi, pure dipinti e arabescati, dinanzi alla quale zampillava una terza fontana. V’erano altri piccoli cortili e corridoi e stanzuccie e gl’innumerevoli recessi di tutte le case orientali. Qualche letto di ferro senza coperte e senza lenzuoli, qualche orologio a pendolo, uno specchio nel cortile, due seggiole e un tavolino per l’Ambasciatore, e una mezza dozzina di orciuoli e di catinelle, erano tutta la suppellettile del palazzo. Nelle stanze principali c’erano tappeti ricamati d’oro appesi alle pareti e materasse bianche distese sul pavimento. Non una seggiola, non una tavola, non un comodino. Si dovette far portare il mobilio dell’accampamento. In compenso per tutto fresco, per tutto gorgoglío d’acqua, un’ombra, una fragranza, un non so che di molle e di voluttuoso nelle linee, nei colori, nella luce, nell’aria, che faceva sorridere e pensare. Tutto l’edifizio era circondato da un muro altissimo, e intorno al muro si stendeva un labirinto di stradicciuole deserte.

Appena fummo nel cortile, cominciò un andirivieni di ministri e d’altri personaggi, ognuno dei quali fece un quarto d’ora di conversazione coll’Ambasciatore, palpandosi i piedi. Il ministro delle finanze fu quello che attirò più di tutti la mia attenzione. Era un moro sulla cinquantina, di aspetto severo, sbarbato, tutto vestito di bianco, con un grosso turbante. Più lo guardavo e meno mi potevo persuadere che quell’uomo avesse qualcosa di comune col Minghetti e col Sella. Un interprete mi disse che aveva un grande ingegno, e addusse per prova che essendogli stata portata un giorno una di quelle macchinette che fanno le operazioni aritmetiche, lui aveva fatte le medesime operazioni in un tempo eguale e cogli stessi risultati. E bisognava vedere con che espressione di sacro rispetto, Selam, Alì, Civo, e tutti gli altri servi arabi guardavano quei personaggi, che dopo il Sultano rappresentavano per loro il più alto grado di scienza, di potenza e di gloria, a cui si possa pervenire sulla terra!

Finite le visite, si pigliò possesso del palazzo. I due pittori, il medico ed io occupammo le camere che davano sul giardino; gli altri, quelle del cortile. Interpreti, cuochi, marinai, servi, soldati, tutti trovarono il loro posticino. In poche ore il palazzo cangiò aspetto.

Assestata ogni cosa, si pensò a visitare la città.

I primi ad uscire furono l’Ussi e il Biseo; poi il Comandante e il Capitano; io mi riserbai a veder ogni cosa a mente fresca la mattina seguente. Uscirono a due a due, circondati, come malfattori, da un drappello di fantaccini armati di fucili e di bastoni. Stettero fuori un’ora, che mi parve eterna, e tornarono impolverati e grondanti di sudore come da un campo di battaglia, esprimendo concitatamente, prima coi gesti che colle parole, una grandissima meraviglia. Le prime parole furono—gran città—gran folla—moschee immense—santi nudi—maledizioni—legnate—cose dell’altro mondo. Ma la più saporita notizia la diede l’Ussi. In una delle strade più frequentate, malgrado la sorveglianza dei soldati, una ragazza di quindici anni gli s’era slanciata alle spalle come una furia e gli aveva assestato tra capo e collo un vigorosissimo pugno gridando:—Maledetti questi Cristiani! Non c’è più un angolo del Marocco dove non si vengano a cacciare!

Tali furono le prime accoglienze fatte all’Arte italiana fra le mura di Fez.

A notte avanzata, feci un giro per il palazzo. Sui pianerottoli, davanti alle porte delle camere, nel giardino, per le scale c’erano soldati accovacciati, ravvolti nelle cappe, che dormivano profondamente. Dinanzi alla piccola porta del cortile russava all’aria aperta il fedele Hamed Ben Kasen, disteso sopra una stuoia, colla sciabola al fianco. La luce velata delle lanterne faceva scintillare i musaici dei pavimenti e dei muri che parevano tempestati di perle, e dava a tutto l’edifizio l’apparenza misteriosa e magnifica d’una reggia. Il cielo era tutto stellato, e un vento leggero faceva stormire gli aranci del giardino. Si sentiva distintamente, nel silenzio della notte, il rumore del Fiume delle perle, il gorgoglio delle fontane, il tic-tac degli orologi, e di tratto in tratto le voci acute delle sentinelle, che dalle varie porte esterne del palazzo si davano l’all’erta cantando delle preghiere. Che belle ore passai, quella notte, col viso all’inferriata della finestra su cui batteva la luna, pensando alla grande città sconosciuta che mi si stendeva dintorno, a casa mia, ai miei amici, alle belle del Sultano, al mondo di là, a mille cose fantastiche e care!

La mattina uscimmo quattro o cinque insieme, accompagnati da un interprete, e scortati da dieci soldati di fanteria, uno dei quali aveva ancora i bottoni coll’effigie della Regina Vittoria, poichè molte di quelle divise rosse son prese usate a Gibilterra dai soldati dell’esercito inglese. Due ci si misero davanti, due di dietro, tre a sinistra e tre a destra; i primi armati di fucili, gli altri di bastoni e di corde a nodi. Faccie che, quando me ne ricordo, benedico il bastimento che m’ha riportato in Europa.

L’interprete ci domandò che cosa volevamo vedere.—Tutta Fez!—si rispose.

Ci dirigemmo prima verso il centro della città.

Qui dovrei proprio dire:— Chi mi darà la voce e le parole! Come esprimere lo stupore, la meraviglia, la pietà, la tristezza che provai dinanzi a quel grandioso e lugubre spettacolo? Il primo effetto è quello d’una immensa città decrepita, che si vada sfacendo lentamente. Case altissime, le quali paion formate di più case sovrapposte, che si scompongano; scalcinate, screpolate di cima in fondo, puntellate da ogni parte, senz’altre aperture che qualche buco in forma di feritoia o di croce; lunghi tratti di strada fiancheggiati da due muri alti e nudi come muri di fortezza; strade in salita e in discesa, ingombre di calcinacci, di pietre e di rottami d’edifizi, che svoltano di trenta in trenta passi; ad ogni tratto un lungo passaggio coperto, buio come un andito sotterraneo, dove bisogna camminare a tentoni; vicoli senza uscita, recessi, antri, meandri umidi e sinistri, sparsi di ossami, d’animali morti e di strame imputridito; tutto ciò rischiarato da una luce crepuscolare che mette malinconia. In alcuni punti il terreno è così rotto, il polverio così denso, il fetore così acuto, i moscerini così fitti, che bisogna fermarsi per riprendere lena. In una mezz’ora di cammino abbiamo fatto tanti giri che, disegnati, formerebbero uno dei più intricati arabeschi dell’Alhambra. Di tratto in tratto sentiamo il rumore d’una ruota da mulino, un mormorio d’acqua, lo strepito d’un telaio, una cantilena di voci nasali, che ci dicon che venga da una scuola di bambini; ma non si vede nulla da nessuna parte. Ci avviciniamo al centro della città; la gente spesseggia; gli uomini si fermano per lasciarci passare, guardandoci con aria attonita; le donne tornano indietro o si nascondono; i bambini gridano e scappano; i ragazzi brontolano e ci mostrano i pugni da lontano, tenendo d’occhio il bastone dei soldati. Vediamo fontane ornate di ricchi musaici, porte arabescate, qualche cortile ad archi, qualche resto di bella architettura araba annerito dal tempo. Ogni momento, a cagione dei passaggi coperti, ci troviamo al buio; poi intravvediamo un po’ di luce; poi di nuovo al buio. Entriamo in una delle strade principali, larga due metri, piena di gente. Tutti si voltano e ci si serrano intorno. I soldati gridano, urtano, picchiano per far largo, e infine si debbono contentare di farci un baluardo coi loro petti, tenendosi per mano gli uni cogli altri, per non esser divisi dalla folla. Abbiamo mille occhi addosso, ci sentiamo mancare il respiro, grondiamo di sudore, andiamo innanzi lentissimamente, fermandoci ogni tanto per lasciar passare un moro a cavallo, un asino carico di teste di montone sanguinolente, un cammello che porta una donna velata. A destra e a sinistra ci sono bazar affollati; cortili d’alberghi ingombri di mercanzie; porte di moschee, per le quali si vedono lunghissime fughe d’arcate bianche, e gente prostrata che prega. Per tutta la strada, fin dove arriva lo sguardo, non si vedono che cappucci, è tutto bianco, e si direbbe che tutti camminano in punta di piedi. L’aria è impregnata d’un odore acuto d’aloé, di spezie, d’incenso, di kif; pare di camminare in una immensa drogheria. Passano frotte di ragazzi colla testa tignosa e piena di cicatrici; vecchie deformi, senza un capello, col seno ignudo, che s’aprono il passo a forza imprecando furiosamente contro di noi; pazzi quasi nudi affatto, incoronati di fiori e di pennacchi, con un ramo d’albero in mano, che ridono e cantano, o ripetono continuamente la medesima parola, ballonzolando davanti ai soldati, che li cacciano via a spintoni. Svoltando in un’altra strada, incontriamo un santo, un vecchio smisuratamente pingue, nudo dalla testa ai piedi, che si trascina a fatica tenendo una mano dove i pittori metton la foglia di fico, e appoggiandosi coll’altra a una lancia fasciata di panno rosso. Passandoci accanto, ci guarda di sbieco e brontola non so che cosa. Un po’ più oltre, vediamo quattro soldati che trascinano un disgraziato tutto lacero e sanguinoso,—un ladro colto sul fatto,—e dietro uno sciame di ragazzi che gridano:—La mano! La mano! Tagliargli la mano!—In un’altra strada, incontriamo due uomini che portano una barella scoperta sulla quale è disteso un cadavere, stecchito come una mummia, ravvolto in un sacco di tela bianca stretto intorno al collo, alla vita e alle ginocchia. Io mi domando dove sono, se sogno o son desto, e se la città di Fez e la città di Parigi si trovano veramente sul medesimo astro! Entriamo nei bazar. Per tutto c’è folla. Le botteghe, come a Tangeri, sono tane aperte nel muro. I cambisti sono seduti in terra, con un mucchio di monete nere dinanzi. Attraversiamo, pigiati dalla folla, il bazar delle stoffe, quello delle pantofole, quello della terraglia, quello degli ornamenti di metallo, che formano tutti insieme un labirinto di stradicciuole coperte da un tetto sfracellato di canne e di rami d’albero. Passiamo per mercati di verzura affollati di donne che alzano le braccia per maledirci, e usciamo dalla parte centrale della città. Daccapo salite, discese, giri, rigiri, vicoli tetri, passaggi tenebrosi, moschee, fontane, porte arcate, rumor di mulini, cori di voce nasali, donne che si nascondono, un sudiciume che ammorba e un polverio che leva il fiato. Usciamo finalmente per una porta delle mura e facciamo un giro intorno alla città. La città si stende in forma d’un otto immenso fra due colline, sulla cima delle quali torreggiano le rovine di due antiche fortezze quadrate. Di là dalle colline c’è una corona di monti. Il Fiume delle perle divide la città in due, Fez nuova, sulla riva sinistra, Fez antica, sulla destra; e una cintura di vecchie mura merlate e di grosse torri, di un fosco color calcare, rotta in più punti, stringe tutt’intorno la parte antica e la nuova. Dalle alture si domina collo sguardo tutta la città: una miriade di case bianche coronate di terrazze, al di sopra delle quali s’alzano bei minareti lavorati a musaico, palme gigantesche, mucchi di verzura, torricine merlate, cupolette verdi. A primo aspetto, s’indovina la grandezza della metropoli antica, di cui la città d’oggi non è più che lo scheletro. In vicinanza delle porte e sopra le alture, per un grande spazio la campagna è sparsa di monumenti e di rovine: cube, case di santo, zauie, archi d’acquedotti, sepolcri, ruderi enormi, traccie di fondamenta che paiono i resti d’una città spianata dal cannone e divorata dalle fiamme. Tra la città e la più alta delle due colline che la fiancheggiano, è tutto un giardino, un bosco fitto e intricatissimo di gelsi, d’olivi, di palme, d’alberi fruttiferi e di pioppi smisurati, vestiti d’edera e di pampini, dove da ogni parte corrono rigagnoli, zampillano fontane e s’incrociano canali, fra spalliere altissime di verzura e di fiori. L’altura opposta è coronata di migliaia d’aloè alti due volte un uomo. Lungo le mura sono grandi scoscendimenti di terreno, fossi profondi, ricolmi di vegetazione; frammenti immani di bastioni e di torri franate; un disordine grandioso e severo di rovine e di verde, che rammenta i tratti più pittoreschi delle mura di Costantinopoli. Passiamo dinanzi alla porta del Ghisa, alla porta di Ferro, alla Porta del Padre delle Cuoia, alla porta nuova, alla porta bruciata, alla porta da aprirsi, alla porta del Leone, alla porta di Sidi Buxida, alla porta del Padre dell’Utilità, e rientriamo, per la porta della Nicchia del burro, nella nuova Fez. Qui sono grandi giardini, vasti spazi aperti, larghe piazze circondate di mura merlate, di là dalle quali si vedono altre piazze e altre mura, e porte arcate e torri e ponti, e bellissimi prospetti lontani di colline e di monti. Alcune porte sono altissime e hanno i battenti rivestiti di lastre di ferro, tempestate di enormi chiodi. Avvicinandoci al Fiume delle perle, troviamo un cavallo fradicio steso in mezzo alla strada. Lungo il muro v’è un centinaio d’arabi lavandai, che saltellano sopra la biancheria ammucchiata sulla sponda. Incontriamo pattuglie di soldati, personaggi di corte a cavallo, piccole carovane di cammelli, frotte di donne della campagna, coi bimbi sospesi alla schiena, che si coprono il viso passandoci accanto. E finalmente vediamo dei visi che ci sorridono. Entriamo nel Mellà, il quartiere degli Ebrei. È una vera entrata trionfale. S’affacciano alle terrazze e alle porte, scendono nella strada, si chiamano l’un l’altro, accorrono da tutti i vicoli. Gli uomini capelluti e ravvolti nel loro lungo vestito, col capo coperto d’un fazzoletto annodato sotto il mento, come le donne, s’inchinano con un sorriso cerimonioso. Le donne, bianchissime, rotondette, vestite di panni verdi e rossi gallonati e ricamati d’oro, ci augurano buenos dias e ci dicono mille cose gentili coi loro smaglianti occhi neri. Alcuni bimbi ci vengono a baciare le mani. Per sottrarci a quell’ovazione e al sudiciume delle strade, prendiamo una via traversa e riusciamo in un campo tutto coperto di grandi sepolcri di muratura, della forma di parallelepipedi, bianchi come la neve, che ci dicono essere il cimitero israelitico. Di qui torniamo in città, e dopo un altro miglio di cammino per strade tortuose e immonde, bruciati dal sole, saettati da mille sguardi, maledetti da mille bocche, rientriamo finalmente, colla testa in tumulto e le ossa rotte, nel palazzo dell’Ambasciatore.

O Fez!—dice uno storico arabo—tutte le beltà della terra sono riunite in te! E soggiunge che Fez è stata sempre la sede della saggezza, della scienza, della pace, della religione; la madre e la regina di tutte le città del Magreb; che i suoi abitanti hanno l’ingegno più fino e più profondo degli altri abitanti del Marocco; che tutto quello che è in essa e intorno ad essa è benedetto da Dio; persino l’acqua del Fiume delle perle, la quale guarisce dal mal della pietra, immorbidisce la pelle, profuma i panni, distrugge gl’insetti, rende più dolci (se è bevuta a digiuno) i piaceri dei sensi e contiene pietre preziose d’inestimabile valore. E non meno poeticamente è raccontata dagli scrittori arabi la storia della sua fondazione. Quando gli Abassidi, sul finire dell’ottavo secolo, si divisero in due fazioni, un principe della fazione vinta, Edris-ebn-Abd-Allà, si rifugiò nel Magreb, poco lontano dal luogo dove sorse poi la città di Fez; e qui visse nella solitudine, pregando e meditando, finchè per la sua origine illustre e per la sua santa vita, avendo acquistato gran fama in mezzo ai Berberi della contrada, questi lo elessero loro capo. A poco a poco, colle armi e coll’alta autorità di discendente d’Alì e di Fatima, egli estese la sua sovranità sopra una gran parte del paese, convertendo forzatamente all’islamismo idolatri, cristiani ed ebrei; e pervenne a tal grado di potenza, che il Califfo d’Oriente Arun-er-Rescid, ingelosito, lo fece avvelenare da un finto medico, per distruggere con lui il suo impero nascente. Ma i Berberi diedero solenne sepoltura ad Edris e riconobbero per Califfo un suo figliuolo postumo Edris-ebn-Edris, il quale salì sul trono a dodici anni, consolidò ed accrebbe l’opera del padre, e si può dir che sia stato il vero fondatore dell’Impero del Marocco, il quale rimase fino alla fine del decimo secolo nelle mani della sua dinastia. Fu questo medesimo Edris che gettò le prime fondamenta di Fez il tre febbraio dell’anno 808, «in un vallone posto fra due alte montagne coperte di ricchi boschi e irrigate da mille ruscelli, sulla riva destra del Fiume delle perle.» La tradizione spiega in vario modo l’origine di quel nome. Scavando per le fondamenta si sarebbe trovata nella terra una grande scure (che si chiama in arabo Fez) del peso di sessanta libbre, e questa avrebbe dato il nome alla città. Lo stesso Edris, dice un’altra leggenda, lavorava alle fondamenta in mezzo ai suoi operai, i quali, in segno di gratitudine, gli offrirono una scure d’oro e d’argento, ed egli volle perpetuare nel nome della nuova città la memoria di quell’omaggio. Secondo un altro racconto, il segretario d’Edris avrebbe domandato un giorno al suo Signore qual nome egli intendesse di porre alla città.—Il nome, rispose il principe, della prima persona che incontreremo.—Passò un uomo, lo interrogarono, rispose che si chiamava Farès; ma essendo balbuziente, pronunziò invece di Farès, Fez, e il principe ritenne questo nome. Altri dice che si chiamava Zef una grande città posta sul Fiume delle perle, la quale esistette mille e ottocento anni e fu distrutta prima che l’Islam risplendesse sulla terra; ed Edris impose alla sua metropoli il nome rovesciato della città distrutta. Comunque sia, la città nuova s’accrebbe rapidamente, e già sul principio del decimo secolo rivaleggiava di splendore con Bagdad; racchiudeva fra le sue mura la moschea El-Caruin e quella d’Edris, ancora esistenti, una la più vasta e l’altra la più venerata dell’Affrica; ed era chiamata la Mecca dell’occidente. Verso la metà del undicesimo secolo Gregorio IX ci stabiliva un episcopato. Sotto la dinastia degli Almoadi, aveva trenta sobborghi, ottocento moschee, novantamila case, diecimila botteghe, ottantasei porte, vasti ospedali, bagni magnifici, una grande biblioteca ricca di preziosissimi manoscritti greci e latini; scuole di filosofia, di fisica, d’astronomia e di lingua, a cui accorrevano dotti e letterati d’ogni parte d’Europa e Levante; si chiamava l’Atene dell’Affrica, ed era ad un tempo la sede d’una fiera perpetua, dove affluivano i prodotti dei tre continenti; e il commercio europeo v’aveva i suoi bazar e i suoi alberghi, e vi prosperavano, tra mori, arabi, berberi, ebrei, neri, turchi, cristiani e rinnegati, cinquecentomila abitanti. Ed ora quanto mutata! Quasi tutti i giardini sono scomparsi, la più parte delle moschee rovinarono, della gran biblioteca non rimane che qualche volume tarlato, le scuole son morte, il commercio languisce, gli edifici si sfasciano, e la popolazione è ridotta a meno assai della quinta parte dell’antica. Fez non è più che una enorme carcassa di metropoli abbandonata in mezzo all’immenso cimitero del Marocco.

La nostra maggiore curiosità, dopo la prima passeggiata per Fez, era di visitare le due famose moschee El-Caruin e Mulei-Edris; ma essendo vietato ai cristiani di mettervi piede, ci dovemmo contentare del po’ che se ne vede dalle strade: le porte ornate di musaici, i cortili ad archi, le navate basse e lunghissime, divise da una foresta di colonne e rischiarate da una luce misteriosa. Non è però da credere che queste moschee siano oggi quali erano al tempo della loro gran fama, poichè già nel secolo decimoquinto, il celebre storico Abd-er-Rhaman ebn-Kaldun, descrivendo quella d’El-Caruin (che Dio la nobiliti di più in più, com’egli dice), accenna a parecchi ornamenti che non esistevano più ai suoi tempi. Le prime fondamenta di questa immensa moschea furono gettate il primo sabato di Ramadan; l’anno 859 di Gesù Cristo, a spese d’una pia donna del Kairuan. Era da principio una piccola moschea di quattro navate; ma l’abbellirono e l’ampliarono a poco a poco governatori, emiri e sultani. Sulla cima del minareto, innalzato dall’Imam Ahmed ben Aby Beker, brillava una palla d’oro, tempestata di perle e di pietre preziose, nella quale era confitta la spada d’Edris-ebn-Edris, fondatore di Fez. Alle pareti interne erano appesi dei talismani che premunivano la moschea dai nidi dei topi, degli scorpioni e dei serpenti Il Mirab—la nicchia rivolta verso la Mecca—era così splendido, che gl’imam dovettero farlo imbiancare perchè non distraesse i fedeli dalla preghiera. V’era un pulpito d’ebano ornato d’avorio e di gemme. V’erano duecento settanta colonne che formavano sedici navate di ventun arco ciascuna, quindici grandi porte d’entrata per gli uomini e due piccole per le donne, e mille settecento lampade che nella ventisettesima notte di Ramadan consumavano tre quintali e mezzo d’olio. Tutti particolari che lo storico Kaldun reca con grandi esclamazioni di meraviglia e di gioia, soggiungendo che fra le navate, il cortile, le gallerie, i vestiboli e le soglie delle porte, misurato lo spazio palmo per palmo, la moschea potea contenere ventiduemila settecento persone, e che per pavimentare il solo cortile erano stati impiegati cinquantaduemila mattoni. «Gloria ad Allà, signore dei mondi, immensamente misericordioso e re del giorno del giudizio finale!».

Aspettando che il Sultano fissasse il giorno per il ricevimento solenne, si fecero varie passeggiate, in una delle quali ricevetti «un’impressione» affatto nuova per me. Ci avvicinavamo alla Porta bruciata, Beb-el-Maroc, per rientrare in città, quando il vice-console uscì in una esclamazione che mi fece rabbrividire:—Due teste!—Alzai gli occhi al muro, intravvidi due lunghe striscie di sangue rappreso e non ebbi cuore di guardar più su. Erano due teste, mi dissero, appese per i capelli al di sopra della porta; una che pareva d’un giovanetto d’una quindicina d’anni, l’altra d’un uomo tra i venticinque e i trenta: tutti e due mori. Si seppe in seguito ch’erano state appese nella notte, e si diceva che fossero due teste di ribelli delle terre confinanti coll’Algeria, portate a Fez il giorno avanti. Ma il sangue colato faceva sospettare che fossero state recise nella città medesima e forse davanti a quella medesima porta. Comunque fosse, ci fu noto in quella occasione che le teste dei ribelli sono sempre, dalla terra ribellata, portate alla sede della corte e presentate al Sultano; dopo di che i soldati imperiali acciuffano il primo ebreo che incontrano, gli fanno cavare dalle teste il cervello e riempire il vuoto di stoppa e di sale, e le appendono a una porta della città. Dopo che son state là qualche giorno—a Fez, per esempio—un corriere se le mette in un canestro e le porta a Mechinez, dove sono esposte daccapo, e poi ritolte per essere portate a Rabatt, e via via, di città in città fin che sian putrefatte. Non sembra però che questo sia accaduto delle due teste di Beb-el-Maroc, poichè il giorno dopo, non vedendole più, domandammo a un servo arabo che cosa ne avessero fatto, ed egli rispose con un gesto:—Sepolte.—Ma s’affrettò a soggiungere, come per consolarci:—Ce n’è già per strada molte altre.

Due giorni prima del ricevimento solenne, fummo invitati a colezione da Sid-Mussa.

Sid-Mussa non ha il titolo nè di gran vizir, nè di ministro, nè di segretario; si chiama semplicemente Sid-Mussa; è nato schiavo; è un mancipio del Sultano, che domani può spogliarlo d’ogni suo avere, cacciarlo in fondo a una prigione o fare appendere il suo capo ai merli di Fez, senza renderne conto a nessuno; ma è nello stesso tempo il ministro dei ministri, l’anima del governo, la mente che tutto abbraccia e tutto move dall’Oceano alla Muluia e dal Mediterraneo al deserto, e dopo il Sultano il personaggio più famoso dell’Impero. Si può dunque immaginare la curiosità che ci fremeva dentro, la mattina che, circondati, come al solito, di gente armata, e accompagnati dal Caid e dagl’interpreti, ci recammo, con un lungo codazzo di popolo, a casa sua, che si trova nella nuova Fez.

Fummo ricevuti alla porta da uno stuolo di servi arabi e neri, ed entrammo in un giardino chiuso da alti muri, in fondo al quale, sotto un piccolo portico, aspettava Sid-Mussa, circondato dei suoi ufficiali, tutti vestiti di bianco.

Il famoso ministro porse tutt’e due le mani, con un atto vivace, all’Ambasciatore, chinò la testa sorridendo verso di noi e ci fece entrare in una piccola sala a terreno, dove sedemmo.

Che strana figura! Per un pezzo rimanemmo tutti attoniti a guardarlo. È un uomo sulla sessantina, mulatto, quasi nero, di mezzana statura; ha una testa grossissima e oblunga, due occhi lampeggianti che lanciano uno sguardo astutissimo, un gran naso forcuto, una gran bocca, due file di denti enormi, un mento smisurato; e malgrado questi tratti ferini, un sorriso affabile, un’espressione benigna e modi e inflessioni di voce quanto si può dire cortesi. Ma con nessuna gente quanto coi mori, dice chi li conosce, è facile ingannarsi giudicando l’animo dall’aspetto. Non nell’animo però, nella testa di quell’uomo io avrei voluto vedere! Non ci avrei trovato per certo una grande dottrina. Forse non più che qualche pagina del Corano, qualche periodo della storia dell’Impero, qualche vaga nozione geografica dei primi stati d’Europa, qualche idea di astronomia, qualche regola d’aritmetica. Ma in compenso, che profonda conoscenza del cuore umano, che prontezza di percezione, che sottigliezza di scaltrimenti, che trama intricata di faccende lontanissime da ogni nostra consuetudine, quanti curiosi segreti di reggia, e chi sa che guazzabuglio di rimembranze d’amori, di supplizi, d’intrighi, di vicende strane e tremende! E c’era fors’anche, sotto quel bianco turbante, un concetto della civiltà europea e dello stato del Marocco, non molto diverso dal nostro; tanto che, se avesse potuto esprimere il suo pensiero, avrebbe esclamato:—Eh! cari signori, ne sono più persuaso di voi!—ma era un pensiero imprigionato nel turbante. La stanza, per stanza moresca, era sontuosamente mobiliata, poichè conteneva un piccolo sofà, un tavolino, uno specchio e parecchie seggiole. Le pareti erano decorate di tappeti rossi e verdi, il soffitto dipinto, il pavimento a musaico. Nulla però di straordinario per la casa d’un ministro ricchissimo come Sid-Mussa.

Scambiati i complimenti d’uso, fummo condotti nella sala della mensa, ch’era da un altro lato del giardino.

Sid-Mussa, giusta il suo costume, non venne.

La sala della mensa era, come l’altra, decorata di tappeti rossi e verdi. In un angolo si vedeva un armadio, con su due mazzi di vecchi fiori finti, coperti da una campanella di vetro; e accanto all’armadio uno di quei piccoli specchi colla cornice dipinta a fiori, che si trovano da noi in tutte le locande di villaggio. Sulla tavola, una ventina di piatti pieni di grossi confetti bianchi, della forma di palle e di carrube; le posate e le stoviglie bellissime; molte bottiglie d’acqua; non una goccia di vino. Sedemmo e fummo subito serviti. Ventotto piatti senza contare i dolci! Ventotto enormi piatti, ognuno dei quali sarebbe bastato a sfamare venti persone: di tutte le forme, di tutti gli odori, di tutti i sapori; pezzi smisurati di montone allo spiedo, polli impomatati, selvaggina alla ceretta, pesci al cosmetico, fegatini alla stearina, torte all’unto di sego, legumi in salsa di sugna, ova in conserva di manteca, insalate trite peste impastate e combinate a musaico; dolci di cui ogni boccone basterebbe a purgare un uomo d’un delitto di sangue; e con tutte queste ghiottonerie, grandi bicchieri d’acqua fresca, nei quali spremevamo dei limoni che c’eravamo portati in tasca; e poi una tazza di tè giulebbato; e infine uno stuolo di servi che irruppe nella sala, e innondò d’acqua di rosa noi, la tavola e le pareti: tale fu la colezione di Sid-Mussa.

Quando ci alzammo da tavola, venne un ufficiale ad annunciare all’Ambasciatore che Sid-Mussa stava dicendo le sue preghiere, e che appena finito, avrebbe con grandissimo piacere conferito con lui. Subito dopo comparve un vecchio tutto tremante, sorretto da due mori, il quale afferrò le mani all’Ambasciatore e gliele strinse furiosamente dicendo con grande concitazione:—Benvenuto! Benvenuto! Benvenuto l’Ambasciatore del Re d’Italia! Benvenuto fra noi! Bel giorno per noi!—Era il gran sceriffo Bacali, uno dei più potenti personaggi della corte e dei più ricchi proprietari dell’Impero, confidente del Sultano, possessore d’un grande arém, malato da due anni di dispepsia; il quale rallegra, si dice, gli ozî del suo Signore con motti arguti e atteggiamenti comici; facoltà che non traspare affatto dal suo viso truce e dai suoi modi impetuosi. Dopo di lui comparirono i due figliuoli di Sid-Mussa; uno di cui ho dimenticato affatto la fisonomia, che disparve dopo i primi saluti; l’altro, un bellissimo giovane di venticinque anni, segretario intimo del Sultano: un viso di donna con due grand’occhi castagni d’una dolcezza indescrivibile; allegro, disinvolto, irrequieto, che stropicciava continuamente, con tutt’e due le mani, le falde del suo ampio caffettano aranciato.

Usciti il Bacali e l’Ambasciatore, rimanemmo noi con alcuni ufficiali seduti sul pavimento, e il segretario del Sultano, seduto, in onor nostro, sopra una seggiola.

Il simpatico giovane intavolò subito la conversazione per mezzo di Mohammed Ducali.

Fissò gli occhi in viso all’Ussi e domandò sottovoce chi era.

—È il signor Ussi,—rispose il Ducali,—gran maestro di pittura.

—Dipinge colla macchina?—domandò il giovane.

Voleva dire la macchina fotografica.

—No signore;—rispose l’interprete—dipinge a mano.

Parve che dicesse tra sè:—che peccato!—e rimase un momento sopra pensiero. Poi disse:—Domandavo.... perchè colla macchina si lavora più preciso.

Il Comandante pregò il Ducali di domandargli in che punto di Fez si trovasse la fontana chiamata di Ghalù, dal nome d’un ladro che Edriss, il fondatore della città, fece inchiodare in un albero vicino. Il giovane segretario si mostrò altamente meravigliato che il Comandante sapesse questo particolare storico, e gli fece domandare in che maniera lo aveva saputo.

—L’ho letto nella storia del Kaldun,—rispose il Comandante.

—Nella storia del Kaldun!—esclamò il giovane.—Avete dunque letto la storia del Kaldun! Vuol dire dunque che sapete l’arabo! E dove avete trovato quest’istoria?

Il Comandante rispose che quella storia si trovava in tutte le nostre città, ch’era un libro conosciutissimo in Europa, che l’avevan tradotto in inglese, in francese e in tedesco.

—Ma davvero!—esclamò l’ingenuo giovane.—Voi tutti l’avete letta! E sapete queste cose! Io non me lo sarei mai immaginato!

E non finiva di farne le meraviglie.

A poco a poco la conversazione s’infervorò, ci presero parte anche gli ufficiali, e riuscimmo a sapere varie cose singolari. L’Ambasciatore inglese aveva regalato al Sultano due macchine telegrafiche, e fatto insegnare a parecchie persone della corte la maniera di servirsene; e già se ne servivano, non pubblicamente, perchè nella città, alla vista di quei fili misteriosi, sarebbe nato un sottosopra; ma nell’interno del palazzo imperiale; e non è a dire se il grande ritrovato avesse stupito tutti. Non però fino al punto che noi potremmo supporre, perchè da quello che ne avevano inteso dir prima, se n’erano fatto tutti, compreso il Sultano, un concetto assai più meraviglioso; credevano, cioè, che la trasmissione del pensiero non si facesse già per mezzo della trasmissione successiva delle lettere e delle parole; ma tutta d’un colpo, istantaneamente, in modo che bastasse un tocco per esprimere e trasmettere issofatto qualsivoglia discorso. Riconoscevano, ciò non ostante, che la macchina era ingegnosa e che poteva riuscir utile, particolarmente nei nostri paesi, dove essendoci molta gente e molto traffico, doveva esserci bisogno di far ogni cosa alla spiccia. Il che significava in altre parole: che cosa faremmo noi del telegrafo? E a che termini sarebbe ridotta la politica del nostro Governo, se alle domande dei rappresentanti degli Stati d’Europa si dovesse risponder subito e in poche parole? e rinunziare a quella gran scusa dei ritardi e a quell’eterno pretesto delle lettere smarrite, che sono i corrieri, grazie a cui si può strascicare per due mesi una quistione che potrebbe esser risolta in due giorni? Si seppe, oltre a questo, o piuttosto si capì, che il Sultano è un uomo d’indole mite e di cuore gentile, che vive austeramente, che ama una donna sola, che mangia senza forchetta, come tutti i suoi sudditi, e seduto in terra, ma coi piatti posti sopra una piccola tavola dorata, alta un palmo; che prima d’esser Sultano, correva il lab el barod coi soldati, ed era uno dei più destri; che ama il lavoro e fa molte volte egli stesso quello che dovrebbero fare i suoi servi, fino a incassare le proprie robe nelle occasioni di partenza; e che infine il popolo lo ama, ma anche lo teme, perchè sa di certo che quando scoppiasse una grande rivolta, egli sarebbe il primo a saltare a cavallo e a slanciarsi colla spada nel pugno contro i ribelli. Ma con che garbo dicevan queste cose! Che bei sorrisi e che bei movimenti! Che peccato non intendere il loro linguaggio tutto figure e colori, e non poter leggere e frugare a nostro bell’agio dentro quell’ingenua ignoranza!

