INDICE.

Dedica Pag. V

L’Olanda 1

Zelanda 18

Rotterdam 42

Delft 111

L’Aja 147

Leida 245

Haarlem 266

Amsterdam 289

Utrecht 323

Broek 337

Zaandam 356

Alkmaar 367

Helder 384

Il Zuiderzee 402

Frisia 417

Groninga 450

Da Groninga ad Arnhem 471

A PIETRO GROLIER.

L’OLANDA.

Chi guarda per la prima volta una grande carta dell’Olanda, si meraviglia che un paese così fatto possa esistere. A primo aspetto, non si saprebbe dire se ci sia più terra o più acqua, se l’Olanda appartenga più al continente che al mare. Al vedere quelle coste rotte e compresse, quei golfi profondi, quei grandi fiumi che, perduto l’aspetto di fiumi, par che portino al mare nuovi mari; e quel mare che, quasi cangiandosi in fiume, penetra nelle terre e le rompe in arcipelaghi; i laghi, le vaste paludi, i canali che s’incrociano in ogni parte, pare che un paese così screpolato debba da un momento all’altro disgregarsi e sparire. Si direbbe che non possa essere abitato che da castori e da foche, e si pensa che gli abitanti, poichè c’è gente tanto ardita da starvi, non ci debbano dormire coll’anima in pace.

Pensai queste cose la prima volta che guardai una grande carta dell’Olanda, e mi venne il desiderio di sapere qualche cosa intorno alla formazione di questo singolare paese; e siccome quello che ne seppi mi determinò a fare il libro, lo scrivo qui, colla speranza che possa determinare altri a leggerlo.

Di un paese che non si conosce, si suol fare a chi lo vide questa domanda:—Che paese è?

Che paese sia l’Olanda l’hanno detto molti in poche parole.

Napoleone disse ch’è un’alluvione di fiumi francesi,—il Reno, la Schelda e la Mosa,—e con questo pretesto l’aggregò all’Impero. Uno scrittore la definì una sorta di transazione fra la terra e il mare. Un altro, un’immensa crosta di terra che galleggia sulle acque. Altri, un annesso del vecchio continente, la China dell’Europa, la fine della terra e il principio dell’oceano, una smisurata zattera di fango e di sabbia; e Filippo II—il paese più vicino all’inferno.

Ma sur un concetto furon tutti d’accordo, e lo espressero tutti colle stesse parole:—L’Olanda è una conquista dell’uomo sul mare,—è un paese artificiale,—lo fecero gli Olandesi,—esiste perchè gli Olandesi lo conservano,—sparirebbe se gli Olandesi lo abbandonassero.

Per rendersi ragione di questa verità, bisogna raffigurarsi l’Olanda com’era quando andarono ad abitarla le prime tribù germaniche che erravano in cerca di una patria.

L’Olanda era un paese quasi inabitabile. Eran vasti laghi tempestosi, come mari che si toccavano l’un l’altro; paludi accanto a paludi; sterpeti dietro sterpeti; immense foreste di pini, di quercie e d’ontani, percorse da stormi di cavalli indomiti, nelle quali, come dice la tradizione, si sarebbe potuto far delle leghe passando d’albero in albero senza toccare la terra. Le baie profonde portavano fin nel cuore del paese la furia delle tempeste boreali. Alcune provincie sparivano una volta all’anno sotto le acque del mare, ed erano pianure fangose, nè terra nè acqua, sulle quali non si poteva nè camminare nè navigare. I grandi fiumi che non avevano inclinazione bastante per discendere al mare erravano qua e là come incerti della via da seguire e s’addormentavano in grandi stagni fra le sabbie della costa. Era un paese sinistro, corso da venti furiosi, flagellato da pioggie ostinate, velato da una nebbia perpetua, nel quale non s’udiva che il muggito delle onde e le voci delle fiere e degli uccelli marini. I primi popoli che ebbero il coraggio di piantarvi le tende, dovettero innalzare colle proprie mani dei monticciuoli di terra per salvarsi dagli straripamenti dei fiumi e dalle invasioni dell’oceano, e vivere su quelle alture come naufraghi su isole solitarie, scendendo al ritirarsi delle acque per cercare un nutrimento nella pesca e nella caccia, e raccogliere le uova deposte dagli uccelli marini sulle sabbie. Cesare, passando, nominò pel primo quei popoli. Gli altri storici latini parlarono con pietoso rispetto di que’ barbari intrepidi che vivevano su «terre galleggianti» esposti alle intemperie d’un cielo spietato e alle collere del misterioso mare del Nord; e l’immaginazione si compiace a raffigurarsi i soldati romani che dall’alto delle estreme cittadelle dell’impero percosse dalle onde, contemplavano con tristezza e con meraviglia le tribù erranti per quelle terre desolate come una razza maledetta dal cielo.

Ora, se si pensa che una tal regione è diventata uno dei più fertili, dei più ricchi e dei meglio ordinati paesi del mondo, si capisce come sia giusto il dire che l’Olanda è una conquista dell’uomo.

Ma bisogna aggiungere: è una conquista continua.

A spiegare questo fatto, a mostrare come l’esistenza dell’Olanda, malgrado le grandi opere di difesa che gli abitanti vi costrussero, richieda ancora una lotta incessante e piena di pericoli, basta rammentare di volo alcune fra le vicende principali della sua storia fisica, a partir dal tempo in cui gli abitanti l’avevano già ridotta una terra abitabile.

Le tradizioni parlano già di una grande inondazione della Frisia nel sesto secolo. D’allora in poi, ogni golfo, ogni isola, e si può dir quasi ogni città dell’Olanda ricorda una catastrofe. Da tredici secoli si conta che vi sia seguita una grande inondazione ogni sette anni, oltre le piccole; e perchè il paese è tutto pianura, queste inondazioni furon veri diluvii. Verso la fine del tredicesimo secolo il mare disfece una parte d’una fertile penisola vicino alle foci dell’Ems e distrusse più di trenta villaggi. Nel corso del medesimo secolo, una serie d’inondazioni marine aprirono un immenso varco nell’Olanda settentrionale, e formarono il Golfo di Zuiderzee, dando la morte a quasi ottantamila persone. Nel 1421 una burrasca fece straripare la Mosa, che seppellì sotto le sue acque, in una notte, settantadue villaggi e centomila abitanti. Nel 1532 il mare ruppe le dighe della Zelanda, distrusse centinaia di villaggi e coprì per sempre un vasto tratto di paese. Nel 1570 una tempesta produsse un’altra inondazione nella Zelanda e nella provincia d’Utrecht, Amsterdam fu invasa dalle acque, in Frisia annegarono ventimila persone. Altre grandi inondazioni avvennero nel secolo diciassettesimo, due spaventose sul principio e sulla fine del decimottavo, una nel 1825 che desolò la Nord-Olanda, la Frisia, l’Over-Yssel e la Gheldria, un’altra grande nel 1855 del Reno, che invase la Gheldria e la provincia d’Utrecht, e coperse gran parte del Brabante settentrionale. Oltre a queste grandi catastrofi, ne seguirono, nei varii secoli, altre innumerevoli, che sarebbero famose in altri paesi, e che in Olanda appena si ricordano, come le inondazioni del grande lago di Haarlem, prodotto esso medesimo da un’inondazione del mare; città fiorenti del Golfo di Zuiderzee sparite sotto le acque; le isole della Zelanda a volta a volta coperte dal mare e rilasciate; i villaggi della costa, da Helder fino alle foci della Mosa, di tempo in tempo invasi e rovinati; e in tutte queste inondazioni, eccidii immensi d’uomini e d’animali. Si capisce che miracoli di coraggio, di costanza, d’industria, abbia dovuto fare il popolo Olandese per creare prima, e poi per conservare un simile paese.

Il nemico al quale gli Olandesi dovettero strappare le loro terre, era triplice: il mare, i fiumi, i laghi; gli Olandesi disseccarono i laghi, respinsero il mare e imprigionarono i fiumi.

Per disseccare i laghi si serviron dell’aria. I laghi, le paludi furono circondati di dighe, le dighe di canali, e un esercito di mulini a vento, mettendo in moto delle pompe aspiranti, riversò le acque nei canali, che le condussero ai fiumi ed al mare. Così dei vasti spazii di terra sepolti nell’acqua, videro il sole e si trasformarono come per incanto in fertili campagne, popolate di villaggi e percorse da canali e da strade. Nel secolo decimosettimo, in meno di quarant’anni, furono disseccati ventisei laghi. Sul principio di questo secolo, nella sola Nord-Olanda erano tolti all’acqua più di seimila ettari di terreno; nell’Olanda meridionale, prima del 1844, ventinove mila; in tutta l’Olanda, dal 1500 al 1658, trecento cinquantacinque mila. Colla sostituzione dei mulini a vapore ai mulini a vento si compì in trentanove mesi la grande impresa del prosciugamento del lago di Haarlem, che aveva quarantaquattro chilometri di circuito e minacciava con tempeste furiose le città di Haarlem, d’Amsterdam e di Leida. E in questo mentre si sta meditando l’impresa prodigiosa di prosciugare il golfo di Zuiderzee, che abbraccia uno spazio di più di settecento chilometri quadrati.

I fiumi, altro nemico interno dell’Olanda, non costarono meno fatiche e meno sacrifizi. Alcuni, come il Reno, che si perdevano nelle sabbie prima di giungere al mare, dovettero essere incanalati, e difesi dalla marea alla foce con cateratte formidabili; altri, come la Mosa, fiancheggiati da dighe altrettanto potenti che quelle innalzate contro il mare; altri deviati; le acque vagabonde, raccolte; regolato il corso degli affluenti; ripartite le acque con rigorosa misura in vari sensi per mantenere in equilibrio quella enorme massa liquida, della quale un leggero spostamento basta a inabissare provincie intere; e così tutti i fiumi che spandevano anticamente per il paese le loro acque sfrenate e devastatrici, furono disciplinati come ruscelli e costretti a servire.

Ma la lotta più tremenda fu quella combattuta coll’oceano. L’Olanda è in gran parte più bassa del livello del mare: perciò, dappertutto dove la costa non è difesa dalle dune, si dovette difenderla colle dighe. Se questi sterminati baluardi di terra, di legno e di granito non fossero là ad attestare come monumenti il coraggio e la perseveranza degli Olandesi, non si crederebbe che la mano dell’uomo abbia potuto, sia pure in molti secoli, compire un così grande lavoro. Nella sola Zelanda le dighe si stendono per la lunghezza di quattrocento chilometri. La costa occidentale dell’isola di Valcheren è difesa da una diga, della quale si calcola che le spese di costruzione sommate alle spese di conservazione messe a frutto, ammontino a una somma pari al valore che avrebbe la diga stessa se fosse tutta di rame massiccio. Intorno alla città di Helder, alla estremità settentrionale della Nord-Olanda, si stende per dieci chilometri una diga costrutta di massi di granito di Norvegia, che scende più di sessanta metri nel mare. Tutta la provincia di Frisia, per la lunghezza di ottantotto chilometri, è difesa da tre file di palafitte enormi, sostenute da massi di granito di Norvegia e di Germania. Amsterdam, tutte le città delle rive del Zuiderzee, e tutte le isole,—frammenti di terre sparite,—che formano come una corona fra la Frisia e della Nord-Olanda, sono protette da dighe; dalle foci dell’Ems fino alle foci della Schelda l’Olanda è tutta una fortezza impenetrabile, nei cui immensi bastioni i mulini son le torri, le cateratte son le porte, le isole sono i forti avanzati; e che al pari d’una fortezza vera, non mostra al suo nemico, il mare, che le punte dei campanili e i tetti degli edifizii, quasi come una derisione e una sfida.

L’Olanda è una fortezza, e il popolo olandese ci sta come in una fortezza: sul piede di guerra col mare. Un esercito d’ingegneri, dipendente dal Ministero dell’Interno, sparpagliato sul paese e ordinato come un esercito, spia continuamente il nemico, veglia sull’ordine delle acque interiori, previene la rottura delle dighe, ordina e dirige i lavori di difesa. Le spese della guerra son ripartite: una parte è allo Stato, una parte alle provincie; ogni proprietario paga, oltre l’imposta generale, un’im posta speciale per le dighe, proporzionata all’estensione dei suoi poderi e alla vicinanza dell’acque. Una rottura accidentale, un’inavvertenza possono cagionare un diluvio; il pericolo è continuo; le sentinelle sono al loro posto sui baluardi; al primo assalto del mare, danno il grido di guerra, e l’Olanda manda braccia, materiali e denari. Ed anche quando non si combattono grandi battaglie si combatte una lotta sorda e lenta. I mulini innumerevoli, anche nei laghi prosciugati, seguitano a lavorare senza posa per assorbire e versare nei canali l’acqua piovana e quella che filtra dalla terra. Ogni giorno le cateratte dei golfi e dei fiumi, chiudono le loro porte gigantesche all’alta marea che tenta di slanciare i suoi flutti nel cuore del paese. Si lavora continuamente a rafforzare le dighe malferme, a fortificare le dune con piantagioni, a gettar nuove dighe, dove le dune son basse, diritte come lande immense vibrate nel seno del mare, per rompere il primo impeto delle onde. E il mare picchia eternamente alle porte dei fiumi, flagella eternamente gli argini, brontola da ogni parte la sua eterna minaccia, solleva i suoi flutti curiosi come per guardare le terre che gli sono contese, ammonta dei banchi di sabbia dinanzi ai porti per uccidere il commercio delle città invise, rode, raspa, scava le coste; e non potendo rovesciare i baluardi su cui frange in schiuma rabbiosa i suoi sforzi impotenti, getta ai loro piedi dei bastimenti pieni di cadaveri perchè annunzino al paese ribelle il suo corruccio e la sua forza.

Mentre questa gran lotta dura, l’Olanda si trasforma: l’Olanda è la terra delle trasformazioni. Una carta geografica di questo paese com’era otto secoli fa, a primo aspetto, non si riconosce. Trasforma il mare, trasformano gli uomini. Il mare, in alcuni punti, fa indietreggiare la costa: toglie al continente delle parti di terra, le rilascia, poi le riprende; riunisce al continente delle isole con legami di sabbia, come nella Zelanda; stacca dei lembi di continente e forma delle isole nuove, come Wieringen; si ritira da certe provincie, e fa rimaner città di terra città ch’eran di mare, come Leuwarde; converte in arcipelaghi di cento isole vasti tratti di pianura come il Biesbosch; separa la città dalla terra, come Dordrecht; forma dei nuovi golfi larghi due leghe, come il Golfo di Dollart; divide due Provincie con un nuovo mare, come la Nord-Olanda e la Frisia. Per effetto delle inondazioni il livello delle terre s’innalza in un luogo, in un altro s’abbassa; terre sterili sono fecondate dal limo dei fiumi straripati, terre fertili sono cangiate in deserti di sabbia. Colle trasformazioni delle acque si alternano le trasformazioni del lavoro. Si riuniscono delle isole al continente come l’isola di Ameland; si riducono ad isole provincie intere, come sarà la Nord-Olanda col nuovo canale d’Amsterdam che la deve separare dall’Olanda meridionale; si fanno sparire dei laghi grandi come Provincie, come il lago di Beemster; si convertono le terre, coll’estrazione delle torbe basse, in laghi, e si ritrasformano questi laghi in praterie. E così il paese si altera, si corregge e cangia aspetto secondo le violenze dell’acqua e i bisogni dell’uomo. E percorrendolo colla più recente carta geografica alla mano, si può essere sicuri che quella carta sarà inutile fra qualche anno, perchè mentre lo si percorre, vi son dei golfi che a poco a poco spariscono, dei tratti di terra in procinto di staccarsi dal continente, e dei grandi canali che s’aprono per portar la vita in terre disabitate.

Ma l’Olanda fece ben più che difendersi dall’acqua, se ne impadronì. L’acqua era il suo flagello, ne fece la sua difesa. Se un esercito straniero invade il suo territorio, essa apre le dighe e scatena il mare ed i fiumi, come li scatenò contro i Romani, contro gli Spagnuoli, contro l’esercito di Luigi XIV, e difende le città di terra colle flotte. L’acqua era la sua miseria, ne fece la sua ricchezza. Su tutto il paese si stende una immensa rete di canali che servono insieme come vie di comunicazione e ad irrigare le terre. Le città comunicano col mare per mezzo di canali; canali vanno da città a città, legano le città ai villaggi, i villaggi fra loro, ogni villaggio coi casolari sparsi per la campagna; e canali minori cingono i poderi, i pascoli, gli orti, fan l’ufficio di muri di cinta e di siepi; ogni casa è un piccolo porto. I bastimenti, i barconi, le barchette, le zattere percorrono la campagna, attraversano i villaggi, girano fra le case e solcano il paese in tutte le direzioni come in altri luoghi i carri e le carrozze. E anche qui l’Olanda ha fatto dei lavori giganteschi, come il canale Guglielmo nel Brabante settentrionale, il canale che congiunge Amsterdam, attraversando tutta la Nord-Olanda, col mare del Nord, lungo più di ottanta chilometri e largo più di trenta metri; il nuovo canale che congiungerà Amsterdam col mare attraversando le dune, e sarà il più largo canale d’Europa; e un altro non meno grande che congiungerà il mare colla città di Rotterdam. I canali sono le vene dell’Olanda e l’acqua è il suo sangue.

Ma anche senza badare ai canali, ai prosciugamenti dei laghi e alle opere di difesa, percorrendo l’Olanda si vedono da ogni parte le traccie d’un lavoro meraviglioso. Il terreno, che in altri paesi è un dono della natura, là è un’opera dell’industria. L’Olanda tirò la maggior parte delle sue ricchezze dal commercio; ma prima del commercio dovette far fruttare la terra; la terra non c’era; dovette crearla. Erano banchi di sabbia, interrotti da strati di torba, dune che il vento smuoveva e spandeva per il paese, grandi spazi di terreno lotoso che parevan condannati a una sterilità eterna. Mancavano i primi elementi dell’industria, il ferro e il carbone; mancava il legno, poichè le foreste eran già state distrutte dalle tempeste quando sorse l’agricoltura; mancavano le pietre, mancavano i metalli. La natura, come dice un poeta olandese, aveva rifiutato all’Olanda tutti i suoi doni; gli Olandesi dovettero far tutto a dispetto della natura. Comincia rono coll’infertilire le sabbie. In alcuni luoghi formarono lo strato produttivo del suolo con terre portate di lontano come si forma un giardino; sparsero la silice delle dune sulle praterie troppo umide; mescolarono colle terre troppo sabbiose i detriti delle torbe tratti dal fondo delle acque; estrassero dell’argilla per comunicare alla superficie della terra una fertilità nuova; lavorarono a dissodare le dune; e così industriandosi in mille maniere, e difendendo continuamente l’opera loro dalle acque minaccianti, riuscirono a condurre l’Olanda a uno stato di floridezza non inferiore a quello dei paesi più favoriti dalla natura. Quell’Olanda sabbiosa e paludosa che gli antichi consideravano appena come abitabile, manda fuori dei suoi confini, anno per anno, dei prodotti agricoli per il valore di cento milioni di lire, possiede circa un milione e trecentomila teste di bestiame, e si può annoverare, proporzionatamente all’estensione del suo territorio, fra i paesi più popolati d’Europa.

Ora si capisce come in un paese così fisicamente straordinario, debba esservi un popolo molto diverso dagli altri. Su pochi popoli, in fatti, la natura del paese abitato esercitò un influsso più profondo che sugli Olandesi. Il genio olandese è in perfetta armonia col carattere fisico dell’Olanda. Basta guardare i monumenti della gran lotta combattuta da questo popolo col mare, per comprendere come il suo carattere distintivo debba essere la fermezza e la pazienza, accompagnata da un coraggio calmo e costante. Questa lotta gloriosa, e la coscienza di dover tutto a sè stesso, deve aver infuso e fortificato in esso un sentimento altissimo della propria dignità e uno spirito indomabile di libertà e d’indipendenza. La necessità d’una lotta continua, d’un continuo lavoro e di sacrifizi continui per difendere la propria esistenza, riconducendolo perpetuamente al sentimento della realtà, deve averlo reso un popolo altamente pratico ed economo; il buon senso dev’essere la sua qualità più spiccata, l’economia dev’essere una delle sue virtù principali; deve quindi primeggiare nelle arti utili, essere parco di godimenti, essere semplice anche quando è grande, riuscire in tutto quello a cui si riesce colla tenacità dei propositi e con un’attività pensata e regolare; esser più saggio che eroico, più conservatore che creatore, non dare all’edifizio del pensiero moderno dei grandi architetti, ma molti abili operai, una legione di lavoratori pazienti ed utili. E in virtù di queste sue qualità di prudenza, di attività flemmatica e di spirito di conservazione, progredir sempre, ma a poco a poco; acquistar lentamente, ma non perder nulla dell’acquistato; esser restío a spogliarsi degli usi antichi; serbare quasi intera, malgrado la vicinanza di tre grandi nazioni, la sua originalità; serbarla passando a traverso di tutte le forme di governo, malgrado le invasioni straniere, malgrado le guerre politiche e religiose di cui fu teatro, malgrado l’immenso concorso di stranieri d’ogni paese che vi cercarono un rifugio e ci vis sero in tutti i tempi; essere infine di tutti i popoli del settentrione quello che, benchè procedendo sempre nella via della civiltà, ha serbato più netta l’impronta antica.

Ma basta anche rappresentarsi alla mente la sua forma, per comprendere che questo paese di tre milioni e mezzo d’abitanti, benchè fuso in una così compatta unità politica, benchè riconoscibile fra tutti gli altri popoli del Nord a certi tratti comuni agli abitanti di tutte le sue provincie, deve presentare una varietà grande. E così è in fatti. Tra la Zelanda e l’Olanda propriamente detta, fra l’Olanda e la Frisia, tra la Frisia e la Gheldria, tra la Groninga e il Brabante, malgrado tanti vincoli comuni e la vicinanza grandissima, non v’è meno differenza che fra le provincie più lontane dell’Italia e della Francia: differenza di lingua, di costumi, di carattere; differenze di razza e di religione. Il regime comunale ha impresso a questo popolo un carattere incancellabile, perchè in nessun paese fu conforme come in questo alla natura delle cose. Il paese è diviso in parecchi gruppi d’interessi dallo stesso organismo del sistema idraulico. Quindi associazione e mutuo soccorso contro il comune nemico, il mare; ma libertà delle forze e delle istituzioni locali. La monarchia non ha estinto l’antico spirito municipale, ed è questo spirito che rese impossibile la completa fusione dello Stato in tutti i grandi Stati che ne fecero la prova. I grandi fiumi e i golfi profondi sono nello stesso tempo vie di commercio che servono come legami di nazionalità fra le varie Provincie, e barriere che difendono vecchie tradizioni e vecchie costumanze diverse fra loro. In questo paese apparentemente così uniforme, ad ogni passo, si può dire, fuorchè l’aspetto della natura, tutto cangia e tutt’a un tratto, come la natura stessa all’occhio di chi varca per la prima volta la frontiera dello Stato.

Ma per quanto sia meravigliosa la storia fisica dell’Olanda, è più meravigliosa la sua storia politica. Questa piccola terra invasa da principio da differenti tribù della razza germanica, soggiogate, dai Romani e dai Franchi, devastata dai Danesi e dai Normanni, desolata per secoli da orrende guerre civili, questo piccolo popolo di pescatori e di mercanti salva la sua libertà civile e la sua libertà di coscienza con una guerra di ottant’anni contro la formidabile monarchia di Filippo II e fonda una repubblica che diventa l’arca di salvamento delle libertà di tutti i paesi, la patria adottiva delle scienze, la Borsa d’Europa, la stazione del commercio del mondo; una repubblica che stende la sua dominazione a Java, a Sumatra, nell’Indostan, a Ceylan, nella Nuova Olanda, nel Giappone, nel Brasile, nella Guiana, al Capo di Buona Speranza, nelle Indie occidentali, a Nuova-York; una repubblica che vince l’Inghilterra sul mare, che resiste alle armi unite di Carlo II e di Luigi XIV, che tratta da pari a pari colle più grandi nazioni ed è per un tempo una delle tre Potenze che reggono le sorti d’Europa.

Ora non è più la grande Olanda del secolo decimosettimo; ma è ancora, dopo l’Inghilterra, il primo Stato coloniale del mondo; invece della grandezza antica ha una prosperità tranquilla; si ristrinse nel commercio, acquistò nell’agricoltura; del reggimento repubblicano perdette più la forma che la sostanza; una famiglia di principi patrioti e cari al popolo, vi siede tranquillamente in mezzo a tutte le libertà antiche e moderne. Vi è la ricchezza senza fasto, la libertà senza insolenza, l’imposta senza miseria. Il paese procede senza scosse, senza turbamenti, coll’antico buon senso, conservando nelle tradizioni, negli usi e nelle libertà stesse l’impronta della sua nobile origine. È forse fra tutti gli Stati d’Europa quello dove c’è più istruzione popolare e meno corruzione di costumi. Solo, all’estremità del continente, occupato delle sue acque e delle sue colonie, si gode in pace i frutti del suo lavoro senza far parlare di sè, coll’alto conforto di poter dire che nessun popolo al mondo ha conquistato a prezzo di più grandi sacrifizi la libertà della sua fede e l’indipendenza del suo stato.

Tutte queste cose io rivolgevo in mente per stimolare la mia curiosità, una bella mattina d’estate, ad Anversa, salendo su un bastimento che mi doveva condurre per il corso della Schelda nella Zelanda, ch’è la provincia più misteriosa dei Paesi Bassi.

ZELANDA.

Se prima che io mi determinassi a fare un viaggio in Olanda, un professore qualunque di geografia m’avesse fermato allo svolto d’una strada, domandandomi bruscamente:—Dov’è la Zelanda?—sarei rimasto senza parola, e non credo d’ingannarmi, supponendo che un buon numero dei miei concittadini, a cui si facesse quella domanda, non troverebbero subito una risposta. Per gli Olandesi medesimi la Zelanda ha del mistero; pochissimi ci sono stati, e tra questi i più non fecero che attraversarla in battello; quindi se ne parla di rado e come d’un paese lontano. Dalle prime parole che intesi dire ai viaggiatori che salirono con me sul bastimento, quasi tutti belgi e olandesi, m’accorsi che anch’essi avrebbero veduto quella provincia per la prima volta; eravamo dunque tutti curiosi ad un modo; e il bastimento non era ancora partito che avevamo attaccato discorso, e ci aguzzavamo la cu riosità reciprocamente, con domande alle quali nessuno sapeva rispondere.

Allo spuntare del sole, il bastimento partì, godemmo per un pezzo la vista del campanile della cattedrale d’Anversa, fatto di trina di Malines, come diceva Napoleone I, che n’era innamorato; e dopo aver toccato il forte di Lillo e il villaggio di Doel, uscimmo dal Belgio ed entrammo nella Zelanda.

Nel punto che si passa per la prima volta la frontiera d’uno Stato, per quanto si sappia che lo spettacolo non cangia tutt’a un tratto, si guarda intorno curiosamente come se tutto dovess’essere cangiato. Tutti infatti s’appoggiarono al parapetto del bastimento come per assistere all’apparizione improvvisa della Zelanda.

Per un buon tratto la curiosità rimase delusa: non si vedevano che lo sponde piane e verdi della Schelda, larga come un braccio di mare, e sparsa di banchi di sabbia, su’ quali raccoglievano il volo degli stormi di gabbiani gettando dei leggieri gridi; e il cielo purissimo non pareva punto cielo d’Olanda.

Si navigava fra l’isola di Zuid-Beveland e quella lista di terra che forma la riva sinistra della Schelda, chiamata Fiandra degli Stati o Fiandra Zelandese.

La storia di questa lista di terra è assai curiosa. Per lo straniero che entra in Olanda, essa è come la prima pagina della grande epopea che s’intitola: la lotta col mare. Nel medio evo non era che un vasto golfo con poche isolette. Questo golfo, sul principio del sedicesimo secolo, non esisteva più; con quattrocento anni di lento lavoro lo avevan cangiato in una fertile pianura difesa da dighe, solcata da canali e popolata di villaggi, che si chiamava la Fiandra Zelandese. Quando scoppiò la guerra dell’indipendenza, gli abitanti della Fiandra Zelandese, piuttosto che cedere la loro terra agli eserciti spagnuoli, apersero le dighe, il mare irruppe e distruggendo in un giorno il lavoro di quattro secoli riformò il golfo del medio evo. Finita la guerra d’indipendenza, si ricominciarono i lavori di prosciugamento, e dopo trecento anni la Fiandra Zelandese risalutò il sole e fu restituita al continente, come una figliuola risorta. Così in Olanda le terre sorgono, spariscono e riappaiono, a somiglianza dei regni delle novelle arabe, al tocco delle verghe dei maghi. La Fiandra Zelandese, divisa dalla Fiandra Belga dalla doppia barriera politica e religiosa, e separata dall’Olanda dalla Schelda, conserva i costumi, le credenze, l’impronta intatta del sedicesimo secolo. Le tradizioni della guerra contro la Spagna vi sono ancora vive e parlanti come d’un avvenimento del tempo. La terra è fertile, gli abitanti godono d’una prosperità straordinaria, hanno costumi severi, scuole, stamperie, e vivono così in pace nel loro frammento di patria rinata ieri, fino al giorno che il mare non la ridomandi per una terza sepoltura. Un Belga, mio compagno di viaggio, che mi diede queste notizie, mi fece osservare giustamente che gli abitanti della Fiandra Zelandese, quando inondarono le loro terre, benchè già sollevati contro la dominazione spagnuola, erano ancora cattolici, e che per conseguenza era seguìto a quella provincia lo strano caso di sprofondarsi nelle acque cattolica, e di tornare a galla protestante.

Il bastimento, con mia grande meraviglia, invece di continuare a discendere la Schelda per girare intorno all’isola di Zuid-Beveland, arrivato a un certo punto, entrò nell’isola infilando uno stretto canale, che l’attraversa da un capo all’altro, o meglio la spacca in due, e congiunge così i due bracci del fiume, che formano l’isola stessa.

Era il primo canale olandese per il quale passavo: fu un’impressione nuova. Il canale è fiancheggiato da due alto dighe che nascondono la campagna; il bastimento scorreva così quasi di soppiatto, come se avesse preso quella via traversa per riuscire improvvisamente alle spalle di qualcuno; e come non v’era una barca nel canale nè un’anima viva sulle dighe, la solitudine e il silenzio davano ancor meglio a quella corsa nascosta l’aria d’un tradimento da pirati.

Uscendo dal canale, si entrò nel braccio orientale della Schelda.

Eravamo nel cuore della Zelanda. A destra avevamo l’isola di Tholen, a sinistra l’isola di Noord-Beveland, dietro quella di Zuid-Beveland, dinanzi quella di Schouwen. Fuori che l’isola di Valcheren, si vedevano tutte le principali isole dell’arcipelago misterioso.

Ma in questo consiste il mistero: quelle isole non si vedevano, s’indovinavano. A destra e a sinistra del fiume larghissimo, davanti e dietro al bastimento, non si vedeva che la linea diritta delle dighe, come una striscia verde a fior d’acqua, e dietro questa striscia, qua e là, cime d’alberi, punte di campanili, comignoli rossi di tetti, che pareva facessero capolino per vederci passare. Non una collina, non un rialto di terra, non una casa scoperta da nessuna parte: tutto era nascosto, tutto pareva immerso nell’acqua; si sarebbe detto che quelle isole erano sul punto d’esser sepolte dal fiume e si guardava ora l’una ora l’altra come per assicurarsi che c’erano ancora. Pareva di attraversare un paese nel giorno del diluvio e si provava un piacere a pensare che si era sur un bastimento. Di tratto in tratto il bastimento si arrestava e qualche passeggiero zelandese scendeva in una barca che si dirigeva verso la riva. Benchè fossi curioso anch’io di visitare la Zelanda, pure guardavo quella gente con un certo sentimento di compassione, come se quelle che parevano isole non fossero che balene mostruose, che si dovessero sprofondare nell’acqua all’avvicinarsi della barca.

Il capitano di bastimento, olandese, passandomi accanto, si soffermò a guardare una piccola carta della Zelanda che avevo tra le mani; io afferrai l’occasione pel ciuffo e lo tempestai di domande. Per mia fortuna m’ero imbattuto in uno di quei pochi Olandesi che hanno comune con noi Latini la debolezza di amar il suono della propria voce.

“Qui, in Zelanda,” mi disse colla serietà d’un maestro che fa la lezione, “le dighe, più ancora che nelle altre provincie, sono quistione di vita o di morte. A marea alta tutta la Zelanda rimane al di sotto delle acque. A ogni diga che si rompesse, sparirebbe un’isola. E il guaio è che qui la diga non deve soltanto resistere all’urto diretto dell’onda; ma ad un’altra forza anche più pericolosa. I fiumi si gettano verso il mare, il mare si getta contro i fiumi, e in questa lotta continua, si formano delle correnti basse che rodono la base delle dighe, sin che le fanno sprofondare tutt’a un tratto, come farebbe una mina ad un muro. Gli Zelandesi debbono stare continuamente all’erta. Quando una diga è in pericolo, ne fanno un’altra più addentro, e aspettano l’assalto delle acque dietro a questa, e così guadagnan tempo, e o rifanno la prima diga, o continuano a dare addietro di fortezza in fortezza, o la corrente si svia e son salvi.”

“E non potrebbe darsi,” domandai sempre avido di notizie poetiche, “che un giorno la Zelanda non esistesse più?”

“Tutto il contrario,” mi rispose con mio rammarico; “può venire il giorno in cui la Zelanda non sia più arcipelago ma terraferma. La Schelda e la Mosa portano continuamente limo che rimane in fondo ai bracci del mare e che alzandosi a poco a poco ingrandisce le isole e chiude nella terra città e villaggi ch’erano sulla riva e avevano i loro porti. Axel, Goes, Veere, Arnemiuden, Middelburg, erano città marittime e ora sono città di terra. Verrà dunque un giorno in cui fra le isole della Zelanda non passeranno più che le acque dei fiumi e si stenderà una rete di strade ferrate su tutto il paese, che sarà congiunto al continente, come gli è già congiunta l’isola di Zuid-Beveland. La Zelanda, nella lotta col mare, ingrandisce. Il mare potrà riuscire a qualche cosa dalle altre parti dell’Olanda; ma qui ha la peggio. Lei conosce lo stemma della Zelanda: è un leone che nuota e vi è scritto su: Luctor et emergo.”

Qui rimase qualche momento senza parlare e gli brillava negli occhi un barlume d’alterezza che si estinse subito; poi ricominciò colla gravità di prima:

Emergo; ma non emerse sempre. Tutte le isole della Zelanda, una dopo l’altra, dormirono per più o men tempo sott’acqua. Tre secoli fa l’isola di Schouwen fu inondata dal mare, che annegò abitanti e bestiami da un capo all’altro e la ridusse un deserto. L’isola di Noord-Beveland fu sommersa tutta intera poco tempo dopo, e per parecchi anni non si videro più che le punte dei campanili fuor dell’acqua. L’isola di Zuid-Beveland ebbe la stessa sorte verso la metà del quattordicesimo secolo. L’isola di Tholen, la stessa sorte in questo medesimo secolo, nel 1825. L’isola di Walcheren la stessa sorte nel 1808, e nella città di Middelburg, sua città capitale, lontana parecchie miglia dalla costa, ci fu l’acqua sino ai tetti.”

A sentir sempre parlar d’acqua, d’inonda zioni, di paesi sommersi, ero ridotto che mi pareva strano di non essere ancora annegato. Domandai al capitano che gente fosse quella che stava in quei paesi invisibili, coll’acqua sotto i piedi e sopra la testa.

“Agricoltori e pastori,” mi rispose. “Noi diciamo che la Zelanda è un gruppo di fortezze difese da un presidio di agricoltori e di pastori. In fatto d’agricoltura la Zelanda è la provincia più ricca dei Paesi Bassi. La terra d’alluvione di queste isole è d’una fertilità meravigliosa. Il frumento, la colza, la robbia, il lino vi fanno come in pochissimi altri paesi. Vi sono dei bestiami stupendi e dei cavalli colossali, più grandi ancora che i cavalli fiamminghi. Il popolo è bello e forte, conserva i suoi costumi antichi e vive contento nella sua prosperità e nella sua pace. La Zelanda è un paradiso nascosto.”

Mentre il capitano mi faceva questo discorso, il bastimento entrava nel canale di Keete che divide l’isola di Tholen dall’isola di Schouwen, famoso per il guado che vi fecero gli Spagnuoli nel 1575 com’è famoso il braccio orientale della Schelda per il guado del 1572. Tutta la Zelanda è piena di memorie di quella guerra. Questo piccolo arcipelago di sabbia, mezzo sepolto nel mare, per le particolari corrispondenze che vi riteneva Guglielmo d’Orange, antico signore di molte terre nelle isole, e per gl’impedimenti d’ogni natura che opponeva agl’invasori, era il focolare della guerra e dell’eresia, e il Duca d’Alba smaniava d’impadronirsene. Quindi segui rono su quelle rive delle lotte accanite, che riunivano tutti gli orrori delle battaglie di terra e delle battaglie di mare. I soldati guadavano i canali di notte, stretti gli uni agli altri, coll’acqua alla gola, minacciati dalla marea, flagellati dalla pioggia, fulminati dalle rive; i cavalli e le artiglierie affondavano nel fango; i feriti eran travolti dalla corrente o sepolti vivi nelle fitte; l’aria suonava di voci tedesche, spagnuole, italiane, fiamminghe, vallone, le fiaccole illuminavano qua e là i grandi archibugi, i pennacchi pomposi, i volti strani, e le battaglie parevano funerali fantastici; ed erano davvero i funerali della grande monarchia spagnuola che s’annegava lentamente nell’acque dell’Olanda, coperta di maledizioni e di fango. Chi ha peccato di soverchia tenerezza per la Spagna, se vuol fare ammenda, non ha che da andare in Olanda. Non ci son forse mai stati due popoli che avessero un maggior numero di buone ragioni per detestarsi con tutta la forza dell’anima, e che abbian fatto valere più rabbiosamente tutte queste buone ragioni. Mi ricordo, per notare uno solo dei mille contrasti, dell’impressione che mi faceva l’udir parlare di Filippo II in termini così diversi da quelli in cui ne avevo inteso parlare pochi mesi prima di là dai Pirenei. In Spagna il meno che se ne dicesse era gran re; in Olanda, tiranno vigliacco.

Il bastimento entrò fra l’isola di Schouwen e la piccola isola di San Philipsland, e in pochi minuti sboccò nel largo braccio della Mosa, chiamato Kram mer, che divide l’isola di Overflakkee dal continente. Pareva di navigare per una catena di grandi laghi. Le rive eran lontane e presentavano ancora l’aspetto delle rive della Schelda: dighe a perdita d’occhio, dietro le dighe cime d’alberi, punte di campanili e tetti di case nascoste, che davano al paesaggio un’aria di mistero e di solitudine. Solamente su qualche sporgenza delle rive, che formava quasi una breccia negli immensi bastioni delle isole, si vedeva come un bozzetto di paesaggio olandese, una casetta colorita, un mulino a vento, una barca, che parevano la rivelazione d’un segreto, fatta per destare la curiosità dei viaggiatori, e deluderla, appena desta.

Tutt’a un tratto avvicinandomi alla prora del bastimento, dove sono le terze classi, feci una gratissima scoperta. V’era un gruppo di contadini, uomini e donne, vestiti alla zelandese, non ricordo di quale isola, poichè il costume cangia da isola a isola, come cangia il dialetto, che è un misto d’olandese e di fiammingo, se pure si può dir così di due linguaggi che non hanno che piccolissime differenze. Gli uomini erano tutti vestiti ad un modo. Avevano un cappello di feltro, rotondo, con un gran nastro ricamato; una giacchetta di panno scuro, stretta, corta da coprire appena il fianco, aperta in modo da lasciar vedere una specie di panciotto listato di rosso, giallo e verde, chiuso sul petto da una fila di bottoni d’argento l’uno che toccava l’altro, come gli anelli d’una catena; un paio di mezzi calzoni di panno, del colore della giacchetta, stretti intorno alla vita da una cintura munita d’una gran borchia d’argento cesellata; e infine la cravatta rossa e le calze di lana fino al ginocchio. In somma, un po’ preti dalla cintura in giù, e dalla cintura in su un po’ arlecchini. Uno di essi aveva per bottoni delle monete: uso assai comune. Le donne avevano un cappello di paglia della forma d’un cono tronco, altissimo, che pareva un secchiolino rovesciato, intorno al quale svolazzavano dei larghi nastri azzurri; una veste di color scuro aperta sul petto che lasciava vedere una camicia bianca ricamata; le braccia nude dal gomito in giù; e due enormi orecchini d’oro o dorati di varie forme stravaganti, che sporgevano innanzi fin sulle guancie. Per quanto mi sforzassi di fare come fa Vittor Ugo in viaggio, di ammirar tutto come un bruto, non riuscii a persuadermi che quelle foggie di vestire fossero belle. Ma a questa sorta di contrarietà ero preparato. Sapevo che in Olanda ci si va per vedere del nuovo più che del bello, e del buono altrettanto che del nuovo; e perciò m’ero predisposto più all’osservazione che all’entusiasmo. E di quella prima impressione poco grata al mio gusto pittoresco, mi confortai pensando che quei contadini sapevano certamente tutti leggere e scrivere, che forse la sera prima avevano studiato a memoria una canzone del loro grande poeta Jacob Catz, e che probabilmente si recavano col loro bravo programma in tasca a qualche convegno rurale, dove avrebbero preso la parola per confutare cogli argomenti della loro modesta esperienza le proposte d’un dotto agronomo di Goes o di Middelburg. Ludovico Guicciardini, gentiluomo fiorentino, autore d’una bell’opera sui Paesi Bassi, stampata in Anversa nel secolo XVI, dice che in Zelanda non v’è quasi uomo nè donna che parli francese e spagnuolo, e che moltissimi parlano italiano. Questa che forse era una esagerazione anche ai suoi tempi, sarebbe, detta ora, una favola; ma è certo però che fra gli abitanti della campagna zelandese si trova una cultura intellettuale straordinaria, superiore a quella dei contadini francesi, belgi e tedeschi, e a quella di molte altre provincie dell’Olanda.

Il bastimento girò intorno all’isola di San Philipsland e ci trovammo fuori della Zelanda.

Così questa provincia misteriosa prima che ci entrassimo, ci parve anche più misteriosa quando ne fummo usciti. L’avevamo attraversata e non l’avevamo vista; ci eravamo entrati e ne uscivamo colla medesima curiosità. La sola cosa che avevamo veduta era che la Zelanda è una provincia che non si vede. Ma s’ingannerebbe però chi credesse che sia un paese misterioso per la sola ragione che è un paese nascosto. Tutto, in Zelanda, è mistero. Prima d’ogni altra cosa, come s’è formata? Era un gruppo di piccolissime isole d’alluvione, non separate che da canali, e disabitate, le quali, come credono alcuni, si son riunite e han formato isole maggiori? o era, come credono altri, terraferma, quando la Schelda s’andava a versare nella Mosa? Ma lasciando anche stare l’origine, in che altro paese del mondo seguono le cose che seguono in Zelanda? In che paese i pescatori pigliano colle reti una sirena, e il marito dopo averla domandata invano piangendo, getta, per vendicarsi, un pugno di sabbia, profetando che quella sabbia colmerà i porti delle città, e la profezia s’avvera? In che paese, come sulle rive dell’isola di Walcheren, le anime dei morti smarrite nel mare, vanno a svegliare i pescatori per farsi condurre in barca alle coste d’Inghilterra? In che paese le tempeste del mare portano, come sulle rive dell’isola di Schouwen, dei cadaveri rapiti al polo, mostri metà uomo e metà barca, mummie vestite d’un tronco d’albero che nuota; e se ne può ancora veder uno nella casa municipale di Zierikzee? In che paese, come presso Wemeldinge, avviene che un uomo cada a capofitto in un canale, vi resti immerso un’ora, ci vegga la moglie e il figliuolo morti che lo chiamano dal paradiso, e ne sia estratto vivo e racconti il prodigio a Vittor Ugo, che lo tiene per vero e lo commenta, concludendo che l’anima può uscire per qualche tempo dal corpo e poi ritornarci? In che paese come presso Domburg, si pescano, a marea bassa, dei tempii antichi, e delle statue di divinità sconosciute? In che paese, come a Wemeldinge, la spada d’un capitano spagnuolo, Mondragone, serve di parafulmine a una torre? In che paese, come nell’isola di Schouwen, le donne infedeli si fanno passeggiare nude nate per le strade della città, con due pietre appese al collo e un cilindro di ferro sulla testa? Andiamo, quest’ultima meraviglia non si vede più; ma le pietre esistono ancora e ognuno le può vedere nella casa municipale di Brauwershaven.

Il bastimento entrò in quella parte del braccio meridionale della Mosa che si chiama Volkerak; la scena era sempre la stessa: dighe e poi dighe, punte di campanili e case nascoste, qualche bastimento qua e là; una sola cosa era cangiata, il cielo.

Vidi allora per la prima volta il cielo olandese nel suo aspetto ordinario, e assistetti a una di quelle battaglie di luce, proprie dei Paesi Bassi, che i grandi paesisti d’Olanda ritrassero con una efficacia insuperabile. Fino allora il cielo era stato sereno, era una bella giornata d’estate, le acque azzurre, le rive verdissime, l’aria calda e non un fiato di vento. Tutt’ad un tratto, una nuvola densa nascose il sole, e in men che non si dice, ogni cosa cambiò aspetto in una maniera da far pensare che si fosse cangiato tutt’a un tratto di stagione, d’ora, di latitudine. Le acque diventaron cupe, il verde delle rive si fece smorto, l’orizzonte si nascose dietro un velo grigio, ogni cosa apparve come circonfusa d’una luce crepuscolare che ne sfumava i contorni, e si levò una brezza maligna che metteva freddo nelle ossa. Pareva d’essere in dicembre, si sentiva l’uggia dell’inverno e quell’inquietudine che mette nel cuore ogni minaccia improvvisa della natura. Poi, da tutto il cerchio dell’orizzonte cominciarono a salir nuvole color di piombo, mobilissime, che pareva cercassero con una specie d’impazienza penosa una direzione e una forma, e poi le acque a incresparsi e a rigarsi di rapidi riflessi luminosi, di larghe striscie verdastre, violacee, bianchiccie, color di creta, nerognole; e infine quell’irritazione della natura si risolvette tutt’a un tratto in una pioggia violenta e fitta, che confuse cielo, acqua e terra in un solo colore grigiastro, appena interrotto da una sfumatura un po’ più fosca delle rive lontane e da qualche bastimento a vela che appariva qua e là come un’ombra ritta sulle acque del fiume.

“Eccoci ora veramente in Olanda” disse il capitano del bastimento, avvicinandosi a un gruppo di passeggieri, che contemplavano quello spettacolo. “Questi cambiamenti di scena, in così breve tempo, non si vedono che qui.”

Poi interrogato da uno di noi, soggiunse:

“L’Olanda ha una meteorologia tutta sua. L’inverno è lungo, l’estate breve, la primavera non è che la fine dell’inverno, e nondimeno, come vedono, di tratto in tratto, anche in estate, l’inverno fa capolino. Noi sogliamo dire che in Olanda si vedono le quattro stagioni in un giorno. Abbiamo il cielo più incostante del mondo. Per questo parliamo sempre del tempo. L’atmosfera è lo spettacolo più vario che abbiamo. Se vogliamo veder qualche cosa che ci ricrei, dobbiamo guardare in su. Ma è un clima ben tristo. Il mare ci manda la pioggia da tre parti, i venti si scatenano sul paese senza trovar resistenza; anche nelle più belle giornate, la terra esala dei vapori che oscurano l’orizzonte; per parecchi mesi l’aria non ha alcuna trasparenza. Vedranno l’inverno: vi son dei giorni, che si direbbe non s’abbia mai più da rivedere il sereno; l’oscurità par che venga dall’alto, come la luce; il vento di nord-est ci porta l’aria agghiacciata dei poli e solleva il mare con una furia e un fracasso che par che debba subissare le coste.” Qui si voltò verso di me, e disse sorridendo: “Si deve star meglio in Italia.”

Poi si rifece serio e soggiunse: “Però, ogni paese ha il suo male e il suo bene.”

Il bastimento uscì dal Volkerak, passò dinanzi alla fortezza di Willemstad, innalzata nel 1583, dal principe d’Orange, ed entrò nel Hollandsdiep, gran braccio della Mosa, che separa l’Olanda meridionale dal Brabante del Nord. Una grande distesa d’acqua, due strisce oscure a destra e a sinistra e un cielo color di cenere, eran tutto lo spettacolo che si vedeva dal bastimento. Una signora francese esclamò in mezzo al silenzio generale, tirando uno sbadiglio: “Com’è bella l’Olanda!” Tutti risero, fuor che gli Olandesi.

“Eh, signor capitano,” uscì a dire uno riattaccando il discorso, un vecchietto belga, una di quelle cariatidi da caffè che caccian la loro politichina in tutti i buchi: “ogni paese ha il suo bene e il suo male, e noialtri Belgi e Olandesi avremmo dovuto esser persuasi di questa verità, e fare a compatirci, per veder di vivere d’amore e d’accordo. Quando si pensa che ora saremmo uno statino di nove milioni, noi colle nostre industrie, voialtri col vostro commercio, con due capitali come Amsterdam e Bruxelles, e due città commerciali come Anversa e Rotterdam! Si conterebbe per qualche cosa nel mondo, eh, capitano?”

Il capitano non rispose. Un altro Olandese disse: “Già, colla guerra religiosa in casa dodici mesi dell’anno.”

Il vecchietto belga, un po’ sconcertato, continuò il discorso a bassa voce con me: “È un fatto, signor mio. È stata una corbelleria, specialmente da parte nostra. Lei vedrà l’Olanda: Amsterdam non è Bruxelles, no davvero, e il paese è piatto e noioso quanto si può dire; ma per quel che sia prosperità, ci rivende. Si figuri che spendono il fiorino, che val due lire e centesimi, come noi spendiamo la lira. Se ne accorgerà dai conti degli alberghi. Son due volte più ricchi di noi. La colpa è stata di Guglielmo I, che voleva fare un Belgio olandese e ci ha spinto agli estremi. Lei sa come sono seguite le cose ec.”

Nell’Hollandsdiep cominciammo a veder barconi, piccoli bastimenti da pesca e qualche grande naviglio proveniente da Hellewoetsluis, grande porto marittimo, posto sulla riva destra del braccio della Mosa chiamato Haringvliet, presso la foce, dove s’arrestano quasi tutti i bastimenti che fanno il viaggio delle Indie. La pioggia cessò, il cielo, a poco a poco, quasi a malincuore, si rifece in parte sereno, e subito le acque e le rive ripresero i loro colori vivi e freschi, e risentimmo l’estate.

In breve tempo il bastimento giunse vicino al villaggio di Moerdijk.

Là si vede uno dei più grandi ponti del mondo.

È un ponte di ferro, lungo un miglio e mezzo, sul quale passa la strada ferrata che va a Dordrecht e a Rotterdam. Di lontano presenta l’aspetto come di quattordici enormi edifizi eguali e schierati a traverso il fiume, parendo un edifizio ognuno dei quattordici archi altissimi che sormontano in forma di volta il piano su cui scorrono i treni. A passarci su—ci passai pochi mesi dopo ritornando in Olanda—non si vede altro che acqua e cielo, da tanto che è largo il fiume; e si prova un sentimento quasi di paura, come se si fosse sul mare, e il ponte dovendo finire tutt’a un tratto, il treno avesse da un momento all’altro a dare un tuffo nell’acqua.

Il bastimento voltò a sinistra passando dinanzi al ponte, e infilò uno strettissimo braccio della Mosa, chiamato Dordsche kil, fiancheggiato da dighe, che ha più l’aspetto di canale che di fiume. Era già la settima svoltata che si faceva dopo il passaggio della frontiera.

Passando per il Dordsche kil cominciammo a vedere intorno a noi qualche cosa che ci annunziava la vicinanza d’una grande città. Lunghe file di alberi sulle sponde, cespugli, casette, canali a destra e a sinistra, e un via vai di barche e di barconi. Fra i passeggieri si vedeva un certo movimento, si sentiva dire qua e là:—Dordrecht,—vedremo Dordrecht;—pareva che tutti si disponessero a qualche spettacolo straordinario.

Lo spettacolo non si fece aspettare, e fu straordinario davvero.

Il bastimento svoltò un’ottava volta, a destra, ed entrò nell’Oude-Maas, o vecchia Mosa.

Dopo pochi minuti si videro le prime case dei dintorni della città di Dordrecht.

Fu come l’apparizione improvvisa dell’Olanda, la soddisfazione istantanea di tutte le nostre curiosità, la rivelazione di tutti i misteri che ci tormentavano la fantasia; fu come lo svegliarsi in un mondo nuovo.

Si vedevano da tutte le parti altissimi mulini a vento che giravano le braccia; casine sparpagliate lungo le rive, di mille forme strane, come villette, padiglioni, chioschi, capanne, cappelle, teatrini, coi tetti rossi, le mura nere, azzurre, rosee, cinerine, con contorni bianchi come la neve intorno alle finestre e alle porte. In mezzo alle case, canali e canaletti; davanti alle case e lungo i canali, gruppi e file di alberi; bastimenti fra casa e casa; barchette davanti alle porte; vele in fondo alle strade; antenne, bandierine di bastimenti e braccia di mulino sporgenti confusamente di sopra gli alberi e di là dai tetti; ponti, piccoli scali, giardinetti sull’acqua, mille cantucci, bacinetti, seni, sbocchi, crocicchi di canali, nascondigli di barchette, un andare e venire di uomini, di donne e di bambini dal fiume alla riva, dai canali in casa, dai ponti sui barconi; uno spettacolo vario e mobile; per tutto acqua, colori, cose piccine, forme fanciullesche, tutto lustro e fresco, un’ostentazione ingenua di leggiadria, un misto di primitivo e di teatrale, di gentile e di ridicolo, un po’ chinese, un po’ europeo, un po’ di nessun paese; con un’aria beata di pace e d’innocenza.

Così mi apparì per la prima volta Dordrecht, una delle più vecchie, e insieme delle più fresche e allegre città dell’Olanda; regina del commercio olandese nel medio evo; madre feconda di pittori e di dotti; onorata dalla prima assemblea dei deputati delle provincie unite nell’anno 1572; sede in vari tempi di sinodi memorabili; e particolarmente famosa per quell’assemblea dei teologi protestanti del 1618, che fu come il Concilio Ecumenico della Riforma, e definì la terribile controversia religiosa tra Arminiani e Gomaristi, fissando la forma della religione nazionale, e dando principio a quella serie di torbidi e di persecuzioni, che finì col malaugurato supplizio del Barnewelt e il sanguinoso trionfo di Maurizio d’Orange. Dordrecht è ancora presentemente una delle più floride città commerciali delle provincie unite per la sua agevolissima comunicazione col mare, col Belgio e coll’interno dell’Olanda. A Dordrecht arrivano le immense provvigioni di legna che scendono per il Reno dalla Foresta Nera e dalla Svizzera, i vini del Reno, la calce, i cementi, le pietre; nel suo piccolo porto è un via vai continuo di vele, di nuvoli di fumo e di bandierine, che le portano i saluti di Arnhem, di Bois-le-Duc, di Nimega, di Rotterdam, di Anversa e di tutte le sue sorelle misteriose della Zelanda.

Il bastimento si soffermò pochi minuti a Dordrecht, e in quei pochi minuti, guardando le case più vicine, vidi mille piccole cose nuove, inaspettate, prette olandesi, che mi misero addosso una gran smania di scendere, di toccare, di sapere. Ma pensando che avrei visto le stesse cose e molte altre di più a Rotterdam, vinsi la curiosità e stetti a bordo. Il bastimento partì, voltò a sinistra (era la nona svoltata) ed entrò in uno stretto braccio della Mosa chiamato de Noord, uno dei mille fili della inestricabile rete di acqua che copre l’Olanda meridionale.

Il capitano mi si avvicinò; io lo cercavo per pregarlo di spiegarmi sulla carta la situazione di Dordrecht, che, così a occhio, mi pareva singolarissima. È singolarissima in fatti. Dordrecht è posta sull’estremità d’un tratto di terra separato dal continente, che forma un’isola in mezzo alle terre, un crocicchio di fiumi, metà fatto dalla natura, metà dall’uomo, un pezzo di Olanda circondato e imprigionato dalle acque, come un battaglione sopraffatto da un esercito. Da una parte lo cinge il fiume Merwede, dall’altra la vecchia Mosa, dall’altra il Dordsche kil, dall’altra l’arcipelago di Bies-bosch, attraversato dalla nuova Merwede, largo corso d’acqua formato dalla mano dell’uomo. L’imprigionamento di questo spazio di terra su cui giace Dordrecht, è un episodio d’una delle grandi battaglie dell’Olanda coll’acqua. L’arcipelago di Biesbosch non esisteva prima del secolo decimoquinto, e si stendeva in quel luogo una bella pianura sparsa di villaggi popolosi. Nella notte del 18 novembre del 1421, le acque del Waal e della Mosa ruppero le dighe, distrussero più di settanta villaggi, annegarono quasi centomila abitanti e frastagliarono quella pianura in più di cento isolette, lasciando ritta, in mezzo a tante rovine, una sola torre, chiamata casa Merwede della quale si vedono ancora gli avanzi. Così Dordrecht fu separata dal continente, e fece la sua comparsa sulla terra l’arcipelago di Biesbosch, il quale tanto per mostrare che ha una ragione qualunque di esistere, offre del fieno, delle canne e dei giunchi a un piccolo villaggio che si formò come un nido di rondini sur una delle dighe circostanti. Ma non è tutta qui la singolarità della storia di Dordrecht. La tradizione racconta, molti credono e qualcheduno sostiene che Dordrecht, tutta la città di Dordrecht, si noti bene, colle sue case, coi suoi mulini, coi suoi canali, abbia fatto, al tempo di quella memorabile inondazione, una breve passeggiata, si sia cioè trasportata di sana pianta da un luogo all’altro come l’accampamento d’un esercito; e che per conseguenza gli abitanti dei paesi vicini che si recarono dopo la catastrofe alla loro città, non ce l’abbiano più trovata, e sian rimasti, figuriamoci come! E questo prodigio si spiega col fatto che Dordrecht è fondata sur uno strato d’ar gilla, e che questo strato d’argilla sarebbe scivolato sulla massa di torba che forma la base del suolo. E io la scrivo qui come l’ho udita e come l’ho letta.

Prima che il bastimento uscisse dal canale de Noord, la mia speranza di vedere il primo tramonto di sole in Olanda, fu delusa da un altro improvviso cangiamento di tempo. Il cielo si oscurò, le acque si fecero livide e l’orizzonte scomparve dietro un velo denso di vapori.

Il bastimento sboccò nella Mosa e voltò, per la decima volta, a sinistra.

In quel punto la Mosa, che travolge con sè prigioniere le acque del principal braccio del Reno, il Vaal, e riceve quelle del Leck e dell’Yssel, è larghissima e le sue sponde son fiancheggiate da lunghe file di alberi e sparse di case, di officine, di opifici, di arsenali, che spesseggiano via via che ci s’avvicina a Rotterdam. Per poco che si conosca la storia fisica d’Olanda, la prima volta che si vede la Mosa, e che si pensa agli straripamenti memorabili, alle devastazioni, alle trasformazioni, alle mille calamità e alle vittime infinite di quel fiume capriccioso e terribile, si guarda con una sorta di curiosità inquieta, come si guarda un brigante famoso, e si giran gli occhi sulle dighe con un sentimento quasi di soddisfazione e di gratitudine, come, al veder passare un brigante ammanettato, si giran gli occhi sui carabinieri. Mentre io cominciavo a cercar cogli occhi Rotterdam, un passeggiere olandese raccontava che quando la Mosa è gelata, la corrente che sopraggiunge dai paesi men freddi, investe lo strato di ghiaccio che copre il fiume, lo spezza, ne solleva con un terribile fracasso dei massi enormi, li scaglia contro le dighe, li ammonta in mucchi smisurati che arrestano e fanno straripare le acque. Allora segue una battaglia strana. Alle minaccie della Mosa gli Olandesi rispondono col fuoco. Accorre l’artiglieria, e a scariche di mitraglia risolve in una tempesta di scheggie e in una pioggia di brina le torri e le barricate di ghiaccio che si oppongono alla corrente. “Noia” concluse il passeggiere “che abbiamo noialtri Olandesi soltanto, questa di dover pigliare i fiumi a cannonate.”

Quando si arrivò in vista di Rotterdam, imbruniva e piovigginava; quindi vidi appena come a traverso un velo una confusione immensa di bastimenti, di case, di mulini a vento, di torri, d’alberi, di gente in moto sui ponti e sulle dighe; lumi da ogni parte; una gran città d’un aspetto non mai visto prima d’allora; e che la nebbia e l’oscurità mi nascosero ben presto. Quando mi fui accomiatato dai miei compagni di viaggio, ed ebbi messo in ordine il mio bagaglio, era notte. “Tanto meglio;” dissi salendo in una carrozza “vedrò per la prima volta una città olandese di notte, che dev’essere uno spettacolo nuovo.” E in fatti il Bismark, quando fu a Rotterdam, scrisse a sua moglie che di notte vedeva dei fantasmi sui tetti.

ROTTERDAM.

È difficile raccapezzare qualcosa della città di Rotterdam entrandoci di notte. La carrozza, appena mossa, passò sopra un ponte che risonò cupamente, e mentre credevo d’essere, ed ero infatti, dentro la città, vidi con stupore a destra e a sinistra due file di bastimenti che si perdevano nel buio. Passato il ponte, percorremmo una strada illuminata e piena di gente, e riuscimmo a un altro ponte, in mezzo ad altre file di bastimenti. E così innanzi per un pezzo, da un ponte in una strada, da una strada sur un ponte, e per accrescere la confusione, una luminaria non mai veduta di lampioni agli angoli delle case, di lanterne sui bastimenti, di fanali sui ponti, di lumi alle finestre, di lumicini sotto le case, di riflessi di tutta questa luce sull’acqua. A un tratto la carrozza si fermò, si affollò gente, misi la testa fuori e vidi un ponte in aria. Domandai che c’era, uno sconosciuto mi rispose che passava un bastimento. Di lì a un minuto, andammo innanzi, vidi di sfuggita un crocicchio di canali e di ponti che formavano come una gran piazza tutta irta di alberi di bastimento e tempestata di punti luminosi, e infine s’infilò una strada e s’arrivò all’albergo.

La prima cosa che feci, entrando nella mia camera, fu di vedere se rispondeva alla gran fama della pulizia olandese. Rispondeva, ed è tanto più da ammirarsi in una camera d’albergo, quasi sempre occupata da gente profana a quello che presso gli Olandesi si potrebbe chiamare il culto della pulizia. La biancheria era candida come la neve, i vetri trasparenti come l’aria, i mobili lucidi come il cristallo, le pareti nitide da non trovarci un punto nero colla lente. Oltre a questo, una paniera per i fogliacci, una tavoletta per accendere i fiammiferi, una lastrina per smorzare i sigari, una scatola per i mozziconi, un vasetto per la cenere, una cassetta per gli sputi, un’assicella per le scarpe; insomma, non un pretesto al mondo per insudiciare checchessia.

Visitata la camera, stesi sul tavolino la pianta di Rotterdam e feci i miei studi preparatorii per il domani.

È una cosa singolare che le grandi città dell’Olanda, benchè sian state fabbricate in un suolo malfermo, e vincendo difficoltà d’ogni specie, hanno tutte una forma straordinariamente regolare. Amsterdam è un semicircolo, l’Aja è un quadrato, Rotterdam è un triangolo equilatero. La base del trian golo è una immensa diga, che difende la città dalla Mosa, chiamata Boompjes, che significa in olandese alberetti, da una fila di piccoli olmi, ora altissimi, che vi furon piantati quando fu costruita. Un’altra gran diga forma un secondo baluardo contro le inondazioni del fiume, che divide in due parti quasi uguali la città, dal mezzo del lato sinistro fino all’angolo opposto. La parte di Rotterdam compresa fra le due dighe è tutta grandi canali, isolette e ponti, ed è la città nuova; quella che si stende di là dalla seconda diga è la città antica. Due grandi canali si stendono lungo gli altri due lati della città fino al vertice, dove si congiungono, e ricevono un fiume che si chiama Rotte, il quale, colla parola dam che significa diga, forma il nome di Rotterdam.

Compiuto così il mio dovere di viaggiatore coscienzioso, usando mille cautele per non offendere nemmeno col fiato la pulizia purissima di quel gioiello di camera, mi abbandonai con una sorta di timidità contadinesca al mio primo letto olandese.

I letti olandesi, parlo di quei degli alberghi, sono ordinariamente corti, larghi, e occupati in buona parte da un grandissimo guanciale pieno di piuma, nel quale s’affonderebbe la testa d’un ciclope; e aggiungo, per dir tutto, che il lume ordinario è una bugia di rame grande come un piatto che potrebbe sostenere una torcia a vento, e regge invece, una candelina corta e sottile come il dito mignolo di una spagnuola.

La mattina, appena levato, scesi le scale a precipizio.

Che strade, che case, che città, che confusione di cose nuove per uno straniero: che spettacolo diverso da tutto quel che si vede in tutti gli altri paesi d’Europa!

Vidi prima l’Hoog-Straat, una strada lunghissima e diritta, che corre sulla diga interna della città.

Le case senza intonaco, color di mattone di tutte le sfumature, dal rosso cupo quasi nero, al rosso quasi roseo, la maggior parte non più larghe di due finestre e non più alte di due piani, hanno il muro della facciata che sorpassa e nasconde il tetto, stringendosi in forma di triangolo mozzo, sormontato da un frontone. Di queste facciate a punta, altre s’alzano con due curve, come un lungo collo senza testa; altre son tagliate a scalini, come le case che fanno i bambini coi legnetti; alcune presentano il prospetto d’un padiglione conico, altre di chiesuole di campagna, altre di baracche da palcoscenico. I frontoni sono generalmente contornati di righe bianche, di ornati di cattivo gusto, di grossolani rabeschi in rilievo intonacati; le finestre e le porte, con larghi contorni bianchi; altre righe bianche fra piano e piano; gli spazii tra porta e porta di bottega, rivestiti di legno bianchiccio; così che per tutta la lunghezza delle strade non si vedon che due colori: bianco e rosso scuro, e in lontananza tutte le case paion nere, listate di tela, e presentano un aspetto tra funebre e carnevalesco, che lascia in dubbio se s’abbia da dire che rattrista o che rallegra. Al primo aspetto mi venne da ridere, non parendomi possibile che quelle case fossero state fatte sul serio, e che ci potesse star dentro della gente posata. Avrei detto che passata l’occasione di non so che festa dovessero sparire, come certi edifizi di cartone dopo che si son fatti i fuochi d’artifizio.

Mentre guardavo così vagamente la strada, vidi una casa che mi fece fare un atto di stupore. Credetti d’aver preso abbaglio, la guardai meglio, guardai le case vicine, le raffrontai colla prima e fra di loro, e temetti ancora di aver le traveggole. Svoltai in fretta in una strada laterale e mi parve di vedere la stessa cosa. Infine mi persuasi che veramente non m’ingannavo, e che tutta la città era in quel modo.

Tutta la città di Rotterdam è tal quale sarebbe una città rimasta immobile nel punto che, scossa da un terremoto, stava per cadere in rovina.

Tutte le case—si possono, in una strada, contar le eccezioni sulle dita—pendono, quale più quale meno; ma la maggior parte tanto che, all’altezza del tetto, sporgono innanzi un buon braccio dalla casa vicina, che sia ritta o inclinata appena visibilmente. Ma lo strano è questo, che le case che si toccano le une con le altre, sono inclinate da diverse parti; una pende innanzi, che pare voglia precipitare; l’altra pende indietro; una s’inclina a sinistra, l’altra s’inclina a destra. In alcuni punti sei o sette case contigue pendono tutte innanzi, quelle in mezzo di più, quelle all’estremità di meno, formando così una gran pancia come uno stecconato che s’incurvi sospinto da una folla. In altri punti due case un po’ discoste s’inclinano l’una verso l’altra come si sorreggessero a vicenda. In certe strade, per un lungo tratto, tutte le case pendono dalla stessa parte di fianco, come alberi abbattuti l’un sull’altro dal vento; e poi, per un altro lungo tratto, pendono tutte nella direzione opposta, come un’altra fila d’alberi incurvati da un vento contrario. In alcuni punti vi è una certa regolarità d’inclinazione, che quasi non si avverte; in altri, su certi crocicchi, in certe stradette è uno scompiglio da non poter descrivere, una vera baldoria architettonica, una danza di case, un disordine che sembra animato. Vi son le case che par che caschin innanzi dal sonno, quelle che si rovesciano indietro spaventate, quelle che s’inclinano l’una verso l’altra, quasi fino a toccarsi coi tetti, come per confidarsi di segreti; quelle che si cascano addosso le une alle altre come ubriache; alcune che pendono indietro, in mezzo a due che pendono innanzi, come malfattori strascinati da due guardie; schiere di case che fanno una riverenza a un campanile; gruppi di casette tutte inclinate verso una nel mezzo, che par che congiurino contro qualche palazzo. E dirò poi il segreto della cosa.

Ma nè la forma, nè l’inclinazione son quello che mi parve più curioso in quelle case.

Bisogna osservarle attentamente, una per una, dall’alto al basso, e c’è da divertirsi come dinanzi a un quadro.

Sulla sommità della facciata, nel mezzo del frontone, sporge, in alcune case, un tronco di trave inclinato, con una carrucola e una corda per calare e tirar su secchiolini e corbelli. In altre, sporge pure, da un finestrino tondo, una testa di cervo, di montone o di capra. Sotto la testa, v’è un cordone di pietre imbiancate, o una traversa di legno che taglia tutta la facciata. Sotto la traversa, vi son due larghe finestre, sulle quali sporgono due tende in forma di baldacchino ricascanti dai lati. Sotto queste tende, sui vetri più alti, una piccola cortina verde. Sotto la cortina verde, due tendine bianche ed aperte, in mezzo alle quali è sospesa una gabbietta d’uccelli o un canestro pieno di fiori che spenzolano. Sotto questo canestro, appoggiata ai vetri, una rete di sottilissimi fili di ferro incorniciata, che impedisce di veder dentro la stanza. Dietro la rete, negli intervalli fra la rete stessa e i muri della finestra, un tavolinetto con su porcellane, cristallame, fiori, ninnoli, figurine. Sulla pietra del davanzale, dalla parte della strada, una fila di piccoli vasi di fiori. Nel mezzo della pietra o da un lato, un ferro sporgente sulla strada, curvo, rivolto in su, che sostiene due specchi uniti in forma d’un libro, mobili, e sormontati da un terzo specchietto, pure mobile; in modo che dall’interno della casa si può vedere, senz’essere visti, tutto quello che segue nella strada. In alcune case, tra finestra e finestra sporge un lampione. Sotto le finestre, la porta di casa o d’una bottega. Se è una bottega, v’è sopra la porta o una testa di moro colla bocca spalancata, o una testa di turco che fa la smorfia: ora un elefante, ora un’oca: dove una testa di cavallo, dove una testa di toro, dove un serpente, dove una mezza luna, dove un mulino a vento, dove un braccio disteso che tiene in mano un oggetto diverso secondo il genere della bottega. Se è la porta di casa,—sempre chiusa,—v’è una lastra di ottone con su scritto il nome dell’inquilino, un’altra lastra con una buca per le lettere, una terza lastra sul muro col pomo del campanello; lastre, chiodi, serrature, tutto luccicante come l’oro. Dinanzi alla porta un ponticino di legno—perchè in molte case il piano terreno è assai più basso della strada;—e dinanzi al ponticino, due colonnette di pietra sormontate da due palle; altre colonnette sul davanti unite con catene di ferro, fatto di grossi anelli in forma di croci, di stelle, di poligoni; nel vuoto tra la strada e la casa, vasi di fiori; sulle finestre del pian terreno, nascoste in quel fosso, altri vasi e tendine. Nelle stradette appartate, poi, gabbie d’uccelli a destra e a sinistra delle finestre, cassette piene di verdura, panni appesi, biancheria distesa, mille colori, mille oggetti che sporgono e che dondolano, da parere una fiera universale.

Ma senza uscire dalla vecchia città, basta allontanarsi dal centro, per vedere a ogni passo qualcosa di nuovo.

Andando per certe strade strette e diritte, si vedono tutt’a un tratto chiuse in fondo come da una tenda che nasconde la campagna, e che appena comparsa, sparisce, ed è la vela d’un bastimento che passa per un canale. In altre strade, si vede in fondo una rete di cordami che par tesa fra le due ultime case per impedire il passaggio, e sono cordami di bastimenti fermi in un bacino. In fondo ad altre strade si vede la porta d’un ponte levatoio, sormontata da due lunghe travi parallele che presentano un aspetto bizzarro, come d’una gigantesca altalena destinata a divertimento della gente leggiera, che sta in quelle case stravaganti. In altre strade, si vede in fondo un mulino a vento, alto come un campanile, e nero come una torre antica, che gira le braccia a modo d’una enorme girandola sopra i comignoli delle case vicine. Da tutte le parti infine, fra le case, sopra i tetti, in mezzo agli alberi lontani, si vedono spuntare alberi di bastimenti, bandierine, vele, qualcosa che ricorda che s’è circondati dall’acqua, e che fa immaginare che la città sia fabbricata nel bel mezzo d’un porto.

In questo tempo s’erano aperte le botteghe e popolate le strade.

V’era gran movimento di gente, ma gente affaccendata senza fretta, la qual cosa distingue il movimento delle strade di Rotterdam da quello di certe strade di Londra, che a parecchi viaggiatori parvero somigliantissime fra loro, in specie per il colore delle case e l’aspetto grave degli abitanti. Visi bianchi, visi pallidi, visi color di cacio parmigiano, capelli biondi, biondissimi, rossicci, giallastri, larghi visi sbarbati, barbe intorno al collo, occhi azzurri, chiari tanto da doverci cercar le pupille; donne tarchiate, grasse, rosee, lente, con cuffiette bianche, e orecchini in forma di cavaturaccioli: son le prime cose che osservai nella folla.

Ma la gente non era quello che per il momento stimolasse di più la mia curiosità. Attraversai l’Hoog-Straat, e mi trovai nella città nuova.

Qui non si sa più dire se è una città o un porto, se c’è più terra o più acqua, se c’è più bastimenti o più case.

Sono lunghi e larghi canali che dividono la città in tante isole, unite per mezzo di ponti levatoi, di ponti giranti e di ponti di pietra. Dalle due parti di ogni canale si stendono due strade, fiancheggiate ciascuna da una fila d’alberi dalla parte dell’acqua e da una schiera di case dalla parte opposta. Tutti questi canali formano altrettanti porti abbastanza profondi da ricevere i più grandi bastimenti, e ogni canale n’è pieno da un capo all’altro, fuor che in un ristretto spazio nel mezzo che serve per l’entrata e per l’uscita. Par di vedere un’immensa flotta imprigionata in una città.

Quando vi giunsi era l’ora del maggior movimento; e io m’andai a piantare sul ponte più alto del crocicchio principale.

Si vedevano quattro canali, quattro foreste di bastimenti, fiancheggiate da otto file d’alberi; le strade ingombre di mercanzie e di gente; branchi di bestiame che passavan sui ponti; ponti che s’alzavano o si spezzavano per lasciar passare i bastimenti, ed erano appena riabbassati o ricomposti, che v’irrompeva su un’onda di gente, di carrozze e di carretti; bastimenti che entravano o uscivano dai canali, lucenti come modelli da museo, colle donne e i bambini dei marinai sul ponte; barchette che guizzavano fra bastimento e bastimento; un via vai d’avventori nelle botteghe; un gran lavorío di serve che lavavano muri e vetrate; e tutto questo movimento rallegrato dal riflesso dell’acqua, dal verde degli alberi, dal rosso delle case, dai mulini altissimi che disegnavano lontano la loro cima nera e le loro ali bianche sul cielo azzurro; e più ancora, da un’aria non vista mai in alcun’altra città settentrionale, di semplicità e di quiete.

Osservai attentamente un bastimento olandese.

Quasi tutti i bastimenti affollati nei canali di Rotterdam non fanno altri viaggi che sul Reno e in Olanda; hanno un albero solo, e son larghi, robusti, e variopinti come barchette da giocattolo. Il fasciame della carcassa è per lo più color verde d’erba montanina, ornato intorno all’orlo d’una striscia rossissima o bianca, o di parecchie striscie, che paiono una gran fascia di nastri di vario colore. La poppa, per lo più, è dorata. Il tavolato del ponte e l’albero sono inverniciati e lucidi, come il più pulito pavimento di sala. Il rovescio dei coperchi delle botole, le secchie, i barili, le an tenne, le assicelle, tutto è tinto di rosso, strisciato di bianco o di azzurro. Il casotto dove stan le famiglie dei marinai è anch’esso colorito come un chiosco chinese, e ha i suoi vetri limpidissimi e le sue tendine bianche ricamate e legate con nastri color di rosa. In tutti i ritagli di tempo, marinai, donne e fanciulli sono occupati a lavare, a spazzare, a strofinare da tutte le parti con una cura infinita; e quando poi il loro bastimentino fa la sua uscita dal porto tutto fresco e pomposo come un cocchio di gala, essi ritti sulla poppa cercano con alterezza un muto complimento negli occhi della gente accalcata lungo i canali.

Di canale in canale, di ponte in ponte, arrivai sino alla diga dei Boompjes, dinanzi alla Mosa, dove ferve tutta la vita della grande città commerciale. A sinistra si stende una lunga fila di piccoli piroscafi variopinti, che partono ogni ora del giorno per Dordrecht, per Arnhem, per Gouda, per Schiedam, per Brilla, per la Zelanda, e riempiono continuamente l’aria del suono allegro delle loro campanelle e di nuvoletti bianchi di fumo. A destra ci sono i grandi bastimenti che fanno il viaggio ai vari porti d’Europa, frammisti ai bellissimi navigli a tre alberi che vanno alle Indie orientali, coi nomi scritti a caratteri d’oro: Java, Sumatra, Borneo, Samarang, che ravvicinano alla fantasia quelle terre e quei popoli selvaggi, come un eco di voci lontane. Dinanzi, la Mosa percorsa da un gran numero di barchette e di barconi, e la riva lontana sulla quale s’inalza una foresta di faggi, di mulini a vento, di torri d’officine; e sopra questo spettacolo, un cielo inquieto, pieno di bagliori e di oscurità sinistre, che si agita e si trasforma, come per imitare il movimento operoso della terra.

Rotterdam—cade qui a proposito il dirlo—è, per importanza commerciale la prima città dell’Olanda, dopo Amsterdam. Era già una fiorente città di commercio nel tredicesimo secolo. Ludovico Guicciardini, nella sua opera sui Paesi-Bassi, già rammentata, adduce una prova della ricchezza di quella città nel decimosesto secolo, dicendo che in men d’un anno riedificò novecento case ch’erano state distrutte da un incendio. Il Bentivoglio, nella sua storia della guerra di Fiandra, la chiama terra delle più grosse e più mercantili che abbia l’Olanda. Ma la sua maggior prosperità non comincia che dopo il 1830, ossia dopo la separazione dell’Olanda e del Belgio, che parve fruttare a lei tutto quello che fece perdere alla sua rivale Anversa. La sua situazione è vantaggiosissima. Comunica col mare per la Mosa, che conduce nel suo porto, in poche ore, i più grandi bastimenti mercantili, e per lo stesso fiume comunica col Reno, che le porta dalle montagne della Svizzera e della Baviera una immensa quantità di legname, foreste intere che vanno in Olanda a trasformarsi in navi, in dighe e in villaggi. Più di ottanta bellissimi bastimenti vanno e vengono, nello spazio di nove mesi, tra Rotterdam e le Indie. Le merci vi affluiscono da ogni parte in così grande abbondanza, che debbono essere portate in parte nelle città vicine. Intanto Rotterdam si allarga; vi si stanno costruendo dei vasti magazzini e si lavora intorno a un ponte smisurato che attraverserà la Mosa e tutta la città, stendendo così la strada ferrata che ora s’arresta nella riva sinistra del fiume, sino alla porta di Delft, dove si congiungerà colla strada dell’Aja.

Rotterdam, in somma, ha un avvenire più splendido che Amsterdam, ed è da molto tempo una rivale temuta della sorella maggiore. Non possiede le grandi ricchezze della capitale; ma è più industriosa nel valersi delle sue; intraprende, ardisce, rischia, da città giovane e avventurosa. Amsterdam, come un negoziante divenuto cauto dopo essersi fatto ricco con imprese ardite, comincia a sonnecchiare sui suoi tesori. A Rotterdam, per definire in un tratto le tre grandi città dell’Olanda, si fa fortuna; in Amsterdam, si consolida; all’Aja, si spende.

Si capisce da questo come Rotterdam debba essere guardata un po’ dall’alto in basso dalle altre due città; un po’ considerata come una parvenue, anche per un’altra ragione: che è mercantessa pretta non occupata d’altro che dai suoi affari, e che ha poca aristocrazia, e quella poca non ricchissima e modesta. Amsterdam invece racchiude il fiore dell’alto patriziato mercantile; Amsterdam ha grandi musei di pittura, protegge le arti, è letterata; uni sce, in somma, il titolo al sacchetto. Malgrado però la sua superiorità, essa è gelosa della sua sorella cadetta, e questa di lei; gareggiano e si dispettano; quello che fa l’una fa l’altra; quello che il Governo accorda all’una, l’altra lo vuole; in questo stesso momento, aprono tutt’e due un canale verso il mare; due canali dei quali non è ancora ben certo se si potranno servire; ma non monta; i bambini fanno così:—Pietro ha un cavallo;—voglio un cavallo anch’io; e il Governo, babbo condiscendente, deve contentare il grande e il piccino.

Visto il porto, percorsi tutta la diga dei Boompjes, sulla quale si stende una schiera non interrotta di grandi case nuove, costrutte all’uso di Parigi e di Londra,—case che, come da per tutto, gli abitanti ammirano e lo straniero non guarda, o guarda con dispetto;—poi tornai indietro, rientrai in città, e di canale in canale, di ponte in ponte, riuscii nell’angolo formato dall’Hoog-Straat con uno dei due canali lunghissimi che chiudono la città ad oriente.

Quella è la parte più povera della città.

Entrai nella prima strada che vidi e feci parecchi giri in quel quartiere, per veder da vicino come sta la gente bassa nelle città olandesi. Le strade sono strettissime e le case più piccine e più sbilenche che in ogni altra parte; di molte si può toccare il tetto colle mani; le finestre sono a poco più d’un palmo da terra; le porte basse da doversi chinare per entrarci. Malgrado ciò, non v’è la menoma apparenza di miseria. Anche là le finestre hanno i loro specchietti—le spie, come si dicono in olandese,—i loro vasi di fiori sul davanzale, difesi da cancellatine verdi; le loro tendine bianche; gli usci tinti di verde o di azzurro; tutto spalancato, in modo che si vedon le camere da letto, le cucine, tutti i recessi della casa, stanzette che paiono scatole, dove la roba è ammontata come in botteghe da rigattieri; ma rami, stoviglie, mobili, tutto pulito e luccicante come in case di signori. Passando per quelle strade non si trova ombra di sudiciume da nessuna parte, non si sente un cattivo odore, non si vede nè un cencio nè una mano tesa per chiedere: si respira la pulizia e il benessere, e si pensa con vergogna ai luridi quartieri dove formicola il basso popolo in molte delle nostre città, ed anco non nostre, non esclusa Parigi, che ha pure la sua strada Mouffetard.

Tornando verso l’albergo, passai per la piazza del gran mercato, posta nel bel mezzo della città, e non meno strana di tutto quello che la circonda.

È una piazza sospesa sull’acqua; nello stesso punto piazza e ponte; un ponte larghissimo che congiunge la diga principale,—l’Hoog-Straat,—con un quartiere della città, circondato da canali. Questa piazza aerea è cinta di vecchi edifizi su tre dei suoi lati, sull’uno dei quali s’apre una strada lunga, stretta ed oscura, occupata tutt’intera da un canale che pare una strada di Venezia; ed è aperta dal quarto lato sur una specie di bacino formato dal canale più largo della città, che comunica direttamente colla Mosa. Su questa piazza s’innalza, circondata da baracche e da carretti, in mezzo a mucchi di legumi, d’aranci, di tegami, fra una folla di rivendugliole e di merciaiuoli, dentro una cancellata coperta di stuoie e di cenci, la statua di Desiderius Erasmus, la prima gloria letteraria di Rotterdam; quel Gerrit Gerritz,—poichè il nome latino, a somiglianza di tutti gli altri grandi scrittori del suo tempo, se l’era posto egli medesimo;—quel Gerrit Gerritz appartenente, per la sua educazione, il suo stile e le sue idee, alla famiglia degli umanisti e degli eruditi d’Italia, scrittore fine, profondo e infaticabile di lettere e di scienze, che riempì del suo nome l’Europa fra il decimoquinto e il decimosesto secolo, che fu colmato di favori dai papi, cercato, festeggiato dai principi; e delle cui innumerevoli opere, scritte tutte in latino, si legge ancora l’ Elogio della pazzia, dedicato a Tommaso Moro. Quella statua di bronzo, innalzata nel 1622, rappresenta Erasmo vestito d’una pelliccia, con un berretto di pelo, un po’ inclinato innanzi come uno che cammina, con un grosso libro aperto in mano, nell’atto di leggere; e il piedestallo porta una doppia iscrizione olandese e latina che lo chiama vir sæculi sui primarius e civis omnium præstantissimus. E malgrado questo pomposo elogio, il povero Erasmo, piantato là come una guardia municipale in mezzo al mercato, fa compassione. Non v’è, io credo, sulla faccia della terra un’altra statua di letterato che sia come la sua trascurata da chi passa, disprezzata da chi la circonda, commiserata da chi la guarda. Ma chi sa che Erasmo, da quell’arguto filosofo che fu e che dev’essere ancora, non si contenti di quel cantuccio, tanto più che non è lontano da casa sua, se la tradizione non tradisce. In una stradetta vicino alla piazza, nel muro d’una piccola casa occupata da una taverna, si vede dentro una nicchia una statuetta di bronzo che rappresenta il grande scrittore, e sotto la nicchia l’iscrizione Hæc est parva domus magnus qua natus Erasmus; che forse otto su dieci Rotterdamesi non hanno mai letta nè vista.

In un angolo di quella stessa piazza, v’è una piccola casa chiamata la casa della paura, sopra un muro della quale si vede un’antica pittura di cui non ricordo il soggetto. Il nome di casa della paura le fu posto, stando alla tradizione, perchè i più cospicui personaggi vi si ricoverarono quando gli Spagnuoli diedero il sacco alla città, e vi rimasero chiusi tre giorni interi senza mangiare. E non è quella la sola memoria degli Spagnuoli che si conservi a Rotterdam. Molti edifizi, costrutti al tempo della loro dominazione, rammentano la maniera d’architettura che s’usava allora nella Spagna; e parecchi portano ancora iscrizioni spagnuole. Nelle città d’Olanda le iscrizioni sulle case sono molto comuni. Le case si gloriano della loro vecchiezza come le bottiglie di vino, e mostrano la data della loro costruzione scritta in grandi caratteri nel mezzo della facciata.

Sulla piazza del mercato potei osservare con tutto comodo gli orecchini delle donne, i quali sono una cosa da meritare che se ne parli minutamente.

A Rotterdam non vidi che gli orecchini in uso nell’Olanda meridionale; ma anche solo in questa provincia, la varietà è grandissima. Si somigliano però tutti in questo, che invece di essere appesi all’orecchio, sono appesi alle due estremità d’un cerchio metallico, d’oro o d’argento o di rame dorato, che cinge la testa come un mezzo diadema, e viene a terminare sulle tempie. Gli orecchini più comuni hanno la forma d’una spirale a cinque o sei giri, sovente larghissimi, e sono attaccati in modo alle due estremità del cerchio, che sporgono innanzi al viso come le gambe di un paio d’occhiali. Molte donne portano ancora appesi a queste spirali due orecchini della forma ordinaria, ma più grandi, i quali scendono quasi fino a toccare il seno e dondolano dinanzi alle guance come le gingioliere dei bovi. Altre hanno il cerchio d’oro che cinge anche la fronte ed è cesellato, ornato di fiorami in rilievo, di borchiette, di bottoni. Quasi tutte portano i capelli lisci e compressi, e una cuffia bianca ricamata od ornata di trina che copre e stringe la testa come una cuffia da notte e scende in forma di velo pure trinato e ricamato intorno al collo e sulle spalle. Questo velo svolazzante all’uso arabo e quegli orec chini spropositati e stravaganti, dànno a queste donne un aspetto tra regale e barbaresco, che, se non fossero bianche come sono, le farebbe pigliare per donne di qualche paese selvaggio, che avessero conservato del loro costume nativo l’ornamento del capo. Non mi meraviglio che certi viaggiatori, al vedere per la prima volta quegli orecchini, abbiano creduto che fossero ad un tempo un ornamento e uno strumento, e abbiano chiesto a che cosa servissero. Ma si può anche supporre che siano fatti così per un altro scopo: che servano cioè come armi di difesa al pudore femminile, perchè un impertinente che avvicinasse troppo il viso, incontrerebbe quell’impedimento almeno quattro dita prima di giungere a toccare la guancia. Questi orecchini, portati particolarmente dalle donne del contado, son quasi tutti d’oro e costano, grandi come sono e poi col cerchio e gli altri accessorii, una bella somma; ma dei contadini olandesi vidi ben altre ricchezze nelle mie passeggiate in campagna.

