PAGINE SPARSE
La ma padrona di casa — Ritratto d'un'ordinanza — Un incontro — Un caro pedante = (ALCUNE OSSERVAZIONI SULLO STUDIO DELLA LINGUA ITALIANA): La Lettura del Vocabolario — Appunti — Una parola nuova — Consigli — Il vivente linguaggio della Toscana — Quello che si può imparare a Firenze — Un bel parlatore = Dall'album d'un padre — L'amore dei libri — Manuel Menendez (racconto) — In Sogno — Scoraggiamenti — Battaglie di Tavolino — Una visita ad Alessandro Manzoni — Emilio Castelar — Giovanni Ruffini. EDMONDO DE AMICIS
PAGINE SPARSE
QUARTA EDIZIONE
MILANO TIPOGRAFIA EDITRICE LOMBARDA 1877.
Proprietà letteraria.INDICE.... Non riprendeva, anzi lodava ed amava che gli scrittori ragionassero molto di sè medesimi; perchè diceva che in questo sono quasi sempre e quasi tutti eloquenti, ed hanno per l'ordinario lo stile buono e convenevole, eziandio contro il consueto o del tempo, o della nazione, o proprio loro. E ciò non essere meraviglia; poichè quelli che scrivono delle cose proprie hanno l'animo fortemente preso e occupato della materia; non mancano mai nè di pensieri, nè di affetti nati da essa materia e nell'animo loro stesso, non trasportati d'altri luoghi, nè bevuti da altre fonti, nè comuni e triti, e con facilità si astengono dagli ornamenti frivoli in sè, o che non fanno a proposito, dalle grazie e dalle bellezze false, dall'affettazione e da tutto quello che è fuori del naturale. Ed essere falsissimo che i lettori ordinariamente si curino poco di quello che gli scrittori dicono di sè medesimi: prima, perchè tutto quello che veramente è pensato e sentito dallo scrittore stesso, e detto con modo naturale e acconcio, genera attenzione, e fa effetto; poi, perchè in nessun modo si rappresentano o discorrono con maggior verità ed efficacia le cose altrui, che favellando delle proprie: atteso che tutti gli uomini si rassomigliano tra loro, sì nelle qualità naturali, e sì negli accidenti, e in quel che dipende dalla sorte; e che le cose umane, a considerarle in sè stesso, si veggono molto meglio e con maggior sentimento che negli altri.
Leopardi — Detti memorabili di Filippo Ottonieri.
LA MIA PADRONA DI CASA
Non posso pensare a Firenze, senza ricordarmi della mia buona padrona di casa di via dei ***, la quale m'insegnò in sei mesi più lingua italiana di quanta io n'abbia imparata in dieci anni da tutti i miei professori di letteratura, nati, come diceva l'Alfieri, là dove Italia boreal diventa.
Era una vecchietta simpatica, vedova d'un interprete d'albergo, buona come il pane, fiorentina fin nel bianco degli occhi, operosa, assestata e pulita come un'Olandese. Viveva d'una piccola rendita e di quel po' che guadagnava tenendo dozzina. Leggicchiava, giocava al lotto, faceva qualche visita, e passava quasi sempre la sera, sola come uno sparago, in un cantuccio della sua piccola camera ingombra di mobili vecchi, vicino a una finestra, dalla quale si vedeva, di là dai tetti di molte case, la cima del campanile di Giotto.
Che cos'è questo benedetto parlare toscano! Era una povera donna, non aveva cultura, sapeva appena leggere e scrivere; ma parlava da far rimanere a bocca aperta. E non il fiorentino volgare, perchè non ho mai inteso dalla sua bocca una parola o una frase che una signora non potesse ripetere in conversazione. Il suo parlare era tutto frasi efficacissime, immagini, proverbi, diminutivi graziosi, vezzi e fiori di lingua, che venivan via facili e fitti ad ogni proposito, come nei novellieri trecentisti, senza che le sfuggisse mai neppure un lampo di quel sorriso leggerissimo che per il solito tradisce la compiacenza intima di chi sa di parlar bene.
Ogni momento gliene sentivo dire una nuova.
Stentavo un po' a infilare il soprabito: essa mi diceva: Ma perchè non se lo fa allargare chè le è stretto assaettato?
Entravo nella sua camera: — Badi, — mi diceva, — di non inciampare, perchè è buio come in gola.
Veniva un amico a chiedermi dei denari; essa capiva, e mi domandava: — Le è venuto a dare una frecciata, non è vero?
Diceva che il suo predicatore aveva la parola facile e ornata; che il lattaio aveva la voce come uno di questi cani incimurriti e fiochi che non posson più abbaiare; che erano tre giorni che non vedeva più l' effigie dello spazzaturaio che pure le aveva promesso di venire; che il bambino della vicina aveva rotto un vetro, e suo padre non se ne era anche accorto, ma il poverino stava già rannicchiato dietro l' uscio ad aspettare il lampo e la saetta; che il mio maestro di spagnuolo aveva un vestito che gli piangeva addosso; che con tutte queste guerre che si fanno dopo che Pio IX ha date le su' riforme bisogna sempre stare palpitando per i nostri cari; che un tale ch'era caduto dal secondo piano, e non era morto, aveva il sopravvivolo come i gatti; che un certo quadro pareva fatto coll'alito; che a una certa sua amica, in una certa congiuntura, essa aveva parlato come al cospetto di Dio, da cuore a cuore; e altre espressioni gentili ed argute, che a scriverle tutte, ci sarebbe da fare un vocabolario.
Però, quando s'accorgeva ch'io mi divertivo a farla parlare, taceva tutt'a un tratto e mi guardava con aria di diffidenza. Temeva ch'io la volessi canzonare. Anzi, qualche volta, quando mi lasciavo sfuggire un'esclamazione di meraviglia, quasi s'indispettiva.
— Oh insomma, — mi disse un giorno, — io parlo come so. Se dico degli spropositi, m'insegni lei a parlar meglio. Io non ho mai preteso di parlar bene.
— Ma no, cara signora, — le risposi coll'accento della più profonda sincerità. — Le giuro che ammiro davvero la sua maniera di parlare, che vorrei parlare io come lei, che vorrei saper scrivere come lei parla. Che c'è da stupirsi? Non lo sa che i fiorentini parlano meglio degli italiani delle altre provincie? Non l'ha mai inteso dire? Mi piace sentir parlare l'italiano da lei come mi piacerebbe sentir parlare il francese da un parigino. Mi piace perchè lei parla con naturalezza, perchè pronunzia bene, perchè io imparo. Ne vuole una prova? Guardi questi fogli.
E le misi sott'occhio alcuni fogli sui quali avevo notato una lunga filza dei suoi modi di dire.
Guardò, sorrise, poi sospettò daccapo e mi disse che non sapeva capire che cosa io trovassi di particolare in quelle parole. — Qualunque mercatino, — soggiunse, — è in caso di dirgliele tali e quali.
Nondimeno, a poco a poco, finì per persuadersi che mi divertivo davvero a sentirla parlare perchè parlava bene.
Ma trovavo sempre mille difficoltà a farmi capire quando volevo saper qualche cosa di preciso in fatto di lingua. — Come direbbe lei, — le domandavo, — per dire che piove forte? — Gua! — mi rispondeva, — direi che piove forte. — Io ripetevo la domanda in un'altra forma. — Ah! ho capito! — esclamava. — Chi si volesse spiegare in un'altra maniera potrebbe anco dire che piove a rovescio, a catinelle, a orciuoli, a ciel rotto; ognuno può dire come gli piace; non c'è regola fissa.
Un giorno le diedi un mio libro. — L'ha scritto lei? — mi domandò. — Sì, — risposi. — Tutto di suo pugno? — Tutto di mio pugno. — Lo tenne due o tre giorni e vidi che lo leggeva. Quando me lo restituì, mi disse: — Bravo! mi son divertita; si vede che è un buon figliuolo. E poi mi piacque anche lo stile.
A poco a poco mi prese a voler bene, mi parlava lungamente della buon'anima di suo marito, delle sue amiche, del caro dei viveri, delle tasse, del lotto, dei suoi malanni, della religione, sempre colla stessa grazia e colla stessa dolcezza. Ma specialmente quando parlava della sua disgrazia d'esser rimasta sola al mondo e diceva che la notte, non potendo dormire, pensava, pensava, fin che si metteva a piangere, aveva parole così dolci, così schiette, così poetiche, che mi si stringeva il cuore, e nello stesso tempo provavo una specie di voluttà artistica a sentirla. Mentre essa parlava la sua bella lingua, io appoggiato alla finestra della sua cameretta, guardavo il campanile di Giotto dorato dalla luce del tramonto, e provavo uno struggimento d'amore per Firenze.
Una s'era, ch'ero già a letto, s'affacciò alla porta e disse con voce commossa: — Ah! figliuol mio! bisogna proprio credere, sa, che c'è un Dio! Questa sera il predicatore ha detto che tutti i grandi uomini ci hanno creduto, — e Dante e Galileo e Colombo, — ne avrà citati più di cinquanta. E ha conciato per le feste quelli che dicono che il mondo l'ha fatto il caso! Il caso! E dire che sono gente che ha studiato! Io che sono una povera donna capisco che è una corbelleria. Se lo studio non dovesse portare altri frutti! Ma lei, benchè studii, non le pensa queste cose, non è vero, figliuolo? dica un po': ci crede lei al caso?
— No, cara padrona, — le risposi; — io credo in Dio.
— Oh lei non può immaginare la consolazione che mi dà con codeste parole, — rispose la buona donna.
La notte, mentre lavoravo a tavolino, a una cert'ora sentivo picchiare nel muro e poi una voce insonnita che diceva:
— Non lavori più, figliuolo; s'abbia riguardo agli occhi.
Ed io: — Ancora una pagina.
— Nemmeno una pagina. Si ricordi del proverbio: È meglio un.... cavallino vivo che un dottore morto.
Passava un altro quarto d'ora e lei daccapo:
— A letto, a letto, figliuolo.
— Padrona, domandavo io, — com'è quel proverbio di Berto, che mi disse stamani? Ne ho bisogno per scriverlo.
— Berto, rispondeva, — che dava a mangiare le pesche per vendere i noccioli. Vada a letto.
— Ancora una cosa. Come si chiama il bastone d'Arlecchino?
— Non mi cava più una parola, nemmeno se mi fa regina di Spagna.
E non diceva più una parola davvero e io andavo a dormire.
La mattina per tempo, appena svegliato, risentivo la sua voce: — Su, su! È un sereno che smaglia. Vada a fare un giro alle Cascine!
Una sera tornai a casa pieno di malinconia e mi buttai sul sofà senza dire una parola. Essa mi venne accanto. Duravo fatica a trattener le lagrime. Mi domandò che cos'avessi. Non volevo rispondere. Insistette, e allora le apersi il mio cuore come a un amico.
— Ho avuto un dispiacere, — le dissi. — Ho saputo che l'altro giorno, in una casa, hanno detto che i miei scritti sono noiosi e che non farò mai nulla di buono. Io ne sono persuaso e non ho più voglia di studiare. Voglio buttar nel fuoco tutti i miei libri e tornare a fare il soldato. Sono triste, scoraggito e annoiato della vita. Non m'importerebbe nulla di morire.