Dopo due ore ricomparvero l’Ambasciatore, Sid-Mussa, il gran sceriffo e tutti gli ufficiali; ci fu uno scambio interminabile di strette di mano, di sorrisi, d’inchini, di saluti, di cerimonie, che pareva si ballasse una contraddanza; e finalmente, passando fra due lunghe ali di servi attoniti, s’uscì. Uscendo, vedemmo all’inferriata d’una grande finestra a terreno una decina di visi di donne, nere, bianche e mulatte, indiademate e scarmigliate; le quali, appena apparimmo, scomparvero facendo un gran rumore di pantofole e di sottane sbattute.

Fin dal primo giorno del viaggio, il Sultano Mulei-el-Hassen era, come ognuno può immaginare, l’oggetto principale della nostra curiosità. Fu dunque una festa per tutti la sera che l’Ambasciatore ci annunziò il ricevimento solenne per la mattina seguente. In vita mia, non ho mai levato le pieghe alla giubba, nè fatto scattare la molla del gibus, con più profonda compiacenza che in quella occasione.

Quella gran curiosità derivava, in parte, dalla storia della sua dinastia. Si desiderava di vedere un volto di quella terribile famiglia dei Sceriffi Fileli, a cui gli storici danno il primato del fanatismo, della ferocia e dei delitti su tutte le dinastie che regnarono nel Marocco. Sul principio del secolo decimosettimo, alcuni abitanti del Tafilet, provincia dell’Impero che confina col deserto, dalla quale gli sceriffi di quella dinastia prendono il nome di Fileli, condussero dalla Mecca nel loro paese uno sceriffo chiamato Alì, nativo di Iambo, e discendente di Maometto per Hassen, secondo figliuolo d’Alì e di Fatima. Il clima della provincia di Tafilet, poco dopo il suo arrivo, riprese una regolarità che da qualche tempo aveva perduta; i datteri crebbero in grande abbondanza; il merito ne fu attribuito ad Alì; Alì venne eletto re, sotto il nome di Mulei-Sceriffo; i suoi discendenti allargarono, a poco a poco, colle armi, il dominio dell’avo; s’impadronirono di Marocco e di Fez, scacciarono la dinastia dei sceriffi Saadini, e regnarono, fino ai nostri giorni, su tutto il paese compreso fra la Muluia, il deserto ed il mare. Sidi-Mohammed, figlio di Mulei-Sceriffo, regnò con sapiente clemenza; ma dopo di lui il trono dei Sceriffi s’affondò nel sangue. El Rescid governa col terrore, ruba l’ufficio al carnefice, lacera di propria mano le mammelle alle donne perchè rivelino il nascondiglio dei tesori dei mariti. Mulei Ismaele, il principe lussurioso, l’amante di ottomila donne e padre di mille duecento figli, il fondatore del corpo famoso delle guardie nere, il galante sultano che chiede in isposa a Luigi XIV la figliuola della duchessa La Valliére, fa appendere diecimila teste ai merli di Marocco e di Fez. Mulei Ahmed el Dehebi, avaro e crapulone, ruba i gioielli alle donne di suo padre, s’istupidisce col vino, fa strappare i denti alle sue belle e recidere il capo a uno schiavo che ha troppo premuto il tabacco nella sua pipa. Mulei Abd-Allà, vinto dai Berberi, fa sgozzare, per sfogar la sua rabbia, gli abitanti di Mechinez, aiuta il carnefice a decapitare gli ufficiali del suo valoroso esercito sconfitto, e inventa l’orribile supplizio di cucir l’uomo vivo dentro un toro sventrato perchè si putrefacciano insieme. Appare migliore della propria razza Sidi-Mohammed, suo figliolo, il quale si circonda di rinnegati cristiani, cerca la pace e ravvicina il Marocco all’Europa. Poi, daccapo, Mulei Yezid, violento, crudele e fanatico, che per pagare i suoi soldati, gli sguinzaglia al saccheggio dei quartieri degli Ebrei in tutte le città dell’Impero; Mulei Hesciam, che dopo un regno di pochi giorni, va a morire in un santuario; Mulei Soliman, che distrugge la pirateria e ostenta amicizia all’Europa, ma con arte astuta segrega il Marocco da tutti gli Stati civili, e si fa portare ai piedi del trono la testa degli ebrei rinnegati a cui è sfuggita una parola di rammarico sulla loro abjura forzata; Abd-er-Rhaman, il vinto d’Isly, che fa calcinar vivi i congiurati nelle mura di Fez; e infine Sidi-Mohammed, il vinto di Tetuan, che per inculcare nei suoi popoli il rispetto e la devozione, fa portare per i duar e per le città le teste dei suoi nemici confitte nei fucili dei suoi soldati. Nè son queste le maggiori calamità che affliggono l’Impero sotto la sciagurata dinastia dei Fileli. Sono guerre colla Spagna, il Portogallo, l’Olanda, l’Inghilterra, la Francia, i Turchi d’Algeri; insurrezioni feroci di berberi, spedizioni disastrose nel Sudan, rivolte di tribù fanatiche, ammutinamenti delle guardie nere, persecuzioni di cristiani; guerre accanite di successione tra padre e figlio, tra zii e nipoti, tra fratelli e fratelli; l’Impero a volta a volta smembrato e ricomposto; Sultani cinque volte scoronati e cinque volte rimessi in trono; vendette snaturate tra principi consanguinei, gelosie di donne e delitti orrendi, e miseria immensa, e decadenza precipitosa alla barbarie antica; e in ogni tempo questo principio trionfante: che non potendo assidersi la civiltà europea se non sulle rovine di tutto l’edifizio politico e religioso del Profeta, l’ignoranza è la miglior salvaguardia dell’Impero, e la barbarie un elemento necessario di vita. Con quest’aureola storica ci si presentava alla fantasia il giovine Sultano a cui stavamo per comparire dinanzi.

Alle otto della mattina, l’Ambasciatore, il vice-console, il signor Morteo, il Comandante e il Capitano, vestiti delle loro splendide uniformi, erano già radunati nel cortile, in mezzo a una folla di soldati, fra i quali il caid, tutti in pompa magna. Noi soli, i due pittori, il medico ed io, tutti e quattro in giubba, gibus e cravatta bianca, non osavamo uscire dalle stanze, per timore che il nostro bizzarro vestire, forse non mai visto a Fez prima d’allora, facesse ridere il pubblico.—Vada prima lei—no, tocca a lei—no, tocca a loro—; per un quarto d’ora non si fece altro discorso, l’uno cercando di spinger l’altro fuori della porta. Finalmente, dopo una savia osservazione del dottore, che disse:—L’unione fa la forza—; uscimmo tutti e quattro insieme, stretti in un gruppo, col capo basso e il cappello sugli occhi. La nostra comparsa nel cortile destò una viva meraviglia fra i soldati, i custodi e i servi del palazzo, alcuni dei quali si nascosero dietro i pilastri per ridere al sicuro. Ma fu ben altra cosa per la città. Montammo tutti a cavallo e ci dirigemmo verso la porta della Nicchia del burro, preceduti da un drappello di fantaccini dalla divisa rossa, seguiti da tutti i soldati della legazione, fiancheggiati da ufficiali, interpreti, cerimonieri e cavalieri della scorta di Ben-Kasen-Buhammei. Era un bellissimo spettacolo quella mescolanza di cappelli cilindrici e di turbanti bianchi, di uniformi diplomatiche e di caffettani rosei, di spadine di gala e di sciaboloni barbareschi, di guanti canarini e di mani nere, di calzoni dorati e di gambe nude; e lascio considerare che figura ci facessimo noi quattro, vestiti da ballo, a cavallo a una mula, seduti sopra una sella rossa alta come un trono, grondanti di sudore e coperti di polvere appena usciti di casa. Le strade erano piene di gente. Al nostro apparire tutti si fermavano e facevano ala. Guardavano il cappello piumato dell’Ambasciatore, i cordoni d’oro del capitano, le medaglie del Comandante, e non davano alcun segno di meraviglia. Ma quando passavamo noi quattro, ch’eravamo gli ultimi, era prima uno stralunamento d’occhi e poi un esilararsi di volti che metteva un vero dispetto. Accanto a noi cavalcava Mohammed-Ducali: lo pregai di tradurmi qualcuna delle osservazioni che gli riuscisse di cogliere a volo. Un moro, in mezzo a un crocchio, disse non so cosa, a cui mi parve che gli altri assentissero. Il Ducali diede in uno scroscio di risa e mi notificò che quella brava gente ci credeva esecutori di giustizia. Alcuni, forse perchè il nero è un colore odiato dai mori, ci guardavano con un’aria quasi di disprezzo e di sdegno. Altri scrollavano il capo in segno di commiserazione.—Signori,—disse allora il medico,—se non sappiamo farci rispettare, è colpa nostra; abbiamo le armi; serviamocene; io darò per il primo l’esempio.—Così dicendo, si tolse il gibus, lo schiacciò e passando dinanzi a un gruppo di mori che sorridevano, lo fece scattare improvvisamente. La meraviglia e il turbamento di quella gente, alla vista di quello scatto misterioso, non si può esprimere. Tre o quattro diedero un passo indietro e slanciarono sul diabolico cappello uno sguardo di profonda diffidenza. I pittori ed io, incoraggiati dall’esempio, lo imitammo, e così a furia di pugni nel gibus, arrivammo, rispettati e temuti, alle mura delle città.

Fuori della porta della Nicchia del Burro erano schierati sul passaggio dell’ambasciata duemila soldati di fanteria, in gran parte ragazzi, che presentarono le armi, a modo loro, gli uni dopo gli altri, e passati noi, si misero la divisa sulla testa per ripararsi dal sole.

Passammo un piccolo ponte che accavalcia il Fiume delle perle e ci trovammo nel luogo destinato al ricevimento, dove si discese tutti da cavallo.

Era una vastissima piazza rettangolare, chiusa su tre lati da alte muraglie merlate e da grosse torri; sul quarto lato, dal Fiume delle perle. Nell’angolo più lontano da noi s’apriva una stradicciuola, fiancheggiata da due muri bianchi, che conduceva ai giardini e alle case del Sultano, completamente nascoste dai bastioni.

La piazza, quando v’arrivammo, presentava un aspetto ammirabile.

Nel mezzo v’era una folla di generali, di cerimonieri, di magistrati, di nobili, d’ufficiali, di schiavi, arabi e neri, tutti vestiti di bianco, divisi in due grandi schiere, l’una di fronte all’altra, alla distanza d’una trentina di passi.

Dietro una di queste schiere, dalla parte del fiume, erano disposti in fila tutti i cavalli del Sultano, grandi e bellissimi, bardati di velluto ricamato d’oro; ciascuno tenuto da un palafreniere armato. A un’estremità della schiera dei cavalli, c’era una piccola carrozza dorata, che la regina d’Inghilterra regalò all’Imperatore; il quale la fa mettere in mostra in tutti i ricevimenti.

Dietro i cavalli, e dietro l’altra schiera dei personaggi della corte, si stendevano due file lunghissime di guardie dell’Imperatore, vestite di bianco.

Tutt’intorno alla piazza, ai piedi delle mura e lungo la riva del fiume, tremila soldati di fanteria che apparivano appena come quattro lunghissime strisce d’un color rosso fiammante; e sull’altra riva del fiume, una folla immensa di popolo, tutta bianca.

Nel mezzo della piazza eran schierate le casse contenenti i regali del Re d’Italia: un Ritratto del re stesso, specchi, quadri di musaico, candelabri, seggioloni.

Noi ci andammo a mettere vicino alle due schiere dei personaggi, in modo da formar con esse un quadrato aperto verso il lato della piazza donde doveva venire il Sultano. Dietro di noi v’eran le casse; dietro le casse, tutti i soldati dell’ambasciata schierati. Da un lato Mohammed Ducali, il comandante della scorta, Salomone Aflalo, e i marinai in uniforme.

Un cerimoniere di faccia arcigna, armato d’un nodoso bastone, ci schierò su due righe; il Comandante, il capitano e il viceconsole, davanti; il medico, i pittori ed io, dietro. L’ambasciatore stette cinque o sei passi davanti a noi, col signor Morteo, che doveva fare da interprete.

Tutti e sette, senz’accorgercene, ci avanzammo a poco a poco d’alcuni passi.

Il cerimoniere ci fece tornare indietro e c’indicò col bastone il punto preciso dove dovevamo restare.

Quella esigenza ci fece specie, tanto più che ci parve di veder brillare negli occhi del cerimoniere un risolino astuto. Nello stesso punto sentimmo un vivace bisbiglio che veniva dall’alto. Guardammo in su, e vedemmo nei bastioni, a una certa altezza, quattro o cinque finestre, chiuse da persiane verdi, dietro le quali si muovevano confusamente molte teste. Erano teste di donna; il bisbiglio veniva di là; le finestre appartenevano a una specie di loggia, che per un lungo corridoio comunicava coll’arem del Sultano; e il cerimoniere ci faceva stare in quel certo punto per ordine del Sultano stesso, al quale le donne avevano chiesto di poter vedere i cristiani. Che peccato non aver sentito quello che dicevano dei nostri cappelli a staio e dei nostri vestiti a coda di rondine!

Il sole era ardentissimo, nella vasta piazza regnava un profondo silenzio, tutti gli occhi erano rivolti dalla stessa parte. Credo che in quei momenti ai miei compagni, come a me, batteva il cuore più forte.

Aspettammo circa dieci minuti.

All’improvviso, corse un fremito per tutto l’esercito, s’intese un suono di banda, le trombe squillarono, i personaggi della corte si curvarono profondamente, le guardie, i palafrenieri e i soldati misero un ginocchio in terra, e da tutte le bocche uscì un grido prolungato e tonante:—Dio protegga il nostro Signore!

Il Sultano s’avanzava verso di noi.

Era a cavallo, seguito da una turba di cortigiani a piedi, uno dei quali sorreggeva sopra il suo capo un enorme parasole.

Arrivato a pochi passi dall’Ambasciatore, si fermò; una parte del suo seguito chiuse il quadrato; gli altri gli rimasero intorno.

Il cerimoniere del bastone gridò ad alta voce:—L’Ambasciatore d’Italia!

L’Ambasciatore, accompagnato dall’interprete, col capo scoperto, s’avvicinò al Sultano.

Questo gli disse in arabo:—Benvenuto! Benvenuto! Benvenuto!—Poi gli domandò se aveva fatto buon viaggio, e s’era stato soddisfatto del servizio della scorta e del ricevimento dei Governatori.

Ma di tutto questo noi non udimmo nulla. Eravamo affascinati. Quel Sultano, che l’immaginazione ci aveva rappresentato sotto l’aspetto d’un despota selvaggio e crudele, era il più bello e più simpatico giovane che possa brillare alla fantasia d’un’odalisca. È alto di statura e snello, ha gli occhi grandi e soavi, un bel naso aquilino, il viso bruno d’un ovale perfetto, contornato d’una corta barba nera; una fisonomia nobilissima e piena di dolce mestizia. Una cappa bianca come la neve gli scendeva dalla testa ai piedi; il turbante era coperto da un alto cappuccio; i piedi nudi e infilati in due babbucce gialle; il cavallo grande e bianchissimo, colla bardatura verde e le staffe d’oro. Tutta quella bianchezza e quell’ampia e lunga cappa gli davano un aspetto sacerdotale, una grazia di regina, una maestà semplice ed amabile, che corrispondeva ammirabilmente all’espressione gentilissima del suo viso. Il parasole, insegna del comando, che un cortigiano teneva un po’ inclinato dietro di lui,—un gran parasole rotondo, alto quasi tre metri, rivestito, sopra, di seta color amaranto, sotto di seta azzurra, ricamata d’oro, con una grossa palla dorata sulla cima,—aggiungeva gentilezza e dignità alla sua figura. L’atteggiamento grazioso, lo sguardo così tra pensieroso e ridente, la sua voce sommessa e monotona come il mormorìo d’un ruscello, tutta insomma la sua persona e la sua maniera aveva un non so che d’ingenuo e di femmineo, e nello stesso tempo di solenne, che ispirava una simpatia irresistibile ed un rispetto profondo. Non mostrava d’aver più di trenta due o trentatrè anni.

—Sono lieto,—disse,—che il Re d’Italia abbia mandato un Ambasciatore per stringere maggiormente i legami della nostra antica amicizia. La casa di Savoia non fece mai la guerra al Marocco. Io amo la casa di Savoia e ho seguito con gioia e con ammirazione i grandi avvenimenti che si compirono sotto i suoi aspicii in Italia. Ai tempi di Roma antica, l’Italia era il paese più potente del mondo. Poi si divise in sette stati. I miei antenati furono amici di tutti e sette questi stati. Ed io, ora che tutti e sette si sono riuniti in un solo, ho concentrata in quest’uno tutta l’amicizia che i miei antenati nutrivano per gli altri.

Disse queste parole lentamente, a pause, come se le avesse studiate prima, e facesse di tratto in tratto uno sforzo per rammentarsele.

Fra le altre cose, l’Ambasciatore gli disse che il Re d’Italia gli aveva mandato il suo ritratto.

—È un dono prezioso,—rispose;—e io lo farò porre nella sala dove dormo, in faccia a uno specchio, che è il primo oggetto su cui cadono i miei occhi allo svegliarmi; e così ogni mattina, appena desto, vedrò riflessa l’immagine del Re d’Italia, e penserò a lui.

E poco dopo soggiunse:

—Sono contento, e desidero che restiate lungo tempo in Fez e spero che ne serberete una buona memoria quando sarete tornati nella vostra bella patria.

Dicendo queste cose, teneva quasi sempre gli occhi fissi sulla testa del cavallo. A momenti, pareva che volesse sorridere; ma subito corrugava le soppracciglia come per richiamare sul suo volto la gravità imperiale. Era curioso,—si capiva,—di vedere che razza di gente fossimo noi sette schierati a dieci passi dal suo cavallo; ma non volendo guardarci direttamente, girava gli occhi a poco a poco, e poi con uno sguardo rapidissimo ci abbracciava tutti e sette insieme, e in quel momento nel suo occhio brillava una certa espressione indefinibile d’ilarità infantile, che faceva un graziosissimo contrasto colla maestà di tutta la sua persona. Il folto corteo che gli stava dietro e ai lati, pareva pietrificato. Tutti gli occhi eran fissi in lui, non si sentiva un respiro, non si vedevano che volti immobili in un atteggiamento di venerazione profonda. Due mori, con mano tremante, gli cacciavano le mosche dai piedi; un altro, di tratto in tratto, gli passava la mano sul lembo della cappa come per purificarla dal contatto dell’aria; un quarto, in atto di sacro rispetto, accarezzava la groppa del cavallo; quello che reggeva il parasole, stava cogli occhi bassi, immobile come una statua, quasi fosse confuso e sgomento dalla solennità del suo ufficio. Tutto, intorno a lui, esprimeva la sua enorme potenza, l’immensa distanza che lo separava da tutti, una sottomissione sconfinata, una devozione fanatica, una svisceratezza d’amore pauroso e selvaggio, che sembrava domandare d’essere provato col sangue. Non pareva un monarca; ma un Dio.

L’Ambasciatore gli porse le sue credenziali e gli presentò il Comandante, il capitano e il vice-console, i quali gli s’avvicinarono l’un dopo l’altro e stettero qualche momento dinanzi a lui nell’atteggiamento del saluto.

Guardò con particolare attenzione le decorazioni del Comandante.

—Il medico,—disse poi l’Ambasciatore accennando noi quattro,—e tre scienziati.

I miei occhi incontrarono gli occhi del Dio, e tutti i periodi, già concepiti, di questa descrizione, mi si scompigliarono nella mente.

Il Sultano domandò con curiosità chi fosse il medico.

—Quello a destra,—disse l’interprete.

Lo guardò attentamente.

Poi, accompagnando le parole con un atto gentile della mano destra, disse:—La pace sia con voi! La pace sia con voi! La pace sia con voi!

E voltò il cavallo.

La banda suonò, le trombe squillarono, i cortigiani curvarono la testa, le guardie, i soldati e i servi misero un ginocchio in terra, e scoppiò un’altra volta da tutti i petti un grido lungo e sonoro:—Dio protegga il nostro Signore!

Scomparso il Sultano, si confusero le due schiere dei grandi personaggi, e vennero verso di noi Sid-Mussa, i suoi figliuoli, i suoi ufficiali, il ministro della guerra, il ministro delle finanze, il gran sceriffo Bacali, il grande cerimoniere, i più grossi pezzi della corte, sorridendo, vociando, agitando le braccia in segno di festa. Poco dopo, avendo Sid-Mussa invitato l’Ambasciatore a riposarsi in un giardino del Sultano, si montò tutti a cavallo, si attraversò la piazza, s’infilò la stradicciuola misteriosa e s’entrò nell’augusto recinto del quartiere imperiale. Vicoli fiancheggiati da alti muri, piazzette, cortili, case in rovina, case in costruzione, porte ad arco, corridoi, giardinetti, piccole moschee, un labirinto da perderci il capo, e per tutto operai affaccendati, schiere di servi, sentinelle armate, e qualche viso di schiava dietro le inferriate delle finestre e agli spiragli delle porte: non si vide altro. Non un edifizio di bella apparenza, nè altra cosa, fuor delle guardie, che indicasse l’abitazione d’un Monarca. Entrammo in un giardino vasto ed incolto, tutto viali ombrosi incrociati ad angolo retto e chiuso da mura altissime come il giardino d’un convento, e di là, dopo un breve riposo, ritornammo a casa,—spargendo per la strada,—il medico, i pittori ed io,—l’ilarità colla giubba e il terrore coi gibus.

Per tutto quel giorno non si parlò d’altro che del Sultano. Aveva innamorato tutti. L’Ussi si provò cento volte a schizzarne la figura e buttò via la matita disperato. Lo proclamammo tutti il più bello e il più amabile di tutti i Monarchi maomettani; e perchè la proclamazione fosse veramente nazionale, ci piacque di sentire il parere anche del cuoco e dei due marinai.

Il cuoco, al quale tutti gli spettacoli veduti da Tangeri a Fez non avevano strappato mai altro che un sorriso di profonda commiserazione, si mostrò generoso coll’Imperatore.

A l’è un bel omm, —disse,— a i é nen a diie (è un bell’uomo, non c’è che dire); ma bisognerebbe che andasse a viaggiare (parole testuali) dove c’è l’istruzione.

Questo dove, naturalmente, era Torino.

Luigi, il calafato, benchè napoletano, fu più laconico. Domandato che cosa avesse osservato nell’Imperatore, stette un po’ sopra pensiero e rispose sorridendo:

Aggio osservato ch’a stu paese manc’ u Re porta i’ calzette!

Il più comico fu il Ranni.—Che cosa t’è parso del Sultano?—gli domandò il Comandante.

—M’è parso,—rispose francamente e colla maggior serietà,—che avesse paura.

—Paura!—esclamò il Comandante.—Di chi?

—Di noi. Non ha visto com’è diventato smorto e come parlava, che quasi gli mancava il fiato?

—Ma tu sei matto! E vuoi che lui, in mezzo a tutte le sue guardie e a tutto il suo esercito, avesse paura di noi altri?

—Così m’è parso,—rispose il Ranni imperturbabile.

Il Comandante lo guardò fisso e poi si pigliò la testa fra le mani in atto di profondo scoraggiamento.

Quella stessa sera entrarono nel palazzo, condotti da Selam, due mori, i quali avendo inteso raccontare meraviglie dei nostri gibus, desideravano di vederli. Andai a prendere il mio e lo apersi sotto i loro occhi. Vi guardarono dentro tutti e due con grande curiosità e parvero molto meravigliati. Credevano probabilmente di trovarci chi sa che complicato meccanismo di ruote e di cerniere, e non vedendoci nulla, si confermavano forse nella superstizione divulgatissima fra il volgo moresco che in tutti gli oggetti dei cristiani ci sia qualcosa di diabolico.—Ma non c’è nulla!—esclamarono tutti e due ad una voce.—Ma qui sta,—risposi per mezzo di Selam,—qui sta appunto il meraviglioso di questi cappelli soprannaturali, che facciano quello che fanno, senz’aiuto d’ordigni!—Selam rise, essi sospettarono la celia, e allora m’ingegnai di spiegare il meccanismo nascosto; ma mi parve che ne capissero poco. Domandarono poi, andandosene, se i cristiani mettevano quella molla nei cappelli «per ricreazione.»—E tu, domandai a Selam—che cosa ne dici di questi arnesi?—Dico,—rispose con un’alterezza sprezzante, appuntando il dito contro il cappello,—che se dovessi vivere cento anni nei vostri paesi, forse, a poco poco, adotterei la vostra maniera di vestire,—le scarpe, la cravatta ed anche i brutti colori che piacciono a voi;—ma quell’arnese lì,—quella orribile cosa nera... ah! Dio m’è testimonio che vorrei piuttosto la morte!

A questo punto comincia il mio giornale di Fez, che abbraccia tutto il tempo trascorso dal ricevimento dell’Imperatore fino alla partenza per Mechinez.

* * *

20 Maggio.

..... Oggi il primo custode del palazzo ci diede in segretezza la chiave della terrazza, raccomandandoci caldamente di usare prudenza. Pare ch’egli abbia ricevuto ordine, non di rifiutarci quella chiave, ma di non darla che quando ne fosse pregato; e questo perchè le terrazze (a Fez come nelle altre città del Marocco) appartengono alle donne, e sono considerate quasi come un’appendice dell’arem. Siamo dunque saliti sulla terrazza, che è vastissima, e tutta circondata da un muro più alto d’un uomo, munito di alcune finestre della forma di feritoie. Il palazzo essendo molto alto, e posto in un luogo eminente, si vedono di lassù migliaia di terrazze bianche, le alture circostanti alla città, i monti lontani; e sotto, un altro piccolo giardino, di mezzo al quale s’alza una palma smisurata, che sorpassa l’edifizio di quasi un terzo del proprio fusto. Avvicinando il viso a quelle finestrine, ci parve d’affacciarci a un mondo nuovo. Sulle terrazze vicine e lontane v’erano molte donne, la maggior parte, a giudicar dal vestito, di condizione agiata,—signore,—se questo titolo si può dare alle donne moresche. Parecchie stavano sedute sui parapetti, altre passeggiavano, alcune saltellavano con un’agilità di scoiattoli di terrazza in terrazza, si nascondevano, ricomparivano, e si spruzzavano acqua nel viso ridendo come pazze. Più d’una era seduta in un atteggiamento che avrebbe senza dubbio corretto se avesse sospettato che l’occhio d’un uomo la stava osservando. C’erano vecchie, giovani, bambine di otto o dieci anni, tutte con vestiti di forme bizzarre e di colori vivissimi. Le più avevano le treccie giù per le spalle, un fazzoletto di seta rossa o verde stretto intorno al capo a modo di benda, una specie di caffettano di vario colore, con larghe maniche, serrato intorno alla vita da una cintura azzurra o vermiglia; un corpettino di velluto aperto sul petto; calzoncini, babbuccie gialle e grossi anelli d’argento sopra la noce del piede. Le serve e le bambine non avevano altro che la camicia. Una sola di queste «signore» era abbastanza vicina da poterne discernere il viso. Era una donna sui trent’anni, vestita in gala, affacciata a una terrazza posta a un salto di gatto sotto la nostra. Guardava in un giardino, colla testa appoggiata sulla mano. La osservammo col cannocchiale. Dei del cielo, che pittura! Nero d’antimonio sotto gli occhi, rossetto sulle guancie, bianchetto nel collo, hennè sulle unghie: era tutta una tavolozza. Ma bella, malgrado i trent’anni: un visetto pieno, due occhi a mandorla, velati di lunghe ciglia e languidissimi; un nasino un po’ rivolto in su; una boccuccia rotonda, secondo l’espressione dei poeti moreschi, come un anello; e un corpicino di silfide di cui il vestito sottile metteva in evidenza le curve molli e gentili. Pareva triste, e forse era cagione della sua tristezza una quarta sposa di quattordici anni, entrata nell’arem pochi dì innanzi, della quale essa aveva già sentito il trionfo nel freddo amplesso di suo marito. Di tratto in tratto si guardava una mano, un braccio, le treccie che le cadevano sul seno, e sospirava. Una voce sfuggita a un di noi la riscosse; guardò in su, e accortasi che la guardavamo, scavalcò il parapetto della terrazza colla destrezza d’un acrobata, saltò sopra una terrazza sottostante, e scomparve. Per veder meglio, mandammo a pigliare una seggiola, si giocò a pari e dispari a chi toccasse pel primo, toccò a me, la misi contro il muro, vi salii su e riuscii con mezzo il busto al disopra del parapetto. Fu come l’apparizione d’un nuovo astro nel cielo di Fez: mi si passi il paragone immodesto. Mi videro subito dalle prime case, fuggirono, ricomparvero, annunziarono l’avvenimento alle donne delle terrazze più vicine; in pochi minuti, di terrazza in terrazza, si sparse la notizia per mezza la città; sbucarono curiose da tutte le parti, io mi trovai alla berlina. Ma la bellezza dello spettacolo mi tenne fermo al mio posto. Erano centinaia di donne e di bambine, ritte sui parapetti, sulle torricine, sulle scale esterne, tutte rivolte verso di me, tutte vestite di colori fiammanti, dalle più vicine di cui discernevo i volti attoniti, fino alle più lontane, d’altri quartieri della città, che apparivano appena come puntini bianchi, verdi e vermigli; alcune terrazze affollate che sembravano piene di fiori; per tutto un brulichio, un va e vieni, un gesticolamento, da parere che tutta quella gente assistesse a qualche fenomeno celeste. Per non mettere sottosopra tutta la città, tramontai, ossia discesi dalla seggiola, e per qualche minuto non ci salì nessuno. Poco dopo stava alla berlina il Biseo ed era anch’egli bersagliato da mille sguardi, quando, sopra una terrazza lontana, tutte le donne gli voltarono improvvisamente le spalle, e corsero ad affacciarsi dalla parte opposta; e così di terrazza in terrazza, per una lunga fila di case. Sul primo momento non capimmo che cosa fosse accaduto. Il vice-console fu il primo a indovinarlo.—Un grande avvenimento,—disse;—passano per le strade di Fez il Comandante e il capitano.—E infatti di lì a poco, si videro rosseggiare sopra una delle alture che dominano la città, le divise dei soldati della scorta, e col cannocchiale si riconobbe il Comandante ed il capitano a cavallo. Un altro voltafaccia di donne sopra un gran numero di terrazze, ci annunziò, poco dopo, il passaggio d’un’altra comitiva italiana; e trascorsi dieci minuti vedemmo biancheggiare sull’altura opposta la cuffía egiziana dell’Ussi e il cappello inglese del Morteo. Dopo questo l’attenzione universale si rivolse daccapo a noi, e saremmo stati là a godercela un pezzo; ma sopra una terrazza vicina cinque o sei monelle di schiave, di tredici o quattordici anni, si misero a guardarci e a sghignazzare così insolentemente, che fummo costretti, per il decoro della cristianità, a privare il bel sesso metropolitano della nostra meravigliosa presenza.

* * *

Ieri siamo stati a pranzo dal Gran Visir Taib Ben Iamani, soprannominato Boascerin, che significa, secondo alcuni, vincitore al gioco della palla, e secondo altri, padre di venti figli: gran vizir, però, non d’altro che di titolo, per aver occupato quella carica suo padre sotto il regno del precedente Sultano.

Il messo latore dell’invito fu ricevuto dall’Ambasciatore in nostra presenza.

—Il Gran Vizir Taib Ben Iamani Boascerin,—disse con molta gravità,—prega l’Ambasciatore d’Italia e il suo seguito di voler pranzare oggi in casa sua.

L’Ambasciatore ringraziò.

—Il Gran Vizir Taib Ben Iamani Boascerin,—continuò colla stessa gravità—prega pure l’Ambasciatore e il suo seguito di portar le forchette e i coltelli e di condurre con sè i loro servi per farsi servire a tavola.

Andammo verso sera, tutti in giubba e cravatta bianca, a cavallo, col solito seguito armato. Non ricordo in che parte della città si trovi la casa, tanti sono i giri e le svolte, le salite e le discese che si fecero per stradicciuole coperte, uggiose, sinistre, badando ogni momento a frenare le mule che scivolavano, e a curvare la testa per non urtare nelle volte umide delle interminabili gallerie.

Scendemmo in un androne oscuro ed entrammo in un vasto cortile rettangolare, pavimentato a musaico, e circondato da altissimi pilastri bianchi, sui quali s’incurvano dei piccoli archi ornati d’arabeschi di stucco e dipinti di verde: una bizzarra architettura moresco-babilonese, che ci destò una piacevole meraviglia. Nel mezzo del cortile spicciavano da sette vasche di marmo bianco sette alti zampilli, che facevano il rumore d’una pioggia dirotta. Tutt’intorno v’erano porticine socchiuse e finestrine binate. Nel mezzo dei due lati più corti, due grandi porte aperte, che davano accesso a due sale. Sulla soglia d’una di queste porte ci aspettava il Gran Vizir, in piedi; dietro di lui due vecchi mori, suoi parenti; a destra e a sinistra due ali di schiavi e di schiave.

Scambiati i soliti saluti, il Gran Vizir sedette sopra una materassa distesa lungo la parete, incrociò le gambe, si strinse sul ventre con tutte e due le mani un grosso guanciale rotondo,—suo atteggiamento abituale e notissimo,—e non si mosse più di così per tutta la sera.

Era un uomo sui quarantacinque anni, vegeto, di lineamenti regolari, ma non simpatico per una certa falsa luce che gli brillava negli occhi. Aveva il turbante e il caffettano bianco. Parlava con molta vivacità e rideva sonoramente ad ogni parola propria o d’altri, rovesciando indietro la testa, e continuando a tener la bocca spalancata molto tempo dopo che aveva riso.

Alle pareti erano appesi alcuni quadretti con iscrizioni del Corano in caratteri d’oro; nel mezzo della sala una tavola da osteria di villaggio e alcune seggiole rustiche; tutt’intorno materasse bianche, sulle quali buttammo i nostri cappelli.

Sidi-Ben-Iamani intavolò una vivace conversazione coll’Ambasciatore; gli domandò se era ammogliato, perchè non s’ammogliava; gli disse che, se fosse stato ammogliato, gli avrebbe fatto un grande piacere conducendo la moglie a pranzo con sè; che l’Ambasciatore inglese ci aveva condotto la figliuola, la quale s’era molto divertita; che tutti gli Ambasciatori avrebbero dovuto ammogliarsi espressamente per condurre le loro donne a veder Fez e a pranzare in casa sua, e simili discorsi, interrotti da alte risate.