Vicino alla piazza del mercato v’è la Cattedrale, fondata verso la fine del decimoquinto secolo, al tempo della decadenza dell’architettura ogivale: allora chiesa cattolica, dedicata a san Lorenzo, ora la prima chiesa protestante della città. Il protestantesimo, vandalo della religione, entrò nella chiesa antica col piccone e col pennello dell’imbianchino, ruppe, scrostò, sdorò, intonacò, lacerò con pedantesco fanatismo tutto quello che vi rinvenne di bello e di splendido, e la ridusse un edifizio nudo, bianco, freddo, quale avrebbe dovuto essere, al tempo degli Dei falsi e bugiardi, un tempio consacrato alla Dea della Noia. Un organo immenso, composto di quasi cinquemila canne, che rende, fra gli altri suoni, l’effetto dell’eco; alcune tombe d’ammiragli ornate di lunghi epitaffi olandesi e latini; molti banchi, qualche ragazzo col cappello in capo, un gruppo di donne che chiacchieravano ad alta voce, un vecchietto col sigaro in bocca in un canto: non vidi altro. Quella era la prima chiesa protestante in cui mettevo il piede e confesso che mi fece un senso sgradevole, misto un po’ di tristezza e di scandalo. Confrontai quell’aspetto di chiesa devastata colle magnifiche cattedrali d’Italia e di Spagna, dove sulle pareti rischiarate d’una luce soave e misteriosa, a traverso le nuvole d’incenso, s’incontrano gli sguardi amorosi degli angioli e delle sante, che ci mostrano il cielo; dove si vedono tante immagini d’innocenza che rasserenano, tante immagini di dolore che aiutano a soffrire, che ispirano la rassegnazione, la pace, la dolcezza del perdono; dove il povero senza tetto e senza pane, respinto dalla porta del ricco, può pregare fra i marmi e gli ori, come in una reggia, nella quale non è disdegnato, fra uno splendore e una pompa che non lo umilia, che anzi onora e conforta la sua miseria; quelle cattedrali, in fine, dove c’inginocchiammo da fanciulli accanto a nostra madre, e sentimmo per la prima volta una dolce sicurezza di riviver un giorno con lei in quei profondi spazi azzurri che vedevamo dipinti nelle cupole sospese sul nostro capo. Confrontando quella chiesa con queste cattedrali, mi accorsi ch’ero assai più cattolico che non credessi, e sentii la verità di quelle parole del Castelar:—Ebbene, sì, sono razionalista: ma se un giorno dovessi tornare in seno ad una religione, tornerei a quella splendida dei miei padri, e non a codesta religione squallida e nuda, che rattrista i miei occhi e il mio cuore!

Dall’alto della torre si vede con un colpo d’occhio tutta la città di Rotterdam coi suoi piccoli tetti rossi ed acuti, i suoi larghi canali, i suoi bastimenti sparpagliati fra le case, e tutt’intorno alla città, una pianura sconfinata e verdissima, percorsa da canali fiancheggiati d’alberi, sparsa di mulini a vento, di villaggi nascosti in mezzo a mucchi di verzura, che non mostrano che la punta dei loro campanili. In quel momento il cielo era sereno, si vedevano luccicare le acque della Mosa dalle vicinanze di Bois-le-Duc fino quasi alla sua foce; si scorgevano i campanili di Dordrecht, di Leida, di Delft, dell’Aja, di Gouda; ma da nessuna parte, nè vicino nè lontano, una collina, un rialto di terra, una curva che interrompesse la linea diritta rigidissima dell’orizzonte. Era come un mare verde ed immobile, sul quale i campanili rappresentavano alberi di bastimenti ancorati. L’occhio spaziava su quell’immenso piano quasi riposandosi, ed io provavo per la prima volta quel sentimento indefinibile che ispira la campagna olandese, che non è tristezza, nè piacere, nè noia, ma un misto di tutte e tre queste cose, che ci tien là molto tempo immobili, senza saper che cosa si guarda e a che cosa si pensa.

Tutt’a un tratto fui scosso da una musica bizzarra che non capii subito di dove venisse. Erano campane che suonavano un’arietta allegra con note argentine, le quali ora scoccavano lente che pareva si staccassero a fatica l’una dall’altra, ora prorompevano in gruppi, in fioriture strane, in trilli, in scoppi sonori; una musica saltellante e piena di ghiribizzi, che aveva qualcosa di primitivo come la città variopinta, sulla quale si spandevan le sue note a guisa d’uno stormo d’uccelli; e anzi consuonava così al carattere della città, che pareva la sua voce naturale, un’eco della vita antica di quella gente, che faceva pensare al mare, alla solitudine, alle capanne, e nello stesso tempo destava il riso e toccava il cuore. All’improvviso la musica cessò e sonarono le ore. In quello stesso punto altri campanili lanciavano nell’aria altre ariette delle quali mi arrivavano appena all’orecchio le note più acute, e finite le ariette, suonavan le ore come il primo. Questo concerto aereo, come seppi poi, e me ne fu spiegato il meccanismo, si ripete ad ogni ora del giorno e della notte, in tutti i campanili dell’Olanda; e sono arie di canzoni nazionali, di salmi, d’opere italiane e tedesche. Così in Olanda l’ora canta, come per distrarre la mente dal pensiero triste del tempo che fugge, e canta la patria, la reli gione e l’amore, con un’armonia che sorvola a tutti i rumori della terra.

Ora, per continuare a dire per ordine quello che vidi e quello che feci, devo condurre chi legge in un caffè e pregarlo d’assistere al mio primo desinare olandese.

Gli Olandesi mangiano molto. Il maggior piacere che si pigli da loro, come dice il cardinale Bentivoglio, è fra i conviti e le tavole. Ma non sono golosi, son voraci; tirano alla quantità più che alla qualità. Fin dai tempi antichi, erano canzonati dai loro vicini, non soltanto per la ruvidezza dei loro costumi, ma per la semplicità del loro nutrimento: si chiamavano mangiatori di latte e di formaggio. Mangiano generalmente cinque volte al giorno. Di levata, tè, caffè, latte, pane, cacio, burro; poco prima di mezzogiorno una buona colezione; prima di pranzo, quello che si direbbe uno spuntino, cioè un bicchier di liquore e qualche biscotto; poi un gran pranzo; e la sera tardi il pusigno, per usare la parola propria, ossia qualche cosuccia, tanto per non andare a letto collo stomaco ozioso. Mangiano poi in comune in molte occasioni non parlo di nascite e di matrimoni, che è uso di tutti i paesi; ma, per esempio, di sepolture: usando che gli amici e i conoscenti che hanno accompagnato il convoglio funebre, riconducano la famiglia del defunto a casa, e là siano invitati a mangiare e a bere, e facciano per solito molto onore ai loro ospiti. La pittura olandese, quando non ci fosse altra testimonianza, è là per provarci la parte principalissima che ebbe sempre la tavola nella vita di quel popolo. Oltre gl’infiniti quadri di soggetti casalinghi, nei quali si direbbe che il piatto e la bottiglia sono i protagonisti, quasi tutti i grandi quadri che rappresentano personaggi storici, borgomastri, guardie civiche, li mostrano seduti a tavola in atto di mordere, di tagliare, di mescere. Persino il loro eroe, Guglielmo il Taciturno, l’incarnazione della nuova Olanda, incarnò pure quest’amor nazionale della tavola, ed ebbe il primo cuoco dei suoi tempi; un così grande artista che i principi tedeschi mandavano dei principianti a perfezionarsi alla sua scuola, e Filippo II, in uno di quei periodi d’apparente riconciliazione col suo mortale nemico, glielo chiese in regalo.

Ma, come dissi, il carattere principale della cucina olandese è l’abbondanza, non la raffinatezza. I Francesi, che sono buongustai, ci trovano molto a ridire. Mi ricordo d’uno scrittore di certe Mémoires sur la Hollande, che inveisce con impeto lirico contro il mangiare degli Olandesi, dicendo:—Cos’è questo mangiar zuppe alla birra? questo mescolar carne e confetti? questo divorar tanta carne senza pane?—Altri scrittori di libri sull’Olanda hanno parlato dei loro desinari in quel paese, come di sventure domestiche. È superfluo il dire che son tutte esagerazioni. Alla cucina olandese si può abituare in poco tempo anche una bocca ultradelicata. Il fondo del desinare è sempre un piatto di carne, col quale si servono altri quattro o cinque piatti di salumi e di legumi, che ognuno mescola e combina a modo suo col piatto principale. Le carni sono squisite e i legumi squisitissimi, e cucinati in mille maniere diverse: degni di menzione particolare la patate e i cavoli, e ammirabile l’arte di far le frittate. Non parlo della caccia, dei pesci, dei latticini, del burro, perchè ne parla la fama; e taccio, per non lasciarmi vincere dall’entusiasmo, di quel celebrato formaggio, nel quale, quando s’è fatto tanto di ficcare il coltello, si continua a infierire con una sorta di furore crescente, menando fendenti e puntate, e abbandonandosi a ogni specie di lavori d’intaglio e di scavo, finchè è vuota la forma, e il desiderio aleggia ancora sulle rovine.

Uno straniero che desina per la prima volta in una trattoria olandese vede parecchie novità. Prima d’ogni cosa, dei piatti d’una grandezza e d’uno spessore straordinarii, proporzionati all’appetito nazionale; e in molti luoghi, una salvietta di carta bianca sottilissima, piegata a tre punte, contornata di fiori a stampa, con un piccolo paesaggio agli angoli, e il nome del caffè o della trattoria o un Bon appetit stampato in grandi caratteri azzurri. Lo straniero, per essere sicuro del fatto suo, ordina un rosbiffe, e gliene portano una mezza dozzina di fette grandi come una foglia di cavolo; o una bistecca, e gli portano un cuscinetto di carne sanguinosa che basterebbe a saziare una famiglia; o del pesce, e gli portano un animale lungo come la tavola; e con ciascuna di queste cose, una montagnola di patate bollite e un vasettino di mostarda vigorosa. Di pane, una fettina un po’ più grande di uno scudo, e sottile come una cartilagine; cosa spiacevole per noi latini, che divoriamo il pane come accattoni; così che in una trattoria olandese ci tocca a domandarne ogni momento, con grande stupore dei camerieri. Con uno di quei tre piatti, e un bicchier di birra di Baviera o di birra d’Amsterdam, un galantuomo può dire di aver desinato. Di vino, chi per poco abbia il granchio alla borsa, in Olanda non se ne discorre, perchè è caro assaettato; ma siccome là le borse son gonfie, così quasi tutti gli Olandesi dal mezzo ceto in su, ne bevono; e ci son certo pochi paesi dove si trovi la varietà e l’abbondanza di vini stranieri che si trova in Olanda: francesi e del Reno particolarmente.

Chi, dopo desinare, vuol dei liquori, in Olanda trova il fatto suo. Non c’è bisogno di dire che i liquori olandesi sono famosi nel mondo, e che è famosissimo per tutti il schiedam, estratto di ginepro, così chiamato dalla piccola città di Schiedam, distante poche miglia da Rotterdam, nella quale si trovano più di duecento fabbriche; e per dare un’idea del lavoro che vi si fa, basta dire che colla feccia della materia distillata, si nutriscono anno per anno trentamila bestie suine. Questo schiedam famoso, la prima volta che si assaggia, fa giurare e spergiurare che non se ne beverà più una goccia se si campasse cent’anni; ma chi ne ha bevuto, come dice il proverbio francese, ne beverà; e si comincia a provarlo con un mucchio di zucchero; e poi con un po’ meno; e poi senza, finchè, horribile dictu, col pretesto dell’umidità e della nebbia, se ne tracannano due bicchierini con una disinvoltura da marinai. Vien dopo per ordine di nobiltà il curaçò, liquore fine, femmineo, men vigoroso dello schiedam, ma assai più di quel dolciume nauseabondo che si spaccia in altri paesi colla raccomandazione del suo nome. Dopo il curaçò altri moltissimi, di tutte le gradazioni di forza e di sapore, coi quali un bevitore esperto si può dare, a sua fantasia, tutte le sfumature dell’ebbrezza; l’ebbrezza gentile, la forte, la chiassosa, la cupa—e disporre in modo il suo cervello da vedere il mondo nell’aspetto che convien meglio al suo umore, come si farebbe con uno strumento ottico, cambiando il colore delle lenti.

La prima volta che si desina in Olanda c’è una sorpresa curiosa al momento di pagare lo scotto. Io avevo fatto un desinare scarso per un batavo, ma per un italiano, abbondantino, e con quel che sapevo del gran caro d’ogni cosa in Olanda, m’aspettavo una di quelle sonate, alle quali, come dice Teofilo Gauthier, la sola risposta ragionevole da darsi è una pistolettata. Fui dunque gratamente meravigliato quando il cameriere mi disse che dovevo pagare quarante sous, e siccome nelle città grandi dell’Olanda tutte le monete corrono, misi sulla tavola quaranta soldi in argento francese, e aspettai, per dar tempo all’amico di ravvedersi, nel caso che si fosse ingannato. Ma l’amico guardò quel denaro senza alcun segno di ravvedimento, e disse con la più gran serietà:—Ancora altri quaranta soldi.—Scattai sulla seggiola domandando una spiegazione; e la spiegazione, ahimè, fu semplicissima. L’unità monetaria, in Olanda, è il fiorino, che corrisponde a due lire nostre e quattro centesimi; per il che il centesimo e il soldo olandesi corrispondono a qualcosa di più del doppio del centesimo e del soldo nostro; onde l’inganno e il disinganno.

Rotterdam, la sera, presenta un aspetto impreveduto a uno straniero. Mentre nelle altre città settentrionali a una cert’ora la vita si raccoglie nelle case, a Rotterdam, a quella stess’ora, si espande nelle strade. L’Hoog-Straat è percorsa fino a notte avanzata da una folla fittissima, le botteghe sono aperte,—perchè le serve vanno a far la spesa la sera;—i caffè sono affollati. I caffè olandesi hanno una forma particolare. Son per lo più una sala unica, lunga, divisa per mezzo da una tenda verde, che s’abbassa verso sera e nasconde, come un telone da teatro, tutta la parte di dietro, la quale è la sola illuminata; la parte davanti, separata dalla strada da una grande vetrata, rimane al buio, in maniera che dal di fuori non vi si vede che delle forme nere, e un luccichio di punte di sigari che paion lucciole; e tra quelle forme nere, qualche profilo vago di donna, a cui non conviene la luce.

Dopo i caffè, dan nell’occhio, come a Rotterdam in tutte le città d’Olanda, le botteghe dei tabaccai. Ce n’è una, si può dire, a ogni passo; e sono senza paragone le più belle d’Europa; non escluse le grandi botteghe di tabacchi d’Avana di Madrid. I sigari sono chiusi in scatole di legno, su ciascuna delle quali è attaccato un ritratto a stampa del re e della regina, o di qualche illustre cittadino olandese; e tutte queste scatole sono ammontate nelle vetrine altissime, in mille forme architettoniche, come di torri, di campanili, di tempietti, di scale a chiocciola, che s’inalzano da terra fin quasi al soffitto. In queste botteghe, risplendenti di fiammelle come botteghe di Parigi, si trovan sigari di tutte le forme e di tutti i sapori; e il tabaccaio cortese ve li porge in una apposita busta di carta velina, dopo averne spuntato uno con una macchinetta.

Le botteghe olandesi sono illuminate sfarzosamente; e benchè non presentino per sè stesse alcuna differenza da quelle delle altre grandi città europee, offrono però un aspetto particolare, di notte, per il contrasto che ne riesce fra il pian terreno e la parte superiore delle case. Sotto è tutto vetri, lumi, colori, splendori; sopra son quelle facciate cupe, con quelle punte, con quegli scalini, con quelle curve; la parte superiore della casa è la vecchia Olanda, semplice, buia e silenziosa; il pian terreno è la vita nuova, la moda, il lusso, l’eleganza. Oltre a questo, siccome le botteghe, essendo tutte le case strettissime, occupano l’intero piano terreno, e sono per lo più tanto fitte che si toccano le une le altre, così di notte nelle strade come l’Hoog-Straat, non si vede quasi punto muro dal primo piano in giù, e sembra che le case sian tutte sorrette dalle vetrine, e le vetrine si confondono tutte da lontano in due larghe striscie fiammeggianti che fiancheggiano la strada come due siepi accese e l’inondano di luce, in modo che vi si troverebbe uno spillo.

Passeggiando per le strade di Rotterdam, la sera, si vede che è una città riboccante di vita, che si espande; una città, sto per dire, adolescente, nel periodo della crescenza, la quale, come una persona nei suoi panni, si sente d’anno in anno più allo stretto nelle sue case e nelle sue strade. I suoi centoquattordici mila abitanti saranno forse duecentomila in un avvenire non lontano. Le strade secondarie sono formicai di bimbi; ce n’è un ripieno, un ribocco, che rallegra gli occhi ed il cuore. Per le vie di Rotterdam spira un non so che aria di festa. Quei visotti bianchi e rossi delle serve, di cui si vedono spuntare da tutte le parti le cuffiette bianche, quei faccioni sereni di negozianti che sorbiscono lentamente dei grandi bicchieri di birra, quelle contadine coi grossi orecchini d’oro, quella pulizia, quei fiori alle finestre, quella folla operosa e tranquilla, danno a Rotterdam un aspetto di salute e di pace contenta, che fa venir sulle labbra il Te beata dei Sepolcri, non col grido dell’entusiasmo, ma col sorriso della simpatia.

Rientrando all’albergo, vidi tutt’una famiglia francese ferma in un corridoio ad ammirare i chiodi d’una porta che parevan tanti bottoni d’argento.

La mattina seguente appena levato, mi affacciai alla finestra, ch’era al secondo piano, e vedendo i tetti delle case dirimpetto, riconobbi, con meraviglia, che il Bismark era da scusarsi se aveva creduto di veder dei fantasmi sui tetti delle case di Rotterdam. Sulle rocche di cammino, in fatti, di tutte le case antiche, s’alzano dei tubi curvi o diritti, sovrapposti di traverso gli uni agli altri, incrociati e ricrociati in forma di braccia aperte, di forche, di corna smisurate, di atteggiamenti impossibili, da far pensare che abbiano un significato, che sian come un richiamo misterioso da casa a casa, e che di notte si debbano muovere con uno scopo.

Scesi nell’Hoog-Straat, era giorno di festa, si vedevano le poche botteghe aperte; ma nemmen quelle poche, mi dissero gli stessi Olandesi, si sarebbero viste non molti anni fa: l’osservanza del precetto religioso, ch’era rigorosissima, si comincia a rilassare. Vidi piuttosto un segno di festa nel vestire della gente, e specialmente degli uomini. Gli uomini, soprattutto delle classi inferiori (e osservai questo anche nelle altre città) hanno una manifesta simpatia per gli abiti neri, e li sfoggiano per lo più la domenica: cravatta nera, calzoni neri e certe palandrane nere che toccan quasi il ginocchio; costume che coll’andatura lenta e il viso grave, dà loro un’aria di sindaci di villag gio che vadano ad assistere a un Te Deum ufficiale.

Ma quello che mi stupì fu di vedere, a quell’ora, quasi tutte le persone che incontravo, signori e povera gente, uomini e ragazzi, col sigaro in bocca. Questa malaugurata abitudine di sognare da svegli, come scriveva Emilio Girardin, quando faceva la guerra ai fumatori, occupa una così larga parte nella vita degli Olandesi, che bisogna dirne qualchecosa.

Il popolo olandese è forse di tutti i popoli del settentrione quello che fuma di più. L’umidità del clima gliene fanno quasi un bisogno; il prezzo moderatissimo del tabacco rende possibile a tutti di soddisfarlo. Per mostrare quanto sia radicata quest’abitudine, basti dire che i barcaioli del trekschuit, che è la diligenza acquatica dell’Olanda, misurano le distanze col fumo. Di qui, dicono, alla tal città, ci sono, non tante miglia, ma tante pipate. Quando s’entra in una casa, dopo il primo saluto, l’ospite vi porge un sigaro; quando uscite, ve ne porge un altro, qualche volta ve ne riempie le tasche. Per le strade si vedon persone che accendono un sigaro col mozzicone ancora acceso dell’ultimo fumato, senza soffermarsi, con aria di gente affaccendata, per la quale è ugualmente rincrescevole di perdere un minuto di tempo e una boccata di fumo. Moltissimi s’addormentano col sigaro in bocca, accendono il sigaro quando si svegliano durante la notte e lo riaccendono la mattina prima di mettere i piedi fuori del letto. Un olandese, scriveva il Diderot, è un lambicco vivente; e pare infatti che il fumare sia per lui quasi una funzione necessaria della vita. Molti dissero che tutto questo fumo gli annebbia l’intelligenza. Eppure se v’è un popolo, come osserva giustamente l’Esquiroz, che abbia un’intelligenza netta e precisa al più alto grado, è il popolo olandese. D’altra parte in Olanda, il sigaro non è scusa all’ozio, nè si fuma per sognare da svegli; ognuno fa i fatti suoi cacciando fuori dei nuvoletti bianchi dalla bocca, regolarmente, come il tubo di un fornello d’officina, e il sigaro, invece d’essere una distrazione, è uno stimolo e un aiuto al lavoro. Il fumo, mi disse un olandese, è il nostro secondo fiato; e un altro mi definì il sigaro: il sesto dito della mano.

Qui, a proposito di tabacco, vorrei raccontare la vita e la morte d’un famoso fumatore olandese; ma temo un po’ le scrollate di spalla de’ miei amici olandesi, i quali mi raccontarono quella vita e quella morte, lamentandosi appunto che gli stranieri, che scrivon dell’Olanda, lascin da parte delle cose importanti ed onorevoli per il paese, per occuparsi di corbellerie di quella natura.

Ma tant’è, mi pare una corbelleria così nuova che non posso tenermela nella penna.

V’era dunque una volta un ricco signore dei dintorni di Rotterdam, il quale si chiamava Van Klaës, ed era soprannominato papà gran pipa, per chè era vecchio, grosso e gran fumatore. La tradizione racconta ch’egli aveva fatto fortuna, da onesto negoziante, nelle Indie, e ch’era un uomo di miti costumi e di buon cuore. Tornato dalle Indie, s’era fatto fabbricare un bellissimo palazzo vicino a Rotterdam, e in questo palazzo aveva raccolto e disposto in forma di Museo tutti i modelli di pipe che vide il sole, in tutti i paesi e in tutti i tempi, da quelle che servivano agli antichi barbari per fumare la canapa alle splendide pipe di schiuma e d’ambra sopraccaricate di figurine e cerchiellate d’oro che si ammirano nelle più belle botteghe di Parigi. Il Museo era aperto agli stranieri, e ad ognuno che lo visitasse, il signor Van Klaës, dopo aver sfoggiato la sua vasta erudizione fumatoria, riempiva le tasche di sigari e di tabacco e regalava un catalogo del Museo con una copertina di velluto.

Il signor Van Klaës fumava cento cinquanta grammi di tabacco al giorno, e morì all’età di novantott’anni; così che, fatto il conto colla supposizione che abbia cominciato a fumare di diciotto anni, in tutto il corso della sua vita egli ne fumò quattromila trecento ottantatrè chilogrammi; colla quale quantità di tabacco, si forma una striscia nera non interrotta della lunghezza di venti leghe francesi. Con tutto ciò il signor Van Klaës si mostrò assai più grande fumatore in morte che in vita. La tradizione ha conservato tutti i particolari della sua fine. Gli mancavan pochi giorni a compire il novantottesimo anno, quando egli sentì improvvi samente che quell’anno sarebbe stato l’ultimo. Mandò a chiamare il suo notaio, ch’era pure un fumatore emerito, e senz’altro preambolo: “Notaro mio” gli disse “riempite la mia pipa e la vostra; io mi sento morire.” Il notaio riempì le pipe, le accesero e il signor Van Klaës dettò il suo testamento, che diventò poi celebre in tutta l’Olanda.

Dopo aver disposto d’una gran parte del suo avere a favore di parenti, d’amici e d’ospizi, dettò i seguenti articoli:

Voglio che tutti i fumatori del paese siano invitati ai miei funerali con tutti i mezzi possibili: giornali, lettere private, circolari, annunzi. Ogni fumatore che si renderà all’invito, riceverà in dono dieci libbre di tabacco e due pipe, sulle quali siano incisi il mio nome, le mie armi e la data della mia morte. I poveri del distretto che accompagneranno il mio feretro, riceveranno ogni anno, il giorno anniversario della mia morte, un gran pacco di tabacco. A tutti coloro che assisteranno al funerale, metto per condizione, se vogliono partecipare ai benefizi del mio testamento, che fumino senza interruzione per tutta la durata della cerimonia. Il mio corpo sarà chiuso in una cassa rivestita internamente del legno delle mie vecchie scatole dei sigari d’Avana. In fondo alla cassa, sarà deposta una scatola di tabacco francese detto caporal e un pacco del nostro vecchio tabacco olandese. Al mio fianco, sarà messa la mia pipa prediletta e una scatola di fiammiferi.... perchè non si sa mai quello che possa accadere. Portato il feretro al cimitero, tutte le persone del corteggio, prima d’andarsene, gli sfileranno dinanzi e vi getteranno sopra la cenere della loro pipa.

Le ultime volontà del signor Van Klaës furono rigorosamente compiute; i funerali riescirono splendidi e velati da una fitta nebbia di fumo; la cuoca del defunto, che si chiamava Gertrude, alla quale il padrone aveva lasciato, con un codicillo, una rendita considerevole, a patto che vincesse la sua ostinata avversione al tabacco, accompagnava la processione con un sigaretto di carta fra le labbra; i poveri benedissero la memoria del benefico signore, e tutto il paese risonò delle sue lodi, come risuona oggi ancora della sua fama.

Passando lungo un canale, vidi, con nuovi effetti, uno di quei rapidi cambiamenti di tempo che avevo visti il giorno innanzi. Tutt’a un tratto il sole dispare, quell’infinita varietà di colori ridenti si offusca, e comincia a soffiare un venticello d’autunno. Allora alla quiete allegra di poc’anzi succede da tutte le parti e in ogni cosa una sorta d’agitazione paurosa. I rami degli alberi stormiscono, le bandierine dei bastimenti ondeggiano, le barchette legate alle palafitte saltellano, le acque tremolano, i mille oggetti appesi alle case dondolano, le braccia dei mulini girano più rapide; pare che corra per tutto un brivido d’inverno e che la città si rimescoli come se avesse inteso una minaccia misteriosa. Dopo pochi minuti il sole ricompare, e col sole i colori, la pace, l’allegrezza. Questo spettacolo mi fece pensare che veramente l’Olanda non si possa dire un paese d’aspetto triste, come molti credono; ma piuttosto tristissimo o allegrissimo a vicenda, secondo il tempo. È in ogni cosa il paese dei contrasti. Sotto un cielo capricciosissimo v’è il popolo meno capriccioso della terra; e questo popolo fermo e ordinato, ha l’architettura più barcollante e più scompigliata che si possa veder con due occhi.

Prima d’entrare nel Museo di Rotterdam, mi sembrano opportune alcune osservazioni sulla pittura olandese, non per coloro che sanno, ben inteso, ma per coloro che hanno dimenticato.

La pittura olandese ha una qualità che la rende, per noi Italiani, particolarmente attrattiva: è di tutte le pitture del mondo la più diversa dalla nostra, l’antitesi, o per dirla con una di quelle frasi che facevano stizzire il Leopardi, il polo opposto dell’arte. Sono, la nostra e l’olandese, le due scuole più originali, o, come altri dice, le due sole a cui convenga rigorosamente quel titolo; le altre non essendo che figlie, o sorelle minori, che le arieggiano o poco o molto. E così anche per il lato della pittura, l’Olanda offre quello che si cerca con maggior desiderio nei viaggi o nei libri di viaggi: il nuovo.

La pittura olandese nacque colla indipendenza e colla libertà dell’Olanda. Sin che le provincie del nord e quelle del sud dei Paesi Bassi stettero unite nella monarchia spagnuola e nella fede cattolica, eb bero una scuola unica di pittura. I pittori olandesi dipingevano come i pittori belgi; studiavano nel Belgio, in Germania, in Italia; l’Heemskerk imitava il Michelangelo; il Bloemaert, il Correggio; il Moro, il Tiziano, per non accennarne molti altri; ed erano imitatori pedanti, che congiungevano all’esagerazione dello stile italiano una certa rozzezza tedesca, di che riusciva una pittura bastarda, inferiore ancora a quella primissima, quasi infantile, rigida nel disegno, cruda nel colorito e mancante affatto di chiaroscuro, ma aliena, almeno, dall’imitazione, che era stata come un preludio lontano della vera arte olandese.

Colla guerra d’indipendenza, la libertà, la riforma, anche la pittura si rinnova; cade, colla tradizione religiosa, la tradizione artistica; il nudo, le ninfe, le madonne, i santi, l’allegoria, la mitologia, l’ideale, tutto il vecchio edifizio rovina; l’Olanda, animata da una nuova vita, prova il bisogno di manifestarla e di espanderla in una maniera nuova; questo piccolo paese divenuto ad un tratto così glorioso e formidabile sente il desiderio d’illustrare sè medesimo; le facoltà che si sono rafforzate ed eccitate in quella grande impresa di creare una patria, un mondo reale, traboccano, ora che l’impresa è compiuta, e creano un mondo immaginario; le condizioni del paese son favorevoli al risorgimento dell’arte; i supremi pericoli sono scongiurati; v’è la sicurezza, la prosperità, un avvenire splendido; gli eroi hanno fatto il dover loro, possono farsi innanzi gli artisti; l’Olanda, dopo tanti sacrifizi e tante sventure, uscita vittoriosa dalla lotta, leva il viso in mezzo ai popoli, e sorride: e quel sorriso è l’arte.

Quale dovess’essere quest’arte, si potrebbe indovinare, quando non ce ne fosse rimasto alcun monumento. Un popolo pacifico, operoso, pratico, riabbassato continuamente, per dirla colle parole d’un gran poeta tedesco, a una realtà prosaica, dalle occupazioni d’una vita volgare e borghese; che coltiva la sua ragione a spese della sua immaginazione; che vive, per conseguenza, più d’idee chiare che di immagini belle; che rifugge dalle astrazioni, che non si slancia col pensiero di là dalla natura, colla quale è in lotta perpetua; che non vede che ciò che è, che non gode che di ciò che possiede, che fa consistere la sua felicità nella quiete agiata e onestamente sensuale d’una vita senza passioni violente e senza desiderii scomposti; questo popolo doveva avere un sentimento tranquillo anche dell’arte, amare un’arte che ricreasse senza scuotere, che parlasse più ai sensi che allo spirito, un’arte riposata, precisa, squisitamente materiale come la sua vita; l’arte, in una parola, realista, nella quale egli si potesse specchiare e vedersi tal quale era, ed era contento di essere.

Gli artisti cominciarono a ritrarre quello che cadeva prima sotto i loro occhi: la casa. I lunghi inverni, le pioggie ostinate, l’umidità, la variabilità continua del clima, costringono l’olandese a stare una gran parte dell’anno e del giorno in casa. Que sta casa piccina, questo guscio, egli l’ama assai più di noi, appunto perchè ne ha maggior bisogno e, ci vive di più: lo provvede di tutti i comodi, lo accarezza, ci si crogiola: gli piace guardare, dalle finestre ben tappate, la neve che cade e la pioggia che diluvia, e dire:—Infuria, tempaccio, io sono al caldo e al sicuro!—In questo suo guscio, accanto alla sua buona massaia, in mezzo ai suoi figliuoli, passa le lunghe serate dell’autunno e dell’inverno, mangiando molto, bevendo molto, fumando molto, ricreandosi con un’onesta allegria delle cure della giornata. I pittori olandesi ritraggono queste case e questa vita in quadretti proporzionati alle piccole pareti a cui debbono essere appesi: le stanze da letto, che fanno sentire il gusto del riposo, le cucine, le tavole apparecchiate, i faccioni freschi e ridenti delle madri di famiglia, gli uomini in panciolle intorno al focolare; e da realisti coscienziosi che non iscordano nulla, ci mettono il gatto che sonnecchia, il cane che sbadiglia, la gallina che razzola, la scopa, i legumi, i tegami sparsi, i polli spennacchiati. Questa vita la ritraggono poi in tutte le classi sociali e in tutte le sue scene: la conversazione, il ballo, le orgie, i giuochi, le feste; e così diventan famosi i Terburg, i Metzu, i Netscher, i Dov, i Mieris, gli Steen, i Brouwer, i Van Ostade.

Dopo la casa, si rivolgono alla campagna. Il clima nemico non concede che un tempo assai breve per ammirare la natura; ma per questo appunto gli artisti olandesi l’ammirano meglio; salutano la primavera con una gioia più viva; e quel sorriso fug gitivo del cielo si stampa più profondamente nella loro fantasia. Il paese non è bello; ma è due volte caro, perchè strappato al mare e agli stranieri; essi lo ritraggono con amore; creano il paesaggio semplice, ingenuo, pieno d’un senso intimo che non hanno in quel tempo nè i paesaggi italiani nè i belgi. Il loro paese, piano e monotono, offre ai loro occhi attenti una varietà meravigliosa. Colgono tutte le variazioni del cielo, si valgon dell’acqua che è per tutto, che riflette, dà grazia e freschezza, e lumeggia ogni cosa; non han montagne, mettono in fondo ai quadri le dune; non han boschi, ma vedono, fanno vedere i misteri d’un bosco in un gruppo d’alberi; e animano tutto questo coi loro bellissimi animali e colle loro vele. Il soggetto d’un loro quadro è ben povero: un mulino a vento, un canale, un cielo grigio; ma a quante cose fa pensare! Alcuni di loro, non paghi di quella natura, vengono a cercare in Italia i colli, i cieli luminosi e le rovine illustri; e n’esce una schiera di artisti eletti, come i Both, i Swanevelt, i Pynacker, i Breenberg, i Van Laer, gli Asselyn; ma la palma rimane ai paesisti olandesi, al Wynants, il pittore del mattino, al Van der Neer, il pittore della notte, al Ruysdael il pittore della melanconia, al Hobbema l’illustratore dei mulini, delle capanne e degli orti, e ad altri che si ristrinsero ad esprimere l’incanto della loro modesta natura.

Insieme al paesaggio, nasce un altro genere di pittura, particolarmente proprio dell’Olanda: la pit tura degli animali. Gli animali son la ricchezza del paese; è quella stupenda razza bovina che non ha rivali in Europa, nè per fecondità nè per bellezza. Gli Olandesi, che tanto le debbono, la trattano, si può dire, come un ceto della popolazione; amano i loro animali, li lavano, li pettinano, li vestono. Essi si vedono per tutto; si specchiano in tutti i canali; abbelliscono il paese picchiettando d’innumerevoli macchiette nere e bianche le immense praterie; danno a ogni luogo un’aria di pace e di agiatezza che mette in cuore non so che sentimento di dolcezza arcadica, di serenità patriarcale. Gli artisti olandesi studiano questi animali in tutte le loro varietà, in tutte le loro abitudini, ne indovinano, per così dire, la vita intima, i sentimenti, e vivificano con essi la bellezza quieta dei loro paesaggi. Il Rubens, lo Snyders, il Paolo de Vos, molti altri pittori belgi, avevano ritratto gli animali con maestria ammirabile; ma tutti son superati dagli olandesi Van de Velde, Berghem, Karel du Jardin, e dal principe dei pittori di animali, Paolo Potter, il cui Toro famoso del Museo dell’Aja doveva aver l’onore d’esser posto, nel palazzo del Louvre, dinanzi alla Trasfigurazione di Raffaello.

In un altro campo di pittura dovevano grandeggiare gli Olandesi: il mare. Il mare, loro nemico, loro potenza e loro gloria, che sovrasta alla loro patria, che la tormenta e la teme, ed entra da mille parti e in mille forme nella loro vita; quel Mare del Nord turbolento, pieno di colori sinistri, illuminato da tra monti di una mestizia infinita, che flagella una riva desolata, doveva soggiogare la immaginazione degli artisti olandesi. Essi, infatti, passano lunghe ore sulla spiaggia a contemplare la sua bellezza tremenda, si avventurano fra le onde per studiare la tempesta, comprano dei bastimenti e navigano colla loro famiglia osservando e dipingendo, seguono le flotte nazionali nelle guerre e assistono alle battaglie, e così nascono dei pittori di marina, come Guglielmo Van de Velde il vecchio e Guglielmo il giovane, il Backuisen, il Dubbels, lo Stork.

Un altro genere di pittura doveva sorgere in Olanda, come espressione del carattere del popolo e dei costumi repubblicani. Un popolo che senza grandezza aveva fatto tante grandi cose, come dice il Michelet, doveva avere la sua pittura, se così può dirsi, eroica, destinata ad illustrare uomini ed avvenimenti. Ma questa pittura, appunto perchè quel popolo era senza grandezza, o per meglio dire, senza la forma della grandezza, modesto, inclinato a considerar tutti uguali dinanzi alla patria, perchè tutti avevano fatto il loro dovere, aborrente dalle adulazioni e dalle apoteosi che glorificano in un solo le virtù e il trionfo di molti; questa pittura doveva illustrare non già pochi uomini eccelsi e pochi fatti straordinarii; ma tutte le classi della cittadinanza colte nelle congiunture più ordinarie e pacifiche della vita borghese. Di qui, i grandi quadri che rappresentano cinque, dieci, trenta persone insieme, archibugieri, sindaci, ufficiali, professori, magistrati, am ministratori, seduti o ritti intorno a una tavola, banchettando o discutendo, tutti di grandezza naturale, tutti ritratti fedelissimi, visi gravi, aperti, sui quali risplende l’intima serenità della coscienza sicura, sui quali s’indovina, più che non si veda, la nobiltà della vita consacrata alla patria, il carattere di quell’epoca forte e operosa, le virtù maschie di quelle generazioni prestanti; tutto questo rilevato dal bel costume del rinascimento che accoppia così mirabilmente la gravità e la grazia, quelle gorgiere, quei giustacori, quei mantelli neri, quelle ciarpe di seta, i nastri, le armi, le bandiere. E in questo campo facevan capolavori i Van der Helst, gli Hals, i Govaert Flink, i Bol.

Scendendo dalla considerazione dei varii generi di pittura, alla maniera speciale, ai mezzi di cui si valsero gli artisti nel trattarli, se ne presenta subito uno principalissimo, che è come il tratto distintivo della scuola olandese: la luce.

La luce, in Olanda, per le condizioni particolari in cui si manifesta, doveva far nascere una maniera particolare di pittura. Una luce pallida, ondeggiante con una mobilità meravigliosa a traverso un’atmosfera pregna di vapori, un velo nebuloso continuamente e bruscamente lacerato, una lotta perpetua fra i raggi e le ombre, era uno spettacolo che doveva attirar l’attenzione dei pittori. Essi cominciavano a osservare e a ritrarre tutte codeste inquietudini del cielo, codesta lotta, che anima d’una vita varia e fantastica la solitudine della natura olandese; e nel ritrarla ch’essi facevano, codesta lotta passò nelle loro menti, e allora, invece di ritrarre, crearono. Allora fecero cozzare essi medesimi i due elementi; accumularono le tenebre, per saettarle, per romperle con ogni maniera di rilievi luminosi e di sbattimenti di luce; per farci guizzare e morire dei raggi di sole, dei riflessi crepuscolari, dei chiarori di lucerne, digradanti con sfumature delicatissime in ombre misteriose; e popolare queste ombre di forme confuse, che si vedono e non si distinguono; e creare così ogni sorta di giochi, di contrasti, di enigmi, d’effetti di chiaroscuro inaspettati e strani. E in questo campo fecero prodigi veri, fra gli altri moltissimi, Gherardo Dow, l’autore del quadro famoso delle quattro candele, e il grande, magico, sovrumano illuminatore, Rembrandt.

Un altro carattere principalissimo della pittura olandese doveva essere il colorito. Oltre la ragione così generalmente riconosciuta che in un paese dove non sono orizzonti montuosi, non prospetti accidentati, non grandi colpi d’occhio, non forme generali, insomma, che si prestino al disegno, l’occhio dell’artista dev’essere maggiormente sedotto dai colori; e che ciò deve tanto più seguire in Olanda, dove la luce incerta, la vaga bruma che vela continuamente l’aria, ammollisce, sfuma i contorni degli oggetti, onde l’occhio, trascura la forma che non può bene afferrare, e si fissa di preferenza nel colore come l’attributo principale che gli offre la natura; oltre queste ragioni, v’è quella che in un paese piano, uniforme e grigio come l’Olanda, s’ha bisogno di colori, come in un paese meridionale s’ha bisogno dell’ombra. Gli artisti olandesi non fecero che andar dietro al gusto imperioso del loro popolo, che tinse di colori vivissimi le case, i bastimenti, in alcuni luoghi i tronchi degli alberi, le palafitte, gli stecconati della campagna; che si veste, che si vestiva molto più allora di colori allegri; che ama i tulipani e i giacinti fino alla pazzia. E così tutti i pittori olandesi furon coloristi potenti, Rembrandt il primo.

Il realismo, favorito dal carattere olandese calmo e lento, che consente agli artisti di padroneggiare la propria foga, e aiutato dalla loro natura che mira all’esatto e rifugge dal fare le cose a mezzo, doveva dare alla pittura di quel popolo un altro tratto distintivo: la finitezza; e questa finitezza doveva esser condotta dagli Olandesi all’ultimo grado del possibile. Si dice con ragione che nei quadri olandesi si trova la prima qualità di quel popolo: la pazienza. Ogni cosa vi è rappresentata con la minutezza del dagherrotipo: i mobili con tutte le loro venature, le foglie con tutte le loro fibre, i tessuti con tutti i loro fili, le rappezzature con tutti i loro punti, gli animali con tutti i loro peli, i visi con tutte le loro rughe; ogni cosa finito con una precisione microscopica, da far credere che sia l’opera del pennello d’una fata, o che il pittore ci abbia perduto la vista e la ragione. Difetto, in fondo, piuttosto che pregio, poichè l’ufficio della pittura è di ritrarre non quello che è, ma quello che l’occhio vede, e l’occhio non vede, ogni cosa; ma è difetto portato a una così meravigliosa eccellenza, che lo si ammira senza lamentarlo, e non s’osa desiderare che non ci sia. E per questo rispetto furon famosi come prodigi di pazienza il Dow, il Mieris, il Potter, il Van der Helst, e più o meno, tutti i pittori olandesi.

Ma il realismo che dà alla pittura olandese una impronta così originale, e delle qualità così ammirabili, è pure la radice dei suoi difetti più gravi. I pittori olandesi, solleciti soltanto di ritrarre la verità materiale, non danno alle loro figure che l’espressione di sentimenti fisici. Il dolore, l’amore, l’entusiasmo e i mille affetti delicatissimi che non han nome, o pigliano un nome diverso dalle diverse cagioni che li fan nascere, li esprimono raramente o non li esprimono mai. Per loro il cuore non batte, l’occhio non piange, la bocca non trema. Nei loro quadri manca tutta una parte, la più potente e la più nobile, dell’anima umana. Di più, con quel ritrarre fedelmente ogni cosa, anche il brutto, e specialmente il brutto, finiscono per esagerare anche, questo, convertono i difetti in deformità, i ritratti in caricature; calunniano il tipo nazionale; danno ad ogni figura umana un aspetto sgraziato e burlesco. Per aver dove mettere queste figure, son costretti a sceglier soggetti triviali; quindi il soverchio numero di quadri che rappresentano bettole e beoni con faccie grottesche, instupidite, in atteggiamenti sguaiati, donnaccie, vecchi spregevolmente ridicoli; scene in cui par di sentir le grida squarciate, o le parole oscene. Si direbbe, a guardar quei quadri, che l’Olanda è abitata dal popolo più deforme e più scostumato della terra. Di qui i pittori discendono ancora a maggiori licenze. Lo Steen mette un lavativo in mezzo a un quadro; il Potter dipinge una vacca che orina; il Rembrandt disegna persone che fanno gli offici di sotto; il Brouwer, rappresenta ubriachi che fan la ricevuta; il Torrentius manda in giro dei quadri così spudorati che gli Stati d’Olanda li fan raccogliere e bruciare. Ma anche lasciando questi eccessi, in un Museo d’Olanda non si trova quasi mai nulla che sollevi l’anima, che desti un movimento di pensieri alti e gentili. Si ammira, si gode, si ride, si rimane pensosi dinanzi a qualche paesaggio; ma uscendo, si sente che non s’è provato un piacere intero, si desidera qualche cosa, si prova come un bisogno di vedere dei visi belli e di leggere dei versi ispirati, e qualche volta vien fatto di mormorare, quasi senz’addarsene:—Oh Raffaello!

Infine, bisogna ricordare ancora due grandi pregi di questa pittura: la sua varietà e la sua importanza come espressione, come specchio, per così dire, del paese. Se si toglie il Rembrandt col gruppo dei suoi imitatori, quasi tutti gli altri artisti sono differentissimi fra loro; nessun’altra scuola presenta forse un così gran numero di maestri originali. Il realismo dei pittori olandesi nacque dal loro amore comune per la natura; ma ognuno ha fatto trasparire nell’opera propria una maniera d’amore tutta sua; ognuno ha reso un’impressione diversa, che dalla natura aveva ricevuta; ognuno, partendo dal punto comune ch’era il culto della verità materiale, è arrivato a una mèta che non è quella degli altri. Il loro realismo poi, spingendoli a tutto ritrarre, ha fatto sì che la pittura olandese riuscisse a rappresentare l’Olanda più completamente di quello che nessun’altra scuola di pittura abbia mai fatto di nessun altro paese. Se sparisse, è stato detto, fuor che l’opera dei pittori, ogni altra testimonianza visibile dell’esistenza dell’Olanda nel secolo XVII,—il suo gran secolo—la si troverebbe nei quadri intera: le città, le campagne, i porti, le navi, i mercati, le botteghe, i costumi, gli utensili, le armi, la biancheria, le merci, le stoviglie, i cibi, i piaceri, le abitudini, le credenze religiose e le superstizioni, le qualità e i difetti del popolo; e questo che è un grande pregio per una letteratura, non è pregio minore per la sua arte sorella.

Ma nella pittura olandese v’è un gran vuoto, del quale non basta a dare una ragione compiuta l’indole pacifica e modesta del popolo. Questa pittura così intimamente nazionale ha trascurato, fuor che qualche battaglia navale, tutte le grandi gesta della guerra d’indipendenza, fra le quali sarebbero bastati gli assedi di Leida e di Haarlem a ispirare, a suscitare una legione d’artisti. Una guerra di quasi un secolo, piena di vicende strane e terribili, non è stata ricordata in un solo quadro memorabile. Questa pittura così varia e così coscienziosa nel ri trarre il paese e la sua vita, non ha rappresentato una scena di quella grande tragedia, come la chiamò, profetando, Guglielmo il Taciturno, che destò nel popolo olandese, per sì lungo tempo, tante diverse commozioni di terrore, di dolore, d’ira, di gioia, di orgoglio!

Lo splendore dell’arte in Olanda s’offuscò con quello della grandezza politica. Quasi tutti i grandi pittori nacquero nei primi trent’anni del secolo XVII, o negli ultimi del XVI; tutti erano morti dopo i primi dieci anni del XVIII; e in questo secolo non ne sorse alcun altro; l’Olanda aveva esaurito la sua fecondità. Già verso la fine del secolo XVII, il sentimento nazionale si era cominciato a infiacchire, il gusto si corrompeva, l’ispirazione dei pittori declinava colla energia morale del paese. Nel secolo XVIII, gli artisti, come se fossero stanchi della natura, ritornano alla mitologia, al classicismo, alla convenzione; l’immaginazione si raffredda, lo stile s’impoverisce, ogni favilla del genio antico si spegne; l’arte olandese mostra ancora al mondo i fiori meravigliosi del Van Huysum, l’ultimo grande innamorato della natura, e poi ripiega la mano stanca, e quei fiori ricadono sulla sua tomba.

L’attuale Museo di pittura di Rotterdam non contiene che un piccolo numero di quadri, tra i quali pochissimi dei primi artisti, e nessuno dei grandi capolavori della pittura olandese. Trecento tele e milletrecento disegni furono distrutti da un incen dio nel 1864; e quanto vi si trova ora, proviene in gran parte da un Jacob Otto Boymans, che lo lasciò per testamento alla città di Rotterdam.

In questo Museo, dunque, si può entrare per far conoscenza personale di qualche artista, piuttosto che per ammirare la pittura olandese.

In una delle prime sale si vedono alcuni schizzi di battaglie navali, segnati del nome Willem Van de Velde, considerato come il più grande pittore di marine dei suoi tempi, figlio d’un Willem pittore di marine egli pure, chiamato il vecchio, per distinguerlo da lui, chiamato il giovane. Padre e figlio ebbero la fortuna di vivere al tempo delle grandi guerre marittime tra l’Olanda, l’Inghilterra e la Francia; e di poter veder le battaglie coi propri occhi. Gli Stati d’Olanda avevan messo a disposizione di Van de Velde il vecchio una piccola fregata; il figlio accompagnò il padre; e tutti e due fecero i loro schizzi in mezzo al fumo delle cannonate, spingendosi qualche volta tanto innanzi col bastimento, da indurre gli ammiragli a ordinar loro di allontanarsi. Van de Velde il giovane superò di molto il padre, e non fece per lo più che piccoli quadri: un cielo grigio, un mar calmo e qualche vela; ma così fatti che, per poco che vi si fissino gli occhi, si sente l’odor salìno delle acque e si scambia la cornice per una finestra. Questo Van de Velde appartiene a quel gruppo di quei pittori olandesi che amarono l’acqua con una sorta di furore e che dipinsero, si può dire, sull’acqua. Di questi era pure il Backuisen, pittore di marine ch’ebbe gran voga ai suoi tempi, e che Pietro il Grande, nel tempo che passò in Amsterdam, scelse a suo maestro. Il quale Backuisen si rischiava, per quel che si dice, sur una barchetta, in mezzo al mare in tempesta, per osservare da vicino i movimenti dell’onde, e metteva a un tal rischio sè e i barcaioli, che questi, più solleciti della loro pelle che delle sue tele, lo riconducevano a terra suo malgrado. Giovanni Griffier faceva di più. Aveva comperato a Londra un piccolo bastimento, l’aveva mobiliato come una casa, ci aveva installato la moglie e i figliuoli, e navigava così per conto proprio in cerca di vedute. Avendo una tempesta spezzato il suo bastimento contro un banco di sabbia e distrutto tutto l’aver suo, egli, salvo per miracolo colla famiglia, andò a stare a Rotterdam; ma annoiatosi in breve tempo della vita di terra, comperò una barcaccia sconquassata, ricominciò a navigare, rischiò una seconda volta la vita vicino a Dordrecht, e navigò ancora.

In fatto di marine, il Museo di Rotterdam non ha presso che nulla; ma vi è degnamente rappresentato il paesaggio da due quadri del Ruisdael, il più grande dei paesisti olandesi nel genere campestre. Son due dei suoi soggetti favoriti: luoghi boscosi e solitarii, che ispirano, come tutti gli altri suoi quadri, un sentimento di vaga melanconia. La grande potenza di quest’artista, che sovrasta alla scuola olandese per una finezza d’anima e una superiorità d’educazione singolare, è il sentimento. Fu detto giustamente ch’egli si servì del paesaggio per esprimere le sue amarezze, le sue noie, i suoi sogni, e che ha contemplato il proprio paese con una sorta di tristezza amara, come d’un infermo, e che creò i boschetti per nascondervi questa tristezza. La luce velata dell’Olanda è l’immagine della sua anima; nessuno ne sentì più squisitamente la dolcezza melanconica; nessuno rappresentò meglio di lui, con un raggio di luce languida, il sorriso d’una creatura afflitta. E appunto per questa sua natura eccezionale, non fu stimato dai propri concittadini che molto tempo dopo la sua morte.

Accanto a uno dei quadri del Ruisdael v’è un quadro di fiori d’una pittrice, Rachele Ruysch, moglie d’un ritrattista di grido, nata nella seconda metà del decimosesto secolo, e morta col pennello in mano, all’età di ottant’anni, dopo aver provato a suo marito e al mondo che una donna di giudizio può coltivare appassionatamente le belle arti e trovare il tempo di mettere al mondo e di allevare dieci figliuoli.

E poichè ho ricordato la moglie d’un pittore, noto di volo che ci sarebbe da fare un bel libro sulle mogli dei pittori olandesi, sia per la varietà d’avventure che presentano, sia per la parte importante che ebbero nella storia dell’arte. Un buon numero si conoscono di persona perchè molti pittori fecero il loro ritratto, insieme col proprio, e con quello dei figliuoli, del gatto e della gallina; e di quasi tutte parlano i biografi, smentendo o confermando di cerie che corsero intorno alla loro condotta. Qualcuno s’arrischiò a dire che la maggior parte di esse ebbero dei gravi torti verso la pittura. A me pare che dei torti ce ne siano stati da una parte e dall’altra. Quanto al Rembrandt, si sa che il periodo più felice della sua vita fu quello che scorse fra il suo primo matrimonio e la morte di sua moglie, figlia d’un borgomastro di Leuwarde; la posterità deve dunque della gratitudine a sua moglie. Sappiamo che il Van der Helst sposò, già avanzato in età, una bella giovinetta sulla quale non ci fu nulla a ridire; e la posterità deve ringraziare anche lei che rallegrò la vecchiaia di quel grande artista. Non si può parlare di tutte negli stessi termini, è vero. Delle due mogli dello Steen, per esempio, la prima era una testa leggiera, che gli lasciò andare a male la birreria che aveva ereditata da suo padre a Delft, e la seconda, per quel che si dice, gli fu infedele. La seconda moglie dell’Heemskerk era una scroccona, tanto che il marito doveva andare attorno a domandar scusa delle sue malefatte. La moglie dell’Hondekoeter era una donna bizzarra e molesta, che lo costringeva a passar la sera nelle taverne per liberarsi dalla sua compagnia. La moglie del Berghem era un’avara insaziabile, che lo svegliava bruscamente quando lo trovava addormentato sui suoi pennelli, perchè lavorasse e guadagnasse, e il pover uomo era costretto a farle dei sotterfugi, quando riscuoteva i denari dei suoi quadri, per potersi comprare delle stampe. Per contro, non si fini rebbe più di citare, se si volessero ricordare i torti dei signori mariti. Il pittore Griffier costringe sua moglie a girare per il mondo in barca; il pittore Veenix domanda il permesso alla sua sposa d’andare a passare quattro mesi a Roma, e ci sta quattro anni; il pittore Karel du Jardin sposa una vecchia ricca per farsi pagare i debiti e la pianta quando glieli ha pagati; il pittore Molyn fa assassinare sua moglie per sposare una genovese. Lascio in dubbio se il povero Paolo Potter sia stato tradito, come alcuni affermano ed altri negano, dalla sposa che amava perdutamente, e se il gran pittore di fiori Huysum che si róse di gelosia, in mezzo alle ricchezze e alla gloria, per una moglie non più giovane nè bella, avesse fondati motivi di rodersi, o non si fosse piuttosto montata la testa senza ragione per le diceríe dei suoi rivali invidiosi. Per finir bene, ricordo onoratamente le tre mogli del pittore Eglon van der Neer, che lo coronarono di venticinque figliuoli, i quali non gli tolsero il tempo di dipingere un gran numero di quadri d’ogni genere, di fare parecchi viaggi e di coltivare i tulipani.

Vi sono nel Museo di Rotterdam parecchi piccoli quadri di Alberto Cuyp, un paesaggio, cavalli, galline, frutte; di quell’Alberto Cuyp che fece parte da sè stesso nell’arte olandese, che dipinse nel corso della sua vita quasi secolare ritratti, paesaggi, animali, fiori, scene d’inverno, lumi di luna, marine, quadri di figure, e lasciò in tutti i generi un’impronta originale; e che fu nondimeno, come quasi tutti i pittori olandesi del suo tempo, così poco fortunato, che fino al 1750, ossia più di cinquant’anni dopo la sua morte, non si pagavano più di cento lire quelli fra i suoi quadri, che ora si pagherebbero centomila, non in Olanda, ma in Inghilterra, dove si trovano al presente quasi tutte le opere sue.

D’un Cristo alla tomba dell’Heemskerk non metterebbe conto di far parola, se non fosse un appiglio per far conoscere l’artista, che fu uno dei più curiosi soggetti che siansi mai veduti sulla faccia della terra. Il Van Veen, poichè tale è il suo nome, nacque nel villaggio di Heemskerk sulla fine del secolo XV, e fiorì quindi nel periodo dell’imitazione italiana. Era figliuolo d’un contadino, e benchè si sentisse una certa disposizione per la pittura, era destinato a fare il contadino. Diventò pittore, come molti altri artisti olandesi, per un accidente. Suo padre era un uomo furioso e il figliuolo lo temeva quanto mai. Un giorno il povero Van Veen lasciò cadere in terra la brocca del latte, il padre gli s’avventò addosso, egli fuggì, si nascose e passò la notte fuor di casa. La mattina, sua madre lo trovò, convenne con lui che non sarebbe stata prudenza l’affrontare la collera paterna, gli diede un po’ di biancheria e un po’ di denari, e lo mandò con Dio. Il giovanetto si recò ad Haarlem, ottenne di entrare nella scuola d’un pittore di grido, studiò, riuscì, andò a perfezionarsi a Roma, non diventò un grande artista, chè anzi l’imitazione italiana gli nocque, trattò il nudo con rigidezza, ed ebbe uno stile manierato; ma fu un pittore fecondo e pagato, e non ebbe a rimpiangere la vita dei campi. Ma qui sta la sua originalità: era, per quel che ne dicono i suoi biografi, un uomo incredibilmente, morbosamente, pazzamente pauroso; a tal segno, che quando sapeva che dovevan passare gli archibugieri, saliva sui tetti e sui campanili, e a veder le armi nella strada, aveva ancora paura. E per chi la credesse una fiaba, c’è un fatto che può indurre a ritenerla vera: ed è che trovandosi egli nella città di Haarlem quando gli Spagnuoli vi posero l’assedio, i magistrati, che conoscevano la sua debolezza, gli permisero di fuggire dalla città prima che si venisse alle armi, forse perchè prevedevano che sarebbe morto di spaghite; ed egli si valse di quel permesso, e fuggì ad Amsterdam, lasciando i suoi concittadini nelle péste.

Altri pittori olandesi,—poichè sono a parlare degli uomini e non dei quadri—dovettero, come l’Heemskerk, a un accidente d’esser riusciti pittori. L’Everdingen, paesista di prim’ordine, lo dovette a una tempesta, che gettò il suo bastimento sul lido della Norvegia, dove egli rimase, s’ispirò a quella grande natura e creò un genere di paesaggio originale. Cornélis Vroom dovette pure la sua fortuna a un naufragio; era partito per la Spagna, con alcuni quadri religiosi, il bastimento naufragò vicino alle coste del Portogallo, il povero artista si salvò con altri in un’isola disabitata, stettero due giorni senza mangiare, si consideravan come perduti; quando furono inaspettatamente soccorsi dai religiosi di un convento della costa, ai quali il mare aveva portato insieme alla carcassa del bastimento, i quadri del naufragio, ch’essi religiosi avevano trovato ammirabili; e così il Cornélis fu raccolto, ospitato, stimolato a dipingere, e quella profonda emozione del naufragio diede al suo ingegno un impulso nuovo e potente che lo rese artista vero. E un altro, Hans Fredeman, il pittore famoso degl’inganni, quello che dipinse così maestrevolmente delle colonne sopra i battenti della porta d’una sala, che Carlo V, voltatosi, appena entrato, a guardare, credette che la parete si fosse chiusa per incanto dietro di lui; quell’Hans Fredeman che dipingeva delle palizzate che facevan tornare indietro della gente, e degli usci su cui si posava la mano per aprire, dovette la sua fortuna a un libro d’architettura del Vitruvio che ebbe per caso da un falegname.

V’è un bel quadretto dello Steen, che rappresenta un medico il quale finge di far l’estrazione della pietra a un malato immaginario: una vecchia raccoglie le pietre in una catinella, il malato strilla disperatamente e alcuni curiosi guardano sorridendo da una finestra.

Quando si dica che questo quadro fa dare in uno scoppio di risa, se ne dice tutto quello che è utilmente dicibile. Questo Steen è, dopo il Rembrandt, il più originale pittore di figure della scuola olandese; è uno di quei pochissimi artisti che, una volta conosciuti, siano o non siano consentanei alla nostra indole, si ammirino come grandi o si ritengano degni soltanto dei secondi onori, non importa: rimangono impressi, fitti, immobili nella nostra mente per tutta la vita. Dopo aver visto i suoi quadri, non è più possibile vedere un ubriaco, un buffone, uno sciancato, un mostriciattolo, una faccia deforme, una smorfia ridicola, un atteggiamento grottesco, senza ricordarsi di qualcuna delle sue figure. Tutte le gradazioni, tutte le goffaggini dell’ubriachezza, tutto quello che v’è di grossolano e di sguaiato nell’orgia, la frenesia dei piaceri più bassi, il cinismo del vizio più volgare, le buffonate della canaglia più sfrenata, tutte le più bestiali emozioni, tutti gli aspetti più ignobili della vita della bettola e del trivio, ei li ha ritratti colla brutalità e l’insolenza d’un uomo senza scrupoli, e con una forza comica, una foga, una, direi quasi, ebbrezza d’ispirazione, che non si può esprimer con parole. Furon scritti su di lui molti volumi, e pronunziati giudizi molto diversi. I suoi più caldi ammiratori gli hanno attribuito un’intenzione morale: lo scopo di far prender in odio la crapula dipingendola, come fece, con colori ributtanti, a somiglianza degli Spartani che mostravano gl’Iloti ubriachi ai figliuoli. Altri non videro in quella maniera di pittura che l’espressione spontanea e spensierata dell’indole e dei gusti dell’artista, che rappresentarono come un crapulone volgare. Comunque sia stato, è fuor di dubbio che negli effetti che produce, la pittura dello Steen si può considerare una satira del vizio; e in questo egli è superiore a quasi tutti gli altri artisti olandesi, che si ristrinsero a un naturalismo esteriore. Quindi fu chiamato l’Hogart olandese, il filosofo gioviale, il più profondo osservatore dei costumi del suo paese, e fra i suoi ammiratori, ve ne fu uno, il quale disse che se lo Steen fosse nato a Roma invece che a Leida e avesse avuto a maestro Michelangelo invece di Van Goyen, sarebbe riuscito uno dei più grandi pittori del mondo; e un altro che trovò non so che analogia fra lui e Raffaello. Meno generale è l’ammirazione per le qualità tecniche della sua pittura, nella quale non si trova la finezza e il vigore di altri artisti, come dell’Ostade, del Mieris, del Dow. Ma anche considerando l’indole satirica dell’opera sua, si può dire che lo Steen s’è spinto sovente di là dal suo scopo, se veramente ebbe uno scopo. La sua foga burlesca ha spesse volte soverchiato in lui il sentimento della realtà: le sue figure invece di riuscir soltanto ridicole, riuscirono mostruose, appena umane, somiglianti spesso più a bestie che ad uomini; ed egli moltiplicò queste figure a segno da destare qualche volta, invece del riso, la nausea, e un sentimento quasi di sdegno per la natura umana oltraggiata. Il più delle volte, però, l’effetto più forte è il riso, un riso sonoro, irresistibile, che ci scappa anche essendo soli, e che richiama la gente dai quadri vicini. È impossibile spingere a un più alto grado di potenza l’arte di schiacciar i nasi, di storcer le bocche, di contrarre i colli, di reticolare le rughe, d’istupidire i visi, d’attaccare gobbe e pappagorgie, di far sghignazzare, ruttare, barcollare, stramazzare, di esprimere nel lampeggiamento d’una pupilla semispenta l’ebetismo e la lussuria, di rivelare l’abbrutimento d’un uomo in un sorriso e in un gesto, di far sentire il puzzo della pipa, udire le risataccie, indovinare i discorsi sciocchi o turpi, capire, in una parola, la bettola e la canaglia; è impossibile, dico, portare quest’arte più alto di quello che l’ha portata lo Steen.

Sulla sua vita ci furono e ci sono ancora delle, gran questioni. Si scrissero dei volumi per provare che fu un ubriacone, e dei volumi per provare che fu sobrio; e come sempre, si esagerò in un senso e nell’altro. Tenne una birreria a Delft, non fece affari, mise su una bettola e fu peggio. Si dice che n’era lui il più assiduo frequentatore, che asciugava tutto il vino, e che quando la cantina era vuota, toglieva l’insegna, chiudeva la porta, si metteva a dipingere in furia, poi vendeva i quadri, ricomperava vino e ricominciava la vita di prima. Si dice persino che pagasse addirittura coi quadri, e che per conseguenza tutti i suoi quadri si trovassero in casa di mercanti di vino. E difficile, veramente, spiegare come, essendo quasi sempre in bernecche, abbia potuto fare un così grande numero di quadri ammirabili; ma non è men difficile capire in qual maniera si sarebbe compiaciuto tanto di tali soggetti se avesse menato una vita sobria e ordinata. Certo è che, soprattutto negli ultimi suoi anni di vita, fece ogni sorta di stravaganze. Studiò da principio alla scuola di Van Goyen, paesista di grido; ma il genio operò assai più in lui che lo studio; egli indovinò le regole dell’arte sua; e se qualche volta ha dipinto un po’ troppo nero, come dice uno dei suoi critici, la colpa è di qualche bottiglia di più bevuta a desinare.

Non è lo Steen il solo pittore olandese che abbia la reputazione, meritata o no, di beone. Vi fu un tempo in cui quasi tutti gli artisti passavano una buona parte della giornata nelle taverne, pigliavano cotte favolose, venivano alle mani, ne uscivano pésti e sanguinosi. In un poema sulla pittura di Karel van Mander, il primo che scrisse la storia dei pittori dei Paesi Bassi, v’è un passo contro il vizio dell’ubriachezza e l’abitudine delle risse, che dice fra le altre cose: siate sobrii e fate che al malaugurato proverbio: «Crapulone come un pittore» si sostituisca: «Temperante come un artista.» Il Mieris, per citare soltanto i più famosi, fu un bevitore emerito; il Van Goyen, un briachella; Francesco Halz, maestro del Brouwer, una spugna da vino; il Brouwer, un bettolante incorreggibile; Guglielmo Cornélis e Hondekoeter, devotissimi anch’essi alla bottiglia. Degli altri minori si dice che parecchi morirono ubriachi. E anche nelle morti, la storia dei pittori olandesi presenta mille casi strani. Il grande Rembrandt morì nella strettezza, quasi all’insaputa di tutti; l’Holbema morì ad Amsterdam nel quartiere dei poveri; lo Steen morì nella miseria; Brouwer morì all’ospedale; Andrea Both ed Enrico Verschuring morirono annegati; Adriano Bloemaert morì in duello; Carel Fabritius morì per lo scoppio di una polveriera; Giovanni Scotel morì col pennello in mano d’un colpo d’apoplessia; il Potter morì tisico; Luca di Leida morì avvelenato. Così che tra le brutte morti, lo stravizio e la gelosia, si può dire che una gran parte dei pittori olandesi hanno avuto una sorte ben infelice.

V’è ancora nel Museo di Rotterdam una bella testa del Rembrandt; una scena di briganti del Wouwermam, gran pittore di cavalli e di battaglie; un paesaggio del Van Goyen, il pittore delle spiaggie morte e dei cieli plumbei; una marina del Backhuizen, il pittore delle tempeste; un quadro del Berghem, il pittore dei paesaggi ridenti; uno dell’Everdingen, il pittore delle cascate d’acqua e delle foreste; ed altri quadri italiani e fiamminghi.

Uscendo dal Museo incontrai una compagnia di soldati, i primi soldati olandesi ch’io vedevo, vestiti di scuro, senz’alcun ornamento vistoso, biondi dal primo all’ultimo, coi capelli lunghi, e quasi tutti con un’aria di bonomia che mi faceva parere strano che portassero delle armi. A Rotterdam, una città di più di centomila abitanti, ci sono trecento soldati di presidio! E dire che Rotterdam ha fama, tra le città dell’Olanda, d’essere la più turbolenta e la più pericolosa! Ci fu infatti, tempo fa, una dimostrazione popolare contro il Municipio, la quale non ebbe altra conseguenza che alcuni vetri rotti; ma in un paese come quello, che va coll’oriolo, doveva pa rere, e parve veramente un gran che; accorse la cavalleria dall’Aja, lo Stato ne fu commosso. Non si deve credere, però, che quel popolo sia tutto zucchero; che anzi, per confessione degli stessi Rotterdamesi, quella che il Carducci chiama santa canaglia è bravamente licenziosa, come in tante altre città di peggior reputazione; e la scarsità delle guardie di polizia è piuttosto un fomite alla licenza, che una prova, come qualcuno potrebbe credere, della pubblica disciplina.

Rotterdam, ho già detto, non è una città letterata nè artistica; è anzi una delle poche città olandesi nelle quali non è nato alcun grande pittore; sterilità che ha comune coll’intera provincia di Zelanda. Ma non è Erasmo la sua unica gloria letteraria. In un piccolo parco, che si stende a destra della città, sulla riva della Mosa, che è come l’Acquasola di Rotterdam, si vede una statua di marmo che i Rotterdamesi innalzarono al poeta Tollens, nato verso la fine dello secolo scorso, morto pochi anni sono. Questo Tollens, chiamato da alcuni, un po’ arditamente, il Béranger dell’Olanda, fu (e in questo solo rassomiglia al Béranger) uno dei poeti più popolari del paese; uno di quei poeti, come ve ne furono tanti in Olanda, semplici, morali, pieni di buon senso, più ricchi anzi di buon senso che d’ispirazione, che trattarono la poesia un po’ come si trattano gli affari, che non scrissero mai nulla che potesse spiacere ai loro savi parenti e ai loro savi amici, che cantarono il loro buon Dio e il loro buon re, che espressero il carattere del loro popolo tranquillo e pratico, badando sempre a dir delle cose giuste, piuttosto che delle cose grandi; e soprattutto, coltivando la poesia a tempo avanzato, da prudenti padri di famiglia, senza rubare un minuto alle faccende della loro professione. Come tanti altri poeti olandesi (di ben’altra natura, però, e di ben altro ingegno che il suo) come per esempio, il Vondel ch’era un cappellaio, l’Hooft ch’era governatore di Muyden, il Van Lennep ch’era procuratore fiscale, il Gravenswaert ch’era consigliere di Stato, il Bogaers ch’era avvocato, il Beets che è pastore, così il Tollens esercitava, insieme colle lettere, un’altra professione: era speziale a Rotterdam, e passava quasi tutta la giornata, anche negli ultimi suoi anni, nella spezieria. Era padre di famiglia e amava teneramente i suoi figliuoli, come si rileva dalle diverse poesie che fece in occasione della nascita del loro primo, secondo e terzo dente. Scrisse canzoni e odi sopra soggetti famigliari e patriottici—fra cui l’inno nazionale dell’Olanda, inno mediocre, che il popolo canta per le strade e i ragazzi nelle scuole—e un poemetto, che è forse la migliore delle sue opere, sopra la spedizione tentata dagli Olandesi verso la fine del secolo XVI nel mare del polo. Il popolo imparò a mente quasi tutte le sue poesie e l’amò e lo predilesse sempre come il suo più fedele interprete e il suo più affettuoso amico. Ma con tutto ciò il Tollens non è considerato in Olanda come un poeta di prim’ordine; molti non lo pongono nem meno fra quelli che seguono immediatamente i primi, e non son pochi quelli che gli rifiutano sdegnosamente la fronda sacra.

Del resto, se Rotterdam non è una città nè letteraria nè artistica, ha per compenso uno straordinario numero di istituzioni filantropiche, dei casini splendidi ove si trovan i principali giornali d’Europa, e tutti i comodi e i divertimenti d’una città ricca e civile.

Le osservazioni che ebbi occasione di fare sul carattere e sulla vita degli abitanti, cadranno più a proposito all’Aja. Dirò solo che osservai a Rotterdam, come in tutte le altre città olandesi, che nessuno lascia trasparire ombra di vanità nazionale parlando delle cose proprie. Quel: bello eh? che ne dite eh? che si sente ad ogni momento in altri paesi, là non si sente mai, nemmeno a proposito delle cose universalmente ammirate. Ogni volta ch’io dissi a un rotterdamese che la città mi piaceva, lo vidi fare un atto di leggero stupore. Parlando del loro commercio, delle loro istituzioni, non si lasciano mai sfuggire dalla bocca, non dico una espressione gonfia, ma nemmeno una parola che accenni vanto o compiacenza. Parlano quasi sempre di quello che faranno e quasi mai di quello che hanno fatto. Una delle prime domande che m’intendevo fare quando nominavo la mia patria era: “E le finanze?” Quanto al loro paese, osservai che sanno benissimo tutto quello che può esser utile di sapere, e pochissimo quello che può soltanto piacere di conoscere. Cento cose, cento punti della città che avevo osservati dopo ventiquattr’ore di soggiorno a Rotterdam, molti non li avevano mai veduti, il che prova che non c’è affatto l’uso di andare a zonzo e di guardare in aria. Quando partii, i miei conoscenti mi empirono le tasche di sigari, mi raccomandarono di far dei desinari succulenti e mi diedero dei consigli sulla maniera di viaggiare con economia. Accomiatandomi, non intesi nessuno di quei clamorosi: “Che peccato! ma scriva! ma torni! ma si ricordi di noi!” che mi risonavano all’orecchio in Spagna. Null’altro che strette di mano, uno sguardo e un a rivederci detto a fior di labbra.

La mattina che partii da Rotterdam, vidi nelle strade che attraversai per andare alla stazione della strada ferrata di Delft, uno spettacolo nuovo, tutto olandese: il ripulimento delle case, che si fa due volte la settimana, nelle prime ore della mattina. Tutte le serve della città, con una sopravveste color lilla tempestata di fiorellini, cuffia bianca, grembiale bianco, calze bianche e zoccoli bianchi, colle maniche rimboccate, lavoravano a lavare le porte, i muri e le finestre. Alcune, sedute coraggiosamente sui davanzali, lavavano i vetri colle spugne, volgendo le spalle alla strada, con mezzo il busto sporgente in fuori; altre, inginocchiate sui marciapiedi, nettavan le pietre col canovaccio; altre con siringhe, con schizzetti, con pompe munite di un lungo tubo di gomma elastica, come quelle che s’usano a innaffiare i giardini, stando nel mezzo della strada, vibravano contro le finestre del secondo piano dei vigorosi getti d’acqua, che ricadevano in pioggia dirotta; altre lavavan le vetrate con spugne e cenci legati in cima a canne altissime; altre strofinavan gli anelli e le lastre delle porte; altre, gli scalini delle scale; altre, i mobili portati fuor di casa; i marciapiedi erano ingombri di secchie, di secchiolini, di brocche, di innaffiatoi, di panche; sgocciolava acqua dai muri, correva acqua per la strada, da ogni parte s’incrociavano schizzi e zampilli. E, cosa singolare! mentre il lavoro in Olanda è lento e tranquillo in tutte le sue forme, quello presentava un aspetto affatto diverso. Tutte quelle ragazze avevano il viso acceso, entravano in casa, uscivano, salivano, scendevano, si sbracciavano con una sorta di furia, pigliando degli atteggiamenti acrobatici che facevano risaltare curve temerarie, senza badare a chi passava, se non quanto era necessario per tener lontana la gente, con occhiate gelose, dai marciapiedi e dai muri. Era insomma una gara, un furore di pulizia, una sorta di abluzione generale della città, che aveva qualcosa di puerile e di festoso, e facea fantasticare che fosse un rito d’una religione stravagante, che prescrivesse di purgare la città da qualche infezione misteriosa di spiriti maligni.

DELFT.

Andando da Rotterdam a Delft, vidi per la prima volta la campagna olandese.

È tutta una pianura, una successione di praterie verdi e fiorite, percorse da lunghe file di salici e sparse di gruppi di ontani e di pioppi. Qua e là si vedono punte di campanili, ali giranti di mulini a vento, armenti sparpagliati di grandi vacche bianche e nere, qualche pastore; e per vastissimi spazii, solitudine. Non v’è nulla che colpisca l’occhio, nulla che s’alzi, nulla che precipiti. Tratto tratto, in lontananza, passa la vela d’un bastimento, il quale scorrendo sur un canale che non si vede, pare che scorra sull’erba dei prati; e ora sparisce dietro gli alberi, ora riapparisce. La luce pallida dà alla campagna non so che di molle e di malinconico. Una bruma leggerissima fa parere ogni cosa lontana. V’è una sorta di silenzio per l’occhio, una pace di linee e di colori, un riposo di tutte le cose, nel quale sembra che lo sguardo illanguidisca e l’immaginazione si culli.

A poca distanza da Rotterdam si vede la città di Schiedam, circondata da altissimi mulini a vento che le dan l’aspetto d’una città forte coronata di torri; e in lontananza appariscono le torri del villaggio di Vlaardingen, che è una delle principali stazioni della gran pesca dell’aringa.

Da Schiedam a Delft considerai particolarmente i mulini a vento. I mulini olandesi non somiglian punto a quei decrepiti mulini che avevo visti un anno prima nella Mancia, i quali pare che stendano le loro magre braccia per chiedere soccorso al cielo e alla terra. I mulini olandesi sono grandi, forti e pieni di vita; e don Chisciotte, prima di assalirli, ci avrebbe pensato due volte. Alcuni sono in muratura, rotondi od ottagoni come torri medioevali; altri di legno, e presentano la forma d’una casetta confitta sul vertice d’una piramide. I più hanno il tetto coperto di stoppie, un terrazzino di legno che li circonda a mezza altezza, finestre colle tendine bianche, porte colorite di verde, e sulla porta, scritto l’uso a cui servono. Oltre ad assorbire le acque, essi fanno un po’ d’ogni cosa: macinano il grano, pestano i cenci, tritan la calce, frantuman le pietre, segan le legna, spremon le olive, polverizzano il tabacco. Un mulino equivale a un podere, e per fabbricarlo, per provvederlo di grano, di colza, di farina, d’olio, per mantenerlo in attività e metterne in commercio i prodotti, ci vuole una considerevole fortuna. Perciò in molti luoghi la ricchezza dei proprietarii si misura dal numero dei mulini; a mulini si calcolano le eredità; di una ragazza si dice che ha uno, due mulini a vento di dote, o due mulini a vapore, che è anche meglio; e gli speculatori, che ci son da per tutto, chiedono la mano della ragazza per sposare il mulino. Questa miriade di torri alate sparse per il paese, danno alla campagna un aspetto singolare; animano la solitudine; di notte, in mezzo agli alberi, hanno un’apparenza fantastica come d’uccelli favolosi che guardino il cielo; di giorno, da lontano, paiono enormi macchine di fuochi artificiali; girano, s’arrestano, s’affrettano, si rallentano; rompono il silenzio col loro tic tac sordo e monotono; e quando per caso s’incendiano, il che non è raro, specialmente i mulini da grano, formano una rota di fiamme, una pioggia furiosa di farina accesa, un turbinío di nuvoli di foco, un tumulto, uno splendore tremendo e magnifico, che dà l’idea d’una visione infernale.

Nel vagone, benchè ci fosse molta gente, non ebbi occasione di dire una parola, e neanco d’udirne. Eran tutti uomini maturi, con visi serii, che si guardavano in silenzio, gettando dei gran nuvoli di fumo a intervalli uguali, come se avessero voluto misurare il tempo col sigaro. Quando s’arrivò a Delft, scesi e salutai: qualcuno mi rispose con un leggero movimento delle labbra.

«Delft,» dice messer Ludovico Guicciardini, «si chiama così dalla fossa, o vuoi dir canale d’acque che dalla Mosa vi conducono, imperocchè essi chiamano vulgarmente una fossa Delft. È distante da Rotterdam due leghe: è Terra veramente grande & bellissima in tutte le parti, con buoni & belli edifitij & strade larghe & gioconde. Fu fondata da Gioffredo cognominato il Gobbo, duca di Lotharingia, il quale per circa quattro anni occupò la contea d’Hollanda.»

Delft è la città delle disgrazie. Verso la metà del secolo decimosesto un incendio la distrusse quasi interamente; nel 1654 ci scoppiò una polveriera che mandò in aria più di duecento case; e nel 1742, vi seguì un’altra catastrofe della stessa natura. Oltre a questo, ci fu assassinato Guglielmo il Taciturno nell’anno 1584. E per giunta, vi decadde, ne sparì quasi un’industria ch’era la sua gloria e la sua ricchezza: l’industria della maiolica, nella quale gli artisti olandesi avevan cominciato coll’imitare le forme e i disegni delle porcellane chinesi e giapponesi, e poi eran riusciti a far dei lavori ammirabili, che riunivano il carattere asiatico al carattere olandese, e si spandevano per tutta l’Europa settentrionale, ed oggi ancora sono ricercati dagli amatori di quell’arte, quasi altrettanto che i più bei lavori d’Italia.

Ora Delft non è più nè città d’industrie, nè città di commercio; e i suoi ventiduemila abitanti vivono in una pace profonda. Ma è una delle città più graziose e più olandesi dell’Olanda. Le strade son larghe, percorse da canali ombreggiati da due file d’alberi, fiancheggiate da casette rosse, pavonazze, rosee, listate di bianco, che sembran contente d’esser pulite; ad ogni crocicchio s’incontrano e si corrispondono due o tre ponti di pietra o di legno colle spallette tinte di bianco; non si vede che qualche barcone immobile che par che gusti la dolcezza dell’ozio; poca gente, le porte chiuse, nessun rumore.

Mi diressi verso la Nuova chiesa guardando qua e là se c’erano i famosi nidi delle cicogne; ma non ne vidi. La tradizione delle cicogne di Delft è però sempre viva, e non c’è viaggiatore che scriva di quella città senza rammentarla. Il Guicciardini la chiama «cosa memorabile e tale che di cosa simile non c’è forse memoria alcuna antica o moderna.» Il fatto avvenne al tempo del grande incendio che distrusse quasi tutta la città. V’erano in Delft innumerevoli nidi di cicogne. Bisogna sapere che le cicogne son gli uccelli prediletti dell’Olanda; gli uccelli del buon augurio, come le rondini; che son cercate da per tutto, perchè fanno la guerra ai rospi e ai topi; che i contadini piantano delle pertiche con su un gran disco di legno per attirarle a farvi il nido; e che in alcune città si vedon passeggiar per le strade. A Delft dunque ve n’erano dei nidi innumerevoli. Quando l’incendio scoppiò, che fu il tre di maggio, i cicognini erano già grandicelli; ma non potevano ancora volare. Vedendo avvicinarsi il fuoco, le cicogne padri e madri tentarono di portare in salvo i loro piccini; ma eran già troppo pesanti; e dopo aver fatto ogni sorta di sforzi disperati, i poveri animali stanchi e atterriti ci dovettero rinunziare. Avrebbero potuto salvarsi e abbandonare i piccini alla loro sorte, come fanno per lo più le creature umane in simili casi. Restarono invece nei nidi, strinsero i piccini intorno a sè, vi stesero sopra le ali come per ritardare almeno d’un momento la loro fine, e così aspettarono la morte, e rimasero esanimi in quell’atteggiamento amoroso ed altiero. E chi sa che in quel orribile fuggi fuggi dell’incendio, l’esempio del sacrifizio, del martirio volontario di quelle povere madri, non abbia ridato coraggio a qualche pusillanime che stava per abbandonare chi aveva bisogno di lui!

Nella grande piazza dov’è la nuova chiesa, rividi delle botteghe, che avevo già osservato a Rotterdam, nelle quali tutti gli oggetti che si possono attaccare l’uno all’altro, sono appesi fuor della porta o nell’interno, in modo da formare delle ghirlande, dei festoni, delle tende, di scarpe, per esempio, di pentole, d’innaffiatoi, di ceste, di secchiolini, che spenzolano dal soffitto fino quasi in terra e qualche volta nascondono quasi completamente il fondo della stanza. Le insegne sono come a Rotterdam; una bottiglia di birra appesa a un chiodo, un pennello, una scatola, una scopa, e i soliti testoni colla bocca spalancata.

La nuova chiesa, fondata verso la fine del decimoquarto secolo, è per l’Olanda quello che è l’abbazia di Westminster per l’Inghilterra. È un grande edifizio, cupo di fuori, nudo dentro; una prigione piuttosto che una casa di Dio. Lo tombe sono in fondo, dietro il recinto delle panche.

Appena entrato, vidi lo splendido mausoleo di Guglielmo il Taciturno; ma il custode mi arrestò dinanzi alla tomba semplicissima di Ugo Grotius, il prodigium Europæ, come lo chiama l’epitaffio, il grande giureconsulto del secolo XVII; quel Grotius che scriveva versi latini a nove anni, che componeva odi greche a undici, che trattava tesi di filosofia a quattordici, che accompagnava tre anni dopo l’illustre Barneveldt nella sua ambasciata a Parigi, dove Enrico IV, presentandolo alla sua corte, diceva: «Ecco il miracolo dell’Olanda;» quel Grotius che a diciott’anni era illustre come poeta, come teologo, come commentatore, come astronomo e faceva una prosopopea della città d’Ostenda, che il Casaubon traduceva in versi greci e il Malherbe in versi francesi; quel Grotius che appena ventiquattrenne esercitava la carica d’avvocato generale d’Olanda e di Zelanda e scriveva un celebre trattato della Libertà dei mari; che a trenta era consigliere pensionario della città di Rotterdam; poi fautore del Barneveldt, perseguitato, condannato a prigionia perpetua e chiuso nel castello di Loevestein, dove scriveva il trattato del Diritto della pace e della guerra, che fu per lungo tempo il codice di tutti i pubblicisti d’Europa; poi salvato miracolosamente da sua moglie, che si fece portare nella sua prigione dentro un cofano creduto pieno di libri, e rimandò il cofano con lui dentro, rimanendo prigioniera invece sua; poi ospitato da Luigi XIII, nominato ambasciatore in Francia da Cristina di Svezia, e infine tornato trionfante in patria e morto a Rostock carico d’anni e di gloria.

Il mausoleo di Guglielmo il Taciturno è nel mezzo della chiesa. È una sorta di tempietto di marmo nero e bianco, carico d’ornamenti e sostenuto da piccole colonne, in mezzo alle quali s’alzano quattro statue che rappresentano la Libertà, la Prudenza, la Giustizia e la Religione. Sopra il sarcofago è distesa la statua del principe, di marmo bianco, e ai suoi piedi, l’effigie del piccolo cane che gli salvò la vita all’assedio di Malines, svegliandolo coi latrati una notte che dormiva sotto la tenda, mentre due Spagnuoli s’avvicinavano di soppiatto per assassinarlo. Ai piedi di questa statua sorge una bella figura di bronzo, che simboleggia la Vittoria, coll’ali spiegate, e appoggiata sopra le sole dita del piede sinistro; e dalla parte opposta del tempietto, un’altra statua di bronzo, che rappresenta Guglielmo, seduto, rivestito dell’armatura, col capo scoperto e l’elmo ai piedi. Un’iscrizione latina dice che il monumento fu consacrato dagli Stati d’Olanda, «all’eterna memoria di quel Guglielmo di Nassau, che Filippo II, timor d’Europa, temette, non domò, non atterrì; ma spense con frode nefanda.» Accanto a Guglielmo son sepolti i suoi figli, e nella critta sotto la tomba, tutti i principi della sua dinastia.

Davanti a questo monumento, anche il viaggia tore più leggiero e più trascurato si sente come incatenato e costretto a pensare.

È bello rappresentarsi la lotta enorme di cui riposa in quella tomba il vincitore.

