GLI AMICI DI COLLEGIO.

I.

Molti scrivono ogni sera quello che hanno fatto il giorno; alcuni tengono ricordo delle commedie sentite, dei libri letti, dei sigari fumati; ma c è uno su cento, su mille, che faccia una volta l'anno, o che abbia fatto una volta in vita sua, l'elenco delle persone che conosce? E non intendo dire di quei pochi, con cui si ha che fare, o che si vedono, o a cui si scrive; ma di quel gran numero di persone, viste altre volte, che forse non rivedremo, e che pur tornano ancora alla mente molto tempo dopo che si son lasciate, a mano a mano più di rado, fino a che scompaiono affatto, e non ci si pensa mai più. Chi di noi non ha perduto la memoria di cento nomi e smarrito la traccia di cento vite? Eppure è una gran perdita per l'esperienza, e io ne son tanto persuaso, che, se ricominciassi a vivere, vorrei spendere mezz'ora al giorno nel noioso lavoro di notar nomi e casi di persone, anche le più indifferenti.

Che storia intricata e strana mi ritroverei tra le mani, se avessi serbato ricordo di tutti i miei compagni delle prime scuole; e continuato a chiederne notizie qua e là, via via che se ne presentava l'occasio ne, e tenuto dietro, in qualche modo, alle vicende principali di ciascuno! Ora, di quelle due o tre centinaia di ragazzi che conoscevo, venti o trenta appena mi son rimasti nella memoria, e so dove sono, e che cosa fanno; degli altri non so più nulla. Per qualche anno ho avuto davanti agli occhi l'immagine distinta di tutti: erano trecento visi rosei che mi sorridevano, e trecento giacchette che mostravano ciascuna, più o meno, la condizione del babbo, da quella di velluto del figliuolo del sindaco a quella infarinata del figliuolo del fornaio; e mi pareva di sentirmi ancora sonar nell'orecchio, a una a una, le voci di tutti; e vedevo il posto di ciascuno nei banchi della scuola, e ricordavo parole, atteggiamenti, gesti. Ma a poco a poco tutti quei visi si confusero in una sola striscia color di rosa, tutte quelle giacchette in un color bigio uniforme, tutti quei gesti in un tremolìo indistinto, tutte quelle voci in un mormorìo fioco; fin che una nebbia fitta coprì ogni cosa, e anche il mormorìo tacque, e la visione scomparve.

E mi dispiace, e molte volte mi piglia il desiderio di squarciar quella nebbia, e di ravvivar la visione. Ma ohimè! non li troverei più insieme; e se dovessi andarli a cercare a uno a uno, chi sa quanti giri e rigiri mi toccherebbe fare, e dove metter piede, e tra chi! Forse passerei da una sacrestia a una caserma, da una caserma a un'officina, dalla officina allo studio d'un avvocato, dallo studio dell'avvocato a una carcere, dalla carcere a un palco scenico, dal palco scenico, pur troppo! al camposanto, e dal camposanto sur un bastimento mercantile in un porto dell'America o delle Indie. Chi sa quante avventure, quante disgrazie, quante tragedie domestiche, e mutamenti di visi e di costumi e di vita, in così piccolo numero di gente e in così breve giro di tempo!

Eppure, non son quelli gli amici che si desidera più caldamente di rivedere. Non solo; ma se badiamo a discernere in noi il sentimento di mesto desiderio che ci risospinge verso gli anni della fanciullezza, da quello che ci pare ne sospinga verso i compagni di quegli anni, ci meravigliamo di trovar questo così debole, e fors'anco di non trovarlo nemmeno. E perchè ci dovrebb'essere, e forte? Stavamo sovente insieme, eravamo allegri, ci cercavamo, ci desideravamo; ma le nostre anime non si ricambiavano nulla di quello che le ravvicina e le stringe e vi lascia una traccia. Le nostre amicizie si legavano e si scioglievano con uguale facilità. Avevamo bisogno di un compagno che facesse eco alle nostre risa e ci aiutasse ad arrampicarci sugli alberi e ci rimandasse la palla con un colpo vigoroso; e a ciò serviva meglio il più destro, il più chiassone e il più ardito; e questo, il più delle volte, era l'amico più caro. Ma volevamo bene ai deboli? Domandavamo ai malinconici: — Che cos'hai? — E se ci dicevano: — Il tale è morto — si piangeva? Ah! non eravamo amici.

E sarà certo seguìto a molti di rivedere dopo quindici anni un compagno delle scuole elementari. Si riceve una lettera, di cui non si riconoscono i caratteri, si getta un'occhiata alla firma, e si dà un grido: — Come! Lui! È vivo? — Si piglia il cappello e si corre all'albergo. Oh certo che, mentre si corre, il cuore batte, e salendo la scala s'affretta il passo con grande ansietà, e si ride, e si gode, e non si darebbero quei momenti per tutto l'oro del mondo. Ma son quelli i più bei momenti. Si entra nella stanza con impeto, si bacia un uomo, nel quale, sì, a guardarlo bene, si ravvisa qualche tratto del fanciullo d'una volta; l'uno domanda all'altro: — Che fai? — e l'uno ricorda all'altro, in fretta e in furia, qualche bazzecola di quando si andava a scuola e poi.... è finita. Cominciate a pensare: — Chi è costui? Come ha vissuto, dacchè non ci siamo visti? Che cos'è seguito in quell'anima? È buono, è tristo, è un credente, è uno scettico? Io non ho niente di comune con lui, non lo conosco. Bisognerebbe scrutarlo, studiarlo; ma dunque non è un amico! — E quel che pensate voi, lo pensa lui, e la conversazione procede languida e fredda; e forse dalle prime parole vi accorgete che avete battuto due opposte vie; egli vi lascia trasparire una striscia del suo berretto frigio, voi, secondo lui, la punta del vostro codino di monarchico; voi gli date una tastatina sulla letteratura, egli a voi sul seme dei bachi da seta; voi, prima di dirgli che avete moglie, gli domandate s'egli l'ha; ed egli vi risponde: — Fossi minchione! — e finite col lasciarvi, stringendovi la punta delle dita, e ricambiandovi un sorriso morto appena nato.

Gli amici d'infanzia! Cari sì, sopra tutti, quando si siano vissuti insieme anche gli anni della giovinezza; ma se no, che cosa sono fuor che fantasmi? E l'infanzia stessa! Non ho mai potuto capire perchè si rimpiangono da molti quegli anni, — anni in cui non si soffre, è vero, ma non si pensa, non si lavora, non si crede, non si prorompe in quegli scoppi di pianto ardente ed amaro, che purificano l'anima e fanno rialzar la fronte altera e splendida di speranza e di coraggio nuovo! Oh mille volte meglio soffrire, faticare, combattere e piangere, che sfumar la vita in quel riso continuato e inconsapevole, che nasce da nulla e di nulla si pasce e di nulla si turba! Meglio star sulla breccia, sanguinosi, che in mezzo ai fiori, sognando.

II.

I primi e più cari amici gl'incontrai a diciassett'anni, in un superbo palazzo, che ho sempre dinanzi agli occhi, come se ne fossi uscito ieri. Vedo i grandi cortili, i grandi portici, le sale ornate di colonne, di statue e di bassorilievi; e in mezzo a queste cose belle e magnifiche, che richiamano al pensiero la reggia antica, lunghe file di letti, di banchi di scuola, di panni appesi, di fucili, di daghe. Cinquecento giovani sono sparsi pei cortili, per gli anditi, per le scale; un sordo rumore, interrotto da grida acute e da risate sonore, si spande fino ai più lontani recessi del vasto edifizio. Che movimento! Che vita! Che varietà di tipi, di atteggiamenti, di accenti! Giovani dalle forme atletiche con lunghi baffi irsuti e voci stentoree, giovanetti smilzi e gentili come fanciulle; visi bruni ed occhi siciliani nerissimi, e capigliature bionde e pupille azzurre del settentrione; gesticolìo concitato di Napoletani, vocìo argentino di Toscani, parlantina accelerata di Veneti, cento crocchi, cento dialetti; di qua canti e conversazioni clamorose, di là corse, salti e battimani; gente d'ogni ceto, figliuoli di duchi, di senatori, di bottegai, di impiegati, di generali; una società bizzarra che ha un po' del collegio, del convento e della caserma; dove si parla di donne, di guerra, di romanzi, di regolamenti; dove si fanno pettegolezzi da donnicciuole e si covano segrete ambizioni virili; una vita piena di noie mortali e d'allegrezze sfrenate, una confusione di sentimenti, di faccende e di casi dolorosi, stravaganti e amenissimi, da cui la penna di un grande umorista potrebbe cavare un capolavoro.

È la Scuola militare di Modena nel 1865.

III.

Non posso pensare a quei due anni passati là, senza che mi assalga una folla di ricordi, dai quali non riesco a liberarmi prima d'averli fatti passar tutti, a uno a uno, come in una lanterna magica; ora ridendo, ora sospirando, ora crollando il capo, ma sentendo che tutti mi son cari, e che sin ch'io viva, non mi sfuggiranno mai.

Rammento sempre il primo dolore che ebbi dalla vita militare, pochi giorni dopo ch'ero entrato nel collegio tutto ardente di poesia guerriera, una mattina che ci diedero i berretti, e tutti gli allievi della compagnia ne trovarono uno, e io solo non lo trovai, chè mi eran tutti stretti; e il capitano stizzito si voltò verso di me e mi disse: — Ma sa che è curiosa che per lei solo si debba far riaprire il magazzino? — e un momento dopo soggiunse: — Testone! — Dio eterno! Che seguì nel mio cuore in quel punto! E io debbo fare il soldato? pensai; nemmen per sogno! piuttosto mendicare! piuttosto morire!

Mi ricordo pure d'un ufficiale, vecchio soldato, un po' corto, ma buono, che mi guardava sempre sorridendo, sin dai primi giorni che m'aveva visto, e io non sapevo capir perchè, e mi stizzivo, e volevo chiedergli una spiegazione, e dirgli che non intendevo d'essere lo zimbello di nessuno; quando una sera mi chiamò, e dopo avermi fatto capire che gli era stata detta una cosa di me, e ch'egli voleva saper s'era vero, e che rispondessi francamente, perchè non era cosa che mi facesse torto, finalmente, sorridendo, tossendo, guardandomi di sottocchio, mi mormorò nell'orecchio: — È vero che lei è un poeta? —

Mi ricordo delle insuperabili difficoltà che incontravo nell'adempimento dei miei doveri manuali, specialmente nell'attaccare i bottoni, chè mi scappava l'ago di mano a ogni punto, e finivo col fare una rete di fili che parevan la tela d'un ragno, e il bottone spenzolava più di prima, con gran risate dei miei compagni, profondo sconforto mio e scandalo grave del sergente di squadra, il quale mi diceva: — Lei sarà buono a trovar la rima, ma quanto ad attaccar bottoni è ancora indietro di cent'anni; — terribile sentenza che mi sbalestrava di punto in bianco nel secolo decimottavo, e non me ne potevo dar pace.

Vedo ancora il vastissimo refettorio, dove avrebbe potuto far gli esercizi un battaglione di soldati; vedo quelle lunghe tavole, quelle cinquecento teste chinate sui piatti, quel movimento accelerato di cinquecento forchette, di mille mani e di sedicimila denti; quello sciame di camerieri che corrono qua e là, chiamati, sollecitati, sgridati da cente parti; e odo quell'acciottolìo, quel mormorio assordante, quelle voci mezzo strozzate fra i bocconi: — Pane! — Pane! e mi par di risentirmi quell'appetito formidabile, quel vigore erculeo di mandibole, quel rigoglio di vita e di allegria che mi sentivo allora.

Muta la scena, mi ritrovo chiuso in una celletta al quinto piano, poco più alta e poco più lunga di me, con una brocca d'acqua al fianco e un pezzo di pan nero tra le mani, coi capelli arruffati, colla barba lunga, coll'immagine di Silvio Pellico dinanzi agli occhi; condannato a dieci giorni di prigione per aver fatto un discorso di ringraziamento al professore di chimica, il giorno della sua ultima lezione, contravvenendo così al disposto dell'articolo tale del regolamento che proibisce di prender la parola in pubblico a nome dei compagni. E sento ancora il Maggiore che mi dice: — Non si lasci mai trasportare dall'immaginazione nel corso della sua vita; — e mi cita l'esempio del poeta Regaldi, suo antico condiscepolo, a cui seguì non so che disgrazia per una scappata del genere della mia, e conclude che “la poesia non ha mai fatto fare che delle bestialità.„

E in fine, mi riveggo intorno ogni cosa come se realmente rivivessi quella vita, le compagnie che attraversano in silenzio, di notte, i lunghi corridoi rischiarati da un lumicino in fondo; i professori in cattedra che c'intronan le orecchie di Gustavo Adolfo, di Federico il Grande e di Napoleone; le vaste scuole piene di visi immobili; i grandi dormitorii oscuri, in cui si sente il suono di cento respiri; il giardino, la piazza, i bastioni, le vie tortuose di Modena, i caffè pieni di alunni che divorano paste, le porticine infilate alla chetichella, i desinari in campagna, le scarozzate ai villaggi vicini, gl'intrighetti, gli studii, le rivalità, le malinconìe, le inimicizie, gli affetti.

IV.

Pochi giorni prima di dar gli esami per esser promossi uffiziali ci venne concessa la libertà di studiare dove si voleva. Eravamo dugento nel secondo corso, e ci sparpagliammo tutti per il palazzo, a cinque, a sei insieme, come ci univa la simpatia, e cominciammo a sgobbare disperatamente, ogni gruppo nel suo stanzino, giorno e notte, non ismettendo che per parlare dei nostri esami e del nostro avvenire.

Quanta allegrezza in quei nostri discorsi, e che ridenti previsioni! Dopo due anni di prigionìa, tutt'a un tratto, la libertà, le spalline e il ritorno in famiglia. Ciascuno di noi, oltre la soddisfazione, che era comune, di esser promosso uffiziale, n'aveva una sua particolare. Per uno, era la soddisfazione di levare un carico alla famiglia che viveva a stecchetto per mantener lui nel collegio, e di poter dire di lì a pochi giorni: — Ho diciannove anni, e non ho più bisogno di nessuno. — Per un altro, era il piacere di entrare un giorno, vestito in grande uniforme, pestando i piedi e strascicando la sciabola, in una casa silenziosa e tranquilla, dove l'aspettava un vecchio zio generoso che lo aveva sempre amato e protetto. Per un terzo, era la gioia di poter salire, col brevetto in tasca, una scala ben nota, e picchiare imperiosamente a una porta dietro la quale, pochi momenti dopo, avrebbe sentito una voce di fanciulla gridare: — E lui! — una cugina, forse, da cui s'era accomiatato due anni prima, in presenza dei parenti, confortato da quelle solite parole: — Va, studia, fatti uomo, e poi si vedrà. — Ci pareva a tutti di vederci intorno dei bambini che ci toccavano la sciabola, delle ragazze che ci facevano dei cenni, dei vecchi che ci mettevano una mano sulla spalla, una madre che ci diceva: — Come stai bene! — e avevamo un gran da fare per liberarci da tutta questa gente e rimetterci a studiare di proposito, e dicevamo fra noi stessi: — Sì, sì, verremo; ma per ora lasciateci in pace! —

Poi, ciascuno secondo la sua indole, le sue abitudini e i suoi disegni, ci dicevamo i reggimenti, le provincie, le città, in cui avremmo preferito d'esser mandati. V'era chi desiderava lo strepito e l'allegria dei grandi carnovali di Milano, e non sognava che teatri e balli e rumorose cene di amici. V'era chi sognava un villaggio ameno della Toscana, sulla cima d'una collina, dove poter godere una bella e quieta primavera, coi suoi trenta soldati, raccogliendo proverbi e stornelli dalle contadine dei dintorni. Altri avrebbe voluto esser mandato in un forte solitario delle Alpi, fra le rupi e i burroni, per potervi ripigliare i suoi studii con raccoglimento profondo. Uno prediligeva la vita avventurosa nelle foreste delle Calabrie, un altro lo spettacolo d'una grande e operosa città di mare, un terzo un'isoletta del mar Tirreno. Ce la ricorrevamo e spartivamo tutta, questa Italia, un pezzo per uno, cento volte al giorno, come avremmo fatto d'un nostro giardino; e ognuno di noi raccontava agli altri le meraviglie del suo cantuccio, e trovavamo che eran tutti belli e cari ad un modo. E poi, la guerra! Si sarebbe ben dovuta fare una volta! Bastava il proferir questa parola per buttare i libri in un canto e cominciare a dire e a dire, alzando gradatamente la voce, ed accendendoci in viso. Per noi la guerra era come una visione sovrumana, in cui la mente si perdeva con una specie di ebbrezza fantastica; era un lontano orizzonte color di rosa, sul quale si disegnavano i profili neri di montagne gigantesche; e su pei fianchi delle montagne salivano con impeto schiere interminabili colle bandiere spiegate, al suono di musiche allegre; e fra le migliaia degli assalitori, sui punti più culminanti, spiccavano le nostre figure nette e distinte, lungo tratto innanzi a tutti, colla sciabola brandita in alto; e sulle chine opposte un precipitare spaventevole di soldati, di cavalli, di cannoni, verso un abisso ignoto, tra le tenebre. Una medaglia al valor militare! Ma chi non l'avrebbe avuta? Perdere la battaglia! Ma gl'taliani potevan perdere? Morire! Ma che c'importava di morire? E si poteva poi morire, noi, a diciannove anni! Chi sa che strani e meravigliosi casi ci aspettavano! Chi sa che cosa avremmo veduto! Una spedizione lontana, forse; una guerra in Oriente; non era mica morta la questione di Oriente; chi sa! E si spaziava coll'immaginazione per mari e monti, e si vedevano grandi apprestamenti d'eserciti e di flotte, e si ardeva d'impazienza, e si diceva in cuor nostro: Oh! aspettate, lasciateci dar l'esame, pochi giorni ancora, vogliamo venire anche noi! —

E finalmente si diedero gli esami, fummo promossi, e una bella mattina del mese di luglio ci apersero le porte del Palazzo ducale, e ci dissero: — Al vostro destino! — e noi, gettando tutti insieme un altissimo grido, ci slanciammo fuori, e ci sparpagliammo, come uno stormo di uccelli, per tutte le parti d'Italia.

V.

Ed ora?

Son passati sei anni, sei anni soli, e già ci sarebbe da scrivere un romanzo lungo e vario e strano, se si volessero raccogliere e legare insieme le vicende più notevoli occorse nella vita di quei duecento compagni! Io che in questo spazio di tempo ne vidi molti ed ebbi modo di procurarmi notizie degli altri, soglio sovente richiamarmeli tutti alla memoria, ravvivarmene le immagini e interrogarli ad uno ad uno; e quello che vedo e sento mi desta sempre nell'anima un sentimento di meraviglia, misto di malinconia. Ed eccoli qui in folla, tutti.

Quelli che mi dan nell'occhio prima degli altri son certi uomini bruni e barbuti, con un par di spalle poderose, che io non ricordo, pel momento, d'aver conosciuti. Eppure mi sorridono, e sì, son veramente quei giovanetti sottili e bianchi, che parevano fanciulle. Io domando: — Siete voi? — ed essi mi rispondono: — Sì; — e io do un passo indietro, sorpreso da quel sì sonoro e profondo, in cui non riconosco più l'antica voce infantile. — E quest'altri? I lineamenti, in questi, non son mutati, le forme son sempre quelle, ardite e robuste; ma il sorriso è sparito, e gli occhi non scintillano più. — Che vi è occorso? — domando. — A noi? — rispondono; — nulla. — Oh avrei preferito che vi fosse accaduto qualcosa, per non vedere che il tempo, e un tempo così breve, può di per sè mutare un volto in quel modo. Eccone altri. Dio mio! anche questa mi tocca a vedere; uno, due, tre, cinque, possibile! lasciatemi guardar meglio; ma certo! capelli bianchi! a ventisette anni i capelli bianchi! — Dite, o come mai? — Danno una scrollata di spalle, e tiran via. Poi vedo una lunga fila di amici miei, e molti, fra essi, dei più scapati, chi con un bambino in braccio, chi con uno per mano, chi con due. Quello lì ha preso moglie? Quello là è padre di famiglia? Ma chi l'avrebbe creduto? — Altri sopraggiungono: alcuni col capo basso e gli occhi rossi mi fanno un cenno; hanno un nastro nero intorno al braccio. Altri passano colla fronte alta volgendo intorno uno sguardo raggiante, e toccandosi il petto col dito: ah! il sogno delle nostre notti di collegio, la medaglia al valor militare, fortunati loro! Altri vengono innanzi a passo lento, pallidi, scarni, appena riconoscibili. — Che cos'è? Che cosa avvenne? — Ahimè! Su quelle braccia e su quelle gambe erculee, ch'essi ostentavano con giovanile alterezza sulle rive del Panaro; in quelle membra tornite e rosee, che pareva non avrebbero dovuto impallidire nè avvizzirsi mai; in quei corpi, che si sarebbero potuti prendere a modello per rappresentare la salute, la freschezza e la forza, ahimè! s'immersero i coltelli dei chirurghi a cercare le palle tedesche, e dalle carni lacerate sgorgò il sangue a ondate, e caddero le ossa recise. Poveri amici! Ma pure son rimasti tra noi a raccogliere nell'affetto e nella gratitudine comune il premio del loro sacrificio. — Ma dov'è il tale? — Morto in una marcia in Lombardia. — Il tal altro? — Morto d'una ferita di mitraglia a Monte Croce. — E quell'altro amico? — Morto d'una ferita di palla nell'Ospedale di Verona. — E il mio vicino di banco? — Morto di colèra in Sicilia. — Oh basta! non mi dite di più! —

Son passati tutti, s'allontanano, ed io mi slancio colla immaginazione dalla parte opposta, sulla via che hanno percorsa, per cercarvi le traccie del loro passaggio; e quante ne ritrovo, e quanto diverse! Qui libri e carte sparse in terra, con su i concetti di battaglia tracciati a mezzo, c versi coperti di freghi; un tavolino capovolto, e un mozzicone di candela ancora fumante; i segni d'una veglia studiosa. Là seggiole spezzate, frantumi di bicchieri e brani di vestiti di donna sparpagliati. Più in là, in uno spazio di terreno nudo, due sciabole insanguinate, e da una parte e dall'altra molte orme profonde e nel mezzo un'impronta grande, come del corpo di un uomo caduto. Qua, nella polvere, un tappeto verde lacerato, e intorno carte da gioco e dadi. Più oltre, tra l'erba, una letterina profumata e un mazzetto di mammole appassite. Da un altro lato una croce con sopra scritto: — A mia madre. — E innanzi, innanzi, altri libri sparsi, altre lettere, altre carte da gioco, divise militari smesse, ritratti di donne, conti di sarti, cambiali, sciabole, fiori, sangue. Oh che vasta tela tesse la mente con quei pochi fili scompigliati e rotti! Quanti affetti, quanti dolori, quante lotte, quante pazzie, quante sventure s'intravvedono e si comprendono! Certo anche molte virtù e molti atti generosi; ma quanto più spreco di forza e d'avvenire!

E quando pure non si fosse sciupato nulla, quando non si fosse, in questi sei anni, tolto un giorno nè un'ora al lavoro, quando non avessimo aperto il cuore ad altri affetti che a quelli che innalzano la mente e rasserenano la vita, avremmo pur sempre perduto una grande e cara illusione, la quale dileguandosi, ha portato con sè una parte della nostra forza e del nostro avvenire: l'illusione di quel lontano orizzonte color di rosa, su cui si disegnavano i profili neri di montagne gigantesche, e schiere interminabili lanciate all'assalto a bandiere spiegate, al suono di musiche allegre.... Una guerra perduta!

E s'anco non avessimo perduto quest'illusione, non avremmo perduto altro?

VI.

Io penso a me stesso, e dico: — Quale distanza da diciannove anni a venticinque! Allora, dovunque andassi, ero il più giovane, chè i più giovani di me non mostravano ancora il viso tra gli uomini; e non mi vedevo mai intorno alcuno, di cui non potessi dire che qualcosa m'invidiava: la gioventù, l'allegria, le speranze. Ed ora, dovunque io vada, mi veggo accanto dei giovanetti che mi guardano e mi parlano con quel riserbo rispettoso che s'usa coi fratelli maggiori; e con essi, discorrendo, sento di dover fare uno sforzo per dare al mio discorso una gaiezza che corrisponda alla loro, e non me ne so dar pace, e li guardo e mi domando: — O di dove sono usciti costoro? — E l'altro giorno accennando a un signore una sua bambina di sei anni, gli dissi scherzando: — Chi sa! — ed egli mi rispose: — Signor no, ella è troppo vecchio. — Ed io, sorpreso, tacqui, e feci subito il conto colle dita, e poi mormorai melanconicamente: — È vero. — A diciannove anni, non vedevo bambina di quell'età, ch'io non potessi dire: — Sarà mia moglie! — ; la generazione che veniva su era ancora tutta per me; ora per una parte del mondo io son già troppo avanti nel cammino della vita. E l'avvenire, che allora m'appariva un non so che vago e lucente, su cui la mia fantasia poteva disegnare le cose più belle e più care, senza che la ragione ci trovasse mai a ridire: — Non può essere, — ora comincia a delinearsi, a colorirsi, a prendere una forma, ed io indovino presso a poco che cosa sarà, veggo la mia strada tracciata, e la mia meta distinta, e addio grandezze e meraviglie! E gli uomini? Dio buono, io non son mica per natura inclinato a diffidare, a veder piuttosto il male che il bene nelle cose di questo mondo; al contrario; nel mio piccolo non ho che a render grazie a tutti e di tutto, e indispettisco spesso un mio amico, a cui dico ridendo: — Amo il genere umano! — ed egli mi risponde: — Aspetta che verrà la tua ora anche per te. — Eppure quanto ho già perduto di quel confidente abbandono delle amicizie di diciannove anni, di quel sentimento di ammirazione facile e schietto, che scattava come una molla, al più leggiero tocco, per tutti gli uomini, di cui sentissi esaltare un merito, qualunque fosse e da chicchessia! Due, tre disinganni son bastati a rallentare la molla per sempre. Io mi domando già: — Sarà vero? — e il dubbio mi rimanda indietro le calde e ingenue parole d'affetto che una volta prorompevano mio malgrado. Molti libri, che mi fecero versar lagrime, non me ne fanno versar più; molto più raramente d'una volta, leggendo versi, mi trema la voce; non rido più di quel riso irresistibile e sonoro, di cui echeggiavano un giorno le stanze più remote della mia casa. E quando mi guardo nello specchio, è una mia illusione o una realtà? mi accorgo che nel mio viso c'è qualcosa che a diciannove anni non c'era, un non so che negli occhi, nella fronte, nelle labbra, che non apparisce agli altri, ma che io vedo, e che mi turba. E mi ricordo le parole del Leopardi: — A venticinque anni incomincia il fiore della gioventù a declinare. — Ma come? io declino? son già sul pendio della vita? ho già fatto tanto cammino? Ma sì! Dalla Scuola di Modena son già usciti altri mille ufficiali più giovani di me, me li sento alle spalle che rumoreggiano, che m'incalzano, e mi gridano: — Avanti! — Ma è uno spavento! Lasciatemi respirare, fermatevi un minuto; che c'è bisogno di divorare la via? Voglio star qui, immobile, saldo come una colonna; indietro voi! Ma il terreno è inclinato e liscio, e il piede scivola e non c'è dove aggrapparsi; compagni! amici di diciannove anni! venite, stringiamoci, afferriamoci gli uni agli altri, non ci lasciamo travolgere, resistiamo. Ah! mi manca il terreno sotto, maledizione!

VII.

Ma che! son vaneggiamenti foschi di giornate piovose; spunta il sole e l'anima si rasserena col cielo. E sempre al breve scoraggiamento segue uno stato d'animo, nel quale mi appare così folle e così codardo quel turbarsi per un'alterazione del viso, e rimpiangere l'allegria spensierata della prima giovinezza, e volersi ribellare con uno sfogo di rammarico dispettoso alle leggi della natura, che mi vergogno, mi scoto, mi risollevo, riafferro la mia fede, le mie speranze, i miei propositi, e mi rilancio al lavoro con una risoluzione piena di alterezza e di gioia. E in quei momenti mi sento la forza di aspettare a fronte serena i trent'anni, i disinganni, i capelli bianchi, i dolori, gli acciacchi, la vecchiaia, cogli occhi della mente fissi dinanzi a me, lontano, in un punto luminoso che mi pare che ingrandisca via via che procedo. E vo innanzi con più coraggio; e a uno sciame di gente inebbriata e clamorosa che mi dice: — Con noi! — rispondo fieramente: — No! — e a una folla di giovani malinconici, che mi dicono, crollando il capo: — Forse non è vero! — rispondo, senza allontanar gli occhi da quel punto, con una voce gioiosa e entusiastica: — No! — e a una moltitudine di uomini gravi e superbi, che toccandomi e accennandomi le loro carte e i loro libri mi dicono con un sorriso di pietà e di dileggio: — È un sogno! — io rispondo sempre guardando là, con un grido che mi prorompe dal più profondo dell'anima, come se mi vedessi ricomparir dinanzi una persona morta: — No! — Oh! in quel momento mi si venga pure a dire che debbo invecchiare e morire; che m'importa? Io lavoro, io credo, io aspetto!

VIII.

E nella più parte di quei miei compagni è seguìta o segue la medesima cosa. I volti si son fatti più serii, o come vuol che si dica il Leopardi, più tristi; ma coi volti si son composti a serietà anche gli animi. Dissi i mutamenti che mi addoloravano; ma ci sono anche quelli che mi confortano. Incontro qualcuno dei miei compagni, di quei che avevano meno giudizio e meno proposito, e mi meraviglio di sentirli parlare, come parlano, di patria, di lavoro, di dovere da compiere, di avvenire da preparare. Un rivolgimento generale s'è operato negli animi, e, forse in virtù dei molti e grandi casi seguìti in questi pochi anni, oltre che generale, precoce. In alcuni una segreta ambizione, in altri la cura della famiglia, in molti la sazietà della vita dissipata, in non pochi una schietta e spontanea passione per gli studii, sorta all'improvviso in mezzo alla noia degli ozii della guarnigione, hanno raccolto i pensieri vaghi, e composto ad uno scopo le forze disperse; hanno indotto l'abito della riflessione, e rivolte le menti ai grandi problemi della vita; hanno dato a tutti un perchè di questa vita e segnato a tutti un cammino da percorrere, e tolto il tempo di rimpiangere inutilmente il passato. Siamo entrati nella seconda giovinezza, con qualche disinganno, con un po' di esperienza e colla persuasione che la felicità, — quel poco che se ne può godere quaggiù, — non si ottiene dibattendosi e tempestando e gridando al cielo e alla terra: — La voglio! — ma si cava a poco a poco dalla più intima parte dell'anima colla lunga costanza d'una quiete operosa. Alle visioni splendide son succedute le speranze modeste; ai grandi disegni, i saldi propositi; alla immagine sfolgorante della guerra, Dea promettitrice di ebbrezza e di glorie, l'immagine dell'Italia, madre, la quale non promette — e ci basta — che il conforto altero d'averla amata e servita.

IX.

E l'animo nostro è uscito più forte dal dolore della guerra perduta.

A me par di vedere un giorno in cui da un capo all'altro del paese si ripeterà il terribile grido: Vengono! — e noi balzeremo in piedi, pallidi e alteri, rispondendo: — Li aspettiamo. — Allora, per le vie delle nostre città, affollate di popolo, di soldati, di cavalli e di carri, al suono del nome d'Italia, fra lo strepito delle armi e gli squilli delle trombe, i miei dugento compagni si rivedranno, io li rivedrò, molti per un'ora sola, alcuni forse per un solo momento, di notte, davanti a una stazione di strada ferrata, al lume delle fiaccole; ci rivedremo e ci saluteremo in silenzio, stringendoci la mano fortemente, e guardandoci negli occhi. Non più grida, non più canti, non più gioia clamorosa, non più sogni di marcie trionfali, non più quel confidente e leggiero: — A rivederci, — con cui si vela l'immagine della morte, e si alimenta, più che il coraggio, la speranza; noi non ci diremo che: — Addio; — e quell'addio sarà una promessa reciproca, un patto, un voto; quell'addio vorrà dire: — Questa volta non si deve ridiscendere la china della montagna; io rimarrò sulla vetta, e tu pure. —

E sovente, precorrendo un lungo spazio di tempo, fantastico campi di battaglia lontani, sui quali si giocano le sorti d'Italia. Volo col pensiero di valle in valle, di colle in colle; e in tutti i passi più difficili, e in tutti i punti più pericolosi, mi figuro un amico di collegio, coi capelli grigi, già colonnello o generale, alla testa del suo reggimento o della sua brigata; e mi compiaccio di figurarmelo nel momento, in cui, assalito da molta forza nemica, dirige la resistenza. Le due parti sono alle prese, ed egli, dalla cima di un'altura, osserva il combattimento nella valle. Povero amico! In quel punto forse si decide della sua vita e del suo onore; trent'anni di studii, di sacrifizii, di speranze, stanno per essere coronati di gloria o dispersi come un pugno di polvere, là su quella china verde che gli si stende dinanzi; e tutto dipende da un nulla. Ed egli guarda, immobile, pallido, ed ha tutta l'anima negli occhi, e la sciabola gli trema nella mano convulsa. Io gli sono accanto e lo fisso nel viso, e acconsento involontariamente con la persona a tutti i suoi tremiti, e sento tutto quello ch'egli sente, lo intendo, vivo in lui. — Coraggio, amico; tu hai infuso nei tuoi soldati la tua anima generosa, vinceranno, non ti turbare. Quel movimento incerto che vedi là verso l'ala destra, non è che un momentaneo scompiglio cagionato dall'ineguaglianza del terreno; non danno indietro, no; senti, le grida risuonano più alte, i colpi strepitano più fitti, l'ultimo battaglione è entrato anch'esso nel combattimento, tutti i tuoi soldati combattono. — Ah! ora sì che i suoi occhi corrono avidamente da un capo all'altro della linea; ecco, egli si fa più pallido; questo è il punto! la sua vita pare sospesa.... — Che sono queste voci lontane? Che è quella fiamma che gli sale al volto? quel sorriso? quello sguardo al cielo? Hanno vinto! Ma per Dio! prima di partire, voltati, ferma quel cavallo, son io, senti, un tuo amico di collegio, porgi le braccia, un bacio, ed ora va, vola tra i tuoi soldati, e che Iddio t'accompagni. — Ha slanciato il cavallo di carriera, è già in fondo alla valle, è sparito.

E chi sa, quanti dei miei compagni si troveranno un giorno, un'ora della loro vita, in quel cimento! Chi sa che molti non abbiano a illustrare il loro nome qualche grande servigio reso alla patria, che alcuni di questi nomi non abbiano a diventar cari al popolo, che io stesso non abbia una volta a veder passare per una strada di qualche città italiana un mio antico vicino di studio, o di tavola, o di letto, in grande uniforme di generale, sopra un bianco cavallo coperto di fiori, in mezzo a due ale di popolo festante! E chi sa pure se un giorno io non andrò a picchiare alla porta di alcuno di loro, per gettargli le braccia al collo appena mi apparirà dinanzi, — pallido, triste, invecchiato di dieci anni nel giro di pochi mesi; — se non andrò da lui per confortarlo, per dirgli che la sentenza del paese è stata ingiusta, che grande è ancora il numero di coloro che non rovesciano sul suo capo tutta la colpa del disastro, che verrà tempo in cui si calmeranno le passioni e si ritorneranno in onore le vittime delle condanne avventate, che il suo nome è ancora rispettato e caro, che non s'accasci, che ripigli animo e speri?

Ah! quando io penso alle fiere prove che molti di essi avranno a durare nella vita, al bene che potranno fare al loro paese, all'inestimabile prezzo cui dovranno pagare la loro gloria; quando penso a queste cose io che lasciai l'esercito, sento che per non restare addietro ai miei compagni nel pagare il mio debito di gratitudine alla patria, dovrei faticare senza riposo, vegliare le notti sui libri, conservare con rigorosa temperanza di costumi il mio vigore giovanile per rivolgerlo fresco ed intero ai lavori della mente; menare una vita illibata per acquistare il diritto di predicar la virtù, e mantenere viva e pura questa fiamma d'affetto, di cui riesco qualche volta a trasfondere una scintilla nel petto degli altri; studiare il popolo, i fanciulli, i poveri, e scriver per loro; non lasciarmi sfuggir mai dalla penna una parola ignobile, sacrificare tutte le mie fantasie al bene comune, non disanimarmi mai per contrarietà, non ambir mai lodi, non desiderare, non aspettare mai nulla, fuorchè il giorno in cui potessi dire a me stesso: — Ho fatto quello che potevo, non sono stato inutile nella vita, questo mi basta. —

X.

Che idea mi passa pel capo, ora che sto per finire! Vorrei aver qui un giovinotto di diciasette anni, d'indole bona e di costumi gentili, ma poco esperto, come a quell'età siam tutti, del cuore umano; e mettendogli una mano sulla spalla, dirgli amichevolmente: — Vuoi tu procurarti fin d'ora un argomento di pace e di serenità per l'avvenire? Tratta i tuoi amici cogli stessi riguardi che useresti a una donna, perchè, credi, non v'è offesa o parola amara o atto sgarbato fatto ad alcuno di loro (sia pure scusabile e venga pure per lungo tempo dimenticato) che un giorno non ritorni alla memoria, e non rincresca, e non turbi. Dopo molti anni, ricordando i miei amici lontani, mi rammento d'uno screzio che ci fu tra me e un di loro, di qualche motto pungente che ricambiai con un altro, del proposito fatto e mantenuto per molti mesi di non rivolgere la parola ad un terzo; — fanciullaggini; — eppure, quanto sarei contento di non avere alcuna di queste fanciullaggini da rimproverarmi! E benchè io sia sicuro che non hanno lasciato traccia negli altri più che in me, quanto desidero sempre che si presenti un'occasione di poter assicurarmene meglio, dissipando quell'ultima ombra leggerissima che, per caso, vi fosse rimasta! Quando s'arriva a quell'età in cui comincia ad apparir vicino il termine della gioventù, e si pensa agli anni passati così presto, e agli altri che passeranno più presto ancora, e al pochissimo bene che s'è fatto, e al pochissimo che ci resterà ancor tempo di fare, quel sentimento d'orgoglio, che ci rese qualche volta duri e incresciosi agli amici, ci sembra una così meschina, risibile e spregevole cosa, che, se si potesse, si tornerebbe indietro per riprendere daccapo tutte le discussioni col tono più soave della nostra voce, per porgere tante volte la mano in atto di chieder pace, quante sono le scrollate di spalle che si diedero pel passato; per cercare gli amici offesi, guardarli negli occhi, e dir loro:

— Non c'è più nulla, non è vero?... —

XI.

Cari amici! Non foss'altro che perchè vidi con voi, per la prima volta, tutta la mia patria, come potrebbe il mio pensiero non correre sempre a voi, e il mio cuore non desiderarvi? Quando dal bastimento vidi biancheggiare lontano la immensa curva del golfo di Napoli, e giunsi impetuosamente le mani, e risi, e pensai a mia madre, ed esclamai: — È un sogno! — ; quando di sulla cima del colle del Noviziato abbracciai, per la prima volta, con uno sguardo solo, la città di Messina, lo stretto, gli Appennini, il Capo Spartivento, e dissi tra me, con un sentimento quasi di tristezza: — Qui finisce l'Italia! —, quando sulla vetta di Monte Croce vidi per la prima volta, di là dalla vasta campagna brulicante di reggimenti tedeschi, le torri di Verona, e tesi le braccia con uno slancio di gioia, gridando come se temessi che ci fuggissero: — Aspettate; — quando vidi per la prima volta, di sull'argine di Fusina, lontana, azzurra, fantastica, la città di Venezia, esclamai colle lagrime agli occhi: — Divina! — quando scorsi per la prima volta, dall'altura di Monterotondo, Roma, circondata dal fumo delle nostre batterie, ed esclamai con un fremito: — È nostra! — sempre ebbi accanto qualcuno di voi, che, preso dalla stessa commozione, mi afferrò per un braccio, mi scosse, e mi disse: — Com'è bella l'Italia! — ; sempre qualcuno di voi che alternò con me le risa, le lagrime, i versi! Non v'è punto d'Italia, nè caso lieto, nè commozione profonda, di cui io mi ricordi, senza che mi paia di sentire il suono d'una sciabola, che dice: — Son qui! — senza che mi paia di stringere la mano d'uno di voi, senza che io mi domandi dove quest'uno si trovi, e che cosa faccia, e che cosa pensi, e se rammenti egli pure i bei giorni passati insieme. Oh! potrò incontrare nella vita un gran numero di altri amici intimi, fedeli, generosi, di cui mi si presentino in folla, ogni momento, le immagini sorridenti; ma di là da questa folla, di sopra a tutte quelle teste, lontano, vedrò sempre ondeggiare i vostri pennacchi e luccicare i numeri dei vostri berretti; e mi slancerò sempre verso di voi per dirvi: — Parliamo del nostro collegio, dei nostri viaggi, di guerra, di soldati, d'Italia. —

XII.

Certo una gran parte di noi, antichi compagni di collegio, arriveremo a vedere il secolo XX. Strana idea! Capisco bene che si passerà dal mille novecento al novecento uno, come si sarà passati dal novantanove al cento, e come si passa da quest'anno al venturo. Eppure, mi sembra che allo spuntare del primo giorno del nuovo secolo si dovrà provar la sensazione di colui che, giunto sulla vetta di un'alta montagna, vede dinanzi a sè nuove terre e nuovi orizzonti. Mi pare che quella mattina ci si dovrà rivelare qualcosa d'impreveduto e di meraviglioso; che ci prenderà un senso quasi di spavento del trovarci tanto innanzi; che ci parrà d'essere stati lanciati da una forza arcana da un orlo all'altro d'un abisso smisurato. Fantasie! Io presento bene quello che saremo noi in quegli anni; e non solo lo presento, lo vedo. Vedo una sala con un camminetto in un canto, o meglio molte sale con molti camminetti, e molti vecchi davanti al fuoco, seduti sur una poltrona, col mento sul petto; e poco più in là un tavolino con un lume in mezzo, e intorno una corona di ragazzi, che potranno essere figliuoli o nipoti, e che a un dato momento si accenneranno l'un l'altro il babbo o lo zio, dicendo piano: — Dorme; — e ridendo dell'espressione grottesca che avrà preso nel sonno il nostro volto rugoso. E forse allora ci desteremo, i ragazzi ci verranno intorno, e vorranno sentire, secondo l'uso, racconti di tempi molti lontani, e ci domanderanno con viva curiosità: — Zio, ha mai visto lei il generale Garibaldi? — Babbo, ha mai osservato davvicino il re Vittorio Emanuele II? — Nonno, non le è mai seguìto di sentir discorrere il conte di Cavour? — Ma sì, e come, e quante volte! — Ma dica dunque, come erano? Somigliavano molto ai ritratti? In che modo parlavano? — E noi diremo ogni cosa, e via via ricordando, raccontando, descrivendo, la nostra voce riacquisterà a poco a poco l'antico vigore, e ci s'infiammeranno le gote, e sarà per noi una grande dolcezza il vedere quegli occhi vivaci accendersi, e quelle fronti innocenti sollevarsi con un movimento altero, e quelle mani piccine e bianche fare un cenno ad ogni nostra interruzione, come per pregarci: — Dica ancora. —

E chi sa che sarà seguito allora sulla faccia della terra? Sarà re d'Italia Vittorio Emanuele III? Ci saranno i bersaglieri a Trento? Qualche nostro amico d'oggi, applicato al Ministero degli affari interni, sarà governatore di Tunisi? La Francia sarà passata per un altra trafila d'imperi, di repubbliche, di Comuni e di regni? Avremo avuto la minacciata invasione dei popoli nordici? L'Inghilterra avrà ricevuto anche essa il suo scappellotto? Avremo provato un po' di Comune? Sarà nato un grande poeta? Si sarà riformata la Chiesa? Si sarà rifatta Roma? Ci saranno ancora eserciti? Che saremo noi nel nostro paese? Che avremo fatto? Come avremo vissuto?

Ah! qualunque cosa sia per accadere, e qualunque sia la sorte che ci aspetta, se avremo lavorato, se avremo amato, se avremo creduto, — le sere che, seduti in un seggiolone a braccioli sul terrazzino della nostra casa, agli ultimi raggi del sole, penseremo alle nostre famiglie, ai nostri amici, ai monti, alle colline, ai carnovali e alle isolette del mar Tirreno che sognavamo in collegio; — ci turberà, si, il pensiero di dover abbandonare tra breve tante care anime e una così bella patria; ma ci splenderà pure sul volto quel sorriso queto e sereno, che è come l'alba d'una giovinezza nuova, e che tempera l'amarezza dell'addio colla tacita promessa: — Non per sempre!

CAMILLA. RACCONTO.

I.

Una vecchia signora della città di***, avendo bisogno di una donna di servizio, pregò per lettera una amica, che stava in una città vicina, di mandarle la sua; quest'amica doveva abbandonar l'Italia tra poco.

La risposta non si fece aspettare, e fu affermativa. — La ragazza — diceva la lettera — partirà domani. Non vi posso dare informazioni intorno alla sua famiglia, perchè essa non me n'ha mai voluto dare, e non ho potuto procurarmele io, perchè non mi ha nemmeno voluto dire di che paese sia. Qualunque altra donna m'avesse voluto tenere questo segreto, le avrei detto: — Tenetevelo, e andate pei fatti vostri. — Con questa ragazza non n'ebbi il coraggio; mi parve fin dalle prime così buona, onesta e gentile, che dovetti accettarla senz'altro. Forse si avrà a vergognare dei suoi parenti, e per questo non vorrà che si conoscano. Checche ne sia, sono profondamente persuasa che in questo mistero essa non ci ha colpa. Ve la mando senza timore. Usatele però dei riguardi, risparmiatele certe fatiche, perchè è debole e malaticcia. È anche bellina, badate. —

La ragazza venne, si presentò alla signora timidamente, aveva un bel sorriso, piacque, si accordarono. Si chiamava Camilla. Non era bella, ma simpatica: un po' pallida e malinconica; sorrideva solamente quando le parlavano, come per dovere di cortesia.

Sin dai primi giorni la signora cercò di saper qualcosa della sua famiglia. Si turbò, diede risposte vaghe, pareva che quelle domande le facessero male. La signora voleva sapere almeno dov'era nata. Essa pronunziò il nome di un villaggio, il primo che le occorse alla mente, con un'aria che diceva: — Non è questo; ma ve lo dico, per cavarmi di imbarazzo. — Bastò: la signora non insistette di più; ritentò qualche tempo dopo, ma collo stesso effetto; decise infine di non darsene pensiero.

Ogni giorno si mostrava più diligente, più mansueta, più dolce. La figliuola piccina della signora le aveva posto un affetto vivissimo; la signora stessa non faceva che lodarsene e compiacersene con parole che parevano ispirate da una calda simpatia; di che il marito soleva canzonarla, dicendole ch'ella era un'anima romanzesca soggiogata dal fascino del mistero; ma che il tempo avrebbe fatto la luce, e la luce rischiarato Dio sa che cosa. Ma il tempo non rivelò nulla, e Camilla si fece sempre più amare.

Aveva un solo difetto, se si può chiamare difetto una sventura: ed era una estrema sensitività nervosa, che la faceva tremare a un rumore improvviso, all'apparire inaspettato di una persona, a una voce che la chiamasse da un'altra stanza, a qualunque movimento o suono o vista, a cui non fosse preparata. Qualche volta le prendeva quasi male. Nè letture di cose tristi, nè narrazioni di misfatti, nè descrizioni di spettacoli, nei quali fosse la più lontana idea di un pericolo, si potevano fare in sua presenza senza che dèsse così manifesti segni di turbamento e di pena, da fare smettere il parlatore più ostinato. Quando una, quando due volte al mese, non per altra cagione che per queste scosse, era costretta a mettersi a letto, e a starci un par di giorni, prima dolorosamente agitata e poi rifinita come da una lunga malattia.

Una sera tutta la famiglia era raccolta nella sala da pranzo, e Camilla seduta in un canto. Era notte avanzata; chi leggeva, chi scriveva, nessuno parlava; non si sentiva fiatare. Sul terrazzino c'eran dei vasi di fiori; e solo il rumore delle foglie scosse dal vento, e i rintocchi lontani di una campana turbavano quel silenzio. A un tratto s'udì in una stanza accanto un colpo forte come di cosa pesante caduta dall'alto, e insieme un acutissimo grido. Quasi nello stesso punto un altro grido, più acuto del primo, proruppe dalla bocca di Camilla. La signora, il marito, i figliuoli, senza badare a lei, corsero nell'altra stanza. — Non è nulla! — gridò dopo un momento la madre. Era la bambina che, cercando al buio la corda del campanello per fare uno scherzo, aveva urtato colla mano in un grosso martello appeso al muro, e il martello le era caduto sui piedi. Tornarono subito nella sala da pranzo e là videro Camilla distesa in terra. L'alzarono, le sanguinava il viso; nel punto stesso che aveva gettato il grido, era svenuta, e nel cadere aveva dato della fronte contro una seggiola. La portarono a letto, rinvenne; ma le si manifestò subito una febbre così violenta, che ne furon tutti spaventati. Quando potè parlare, domandò che cosa fosse stato quel colpo e quel grido; glielo dissero; dapprima pareva che non volesse credere, non era bene in sè, usciva in esclamazioni senza senso. Poi parve che ricuperasse la ragione, e allora, fattosi spiegare di nuovo quello che era accaduto, domandò perdono dell'inquietudine di cui era stata cagione, e pianse. Cercarono di consolarla. — Che c'è da piangere? — le domandò la bambina. Ed essa piangendo più forte rispose: — Lo so io! —

Il giorno dopo mandarono pel medico. Il medico venne e, prima d'entrare nella camera di Camilla, si fece raccontare tutti gli accidenti che avevano preceduto la malattia. Entrato, esaminò la malata, le fece qualche interrogazione intorno al suo stato presente, e poi le domandò:

— Dica: ha mai avuto nessun grande spavento nella sua vita? —

La ragazza si scosse violentemente, e di pallida che già era, diventò pallidissima.

— Mi risponda sinceramente; le faccio questa domanda per suo bene.

— Nessuno spavento... — balbettò Camilla dondolando il capo, e fingendo di cercare nella sua memoria.

— Me lo può assicurare? — ridomandò il medico.

— .... Sì.

— Mi perdoni se insisto, — il medico ripigliò. — Lei, forse, per certe ragioni sue particolari, non mi vorrà dire la verità; ma lei ha veramente avuto qualche grande spavento, che le deve aver fatto molto male; me lo dica; una caduta? un pericolo corso da lei o da qualcuno della sua famiglia? un delitto commesso in una strada o in campagna, di cui lei sia stata spettatrice all'impensata? —

Camilla tremò forte come se le pigliasse la febbre; poi chiuse gli occhi, e voltò la testa dall'altra parte lasciandola cadere pesantemente sulla spalla.

La bambina mise un grido.

— Non è nulla, — disse il medico· — mi lascino solo; forse non vuol confidare il suo segreto che a me. —

Fu lasciato solo.

Di lì a un quarto d'ora uscì, e tutta la famiglia gli si strinse intorno.

— Non le ho cavato di bocca una parola, — disse il medico; — ma sono più che mai persuaso che una grande commozione di spavento sia stata la cagione della sua malattia; essa non vuol dir nulla; è segno che c'è sotto qualcosa. La malattia è grave, il sistema nervoso ha avuto una scossa funesta. La giovane, a quanto pare, era già prima di una complessione fisica assai delicata; il colpo, che non avrebbe forse offeso una persona robusta, è stato troppo forte per lei. Loro potranno tentare di scoprir qualcosa; ma non è necessario; la natura della malattia è abbastanza palese.

A un'ultima domanda direttagli mentre apriva la porta per uscire, rispose sottovoce poche parole che fecero restar tutti pensierosi.

L'inferma andò peggiorando rapidamente. Spesso le venivano accessi di delirio, a cui tenevan dietro spossatezze mortali e letarghi profondi. Delirando parlava, e tutti raccoglievano ansiosamente le sue parole, per veder di cavarne qualche lume sul fatto che essa mostrava di voler nascondere. Ma non riuscirono a nulla. Osservarono però un atto che faceva sovente, di coprirsi il volto colle mani e di scotere il capo come vien fatto alla vista improvvisa di qualcosa che ci metta orrore. Qualche volta si metteva a sedere sul letto e guardava qua e là pel pavimento cogli occhi stralunati, come se ci fosse qualcosa di sparso che si movesse. Tratto tratto, nei momenti di maggiore agitazione, faceva un cenno per imporre silenzio, si cacciava una mano dietro l'orecchio come per raccogliere meglio un suono lontano, e gridava con un accento di terrore: — Giù! — Ma l'idea più strana, alla quale essa tornava ogni momento, e qualche volta anche a mente tranquilla, era che qualcuno cercasse di portarle via la sua roba: un par di vestiti e un po' di biancheria, che eran chiusi in un piccolo baule accanto al letto. Vi teneva l'occhio su continuamente; si sarebbe detto che aveva là dentro qualche gran segreto. Un giorno disse che voleva bruciare ogni cosa, e la bambina le rispose che non gliel'avrebbero permesso. — Allora, — mormorò essa, — mi prometta che lo faranno appena sarò morta. — Del resto, era sempre dolce e rassegnata, e non finiva mai di ringraziare i suoi padroni delle cure che le prodigavano e dell'affetto che mostravan di avere per lei. — Io lo so che debbo morire, — disse un giorno alla signora... — ci son preparata; ma mi rincresce di morir qui, e dar un dolore a loro che mi hanno fatto tanto bene... (e poi guardando intorno) e rattristare anche la casa. Mi faccia una grazia, mia buona signora! — proruppe finalmente con voce supplichevole; — mi faccia portare all'ospedale! —

Una mattina, con grande stento e con molta segretezza, scrisse una lettera. La signorina se n'accorse, e le disse di dargliela che l'avrebbe fatta portare alla posta. Camilla ricusò, e la pregò invece di far venir la portinaia, che non sapeva leggere. La portinaia venne, e Camilla le mise la lettera in tasca, facendosi promettere che l'avrebbe gettata in buca senza far vedere l'indirizzo a nessuno.

Intanto andava sempre più perdendo le forze, e il medico non le dava più che pochi giorni di vita. Una sera, presa da que' soliti accessi di febbre nervosa, dopo lunghi spasimi, ma colla mente serena e presente a sè stessa fino all'ultimo momento, morì. Le ultime sue parole, colle quali parve che volesse svelare qualcosa, non furono intese.

Fu convenuto allora di far nuove ricerche intorno alla famiglia, per poterle almeno mandare la roba della giovane, non perchè si credesse che i suoi parenti l'avrebbero in alcun caso richiesta per ciò che valeva, ma perchè si supponeva che avrebbero avuto caro quel ricordo. Si scrisse, si fece domandare, investigare; infine si pensò di aprire il suo baule per vedere se ci fosse qualche lettera, o appunto, o indizio qualsiasi di dove fosse nata e da chi. Il baule fu aperto in presenza del medico e di tutta la famiglia. La signora tirò fuori ad uno ad uno i panni e la biancheria. In fondo, in mezzo a due o tre involti, si trovò una lettera aperta. La signora la prese e la lesse: erano poche righe scritte da Camilla; una lettera cominciata e lasciata a mezzo, senza intestazione. Diceva: “... Dopo quel giorno io son sempre stata male, perdevo le forze e non reggevo più ai lavori di campagna. Per questo in casa mi trattavano con cattivi modi e mi dicevano che non ero più buona a nulla; e spesso anche mi rinfacciavano il tuo caso, e mi facevano capire che sospettavano di me, che io ti avessi consigliato. Questo sospetto finì di togliermi il coraggio, e loro mi avrebbero forse cacciata di casa, perchè ero inutile; ma io presi la risoluzione di andare a servire in città, e speravo di trovare qualche buona famiglia che avesse compassione del mio stato, e mi pigliasse in casa per i servizii che non vogliono tanta fatica; e poi non potevo più stare in quella casa dopo quello che era accaduto, perchè mi faceva paura, e soffrivo troppo. Ora eccomi qui in città e ho trovato una buona famiglia: ma non dico nulla a nessuno, e non dirò mai nulla; solamente a pensare che qualcuno lo sappia mi pare che avrebbero orrore di me che non ci ho colpa; e non voglio nemmeno che a casa abbiano mie notizie: io gli perdono, ma mi hanno trattato troppo male a lasciarmi andar via sola, malata com'ero, e senza protezione....„

— C'è dell'altro scritto, — osservò il medico.