La buona donna si sforzò di ridere; ma era intenerita. Cercò di consolarmi e di rimettermi di buon umore; chiamò a raccolta tutti i suoi frizzi, le sue frasi e i suoi proverbi; mi assicurò che i miei libri erano pieni di bei concetti e che avrebbe voluto saperli scrivere lei; mi promise che sarei riuscito un bravissimo scienziato a dispetto dei maligni; mi disse che avrebbe voluto trovarsi faccia a faccia con chi aveva sparlato di me, per fargli una risciacquata che non trovasse più la via di tornarsene a casa; mi fece bere un dito di vin Santo, mi diede del ragazzo, mi picchiò sotto il mento e gridò: — Su la testa! — Infine mi lasciò rasserenato, dicendo che se le facevo un'altra volta una di quelle scene, il pezzo più grosso che sarebbe rimasto di me, aveva da essere un orecchio, com'è vero che c'è tanto di Biancone in piazza della Signoria.
Qualche volta però ci bisticciavamo, per cose da nulla, s'intende; per esempio perchè tornavo a casa tardi, e lei mi trovava a ridire, ed io le rispondevo di mala grazia. Allora stavamo una mezza giornata senza scambiare una parola. La sera poi, pensando ch'essa era là in un cantuccio della sua camera, sola, malinconica, al buio, mi pigliava il rimorso, correvo all'uscio e le domandavo per il buco della serratura: — Padrona, come è quel detto di Cimabue che mi disse ier l'altro?
— Cimabue che conosceva l'ortica al tasto — rispondeva con una voce in cui si sentiva un'improvvisa contentezza.
— Mi perdona? — le domandavo.
— Oh buon figliuolo! — rispondeva; — perdoni lei a me, che sono una brontolona e una zotica. Ma veda: glielo dico per il su' bene che non venga a casa tardi perchè.... io non ho mica il diritto di impicciarmi nella sua condotta.... si capisce.... ma ho notato che tutte le sere che viene a casa tardi, e non studia più, la mattina dopo è di malumore.
— Ha ragione, padrona, ha ragione! Apra la porta e facciamo la pace.
Essa apriva la porta e non faceva mai in tempo a levarsi il fazzoletto dagli occhi.
Così passarono sei mesi.
Un giorno, dopo una settimana intera di preparativi e di esitazioni, mi feci forza e le dissi, guardandola fisso negli occhi:
— Padrona, io debbo partire da Firenze.
— Dove va?
— A casa mia.
— Va bene. Io terrò le sue camere libere per quando tornerà. Può lasciar qui libri, quadri, carte, come le lascerebbe alla sua famiglia. Prima che ritorni farò mettere la stufa, comprerò un altro seggiolone e se mi salta il ticchio farò cambiare la tappezzeria al salotto. E passeremo il nostro invernetto insieme d'amore e d'accordo, lei a studiare ed io a fare le mie faccenduole. Ah! vedo che almeno negli ultimi anni della mia vita avrò qualche consolazione. Quando tornerà?
— Cara padrona.... non glielo posso dire.
— Che forse non tornerebbe più? domandò col viso alterato.
— Forse non tornerò più!
Stette qualche momento senza parlare e poi esclamò con voce tremante: — Ma dunque io resterò sola!...
E tacque di nuovo come per sentir l'eco di quella triste parola.
Poi nascose il viso nel grembiale e diede in uno scoppio di pianto.
M'aiutò a fare i miei bauli, volle riporre tutti i libri colle sue mani, non mi lasciò più un momento fino all'ora della partenza. L'ultima notte, verso le undici, mentre scrivevo, picchiò ancora una volta nella parete e mi pregò di avermi riguardo agli occhi. La mattina seguente, quando partii, mi accompagnò fin sul pianerottolo e mi disse colla solita dolcezza: — Lei se ne torna colla sua famiglia; io, povera vecchia, rimango sola. Si ricordi qualche volta di me che le volevo bene come a un figliuolo. Abbia giudizio; continui a studiare e sarà contento. Mentre viaggerà in Spagna e in Francia, io guarderò il suo ritratto, leggerò i suoi libri e pregherò il Signore per lei. Quando morirò, lei si ricorderà che le ho voluto bene e piangerà, non è vero? Ed ora vada, figliuolo, che è tardi; e Dio l'accompagni!
Le diedi un bacio e discesi per le scale. La povera donna mi mandò ancora un addio rotto da un singhiozzo e poi rientrò nella sua casa vuota e triste.
Oh buona e cara vecchia! se mi son ricordato di te! In viaggio, ogni volta che ho passata la notte a scrivere in una camera d'albergo, allo scoccare delle undici ho detto tra me, con tristezza: — Oh! se sentissi picchiare nel muro, quanto lavorerei più volentieri! — Ogni volta che scrivo, e rileggendo la mia prosa, la trovo scolorita e senza grazia, dico con rammarico: — Ah! quanto ci corre da quest'italiano a quello della mia padrona di casa! — La sera, quando la mia famiglia è raccolta intorno al fuoco, e tutti ridono e lavorano, io penso col cuore stretto che tu sei sola nella tua stanza, forse al freddo ed al buio, perchè la legna e l'olio sono rincarati. E non mi si presenta mai l'immagine della mia cara Firenze, senza ch'io goda in fondo all'anima pensando che un giorno forse vi tornerò, che andrò a cercarti, che ti troverò ancora, che mi rimetterò a imparare da te la lingua armoniosa e gentile con cui mi rallegravi e mi davi coraggio.
SCORAGGIAMENTI
Erano le nove della sera: Teresa ricamava accanto al fuoco, quando udì picchiare leggermente, corse all'uscio e più per abitudine che per diffidenza domandò chi fosse.
— Io! — rispose una voce aspra. Teresa aperse, entrò un giovane ravvolto in un mantello, si baciarono, e la ragazza gli domandò subito:
— Che hai, Mario?
— Perchè questa domanda? domandò il giovane alla sua volta.
— Perchè non hai detto io come gli altri giorni.
Mario la guardò un po' senza rispondere, poi buttò in un canto il mantello e il cappello, e s'avvicinò al caminetto. La ragazza tornò al suo posto, e tirò a sè un panchettino, sul quale sedette il giovane, appoggiando un gomito sul suo ginocchio e la testa sulla mano.
Stettero così qualche momento senza parlare; poi Teresa domandò timidamente:
— Hai scritto?
— No — rispose il giovane con aria pensierosa.
— Hai fatto male.
— Avrei fatto peggio se avessi scritto: anche oggi son vuoto come una bolla di sapone.
— È un mese che lo dici.
— È assai più d'un mese che lo sento. Sento che sono una buccia di limone spremuto. Un critico disse una volta una verità semplicissima, ma profonda: — Per scrivere bisogna avere qualcosa da dire ai proprî concittadini. — Ebbene, io non ho nulla da dire e non scrivo. Scrivere solamente per far sapere al pubblico che si sa accozzare il verbo col sostantivo e far delle infilzate di epiteti, non mi par degno d'un uomo.
— Mario, — rispose la ragazza mettendogli una mano sul capo e sorridendo: — dici questo sul serio o soltanto per farmi stizzire?
— Per farti stizzire? Lo dico con tutta la serietà d'una certezza dolorosa. È più d'un mese che per me il tavolino è la ruota del tormento, e mi ci mordo le dita senza riuscir a scrivere un periodo. Ho un bell'eccitarmi prima, leggere versi ad alta voce come consiglia il Buffon, pensarci su come dice il Manzoni, ed anche tenere i piedi nell'acqua fredda come faceva lo Schiller, frugar dentro di me, ravvivare tutti i sentimenti che m'inspiravano una volta; ogni cosa è inutile. Seduto che sono al tavolino, mi pare che il cuore e il cervello mi si raggrinzino come vesciche crepate, e non mi riesce più di afferrare un'idea che meriti l'omaggio d'una goccia d'inchiostro. Ti giuro che dico la verità.
— Non giurare.... m'hai detto altre volte le stesse cose e dopo qualche giorno le hai disdette.
— Cara mia, anche le malattie disperate hanno i loro alti e bassi, e non v'è moribondo al quale non brillino dei barlumi di speranza. Ho avuto anch'io i miei barlumi.
— Ma che melanconie son queste, Mario?
— Non sono melanconie, son disinganni. Vuoi che io ti dica una cosa che non ho mai detta a nessuno e che non ho quasi mai osato dire a me medesimo, ma che ormai credo fermissimamente vera, tanto che provo quasi un sentimento di sdegno contro tutti coloro che per lungo tempo cospirarono a farmi credere il contrario? Te la dico in tre parole: — Ho sbagliato strada.
— Andiamo, — disse con vivacità la ragazza, — ora ti faccio ravveder io. Io conosco il segreto di tutte queste malinconie. Tu hai una ruga qui tra ciglio e ciglio che quasi non si vede quando sei sereno, e quando non lo sei, diventa profonda come una ferita. Ora è un mese che io ti vedo codesta ruga quasi tutti i giorni. Ecco perchè non puoi lavorare. Disinganni, vesciche, buccie di limone spremuto, son tutte fantasie: il male sta qui. Dunque non c'è da far altro che spianare la ruga; — e appuntandogli l'indice fra ciglio e ciglio soggiunse: — e io ci terrò il dito su fin che sparisca, e allora vedrai che ti tornerà l'inspirazione e la fiducia in te stesso.
Mario le strinse il mento fra l'indice e il pollice, poi lasciando ricader la mano, rispose con un sospiro: — Ah buona Teresa, sulla ruga vera tu non puoi mettere il dito perchè è dentro al cervello.
— Oh allora, — disse la ragazza con quel tuono di ironia benevola che s'usa coi bambini fingendo di dare importanza a una corbelleria, — allora non c'è rimedio. Capisco anch'io che hai sbagliato strada. Non parliamone più.
— Eppure, — riprese il giovine senza badarle, — benchè questa certezza si sia impadronita di me a poco a poco, risparmiandomi così il dolore d'uno di quei disinganni improvvisi, che schiacciano prima che si sia potuto pensare a resistere, io credevo che l'avrei sopportata con cuore più fermo. E veramente quando s'è nutrito per molti anni la speranza di riuscire qualche cosa nel mondo, e s'è veduto godere di questa medesima speranza la famiglia e gli amici, e s'è avuto dalla gente mille dimostrazioni di simpatia e di rispetto, non tanto per quello che s'era quanto per ciò che si prometteva di divenire; dopo tutto questo, l'accorgersi che ci si è ingannati e che s'è ingannato gli altri; prevedere che un giorno la gente ci farà scontare col disprezzo le lodi che le abbiamo scroccate; sentirsi a poco a poco riattrarre e poi travolgere e annegare nella folla sulla quale si era riusciti ad alzare un momento la testa; persuadersi infine che s'è sciupato gioventù, ingegno, fatiche per prepararsi dei disinganni e delle vergogne, mentre percorrendo una strada più modesta si sarebbe ottenuto un nome onorato e una vita tranquilla; è un cangiamento questo, mia cara Teresa, che somiglia a quello di un uomo il quale di ricco e potente si trovi ridotto mendico.