Da una parte è Filippo II, dall’altra Guglielmo d’Orange. Filippo II, chiuso nella solitudine sinistra dell’Escuriale, è nel mezzo d’un impero che abbraccia la Spagna, il settentrione e il mezzogiorno d’Italia, il Belgio e l’Olanda; in Africa, Oran, Tunisi, gli arcipelaghi del Capoverde e delle Canarie; in Asia le isole Filippine; in America, le Antille, il Messico, il Perù; è marito della regina d’Inghilterra; è nipote dell’imperatore d’Alemagna, che gli obbedisce quasi come un vassallo; è signore, si può dire, d’Europa, poichè non gli son vicini che popoli infiacchiti dalle discordie politiche e religiose; ha sotto la mano i soldati più agguerriti d’Europa, i più grandi capitani del secolo, l’oro americano, l’industria fiamminga, la scienza italiana, un esercito di delatori sparpagliati in tutte le corti, uomini eletti di tutti i paesi, fanaticamente devoti a lui, strumenti inconsapevoli o convinti dei suoi voleri; è il più astuto, il più misterioso principe del suo tempo; ha per sè tutto quello con cui s’incatena, si corrompe, si spaventa e si strascina il mondo: le armi, la ricchezza, la gloria, il genio, la religione. Ebbene, davanti a quest’uomo formidabile, intorno al quale tutto piega, Guglielmo d’Orange si solleva.

Quest’uomo senza regno e senza esercito è più potente di lui. Come lui, è stato discepolo di Carlo V, e ha imparato l’arte con cui si fondano i troni e l’arte con cui si fanno precipitare. Come lui è astuto e impenetrabile; ma vede più profondamente cogli occhi dell’intelletto nell’avvenire. Possiede, come il suo nemico, la facoltà di leggere nell’anima degli uomini; ma ha sopra di lui la facoltà di guadagnare i cuori. Ha una buona causa da sostenere; ma sa valersi di tutte le arti con cui si sostengono le cattive. Filippo II, che spia e indovina tutti gli uomini, è alla sua volta spiato e indovinato da lui. I disegni del gran re sono scoperti e sventati prima ancora che messi in opera; mani misteriose frugano nelle sue cassette e nelle sue tasche, e rimestano le sue carte segrete; Guglielmo, dall’Olanda, legge nella mente a Filippo, nell’Escuriale; previene, arresta, scompiglia tutte le sue trame; gli scava il terreno sotto i piedi; lo provoca e lo sfugge e gli ritorna perpetuamente dinanzi come un fantasma ch’egli vede e non può afferrare, che afferra e non può distruggere. E infine muore, ma la vittoria rimane a lui morto, e la sconfitta al nemico che sopravvive. L’Olanda riman per poco senza capo, ma la monarchia spagnuola ha avuto un tale tracollo che non si potrà mai più rilevare.

In questa lotta prodigiosa, nella quale la figura del gran Re rimpicciolisce via via fin che dispare dalla scena del mondo, il principe d’Orange grandeggia e si solleva man mano fino ad essere la più gloriosa figura del suo secolo. Il giorno in cui, essendo ostaggio presso il Re di Francia, scopre il disegno di Filippo, di stabilire l’Inquisizione nei Paesi Bassi, quel giorno egli consacra sè stesso alla difesa delle libertà della sua patria e in tutta la vita non vacilla più un momento sulla via che ha intrapresa. I vantaggi della nobiltà dei natali, una fortuna reale, la pace e la vita splendida che amava per natura e per costume, sacrifica tutto alla sua impresa; si riduce povero e proscritto, e nella proscrizione e nella povertà respinge costantemente le offerte di perdoni e di favori che gli vengon fatte da mille parti e per mille vie dal nemico che l’odia e che lo teme. Circondato d’assassini, fatto bersaglio delle calunnie più atroci, accusato persino di vigliaccheria dinanzi al nemico e dell’assassinio d’una sposa che adorava, guardato qualche volta con diffidenza, calunniato, osteggiato dal medesimo popolo ch’egli difende, sopporta tutto in silenzio, con dolcezza. Va diritto alla sua mèta affrontando pericoli infiniti con coraggio tranquillo. Non piega, non adula mai il popolo, non si lascia trascinare dalle passioni del suo paese; è sempre lui che guida, sempre alla testa, il primo; tutto si raggruppa intorno a lui; è la mente, la coscienza e il braccio della rivoluzione; il focolare che irradia e che conserva il calore della vita nella sua patria. Grande per audacia e per prudenza, procede integro in un tempo di spergiuri e di perfidie; riman mite, in mezzo ad uomini violenti; conserva le mani immaculate, mentre tutte le corti d’Europa si macchiano di sangue. Con un esercito raccogliticcio, con alleati deboli od incerti, intralciato dalle discordie interne di luterani e calvinisti, di nobili e di borghesi, di magistrati e di popolo, senza alcun grande capitano, dovendo lottare contro lo spirito municipale delle provincie che s’adombrano della sua autorità e sfuggono sotto la sua mano, egli trionfa in una lotta che sembra superiore alle forze umane; stanca il duca d’Alba, stanca il Requescens, stanca don Giovanni d’Austria, stanca Alessandro Farnese; manda a vuoto le trame dei principi stranieri che vogliono soccorrere il suo paese per assoggettarlo; conquista simpatie e strappa aiuti da ogni parte d’Europa; e compiendo una delle più belle rivoluzioni della storia, fonda uno stato libero a dispetto d’un Impero ch’era lo spavento dell’universo.

Quest’uomo così tremendo e così grande in faccia al mondo, era pure un marito e un padre affettuoso, un amico e un compagno affabile, amante delle brigate allegre, dei conviti; ospite magnifico e gentile. Era colto; sapeva oltre il fiammingo, il francese, il tedesco, lo spagnuolo, l’italiano, il latino; discorreva dottamente di ogni cosa. Benchè soprannominato il Taciturno (più per aver serbato lungo tempo il segreto scoperto alla corte di Francia, che per abitudine che avesse di tacere) era uno degli uomini più eloquenti del suo tempo. Era semplice di maniere, modesto nel vestire, amava e si faceva amare dal popolo; passeggiava per le strade della città, solo, senza cappello; s’intratteneva cogli operai e coi pescatori, che gli offrivano da bere nei loro bicchieri; ascoltava i loro ricorsi, componeva le loro liti, entrava nelle case a ristabilir la concordia nelle famiglie; ed era chiamato da tutti padre Guglielmo. E fu infatti padre, piuttosto che figlio, della sua patria. Il sentimento d’ammirazione e di gratitudine che vive ancora per lui nel cuore degli Olandesi, ha tutta l’intimità e la tenerezza d’un affetto figliale; il suo venerato nome suona ancora su tutte le bocche; la sua grandezza, spoglia d’ogni ornamento e d’ogni velo, è rimasta intera, netta, salda, come l’opera sua.

Vista la tomba, andai a vedere il luogo dove il principe d’Orange fu assassinato. Ma dopo aver ricordato com’egli visse, bisogna ricordare com’egli morì.

Nell’anno 1580, Filippo II aveva pubblicato un editto col quale prometteva una ricompensa di venticinque mila scudi d’oro e un titolo di nobiltà a colui che uccidesse il principe d’Orange. Quest’editto infame, che stimolava a un tempo la cupidigia e il fanatismo, aveva fatto pullulare da ogni parte assassini, che s’aggiravano intorno al principe d’Orange, con falsi nomi e con armi nascoste, spiando l’occasione. Un giovane biscaglino, di nome Jaureguy, cattolico fervente, al quale un frate domenicano aveva promesso la gloria del martirio, fece il primo tentativo. Si preparò col digiuno e colla preghiera, udì la messa, prese la comunione, si coperse di reliquie sacre, penetrò nel palazzo dell’Orange, e accostandosi al principe in atto di porgergli una supplica, gli tirò un colpo di pistola nel capo. La palla gli attraversò la mascella, ma la ferita non fu mortale; il principe d’Orange guarì. L’assassino fu straziato in sull’atto a colpi di spada e d’alabarda; poi squartato sulla piazza pubblica; e le sue membra appese a una delle porte d’Anversa, dove rimasero fin che il duca di Parma essendosi impadronito della città, i Gesuiti le raccolsero e le presentarono come reliquie alla venerazione dei fedeli.

Poco tempo dopo fu sventata un’altra congiura contro la vita del principe. Un gentiluomo francese, un italiano e un vallone, che lo seguivano da qualche tempo col proposito d’ucciderlo, furono scoperti e arrestati. Uno d’essi si uccise in prigione con una coltellata, l’altro fu strangolato in Francia, il terzo riuscì a fuggire, dopo aver confessato che tutti e tre avevano congiurato insieme per ordine espresso del duca di Parma.

In questo frattempo gli agenti di Filippo percorrevano il paese istigando i ribaldi all’assassinio colla promessa di tesori, e i preti e i frati istigavano i fanatici colla promessa dell’aiuto e della ricompensa del cielo. Altri assassini tentarono. Uno spagnuolo, scoperto e arrestato, fu squartato ad Anversa; un ricco negoziante, di nome Hans Jansen, fu ucciso a Flessinga. Parecchi avevano offerto il loro braccio al principe Alessandro Farnese e n’avevano ricevuto incoraggiamenti e denari. Il principe d’Orange, che sapeva tutto questo, nutriva un vago presentimento della sua prossima morte, lo diceva ai suoi famigliari, e rifiutando di prendere qualsiasi misura per assicurare la propria vita, rispondeva a chi gli dava quel consiglio: «È inutile. Dio sa il conto dei miei anni. Egli ne dispone a sua volontà. Se v’è qualche miserabile che non teme la morte, la mia vita è in sua balía, per quanto io mi guardi.»

Otto assassinii, prima di quello che riuscì, furono tentati contro di lui.

Al tempo in cui l’ultimo fu consumato, nell’anno 1584, quattro scellerati, senza sapere l’uno dell’altro, un inglese, uno scozzese, un francese e un lorenese, stavano a Delft, dove si trovava il principe di Orange, aspettando tutti e quattro l’occasione di assassinarlo. Oltre a questi, c’era da qualche tempo un giovane di 27 anni, della Franca Contea, cattolico, che si faceva passare per protestante, di nome Guyon, figlio di Pietro Guyon che era stato giustiziato a Besançon per aver abbracciato il calvinismo. Questo nominato Guyon, il cui vero nome era Baldassarre Gerard, faceva credere d’esser fuggito alle persecuzioni dei cattolici, menava una vita austera, assisteva a tutti gli esercizi del culto evangelico; in poco tempo, si era acquistato la fama di santo. Dicendo d’esser andato a Delft per domandar l’onore d’essere ammesso al servizio del principe d’Orange, ottenne colla raccomandazione d’un ministro protestante d’essergli presentato; gl’ispirò fiducia; e fu da lui destinato ad accompagnare il signor di Scho newalle, inviato degli Stati d’Olanda alla corte di Francia. Poco tempo dopo tornò a Delft per dare al principe Guglielmo la notizia della morte del duca d’Angiò; e si presentò al convento di Sant’Agata dove il principe soggiornava colla sua corte. Era la seconda domenica di luglio. Guglielmo lo ricevette nella sua camera, stando a letto. Eran soli. Baldassarre Gerard ebbe forse in quel momento la tentazione d’ucciderlo: ma non aveva armi, si contenne, e dissimulando la sua impazienza, rispose tranquillamente a tutte le domande. Guglielmo gli diede una piccola somma di denaro, gli disse di prepararsi a ripartire per Parigi e gli ordinò di tornare il giorno seguente a prender le lettere e il passaporto. Col danaro ricevuto dal principe, il Gerard comprò due pistole da un soldato (il quale s’uccise quando seppe a che uso le sue armi eran servite) e il giorno dopo, il dieci luglio, si ripresentò al convento di Sant’Agata. Il principe Guglielmo, accompagnato da parecchie dame e signori della sua famiglia, scendeva le scale per andare a desinare in una sala a terreno, e dava il braccio alla principessa d’Orange, sua quarta moglie; quella gentile e sventurata Luisa di Coligny, che nella notte di san Bartolommeo aveva visto uccidere ai suoi piedi l’ammiraglio suo padre e il signor di Téligny suo marito. Baldassarre gli andò incontro, lo arrestò e lo pregò di firmare il suo passaporto. Il principe gli disse di ripassare più tardi ed entrò nella sala. Nemmeno un’ombra di sospetto gli era passata per la mente. Ma Luisa di Coligny, resa cauta e sospettosa dalla sventura, s’era turbata. Quell’uomo pallido, avvolto in un lungo mantello, le aveva fatto un’impressione sinistra; le era parso che la sua voce fosse alterata e il suo volto convulso. Durante il desinare, manifestò i suoi sospetti a Guglielmo, e gli domandò chi fosse quell’uomo «che aveva la più cattiva fisonomia ch’essa avesse mai vista.» Il principe sorrise, le disse che era il Guyon, la rassicurò, fu gaio come sempre durante il desinare, e finito che ebbe uscì tranquillamente per risalire alle sue stanze. Il Gerard l’aspettava sotto una vòlta oscura, accanto alla scala, nascosto nell’ombra della porta. Appena vide comparire il principe, s’avanzò, gli fu addosso nel momento che metteva il piede sul secondo scalino, gli sparò una pistola carica di tre palle nel mezzo del petto, e si diede alla fuga. Il principe vacillò e cadde fra le braccia d’uno scudiero; tutti accorsero; egli disse con voce spenta: “Son ferito.... mio Dio, abbi pietà di me e del mio povero popolo!” Era tutto intriso di sangue. Sua sorella Caterina di Schwartzbourg, gli domandò: “Raccomandi la tua anima a Gesù Cristo?” Egli rispose con un filo di voce: “Sì.” Fu la ultima sua parola. Lo posero a sedere sopra uno scalino, lo interrogarono: non era più in sè. Lo portarono in una stanza vicina, e spirò.

Il Gerard aveva attraversato le scuderie, era fuggito dal convento e arrivato sul bastione della città di dove contava saltar giù nel fosso e raggiungere a nuoto la riva opposta dove l’aspettava un cavallo sellato. Ma fuggendo, aveva lasciato cadere il cappello e la seconda pistola. Un servitore e un alabardiere del principe, visto quella traccia, si slanciano dietro di lui. Nel punto che sta per spiccare il salto, incespica, i due insecutori sopraggiungono e lo afferrano. “Traditore d’inferno!” gli gridano. Egli risponde con calma: “Non sono un traditore; sono un servitore fedele del mio signore.”—“Di qual signore?” gli domandano. “Del mio signore e padrone il Re di Spagna,” risponde il Gerard. Sopraggiungono altri alabardieri e paggi del principe e lo trascinano in città pestandolo coi pugni e coll’else delle spade. Credendo, dai discorsi che intende, che il principe non sia morto, lo sciagurato esclama con una tranquillità sinistra: “Sia maledetta la mano che fallì il colpo.”

Questa deplorevole sicurtà d’animo non lo abbandonò un momento. Dinanzi al tribunale, nei lunghi interrogatorii, nella cella dove fu gettato carico di ferri, egli si mantenne inalterabilmente calmo. Sopportò i tormenti che accompagnarono il giudizio, senza lasciarsi sfuggire un grido. Fra un tormento e l’altro, mentre gli aguzzini riposavano, parlava tranquillamente, senza ostentazione. Mentre lo straziavano, sollevando di tratto in tratto dal banco della tortura la testa insanguinata, diceva: « Ecce homo. » Fece più volte ringraziare i giudici del nutrimento che gli accordavano e scrisse di suo pugno le sue confessioni.

Era nato a Vuillafans, nella contea di Borgogna, aveva studiato leggi presso un procuratore di Dôle, e là aveva manifestato per la prima volta il suo desiderio d’uccidere Guglielmo, configgendo una daga in una porta e dicendo: “Così vorrei piantare un pugnale nel petto del principe d’Orange!” Tre anni dopo, intesa la notizia del bando di Filippo II, era andato, col disegno dell’assassinio, a Lussemburgo, dove l’aveva arrestato la falsa notizia della morte di Guglielmo corsa dopo l’attentato dell’Jaureguy. Poco dopo, saputo che il principe viveva ancora, aveva ripreso il suo disegno, ed era andato a Malines per chieder consigli ai gesuiti, i quali l’avevano incoraggiato promettendogli che, se fosse morto nell’impresa, sarebbe stato assunto alla gloria dei martiri. Allora era andato a Tournai, s’era presentato ad Alessandro Farnese, aveva ricevuto una conferma delle promesse del re Filippo, era stato approvato e incoraggiato dai confidenti del principe e dai ministri di Dio, s’era fortificato colla lettura della Bibbia, coi digiuni, colle preghiere, e così preso da un’esaltazione divina, sognando gli angeli e il paradiso, era partito per Delft e aveva compiuto «il suo dovere di buon cattolico e di suddito fedele.»

Ripetè più volte le sue confessioni ai giudici; non pronunziò una parola di rammarico o di pentimento; si vantò anzi del suo delitto; disse ch’era un nuovo Davide che aveva atterrato un nuovo Golía; dichiarò che se non avesse ancora ucciso il prin cipe d’Orange, sarebbe stato disposto ad ucciderlo; il suo coraggio, la sua calma, il suo disprezzo della vita, la sua profonda convinzione d’aver compiuto una missione santa e di morire glorioso, sgomentò i suoi giudici; fu creduto invaso dal demonio; si fecero delle indagini; fu interrogato egli stesso; ma rispose sempre che non aveva mai avuto relazione che con Dio.

La sentenza gli fu letta il 14 luglio; fu un delitto, come dice uno storico illustre, contro la memoria del grand’uomo che voleva vendicare; una sentenza da far cadere svenuto uno che non avesse la sua sovrumana fortezza.

Fu condannato ad aver la mano chiusa ed arsa in un tubo di ferro infocato; le braccia, le gambe e le coscie dilaniate con tanaglie roventi; il ventre squarciato, strappato il cuore e sbattutogli sul viso; la testa spiccata dal busto e confitta sopra una picca; il corpo fatto in quattro, e ogni parte appesa a una forca sopra una delle porte principali della città.

Udendo l’enumerazione di questi supplizi orrendi, quello sciagurato non impallidì, non fece un segno che significasse terrore, o dolore, o stupore. Aperse il suo vestito, mise a nudo il suo petto, e con voce ferma, fissando gli occhi imperterriti in viso ai suoi giudici, ripetè le sue solite parole: « Ecce homo! »

Che cos’era quest’uomo? Soltanto un fanatico, come molti credettero, o un mostro di scelleratezza, come ritennero altri, o le due cose insieme, aggiuntavi un’ambizione forsennata?

Il giorno dopo fu eseguita la sentenza. Gli apparecchi del supplizio furono fatti sotto i suoi occhi: egli li guardò con indifferenza. L’aiutante del carnefice cominciò per spezzare a colpi di martello la pistola, strumento del delitto. Al primo colpo, la testa del martello cadde e ferì nell’orecchio un altro aiutante: il popolo rise, il Gerard rise pure. Quando salì sul patibolo il suo corpo era già orribile a vedersi. Mentre la sua mano crepitava e fumava nel tubo rovente, stette muto; mentre le tanaglie infocate gli laceravano le carni, non gettò un grido; quando il coltello gli penetrò nelle viscere, chinò la testa, e mormorando qualche parola incomprensibile, spirò.

La notizia della morte del principe d’Orange aveva sparso nel paese una costernazione immensa. Il suo corpo fu esposto per un mese sur un letto funebre, intorno al quale il popolo accorse a inginocchiarsi ed a piangere. I suoi funerali furon degni d’un re: v’intervennero gli Stati Generali delle Provincie unite, il Consiglio di Stato, gli Stati d’Olanda, i magistrati, i ministri della religione, i principi della casa di Nassau; dodici gentiluomini portavano la bara; quattro gran signori tenevano i cordoni del panno mortuario; seguiva il cavallo del principe, splendidamente bardato, condotto dal suo scudiero; e si vedeva, in mezzo al corteo dei conti e dei baroni, un giovane di diciott’anni, che doveva raccogliere la gloriosa eredità del defunto, umiliare gli eserciti spagnuoli, e costringere la Spagna a chieder tregua, e a riconoscere l’in dipendenza delle provincie unite. Quel giovane era Maurizio d’Orange, figlio di Guglielmo, al quale gli Stati d’Olanda, poco tempo dopo la morte del padre, conferirono la dignità di Statoldero, e affidarono poi il comando supremo delle forze di terra e di mare.

E mentre l’Olanda piangeva la morte del principe d’Orange, in tutte le città soggette al re di Spagna il clero cattolico festeggiava l’assassinio e l’assassino; i gesuiti lo esaltavano come un martire; l’Università di Louvain pubblicava la sua apologia; i canonici di Bois-le-Duc cantavano il Te Deum. Qualche anno dopo, la famiglia del Gerard riceveva dal re di Spagna un titolo di nobiltà e le terre del principe d’Orange confiscate nella Borgogna.

La casa dove il principe d’Orange fu assassinato, esiste ancora; è un edificio d’aspetto cupo, con finestre centinate e una stretta porta, che forma parte del chiostro d’una antica chiesa consacrata a sant’Agata, e porta ancora il nome di Prinsenhof benchè serva ora di caserma all’artiglieria. Domandai il permesso d’entrare all’ufficiale di guardia; un caporale, che sapeva un po’ di francese, mi accompagnò; attraversammo un cortile pieno di soldati e arrivammo al luogo memorabile. Vidi la scala che saliva il principe quando fu ferito, l’angolo oscuro dove s’era rimpiattato il Gerard, la porta della sala dove lo sventurato Guglielmo desinò per l’ultima volta, e le traccie delle palle nel muro, in un piccolo spazio imbiancato, con un’iscrizione olandese che rammenta che là morì il padre della pa tria. Il caporale mi accennò per dove era fuggito l’assassino. Mentre io guardavo intorno con quella curiosità pensierosa che si prova nei luoghi di grandi delitti, salivano e scendevano soldati; si soffermavano a guardarmi e poi scappavano cantando e fischiando; altri mi ronzavano intorno; alcuni ridevano forte nel cortile; e tutta quell’allegria giovanile faceva colla triste solennità delle memorie del luogo, un contrasto vivo e commovente, come una festa di fanciulli nella stanza dov’è morto l’avo di cui hanno cara la memoria.

In faccia alla caserma, v’è la più antica chiesa di Delft, che contiene la tomba di quel famoso ammiraglio Tromp, il veterano della marina olandese, che vide trentadue battaglie di mare, sconfisse nel 1652, alla battaglia detta delle Dune, la flotta inglese, comandata dal Blake, e rientrò in patria con una scopa appesa al grand’albero della nave ammiraglia, per indicare che aveva spazzato gl’inglesi dal mare. V’è la tomba di Pietro Hein, che diventò di semplice pescatore grande ammiraglio e fece quella memorabile retata di bastimenti spagnuoli che portavano nei fianchi più di undici milioni di fiorini. V’è la tomba del Leuwenhoek, il padre della scienza dell’infinitamente piccino, quegli che col vetro indagatore, come dice il Parini, vide a nuoto nell’onda genitale il picciol uomo. La chiesa ha un alto campanile sormontato da quattro torricine coniche, e inclinato come la torre di Pisa, per essergli ceduto sotto il terreno. In una cella di questo campanile fu rinchiuso il Gerard la notte che seguì l’assassinio.

A Rotterdam m’avevan dato una lettera per un cittadino di Delft, colla quale lo pregavano di farmi vedere la sua casa. «Egli desidera» diceva la lettera «di penetrare i misteri d’una vecchia casa olandese: sollevategli per un momento la cortina del santuario.» Non mi fu difficile di trovar la casa, e appena la vidi, dissi tra me:—È il fatto mio!

Era una casetta all’estremità d’una strada che finiva nella campagna, d’un sol piano, rossa, colla facciata a collo, posta quasi sull’orlo d’un canale, e un po’ inclinata innanzi come per specchiarsi nell’acqua, con un bel tiglio davanti che si allargava sulle finestre come un grande ventaglio; e un ponte levatoio in dirittura della porta. V’eran le tendine bianche, la porta verde, i fiori, gli specchietti; era un modellino di casa olandese.

La strada era deserta; prima di picchiare alla porta, stetti un po’ a guardare e a pensare. Quella casa mi faceva capire l’Olanda meglio di tutti i libri che avevo letti. Era insieme l’espressione e la ragione dell’amor della famiglia, dei desiderii modesti, dell’indole indipendente del popolo olandese. Nei nostri paesi non c’è la vera casa; non ci sono che scompartimenti di caserme, abitazioni astratte, che non han nulla di nostro, nelle quali viviamo nascosti, ma non soli, udendo mille rumori di gente estranea, che turba i nostri dolori coll’eco delle sue gioie, o le nostre gioie coll’eco dei suoi dolori. La vera casa è in Olanda, la casa personale, distinta dalle altre, pudica, circospetta, e appunto perchè distinta dalle altre, nemica dei misteri e degl’intrighi; tutta lieta, quando è lieta la famiglia che l’abita, e quando questa è trista, tutta trista. In quelle case, con quei canali e quei ponti levatoi, ogni modesto cittadino sente un po’ della dignità solitaria d’un castellano, o di un comandante di fortezza, o di un capitano di bastimento; e vede infatti dalle sue finestre, come da quelle di un bastimento immobile, una pianura uniforme e sconfinata, che gl’ispira gli stessi pensieri e gli stessi sentimenti liberi e gravi che ispira il mare. Gli alberi che circondano la sua casa quasi d’un vestimento di verzura, non ci lasciano penetrare che una luce rotta e discreta; la barca carica di mercanzie scivola mollemente davanti alla sua porta; non ode scalpitío di cavalli, non chiocchi di frusta, non canti, non grida; intorno a lui tutti i movimenti della vita son silenziosi e lenti; tutto spira pace e dolcezza; e il campanile della chiesa vicina gli annunzia l’ora con un’onda d’armonia riposata e costante come i suoi affetti e il suo lavoro.

Picchiai alla porta, mi aprì il padron di casa, gli porsi la lettera, lesse, mi diede uno sguardo scrutatore e mi fece entrare. Segue così quasi sempre. Gli Olandesi, di primo abbordo, son diffidenti. Noi, al primo venuto che ci porta una lettera di raccomandazione, apriamo le braccia come se fosse il nostro più intimo amico; e spesso poi non facciamo per lui il bellissimo nulla. Gli Olandesi, invece, accolgono freddamente, qualche volta anzi in un modo che fa rimaner lì quasi mortificati; ma poi vi prestano mille servigi, colla migliore volontà del mondo, e senz’aver mai l’aria di fare una cortesia.

Il di dentro della casa corrispondeva perfettamente al di fuori: pareva l’interno d’un bastimento. Una scala a chiocciola, di legno, lucente come l’ebano, conduceva alle stanze alte. Sulla scala, dinanzi alle porte, sugli impiantiti, v’erano stuoie e tappeti. Le stanze eran piccine come celle; i mobili nitidissimi; le lastre, le maniglie, i chiodi, le borchie, tutti gli ornamenti di metallo, luccicanti come se fossero usciti allora dalle mani del brunitore; e da ogni parte v’era un ripieno di vasi di porcellana, di tazze, di lumi, di specchi, di quadretti, di stipi, di cantoniere, di ninnoli, di oggettini d’ogni forma e d’ogni uso, meravigliosamente puliti, che attestavano i mille piccoli bisogni che crea l’amore della vita sedentaria, l’attività previdente, la cura continua, il gusto del piccino, il culto dell’ordine, l’economia industriosa dello spazio, il soggiorno, in fine, d’una donna casalinga e tranquilla.

La Dea di quel tempietto, che non parlava o non osava parlare il francese, era nascosta in non so qual penetrale che non mi riuscì d’indovinare.

Scendemmo a veder la cucina: era uno splendore. Quando tornai a casa, ne feci la descrizione in presenza di mia madre, alla fantesca, che si picca di pulizia, e rimase annichilita. Le pareti erano bianche come la neve intatta; le casseruole riflettevano gli oggetti come specchi; la cappa del cammino era ornata d’una specie di tendinetta di mussolina come il cielo d’un letto, senza la menoma traccia di fumo; il muro, sotto la cappa, era rivestito di lastrine quadrate di maiolica, pulite come se non ci avessero mai acceso il fuoco; gli alari, la paletta, le molle, le asticciuole della catena, parevan d’acciaio brunito. Una signora vestita da ballo avrebbe potuto girar per quella stanza, ficcarsi in tutti gli angoli e toccare ogni cosa, senza contaminare d’un punto nero la sua bianchezza.

In quel mentre la fantesca faceva la pulizia, e il mio ospite la commentava: “Per avere un’idea di cos’è la pulizia da noi,” diceva “bisognerebbe tener dietro per un’ora al lavoro di queste donne. Qui s’insapona, si lava e si spazzola una casa tal e quale come una persona. Non è una pulitura, è una toeletta. Si soffia nella commessura dei mattoni, si fruga negli angoli colle unghie e cogli spilli, si fa una pulizia minuta al segno da stancare la vista non meno delle braccia. È una vera passione nazionale. Queste ragazze, che sono ordinariamente flemmatiche, il giorno stabilito per la pulizia, escono dal loro carattere, diventan frenetiche. Allora noi non siamo più padroni della casa. C’invadono le stanze, ci scacciano, ci spruzzano, mettono ogni cosa sottosopra; per loro è un tripudio; sono come le baccanti della pulizia; si esaltano lavando. ”

Gli domandai da che credeva che derivasse questa sorta di manía per cui è famosa l’Olanda. Mi disse le ragioni che mi dissero poi mille altri: l’atmosfera del loro paese che intacca straordinariamente il legno e i metalli; l’umidità, la ristrettezza delle case e la moltiplicità degli oggetti, che favoriscono il sudiciume; la sovrabbondanza dell’acqua che agevola il lavoro; un certo bisogno dell’occhio, a cui la pulizia finisce col parere bellezza; e infine, l’emulazione che spinge tutte le cose all’eccesso. “Ma non è questa” soggiunse “la parte più pulita dell’Olanda: l’eccesso, il delirio della pulizia lo vedrà nelle provincie settentrionali.”

Uscimmo a passeggiare per la città. Non era ancora mezzogiorno: si vedevano serve da tutte le parti, vestite tale e quale come quelle di Rotterdam. Cosa singolare, tutte le donne di servizio, in Olanda, da Rotterdam a Groninga, da Haarlem a Nimega, sono vestite dello stesso colore: un vestito lilla chiaro, tempestato di fioretti, di stelle o di crocine; e per far la pulizia, portan tutte una cuffietta da malate e un paio di enormi zoccoli bianchi. Da principio credetti che formassero tutte insieme una qualche corporazione nazionale che avesse fra i suoi statuti l’uniformità del vestiario. Son per lo più giovanissime, perchè donne attempate non reggerebbero alle fatiche che devon durare, bionde, tonde, con le curve posteriori (osservazione del Diderot) spropositate; pochissime belle, nel senso stretto della parola; ma d’un bianco e d’un roseo meraviglioso, che par che schiattino dalla salute, e ci si debba sentir riavere a premerci la guancia contro la guancia. Le loro forme pienotte e i loro bei colori ricevon poi una grazia particolare dal loro vestire casalingo; sopratutto la mattina che han le maniche rimboccate e il collo scoperto, e lascian vedere dei candori da cherubino. I giovanotti chiamano quella toeletta, con vocabolo olandese, voluttuosa, e a me pare che non abbiano tutti i torti.

A un tratto, mi ricordai d’un appunto preso sul mio quaderno prima di partire per l’Olanda, mi fermai, e feci al mio compagno questa domanda:

“Le serve son anche in Olanda il tormento eterno delle signore?”

Qui mi tocca fare un po’ di parentesi. È noto e arcinoto che le signore non tanto altolocate da non aver che fare direttamente colle loro donne di servizio, le signore, voglio dire, che hanno una donna sola, che fa da cuoca e da cameriera, discorrono, nelle loro visite, per una buona parte del tempo, della loro serva. Son sempre gli stessi discorsi di difetti insopportabili, d’insolenze sopportate, di tu per tu, di ruberie sulla spesa, di sperperi, di menzogne, di pretensioni sfrontate, di congedi e di ricerche e d’altre calamità consimili, che finiscon sempre nel ritornello doloroso: che serve oneste e fidate, come quelle d’una volta che s’affezionavano alle famiglie e invecchiavano nelle case, non ci son più; che bisogna cambiare di continuo; che non c’è più modo di tirare innanzi. È vero? non è vero? è una conseguenza della libertà e dell’eguaglianza delle classi, che ha reso più duro il servire e più esigente chi serve? è un effetto del rilassamento dei costumi e della disciplina pubblica, che si fa sentire anche in cucina? Comunque sia, il fatto è che io pure in casa mia sento battere eternamente quel chiodo, tanto che un giorno, prima di partire per la Spagna, dissi a mia madre: “Guarda, se qualche cosa, a Madrid, potrà consolarmi della lontananza della famiglia, sarà il non sentir più toccare quest’odioso argomento.” Arrivo a Madrid, entro in una Casa de Huespedes, la prima cosa che mi dice la padrona è che ha cambiato tre serve in un mese, che è una disperazione, che non si sa più a che santo voltarsi; e così ogni giorno, per tutto il tempo che stetti là, una lamentazione infinita. Tornai a casa, raccontai la cosa, si rise, e mia madre concludette che quella doveva essere una piaga di tutti i paesi. “No,” io dissi, “nei paesi del Nord non dev’essere così.”—“Vedrai e me ne darai notizie,” mi rispose mia madre. Vado a Parigi, e alla prima signora che conosco, domando: “Le serve sono anche qui come in Italia e in Spagna l’eterno tormento delle signore?” “ Ah! mon cher monsieur ” mi risponde giungendo le mani e alzando gli occhi al cielo; “ ne me parlez pas de ça! ” E lì una lunga storia di lotte, di espulsioni, di guai. Scrivo la cosa a mia madre, ed essa mi risponde: “Vedremo Londra.” Vado a Londra, entro in conversazione con una signora inglese a bordo del bastimento che mi conduce ad Anversa, e dopo poche parole, spiegatale prima la ragione della mia curiosità, le faccio la solita domanda. Essa volta la testa da un’altra parte mettendosi una mano sulla fronte e poi risponde spiccicando le parole: “Sono il fla-gel-lum De-i!” Scrivo a casa dandomi per vinto, soggiungendo però che mi resta una buona speranza per l’Olanda, paese quieto, dove le case sono tanto ordinate e pulite, e la vita casalinga così dolce; e mia madre mi risponde che essa pure propende a fare un’eccezione onorevole per l’Olanda. Ma il dubbio rimaneva sempre a lei ed a me, io ero curioso ed essa aspettava le notizie; ecco perchè feci quella domanda al mio cortese Cicerone di Delft. Ora ognuno si può immaginare con che ansietà io stessi aspettando la risposta.

“Signore” mi rispose l’olandese dopo un momento di riflessione, “le risponderò una cosa sola, ed è che in Olanda abbiamo un proverbio, il quale dice che le serve sono le croci della vita.”

Mi cascarono le braccia.

“Prima di tutto,” continuò, “c’è il guaio che, per poco che s’abbia una casa grande, bisogna tenerne due, una per la cucina e una per la pulizia, essendo quasi impossibile, con quella manía che hanno di lavare fin l’aria, che una sola faccia le due cose. Poi son tutte assetate rabbiose di libertà; vogliono star fuori la sera fino alle dieci; avere di tratto in tratto una giornata completamente libera. Poi bisogna tollerare che il loro fidanzato o altro le venga a pigliare in casa; tollerare che ballino per la strada; tollerare che facciano il diavolo nelle feste delle Kermess. Di più, quando si congedano, aspettare che se ne vadano quando piace a loro, e qualche volta si fanno aspettare dei mesi. Oltre a questo, una paga di novanta, di cento fiorini all’anno. Oltre la paga, un tanto per cento su tutti i pagamenti che fa il padrone; mancie, di stretto rigore, da tutti gli amici invitati; regali straordinarii di denaro e di robe; e soprattutto e sempre, pazienza, pazienza, pazienza.”

Ne sapevo abbastanza per parlarne in cattedra con mia madre, e rivolsi la conversazione sopra un argomento meno sconsolante.

Passando per una stradetta appartata, vidi una signora che s’avvicinò a una porta, lesse in un pezzetto di carta che v’era attaccato su, fece un atto di dolore e se n’andò. Dopo un momento, un’altra donna che passava, si fermò, lesse e tirò via. Domandai una spiegazione al mio compagno, il quale mi fece conoscere un uso assai curioso degli Olandesi. Su quel pezzetto di carta v’era scritto che il malato tale dei tali stava peggio. In molte città di Olanda, quando uno s’ammala, la famiglia affigge ogni giorno alla porta il bullettino sanitario, perchè gli amici e i conoscenti non abbian da entrare in casa a domandar notizie. Questa sorta d’annunzi si usano anche in altre occasioni. In certe città si annunzia la nascita d’un bambino appendendo alla porta una palla fasciata di seta rossa e di trina, il cui nome in olandese significa: prova di nascita. Se è una bambina, v’è su un pezzetto di carta bianca; se son gemelli, la trina è doppia; e per alcuni giorni dopo la nascita, si affigge pure un avviso che dice: «Il bimbo e la puerpera stanno bene, hanno passato una buona notte» o il contrario, secondo il caso. Una volta, quando sopra una porta c’era un annunzio di nascita, per nove giorni i creditori della famiglia non potevano picchiare alla porta; ma credo che quest’uso sia caduto, benchè dovesse avere la benefica virtù di promuovere l’accrescimento della popolazione.

In quella breve passeggiata per le strade di Delft, incontrai pure certe figure funebri che avevo già viste a Rotterdam, senza capire se fossero preti o magistrati o becchini, perchè il loro vestiario e il loro aspetto avevan un po’ delle tre cose. Portavano un cappello a tre punte, con un gran velo nero che scendeva sui fianchi, un vestito nero a coda di rondine, calzoni corti e neri, calze nere, mantello nero, scarpe con fibbie, cravatta e guanti bianchi; e un foglio listato di nero fra le mani. Il mio compagno mi spiegò che si chiamavano con un vocabolo olandese intraducibile aansprekers, e che il loro ufficio era di portar l’annunzio delle morti ai parenti ed amici dei defunti e di annunziarle per le strade. Il loro vestiario cangia in qualche particolare da paese a paese, e secondo che son cattolici o protestanti. In certe città hanno un enorme cappello alla don Basilio. Son per lo più pulitissimi e qual che volta vestiti e pettinati con una ricercatezza che contrasta irreverentemente col loro carattere d’impiegati della morte o, come li definì un viaggiatore, di lettere mortuarie viventi.

Ne vedemmo uno fermo dinanzi a una casa. Il mio compagno mi fece osservare che le finestre di quella casa avevano le imposte socchiuse, e mi disse che ci doveva esser morto qualcuno. Domandai chi. “Non lo so,” mi rispose “ma a giudicar dalle imposte non dev’essere un parente molto prossimo del padrone di casa.” Quest’argomentazione parendomi un po’ strana, egli mi spiegò che in Olanda, quando muore qualcuno in una famiglia, si chiudono le finestre con uno due o tre dei battenti mobili delle imposte, secondo che il parente è più o meno stretto. Ogni battente dinota un grado di parentela. Per il padre o la madre si chiudon tutti meno uno, per un cugino se ne chiude un solo, per un fratello due; e via discorrendo. Uso, c’è da credere, molto antico, e che dura ancora perchè in quel paese nessun uso si smette per capriccio, e si cangia soltanto quello che importa seriamente di cangiare, e dopo essersi arcipersuasi che si cangia in meglio.

Avrei voluto vedere, a Delft, la casa dov’era la birreria del pittore Steen, e dove egli prese probabilmente quelle sbornie famose, che furono oggetto di tante questioni fra i suoi biografi. Ma il mio ospite mi disse che non ce n’era memoria. Però, a proposito di pittori, mi diede la gradita notizia che io mi trovavo in quella parte dell’Olanda compresa fra Delft, l’Aja, il mare, la città d’Alkmar, il golfo d’Amsterdam e l’antico lago d’Haarlem, la quale si potrebbe chiamare propriamente la patria della pittura olandese, e perchè i più grandi pittori vi nacquero, e perchè, presentando degli aspetti singolarmente pittoreschi, l’amarono e la studiarono con predilezione. Ero dunque proprio nel seno dell’Olanda e partendo da Delft mi sarei sprofondato nel suo cuore.

Prima di partire, vidi ancora di sfuggita l’arsenale militare che occupa un grande edifizio, il quale serviva prima di magazzino alla Compagnia delle Indie orientali, e comunica con un’officina d’artiglieria e una gran polveriera posta fuori della città. V’è ancora, a Delft, la grande scuola politecnica degl’ingegneri, la vera scuola di guerra dell’Olanda, dalla quale escono gli ufficiali dell’esercito di difesa contro il mare, e son questi giovani guerrieri delle dighe e delle cateratte, trecento circa, che danno vita alla tranquilla città di Grozio. Mentre mettevo il piede nella barca che mi doveva condurre all’Aja, il mio olandese mi descriveva l’ultima festa quinquennale celebrata a Delft dagli studenti; una di quelle feste particolari dell’Olanda, specie di mascherate storiche, che sono come un riflesso della sua grandezza passata, e servono a mantener viva nel popolo la tradizione dei personaggi e degli avvenimenti illustri d’altri tempi. Una grande cavalcata rappresentava l’entrata in Arnhem nel 1492 di Carlo d’Egmont, duca di Ghel dria, conte di Zuften; di quella famiglia d’Egmont, che diede col nobile e sventurato conte Lamoral la prima grande vittima della libertà olandese alla scure del duca d’Alba. Duecento studenti a cavallo, con bardature principesche, con armature, con cotte d’armi dorate e stemmate, agitando alteramente i grandi pennacchi e le grandi spade, formavano il corteggio del duca di Gheldria. Seguivano gli alabardieri, gli arcieri, i lanzichenecchi vestiti delle foggie pompose del decimoquinto secolo; suonavan le bande musicali; la città brillava tutta di lumi; e per le sue strade formicolava una folla immensa accorsa da ogni parte d’Olanda a godere quella splendida visione d’un’età lontana.

L’AJA.

La barca era vicina a un ponte, in un piccolo bacino formato dal canale che va da Delft all’Aja, e ombreggiato dagli alberi della sponda come un laghetto di giardino.

Le barche che portan passeggieri da una città all’altra si chiamano in olandese trekschuiten.

Il trekschuit è la barca tradizionale, emblematica dell’Olanda, com’è per Venezia la gondola. L’Esquiroz la definì: il genio della vecchia Olanda galleggiante sulle acque. E infatti, chi non ha viaggiato in trekschuit, non conosce l’aspetto più originale e più poetico della vita olandese.

È una grande barca occupata quasi tutta da un casotto, della forma d’una diligenza, diviso in due scompartimenti: quello a prora per la seconda classe e quello a poppa per la prima. Sulla prora è piantata un’asta di ferro con un anello per il quale passa una lunga corda che da una parte si va ad annodare vicino al timone, e dall’altra a un cavallo di rimorchio montato da un barcaiolo. Le finestrine del casotto hanno le loro tendine bianche; le pareti e le porte sono dipinte; dentro lo scompartimento di prima classe vi son dei sedili con cuscinetti, un piccolo tavolino con qualche libro, un armadio, uno specchietto; ogni cosa lucidissimo. Posando la valigia, lasciai cadere un po’ di cenere di sigaro sotto il tavolino; dopo un minuto rientrai e non ce la vidi più.

Ero solo; non ebbi da aspettare molto tempo; il timoniere fece un cenno, il rimorchiatore montò a cavallo, e il trekschuit cominciò a scorrere mollemente sul canale.

Era un’ora dopo mezzogiorno e splendeva un bellissimo sole, ma la barca passava nell’ombra. Il canale era fiancheggiato da due file di tigli, di olmi, di salici, e da siepi alte, che nascondevano la campagna. Pareva di navigare a traverso un bosco. A ogni svoltata si vedeva una lontananza profonda, tutto verde e chiuso, e qualche mulino a vento sulla sponda. L’acqua era coperta di un tappeto di lemna, e in alcuni punti tempestata di fiorellini bianchi, d’iridi, di ninfee, di lenti palustri. L’alta spalliera di verzura che fiancheggiava il canale, s’apriva qua e là in brevi tratti, e allora si vedeva come da una finestra l’orizzonte lontano della campagna, che subito era rinascosto.

Ogni tanto s’incontrava un ponte. Era bello vedere la rapidità, con cui l’uomo a cavallo, e un altro, fisso là di guardia, facevan la manovra delle corde per far passare il trekschuit; e come i due conduttori, quando i trekschuiten s’incontravano, si cedevano il passo, l’uno facendo scorrer la corda sotto quella dell’altro, senza dire una parola, senza salutarsi neanco con un sorriso, come se la serietà e il silenzio fossero obbligatorii. Per tutta la strada non si sentiva altro rumore che il frullo delle ali dei mulini.

S’incontravano dei barconi carichi di legumi, di torba, di pietre, di botti, rimorchiati con una lunghissima corda da un uomo aiutato qualche volta da un grosso cane con una cordicella al collo. Alcuni erano rimorchiati da un uomo, una donna e un ragazzo, l’uno dietro l’altro, colla fune legata a una specie di sottopancia di cuoio o di tela; tutti e tre tanto inclinati innanzi da non capire come malgrado il ritegno della fune potessero tenersi in piedi. Altri barconi eran rimorchiati da una vecchia sola. Su parecchi, c’era al timone una donna con un bambino al seno; altri bambini intorno; un gatto sur un sacco, un cane, una gallina, dei vasi di fiori, delle gabbie d’uccelli. Su altri la donna faceva la calza dondolando una culla col piede; su altri faceva da mangiare; in alcuni, tutta la famiglia, meno uno che rimorchiava, stava mangiando in crocchio. E non si può dire la pace che spirava nei visi di quella gente, nell’aspetto di quelle case acquatiche, di quegli animali divenuti, in certo modo, anfibii; la placidità di quella vita galleggian te, l’aria sicura e libera di quelle famiglie erranti e solitarie. E così vivono in Olanda migliaia di famiglie che non hanno altra casa che la barca. Un uomo piglia moglie, fra tutti e due comprano un battello, ci s’installano e portan le derrate da un mercato all’altro. I bambini nascon sui canali, sono allevati e crescon sull’acqua; la barca porta le masserizie, il piccolo peculio, le memorie domestiche, gli affetti, il passato, tutto il bene presente e tutte le speranze dell’avvenire. Si lavora, si risparmia, e dopo molti anni si compra un battello più grande, vendendo la vecchia casa a una famiglia più povera, o lasciandola al figlio maggiore che vi condurrà una sposa cresciuta sur un altro battello, e adocchiata per la prima volta in un incontro sul canale. E così di barca in barca, di canale in canale, la vita scorre soave e tranquilla, come la casa vagabonda che la ricetta e l’acqua silenziosa che l’accompagna.

Per un pezzo non vidi sulle due sponde che piccole case di contadini; poi cominciai a vedere villette, chioschi e capanni, mezzo nascosti fra gli alberi; e negli angoli più ombrosi, qualche signora bionda, vestita di bianco, seduta, con un libro in mano; o qualche grosso signore avvolto in un nuvolo di fumo, coll’aria soddisfatta del negoziante arricchito. Tutte queste villette son dipinte d’un color roseo o azzurrino, hanno i coppi del tetto inverniciati, terrazzi sostenuti da colonnine, e giardinetti davanti o intorno, con aiuole e sentieri da pre sepio; miniature di giardini, puliti, lisciati, leccati. Alcune case son poste sull’orlo del canale, col piede nell’acqua; e lascian vedere i fiori, i vasi e i mille ninnoli luccicanti dell’interno delle stanze. Quasi tutte hanno un’iscrizione sulla porta, che è come l’aforismo della felicità domestica, la formula della filosofia del padrone, come:—La pace è denaro.—Piacere e riposo.—Amicizia e società.—I miei desiderii sono soddisfatti.—Senza fastidi.—Tranquillo e contento.—Qui si godono i piaceri dell’orticultura.—Qua e là c’era qualche bella vacca bianca e nera, accovacciata sulla sponda, col muso a fior d’acqua, che sollevava placidamente la testa verso la barca. Incontravamo degli stormi d’anitre che si scansavano per lasciarci passare. C’erano di tratto in tratto a destra e a sinistra dei canaletti quasi coperti da due alte siepi che consertavano i rami formando una vôlta di verzura, sotto la quale si vedevano allontanarsi e sparire nell’oscurità delle barchette di contadini. Di tempo in tempo, in mezzo a tutto quel verde, saltava fuori all’improvviso un gruppo di case, un villaggetto variopinto e lindo, coi suoi specchietti e i suoi tulipani alle finestre; senza un’anima viva; e quel silenzio profondo era rotto da un’arietta allegra d’un campanile che non si vedeva. Era un paradiso pastorale, un paesaggio da idillio, pieno di freschezza e di mistero; un’arcadia chinese, tutta piccoli nascondigli, piccole sorprese, piccoli artifizi innocenti di bellezza, che facevan l’effetto come di tante voci som messe di gente invisibile che bisbigliassero:—Siamo contenti.

A un certo punto il canale si biforca; un braccio che si nasconde fra gli alberi va a Leida, l’altro volge a sinistra e va all’Aja. Dopo questo punto, il trekschuit cominciò a soffermarsi ora dinanzi a una casa, ora dinanzi alla porta di un giardino per ricevere involti, lettere e imbasciate a voce da portare all’Aja.

Un vecchio signore uscì da una villa e salì accanto a me. Parlava francese, attaccammo discorso. Era stato in Italia, sapeva qualche parola d’italiano, aveva letto Les fiancés; mi domandò dei particolari sulla morte di Alessandro Manzoni: dopo dieci minuti, l’adoravo. Da lui ebbi dei ragguagli sul trekschuit. Per capire la poesia di questa barca nazionale, bisogna fare dei viaggi lunghi, in compagnia di gente del popolo. Allora ognuno ci s’installa come in casa sua, le donne lavorano, gli uomini salgono a fumare sul tetto; desinano tutti insieme; dopo desinare, si adagiano fuori del casotto per vedere tramontare il sole; i discorsi si fanno più intimi, la brigata diventa una famiglia. Vien la notte; il trekschuit attraversa come un’ombra dei villaggi immersi nel silenzio, scivola sui canali inargentati dalla luna, si nasconde nelle macchie, esce nell’aperta campagna, rasenta le case solitarie in cui brilla la lucerna del contadino, e incontra barche di pescatori che gli passano accanto come fantasmi. In quella pace profonda, in quell’andar lento ed eguale, uomini e donne s’addormentano a poco a poco gli uni accanto agli altri e la barca non lascia più dietro di sè che il bisbiglio confuso dell’acqua e dei respiri.

Via via che s’andava innanzi, i giardini e le ville spesseggiavano. Il mio compagno di viaggio mi accennò un campanile lontano, e mi nominò il villaggio di Ryswijk, dove fu firmato nel 1697 il celebre trattato di pace tra la Francia, l’Inghilterra, la Spagna, l’Alemagna e l’Olanda. Il castello del principe d’Orange, dove convennero i firmatari, non esiste più, e fu alzato in suo luogo un obelisco.

Tutt’a un tratto, il trekschuit uscì di mezzo agli alberi, e vidi una vasta pianura, un gran bosco e una città coronata di torri e di mulini a vento.

Era l’Aja.

Il barcaiolo mi chiese e ricevette i denari in un sacchettino di cuoio. Il rimorchiatore stimolò il cavallo. In pochi minuti arrivammo in città, e dopo un quarto d’ora io mi trovavo in una stanza luccicante dell’Albergo Turenna, chi sa! forse nella stanza medesima dove il celebre maresciallo aveva dormito da giovanetto quando era al servizio dell’Olanda.

L’Aja—in olandese S’Gravenhage o S’Hage,—la capitale politica, la Washington dell’Olanda, della quale Amsterdam è la New-York,—è una città mezza olandese e mezza francese, con larghe strade senza canali; vaste piazze piene d’alberi, case signo rili, alberghi splendidi, e una popolazione composta in gran parte di ricchi, di nobili, d’impiegati, di letterati, d’artisti; e d’un popolino più raffinato che quello delle altre città olandesi.

Nel primo giro che feci per la città, quello che mi colpì di più furono i quartieri nuovi, dove abita il fiore dell’aristocrazia danarosa. In nessuna città, nemmeno nel sobborgo Saint-Germain a Parigi, mi sentii tanto povero diavolo come in quelle strade. Sono strade larghe e diritte, fiancheggiate da palazzini di forme snelle e di colori gentili, con grandi finestre senza persiane, per le quali si vedono i tappeti, i vasi di fiori e i mobili sontuosi delle sale a terreno; con tutte le porte chiuse; e non una bottega, non un annunzio sui muri, non una macchia, non una festuca a cercarla con cent’occhi. Quando passai per quelle strade, v’era un silenzio profondo. Solo di tratto in tratto incontravo qualche carrozza aristocratica che scorreva sul pavimento di mattoni quasi senza far rumore, e vedevo qualche lacchè impalato dinanzi a una porta, o qualche testa bionda di signora dietro a una tendina. Passando rasente le finestre, osservavo colla coda dell’occhio il mio meschino vestiario di viaggiatore riflesso spietatamente dalle grandi vetrate, mi pentivo di non aver portato i guanti, provavo una certa umiliazione di non essere almeno cavaliere di nascita, e mi pareva di udire qua e là delle voci sommesse che dicessero:—Chi è quel pezzente?

Della città antica, la parte più considerevole è il Binnenhof, un gruppo di vecchi edifizi di differenti stili d’architettura, che da due lati guarda, su due vaste piazze, e da un altro sopra un grande stagno. In mezzo a questo gruppo di palazzi, di torri, di porte monumentali, d’un aspetto medioevale e sinistro, v’è uno spazioso cortile, nel quale s’entra per tre ponti e tre porte. In uno di quegli edifizi risiedevano gli Statolderi, e ora v’è la seconda Camera degli Stati generali; dalla parte opposta, v’è la prima Camera, i Ministeri e diversi altri uffici d’amministrazione pubblica. Il ministro dell’interno ha il suo ufficio in una piccola torre bassa, nera, lugubre, che pende a filo sulle acque dello stagno.

Il Binnenhof, la piazza che si stende ad occidente chiamata Buitenhof, e un’altra piazza di là dallo stagno chiamata Plaats, nella quale si giunge passando sotto una vecchia porta che faceva parte d’una prigione, furono il teatro dei più sanguinosi avvenimenti della storia d’Olanda.

Nel Binnenhof, fu decapitato il venerando Van Olden Barneveldt, il secondo fondatore della repubblica, la più illustre vittima di quella lotta secolare tra il patriziato borghese e lo statolderato, tra il principio repubblicano e il principio monarchico, che travagliò così miseramente l’Olanda. Il patibolo ora innalzato dinanzi all’edifizio dove sedevano gli Stati generali. Dalla parte opposta v’è la torre dalla quale si dice che Maurizio d’Orange, non visto, assistesse al supplizio del suo nemico. Nella prigione ch’è fra le due piazze, fu torturato Cornelio De Vitt accusato ingiustamente d’aver tramato contro la vita del principe d’Orange. Nel Plaats furono trascinati dal popolo furioso, laceri e insanguinati, Cornelio e Giovanni De Vitt, il gran pensionario, e là sputacchiati, calpestati, uccisi a colpi di picca e di pistola; e poi mutilati e vilipesi i loro cadaveri. Nella stessa piazza fu pugnalata Adelaide di Poelgest, amante d’Alberto, conte d’Olanda, il 22 settembre del 1392; e si mostra ancora la pietra sulla quale cadde spirando.

Queste memorie funeste, quelle porte massiccie e basse, quel gruppo disordinato di edifizi cupi, che la notte, quando la luna batte sulle acque del lago morto, presentano l’aspetto d’un castello enorme e inaccessibile, destano in mezzo a quella città allegra e gentile, un sentimento di tristezza solenne. Il cortile, di notte, non è rischiarato che da qualche raro fanale; le poche persone che passano, s’affrettano come se avessero paura; non si sente il rumore dei passi, non si vede una finestra illuminata; vi si entra con una vaga inquietudine e se n’esce quasi con piacere.

Fuor di questo, l’Aja non ha monumenti considerevoli nè antichi nè moderni. Vi sono parecchie mediocri statue di diversi principi d’Orange; una cattedrale vasta e nuda e un palazzo reale modesto. Su molti edifizi pubblici si vede scolpita una cicogna, ch’è l’animale araldico della città. Parecchi di questi uccelli passeggiano liberamente nella piazza del mercato dei pesci, mantenuti a spese del municipio come gli orsi di Berna e le aquile di Ginevra.

Il più bell’ornamento dell’Aja è il suo bosco; una vera meraviglia dell’Olanda e uno dei più magnifici passeggi del mondo.

È un bosco d’ontani, di quercie e dei più grandi faggi che si vedano in Europa, del circuito di più d’una lega francese, posto ad oriente della città, a pochi passi dalle ultime case; una vera oasi deliziosa in mezzo alla malinconica pianura olandese. Appena vi s’è entrati, appena si sono oltrepassati i padiglioni, le casette svizzere, i chioschi sparsi in mezzo ai primi alberi, par di essersi smarriti in una foresta sterminata e solitaria. Gli alberi sono fitti come un canneto, i viali si perdon nel buio; ci son laghi, canali quasi nascosti dalla verzura delle sponde; ponti rustici, crocicchi di sentieri abbandonati, recessi chiusi, oscurità profonde e fresche in cui par di respirare l’aria d’una natura vergine e d’essere infinitamente lontani dai rumori del mondo.

Questo bosco, che come quello della città di Haarlem, si vuol che sia un resto d’un’immensa foresta che copriva anticamente quasi tutta la costa dell’Olanda, è rispettato dagli Olandesi come un monumento della loro storia nazionale. Nella storia d’Olanda, in fatti, si trovano moltissimi atti che gli si riferiscono, e che provano che in ogni tempo si ebbe una cura gelosa della sua conservazione. Gli stessi generali spagnuoli rispettando questa specie di culto nazionale, preservarono il bosco sacro dalle offese dei soldati. In più d’un’occasione di gravi strettezze finanziarie quando il governo sarebbe stato disposto a decretarne la distruzione per vender le legna, i cittadini scongiurarono il pericolo con una oblazione volontaria. Mille ricordi sono legati a questo bosco diletto: ricordi d’uragani spaventosi, ricordi d’amori principeschi, di feste celebri, di avventure romanzesche. Alcuni alberi portano il nome di re e d’imperatori, altri di elettori germanici; un faggio ha la fama d’esser stato piantato dal gran pensionario e poeta Giacobbe Catz; altri tre, dalla contessa d’Olanda, Giacomina di Baviera; e si accenna ancora il luogo dove essa soleva riposare delle sue passeggiate. E ci lasciò il suo ricordo anche il signor Voltaire, che ci ebbe non so che ripesco galante con la figliuola d’un parrucchiere.

In fondo al bosco, dove la piccola vegetazione presa da una sorta di furia conquistatrice, s’alza, s’ammucchia, s’arrampica su per gli alberi, s’intreccia sopra i sentieri, si stende sulle acque, e intercetta da tutte le parti il passo e la vista, come se volesse celare i misteri di qualche dimenticata divinità silvestre, si nasconde un palazzotto reale, chiamato la Casa del Bosco, una specie di Casa del labrador della villa d’Aranjuez, eretta nel 1647 dalla principessa Amelia di Solms in onore di suo marito Federico Enrico lo Statoldero.

Quando andai a visitare questo palazzo, mentre stavo cercando cogli occhi la porta d’entrata, vidi uscire e salire in carrozza una signora d’aspetto nobile e benevolo, che presi per una viaggiatrice inglese, che avesse terminata la sua visita. La carrozza mi passò accanto, mi levai il cappello, la signora fece un cenno del capo e scomparve.

Seppi un momento dopo da una cameriera del palazzo che quella «viaggiatrice» era niente meno che sua maestà la Regina d’Olanda.

Mi sentii una leggera scossa al sangue. La parola «regina» m’ha fatto sempre, indipendentemente dalla persona a cui si riferisca, quest’effetto; e non saprei dirne chiaramente il perchè. Forse perchè mi ricorda certe visioni luminose e confuse dell’adolescenza. L’immaginazione amorosa d’un ragazzo di quindici anni qualche volta striscia sulla terra e qualche volta si slancia con desiderii mostruosamente audaci a un’altezza vertiginosa. Sogna delle bianchezze sovrumane, dei profumi che danno il delirio e delle voluttà che fanno cader fulminati, e suppone che tutto questo si ritrovi nelle creature misteriose e inaccessibili che la fortuna ha poste in cima della scala sociale. E fra i mille casi strani, insensati, impossibili, che s’avvicendano nella sua mente nelle notti febbrili, sogna anche di superare nelle tenebre, colla sua agilità infantile, muri altissimi, cancellate formidabili, fossi profondi, di sospingere porte misteriosamente aperte, di passar per corridoi senza fine, in mezzo a gente assopita, per sale immense, nel silenzio; di salire per scale ae ree, di arrampicarsi su pei rilievi d’una torre, rischiando la vita, a una tremenda altezza, sopra i grandi alberi d’un giardino illuminato dalla luna; e infine di giungere spossato e insanguinato sopra un balcone, e là sentir da una voce sovrumana parole d’una pietà profonda, e rispondere con altre parole d’una tenerezza immensa, scoppiare in pianto, invocar Dio, curvar la fronte sul marmo, coprir di baci disperati un piede scintillante di gemme, abbandonar il viso nei rasi profumati, e sentirsi fuggir la ragione e la vita in un amplesso più forte della natura umana.

In quel palazzo, chiamato il Palazzo del Bosco, v’è, fra le altre cose considerevoli, una sala ottagona coperta dal pavimento alla vôlta di pitture dei più celebri artisti della scuola del Rubens, fra le quali uno smisurato quadro allegorico del Jordaens che rappresenta l’apoteosi di Federico-Enrico; una sala piena di preziosi regali dell’imperatore del Giappone, del vicerè d’Egitto e della Compagnia delle Indie; e un’altra elegante saletta decorata di pitture a chiaroscuro che si scambiano, anche considerate attentamente, per bassorilievi: opera di Jacob De Witt, pittore che acquistò in quell’arte corbellatrice una grande rinomanza sul principio del secolo scorso. Le altre son sale piccine, belle, ma senza fasto, e piene di tesori che non dan nell’occhio, come si convengono alla grande e modesta casa d’Orange.

Mi parve strano quell’uso di lasciar entrare gli stranieri nel palazzo nel momento stesso che la Regina ne usciva; ma non mi fece più specie quando conobbi altre consuetudini, altri tratti popolari, il carattere, in una parola, della famiglia reale d’Olanda.

Il re, in Olanda, è considerato quasi più come statoldero che come re. V’è in lui, come diceva del duca d’Aosta quel tal repubblicano spagnuolo, la minor quantità di re possibile. Il sentimento che il popolo olandese nutre per la famiglia reale non è tanto di devozione per la famiglia del monarca quanto di affetto per quella casa d’Orange che partecipò a tutti i suoi trionfi e a tutte le sue sventure, che visse, per così dire, della sua vita per lo spazio di tre secoli. Il paese, in fondo, è repubblicano, e la sua monarchia è una sorta di presidenza coronata, senza alcun fasto monarchico. Il Re pronunzia dei discorsi ai banchetti e nelle feste pubbliche come da noi i ministri; e gode anzi la fama di oratore, poichè parla all’improvviso, con una voce potentissima e un certo impeto d’eloquenza soldatesca, che eccita un indicibile entusiasmo nel popolo. Il principe ereditario, Guglielmo d’Orange, studiò all’Università di Leida, sostenne esami pubblici e prese la laurea d’avvocato. Il principe Alessandro, secondogenito, sta studiando ora nella stessa Università, è membro del Club degli studenti, e invita a pranzo i suoi professori e i suoi compagni di scuola. All’Aja, il principe Guglielmo entra nei caffè, discorre coi vicini, s’accompagna per la strada coi giovani suoi conoscenti. Nel bosco, la regina si mette a seder sur una panca accanto a una povera donna. E non si può dire che usin così, come altri principi, per acquistare popolarità, poichè la famiglia d’Orange non ne può nè acquistare nè perdere, non essendoci in quel popolo, per natura e per tradizione repubblicano, nemmeno un indizio di fazione, non dico che voglia la repubblica, ma che ne pronunzi il nome. Per contro, quel popolo, che ama e venera il suo re, che nelle feste in onor suo gli stacca i cavalli dalla carrozza ed esige che tutti portino una coccarda color d’arancio in omaggio al nome d’Orange, nei tempi ordinari non si occupa punto dei fatti suoi e della sua famiglia. All’Aja mi ci volle molto per sapere che grado avesse nell’esercito il principe ereditario. Uno dei primi librai della città, al quale rivolsi quella domanda, si meravigliò della mia curiosità che gli parve puerile, e mi disse che probabilmente non avrei trovato in tutta l’Aja cento persone che sapessero darmi una risposta.

La sede della corte è all’Aja; ma il re passa una buona parte dell’estate in un suo castello nella Gheldria, e va ogni anno a star qualche giorno in Amsterdam. Il popolo dice che v’è uno statuto il quale obbliga il re a passare in Amsterdam dieci giorni all’anno, e il municipio di quella città a fargli le spese per quei dieci giorni; suonata la mezzanotte dell’undecimo, un fiammifero che bruci Sua Maestà per accendere il sigaro, è a carico suo.

Tornando dalla villa reale all’Aja, trovai il bosco animato dalla passeggiata della domenica: musica, carrozze, una folla di signore, i caffè pieni di gente, e stormi di bambini da ogni parte.

Allora osservai per la prima volta il bel sesso olandese.

La bellezza è un fior raro in Olanda come in tutti i paesi; ma vidi nondimeno assai più donne belle in un giro di cento passi nel bosco dell’Aja, che non ne abbia viste in tutti i quadri dei Musei olandesi. Non si vede fra quelle signore nè la bellezza scultoria delle romane, nè gli splendidi colori delle inglesi, nè l’espressione vivacissima delle andaluse; ma una finezza, una grazia innocente e affabile, una leggiadria tranquilla, un’ideina che piace. Hanno l’attrattiva, disse giustamente uno scrittore francese, del fiore di valeriana che adorna i loro giardini. Son piuttosto alte che piccine, e grassotte; hanno i tratti del viso irregolari, la pelle unita e brillante, d’un bel bianco pallido o d’un roseo delicatissimo, che vi sembra stato suffuso dall’alito di un angelo; i pomelli delle guancie salienti; gli occhi d’un azzurro chiaro, sovente chiarissimo, in alcune di un’apparenza vitrea, che danno uno sguardo vago come quello d’una persona distratta. Si dice che non hanno bei denti: non lo potrei affermare perchè ridon poco. Camminano con meno leggerezza che le francesi, con meno rigidezza che le inglesi; vestono alla moda di Parigi; con più grazia all’Aja che ad Amsterdam, benchè meno riccamente; e mettono in pomposa evidenza le loro grandi capigliature bionde.

Mi fece specie il vedere ancora vestite da bimbe, colle sottane corte e i calzoncini bianchi, ragazze che da noi hanno già il vestire e l’aria di donne fatte. In Olanda, dove la vita è lenta e l’impazienza un sentimento ignoto, le ragazze non hanno fretta di smetter gli usi e l’aspetto della puerizia, e d’altra parte, entrano naturalmente assai più tardi che in altri paesi in quella età così critica, nella quale, come dice mirabilmente, al solito, Alessandro Manzoni, par che entri nell’animo una potenza misteriosa, che solleva, adorna e rinvigorisce tutte le inclinazioni e tutte le idee. Raramente una ragazza si marita prima di vent’anni. Non dico le bambine del regno di Decan che per quel che si racconta piglian marito all’età di ott’anni e son nonne prima dei venti; ma le italiane e le spagnuole che si sposano a quattordici o quindici, in Olanda sono considerate come creature miracolose. Là le ragazze quindicenni vanno sole alla scuola coi capelli giù per le spalle, e non c’è anima nata che le guardi. Ho inteso parlare quasi con orrore d’un giovanotto dell’Aja accusato da altri giovanotti di cercare delle avventure amorose in quell’età per essi non meno sacra dell’infanzia.

Un’altra cosa che si nota subito in una città olandese,—eccettuata Amsterdam,—è la mancanza della prostituzione elegante. Quell’abbigliamento e quei modi particolari, che dicono:—Son del bel numer una,—non si vedono affatto o quasi; e quel che si vede, c’è da scommettere nove volte su dieci che viene dall’immenso semenzaio della Senna.—“Badate,” mi dicevano certi olandesi liberi pensatori, “siete in un paese protestante, c’è molta ipocrisia.” Sarà; ma non può essere una gran piaga quella che si può ancora dissimulare. Società equivoca non n’esiste: non ce n’è ombra in pubblico, non ce n’è idea nella letteratura; la lingua stessa è ribelle alla traduzione d’una sola delle formule infinite che costituiscono il linguaggio doppio, lubrico e guizzante di quella società, nei paesi dov’ella si trova. D’altra parte, nè padri, nè madri non chiudon gli occhi sulla condotta dei figli scapoli, sian pure uomini tanto fatti; la disciplina della famiglia non fa eccezione per le barbe lunghe; e quello che poi cospira colla disciplina è il temperamento freddo, l’abitudine all’economia e il rispetto dell’opinion pubblica.

Parlare del carattere e della vita delle donne olandesi, coll’aria di esporre i frutti dell’esperienza propria, non essendo stato che qualche mese in Olanda, sarebbe una presunzione più ridicola ancora che impertinente; mi debbo dunque contentare di far parlare i libri e gli amici.

Molti scrittori hanno trattato scortesemente le donne olandesi. Uno le chiamò macchine da bambini; un altro massaie apatiche; un anonimo del secolo scorso spinse l’impertinenza fino a dire che come gli uomini, in Olanda, sogliono cercare le loro amanti nella classe delle fantesche, così le donne (le signore, intende di dire) non spingono molte volte più in alto le loro aspirazioni. Ma questi son giudizi dettati dalla stizza di qualche corteggiatore scorbacchiato. Daniele Stern, che come donna ha in questa materia un’autorità particolare, dice che sono altere, leali, attive, caste. Qualcuno lasciò trapelare dei dubbi intorno alla tanto predicata placidità dei loro affetti. Sono acque chete, scrisse l’Esquiroz, ma si sa quel che si dice delle acque chete. Sono vulcani gelati, disse l’Heine, che quando sgelano....! Ma di tutti i giudizi letti, mi parve il più notevole quello di Saint Evremont: che le donne olandesi non sono abbastanza vive per turbare il riposo degli uomini; e che ce ne sono, sì, delle amabili; ma che non v’è nulla a sperarne, o per la loro saggezza, o per una freddezza che tien luogo in loro di virtù.

Un giorno, in un crocchio di giovanotti dell’Aja, citai questo giudizio di Saint Evremont, e domandai bruscamente:—È vero?—Sorrisero, si guardarono, uno rispose:—Direi...;—un altro:—Mi pare...;—un terzo:—Sarebbe...;—infine s’accordarono tutti nel dire che era vero. Altre volte raccolsi degl’indizi provanti che le cose corrono oggi tale e quale come ai tempi dello scrittore francese. Si parlava in un crocchio d’un personaggio leggermente ridicolo. “Eppure,—disse uno,—quell’ometto d’apparenza così posata è un donnaiolo di prima riga.” Io domandai colla frase sacramentata: “Turba il riposo delle famiglie?” Si misero tutti a ridere e uno rispose: “Che! Turbare il riposo delle famiglie in Olanda! Sarebbe una delle dodici fatiche di Ercole.” “Noi olandesi,”—mi disse una volta un amico,—“non siamo conquistatori, e non possiamo esserlo perchè ci manca la scuola. Non c’è nulla di più falso in Olanda che la famosa definizione: il matrimonio è come una fortezza assediata; chi è fuori vorrebbe esser dentro; chi è dentro vorrebbe esser fuori. Qui chi è dentro ci sta bene e chi è fuori non pensa ad entrare.”—“La donna olandese,” mi disse un altro, “non sposa l’uomo, sposa il matrimonio.”—Questo che si dice all’Aja, città elegante, nella quale è grande l’influsso della civiltà francese, è anche più vero detto delle altre città dove i costumi antichi si son serbati più schietti. E dicano e scrivano pure i viaggiatori galanti che in Olanda si dorme, e che la felicità domestica vi è un bonheur un peu gros. Questa donna che esce poco, che balla poco, che ride poco, che non s’occupa che dei suoi bambini, di suo marito e dei suoi fiori, che legge libri di teologia e guarda la strada collo specchio per non farsi vedere alla finestra, quanto è più poetica.... Oh perdonami, stavo per dirtene una dura, Andalusia!

Sino a questo punto, potrebbe credere qualcuno ch’io voglia far sott’intendere che so la lingua olandese. Mi affretto a dire che non la so e a scusare la mia ignoranza. Un popolo, come l’olandese, grave e taciturno, più ricco di qualità nascoste che di belle qualità lampanti, che vive, se posso così esprimermi, molto più dentro che fuori di sè, che fa molto più di quello che dice, che non si spende per quello che vale; si può studiare anche senza comprendere la sua lingua. D’altra parte, in Olanda è straordinariamente diffusa la lingua francese. Nelle grandi città non v’è quasi persona colta che non parli francese correntemente, non v’è bottegaio che non sappia spiegarsi bene o male, non v’è quasi ragazzo, anche tra il popolo minuto, che non sappia quelle dieci o venti parole, che bastano a cavar d’impiccio uno straniero. Questa diffusione d’una lingua così diversa da quella del paese, è un fatto tanto più ammirabile quando si pensi che non è la sola lingua straniera che si parli comunemente in Olanda. L’inglese e la tedesca vi sono quasi altrettanto conosciute che la francese. Lo studio di tutte e tre queste lingue è obbligatorio nelle scuole medie. Le persone colte, quelle che in Italia sono quasi in dovere di sapere il francese, in Olanda leggono la maggior parte libri inglesi, tedeschi e francesi colla medesima facilità. Gli Olandesi hanno una particolare disposizione ad imparare le lingue, e un’incredibile franchezza nel conversare. Noi Italiani, prima di rischiarci a parlare una lingua straniera, vogliamo saperla tanto da non lasciarci sfuggire dei grossi errori; arrossiamo, quando ci scappano; evitiamo le occasioni di discorrere finchè non siamo sicuri di parlare in modo da tirarci un complimento; e così facendo, allunghiamo sempre più il pe riodo del nostro noviziato filologico. In Olanda segue soventissimo d’incontrare gente che parla francese rimestando con infiniti sforzi un capitale di cento parole e di venti frasi; ma parla, regge una lunga conversazione e non mostra di curarsi menomamente di quello che voi possiate pensare dei suoi spropositi e della sua audacia. Portinai, facchini, ragazzi, interrogati se sappiano il francese, rispondono colla più grande sicurezza:— Oui, o— un peu, e s’industriano in mille modi per farsi capire, ridendo qualche volta essi medesimi delle stravaganti contorsioni del loro linguaggio, e arrotondando ogni risposta con un s’il vous plaît o un pardon, Monsieur, detto il più delle volte così graziosamente a sproposito, da doverne ridere ad ogni costo. E pare così ovvio a tutti il sapere il francese, che quando qualcuno deve rispondere che non lo sa, tituba, si vergogna, e se è interrogato per la strada, finge d’aver fretta e vi pianta su due piedi.

Quanto alla lingua olandese, per chi non sappia il tedesco è buio pesto; e anche sapendo il tedesco, si può capirne qualcosa nei libri, con un po’ di studio; ma a sentirla parlare, è buio egualmente. Se avessi da dire l’effetto che fa sull’orecchio a chi non la intende, direi che par tedesco parlato da gente che abbia un pelo nella gola; il che è dovuto alla frequenza d’un’aspirazione gutturale che somiglia alla jota spagnuola. Gli Olandesi stessi non trovano che la loro lingua sia armoniosa. Mi accadde spesso di sentirmi domandare con un’aria scher zosa:—Che effetto le fa?—quasi sottintendendo che dovesse essere un effetto poco gradevole. Eppure ci fu chi scrisse un libro per dimostrare che Adamo ed Eva, nel paradiso terrestre, parlavano olandese. Ma benchè parlino tante lingue straniere, gli Olandesi tengon molto alla propria; e s’indignano quando uno straniero ignorante mostra di credere, così per sentita dire, che l’olandese sia un dialetto tedesco; cosa, per verità, creduta da molti di coloro che conoscon quella lingua soltanto di nome. È quasi superfluo il rammentare la storia della lingua. I primi popoli del paese parlavano il teutono nei suoi varii dialetti. Questi dialetti si fusero e formarono l’antica lingua neerlandese, la quale passò nel medio evo, come le altre lingue d’Europa, per le differenti fasi germanica, normanna, francese, e ne uscì l’olandese attuale, nel quale rimane il fondo dell’idioma primitivo, con qualche impronta latina. Certo v’è una grande somiglianza fra l’olandese e il tedesco, e soprattutto un’infinità di radicali comuni; ma ne differisce molto la sintassi, nell’olandese assai più semplice, e moltissimo la pronunzia. E questa medesima somiglianza è cagione che gli Olandesi parlino per lo più men bene il tedesco che l’inglese o il francese, sia per la difficoltà che nasce dalla facilità dell’equivoco, sia perchè, non dovendo fare un gran sforzo per riuscire a comprendere la lingua e a parlarla per il proprio bisogno, s’arrestan lì, come segue a molti di noi per il francese, che lo parliamo già a dieci anni e non lo sappiamo ancora a quaranta.

È tempo ora d’andar a vedere il Museo di pittura che è il più bel gioiello dell’Aja.

Appena entrati, ci si trova dinanzi alla più celebre di tutte le bestie dipinte: il toro di Paolo Potter; quell’immortale toro che, come ho detto, ebbe l’onore, nel Museo del Louvre, quando c’era la manía di classificare i quadri in una sorta di gerarchia di celebrità, d’esser posto accanto alla Trasfigurazione di Raffaello, al san Pietro martire del Tiziano e alla Comunione di san Geronimo del Domenichino; quel toro, che l’Inghilterra pagherebbe un milione di lire, e l’Olanda non darebbe per il doppio; quel toro infine, sul quale furono certamente scritte più pagine che non ci abbia dato pennellate il pittore, e su cui si scrive e si disputa ancora, come se invece d’una immagine fosse una creazione vera e viva d’un nuovo animale.

Il soggetto del quadro è semplicissimo: un toro di grandezza naturale, ritto, col muso rivolto verso chi guarda; una vacca accosciata in terra; alcune pecore, un pastore, un paesaggio lontano.

Il merito supremo di questo toro, si dice in una parola: è vivo. L’occhio grave ed attonito, che esprime il sentimento d’una vitalità vigorosa e d’una alterezza selvaggia, è reso con tanta verità, che, a primo aspetto, vien quasi fatto di scansarsi a destra e a sinistra, come si fa in un sentiero in campagna, quando s’incontra uno di quegli animali. Le narici umide e nere, par che fumino e assorbiscano l’aria con un’aspirazione profonda. I peli son resi uno per uno con tutte le pieghe, le torsioni, le traccie dei fregamenti contro gli alberi e la terra, e sembran peli veri attaccati alla tela. Gli altri animali non son da meno: la testa della vacca, la lana delle pecore, le mosche, l’erba, le foglie e le fibre delle piante, il muschio; ogni cosa è reso con una verità prodigiosa. E mentre si capisce l’infinita cura che deve averci messo l’artista, non si vede la fatica, la pazienza della copia; par quasi un lavoro d’ispirazione, di foga, nel quale il pittore, infiammato da una sorta di furore del vero, non abbia avuto un momento d’esitazione o di stanchezza. Furon fatte su questo «incredibile colpo d’audacia d’un giovane ventiquattrenne» infinite censure. Si censurò la sua grandezza eccessiva per la natura volgare del soggetto; la mancanza d’effetto luminoso, perchè la luce v’è uguale per tutto e dà risalto a ogni cosa, senza contrasto d’ombra; la rigidezza delle gambe del toro; il colorito secco delle piante e degli animali lontani; la mediocrità della figura del pastore. Ma con tutto questo, il toro di Paolo Potter riman coronato della gloria dei grandi capolavori e l’Europa lo considera come l’opera più magistrale del principe dei pittori d’animali. «Col suo toro,—disse giustamente un critico illustre—Paolo Potter ha scritto il vero idillio dell’Olanda.»

Questo è il grande merito dei pittori d’animali dell’Olanda, e del Potter soprattutto. Egli non ha soltanto rappresentato gli animali; ma ha reso vi sibile e celebrato colla poesia dei colori l’amore attento, delicato, quasi materno, che nutre per essi il popolo agricolo dell’Olanda. S’è servito degli animali come d’interpreti per rivelare la poesia della vita rustica. Ha espresso con essi il silenzio e la pace dei campi, il piacere della solitudine, la dolcezza del riposo e la soddisfazione del lavoro tranquillo. Si direbbe ch’egli era riuscito a farsi capire da loro e a ottenere che s’atteggiassero espressamente per essere copiati. Ha saputo dar loro tutta la varietà e l’attrazione di personaggi. La tristezza, la quiete contenta che segue la soddisfazione dei bisogni, il sentimento della salute e della forza, l’amore e la riconoscenza per l’uomo, tutti i barlumi d’intelligenza e gli embrioni d’affetti, tutte le varietà di carattere, li ha afferrati e significati con fedeltà amorosa, ed è riuscito a trasfondere negli altri il sentimento che l’animava. Guardando i suoi quadri, ci si sente risvegliare a poco a poco non so che istinto primitivo di vita pastorale, un certo desiderio innocente di mungere, di tosare, di lavorare con quegli animali benefici, pazienti e belli, che rallegrano l’occhio ed il cuore. Paolo Potter, in quest’arte, s’è innalzato su tutti. Il Berghem è più fine, ma egli è più naturale; il Van de Velde ha più grazia, ma egli ha più energia; il Du Jardin è più amabile, ma egli è più profondo.

E pensare che l’architetto, che fu poi suo suocero, non voleva da principio accordargli la figliuola perchè non era che un pittore di bestie; e che il suo celebre toro fu fatto, se si sta alla tradizione, per servir d’insegna alla bottega d’un macellaio, e venduto per 1260 lire!

Un altro capolavoro del museo dell’Aja, è un quadretto di Gherardo Dov, l’autore della celebre Donna idropica, ch’è nel Museo del Louvre fra i quadri di Raffaello e del Murillo; uno dei più grandi pittori di scene intime della scuola olandese, e il più paziente tra i più pazienti artisti della sua patria. Il quadro non rappresenta che una donna seduta vicino a una finestra, con una culla accanto; ma in questa semplicissima scena, v’è una così cara e santa aura di pace domestica, un riposo così profondo, un’armonia così amorosa, che il più ostinato scapolo della terra non ci potrebbe fissar gli occhi senza sentirsi nel cuore un desiderio irresistibile di essere colui che manca ed è aspettato in quella stanzina quieta e pulita, o almeno di poterci entrare per un momento, anche di soppiatto, anche colla condizione di starci rannicchiato nel buio, pur di poter aspirare quel profumo di felicità innocente e segreta. Questo quadro, come tutti quei del Dov, è dipinto con la prodigiosa finitezza, che già in lui tocca quasi l’eccesso, che lo toccò poi con quello Slingelandt, che impiegò tre anni di lavoro continuo a dipingere la famiglia Meerman, e che degenerò posteriormente in quella maniera lisciata, leccata, tormentata, delle figure d’avorio, dei cieli di smalto e dei campi di velluto, della quale il pittore Van der Werff fu il più rinomato maestro. Fra gli altri oggetti si vede in questo quadro del Dov un manico di scopa, grande come l’asticciuola d’una penna, intorno al quale si dice che il pittore abbia lavorato assiduamente per lo spazio di tre giorni; il che non pare strano, quando si pensi che ci son segnati tutti i più minuti filamenti, le venature, i nodi, le macchiette, le ammaccature, le traccie delle dita. Di questa sua sovrumana pazienza si raccontano cose appena credibili. Si dice che abbia impiegato cinque giorni a copiare una mano d’una signora Spirings di cui fece il ritratto: chi sa quanto ci avrà messo a fare la testa! I malcapitati che volevano farsi ritratti da lui, li riduceva alla disperazione. Si racconta che macinasse egli medesimo i suoi colori, che facesse i suoi pennelli e tenesse ogni cosa ermeticamente chiuso, perchè non pigliasse ombra di polvere. Quando entrava nel suo studio apriva delicatamente la porta, si sedeva con gran flemma e rimaneva immobile fin che ogni menoma agitazione prodotta in lui dal movimento fosse cessata. Poi cominciava a dipingere, servendosi di vetri concavi per rimpicciolire gli oggetti. Questo sforzo continuo finì per indebolirgli la vista, e fu costretto a dipingere colla lente. Con tutto ciò, il suo colorito non è punto affaticato o raffreddato dal lavoro, e i suoi quadri conservano lo stesso vigore così visti da lontano che da vicino. Furono, con molta giustezza, rassomigliati a scene naturali rimpicciolite in una camera oscura. Il Dov fu uno dei molti discepoli del Rembrandt, che si divisero l’eredità del suo genio. Egli ne raccolse la finezza e l’arte d’imitare la luce, soprattutto delle candele e delle lucerne, nella quale, come vedremo nel Museo d’Amsterdam, s’elevò all’altezza del suo maestro. Raro fra i pittori del suo genere, non si piacque nella rappresentazione della bruttezza e dei soggetti triviali.

Il genere intimo è rappresentato nel Museo dell’Aja, oltrechè dal Dov, da Adriano van Ostade, dallo Steen, e dal Van Mieris il vecchio.

Il Van Ostade, chiamato il Rembrandt della pittura intima, poichè imitò dal grande maestro l’arte potentissima del chiaroscuro, delle sfumature delicate, della trasparenza delle ombre, della ricchezza del colorito, ci ha due quadretti che rappresentano l’interno e l’esterno d’una casa rustica, con figure; pieni tutti e due di poesia, malgrado la volgarità dei soggetti, ch’egli ha comune cogli altri pittori dello stesso genere. Ma ha questo di particolare: che le ragazze notevolmente brutte dei suoi quadri sono immagini prese nella sua famiglia, la quale, per quel che si dice, era un gruppo di mostriciattoli, che egli mise alla berlina dell’universo. Così quasi tutti i pittori olandesi scelsero fra le donne che dipinsero le meno belle che caddero sotto i loro occhi, come se si fossero dati l’intesa per screditare il tipo femminino della loro patria. Le Susanne del Rembrandt, per citare i soggetti che avrebbero richiesto più degli altri la bellezza, sono brutte serve olandesi; e non occorre parlare delle donne dello Steen, del Brouwer e d’altri. E sì nel loro paese non manca vano, come s’è visto, i modelli d’una bellezza nobile e graziosa.

Francesco van Mieris il vecchio, il primo discepolo di Gherardo Dow, come lui minuzioso e finissimo (che appartiene col Metsu e col Terburg, due pittori eminenti per finitezza e colorito, a quel gruppo di pittori del genere intimo, che scelsero i loro soggetti nelle classi elevate della società), ha tre bei quadri, uno dei quali rappresenta l’artista con sua moglie. Dello Steen v’è fra gli altri il suo soggetto favorito; un medico che tocca il polso a una ragazza malata d’amore, e una governante che assiste; ammirabile gioco di sguardi e di sorrisi inesprimibilmente arguti e bricconi, che voglion dire nel medico:—Mi par di capire;—nella malata:—Ci vuol altro che le tue ricette,—e nella governante:—Lo so io quel che ci vuole!—Altri quadri di genere intimo del Schalken, del Tilborg, del Netscher, di Guglielmo van Mieris, rappresentano cucine, botteghe, desinari, famiglie di pittori.

In fatto di paesaggi e di marine vi son le più belle gemme del Ruysdael, del Berghem, del Van de Velde, del Van der Neer, del Backhuizen, dell’Everdingen, oltre un buon numero di quadri di Filippo Wouwermann, il pittore dei cavalli e delle battaglie.

Vi son due quadri del Van Huysum, il grande pittore di fiori; quegli che, nato in un tempo in cui l’Olanda era presa da una sorta di follia amorosa per i fiori e possedeva i più belli d’Europa, ce lebrò col pennello questa follia, e ne destò un’altra coi suoi quadri. Nessuno ha reso più meravigliosamente di lui le sfumature infinite, la freschezza, la trasparenza, la vellutatura, le grazie, i pudori, le languidezze, i mille segreti di bellezza, tutte le sembianze della vita pomposa e delicata di questa perla della vegetazione, di questo vezzo amoroso della natura, che è il fiore. Gli Olandesi gli portavano le meraviglie dei loro giardini perchè le copiasse; tutti i re gli domandavan dei fiori; i suoi quadri eran pagati somme, per quei tempi, favolose. Geloso di sua moglie e della sua arte, lavorava solo, invisibile ai suoi stessi fratelli, perchè non scoprissero i segreti del suo colorito; e così visse e morì glorioso e malinconico in mezzo ai petali e ai profumi.

Ma il primo capolavoro del Museo è la celebre Lezione d’Anatomia del Rembrandt.

Questo quadro gli fu ispirato da un sentimento di riconoscenza per il medico Tulp, professore di anatomia ad Amsterdam, il quale lo protesse nella sua giovinezza. Il Rembrandt rappresentò il Tulp coi suoi discepoli aggruppati intorno a una tavola sulla quale è disteso un cadavere nudo con un braccio sparato dal coltello anatomico. Il professore col cappello in capo, ritto, mostra colle forbici i muscoli del cadavere ai suoi discepoli, e spiega. Dei discepoli alcuni sono seduti, altri ritti, altri chinati sul cadavere. La luce che vien da sinistra a destra, illumina i volti e una parte del corpo morto, la sciando nell’oscurità i vestimenti, la tavola e le pareti della stanza. Le figure son di grandezza naturale.