La signora voltò il foglio; c'era in fatti qualche riga, in fondo a una pagina piena di cancellature, che nascondevano affatto lo scritto: “Io ho poi fatto un involto di quel vestito e per levarmelo d'innanzi agli occhi l'ho cacciato in fondo al baule. Sono passati tanti mesi e sempre mi pare d'avercelo messo ieri, e non ho più avuto il coraggio di toccarlo; che appena a stender la mano mi sento tremare tutta, e quasi mi mancano le forze....„

— Vediamo l'involto, — disse la signora riponendo la lettera; e tirò fuori dal baule un involto fasciato di carta. Stracciò la carta e n'uscì un vestito di donna.

— Che cos'è questo? — gridò spaventata la signora, guardandolo da tutte le parti.

Il medico si mise gli occhiali, prese il vestito, lo guardò qua e là attentamente, e lasciandolo cadere in terra, disse: — È macchiato di sangue. —

Questa scoperta diede luogo a un'infinità di congetture e di sospetti; ma non rischiarò punto il mistero. La famiglia, d'altra parte, non fece altre ricerche; e a poco a poco lasciò cadere la cosa in dimenticanza. Quando una sera tardi — circa un anno dopo che avevano aperto il baule — si presentò all'uscio uno sconosciuto chiedendo di parlare alla signora.

La signora lo ricevette nell'entrata, insieme con suo marito e i suoi figliuoli. Era un giovane sui venticinque anni, pallido, meschinamente vestito, coi capelli lunghi, d'un aspetto dimesso come un povero; ma con cert'occhi che non ispiravan punto fiducia.

Gli domandarono che cosa voleva.

Egli guardò intorno con un'aria attonita, come se riconoscesse la casa, e mostrando un foglietto di carta che teneva in mano, domandò umilmente:

— Son loro i signori***? —

Gli risposero di sì.

— Una volta — continuò egli — serviva qui una giovane, che si chiamava Camilla, e che è morta.

— Che è morta, — rispose la signora fissandolo.

— E.... — domandò il giovane con voce commossa — com'era caduta?

— Com'era caduta? — ripeterono tutti maravigliati.

— O non è morta, — riprese il giovine, mostrando di nuovo la lettera; — non è morta per conseguenza d'una caduta dalla finestra.... ed ebbe appena il tempo di scrivermi?

— Che! — rispose la signora; — è morta d'una malattia nervosa, la povera giovane; una malattia che la fece soffrire tanto tempo, morta quasi di consunzione, per un grande spavento che si dice avesse avuto non si sa quando; una disgrazia, che so? qualche terribile caso di certo; — e lo guardava fisso.

Lo sconosciuto rimase qualche momento senza parola, colla bocca aperta e cogli occhi spalancati; poi cominciò a contrarre il viso, a tremar tutto, a guardar or l'uno or l'altro con un'espressione di angoscia; in fine gettò un grido doloroso e si precipitò giù per le scale.

Gli si slanciarono dietro, volava, non lo raggiunsero.

Si può immaginare la curiosità, la trepidazione, i sospetti, che la visita inaspettata di quell'uomo dovette far nascere. Per parecchi giorni non si pensò e non si parlò d'altro; chi consigliava di riferire il fatto alla Polizia, chi di andare in traccia dello sconosciuto per la città, chi di ricominciare le ricerche intorno alla famiglia di Camilla. Quando una sera, che c'era il medico, e si discorreva sull'argomento solito, sentirono picchiare all'uscio, e dopo un poco la voce della donna di servizio che diceva dall'altra stanza: — Signori, vengano un momento loro: io ho paura. —

Tutti accorsero: era lo sconosciuto, più pallido e più malandato che la prima volta, coi panni che gli cadevano a brandelli.

— Che volete qui? — gli domandarono.

Egli fissò la signora con tanto d'occhi, come se non l'avesse mai vista, e disse:

— Son loro i signori***?

— Sì, ve l'abbiamo già detto, — rispose la signora.

— Una volta — continuò egli — serviva qui una giovane, che si chiamava Camilla, e che è morta?

— O non vi si è già detto? — esclamarono tutti meravigliati.

— Perdonino, — mormorò il medico, facendo un cenno alla famiglia, e avvicinatosi allo sconosciuto, lo prese pel braccio, e gli disse amorevolmente: — Andatevene pei fatti vostri, buon uomo; qui non c'è nulla per voi; andate. —

E lo spinse fuori adagio adagio, e chiuse la porta. Poi si voltò verso la famiglia che aspettava una spiegazione, e disse: — Quel giovine è diventato scemo. —

II.

Nella provincia di***, in Piemonte, v'è un villaggio, che la gente dei dintorni chiama il villaggio dei Musi duri, per canzonare la musoneria dei suoi abitanti. E debbono essere in fatti i più serii della provincia, se è vero che la natura del luogo dove s'abita produca sempre un qualche effetto sulle indoli e sugli umori; perchè il villaggio è posto in una bassura profonda, scarsa di luce, quasi sempre coperta di nebbia e circondata dì monti alti e rocciosi. Però quel duri s'addirebbe anche meglio alle teste che ai visi, perchè il contadino di quella terra ha in sommo grado il carattere del contadino piemontese; buono, onesto, operoso; ma in tutte le faccende di questo mondo, in cui occorra di mutar parere, di cedere, di piegarsi, più duro del granito. E come in mercato, per ridurlo a lasciarvi passare, dopo avergli detto tre volte: — Permettete! — siete costretti a dare cinque passi indietro, prendere una rincorsa di fianco, e urtarlo in modo da sbalzarlo nel muro; così quando si tratta di sradicargli un pregiudizio, di spuntargli una picca, di rimuoverlo da una risoluzione, il più longanime e vigoroso ragionatore del mondo ci perde la pazienza e la voce; e gli bisogna proprio concludere, come dicono le mamme ai fanciulli testardi, che non c'è altro che tagliargli il capo. E son così rigidi e cocciuti, ma non punto corti d'intelligenza. Stentano ad intendere, sì, e stanno un pezzo cogli occhi imbambolati e la bocca aperta prima d'afferrare un'idea; ma poi la imprigionano in quella loro mente rozza, e ce la tengono, quasi gelosi della conquista, con una stretta così tenace, e tanto la voltano e la rivoltano e la rimuginano, che finiscono per possederla e comprenderla meglio d'un'intelligenza aperta che l'abbia colta di volo. Ma questa loro tardità d'intelletto, che essi sanno d'avere, e una tal quale grossolana astuzia che li fa temere sempre d'essere gabbati dalla gente più destra, dà ai loro modi e al loro linguaggio un che di monco, di gretto, di diffidente, che, a primo aspetto, li fa giudicare assai peggio di quello che sono. Del resto, hanno capito fin dalle prime, che per non essere messi in mezzo dai furbi, una delle prime cose da farsi era imparare a leggere e scrivere, e perciò hanno fatto buon viso alle prime scuole che furono aperte nel villaggio, e ci mandarono i figliuoli, e finirono con andarci anche i vecchi. In fondo è un villaggio, che beati noi se da un capo all'altro d'Italia gli somigliassero tutti.

Pochi anni sono, in una casa di contadini posta all'estremità di questo villaggio, accanto alla strada maestra, ci stava un giovane che per la sua cocciutaggine e il suo cipiglio si poteva proprio dire che fosse la espressione più fedele della natura di quella gente. Non era un accattabrighe, nè un ipocrita, nè un vizioso; che anzi bazzicava pochissimo cogli altri giovani del paese, e passava il più dei giorni in casa, e non aveva mai fatto sparlare dei fatti suoi; ma spiaceva a molti e di pochissimi era amico, non per altro che per l'orgogliaccio ombroso e stizzoso che traspariva dai suoi modi e dalle sue parole. Era uno di quelli che quando vi parlano, vi guardano il vestito, il cappello, le scarpe, e vi girano cogli occhi intorno al viso, e non vi fissano mai; sorridono e rassegano subito il sorriso; sbadigliano, e strozzano a mezzo lo sbadiglio; muovono una mano e la lasciano in aria come la mano d'un fantoccio; e ogni loro parola, o sguardo, o gesto è pensato e stentato; e finiscono col metter nell'imbarazzo anche voi, e non vedete l'ora di lasciarli, e voltandovi, quando li avete lasciati, sorprendete il loro sguardo nel punto che, sorpreso, vi fugge. Carlo era uno di costoro, e per questo spiaceva anche alle donne, benchè non fosse punto sgradevole d'aspetto. Era una figura, che nel villaggio, in mezzo alla folla che esciva di chiesa dopo la Messa, tra quelle cento faccie dalle fronti schiacciate, dai ciuffi irsuti, dai nasi torti e dal colore di terra cotta, tirava lo sguardo subito pei suoi tratti regolari, per gli occhi grandi e per la pallidezza. Era bassetto della persona e asciutto, ma d'apparenza robusta; e quel suo continuo corrugar della fronte gli dava allo sguardo una espressione di fierezza, che quando non era turbata dalla collera poteva piacere.

Egli aveva solamente il padre, che lavorava in una città lontana; e viveva nel villaggio con certi suoi zii e cugini, tra i quali una ragazza che si chiamava Camilla, rimasta orfana, e stata accolta in casa dalla famiglia stessa che aveva accolto lui. Con questa ragazza egli era vissuto fin da bambino, e com'è facile immaginare, appena arrivato all'età, in cui si comincia a guardar con occhio diverso il compagno di scuola e la figliola del portinaio, aveva preso, per dirla colle contadine toscane, a discorrerle; ed essa a rispondere, e la famiglia a lasciar correre, pensando che a suo tempo si sarebbero potuti sposare.

Questa ragazza che aveva sedici anni (tre meno di Carlo), era d'indole e di modi affatto diversi da lui. Ma l'affetto era nato colla dimestichezza, quasi di nascosto, ed anco perchè gli estremi, posto che si dice che si toccano, bisogna pure che s'avvicinino; e poi perchè in lei, umile e affettuosa, c'era quel sentimento segreto che spinge la donna verso gli uomini di natura aspra e violenta, quasi per un bisogno naturale di versare in altri la dolcezza dell'animo proprio, un desiderio di combattere e di soffrire, di espiare colpe altrui, di fare scudo della propria bontà e dei proprii dolori, a chi ne ha bisogno, contro i castighi del cielo. Carlo, a modo suo, le voleva bene; ma la feriva spesso con parole durissime, o la spaventava con selvaggi impeti di collera; il che seguiva per lo più quando essa, vivace e risoluta nel combattere il male e nel propugnare il bene, lo affrontava in qualche sua caparbietà colpevole, e col linguaggio stringente della convinzione e dell'affetto gli faceva capire d'aver torto; onde il suo orgoglio ferito, non sapendo come difendersi, assaliva. Ma le battaglie duravan poco: essa implorava la pace; e quando quella stessa sommissione, che era una maniera di vittoria, non tornava a inasprire l'avversario, la pace era fatta. Qualche volta riusciva a frenarlo, ad ammansirlo, a volgerlo al bene, e allora n'andava altera. E ogni giorno più si stringeva a lui per quel che di chiuso, di misterioso quasi, che v'era nel suo carattere; appunto perchè, come sempre segue, il suo cuore era tenuto in una continua curiosità d'affetto, e sempre immaginava che la parte nascosta fosse la migliore, e che a furia di cure, di sommissione, di sacrifizii sarebbe riuscita a cavarla fuori e a darle il di sopra.

La sera essi solevano stare insieme, davanti alla porta di casa: Camilla, seduta, lavorando; egli ritto colle spalle al muro. Parlavano poco, specialmente Carlo. Quando aveva la lingua sciolta era cattivo segno: era certo un po' di bile compressa, cui aveva bisogno di dare sfogo; e allora gli uscivan di bocca i discorsi più strampalati del mondo: non lavorar più, fare il contrabbandiere, andare in un paese straniero: e la ragazza a combatterlo fin che aveva fiato e speranza, e poi lagrime. — Sono un cattivo soggetto, eh? — finiva per dir lui, mezzo pentito; e Camilla, racconsolata subito da quelle poche parole, gli rispondeva asciugandosi le lagrime: — Non lo credo... —

III.

Una sera, all'ora convenuta, egli le venne accanto più accigliato del solito, e, strettale la mano, stette lungo tempo immobile, colle spalle al muro, muto. Camilla lo guardò di sfuggita, e n'ebbe quasi paura: non l'aveva mai visto così stravolto; era pallido e tremava.

— Che cos'hai? — gli domandò.

— Ho.... — rispose lui con impeto, senza voltare la testa — una bagattella. Ho che cinque giorni fa, quando abbiamo ricevuto la notizia che mio fratello maggiore era morto, non abbiamo pensato a una cosa!

— A qual cosa?

— Non ci abbiamo pensato nè io, nè tu, nè i miei parenti, nè il Curato, nè un cane al mondo, e non par possibile, bisogna dir proprio che avessimo la testa non so dove.

— Ma di' dunque!

— Dico, dico.... pur troppo che l'ho da dire: mi tocca andar a fare il soldato, eccola detta. —

La ragazza gettò un grido e balzò in piedi.

— Ora lo sai che cos'ho, — soggiunse il giovane.

E poco dopo riprese: — È così. La legge, se non lo sai, quando ci son tre figliuoli, piglia il primo e l'ultimo; e quando il primo muore, lascia star l'ultimo e piglia il secondo; io sono il secondo, tocca a me.

— Ma.... — disse la ragazza non ancora rinvenuta dal primo stordimento — è vero?

— Se è vero! Me l'ha detto il Sindaco, e poi va a vedere, hanno aggiunto il mio nome all'elenco. E non basta. Tra mio fratello e me non c'era che un anno di differenza; a me, in giusta regola, sarebbe toccata la coscrizione l'anno venturo; ma quest'anno, come saprai, e se non lo sai te lo dico, fanno due leve in una volta, perchè sono in credito d'una; per conseguenza siamo serviti. Tra un mese, via!

— Ma è possibile? — esclamò la ragazza con voce alterata.

— E come! — rispose il giovane con un sorriso rabbioso. — Ma non c'è da darsene pensiero, sai! Che cosa sono cinque anni! Una bagattella! Zaino, gamella, pan nero, e avanti! E viva il Re! —

E diede un così forte pugno nel muro che s'insanguinò le dita.

— Ma Carlo! — gridò Camilla afferrandolo; — cosa fai!

— Cosa faccio? — rispose egli con un riso convulso; — guarda cosa faccio! — e fece un atto impetuoso come per darsi un pugno nel mento. Ma fermò il braccio ad un tratto, diede in una risata ed esclamò: — Ah! mi dimenticavo che non si stracciano più le cartucce coi denti; tanto vale conservarli.

E si mise a passeggiare avanti e indietro canterellando colla voce strozzata fra i denti.

Camilla pallida, fuor di sè dalla sorpresa e dal dolore, lo seguitava senza parola, guardandolo cogli occhi spalancati.

— Cosa ne dici? — domandò Carlo fermandosi.

— Ma cosa ne ho da dire! — proruppe Camilla con voce tremante. — Ti dico che mi sembra un sogno! Ti dico che non ci posso credere! Ti dico che mi scoppia il cuore! — E gli gittò le braccia al collo singhiozzando.

— Oh lasciami stare! — egli rispose bruscamente svincolandosi e pigliando la via del villaggio; — ci vuol altro che tenerezze! —

IV.

Dopo un breve tratto di strada, Carlo incontrò un suo amico del villaggio, un uomo sui trent'anni, alto e asciutto, cogli occhi lustri e colla bocca torta in un atteggiamento sprezzante; il quale aveva nel vestire una certa attillatura rara a vedersi in giovani di campagna: capelli unti, cravattino, polsini e un par di grandissimi calzoni stretti intorno al collo del piede. Era uno di quei tanti cattivi contadini che hanno fatto malamente il soldato e che ritornano a casa peggiori di prima: colla goffaggine indelebile della loro natura, accresciuta dai vizii che presero in città e della spavalderia che impararono in caserma; un misto di villani, di bravi e di beceri, che puzzano d'acquavite e di pomata, e disprezzano “l'ignoranza.„

Costui, tornato in congedo al villaggio, aveva messo su una piccola bottega di liquorista.

Veduto Carlo, si fermò, e senza accostarglisi, gli disse con un sorriso compassionevole: — Lo so!

— E non c'è Cristi che tenga, eh? — soggiunse un momento dopo.

— Ci sei stato anche tu, — rispose Carlo.

— Gli è per questo, amico mio, che mi fai compassione! — Carlo rimase muto, cogli occhi fissi a terra.

— E Camilla? —

Carlo crollò le spalle.

— Mah! — soggiunse l'amico allontanandosi; — ora ci sei tu nelle peste: una volta per uno. —

Carlo si morse le labbra e tirò innanzi per la sua strada.

La voce s'era sparsa pel villaggio, egli era conosciuto, tutti lo guardavano. Qualcuno di quelli che avevano domestichezza con lui, vedendolo passare, si faceva sull'uscio della bottega, e gli gridava: — Si va, eh? — Altri, sogghignando, dicevano: — E' darà giù quella superbia! — E le ragazze: — Ora si vuol vedere Camilla! — Egli non guardava nessuno, ma si sentiva addosso, per così dire, gli sguardi di tutti; e in quel momento lo opprimeva assai meno il pensiero di dover andare a far il soldato, che l'immagine di tutti quei sogghigni della gente a cui era antipatico. — Se vi potessi pigliare uno alla volta! — brontolava, premendo il manico del coltello. Andò a parlare al Sindaco, rilesse l'elenco dei coscritti, e tornò a casa ch'era buio. Entrando, vide Camilla in un canto che piangeva, e allora, ricordandosi del modo brutale con cui le aveva dato la notizia della disgrazia, ne sentì rimorso, se le avvicinò e le disse piano: — Non c'è mica da disperarsi, poi.... Non è ancora sicuro.

— Come non è sicuro? — gridò la ragazza maravigliata.

— C'è anche la seconda categoria. — La ragazza stette pensando: seconda categoria, numeri alti, numeri bassi, quaranta giorni, — tutte queste idee le si affollarono nel capo confusamente.

— Mi potrebbe toccare il numero alto, — disse ancora Carlo.

— E allora non andresti! — esclamò Camilla.

— Ci andrei per quaranta giorni.

— Ma è proprio vero! — gridò la giovane con uno slancio di gioia.

— Sì; ma bisogna aver fortuna! — rispose Carlo.

— Ah sì! — gridò Camilla, — ma io pregherò tanto che Dio ci farà questa grazia — e corse a rinchiudersi nella sua stanza.

Carlo fu preso da un sentimento di tenerezza che da molto tempo non aveva più provato: ma poichè in lui anche i sentimenti teneri pigliavano un'espressione di dispetto e di collera, strinse il pugno, e, guardando il cielo stellato, mormorò a denti stretti:

— Ma è proprio una maledetta legge infame questa, che ci obbliga a lasciar casa, parenti, amici, tutto, per andar a fare.... il galeotto!

In quel momento una voce nella strada gridò canterellando:

— E non c'è Cristi! —

Era l'amico liquorista che, passando, aveva veduto spiccare la figura buia di Carlo sul fondo illuminato della stanza; Carlo ebbe un tremito.

— Zaino in spalla! — soggiunse la voce allontanandosi. E poco dopo:

— Pane colla muffa! —

E poi più lontano:

— E ferri corti! —

L'ultime parole furon seguìte da una risata, e poi tutto tacque nella strada buia e deserta.

V.

Venne il giorno che Carlo doveva andare in città a estrarre il numero. Partì la mattina presto per ritornare il giorno dopo alla stess'ora. Camilla lo accompagnò fin sulla strada, davanti alla casa, e facendo un grande sforzo, non pianse, e non profferì parola fino al momento di separarsi. Era pallida, e aveva negli occhi i segni della veglia e del pianto. Quando furono nella strada, raccolse tutto il suo vigore, richiamò tutto il suo coraggio, e stringendo tra le sue una mano del giovine, gli disse con voce tremante: — Torna subito. —

Carlo accennò di sì.

— E.... — proruppe essa con accento supplichevole — prendi un numero alto! —

Carlo sorrise, la baciò e s'allontanò rapidamente; essa rimase immobile.

— Un numero alto! mormorò un'altra volta con voce dolce e tremante.

Carlo, già molto lontano, si voltò; Camilla fece l'atto di estrarre il numero; poi convertì l'atto in un saluto; poi gli mandò un ultimo addio.

Dopo un po' rientrò in casa, e gittandosi sopra una seggiola, spossata dallo sforzo fatto, esclamò tristamente: — Ah, se il Re fosse qui a vedere quello che ci costa, non la farebbe mica fare la leva! Gli è che non lo sa, e non c'è nessuno che glielo faccia capire! —

Non è a dirsi in che stato d'animo passasse quel giorno e la notte seguente. A momenti si sentiva rifinita che le pareva di non poter più reggere fino al dì dopo; a momenti si sentiva dentro un'inquietudine, una smania, che le metteva quasi il bisogno di lavorare con furia, di affaticarsi, di stremarsi di forze, per cercare nella stanchezza un po' di riposo. Pregava, leggeva, usciva pei campi, tornava in casa, si buttava su tutte le seggiole, e sempre si vedeva davanti quella mano sospesa in atto d'entrare nell'urna e di estrarre il biglietto. Vedeva tutte quelle cartoline bianche, piegate, confuse, muoversi e rimescolarsi sotto le dita di Carlo come se fossero animate. — Questa! essa avrebbe voluto dire; — no, quell'altra! — No, per amor di Dio, quella sotto! — Ogni pezzetto di carta che vedeva in terra, i numeri scritti sui muri, qualunque oggetto che avesse una lontana attinenza a quello che le riempiva l'anima, le metteva un tremito. improvviso nel cuore. Due immagini, fra le altre, le si movevano di continuo davanti agli occhi: un soldato che s'allontanava per una strada deserta, e si faceva sempre più piccino, e spariva, e riappariva come un punto nero, e tornava a sparire; e un giovane vestito da paesano che per la stessa strada le veniva incontro cantando, con un numero sul cappello che diventava man mano più grande, fin ch'essa poteva leggerlo bene, un numero alto, il numero tanto sospirato, la sua salvezza, la sua vita. E queste due figure s'incontravano, si confondevano, si tramutavano l'una nell'altra con una vicenda rapidissima, che il cuore accompagnava con successione ugualmente rapida di gioie e di terrori faticosi e febbrili. E passò molte ore della notte pregando e piangendo.

La mattina dopo stette coi parenti ad aspettar Carlo davanti alla casa. Dopo una lunghissima ora, si vide apparire nella strada, molto lontano, un gruppo di gente, che fu riconosciuto subito al passo rapido, ai cappelli biancheggianti, ai canti che l'aria portava or sì or no all'orecchio, per il drappello dei giovani coscritti. Camilla s'appoggiò al braccio d'una sua parente; il drappello s'avvicinò; la ragazza e gli altri s'avanzarono.... Carlo non c'era!

I giovani passarono; avevan tutti il loro numero sul cappello; qualcuno salutò Camilla; essa non ebbe fiato per domandar notizie di Carlo; uno dei suoi parenti lo fece per lei.

— Carlo? — domandò a uno dei giovani rimasti addietro.

— È partito con noi, — rispose l'interrogato; — ma deve aver preso una scorciatoia.

— E che numero prese? —

Il giovane, chiamato dagli altri, pigliò la corsa senza rispondere.

— Il numero? Il numero? — gridarono Camilla e tutta la famiglia.

— Ecco il numero! — tuonò una voce improvvisa alle loro spalle.

Tutti si voltarono: era Carlo. Camilla gettò un grido disperato: egli aveva il numero sette.

VI.

L'amico di Carlo aveva fatto il soldato otto anni, aveva terminato il suo servizio d'ordinanza sulla fine del mille ottocento sessantasette, ed ora era libero affatto. Da soldato aveva appartenuto, in ispecie dopo la guerra del sessantasei, alla classe dei “malcontenti politici„; classe che un giorno si trovava soltanto fra gli ufficiali, che si estese poi ai sergenti, e finì col metter radice anche fra i soldati. Nell'ultimo anno del servizio era stato col suo reggimento di presidio in una città, dove tra i giornali di parte repubblicana e i giornali di parte monarchica sera agitata una lotta violenta a proposito dell'esercito; e ci erano stati tirati dentro generali, colonnelli, ufficiali di ogni grado; e s'erano trattate pubblicamente quistioni delicatissime di disciplina, facendone un chiasso e uno scandalo infinito. Come sempre segue in simili casi, via via che la discussione, o piuttosto la battaglia, si infervorava, andava pure allargandosi; cosicchè in breve, dall'argomento primo, ch'era l'alta amministrazione dell'esercito, s'era venuti ai più minuti particolari dell'economia dei soldato: prima del soldato in generale; poi del soldato di quei tali reggimenti; prima accusando il sistema, il Governo, il ministro; poi il generale di divisione, quel tal colonnello, quei tali capitani; si eran nominate le persone, si eran citati i fatti, si eran convocati dei giurì, si eran fatti dei duelli; e infine, dopo molto parlare, scrivere, stampare e sfidare, la tempesta si era quietata e tutto era rimasto nello stato di prima. Tutto fuorchè le teste dei soldati, le quali eran cambiate. I soldati (quelli che sapevano leggere) avevano preso gusto alla quistione e s'eran bravamente letti ogni giorno i giornali; puniti per essersi lasciati sorprendere a leggerli, s'erano messi a meditarli; puniti ancora, s'erano fatti ciascuno una raccoltina dei numeri più caldi, e ci davano poi una scorsa ogni tanto, di soppiatto, su per le scale della caserma nell'ora della pulizia, e dietro gli alberi della piazza d'armi nell'ora del riposo. A furia di leggere era rimasto in capo a ognun di loro un corredo di parole e di sentenze, che venivano poi snocciolando man mano, a mezza voce, coll'occhio bieco, quando l'ufficiale che li rimproverava avesse voltato le spalle. Un capitano, che li consigliasse a non bazzicar le bettole con cittadini che parlassero di monarchia e di repubblica, era un uomo che aveva paura delle idee nuove. Un sottotenente che, facendo un discorso alla compagnia, spiegasse che cos'è l'esercito, quale è il suo mandato c quali sono i suoi doveri, in un modo che a loro non garbasse, era un uomo che intendeva alla rovescia lo spirito delle istituzioni. Al tale sergente che dava un ordine e troncava la parola in bocca gridando: — Silenzio! — si rispondeva a fior di labbra: — Non sono un automa. — Alla parola soldato si accompagnava sempre, come aggiunto necessario, la parola povero, e certi sfoghi di collera contro un superiore lontano si chiudevano immancabilmente con una frase misteriosa che faceva scintillar gli occhi dei circostanti. — Ha da venire quel giorno.

Il nostro soldato era stato uno di questi, e dei più ardenti. Tornato appena al villaggio, coll'animo ancora agitato e la memoria fresca di quei fatti e di quelle letture, s'era dato a far propaganda delle idee nuove. Messa su una piccola bottega di liquori, ne aveva fatto il luogo di convegno dei malcontenti del villaggio. Là si leggevano giornali, si parlava di dilapidazione del pubblico Tesoro e di tratta dei bianchi e d'altre cose, che non tutti capivano; ma che mostravano di sentir tutti profondamente. E il nuovo tribuno era la voce più autorevole dell'assemblea non solo perchè dava spesso da bere a credito, ma perchè aveva infatti un certo ingegnaccio di cattivo soggetto, infarinato di linguaggio da gazzetta, e tenuto vivo e eloquente da uno stato abituale di mezza cotta.

La sera del giorno in cui Carlo era tornato da estrarre il numero, il nostro personaggio (si chiamava Marco) stava discorrendo con tre o quattro coscritti in un canto della bottega. Gli domandavano informazioni intorno alla vita del soldato, e lo stavano a sentire a bocca aperta.

— Il male, capite, — diceva cacciando indietro il cappello come per lasciar più libero corso al pensiero — il male è che i superiori non studiano, e non sanno niente di niente. E quando manca questo qui, — e si toccava la fronte coll'indice, — s'ha un bell'essere coperti di galloni e di croci, ma si sarà sempre ciuchi. Siamo indietro, ecco la gran quistione.

— E il mangiare? — domandò uno.

— La carne — rispose, accendendo il sigaro — è quasi sempre guasta; la zuppa si dà ai poveri; di vino non se ne parla. —

— Come si vive allora? — domandarono quelli.

— Ognuno s'ingegna; si piglia l'esempio dai superiori, vedete: ruba l'amministrazione militare, ruba l'intendenza, rubano gl'impresari, rubano i furieri, rubano i medici, è una ruberia generale, campano tutti alle spalle del soldato. —

Qualcuno gli domandò come si stésse a disciplina.

— Male.... i minchioni. I minchioni, vedete, nel mestiere del soldato, hanno sempre tutte le disgrazie. Il pane e acqua, i ferri, le sciabolate, son tutta roba per loro. Ma chi ha un poco di cervello e un po' di fegato, è un altro par di maniche. Bisogna saper mostrare i denti a tempo e luogo; anche i superiori hanno una pelle da conservare, capite bene;... tutto sta nel non lasciarsi mettere il piede sul collo. Un capitano aveva preso a fare le picche con me, e ogni settimana ero dentro; era una vita che non poteva durare. Un giorno io lo presi a quattr'occhi,... perchè, tenetevelo bene a mente, coi superiori non ci vogliono testimoni; se c'è chi vede, si è fritti; soli, si nega fino alla morte, e si salva la pelle. Lo presi a quattr'occhi, in un corridoio, di notte, che non se l'aspettava, e là gliene dissi quattro, vi assicuro io, di quelle che arrivano all'anima: “O lei finisce di rompermi l'anima, o le giuro sulla mia sacra parola d'onore, che a me mi toccherà una palla nella schiena, ma a lei quattro dita di baionetta nella pancia, non c'è nemmeno l'Anticristo che gliele levi.„ Non parlò più; se fiatava, l'infilavo come un ranocchio. Tutto sta lì: non bisogna lasciarsi mettere il piede sul collo.

— E la guerra? — domandò un altro.

— La guerra, — rispose Marco, — non c'è che dire: alla guerra bisogna fare il suo dovere. La patria è una sola, e il soldato è il difensore della patria. Ma siamo sempre alle solite, che i generali non sanno quello che si fanno. Figuratevi, un generale, nel sessantasei, mentre si marciava verso Venezia, e c'erano forti da tutte le parti, un generale di brigata, con tanto di galloni e di cordoni, e un'aria di mangia-tedeschi che metteva paura; e questo è seguìto a me che ero all'avanguardia, ed ero incaricato di avvisare quando si presentava il nemico; ebbene quel generale non sapeva dov'era il forte.... non so, un forte di primo ordine, che di là i Tedeschi ci potevano prendere a cannonate quando volevano: ebbene il generale, che era solo, dovè far la figura di domandarlo a me, — e si batteva la mano aperta sul petto, — a me, semplice soldato, cosa da far venire il rossore sulla fronte, e dire: “Ohè, voi, da che parte si trova il forte tale?„ E io a dover rispondere: “Signor generale, il forte di cui parla, è quello là, guardi dove segno col dito.„ E se non ci avessi badato io, ci conduceva al macello. Che ve ne pare? Domando e dico se c'è sugo a far la guerra in quel modo. —

VII.

All'undici di sera Marco era rimasto solo nella sua bottega rischiarata da una lucerna, e leggicchiava un vecchio giornale: Carlo entrò.

— Numero sette, lo so; — disse Marco dandogli un'occhiata, senza smetter di leggere.

Carlo gli sedette accanto senza far parola, e appoggiato un braccio sulla tavola chinò la testa sulla mano.

— È una vita dura —, cominciò a dir Marco, lanciando all'amico uno sguardo di compassione maligna. — Oh per dura è dura, te lo posso dir io. È una vita che chi ne vuol parlare bisogna che l'abbia provata. Io te lo dico per tuo bene, perchè non vorrei che andassi a fare il soldato con un'idea falsa. È mio dovere d'amico di dirti la verità. É una vita d'inferno. Immagina pure delle umiliazioni; non ne penserai mai tante quante ne avrai da patire, va pur sicuro. Piangerai delle lagrime di sangue, piangerai. Già, prima di tutto, se hai sentimento d'onore, chi è soldato deve far conto di non averne. Caporali, sergenti, tenenti, capitani, son tutta gente pagata apposta per darti dell'asino e del mascalzone una volta l'ora — per turno. In piazza d'armi, in presenza di mezzo mondo, ti mettono le mani sulla faccia, e la gente si ferma e ride. Nelle marcie poi, quando si muore dalla sete, che non s'ha più figura d'uomo, e si resta indietro o si casca a traverso la strada, allora son pugni e piattonate che non ci son per niente gli aguzzini nelle galere. Ho visto io un comandante di compagnia in una marcia che c'era un soldato malato che non si poteva reggere, e lui credeva che lo facesse apposta; ebbene, lo cacciò avanti a spintoni e a calci, per mezzo miglio, fin che rotolò in un fosso, in fin di vita. Cose da far diventar matti. E qualche volta danno anche delle sciabolate di taglio. Non c'è pietà, mio caro. Il soldato è una bestia. Prepara pure la schiena e la faccia. E chi si rivolta, o lo cacciano in una prigione a farsi mangiar vivo dai topi o lo mandano in una compagnia di disciplina dove gli rompono le ossa col bastone. Se poi hai la disgrazia di ammalarti, non ti dico altro, tutti sanno cosa sono gli ospedali militari. Se non guarisci più che presto, ti danno il passaporto per il camposanto come due e due fan quattro, perchè, capisci bene, non vogliono mica mantenere della carne inutile. Ne ho visti dei miei compagni distesi là stecchiti su quei letti, cogli occhi di vetro e la faccia color di cera! È vero che ti può anche capitar la fortuna della guerra. Allora i tuoi superiori ci guadagnano un grado e tu lasci le budella in mezzo a un campo di grano, se pure non ti tocca prima di metterti in riga con una dozzina dei tuoi compagni e di cacciare una palla nella schiena a un tuo amico, condannato per “sbandamento in faccia al nemico.„ Credi, è proprio una vita da galeotti. Per resisterci bisogna non aver sangue nelle vene. Vorrei aver tanti scudi quanti dei miei compagni ho visti stracciare coi denti la tela della branda e dar di mano alla baionetta per cacciarsela nella gola. Per me, non lo dico per disanimarti, che non sarebbe un'azione da galantuomo; ma andrei in galera, andrei a marcire in una prigione, mi metterei a far l'assassino di strada, mi farei impiccare in mezzo a una piazza, tutto piuttosto che tornar a fare il soldato. Ma già, se mi richiamassero, piglierei la strada di Francia o di Svizzera. Ce ne sono andati tanti altri! Cosa vuoi? Io proprio a pigliarmi dei pugni, dei calci e delle sciabolate, non mi ci sento nato. In tutti i casi avrei più caro pigliarmi una fucilata nel petto da un carabiniere alla frontiera, chè almeno sarebbe una palla sola, piuttosto che pigliarne dodici nella schiena dai miei compagni, al comando dell'aiutante maggiore. Fatti coraggio, andiamo. Sono cinque anni, in conclusione, e cinque anni... son lunghi, sì; accidenti che son lunghi! ma non sono la vita.

VIII.

Il giorno dopo, all'ora solita, Carlo e Camilla si trovavano dinanzi al portone. Essa aveva. gli occhi rossi; egli la salutò sorridendo.

— Sei allegro? — domandò Camilla.

— Sì.

— Si direbbe che hai già dimenticato che devi partire.

— Io non parto, — rispose francamente il giovane.

— Come non parti?

— Non parto — soggiunse egli, spiccando chiaramente le sillabe, — non vado a fare il soldato.

— Ti metteranno in prigione! — esclamò Camilla fissandolo inquieta, chè indovinava il suo pensiero.

— A lasciarsi prendere! — egli mormorò guardando in aria.

— Carlo! — esclamò la giovane smettendo il lavoro, — tu scherzi!

— Scherzo?... Vedrai.

— Carlo! — riprese Camilla — tu non pensi a quello che dici! Tu non mi vuoi bene! Da quando in qua t'è venuta questa idea?

— L'ho sempre avuta.

— Non è vero!

— Come non è vero? — gridò Carlo voltandosi in tronco, e le diede una di quelle terribili occhiate che le facevano morir la parola sulle labbra. Camilla si rimise a sedere, appoggiò la fronte sulle mani, e mormorò con voce umiliata: — Abbi compassione di me.... non mi far soffrire.... dimmi che non dici davvero.

Egli le pose una mano sul capo in atto carezzevole, ma la ritirò subito e stette pensando. Tacque per qualche minuto anch'essa, assorta nella meditazione della nuova disgrazia che il disegno di Carlo le faceva prevedere; poi s'alzò, e appoggiando le mani colle dita intrecciate sopra una spalla del giovine, gli disse con tutta la dolcezza del suo cuore e della sua voce:

— Io ho capito quello che tu hai in mente, e... guarda, so anche chi ti ce messo quell'idea. —

Il giovane fece cenno di no.

— Non dir di no, Carlo, io non ti voglio metter male con nessuno; dico soltanto per farti vedere che certe cose non ti credo capace di pensarle. Tu mi vuoi bene, non è vero? —

Carlo accennò di sì.

— Dunque... un po' di pensiero di me, se è vero che mi vuoi bene, te lo dovresti prendere. Vorresti lasciarmi sola? Capirai bene che io non posso andare con te. Tu mi puoi dire che anche per andar a fare il soldato mi devi lasciare. Lo so anch'io, ma è un'altra cosa. Se vai a fare il soldato, io so dove vai e so anche quando torni; anno più, anno meno, se non seguono disgrazie, è sicura; ma se parti per un altro motivo... addio matrimonio; chi sa quando potresti tornare. E poi... dove andresti? Oh Dio mio, non mi ci far pensare; bisognerebbe bene che andassi in un altro paese; lo so dove vanno; passano i monti, ce n'è già stati anche da queste parti di quei che disertano; ma si son più visti? io sento dire che finiscon tutti male. E poi... se è per il sostentamento della famiglia, tu sai, che, grazie al cielo, anche se non ci fossi tu, per qualche anno non sarebbe una rovina; ma posto pure che s'avesse bisogno di te... a esser fuor di paese, mi pare che sarebbe la stessa. Perchè te n'andresti allora? Pel bene dei tuoi, o di me, no;... ma già l'hai detto per farmi paura, Carlo, non è vero?

— Ma sai, — rispose Carlo con un sorriso forzato, senza guardarla, — che si direbbe quasi che ci hai piacere ch'io vada a fare il soldato? Di' la verità, ci hai piacere?

— Piacere! Ma, Carlo! Possibile che tu non possa dirmi una parola senza farmi male al cuore? Non mi conosci ancora? Da quando mi hai dato la notizia, sette giorni fa, non ho più avuto un momento di pace, tu lo sai; non ho fatto che piangere e disperarmi... e poi guardami in viso, come mi son ridotta; vedi che non penso che a te, che ti sto sempre accanto, che appena ti vedo allegro mi consolo, e ogni volta che mi dici una parola trista, cambio di colore; e in ricompensa della vita che faccio, invece d'incoraggiarmi, di mostrarmi almeno un po' di compassione, mi dici che ho piacere che tu parta!

— Non ho detto questo, io.

— L'hai detto e poi... Dubiteresti di me forse? Vuoi ch'io ti prometta che per tutto il tempo che starai lontano non guarderò in viso nessuno, nemmeno per un momento, come se non avesse gli occhi? Io son capace di farlo, faccio magari un voto, io; tu non mi conosci ancora, vedrai. Io son donna da venir qui, in questo posto, tutte le sere, cinque anni di seguito, come se tu ci fossi sempre. Cinque anni? dieci, quindici anni ti aspetterei, senza lamentarmi; senza farti mai il più piccolo torto, nemmeno col pensiero. Ma purchè io sappia che tu sei in paese, che non giri pel mondo come un disperato, che non c'è nessuno che ti cerca, che fai il tuo dovere. Tutti gli altri vanno... Carlo, tu puoi capire quanto mi costa dire questa parola; eppure sento che è mio dovere di dirtela, e te la dico con tutto il cuore, senza esitare, anzi, guarda, con una certa soddisfazione, come se fosse la parola di una preghiera: Va tu pure! —

Quando siamo ostinati in un proposito, e specie in un proposito tristo, la parola di chi vuol persuaderci a staccarcene, quanto più è amorevole e dolce, tanto più indurisce l'ostinazione e inasprisce la resistenza.

— Va! va! — proruppe il giovane, scrollando le spalle; — s'ha un bel dire: Va, quando si sta a casa! bisogna sapere che razza di vita è quella che si va a fare!.... Va!

— Non t'impazientire, Carlo; sa Iddio se io m'immagino che sia una bella vita! Per quanto sia brutta, non lo sarà certo quanto pare a me; ma pure bisogna farsi animo. O che la vita che andresti a fare fuor di paese sarebbe meglio? Ce ne sono state dell'altre ragazze che discorrevano con giovani che dovevano andare soldati; ne conosco io più d'una, le conosci anche tu. Ebbene, i giovani sono partiti, sono stati lontani parecchi anni, qualcuno è anche andato alla guerra. Le ragazze li aspettarono; in tutto quel tempo vissero ritirate; finalmente quelli tornarono, si volevano più bene di prima, si sposarono, e ora vivono in pace, senza rimorsi. Io non credo che sarebbero così contenti, se fossero fuggiti, anche nel caso che avessero potuto tornare. E la vita del soldato non era mica più brutta allora che adesso.... E poi se tu fossi uno di quei deboli, come Pietro, il figlio del fornaio, che non ha potuto resistere, e dicono che è morto in una marcia, non direi; ma sei robusto, (lo guardò), e staresti anche bene.

— Sì, sì, tutte buone parole, — rispose il giovane con un leggiero sorriso; — ma non fanno al caso: io non parlo di fatiche, io non ho paura della fatica. Gli è questo qui, — e si picchiava sul cuore, — che non se la sente di fare il soldato. Io non son fatto per servire, ecco. I signori qui accanto m'avevano fatto la proposta di andare in città, e a che patti! Hai visto se ho accettato; è il mio carattere, cosa vuoi? coi superiori non me la dico, è impossibile. Figurati la schiavitù del soldato! Mi sgridano, rispondo, e sai cosa succede. Io so che vita è, me l'hanno detto, e poi tutti lo sanno; va una volta in piazza d'armi e lo saprai anche tu. Io sento che se vado non torno; non è una vita per tutti, tant'è vero che c'è di quelli che s'ammazzano dalla disperazione. Andrei a lavorare nelle miniere, piuttosto; andrei magari qui alla fabbrica di vetri, dove si sta tutto il giorno davanti alle fornaci, e si perde gli occhi; andrei dove tu vuoi, anche a crepare; ma a fare il soldato, no, non posso, è inutile, son fatto così: servire non è il fatto mio.

— Servire! — disse timidamente la ragazza; — io non so, ma... per quello che sento dire, e che pare anche a me, il soldato fatica e corre anche dei pericoli; ma non serve nessuno. Chi serve?

— Tutti! — gridò il giovane, — tutti serve!.... Chi serve! —

Camilla tacque un momento, e poi disse a fior di labbra, incertamente, come si dicon le cose sentite dire, più perchè ci son rimaste negli orecchi, che per averle capite:... — Serve il Re.

— Un'altra ora! — rispose Carlo, cercando in sè stesso una risposta; — il Re! Già, è sempre lì in caserma a far da protettore, il Re! È lì a farti far giustizia, quando ti maltrattano a torto; a farti dare del pane buono quando te lo danno colla muffa; e a far capire ai medici, quando ti curano, che sei carne di cristiano? Ne sa dimolto il Re!

— Io non so; ma ho anche sentito dire che fare il soldato... è un onore.

— Ah, povera te, un onore! L'onore è per quelli che comandano, e hanno i galloni d'oro e le tasche piene di quattrini; ma per il povero contadino che va lì a sgobbare quel tanto e poi chi s'è visto s'è visto, non c'è onore che tenga. Sai cosa c'è? C'è i ferri corti, cara mia; ecco quello che c'è. E poi... (qui abbassò la voce e riprese con accento molto significativo) tu non sai che vita fanno i soldati. —

La ragazza lo guardò un momento incerta, come se non avesse capito, e poi, abbassando gli occhi, mormorò:

— A me mi pare che chi vuole, può portarsi bene da per tutto.

— Già! Hai sempre una buona ragione da dire, tu! Tu accomodi tutto! Tu vedi tutto bello!

— E tu non vedresti tutto tanto brutto — rispose Camilla con una certa vivacità, — se non ci fosse chi ti fa vedere in quel modo!

— So di chi vuoi parlare, non è vero, e non dire una parola di più!

— Ma come vuoi ch'io parli allora? — proruppe essa con una voce, in cui si sentiva il tremito dell'indignazione; e intanto le si gonfiavano le vene del collo bianco e sottile. — Io ti dico quello che sento, quello che mi dice il cuore e che mi par il tuo bene, e tu vai in collera! Vuoi ch'io ti dica per forza quello che pensi tu? Comandami! minacciami! Ma col cuore non me lo farai dire, non lo dirò mai, mi ripugna... non posso!

— Ebbene! — disse Carlo con una voce che pareva tranquilla, ma con un viso che la fece tremare; — vado, te lo prometto, vado; ma... sentimi bene, te lo dico prima, e sta sicura che terrò la parola: io non sono uno di quelli che si lasciano mettere il piede sul collo, io ci ho del sangue nelle vene... mi conosci; ebbene, io, la prima volta che un superiore mi fa una prepotenza, o mi dice una brutta parola, o mi mette le mani addosso, fossimo anche in mezzo alla piazza d'armi, in mezzo alla strada, in presenza di cento persone, di te, del tuo Curato, dei tuoi parenti, di chi diavolo vuoi, com'è vero Dio gli spacco la testa col calcio del fucile, e segua quel che vuol seguire! —

Camilla si coperse il viso con orrore; egli la guardò di traverso, con quello sguardo di compiacenza bestiale che misura la ferita aperta dalla parola: ma quasi nello stesso punto, per uno di quei rapidi mutamenti del cuore che non sono rari in quelle nature violente, si commosse alla vista di quella poveretta che singhiozzava, come se il petto le si volesse spezzare.

— Camilla! — gridò con voce amorevole.

— Sì! — essa prese a dire singhiozzando, — vogliate bene a un giovane, consacrategli tutto il vostro cuore, soffrite, tremate, consumatevi per lui; tutto questo colla speranza che, quando egli si trovi in un momento difficile, vi dia la consolazione di vedere che ha bisogno di voi, che gli potete riuscir utile, confortarlo, incoraggiarlo; sì, illudetevi; quel momento verrà, farete quanto potrete per persuaderlo a non mancare ai suoi doveri: ebbene, allora, per ricompensa del vostro affetto, egli vi risponderà che vuol fare... — e soggiunse a fior di labbra — l'assassino! — e diede in uno scoppio di pianto più forte.

Carlo si chinò e la prese per una mano; essa approfittò di quel momento per gridargli con voce supplichevole: — Promettimi che andrai! — e l'afferrò per le braccia.

— Camilla! — esclamò egli, svincolandosi e allontanandosi rapidamente; — sono un disgraziato! —

Camilla fece cenno che si fermasse, Carlo scomparve; allora essa riabbassò il capo piangendo. In quel punto la scosse il suono d'una voce lieta e amorevole che domandava: — Cosa c'è?

— Ah! il signor Curato! — esclamò Camilla. — Ho tanto bisogno di lui, è buono, gli dirò tutto, mi farà coraggio, sia ringraziato il cielo! —

E corse verso il vecchio prete colla confidenza e colla serenità d'una bambina.

IX.

Carlo e Marco s'incontrarono due ore dopo in una strada del villaggio.

— Ho pensato una cosa, — disse Marco. — Sai in che mani t'hai a mettere per quell'affare?

— Che affare? —

Marco fece un atto come per accennare un paese lontano.

— Hai capito.... Ebbene, sai in che mani t'hai da mettere se vuoi uscirne bene? Te la do in cento a indovinare. Già non saresti il primo ch'è passato per quella strada.... ma in specie ora che il battibecco è più forte: se lui vuole, tra loro si scrivono di parrocchia in parrocchia, ti trovi al sicuro prima d'accorgertene. Tu devi andare da lui, dirgli il caso in cui ti trovi, e dargli una tastatina così alla larga, senza arrischiarti. Se vedi che cede subito, e tu batti, fin che il ferro è caldo; se fa l'indiano, avanti lo stesso, non è che una finzione per non compromettersi il primo; se poi nega, addio, è galantuomo, non ti tradisce, la peggio sarà di non averne cavato nulla.

— Ma di chi parli?, — domandò Carlo.

E l'amico fece intorno al capo un gesto buffonesco che voleva rappresentare un cappello da prete.

X.

Il Curato, che gli abitanti del villaggio chiamavano famigliarmente don Luigi, era un vecchietto d'una settantina d'anni, piccolo e nervoso, con due occhietti vivissimi, che leggevano nelle anime, — dicevano le divote, — come in un libro stampato; buon uomo e buon prete, indulgente in confessionale, allegro a tavola, di viso rosso, di capelli bianchi e di opinioni politiche tricolori; non diverso nella vita e nei modi dagli altri curati di quelle campagne; dai quali però era tenuto in pregio per una certa tintura di buone lettere, di cui aveva dato prova anni addietro in parecchi sonetti dedicati all'arcivescovo e lodati da un giornale della provincia come “fiori di buona poesia non meno commendevoli per la nobiltà della forma che per la robustezza dei concetti„. Lo sguardo pieno di benevolenza e la voce dolce temperavano la severità dei suoi lineamenti e la rigidezza della sua andatura che gli davano un po' l'aria di un maggiore giubilato. Ed era aperto e affabile con tutti, e tutti gli volevan bene; Camilla, in ispecie, la quale aveva preso con lui una grande domestichezza, perchè, stando di casa vicino alla chiesa, aveva occasione di vederlo spesso e di parlargli lungamente. Corse perciò da lui a dirgli ogni cosa, della leva, dei disegni di Carlo e delle sue paure, scongiurandolo che tentasse d'indurre il giovane a mutar consiglio, se non voleva vederla morir di dolore. Il curato le promise di fare quanto poteva, e soggiunse che avrebbe cercato Carlo egli stesso prima di sera.

Un'ora dopo Carlo picchiava all'uscio del prete.

Non sapeva ancora cosa avrebbe detto, non aveva neppur pensato al modo di cominciare, si sentiva in cuore una grande trepidazione. Entrò e si fermò in un angolo della stanza col cappello in mano.

Era una piccola stanza a terreno, allegra, piena di luce, con quell'aspetto particolare delle stanze dei curati di campagna, che fanno indovinare la chiesa accanto: le pareti bianche e nude, un crocifisso sopra la porta, un vecchio quadro, un vaso di dittamo sulla finestra, e un leggero odore d'incenso nell'aria.

Il Curato era seduto sopra un seggiolone davanti al tavolino e leggeva; quando vide comparire il giovane, fece un atto di sorpresa.

— Ho da parlarle, signor Curato, — disse Carlo.

Il Curato lo fece sedere. — In che modo può avermi prevenuto? — pensava intanto. — C'è sotto qualcosa. — E guardò attentamente Carlo, e gli balenò un sospetto, e risolvette di chiarirsene subito.

— Sento che sei chiamato al servizio militare, — disse.

— Sì signore, — rispose il giovane fissandolo.

— E quando parti?

— .... Partirei dopo la visita sanitaria, fra una diecina di giorni.

— E.... — domandò il Curato lanciandogli un occhiata scrutatrice — parti? —

Carlo non rispose, lo guardò. Il prete si confermò nel suo sospetto; e dopo aver guardato un po' il libro colle sopracciglia aggrottate, alzò il capo e disse con aria distratta:

— Dunque parti, e sei venuto a chiedermi un consiglio, non è vero?

— Lei m'ha capito.

— Credo d'aver capito, — rispose con serietà il prete, — e poi, pigliando tutt'a un tratto un accento benevolo continuò: — Sicuro... tu sei un bravo giovane, sei robusto, hai giudizio, farai il tuo dovere e te ne tornerai a casa contento. Non ti domando neppure se sei più che mai risoluto di mantenere la tua promessa a Camilla; sono anzi sicuro che, in tutto il tempo che starai lontano da casa, terrai una buona condotta e farai di tutto perchè, come ora, partendo, le porgi la mano di un buon figliuolo, così al ritorno essa possa stringere la mano d'un bravo soldato; dico bene? —

Il giovane, meravigliato, arrossiva e impallidiva, senza sapere che rispondere e a che partito appigliarsi. A un tratto gli tornarono in mente le parole dell'amico: “Se fa l'indiano, non è che una finzione per non compromettersi il primo„; e gli balenò un raggio di speranza. Si fece animo, e ruppe il ghiaccio d'un colpo.

— Ma io non vado a fare il soldato! — esclamò.

— Ah! — gridò il prete con un leggiero sorriso voltandosi a guardare verso la finestra.

— L'avevo detto, io! — pensò Carlo; — eccoci al punto.

— E cosa pensi di fare? — domandò il Curato, sempre guardando fuori.