Teresa lo guardò attentamente, e poi, sospettando ancora ch'egli non parlasse sul serio, prese un libro, lo aperse, mise un dito sul nome dell'autore, e domandò con ingenuità fanciullesca, abbassando la voce: — È questo signore che parla?
— È lui, lui, — rispose Mario respingendo il libro. — Ah! cara amica, quanto t'inganni se credi che la vista di tutta quella cartaccia stampata mi faccia provare il menomo sentimento di alterezza. Sì, certo, quando sono in mezzo alla gente, mostro di credermi qualche cosa; il mio amor proprio sta sulle difese. Il vedere la presunzione di tanti che valgono anche meno di me, e il timore di fornire agli altri, mostrando di stimarmi poco io stesso, il pretesto di stimarmi anche meno, mi tengono un po' su; e per questo, chi mi ferisce dal lato dell'amor proprio, sente la resistenza dell'orgoglio. Ma davanti a me stesso è altra cosa! Se ti dicessi che passan dei mesi ch'io non leggo una pagina di mio, nemmeno se mi cade sott'occhio, per timore della sgradevole impressione che ne riceverei? Se ti dicessi che, riandando le cose mie, anche le meno peggio, mi piglia il sospetto che un accordo d'amici, la benevolenza dei conoscenti e l'indulgenza sollecitata di molti altri sian stati la cagione di quel po' di fortuna che ho avuta? E se ti dicessi ancora che, quando correggo le prove di stampa, qualche volta mi sento tutt'a un tratto salire il sangue al viso, e penso alla maniera di sciogliermi dall'impegno contratto coll'editore, e comprendendo che non è più possibile, cerco almeno che ci sarebbe da fare per impedire la diffusione del libro, o se non altro, per evitare che lo legga il tale o il tal altro, di cui mi preme non perdere la stima?
— Ma queste, scusa, sono esagerazioni! E poi, qualunque opinione tu abbia di te stesso, non potrai mettere in dubbio un fatto che dovrebbe bastare a darti coraggio: il favore pubblico.
— Qui ti volevo. Il favore pubblico! Che cos'è questo favore pubblico? che cosa prova? Chi non ne ottiene un po' di questo favore, scrivendo, pur che abbia cuore e non offenda alcuna classe della società e segua l'andazzo del tempo e scriva cose che la maggior parte sentono o pensano, o non hanno interesse di negare? Entra in un caffè di una qualunque delle nostre grandi città, e sarà un miracolo se non ci troverai in un canto qualche pover'uomo a cui nessuno bada e di cui nessuno sa il nome, del quale venti o trent'anni prima qualcuno non abbia detto o stampato che era una speranza della letteratura italiana e che sarebbe diventato una gloria della patria. A vent'anni abbiamo tutti qualcosa di bello nel capo e di generoso nel cuore, e abbiamo tutti bisogno di farlo sapere. Ebbene, io l'ho fatto sapere, ho fatto il mio sfogo di giovanotto e sta bene. Ma ora basta, ora dovrei buttare la penna da parte e abbracciare una professione; perchè altro è esser nato per passare per lo stadio di scrittore, altro è esser nato per restarci; e una cosa è aver ingegno per scrivere, e un'altra cosa aver tanto ingegno da poter legittimamente non far altro che scrivere.
— Io non so rispondere a tutte queste cose, — disse Teresa con voce commossa, — ma mi pare che non sia tutto vero. Che cosa vuoi concludere? Che non devi più scrivere? Vuoi farmi dire che non sai far nulla? Vuoi provarmi che sei uno scemo?
— No, perchè non lo sono; se lo fossi, non mi sarei disingannato, non ti terrei questi discorsi; continuerei a credermi un animalaccio raro, come fan molti, a dispetto del mondo intero. Il mio disinganno prova che c'è qualche cosa in questo nocciolo di testa. Ma il gran punto è che questo qualche cosa non basta. Vi sono ben dei momenti che abbraccio col pensiero un grande spazio intorno a me; ma son vedute istantanee, come quelle della notte al chiarore d'un lampo. Afferro colla mente un dei capi d'una catena d'idee; ma dò uno strappo, e non mi resta in mano che il primo anello. Ci corre, cara mia, da questi scatti d'ingegno alla forza dell'ingegno vero! a quell'ingegno confidente e imperioso, che si afferma qualche volta con parole superbe; quello che getta sprazzi di luce e pezzi di oro massiccio, che tira a sè e rende muti in sè stesso altri ingegni minori, che corre la sua strada destando e schiacciando ad un tempo ire ed invidie mortali, che s'innalza egli stesso degli ostacoli e li rovescia, che va a battere le ali dove gli altri arrivano appena collo sguardo, che trascina, innamora e spaventa! Questi sono uomini d'ingegno, spiragli aperti nella natura umana, per i quali la moltitudine vede confusamente qualche cosa del mondo di là, che le strappa un grido di meraviglia. Questi hanno diritto di consacrare tutta la loro vita all'arte; questi sono i grandi alberi della vegetazione umana; il resto è erbaccia parassita, ed io sono un filo di quest'erba.
— Grandi alberi! — mormorò Teresa timidamente. — Fuor che quei quattro o cinque che tutti sanno, per ora, di grand'alberi che vengano su, io non ne vedo. E qui pronunziò in fretta una lunga serie di nomi, e domandò: Son questi forse gli spiragli aperti nella natura umana?
— No, — rispose Mario; — ma benchè io sia da meno di questi, non mi debbo paragonar con essi, per aver una idea giusta di quello che sono. Debbo metter tutti costoro in un mazzo, me compreso, e paragonarli ai pochissimi che sono sulla sommità della scala. Bisogna uscir dal proprio paese, cara mia, per vedere che cosa paiono, viste da lontano, certe gloriole di casa! Quando si vede che i veri grandi nomi, anche nostri, ed anco di questi ultimi tempi, suonano sul Tamigi come suonano sul Tevere, sul Tago come sul Reno, sulla Senna come sull'Adige, che conto vuoi più che si faccia di quelli che cascano come palloncini sgonfiati sulle frontiere del proprio paese? Che cosa siamo al paragone di quell'aquile che fanno il giro del mondo, noi moscerini che viviamo in un soffio d'aria, e facciamo un ronzío che non si sente da una foglia all'altra d'un fiore? noi che mostriamo con pompa, come tutto il nostro avere, una qualità che in quelli altri non è che una delle mille faccette della perla del loro ingegno? Ah come si capisce tutto questo viaggiando! Quando uno straniero mi domandava: — Lei scrive? — io rispondevo in fretta arrossendo, come uno che respinga un sospetto ingiurioso: — No! no! non scrivo!
Teresa scrollò la testa sorridendo, come per dire: — Sei sempre lo stesso!
— E poi, — riprese Mario dopo una breve riflessione — vivere per scrivere! Bella presunzione è questa di aver nel capo tante cose degne d'esser dette al mondo, da dover impiegare tutta la vita a dirle! E con che diritto s'impiega la vita in questa maniera? Scrivere, in materia d'arte, non si dovrebbe che per soddisfare un bisogno dell'anima; e soddisfare un bisogno non può valer lo stesso che pagare un debito. Dunque chi non fa altro che scrivere, non paga il suo debito alla società; e se ad altri pare, a lui non deve parere. Rispondere: — Scrivo — a uno che mi domandi qual è la mia professione, mi pare lo stesso che a uno che mi domandasse: — Che cosa fai costì? — rispondergli: — Respiro. — E chi è questo poltrone che mentre tanta gente migliore di lui suda sangue per guadagnarsi la vita, passa la giornata sur una seggiola a predicar la virtù e ad eccitar gli altri a fare? Lavori il giorno anche lui, e scriva la sera a tempo avanzato. Cacciatelo in un'officina!
— Oh questa poi! — esclamò Teresa tra indispettita e intenerita. — Tutti non possono lavorare colle braccia! —
— Ma io posso! E che credi? Che non mi vergogni qualche volta d'esser robusto? Quando vedo ammontati sul mio tavolo quei cinque o sei libracci che ho scritti, dei quali fra qualche anno non si troverà più il titolo in nessun catalogo di libraio, e penso che ho speso a farli gli anni più vigorosi della gioventù, e che spenderò forse nello stessa modo, e non con miglior frutto, gli anni che mi restano; e poi guardandomi nello specchio, mi vedo un par di spalle da atleta, che so io? sento che c'è una sproporzione fra me e il mio lavoro, un disaccordo, un qualche cosa che non va; mi sento dentro una voce di rimprovero; mi pare come di aver sciupato una trave per fare un bastoncino; e provo non so che bisogno di curvar la schiena sotto dei pesi e d'incallirmi le mani sopra uno strumento.
Teresa gli afferrò le mani.
— Quanti uomini sciupati — continuò Mario — con questo maledetto scrivere! Uomini di un sentire nobilissimo, dotati d'una certa facoltà di trasfondere in altri l'anima propria, forniti d'un sentimento pel bello, parlatori facili, che avrebbero, in un altro campo, acquistato ed esercitato un potere benefico su molta gente.... sciupati! Io per esempio, ch'ero nato per fare il maestro di scuola, a segno che, quando vedo in una stanza quattro banchi e un tavolino, mi sento rimescolare! E non solo il maestro di scuola: sento che sarebbe stata la mia vita l'aver che fare con povera gente, con operai; sento che, se fossi pretore in un villaggio, mi farei fare una statua. E così quando leggo gli scritti di molti miei amici romanzieri, poeti, critici, vedo tra riga e riga le belle facoltà mal impiegate, e penso con rammarico che l'uno sarebbe riuscito un eccellente medico condotto, un altro un direttore di collegio inimitabile, un altro, un avvocato onestissimo e valentissimo. E dico a loro e a me: — Siamo fuori di strada! Tutti fuori di strada per aver preso per nostra dote principale una dote secondaria, che doveva soltanto servire d'aiuto, d'ornamento alle altre; per aver creduto che ciò che non ci dovrebbe occupare se non un'ora al giorno, bastasse a riempirci tutta la vita; per aver considerato come una vocazione quello che non era che una tendenza!
— E quando vedi codesti amici — domandò Teresa sorridendo — lo dici loro che avrebbero fatto meglio a fare i medici condotti?