Mentre, il Gran Vizir parlava, i pittori ed io, seduti sulla soglia della porta, guardavamo di sott’occhio le schiave, le quali a poco a poco, incoraggiate dalla nostra aria di curiosità benigna, s’erano avvicinate, non viste dal Gran Vizir, fino quasi a toccarci, e stavan lì piantate a guardare e a farsi guardare, con una certa compiacenza. Erano otto bei pezzi di ragazze tra i quindici e i vent’anni, alcune mulatte, altre nere, con grand’occhi, narici dilatate, seni prominenti, tutte vestite di bianco, strette intorno alla vita da una larghissima cintura ricamata, le braccia e i piedi nudi, braccialetti ai polsi, grandi cerchi d’argento alle orecchie e due grossi anelli alle gambe. Non avrebbero avuto nessuno scrupolo, ci parve, a lasciarsi pizzicare la guancia da una mano cristiana. L’Ussi accennò al Biseo il bellissimo piede d’una di esse; questa se n’accorse e si mise a osservare il proprio piede con grande curiosità. Tutte le altre fecero lo stesso, paragonando i propri ai piedi della prima. L’Ussi fece scattare il gibus; diedero un passo indietro, poi sorrisero e si riavvicinarono. Una voce del Gran Vizir, che ordinava di apparecchiare la tavola, le fece scappare.

La tavola fu apparecchiata dai nostri soldati. Un servo della casa vi piantò nel mezzo tre grosse torcie di cera vergine di vario colore. Le stoviglie erano del gran vizir: non due piatti uguali; grandi e piccoli, bianchi e dipinti, finissimi e di qualità infima, alla rinfusa. Le serviette pure appartenevano alla casa, ed erano pezzi di tela di cotone, di diversa grandezza, senz’orlo, tagliati in fretta e in furia poche ore prima del desinare.

Ci mettemmo a tavola a notte fatta. Il Gran Vizir rimase sulla sua materassa, col guanciale tra le braccia, discorrendo e ridendo coi suoi due parenti.

Non descriverò il pranzo; non voglio ridestare memorie dolorose. Basterà dire che furono trenta piatti, ossia trenta dispiaceri gravi, senza contare i piccoli fastidi dei dolci.

Al quindicesimo piatto riuscendo oltremodo difficile il proseguire la lotta senza il refrigerio d’un po’ di vino, l’ambasciatore incaricò il Morteo di far domandare al Gran Vizir se non gli sarebbe spiaciuto che mandassimo a pigliare qualche bottiglia di Champagne.

Il Morteo parlò nell’orecchio a Selam e Selam ripetè la domanda nell’orecchio a Sua Eccellenza.

Sua Eccellenza fece una lunga risposta a bassa voce, e intanto noi colla coda dell’occhio spiavamo ansiosamente il suo volto. Ma il suo volto non ci dava grandi speranze.

Selam s’alzò mortificato, e riferì la risposta nell’orecchio all’Intendente il quale ci diede il colpo di grazia colle seguenti parole:

—Il Gran Vizir dice che non avrebbe difficoltà.... che anzi ben volentieri acconsentirebbe.... ma che ci sarebbe un inconveniente... ed è che si macchierebbero i bicchieri.... e forse anche la tavola.... e che in ogni modo la vista... l’odore.... e poi la novità della cosa....

—Ho capito,—rispose l’Ambasciatore;—non parliamone più.

Tutti i nostri volti presero un leggero color verde.

Finito il pranzo, l’Ambasciatore rimase a discorrere col Gran Vizir, e noi uscimmo dalla sala. Era buio e piovigginava. Nell’altra sala, in fondo al cortile, illuminata da una torcia, desinavano, seduti sul pavimento, il nostro caid, i suoi ufficiali e i segretari del Gran Vizir. A tutte le finestrine dei quattro muri rischiarate di dentro, facevano capolino donne e bambini, dei quali non apparivano che i contorni neri. Per una porta socchiusa del pian terreno si vedeva una sala illuminata splendidamente, dove erano sedute e sdraiate in cerchio, in atteggiamenti voluttuosi, le mogli e le concubine del gran vizir, indiademate come regine; ma velate leggermente dal fumo dei profumieri che ardevano ai loro piedi. Schiave e servi andavano e venivano fra la sala da pranzo e le cucine, attraversavano il cortile, entravano in certe porte, salivano e scendevano; saranno state cinquanta persone in movimento, e non si sentiva una voce, un passo, un fruscìo. Era una scena muta e misteriosa come uno spettacolo fantasmagorico, dinanzi alla quale rimanemmo lungo tempo attoniti, nascosti nell’ombra, senza profferire parola.

Andandocene, si vide appesa a un pilastro del cortile una grossa correggia di cuoio con molti nodi. L’interprete domandò a un servo della casa a che cosa servisse:

—A flagellarci—rispose.

Montammo a cavallo, e ci mettemmo in cammino verso casa, accompagnati da uno stuolo di servi del gran vizir, ognuno dei quali portava una grande lanterna. Era buio fitto e pioveva a rovescio. Non si può immaginare lo strano effetto di quella lunghissima cavalcata, di quelle lanterne, di quella turba di gente armata e incappucciata, di quello scalpitìo assordante, di quel frastuono di grida selvaggie, per quel labirinto di strade anguste e di passaggi coperti, in mezzo al profondo silenzio della città addormentata. Pareva una processione funebre per i meandri d’una immensa grotta o un’incamiciata di soldati che s’avanzasse per le gallerie sotterranee d’una fortezza per fare un colpo di mano. A un tratto, il convoglio si fermò, si fece un silenzio sepolcrale e s’intese una voce irata che disse in arabo:—La strada è chiusa!—Un momento dopo si sentì uno strepito precipitoso di colpi. Erano i soldati della scorta che cercavano di rovesciare coi calci dei fucili una delle mille porte che durante la notte impediscono la circolazione per le strade di Fez. Il lavoro durò un pezzo; lampeggiava, tonava, scrosciava la pioggia; i servi e i soldati andavano e venivano colle lanterne, proiettando le loro lunghe ombre sui muri; il caid, ritto sulle staffe, minacciava gli abitanti invisibili delle case circostanti; e noi ci godevamo quel bel quadro del Rembrandt con un gusto infinito. Finalmente s’udì un fortissimo schianto, la porta cadde e ci rimettemmo in cammino. A poca distanza da casa, sotto una volta sepolcrale, sei soldati di fanteria ci presentarono le armi con una mano sola, tenendo coll’altra un moccolo acceso; e fu questa l’ultima scena della rappresentazione fantastica intitolata:—Un pranzo in casa del gran vizir.—Ma no; l’ultima scena fu quando, appena rientrati nel nostro cortile, ci precipitammo sulle sardine di Nantes e sulle bottiglie di Bordeaux, e l’Ussi, alzando il bicchiere sopra le nostre teste, esclamò con accento solenne:—A Sidi-Ben-Iamani Boascerin, gran vizir del Marocco, nostro graziosissimo ospite, Stefano Ussi, cristianamente perdonando, consacra!

* * *

Il Sultano ha ricevuto l’Ambasciatore in udienza privata. La sala dei ricevimenti è grande, bianca e nuda come una prigione. Non v’è altro ornamento che un gran numero di orologi a pendolo, di tutte le dimensioni e di tutte le forme, in parte schierati sul pavimento, lungo le pareti; in parte ammucchiati sopra una tavola, in mezzo alla sala. Gli orologi, è da notarsi, sono per i mori un oggetto principalissimo d’ammirazione e di divertimento. Il Sultano stava dentro una piccola alcova, seduto, colle gambe incrociate, sopra un palco di legno, alto un metro. Aveva indosso, come al ricevimento pubblico, una cappa bianchissima, il cappuccio sul capo, i piedi nudi, le babbuccie gialle in un canto e un cordone verde a traverso il petto, al quale doveva essere appeso un pugnale. In questa forma gl’Imperatori del Marocco ricevono tutti gli Ambasciatori: il loro trono, come disse il Sultano Abd-er-Rhaman, è il cavallo e il loro padiglione il cielo. L’Ambasciatore, avendone prima manifestato il desiderio a Sid-Mussa, trovò dinanzi al palco imperiale una modesta seggiola, sulla quale, a un cenno del Sultano, sedette; il signor Morteo, interprete, rimase in piedi. Sua Maestà Mulei el Hassen parlò lungamente, senza mai levar le braccia di sotto la cappa, senza fare un movimento del capo, senza alterare d’un solo accento l’abituale monotonia della sua voce dolce e profonda. Parlò dei bisogni del suo Impero, di commerci, d’industrie, di trattati, scendendo a particolari minuti, con molto ordine e grande semplicità di linguaggio. Fece molte domande ascoltò le risposte con viva attenzione, e conchiuse dicendo con un accento di leggera mestizia:— È vero; ma siamo costretti a procedere lentamente; —strane ed ammirabili parole sulle labbra d’un Imperatore del Marocco. Vedendo che non accennava mai, neanche negl’intervalli di silenzio, a troncare il colloquio, l’Ambasciatore si credette in dovere d’alzarsi.—Restate ancora;—disse con un certo garbo ingenuo il Sultano;—mi piace discorrere con voi.—Quando l’Ambasciatore, andandosene, s’inchinò per l’ultima volta sulla soglia della porta, egli abbassò leggermente la fronte, e rimase immobile, come un idolo, nel suo tempio deserto.

* * *

È venuta una comitiva di donne ebree a presentare non so che istanza all’Ambasciatore.

Nessuno potè sottrarre le mani alla pioggia dei loro baci.

Eran mogli, figliuole e parenti di due agiati negozianti: bellissime donne, di fulgidi occhi neri, di carnagione bianca, di labbra porporine, di mani piccolissime. Le due madri, già vecchie, non avevano un capello bianco, e brillava ancora nelle loro pupille tutto il fuoco della giovinezza. Avevano un vestimento pittoresco e splendido: un fazzoletto di seta di colori vivissimi, stretto intorno alla fronte; una zuavina di panno rosso, ornata di larghi e spessi galloni d’oro; un panciotto tutto dorato; una sottana corta e stretta, di panno verde, pure listata di galloni risplendenti; una cintura di seta rossa o azzurra intorno alla vita. Parevan tante principesse asiatiche, e questa pompa contrastava bizzarramente colle loro maniere servilmente ossequiose.

Parlavano tutte spagnuolo.

Soltanto dopo qualche minuto, ci accorgemmo che avevano i piedi nudi e le babbuccie gialle sotto il braccio.

—Perchè non vi calzate?—domandai a una delle vecchie.

—Come!—mi domandò alla sua volta, meravigliandosi—non sa ella dunque che gl’Israeliti non possono portare le scarpe che nel Mellà, e che, entrando nella città mora, debbono andare a piedi nudi?

Rassicurate dall’Ambasciatore, si calzarono.

Così è infatti. Non sono assolutamente obbligati ad andar sempre a piedi nudi; ma dovendo levarsi le babbuccie quando passano per certe strade, davanti a certe moschee, accanto a certe cube, finisce per essere lo stesso. E non è questa la sola nè la più umiliante vessazione a cui vanno soggetti. Non possono testimoniare in giudizio, e debbono prostrarsi a terra parlando davanti ai tribunali; non possono possedere terreni o case fuori del loro quartiere; non possono andare a cavallo per la città; non possono alzar la mano sopra un mussulmano nemmeno per difendersi, eccetto il caso in cui siano assaliti in casa propria; non possono vestirsi che di colori oscuri; debbono portare correndo i loro morti al cimitero, debbono domandare al Sultano il permesso di sposarsi, debbono rientrare nel Mellà al tramonto del sole, debbono pagare la guardia mora che veglia alle porte del loro quartiere, debbono presentare dei ricchi doni al Sultano nelle quattro feste dell’Islamismo e in occasione d’ogni nascita e d’ogni matrimonio della famiglia imperiale. Ed era anche peggiore la loro condizione prima del Sultano Ald-er-Rhaman, il quale impedì almeno che si spargesse il loro sangue. Nè, anche volendo, potrebbero i Sultani migliorarne gran fatto lo stato, senza esporre quegli infelici a mali peggiori della orribile schiavitù che li schiaccia, tanto è fanatico e feroce contro di loro l’odio dei Mori. Esempio l’Imperatore Solimano, il quale, avendo decretato che potessero portar le babbuccie, ne furono uccisi tanti, in pieno giorno, per le strade di Fez, ch’essi medesimi domandarono, per salvarsi dalla strage, la revocazione del decreto. Rimangono nondimeno nel paese, e perchè ci arricchiscono, servendo d’intermediarii fra il commercio d’Europa e il commercio dell’Affrica; e perchè il Governo, comprendendo di quale importanza essi sono per la prosperità dello Stato, oppone una barriera quasi insormontabile all’emigrazione, proibendo ad ogni donna ebrea l’uscita dal Marocco. Servono, tremano e strisciano nella polvere; ma non darebbero, per acquistar la dignità d’uomini e la libertà di cittadini, il mucchio di monete d’oro che tengon nascoste nelle pareti delle loro luride case. In Fez sono intorno a otto mila, divisi per sinagoghe e retti dai rabbini, che godono d’una grande autorità.

Quelle povere donne ci mostrarono parecchi grossi braccialetti d’argento cesellato, degli anelli ingemmati e degli orecchini d’oro, che tenevano nascosti nel seno. Domandammo perchè li nascondevano.

Nos espantamos de los Moros. —Abbiamo paura dei mori,—risposero a voce bassa, guardando intorno con diffidenza. Diffidavano persino dei soldati della Legazione.

Fra loro v’erano parecchie bambine vestite colla medesima pompa delle donne.

Una di esse stava accanto alla madre in atteggiamento più timido che le altre. L’Ambasciatore domandò alla madre che età avesse. Rispose dodici anni.

—Si mariterà presto,—disse l’Ambasciatore.

—Che!—esclamò la madre;—è già troppo vecchia per pigliar marito.

Credemmo tutti che scherzasse.

—Dico davvero;—rispose la madre quasi meravigliandosi della nostra incredulità;—vedono quest’altra qua?—E c’indicò una bambina più piccola.—Avrà dieci anni fra sei mesi ed è già maritata da più d’un anno.

La bambina chinò la testa. Noi non credemmo.

—Che cosa ho da dire?—continuò la madre;—se non vogliono credere alla mia parola, ci facciano l’onore di venire a casa nostra, di sabato, affinchè possiamo riceverli degnamente, e vedranno il marito e gli attestati del matrimonio.

—E quanti anni ha il marito?—domandai.

—Dieci compiuti, Signore.

Vedendo che stentavamo a credere, ci accertarono la cosa tutte le altre donne, aggiungendo che sono rare le ragazze che si maritino dopo i dodici anni, che la maggior parte son già spose a dieci, e molte a otto, e non poche perfino a sette, con ragazzi press’a poco della stessa età; e che, naturalmente, fin che son così piccoli vivono coi parenti, i quali continuano a trattarli come bambini, li nutrono, li vestono, li sballottano, li sculacciano senza alcun riguardo alla loro dignità maritale; ma stanno sempre insieme e la moglie è sottomessa al marito.

A noi pareva di sentir parlare d’un altro mondo, e stavamo a sentire colla bocca aperta, titubando fra la voglia di ridere, la compassione e lo sdegno.

—Ma....—disse esitando l’Ambasciatore—stanno insieme anche.... dalla sera alla mattina?

—Naturalmente—rispose la madre;—poichè sono marito e moglie!

—Ma non capite,—disse l’Ambasciatore con un movimento di sdegno;—che questo è mal fatto? che è contro le leggi della natura? che è dannoso all’anima e al corpo? che in questo modo invece di educare moralmente e fisicamente l’infanzia, la profanate, l’avvelenate, la soffocate?

—Che, che, signor Ambasciatore!—rispose la madre con la più amena disinvoltura;—non creda questo. Non segue nulla di tutto questo. Son bambini....—E qui s’avvicinò a noi e abbassò la voce.—Son bambini, non sanno nulla, non pensano a nulla, discorrono e ridono fra loro, e poi quando son stanchi, chinan la testa così e s’addormentano come angioletti. Nulla di male, signor Ambasciatore.

L’Ambasciatore tentò ancora di persuaderla che del male ce n’era; ma la buona donna, continuando a ripetere:—nulla di male, nulla di male... a poco a poco, a poco a poco—rimase del proprio parere.

In quel frattempo la sposina di nove anni mandava dei baci al cane da caccia del signor Paxcot, legato in un angolo del cortile.

Povere creature! Fu una pietà il vederle, quando s’accomiatarono, rimettersi le babbuccie sotto il braccio e i braccialetti in seno, e così belle e vestite riccamente, avviarsi a piedi nudi per quelle strade sassose ed immonde, guardando intorno con un’espressione di umiltà supplichevole, come per scongiurare gl’insulti e le percosse dei passanti!

* * *

Una colezione in casa del ministro della guerra.

Ci ricevette, appena entrati, in un cortile angusto, chiuso fra quattro muri altissimi e oscuro come un pozzo. Da un lato v’era una porticina alta poco più d’un metro, dall’altro una gran porta senza battenti e una stanza nuda, con una materassa distesa sul pavimento, e alcuni foglietti di carta infilati in uno spago appeso a una parete: la corrispondenza giornaliera, credo, di Sua Eccellenza.

Si chiama Sid-Abd-Allà Ben Hamed, è fratello maggiore di Sid-Mussa, ha circa sessant’anni, è nero, piccolo, magro, malfermo sulle gambe, tremante, ridotto, come suol dirsi, sulle cigne; ma d’aspetto e di modi simpatici. Parla poco, chiude spesso gli occhi e sorride cortesemente abbassando la testa mezzo nascosta in un grosso turbante.

Scambiate poche parole, fummo invitati a passare nella sala da pranzo. Primo l’Ambasciatore, e poi tutti gli altri, ad uno ad uno, piegandoci quasi ad angolo retto, infilammo la porticina, e riuscimmo in un altro cortile, spazioso, circondato d’archi eleganti, e coperto di musaici splendidi e svariatissimi. È un palazzo regalato a Sid-Abd-Allà dall’Imperatore. Egli medesimo ce lo disse, chinando la testa e chiudendo gli occhi in atto di religiosa venerazione.

In un angolo del cortile v’era un gruppo d’ufficiali in turbante e cappa bianca; dalla parte opposta uno stuolo di servi, in mezzo ai quali giganteggiava un giovanotto di bellissimo aspetto, vestito tutto di turchino, alla zuava, con una lunga pistola alla cintura. A tutte le finestrine e porticine dei quattro muri, si vedevano apparire e sparire teste di donne e di ragazzine di ogni colore, e da ogni parte si sentivano vagiti di bimbi.

Sedemmo intorno a una piccola tavola, in una piccolissima stanza, ingombrata in gran parte da due letti enormi. Il Ministro si pose vicino all’Ambasciatore, un po’ indietro, e stette là per tutto il tempo della colezione stropicciando vigorosamente il suo nero piede nudo piantato ritto sul ginocchio, in modo che le rispettabili dita ministeriali riuscivano per l’appunto sull’orlo della tavola, a mezzo palmo dal piatto del Comandante. I soldati della Legazione servivano. A un passo dalla tavola stava il gigante turchino, immobile come una statua, con una mano sul pistolone.

Sid-Abd-Allà fu assai gentile coll’Ambasciatore.

—Voi mi siete simpatico,—gli fece dire, senza preamboli, dal signor Morteo.

L’Ambasciatore gli rispose che provava per lui un eguale sentimento.

—Appena vi vidi,—continuò il Ministro,—il mio cuore fu vostro.

L’Ambasciatore ricambiò il complimento.

—Al cuore—concluse Sid Abd-Allà,—non si resiste; e quando egli ci comanda d’amare una persona, anche senza saperne la ragione, la si ama.

L’Ambasciatore gli porse la mano ed egli se la strinse sul cuore.

Ci furono portati diciotto piatti. Non ne parlo. Mi basta dire che son certo che me ne sarà tenuto conto il giorno in cui verrò giudicato. Per giunta l’acqua era muschiata, la tovaglia variopinta e le seggiole barcollanti. Ma queste piccole calamità, invece di metterci di malumore, ci accesero la vena degli scherzi per modo che poche volte fummo più allegramente bricconi di quella mattina. Se ci avesse sentiti Sid-Abd-Allà! Ma Sid-Abd-Allà era tutt’occhi e tutt’orecchi coll’Ambasciatore. Ci spaventò per un momento il signor Morteo, avvertendoci a bassa voce che il gigante turchino, essendo di Tunisi, poteva darsi che capisse qualche parola d’italiano. Ma guardandolo attentamente ad ogni scherzo, e vedendolo sempre impassibile come una statua, ci rassicurammo e tirammo innanzi senza badargli. Quante similitudini calzanti, inaspettate, e d’un effetto comico clamoroso, ma sventuratamente irripetibili, furono trovate a quegl’intingoli e a quelle salse!

Finita la colezione, s’andò tutti nel cortile, dove il Ministro della guerra presentò all’Ambasciatore uno dei più alti ufficiali dell’esercito. Era il Comandante supremo dell’artiglieria: un piccolo vecchio, secco, inarcato come una C, con un enorme naso adunco e due occhiettini diabolici; una figura d’uccello di rapina; caricato, piuttosto che coperto, d’uno smisurato turbante giallo di forma quasi sferica, e vestito presso a poco alla zuava, tutto turchino, con un mantello bianco sulle spalle. Aveva una lunga sciabola al fianco e un pugnale inargentato alla cintura. L’Ambasciatore gli fece domandare a quale grado della gerarchia militare europea corrispondesse quello ch’egli aveva nell’esercito marocchino. Parve che quella domanda lo mettesse nell’imbarazzo. Pensò qualche momento e rispose balbettando:—Generale;—poi ripensò e soggiunse:—No, colonnello—e rimase un po’ confuso. Disse ch’era nativo d’Algeri. Mi balenò il sospetto che fosse un rinnegato. Chi sa per che strane vicende si trovava colonnello nel Marocco!

Gli altri ufficiali, in quel frattempo, facevano colezione in una stanza a terreno aperta sul cortile, tutti seduti in cerchio sul pavimento, coi piatti nel mezzo. Capii benissimo, vedendoli mangiare, come i mori possano far di meno del coltello e della forchetta. Non si può dire il garbo, la destrezza, la precisione con cui facevano in pezzi i polli, il montone allo spiedo, la caccia, i pesci, ogni cosa. Con pochi movimenti rapidissimi delle mani, senza scomporsi menomamente, ognuno spiccava giusta e netta la sua porzione. Pareva che avessero delle unghie taglienti come rasoi. Immergevano le dita nelle salse, facevano delle palle di cuscussù, mangiavano l’insalata a manate, e non un briciolo, non una goccia cadeva fuor del piatto; e vedemmo infatti quando s’alzarono che avevano i caffettani bianchi immaculati come prima. Di tratto in tratto un servo portava in giro una catinella e un asciugamano; si davano una lavatina e poi tutti insieme rituffavano lo zampino in un altro piatto. Nessuno parlava, nessuno alzava gli occhi, nessuno mostrava d’accorgersi che noi fossimo là a contemplarli.

Che ufficiali saranno stati? Maggiori di stato maggiore? Aiutanti di campo? Capi-divisione del Ministero della guerra? Chi può saper nulla nel Marocco, particolarmente dell’esercito, che è il più misterioso di tutti i misteri? Si dice, per esempio, che nel caso d’una guerra santa, quando sia proclamata la legge Djehad, che chiama tutti gli uomini validi alle armi, l’Imperatore può raccogliere duecentomila soldati; ma se non si conosce nemmeno presso a poco il numero della popolazione dell’Impero, su che fondamento s’appoggia quella cifra? E l’esercito permanente, chi sa quanto sia? E a chi riesce di saper qualcosa, non solo del numero, ma dell’ordinamento, se, fuor dei capi, nessuno sa nulla, e questi o non vogliono rispondere, o non dicono il vero, o non sanno farsi capire?

Sid-Abd-Allà, cortesissimo ospite, volle aver scritti sul suo portafoglio i nostri nomi e ci accomiatò stringendosi sul cuore le mani di tutti.

Eravamo già sulla porta, quando ci raggiunse il gigante turchino. Ci fermammo, egli ci guardò sorridendo furbescamente e poi disse sottovoce in pretto italiano, salvo la pronunzia moresca:

—Signori, stiano bene!

Ci balenarono alla mente le corbellerie dette a tavola e restammo fulminati.

—Ah cane!—gridò l’Ussi.

Ma il cane era già sparito.

* * *

Ogni passeggiata è una piccola spedizione militare: bisogna avvertire il caid, radunare una scorta, cercare un interprete, mandar a prendere le cavalcature, e prima che tutto sia in ordine ci vuole un’ora. Perciò restiamo gran parte della giornata in casa. Ma lo spettacolo della casa ci compensa largamente della prigionia. È una processione continua di soldati rossi, di servi neri, di messi della corte, di negozianti della città, di mori malati che cercano il medico, di rabbini che vengono a inchinare l’Ambasciatore, d’ebree che portano mazzi di fiori, di corrieri che portan lettere da Tangeri, di facchini che portano la muna. Nel cortile lavorano dei musaicisti per Visconti Venosta; sulla terrazza, dei muratori; in cucina, un visibilio di cuochi; nel giardino, i negozianti stendono le loro stoffe e il signor Vincent le sue uniformi; il medico si dondola in una branda appesa a due alberi; i pittori dipingono davanti alla porta della loro camera; i soldati e i servi saltano e gridano nei vicoli intorno; tutte le fontane zampillano col rumore d’una pioggia dirotta e fra gli aranci e i limoni del giardino cantano centinaia d’uccelli. Il giorno si passa fra il giuoco della palla e la storia del Kaldun; la sera fra gli scacchi e i canti, diretti dal Comandante, primo tenore di Fez. La notte la passerei meglio, se non mi passassero continuamente davanti, come fantasmi, i neri servi di Mohammed Ducali, che dorme in una stanzina accanto alla mia. Nella mia dorme pure il dottore e abbiamo fra tutti e due un povero diavolo di servo arabo che ci fa morire dalle risa. Ci dicono che è di famiglia, se non agiata, non bisognosa, e che s’aggregò come servo alla carovana, a Tangeri, per fare un viaggio di piacere. Appena arrivato a Fez, meta del suo viaggio di piacere, non so per che mancanza, ma per poca cosa di certo, fu legnato. Dopo d’allora si mise a servirci con uno zelo furioso. Non capisce nulla, nemmeno i gesti; ha sempre l’aspetto d’un uomo spaventato; gli domandiamo gli scacchi, porta la sputacchiera; ieri il medico gli disse d’andargli a prendere del pane; lui, per far più presto, gli portò un pezzo di crosta che trovò in mezzo al giardino. Abbiamo un bel rassicurarlo: ha terrore di noi, cerca di placarci con ogni sorta di servizi stranissimi, che non gli domandiamo: compreso quello di cambiare tre volte l’acqua nella catinella prima ancora che ci alziamo da letto. Di più, per farci una cosa grata, aspetta ogni mattina, ritto in mezzo alla stanza, colla tazza del caffè in mano, che il dottore od io ci svegliamo, e al primo che dia il menomo segno di vita, gli si precipita addosso e gli caccia la tazza sotto il naso colla furia d’uno che voglia far bere un contravveleno. Un altro bel personaggio è la lavandaia, un donnone col viso coperto, la sottana verde e i calzoncini rossi, che viene a pigliar la nostra biancheria, destinata, ahimè! alle zampate dei mori. È superfluo il dire che non ci stirano nulla: in tutta Fez non esiste un ferro da stirare, e noi ci rimettiamo la roba tale e quale esce di sotto alle zampe dei lavandai.—Forse,—ci fu detto,—ci sarà qualche ferro nel Mellà!—C’è di tutto; il difficile è trovare. C’è, per esempio, una carrozza; ma appartiene all’Imperatore. Si dice che c’è pure un pianoforte; lo si è visto entrare nella città anni sono; ma non si sa bene chi lo possegga. È un divertimento poi il mandar a comprare alle botteghe. Una candela?—Non c’è,—rispondono;—ma ve la facciamo subito.—Un metro di nastro? Sarà fatto per domani sera.—Dei sigari? Abbiamo il tabacco; ve li daremo fra un’ora.—Il viceconsole cerca da qualche giorno un vecchio libro arabo, e tutti i mori interrogati si guardano in viso e dicono:—Un libro? Chi ha dei libri a Fez? N’aveva uno tempo fa, se non c’inganniamo, il tale dei tali; ma è morto e non sappiamo chi siano gli eredi.—E giornali arabi, d’altri paesi, se ne potrebbero avere?—Un solo giornale arabo, stampato in Algeri, arriva regolarmente a Fez, ma è diretto all’Imperatore.—Insomma, ho un bel pensare che sono a meno di duecento miglia da Gibilterra, dove appunto stassera, probabilmente, si rappresenta la Lucia di Lammermor, e che di qui a otto giorni potrei passeggiare sotto la loggia dei Lanzi a Firenze. Malgrado ciò, provo il sentimento d’una lontananza immensa. Non son le miglia, son le cose e la gente che ci allontanano di più dal nostro paese. Con che piacere stracciamo la fascia alla Gazzetta Ufficiale e rompiamo il suggello alle lettere! Povere lettere che sfuggirono alle mani dei Carlisti, passarono in mezzo ai briganti della Sierra Morena, superarono le roccie della montagna rossa, sornotarono, strette dalla mano d’un beduino, le acque del Kus, del Sebù, del Meches, del fiume della fontana azzurra, e ci portarono una parola amorosa in mezzo agli improperi e alle maledizioni.

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Passiamo molte ore a veder lavorare i pittori. L’Ussi ha fatto un bello schizzo del gran ricevimento, in cui è colta meravigliosamente la figura del Sultano; il Biseo, pittore valentissimo d’architettura orientale, sta copiando la facciata della casetta del giardino. Bisogna sentire, per divertirsi, i soldati e i negozianti di Fez che vengono a vedere quel quadretto. Vengono in punta di piedi alle spalle del pittore, guardano facendo cannocchiale della mano e poi quasi tutti si mettono a ridere come se avessero scoperto qualche grande stranezza. La grande stranezza è che nel disegno il secondo arco della facciata è più piccolo del primo, e il terzo più piccolo del secondo. Digiuni come sono d’ogni idea di prospettiva credono quella ineguaglianza un errore, e dicono che i muri sono storti, che la casa balla, che la porta è fuori di posto, e ne fanno le alte meraviglie, e se ne vanno dando di ciuco all’artista. L’Ussi è più stimato dopo che si sa che è stato al Cairo e che ha dipinto la partenza della grande carovana per la Mecca, d’incarico del Vicerè, che gli diede quindicimila scudi. Dicono però che il Vicerè è diventato matto a pagare quindicimila scudi un lavoro in cui, a metter molto, l’artista avrà speso cento lire di colori. Un negoziante domandò al Morteo se l’Ussi dipinge anche i mobili. Ma le più belle toccano al Biseo, che va ogni mattina in Fez nuova a copiare una moschea. Ci va, s’intende, scortato da quattro o cinque soldati armati di bastone. Prima che abbia messo al posto il cavalletto, gli sono intorno trecento persone, e i soldati sono costretti a urlare e a sbracciarsi come dannati per tenergli sgombro dinanzi appena tanto spazio ch’egli possa vedere la moschea. Ben presto però non bastan più nè gli urli nè le spinte, e allora bisogna che c’entri il bastone. Ogni pennellata, una legnata; ma si lascian legnare e fanno peggio. Ogni tanto gli s’accosta un Santo con intenzioni minacciose, e i soldati lo trattengono. V’è pure qualche moro progressista, che gli s’avvicina in aspetto amichevole, s’inchina, guarda, approva e s’allontana facendogli degli atti d’incoraggiamento. La maggior parte però di questi progressisti ammirano assai più la struttura del cavalletto e della seggiola portatile, che non la pittura. Un giorno un moro d’aspetto selvaggio gli mostrò il pugno, e poi, rivolgendosi verso i suoi concittadini, fece un lungo discorso con voce e gesti da spiritato. Un interprete là presente ci riferì che incitava il popolo contro il Biseo, dicendo che quel cane era stato mandato dal Re del suo paese a copiare le più belle moschee di Fez, perchè l’esercito cristiano, venendo poi ad assalire la città, le potesse riconoscere e bombardare per le prime. Ieri poi (c’ero presente) gli si accostò un vecchio moro stracciato, un viso di buon diavolo, tutto ridente, che pareva avesse grandi cose da dirci, e stentando un po’ a spiccicar le parole, esclamò con voce commossa:— France! Londres! Madrid! Roma! —Rimanemmo molto meravigliati, come ognuno può pensare. Gli domandai se sapeva parlare francese o italiano o spagnuolo. Fece cenno di sì.—Parlate dunque,—dissi. Si grattò la fronte, sospirò, pestò i piedi e poi esclamò di nuovo:— France! Londres! Roma! Madrid! —e accennava l’orizzonte. Voleva dire che aveva visto quei paesi, e forse che una volta sapeva farsi capire nelle nostre lingue; ma che aveva tutto dimenticato. Gli feci altre domande, ma non ne cavai nulla di più di quei quattro nomi. E se n’andò ripetendo:— Madrid! Roma! France! Londres! e fin che ci vide, ci salutò affettuosamente, esprimendo col gesto il rammarico di non poter parlare.—Si trova di tutto fra questa gente,—diceva il Biseo indispettito,—persino degli originali che ci voglion bene; ma non un cane che voglia lasciarsi copiare!—Finora, infatti, tutti gli sforzi dei pittori non hanno approdato a nulla. Si rifiutò persino il nostro fido Selam.—Hai paura del diavolo?—gli domandò l’Ussi.—No,—rispose col suo accento solenne,—ho paura di Dio.