— Io?... —

Stette un po' pensando e rispose in fretta: — Il mondo è largo. —

— Tu non sai una cosa — disse allora il curato, voltandosi verso Carlo, e sorridendo benevolmente, come se non avesse compreso affatto il significato delle sue ultime parole. — Non sai che io sono stato cappellano militare per cinque anni, dal cinquantaquattro al cinquantanove. Cinque anni filati, cappellano del primo reggimento di fanteria, brigata Re. È così. Sono stato anch'io mezzo soldato e te ne posso dire qualche cosa. È vero che d'allora in qua le cose son molto cambiate... e dicono in meglio. Ma credi a quello che ti dico io: non è una brutta, dura, scellerata vita che per i cattivi soldati. Per gli altri è un tutt'altro mestiere. Tutto sta a cominciar bene. Una volta che un giovane s'è messo in buona vista dei superiori, è sicuro del fatto suo: non sente più il peso della disciplina. Ma bisogna essere allegri, franchi, leali. I superiori perdonano tutto a quelle belle faccie aperte di bravi soldati e di galantuomini, che hanno magari il diavolo in corpo e ne fanno una grossa ogni tanto; ma che a guardarli, bisogna dire per forza: — Ecco un uomo! — In tutti i reggimenti ce n è un certo numero di questi lestofanti, che fanno dannar l'anima ai superiori, e che pure, ogni volta che la sgarrano, tutti chiudono un occhio. In cinque anni ne ho conosciuti molti. Mi ricordo, fra gli altri, d'un certo Farinelli, di cui gli ufficiali vecchi di quel reggimento debbono ancora ricordarsi. Era un pezzo di giovane più alto un palmo di te, largo così, che s'era fatto mettere a doppia razione.... Era la scapestrataggine incarnata! Scappava di notte, rischiava la vita, metteva sottosopra la compagnia; ma era tanto buon figliuolo, che si faceva ben vedere da tutti. In marcia portava gli zaini di quelli che non ne potevano più; in caserma cantava sempre, saltava come un capriolo, rompeva una pietra con un pugno; se c'era una rissa, era quello che la faceva finire a scappellotti; sempre il primo a gettarsi negli incendi, sempre il primo a cacciarsi nell'acqua per salvare un compagno, furbo, sfrontato, pronto a rispondere, che nessuno gli poteva tener testa; incapace di mentire se l'avessero coperto d'oro; un soldato modello in servizio, un demonio fuori. Aveva il vizio di bere. Ma quando aveva bevuto, stava in riga così impalato, che i superiori, invece di punirlo, bisognava che ridessero. Tutto il reggimento lo conosceva. Il suo capitano diceva che con cinquanta mascalzoni come lui si sarebbe sentito di dare le pacche a un battaglione d'austriaci. Mi ricordo che una volta il colonnello, ch'era una bella figura di vecchio soldato, con una cicatrice sulla fronte, passando in rivista il reggimento, si fermò a guardare quel bel giovane ardito che lo fissava con due maledetti occhioni pieni di fuoco, e non potè trattenersi dal dirgli: — Ma sai che hai un gran bel muso di soldato, tu! — Indovina un po' cosa gli rispose quel malanno? — E'l so a facesia gnanca, sor coronel — (E il suo non scherza nemmeno, signor colonnello). — E il colonnello restò un momento stupito, ma poi rise e non disse nulla. Quelli son soldati! Ce n'era poi degli altri, come ce n'è sempre, affatto diversi, proprio l'opposto; ma non meno bravi soldati per questo. Soldati tranquilli, che passavano i loro cinque anni senza farsi sentire, come ombre; il primo giorno come l'ultimo; sempre i primi a mettersi in riga, sempre i primi a rientrare in quartiere, mai una macchia sul cappotto, mai una parola più alta dell'altra, mai un soldo di debito sulla massa, mai malati, mai di cattivo umore, soldati che in cinque anni non ricevevano nè una consegna nè un rimprovero, e che il comandante della compagnia non si sarebbe accorto che c'erano, se non ci fosse stato il loro nome sui ruoli; giovani che parevano nati con la divisa addosso e col fucile in mano, e che dovessero fare i soldati per tutta la vita. Mi ricordo d'un capitano che ne aveva una decina nella compagnia e che mi diceva: — Se io avessi sempre una compagnia tutta di soldati come quelli, vivrei vent'anni di più. In parola d'onore, se mi domandaste a chi voglio più bene, a quei ragazzi lì o ai miei figliuoli, sarei imbarazzato a rispondere. Che cosa te ne pare?

Carlo ascoltava con la faccia bassa e pensierosa.

— E posso parlare, vedi — continuò il curato — perchè i soldati piemontesi di quel tempo, non dico per vantarmi, ma li ho conosciuti proprio dentro. Allora era un altro par di maniche. Anche soldati avevano religione e si confessavano. Venivano al servizio colle medaglie benedette ai collo, eran giovani semplici, alla buona, forse un po' di grossa pasta; ma per quello che è tempra d'uomini, (e batteva colla nocca dell'indice sopra un calcafogli di pietra) duri come questo. Molti venivano a farmi le loro confidenze. Un buon cappellano, allora, serviva a qualche cosa. Ce n'era di quelli che, nei primi giorni, venivano a dirmi che non potevano reggere a quella vita. — È inutile — dicevano — il coraggio ci manca; lontani da casa, questa disciplina, senza amici, per tanto tempo, ci prende la disperazione. — E io rispondevo sempre: — Coraggio, figliuoli. Ve ne prego in nome della vostra famiglia, dei figliuoli che avrete un giorno, del paese in cui siete nati, del Re che vi ha dato questa divisa, fatevi coraggio. Voi adempite un grande dovere. Non c'è di doloroso che i primi mesi. Quando sarete vecchi, sarete altieri di poter dire che siete stati soldati; degli amici ne troverete, vi abituerete alla disciplina, sentirete meno le fatiche. Un po' di forza e di pazienza per un altro mese, e vedrete. — E volevo che lo promettessero, lo promettevano e se ne trovavano contenti. Altri si sfogavano in confessione contro certi superiori che non li potevano vedere e li mettevano al punto di fare uno sproposito. E io ripetevo sempre: — No, figliuoli, non dite, non pensate queste cose. Non c'è superiore che possa volervi male. È un malinteso. Se qualcuno vi perseguita, è perchè v'ha giudicato male. Fatelo ravvedere. Fate il vostro dovere, e guardate sempre il superiore in faccia, con rispetto, ma colla testa alta, coll'anima negli occhi, senza rancore, e parlategli col cuore in mano, come a vostro padre. Vedrete che cambierà pensiero e vi renderà giustizia. — E quanti mi vennero poi a ringraziare di questi consigli! Venne una volta un soldato congedato apposta per dirmi che il suo capitano, che li aveva sempre trattati male, lui e altri sette o otto che partivano in congedo insieme.... ebbene, che quel capitano, che tutti dicevano ch'era un cane, gli aveva detto, il giorno ch'erano andati a salutarlo a casa: — Qualche volta vi sarò parso un uomo bestiale, che urlavo e castigavo a torto; ma se ve ne ricordate, era sempre nei giorni di pioggia, e la cagione eccola qui: è questo lavoro che ho nel petto, che mi hanno fatto i tedeschi a Novara — ; e senz'altro, scoprendosi il petto, aveva mostrato un'orribile ferita che lo martoriava da dodici anni. E allora tutti si erano ricreduti e gli avevano domandato scusa. Bisogna andare adagio, caro mio, a giudicare e a condannare. Mi ricordo sempre d'un soldato di Saluzzo, che era perseguitato da un ufficiale, e lo odiava a morte, e diceva, quando scoppiò la guerra, che alla prima occasione si sarebbe fatto giustizia. Ebbene, si trovarono per l'appunto sul campo di battaglia insieme, l'uno accanto all'altro, in un momento che fioccavano le palle. Ora senti che cosa è avvenuto. A un certo punto, il soldato si sente dare dall'ufficiale una gran piattonata sulla testa. Era troppo, perdio! Il sangue gli monta alla testa, caccia un urlo di rabbia, e si volta, acciecato, per dare un colpo di baionetta.... Cosa vede? L'ufficiale pallido che barcollava cercando dove appoggiarsi. Una palla l'aveva colpito nel fianco mentre gridava avanti colla sciabola in aria, e la sciabola, cadendo, aveva battuto sulla testa del soldato. — In un momento — mi raccontò lui stesso — mi fuggì tutto l'odio dal cuore. Lo afferrai, lo tenni un momento su, poi lo distesi sull'erba, m'inginocchiai per premergli la mano sulla ferita. Ma era inutile. La ferita era mortale. Lui mi guardava, senza lamentarsi, cogli occhi larghi e fissi. Pareva che volesse domandarmi perdono dei torti che m'aveva fatti. — Tenente — io gli dissi — si faccia coraggio! Sarà una cosa leggiera. — Ma sì! gli occhi gli si velavano. E mentre mi chinavo per guardar la ferita, lui mi mise una mano sulla testa e me la fece scorrere sulla guancia fino alla spalla, come per farmi una carezza. Io alzai la testa e gridai: — Tenente! — Era morto. E allora mi parve d'averlo sempre amato! — Che ne dici eh? Son soldati questi? Sono uomini da fargli di cappello, sì o no?

Carlo rimaneva sempre immobile, cogli occhi fissi sul pavimento, sforzandosi, ma inutilmente, di far parere che la sua serietà non fosse altro che malumore.

— E li ho visti alla prova nel cinquantanove, quei giovani — riprese il curato dopo aver dato un'occhiata alla finestra, per mostrare che non s'occupava dell'impressione che le sue parole avessero potuto produrre. — Allora c'erano anche i provinciali, uomini dai ventisei ai trentadue anni, la maggior parte con moglie e figliuoli. Ma che soldati! Li ho visti passare, il giorno di San Martino, quando il reggimento sfilava davanti al colonnello per andare al fuoco. I giovani erano più spensierati, i provinciali un po' più tristi; ma avevano tutti il cuor saldo ad un modo, e gridavano un: — Viva il re! — caro mio, che sarebbe bastato quello a far capire che la battaglia non si poteva perdere. Il colonnello diceva di tanto in tanto: — Coraggio, miei bravi ragazzi! Coraggio, tutto andrà bene. — Io li benedivo dentro di me, col cuore un po' stretto, pensando a quanti non sarebbero più tornati. Poco dopo cominciarono a fischiare le palle. Non voglio far lo spaccone; dico la verità: quando sentii i primi fischi, che parevano grida di gatti arrabbiati, mi mancarono le gambe. Ma subito mi feci forza. Misi la mano sotto la tonaca, strinsi il crocifisso che avevo sul cuore e mi dissi: — Don Luigi! Questo è il gran momento per far vedere che un buon prete è anche buon soldato. — Dopo pochi minuti, cominciarono a farsi i primi vuoti nelle file. Cosa mi toccò di vedere, santissimo Iddio! Si vedevano quei poveri giovani, mentre la compagnia andava avanti, fermarsi tutt'a un tratto, dare un giro, così, colle braccia per aria, e cader giù d'un colpo, col fucile ancora stretto nel pugno. Bisogna esserci stati per capire quello che si prova, l'animo che ci vuole, quando si vedono là nel grano, nell'erba, in mezzo alle siepi, dentro ai fossi, quelle faccie bianche bianche cogli occhi fissi, e daper tutto armi e cheppì sparpagliati e sangue. Principiai a correre dagli uni e dagli altri. Mi chiamavano. — Qui, qui, cappellano. — Son qui, — rispondevo — son qui, figliuolo. — Mi afferravano per le mani, mi facevano inginocchiare in terra, non volevano più che mi scostassi. Io facevo coraggio ai feriti, benedivo i moribondi. Che morti ho vedute, caro mio! che serenità! che rassegnazione! Ce n'eran di quelli che, prima di spirare, facevano ancora un segno in aria, colla mano, così, in segno d'addio al reggimento che s'allontanava. Alcuni mi vollero lasciare un ricordo. Ho qui in una scatola un anello e una ciarpa rossa; un contadino del Monferrato, povero giovane, voleva darmi i suoi orecchini, e s'andava toccando le orecchie colla mano che non gli serviva più, per levarseli. A momenti non sapevo più dove mi fossi. Le lagrime mi oscuravano la vista, avevo le mani bagnate di sangue, correvo qua e là come un insensato. Ma non ne ho mica visto nessuno sai, dare indietro! C'eran dei bersaglieri feriti, che si tenevano abbracciati ai tronchi degli alberi, con uno sforzo disperato, per vedere il loro battaglione che combatteva sulle alture. Ho visto un artigliere, un pezzo di giovanotto biondo, ferito in una spalla e scamiciato, che s'appoggiava al muricciolo di un pozzo, e per dar coraggio ai soldati che passavano, faceva l'atto di spruzzarli del proprio sangue, come per benedirli, ridendo e gridando: — Prendete; è sangue versato per la patria; vi porterà fortuna! — Ho assistito un povero soldato di cavalleria, che era agli estremi, e mi lasciò i suoi ultimi ricordi. Aveva in tasca una lettera per sua moglie, con dieci lire dentro, che il giorno prima voleva impostare a Lonato, e non aveva potuto. Me la diede e volle che gli promettessi che l'avrei mandata. Quando l'ebbi promesso, parve più tranquillo. Soffriva molto. Era bianco come questa carta, e di tanto in tanto metteva un lungo lamento. Fece un ultimo sforzo per accennare che mi chinassi. Io mi chinai e misi l'orecchio vicino alla sua bocca. Allora mi disse con un filo di voce: — Se mai avesse occasione di passare per il mio paese... sono di Castelnuovo Calcea... mi chiamo Antonio Calvi... mi farebbe una grazia... cercherebbe mio padre... e mia moglie... se domandano come son morto... — e dicendo questo mi mise un braccio intorno al collo per sostenersi — dirgli che son morto da buon soldato... con coraggio... che ho patito... quasi niente... e che quando sarà grande... Beppino... il mio povero bimbo — e poi soggiunse con uno sforzo: — glielo dicano. — A questo punto lasciò andar giù il braccio, battè del capo indietro, contro un sasso, e addio... tutto fu finito. Ha inteso? Questi sono giovani da prendersi ad esempio, anime forti e grandi da portarne il nome nel cuore per tutta la vita!

Carlo continuava a tacere, tenendo il mento sul petto; ma il tremito delle mani con cui faceva girare il cappello, mostravano che qualche commozione, o almeno una forte lotta di sentimenti opposti gli si doveva esser destata nel cuore.

— Ma non ho mica visto soltanto delle cose tristi — continuò il curato, passandosi una mano sugli occhi — ... chiacchero un po' troppo; ma è un difetto dei vecchi che si può perdonare. Tu avrai sentito parlare di Giovanni Bassi, quello che era in artiglieria, che si distinse tanto nella guerra del 60 e 61, al Garigliano; che si offerse spontaneo a portare un ordine del generale sotto una tempesta di palle, e poi prese una bandiera, per cui gli diedero la medaglia d'oro e tutte le gazzette ne parlarono. Lo avrai sentito nominare, è uno che fa onore qui al paese; ora son sei anni che è in Francia, e nel villaggio non c'è più che suo cugino, il carrettiere. Ma tu non puoi ricordarti di quando tornò a casa, dopo la guerra. Ebbene, è stata una scena che tutti quelli che vanno a fare il soldato bisognerebbe che l'avessero vista. Qui ci aveva lasciato suo padre vecchio, la moglie e una bambina di due anni che si chiamava Luigina, ed era un amore. Era partito nel 58. Una volta partito, venne una guerra dopo l'altra, non potè più avere permessi, non tornò che nel 62 a servizio finito. La notizia del suo gran fatto la diede il sindaco. Il padre e la moglie vivevano da un pezzo in grande ansietà per mancanza di notizie. Una bella mattina gli capita a casa il sindaco: stavano in faccia a San Giacomo. Entra; li trova tutti e due, al solito, tristi, e dice: — È molto tempo che non avete notizie di Giovanni? — Quelli s'alzano spaventati e rispondono — Son due mesi! — Ebbene — dice il sindaco — il vostro Giovanni.... — È morto! — gridano tutti e due. — Che morto! — risponde il sindaco. Cento volte vivo, grazie al cielo! Leggete un po' questa gazzetta. — La donna apre la gazzetta, c'era un segno rosso, comincia a compitare.... figurati la meraviglia e il piacere! C'era tutto per disteso, nome e cognome, colla relazione del fatto, medaglia d'oro, ordine del giorno e che so io. Quelle due povere creature, da principio, rimasero come stupide, e poi parevano matti. Pensa un po'! La medaglia d'oro che non la danno proprio che ai più bravi tra i più bravi, una cosa grande, tanto che un soldato colla medaglia d'oro è quasi come un principe, che tutto l'esercito lo conosce e non c'è nessuno, in fatto d'onore, che sia al di sopra di lui. La notizia si sparse subito da per tutto. Tutti correvano a vedere il padre e la moglie di quel gran soldato. Venivano persino i villeggianti qui dei dintorni, e mandavano dei regali. La casa dei Bassi era piena d'ogni ben di Dio, e amici di qua e amici di là, tutti li portavano in palma di mano. Era un trionfo continuo. Poi vennero le lettere di lui, poi le comunicazioni delle Autorità e poi la notizia che la classe del trentasette era mandata a casa. Immagina quel buon vecchio, quella povera donna che da cinque anni non vedevano più il loro Giovanni! Finalmente arrivò l'ultima lettera che diceva: tal giorno, tal ora. Fu una festa. Il Bassi doveva arrivare alla stazione della strada ferrata, che allora era a un miglio di qui. S'accordarono tutti d'andargli incontro. Venuto quel giorno, si radunò gran gente, andarono a prendere il vecchio, la donna, e la Luigina, che non conosceva suo padre, si può dire, e s'era fatta grande, aveva sette anni, e una signora l'aveva vestita come una principessa; e tutti insieme s'incamminarono verso la stazione. C'erano più di duecento persone, colla musica, e una bandiera; c'era il sindaco, c'erano dei signori, e io accompagnavo la sposa che pareva smemorata, e piangeva, e le compagne le dicevano: — Eh, Teresina, non te lo saresti pensato quando facevate all'amore sotto l'olmo di San Giacomo! — Alla stazione lasciarono entrar tutti dentro, fin sulle rotaie. Chi aveva una bottiglia per essere il primo a dargli da bere, chi aveva portato dei sigari, chi dei mazzetti, e la Luigina aveva intorno un cerchio di gente che l'accarezzava, e le diceva: — Or ora vedrai tuo padre per la prima volta. — Finalmente si sentì il fischio: dovettero tener su il vecchio, che gli mancavan le gambe, e il sindaco prese per il braccio la Teresina che si sentiva male. Il treno arriva, si ferma, scendono quattro o cinque soldati, tutti li circondano — dov'è Giovanni Bassi? Non è venuto? dov'è andato? Bassi! Bassi! — Eccolo! si sente gridare — e s'affaccia al vagone lui in persona, un gran soldato nero, bello, allegro, colla medaglia d'oro sul petto; salta giù, riconosce, manda un grido, afferra in una bracciata padre e moglie e lì comincia a tempestar baci sulle due teste, che pareva matto, mentre suonava la musica e tutti gridavano e si pigiavano per arrivare a toccarlo. Quando a un tratto si sente tirare per la tunica, si volta, vede un visetto e due manine che si sporgono.... Non la riconosce subito. — Luigina! — gridano tutti. Io ero stato sbalzato indietro, non vidi nulla; ma sentii un grido che m'andò al più profondo dell'anima e che non ho mai più dimenticato; il grido della gioia più grande, più meritata, più santa che possa provare il cuore dell'uomo; la gioia del soldato valoroso che ritorna in seno alla sua famiglia e può dire ai suoi figliuoli: — Su questo petto contro cui vi stringo, la patria ha messo un segno della sua gratitudine e della sua ammirazione.

Detto questo, lanciò uno sguardo di sottocchio a Carlo, e vedendolo commosso, pensò di mandarlo fuori coll'impressione viva ed intera delle sue parole. — Ora va — gli disse amorevolmente, sospingendolo verso l'uscio — e torna a salutarmi prima di partire.

Carlo, commosso vivamente, tentò di metter fuori qualche parola tanto per salvare le apparenze dell'amor proprio; ma non gli riuscì che di balbettare qualche sillaba senza significato; si lasciò spingere fino alla porta, non potè resistere a un impulso del cuore che gli fece dire: — La ringrazio — e poi uscì bruscamente, umiliato e stravolto.

— La buona semenza nel cuore — disse tra sè il curato chiudendo la porta — io te l'ho messa; il resto è affar tuo.

XI.

Carlo si fermò in mezzo alla strada, convulso, e rimase qualche minuto in uno stato di tremenda incertezza. In quei pochi minuti si decise la sorte della sua vita. La prima idea che gli venne fu di correre da Camilla e gridarle: — Sì, andrò a fare il soldato, son pentito, sono un altro, perdonami quello che t'ho fatto soffrire e non si parli più del passato. — Ma non aveva ancor finito di dire a sè stesso quelle parole, che già la rabbia di sentirsi vinto, il suo orgoglio selvaggio, e quella feroce voluttà del dispetto che era dominante nella sua natura, avevano preso il di sopra. Stette ancora un momento piantato là, ansante, come se avesse fatto una lunga corsa, e poi disse risolutamente: — No, no, no! Non son che parole! Son tutti d'accordo per volermi alla catena! È inutile, è un avversione del sangue, non posso, non sarà, dovessi ridurmi a vivere come un bandito o come un cane. — E tornò difilato alla bottega dell'amico.

Questi, appena Carlo ebbe finito di riferire i discorsi del curato, diede una scrollata di spalle, tirò fuori dal cassetto un giornale spiegazzato e sucido, lo spiegò sul tavolino e: — Senti questo — disse — io non ti domando altro che di sentir questo, e poi farai quello che vorrai.

E cominciò a leggere:

“.... Noi abbiamo veduto cogli occhi nostri fino a quale eccesso di furore bestiale possa trascinare l'uomo codesto zelo insensato di disciplina, che si pone fra le più elette virtù militari. Un reggimento di fanteria tornava da una esercitazione campale faticosissima; i soldati digiuni cadevano stremati di forze; invano i superiori si scalmanavano per farli andare innanzi. Allora il colonnello radunò tutti gli ufficiali e disse loro: — Assolutamente, all'ora tale, bisogna arrivare; si servano della sciabola. — E gli ufficiali si precipitarono tutti ad un tempo sopra i soldati, gridando: — Animo! Su! Avanti! — pestando i piedi e agitando le sciabole nude. Pochi soldati poterono alzarsi; i più rimasero stesi in terra. Allora le sciabole fendettero l'aria, e cadde una tempesta di piattonate sulle schiene, sulle teste, sulle braccia di quei poveri infelici che chiedevano pietà; e colle piattonate i calci, e coi calci gl'impropèri soliti: — Poltroni! Canaglia! Carogne! — Risposero qua e là grida di lamento e di sdegno; e gli ufficiali a tirar fuori i taccuini, a notare i nomi, a minacciar ferri, consiglio di disciplina, reclusione, galera. Alcuni soldati, levatisi a stento, stramazzavano daccapo, e su questi si precipitavano i medici, gridando: — Impostori! — e scotevanli e strascinavanli fin che s'accorgessero che avevano il viso livido e le membra irrigidite. Altri, ripreso l'andare, barcollavano sotto l'immane peso dello zaino, e ingombravano la strada ai compagni, così che gli ufficiali indispettiti finivano per liberarsene, buttandoli nella polvere con un urtone. Altri, fermatisi per asciugarsi il volto sanguinoso, toccavano nuove percosse dagli ufficiali, che vedeano in quell'atto una protesta. Il reggimento, così camminando, arrivò a una porta della città. Ne uscì in quel punto un aiutante di campo a cavallo e s'avanzò di carriera verso il colonnello. Dopo un istante si propagò un grido fra gli ufficiali: — Il principe! Il principe! — Il reggimento fu fermato e schierato in un baleno; i soldati ch'erano indietro, cacciati innanzi a spinte, quelli stesi in terra afferrati pel collo e tirati su. Fu dato il comando: — Presentate le armi! — Il principe si avanzò, bello, fresco, allegro, seguito da cinque ufficiali che guardavano le signore alle finestre; diede uno sguardo di compiacenza alle prime compagnie, fece un complimento ai primi capitani; e non era ancora arrivato davanti al mezzo del reggimento, quando di fila in fila corse una voce sommessa, come un ordine ripetuto, e dopo un istante, da quei mille petti sfiniti, da quelle mille bocche arse, uscì un grido lungo, stanco, straziante, accompagnato da un sorriso di sarcasmo amaro, un grido che aveva qualcosa della risata d'un pazzo e del rantolo d'un affogato: — Viva il principe! — Il colonnello fu invitato a pranzo....„

Arrivato qui, ripiegò il foglio e disse: — Hai capito? I preti ti danno delle chiacchiere; io ti do delle verità sacrosante e stampate. Che cosa te ne pare?

Carlo non rispose, e rimase per lungo tempo immobile colle braccia incrociate sul petto e cogli occhi fissi sul giornale. La sua risoluzione, però, non era ferma ancora quanto egli voleva far credere a sè stesso. Qualche cosa di bello e di grande gli era passato nell'anima ed egli se ne sentiva ancora sconvolto e quasi sgomentato.

XII.

Ma la parola fredda, sarcastica e perfidamente ostinata di Marco non tardò a vincere le ultime resistenze del suo cuore. Per più giorni, quello gli stette accanto, continuando a stillargli il veleno nell'anima; lo conduceva la sera a passeggiare per i viottoli dei monti intorno al villaggio; e là gli tesseva flemmaticamente, l'un dopo l'altro, lunghi racconti di prepotenze, di sevizie, di disperazioni, e di soldati impazziti o suicidi, esponendo con voce compassionevole mille particolari irritanti, fin che strappava dalla bocca della sua vittima un grido di sdegno o di rabbia, e allora soggiungeva in tuono di consolazione: — che non erano però casi di tutti i giorni. — E così Carlo s'andava fortificando sempre più nella risoluzione di sottrarsi a qualunque costo alla leva. Ma quando fissava la mente nel pensiero della diserzione, l'idea delle difficoltà, dei pericoli e dell'incertezza del suo avvenire lo spaventava. E una sera non potè trattenersi dal dirlo all'amico, col quale, fin allora, s'era mostrato sempre fermo e tranquillo nel proposito di disertare. Passeggiavano per i fianchi d'un monte; il sole era tramontato; nessuno dei due parlava. Carlo guardava sotto, nella valle, il suo piccolo villaggio, dove cominciava a brillare qualche lume, e da cui gli veniva all'orecchio un gridìo confuso di ragazzi. Il pensiero che tra pochi giorni avrebbe dovuto dire addio, forse per sempre, a quella valle, a quelle case, a Camilla, a tutte le memorie della sua famiglia e della sua infanzia, gli strinse il cuore tutt'a un tratto con una grande violenza; si fermò; mise un sospiro profondo, e passandosi una mano sulla fronte che gli bruciava. — Eppure — esclamò con voce commossa — partire... abbandonar tutto, tutti... andare... chi sa dove... chi sa per quanto tempo... solo per il mondo... inseguito... ah! è troppo dura, sento proprio che è troppo dura! —

Marco lo guardò e non rispose.

Si rimisero in cammino.

Fatti alcuni passi, l'amico brontolò con un accento ostentato di noncuranza, come se dicesse una cosa affatto indifferente:

— Non ci sarebbe mica bisogno di girare il mondo.

— In che maniera? — domando Carlo fermandosi, in atto di seria curiosità.

Marco lo guardò fisso e poi gli domandò alla sua volta: — Sei un uomo?

Carlo fece un gesto.

— Ebbene — disse Marco, e mettendogli la bocca all'orecchio, pronunciò alcune parole sommesse.

— Mai fin ch'io viva! — gridò Carlo tirandosi indietro bruscamente e facendo un atto vigoroso di rifiuto.

— Mai. — rispose pacatamente l'amico — è una parola presto detta. La cosa merita qualche riflessione. Non si tratta mica della vita. Io ho creduto di darti un suggerimento d'amico. Mi pare che sarebbe un mezzo d'accomodar tutto. Pensaci. Del resto, vedi, io me ne lavo le mani. Nelle peste ci sei tu in fin dei conti, non ci sono mica io.

E continuarono a scendere, verso il villaggio, in silenzio; Marco tranquillo; ma Carlo profondamente agitato.

— Potrei contare sopra di te? domandò questi, con una voce che non pareva la sua, quando furono sul punto di separarsi.

— Tutto quello che può fare un buon amico e un uomo d'onore — rispose Marco mettendosi una mano sul petto — ti prometto che lo farei.

Carlo gli fissò negli occhi un lungo sguardo, gli strinse la mano e disparve.

XIII.

Passaron cinque giorni che furono per Camilla un'angoscia continua. Carlo passava una gran parte della giornata coll'amico; con lei parlava di rado e poco; ma incontrandola le porgeva sempre la mano o le faceva una carezza: cosa insolita. Essa però non si lasciava illudere. In quegli atti affettuosi le pareva di scorgere come un bisogno ch'egli sentisse di farle coraggio e di darle forza a sostenere la prova; non gli vedeva più nel viso la sospensione d'animo dei giorni passati; gli vedeva la trista fermezza d una risoluzione presa. Egli passava molte ore solo, seduto all'ombra d'un albero, pensando, colla testa appoggiata sopra una mano; parlava spesso e gestiva da sè; e qualche volta contraeva il volto, come all'apparizione improvvisa d'una immagine orribile. Camilla, tremando, ne seguiva cogli occhi ogni passo e ogni gesto; appena egli usciva di casa, correva nella sua camera a vedere se ci fosse nulla di mutato; lo fermava a volte sull'uscio, gli teneva dietro, si faceva scacciare, lo cercava, lo chiamava. — Cosa pensi? — gli domandava dieci volte l'ora. Ed egli rispondeva sempre; — Nulla! —

Venne la vigilia del giorno della visita: il dì appresso Carlo doveva andare in città, al Consiglio di leva, per esser visitato dai medici. La mattina, appena alzato, era un po' più inquieto e un po' più pallido del solito. Uscì per tempo, ritornò poco dopo, armeggiò qualcosa nella sua camera, e uscì daccapo. Camilla corse per vedere; la porta della camera era chiusa; essa pensò che avesse preparato i suoi vestiti per partire. Non c'era più dubbio: voleva disertare nella notte. Lo rivide qualche ora dopo, immobile in mezzo a un campo, colle braccia incrociate sul petto; lo vide un'altra volta nella strada coll'amico; sull'imbrunire tornò a casa. Camilla lo fermò accanto alla porta, lo afferrò per le mani, e gli disse a bassa voce, risoluta, con un accento in cui si sentiva tutto lo strazio dell'anima sua: — Carlo, io non posso più vivere così! Dimmi che farai il tuo dovere! Non mi ridurre alla disperazione! Te ne scongiuro, parla, dimmi cosa pensi!

— Nulla.

— Non è vero! Tu vuoi fuggire!

— No!

— Sì, lo capisco, lo so, tu vuoi fuggire stanotte! Tu sei senza pietà! Tu vuoi farmi morire!

— Zitta! — mormorò Carlo guardando intorno.

— Non posso tacere, ho bisogno di parlare, se ho da morire non voglio morire tacendo! Carlo! — e cadde in ginocchio — io non mi alzo di qui se tu non mi giuri prima che non m'abbandoni, che andrai in città, che farai il soldato, te ne scongiuro, in nome del bene che ti voglio, in nome di tuo padre, di tua madre, di Dio!

— Lo giuro, — disse Carlo, facendole cenno che abbassasse la voce.

— Lo giuri? — gridò Camilla balzando in piedi, e mettendogli le mani nelle spalle, — giuralo un'altra volta.

— Lo giuro.

— Giuralo per tua madre!

— Lo giuro per mia madre, per mio padre, per chi vuoi, centomila volte; che cosa t'ho da dire di più? —

Camilla lo guardò fisso, lasciò cadere le braccia e mormorò in accento di profonda costernazione: — Non ti credo, hai qualche cosa negli occhi che non mi lascia credere. Va! — gridò con un impeto improvviso, dando in uno scoppio di pianto. — Sei un tristo! Sei un uomo senza cuore! Va! Va pure! Lasciami morire!... Ah no! no, Carlo, fermati! per pietà! — e lo fermò e gli gettò le braccia al collo; — perdonami! Io non posso più vivere così! Abbi compassione della tua Camilla!

— Per quanto ho di più sacro al mondo, Camilla, — esclamò Carlo, sciogliendosi da lei e allontanandosi; — ti giuro che non fuggo! —

Camilla senza badare a quest'ultime parole, colta all'improvviso da un'idea, si ravviò i capelli, si asciugò gli occhi, e corse difilata alla casa del Curato. Entrò, si gettò ai suoi piedi; gli raccontò ogni cosa, concluse: — Sono nelle sue mani, salvi me dalla disperazione e lui dalla rovina. —

Il Curato pensò lungamente prima di rispondere; poi domandò se Carlo era andato a casa: Camilla rispose di sì. — Allora va, — disse, — e vedi di non lasciarlo uscire per un'ora; al resto ci penso io. — Camilla uscì di corsa. Il Curato prese il cappello, andò dal maresciallo dei carabinieri ch'era un vecchio e franco soldato, e lo pregò amichevolmente di far guardare la casa di Carlo durante la notte, e gliene spiegò la ragione. Il maresciallo, mettendo fuori una grossa voce (non la sua naturale, ma una artefatta che usava solamente in servizio), chiamò due carabinieri, diede l'ordine brontolando, e poi soggiunse tra sè, accendendo la pipa: — Eppure il cuore me lo diceva che un giorno o l'altro avrei dovuto aver da fare con quella faccia proibita.

XIV.

Erano le nove di sera. La famiglia di Carlo e di Camilla stava in una piccola stanza a terreno, intorno a una tavola; Camilla era seduta in un canto, dove arrivava appena il lume d'una lucerna, che serviva per tutti. Carlo era nella sua camera; una piccola camera a terreno nella casa dei padroni, che si trovava dirimpetto a quella dei contadini, dove stava Camilla, e c'era l'aia framezzo. La poveretta, benchè il Curato non le avesse detto che cosa intendesse di fare per distogliere il giovane dalla sua risoluzione, pure confidava. Si affacciava tratto tratto alla finestra, la nebbia era fitta: non si vedeva nè stelle, nè campagna; la sola finestrina illuminata della stanza di Carlo rompeva l'oscurità. Camilla la guardava fissamente, senza quasi batter palpebra, e ora le pareva che s'allargasse come la bocca d'una grande fornace, e si movesse verso di lei; ora la vedeva rimpiccolirsi fino a parere appena un punto luminoso, che s'andava allontanando. Tutto era quieto nell'aria, pei campi, in ogni parte; non si udiva che qualche rara voce lontana, o un tintinnìo di sonagli che mandava qualche tardo armento dalla via.

A un tratto gli parve di sentire un passo sull'aia; guardò attentamente, e vide in fatti muoversi qualcuno. Le balenò il sospetto che fosse Carlo, fece un passo come per slanciarsi fuori; ma s'accorse nello stesso punto che l'uomo andava verso la casa, e disse tra sè: — È il Curato! — e respirò. Dopo qualche momento vide' due ombre nere disegnarsi sulla parete della stanza di Carlo, e ripetè: — È lui! —

Era invece Marco.

Camilla si rimise a sedere nel suo cantuccio dicendo ai suoi parenti: — il Curato è andato a trovar Carlo. —

I parenti che avevano letto anch'essi in viso a Carlo il pensiero di qualche diavolerìa, benchè non se ne curassero gran fatto, risposero: — Bene, purchè riesca a mettergli la testa a segno. —

Dopo un po' s'alzarono tutti insieme e si congedarono da Camilla, dicendole: — Se viene il Curato fallo entrar tu, e digli che siamo andati a letto, che s'era stanchi, e ci compatisca, e dàgli la buona notte per noi. Tu, piccino, resta a fargli compagnia.

Il fratello di Carlo rimase.

Un minuto dopo picchiarono all'uscio. Camilla andò ad aprire; era il Curato. Lo guardò in viso, per leggergli a che fosse riuscito. Egli che, passando, aveva visto i due carabinieri di sentinella, soddisfatto dell'opera sua, sorrise. Camilla, notando quel sorriso, pensò: — C'è riuscito! — e gli prese una mano, e gliela baciò con uno slancio di gioia e di gratitudine.

Il Curato sedette in mezzo a Camilla e al ragazzo, al chiarore della lucerna, e cominciò a discorrere per veder di tenerli un po' allegri. Camilla lo interrompeva a quando a quando per sentire se si faceva rumore sull'aia.

Il Curato discorreva di Carlo.

— È una dura vita — diceva — la vita del soldato, chi non lo sa? Ma bisogna pigliarla come una prova che Dio vuol fare di noi, per vedere se siamo abbastanza forti nella virtù e nel bene, da resistere alle tentazioni e superare i pericoli. C'è poco merito a esser buoni e virtuosi in un villaggio, dove si lavora dalla mattina alla sera, e s'è circondati da persone che ci vogliono bene, e ci danno l'esempio dei buoni costumi e della divozione; il male, in questo caso, bisogna andarlo a cercare, o cavarlo tutto da noi medesimi; e non c'è bisogno d'una gran forza per non fare nè l'uno nè l'altro. Il difficile è di mantenersi nella buona strada in mezzo a gente che batte la cattiva, e cerca di tirarvici anche voi; e colui che vi si mantiene, quegli sì che ha acquistato un gran merito dinanzi a Dio! C'è dunque piuttosto da considerarla come una fortuna, che come una disgrazia, questa occasione ch'egli ci offre di renderglisi accetti in un modo particolare, serbando il cuore puro e onesto del buon campagnuolo sotto il cappotto del bravo soldato! E Carlo, vedete, sarà l'uno e l'altro, perchè Carlo è così un po' chiuso e fiero, ma in fondo è un giovane che ha religione, e chi ha religione vera ha coraggio; e lasciate pur dire che per esser bravi soldati bisogna non credere a nulla e ridersi di chi crede qualche cosa. Per andare incontro alla morte col cuor fermo e sereno, bisogna vedere qualcuno al di là che ci faccia segno: — V'aspetto! — e arrischia con più coraggio questa vita colui che crede che ce ne sia un'altra, di quegli che perdendola, crede di perder tutto, e deve fare il sacrificio senza la promessa del premio. E credete pure che di queste cose non si ride tanto in guerra, quanto se ne ride in pace. Quando l'esercito piemontese....

— Non ha inteso una voce, signor Curato? — interruppe Camilla.

Il Curato tacque e stette un minuto coll'orecchio intento; poi continuò: — Non è nulla. Quando l'esercito piemontese si trovava in Crimea, c'era il colèra. I soldati morivano a trenta, a quaranta, a cinquanta il giorno. Si diceva che la guerra sarebbe durata anni cd anni; nessuno sperava più di tornare in patria; erano tutti rassegnati a morire senza rivedere le loro famiglie, tutti scoraggiti, tristi. Eppure, ogni domenica, allo spuntar del sole, al suono dei tamburi e delle trombe, quel piccolo esercito si radunava in una gran pianura deserta, si disponeva su tre lati, lasciando il quarto vuoto e lì c'era un altare e si diceva la messa. I generali stavano accanto all'altare. Di tanto in tanto le file serrate dei reggimenti si aprivano qua e là per lasciar portar via i soldati presi dal male. La banda suonava le arie, che ricordavano a tutti quei poveri giovani il loro paese lontano, e i begli anni passati a casa; il cielo era sereno, e splendeva un sole che faceva luccicare tutte le baionette; si sentiva lontano lontano il rimbombo delle cannonate dei Russi; era uno spettacolo che persino il bravo generale La Marmora, che comandava a tutti i nostri soldati e voleva mostrarsi un uomo di ferro, molte volte, quelli che gli eran vicini gli vedevano colare le lacrime giù per la faccia. Ebbene, quelli che ci son stati lo assicurano: non c'era nessuno, in quel momento, che non sentisse il bisogno di sollevare il cuore e la mente a Dio, e che non pronunciasse qualche parola di preghiera. Generali, soldati, vecchi, giovani, sani, feriti, avevano tutti un solo sentimento e un solo pensiero: — Buon Dio, proteggi le nostre famiglie lontane, la nostra vita, la nostra bandiera; ispiraci forza e coraggio; e accordaci la grazia di rivedere il nostro caro Piemonte! — E finita la funzione tornavano tutti ai loro accampamenti coll'anima più serena e col cuore più forte....

In quel momento s'udì un rumore: tacquero tutti e tre, e stettero ascoltando: nulla; regnava il più profondo silenzio. Si sentiva appena muovere le foglie d'una vite stretta all'inferriata della finestra.

Tutt'a un tratto, quel profondo silenzio fu rotto da una voce sconosciuta che veniva dalla stanza di Carlo e che gridò sonoramente:

— Giù. —

Camilla impallidì: vi fu un altro momento di silenzio.

Poi un'altra volta risonò quel grido di malaugurio: — Giù! —

E subito dopo un colpo forte come di una pesante caduta dall'alto, e nello stesso punto un altissimo grido di dolore seguìto da un lungo e sordo lamento.

Il Curato, Camilla, il ragazzo, agghiacciati dallo spavento, si slanciano sull'aia verso la camera di Carlo.

Non sono ancora arrivati alla porta che sentono dall'altra parte della casa un colpo di fucile.

Presi da nuovo spavento, quasi fuori di sè, gettando alte grida, si precipitano verso la porta; la porta è chiusa. Picchiano, gridano: nessuno risponde. Nella camera di Carlo c'era sempre il lume. Ricominciano a picchiare: nessuna risposta. Gridano aiuto, e arriva allora un carabiniere, esclamando: — È preso!

— Chi è preso? — domandarono ad una voce Camilla ed il Curato.

— S'è sentito un grido, — rispose il carabiniere, — un grido come d'un uomo assassinato, e un momento dopo un uomo è saltato giù dalla finestra nel campo, e via di corsa. Noi dietro gridando: — Ferma! — E lui non risponde e continua a correre. Noi abbiamo pensato: — È l'assassino. — Si grida ancora: — Ferma! — Non risponde. Allora il mio compagno ha tirato un colpo di pistola, l'uomo è caduto, siam corsi; era Marco il liquorista, la palla gli ha spezzato il braccio.

— Carlo! Carlo! — prese a gridare disperatamente Camilla, picchiando coi pugni e raschiando colle unghie la porta.

Sopraggiunsero in quel punto i contadini con vanghe e accette e in pochi momenti atterrarono la porta, e si precipitarono nella stanza, Camilla la prima. Videro Carlo steso supino sul letto: guardarono il tavolino era sparso di sangue; guardarono in terra, un lago di sangue; s avvicinarono al letto, era tutto macchiato di sangue. A un tratto Camilla si sentì qualcosa sotto un piede, si chinò, lo raccolse, guardò.... e gettando un urlo straziante di terrore e di ribrezzo, cadde svenuta.

Aveva raccolto il dito indice della mano sinistra di Carlo.

FURIO.

I.

C'era una volta un giovine bello e non sciocco, e nemmeno vano, che è più raro; o vano forse, ma in una certa sua maniera aperta e faceta, che piaceva. E non di quei belli, che c'è chi li trova così così, e a qualcuno anche non piacciono; era bello per tutti. Si sarebbe potuto paragonare a uno di quei giovani tanto frequenti nei romanzi francesi, e tanto rari, per fortuna, nel mondo reale, che per tutto dove passano lasciano una traccia di dissidii coniugali, di malinconie di ragazze, di collere d'innamorati; e ad ogni atteggiamento che pigliano, il romanziere gli fa cader su da qualche spiraglio un raggio di luna o di sole, e gli appiccica una similitudine tirata da qualche quadro illustre.

A pensare che era stato assuefatto da bambino a sentirsi passare sotto il mento la mano bianca delle signore, a esser baciucchiato dalle ragazze, a vedersi sempre intorno i genitori in adorazione, a farsi perdonare qualunque monellerìa con un atto grazioso, era una meraviglia il vederlo cresciuto così senza fumi, senza leziosaggini, buono, franco, alla mano, che si faceva voler bene da tutti, o almeno non dispiaceva a nessuno. Quando gli dicevano uno scherzo sulla sua bellezza, egli stesso ne scherzava, senza che da nessuna delle sue parole trasparisse un barlume di vanità, e svelava, con molta semplicità, certe sue finezze dongiovannesche, d'effetto provato, asseriva, e immancabile; e contraffaceva, con molta grazia, gli atteggiamenti e i modi proprii, spingendo sempre la cosa fino a tal segno di ridicolo da escludere affatto ogni sospetto d'artifizio.

Una sera, a una cena di amici, perchè gli avevano detto che la bellezza, nell'uomo, non conta nulla, che lo spirito è tutto, e che lo spirito, a voler esser giusti, e lo sfidavano a negarlo, era la parte meno notevole in lui, proruppe esilarato: — Già, tutti dicono così; ma poi che cosa si vede in effetto? Il rovescio, si vede. Nei romanzi, tutti gli uomini che fanno qualcosa di grande o di buono sono belli; tutte le donne si struggono d'avere dei figliuoli belli; gli aiutanti di campo si cercano belli; i commedianti bisogna che sian belli, gli oratori, belli, i re, belli; e di un poeta bravo, ma brutto, si dice: — Me lo figuravo diverso; — e il Byron si curava più del suo viso che della sua gloria, e il Leopardi avrebbe dato tutto il suo greco per un paio di occhi da incapriccire Nerina, e il Petrarca si dà del bello da sè, forma non glorior excellenti, sed.... ma sono un bell'uomo; e il Guerrazzi, sotto la maschera del suo Orazio, dice addirittura che le ragazze si voltavano indietro a guardarlo; e il Murat, coi fucili alla gola, pensava ancora a parer bello dopo morto; e ci sono delle città dove i prefetti brutti non ce li vogliono; e Cristo si dipinge bello, e gli angeli, perchè riesca più comodo di amarli, si rappresentano grandi e snelli come cavalleggieri di Saluzzo, o tondi e coloriti come le mele lazzeruole; eternamente brutti nei romanzi, nei quadri e nell'immaginazione della gente i cretini, i birbanti, e voi. —

L'indole sua aveva poi questo di singolare, che a volte egli si sentiva come scontento, e più che scontento, vergognoso quasi dei suoi pregi esteriori; ma neanche vergognoso, un sentimento come di disistima di sè, provava; appunto perchè, come gli avevan detto gli amici, in lui lo spirito era tanto da meno della persona, o per dir più giusto, la gente ne teneva tanto meno conto. Era d'ingegno aperto e sveglio, e non senza quel che di vivo e d'arguto, a cui si dà nome di spirito; ma di ben altra levatura avrebbe dovuto essere, perchè viso e cervello fossero alla pari. Quella sproporzione gli pareva ridicola, qualche volta umiliante; e diceva: — La mia anima è come una contadina zotica vestita da signora elegante. — È innamorato? — gli domandava un giorno la sua vecchia padrona di casa, vedendolo triste; — eh via! non si dia pensiero: lei è un bel ragazzo.... — Io sono un bel fantoccio, — egli rispondeva, e in quel momento pensava a una ragazza piantata da lui che una volta gli aveva scritto: — Lei ha sbagliato a nascere coll'anima; lo avremmo potuto mettere in una galleria. — E questo suo sentir meschino di sè lo pigliava sovente all'improvviso, come un mal di capo, in mezzo a una brigata d'amici, in specie se c'erano delle donne, e allora ammutoliva, pigliava il cappello, e via: chè già gli pareva d'aver detto tante sciocchezze, tanti spropositi, tante assurdità, da colmar la misura della più generosa tolleranza. Del resto, tutte queste debolezze provavano ch'egli era assai da più che non si credesse egli stesso; per lo meno un cervello sano e un cuore gentile; un po' matto, quand'era allegro, e quand'era triste, un po' acre; buon giovane, in fondo.

Aveva ventott'anni, i capelli biondi, la laurea di avvocato, un po' di ben di Dio, e uno stranissimo nome ch'egli non poteva soffrire: Riconovaldo.

Ed ora comincio il racconto.

II.

Erano le sei della mattina. Furio spalancò le imposte della finestra, ed entrarono ad un punto nella sua camera un raggio di sole ed un'ondata d'aria odorosa, che gli diede un fremito di piacere soavissimo. Guardò il cielo, i monti, il giardino della villa, battè il pugno sul parapetto, dicendo: — Bello! — e pensò che aveva quattordici anni, e sentì che amava immensamente la vita. Un insetto saliva su per lo spigolo della persiana: egli allungò la mano per buttarlo giù; — Ma no, — disse subito: — oggi è giorno di grazia; vivi! — Rise, si appoggiò alla finestra a contemplar la campagna e canterellava.

In quel punto comparve sotto le sue finestre una carrozza vuota; una donna di servizio uscì di casa e aprì lo sportello, e tre piedi lunghi e asciutti si posarono l'un dopo l'altro sul montatoio, e tre persone asciutte e lunghe salirono e sedettero in fretta, il padre, la zia e la sorella di Furio.

Furio s'era ritirato un po' indietro.

— Tra due ore si torna, — disse il padre alla donna di servizio.

— Colla signora! — rispose questa con un'espressione di timida allegrezza.

— Colla signora nuora, — soggiunse il primo con un sorriso dignitoso di compiacenza; e fatto un cenno al cocchiere, il legno si mosse.

— Un momento! — gridò la zia con voce stridula.

Il cocchiere fermò, e dalla carrozza si alzò un lungo braccio secco con un dito lungo e nodoso che, dopo aver tremolato un po' nello spazio come la canna di uno spegnitoio di chiesa, si fissò verso la finestra di Furio; e la voce di prima gridò:

— Vestiti e scendi immediatamente! —

Furio scomparve.

— Non importa — disse il padre in tono conciliativo, — lascialo a casa, è un impiccio di meno.

— Voglio che venga!

— Via, non perdiamo tempo, è già tardi.... Avanti, cocchiere! —

Il legno ripartì. Furio si fece alla finestra, e vide ancora da lontano quel lungo dito formidabile appuntato contro di lui a guisa di una freccia, e una fila di dentoni digrignanti, che parevano la tastiera d'un pianoforte. Il legno scomparve; il ragazzo rimase qualche minuto immobile, cogli occhi a terra, mortificato. Ma ad un tratto sentì un delizioso odor di fumo lasciato giù dal cocchiere; si scosse, corse in un angolo della camera, tirò fuori un sigaro da un buco della parete, l'accese, e si mise a passeggiare. Pensava che di lì a due ore sarebbe arrivata sua cognata, la moglie del suo fratellastro, ch'egli non aveva mai vista, e ch'era, a quel che dicevano in casa, una bella signora, grande, bionda, ben vestita; e aveva piacere che venisse. Ma non un piacere schietto e tranquillo; perchè egli era timido, e un poco orso, come gli diceva sua sorella, o piuttosto zotico e sciocco addirittura, come gli assicurava la zia; e il pensiero di aver da comparir dinanzi a quella signora, in presenza di altri, di pieno giorno, e doverla guardare in viso, e doverla salutare, e doverle rispondere, lui che, in quelle occasioni, perdeva la bussola e non riusciva ad accozzar due parole, questo pensiero lo turbava un po'. A fissarvisi, si sentiva arrossire, solo com'era nella sua cameretta; figuriamoci là nel momento solenne.

III.

Del resto, chi volesse sapere che maniera di vita sarebbe venuta a trascinare in quella villa la cognata di Furio, lo dice questa lettera scritta da suo fratello, che c'era stato l'anno prima una diecina di giorni, a uno dei suoi amici intimi.

“.... Il ragazzo, Furio, è tornato a scuola in città, ch'è a un'ora di qui, il giorno dopo ch'io arrivai. Per quel poco che potei vedere, mi parve il miglior soggetto di casa; ma non gli vogliono bene. Sua sorella, Candida, sta tutto il giorno tappata in camera; e non ti saprei dir bene di che cosa sappia; ma a far la vita che fa, bisogna che sappia di poco; si consuma; ci si vede già il patito, e non ha ancora vent'anni. Cattiva non la direi; sai, è una di quelle slavature di ragazze, che se ne vedono tante fra le maestre di pianoforte e le guardarobe degli orfanatrofii, senza fibra, senza sangue, senza curve, che vivono e muoiono caste nello stesso modo e per la stessa virtù che le figurine di gesso. Alta, smilza, un viso affilato di beghinetta, pettinata come una madonna, coi capelli lisci e appiccicati; non è brutta, se si vuole; ma nulla più. Per me, è come se non ci fossi; non mi parla, non mi guarda, si direbbe che non mi vede. Così mi tocca star tutto il giorno testa testa coll'uno o coll'altro di questi due vecchi, uggiosi tutti e due da stancare quanti hanno avuto il vanto della pazienza da Giobbe in poi. E ispirano anche più stizza che uggia. Lui è ispettore del Demanio, in vacanza; cavaliere. Pianta, quattro stanghe in uno di quei busti di legno dei barbieri da contadini, e n'avrai un'immagine; grande gravità, grande albagìa, gran testa di legno, ignorantissimo e vanissimo; di quella vanità goffa e meschina che matura specialmente negli uffizi governativi. Fondi un usciere presuntuoso con un sindaco di villaggio che la pretenda a grand'uomo: n'esce lui con quel palo in corpo, con quelle gote gonfiate, con quel perpetuo sorriso di pietà. È cortese; ma di quella cortesia che si crede necessaria come velo modesto dell'importanza, e affabile temperamento dell'autorità; cortesia che casca giù dall'alto, e dice: — Mi degno. — Credo che abbia poco cuore, o che il cuore gli si sia intorpidito, per disuso. E la sorella, peggio. Di figura, è una megera; e anche più d'anima, se l'ha; di qualche anno sopra la cinquantina; secca allampanata, tutta punte, con una faccia bronzina, di quelle faccie lucide che par che ci abbian dato una mano di vernice. Il carattere l'ha tutto espresso nella bocca; la quale non è una bocca, ma un taglio lungo e sottile, fatto con una temperinata, sempre chiuso, anche quando parla, ch'è di rado, grazie al cielo. È vedova anch'essa, come suo fratello, e fortunati i morti: ma credo che non se ne sia mai accorta, non deve aver mai sentito nulla, è un foglio di cartapecora male incartocciato; e poi lunatica, inquieta e brontolona. In verità io non so capire perchè lì dentro ci debba essere un'anima immortale! La sera egli scrive le sue cose d'ufficio, la sorella fa la calza, io suono il pianoforte, leggo, parlo; nessuno dei due alza la testa; solamente lui, di tratto in tratto, mi dà un'occhiata di sopra gli occhiali, e con quel suo odioso sorriso protettore mi risponde. — Sicuro! — e daccapo a scrivere. Credi, mi sento brulicar qualcosa su per le dita....„ La lettera era sottoscritta Riconovaldo.

IV.

Di là a due ore la carrozza ricomparve dinanzi alla villa. Il gonfio ispettore, sceso in fretta pel primo, porse una larga mano rugosa, in cui s'immerse e disparve la manina bianca di una bella signora, che saltò giù con un atto molle ed elegante. Poi smontò la zia, respingendo l'aiuto offertole dalla donna di servizio, poi Candida. Tutti insieme entrarono in un'allegra stanza a terreno, che serviva da salotto da pranzo, e si buttarono sulle seggiole e sulle poltrone, rifiniti dal caldo.

— Dunque, — domandò la signora appena ripreso fiato, scotendo e ravviando con tutt'e due le mani la sua folta capigliatura bionda; — dov'è questo ragazzo?

— A proposito, e Furio? — domandò il padre alla zia. — Come non è qui? Furio! — gridò affacciandosi alla finestra.

E la zia di sulla porta: — Furio! —

— Ora lo vado a pigliar io, — borbottò montando la scala; — malcreato! —

Ci fu qualche minuto di silenzio; si sentì sopra il passo affrettato della zia, poi lo scoppio della sua voce, poi un altro rumor di passi più fitto, e poi di nuovo giù per le scale una sfuriata di acerbe parole:

— Vanitoso sciocco! — gridava la vecchia, fermandosi ad ogni scalino, e ripigliando fiato a ogni parola; — guardate se par possibile! Un ragazzaccio di quindici anni! Per sua cognata, poi! E mentre stanno giù ad aspettarlo!

— Che cos'è stato? — domandò il padre sbadatamente.

— Figuratevi, — rispose la zia, ferma sulla porta, come per impedire al ragazzo di entrare prima ch'essa avesse finito la sua invettiva; — vado su, m'avvicino in punta di piedi alla sua camera, e me lo vedo là, con uno specchio davanti e uno di dietro, che si lisciava i capelli come un damerino, e aveva messo sossopra ogni cosa: biancheria, panni, spazzole, saponi, boccette; pareva il cassettone di una sposa.... —

La signora rideva.

— Ma questo non è nulla, — proseguì la zia, dando un'occhiata verso la scala, dove la povera vittima stava aspettando; un puzzo indiavolato di sigaro, da non poterci respirare: ha fumato!

— Oh! — interruppe il padre fingendo un atto di collera.

— Ma gli ho dato una lezione! — la vecchia riprese, e faceva l'atto di dare uno schiaffo; e poi, rivoltandosi verso la scala: — Animo, avanti!

Il povero ragazzo, che aveva sentito tutto, veniva giù adagio adagio, umiliato, confuso, coi capelli in disordine, con una vecchia cacciatora indosso, chè la zia non gli aveva lasciato tempo di mutarsi, senza solino, senza cravatta, come un povero. Arrivato sulla porta, la zia lo cacciò dentro con uno spintone; egli si trovò davanti alla signora che gli era venuta incontro; la guardò, la vide ridere, si fece color del fuoco, si sentì mancar la parola, abbassò la testa e stette lì immobile, col respiro sospeso, nell'atteggiamento d'un condannato.

— Saluta dunque la cognata! — disse la zia.

— Signora!... — mormorò egli con un fil di voce; ma non gli riuscì di alzare la testa.

— Signora! — ripetè la vecchia spietata contraffacendolo; — e non hai nient'altro da dire a tua cognata? alla sposa di tuo fratello, che non hai mai veduta? Bell'accoglienza da fare a una parente! Compatitelo, Iride, è un ragazzaccio zotico, è sempre stato in campagna, non ha mai visto nessuno....