— Non mi seccare con quel loro, Teresa; di' glielo dici; te n'ho già pregato altre volte.... E che cosa segue da ciò? Segue che, avendo l'ambizione, senza aver la potenza di destare l'ammirazione del paese, diventiamo come gli accattoni che si contentano di quello che gli si dà: ci contentiamo di ispirar la simpatia, la stima, la considerazione, di acquistare la notorietà, la distinzione; e leggerai infatti ogni momento il simpatico, il pregevole, lo stimato, il noto, il distinto scrittore, e altri insipidi e sguaiati appellativi, che pure nella nostra nullità ci fanno sorridere di compiacenza; ma che a spremerne il sugo voglion dire: mediocre, insignificante, impotente, nullo, perchè chi, avendo dedicato la vita all'arte, non riesce che a rendersi simpatico, stimato, pregevole, ha sciupato tempo e fatica. E in fondo all'anima, lo sentiamo anche noi. Per questo, invece di lavorare serenamente e nobilmente, ci affanniamo, facciamo ogni sorta di sforzi disperati per saltar fuori dalla pegola della mediocrità che ci affoga; e buttiamo fuori in furia un libro dopo l'altro, avidi, impazienti, sperando sempre che l'ultimo che stiamo facendo, sia quello che ci porrà sul piedestallo della gloria; supplicando la gente che passa di soffermarsi; gridando al paese: Vòltati, guardami, t'assicuro che ho del genio, dammi tempo a far qualche cos'altro, non profferire ancora l'ultimo giudizio, aspetta, vedrai. — E intanto il vento porta via libretti e libracci, e noi invecchiamo trascurati e dispettosi, finchè un bel giorno si tira il calzino, dieci giornali dicono che s'è lasciato larga eredità d'affetti, e il giorno dopo nessuno pronuncia più il nostro nome. Ecco la carriera degli scrittori simpatici, stimati, noti, distinti; la mia carriera e quella di cento altri campioni della giovine letteratura.
— Ma tutti — disse Teresa, — anche i più grandi, hanno avuto di questi scoraggiamenti!
— Erano altri scoraggiamenti, — rispose Mario; — stanne sicura. Si scoraggivano perchè sentivan la loro opera troppo inferiore al loro ingegno; ma non è che non sentissero l'ingegno. Essi hanno gettato sul mondo i riflessi della luce che brillava alla loro mente, e a noi questi riflessi paion già una gran luce; ma chi può immaginare lo splendore che vedevan loro cogli occhi del genio? Chi sa che portentoso Cinque maggio balenò ad Alessandro Manzoni, prima che si mettesse a scrivere quello che noi conosciamo? Tutti i grandi caddero qualche volta; ma caddero a pochi passi dalla cima della montagna, ed erano già saliti ad un'altezza tremenda. Non cadevan per fiacchezza, cadevano per vertigine. Erano battaglie, nelle quali riuscivano ora vinti, ora vincitori. Ma in me, vedi, non c'è lotta; in me è calma morta. Ai grandi che picchiano alla porta del tempio dell'Arte, qualche volta una voce di dentro risponde: — Non ancora: — A me quella voce risponde: — Via! — Quelli sono pregati d'aspettare, e io sono scacciato come un cialtrone.
Teresa aperse il libro che aveva preso poco prima e finse di mettersi a leggere senza badare alle parole di Mario.
— Leggi, leggi, — continuò Mario sorridendo, — chi si contenta, gode. Intanto io farò un pochino di critica al tuo autore. I suoi personaggi son tutti fantocci che recitano la medesima parte, e non ne vien uno in iscena, che non lasci veder sotto la mano del burattinaio. Tre idee tinte di mille colori; ma non più che tre idee. Un manzonismo annacquato, senza coraggiose affermazioni; un ciondolío perpetuo fra il credo e il non credo; un voler far sentire la cosa senza compromettersi colla parola; una doppia paura di far sorridere i miscredenti e di scontentare le mamme pie; un tirar sempre al cuore, a tradimento, quando si dovrebbe tirare alla testa; e persino nella lingua, la persuasione profonda che si debba dare un calcio alle convenzioni, agli scrupoli grammaticali, alle parole illustri, a tutte le formole della lingua scipita, pedantesca, bastarda, che si parla fuor di Toscana; e la vigliaccheria di non farlo per paura di coloro che combattono la proposta del Manzoni, perchè non vogliono ricominciare a studiare.
— Io non me ne intendo di lingua, — disse Teresa; — non ti so cosa rispondere. Ma per quel ch'è dei fantocci, purchè dicano delle cose buone, che importa se si vede la mano? — Così dicendo, rise e gli prese la mano.
— Dir delle cose buone! esclamò Mario. — Vorrei che tu mi dicessi che diritto ho io di dire delle cose buone, io che non ne faccio, e di metterci sotto la mia firma, come se le facessi. Mi ricordo, pochi giorni fa, quando ti dissi che compivo ventisette anni, tu esclamasti: — Ventisette anni! Hai già fatto molto! — Fatto molto! non ho ancora salvato la vita a nessuno, — non ho mai passato trenta notti di seguito al letto d'un ammalato, — non mi sono mai messo a rischio di buscarmi una coltellata per levare una donna dalle mani d'un brutale che la schiaffeggia nel mezzo della strada, — non ho mai fatto dieci miglia a piedi per andar a portare una buona notizia a una famiglia povera, — non mi son mai privato un mese di seguito del sigaro, del teatro e della birra, per fare un regalo a un mio antico maestro elementare che si trova nella strettezza. Ebbene, conosco dei giovani che fecero e che fanno tutte queste cose, e che si vergognerebbero di scriverle, e che quando le leggono scritte da me, mi dicono: «bravo! Lei fa del bene! Beato lei!»
— Vero, e con questo?
— Con questo, quando mi dicono quelle parole, io arrossisco perchè dovrei dirle io a loro; e loro dovrebbero dire a me che sono un impostore.
— E allora, — disse Teresa con un'ironia faceta, di cui Mario non s'accorse; — se scrivendo delle cose morali ti pare di far l'impostore, scrivine delle immorali e vivrai in pace colla tua coscienza.
— No! — rispose Mario — mai. Se volessi anche, non potrei. Su questo punto tu non conosci ancora le mie idee, e te le dico. Da un uomo di genio, di quelli che ti ho definiti poco fa, accetto tutto; creda, non creda, sia ottimista o veda tutto nero, non mi riveli che il bello o non mi mostri che le brutture dei suoi simili e le sue, — dissento, deploro — ma accetto, — o almeno mi rendo ragione del come gli possa parer lecito di scrivere quello che pensa e quello che fa. È un uomo di genio; preferisco averlo com'è al non averlo; anche offendendomi e sconfortandomi, mi fa vedere molte cose sotto una faccia nova; mi costringe a pensare; mi fa, se non altro, ammirare in sè un nuovo stampo d'uomo, e una gradazione di più nell'infinita varietà della natura. Sta bene. Ma che un uomo d'ingegno della seconda sfera, uno di quelli dei quali è dubbio se abbiano fatto bene o no a scegliere la via delle lettere, e che dovrebbero, poichè il mondo può benissimo far di meno di loro, cercare tutti i modi di farsi perdonare l'ambizione che li rode; che uno di questi, dico, abbia la sfacciataggine di gridare al mondo: — Vòltati — per fargli sapere che non crede a nulla, che è divorato dalla bile, che disprezza i suoi simili, che vive fra le sgualdrine e s'ubbriaca; questo, per Dio, non solo non lo ammetto, ma non lo capisco; e non capisco come il pubblico non si stomachi di queste scimmie degli scapestrati di genio, e non se li levi di torno colla scopa.
— Dunque scrivi morale! — disse Teresa — Io non so più che cosa dirti! Dici che sei un impostore! Basta essere onesto per poter scrivere delle sante cose senza fingere. Come potresti scrivere, se prima di metterti a tavolino, dovessi far dieci miglia a piedi per portare una buona notizia a una famiglia povera?
Mario sorrise e scrollò una spalla; e dopo qualche minuto di silenzio, disse:
— Un giorno, a Firenze, passeggiando fuor di Porta Romana, sull'imbrunire, vidi tutt'a un tratto una gran luce dietro un gruppo di case e gente che correva. Presi anch'io la corsa e arrivai dinanzi a una casa che bruciava, in mezzo a una folla che faceva un grande strepito. L'incendio era scoppiato da poco; ma uscivan già fiamme dal tetto e da parecchie finestre, e si sentiva dentro un fracasso spaventoso di travi che cadevano e si spezzavano, e in mezzo alla folla grida di donne e di bimbi, che facevan pietà. Arrivarono in quel momento le pompe e le guardie, e cominciò il solito lavoro di far dare addietro la gente, coll'urlío e il disordine solito. Tutt'a un tratto si sentì un grido straziante e si vide molta gente affollarsi da una parte. Era la solita disgrazia d'una donna che aveva chiuso il bambino in casa per uscire, e che tornava troppo tardi. La voce si sparse in un batter d'occhio. Per fortuna la finestra della camera dava sulla strada; fu portata una scala e appoggiata al davanzale, e una guardia salì. Ma sì! non era ancora arrivata in cima, che uscì un nuvolo di fumo nero e una lingua di fuoco dall'alto della finestra, e il pover uomo si sentì mancare il coraggio. La folla gridò: — Giù! Giù! — La guardia saltò giù; un'altra salì, e ricascò in terra come la prima; cinque o sei uomini si agitavano ai piedi della scala, e nessuno saliva. Intanto la povera donna gettava delle grida orribili, si buttava in ginocchio, si stracciava i capelli, faceva cose da lacerare il cuore. Allora non so che cosa seguì in me; mi si velò la vista, mi balenarono mille pensieri in un punto, quel bambino, mia madre, una gioia immensa; sentii come una voce sovrumana che mi gridò nell'orecchio: — Va! — e nello stesso momento un impulso irresistibile che mi sbalzò quasi ai piedi della scala. Ma là.... mi parve d'essere afferrato di dietro da un artiglio di ferro, e rimasi inchiodato, immobile, trasognato, come uno che si trovi tutt'a un tratto sull'orlo di un precipizio. Mentre guardo intorno e rinvengo in me, un uomo si spicca dalla folla come una saetta, butta in terra una guardia, sale in cima alla scala, dispare nella finestra che pareva la bocca d'una fornace, — si fa un profondo silenzio — l'uomo ricompare — la folla getta un grido — quegli sale sul davanzale, si gira, mette il piede sulla scala, discende e casca in terra spossato.... Aveva portato giù il bambino sano e salvo! Ebbene, è una cosa che seguì molte volte, tu mi dirai. Ah Teresa! ma quella volta ero là, ho visto tutto; — ho visto quella donna quando si slanciò al collo di quell'uomo, — l'ho guardata negli occhi, — ho contato i baci furiosi che gli ha stampati sulla fronte e sul petto, — ho sentito le sue grida — le sento ancora — non credevo che un viso umano si potesse trasfigurare in quel modo, e che delle voci e dei singhiozzi di gioia come quelli là potessero fuggire da questo petto di creta senza spezzarlo! Non credevo che si potesse esser belli, felici, gloriosi, com'era quell'uomo, quando si passò una mano nei capelli strinati — fiutò la mano — e si mise a ridere!
Teresa era commossa.