È difficile spiegare l’effetto che produce questo quadro. Il primo sentimento è l’orrore e il ribrezzo del cadavere. Ha la fronte nell’ombra, gli occhi aperti colla pupilla rivolta in su, la bocca socchiusa in un atteggiamento come di stupore, il petto enfiato, le gambe e i piedi stecchiti, le carni livide, che pare se ne debba sentire il freddo a metterci sopra la mano. Con questo corpo irrigidito, fanno un contrasto potente gli atteggiamenti vivaci, i volti giovanili, gli occhi umidi, intenti, pieni di pensiero dei discepoli, che rivelano in diverso grado l’avidità del sapere, la gioia dell’apprendere, la curiosità, la meraviglia, lo sforzo dell’intelligenza, la sospensione dell’animo. Il maestro ha il volto tranquillo, l’occhio sereno e il labbro quasi sorridente dell’intima compiacenza del sapere. V’è nel complesso del gruppo un’aria di mistero, di gravità, di solennità scientifica, che impone la riverenza e il silenzio. Il contrasto tra la luce e l’ombra è meraviglioso al pari di quello tra la morte e la vita. Tutto vi è rappresentato con una finitezza incredibile: si possono contare le piegoline delle gorgiere, le rughe dei visi, i peli delle barbe. Si dice che lo scorcio del cadavere è sbagliato e che in qualche punto la finitezza degenera in secchezza; ma il giudizio universale pone la Lezione d’Anatomia fra i più grandi capolavori del genio umano.

Il Rembrandt non aveva che ventisei anni quando fece questo quadro, il quale appartiene perciò alla sua prima maniera, nella quale non si vede ancora la foga, l’audacia, la sovrana sicurezza del proprio genio, che sfolgora nei lavori della sua età matura; ma v’è già tutta quell’immensa potenza illuminatrice, quell’arte meravigliosa del chiaroscuro, quella affascinante magía dei contrasti, che è il tratto più originale del suo genio.

Per quanto si sia profani all’arte, e s’abbia fatto il proponimento di non peccar più di soverchio entusiasmo, quando s’è dinanzi a Rembrandt van Rhijn, non si può a meno d’alzare un po’, come dicon gli Spagnuoli, la chiavica dello stile. Il Rembrandt esercita un prestigio particolare. Frate Angelico è un santo, Michelangelo è un gigante, Raffaello è un angelo, il Tiziano è un principe: il Rembrandt è uno spettro. Come chiamar diversamente questo figlio d’un mugnaio, nato in un mulino a vento, che salta su inaspettato, senza maestri, senza esempi, senza alcuna derivazione di scuola; diventa un pittore universale, abbraccia tutti gli aspetti della vita, dipinge figure, paesaggi, marine, animali, i santi del paradiso, i patriarchi, gli eroi, i monaci, la ricchezza e la miseria, la deformità e la decrepitezza, il ghetto, la taverna, l’ospedale, la morte; fa insomma una rivista del cielo e della terra e avvolge ogni cosa in una luce arcana che sembra scaturita dal suo capo; ed è nello stesso tempo grandioso e minuzioso, idealista e realista, pittore e incisore; che trasfigura tutto e non dissimula nulla, che cangia gli uomini in fantasmi, le scene più volgari della vita in apparizioni misteriose, questo mondo, sto per dire, in un altro mondo, che non par più questo e lo è ancora? Dove ha attinto quella sua luce indefinibile, quei bagliori di raggi elettrici, quei riflessi d’astri ignoti, che fanno pensare come un enigma? Che cosa vedeva nelle tenebre questo sognatore, questo visionario? Qual era l’arcano che gli tormentava l’ingegno? Che cosa ha voluto dire coll’eterno conflitto dei suoi raggi e delle sue ombre questo pittore dell’aria? Fu detto che le opposizioni del chiaro e dell’oscuro corrispondevano in lui ai diversi movimenti del pensiero. E veramente pare che quello che seguiva allo Schiller, di sentirsi dentro, prima di cominciare un’opera, un’armonia di suoni indistinti, ch’era come un preludio dell’ispirazione; seguisse al Rembrandt, il quale nell’atto di concepire un quadro, aveva una visione di raggi e d’ombre, che volevano dire qualche cosa prima che li animasse coi suoi personaggi. Nei suoi quadri infatti c’è una vita, un’azione, direi quasi, drammatica, estranea a quella delle figure umane. Fasci di luce vivissima irrompono in un ambiente tenebroso come grida di gioia; le tenebre fuggono impaurite, lasciando qua e là penombre piene di malinconia, riflessi tremoli che paion lamenti, oscurità profonde, piene di minaccie funeree; guizzi di luce, scintillamenti, ombre ambigue, trasparenze che sembran dubbi, domande, sospiri, parole d’un linguaggio soprannaturale, che si sente, come la musica, e non si comprende, e riman nella memoria come il ricordo d’un sogno. E in quest’atmosfera pose i suoi personaggi, dei quali alcuni rimasero vestiti della luce sfolgorante d’un’apoteosi teatrale, altri velati come larve, altri saettati da un sol raggio di luce nel viso; vestiti di abiti pomposi o miseri, ma tutti con qualcosa di strano e di fantastico; senza contorni precisi, ma carichi di colori possenti, con rilievi scultorii e tocchi di pennellate temerarie; e per tutto l’espressione calda, la furia dell’ispirazione violenta, l’impronta superba, capricciosa, profonda del genio senza freno e senza paura.

Del resto, ognuno vuol dir la sua; ma chi sa che il Rembrandt se potesse leggere tutte le pagine che si sono scritte per spiegare le segrete intenzioni della sua pittura, non darebbe in uno scoppio di risa! Tale è la sorte degli uomini di genio: ognuno, per mostrare che li ha capiti meglio degli altri, se li rimpasta a modo suo; sono come un bel tema dato da Dio, che gli uomini svolgono in mille modi diversi; un telaio su cui l’immaginazione umana dipinge e ricama secondo le torna o le frulla.

Uscii dal Museo dell’Aja con un desiderio insoddisfatto, per non averci trovato nessun quadro di Girolamo Bosch, nato a Bois-le-duc, nel decimoquinto secolo. Questo cervellaccio pieno di diavolerie, questo spauracchio di bigotti, questo stregone dell’arte, m’aveva fatto accapponar la pelle per la prima volta nel Museo di Madrid, con un quadro che rappresenta un orribile esercito di scheletri vivi sparpa gliati sur un immenso spazio, in lotta con una folla varia, confusa, disperata di uomini e di donne, che essi vogliono trascinare in una voragine dove li aspetta la morte. Solamente dall’immaginazione inferma d’un uomo agitato dal terrore della dannazione, poteva uscire una così mostruosa stravaganza; dinanzi alla quale, per quanto sia lontano il tempo in cui s’aveva paura dei fantasmi, si risente un confuso risvegliarsi di quella paura. Tali furono i soggetti di tutti i suoi quadri: torture di dannati, spettri, abissi di fuoco, draghi, uccelli soprannaturali, mostri schifosi, cucine diaboliche, paesaggi sinistri. Uno di questi spaventosi quadri si trovò nella cella dove morì Filippo II; altri si sparsero in Spagna e in Italia. Chi era questo pittore chimerico? Come visse? Che strana manìa lo tormentava? Non si sa; passò sulla terra avvolto in una nuvola, e disparve come una visione d’inferno.

Al pian terreno del palazzo del Museo v’è un «Gabinetto Reale di curiosità» che contiene, oltre un gran numero di oggetti vari della China, del Giappone e delle Colonie olandesi, alcune reliquie storiche preziosissime. Fra le altre, v’è la spada di quel Ruyter, che cominciò la sua vita facendo il cordaio a Flessinguen, e fu poi il più grande ammiraglio dell’Olanda; la corazza, traforata dalle palle, dell’ammiraglio Tromp; una seggiola della prigione del venerando Barnevelt; una scatola contenente dei capelli di quel Van Spoyk, che nel 1831, sulla Schelda, fece saltare in aria il suo vascello per salvare l’onore della bandiera olandese. V’è pure il vestiario completo che portava Guglielmo il Taciturno quando fu assassinato a Delft: la sua camicia macchiata di sangue, la sua giubba di pelle di bufalo forata dalle palle, i suoi larghi calzoni, il suo gran cappello di feltro; e nella stessa vetrina le palle, le pistole dell’assassino, e il testo originale della sua sentenza di morte.

Quel vestiario modesto, quasi rozzo, che portava nel colmo della sua potenza e della sua gloria il capo della repubblica dei Paesi Bassi, è una bella testimonianza della semplicità patriarcale dei costumi olandesi. Non v’è forse altro popolo moderno che abbia avuto, in un grado uguale di prosperità, meno vanità e meno fasto. Si racconta che quando il conte di Leicester, mandato dalla regina Elisabetta, giunse in Olanda, e quando vi fu lo Spinola per trattare della pace in nome del re di Spagna, la loro magnificenza fece quasi scandalo. Si dice che gli ambasciatori spagnuoli, andati all’Aja nel 1608 per stipulare la famosa tregua, videro dei deputati degli Stati d’Olanda, meschinamente vestiti, sedersi in un prato, e far colezione con un po’ di pane e di cacio che avevano portato in una bisaccia. Il gran pensionario Giovanni De Witt, l’avversario di Luigi XIV, aveva un solo servitore. L’ammiraglio Ruyter viveva ad Amsterdam in una casa da pover uomo e scopava la sua camera da letto.

Un altro oggetto curiosissimo di questo Museo è una cassa aperta sul davanti, come una scansía, che rappresenta in tutti i suoi più minuti particolari l’interno d’una ricca casa di Amsterdam del principio del secolo XVIII. Lo czar Pietro il Grande, durante il suo soggiorno in Amsterdam, aveva dato a un ricco borghese di quella città l’incarico di fargli quel giocattolo di casa, per portarla in Russia come un ricordo dell’Olanda. Il ricco borghese, che si chiamava Brandt, fece la cosa da bravo olandese: adagio e bene. I più abili ebanisti dell’Olanda costrussero i mobili, gli orefici più esperti fecero le argenterie, i tipografi più accurati stamparono libriccini, i miniatori più delicati dipinsero i quadri, la biancheria fu preparata in Fiandra, le tappezzerie a Utrecht. Dopo venticinque anni di lavoro tutte le stanze si trovarono allestite. La camera nuziale aveva tutto il necessario per il prossimo parto della padroncina; nella sala da pranzo c’era un microscopico servizio da thè sur un tavolino largo come uno scudo; la galleria dei quadri, a guardarci bene colla lente, era completa; in cucina ci era di che fare un lucullesco desinare per una compagnia di lilliputti; c’era la biblioteca, un gabinetto di varietà chinesi, gabbie d’uccelli, libriccini di preghiera, tappeti, biancheria per tutta la famiglia con trine e ricami finissimi; non mancava che una coppia coniugale, una cameriera e una cuoca un po’ più piccini d’una marionetta ordinaria. Ma c’era un guaio: la casetta costava centoventimila lire; lo czar che, come tutti sanno, era un uomo economo, la rifiutò e il Brandt, piccato, per svergognare l’imperiale avarizia, la regalò al Museo dell’Aja.

Fin dal primo giorno avevo incontrato per le strade dell’Aja certe donne vestite in una maniera così strana, che m’ero messo a pedinarne una per osservare attentamente tutti i particolari del suo costume. A primo aspetto immaginai che appartenessero a qualche ordine religioso, o che fossero eremite, o pellegrine, o donne di qualche popolo nomade di passaggio per l’Olanda. Portano uno spropositato cappello di paglia foderato d’indiana a fiori, una mantellina da frate di rascia color cioccolatte, foderata di una stoffa rossa; una sottana pure di rascia, corta, gonfia che par che abbiano la crinolina; le calze nere e gli zoccoli bianchi. La mattina si vedono andare al mercato con una cesta piena di pesci sulla testa, o con un carretto, tirato da due grossi cani. Sono per lo più scompagnate, o a due a due, senz’uomini. Camminano in una maniera particolare, a passi lunghi, con un certo accasciamento, come chi è abituato a camminare sulla sabbia; e hanno nel viso e nel contegno qualcosa di triste, che concorda coll’austerità cenobitica del loro vestire.

Un olandese a cui domandai chi fossero, mi disse per tutta risposta: “Vada a Scheveningen.”

Scheveningen è un villaggio, distante due miglia dall’Aja, e ci si va per una strada diritta, fiancheggiata in tutta la sua lunghezza da parecchie file di bellissimi olmi, che non vi lasciano penetrare un raggio di sole. Di là dagli olmi, dalle due parti della strada, ci son palazzine, padiglioni, villette coi tetti frangiati, come chioschi di giardino, e facciate di mille forme capricciose colle solite iscrizioni che invitano al riposo e al piacere. Quella strada, che è il passeggio favorito del popolo dell’Aja la sera della domenica, gli altri giorni è quasi sempre solitaria. Non vi s’incontra che qualche donna di Scheveningen, qualche carrozza, e le diligenze che vanno e vengono tra la città e il villaggio. Andando innanzi, par che si debba riuscire in faccia a un palazzo reale, in mezzo a un gran giardino o a un gran parco. Quella folta vegetazione, quell’ombra, il silenzio, ricordano il bosco dell’Alhambra di Granata. Non si pensa più a Scheveningen e si dimentica che s’è in Olanda.

Arrivati in fondo, è un istantaneo cambiamento di scena che fa rimaner trasognati: la vegetazione, l’ombra, le immagini di Granata, tutto è sparito: si è in mezzo alle dune, nella sabbia, nel deserto; si sente soffiar nel viso un vento salino, e si ode un gran rumore sordo e diffuso; si sale sopra un’altura, e si vede il Mare del Nord.

Per chi non ha mai veduto che il Mediterraneo, lo spettacolo di quel mare e di quella spiaggia, desta un sentimento nuovo e profondo. La spiaggia è tutta sabbia chiara e finissima come cenere, sulla quale scorre avanti e indietro, come un tappeto continuamente spiegato e ripiegato, l’ultimo lembo delle onde del mare. Questa spiaggia sabbiosa si stende fino ai piedi delle prime dune, che son monticciuoli di sabbia, ripidi, rotti, corrosi, deformati dall’eterno flagello delle onde. Tale è tutta la costa olandese dalle foci della Mosa ad Helder. Non vi son molluschi, nè stelle di mare, nè conchiglie viventi, nè granchi, nè un cespuglio, nè un filo d’erba. Non si vede che acqua e sabbia, sterilità e solitudine.

Il mare non è meno tristo della costa, e risponde veramente all’immagine che ci formiamo del Mare del Nord, leggendo dei superstiziosi terrori degli antichi che se lo raffiguravano agitato da venti eterni, e popolato da mostri giganteschi. Vicino alla sponda è giallastro, più in là d’un verde pallido, e più lontano d’un azzurro smorto. L’orizzonte è per lo più velato dalla nebbia, che spesso discende fin sulla spiaggia, e nasconde tutto il mare, come un’immensa cortina, lasciando veder soltanto le onde che vengono a morire sulla sabbia, e qualche larva di barcone da pescatore poco lontano. Il cielo è quasi sempre grigio, percorso da grandi nuvole che gettano sulle acque ombre dense e mobilissime; in alcuni punti nero d’un’oscurità quasi notturna, che fa balenare alla mente immagini di tempeste e di naufragi orrendi; in altri punti rischiarato da sprazzi, da righe serpeggianti di luce vivissima, che sembrano fulmini immobili, o albori di qualche astro misterioso. L’onda, sempre agitata, corre a mordere la riva con un impeto furioso, e manda un rumore prolungato che pare un grido di minaccia e di dolore d’una folla infinita. Il mare, il cielo e la terra si guardano con aspetto sinistro, come tre nemici implacabili, e sembra, a contemplare quello spettacolo, che sia imminente qualche grande sconvolgimento della natura.

Il villaggio di Scheveningen è posto sulle dune, che lo difendono dal mare, e lo nascondono in modo che, a guardar dalla spiaggia, non si vede che il campanile a pan di zucchero della chiesa, ritto come un obelisco in mezzo alle sabbie. Il villaggio è diviso in due parti. L’una è composta di casette eleganti, di tutte le forme e di tutti i colori olandesi, fatte ad uso degli stranieri, con l’ appigionasi scritto in diverse lingue; l’altra parte, nella quale abita la popolazione indigena, è tutta casupole nere, stradette, recessi dove gli stranieri non mettono mai piede.

La popolazione di Scheveningen, che conta poche migliaia di anime, è quasi tutta composta di pescatori, la maggior parte poverissimi. Il villaggio è ancora una delle stazioni principali della pesca dell’aringa, di quel pesce celeberrimo cui l’Olanda deve la sua ricchezza e la sua potenza; ma i frutti di quest’industria vanno agli armatori dei bastimenti da pesca, e gli uomini di Scheveningen, arrolati come marinai, guadagnano appena di che vivere. Sulla spiaggia, davanti al villaggio, si vedon sempre parecchi di quei battelli larghi, robusti, con un albero solo, e una grande vela quadrata, schierati l’uno accanto all’altro sulla sabbia, come le galere dei greci sulla riva di Troia, per essere al sicuro dai colpi di vento. La flottiglia per la pesca dell’aringa parte i primi mesi di giugno, accompagnata da una corvetta a vapore, e si dirige verso la costa della Scozia. Le prime aringhe pescate, sono subito mandate in Olanda, e portate in un carro imbandierato al Re, che contraccambia il regalo con cinquecento fiorini. Quei battelli fanno pure la pesca d’altri pesci, che sono in parte venduti all’incanto sulla riva del mare, e in parte lasciati ai pescatori di Scheveningen che li mandano per mezzo delle loro donne al mercato dell’Aja.

Scheveningen, come tutti gli altri villaggi della costa, Katwijk, Wlardingen, Maassluis, è un villaggio decaduto dall’antico stato di floridezza in conseguenza del decadimento della pesca dell’aringa, cagionato, come tutti sanno, dalla concorrenza dell’Inghilterra e dalle guerre disastrose. Ma la miseria, invece d’infiacchire, rinvigorì il carattere di quel piccolo popolo, che è fuor di dubbio il più originale e il più poetico dell’Olanda. Gli abitanti di Scheveningen formano per aspetto, per indole e per costumi quasi una famiglia straniera al proprio paese. Sono a due miglia da una grande città e conservano l’impronta d’un popolo primitivo, che sia sempre vissuto nella solitudine. Quali erano secoli addietro, tali sono oggi. Nessuno abbandona il proprio villaggio, nessuno che non ci sia nato, ci penetra; non si maritano che fra loro; parlano un linguaggio particolare; son tutti vestiti nello stesso modo e degli stessi colori, com’erano i padri dei loro padri. Al tempo della pesca, non rimangono nel villaggio che le donne e i bimbi: gli uomini vanno tutti al mare. Partendo, portano con sè la Bibbia. A bordo non s’ubriacano, non bestemmiano, non ridono. Quando il mare in tempesta solleva e precipita da spaventose altezze il loro piccolo battello, chiudono tutte le aperture, e aspettano la morte con rassegnazione. In quel momento le loro donne, chiuse nelle casette flagellate dalla pioggia e dal vento, cantano i salmi. Quei piccoli abituri, che furono testimoni di tante ansietà mortali, che sentirono i singhiozzi di tante vedove, che videro la santa gioia dei ritorni e gli addii sconsolati di tanti sposi, rappresentano colla loro pulizia, colle loro tendine bianche, colle vesti e colle camicie marinaresche appese alle finestre, la povertà libera e dignitosa dei loro abitanti. Da quelle case non escono nè vagabondi, nè donne corrotte; nessun abitante di Scheveningen ha mai disertato il mare, e nessuna fanciulla ha mai sdegnato la mano d’un pescatore. Uomini e donne hanno nel portamento del capo e nell’espressione dello sguardo, un non so che di grave e di sdegnoso che impone rispetto. Salutano senza chinar la fronte, guardando la gente negli occhi, come per dire:—Non abbiamo bisogno di nessuno.—

Anche in questo piccolo villaggio vi son due scuole, e non si può dire il sentimento che si prova vedendo a una cert’ora sparpagliarsi per quelle misere stradicciuole uno sciame di bambini biondi con una lavagna sotto il braccio e il gessetto in mano.

Scheveningen non è solamente un villaggio famoso per l’originalità dei suoi abitanti, che tutti gli stranieri visitano, e tutti i pittori dipingono. Vi sono due grandi case di bagni, dove convengono in estate Inglesi, Russi, Tedeschi, Danesi; il fiore dell’aristocrazia settentrionale; principi e ministri; mezzo l’almanacco di Gotha; e là balli, illuminazioni fantastiche e fuochi d’artificio sul mare. Le due case son poste sulle dune. A tutte le ore del giorno, certe carrozze della forma di baracche ambulanti di ciarlatani, tirate da un cavallo robusto, s’avanzano dalla spiaggia nel mare, fanno un giro sopra sè stesse, e n’escono signore che si tuffano nelle onde, lasciando errare le capigliature d’oro in preda al vento marino. La notte, echeggiano le musiche, i bagnanti escono, e la spiaggia si popola di una folla festiva, varia, elegante, in mezzo alla quale si odono accenti di tutte le lingue e si vedono bellezze di tutti i paesi. A pochi passi da quella festa, lo straniero malinconico trova la solitudine oscura delle dune, dove la musica gli giunge appena all’orecchio, come un’eco lontana, e le case dei pescatori gli mostrano i loro lumicini che fan pensare alla famiglia e alla pace.

La prima volta che andai a Scheveningen, feci una passeggiata per quelle dune, tanto illustrate dai pittori, le sole alture che intercettino lo sguardo sull’immensa pianura olandese, figlie ribelli del mare a cui contrastano il passo, e nello stesso tempo prigioniere e guardiane dell’Olanda. Vi sono tre ordini di dune che formano un triplice baluardo contro il mare; le esterne sono le più aride, quelle di mezzo le più alte, e quelle interne le più coltivate. L’altezza media di queste montagnole di sabbia non è maggiore di una quindicina di metri; e tutte insieme non s’addentrano nelle terre per più di una lega francese. Ma non essendoci nè vicino nè lontano alcun’altura maggiore, esse offrono all’occhio ingannato l’aspetto d’una vasta regione montagnosa. Vi si vedono le vallate, le gole, i precipizi; prospetti che sembrano lontanissimi, e sono a un trar di mano; cime di dune vicine, sulle quali sembra che un uomo dovrebbe apparire appena come un bambino, e pare invece un gigante. A guardar quella regione dall’alto, presenta l’immagine d’un mar giallo, tempestoso ed immobile. La tristezza di questo deserto è ancora accresciuta da una vegetazione selvaggia, che par come la gramaglia di quella natura morta e abbandonata: erbe esili e rade, fiori coi petali quasi diafani, ginestre, eriche, rosmarini, gallinelle, fra cui si vede tratto tratto fuggire qualche coniglio. Per grandissimi spazi non si scorge una casa, nè un albero, nè un’anima viva. Passano di tempo in tempo corvi, chiurli, gabbiani; e i loro gridi, e lo stormire degli arbusti agitati dal vento, sono il solo rumore che rompa il silenzio di quella solitudine. Quando il cielo è nero, il colore smorto della terra acquista una chiarezza sinistra, simile a quelle luci fantastiche in cui appariscono gli oggetti guardati a traverso un vetro colorato. Allora, stando soli in mezzo alle dune, si prova un senso quasi di sgomento come chi si trovasse in un paese ignoto, sterminatamente lontano da ogni terra abitata; e si cerca con ansietà sull’orizzonte nebbioso qualche ombra di campanile che riconforti il cuore.

In tutta la mia passeggiata non incontrai che qualche contadino. Cosa notevole in un paese settentrionale, i contadini olandesi salutano quasi sempre la gente che incontrano per via. Alcuni si tolgono la berretta con un gesto curioso, di sbieco, che par fatto per celia. Per il solito dicono buon giorno o buona sera senza guardare in viso coloro che salutano. Se incontrano due persone dicono: “Buona sera a tutti e due” o se son più di due: “Buona sera a tutti insieme.” In un sentiero, in mezzo alle prime dune, vidi parecchi di quei poveri pescatori che passan quasi tutta la giornata nell’acqua fino alla cintola, a raccoglier conchiglie, che servon a fare un cemento particolare, o si spargono pei sentieri dei giardini in luogo di sabbia. L’operazione che debbon fare per togliersi gli enormi stivali di cuoio con cui vanno nel mare, richiede a dir poco una mezz’ora di fatica noiosissima, la quale fornirebbe a un marinaio italiano il pretesto per tirar giù tutti i Santi. Essi invece fanno quel lavoro con una flemma da metter sonno, senza lasciarsi sfuggire il menomo atto d’impazienza, e non alzando la testa, prima d’aver finito, neanche se sentissero una cannonata.

Stando su quelle dune, vicino a un obelisco di pietra che rammenta il ritorno di Guglielmo d’Orange dall’Inghilterra dopo la caduta del dominio francese, vidi per la prima volta uno di quei tramonti di sole che destano in noi Italiani un sentimento di meraviglia diversa, ma non meno viva, di quella che i tramonti di Napoli e di Roma destano negli stranieri del nord. Il sole, per l’effetto rifrangente dei vapori di cui è sempre piena l’aria in Olanda, appariva d’una grandezza meravigliosa e diffondeva tra le nuvole e sul mare uno splendore velato e tremulo come il riflesso d’un immenso incendio. Pareva un altro sole, apparso inaspettatamente sull’orizzonte, che dovesse tramontare per non mostrarsi mai più a questa terra. Un fanciullo avrebbe creduto vero quello che disse un poeta:—In Olanda il sole muore;—e l’uomo più freddo si sarebbe lasciato fuggir dalle labbra un addio.

Poichè ho parlato d’una passeggiata a Scheveningen, ricorderò altre due belle escursioni che feci dall’Aja l’inverno passato.

La prima fu al villaggio di Naaldwijk, e da questo villaggio alla riva del mare, dove si sta aprendo il nuovo canale di Rotterdam. A Naaldwijk, grazie alla cortesia d’un ispettore scolastico ch’io accompagnava, soddisfeci il mio vivissimo desiderio di vedere una scuola elementare; e dico fin d’ora che la mia favorevole aspettazione fu di gran lunga superata. La casa, fabbricata apposta ad uso di scuola, è isolata, e non ha che il piano terreno. Entrammo prima in un piccolo vestibolo, dov’era un monte di zoccoli, che l’ispettore mi disse appartenere agli scolari, i quali sogliono deporli entrando nella scuola e riprenderli uscendo. Nella scuola, i ragazzi stanno colle calze sole, e non patiscon punto freddo, perchè hanno calze spessissime; ma soprattutto perchè le stanze sono riscaldate come gabinetti di ministri. Entrammo, gli scolari s’alzarono e il maestro venne incontro all’ispettore. Anche quel povero maestro di villaggio parlava francese, e così si potè fare un po’ di conversazione. V’era nella sala una quarantina di scolari, metà maschi e metà femmine, queste da una parte, quelli dall’altra; tutti biondi, grassotti, faccioni pieni di bonomia, con una cert’aria precoce di babbi e di mamme, che avrebbe fatto sorridere un impiegato del Censimento. L’edifizio è diviso in cinque sale, separate l’una dall’altra da una grande vetrata che chiude tutto il vano come una parete; in modo che, quando manca il maestro in una classe, quello della classe vicina può sorvegliare gli scolari del suo collega, senza moversi dal proprio posto. Tutte le sale sono spaziose e hanno finestroni alti dal pavimento fin quasi al soffitto, così che c’è chiaro come nel mezzo della strada. I banchi, le pareti, il pavimento, i vetri, le stufe, ogni cosa era nitida come in una sala da ballo. Ricordandomi di certe sentine pestifere delle scuole ch’io frequentai da ragazzo, volli vedere i luoghi segreti, e li trovai quali si trovano in pochi dei primi alberghi. Vidi poi nelle pareti molti di quelli oggetti che mi ricordo d’aver tanto desiderato quando sedevo su quei banchi: come quadretti con paesaggi e figure, ai quali il maestro riferisce racconti e insegnamenti, perchè si stampino meglio nella memoria; immagini d’oggetti e d’animali; carte geografiche fatte appositamente con grandi nomi e colori vivi; sentenze, regole grammaticali, precetti stampati in caratteri di scatola. Una sola cosa mi parve che lasciasse a desiderare: la pulizia delle persone.

Non voglio qui ripetere quello che molti scrissero, ed anche qualche olandese afferma, che in Olanda si trascuri generalmente la pulizia della pelle, che le donne non faccian bagni e che le gambe delle tavole sian più nette che le gambe dei cittadini. Ma è certo che la pulizia delle cose vi si cura infinitamente più della pulizia delle persone, e che la mediocrità di questa piglia risalto dall’eccellenza di quella. In una scuola italiana, forse quei ragazzi mi sarebbero parsi puliti; ma confrontandoli colla nitidezza meravigliosa degli oggetti che li circondavano, e pensando ch’eran figliuoli di quelle stesse donne che impiegan mezza la giornata a lavar usci ed imposte, mi parvero, ed erano infatti un po’ sudici. In certe scuole della Svizzera ci sono dei lavatoi, dove i ragazzi sono obbligati a lavarsi entrando ed uscendo. Mi sarebbe piaciuto, perchè non mi rimanesse nulla a desiderare, veder quei lavatoi anche nelle scuole d’Olanda.

Ho detto «quel povero maestro» per modo di dire, perchè seppi poi che ha uno stipendio di più di duemila e duecento lire e un quartierino in una bella casa del villaggio. In Olanda i maestri delle scuole elementari, i capi, poichè vi son pure gli aiutanti, non han nessuno uno stipendio minore di ottocento lire, che è il minimum, stabilito dalla legge, che possan dare i Comuni. Nessun Comune però si attiene a questa somma, e vi son maestri, che hanno lo stipendio d’uno dei nostri professori d’università. È vero che in Olanda la vita è assai più cara che in Italia; ma è anche vero che quegli stipendi, che a noi paiono pingui, là si riconoscono scarsi, e si tratta d’accrescerli. E bisognerebbe anco mettere in bilancia che i maestri olandesi, stante la diversità del carattere nazionale, hanno da fare assai minor spesa di polmoni, di pazienza e di buon umore che i maestri italiani; il che non è da disprezzarsi, se è vero che la salute conta per qualche cosa.

Da Naaldvijk ci dirigemmo verso il mare. Strada facendo, il mio cortese compagno mi spiegò chiaramente a che punto è in Olanda la quistione dell’insegnamento. Nei paesi latini la gente interrogata da uno straniero, gli risponde collo scopo di far veder che sa e che parla bene; in Olanda, badano piuttosto a farvi capir la cosa; e se non la capite alla prima, ricomincian da capo e ve la pestan nella testa fin che ci sia entrata intera e netta come ce l’hanno loro.

La quistione dell’insegnamento, in Olanda, è, co me quasi tutte le altre, una quistione religiosa, la quale, alla sua volta, è la più grave, anzi l’unica grande quistione che agiti il paese.

Dei tre milioni e mezzo d’abitanti che conta l’Olanda, un terzo, com’è noto, son cattolici; centomila, circa, israeliti; gli altri protestanti. I cattolici, che abitano in grandissima parte le provincie meridionali, Limburgo e Brabante, non sono, come in altri paesi, divisi politicamente; ma costituiscono una sola legione clericale, papista, ultramontana,—la più fedele legione di Roma, come dicono gli stessi Olandesi;—in mezzo alla quale si vende la paglia su cui dorme il Pontefice, e si fulmina l’Italia dal pergamo e coi giornali. Questo partito cattolico, che non avrebbe gran forza per sè stesso, ne acquista moltissima dall’essere i protestanti divisi in un gran numero di sètte religiose: calvinisti ortodossi; protestanti che credono nella rivelazione, ma rigettano certi dogmi della Chiesa; altri che negano la divinità di Cristo, senza però separarsi dalla chiesa protestante; altri credenti in Dio, ma separati da ogni Chiesa; altri, e fra questi molti uomini di alto ingegno, che fanno professione aperta di ateismo. In questo stato di cose, il partito cattolico ha naturali alleati i Calvinisti, i quali, come credenti fervidissimi, e conservatori inflessibili della religione dei loro padri, sono assai meno profondamente divisi dai cattolici che da una buona parte dei loro correligionari, e formano, in certo modo, il partito clericale del protestantesimo. Ora negli Stati Generali vi sono da un lato cattolici e calvinisti, dall’altro un partito liberale, e fra questi e quelli una schiera ondeggiante che non consente una superiorità assoluta ad alcuna delle due parti. Il campo principale di battaglia fra i partiti estremi è la quistione dell’insegnamento primario, e questa si riduce, da parte dei cattolici e dei calvinisti, nel volere che alle attuali scuole, così dette miste, nelle quali non è dato alcun particolare insegnamento religioso perchè vi possano concorrere insieme cattolici e protestanti d’ogni dottrina; nel volere, dico, che a queste scuole, siano sostituite altre, mantenute pure dai Comuni sotto la direzione dello Stato, nelle quali si dia un insegnamento dogmatico. È facile comprendere la gravità delle conseguenze che porterebbe una tale scissura nell’educazione popolare, i germi di discordie e d’ire religiose, il perturbamento che nascerebbe, col tempo, dallo stringere la gioventù in gruppi di diversa fede. Sinora il principio della scuola mista prevalse, ma le vittorie dei liberali furono difficili; i cattolici e i calvinisti strapparono successivamente delle concessioni, e si preparano a strapparne delle nuove; il partito cattolico, in una parola, più potente ancora che il partito calvinista, uno, saldo, risoluto, acquista di giorno in giorno terreno; e non è inverosimile che riesca a conseguire una vittoria, benchè passeggiera, la quale provochi nel paese una reazione violenta. A tale son dunque le cose in quell’Olanda che lottò ottant’anni contro il dispotismo cattolico, e che ora ha gravi ragioni di temere in un tempo forse non lontano una guerra religiosa!

Malgrado questo stato di cose, che impedì finora l’istituzione, sollecitata dai liberali, dell’istruzione obbligatoria, e che allontana dalle scuole un gran numero di ragazzi cattolici, l’istruzione popolare, in Olanda, si trova in condizioni che qualunque stato europeo può invidiare. Proporzione fatta, vi son meno analfabeti che in Prussia. Di tutta Europa, come disse con giusto orgoglio uno scrittore olandese in altri giudizi severo verso la sua patria, è il paese dove le cognizioni indispensabili ad un uomo civile sono più universalmente diffuse. Mi fece una gran specie, una volta che domandai a un Olandese se nella classe delle donne di servizio ce n’era qualcuna che non sapesse leggere, sentirmi rispondere:—Eh sì; mi ricordo che vent’anni fa mia madre n’aveva una analfabeta; e se ne parlava come di una cosa strana.—Ed è un gran piacere per uno straniero che non sappia la lingua, in una città di Olanda, far leggere un nome sulla Guida al primo monello che gli capita tra i piedi, ed esser sicuro che intende e che s’ingegna d’insegnar la strada coi gesti.

Discorrendo di cattolici e di calvinisti arrivammo alle dune, e benchè fossimo a un trarre di mano dalla spiaggia, non vedevamo ancora il mare. “Strano paese l’Olanda,” dissi al mio amico; “in cui tutte le cose giuocano a rimpiattino! Le facciate nascondono i tetti, gli alberi nascondono le case, le città nascondono i bastimenti, gli argini nascondono i canali, la nebbia nasconde i campi, le dune nascondono il mare.”—“E un giorno o l’altro,” mi rispose l’amico, “il mare nasconderà tutto, e sarà finito il giuoco.”

Passammo le dune e ci avanzammo nella spiaggia dove si fanno i lavori preparatorii per aprire il canale di Rotterdam.

Due dighe, una lunga più di mille duecento metri, l’altra più di duemila, e distanti un chilometro tra loro, si avanzano nel mare, in direzione perpendicolare alla spiaggia. Queste due dighe, costruite per proteggere l’entrata dei bastimenti nel canale, sono formate da parecchi ordini di palafitte enormi, di blocchi smisurati di granito, di fascine, di sassi, di terra, e hanno la larghezza di dieci uomini schierati di fronte. Il mare, che le flagella di continuo, e le copre in gran parte durante l’alta marea, ha vestito interamente pietre, travi e fascine d’uno strato fittissimo di conchiglie nere come l’ebano, che da lontano paiono un immenso tappeto di velluto, e danno a quei due giganteschi baluardi un aspetto severo e magnifico, come d’un paramento guerresco spiegato dall’Olanda per celebrare la sua vittoria sull’oceano. In quel momento, montava la marea, e ferveva la battaglia intorno all’estremità lontana delle dighe. Non si può dire la rabbia con cui le onde livide si vendicavano dello scherno di quelle due smisurate corna di granito che l’Olanda appunta nel seno del suo superbo nemico. Le palafitte e i massi erano sferzati, morsi, schiaffeggiati da ogni parte, sorvolati da ondate sdegnose, sputacchiati da una pioggia vaporosa che li nascondeva come un nuvolo di polvere; ravvolti da ringorghi contorti come serpenti furiosi; percossi, anche i lontani dalla lotta, da spruzzi inaspettati e lunghissimi, come avanguardie impazienti di quell’esercito infinito; e intanto l’acqua saliva e si avanzava costringendo gli operai più lontani a indietreggiare a mano a mano.

Sulla diga più lunga, non molto lontano dalla spiaggia, si stava piantando delle palafitte. Alcuni operai sollevavano a gran fatica, per mezzo d’un apparecchio a carrucole, dei blocchi di granito; e altri, a dieci, a quindici insieme, rimovevano vecchie travi per far posto alle nuove. Era bello a vedersi il contrasto tra la furia delle onde che flagellavano i fianchi della diga, e la calma impassibile di quegli uomini che pareva quasi un’espressione di disprezzo per il mare. Mi passò per la mente che dicessero in cuor loro, come il marinaio dell’orca dei Comprachicos nel romanzo di Vittor Hugo: “Muggi, vecchio!” Un vento, che agghiacciava le carni, faceva ondeggiare sul viso di quei bravi olandesi i loro lunghi riccioli biondi, e gettava tratto tratto ai loro piedi e sui loro vestiti degli spruzzi di schiuma: sciocche provocazioni, alle quali non rispondevano neanche collo sguardo.

Vidi piantare nel mezzo della diga una palafitta, un grossissimo tronco d’albero acuminato all’una delle estremità, e rizzato in mezzo a due travi parallele, fra le quali una macchina a vapore faceva scorrere un enorme martello di ferro. La palafitta doveva farsi strada a traverso parecchi strati fortissimi di fascine e di sassi; eppure, ad ogni colpo di quel formidabile martello si profondava spezzando, lacerando, stritolando, per più d’un palmo dentro la diga, come sarebbe penetrata nella terra. Ciò nondimeno, tra l’apparecchiare e il piantare, l’operazione durò, per quella sola palafitta, quasi un’ora. Io pensai alle migliaia ch’erano state confitte, alle migliaia che si dovevan configgere, alle interminabili dighe che difendono l’Olanda, a quelle infinite che furon rovesciate e ricostruite, e abbracciando col pensiero, per la prima volta, la grandezza favolosa di quel lavoro, provai un senso di spavento che mi fece rimanere lungo tempo immobile e senza parola.

Intanto le acque salivan già fin quasi all’altezza della diga, facendo un rumore come di soffi, di aneliti, di voci stanche, che pareva mormorassero segreti di mari lontani e di lidi sconosciuti; il vento soffiava più freddo; l’aria cominciava a oscurarsi; e io provavo un desiderio inquieto di ritirarmi da quegli spalti avanzati nell’interno della fortezza. Tirai per la falda il mio compagno che da un’ora stava ritto sur un macigno, e tornammo sulla spiaggia. Entrammo a bere un bicchiere di schiedam in una di quelle botteghe che si chiamano in olandese: Vieni e domanda, dove si vendon vini, salumi, sigari, scarpe, burro, panni, biscotti, un po’ d’ogni cosa; e poi ripigliammo la via di Gravenhagen.

L’altra passeggiata fu la più avventurosa ch’io abbia fatta in Olanda. Un mio carissimo amico dell’Aja m’invitò ad andare a desinar con lui in casa d’un suo parente, il quale gli aveva manifestato il cortese desiderio di conoscermi. Domandai all’amico dove il suo parente stava di casa; mi rispose: “Lontano dall’Aja.” Domandai da che parte, non me lo volle dire; mi disse di trovarmi la mattina seguente alla stazione della strada ferrata, e mi lasciò. La mattina, ci troviamo alla stazione; l’amico prende i biglietti per Leida; arriviamo a Leida, scendiamo, e invece d’entrare in città, pigliamo una strada a traverso la campagna. Allora pregai il mio compagno di svelarmi il segreto; mi rispose che non lo poteva svelare. Sapevo che quando un olandese non vuol dire una cosa, non c’è potenza in terra che gliela faccia dire; mi rassegnai. Era febbraio, tempo chiuso, punta neve; ma tirava un vento impetuoso e freddo che dopo cinque minuti di strada ci ridusse il viso pavonazzo. Era di domenica, la campagna deserta. Si va, si va, si vedon mulini a vento, canali, praterie, casette mezzo nascoste tra gli alberi, con altissimi tetti di stoppia tappezzata di musco. S’arriva a un villaggio; i villaggi olandesi son chiusi da una barriera; s’infila la porticina della barriera, si entra, non c’è nessuno, le porte son chiuse, le finestre hanno le tendine calate, non si sente una voce, non un passo, non un respiro. Si attraversa il villaggio, si passa davanti a una chiesa tutta coperta d’edera come una capanna di giardino, nella quale, guardando per uno spiraglio della porta, si vede un ministro protestante, in cravatta bianca, che predica, e dei contadini coi visi rigati d’oro, di verde o di porpora dalla luce delle vetrate colorite. Si va oltre per una bella strada di mattoni, si vedono antenne per i nidi delle cicogne, palafitte piantate dai contadini perchè le vacche ci si strofinino, paracarri tinti di color celeste, casette colle tegole di vario colore che forman delle lettere e delle parole, bacini con barchette, ponticelli, chioschi d’uso ignoto, chiesuole con un gran gallo dorato sulla punta del campanile; e non un’anima viva, nè vicino nè lontano. Andiamo innanzi, innanzi; il cielo si rischiara un po’, poi si riabbuia; la luce del sole illumina un canale qui, fa scintillare il tetto d’una casa là, indora un campanile lontano, fugge, ritorna, promette, dice, disdice, fa mille civetterie; e sull’orizzonte si vedono delle striscie oblique di pioggia. Cominciamo a incontrare qualche contadina col cerchio d’oro intorno al capo, il velo sul cerchio, il cappello sul velo, un mazzo di fiori sul cappello, e grandi nastri svolazzanti; qualche carrozza di campagnuoli, dell’antica forma Luigi XV, colla cassa dorata, adorna di sculture e di specchietti; contadini con gran vestito nero e gran zoccoli bianchi; ragazzi con calze di tutti i colori dell’iride. Arriviamo a un altro villaggio pulito, lustro, colorito, colle sue strade am mattonate, e le sue finestre ornate di tendine e di fiori, saliamo in una carrozza e via. Appena usciti, ci coglie una pioggia minuta e diacciata che ci penetra fino alle ossa. Imbacuccati nelle coperte, intirizziti, fradici, arriviamo sulla sponda d’un grande canale, un uomo esce da un casotto, fa salire la carrozza sopra una zattera e ci porta sani e salvi all’altra sponda. La carrozza scende per una larga strada, ci troviamo nel fondo dell’antico mare d’Haarlem, il cavallo corre dove una volta guizzavano i pesci, il cocchiere fuma dove spiravano i naufraghi delle battaglie navali; vediamo di sfuggita canali, villaggi, campi coltivati, un nuovo mondo di cui trent’anni fa non c’era traccia. Dopo un miglio di strada, cessa la pioggia, e comincia a nevicare con una furia non mai veduta; una vera tempesta di neve fitta e dura, che il vento impetuoso ci getta quasi orizzontalmente nel viso. Spieghiamo la tela incerata, apriamo gli ombrelli, ci tappiamo, ci raggomitoliamo; ma il vento butta all’aria tutte le nostre difese e la neve irrompe, c’imbianca e ci agghiaccia dai piedi alla testa. Dopo un lungo giro usciamo dal lago, la neve cessa, arriviamo a un altro villaggio fatto di case da presepio, lasciamo la carrozza, ripigliamo la strada a piedi. Si va, si va, si vedon ponti, mulini, casette chiuse, strade solitarie, praterie immense, e nessuno. Si passa sur un braccio del Reno, si arriva a un altro villaggio tutto sbarrato e silenzioso, si va innanzi non vedendo che qualche viso che ci guarda di dietro i vetri dei finestrini, si esce dal villaggio e ci si trova in faccia alle dune. Il cielo comincia a oscurarsi ed io comincio ad inquietarmi. Domando all’amico dove si va e l’amico mi risponde:—Alla ventura.—C’inoltriamo in mezzo alle dune, per stradicciuole sabbiose e serpeggianti; non si vede più indizio d’abitazione da nessuna parte; si sale, si scende; il vento ci getta la sabbia nel viso, i piedi s’affondano; il paese si fa sempre più arido, accidentato, sinistro. “Ma chi è questo vostro parente,” dico al mio compagno, “dove vive, che cosa fa? Qui c’è sotto qualche diavoleria; non può essere un uomo come un altro; ditemi dove mi conducete.” L’amico non risponde, s’arresta e guarda davanti a sè; guardo io pure e vedo lontano un qualche cosa che somiglia a una casa, sola nel mezzo del deserto, quasi nascosta da un rialto del terreno. Affrettiamo il passo, la casa sparisce e riapparisce come un’ombra. Vi si vedono intorno delle antenne che presentan la forma di patiboli, e il mio amico mi vuol far credere che sono le antenne dei nidi delle cicogne. Arriviamo a un centinaio di passi: vediamo lungo un muro un condotto di legno che par bagnato di sangue; il mio amico mi dà ad intendere che è colorito di rosso. La casa è piccola, circondata da uno stecconato; le porte e le finestre son chiuse. “Non entriamo,” dico io; “siamo ancora in tempo, in quella casa c’è qualche stregoneria, badate a quello che fate, guardate in su: io non ho mai visto un cielo così nero.” L’amico non mi dà retta, s’avanza coraggiosamente, io lo seguo. Invece di andar verso la porta, piglia una scorciatoia; ci scoppia alle spalle un feroce latrar di cani, ci mettiamo a correre, attraversiamo una foresta di cespugli, saltiamo un muricciuolo, picchiamo a una porticina. “Siamo ancora in tempo!” esclamo. “È tardi!” mi risponde l’amico. La porta s’apre, non c’è nessuno; saliamo per una scaletta a chiocciola, entriamo in una stanzina.... Oh dolce meraviglia! Il solitario, lo stregone, era un giovanotto allegro e gentile; e la casa diabolica era una villetta piena di comodi, calda, luccicante, sibaritica, una vera palazzina fatata, nella quale il nostro ospite si raccoglieva alcuni mesi dell’anno a fare studi ed esperienze per infertilire le dune. Che gusto era veder quel freddo deserto a traverso una finestrina colle tende frangiate e coi vasi di fiori! Entrammo nel salotto da pranzo e sedemmo intorno a una tavola scintillante di argenteria e di cristalli, sulla quale, in mezzo a una corona di bottiglie blasonate e dorate, fumava un desinare da principi. La neve batteva contro i vetri delle finestre, s’udiva il lamento del mare, e il vento infuriava intorno alla casa, che pareva d’essere in un bastimento nel forte della burrasca. Si propinò all’infertilimento delle dune, ai vincitori di Atchin, alla prosperità delle colonie, alla memoria di Nino Bixio, alle fate.... Eppure un po’ d’inquietudine mi rimaneva ancora. Il nostro ospite, per chiamare il cameriere, toccava un ordigno nascosto; per avvertire il cocchiere che preparasse la carrozza, diceva non so che parole in un buco della parete; e questi armeggíi non mi piacevano. “Mi rassicuri” gli dicevo; “mi dica che questa casa esiste davvero; mi prometta di non far lo scherzo di farla sparire, non lasciando più che un buco nella terra e un puzzo di zolfo nell’aria! Mi giuri che dice le sue orazioni tutte le sere!” Non posso ridire le risa, l’allegrezza, i discorsi stravaganti che si succedettero fino a notte avanzata accompagnati dal tintinnío dei bicchieri e dal fragore della tempesta. Infine giunse il momento di partire, scendemmo, e ci cacciammo in un carrozzone che si slanciò a traverso il deserto. La terra era tutta coperta di neve, le dune disegnavano i loro contorni bianchi sul cielo tenebroso, la carrozza scorreva senza far rumore in mezzo a mille forme strane e indistinte, che si succedevano rapidamente al chiarore della lanterna, e pareva che si trasformassero l’una nell’altra; e in quell’ampia solitudine regnava un silenzio morto, che impediva la parola. Dopo molto andare, si cominciò a vedere qualche casa; s’arrivò a un villaggio; s’attraversarono due o tre strade deserte, fiancheggiate da casette coperte di neve, con qualche rara finestra illuminata, che lasciava vedere delle ombre umane; e finalmente s’arrivò a una stazione della strada ferrata, di dove arrivammo in pochi minuti all’Aja, coll’illusione di aver fatto un lunghissimo viaggio a traverso un paese favoloso. L’ho da dire? Se mi chiedessero di giurare che quella casa in mezzo alle dune, ora che scrivo, c’è ancora, domanderei dieci minuti per pensarci. È vero che il padrone ebbe la gentilezza di venirmi a salutare alla stazione, il giorno che partii dall’Aja, e che guardandolo bene alla luce del giorno, non gli vidi nulla di strano; ma chi non conosce gli scambietti, le simulazioni, le mille arti di quei.... Nel nome del padre, del figliuolo e dello spirito santo.

Vidi finalmente l’inverno olandese, non come l’avevo sperato partendo dall’Italia, perchè fu mitissimo; ma pure tale da presentarmi l’Olanda nell’aspetto in cui sogliamo raffigurarcela noi del mezzogiorno d’Europa.

La mattina per tempo, la prima cosa che dà nell’occhio nelle strade bianche e silenziose, son le innumerevoli impronte di zoccoli lasciate nella neve dai ragazzi che vanno a scuola, impronte che paiono di zampe d’elefante, tanto gli zoccoli son grandi; e che per lo più si succedono in linea diritta, ciò che dimostra che gli scolari vanno a scuola per la via più corta, senza fare il chiasso, da olandesini sodi e zelanti. Si vedon file di bimbi imbacuccati in grosse ciarpe, col capo mezzo nascosto nelle spalle, tutti in un gomitolo, a braccetto a due a due, o a tre a tre, o uniti in gruppi serrati come un mazzo di asparagi, nei quali non si vedono che punte di nasi ed estremità di libri. Spariti che sono i ragazzi, le strade rimangono deserte per qualche tempo, perchè gli Olandesi, sopratutto d’inverno, non hanno l’abitudine di levarsi molto presto. Si può camminare per un pezzo senza incontrare nessuno, e senza sentire il più leggero rumore. La neve, in mezzo a quelle case di color rosso, pare d’una bianchezza più viva; e le case, con tutti i rilievi segnati di una linea bianca purissima, colle teste di legno delle botteghe che sembrano imparruccate di bambagia, colle catene dei paracarri, che somiglian festoni d’ermellino, presentano un aspetto dei più strani. Nei giorni di gelo, quando splende il sole, le facciate luccicano di pagliuole d’argento; i ghiacci ammucchiati sulle sponde dei canali brillano dei colori dell’iride; e gli alberi scintillano d’infinite piccole perle, come le piante dei giardini fatati delle mille e una notte. Allora è bello passeggiare nel bosco dell’Aja, verso il tramonto, sulla neve indurita che scricchiola sotto i piedi come polvere di marmo, in mezzo ai grandi faggi sfrondati e bianchi, che presentano l’immagine d’una cristallizzazione gigantesca, e gettano sui viali lumeggiati di color di rosa dal sole cadente, delle ombre azzurre e violette, picchiettate di miriadi di puntini risplendenti come diamanti. Ma nulla vale lo spettacolo della campagna olandese vista la mattina, dopo una grande nevata, dall’alto d’un campanile. Sotto un cielo grigio e basso, si vede quell’immensa pianura bianca, dove non appare più traccia nè di strade, nè di sentieri, nè di case, nè di canali; ma solo prominenze e depressioni, che lasciano indovinare vagamente, come i rilievi e le pieghe d’un lenzuolo, le forme delle case nascoste; e quella infinita bianchezza non è macchiata che da nuvoli di fumo che escono qua e là quasi timidamente dalle case lontane, come per annunciare a chi guarda che sotto quel deserto di neve palpita ancora la vita umana.

Ma non si può parlare dell’inverno in Olanda, senza dire di ciò che costituisce l’originalità e l’attrattiva principale della vita invernale di quel paese: ossia il patinamento, orrenda parola, alla quale sostituirei volentieri quella di sdrucciolamento, per non farmi dar sulle dita dai lettori puristi, se non temessi di far ridere tutti gli altri; il che mi pare un danno maggiore.

Il patinamento, in Olanda, non è soltanto un esercizio dilettevole, ma un mezzo ordinario di trasporto. Tutti sanno, per citare un esempio illustre, come se ne siano giovati gli Olandesi nella memorabile difesa della città d’Haarlem. Nei tempi di forte gelo, i canali si cangiano in strade, e gli zoccoli ferrati fanno l’uffizio di barca. Scivolando, il contadino va al mercato, l’operaio al lavoro, il piccolo negoziante agli affari; intere famiglie vanno dalla campagna alla città coi loro sacchi e le loro ceste sulle spalle o sulle slitte. L’esercizio di scivolare sul ghiaccio è per loro altrettanto abituale e facile che quello del camminare; e scivolano con una rapidità che appena si segue cogli occhi. Negli anni passati si facevano spesso delle scommesse fra i più abili patinatori olandesi a chi, scivolando sui canali che fiancheggiano la strada ferrata, andasse alla pari col treno; e la maggior parte delle volte i patina tori, non solo non gli rimanevano indietro, ma per un certo tratto lo precedevano. V’è gente che va scivolando dall’Aja ad Amsterdam e ritorna all’Aja nella stessa giornata; studenti d’università che parton la mattina da Utrecht, vanno a desinare ad Amsterdam e ritornano a casa prima di sera; fu fatta e vinta più volte la scommessa di andare da Amsterdam a Leida in poco più d’un’ora. E non è solamente ammirabile la rapidità, che a detta di coloro i quali hanno provato ad attaccarsi al bastone di qualche patinatore famoso, è tale da dar le vertigini; è ammirabile pure la sicurezza colla quale si percorrono quelle grandi distanze. V’hanno dei contadini che fan quelle corse da una città all’altra di notte. Vi son dei giovani che vanno da Rotterdam a Gouda; a Gouda comprano una lunghissima pipa di gesso; e poi tornano a Rotterdam colla pipa intatta fra le mani. Qualche volta, passeggiando lungo un canale, si vede passare come una saetta una figura umana che sparisce appena vista; ed è una contadinella che porta il latte a una casa di città.

Vi son poi le slitte d’ogni grandezza e d’ogni forma; quelle spinte di dietro da un patinatore, quelle tirate dai cavalli, quelle messe in moto per mezzo di due bastoni ferrati dalla stessa persona che ci sta seduta; carri e carrozze, private delle ruote, e poste su due assicelle, colle quali scivolano colla rapidità delle altre slitte. In occasioni di feste, si son persino veduti correre sulla neve per le strade dell’Aja i bastimenti di Scheveningen. Altre volte si facevan correre sul ghiaccio dei grandi fiumi bastimenti a vela spiegata, i quali andavano con una velocità così grande, che i visi della gente a bordo eran ridotti dalla sferza del vento in uno stato da far raccapriccio; ed eran pochi i temerarii che ardissero di mettersi a quella prova.

Le più belle feste, in Olanda, si fanno sul ghiaccio. A Rotterdam, quando la Mosa è gelata, diventa un luogo di convegno e di piaceri. La si spazza dalla neve in modo che riman netta come un pavimento di cristallo; vi si rizzan caffè, trattorie, padiglioni, baracche da spettacoli; la notte s’illumina; il giorno v’è un formicaio di patinatori d’ogni età, d’ogni sesso e d’ogni ceto. In altre città, e soprattutto nella Frisia, che è la terra classica dell’arte, vi sono società di patinatori e di patinatrici, che istituiscono gare pubbliche e premi. Si piantano antenne e bandiere lungo i canali, si rizzano steccati e tribune; accorre una moltitudine immensa di popolo dai villaggi e dalle campagne; assiste il fiore della cittadinanza; le bande suonano; i patinatori si presentano vestiti d’un costume particolare, le donne in calzoni; si fanno le corse di uomini soli, poi di donne fra loro, poi di uomini e di donne accoppiati; e i nomi dei vincitori e delle vincitrici sono iscritti nei fasti dell’arte e rimangon famosi per molti anni.

In Olanda vi sono due scuole di patinamento affatto diverse: la scuola olandese propriamente detta e la scuola frisona, ciascuna delle quali si serve d’una forma particolare di zoccoli. La scuola frisona, che è la più antica, non mira che alla celerità; la scuola olandese non cerca che la grazia. I frisoni vanno rigidi, stecchiti e per diritto, coll’occhio alla mèta, pigliando la spinta in avanti; gli Olandesi vanno a zig-zag, slanciandosi da sinistra a destra e da destra a sinistra con un movimento ondulatorio dei fianchi. Il frisone è la freccia, l’olandese è il razzo matto. Alle donne convien meglio la scuola olandese. Le signore di Rotterdam, d’Amsterdam e dell’Aja sono infatti le più seducenti patinatrici delle provincie unite. Cominciano da bambine, continuano da ragazze e da spose; raggiungono nello stesso tempo il colmo della bellezza e l’apogeo dell’arte, e fanno coi loro zoccolini ferrati schizzar dal ghiaccio le scintille amorose che vanno a suscitare gl’incendi. Non è che sul ghiaccio che la donna olandese accenni a cadere, e riesce per questo in special modo attraente. V’hanno delle signore, che giungono a un grado di maestria meravigliosa. Chi le ha viste, dice che non è possibile immaginare la grazia degli ondeggiamenti, degli inchini, dei guizzi, delle mille graziette mollissime e vezzosissime che spiegano in quei loro giri e fughe e ritorni di rondini e di farfalle, e come si animi e si trasfiguri la loro tranquilla bellezza in quel turbinío. Ma non tutte riescono, molte non osano mostrarsi in luoghi pubblici, e quelle che da noi otterrebbero i primi onori, là richiamano appena l’attenzione; tanto vi è alta l’arte! Così degli uomini, che fanno ogni sorta di giuochi e di prodezze; alcuni descrivendo coi loro giri figure fantastiche o parole d’amore, altri facendo una piruletta rapidissima, e spiccandosi poi indietro sur una gamba sola per un lunghissimo tratto; altri serpeggiando con infinite vertiginose giravolte in un piccolo spazio curvi, scontorti, ritti, accoccolati, come fantocci di gomma mossi da una molla segreta.

Il primo giorno che i canali e i bacini presentano uno strato di ghiaccio abbastanza solido da poterci scivolare, è per le città olandesi un giorno di festa. Dei patinatori mattinieri, che han fatto gli esperimenti allo spuntar del giorno, spargono la voce; i giornali l’annunziano; frotte di ragazzi si sparpagliano per le strade gettando grida di allegrezza; i servitori, le serve chiedono ai loro padroni il permesso d’uscire coll’aria di gente risoluta di ribellarsi a un rifiuto; vecchie signore scordano gli anni e i malanni e corrono ai canali a gareggiare colle amiche e le figliuole; all’Aja, il bacino ch’è nel mezzo della città, vicino al Binnenhof, è invaso da una folla di gente che vi s’intreccia, si confonde, s’urta, si rimescola come una turba presa dalle vertigini; il fiore dell’aristocrazia va a patinare in un bacino in mezzo al bosco; e là volteggiano confusamente in mezzo alla neve ufficiali, signore, deputati, studenti, vecchi, ragazzi, e in mezzo a loro, qualche volta, il principe ereditario; e intorno s’accalcano migliaia di spettatori, la musica accompagna la festa, e l’enorme disco del sole d’Olanda, che volge al tramonto, le manda, a traverso i faggi giganteschi, il suo sfolgorante saluto.

Quando c’è la neve indurita, si fan le corse sulle slitte. Ogni famiglia ne ha una, e all’ora della passeggiata si vedono uscire a centinaia. Passano volando in lunghe file, a due, a tre di fronte; alcune della forma di conchiglia, altre di cigni, di draghi, di barche, di cocchi, dorate e variopinte, tirate da cavalli coperti di ricche pelliccie e di drappi magnifici, colla testa ornata di pennacchi e di nappe e gli arnesi tempestati di chiodi scintillanti; e portan signore vestite di martora, di castoro e di volpe di Siberia. I cavalli scuotono la testa circonfusa dai vapori della traspirazione e la criniera imperlata dal gelo; le slitte saltellano; la neve vola all’intorno simile ad una schiuma d’argento, e il treno splendido e sfrenato passa e dispare come un turbine muto sopra un campo di gigli e di gelsomini. Di notte, quando si fan le corse colle fiaccole, quelle migliaia di fiammelle che volano e s’inseguono per la città silenziosa, gettando lividi bagliori sui ghiacci e sulla neve, offrono l’immagine d’una gran battaglia infernale, alla quale presieda, dalla cima della torre del Binnenhof, lo spettro di Filippo II.

Ma, ahimè! tutto decade, anche l’inverno, e con esso l’arte del patinamento e l’uso delle slitte. Da molti anni agli inverni rigidi s’alternano in Olanda degl’inverni tanto miti, che non solo non gelano più i grandi fiumi; ma neanco i piccoli canali della città. Ne segue che i patinatori, rimasti troppo tempo fuori d’esercizio, non si arrischiano più a dare spettacolo pubblico, quando l’occasione si presenta; e così a poco a poco se ne ristringe il numero, e il bel sesso specialmente si disavvezza dal ghiaccio. Nell’inverno dell’anno scorso non si patinò quasi punto; nell’inverno di quest’anno non s’è fatto un solo concorso, e non si è vista neanche una slitta. Voglia il cielo che questo deplorevole stato di cose non duri, che l’inverno ritorni ad accarezzare l’Olanda colla sua gelida zampa d’orso polare, che la bell’arte del patinare si rialzi col suo manto di neve e colla sua corona di diacciuoli. Annunzio intanto la prossima pubblicazione d’un’opera intitolata Il Patinamento, intorno alla quale lavora da molti anni un deputato degli Stati d’Olanda, opera che sarà la storia, l’epopea e il codice dell’arte, a cui tutti i patinatori e le patinatrici d’Europa potranno attingere insegnamenti e ispirazioni.

Per tutto il tempo che stetti all’Aja frequentai il principale club della città, composto di più di duemila soci, che occupa tutto un palazzo vicino al Binnenhof; e là feci le mie osservazioni sul carattere olandese.

Oltre la biblioteca, la stanza da pranzo e le stanze da gioco, v’è un salone per la conversazione e la lettura dei giornali, pieno zeppo di gente dalle quattro della sera fino a mezzanotte. Vi sono artisti, professori, negozianti, deputati, impiegati, ufficiali. La maggior parte ci vanno a bere un bic chierino di ginepro prima di desinare e ci tornano dopo a pigliare il caffè, e a confortarsi lo stomaco con un altro sorsetto del liquore favorito. Quasi tutti parlano, e pure non si sente che un leggero mormorío, in modo che a occhi chiusi, si direbbe che c’è appena un terzo della gente. Si può fare mille giri per la sala, senza veder fare un gesto concitato, e senza udire una parola un po’ più forte delle altre. A dieci passi di distanza dai crocchi, non ci s’accorge che parlano fuorchè dal movimento delle labbra. Si vedono molti uomini corpulenti, con larghi visi senza baffi, e la barba intorno al collo, che discorrono senza alzar gli occhi dal tavolino, e senza staccar la mano dal bicchiere. Rarissimamente si scopre in mezzo a tutti quei faccioni, una fisonomia viva ed arguta come quella di Erasmo, che pure molti considerano come il vero tipo olandese, e a me pare che non sia.

L’amico che mi aperse le porte del club, mi fece conoscere parecchi soci. La diversità fra il carattere olandese e il nostro si avverte particolarmente nelle presentazioni. Più d’una volta, vedendo la persona a cui ero presentato, fare appena un cenno col capo e poi rimanere muta parecchi minuti, pensai che il mio riverito viso non le fosse andato a genio, e mi sentii nel cuore un eco di cordiale antipatia. Di là a poco, il presentatore se n’andava, lasciandomi a quattr’occhi col mio nemico.—Ora,—pensavo io,—voglio schiattare se gli dico una parola.—Ma il mio vicino, dopo qualche momento di silenzio mi di ceva con la più grande serietà:—«Voglio sperare che oggi, s’ella non ha altri impegni, mi farà l’onore di pranzare con me.»—Io cadevo dalle nuvole. Pranzavamo insieme, e il mio anfitrione popolava freddamente la tavola di bottiglie di vino di Bordeaux, del Reno e di Champagne, e non si separava da me prima d’avermi costretto a dir di sì a un altro invito. Altri, ai quali domandavo ragguagli intorno a varie cose, mi rispondevano appena, quasi per farmi capire ch’ero un importuno, tanto che io dicevo tra me:—Vedete un po’ che scompiacenti!—e il giorno dopo mi davano i ragguagli in iscritto, chiari, ordinati, minuti più di quello che io avessi mai desiderato. Una sera pregai un tale di cercare non so che in uno di quei mari di cifre, che si chiamano: «Indicatori delle strade ferrate d’Europa.» Per qualche momento non mi diede risposta: io rimasi mortificato. Poi prese il libro, inforcò gli occhiali, sfogliettò, lesse, notò, sommò, sottrasse con una pazienza da santo per lo spazio d’una mezz’ora; e quand’ebbe finito, mi porse la risposta scritta e rimise gli occhiali nell’astuccio senza proferire una parola.

Molti di coloro coi quali passavo la serata, solevano andar a casa alle dieci a lavorare, e tornare al club alle undici e mezzo per rimanerci fino a un’ora dopo mezzanotte; e quando avevano detto:—debbo andare,—non c’era caso che cangiassero risoluzione. Finivan di scoccare le dieci, erano già fuori della porta; scoccavano le undici e mezzo, ri comparivano sulla soglia. Non è da meravigliare, con quella regolarità cronometrica, che trovino il tempo di far tante cose, senza farne nessuna con furia; e che anche coloro i quali non sono dediti agli studi per istituto di vita, abbiano letto delle intere biblioteche. Non v’è libro inglese, tedesco o francese, per poco che sia importante, ch’essi non lo conoscano. La letteratura francese in particolar modo l’hanno sulla punta delle dita. E quel che si dice della letteratura, si può dire, con più ragione della politica. L’Olanda è uno dei paesi d’Europa dove affluisce un maggior numero di giornali stranieri e forse quello in cui si parla maggiormente degli affari degli altri. Il paese è piccolo e tranquillo, delle novità del giorno s’è presto discorso; dopo dieci minuti la conversazione salta di là dal Reno e corre l’Europa. Ricordo che mi faceva specie udir parlare della caduta del ministro Scialoia e d’altre cose nostre quasi come d’un avvenimento di casa.

Una delle mie prime cure fu di scandagliare i sentimenti religiosi della gente; e trovai, con mia meraviglia, un gran disordine. Come scrisse giustamente, non è molto, un dotto olandese, le idee sovversive d’ogni dommatismo religioso hanno acquistato gran campo in quel paese. Sarebbe però errore il credere che in cui vien meno la fede, sottentri l’indifferenza. Quelli che al Pascal parevano creature mostruose, uomini, cioè, che vivono senza darsi alcun pensiero della religione, come ve n’ha infiniti fra noi, là non ci sono. La questione religiosa che qui non è altro che una questione, là è una battaglia, in cui tutti brandiscono le armi. Tutte le classi della società, uomini e donne, giovani e vecchi si occupano di teologia e tengon dietro alle controversie dei dottori, divorando un prodigioso numero di scritti di polemica religiosa. Questa tendenza del paese si manifesta persino nel Parlamento, dove accade qualche volta che i deputati si combattano con citazioni bibliche, lette in ebraico, tradotte e commentate, e le discussioni degenerino in disquisizioni di teologia. Tutta questa lotta però si agita nelle menti piuttosto che nei cuori; la passione tace; e n’è una prova che l’Olanda, la quale è di tutti i paesi d’Europa quello che ha più sètte religiose, è anche il paese in cui le sètte vivono in migliore accordo, e dove regna la più grande tolleranza. Se ciò non fosse, il partito cattolico non avrebbe fatto tanta strada, come la fece, protetto sulle prime dalla parte liberale, contro l’unica parte intollerante del paese: i Calvinisti ortodossi.

Non conobbi Calvinisti ortodossi, e mi spiace. Non avevo mai prestato fede a quello che si racconta del loro stravagante rigorismo; che vi sian signore, per dirne una, che nascondano con grandi tappeti le gambe dei tavolini, per la ragione che possono richiamare il pensiero dei visitatori a quelle della padrona di casa. Ma è fuor di dubbio che vivono austerissimamente. Molti, per proposito fatto, non mettono mai piede in un teatro nè a un ballo nè in una sala di concerto. Ci son famiglie che la do menica si contentano di mangiare un po’ di carne fredda perchè la cuoca non abbia da trasgredire il precetto del riposo. In molte case, il padrone legge ogni mattina la Bibbia in presenza della famiglia e dei servitori, e pregano tutti insieme. Del resto questa sètta dei Calvinisti ortodossi, che ha quasi tutti i suoi proseliti nell’aristocrazia e fra i contadini, non esercita grande influenza sul paese, come lo prova il fatto che nel Parlamento è inferiore di numero alla parte cattolica, e non può far nulla senz’essa.

Ho parlato del teatro. All’Aja, come nelle altre città d’Olanda, non ci sono grandi teatri, nè grandi spettacoli. Si rappresentano per lo più opere in musica tedesche, cantate da artisti stranieri, commedie e operette francesi. I concerti sono di gran moda. In questo l’Olanda è fedele alle sue tradizioni, perchè come è noto, e lo scrive anche il Guicciardini, già nel secolo XVI i suoi suonatori erano cercati in tutte le corti della Cristianità. Fu detto pure che gli Olandesi hanno una grande attitudine a cantar cori. E dev’essere grande infatti il piacere che provano a cantare insieme, se è proporzionato all’avversione che hanno di cantar soli, perchè non mi ricordo d’aver mai sentito per le strade di una città olandese, in nessuna parte, a nessuna ora, canterellare un’arietta; se non da monelli che cantavano per dar la baia agli ubriachi: rari anche questi, fuorchè nelle occasioni di feste.

Ho detto delle opere e delle commedie francesi. All’Aja, non solamente gli spettacoli, ma la vita pubblica è quasi interamente francese. Rotterdam ha l’impronta inglese, Amsterdam l’impronta tedesca, l’Aja l’impronta parigina; così che è giusto il dire che il popolo delle grandi città olandesi riunisce e contempera le qualità e i difetti dei tre grandi popoli vicini. All’Aja, in molte famiglie dell’alta società, si parla sempre il francese; in altre si affettano dei francesismi, come in qualche città dell’Italia settentrionale; l’indirizzo delle lettere si scrive per lo più in francese; v’è infine una parte della società, cosa non rara nei paesi piccoli, che ostenta un certo disprezzo per la lingua, per la letteratura, per l’arte nazionale; e amoreggia una patria adottiva di là dalla Mosa e dal Reno. Le simpatie però son divise. La classe elegante propende più verso la Francia, la dotta verso la Germania, e la mercantile verso l’Inghilterra. Per la Francia scemarono le simpatie dopo la Comune; contro la Germania nacque e fermenta ancora una segreta animosità generata dal timore che le sue mire conquistatrici si volgano sull’Olanda; e temperata dalla comunanza degl’interessi contro il Cattolicismo clericale.

Quando si dice che l’Aja è una città mezza francese, conviene intendere dell’apparenza. In fondo, il carattere olandese predomina. Benchè sia una città ricca, elegante e gaia, non è città di chiassi, nè dissipazioni, nè scandali, nè duelli. La vita v’è più varia e più viva che nelle altre città olandesi; ma punto meno tranquilla. I duelli che seguono all’Aja si contano sulle cinque dita della mano di dieci in dieci anni, e in quei pochi c’entra per lo più un ufficiale come prima cagione. Nondimeno, per far vedere quanto è potente anche in Olanda questo pregiudizio feroce, come dice il Rousseau, che l’onore stia sulla punta della spada; ricordo una discussione fra parecchi Olandesi, a cui diede luogo una mia domanda. Quando chiesi se l’opinione pubblica in Olanda era ostile al duello, mi risposero tutti a una voce:—ostilissima;—ma quando volli sapere se un giovane della buona società, il quale non accettasse una sfida, sarebbe universalmente lodato, trattato ancora, da tutti, cogli stessi riguardi e collo stesso rispetto di prima, sostenuto, insomma, dall’opinione pubblica in modo da non doversi mai pentire della sua condotta, allora cominciarono le discussioni. Chi mi rispose debolmente di sì, chi risolutamente di no; ma la maggior parte propendevano al no. Dal che mi parve di poter concludere, che se in Olanda seguon pochi duelli, non deriva tanto, com’io credeva, da un disprezzo universale e assoluto del pregiudizio feroce; quanto dalla rarità dei casi in cui due cittadini si lasciano condurre dalla passione, alla necessità di ricorrere alle armi; ciò che dipende dalla natura più che dall’educazione. Anche nelle polemiche pubbliche e nelle discussioni private violentissime, si giunge raramente all’insulto personale; e nelle battaglie del Parlamento, qualche volta accanite, i deputati si dicono delle imperti nenze secche, ma con calma, senza far rumore; impertinenze, sto per dire, che consistono più nella cosa che nella parola, e feriscono senza far strillare.

Nelle conversazioni al club, mi faceva specie, sulle prime, di non udir mai nessuno che parlasse per parlare. Quando uno apriva bocca, era per fare una domanda, o per dare una notizia, o per esporre un’osservazione. Quell’arte di fare d’ogni idea un periodo, d’ogni fatto un racconto, d’ogni bazzecola una quistione, nella quale noi italiani, francesi e spagnuoli siamo maestri, là è affatto sconosciuta. La conversazione non è uno scambio di suoni, ma un commercio di cose, e nessuno fa il menomo sforzo per parer dotto, facondo, arguto. In tutto il tempo che stetti all’Aja non mi ricordo d’aver inteso che una sola arguzia, e fu d’un deputato, il quale parlandomi dell’alleanza degli antichi Batavi coi Romani disse:—Noi siamo sempre stati amici delle autorità costituite.—Eppure la lingua olandese si presta ai calembours; in prova di che ho inteso citare il caso d’una bella signora straniera la quale domandando un guanciale a un giovane barcaiuolo del trekschuit, non pronunziò bene la parola, e disse invece di guanciale, bacio, che in olandese suona quasi lo stesso, e fu appena in tempo a chiarire l’equivoco, chè il barcaiuolo s’era già pulito la bocca col rovescio della mano.

Studiando il carattere olandese, non mi parve che fosse vero quello che avevo letto in più libri, che gli Olandesi abbian l’abitudine di parlare con fastidiosa prolissità dei loro malanni; chè anzi essi deridono per questo difetto i Tedeschi; e che siano egoisti ed avari. A sostegno di questa seconda accusa, qualcuno adduce il fatto poco credibile che durante una battaglia navale cogl’Inglesi, gli ufficiali della flotta d’Olanda siansi recati a bordo dei bastimenti nemici esausti di provvigioni da fuoco, e v’abbiano venduto, a prezzi esorbitanti, polvere e proiettili; dopo di che fu ricominciato a combattere. Contro quest’accusa d’avarizia, sta il fatto della vita agiata, delle case ricche, dei molti denari spesi in libri ed in quadri; e più ancora della beneficenza larghissima, nella quale la società olandese è incontestabilmente prima in Europa. E non è beneficenza officiale, o che in qualunque modo riceva impulso dal Governo; ma spontanea e liberissima, esercitata da società vaste e potenti che fondarono innumerevoli istituti, scuole, premi, biblioteche, riunioni popolari; che aiutano, prevengono il Governo nell’ufficio dell’istruzione pubblica; che stendono le loro ali dalle grandi città fino ai più umili villaggi, abbracciando tutte le sètte religiose, tutte le età, tutte le professioni e tutte le sventure; una beneficenza, insomma, in virtù della quale non rimane in Olanda un povero senza tetto e un braccio senza lavoro. Tutti gli scrittori, che studiarono l’Olanda, convennero nel dire che non c’è forse altro Stato d’Europa, nel quale scenda, proporzionatamente alla popolazione, una maggior copia di elemosina dalle classi agiate alle classi bisognose.

Non è a dirsi con questo che il popolo olandese non abbia difetti, perchè ne ha, se gli si deve recare a difetto la mancanza di quelle qualità che dovrebbero essere come lo splendore e la gentilezza delle sue virtù. Si potrebbe trovare nella sua fermezza qualcosa di cocciuto, nella sua probità qualcosa di gretto, nella sua freddezza l’assenza di quella spontaneità di sentimento senza la quale pare che non possa esservi affetto, generosità, grandezza d’animo vera. Ma quanto meglio s’impara a conoscerlo, più si esita a pronunziare quei giudizii, e più si sente crescere per esso il sentimento del rispetto e della simpatia. Il Voltaire ha potuto dire, partendo dall’Olanda, quel motto famoso:— Adieu canaux, canards, canaille; —ma quando dovette giudicar l’Olanda sul serio, si ricordò di non aver trovato nella sua città capitale «nè un ozioso, nè un povero, nè un dissipato, nè un insolente» e di aver visto per tutto «il lavoro e la modestia.» Luigi Napoleone proclamava che in nessun popolo d’Europa era innato come nell’olandese il buon senso e il sentimento della giustizia e della ragione; il Descartes gli faceva il più grande elogio che possa fare un filosofo ad un popolo, dicendo che in nessun paese si gode d’una più grande libertà che in mezzo agli Olandesi; Carlo V, la più bella lode che possa dare ad un popolo un Sovrano, dicendo che sono «ottimi sudditi; ma pessimi schiavi.» Un inglese scrisse che gli Olandesi ispirano una stima che non può giungere fino all’affetto. Forse egli non li stimava abbastanza.

Non nascondo che fra le cagioni della mia simpatia v’è quella d’aver trovato che l’Italia è assai più conosciuta in Olanda ch’io non osassi sperare. Non solamente la rivoluzione d’Italia vi ebbe un eco favorevole, com’è di ragione che accadesse presso un popolo indipendente, libero e ostile al Papato; ma gli uomini e gli avvenimenti italiani degli ultimi tempi, non vi son meno conosciuti che quei di Francia e di Germania. Le principali gazzette, che hanno un corrispondente fra noi, ragguagliano minutamente il paese intorno alle cose nostre. Si vedono in molti luoghi ritratti dei nostri più illustri concittadini. Nè è minore della conoscenza politica la letteraria. Lasciando stare che la lingua italiana si cantava nelle Corti degli antichi conti d’Olanda, che nel bel secolo della letteratura olandese era in grande onore presso i letterati, e che parecchi dei più illustri poeti di quel tempo scrissero lettere e versi italiani o imitarono la nostra poesia pastorale; la lingua italiana si studia ancora da molti oggigiorno, e non è raro il trovare chi la parla, e men raro ancora il veder libri nostri sul tavolino delle signore. La Divina Commedia, che venne in voga particolarmente dopo il 1830, ha due traduzioni, tutt’e due in terzine rimate, una delle quali è opera d’un Hacke van Mijnden, che consa crò a Dante tutta la vita. La Gerusalemme Liberata ha una traduzione in ottave d’un pastore protestante Ten Kate, e n’ebbe un’altra inedita e perduta, di Maria Tesseeschave, la grande poetessa del secolo XVII e amica intima del primo poeta olandese, Vondel, dal quale fu consigliata e aiutata a tradurre. Del Pastor fido vi sono almeno cinque traduzioni di autori diversi; parecchie dell’ Aminta; e facendo un salto, almeno quattro delle Mie Prigioni, e una bellissima dei Promessi Sposi; romanzo che pochi Olandesi non lessero o nella propria lingua, o nella francese o nella nostra. E per citare ancora una cosa che ci riguarda, v’è un poema intitolato Firenze, scritto per l’ultimo centenario di Dante, da uno dei più eletti poeti olandesi dei nostri giorni.

Qui cade a proposito di dir qualcosa della letteratura olandese.

L’Olanda presenta una singolare sproporzione tra la forza espansiva della sua vita politica, scientifica, commerciale, e quella della sua vita letteraria. Mentre sotto tutte le altre forme l’opera degli Olandesi traboccò fuori dei confini del paese, sotto la forma letteraria, rimase circoscritta in quei confini. Con una letteratura fecondissima, il che rende il fatto più strano, l’Olanda non ha prodotto, come pur fecero altri piccoli paesi, un sol libro che sia divenuto europeo; quando non si voglia porre fra le opere letterarie quelle dello Spinoza, il solo grande filosofo della sua patria; o considerare come letteratura olandese le dimenticate opere latine di Erasmo di Rotterdam. Eppure se v’è un paese a cui la natura e gli avvenimenti abbiano offerto soggetti atti ad ispirare agl’ingegni qualcuna di quelle opere poetiche che colpiscono l’immaginazione di tutti i popoli, quel paese è l’Olanda. Le meravigliose trasformazioni del suolo, le inondazioni immense, le favolose spedizioni marittime, dovevano generare una poesia originale e potente anche se spogliata delle sue forme native. Perchè ciò non avvenne? Si possono addurre come ragioni l’indole dell’ingegno olandese, che mirando in ogni cosa all’utile, volle troppo spesso piegare anche la letteratura a uno scopo pratico; una tendenza opposta a questa, e forse derivata da questa, a sorvolare troppo al di sopra della natura umana, per non rasentare la terra coi più; una certa naturale circospezione d’ingegno, che diede alla ragione una soverchia prevalenza sulla fantasia; l’amore innato dell’esatto e del finito, che produsse una prolissità in cui si stemprarono le grandi idee; lo spirito di sètta religiosa, il quale vincolò in un cerchio angusto ingegni che eran nati a spaziare sur un vasto orizzonte. Ma nè queste nè altre ragioni fanno sì che non rechi meraviglia il non esserci in tutta la letteratura olandese uno scrittore il quale rappresenti degnamente al cospetto del mondo la grandezza della sua patria; un nome da porre in mezzo a quelli del Rembrandt e dello Spinoza.

Sarebbe un peccato, però, il non tratteggiare almeno le tre principali figure di questa letteratura, due del secolo decimosettimo e una del decimonono, tre poeti originali e differentissimi fra loro, che compendiano in sè tutta la poesia olandese:—il Vondel—il Catz—il Bilderdijk.

Il Vondel è il più grande poeta dell’Olanda. Nacque nel 1587 a Colonia, dove s’era rifugiato suo padre, cappellaio, fuggito da Anversa per sottrarsi alle persecuzioni degli Spagnuoli. Ancora bambino, il futuro poeta ritornò in patria sopra un carretto, insieme con suo padre e sua madre, che lo seguivano a piedi pregando e recitando versetti della Bibbia. Fece i suoi primi studi in Amsterdam. A quindici anni godeva già d’una bella fama di poeta; ma le sue opere illustri non datano che dal 1620. Fino all’età di trent’anni, non sapeva che la propria lingua; imparò più tardi il francese e il latino e si diede con ardore agli studi classici; a cinquant’anni si dedicò al greco. La sua prima tragedia (poichè fu principalmente poeta tragico) intitolata La distruzione di Gerusalemme, non ebbe molta fortuna. La seconda, intitolata Palamede, nella quale era adombrata la storia pietosa e terribile di Olden Barneveld vittima di Maurizio d’Orange, gli attirò un processo criminale; per cui fuggì e rimase nascosto fin che uscì la sentenza inaspettatamente mite che lo condannava a trecento fiorini di multa. Nel 1627 fece un viaggio in Danimarca e in Svezia, dove fu accolto con onore da Gustavo Adolfo. Undici anni dopo inaugurò il teatro d’Amsterdam con un dramma d’argomento nazionale Gilberto d’Amstel, che si rappresenta ancora una volta all’anno in omaggio alla sua memoria. Gli ultimi anni della sua vita furono infelicissimi. Le dissipazioni di suo figlio avendolo ridotto in strettezze, il povero vecchio stanco dagli studi e affranto dai dolori, fu ridotto a mendicare un meschino impiego nel Monte di Pietà. Pochi anni prima di morire abbracciò la fede cattolica, e acceso da una nuova ispirazione scrisse la tragedia Le Vergini, e un poema, che è una delle migliori sue opere, intitolato i Misteri dell’altare. Morì vecchissimo e fu seppellito in una chiesa d’Amsterdam, dove un secolo dopo gli fu eretto un monumento. Oltre le tragedie, scrisse canti guerreschi alla patria, agli illustri marinai olandesi, al principe Federico Enrico. Ma la sua principal gloria è il teatro. Ammiratore della tragedia greca, conservò nelle sue l’unità, i cori, il soprannaturale, sostituendo al destino la Provvidenza, agli Dei vendicatori e propizi, i demoni e gli angeli, i buoni e i cattivi geni del Cristianesimo. Quasi tutti i soggetti tolse dalla Bibbia. Il suo capolavoro è la tragedia Lucifero, rappresentata due volte, malgrado le quasi insuperabili difficoltà della rappresentazione, nel teatro d’Amsterdam, e poi fatta interdire dal clero protestante; tragedia che ha per soggetto la ribel lione di Lucifero, e personaggi i buoni e i cattivi angeli. Come in questa, nelle altre, vi son descrizioni fantastiche piene d’immagini splendide, squarci di eloquenza potente, bei cori, pensiero vigoroso, frase solenne, verso ricco e sonante, e qua e là barlumi e lampi di genio. Per contro, un misticismo qualche volta oscuro e freddo; il disaccordo dell’idea cristiana colla forma pagana; il lirico che soverchia il drammatico; il buon gusto sovente offeso; e più di tutto, un pensare e un sentire, che per mirare al sublime, elevandosi troppo alto dalla terra, sfugge all’intelletto ed al cuore umano. Malgrado ciò, la precedenza istorica, l’originalità, il patriottismo ardente, la vita travagliata e nobile, fecero il Vondel grande e venerato nella sua patria, che lo considera come la più eminente personificazione del genio nazionale, e lo mette con amoroso ardimento accanto ai primi poeti delle altre letterature.

Il Vondel è la più grande, Jacob Catz è la più schietta personificazione del genio olandese; e non è solo il più popolare dei poeti del suo popolo, ma tale è la di lui popolarità, che si può affermare non esservi in nessun altro paese, non escluso il Cervantes in Spagna e il Manzoni in Italia, uno scrittore più generalmente noto e più costantemente letto di lui; e si può aggiungere, che non v’è forse un altro poeta al mondo, la cui popolarità sia più necessariamente ristretta nei confini della propria pa tria. Jacob Catz nacque nel 1577, di famiglia patrizia, a Brouwershaven, città della Zelanda. Studiò legge, divenne pensionario di Middlebourg, andò ambasciatore in Inghilterra, fu gran pensionario di Olanda, ed esercitando con zelo e rettitudine esemplare quest’alti uffici coltivò amorosamente la poesia. La sera, dopo aver trattato degli affari dello Stato coi deputati delle provincie, si raccoglieva in casa a far versi. A settantacinque anni, chiese di essere esonerato dalle cariche, e quando lo Statoldero gli annunziò con parole onorevoli che la sua domanda era stata esaudita, egli cadde in ginocchio al cospetto dell’Assemblea degli Stati e ringraziò Iddio che l’avea sempre protetto nel corso della sua lunga e faticosa vita politica. Pochi giorni dopo si raccolse in una sua villa, dove godette una vecchiezza tranquilla e onorata, studiando e poetando fino al 1660, anno in cui morì, più che ottuagenario, pianto da tutta Olanda. Le sue poesie formano parecchi grossi volumi. Sono favole, madrigali, racconti, misti di storia e di mitologia, sparsi di descrizioni, di citazioni, di sentenze, di precetti; pieni di bontà, d’onestà e di dolcezza, e scritti con semplicità ingenua e delicata arguzia. Il suo volume è il libro della saggezza nazionale, la seconda Bibbia del popolo olandese, un manuale che insegna a vivere onesti ed in pace. Egli dà consigli a tutti; al ragazzo come al vecchio, al mercante come al principe, alla padrona di casa come alla serva, al ricco come al mendico. Insegna a spendere, a risparmiare, a far le faccende di casa, a governar la famiglia, ad educare i figliuoli. È nello stesso tempo amico, padre, direttore spirituale, maestro, economo, medico, avvocato. Ama la natura modesta, i giardini, i prati, adora sua moglie, lavora, è soddisfatto di sè e degli uomini, e vuole che tutti sian contenti come lui. Le sue poesie si trovano in tutte le case olandesi, accanto alla Bibbia. Non c’è capanna di contadino nella quale il capo della famiglia non ne legga qualche verso ogni sera. Nei giorni di dubbio e di tristezza tutti cercano e trovano un conforto nel loro vecchio poeta. Egli è l’amico intimo del focolare, il compagno assiduo dell’infermo; il suo è il primo libro sul quale si avvicinano i volti dei fidanzati; i suoi versi sono i primi che legge il bambino e gli ultimi che pronunzia il nonno. Nessun poeta fu più amato di lui. Ogni olandese sorride a udir rammentare quel nome, e non v’è straniero che sia stato in Olanda, il quale non lo pronunzi con un sentimento di simpatia e di rispetto.