— Eh, già, — soggiunse il padre guardando fisso Furio, come avrebbe guardato un gatto imbalsamato dentro una vetrina, — già, a quell'età siamo stati tutti così, non si sa nè muoversi nè parlare; ma poi, col tempo....

— Costui non cambierà, sai; — la zia soggiunse, — è impossibile; si vede proprio che non c'è nato.

— O perchè? — disse la signora con un accento amorevole di difesa.

E tutti e tre continuarono a guardarlo. Oramai la vergogna del povero Furio faceva pietà, il sangue gli era salito al viso tanto che gli occhi ne parevano velati, la testa gli pesava come se fosse di piombo; si vedeva che soffriva. La signora se n'accorse, si voltò da un'altra parte ridendo, e mutò discorso. Furio scomparve.

Ma bravo! Era un mese che vi rallegravate al pensiero che una bella signora sarebbe venuta a rompere la monotonia uggiosa delle vostre ferie campestri; un mese che andavate fantasticando i discorsi che le avreste fatti e le cose carine che v'avrebbe risposte; un mese che, passando davanti allo specchio, vi fermavate, e non andavate più al sole per non farvi più nero; un mese che vi logoravate i denti colle polveri, la testa coi pettini e l'unghie colla limettina; un mese che vi lamentavate colla sorella dei vostri vestiti, che vi parevan grossolani e disadatti, e avreste voluto aver tutto bello e fine per far onore all'ospite aspettata; un mese che contavate i giorni e le ore che dovevan passare prima ch'ella arrivasse, e vi promettevate che sareste stato con lei amabile e gentile, e le sareste riuscito simpatico, e vi sareste fatto voler bene; ed ora, al momento di cominciare, vi presentate in quel modo, colla impronta d'un ceffone sul viso, colla testa irta come un'istrice, vergognoso, muto e cocciuto come il più tanghero scolaretto del vostro Ginnasio!

Fu un momento molto amaro pel povero Furio. Uscito di casa, s'andò a gettar sotto un albero, col cuore stretto e gli occhi pieni di lacrime, sdegnato contro di sè, contro la cognata. contro tutti. — Non voglio più comparire davanti a quella signora, — diceva tra sè; — soffro troppo a far di quelle figure, mi sento venir male, non vado più, piuttosto scappo, tanto non mi vuol bene nessuno. —

In quel punto una voce stridula in tono di comando si fece sentir dalla villa: — Furio, a colazione!

Furio si sentì rimescolare il sangue, balzò in piedi, e così nel primo impeto dello sdegno rispose con voce soffocata: — No! —

E si slanciò per fuggire: fu trattenuto. Era Candida.

— Candida, sei tu! — esclamò il ragazzo con voce commossa.

Candida gli aperse le braccia, e Furio vi si gettò trattenendo a stento un singhiozzo.

Candida era buona e lo amava.

V.

Quei tre o quattr'anni che passano tra l'infanzia e la giovinezza, son pieni di sconforti e di malinconie, come quando si comincia a sentir che s'invecchia. L'anima, smaniosa di affollarsi alla vita, se la vede chiusa da ogni parte, e si dibatte in una prigionìa affannosa. Come il germe, a primavera, tenta la scorza che lo ravvolge, e s'agita impaziente, così in quegli anni l'uomo si sente chiuso nel ragazzo, e ne freme. Ha bisogno d'aria e di luce, e vorrebbe levarsi a volo; e urta le ali nelle pareti domestiche, e le ripiega rintuzzate e dolorose. Vede sotto di sè un piccolo mondo di bambini, dove si gioca, si ride, si canta, si folleggia, e non vi può più discendere; vede di sopra un altro mondo più vasto, dove si pensa, si lavora, si combatte, si ama, e non vi può ancora salire. Intravvede già, come dietro un velo, la donna, bella, cara e misteriosa, argomento segreto di desiderio e di sogno; e la donna si china a baciare i bambini, si volta a guardare gli uomini, e a lui passa accanto, e non lo vede. Egli vorrebbe attirare quello sguardo, parerle bello, piacerle; e non è che un bambino allungato, con una grossa testa su due spallucce misere, e un busto cascante su due stecchi di gambe, da cui saltan fuori due ginocchioni angolosi. Sente i primi stimoli della vanità, vorrebbe esser ben vestito, elegante: e gli fanno portare i panni smessi di suo fratello maggiore, e gli taglian le cravatte nei vestiti vecchi di sua sorella, e non si fidano ancora di lasciargli in mano l'orologio. Vorrebbe esser preso per un ometto e contar per qualcosa; e se apre la bocca in mezzo alla gente, o dice una freddura, che cade inosservata, o dice uno sproposito, e gli dan sulla voce. Vorrebbe essere garbato e piacevole; e se capita in un salotto non sa come rigirarsi, urta in una seggiola, mette i piedi sullo strascico di una signora, e pesta un callo al padrone di casa. Vorrebbe esprimere quel che gli bolle dentro, aprire il suo cuore, sfogarsi; e scrive versi che fanno ridere il maestro, e il babbo glieli strappa di mano, e gli mette sotto il naso un trattato d'aritmetica. Vorrebbe agitarsi, svagarsi, girare, veder cose nuove; e deve tornare a casa alle otto a scartabellare il dizionario latino, in un cantuccio della sua stanza, solo, mentre sente il fruscìo dei vestiti delle sue sorelle, che si preparano pel teatro o pel ballo. Sconfortato, umiliato, ora s'insinua in mezzo alla gente per implorare uno sguardo e un sorriso; ora si chiude in sè stesso, indispettito e selvatico, e come stanco degli uomini e della vita. E allora seguono le lunghe ore di solitudine passate alla finestra, di notte; o in campagna a guardare tra i fili dell'erba; e la sua fantasia viva e irrequieta si slancia avidamente in un avvenire sconfinato ed arcano, pieno di grandi disegni e di grandi speranze. Allora egli si finge una vita a modo suo; casi mirabili e strani, lotte, pericoli, trionfi, viaggi, aurore di cieli ignoti, e vasti giardini taciti, popolati di fantasime care. Ma poi quella splendida visione lo rattrista e lo stanca, ed egli riabbraccia con impeto la vita; si rigetta in mezzo allo strepito dei sollazzi infantili; se ne sdà, non pago, e si volge appassionato agli studii; irrequieto, li abbandona, e cerca il riposo dello spirito nelle fatiche smodate del corpo; il suo mondo fantastico gli si mescola nella mente col reale, e lo assalgono nelle tenebre improvvise paure, da molto tempo perdute; terrori religiosi impensatamente ridesti; poi freddezze feroci che gli armano la mano contro gli animali innocenti, e ardimenti insensati che lo spingono sull'orlo dei tetti e sulla cima degli alberi; poi malinconie profonde che gli fanno cercar le braccia della madre, e piangere sul suo seno lacrime calde e pacificatrici.

L'eccessiva timidezza di molti ragazzi di quell'età proviene appunto da ciò, che essi hanno dentro tutto quel tumulto di pensieri e d'affetti, e voglion tenerlo celato, e treman sempre che altri lo scopra, e li stimi più ragazzi di quel che sono; essi medesimi credono che quello sia un resto di fanciullaggine, e se ne vergognano; mentre è invece la prima scintilla della giovinezza che li feconda e li trasforma.

VI.

Furio era appunto in su quegli anni; e di natura caldo e tenerissimo, ne sentiva più che altri le inquietudini. Ma non aveva più madre, egli che ne avrebbe avuto bisogno più d'ogni altro; e suo padre per lui non contava nulla. Suo padre non lo capiva; lo credeva un ragazzo mal riuscito. Accortosi fin dai primi saggi della scuola che in lui non c'era la materia di un burocratico, nè d'un banchiere, nè d'un appaltatore di strade ferrate, e persuaso che fuor di lì non ci fosse salute, aveva detto tra se: — Farà quel che potrà; — e l'aveva abbandonato al suo destino, per rivolgere tutti gli affetti e tutte le cure al fratello maggiore, figlio della sua prima moglie, ingegnere, uomo della sua stampa, o presso a poco. A chi gli domandava come riuscisse negli studii il ragazzo, egli rispondeva in tono trascurato o compassionevole, agitando la mano aperta dinanzi alla fronte: — È una testa un po'... vaga, tende al vago, non si ferma sulle cose, non le approfondisce.... — E non lo amava; era una creatura troppo diversa da lui; egli credeva sinceramente che facesse torto alla sua prosapia. Invece Furio aveva ingegno; ma ne aveva tanto che non se ne potevano accorgere alla scuola; e poi non c'era chi l'animasse a studiare. In casa, ogni suo sfogo di affetto e ogni sua scappata fantastica erano stati presi, fin dai primi anni, più come indizii di vocazione drammatica o di istintiva goffaggine, — erano incerti fra i due, — che come manifestazioni di buon cuore e d'ingegno. La zia lo aveva avuto sempre per uno stupido, e perchè lui, umiliato e tormentato di continuo, non le voleva bene, anzi l'aveva in uggia e gliene dava segni chiarissimi, così essa lo credeva anche perverso, e sempre più inasprendosi, sempre più l'inaspriva. E Furio, chi l'avesse saputo intendere ed amare, sarebbe stato un buonissimo ragazzo; ma per quei due vecchi gretti e diacciati egli era quel che per la gente ignorante sono certi geroglifici orientali, che chiudono una bella sentenza, e son presi per uno scarabocchio di ragazzi.

Aveva una corporatura superiore all'età sua; ma benchè, a primo aspetto, gli si dessero due o tre anni di più, chi appena lo guardasse in viso, vedeva che era ancor fanciullo. Con altri parenti sarebbe stato bello: non già che non fosse; ma, cresciuto sotto quella dura persecuzione della zia, aveva preso a poco a poco una cert'aria cupa e sospettosa, che gli stava male. Pareva sempre che ruminasse qualche cosa di cattivo. Il sole della campagna l'aveva fatto bruno come un soldato. Era sottile, ma robusto, e un po' curvo di quella cascaggine naturale agli anni di grandi cresciute. Aveva una capigliatura folta e sempre scomposta che gli cascava sulla fronte, e ch'egli ributtava indietro con un atto vigoroso del capo, come il cavallo la criniera. E quando non aveva dentro il dispetto o l'amarezza di qualche sfuriata della zia, gli occhi gli splendevano pieni di dolcezza, e le labbra grosse e vermiglie gli si aprivano ad un sorriso così tra l'affettuoso e il melanconico, che spiccava più caramente su quella sua fisonomia risentita e quasi rozza. Aveva due grandi mani che teneva sempre nascoste; e si vergognava del suo vestire, chè non sapeva mettersi niente addosso, e la roba gli si affagottava e gli scappava da tutte le parti.

VII.

Furio, pregato e ripregato da Candida, acconsentì d'andare a far colazione cogli altri. — Animo, Furio, — gli diceva la sorella mentre andavano, e l'accarezzava, — asciugati bene gli occhi, che nessuno s'accorga di nulla, e non ti pigliar soggezione della cognata, ch'è una donna alla buona, e ti vuol bene, e non badare alla zia. — Ma Furio, via via che si avvicinava alla villa, si sentiva mancare il cuore, come se andasse alla tortura. Entrò ch'erano già a tavola, sedette senza guardar nessuno, e cominciò a mangiare cogli occhi bassi. Parlavano del fratellastro. Suo padre interrogava Iride d'un certo progetto di ponte, ch'essa non aveva mai sentito nominare. La zia le domandò quando sarebbe arrivato suo fratello, ed essa rispose che sarebbe arrivato fra tre giorni. Entrarono in altri discorsi, e Iride cominciò a parlare quasi sempre lei sola. Furio, cogli occhi sul piatto, non movendosi se non quanto bisognava per mangiare, la stava a sentire tutto intento e maravigliato. Aveva una curiosa maniera di parlare. A momenti faceva una vocina di bimba, lenta e soave; a momenti parlava lesto e tronco come un soldato; era un discorrer tutto a salti, con mille variazioni di tono, ora allegro, ora serio, ora annoiato, e poi certe risate improvvise e sonore, che non si capiva come c'entrassero; e certe mosse, certe scrollate di spalle, certi colpi della mano sulla tavola; pareva che avesse addosso l'argento vivo, e le frullassero pel capo cento capricci il minuto.

Quando stavan per finire, Furio, un po' incoraggito che l'avevan lasciato in pace fino allora, risolvette di guardar sua cognata. Cominciò a spinger gli occhi innanzi fino a guardarle le mani: erano piccole e bianche come le mani d'una bambina; poi si fece animo ancora, e sollevò lo sguardo.... Cielo, che angelo!

— Non credevo che fosse già così grande, — uscì a dire la signora.

Furio si sentì un tremito e abbassò il volto; tutti gli occhi, fuorchè quei di Candida, si fissarono su di lui.

— Oh! per lungo è lungo, — disse il padre, guardandolo con quella sua aria di compatimento.

— Le male erbe crescono, — soggiunse la zia.

Furio era rosso come una fragola.

— E come è bruno! — osservò Iride.

— Bruno? — rispose la zia; — bel bruno! nero come un beduino. —

Il padre rise, Candida s'alzò. Furio, colle sopracciglia aggrottate, e un labbro stretto fra i denti, fissava le punte della sua forchetta.

— E guardate che mani! — disse ancora la zia, pigliandogli una mano per mostrarla a Iride.

Furio diventò pallido, strinse il pugno, e lo svincolò bruscamente.

— Eh! — gridò la zia, alzando una mano; Furio si schermì il viso col braccio; la mano scese, Candida la fermò; in quella s'udì fuori il rumore d'una carrozza e il suono d'una voce.

— Riconovaldo! — esclamò Iride, balzando in piedi. Riconovaldo era già nel salotto; tutti, fuori che Candida, gli corsero incontro. La bella e serena figura di quel giovane esercitava un tale fascino, che, al primo vederlo, persino il padre e la zia, per lo più duri e freddi, fecero un atto di allegrezza. Iride gli saltò al collo, e Furio, ancora tutto turbato, gli strinse la mano.

— E Candida? — domandò il giovane, guardando intorno.

Candida venne avanti lentamente e gli porse la mano con aria d'indifferenza.

VIII.

Furio non aveva mai visto tanto da vicino una signora così bella; ragazzine sì, ma alla sfuggita, e poi sopra un giovinetto della sua età le ragazzine non fanno molta impressione, perchè non gli paiono ancora donne: le signore, invece, insieme con la intera grazia femminile hanno tutte per lui qualcosa del fascino delle regine. Furio passeggiava pel giardino, pensieroso. Aveva sempre dinanzi quel viso e quei due occhi grandi e celesti che s'erano incontrati coi suoi. — Che bella signora! — diceva a mezza voce, col tono di chi fa un complimento. E poi rideva e ripeteva le parole e gli accenti di lei che lo avevano tanto colpito, e soggiungeva: — Curiosa! — Le foglie stormivano e gli pareva come di sentirsi alle spalle il fruscìo del vestito d'Iride. Uscendo dalla villa, le era passato vicino, quasi da toccarla, e aveva sentito un leggero profumo, e gli pareva che quel profumo gli fosse venuto dietro e l'accompagnasse. Sedette all'ombra d'un albero, e disse a bassa voce quasi senza accorgersene: — Mammina. — Subito si domandò come gli fosse venuta sulla bocca quella parola, e rispose a sè stesso: — Sì.... se essa fosse mia madre.... — Pensò un momento, e si meravigliò di trovar così poco gusto in quel pensiero; benchè Iride, ch'era sui trentanni, avrebbe ben potuto esser madre di lui che n'aveva quattordici. E poi pensava quanto sarebbe stato felice se Iride gli avesse voluto bene come a un fratello; ma era impossibile. — Se una volta fosse in pericolo, — uscì a dire, — se cadesse nel lago (sul confine del podere c'era un lago) e io le salvassi la vita! — Poi rise e soggiunse: — Ma perchè dovrebbe cadere nel lago? — Pensava come a una cosa strana che Iride aveva un marito, e che questo marito era suo fratellastro, e che non era bello. — La comanda? — domandò a sè stesso con grande curiosità. E fantasticava che mai si dovessero dire quando eran soli: se il marito le facesse delle carezze, e lei che cosa diceva allora. Accanto a lui c'era un fiore di campo, alto e diritto, e il vento ora lo piegava lentamente, ora senza piegarlo lo scoteva tutto, che pareva una persona irrequieta. Furio l'osservò e disse: — Sembra Iride. — Poi si spinse innanzi sulle mani e sulle ginocchia, e si specchiò in un ruscello che passava per di là. Rialzò la testa e si guardò una mano, di sopra e di sotto, e sospirò. Tutt'a un tratto si levò in piedi e si mise a correre pei campi.

IX.

Iride e suo fratello erano nel salotto da pranzo, soli; Iride, seduta vicino alla finestra, in modo che se ne vedeva la testa dal giardino. — Curiosa quella Candida, — diceva Riconovaldo; — ha qualcosa di sua zia; vedesti come m'ha ricevuto? La stessa scena dell'anno passato.

— Le avevi fatto qualcosa? — domandò la sorella.

— Nulla, sono stato qui dieci giorni e non le ho parlato che tre o quattro volte; si vede che non le vado a genio.

— Vorrei vedere! — rispose Iride con un sorriso.

In quel punto entrò Candida col lavoro in mano e andò a sedere accanto a Iride, senza alzare gli occhi. Iride e il fratello si ricambiarono uno sguardo. Questi stava in piedi, appoggiato alla tavola, a un passo dalla seggiola di Candida.

Riconovaldo le domandò che cosa facesse; essa, senza alzare gli occhi, gli porse il ricamo.

— State tutto il giorno in casa? — ridomandò il giovane, dopo aver dato un'occhiata al lavoro.

— Quasi, — rispose Candida.

— Passeggerete la sera; il giardino è bellissimo: andate a passeggiar tutti insieme, o voi sola? M'immagino che conosciate qualche vicino.

— Una volta; ora son mutati quasi tutti, e non si conosce più nessuno.

— Nessuno! E come passate tutta la giornata? Vi occuperete molto dei fiori; ho visto che n'avete il terrazzino pieno.

— Sì.

— E infatti i fiori....

Iride s'accorse che suo fratello, punto di quella freddezza, stava per isnocciolare un complimento di cattivo gusto, e glielo ricacciò in bocca con uno sguardo.

Allora egli prese un panchettino, lo portò dinanzi a Candida, e sedette, in modo che veniva a riuscir colla testa poco sopra alle ginocchia di lei; e lei, se poteva ancora non guardarlo, non poteva più non vederlo, perchè aveva proprio la sua fronte a un palmo dalle mani. Candida corrugò leggermente le sopracciglia.

— Stasera ci condurrete a vedere il giardino, non è vero? — domandò il giovine; — verrete a fare un giro con noi.

— Se vi piace, — essa rispose.

— E a voi non piace? —

Candida non rispose.

— Sì o no?

— Sì. —

Riconovaldo diede un'occhiata a sua sorella, che significava: — Vedi? Non avevo ragione di dire che non mi può vedere? —

Subito dopo fingendo di voler guardare da vicino il ricamo, abbassò la testa in maniera che i suoi bei riccioli biondi toccarono le mani di Candida. Essa le ritirò subito e fece l'atto di alzarsi.

— Ve n'andate? — domandò il giovine stupito.

— No, — rispose, — volevo solamente alzarmi — e risedette spingendo indietro la seggiola.

In quel punto un soffio di vento portò via di sulla finestra il fazzoletto d'iride, e lo spinse nel giardino; essa non se n'accorse.

— Vi do noia, Candida? — domandò con affettata dolcezza Riconovaldo.

— Perchè noia? — rispose Candida in tono distratto; — io non m'annoio mai quando lavoro.

— Temevo.... Vi dispiacerebbe ch'io sonassi? —

— Non c'è motivo perchè mi debba dispiacere.

— Ma io desidererei d'esser certo che vi piace.

— Ebbene, mi piace.

Il giovane s'alzò indispettito, andò a sedere al pianoforte che era in un angolo del salotto, e cominciò a sonare con molta vivezza e molta grazia. Iride guardava Candida per vedere se la musica le facesse qualche effetto; ma il suo viso era sempre impassibile; continuava a lavorare colla testa bassa, senza neanco dar segno di sentire. A un tratto Riconovaldo si fermò, si voltò a guardarla, diede un colpo stizzoso sulla tastiera e s'alzò esclamando; — È un'indegnità... questo pianoforte.

— Con permesso, — disse allora Candida, e se n'andò lentamente e freddamente come era venuta.

Il giovane rimase in mezzo al salotto colle braccia incrociate sul petto e gli occhi fissi alla porta per dove Candida era uscita. Iride diede in uno scroscio di risa.

— In verità, — uscì a dire il fratello, — io non ci capisco nulla!

Poi gli balenò un'idea: Ch'io le paia stupido! — E restò pensieroso: una volta entratogli nella testa quel sospetto, per lui era finita: addio serenità.

— Ho perduto il mio fazzoletto, — disse Iride guardandosi intorno. Poi corse alla finestra, e guardò fuori, non c'era più.

X.

Furio non tornò in casa che all'ora del desinare. La scena dolorosa seguita a tavola la mattina gli aveva messo nel cuore molta amarezza, e gliene restava ancora, e con questa, più che mai, la vergogna; ma pure egli aveva sul viso qualcosa di sereno, e Candida, vedendolo, se ne accorse e se ne rallegrò segretamente. Il desinare passò per lui senza gravi accidenti. Solamente Riconovaldo, che gli era vicino, di tratto in tratto gli batteva la mano sulla spalla, dicendogli: — Ebbene, giovinotto? — E allora tutti gli occhi gli si fissavano addosso, e lui avrebbe voluto sprofondare sotto terra; ma il giovine, vedendolo arrossire e confondersi, sviava pietosamente il discorso, e col discorso gli occhi fulminei della zia. Iride era vivacissima, e parlò molto e di molte cose; in ispecie di certi intrighi di famiglie sue conoscenti, con una libertà di osservazioni e di parole, che fece più volte torcer la bocca a suo fratello, corrugare la fronte a Candida, e inarcare le ciglia alla zia. Due o tre volte il padre, discorrendo con lei, tirò il discorso sopra suo marito; ma essa lo lasciò cadere con estrema indifferenza. Quando s'alzarono da tavola, aveva il viso rosso che pareva un fiore.

Pioveva; stettero tutta la sera nel salotto. Furio, mezzo nascosto in un cantuccio, al buio, poteva guardar bene sua cognata senz'esser veduto, e ne profittò, tenendole gli occhi addosso tutta la sera, sempre più meravigliato di quel suo parlare e di quei suoi modi tanto lontani da tutto quello ch'ei si fosse mai immaginato delle signore. Era grande, diritta e leggera come una figura d'arcangelo. Alle volte s'alzava di scatto da sedere, e attraversava a passi lenti il salotto colla testa alta, scotendo le spalle con un certo garbo trascurato, ma pieno d'alterezza, che pareva una regina capricciosa. Non trovando qualche cosa che cercasse, si mordeva la punta d'un dito, incrociava le braccia sul seno, dava in certi atti d'impazienza febbrile, che pareva una bambina stizzita. Faceva poi tratto tratto un certo suono colle labbra come soleva Furio alla scuola per far andar in bestia il maestro. A momenti, mentre lavorava, socchiudeva gli occhi e sporgeva il labbro di sotto come in atto di disprezzo; poi dava in una risata sonora, accorgendosi di aver fatto uno sbaglio nel suo lavoro, e nel ridere piegava all'indietro la testa come se qualcuno gliela tirasse giù per le trecce. Era di carnagione bianchissima, e aveva le labbra sporgenti e rosse, che tormentava continuamente coi denti. Suo fratello aveva un piccolo cane; essa di quando in quando gli stringeva il muso con una mano, e chinandosi come per guardarlo negli occhi, gli diceva coi denti serrati: — Caro! —

Il padre leggeva un giornale, la zia faceva la calza, Candida teneva un libro in mano senza mai alzar gli occhi; tutti, tranne Furio, erano seduti intorno alla tavola grande, rischiarati da un lume solo. Quei due bei giovani, in mezzo a quell'altre figure, facevan l'effetto che fanno a prima vista nello studio di uno scultore due belle statue finite in mezzo a molti abbozzi di creta.

— Non c'è dubbio, — diceva tra sè Riconovaldo, guardando Candida alla sfuggita; — è così: — e l'immagine di quel tal fantoccio di cui aveva parlato alla sua padrona di casa, gli ballava davanti con una persistenza spietata. — Oh! ma gliela farò vedere! Stupido del tutto non lo sono, per Dio! — Prese un giornale, lo scorse, lesse due o tre righe di un articoletto che parlava d'Istituti d'educazione, e uscì a dire coll'accento di chi propone una quistione:

— Io credo che i ragazzi e le ragazze dovrebbero essere educati insieme; andare a scuola, studiare, divertirsi sempre insieme, alla rinfusa, come se non ci fosse differenza di sesso.

— Come! — esclamarono ad una voce i due vecchi, spalancando gli occhi.

— Sicuro, — egli rispose, e poi tra sè: — Ora è il punto di farle vedere che non sei quel che le pari; — sicuro; ma per capire questo principio bisogna capire i ragazzi, se no, è inutile; e i ragazzi c'è molti che non li capiscono, perchè per capirli bisogna studiarli e per studiarli bisogna amarli, e per amarli bisogna aver qualcosa qui, e molti qui non ci hanno nulla. Ma io credo che se spesso c'è da lamentare che gli uomini e le donne stanno male insieme da grandi, sia perchè non sono stati punto insieme da bambini. Curiosa questa di tenerli divisi nei primi anni con tanto scrupolo, mentre poi hanno da passare la vita uniti! Succede che la forza che li spinge gli uni verso gli altri, quanto più è frenata, più cresce, e poi quando s'allenta la mano, la congiunzione si fa con violenza, ed è male; come i ragazzi quand'escon di collegio che in un mese di scioperataggine si rifanno delle privazioni di dieci anni. Dicono: mandiamo i ragazzi a scuola dove imparano a conoscer per tempo gli uomini, chè la scuola è un'immagine della società. Bell'immagine della società se non c'è la molla, che è la donna! E poi se non si piglia per tempo quel non so che di fine e di morbido, direi quasi, nei modi e nel parlare, che ci vuole per stare in mezzo alle donne per bene, è difficile che si pigli in seguito; qualcosa di ruvido e di volgare resta sempre. Bisogna imparar presto a conoscere il verso del sesso gentile, se no poi, quando c'è di mezzo la passione, non se ne cava più un costrutto, e si vede degli uomini con tanto di barba, dei talentoni, che colle donne fanno una figura compassionevole, perchè si trovano come ad avere in mano uno strumento misterioso senza sapere da che parte rigirarlo. Per me, son fortunati quelli che vennero su da ragazzi in mezzo a un esercito di cugine: hanno tutti qualcosa di gentile o di dentro o di fuori. Messi in compagnia delle bambine, i ragazzi si studierebbero di piacere, senza nemmeno sapere perchè, e piglierebbero quelle maniere garbate e cortesi, che a poco a poco diventano qualità dell'animo. Anche quella libertà trascurata del parlare, che poi si muta in abitudine e non si perde più, credo che sarebbe un po' corretta, e sarebbe un gran bene. Ma poi, guardate anche un bambino d'ott'anni, quand'è con una bambina di sette: gli si sveglia subito un certo sentimento di superiorità protettrice, che gli dà qualcosa di generoso e lo inorgoglisce. Così per me non c'è nulla di più caro di quell'aria di donnina savia che piglia una bambina, quando passeggia a braccetto d'un ragazzo dell'età sua. Nell'uno come nell'altro sentimento v'è un germe di virtù che quanto prima fiorisce, tanto meglio. E appunto in questo modo io credo che si ritardi il progresso di certe idee, perchè l'immaginazione lasciata sola divora presto la strada, e il ragazzo che fantastica la donna da sè, nove volte su dieci la guasta. Educazione comune: io son di questo parere. Poi si diventa grandi, si va lontano, si dimenticano a poco a poco i nomi e i visetti delle compagne d'infanzia; ma si vedono sempre, in confuso, tutte quelle testine bionde; e in mezzo alle tempeste della vita quelle manine ci salutano da lontano. Io da ragazzo picchiai per la strada un monello più forte di me, perchè aveva toccato un ricciolo a mia cugina, mentre l'accompagnavo a scuola; vi giuro che questo ricordo m'ha salvato dal far più tardi parecchie bricconate. Che cosa ne dite? —

Qui tacque, e guardò Candida; ma essa aveva abbassato tanto la testa, e non potè vederla in viso. — Mi pare che tu abbia ragione — gli disse la sorella, che non gli aveva affatto badato; la zia restò muta; il vecchio fece il suo solito risolino di consenso benevolo, e brontolò: — Sì... c'è qualcosa di vero.

— Furio! — disse a un tratto Iride.

Furio balzò in piedi.

— Mi son cadute le forbicine.

— Eccole, — disse Furio porgendogliele ed aveva il viso acceso. Iride prese le forbici, lo guardò e disse tra sè: — Curioso!

— Sciocco! — soggiunse la zia, che pure lo guardava.

E Riconovaldo, pronto: — Caro! — e lo baciò.

E così i due vecchi incartapecoriti toccarono la loro prima sconfitta.

XI.

La mattina dopo, Candida tirò in disparte suo fratello e gli disse con piglio amorevole:

— Perchè ti confondi in quel modo, quando Iride ti guarda o ti parla? Che c'è da vergognarsi? Non sta bene; chi sa che cosa le farai pensare... Le farai pensare che sei cattivo, perchè sono soltanto i ragazzi cattivi che si vergognano. Bisogna che tu sia un po' più disinvolto; è una tua parente, in fin dei conti, è tua cognata e — accentuando le parole — potrebb'essere tua madre. E poi non istà neanche bene guardar la gente così fisso, che pare non si sia mai visto nessuno; e tu ieri sera la guardavi così; e dovresti invece tenerla come una sorella, con cui fossi sempre vissuto insieme, e portarti con lei come ti porti con me. —

Furio, a cui non passava per la mente che sua sorella gli avesse letto nell'anima, intese quelle sue parole alla lettera, e rispose: — Sì, — e poi domandò ingenuamente; — Ma tu perchè non guardi mai Riconovaldo, e quando parla non lo stai nemmeno a sentire?

— Perchè... —

Mentre Candida cercava una risposta, comparve Iride con un vestito scollato di mussolina bianca, che lasciava vedere le sue spalle bianchissime. Candida fece un segno impercettibile di maraviglia spiacevole e guardò Furio. Furio vide in confuso qualche cosa di bianco, e disparve.

XII.

Poche ore dopo, Iride stava appoggiata a una finestra del salotto da pranzo, colle spalle volte alla campagna, e diceva: — Ma che proprio non ci sia modo di sfranchire un pò questo ragazzo? — In quel momento sentì il passo di Furio che scendeva le scale, e soggiunse subito: — Ora mi ci metto io. —

Furio entrò di corsa, credendo che non ci fosse nessuno; appena entrato, si fermò.

— Vieni qua, — disse risolutamente Iride, vedendo ch'egli si voltava per tornare indietro.

Furio la guardò stupito.

— Qua, — ella ripetè in tono scherzevole di comando; Furio, adagio adagio, le venne vicino.

— Ancora, — soggiunse Iride sorridendo.

Furio s avvicinò fino quasi a toccarla, col viso acceso, cogli occhi bassi, colle sopracciglia corrugate che pareva che soffrisse: non aveva che un leggiero sorriso sulle labbra, forzato, tanto per non parere un orso addirittura. Iride lo guardava con un'attenzione piena di curiosità, come per leggergli dentro, chè quella confusione le cominciava a parere strana davvero.

— Dove andavi? — gli domandò dolcemente, dopo un po', togliendogli di sulla manica della giacchetta un non so che di bianco, rimastovi appiccicato. Furio seguì con occhio attento e stupito quella mano, e poi rispose timidamente:

— In giardino.

— Sul lago? — dimandò essa di nuovo, come distratta, per dare al dialogo un certo tono di famigliarità; e si chinò a guardargli l'altra manica, come se vi avesse visto una macchia. Furio intravvide di su in giù quello stupendo volume di capelli biondi, e rispose con voce malferma:

— ... Sul lago.

— Ma guardami dunque! — esclamò Iride con allegra vivezza; — ti faccio paura? —

Furio si scosse e le lanciò uno sguardo che voleva dir cento no, franchi, sonori, risoluti; poi riabbassò gli occhi più confuso.

— Oh che strano ragazzo! — proruppe Iride con uno scoppio di risa; e piegando all'indietro la testa e giungendo le mani, scopriva tutto il collo bianco e le braccia bellissime.

— Ma perchè non ti pettini mai?

— ... Mi pettino, — rispose balbettando il ragazzo.

— Ma sei sempre così arruffato! — soggiunse Iride, e gli passò una mano sul capo. Furio diede un guizzo, piegò sotto come una verga di giunco, e il suo rossore disparve.

— E adesso? — dimandò la signora, ritirando la mano.

— ... Che? — mormorò Furio, ricomponendosi.

— Che cos'hai?

— ... Nulla.

— Guarda come ti sei messo la cravatta. Se fossi tua madre, vedo che avrei un gran da fare per darti un po' di garbo. Ecco, guarda come si fa, fermo un momento: così... e così... —

E nel piegare e ripiegare la cravatta andava ripetendo quei così con una vocina lenta e carezzevole, a pause, come si fa ai bambini quando non voglion lasciarsi vestire. Tutt'ad un tratto tirò indietro le mani e domandò: — Perchè tremi?

— Non tremo, — rispose in fretta il ragazzo.

— Ma sì che tremi, e sei diventato pallido!

— Io no.

— Ti dico di sì, figliuol mio; tu non ti senti bene, hai bisogno d'aria, dammi il braccio, e andiamo a fare una passeggiata nel giardino. —

Furio, esitando, le porse il braccio; la condusse, a passo incerto, fino alla porta, e lì l'affare si fece serio: doveva passar prima lui? prima lei? tutt'e due insieme? a braccetto o divisi? Iride, ridendo, passò la prima. — Ah! questo cavaliere... — esclamò poi, riprendendo il braccio del poveretto tutto vergognoso; — andiamo, via. —

Furio, che non aveva più quegli occhi dinanzi, ritornava a poco a poco padrone di sè e incominciava ad afferrare colla mente la sua felicità; ma, oh Dio! fatti dieci passi, cracche, le ha messo il piede sul vestito; Iride guarda, è stracciato.

— Ma guarda come cammini! — esclamò con voce stizzosa, arrossendo. — Non vengo più, ecco! — E si sciolse bruscamente dal braccio del suo cavaliere; ma subito ritornò verso di lui sorridendo, e gli disse: — Povero Furio, come sei rimasto male! — Poi, porgendogli la mano, soggiunse: — Qua, facciamo la pace. —

Furio pose la sua destra tremante nella piccola mano d'Iride, e continuò a camminare più impacciato che mai. Andavano per un viottolo fiancheggiato da due alte siepi. Iride fece qualche domanda al piccolo cognato intorno alla sua scuola, alle sue occupazioni, alla campagna, di quelle solite domande che si fanno ai ragazzi senza badare alla risposta, e poi, ridendo, lo interrogò della zia: — Un po' durotta, eh? — e l'interruppe per accennargli un fiore, che glielo pigliasse. Furio lo prese e lo teneva in mano per non saper come porgerlo.

— Animo, sii gentile, e mettilo qui, per bene. —

E si voltò di fianco e chinò con molta grazia la testa, perchè glielo mettesse nei capelli; Furio glielo mise.

— Dio mio! — gridò Iride, spaventata, dopo pochi passi; — che strada è questa? —

Aveva messo un piede sull'orlo d'un fossetto pieno d'acqua e c'era scivolata dentro un buon palmo. Con un leggero sforzo tirò fuori il piede tutto stillante. Allora Furio si buttò in ginocchio, e prima col fazzoletto e poi coll'erba del sentiero strappata in fretta e furia, cominciò a fregare lo stivaletto con una foga disperata.

— No, no, basta, — andava dicendo Iride: — basta, Furio, grazie, non ti affaticare, tanto son tutta bagnata, bisogna ch'io mi vada a cambiare, basta, lascia pure. —

E andava ritirando il piede, stretto intorno alla noce dalla mano del ragazzo, come da un cerchio di ferro.

— Ma basta! — proruppe Iride con uno scoppio di risa.

Furio si alzò tutto rosso, sudante e glorioso, e quando Iride si fu allontanata, diede in un riso represso, si strinse un dito fra i denti, si stropicciò forte le mani, battè i piedi, rise di nuovo, e alzando gli occhi al cielo esclamò con trasporto di contentezza:

— Oh Dio! Dio! Come sono felice! Non c'è nessuno più felice di me sopra la terra!

XIII.

A Iride non era nemmeno passato per la mente che sotto quella gran timidezza del ragazzo si nascondesse qualcosa; e non c'è da meravigliarsene. I ragazzi noi li crediamo sempre più ragazzi di quel che sono. E questo, perchè, al solito, vedendoli e trattandoli, non ci è presente alla memoria il grado vero d'intelligenza e di sensitività che avevamo noi all'età loro. Se ci fosse presente sempre, ci ricorderemmo, per esempio, quasi tutti che, da bambini, abbiamo sentito far dei discorsi, in presenza nostra, che noi ora, alla presenza d'altri bambini, non ripeteremmo; e allora coloro che li facevano, erano fermamente persuasi che noi non gl'intendessimo; e gl'intendevamo invece quanto loro, e facevamo le viste di no. L'intelligenza dei fanciulli precorre quasi sempre l'accorgimento dei genitori o degli educatori, o di chiunque abbia ragione di tenerli al buio di qualche cosa per un certo tempo; le cautele vengono quasi sempre tardi; e fra quando cominciano a capire e quando si comincia a sospettare che capiscano, tutti i fanciulli sono più o meno ipocriti, e la loro ipocrisia è tanto più fina e profonda, quanto più viva e più spesso delusa la curiosità.

Lo stesso segue degli affetti.

Un ragazzo di quattordici anni! Chi gliel'avesse detto, a Iride, ell'avrebbe dato in uno di quei suoi scoppi di risa freschi e sonori, che facevano restar a bocca aperta il suo piccolo schiavo.

XIV.

Riconovaldo, più che stizzito, offeso dalla indifferenza crescente di Candida, continuava a rodersi dentro, ad almanaccare la maniera di vincerla, a tentar anche d'irritarla, se non altro, e di farsi detestare a viso aperto; pur ch'ella smettesse di portarsi così, come se non s accorgesse di lui. Poichè dice bene il Leopardi, che gli uomini tollerano l'odio, e talvolta pure se ne gloriano; ma ad un segno o ad un sospetto che abbiano di noncuranza, pochi sono così forti che restino immobili, e non si diano con ogni mezzo a cercare di liberarsene, discendendo anco, se occorre, ad atti vili. E più che in altri doveva questo esser vero in lui, che, oltre al naturale sospetto d'esser preso per una testa piccina e un'anima vuota, aveva la coscienza altera della sua bellezza, e non si vedeva nemmeno guardato.

Visto che anche il suo tentativo oratorio era andato fallito, si persuase di quello che Iride gli aveva detto di Candida; ch'essa, cioè, sotto quell'apparenza modesta e dimessa, covasse dell'orgoglio e della pretensione; il che avviene più di sovente in chi meno vi ha diritto e lo dà meno a vedere. Per questo pensò di scegliere altra strada, e cominciò a fare il noncurante anche lui; ma Candida era sempre più fredda; e gli fu forza di smettere. Allora invelenì davvero, e andò più in là; cominciò a pungerla, parlando a sua sorella, con ogni sorta di allusioni fanciullescamente maligne. Un giorno si lasciò andare a questa: Candida era presente, e sua sorella gli domandò d'una certa signora vedova di sua conoscenza, perchè non si rimaritasse.

— Che vuoi che si rimariti quella creatura di carta pesta? — rispose Riconovaldo coi denti stretti. — Non se n'accorge mica lei di non aver marito; è una di quelle donne che vivono fuor delle leggi della natura; anzi, a voler parlar giusto, non è neanco una donna. Per meritare il nome di donna, non basta mica averne le forme; bisogna averne l'anima, gli affetti, le tendenze, e una donna che non ha tutto questo, non è una donna, come non son donne le bambole, le mummie, le statue, e quei vestiti interi che pendono dagli attaccapanni nelle botteghe dei mercanti di stoffe. —

Ma Candida persisteva; non faceva un atto di risentimento, non dava un segno d'impazienza; era indifferente e impassibile come una pietra; e sì che qualche volta Iride, indispettita anch'essa da quei modi, aggiungeva le sue alle punzecchiature del fratello, ed era un'alleata formidabile. Riconovaldo, punto fino a mordersene le dita, e incaponito sempre più nel suo proposito, mutò strada ancora una volta. A poco a poco raddolcendosi, e fingendo di pentirsi, o pentendosi davvero, del suo procedere scortese e maligno verso Candida, cominciò a farle la corte, come lui la sapeva fare, con quella grazia e quella finezza; prima alla lontana, timido; poi apertamente, caldo e soave; qualche volta quasi supplichevole. Ma Candida mostrava di non badar alla sua dolcezza più di quel che avesse badato alla sua malignità.

Riconovaldo, disperato di riuscire, ferito nel più vivo nell'amor proprio, arrabbiato, volle vendicarsi voltando la cosa al faceto, e seguitò a far la corte a Candida come l'avrebbe fatta a una vecchia di settant'anni per divertire una brigata di amici; con certi inchini, certi accenti, certi modi sdolcinati e grotteschi, che gli sarebbero stati bene colle scarpe a fibbia e la parrucca incipriata. E nello stesso tempo si buttò dietro le spalle tutti i precetti educativi del Tommaseo, che in presenza delle ragazze non bisogna prendere atteggiamenti sbadati, nè sdraiarsi con cascaggine patrizia, nè avvicinarsi tanto che sentano gli aliti e cose simili. Ma Candida sempre si tirava indietro, o torceva la testa e voltava le spalle, o s'alzava e se n'andava via.

Un giorno le presentò un mazzolino di fiori avvizziti e senza odore; quella volta essa corrugò le ciglia e arrossì; ma subito si ricompose, e senza far atto di sprezzo o di dispetto, buttò il mazzolino in un canto.

E i giorni passavano così e Riconovaldo sempre più si accaniva, non però senza comprendere, di tratto in tratto, quando la passione taceva, ch'egli aveva torto, e che la sua condotta era puerile e villana. In quei momenti egli provava per quella povera ragazza un tale sentimento di pietà, che quasi era per correre a domandarle perdono; ma al primo rivederla, così rigida e cocciuta, addio pentimento: la bile si risollevava più che mai.

Altro che ricrearsi un poco a spese di Candida, riscalducciandola con qualche sorriso e qualche parolina, come n'aveva fatto disegno nel partire per la villa!

Iride intanto continuava a fare il chiasso con Furio, ogni giorno, come quella volta della passeggiata. Erano venuti in una certa dimestichezza; Furio sera fatto un po' più disinvolto; era beato; Iride gli comandava come a un paggetto, gli faceva fare mille faccenduole di casa, lo teneva tutto il giorno in moto a sua disposizione. — Furio! — gridava, e subito si sentiva un: — Eccomi! — allegro e vibrato, e un passo precipitoso, e Furio era là, davanti a lei, ansante e infiammato. Più stava insieme con lui, e più Iride lo trovava curioso, chè non sapeva capire certi suoi mutamenti improvvisi di colore e di umore, e se ne divertiva; e vedeva ch'era buono e gentile, in fondo, e gli voleva bene. Ma quello stargli sempre così vicina, con quel viso, con quegli occhi, con quel benedetto vestito, con quella sbadata libertà di maniere, e in campagna, era un guaio.

XV.

Sulla facciata della villa, al primo piano, ricorreva un terrazzino lungo e continuo, sul quale davano le finestre della camera di Furio; a sinistra, quelle della camera d'iride; a destra, nel mezzo, quelle del padre. Dinanzi all'ultima finestra d'Iride, nell'angolo, c'erano quattro o cinque grandi vasi di fiori, e un buon tratto della ringhiera era coperto dagli ultimi pampini d'una vite piantata nel giardino. Era un cantuccio tutto coperto di foglie, nel quale non penetrava mai raggio di luce; una persona vi si sarebbe potuta rimpiattare senza essere vista nè dal giardino nè dalle finestre.

Furio, una sera ch'era andato a dormire, mentre tutti gli altri stavano ancora sotto a discorrere, si svegliò, oppresso dal caldo, dopo due ore di sonno, e si fece alla finestra mezzo vestito per respirare un po' d'aria fresca della notte. La notte era quieta e chiara che pareva giorno. Gli alberi del giardino, illuminati dalla luna, apparivano distinti, foglia per foglia, fino ai più lontani, come alla luce del sole. Furio, all'aspetto di quella splendida pace del cielo, si sentì entrare nel cuore una dolce malinconia; guardò lungamente il giardino, i sentieri lontani, le case sparse, i colli; poi incrociò le braccia sul parapetto della finestra, chinò la testa, e stette un pezzo così.

Quando si riscosse, credette che fosse molto tardi e che tutti dormissero. Come spinto da una mano misteriosa, scavalcò il parapetto, e senza quasi pensarvi andò avanti sul terrazzino. A un tratto si accorse d'esser vicino alla finestra della camera d'Iride, e gli corse un brivido da capo a piedi; ebbe paura. Le finestre erano aperte e la camera buia; pensò che già dormisse, gli parve di udire il respiro, si sentì salire una fiamma alla testa, si mosse per tornare indietro... Magli mancò l'animo: avrebbe potuto far rumore e svegliarla; era vicino ai fiori, sedette, e si nascose. In quel punto sentì un suono confuso di voci giù nella sala da pranzo. Gli si agghiacciò il sangue. Non erano ancora andati a dormire, andavano allora, si davano la buona notte; che fare? tornare a letto? farsi scorgere? No, impossibile; fermo lì, e zitto. Il cuore gli batteva forte. Dopo un minuto, sente un passo leggiero venir su per le scale, due o tre porte si aprono e si chiudono l'una dopo l'altra, man mano più vicine; ecco il lume; l'ultima porta s'apre, Iride è nella sua camera, mette il candelliere sul tavolino, s'affaccia alla finestra. Furio trattiene il respiro, si preme una mano sul cuore dalla paura ch'essa lo senta battere; Iride è lì, sopra di lui; s egli stende un braccio la tocca, ne sente il profumo, vede in confuso il bianco del suo vestito. — Oh per carità, va via! — dice il povero ragazzo tra sè. Iride si leva dalla finestra, canterella, tace, ricomincia, va e viene per la camera, si riavvicina al parapetto, ritorna dentro, mormora qualche parola indistinta...

Intanto s'è levato un po' di vento che spande intorno un delizioso odor di giardino. Le foglie della vite e dei fiori stormiscono rendendo il suono d'un bisbiglio concitato, tenero, supplichevole, che par che dica: — Iride, Iride, Iride. — E tutta la campagna tace e la luna splende.

Furio restò un po' di tempo immobile coi gomiti appoggiati sulle ginocchia e la testa fra le mani. Poi a poco a poco le sue gambe si rilassarono, la testa gli ricadde da un lato, si distese in terra supino e s'addormentò.

— Ma vedi che testa! Anche stassera mi son dimenticata di chiudere! — disse Iride, e scese dal letto e s avvicinò alla finestra. — Che buon odore di fiori! — esclamò respirando l'aria viva, e s appoggiò sul parapetto. A un tratto balza indietro, gettando un leggero grido. — Cielo! che sarà mai? — Si riaccosta alla finestra, tende l'orecchio: un respiro! Il coraggio della paura la prende, s'affaccia risoluta, guarda: — Chi vedo! Furio! Che sia svenuto! — Si veste in fretta, esce di corsa, arriva in punta di piedi all'angolo del terrazzino, e si china a guardare il ragazzo. Dalla cintura in su era tutto illuminato dalla luna; aveva i capelli in disordine, la bocca semiaperta e le guancie ancora umide di lacrime. — Dorme, — disse Iride dopo averlo guardato attentamente; — pare che abbia pianto... Ora gli asciugo le lacrime e si sveglia. — Adagio adagio allungò il braccio per pigliargli il fazzoletto ch'egli si teneva fermo sul petto con una mano aperta, nell'atto di chi preme qualcosa sul cuore. Iride glielo prese, lo guardò. Come! il suo fazzoletto! il fazzoletto ch'essa credeva d'aver perduto! Stette un po' sopra pensiero, e poi esclamò: — Ma è possibile? — Restò qualche minuto immobile a guardar Furio che seguitava a dormire, poi tornò lentamente alla sua camera, si riaffacciò alla finestra, lasciò ricadere il suo fazzoletto, e chiuse.

Furio si destò, si guardò intorno, e di nuovo gli parve che le foglie della vite e dei fiori, agitate dal vento, gli dicessero all'orecchio: — Iride, Iride, Iride. —

XVI.

A una donna che avesse avuto un briciolo di cervello, la scena di quella sera sarebbe bastata a fare tutto capire, e anche mettendola solo in sospetto, l'avrebbe indotta a mutar modi col ragazzo. Ma Iride era tanto leggiera che in lei la curiosità vinse immediatamente la prudenza. E non seppe reprimere nemmeno un sentimento di compiacenza vanitosa, che le sorse nel cuore così vivo da non lasciarla nemmeno riflettere ch'era un sentimento colpevole e pericoloso. Non già ch'essa potesse pigliar sul serio l'amore di Furio; ma una donna, chiunque l'ami, se ne tiene; e tanto più era naturale che se ne tenesse lei capricciosa e vanissima. E poi ci trovava da divertirsi: porgergli la mano e vederlo arrossire; appoggiare il braccio sul suo e vederlo scotersi; dirgli: caro! e vedere i suoi occhi risplendere; aver lì un ragazzo da poterne fare quel che voleva con un'occhiata, era una cosa amena. Poi per quietare la propria coscienza aveva mille scuse: non era giusto di volere un po' di bene, e dimostrarglielo, a quel povero ragazzo trascurato e aspreggiato, e pure così buono, dolce e avido d'affetto? Non sarebbe mica stata benevola e carezzevole con lui a fin di male; non sarebbe neanco stata in dovere, per così dire, di dubitare che del male gliene potesse fare; davanti alla sua coscienza non faceva che esercitare un sentimento di pietà consolatrice, un sentimento materno, irreprensibile; essa non doveva saperne nulla di ciò che potesse sentir per lei quel poverino; che c'era dunque da ridire? Ora si rendeva ragione di quella strana timidezza, di quei turbamenti, di quei tremiti, di quei rossori. — Questa è nuova davvero! — ripeteva tra sè la mattina, scendendo le scale, — un bambino di quattordici anni!... mio cognato! — e rideva.

XVII.

Quella mattina, Candida, appena levata, cercò premurosamente di Furio, lo condusse in un angolo della sala da pranzo e gli disse nell'orecchio:

— Cosa facevi ieri sera sul terrazzino, nell'angolo dei fiori? —

Furio si scosse e arrossì.

— Furio! — esclamò Candida con voce affettuosa, — non ci andar più.

Furio la guardò fingendo una grande meraviglia.

— Non ci andar più, Furio, — ripetè Candida, abbassando la voce: — da' retta a me, da' retta a tua sorella che ti vuol bene, promettimi che non ci andrai più...

— Ma dove? — domandò Furio abbassando il capo.

— Oh! tu mi capisci, tu sai quello che voglio dire, non guardarmi così, fa quel che ti dico io, Furio; non mi posso spiegare di più;... ma tu m'intendi, tu mi vuoi bene; non star tanto insieme con Iride, non andar più a passeggiare con lei, sta qui con me, ascoltami...

— Taci! esclamò vivamente il ragazzo.

Iride entrava in quel momento guardando Furio con occhio intento e scrutatore; e questi, ancora tutto sconvolto dalle parole di sua sorella, guardò lei nella stessa maniera, per scoprire se la notte non si fosse accorta di nulla. Stettero così un po' di tempo guardandosi tutt'e due, tanto che Candida, perduta la pazienza a veder così poco giudizio in sua cognata, esclamò con accento di leggero rimprovero:

— Ma Iride! —

Ma subito le mancò il coraggio di proseguire e scomparve.

Iride, senza neanco badarle, s'avvicinò lentamente al ragazzo, gli posò le mani sulle spalle, ritirò un po' indietro la testa e lo fissò negli occhi.

Furio, senza staccar gli occhi da lei, chè pareva affascinato, si levò dalla spalla adagio adagio quelle due mani che lo brucciavano, e si coperse il viso col braccio.

L'atto, lo sguardo, il rossore erano stati tali da non lasciare più dubbio, e per la prima volta, che fu anche l'ultima, Iride fece un atto di prudenza: tirò indietro in tempo una mano che aveva già distesa per una carezza pietosa, e se n'andò lentamente, senza voltarsi.

XVIII.

A mezzogiorno, Furio se ne stava nel giardino seduto all'ombra d'un albero; ancora tutto commosso dalla scena della mattina. Splendeva un sole ardentissimo e tutto era quieto. Non stridore di cicala, non canto d'uccello, non volo di farfalla, non voce, non moto nè vicino nè lontano: pareva che la natura dormisse. Allora la campagna si anima d'una vita fantastica, come di notte. Si sentono suoni indefiniti come di lunghe grida lontane; soffi, fruscii, bisbigli, ora a molta distanza, ora nell'orecchio, qui, là, non si sa dove, da ogni parte. Par che nell'aria ci sia qualcuno o qualcosa che fluttua e che s'agita, che si avvicina, che si scosta, che ritorna, che ci rasenta, che s'allontana. A un tratto si sente accanto un ronzìo d'insetto; passa, e tutto tace. S'ha una scossa, ci si volta: è caduta una foglia. Sbuca una lucertola, si ferma, che par che stia a sentire, e come impaurita da quel silenzio, si rimbuca. La campagna ha non so che di solenne e di triste come un mare solitario; e la testa si abbassa come per forza, mentre l'occhio socchiuso vaga per le valli oscure e pei cupi recessi che la fantasia languida gli rappresenta tra i fili dell'erba e i granelli della terra. Furio solo vegliava a quell'ora. Il vecchio impiegato dormiva in camera sua, supino sul letto, colla fronte tutta in sudore e un andirivieni di mosche sul naso; e la zia, smessa la calza, s'era anch'essa addormentata sulla seggiola, ritta interita sul busto, colle braccia incrociate come un idolo e le labbra sporgenti in atto dispettoso.

Furio non aveva visto Iride da più di due ore, e non sapeva dove fosse. S'alzò da sedere e cominciò a girar pel giardino. Il giardino era vasto e tutto piantato d'alberi fittissimi come un boschetto. Egli guardava lontano fra tronco e tronco se biancheggiasse da nessuna parte un vestito di donna, quando l'occhio gli cadde su poche foglie di rosa sparse sull'erba. Dopo quelle, poco lontano, ce n'era dell'altre, e via via a perdita d'occhi era una lunga striscia color di rosa. Furio seguitò quella traccia, andò un po' innanzi diritto, poi svoltò a destra, svoltò a sinistra, girò, rigirò, arrivò quasi in fondo al giardino; all'improvviso non vide più foglie, rivolse gli occhi intorno e diede una voce di sorpresa. Iride, stesa sull'erba ai piedi d'un albero, dormiva.

Non dormiva; fingeva.

Furio rimase là a guardarla a bocca aperta, lontano sette o otto passi. Era vestita di bianco, e intorno a lei tutto verde cupo; spiccava come un cigno sulla sponda erbosa d'un lago. Stava distesa come sur un letto, con un braccio nudo piegato sotto la testa, l'altro steso lungo il fianco, e tutt'un piede scoperto. Teneva il viso rivolto dalla parte di Furio, e il suo labbro inferiore abbassato scopriva i dentini uniti e bianchi. Il volume delle treccie allentate pareva che fosse sul punto di sciogliersi e di spandersi intorno a ondate d'oro. Respirava frequente; aveva l'occhio semiaperto e fisso, come lo tengon molti dormendo, e le gote color di rosa vivo.