— Io tornai a casa — continuò Mario, — triste e pieno di disprezzo per me medesimo, come se avessi commesso un'azione vergognosa. Pensavo a quell'uomo, e mi pareva di essere meno che un verme della terra accanto a lui. Pensavo ai miei studî, e alle mie piccole soddisfazioni d'amor proprio, e ogni cosa mi pareva fredda e meschina, al paragone della gioia infinita che m'ero lasciata sfuggire. Rientrai in casa, accesi il lume e mi lasciai cadere sopra una poltrona, dicendo a me medesimo: — Bravo! Ecco il tuo piedestallo! — Sentivo delle voci nella strada, che mi parevano l'eco delle grida della madre e della folla, e da tutte le parti vedevo quella finestra infocata, la scala, l'uomo che saliva. A un tratto, mi cadon gli occhi sul tavolino, c'eran delle carte sparse, non mi ricordavo che fossero, guardai.... Erano pagine d'uno scritto, nel quale dicevo mille belle cose intorno all'amor materno, alla virtù del sacrifizio, alla generosità, al coraggio. Che vuoi che ti dica! Quelle parole, in quel momento, mi fecero l'effetto d'una ciurmeria ignobile, d'una ostentazione ipocrita e sfrontata; mi sentii salire il sangue al viso; buttai in terra, con una manata, quel mucchio di fogli....
Teresa gli pose una mano sulla bocca.
— E ci sputai sopra tre volte! — soggiunse Mario respingendo la mano.
— No, Mario! — esclamò Teresa — non le dire queste cose!
— Lasciamele dire — rispose Mario, con un sorriso mesto e amorevole: — è questo uno dei pochi bei tratti della mia vita. E ora sai perchè mi pare un'impostura lo scrivere quello che non faccio.
— Eppure! — gli disse Teresa — guardandolo negli occhi, dopo alcuni momenti di silenzio. — Eppure domani tu scriverai.
Mario si strinse nelle spalle.
— Sì, scriverai, — riprese Teresa — perchè io son donnina da trovare nella mia piccola testa delle ragioni convincenti da opporre a tutte quelle che mi hai dette finora per provarmi che non devi più scrivere.
— Sentiamole.
— Ma non oso dirtele perchè.... non mi so esprimere; sono una scioccherella.... io non m'intendo di letteratura.
— Credi agli angeli?
— Io sì.
— E credi che gli angeli s'intendano di letteratura?
Teresa sorrise, e continuò: — Ebbene, ecco la mia idea. Dici che dovrebbero scrivere solamente i grandi e questo non mi par giusto. In questo mondo ci sono tante anime che si somigliano, che vivono nella stessa maniera, che vedon le cose dallo stesso lato, che hanno perfino le medesime debolezze. Ebbene, queste anime si cercano, e quando s'incontrano, sia anche in una pagina d'un libro, ne godono, e si attaccano a chi ha scritto quella pagina, come a un intimo amico. I grandi scrittori ne abbracciano un gran numero di queste anime, perchè abbracciano la natura sotto moltissimi aspetti. Gli scrittori che vengon dopo, ne abbracciano soltanto poche; ma bastano anche queste poche perchè essi abbiano ragione di essere. I grandi scrittori destano la maraviglia, l'entusiasmo: gli altri solamente l'affetto e la simpatia. Ebbene, anche far nascere una simpatia mi pare che sia un effetto che giustifichi un libro, perchè la simpatia è una disposizione benevola del cuore, e una disposizione benevola è la metà d'una buona azione. E poi, perchè il grande dovrebbe escludere il piccolo? e il bellissimo escludere il grazioso? Non ci dovrebbero essere delle margheritine e delle viole perchè ci sono dei girasoli e delle rose? Forse che il poema di Dante m'impedisce di piangere e di sentirmi riaver l'anima leggendo le novelle del Thouar? Quando uno è sicuro che cinquecento persone leggeranno quello che scrive, ogni volta che gli viene un buon sentimento, fosse anche a proposito di due lucciole che passano, lo deve scrivere; e se impiega tutta la sua vita a scrivere delle cose che trasfondono un buon sentimento in cinquecento persone, la sua vita mi par che sia bene impiegata. E quanto allo scrivere quello che non si fa, mi par che tu non abbia ragione neppure; le buone azioni non si fanno soltanto col coraggio e coi sacrifizî; destare degli affetti gentili, consolare, intenerire, rasserenare l'anima per un momento a qualcuno, sono buone azioni non meno meritorie che star un mese senza fumare per fare un regalo a un maestro. Che importa se un libro che ha prodotto questi effetti, dopo un certo tempo è dimenticato? Quante buone azioni non si dimenticano ogni giorno! Forse che non si dovrebbero fare buone azioni che pei posteri? Ma perchè mi perdo in ragionamenti? Chi più di te sentiva queste verità, quando scrivevi le tue prime cose, e ogni volta che ne finivi una, comparivi qui colle braccia aperte e il viso radiante e mi dicevi: — Teresa, quanto mi rincrescerebbe morire! — Teresa, non dirmi che sono superbo: t'assicuro che oggi dentro di me c'era un angelo; era lui che mi dettava; se non ho scritto meglio, è perchè ho inteso male quello che diceva, tanto mi parlava in furia! — E vedi che anche adesso ti splendono gli occhi a sentirti ricordare quei giorni. — Dammi la mano, Mario — riprendi coraggio e fiducia — cercala qui l'ispirazione — nel cuore — vedrai che ti risponderà — la tua forza è qui; — promettimi che scriverai ancora, — che tornerai di nuovo qui contento e glorioso a farti baciare sulla fronte, — dimmi che ti senti l'angelo, Mario!
Mario, commosso, le chinò il capo sul seno, e rimase per lungo tempo immobile e pensieroso.
Finalmente Teresa gli mormorò all'orecchio: — E l'angelo?
— Oh! perdio sì! — gridò Mario balzando in piedi col viso radiante e battendosi una mano sul petto, — c'è ancora!
RITRATTO D'UN'ORDINANZA
Dei capi originali, sotto la vôlta del cielo, ce n'è e posso vantarmi d'averne conosciuto parecchi; ma uno che possa far la coppia con lui, credo che abbia ancora da nascere.
Era sardo, contadino, ventenne, analfabeta e soldato di fanteria.
La prima volta che mi comparve davanti a Firenze, nell'uffizio d'un giornale militare, m'ispirò simpatia. Il suo aspetto, però, e qualcuna delle sue risposte, mi fecero capir subito ch'era un originale curioso. Visto di fronte, era lui; visto di profilo, pareva un altro. Si sarebbe detto che nell'atto che si voltava, tutti i suoi lineamenti s'alteravano. Di fronte, non c'era nulla da dire: era un viso come tanti altri; di profilo, faceva ridere. La punta del mento e la punta del naso cercavano di toccarsi, e non ci riuscivano, impedite da due enormi labbra sempre aperte, che lasciavan vedere due file di denti scompigliati come un plotone di guardie nazionali. Gli occhi parevano due capocchie di spillo, tanto erano piccini, e sparivano quasi affatto tra le rughe, quando rideva. Le sopracciglia avevano la forma di due accenti circonflessi e la fronte era alta appena tanto da impedire ai capelli di confondersi colla barba. Un mio amico mi disse che pareva un uomo fatto per ischerzo. Aveva però una fisonomia che esprimeva intelligenza e bontà; ma un'intelligenza, se così può dirsi, parziale, e una bontà sui generis. Parlava con voce aspra e chioccia un italiano del quale avrebbe potuto domandare con tutti i diritti il brevetto d'invenzione.
— Come ti piace Firenze? — gli domandai, poichè era arrivato il giorno innanzi a Firenze.
— Non c'è male, — mi rispose.
Per uno che non aveva visto che Cagliari e qualche piccola città dell'Italia settentrionale, la risposta mi parve un po' severa.
— Ti piace più Firenze o Bergamo?
— Sono arrivato ieri; non potrei ancora giudicare.
Quando se n'andò gli dissi: — addio, — ed egli rispose: — addio.
Il giorno dopo fece la sua entrata in casa.
Nei primi giorni fui più volte sulle undici once di perder la pazienza e di rimandarlo al suo reggimento. Se si fosse contentato di non capire niente, transeat: ma il malanno era che, un po' per la difficoltà dell'intendere l'italiano, un po' per la novità delle incombenze, capiva a mezzo e faceva tutto al rovescio. Se dicessi che portò ad affilare i miei rasoi dal Lemonnier e a stampare i miei manoscritti dall'arrotino; che rimise un romanzo francese al calzolaio e un paio di stivali alla porta di casa d'una signora, nessuno lo crederebbe; poichè per crederlo bisognerebbe aver visto fino a che segno, oltre al capir male, egli era distratto, non bastando il capir male a dar ragione di qui pro quo così madornali. Ma non posso trattenermi dal citare alcune fra le più meravigliose delle sue prodezze.
Alle undici della mattina lo mandavo a comprare del prosciutto per far colazione, ed era l'ora che si gridava per le strade il Corriere italiano. Una mattina, sapendo che il giornale conteneva una notizia che mi premeva, gli dico: — Presto, prosciutto e Corriere italiano. — Due idee alla volta non le afferrava mai. Discese e ritornò dopo un minuto col prosciutto involto nel Corriere italiano.
Una mattina sfogliettavo sotto gli occhi d'un mio amico, e in presenza sua, un bellissimo Atlante militare che m'era stato imprestato dalla Biblioteca, e gli dicevo: — Il male, vedi, è che io non posso abbracciare tutte queste carte con uno sguardo solo e mi tocca osservarle una per una. Per afferrar bene il complesso della battaglia, vorrei vederle tutte inchiodate nel muro, in fila, in modo che formassero un solo quadro. — La sera, rientrando in casa.... rabbrividisco ancora a pensarci.... tutte le carte dell'Atlante erano inchiodate nel muro; e per maggior supplizio, la mattina seguente, mi toccò vederlo comparir lui col viso modesto e sorridente d'un uomo che viene a cercare un complimento.
Un'altra mattina lo mando a comprare due ova da far cuocere collo spirito. Mentre è fuori, viene un amico a parlarmi d'un affar di premura. Quel disgraziato rientra; gli dico: — Aspetta; — egli si mette a sedere in un canto, io continuo a parlare coll'amico. Dopo un momento vedo il soldato che si fa rosso, bianco, verde, che par seduto sulle spine, che non sa dove nascondere il viso. Abbasso gli occhi e vedo una gamba della sua seggiola leggiadramente rigata d'una striscia color d'oro che non avevo mai veduta. M'avvicino: è giallo d'ovo. L'infame s'era messo le ova nelle tasche posteriori del cappotto e, rientrando in casa, s'era seduto senza ricordarsi che aveva la mia colazione di sotto.
Ma queste son rose appetto a quello che mi toccò di vedere prima d'averlo ridotto a mettere in ordine la mia camera, non dico come volevo, ma in una maniera che rivelasse, alla lontana, l'uomo ragionevole. Per lui l'arte suprema del metter le cose in ordine consisteva nel disporle l'una sull'altra in forme architettoniche, e la sua grande ambizione era di fabbricare degli edifizi alti. Nei primi giorni i miei libri formavano tutti insieme un semicerchio di torri tremolanti al menomo soffio; la catinella rovesciata sorreggeva una piramide ardita di piattini e di vasetti, in cima alla quale si rizzava alteramente il pennello della barba; i cappelli cilindrici nuovi e vecchi si elevavano in forma di colonna trionfale ad un'altezza vertiginosa. Per il che seguivano sovente, anche nel cuore della notte, rovine fragorose e vasti sparpagliamenti, che, se non fossero state le pareti della camera, nessuno sa dove sarebbero andati a finire. Per fargli capire, poi, che lo spazzolino da denti non apparteneva alla famiglia delle spazzole da testa, che il vasetto della pomata era tutt'altra cosa che il vasetto dell'estratto di carne, e che il tavolino da notte non è mobile da mettervi le camicie stirate, mi ci volle l'eloquenza di Cicerone e la pazienza di Giobbe.