* * *

Siamo saliti sulla cima del monte Zalag, il comandante, l’Ussi ed io, guidati dal capitano di Boccard, carissimo giovane, ugualmente ammirabile per la destrezza del corpo, per la forza dell’animo e per l’acume dell’ingegno. Ci accompagnarono un ufficiale della scorta, tre fantaccini, tre cavalieri e tre servi. Arrivati ai piedi del monte, che è a un’ora e mezzo di cammino a nord-est della città, ci arrestammo per far colezione; dopo di che il capitano mise una mela sulla cima d’un bastone confitto in terra, e sulla mela uno scudo, e fece tirar a segno colla sua rivoltella servi e soldati. Il premio era ghiotto; tirarono tutti con grande impegno; ma essendo la prima volta che pigliavano in mano quell’arma, nessuno colpì, e lo scudo fu regalato all’ufficiale perchè lo dividesse fra tutti. C’era da ridere a vedere gli atteggiamenti che prendevano per aggiustare la mira. Chi rovesciava la testa indietro, chi si curvava tutto avanti, chi premeva il mento sul cane, chi si metteva in guardia come un tiratore di sciabola. Abituati tutti agli atteggiamenti terribili, nessuno sapeva adattarsi all’atteggiamento composto e riposato, che il capitano insegnava. Un soldato venne a domandarci se volevamo dare la mancia a una contadina dalla quale egli aveva preso un vaso di latte per noi. Gli si rispose di sì, ma a patto che la contadina stessa venisse a pigliarla. La contadina venne. Era una donna sui trent’anni, nera, disfatta, coperta di cenci, che avrebbe ispirato ripugnanza anche a un uomo affetto dalla più cieca satiriasi. S’avvicinò a passo lento, coprendosi il viso con una mano, e arrivata a cinque passi da noi, ci voltò le spalle e tese l’altra mano. Quanto si stizzì il Comandante!—Stia tranquilla,—gridò,—non m’innamoro, non perdo la testa, mi posso ancora dominare: Dio de’ dei, che spaventoso pudore!—Le mettemmo una moneta nella mano, raccolse il vaso del latte, prese la corsa verso la sua capanna, e arrivata sulla porta, spezzò il vaso profanato contro un sasso.... Cominciammo la salita, a piedi, accompagnati da una parte della scorta. Il monte è alto circa mille metri sopra il livello del mare, roccioso, ripidissimo, senza sentieri. In pochi minuti il capitano disparve fra le roccie; ma per il Comandante, l’Ussi e me, fu una delle dodici fatiche d’Ercole. Avevamo ciascuno un arabo al fianco, che ci sorreggeva e c’indicava dove mettere il piede; il che non c’impedì di battere molte patte sui pietroni, rammentando con terrore le due prime strofe del Natale d’Alessandro Manzoni. In alcuni punti fummo costretti ad arrampicarci come gatti, aggrappandoci ai cespugli e all’erbe, strisciando sulle roccie, raspando, sgambettando, afferrando le braccia delle nostre guide come il naufrago afferra la tavola di salvamento. Di tratto in tratto vedevamo sopra di noi qualche capra che pareva sospesa sulle nostre teste, tanto era erta la salita; e i sassi, appena tocchi, rotolavano fino ai piedi del monte. Coll’aiuto di Dio, dopo un’ora di stenti, riuscimmo sulla cima, sfiniti, ma senza rotture. Che bellezza di veduta! Giù nel fondo la città, una piccola macchia bianca della forma d’un otto, circondata di mura nere, di cimiteri, di giardini, di case di santo, di torri, e tutta la conca verdissima che la contiene; a sinistra una lunga striscia luccicante, il Sebù; a destra, la grande pianura di Fez, rigata d’argento dal Fiume delle perle e dal Fiume della fontana azzurra; a mezzogiorno, le cime azzurrine della gran catena dell’Atlante; a settentrione, le vette delle montagne del Rif; ad oriente, la vasta pianura ondulata dove è la fortezza di Teza, che chiude il passo fra il bacino del Sebù e il bacino della Muluia; sotto di noi, grandi ondulazioni di terreno, gialle di grano e d’orzo, segnate da innumerevoli sentieri, percorse da lunghissimi filari di aloè giganteschi; una grandezza di linee, una magnificenza di verde, una limpidezza di cielo, un silenzio, una quiete che beava l’anima. Chi direbbe che in questo paradiso terrestre sonnecchia un popolo decrepito, incatenato sopra un mucchio di rovine! Il monte che, visto dalla città, pareva un cono, ha invece una forma allungata, e sulla sommità è tutto roccia. Il capitano era salito sulla punta più alta; noi tre, più curanti della vita, ci sparpagliammo tra le roccie più basse, e ci perdemmo di vista. Fatti pochi passi, all’uscita d’una piccola gola, mi trovai faccia a faccia con un arabo. Mi fermai; si fermò e parve molto meravigliato di vedermi solo. Era un uomo sui cinquant’anni, d’aspetto truce, armato d’un grosso bastone. Ebbi un momento il sospetto che mi volesse accoppare per pigliarmi la borsa; ma con mio gran stupore, invece di assalirmi, mi salutò, sorrise e accennando il mio mento con una mano e accarezzando la propria barba coll’altra, disse due o tre volte non so cosa, che mi parve una domanda, a cui gli premesse d’aver risposta. Punto dalla curiosità, chiamai l’ufficiale della scorta che sa qualche parola di spagnuolo, e lo pregai di dirmi che cosa voleva quell’uomo. Chi l’avrebbe mai potuto immaginare! Per farmi un complimento, e che altro poteva essere? mi aveva domandato così ex abrupto perchè non mi lasciassi crescere tutta la barba, che sarebbe stata più bella della sua! I soldati della scorta ci seguitavano tutti e tre alla distanza d’una ventina di passi, e siccome ogni tanto noi ci chiamavamo l’un l’altro ad alta voce, ed era la prima volta che sentivano i nostri nomi, li trovavano strani, ne ridevano e li ripetevano tra loro con pronuncia moresca, stroppiandoli nella più bizzarra maniera:— Isi! Amigi! —A un certo punto l’ufficiale disse bruscamente:— Scut! (Silenzio!) e tutti tacquero. Il sole era alto, la roccia scottava; anche il capitano, benchè esercitato agli ardori della Tunisia, sentiva il bisogno dell’ombra; per cui, dato un ultimo sguardo alle cime dell’Atlante, scendemmo a rotta di collo, e inforcate alla lesta le nostre selle porporine, ripigliammo la via di Fez, dove si ebbe un’amena sorpresa. La porta di El-Ghisa per la quale dovevamo rientrare in città, era chiusa!—Entriamo per un’altra,—disse il Comandante.—Son tutte chiuse,—rispose l’uffiziale della scorta; e vedendoci stralunar gli occhi, ci spiegò il mistero, dicendo che ogni giorno di festa (era venerdì), fra mezzodì e il tocco, che è l’ora della preghiera, si chiudono tutte le porte di tutte le città, perchè è credenza dei Mussulmani che sarà in un giorno di festa, e appunto in quell’ora, che, non si sa in qual anno, i cristiani s’impadroniranno con un colpo di mano del loro paese. Bisognò dunque aspettare che fosse aperta la porta. E appena entrammo, ci toccò un complimento fiorito. Una vecchia ci mostrò il pugno a un per uno borbottando alcune parole. Domandai all’uffiziale che cosa significavano.—Nulla, nulla,—rispose;—è una sciocca. Insistetti, assicurandolo che, qualunque cosa avesse detto, non me ne avrei avuto per male.—Ebbene,—disse allora l’ufficiale sorridendo;—è un modo di dire del paese: gli ebrei all’uncino, i cristiani.... allo spiedo.

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Il medico ha operato un malato di cateratta, coram populo, nel giardino del palazzo. C’era una folla di parenti, d’amici, di soldati, di servi, parte disposti in circolo intorno al malato, gli altri in una lunga fila che dal luogo dell’operazione si stendeva fino alla porta di strada, dove un’altra folla stava aspettando. Il malato era un vecchio moro cieco affatto da più di tre anni. Al momento di mettersi sulla seggiola, si arrestò come impaurito; poi sedette con un movimento risoluto, e non diede più segno di debolezza. Mentre il medico operava, tutta quella gente pareva petrificata. I bimbi stavano stretti alle sottane delle donne e queste abbracciate fra di loro, in atteggiamenti di terrore, come se assistessero a un esecuzione capitale. Non si sentiva un respiro. Noi pure, per l’importanza «diplomatica» dell’operazione, stavamo in grande ansietà.... Tutt’a un tratto il malato gettò un grido di gioia e cadde in ginocchio. Aveva sentito la prima impressione della luce. Tutta la gente ch’era nel giardino salutò il medico con un urlo, a cui rispose un altro urlo della folla radunata nella strada. I soldati fecero immediatamente uscir tutti, fuor che il malato, dal recinto del palazzo, e in poche ore si sparse per tutta Fez la notizia dell’operazione meravigliosa. Fortunato dottore! Egli ne colse il premio la sera medesima, visitando le più belle donne dell’arem del gran sceriffo Bacali, che gli si mostrarono col viso scoperto, in tutta la pompa dei loro vestimenti principeschi, e gli parlarono languidamente dei propri dolori, fissandogli negli occhi i loro sguardi infocati. Che può fare di tante donne il vecchio gran sceriffo? Quello forse che facevano delle proprie i cortigiani mutilati dei Faraoni d’Egitto, delli Scià di Persia, degl’Imperatori greci di Costantinopoli e dei Sultani di Stambul. Visitò, fra le altre, una bellissima nera, di forme matronali, coperta d’anelli, di braccialetti e di collane; la quale, come quasi tutte le altre, si doleva d’un grande languore. Il medico la interrogò intorno alle cagioni del suo male.

—Non potresti,—essa gli rispose—suggerirmi la medicina senza farmi queste domande?

Il medico rispose che le faceva quelle domande per necessità.

—I cristiani,—disse la donna,—sono molto curiosi.

—E quando la loro curiosità non vien soddisfatta,—rispose il medico,—essi indovinano.

—E che cosa hai indovinato?

Il medico espresse il suo pensiero e la nera si coperse il viso.

Io pure gli domandai che cosa avesse indovinato; ma non rispose altro che:—Lesbo! Lesbo!

* * *

Viene di tratto in tratto qualche spagnuolo rinnegato a cercare il signor Patxot. Si dice che questi disgraziati siano intorno a trecento in tutto l’Impero. I più sono spagnuoli, condannati per delitti comuni, che fuggirono dalle galere della costa; gli altri, in parte disertori francesi, fuggiti dall’Algeria; in parte canaglia avventuriera venuta da differenti paesi d’Europa. In altri tempi salivano ad alte cariche nella corte e nell’esercito, formavano corpi militari speciali ed erano lautamente pagati. Ma ora le loro condizioni son molto mutate. Appena giungono, abiurano la religione cristiana e abbracciano l’Islamismo, senza circoncisione nè altre cerimonie, pronunziando semplicemente una formula. Nessuno bada poi che adempiano o no i doveri religiosi; i più, infatti, non metton mai piede nelle moschee e non sanno neppure le preghiere. Per legarli al paese il Sultano esige che si sposino subito. Dà a chi la vuole una delle sue nere, gli altri possono sposare una mora o un’araba libera; a tutti il Sultano fa le spese del matrimonio. Si debbono tutti arrolare nell’esercito; ma possono esercitare nello stesso tempo qualche mestiere. La maggior parte appartengono all’artiglieria, e parecchi alla banda musicale, il cui capo è uno spagnuolo. I soldati ricevono cinque soldi al giorno e gli ufficiali venticinque o trenta: chi ha qualche talento speciale può guadagnare fino a due lire. In questi giorni, per esempio, si parla molto d’un rinnegato tedesco, dotato d’un certo ingegno meccanico, che s’è fatto una sorte invidiabile. Costui, non si sa perchè, fuggì nel settantatrè da Algeri, andò a Tafilet, sul confine del deserto; vi stette due anni, imparò l’arabo, venne a Fez, s’arrolò, e in alcuni giorni, con pochi strumenti che aveva portati con sè, costrusse una rivoltella. L’avvenimento fece chiasso; la rivoltella passò di mano in mano fin che giunse al Ministro della guerra; il Ministro ne parlò all’Imperatore; l’Imperatore volle vedere il soldato, l’incoraggiò, gli diede dieci lire ed elevò la sua paga giornaliera a quaranta soldi. Ma queste fortune son rare. Quasi tutti vivono miseramente e in un tale stato d’animo, che per quanto si sappian macchiati di gravi delitti, ispirano piuttosto compassione che orrore. Ieri se ne presentarono due, rinnegati da parecchi anni, che hanno moglie e figliuoli nati a Fez. Uno ha circa trent’anni, l’altro cinquanta; tutt’e due spagnuoli fuggiti da Ceuta. Il giovane non parlò. L’altro disse d’esser stato condannato ai lavori forzati per aver ucciso un uomo nell’atto che bastonava a morte suo figlio. Era pallido e parlava con voce commossa, stropicciando un fazzoletto colle mani tremanti.—Se mi promettessero di non tenermi più che altri dieci anni in galera,—diceva,—ci tornerei. Ho cinquant’anni, uscirei a sessanta, potrei vivere ancora qualche anno nel mio paese. Ma è l’idea di morire colla divisa del galeotto indosso che mi spaventa. Tornerei in galera a qualunque patto, purchè fossi sicuro di morire libero in Spagna. Questa che meniamo qui non è vita. Siamo come in mezzo a un deserto. È una cosa che sgomenta. Tutti ci disprezzano. La nostra stessa famiglia non è nostra, perchè i figliuoli non ci amano e sono incitati da tutti ad odiarci. E poi non si dimentica mai la religione in cui s’è nati, le chiese dove nostra madre ci condusse a pregare, i suoi consigli, il tempo più bello della nostra vita... e queste memorie.... siamo rinnegati, siamo galeotti, è vero; ma infine siam sempre uomini... queste memorie ci straziano l’anima!—Dicendo questo, piangeva.

* * *

La pioggia che vien giù dirottamente da quasi tre giorni, ha ridotta Fez in uno stato che, a descriverlo, c’è da non esser creduti. Non è più una città, è un’immensa cloaca. Le strade son gore; i crocicchi, laghi; le piazze, paludi; la gente a piedi sprofonda nella melma fino a mezzo lo stinco; le case sono impillaccherate fin sopra le porte; uomini, cavalli, muli, par che si siano ravvoltolati nel fango, e i cani ne sono addirittura vestiti in modo che non mostran più un pelo. Non si vede che pochissima gente, la maggior parte a cavallo; e non un ombrello, ma neppure alcuno che affretti il passo per non pigliare la pioggia. Fuori del quartiere dei bazar, tutto è deserto e oscuro che stringe il cuore. Per tutto acqua che corre, precipita e ringorga, travolgendo ogni sorta di putridumi, e non una voce, non un rumore umano che rompa la monotonia di quello strepito assordante. Pare una città abbandonata dagli abitanti nel momento d’una inondazione. Dopo una passeggiata d’un’ora, son tornato a casa pieno di malinconia, e ho passato parecchie ore nella mia stanza, col viso all’inferriata e gli occhi fissi su gli alberi sgocciolanti del giardino, pensando a un povero corriere che forse in quei momenti passava a nuoto, a rischio della vita, il Sebù ingrossato, stringendo fra i denti una borsa di cuoio con dentro una lettera di mia madre.

* * *

Chi dice e chi nega che sia stata fatta in questi giorni un’esecuzione capitale davanti a una porta di Fez. Nessuna testa però fu vista spenzolare dalle mura ed io preferisco credere che la notizia sia falsa. La descrizione, che io lessi, d’una esecuzione capitale fatta a Tangeri anni sono, mi tolse la barbara curiosità, che mi solleticò qualche volta, di assistere a uno di questi spettacoli.

L’inglese Drummond Hay, uscendo una mattina da una porta di Tangeri, vide un drappello di soldati che trascinavano verso il macello degli ebrei due prigionieri legati per le braccia e per la vita. Uno era un montanaro del Rif, antico giardiniere d’un europeo domiciliato a Tangeri; l’altro un bel giovane, d’alta statura, di fisonomia aperta e simpatica.

L’inglese domandò al capo dei soldati che delitto avessero commesso quei due disgraziati.

—Il Sultano,—rispose,—che Dio prolunghi i suoi giorni! ha ordinato di tagliar loro la testa perchè facevano commercio di contrabbando sulla costa del Rif cogl’infedeli Spagnuoli.

—È un castigo ben severo per una simile colpa,—osservò l’inglese;—e se il loro supplizio deve servire d’avvertimento e d’esempio, perchè è stato proibito agli abitanti di Tangeri d’assistervi?

(Le porte della città erano state chiuse. Drummond Hay s’era fatto aprire dando una mancia a un custode).

—Non ragionate con me, Nazareno!—rispose l’ufficiale;—ho ricevuto un ordine, debbo ubbidire.

La decapitazione doveva farsi nel macello degli ebrei. Un moro d’aspetto volgare e perverso, vestito da macellaio, stava là ad aspettare i condannati. Aveva in mano un piccolo coltello lungo circa sei pollici. Era il carnefice. Straniero alla città, egli s’era offerto a quell’opera perchè i macellai maomettani di Tangeri, che sono ordinariamente incaricati delle esecuzioni capitali, s’erano rifugiati in una moschea.

Nacque un alterco fra i soldati e il carnefice a cagione della ricompensa promessa a costui per la decapitazione dei due infelici, i quali, ritti in disparte, eran costretti a sentir disputare sul prezzo del loro sangue. Il carnefice insisteva, dicendo ch’egli aveva pattuito venti lire per una sola testa e che glien’erano dovute altre venti per l’altra. L’ufficiale finì per acconsentire di mala grazia. Allora il macellaio afferrò il primo condannato, già mezzo morto di terrore, lo gettò a terra, gli s’inginocchiò sul petto e gli mise il coltello alla gola. Drummond Hay torse il viso. Gli parve che seguisse una lotta violenta. Il carnefice gridava:—Datemi un altro coltello; il mio non taglia!—Il condannato giaceva in terra supino colla gola mezz’aperta, il petto ansante, tutte le membra contratte. Fu dato un altro coltello al carnefice e la testa venne spiccata dal busto.

I soldati gridarono con voce fioca:—Dio prolunghi la vita del nostro signore e padrone!—Ma parecchi di essi parevano istupiditi dal terrore.

Venne innanzi l’altra vittima. Era il giovane bello e simpatico. Il suo sangue fu argomento d’un altro alterco. L’ufficiale, rinnegando la sua parola, disse che non avrebbe pagato che venti lire per tutt’e due le teste. Il carnefice dovette rassegnarsi. Il condannato domandò che gli fossero sciolte le mani. Sciolto che fu, si tolse la cappa, e porgendola al soldato che gli aveva tolto la corda, gli disse:—Accettate questo; ci rivedremo in un mondo migliore!—Gettò il suo turbante a un altro, che lo aveva guardato con aria di pietà, e dirigendosi a passo fermo dove era disteso il cadavere insanguinato del compagno, esclamò con voce chiara e sicura:—Non c’è altro Dio che Dio e Maometto è il suo profeta!—Voltandosi poi verso il carnefice, si tolse la cintura e gliela porse dicendo:—Prendete! Ma per l’amor di Dio tagliatemi la testa più presto di quello che avete fatto al mio fratello.—Si distese per terra, nel sangue, e il carnefice gli mise il ginocchio sul petto.

—Un contrordine! fermate!—gridò l’inglese.

Un cavaliere s’avanzava a briglia sciolta.

Il carnefice tenne il coltello sospeso.

—Non è che il figliuolo del Governatore,—disse un soldato.—Egli viene a vedere l’esecuzione. Aspettatelo.

Così era infatti.

Poco dopo le due teste sanguinose pendevano dalle mani dei soldati.

Le porte della città furono aperte e ne uscì una turba di ragazzi che prese il carnefice a sassate e lo inseguì fino a tre miglia dalla città, dove cadde svenuto, tutto coperto di ferite. Il giorno dopo si seppe che era stato ucciso con una fucilata da un parente d’una delle vittime, e sotterrato nel luogo stesso dov’era caduto. Pare che le Autorità di Tangeri non giudicassero opportuno di occuparsi di questo fatto, perchè l’uccisore tornò in città e non fu molestato.

Dopo essere state esposte tre giorni, le teste furono mandate al Sultano affinchè sua maestà imperiale riconoscesse la sollecitudine colla quale erano stati eseguiti i suoi ordini.

I soldati che le portavano incontrarono per via il corriere che recava la grazia, il quale era stato arrestato dalla cresciuta improvvisa d’un fiume.

* * *

Trovo sovente dei negozianti di Fez che son stati in Italia. Ce ne vanno ogni anno da quaranta a cinquanta, e parecchi hanno agenti mori od arabi nelle nostre città principali. Vanno particolarmente nell’alta Italia dove comprano seta greggia, damaschi, coralli, velluti, refe, porcellane, perle, conterie di Venezia, carte da giuoco di Genova e mussolina di Livorno. Di proprio non ci portano che cera e lana, poichè l’industria marocchina è molto ristretta, e si può dir che le stoffe, le armi, le pelli e il vasellame sono i soli prodotti che chiamino l’attenzione d’un Europeo. Le stoffe si fanno principalmente in Fez e in Marocco. Sono caic per donne, turbanti signorili, ciarpe, foulards, tessuti sottilissimi di seta frammisti d’oro e d’argento, per lo più a righe diritte e parallele, bianchi o di colori gentili ed armonici, bellissimi a primo aspetto, ma disuguali, se si guardano bene, e ingommati, e poco resistenti. Forti, invece, e finissime le berrettine di lana rossa, che prendono il nome dalla città di Fez, e ammirabili per solidità e graziosa ricchezza di colori i tappeti che si fanno a Rabat, a Casa Blanca, a Marocco, a Sciadma, a Sciauia. Da Tetuan provengono in gran parte i fucili damascati, inargentati, intarsiati d’avorio, tempestati di pietre preziose, di forme eleganti e leggiere; e dalle città di Mechinez e di Fez, e dalla provincia del Sus le armi bianche, fra cui son lavorati con grazia ammirabile i pugnali. I cuoi, sorgente precipua di guadagno per il paese, si preparano abilmente in varie provincie, e le pelli scarlatte di Fez, le gialle di Marocco, le verdi di Tafilet sono ancora degne della loro antica reputazione. Di Fez è un vanto particolare il vasellame di terra smaltata; ma è raro il trovarvi la nobile purezza delle forme antiche, e il suo principale pregio è la vivacità dei colori e una certa barbara originalità di disegno, che non appaga, ma seduce l’occhio. V’è pure, in Fez, un gran numero di gioiellieri e d’orefici, che fanno cose semplici non prive di buon gusto; ma poco variate, e in piccolo numero, poichè il rito malekita proscrive lo sfoggio degli ornamenti preziosi come contrario all’austerità maomettana. Notevoli, più dei gioielli, i mobili che vengon da Tetuan: specie di scaffali, attaccapanni, piccole tavole poligonali per prendere il tè, arcate, arabescate e dipinte di mille colori; i vassoi di rame, incisi di disegni complicati e ornati di smalti verdi, rossi ed azzurri; e sopra ogni cosa, i musaici dei pavimenti e delle pareti, composti con gusto squisito da operai abilissimi, che formano ad uno ad uno, a colpi di piccozza, le stelle e i quadrettini innumerevoli, con una precisione meravigliosa. Nessun dubbio che questo popolo è dotato di mirabili attitudini, e che le industrie sue piglierebbero un grande incremento, come lo piglierebbe l’agricoltura, che fu già fiorentissima, se le desse vita il commercio; ma il commercio è inceppato dalle proibizioni, dalle restrizioni, dai monopoli, dalle tariffe eccessive, dalle modificazioni continue, dalla inosservanza dei trattati; e benchè gli Stati d’Europa abbiano molto ottenuto in questi ultimi anni, esso non è ancora che piccolissima cosa appetto a ciò che diventerebbe agevolmente, grazie alla ricchezza naturale e alla posizione geografica del paese, sotto un governo civile. Il commercio principale, dalla parte d’Europa, è coll’Inghilterra; dopo la quale vengon la Francia e la Spagna, che danno cereali, metalli, zucchero, tè, caffè, seta greggia, tessuti di lana e di cotone, e ricevono lana, pelli, frutti, sanguisughe, gomme, cera e gran parte dei prodotti dell’Affrica centrale. Il commercio che si fa per Fez, Taza e Udjda (e non è di piccola importanza, benchè minore assai di quello che la vicinanza dei due paesi dovrebbe produrre) comprende, oltre i tappeti, i tessuti, le cinture, i cordoni, e tutti gli oggetti del vestiario arabo e moresco, braccialetti e anelli da piede d’argento e d’oro, vasi di Fez, musaici, profumi, incenso, antimonio per gli occhi, hennè per le unghie e tutte le altre tinture del bel sesso affricano. Più importante, più antico e più regolare il commercio coll’interno dell’Affrica, per dove partono ogni anno grandi carovane, portando stoffe di Fez, panni inglesi, conteria veneziana, corallo d’Italia, polvere, armi, tabacco, zucchero, specchietti di Germania, pennati d’Olanda, scatolette del Tirolo, chincaglierie d’Inghilterra e di Francia, e sale che raccolgono per via nelle oasi del Sahara; e il loro viaggio è come una fiera ambulante nella quale cambiano le proprie mercanzie con schiavi neri, polvere d’oro, penne di struzzo, gomma bianca del Senegal, gioielli d’oro di Nigrizia che vanno poi in Europa e in Oriente; stoffe nere di cui s’ornano il capo le donne moresche; bezoaro, che preserva gli arabi dai veleni e dalle malattie; e molte droghe che, abbandonate dall’Europa, conservano il loro antico valore nell’Affrica. Qui sta, per l’Europa, l’importanza maggiore del Marocco: porta principale della Nigrizia; la quale aperta, s’incontreranno il commercio europeo e il commercio dell’Affrica centrale. Frattanto la civiltà e la barbarie se ne contendon la soglia.

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L’Ambasciatore ha frequenti abboccamenti con Sid-Mussa. Il suo intento principale è d’ottenere dal governo dei Sceriffi delle concessioni che agevolerebbero certi commerci fra l’Italia e il Marocco: di più non mi è lecito dire. Gli abboccamenti durano più di due ore; ma il discorso non si aggira che brevissimo tempo sulle questioni che ne sono lo scopo, poichè il ministro, seguendo un uso che par tradizionale nella politica del governo marocchino, non entra in materia che dopo aver divagato su mille soggetti estranei, e quando proprio ci è tirato per forza.—Parliamo ancora un po’ di cose divertenti!—dice quasi in tuono di preghiera. Il tempo, la salute, l’acqua di Fez, le proprietà di certi tessuti, qualche aneddoto storico, dei proverbi, quanta sia la popolazione di certi Stati d’Europa: son tutti discorsi più gradevoli che il parlar d’affari.—Che ne dite di Fez?—domandò un giorno, e inteso dir ch’era bella:—Ha ancora un altro merito—soggiunse;—quello di esser pulita.—Un altro giorno domandò quant’era la popolazione del Marocco. Ma bisogna pure venirci, a parlar d’affari; e allora sono lunghi giri di parole, esitazioni, reticenze, un dire e non dire, un mettere innanzi mille dubbi a un consenso già dato dentro al cuore, un negare fingendo d’accondiscendere, uno sguisciar di mano, un lasciar cascare continuamente il discorso al momento di stringere il nodo, e poi quell’eterno spediente:—A domani.—Il dì dopo, ricapitolazione delle cose dette il dì innanzi, nuovi dubbi, restrizioni, riconoscimento di equivoci, rammarico di non aver ben inteso e di non essersi fatto bene intendere, e sudori dell’interprete incaricato di chiarire le cose. E poi conviene aspettare il ritorno dei corrieri mandati a Tangeri e a Tafilet ad assumere informazioni; informazioni di poco conto, ma che servono a rimandare lo scioglimento della quistione a dieci giorni più tardi. E in fine tre grandi ostacoli ad ogni cosa: il fanatismo del popolo, l’ostinazione degli ulema, la necessità di procedere cautamente, senza scosse, senza farsi scorgere, con una lentezza che abbia apparenza d’immobilità, se non è possibile di retrocessione. Qualche volta, messo a questi ferri, anche Giobbe direbbe la sua; ma vengon poi le calde strette di mano, i dolci sorrisi, le dimostrazioni d’una simpatia irresistibile e d’un affetto che non si spegnerà che colla vita. L’affare più duro è quello del grosso moro Scellal, e si dice che ne dipenda la sorte di tutta la sua vita: perciò egli è nel palazzo a tutte le ore, ravvolto nel suo ampio caic, inquieto, pensieroso, qualche volta colle lagrime agli occhi, e tien sempre fisso sull’Ambasciatore uno sguardo supplichevole, che par quello d’un condannato a morte che domandi la grazia. Mohammed Ducali, invece, che ha il vento in poppa, è tutto festante, fuma, si profuma, cambia ogni giorno di caffettano e spande da ogni parte vezzi, parole soavi e sorrisi. Eh! se non ci fosse di mezzo la sudditanza italiana, come quei sorrisi si cangierebbero presto in lacrime di sangue!

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Esperimentiamo in questi giorni la verità di quello che ci fu detto a Tangeri circa agli effetti dell’aria di Fez. Ma son poi effetti dell’aria o dell’acqua? o dell’olio scellerato? o del burro infame? o di tutte queste cose insieme? Comunque sia, è un fatto che stiamo tutti male. È languidezza, disappetenza, prostrazione di forze, pesantezza del capo, e quel ch’è più grave, un’abitudine, contratta da tutti, di attraversare di tratto in tratto il cortile rapidissimamente, senza voltarsi indietro, come se fossimo inseguiti. Strana debolezza! E a tutti questi malanni s’aggiunge un tedio, un fastidio d’ogni cosa, una tetraggine, che da qualche giorno ha fatto mutar faccia alla casa. Tutti desiderano il ritorno. Siamo giunti a quel punto inevitabile di tutti i viaggi, in cui tutt’a un tratto la curiosità si smorza, ogni cosa si scolora, le memorie della patria rincalzano in folla; tutti i desiderii, soffocati nei primi giorni, si risollevano in tumulto; e da qualunque parte si rivolga lo sguardo, si vede la nostra porta di casa. Siamo sazi di turbanti, di faccie nere, di moschee; stanchi d’aver mille occhi addosso, annoiati di questa immensa mascherata bianca a cui assistiamo da due mesi. Quanto si darebbe soltanto per veder passare, foss’anche di lontano, una signora europea! per sentire il suono d’una campana! per vedere sopra il muro d’una casa un manifesto del teatro delle marionette! Oh dolcissime memorie!

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Ho scoperto che fra i soldati di guardia al palazzo ve n’è uno a cui manca l’orecchio destro, e mi fu detto che gli fu tagliato legalmente, in presenza di testimoni, da un altro soldato al quale egli aveva mozzato l’orecchio medesimo qualche tempo prima. Tale è la legge del taglione che vige nel Marocco. Non solo un parente qualunque d’una persona uccisa ha il diritto d’ammazzar l’uccisore lo stesso giorno della settimana, alla stess’ora e nel luogo stesso dove cadde la vittima, ferendolo colla medesima arma nella medesima parte del corpo; ma chiunque venga privato d’un membro qualsiasi, ha diritto di privare dello stesso membro il suo feritore. Un fatto di questa natura, accompagnato da circostanze singolarissime, è accaduto, anni sono, a Mogador, e ce lo raccontò un impiegato del Consolato francese, che conobbe, a quanto pare, una delle due vittime. Un negoziante inglese di Mogador rientrava in città la sera d’un giorno di mercato, nel momento in cui la porta era ingombra da una folla di campagnuoli che conducevano asini e cammelli. Quantunque gridasse a squarcia gola:— bal ak! bal ak! (largo! largo!), una vecchia mora fu urtata dal suo cavallo, stramazzò e picchiò il viso contro un sasso. Disgrazia volle che in quel picchio gli si rompessero gli ultimi due denti anteriori. Rimase un momento sbalordita; poi si rialzò rabbiosa e convulsa, e prorompendo in ingiurie e in maledizioni feroci, dopo aver seguitato l’inglese fino a casa, andò a domandare al Caid, in virtù della legge del taglione, che facesse rompere due denti al nazareno. Il Caid cercò di pacificarla e la consigliò a perdonare; ma non venendo a capo di nulla, la congedò promettendo di farle render giustizia, colla speranza che si sarebbe calmata a poco a poco e avrebbe desistito dal suo proposito. Ma passati tre giorni, la vecchia si ripresenta più inferocita che mai, chiede giustizia, vuole che si pronunzi una sentenza formale contro il cristiano.—Ricordati,—dice al Caid,—che me l’hai promesso!—E che!—risponde il Caid;—mi pigli tu forse per un cristiano che mi credi schiavo della mia parola?—Ogni giorno, per un mese, la mora assetata di vendetta si presenta alla porta della cittadella, e tanto grida, strepita e impreca, che il Caid, per liberarsene, si trova costretto ad esaudirla. Chiama il negoziante, gli espone la querela della vittima, il diritto che le dà la legge, il dovere che impone a lui la promessa, e lo prega, per finirla di lasciarsi levare due denti, due qualunque, benchè, in giusta regola, debbano essere due denti incisivi. L’inglese si rifiuta per gl’incisivi, pei canini e pei molari; e il Caid è costretto a rimandare definitivamente la vecchia, ordinando alle guardie di non lasciarle più metter piede nella Casba.—Sta bene;—dice essa;—poichè qua non vi son più che mussulmani degenerati, poichè si rifiuta la giustizia a una mussulmana, madre di sceriffi, contro un cane d’infedele, andrò a trovare il Sultano, e vedrò se il principe dei credenti rinnega anche lui la legge del profeta.—Fedele alla sua parola, si mette in cammino, sola, con un amuleto in seno, un bastone in mano e una bisaccia a tracolla, e fa a piedi le cento leghe che separano Mogador dalla città sacra dell’Impero. Arrivata a Fez, chiede un’udienza al Sultano, gli si presenta, gli espone il suo caso e domanda, giusta il diritto che le accorda il Corano, l’applicazione della legge del taglione. Il Sultano la esorta a perdonare: essa insiste. Le dicono le difficoltà gravissime che si oppongono alla soddisfazione della sua domanda:—che il Console d’Inghilterra negherà il suo consenso, che il governo si troverà impicciato in una quistione grave, che non si può, per una cagione così futile, mettere a repentaglio la pace dell’Impero e turbare la buona amicizia che lega il Governo dei sceriffi alla potente Inghilterra.—La vecchia mora rimane inesorabile. Le offrono, perchè desista, una somma di denaro, colla quale potrà passare il resto dei suoi giorni nell’agiatezza. Rifiuta.—Che faccio io dei vostri denari?—soggiunge;—io son vecchia e abituata a vivere miseramente; quello che voglio sono i due denti del cristiano; li voglio, li pretendo, li domando in nome del Corano; e il Sultano, principe dei credenti, capo dell’islamismo, padre dei suoi sudditi, non può rifiutare di render giustizia a una mussulmana.—Questa ostinazione mise il Sultano in un grave imbarazzo; la legge era formale e il diritto incontestabile; e il fermento del popolo, eccitato dalle declamazioni fanatiche della donna, rendeva pericoloso il rifiuto. Il Sultano, che era Abd-er-Rahman, scrisse al console inglese domandandogli, come un favore, che inducesse il suo concittadino a lasciarsi rompere i due denti. Il mercante rispose al console che non avrebbe mai acconsentito. Allora il Sultano riscrisse dicendo che, se acconsentiva, gli avrebbe accordato, per ricompensa, qualunque privilegio commerciale gli piacesse di domandare. Questa volta, solleticato nella borsa, il mercante cedette. La vecchia partì da Fez benedicendo il nome del pio Abd-er-Rahman, e ritornò a Mogador, dove in presenza sua e di molto popolo, furono rotti due denti al nazareno. Quando li vide cadere in terra, gettò un grido di trionfo e li raccolse con gioia feroce. Il mercante, grazie ai privilegi che gli furono accordati, in meno di due anni si fece una bella fortuna, e tornò in Inghilterra sdentato e felice.