Furio stava guardandola cogli occhi spalancati e le mani per aria in atto di meraviglia. Egli non aveva mai visto dormire una bella donna, e notava per la prima volta quella grazia più spiccata e più molle che il sonno dà alle forme femminili, e l'atteggiamento infantile di quel bel viso immobile. Il cuore gli tremò, gli corse una scintilla per tutte le fibre e si stese come una nebbia fra Iride e i suoi occhi.

— Eccola, — mormorava colle labbra tremanti e cogli occhi umidi, — Iride, la mia buona Iride, quella che mi vuol bene, che mi protegge, e sta sempre con me, e mi fa passare tante ore contente; quella che mi compatisce e mi perdona... io così in questo modo, che non sono nemmeno degno di starle vicino, e lei così bella... Eccola là... Iride, dormi, io ti guardo, sei tanto bella, sei il mio angelo, io ti voglio bene che non so che cosa farei per te, guarda; io sono contento; io bacerei dove tu metti i piedi, cara Iride. —

Tirò fuori in fretta il fazzoletto e lo baciò dicci o dodici volte avidamente.

— Dormi, non ti svegliare, Iride; io ti guardo, starei sempre qui a guardarti. —

Corse a un roseto là presso, strappò in furia molte rose e le andò a gettare ai suoi piedi.

— To', prendi, ti copro di fiori, tu devi dormire in mezzo alle rose, tu che sei così bella. —

S'inginocchiò ai suoi piedi e le baciò due o tre volte il vestito, continuando a dire tra sè: — Cara Iride! mia bella, mia buona Iride!

Iride si mosse: Furio balzò in piedi e si fece tutto di fuoco. Essa fingeva sempre di dormire; ma nel muoversi s'era sciolta da una specie di mantiglia che parte le era stesa sotto e parte le avvolgeva il seno. Furio indietreggiò a quella vista, con gli occhi fissi su di lei; si passò una mano sulla fronte, si cacciò indietro i capelli con una scrollata di capo, e poi si slanciò a traverso i campi di corsa. Andava come se fosse inseguito, pareva che il terreno si facesse elastico per dargli l'impulso, divorava la strada; arrivò a un fosso, cadde, si bagnò, si rialzò, e via, via, come portato dal vento; sale il colle, scivola, si rialza, si aggrappa agli sterpi, arriva sulla cima, e giù dall'altra parte a lunghissimi salti, seguitato dalle pietre urtate che franano, pestando piante e solchi, empiendo la valle silenziosa di grida: — Animo! — Là! — Così! — Coraggio! — Ed eccolo in fondo, steso sull'erbe, supino, spossato, cogli occhi al cielo e la mente smarrita in una certa ebbrezza fantastica, come se fosse precipitato in fondo all'abisso.

XIX.

Da quel giorno Furio cominciò a vivere in uno stato di esaltazione continua. Il nuovo contegno di Iride, un po' meno allegra di prima, ma più affettuosa, e come sempre occupata da un pensiero, non potendolo attribuire a un semplice sentimento di sollecitudine e di pietà, perchè non credeva d'essersi lasciato scoprire, lo prendeva come segno d'un principio d'affetto uguale al suo, e questa idea lo metteva tutto sossopra. Sino allora il non avere alcuna speranza, neanco lontana, d'una corrispondenza, la certezza d'esser tenuto nulla più che un ragazzo, e cercato così per distrazione, come un giocattolo; quello stesso fare leggiero, a scatti e a frulli, che Iride aveva usato con lui, era bastato a frenarlo, a mantenerlo un po' in quiete, a fargli fare almeno uno sforzo per dissimulare quello che sentiva. Ma ora quella speranza, che il suo ardentissimo desiderio mutava facilmente in certezza, lo faceva uscire di sè; egli si sentiva come lanciato tutt'a un tratto dall'infanzia nella giovinezza; si sentiva uomo, caldo, fiero, tempestoso; s'agitava, andava, veniva, correva; cercava Iride, la fuggiva, ritornava subito a cercarla, le si strisciava intorno tremante, sussultava sotto il suo sguardo, la divorava cogli occhi senza proferir parola, non trovava riposo la notte, usciva in esclamazioni solo, soffriva, piangeva.

In riva al lago, in mezzo a un gruppo d'alberi, v'era una statua di pietra annerita e muscosa, che rappresentava una donna dormente, in una positura simile a quella d'Iride quand'era stesa ai piedi dell'albero quel giorno. Posava sopra un piedestallo; ma essendosi dovuto rialzare il terreno intorno all'acqua, il piedestallo era scomparso sotto la terra nuova. Due o tre volte, sull'imbrunire, quand'era più agitato, Furio si andò a stendere sull'erba, accanto a quella statua, viso a viso, e rimase lungamente a guardarla, fingendosi coll'immaginazione che fosse viva e sua, e portasse quel caro nome: bizzarrìe che si fanno anche da grandi.

A Candida nulla sfuggiva; essa aveva notato quella crescente inquietudine di suo fratello: sospettò di qualche imprudenza d'Iride e risolvette d'impedire a qualunque costo che la cosa finisse peggio. In quella la zia ricevette una lettera che annunziava di lì a due giorni l'arrivo di suo nipote Carlo, il marito d'Iride. Candida, a quella notizia, si turbò. Carlo così sospettoso, era impossibile che non s'accorgesse di nulla! E con que' suoi modi duri e violenti, che cosa non sarebbe potuto seguire! Perciò si mise a cercare un'occasione di trovarsi sola con Furio per qualche tempo, per potergli tenere un discorso lungo e serio. Ma Furio, accorto, ogni volta ch'essa riusciva ad afferrarlo, le sguisciava di mano, e scappava a nascondere la sua “casta porpora„ in qualche cantuccio solitario.

XX.

La sera dopo, ch'era quasi già buio, dopo aver aspettato inutilmente che Iride scendesse dalla sua camera, Furio uscì di casa e andò a sedersi davanti alla statua. Due ore prima, incontrandolo per la scala, Iride gli aveva preso il mento fra il pollice e l'indice, e gli aveva detto: — Come va, piccino? — E lui, sceso giù, sera scarmigliato i capelli con tutt'e due le mani, in furia, così, non ne sapeva il perchè nemmeno lui... per sfogo.

— Iride! — diceva egli alla statua con voce stanca, come sognando, ed era già buio fitto; — io non posso più... ti voglio troppo bene; se sapessi quel che provo qui! Io ti farei il servitore, guarda; andrei a mettermi sotto i tuoi piedi, quando monti in carrozza. Se mi dicessero: — Fatti tagliare un dito e Iride ti vuol bene, — io mi farei tagliare il dito, e starei sempre accanto a te. Cara! con quei begli occhi grandi, e i capelli biondi, e buona. — E poi dopo aver pensato un po': — Che bella signora! Ti potessi sempre vedere, starei anche chiuso in prigione. Ma tu andrai via, e qui non ci sarà più Iride. Oh Dio, e cosa farò io, quando non ci sarà più Iride! Resterò solo! Ma io non posso più adesso restar solo! Io non posso... Io muoio di malinconia, solo. Oh no! non te ne andare, Iride! non mi lasciar solo! —

E quasi piangendo cingeva con tutt'e due le braccia il collo della statua e le abbandonava il capo sulle spalle. All'improvviso si sentì entrar due mani nei capelli e scorse qualcosa di bianco. Balzò in piedi, indietreggiò, vide Iride seduta, mandò un gridò, cadde in ginocchio, si sentì stretto intorno al collo.... — Iride! Iride! — esclamò a voce bassa e concitata; — no, senti, per carità, non lo far per burla, io sono un povero ragazzo, io non ho altri che te, io t'amo, tu non lo sai, davvero, angelo, no, t'amo, per carità, Iride.... — Si sentì tirar giù il capo sulle ginocchia di lei, la vide chinare il viso, sentì un profumo, un alito caldo, le labbra. — Dio! — mormorò con voce spenta; e Iride, il cielo, il lago, gli alberi ondeggiarono, si confusero e sparvero, ed egli restò senza vita.

XXI.

La mattina dopo, Candida, che da due giorni si doleva di un forte mal di denti e aveva risoluto di liberarsene a ogni costo, doveva partire con suo padre per la città.

Riconovaldo la incontrò per la scala, mentre scendeva per andarsene, e la prese per una mano.

— Lasciatemi stare, — disse Candida, cercando di svincolarsi.

Riconovaldo le prese per forza anche l'altra mano.

— Lasciatemi stare, — ripetè la ragazza più severamente.

Il giovane cercò d'incrociarle le braccia.

— Lasciatemi, Riconovaldo! — gridò la terza volta facendosi pallida, e alzando fieramente la testa.

Il giovane la lasciò andare, sforzandosi di ridere; ma un sentimento impetuoso di dispetto e di rabbia gli offuscò la ragione, e disse con voce soffocata: — Stupida! — Poi disparve soffocato dalla vergogna.

XXII.

Verso le otto della sera dovevano arrivare insieme dalla città Candida, suo padre e il fratello Carlo. A Iride, per procurarle il piacere della sorpresa, non era stato detto nulla dell'arrivo del marito. Furio non sapeva nulla nemmeno lui; alle sei era stato mandato dalla zia a portare una lettera a una villa vicina, e ritornando doveva trovare a casa, a sua insaputa, il fratello.

Riconovaldo, la sera, passeggiava pel giardino sconfortato e triste. In vita sua non gli era mai toccata un'umiliazione pari a quella che Candida gli aveva inflitto poco prima, su per la scala, e nei giorni addietro, ad ogni ora, ad ogni minuto, senza remissione, duramente e spietatamente. Non c'era più dubbio per lui; gli era parso uno stupido, un tristo, un ragazzaccio presuntuoso e insolente, quello che era, in una parola. Già egli se l'era sempre sentito; era nato coll'anima per isbaglio, quella ragazza aveva detto giusto; gli amici, ridendo, gli facevano intendere la verità; egli era l'ultimo degli uomini; un bello schizzo d'uomo; un fantoccio. La vergogna, la stizza, il rodimento gli erano cresciuti a segno da mutargli il viso che pareva quello d'un altro, pareva brutto; si sentiva brutto; si sentiva di fuori com'era dentro; era annientato. E tutto questo per Candida, per quel bel cesto di ragazza senz'anima e senza forma di donna, insipida, sgarbata e orgogliosa.... Egli l'odiava.

Mentre era su questi pensieri si sentì chiamare improvvisamente per nome, e voltandosi, vide la donna di servizio; una buona vecchia che serviva in quella casa da vent'anni.

— Sono due ore che la cerco, — disse la donna — e son parecchi giorni che ho da domandarle una cosa: mi permette? —

Il giovine accennò di sì.

— Una cosa che più ci penso e meno la capisco, e c'è solamente lei che me la possa spiegare. Ma bisogna che venga con me subito, perchè non c'è tempo da perdere. —

Riconovaldo s'alzò; la vecchia, precedendolo, lo condusse alla villa, gli fece salir la scala, apri la porta della camera di Candida e gli disse: — Entri. —

Il giovane la guardò meravigliato.

— Entri, entri; se non entriamo qui, non mi posso far capire. —

Il giovane entrò e guardò intorno; era una camera semplicissima; le pareti nude, un lettino bianco, poche seggiole, e un tavolino accanto alla finestra con su qualche libro.

La vecchia chiuse la porta, si venne a piantare in mezzo alla camera, in faccia a Riconovaldo, e cominciò con aria di mistero:

— La signora Candida è una ragazza tranquilla, non è vero?

— Così m'è sempre parsa, — rispose il giovane, senza capire a che potesse condurre quella domanda.

— Non ha mica nessun dispiacere nella famiglia?

— No, ch'io sappia.

— È anche una giovane di.... giudizio, seria; voglio dire che non ha uno di quei naturali, che hanno tante, a capricci; è sempre ad un modo lei colla gente, non è vero?

— È verissimo.

— E qui in campagna non conosce altra gente che suo padre, sua zia, suo fratello, lei e la cognata, non è vero?

— Nessun altri.

— Oh dunque, — esclamò la vecchia dopo un momento di riflessione, — come mai è tanto cambiata da un tempo in qua?

— Ma se dicevate adesso che è sempre ad un modo.

— Colla gente sì; ma quand'è sola e anche quando ci son io, no.

— E cosa fa quand'è sola?

— Oh se sapesse! Senta. Ma.... prima di tutto; sa lei che ci siano dei libri che fanno piangere come disperati?

— Dove sono questi libri?

— Eccone uno. —

La vecchia tirò il cassetto del tavolino, prese un libro e lo porse a Riconovaldo.

Storia di Sibilla, — lesse il giovane sul frontespizio; — è un romanzo, e con questo?

— Fa molto piangere?

— Può far piangere.

— Da disperati?

— Oh Dio! da disperati no; qualche lacrima, così, come se ne versano tante.

— Allora guardi; ci devono essere dei segni; legga qui. — E le indicò una pagina piegata, dove ci eran tre righe segnate coll'unghie.

Riconovaldo lesse da sè: — “Miss o' Neil era una ragazza grande, magra, angolosa, che camminava con una regolarità e una rigidezza d'automa....„

— E ora qui.

— “.... Brutta fino quasi al ridicolo, la gente si capisce, non l'aveva punto assuefatta male. Circondata sempre d'un'atmosfera glaciale, sempre imbarazzata e nervosa come persona che cammini sotto sguardi malevoli ed ironici....„

— E qui.

— “.... Voi non lo potete mica sapere tutto quello che io soffro, povera bambina, voi non lo potete.... è impossibile! Immaginatevi ch'io sono sola al mondo, più sola d'un'altra, perchè sono brutta e spiacevole, e questo mi condanna a esser sempre sola, senza affetto, senza marito, senza figliuoli! E io sarei stata una così buona madre, sapete, Sibilla, una così tenera madre!„ —

Riconovaldo, leggendo, s'era turbato; quand'ebbe finito, chiuse il libro e rimase pensieroso.

— Ma che diavolo dice quei libro? — domandò la donna.

Il giovane non rispose

— Io era qui quando la signorina leggeva, e leggendo quella pagina lì, piangeva, e faceva i segni coll'unghia, e poi, quando andai fuori, diede in un pianto dirotto, e seguitò a piangere per tutta la sera. —

Riconovaldo continuava a tacere, cogli occhi immobili a terra, come trasognato.

— E poi tante altre cose, — riprese la donna. — Una sera venne su in fretta, che pareva più allegra del solito, e cominciò a scrivere, a scarabocchiare, a stracciar fogli e ci stette fino a notte avanzata, che non pareva mai contenta del suo lavoro; e poi per che cosa? Avesse almeno scritto una lettera! Di tanto scrivere, la mattina non c'era altro che un fogliolino di carta pieno di sgorbi e di cancellature, nascosto in fondo al cassetto...

Così dicendo la vecchia aperse il cassetto, prese il foglio e lo porse; Riconovaldo lesse a stento tra frego e frego: — “.... Bisogna capirli, bisogna studiarli, ma per studiarli bisogna amarli.... I ragazzi.... Quando il cuore si apre.... la compagnia delle bambine della sua età....„ Cos'è questo? — gridò il giovane colla voce tremante, passandosi una mano sulla fronte; scorse il foglio da capo a fondo, c'era tutto il suo discorso di quella sera intorno all'educazione dei ragazzi.

— Ma questo è niente! — disse ancora la vecchia; — o mi dica un po' lei, come può venire in mente ad una ragazza di fabbricarsi un mazzetto di questa fatta e di custodirlo come un gioiello? —

E ciò dicendo levò dalla cassetta e mostrò a Riconovaldo un mazzetto di fiori secchi col gambo lungo un palmo, legati malamente come un mazzo d'insalata. Riconovaldo riconobbe il mazzetto che aveva regalato per ischerno a Candida, e ch'essa aveva buttato in un canto.

— Che gliene pare? — soggiunse la vecchia scotendolo per un braccio, che pareva estatico. — E dire che baciava questi fiori come se glieli avesse regalati l'innamorato! Mi spieghi dunque tutto questo.

— Un momento, — rispose il giovane, correndo nel canto della finestra per esser libero coi suoi pensieri. Egli era giusto e buono; la scoperta di quel segreto gli scosse tutto quello che aveva di più gentile e di più generoso nell'anima; un impeto di gioia, una piena di dolore amaro, uno struggimento profondo di tenerezza e di pietà gli presero il cuore ad un punto, gli occhi gli s'empierono di lacrime, il petto gli ansava, ed egli mormorava tra sè concitato: — M'ingannavo, dunque! Essa è buona, è santa, mi amava; la ragione della sua freddezza è in quelle parole del romanzo; non poteva sperar nulla, credeva impossibile ch'io la ricambiassi, si voleva sottrarre al pericolo, si voleva vincere; taceva, soffriva, piangeva, mi perdonava, scriveva le mie parole, baciava i miei fiori, e io la credevo senza cuore, io la pungevo, io la schernivo, io l'ho insultata; io che non son degno di baciarle il vestito, io ho insultato lei, quella giovane disgraziata, quel povero angelo senza speranze e senza conforto; io sono un vigliacco!

— Signor Riconovaldo, — disse improvvisamente la vecchia, — è arrivata la carrozza; se ne vada via subito; guai a me se Candida lo vede qui! Ho appena tempo di riporre i libri.

— Andatevene.

— Ma no; lei mi vuol far sgridare; per carità vada via, a momenti Candida è qui, la scongiuro, se ne vada!

— L'aspetto.

— Ah! no, signore, per carità.... Dio! Eccola qui!

— Oh Candida! Candida! — proruppe Riconovaldo con un accento profondamente doloroso e supplichevole, correndole incontro colle mani giunte; — perdono, mia povera Candida, perdono! —

Candida capì a volo, e indietreggiò gettando un grido.

— No, Candida! — continuò affettuosamente il giovine pigliandola per mano, e conducendola in fretta vicino alla finestra, — non mi sfuggire; perdonami; tu sei buona, tu sei un angelo; ho visto un libro, i fiori, quel foglio di carta; io non sapevo nulla, io non potevo immaginare;... io sono stato un indegno; tu sei buona, Candida, perdonami; io non posso vivere con questo rimorso nell'anima; sarebbe una disperazione; non sono cattivo, Candida; te lo sarò parso, ma non lo sono, te lo giuro; parlavo per dispetto, credevo che tu mi disprezzassi e mi sentivo offeso; perdonami, dimmi che ti scorderai tutte le mie parole; io t'ho fatto del male, lo so, sì; tu neghi, perchè sei buona, ma t'ho fatto del male; se tu non mi perdoni, vivrò sempre col crepacuore e colla vergogna; io t'ho insultata, Candida; perdonami....

— Riconovaldo! — esclamò Candida con voce manchevole, cercando di sciogliersi dalle sue braccia. — Non è niente vero... vi siete ingannato.... lasciatemi....

— .... Tu sei offesa, — egli continuò con voce affannosa, baciandole il vestito a ogni parola, — tu non mi vuoi perdonare, è giusto; ma io non voglio lasciarti così, è impossibile, non saprei più che far di me, non mi potrei più soffrire, sarei troppo spregevole anche ai miei occhi; mi parrebbe sempre di vederti piangere, mi saresti un ricordo doloroso per tutta la vita, io non posso andarmene senza il tuo perdono; Candida, te ne scongiuro, perdonami... cara, buona Candida....

— Sì, perdono.... — mormorò con voce semispenta la ragazza, posandogli la mano sulla fronte per tenerlo lontano — ma andatevene, andatevene....

— No, perdono non basta, Candida; dimmi qualche altra parola; tu non hai detto perdono col cuore; dimmi che mi perdoni tutto, che dimenticherai tutto, che non mi credi un indegno, che le mie parole non ti faranno piangere, che le terrai come parole d'un insensato, dette in un momento di passione; io volevo essere stimato da te; io non posso sopportare l'idea che tu mi disprezzi, tu che sei tanto buona; dimmi che mi stimi ancora, te ne scongiuro; ho bisogno del tuo perdono e della tua stima!...

— La mia stima! — gridò Candida, frenando un vivo slancio d'affetto.

— Sì, sì, Candida, dimmi questa benedetta parola; dimmi così: — Riconovaldo, io ti perdono e ti stimo.

— Ebbene, sì! — esclamò essa, fissando i suoi occhi ardenti e soavi in quelli gonfi di lacrime del giovine; — io ti perdono, io ti stimo... ti stimo, e ti.... stimo! — soggiunse a bassa voce.

— Candida! — gridò il giovine balzando in piedi con rapidità fulminea, e stringendole la testa tra le mani; — tu volevi dire un'altra parola; dilla! —

E Candida gli bisbigliò all'orecchio: — T'amo! — e nascosto il viso contro la spalla di lui, diede in un pianto disperato.

XXIII.

In quel punto furono scossi da uno strepito sul terrazzino dalla parte della camera d'Iride; sentiron prima la voce di Furio, poi quella di Carlo, poi il suono d'un potentissimo schiaffo, un grido d'Iride, un rumore concitato di passi.

— Ah! l'avevo preveduto! — gridò Candida, slanciandosi fuori della camera; il giovane la seguì.

Furio, inconsapevole dell'arrivo di Carlo, tornando ch'era già notte alla villa, e vedendo il lume nella camera d'Iride, e lei appoggiata alla finestra colle spalle verso la campagna, era corso in punta di piedi sul terrazzino, era salito adagio adagio sul parapetto, e l'aveva baciata nei capelli, dicendole appassionatamente: — Caro angelo! — Il marito, ch'era nella camera, l'aveva rovesciato con uno schiaffo fuori della finestra, a viso in giù, sopra i vasi dei fiori.

Furio, atterrito, fremente, col volto sanguinoso, pallido come un cadavere, si precipitò per le scale in cerca d'un rifugio. Carlo lo inseguì; il ragazzo si cacciò nella prima stanza a terreno, ma non fece a tempo a chiuder la porta; il fratello entrò minacciando; egli, forsennato per lo spavento, afferrò un fucile da caccia in un canto e si mise in guardia colle spalle alla parete; Candida apparve sulla porta, Carlo incalzò più sdegnato; Furio, dando indietro ancora, urtò il calcio del fucile nel muro, il colpo partì, la ragazza scappò gettando un altissimo grido, Riconovaldo le volò dietro, Carlo scomparve... Furio lasciò cadere il fucile e restò là solo, immobile, pietrificato.

Seguì qualche minuto di silenzio profondo.

Riconovaldo ricomparve sulla porta e disse freddamente:

— Candida è ferita nelle dita.

— Ferita! — gridò disperatamente il ragazzo cacciandosi le mani nei capelli, e poi slanciandosi di corsa: — Oh Dio! presto! subito! Bisogna fasciarle la mano!

— No, — soggiunse il giovane fermandolo, — bisogna tagliarle il braccio. —

Furio svenne.

XXIV.

La mattina appresso Iride e suo marito partirono; in poche parole era stata chiarita ogni cosa; la condotta sconsiderata della signora era stata indovinata e posta fuori di dubbio alla prima; nè lei nè Carlo potevano più rimanere alla villa.

Furio ritornò in sè molto tardi; riavutosi dallo svenimento, lo aveva preso una febbre violenta. Quetata la febbre, e con essa il delirio, egli si trovò nella sua camera solo e circondato da un profondo silenzio come se la villa fosse stata abbandonata. Il pensiero di quel che era accaduto la sera lo assalì all'improvviso, lo prese un'angoscia disperata, e pianse amaramente per molte ore, esclamando fra i singhiozzi: — Candida! mia povera Candida! Che cosa ho mai fatto! — e desiderava di morire.

Stette per molte ore solo, senza sentire il suono nè d'un passo nè d'una voce, oppresso da uno sgomento indicibile.

A un tratto si spalancò la porta della sua camera. Egli balzò a sedere sul letto; ma non vide nessuno, non sentì nessuno; la porta pareva stata aperta da un fantasma.

Passò qualche altro minuto.

Sentì un rumore di passi lenti e gravi; tremò; qualcuno saliva su per la scala; passò suo padre davanti alla porta, senza guardare; passò la zia, passò il medico di casa, passò un signore sconosciuto, passò Riconovaldo, tutti silenziosi, col capo basso, tristi. Egli tese l'orecchio, sentì che salivano al secondo piano, e restò immobile col respiro sospeso. Allora gli tornarono in mente quelle parole: — Bisogna tagliarle il braccio; — e cominciò a tremare violentemente in tutta la persona.

Dopo pochi minuti s'affacciò qualcuno alla porta e disse:

— È finita. —

Allora Furio gettò un grido straziante e cacciò la testa sotto le coperte prorompendo in singhiozzi disperati.

XXV.

In quel frattempo Riconovaldo condusse nel salotto da pranzo i due vecchi, e li fece sedere davanti a sè, dicendo che lo stessero a sentire senza interromperlo.

— Vi ho fatti venir qui — cominciò con viso e accento severo — per dirvi che la cagione di tutto quello che è accaduto siete voi. —

Il vecchio si rizzò.

— Lasciatemi dire, — riprese Riconovaldo; — v'ho da dire una cosa che nessuno vi disse mai, o che voi non voleste mai capire. Ed è che per Furio voi non avete mai avuto cuore, che lo avete disconosciuto, trascurato, e tenuto in casa come un estraneo, credendovi sciolti da ogni dovere verso di lui con dargli da mangiare e da dormire... Lasciatemi parlare... L'avete creduto sempre uno scemo, ed è pieno d'ingegno; perverso, ed è pieno di cuore; e rivende in tutto e per tutto voi, suo fratello, me, tutta la mia stirpe e tutta la vostra. Voi lo avete sempre umiliato; gli avete turato la bocca ogni volta che v'ha domandato un po' d'affetto; l'avete tenuto qui per comodo vostro sei mesi dell'anno, come una fiera in un parco, a inselvatichirsi nella solitudine e a istupidirsi nella noia; gli avete fatto respirare per quattordici anni, non l'aria pura e benefica della famiglia, ma quella fredda e pesante d'una casa d'ospizio, come se l'aveste raccolto per la strada, o ve l'avessero dato a convitto; non avete avuto un palpito insomma, non vi siete dati una cura, non vi siete preso un pensiero, un solo pensiero per lui. Nessuna meraviglia dunque che questo ragazzo, con tanto affetto nell'anima, a cui s'impedì sempre l'uscita, l'abbia poi versato tutto con impeto alla prima occasione; nessuno stupore che le prime parole affettuose abbiano trovato in lui un'eco troppo viva, se non glien'avevate mai fatta sentire nessuna; nulla di più naturale che il primo viso di donna che gli si parò dinanzi, gli abbia fatto dar di volta al cervello, s'egli non n'aveva mai visti, se era stato sempre lontano dalla gente, se era sempre vissuto in mezzo ai campi come un eremita. Sacrificate una volta i vostri comodi, se avete cuore e giudizio, andate a stare in città, conducetelo con voi nelle case dei vostri conoscenti, fatelo stare in mezzo alle bambine, sfranchitelo, incoraggiatelo, amatelo, e fategli capire che lo amate, e penetrate un po' nell'anima sua e nella sua testa, chè non tutti son fatti a un modo e non bisogna giudicar tutti da noi. E finitela con questa maniera d'educazione che vuol mantenere l'autorità colla freddezza e la disciplina coll'umiliazione, e non fa altro che soffocar l'amor proprio, indurire il cuore, alimentare la diffidenza, seminar l'avversione e l'ingratitudine. È un'educazione da collegi. La casa non è un collegio. Nella casa non ci devono essere nè freddezze, nè odii, nè ipocrisie, nè oppressioni; nella casa si corregge, si consiglia, si prevede, si dà dei buoni esempi, e si ama, e così si compie il proprio dovere, si educano i figliuoli, si preparano gli uomini e si lavora per la società. Scusate se sono stato un po' duro, e ora andiamo a terminar questa scena.

Tutte queste cose erano state dette con tanto calore, con tanta forza, con un accento così fermo di persuasione, e tanto spedito, che i due vecchi, sopraffatti, non solo non trovarono modo d'interrompere, ma nemmeno quand'ebbe finito non riuscirono lì su quel subito a infilar due parole. L'ispettore avrebbe ben voluto dire, con aria di rassegnazione, che c'era qualchecosa di vero; ma il giovane lo spinse leggermente fuori del salotto, senza lasciargli il tempo di rifiatare.

XXVI.

Riconovaldo s'affacciò alla porta della camera di Furio e lo chiamò per nome.

Furio, pallido e trasfigurato che metteva pietà, venne innanzi tremando e vacillando.

— Animo — disse il giovane — ora è tempo che tu venga a veder tua sorella.

— Oh! no! — esclamò il ragazzo con voce di pianto, retrocedendo; — non posso! non ho coraggio!

— Vieni! — ripetè Riconovaldo con accento imperioso. — È nostro dovere d'importelo e tuo dovere d'obbedire.

Furio obbedì; Riconovaldo lo prese per mano e lo condusse sopra; il padre e la zia lo seguirono.

Sul punto d'entrare nella camera di Candida, Furio si sentì mancar le gambe; il giovine lo sorresse e gli disse: — Coraggio! — ed entrarono.

La camera era quasi buia; Candida era a letto tutta coperta fino al mento; Furio gettando un grido disperato si lanciò verso di lei, ma si arrestò ad un tratto e cadde in ginocchio, singhiozzando: — Candida! Candida! io ti volevo tanto bene... perdono! —

Candida tirò fuori un braccio e fece l'atto di cingergli il collo; Furio s'alzò, chinò il viso sulla spalla di lei, esclamando con voce soffocata: — Oh Dio! Dio! che cosa ho fatto! che cosa ho fatto! — ed essa gli posò la mano sul capo e stettero un po' di tempo così.

All'improvviso Furio si sentì sul capo un'altra mano, e balzò indietro atterrito.

Candida, sorridendo, gli tese tutt'e due le mani sane e intatte come le aveva sempre avute.

Furio guardò, si passò una mano sugli occhi, girò lo sguardo intorno, lo rifissò sulle mani di Candida, cominciò ad ansare, a gemere, a sorridere, a mormorare qualche tronca parola, ad agitarsi tutto come preso da febbre, e poi, tutto a un tratto, raccolta con grande sforzo la voce, proruppe in un altissimo grido di gioia e si gettò fra le braccia di sua sorella.

— Povero Furio! — essa gli disse, accarezzandolo affettuosamente, — perdonami; ho fatto tutto questo per tuo bene; il dolore che hai sofferto per cagion mia t'ha guarito; ora sei contento e tranquillo; ma ho sofferto anch'io tanto per te; pensa quel che mi dev'esser costato il farti penare così! Riconovaldo m'aiutò, persuase il babbo e la zia, eravamo tutti d'accordo; tu mi perdoni, Furio, non è vero? —

Furio senza staccar la bocca dal viso di Candida accennò di sì.

— Ed ora, — uscì a dire Riconovaldo, — io ne ho già parlato al babbo e alla zia; Furio verrà a fare un piccolo viaggio con me, per compenso di quello che gli abbiamo fatto soffrire. —

Furio si gettò al collo di Riconovaldo. Questi si accostò a Candida, cinse con un braccio la testa di lei, coll'altro la testa di Furio, se le serrò tutt'e due contro il petto, e dopo aver guardato un pezzo i due vecchi meravigliati di quell'atto, sorrise e disse: — Non avete ancora capito che c'è qualche faccenda da accomodare? —

E allora Candida nascose dietro al capo di Furio il suo viso purpureo e radiante di fidanzata.

UN GRAN GIORNO.

La famiglia G*** era in villeggiatura, a poche miglia da Firenze, quando l'esercito italiano si preparava ad andare a Roma. L'impresa non era veduta di buon occhio. Il padre, la madre, le due figliuole grandi, cattolici ardenti e patriotti tranquilli, volevano i mezzi morali. — Noi — diceva la signora agli amici — di politica non ce ne intendiamo, io poi meno di tutti; e se dovessi dirvi proprio chiaro e netto perchè la penso come la penso, mi troverei imbarazzata. Ma, che volete? Io ho un presentimento nel cuore, mi sento dentro una voce, un tremito, un qualche cosa che mi dice: — A Roma in codesto modo non ci s'ha da andare, non ci si deve andare, non ci si può andare. — Io mi ricordo del quarant'otto, mi ricordo del cinquantanove, mi ricordo del sessanta; ebbene, in quei giorni, non ho mai avuto paura, non mi son mai sentita nel cuore quest'ansietà che mi ritrovo adesso, pensavo sempre che la dovesse finir bene.... Ma questa volta, Signori miei, avete un bel dire, io vedo del buio nell'aria, e di molto! Voi ridete.... Pregate il cielo che un giorno o l'altro non s'abbia da piangere. A me quel giorno non par molto lontano.

Il solo che non la pensasse così, di tutta la famiglia, era il figliuolo: giovane di vent'anni, che appunto in que' giorni rileggeva la storia romana, e bolliva. Per questo, in casa, proferire il nome di Roma era attaccar battaglia, e ce n'era già stata una vivissima, dopo la quale avevano convenuto di non toccare mai più quel tasto.

Una sera, ai primi di settembre, ricevettero un giornale ufficioso, in cui si dava per certo che i soldati italiani avrebbero passato il confine. Il giovane gongolò. Il padre lesse l'articolo, stette un po' sopra pensiero e poi, crollando la testa, brontolò: — No! — e poi daccapo: — no! — e una terza volta: — no, no, no!

— Ma scusi, babbo! — esclamò il figliuolo infiammandosi.

— Non ricominciamo! — interruppe amorevolmente la madre. E per quella sera non ci furono altre parole. Ma il guaio serio seguì la sera dopo, poco prima d'andare a letto, quando il giovane, con una faccia franca, senza preamboli, come se fosse la cosa più naturale del mondo, manifestò l'intenzione d'andar a Roma coll'esercito.

Fu un grido generale di sorpresa e d'indignazione. E poi una tempesta di rimproveri e di minaccie: — Che non eran cose da poter onestamente desiderar di vedere; che purtroppo già ne toccava a ciascuno, come italiano, una parte di colpa, senza bisogno d'aggiungervi la responsabilità di testimonio oculare, e che qui e che là, e che infine tutto si poteva concedere e perdonare ad un giovane bennato, fuorchè la smania (furon parole della madre) di andar a vedere bombardare un povero vecchio. Bella guerra! bella gloria davvero! —

Quand'ebbero finito, il giovane strinse i denti, fece in pezzi un giornale, s'alzò con impeto, accese un lume, e andò a chiudersi nella sua camera, pestando i piedi come un attore italiano quando fa il re furibondo.

Ma dopo una mezz'ora, cheto cheto, in punta di piedi, ritornò nella stanza da pranzo. Non c'era più che il padre e la madre, silenziosi e melanconici. Egli domandò scusa al padre, che si lasciò stringere la mano brontolando; e poi ritornò verso la camera. La madre l'accompagnò.

— Dunque mai più di codeste idee, non è vero? — gli disse amorevolmente, ponendogli le mani sulle spalle.

Il figliuolo le rispose con un bacio.

E il giorno dopo passava il confine degli Stati Pontificii.

In casa, appena se n'accorsero, furono lagrime, furori, invettive, proponimenti di non volerlo più vedere, di non alzarsi nemmeno quando ritornasse, di lasciar passare un mese senza dirigergli una parola, di dar di frego al capitolo minuti piaceri nel bilancio domestico, e cento altre cose. Per parte della madre, parole; ma nel padre propositi serii. Non era uomo da transigere; era buono, ma duro, e qualche volta, nelle sue collere, tremendo; e il figliuolo lo sapeva e lo temeva. Come dunque si fosse potuto risolvere a fargliene una così grossa, non si poteva spiegare. Le notizie del venti settembre non fecero che inviperire vie più padre e madre. — Ci sentirà, — dicevano a denti stretti, — ha da venire! — Le parole, i gesti, il contegno da tenersi, tutto era pensato e preparato: doveva essere una lezione solenne.

La mattina del ventidue, stavano tutti nella sala da pranzo, leggendo, quando sentirono un gran picchio nella porta, e subito dopo videro il figliuolo, rosso, ansante, abbronzato dal sole, dritto e immobile sulla soglia.

Nessuno si mosse.

— Come! — esclamò il giovane, incrociando le braccia, con aria di gran meraviglia. — Non sapete la novità? —

Nessuno rispose.

— Non v'hanno detto nulla? Non è venuto nessuno da Firenze? Siete ancora al buio di tutto? —

Nessuno fiatò.

— La presa di Roma.... — s'arrischiò a dire di lì a un po' una delle ragazze, dopo aver consultato il babbo con un'occhiata — .... la sappiamo.

— Come! Nient'altro?

— .... Nient'altro.

— Ma che presa di Roma! — proruppe il giovane con un grido che fece tremare tutti quanti; — che presa di Roma! Ve la porto io dunque la notizia! —

Tutti si alzarono e gli corsero intorno.

— Ma com'è possibile, — continuò egli a gridare agitando le mani, — com'è possibile che non sappiate nulla? Non s'è sparsa la voce per la campagna? Non si son radunati i contadini? Che cosa fa il Municipio? Oh! questa è inconcepibile davvero! Sentite dunque, mettetevi tutti intorno a me, vi racconterò tutto; mi batte il cuore che non posso quasi parlare....

— Ma che è stato?

— Niente! Non vi dico niente! Voglio raccontarvi le cose per filo e per segno, mi voglio sfogare, voglio che sappiate il fatto a poco a poco come l'ho visto io.

— Ma son le feste dei Romani?

— È il plebiscito?

— L'arrivo del Re?

— Ma no! ma no! È ben altra cosa!

— Ma parla!

— Ma sedete!

— O come non s'è saputo nulla qui?

— Ma che volete ch'io sappia? Quello ch'io so è che portarvi pel primo questa notizia è il più gran piacere che abbia provato in vita mia.... Sono arrivato stamani a Firenze, si sapeva tutto, son partito subito; — chi sa, — pensavo, — forse la nuova non sarà ancora arrivata a casa;... mi manca quasi il fiato!

— Di' dunque tutto, subito — esclamarono la madre e le ragazze mettendosi a sedere intorno a lui. Il padre era rimasto in disparte.

— Sentirai, mamma! — cominciò il giovane. — Cose da fare impazzire. Venite più in qua, così. Della mattina del ventuno sapete ogni cosa, non è vero? Entrarono gli altri reggimenti; folla, grida, musiche, come il giorno prima, fino alle dodici. Alle dodici, come per accordo preso, lo strepito cessò, prima nel Corso, poi nell'altre strade grandi, e a poco a poco per tutto. I drappelli dei cittadini si fermavano, facevano crocchio e parlavano sotto voce; poi si sparpagliavano in tutti i versi, salutandosi l'un l'altro, col fare di chi deve rivedersi poco dopo. Pareva che fosse corsa la voce di prepararsi a qualche gran cosa. La gente, incontrandosi, si parlava in fretta, e poi via, ciascuno per conto suo. Da un capo all'altro del Corso era un affaccendarsi generale; chi entrava nelle case, chi usciva, chi chiamava dalla strada, chi rispondeva dalle finestre; i soldati scappavano di qua e di là come se avessero sentito una chiamata; passavano ufficiali a cavallo di trotto; passavano uomini e ragazzi con fasci di bandiere sulle spalle e tra le braccia; tutti frettolosi e affannati, che parevano inseguiti. Io, che non sapevo nulla, e non conoscevo nessuno, guardavo in viso ora l'uno ora l'altro, tanto per veder d'indovinare qualcosa. Tutti parevano allegri, ma non dimostravano più l'allegrezza viva e sfrenata di prima; tutti lasciavano trasparir un pensiero, un dubbio, quasi un'ansietà; si capiva ch'era gente che macchinava qualcosa. Infilai una delle strade secondarie, andai oltre, mi fermai su due o tre crocicchi: in ogni parte lo stesso spettacolo; gran gente, gran moto, gran fretta, e un non so che nel modo di parlare e nei gesti, che avevo già notato nel Corso, come se tutto quell'armeggìo si volesse fare di nascosto a qualcuno, benchè fosse visibile a tutti. Passavano gruppi, drappelli, centinaia di uomini e di donne insieme, e non si sentiva un grido; andavan tutti dalla stessa parte, come a un luogo convenuto....

— Dove andavano? — domandarono il padre e la madre.

— Aspettate. Ritornai verso il Corso. Quanto più andavo innanzi, sentivo crescere un rumor sordo e continuo, come d'una gran folla. Arrivai: il Corso era pieno di gente, tutti fermi e rivolti verso il Campidoglio, come se aspettassero qualche cosa di là. Da piazza del Popolo a piazza di Venezia era tutt'una calca da non potervisi muovere. Si bisbigliava qua e là: — Or ora vengono. — Vengono di laggiù. — Chi viene di laggiù? — La colonna principale. — Viene la colonna principale. — Eccola. — No. — Sì. — A un tratto la folla si agitò con grande impeto, si gridò da tutte le parti: — Son là, — e in men che non si dica la via rimase sgombra nel mezzo come al passare di una processione. Tutte le teste si scoprirono. Io, che ero rimasto indietro, mi feci strada a furia di gomiti, e guardai.... Mi par di sentire il fremito che mi corse da capo a piedi in quel punto. Venivano innanzi generali in grande uniforme, signori in abito nero con ciarpe tricolori; in mezzo ai signori e ai generali, ragazzi, donne e uomini laceri e scamiciati; dietro operai, contadini, donne coi bimbi in collo, soldati di tutte le armi, signore eleganti, studenti, famiglie intere strette in piccoli gruppi tenendosi per mano per non perdersi; tutti affollati, pigiati in modo da poter appena camminare; e pure non si sentiva che un bisbiglio monotono come un ronzìo; silenzio dalle due parti della strada, silenzio alle finestre: era uno spettacolo solenne; faceva tra meraviglia e spavento; io ero estatico.

— Ma dove andavano? — domandarono con più viva insistenza il padre, la madre e le figliuole.

— Lasciatemi finire! — riprese il giovane. — Mi cacciai in mezzo. E con me vi si cacciarono man mano tutti quelli che stavano addossati al muro a destra e a sinistra. Figuratevi che serra serra! La folla pareva proprio un torrente, occupava tutti gli spazii; e ondeggiando sbalzava gente, come onde, nelle botteghe, nei portoni, da ogni parte dove vi fosse un po' di posto. Man mano che si andava, altre turbe di popolo si versavano nel Corso dalle vie laterali, affollate anche quelle da un capo all'altro; e la processione continuava a scendere dal Campidoglio, e correva voce che nel Campo Vaccino vi fossero ancora migliaia di persone. Gran gente arrivava da piazza di Spagna, gente da via del Babbuino, gente da piazza del Popolo. Avevano tutti qualcosa in mano, chi ghirlande di fiori, chi rami d'ulivo e d'alloro, chi bandiere, chi cenci legati in cima a bastoni; qualcuno portava persino immagini sacre spiegate con due mani al di sopra della testa; iscrizioni, emblemi, ritratti del Papa, del Re, dei Principi, di Garibadi; una varietà, una mescolanza, una confusione di persone e di cose, come credo non si sia mai vista sotto il sole; e sempre e per tutto quel bisbiglio sommesso, quell'andar lento, quella serenità, quella dignità, così strana e maravigliosa in tanta moltitudine, che mi pareva di sognare. —

Tutta la famiglia si strinse intorno al giovane senza far parola.

— .... A un certo punto mi accorgo che la folla ha svoltato a sinistra: tutti dietro. Adagio adagio con gran fatica, pigiati, oppressi, urtati da tutte lo parti, senza poter muovere le braccia, respirando a stento, si arriva, di strada in strada, sulla piazzetta dinanzi al ponte Sant'Angelo. Il ponte era stipato di gente; la folla si perdeva di là dal fiume verso San Pietro; tutta la sponda destra era un formicolaio. Il passaggio del ponte fu un affar serio; ci si mise più d'un quarto d'ora; i disgraziati che erano ai lati, spinti dalla gente del mezzo, dalla paura d'esser buttati giù, si attaccavano disperatamente alle spallette, e mandavano grida di spavento; si dice che siano seguite delle disgrazie. A poco a poco si arrivò di là. Tutte le strade che menano alla piazza rigurgitavano. Quando si fu all'imboccatura d'una delle due strade che vanno diritte alla Basilica, s'udì a un tratto un gran fragore sordo, cupo, come quello d'un mare in burrasca, che ora pareva lontano, ora vicino, e veniva verso di noi a ondate. Era la moltitudine accalcata in piazza di San Pietro. La folla si spinse innanzi con più impeto; gli uni sugli altri, portati, travolti, su su, fin che s'arrivò sulla piazza.... Dio eterno! se aveste veduto! Uno spettacolo da sbalordire. Tutta quell'immensa piazza piena zeppa, tutta nera, tutta brulicante, non c'era più piazza, era un mare. Tutt'intorno fra le quattro file delle colonne, sulla gradinata della chiesa, sotto il portico, sul gran terrazzo della facciata, sulle gallerie della cupola, sui capitelli, sui pilastri; e dietro, alle finestre delle case, sui balconi, sui tetti, sopra, sotto, a destra, a sinistra, da per tutto dove una creatura umana poteva posare il piede, o attaccarsi, o sospendersi, da per tutto teste, braccia e gambe spenzoloni, bandiere, gesti, voci. Tutta Roma era là.

— Oh Dio!... E il Vaticano? — domandarono le donne con grande trepidazione.

— Era chiuso. Sapete che un braccio del Vaticano dà sulla piazza, e lì c'è l'appartamento del Papa. Tutte le finestre eran chiuse, pareva un palazzo abbandonato; pareva, in quel momento, che avesse l'espressione d'una persona, fredda, rigida, impassibile, che guardasse giù con l'occhio spalancato ed immobile. La moltitudine guardava in su rumoreggiando. Si vedeva da una parte, verso la gradinata, un grande armeggìo di ufficiali e di signori, che pareva dessero degli ordini, ripetuti poi di bocca in bocca. L'agitazione andava crescendo. Eran tutti a capo scoperto: teste bianche di vecchi, teste brune di soldati, teste bionde di bambini; splendeva un bel sole; mille cose, mille suoni, mille colori ondeggiavano e si confondevano su quella immensa folla; le bandiere, i ramoscelli, i cenci sventolati, erano sbattuti qua e là, come se galleggiassero sull'acqua; il rimescolamento era tale, che pareva ardesse il foco sotto terra. Tutt'a un tratto s'udì e si propagò un grido da tutte le parti: — I ragazzi! I bambini! Avanti i bambini! — Pareva una cosa convenuta. In un punto solo, da ogni Iato della piazza, si videro sollevare i bambini al di sopra della teste, e le donne e gli uomini che li tenevan su, fendere la calca; tutti diretti verso il Vaticano; i ragazzi più grandi farsi strada da sè, scivolare fra le gambe della gente, a dieci, a venti insieme, stretti per mano; in pochi minuti, parte colle proprie gambe, parte spinti, parte portati, centinaia di bimbi, tutto un popolo di creature sino allora nascoste, si trovò affollato in un angolo della piazza; e intanto un gridìo assordante di donne: — Badate! — Largo! — Il mio bimbo! — Di lì a poco un altro grido, più forte, più imperioso: — Le donne! Le donne! — Un altro rimescolìo, un altro rompersi della folla in tutti i versi. Poi un terzo grido più formidabile: — L'esercito! I soldati! Avanti! — E di nuovo un sottosopra indicibile; ma in ogni parte ad un tempo, risoluto, rapido; nessuna delle difficoltà e delle lungaggini che si vedono in casi simili; tutti s'affaccendavano e servivano allo scopo; era una foga, un impeto, e pure un accordo meraviglioso; pareva che quella folla innumerevole fosse ordinata e ammaestrata. A poco a poco si rallentò il movimento, il chiasso si quetò, le braccia si abbassarono, tutti si guardarono intorno, e si vide ch'erano spariti, come per incanto, i bambini, le donne, i soldati. Stavan tutti da una parte della piazza, a destra, divisi in tre grandi schiere, dalla porta di San Pietro fino a mezzo il colonnato, rivolti verso il Vaticano, stretti ed immobili. La moltitudine proruppe in un fragorissimo applauso.

— Ma il Vaticano! — domandò per la terza volta la famiglia, tutta a una voce.

— Sempre chiuso e quieto come un convento; ma aspettate. All'improvviso l'applauso cessò, e si videro tutte le teste voltarsi indietro, e bisbigliare: — Silenzio! Silenzio! — La parola corse fino in fondo alle due strade che sboccan nella piazza. Il bisbiglio, di lì a poco, cessò affatto, e si fece una quiete, un silenzio, come io non avrei mai creduto che fosse possibile fra tanta gente: era qualcosa di sovrumano. In mezzo a quel silenzio, parve improvvisamente di sentire un vocìo leggiero, che non si capiva cosa fosse; un suono vago, diffuso, come se venisse dall'alto; a mano a mano, insensibilmente, crebbe; prima un alzarsi di voci qui, poi là, poi più lontano, incerte, discordanti; di lì a poco più unite, più risolute; infine, come per incanto, confuse; e un solo canto tremolo, argentino, soave, si levò al cielo, echeggiando, come la voce d'una legione d'angeli. Erano migliaia di fanciulli che cantavano l'Inno a Pio IX del 1847.

— Oh! Dio buono! — esclamarono la madre e le figliole, giungendo le mani.

— Quel canto si ripercosse nel cuore di tutti, scese proprio a toccare in fondo all'anima quello che v'è di più tenero; si sentì correre un fremito per la folla; si vedeva un gran moto di braccia e di mani, come di chi vuol parlare e non può; non si udiva che un mormorìo confuso. — Santo Padre, — pareva che si volesse dire da tutti, — guardate, sentite, sono i nostri bambini, sono i vostri figliuoli, che vi cercano, che v'invocano, che implorano la vostra benedizione; sono anime innocenti; arrendetevi alla loro voce; benediteli; fate che la patria e la fede siano un sentimento solo nei loro cuori; una vostra parola, Santo Padre, un vostro cenno, un vostro sguardo solo che annunzi il perdono e la pace, e saremo con voi, per voi, tutti, ora, sempre, per sempre! Sono i nostri bambini, i vostri figliuoli! — Migliaia di bandiere s'agitavano in aria, il canto tacque, seguì un profondo silenzio....

— Ebbene? — domandarono tutti affannosi.

— Sempre chiuso, — continuò il giovane. — S'alzò il canto delle donne. Si sentiva un tremito profondo in quella immensa voce; vi si sentiva un qualche cosa che prorompe soltanto dal seno delle madri; pareva piuttosto un grido che un canto; era soave e solenne. La gente, alle prime note, rimase immobile; subito dopo cominciò ad agitarsi, come mossa da un ardore irresistibile; le grida coprivano quasi il canto. — Sono le nostre madri, — si diceva, — le nostre spose, le nostre sorelle. Santo Padre, ascoltatele; esse non hanno mai avuto odio nè ira nel cuore; esse hanno sempre amato e sperato; esse credono e pregano; esse vi domandano di poter insegnare ai loro figliuoli il nome vostro insieme con quella d'Italia. Santo Padre, una vostra parola risparmierà loro molti dubbi dolorosi e molte lagrime amare; benedite le nostre famiglie, Santo Padre! —

Gli ascoltatori interrogarono collo sguardo e col gesto.

— Chiuso, — rispose il giovane — sempre chiuso. Ma allora proruppe un canto fragoroso e accelerato, a cui seguì un nuovo e più violento rimescolìo; erano i soldati. — Sono i nostri soldati, — dicevano tutti tra se, — saranno i vostri; sono i figliuoli delle campagne e delle officine; essi, Santo Padre, veglieranno alle vostre porte e scorteranno i vostri passi; essi, nati nella vostra terra, essi che udirono da fanciulli il vostro grido sublime di libertà, e combatterono contro lo straniero col vostro nome e con quello del loro Re sulle labbra e nel cuore; benediteli; voi li troverete stretti intorno al vostro trono nell'ora del pericolo, pronti a morire; una parola, Santo Padre, e queste spade, questi petti, questo sangue, son vostri! Essi vi domandano la benedizione della patria! Ricordatevi, Santo Padre, il vostro grido sublime!... — Una finestra del Vaticano s'aperse. — Allora il canto cessò, tacquero le grida, silenzio. Alla finestra non v'era anima viva. Vi fu qualche istante, in cui il respiro della moltitudine pareva sospeso. Si vide come un'ombra muoversi alla finestra, ma dentro, in fondo, e sparire. Parve di veder passare della gente, di sentir dallo strepito. Tutte le faccie, tutti gli occhi erano fissi, immobili là. A un tratto tutta la moltitudine, come ispirata, stese tutta insieme le braccia verso il palazzo, migliaia di donne levarono in alto i bambini, i soldati alzarono i cappelli sulla punta delle baionette, tutte le bandiere sventolarono, centomila voci si sprigionarono in un solo tremendo grido: — Viva! Viva! Viva! — Alla finestra del Vaticano si vide spuntare qualcosa, muoversi, luccicare, sollevarsi in aria di colpo.... Dio eterno! — gridò il giovane lanciandosi al collo di sua madre — era la bandiera italiana! —

Dire l'allegrezza, la gioia, l'entusiasmo di quella buona gente, è impossibile. Il giovane aveva parlato con tanto calore, s'era tanto innamorato del suo medesimo inganno che a poco a poco era arrivato fino a non accorgersi più che inventava; e veramente gli si erano inumiditi gli occhi e gli tremava la voce. Perciò nemmeno un'ombra di sospetto passò per la mente ai suoi genitori e alle sue sorelle. Si abbracciavano, ridevano, piangevano. Da quanti dubbi, da quanti scrupoli, da quante battaglie dolorose fra il cuore d'Italiani e la coscienza di Cattolici, si trovavano liberati! La conciliazione tra la Chiesa e lo Stato! Il sogno di tanti anni! Che tranquillità d'animo a allora in poi! Che bella vita d'amore e di accordo! Che respiro libero e sicuro! — Sia benedetto il cielo! — esclamò la madre, lasciandosi cader sur una seggiola, stanca dalla commozione. E poi daccapo tutti insieme intorno al giovane, chi pigliandogli una mano, chi tirandolo pei panni.

— È proprio vero?

— Non è un sogno?

— Continua, racconta tutto, il Papa, la gente, che cosa è stato....

— .... Quel che seguì allora, — riprese il giovane con voce stanca, — a dirvela schietta io non lo so, non me ne ricordo; fu un tale scoppio di grida, un sottosopra, una frenesia, un delirio tale, che solamente a pensarci, anche adesso, mi si confonde la testa. Io non mi vidi più altro intorno che braccia e bandiere alzate, che mi nascosero ogni cosa. Una gomitata che ricevei nel petto in uno di quei terribili rimescolamenti della folla, mi tolse quasi il respiro. Dopo qualche momento mi parve di essere un po' più al largo e mi gettai in una delle strade che menano al ponte, per uscir fuori da quella confusione. Da tutte le strade di Borgo Pio il popolo si precipitava con altissime grida sulla piazza. Si disse poi che la folla s'era slanciata alle porte del Vaticano per irrompere dentro; i soldati l'avevan dovuta contenere prima col petto, poi a forza di braccia, infine coll'armi; si parlava di gente rimasta soffocata nel serra serra. Dentro, nel Vaticano, che cosa sia seguìto per ora non si sa; si diceva che il Papa aveva dato la benedizione dalla finestra. Io non lo vidi. Affranto, sfinito, arrivai sul ponte e lo passai. Sempre accorreva gente da ogni parte, chiamati dalla notizia del grande avvenimento, che s'era propagata colla rapidità del lampo. Grossi drappelli di cavalleria accorrevano di trotto serrato. Guide e aiutanti di campo, mandati a portar ordini di qua e di là, correvano le strade gridando. La gente rispondeva dalle finestre. Vecchi decrepiti, malati, donne coi bimbi fra le braccia, s'affacciavano a' terrazzini, scendevan nella strada, interrogavano, si meravigliavano, si baciavano.... Io arrivai al Corso. All'improvviso s'udì un rimbombo terribile dalla parte del Pincio, poi un altro dalla parte di Porta Pia, poi un terzo dalla parte Porta San Pancrazio; erano tutte le batterie d'artiglieria dell'esercito italiano che salutavano il Pontefice con una salva precipitosa. Dopo poco s'udirono i rintocchi della campana del Campidoglio, poi man mano le campane di cento chiese, che si confusero in un concerto grandioso. La folla da Borgo Pio si riversò con impeto sfrenato sulla sinistra del Tevere, invase in pochi momenti le strade, le piazze, le case; scoprì gli stemmi papali ch'erano stati coperti; portò in trionfo busti di Pio IX, ritratti, bandiere; migliaia di persone si fermarono davanti ai palazzi dei patrizi romani più noti per devozione al Pontefice e proruppero in applausi, e quelli si presentarono sui balconi e misero fuori le bandiere nazionali.... Un momento, lasciatemi riprendar fiato. —

Ripreso ch'ebbe fiato, subito l'incalzarono con nuove domande: — E poi? E il Vaticano? E il Papa?