Il terzo, Bilderdijk, nato nel 1756, morto nel 1831, fu uno dei più meravigliosi intelletti che siano mai apparsi nel mondo. Poeta, storico, filologo, critico, astronomo, chimico, medico, teologo, antiquario, giureconsulto, disegnatore, incisore, uomo inquieto, vagabondo, capriccioso, violento, la sua vita non fu che un’investigazione, una trasformazione, una battaglia perpetua del suo vastissimo ingegno. Giovanetto, e già poeta famoso, lascia la poesia, si getta nella po litica, emigra collo Statoldero in Inghilterra e fa il maestro a Londra per vivere. Stanco dell’Inghilterra, va in Germania; seccato del romanticismo tedesco, torna in Olanda, dove Luigi Napoleone lo colma di favori. Ma Luigi lascia il trono, Napoleone il Grande toglie al Bilderdijk la pensione, ed egli è ridotto nella miseria. Domanda una cattedra all’Università di Leida, glie la rifiutano. Infine ottiene dal Governo un piccolo sussidio e continua a studiare, a scrivere, a combattere fino all’ultimo giorno della vita. Le sue opere si compongono di più di trenta volumi di scienza, di arte, di letteratura. Trattò tutti i generi e riuscì in tutti, fuor che nel drammatico. Allargò la critica storica, scrivendo una delle più belle storie nazionali che possegga il suo paese. Fece un poema, Il mondo primitivo, composizione grandiosa ed oscura, ammiratissima in Olanda. Trattò ogni maniera di quistioni mescolando paradossi stranissimi e verità luminose. Rialzò infine la letteratura nazionale ch’era caduta ai suoi tempi e lasciò una falange di discepoli eletti che seguirono le sue traccie in politica, in arte, in filosofia. Vi fu per lui in Olanda, più che entusiasmo, fanatismo; e non si può mettere in dubbio ch’ei sia stato, dopo Vondel, il più grande poeta del suo paese. Ma gli fece danno la passione religiosa, l’odio cieco contro le nuove idee, la poesia fatta strumento di sètta, la teologia intromessa in ogni cosa; per il che non s’elevò in quella regione serena e libera fuor della quale il genio non consegue vittorie durevoli e grido universale.

Intorno a questi tre poeti, che hanno in sè i tre vizi principali della letteratura olandese: di perdersi nelle nuvole, o di volare terra terra, o d’impigliarsi nella rete del misticismo, si raggruppano altri infiniti poeti epici, comici, satirici, lirici, i più del secolo decimosettimo, pochissimi del decimottavo; molti dei quali godono d’una grande fama in Olanda; ma di cui nessuno esce abbastanza di schiera, da richiamare l’attenzione dello straniero che passa.

Meritano piuttosto un rapido sguardo i tempi presenti.

Che la critica, spogliando la storia olandese del velo di poesia di cui l’aveva vestita il patriottismo degli scrittori, l’abbia condotta sulla via più larga e più feconda della giustizia; che gli studi filologici siano in altissimo onore e che quasi tutte le scienze abbiano in Olanda dei cultori di fama europea, è cosa che nessun studioso, in Italia, ignora, e che agli altri basta accennare.

Della letteratura propriamente detta, il genere più fiorente è il Romanzo. L’Olanda ha avuto il suo romanziere nazionale, il suo Walter Scott, in Van Lennep, morto pochi anni sono; scrittore di romanzi storici che furono accolti con entusiasmo da tutte le classi della società; pittore efficacissimo di costumi, dotto, arguto, maestro di descrizioni e dialogista ammirabile; ma che sovente è prolisso, si serve di vecchi artifici, adopera scioglimenti forzati e non nasconde sempre abbastanza sè medesimo. L’ultimo suo romanzo, intitolato Le avventure di Nicoletta Zevenster, nel quale, rappresentando magistralmente la società olandese del principio di questo secolo, ebbe l’inaudito ardimento di descrivere una casa innominabile dell’Aja, mise sossopra l’Olanda intera, fu commentato, discusso, vilipeso, levato a cielo; e la battaglia dura ancora. Altri romanzi storici, scrissero uno Schimmel, emulo degno del Van Lennep; e una signora Rosboon Toussaint, scrittrice coltissima, ricca di studi virili e d’ingegno profondo. Malgrado questo, il romanzo storico, anche in Olanda, si può considerar come morto. Miglior fortuna hanno il romanzo di costumi e la novella, nei quali primeggiano un Beets, ministro protestante e poeta, autore d’un libro celebre intitolato la Camera oscura, un Koetsveld, e alcuni giovani di bell’ingegno, a cui contende di levarsi in alto il demonio persecutore della letteratura del giorno: la fretta.

L’Olanda ha ancora un genere di romanzo suo proprio, che si potrebbe chiamare romanzo indiano, il quale ritrae i costumi e la vita dei popoli delle colonie; e di questo genere ne uscirono negli ultimi anni parecchi, che furono accolti con molto plauso nel paese, e tradotti in varie lingue; fra gli altri, il Bel mondo di Batavia, del professore Ten Brink, giovane, dotto e brillante scrittore, del quale vorrei poter parlare diffusamente per attestargli in qualche modo la mia gratitudine e la mia ammirazione. Ma a proposito di romanzi indiani, è bello il notare come in Olanda si veda e si senta a ogni passo qualcosa che rammenta le sue colonie; come un raggio del sole delle Indie penetri a traverso la sua bruma e colori la sua vita. Oltre i bastimenti che portano un soffio di quei paesi nei porti delle sue città, oltre gli uccelli, i fiori, i mille oggetti, che come suoni sparsi d’una musica lontana, fanno balenare alla mente l’immagine d’un’altra natura e d’un’altra razza; non è raro incontrare nelle città d’Olanda, in mezzo ai mille visi bianchi, faccie abbronzate dal sole, di gente nata o vissuta per molti anni nelle colonie; negozianti che parlano con vivacità insolita delle donne brune, dei banani, dei boschi di palme, e dei laghi ombreggiati dalle liane; giovani arditi che si rischiarono in mezzo ai selvaggi dell’isola di Borneo e di Sumatra; scienziati, letterati, ufficiali che parlano degli adoratori dei pesci, degli ambasciatori che portan le teste dei vinti appesi alla cintura, dei combattimenti dei tori e delle tigri, delle furie dei bevitori d’oppio, delle moltitudini battezzate colle pompe; di mille cose strane e mirabili, che fanno un effetto singolare dette da quella gente fredda in quel paese tranquillissimo.

La poesia dopo aver perduto il Da Costa, discepolo del Bilderdijk, poeta religioso ed entusiasta, e il Genestet, poeta satirico, morto giovanissimo, non ha più che pochi campioni della generazione passata, i quali tacciono, o cantano con voce affievolita. In peggiori condizioni è il teatro. Gli artisti olandesi incolti e declamatori, non recitano per lo più che drammi o commedie tedesche o francesi, male tradotte, che l’alta società non va a sentire. Scrittori olandesi di molto ingegno, come l’Hofdijk, lo Schimmel, lo stesso Van Lennep, scrissero commedie per molti lati pregevoli; ma che non piacquero abbastanza per rimaner vive sulle scene. La tragedia non è in migliori condizioni della commedia o del dramma.

Da quanto ho detto, parrebbe che in Olanda non ci dovess’essere un grande movimento letterario; e c’è invece grandissimo. È incredibile la quantità di libri che si pubblicano ed è meravigliosa l’avidità con cui sono letti. Ogni città, ogni sètta religiosa, ogni consorteria ha la sua rivista o la sua gazzetta. Oltre a questo, una colluvie di libri stranieri; i romanzi inglesi, in mano di tutti; opere francesi di otto, dieci, venti volumi, tradotti nella lingua nazionale, cosa mirabile in un paese dove tutte le persone colte le possono leggere nell’originale, e che prova quanto vi sia l’uso, non solo di leggere, ma di comprare, nonostante che i libri siano assai più cari in Olanda che in altri paesi. Ma è appunto questa sovrabbondanza di pubblicazioni e questa furia di leggere che nuoce alla letteratura. Gli scrittori, per soddisfare l’impaziente curiosità del pubblico, tiran via, e la manía delle letture straniere soffoca e corrompe il genio nazionale. Malgrado ciò, la letteratura olandese ha ancora un grande titolo alla benemerenza della patria: è caduta, ma non s’è pervertita; ha conservato la sua innocenza e la sua freschezza; quello che le manca di fantasia, d’originalità, di splendore, è compensato dalla saggezza, dal rispetto severo del buon costume e del buon gusto, dalla sua amorosa sollecitudine per le classi povere, dall’opera efficacissima colla quale promuove la beneficenza e l’educazione civile. Altre letterature sono grandi piante vestite di fiori odorosi; la letteratura olandese è un piccolo albero carico di frutti.

La mattina che partii dall’Aja, la seconda volta che vi fui, alcuni dei miei più cari amici m’accompagnarono alla stazione della strada ferrata. Il tempo era piovoso. Quando fummo nella sala dei viaggiatori, pochi momenti prima che partisse il treno, ringraziai i miei buoni ospiti delle gentili accoglienze che m’avevan fatte, e poichè sapevo che forse non li avrei mai più riveduti, non potei a meno di esprimere la mia gratitudine con parole affettuose e melanconiche, ch’essi ascoltarono in silenzio. Uno solo m’interruppe per raccomandarmi che mi guardassi dall’umidità. “Venga qualcuno di loro in Italia,” io continuai; “non foss’altro che per darmi l’occasione di mostrargli la mia riconoscenza. Mi facciano questa promessa perchè io possa partire col cuore un po’ consolato. Non parto se qualcuno non mi dice che verrà in Italia.” Si guardarono in viso, e uno rispose a fior di labbra: “Forse.” Un altro mi diede il consiglio di non far mai cambiare l’oro francese nelle botteghe. In quel momento suonò il campanello della partenza. “Dunque addio,” dissi colla voce un po’ commossa, stringendo le mani a tutti “a rivederci; non dimenticherò mai i bei giorni passati all’Aja, riterrò sempre i loro nomi come la più cara memoria del mio viaggio, si ricordino qualche volta di me.”—“Addio,” risposero tutti collo stesso tuono di voce, come se ci fossimo dovuti rivedere il giorno dopo. Salii nel vagone col cuore stretto, m’affacciai al finestrino nel punto che partiva il treno, e li vidi tutti là immobili, muti, col viso impassibile, cogli occhi fissi nei miei. Feci un ultimo saluto, a cui risposero con un leggero cenno del capo, e disparvero ai miei occhi per sempre. Ogni volta che penso a loro, li rivedo, come se li avessi lasciati poc’anzi, in quello stesso atteggiamento, con quei volti gravi e quegli occhi fissi, e l’affetto che sento per essi ha qualche cosa di austero e di triste, come il cielo sotto cui li vidi per l’ultima volta.

LEIDA.

La campagna tra l’Aja e Leida è come tra Rotterdam e l’Aja, tutta una pianura verdissima, macchiettata dal rosso vivo dei tetti e rigata d’azzurro dai canali, con qua e là gruppi d’alberi, mulini a vento, e armenti sparpagliati ed immobili. Si va innanzi, e par sempre d’essere nel medesimo punto, o di riveder luoghi già mille volte veduti. La campagna è silenziosa, il treno scorre lentamente, quasi senza far rumore; nel vagone nessuno parla; alle stazioni, non si sente una voce; a poco a poco la mente cade in una sorta di assopimento, nel quale si dimentica dove s’è e dove si va.—Eppure si dorme in questo paese!—diceva il Diderot viaggiando in Olanda; e questa esclamazione mi venne più volte sulle labbra in quel breve tragitto, sin che intesi gridar:—Leyden,—e scesi in una stazione solitaria e quieta come un convento.

Leida, l’antica Atene del Nord, la Saragozza dei Paesi Bassi, la più vecchia e più gloriosa figliuola dell’Olanda, è una di quelle città in cui, appena entrati, si diventa pensierosi; e non si possono rammentare, anche molto tempo dopo esserci stati, senza ripensarci lungamente; e non ci si può pensare senza tristezza.

Appena entrati, si sente il freddo della città morta. Il vecchio Reno, che l’attraversa dividendola in molte isole congiunte da centocinquanta ponti di pietra, forma dei grandi canali e dei bacini che coprono intere piazze, dove non si vede nè un bastimento nè una barca, così che la città sembra piuttosto che percorsa, allagata dalle acque. Le principali strade sono larghissime e fiancheggiate da case, vecchie e nere, colle solite facciate a punta e a scalini; e in quelle grandi strade, nelle piazze, nei crocicchi, non si vede nessuno o poca gente sparpagliata sur un vasto spazio, come i superstiti d’una città spopolata dalla moría. Nelle piccole strade si cammina per lunghi tratti sull’erba, in mezzo a porte e finestre chiuse, in un silenzio profondo come nelle città delle favole, dove tutti gli abitanti sono immersi in un sonno soprannaturale. Si passa sopra ponti erbosi, lungo canaletti coperti d’un tappeto verde, per piazzette che paiono cortili di convento; e poi, a un tratto, si riesce all’aperto, in una strada larga come un viale di Parigi; e da questa daccapo nel labirinto delle strade strette. Di ponte in ponte, di canale in canale, di isola in isola, si gira per ore ed ore cercando sempre la vita e lo strepito dell’antica Leida, e non si trova che la solitudine, il silenzio e l’acqua, che riflette la tetra maestà della città decaduta.

Dopo un lungo giro riuscii in una vasta piazza, dove faceva gli esercizi uno squadrone di cavalleria. Un vecchio cicerone che m’accompagnava, mi fermò, all’ombra d’un albero, e mi disse che quella piazza, chiamata in olandese La Rovina, ricordava una grande sventura per la città di Leida. “Prima del 1807—brontolò in un francese stentato, e con un tuono di maestro di scuola, tutto proprio dei ciceroni olandesi;—questo grande spazio era tutto coperto di case, e il canale che ora attraversa la piazza passava allora nel mezzo della strada. Il giorno 12 gennaio del 1807 un bastimento carico di polvere ch’era qui di stazione, scoppiò; e ottocento case, con parecchie centinaia di abitanti, saltarono in aria, e così si formò la piazza. E tra quegli abitanti c’era l’illustre storico Giovanni Luzac che fu poi seppellito nella chiesa di san Pietro, con una bella iscrizione; e tra le case che saltarono in aria v’era quella della famiglia Elzevirs, la gloria della tipografia olandese.”—La casa degli Elzevirs!—dissi tra me con grata sorpresa; e pensai a certi bibliofili che conoscevo in Italia, i quali sarebbero stati felici di premere col piede la terra che aveva sorretto quella casa illustre, da cui uscirono i piccoli capo lavori tipografici che essi cercano, sognano e accarezzano con tanto amore; quei libricciuoli che paiono stampati con caratteri adamantini; quei modelli di finezza e di precisione, nei quali un errore tipografico è un portento che ne duplica il pregio e il valore; quelle meraviglie di politipi, di contorni, di baffi, di fioroni, di fondi di lampada, di cui essi parlano con voce commossa, e cogli occhi luccicanti!

Uscendo da quella piazza entrai nella Breedestraat, la più grande strada di Leida, che attraversa la città da un capo all’altro in forma d’un’esse; e arrivai dinanzi al Palazzo Municipale, che è uno dei più curiosi edifizi olandesi del secolo decimosesto. A prima vista pare una decorazione da palco scenico, e contrasta spiacevolmente coll’aspetto grave della città. È un palazzo basso e lungo, color cinerino, con una facciata nuda, sull’alto della quale corre una balaustrata di pietra, e su questa s’innalzano obelischi, piramidine, frontispizii aerei ornati di statue grottesche, che formano una sorta di merlatura fantastica intorno a un tetto ripidissimo. In dirittura dell’entrata principale, s’alza un campanile composto di parecchi piani rientranti l’un nell’altro, che gli danno l’aspetto d’un altissimo chiosco, con sulla cima una enorme corona di ferro, della forma d’un pallon volante rovesciato, sormontata da un’asta. Sopra la porta, alla quale si giunge per due scale, v’è un’iscrizione olandese che rammenta la fame patita dalla città nel 1574, con cento trent’una lettera, che corrispondono ai giorni della durata dell’assedio.

Entrai nel palazzo, girai per varie sale e corridoi senza vedere anima viva e senz’udire un rumore il quale desse indizio ch’era abitato, sin che incontrai un usciere che mi si mise ai fianchi, e fattomi attraversare uno stanzone dov’erano parecchi impiegati immobili come automi, mi condusse nella sala delle curiosità. Il primo oggetto che mi diede nell’occhio, fu una tavola sconnessa, sulla quale lavorò, se è vera la tradizione, quel famoso sarto Giovanni di Leida, che mise sottosopra il paese, sul principio del secolo decimosesto, come aveva fatto, cinque secoli prima, il Tanchelyn, di oscena memoria; quel Giovanni di Leida, capo degli anabattisti, il quale difese contro il vescovo conte di Waldeck, la città di Munster, dove lo avevano eletto re i suoi partigiani fanatici; quel pio profeta, che ebbe un serraglio di donne, e ne fece decapitar una, perchè s’era lamentata della carestia; quel Giovanni di Leida, infine, che morì all’età di 26 anni straziato colle tanaglie roventi, e il suo cadavere, posto in una gabbia di ferro sulla cima d’una torre, fu divorato dai corvi. Egli non era però giunto a destare il fanatismo che aveva destato il Tanchelyn, al quale le donne, persuase di far cosa grata a Dio, si prostituivano al cospetto dei loro mariti e delle loro madri; e gli uomini libavano come una bevanda purificatrice l’acqua nella quale egli aveva lavato la sua sconcia persona.

In altre sale vi sono dipinti dell’Hinck, di Francesco Mieris, del Cornelis Engelbrechtsen, e un Giudizio universale di Luca di Leida, il patriarca della pittura olandese, il primo che afferrò le leggi della prospettiva aerea, valente colorista e incisore di grandissima fama, al quale è a sperarsi che siano state perdonate nel mondo di là le Marie e le Maddalene ignobilmente brutte, i santi burleschi e gli angeli stravolti, di cui popolò i suoi quadri. Anch’egli, come quasi tutti i pittori olandesi, ebbe una vita piena di avventure. Viaggiò per l’Olanda in una barca propria; in ogni città riuniva a banchetto i pittori; fu, o credette d’essere stato avvelenato con un lento veleno dai suoi rivali; stette per anni a letto; dipinse da letto il suo capolavoro: Il Cieco di Gerico guarito da Cristo, e morì due anni dopo, in un giorno memorabile per un caldo prodigioso che spense molte vite e cagionò infiniti malanni.

Uscito dal Palazzo Municipale, mi feci condurre in un castello posto sur una piccola collina che si alza nel mezzo della città, fra le due braccia principali del Reno; ed è la parte più antica di Leida. Questo castello, chiamato dagli Olandesi il Burg, non è altro che una gran torre rotonda e vuota, costruita, secondo alcuni, dai Romani; secondo altri, da un Hengist, duca degli Anglo-Sassoni; e recentemente ristaurata e coronata di merli. La collina è tutta coperta di altissime quercie, che nascondono la torre e impediscono la vista della campagna; soltanto qua e là, guardando a traverso i rami, si vedono i tetti rossi di Leida, la pianura rigata di canali, le dune, i campanili delle città lontane.

Sulla cima di quella torre, all’ombra delle quercie, si sogliono raccogliere gli stranieri per evocare le memorie di quell’assedio che fu «la più lugubre tragedia dei tempi moderni,» e che sembra abbia lasciato nell’aspetto di Leida una traccia incancellabile di tristezza.

Nel 1573 gli Spagnuoli, condotti dal Valdez, posero l’assedio a Leida. Nella città non si trovavano che pochi soldati volontari. Il comando militare era stato affidato al Van der Voes, uomo valoroso e poeta latino di bella fama; il Van der Werf era borgomastro. In breve tempo, gli assedianti costrussero più di sessanta forti in tutti i passi dove si potesse penetrare per acqua o per terra nella città, e Leida si trovò completamente circondata. Ma i Leidesi non si perdettero d’animo. Guglielmo d’Orange aveva fatto dir loro che resistessero almeno per tre mesi, che in questo tempo egli si sarebbe posto in grado di soccorrerli, che la sorte dell’Olanda dipendeva da quella di Leida; e i Leidesi gli avevan promesso di resistere fino agli estremi. Il Valdez mandò ad offrir loro il perdono del re di Spagna, purchè gli aprissero le porte; essi gli risposero con un verso latino: Fistula dulce canit, volucrem dum decipit auceps, e cominciarono a far sortite e ad attaccare combattimenti. Intanto nella città andavano scemando i viveri e il cerchio dell’assedio si restringeva di giorno in giorno. Guglielmo d’Orange che occupava la fortezza di Polderwaert, posta fra Delft e Rotterdam, non vedendo altra via di soccorrere la città, concepì, e ottenne che fosse approvato dai deputati, il disegno di allagare la campagna di Leida, rompendo le dighe dell’Yssel e della Mosa, e scacciando così gli Spagnuoli colle acque, poichè non li poteva scacciare colle armi. Questa disperata risoluzione fu subito messa in atto. Le dighe vennero rotte in sessanta luoghi, le cateratte di Rotterdam e di Gouda furono aperte, il mare cominciò a invadere le terre, e duecento barconi si tennero pronti a Rotterdam, a Delftshaven e in altri luoghi per portare provvigioni alla città, appena cominciassero le grandi cresciute delle acque, che avvengono nell’equinozio d’autunno. Gli Spagnuoli, atterriti sulle prime dall’inondazione, si rassicurarono quando ebbero compreso il disegno degli Olandesi, tenendo per certo che la città si sarebbe arresa prima che le acque giungessero ai forti principali; e a tal fine strinsero l’assedio con maggior vigore. In questo tempo i Leidesi, che cominciavano a sentire le strette della carestia, e a disperare che il soccorso promesso giungesse in tempo, mandavano lettere, per mezzo di piccioni, a Guglielmo d’Orange, malato di febbre ad Amsterdam, per esporgli il triste stato della città; e Guglielmo rispondeva incoraggiandoli a protrarre ancora la resistenza, chè, appena rimesso in salute, sarebbe volato a soccor rerli. Le acque s’avanzavano, l’esercito spagnuolo cominciava ad abbandonare i forti più bassi, gli abitanti di Leida salivano continuamente sulla torre ad osservare il mare ora sperando ora disperando; senza cessare di lavorare alle mura, di far sortite, di respingere assalti. Finalmente il principe d’Orange guarì, e gli apparecchi per la liberazione di Leida, che durante la sua malattia erano andati a rilento, furono ripresi con vigore. Il primo di settembre i Leidesi videro dall’alto della torre apparire sulle acque lontane i primi battelli olandesi. Era una piccola flotta, capitanata dall’ammiraglio Boisot, la quale portava ottocento zelandesi, uomini selvaggi, coperti di ferite, avvezzi al mare, spregiatori della vita, ferocissimi nelle battaglie, che avevano tutti una mezzaluna sopra il cappello coll’iscrizione: «Piuttosto turchi che papisti,» e formavano una falange d’aspetto strano e terribile, risoluta a salvar Leida o a morire nelle acque. I bastimenti s’avanzarono a cinque miglia dalla città, contro l’estrema diga, ch’era difesa dagli Spagnuoli. Si attaccò il combattimento, la diga fu assalita, conquistata, spezzata, il mare irruppe e i battelli olandesi passarono trionfalmente per le breccie. Era un gran passo; ma non era che il primo. Dietro quella diga, se ne stendeva un’altra. Si ricominciò la battaglia; anche la seconda diga fu conquistata e rotta, e la flotta andò innanzi. Tutt’a un tratto il vento si volge contrario, i battelli sono costretti a fermarsi; torna a soffiare in favore, e i battelli si avanzano; si volge contrario un’altra volta, e daccapo la flotta s’arresta. Mentre questo succede, nella città cominciano a mancare anche gli animali schifosi di cui i cittadini sono costretti a cibarsi; la gente si butta in terra a leccare il sangue dei cavalli uccisi; le donne e i fanciulli frugano nelle immondizie della strada; scoppia l’epidemia; le case si riempiono di cadaveri; più di seimila cittadini son morti; ogni speranza di salvamento è perduta. Una turba di affamati corre dal borgomastro Van der Werff e gli domanda la resa con grida strazianti. Il Van der Werff rifiuta. La plebe lo minaccia. Allora egli fa cenno col cappello che vuol parlare, e in mezzo al silenzio generale, grida:—Cittadini! Ho giurato di difendere la città fino alla morte, e coll’aiuto di Dio manterrò il mio giuramento. È meglio morir di fame che morir di vergogna. Le vostre minaccie non mi atterriscono. Io non posso morire che una volta. Uccidetemi, se volete, e saziate la vostra fame colle mie carni; ma fin che vivo non mi chiedete la resa di Leida!—La folla, commossa da queste parole, si disperde in silenzio, rassegnata a morire; e la città continua a difendersi. Finalmente, nella notte del primo ottobre, si scatena un violentissimo vento equinoziale; il mare si solleva, soverchia le dighe rovinate e invade furiosamente la terraferma. A mezzanotte, nel forte della tempesta, in mezzo a un’oscurità profonda, la flotta olandese si muove. Alcuni vascelli spagnuoli le vanno incontro. Scoppia un’orribile battaglia fra le cime degli alberi e i tetti delle case sommerse, al chiarore dei lampi delle cannonate. I bastimenti spagnuoli sono sopraffatti, invasi, affondati; gli Zelandesi saltano nei bassi fondi e spingono innanzi i loro battelli a forza di spalle; i soldati spagnuoli, presi dal terrore, abbandonano i forti, cadono a centinaia nel mare, sono uccisi a colpi di pugnale e d’uncino, precipitati dai tetti e dalle dighe, fulminati, dispersi. Rimane un’ultima fortezza in potere del Valdez; gli assediati ondeggiano ancora una volta fra la disperazione e la speranza; anche quella fortezza è abbandonata; la flotta olandese entra in città.

Qui l’aspettava uno spettacolo orrendo. Un popolo scarno, trasfigurato, sfinito dalla fame, s’affollava lungo i canali, strascinandosi per le terre, barcollando, tendendo le braccia. I marinai si misero a gettar pani dai battelli sulle strade, e allora cominciarono fra quei moribondi delle lotte disperate; molti morirono soffocati; altri spirarono divorando quel primo nutrimento; altri caddero nei canali. Quietata finalmente quella prima furia, saziati i più rifiniti, provveduto ai più stringenti bisogni della città, si confusero festosamente cittadini, zelandesi, marinai, guardie civiche, soldati, donne, ragazzi, e quella turba gloriosa e consunta corse alla cattedrale, dove cantò, con voce rotta dai singhiozzi, un inno di grazie al Signore.

Il principe d’Orange ricevette la notizia del salvamento a Delft, in una chiesa, mentre assisteva agli uffizi divini. Trasmise subito il messaggio al predicatore, e questi l’annunziò all’uditorio, che gli rispose con un grido di gioia. Benchè tuttavia convalescente, e quantunque l’epidemia infierisse ancora a Leida, Guglielmo volle riveder subito la sua cara e valorosa città; vi accorse: la sua entrata fu un trionfo; il suo aspetto maestoso e sereno rincorò il popolo; le sue parole gli fecero dimenticare tutti i dolori sofferti. Per premiare la città della sua eroica difesa, le lasciò la scelta fra l’esenzione da certe imposte e la fondazione d’una Università. Leida scelse l’Università.

La festa d’inaugurazione dell’Università fu celebrata il 5 febbraio dell’anno 1575 con una processione solenne. Andavano innanzi un drappello di milizia borghese e cinque compagnie di fanteria della guarnigione di Leida, alle quali teneva dietro un carro tirato da quattro cavalli, con su una donna vestita di bianco, che rappresentava l’Evangelo; e intorno al carro i quattro Evangelisti. Seguiva la Giustizia cogli occhi bendati, la bilancia e la clava, montata sur un liocorno, e circondata da Giuliano, Papiniano, Ulpiano e Tribuniano. Alla Giustizia, succedeva la Medicina, a cavallo, con un trattato in una mano e nell’altra una ghirlanda di piante medicinali, e l’accompagnavano i quattro grandi dottori Ippocrate, Galeno, Dioscoride e Teofrasto. Dopo la Medicina, veniva Minerva armata di lancia e di scudo, scortata da quattro cavalieri che rappresentavano Platone, Aristotile, Cicerone e Virgilio. Negli intermezzi camminavano guerrieri vestiti ed armati all’antica. In coda v’erano alabardieri, mazzieri, musici, ufficiali, i nuovi professori, i magistrati, una folla infinita. La processione passò lentamente per parecchie strade cosparse di fiori, sotto archi trionfali, in mezzo agli arazzi e alle bandiere, fino a un piccolo porto sul Reno, dove le venne incontro una gran barca splendidamente decorata, sulla quale, all’ombra d’un baldacchino coperto di alloro e d’aranci, sedeva Apollo suonando il liuto, circondato dalle nove Muse che cantavano, e Nettuno, salvatore della città, governava il timone. La barca s’avvicinò alla sponda, il biondo nume e le nove sorelle discesero, baciarono l’un dopo l’altro i nuovi professori, salutandoli con gentili versi latini; dopo di che la processione si recò all’edifizio destinato all’Università, dove un professore di teologia, il molto reverendo Gaspare Kolhas pronunziò un eloquente discorso inaugurale, preceduto dalla musica, e seguito da uno splendido banchetto.

Come quest’Università abbia corrisposto alle speranze di Leida, è superfluo il dire. Tutti sanno come gli Stati d’Olanda v’abbiano attirato con larghissime offerte dotti di ogni paese; come la filosofia, scacciata di Francia, vi si sia rifugiata; come sia stata per molto tempo la cittadella più sicura di tutti gli uomini che lottarono per il trionfo della ragione umana; come sia diventata, in fine, la più famosa scuola d’Europa. L’Università attuale è in un antico convento. Non si può, senza un sentimento di profondo rispetto, entrare nella gran sala del Senato accademico dove si vedono i ritratti di tutti i professori che si succedettero dalla fondazione dell’Università fino ai nostri giorni: fra i quali Giusto Lipse, il Vossius, l’Heinsius, il Gronovius, l’Hemsterhuys, il Ruhneken, il Valckenaer, il grande Scaligero, che gli Stati d’Olanda fecero invitare a Leida per mezzo di Enrico IV; i due famosi Gomarius e Arminius, che provocarono la gran lotta religiosa definita dal sinodo di Dordrecht; il celeberrimo medico leidese Boerhaave, alle lezioni del quale assisteva Pietro il Grande, e accorrevano a lui malati da tutti i paesi del mondo, e gli era recapitata una lettera d’un mandarino chinese senz’altro indirizzo che all’illustre Boerhaave, medico in Europa.

Ora, questa gloriosa Università, benchè abbia ancora dei professori illustri, è decaduta; i suoi studenti, che furono in altri tempi più di duemila, son ridotti a poche centinaia; l’insegnamento che vi si dà non può più rivaleggiare con quello delle università di Berlino, di Monaco, di Weimar. Principalissima cagione di questa decadenza è il numero soverchio delle università olandesi (chè, oltre quella di Leida, ve n’ha una a Utrecht e una a Groninga e un ateneo ad Amsterdam); donde segue che i musei, le biblioteche, i professori eminenti, i quali raccolti in una sola città potrebbero formare una Università eccellente, sparpagliati come sono, non bastano ai bisogni. E non è da dirsi che l’Olanda non sia persuasa che una sola università eccellente le gioverebbe assai più che quattro mediocri; chè anzi da molto tempo ella domanda ad alta voce che questo si faccia. E perchè non si fa? O Italiani, consoliamoci: tutto il mondo è paese. Anche in Olanda, la patria propone e il campanile dispone. Le tre città universitarie gridano tutte insieme: Sopprimiamo;—ma ciascuna dice alle altre: Sopprimete;—e così si va innanzi senza sopprimere, continuando a sollecitare la soppressione.

Ma benchè decaduta, l’università di Leida è ancora la più fiorente dell’Olanda, in specie per i molti e ricchissimi musei dei quali dispone. Nè di questi però, nè delle biblioteche, nè dell’ammirabile giardino botanico sarebbe decente il discorrere, come solo io potrei fare, di volo. Non posso però dimenticare due cose curiosissime che vidi nel Museo di Storia Naturale: una ridicola e una seria. La prima, che si trova nel gabinetto anatomico (uno dei più ricchi d’Europa), è un’orchestra formata da una cinquantina di scheletri di piccolissimi topi, alcuni in piedi, altri seduti sur una doppia fila di banchi, tutti colla coda ritta, con violini e chitarre fra gli zampini, il libro della musica davanti, sigaro in bocca, fazzoletto, scatole da tabacco; e il capo orchestra che si sbraccia sopra una seggiola elevata. La cosa seria sono alcuni pezzi di legno corroso, bucherellato come la spugna, frammenti di palafitte e di battenti di cateratte, i quali ricor dano il pericolo d’un’immensa sventura che corse l’Olanda verso la metà del secolo passato. Un mollusco, una specie di tarlo, chiamato taret, portato, si crede, da qualche bastimento reduce dai mari tropicali, e moltiplicatosi con meravigliosa rapidità nelle acque del nord, aveva corroso i legnami delle dighe e delle cateratte a tal segno, che per poco fosse continuato quel lavoro di distruzione, gli argini si sarebbero sfasciati e il mare avrebbe sommerso tutto il paese. La scoperta di questo pericolo gettò lo spavento nell’Olanda, il popolo accorse alle chiese, il paese intero si mise all’opera; si rivestirono di rame i battenti delle cateratte, si fortificarono le dighe pericolanti, si difesero le palafitte con chiodi, con pietre, con alghe, con muratura; e in parte con questi mezzi, ma specialmente grazie al rigore del clima che distrusse il terribile animale, la sventura creduta sulle prime irreparabile fu scongiurata. Un verme aveva fatto tremare l’Olanda: arduo trionfo, negato alle tempeste dell’oceano e alle ire di Filippo.

Un altro ornamento preziosissimo di Leida è il Museo Giapponese del dottor Siebold, tedesco di nascita, medico della Colonia olandese dell’isola di Decima; il quale, secondo narra una tradizione romanzesca, ottenne per il primo dall’imperatore del Giappone di entrare in quel misterioso impero, in ricompensa dell’avergli guarito una figliuola; o secondo un’altra tradizione più credibile, entrò in quel paese di nascosto, e non ne uscì che dopo aver scontato il suo ardimento con nove mesi di prigionia, e fatto pagar colla testa ad alcuni mandarini la colpa d’averlo aiutato. Comunque sia, il Museo del dottor Siebold è forse la più bella collezione di quel genere che si trovi in Europa. Un’ora passata in quelle sale è un viaggio nel Giappone. Vi si segue la vita d’una famiglia giapponese per tutto il corso della giornata: dalla toeletta alla mensa, dalle visite allo spettacolo, dalla città alla campagna. Vi si trovan le case, i templi, gl’idoli, gli altari portatili, gli strumenti di musica, gli utensili di casa, gli arnesi dell’agricoltura, i vestiari degli operai e dei pescatori; candelieri di bronzo formati da una cicogna ritta sopra una tartaruga; vasi, gioielli, pugnali lavorati con una delicatezza prodigiosa; uccelli, tigri, conigli, bufali d’avorio riprodotti piuma a piuma, pelo a pelo, colla pazienza propria di quei popoli ingegnosi ed immobili. Fra le cose che mi rimasero più impresse, è una colossale faccia di Budda, che a primo aspetto mi fece dare addietro, e che mi par sempre di vedermi dinanzi, con quella mostruosa contrazione e quell’inesprimibile sguardo tra di riso, di delirio e di spasimo, che desta ad un tempo lo schifo e lo spavento. Dietro questa faccia di Budda vedo ancora le marionette dei teatri di Iava, vere creazioni di cervelli in delirio, su cui l’occhio si stanca e la mente si confonde: re, regine e guerrieri mostruosi, misti d’uomo, di bestia e di pianta, con braccia che finiscono in foglie, gambe che ter minano in ornati, fronde che si allargano in mani, petti che vegetano, nasi che sbocciano, visi traforati, occhi strambi, pupille nella nuca, membri rovesciati, ali di draghi, code di sirene, chiome di biscie, bocche di pesci, denti d’elefante, rughe dorate, colli a zig zag, tratteggiamenti, rabeschi coloriti, ghirigori, di cui nessuna lingua può dare un’idea, e che è impossibile ritener nella mente. Uscendo da quel Museo, mi parve di svegliarmi da uno di quei sogni febbrili nei quali si vede qualcosa che non si sa che sia, che si trasforma continuamente, con una rapidità furiosa, in altre cose che non han nome.

Non v’è altro da vedere a Leida. Il mulino in cui nacque il Rembrandt non esiste più. Delle case dove nacquero i pittori Dow, Steen, Metzu, van Goyen e quell’Otto van Veen ch’ebbe l’onore e la disgrazia d’esser maestro di Paolo Rubens, non si conserva alcun ricordo. Si può vedere ancora il castello di Endegeest dove soggiornarono il Boerhaave e il Descartes; questo per parecchi anni, durante i quali scrisse le sue principali opere di filosofia e di matematica. Il castello è posto sulla via che da Leida conduce al villaggio di Katwijk, dove il vecchio Reno, i cui varii rami si riuniscono in un solo uscendo dalla città, mette foce nel mare.

La seconda volta che fui a Leida, volli andar a veder morire questo meraviglioso fiume. Fino dalla prima volta ch’avevo passato il Vecchio Reno, in quella avventurosa passeggiata alle dune, m’ero soffermato sul ponte, domandando a me medesimo se quel piccolo ed umile corso d’acqua era veramente quello stesso fiume che avevo visto precipitare con immenso fragore dalle roccie di Sciaffusa, espandersi maestosamente in faccia a Magonza, passare in trionfo dinanzi alla fortezza di Ehrenbreitstein, sbatter l’onda sonora ai piedi delle Sette montagne; specchiar nella sua corsa cattedrali gotiche, castelli principeschi, colline fiorite, rupi aeree, rovine famose, città, boschi, giardini, per tutto carico di navi, sparso di barche e salutato coi canti e colle musiche; e pensando a queste cose, coll’occhio fisso su quel fiumiciattolo chiuso fra due sponde piane e deserte, avevo ripetuto più volte:—Questo è quel Reno?—Le vicende che accompagnano l’agonia e la morte di questo gran fiume in Olanda, sono tali veramente da destare un senso di pietà come si proverebbe per le sventure e la fine ingloriosa d’un popolo altre volte potente e felice. Fin dalle vicinanze di Emmerich, prima di varcare la frontiera olandese, egli ha perduto ogni bellezza di sponda, e scorre a grandi curve in mezzo a pianure vaste ed uggiose, che sembrano annunziargli la vecchiaia che comincia. A Millingen scorre già interamente nel territorio olandese. Poco più oltre, si divide. Il braccio maggiore perde vergognosamente il suo nome e va a gettarsi nella Mosa; l’altro braccio, insultato col nome di canale di Pannerden, scorre fin presso la città d’Arnehm, dove si biforca un’altra volta. Un braccio, con un nome d’accatto, si va a versare nel golfo di Zuiderzee; l’altro, chiamato ancora per commiserazione il Basso Reno, va fino al villaggio di Durstede, dove si divide per la terza volta: umiliazione ormai vecchia. L’un dei rami, cangiando nome anch’esso come un fuggiasco, va a gettarsi nella Mosa vicino a Rotterdam; l’altro, chiamato ancora Reno, ma col ridicolo soprannome di curvo, giunge faticosamente ad Utrecht, dove per la quarta volta si divide in due: capriccio di vecchio rimbambito. Da una parte, rinnegando il nome antico, si strascina fino a Muiden, dove sbocca nel Zuiderzee; dall’altra, col nome di Vecchio Reno, anzi, per maggior spregio, di Vecchio, va lentamente fino alla città di Leida, della quale attraversa le strade senza dar quasi indizio di movimento, e si riunisce in un sol canale per andar a morire miseramente nel Mare del Nord.

Ma non sono molti anni che nemmeno questa compassionevole fine non gli era concessa. Dall’anno 839, nel quale una furiosa tempesta aveva accumulato alla sua foce dei monti di sabbia, fino al principio di questo secolo, il Vecchio Reno si perdeva nelle sabbie prima di giungere al mare, e copriva di stagni e di paludi un vastissimo tratto di paese. Sotto il regno di Luigi Bonaparte le acque furono raccolte in un grande canale protetto da tre enormi cateratte, e d’allora in poi il Reno va diritto alla foce. Queste cateratte sono il più grandioso monumento dell’Olanda, e forse la più mirabile opera idraulica del l’Europa. Le dighe che proteggono l’imboccatura del canale, i muri, i pilastri, le porte, presentano tutti insieme l’aspetto d’una fortezza ciclopica contro la quale pare che non solo quel mare, ma le forze riunite di tutti i mari dovrebbero spezzarsi come contro una montagna di granito. Quando monta la marea, si chiudono le porte per impedire che il mare invada la terra; quando la marea cala, si riaprono per dar sfogo alle acque del Reno che vi si sono accumulate; e allora passa per le porte una massa di tremila metri cubi d’acqua in un minuto secondo. I giorni di grande tempesta, si fa una concessione al mare, lasciando aperte le porte della cateratta più avanzata; e allora le onde furiose si precipitano nel canale, come un esercito nemico per una breccia; ma vanno a spezzarsi contro le porte formidabili della seconda cateratta, dietro le quali l’Olanda grida loro:—Voi non andrete più oltre!—Quella fortezza enorme che sopra una spiaggia deserta difende dall’Oceano un fiume morente e una città decaduta, ha qualche cosa di solenne, che comanda l’ammirazione e il rispetto.

Rivedo Leida, quale la vidi la sera che tornai dall’escursione, buia e muta come una città abbandonata, e le dò un addio riverente coll’animo già rallegrato dell’immagine della vicina Haarlem, la città dei paesisti e dei fiori.

HAARLEM.

La strada ferrata da Leida ad Haarlem corre sur una lista di terra compresa fra il mare e il fondo del gran lago che copriva trent’anni fa tutta la campagna che si stende fra Haarlem, Leida ed Amsterdam. Lo straniero che percorre quella via con una vecchia carta stampata prima del 1850, guarda, cerca, confronta, e non trova più il lago d’Haarlem. Questo accadde a me; e la cosa parendomi un po’ strana, mi rivolsi a un vicino e gli domandai conto del lago sparito. Tutti i viaggiatori risero, e l’interrogato mi diede questa bizzarra risposta:—Ce lo siamo bevuto.

La storia di questo meraviglioso lavoro sarebbe un soggetto degno d’un poema.

Il grande lago d’Haarlem, formato dalla riunione di quattro piccolissimi laghi, e cresciuto per effetto delle innondazioni, aveva già sulla fine del secolo decimosettimo un circuito di quarantaquattro chilometri, e si chiamava mare, ed era infatti un mare tempestoso, sul quale avevan combattuto flotte di settanta navi, e fatto naufragio molti bastimenti. Grazie alle alte dune che si stendono sulla costa, questa grande massa d’acqua non aveva ancora potuto congiungersi al Mare del Nord, e convertir così in un’isola l’Olanda Settentrionale; ma dalla parte opposta, minacciava le campagne, le città, i villaggi, e costringeva gli abitanti a una continua difesa. Già nel 1640 un ingegnere Olandese di nome Leeghwater aveva pubblicato un libro diretto a dimostrare la possibilità e l’utilità di prosciugare questo lago pericoloso; ma in parte per le difficoltà che presentava il metodo di prosciugamento da lui proposto, e più perchè il paese era allora occupato nella guerra contro la Spagna, l’impresa non aveva trovato promotori. Gli avvenimenti politici che seguirono la pace del 1648, e le guerre disastrose colla Francia e coll’Inghilterra, fecero dimenticare ancora il progetto del Leeghwater sino al principio del presente secolo. Finalmente, verso il 1819, la quistione fu ripresa, e si fecero nuovi studi e nuove proposte; ma l’esecuzione fu rimandata ad altro tempo; e forse non sarebbe ancora condotta a termine al dì d’oggi, se non fosse stato un avvenimento impreveduto che diede l’ultima spinta alle volontà. Il giorno 9 di novembre del 1836, le acque del mare d’Haarlem, sollevate da un vento furioso, superarono le dighe, e si slanciarono sino alle porte d’Amsterdam; e nel mese seguente invasero Leida e tutta la sua campagna. Fu l’ultima provocazione. L’Olanda raccolse il guanto, e nel 1839 gli Stati Generali condannarono il mare temerario a sparire dalla faccia dello Stato. I lavori ebbero principio nel 1840. Si cominciò col circondare il lago d’una doppia diga e d’un largo canale, destinato a raccogliere le acque che poi, per altri canali, sarebbero state condotte al mare. Il lago conteneva settecento ventiquattro milioni di metri cubi d’acqua; senza contare la piovana e la filtrante che durante il prosciugamento fu trovata essere di trentasei milioni di metri cubi all’anno. Gl’ingegneri avevano fatto il conto che si sarebbe dovuto far passare mese per mese, dal lago nel canale di scolo, trentasei milioni e duecentomila metri cubi d’acqua. Tre enormi macchine a vapore bastarono a questo lavoro. Una fu innalzata presso Haarlem, l’altra fra Haarlem ed Amsterdam, la terza presso Leida. Quest’ultima fu chiamata la Leeghwater, in onore dell’ingegnere che aveva fatto la prima proposta del prosciugamento. Io la vidi, poichè non solo fu conservata, ma funziona ancora, a riprese, per assorbire e versare nel canale di scolo le acque piovute e filtrate. E così le altre due che sono uguali alla prima. Le macchine son chiuse in grosse torri rotonde e merlate, ciascuna delle quali ha un giro di finestre ad arco acuto, da cui escono undici grandi braccia che alzandosi e abbassandosi con lentezza maestosa, mettono in moto altrettante pompe, capaci di sollevare, volta per volta, il peso enorme di sessantasei metri cubi d’acqua. Tali sono all’aspetto questi tre smisurati vampiri di ferro che hanno succhiato un mare. La prima a mettersi all’opera fu la Leeghwater, il dì 7 giugno del 1849. Poco dopo cominciarono le altre due. Da quel momento il livello del lago si abbassò d’un centimetro al giorno. Dopo trentanove mesi di lavoro la gigantesca impresa fu compiuta; le macchine avevano assorbito 924,266,112 metri cubi d’acqua; il mare d’Haarlem era sparito. Questo lavoro che costò 7,240,368 fiorini, diede all’Olanda una nuova provincia di 18,500 ettari di terreno. Da tutte lo parti dell’Olanda vi accorsero coltivatori. Vi si cominciò a seminar colza che diede un meraviglioso raccolto; poi ogni sorta di prodotti che vi fecero ottima prova. E come la popolazione proviene da differenti provincie, così vi si trovano tutti i sistemi di coltivazione in gara gli uni cogli altri; vi si vedon fattorie della Zelanda, del Brabante, della Frisia, della Groninga, della Nord-Olanda; vi si sentono tutti i dialetti delle Provincie unite; è una piccola Olanda dentro l’Olanda.

Via via che ci s’avvicina ad Haarlem, spesseggiano le ville e i giardini; ma la città rimane nascosta dagli alberi, di sopra dei quali non appare che il campanile altissimo della cattedrale, sormontato da una gran corona di ferro, della forma d’un bulbo di torre moscovita. Entrando in città, si vedono da ogni parte canali, mulini a vento, ponti levatoi, barchette di pescatori, case che si specchian nell’acqua; e fatto appena qualche centinaio di passi si riesce in una vasta piazza che fa esclamare con piacevole meraviglia:—Oh! eccoci veramente in Olanda!—

In un angolo v’è la cattedrale, edifizio alto e nudo, sormontato da un tetto della forma di prisma acutissimo, che par che fenda il cielo come una scure affilata. In faccia alla cattedrale s’alza l’antico palazzo municipale, coronato di merli, con un tetto simile a un bastimento rovesciato, e un balconcino che pare una gabbia da uccelli appesa sopra la porta, e una parte della facciata nascosta da due piccole case d’una forma bizzarra, tra di teatro, di chiesa e di castello da fuochi artificiali. Dagli altri lati della piazza ci son case di tutte le più capricciose forme dell’architettura olandese, pencolanti di qua e di là, di color nero, rossastro o vermiglio, colle facciate tempestate di bozze bianche, che paion tante scacchiere, e una fila d’alberi piantati quasi contro il muro, che nascondono tutte le finestre del primo piano. Accanto alla cattedrale, un edifizio stravagante, che serve agli incanti pubblici, un monumento d’architettura fantastica, mezzo rosso e mezzo bianco, tutto scalini, frontispizi, obelischi, piramidine, bassorilievi, ornamenti senza nome, della forma di trionfi da tavola, di candelieri e di spegnitoi che paion buttati là a caso, e presentano tutti insieme l’immagine d’un pagode indiano trasformato, con un’abberrazione di gusto spagnuolo, in casa olandese, da un artista esaltato dal ginepro. Ma la cosa più strana è una brutta statua di bronzo che si vede nel mezzo della piazza, con un’iscrizione che dice: Laurentius Johannis filius Costerus Typographiæ litteris mobilibus e metallo fusis inventor. Come!—si domanda lì per lì lo straniero ignaro della cosa;—che novità è codesta? non è Gutenberg l’inventore della stampa? Che cosa pretende costui? Chi è codesto Costerus?

Questo Costerus aveva nome Lorenzo Jauszoon, e fu chiamato Coster perchè fece il sagrestano, che si dice coster in lingua olandese. La tradizione racconta che questo Coster, nato in Haarlem verso la fine del secolo XIV, passeggiando un giorno nel bel bosco che si stende a mezzogiorno della città, staccò un ramo da un albero, e per divertire i suoi figliuoli v’intagliò con un coltello alcune lettere, le quali gli fecero nascere la prima idea della stampa. Infatti, tornato a casa, intinse quei tipi grossolani nell’inchiostro, li impresse sulla carta, fece nuove prove, perfezionò le lettere, stampò pagine intere, e finalmente, dopo una lunga vicenda di studi, di fatiche, di disinganni, di persecuzioni, delle quali fu fatto segno dai copisti e dai lucidatori; riuscì a produrre il suo capolavoro che fu lo Speculum humanæ salvationis, stampato in lingua tedesca, a colonne doppie e in caratteri gotici. Questo Speculum humanæ salvationis, che si può vedere nel palazzo municipale, è in parte stampato con tavole di legno incise, e in parte con caratteri mobili; e porta la data del 1440; la data più remota che si possa ammettere per l’invenzione di caratteri mobili; nei quali consiste veramente l’invenzione della stampa. Stando dunque a questo Speculum il Gutenberg l’avrebbe tra capo e collo. Ma le prove? Qui comincia il busilli per l’inventore olandese. Fra gli oggetti appartenenti a lui, che si conservano nel palazzo municipale, caratteri mobili non ve ne sono; e manca pure ogni altro strumento, o documento scritto, o testimonianza qualsiasi, che provi indubitabilmente che codesto Speculum, o almeno la parte stampata con caratteri mobili, sia stata stampata dal Coster. Come suppliscono a questa mancanza i fautori dell’inventore olandese? Qui salta fuori un’altra leggenda. La notte di Natale del 1440, mentre il Coster, vecchio e malato, assisteva alla Messa di mezzanotte, pregando Iddio che gli desse forza a sopportare le persecuzioni e a lottare contro l’invidia dei suoi nemici, un suo operaio, uno di quelli ch’egli s’era associato con giuramento di non tradire il segreto della sua invenzione, gli avrebbe portato via gli strumenti, i caratteri, i libri; del che accorgendosi il povero Coster appena rientrato in casa, sarebbe morto di dolore. Secondo la leggenda, questo sacrilego ladro sarebbe stato Fausto di Magonza o il fratello primogenito del Gutenberg; con che si spiegherebbe, e come la gloria dell’invenzione sia passata dall’Olanda alla Germania, e come la statua del povero Coster abbia il diritto di riz zarsi in mezzo alla piazza di Haarlem come uno spettro vendicatore. Su questa quistione, che durò per secoli, si scrisse in Olanda e in Germania un’intera biblioteca; fino a pochi anni sono, rimaneva ancora incerto dinanzi a quale delle due statue, quella di Magonza o quella di Haarlem, il viaggiatore dovesse levarsi il cappello: la Germania respingeva con supremo disdegno le pretensioni olandesi; l’Olanda, benchè con voce di meno in meno sicura, respingeva ostinatamente le pretensioni germaniche. Ma pare ora che il nodo della quistione sia stato sciolto per sempre. Il dottore Van der Linde, olandese, ha pubblicato un libro intitolato: La leggenda del Coster, letto il quale, a detta degli stessi Olandesi, non si dà maggior fede al Coster inventore della stampa che non se ne dia al Tubalcain inventore dell’uso del ferro od al Prometeo rapitore del fuoco. Per conseguenza la statua del povero Coster potrà esser fusa quando che sia in un bel cannone da spedirsi a dar consigli ai pirati di Sumatra. Ma all’Olanda rimarrà pur sempre, nel campo della tipografia, la gloria incontestata degli Elzevirs, e l’onore invidiabile d’aver stampato quasi tutti i grandi scrittori del secolo di Luigi XIV, d’avere diffuso in Europa la filosofia francese del XVIII, d’aver accolto, difeso, propagato il pensiero umano proscritto dal dispotismo e rinnegato dalla paura.

Nel palazzo municipale v’è un Museo di Pittura che si potrebbe chiamare il Museo di Franz Hals, poichè i capolavori di questo grande artista ne sono il principale ornamento. Nato, come tutti sanno, a Malines, sulla fine del secolo decimosesto, egli visse molti anni in Haarlem, quando vi fioriva la pittura di paesaggio, e vi soggiornavano, fra gli altri illustri artisti olandesi, il Ruysdaël, il Winants, il Brouwer, il Cornelio Bega. La sala principale del Museo, che è vastissima, è quasi tutta occupata dai suoi grandi quadri. Entrando, si ha per un momento un’illusione singolarissima. Par d’essere entrati nella sala d’un banchetto, diviso, come sogliono essere i grandi banchetti, in varie mense; e che al rumore dei nostri passi, tutti i commensali si siano voltati per vederci. Son tutti gruppi d’uffiziali degli arcieri e d’amministratori d’ospedali, di grandezza naturale, quali seduti, quali in piedi, intorno a tavole splendidamente apparecchiate; e tutti coi visi rivolti verso chi guarda, come gente atteggiata davanti a una macchina fotografica. Da qualunque parte uno si volga, non vede che faccioni pieni di bonomia e di salute, e occhi fissi nei suoi che par che dicano:—Mi riconoscete?—E v’è tanta verità d’espressione in quei visi, che par davvero di riconoscerli tutti, di saper chi sono, d’averli incontrati parecchie volte per le vie di Leida e dell’Aja. Questa verità d’espressione, la giovialità della scena, il vestiario ampio e ricco del secolo decimosettimo, le armi, le mense, e il non esservi intorno altri quadri che chiamino il pensiero ad altri tempi, fa sì che paia veramente di veder l’Olanda di due cent’anni fa, di sentir l’aura del suo gran secolo, di vivere in mezzo a quella gente forte, schietta e cordiale. Non s’è in una sala di Museo; si assiste alla rappresentazione d’una commedia storica; e non si sarebbe punto meravigliati di veder capitare tutt’a un tratto Maurizio d’Orange o Federico-Enrico. Il più magistrale di questi quadri rappresenta diciannove arcieri aggruppati intorno al loro colonnello, ed è uno dei capolavori dell’alta scuola olandese, d’un disegno grandioso e libero, d’un colorito caldo e brillante, degno di stare accanto al famoso Banchetto della guardia civica di Van der Helst. Fra gli altri quadri d’altri artisti, mi ricordo d’uno di Pietro Breugel il giovane, che è un’illustrazione comica di più di ottanta proverbi fiamminghi, a cui non posso pensare senza dare in uno scoppio di risa. Ma è un quadro che non si può descrivere per molte oneste ragioni.

In una sala del Museo di Pittura si conserva la bandiera che appartenne alla famosa eroina Kanau Hasselaer, la Giovanna d’Arco di Haarlem, la quale combattè nel 1572 alla testa di trecento amazzoni armate, contro gli Spagnuoli che assediavano la città. La difesa di Haarlem, benchè non coronata dalla vittoria, non fu meno gloriosa che quella di Leida. La città era circondata di vecchie mura e di torri cadenti, e non aveva, oltre la legione delle donne, più di quattromila difensori armati. Gli Spagnuoli, dopo aver cannoneggiato le mura per tre giorni, andarono con grande fiducia all’assalto; ma respinti da una pioggia di palle, di sassi, d’olio bollente, di pece infiammata, dovettero risolversi a porre un assedio regolare. La città era soccorsa dalla gente della campagna, uomini, donne e bambini, che scivolando sui ghiacci col favore della nebbia del decembre, le portavano sulle slitte provvigioni da bocca e da guerra. Guglielmo d’Orange, dal canto suo, faceva quant’era in lui per costringer gli Spagnuoli a levar l’assedio. Ma la fortuna non gli arrideva. Tremila soldati olandesi, mandati innanzi pei primi, furono sconfitti, i prigionieri impiccati, e un ufficiale fatto morire appeso a una forca colla testa in giù. Un altro tentativo di soccorso ebbe la stessa sorte: gli Spagnuoli tagliaron la testa a un ufficiale prigioniero e la gettarono nella città con un’iscrizione oltraggiosa. I cittadini, alla loro volta, gettarono nel campo nemico una botte con dentro undici teste di prigionieri spagnuoli e un biglietto che diceva:—«Le dieci teste sono mandate al duca d’Alba in pagamento della sua tassa dei decimi, con una testa d’interesse.»—I combattimenti si succedevano di più in più feroci, fra lo scoppio delle mine e delle contrammine, nel seno della terra. Il 28 gennaio arrivarono in città, per la via del lago di Haarlem, centosettanta slitte cariche di pane e di polvere. Don Federico, capitano degli Spagnuoli, cominciava a disperare e voleva levar l’assedio; ma il duca d’Alba, suo padre, gli ordinò di persistere. Venne finalmente il tempo dello sgelo, diventò difficile recar provvigioni alla città, gli assediati cominciarono a patir la carestia. Il 25 marzo fecero una sortita, nella quale arsero trecento tende e presero sette cannoni; ma questa vittoria fu resa vana da una sconfitta toccata alla flotta del principe d’Orange venuta a battaglia nel lago d’Haarlem colla flotta spagnuola. Questa sconfitta gettò gli assediati nella disperazione. Nel mese di giugno erano già ridotti agli ultimi orrori della fame. Nei primi di luglio tentarono inutilmente di venire ad accordi coi nemici. Il giorno otto, cinquemila volontari olandesi mandati da Guglielmo d’Orange per soccorrere la città, furono sbaragliati; e un prigioniero fu inviato in Haarlem col naso e le orecchie tagliate a portare la notizia. Allora gli assediati risolvettero di formare una legione serrata, colle donne e i bambini nel mezzo, e di slanciarsi fuori della città per aprirsi un varco in mezzo al campo nemico. Ciò saputo, don Federico promise ipocritamente il perdono, purchè la città si rendesse senza indugio. La città si arrese, gli Spagnuoli entrarono, trucidarono tutti i soldati del presidio, fecero decapitare mille cittadini, e legatine duecento a due a due li precipitarono gli uni dopo gli altri nel lago. L’esercito spagnuolo aveva pagato con dodicimila morti questa vittoria di Pirro strappata col tradimento e contaminata col boia.

Dal Museo andai alla cattedrale colla speranza di sentirvi suonare l’organo famoso di Cristiano Müller, che si dice essere il più grande del mon do, e conta fra le sue glorie quella d’essere stato suonato dal celebre Händel e da un ragazzo di dieci anni che aveva nome Mozart. La chiesa, fondata verso la fine del quindicesimo secolo, è bianca e nuda come una moschea; e coperta da una vôlta altissima rivestita di legno di cedro, la quale s’appoggia sopra ventotto leggere colonne. In un muro si vede una palla da cannone dell’assedio del 1573. Nel mezzo della chiesa v’è un monumento consacrato alla memoria dell’ingegnere Conrad, costruttore delle cateratte di Katwijk, e del suo collega Brunings « protettore dell’Olanda contro il furore del mare e la potenza delle tempeste.» Dietro il coro è sepolto il grande poeta Bilderdijk. A un arco sono sospesi alcuni piccoli modelli di bastimenti da guerra che rammentano la quinta crociata, condotta dal conte Guglielmo I d’Olanda. Vicino al pulpito v’è la tomba del Coster. L’organo, sostenuto da colonne di porfido, copre tutta una parete dal pavimento al tetto, e ha quattro tastiere, sessantaquattro registri e cinquemila canne, alcune delle quali sono alte due volte una casa olandese. In quel momento v’eran parecchi forestieri: l’organista non si fece attendere, e io potei sentire, come dice Vittor Ugo, cantare i cannoni di Dio. Profanissimo all’arte, non saprei dire in che cosa l’organo della chiesa di Haarlem differisca da quello del San Paolo di Londra o della cattedrale di Friburgo o della basilica di Siviglia. Ho sentito il solito squillo che annunzia la battaglia, a cui tien dietro un tumulto formida bile di colpi di cannone, di grida di feriti e di fanfare vittoriose che s’allontanano di valle in valle fin che si perdono di là dai monti; e allora s’alza un’armonia tranquilla di flauti, di chiavine e di canti pastorali, che infondono nel cuore tutta la dolcezza della vita dei campi; quando tutt’a un tratto scoppia la folgore, si scatena l’uragano, treman le fondamenta della chiesa; e poi la tempesta s’acqueta a poco a poco al suono d’un canto tremolo e solenne d’una legione d’angeli che arriva lentamente da una sterminata lontananza, e si sparpaglia nelle nuvole bestemmiata da un esercito di demoni muggenti nelle profondità della terra. E infine un’arietta della Fille de madame Angot, la quale dice che tutto è stato uno scherzo e che l’organista si raccomanda alla cortesia degli stranieri.

Dalla sommità del campanile si abbraccia collo sguardo tutta la bella campagna di Haarlem, sparsa di boschetti, di mulini a vento e di villaggi; si vedono i due grandi canali che vanno a Leida e ad Amsterdam, solcati da lunghe file di barconi a vela; si scorgono i campanili d’Amsterdam, le praterie dell’antico lago d’Haarlem, il villaggio di Bloemendaal, circondato di villette e di giardini; le dune brulle che difendono dalle tempeste questo piccolo paradiso terrestre; e di là dalle dune, il Mare del Nord che appare come una striscia livida e luminosa a traverso i vapori dell’orizzonte. Uscito dalla chiesa, infilai una strada e girai per la città alla ventura.

Benchè per molti aspetti somigli a tutte le altre città olandesi, Haarlem ha un carattere suo proprio, per il quale si stampa assai distintamente nella memoria. È una città gentile e raccolta, nella quale il viaggiatore sente più vivo che in tutte le altre il desiderio d’avere sotto il suo braccio il braccino d’una sposa o d’un’amica. È una città da donne. Un largo corso d’acqua, chiamato la Spaarne, che serve di canale di scolo tra le acque dell’antico lago d’Haarlem e il golfo di Zuiderzee, l’attraversa dividendosi in parecchi rami, e formandole tutt’intorno un canale che la circonda come una fortezza. I canali interni sono fiancheggiati da grandi alberi che vi formano sopra quasi una vôlta di verzura, in modo che ogni canale pare un laghetto di giardino, e i barconi e le barche scorrono all’ombra coll’aria di andare a diporto piuttosto che per le proprie faccende. Tutte le strade sono ammattonate, e tutte le case del colore dei mattoni, così che a destra, a sinistra, in terra, in alto, da qualunque parte si guardi, non si vede che rosso, e poi rosso, ed eternamente rosso, come se la città fosse stata scavata in una montagna di diaspro sanguigno. Un grandissimo numero di case hanno la facciata con otto, con dieci, e persino con sedici scalini, come quelle chiesuole di carta che fanno i ragazzi colle forbici; e non vi si vedono che pochissimi specchi, rare insegne di botteghe e nessun oggetto appeso alle finestre. Le strade sono pulite al sogno da peritarsi a lasciarvi cadere la cenere del sigaro. Per lunghi tratti non s’incontra anima viva, o soltanto qualche ragazzina di dodici o quattordici anni, che va tutta sola alla scuola, coi capelli giù per le spalle e il libro sotto il braccio. Non si sente strepito d’officine, non rumore di carri, non grida di venditori. Tutta la città ha non so che apparenza di riserbo aristocratico e di pudica civetteria che desta in singolar modo la curiosità, e fa sì che si gira e si rigira senza mai stancarsi, come se a furia di girare si dovesse scoprire qualche gentile segreto che la città intera voglia tener celato agli stranieri.

A mezzogiorno si stende un bellissimo bosco di faggi, creduto un resto dell’immensa foresta che copriva anticamente una gran parte dell’Olanda; attraversato da viali, sparso di chioschi, di caffè, di casini di società, e aperto nel mezzo in un grazioso parco popolato di daini e di cervi. In un punto solitario ed ombroso, c’è un piccolo monumento posto, il 1823, in onore di Lorenzo Coster, il quale, giusta la leggenda, avrebbe tagliato là quei famosi rami di faggio, in cui incise le prime lettere. Girai per tutti i recessi oscuri del bosco, incontrai un ragazzo che mi salutò con un gentile Bonjour, voltando il viso dall’altra parte; domandai la strada a una ragazza dalla testa cerchiata d’oro che diventò rossa come un garofano; chiesi del fuoco a un contadino che leggeva la gazzetta; passai accanto a un’amaz zone che mi guardò con due occhi chiari come il cielo sereno; e tornai verso l’entrata del bosco, dove c’è un Museo di Pittura olandese moderna, del quale posso tacere senza rimorso.

È però bene di osservare, a proposito di questo Museo, che la pittura olandese degli ultimi tempi ha fatto, sotto varii aspetti, un progresso onorevole. Il genere preferito è sempre il piccolo paesaggio, e in questo nulla è cangiato; ma la pittura intima s’è sollevata in una regione più alta. Ha lasciato la feccia della società per ritrarre la classe media, è uscita dalle taverne per dedicarsi amorosamente a quel sobrio, severo e valoroso popolo di pescatori che lavora e soffre in silenzio sulla costa olandese da Helder alle foci della Mosa; ha dimenticato le orgie e le danze plebee, per rappresentare il marinaio che parte per la pesca dell’aringa, e la moglie che gli dà l’ultimo addio dalla spiaggia, gridando:—Dio t’accompagni!—; il pescatore che ritorna dopo un lungo viaggio al suo diletto Scheveningue, e i bambini che gli corrono incontro colle braccia aperte; il mare agitato dalla tempesta, e la famigliuola del povero marinaio che dall’alto delle dune cerca ansiosamente cogli occhi pieni di lagrime un punto nero sull’orizzonte oscuro. La minutezza eccessiva è scomparsa; la pittura ha preso un fare più largo e più libero. Pochi artisti vanno a studiar fuori della loro patria, e questi perdono il loro carattere nativo; ma i più rimangono, e la loro pittura, il paesaggio sopratutto, è ancora, come per l’addietro, uno specchio fedele del paese, una pittura originale e modesta, piena di mestizia, di dolcezza e di pace. Vicino al bosco si trova il giardino del signor Kvelage, ch’è il più famoso vivaio di tulipani dell’Olanda.

Questa parola «tulipani» rammenta una delle più strane follie popolari che siano mai state al mondo, la quale si manifestò in Olanda verso la metà del secolo decimosettimo. Il paese, in quel tempo, aveva raggiunto il colmo della prosperità: all’antica parsimonia era succeduto il fasto; le case dei ricchi, ancora modestissime sul principio del secolo, s’erano trasformate in piccole reggie; il velluto, la seta, le perle avevano sbandito la semplicità patriarcale del vestire antico; l’Olanda s’era fatta vana, ambiziosa e dissipatrice. Dopo aver riempito la casa di quadri, di tappeti, di porcellane, di oggetti preziosi di tutti i paesi dell’Europa e dell’Asia, i ricchi negozianti delle grandi città d’Olanda cominciarono a spendere somme considerevoli per ornare i loro giardini di tulipani; il fiore che risponde meglio d’ogni altro a quell’avidità innata di colori vivissimi che il popolo olandese manifesta per tanti segni. Questa ricerca dei tulipani ne promosse rapidamente la coltivazione; da ogni parte s’apriron giardini, si fecero studi, si cercarono nuove varietà del fiore prediletto; in breve tempo fu una gara generale; da ogni parte pullularono tulipani non mai veduti, di forme bizzarre, di sfumature ignote, di combinazioni di colori inaspet tate, pieni di contrasti, di capricci e di sorprese; i prezzi crebbero meravigliosamente; una nuova screziatura, una forma nuova ottenuta in quelle foglie benedette, fu un avvenimento, una buona fortuna; migliaia di persone si diedero a quello studio con un furore di maniaci; in tutto il paese non si parlò più che di petali, di colori, di bulbi, di vasi, di semenze. Questa mania giunse fino al segno di far ridere l’Europa intera. I bulbi dei tulipani più rari salirono a un prezzo favoloso; alcuni furono una ricchezza come una casa, un podere, un mulino; un bulbo equivaleva alla dote d’una ragazza di famiglia agiata; per un bulbo furono dati, in non so quale città, due carri di grano, quattro carri d’orzo, quattro buoi, dodici pecore, due botti di vino, quattro botti di birra, mille libbre di formaggio, un vestimento completo e una coppa d’argento. Il bulbo d’un tulipano chiamato l’ Ammiraglio Liefkenskoek, fu venduto ottomila ottocento lire. Un altro bulbo, d’un tulipano chiamato Semper Augustus, fu comperato al prezzo di tredicimila fiorini olandesi. Un bulbo Ammiraglio Enkhuizen fu pagato più di duemila scudi. Un giorno, non rimanendo più in tutta l’Olanda che due bulbi del Semper Augustus, uno in Amsterdam, l’altro in Haarlem, furono offerti per uno di essi quattromila seicento fiorini, una splendida carrozza e due cavalli pomellati con la bardatura di gala; e l’offerta fu rifiutata. Un altro compratore offerse dodici jugeri di terreno, e neanch’egli lo potè avere. Nei registri d’Alkmaar, è ricordato che nel 1637 si fece in quella città la vendita pubblica di centoventi tulipani a benefizio della Camera degli orfani, e che questa vendita fruttò cento ottanta mila lire. Poi si cominciò a trafficare sui fiori, e specialmente sui tulipani, come sulle rendite dello Stato e sulle azioni. Si vendevano per somme enormi bulbi che non si possedevano, impegnandosi a provvederli per un giorno determinato; e si trafficava così per un molto maggior numero di tulipani che non ne potesse fornire l’intera Olanda. Si racconta che una sola città olandese ne vendette per venti milioni di lire, e che un negoziante d’Amsterdam guadagnò in questo commercio più di sessantotto mila fiorini nello spazio di quattro mesi. Gli uni vendevano ciò che non avevano, gli altri ciò che non avrebbero mai avuto; il mercato passava di mano in mano; si pagavano le differenze; e i fiori per cui molta gente s’arricchiva o andava in rovina non fiorivano che nella fantasia dei trafficanti. Infine la cosa giunse a segno che, molti compratori rifiutando di pagare le somme convenute, e seguendone contestazioni e disordini, il Governo decretò che questi debiti fossero considerati come debiti ordinarii, e fatti pagare per via di legge; e allora i prezzi scemarono improvvisamente sino a cinquanta fiorini per il Semper Augustus, e il traffico scandaloso cessò. Ora quella dei fiori non è più una manìa; ma un culto amoroso, del quale la città di Haarlem è il principal tempio. Essa provvede ancora di fiori una gran parte dell’Europa e dell’America settentrionale. La città è circondata di giardini, i quali verso la fine di aprile e il principio di maggio si coprono d’una miriade di tulipani, di giacinti, di garofani, di auricole, d’anemoni, di ranuncoli, di camelie, di primavere, di cacti, di pelargonii, che formano intorno ad Haarlem una immensa corona cui i viaggiatori di tutte le parti del mondo rapiscono un mazzetto passando. Il giacinto, in questi ultimi anni, è salito in grande onore; ma il tulipano è ancora il re delle aiuole e il supremo amore dell’Olanda. Converrebbe poter cangiare la penna col pennello del Van Huysum o del Menendez, per descriver la pompa di quei colori arditi, lussuriosi, sfolgoranti, i quali, se le sensazioni dell’occhio si potessero paragonare a quelle dell’udito, si direbbe che son come grida e risa di gioia e d’amore nel silenzio verde dei giardini; e che danno al capo come la musica fragorosa d’una festa. Vi si vede il tulipano duca di Toll; i tulipani detti precoci semplici, di più di seicento varietà; i doppi precoci; i tardivi, divisi in unicolori, in fini, in sopraffini, in rettificati; i fini, suddivisi ancora in violette, in rose, in bizardi; poi i mostruosi o pappagalli, gl’ibridi, i ladri; classificati in mille ordini di nobiltà e d’eleganza; tinti di tutte le sfumature che può concepire la mente umana; macchiettati, striati, orlati, variegati, colle foglie a onde, a frangie, a festoni; decorati di medaglie d’oro e d’argento; distinti con mille nomi di generali, di pittori, di uccelli, di fiumi, di poeti, di città, di regine, e mille aggettivi amorosi e spavaldi, che ram mentano le loro metamorfosi, le loro avventure e i loro trionfi, e lasciano nella mente una dolcissima confusione d’immagini belle e di pensieri gentili.

Dopo questo, mi pare di poter partire per Amsterdam, dove mi spinge una curiosità irresistibile; e già metto il piede sul montatoio del treno, e adocchio un bel posto vicino allo sportello del vagone; quando mi sento afferrare per la falda, mi volto e vedo lo spettro d’un mio cortese critico d’Italia, il quale mi dice in tuono di rimprovero: “Ma, e i commerci, e le industrie, e gli stabilimenti di Haarlem, dove li ha lasciati?”—“Ah! è vero” rispondo io; “lei è uno di quelli che vogliono descrizione, guida, dizionario, trattato, indicatore, quadro statistico, tutto in un libro? Ebbene, la voglio contentare. Sappia dunque che in Haarlem c’è un ricchissimo museo d’istrumenti fisici, chimici, ottici, idraulici, lasciato alla città da un Pietro Teyler van der Halst, con una somma da destinarsi ogni anno a concorsi scientifici;—che c’è una fonderia celebre di caratteri greci ed ebraici;—che ci sono parecchie belle fabbriche di cotone fondate sotto il patronato di re Guglielmo II;—che ci sono dei lavatoi di biancheria famosi in tutta l’Olanda.” In questo momento si sentì il fischio della partenza: “Un momento!” mi gridò il critico cercando di trattenermi allo sportello, “che dimensioni hanno le macchine elettriche del museo Teyler? Quanto producono anno per anno le fabbriche di cotone? Che sapone s’adopera nei lavatoi?....”—“Eh! mi lasci un po’ in pace!” gli risposi, chiudendo lo sportello mentre il treno era già in movimento; non lo sa il proverbio che non si può cantare e portar la croce?

Ed ora a te, Amsterdam dalle novanta isole, Venezia del nord, regina del Zuiderzee!

AMSTERDAM.

A due viaggiatori, uno poeta e uno ingegnere, che andassero insieme, per la prima volta, da Haarlem ad Amsterdam, seguirebbe un caso che credo non accada sovente: l’ingegnere si sentirebbe un po’ poeta, e il poeta desidererebbe di trovarsi nei panni dell’ingegnere. Tale è questo strano paese, nel quale lo scrittore, per colpire l’immaginazione e destar l’entusiasmo, non ha da far altro che noverare i chilometri, i metri cubi d’acqua e gli anni di lavoro; onde un poema sull’Olanda sarebbe una meschina cosa senza un’appendice piena di cifre, e una relazione completa d’un ingegnere non avrebbe bisogno che del verso e della rima per essere uno splendido poema.

Appena partito da Haarlem, il treno passa sur un bellissimo ponte di ferro di sei archi, che accavalcia la Spaarne; il qual ponte, immediatamente dopo il passaggio del treno, si apre, come per in canto, nel mezzo, e lascia il varco libero ai bastimenti. Due soli uomini, movendo una macchina a un segnale del cantoniere, staccano, in due minuti, due archi del ponte, e in un tempo uguale, all’avvicinarsi d’un altro treno, li ricongiungono. Poco dopo passato il ponte, si vedono luccicare all’orizzonte le acque dell’Y.

Qui si prova più vivo che mai un certo sentimento d’inquietudine che turba sovente chi viaggia per la prima volta in Olanda. La strada corre sopra una striscia di terra che separa il fondo dell’antico mare d’Haarlem dalle acque dell’Y; prolungamento, così chiamato per la sua forma, del golfo di Zuiderzee, il quale s’addentra nelle terre, fra Amsterdam e la Nord-Olanda, sino alle dune del Mare del Nord. Per costrurre questa strada ferrata, che venne aperta nel 1839, prima del prosciugamento del lago d’Haarlem, si dovette sovrapporre fascine a fascine, palafitte a palafitte, pietre a pietre, sabbia a sabbia; formare una sorta di istmo artificiale a traverso le paludi; comporre, in una parola, il terreno, sul quale la strada doveva passare; e fu un lavoro pieno di difficoltà e dispendiosissimo, che richiede tuttora cure e spese continue. Questa lingua di terra si va assottigliando fino ad Halfweg, che è la sola stazione compresa fra Haarlem ed Amsterdam. Qui le acque dell’Y e il fondo del lago prosciugato sono divisi da cateratte colossali, alle quali è affidata l’esistenza d’una buona parte dell’Olanda meridionale. Se queste ca teratte si aprissero, la città d’Amsterdam, centinaia di villaggi, tutto l’antico lago, una distesa di terra di cinquanta chilometri sarebbe invasa e devastata dalle acque. Il prosciugamento del lago d’Haarlem ha scemato questo pericolo; ma non l’ha tolto; e però ad Halfweg è stabilita una direzione speciale della così detta amministrazione delle acque, che custodisce quelle termopili dell’Olanda, coll’occhio sul nemico e la mano sull’armi.

Passata la stazione di Halfweg, si vede a sinistra, di là dal golfo dell’Y, un movimento confuso come di migliaia d’alberi di bastimenti sbattuti dalla tempesta, che si tuffino e si rituffino nel mare; e sono le braccia di centinaia di mulini a vento mezzo nascosti dalle dighe, i quali si stendono lungo la riva della Nord-Olanda, nei dintorni della città di Zandam, in faccia ad Amsterdam. Poco dopo, apparisce Amsterdam. Al primo aspetto di questa città, anche dopo aver visto tutte le altre dell’Olanda, non si può trattenere un movimento di meraviglia. È una foresta di altissimi mulini a vento della forma di torrioni, di campanili, di fari, di piramidi, di coni tronchi, di case aeree, che agitano da tutte le parti le loro enormi braccia incrociate, e formano al disopra dei tetti e delle cupole un roteamento immenso come d’un nuvolo d’uccelli mostruosi che battan le ali sulla città. In mezzo a questi mulini, s’alzano innumerevoli torricciuole d’officine, alberi di bastimento, campanili di architettura fantastica, cime di edifizi bizzarri, pinacoli, punte, forme sconosciute; più lon tano si vedono altre ali di mulino fitte e intricate, che paiono una vastissima rete sospesa nell’aria; tutta la città è nera; il cielo basso ed inquieto; è uno spettacolo grandioso, confuso e strano, visto il quale, si entra in Amsterdam con una vivissima curiosità.

Il primo effetto che produce questa città, appena si sono percorse alcune strade, è difficile ad esprimersi. Pare una città immensa e disordinata; Venezia ingigantita e imbruttita; una città olandese, sì, ma vista a traverso una lente che la faccia apparire tre volte più grande; la capitale d’un’Olanda immaginaria di cinquanta milioni d’abitanti; una metropoli antica, fondata da un popolo di giganti sul delta d’un fiume smisurato, per servir di porto a una flotta di diecimila navi; una città maestosa, severa, quasi lugubre, che desta un sentimento di stupore, sul quale s’ha bisogno di pensare.

La città, posta sulla riva dell’Y, è fabbricata sopra novanta isole, quasi tutte di forma rettangolare, congiunte fra loro da circa trecentocinquanta ponti. La sua figura è un perfetto semicircolo, percorso da tanti canali in forma d’archi concentrici a quello che chiude la città, e attraversati da altri canali convergenti al centro, come i fili d’una tela di ragno. Un largo corso d’acqua, chiamato l’Amstel (il quale forma colla parola dam, diga, il nome d’Amsterdam) divide la città in due parti quasi uguali, e si va a gettare nell’Y. Quasi tutte le case sono fabbricate su palafitte per il che suol dirsi che la città di Amsterdam, rovesciata, presenterebbe lo spettacolo d’una grande foresta senza fronde e senza rami; e quasi tutti i canali son fiancheggiati da due larghe strade e da due file di tigli.

Questa regolarità di forma per la quale la vista può spaziare da tutte le parti, dà alla città un aspetto ammirabilmente grandioso. Ad ogni voltata di strada, si vedono nella nuova direzione, tre, quattro, persino sei ponti levatoi, quale ritto, quale abbassato, quale in movimento, i quali presentano all’occhio una fuga di porte, e una confusione inestricabile di travi e di catene, da far pensare che Amsterdam sia composta di tanti quartieri nemici fra loro e fortificati gli uni contro gli altri. I canali, grandi come fiumi, formano qua e là svolti e bacini spaziosi, intorno ai quali si gira, passando sur una successione di ponti congiunti gli uni agli altri. Da tutti i crocicchi si vedono prospetti lontani d’altri ponti, di altri canali, di bastimenti, di edifizi, velati da una leggera nebbia che fa apparire maggiore la lontananza.

Le case, quasi tutte altissime, rispetto a quelle delle altre città olandesi, nere, colle finestre e le porte contornate di bianco, colle facciate a punta e a scalini, decorate di bassorilievi che rappresentano urne, fiori ed animali; sono quasi tutte difese sul davanti da colonnette, balaustrate, stecconati, catene, sbarre di ferro, e divise le une dalle altre da muriccioli ed assiti; e dentro queste specie di fortezze avanzate che ingombrano una buona parte della strada, vi son tavolini, panche con vasi di fiori, seggiole, secchie, carrette, ceste, carcasse di vecchi mobili; così che a guardar le strade da una delle estremità, pare che gli abitanti abbian portato fuori tutta la roba di casa per una sgomberatura universale. Moltissime case hanno un piano sottostante alla strada, al quale si scende per una scaletta di legno o di pietra; e in quel vacuo tra la strada e il muro, ci sono altri vasi di fiori, suppellettili, mercanzie esposte in vendita, gente che lavora, tutto un mondo sotterraneo che brulica ai piedi di chi passa.

Le strade principali presentano uno spettacolo unico al mondo. I canali sono coperti di bastimenti e di barconi; e sulle strade che li fiancheggiano, si vedono da una parte mucchi di botti, di casse, di sacchi, di balle; dall’altra una fila di botteghe splendide. Di qui formicola il popolo in soprabito, le signore, le fantesche, i merciaiuoli ambulanti, i bottegai; di là il popolo rozzo e vagante dei marinai e dei battellieri colle loro mogli e i loro bambini. A destra si ode il vivace cicaleccio cittadino, a sinistra le grida acute e lente della gente di mare. Da un lato si sente il profumo dei fiori che adornan le finestre e l’odore ghiotto delle trattorie; dall’altro il puzzo di catrame e il fumo delle povere cucine delle barche a vela. Qui si alza un ponte levatoio per dar passo a un bastimento; là si affolla la gente per passare sopra un ponte spezzato che si ricompone; più oltre una zattera traghetta un gruppo di persone all’altra riva del canale; in fondo alla strada, parte un battello a vapore; dall’estremità opposta entra una fila di barconi carichi; qui si apre una cateratta; lì scivola un trekschuit; poco distante gira un mulino, laggiù si piantano le palafitte per una nuova casa. Il cigolío delle catene dei ponti si mesce collo strepito dei carri, il fischio dei piroscafi rompe le ariette dei campanili, i cordami dei bastimenti s’intralciano colle fronde degli alberi, la carrozza passa accanto alla barca, la bottega si specchia nel canale, le vele si riflettono nelle vetrine, la vita di terra e la vita di mare si rasentano, s’incrociano, passano l’una sull’altra, e si confondono in uno spettacolo nuovo ed allegro come una festa d’alleanza e di pace.

Se dalle strade principali uno si addentra nei vecchi quartieri, lo spettacolo cangia affatto. Le strade più strette di Toledo, i vicoli più oscuri di Genova, le case più squilibrate di Rotterdam, non son nulla in confronto della strettezza, dell’oscurità e dello scompiglio architettonico che si vede in quei quartieri. Le strade paiono crepe aperte dal terremoto. Le case alte e nere, mezzo nascoste dai cenci stesi sulle finestre e appesi alle corde, sono inclinate a segno da metter paura; alcune sono ripiegate sopra sè stesse, come se fossero sul punto di spez zarsi; altre si toccano quasi coi tetti, non lasciando vedere che un filo di cielo; altre pendono da due parti opposte, presentando la forma d’un trapezio rovesciato; e paion case da palcoscenico nell’atto che son portate via per cangiare la scena. Furon costrutte così appositamente per lo scolo delle acque, o s’inclinarono perchè cedette il terreno? V’è chi crede la prima e chi la seconda cosa; ma i più le credon tutte e due, il che mi pare più ragionevole. Ed anche in quei labirinti, dove formicola una plebe pallida e trista per la quale un raggio di sole è una benedizione di Dio, si vedono vasi di fiori, specchietti e tendinette alle finestre, che rivelano una povertà non scompagnata dal gentile amor della casa.

La parte più pittoresca della città è quella compresa nella curva dell’Amstel, intorno alla grande piazza del Nuovo Mercato. Là si vedono crocicchi di strade tenebrose e di canali deserti, piazzette solitarie circondate da muri che sgocciolano acqua, case filigginose, muffose, screpolate, decrepite, bagnate da acque morte ed immonde; vasti magazzini, con tutte le porte e le finestre chiuse; barche e barconi abbandonati in fondo a canali senza uscita, che hanno l’aria di aspettare dei congiurati o delle streghe; mucchi di materiali da costruzione, che presentan l’aspetto di avanzi d’incendio o di rovina; bacini coperti d’erba e chiassuoli fangosi; muri, acqua, ponti, tutto nero e tetro, da destare in chi passi di là per la prima volta, un sentimento di inquietu dine, come se ci spirasse la minaccia di qualche sventura.

Chi ama i contrasti, non ha che da recarsi da questa parte della città nella piazza chiamata il dam, dove convergono le strade principali, e si trova il Palazzo Reale, la Borsa, la Nuova Chiesa e il monumento detto la Croce di Metallo, innalzato in commemorazione della guerra del 1830. Là v’è un movimento fittissimo e continuo di gente e di carrozze, che rammenta lo square di Trafalgar di Londra, la Porta del Sole di Madrid e la piazza della Maddalena di Parigi. Stando là un’ora si gode il più svariato spettacolo che si possa vedere in Olanda. Passano faccioni rossi e petulanti dell’alto patriziato mercantile, volti abbronzati delle colonie, stranieri di tutte le gradazioni di biondo, ciceroni, suonatori d’organetti, ambasciatori della morte col lungo velo nero, cuffiette bianche di fantesche, panciotti variopinti di pescatori del Zuiderzee, orecchini a paraocchi delle donne della Nord-Olanda, diademi d’argento della Frisia, caschetti dorati della Groninga, camicie gialle dei lavoratori delle torbiere, gonnelle metà nere e metà rosse delle orfane degli ospizi, vestiti bizzarri degli abitanti delle isole, cignons spropositati, cappelli da carnovale; grandi spalle, grandi fianchi, grandi ventri, e tutta questa processione avvolta dal fumo dei sigari e delle pipe, e accompagnata da un suono di parole tedesche, olandesi, inglesi, francesi, fiamminghe, danesi, da credere d’essere capitati nella valle di Giosafat o ai piedi della torre di Babele.