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Più studio questi mori e più tendo a credere che non siano molto lontani dal vero, come mi parvero da principio, i giudizii dei viaggiatori, i quali sono concordi nel chiamarli una razza di vipere e di volpi, falsi, pusillanimi, umili coi forti, insolenti coi deboli, rosi dall’avarizia, divorati dall’egoismo, accesi delle più abbiette passioni che possano capire nel cuore umano. Come potrebbe essere altrimenti? La natura del governo e lo stato della società non permettono loro alcuna virile ambizione; trafficano e brigano, ma non conoscono il lavoro che affatica e rasserena; sono digiuni affatto d’ogni piacere che derivi dell’esercizio dell’intelligenza; non si curano dell’educazione dei propri figliuoli; non hanno nessun nobile scopo alla vita; si danno dunque con tutta l’anima e per tutte le vie ad ammassar danaro e dividono il tempo che loro riman libero da questa cura fra un ozio sonnolento che li sfibra e una venere cieca, smodata e grossolana, che gli abbrutisce. In questa vita effeminata diventano naturalmente pettegoli, vanitosi, piccoli, maligni; si lacerano la reputazione, gli uni cogli altri, con una rabbia spietata; mentono per abitudine, con un’impudenza incredibile; affettano animo caritatevole e religioso, e sacrificano l’amico per uno scudo; disprezzano il sapere e accolgono le più puerili superstizioni del volgo; fanno il bagno tutti i giorni e tengono il sudiciume a mucchi nei recessi della casa; e aggiungono a tutto questo un orgoglio satanico, dissimulato, quando occorre, da maniere umili e insieme dignitose, che paiono indizio d’animo gentile. E così m’ingannarono nei primi giorni; ma ora son persuaso che l’ultimo di costoro crede, in fondo al cuore, di valer infinitamente più di tutti noi messi in un mazzo. Gli arabi nomadi conservano almeno la semplicità austera dei costumi antichi, ed i Berberi selvaggi hanno lo spirito guerriero, il coraggio, l’amore dell’indipendenza. Costoro soli congiungono in sè barbarie, depravazione e superbia, e son la parte più potente della popolazione dell’Impero: quella che dà i negozianti, gli ulema, i tholba, i Caid, i pascià; che possiede i ricchi palazzi, i grandi arem, le belle donne, i tesori nascosti; riconoscibile alla pinguedine, alla carnagione chiara, all’occhio astuto, ai grossi turbanti, all’andatura maestosa, alla fiaccona, ai profumi, alla boria.

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Il moro Scellal ci condusse a prendere il tè in casa sua. Entrammo per uno stretto corridoio in un cortiletto oscuro, ma bellissimo; bellissimo, ma sucido quanto le più sucide case del ghetto d’Alkasar. Fuor che i musaici del pavimento e dei pilastri, tutto era nero, crostoso, viscoso, schifoso. Vi sono due stanzine buie a terreno; al primo piano, gira una galleria, e sulla sommità dei muri il parapetto della terrazza. Il grosso moro ci fece sedere davanti alla porta della sua stanza da letto, ci diede il tè e dei dolci, ci bruciò dell’aloè, ci spruzzò d’acqua di rosa e ci presentò due suoi bambini graziosissimi, che s’avvicinarono a noi bianchi dalla paura e tremarono come foglie sotto le nostre carezze. Dal lato opposto del cortile v’era una ragazza nera d’una quindicina d’anni, non vestita d’altro che d’una camicia tagliata da una parte in modo che lasciava vedere la gamba nuda dal fianco fino al piede, e stretta alla cintura, che segnava tutte le forme del corpo: il più snello, il più elegante, il più seducente corpo di donna, lo attesto sul capo del signor Ussi, ch’io abbia visto nel Marocco fino al momento in cui scrivo. Era una schiava. Stava appoggiata a un pilastro colle braccia incrociate sul seno e ci guardava con aria di suprema indifferenza. Poco dopo uscì da una porticina un’altra nera, una donna sui trent’anni, d’alta statura, di viso austero, di forme robuste, diritta come il fusto d’un aloè, la quale, per quello che ci parve, doveva essere una favorita del padrone, poichè gli si avvicinò famigliarmente, gli susurrò alcune parole nell’orecchio e gli tolse una festuca dai baffi, premendogli la mano sulle labbra, con un certo atto tra sbadato e carezzevole, di cui il moro sorrise. Alzando gli occhi, vedemmo tutta la galleria del primo piano e tutto il parapetto della terrazza coronati di teste di donne, che si nascosero immediatamente. Era impossibile che fossero tutte donne della casa. Quelle della casa avevano senza dubbio annunziato la visita dei cristiani alle amiche delle case vicine, e queste dalle loro terrazze s’erano arrampicate o buttate giù sulla terrazza dello Scellal. In un momento che guardavamo in su, ce ne passarono accanto tre come tre larve, col capo tutto coperto, e sparirono in una porticina. Erano tre amiche che non avendo potuto entrare in casa per la terrazza, avevano dovuto rassegnarsi a entrar per la porta; e un momento dopo comparirono le loro teste sopra il parapetto della galleria. La casa, insomma, s’era convertita in teatro, e noi eravamo lo spettacolo. Le spettatrici, tutte velate, cinguettavano, ridevano sommessamente, facevano capolino e si ritiravano con una rapidità che pareva che scattassero; ad ogni nostro movimento, corrispondeva un leggero mormorìo; ogni volta che alzavamo la testa, seguiva un gran tumulto nei palchi di prim’ordine; si capiva che si divertivano, che raccoglievano materia per un mese di conversazione, che non stavano in sè dal piacere di trovarsi, così inaspettatamente, dinanzi a uno spettacolo tanto bizzarro e tanto raro! E noi, compiacenti, concedemmo loro questo spettacolo per quasi un’ora; silenziosi, però, e tediati; effetto che produce, dopo qualche tempo, ogni casa moresca, per quanto sia cortese l’ospitalità che vi si riceve. Poichè, dopo aver ammirato i bei musaici, le belle schiave e i bei bimbi, si cerca quasi istintivamente la persona che incarna la vita domestica, che rappresenta la gentilezza e l’onore della casa, che suggella l’ospitalità, che colora la conversazione, che vi alita nell’anima l’aura dei Lari;—si cerca, insomma, la perla di questa conchiglia;—e non vedendo che donne a cui il padrone dà gli amplessi e non il cuore, e figliuoli di madri sconosciute, e tutta la casa personificata in un solo, l’ospitalità riesce una fredda cerimonia, e nell’ospite spariscono i tratti simpatici d’un amico che v’onora, sotto l’aspetto d’un sensuale e odioso egoista.

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Non c’è dubbio che questa gente, se proprio non ci odia, almeno non ci può patire, e non gliene mancano, tra buone e cattive, le ragioni. Nei discendenti dei mori di Spagna, molti dei quali conservano ancora chiavi di città andaluse e titoli di possessione di terre e di case di Siviglia e di Granata, è viva particolarmente l’avversione alla Spagna, da cui i loro padri furono spogliati, sterminati, banditi. Tutti gli altri odiano generalmente tutti i cristiani, non solo perchè quest’odio è istillato loro nelle scuole e nelle moschee fin dall’infanzia, collo scopo di renderli avversi ad ogni commercio colle genti civili;—commercio che, scemando la superstizione e l’ignoranza, scalzerebbe le fondamenta dell’edifizio politico e religioso dell’Impero;—ma perchè hanno tutti in fondo all’anima il vago sentimento d’una forza espansiva, crescente, minacciosa degli Stati europei, dalla quale tosto o tardi saranno schiacciati. Sentono rumoreggiare la Francia alle loro frontiere di levante; vedono gli Spagnuoli fortificati sulla loro costa del Mediterraneo; Tangeri, occupata da un’avanguardia di cristiani; le città occidentali, guardate da negozianti europei distesi su tutta la costa dell’Atlantico come una catena di sentinelle avanzate; ambasciate che percorrono il paese in tutte le direzioni, per recare dei doni al Sultano, in apparenza, ma in realtà, pensan loro, per vedere, scrutare, fiutare, corrompere, preparare il terreno; sentono, insomma, la minaccia perpetua d’un’invasione e immaginano quest’invasione accompagnata da tutti gli orrori dell’odio e della vendetta, persuasi, come sono, che i Cristiani nutrano contro i Mussulmani gli stessi sentimenti che nutrono loro contro di noi. Come possono poi cangiare quest’avversione in simpatia vedendo noi, stretti nei nostri abiti impudichi, che segnano le forme; vestiti di colori sinistri; noi, carichi di taccuini, di cannocchiali, di strumenti misteriosi, che ci ficchiamo per tutto, notiamo tutto, misuriamo tutto, vogliamo saper tutto; noi che ridiamo sempre e non preghiamo mai; noi irrequieti, chiaccheroni, beoni, fumatori, pieni di pretese, e pitocchi, che abbiamo una donna sola, e non un servo dei nostri paesi! E si formano dell’Europa un’idea oscura, come d’un’immensa congerie di popoli turbolenti, dove regni una vita febbrile, tutta ambizioni ardenti, vizi sfrenati, tumulti, viaggi, imprese temerarie, un affanno, un rimescolìo vertiginoso, una confusione di Babelle, che dispiace a Dio.

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Oggi gran rumore nel palazzo, a cagione del primo ed unico tentativo di conquista amorosa, fatto da un cristiano del basso personale dell’ambasciata. Questo buon giovane, al quale cominciava a pesare, a quel che sembra, la vita diplomaticamente austera che si mena da quaranta giorni; avendo visto, non so di dove, una bella mora che passeggiava in un giardino, pensò (tutti hanno le loro debolezze) ch’essa non avrebbe potuto resistere alle attrattive della sua bella persona, e senza badare al pericolo s’insinuò per un buco del muro nel recinto vietato. Se, giunto in cospetto della ninfa, abbia fatto una dichiarazione d’amore od abbia tentato di sopprimere il preambolo, se la ninfa gli abbia prestato orecchio pietoso o sia fuggita strillando, non si sa, poichè tutto, in questo paese, è mistero. Si sa però che tutt’a un tratto sbucarono di dietro a un cespuglio quattro mori armati di pugnale, due dei quali gli si slanciarono contro da una parte e due dall’altra; e che il malcapitato seduttore o non sarebbe più uscito del giardino, o ne sarebbe uscito con qualche occhiello nelle reni, se non fosse comparso improvvisamente il caid Hamed-Ben Kasen Buhammei, il quale arrestò con un gesto imperioso i quattro cerberi, e diede modo al fuggitivo di riportare la pelle intatta al palazzo. La notizia dell’avvenimento si sparse, ci fu un sottosopra, il colpevole ricevette una solenne ammonizione in presenza di tutti e il Comandante, sempre spiritoso, gli fece per giunta un sermoncino che gli produsse un’impressione profonda.—Che le donne degli altri, e particolarmente le donne dei mussulmani, bisogna lasciarle stare; che quando si è con un’ambasciata europea nel Marocco, bisogna far conto di non esser più un uomo; che nei paesi maomettani queste quistioni di donne finiscono facilmente in quistioni politiche; e che sarebbe una bella responsabilità quella d’un giovane onesto il quale, per non aver saputo resistere a un impulso inconsiderato... del cuore, trascinasse il suo paese in una guerra... di cui non si potrebbero prevedere le conseguenze.—A questo discorso, il povero giovane, che già vedeva la flotta italiana con centomila soldati salpare verso il Marocco per cagion sua, si mostrò atterrito del suo fallo a tal segno, che non parve più necessario d’infliggergli altro castigo.

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Vorrei saper bene che concetto hanno costoro della propria potenza militare e del proprio valore guerresco rispetto alla potenza e al valore dei popoli europei. Ma non oso interrogarli direttamente su questo soggetto perchè sono ombrosissimi e temo che le mie domande possano parere un’ironia o una spacconata. Son riuscito nondimeno, tastandoli con mano leggera, e senza farmi scorgere, a raccapezzare qualche cosa. Sulla superiorità della nostra potenza militare non ci hanno dubbio; poichè se qualche dubbio rimaneva loro trent’anni sono, quando non avevano ancora ricevuto dagli europei alcuna veramente grave batosta, le guerre della Francia e della Spagna, e principalmente le due battaglie famose d’Isly e di Tetuan, dissiparono quei dubbi per sempre. Ma riguardo al valore, mi pare che si credano ancora superiori di molto agli europei; le vittorie dei quali attribuiscono all’artiglieria, all’ordine, alla furberia (chè per loro sono furberie la strategia e la tattica) e non al valore. E le vittorie conseguite con quei mezzi, pare che non le considerino nobilmente conseguite. Il volgo, poi, aggiunge a quei mezzi l’alleanza coi cattivi spiriti, senza la quale nè i cannoni nè le furberie sarebbero bastati a sgominare gli eserciti mussulmani. Certo è che agli Arabi puri e ai Berberi, che sono la maggioranza guerriera del Marocco, non si può negare il valore, e nemmeno restringersi a riconoscere in loro quel valore comune e indeterminato che in Europa si considera, con cavalleresca reciprocanza, proprietà di tutti gli eserciti. Poichè tenuto pur conto della natura del terreno e degli aiuti segreti dell’Inghilterra, l’esercito marocchino, scompigliato, mal condotto, male armato, male approvvigionato, non avrebbe potuto tener fronte, come fece, per quasi un anno, con una tenacia inaspettata in Europa, all’esercito spagnuolo, disciplinato, ordinato e fornito di tutti i nuovi mezzi d’offesa, senza supplire con un grande valore alla potenza militare che gli mancava. Si potrà negare il nome proprio di valore al fanatismo che slancia un uomo contro dieci a cercare una morte che gli aprirà le porte del paradiso; al furore selvaggio che induce un soldato a spaccarsi il cranio contro una rupe piuttosto che cader nelle mani dei nemici; alla rabbia forsennata d’un ferito, che si strappa le bende e si squarcia le piaghe per liberarsi colla vita dalla prigionia; al disprezzo del dolore, alla cieca audacia, all’ostinazione brutale di chi si fa uccidere senza scopo; ma bisognerà ammettere almeno che questi sono elementi di valore, ed è incontestabile che questa gente ne diede molti e tremendi saggi alla Spagna. Dopo due mesi di guerra, l’esercito spagnuolo non aveva presi che due prigionieri, un arabo della provincia d’Oran e un pazzo che s’era presentato agli avamposti; e nella sanguinosa battaglia di Castillejos cinque marocchini soli, e tutti e cinque feriti, caddero nelle mani dei vincitori. La loro tattica tradizionale è di avanzarsi in massa contro il nemico, distendersi rapidamente, correre fino a mezzo tiro, sparare e ritirarsi precipitosamente per ricaricare le armi. Nelle grandi battaglie si dispongono a mezza luna, l’artiglieria e la fanteria al centro, e alle ali la cavalleria, che cerca d’avvolgere il nemico e cacciarlo fra due fuochi. Il capo supremo dà un ordine generale, ma ogni capo inferiore ritorna all’assalto o si ritira quando gli sembra opportuno, e l’esercito sfugge facilmente al comando principale. Cavalieri infaticabili, destri tiratori, tenaci dietro un riparo, facili a sgominarsi in pianura aperta, strisciano come serpenti, s’arrampicano come scoiattoli, corrono come caprioli, passano rapidamente dall’assalto temerario alla fuga precipitosa, e da un esaltazione di valore che pare pazzia furiosa a uno sgomento che non ha nome. Ci sono ancora nel Marocco dei mori impazziti di terrore alla battaglia d’Isly; e si sa che alle prime cannonate del maresciallo Bugeaud, il Sultano Abd-er-Rahman, gridò:—Il mio cavallo! Il mio cavallo!—e inforcata la sella, si diede a una fuga disperata, lasciando sul campo i suoi musici, i suoi negromanti, i suoi cani da caccia, lo stendardo sacro, il parasole ed il tè, che i soldati francesi trovarono ancora bollente.

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Incontro tanti neri per le strade di Fez, che alle volte mi par di trovarmi in una città del Sudan e sento vagamente fra me e l’Europa l’immensità del deserto di Sahara. Dal Sudan, infatti, vengono la maggior parte, poco meno di tremila all’anno, molti dei quali si dice che muoiono in breve tempo di nostalgia. Sono portati per lo più all’età d’otto o dieci anni. I mercanti, prima di esporli in vendita, li ingrassano a pallottole di cuscussù, cercano di guarirli dalla nostalgia colla musica e insegnano loro qualche parola araba; il che ne aumenta il prezzo, che è ordinariamente trenta lire per un ragazzo, sessanta per una bimba, circa a quattrocento per una giovane di diciassette o diciott’anni, bella, che sappia parlare e che non abbia ancora partorito; e cinquanta o sessanta per un vecchio. L’Imperatore ritiene il cinque per cento della materia importata, e ha il diritto della prima scelta. Gli altri sono venduti nei mercati di Fez, di Mogador e di Marocco, e partitamente, all’incanto, in tutte le altre città, dove i compratori, per tradizione, usano loro il pudico riguardo di non visitarne pubblicamente le parti coperte. Abbracciano tutti, senza difficoltà, la religione maomettana, conservando però molte delle loro stranissime superstizioni, e le feste bizzarre del proprio paese, consistenti in balli grotteschi che durano fino a tre giorni e tre notti consecutive, accompagnati da una musica diabolica, e non interrotti che per inghiottire con avidità bestiale ogni sorta di porcherie. Servono per lo più nelle case, son trattati con dolcezza, vengono in gran parte affrancati in ricompensa dei loro servigi, hanno la via aperta anche alle più alte cariche dello stato, e si palesano qui come per tutto: ora febbrilmente operosi, ora torpidamente pigri, lussuriosi come scimmie, astuti come volpi, feroci come tigri; ma contenti del loro stato, e per lo più fedeli e grati ai padroni: il che pare che non segua dove la schiavitù è più dura, come a Cuba, e dove la libertà di cui godono è eccessiva, come in Europa. Le arabe e le more rifuggono da loro, ed è rarissimo che un nero sposi altra donna che del suo colore; ma gli uomini, e in specie i mori, non solo le cercano avidamente come concubine, ma le sposano colla stessa facilità che le bianche; onde il grandissimo numero di mulatti di tutte le sfumature che son nel Marocco. Strane vicende! Il povero nero di dieci anni, venduto sui confini del Sahara per un sacco di zucchero o un pezzo di stoffa, può, e si diede il caso discutere trent’anni dopo,—ministro del Marocco,—un trattato di commercio coll’ambasciatore d’Inghilterra; e molto più probabilmente, la bambina nera nata in una tana immonda e scambiata all’ombra d’un’oasi con un otre d’acquavite, trovarsi, appena adulta, coperta di gemme e fragrante di profumi, tra le braccia del Sultano.

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Da qualche giorno, passeggiando per Fez, mi si affaccia alla mente con una persistenza ostinata l’immagine d’una grande città americana, alla quale accorre gente da ogni parte del mondo, una di quelle città che rappresentano quasi il tipo a cui tutte le città nuove si vanno lentamente informando, e la cui vita è forse un esempio di quello che sarà fra un secolo la vita di tutte; una città la cui immagine non si può presentare a nessun europeo, accanto a quella di Fez, senza farlo sorridere di pietà, tanto è grande la distanza che le separa sopra la via del progresso umano. Eppure, più mi fisso col pensiero in quella città, più mi sento preso da un dubbio che mi rattrista. Vedo quelle grandi strade, diritte e interminabili, in cui s’innalzano a perdita d’occhi i pali giganteschi del telegrafo. «È l’ora della chiusura degli opifici e delle botteghe. Torrenti d’operai, uomini, donne e ragazzi, passano a piedi, in omnibus, in tramway, seguendo quasi tutti la stessa direzione, verso i quartieri lontani; e tutti hanno l’aspetto triste e ansioso e sembrano estenuati dalla fatica.... Nuvole dense di fumo di carbone escono dalle innumerevoli torricine degli opifici, scendono nelle strade, gettano le loro ombre nere sulle splendide vetrine delle botteghe, sulle lettere dorate degli annunzi che coprono le facciate fino ai tetti, sulla folla che, colla testa bassa, a passo cadenzato, dondolando le braccia, fugge in silenzio i luoghi che, durante il giorno, videro colare il suo sudore. Di tratto in tratto, il sole squarcia il velo lugubre che l’industria ha disteso sulla capitale del lavoro; ma questi bagliori improvvisi, fuggitivi, invece di rallegrare la scena, non fanno che illuminarne la tristezza... Tutte le fisonomie hanno la medesima espressione. Ognuno ha fretta di arrivare a casa per «economizzare» le sue poche ore di riposo dopo aver tratto il maggior vantaggio possibile dalle lunghe ore di lavoro. Par che ognuno sospetti nel suo vicino un concorrente. Tutti portano l’impronta dell’isolamento. L’aria morale in cui vive questa gente non è la carità, è la rivalità... Un gran numero di famiglie vivono negli alberghi, vita che condanna la donna alla solitudine e all’ozio. Lungo il giorno, il marito fa i suoi affari fuor di casa, e non rientra che all’ora del desinare, che trangugia colla rapidità d’un uomo affamato. Poi ritorna alla sua galera. I ragazzi, all’età di cinque o sei anni, frequentano le scuole, ci vanno e ritornano soli e passano il rimanente del loro tempo a loro capriccio, godendo della più ampia libertà. L’autorità paterna è pressochè nulla. I figliuoli non ricevono altra educazione che quella delle scuole.... maturano rapidamente e si preparano fin dall’infanzia alle fatiche e alle lotte della vita sovreccitata, aspra e avventurosa che li aspetta. La vita dell’uomo non è che una sola e lunga campagna, un seguito non interrotto di combattimenti, di marcie e di contro-marcie. La dolcezza, l’intimità del focolare domestico non hanno che un’assai piccola parte nella sua esistenza militante e febbrile. È egli felice? A giudicarne dal suo aspetto faticato, triste, inquieto, spesso delicato e malsano, c’è da dubitarne. L’eccesso del lavoro non interrotto gli spezza le forze, gl’interdice i piaceri dello spirito e gl’impedisce il raccoglimento dell’anima. E la donna soffre di questa vita anche più del marito. Essa non lo vede che una volta al giorno, mezz’ora tutt’al più, e la sera, quando, rotto dalla fatica, rientra in casa per cercare il sonno; e non può alleggerire il fardello ch’egli porta, nè partecipare alle sue pene, alle sue cure e ai suoi lavori perchè non li conosce, non esistendo quasi affatto fra loro, per mancanza di tempo, il commercio delle anime....»

La città è Chicago, e chi la descrive il barone Hübner, grande ammiratore dall’America. Ora il dubbio è questo: non so quale delle due città, Fez e Chicago, mi faccia più compassione. Sento però che se fossi nei panni d’un moro di Fez, ed un cristiano, conducendomi in una di quelle grandi città civili, mi domandasse se l’invidio, gli farei una risata sul volto.

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Stamattina Selam mi raccontò, a modo suo, la storia famosa del brigante Arusi; una delle infinite istorie che girano di bocca in bocca dal mare al deserto; fondata però sopra un fatto vero e recentissimo, di cui molti testimoni vivono ancora.

Poco dopo la guerra colla Francia, il Sultano Abd-er Rahman mandò un esercito a castigare gli abitanti del Rif che avevano incendiato un bastimento francese. Fra i varii sceicchi, a cui il comandante dell’esercito intimò di denunziare i colpevoli, ce ne fu uno, chiamato Sid-Mohammed-Abd-el-Djebar, già innoltrato negli anni, il quale, essendo geloso d’un tale Arusi, giovane valoroso e bellissimo, lo rimise, benchè innocente, nelle mani del generale, affinchè lo conducesse nelle carceri di Fez. Fu infatti condotto a Fez, ma non stette in prigione che un anno. Rilasciato in libertà, andò a Tangeri. Stette qualche tempo a Tangeri e poi tutt’a un tratto scomparve, e per un pezzo nessuno seppe più notizie di lui. Ma poco dopo la sua disparizione, si cominciò a parlare in tutta la provincia del Garb d’una banda di ladri e d’assassini che infestava la campagna fra Rabat e Laracce. Le carovane erano assalite, i negozianti spogliati, i caid malmenati, i soldati del Sultano pugnalati; nessuno osava più attraversare quelle terre; e i pochi che, presi dagli assassini, ne uscivan salvi, tornavano nelle città istupiditi dal terrore.

Le cose durarono in questo stato per molto tempo, e nessuno era mai riuscito a scoprire chi fosse il capo della banda, quando un negoziante rifano, assalito una notte al lume della luna, riconobbe fra coloro che lo spogliavano il giovane Arusi, e ne portò a Tangeri la notizia che si sparse rapidamente per tutto il Garb. Il capo della banda era Arusi. Molti altri lo riconobbero. Egli appariva nei duar e nei villaggi, di giorno e di notte, vestito da soldato, da caid, da ebreo, da cristiano, da donna, da ulema, uccideva, rubava, spariva, inseguito da ogni parte, non raggiunto da nessuno, sempre inaspettato, sempre in un nuovo aspetto, capriccioso, feroce, infaticabile; e non s’allontanava mai dai dintorni della cittadella El-Mamora; cosa di cui nessuno capiva la ragione. La ragione era questa: il caid della cittadella El-Mamora era in quel tempo l’antico sceicco Sid-Mohammed Abd-el-Dijebar che aveva messo Arusi nelle mani del generale del Sultano.

In quei giorni appunto Sid-Mohammed Abd-el-Dijebar aveva data in isposa una sua figliuola di meravigliosa bellezza, chiamata Rahmana, al figliuolo del pascià di Salè, che si chiamava Sid-Alì. Le feste nuziali erano state celebrate con gran pompa, in presenza dei più ricchi giovani della provincia, accorsi a cavallo, armati, vestiti dei loro più begli abiti, alla cittadella d’El-Mamora; e Sid-Alì doveva condurre la sua sposa a Salè, in casa di suo padre. Il corteo uscì dalla cittadella di notte. Doveva passare per una gola strettissima formata da una catena di collinette boscose e da una catena di dune. Andava innanzi una scorta di trenta cavalieri; dietro a questi, Rahmana sulla groppa d’una mula, in mezzo allo sposo e al fratello; dietro Rahmana, il caid suo padre e una folla di parenti e d’amici. Entrarono nella gola. La notte era serena, lo sposo teneva per mano Rahmana, il vecchio caid si lisciava la barba: tutti erano allegri.

All’improvviso una voce formidabile urlò nel silenzio della notte:

—Arusi ti saluta, o sceicco Sid Mohammed Abd-el Dijebar!

Nello stesso punto, sull’alto d’una collina scintillarono trenta fucili e tuonarono trenta colpi. Cavalli, soldati, parenti, amici, chi stramazza morto, chi vacilla ferito, chi fugge; e prima che il caid e Sid-Alì, rimasti illesi, rinvengano dallo sbalordimento, un uomo, una furia, un demonio, Arusi insomma precipita dalla collina, afferra Rahmana, se la mette in sella e fugge a briglia sciolta verso la foresta di Mamora.

Il caid e Sid-Alì, uomini risoluti, invece di abbandonarsi ad una vana disperazione, fecero giuramento solenne di non radersi più la testa prima d’essersi spaventosamente vendicati. Domandarono e ottennero soldati dal Sultano, e cominciarono a dar la caccia ad Arusi, che s’era rifugiato colla sua banda nella grande foresta di Mamora. Fu una guerra faticosissima, tutta colpi di mano, imboscate, assalti notturni, astuzie, combattimenti feroci, che durò più d’un anno, e ridusse a poco a poco la banda nel centro della foresta. La banda era accerchiata e il cerchio si stringeva si stringeva. Molti dei seguaci di Arusi eran già morti di fame, molti fuggiti, molti stati uccisi in combattimento. Il caid e Alì, vicini a raggiungere la meta, s’inferocivano sempre più, non chiudevan più occhio nè notte nè giorno, non respiravano più che la vendetta. Ma d’Arusi e di Rahmana non si sapeva più nulla. Chi diceva che fossero morti di stento, chi riteneva che fossero fuggiti, chi credeva che il bandito avesse ucciso la sposa e sè stesso. E Sid-Alì e il caid cominciavano a disperare, perchè più s’innoltravano, e più gli alberi si facevan fitti, più alti e più intricati i cespugli, le liane, i rovi, i ginepri; tanto che i cavalli e i cani non potevano più aprirsi la via. Un giorno, finalmente, mentre tutti e due passeggiavano scoraggiati e silenziosi per la foresta, un arabo accorse da lontano verso di loro e disse d’aver visto Arusi nascosto in mezzo ai giunchi, sulla riva d’un fiume, all’estremità della foresta. Il caid raccoglie in furia i suoi cavalieri, li divide in due drappelli e li sguinzaglia, un drappello a destra, l’altro a sinistra, verso il fiume. Dopo una lunga corsa, il caid per il primo vede da lontano, in mezzo ai giunchi, rizzarsi un fantasma, un uomo d’alta statura e d’aspetto terribile: Arusi. Si slanciano tutti verso quel punto, arrivano, girano, frugano, fiutano: Arusi non v’è più. Erano sulla riva del fiume.—Ha passato il fiume! grida il caid. Tutti si gettano nel fiume e raggiungono la riva opposta. La riva era segnata di alcune orme; tutti si mettono su quell’orme; ma dopo pochi passi, mancano.—s’è rigettato nel fiume,—grida il caid,—e andò a riuscir più lontano.—Subito i cavalieri si slanciano di galoppo lungo la riva. Nello stesso punto l’attenzione del caid è attirata da suoi tre cani, che si sono arrestati, fiutando, vicino a una pianta di giunchi. Sid-Alì accorre pel primo, e vede vicino ai giunchi un largo fosso, in fondo al quale c’erano alcuni piccoli fori. Salta nel fosso, introduce il fucile in uno dei fori, lo sente respinto, spara, chiama il caid, accorrono i soldati, guardano di qua e di là, e scoprono una piccola apertura rotonda a fior d’acqua nella riva tagliata a picco. Arusi doveva essere entrato nel suo sotterraneo per quell’apertura.—Scaviamo!—grida il caid. I soldati corrono a pigliar vanghe e piccozze nei duar vicini, tornano, scavano, rompono una specie di volta di terra e scoprono una tana...

In fondo alla tana c’era Arusi ritto, immobile, pallido come un morto, colle braccia spenzoloni.

Lo afferrarono: non fece resistenza. Lo tiraron fuori: aveva l’occhio sinistro crepato. Lo legarono, lo portarono in una tenda, lo distesero in terra, e per prima vendetta, Sid-Alì gli recise col pugnale tutti i diti dei piedi, gettandoglieli ad uno ad uno sul viso. Ciò fatto, mise sei soldati a custodirlo e si ritirò sotto un’altra tenda insieme col caid, per concertare che torture gli dovessero infliggere prima di troncargli la testa. La discussione durò lungo tempo: andavano a gara a chi proponesse dei tormenti più dolorosi; nessuno strazio pareva abbastanza orrendo; la sera era venuta, e non avevano ancora nulla deciso. Rimandarono la decisione alla mattina e si separarono.

Un’ora dopo, il caid ed Alì riposavano ciascuno sotto la sua tenda; la notte era oscurissima, non spirava un alito di vento, non stormiva una foglia, non si sentiva che il mormorio del fiume e il respiro dei dormenti.

All’improvviso una voce formidabile urlò nel silenzio della notte:

—Arusi ti saluta, o sceicco Sid Mohammed Abd-el Dijebar!

Il vecchio caid balza in piedi atterrito e sente la pesta precipitosa d’un cavallo che s’allontana. Chiama i soldati, che accorrono in furia, e grida:—Il mio cavallo! Il mio cavallo!—Cercano il suo cavallo, il più superbo animale del Garb: è sparito. Corrono alla tenda di Sid-Alì: è steso in terra morto, con un pugnale confitto nell’occhio sinistro. Il caid scoppia in pianto: i soldati si slanciano dietro al fuggitivo. Lo intravvedono, come un ombra, per qualche momento; lo perdon di vista; lo rivedono; ma egli va come la folgore, e sparisce ben presto per non più ricomparire. Continuano a inseguirlo, nondimeno, per tutta la notte, sin che arrivano a un bosco fittissimo, dove si arrestano per aspettare che aggiorni. Appena aggiorna, vedono lontano il cavallo del caid, che viene verso di loro spossato e insanguinato, riempiendo l’aria di nitriti lamentevoli. Pensando che Arusi sia nel bosco, sguinzagliano i cani e s’avanzano colle armi nel pugno. Dopo un breve cammino, scoprono una casuccia diroccata, mezzo nascosta fra gli alberi. I cani v’accorrono e s’arrestano. I soldati li seguono in punta di piedi, arrivano alla porta, spianano i fucili... e li lascian cadere in terra gettando un grido di stupore. In mezzo a quelle quattro mura, stava disteso in terra il cadavere d’Arusi, e accanto a lui una bellissima donna, vestita splendidamente, coi capelli sciolti, la quale gli fasciava i piedi sanguinosi, singhiozzando, ridendo, mormorando con voce infantile parole di disperazione e d’amore. Era Rahmana. La condussero in casa di suo padre, vi stette tre giorni senza profferire parola e disparve. La trovarono qualche tempo dopo fra le rovine della casa del bosco, che raspava la terra colle mani, chiamando Arusi. E di là non si mosse più.—Dio,—come dissero gli arabi—aveva richiamato a sè la sua ragione ed essa era santa.

Se sia ancora viva, non si sa. Certo è che viveva ancora venti anni sono, e che la vide nel suo romitaggio il signor Narciso Cotte, impiegato al consolato di Francia a Tangeri, che ne ha raccontata la storia.