— .... Non so.... Non vi dico quello che era di bello, di grande, di meraviglioso Roma la sera. La notte era serenissima, e ci fu una illuminazione quale non s'è vista mai, credo, da che mondo è mondo: il Corso pareva tutto di foco; le chiese piene di gente con preti che predicavano; nelle strade musiche, canti, balli; cittadini che parlavano al popolo nei caffè e nei teatri. Volli vedere un'altra volta la piazza di San Pietro. S'era sparsa la voce che Sua Santità aveva bisogno di riposare; Borgo Pio era quieto come in una delle notti più quiete; la piazza era rischiarata dalla luna; una folla silenziosa stava raccolta intorno alle due fontane e sulle gradinate; molti seduti in terra, molti coricati; una gran parte, i più rifiniti dalle fatiche e dalle commozioni della giornata, dormivano; donne, soldati, bambini, alla rinfusa; centinaia di persone inginocchiate, e qua e là sentinelle di tutti i Corpi, con bandierine e croci piantate nella canna del fucile. Il terreno era sparso di bandiere, di foglie, di fiori, di cappelli perduti nel trambusto; le finestre del Vaticano erano illuminate; non si sentiva una voce; pareva che tutta quella gente trattenesse il respiro. Partii di là commosso, esaltato, pensando a tutto quello che avevo visto, all'effetto che avrebbe prodotto la notizia in Italia, nel mondo, in voi altri, in te, specialmente, babbo; mi trovai alla stazione quasi senza avvedermene, c'era una confusione, un gridìo assordante; salii sul treno, si partì, ed eccomi qua. La notizia è arrivata ieri sera a Firenze; mi dissero che fu un delirio; il Re è partito per Roma; la notizia s'è già sparsa per tutta la terra. —

A questo punto si lasciò cader sulla seggiola e tacque in atto di chi non ha più fiato in corpo. Poi s'alzò improvvisamente e scappò a intercettare i giornali che dovevano arrivare alla villa alle undici, sicchè la famiglia serbò la sua cara illusione fino a sera. Il desinare fu allegrissimo, il giovane continuò ad affastellare particolari su particolari, e la madre e gli altri, contentezze su contentezze, benedizioni su benedizioni. Quando tutto a un tratto si sentì un passo accelerato su per le scale, e poi una rumorosa scampanellata. Di lì a un minuto la porta s'aperse, e un prete lungo, asciutto, col viso pallido e la bocca torta, comparì sulla soglia. Era un prete arrabbiato, che la famiglia conosceva di fresco, e pel quale non aveva gran simpatia; ma che pure rispettava ed accoglieva in casa, più per ossequio all'abito che alla persona. Tutti, tranne il giovane, gli corsero intorno, gridando: — Ebbene! Ha sentito la gran notizia! Tutto è finito, grazie al cielo! È stata la mano di Dio! Che cosa ne pensa? Parli, racconti!

— Ma che notizia? — dimandò il prete, guardandoli in viso uno per uno con un par d'occhi stralunati.

Gli dissero tutti insieme, in fretta e in furia, delle feste, del perdono, della conciliazione.

Il prete guardò tutti con l'aria di chi temesse d'esser capitato in mezzo a un crocchio di matti; poi fulminò con un'occhiata il giovane, ed esclamò con un sorriso maligno di trionfo:

— Non c'è ombra di vero, per fortuna!

— Non c'è ombra di vero! — gridarono tutti, voltandosi verso il figliuolo.

Questi, senza scomporsi, fissò il prete, e con un accento misto di tristezza e di sdegno gli disse: — Ma, reverendo, non dica: per fortuna! Lei è italiano; dica: Peccato che non sia. —

Tutti gli altri rimasero per qualche momento come sbalorditi; ma poi, voltandosi di nuovo verso il prete, e piccati, come sempre segue, più contro chi aveva tolto che contro chi aveva dato l'illusione, ripeterono quasi involontariamente: — Sicuro! dica piuttosto: Peccato!

— Io? — rispose il prete, torcendo verso il suo petto un lungo dito nodoso; e poi con voce acre e vibrata: — Io non lo dirò mai!

A quelle parole il vecchio, ferito bruscamente nel dolce sentimento che lo esaltava, perdette, com'era solito, i lumi, e stendendo il braccio verso il prete, si lasciò sfuggire dalla bocca un: — Via! — che risonò in tutta la casa come una pistolettata.

Il prete disparve chiudendo la porta con impeto. Il giovane gettò le braccia al collo del padre; e questi, mettendo le due mani sulla testa del figliuolo, esclamò con un accento triste e affettuoso: — .... Ti perdono.

ALBERTO.

I.

Era bello vedere il giardino della piazza d'Azeglio la sera d'una giornata di primavera, due anni fa, quando Firenze era ancora Capitale. Vi convenivano centinaia di fanciulli, molti di famiglie fiorentine, la più parte di famiglie d'impiegati d'ogni provincia; era il ritrovo delle Italiane e degl'Italiani più piccini e più belli che avevano condotti in quella città il Parlamento, i Ministeri e l'altre istituzioni dello Stato, il fiore dell'innocenza e della gaiezza della Capitale. Le madri, le governanti, le bambinaie stavan sedute sulle panche a destra e a sinistra dei viali; i bambini correvano in mezzo; nel centro del giardino sonava la banda. Fino all'imbrunire era un moto e un gridare continuo. Frotte di ragazzi uscivano di dietro ai cespugli, si sparpagliavano ridendo, s'inseguivano e ridevano, correvano a giri e rigiri come le rondini, e ridevano sempre, cadevano, sempre ridendo, e si rialzavano, e ricominciavano a darsi dietro. Qua una bimba perdeva il pettine, là un'altra la pezzuola, qualcuna si fermava per farsi riabbottonare lo stivaletto. Da un lato all'altro dei viali si chiamavano ad alta voce, e in un momento si sentivano cento nomi di santi, di guerrieri, d'imperatori, di poeti: — Maria! Ettore! Pompeo! — Non si capivan tutti fra loro. — Che hai detto? — domandava una toscana, chinandosi verso una lombarda che le aveva diretto la parola passando. Formavan dei cerchi a dieci insieme tenendosi per mano, e si mettevano a girare, e andavano tutti a gambe levate, e alle bambine più grandi si scioglievano i lunghi capelli, e le piccine piangevano. Tratto tratto, due che s'erano bisticciati andavano a chieder giustizia, seguiti da un piccolo drappello di curiosi, al tribunale di qualche mamma seduta in disparte. Altri, spossati dalla corsa, col viso infiammato, ansanti, riposavano sull'erba fin che avessero ripreso nuova lena per ritornare ai giuochi. E lontano, tra le siepi e gli alberi, si vedevano altre frotte di bambini biancheggiare un momento, poi sparire, poi riapparire; e da ogni parte si alzavano voci di gioia, di rimprovero, di meraviglia, di comando, e ad ogni passo si udivano accenti diversi che, richiamando alla memoria le diverse provincie, facevano passar dinanzi agli occhi una sequela rapidissima di visioni: il Canal grande, il Vesuvio, San Pietro, Superga. Il giardino Massimo d'Azeglio faceva esclamare, quasi con un senso nuovo di maraviglia e di piacere: — Oh qui si vede che l'Italia è fatta davvero! —

Una sera d'aprile del 1870, in una parte del giardino, dove il formicolìo dei fanciulli era più fitto, stava seduto sur una panca, solo, colle braccia incrociate sul petto, un giovane sui vent'anni, decentemente vestito, d'aspetto malaticcio, che pareva che dormisse. Stava appoggiato col capo all'indietro, come se guardasse il cielo. A un tratto, essendosi mosso leggermente per prendere un atteggiamento più comodo, gli cadde il cappello dietro la panca, e dal cappello saltò fuori un non so che di forma quadrata e di color rosso, simile a quelle buste, in cui si mettono le carte geografiche. Egli non se ne accorse e continuò a dormire. Alcuni ragazzi, passando, urtarono coi piedi in quell'oggetto e lo spinsero cinque o sei passi più in là.

Dopo alcuni minuti il giovane si svegliò, e accortosi di avere il capo scoperto balzò in piedi e guardò intorno. Vide il cappello, lo prese, vi guardò dentro, si turbò, e cominciò a cercare attentamente intorno alla panca.

Poi si fermò, e voltando gli occhi in giro, dimandò con voce inquieta: — C'è nessuno che abbia visto qui, accanto alla panca, un oggetto rosso, grande così, di cartone? —

Due o tre donne si voltarono.

— Vorrebbero farmi la gentilezza, — soggiunse il giovane, — di domandare ai loro bambini? —

Le donne rivolsero qualche domanda a mezza voce ai bambini che avevano intorno, e poi fecero cenno di no.

— Perdonino, — ripigliò il giovane con voce commossa, avvicinandosi alle donne, — è impossibile, l'oggetto m'è caduto di dosso un momento fa; mi facciano il piacere, domandino ancora, cerchino....

— O che s'ha a cercare? — usci a dire in tono dispettoso una donna; — quando s'è detto no, è no; è bell'e finita.

— Ma lei, — esclamò allora il giovane con accento più di dolore che di stizza; — lei non sa che cosa io abbia perduto! Potrebb'essere un oggetto prezioso! Potrebbe.... No, si fermino, — soggiunse con tono supplichevole verso due altre donne che se n'andavano, — si fermino un momento, le prego, mi aiutino,... non dimando che un momento! —

Si cominciava a radunar gente, le donne chiamarono i bambini e s'allontanarono.

Il giovane gridò ancora una volta: — Un momento! Mi facciano questo favore! — Poi riprese a cercare qua e là, quasi correndo, e parlando tra sè a mezza voce.

— Ha perso dei denari? — gli domandò un tale.

— No! — rispose, continuando a girare sempre più in fretta.

— Ha perso un anello? — domandò un altro.

— No! —

La gente s'allontanò a poco a poco.

Stanco di cercare inutilmente, il giovane si rimise a sedere, prendendosi il capo tra le mani e scuotendolo in atto sconsolato.

Era già quasi buio, il giardino deserto e silenzioso; non si udivano che le voci lontane degli ultimi bambini che andavan via.

— Senti, — diceva al suo compagno un monello ch'era rimasto ad osservare il giovane di dietro alla cancellata del giardino, — piange. —

Sentì queste parole un signore che passava, guardò dentro il giardino, entrò, e s'avvicinò alla panca.

— Che cos'ha? — domandò al giovane.

Questi non rispose.

— Posso far qualche cosa per lei? — ridimandò l'altro. — Mi dica che cos'ha; non glielo domando mica per semplice curiosità....

— Grazie, — rispose il giovane coll'accento di chi vuol terminare un discorso.

— Mi dispiace — ripigliò il signore — di non ispirarle fiducia. In ogni caso, qui c'è il mio indirizzo. Si faccia coraggio. —

Ciò detto se n'andò. Il giovine guardò intorno a sè e vide un biglietto da visita sulla panca; se lo mise in tasca, e riprese l'atteggiamento di prima.

In quel punto si sentì l'orchestra fragorosa del teatro Principe Umberto.

II.

Ci sono in tutte le grandi città certe trattorie a terreno, composte d'una sala e d'una cucina con un'avviso sulla porta che dice: pensione a quaranta lire il mese. Si somiglian tutte: la sala è lunga e stretta; in una parete si vede il busto del Re; in un canto un padrone di cattivo umore, e in giro due o tre camerieri coi panni sudici, e coi capelli scarmigliati, che servono di mala grazia. Gli avventori sono quasi tutti giovani, che fanno il loro meschino desinare senza discorrere e senza alzar gli occhi. Non sono poveri, non sono operai, non sono studenti, non sono impiegati; è difficile determinare la classe sociale a cui appartengono. Son gente che vive alla giornata, sparsi pei fondachi, per gli Ufficii dei giornali e pei Ministeri; che ogni tanto, man mano che l'occasione del lavoro manca da una parte e si presenta dall'altra, mutan posto, occupazioni e nome; oggi procaccini di gazzette, domani revisori di conti, un altro giorno scrivani straordinarii. Dormono in una cameretta al quarto piano, fumano un sigaro al giorno, e vanno una volta al mese al teatro. Alcuni hanno i capelli lunghi; molti, l'inverno, son senza pastrano, e portano intorno al collo una sciarpa di lana o uno scialle vecchio; spesso s'incontrano fuor di città in qualche strada deserta, soli. Ce n'è degli scioperati; ma molti pure che risparmiano dieci lire sulle cento che guadagnano al mese; e le mandano a casa, o le mettono da parte. E sono i primi, per lo più, a levare di mezzo alla strada un ragazzo, quando sopraggiunge una carrozza, o a rialzare un vecchio caduto in terra, o a separare due monelli che si picchiano. Alcuni hanno sul viso un espressione costante di tristezza e guardan la gente in modo che par che rinfaccino a tutti qualcosa; altri invece hanno una fisonomia che esprime serenità, pace, sentimenti miti e benevoli. Tutti poi, o quasi tutti, mostrano di tempo in tempo qualche viva allegrezza di cui può esser cagione una lettera d'un parente lontano, o una buona parola d'un capo d'uffizio o l'aver trovato una camera che costi cinque lire di meno al mese. Vi sono nature ammirabili fra questa classe di giovani; cuori eletti, vite nobilissime piene di sacrifizii e di dolori terribili, sopportati senza lamento e in segreto.

III.

Il giovane del giardino d'Azeglio era di questi. Si trovava da pochi mesi in Firenze, impiegato come scrivano nello studio d'un avvocato che gli dava novanta lire al mese. Era nato a Palermo, dove aveva fatto i suoi primi studii, e perduto in tenera età il padre e la madre. Di parenti non gli era rimasto che uno zio, il quale l'aveva raccolto e mantenuto a malincuore per alcuni anni; e poi gli aveva fatto intendere poco amorevolmente che in casa c'era una persona a suo carico. Allora il giovane, sollecitato da un amico di Firenze a venire in cerca d'un impiego nel gran mare della Capitale, se nera partito da Palermo con qualche centinaio di lire, e molte speranze. Ma arrivato in riva all'Arno, dopo molto scendere e salire per l'altrui scale, aveva dovuto dare un addio alle speranze, e contentarsi di campare copiando. L'amico se n'era tornato in Sicilia dopo poche settimane, e il povero scrivano era rimasto solo nella città sconosciuta.

Toccava appena i vent'anni, ma ne dimostrava assai di più, come tutti quelli che han cominciato per tempo a faticare per vivere. Aveva l'intelligenza aperta e pronta, e non mancava d'una certa cultura, benchè fosse stato costretto a lasciar le scuole, quando appunto cominciava a capire e a studiare. Gli era rimasto in capo quello che rimane generalmente a coloro pei quali il passaggio dell'adolescenza alla giovinezza segna l'abbandono dei libri per le faccende; qualche data istorica, qualche verso di Dante, e i nomi degli scrittori contemporanei più popolari. Ma aveva quell'accorgimento modesto e guardingo, comune a pochi, col quale, non oltrepassando mai i confini del proprio sapere, si riesce a tenerli sempre nascosti; e si può parlare di ogni cosa, senza mai dire uno sproposito, o si sa tacere in maniera, che non paia vergognosa l'ignoranza.

Le sue novanta lire al mese gli bastavano; con quaranta mangiava in una piccola trattoria, con diciotto aveva trovato una cameretta al quarto piano, in una via appartata, in casa di una povera famiglia, che viveva d'una piccola pensione e dei pochi quattrini della dozzina. Questa famiglia era composta d'una vecchia, vedova d'un impiegato fiorentino, quasi sempre malata; e d'una ragazza di diciott'anni, che non faceva altro che assister sua madre.

Questa aveva fatto qualche difficoltà a ricevere in casa il nuovo inquilino; e perchè non c'eran mai stati che dei vecchi, coi quali poteva parlare dei suoi malanni, ed anco averne qualche aiuto, quando occorreva, più che di parole; e perchè, d'altra parte, un giovane avrebbe fatto chiacchierare il vicinato, e dato a lei la noia di dover tenere gli occhi aperti. Ma Alberto, fin dalla prima volta che l'aveva visto, le era parso così quieto, così raccolto, così pari pari, che s'era indotta, dopo un po' di esitazione, a dargli la camera. La figliuola, dal canto suo, non aveva fatto nessuna istanza, nè mostrato desiderio ch'egli entrasse in casa a preferenza d'un altro; ed anche per questo essa aveva acconsentito.

— Non ha di discreto che gli occhi, — aveva detto la figliuola il giorno della sua entrata in casa.

Era un inquilino che dava poca noia. Tornava verso le nove della sera, dava la buona notte, e andava a letto subito; la mattina, al levar del sole, era già fuori. Così entrando, come uscendo, non faceva il più piccolo rumore. Nella sua camera, quando la madre e la figliuola entravano per rifare il letto, ogni cosa era al suo posto come l'avevan lasciata il giorno prima; pareva che non ci fosse stato nessuno. I mobili erano spolverati, i panni spazzolati e piegati; alle donne non restava quasi nulla da fare. Pochi vestiti; scarsa biancheria e di qualità infima, due o tre libri, un piccolo baule, eran tutto il suo corredo; ma in ogni cosa c'era l'impronta d'una cura continua e rigorosa, d'una lotta ostinata della spazzola, del sapone e dell'ago, contro il tempo, le seggiole e i tavolini dello studio. — Povero giovane, — esclamava la vecchia, — si vede che è corto a quattrini; ma non gli manca il giudizio. — La figliuola, i primi giorni, le diceva che per essere tanto assestato a vent'anni, bisognava non aver sangue nelle vene, e che a lei gli uomini che rubavano il mestiere alle donne, non le piacevano; ma dopo aver ripetuto molte volte queste parole, una mattina aveva soggiunto: — Eppure, un giovane che vive in questo modo.... è simpatico! —

Era quasi trascorso un mese, dacchè il giovane era entrato in quella casa, e fra lui e le sue ospiti non eran corse altre parole che il solito buon giorno e buona notte. Una sera la madre fu presa da un accesso forte del suo male consueto, e il giovane venne pregato d'andare a chiamar il medico. Andò, tornò col medico, e, dopo che questi fu partito, restò nella camera accanto al letto della malata. La ragazza doveva scendere nella strada a pigliar certe medicine dallo speziale dirimpetto. Prima di scendere levò il lume di sulla tavola, perchè sua madre pativa la luce, e lo pose a piè del letto, accanto al giovane; poi s'avviò per uscire. Arrivata sull'uscio, approfittò del buio che la nascondeva, per voltarsi a guardare il suo inquilino. — O chi è quello là? — domandò a se stessa maravigliata. Il lume, rischiarando di sotto in su il volto del giovane, gli dava una sfumatura alla pelle e una vivezza d'espressione così nuova, che appariva quasi trasformato. — Par bello, — soggiunse la ragazza, e discese. Quando risalì, cominciò a discorrere, guardandolo. A ora tarda si separarono, ed essa ripetè tra sè stessa: — Non ha proprio altro di bello che gli occhi.... e la voce. —

Così, a poco a poco, ora per effetto d'un lume posto in un certo punto, ora per la espressione insolita d'un atteggiamento, ora per il suono particolare d'una parola, il giovane si venne mutando ai suoi occhi a tal segno, che in capo a due mesi non le pareva più quel d'una volta, accolto sulle prime con indifferenza e guardato non di rado con dispetto.

La madre di tratto in tratto cadeva ammalata, e ogni volta egli andava pel medico, e restava poi accanto al letto, quando la figliuola doveva uscire. Così nacque fra loro una certa dimestichezza. La vecchia aveva cominciato ad aprir gli occhi; ma non vedendo assolutamente nulla che le desse motivo di tenerli aperti, li aveva richiusi. Ringraziava spesso il suo inquilino delle cure che le prestava, e ne discorreva affettuosamente colla figliuola. Finirono col far conversazione ogni sera, tutti e tre, intorno al tavolino da lavoro; la madre parlando per lo più dei pettegolezzi delle vicine, ii giovane della sua Palermo, la ragazza di bazzecole, tanto per farsi veder sorridere e poter guardare negli occhi il suo ascoltatore, mentre egli guardava lei. Oltre gli occhi discreti e la voce bella, essa aveva scoperto il sorriso simpatico e le maniere “proprio gentili„.

Una sera stavano affacciati tutti e due alla finestra guardando giù; era buio e pioveva, e non si vedeva anima viva. A un tratto balenò in fondo alla via una luce viva e tremula; eran le fiaccole della Compagnia della Misericordia. — Che serata melanconica! — mormorò la ragazza, voltando le spalle alla finestra; — è una di quelle serate che verrebbe voglia di addormentarsi e di non svegliarsi più... Non l'ha mai provato lei questo sentimento? —

Il giovane sorrise, poi mormorò: — Lei ha ancora sua madre; come le possono venire in mente queste idee?

— E lei non l'ha più?

— Io non ho più nessuno. —

La ragazza fu scossa dall'accento di queste parole, lo guardò, e disse a bassa voce: — Non lo aveva mai detto. —

Dopo un altro momento domandò: — Non ha neppure fratelli? —

— No.

— Avrà degli amici in Firenze....

— Nemmeno.

— Ma come si fa a vivere senza voler bene a nessuno?

— E chi le dice ch'io non voglia bene a nessuno?

La ragazza lo fissò, sorrise, mosse una mano per ravviarsi i capelli, non potè, era imprigionata; mosse l'altra, era stretta anche quella; chinò gli occhi, li rialzò, non v'era più alcuno; fuggì essa pure. Da quel giorno, in quella casa, tutto mutò: pensieri, visi, atti, discorsi; la madre aprì una terza volta gli occhi, ma cogli occhi anche il cuore ad una speranza lontana; le conversazioni si protrassero ogni sera fino ora più tarda; la dimestichezza divenne intimità; e solo una volta ci fu un po' di malumore da una delle due parti. La madre propose al suo inquilino di fargli il desinare in casa: egli rifiutò; ma dopo due giorni si ristabilì la pace.

I due giovani eran tutt'e due piccoli e bruni; egli serio, essa allegra, e più bella; e si chiamavano Alberto e Giulia.

IV.

Alcuni giorni prima che seguisse il caso del giardino d'Azeglio, una sera, un po' avanti l'ora solita, Alberto tornò a casa col viso stravolto, e si chiuse nella sua camera senza dir parola. La mattina seguente si levò per tempo, e cercò d'uscire non visto; ma la ragazza, che stava in guardia, lo fermò in tempo, e prima con un piglio scherzoso di comando, poi con un accento commosso di preghiera, tentò di farsi dire quello che gli era accaduto. Alberto, più serio, ma anche più affettuoso del solito, le rispose che non gli era seguito nulla, che la sera innanzi sera sentito un po' male, e che il riposo della notte l'aveva rimesso. Ma era ancora pallido, e aveva gli occhi rossi. Giulia non credette. Pregò ancora, lo prese per mano, versò qualche lagrima, ma inutilmente; il giovane le strinse la mano e la guardò con tenerezza, e poi uscì senza dir parola. Da quel giorno in poi non parve più quello di prima. Anche le sue abitudini mutarono; tornava a casa ora molto più tardi, ora molto più presto che per il passato, parlava più di rado; e quantunque facesse uno sforzo continuo per parere, se non allegro, tranquillo, si capiva, al solo guardarlo, che era agitato e triste. La ragazza lo supplicava: — Parli! mi dica che cos'ha! non mi faccia soffrire! — E lui ancora più caldamente pregava Giulia che non si desse pensiero di quel suo cangiamento, ch'era effetto d'un malessere passeggiero. Ma intanto ogni giorno diventava più pallido e più melanconico, e lo sforzo che faceva per sorridere e per parlare, appariva sempre più evidente e più doloroso. La sera della scena del giardino tornò a casa per tempo, e Giulia lo pregò ancora, più teneramente che mai, di parlare; egli le rispose con voce stanca e tremante; — Fra qualche giorno.... oggi è impossibile; — e si chiuse nella sua camera, lasciando la povera ragazza desolata. La mattina dopo, prima che le donne si destassero, era già fuor di casa.

V.

La madre, benchè non avesse il capo ad altro che ai suoi malanni, s'era accorta del mutamento seguìto in Alberto, e ne aveva parlato più d'una volta colla figliuola; ma non le pareva cosa da doversene gran fatto impensierire. — È una di quelle malinconìe, — diceva, — a cui tutti i giovani vanno soggetti; qualche altro giorno e passerà. — Giulia però, che aveva l'occhio fine e l'affetto divinatore, non era dello stesso parere; il cuore le presagiva qualche cosa di sinistro; e l'ansietà le era cresciuta a tal segno, che, sentendo di non poter più durare in quello stato, risolvette di farsi dire la verità ad ogni costo, avesse pur dovuto minacciare Alberto di togliergli il suo affetto e di staccarsi per sempre da lui.

Venne la sera. Giulia e la madre cenavano, sedute l'una di fronte all'altra, ai due lati d'un tavolino, rischiarato da un piccolo lume a olio. La madre aveva fasciato il capo in modo che le si vedeva appena il viso, e stava tutta raggomitolata in un vecchio seggiolone, col mento sull'orlo del piatto e gli occhi socchiusi; sulla parete opposta s'allungava l'ombra di Giulia, con una gran capigliatura disordinata; la stanza era quasi buia, e non vi si sentiva che il monotono tic tac dell'orologio.

A un certo punto sentirono un passo su per la scala, la porta s'aprì, comparve Alberto.

— Finalmente! — esclamarono ad una voce le due donne.

Alberto sedette vicino alla tavola, Giulia lo guardò e gettò un grido:

— Dio mio! cos'ha? —

Alberto sorrise sforzatamente e rispose con dolcezza: — Non ho nulla.

— È impossibile! Lei ha un viso smorto che fa paura! — esclamò Giulia alzandosi.

— La prego.... — mormorò Alberto, pigliando Giulia per la mano; — si metta a sedere.... le assicuro.... che non ho nulla.... —

Giulia sedette, ma spinse da parte il piatto e incrociò le braccia con un atto dispettoso.

— Vuol provare un dito di vino? — domandò la vecchia.

Alberto ringraziò, facendo cenno che non voleva, e poi cominciò a guardar Giulia con un'espressione di tenerezza così triste, e stando in un atteggiamento che rivelava una prostrazione dell'animo così profonda, che la ragazza non si potè più contenere, s'alzò, accese un lume, e disse risolutamente alla vecchia: — Scusa, mamma, bisogna ch'io parli un momento con Alberto. —

La madre, alzando gli occhi a fatica, guardò lei e il giovane, e disse a fior di labbra: — Malinconìe; — Alberto entrò nella camera colla ragazza, lasciando la porta aperta. Appena entrato, si abbandonò sur una seggiola; Giulia sedette davanti a lui, e prendendogli una mano fra le sue, gli disse a bassa voce, e presto:

— Mi confidi quello che ha, glielo domando per l'ultima volta, così è impossibile andare avanti.... Non mi dica che non si sente bene; non mi basta; io voglio sapere il perchè non sta bene; una cagione ci ha da essere, qualcosa le dev'esser seguìto; la prego, me lo dica, non mi faccia più vivere in pena, ho già sofferto abbastanza; non ha fiducia in me? e se non confida i suoi segreti alle persone che le vogliono bene, a chi li andrà a confidare? —

Alberto, per tutta risposta, le baciò la mano; essa la ritirò.

— Vuol che glielo dica — riprese — che cosa le è accaduto? — L'ho indovinato. Lei ha avuto qualche grosso dispiacere allo studio. Un superiore le ha fatto un rimprovero a torto, lei s'è risentito, l'altro le ha detto qualche parola offensiva, e lei per non perdere l'impiego ha dovuto tacere, e per questo lei soffre; mi dica un po' che non è vero, se può? Mi sostenga un po' che non ho indovinato!

— No, — rispose con voce debole Alberto, riprendendo la mano di Giulia.

— Allora.... — questa riprese — lo so io il perchè. Il perchè è un altro. Vuole che glielo dica francamente? Lei ha giocato! — E lo guardò fisso. — Lei ha giocato, ha perduto, e adesso ha dei debiti che non sa come pagare. Mi confessi che il fatto è questo. Ma allora perchè non me l'ha detto subito? Doveva capire che quel poco che possiamo far noi, per cavarla d'impiccio, siamo disposte a farlo con tutto il cuore. Per conto mio, veda, se non ci dovesse rimaner in casa altro che un pagliericcio per dormire e quattro cenci per coprirci.... No, non sorrida, lei non può immaginare il male che mi fa il suo sorriso; io non dico nulla che non sia pronta a fare domani, subito, questa sera, se lei ci vuol mettere alla prova,... io conosco mia madre. Mi dica che ha giocato, via —

Alberto fece cenno di no col capo, e si coprì il viso con tutt'e due le mani.

— Ma che può esser dunque? — continuò Giulia, facendogli tirar le mani giù; — qualche promessa che ha fatto a sè stesso, e che ora le rincresce di non poter mantenere? Un progetto, per esempio, che lei aveva in capo, e che per eseguirlo aspettava, che so io? un avanzamento nel suo impiego; e questo non è venuto, e lei ha perso ogni speranza? È così? Un progetto, in cui entravo io forse? Dio buono, guardi che cosa mi fa dire! Ma se fosse questo, io le darei la mia parola, le giurerei qui, in questo momento, per quello che ho di più caro al mondo, che il bene che le voglio sarà sempre uguale, qualunque cosa le accada e in qualunque stato si trovi.... Lei non ha che vent'anni! C'è tanto tempo ancora! Non ci sarebbe da darsi pensiero per il tempo! —

Alberto mise una mano sulla spalla della ragazza, la guardò negli occhi, e mormorò: — Cara Giulia! se ti dicessi quello che ho.... ti affligerei troppo! Lasciami solo, te ne prego, ti prometto che un giorno ti dirò tutto; ora non posso, non ne ho il coraggio.... —

Giulia s'alzò improvvisamente, corse alla porta, guardò nell'altra stanza: sua madre dormiva. Richiuse l'uscio, tornò, e si gettò in ginocchio dinanzi ad Alberto.

— Per l'ultima volta, — proruppe con voce di pianto, — te ne scongiuro: dimmi quello che hai! —

Alberto stette qualche momento sopra pensiero, guardandola; poi si scosse, come se si fosse risoluto a parlare; aprì la bocca....

— Dunque! — esclamò vivamente Giulia.

— Guardami.., — ripose Alberto con un filo di voce.

Giulia si fece un po' da parte, affinchè il lume battesse in pieno nel viso d'Alberto; lo guardò attentamente, e poi, afferrandogli tutt'e due le mani, esclamò spaventata: — Ma tu soffri molto! Tu hai bisogno del medico, Alberto! Che hai? che ti senti? —

Alberto lasciò cadere il capo sopra la spalla di Giulia.

— Mio Dio! — disse questa, tentando inutilmente di sollevarlo — Mamma! mamma!

— No, non la chiamare, — mormorò Alberto senza alzare il capo, e mettendo le braccia intorno al collo della ragazza inginocchiata; — .... ti dico tutto.

— Presto!

— Senti, — continuò il giovane colla voce così bassa che appena si sentiva; mi costa uno sforzo che tu non puoi immaginare.... il doverti dire.... Non mi rincresce mica per me, Giulia, ma per te.... Tu mi perdonerai.... Io credevo d'avere il coraggio.... di tacer sempre; ma il coraggio mi manca.... io tradisco tutti i miei proponimenti.... ho aspettato fino all'ultimo.... dimmi che mi perdonerai!

— Oh sì! sì! — rispose Giulia piangendo; — ma parla!

— Ebbene.... ho da dirti una cosa.... che non ti posso dire guardandoti.... appoggia la testa qui.... così.... —

Giulia appoggiò la testa sul petto del giovane, e questi avvicinò le labbra al suo orecchio. Stettero qualche tempo immobili in quell'atteggiamento: essa col viso rivolto in su, e gli occhi socchiusi, come se dormisse; egli col capo chino e i capelli sparsi sulla fronte. Non si sentiva che il respiro affannoso di Giulia, e un gemito monotono della madre che dormiva nell'altra stanza. Era la prima volta che egli la teneva fra le braccia in quel modo, e per qualche momento la dolcezza di quell'abbraccio fu in tutti e due così viva, che quasi sospese in loro il senso del diverso dolore che li agitava; le guancie di Giulia si soffusero di rossore, e le sue labbra si apersero con un leggero sorriso; Alberto la baciò, e subito tirò indietro il viso come se si fosse scottato; tornò in sè, mise un gemito tronco, e riabbassando il capo in atto di profondo abbandono, mormorò nell'orecchio a Giulia: — Ho fame! —

Giulia balzò in piedi gettando un grido, e restò immobile, chinata, intenta, cogli occhi fissi in quei d'Alberto.

Questi si coperse il viso, ed esclamò con accento sconsolato: — Ah, non lo dovevo dire, Giulia! Perdonami! —

La ragazza gittò un altro grido acuto, straziante, cadde in ginocchio dinanzi ad Alberto, lo baciò, si rialzò, si guardò intorno, si cacciò le mani nei capelli, diede in uno scoppio di pianto, e gridò: — Io divento pazza! — Corse alla porta, chiamò ad alta voce: — Mamma! Mamma! — Rivenne indietro e ribaciò Alberto, si slanciò nell'altra stanza singhiozzando, ritornò a passi concitati tenendo il grembiale aperto colle due mani, vacillò e cadde.

In quel punto s'affacciò sull'uscio la madre.

Alberto, pallido, cogli occhi fissi su Giulia, colle braccia penzoloni, pareva fuori di sè; Giulia stava inginocchiata, col capo abbandonato sulle ginocchia di lui, immobile; sul pavimento, intorno a loro, erano sparsi dei pezzi di pane e delle frutta, che la ragazza s'era lasciata sfuggire cadendo.

VI.

Lo studio in cui lavorava Alberto, era in una delle strade più solitarie di Firenze. Vi lavoravano con lui tre o quattro giovani, tra praticanti e scrivani, coi quali aveva poca dimestichezza, perchè troppo diversi da lui di natura e di abitudini. L'avvocato, a cui apparteneva lo studio, era un uomo sulla cinquantina, d'aspetto severo, di modi bruschi e di poche parole; ma buono, si diceva, e giusto, e qualche volta anche affabile coi suoi sottoposti; a patto però che non gli contradicessero mai, che aspettassero la riparazione d'un torto, quando ne facesse, dal suo pentimento spontaneo, senza sollecitarlo con richiami o con proteste; galantuomo, in una parola, salvo l'orgoglio e l'indole irascibile, che lo facevan più temere che amare. Nei suoi giovani, anche più dell'operosità e del raccoglimento, gli piaceva la deferenza manifestata col contegno modesto e colle parole ossequiose; e perciò non gli era mai andato molto a genio Alberto, che soleva obbedire tacendo, salutare senza sorridere e rispettare senza inchinarsi. L'altro scrivano (eran due) era più nelle sue grazie, e a questo egli affidava di preferenza i lavori straordinarii che davano qualche piccolo guadagno, oltre lo scarso assegnamento mensuale. Questi era premuroso, sorridente, pieghevole; preveniva, con una rapidità mirabile, ogni suo atto; rifletteva, colla prontezza d'uno specchio, ogni suo sorriso; ripeteva, colla fedeltà dell'eco, l'ultima parola d'ogni sua frase; vestiva con un certo garbo; non portava quei soprabitini e quei calzoncini slavati e spelati d'Alberto, che pareva tenessero i punti per miracolo, e rinfacciassero continuamente all'avvocato la meschinità dello stipendio e la miseria dello stipendiato. Questi era intimamente e apertamente il prediletto. Per la qual cosa Alberto lo guardava bieco, non per invidia della predilezione, chè non era anima capace d'invidia; ma per l'ostentazione maligna che quegli faceva dei suoi privilegi, con un perpetuo leggerissimo sorriso di benevolenza protettrice, più insolente che la superbia. Aveva qualche anno più d'Alberto, era mingherlino, sempre vestito da zerbinotto, gaio, parolaio, seccante.

Era una mattinata piovosa degli ultimi di marzo, sette giorni prima che seguisse in casa di Giulia il fatto che s'è raccontato; faceva freddo ed era stato acceso il fuoco in tutti i camminetti dello studio. Alberto scriveva in una stanza accanto a quella del principale, poco distante dall'altro scrivano, il quale si alzava di tratto in tratto per andarsi a riscaldare. All'improvviso si presentò sulla soglia del suo gabinetto l'avvocato, e col solito cipiglio accennò ad Alberto che aveva bisogno di lui. Alberto s'alzò e corse nel gabinetto. L'avvocato sedette davanti alla sua scrivanìa, ch'era di fronte al camminetto, e cominciò a cercare tra i suoi fogli, dicendo: — Ho da darle una cosa a copiare. — Alberto stava ritto nella posizione d'un soldato, un passo discosto dalla sua seggiola. — Non c'è, — disse l'avvocato, e, chiudendo con impeto un grosso libro di conti che gli stava dinanzi, s'alzò ed uscì. Tornò poco dopo con un foglio di carta in mano, dicendo: — Eccolo, — lo porse ad Alberto, e fece un atto della mano che voleva dire: lo copii. Alberto ritornò nella sua stanza e cominciò a copiare. Dopo pochi momenti sentì nel gabinetto dell'avvocato un romore confuso come di libri e di fogli messi sossopra, voci d'impazienza, sbuffi, e poi silenzio; di lì a poco di nuovo il romore, più forte e più affrettato di prima, e poi daccapo silenzio; finalmente udì il suo nome. Corse nel gabinetto e si piantò come sempre dinanzi al tavolino, dicendo: — A' suoi ordini. —

L'avvocato lo guardò. Alberto, non abituato allo sguardo di quell'uomo, a cui sapeva di non esser simpatico, arrossì.

— Mi dica la verità, — disse l'avvocato severamente, abbassando gli occhi sulla scrivanìa.

Il giovane lo guardò stupito. L'avvocato fissò lui di nuovo, corrugò le sopracciglia, parve un momento incerto, e poi ripigliò con tono risoluto:

— Mi dica la verità.... e resterà sepolta fra me e lei per sempre.

— Non intendo! — rispose il giovane sorridendo.

Ci sono dei momenti sfortunati, pur troppo, in cui basta il più fuggevole indizio a mutare un vano sospetto in una certezza profonda, risoluta, cieca, che strappa dal labbro parole fatali.

— Qui — disse con vivacità l'avvocato — c'era un biglietto da cento lire.

— Oh! — esclamò il giovane diventando pallido, e facendo un gesto vigoroso come per respingere da sè quel sospetto.

L'avvocato lo fissò come per leggergli nell'anima.

— Signor avvocato! — gridò Alberto con una voce che non pareva più la sua — le proibisco di guardarmi in quel modo!

— Ci sono io solo, — rispose imperiosamente l'avvocato, — io solo che posso dire qui: proibisco! Ed io le proibisco di rimetter più piede nel mio studio!

— Ma badi a quello che fa, in nome di Dio! — gridò Alberto con un accento supplichevole e disperato.

L'avvocato, fremendo, gli accennò la porta.

Erano accorsi gli altri giovani; Alberto li guardò, guardò di nuovo l'avvocato, fece uno sforzo per parlare, non potè, si diede un gran colpo sulla fronte, ed uscì a passi concitati.

— Se ne vadano! — disse bruscamente il principale ai giovani; e fu lasciato solo. Rimase immobile, pallido, cogli occhi fissi sulla porta. L'ira sbollì presto, lo assalì un dubbio improvviso, si rimise a cercare in fretta e in furia sul tavolino, sotto, intorno, tra i libri; non trovò nulla, mise un respiro, si abbandonò sulla seggiola ansando. — Era qui — mormorò battendo la mano su tavolino — qui, ne son certo come della mia esistenza, non mi posso essere ingannato! — E poi ricominciò a pensare e a cercare.

Dopo quel giorno Alberto non ricomparve più, e l'avvocato non ne fece più parola. Credendo che nessuno avesse sentito le parole che erano state la cagione del diverbio — qui c'era un biglietto da cento lire — non rivelò questa cagione a nessuno. Ricercò il biglietto, ma sempre inutilmente; perdette ogni dubbio; ebbe anzi a momenti l'intenzione di far cercare il giovane per costringerlo a confessare. Ma quando gli si presentava l'immagine di quel volto trasfigurato e pallido, e di quel gesto imperioso, un senso di timore segreto, più forte quasi della sua certezza, lo stornava dal suo disegno.

Questa era stata la cagione del cangiamento seguìto in Alberto, e di tutto quello che gli era avvenuto dipoi. Non era più tornato allo studio, e non aveva più incontrato nessuno di coloro che v'appartenevano.

E Giulia, in quella sera della fame, aveva saputo ogni cosa.

VII.

In quel tempo abitava in un quartierino elegante di via Santa Reparata un giovanotto napoletano, venuto a Firenze a farvi studi di lingua, e a consultare documenti per un'opera di critica letteraria, a cui aveva posto mano da lungo tempo. Era in Firenze da più d'un anno e vi conosceva molta gente; ma usava con pochi e a sbalzi, secondo lo governava l'umore variabilissimo, e una passione violenta per gli studii, interrotta di quando in quando da uno slancio impetuoso verso la vita svagata. La sua casa era l'espressione fedele della sua indole e della sua vita. C'eran molti libri, tutti in un monte sopra un tavolino, slegati, con copertine e fogli sparsi; in cima al monte dei libri la biancheria pulita, portata un'ora innanzi dalla stiratora; sulla biancheria un cappello a cilindro colla traccia della spazzola passata contro il verso del pelo; un gran ritratto di Lodovico Ariosto, il suo poeta prediletto, appeso a una parete, e sotto il ritratto una carta geografica, staccata da uno dei due chiodi che la tenevano, coll'estremità inferiore immersa in un calamaio dimenticato sopra una seggiola. Sulla stufa, sui tavolini, sul letto, da per tutto, vestiti, fogli, brani di giornale, sopraccarte strappate; e un nuvolo di polvere per tutto dove si désse un soffio o si battesse la mano.

Eran l'undici della mattina d'uno dei primi giorni d'aprile, e il nostro giovane si alzava dal letto, cogli occhi gonfi, il capo pesante e la bocca amara. Guardatosi un momento nello specchio, entrò nel salotto che gli serviva di studio, buttò fuor della finestra una forcina da capelli che trovò sul pavimento, tirò un lungo e sonoro sbadiglio, e si abbandonò sopra una poltrona, con una gamba sull'altra e le braccia incrociate, pensieroso. A un tratto vide una lettera sul tavolino, la prese, l'aprì, guardò la firma, e cominciò a leggere.

Le prime righe non le capì, tanto aveva la mente intorpidita dal sonno. Ma a poco a poco il senso gli si fece chiaro.

“.... Vediamo, — diceva la lettera; — di che si può dolere lei in questo mondo? Che cosa le manca? La salute? ne ha da sciupare. Il denaro? n'ha quanto basta. La stima pubblica? pochi alla sua età n'hanno avuta di più. Gli amici? ne ha molti e sinceri. L'ingegno? è la sua qualità più spiccata. L'amore? non ha che a cercarlo. Che le manca dunque? Vuole che io glielo dica quello che le manca? La disciplina. Lei è troppo padrone del suo tempo, per l'età che ha; è troppo libero, ha troppo pochi doveri da compiere, troppo pochi sacrifizii da fare; e di qui nascono le sue malinconìe, le sue svogliatezze e le sue lamentazioni, che sono veri oltraggi alla Provvidenza. Me lo creda: se lei avesse, come molti altri giovani, da guadagnarsi il pane lavorando, se avesse una famiglia a cui pensare, una madre ammalata da assistere, o che so io, non le resterebbe mica il tempo per iscrivere lettere come quella che ha scritto a me in un abbandono di stanco tedio leopardiano. Lei ha bisogno di disciplina, le ripeto, di freno. Intraprenda uno studio severo, faticoso, che la costringa a pensare, a star lì colla testa, come disse uno scrittore che le piace; e si faccia una legge di studiare quelle tante ore il giorno, e in quelle date ore; e vi si attenga, e si domini, e lasci da parte, almeno per qualche tempo, i libri che le accendono l'immaginazione. E sopra tutto si prefigga una regola di vita sicura e costante; non viva così alla giornata, oggi col Musset tra mano, domani col Lamennais, la sera a crapula cogli amici, la mattina dinanzi alla porta del convento di Fiesole a meditare sulla vanità dei piaceri umani. Lavori molto e ogni giorno, e non soltanto intorno a ciò che le piace; si formi il disegno d'un'opera vasta che l'obblighi a ricerche lunghe e pazienti, e cominci subito piantando un formidabile voglio in mezzo all'anima, come salda colonna adamantina. E si persuada una volta per sempre che quel po' di felicità che si può godere in questo mondo sta nella quiete, nell'ordine, nella sicurtà della coscienza; e che il volersi ribellare a questa legge, gli è come dibattersi in una gabbia di ferro, della quale si potranno fare scricchiolar le sbarre con uno sforzo gigantesco, torcerle anche, insanguinarle; ma non uscirne mai. Non isciupi la sua salute, il suo ingegno, e codesto cuore ardente e gentile in una lotta inutile; si raccolga, si fortifichi, e le malinconìe spariranno, e vi sottentrerà un'allegrezza operosa, che le farà parer bella la vita.„

Il giovane scrollò le spalle. e buttata la lettera in un canto, riprese l'atteggiamento pensieroso di prima. Dopo un po' si scosse, aprì un libro e cominciò a leggere. Poi richiuse il libro e lo buttò nel muro; prese un foglio pieno d'appunti e lo fece in pezzi; si alzò, e si mise a passeggiare a passi rapidi. Poi si fermò e disse con dispetto: — Ma che faccio io qui a rodermi l'anima? Animo, fuori, alla luce del sole, in mezzo agli uomini, a vivere da uomo, maledetto topo di biblioteca! — E corse nell'altra stanza per vestirsi. In quel punto sentì picchiare all'uscio, s'infilò un vestito e tornò nel salotto, gridando: — Avanti. —

La porta s'aprì e spuntò un viso ch'egli non conosceva.

— Avanti, — ripete in tono brusco il giovane, vedendo che lo sconosciuto esitava.

— Perdoni, — domandò questi timidamente, — è lei il signor***? — e disse il nome.

— Son io — rispose il giovane napoletano.

— Lei ebbe la bontà — mormorò umilmente il nuovo arrivato — di darmi il suo biglietto da visita, giorni fa, nel giardino Massimo d'Azeglio.

— Come! — esclamò l'altro con allegra maraviglia — lei è quel signore ch'era seduto sulla panca?

— Quello stesso, — rispose Alberto.

Il napoletano gli porse una seggiola, e gli disse con accento di curiosità: — Mi dirà ora che cosa le era seguito! Ma prima di tutto, a che debbo il piacere di vederla? In che la posso servire?

Alberto esitò un istante, e poi disse in fretta arrossendo: — Avrei da farle un discorso lungo.... Prima però la debbo pregare di perdonarmi se quella sera corrisposi così male alla sua bontà.... Non sapevo più quel che mi facessi....

Il giovane lo costrinse a sedere.

— Mi dica quello che m'ha da dire, francamente.

— La ringrazio, — disse Alberto facendo l'atto di stender la mano ma ritirandola subito; — io ebbi prima d'ora l'intenzione di venir da lei; non me n'ero mica dimenticato, glielo assicuro; ma mi mancò il coraggio, perchè.... il favore, di cui avrei avuto bisogno nei giorni passati, mi sarebbe costato uno sforzo troppo grande a domandarglielo.... Ora però.... È vero che forse ora vengo a darle una noia anche maggiore....

— Non mi parli di noia; — disse con vivacità il giovane, a cui la fisonomia aperta e severa di Alberto aveva ispirato fin da principio una piena fiducia; — mi dica quello che m'ha da dire, liberamente, come a un amico.

— Ebbene, le dirò ogni cosa, — cominciò Alberto, e detto prima il suo nome, e com'era venuto a Firenze, e come vi era vissuto fino allora, e dove stava e con chi, raccontò per filo e per segno, colla voce tremante e il viso acceso, il fatto che gli era seguito nello studio.

Il giovane napoletano fece un atto di meraviglia e di dispiacere.

— Non conosco quest'avvocato, — disse poi, interrompendo Alberto che voleva continuare; — ma perchè lei non è tornato, quando poteva supporre che quel signore fosse più tranquillo? Perchè non è andato almeno a vedere, o non ha almeno cercato di sapere se il biglietto fu poi ritrovato o no?

— Sarebbe stato inutile — rispose Alberto. — Se l'avvocato avesse trovato il biglietto, io lo conosco, è collerico, violento, ma onesto: m'avrebbe fatto cercare e chiesto scusa. Il biglietto non fu più ritrovato. Egli è certamente persuaso che l'abbia preso io, e soltanto una prova palpabile potrebbe persuaderlo che s'è ingannato. Ma lei comprenderà che questa prova non si può dargliela. Io credo che veramente il biglietto fosse sul tavolino poco tempo prima ch'entrassi io nella stanza; sarà scivolato in mezzo ad altri fogli, e qualcuno l'avrà scoperto poi e se lo sarà tenuto; sarà caduto nel fuoco e si sarà bruciato; che vuole che io le dica? Si danno dei casi.... In ogni modo andando a domandare una soddisfazione, non avrei ottenuto nulla. Non c'era testimoni, egli era persuaso di quello che asseriva, io non avevo amici in Firenze che potessero attestare la mia onestà; si sarebbe creduto a lui e non a me....

— E poi, — domandò il napoletano con affettuosa premura, — che seguì di lei?

— Poi.... — riprese l'Alberto, abbassando la voce — .... Eran gli ultimi giorni del mese; io non avevo ancora preso lo stipendio, non mi eran rimaste in tasca che poche lire.... Bisognava pensar subito al modo di vivere.... Mandai un dispaccio a mio zio di Palermo, dicendogli che avevo estremo bisogno di un pronto soccorso.... Non ricevetti risposta. Cercai lavoro in parecchi ufficii, anche di giornali, che mi dessero da copiare, da tagliar notizie, da correggere stampe; ma dappertutto mi fu risposto che pel momento non avevano bisogno di nessuno, e che ripassassi dopo qualche settimana. Si figuri! Io che avevo, non dico i giorni, ma le ore contate.... Se mi fosse rimasto almeno lo stipendio d'un mese, in un mese qualche cosa da fare avrei trovato; ma non avevo più che ventisette lire, e mi toccava a pagare la pigione della stanza, che solevo pagare posticipata, e piuttosto che mancare.... Sarebbe stato un levare il pane di bocca a quella povera donna e alla sua figliuola, che vivono a stecchetto, e desinano, si può dire, colle mie diciotto lire; non ci pensai neppure un momento. Che fare? Bisognava tirare a vivere il più che potevo con quelle nove lire, e intanto continuare a cercare. Ebbi un momento l'idea di ricorrere ai miei compagni, perchè non conoscevo altri; ma lei capirà che in questi casi si metton tutti dalla parte del capo, e chi sa! m'avrebbero voltato le spalle o fatto anche peggio; e poi mi ripugnava di ricomparire dinanzi a loro senza potermi giustificare.... I primi due giorni desinai alla trattoria, perchè mi spettava ancora la pensione che avevo già pagata, e poi.... Di continuare a mangiar lì a credito non c'era neanco da parlarne, perchè nelle trattorie di quella classe, dove non vanno altro che poveri diavoli e bricconi, se non si paga non danno nulla. Dunque non c'era via di mezzo, bisognava rassegnarsi. Ebbene, ora le dirò una cosa che lei stenterà a credere, ma che pure è vera. Con nove lire non potevo tirare innanzi più di sei o sette giorni, mangiando pane e frutta; lo capivo bene; sapevo bene che sarebbe presto venuto il momento, che non avrei avuto più un soldo. Eppure, non so, non ci potevo credere; mi pareva sempre di sentirmi dentro una voce che diceva: — È impossibile! — Chi sa, dicevo, che cosa può accadere in questo frattempo! — Man mano che quel giorno s'avvicinava, io sempre più speravo in qualche avvenimento imprevisto che mi venisse a togliere da quello stato. E quando mi domandavo: — Ma quale avvenimento? — Ma mille, — mi rispondevo da me stesso. Poteva capitare a Firenze lo zio, potevo ricevere una lettera con denaro, dovevo trovare sicuramente qualcuno che mi facesse lavorar subito e mi pagasse giorno per giorno. Ma più cercavo e meno trovavo, e il viver così di pane e di frutta mi cominciava a far male, e quello che mi rincresceva di più, in casa s'erano accorti che qualche cosa di straordinario mi doveva essere seguito, e io non sapevo come liberarmi dalle continue domande. Che cosa mi faceva soffrire quella ragazza, quando veniva lì a pregare e piangere, lei non se lo può immaginare! Cento volte fui sul punto di dirle ogni cosa, ma mi trattenni; a chiunque altri l'avrei detto; a lei non potevo; mi pareva che sarei morto di vergogna. Venne finalmente il giorno, in cui spesi l'ultimo soldo.... Ebbene, appunto quel giorno avevo più che mai la certezza che qualche cosa mi dovesse capitare. — Patir la fame? — dicevo tra me. — Ah! ho bisogno di provarla io, per crederci! — La sera andai a casa più presto, dormii un po' agitato; ma la mattina mi svegliai pieno di speranza, e uscii prestissimo. La coscienza di non aver fatto nulla da meritare un'umiliazione come quella, mi dava una forza, un coraggio, di cui lei non si può fare un'idea; uscii, e senza quasi accorgermene mi diressi verso la Stazione. Non so perchè, m'ero fitto in capo che dovesse arrivare mio zio, o un amico di Palermo. Il treno arrivò, la gente uscì, e io guardai tutti, uno per uno.... Ma le dico: una cosa strana! Se m'avesse scritto qualcheduno: — Arriverò il tal giorno, alla tal'ora, viemmi ad aspettare, — io non avrei aspettato con più speranza. Non vidi nessuno, tornai indietro, e cominciai ad andare e venire dalla piazza del Duomo alla piazza della Signoria, per via Tornabuoni, per via Porta Rossa, per via Cerretani, guardando in viso tutti quelli che passavano, come se cercassi qualcuno. Venne mezzogiorno, passò l'ora della colazione, non me n'accorsi neppure. Solamente la mia immaginazione si faceva sempre più viva, e senza accorgermene affrettavo sempre più il passo, come se mi premesse d'arrivar presto a un appuntamento. Andai alla Posta, domandai se c'eran lettere; non ce n'era. Uscendo dalla Posta, mi venne un'idea; salii nella Biblioteca, chiesi un libro e mi misi a leggere. Non so come, la lettura mi assorbì tanto che mi scordai del mio stato e il tempo mi passò di volo. A un tratto sentii un rumore, che mi fece quasi paura; la gente riponeva i libri e s'avviava verso la porta; si chiudeva la Biblioteca. Me ne andai. Era l'ora del desinare. Per le strade si cominciava a vedere quel movimento solito della sera; gli impiegati uscivano dai Ministeri, e c'era un andirivieni di carrozze per ogni parte. Cominciai a vedere la gente entrare nelle trattorie, e quello fu il momento più triste; mi prese una malinconìa che quasi mi sentivo voglia di piangere; era la prima volta in vita mia che non potevo desinare! Pensavo a mia madre, a Palermo, a quand'ero ragazzo, e mi pareva di non esser quella stessa persona di una volta, che tornando dalla scuola a casa trovavo sempre la tavola apparecchiata. Mi si cacciò addosso una smania, una febbre, mi misi quasi a correre, e arrivai trafelato nel giardino della piazza d'Azeglio....