Dalla piazza del Dam si arriva in pochi minuti al porto, che offre anch’esso uno spettacolo grandioso e strano oltre ogni dire. A primo aspetto, non ci si capisce nulla. Si vedono da ogni parte dighe, ponti, cateratte, palizzate, bacini, che presentano l’immagine d’un’immensa fortezza costrutta così astutamente, perchè nessuno riesca a raccapezzarne la forma; e non ci si riesce infatti che per mezzo della carta e dopo una passeggiata di parecchie ore. Dal mezzo della città, alla distanza di mille metri l’una dall’altra, partono in direzione opposta due gran dighe arcate che abbracciano e difendono dal mare le due estremità di Amsterdam sporgenti oltre il semicircolo delle sue case come le punte d’una mezza luna. Queste due dighe che hanno ciascuna una gran porta munita d’una cateratta gigantesca, racchiudono due bacini capaci di mille bastimenti d’alto bordo e parecchie isolette sulle quali son magazzini, arsenali, opificii, dove lavorano migliaia d’operai. Fra le due grandi dighe s’avanzano parecchie dighe minori, formate di robuste palizzate, che servono di stazione d’imbarco per i battelli a vapore. In tutte queste dighe s’innalzano case, tettoie, baracche, fra le quali formicola una folla di marinai, di passeggieri, di facchini, di donne, di ragazzi, di carrozze, di carri, chiamati là dalle partenze e dagli arrivi che si succedono rapidamente dal far del giorno alla sera. Dai punti avanzati di codeste dighe si abbraccia con uno sguardo l’intero porto: le due foreste di navigli dalle bandiere di mille colori, racchiusi nei due grandi bacini; i bastimenti che arrivano dal gran canale del Nord, e che entrano a vele spiegate nel mare di Zuiderzee; i barconi e le barche che s’incrociano da tutte le parti del golfo; la costa verde della Nord-Olanda; i cento mulini di Zandam: la lunghissima schiera delle prime case di Amsterdam che disegnano sul cielo le loro mille punte nere; le innumerevoli colonne di fumo filigginoso, che s’alzano dalla città sull’orizzonte grigio; e quando le nuvole sono in moto, una continua, rapidissima, meravigliosa variazione di colori e d’aspetti, per la quale ora sembra di essere nel più gaio, ora nel più tristo paese del mondo.

Ritornando in città, per osservare particolarmente gli edifizii, i primi a chiamar l’attenzione sono i campanili. In Amsterdam ci sono templi di tutte le religioni: sinagoghe, chiese per i riformati calvinisti, chiese pei luterani della confessione Ausburgo strettamente osservata, chiese per i luterani della confessione d’Ausburgo osservata largamente, chiese per i rimostranti, per i mennoniti, per i valloni, per gl’inglesi episcopali, per gl’inglesi presbiteriani, per i cattolici, per i greci scismatici; e ognuno di questi templi innalza al cielo un campanile che par stato fatto per vincere tutti gli altri di originalità e di bizzarria. Quello che dice Vittor Hugo degli archi tetti fiamminghi, i quali fabbricarono dei campanili ponendo un’insalatiera rovesciata sopra un berretto da giudice, una zuccheriera sopra l’insalatiera, una bottiglia sulla zuccheriera, e un ostensorio sulla bottiglia, si può riferire in parte anche ai campanili d’Amsterdam. Alcuni son formati di chioschi o di tempietti sovrapposti, altri di tante torricine che paiono tirate fuori l’una dall’altra, in modo che a dare un colpo sulla più alta, tutto il campanile si debba accorciare come un cannocchiale; altri son sottili come minareti, quasi interamente costrutti di ferro, ornati, dorati, traforati, trasparenti; altri coronati dal mezzo in su di terrazzini, di balaustrate, di archi, di colonne; quasi tutti poi sormontati da un globo o da una corona di ferro della forma d’un bulbo, sulla quale posa un’altra corona, che regge alla sua volta una palla, la quale sostiene un’asta, in cui è confitto ancora qualche altro oggetto, che forse non è l’ultimo neanch’esso; tal quale come le torricciuole che fanno i ragazzi, sovrapponendo tutti i ninnoli che cascan loro nelle mani.

Fra gli edifizii monumentali, che non sono molti, v’è il palazzo reale, il primo dei palazzi d’Olanda, costrutto tra il 1648 e il 1655, sopra tredicimilaseicentocinquantanove palafitte; grandioso, pesante e nero; del quale il più bell’ornamento è una sala da ballo che si dice la più vasta d’Europa, e il maggiore difetto, quello di non avere portone, per il che vien chiamato comunemente la casa senza porta. Per contrapposto, l’edifizio della Borsa che gli sorge dirimpetto, fondato su trentaquattromila palafitte, perchè non ha di notevole che un peristilio di diciassette colonne, si chiama la porta senza casa; bisticcio che ogni olandese si fa un dovere di ripetere agli stranieri, sorridendo impercettibilmente coll’estremità delle labbra. Chi capita ad Amsterdam nella prima settimana della Kermesse, ch’è il carnevale dell’Olanda, può vedere in questo edifizio uno spettacolo curiosissimo. Per sette giorni, nelle ore in cui non si fanno affari, la Borsa è aperta a tutta la ragazzaglia della città, che v’irrompe, facendo uno strepito infernale di pifferi, di tamburi e di grida; licenza che, se è vera la tradizione, sarebbe stata concessa dal Municipio in onore di alcuni ragazzi, i quali, al tempo della guerra d’indipendenza, giocherellando presso l’antica Borsa, scopersero gli Spagnuoli che si preparavano a far saltare in aria l’edifizio con un naviglio pieno di polvere, corsero a darne avviso ai cittadini, e mandarono così a vuoto il tentativo dei nemici. Oltre il palazzo reale e la Borsa, sono un bell’ornamento di Amsterdam il palazzo dell’industria, fatto di cristallo e di ferro, e sormontato da una cupola leggerissima, che da lontano, quando vi batte il sole, gli dà l’aspetto d’una grande moschea; e come monumenti storici, le vecchie torri che s’alzano sulla riva del porto.

Fra queste torri ve n’è una che si chiama Torre dell’angolo dei piangenti o Torre delle lagrime, perchè là s’imbarcavano altre volte i marinai olandesi per lunghissimi viaggi, e le loro famiglie andavano presso quella torre per salutarli e vederli partire, e piangevano. Sopra la porta v’è un rozzo bassorilievo segnato della data 1569, il quale rappresenta il porto, una nave che parte, e una donna che piange; e fu posto in commemorazione della moglie d’un marinaio, che morì di dolore per la partenza di suo marito.

È stato osservato che quasi tutti gli stranieri che vanno a veder quella torre, dopo aver dato un’occhiata al bassorilievo e alla Guida che ne spiega il significato, si voltano verso il mare come per cercare il bastimento che parte, e rimangono qualche tempo pensierosi. A che cosa pensano? Forse a quello che pensai io stesso. Seguono quel bastimento nei mari artici, alla pesca delle balene o alla ricerca d’una nuova via per le Indie, e alla loro mente si spiega come una visione l’epopea tremenda della marina olandese in mezzo agli orrori del polo: i mari ingombri di ghiaccio, il freddo che fa cadere a brani la pelle delle mani e del viso, gli orsi bianchi che s’avventano sui marinai, e spezzan le armi coi denti; i cavalli marini che accorrono a stormi furiosi per rovesciare le scialuppe; le rocce di ghiaccio mulinate dalle onde e dal vento, e le vaste pianure ghiacciate e mobili che s’incontrano, imprigionano e stritolano le flotte; le isole deserte sparse di cadaveri di marinai, di carcasse di navi, di cinture di cuoio rosicchiate nella disperazione dell’agonia dagl’infelici che morirono di fame; poi le frotte di balene che volteggiano intorno ai navigli, le for midabili contorsioni del mostro ferito nelle acque insanguinate, le barche rovesciate dai colpi di coda, i pescatori che cascan nel mare, e vi rimangono irrigiditi, i naufraghi erranti seminudi nella nebbia e nelle tenebre, le fosse scavate nel ghiaccio e ricoperte col ghiaccio per ripararsi dalle fiere, i sonni che finiscono colla morte. Poi ancora sconfinate solitudini bianche e brumose, dove non si sente altro rumore che quello dei remi delle scialuppe ripercosso dalle caverne e i gridi lamentevoli delle foche; poi altri deserti dove non è più traccia di vita, le montagne di ghiaccio incommensurate, gl’immensi spazi ignoti, le nevi secolari, l’inverno eterno, la tristezza solenne delle notti del polo, il silenzio infinito in cui l’anima si spaura, i marinai consunti, trasfiguriti, moribondi, che s’inginocchiano sul ponte, e giungono le mani verso l’orizzonte infocato dall’aurora boreale, chiedendo a Dio di rivedere il sole e la patria. Scienziati, mercatanti, poeti, tutti s’inchinano a quelle umili avanguardie che hanno tracciato coi loro scheletri sulle nevi immaculate del polo il primo sentiero della vita.

Da questa torre, voltando a destra, e seguitando a camminare lungo il porto, si arriva alla Plantaadije, vasto quartiere composto di due isole congiunte da molti ponti, nel quale c’è un parco, un giardino zoologico, un giardino botanico, un passeggio pubblico, che formano una grande oasi verde ed allegra in mezzo alle acque livide e alle case nere. Là con certi musicali, là feste notturne, là il fiore della bellezza amsterdamese; fiore che, per buona fortuna dei viaggiatori di fibra sensitiva, spande un profumo soave; ma che non dà al capo. Dal qual pericolo, in ogni caso, non c’è miglior rifugio che il giardino zoologico, proprietà d’una società di quindicimila soci; il più bel giardino zoologico d’Olanda, che pure ne ha dei bellissimi, e uno dei più ricchi d’Europa; nel quale si scorda facilmente in mezzo alle salamandre massime del Giappone, ai serpenti boa di lava e ai bradypi didactyli di Surinam, i visetti pallidi e gli occhi azzurri delle belle calviniste.

Dalla Plantaadije, passando su parecchi ponti, e fiancheggiando diversi canali, si arriva sulla grande piazza del Boter Markt, dove c’è una statua gigantesca del Rembrandt e l’ufficio del consolato italiano. Da questa piazza si va al quartiere degli Ebrei che è una delle meraviglie di Amsterdam.

Per andarci, domandai la strada al nostro gentilissimo console, il quale mi rispose:—Cammini diritto fin che non si trovi in un quartiere infinitamente più sudicio di tutti quelli ch’ella ha considerati finora come il non plus ultra del sudiciume; quello è il ghetto; non può sbagliare.—Andai innanzi, ognuno può immaginare con che aspettazione; passai accanto a una sinagoga; mi soffermai un momento in un crocicchio; poi presi la strada più stretta, e in capo a pochi minuti, riconobbi il ghetto. La mia aspettazione fu superata.

È un labirinto di strade strette, fangose e cupe, fiancheggiate da case vecchissime, che pare debbano cadere in rovina a dare un calcio nel muro. Dalle corde tese fra finestra e finestra, dai davanzali, dai chiodi piantati nelle porte, spenzolano e svolazzano sui muri umidi camicie sbrandellate, gonnelle rappezzate, vestiti unti, lenzuoli macchiati, calzoni cenciosi. Davanti alle porte e sugli scalini rotti, in mezzo alle cancellate cadenti, sono esposte le vecchie mercanzie. Rottami di mobili, frammenti d’armi, oggetti di divozione, brandelli d’uniformi, avanzi di strumenti, frantumi di giocattoli, ferramenti, cocci, frangie, cenci, tutte le cose che non han più nome in alcuna lingua umana, tutto quello che hanno guasto e disperso la ruggine, il tarlo, il foco, la rovina, il disordine, la dissipazione, le malattie, la miseria, la morte; tutto quello che i servitori spazzano, che i rigattieri ributtano, che i mendicanti calpestano, che gli animali trascurano; tutto ciò che ingombra, che insudicia, che puzza, che stomaca, che contamina; tutto si ritrova là a mucchi e a strati, destinato a un commercio misterioso, ad accoppiamenti impreveduti, a trasformazioni incredibili. In mezzo a quel cimitero di cose, a quella babilonia d’immondizie, brulica un popolo macilento, pezzente, pidocchioso, accanto al quale i gitani dell’Albaicin di Granata son gente pulita e profumata. Come in tutti i paesi, così anche là hanno preso ad imprestito dal popolo presso cui vivono, il colore del pelo e del viso; ma hanno conservato i nasi adunchi, i menti aguzzi, i capelli crespi, tutti i tratti della razza semitica. Il vocabolario non ha parole per dare un’immagine di quella gente. Capigliature in cui non è mai passato un pettine, occhi che fanno raccapriccio, magrezze di cadaveri consunti, bruttezze che destan pietà, vecchi che serbano appena figura umana, ravvolti in ogni sorta di vestiti di cui non si riconosce più nè colore nè forma nè a che sesso appartengano, dai quali escono, e s’allungano tremolando mani scheletrite con giunture acute di locuste e di ragni. Tutto si fa in mezzo alla strada. Le donne friggono i pesci su piccoli fornelli, le ragazze cullano i bambini, gli uomini rimestano i loro vecchiumi, i ragazzi seminudi si avvoltolano sul selciato coperto di legumi fradici e di brutture di pesci; le vecchie decrepite, sedute in terra, combattono colle unghie ferine i prudori del corpo immondo, scoprendo coll’inconsapevolezza del bruto cenci riposti e membra da cui lo sguardo rifugge. Camminando per lunghi tratti sulla punta dei piedi, turandomi qualche volta il naso, badando a scansare cogli occhi le cose di cui non avrei potuto sostenere la vista, percorsi quasi tutte quelle strade, e quando riuscii sulla sponda d’un largo canale, in un luogo aperto e pulito, mi parve di essere capitato nel paradiso terrestre, ed aspirai con voluttà l’aria impregnata di catrame.

In Amsterdam, come in tutte le altre città olandesi, ci sono molte società particolari, alcune delle quali hanno l’importanza di grandi istituzioni nazio nali; principalissima la Società d’utilità pubblica, fondata nel 1784, che è quasi un secondo governo per l’Olanda. Il suo scopo è l’educazione del popolo, alla quale provvede colla pubblicazione di libri elementari, letture pubbliche, biblioteche per gli operai, scuole d’istruzione primaria, scuole professionali, scuole di canto, case di asilo, casse di risparmio, premi di buona condotta, onorificenze per gli atti di valore e di abnegazione. La società, retta da un consiglio d’amministrazione composto di dieci direttori e d’un segretario generale, si compone di più di quindicimila soci, divisi in trecento gruppi, i quali formano altrettante società indipendenti, sparpagliate nelle città, nei villaggi, nei più piccoli Comuni dello Stato. Ogni socio paga poco più di dieci lire l’anno. Colla somma (modesta rispetto alla vastità dell’istituzione) che questa tassa produce, la società esercita, come disse Alfonso Esquiroz, una specie di magistratura anonima sui pubblici costumi; stringe insieme col vincolo d’una beneficenza imparziale tutte le sètte religiose; spande a larga mano per tutto il paese istruzione, soccorsi, conforti; e come nacque indipendente, così opera e procede fedele al principio degli Olandesi, che l’albero della beneficenza deve crescere senza innesti e senza puntelli. Altre società come l’ Arti et Amicitiæ, la Felix Meritis, la Doctrina et Amicitia, hanno per iscopo l’incremento delle arti e delle scienze, promuovono mostre pubbliche, concorsi, letture, e sono ad un tempo splendidi luoghi di ritrovo, forniti di belle biblioteche, e di quasi tutti i grandi giornali d’Europa.

Sulle istituzioni di carità d’Amsterdam ci sarebbe da scrivere un libro. È noto quello che Luigi XIV, quando si disponeva ad invadere l’Olanda, disse a Carlo II d’Inghilterra: “Non abbiate timore per Amsterdam; io ho ferma speranza che la Provvidenza la salverà, non fosse che in considerazione della sua carità per i poveri.” Là tutte le sventure umane trovano asilo e lavoro. Mirabile sopra tutti è l’ospizio degli orfani di cittadini amsterdamesi, che ebbe l’onore di ospitare quell’immortale Van Speyk, il quale, nel 1831, sulle acque della Schelda, salvò l’onore della bandiera olandese col sacrifizio della sua vita. Questi orfani hanno un costume curiosissimo, metà rosso e metà nero, in modo che guardati di profilo, da una parte paion vestiti per una festa carnovalesca, dall’altra, per una cerimonia funebre; e questa bizzarra divisa è stata scelta perchè sian riconosciuti dai tavernai a cui è proibito di lasciarli entrare a far stravizi, e dagl’impiegati delle strade ferrate che non debbono lasciarli viaggiare senza il permesso dei direttori: la qual cosa, sia detto di volo, si sarebbe potuta ottenere con un vestimento meno ridicolo. Questi orfani bicolori si vedono per tutto, freschi, puliti e cortesi, che rallegrano il cuore. In tutte le feste pubbliche, occupano il primo posto; in tutte le cerimonie solenni si ode il loro canto; la prima pietra dei monumenti nazionali è posta dalle loro mani; e il popolo li ama e li onora.

Per finir di parlare degli stabilimenti, bisognerebbe rammentare le industrie particolari di Amsterdam, come il raffinamento del borace e della canfora e la fabbricazione dello smalto; ma son cose da lasciarsi ai viaggiatori enciclopedici di là da venire. Merita però un cenno speciale la pulitura dei diamanti, principalissima delle industrie amsterdamesi, la quale, come fu per lungo tempo, in Europa, un segreto degli Ebrei d’Anversa e d’Amsterdam, è tuttora esercitata quasi unicamente dai circoncisi. Questo commercio ammonta anno per anno alla somma di centomilioni di lire, e provvede alla vita di più di diecimila persone. Uno dei più belli opifici è quello posto in Zuanenburgerstraat, nel quale gli operai medesimi spiegano in francese le tre operazioni del taglio, della prima pulitura e della pulitura definitiva, fatte sotto gli occhi dei visitatori, con un garbo e una destrezza ammirabili. È bello il vedere quelle umili pietruzze, somiglianti a’ frammenti di gomma arabica sudicia, che a trovarsele in casa si butterebbero dalla finestra insieme coi mozziconi di sigaro, vederle in pochi minuti, trasformarsi, accendersi, animarsi quasi d’una vita sfolgorante e festosa, come se comprendessero il destino che li trasse dalle viscere della terra per farli servire alle pompe del mondo. Di quante strane vicende sarà testimonio o attore o cagione, quella piccola pietra che l’operaio stringe fra le dita del suo guanto ferrato! Andrà forse a brillare sulla fronte d’una Regina, che una notte l’abbandonerà nei suoi scrigni per sottrarsi alla folla che ha atterrate le porte del palazzo. Caduta nelle mani d’un comunista, scintillerà dopo qualche tempo sul tavolo d’una Corte d’Assisie accanto a un pugnale macchiato di sangue. Passerà per una lunga vicenda di feste nuziali, di conviti, di danze, e poi trasvolando per la porta del Monte di Pietà o per il finestrino d’una carrozza assalita, andrà di mano in mano, di paese in paese, a sfolgorare sulle dita d’una principessa in un palco del teatro dell’opera di Pietroburgo. Di qui andrà ad aggiungere un punto luminoso sopra la sciabola d’un pascià dell’Asia Minore; e poi a tentare la virtù d’una crestaia di sedici anni nel quartiere di Sant’Antonio a Parigi; e infine, chi sa? a ornare l’orologio d’un pronipote di colui che l’ha messa pel primo agli onori del mondo; poichè di quegli operai ve n’è qualcuno che mette tanto da parte da lasciare un capitaletto alla sua discendenza. Fra gli altri, v’era qualche anno fa, nell’opifizio di Zuanenburgerstraat, il vecchio israelita che lavorò il famoso diamante Koynor, il quale, oltre la gran medaglia d’onore dell’Esposizione di Parigi, gli fruttò una mancia di diecimila fiorini e un bel regalo della Regina d’Inghilterra.

Ad Amsterdam c’è il più bel Museo di Pittura dell’Olanda.

Lo straniero che v’entra preparato all’ammirazione dei due più grandi capolavori della pittura olandese, non ha bisogno di domandare dove siano. Appena ha oltrepassato la soglia, vede una piccola sala piena di gente immobile e silenziosa, entra, e si trova nel penetrale più sacro del tempio: a destra ha la Ronda di notte del Rembrandt, a sinistra il Banchetto della guardia civica del Van der Helst.

Dopo aver visto e rivisto questi due quadri, mi divertii sovente a osservare coloro che entrano in quella sala per la prima volta. Quasi tutti, appena entrati, si fermano, guardano con stupore di qua e di là, poi sorridono, e poi si voltano a destra. Il Rembrandt vince.

La Ronda di notte, o come altri vorrebbe chiamarla, L’uscita degli archibugieri, od anche L’uscita della compagnia di Banning Cock, la più vasta tela del Rembrandt, è più che un quadro, è uno spettacolo, e uno spettacolo che sbalordisce. Tutti i critici francesi, per esprimere l’effetto che produce, si son serviti della stessa frase: C’est écrasant. Un gran movimento di figure umane, una gran luce, una grande oscurità: col primo sguardo non si afferra altro, e per qualche momento non si sa dove fissar gli occhi per cercare di rendersi conto di quella grandiosa e splendida confusione. Sono ufficiali, alabardieri, ragazzi che corrono, archibugieri che caricano e sparano, giovani che suonano il tamburo, gente che si china, parla, grida, gesticola; vestiti tutti d’un costume differente, con cappelli rotondi, cappelli a punta, pennacchi, caschi, morioni, gorgiere di ferro, collaretti di bisso, giustacuori ricamati d’oro, stivaloni, calze di tutti i colori, armi di tutte le forme; e questa frotta disordinata, tumultuosa e luccicante si stacca dal fondo oscuro del quadro, e s’avanza verso chi guarda. I due primi personaggi sono Frans Banning Cock, signore di Purmerland e di Ilpendam, capitano della compagnia, e il suo luogotenente Willem van Ruijtenberg, signore di Vlaardingen, che camminano l’uno accanto all’altro. Le due sole figure in piena luce sono questo luogotenente, vestito di una casacca di bufalo, con ornamenti d’oro, ciarpa, gorgiera, pennacchio bianco e grandi stivali; e una bambina che gli vien dietro, colla capigliatura bionda e imperlata, e una veste di raso giallo; tutti gli altri personaggi sono nell’oscurità o nell’ombra, eccettuate le teste che son tutte illuminate. Da che luce? Ecco l’enigma. È la luce del sole? è quella della luna? è quella delle fiaccole? Lumeggiamenti d’oro e d’argento, riflessi lunari, chiarori infocati, personaggi, come la bambina dai capelli biondi, che sembrano brillare di luce propria, volti che paiono rischiarati dalle fiamme d’un incendio, scintillamenti che abbarbagliano, ombre, crepuscoli e oscurità di sotterraneo, tutto vi si ritrova armonizzato e contrapposto con un ardimento miracoloso ed un’arte insuperabile. Vi sono delle stonature di luce? delle oscurità gratuite? degli accessori troppo rilevati a danno delle figure? delle figure vaghe o grottesche? delle lacune e delle bizzarrie ingiustificate? Tutto è stato detto intorno a codesto quadro, argomento d’entusiasmo cieco e di censure spietate, levato a cielo come una mera viglia del mondo, e considerato indegno del Rembrandt, discusso, interpretato, spiegato in mille modi e in mille sensi. Ma non ostante tutte le censure, tutti i difetti, tutte le opposte interpretazioni, esso è là da due secoli trionfante e glorioso, e più lo si guarda, più s’illumina e si avviva; ed anco veduto di volo, rimane per sempre nella memoria con tutti i suoi splendori e i suoi misteri, come una stupenda visione.

Il quadro del Van der Helst, (pittore del quale non si sa nulla, eccetto che nacque in Amsterdam sul principio del secolo decimosettimo, e vi passò una gran parte della sua vita) rappresenta un banchetto col quale la guardia civica di Amsterdam festeggiò la pace di Munster il 18 giugno del 1648. Il quadro contiene venticinque figure di grandezza naturale, tutte ritratti fedelissimi di personaggi noti, dei quali si conservano i nomi. Sono ufficiali, sergenti, portabandiere, guardie, aggruppati intorno a una mensa, che si stringono la mano, si portano brindisi, si apostrofano; e chi taglia, chi mangia, chi sbuccia aranci, chi mesce. Il quadro del Rembrandt è un’apparizione fantastica; il quadro del Van der Helst è uno specchio che riflette una scena reale. Non c’è unità, non ci son contrasti, non ci son misteri: tutte le cose vi son rappresentate colla stessa cura e la stessa evidenza. Teste e mani, figure vicine e figure lontane, corazze d’acciaio e frangie di trina, cappelli piumati e stendardi di seta, cornucopie d’argento e bicchieri dorati; vasi, posate, stoviglie, vivande, vini, armi, ornamenti, tutto spicca, splende, inganna, seduce. Le teste, considerate una per una, sono ritratti meravigliosamente riusciti, dai quali un medico potrebbe con tutta sicurezza argomentare il temperamento e prescrivere le cure preventive per la salute di tutti. Delle mani è stato detto argutamente e con ragione che, staccate dai corpi e mescolate tutte insieme, si potrebbero riconoscere e rimettere a ciascuna figura senza pericolo d’ingannarsi, tanto sono finite, distinte, individuate, per così dire, colle persone a cui appartengono. Viso per viso, costume per costume, oggetto per oggetto, più lo si guarda, e più si scoprono particolari, minuzie, tocchi, nonnulla d’un’esattezza e d’una verità da far strabiliare. Di più, quella varietà e quello splendore di colori, la bonomia e la freschezza dei volti, il vestiario pomposo, i mille oggetti luccicanti, danno tutti insieme a quel gran quadro un’aria di festa e di allegria, la quale facendo dimenticare la volgarità del soggetto, si trasfonde in chi guarda, e gli desta un sentimento di simpatia amichevole e di ammirazione serena, che si rivela in un sorriso affabile anche sul volto dei visitatori più accigliati.

Del Rembrandt v’è ancora nel Museo il gran quadro intitolato: I sindaci dei mercanti di panno fatto diciannove anni dopo la Ronda di notte, con minor foga giovanile e meno bizzarria d’immaginazione; ma con tutto il vigore d’un ingegno maturo; e non meno meraviglioso dell’altro per l’effetto del chiaroscuro, per l’espressione delle figure, per forza di colorito, per esuberanza di vita: preferito da qualcuno alla Ronda. Del Van der Helst v’è un altro quadro, I sindaci della confraternita di san Sebastiano ad Amsterdam, nel quale risplendono pure, benchè meno vivamente che nel Banchetto, tutte le meravigliose facoltà del grande maestro.

Lo Steen ci ha otto quadri, fra i quali il suo ritratto, che lo rappresenta giovane, bello, lungochiomato, e con un’aria quieta e meditabonda, che par che dica:—No, stranieri, non fui un dissipato, non fui un ubbriacone, non fui un cattivo marito: fui calunniato; rispettate la mia memoria.—I soggetti dei suoi quadri sono una fantesca che pulisce una pentola, una famiglia di contadini che torna a casa in barca, un fornaio che fa il pane, una scena di famiglia, uno sposalizio di villaggio, una festa di ragazzi, un ciarlatano in una piazza; tutti coi soliti ubbriachi, le solite risatacce, le solite figure grottesche mirabilmente colorite e lumeggiate. Nel quadro del Ciarlatano sopratutto la sua mania del grottesco raggiunge l’ultimo segno. Le teste sono deformi, i volti son musi, i nasi son becchi, le schiene son groppe, le mani son zampe, gli atteggiamenti sono contorsioni, le risa sono smorfie di maschere; sono personaggi, infine, dei quali non si può trovare un’immagine che dentro i vasi dei gabinetti anatomici o nelle caricature animalesche del Grandville. È impossibile trattenere le risa; ma si ride come dovevan ridere gli spettatori di Gymplaine, dicendo in cuor loro:—Peccato ch’è un mostro!

Eppure v’è un artista che fece discendere questo genere di pittura anche più basso che lo Steen, e fu Adriano Brouwer, uno dei più famosi scapestrati dell’Olanda. Costui fu discepolo di Francesco Hals, e s’ubbriacava con lui una volta al giorno, finchè perseguitato dai creditori, fuggì da Amsterdam ad Anversa, dove lo arrestarono come spia, e lo cacciarono in prigione. Il Rubens lo fece uscire, e lo raccolse in casa sua; ma il Rubens menava una vita ordinata, e il Brouwer che voleva correre la cavallina, lo piantò. Andò a Parigi, e là ne fece di tutte le tinte, finchè ridotto secco come un uscio, tornò ad Anversa, e finì la sua misera vita in un fondo di spedale all’età di trentadue anni. Come non bazzicò che le taverne e la canaglia, così non dipinse che scene grossolane e stomachevoli di donnacce e di mascalzoni ubbriachi, delle quali è principal pregio il colorito vivo e armonioso, e l’impronta originale. Il Museo d’Amsterdam ha due quadri suoi; uno che rappresenta un Combattimento di contadini e l’altro un’ Orgia di villaggio. In questo c’è tutto il Brouwer. È una stanza di taverna, nella quale sono raccolti uomini e donne avvinazzati che bevono e fumano. Una donna è distesa in terra ubbriaca fradicia, e il suo bambino le piange accanto.

Gerardo Dow ha nel museo d’Amsterdam il quadro famoso: La scuola della sera o Quadro delle quattro candele, degno d’esser posto accanto alla sua Idropica del museo del Louvre, e fra le gemme più peregrine della pittura olandese. È un piccolo quadro, il quale rappresenta sul dinanzi un maestro di scuola con due scolari e una ragazza seduti intorno a un tavolino; un’altra ragazza intenta a uno scolaretto che scrive sur una lavagna; e in fondo alla stanza altri ragazzi che studiano. Ma l’originalità del quadro consiste in questo: che le figure sono la parte accessoria; e la parte principale, i protagonisti, il soggetto del quadro, in una parola, sono quattro candele: una che brilla in una lanterna abbandonata sul pavimento, un’altra che illumina il gruppo del maestro e dei due scolari; una terza, tenuta dalla ragazza, che rischiara la lavagna; la quarta sur un tavolino in fondo, in mezzo agli scolari che leggono. È facile immaginare quanta varietà di luci, d’ombre, di guizzi, di tremolii, di barlumi, di sfumature, un artista come il Dow abbia saputo cavare da quelle quattro fiammelle; che infinite difficoltà siasi create, che infinita cura le sia costato il superarle, e con che meravigliosa maestria le abbia superate! Questo quadro, dipinto, come disse un critico, con ciglia di bambino appena nato, e coperto d’una lastra di vetro come una reliquia, fu venduto nel 1766 per ottomila lire, nel 1808 per trentacinquemila; e certo non basterebbe aggiungere uno zero a quest’ultima cifra per comprarlo al presente.

Non si finirebbe più di descrivere, se si volessero rappresentare soltanto i quadri principali dei grandi artisti che adornano questo museo. Il melanconico e sublime Ruisdael vi ha una scena d’inverno e una foresta piene dell’anima sua come dei suoi paesaggi suol dirsi; il Terburg v’ha il suo celebre Consiglio paterno; il Wouvermans dieci ammirabili quadri di caccie, di battaglie e di cavalli; il Potter, il Karel du Jardin, il Van Ostade, il Cuyp, il Metzu, il Van de Verde, l’Everdingen vi sono rappresentati da parecchie delle migliori opere del loro pennello, delle quali sarebbe fatica sciupata il tentare di offrire un’immagine colla penna. E non è questo il solo Museo di Pittura della città di Amsterdam. Un museo lasciato alla città da un Van der Hoop, antico deputato alla Camera degli Stati, contiene quasi duecento quadri dei primi artisti olandesi e fiamminghi; ed oltre a questa, vi sono parecchie altre ricchissime gallerie private.

Ma il Museo della Ronda di notte e del Banchetto della guardia civica, com’è il primo a visitarsi, è anco quello nel quale gli stranieri, prima di partire da Amsterdam per la Nord-Olanda e la Frisia, dove non ci son più musei, vanno a dare un addio alla pittura olandese. In questo momento chiudo gli occhi, e mi par d’essere nella sala della Ronda e del Banchetto, il giorno che v’andai per l’ultima volta. Penso che fra poco lascierò, forse per non rivederle mai più, tutte queste meraviglie dell’ingegno umano, e questo pensiero mi rattrista. La pittura olandese non ha destato in me alcuna emozione profonda; nessun quadro m’ha fatto piangere; nessuna immagine m’ha levato in alto; nessun artista m’ha inspirato un sentimento d’affetto vivo, lieto, riconoscente, entusiastico. Eppure sento che dai musei dell’Olanda ho portato via un tesoro. M’è rimasto scolpito nella mente tutto un popolo, tutt’un paese, tutto un secolo. Di più, è un’illusione o un effetto reale? Tutte quelle immagini di tranquille massaie, di beati vecchioni, di bimbi paffuti, di ragazze sane e fresche, di stanzine ben chiuse e di tavole ben fornite, quando me le ravvivo dinanzi agli occhi, mi sento meglio fra le quattro pareti della mia cameretta, mi rannicchio con maggior gusto nel mio cantuccio, son più contento del solito di vivere in famiglia, d’avere delle sorelle e dei nipotini; benedico più affettuosamente il mio focolare, e mi siedo con più serena allegrezza alla tavola parca e pulita di casa mia. Non è forse bene, dopo aver visto angeli e donne divine e amori sovrumani e grandi sventure e grandi trionfi; dopo aver inorridito, pianto, adorato, sognato; dopo di essersi slanciati col pensiero e col cuore sopra le nuvole; ridiscendere un po’ sulla terra per persuadersi che tutto non è da sprezzare, che i sopraccapi bisogna a tempo e luogo saperli buttare dalla finestra, che in questo mondicino non ci si sta poi tanto male come si dice, che la vita convien pigliarla come Dio la manda, e che non bisogna essere nè visionarii, nè turbolenti, nè orgogliosi, nè indiscreti, nè matti? E questa persuasione m’ha messo nell’animo la pittura olandese, e sia benedetta la pittura olandese. Studenti d’anatomia, guardie civiche, archibugieri, sindaci, serve, pescatori, beoni, tori, pecore, tulipani, mulini a vento, mari lividi ed orizzonti nebbiosi, rimanetemi per lungo tempo dinanzi agli occhi, e quando non sarete più nella mia mente che una reminiscenza confusa, mi resti la virtù di lavorare, di viver con giudizio e di far economia, da bravo olandese, per tornarvi a rivedere, se Dio lo consente!

Napoleone il Grande, in Amsterdam, s’annoiò; ma credo fermamente che sia stata colpa sua: io mi ci son divertito. Tutti quei canali, quei ponti, quei bacini, quelle isolette, formano una così grande varietà di prospetti pittoreschi, che per quanto si giri, non s’è mai finito di vedere. Vi son mille maniere di passare il tempo piacevolmente. Si va a veder l’arrivo dei battelli che portano il latte da Utrecht; si seguono i barconi che trasportano le masserizie per le sgomberature, con le fantesche dalla cuffia bianca ritte sulla poppa; si passa una mezz’ora sulla torricina del palazzo reale, di dove si abbraccia con uno sguardo il golfo dell’Y, l’antico lago d’Haarlem, le torri d’Utrecht, i tetti rossi di Zaandam, e quella fantastica foresta d’alberi di bastimento, di campanili e di mulini; si assiste all’estrazione del limo dei canali, alle accomodature dei ponti e delle cateratte, alle mille cure che richiede continuamente questa città singolare, costretta a spendere quattrocentomila fiorini all’anno per governare le sue acque; e quando non c’è altro, non manca mai lo spettacolo delle serve e dei servitori che con pompe e schizzetti lavano dalla strada gli usci delle case, le finestre del primo piano e i panni di chi passa. La sera poi, c’è la strada chiamata Kalverstraat, fiancheggiata da due file di botteghe splendide e di caffè metà illuminati e metà immersi nelle tenebre, nella quale sino a notte tarda formicola una folla fitta e lenta di gente piena di birra e di quattrini, mista a certi fassimili di cocottes impettite e affagottate, che non guardano, non ridono, non parlano, e vanno a tre e a quattro insieme, come se meditassero delle aggressioni. Dalle strade illuminate e affollate si riesce con pochi passi lungo i canali oscuri, fra i bastimenti immobili, in mezzo a un silenzio profondo. Di qui, passando sur un ponte, si arriva in un quartiere del popolo minuto, dove si vedono scintillare i lumi delle botteghe sotterranee, e si sente la musica dei balli dei marinai; e così si cangia ogni momento di spettacolo e di pensieri, con buona pace di Napoleone I.

Tale è questa città famosa, la storia della quale non è meno strana che la sua forma e il suo aspetto. Un povero villaggio di pescatori di cui è ancora ignoto il nome sulla fine del secolo decimoprimo, diventa nel secolo decimosesto l’emporio dei grani di tutta l’Europa settentrionale, spopola i porti fiorenti del mare di Zuiderzee, raccoglie nelle sue mani il commercio di Venezia, di Siviglia, di Lisbona, d’Anversa, di Bruges, attira negozianti di tutti i paesi, ricetta proscritti di tutte le religioni, si risol leva da innondazioni spaventevoli, si difende dagli anabattisti, manda a vuoto le trame del Leicester, detta la legge a Guglielmo II, respinge l’invasione di Luigi XIV, e finalmente, come tutte le cose di quaggiù, declina, brillando ancora una volta della luce effimera di terza città dell’impero francese, onorificenza ufficiale, molto somigliante alle croci che si danno agl’impiegati malcontenti, per compensarli d’una traslocazione rovinosa. È ancora una ricca città commerciale; ma circospetta, lenta, appiccicata alle tradizioni, amica più del gioco della Borsa che delle imprese ardite, e che rivaleggia più brontolando che operando con Amburgo e Rotterdam, piene di giovinezza e di speranze. Malgrado ciò, ella serba ancora la maestà dell’antica dominatrice dei mari, è ancora la più bella gemma delle provincie unite, e lascia allo straniero che l’abbandona, un’immagine severa di grandezza e di potenza, che nessun’altra città d’Europa cancella.

UTRECHT.

Da Amsterdam si suol fare una gita a quella famosa città d’Utrecht, della quale abbiamo tutti pronunziato tante volte il nome, da ragazzi, cercando di stamparci nella testa la data del 1713, quando ci preparavamo all’esame di storia. Si va a Utrecht, che in sè stessa non offre nulla di straordinario a chi abbia già visto le altre città olandesi, non tanto per curiosità, quanto per potere, in avvenire, riferire a’ luoghi veduti il ricordo degli avvenimenti famosi che seguirono fra le sue mura. Si va a respirare l’aria della città, dove fu compiuto l’atto più solenne della storia d’Olanda, l’alleanza delle provincie neerlandesi contro Filippo II; dove fu segnato il trattato che restituì la pace all’Europa dopo le guerre formidabili per la successione di Spagna; dove cadde sotto la mannaia del duca d’Alba il capo innocente della ottuagenaria Van Diemen; dove sono ancora vive e parlanti le memorie di san Bonifazio, di Adriano VI, di Carlo V, di Luigi XIV; e ribolle ancora il furore battagliero degli antichi vescovi, trasfuso nel sangue dei calvinisti ortodossi e dei cattolici ultramontani.

La strada, partendo da Amsterdam, passa accanto al Dimermeer, il polder (si chiamano polder i terreni prosciugati) più profondo dell’Olanda; fiancheggia il braccio del Reno chiamato Vecht, e trascorrendo fra ville e verzieri, arriva alla città d’Utrecht, che siede in mezzo a una campagna fertilissima, irrigata dal Reno, reticolata di canali, e sparsa di giardini e di case.

Utrecht, come Leida, ha l’aspetto triste e solenne d’una gran città decaduta; vaste piazze deserte, grandi strade silenziose e larghi canali in cui si specchiano case di forma antica e di color fosco. Ma v’è una cosa nuova per gli stranieri. I canali sono, come l’Arno a Firenze e la Senna a Parigi, profondamente incassati fra le strade che li fiancheggiano; e sotto le strade vi sono officine, magazzini, botteghe, abituri che hanno le porte sull’acqua e la strada per tetto. La città è circondata di bei viali, ed ha un passeggio famoso, che Luigi XIV preservò generosamente dal vandalismo dei suoi soldati: una strada lunga una mezza lega francese, ombreggiata da otto file di bellissimi tigli.

La storia della città d’Utrecht è in gran parte immedesimata con la storia della sua cattedrale, che è forse di tutte le chiese d’Olanda quella ch’ebbe più strane vicende. La fondò verso il 720 un vescovo di Utrecht; la ricostrusse di sana pianta un altro vescovo verso la metà del secolo decimoterzo; un uragano le portò via di netto, il primo agosto del 1674, una grande navata, che non fu più ricostruita; la devastarono gl’iconoclasti nel secolo decimosesto; la restituirono al culto cattolico i Francesi nel secolo seguente; vi ristabilirono il culto protestante gli Olandesi dopo l’invasione di Luigi XIV; infine, le statue, gli altari, le croci v’entrarono e ne uscirono, vi furono innalzati e rovesciati, venerati o vilipesi, ad ogni voltare di vento. Era certo anticamente una delle più vaste e più belle chiese dell’Olanda; ora è monca e nuda, e ingombra in gran parte di banchi che le danno l’aspetto d’una camera da deputati. L’uragano del 1674, distruggendo una navata, separò la chiesa dalla sua altissima torre, di sulla quale si vede con un telescopio quasi tutta la provincia d’Olanda, una parte della Gheldria e del Brabante, Rotterdam, Amsterdam, Bois-le-duc, il Leck, il golfo di Zuiderzee; mentre un orologio munito di quarantadue campanelle slancia nell’aria, insieme col suono delle ore, la romanza amorosa del conte d’Almaviva o la preghiera dei lombardi alla prima crociata.

Accanto alla chiesa v’è la celebre Università, fondata nel 1636, la quale dà ancora vita alla città, benchè sia decaduta, come quella di Leida, dalla sua prima altezza. L’Università di Leida ha un carattere particolarmente letterario e scientifico; quella di Utrecht un carattere religioso, ch’essa comunica e riceve insieme dalla città, la quale è la sede dell’ortodossia protestante. Per questo si dice che per le strade d’Utrecht si vedono delle figure pallide e rifinite di puritani, che sono scomparse altrove, e che paiono ombre evocate d’altri tempi. Il popolo ha un aspetto più grave che nelle altre città, le signore affettano un contegno monacale, e persino fra gli studenti v’è una certa velleità di vita raccolta e penitente che non esclude nè birra, nè feste, nè chiassi, nè cattive pratiche. Oltre che sede dell’ortodossia, Utrecht è ancora una delle più forti cittadelle del cattolicismo, professato da ventiduemila dei suoi abitanti; e nessuno può aver dimenticato la tempesta che scoppiò in Olanda quando il Pontefice volle ristabilire in quella città l’antica sede episcopale; tempesta per la quale si ridestarono i sopiti rancori tra protestanti e cattolici, e precipitò il ministero del famoso Torbecke, il piccolo Cavour delle Provincie Unite.

Ma in fatto di religione, Utrecht possiede una preziosa rarità da Museo, un avanzo archeologico curiosissimo, la sede principale della sètta giansenista, la quale non si trova più nello stato di Chiesa costituita, fuorchè nei Paesi Bassi, dove conta ancora trenta Comunità e qualche migliaio di fedeli. La Chiesa, decorata della semplice iscrizione Deo, si alza in mezzo a un gruppo di casette disposte in forma di chiostro, e unite fra loro da piccoli cortili ombreggiati da alberi fruttiferi; e in quel ricetto silenzioso e tristo, nel quale non molti anni sono non v’era che un’entrata, che si chiudeva durante la notte come la porta d’una fortezza, languisce la dottrina decrepita di Giansenio e sonnecchiano i suoi ultimi devoti. Oggi ancora, ogni nuova nomina di vescovo è regolarmente annunziata al Pontefice, che risponde regolarmente con una bolla di scomunica, la quale vien letta dal pulpito e poi sepolta e dimenticata. Così questo piccolo Port-Royal, che sente già il freddo e la solitudine della tomba, prolunga ancora la sua ultima resistenza contro la morte.

Di istituzioni notevoli Utrecht non ha che la zecca e la scuola pei medici militari del regno e delle colonie. Le antiche fabbriche di quel bellissimo velluto, che fu per tanto tempo famoso in Europa, sono scomparse. Fuor che la Cattedrale, nessun monumento. Il palazzo municipale, che conserva qualche vecchia chiave e qualche vecchio stendardo, e la tavola su cui venne firmata la pace d’Utrecht, non è che un edifizio del 1830. Il palazzo reale, che non vidi, dev’essere il più modesto de’ palazzi reali, poichè i ciceroni olandesi, che non dimenticano nulla, non mi ci hanno trascinato.

Ma questo palazzo, se la tradizione non è bugiarda, fu testimonio di una comica avventura seguita a Napoleone il Grande. Durante il suo brevissimo soggiorno in Utrecht egli occupò la camera da letto di suo fratello Luigi, ch’era attigua alla stanza da bagno. Si sa che, dovunque andasse, conduceva con sè un servitore, il quale aveva l’esclusivo incarico di tenergli pronto un bagno per qualunque ora del giorno e della notte. La sera ch’egli arrivò ad Utrecht, di malumore, come fu quasi sempre in Olanda, andò a letto per tempo, e lasciò, se per inavvertenza o per proposito la tradizione non lo dice, la porta della camera aperta. Il servitore del bagno, ch’era una buona pasta di brettone, dopo avergli preparata la tinozza in un’altra stanza, se ne andò a letto egli pure, in un camerino poco lontano dalla camera imperiale. Verso la mezzanotte si svegliò improvvisamente assalito da quei dolori che impongono di pigliare la via più breve per arrivare alla mèta, saltò giù dal letto, e in camicia com’era, e pien di sonno, si mise a cercare la porta tastoni. La trovò; ma per il suo malanno, non conoscendo bene il giro delle stanze, invece di riuscir dove voleva, capitò dinanzi alla porta dell’Imperatore. Sospinse, la porta s’aperse, entrò, ed entrando, rovesciò un seggiolone. Una voce terribile, quella voce! gridò:—Chi è?—Il povero giovane, agghiacciato dallo spavento, si sforza di rispondere, e la parola gli muore sulle labbra; tenta di uscire per dove è entrato, non trova più la porta; sbalordito, tremante, cerca un’uscita da un’altra parte.—Chi è?—ripete l’Imperatore con voce tonante, balzando in piedi. Il servitore, affatto fuor di sè, gira, tasta, inciampa in un tavolino, rovescia un’altra seggiola. Allora Napoleone, non dubitando più d’un tradimento, afferra il suo grosso orologio d’argento, si slancia addosso al malcapitato, lo agguanta alla strozza, e gridando aiuto con quanta voce ha nella gola, gli martella la testa di formidabili colpi. Accorrono i camerieri, i ciambellani, gli aiutanti di campo, il prefetto di palazzo colle spade e coi lumi, e vedono.... il Grande Napoleone e il povero servitore, in camicia tutti e due, in mezzo a uno scompiglio di casa del diavolo, che si guardano a vicenda, l’uno in atto di profonda meraviglia, e l’altro in atto di preghiera supplichevole, come in una pantomima da teatro. Si sparse la voce dell’avvenimento nella città, in Olanda, in tutta Europa; come sempre, la notizia si alterò propagandosi; si parlò d’un attentato, d’una congiura, dell’assassinio consumato, di Napoleone seppellito, dell’universo sconvolto.... e di tutto questo scombussolío fu cagione un cattivo desinare d’un servitore.

Ma il principe che lasciò più ricordi in Utrecht fu Luigi XIV. A Utrecht, dicono i Francesi, si va per vedere il rovescio della medaglia del Gran Re; e questo rovescio della medaglia è la guerra del 1670, durante la quale egli fece un lungo soggiorno in quella città.

Sul rovescio della medaglia di Luigi XIV sta scritta una delle pagine più gloriose e più poetiche della storia d’Olanda.

La Francia e l’Inghilterra si alleano per conquistare l’Olanda. Per quale ragione? Non ci sono ragioni. Agli Stati Generali che domandano un perchè, i ministri del re di Francia rispondono allegando delle impertinenze di gazzette e una medaglia coniata in Olanda con un’iscrizione irriverente per Luigi XIV. Il re d’Inghilterra, dal canto suo, adduce a pretesto un quadro nel quale son rappresentati dei vascelli inglesi catturati ed arsi, e il non aver la flotta delle Provincie-Unite salutato un bastimento inglese. Si spendono cinquanta milioni di lire in apparecchi da guerra. La Francia mette in mare trenta vascelli carichi di cannoni, l’Inghilterra raduna una flotta di cento vele. All’esercito francese forte di centomila soldati, disciplinato, agguerrito e accompagnato da un’artiglieria formidabile, si unisce l’esercito del vescovo di Munster e dell’Elettor di Colonia, forte di ventimila spade. I generali si chiamano Condé, Turenna, Vauban, Lussemburgo; il ministro Louvois presiede allo stato maggiore; lo storico Pélisson lo segue coll’incarico di scrivere le gesta; Luigi XIV, il più gran re del secolo, circondato dalla sua splendida Casa, scortato, come un monarca asiatico, da una falange di gentiluomini, di cadetti, di svizzeri impennacchiati, inargentati e dorati, accompagna l’esercito. Tutta questa forza e questa grandezza, che schiaccerebbe un immenso impero, minaccia un piccolo paese abbandonato da tutti, non difeso che da venticinque mila soldati e da un Principe di ventidue anni, sprovveduto di munizioni da guerra, lacerato dalle fazioni, infestato da traditori e da spie. La guerra è dichiarata, lo splendido esercito del gran Re intraprende la marcia trionfale, l’Europa lo segue. Luigi XIV, alla testa d’un esercito di trentamila soldati comandato dal Turenna, spande oro e favori lungo la via che gli si spiana dinanzi, come a un nume. Quattro città cadono in un sol tratto nelle sue mani. Cadono tutte le fortezze del Reno e dell’Yssel. Al lontano apparire delle pompose avanguardie reali, i nemici si dileguano. L’esercito invasore passa il Reno senza quasi incontrar resistenza, e questo passaggio è celebrato come un avvenimento meraviglioso presso l’esercito, a Parigi, in tutte le città della Francia. Cadono Doesbourg, Zutphen, Arnhem, Nosembourg, Nimega, Shenk, Bommel. Utrecht manda le chiavi delle sue porte al Re vincitore. Ogni ora del giorno e della notte porta la notizia di una conquista. Le Provincie della Gheldria e dell’Over-Yssel sono sottomesse. Naerden, vicino ad Amsterdam, è presa. Quattro cavalieri francesi si avanzano fino alle porte di Muiden, a due miglia dalla capitale. Il paese è in preda alla desolazione, Amsterdam si prepara ad aprire le porte agli invasori, gli Stati Generali mandano quattro deputati a implorare clemenza dal Re. A tal segno è ridotta una repubblica ch’era l’arbitra dei monarchi! I deputati arrivano al campo nemico, il Re non li ammette alla sua presenza, il Luvois gli accoglie con scherno. Finalmente s’intimano loro le condizioni della pace. L’Olanda deve cedere tutte le provincie di là dal Reno e tutte le vie di terra e di mare, per le quali il nemico può penetrare nel suo cuore; pagare venti milioni di lire; abbracciare la re ligione cattolica; mandare ogni anno al Re di Francia una medaglia d’oro, nella quale sia scritto che l’Olanda deve la sua libertà a Luigi XIV; e accettare le condizioni imposte dal Re d’Inghilterra e dai principi di Münster e di Colonia.—La notizia di queste oltraggiose e insopportabili pretese fa scoppiare in Amsterdam il furore della disperazione. Gli Stati Generali, il patriziato e il popolo risolvono di difendersi fino agli estremi. Si rompono le dighe di Muiden che contengono le acque del mare, e il mare irrompe nelle terre lungamente vietate, salutato con grida di gioia come un alleato e un salvatore; la campagna d’Amsterdam, le ville innumerevoli, i villaggi fiorenti, Delft, Leida, tutte le città vicine sono inondate; tutto è cangiato; Amsterdam è una fortezza circondata dal mare e difesa da un baluardo di vascelli; l’Olanda non è più uno Stato, è una flotta, che quando ogni altra speranza di salvezza sarà perduta, porterà le ricchezze, i magistrati e l’onor della patria nei porti remoti delle Colonie. Addio cavalieri impennacchiati, artiglierie formidabili, stati maggiori pomposi, trionfi da teatro! L’ammiraglio Ruyter sgomina le flotte d’Inghilterra e di Francia, assicura le coste dell’Olanda e introduce la flotta mercantile delle Indie nel porto dell’isola di Texel; il principe d’Orange sacrifica le sue ricchezze allo Stato, inonda altre terre, scuote la Spagna, muove il Governatore di Fiandra che gli manda dei reggimenti, guadagna l’animo dell’Imperatore di Germania, che spedisce in suo soccorso il Montecuccoli alla testa di ventimila soldati, strappa aiuti all’elettore di Brandeburgo, dispone alla pace l’Inghilterra. Così tien fronte ai Francesi fino all’inverno, che copre l’Olanda di ghiaccio e di neve, e arresta l’esercito invasore. Vien la bella stagione, ricominciano le battaglie sulla terra e sul mare. La fortuna sorride qualche volta alle armi francesi; ma nè le cure del gran Re, nè il genio dei suoi generali famosi, nè gli sforzi del suo potente esercito valgono a strappar la vittoria alla repubblica. Il Condé tenta inutilmente di penetrare nel cuore dell’Olanda inondata; il Turenna non può impedire che il principe d’Orange si congiunga coll’esercito del Montecuccoli; gli Olandesi s’impadroniscono di Bonn e investono il vescovo di Munster; il re d’Inghilterra si ritrae dalla lega; l’esercito francese è costretto a ritirarsi dall’impresa. L’invasione era stata una marcia trionfale; la ritirata fu una fuga precipitosa; gli archi di trionfo inalzati a Parigi per festeggiare la conquista non erano ancora terminati, quando vi giungevano le avanguardie dell’esercito scompigliato; e Luigi XIV a cui sorrideva l’Europa al cominciar della guerra, si trovava, dopo la guerra perduta, alle prese coll’Europa intera. Tale trionfo riportava la piccola Olanda sul grande monarca, l’amor di patria sul furore di conquista, la disperazione sulla prepotenza, la giustizia sulla forza.

A poche miglia da Utrecht, vicino a un bellissimo bosco, v’è il villaggio di Zeist, al quale si va per una strada fiancheggiata da parchi e da ville di ricchi negozianti di Rotterdam. In quel villaggio v’è una Colonia di quei rinomatissimi fratelli uniti o fratelli di Boemia o fratelli Moravi, sètta religiosa derivata da quelle di Valdus e di Giovanni Huss, che misero sottosopra l’Europa. Ebbi anch’io il desiderio di vedere i discendenti diretti di quei Valdesi e di quegli Hussiti, «che furono bruciati su tutti i roghi, impiccati su tutte le forche, inchiodati a tutte le croci, rotti a tutte le ruote, squartati da tutti i cavalli» e feci una corsa a Zeist. Questa casa di Moravi fu fondata verso la metà del secolo scorso e contiene circa duecentocinquanta persone tra uomini, donne e ragazzi. L’aspetto del luogo è austero come la vita degli abitanti. Sono due vasti cortili, separati da una larga strada, ciascuno dei quali è chiuso su tre lati da un grande edifizio nudo come una caserma. In uno di questi edifizi vi sono i celibi, gli ammogliati e le scuole; nell’altro le vedove, le ragazze, la chiesa, il pastore e il capo della Comunità. Il pian terreno è occupato dai magazzini, che contengono mercanzie, parte opera degli stessi Moravi, come guanti, saponi, candele ec.; parte comperate per essere rivendute a prezzo fisso e a buonissimo mercato. La chiesa non è che una gran sala con due tribune per gli stranieri e dei rozzi banchi per i fratelli. L’interno degli edifizi somiglia a un convento. Non sono che lunghi corridoi fiancheggiati da piccole stanze nelle quali ogni fratello vive in un profondo raccoglimento lavorando o pregando. La loro vita è rigorosissima. Professano, almeno esteriormente, la confessione d’Ausburgo. Ammettono il peccato originale, ma colla fede che la morte di Gesù Cristo abbia lavato assolutamente l’umanità. Credono che l’unità della Chiesa consista più nella carità la quale deve riunire tutti i discepoli di Cristo in una sola mente e in un sol cuore, che non nella uniformità della fede. Praticano, in un certo senso, le comunità dei beni, e formano il tesoro comune con offerte volontarie. Esercitano fra loro tutte le professioni necessarie: di medici, d’assistenti, di monitori, di maestri. I superiori possono punire col rimprovero, colla scomunica e coll’espulsione dalla Comunità. Le occupazioni della giornata sono regolate come in un collegio: preghiera, riunioni particolari, letture, lavoro, esercizi religiosi, a quell’ora fissa e tra i fratelli di quella data classe. Per dare un’idea dell’ordine che regna in questa società, basta accennare, fra le tante altre consuetudini strane, che il differente stato delle donne è indicato con un nastro di vario colore che portano sul capo. Le ragazze hanno un nastro color di rosa vivo fino a dieci anni; un nastro rosso fino a diciotto, e uno rosso pallido fino al giorno che si maritano; le donne maritate un nastro azzurro e le vedove un nastro bianco. Così in questa società ogni cosa è classificata, prestabilita, misurata; la vita scorre come una macchina agisce; l’uomo si move come un automa; il regolamento tien luogo di volontà e l’orologio governa il pensiero. Quando entrai in mezzo a quell’edifizio, non vidi che due servitori immobili sulla soglia di una porta e una ragazza col nastro rosso alla finestra. I cortili erano deserti, non si sentiva ronzare una mosca, non si vedeva indizio di vita. Dopo aver guardato un po’ qua e là, come si guarda un cimitero a traverso le sbarre della cancellata, ripresi pensierosamente la via d’Utrecht.

BROEK.

Fin da quando scrivevo le prime pagine di questo libro, solevo animarmi a proseguire pensando al piacere che avrei provato quando fossi giunto al villaggio di Broek. Ebbi dei giorni di scoraggiamento e di stanchezza, in cui avrei buttato sul fuoco tutti i miei scartafacci; ma da queste prostrazioni d’animo mi risollevò sempre quel pensiero. L’immagine di Broek era la mia stella polare. “Quanto, prima di arrivare a Broek?” mi domandavano in casa. E io rispondevo sospirando: “Ancora due mesi,—venti giorni,—una settimana.” Eccomi finalmente al giorno tanto desiderato. Sono allegro e impaziente; vorrei potermi esprimere insieme alla penna col pennello e colla voce; ho mille cose da dire e non so da che verso rifarmi; e rido di me stesso come ne riderà probabilmente chi legge.

Nelle varie città dov’ero stato, da Rotterdam ad Amsterdam, avevo inteso parlare più volte del vil laggio di Broek, ma sempre di volo, e in maniera da solleticare, piuttosto che appagare la mia curiosità. Questo nome di Broek, quando lo pronunziavo in un crocchio, faceva rider tutti. Qualcuno a cui avevo domandato perchè ridesse, m’aveva risposto secco:—Perchè è una cosa ridicola.—Un tale, all’Aja, m’aveva detto così tra l’agro e il dolce:—Oh insomma, quando la vorranno finire gli stranieri con questo benedetto Broek? Non ci sono altri argomenti per canzonarci?—Ad Amsterdam, il padrone dell’albergo, tracciandomi sulla carta la strada che dovevo fare per andare a Broek, rideva sotto i baffi coll’aria di dire:—Ragazzate.—A tutti avevo domandato delle notizie particolari e nessuno me n’aveva voluto dare. Scrollavano le spalle e dicevano:—Vedrà.—Solo da qualche parola sfuggita all’uno e all’altro, avevo potuto argomentare che fosse un villaggio stranissimo; famoso, per questa sua stranezza, fin dal secolo scorso; descritto, illustrato, deriso e preso a pretesto dagli stranieri per spacciare a carico degli Olandesi un’infinità di favole e di corbellerie.

Lascio immaginare la curiosità che mi tormentava. Basti dire che sognavo Broek ogni notte, e che avrei da fare un libro se volessi descrivere tutti i villaggi fantastici, meravigliosi, impossibili, che vidi in quei sogni. Feci uno sforzo per dare la precedenza alla gita d’Utrecht, e appena ritornato ad Amsterdam, partii per il misterioso villaggio.

Broek è nella Nord Olanda, a mezza distanza, o presso a poco, fra la città d’Edam ed Amsterdam, e poco lontano dalla spiaggia del Zuiderzee. Dovevo dunque attraversare il golfo dell’Y e percorrere un tratto del canale del Nord.

M’imbarcai la mattina per tempo in uno dei piccoli piroscafi, che partono ogni ora del giorno per Alkmaar ed Helder, e in pochi minuti arrivai nel gran canale.

È questo il maggior canale dell’Olanda, e una delle più meravigliose opere che siansi fatte in Europa nel secolo decimonono. Tutti sanno in che modo ed a che fine sia stato aperto. Altre volte per giungere al porto di Amsterdam i grandi bastimenti dovevano attraversare il golfo di Zuiderzee, sparso di banchi di sabbia e agitato da furiose tempeste. Questa traversata, lunga e piena di pericoli, era sopratutto difficile nel punto in cui il golfo di Zuiderzee si congiunge a quello dell’Y, a cagione di un gran banco di sabbia chiamato Pampus, che i grossi bastimenti non potevano superare se non alleggerendosi d’una parte del loro carico, e facendosi rimorchiare con molta spesa e molta perdita di tempo. Per aprire una via più facile al porto di Amsterdam, si costrusse quel gran canale che va dal golfo dell’Y fino al mare del Nord, attraversando tutta la Nord-Olanda; lungo quasi ottanta chilometri, largo quaranta metri, profondo sei. Fu cominciato nel 1819 e finito nel 1825, e costò trenta milioni di lire. Mercè questo canale, quando il tempo è favorevole, i più grandi bastimenti giungono in meno di ventiquattr’ore dal Mare del Nord nel porto d’Amsterdam. Ciò nonostante la città è ancora, rispetto alle altre città marittime, in una posizione assai svantaggiosa al commercio, poichè l’entrata del canale del Nord, presso l’isola di Texel, è difficilissima; nel canale stesso i bastimenti debbono essere rimorchiati, così che il tragitto, su per giù, costa un migliaio di lire; e negl’inverni rigidi, le acque agghiacciano, la navigazione è impedita o rallentata, e occorre qualche volta spendere fino a trentamila fiorini per aprirvi un passaggio. Ma il coraggio degli Olandesi non si arrestò neanco dinanzi a questa difficoltà, e aperse al commercio una nuova strada. Un altro canale, intorno al quale si sta ora lavorando, attraverserà il golfo dell’Y, nella direzione della sua maggior lunghezza, taglierà le dune e sboccherà nel mare presso il villaggio di Wyk-aan-zee, separando così la Nord-Olanda dal continente. Questo canale sarà lungo venticinque chilometri e largo come quello di Suez; i bastimenti potranno giungere per esso dal mare ad Amsterdam in due ore e trenta minuti; una gran parte del golfo dell’Y, riempita colla materia cavata dal canale, sarà convertita in terra coltivabile; e così verrà chiusa per sempre la via alle inondazioni del mare, dalle quali Amsterdam è perpetuamente minacciata. I lavori, cominciati nel 1866, sono pressochè terminati; e già fin dal 25 settembre del 1872 un bastimento della Società che compie la grande impresa, ha percorso in trionfo la nuova via, salutato festosamente dalla grande città, come un araldo annunziatore di prosperità e di fortuna.

Appena il piroscafo ebbe oltrepassato le porte monumentali dal Canale del nord, disparvero ai miei occhi il golfo, il porto, Amsterdam, ogni cosa; poichè in quel punto le acque del canale sono di quasi tre metri più basse che il livello del mare; e non vidi più che una miriade di cime d’alberi di bastimento, di punte di campanili e di estremità d’ali di mulino, sporgenti oltre le dighe altissime in mezzo alle quali si scorreva. Di tratto in tratto il piroscafo passava per una stretta porta, le rive erano deserte, il canale chiuso da ogni parte, l’orizzonte nascosto; pareva di navigare per i meandri d’una fortezza inondata. Dopo una mezz’ora di questa navigazione furtiva, si arrivò a un villaggio, un vero indovinello di villaggio, formato da alcune casette colorite, schierate lungo una diga, e quasi interamente nascoste da una fila di alberi tagliati in forma di ventaglio e piantati dinanzi agli usci, come per difendere dagli sguardi di chi passa i segreti della vita domestica. Il piroscafo passò per un’altra porta, e riuscì nell’aperta campagna, dove mi si presentò uno spettacolo affatto nuovo. Le acque del canale, essendo assai più elevate della campagna circostante, il bastimento scorreva all’altezza delle cime degli alberi e dei comignoli delle case che fiancheggiavano le dighe; e la gente che passava per i sentieri voltava il viso in su per guardare il bastimento nella stessa maniera che, poco prima, alzavamo il viso noi per guardare la gente che passava sulle dighe. Incontravamo bastimenti rimorchiati da cavalli, barconi rimorchiati da famiglie intere, disposte in fila per ordine d’età, dal nonno al nipote, e dinanzi al nipote il cane; piroscafi che venivano da Alkmaar e da Helder, pieni di contadine col cerchio d’oro intorno alla fronte; e vedevamo da tutte le parti della campagna scorrere delle barche a vela, che, essendo i canali nascosti dalle dighe verdi, pareva che scivolassero sull’erba dei prati.

Arrivato alla mia mèta, discesi, stetti a veder partire il piroscafo, e poi solo soletto presi la via di Broek, fiancheggiata a sinistra da un canale e a destra da una siepe. Dovevo fare un’ora di cammino. La campagna era verde, rigata da mille canali, sparsa di gruppi d’alberi e di mulini a vento, e silenziosa come una steppa. Bellissime vacche bianche e nere erravano o riposavano sulla sponda dei canali, non custodite da alcuno; stormi d’anitre e d’oche bianche come cigni sguazzavano nei bacini; e qualche barchetta scorreva qua e là sui canali tra prato e prato, condotta a remi da un contadino. Quella vasta pianura animata di codesta vita lenta e muta, m’ispirava un sentimento di pace così soave, che la più dolce musica m’avrebbe turbato come uno strepito importuno.

Dopo una mezz’ora di cammino, benchè di Broek non apparisse ancora che la punta del campanile, cominciai a vedere qualche cosa qua e là che annunziava la vicinanza del villaggio. La strada correva sopra una diga, e sul fianco di questa diga vi erano alcune case. Una di queste, una catapecchia di legno, che arrivava appena col tetto all’altezza della strada, rozza, sconquassata, sbilenca, da far credere che fosse un covile piuttosto che una casa, aveva un finestrino con la sua brava tendina bianca annodata da un lato con un nastro azzurro, la quale lasciava vedere a traverso i vetri un tavolinetto coperto di tazze, di bicchieri, di fiori, di gingilli luccicanti come oggetti di vetrina. Appena oltrepassata quella casa, vedo due pali piantati in terra a sostegno d’una siepe, tutti e due tinti di colore azzurro e strisciati di bianco come le antenne da orifiamme che si rizzano per le feste pubbliche. Un po’ più oltre trovo un’altra casupola di contadini, dinanzi alla quale sono esposti secchiolini, panche, rastrelli, pale, zappe, ogni cosa colorita di rosso, d’azzurro, di bianco, di giallo, e strisciata ed orlata di altri colori, come gli attrezzi dei saltimbanchi. Vado innanzi, e vedo altre case rustiche colle finestre ornate di trine, di nastrini, di reticelle di ferro, di specchietti mobili, di gingilli appesi; colle tegole variopinte, colle porte inverniciate. Via via che procedo, cresce la vivezza e la varietà dei colori, la pulizia, la lucentezza, la pompa. Vedo tendine ricamate e nastri color di rosa alle finestre dei mulini; carri e arnesi d’agricoltura con le lamine, i cerchi e i chiodi risplendenti come l’argento; case di legno inverniciate; chiudende e stecconati rossi e bianchi; finestre coi vetri orlati di due o tre striscie di varii colori; e infine la più strana di tutte le stranezze: alberi col tronco tinto di color cilestrino dal piede fino al nodo dei rami!

Ridendo tra me di queste bizzarrie, arrivo a un ampio bacino, circondato d’alberi fitti e frondosi, di là dai quali, sulla sponda opposta, spunta un campanile. Guardo intorno: non c’è che un bambino sdraiato sull’erba. Gli domando:—Broek?—Si mette a ridere, e risponde:—Broek.—Allora guardo meglio e vedo brillare in mezzo al verde degli alberi dei colori così ciarlataneschi, così impertinenti, così arrabbiati, che mi sfugge un’esclamazione di stupore.

Giro intorno al bacino, passo sur un piccolo ponte di legno bianco come la neve, infilo una stradina, guardo.... Broek! Broek! Broek! Lo riconosco, non ci può esser dubbio, non può esser altro che Broek!

Immaginate un presepio fatto con casette di carta-pesta da un ragazzo di otto anni, una città fabbricata nella vetrina d’una bottega di giocattoli di Norimberga, un villaggio costrutto da un coreografo sul disegno d’un ventaglio chinese, una riunione di baracche di saltimbanchi arricchiti, un gruppo di villette fatte per servir da teatro di burattini, una fantasia d’un orientale ubriaco d’oppio, un qualche cosa che faccia pensare nello stesso tempo al Giappone, all’India, alla Tartaria, alla Svizzera, allo stile plateresco e al rococò Pompadour, e a quello degli edifici inzuccherati che mettono in mostra i confettieri; una mescolanza di barbaro, di gentile, di presuntuoso, di lezioso, d’ingenuo, di sciocco, che nello stesso punto offenda il buon gusto, provochi le risa e innamori; immaginate insomma la più puerile stravaganza a cui si possa dare il nome di villaggio, e avrete una lontana immagine di Broek.

Tutte le case sono circondate da un giardinetto, separato dalla strada da uno stecconato color cilestrino, della forma d’una balaustrata o d’una ringhiera, con pomi, mele o aranci di legno sulla punta degli stecconi. Le strade fiancheggiate da questi stecconati, sono strettissime e formate di piccoli mattoni di vario colore, messi di costa, e combinati in ogni sorta di disegni, in modo che da lontano le strade paiono coperte di scialli turchi. Le case, la maggior parte di legno, tutte col solo piano terreno, e piccolissime, sono color di rosa, color nero, colore cenerino, colore di porpora, colore azzurro chiaro, colore d’erba montanina; hanno il tetto coperto di coppi inverniciati e disposti a scacchiera; le gronde ornate d’una specie di festone di legno traforato come una trina; le facciate a punta, con una banderuolina sulla cima, o una piccola lancia, o qualcosa che somiglia un mazzo di fiori; le finestre coi vetri rossi o azzurri, ornate di tendine, di ricami, di nastri, di reticelle, di frange, di nappe, di ninnoli; le porte dipinte e dorate, e sormontate d’ogni sorta di bassorilievi che rappresentano fiori, figurine e trofei, in mezzo ai quali si legge il nome e la professione del proprietario. Quasi tutte le case hanno due porte: una davanti e una di dietro; questa per l’entrata e l’uscita di tutti giorni; l’altra che si apre soltanto nelle occasioni solenni della vita, come nascite, morti, matrimoni.

I giardini non sono meno strani delle case. Paiono fatti per i nani. I viali sono appena tanto larghi da poterci mettere i piedi, le aiuole si cingono colle braccia, i capanni contengono a stento due personcine rannicchiate, le siepi di mortella non arrivano ai ginocchi d’un bambino di quattr’anni. Fra questi capanni e queste aiuole vi sono dei canaletti che paion fatti per metterci delle barche di carta, sui quali s’incurvano dei ponti di legno, puerilmente superflui, con colonnine e spallette colorite; bacini grandi come una tinozza da bagno riempiti da una barchetta lilliputtiana, legata con un cordoncino rosso a un palo color celeste; piccoli scali, piccoli orti, piccoli crocicchi, pergolatelli, porticciuole, cancellatine, tutte cose che si possono misurare con una mano, superare con un salto e buttar all’aria con un pugno. Intorno alle case e ai giardini s’innalzano alberi tagliati in forma di ventagli, di pennacchi, di dischi, di trapezi, coi tronchi coloriti di bianco e d’azzurrino, e qua e là casette di legno per gli animali domestici, variopinte, dorate e scolpite come piccole reggie da marionette.

Data un’occhiata alle prime case e ai primi giardini, m’inoltrai nel villaggio. Non c’era anima viva nè per le strade nè alle finestre. Tutte le porte eran chiuse, tutte le tendine calate, tutti i canali deserti, tutte le barchette immobili. Il villaggio è costruito in maniera che in nessun punto si vedono più di quattro o cinque case; e via via che si va innanzi, una si nasconde, un’altra fa capolino, una terza balza fuori tutta intera; e da tutte le parti, in mezzo ai tronchi degli alberi, appariscono e spariscono striscie e tocchi di colori vivissimi, come di una frotta di maschere sparpagliate che facciano a rimpiattíno. A ogni passo si scopre un nuovo piccolo prospetto da palcoscenico, una nuova combinazione strana di colori, un nuovo capriccio, una nuova ridicolaggine. Par che da un momento all’altro debba uscire da tutte quelle porte un popoletto d’automi coi piatti turchi e i tamburelli fra le mani, come quei che si muovono sugli organetti. Con cinquanta passi si gira intorno a una casa, si passa un ponte, si attraversa un giardino, si percorre una strada e si ritorna nel luogo di prima. Un bambino vi pare un uomo e un uomo vi pare un gigante. Tutto è piccino, compassato, leccato, tinto, contraffatto, snaturato, fanciullesco. Sulle prime vi vien da ridere; poi vi piglia la stizza pensando che gli abitanti di quel villaggio crederanno che voi lo troviate bello; quella caricatura vi riesce odiosa; dareste di scimunito a tutti i padroni di casa; vorreste persuaderli che il loro famoso Broek è un insulto all’arte e alla natura, e ch’essi non hanno nè buon gusto nè buon senso. Ma quando vi siete ben sfogati a invettive, tornate a ridere, e il riso finisce per prevalere.

Dopo aver girato un po’ senza incontrare nes suno, mi venne il desiderio di veder l’interno di una casa. Mentre guardavo qua e là in cerca d’un’anima ospitale, m’intesi chiamare:— Monsieur —e voltatomi, vidi una donna sur un uscio, la quale mi domandò timidamente:— Foulez fous foir une maison particulière? —Accettai; la donna lasciò gli zoccoli sulla soglia, come si usa in tutte le case di quei paesi, e mi condusse dentro. Era una povera vedova, come mi disse appena fummo entrati, e non aveva che una stanza; ma che stanza! Il pavimento era coperto di stuoie pulitissime; i mobili erano luccicanti come l’ebano; le maniglie del cassettone, la linguetta del baule, i rilievi d’un piccolo stipo, le bullette delle seggiole, persino i chiodi piantati nel muro, parevano d’argento. Il camino era un vero tempietto, tutto rivestito di lastrine di maiolica colorite e nitide come se non avessero mai visto il fumo. Sur un tavolino c’era un calamaio di rame, una penna di ferro e qualche gingillo, che avrebbero richiamato l’attenzione nella vetrina d’un orefice. Da qualunque parte volgessi gli occhi, scintillava qualche cosa. Non vedendo il letto, domandai alla buona donna dove dormisse. Per tutta risposta s’avvicinò a una parete ed aperse i due battenti nascosti dalla tappezzeria. Il letto (come in quella casa, in tutte le altre) è chiuso in una specie di armadio a muro, e consiste in un materasso e in un pagliericcio distesi sopra la parte inferiore del muro medesimo, senz’assi e senza cavalletti; letto che sarà comodo d’inverno, ma che dev’essere un affogatoio d’estate. Mi fece vedere gli arnesi coi quali faceva la pulizia. C’era da farne una bottega: scope, scopette, spazzolini da denti, strofinacci, raschiatoi, rastrellini, scovoli, frugoni, pelli, mazzetti di piume, acqua-forte, bianco di Spagna pei vetri, rosso di Venezia per le posate, polvere di carbone per i rami, smeriglio per i ferri, mattone inglese per i pavimenti, e persino stecchini per cavar le pagliuzze microscopiche dalle commessure dei mattoni.

Mi diede notizie curiosissime intorno al furore di pulizia per cui il villaggio di Broek è famoso in Olanda. Non è lungo tempo che all’entrata del villaggio si leggeva un’iscrizione concepita in questi termini:— Prima o dopo il tramonto del sole nessuno può fumare nel villaggio di Broek, se non con una pipa munita di coperchio (perchè non si spanda la cenere), e quando si attraversa il villaggio con un cavallo, è proibito di stare in sella, e bisogna condurlo a piedi. Era pure proibito di attraversare il villaggio in carrozza, o con pecore o vacche, o qualunque altro animale che potesse insudiciare le strade; e benchè non sussista più questa proibizione, i carri e gli animali girano ancora intorno a Broek, per effetto dell’usanza antica. Dinanzi a tutte le case c’erano, e se ne vede ancora qualcuna, delle sputacchiere di pietra, nelle quali sputavano i fumatori dalle finestre. L’uso di stare in casa coi piedi scalzi è ancora in pieno vigore, così che dinanzi a tutte le porte si vedono scarpe, stivaletti e zoccoli ammonticchiati. È una fiaba quello che si racconta di sommosse popolari accadute a Broek contro stranieri che sparsero per la strada dei noccioli di ciliegia; ma è vero che ogni cittadino il quale veda cadere una foglia o una festuca portata dal vento dinanzi alla sua casa, la va a raccattare e la butta nel canale. Che poi si vadano a spolverare le scarpe a cinquecento passi fuor del villaggio, che ci sian dei ragazzi pagati per soffiare quattro volte all’ora fra i mattoni della strada, e che in certe case si portino gli ospiti a braccia perchè non insudicino il pavimento, son cose che si raccontano,—mi disse quella buona donna,—ma che probabilmente non si fecero mai. Però prima di lasciarmi uscire, mi raccontò un aneddoto che, se fosse vero, farebbe quasi credere possibili quelle stravaganze.—Nei tempi andati,—mi disse,—la manía della pulizia era arrivata a tal segno, che le donne di Broek trascuravano, per strofinare e lavare, persino i loro doveri religiosi. Il Pastore del villaggio, dopo aver tentato inutilmente tutte le vie della persuasione per far cessare quello scandalo, prese un altro partito. Fece una gran predica nella quale disse che ogni donna olandese la quale avesse compiuto fedelmente i suoi doveri verso Dio nella vita terrena, avrebbe trovato nel mondo di là una casa piena zeppa di mobili, d’utensili e di gingilli svariatissimi e preziosissimi, nella quale, non distratta da altre occupazioni, avrebbe potuto spazzolare, insaponare e lustrare per tutta l’eternità, senza mai poter dire d’aver finito. L’immagine di questa su blime ricompensa, il pensiero di questa immensa felicità infuse tanto ardore e tanta pietà nelle donne di Broek, che d’allora in poi furono sempre assidue agli esercizi religiosi, e non ebbero mai più bisogno di eccitamento.—

Eppure, nè questo furore di pulizia, nè la bizzarria architettonica che ho descritta, sono la cagione della semi-seria celebrità del villaggio di Broek. Questa celebrità derivò da una stravaganza di forme e di consuetudini, appetto alla quale ciò che ora si vede non è più nulla. Il Broek d’oggigiorno non è più che una larva del Broek antico. A persuadersene, basta visitare una casa posta all’entrata del villaggio, e aperta agli stranieri, la quale è un modello completo delle antiche case, e vien conservata accuratamente dal proprietario come un monumento storico delle follie trascorse. L’esterno della casa non è diverso dalle altre: una baracca da burattini. Il maraviglioso sono le stanze e il giardino. Le stanze, piccolissime, sono tanti bazar, ciascuno dei quali richiederebbe un volume di descrizioni. La manía olandese di ammontare oggetti su oggetti, e di cercar la bellezza e l’eleganza nell’eccesso degli ornamenti più disparati, là si vede spinta sino al superlativo grado del ridicolo. Vi sono figurine di porcellana sugli armadi, tazze e zuccheriere chinesi sopra e sotto le tavole, piatti appesi alle pareti dal soffitto fino al pavimento, orologi, ovi di struzzo, barchette, bastimenti, conchiglie, vasi, piattini, calici, ficcati in tutti gl’interstizi e nascosti in tutti i buchi; qua dri che presentano figure diverse, secondo da che parte si guardano; armadi pieni di centinaia di ninnoli; ornamenti senza nome, decorazioni senza senso, un ingombro, un lucicchío, una dissonanza di colori, un cattivo gusto così innocentemente spietato, che è un piacere e un dispetto a vedersi. Ma tutte queste stravaganze sono di gran lunga superate dal giardino. Qui si vedono ponti messi per mostra sopra rigagnoli larghi un palmo, grotte e cascatelle da presepio, chiesette rustiche, templi greci, chioschi chinesi, pagodi indiani, statue dipinte, piccoli fantocci colle mani e i piedi dorati che balzano fuori dai panieri di fiori, automi di grandezza naturale che fumano e che filano, armadi che s’aprono al tocco d’un ordigno, e lascian vedere una comitiva di burattini seduti a tavola, bacinetti dove nuotano cigni e oche di zinco, aiuole coperte di un mosaico di conchiglie, con un bel vaso di porcellana nel mezzo; alberi che rappresentano figure umane, cespugli di bosso tagliati in forma di campanili, di chiesuole, di navi, di chimere, di pavoni che fan la ruota e di bambini che allargan le braccia; sentieri, capanni, siepi, fiori, piante, tutto scontorto, manierato, tormentato, imbastardito, stravolto. E così erano nei tempi andati tutte le case e tutti i giardini di Broek.

Ma ora non solamente l’aspetto del villaggio, anche la popolazione è in gran parte mutata. Broek era chiamato altre volte il villaggio dei milionarii, perchè quasi tutti i suoi abitanti erano negozianti ricchissimi, che si raccoglievan là per amore della solitudine e della pace. A poco a poco, la noia, il ridicolo di cui furon fatti segno le loro case ed essi stessi, l’importunità dei viaggiatori, il desiderio di luoghi più ameni, snidò da Broek quasi tutte le famiglie ricche, e le poche rimaste, cessando la gara che aveva prodotte tante fanciullesche meraviglie, non pensarono più a crearne delle nuove, e lasciarono perdere o sparire le vecchie. Ora Broek ha circa un migliaio d’abitanti, dei quali la maggior parte fanno formaggi, e gli altri son bottegai, fattori e artefici che vivon di rendita.

Malgrado che sia decaduto, Broek è ancora visitato da quasi tutti gli stranieri che vanno in Olanda. In una stanza della casa che ho descritta, v’è un enorme libro che contiene parecchie migliaia di, biglietti di visita e di firme manoscritte di gente d’ogni paese. Io l’ho scorso tutto. Il maggior numero di visitatori sono inglesi e americani; il minimo italiani, e questi quasi tutti nobili delle provincie meridionali. Fra i molti nomi illustri vidi quello di Victor Hugo, di Walter Scott, del Gambetta e del commediografo Emilio Augier. Fra i ricordi, v’è un calcafogli che l’Imperatore e l’Imperatrice di Russia regalarono a un cittadino di Broek in segno di gratitudine per l’ospitalità ch’egli concesse nel 1864 al granduca Nicola di Alexandrovitch.

A proposito di visitatori illustri, anche l’Imperatore Alessandro di Russia e Napoleone il Grande furono a Broek. La tradizione locale dice che così l’uno che l’altro avendo voluto vedere l’interno d’una casa, dovettero, prima d’entrare, infilarsi certe grosse calze di lana che porse loro la serva, perchè non insudiciassero i pavimenti cogli stivali. Non oserei affermare che questo sia vero; ma so, per averlo letto in certe Memorie del viaggio di Napoleone in Olanda, che a Broek egli s’indispettì nel vedere le strade deserte, e la gente tappata in casa che lo guardava di dietro i vetri coll’aria di sorvegliare che non insudiciasse le cancellate dei giardini. Anche l’imperatore Giuseppe II fece una visita a Broek; ma, per quello che si narra, non avendo portato con sè delle lettere di raccomandazione, non potè entrare in nessuna casa. Un aiutante di campo insistendo presso un padrone di casa, perchè lasciasse entrare la Maestà Sua:—Io non conosco il vostro Imperatore,—quegli rispose;—e fosse anche il borgomastro d’Amsterdam in persona, non ricevo chi non conosco.—

Quand’ebbi visitato la casa e il giardino antico, entrai in un piccolo caffè dove una ragazza senza scarpe, inteso alla prima il mio linguaggio da sordomuto, mi portò una mezza forma di buon formaggio di Edam, delle uova e del burro, ogni cosa posto sotto un coperchio di maiolica, protetto da una reticella di fil di ferro, e nascosto da una bianchissima tovaglietta ricamata; e poi scortato da un ragazzo che mi parlava a gesti, andai a vedere una fattoria. Molta gente, tra noi, che porta cappello a staio ed orologio d’oro, non ha un appartamento pulito ed ornato come quello in cui si pavoneggiano le vacche di Broek. Prima d’entrare bisogna pulirsi le scarpe a una stuoia distesa davanti alla porta, e se non lo fate, vi pregano di farlo. Il pavimento delle stalle è di mattoni di vario colore, nitidi da poterci passare sopra la mano; le pareti son rivestite di legno di abete; le finestre sono ornate di tende di mossolina e di vasi di fiori; le mangiatoie son dipinte; le vacche sono strigliate, pettinate, lavate, e perchè non s’insudicino hanno la coda tenuta su da un cordoncino legato a un chiodo del soffitto; un rigagnolo che attraversa la stalla, porta via continuamente le immondizie; fuor che tra i piedi delle bestie, non si vede un fuscello, nè una macchia; e l’aria è così purgata, che a occhi chiusi si crederebbe di essere in un salotto. Le camere dei contadini, le stanze dove si fa il formaggio, i cortili, i bugigattoli, tutto è netto e luccicante ad un modo.

Prima di partire per Amsterdam feci ancora un giro per il villaggio badando a nascondere il sigaro quando qualche donna dal diadema d’oro mi guardava dalla finestra; passai su due o tre ponti bianchi, toccai col piede qualche barchetta, mi trattenni un po’ dinanzi alle casine più variopinte; e poi, non vedendo comparire anima viva nè per le strade nè dentro ai giardini, ripresi la mia via solitaria in groppa al cavallo di san Francesco, con quel sentimento di tristezza che lascian nel cuore tutte le grandi curiosità soddisfatte.

ZAANDAM.

La maggior parte degli stranieri, dopo aver visitato il villaggio di Broek e la città di Zaandam, partono per la Frisia o se ne ritornano all’Aja colla persuasione d’aver visto l’Olanda. Io volli invece spingermi sino all’estremità della Nord-Olanda, pensando che in questa provincia posta fuor di mano, non abitata da stranieri, non percorsa da viaggiatori, avrei veduto costumi, usi ed aspetti antichi più schiettamente conservati che nelle altre. Il pericolo di non esser capito, di capitare in cattivi alberghi, di trovarmi solo, impicciato e malinconico in piccole città delle quali non c’è nemmeno la pianta nelle Guide, e che i viaggiatori più pazienti non fanno che attraversare di volo; non mi distolse dal mio proposito. Una bella mattina del mese d’agosto, il diavolo dei viaggi, il più prepotente di tutti i diavoli che invasano l’anima umana, trasportò me e la mia valigia in un piroscafo che partiva per Zaandam; m’imbarcò lo stesso giorno per Alkmaar, la metropoli dei formaggi, e mi diede la stessa sera un biglietto di seconda classe per Helder, la Gibilterra del nord.

Zaandam, vista dal golfo dell’Y, presenta l’aspetto d’una fortezza coronata di torri innumerevoli, dall’alto delle quali i cittadini chiedano soccorso, con segnali affrettati, a un esercito lontano. Son centinaia di mulini altissimi che si alzano fra le case, sulle dighe, lungo la spiaggia, per tutta la campagna circostante alla città; una parte dei quali lavorano al prosciugamento delle terre, altri a far l’olio di colza, che è una delle più importanti materie di commercio di Zaandam; altri a ridurre in polvere una specie di tufo vulcanico portato dal Reno, che serve a comporre un cemento particolare per le opere idrauliche; altri a segar legna, a mondar orzo, a macinar colori, a fabbricar carta, mostarda, smalto, corde, amido, paste. La città non si vede che pochi minuti prima d’entrare nel porto.

È una vera veduta da scenario di ballo pastorale.