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Oramai non v’è più un angolo di Fez che ci sia sconosciuto; e nondimeno ci par sempre d’essere arrivati il giorno innanzi, tanta è la varietà d’aspetti che ci presenta questa scena grandiosa di mura, di porte, di torri, di rovine; tanto ogni cosa ci ravviva ad ogni momento il sentimento della nostra solitudine; tanto stentiamo ad abituarci ad essere l’oggetto della curiosità universale. E questa curiosità non è punto scemata, benchè ormai tutti gli abitanti di Fez ci abbiano visti e rivisti. È scemata, invece, la diffidenza, e pare anche un poco l’antipatia: i bambini ci si avvicinano e ci toccano i vestiti per sentire di che sostanza sono; le donne ci guardan con occhio torvo, ma non tornan più indietro vedendoci apparir di lontano; le maledizioni son diventate più rare, i soldati non picchian più bastonate, e il pugno toccato dall’Ussi fu, è da sperarsi, il primo ed unico pugno di cui io possa portare la notizia in Italia. E benchè, passeggiando per la città, ci preceda e ci segua sempre una folla fittissima, io credo che potremmo uscir soli senza ombra di pericolo d’essere ammazzati. Già la popolazione, da quanto ci dicono i soldati dell’ambasciata, ci ha messo a tutti, giusta la consuetudine moresca, un sopranome. Il medico è l’uomo degli occhiali, il vice-console è l’uomo del naso forcuto, il capitano è l’uomo degli stivali neri, l’Ussi è l’uomo del fazzoletto bianco, il Comandante l’uomo delle gambe corte, il Biseo l’uomo dei capelli rossi, il Morteo l’uomo di velluto, perchè è tutto vestito di velluto, ed io sono l’uomo della scarpa rotta, perchè un dolore al piede m’ha costretto a dare un lungo taglio a uno stivaletto. Parlano molto dei fatti nostri, si capisce, e par che dicano che siamo tutti brutte faccie, nessuno escluso, neppure il cuoco, il quale accolse questa notizia con una risata di disprezzo, battendo la mano sopra una tasca del panciotto, dove tiene una lettera della sua amante. E mi pare anche che ci trovino o fingano di trovarci ridicoli, perchè, per istrada, si mettono a ridere con una certa ostentazione ogni volta che uno di noi scivola, o dà del capo nel ramo d’un albero, o perde il cappello. Malgrado ciò, e la varietà delle vedute, questa popolazione tutta d’un colore e senza distinzione apparente di ceto, questo non sentir mai altro rumore che un eterno fruscìo di pantofole e di cappe, queste donne velate, queste case cieche e mute, questa vita piena di mistero finisce per tediar mortalmente. Gli abitanti son vivi, la città è morta. Al tramonto del sole bisogna rientrare in casa e non si può più uscire. Col calar della notte, cessa ogni commercio, ogni movimento, ogni segno di vita; Fez non è più che una vasta necropoli, dove se si sente per caso una voce umana, è l’urlo d’un pazzo o il grido d’un assassinato; e chi volesse andare a zonzo a ogni costo, dovrebbe farsi scortare da una pattuglia coi fucili carichi e da un drappello di falegnami, i quali ogni trecento passi buttassero giù una porta che sbarra la strada. Di giorno poi la città non somministra altra novità che qualche donna trovata morta in mezzo alla via con una pugnalata nel cuore, la partenza d’una piccola carovana, l’arrivo d’un governatore o sotto-governatore di provincia che venne gettato in fondo a un carcere, la bastonatura di qualche pezzo grosso, una festa in onore d’un Santo di cui sentiamo le fucilate dal palazzo, e altre cose simili, annunziate per lo più da Mohammed Ducali o dal Scellal, che sono i nostri due giornali quotidiani ambulanti. E queste notizie, e quello che vedo ogni giorno, e la vita singolarissima che vivo qui, mi danno poi nella notte dei sogni così stranamente intricati di teste recise, di deserti, d’arem, di prigioni, di Fez, di Tumbuctù, di Torino, che la mattina mi sveglio con un caos inesprimibile nella testa, e per qualche momento non raccapezzo più in che mondo mi sia.

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Di quante figure belle, grottesche, orribili, buffe, stranissime, mi rimarrà la memoria per tutta la vita! Ne ho la testa affollata, e quando son solo me le faccio passare dinanzi ad una ad una, come le figure d’una lanterna magica, con un piacere che non so esprimere. Passa Sid Buker, il personaggio misterioso che viene tre volte al giorno, ravvolto in una gran cappa biancastra, colla testa bassa, cogli occhi socchiusi, pallido come un morto, furtivo come uno spettro, a conferire segretamente coll’Ambasciatore; e svanisce a modo di una figura fantasmagorica, senza che nessuno se n’accorga. Passa il servo favorito di Sid-Mussa, un giovane mulatto bellissimo, grazioso come una fanciulla, elegante come un principe, fresco e sorridente, che sale e scende le scale saltellando e ci saluta con una certa civetteria inchinandosi profondamente e stendendo una mano in atto di mandare un bacio. Passa un soldato di guardia, un berbero, nato sulle montagne dell’Atlante, una faccia sanguinaria che non posso guardare senza fremere, e mi figge negli occhi, ogni volta che mi vede, uno sguardo immobile, freddo, perfido, come se meditasse d’uccidermi; e più lo sfuggo e più l’incontro, e par che indovini il ribrezzo che m’ispira e ci provi un satanico piacere. Passa una vecchia decrepita, che ho vista sulla porta d’una moschea, nuda da capo a piedi, fuor che un cencio intorno ai fianchi, colla testa rasa come la palma della mano e il corpo disfatto a segno che mi strappò un’esclamazione d’orrore e rimasi per lungo tempo col sangue sossopra. Passa una mora briccona, che rientrando in casa, mentre noi passavamo dinanzi alla sua porta, buttò giù in fretta e in furia, nell’atto di chiudere, il caic che la copriva, ci lasciò intravvedere il suo bel corpo diritto e tornito, e saettandoci un’occhiata sfavillante di mille vezzi, chiuse. Passa un bottegaio vecchissimo, una faccia tra spaventosa e ridicola, curvo tanto che, stando seduto in fondo alla sua nicchia oscura, si tocca quasi i piedi col mento; e tiene aperto un occhio solo, appena visibile; e ogni volta che passando dinanzi alla sua bottega, lo guardo, quell’occhio gli si apre smisuratamente e brilla d’un sorriso beffardo indefinibile, che mi mette non so che inquietudine nel cuore. Passa una bellissima morina di dieci anni, coi capelli sciolti giù per le spalle, vestita d’una camicia bianca stretta alla vita da una ciarpa verde, la quale spenzolandosi dal parapetto d’una terrazza per saltare sulla terrazza di sotto, la camicia le si attaccò alla punta d’un mattone e restò su, lasciando molti segretini all’aria aperta; ed essa, che sapeva d’esser guardata dal palazzo dell’Ambasciata, e non poteva più nè risalire nè scendere, si mise a strillare come una disperata, e tutte le donne della casa accorsero smascellandosi dalle risa. Passa un mulatto gigantesco, pazzo, che tormentato dall’idea fissa che i soldati del Sultano lo cerchino per tagliargli una mano, fugge per le strade come una fiera inseguita, agitando convulsivamente il braccio destro, come se glie l’avessero già mutilato, e mette ululati spaventosi che risuonano da un quartiere all’altro della città. Passano molti e molti altri; ma quello che s’arresta più lungamente, è un nero di cinquant’anni, servo del palazzo, alto poco più e largo poco meno d’un metro, un cor contento, che sorride sempre cacciando tutta la bocca verso l’orecchio destro; la più grottesca, la più spropositata, la più imperiosamente ridicola figura che sia mai comparsa sotto la cappa del cielo; ed ho un bel mordermi le dita, e dirmi che è ignobile il ridere delle deformità umane, e farmi vergogna in mille maniere;—è inutile,—è un riso che vince le mie forze,—ci dev’esser dentro qualche intenzione misteriosa della Provvidenza,—bisogna che scoppi! E Dio mi perdoni: mi venne più volte l’idea di comprarlo per farmene una pipa.

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Essendo vicino il giorno della partenza, i negozianti accorrono in folla al palazzo e si compra a furia. Le stanze, il cortile e la galleria hanno preso l’aspetto d’un grande bazar. Per tutto lunghe file di vasi, di babbuccie ricamate, di vassoi, di cuscini, di tappeti, di caic. Quanto v’è in Fez di più dorato, di più arabescato, di più caro assaettato, ci è passato sotto gli occhi in questi giorni. E bisogna vedere come vendono costoro, senza proferire parola, senza lasciarsi sfuggire un sorriso, non accennando che sì o no colla testa, e andando via, abbiano o non abbian venduto, colla stessa faccia d’automi con cui sono venuti. Fra tutte, è bella a vedersi la stanza dei pittori, convertita in una gran bottega di rigattiere, piena di selle, di staffe, di fucili, di caffettani, di ciarpe lacere, di terraglia, di orecchini barbareschi, di vecchie cinture da donna, venute Dio sa di dove, che hanno forse sentito molte volte la stretta amorosa delle braccia imperiali, e forse l’anno venturo luccicheranno in un quadro magistrale alla mostra di Napoli o di Filadelfia. Un solo genere manca, e sono gli oggetti d’antichità, ricordi dei varii popoli che conquistarono o colonizzarono il Marocco; e benchè si sappia che sovente se ne trovano sotto terra o fra le rovine, non c’è mezzo d’averne, poichè ogni oggetto scoperto dovendo essere portato alle Autorità, chi scopre, tien nascosto, e le Autorità, non conoscendone il valore, distruggono o vendono come materia inutile il poco che ricevono. Così, anni sono, un cavallo ed alcune statuette di bronzo trovate in un pozzo vicino ai resti d’un acquedotto, furon rotte e vendute come vecchio rame a un rigattiere israelita.

* * *

Oggi ho fatto con un negoziante di Fez una viva discussione, coll’intento di scoprire quello che pensano i mori della civiltà europea; e per questo non mi affannai a ribattere i suoi argomenti se non quanto era necessario per dargli spago. È un bel moro sui quarant’anni, di fisonomia onesta e severa, che visitò, per affari di commercio, le principali città dell’Europa occidentale, e stette lungo tempo a Tangeri dove imparò un po’ di spagnuolo. Già nei giorni scorsi avevo scambiato con lui qualche parola a proposito d’un piccolo pezzo di stoffa intessuto di seta e d’oro di cui pretendeva la bellezza di dieci marenghi. Ma oggi toccandolo sull’argomento dei suoi viaggi, gli attaccai una parlantina di cui i suoi compagni stessi, che ascoltavano senza capire, rimasero stupiti. Gli domandai dunque che impressione gli avessero fatta le grandi città europee non aspettandomi peraltro di sentire grandi espressioni di meraviglia, perchè sapevo, come tutti sanno, che dei quattro o cinquecento negozianti marocchini che vanno ogni anno in Europa, la maggior parte ritornano nel loro paese più stupidamente fanatici di prima, quando non ritornano più viziosi e più birbanti; e che se tutti rimangono stupiti dello splendore delle nostre città e delle meraviglie delle nostre industrie, nessuno però ne rimane scosso nell’anima, acceso nella mente, spronato a fare, a tentare, a imitare; nessuno intimamente persuaso della inferiorità complessiva del paese proprio; e nessunissimo, poi, se anche avesse questi sentimenti s’arrischierebbe ad esprimerli, e tanto meno a cercar di diffonderli, per paura di tirarsi addosso l’accusa di mussulmano rinnegato e di nemico del suo paese.

—Che cosa avete da dire—gli domandai—delle nostre grandi città?

Mi guardò fisso e rispose freddamente:

—Strade grandi, belle botteghe, bei palazzi, belle officine.... e tutto pulito.

Con ciò parve che avesse detto tutto quello che aveva da dir d’onorevole per noi.

—Non ci avete trovato altro di bello e di buono?—domandai.

Mi guardò come per domandarmi alla sua volta che cosa pretendevo ch’egli ci avesse trovato.

—Ma possibile—(mi stizzii)—che un uomo ragionevole come voi siete, che ha visto dei paesi così meravigliosamente diversi e superiori al suo, non ne parli almeno con stupore, almeno colla vivacità con cui il ragazzo d’un duar parlerebbe del palazzo d’un pascià? Ma di che cosa vi meravigliate dunque al mondo? Che gente siete? Chi vi capisce?

Perdóne Usted,—rispose freddamente;—io vi rispondo che non capisco voi. Quando v’ho detto tutte le cose nelle quali credo che siate superiori a noi, che volete che vi dica di più? Volete che vi dica quello che non penso? Vi dico che le vostre strade sono più grandi delle nostre, che le vostre botteghe sono più belle, che avete delle officine che noi non abbiamo, che avete dei ricchi palazzi. Mi par d’aver detto tutto. Dirò ancora una cosa: che sapete più di noi perchè avete dei libri e leggete.

Feci un atto d’impazienza.

—Non v’impazientate, caballero;—ragioniamo tranquillamente. Voi convenite che il primo dovere d’un uomo, la prima cosa che lo rende stimabile, e quella in cui importa massimamente che un paese sia superiore agli altri paesi, è l’onestà; non è vero? Ebbene, in fatto d’onestà io non credo in nessuna maniera che voi altri siate superiori a noi. E una.

—Adagio. Spiegatemi prima che cosa intendete di dire con questa parola onestà.

—Onestà nel commercio, caballero. I mori, per esempio, nel commercio, ingannano qualche volta gli europei; ma voi altri europei ingannate molto più spesso i mori.

—Saranno casi rari—risposi, per dir qualche cosa.

Casos raros? —esclamò accendendosi. Casi di tutti i giorni!—(E qui vorrei poter riferire tale e quale il suo linguaggio rotto, concitato e infantile). Prove! Prove! Io a Marsiglia. Sono a Marsiglia. Compro cotone. Scelgo il filo, grosso così. Dico:—questo numero, questo bollo, tanta quantità, mandate.—Pago, parto, arrivo al Marocco, ricevo cotone, apro, guardo, stesso numero, stesso bollo.... filo tre volte più piccolo! non serve a niente! migliaia di lire perdute! Corro al Consolato.... niente. Otro. Un altro. Mercante di Fez ordina Europa panno turchino, tanti pezzi, tanto larghi, tanto lunghi, convenuto, pagato. Riceve il panno, apre, misura: primi pezzi, giusti; sotto, più corti; gli ultimi, mezzo metro meno! Non servono più alle cappe, mercante rovinato. Otro, otro. Mercante di Marocco ordina, Europa, mille metri gallone d’oro per ufficiali e manda denaro. Gallone viene, tagliato, cucito, portato.... rame! Y otros, y otros, y otros! —Ciò detto alzò il viso al cielo, e poi, rivolgendosi vivamente verso di me:—Più onesti voi?

Ripetei che non potevano essere che casi eccezionali: non rispose.

—Più religiosi voi?—domandò poi bruscamente.—No!

E dopo qualche momento:—No! Basta essere entrati una volta nelle vostre moschee.

—Ora dite,—soggiunse poi, incoraggiato dal mio silenzio;—nei vostri paesi, succedono meno matamientos? (uccisioni).

Qui sarei stato imbarazzato a rispondergli. Che cosa avrebbe detto se io gli avessi confessato che soltanto in Italia si commettono tremila omicidi all’anno, e che ci sono novantamila prigionieri tra condannati e da giudicarsi?

—Non credo,—disse, leggendomi negli occhi la risposta.

Non sentendomi sicuro su questo terreno, lo attaccai coi soliti argomenti sulla quistione della poligamia.

Saltò su come se l’avessi scottato;

—Sempre questo!—gridò facendosi rosso fino alle orecchie.—Sempre questo! Come se voi aveste una donna sola! E ce lo volete far credere! Una sola è vostra, ma ci son poi quelle de los otros, e quelle che sono de todos y de nadie, di tutti e di nessuno. Parigi! Londra! Caffè pieni, strade piene, teatri pieni. Verguenza! E rimproverate i Mori?

Dicendo questo, stropicciava con mano tremante il suo rosario, e si voltava di tratto in tratto per farmi capire, con un leggero sorriso, che non mi avessi a male del suo sdegno, perchè egli non l’aveva con me; ma coll’Europa.

Vedendo che in questa quistione se la pigliava troppo a cuore, sviai il discorso, e gli domandai se non riconosceva le maggiori comodità della nostra maniera di vivere. Qui fu comicissimo. Aveva degli argomenti preparati.

—È vero,—rispose con un accento ironico;—è vero... Sole? Ombrello. Pioggia? Paracqua. Polvere? Guanti. Camminare? Bastone. Guardare? Occhialino. Passeggiare? Carrozza. Sedere? Elastico. Mangiare? Strumenti. Una scalfittura? Medico. Morto? Statua. Eh! di quante cose avete bisogno! Che uomini, por Dios! Che bambini!

Insomma, non me ne voleva passar una. Trovò persino a ridere sull’architettura.

—Che! Che!—rispose quando gli parlai dei comodi delle nostre case.—State trecento in una casa sola, gli uni sugli altri, e poi salire, salire, salire—e manca aria e manca luce e manca giardino.

Allora gli parlai di leggi, di governo, di libertà, e cose simili; e siccome era un uomo perspicace, mi parve d’esser riuscito, se non a fargli capire tutta la differenza che, sotto questi aspetti, corre fra il suo paese e il nostro; almeno a fargliene brillare alla mente un barlume. Visto che non poteva tenermi fronte su quel soggetto cangiò improvvisamente il discorso, e guardandomi da capo a piedi, disse sorridendo:

Mal vestidos. (Mal vestiti).

Gli risposi che il vestito importava poco, e gli domandai se non riconosceva la nostra superiorità anche in questo, che, invece di star tante ore oziosi colle gambe incrociate sopra una materassa, noi impieghiamo il tempo in mille maniere utili e divertenti.

Mi diede una risposta più sottile che non m’aspettassi. Disse che non gli pareva buon segno questo aver bisogno di far tante cose per passare il tempo. La vita per sè sola è dunque un supplizio per noi, che non possiamo stare un’ora senza far nulla, senza distrarci, senza affannarci a cercare divertimenti? Abbiamo paura di noi stessi? Abbiamo qualche cosa dentro che ci tormenta?

—Ma vedete,—dissi—che spettacolo triste presentano le vostre città, che solitudine, che silenzio, che miseria. Siete stato a Parigi? Paragonate un po’ le strade di Parigi colle strade di Fez.

Qui fu sublime. Saltò in piedi ridendo, e più coi gesti che colle parole fece una descrizione canzonatoria dello spettacolo che presentano le strade delle nostre città. Va, vieni, corri; carri di qui, carrette di là; un rumore che stordisce, gli ubbriachi che barcollano, i signori che si abbottonano il soprabito per paura dei borsaiuoli; a ogni passo una guardia che guarda intorno come se a ogni passo ci fosse un ladro; i bambini e i vecchi che ogni momento corron rischio d’essere schiacciati dalle carrozze dei ricchi; le donne sfrontate, e persino bambine, orrore! che lanciano occhiate provocanti, urtano i giovani col gomito e fanno mille smancerie; tutti col sigaro in bocca; da ogni parte gente che entra nelle botteghe a mangiucchiare, a ber liquori, a farsi lisciare i capelli, a specchiarsi, a inguantarsi; e i zerbinotti piantati davanti ai caffè che dicono delle parole nell’orecchio alle donne degli altri che passano; e che maniera ridicola di salutare e di camminare in punta di piedi, dondolandosi, saltellando; e poi, Dio buono, che curiosità di femminuccie!—E toccando questo tasto pigliò la stizza e disse che un giorno, in una piccola città d’Italia, essendo uscito vestito da moro, si radunò in un momento una gran folla, e tutti gli correvano dietro e davanti gridando e ridendo, e quasi non lo lasciavano camminare, tanto ch’egli dovette ritornare alla locanda e cangiar vestito.—Ed è così che si fa nei vostri paesi? mi domandò.—Che si faccia qui, si capisce, perchè non si vedon mai dei cristiani; ma nei vostri paesi dove si sa come siamo vestiti, perchè ci sono i quadri, e mandate qui i pittori colle macchine e coi colori a farci i ritratti; fra voi che sapete tutto non vi pare che non dovrebbero accadere queste cose?

Fatto questo sfogo, mi sorrise cortesemente come per dire:—Ciò non toglie che noi due siamo amici.

Cadde poi il discorso sulle industrie europee, sulle strade ferrate, sul telegrafo, sulle grandi opere d’utilità pubblica; e di questo mi lasciò parlare senza interrompermi, assentendo anzi, di tratto in tratto, con un cenno del capo. Quand’ebbi finito, però, mise un sospiro e disse:—Infine poi... a che servono tante cose se dobbiamo tutti morire?

—Insomma,—conclusi,—voi non cangereste il vostro stato col nostro!

Stette un po’ pensando e rispose:

—No, perchè voi non vivete più di noi, nè siete più sani, nè più buoni, nè più religiosi, nè più contenti. Lasciateci dunque in pace. Non vogliate che tutti vivano a modo vostro e sian felici come volete voi. Rimaniamo tutti nel cerchio che Allà ci ha segnato. Con qualche fine Allà ha disteso il mare fra l’Africa e l’Europa. Rispettiamo i suoi decreti.

—E credete,—domandai,—che rimarrete sempre quello che siete? che a poco a poco non vi faremo cangiare?

—Non lo so,—rispose.—Voi avete la forza, voi farete ciò che vorrete. Tutto quello che deve accadere, è già scritto. Ma qualunque cosa accada, Allà non abbandonerà i suoi fedeli.

Ciò detto, mi prese la destra, se la strinse sul cuore e se n’andò a passi maestosi.

* * *

Stamattina, al levar del sole, sono stato a vedere la rassegna del presidio di Fez, che il Sultano fa tre volte la settimana, nella piazza dove ricevette solennemente l’Ambasciata.

Uscendo dalla porta della Nicchia del burro, ebbi un primo saggio delle manovre dell’artiglieria. Uno stuolo di soldati, vecchi, di mezza età e ragazzi, tutti vestiti di rosso, correvano dietro a un cannoncino tirato da una mula. Era uno dei dodici cannoni di campagna che il governo spagnuolo regalò al Sultano Sid-Mohammed dopo la guerra del 1860. Di tratto in tratto la mula scivolava o deviava o s’arrestava, e tutta quella ragazzaglia si metteva a urlare e a picchiare, ballando e sghignazzando, come se conducesse un carro da carnevale. In un tragitto di cento passi, si saranno fermati dieci volte. Ogni momento seguiva un’avaria: ora cadeva il secchiolino, ora lo scovolo, ora non so che altro; poichè tutto era appeso all’affusto. La mula andava innanzi a zig zag, a suo capriccio, o piuttosto dove la spingeva il cannone scendendo impetuosamente dai rialti del terreno; tutti davano ordini, nessuno obbediva; i grandi scappellottavano i piccoli, i piccoli scappellottavano i piccolissimi, e questi si scappellottavano fra loro; e il cannone rimaneva presso a poco allo stesso posto. Era una scena che avrebbe messo la febbre terzana al generale Lamarmora.

Sulla riva sinistra del Fiume delle perle, v’erano circa due mila soldati di fanteria, parte sdraiati per terra, parte ritti in crocchi. Nella piazza, chiusa tra il fiume e le mura, tirava al bersaglio l’artiglieria; quattro cannoni, dietro ai quali stava un gruppo di soldati, e ritta in mezzo a loro una figura alta e bianca,—il Sultano,—di cui però, dal luogo dov’ero, discernevo appena i contorni. Mi parve che di tratto in tratto parlasse agli artiglieri in atto di dar consigli. Dalla parte opposta della piazza, vicino al ponte, v’era un gruppo di mori, d’arabi, di neri, uomini e donne, gente di città e gente di campagna, signori e pezzenti, tutti stretti in un gruppo, che aspettavano, mi fu detto, d’esser chiamati ad uno ad uno dinanzi al Sultano, a cui dovevano chieder favori o giustizia; poichè il Sultano dà udienza tre volte la settimana a chiunque faccia domanda di parlargli. Parte di quella povera gente era forse venuta da città o da terre lontane a lagnarsi delle angherie dei governatori o a domandar grazia per i loro parenti sepolti in un carcere. V’erano donne cenciose e vecchi cadenti; tutti visi stanchi e tristi, su cui si leggeva il desiderio impaziente e insieme la paura di dover comparire dinanzi al Principe dei Credenti, al giudice supremo, che avrebbe in pochi momenti, con poche parole, deciso forse della sorte di tutta la loro vita. Non mi parve che avessero nulla nelle mani o ai loro piedi, e per questo credo che il Sultano regnante abbia tolto l’uso, che c’era altre volte, di accompagnare ogni domanda con un regalo; il quale non veniva sdegnato, qualunque fosse, ed era qualche volta un paio di polli o una dozzina d’ova.

Girai in mezzo ai soldati. I ragazzi erano divisi in gruppi di trenta o quaranta e si divertivano a inseguirsi o a saltarsi gli uni gli altri, appoggiandosi le mani sulle spalle. In alcuni gruppi però il divertimento consisteva in una specie di pantomima, che, appena ne capii il significato, mi fece rabbrividire. Rappresentavano l’amputazione delle mani, il taglio della testa col coltello ed altri supplizi ai quali probabilmente avevano assistito parecchie volte. Un ragazzo faceva da caid, uno da boia, uno da vittima; questo, quando gli era tagliata la mano, fingeva di tuffar il moncherino nel catrame; un altro raccoglieva la mano recisa e la buttava in pasto ai cani; e tutti gli spettatori ridevano. Le faccie patibolari che avevan la maggior parte di quei soldatuccoli, non si possono descrivere. Ve n’era di tutte le sfumature dal nero d’ebano fino al giallo d’arancio, e non uno, neppure fra i più piccoli, che conservasse l’espressione della ingenuità infantile: avevan tutti qualchecosa di duro, di sfrontato, di beffardo, di cinico, che metteva pietà, piuttosto che sdegno. E non c’è bisogno di grande perspicacia per capire che non potrebb’essere altrimenti. Degli uomini, la maggior parte sonnecchiavano distesi in terra; altri ballavano alla negra in mezzo a un circolo di spettatori, facendo ogni sorta di smorfie e di lazzi; altri tiravano di scherma colle sciabole, nello stesso modo che i tiratori di Tangeri, saltellando con atteggiamenti da danzatori di corda. Gli ufficiali, tra cui molti rinnegati, che si riconoscevano al viso, alla pipa, e a un non so che di ricercato nel vestimento, passeggiavano in disparte, e quando gl’incontravo, sfuggivano i miei sguardi. Di là dal ponte, in un luogo appartato, c’era una ventina d’uomini ravvolti in cappe bianche, distesi in terra gli uni accanto agli altri, immobili come statue. Mi avvicinai: vidi che avevano le gambe e le braccia strette da grossissime catene. Erano condannati per delitti comuni che l’esercito si trascina sempre con sè, per esporli alla berlina. Al mio avvicinarsi, tutti si voltarono e mi fissarono in viso uno sguardo che mi fece tornare indietro.

Uscii di mezzo ai soldati e m’andai a riparare all’ombra d’una palma, sopra un rialto di terreno, di dove si dominava tutto lo spianato.

Ero là da pochi minuti, quando vidi un ufficiale staccarsi da un crocchio, e venir verso di me lentamente, guardando qua e là e canterellando, come per non farsi scorgere.

Era un omo piccolo, tarchiato, vestito presso a poco alla zuava, col fez, senz’armi. Poteva avere una quarantina d’anni.

Quando lo vidi da vicino, provai un senso di ribrezzo. Non ho mai visto nella gabbia di nessuna corte d’Assisie una faccia più perfida di quella. Avrei giurato che aveva sulla coscienza almeno dieci omicidii, accompagnati da insulti al cadavere.

Si fermò a due passi da me, mi fissò con due occhi vitrei e disse freddamente:

Bonjour, monsieur.

Gli domandai s’era francese.

—Sì,—rispose.—Son venuto da Algeri. Son qui da sette anni. Son capitano nell’esercito del Marocco.

Non potendo fargli i miei complimenti, non risposi.

C’est comme ça,—continuò con un fare spigliato.—Sono andato via da Algeri perchè non mi ci potevo più vedere. J’etais obligé de vivre dans un cercle trop étroit (voleva forse dire il capestro). La vita all’europea non si confaceva alla mia indole. Sentivo bisogno di cangiar paese.

—Ed ora siete contento? domandai.

—Contentissimo, rispose con affettazione.—Il paese è bello, Mulei el Hassen è il migliore dei Sultani, il popolo è buono, son capitano, ho una botteguccia, esercito una piccola industria, vado alla caccia, vado alla pesca, faccio escursioni sulle montagne, godo della più grande libertà. Non ritornerei in Europa, vedete, per tutto l’oro del mondo.

—Non desiderate nemmeno di rivedere il vostro paese? Avete dimenticato affatto anche la Francia?

—M’importa assai della Francia!—rispose.—Per me non esiste più Francia. La mia patria è il Marocco.

E diede una scrollata di spalle.

Quel cinismo mi rivoltò; non ci potevo quasi credere; mi venne la curiosità di scrutarlo più addentro.

—Da quando avete lasciato l’Algeria,—gli domandai,—non avete più avuto notizia degli avvenimenti d’Europa?

Pas un mot,—rispose.—Qui non si sa nulla di nulla, ed io sono contentissimo di non saper nulla.

—Non sapete dunque che c’è stata una gran guerra tra la Francia e la Prussia.

Si scosse.

Qui a vaincu? —domandò con una certa vivacità, fissandomi negli occhi.

—La Prussia,—risposi.

Fece un atto di sorpresa.

Gli raccontai in poche parole i grandi disastri della Francia, l’invasione, la presa di Parigi, la perdita delle due provincie.

Stette a sentire colla testa bassa e le soppracciglia aggrottate; poi si riscosse e disse con un certo sforzo:— C’est égal... je n’ai plus de patrie... ça ne me regarde pas...

E riabbassò la testa.

Io lo osservavo, se n’accorse.

Adieu, monsieur,—disse improvvisamente, con voce alterata, e se n’andò a passi lesti.

—Tutto non è dunque morto ancora!—pensai, e me ne sentii rallegrato.

Intanto gli artiglieri avevan cessato di tirare al bersaglio, il Sultano s’era seduto sotto un padiglione bianco ai piedi d’una torre, e i soldati cominciavano a sfilargli davanti, un per uno, senz’armi, alla distanza di circa venti passi l’un dall’altro. Non essendoci nè accanto al Sultano, nè dirimpetto al padiglione alcun ufficiale che leggesse i nomi, come si fa da noi, per accertare l’esistenza di tutti i soldati segnati nei ruoli (e si dice che nell’esercito marocchino non esiston ruoli), non capii che scopo potesse avere quella rassegna, fuor che di ricreare l’Imperatore; e fui tentato di riderne. Ma un secondo pensiero, il pensiero di ciò che v’era di primitivo e di poetico in quel monarca affricano, sommo sacerdote e principe assoluto, giovane, semplice, gentile, che stando tre ore solo all’ombra d’una tenda, si faceva tre volte la settimana passare dinanzi ad uno ad uno i suoi soldati, e ascoltava le preghiere e i lamenti dei suoi sudditi sventurati, m’ispirò invece un sentimento di profondo rispetto. E poichè era quella l’ultima volta che lo vedevo:—Addio, gli dissi andandomene, con un vivo slancio di simpatia;—addio, bello e nobile principe!—e quando la sua graziosa figura bianca scomparve per sempre ai miei occhi, sentii un moto dentro, come se in quel momento stesso mi si stampasse per sempre nel cuore.

* * *

Nove giugno: ultimo del soggiorno dell’Ambasciata italiana in Fez. Tutte le domande dell’Ambasciatore sono state esaudite, accomodati gli affari del Ducali e dello Scellal, fatte le visite di congedo, subíto l’ultimo pranzo di Sid-Mussa, ricevuti i regali d’uso del Sultano: un bel cavallo nero, con una enorme sella di velluto verde, gallonata d’oro, all’Ambasciatore; sciabole dorate e damascate ai membri ufficiali dell’Ambasciata; una mula al secondo dracomanno. Le tende e le casse son partite stamattina, le stanze son vuote, le mule son pronte, la scorta ci attende alla porta della Nicchia del burro, i miei compagni passeggiano nel cortile aspettando l’ora della partenza, ed io seduto per l’ultima volta sul mio letto imperiale, noto, col quaderno sulle ginocchia, le mie ultime impressioni di Fez. Quali sono? Che cosa ha finito per lasciarmi, in fondo all’anima, lo spettacolo di questa città, di questa gente, di questo stato di cose? Se appena penetro col pensiero sotto l’impressione gradevole della meraviglia e della curiosità soddisfatta, trovo una mescolanza di sentimenti diversi, che mi lasciano l’animo incerto. È un sentimento di pietà che mi desta la decadenza, l’avvilimento, l’agonia di questo popolo guerriero e cavalleresco, che lasciò una così luminosa traccia nella storia delle scienze e delle arti, ed ora non serba nemmen più la coscienza della sua gloria passata. È un sentimento d’ammirazione per quello che rimane in lui di forte e di bello, per la maestà virile e graziosa del suo aspetto, del suo vestire, dei suoi modi, delle sue cerimonie; per tutto ciò che presenta ancora d’anticamente semplice la sua vita triste e silenziosa. È un sentimento di sconforto al vedere tanta barbarie a così poca distanza dalla civiltà, e come in questa civiltà sia così sproporzionata la forza di innalzarsi a quella di espandersi, se in tanti secoli, pure crescendo sempre nella sua sede, non riuscì a fare da questa parte duecento miglia di cammino. È un sentimento di sdegno pensando che al grande interesse dell’incivilimento di questa parte dell’Affrica, prepongono gli Stati civili i loro privati e piccoli interessi mercantili, e scemando così nel concetto di questo popolo, collo spettacolo delle loro meschine gelosie, l’autorità propria, e quella della civiltà che gli voglion portare, rendono sempre più lenta e più difficile l’impresa comune. Infine è un sentimento di piacere vivissimo pensando che in questo paese mi son formato nella testa un altro mondicino, popolato, animato, pieno di nuovi personaggi che mi vivranno nella mente per tutta la vita, che evocherò a mio piacere, e m’intratterrò con essi, e mi parrà di rivivere in Affrica. Senonchè da questo lieto sentimento ne nasce uno triste, il sentimento inevitabile che getta un’ombra su tutte le ore serene e una goccia d’amaro in tutti i piaceri... quello che mi espresse il negoziante moro per dimostrarmi la vanità di questo grande affaccendarsi dei popoli civili a studiare, a cercare, a scoprire; e allora questo bel viaggio non mi par più che il passaggio rapidissimo d’una bella scena in uno spettacolo d’un’ora, che è la vita; e la matita mi cade di mano e mi piglia un nero sconforto... Ah! la voce di Selam che mi chiama! Si parte dunque! Si ritorna alla tenda, alle cariche guerriere, alle grandi pianure, alla gran luce, all’allegra e sana vita dell’accampamento. Addio, Fez! Addio, sconforto! Il mio mondicino affricano torna a illuminarsi di color di rosa.