— Come! Era quella sera! — gridò con voce commossa il suo intento ascoltatore; — e lei non mi disse nulla?

— Il giardino era pieno di bambini, e non le dico che sentimenti e che pensieri mi facesse nascere la loro allegria. Cavai di tasca il ritratto di mia madre e lo guardai un pezzo; poi, non so perchè, lo nascosi colla sua busta nel cappello e mi misi il cappello in capo; mi sentivo debole e stanco, volli provare a dormire, e m'addormentai. Nel sonno il cappello mi cadde, il ritratto, credo, schizzò fuori; passò qualche ragazzo; in una parola, quando mi svegliai, il ritratto non c'era più. Domandai, pregai le donne ch'eran là presso che interrogassero i bambini, che m'aiutassero a cercare: fu inutile, la gente se n'andò ed io rimasi solo. La perdita di quel ritratto, in quel momento, nello stato in cui mi trovavo, fu un dolore inesprimibile per me, mi parve un cattivo augurio, mi sentii mancare il coraggio, m'accorsi allora per la prima volta d'essere veramente solo nel mondo, e molto disgraziato! Allora venne lei....

— Ma perchè non parlò? ripetè il giovane con slancio.

— Ebbi la tentazione, ma mi mancò il coraggio; il solo pensare che avrei dovuto cominciare col dire: — Ho fame, — mi faceva morire la parola in bocca. Però le sue parole mi confortarono un poco. Tornai verso il centro della città: v'eran già tutti i lampioni accesi, le botteghe illuminate e le strade piene di gente. Molti uscivano dalle trattorie allegri, col viso rosso, parlando forte. Io andavo e andavo, senza saper dove nè perchè, come in sogno. Incontrai qualcuno dei giovani che desinavano con me alla trattoria, mi salutarono ridendo, e facendomi un cenno come per dire: — Come mai non ti si vede più? — Uno mi domandò se volevo andare al teatro. Passeggiai fino a tardi, poi decisi di tornare a casa, col proposito di farmi animo e di dire ogni cosa alla padrona e alla figliuola. — È necessario, — dicevo tra me. — Che diranno? Non lo so; diranno quello che vorranno, io non voglio morire. — Ma via via che mi avvicinavo, sentivo sempre più che non avrei ardito di parlare. Entrai, salutai, aprii la bocca per dire la prima parola, ne dissi un'altra, e addio, andai a letto. Stentai ad addormentarmi, ma poi dormii profondamente, e sognai mille cose orribili. Mi svegliai ch'era ancora buio, e nel primo momento non mi venne il pensiero dello stato in cui mi trovavo; mi colpì poi tutt'a un tratto, e balzai a sedere sul letto, spaventato. Allora feci mille progetti: andarmi a presentare al Sindaco, raccontargli la mia storia; no, meglio al Prefetto; meglio ancora andar difilato dal mio antico principale, e dirgli francamente, con quell'accento che viene dal cuore: — Sono innocente! — Tutto mi pareva naturale, facile; mi prese un'impazienza invincibile, mi vestii in fretta e uscii. Ma ahimè! allo spuntar del sole tutti i bei progetti svanirono; passai davanti al Municipio; guardai la sentinella, e tirai innanzi; andai fin sulla porta di due o tre Uffici di giornali, ma non osai entrare; mi pareva che, appena entrato, tutti insieme, guardandomi, avrebbero detto: — Ma lei ha fame! — Decisi di fermare il primo conoscente che incontrassi, e di domandargli in prestito qualche lira; ne incontrai parecchi, li fermai, mi domandarono se non mi sentivo bene. — Che! — risposi, fissandoli con sospetto; e mi lasciarono. Passò il mezzogiorno: allora cominciai a sentirmi dentro uno sfinimento, un languore che quasi non mi potevo più reggere; le gambe mi tremavano, e la fantasia lavorava lavorava come se avessi la febbre; pensavo alle cose più stravaganti, a persone, a luoghi, a fatti d'altre volte; avevo nel capo una confusione e una vertigine che temevo di diventar pazzo. Poi, a poco a poco mi prese come una rabbia, un odio contro tutti quelli che vedevo; mi parevan tutta gente senza cuore, che m'avesse fatto del male. — Ma è possibile? — dicevo tra me; — sono proprio io che mi trovo ridotto a questi estremi? Ma chi sono io? Che ho fatto? io ho diritto di mangiare! Io voglio vivere! — Più tardi mi prese un dolore acuto al petto, un'oppressione, uno strazio, come se mi stiracchiassero le viscere. Mi sedetti non so dove, mi rialzai, mi sentivo mancare, presi una risoluzione disperata, andai incontro a un uffiziale, lo fermai, gli dissi risolutamente: — Signore.... — Egli mi guardò, io ritornai in me, gli domandai l'ora, me la disse, e continuai la mia strada. Mi venne il pensiero d'uccidermi, lo scacciai, e vi sottentrò subito, non so in che maniera, l'immagine della figliuola della padrona di casa, la quale mi parve la mia salvezza. Era già notte, affrettai il passo quanto potevo, rientrai in casa, lottai ancora un pezzo, finalmente m'uscì di bocca quella maledetta parola: — Ho fame! — Fu una scena straziante, caro signore; quelle due povere donne si misero a piangere in un modo da schiantare il cuore.... Ma detta quella parola, non si poteva più tirarla indietro... Fu ieri sera.... Stamani, appena levato, pensai che dovevo mettermi a cercar lavoro, mi ricordai del suo biglietto da visita, e son venuto a raccomandarmi a lei. Ecco la mia storia, e perdoni se l'ho tediata con un discorso triste. —

Il giovane napoletano, che aveva ascoltato con profonda attenzione, gli strinse la mano, e gli disse con voce commossa: — La ringrazio. — Poi s'alzò in fretta, corse nell'altra camera, alla finestra, e alzando gli occhi umidi al cielo, esclamò con voce commossa: — Ed io mi credo infelice e mi rodo l'anima e trovo che la vita è una lotta, e non mi sento la forza di sostenerla? Ah miserabile, insensato ed ingrato!

VIII.

Riccardo (il giovane, di cui s'è taciuto il nome fin qui) cominciò quello stesso giorno a parlare ed a scrivere ad amici e a conoscenti, per veder di trovare un impiego ad Alberto. E vi si mise con tanto ardore, e con un così fermo proposito di riuscirvi, che quasi non gli rimase altro pensiero e altro desiderio nell'anima; e le sue malinconìe sparirono, e gli rinacque l'allegrezza. Aveva uno scopo, nel quale il cuore, la volontà e la coscienza si trovavano d'accordo; e non ci voleva altro per ridestare la parte più nobile di lui, che da qualche tempo sonnecchiava. L'immagine d'Alberto gli stava sempre dinanzi, e oltre la pietà gentile che gl'ispirava, gli faceva comprendere e stimare per la prima volta i grandi favori, di cui la natura e la fortuna erano state larghe con lui. — Insomma, — diceva sovente sorridendo, — questo giovine m'ha dimostrato matematicamente che io devo esser felice! Ah, quella scellerata abitudine di guardar sempre sopra noi stessi! — Ma benchè avesse molti amici, e facesse quanto era in lui per conseguire il suo intento, fin dai primi passi intoppò in tanti ostacoli e perdè tante illusioni, che si dovette persuadere che l'impresa era assai più difficile di quel che sul primo momento aveva creduto.

Da ogni parte egli trovava una concorrenza impreveduta e formidabile, e andava man mano scoprendo, con un sentimento di meraviglia e di spavento, l'immensa miseria larvata, decente, istruita, e ancora pudibonda, che affluisce nelle grandi città capitali, e fluttua alle porte degli Uffici e dei palazzi; una moltitudine, non prima conosciuta da lui, di gente capelluta, barbuta e macilente, d'impiegati destituiti, di professori disoccupati, di commessi licenziati, di ufficiali espulsi, di scrittori falliti, di vecchi, di malati, di rovinati, che presentano come documenti commendatizi libri, raccolte di giornali, cicatrici, bambini, polizze del monte di pietà e lettere di deputati e di senatori; bisogni, dolori, sventure, appetto alle quali la condizione in cui si trovava Alberto, giovane, sano e senza famiglia, poteva ancora parere una condizione fortunata. Su tutte le vie in cui si metteva, trovava un serra serra d'affamati; e si perdeva d'animo vedendo che non era quasi mai la raccomandazione dignitosa d'un uomo stimato, quella che otteneva la preferenza; ma il sorriso della signora leggiera, l'insistenza sfrontata del ciarlatano, la paroletta detta in buon punto a tavola fra il dolce e lo Sciampagna, l'armeggiamento, l'intrigo. Ma nel conoscere o nel sentir parlare di tanta gente per cui era una grande fortuna il trovar modo di non morir di fame, e in quella stessa difficoltà grandissima di trovare un pezzo di pane per il suo protetto, egli provava una compiacenza nuova ed acuta, un godimento saporito della sua pace e dei suoi comodi; un maggior gusto nel rannicchiarsi nella sua poltrona, al caldo, dopo un buon pranzo, col giornale in mano, pensando a quella povera gente “capelluta, barbuta e macilente„ che aveva incontrato lungo il giorno per le scale delle banche e dei ministeri; un sentimento che egli non voleva spiegar bene a sè stesso, ma di cui qualche volta si vergognava improvvisamente, sdegnandosi che gli fosse entrato nel cuore, a intorbidargli la sorgente della pietà vera e nobile, la quale, egli diceva, dev'essere un dolore. Ma per quanto facesse, egli non riusciva a scernere, in quella nuova contentezza di sè medesimo, ciò che gli veniva dalla coscienza, da ciò che gli veniva dall'egoismo, per poter respingere la parte impura, e godere soltanto della soddisfazione legittima, serenamente. E se ne rodeva. “Così fatto è questo guazzabuglio del cuore umano„.

IX.

Intanto metteva ogni cura nel nascondere ad Alberto la mala riuscita delle sue ricerche; o almeno, per ogni speranza fallita, gliene faceva balenare una nuova, confortandolo con allegre parole; e quanto più andava penetrando nella sua anima onesta e buona, tanto più fortemente s'infervorava nel suo proposito. Ma Alberto non s'illudeva. Da qualche parola incerta, da alcuni turbamenti fuggevoli del suo giovine protettore, gli trapelava la verità; e man mano che si sentiva crescere per lui l'affetto e la gratitudine, la speranza gli veniva meno, e colla speranza quella po' di serenità, a cui gli s'era aperta l'anima dopo i giorni della disperazione. Egli tornava a prevedere molto triste il suo avvenire. Giulia e sua madre lo avevano indotto, e più che indotto, costretto a viver con loro come un fratello e un figliuolo; ed egli non dubitava punto ch'esse si sarebbero sobbarcate lietamente ad ogni sacrifizio per continuare a tenerlo in casa, finchè non avesse trovato un mezzo di sostentamento. Ma come gli sarebbe bastato l'animo di approfittare più a lungo di quella generosità? Egli aveva accettato la loro offerta, s'era arreso alle loro preghiere, colla speranza di potere uscir tra pochi giorni da quello stato, e affrettarsi a pagare, a prezzo di qualunque privazione, il suo debito di gratitudine. Ma i giorni passavano, e la sua condizione non mutava. Ogni volta che egli sedeva a tavola, per quanto quelle due buone donne cercassero di rallegrarlo in tutti i modi possibili, gli si stringeva il cuore. Quel sentimento d'alterezza, che l'abbandono, la disperazione e la fame avevano fatto per poco tacere, ora gli si ridestava più vivo e più geloso di prima; e quel sedersi alla tavola altrui senza pagare gli cominciava a parere un'umiliazione insopportabile. Egli capiva i mille sacrifizii che quelle due povere donne facevano per lui; e l'idea di costringerle a vivere in quel modo, forse per qualche mese ancora, lo spaventava. Avrebbe potuto valersi delle offerte di Riccardo, e pagare la pigione e la pensione con quei denari. Ma egli era certo che Giulia spontaneamente, e la madre per consiglio di Giulia, non avrebbero mai accettato un centesimo che potessero immaginare gli fosse stato dato da altri. Questi pensieri lo rendevano di giorno in giorno più triste. E questa tristezza era cresciuta ancora dalla previsione d'un giorno non lontano, in cui avrebbe dovuto a qualunque costo allontanarsi da quella casa, separandosi da Giulia, quando appunto cominciava a stimarla, ad amarla, ad ammirarla più di quello che avesse mai fatto pel passato; quando cominciava a sentirsi stretto a lei da tanti dolori; quando oramai la vita non gli pareva più bella e più desiderabile che per lei. Una sera mentre stavano desinando, e Giulia si sforzava di parere allegra, egli proruppe in singhiozzi.

X.

Quella stessa sera la famiglia dell'avvocato era tutta radunata nella stanza da pranzo, intorno a una tavola coperta d'un tappeto verde e rischiarata da un grande lume. Il padre scriveva senza alzar mai gli occhi di sulla carta, la madre leggeva, e in un canto giocavano e discorrevano i tre figliuoli: una bambina d'ott'anni, bionda, bianca e rosea come una bambino inglese, e due ragazzini, l'uno di poco più di sei anni, l'altro di cinque. La bambina avea i capelli sciolti, e tratto tratto, ridendo, scoteva il capo con un atto grazioso per ricacciarli dietro le spalle. Ad ogni movimento del padre taceva all'improvviso, e faceva cenno ai fratelli che tacessero; poi ripigliava a parlar sotto voce e a ridere. Nel punto che guardava il padre cogli occhi intenti, la bocca socchiusa e una mano sospesa nell'atto di dire: — Silenzio, — era bella come un angiolo; e la madre, in quel punto, l'osservava.

Sulla tavola, dalla parte dei ragazzi, v'era un biglietto da una lira; il bambino più grande lo prese, e avvicinandolo alla fiamma della candela, e guardando timidamente suo padre, disse sottovoce alla sorella: — E se lo bruciassi?

— Ebbene, — questa rispose ad alta voce, con un accento, in cui si sentiva la soddisfazione di poter insegnare qualche cosa; — purchè non lo bruciassi tutto, si potrebbe ancora spendere. —

Il ragazzo disse che non lo credeva.

— Ma certo! — ripigliò la bambina; — io lo so.

— Come fai a saperlo?

— Lo so, perchè l'ho sentito dire, e c'eri anche tu, il giorno che s'andò al Poggio Imperiale; e se ti ricordi, quel signore che ci accompagnò fino a Porta Romana, che discorreva con Carlotta, le diceva appunto che un suo amico aveva trovato un biglietto da cento lire quasi tutto bruciato, e gliel'aveva dato a lui, perchè andasse a farselo cambiar alla Banca con uno intero. E quei della Banca avevano visto che nel biglietto bruciato c'era un nome, che so? un numero, e il numero mostrava che il biglietto una volta era stato buono, e per questo glielo cambiarono. Hai capito?

— Signori che accompagnano Carlotta — pensò la madre, stringendo le labbra.

L'avvocato guardò sua moglie e disse sottovoce: — Hai sentito?...

— Non è vero, babbo, — domandò la bambina, — che i biglietti bruciati, quando ne rimane un pezzo, quelli della Banca li ripigliano?

Il padre accennò di sì, e ricominciò a scrivere. Di lì a un momento guardò intorno come se cercasse qualcosa; poi s'alzò, prese un lume e uscì dalla stanza.

Allora la madre si rivolse alla bambina: — Amalia, va a dire a Carlotta che venga nella mia camera, perchè le ho da parlare. —

Ciò detto s'alzò e uscì anch'essa; Amalia corse a far l'imbasciata a Carlotta, ch'era la governante.

Pochi momenti dopo rientrarono tutt'e due nella sala; l'avvocato non era ancora tornato.

— O dove sia andato? — domandò la signora. — Amalia, va a veder dov'è. —

Mentre l'Amalia s'alzava, suo padre ricomparve; lo guardarono: era turbato.

— In che modo, — egli domandò, fissando ora sua moglie ora la bambina, — in che modo si trova in casa nostra quest'oggetto? —

E mostrò non so che di forma quadrata e di color rosso che teneva in mano.

Amalia si fece color di porpora.

— Amalia, — disse il padre, — vieni con me. —

La bambina s'alzò tutta tremante, ed egli la prese per mano e la condusse fuori della sala, lasciando la signora e i due ragazzi attoniti. Di stanza in stanza, il padre e la figliuola arrivarono in uno stanzino basso, senza finestre, ingombro di mobili vecchi e di casse, e lì si fermarono.

Il padre avvicinò il lume ad un angolo, e accennando un buco aperto nel muro, domandò ad Amalia:

— Sei tu che hai nascosto qui quest'oggetto?

— .... Sì, — rispose la bambina.

— Quanto tempo fa?

— .... Un mese. —

Il padre stette un po' pensando; poi riprese Amalia per mano, la condusse in una stanza vicina, sedette, e domandò:

— Come t'è venuta in mano questa busta? —

La bambina diede in uno scoppio di pianto.

— Di' la verità, — egli soggiunse.

Allora Amalia, tremando, piangendo, balbettando, raccontò che una sera, nel correre con alcune sue compagne pei viali del giardino Massimo d'Azeglio, e proprio nel momento in cui girava attorno a una panca, aveva urtato col piede in quell'oggetto, e senza immaginare che potesse essere altra cosa che un pezzo di cartone, se l'era messo in tasca, perchè era rosso e le piaceva. Poi, ripassando da quella parte, aveva visto un giovane che si lamentava con le governanti, perchè i bambini gli avevano portato via una cosa, ed essa aveva capito che si trattava appunto dell'oggetto preso da lei, e voleva restituirlo; ma s'era già radunata tanta gente, e il giovane montava sempre più in collera, e lei non si sentiva più il coraggio di farsi innanzi. A un tratto la donna che l'aveva accompagnata al giardino, ch'era la governante dei bimbi d'una signora vicina, l'aveva presa per mano e condotta via, dicendo; — Andiamo, se no succede uno scandalo; — e allora lei s'era pentita tanto tanto di non aver restituito l'oggetto, e avrebbe voluto ritornare indietro; ma era tardi. Però, arrivando a casa, e scoprendo che in quella cosa rossa c'era un ritratto, aveva deciso di restituirlo a qualunque costo, e per molte sere, tornando nel giardino, se l'era sempre portato in tasca, sperando di ritrovare quel signore. Ma quel signore non s'era più fatto vedere, e lei, perduta ogni speranza, aveva nascosto il ritratto nello stanzino, senza dir nulla a Carlotta, pensando: — Chi sa! un giorno forse lo incontrerò, e allora glielo potrò rendere.

— Avevi mai visto quel signore? — domandò il padre.

— Mai, mai — rispose la bambina — è stata quella la prima e l'ultima volta.

Suo padre, dopo averla un po' fissata negli occhi, le fece cenno che se n'andasse; ed essa col volto ancora lagrimoso, ma tutta contenta di averla passata così liscia, scappò come un uccello. L'avvocato rimase pensieroso, col ritratto in mano. Egli l'aveva trovato in un buco dello stanzino, per caso, cercando un altro oggetto. Data un'occhiata all'immagine, aveva guardato il rovescio del cartone, e fatto subito un segno di viva sorpresa. Sul rovescio v'era scritto: — A mio figlio Alberto. Maria P. — ; il nome dello scrivano ch'egli aveva cacciato. Sotto questo nome v'era scritto in grossi caratteri: — 29 marzo, 27 lire. — Fitto, 18, pagato. — Resto: 9. — Queste nove lire erano ripartite, cominciando dal primo giorno d'aprile, in sette parti uguali, l'un numero sotto l'altro, come per fare una somma, e accanto a ciascun numero era scritto in carattere minuto: — Pane e frutta. — L'ottavo giorno d'aprile era ancora segnato con un 8, ma senz'altra indicazione di spesa; v'erano scritte invece colla matita le seguenti parole: — A vent'anni! Dio mio! —

Scorrendo quei numeri e quelle parole, l'avvocato era diventato pallido; ma subito gli era venuto il sospetto che quel ritratto fosse stato messo là a bella posta, perchè gli cadesse sott'occhio. Allora era rientrato nella stanza da pranzo, aveva fatto quella domanda, e, visto il rossore d'Amalia, chiesto e saputo ogni cosa.

— Dunque non è un artifizio! — disse tra sè, appena rimasto solo. — Questo ritratto è capitato qui per caso! Questo scritto dice la verità! Questo giovane non aveva denari, non poteva aver rubato, era innocente; ed io l'ho offeso, umiliato, cacciato, condannato alla miseria e alla fame! Ora bisogna ritrovarlo questo disgraziato! — soggiunse con voce commossa, balzando in piedi. — Bisogna andarlo a cercare, subito, dovunque sia! —

Qui si fermò, passandosi una mano sulla fronte. — Ma la prova, — disse, — la prova che mi sono ingannato, la sicurezza intera e assoluta chi me la dà? Che fu del biglietto? Chi può averlo preso fuorchè lui? —

E si rimise a sedere pensieroso. — Fosse caduto nel fuoco! — soggiunse dopo un po'. — Si fosse bruciato, mentre io uscivo dal gabinetto? —

Quella parola “bruciato„ gli richiamò alla memoria il discorso d'Amalia, il giovane che aveva accompagnato Carlotta, l'amico, la Banca;... gli balenò un vago sospetto. Si alzò per andare a chiamare la bambina; in quel momento entrò sua moglie.

— Senti, — gli disse questa sorridendo, — ho parlato con Carlotta, e le ho domandato chi fosse il signore che si dà la premura di accompagnarla quando conduce al passeggio la bambina. Non si turbò nè punto nè poco, e mi rispose, con una disinvoltura ammirabile, che quel giovane è una persona per bene, e per provarmi ch'è per bene davvero, mi disse ch'è intimo amico d'un tuo scrivano che gode della tua più grande simpatia.

— Quale scrivano? — domandò l'avvocato. La signora disse il nome dell'antico collega d'Alberto.

— E le domandai pure — soggiunse — che cosa fosse quell'imbroglio del biglietto. E lei mi ha detto che il fatto era veramente come Amalia l'aveva raccontato; ma che neanco in questo non vedeva nulla di male, perchè il biglietto era stato trovato in mezzo a una strada, e quel signore, prima di farlo cambiare, aveva cercato inutilmente il proprietario.

— Ma chi l'ha trovato il biglietto?

— Il tuo scrivano, quello che t'ho nominato. —

L'avvocato rimase sopra pensiero.

— Ma il ritratto? — domandò la signora.

— Va, — disse improvvisamente suo marito, — va a domandare ad Amalia quanto tempo fa e in che giorno quel tale gli parlò del biglietto.

La signora andò.

— Il tuo riverito scrivano — tornò a dire dopo un minuto, affacciandosi alla porta — ha fatto cambiare il biglietto uno degli ultimi giorni di marzo.

— Ah! — gridò l'avvocato, — non c'è più dubbio, dunque!

Così dicendo, preso da un sentimento improvviso di pietà e di rimorso, stropicciò colle mani convulse il ritratto, e poi, fissando gli occhi nell'immagine di quella povera madre, le lasciò cader sopra una lagrima e le chiese perdono.

XI.

La mattina seguente, Riccardo usciva di casa per tempo, e si dirigeva verso lo studio dell'Avvocato d'Alberto. Riuscite vane tutte le altre sue speranze di trovare un impiego al povero giovane, egli s'era domandato se non fosse meglio il tentare di farlo riammettere nello studio, procurandogli così, col pane di cui aveva bisogno, una riparazione d'onore, alla quale aveva diritto. — L'avvocato — egli pensava strada facendo — non ha ritrovato il biglietto, perchè, se ciò fosse, Alberto m'assicura che avrebbe riparato all'errore. Si potrebbe dunque fargli credere che è stato ritrovato molto tempo dopo, oggi stesso, da un altro impiegato dello studio, col quale io mi metterei d'accordo per inventare qualche storiella verosimile. Se il biglietto vero è caduto in mano di qualcuno, questi non verrà certo a dirci: — L'ho trovato io, e voi siete impostori; — perchè se non l'ha restituito finora, non potrà più restituirlo. Ma bisogna trovare chi si presti all'inganno. Ma chi si vorrà rifiutare, quando io vada là e dica: — Vi do la mia parola d'onore, tutti i miei amici sono disposti a darvi la loro parola d'onore che questo giovane non può aver rubato? E poi... e poi, se anche la cosa non riesce, sarà sempre bene che l'avvocato sappia che quel disgraziato giovane ha qualcheduno che lo stima e che lo crede innocente.

Era una giornata umida e malinconica che pareva promettere una settimana di pioggia. Arrivato in piazza del Duomo, Riccardo vide molta gente affollata intorno al campanile di Giotto, particolarmente ai due cancelli che chiudono lo spazio tra il campanile e la chiesa. Senz'avvicinarsi, domandò a un tale che cosa fosse accaduto.

— S'è buttato giù un uomo dalla cima del campanile, — rispose l'interrogato, con quell'accento forzato di pietà e quel sorriso di compiacenza satanica, che si vede in faccia alla maggior parte dei curiosi, in simili occasioni.

— È morto subito? — domandò Riccardo.

— Si figuri! — rispose l'altro, sorridendo di nuovo — s'è sformato! c'è un lago di sangue! Vada a vedere.

Riccardo tirò via; ma non aveva fatto ancora dieci passi, che tornò indietro in fretta e ridomandò con inquietudine alla persona di prima:

— Chi è quest'uomo che s'è buttato giù?

— Un tal Rivarolo, dicono; un impiegato, un uomo sui quarant'anni; se vedesse come s'è conciato il viso! È una cosa che fa orrore. Io fui dei primi a vederlo. S'avvicini prima che lo coprano.

Riccardo riprese la sua strada.

Dopo pochi minuti arrivò allo studio. Aveva già pensato con chi parlare, e perciò, entrando, domandò addirittura al custode chi fosse l'impiegato più giovane. Il custode gli disse il nome dello scrivano che noi conosciamo, e Riccardo, dandogli un biglietto di visita, lo pregò d'andarlo a annunziare.

Dopo un momento lo scrivano comparve. Era una figura meschina e volgarissima, improntata di quella goffaggine sdolcinata dei giovani di negozio, che sdottorano di mode colle signore. Attillato, come sempre, e sorridente, s'inchinò, fece entrare Riccardo in una stanza, chiuse la porta, e domandò con voce ossequiosa:

— In che posso servirla?

Riccardo era un bel pezzo di giovane, bruno e tarchiato, con un par d'occhi che saettavano e quel fare vivo ed aperto del gentiluomo napoletano, che mette in imbarazzo la gravità un po' tozza dei settentrionali. Appena si trovò di fronte allo scrivano (sul quale però non aveva il menomo dubbio), gli fissò in viso, secondo il suo costume, uno sguardo fine e profondo, che lo costrinse a fare un leggerissimo inchino.

— Io sono un amico d'un suo conoscente — disse poi in tuono pieno di cortesia — il signor Alberto P., che fu per qualche tempo scrivano in quest'ufficio.

Lo scrivano s'inchinò di nuovo.

— Son venuto qui — riprese Riccardo — non mandato da lui, ma a sua insaputa, spontaneamente, per impulso di coscienza, a pregar lei di aiutarmi a compiere un dovere.

Lo scrivano fece un atto interrogativo.

— Il signor Alberto, come lei saprà, — proseguì Riccardo — è stato accusato d'aver rubato un biglietto di cento lire sul tavolino del suo principale.

Il giovane mise un sospiro come per dire: — Pur troppo!

— Ebbene — soggiunse con accento risoluto Riccardo — l'accusa è falsa.

Lo scrivano gli fissò in viso uno sguardo turbato; ma non vedendo su quel viso nemmeno l'ombra d'un secondo pensiero, si rassicurò, e fece un cenno rispettoso che voleva dire: — Inclino a crederlo anch'io.

— Io conosco il signor Alberto, — Riccardo proseguì — lo conosco da molto tempo, intimamente, e lo credo incapace di commettere un'azione indegna; me ne rendo mallevadore come d'un mio fratello; altre cento persone, se occorresse, sarebbero pronte ad affermare lo stesso, la perdita del biglietto sarà una cosa inesplicabile; ma il signor Alberto è innocente. Ora egli si trova ridotto all'estrema miseria, e per di più disonorato. Di questa ingiustizia non avrà colpa che il caso, voglio credere; ma tanto più è dovere di tutti quelli che conoscono quel povero giovane, di fare tutto il possibile per restituirgli quello che ha perduto. Bisognerebbe trovar modo di farlo riammettere nello studio, persuadendo il signor avvocato che egli è innocente. Lei che è giovane, che ha cuore, che conosce quel povero infelice, m'aiuti lei. Facciamo fra tutti quello che si può far di meglio. Le assicuro che sarà una buona e nobile azione. Vediamo di trovare un modo per persuadere il suo principale.

Lo scrivano guardò attentamente Riccardo, e sentendosi sempre più rassicurato, esclamò con voce sospirosa e pietosa: — Ma come trovarlo questo modo, Dio buono! Non c'eran testimoni, il biglietto non s'è più ritrovato, nessuno ha saputo dare una spiegazione.... Dio lo volesse che si trovasse una spiegazione!

— Ma si può trovare — riprese Riccardo, incoraggiato dalla disposizione benevola del giovane — si può inventare! Dal momento che lei ed io siamo persuasi che il signor Alberto è innocente! Possiamo combinar tutto fra noi due, senza che ne sappia nulla nessuno nè ora nè mai. Creda, caro signore, che glie ne sarei grato per la vita!

E dicendo questo gli afferrò le mani e glie le scosse con uno slancio del cuore.

— Ma cosa dire! cosa inventare! — rispose lo scrivano, grattandosi il capo e fingendo di cercare.

— Si dice che il biglietto è stato ritrovato — esclamò Riccardo con vivacità — e si presenta all'avvocato un biglietto di cento lire! Il biglietto lo metto io; lei si presenta all'avvocato, fingendosi tutto contento d'aver trovata la giustificazione d'un amico, e gli dice: — Ecco il biglietto che lei credeva rubato, l'ho trovato io!

— ... Io? — domandò lo scrivano, turbandosi leggermente.

— Ma che cosa c'è di più naturale? — ripigliò Riccardo infervorandosi e pigliando la mano del giovane.

— Ma... — rispose questi esitando — ... ritrovare un biglietto... intatto... dopo tanto tempo... dove? in che maniera?... come spiegare che sia scomparso?

— Ma si può spiegare benissimo! Combiniamo la spiegazione insieme. Ecco qui, per esempio. Quando l'avvocato s'alzò per uscire dal suo gabinetto, — dove il signor Alberto rimase solo per qualche momento, — alzandosi, fece scivolare il biglietto giù dal tavolino. Vicino al tavolino c'era il caminetto acceso. Il biglietto cadde sulla bragia e si bruciò quasi intero. Il custode lo raccolse la sera con altri pezzetti di carta, con cui era confuso, e buttò ogni cosa in una cesta. Lei, cercando una lettera smarrita, è andato a metter mano nella... Ma perchè le pare tanto strana? —

Riccardo, alzando improvvisamente gli occhi in viso allo scrivano, vi aveva colto a volo un'espressione così inaspettata di turbamento, che s'era lasciato sfuggire quella brusca interrogazione. Senza pensarci, egli aveva proposto di dar per vero quello che era in fatti accaduto, con la sola differenza che la mano nella cesta lo scrivano ce l'aveva messa il giorno dopo lo smarrimento del biglietto, invece di mettercela quel giorno stesso, come Riccardo proponeva.

— Perchè le pare tanto strana? — ripetè questi, fissando più attentamente lo scrivano.

Ma costui aveva perduto affatto la bussola.

Invece di rimediare alla meglio alla prima imprudenza, stette un momento senza rispondere, rosso, confuso, guardando qua e là per il pavimento, e poi rispose di mala grazia:

— No... Io non voglio mettermi in questi impicci...; e non voglio... far nascere dei sospetti!

— Dei sospetti? — domandò con grande meraviglia Riccardo. — Sospetti di che? su chi?

— Sospetti... — balbettò lo scrivano, al colmo della confusione — sulla mia onoratezza.

— Sulla sua onoratezza? — esclamò Riccardo guardandolo bene in faccia. — Ma che diavolo dice?

— Sì signore! — rispose ad alta voce lo scrivano, che accortosi del passo falso, avrebbe voluto rimettersi in piedi, ma non sapeva più dove aggrapparsi, e parlava a caso. — Sospetti sulla mia onoratezza! La mia onoratezza è al di sopra di tutti i sospetti! Sono abbastanza conosciuto! Nessuno può dir nulla sul conto mio! Ne domandi ai miei colleghi, al mio principale, a chi vuole! Non son discorsi da farsi! Io non c'entro e non ci voglio entrare! Ha capito? E il signor Alberto pensi ai fatti suoi e lasci in pace chi lo lascia in pace! E sia un discorso finito!

Riccardo diede in una sonora risata.

— Ma sa — disse poi incrociando le braccia e allargando le gambe — che si direbbe che il ladro sia lei?

Lo scrivano si fece smorto, e retrocedendo verso la porta, gridò con voce soffocata:

— Badi a quello che dice!

— Ah! ora comincio a capire! — rispose Riccardo rimettendosi il cappello, e slanciandosi avanti.

Ma a un tratto s'arrestò. Una mano sconosciuta aveva afferrato il braccio dello scrivano sul limitare della porta. Questi si voltò bruscamente e vedendosi in faccia l'avvocato, diede un guizzo indietro, e rimase un momento colle spalle al muro —, impietrito.

— Ebbene.... sì — mormorò poi con un filo di voce — son io!

E s'allontanò lentamente, strisciando la schiena alla parete, come un ragazzo minacciato d'una pedata.

XII.

Giulia, quel giorno, si era levata per tempo, dopo un sogno breve e agitato da sogni dolorosi. La sera prima Alberto le era parso più sconsolato del solito; più d'una volta essa l'aveva sorpreso colle lagrime agli occhi, e dopo averlo lungamente confortato a farsi animo, non ne aveva avuto altra risposta che: — Oh Giulia! io non posso più vivere così! — Essa s'era addormentata col cuore trafitto da queste parole, e svegliandosi le era parso di sentirsele mormorare all'orecchio.

Si vestì in fretta e andò a picchiare all'uscio della stanza d'Alberto, aspettando quel solito: — Avanti, — detto con voce stanca e melanconica. Non udì risposta; picchiò di nuovo: nulla; allora aperse ed entrò. Alberto non c'era. Giulia stette un pezzo immobile e pensierosa, cogli occhi fissi sulla candela quasi intieramente consumata. Poi s'avvicinò alla finestra e guardò fuori: il cielo era bigio e chiuso; un vago presentimento di sventura le entrò a poco a poco nel cuore; tornò nella sua stanza, sedette, appoggiò il capo sopra una mano, e ricominciò a pensare, immersa in una profonda malinconia.

Dopo un po' comparve sua madre, e sedette di fronte a lei, senza far parola.

Picchiarono all'uscio; Giulia andò ad aprire, ed una vecchia vicina mise il viso dentro, dicendo: — Sapete la novità?

— Non so nulla, — rispose la ragazza.

— S'è buttato giù un uomo dal campanile del Duomo.

— Quando? — domandò subito Giulia.

— Ieri sera.

— No, stamani! — uscì a dire un'altra donna, che arrivava in quel punto sul pianerottolo con un fagotto sotto il braccio; — stamani, mi hanno detto; fra le sei e le sette.

— Chi era? — domandò Giulia.

— Chi lo sa! — risposero ad una voce le due donne.

Giulia stette un po' pensando, poi disse tra sè: — Ma che! — e sorrise; poi si rifece pensierosa.

— Che cos'è seguito? — domandò sua madre.

— S'è gettato giù un uomo dal campanile del Duomo, — le rispose Giulia, rientrando nella stanza.

La madre fece un atto d'orrore, e fissando gli occhi in viso alla figliuola, dopo un po' d'esitazione, disse a bassa voce, con impeto: — Dio mio!... Che non fosse....

— Chi? — gridò Giulia.

— Il signor Alberto! — mormorò la vecchia atterrita.

— Il signor Alberto? — rispose la ragazza con un accento indefinibile di sorpresa e di spavento; — ma bada a quello che dici, mamma! Sei pazza?... Certe cose non si dovrebbero nemmeno pensare! — e si mise à piangere.

— Sapete, — disse in quel punto un'altra donna, fermandosi dinanzi alla porta, — dicono che l'uomo che s'è buttato dal campanile sia un impiegato.

— E io vi dico, — gridò Giulia, slanciandosi verso la porta — che ci lasciate vivere in pace! Andate in un altro luogo a far di questi discorsi! Ma, Dio mio! — soggiunse poi, avvicinandosi a sua madre; — avrebbe ben potuto dire una parola prima di uscire, e non lasciarci qui a pensare di lui chi sa che cosa! Bel modo d'andarsene senza dir nulla!... Sentite! — gridò correndo di nuovo sul pianerottolo, e fermando le donne che se n'andavano brontolando; — scusate! dite ancora una cosa! — Poi tornò verso la madre: — Mamma! non so perchè, ho paura! — Poi daccapo verso le donne: — Ma chi v'ha detto che sia un impiegato? Quando s'è buttato? Perchè?

— Per miseria, — risposero le donne; — si capisce!

— Per miseria! — gridò Giulia con una voce straziante.

— Ma che avete? — domandarono le vicine.

— Che cos'ho! — rispose la ragazza col viso pallido e alterato. — Ho che mi piglia la disperazione, capite? Ho che non so più quel che mi faccia!

— O che ha paura che sia il giovane che sta qui?

— Ma sì! — rispose Giulia, girando come una forsennata per la stanza in cerca del suo scialle; — non l'avete ancora capito?

— Ma non può essere! — esclamarono le vicine. — La si cheti! Non sarà lui! — e cercavano di trattenerla.

— Lasciatemi passare! — gridò Giulia, slanciandosi verso la porta.

— Ma non è lui! — gridarono in coro le vicine e la madre, trattenendola per le braccia. — Ma dove vuoi andare? Chetati, per carità! Non è lui!

— Lasciatemi andare, — urlò la ragazza fuori di sè, — o vi mordo!

Con un supremo sforzo si svincolò dalle donne e si slanciò sul pianerottolo.

Due sconosciuti l'arrestarono.

— È in casa il signor Alberto? — le domandò uno di quelli.

Giulia dètte indietro d'un passo lo guardò, e rispose con voce affannosa:

— No! Chi è lei?

— Io sono l'avvocato B*** — rispose questi, guardandola meravigliato.

— Ah sì? — gridò Giulia fissandolo con uno sguardo di pazza; — e lei ardisce di metter piede in questa casa!... Assassino! —

Ciò dicendo gli si slanciò addosso, e lo percosse con la chiave nel viso.

Poi cadde fra le braccia delle donne, esclamando: — No! non era un ladro! — e svenne.

— Se ne vada, — disse in fretta Riccardo all'avvocato. — Non è bene che stia qui, spiegherò tutto io, sarò a casa sua tra poco — E si chinò sopra Giulia, mentre l'avvocato scendeva le scale, sbalordito, rasciugandosi il viso grondante di sangue.

XIII.

Poche ore dopo Riccardo non c'era più e Alberto era tornato a casa. Con sua gran meraviglia egli trovò Giulia serena e sorridente. Prima la guardò un pezzo, almanaccando; poi le domandò la cagione di quella sua serenità. Giulia gli mise in mano un biglietto, dicendogli che lo aveva portato un signore. Alberto lesse: — “Il signor Alberto è pregato di recarsi questa sera alle sette in via (c'era detto la via, il numero e il piano), dove sarà data una risposta alla sua domanda di due giorni fa; spero favorevole. Riccardo.„

— Che domanda è? — chiese Giulia.

— La domanda d'un posto di scrivano in un ufficio d'ingegnere, — rispose Alberto con tristezza. — Andrò.... a sentirmi dire la solita cosa: — Ripassi tra un mese.

— Ma chi ci sta in quella casa?

— Non lo so. —

Giulia fece un atto di contentezza, ripetendo: — Non lo sa! —

E Alberto non proferì più parola.

XIV.

Alle sette egli tirava il campanello della casa indicata nel biglietto di Riccardo. Gli venne ad aprire un servitore con un lume in mano, gli fece attraversare due o tre stanze, e apertagli una porta lo pregò d'entrare e di attendere qualche momento.

Alberto entrò, e il servitore chiuse e disparve. Era una bella sala con un ricco tappeto, rischiarata da un lume splendido posto sopra un tavolino nel mezzo. Alberto sedette e guardò. Le pareti erano ornati di specchi e di quadri, i tavolini coperti di fiori, di libri dorati, di ninnoli; in un canto, sopra una snella colonnetta, sorgeva una statua d'alabastro con un braccio teso, che pareva accennasse lui; in ogni parte luccicava qualcosa. Era molto tempo ch'egli non aveva visto una sala così signorile e così bella. Toccò la spalliera d'una poltrona che aveva accanto: era di velluto. Guardò ai suoi piedi: c'era una pelle di tigre. Si voltò: vide una grande campana di cristallo con sotto un orologio di bronzo. Per tutto dove voltava lo sguardo, c'era un oggetto che costava almeno tre volte il suo stipendio di un mese. Egli stette un pezzo osservando ogni cosa con una curiosità infantile: i fiori dei ricami, le cornici degli specchi, i cordoni dei campanelli, i candellieri, i guanciali, i rabeschi. Poi si sentì preso da una tristezza indefinibile. Quello splendore l'offendeva come uno scherno alla sua miseria; quella statua che lo segnava a dito, gli faceva l'effetto d'una persona viva che gli dicesse: — Va via!; — il pensiero che tra qualche momento sarebbe comparso qualcuno, lo turbava; avrebbe preferito aspettare ancora; avrebbe voluto nascondersi, uscire in punta di piedi; si pentiva quasi d'esser venuto. — Che faccio io qui? — pensava. — Che cosa spero? Come può curarsi di me la gente felice che abita in questa casa? — Gli parve di sentire un fruscìo, sospettò che fosse una signora, balzò in piedi, e, guardandosi nello specchio, s'accorse che aveva arrossito. Sedè di nuovo e stette coll'orecchio teso. Finalmente gli venne addosso come un'inquietudine, una rabbia di esser costretto a star lì solo, in mezzo a quella ricchezza che l'umiliava, in quello stato d'aspettazione dolorosa. Ricordò le molte volte che aveva aspettato, da un mese a quella parte, in altre case, lunghe ore, per sentirsi poi rispondere: — Non abbiamo bisogno di nessuno. — Gli tornarono alla mente i sorrisi compassionevoli dei servitori e degli uscieri, quando lo vedevano andar via col capo basso; gli atti d'impazienza di coloro, a cui s'era rivolto con preghiere; tutti i disinganni, tutti i sacrificii d'amor proprio, tutte le umiliazioni sofferte in presenza di gente sconosciuta; gli si affollarono tutti questi ricordi, e quelli dei giorni che aveva patito la fame, e l'oppressero. E si domandò se avrebbe dovuto trascinare ancora per lungo tempo una così triste vita, perchè la trascinava, che delitto aveva commesso, quale condanna pesava sul suo capo. — Ma io non domando che di lavorare, — disse poi in un impeto di sdegno sconsolato: — dovrò dunque morir di fame? Dovrò rubare? Dovrò uccidermi? — Balzò in piedi, si sentiva addosso una smania che non aveva provata mai, avrebbe spezzato quanto gli cadeva sott'occhio. — Oh, infine, disse poi con voce soffocata, guardando con occhio bieco verso la porta, — io sono stanco! Che cosa fanno questi signori? Animo, fuori, gente senza cuore! C'è qui un mendico che aspetta! —

Stette aspettando un minuto, e poi afferrò il cappello e si mosse per uscire.

In quel momento sentì venire dalla stanza accanto una musica sommessa e dolce che gli parve di un pianoforte toccato da una mano leggerissima. Si fermò e si rimise a sedere. La musica a poco a poco si fece più rumorosa, poi di nuovo sommessa, poi forte un'altra volta; pareva un mormorìo di persona commossa che dicesse cose tenere e liete ad un amico melanconico, e le dicesse presto, con affanno, trattenendolo; pareva un misto di voci di donne e di bambini che confortassero un povero; gli ricordava la voce concitata di Giulia, quando diceva: — No, non parlar così, fatti coraggio, spera ancora. —

Alberto appoggiò il capo sopra una mano e pensò a Giulia con un sentimento di triste tenerezza.

All'improvviso s'aprì una porta; egli si scosse e s'alzò.

Una ragazzina bionda, bianca e rosea, vestita di bianco, coi capelli sciolti, s'avanzò timidamente verso di lui, seguìta da due bambini, uno di sei e l'altro di quattr'anni, che vennero a piantarglisi davanti cogli occhi attoniti.

La bambina si fermò a due passi da Alberto, aprì un foglio colle mani tremanti, e disse arrossendo, con voce sommessa:

— Ho da leggere la lettera.

— Che lettera? — domandò Alberto, maravigliato.

— La lettera — rispose la bimba — che ha scritto il babbo un momento fa, e me l'ha data perchè venissi a leggerla qui, dal signore che aspettava nel salotto.

— E chi è il suo babbo? — domandò Alberto guardando intorno a sè.

La bambina pronunziò il nome di suo padre.

Alberto balzò indietro, come se avesse ricevuto un urto nel petto. Il sangue gli si rimescolò da capo a piedi. Si ricordò in un momento di tutto: dell'accusa di ladro, della miseria, della fame, di tutte le angoscie che pativa da tanto tempo per cagione di quell'uomo; e si sentì soffocare dalla rabbia e dall'odio. Sul primo momento fu tentato di afferrare quella lettera, di lacerarla e di gettarla sotto i suoi piedi; e distese la mano... Ma incontrò lo sguardo timido e gentile della bambina, e si frenò; di rosso si fece pallido, si passò una mano sulla fronte che ardeva, si ricompose, e disse con voce mutata:

— Legga pure.

La bambina cominciò a leggere:

“Signor Alberto! Ho avuto la prova della sua innocenza; e ho saputo nello stesso tempo quali furono le conseguenze del mio deplorabile errore, quanto lei sofferse per cagion mia e che nobile cuore sia il suo. Ora io ho un dovere da compiere: quello di supplicarla di ritornare al mio studio, almeno una volta, perchè io possa dichiarare solennemente, in presenza sua e di tutti i miei dipendenti, che sono vergognato e desolato d'avere, in un momento d'aberrazione, calunniato un onest'uomo. Ma questo non basta. Poichè l'offesa è stata mortale, io debbo pronunciare la parola che suol costare maggior sacrifizio all'orgoglio; ma la pronunzio senza sforzo, senza esitazione, colla fronte alta, col cuore sulle labbra, cogli occhi gonfi di lagrime che mi fanno bene: — Signor Alberto, mi perdoni! — È un uomo vecchio che domanda perdono a un giovane di vent'anni, è un padre che lo domanda per mezzo dei suoi bambini. Li baci in fronte tutti e tre, signor Alberto. Io non le domando altra risposta. Se quando tornerò a casa, essi mi diranno: — Ci ha baciati! — io dirò tra me: — M'ha perdonato! — e me li stringerò al cuore con uno slancio di gioia e di riconoscenza.„

La bambina tacque e alzò i suoi belli occhi azzurri e umidi in viso ad Alberto.

Questi rimase qualche momento sbalordito, respirando con affanno, e guardando intorno a sè come per assicurarsi che quella era una realtà e non un sogno. Poi tutta l'anima sua si rischiarò improvvisamente, tutto quello che aveva in fondo di buono e di generoso gli venne su con un impeto irresistibile, strappò il foglio dalle mani d'Amalia, lo guardò, lo stropicciò colle mani convulse, sorrise, e poi gridò con voce tremante e sonora: — Ma sì! Perdono! Perdono! Perdono! — Dicendo questo, si gettò sui bambini, se li strinse tutti e tre contro il petto e cominciò a far cadere sulle tre testine bionde una pioggia di baci appassionati.

In quel punto si aperse una porta e comparì sulla soglia l'avvocato.

Alberto si slanciò verso di lui.

L'avvocato lo arrestò con una mano. Quella mano mostrava un ritratto. Il giovane guardò e gettò un grido di meraviglia e di gioia: — Mia madre!

Allora l'avvocato allargò le braccia dicendo con voce commossa: — Qua, povero Alberto! — e Alberto gli si gettò al collo singhiozzando.

FORTEZZA.

I.

— Guarda, — mi diceva poche sere sono un amico accennandomi da una finestra di casa sua, che guarda sur una piccola piazza, un terrazzino al quarto piano della casa di fronte; — vedi quell'uomo? — Guardai, e vidi un uomo seduto in un canto, con un braccio disteso sulla ringhiera; ma non ne raccappezzai la fisonomia. — Quell'uomo, — riprese l'amico, — m'è antipatico a tal punto, che mi venne più volte l'idea di cambiar di casa non per altro che per procurarmi la consolazione di non averlo più da vedere. Tu mi domanderai perchè, e io ti dirò che non gli ho mai parlato, che non ho mai sentito la sua voce, che non so chi sia, che non so che cosa faccia, che non so che viso abbia, perchè la mia vista non arriva fin là, neppure col canocchiale. Quell'uomo m'è antipatico, perchè ogni sera, a quest'ora, infallibilmente, s'alza da tavola e si va a sedere in quel canto; e ogni sera, collo stessissimo movimento d'automa, mette una gamba sull'altra e stende un braccio sulla ringhiera. Non c'è caso che muova mai la gamba prima che il braccio, Dio ne guardi! Prima il braccio e poi la gamba. È già un uomo uggioso per questo, me lo concedi? Ma questo è il meno. Ogni sera, una donna che par sua moglie, prima ch'egli si alzi, va a metter la seggiola al posto, gli porta la pipa, gliela mette in mano, gliel'accende ogni sera, — e ogni sera lui si lascia servire, impettito e tronfio come un Sultano, senza fare il menomo atto per prevenirla, senza dar nemmeno a vedere ch'egli s'accorga d'esser servito. Poi.... ogni momento ha un bisogno, e la donna s'alza, scappa, ritorna con una bibita o qualcos'altro; e lui piglia e tracanna e si forbisce i baffi, con un gusto di sibarita egoista, senza darsi nemmeno la noia di restituire il bicchiere. Poi.... vengono amici a visitarlo, e lui non fa mai l'atto d'alzarsi, e sì che sta saldo in piedi e passeggia qualche volta sul terrazzino franco e sciolto come noi due. Non guarda mai giù, nè sù, nè intorno; non saluta; insomma, lui par fatto e messo lì, perchè il mondo gli giri intorno; lui fa l'idolo; lui è nato per farsi guardare e servire. E tu ridi! Per me son cose che fanno odiare un uomo; son fatto così; un altro non ci bada, io mi ci rodo. Io credo di conoscer quello là come conosco te. Vuoi sapere chi è? Io non lo so ma te lo dico come se lo sapessi. Quell'uomo là — e così dicendo appuntava il dito verso quell'uomo, guardandolo fisso come per cavargli dagli occhi il segreto — è un bottegaio bindolo, che comincia ad ammassar quattrini, e cova già fin d'ora la boria di quando sarà arricchito; e ha sposato quella donna per risparmiare la paga d'un fattorino in bottega e d'una serva in casa, e la tratta un po' peggio d'una serva e non molto meglio d'un fattorino; è spilorcio, fuorchè per soddisfare la sua golosità; potrebbe stare al terzo piano, e sta al quarto per economia, benchè non abbia figliuoli e non desideri d'averne; disprezza tutto quello che non è bottega; dà del ladro a tutti i ministri, del ciuco a tutti quelli che studiano e dello straccione a tutti quelli che hanno meno quattrini di lui.... E tu ridi! Tu non sai che l'antipatia è indovina! Io, vedi, sarei felice se mi si presentasse l'occasione di fargli una sgarbatezza; m'è odioso; sarò un visionario, un maligno, quello che tu vuoi; ma quando il cuore mi dice: — Quello là è un figuro; — io l'ho in tasca; e bisogna che lo dica e mi sfoghi. —

Bisogna conoscere questo giovanotto di vent'anni, buono, irrequieto e stizzoso, ed essere assuefatti alle sue bizzarre sfuriate contro i fantasmi ch'egli stesso si crea, per poter credere che abbia detto d'un fiato, e senza ridere, quella filastrocca di parole vane. Io guardavo intanto il supposto bottegaio, e la donna seduta dinanzi a lui sur un panchettino, colle braccia incrociate sulle ginocchia, in atto contemplativo; e come ho miglior vista del mio amico, mi parve di scorgere che l'uomo avesse una quarantina d'anni, e la donna poco più, benchè nè dell'uno nè dell'altra potessi ravvisare i lineamenti. Mi feci dare il canocchiale e lo appuntai verso la donna. Prima mi ballò dinanzi un faccione confuso; poi si fissò e lo vidi distintamente. Era proprio un viso di donna rassegnata a una vita di sacrificio: aveva i capelli grigi, la fronte rugosa, gli occhi grandi e melanconici; un non so che di grave e di raccolto, che rivelava un'abitudine antica di soffrire. — Par che l'amico abbia indovinato, — dissi in cuor mio, e rivolsi il canocchiale verso l'uomo. In quel punto egli si voltò, e mi presentò tutto il viso. — Chi vedo mai! — esclamai tra me stesso; — ma è possibile? — Allungai il canocchiale, riguardai. — Ma è lui! Non c'è dubbio! E quel viso visto cento volte nei ritratti! — E allora mi rivenne in mente un fatto da lungo tempo dimenticato, e quasi nello stesso punto, il principio e la fine del racconto che il lettore troverà più innanzi. L'amico mi domandò: — Ebbene? È o non è un viso di bindolo, di screanzato e d'orgoglioso? — Io non potei più sorridere, come prima, alle sue parole; gli risposi che veramente non era un uomo simpatico; ma che mi pareva d'averlo visto altre volte; che volevo levarmi la curiosità di sapere chi fosse; che sarei andato a chiedere informazioni di lui. Il giorno dopo, infatti, andai difilato a fargli una visita, col pretesto di saper chiaramente il fatto che lo riguardava, perchè, come gli dissi, avevo l'intenzione di scriverlo. Abituato a ricevere siffatte visite, mi accolse cortesemente, mi raccontò ogni cosa con grande indifferenza, come se parlasse d'un altro, mi parlò della donna (non moglie) che aveva con sè, delle abitudini della sua vita. — Stiamo insieme da dieci anni, — disse concludendo; — io ho della pazienza, essa pure, e si vive.... come Dio vuole. Le mie due grandi consolazioni sono la stima della gente e la devozione di questa povera disgraziata. — Andai a casa, scrissi tutta la sera e tutta la mattina seguente, e il giorno dopo mi recai dall'amico col manoscritto. Era l'ora che il “bottegaio„ stava a pigliar il fresco sul terrazzino. Dopo qualche altra chiacchiera, si rivenne a parlare dell'antipatia. — Amico, — gli dissi, — hai preso un granchio. — È impossibile! — egli rispose colla sua vivacità abituale. — Lasciamo gli scherzi, — io ripresi; — ti prego di leggere questi fogli: è un racconto storico, che ho scritto in questi giorni; il personaggio principale è il tuo “bottegaio„ antipatico; ti do la mia parola che, salvo i necessarii artifizii dell'esposizione, non ho alterato d'una sillaba la verità. — L'amico prese i fogli e cominciò a leggere. Dopo un po' alzò gli occhi, guardò l'uomo del terrazzino, poi me; e riprese la lettura. Via via che andava innanzi, guardava sempre più spesso me e l'uomo, l'uomo e me; e si faceva sempre più serio. Giunto all'ultime righe, gettò un grido di meraviglia, balzò in piedi, mi afferrò una mano e disse con voce commossa: — Mi dai la tua parola d'onore che è vero? — Te la do, — gli risposi. — E che è lui? — domandò ancora. — Che è lui, — ripetei. Senza dir altro, prese il cappello e uscì a passi concitati. Io mi affacciai alla finestra e lo vidi attraversar la piazza e infilar la porta della casa di fronte. Dopo qualche minuto notai che l'uomo del terrazzino era sparito. Di lì a poco ricomparve, e un momento appresso il mio amico riattraversò la piazza. — Io ti conosco! — dissi tra me, correndo ad aprir la porta; io lo so quello che sei andato a fare! — L'amico comparve sulla soglia. — Tu, — continuai ad alta voce, — sei andato a baciare in fronte quell'uomo! — Egli mi guardò, sorrise, e poi gettandomi le braccia al collo mi rispose con un grido d'allegrezza: — No, perchè n'ero indegno; sono andato a baciargli la mani.