Se della buona maniera con cui lo trattavo, mi fosse grato, se sentisse affetto per me, non l'ho mai potuto capire. Una sola volta mostrò una certa sollecitudine per la mia persona, e la mostrò in un modo stranissimo. Ero a letto, malato da una quindicina di giorni, e nè peggioravo, nè accennavo a guarire. Una sera egli fermò per le scale il mio medico ch'era un uomo ombrosissimo, e gli domandò bruscamente: — Ma, insomma, lo guarisce o non lo guarisce? — Il medico montò in bestia e gli fece una lavata di capo. — Gli è che l'è già un po' lunga! — brontolò lui per tutta risposta.
Altre volte aveva certi frulli, che, invece di rimproverarglieli, come avrei dovuto, non potevo far altro che riderne. Una mattina mi svegliò dicendomi nell'orecchio con un certo suo accento strano: — Signor tenente, chi dorme non piglia pesci.
Un giorno entrò in casa mentre ne usciva un personaggio illustre, e sentì dire da un mio amico, rimasto con me, che quel tal personaggio era una personalità molto spiccata. Quindici giorni dopo, mentre stavo discorrendo con parecchi amici, egli s'affacciò alla porta della mia camera e m'annunciò una visita. — Chi è? — domandai. — È..., — rispose (non si ricordava il nome).... — è quella personalità molto spiccata. — Tutti diedero in uno scoppio di risa, il personaggio sentì, io gli spiegai la cosa, e ne rise anche lui dai precordi.
È difficile dare un'idea della lingua che parlava quel curioso soggetto: era un misto di sardo, di lombardo e d'italiano, tutte frasi tronche, parole mozze e contratte, verbi all'infinito buttati là a caso e lasciati in aria, che facevano l'effetto del discorso di un delirante. Un giorno mi venne a cercare un amico all'ora del desinare, ed entrando in casa, gli domandò: — A che punto è del desinare il tuo padrone? — Trema! — gli rispose il soldato. — L'amico rimase colla bocca aperta. Quel trema voleva dire termina.
In cinque o sei mesi, frequentando le scuole reggimentali, aveva imparato a leggere e a scrivere stentatamente. Fu la mia disgrazia. Mentre ero fuor di casa, s'esercitava a scrivere sul mio tavolino, e soleva scrivere cento, duecento volte la stessa parola, una parola, per il solito, che il giorno prima aveva sentito pronunciar da me leggendo, e che gli aveva fatto impressione. Una mattina, per esempio, lo colpiva il nome di Vercingetorige. La sera, rientrando in casa, io trovavo Vercingetorige scritto sui margini dei giornali, sul rovescio degli stamponi, sulle fascie dei libri, sulle buste delle lettere, sulle carte del cestino, da per tutto dove aveva trovato tanto spazio da ficcarvi quelle quattordici lettere predilette dal suo cuore. Un'altra volta gli toccava il cuore la parola Ostrogoti e il giorno dopo la mia casa era invasa dagli Ostrogoti. Un giorno lo seduceva la parola rinoceronte e la mattina seguente la mia casa era convertita in un serraglio di bestie feroci. Ci guadagnai però da un altro lato, e fu di poter abbandonare l'uso delle croci che facevo con matite di vario colore sulle lettere che doveva portare a mano a certe persone fisse, perchè non c'era verso di fargli ritenere i nomi; per cui egli soleva dire: questa lettera va alla signora celeste (ch'era mondana), questa al giornalista nero (ch'era rosso), questa all'impiegato giallo (ch'era al verde).
Ma a proposito dello scrivere gliene scopersi una assai più curiosa di quelle che ho citate finora. Si era comprato un quadernino, sul quale copiava, da tutti i libri che gli venivano alle mani, le dediche degli autori ai parenti, badando sempre a sostituire ai nomi di questi, il nome di suo padre, di sua madre o de' suoi fratelli, ai quali s'immaginava di dare in tal modo uno splendido attestato di affetto e di gratitudine. Un giorno apersi il quaderno e vi lessi, fra le altre, le dediche seguenti: — Pietro Tranci (era suo padre, contadino), Nato in povertà, Seppe collo studio e colla perseveranza Acquistarsi un posto segnalato fra i dotti, Soccorrere genitori e fratelli, Degnamente educare i figli. Alla memoria dell'ottimo padre Questo libro intitola L'autore Antonio Tranci, invece di Michele Lessona. In un'altra pagina: — A Pietro Tranci mio Padre Che annunziando al Parlamento subalpino Il disastro di Novara Cadeva svenuto al suolo, E tra pochi giorni moriva Consacro questo Carme, ecc. — Più sotto: — A Cagliari (invece di Trento) Non ancora rappresentata nel Parlamento italiano, ecc. Antonio Tranci, invece di Giovanni Prati.
Quello che mi meravigliava di più in lui, — che non aveva mai visto nulla, — era una assoluta mancanza del sentimento della meraviglia, qualunque cosa, per quanto straordinaria, egli vedesse. Vide, nel tempo che stette a Firenze, le feste per il matrimonio del Principe Umberto; vide l'opera e il ballo alla Pergola (non aveva mai visto un teatro); vide le feste del carnevale e l'illuminazione fantastica del viale dei Colli; vide cento altre cose nuove affatto per lui, che avrebbero dovuto stupirlo, divertirlo, farlo parlare. Nulla di tutto questo. La sua ammirazione non andava mai più in là della solita formola: — Non c'è male. — Santa Maria del Fiore.... non c'è male; la Torre di Giotto.... non c'è male; il palazzo Pitti.... non c'è male. Io credo che se Domeneddio in persona gli avesse domandato che cosa gli pareva della creazione, gli avrebbe risposto che non c'era male.
Dal primo all'ultimo giorno che stette con me, fu sempre dello stesso umore, tra serio ed allegro; sempre docile, sempre stordito, sempre puntuale a capire le cose a rovescio, sempre immerso in una beata apatia, sempre stravagante ad un modo. Il giorno che ricevette il suo congedo, scribacchiò non so quante ore nel suo quaderno colla stessa tranquillità degli altri giorni. Prima di partire venne ad accomiatarsi. La scena della separazione fu poco tenera. Gli dimandai se gli rincresceva di lasciar Firenze. Mi rispose: — Perchè no? — Gli dimandai se tornava a casa volentieri. Mi rispose con una smorfia che non capii.
— Se avrà bisogno di qualche cosa, — disse all'ultimo momento, — scriva pure che mi farà sempre piacere. — Grazie tante! — gli risposi. E così uscì di casa, dopo più di due anni che stava con me, senza dar il menomo segno nè di rincrescimento, nè di allegrezza.
Io lo guardai mentre scendeva le scale.
Tutt'a un tratto si voltò.
— Stiamo a vedere, — pensai, — che il suo cuore s'è svegliato e che ritorna a congedarsi in un altro modo.
— Signor tenente, — disse: — il pennello per la barba l'ho messo nella cassetta del tavolino più grande.
E disparve.
BATTAGLIE DI TAVOLINO
Un giorno un mio amico mi disse: — Tu non studii abbastanza; tu leggi; leggere non è studiare; leggere è un piacere, e studiare è una fatica: infatti tutti leggono e pochissimi studiano. Quali sono le ore della giornata che tu dedichi a uno studio profondo? a quel lavoro di figgersi nella mente le cose lette, di pensarle, di rimestarle, di raffrontarle, di spremerne il sugo? a quella fatica di raccogliere cognizioni precise, di formarsi giudizî proprî, di combattere, ragionando, i giudizî altrui, che dissentano da' tuoi? Tu con la mente non lavori, ti balocchi.
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A vent'anni quante ragioni si trovano da opporre a questi consigli! I libri, i libri! O che si vive pei libri? Io ho del sangue nelle vene, io ho bisogno d'aria e di luce, io voglio leggere il gran libro della vita. Prima di studiare bisogna vivere. Perchè legarmi a questo strumento di tortura ch'è il tavolino? La vita è moto; chi si muove è sano, chi è sano è allegro, chi è allegro è buono, e chi è buono è più caro a Dio e più utile agli uomini che questi eremiti della società che si sono logorati sui libri, pieni di vanità, gonfi d'orgoglio e svogliati d'ogni cosa.
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Le prime lotte son dure. Voi avete preso la risoluzione di studiare, date un addio agli amici, correte a casa, aprite un libro. A un tratto sentite non so che dentro di voi che dà indietro, che si raggomitola, che si scontorce. Voi ravvicinate la seggiola, e vi ripiegate sul libro, e vi sentite sbalzato indietro daccapo. V'è qualcuno dentro di voi, un nemico sordo, muto, cocciuto, che s'impenna, s'ostina, non vuole intendere ragione; un poltrone che si dibatte come se lo trascinassero al supplizio. E la lotta dura molto tempo e diventa accanita fino a farvi morder le dita e picchiare il pugno nel muro senza quasi sentirne dolore, come se veramente quelle offese non fossero fatte a voi, ma all' altro; e voi foste intimamente persuaso che siete in due: un capitano animoso e un soldato vigliacco.
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Poi si provano le prime gioie della vittoria. Vien sempre il momento in cui l' io che vuole, traendo dall'ira la forza che non aveva potuto trarre dal proposito, grida un voglio così imperioso, che l' altro non osa più di ribellarsi, si acquatta, si annichilisce. Allora vi sentite in cuore una soddisfazione piena di alterezza e assaporate la voluttà del comando; provate un sentimento quasi di rispetto per voi medesimo, come se in voi ci fosse qualcuno più valoroso e più forte di voi.
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Dopo le prime lotte e le prime gioie, vengono i primi sconforti. Come nella mente del dotto una nozione chiama l'altra, e per poco che rimugini ne mette sottosopra una folla, ch'egli si fa sfilare dinanzi colla compiacenza d'un generale che passa in rassegna un esercito, o d'un avaro che conta le sue ricchezze; così nella mente di chi comincia a studiare una lacuna mette in un'altra lacuna, e il povero esaminatore di sè stesso, dopo aver molto errato nel vuoto, prova un sentimento di solitudine, che gli precide il coraggio e le forze. Da un dubbio di lingua a un dubbio di storia, da un dubbio di storia a uno di geografia, da uno di geografia a uno di fisica, e son tutte cose elementari, essenziali, necessarie, tali che, sebbene dalla maggior parte si ignorino, pare nondimeno così vergognoso l'ignorarle che s'è convenuto fra tutti di fingere reciprocamente di saperle. E allora, in quell'affollamento di stupori e di vergogne, lo assale una smania dolorosa di colmare quei vuoti; e tira giù libri, e rovista dizionari, e piega pagine, e appunta; e mentre una nozione s'appiccica, l'altra si stacca, e mentre questa riaderisce, quell'altre due si confondono, fin che gli si fa buio fitto nella testa, le braccia gli cadono, ed egli esclama sconfortato: È inutile, è tardi, torniamo alla vita di prima.