La città è fabbricata lungo le due rive d’un fiume, chiamato Zaan, che si versa nell’Y, e intorno a un piccolo seno formato dall’Y medesimo, che le serve di porto. Le due parti eguali in cui rimane divisa la città, sono congiunte da un ponte, che s’alza per dar passo ai bastimenti. Intorno al porto non ci sono che poche strade e poche case; la parte principale di Zaandam si stende lungo le rive dello Zaan.

Il piroscafo s’avvicinò fino a toccar la riva: scesi, mi liberai da un drappello di ciceroni, e in pochi minuti percorsi le strade principali.

Zaandam è un grande Broek, meno puerile e più bello del Broek piccino.

Le case sono di legno, d’un solo piano, colla facciata a punta, e quasi tutte colorite di verde. Vi sono strade intere, nelle quali non si vede altro colore, che paiono strade d’una città fatta di bosso e di mortella. Come a Broek, i coppi dei tetti sono inverniciati, le finestre ornate di tendine e di fiori, le strade ammattonate e pulite come il pavimento d’una sala. Nei vetri, nelle lastre d’ottone delle porte, negli oggetti esposti sui davanzali, da qualunque parte si guardi, si vede riflessa la propria immagine. Tutta la città spira un’aria d’allegria, di freschezza e d’innocenza, che innamora. È una città ricca e popolosa, e sembra un piccolo villaggio. Ha tutti i tratti propri delle città olandesi, ed insieme un non so che aspetto nuovo ed esotico, che la fa parere immensamente lontana da tutte le altre.

Essendo giorno di festa, le strade principali eran piene di gente che andava o tornava di chiesa. La prima cosa che mi colpì fu l’acconciatura del capo delle donne. Portano, sotto un cappello coperto di fiori, una specie di cuffia di trina, che scende fin sulle spalle, dalla quale escono di qua e di là dalla fronte due nodi di capelli arricciolati e stretti che paion ciocche di chicchi d’uva. Il cerchio d’oro o d’argento, che stringe la testa, e luccica attraverso la trina di codesta cuffia, termina sulle tempie in due lastrine quadrate dello stesso metallo, rivolte verso chi guarda, con una rosetta nel mezzo. Un’altra lastrina dorata e cesellata, una sorta di nastro metallico, legato, non so come, al cerchio, attraversa obliquamente la fronte e scende quasi fino a toccare la tempia opposta, o l’occhio, o l’intracciglio, in modo che pare un pezzo del cerchio stesso, rotto e lasciato spenzolare per negligenza o per vezzo. Due grossi spilloni confitti verticalmente all’estremità del cerchio s’alzano come due corna sopra le due ciocche di riccioli. Altri orecchini lunghissimi ciondolano alle orecchie, il collo è ornato di più giri di collane, il seno di borchie, di fermagli, di catenelle, da riempirne una vetrina di gioielliere. Tutte le donne, con leggiere differenze, sono ornate così; e son tutte bianche, rosee e vestite col medesimo cattivo gusto, in modo che uno straniero non distingue alla prima la contadina dalla signora. Non si può dir certo che quell’acconciatura del capo e quella sovrabbondanza d’ornamenti sia bella ed elegante; ma pure quei visi bianchi, in mezzo a quella trina e a quell’oro, quel misto di principesco e di campagnuolo, di opulento e di rozzo, di pomposo e d’ingenuo, ha una grazia tutta sua, che s’accorda mirabilmente coll’aria, se così può dirsi, della città, e che finisce per piacere. Anche le bambine hanno il loro diadema e le loro trine: gli uomini sono la maggior parte vestiti di nero. Bambine, poi, uomini, ragazze, donne, giovani, vecchi, hanno tutti un aspetto di gente contenta, un non so che di primitivo, di verginale, di nuovo, che fa quasi parer strano che siano europei del tempo nostro; che fa pensare di essere in un altro continente e in un’altra civiltà; di trovarsi in un paese dove la ricchezza fiorisca senza fatica, la vita scorra senza passioni, la società si regga e si muova senz’attriti e senza scosse, e nessuno desideri altro bene che la pace. E se mentre si pensa a questo, l’orologio del campanile più vicino canta colle sue note argentine una vecchia canzone nazionale, allora l’illusione è intera, e si vorrebbe condurre a Zaandam la famiglia e gli amici, e finire in una di quelle casette verdi i nostri giorni tranquilli.

Ma se tutta questa beatitudine non è che illusione, è un fatto però che Zaandam è una delle più agiate città dell’Olanda, che in molte di quelle casette verdi stanno dei costruttori di navi millionarii, e che non c’è famiglia senza pane, nè ragazzo senza maestro.

Oltre a questo, Zaandam possiede quello che Napoleone I disse: «il più bel monumento dell’Olanda» cioè la capanna di Pietro il Grande, in onore del quale la città fu per un tempo ed è ancora chiamata da molti Czardam o Saardam. Una squadra di ciceroni sussurra il nome di questa capanna famosa nell’orecchio a tutti gli stranieri che arrivano a Zaandam, e si può dire ch’essa è lo scopo unico di tutti coloro che vanno a visitare questa città.

Quando e perchè il grande Imperatore sia andato a stare in quella capanna, è noto a tutti. Dopo aver vinto i Tartari e i Turchi, ed essere entrato trion falmente in Mosca, il giovane czar volle fare un viaggio nei principali Stati d’Europa per studiare le arti e le industrie. Accompagnato da tre ambasciatori, quattro segretarii, dodici gentiluomini, cinquanta guardie ed un nano, partì nell’aprile del 1697 dai suoi Stati, attraversò la Livonia, passò per la Prussia brandeburghese, per la Pomerania, per Berlino, la Vestfalia, e arrivò ad Amsterdam, quindici giorni prima del suo seguito. In questa città, sconosciuto a tutti, passò qualche tempo negli arsenali dell’ammiragliato; e quindi per imparare coi propri occhi e colle proprie mani l’arte della costruzione delle navi, nella quale gli Olandesi, in quel tempo, primeggiavano, si vestì da marinaio, e si recò a Zaandam dov’erano i più famosi arsenali. Qui entrò col nome di Pietro Michaeloff, nell’arsenale di un certo Mynheer Calf, si fece iscrivere nel numero degli operai, lavorò da falegname, da ferraio, da cordaio, e per tutto il tempo che rimase a Zaandam, andò vestito e si nutrì come i suoi compagni di lavoro e dormì com’essi, in una casetta di legno, che è quella che si vede oggigiorno. Quanto tempo sia stato in quella città, non si sa di certo. V’è chi dice che ci sia stato qualche mese, v’è chi crede con maggior ragione, che seccato della curiosità degli abitanti, non ci sia stato che una settimana. Certo è che, ritornato in Amsterdam dopo breve tempo, terminò colle sue mani, nell’arsenale della Compagnia delle Indie, un vascello da sessanta cannoni; che studiò matematica, fisica, geografia, anatomia, pittura, e che lasciò quella città nel gennaio del 1698, per andare a Londra.

La famosa capanna si trova a un’estremità di Zaandam, in vista dell’aperta campagna; ed è come incassata in un piccolo edifizio in muratura che la regina d’Olanda, Anna Paulowna, russa di nascita, fece costruire per difenderla dalle intemperie. È una vera casupola da pescatori, di legno, composta di due piccole stanze, e talmente sconnessa e sbilenca, che se non fosse puntellata dall’edifizio che la circonda, un soffio di vento la butterebbe a terra. In una stanza vi sono tre rozze scranne, una larga tavola, un letto ad armadio ed un grande cammino dell’antica forma fiamminga. Nella seconda stanza vi sono due grandi ritratti: uno di Pietro il Grande vestito da operaio, e l’altro dell’imperatrice Carolina. Sul soffitto sono stese delle bandiere russe e delle bandiere olandesi. La tavola, le pareti, le imposte, le porte, le travi sono coperte di nomi, di versi, di sentenze, d’iscrizioni di tutte le lingue del mondo. V’è una lastra di marmo su cui è scritto:— Petro magno Alexander,—fatta porre dall’imperatore Alessandro di Russia, in memoria della sua visita del 1814. Un’altra lapide ricorda la visita fatta dal principe ereditario, ora czar, nel 1839, e c’è sotto una strofa d’un poeta russo che dice:—Sopra quest’umile abituro aleggiano gli angeli santi. Isarevitch! inchínati. Qui è la culla del tuo impero, qui nacque la grandezza della Russia.—Altre lapidi rammentano visite di re e di principi, e colle lapidi altre poesie e soprattutto iscrizioni russe che esprimono l’entusiasmo e la gioia di gente arrivata alla mèta d’un sacro pellegrinaggio. Una di queste iscrizioni ricorda che da quella catapecchia il falegname Pietro Michaeloff dirigeva le mosse dell’esercito moscovita, che combatteva contro i Turchi in Ucrania.

Uscendo di là, pensavo che se il giorno più glorioso della vita di Pietro il Grande fu quello in cui s’addormentò sotto quella capanna dopo aver lavorato per la prima volta colle proprie braccia, così il più felice doveva essere stato quell’altro in cui, dopo diciotto anni egli ci ritornava, nel colmo della sua potenza e della sua gloria, per mostrare a Caterina il luogo dove facendo l’operaio aveva imparato a far l’imperatore. Gli abitanti di Zaandam ricordano quel giorno con orgoglio, e ne parlano come d’un avvenimento di cui sian stati testimoni. La czarina era rimasta a Vesel per partorire; lo czar arrivò a Zaandam solo. Ognuno può immaginare con che gioia e che alterezza l’abbiano ricevuto quei negozianti, quei marinai, quei falegnami, che l’avevano avuto compagno diciotto anni prima. Per il mondo egli era il vincitore di Pultava, il fondatore di Pietroburgo, l’incivilitore della Russia; ma per loro era Peterbas, mastro Pietro, come lo chiamavano famigliarmente quando lavoravano insieme; era un figliuolo di Zaandam divenuto imperatore; era un vecchio amico che tornava in mezzo agli amici. Dieci giorni dopo il parto arrivò la czarina e visitò anch’essa la capanna. Imperatore e Im peratrice, senza seguito, senza pompa, andarono a desinare in casa di Mynheer Calf, il costruttore di bastimenti che aveva ricevuto nel suo arsenale il giovane operaio coronato; il popolo li accompagnò gridando:—Viva mastro Pietro!—e mastro Pietro, lo sterminatore dei boiardi e degli strelizzi, il condannatore di suo figlio, il principe formidabile, pianse.

Per andare ad Alkmaar m’imbarcai sopra un piroscafo che doveva rimontare lo Zaan fino al canale del Nord, e così vidi l’Oost Zaandam e la West-Zaandam,—ossia tutta la parte della città che si stende per quasi tre miglia lungo le due rive del fiume.

È uno spettacolo che rivende Broek cento volte.

Ognuno si ricorda dei primi paesaggi che si dipingono da ragazzi, quando il padre o lo zio ci regala una scatola di colori sospirata da molto tempo. Per il solito si vuol dipingere un luogo delizioso, come quei che si sognano a scuola, sonnecchiando alle ultime lezioni di latino, sulla fine del mese di giugno. Per render questo luogo veramente delizioso, ci sforziamo di fare entrare in un piccolo spazio una villetta, un giardino, un lago, un bosco, un prato, un orto, un fiume, un ponte, una grotta, una cascata d’acqua, tutto ben vicino, ben stretto e ben pigiato; e perchè non sfugga assolutamente nulla all’occhio di chi guarda, si dipinge ogni cosa coi colori più vivi della scatola e si fanno dei bei contorni vistosi; e quando s’è finito, colti dal timore di non aver approfittato di tutto lo spazio, si ficca ancora una casetta qui, un albero là, una capanna in fondo; finchè non essendo più possibile di farci entrare un filo d’erba, nè una pietra, nè un fiore, si smette il pennello soddisfatti dell’opera propria, e si corre a far vedere il quadro alla fantesca, la quale giunge le mani in atto di meraviglia, ed esclama che è un vero paradiso terrestre. Ebbene, Zaandam, vista dal fiume, è tale quale uno di codesti paesaggi.

Sono tutte casette verdi, coi tetti coperti di coppi rossissimi, sui quali s’innalzano dei chioschi pure verdi, sormontati da banderuole variopinte o da palle di legno di diverso colore infilate in un’asta di ferro; torricciuole coronate di balaustrate e di padiglioni; edifizii della forma di tempietti e di villini; baracche e bicocche di una struttura non mai vista, capricciosamente sovrapposte, e strette le une contro le altre, che par che si disputino lo spazio; un’architettura di ripiego, tutta vanità e tutta apparenza. In mezzo a questi edifizii, stradine per cui passa appena una persona, piazzette anguste come stanze, cortili poco più grandi di una tavola, canali dove non può scorrere che un’anitra; e sul davanti, tra le case e la riva del fiume, dei giardinetti da ragazzi, pieni di capanni, di casette per le galline, di pergolati, di cancellate, di mulini a vento da trastullo e di salici piangenti; e dinanzi a questi giardini, sulla riva del fiume, dei piccoli porti pieni di piccole barche verdi legate a piccole palafitte ancora più verdi. In mezzo a questo guazzabuglio di giardini e di baracche, s’alzano da tutte le parti mulini a vento di grande altezza, coloriti pure di verde e listati di bianco, o bianchi e listati di verde, con le braccia dipinte come aste di bandiere e la rotella dell’asse dorata e ornata di girandole multicolori; campanili verdi e inverniciati dal piede fino alla punta; chiesuole che paion teatri da fiera, scaccheggiate e orlate di tutte le tinte dell’arcobaleno. Ma questo è anche più strano: che gli edifizi, già piccini all’entrata del fiume, vanno scemando di grandezza via via che si procede, come se la popolazione fosse distribuita per ordine di statura, tanto che verso la fine non son più che casotti da sentinelle, stie, topaie, scatole, nascondigli, che paiono sporgenze d’una città sotterrata; un’architettura minuscola che è lì a dieci passi, e fa l’effetto di essere molto lontana; un tritume di città, un vero alveare umano, dove i bambini paiono colossi, e i gatti saltano dalla strada sui tetti; e là ancora ci son giardini occupati interamente da un sedile, chioschi capaci d’una persona sola, padiglioni grandi come ombrelli, e salici piangenti, e piccoli scali, e piccolissimi mulini a vento, e banderuole e fiori e colori.

Ma son proprio uomini che han fatto tutto codesto?—uno si domanda dinanzi a questo spettacolo.—E questa è una città davvero? E ci sarà ancora l’anno venturo? O non è stata fabbricata per una festa, e la settimana prossima sarà tutta scomposta e accatastata dentro il magazzino di un decoratore d’Amsterdam? Ah! burloni d’Olandesi!

ALKMAAR.

Il bastimento, dopo oltrepassata Zaandam, corse ancora per un lungo tratto in mezzo a due file non interrotte di mulini a vento, toccò parecchi villaggi, svoltò nel canale di Marker-Vaart, attraversò il lago di Alkmaar, ed entrò finalmente nel gran canale del Nord. Non riuscirei mai ad esprimere, per quanto mi ci sforzassi, il sentimento di solitudine morale, di lontananza, e direi quasi di smarrimento che provavo io solo in mezzo a una folla di contadine indiademate come regine e immobili come idoli, su quel piroscafo che scorreva colla placidità di una gondola a traverso una pianura sconfinata ed uniforme, sotto quel cielo malinconico. Certi momenti domandavo a me stesso in che maniera mi trovassi là, dove sarei andato a finire, quando sarei tornato; sentivo la nostalgia di Amsterdam e dell’Aja, come se il paese dove passavo fosse tanto lontano dall’Olanda meridionale, quanto l’Olanda meridionale è lontana dall’Italia; facevo il proponimento di non viaggiar mai più solo, e mi pareva di non aver mai più da tornare a casa.

In quel punto mi trovavo proprio nel cuore della Nord-Olanda, di quella piccola penisola bagnata dal Mare del Nord e dal Golfo di Zuiderzee, ch’è quasi tutta più bassa delle acque che la circondano, ch’è difesa da una parte dalle dune e dall’altra da immense dighe, e frastagliata da un’infinità di canali, di laghi e di paludi, che le danno l’aspetto d’una terra per metà sommersa, e destinata a sparire sotto le onde. Per tutto lo spazio che si poteva abbracciare collo sguardo, non si vedeva che qualche gruppo d’alberi, qualche vela di bastimento e qualche mulino.

Il tratto del canale del Nord che il piroscafo percorreva in quel punto, fiancheggia il Beemster, la più grande distesa di terra che siasi prosciugata nel secolo decimosettimo, uno dei quarantatrè laghi che coprivano anticamente la provincia di Alkmaar, e che furono trasformati in bellissime praterie. Questo Beemster, che abbraccia una superficie di settemila ettari, e viene amministrato, come tutti gli altri polders, da un Comitato eletto dai proprietari, il quale fa le spese col provento d’un’imposta ripartita per ettari; è diviso in un gran numero di quadrati cinti da strade ammattonate e da canali, che lo fanno parere un’immensa scacchiera. Il fondo essendo quasi tre metri e mezzo sotto il livello d’Amsterdam, le acque piovane debbono essere continuamente estratte per mezzo di mulini a vento, che le riversano nei canali, i quali alla loro volta le conducono al mare. Ci sono, in tutto il polder, quasi trecento fattorie, che posseggono circa seimila bestie bovine e più di quattrocento cavalli. Non vi si vedono altri alberi che pioppi, olmi e salici, aggruppati intorno alle case, per difenderle dal vento. Tutto è prateria, e come il Beemster, tali sono gli altri polders. I soli oggetti che richiamino l’attenzione su quelle verdi pianure sono le antenne che sorreggono i nidi delle cicogne, e qua e là qualche enorme osso di balena, antico trofeo di pescatori olandesi, piantato ritto nella terra, perchè ci si strofinino le vacche. Tutti i trasporti di derrate da fattoria a fattoria si fanno per mezzo di barche; nelle case si entra per un ponte che si solleva la notte, come il ponte d’una fortezza; gli armenti pascolano senza guardiani; le anitre e i cigni scorrono liberamente per i lunghi canali; ogni cosa spira sicurezza, abbondanza e pace. Son queste infatti le provincie in cui fiorisce in tutta la sua bellezza quella famosa razza bovina, alla quale l’Olanda deve in gran parte la sua ricchezza; quelle vacche enormi e pacifiche, che danno fino a trenta litri di latte al giorno; i discendenti di quei gloriosi animali, che nel medio evo furon condotti a nobilitare le razze in Francia, nel Belgio, nella Germania, nella Svezia, nella Russia; un armento dei quali, se è vera la tradizione, attraversò il continente fino ad Odessa, rifacendo all’indietro, passo a passo, la strada che avean percorsa le grandi invasioni germaniche. Col latte di questi animali si fa quello squisito formaggio chiamato d’Edam, città della Nord-Olanda, alla cui fama è angusto il mondo. Nei giorni di mercato tutte le città di questa provincia riboccano di quelle belle forme rossiccie, ammontate come palle di cannone per le strade e per le piazze, e mostrate allo straniero con un sentimento d’orgoglio nazionale. Alkmaar ne vende in un anno più di quattro milioni di chilogrammi, Horn tre milioni, Purmerende due, Medenblick e Enkhuisen da settecento a ottocento mila, tutta la Nord-Olanda per più di quindici milioni di lire. Tutte queste cose faranno sorridere qualche poeta e qualche signorina; e capisco anch’io che suonerebbero male in un sonetto; ma non sono per questo men belle, men buone e meno invidiabili cose.

Mentre il bastimento s’avvicinava alla città, io andavo solleticando, come sempre, la mia curiosità, col richiamarmi alla memoria quanto sapevo intorno ad Alkmaar; ben lontano, poveretto, dal prevedere in che brutto impiccio mi sarei trovato fra le sue mura. Me la raffiguravo distrutta da Giovanni di Avesnes, conte di Olanda, in castigo delle sue ribellioni. Seguitavo il coraggioso falegname, che attraversa il campo degli Spagnuoli, va a portare al governatore della provincia l’ordine del principe d’Orange di rompere le dighe, e perde poi la risposta del gover natore, la quale trovata e letta da Federico, figliuolo del duca d’Alba, lo induce a levar l’assedio per non morire annegato. Vedevo una frotta di scolari divertirsi a guardar la campagna coperta di neve a traverso le scheggie di ghiaccio applicate al tubo dei calamai, e il buon Mezio intromettersi fra loro, e cavare dal loro gioco la prima idea del canocchiale. Incontravo allo svolto d’una strada il pittore Schoruel, col capo ancora segnato dalle bastonate e dai pugni toccati in rissa nelle taverne d’Utrecht, dove andava a pigliar le cotte con quella buona lana di Giovanni di Mauberge, suo maestro di pittura e di scapestrataggine. E infine m’immaginavo le belle alkmaaresi, che colla loro aria modesta e innocente, ebbero la virtù di sollevare Napoleone il Grande dalla noia di Amsterdam e dal dispetto di Broek. Intanto il piroscafo arrivava ad Alkmaar dove un facchino che sapeva tre sole parole francesi:— Monsieur, hôtel e pourboir, mi toglieva di mano la valigia e mi rimorchiava a un albergo.

A chi abbia visto le altre città dell’Olanda, Alkmaar non offre gran che di straordinario. È una città di forma regolare, con grandi canali e grandi strade, e le solite case rosse colla solita facciata triangolare. Alcune grandi piazze sono interamente lastricate di piccoli mattoni rossicci e gialli, disposti in disegni simmetrici, che da lontano paiono un tappeto; e le strade hanno due marciapiedi, uno di mattoni, per chi passa, e uno un po’ più alto, di pietra, congiunto al muro delle case, sul quale non bisogna mettere il piede, per non essere guardati con occhi di falco dalla gente affacciata alle finestre. Molte case sono imbiancate, non saprei dire perchè, forse per vezzo, soltanto fino a metà; parecchie sono tinte di nero che paiono parate a lutto; altre sono inverniciate come carrozze dal tetto al marciapiede. Le finestre essendo molto basse, si vedono a traverso i tulipani e i giacinti bellissimi che adornano i davanzali, i salotti smaglianti di specchi e di porcellane, e le famiglie raccolte intorno a tavolini coperti di bicchieri di birra, di portaliquori, di biscotti, di scatole di sigari. Per lunghi tratti di strada non s’incontra nessuno; e cosa strana in una città di più di diecimila abitanti, la poca gente, uomini, donne e ragazzi, che passano o che stan sugli usci, salutano cortesemente gli stranieri. Mi passò accanto un drappello di collegiali, condotti da un istitutore; questi fece un cenno, e tutti si levarono il berretto; e sì che io ero tutt’altro che vestito in modo da passare per un pezzo grosso. La città non ha altri monumenti notevoli che la casa municipale, edifizio del secolo decimosettimo, mezzo di stile gotico e mezzo di nessuno stile, che arieggia, in piccino, quello di Bruxelles; e la gran chiesa di San Lorenzo, della stessa epoca, nella quale è la tomba del conte Florenzio V di Olanda, e spenzola sopra il coro, a guisa di lampadario, un fac-simile del vascello-ammiraglio del Ruyter. A oriente della città c’è un folto bosco che serve di passeggio pubblico, dove si fa in occasione di grandi feste la così detta harddraverij, o corsa al gran trotto, col premio genuinamente olandese d’una caffettiera d’argento. Ma non ostante il bel bosco, la chiesa, la casa municipale e i suoi undicimila abitanti, Alkmaar non ha che l’aspetto d’un grande villaggio, e per le sue strade regna un silenzio così profondo, che la musica dei campanili, più selvaggia ancora che nelle altre città, vi si sente da tutte le parti rumorosa e distinta come nella quiete della notte.

Andando dalle strade solitarie verso il centro della città, cominciai a vedere un po’ più di gente, fra cui molte donne, che essendo giorno di festa, erano tutte in oro e in fronzoli, particolarmente le contadine. Per dir la verità, io non so che cosa avesse negli occhi Napoleone il giorno che arrivò ad Alkmaar. Ci sono certo dei bei visetti di monachelle che han l’aria di dire:—Non so nulla di nulla;—e soprattutto delle guancine del più gentile color di rosa che abbia mai diffuso il pudore sul volto d’una vergine; ma l’effetto di queste tenui grazie è spietatamente distrutto dalla scellerata acconciatura del capo e dall’ancor più scellerata foggia del vestire. Oltre i gruppi di riccioli, gli orecchini a paraocchi di cavallo, la lastrina che attraversa la fronte e la cuffia bianca che nasconde le orecchie e la collottola, portano sulla testa, o per dir meglio sul cocuzzolo, un gran cappello di paglia, di forma quasi cilindrica, con una larga tesa rivestita di seta verde o gialla o d’altro colore, monca di dietro, e arrovesciata in alto sul davanti, in modo che tra la tesa stessa e la fronte ci resta un larghissimo vano simigliante a una di quelle boccaccie di mostro che si mettevano altre volte sul capo i soldati chinesi per far paura ai nemici. Oltre a questo, hanno i fianchi spropositatamente rialzati, non so se con gonnelle o con altro, e il busto che grossissimo alla cintura, si va via via stringendo fino alle ascelle, al rovescio delle nostre donne, che si fanno il petto largo e la vita piccina. E come se questo non bastasse, si premono (lo suppongo, perchè non posso credere che la natura sia stata così matrignamente avara con tutte) si premono il seno in maniera, da non lasciar apparire nemmeno una leggerissima curva, come se per esse fosse una mostra invereconda o un difetto ridicolo quello che per le donne degli altri paesi è il più ambito complemento della bellezza. È un gran che se così incappellate, infagottate e schiacciate, paiono ancora donne anche le più gentili d’aspetto; onde si può immaginare che cosa paiano quelle poco favorite dalla natura, che sono anche ad Alkmaar il numero maggiore.

Passando così a rassegna il bel sesso, arrivai in una vasta piazza piena di baracche e di gente, da cui m’accorsi ch’ero capitato ad Alkmaar in un giorno di kermesse.

Eccoci al punto più caratteristico e più strano della vita olandese.

La kermesse è il carnevale dell’Olanda: con questa differenza dal carnevale dei nostri paesi, che essa dura soltanto otto giorni, e che ogni città ed ogni villaggio la festeggia in un tempo diverso. È difficile veramente il dire in che cosa consista questa festa. Nel tempo della kermesse sorge dentro ogni città olandese un’altra città, composta di caffè, di teatri, di botteghe, di chioschi, di padiglioni, che terminata la festa, si scompone come un accampamento, si carica sui barconi e si trasporta in un altro luogo. Gli abitanti di questa città vagabonda sono commercianti, suonatori, istrioni, ciarlatani, giganti, donne colossali, ragazzi mostruosi, animali deformi, figure di cera, cavalli di legno, automi semoventi, scimmie, cani ammaestrati, bestie feroci. In mezzo alle innumerevoli baracche in cui alberga questa strana popolazione, vi sono centinaia di casette dipinte, inverniciate e dorate, tutte composte d’una sala e di quattro stanzine della forma di un’alcova, nelle quali parecchie ragazze vestite alla frisona, col casco d’oro e la cuffia trinata, servono agli avventori dei confetti particolari chiamati broedertijes, che sono il mangiare emblematico della festa, come il panettone per il Natale e la focaccia per l’Epifania. Oltre le baracche dei saltimbanchi e i caffè, ci sono bazar, fiere, circhi equestri, grandi teatri in cui si rappresenta l’opera in musica, e ogni sorta di spettacoli straordinarii per il popolo olandese. Tale è la città provvisoria in cui si celebra la kermesse; ma la festa propriamente detta è ben altra cosa. In quei caffè, in quelle baracche, per le strade, nelle piazze, giorno e notte, per tutto il tempo della kermesse, sbevucchiano, s’ubbriacano, saltano, ballano, cantano, s’urtano, s’abbracciano, si mescolano serve e operai, contadini e contadine, uomini e donne di tutte le classi del popolo minuto, con un furore e una licenza appetto a cui sono innocenti ragazzate i disordini delle nostre notti di carnovale. In quei giorni il popolo olandese si spoglia del suo carattere in modo da non esser più riconoscibile. Abitualmente grave, economo, casalingo, modesto, nel tempo della kermesse diventa chiassoso, si ride della decenza, passa le notti fuor di casa e spende in un giorno il frutto dei risparmi d’un mese. Le serve alle quali è concessa in quei giorni una straordinaria libertà, e se non glie la concedono se la pigliano, sono le attrici principali della festa. Ognuna si fa accompagnare dal suo fidanzato o dall’amante, o da un giovane qualunque noleggiato come un pertichino, a un prezzo diverso se porta il cappello cilindrico o il berretto, se è bello o brutto, se è un tanghero o un lesto fante. I contadini e le contadine vengono a far la kermesse alla città o al villaggio in un giorno determinato, che si chiama il—giorno dei contadini—e fanno d’ogni erba fascio come il popolino. Il colmo del baccano è la notte del sabato. Allora non è più una festa, è una ridda, un’orgia, un saturnale, che non ha riscontro in nessun altro paese d’Europa. Io ricusai per lungo tempo di prestar fede a certi olandesi, i quali mi dipingevano la kermesse con orribili colori, e credevo, come altri più indulgenti mi dicevano, che fossero rigoristi astiosi ed intolleranti. Ma quando udii affermare le stesse cose da gente spregiudicata, da testimoni oculari, da olandesi e da stranieri che mi dicevano:—Ho veduto io da questo palco e da questa finestra;—allora credetti anch’io ai palchi dei teatri convertiti in alcova, al pudore postergato nelle strade, alle coppie amorose addormentate sul lastrico, alle guardie di polizia espressamente incaricate d’impedire il supremo scandalo che si possa dare all’aria aperta, ai medici che dicono:—Quest’anno non avremo molte balie, perchè le kermesses dell’anno scorso furono poco animate;—agli Olandesi stessi che chiamano quelle feste una vergogna nazionale. Convien dire però che da un tempo in qua le kermesses sono in decadenza. L’opinione pubblica, su questo punto, è divisa. V’hanno coloro che le favoreggiano, perchè come attori o come spettatori, ci si divertono, e questi negano o scusano i disordini, e dicono che la proibizione delle kermesses farebbe scoppiare una rivoluzione. V’hanno altri che le combattono e le vogliono vedere soppresse, e sollecitano a questo scopo l’istituzione di spettacoli e di divertimenti onesti e gentili; la mancanza dei quali, a loro avviso, è la principal cagione degli eccessi a cui s’abbandona il popolo in quella unica occasione delle kermesses. L’avviso di questi ultimi va di giorno in giorno prevalendo. In parecchie città furon già presi provvedimenti per frenare i baccanali; in al cune fu determinata un’ora della notte, oltre la quale le botteghe debbano esser chiuse; in altre si allontanarono le baracche dal centro della città; il Municipio d’Amsterdam ha stabilito un certo numero d’anni, trascorsi i quali, la Sibari provvisoria in cui si fanno le feste, non potrà più essere rifabbricata. Si può dunque affermare che fra un non lunghissimo tempo, queste famose kermesses saranno ridotte a un allegro e temperato carnevale, con grandissimo vantaggio della moralità pubblica e della dignità nazionale.

Non in tutte le città olandesi, però, le kermesses sono clamorose e scandalose allo stesso grado. All’Aja, per esempio, lo sono molto meno che ad Amsterdam e a Rotterdam; e m’immagino (perchè non vi stetti la notte) che ad Alkmaar lo siano ancora meno che all’Aja; ciò che per altro non vuol dire che debbano essere un fior di decenza.

La piazza dov’ero riuscito era piena di baracche variopinte, sulla porta delle quali si sbracciavano a sonare e si sgolavano a chiamar gente, saltimbanchi vestiti di maglia carnicina e danzatrici di corda in sottanelle. Davanti ad ogni baracca v’era una folla di curiosi, da cui di tratto in tratto si staccavano due o tre contadini per entrare a veder lo spettacolo. Io non ricordo d’aver mai visto gente più semplice, più mansueta e di più facile contentatura di quella. Tra una sonata e l’altra, un ragazzo di dieci anni, vestito da pagliaccio, ritto sur una specie di palcoscenico accanto alla porta, ba stava egli solo a trattenere davanti alla baracca, divertire e far ridere dai precordi una moltitudine di duecento persone. E con che? Non raccontando delle storielle, non facendo dei calembours come i saltimbanchi di Parigi, non spiccando dei salti, non contraendo il viso; nulla di tutto questo; ma semplicemente facendo di tratto in tratto, colla maggior flemma del mondo, una piccola freccia di carta, che poi lanciava sulla folla accompagnando l’atto con un leggero sorriso. Questo bastava a far andare in visibilio quella buonissima gente. Girando in mezzo a quelle baracche, incontrai qualche contadina un po’ brilla, sentii cantare in falsetto qualche ragazza malferma sulle gambe, colsi in flagrante qualche coppia amorosa che si passava le mani sotto il mento, vidi qualche gruppo di donne che preludevano alla ridda notturna, dandosi delle spallate e delle fiancate da buttarsi in terra; ma nulla di criminale. Era veramente una baraonda, come dice Alfonso Esquiroz, di gente che non ne sa fare. Ma siccome io non ritenevo giusto il giudizio dell’Esquiroz se non per il giorno, e prevedevo che sull’imbrunire sarebbe incominciato uno spettacolo molto più drammatico, così, per non trovarmi solo, di notte, in mezzo alla baldoria d’una città sconosciuta, che ci sarei morto dall’uggia, decisi di partire immediatamente per Helder, e me ne tornai per la strada più corta all’albergo.

Quando v’ero entrato, non avevo parlato con nessuno, perchè il facchino che m’accompagnava, aveva chiesto per me la camera e portato su la valigia. Perciò io credevo che o il padrone dell’albergo o uno almeno dei camerieri capisse il francese. Quando rientrai, camerieri e padrone erano forse andati a trincare in qualche baracca; e nell’albergo non rimaneva che una vecchia serva, la quale mi condusse in una sala a terreno, e facendomi capire che non mi capiva, se n’andò pei fatti suoi. V’era in quella sala una tavolata di grossi alkmaaresi, che avevano finito in quel punto una mangiataccia solenne, e facevano il chilo in mezzo a una nuvola di fumo, chiacchierando e ghignazzando con una vivacità straordinaria. Vedendomi così solo ed immobile in un canto, di tratto in tratto mi rivolgevano uno sguardo compassionevole, e qualcuno sussurrava nell’orecchio al vicino qualche parola, che m’immagino esprimesse lo stesso sentimento che lo sguardo. Non c’è nulla che sconforti di più uno straniero già sconfortato che il vedersi fatto oggetto di commiserazione da una comitiva d’indigeni allegri. Lascio dunque immaginare che faccia derelitta io dovessi aver in quel punto. Dopo qualche minuto uno dei grossi alkmaaresi si alzò, prese il cappello e si avviò per uscire. Quando mi fu dinanzi, si fermò, e mi disse con un sorriso pietosamente cortese, spiccando le sillabe:— Alkmaar.... pas de plaisir; Paris.... toujours plaisir. —M’aveva preso per francese. Ciò detto, si mise il cappello, e credendomi abbastanza consolato, mi voltò le spalle e uscì a gravi passi dalla sala. Era il solo della brigata che sapesse tre parole di fran cese. Sentii un vivo moto di gratitudine per lui, e poi ricaddi nel mio misero stato. Passò un’altra quindicina di minuti, e arrivò finalmente un cameriere. Respirai, gli corsi incontro, gli dissi che volevo partire. Oh delusione! non capiva una saetta. Lo presi per un braccio, lo condussi nella mia camera, gli mostrai la valigia e gli feci cenno che me ne volevo andare. Andare! È presto detto; ma come? per battello? per strada ferrata? per trekschuit? Mi rispose che non mi comprendeva. M’ingegnai di fargli capire che volevo una vettura. Capì, e mi rispose con un gesto che non c’era vettura. Ebbene, pensai, cercherò io la stazione della strada ferrata; e gesticolando, gli domandai se c’era un facchino. Mi rispose che non c’era facchino. Gli domandai, coll’orologio in mano, a che ora sarebbe tornato il padrone. Mi rispose che il padrone non sarebbe più ritornato. Gli accennai che mi portasse la valigia lui. Mi rispose che non poteva. Gli domandai con un gesto disperato che cosa dovevo fare. Non mi rispose, e stette a guardarmi in silenzio. In simili occasioni io perdo la pazienza, il coraggio e la testa con una facilità spaventosa. Ricominciai a parlare facendo un guazzabuglio inaudito di parole tedesche, francesi e italiane, aprendo e chiudendo la Guida, tracciando e cancellando sul mio quaderno linee e ghirigori che volevano rappresentare bastimenti e macchine a vapore, andando su e giù per la stanza come uno scemo, finchè il povero giovane, non so se impaurito o seccato, in filò la porta e mi lasciò nelle péste. Allora afferrai la mia valigia e scesi le scale. Gli alkmaaresi della tavola, avvertiti dal cameriere della mia strana agitazione, erano usciti dalla sala, e vedendomi scendere, s’eran fermati nell’atrio, guardandomi come si guarda un matto scappato dall’ospedale. Io diventai rosso come una fragola, il che accrebbe il loro stupore. Arrivato nell’atrio, lasciai cadere la pesante valigia, e rimasi immobile, guardando le punte dei piedi dei miei spettatori. Tutti mi tenevano gli occhi addosso e nessuno parlava. Ero avvilito, come non sono stato mai in vita mia. Perchè poi? Non lo so. So che mi vedevo una nebbia davanti agli occhi, che avrei dato un anno di vita per sparire di là come un lampo, che maledivo i viaggi, Alkmaar, la lingua olandese, la mia stupidaggine, e che pensavo a casa mia come un profugo abbandonato dagli uomini e da Dio. Tutt’a un tratto, un ragazzo sbucato di non so dove, prese la mia valigia e si allontanò rapidamente accennandomi che lo seguissi. Lo seguii senza domandar altro, attraversai una strada, infilai un portone, passai per un cortile, e arrivai a un altro portone che dava sur un’altra strada, dove il ragazzo si fermò, buttò in terra la valigia, si fece dare la mancia, e senza rispondere alle mie domande, mi piantò su due piedi. Dove m’aveva condotto? Che cosa dovevo far là? Quanto ci sarei stato? Che sarebbe seguito di me? Era un mistero. Cominciava a imbrunire. Passavano per la strada contadini e contadine a braccetto, frotte di ragazzi che canterellavano, coppie d’amanti che si parlavano nell’orecchio; tutti brilli e festosi; e tutti passando davanti a me, così solo e accigliato, mi lanciavano un’occhiata di stupore e di pietà. Ero dunque alla berlina! m’avevano forse condotto là con quel disegno! Prima lo sospettai, poi mi parve di non poterne più dubitare, mi si accese il sangue, mi si strinse il cuore, afferrai la valigia per tornare all’albergo e vendicarmi a qualunque rischio... In quel momento vidi comparire una diligenza e mi balenò un raggio di speranza. La diligenza si fermò davanti al portone, un ragazzo ritto sul montatoio mi fece un cenno, accorsi, domandai ansiosamente:—Alla stazione della strada ferrata?— Oui, monsieur,—mi rispose francamente,— pour partir pour Helder —Ah! che il buon Dio ti benedica, ragazzo dell’anima mia!—gli gridai saltando dentro e mettendogli un fiorino in mano;—Tu mi hai ridato la vita!—La diligenza mi condusse alla stazione e pochi minuti dopo partii per Helder.

Chi non ha viaggiato, riderà di quest’avventura, e dirà che è un’esagerazione o una favola; ma chi per poco abbia esperienza di viaggi, si ricorderà di essersi trovato più d’una volta in simili impicci, di aver provato gli stessi sentimenti, d’aver perduto la bussola nello stesso modo, e d’aver forse raccontato l’avventura colle stesse parole.

HELDER.

La definizione che fu data dell’Olanda «d’una sorta di transazione fra la terra e il mare» non si può riferire a nessuna parte di quel paese più opportunamente che allo spazio interposto fra Alkmaar ed Helder. Si viaggia infatti, andando dall’una all’altra di quelle città, sopra la terra; ma sopra una terra così minacciata, rotta, allagata dal mare, che a guardarla dal vagone, si scorda a poco a poco di essere trasportati da un treno della strada ferrata, e si crede d’essere appoggiati sul parapetto d’un bastimento. Poco lontano da Alkmaar, tra i due villaggi di Kamp e di Petten, dalla parte del Mare del Nord, per un lungo tratto dove si crede che fosse anticamente una delle foci del Reno, la catena delle dune è interrotta, e la costa flagellata furiosamente dal mare che, malgrado le forti opere di difesa che gli si oppongono, s’addentra continuamente nel seno della terra. Un po’ più oltre c’è un ampio polder inondato, a traverso il quale passa il gran canale del Nord. Di là dal polder, intorno al villaggio di Zand, si stende una gran pianura deserta, sparsa di sterpeti, di stagni e d’alcune casupole di contadini coperte di tetti piramidali, che da lontano presentano l’aspetto di monumenti mortuarii. Di là dal villaggio di Zand, un vastissimo polder (chiamato Anna Paulowna, in onore della moglie di Guglielmo II d’Orange, granduchessa di Russia) che fu prosciugato fra il 1847 e il 1850. Dopo il polder, da capo vaste pianure, sterpeti e paludi, fino all’estrema punta della Nord-Olanda, dove sorge, velata dalla nebbia e sferzata dai venti e dalle onde, la giovine e solitaria città di Helder, la sentinella morta dei Paesi Bassi.

Helder ha questa singolarità, che quando vi s’è dentro, si cerca la città e non si trova. È, si può dire, una sola lunghissima strada, fiancheggiata da due schiere di piccole case rosse, e protetta da una diga gigantesca che forma come una spiaggia artificiale sul Mare del Nord. Questa diga, che è una delle più meravigliose opere dei tempi moderni, si stende per la lunghezza di quasi dieci chilometri dal Nieuwediep, dov’è l’entrata del gran canale del Nord, fino al forte il principe Ereditario, che si trova all’estremità opposta della città; è costrutta interamente con massi enormi di granito di Norvegia e di pietra calcare del Belgio; è percorsa sulla sommità da una bella strada carrozzabile; e scende nel mare, coll’inclinazione di quaranta gradi, fino alla profondità di sessanta metri. In vari punti è rafforzata da dighe minori, composte di travi, di fascine e di terra, che s’avanzano per circa duecento metri nel mare. Le più alte maree non arrivano mai a bagnarne la sommità; e l’onda infaticabile si spezza vanamente su quell’immane baluardo che le sorge incontro, quasi più in atto di minaccia, che di difesa, come una sfida della pazienza umana al furore degli elementi.

Il Nieuwdiep che s’apre a una delle estremità di Helder, è un porto artificiale, che protegge con grandi moli e dighe robuste i bastimenti che entrano nel canale del Nord. Le porte del bacino, chiamate porte a ventaglio, le più grandi dell’Olanda, si chiudono da sè stesse per effetto della pressione delle acque. In questo porto sono ancorati un gran numero di bastimenti, dei quali moltissimi provenienti dall’Inghilterra e dalla Svezia; e una buona parte della flotta militare dell’Olanda, composta di fregate e di piccoli vascelli, più puliti ancora delle più pulite case di Broek. Sulla riva sinistra del Nieuwdiep v’è un grande arsenale marittimo, dove risiede un contr’ammiraglio.

Sul finire del secolo scorso, nulla esisteva di tutto questo. Helder non era che un villaggio di pescatori appena segnato sulla carta. L’apertura del gran canale del Nord e una breve passeggiata fatta da Napoleone I in un battello di pescatori da Helder fino all’isola di Texel, che si vede distintamente dall’alto della diga, trasformarono il villaggio in città. Osservando il tratto di mare compreso fra quell’isola e la riva olandese, Napoleone concepì l’idea di fare di Helder «la Gibilterra del Nord» e cominciò coll’ordinare la costruzione di due forti, uno chiamato allora Lasalle, ed ora Principe Ereditario, e l’altro Re di Roma, ora ammiraglio Dirk. Gli avvenimenti non gli permisero di mandare ad effetto il suo grandioso disegno; ma l’opera rapidamente incominciata da lui, fu lentamente proseguita dagli Olandesi a segno che Helder è ora la prima città forte dello Stato, capace di trentamila difensori, atta ad impedire a una flotta l’entrata nel canale del Nord e nel Golfo di Zuiderzee, e oltre che difesa a una grande distanza da un baluardo di scogli e di banchi di sabbia, fortificata in maniera da potere, in casi estremi, inondare tutta la provincia che le si stende alle spalle.

Ma lasciando anche da parte la sua importanza strategica, Helder è una città degna d’esser veduta per il suo carattere anfibio, che lascia sempre dubbiosi d’essere sul continente o sopra un gruppo di scogli e d’isolette mille miglia lontano dalla costa europea. In qualunque verso si cammini, si riesce in vista del mare. La città è attraversata e circondata da canali grandi come fiumi, che gli abitanti passano sulle zattere. Dietro la gran diga v’è una lunga distesa d’acqua stagnante che s’alza e s’abbassa colla marea, come se comunicasse col mare per via sotterranea. Da tutte le parti corre acqua, prigioniera, è vero, in mezzo a due sponde, ma alta e minacciosa, che pare aspetti la prima occasione per riconquistare la sua spaventosa libertà. La terra, intorno alla città, è nuda e desolata, e il cielo, quasi sempre nuvoloso, è attraversato da grandi stormi di uccelli marini. La città stessa, formata da una sola fila di case, pare che abbia coscienza della sua postura arrischiata, e aspetti d’ora in ora una catastrofe. Quando il vento fischia e il mare mugge, si direbbe che ogni buon helderese non abbia a far di meglio che chiudersi in casa, dire le sue orazioni e poi ficcare la testa sotto le lenzuola ed aspettare quello che Dio manda.

La popolazione, che conta diciottomila anime, è altrettanto singolare che la città. È una mescolanza di negozianti, d’impiegati regi, d’ufficiali di marina, di soldati, di pescatori, di gente arrivata dalle Indie, di gente che si dispone a partire, e di parenti di chi arriva e di chi parte, andati là per dare il primo abbraccio o l’ultimo addio; perchè è quello l’estremo angolo di terra olandese che il marinaio saluta partendo, e il primo ch’egli vede al ritorno. Ma essendo la città così lunga e sottile, si vede pochissima gente; e non si sente altro rumore che le cantilene lamentevoli dei marinai che rattristano il cuore come grida di naufraghi lontani.

Benchè giovanissima, Helder è ricca di grandi ricordi storici al pari d’ogni altra città olandese. Essa ha visto il gran pensionario De Vitt attraversare per il primo, in un piccolo battello, lo stretto di Texel, scandagliare colle proprie mani la profondità delle acque, e mostrare ai piloti e ai capitani olandesi, che non volevano avventurarsi a quel passo, la possibilità di far tragittare la flotta mandata a combattere l’Inghilterra. In quelle acque gli ammiragli De Ruyter e Tromp tennero fronte alla flotta francese e alla flotta inglese riunite. Poco lontano di là, nel polder chiamato lo Zyp, l’anno 1799, il generale inglese Abercrombie respingeva l’assalto dell’esercito francese e dell’esercito batavo comandati dal generale Brome. E infine, perchè pare una legge naturale che ogni città olandese debba aver visto qualche cosa di strano e d’incredibile, Helder vide una sorta di battaglia anfibia, tra di terra e di mare, per la quale manca un nome nel linguaggio militare: vide nel 1795 la cavalleria e l’artiglieria leggera del generale Pichegru attraversare di galoppo il golfo gelato di Zuiderzee, slanciarsi verso la flotta olandese imprigionata fra i ghiacci presso l’isola di Texel, e circondatala come una fortezza, intimarle la resa e prenderla prigioniera.

Quest’isola di Texel, che, come dissi, si vede distintamente dall’alto della diga di Helder, è la prima di una catena d’isolette che si stende in forma d’arco dinanzi a tutta l’apertura del Zuiderzee sino alla provincia di Groninga; e che si crede formasse, prima dell’esistenza del gran golfo, una costa continua la quale serviva di baluardo ai Paesi Bassi. In quest’isola di Texel, che non conta più di seimila abitanti, sparsi in parecchi villaggi e in una piccola città, ha una rada nella quale gettan l’áncora i vascelli da guerra e i grandi bastimenti della compagnia delle Indie. Da questa rada partirono sulla fine del secolo decimosesto i bastimenti dell’Heemskerk e del Barendz per il memorabile viaggio che fornì al poeta Tollens il soggetto del suo bel poema L’invernata degli Olandesi alla Nuova Zembla.

Ed ecco in breve quella storia dolorosa e solenne, come fu narrata dal Van Kampen e cantata dal Tollens.

Non potendo ancora gli Olandesi, sulla fine del secolo decimosesto, lottare fronte a fronte cogli Spagnuoli e coi Portoghesi per impadronirsi del commercio delle Indie, pensarono di cercare una nuova via, a traverso i mari artici, per arrivare in minor tempo ai porti dell’Asia orientale e della China. Una società di mercanti olandesi affidò l’impresa avventurosa ad un esperto marinaio di nome Barendz, il quale partì con due bastimenti dall’isola di Texel, il 6 giugno del 1594, alla volta del polo. Il bastimento capitanato da lui arrivò fino alla punta settentrionale della Nuova Zembla, e ritornò in Olanda. L’altro prese la via più conosciuta dello stretto di Waïgatz, si spinse a traverso i ghiacci del golfo di Kara, e giunse in un mare aperto ed azzurro, dal quale scoperse la costa russa rivolta verso il sud-est. La direzione di questa costa fece credere che il bastimento avesse oltrepassato il capo Tabis, designato da Plinio, autorità allora incontestata, come l’estremità dell’Asia settentrionale, e che però si potesse giungere di là, con una breve navigazione, ai porti dell’est e del sud del continente. Non si sapeva che dopo il golfo dell’Obi l’Asia si stende ancora per 120 gradi a levante dentro il cerchio polare. La notizia di questa scoperta, portata in Olanda, vi destò una grandissima gioia. Sei grandi navigli furono immediatamente allestiti e caricati di mercanzie da vendersi ai popoli dell’India, un piccolo bastimento fu destinato ad accompagnare la squadra fin che avesse oltrepassato il supposto capo Tabis, e poi tornare a portarne la notizia; e la squadra partì. Ma questa volta il viaggio non rispose alle speranze. I bastimenti olandesi trovarono lo stretto di Waïgatz tutto ingombro di ghiacci, e dopo aver inutilmente tentato di aprirsi una via, ritornarono in patria.

Dopo questo infelice successo, gli Stati Generali, benchè promettessero un premio di venticinque mila fiorini a chi riuscisse nell’impresa, rifiutarono di concorrere alle spese di un nuovo viaggio; ma i cittadini non si scoraggiarono. La reggenza d’Amsterdam noleggiò due bastimenti, assoldò dei bravi marinai, celibi quasi tutti, perchè il ricordo delle famiglie non infiacchisse, in mezzo ai pericoli, il loro coraggio, e affidò il comando della spedizione al valoroso capitano Heemskerk. I due bastimenti partirono il 18 maggio del 1596. Sull’uno era maestro-piloto il Barendz, dell’altro era patrono un Van de Ryp. Da principio non andaron d’accordo sulla via da prendere; ma poi il Barendz si lasciò persuadere dal Van de Ryp a far vela verso il nord, invece che verso il nord-est; e fecero vela verso il nord. Arrivarono così al 74° grado di latitudine settentrionale, presso una piccola isola, alla quale diedero il nome d’Isola degli Orsi, in memoria d’un combattimento di parecchie ore che dovettero sostenere contro una frotta di quegli animali. Non vedevano intorno a sè che roccie altissime e dirupate che pareva chiudessero il mare da ogni parte. Continuarono a navigare verso il nord. Il 19 giugno scoprirono un paese che chiamarono Spitsbergen per le sue roccie tagliate a picco, e che credettero fosse la Groenlandia; e là videro grandi orsi bianchi, cervi, renne, oche selvatiche, enormi balene e volpi di tutti i colori. Di qui, essendo giunti oramai fra il 76° e l’80° grado di latitudine settentrionale, dovettero rivolgersi al sud e approdare daccapo all’Isola degli Orsi. Il Barendz però non volle più seguire la direzione settentrionale che il Ryp aveva seguita fino allora, e si rivolse al sud-est; il Ryp fece vela verso il nord; e così si divisero.

Il Barendz arrivò il 17 luglio presso la Nuova Zembla, rasentò la costa settentrionale dell’isola e continuò a navigare verso il sud. Allora cominciarono le avversità. Via via che procedevano, gli enormi massi di ghiaccio galleggianti sul mare, divenivano più fitti, si congiungevano in vastissimi strati, si ammontavano in roccie e montagne scoscese ed altissime, in modo che il bastimento si trovò in breve in mezzo a un vero continente di ghiaccio che gli nascose l’orizzonte da tutte le parti. Vedendo che era impossibile di raggiungere la costa orientale dell’Asia, pensarono di tornare indietro; ma era già il 25 d’agosto, tempo in cui l’estate, in quelle regioni, volge alla fine; e non tardarono ad accorgersi che non era più possibile neanche il ritorno. Si trovavano imprigionati fra i ghiacci, smarriti in una solitudine spaventosa, avvolti da un’immensa nebbia, senza disegno, senza speranze, e in procinto d’essere da un momento all’altro urtati e sepolti dalle montagne di ghiaccio che galleggiavano e cozzavano con tremendo strepito intorno alla nave. Non rimaneva loro che una sola via di salute, o piuttosto un mezzo di ritardare la morte: erano vicini alla costa della Nuova Zembla, potevano abbandonare il bastimento e ridursi a passare l’inverno in quell’isola deserta. Era una risoluzione disperata, che non richiedeva meno coraggio che quella di rimanere a bordo; ma almeno portava con sè il moto, la lotta, una nuova forma di pericoli. Dopo qualche esitazione, scesero dal bastimento e approdarono all’isola.

L’isola era disabitata; nessun popolo del nord v’aveva mai posto piede; era tutta un deserto di ghiaccio e di neve, flagellato dalle onde e dai venti, sul quale il sole non gettava che raramente un raggio fuggitivo e senza calore. Nondimeno, i poveri naufraghi mandarono grida di gioia quando vi posero il piede, e s’inginocchiarono nella neve per ringraziare la Provvidenza. Dovettero pensar subito a fabbricarsi una capanna. Nell’isola non v’era un albero; ma per fortuna si trovava là presso una gran quantità di legno galleggiante, che il mare aveva portato dal continente. Si misero all’opera, tornarono al loro bastimento, ne portarono via assi, travi, chiodi, pece, casse, botti; piantarono le travi nel ghiaccio; col ponte fecero il tetto; sospesero al tetto le loro brande; tappezzarono le pareti colle vele; riempirono le fessure colla pece. Ma mentre lavoravano corsero pericoli e soffrirono patimenti inauditi. Il freddo era tale che quando si mettevano un chiodo fra le labbra, subito s’agghiacciava, e per levarlo si laceravano le carni e si empivano la bocca di sangue. Gli orsi bianchi, spinti dalla fame, li assalivano furiosamente in mezzo ai massi di ghiaccio, intorno alla loro capanna, persino nell’interno del bastimento; e li costringevano a interrompere il lavoro per difendere la propria vita. La terra era talmente indurita che bisognava scavarla come pietra viva. Intorno al bastimento l’acqua era gelata a tre tese e mezza di profondità. S’era rappresa la birra dentro le botti e aveva perduto affatto il sapore: e il freddo cresceva di giorno in giorno. Finalmente riuscirono a rendere la loro capanna abitabile e furono al riparo dalla neve e dal vento. Accesero il fuoco e cominciarono a poter dormire qualche ora, quando non erano svegliati dagli urli delle fiere che giravano intorno alla capanna. Alimentavano le lampade col grasso degli orsi che uccidevano a traverso gli spiragli delle pareti, si scaldavano le mani nelle loro viscere sanguinose, si vestivano delle loro pelli e mangiavano carne di volpe, aringhe e biscotti ch’eran loro rimasti delle provvigioni del viaggio. Intanto il freddo cresceva a tal segno che gli orsi non uscivan più dalle loro tane. Gli alimenti e le bevande gelavano persino accanto al fuoco. I poveri marinai si bruciavano le braccia e i piedi senza risentire il menomo calore. Una sera che, per timore di morire di freddo, avevan chiuso ermeticamente la capanna, andarono a un filo dal morire soffocati, e dovettero, per non soccombere, affrontare di nuovo quel freddo tremendo.

A tutte queste calamità se n’aggiunse un’altra. Il giorno quattro di novembre essi aspettarono inutilmente l’aurora; il sole non apparve più; la notte polare era cominciata. Allora quegli uomini di ferro si sentirono mancar l’animo, e il Barendz dovette, dissimulando l’angoscia, spiegare tutta l’eloquenza che potè trarre dal cuore, per impedire che si abbandonassero alla disperazione. Il nutrimento e la legna cominciarono a scarseggiare; i rami d’abete trovati sulla spiaggia erano buttati sul fuoco quasi con rammarico; il lume era alimentato appena tanto da rompere le tenebre. Ciò nonostante, la sera, quando riposavano dalle fatiche della giornata, raccolti intorno al loro piccolo focolare, avevano ancora qualche momento di allegrezza. Il giorno della festa dei Re fecero un piccolo banchetto con vino e paste di farina fritte nell’olio di balena, e tirarono a sorte a chi toccasse la Corona della Nuova Zembla. Altre volte giocavano, raccontavano vecchie storie, facevano brindisi alla gloria di Maurizio d’Orange, par lavano delle loro famiglie. Ogni giorno cantavano i salmi tutti insieme, inginocchiati sul ghiaccio, col viso rivolto verso le stelle. Qualche volta un’aurora boreale squarciava la immensa oscurità da cui erano avvolti; e allora uscivano dalla loro capanna, scorrevano per le rive, festeggiavano con tenera gratitudine quella luce fuggitiva, come una promessa di salvamento.

Giusta i loro computi, il sole doveva ricomparire il giorno 9 di febbraio del 1597. S’erano ingannati: la mattina del 24 gennaio, appunto in uno di quei periodi di tempo ch’erano più che mai scoraggiati e tristi, uno d’essi, svegliandosi, intravvide un chiarore straordinario, gettò un grido, balzò a terra, destò i compagni, uscirono tutti dalla capanna, e videro a levante il cielo rischiarato da una luce viva, la luna smorta, l’aria limpida, le sommità delle roccie e delle montagne di ghiaccio colorate di rosa; l’alba, infine, il sole, la vita, la benedizione di Dio e la speranza di riveder la patria, dopo tre mesi di notte e d’angoscia. Per qualche momento rimasero immobili e silenziosi, e come sopraffatti dalla commozione; poi proruppero in lacrime, s’abbracciarono, sventolarono i loro berretti vellosi, fecero risonare quelle solitudini orrende d’accenti di preghiera e di grida di gioia. Ma fu una breve gioia: si guardarono in viso, ed ebbero spavento e pietà gli uni degli altri. Il freddo, l’insonnia, la fame, i travagli dell’animo, li avevano consunti e trasfigurati in modo che quasi più non si riconoscevano. E i loro patimenti non erano ancora finiti! In quello stesso mese la neve cadde in tanta abbondanza, che la capanna rimase quasi sepolta, e dovettero uscirne ed entrarci per l’apertura del cammino. Col diminuire del freddo, ricomparvero gli orsi, e ricominciarono quindi i pericoli, le notti insonni, i combattimenti feroci. Scemava il loro vigore, e l’animo, per poco risollevato, ricadeva.

Avevano però ancora un filo di speranza. Non eran riusciti ad estrarre dal ghiaccio il loro bastimento, nè quando l’avessero estratto, avrebbero potuto riassettarlo in modo da renderlo servibile; ma avevano trascinato sulla riva una barca e una scialuppa, e a poco a poco, sempre difendendosi dagli orsi che si slanciavano fin sulla soglia della loro capanna, eran venuti a capo di ripararle alla meglio. Con questi due piccoli legni essi contavano di dirigersi verso uno dei piccoli porti della Russia, di rasentare cioè la riva settentrionale della nuova Zembla, costeggiare la Siberia e attraversare il Mar Bianco; di fare, insomma, un viaggio di almeno quattrocento miglia tedesche. In tutto il mese di marzo il tempo variabilissimo li tenne in una continua vicenda di speranze e di disinganni. Più di dieci volte videro il mare sgombro fino alla riva e si apparecchiarono alla partenza; ed altrettante volte una recrudescenza improvvisa di freddo riammontò ghiacci su ghiacci, e chiuse la via da ogni parte. Nel mese d’aprile i ghiacci furono immensi e continui. Nel mese di maggio riebbero il tempo incostante. Nel mese di giugno, finalmente, poterono risolversi a partire. Dopo avere stesa una minuta relazione di tutte le loro avventure, della quale lasciarono una copia nella capanna, la mattina del 14 di giugno, con un bellissimo tempo e il mare aperto da tutte le parti, dopo nove mesi di soggiorno in quella terra funesta, fecero vela verso il continente. Su due barche scoperte, sfiniti da tanti patimenti, andavano a sfidare i venti furiosi, le lunghe pioggie, i freddi mortali, i ghiacci vorticosi di quel mare immenso e terribile nel quale pareva una disperata impresa l’avventurarsi con una flotta. Per lungo tempo, durante il viaggio, ebbero a respingere gli assalti degli orsi marini, soffrire la fame, nutrirsi di uccelli uccisi a sassate e d’ova trovate sulle coste deserte, sperare e disperare, rallegrarsi e piangere, dolersi qualche volta di aver abbandonato la nuova Zembla, invocare la tempesta, desiderare la morte. Sovente dovettero trascinare le loro barche sopra campi di ghiaccio, legarle perchè non le portasse via il vento, stringersi tutti in un gruppo in mezzo alla neve per resistere al freddo, cercarsi nella nebbia fitta, chiamarsi per nome, toccarsi per timore d’essersi perduti e per darsi coraggio gli uni agli altri. Non tutti resistettero a così tremende prove. Qualcuno morì. Il Barendz medesimo, che si era imbarcato infermo, sentì, dopo pochi giorni, che la sua fine s’avvicinava, e lo disse ai compagni. Non cessò però un momento di dirigere la navigazione, e di fare ogni sforzo per abbreviare a quella povera gente il viaggio tremendo di cui egli sapeva di non poter vedere la fine. La vita gli mancò mentre esaminava una carta geografica, il suo braccio cadde irrigidito nell’atto di accennare la terra lontana, e l’ultima sua parola fu un incoraggiamento e un consiglio. Nella baia di San Lorenzo, incontrarono, si può immaginare con qual gioia, una barca russa, che diede loro dei viveri, del vino e del cochlearia, rimedio per lo scorbuto, di cui s’erano ammalati parecchi marinai, i quali subito ne guarirono. Costeggiarono la Siberia, e incontrarono altri legni russi di più in più frequenti, e si provvidero di vivande fresche colle quali ristorarono le loro forze. All’entrata del Mar Bianco, una nebbia densissima divise le due barche, che oltrepassarono però tutt’e due il capo Candnoes, e favorite dal vento, percorsero in trenta ore un spazio di centoventi miglia, in capo al quale si ricongiunsero gettando grida d’allegrezza. Ma una gioia ben maggiore li aspettava a Kilduin. Trovarono là una lettera del Ryp, comandante dell’altro bastimento, partito insieme con loro dall’isola di Texel, il quale annunziava il suo arrivo. Dopo breve tempo la barca e la scialuppa raggiunsero il bastimento a Kola. Era la prima volta che i naufraghi della Nuova Zembla rivedevano la bandiera della patria dopo la partenza dall’isola degli Orsi, e la salutarono con un delirio di gioia. I compagni del Ryp e i compagni del Barendz si precipitarono gli uni nelle braccia degli altri, si raccontarono le vicende corse, piansero gli amici perduti, dimenticarono i patimenti sofferti, e tutti insieme fecero vela verso l’Olanda, dove arrivarono sani e salvi il 29 ottobre del 1597, tre mesi dopo la partenza dalla capanna. Così finì l’ultima impresa tentata dagli Olandesi per aprire una nuova via al commercio colle Indie a traverso i mari del polo. Quasi tre secoli dopo, nel 1870, il capitano d’un bastimento svedese, cacciato dalla tempesta sulla costa della Nuova Zembla, vi ritrovava la carcassa di un naviglio e una capanna con dentro due caldaie, un pendolo, una canna di fucile, una spada, un’accetta, un flauto, una bibbia, alcune casse riempite di utensili e dei brandelli di vestimenta putrefatte. Questi oggetti, riconosciuti dagli Olandesi come appartenenti ai marinai del Barendz e dell’Heemskerke, furono portati in trionfo all’Aja ed esposti come reliquie sacre nel Museo di Marina.

Con tutte queste immagini nella mente, la sera, dall’alto della gran diga di Helder, al lume della luna che ora si nascondeva bruscamente dietro le nuvole, ora si mostrava all’improvviso in tutta la sua luce, io non potevo saziarmi di guardare la riva sabbiosa di quell’isola di Texel e quel gran mare del Nord, che non ha più altri confini da quel lato che i ghiacci eterni del polo; il mare che gli antichi credevano la fine dell’universo: illuc usque tantum natura, come dice Tacito; il mare su cui apparirono nei giorni di grande tempesta le forme gigantesche delle divinità germaniche; e spaziando cogli occhi su quel piano immenso e sinistro, non sapevo esprimere altrimenti a me stesso il mio sgomento misterioso, che coll’esclamare di tratto in tratto, a mezza voce:—Barendz!... Barendz!—ed ascoltare io stesso il suono di questo nome, come se lo portasse il vento da una lontananza sterminata.

IL ZUIDERZEE.

Mi rimaneva a vedere l’antica Frisia, la ribelle indomata di Roma, la terra delle belle donne, dei grandi cavalli e degl’invitti scivolatori, la più poetica provincia della Neerlandia: e nell’andarvi, avevo modo di soddisfare un altro vivissimo desiderio: quello di attraversare il Zuiderzee, l’ultimo nato dei mari.

Questo grande bacino del Mare del Nord, che bagna cinque provincie e quadra più di settecento chilometri, seicento anni fa non esisteva. La Nord-Olanda toccava la Frisia, e dove ora si stende il golfo, c’era una vasta regione sparsa di laghi di acqua dolce, il maggiore dei quali, il Flevo, rammentato dal Tacito, era separato dal mare da un istmo fertile e popoloso. Se il mare abbia per sola sua forza rotto gli argini naturali di questa regione, o se invece l’abbassamento del suolo dell’Olanda gli abbia lasciata libera l’invasione, non è sicuro. La grande trasformazione si compì a diverse riprese nel corso del secolo decimoterzo. Nel 1205, l’isola di Wieringen, posta all’estremità della Nord-Olanda, faceva ancora parte del continente; nel 1251 n’era già separata. Nelle invasioni posteriori, il mare sommergeva in vari punti l’istmo che separava le sue acque dal lago di Flevo, fin che nel 1282, apertosi un varco a traverso questo baluardo sfracellato, irrompeva nei laghi, invadeva le terre, e a poco a poco allargandosi e procedendo, formava quel vasto golfo che ora si chiama Zuiderzee, o mare del Sud, il quale si addentra col braccio dell’Y fino a Beverwijk e ad Haarlem. Alla formazione di questo golfo si collega una storia varia e confusa di città distrutte e di popoli annegati, col finire della quale ne comincia un’altra di città nuove sorte sulle nuove rive, divenute potenti e famose, e alla loro volta decadute, ed ora ridotte a meschini villaggi, dalle strade erbose e dai porti ingombri di sabbia. Ricordi di sventure immense, tradizioni favolose, terrori fantastici, costumi ed usi antichi e stranissimi, si ritrovano sulle acque e sulle rive di questo mare unico, comparso ieri e già coronato di rovine e condannato a sparire; e basterebbe appena un viaggio d’un mese a osservarne e raccoglierne la parte principale; e però la sola idea di vedere da lontano quelle città decrepite, quelle isole misteriose, quei banchi di sabbia fatali, mi allettava irresistibilmente la fantasia.

Partii da Amsterdam verso la fine di febbraio, con un tempo bellissimo, sur uno dei piroscafi che vanno ad Harlingen. Sapevo che non avrei più riveduto la capitale dell’Olanda. Appoggiato al parapetto di prora, mentre il bastimento si allontanava dal porto, contemplai per l’ultima volta la grande città, cercando d’imprimermi incancellabilmente nella memoria il suo fantastico aspetto. Dopo pochi minuti non vidi più che il contorno nero e dentellato delle sue case, sulle quali s’innalzava ancora la cupola del palazzo reale e una foresta di campanili traforati e luccicanti. Poi la città si abbassò; i campanili si nascosero l’uno dopo l’altro; la punta più alta della cattedrale, soprastata qualche momento alla generale caduta, si sprofondò anch’essa nel mare; e Amsterdam non fu più che un ricordo.

Il bastimento passò in mezzo alle dighe gigantesche che chiudono il golfo dell’Y, e attraversato rapidamente il Pampus, il gran banco di sabbia che per poco non rovinò il commercio di Amsterdam, entrò nel Zuiderzee.

Le rive di questo golfo son tutte praterie, giardini e villaggi, che nell’estate presentano un aspetto incantevole; ma viste dal bastimento e nel mese di febbraio, non appaiono che come una striscia leggera d’un verde smorto che separa il mare dal cielo. La riva della Nord-Olanda è la più bella, e questa costeggia il bastimento.

Appena usciti dal Pampus, si volge a sinistra e si passa a breve distanza dall’isola di Marken.

Marken è famosa tra le isole del Zuiderzee come Broek tra i villaggi della Nord-Olanda; ma con tutta la sua fama e benchè non disti che un’ora di barca dalla costa, sono pochi gli stranieri, e pochissimi gli Olandesi che vanno a visitarla. Così mi disse il capitano del bastimento accennandomi il faro della piccola isola, e soggiunse che, a suo credere, la ragione della cosa era che qualunque straniero arrivi a Marken, sia anche un Olandese, è seguito dai ragazzi, osservato, fatto oggetto dei discorsi di tutti, come un uomo cascato dalla luna. La descrizione dell’isola spiega questa straordinaria curiosità. È un lembo di terra largo mille, lungo tremila metri, che si staccò dal continente nel secolo decimoterzo, e rimase, ed è oggi ancora, nell’indole, nei costumi, nella vita dei suoi abitanti, tale quale era sei secoli sono. Il suolo dell’isola è poco più alto del mare, e circondato da una piccola diga, che non basta a salvarlo dalle inondazioni. Le case sono fabbricate su otto monticciuoli artificiali, e formano altrettante borgate, una delle quali,—quella che ha la chiesa,—è la capitale, e un’altra l’asilo dei morti. Quando il mare supera le dighe, gli spazi tra monte e monte si cangiano in canali, e gli abitanti vanno da una borgata all’altra colle barche. Le case sono di legno, alcune dipinte, altre incatramate; una sola è di pietra, quella del pastore, dinanzi alla quale si stende un piccolo giardino ombreggiato da quattro grandi alberi, che sono i soli dell’isola. Accanto a questa casa, v’è la chiesa, la scuola e l’uffizio municipale. Gli abitanti sono poco più d’un migliaio e vivon tutti della pesca. Fuor che il medico, il pastore e il maestro, tutti sono indigeni; nessun isolano si marita nel continente; nessun continentale si va a stabilire nell’isola. Tutti professano la religione riformata e tutti sanno leggere e scrivere. Nella scuola, che conta più di ducento ragazzi dei due sessi, s’insegna la storia, la geografia e l’aritmetica. La foggia del vestire, che dura inalterata da parecchi secoli, è uguale per tutti, e curiosissima. Gli uomini paiono soldati. Hanno una giacchetta di panno grigio oscuro, ornata di due file di bottoni, che sono per lo più medaglie o monete antiche trasmesse dal padre al figlio. Questa giacchetta entra come una camicia dentro un par di calzoni dello stesso colore, larghissimi intorno alla coscia, e stretti intorno alla gamba, di cui lasciano scoperta quasi tutta la polpa. Un cappello di feltro o un berretto di pelo, secondo la stagione; una cravattina rossa, le calze nere, gli zoccoli bianchi o una sorta di scarpe simili a pantofole, completano questo strano costume. Ma è anche più strano il costume delle donne. Portano sul capo un enorme berretto bianco della forma d’una mitra, tutto ornato di trine e di ricami, e legato sotto il mento come un casco. Da questo berretto, che copre completamente le orecchie, escono due lunghe treccie, che dondolano sul seno, e sporge una sorta di visiera di capelli, tagliata in linea retta poco sopra i sopraccigli, la quale nasconde tutta la fronte. La veste si compone d’un busto senza maniche e d’una gonnella di due colori. Il busto è rosso di porpora, coperto di ricami variopinti, che costano anni di lavoro, e che però si trasmettono di madre in figlia per parecchie generazioni. La parte superiore della gonnella è cinerina o azzurra, rigata di nero, e la parte inferiore di color bruno carico. Le braccia sono coperte sin quasi al gomito dalle maniche d’una camiciola bianca strisciata di rosso. Le bambine e i bambini sono vestiti presso a poco nella stessa maniera; le ragazze con qualche differenza dalle donne; i giorni di festa un po’ più riccamente che i giorni di lavoro. Tale è questo costume misto d’orientale, di guerresco, di sacro; e altrettanto strana che il costume è la vita degli abitanti. Gli uomini sono straordinariamente sobri e giungono a un’età molto avanzata. Partono dall’isola, la notte d’ogni domenica, sui loro battelli, passano la settimana pescando nel golfo di Zuiderzee, e ritornano il sabato. Le donne educano i figliuoli, coltivano le terre, fanno i vestiti per tutta la famiglia. Come le donne di tutte le altre parti d’Olanda, amano la pulizia e gli ornamenti, e anche nelle loro capanne si vedono tendine bianche, cristallami, coperte da letto ricamate, specchietti, fiori. La maggior parte muoiono senza aver visto altra terra che la loro piccola isola. Sono poveri, ma non conoscendo alcuno stato migliore del loro, e non avendo nè bisogni, nè desiderii che non possano soddisfare, ignorano la propria povertà. Fra loro non ci sono nè cangiamenti di fortuna, nè di stinzioni di ceto. Tutti lavorano, nessuno serve. I soli avvenimenti che svarino la monotonia della loro vita sono le nascite, i matrimoni, le morti, una pesca abbondante, l’arrivo d’uno straniero, il passaggio d’un bastimento, una tempesta marina. Pregano, amano, pescano; tale è la loro vita, e così le generazioni succedono alle generazioni, conservando inalterata, come una sacra eredità, l’innocenza dei costumi e l’ignoranza del mondo.

Oltrepassata l’isola di Marken si vede sulla costa della Nord-Olanda un campanile, un gruppo di case rosse, e qualche vela di bastimento. È Monnickendam, villaggio di tre mila abitanti; altre volte città fiorente, che insieme con Hoorn ed Enckhuisen vinse e prese prigioniero l’ammiraglio spagnuolo Bossu, del quale le toccò per trofeo il collare del Toson d’oro; alle altre due città la spada e la tazza. Dopo Monnickendam, si vede il villaggio di Volendam; dopo Volendam la piccola città d’Edam, da cui ebbe il nome quel formaggio dalla crosta rossa, fama super aethera notus.

A questa città si riferisce una leggenda assai curiosa, rappresentata da un vecchio bassorilievo che si vede tuttora sopra una delle sue porte. Parecchi secoli fa, alcune ragazze di Edam, passeggiando sulla spiaggia, videro una donna di strano aspetto che nuotava nel mare e si fermava di tratto in tratto a guardarle con aria di curiosità. La chiamarono, s’avvicinò; le fecero cenno che uscisse dall’acqua, ed essa salì sulla riva. Era una bellissima donna, ignuda nata, e tutta coperta di limo e d’erbe germogliate sulla sua pelle come il musco sulla corteccia degli alberi. Alcuni credono che avesse la coda di pesce; ma un grave cronista olandese che afferma d’aver inteso raccontare il fatto da un testimonio oculare, dice che aveva le gambe come le altre donne. La interrogarono, non capì, e rispose con una voce dolcissima in un linguaggio sconosciuto. La condussero a casa, le raschiarono l’erba di dosso, la vestirono da donna olandese e le insegnarono a filare. Non si sa bene quanto tempo sia rimasta in questo nuovo stato, ma la leggenda dice che quantunque raschiata e vestita, si sentiva trascinata al mare da un istinto prepotente, e che dopo aver tentato invano parecchie volte di ritornare al suo elemento nativo, che le facevan la guardia con cent’occhi, un giorno finalmente vi riuscì, e nessuno ne ebbe più notizia. Di dov’era venuta? dov’era andata? chi era? Chi lo sa! il fatto è che sulle coste del Zuiderzee tutti parlano ancora della donna marina di Edam, e che a dire, come qualcuno l’osò, in un crocchio di contadini, che quella donna doveva essere una foca, c’è da buscarsi una presa di impertinente; e trovo che i contadini hanno ragione, perchè non si deve sputar sentenze su ciò che non s’è visto. Edam, ch’era anticamente una città floridissima, di più di venticinquemila abitanti, ha toccato la stessa sorte delle altre città del Zuiderzee, e non è più che un villaggio.

Andando da Edam a Hoorn non si vede quasi la costa, e perciò rivolsi tutta la mia attenzione al mare. Sul golfo del Zuiderzee si può osservare come in un immenso specchio la mobilità meravigliosa del cielo d’Olanda. È il più giovane dei mari d’Europa, e presenta veramente nel suo aspetto tutti i capricci, tutte le inquietudini, tutte le variazioni inaspettate e inesplicabili dell’età giovanile. Quel giorno, come quasi sempre, il cielo era coperto di nuvole che si squarciavano e si riunivano continuamente, in modo che nello spazio d’un’ora si succedevano tutte le variazioni di luce che nei nostri paesi si vedono appena nel corso d’una giornata. A momenti il mare si faceva tutto nero da parere un mare di pece, con una lontana orlatura bianca e luminosa, come una corrente d’argento vivo. Tutt’a un tratto, svaniva il nero, e il golfo diventava per immensi tratti verdissimo, come se si fosse coperto d’erba, e le traccie azzurre dei bastimenti rendendo l’immagine di canali, pareva di vedere galleggiare sulle acque delle praterie olandesi staccate dal continente. Poco dopo, tutto quel bel verde moriva in un giallastro fangoso che dava al golfo l’aspetto d’un pantano denso ed immondo, nel quale dovessero notare degli animali deformi e schifosi. Un momento si vedevano i campanili e i mulini della costa appena come ombre lontane a traverso la nebbia, e si sarebbe detto che in quel punto fosse notte e piovesse. Un momento dopo, i mulini, i campanili, le caso pa revano vicinissimi e brillavano alla luce del sole come se fossero dorati. Accanto al bastimento, lungo le coste, in mezzo al golfo, era un continuo guizzare e sparire d’ombre, di luci, di colori, d’oscurità notturne e di chiarori meridiani, di minaccie di tempesta e d’aspetti ridenti, da far credere che tutto quel movimento avesse un perchè misterioso, un significato superiore all’intelligenza umana, degli spettatori invisibili, in alto, che lo dovessero capire. Qua e là si vedevano dei battelli colle vele nere che parevano parati a lutto per trasportare dei morti.

Il bastimento passò in vista della città di Hoorn, l’antica capitale della Nord-Olanda, dove si fece nel 1416 la prima grande rete per la pesca dell’aringa e dove nacque quell’intrepido Schouten che oltrepassò per il primo l’estrema punta meridionale dell’America; e poi si rivolse verso Enckhuisen. Su quel tratto di costa che corre fra le due città, si stende una catena di villaggi composti di casette di legno e di mattoni, coi tetti inverniciati e colle porte scolpite, dinanzi alle quali s’innalzano degli alberi col tronco dipinto. Di tutti questi villaggi, dal bastimento non si vedono che i tetti, i quali pare che emergano dall’acqua, o siano essi stessi tante casette prismatiche galleggianti. Il color rosso di questi tetti, qualche punta di campanile, qualche ala di mulino, sono i soli colori e le sole forme che svarino di tratto in tratto la linea della costa uguale e soavissima come il profilo d’un istmo infinitamente sottile. Poco prima di arrivare a Enckhuisen si vede la piccolissima isola d’Urk, che si crede formasse anticamente una sola isola con quella di Schokland, posta a breve distanza dalla foce dell’Yssel. Urk è ancora abitata, ed è l’isola prediletta dalle foche, che la notte svegliano gli abitanti russando; Schokland fu disertata pochi anni sono dagli isolani, che non la potevano più contendere al mare.

Il bastimento si arrestò ad Enckhuisen.

Enckhuisen è la più morta di tutte le città morte del Zuiderzee. Nel sedicesimo secolo conteneva quarantamila abitanti, mandava alla pesca dell’aringa centoquaranta bastimenti, protetti da venti vascelli da guerra, aveva un bellissimo porto, un grande arsenale, dei sontuosi edifizi. Ora il porto è ingombro di sabbia, la sua popolazione ridotta a cinquemila persone, una delle sue antiche porte è a un quarto d’ora di cammino dai primi edifici della città, le sue strade sono coperte d’erba, le sue case abbandonate e cadenti, i suoi abitanti poveri e sparuti. Non le rimane altra gloria che quella d’aver dato la vita a Paolo Potter. Il bastimento si fermò qualche minuto dinanzi a questa larva di città. Sul ponte di sbarco non c’era che qualche marinaio immobile, della città non si vedeva che qualche casa mezzo nascosta dalle dighe, e un alto campanile, che in quel momento sonava con note lente come i rintocchi dell’agonia, l’aria O Matilde, t’amo, è vero, del Guglielmo Tell. La riva era deserta, il porto silenzioso, le case sbarrate, e una gran nuvola nera soprastava alla città come un drappo mortuario che discendesse lentamente per ricoprirla per sempre. Era uno spettacolo che metteva compassione e sgomento.

Lasciata Enckhuisen, il bastimento arrivò in pochi minuti all’imboccatura del Zuiderzee, tra la città di Stavoren, posta nel punto più avanzato della costa di Frisia, e Medemblik, altra città decaduta della Nord-Olanda, che fu capitale del paese prima della fondazione di Hoorn e di Enckhuisen. In quel passo il golfo è poco più largo della metà dello stretto di Calais. Quando si metterà ad effetto la gigantesca impresa del prosciugamento del Zuiderzee, in quel passo si costruirà la diga enorme che dovrà separare il golfo dal Mare del Nord. Questa diga si stenderà da Stavoren a Medemblik, lasciando aperto nel mezzo un grande canale per il movimento delle maree e lo scolo delle acque dell’Yssel e del Vecht; e dietro di essa, il gran golfo sarà a poco a poco trasformato in una fertile pianura, la Nord-Olanda congiunta alla Frisia, tutte le città morte delle coste rianimate d’una vita nuova, distrutte isole, trasformati costumi, confusi linguaggi, creata una provincia, un popolo, un mondo. Questa grande opera costerebbe, giusta le previsioni degli Olandesi, centoventicinque milioni di lire; da molti anni ci si sta studiando e forse tra non molto tempo ci si metterà mano; ma, ahimè! prima ch’ella sia compiuta, noi nati verso la metà del secolo decimonono avremo le braccia in croce, come dice il Praga, e le radici delle viole sul capo.

Appena s’è oltrepassato Medenblik, si vedono sulla riva opposta del Zuiderzee i campanili di Stavoren, la più antica città della Frisia, così chiamata, dicono gli etimologisti, dal dio Stavo che gli antichi Frisoni adoravano. Questa città, che non è più che un piccolo villaggio d’aspetto triste, circondato da grandi bastioni e da paludi, era, al tempo in cui Amsterdam non esisteva ancora, una città grande, bella e popolosa, nella quale risiedevano i re di Frisia e affluivano tutte le mercanzie dell’Oriente e dell’Occidente, così che le avean posto il glorioso nome di Ninive del Zuiderzee. Una strana leggenda, che però è fondata sopra un fatto vero, l’insabbiamento del porto, spiega la prima cagione della sua miserabile decadenza. Gli abitanti, spropositatamente arricchiti col commercio, erano diventati orgogliosi, vani, dissipatori, e spingevano il loro lusso forsennato sino a dorare le balaustrate, i chiavistelli, le porte, i più umili utensili delle loro case. Ciò dispiacque al buon Dio, il quale deliberò di infliggere alla insolente città un castigo solenne, e n’ebbe ben presto l’occasione. Una ricca mercantessa di Stavoren noleggiò un bastimento e lo mandò a Danzica a pigliare un carico di non so che merci preziose. Il capitano del bastimento arrivò a Danzica, ma non riuscì a trovare le merci che la mercantessa desiderava, e per non tornare col bastimento vuoto, lo caricò di grano. Quando rientrò nel porto di Stavoren, la mercantessa, che era là ad aspettarlo, gli domandò: “Che hai portato?” Il capitano rispose umilmente che non aveva portato che del grano. “Del grano!” gridò l’altera mercantessa con un accento di sdegno e di disprezzo. “Gettalo immediatamente nel mare.” Il capitano obbedì, l’ira di Dio traboccò. Nel punto stesso che il grano cadeva nell’acqua, si formava dinanzi al porto un grande banco di sabbia, il quale estinse a poco a poco il commercio della città. Questo banco di sabbia c’è infatti, e si chiama Vrouwensand, ossia sabbia della Dama, ed è un tale impedimento, che anche i più piccoli bastimenti mercantili debbono governarsi con grande prudenza per non darci dentro; nè un gran molo che si costrusse per riparare a questo danno, cangiò punto le sorti della città condannata a morire.

Quando il bastimento partì da Stavoren, tramontava il sole; ma nonostante l’ora e la stagione, il tempo era così mite, che io potei desinare sopra coperta, e ispirato dalla grande idea del prosciugamento del Zuiderzee, prosciugare fino alle sue più oscure profondità una bottiglia di vecchio Bordeaux, senza aver bisogno d’alitarmi neanco una volta sulle punte delle dita. I viaggiatori eran scesi tutti sotto, il mare era quietissimo, il cielo dorato, il Bordeaux squisito, il mio cuore in pace. Intanto mi si spiegava dinanzi agli occhi la riva della Frisia difesa da due ordini di palafitte, sostenute da pezzi enormi di granito, di trachite e di basalto di Germania e di Norvegia, che danno a quel paese l’aspetto d’un immenso campo trincerato. Si passò davanti a Hindelopen, altra città decaduta, che non ha più di un migliaio d’abitanti, e conserva le stravaganti foggie di vestire di molti secoli addietro; si rasentò una serie di piccoli villaggi nascosti, che ci avvertirono della loro presenza alzando di sopra le dighe il dito di ferro dei loro campanili; e s’arrivò finalmente ad Harlingen,—la seconda capitale della Frisia,—ancora illuminata dagli ultimi chiarori dei tramonto.

FRISIA.

Mentre il bastimento s’avvicinava allo scalo, mi ricordai di quello che m’era accaduto ad Alkmaar, e pensando che forse mi sarei trovato nelle medesime péste ad Harlingen, per dove non avevo alcuna lettera di raccomandazione, mi turbai. E avevo ragione di turbarmi, poichè della lingua frisona, che è una mescolanza d’olandese, di danese e di vecchio sassone, presso che incomprensibile agli stessi Olandesi, io non capivo il bellissimo nulla; e sapevo per giunta che nella Frisia non si parla quasi punto il francese. Mi preparai dunque, con malinconica rassegnazione, a gesticolare, a far rider la gente e a lasciarmi condurre come un bambino, e mi posi a cercare cogli occhi in mezzo alla folla dei facchini e dei ragazzi che aspettavano i passeggieri sulla riva, una faccia più umana delle altre, a cui affidare la mia valigia e raccomandare la mia vita.

Prima che avessi trovata questa faccia, il basti mento si fermò e io discesi. Mentre stavo esitando fra due tarchiati frisoni che volevano impossessarsi della mia persona, mi sentii sussurrare nell’orecchio una parola che mi rimescolò il sangue:—il mio nome.—Mi voltai come se mi fossi inteso chiamare da uno spettro, e vidi un giovane signore, che sorridendo della mia meraviglia, mi ripetè in francese: “È lei il signor tale dei tali?”—“Son io,” risposi, “o almeno mi pare d’esser io, perchè a dirle la verità sono talmente stupito d’esser conosciuto da lei, che dubito quasi della mia identità. Che prodigio è questo?”—Il prodigio era semplicissimo. Un mio amico d’Amsterdam che m’avea accompagnato la mattina stessa al porto, aveva mandato un dispaccio, appena partito il bastimento, a un suo amico di Harlingen, per pregarlo di andare ad attendere allo scalo un forestiero alto, bruno e insaccato in un pastrano color cacao, il quale sarebbe arrivato verso sera, e avrebbe avuto gran bisogno d’un interprete e gran desiderio d’un compagno. Tutti i miei compagni di viaggio essendo biondi, l’amico dell’amico m’aveva subito riconosciuto, ed era venuto a cavarmi d’impiccio.

Se avessi avuto in tasca un collare dell’Annunziata, glielo avrei buttato al collo. Non avendolo, gli espressi la mia infinita gratitudine con un diluvio di parole, che lo fecero rimanere attonito, come direbbe il marchese Colombi, senza potere attribuire. Dopo di che, entrammo nella città, dove non intendevo di rimanere che poche ore.