II.

Era l'estate dell'anno 1861, allorchè la fama delle imprese brigantesche correva l'Europa; quei giorni memorabili, quando il Pietropaolo portava in tasca il mento di un “liberale„ col pizzo alla napoleonica; quando a Montemiletto si seppellivan vivi, sotto un mucchio di cadaveri, coloro che aveano gridato: — Viva l'Italia; — quando a Viesti si mangiavano le carni dei contadini renitenti agli ordini dei loro spogliatori; quando il colonnello Negri, presso Pontelandolfo, vedeva appese alle finestre, a modo di trofei, membra sanguinose di soldati; quando il povero luogotenente Bacci, ferito e preso in combattimento, veniva ucciso dopo otto ore di orrende torture; quando turbe di plebaglia forsennata uscivan di notte dai villaggi, colle torcie alla mano, a ricevere in trionfo le bande; quando s'incendiavano mèssi, si atterravano case, si catturavan famiglie, s'impiccava, si scorticava e si squartava; e a tener vivo e ad accrescere l'eccidio miserando venivan dalla riva destra del Tevere armi, scudi e benedizioni.

Uno degli ultimi giorni di luglio, poco dopo il levar del sole, per una valle deserta della provincia di Capitanata, andava verso San Severo un carabiniere a cavallo, il quale era partito la notte da quella città per andar a recare al comandante d'una “colonna mobile„ un ordine del colonnello. Egli portava sotto l'abbottonatura della tunica una lettera di risposta a quell'ordine, nella quale il comandante diceva che si sarebbe recato alle otto della mattina in un recesso d'un monte vicino, dove aveva saputo essere solita a riparare una mano di briganti che da qualche tempo infestava quelle terre. Il portator della lettera era un uomo sui trent'anni, alto, asciutto, con due occhietti scintillanti e due baffetti aguzzi, e quella ruga diritta in mezzo alle sopracciglia, che rivela abitudine di riflessione; la sua fisonomia spirava una gravità prematura, alla quale il grande cappello nero a due punte dava quasi un riflesso di tristezza; e il suo rigido atteggiamento, e le sue mosse franche e recise, attestavano un vigor d'animo rispondente ai bisogni dei tempi e dei luoghi. Andava di trotto per un sentiero serpeggiante, voltando il capo ora di qua, ora di là, a guardare i pascoli abbandonati, i monti rocciosi, il cielo limpidissimo, senza udire altro rumore che lo scalpitìo del suo cavallo e il tintinnìo della sua sciabola.

A un tratto, passando in mezzo a due siepi alte e fitte, vide un lampo e sentì un colpo di fucile. Mentre gira il cavallo e afferra la pistola, il cavallo vacilla; nell'atto ch'egli abbassa il capo per veder se è ferito, si sente afferrar di dietro; nel punto che si volta indietro, un uomo balza fuor dal cespuglio dond'era partito il colpo, e gli è sopra; dietro a lui, come un'ombra, un terzo; non ebbe tempo nè di sparare, nè di saltar giù, nè di mettersi in guardia; fu scavalcato e steso in terra. Qui provò a resistere, si divincolò, percosse, morse; ma non potè alzarsi; spossato, si arrese, e si lasciò disarmare. Nella furia, però, del dibattersi, avvolto da un nuvolo di polvere, avea potuto con un movimento rapidissimo mettersi la lettera in bocca, senza che se n'accorgessero i suoi assalitori. Gli legarono le mani dietro al dorso; lo alzarono in piedi; gli appesero al collo in fretta e in furia la sciabola, il mantello rotolato, la valigietta della sella; trascinarono il cavallo dietro la siepe, e poi via a traverso i campi, spingendo lui sbalordito e barcollante, con un frastuono infernale di bestemmie, di minaccie, di percosse, di risa.

Dopo una corsa di mezz'ora, essendo omai lontani dalla via battuta abbastanza da non aver più a temere sorpresa, rallentarono il passo. Erano arrivati alle falde dei monti, in mezzo agli alberi, in un luogo dove non si vedevan case, nè capanne, nè alcun segno d'abitazione. Il carabiniere, curvo sotto il peso dei suoi arnesi, non dava segni nè di terrore, nè d'ira; e il suo volto, pallido, ma non alterato, mostrava l'animo consapevole della sorte che l'attendeva, e il cuore preparato a riceverla. Egli non ignorava che cader nelle mani dei briganti, in quei giorni di rappresaglie feroci, era la morte; perciò in lui c'era già un po' della calma solenne della morte; e chi non l'avesse saputo, al solo guardarlo negli occhi avrebbe detto. — Quell'uomo va a morire. — Il brigante che gli andava innanzi, si voltava di tratto in tratto a lanciargli un'occhiata tra la curiosità e il sospetto. Quello che gli camminava al fianco, e che pareva il capobanda, guardava pure ora il prigioniero, ora il compagno, e ricambiava con questo un sorriso di trionfo.

— To', — disse poi tutt'ad un tratto, appendendo il suo fucile al collo del carabiniere; — portamelo.

— Porta anche il mio, aggiunse quello che andava innanzi, e fece lo stesso.

— E tu? — dimandò il capobanda, voltandosi verso il terzo brigante che veniva dietro, e che pareva il più giovane.

— Io? — questi rispose; — io preferisco tenermelo... non si sa mai!

— Gaglioffo! — borbottò l'altro, lanciandogli un'occhiata sprezzante; poi si voltò verso il carabiniere e gli disse: — Amico! — battendogli una mano sulla spalla; — ora ci dirai dove andavi! —

Il carabiniere non rispose.

— Oh! oh! — esclamò il brigante, chinandosi a raccogliere una verghetta. — Hai inteso? — e gli diede una vergata sulle mani.

Il carabiniere tirò innanzi senza rispondere.

— Parlerai, poveretto, — riprese il brigante, buttando via la verga; — comincian tutti come te, e tu finirai come gli altri. Sei di carne e d'ossa tu pure; quando sentirai pungere, griderai anche tu; va tranquillo! —

Ciò dicendo, gli diede un urtone per fargli infilare un sentiero lungo la sponda d'un rigagnolo; andarono diritti un pezzo, poi passarono un piccolo ponte, girarono attorno a un poggio, e cominciarono a salire per una viottola angusta su per un monte erto e roccioso. Il carabiniere, stretto intorno al collo dalle bertelle dei fucili, imbarazzato dall'aver le mani legate, soffocato dall'uniforme, grondante di sudore, saliva a sbilancioni, inciampava nei sassi, cadeva in ginocchio, e si rialzava a fatica, per tornare a cadere; e i briganti lo picchiavano, lo malmenavano, lo spingevan su a pedate, schernendolo, urlando: — Su, poltrone! Voialtri, quando ci cogliete, ci legate ai vostri cavalli! Una volta per uno, piemontese! —

Su, a mezzo il fianco del monte, erano aspettati. In un punto dove la roccia era tutta bricche, scoscendimenti e precipizi a filo, con appena qualche striscia di cespi e d'arbusti aridi, sotto una rupe cava e ricurva a guisa di volta, si stendeva un breve tratto di terra piano, cinto intorno intorno di macigni, parte franati dall'alto, parte — i più piccoli — spinti a forza di braccia tra i primi, in modo da formare con quelli una specie di baluardo. La rupe serviva di tetto e di parete a una capanna di legno, che occupava una quarta parte dello spazio chiuso. Sulla faccia interna dei macigni erano state incavate delle nicchiette, per riporvi roba, e degli scalini, dall'alto dei quali si vedeva giù tutta la china. S'entrava là per un'apertura poco più larga d'un uomo. Fuori, non appariva indizio di luogo abitato; dentro, pareva insieme una tana, un ridotto e un corpo di guardia. Nelle nicchie v'eran bicchieri, tazze di latta, tegami, pani, coltelli; dalle punte sporgenti dei macigni pendevano sacche e fiaschette; in un angolo c'era un mucchio di cenere e di tizzoni, e la roccia, di sopra, affumicata; sotto la capanna, paglia e panni ammontati. A guardar su, oltre la rupe, e dietro, e ai lati, non si vedevano che roccie, fessi profondi, e massi enormi quasi sospesi in aria, con qualche raro albero che appariva appena come un ciuffo d'erba. Sotto, i fianchi rotti del monte; più in là, pianura, e lontano, altri monti.

Un uomo, ritto sull'ultimo gradino d'una scaletta, coi gomiti appoggiati sul macigno, e il viso nascosto dietro due pietre, tra le quali sogguardava come attraverso una feritoia, stava aspettando la compagnia. Quando scorse il carabiniere, battè la mano, in segno di contentezza, sur una delle due pietre; e prese a seguitare coll'occhio intento ogni suo passo, accompagnando ogni percossa che gli vedeva dare, con un gesto e una bestemmia, come per accrescere forza al percussore e dolore al percosso.

Quando furono a pochi passi dal ridotto, scese e gli andò ad aspettare alla porta. — Arrivarono. — Il carabiniere, cacciato dentro con uno spintone, stramazzò in mezzo al recinto; entrarono in furia gli altri, ansando, sbuffando, buttando qua e là borse, capelli, armi; sedettero intorno, sui sassi, e stettero un po' di tempo silenziosi, per riprender fiato ed asciugarsi il sudore.

— Eccone uno! — esclamò poi il capobanda, voltandosi verso il compagno che era uscito a riceverlo.

— Bell'e vivo, — rispose questi. Poi, data un'occhiata al prigioniero e visto che avea gli sproni, domandò al capo: — E il cavallo?

— Non me ne parlare! — rispose il capo indispettito; — bisognerà che faccia in pezzi questa maledetta carabina: ho colto la bestia invece dell'uomo. — E qui fece in poche parole il racconto dell'accaduto.

— Non importa, — disse l'altro; — è stato un colpo da maestro. —

S'avvicinò al carabiniere, lo aiutò ad alzarsi, e dopo averlo fissato un po' in viso con un'aria di stupida curiosità, gli tolse di dosso i fucili, il mantello, la sciabola; poi gli levò il cappello, lo guardò di sopra e di sotto, sorrise e lo buttò in un canto. Il carabiniere, rifinito, si appoggiò alla capanna, e cominciò a guardare i briganti, ad uno ad uno, collo sguardo lento e grave d'un malato, il cui pensiero spazii già di là dalla vita. I briganti si misero a frugare nella sua valigietta.

Erano davvero ceffi degni del luogo e delle opere. Quello che pareva il capo, era un uomo sulla quarantina, basso della persona; ma corpulento, con una grossa testa, le spalle che toccavan le orecchie e le gambe arcate con due polpacci enormi; e dalla fronte ai piedi tutto largo, corto, tozzo, piatto, che pareva un gigante rientrato in sè stesso, che si fosse gonfiato di tanto, di quanto s'era accorciato; e nero, barbuto, baffuto e capelluto, in modo che non gli si vedeva che due dita di fronte e il sommo delle guancie. Degli altri tre, due parevan fratelli: avevano la stessa fronte angusta, lo stesso naso rincagnato, gli stessi occhi volpini, la stessa bocca senza labbra, curva in forma di semicerchio rivolto in giù, e lo stesso mento aguzzo e sbarbato; e l'uno e l'altro piccoli e nervosi. Tutti e tre aveano negli occhi quel non so che di cupo, di furbo, di lubrico, di spiritato, che esprime la mostruosa stravaganza di cotali nature miste di superstizione e di ferocia, di coraggio temerario e di abbietta vigliaccheria. Un po' cascanti sulla vita, avevano nel gesto e nel passo, e anche nei loro impeti d'ira, qualcosa della leggerezza molle delle tigri. Portavano un cappello a pan di zucchero, due alte ghette, e una giacchetta ampia ed aperta sul davanti, e tra la giacchetta e i calzoni usciva in giro, a sgonfietti, un po' di camicia, stretta da una larga fascia azzurra. Il quarto brigante, che pareva il più giovane, aveva un viso più umano; ed era anch'egli piccolo e sbarbato come i due che avevan aria di fratelli.

— Adesso — disse il capobanda, quando ebbe finito di visitar la valigia — fategli metter giù gli stracci, poi mangeremo due bocconi, e poi... la vedremo. —

I due fratelli s'avvicinarono al carabiniere, e uno gli slegò le braccia, mentre l'altro gli teneva il pugnale dinanzi al petto. Le due braccia slegate caddero penzoloni come le braccia d'un cadavere.

— Giù l'uniforme, — disse uno dei briganti.

Il carabiniere li guardò, e stette qualche momento perplesso, colla fronte corrugata e un labbro stretto fra i denti.

Il brigante più giovane lo guardava con tristezza.

— Tu — disse a costui il capo, che stava seduto presso la porta — va al tuo posto! —

Il giovane, come obbedendo ad un ordine abituale, salì la scaletta, da cui uno dei briganti aveva veduto venire i compagni; appoggiò i gomiti sul macigno, mise il viso fra le due pietre, e rimase immobile.

— Giù l'uniforme, — ripeterono i due briganti, alzando tutti e due insieme la mano.

— Dategli una ceffata, che gli lasci il segno delle dita! — gridò il capo.

Il carabiniere si scosse come se fosse stato punto in una piaga, poi chinò la testa in atto di rassegnazione, e si tolse l'uniforme. I due briganti la presero; frugaron nelle tasche, nelle maniche, da ogni parte; poi la gettarono sotto la capanna. Uno di essi frugò ancora il prigioniero nelle tasche dei calzoni, e disse al capobanda: — Nulla!

— Accidenti a lui! — questi rispose; — legatelo al ferro. —

I due manigoldi legarono il carabiniere colle mani intrecciate sul dorso a un grosso uncino piantato in uno dei pali della capanna. L'infelice era bianco come un morto e batteva i denti come pel ribrezzo della febbre.

I tre briganti cavaron dalle nicchie un po' di provvigione da bocca, sedettero sopra tre sassi, e cominciarono a mangiare, discorrendo tranquillamente, a sbalzi e a proposizioni tronche, come si fa quando si bada più a quello che si mangia che a quello che si dice.

— Hai sentito le notizie di Casalvecchio?

— L'affare di Don Alessio?

— Già; dugento ducati di taglione.

— Pagati?

— Pagati.

— Che chiappa!

— E trecento ducati al Sindaco.

— Furon discreti. Tra lui e suo fratello han di gran terre. Lungo il Fortore, per due miglia, è suo.

— Ma la più bella è stata a Biccari: sei cavalli, cinque fucili, mille ducati e otto sacchi di cacio-cavallo, d'un sol colpo. — Qui buttò una buccia d'arancio addosso al carabiniere, dicendo: — To'.

— E sento — riprese un altro — che c'è stato dei guai a Cerignola.

— Tra la banda di Salvatore Codipietro e i Piemontesi. Furono acciuffati all'impensata. È stato uno spionaggio del Sindaco. Sette presi.

— Col capo?

— No.

— Fucilati? —

Il brigante fece cenno di si.

— Madonna! — esclamò l'altro, e si voltò verso il carabiniere: — Hai inteso, eh? Ma vi renderemo la pariglia, non dubitare. Ha da venire il giorno che a ogni albero della campagna penderanno le budella d'un piemontese. Da' tempo. —

E tracannò un bicchier di vino.

— Guarda, — disse un altro, accennando il carabiniere ai compagni, — sta pensando.

— A che pensi? — domandò il capo, forbendosi i baffi.

— A màmmata? — ridomandò il primo.

— Dove la lasciasti?

— Sentiamo. —

E si voltarono tutti e tre a guardarlo. Il povero giovane chiuse gli occhi, stette un po' così, e poi li riaperse grandi ed umidi, e guardò lontano, di là dai monti.

I tre briganti risero.

— Ma il più bello — disse uno — è che non parla.... O che sarà?... Superbia?

— Modestia, — rispose l'altro con un riso sguaiato.

— Paura, — aggiunse il capobanda.

Il carabiniere scosse la testa come per dire di no-

— Ah! no? — esclamò il brigante, balzando in piedi; — ora vedremo. — E poi ai due compagni, con piglio risoluto: — Costui andava a portar qualche ordine per farci coglier nel covo. Abbiamo perduto anche troppo tempo. Facciamolo sputare.

— Facciamolo sputare, — risposero gli altri, alzandosi.

Il carabiniere si scosse, e alzò la testa in atto di chi dice: — Son preparato. — I tre briganti gli si piantarono dinanzi. Chi avesse osservato, in quel momento, il giovane che stava alla vedetta, lo avrebbe visto tremar come una foglia e voltarsi indietro, per non farsi scorgere, a poco a poco, col viso bianco dal terrore. Il capobanda se n'accorse, e gli accennò con un gesto imperioso che badasse al dover suo: quegli riprese l'atteggiamento di prima.

— Dunque, — prese poi a dire il capo, rivolgendosi al carabiniere, con un accento che non ammetteva più indugi, — di dove venivi? —

Il prigioniero corrugò le sopracciglia e fissò il brigante con uno sguardo profondo che annunziava una volontà più risoluta della sua, e non rispose.

Il brigante, senza dir altro, gli menò un così violento pugno sotto il mento, che s'intese uno scroscio come se gli avesse spezzati i denti. — Risponderai ora? —

Il carabiniere abbassò la testa, lasciò colare il sangue che gli empiva la bocca; poi, rialzando gli occhi in viso al brigante, con un'espressione d'imperturbata alterezza, fece cenno di no.

Il brigante si morse le labbra, ricambiò coi due compagni un sorriso forzato; poi, con tutta calma, pose la mano in tasca, trasse un coltello, l'aperse, sbottonò la camicia al carabiniere, e gli mise la punta della lama sotto la fontanella della gola. La vittima fece un movimento convulso come se la lama fosse già entrata. — Nessuna paura, — mormorò il brigante; — e fece scorrere il coltello, lentamente e leggermente, dal collo fino alla cintura, come avrebbe fatto sopra una tavola per tracciarvi una linea. Sul petto dello sventurato apparve una lunga riga rossa, somigliante a un taglio di rasoio, che subito disparve sotto le goccie di sangue che ne spicciarono fuori; e le goccie filarono giù, come lagrime, sotto i panni e sopra, sino a terrà.

— Ah! ah! — gridò con voce bestiale il capo; — lo cominci a vedere, eh?

— Guarda come corre! — disse l'altro.

Il giovane brigante si coperse il viso colle mani.

— Parli ora? — ridomandò il capo.

Il carabiniere guardò sgocciolare il sangue, poi alzò la testa, fissò gli occhi in viso al brigante, e colla medesima espressione di prima fece cenno di no.

I tre aguzzini si guardarono in viso con un'aria più di stupore che d'ira.

— Ma vuoi dunque morire, imbecille? — urlò improvvisamente il capobanda, mettendo il suo viso contro quello del carabiniere, in modo quasi da toccarlo, e scotendo una mano aperta accanto alla guancia di lui. — Non vedi che sei qui, nelle nostre mani, solo, e che ti possiamo sventrar come un cane? Cosa speri? Che ti vengano a liberare? Dì qualche cosa! Fa sentire la tua voce! Metti fuori almeno una parola! —

Il carabiniere rimase muto.

Preso da un accesso di rabbia, uno dei briganti alzò il coltello; ma il capobanda gli trattenne il braccio, dicendo: — No, il coltello! — e afferrò un fucile: — Questo bisogna che provi! — e alzata l'arma da terra, gliela battè con tanta forza sui piedi, che l'ossa scricchiolarono, il misero gettò un acutissimo lamento, e si contrasse tutto come preso da epilessia. Ma quasi nello stesso punto, traendo forza dal dolore, battè il piede offeso in terra, alzò la testa, e gridò con un ruggito: — No! —

I briganti lo afferrarono tutti e tre insieme pel collo, e stavan per fargli schizzar gli occhi dal capo, quando il giovane che faceva da sentinella, reso audace dall'orrore che non potea più vincere, gridò con voce e viso di forsennato: — Eh, ammazzatelo una volta, per dio! Tirategli una fucilata nella testa! Che serve farlo tanto patire? —

I tre briganti, colpiti più dalla sua audacia che dalle sue parole, si voltarono a guardarlo in atto di stupore; ma fu un breve stupore. Il capo si slanciò sul giovane temerario, e con un pugno nella nuca gli fece battere la testa sul macigno. Il giovane, sbalordito, riprese senza far parola l'atteggiamento di prima; ma nel punto stesso che gettava lo sguardo giù pel fianco del monte, fece un leggero atto di meraviglia, si sporse più innanzi, e restò immobile, cogli occhi fissi. Il capo dei briganti non se ne accorse, e tornò verso la vittima. Era livido, digrignava i denti e tremava; i suoi stessi compagni lo guardavano con trepidazione. Pose una delle sue grosse mani sul capo del carabiniere, alzò l'altra con l'indice teso in atto di minaccia, e guardandolo di sbieco cogli occhi iniettati di sangue, mormorò con voce strozzata:

— Senti... In mal'ora t'è venuta l'idea di fare il cocciuto con me... Tu non sai chi sono... Io ho fatto rizzare i capelli sulla testa a gente che aveva più fegato di te.... Tu non hai idea di quello che son capace di farti soffrire... Io son capace di pugnalarti fino a domani senza toglierti la vita.... di ridurti a non aver più figura d'uomo.... di strapparti gli occhi dal capo.... Sai quello che è seguito agli altri.... non mi mettere al cimento.... di' quello che devi, prima che mi monti il sangue alla testa....

Dicendo le ultime parole, gli levò la mano dal capo, — la guardò, — c'eran dei capelli. Indispettito, glieli buttò nel viso e gli rimasero attaccati alla bocca. Il carabiniere, per liberarsene, sputò. I briganti presero quell'atto come uno spregio, e non si contennero più. Gettando tutti e tre insieme un grido di rabbia, chinando il capo, torcendo gli occhi, gli si slanciarono addosso come tre fiere, e cominciarono colle punte dei pugnali, coll'unghie, coi denti, colle ginocchia, coi piedi, a torturarlo, in fretta e in silenzio; or l'uno or l'altro sostando un momento per riprender fiato; dicendosi l'un l'altro: — Adagio! — per avvertirsi di non ucciderlo; e pestavano, punzecchiavano, mordevano, e cadevano in terra stille di sangue, brani di camicia, ciocche di capelli; e non s'udiva che il respiro affannoso dei tre carnefici, e il rumor dei pugnali che s'urtavano, e il singulto secco della vittima; erano accecati, ebbri, imbestialiti; non parevano più tre uomini, ma un mostro di tre corpi avviticchiato ad un uomo: presentavano tutto quello che posson avere insieme di orribile la demenza, la viltà e la ferocia.

— Non lo uccidete ancora! — ricominciò a gridare il giovane con grande affanno, voltandosi e rivoltandosi rapidissimamente ora verso i briganti, ora verso la campagna, e alzando a grado a grado la voce come se volesse coprire un rumore che s'avvicinava. — Non lo uccidete ancora! Aspettate! Dirà tutto! Se lo uccidete, non saprete nulla! Provate ancora una volta! Ha fatto segno che vuol parlare! Lo ucciderete poi! Gli darò io una pugnalata nel cuore, se non gliela darete voi! Mettete giù i pugnali! Picchiate solamente coi pugni! Non vedete che muore? —

Senza cessar di gridare lanciò un'occhiata fuori, vicino, al piede del baluardo; poi balzò in mezzo al recinto, e mutando tutto ad un tratto viso e intonazione di voce, gridò con un accento d'inesprimibile disprezzo:

— Ah! vigliacchi! Tre contro un moribondo!

— Dannazione! — urlò il capo dei briganti, slanciandosi col pugnale alzato contro di lui.

— È tardi! — questi rispose con un fremito di gioia, e accennando la porta, gridò: — Guarda! —

Nel punto stesso che gli altri due briganti, avvertiti dalle parole del giovane, gettavano in fretta e in furia un ampio mantello addosso alla vittima, e mentre il capo afferrava il fucile per gettarsi contro il nemico misterioso che s'avanzava, scoppiò uno strepito d'armi, di passi, di voci, balenarono baionette e canne di fucile dinanzi alla porta, sopra i macigni, sull'alto della rupe; e irruppe dentro uno stuolo di carabinieri, che in un baleno circondò, oppresse, disarmò e buttò a terra quanti trovò nel recinto. Seguirono alcuni momenti di silenzio, durante i quali non si udiva che il respirar grosso e frequente dei carabinieri trafelati.

— Soccorrete il moribondo! — gridò all'improvviso il giovane brigante, che stava inginocchiato anche lui, come gli altri, colle mani appoggiate in terra, sotto la baionetta d'un carabiniere.

— Qual moribondo? — domandò il capitano, facendosi innanzi, polveroso ed ansante.

— Là! nell'angolo! — rispose il giovane, accennando.

Tutti si voltarono a guardare: nessuno scopriva nulla.

— Sotto il mantello! ripetè il brigante.

Il capitano, seguìto dagli sguardi di tutti, s'avvicinò alla capanna, afferrò il mantello e lo buttò in terra. Un grido generale d'orrore risonò alla vista di quell'orrenda cosa. L'infelice prigioniero, inginocchiato in terra, colle braccia ritorte indietro, e il capo spenzolante sul petto, era tutto lividi e piaghe e sangue, che parea scorticato; e faceva uno sforzo per alzare la testa.

— Slegatelo subito! — gridò il capitano. — Dategli da bere! —

Tre carabinieri accorsero, lo slegarono, lo posero a sedere, e cominciarono ad esaminar le ferite; gli altri, acciecati dall'ira, percotevano i briganti col calcio del fucile.

— Giù le armi! — gridò il capitano. E poi, voltosi verso il giovane brigante: — Parla tu! —

Il carabiniere che lo teneva gli permise d'alzarsi in piedi.

— Quando fu preso quell'uomo? — domandò il capitano; — di' la verità prima di morire.

— Quell'uomo — cominciò il giovane con voce affannosa, tremando ancora d'orrore e di spavento... — quel carabiniere... l'hanno preso stamani... l'hanno condotto qui... l'hanno legato... volevano che parlasse... lui non voleva... non parlò... gli saltarono addosso... Io ho veduto! Mio Dio! Mio Dio!

— Ma tu chi sei? — gridò il capitano, strappandogli il cappello.

Tutti si voltarono ed esclamarono: — Una donna!

— Sì! — gridò questa come una forsennata; — sono una donna... m'hanno rubata... son quindici giorni... mi misero il coltello alla gola... m'hanno condotta con loro... Ma io non mi sono macchiata le mani di sangue, no! lo giuro! io li accompagnava soltanto perchè non m'uccidessero! Io sono di San Severo... sono una povera contadina...

— Perchè non hai tirato una fucilata nella testa a uno di costoro?

— Non ho avuto coraggio... mi avrebbero messa alla tortura... Bisogna vedere quello che fanno... Credevo di diventar pazza... Se aveste visto... Ma lui (e accennava il ferito), lui è stato un Dio... ha sofferto tutto... non ha detto una parola! non una parola!

— Trascinate questi vigliacchi ai piedi della loro vittima! — gridò il capitano.

I carabinieri trascinarono i tre briganti dinanzi al ferito, a cui era stata fasciata la testa con una pezzuola che gli cuopriva il viso.

— Son qui io! — gridò il capitano, chinandosi verso l'infelice, che cominciava a ridar segni di conoscenza; — sei salvo! sei in mezzo ai tuoi compagni! fatti coraggio! guarda! i tuoi assassini sono inginocchiati davanti a te! —

Il carabiniere alzò lentamente la testa e si scosse tutto. Poi stese una mano, la posò sulla testa del capo dei briganti, la ritrasse, sorrise colla bocca insanguinnata — sporse il capo innanzi — e gli sputò sulla faccia.

— Cos'è questo? — dimandò il capitano, raccogliendo un non so che bianco e molle che gli era parso veder cadere dalla bocca del disgraziato.

— ... La... risposta... al colonnello... — rispose il ferito con un filo di voce.

— Al colonnello di San Severo? La mia risposta? Quella che t'ho data questa mattina? —

Il carabiniere accennò di sì.

Il capitano si slanciò su di lui, gli mise un braccio intorno al collo e lo baciò sulla fronte; poi balzò in piedi e gridò ai suoi soldati: — Inchinatevi davanti a questo valoroso, figliuoli! Egli portava al colonnello la mia lettera che annunziava la nostra partenza, l'ora e dove andavamo; se i briganti la leggevano, eran salvi; la mise in bocca, e non parlò per non tradirsi, e sopportò i tormenti in silenzio! È un eroe! È un martire! È un'anima grande!

— Sì! — gridarono tutti i carabinieri insieme, con una voce che veniva dal più profondo dell'anima.

— Baciategli i piedi, vigliacchi! — gridò il capitano ai briganti.

L'uno dopo l'altro, strisciando in terra come serpi, baciarono i piedi al ferito.

— Capitano! — gridò allora la donna, fissandolo con due occhi di pazza; — io potevo dar l'avviso, quando voi venivate... non lo diedi, vi lasciai venire... Fatemi una grazia in compenso... Io sono una donna perduta... Io non posso più tornare a casa... Fatemi fucilare con costoro!

— No! — gridò con un estremo sforzo il ferito.

Tutti si voltarono.

— Voi... — continuò l'infelice con voce fioca, tendendo una mano sanguinosa verso la donna, — dovete fare un'opera di misericordia...

— Quale? dite! Dio mio! Io ve lo domando per carità! — gridò la donna, gettandoglisi ai piedi colle mani giunte.

— ... Accompagnarmi... — mormorò l'infelice.

— Dove? — domandò là donna.

— Da per tutto! —

Tutti si guardarono meravigliati.

— Cosa volete dire? — ridomandò la donna.

— Voi non le avete viste tutte... le mie ferite... — rispose il carabiniere; — Guardate! —

E sollevò il fazzoletto che gli copriva la fronte. Tutti s'avvicinarono ansiosi, guardarono, e gettarono un grido straziante di orrore e di pietà. Lo sventurato era cieco.

— Alla morte! — urlarono allora tutti i soldati, percotendo i briganti coi fucili e coi piedi. — Alla morte! — La voce del capitano non riuscì a dominare il tumulto; i carabinieri si slanciarono fuori, travolgendo gli assassini nella corsa precipitosa.

— Farete... quest'opera... di misericordia? — domandò il ferito alla donna, quando furono soli.

Questa alzò gli occhi al Cielo e disse: — La mia vita è vostra. —

Allora si strinsero la mano, e una fragorosa scarica, che scoppiò giù nella valle, parve salutare il nobilissimo patto, che lega da dieci anni la donna pietosa all'eroe.

LA CASA PATERNA. DALLE MEMORIE DI WILELM VAN MINDEN.

.... M'era già venuto più volte il desiderio di fare una corsa a Kalmert per rivedere la casa dove nacqui e i luoghi dove passai i primi quindici anni della mia vita. Ma sempre, al momento di partire, m'era mancato il coraggio. In quella città era seguito l'avvenimento che aveva dispersa la mia famiglia, in quella casa avevo provato il primo grande dolore della vita, — c'era morto mio padre; — temevo perciò di risentire, tornandovi, un'emozione troppo dolorosa. Così avevo rimandato la mia gita d'anno in anno, sperando sempre che l'anno dopo mi sarei sentito più forte; e n'erano passati venti: vale a dire tutta la parte migliore della mia vita. Ma una mattina di gennaio, finalmente, avendo scoperto, pettinandomi, una ciocchetta di capelli bianchi che sino allora era stata nascosta sotto un pietoso ricciolo biondo, dissi risolutamente a me stesso: — È tempo, — e partii la mattina stessa per poter tornare a Bois-le-Duc la sera. Vent'anni! — pensavo durante il tragitto, guardandomi nei vetri del vagone; la pinguedine, la barba e il sole di Borneo, m'hanno molto cangiato; nessuno mi riconoscerà; nessuno verrà a distrarmi dallo scopo triste e caro insieme del primo viaggio; posso andar là col cuore in pace. — E infatti le mie previsioni non furono deluse.

Nevicava; la campagna era tutta bianca; il treno, quasi voto; i miei compagni di viaggio, appena arrivati a Kalmert, montarono in carrozza e disparvero; io m'incamminai tutto solo verso la città, e arrivai in cinque minuti, agitato da una curiosità e da un'impazienza penosa, all'imboccatura della strada principale.

Qui mi fermai, e guardai dinanzi e intorno a me con un grande stupore.

Riconoscevo la strada e gli edifizi; ma ogni cosa mi pareva stranamente cangiata; la strada divenuta strettissima; le case rimpicciolite; i muri invecchiati, non di venti anni, ma d'un secolo; tutto diventato nero, squallido, lugubre; mi pareva una città colpita da un grande infortunio, nella quale anche gli edifizi fossero afflitti e pensierosi. Andai innanzi, riconoscendo ad ogni passo una cantonata, una finestra, una porta, una bottega, che mi ridestavano cento reminiscenze infantili, e mi trovai presto nel cuore della città, in mezzo a una folla di signori e di signore che uscivano dal duomo; poi chè era domenica, e appunto il momento in cui terminava, come vent'anni prima, la messa signorile di mezzogiorno. In meno di cinque minuti, riconobbi cento persone; ma come cangiate! Nei primi momenti non mi parve credibile che venti anni avessero potuto trasfigurare una popolazione in quella maniera; e pensai che qualche sconosciuto malanno avesse aiutato l'opera distruggitrice del tempo. Quelli che avevo lasciati coi capelli neri, eran diventati grigi; quelli che avevo lasciati grigi, eran diventati bianchi; questi s'era incurvato, a quello s'erano infiacchite le gambe; il tempo, passando su quella gente come un nemico rabbioso e capriccioso, aveva qui schiacciato un occhio, là strappato una zazzera, a uno rotto i denti, a un altro vuotate le guancie. Vedevo dei miei compagni di scuola, una volta sottili come un filo, impinguati in maniera da non esser più riconoscibili fuori che all'espressione del viso; delle ragazzine, che avevo viste andar alla scuola, leggere come farfalle, colla colazione nel canestro, diventate pezzi di donne gravi e lente, circondate di bambini; signore che avevo lasciate sfolgoranti di gioventù e d'allegrezza, avvizzite, rugose, col capo basso e un velo nero sul viso; famiglie già numerose, ridotte a tre o quattro persone; faccie che erano sparite affatto dalla mia memoria; larve di miei antichi maestri delle scuole elementari, che credevo già sotterrati da dieci anni; giovanotti che avevo visti bambini in braccio alle fantesche, piantati in atteggiamenti dongiovanneschi davanti ai caffè; una ragazzaglia sconosciuta, una serie di coppie matrimoniali imprevedute e imprevedibili, un gran numero di persone allungate, raccorciate, arrotondate, assottigliate, scontorte, ingiallite, imbellite, rimminchionite; e malgrado la quasi eguaglianza dei cangiamenti in meglio e dei cangiamenti in peggio, quasi tutti mi parevano annoiati o tristi, e provavo un sentimento di pietà vedendoli svoltare coppia per coppia, famiglia per famiglia, in quelle stradette tortuose e oscure, e sparire gli uni dopo gli altri sotto le porte basse di quelle piccole case. Dopo pochi minuti restai quasi solo.

Attraversai parecchi vicoli cupi, fiancheggiati da casupole di cattivo umore, e riescii in quella strada e vidi quella casa.

Provai un'emozione viva; ma la vinsi subito.

Cercai con gli occhi la porta di casa del pollaiolo, del lattaio, del fruttivendolo, dell'oste: erano tutte o chiuse o socchiuse; la strada era deserta; la neve quasi intatta.

Passai innanzi al portone del cortile di casa mia, e m'affacciai alla porticina: non vidi nessuno.

Entrai: la porta della casetta del portinaio era chiusa; andai innanzi lentamente sotto un lungo pergolato che riesciva in faccia alla scala.

E fin qui non sentii che un po' di batticuore. Ma quando mi trovai dinanzi al portico della casa, in quel piccolo spazio dov'era affollata la parte maggiore e più intima dei miei ricordi; quando vidi la porta dell'uffizio di mio padre, quella scala, quel terrazzino, quelle finestre contornate di viti, — tutto ancora tal quale l'avevo lasciato; — allora mi sentii oppresso improvvisamente da una violenta emozione, e i miei occhi si riempirono di lacrime.

Guardai alle finestre: non v'era nessuno. Mi voltai indietro, verso la casetta del portinaio: nessuno. Tutte le porte erano chiuse, e tutto era bianco di neve, e continuava a nevicare.

Come mi balzava il cuore! Quanta gente c'era per me in quella solitudine! I vecchi medici di casa attraversavano a passo lento il cortile, le fantesche morte scendevano la scala colla sporta al braccio, i miei amici di infanzia saltellavano sotto il portico, il mio ripetitore di latino faceva capolino in fondo al pergolato, mio padre usciva dall'uffizio rimettendo gli occhiali nell'astuccio, mia madre mi faceva cenno dalla finestra che non stessi a pigliare il sole di mezzogiorno, mia sorella inaffiava i fiori nel giardino, mio fratello leggeva forte nella sua stanza, il mio vecchio gatto nero si arrampicava su per le viti, i miei passeri cantavano nelle loro gabbiette verdi, le porte e le finestre s'aprivano e si chiudevano; tutto si moveva, tutto parlava, tutto mi guardava; ed io stavo là sotto quei mille sguardi e in mezzo a quelle mille voci, sopraffatto da un sentimento inesprimibile di tenerezza, di malinconia e di stupore, e incerto se dovessi trattenermi o fuggire.

Un po' di neve che cadde da un albero sopra i miei piedi, mise in fuga tutti quei fantasmi, e mi risentii sicuro di me stesso. Allora cominciai a considerare attentamente il luogo. Come tutto era diventato piccino! Quella casa, che m'era sempre parsa un grande edifizio, non era che una casetta di villaggio; il pergolato, che m'era sempre parso altissimo, lo toccavo quasi col cappello; il muricciuolo dell'orto che non ero mai riuscito a saltare, potevo scavalcarlo senza scompormi; mi pareva di essere diventato un gigante, sentivo che la mia persona era d'ingombro; e non so perchè, questo mi rincresceva. Provavo quasi tristezza d'essere tanto ingrossato. Mi pareva che tutti gli oggetti che mi circondavano dovessero dire: — Chi è quell'omaccione? noi non lo conosciamo. — Certi sfondi, certi prospetti lontani del giardino e del cortile, s'erano ravvicinati; i muri di cinta s'erano ristretti; non mi sapevo dar ragione d'aver veduto per tanti anni, in quello spazio così angusto, delle vaghe immagini di steppe, di valli e di strade senza fine, e d'aver provato un certo sentimento di viaggiatore avventuroso andando, nei giorni di pioggia, da un'estremità del cortile all'estremità opposta del giardino. Toccai la cancellata del giardino; era aperta, entrai. La neve copriva i sentieri, le spalliere di mortella, le aiuole, i fossi; ma riconobbi ogni cosa al primo sguardo. Rividi la finestrina dell'uffizio di mio padre, alla quale, ventitrè anni prima, una mattina d'aprile, egli s'era affacciato, dicendomi con voce fresca ed allegra: — Wilelm, in questo momento compisco settantaquattro anni! — Rividi il capanno di gelsomini sotto il quale m'ero preparato alla mia prima confessione, e dov'ero rimasto molte ore immobile e pensieroso il giorno in cui, tornando dalla scuola, avevo visto per la prima volta un cadavere. Rividi il piccolo canneto da cui per parecchi anni avevo tratto spade e lancie per il piccolo esercito di monelli cenciosi che combattevano sotto il mio comando contro i vigliacchi della parocchia di Sant'Ambrogio. Dietro ogni cespuglio s'alzava un fantasma; pullulavano da ogni parte centinaia di ricordi: ricordi di persone morte, di parole dette da gente dimenticata, di scene miste di realtà e di sogno, di certi giochi di luce, di mattinate piovose, di fragranze dell'aria, di letture, di fantasticherie, di rimorsi infantili, di proponimenti di cangiar vita, di certi rami di piante incurvati in una certa direzione, di certi insetti visti in quel dato punto del tronco d'un albero, dei primi improvvisi e misteriosi rimescolamenti del sangue provati nel veder venire verso di me, in mezzo al verde e all'ombra, la figura leggera e bianca d'una cugina di tredici anni che avevo sognata la notte. E più andavo innanzi, più le immagini mi si presentavano fitte e vive. Non badavo più alla neve, non pensavo più che qualcuno potesse vedermi dalle finestre e prendermi per un matto o per un ladro. Tutta la mia mente e tutto il mio cuore erano nel passato. Mi pareva che molte voci sommesse mi chiamassero per nome, o mi dicessero mille cose incomprensibili in suono di lamento, ed io rispondevo confusamente, giustificandomi e promettendo non so cosa, e guardavo intorno con un sentimento di rispetto e di pietà come se quel giardino fosse un camposanto, e quei rialti di neve nascondessero dei morti.

Così arrivai sotto una tettoia in fondo al giardino, sedetti, rivolto verso le finestre, e mi misi a pensare. I miei pensieri mi conducevano a un sentimento amaro della vanità delle cose umane. — Ah, come sono invecchiato! — dicevo tra me. Se quando scorrazzavo ragazzo in questo giardino, qualcuno m'avesse predetto quello che poi è accaduto, mi sarebbe parso d'essere chiamato ad una felicità immensa. Eppure, io sono da questa felicità assai più lontano ora di quello che lo fossi in quegli anni. Sono partito di qui pieno di speranze e d'ambizioni, temendo quasi che la vita non fosse abbastanza lunga e la terra abbastanza vasta, per quello che avevo da operare e da godere; ed ecco che, dopo pochi anni, tornando qui ancor giovane, non ho più altro desiderio che d'andar a terminare la mia gioventù lontano dai rumori del mondo, in una villetta solitaria, colla mia famiglia e i miei libri! Molte fatiche, qualche piacere, una passeggiera soddisfazione d'amor proprio, e tutto è finito. Partito appena per il grande viaggio, son già sulla via del ritorno. Non aspiro più ad altro che alla pace della coscienza e della vita. Non sento più nemmeno l'amarezza del disinganno. Falsi amici, false speranze, vanità, gloriole, piccoli piaceri e piccolissime passioni della vita vissuta finora, li vedo ai miei piedi, e li guardo senz'ira e senza rammarico. Non disprezzo, non accuso nulla e nessuno, non mi credo migliore dei miei simili; non sento altro che una immensa sazietà, una profonda stanchezza, un invincibile bisogno di solitudine e di silenzio. Chi ama il mondo, si slanci innanzi, s'apra la via, trionfi, splenda e s'inebrii; l'invidia non trarrà più dal mio cuore un sospiro. Io non domando più altro al mondo che un po' di verde e un po' d'aria, e a Dio la forza di resistere alla disperazione il giorno in cui rimanessi solo sopra la terra....

In quel momento vidi comparire dietro i vetri d'una finestra un viso di cui i fiocchi fittissimi della neve velavano la fisonomia.

Mi parve che mi guardasse.

Pensai allora che era mio dovere o d'andarmene o di salir su a dar spiegazione della mia presenza in quel luogo. Questa riflessione mi diede coraggio a fare quello che da principio non avrei osato: a chiedere il permesso di visitare l'interno della casa.

Uscii dal giardino, salii le scale e bussai alla porta, che s'aperse subito, mostrandomi un viso meravigliato, che evidentemente m'aspettava. Era il padron di casa; un uomo sui cinquant'anni, d'aria benevola; dietro il quale faceva capolino una signora attempata, di fisonomia dolce e triste, che pareva sua moglie.

Dissi il mio nome ed esposi il mio desiderio, spiegandolo.

Il mio nome non riuscì nuovo, la mia voce commossa spiegò i miei sentimenti meglio delle parole; fui invitato ad entrare.

Entrai.

Oh care, benedette, indimenticabili pareti della mia povera casa! Fuorchè i muri, tutto era mutato; ma riconobbi subito ogni cantuccio, e rividi ogni cosa al suo posto come al tempo della mia infanzia. Mille voci insieme mi chiamavano da tutte le parti: — Wilelm! Wilelm! Wilelm! È qui — è lui — è tornato — è il piccolo Wilelm! E la mamma? E i fratelli? dove sono? dove sei stato? che cos'hai fatto? — Ma fin dai primi momenti l'immagine di mio padre sopraffece tutte le altre memorie. Lo vedevo apparire sulla soglia di tutte le porte, lo sentivo camminare dietro tutte le pareti; era da per tutto; lo vedevo, come riflesso da cento specchi, in cento immagini; qui seduto al tavolino, occupato a rigare i miei quaderni di scuola; là appoggiato al camminetto, in atto di declamarmi dei versi di Vondel; più in là inteso a fissare al muro un quadretto in cui aveva messo un mio schizzo informe di battaglia, fatto a cinque anni, e festeggiato da lui come la rivelazione d'un genio. Ogni angolo, ogni palmo di parete mi ricordava un suo lavoro, una sua parola, una sua abitudine. E più andavo innanzi per quelle stanze rischiarate d'una luce smorta ed eguale dal riflesso della neve, più la sua immagine si faceva viva, tanto che, in qualche momento mi corse un brivido per le vene, come se voltandomi improvvisamente, dovessi rivederlo davvero. Rividi la stanza dove mia madre gettò un grido disperato quando il nostro vecchio medico, uscendo dalla camera di mio padre, le disse con voce sommessa: — Si faccia coraggio, buona signora... è finita! — Passando per la stanza accanto, rividi me, di sei anni steso sul letto, moribondo di crup; mio padre un po' più in là che mi faceva il ritratto a matita, asciugandosi gli occhi di tratto in tratto, e mia madre inginocchiata al mio capezzale, che mi teneva per mano, e soffocava i singhiozzi nelle coltri. Quante immagini, quante reminiscenze di malattie, di dolori, di spaventi, di racconti di fate, di giocattoli rotti, di vecchie vesti di mia madre e di mia sorella, che erano sparite da anni ed anni dalla mia memoria! Entrando in ogni nuova stanza, ero costretto a fermarmi, come per resistere all'ondata di memorie che mi veniva incontro impetuosa, e mi soverchiava. Una finestra delle ultime stanze mi ridestò una reminiscenza vaga, come d'un sogno, di non so che diverbio, cagione di molte lagrime, che ebbi con un mio fratello, maggiore di me, morto a cinque anni, del quale non rammento più che due grandi occhi neri che mi guardavano sempre. Di stanza in stanza, la mia memoria s'andava rischiarando, come per il diradarsi d'una nebbia, dietro la quale mi riapparivano i primissimi albori dell'intelletto e della coscienza, e capivo per la prima volta il perchè di molte manifestazioni del mio carattere, seguite anni e anni di poi; e su quel fondo luminoso della mia infanzia, si muovevano e s'aggruppavano confusamente le figure del mondo vario e tumultuoso, conosciuto da adulto e da uomo; profili eleganti di belle patrizie, teste gloriose di poeti, visi arditi e cari di soldati, città e mari lontani, e camerette piene di carte e di libri, in cui io avevo sudato e pianto, sospirando mia madre; e mi sentivo crescere nel cuore un rimorso, non so di che, una tristezza, uno sgomento, una voglia di buttarmi in terra e di piangere, che mi soffocava. Arrivai finalmente all'ultima stanza. — È la nostra camera da letto — disse il padrone di casa, aprendo la porta. Era la camera dov'era morto mio padre. Mi fermai sulla soglia, mi sentii mancare il coraggio. Avevo intravvisto un letto nello stesso angolo dov'era stato quello di mio padre, e mi pareva ch'egli dovesse trovarsi ancora là, immobile e bianco, col crocifisso in mano, in mezzo a due ceri accesi. Il padron di casa capì e si fece indietro discretamente. Io mi precipitai solo nella camera e mi gettai in ginocchio ai piedi del letto. Oh! non scorderò mai più, mai più quel momento! Mi parve di risentire nella mia mano la mano fredda di quel povero vecchio, mi parve che fosse spirato allora, mi tornarono in mente le sue ultime parole, i suoi ultimi gesti, il suo ultimo sguardo, che cercava me, il piccolo Wilelm, l'ultimo dei suoi figliuoli, ch'egli lasciava non ancora avviato nel mondo, e di cui parlava sempre con rammarico nei suoi ultimi giorni! Allora soltanto, ricordando la sua lunga vita di lavoro e di sacrifizi, compresi che cosa valesse quell'uomo; sentii tutto quello che gli doveva il mio cuore e la mia mente; riconobbi che non l'avevo amato abbastanza, che il mio sentimento per lui era stato più di rispetto che di tenerezza, che ero stato ingiusto, ch'ero stato ingrato, e gliene domandai perdono a mani giunte, piangendo a calde lagrime, e baciando disperatamente la sponda del letto, come aveva baciato quindici anni prima la sua mano inanimata! Poi rimasi là qualche tempo a meditare, e in quei momenti si decise la sorte della mia vita. Riavuto dalla prima stretta del dolore, mi domandai perchè mi rimanesse nel cuore una così grande tristezza, perchè da tanto tempo mi sentissi quasi stanco della vita, perchè, guardando all'avvenire, lo vedessi così vuoto e così malinconico, perchè fino i più ridenti ricordi dell'infanzia mi amareggiassero l'anima, che cosa avrei dovuto fare per ravvivare la mia gioventù moribonda e per risuscitare le mie speranze morte, che cosa mi mancava, che nuova vita avrei dovuto intraprendere. E allora da tutte le stanze di quella casa, dal giardino, dal portico, dal cortile, tutte quelle medesime voci che m'avevano salutato all'entrare, mi risposero tutte insieme: — Wilelm, e lo domandi? Bisogna riedificare il tempio caduto, rifare la casa antica, rimettere tutto al suo posto, risuscitare il piccolo Wilelm d'una volta e i suoi piccoli fratelli, ricomporre i giocattoli spezzati, tornare a rigare i quaderni di scuola e a declamare i versi di Vondel! Bisogna ricominciare il cammino, Wilelm! — Mille volte m'era già venuto questo pensiero; ma questa volta me lo diceva la mia casa, era un consiglio che mi dava il mio vecchio giardino, era una preghiera che mi mormorava mio padre morto, e per la prima volta la mia anima vi rispose con uno slancio d'amore e di risoluzione. In un momento, come per incanto, la mia mente si rischiarò; tutto intorno parve trasfigurato; un nome da molto tempo caro al mio cuore mi venne sulle labbra come un grido di gioia; lo pronunziai tre volte: — Lijsse! Lijsse! Lijsse! — guardandomi intorno come se lo spirito di mio padre fosse là e mi sentisse; poi balzai in piedi e uscii dalla stanza ringiovanito, forte, sereno, colla fronte radiante dell'aurora d'una nuova vita. E mentre mi congedavo dal mio ospite, mentre ripassavo per le altre stanze, scendendo le scale, passando sotto al pergolato, mi pareva che le mille voci della casa mormorassero in suono di festa: — Addio, Wilelm! addio, Wilelm! È lui, — è il piccolo Wilelm, che va a rifabbricare il tempio caduto, che va a rifare la casa antica, che sta per ricominciare il cammino! A rivederci, Wilelm! — E quando arrivato in fondo alla strada, mi voltai per guardare l'ultima volta la casa, tutta velata dai fiocchi della neve che cadeva sempre più fitta, e fissai lo sguardo alla finestra dell'ultima stanza, mi parve di vedere l'immagine di mio padre che mi benedicesse, dicendo: — Addio, piccolo Wilelm! Sii benedetto, figliuol mio, che vai a fabbricarmi una nuova casa e a prepararmi una nuova vita! A rivederci presto, Wilelm! — E appena arrivato a Bois-le-duc corsi dal padre di Lijsse a fargli la domanda che aspettava da tanto tempo.

Ed ora son passati, da quel giorno, altri quindici anni; ne ho quarantacinque, e la mia testa è tutta grigia. Ma ho rifabbricato il tempio caduto e quasi tutti i miei desiderii sono compiuti. Sto a Deventer, in una bella casa, che ha un piccolo portico, un giardino con la tettoia in fondo, e un lungo pergolato. Dalla stanza a terreno dove sto scrivendo vedo il piccolo Wilelm di dieci anni che fa il chiasso nel cortile coi suoi compagni di scuola, vedo la sua piccola sorella Iulia che inaffia i fiori del giardino, sento il mio primogenito Albert che legge forte nella sua camera al primo piano, e la mia buona Lijsse che dalla finestra grida a Wilelm di non star a prendere il sole di mezzogiorno. Vedo il ripetitore di latino quando passa sotto il pergolato, vedo il gatto di casa che s'arrampica su per le viti, vedo la vecchia donna di servizio tornar dal mercato colla sporta sotto il braccio; i passeri cantano nelle loro gabbiette verdi, le porte s'aprono e si chiudono, tutto si muove, tutto parla, tutto è pieno di allegrezza e di vita, e tutto mi ricorda la casa antica di Kalmert. Io stesso m'accorgo d'aver preso a poco a poco le abitudini di mio padre, la sua andatura, i suoi gesti, la sua intonazione di voce. E qualche volta ho una strana illusione: mi par d'esser proprio lui, ringiovanito di vent'anni, e che il mio spirito sia passato in quel piccolo Wilelm che vedo nel cortile; e vedo un terzo piccolo Wilelm che verrà dopo il mio, e un altro che verrà da quello, e via via, una fila sterminata di piccoli Wilelm che si perde lontano lontano in un orizzonte azzurrino, e mi par di essere immortale e felice. Eppure penso sovente alla morte; ma non come al tempo della mia gioventù, con un sentimento di tristezza o di terrore; ci penso tranquillamente, come un lavoratore contento di sè, seduto a una mensa gioviale, pensa che più tardi andrà a riposare dalle sue oneste fatiche sopra un guanciale non visitato da cattivi sogni. Solamente io dico sempre tra me: vorrei morire di primavera, nell'ultima stanza di casa mia, colla finestra aperta sul giardino, con la mia Lijsse accanto, con tutti i miei figliuoli intorno, colla forza di riconoscerli, di chiamarli per nome, di abbracciarli a uno a uno fino all'ultimo momento, e di dire a tutti con voce distinta, prima di chiudere gli occhi: — Figliuoli, quando avrete trentanni e comincierete a sentirvi stanchi della vita, rifabbricate la casa e ricominciate il cammino!

Fine.

INDICE

Gli amici di collegio Pag. 1

Camilla 51

Furio 161

Un gran giorno 271

Alberto 301

Fortezza 401

La casa paterna 439

OPERE DI E. DE AMICIS

Edizioni Treves, in-16.

La vita militare . Nuova edizione del 1880 riveduta e completamente ritusa dall'autore con l'aggiunta di due nuovi bozzetti. 4.ª impressione L. 4 —

Novelle . Nuova edizione riveduta e ampliata. 5.ª impressione 4 —

Olanda , 7.ª edizione 4 —

Marocco . 9.ª edizione 5 —

Costantinopoli . 12.ª edizione 6 50

Ricordi di Londra . 8.ª edizione 1 50

Ricordi di Parigi . 4.ª edizione 3 50

Ritratti letterari . 2.ª edizione 4 —

Poesie . 3.ª edizione 4 —

Gli Amici . 2 volumi. 8.ª edizione 7 —

Edizioni illustrate, in-8.

Marocco . Con 171 disegni di Stefano Ussi e C. Biseo L. 15 —

Costantinopoli . Con 202 disegni di C. Biseo 20 —

La Vita Militare . Con disegni di V. Bignami, E. Matania, D. Paolocci, e Ed. Ximenes 15 —

IN PREPARAZIONE:

Sull'Oceano.