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Il giorno dopo, a mente fresca, si ripiglia speranza e vigore. Si studia fino a sera e la sera si coglie il premio. In quel breve riposo che ci si concede dopo un sobrio desinare, tutte le cose imparate, come se si fossero data la posta, balzan tutte insieme dai ripostigli della mente, vengono a galla, non cercate, con una specie di gara a chi giunga la prima, e fanno nella testa un tumulto che non si può esprimere. Sentenze di filosofi e regole di grammatica, versi e date, immagini e pensieri lucidissimi; e poi bagliori, barlumi lontani d'altri pensieri e d'altre immagini così fitti e rapidi che non lascian vedere le lacune oscure che poc'anzi ci prostravano nello sgomento. Quelli son momenti di gioia viva.
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Il sacrifizio più duro è quello della sera nella bella stagione. L'aria è odorosa, la città è splendida, udite giù per le scale il passo affrettato dei vicini, e risa di ragazze e di fanciulli; poi il rumore nella strada; poi la casa rimane silenziosa. Tutti sono usciti, rimanete solo. Allora vi tocca combattere contro le immagini seduttrici. Avete la fantasia eccitata dalla lettura, siete giovane, la lotta è fiera. È appena credibile quello che segue allo studioso in quei momenti. A volte vi sentite veramente soffiare nel viso un alito di donna che vi rimescola; vedete passare a traverso il vostro libro una treccia di capelli; udite dei passi leggeri, dei respiri, qualcosa che s'agita nell'aria. Allora vi piglia quella maledetta tentazione di dar una pedata al tavolino e di buttar a terra ogni cosa, gridando con un accento di trionfo e di disprezzo: — Alla cassetta della spazzatura, cartaccie! Io voglio vivere!
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Sono belle e feconde queste battaglie combattute nel silenzio d'una cameretta tra l'immensa avidità del sapere e la foga prepotente della giovinezza; questo divincolarsi sotto un giogo che ci siamo imposti noi stessi. Il sudore che ci esce dalla fronte in questa fatica è un sudore salutare, la stanchezza che ne segue è madre di nuove forze. Allora si comprende che son sapienti certi consigli che ci parevan degni di riso. Allora si vede la necessità di combattere acerbamente questo corpo ribelle che ci vuole imporre una disciplina codarda; d'infliggergli dei patimenti che lo prostrino, non tanto da renderlo inetto a servire, ma abbastanza perchè non possa più comandare. Allora si piglia l'abitudine della colazione alla Franklin: pane, frutta, acqua, e di rigore in rigore, si è condotti logicamente fino a fare uno sforzo per non appoggiarsi alla spalliera della seggiola; concessione pericolosa, che per una serie d'altre concessioni conduce insensibilmente a ricominciar la battaglia.
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L'arte di comandare a sè stessi consiste in gran parte nel trovar argomenti e parole efficaci per movere in noi la vergogna. Ci vuol immaginazione ed eloquenza. Una mattina ch'ero svogliato mi costrinsi a studiare con questo discorso. Supponi che le pareti, i solai, le scale della casa diventino ad un tratto trasparenti. Guarda in alto, in basso, intorno. Tu vedi da ogni parte menar scope, smover sacconi, spolverar mobili; la casa è tutta in moto e in faccende. Ebbene, giurami che se tutte quelle donne colle maniche rimboccate e il viso luccicante di sudore si voltassero tutt'insieme a guardar te sdraiato sulla poltrona colle braccia in croce, giurami che, in quel punto, non proveresti un senso di vergogna, non ti verrebbe fatto di afferrar subito un libro per fingere almeno che studiavi, non ti verrebbe detto, come a un ragazzo côlto in fallo, con accento di scusa: — Ma io lavoravo, sapete!
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T'amo, o tavolino! Tu, fra tutti gli oggetti della casa, sei il solo che rappresenti l'amicizia fedele. La porta che, nei nostri begli anni, risuona qualche volta al tocco d'un ditino, che ci fa balzare in piedi col cuore in sussulto, finisce col non aprirsi più che a qualche vecchio amico che ci viene a parlare di malanni. Lo specchio, che ci dice tante care cose, fin che abbiamo l'occhio scintillante e la guancia rosea, finisce per diventarci odioso come un importuno che ci rammenti sempre una sventura che vorremmo dimenticare. Il letto sul quale ora dormiamo i sonni pieni e quieti della giovinezza, finisce per diventare un giaciglio di spine sul quale cerchiamo inutilmente il riposo. Tu, tavolino, sei l'ultimo ridotto nel quale, affranti dai disinganni, ripariamo. Caro quando, accesi dall'ispirazione, ti percotiamo col pugno vigoroso, presentendo la gioia dei trionfi; ci sei caro ugualmente quando torniamo a te col cuore contristato da una speranza miseramente delusa. Giovani, t'amiamo per la gloria; vecchi, per la pace; e riedifichiamo su te l'edifizio caduto della giovinezza.
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V'hanno dei momenti nella giornata dello studioso, — anche giovane, — nei quali la vita, — non so per che improvviso rivolgimento d'idee — gli si presenta al pensiero soltanto sotto i tristi aspetti; i pericoli, le delusioni, le lotte inutili, la vanità di ogni cosa; — e tutte queste immagini gli paion come altrettante figure umane che, accennando lui, dicano: — Ecco un fortunato! — In quei momenti egli prova qualcosa di simile al sentimento di chi, stando chiuso in una stanza calda, vede cader la neve nella via. Egli si sente bene nel suo covo, è contento della maniera di vita che ha scelta, prova come un bisogno di rannicchiarsi, vorrebbe vivere in un guscio anche più piccino, per tapparvisi meglio, per essere più al sicuro. Gli par di essere nella sua stanza piena di libri come in una fortezza inespugnabile, fornita di provvigioni inesauribili, in mezzo à una vasta pianura corsa da eserciti furiosi che spargano sangue e paura.
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V'hanno altri momenti, per contro, nei quali par che vi manchi tutt'a un tratto il calore intimo della vita del pensiero. Allora ogni cosa si agghiaccia intorno a voi; lo scopo delle vostre fatiche vi par puerile; vi piglia un'uggia invincibile di tutto ciò che avete dinanzi agli occhi e sotto le mani; i vostri libri ve li sentite come ammontati tutti sul petto; la finestra vi par diventata lo spiraglio di un carcere; il soffitto vi par che s'abbassi sulla vostra testa. Vi manca il respiro, v'alzate, vi guardate allo specchio: avete i capelli aruffati, la barba lunga, gli occhi rossi; vi sentite inselvatichito, avvilito; vi pare d'esservi svegliato in una spelonca; provate quasi orrore di esser così solo, intanato; pensate agli amici, alla campagna, alla musica, alle signore eleganti, e dite a voi medesimo che siete un insensato e un infelice.
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Certe figure d'amici vostri che sanno tanto più di voi, dopo che vi siete dato a studiar di proposito, ingigantiscono. Prima vi pareva che i lampi che voi mandate valessero assai più dell'oro che essi possedono, e vi meravigliavate che anch'essi non fossero del vostro parere. Ma a poco a poco siete arrivato a capire come un uomo che ha studiato davvero, che ha fatto di quegli sforzi di volere che costano lotte faticosissime, e riportate di quelle vittorie intime che insuperbiscono al pari d'un trionfo pubblico, debba naturalmente far poco conto dell'ingegno che s'alza per la sola forza delle sue ali; che molto ardisce perchè ignora molto; che non sente la sua vacuità perchè non essendosi mai messo alla grave impresa di riempirla, non l'ha mai misurata. Capite ora come a quell'uomo l'opera d'un tale ingegno debba parere un edifizio fragile. Anche voi, a pari altezza, ammirate di più il vertice immobile d'una piramide che l'ondeggiamento d'un cervo volante. Chi studia, conquista; l'ingegno incolto, al suo paragone, par che rubi. Molti che vi parevano invidiosi perchè non vi battevano le mani, capite ora che non avevano per voi altro sentimento che quello d'una fredda disistima. Essi sono boccie di cristallo, e voi siete bolle di sapone.
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Studia; ma non ti rintanare, scriveva il Giusti a suo fratello; e v'è un proverbio spagnuolo che tradotto letteralmente, dice: «corsa che non dà il puledro nel corpo gli rimane.» Guai al giovine che per studiare si seppellisce! La durerà più o men tempo, e poi gli piglieranno delle malinconie disperate. Per non aver creduto a chi mi dava questo consiglio, mi svegliai qualche volta con una così profonda ripugnanza per lo studio e per la casa, che scappai come un frenetico, corsi alla campagna, camminai tutta la giornata, dormii in un villaggio, e non tornai in città che il giorno dopo come torna un forzato alla galera. E non bisogna tuffarsi intero negli studî, anche per non perdere ogni attitudine alla vita sociale. Chi sta troppo solo, non più usato a tollerare i difetti dei suoi simili, a far sacrifizî d'amor proprio, a soffrire degli attriti spiacevoli, quando poi ritorna in mezzo alla gente si sente urtato e punto in mille modi, da mille parti. E va qualche volta tant'oltre questa sensitività penosa, da renderci insopportabile la più leggiera contraddizione. Nello studio solitario l'amor proprio ingigantisce; l' io diventa formidabile. Le nostre fatiche eccessive par che ci diano il diritto, — qualunque sia il frutto che ne ricaviamo, — di tenerci da più degli altri. Assuefatti nel nostro piccolo mondo a regnar da principi assoluti, portiamo anche fuori di esso le pretensioni e le arroganze principesche. Bisogna andar sempre fra la gente per farsi rintuzzare le corna dell'orgoglio.
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Una volta stetti tre mesi di seguito chiuso in casa a studiare, dalla mattina alla sera, non uscendo che un po' dopo desinare per pigliare una boccata d'aria. Facevo la colazione alla Franklin, bevevo appena un bicchier di vino al giorno, non fumavo, mi levavo la mattina all'alba. Volli esprimentare fino a che punto di elasticità e di forza si potessero condurre le facoltà mentali, e che miglioramento si operasse nelle morali, rifiutando al corpo tutto quello che infiacchisce le une e corrompe le altre.