MECHINEZ

Dopo ventiquattro giorni di vita cittadina, la carovana mi fece l’impressione viva d’uno spettacolo nuovo. Eppure nulla era mutato, eccetto che, in mezzo a noi, accanto a Mohammed Ducali, cavalcava il moro Scellal, il quale, benchè i suoi affari fossero stati accomodati amichevolmente, credeva più prudente ritornare a Tangeri sotto le ali dell’Ambasciatore, che rimanere a Fez sotto quelle del suo Governo. Oltre a ciò, un osservatore acuto avrebbe notato sui nostri visi, se pessimista, un certo dispetto, se ottimista, una certa serenità, che derivava dalla coscienza, profonda in tutti, di non aver lasciato nella illustre capitale dell’Impero nessuna bella malinconica, nessun marito offeso, nessuna famiglia sconvolta, nemmeno un lembo d’un caic femminino profanato. A tutti poi brillava sul viso il pensiero del ritorno, per quel po’ che se ne poteva vedere sotto gli ombrelli, i veli, i fazzoletti, di cui la maggior parte s’erano coperti la testa per ripararsi dal sole ardentissimo e dal polverio soffocante. Ahimè! Questo era il gran cangiamento! Il sole di maggio s’era cangiato in sole di giugno, il termometro segnava quarantadue gradi al momento della partenza, e dinanzi a noi si stendevano duecento miglia di terra affricana. Questo pensiero ci amareggiava non poco la soddisfazione di partire da Fez senza rimorsi.

Per tornare a Tangeri, dovevamo andare a Mechinez; di qui a Laracce; da Laracce, lungo la costa dell’oceano, ad Arzilla, e da Arzilla a Ain-Dalia, dove c’eravamo accampati la prima volta.

Impiegammo tre giorni per andare a Mechinez che è distante da Fez circa cinquanta chilometri.

Il paese non ci presentò, per quel tratto, varietà notevoli da quello che avevamo visto andando a Fez: sempre quei campi d’orzo e di grano, in molti dei quali si cominciava a mietere; quei duar neri, quei vasti spazi coperti di lentischi e di palme nane, quelle grandi ondulazioni di terreno, colline rocciose, piccoli torrenti asciutti, palme solitarie, cube bianche, una splendida pace e una tristezza infinita. Ma a cagione della vicinanza delle due grandi città, incontrammo più gente che non ne avessimo mai incontrata sulla via da Tangeri a Fez: carovane di cammelli, grandi armenti, negozianti che conducevano al mercato di Fez stormi di cavalli bellissimi; santi che predicavano al deserto, corrieri a piedi e a cavallo, gruppi di arabe armate di falce che andavano alla mietitura, e parecchie ricche famiglie moresche che si recavano a Fez con tutte le loro masserizie e tutti i loro servi. Una di queste, la famiglia d’un ricco negoziante di Mechinez, che il Ducali riconobbe, formava una lunga carovana. Venivano innanzi due servi armati di fucile; e dietro a loro il capo della famiglia, un bell’uomo d’aspetto severo, con barba nera e turbante bianco, a cavallo a una mula elegantemente bardata; il quale con una mano teneva le redini e tratteneva un bimbo di due o tre anni seduto sul dinanzi della sella; coll’altra stringeva le mani d’una donna completamente velata,—forse la sua sposa favorita,—che gli stava alle spalle, a cavalcioni alla mula, tutta raggomitolata, abbracciandolo sotto le ascelle (forse per paura di noi) come se lo volesse soffocare. Altre donne, tutte col viso coperto, a cavallo ad altre mule, venivan dietro al padrone; parenti armati, ragazzi, serve nere con bimbi in braccio, servi arabi a piedi, con fucili sulle spalle; mule ed asini carichi di materasse, di guanciali, di coperte, di piatti, d’involti; e infine altri servi a piedi che portavano gabbie con dentro canarini e pappagalli. Le donne, passandoci accanto, si ravvolsero meglio la testa nel caic, il negoziante non ci guardò, i parenti ci diedero un’occhiata diffidente, e due bambini si misero a piangere. Da questi spettacoli, però, ci distrasse il terzo giorno un avvenimento assai triste. Il povero dottore Miguerez, assalito alla seconda tappa da dolori di sciatica atrocissimi, dovette essere trasportato a Mechinez sopra una lettiga fabbricata alla meglio con una branda e due travi di tenda, e appesa alla groppa di due mule; e questo mise in tutti una profonda tristezza. La carovana si divise in due. Non si può dire quanto stringesse il cuore il vedere, come vedevamo spesso, apparire dietro di noi sulla sommità d’un’altura e scendere lentamente quella lettiga, circondata di soldati a cavallo, di mulattieri, di servi, d’amici, tutti gravi e silenziosi come un corteo funebre; e di tratto in tratto fermarsi e chinarsi tutti sull’infermo; e poi rimettersi in cammino, accennando a noi lontani che il nostro povero amico peggiorava! Era uno spettacolo doloroso, ma ad un tempo bello e gentile, che dava a tutta la carovana l’aspetto della scorta afflitta d’un Sultano ferito.

Il primo giorno ci accampammo ancora nella pianura di Fez; il secondo sulla riva destra del fiume Mduma, a cinque ore circa da Mechinez. Qui seguì un caso piacevolissimo. Verso sera andammo tutti sulla riva del fiume, a un mezzo miglio dall’accampamento, vicino a un gran duar, di cui ci venne incontro tutta la popolazione. Là c’era un ponte di muratura, di un sol arco, di stile arabo, vecchio, ma, salvo pochi guasti, ancora intero e saldo; e accanto a questo gli avanzi d’un altro ponte, parte incastrati nelle rive alte e rocciose, parte ammucchiati in fondo al letto del fiume. Sulla riva sinistra, a un cinquanta passi dal ponte, c’era una gran muraglia diroccata, alcune traccie di fondamenta, qualche macigno, qualche grossa pietra tagliata che pareva avesse appartenuto ad un edifizio ragguardevole. Tutt’intorno la campagna era deserta. Erano i resti, si diceva, d’una città araba chiamata Mduma, fabbricata sulle rovine d’un’altra città, anteriore all’invasione mussulmana. Perciò ci mettemmo a cercare tra i ruderi se mai rimanesse qualche indizio di costruzione romana; ma non trovammo o non riconoscemmo nulla, con manifesta soddisfazione degli arabi, i quali credevano senza dubbio che cercassimo, sulla fede dei nostri libracci diabolici, qualche tesoro nascosto là dai Rumli (romani), di cui, secondo loro, tutti i cristiani sono discendenti diretti. Il capitano di Boccard, però, ripassando sul ponte per tornare all’accampamento, vide giù nel fiume, sulla punta d’un enorme macigno di forma quasi piramidale, alcune piccole pietre quadrate, su cui pareva che fossero incisi dei caratteri; e il fatto che si trovassero là, come se ci fossero state poste perchè si vedessero dal ponte, avvalorava quella supposizione. Il capitano manifestò l’intenzione d’andar a vedere. Tutti lo sconsigliarono. Le rive del fiume erano ripidissime, il fondo tutto ingombro di pietroni acuti e molto discosti l’uno dall’altro, la corrente rapida, il macigno su cui eran le pietre, altissimo e di accesso o impossibile o pericoloso. Ma il capitano di Boccard è una di quelle testine che quando han fissato il chiodo in un’impresa rischiosa, è finita: o s’ammazzano o ne vengono a capo. Non avevamo ancora finito di dir no, ch’egli scendeva già, così come si trovava, cogli stivali alla scudiera e gli sproni, giù per la riva del fiume. Un centinaio d’arabi stavano a vedere, parte schierati sull’alto delle due rive, parte appoggiati alle spallette del ponte. Appena capirono dove il capitano voleva andare, parve a tutti così disperata l’impresa che si misero a ridere. Quando poi lo videro soffermarsi sulla sponda, e guardare qua e là in cerca d’un passaggio, credendo che gli mancasse l’animo, diedero in un’altra risata più insolentemente sonora.—Nessuno di noi,—disse un di loro ad alta voce,—è mai riuscito a salire là sopra: staremo a vedere se ci riesce un nazareno.—E certo nessun altro di noi italiani ci sarebbe salito; ma quello che ci si provava, era per l’appunto il più svelto personaggio dell’Ambasciata. Le risa degli arabi gli diedero l’ultima spinta. Spiccò un salto, disparve in mezzo agli arbusti, ricomparve ritto sopra un sasso, si rinascose, e così, di pietrone in pietrone, saltando come un gatto, strisciando, arrampicandosi, rischiando dieci volte di cader nel fiume o di spezzarsi la testa, riuscì ai piedi del macigno, e senza prender fiato, aggrappandosi a tutti gli sterpi e a tutti gli incavi, salì sulla sommità e vi si drizzò come una statua. Noi tirammo un gran respiro, gli arabi rimasero attoniti, l’onore italiano era salvo. Il capitano, da nobile vincitore, non degnò nemmeno d’uno sguardo i suoi avversarii scornati, e appena riconosciuto che le supposte pietre istoriate non erano che frantumi di calcestruzzo delle spallette del ponte, scese giù da un’altra parte, e in pochi salti riafferrò la riva dove fu ricevuto cogli onori del trionfo.

Il tragitto dalla Mduma a Mechinez fu un seguito d’inganni e di disinganni ottici così singolari, che se non fosse stato il caldo soffocante, ce ne saremmo immensamente divertiti. A due ore infatti, o poco più, dall’accampamento, vedemmo lontano in mezzo a una vastissima pianura nuda, biancheggiare vagamente i minareti di Mechinez, e ci rallegrammo pensando che ci saremmo presto arrivati. Ma quella che ci pareva pianura, non era invece che una successione interminabile di vallette parallele, separate da larghe onde di terreno tutte eguali d’altezza, che presentavano l’aspetto d’una superficie continua; per cui, andando innanzi, la città si nascondeva e ricompariva continuamente, come se facesse capolino; e oltre a ciò, le valli essendo dirupate, rocciose e non attraversabili che per sentieri serpeggianti e difficili, il cammino da farsi era almeno doppio di quello che, a primo aspetto, avevamo giudicato; e sembrava che la città s’allontanasse via via che ci avanzavamo; e in ogni valle si apriva il cuore alla speranza, e sopra ogni altura si tornava a disperare, e sonavan voci alte e fioche e sospiri lamentevoli e irosi propositi di rinunzia a qualunque futuro viaggio nell’Affrica, fatto con qualunque scopo e in qualunque condizione; quando, come Dio volle, uscendo da un bosco d’olivi selvatici, ci vedemmo dinanzi all’improvviso la città sospirata, e tutti i lamenti morirono in una esclamazione di meraviglia.

Mechinez, distesa sopra una lunga collina, circondata di giardini, stretta da tre ordini di grosse mura merlate, coronata di minareti e di palme, allegra e maestosa come un sobborgo di Costantinopoli, si presentava intera al nostro sguardo, disegnando le sue mille terrazze bianche sull’azzurro del cielo. Non un nuvolo di fumo usciva da quella moltitudine di case, non si vedeva un’anima viva nè sulle terrazze nè davanti alle mura, non si sentiva il più leggero rumore: pareva una città disabitata, o una immensa scena di teatro.

Fu rizzata subito la tenda della mensa in mezzo a un campo nudo, a ducento passi da una delle quindici porte della città, e pochi minuti dopo ci sedemmo per saziare, come dicono i prosatori eleganti, «il naturale talento di cibo e di bevanda.»

Appena eravamo seduti, uscì dalla porta della città e s’avanzò verso l’accampamento un drappello di cavalieri pomposamente vestiti, preceduti da una schiera di soldati a piedi.

Era il Governatore di Mechinez coi suoi parenti e i suoi ufficiali.

A venti passi dalla tenda, scesero dai loro cavalli bardati di tutti i colori dell’iride, e si slanciarono verso di noi gridando tutti insieme:—Benvenuti! Benvenuti! Benvenuti!—Il governatore era un giovane di fisonomia dolce, d’occhi neri, di barba nerissima; tutti gli altri, uomini tra i quaranta e i cinquanta, d’alta statura, barbuti, vestiti di bianco, lindi, profumati, che parevano usciti da uno scatolino. Strinsero le mani a tutti, girando intorno alla tavola a passo di contraddanza e sorridendo graziosamente, e poi si radunarono daccapo dietro al Governatore. Uno d’essi, vedendo per terra un briciolo di pane, lo raccolse e lo rimise sulla tavola dicendo alcune parole che significavano probabilmente:—Scusate: il Corano condanna il disperdimento del pane: io faccio il mio dovere di buon Mussulmano.—Il Governatore offerse a tutti l’ospitalità in casa sua, che venne acettata. Non rimanemmo nell’accampamento che i pittori ed io, ad aspettare che scemasse il caldo per andare in città.

Selam ci tenne compagnia, raccontandoci le meraviglie di Mechinez.

—A Mechinez ci sono le più belle donne del Marocco, i giardini più belli dell’Affrica e il palazzo imperiale più bello del mondo.—Così cominciò. E Mechinez gode infatti questa fama nell’Impero. Mechinesina è sinonimo di bella e mechinesino di geloso. Il palazzo imperiale, fondato da Mulei-Ismaele, che nel 1703 ci teneva quattromila donne e ottocento sessantasette figliuoli, aveva due miglia di circuito ed era ornato di colonne di marmo fatte venire in parte dalle rovine della città di Faraone, vicina a Mechinez, in parte da Livorno e da Marsiglia. V’era un grande alcazar dove si vendevano i più preziosi tessuti d’Europa, un vasto mercato riunito alla città da una strada ornata di cento fontane, un parco d’olivi immenso, sette grandi moschee, un formidabile presidio d’artiglieria che teneva in freno i berberi delle vicine montagne, un tesoro imperiale di cinquecento milioni di lire, e una popolazione di cinquantamila abitanti che erano considerati come i più colti e i più ospitali dell’Impero.

Selam ci descrisse con voce bassa e con gesti misteriosi il luogo dov’è rinchiuso il tesoro, che nessuno sa quanto sia; ma che certo dev’essere di molto scemato dopo le ultime guerre, se pure è ancora tale da meritare il nome di tesoro.—Dentro il palazzo del Sultano,—disse,—c’è un altro palazzo, tutto di pietra, che riceve la luce dall’alto ed è circondato da tre giri di muraglie. Si entra per una porta di ferro, si trova un’altra porta di ferro e poi c’è ancora una porta di ferro. Dopo queste tre porte, c’è un corridoio basso e oscuro, dove bisogna passare coi lumi, e il pavimento è di marmo nero, le pareti nere, la vôlta nera, e l’aria ha odore di sepolcro. In fondo al corridoio, v’è una gran sala, e nel mezzo della sala, un’apertura, che mette in un sotterraneo profondo, dove trecento neri gettano quattro volte all’anno, a palate, le monete d’oro e d’argento che manda il Sultano. Il Sultano sta a vedere. I neri che lavorano nella sala sono chiusi nel palazzo per tutta la vita. Quelli che lavorano nel sotterraneo non ne escono che morti. E intorno alla sala vi sono dieci vasi di terra, che contengono le teste di dieci schiavi che una volta tentarono di rubare. E Mulei-Soliman faceva tagliare la testa a tutti, appena i denari erano al posto. E nessun uomo è mai uscito vivo da quel palazzo fuor che il Sultano nostro signore.—

E raccontava questi orrori, senza dar il menomo segno d’indignazione, anzi quasi con un accento ammirativo, come se fossero cose sovrumane e fatali, di cui un uomo non dovesse giudicare nè provare altro sentimento che un misterioso rispetto.

—C’era una volta un re di Mechinez,—ripigliò poi colla sua inalterabile gravità, stando sempre ritto dinanzi alla nostra tenda, con una mano sull’impugnatura della sciabola;—il quale voleva fare una strada da Mechinez fino a Marocco, fiancheggiata da due alti muri, affinchè anche i ciechi potessero andare da una città all’altra senza bisogno di guida. E questo re perverso e crudele aveva un anello col quale poteva chiamare a suo servizio tutti i demoni. E li chiamò e li fece lavorare alla strada. Ce n’erano migliaia e migliaia, e ognuno d’essi portava delle pietre che cento uomini non sarebbero bastati a muovere d’un dito, e quelli che non avevan voglia di lavorare, il re li faceva calcinar vivi nei muri, e se ne vedono ancora le ossa. (Si vedono ancora, infatti, ma sono ossa di schiavi cristiani, che si ritrovano pure nelle mura di Salè e di Rabatt). E già i due muri della strada erano stati fabbricati per la lunghezza d’una giornata di cammino, e tutti si rallegravano pensando che la strada sarebbe presto finita. Ma quel re spiaceva ad Allà, ed Allà non volle che la strada si finisse. Un giorno ch’egli passeggiava a cavallo, una povera donna della campagna lo arrestò e gli disse:—Dove vuoi riuscire con questa strada, re temerario?—All’inferno!—rispose il re indispettito.—Sprofondavi dunque!—gridò la donna. A quelle parole il re cadde morto da cavallo, i muri crollarono, i demoni sparpagliarono le pietre per la campagna, e la strada rimase incompiuta per sempre.

—E tu credi che tutto questo sia vero, Selam?—gli domandai.

—Naturalmente,—rispose meravigliandosi del mio dubbio.

—Credi ai demoni?

—Ma certo che ci credo! Stiamo a vedere che non si deve credere ai demoni!

—Ma ne hai mai veduti?

—Mai! E per questo credo che non ce ne siano più sulla terra, e quando sento dire: Guardatevi dal passare di notte in quel tal luogo perchè ci sono i demoni,—ci vado subito, ci passo io per il primo, perchè so che i demoni sono uomini, e io con un buon cavallo tra le ginocchia e un buon fucile nel pugno, non ho paura di nessuno.

—E per che motivo, secondo te, ora non ci son più demoni e una volta ce n’era?

—Oh bella!—rispose allontanandosi;—perchè una volta il mondo non era il mondo d’adesso. E perchè, potrei domandare a lei, una volta gli uomini erano più alti, le giornate erano più lunghe e le bestie parlavano?

E se n’andò scrollando la testa in atto di compatimento.

Quel giorno, pranzando l’Ambasciatore in città, Selam e gli altri soldati non fecero che galoppare fra la città e le tende, con gran divertimento dei pittori e mio, perchè mai più di quel giorno ci colpì il ridicolo contrasto della maestà del loro aspetto coll’umiltà dei loro uffici. Ecco, per esempio, il servo Hamed, piantato sopra uno stupendo cavallo nero, che esce di galoppo dalla porta merlata di Mechinez e si slancia a briglia sciolta a traverso la campagna. Il suo alto turbante, illuminato dal sole, splende della bianchezza della neve; la sua grande cappa celeste ondeggia al vento come un manto reale; il suo pugnale scintilla; tutta la sua figura maschia e graziosa, spira la maestà d’un principe e la baldanza d’un guerriero. Quante vaghe immagini fa brillare alla mente quel bel cavaliere mussulmano che vola come un fantasma sotto le mura d’una città medioevale! Dove va? a rapire la più bella figliuola del pascià di Faraone? a sfidare il valoroso caid d’Uazzan, fidanzato alla sua amante? a versare i suoi affanni nel seno del santo secolare che prega da ottant’anni sulla cima del monte Zerhun, nella sacra zauia di Mulei-Edris?

No; viene all’accampamento a pigliare un fritto di patate per il desinare dell’Ambasciatore.

Verso il tramonto, i pittori ed io andammo in città, a cavallo alle nostre mule, accompagnati da quattro soldati a piedi del governatore di Mechinez, i quali avevano lasciato i fucili e s’erano armati di bastoncini e di funi a nodi. Prima di metterci in cammino, però, convenimmo con loro, interprete Hamed, che quando avessimo battuto tutti e tre palma a palma, in qualunque punto della città ci trovassimo, essi avrebbero preso la via più corta per ricondurci all’accampamento.

Passate due porte esterne, divise da una salita ripidissima, ci trovammo nel centro della città. La prima impressione fu una gradevole sorpresa. Mechinez che c’immaginavamo più malinconica di Fez, è invece una città allegra, piena di verde, attraversata da molte strade tortuose, ma larghe e fiancheggiate da case basse o da muri di giardini di poca altezza, che lasciano vedere le cime delle bellissime colline circostanti. Da ogni parte, si vede sorgere sopra le case un minareto, una palma, un muro merlato; a ogni passo una fontana o una porta ornata di arabeschi; quercie e fichi frondosi in mezzo alle strade e alle piazze; e per tutto aria aperta, luce, odor di campagna e una certa pace gentile di città principesca, decaduta, ma non morta. Dopo molti giri riuscimmo in una vasta piazza, sulla quale dà la facciata monumentale del palazzo del Governatore, risplendente di graziosissimi musaici di smalto di cento colori; e in quel momento battendovi gli ultimi raggi del sole, scintillava tutta come i palazzi tempestati di perle delle leggende orientali. Dieci soldati facevano il gioco della polvere, una cinquantina di servi e di guardie stavano seduti in terra dinanzi alla porta, la piazza era deserta. Che bel momento! Quella facciata luminosa, quei cavalieri, quelle torri, la solitudine, il tramonto, formavano tutt’insieme uno spettacolo così schiettamente moresco, spiravano un’aura così viva d’altri tempi, presentavano in un sol quadro tanta storia, tanta poesia, tanti sogni, che rimanemmo un pezzo tutti e tre immobili in mezzo alla piazza come trasecolati. Di là, i soldati ci condussero a vedere una grande porta esterna, di forma nobilissima, rivestita pure, dal piede dei muri fino alla sommità, di musaici delicati e multicolori, che brillavano al sole come una miriade di rubini, di zaffiri e di smeraldi, incastonati in un arco trionfale d’avorio; e i pittori la schizzarono sull’album colla testa in visibilio; e rientrammo in città. Fin qui la gente che avevamo incontrata per strada, non s’era mostrata che curiosa, e c’era parso anzi che ci guardasse con occhio meno malevolo che la popolazione di Fez. Ma tutt’a un tratto, senza un’ombra di ragione, cangiò d’umore. Cominciarono alcune vecchie a mostrarci il bianco dell’occhio, poi alcuni ragazzi a tirar sassolini fra le gambe alle nostre mule, poi uno sciame di monelli a correrci dinanzi e un altro sciame alle spalle, facendo una gazzarra d’inferno. I soldati, ben inteso, non stettero a far complimenti. Due rimasero davanti, due ci si misero dietro, e attaccarono un vero combattimento colla ragazzaglia, legnando i più vicini, tirando sassate ai più lontani, inseguendo per lunghi tratti i più insolenti. Ma fu fatica sprecata. Non osando risponder coi sassi, i monelli si misero a buttar aranci fradici, buccie di limone, sterco secco, e la pioggia diventò in pochi momenti così fitta, che ci parve prudente di consigliare i soldati a desistere dalle offese, per non provocare di peggio. Ma i soldati inaspriti o non ci sentirono o non ci vollero dar retta e continuarono a combattere con furore crescente. Non potendo sfogarsi sui monelli, se la pigliavano cogli uomini. A ogni pancia che spuntasse da una porta, una funata, a modo di avvertimento; a ogni povero diavolo che, passandoci accanto, non si stringesse al muro, un urtone che lo cacciava dieci passi indietro; a ogni vecchia che ci guardasse torvo, i pugni sul viso e un urlo sgangherato nell’orecchio. Indignati di quella brutalità, li avvertimmo con gesti risoluti che smettessero. Quei disgraziati credettero che li rimproverassimo di fiacchezza e si diedero a picchiare più forte. Per giunta, sbucarono non so di dove due ragazzi di dieci o dodici anni, forse parenti dei soldati, armati anch’essi di bastoni; s’aggregarono, bastonatori volontarii, alla scorta, e cominciarono a menar botte così disperate, a uomini, a donne, ad asini, a muli, a vicini, a lontani, che i soldati stessi si videro costretti a raccomandar loro la moderazione. E ad ogni legnata, si voltavano tutti e due a guardare noi tre, come per consigliarci di prenderne atto per ricordarcene nel dare la mancia; e siccome noi ridevamo come matti, pigliavano il nostro riso come un incoraggiamento, e tiravan via a picchiare come anime perdute. Ora che seguirà?—dicevamo noi.—Uno scandalo! una rivoluzione!—Già i legnati brontolavano, qualcuno aveva alzato la mano sui due ragazzi, bisognava uscir di città immediatamente. Il Biseo, nondimeno, esitava ancora, quando, nel passare per una piazzetta piena di gente, un sasso colpì nella testa la mia mula e una carota rasentò la nuca dell’Ussi. Allora ci decidemmo a battere tutti e tre palma a palma, il segnale convenuto per la ritirata. Ma anche questo innocente segnale provocò un baccano. I soldati, per mostrarci che avevan capito, ci risposero battendo le mani; tutta la gente ch’era nella piazza, intendendo forse di canzonarci, si mise a battere; e intanto continuavano a piovere buccie di limone e maledizioni e legnate; e piovevano ancora ch’eravamo vicini alla porta; e quando già scendevamo verso l’accampamento, ci gridavano ancora alle spalle dall’alto delle mura:—Maledetto il padre tuo!—Sia sterminata la vostra razza!—Dio faccia arrostire i vostri bisnonni!—

Così ci ricevette la città di Mechinez, e fortunati noi ch’era la città più ospitale dell’Impero!

La mattina seguente fu portata all’accampamento una lettiga per il medico, fatta in ventiquattr’ore dai più abili falegnami di Mechinez, i quali ci avrebbero senza dubbio impiegato più di ventiquattro giorni, se non li avesse sollecitati il Governatore con una certa intimazione, a cui sarebbe stato un po’ rischioso di fare il sordo. Era una macchina pesante e mal adatta, che somigliava più a una gabbia per trasportar bestie feroci, che a una lettiga per un malato; assai meglio fatta, nondimeno, di quello che tutti noi prevedessimo; e gli operai che vi diedero sotto i nostri occhi le ultime martellate, n’erano così alteri e si sentivano tanto sicuri della nostra ammirazione, che lavorando, tremavano dall’emozione, e ad ogni nostra parola, mandavan lampi dagli occhi. Quando il Morteo mise nelle loro mani i denari, ringraziarono gravemente, e se n’andarono con un sorriso di trionfo che voleva dire:—Orgogliosi ignoranti, v’abbiamo fatto vedere chi siamo.

Verso il tramonto partimmo da Mechinez e camminammo per due ore a traverso la più bella campagna che abbia mai visto in sogno un paesista innamorato. Vedo, sento ancora la divina grazia di quelle colline verdi sparse di roseti, di mirti, di leandri, d’aloè fioriti; lo splendore di quella città di Mechinez indorata dal sole, che si nascondeva al nostro sguardo minareto per minareto, palma per palma, terrazza per terrazza, e più si impiccioliva, più pareva che s’alzasse, come se le crescesse sotto la collina; e l’aria impregnata di profumi che facevano fremere, e le acque che riflettevano i mille colori della scorta, e l’infinita mestizia di quel cielo rosato; vedo, sento ancora tutto questo, e non lo so descrivere! Ah! mi morderei le dita!

SUL SEBÙ

Era il mezzodì del quinto giorno della nostra partenza da Fez, quando, dopo una cavalcata di cinque ore a traverso una successione di valli deserte, ripassavamo per la gola Beb-el-Tinca e vedevamo un’altra volta dinanzi a noi la vastissima pianura di Sebù inondata d’una luce bianca, ardente, implacabile, di cui il solo ricordo mi fa salire le vampe al viso. Tutti, fuorchè l’Ambasciatore e il capitano, che partecipano della virtù favolosa della salamandra, di star nel fuoco senz’ardere, ci coprimmo il capo come fratelli della Misericordia, ci ravvoltammo con gran cura nelle cappe e nelle coperte, e senza profferire una parola, col mento sul petto, cogli occhi socchiusi, scendemmo nella terribile pianura, confidando nella clemenza di Dio. A un certo punto si sentì la voce del Comandante il quale ci annunziava che era già morto un cavallo. Era morto infatti uno dei cavalli che portavano i bagagli. Nessuno rispose.—Si sa—soggiunse il Comandante spietato;—i cavalli muoiono per i primi.—Anche queste parole furono seguite da un silenzio mortale. Dopo mezz’ora, si sentì la voce fioca d’un altro che domandava all’Ussi a chi avrebbe lasciato il suo quadro di Bianca Cappello. Per tutto il tragitto non si sentirono altre parole. Anche i soldati della scorta tacevano. Il caldo opprimeva tutti. Persino il caid Hamed Ben Kasen, malgrado il grande turbante che gli ombreggiava il viso, gocciolava di sudore. Povero generale! Quella mattina mi dimostrò una pietà di cui mi ricorderò per tutta la vita. Vedendo che rimanevo indietro, venne al mio fianco e si mise a bastonare la mia mula con uno zelo così sviscerato, che in pochi momenti passai dinanzi a tutti, portato via di galoppo, saltellando sulla sella come un automa di gomma elastica, e arrivai all’accampamento cinque minuti prima degli altri, colle budella sottosopra e il cuore pieno di gratitudine.

Quel giorno nessuno uscì dalla tenda fino all’ora del desinare, e il desinare stesso fu silenzioso, come se tutti si sentissero già oppressi dal caldo del giorno seguente. Un solo avvenimento, a sera innoltrata, destò un po’ di chiasso nell’accampamento. Eravamo alle frutta, quando udimmo un gridìo lamentevole dalla parte del piccolo accampamento della scorta, e nello stesso tempo un rumore cadenzato di colpi che parevano frustate. Credendo che fossero i soldati o i servi che scherzassero, non ci badammo. Ma a un tratto le grida diventarono strazianti, e sentimmo profferire distintamente, con un accento d’invocazione supplichevole, il nome del fondatore di Fez:—Mulei-Edriss! Mulei-Edriss! Mulei-Edriss!—Ci alzammo tutti da tavola, e correndo verso quella parte, arrivammo in tempo a vedere una tristissima scena. Due soldati della scorta tenevano sospeso, uno per le spalle, l’altro per i piedi, un servo arabo; un terzo lo flagellava disperatamente con una frusta, un quarto teneva in mano una lanterna, gli altri facevano corona, il caid assisteva colle braccia incrociate sul petto. L’Ambasciatore fece rilasciare immediatamente la vittima, che s’allontanò singhiozzando, e domandò al caid che cosa era accaduto.—Nulla, nulla,—rispose,—una piccola correzione.—E soggiunse che aveva fatto punire quell’uomo perchè si divertiva a buttare ai suoi compagni delle pallottole di cuscussù, grave colpa, sacrilegio anzi per un Mussulmano, che deve rispettare ogni alimento prodotto dalla terra come un dono di Dio. Dicendo questo, il povero caid, bonissim’omo in fondo, non riusciva a nascondere, benchè volesse parere impassibile, il dolore d’aver dovuto infliggere quel castigo e la pietà che ne aveva provato; e questo bastò a rimetterlo al suo posto dentro al mio cuore.

La notte fummo svegliati da un caldissimo vento di levante, che ci fece balzar fuori della tenda colla bocca spalancata, in cerca d’un filo d’aria respirabile; e all’alba ci mettemmo in cammino con un tempo fosco che preannunziava una giornata anche più calda della precedente. Il cielo era tutto coperto di nuvole, da una parte infocate dal sole nascente e rotte in varii punti da raggi vivissimi; dalla parte opposta, nere e rigate da striscie oblique di pioggia. Da questo cielo inquieto scendeva una luce strana, che pareva passata a traverso una volta di vetro giallastro, e dava alla vastissima pianura tutta coperta di stoppie un arrabbiato colore sulfureo, che quasi offendeva la vista. Lontano, il vento sollevava e rigirava con una rapidità furiosa immensi nuvoli di polvere. La campagna era solitaria, l’aria pesante, l’orizzonte nascosto da un velo di vapori color di piombo. Senz’aver visto il Sahara, m’immaginai che dovesse presentare qualche volta quel medesimo aspetto, e già stavo per esprimere il mio pensiero, quando l’Ussi, che fu in Egitto, arrestandosi improvvisamente, esclamò con un accento di meraviglia:—Ecco il deserto!

Dopo quattr’ore di cammino, arrivammo sulla riva del Sebù, dove venti cavalieri dei Beni-Hassen, comandati da un bel ragazzo di dodici anni, figlio del Governatore Sid-Abd-Allà, ci vennero incontro di carriera, salutandoci colle solite fucilate e le solite grida.

L’accampamento fu piantato in fretta e in furia vicino al fiume, in un terreno nudo, rotto da profonde screpolature, e fatta colazione alla lesta, ci ritirammo tutti sotto le tende.

Fu quella la giornata più calda del viaggio.

M’ingegnerò di dare una lontana idea dei nostri tormenti.

I lettori gentili preparino il cuore a un sentimento di profonda pietà.

M’asciugo il sudore e scrivo.

Alle dieci della mattina, quando i miei tre compagni ed io ci ritirammo sotto la tenda, il termometro segnava quarantadue centigradi all’ombra. Per un’ora circa, la conversazione si mantenne animata. In capo a un ora, cominciando a provare una certa difficoltà a terminare i periodi, ci riducemmo a discorrere a proposizioni semplici. Poi, costandoci fatica anche il mettere insieme soggetto, verbo e attributo, smettemmo di parlare e tentammo di dormire. Fu un tentativo inutile. I letti caldi, le mosche, la sete, l’affanno non ci lasciavano chiuder occhio. Dopo aver molto sbuffato ed esserci molto dimenati, ci rassegnammo a star svegli, cercando d’ingannare il tempo in qualche modo. Ma non v’era modo. Sigari, pipe, libri, carte geografiche, tutto ci cadeva di mano. Provai a scrivere: alla terza riga la pagina era fradicia dal sudore che mi cadeva dalla fronte come acqua da una spugna spremuta. Mi sentivo tutto il corpo percorso da innumerevoli rigagnoli che s’intersecavano, s’inseguivano, formavano dei confluenti e dei ringorghi, e venivan giù per le braccia e per le mani fino ad annacquarmi l’inchiostro sulla punta della penna. In pochi minuti, fazzoletti, asciugamani, veli, tutto ciò che poteva servire ad asciugarci, era inzuppato che pareva stato immerso in un secchio. Avevamo un barile pieno d’acqua: provammo a bere: era bollente. La buttammo via: aveva appena toccato terra, che non se ne vedeva più traccia. A mezzogiorno il termometro segnava quarantaquattro gradi e mezzo. La tenda era un forno. Tutto quello che toccavamo, scottava. Mi posi una mano sulla testa: mi parve di metterla sopra una stufa. Il letto ci scaldava le reni a segno che non era più possibile star coricati. Provai a metter la mano in terra fuori della tenda: la terra era rovente. Nessuno parlava più. Solo di tratto in tratto si sentiva qualche languida esclamazione:—È una morte.—Non si può più resistere.—Si diventa matti.—S’affacciò un momento l’Ussi, cogli occhi fuori della testa, alla porta della tenda, mormorò con voce soffocata:—Si muore—e disparve. Diana, la povera bestiuola, accovacciata accanto al letto del Comandante, ansava in maniera da far temere che morisse di momento in momento. Fuori della tenda non si sentiva una voce umana, non si vedeva nessuno, tutto era immobile come in un accampamento abbandonato. I cavalli nitrivano in suono lamentevole. La lettiga del medico, vicina alla nostra tenda, crepitava come se si volesse spezzare. A un tratto si sentì la voce di Selam che gridò passando di corsa:— Se ha muerto un perro! (È morto un cane).—E uno!—rispose con voce fioca il Comandante, faceto fino alla morte. Al tocco il termometro segnava quarantasei gradi e mezzo. Allora cessarono anche i lamenti. Il Comandante, il viceconsole ed io stavamo distesi in terra immobili come corpi morti. In tutto l’accampamento, il capitano e l’Ambasciatore erano forse i due soli cristiani che dessero ancora segno di vita. Non ricordo quanto tempo io sia rimasto in quello stato. Ero immerso in una specie di stupore, sognavo ad occhi aperti, mi ribollivano nel capo mille immagini confuse di luoghi freschi e di cose gelate: mi precipitavo dall’alto d’una rupe in un lago, mettevo la nuca contro la bocca d’una pompa, mi fabbricavo una casa di ghiaccio, divoravo in dieci minuti tutti i pezzi duri di Napoli, e più sguazzavo nell’acqua e bevevo freddo, più mi sentivo morire di caldo, di sete, di rabbia, di sfinimento. Finalmente il capitano esclamò con voce funerea:—Quarantasette!—Fu l’ultima voce che mi ricordo d’aver sentita....