Grandi canali pieni di bastimenti, larghe strade fiancheggiate da piccole case variopinte e nitide, pochissima gente fuor di casa, un silenzio profondo e non so qual aria di pace malinconica che fa pensare a mille cose lontane: tale è Harlingen, città di poco più di diecimila abitanti, fondata presso il luogo dov’era anticamente un villaggio che il mare distrusse nell’anno 1134. Fatto un giro per le strade, il mio compagno mi condusse a vedere le dighe, senza le quali la città sarebbe già stata cento volte sommersa, poichè tutto quel tratto di costa è esposto più d’ogni altro alle correnti e alle onde dell’alto mare. Le dighe sono formate da due file di palafitte smisurate, congiunte le une alle altre da grossi tronchi traversali, e tutte rivestite di grandi chiodi colla testa schiacciata, i quali le preservano dai piccoli animali marini che distruggono il legno. Fra queste palafitte ci sono delle assi fortissime, o piuttosto delle grandi travi segate in due, sprofondate nella sabbia, le une accanto alle altre; dietro queste assi una muraglia di massi ciclopici di granito rosso portati dalla provincia della Drenta; e dietro questa muraglia, ancora un robustissimo stecconato, che basterebbe da solo a trattenere le acque di un torrente furioso. Sopra questa diga si stende un viale alberato che serve di passeggio pubblico, di dove si vede il mare, qualche casa della città, e qualche albero di bastimento che sporge oltre i tetti. Quando vi passammo, l’orizzonte era ancora leggermente dorato da ponente e oscurissimo dalla parte opposta; non si vedeva nessuna barca in mare e nessun movimento nel porto; quattro ragazze ci passarono accanto a braccetto chiacchierando e ridendo, una si voltò; poi disparvero; la luna uscì da una nuvola; tirava un vento freddo, e noi passeggiavamo in silenzio. “Siete tristo?” mi domandò il compagno. “Punto,” risposi—e lo ero. Perchè? chi lo sa! Quanto m’è rimasto impresso nella mente quel luogo e quel momento! Chiudo gli occhi, rivedo ogni cosa, e sento l’odore del mare.

Il mio compagno mi condusse in un club, dove c’intrattenemmo fino all’ora della partenza del treno per Leuwarde, la capitale della Frisia. Era il primo frisone col quale avessi l’onore di parlare, e lo studiai. Era biondo, impettito, grave, come quasi tutti gli olandesi; ma aveva uno sguardo straordinariamente animato: parlava poco, ma diceva quelle poche parole con una rapidità e una forza, che lasciavano indovinare un carattere più vivace di quello dei suoi connazionali dell’altra riva del Zuiderzee. Il discorso cadde sull’antica Frisia e sull’antica Roma, e fu amenissimo, poichè avendo egli cominciato a parlare degli avvenimenti di quei tempi con una straordinaria serietà, come di casi seguiti pochi anni avanti, ed io dandogli spago, finimmo per discorrere tale e quale come s’egli fosse stato un frisone dei tempi di Olennio ed io un romano dei tempi di Tiberio, ciascuno facendo l’avvocato del suo paese. Io gli rinfacciavo i soldati romani messi in croce, ed egli mi rispondeva pacatamente che i provocatori eravamo stati noi, perchè fino a tanto che ci eravamo contentati di prelevare il tributo imposto da Druso, consistente in cuoi pur che fossero, essi non avevano rifiatato; e che se poi s’erano ribellati, l’avevan fatto perchè Olennio non si contentava più dei cuoi, e voleva i bovi, i campi, i ragazzi, le donne; e questo era un volerli assassinare. “ Pacem exuere, dice lo stesso Tacito, nostra magis avaritia quam obsequii impatientes; e aggiunge che Druso ci aveva imposto un piccolo tributo, perchè eravamo poveri, pro angustia rerum. E se ai poveri rubavate i buoi e le terre, che cosa facevate ai ricchi?”—Quando m’accorsi che sapeva Tacito a memoria, battei in ritirata, e gli domandai amichevolmente se delle prepotenze dei miei padri egli serbava qualche rancore con me.—“Oh signore!”—rispose tendendomi una mano, come se gli avessi fatto quella domanda sul serio: “nemmeno per ombra!”—O sbaglio,—dissi tra me,—o di questa ingenuità nei nostri paesi non ce n’è più la semenza.—E non potevo finir di guardarlo, tanto mi pareva d’uno stampo differente dal mio.

Stemmo insieme fino a notte, e m’accompagnò alla stazione della strada ferrata, per andar poi ad assistere ad un concerto musicale. In quella piccola città di marinai, di pescatori e di mercanti di burro, c’era un concerto dato da quattro artisti, due tedeschi e due italiani, fatti venire espressamente dall’Aja, per sonare un par d’ore, al prezzo di duecento cinquanta fiorini! Dove questo concerto si facesse, in una città come Harlingen, tutta casette liliputtiane, non lo potevo capire, se non supponendo che i suonatori stessero in casa, e gli uditori nella strada; e domandai una spiegazione al mio compagno. “Una casa abbastanza grande c’è,” mi rispose:—Una!—pensai. O dove sarà questo colosso di casa, che non l’ho veduto? Attraversammo due o tre strade semioscure, ma un po’ più popolate che due ore innanzi, e arrivammo alla stazione. “Non ci vedremo mai più” mi disse quel franco e simpatico frisone stringendomi la mano. “Probabilmente mai più,” risposi. Stemmo un po’ guardandoci l’un l’altro, e poi ci dicemmo tutti e due insieme:—Addio!—e con questo triste saluto ci separammo. Egli andò al concerto, ed io partii per l’interno della Frisia.

La Frisia è tutta una pianura, d’un terreno misto di sabbia, d’argilla e di torba, bassa in ogni parte, e sopratutto a occidente, dove non di rado, verso la fine d’autunno, le acque del mare si spandono su grandi spazi. Vi sono moltissimi laghi, i quali formano come una catena a traverso tutta la provincia dalla città di Stavoren fino alla città di Dokkum. La campagna è coperta di vastissime praterie, e solcata in tutti i versi da larghi canali, lungo i quali pascolano, per nove mesi dell’anno, armenti innumerevoli non guardati nè da pastori nè da cani. Lungo il Mare del Nord, vi si trovano dei piccoli rialti di terreno, chiamati terpen, innalzati dagli antichi abitanti per rifugiarvisi coi loro armenti al montare delle maree, e su alcuni di questi rialti son fabbricati dei villaggi. Altri villaggi e città son costrutti su palafitte, in terre conquistate a poco a poco sul mare. La provincia ha duecento settantadue mila abitanti, che traggono non solo sostentamento, ma ricchezza dal commercio del burro, del formaggio, dei pesci, della torba, e comunicano agevolmente tra loro per via dei canali e dei laghi. Pochi alberi dietro i quali son nascoste le case campestri e i villaggi; qualche vela di bastimento; degli stormi di pavoncelle, di cornacchie e di corvi; e i bellissimi armenti che picchiettano d’infinite macchie nere e bianche il verde della campagna, sono le sole cose che attirino l’occhio su quella vasta pianura di cui un velo di vapori bianchi nasconde perpetuamente i confini. L’uomo che in quel paese ha fatto tutto, non si vede da nessuna parte, e pare un paese nel quale l’acqua viva e lavori da sè, e la terra non sia posseduta che dagli animali.

Arrivai a Leuwarde a notte fitta e trovai per buona ventura un albergo dove si parlava francese.

La mattina per tempissimo—credo che non ci fossero ancora cento persone levate in tutta la città—uscii, e mi diedi a girare per le strade deserte sotto una pioggiolina lenta e diacciata che arrivava alle ossa.

Leuwarde ha l’aspetto d’un grande villaggio. Le strade sono quasi tutte spaziosissime, percorse da larghi canali, e fiancheggiate da case straordinariamente piccine, colorite di rosa, di lilla, di cenerino, di verde chiaro, di tutti i colori di Broek. I canali interni si congiungono con canali esteriori, i quali si stendono lungo i bastioni della città, e si collegano alla loro vòlta con altri canali, che conducono ai villaggi e alle città vicine. Vi sono piazze e crocicchi da grande città, che paiono anche più vasti per la piccolezza delle case, in moltissime delle quali le finestre sono a un palmo da terra e toccano quasi il tetto colla parte superiore. Per lunghi tratti di strada, se si ammucchiassero tutte insieme le case, non si formerebbe un edifizio di grandezza ordinaria. Pare una città antichissima, primitiva, fondata da un popolo di pescatori e di pastori, e a poco a poco ristaurata, dipinta, ingentilita. Ma nonostante i bei ponti, le botteghe ricche, le finestre adorne, il suo aspetto generale ha qualcosa di così esotico per un europeo del mezzogiorno, da fargli parer strano che gli abitanti portino il soprabito e il cappello cilindrico come noi. Di tutte le città della Neerlandia è quella in cui un italiano si sente più lontano dal suo paese. Le strade erano deserte, tutte le porte chiuse: mi pareva di girare per una città abbandonata e sconosciuta, che avessi scoperta io. Guardavo quelle strane casette e dicevo tra me, meravigliandomi, che pure là dentro ci dovevano essere delle signore eleganti, dei pianoforti, dei libri che anch’io avevo letti, delle carte geografiche d’Italia, delle fotografie di Firenze e di Roma. Girando di strada in strada, passai dinanzi all’antico castello dei governatori della Frisia, della casa di Nassau Diez, gli antenati della regnante famiglia d’Orange; scopersi una curiosissima prigione, un palazzo bianco e rosso, sormontato da un tetto altissimo, e decorato di colonnine e di statue, che gli dan l’aspetto d’un villino principesco; e infine riuscii in una gran piazza, dove vidi una vecchia torre di mattoni, ai piedi della quale si dice che cinquecento anni fa giungessero le acque del mare, e che ora è lontana più di dieci miglia dalla costa. Di qui, passando per altre strade pulite come salotti, in mezzo a due file di case di cui rasentavo le gronde coll’ombrello, ritornai nel centro della città.

In tutto quel giro non avevo visto altre donne che qualche vecchia scarmigliata e insonnita, che guardava il tempo dalla finestra; e ognuno può immaginare quanto fossi curioso di vedere le altre, non tanto per la loro celebre bellezza, quanto per la stranissima copertura di capo della quale avevo inteso parlare e letto descrizioni e trovato immagini in tutte le città dell’Olanda. La sera innanzi, arrivando a Leuwarde, avevo ben visto a una cantonata qualche testa di donna stranamente luccicante; ma l’avevo vista di sfuggita, al buio, e senza quasi badarci. Ben altra cosa doveva essere il vedere tutto il bel sesso della capitale della Frisia, in pieno giorno, a mio bell’agio. Ma come cavarsi questa curiosità? Il cielo prometteva la pioggia per tutta la giornata, le donne sarebbero probabilmente rimaste tappate in casa, io avrei dovuto aspettare fino alla mattina dopo, e l’impazienza mi divorava. Per fortuna mi venne una di quelle idee luminose che nelle grandi occasioni sbocciano anche nei cervelli più piccoli. Vedendo passare un musicante della guardia civica, col pennacchio in capo e la tromba sotto il braccio, mi ricordai ch’era l’anniversario della nascita del Re di Olanda, pensai che si dovesse radunare la banda musicale, che questa banda avrebbe percorso la città, che dove sarebbe passata tutte le donne avrebbero fatto capolino, e che perciò, mettendomi accanto al capo-banda come i monelli che accompagnano i reggimenti agli esercizi, avrei veduto quanto volevo. Dissi a me stesso:—Bravo!—e canterellando l’arietta «Che invenzione prelibata» del Barbiere di Siviglia, seguii il musicante. Arrivammo nella gran piazza dove la guardia civica s’andava raccogliendo intrepidamente sotto una pioggia dirotta, in mezzo a un centinaio di curiosi; in pochi minuti, il battaglione fu ordinato; il maggiore gettò un grido stridulo; la banda diede fiato agli strumenti; la colonna si mosse verso il centro della città. Io camminavo accanto al capo tamburo, ed ero beato.

S’aprirono le finestre delle prime case, e si affacciarono alcune donne colla testa tutta luccicante d’argento, come se fossero elmate; ed avevano infatti due larghe lastre d’argento che nascondevano affatto i capelli e coprivano una parte della fronte stringendo il capo come un casco di guerriero antico. Un po’ più oltre, s’affacciarono altre donne, quali col casco d’argento, quali col casco d’oro. Il battaglione svoltò in una delle strade principali, e allora su tutte le porte, a tutte le finestre, agli svolti delle strade, sulle soglie delle botteghe, dietro le cancellate dei giardini, comparirono caschi d’oro e d’argento, grandi e piccini, con velo e senza velo, tersi e sfolgoranti come celate d’armeria; mamme in mezzo a una nidiata di ragazzine, tutte col casco; vecchie cadenti, col casco; serve colla casseruola in mano, col casco; signorine che s’erano alzate allora dal pianoforte, col casco; Leuwarde pareva una immensa caserma di corazzieri sbarbati, una metropoli di regine spodestate, una città dove tutta la popolazione si preparasse ad una grande mascherata medioevale. Non posso dire lo stupore e il piacere che provavo dinanzi a quello spettacolo. Ogni nuovo casco che vedevo, mi pareva il primo, ridevo, e mi pareva che il capo tamburo, le guardie civiche e i monelli che avevo intorno, dovessero riderne con me. Tutti quei caschi coloravano di riflessi dorati e argentati i vetri delle finestre e le imposte inverniciate; brillavano confusamente nel buio delle stanze semi-aperte del pian terreno; apparivano e sparivano lampeggiando dietro le tendine trasparenti e i fiori dei davanzali. Passando accanto alle ragazze ritte sul marciapiedi della strada, rallentavo il passo, e vedevo riflessi sulle loro teste gli alberi, le botteghe, le finestre, il cielo, le guardie civiche, il mio viso. In mezzo a tutte quelle teste amabilmente terribili, su cui non si vedeva una ciocca di capelli, io collo staio e la capigliatura lunga, mi parevo un uomo imbelle e spregevole, a cui da un momento all’altro una di quelle austere frisone dovesse porgere per scherno il fuso e la rocca.—Ma che spedizione hanno in mente tutte codeste donne?—pensavo, celiando con me stesso.—A chi vogliono far la guerra? A chi intendono di metter paura?—A ogni passo vedevo qualche scena curiosa. Un ragazzo, per far stizzire una bambina, le appannava il casco col fiato, e quella subito s’affannava a ripulirlo colla manica, prorompendo in invettive, come un soldato a cui il compagno insudici qualche parte dell’armatura un momento prima della rivista del capitano. Un giovanotto, da una finestra, toccava colla punta d’un bastoncino il casco d’una ragazza affacciata alla finestra accanto, il casco risonava, i vicini si voltavano, la ragazza faceva il viso rosso e spariva. In fondo a un corridoio, una serva si aggiustava il casco guardandosi in quello d’una compagna gentilmente inchinata per farle da specchio. Nell’atrio d’una casa, che doveva essere un collegio, una cinquantina di ragazze, tutte col casco, si disponevano a due a due, in silenzio, come un drappello di guerriere che s’apparecchiassero a fare una sortita contro il popolo ribellato. E in ogni nuova strada che infilava la banda, pullulava da ogni parte, come a un richiamo di guerra, una nuova legione di quell’esercito stravagante e gentile.

Da principio, tanto ero assorto nella contemplazione dei caschi, che non avevo quasi badato ai volti di quelle Frisone, che hanno fama di essere le più belle donne dei Paesi Bassi, di discendere in diritta linea dalle antiche sirene del Mare del Nord, e di aver fatto andare in visibilio il gran cancelliere dell’Impero germanico; il quale non dev’essere di natura molto facilmente eccitabile. Riavuto dalla prima meraviglia dei caschi, mi diedi a considerare le persone; e debbo dire che ne vidi, come in tutti gli altri paesi, pochissime belle, ma queste degne veramente della fama. Son donne la maggior parte di alta statura, di larghe spalle, bionde, bianche, diritte come palme e gravi come antiche sacerdotesse, alcune di mani e piedi molto piccoli, e malgrado la loro gravità, sorridenti con una dolcezza che par davvero un riflesso lontano delle loro favolose progenitrici. L’elmetto argenteo, che stringendo e nascondendo i loro capelli, le priva del più bell’ornamento della bellezza, le rifà in parte di questo difetto, col mettere in mostra la nobile forma della loro testa, e col dare al loro viso dei lumeggiamenti bianchi e azzurrini d’una delicatezza inesprimibile. All’apparenza, non hanno ombra di civetteria.

Mi rimaneva però una grande curiosità, ed era di veder da vicino una di quelle belle teste elmate, e di sapere come questi elmi fossero fatti, e in che modo si mettessero, e che norme avesse quell’uso. A questo fine avevo una lettera per una famiglia di Leuwarde, la portai, fui ricevuto cortesemente in una bella casetta posta sull’orlo d’un canale, e scambiati appena i primi saluti, dimandai di vedere un casco, il che fece ridere di cuore i miei ospiti, perchè quella è immancabilmente la prima domanda che rivolgono tutti gli stranieri arrivati in Frisia ai primi Frisoni che hanno la fortuna di conoscere. Per tutta risposta, la padrona di casa, una signora colta e gentilissima, che parlava con molto garbo il francese, tirò il cordoncino d’un campanello, e comparve subito una ragazza col casco d’oro e la veste lilla, a cui essa accennò di venire innanzi. Era la serva: una ragazza alta come un granatiere, robusta come un atleta, bianca come un angelo, fiera come una principessa. Capì di volo che cosa volevo e mi si piantò davanti colla testa alta e cogli occhi bassi. La signora mi disse che si chiamava Sofia, che aveva diciott’anni, ch’era promessa sposa e che il casco gliel’aveva regalato il suo fidanzato.

Domandai di che metallo fosse il casco.

“D’oro!” rispose la signora quasi meravigliandosi della mia domanda.

“D’oro!” esclamai alla mia volta. “Scusi; abbia la compiacenza di domandarle quanto costa.”

La signora interrogò in lingua frisona Sofia, e poi rivolgendosi a me: “Costa,” mi disse, “senza le spille e senza la catenella, trecento fiorini.”

“Seicento lire!” esclamai. “Scusi ancora: vorrei sapere qual’è la professione del suo fidanzato. ”

“Segatore di legna,” rispose la signora.

“Segatore di legna!” ripetei, e pensai con raccapriccio allo spessore del libro che avrei dovuto scrivere per poter vincere di splendidezza quel segatore di legna.

“Non hanno però tutte il casco d’oro,” soggiunse la signora. “I fidanzati che han pochi quattrini ne regalano uno d’argento. Le donne e le ragazze povere l’hanno di rame dorato, o d’argento sottilissimo, che costa pochi fiorini. Però la grande ambizione è d’averlo d’oro, e a questo fine si lavora, si risparmia, si sospira per anni interi. Se poi dovessi parlarle delle gelosie, io che ho la cameriera col casco d’argento e la serva col casco d’oro, ne potrei dire qualche cosa.”

Le domandai se portavano il casco anche le signore. Mi rispose che non lo portavano più, fuor che pochissime; ma che tutte, anche delle prime famiglie, si ricordano d’averlo veduto alle loro nonne e alle loro madri; ed eran caschi cesellati e tempestati di diamanti che costavano un subisso. Anticamente però non si portavano caschi, ma solo una sorta di diademi molto sottili, d’argento o di ferro, senza ornamenti, i quali, a poco a poco, si andarono allargando fino a coprire tutta la parte anteriore del capo. Ora, come tutte le mode che cominciano a decadere quando sono giunte all’esagerazione, anche il casco decade. Alle donne comincia a rincrescere di non poter mostrare i loro bei capelli biondi. Oltre questo, il casco produce il triste effetto di af frettare la calvizie, tanto che molte donne, in età ancor fresca, hanno già delle piazzate che metton paura. I medici, dal canto loro, dicono che quella continua pressione sul capo fa male al seno, e molti affermano che ne arresta lo sviluppo; il che non è difficile a credersi, poichè in fatti le donne frisone, robuste e carnose come sono, hanno per lo più un rilievo leggerissimo là dove è bello il vedere una curva audace. Tutte queste ragioni hanno indotto anni sono parecchie signore della provincia di Groninga, dove è pure in uso quella copertura di capo, a formare una specie di propaganda contro quell’uso, smettendolo esse per le prime; dopo di che moltissime altre lo smisero. Passeranno però molti anni prima che tutti i caschi siano spariti. Le serve, le contadine, la maggior parte delle donne del mezzo ceto, lo portano ancora. V’è la parte pro e la parte contro. Questa guadagna terreno lentissimamente, e quella si difende con ostinazione.

Desideravo di vedere il casco di Sofia, ma era coperto dal solito velo di trina, e non osavo farla pregare che se lo togliesse. Le presi il velo per l’orlo colla punta delle dita e spiegando la parola col gesto, le domandai se lo potevo alzare.

“Lo alzi pure,” mi disse la signora, traducendo la risposta della ragazza.

Lo alzai.

Dei del cielo, che bianchezza! Paragonai quel collo, ch’era tutto scoperto, col velo che tenevo in mano, e rimasi incerto di quale dei due fosse più bianco.

Il casco di Sofia era assai diverso dai caschi di argento che avevo visti per le strade; anzi, per dire il vero, questo nome di casco non conviene che a quei d’oro, poichè gli altri, sebbene presentino, a chi li guarda di fronte, il medesimo aspetto di caschi, non ne hanno punto la forma. Questi son fatti di due lastre quasi circolari, congiunte da un cerchietto flessibile di metallo che passa dietro il cocuzzolo, e ornate di due grandi bottoni cesellati che riescono sulle tempie. Queste due lastre non coprono che la parte anteriore del capo. I caschi d’oro invece sono un larghissimo cerchio che abbraccia tutta la testa, fuorchè il cocuzzolo, e si allarga ancora alle estremità fino a non lasciar più vedere che una piccolissima parte della fronte. La lamina è sottile e flessibile come carta di Bristol in modo che si può adattare facilmente a teste di diversa grandezza. Sotto questo casco (anco sotto quei d’argento) portano una specie di cuffia nera, che serra i capelli come un berretto da notte; e sopra il casco, un’altra sorta di cuffia di trina, che scende fin sulle spalle. Su questa seconda cuffia molte donne mettono ancora un cappellino indescrivibile, ornato di fiori e di frutti finti, o un cappello Pamela. Prima di mezzo giorno, stando in casa o uscendo per faccende, le donne del popolo portano il casco senz’altro; la cuffia e il cappello se lo mettono per andare alla passeggiata.

Mentre osservavo il casco della ragazza, la signora mi parlava di certi usi singolarissimi che si ritrovano ancora nella campagna della Frisia.

Quando un giovane si presenta in una casa per domandare la mano d’una ragazza, questa gli fa subito capire se lo accetta o non lo accetta per sposo. Se lo accetta, esce dalla stanza e vi ritorna poco dopo col casco. Se non si va a mettere il casco vuol dire che il giovane non le piace, e ch’essa non acconsente a diventare sua regina. Gli amanti sogliono regalare alle loro fidanzate dei legacci da calze, sui quali sono iscritte delle sentenze, delle parole d’amore e degli auguri di felicità. Qualche volta l’innamorato presenta alla ragazza un fazzoletto annodato con iscrizioni nel nodo e dentro monete o gingilli. Se la bella lo scioglie, s’intende che accetta la mano del giovane; se non lo scioglie, s’intende che la ricusa. L’onore più ambito dagli amanti è quello di poter legare lo zoccolo, o patino che si voglia dire, al piede della loro diva; la quale li ricompensa di questa cortesia con un bacio. Del resto, giovani e ragazze godono della più ampia libertà. Vanno a passeggiare insieme come marito e moglie, e rimangono sovente soli in casa, per parecchie ore, di notte, dopo che il padre e la madre sono andati a letto.—E non si hanno mai da pentire di esserci andati troppo presto? domandai: “Il fallo,” mi rispose la signora “è sempre riparato.”

Durante tutti questi discorsi, la bella frisona era sempre rimasta seria ed immobile come una statua. Prima che se n’andasse, le dissi, per ringraziarla con un complimento, che era una delle più belle guerriere della Frisia, e pregai la signora di tradurle quelle parole. Le ascoltò col viso serio e diventò rossa fino ai capelli; poi, come se ci avesse pensato meglio, sorrise leggerissimamente, e fatto un mezzo inchino uscì dalla stanza, ritta, lenta e maestosa come una regina di tragedia.

Grazie alla cortesia dei miei ospiti, vidi un piccolo Museo d’antichità nazionali della Frisia, formato da pochi anni, e già ricco di moltissimi oggetti preziosi. Profano come sono a questi studi, non feci che sogguardare le medaglie e le monete, e mi trattenni particolarmente dinanzi agli antichi zoccoli dei patinatori, ai rozzi diademi da cui derivarono i caschi, e a certe strane pipe trovate nella terra a una grande profondità, le quali paiono anteriori all’uso del tabacco, e si crede servissero a fumare la canapa. Ma il più curioso oggetto del Museo è un cappello da donna, ch’era in uso sulla fine del secolo scorso, un cappello così spropositato e così ridicolo, che se l’antiquario che me lo mostrò, non m’avesse assicurato d’averne visto ancor uno, coi suoi occhi, sul capo d’una vecchia signora di Leuwarde, non sono molti anni, in occasione di una festa per l’arrivo del re d’Olanda, avrei creduto impossibile che delle creature ragionevoli si fossero mai incappellate in quella maniera. Non è un cappello, è una tenda, un baldacchino, una tettoia, sotto la quale si potrebbe riparare dalla piog gia e dal sole un’intera famiglia. Si compone di un cerchio di legno, grande due volte uno degli ordinari tavolini da caffè, e d’un cappello di paglia munito d’una tesa della stessa grandezza, mancante da una parte, in modo che presenta la forma d’un semicircolo. Il cerchio è ornato di una lunga frangia, ed ha una piccola apertura, nella quale entra la testa, e vi si assicura non so come. Quando il cerchio è assicurato, il cappello, che è una cosa a parte, vi si posa su e vi si stende come una tela sull’armatura d’una baracca, e l’edifizio è compiuto. Quest’edifizio, quando le signore entravano in chiesa, lo scomponevano, per non ingombrare troppo spazio, e lo rifabbricavano al momento d’uscire, e il cappello pareva grazioso, e l’operazione comodissima. Tanto è vero il proverbio, che tutti i gusti son gusti.

Un cortese frisone, al quale ero raccomandato da un amico dell’Aja, mi condusse in campagna per vedere le case dei contadini. Ci dirigemmo da Leuwarde verso la città di Freek, a traverso uno dei tratti più fertili della Frisia, per una bella strada ammattonata e pulita come un marciapiede di Parigi; e arrivammo, dopo un breve cammino, a una casa dinanzi alla quale il mio compagno s’arrestò e disse in tuono grave: “Ecco il friesche hiem del contadino frisone, la vecchia fattoria degli antenati.” Era una casa di mattoni, con le persiane verdi e le tendine bianche, coronata d’alberi e posta in mezzo a un giardinetto circondato da un fosso pieno d’acqua. Accanto a questa casetta, c’era un fienile formato di gigantesche travi di pino di Norvegia e coperto da un enorme tetto di canne; e in questo fienile la stalla, difesa da una gran parete di legno. Entrammo nella stalla. Le vacche, come nella Nord-Olanda, non hanno strame, e sono unite a due a due, colla coda legata alle travi del soffitto, perchè non s’insudicino. Dietro di esse corre un rigagnolo profondo che porta via le immondizie. Il pavimento, le pareti, gli animali stessi sono pulitissimi, e non mandano punto cattivo odore. Mentre io osservavo in ogni parte quel salotto animalesco, il mio compagno, che era un erudito agronomo, mi dava dei preziosi ragguagli intorno alla campagna frisona. In un podere di trenta o trentacinque ettari si suol tenere un cavallo e settanta bestie bovine. Per ogni ettare c’è una vacca da latte, e in quasi tutti i poderi otto o dieci grandi pecore, col latte delle quali si fanno dei piccoli formaggi cercati come una ghiottoneria sopraffina in tutte le città della Frisia. Tuttavia il prodotto principale, in Frisia, non è il formaggio, come nella Nord-Olanda; ma il burro. La stanza dove si fa il burro è il penetrale sacro della casa dei contadini. C’entrammo, e non fu piccola concessione quella che ci venne fatta, perchè i profani sono pregati per il solito di fermarsi sulla soglia della porta. Era una stanza pulita come un tempietto e fresca come una grotta, nella quale si vedevano molte file di vasi di rame pieni fino all’orlo di latte munto allora allora, e già coperto di un denso strato di fiore. La zangola era messa in movimento da un cavallo, come s’usa in quasi tutta la Frisia. A una parete era appeso un termometro, le finestre erano ornate di tendine, e sul davanzale si vedeva un bel vaso di giacinti. Questo burro di Frisia è così squisito, mi diceva il compagno, che sul mercato di Londra, dove se ne porta una quantità immensa, si vende a un prezzo esorbitante. Anno per anno se ne raccolgono nei varii mercati della provincia da sette a otto milioni di chilogrammi. Il burro è posto in certi bariletti di quercia di Russia, del peso di venti o quaranta chilogrammi ciascuno, che vengono portati al Peso Municipale delle città della Frisia. Qui un perito li esamina, li assaggia, li pesa e poi ci mette il suggello delle armi della città; dopo la quale operazione sono trasportati ad Harlingen, e caricati sopra uno steamer, che li reca sulle rive del Tamigi. Questa è la nostra ricchezza, concluse il cortese frisone, colla quale ci consoliamo della mancanza delle palme e degli aranci che avete voi, prediletti dalla natura. E terminò, a proposito di aranci e di burro, raccontandomi di quel generale spagnuolo, che un giorno mostrò un arancio a un contadino frisone e gli disse con orgoglio: “Questo è un frutto che il nostro paese produce due volte all’anno!” e il contadino, ponendogli sotto gli occhi un pane di burro, gli rispose: “E questo è un frutto che il nostro paese produce due volte al giorno!” E il generale rimase senza parola.

Il contadino che ci accompagnava, ci permise di dare una capatina in una stanza dove sua moglie e la sua figliuola, l’una col casco d’oro e l’altra col casco d’argento, lavoravano sedute di qua e di là d’un tavolino. Pareva una stanza apparecchiata appositamente per gli stranieri curiosi. V’erano dei grandi armadi di forma antica, degli specchi colle cornici dorate, delle porcellane chinesi, dei vasi da fiori scolpiti, delle argenterie esposte sugli stipi. “E il meno è quello che si vede,” mi susurrò nell’orecchio il mio compagno, vedendomi dar segno di meraviglia. “Quegli armadi sono pieni di biancheria, di gioielli, di vesti di seta; e vi son dei contadini che hanno i piatti, le tazze, le caffettiere d’argento; e ve n’è persino di quelli che si fan fare le posate e le scatole da tabacco d’oro massiccio. Guadagnano molto, vivono economicamente, e spendono il frutto dei loro risparmi in oggetti di lusso.” Questo spiega perchè nei più piccoli villaggi ci sian delle botteghe di gioiellieri quali non si trovano in molte grandi città europee. Ci son contadine che comprano delle collane di corallo del valore di mille lire e che hanno nelle loro cassette per più di diecimila fiorini tra anelli, buccole, spille, gingilli. E vivono economicamente, è vero, durante la maggior parte dell’anno; ma i giorni di grandi feste, nelle occasioni di matrimonio, al tempo delle Kermesses, quando vanno in città per divertirsi, s’installano nei primi alberghi, pigliano i più bei palchi al teatro dell’opera e stappano tra un atto e l’altro delle brave bottiglie di Champagne. Un contadino che possegga un capitale di centomila lire non passa punto per ricco, poichè sono moltissimi quei che ne possedono duecento mila, trecento mila, un mezzo milione, ed anche molto di più.

Il carattere di questi contadini (e quello che si dice dei contadini si può dire di tutti i Frisoni) è per testimonianza universale ed antica, maschio, aperto, generoso.—Che peccato che non siate un Frisone!—dicono a una persona che stimano. Sono alteri della nobiltà della loro razza, che credono la prima della grande famiglia germanica, e si vantano d’essere il solo popolo di quella famiglia, che abbia conservato il suo nome dopo i tempi di Tacito. Molti credono ancora che il loro paese sia stato chiamato Frisia da Frisio, figliuolo di Alano, fratello di Mesa, nipote di Sem, e s’inorgogliscono di quest’origine antica. L’amore della libertà è il loro sentimento dominante, «I Frisoni,—dice il loro vecchio codice,—saranno liberi fin che i venti soffieranno nelle nuvole e fin che durerà il mondo.» È la Frisia, infatti, che manda al Parlamento i deputati più arditi della parte liberale. La popolazione è quasi tutta protestante, e gelosissima della sua fede, e non meno che della fede, della lingua, illustrata da un grande poeta popolare, e coltivata tuttora con grande amore. Il contadino in particolare, dice il Laveleye, cita con alterezza gli uomini illustri che nacquero sotto l’ hiem frisone, i due poeti Gisberto Japhis e Salverda, il filologo Tiberio Hem sterhuis e suo figlio Frans, l’amabile e profondo filosofo che la signora di Staël chiamava il Platone olandese.

Strada facendo verso Leuwarde, incontrammo parecchi carri di contadini tirati da quei famosi cavalli frisoni, che si dicono i primi trottatori del mondo. Hanno il pelo nero, il collo lungo, la testa piccina e piena di vita. I più belli son quelli allevati nell’isola di Ameland. Resistono meravigliosamente alla fatica; servono insieme al tiro e alle corse, e cosa singolare in un paese dove tutto si muove placidissimamente, i loro flemmatici padroni li fanno andar sempre di trotto serrato, anche per tirare i carri del fieno, e quando non han punto premura di arrivare. Le corse di questi cavalli, che si chiamano le harddraveryen, sono uno spettacolo antico e caratteristico della Frisia. In tutte le piccole città si prepara un’arena divisa in due vie parallele e diritte, sulle quali i cavalli corrono successivamente a due a due, e poi lottano fra loro i vincitori di ciascuna corsa fin che uno li abbia vinti tutti, e questo ottiene il premio. Il popolo accorre in gran folla a questo spettacolo, e l’accompagna con applausi e grida festose, come alle gare dei patinatori.

Arrivando a Leuwarde ebbi il più bello e più inaspettato incontro che potessi immaginare: un corteo nuziale di contadini. Erano più di trenta carrozze, tutte colla cassa della forma d’una conchiglia, altissime, coperte di dorature e di fiorami di pinti, e tirate da robusti cavalli neri, su ciascuna delle quali stava seduto un contadino vestito in gala, e una donnina rosea col casco d’oro e il velo bianco. I cavalli andavano di gran trotto, le donne, strette al braccio dei loro compagni, gettavano confetti ai ragazzi della via, le trine sventolavano, i caschi mandavan lampi. Il corteo s’allontanò e disparve come una cavalcata fantastica in mezzo a un frastuono di risa, di schiocchi e di voci festose.

La sera, a Leuwarde, mi divertii a veder passare dinanzi alla porta dell’albergo le donne e le ragazze dalla testa luccicante, come un generale ispettore alla così detta rassegna annuale, quando i soldati sfilano uno per uno con armi e bagaglio. A un certo punto però, osservando che andavan tutte dalla stessa parte, seguii la corrente e riuscii in una vasta piazza, dove suonava una banda musicale, in mezzo a una gran folla, davanti a un edifizio con tutte le finestre illuminate, alle quali s’affacciavano di tratto in tratto dei signori in cravatta bianca, che dovevano essere là per un pranzo ufficiale. Benchè piovigginasse, la gente rimaneva immobile, e le donne essendo tutte in prima fila, formavano intorno alla banda un gran cerchio di caschi, che da lontano, al lume dei fanali e a traverso il velo della nebbia, pareva davvero una schiera di corazzieri a piedi, che tenesse indietro la folla. Mentre la banda suonava, una ventina di soldati di fanteria, raggruppati in un angolo della piazza, l’accompagnavano col canto, agitando il berretto e saltellando ora sur una gamba ora sull’altra cogli atteggiamenti grotteschi degli ubbriachi dello Steen e del Brouwer. La folla li guardava, e m’immagino che lo spettacolo le paresse straordinariamente bello e dilettevole, perchè rideva dai precordi, si alzava in punta di piedi, accennava, esclamava, applaudiva. Io mi fermai a osservare qualche bel viso di Frisona, che quando si vedeva guardata, mi vibrava uno sguardo pieno di orgoglio guerresco, e poi me n’andai a far conversazione con un libraio, cosa gradevolissima in Olanda, dove i librai sono generalmente molto colti e molto cortesi.

La notte, all’albergo, non potei quasi chiuder occhio per cagione d’uno scellerato pianista di campanile, il quale, forse perchè soffriva d’insonnia, si prese il barbaro piacere di dare alla città addormentata un saggio di tutte le opere del Rossini e di tutte le canzoni popolari dei Paesi Bassi. Non ho ancora parlato del meccanismo di questi organetti aerei, ed ecco com’è congegnato. L’orologio del campanile mette in movimento un piolo, il quale alla sua volta fa girare una ruota e un cilindro munito di cavicchi, simile a quello d’un organo di Barberia. A questi cavicchi, disposti nell’ordine voluto dalla melodia, sono attaccati dei fili di ferro i quali sollevano i battagli delle campane e i martelli che le percuotono. Quando suonan le ore, risponde un’arietta determinata; ma togliendo il cilindro, si possono suonare tutte le arie che si vuole, per mezzo di molle mosse da due tastiere, una delle quali si preme colle mani e l’altra coi piedi. Il suonare in questa maniera richiede una forza e uno sforzo considerevole, poichè alcuni dei tasti vogliono una pressione equivalente al peso di due libbre; eppure, è tale il piacere che i campanari trovano in questa musica, e che suppongono ci trovino anche gli altri, che suonano per ore intere con un vigore e una passione degna veramente di più grata armonia. Io non saprei dire se quel campanaro di Leuwarde suonasse bene; ma son certo che doveva avere dei muscoli erculei e una spaventosa passione per il Rossini. Dopo avermi addormentato col Barbiere, mi svegliò colla Semiramide, poi mi riaddormentò coll’ Otello, poi mi fece riaprir gli occhi col Mosè, e così di seguito. Era una gara fra noi due, egli a vibrarmi delle note e io a scagliargli delle maledizioni. Cessammo tutti due insieme a un’ora molto avanzata della notte, e non so, se avessimo fatto il conto, quale dei due sarebbe rimasto creditore. La mattina mi lamentai col cameriere, un olandese flemmatico, a cui credo che nessun rumore del cielo o della terra aveva mai turbato la dolcezza del sonno. “Ma sapete” gli dissi, “che questa vostra musica dei campanili è molto importuna?”—“Come,” mi rispose innocentemente, “non ha osservato che ci sono tutte le ottave coi tuoni e coi semi-tuoni?”—“Proprio?” gli dissi coi denti stretti. “Allora il caso è diverso: scusate. ”

La mattina per tempo partii per Groninga, recando con me, malgrado la persecuzione della musica, un caro ricordo di Leuwarde e delle poche persone che ci avevo conosciute, amareggiato però da un rammarico che mi dura ancora: quello di non aver visto scivolare sul ghiaccio le belle, ardite e severe figlie del Nord, che passano, come dice Alfonso Esquiroz, avvolte in una nuvola e coronate d’un nembo d’oro e di trine, simili a figure fantastiche intravvedute sognando.

La pianura olandese, che veduta la prima volta, desta un senso vago e gradevole di malinconia, e presenta nella sua uniformità mille aspetti nuovi e mirabili, che divagano l’immaginazione, finisce però col generare stanchezza e noia anche in chi sia per natura meglio inclinato a comprendere e a godere la sua maniera particolare di bellezza. Vien sempre un giorno, in cui lo straniero che viaggia in Olanda, sente improvvisamente un desiderio irresistibile di altezze che gli facciano sollevare gli occhi e il pensiero; di curve su cui lo sguardo possa salire, precipitare, aggirarsi; di forme che l’immaginazione possa animare con quelle vaghe e meravigliose rassomiglianze di dorsi di leoni, di fianchi di donne, di profili di visi e d’edifizi, che presentano i poggi, i monti, le rupi del suo paese. La mente e gli occhi sono sazi di spaziare e di smarrirsi per quel mare sconfinato di verzura: hanno bisogno di cime, d’abissi, d’ombre, di az zurro, di sole. Allora si è veduto abbastanza l’Olanda e si pensa alla patria con amore impaziente.

Provai per la prima volta questo sentimento andando da Leuwarde a Groninga, capitale della provincia del medesimo nome. Uggito di vedere, a traverso la nebbia, praterie dopo praterie e canali dopo canali, mi raggomitolai in un cantuccio del vagone e mi diedi a pensare ai poggi della Toscana e alle colline delle sponde del Reno, nello stesso modo che maestro Adamo di Dante pensava ai ruscelletti del Casentino. A una piccola stazione posta a mezza strada fra le due città, salì nel vagone un uomo che mi parve a primo aspetto, ed era infatti un contadino, biondo, corpacciuto, color di cacio fradicio, come dice il Taine dei contadini olandesi, vestito pulitissimo, con una gran ciarpa di lana intorno al collo e una grossa catena d’oro al panciotto. Mi diede un’occhiata benevola e mi sedette davanti. Il treno ripartì. Io continuavo a pensare alle mie colline, e di tratto in tratto mi voltavo a guardar la campagna colla speranza di qualche cangiamento di paesaggio, e vedendo sempre pianura, facevo, senz’accorgermene, un atto che voleva dire che ero ristucco. Il contadino guardò per qualche tempo ora me ed ora la campagna; poi sorrise, e pronunziando le parole con grande sforzo, mi disse in francese:

“Noioso..... non è vero?”

Gli risposi in fretta di no, che non m’annoiavo punto, che anzi la campagna olandese mi piaceva.

“Eh no.....” riprese sorridendo, “noioso: tutto piano,” e accennava con tutt’e due le mani; “non c’è montagne.”

Dopo qualche momento, impiegato a tradurre mentalmente il suo pensiero, mi domandò, accennandomi col dito: “Di che paese?”

“D’Italia,” risposi.

“Italia,” ripetè sorridendo. “Ci son molte montagne?”

“Moltissime,” risposi, “da coprirne tutti i Paesi Bassi.”

“Io,” soggiunse, accennando sè stesso, “non ho mai visto una montagna in vita; non so che sia; nemmeno le colline della Gheldria.”

Un contadino che parlava francese per me era già una cosa straordinaria; ma un uomo che non aveva mai visto nè una montagna nè una collina, mi pareva una creatura favolosa. Perciò lo interrogai, e gli cavai di bocca delle cose assai strane.

Egli non era mai stato più lontano che ad Amsterdam, non aveva mai veduto neanco la Gheldria, che è la sola provincia montuosa della Neerlandia; e perciò non aveva idea di che cosa fosse una montagna, se non per le immagini che ne aveva viste nei quadri e nei libri. Le più grandi altezze a cui si fossero mai sollevati i suoi occhi erano le punte dei campanili e le cime delle dune. E quello ch’era di lui, è di migliaia d’Olandesi, i quali dicono:—Vedrei volentieri un monte,—come noi diremmo:—Vedrei volentieri le piramidi d’Egitto.—Mi disse in fatti che appena avesse potuto, sarebbe andato a vedere il Wiesselschebosch. Gli domandai che cosa fosse il Wiesselschebosch. Mi rispose che era una montagna della Gheldria, vicina al villaggio di Apeldoorn, una delle più alte del paese. “Quanto è alta?” domandai. “Cento e quattro metri,” mi rispose.

Ma quel buon uomo doveva ben altrimenti farmi stupire.

Di lì a qualche momento mi ridomandò: “Italia?”

“Italia,” ripetei.

Stette un po’ pensando, e poi disse: “Fu respinta la legge sull’istruzione obbligatoria, vero?”

Oh cospetto!—dissi tra me;—stiamo a vedere che è abbonato alla Gazzetta ufficiale. In fatti, pochi giorni prima la Camera aveva respinto il progetto di legge per l’istruzione obbligatoria.

Gli risposi quel poco che sapevo.

Dopo un po’, sorrise, cercò, mi parve, una frase, e poi mi domandò:

“E Garibaldi continua.....” qui fece l’atto di zappare, e poi soggiunse: “.....la sua isola?”

Un’altra! “Continua,” risposi, e lo guardai con tanto d’occhi, stentando a persuadermi che fosse un contadino, benchè non ci potesse esser dubbio.

Stette un po’ senza parlare e poi disse:

“Voi,” e appuntò il dito verso di me, “avete perduto un grande poeta.”

A questa uscita, poco mancò che non facessi un salto.

“Sì, Alessandro Manzoni,” risposi; “ma come diamine sapete tutte queste cose? ”

Or ora, pensai, costui mi mette sul tappeto la questione dell’unità della lingua.

“Ma ditemi un po’,” gli domandai, “sapreste per caso anche la lingua italiana?”

“No, no, no,” rispose scrollando la testa e ridendo; “niente, niente.”

Detto questo, continuò a ridere e ad almanaccare, e mi parve di capire che mi preparasse qualche sorpresa. Intanto il treno si avvicinava a Groninga. Quando fummo per entrare sotto la tettoia della stazione, il buon uomo prese il suo involto, mi guardò di nuovo sorridendo, e segnando le sillabe coll’indice della mano destra, mi disse in italiano, con una pronunzia impossibile ad esprimersi, e coll’aria di chi fa una grande rivelazione:

“Nel mezzo!”

“Nel mezzo?” gli domandai meravigliato. “Nel mezzo di che cosa?”

“Nel mez-zo del cam-min di no-stra vi-ta!” disse facendo un grande sforzo e saltando giù dal vagone.

“Un momento!” gli gridai; “Sentite! Una parola! Come mai.....”

Era scomparso.

Avete capito che razza di contadini c’è in Olanda? E dico, potrei far sacramento che non ho aggiunto una mezza parola di mio.

GRONINGA.

La Groninga è forse di tutte le provincie dei Paesi Bassi quella che la mano dell’uomo ha più meravigliosamente trasformata.

Nel sedicesimo secolo, una gran parte di questa provincia era ancora disabitata. Era un paese di aspetto sinistro, coperto di sterpeti, d’acque stagnanti, di laghi tempestosi, e inondato ogni momento dal mare; nel quale erravano frotte di lupi e sciami innumerevoli d’uccelli acquatici, e non si sentiva altra voce che il canto dei ranocchi e il lamento dei daini. Tre secoli di lavoro coraggioso e paziente, smesso più volte senza speranza e poi ripreso con maggiore ostinazione, e condotto a fine in mezzo a ogni sorta di difficoltà e di pericoli, hanno trasformato quella regione selvaggia e spaurevole in una terra fertilissima, intersecata da canali, popolata di fattorie e di ville, dove fiorisce l’agricoltura, ferve il lavoro, circola il commercio, e brulica e si espande una popolazione agiata e civile. La Groninga, la quale nel secolo scorso era ancora una provincia povera, che pagava allo Stato una metà meno della Frisia e dodici volte meno dell’Olanda propriamente detta, è ora, rispetto all’estensione del suo territorio, una delle provincie più ricche del regno, e produce da sè sola i quattro decimi dell’avena, dell’orzo e della colza che si raccolgono nei Paesi Bassi.

La parte più florida della Groninga è la settentrionale, e lo è a tal segno, da non potersene formare una giusta idea, se non percorrendo quelle campagne; nè io potrei, benchè le abbia percorse, descriverle meglio che aggiungendo le mie osservazioni e quelle che raccolsi dai Groninghesi, alle descrizioni che ne danno l’agronomo francese Conte di Courcy, il quale pure non fece che attraversar di volo il paese, e il belga Delaveleye, autore d’una bell’opera sull’economia rurale della Neerlandia, ch’ebbi già occasione di rammentare.

Le case dei contadini sono straordinariamente grandi, e hanno quasi tutte due piani, e molte finestre, ornate di ricche tendine. Fra la strada e la casa v’è un giardino piantato d’alberi esotici e coperto d’aiuole fiorite; e accanto al giardino un orto pieno di belli alberi fruttiferi e d’ogni sorta di legumi. Dietro la casa, s’alza un edifizio enorme, che racchiude sotto un solo tetto altissimo, la stalla, la scuderia, il fienile, e un grande spazio libero che può contenere il raccolto di cento ettari. In questo edifizio si vede ogni sorta di strumenti d’agricoltura d’Inghilterra e d’America, molti dei quali perfezionati dagli stessi contadini; delle file lunghissime di vacche, degli stupendi cavalli neri, e una pulizia meravigliosa in ogni parte. La casa dei contadini, nell’interno, può reggere il confronto di qualunque casa signorile. Vi si trovan dei mobili di legno d’America, dei quadri, dei tappeti, il pianoforte, la biblioteca, dei giornali politici, delle riviste mensili, le più recenti opere d’agricoltura, e non di rado l’ultimo fascicolo della Revue des deux mondes. Benchè amino il lusso e la vita agiata, questi contadini hanno conservato i costumi semplici dei loro padri. La maggior parte di essi, possessori d’un mezzo milioncino di lire, o di poco meno, o di molto di più, non sdegnano di metter mano all’aratro e di dirigere in persona i lavori dei campi. Alcuni mandano uno dei loro figliuoli all’Università, il che non è piccolo sacrifizio, perchè si conta che uno studente costi su per giù ai suoi parenti quattromila lire all’anno; ma la maggior parte sdegnano come inferiori al loro stato le professioni di medico, d’avvocato, d’insegnante, e vogliono che tutti i loro figliuoli rimangano alla campagna. Questi contadini sono alla testa del paese, e non v’è altra classe della popolazione che s’innalzi sopra di loro. Fra loro son scelti quasi tutti i membri dei varii Corpi elettivi, e persino dei deputati agli Stati Generali. Le cure della campagna non li distolgono dal pigliare una parte operosa nella vita politica e nell’amministrazione della cosa pubblica. Non solamente seguono il progresso dell’arte agricola; ma anco il movimento del pensiero moderno. Ad Haven, vicino alla città di Groninga, mantengono a proprie spese una buonissima scuola d’agricoltura, diretta da un agronomo illustre, e frequentata da più di cinquanta scolari. Anche i piccoli villaggi hanno musei di storia naturale e giardini botanici, istituiti e conservati a spese comuni da poche centinaia di contadini. Le contadine stesse, nei giorni di mercato, vanno a visitare i musei dell’Università di Groninga, e vi si trattengono lungamente, domandando notizie e istruendosi fra loro. Alcuni contadini fanno di tratto in tratto un viaggio d’istruzione nel Belgio o nell’Inghilterra. La maggior parte s’occupano di quistioni teologiche. Molti appartengono alla sètta dei mennoniti, che sono i quaccheri dell’Olanda. Il Delaveleye racconta che, avendo visto sulla strada che congiunge i due bei villaggi di Usquert e di Uythuysen, quattro bellissime fattorie, domandò a un oste a chi appartenevano, e questi gli rispose: che appartenevano a dei mennoniti, e soggiunse:—Son gente comoda: devono avere ciascuno almeno seicento mila lire.—Ho inteso dire,—ripigliò il Delaveleye—che fra i membri di questa sètta non ci sono poveri: è vero, per ciò che riguarda questo distretto?—Non è vero,—gli rispose l’oste;—cioè, sì, a esser giusti, perchè il solo po vero che c’era, è morto pochi giorni fa, ed ora non ce n’è più.—I costumi severi, l’amore del lavoro e la carità reciproca bandiscono la miseria da quelle piccole comunioni religiose, nelle quali tutti si conoscono, si sorvegliano e s’aiutano. La Groninga, insomma, è come una specie di repubblica governata da una classe di contadini civili; un paese vergine e nuovo, nel quale nessun castello patrizio alza la testa sopra le case dell’agricoltore; una provincia dove ciò che la terra produce, resta nelle mani di chi la fa produrre, e l’agiatezza e il lavoro sono da per tutto congiunti, e l’ozio e l’opulenza da per tutto divisi.

Ma non sarebbe completa la descrizione, se tralasciassi di parlare del diritto speciale dei contadini della Groninga, chiamato beklem-regt, il quale si considera come la principale cagione dello Stato straordinariamente prospero di questa provincia.

Il beklem-regt è il diritto di occupare un podere col pagamento d’una rendita annua, che il proprietario non può mai aumentare. Questo diritto passa agli eredi così laterali che discendenti in linea retta, e il possessore può trasmetterlo per testamento, venderlo, affittarlo, ipotecarlo persino, senza il consenso del proprietario delle terre. Però, ogni volta che questo diritto passa da una mano all’altra o per eredità o per vendita, egli deve pagare al proprietario il fitto di uno o di due anni. Gli edifizii che son nel podere, appartengono, per lo più, al posses sore del beklem-regt, il quale, quando il suo diritto si estingua, può esigere il prezzo dei materiali. Il possessore del beklem-regt paga tutte le tasse, non può cangiar la forma della proprietà, non ne può scemare il valore. Il beklem-regt è indivisibile. Una sola persona lo può possedere, e per conseguenza uno solo dei suoi eredi riceverlo. Però, pagando la somma stipulata per il caso del passaggio del beklem-regt da una mano all’altra, il marito può far inscrivere sua moglie, e la moglie suo marito, e allora il consorte superstite eredita una parte del diritto. Quando il fittaiuolo cade in rovina, o non paga il fitto annuale, il beklem-regt non si estingue punto di primo diritto: i creditori possono farlo vendere; ma colui che lo compera deve prima di ogni cosa pagare al proprietario tutti i debiti arretrati.

L’origine di questo fitto ereditario è assai oscura. Nella Groninga pare che sia cominciato nel medio evo nei poderi dei conventi. Allora, avendo la terra pochissimo valore, i monaci accordavano facilmente ai coltivatori la possessione d’una certa parte dei loro poderi, colla condizione che pagassero loro ogni anno una certa somma, ed un’altra somma ad ogni decesso. Questo contratto assicurava al convento una rendita fissa e lo esimeva dall’occuparsi d’un podere che ordinariamente non produceva nulla. L’esempio dei conventi fu seguito dai grandi proprietari e dalle Corporazioni civili. Essi si riserbavano la facoltà di congedare il fittaiuolo di dieci in dieci anni; ma non si valevano di questa facoltà perchè, valendosene, avrebbero dovuto pagare il valore degli edifizii stati costruiti nelle loro terre, e non avrebbero trovato facilmente un altro fittaiuolo. Durante i torbidi del secolo decimosesto, il diritto diventò di fatto ereditario, o almeno parecchi bandi lo dichiararono tale. La giurisprudenza e l’uso determinarono i varii punti che erano oggetto di contestazione; fu redatta una formola più chiara, che venne generalmente accettata; e d’allora in poi il beklem-regt si mantenne accanto al codice civile, sempre rispettato, e si diffuse a poco a poco in tutta la provincia di Groninga.

I vantaggi che derivano all’agricoltura da questa maniera di contratto, sono facili a comprendersi. In virtù del beklem-regt, i coltivatori hanno un interesse continuo e fortissimo di fare ogni maggiore sforzo possibile per accrescere la produzione delle loro terre. Sicuri come sono, di godere essi soli il frutto di tutti i miglioramenti che possono introdurre nella coltivazione,—di non aver cioè,—come i fittaioli ordinari,—da pagare un fitto tanto più elevato, quanto meglio riescano ad accrescere la fertilità delle terre che coltivano,—essi tentano a questo scopo le imprese più ardite, introducono le novazioni più ardue, effettuano i miglioramenti più costosi. La ricompensa legittima del lavoro è il prodotto intero e certo del lavoro stesso. Quindi il beklem-regt è un potentissimo stimolo all’opera, allo studio, al perfezionamento.

Così un diritto bizzarro, ereditato dal medio evo, ha creato una classe di coltivatori che godono di tutti i beneficii della proprietà, eccetto che non ne serbano per sè tutto il prodotto netto, ciò che appunto li disporrebbe dalla coltivazione. Invece di fittaioli continuamente trepidanti di perdere le loro terre, avversi ad ogni innovazione costosa, soggetti ad un padrone e sempre intesi a nascondere la prosperità del loro stato, c’è in Groninga un popolo di usufruttuarii liberi, dignitosi, semplici di costumi, ma avidissimi d’un’istruzione, della quale comprendono tutti i vantaggi, e interessati a propagarla in tutti i modi; una classe di contadini che praticano la cultura, non come un lavoro cieco e un mestiere disdegnato; ma come una nobile occupazione, che richiede l’esercizio delle più alte facoltà dell’intelligenza e loro procura fortuna, importanza sociale, rispetto pubblico; dei contadini che sono economi nel presente, prodighi per l’avvenire, disposti ad ogni sorta di sacrifizi per fecondare i loro terreni, ingrandire le loro case, acquistare i migliori strumenti e le migliori razze d’animali; una popolazione rurale, infine, che è contenta del suo stato, perchè la sua sorte non dipende che dalla sua attività e dalla sua previdenza.

Finchè il possessore dei beklem-regt coltiva le sue terre egli stesso, il fitto ereditario non produce che buoni effetti. Cessano però questi buoni effetti dal punto che, valendosi del suo diritto di subafittare, egli cede ad un altro il diritto di usufruttare il podere per una data somma, colla quale continua a pagare il proprietario. In questo caso rinascono tutti gl’inconvenienti del sistema comune, colla differenza che qui il coltivatore deve mantenere due categorie di oziosi invece che una. Il subaffitto era rarissimo altre volte, poichè i prodotti della coltivazione bastavano appena a nutrire la famiglia del possessore del beklem-regt, quando questi coltivava egli stesso il podere. Ma dopo il rincaro di tutte le derrate alimentarie, e soprattutto dopo l’istituzione del commercio coll’Inghilterra, i guadagni sono abbastanza considerevoli, perchè il possessore del beklem-regt possa trovare un secondo fittaiuolo disposto a pagargli un fitto superiore alla rendita ch’egli deve fornire al proprietario; e per questo l’uso di subaffittare comincia a diffondersi, e diffondendosi maggiormente in avvenire, porterà delle conseguenze dannose.

Frattanto, quando si cerca quale potrà essere lo stato futuro della società umana, si suol desiderare che avvengano queste due cose: prima, un aumento crescente della produzione; secondo, una ripartizione della ricchezza conforme ai principii della giustizia. Ora un fatto che la giustizia richiede è che al lavoratore sia assicurato il godimento dei frutti del suo lavoro e dei suoi progressi. È dunque bello e consolante il vedere sulla riva estrema del Mare del Nord un uso antico, che risponde in qualche modo a codesto ideale economico, e che frutta a tutta una provincia una prosperità straordinaria ed equamente divisa.

A questa opinione del Delaveleye fu fatta, tra le altre, un’obbiezione capitale. La straordinaria proprietà della Groninga, gli si domandò, deriva veramente dal beklem-regt, da codesto affittamento ereditario, che pure produsse altrove delle conseguenze affatto diverse, o piuttosto dalla fertilità eccezionale di quelle terre? Il Delaveleye respinge questo dubbio, dicendo che quella stessa straordinaria prosperità e quello stesso perfezionamento della cultura esistono nella zona torbosa della Groninga, che è tutt’altro che fertile; e che non si trovano, d’altra parte, se non in grado molto inferiore, nella Frisia, dove il terreno è di uguale natura. Se poi l’affittamento ereditario non ha prodotto in altri paesi le medesime conseguenze che nella Groninga, gli è perchè in quei paesi fu od è praticato diversamente, esempio alcune provincie d’Italia, dove il condotto di livello, ch’è presso a poco un beklem-regt, inceppa la libertà del coltivatore, coll’obbligo di dare ogni anno al proprietario una quantità determinata di un certo prodotto. Tutti gli economisti olandesi, conchiude, sono concordi nel riconoscere gli eccellenti effetti di quest’uso, affermando che la Groninga deve al beklem-regt la sua ricchezza, e nei congressi agricoli che trattano codesta quistione, prevale il desiderio che siffatta maniera di contratto venga adottata anco nelle altre provincie.

Proseguendo la mia escursione a traverso la campagna groninghese, arrivai sino alla costa del Mare, del Nord, presso l’imboccatura del golfo di Dollart. Questo golfo non esisteva prima del tredicesimo secolo. Il fiume Ems sboccava di punto in bianco nel mare, e la Groninga era congiunta all’Annover. Il mare distrusse la regione torbosa, che si stendeva fra quelle due provincie, e formò il golfo il quale dal sedicesimo secolo si va lentamente restringendo per effetto del limo che si accumula lungo le sue coste. Già molte dighe, costruite l’una dinanzi all’altra, segnano le conquiste che fece la terra sul mare, e se ne innalzano continuamente delle nuove le quali accrescono via via il dominio agricolo della Groninga, facendo fiorire bellissimi campi d’orzo e di colza dove pochi anni innanzi infuriavano le onde e naufragavano i battelli dei pescatori. È bello il vedere dall’alto delle dighe che difendono quelle coste, come s’incontrano, si confondono e si trasformano il mare e la terra. Ai piedi della diga si stende un limo acquoso già coperto in gran parte di erba e di pianticelle verdi; un po’ più in là, una mota rappresa, che già è terra; più oltre, un fango umido che digrada a poco a poco in un’acqua densa e torbida; e di là da questa, dei banchi di sabbia, alcuni dei quali si sollevano in modo da formare delle dune e delle isolette. In una di queste isole, chiamata Rottum, abitava, anni sono, una famiglia, che viveva della caccia delle foche; delle altre si raccontano cose strane, come di romiti misteriosi, di apparizioni, di mostri. Gli stagni d’acqua limosa che si stendono ai piedi delle dighe si chiamano Wadden, ossia polders nello stato di formazione, e son terreni coperti dall’acqua durante l’alta marea, i quali si sollevano a mano a mano che le correnti dell’Ems e del Zuiderzee vanno a deporvi dei nuovi strati di argilla. Durante la marea bassa, gli armenti li guadano; in qualche punto, vi passan le barche; dei grandi stormi d’uccelli marini vi scendono per nutrirsi delle conchiglie che vi ha lasciato il riflusso. Fra meno di cent’anni, saranno scomparsi uccelli, bassi fondi, barche, stagni, bracci di mare; le isole saranno dune che difenderanno la costa, e l’agricoltore farà sorgere da questa nuova terra una vegetazione lussureggiante e benefica. Così da questo lato l’Olanda s’avanza vittoriosamente nel mare, vendicando le antiche ingiurie col ferro dell’aratro e colla lama della falce.

Con tutto ciò, non mi sarei formato un concetto della ricchezza delle campagne groninghesi, se non avessi avuto la fortuna di vedere il mercato di Groninga.

Ma prima di parlare del mercato, occorre parlare della città.

Groninga, così nominata, secondo alcuni, da Grunio Troiano, e fondata, secondo altri, centocinquanta anni prima dell’èra cristiana, intorno a una fortezza romana che Tacito chiama Corbulonis monumentum (tutte cose affermate e negate, senza conclusione, da parecchi secoli); è la città più considerevole dell’Olanda settentrionale per vastità e per commer cio; ma forse la meno curiosa per uno straniero. È posta sur un fiume chiamato Hunse, nel crocicchio di tre grandi canali che la congiungono con parecchie altre città commerciali; è circondata da alti bastioni, costruiti nel 1698 dal Coehorn, il Vauban olandese; ed ha un porto, che sebbene sia lontano parecchie miglia dalle foci dell’Ems, può ricevere i più grandi bastimenti mercantili. Le strade e le piazze sono vastissime, i canali larghi come quei di Amsterdam, le case più alte che in quasi tutte le altre città olandesi, le botteghe degne di Parigi, la pulizia degna di Broek; nulla di strano nelle forme, nei colori, nell’aspetto generale. Arrivando da Leuwarde, pare di essersi avvicinati di cento miglia ai nostri paesi, di essere rientrati in Europa, di sentir l’aria della Germania e della Francia. La sola singolarità di Groninga son certe case coperte d’un intonaco grigiastro, incrostato di piccolissimi pezzetti di vetro, che quando vi batte su il sole, brillano d’una luce strana, per cui pare che i muri siano tempestati di perle e di bullette d’argento. V’è un bel palazzo municipale, costruito durante la dominazione francese, una piazza del Mercato che ha nome di essere la più grande piazza dell’Olanda, e una vasta chiesa, dedicata anticamente a San Martino, che presenta vari tratti notevoli delle diverse fasi dello stile gotico, ed ha un altissimo campanile di cinque piani rientranti, che par formato di cinque piccole torri di chiese diverse poste l’una sull’altra.

Groninga ha un’Università, per la quale è onorata dalle città vicine del nome d’Atene del Nord. Quest’Università, posta in un edifizio nuovo e vastissimo, non ha che un piccolo numero di studenti, poichè i contadini, i soli ricchi della provincia, mandano raramente i loro figliuoli agli studi, e i ricchi signori della Frisia vanno a studiare a Leida. Ma è tuttavia un’Università degna di stare accanto alle altre due. V’è un bel gabinetto di anatomia e un museo di storia naturale che contiene molti oggetti preziosi. Il programma degli studi è poco diverso da quello delle altre due Università; ne differisce solamente la direzione, la quale, per la vicinanza dell’Annover, subisce l’influsso della scienza e della letteratura tedesca, e presenta un carattere religioso suo proprio. I teologi di Groninga, dice Alfonso Esquiroz nel suo Studio sulle Università olandesi, formano, nel movimento intellettuale dei Paesi Bassi, una scuola a parte, la quale nacque, verso il 1833, nel seno stesso della città ortodossa per eccellenza: Utrecht. Un professore di Utrecht, il signor Van Heusde, cercò di aprire un nuovo orizzonte alle credenze religiose; il signor Hofstede de Goot, allievo dell’Università di Groninga, partecipe delle sue idee, gli si unì; e in tal modo si formò il nucleo d’una società teologica, residente in questa città, la quale ribellandosi al protestantismo sinodale, e negando formalmente ogni autorità umana in materia di religione, vuol iniziare un tipo di cristianesimo proprio della Neerlandia, di cui sarebbe difficile dare un’idea chiara, per la ragione che ne danno una molto oscura coloro stessi che lo professano e lo propugnano cogli scritti. In tutte queste dottrine eterodosse, osserva a tal proposito l’Esquiroz, le quali possono senza grave pericolo introdursi nel paese, perchè, in mezzo al movimento continuo delle idee religiose, rimangon fermi ed immutabili gli usi, le tradizioni, le forme dell’antica fede; v’è un punto grave e delicato sul quale gli ortodossi cercano di mettere gli avversari tra l’uscio e il muro, e non ci riescono: la divinità di Gesù Cristo. Su questo punto, il pensiero degli ortodossi si avvolge in una nuvola. Gesù Cristo, per loro, è il tipo più perfetto dell’Umanità, l’inviato di Dio, l’immagine di Dio. Ma è egli Dio in persona? Questa questione essi la scansano con ogni sorta di sottigliezze scolastiche. Alcuni, per esempio, dicono di credere alla sua divinità, ma non alla sua deità: risposta oscura tanto che equivale quasi a una negazione. Per il che si può considerare la dottrina degli eterodossi olandesi come un deismo sentimentale, più o meno legato alla poesia delle forme cristiane. Con tutto ciò l’ardore delle questioni religiose va scemando da molti anni in qua. Gli studenti dell’Università di Groninga s’occupano più volentieri di letteratura e di scienza, al quale scopo formano tra loro delle Società in cui fanno letture e studi in comune, soprattutto di scienze applicate, la quale predilezione è uno dei caratteri più notevoli della razza frisona, con cui il popolo groninghese ha molti tratti di somiglianza e molti vincoli di parentela. Gli studenti di Groninga sono più quieti e più studiosi di quei di Leida, i quali, per quanto si può essere scapati in Olanda, hanno la riputazione di scapati.

Oltre la gloria dell’Università, che data dal 1614, Groninga ha quella di parecchi uomini illustri nelle scienze e nelle arti, dei quali è dilettevole udir parlare, col suo stile vivo e forbito, messer Ludovico Guicciardini, che pare avesse per questa città una particolare simpatia. Primissimo egli pone Ridolfo Agricola, «al quale, tra li altri autori, Erasmo nelli suoi scritti dà lodi immense, dicendo che di qua da monti nelle doti litterali, non è mai stato maggior huomo, nè più complito di lui, & che non è alcuna honesta disciplina, nella quale egli con qual si voglia artefice non potesse contendere: intra i Greci Grecissimo, intra i Latini Latinissimo, in Poesia un altro Virgilio, nell’orationi un altro Politiano, eloquentissimo, Philosofo, musico, & scrittore di più Opere degne, con altre gratie & felicità rare che gl’attribuisce.» Rammenta in seguito «il Vesello, cognominato Basilio, Philosofo eccellente, di tanta dottrina, virtù & scienza in ogni facultà, come apparisce per infinite sue opere, scritte & date alla stampa, che si chiamaua per sopra nome la luce del mondo;» e dice che per timore di non poter lodare degnamente questo Vesello e quell’Agricola, i quali sono «le due stelle di Groeninghen,» preferisce tacere «& lasciare il foglio bianco, per chi saprà più di lui esaltare il nome & la patria loro.» Cita in fine il nome «d’un altro grande huomo, cittadino altresì della medesima terra, appellato Rinieri Predinio, autore degnissimo di diuersi libri scritti con sommo honore, & laude.» Oltre ai quali si possono rammentare il famoso orientalista Alberto Schultens, il barone Ruperda, Abramo Frommins, ed altri.

Nei costumi e nell’aspetto del popolo, non v’è per uno straniero una differenza molto notevole dalla Frisia. Differiscono soltanto i caschi delle donne. A Leuwarde la maggior parte sono d’argento; a Groninga son tutti d’oro, e della forma perfetta d’un casco, che copre la testa intera; ma se ne vede assai meno. Le signore, s’intende, non lo portano più; le ricche contadine l’hanno smesso anch’esse, per far come le signore; e oramai non son più che le serve, le quali possano vantarsi discendenti legittime delle vergini armate, che secondo l’antica mitologia germanica, presiedevano alle battaglie.

Riguardo ai costumi, ebbi da un personaggio di Groninga delle notizie preziose, che credo non si trovino in nessun libro di viaggi. Là le consuetudini che informano la vita delle ragazze e delle donne maritate sono affatto diverse da quelle dei nostri paesi. Fra noi una ragazza che si marita esce da uno stato di soggezione e direi quasi di prigionia, per entrare in una vita libera, nella quale si trova improvvisamente circondata dalla considerazione, dagli omaggi e dai corteggiamenti della gente che prima la trascurava. Là invece la libertà e la galan teria sono un privilegio delle ragazze, e le signore vivon raccolte, vincolate da mille riguardi, avvicinate con mille cautele, circondate d’un freddo rispetto, quasi neglette. I giovanotti non si dedicano che alle signorine, e in questo è concessa loro una grande libertà. Un giovane, che frequenti una famiglia, se anche non è un amico dei più intimi, offre alle ragazze, o pure ad una ragazza, di accompagnarla al concerto o al teatro, in carrozza, di notte, da solo a sola, e non c’è nè padre nè madre che vi si opponga; e chi vi si opponesse, passerebbe per sciocco o per villano, e sarebbe deriso o biasimato. Un giovane e una signorina rimangon fidanzati per molti anni; e per tutto questo tempo, si vedono ogni giorno, vanno a passeggiare insieme, stanno in casa soli, e la sera, prima di separarsi, fanno una conversazione di mezz’ora sulla soglia della porta, senza testimoni. Ragazze di quindici anni, delle prime famiglie, attraversano la città da un capo all’altro per andar alla scuola e per tornare a casa, anche sul far della notte, sole, e dovunque si fermino e con chiunque parlino, nessuno vi bada. All’opposto, della menoma libertà che si pigli una signora, si fa un dire infinito; il che però occorre così raramente, da poter quasi dire che non occorre mai. “I nostri giovani,” mi diceva quel signore, “non sono punto pericolosi. Sanno fare i galanti colle signorine, perchè le signorine son timide, e la loro timidità gli incoraggia; ma colle signore non ci hanno il verso. A mia memoria, in questa città non vi sono stati che due casi notorii d’infedeltà coniugale.” E mi specificò i casi. “Così è, caro signor mio,” soggiunse poi, battendomi una mano sul ginocchio, “qui non si fanno altre conquiste che in agricoltura, e chi vuol farne in un altro campo, bisogna che si compiaccia di far attestare da un notaro, ch’egli ha intenzione di combattere secondo le leggi della buona guerra e coll’onesto fine della pace.” Argomentando falsamente dal mio silenzio, che quello stato di cose non m’andasse a’ versi, “Tale è il nostro modo di vivere,” soggiunse; “noioso, se volete; ma sano. La vita voi la tracannate, noi la beviamo a lenti sorsi. Voi godrete qualche volta di più; ma noi siamo più continuatamente contenti.”—“Dio vi benedica,” io dissi. “Dio vi converta,” rispose.

Ma veniamo al mercato, che è l’ultimo spettacolo vivo ch’io vidi in Olanda.

La mattina per tempo feci un giro intorno alla città per veder arrivare i contadini. Ogni ora arrivava un treno che ne versava una folla; da tutte le strade della campagna venivan carrozze variopinte, tirate da bei cavalli neri, sulle quali sedevano maestosamente delle coppie coniugali; per tutti i canali giungevano barconi a vela carichi di derrate; in poche ore la città fu piena di gente e di rumore. I contadini son tutti vestiti d’un panno quasi nero, hanno un cravattone di lana intorno al collo, guanti, catenelle, gran portafoglio di bulgaro, sigaro in bocca, e un faccione di cor contento. Le contadine sono infiorate, rinfronzolite, ingioiellate, come le madonne delle chiese spagnole. Terminate le loro faccende, si spandono per le trattorie e per le botteghe, non già come i nostri contadini, che guardano qua e là timidamente coll’aria di chiedere il permesso d’entrare; ma con viso e piglio di gente che sa di essere da per tutto desiderata e inchinata. Nelle trattorie, le tavole si coprono di bottiglie di vino di Bordeaux e di vino del Reno; nelle botteghe, i fattorini si sbracciano a tirar giù roba. Le contadine vi son ricevute come principesse e vi spendono infatti principescamente. Seguono, per esempio, di queste scene, che intesi raccontare da testimoni oculari. Un mercante dice a una signora di città il prezzo d’una veste di seta.—Troppo caro,—risponde la signora.—La piglio io;—dice una contadina che le è accanto, e se la piglia. Un’altra contadina va a comprare un pianoforte. Il negoziante glie ne fa veder uno che costa mille lire.—Non ne avrebbe di più cari?—essa domanda;—dei pianoforti di mille lire ne hanno anche le mie amiche.—Marito e moglie passano dinanzi alla vetrina di un venditore di stampe, vedono un bel paesaggio a olio colla cornice d’oro, si fermano, vi scoprono una vaga rassomiglianza colla loro casa e il loro podere; la moglie dice:—Compriamolo?—il marito risponde:—Compriamolo!—entrano nella bottega, mettono sul banco trecento fiorini l’un sull’altro, e si portan via il quadro. Quando hanno fatto le loro compre, vanno a vedere i Musei, entrano nei caffè a legger giornali, o fanno un giro per la città guardando con aria pietosa tutto quel popolo di bottegai, d’impiegati, di professori, d’uffiziali, di proprietari, che in altri paesi sono invidiati da chi lavora la terra, e che a loro paion povera gente. Chi non sapesse come stanno le cose, crederebbe, a veder quello spettacolo, di essere capitato in un paese dove una grande rivoluzione sociale abbia tutt’a un tratto fatto passare la ricchezza dai palazzi alle capanne, e i nuovi ricchi sian venuti dalla campagna in città per beffare i signori spogliati. Ma il più bello è la sera, quando ritornano alle loro fattorie e ai loro villaggi. Allora per tutte le strade della campagna si vedono quei bizzarri veicoli correre rapidissimamente, cercando di passar gli uni davanti agli altri; le donne stesse stimolano i cavalli, per riuscir vittoriose nella gara; i vincitori fanno schioccare la frusta in segno di trionfo: l’aria echeggia di risa e di canti; fin che il turbinio festoso dispare nel verde infinito della campagna cogli ultimi barlumi del tramonto.

DA GRONINGA AD ARNHEM.

A Groninga voltai le spalle al Mare del Nord, il viso alla Germania, il cuore all’Italia, e cominciai il mio viaggio di ritorno attraversando rapidamente le tre provincie olandesi della Drenta, dell’Over-Yssel e della Gheldria, che si stendono intorno al golfo di Zuiderzee, fra quella della Frisia e quella d’Utrecht; una parte dell’Olanda, che, visitata tratto per tratto, riuscirebbe uggiosa a chi non viaggia con curiosità d’agronomo o di naturalista; ma che, vista di volo, lascia in chi abbia sentimento della natura, un’impressione incancellabile. Per tutto il tempo del viaggio, il cielo fu quale si conveniva all’aspetto del paese: grigio ed eguale; ed io fui quasi sempre solo. Così godetti lo spettacolo in tutta la sua trista bellezza, e in silenzio.

Uscendo dalla provincia di Groninga, si entra in quella della Drenta, e si vede un cangiamento improvviso nell’aspetto del paese. Di qua e di là si stendono a perdita d’occhio campi immensi, coperti di sterpi, nei quali non si vedono nè strade, nè case, nè rigagnoli, nè siepi, nè alcun indizio d’abitazione o di lavoro. Qualche macchia di piccole quercie, che si considerano come traccie dell’esistenza di antiche foreste, sono la sola vegetazione che s’innalzi al di sopra della sterpaglia; le pernici, le lepri e i galli selvatici, i soli animali che richiamino il viaggiatore al sentimento della vita. Quando si crede d’essere alla fine della landa, la landa ricomincia; agli sterpeti succedono gli sterpeti, alla solitudine la solitudine. In questa triste pianura, si vedono qua e là dei monticciuoli, che altri crede siano stati innalzati dai Celti, altri dai Germani, nei quali, scavando, furon trovati vasi di terra, seghe, martelli, ossa calcinate, cocche di freccie, pietre da macinare il grano, anelli che si suppone servissero di monete. Oltre a questi monticciuoli, si ritrovarono, e rimangono tuttora degli smisurati massi di granito rosso ammontati e disposti in una forma che rivela un’intenzione di monumento, come di altare e di tomba; ma senza iscrizione, nudi, solitarii, come enormi aeroliti caduti in mezzo a un deserto. Nel paese si chiamano tombe degli Unni, la tradizione li attribuisce alle bande di Attila, il popolo dice che sono stati portati in Olanda da una razza antichissima di giganti, il geologo crede che siano giunti dalla Norvegia sul dorso dei ghiacci antidiluviani, lo storico si perde in vaghe congetture. Tutto è arcanamente antico in questa strana provincia. Vi si ritrovano degli usi della Germania primitiva, la coltura in comune sugli esschen, la tromba rustica che chiama i contadini al lavoro, le case descritte dagli storici romani, e su questo vecchio mondo il mistero perpetuo d’un silenzio immenso:

«. . . . . . ove per poco
Il cor non si spaura.»

Andando innanzi, si comincia a veder paludi, grandi stagni, zone di terra limacciosa, attraversati da canali d’acqua nerognola, fossi lunghi e profondi come trincee, mucchi di glebe color di bitume, qualche barcone, qualche creatura umana. Sono i campi di torba, il cui solo nome suscita nella mente mille immagini di avvenimenti fantastici: i lenti ed immensi incendi della terra; le praterie galleggianti coi loro abitanti e i loro animali sulle acque degli antichi laghi; le foreste erranti pei golfi; i campi staccati dal continente e turbinati dalle tempeste del mare; le immense nuvole di fumo che dalle torbiere arse della Drenta, il vento del nord spande sulla metà dell’Europa, fino a Parigi, in Svizzera, sul Danubio. La torba, la terra che vive, come la chiama il contadino olandese, è la principale ricchezza della Drenta, e una delle principali dell’Olanda. Nessun paese ne è più ricco, e ne trae maggiore vantaggio. Essa dà lavoro a migliaia di braccia; quasi tutta la popolazione dell’Olanda ne alimenta il focolare; serve a mille usi: colle glebe a fortificare le fondamenta delle case, colle ceneri a infertilire la terra, con la filiggine a nettare i metalli, col fumo a salare le aringhe. Sulle acque del Wahal, del Leck, della Mosa, per i canali della Frisia e della Groninga, nel Zuiderzee, per tutto circolano battelli carichi di questo gran combustibile nazionale. Le torbiere esaurite si convertono in praterie, in orti, in oasi feconde. Assen, la città capitale della Drenta, è il centro di tutto questo lavoro di trasformazione. Un grande canale, a cui metton capo tutti i piccoli canali delle torbiere, si stende a traverso quasi tutta la Drenta da Assen fino alla città di Meppel. Da ogni parte si lavora a dissodare il terreno. La popolazione della provincia ch’era di poco più di trentamila abitanti sulla fine del secolo scorso, si è quasi triplicata.

Appena s’è oltrepassato Meppel, si entra nella provincia dell’Over-Yssel, che presenta per un certo tratto il medesimo aspetto della Drenta: sterpeti, torbiere, solitudine; e s’arriva poco dopo a un villaggio, se pure si può chiamare villaggio, dei più strani che mente umana possa immaginare. È una fila di case rustiche, colle facciate di legno e coi tetti di stoppia, che si succedono, a una qualche distanza l’una dall’altra, per la lunghezza di più di otto chilometri: posta ciascuna sopra una stretta zona di terra che se le prolunga dietro sin dove arriva la vista, e circondata da un fosso pieno di piante acquatiche, sull’orlo del quale s’innalzano dei gruppi di ontani, di pioppi e di salici. Gli abitanti di questo villaggio, che è diviso in due parti chiamate Rouveen e Staphorst, sono i discendenti di due antiche colonie frisone, i quali hanno conservato religiosamente il vestire, gli usi, le tradizioni agricole dei loro padri, e vivono agiatamente col prodotto delle terre e di qualche piccola industria loro propria. In questo singolare villaggio, non ci sono caffè, non ci sono cammini, poichè gli avi non li usavano, non ci sono strade, perchè le case sono tutte sur una sola fila, non c’è nulla di simile agli altri villaggi. Gli abitanti son tutti calvinisti austeri, sobri, operosissimi. Gli uomini si fanno essi medesimi le calze nei ritagli di tempo che lascia loro la coltivazione della terra, e abborriscono a tal segno dall’ozio, che gli stessi amministratori del villaggio, quando debbono radunarsi a consiglio, portano seco il filo e i ferri da calza per non istar colle mani in mano mentre si discute. Il Comune possiede seimila ettari di terreno, divisi in novecento zone lunghe circa cinquemila metri, e larghe da venti a trenta. Quasi tutti gli abitanti sono proprietari, sanno leggere e scrivere, hanno un cavallo e una diecina di vacche, non s’allontanano mai dalla loro colonia, si maritano dove son nati, e passan la vita nella stessa zona di terra, e chiudono gli occhi sotto lo stesso tetto dove vissero e morirono i nonni dei loro nonni.

Via via che si va oltre nell’Over-Yssel, la campagna cangia aspetto. Presso Zvolle, città natale del pittore Terburg, capitale della provincia, di poco più di ventimila abitanti, presso la quale, nel piccolo convento di monte Sant’Agnese, visse sessantaquat tr’anni e morì Tommaso da Kempis, il supposto autore dell’ Imitazione di Gesù Cristo; si vedono bellissime strade fiancheggiate da betulle, da faggi, da pioppi, da quercie, che rifanno gratamente gli occhi del paese nudo e tristo percorso fino allora. Da ogni parte lo sterpeto indietreggia, s’alzano mucchi di verzura, si stendono praterie, pullulano piantagioni nuove, sorgono case, si sparpagliano armenti, s’allungano nuovi canali, che dalle torbiere vanno a sboccare in un gran canale chiamato il Dedemsvaart, l’arteria vitale dell’Over-Yssel, che ha trasformato quella terra desolata in una provincia fiorente, dove una popolazione industriosa procede colla letizia d’un esercito vittorioso, e il povero trova lavoro, il lavoratore proprietà, il proprietario ricchezza, e tutti la speranza d’un avvenire migliore. Di qui la strada s’addentra, fiancheggiando l’Yssel, nel Salland, la Sala degli antichi, dove soggiornarono i Franco-Salii prima di scendere verso il mezzogiorno per conquistare la Gallia, dove fu redatta la legge salica, a Saleheim e a Windoheim, che esistono ancora col nome di Salk e di Windesheim; dove rimangono tuttavia tradizioni e convenzioni agricole di quei tempi lontani. E infine tocca Deventer, l’ultima città dell’Over-Yssel, la città di Giacomo Gronovius, dei tappeti e del pan di spezie, che conserva nell’edifizio del peso pubblico la caldaia dove si facevan bollire i monetari falsi, e si compiace della vicinanza del castello di Loo, la residenza prediletta dei Re d’Olanda. Oltrepassata Deventer, si entra nella Gheldria.

Qui lo spettacolo cangia. Si fiancheggia la terra abitata dagli antichi Sassoni, la Veluwe, una regione sabbiosa che si stende fra il Reno, l’Yssel, e il Zuiderzee, dove non sono che pochi villaggi perduti in mezzo a vaste lande ondulate come un mare in tempesta. Fin dove giunge lo sguardo, non sono che colline aride, le più lontane velate da una nebbia azzurrina, le altre, parte vestite dei colori cupi della vegetazione selvatica, parte biancastre delle loro sabbie mobili, che il vento spande sulla faccia del paese. Non si vedono nè alberi nè case; tutto è solitario, nudo, sinistro, come in una steppa della Tartaria; e il pauroso silenzio di questa solitudine, non è rotto che dal canto dell’allodola e dal ronzìo delle api. Pure in alcune parti di questa regione, gli Olandesi sono riusciti col loro paziente coraggio e a prezzo d’infinite fatiche, a far crescere il pino, il faggio, la quercia; a formare bei parchi, a creare boschi interi, a coprire di piante utili, in meno di trent’anni, più di diecimila ettari di terreno; a far sorgere dei villaggi popolosi e floridi dove non c’era nè legno, nè pietre, nè acqua e i primi coltivatori dovevan vivere in tane scavate nella terra, e coperte colle glebe.

La strada passa accanto alla città di Zutphen e arriva in breve ad Arnhem, la capitale della Gheldria, città illustre e gentile, posta sulla riva destra del Reno, in una regione coperta di belle colline, che le valsero il nome di Svizzera olandese, e abi tata da un popolo che ha fama di essere il più poetico dell’Olanda, giusta il proverbio che lo definisce: «grande di coraggio, povero di beni, la spada alla mano, ecco il mio blasone.» Ma per questa loro stessa singolarità, non presentano nè il paese nè il popolo nulla di strano a uno straniero del mezzogiorno d’Europa, che sia andato in Olanda per vedere l’Olanda; e però tutti i viaggiatori vi passan di volo colla persona e colla penna. E lo stesso può dirsi del Limburgo e del Brabante settentrionale, le due sole provincie dell’Olanda, nelle quali non mi parve necessario di penetrare. Perciò, visto che ebbi la città di Arnhem, partii per Colonia. Il cielo era scuro e basso più che non fosse stato mai in tutta quella giornata, ed io, benchè in fondo al cuore godessi di ritornare in Italia, sentivo il peso di quel tempo triste, e appoggiato allo sportello del vagone, guardavo immobilmente la campagna, più coll’aria di chi parte dal suo, che di chi abbandona un paese straniero. Arrivai senz’accorgermene fin quasi alla frontiera tedesca, assorto nel pensiero delle fatiche, dei dubbi, degli sconforti coi quali avrei dovuto lottare per molti mesi in un cantuccio della mia cameretta per scrivere queste povere pagine; e solo quando un viaggiatore mi disse ch’eravamo vicini alla frontiera, mi riscossi, e mi avvidi ch’ero ancora in Olanda. Girai gli occhi sulla campagna e vidi ancora un mulino a vento. Già il terreno, la vegetazione, la forma delle case, la lingua dei miei compagni di viaggio, non eran più olandesi. Mi rivolsi perciò a quel mulino come all’ul tima immagine dell’Olanda, e lo guardai colla medesima curiosità con cui avevo guardato il primo, un anno innanzi, sulle rive della Schelda. Dopo un po’che lo fissavo, mi parve di veder qualcosa muoversi con esso nel vano delle sue grandi ali; il cuore mi battè più forte, guardai ancora, e vidi infatti le bandierine dei bastimenti, i tigli dei canali, le facciate a scalini, le finestre infiorate, i caschi d’argento, il mare livido, le dune, i pescatori di Scheveningen, Rembrandt, Guglielmo d’Orange, Erasmo, Barendtz, i miei amici, tutte le più belle e più nobili immagini di quel paese glorioso, modesto ed austero; e come se davvero le vedessi, vi tenni gli occhi fissi, con un sentimento di tenerezza e di rispetto, fin che il mulino non mi apparve più che come una croce nera a traverso la nebbia che copriva la campagna; e quando anche quell’ombra scomparve, rimasi come chi partendo per un viaggio che non avrà ritorno, vede svanire la figura dell’ultimo amico che lo salutava dalla riva.

Fine.