Verso sera venne a visitar l’Ambasciatore, in nome di suo padre malato, il figliuoletto del Governatore dei Beni-Hassen che avevamo veduto la mattina. Entrò nell’accampamento a cavallo, accompagnato da un ufficiale e da due soldati che lo presero in braccio quando scese di sella, e s’avanzò a passo grave verso la tenda dell’Ambasciatore, strascicando come un paludamento la sua gran cappa turchina, con la mano sinistra appoggiata sulla sciabola più lunga di lui, e la destra distesa in atto di saluto.

La mattina, visto a cavallo, c’era parso un bel ragazzo; ed aveva infatti due begli occhioni pieni di pensiero e un visino pallido d’un ovale gentile; ma vedendolo a piedi, ci accorgemmo ch’era rachitico e gibboso. Da ciò nasceva forse la sua tristezza. In tutto il tempo che rimase con noi, non spuntò un sorriso sulla sua bocca, non si rasserenò un momento il suo volto. Ci fissò l’un dopo l’altro con uno sguardo profondo e non rispose alle domande dell’Ambasciatore che con parole tronche e sommesse. Una sola volta gli passò un barlume di allegrezza negli occhi; e fu quando l’Ambasciatore gli fece dire che aveva ammirato, nelle cariche della mattina, il suo modo ardito e grazioso di cavalcare; ma non fu che un barlume.

Benchè gli tenessimo tutti gli occhi addosso, e fosse quella probabilmente la prima volta ch’egli compariva, in carattere ufficiale, davanti a un Ambasciata europea, non mostrò ombra d’imbarazzo. Sorbì lentamente il suo tè, mangiò dei confetti, parlò nell’orecchio al suo ufficiale, s’aggiustò due o tre volte sul capo il suo turbantino, osservò attentamente tutti i nostri stivali, lasciò indovinare che si seccava; poi si strinse sul petto, accommiatandosi, la mano dell’Ambasciatore, e tornò verso il suo cavallo colla stessa gravità di Sultano con cui s’era avvicinato alla tenda.

Messo in sella dal suo ufficiale, disse ancora una volta:—La pace sia con voi!—e partì di galoppo, seguito dal suo piccolo stato maggiore incappucciato.

Quella stessa sera vennero parecchi malati a cercare il dottore, il quale col dracomanno Salomone e un drappello di soldati era partito poco prima, per la via d’Alkazar, alla volta di Tangeri. Venne, fra gli altri, un povero ragazzo mezzo nudo, macilento, cogli occhi rovinati, che appena ci vedeva e pareva affranto dalla fatica.—Che cosa vuoi?—gli domandò il Morteo—Cerco il medico cristiano,—rispose con voce tremante. Quando intese ch’era partito rimase un momento come istupidito, e poi gridò con accento disperato:—Ma io non ci vedo più!... Io ho fatto otto miglia per venir qui a farmi guarire dal medico cristiano!... Io ho bisogno di vedere il medico cristiano!—E diede in uno scoppio di pianto da straziare il cuore. Il Morteo gli mise in mano una moneta, che accettò con indifferenza, e indicandogli la via che aveva preso il dottore, gli disse che, andando di buon passo, avrebbe forse potuto ancora raggiungerlo. Il ragazzo stette un po’ incerto, guardando verso quella parte cogli occhi pieni di lagrime, e poi si mise lentamente in cammino.

Il sole tramontò quella sera sotto un padiglione immenso di nuvole color d’oro e di bragia, e lanciando rasente la pianura i suoi ultimi raggi sanguigni, calò dietro la linea diritta dell’orizzonte come un enorme disco rovente che si sprofondasse nelle viscere della terra.

E la notte fece freddo!

La mattina, al levar del sole, eravamo già sulla riva sinistra del Sebù, nel medesimo punto dove l’avevamo passato venendo da Tangeri; e appena giunti, vedevamo comparire sulla riva opposta, accompagnato dai suoi ufficiali e dai suoi soldati, il simpatico governatore Sid-Bekr-el-Abbassi, colla stessa cappa bianca e collo stesso cavallo nero bardato di color celeste, con cui ci s’era presentato la prima volta.

Ma il passaggio del fiume presentò questa volta una difficoltà impreveduta.

Dei due barconi sui quali dovevamo traghettare, uno era in pezzi; l’altro rotto in più parti e mezzo affondato nella mota della sponda. Il piccolo duar abitato dalle famiglie dei barcaioli, era deserto; il fiume non guadabile che con grave pericolo; nessun altro barcone che alla distanza d’una giornata almeno di cammino da quel punto. Come passare? Che fare? Un soldato attraversò il fiume a nuoto e andò a portar la notizia al Governatore, il quale mandò un altro soldato, a nuoto, a dare una spiegazione della cosa. I barcaiuoli erano stati avvertiti il giorno prima di tenersi pronti per traghettare l’Ambasciata che sarebbe arrivata la mattina; ma trovandosi i barconi, per loro incuria, ridotti in stato da non poter servire, e non essendo capaci essi, o non volendo durar la fatica di accomodarli, erano fuggiti durante la notte, Dio sa dove, colle loro famiglie e coi loro animali, per sottrarsi al castigo del Governatore. Non rimaneva dunque altro da fare che tentar di riparare alla meglio il barcone meno fracassato, e così si fece. I soldati corsero a raccoglier uomini nei duar vicini e subito furono cominciati i lavori sotto l’alta direzione di Luigi il calafato, che in quell’occasione per lui memorabile, sostenne gloriosamente l’onore della marina italiana. Era bello vedere come lavoravano gli arabi e i mori. Dieci insieme, urlando e agitandosi, non facevano in mezz’ora il lavoro che facevano Luigi e il Ranni, militarmente silenziosi, in cinque minuti. Tutti comandavano, tutti criticavano, tutti andavano in collera, tutti tagliavan l’aria con gesti imperiosi, che parevan tanti ammiragli, e nessuno levava un ragno dal buco. Intanto il Governatore e il caid conversavano ad alta voce da una sponda all’altra; i cavalieri delle due scorte galoppavano lungo le rive cercando all’orizzonte i fuggitivi; le bestie da soma guadavano il fiume in lunghe file coll’acqua a mezzo il collo; i lavoratori cantavano le lodi del profeta; e sulla sponda opposta sorgeva una gran tenda azzurrina sotto la quale i servi di Sid-Bekr-el-Abbassi si affaccendavano a prepararci una squisita colezione di fichi, di confetti e di tè, che noi pregustavamo col cannocchiale, canterellando il coro d’un’opera semi-seria composta durante gli ozi di Fez col titolo:— Gl’Italiani nel Marocco.

Coll’aiuto del Profeta, il barcone fu accomodato in due ore, il Ranni ci pigliò sulle spalle e ci scaricò l’un dopo l’altro sulla prua, e giungemmo all’altra riva, coi piedi immersi fino alla noce nell’acqua che filtrava dentro da tutte le parti, ma senza esser costretti a gettarci a nuoto; inestimabile fortuna, di cui non eravamo sicuri partendo.

Il Governatore Sid Bekr-el-Abbassi che aveva risaputo le lodi fatte di lui al Sultano dal nostro Ambasciatore, fu con noi anche più amabile e più seducente della prima volta... Preso un po’ di riposo, ci rimettemmo in cammino verso Karia-el-Abbassi, dove arrivammo sul mezzogiorno, e fummo ricevuti e passammo le ore bruciate nella stessa stanzina bianca, in cui trentacinque giorni innanzi avevamo visto la bella figliuoletta del nostro ospite far capolino dietro il turbante paterno.

Qui Sid Bekr-el-Abbassi presentò all’Ambasciatore, fra gli altri personaggi, un moro sui cinquant’anni, di aspetto signorile e di modi simpatici, che nessuno di noi, credo, ha mai più dimenticato, non per sè, ma per le strane cose che ci raccontarono della sua famiglia. Era fratello d’un Sid-Bomedi, antico governatore della provincia di Ducalla, il quale languiva da otto anni nelle prigioni di Fez. Tiranno e scialacquatore sfrenato, dopo aver dissanguato il suo popolo, contratto imprestiti rovinosi coi negozianti europei, ammontato debiti su debiti, fatto ira di Dio in casa sua e fuori, era stato arrestato e condotto a Fez per ordine del Sultano, il quale credendolo possessore di tesori nascosti, aveva fatto spianare la sua casa, frugare fra i ruderi, scavare fra le fondamenta, e bandito dalla provincia, sotto pena di morte, tutta la sua famiglia, per timore che, conoscendo il nascondiglio, non s’impadronisse dei denari. Ma non essendosi trovato, forse perchè non c’era, il tesoro che si cercava, e persistendo il Sultano a credere che ci fosse, e che il prigioniero non lo volesse rivelare, questo non aveva più rivisto la luce del sole ed era forse condannato a morire in prigione. E il caso di Sid-Bomedi non è raro fra i governatori del Marocco, i quali, chi più chi meno, arricchendosi a spese del loro popolo, forniscono sempre al Governo che vuole impadronirsi dei loro averi, il vantaggio di poterlo fare sotto colore di punire un colpevole. Il Governatore o il Pascià a cui il Sultano ha posto gli occhi addosso, è chiamato, in forma amichevole, a Fez o a Marocco, oppure arrestato improvvisamente, di notte, da un drappello di soldati imperiali che lo conducono a marcie forzate alla capitale, legato supino sulla groppa d’una mula, colla testa spenzoloni e il viso rivolto al sole. Appena giunto, vien caricato di catene e gettato in una segreta. Se rivela dove ha nascosto il tesoro, è rimandato con tutti gli onori alla sua provincia, dove in poco tempo, facendo peggio di prima, può rifarsi di quello che gli è stato carpito. Se non rivela, è lasciato marcire nel suo sepolcro, e bastonato a sangue una volta al giorno, finchè, ridotto agli estremi, si decide a parlare per non morire fra le catene. Se non rivela che in parte, è bastonato ugualmente, fin che abbia fatto la rivelazione completa. Qualche governatore più accorto, subodorando per tempo la catastrofe, la scongiura, recandosi in persona alla Corte con una lunga carovana di cammelli e di mule cariche di doni preziosi; ma per far questi doni, dovendo spendere gran parte delle proprie ricchezze, ne segue che la sua salvezza non riesce meno funesta alla provincia governata da lui, di quello che riuscirebbe il suo ritorno dalla prigionia, quando fosse stato spogliato a forza dei suoi tesori. Qualcuno, anche, muore in carcere o sotto il bastone, ma non rivela, per lasciare il tesoro alla famiglia; che sa dov’è e lo scoverà a tempo opportuno; ed altri muoiono perchè non hanno nulla da rivelare. Ma son rari, perchè è uso comune nel Marocco di nascondere le ricchezze, e si sa che i mori sono meravigliosi maestri in quest’arte. Si parla di tesori murati sotto la soglia della porta di casa, nei pilastri dei cortili, negli scalini, nelle finestre; di case demolite dalle fondamenta, pietra per pietra, senza che vi si trovasse un tesoro che pure c’era; di schiavi uccisi e sepolti segretamente, dopo aver aiutato il padrone a nascondere; e il volgo mescola a queste verità dolorose ed orribili, le sue amene leggende di spiriti e di prodigi.

Il Governatore el-Abbassi ci accompagnò, verso sera, fino all’accampamento, ch’era a due ore di cammino dalla sua casa, in un prato pieno di fiori e di tartarughe, tra il fiume Dà, che si divide là presso in un gran numero di canali, e una bella collina coronata d’una tomba di santo dalla cupola verde. A un tiro di fucile dalle nostre tende v’era un gran duar circondato d’aloé e di fichi d’India. Al nostro passaggio, tutti gli abitanti saltaron fuori. Allora vedemmo quanto il governatore el-Abbassi era amato dal suo popolo. Vecchi cadenti, frotte di bimbi, uomini maturi, giovanetti, tutti correvano da lui a farsi mettere la mano sul capo, e se ne tornavano contenti, voltandosi indietro a guardarlo con un’espressione d’affetto e di gratitudine. La presenza però dell’amato Governatore non bastò a salvar noi dai soliti sguardi biechi e dai soliti improperi. Le donne, mezzo nascoste dietro alle siepi, spingevano con una mano uno dei loro figliuoletti a farsi benedire dal Governatore, coll’altra mano un altro figliuolo a dirci ch’eravamo dei cani. Vedemmo dei bimbi alti due palmi, tutti nudi, che appena si reggevano in piedi, venir verso di noi barcolloni, e mostrandoci il pugno grosso come una noce, gridare:—Maledetto il padre tuo!—E siccome avevano paura ad avanzarsi soli, si radunavano in sette o otto, e così stretti in un gruppo, che si sarebbe potuto portar tutto ritto sopra un vassoio, s’avanzavano con aria minacciosa fino a dieci passi dalle nostre mule a balbettare la loro insolenzina. Quanto ci divertimmo! Un gruppo, fra gli altri, s’avanzò contro il Biseo per augurargli che fosse arrostito non so quale suo parente. Il Biseo alzò la matita: i due primi, dando indietro atterriti, urtarono gli altri; e mezzo l’esercito andò in terra a gambe levate. Persino il Governatore diede in uno scoppio di risa.

ARZILLA

Dopo lo spettacolo delle grandi città decadute, di un popolo moribondo e d’un paese bello ma triste; dopo tanto sonno tanta vecchiezza e tante rovine, ecco il lavoro eterno e la gioventù immortale; ecco l’aria che ravviva il sangue, la bellezza che rallegra il cuore, l’immensità in cui s’espande l’anima! Ecco l’Oceano! Con che fremito di piacere lo salutammo! L’apparizione inaspettata d’un amico o d’un fratello, non ci sarebbe riuscita più cara della vista di quella lontana curva luminosa che recideva netto dinanzi a noi, come una immensa falce, l’islamismo, la schiavitù, la barbarie, e pareva che portasse più diritto e più libero il nostro pensiero all’Italia.— Bahr-el-Kibir! —(Il gran mare) esclamarono alcuni soldati. Altri dissero:— Bahr-ed-Dholma! —(Il mare delle tenebre). Tutti, involontariamente, affrettarono il passo; le conversazioni, che cominciavano a languire, si rianimarono; i servi intonarono i canti sacri; l’intera carovana, in pochi minuti, prese un’aria d’allegrezza e di festa.

La sera del 19 Giugno ci accampammo a tre ore da Laracce, e la mattina seguente entrammo in città, ricevuti alle porte dal figlio del Governatore, da venti soldati senza fucili e senza calzoni schierati lungo la strada, da un centinaio di ragazzi cenciosi, e da una banda composta d’un tamburino e d’un trombettiere, che vennero poco dopo a chiedere la mancia con uno straziante concerto nel cortile dell’agente consolare d’Italia.

Su quella costa sparsa di città morte,—come Salè, Azamor, Safi, Santa-Cruz,—Laracce conserva ancora un po’ di vita commerciale che le basta per essere considerata uno dei principali porti del Marocco. Fondata da una tribù berbera nel secolo XV, fortificata sulla fine dello stesso secolo da Mulei-ben-Nassar, abbandonata alla Spagna nel 1610, ripresa da Mulei Ismael nel 1689, ancora fiorente sul principio di questo secolo, popolata ora da quattromila circa tra mori ed ebrei, sorge sopra la china d’un colle a sinistra della foce del Kus, il Lixus degli antichi, il quale le forma un porto ampio e sicuro, chiuso però da un banco di sabbia, che impedisce l’entrata ai grandi bastimenti. Nel porto marciscono le carcasse di due piccole cannoniere, ultimo miserando avanzo della flotta che altre volte portò gli eserciti conquistatori in Ispagna e sgomentò il commercio europeo. Sulla riva destra del fiume, rimane qualche rovina di Lixus, città romana. Dietro la collina si stende un ampio bosco d’alberi giganteschi. La città non ha dentro altro di notevole che una piazza di mercato circondata da piccoli portici sorretti da colonnine di pietra; ma vista dal porto, tutta bianca sul verde cupo della collina, stretta in una cerchia di alte mura merlate d’un fosco color calcare, riflessa dalle acque azzurre del fiume, sotto quel cielo limpido, presenta un aspetto grazioso, e malgrado la vivezza dei colori, quasi malinconico, come se facesse pietà il veder quella gentile città così sola e silenziosa su quella costa barbaresca, dinanzi a quel porto deserto, in faccia a quel mare immenso.

L’accampamento fu posto la sera sulla riva destra del Kus e levato per tempo la mattina seguente. Si doveva andare ad Arzilla, distante quattr’ore da Laracce. Il convoglio dei bagagli partì la mattina; l’Ambasciata verso sera. Io, per veder la carovana sotto un nuovo aspetto, partii col convoglio dei bagagli.

E me ne trovai contento, perchè fu un tragitto pieno d’avventure.

Le mule cariche, accompagnate dai mulattieri e dai servi, andavano a gruppi, a gran distanza gli uni dagli altri. Partii solo e camminai per quasi un’ora sulle colline dove non vidi che una mula, condotta da un servo arabo, la quale portava due bisaccie di paglia, di cui una conteneva la testa e l’altra i piedi d’un palafreniere dell’Ambasciatore preso da una fortissima febbre, che gemeva da far pietà ai sassi. Il poveretto stava così coricato a traverso la mula, colla testa spenzoloni, col corpo inarcato, col sole negli occhi, e in quella maniera era venuto da Karia-el-Abbassi e doveva andare a Tangeri! E in quella maniera sono trasportati nel Marocco tutti i malati che non han denaro da noleggiare una lettiga e due mule, e fortunati coloro che possono almeno ficcar la testa in una bisaccia!

Dalle colline discesi sulla riva del mare.

Qui raggiunsi il cuoco, il Ranni e Luigi il calafato, che s’unirono a me e non mi lasciarono più fino ad Arzilla.

Per un’ora trottammo sulla sabbia, deviando di tratto in tratto dal cammino diritto, per scansare la marea.

In quel tempo il cuoco, che per la prima volta in tutto il viaggio poteva parlarmi liberamente, m’aprì il suo cuore.

Pover’uomo! Tutte le avventure del viaggio, tutte le grandi cose vedute, non lo avevano liberato da un pensiero doloroso che gli toglieva la pace fin dalla prima settimana del suo soggiorno in Tangeri. E questo dolore era una gelatina mal riuscita, fatta da lui un giorno che aveva pranzato in casa il Ministro di Francia; gelatina che aveva dato il primo crollo alla sua riputazione nel concetto dell’Ambasciatore, e che pure era riuscita male non per colpa sua, ma perchè il Marsala era cattivo. Fez, la corte, Mechinez, il Sebù, l’Oceano, egli li aveva visti, egli vedeva tutto a traverso quel disco di brodo condensato. O piuttosto non aveva visto e non vedeva niente perchè il suo corpo era bensì nel Marocco, ma l’anima viveva in piazza Castello. Gli domandai le sue impressioni di viaggio: erano poca cosa. Egli non sapeva capire chi potesse essere quella bestia che aveva stampato quel paese. Mi raccontò delle sue fatiche, delle sue liti cogli sguatteri arabi, delle difficoltà di far da mangiare in mezzo ai deserti, del suo desiderio immenso di riveder Torino; ma ricadeva poi sempre su quella desolante gelatina del Ministro di Francia.—Io non so far cucina? Mi faccia il piacere, vada Lei, quando sia a Torino,—mi diceva toccandomi il braccio per distrarmi dalla contemplazione dell’Oceano;—vada a domandarlo al conte tale, alla contessa tale, ecc., che ho serviti per anni ed anni! Vada dal generale Ricotti, ministro della guerra, che son cinque anni che è ministro e fa tutto quello che vuole, vada da lui a domandargli se so far la gelatina! Ma vada, mi dia questa soddisfazione, ci passi un momento quando saremo ritornati al paese!—E insistette tanto che per poter contemplare in pace l’Oceano, dovetti promettergli che ci sarei passato.

Intanto raggiungevamo di cento in cento passi due o tre mule cariche, soldati a cavallo, servi a piedi; piccoli frammenti della carovana che si stendeva per più d’un ora di cammino. Fra i soldati ve n’erano alcuni di Laracce, stracciati, con un fazzoletto annodato intorno al capo e un fucile rugginoso fra le mani; e fra i servi, dei ragazzi di dodici o quindici anni, non mai visti prima d’allora, i quali erano scappati, mi fu detto, da Mechinez e da Karia-el-Abbassi, e s’erano aggregati alla carovana, senz’altro addosso che una camicia, per andare a Tangeri, la città civile, a cercar fortuna, campando intanto delle limosine dei soldati. In alcuni di questi gruppi c’era uno che raccontava una storia; altri cantavano; tutti parevano allegri.

A metà strada ci fermammo all’ombra d’uno scoglio per far colezione.

Qui vidi una scena che mi rivelò l’indole di quella gente meglio d’un volume di considerazioni psicologiche.

Vicino a noi c’era un soldato seduto sulla sabbia, più in là un altro, più lontano un servo, e a una cinquantina di passi da questo, sulla china d’un piccolo colle, un altro servo, seduto vicino a una sorgente, con una brocca fra le ginocchia. Desiderando di bere, gridai al primo soldato:— Elma! (acqua)—e gli accennai la sorgente. Il soldato rispose di sì con un gesto cortese e ordinò imperiosamente all’altro soldato d’andare a prendere dell’acqua. Costui accennò che avrebbe obbedito subito, e con un accento minaccioso rimproverò il servo che era là presso, di non essere ancora corso a fare il suo dovere. Il servo rimproverato balzò in piedi e facendo due o tre passi impetuosi verso l’altro servo seduto accanto alla sorgente, gli gridò che facesse presto. Costui, vedendo che io non gli badavo, non si mosse. Passarono cinque minuti, l’acqua non venne. Mi rivolsi daccapo al primo soldato e seguì la stessa scena di prima. Infine, se volli aver l’acqua, dovetti, spolmonandomi, dar l’ordine direttamente al servo della brocca il quale, dopo qualche momento di riflessione, si decise ad attingerla e me la portò a passo di tartaruga.

Ci rimettemmo in cammino. Tirava un ventolino fresco e una nuvola nascondeva il sole, era una passeggiata deliziosa; ma continuando a crescere la marea, e restringendosi man mano quel po’ di strada sabbiosa su cui camminavamo ad uno ad uno, ci trovammo ben presto imprigionati fra il mare e le colline rocciose che pendevano quasi a picco sul nostro capo, e costretti a camminare fra gli scogli, contro cui si venivano a frangere le onde. Parecchie volte, la mula arrestandosi spaventata, mi trovai circondato dall’acqua, ravvolto in un nuvolo di spruzzi, assordato, acciecato, e mi girò il capo, e intravvidi l’intestazione degli articoletti necrologici che avrebbero scritto i miei amici. Ma la nostra ora, come diceva il cuoco, non era ancora sonata; e dopo un miglio di cammino, arrivammo a una collina accessibile, sulla quale ci arrampicammo in fretta e in furia, volgendoci indietro a rimirar lo passo.

Veniva con noi, a cavallo, un vecchio soldato di Laracce, un po’ tocco nel cervello, che rideva continuamente; ma che, grazie al cielo, conosceva la strada. Costui ci fece girare intorno alla collina e ci menò a traverso una macchia fittissima di quercie nane, di cisti, di betulle, di sugheri, di ginestri, d’arbusti d’ogni sorta, per mille avvolgimenti di sentieri scoscesi, fra i macigni, fra le spine, nel fango, nell’acqua, al buio, in recessi dove pareva che non fosse mai penetrata una creatura umana, e sempre ridendo, ci ricondusse, dopo un lungo e lentissimo giro, scorticati e stracciati, sulla riva del mare, dove rimaneva ancora un po’ di spazio libero dalle acque.

Qui la carovana non essendo ancora arrivata, la spiaggia era deserta, e camminammo per un pezzo non vedendo altro che cielo e mare, e il piede delle colline ripidissime che, formando tanti piccoli seni successivi, ci nascondevano l’orizzonte dinanzi e alle spalle. Camminavamo in silenzio, l’un dietro l’altro, sopra la sabbia intatta e morbida come un tappeto, tutti colla testa, io credo, mille miglia lontana dal Marocco, quando improvvisamente saltò fuori di dietro a uno scoglio uno spettro, un vecchio orribile, mezzo nudo, con una gran corona di fiori gialli intorno alla fronte,—un Santo—; il quale prese a inveire contro di noi urlando come un pazzo furioso e facendo con tutt’e due le mani l’atto di graffiarci il viso e di strapparci la barba. Ci fermammo a contemplarlo. Diventò più feroce. Il Ranni, senza tanti complimenti, s’avanzò per applicargli una bastonata. Io lo trattenni e gettai al santo una moneta. Questo briccone tacque immediatamente, raccolse la moneta, la guardò di sopra e di sotto, se la mise in seno, e poi ricominciò ad urlare peggio di prima.—Ah! questa volta,—disse il Ranni;—una legnata ci sta!—E alzò il bastone. Ma il soldato, fattosi serio ad un tratto, lo trattenne e dicendo al Santo qualche parola a bassa voce con un accento di profondo rispetto, lo indusse a tacere. L’orribile vecchio ci slanciò un’ultima occhiata fulminea e si rinascose in mezzo agli scogli, dove ci fu detto che vive, nutrendosi d’erbe, da più di due anni, coll’unico scopo di maledire i bastimenti dei Nazareni che passano all’orizzonte.

Di là risalimmo sui monti e camminammo lungo tempo per sentieri serpeggianti fra i lentischi, le ginestre e le roccie. In alcuni punti il sentiero correndo sull’orlo del monte tagliato a picco, vedevamo sotto, a una grande profondità, il mare che flagellava gli scogli, e un lunghissimo tratto di spiaggia, in cui si stendeva a perdita d’occhi la carovana, e l’immenso orizzonte dell’Oceano azzurro picchiettato di macchiettine bianche da qualche lontano bastimento a vela. I monti per cui ci avanzavamo formavano colle loro cime schiacciate un vasto piano ondulato, tutto coperto d’alti arbusti, dove non si vedeva alcuna traccia di coltivazione, nè una cuba, nè una capanna, nè una creatura umana, e non si sentiva altro rumore che il mormorio fioco del mare.—Che paese!—esclamava il cuoco girando lo sguardo inquieto su quella solitudine;—purchè non si faccia qualche cattivo incontro.—E mi domandò più volte se non c’era pericolo d’incontrare dei leoni. Salendo e scendendo, perdendoci di vista e ritrovandoci più volte in mezzo agli arbusti, camminavamo da quasi due ore per quei monti deserti, e cominciavamo a temere d’aver sbagliata la strada, quando dalla sommità d’un’altura vedemmo a un tratto le torri d’Arzilla e tutta la costa fino alla montagna del capo Spartel, che disegnava nettamente il suo contorno azzurro nella chiarezza limpidissima del cielo.

Fu un vivo piacere per tutta la mia piccola carovana; ma di breve durata.

Scendendo verso il mare scoprimmo lontano fra gli alberi un gruppo di cavalli e d’uomini accovacciati, i quali, appena ci videro, si rizzarono in piedi, saltarono in sella e si diressero verso di noi, distendendosi sopra una sola linea in forma di mezzaluna, come se volessero impedirci di fuggire per una scorciatoia verso la città.

—Ci siamo,—pensai;—questa volta non c’è scampo; è una banda.

E feci cenno agli altri di fermarsi.

Ca manda avanti ’l moro! gridò il cuoco.

Il soldato moro accorse.

—Giù una trombonata!—gli gridò il cuoco fremente.

—Un momento;—io dissi;—prima d’ammazzar loro, vediamo se vogliono veramente ammazzar noi.

Li guardai attentamente; s’avanzavano di trotto; eran dieci, parte vestiti di color oscuro, parte di bianco; mi parve che nessuno avesse il fucile; il capo era un vecchio colla barba bianca; mi rassicurai.

—Formiamo il quadrato!—gridò il cuoco.

—Non c’è bisogno—risposi. Il vecchio della barba bianca s’era scoperto il capo e si dirigeva verso di me colla berretta in mano.

Era un Israelita.

A dieci passi, si fermò col suo seguito, ch’era composto di altri quattro Israeliti e di cinque servi arabi, e fece cenno di volermi parlare.

Hable Usted, risposi.

—Sono il tale dei tali,—disse in spagnuolo, con una voce dolce inchinandosi in atteggiamento di profondo rispetto;—agente consolare d’Italia e di tutti gli altri stati d’Europa nella città d’Arzilla. Ho l’onore di essere al cospetto di sua eccellenza l’Ambasciatore d’Italia, reduce da Fez, partito questa mattina da Laracce e diretto a Tangeri?

Caddi dalle nuvole.

Poi presi un atteggiamento grave e girai un lento sguardo sul mio corteo, che sfolgorava di maestà e di gioia.

Dopo aver così assaporato per un minuto secondo gli onori del ricevimento ufficiale, disingannai, sospirando, il vecchio israelita, e dissi chi ero.

Ne parve un po’ spiacente, ma non cangiò modo per questo. Mi offerse la sua casa per riposarmi, e io non accettando, volle ad ogni costo accompagnarmi nel luogo destinato all’accampamento.

Ci dirigemmo dunque tutti insieme, girando intorno alla città, verso la riva del mare. Ah! se m’avessero visto, in quel breve tragitto, l’Ussi e il Biseo! Quanto dovevo esser pittoresco io, rappresentante d’Italia in groppa a una mula, con una ciarpa bianca attorcigliata intorno al capo, seguito dal mio stato maggiore composto d’un cuoco in maniche di camicia, di due marinai armati di bastone e d’un moro stracciato! O arte italiana, quanto hai perduto!

Arzilla, Zilia dei Cartaginesi, Julia Traducta dei Romani, passata dalle mani di questi in potere dei Goti, saccheggiata dagl’Inglesi verso la metà del decimo secolo, rimasta per trent’anni un mucchio di sassi, poi rifabbricata da Abd-er-Rhaman ben Alì califfo di Cordova, posseduta dai Portoghesi e ripresa dai Marocchini, non è più che una cittaduzza di poco più di mille abitanti tra mori ed ebrei; circondata, dalla parte di terra e dalla parte di mare, da alte mura merlate, che cadono in rovina; bianca e quieta come un chiostro, e improntata, come tutte le altre piccole città maomettane, di quella ridente malinconia, che fa pensare al sorriso d’un moribondo, il quale goda di sentirsi mancare la vita.

La sera, sul tramonto, arrivò l’Ambasciatore, che venne all’accampamento attraversando la città; e ho ancor vivo dinanzi agli occhi lo spettacolo di quella bella cavalcata piena di colori e di vita, che uscendo da una gran porta merlata, s’avanzava in un pittoresco disordine, lungo la riva dell’Oceano, gettando sulla sabbia rosata dal crepuscolo, le sue lunghissime ombre nere; e risento la tristezza che provai in quel momento dicendo tra me:—Peccato! Peccato che questo bel quadro si debba dissolvere, questo bel quadro che contiene tant’Affrica e tanta Italia, tanti lieti pronostici e tante care memorie!—E là infatti si può dire che terminasse il nostro viaggio, poichè la mattina seguente ci accampavamo a Ain-Dalia, e due giorni dopo rientravamo in Tangeri, dove la carovana si scioglieva in quella medesima piazzetta del piccolo mercato, da cui due mesi prima era partita.

Il comandante, il capitano, i pittori ed io partimmo insieme per Gibilterra. L’Ambasciatore, il viceconsole, tutta la gente della legazione ci accompagnò fin sulla riva del mare. Gli addii furono molto affettuosi. Tutti erano commossi, anche il buon generale Hamed ben Kasen, il quale stringendo la mia mano contro il suo largo torace, mi disse tre volte l’unica parola europea che sapesse:— A Dios! —con una voce che veniva dal cuore. Appena mettemmo il piede sul bastimento, oh! quanto ci parve lontana e di spazio e di tempo tutta quella fantasmagoria di pascià, di neri, di tende, di moschee, di torri merlate! Non era soltanto un paese, era un mondo che in quel momento spariva ai nostri occhi, e un mondo che eravamo quasi certi di non rivedere mai più. Un po’ d’Affrica, però, ci accompagnò fino a bordo, e furono i due Selam, Alì, Hamed, Abed-er-Rhaman, Civo, i servi del Morteo ed altri bravi giovanotti, a cui la superstizione mussulmanna non aveva impedito di voler bene ai Nazareni e di servirli con devozione. E anch’essi si accommiatarono da noi con vivaci dimostrazioni d’affetto e di rammarico, e Civo più degli altri, che facendo sventolare per l’ultima volta ai miei occhi il suo camicione bianco, mi s’attaccò al collo come un amico d’infanzia, e mi stampò due baci in un orecchio. E quando il piroscafo partì, ci salutarono ancora, tutti ritti in una barca, sventolando i loro fez rossi, e gridando fin che li potemmo sentire:—Allà sia sulla vostra strada! Tornate al Marocco! Addio ai Nazareni! Addio agli Italiani! Addio! Addio!

FINE.