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I frutti del primo mese e di mezzo il secondo furono ammirabili. Sentivo la verità di quella sentenza del Rousseau: — Un giovane che vivesse in questa maniera fino a venticinque anni, schiaccerebbe poi facilmente tutti gli altri. — La memoria mi s'era fatta più facile e più tenace; capivo a volo cose che prima mi davan da pensare un'ora; idee che pel passato mi si svolgevano nella mente come un filo sgomitolato a fatica, ora scoppiettavano tutte insieme, al menomo tocco, come un nuvolo di scintille; ragionando, sentivo che andavo più addentro; parlando, dovevo fare uno sforzo per contenere la piena delle parole che volevano prorompere. Poi, per quello che riguarda il sentimento, valeva addirittura il doppio. La commozione che mi dava la lettura delle cose poetiche, era più pronta e più durevole. Leggendo ad alta voce certi versi, mi sfuggivan persino delle grida. Mi rendevo ragione di certi esaltamenti, che m'erano parsi fino allora inesplicabili, di artisti, o di uomini nati per essere artisti, che alla lettura di certi libri erano stati presi dalla febbre, avevan dato in voci e in gesti da spiritati. E di tutti gli effetti di quella maniera di vita, quello che mi colpiva di più era questo: che il mio pensiero tendeva sempre a andare in su, a smarrirsi fuori del mondo. Per ore e ore non facevo che fantasticare intorno agli astri, all'immortalità dell'anima, all'infinito. Mi ero chiuso la porta di casa, scappavo pel tetto. Ma, in complesso, il miglioramento era grande.
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Il terzo mese fu un mese di lotta, e finì colla mia sconfitta. Mi parve che la mia intelligenza diventasse inerte e la mia memoria s'intorbidasse. Rimaneva la commovibilità, ma era giunta al segno da potersi chiamare piuttosto irritazione morbosa che vigore sano di sentimento. Ero diventato stravagante. A volte, smettevo di leggere, per far dei giuochi di forza colle seggiole, fin che sgocciolavo di sudore. Sovente mi mettevo davanti allo specchio e discorrevo con me gesticolando e ridendo. Ebbi perfino paura che mi desse un po' volta il cervello. La mia padrona di casa mi diceva spesso: — Ma che vita la fa, caro signore? — L'ultima settimana non studiai quasi affatto. Eppure non volevo cangiar vita. Era una picca d'amor proprio. Avevo detto agli amici che non mi sarei più fatto vedere; non m'avean creduto; volevo spuntarla. Finalmente, una sera, irruppero in casa mia alcuni compagni del buon tempo, mi chiusero i libri, mi misero il cappello, mi cacciaron fuori a spintoni, e fu finita. Dopo d'all'ora passai due mesi quasi nell'ozio: solita conseguenza di queste pazzie di solitudine. Ma il primo giorno la pagai cara. Svegliandomi non mi ricordai subito della scappata della sera, e corsi col pensiero alla vita di prima. Allora il ricordo saltò su, vidi i miei bei propositi andati in fumo, la catena dei miei sacrifizî spezzata, tutto l'edifizio innalzato nella solitudine, in rovine; e mi sentii oppresso da una grande tristezza, come una fanciulla alla quale fosse stato tolto a tradimento il diritto di portare quel nome.
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Il miglioramento che s'era operato in me in quel primo mese di vita austera, mi fece persuaso di questa verità, che bisognerebbe pestar bene nella testa a tutti i giovani: che, cioè, noi non ci accorgiamo del danno che fanno all'intelligenza e al cuore i disordini giovanili, anche quelli che paiono, per la loro natura e per la loro misura, più perdonabili; ma che ne fanno, ne fanno, ne fanno. Un giovane d'ingegno vivacissimo e di vita disordinata, col quale un giorno mi trattenni su questo argomento, diceva: — Sì, ammetto, si reggerà un po' meno al lavoro, si scriverà cinque ore invece di dieci; ma l'ingegno non ne può soffrire; un uomo d'ingegno riman sempre un uomo d'ingegno; il lavoro della creazione artistica non può essere turbato. — E che ne sai? gli domandai. Puoi tu accorgerti di tutte le piccolissime alterazioni che si producono nella misteriosa macchina del pensiero? Puoi dire, quando ti si desta nella mente quel tumulto d'idee che precede l'ispirazione, puoi dire che non se ne desterebbe nessuna di più, se il giorno prima non avessi disordinato? Si citano i grandi scrittori che han menato una vita disordinata. Ma chi può dire che i cattivi versi e le pagine scipite che sono uscite anche dalla loro penna, non corrispondano appunto a quei giorni della loro vita in cui non vissero come dovevano? Sappiamo noi se, vivendo in un'altra maniera, non avrebbero fatto un'opera completa di ciò che ci hanno lasciato in frammenti?
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Un giovane che stia solo, se studia, se riman molto in casa, non solo finisce per amare la sua casa, ma per rispettarla; e molte cose che prima non gli parevano, gli paiono dopo una profanazione. Fra quelle quattro pareti dove avete provato tante nobili emozioni, leggendo, scrivendo, fantasticando creature eccelse e grandi amori, vi ripugna, vi umilia lasciar penetrare qualcuno per cui i vostri studî, il vostro ingegno, la parte più eletta di voi, è un argomento di riso o un mistero.
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La gioia che viene dalla fatica è grande, e grande quella che viene dall'ingegno; ma più grande senza paragone è quella che viene dalla fatica dell'ingegno. — Io lavoravo da quasi un anno intorno a quel soggetto; non avevo mai fatto, sopra un soggetto unico, un così lungo lavoro; e perciò mi pareva assai più lungo di quello che ora mi parrebbe. Quando s'ha la penna facile, e molte cose belle da dire (o se non belle, liete), pare che lo scrivere dovrebbe essere un godimento, che la giornata dovrebbe riuscir breve alla furia dell'opera, che l'ora del lavoro dovrebbe essere aspettata con desiderio impaziente. Eppure, erano appena due o tre giorni ogni quindici quelli in cui mi mettevo a tavolino volentieri e scrivevo di vena; tutti gli altri giorni pigliavo la penna collo stesso animo col quale lo schiavo afferra lo strumento del lavoro che lo rifinisce. Certi giorni avrei preferito vangare, spaccar legna, e portar sacchi come un facchino, piuttosto che scrivere. Rimandavo d'ora in ora il momento di cominciare, cercando mille pretesti, come per ingannare me medesimo; e talvolta, per salvarmi dal rimorso di quell'ozio, m'imponevo delle fatiche ch'erano in realtà assai più gravi che quella dello scrivere; come fare una carta geografica, studiare a memoria lunghi squarci di prosa, imparare sterminate filze di vocaboli d'una lingua straniera. Quando non avevo ancora scritto che una cinquantina di pagine del mio libro, mi pareva che, una volta arrivato a metà, avrei tirato un gran respiro e sarei andato innanzi sino alla fine, quasi senza sforzo; e pensavo sempre a quella metà benedetta, come si pensa al termine d'un viaggio pieno di traversie. Ma arrivato che ci fui, non provai nulla di quanto avevo sperato; e rimisi le mie speranze ai due terzi. Quante volte, anche dopo fatto più di mezzo il lavoro, fui tentato di rinunziare a finirlo! Quante volte mia madre, vedendomi in un canto della stanza colle braccia incrociate e gli occhi fissi, mi domandò: — Ebbene, a che punto siamo? — e io le risposi: — Indietro, cara, indietro, e ho paura che non andrò più innanzi! — Mi ricordo che invidiavo mio fratello, perchè impiegato che non aveva che da andare all'uffizio; che invidiavo tanti miei amici i quali non scrivevano che articoletti di giornale; che invidiavo tutti coloro che non avevano sul collo quel giogo di dover star tanti mesi lì a tavolino a stillarsi sulla stessa cosa, quella prigionia dell'immaginazione, quella schiavitù del pensiero, quel supplizio di tutti i giorni e di tutti i momenti. Finalmente giunsi alle ultime pagine. Ebbi un ultimo scoraggiamento, chi lo crederebbe? quando non me ne rimanevan più da scrivere che una quarantina; ma fu breve; dopo di che mi prese un'attività impetuosa, gioiosa, febbrile, che durò fino al momento che scrissi l'ultima parola. Ricordo come se fosse ieri l'ora, il tempo, la luce che inondava la mia stanzina, l'odore di primavera che di tratto in tratto mi portava il vento, e persino l'ordine in cui eran disposti i miei fogli sul tavolino, quando scrissi con mano agitata la parola: — Fine. — Dio buono, era un ben meschino lavoro quello ch'io finivo, appetto alle fatiche ventenni (rido del paragone) del Gibbon, del quale avevo letto pochi giorni innanzi la bellissima prefazione alla Storia della decadenza dell'impero romano! Eppure, in quel momento, sentii anch'io, come lui, l'immensa gioia della libertà riacquistata, e mi parve di affacciarmi a una nuova vita. Mia madre non sapeva nulla; il giorno prima le avevo detto che mi rimaneva un'altra settimana di lavoro; e la mattina medesima le avevo annunziato che appena scritta l'ultima pagina avrei rimesso in ordine i miei libri che da parecchi mesi erano tutti sossopra, e fatto un ripulisti generale sul tavolino, che era un monte di carte e di prove di stampa da non potercisi raccapezzare. L'ordine nella mia stanza sarebbe stato il segnale della fine del mio lavoro. Mi misi dunque in fretta e in furia, ma senza fare rumore, per non mettere sull'avviso mia madre, a ordinare, a pulire, a sgombrare, col tremito in cuore di esser sorpreso, trattenendo ogni momento il respiro per sentire se nessuno s'avvicinava, ridendo da me come un fanciullo e soffocando le risa, finchè tutti i libri furono al posto, tutte le cartacce nella cesta, e sul tavolino non rimase che il calamaio, la penna e gli ultimi fogli del manoscritto. Allora sedetti ed aspettai; il cuore mi batteva forte, mi sentivo il volto acceso, sudavo. Passarono alcuni minuti, nessuno veniva: cominciai a tossire; mi misi a cantarellare. Allora udii nella stanza vicina il passo di mia madre, mi alzai, le corsi incontro. Essa mi guardò e mi domandò con aria di meraviglia: — Che cos'hai? — Io le accennai il tavolino e dissi: — Guarda! — Guardò, non capì subito, stette un momento sopra pensiero, e poi gridò con uno slancio di gioia: — Ma dunque hai finito! — Io le gettai le braccia al collo, ed essa mormorò con voce commossa: Povero figliuolo!
Tutt'a un tratto mi sentii mutare quella gioia vivissima in un sentimento quasi di mestizia. Mia madre se ne accorse e mi domandò: — A che pensi? — O madre mia, risposi, penso che per meritare questa soddisfazione avrei dovuto fare ben altro lavoro! Nondimeno son contento (e qui soggiunsi una frase che soglio dirle quando son contento, e che la fa sempre ridere) e ti ringrazio d'avermi messo al mondo.
Ciò detto, le porsi il braccio, uscimmo dal mio gabinetto, e facemmo la nostra entrata trionfale nella stanza da pranzo dov'era il resto della famiglia.
Vorrei che la donna che mi ama m'avesse visto in quel punto, perchè, lo dico francamente, ero bello.
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UN INCONTRO
Caro ***
Ti spiego la cagione del singolare aspetto che tu mi vedesti, giorni sono, quando c'incontrammo di sfuggita nella stazione di A.ª Non t'ho da raccontare un'avventura, od è un'avventura diversa dalle solite, che consiste in un sentimento piuttosto che in un fatto. Ti ricordi della Soireé perdue del Musset, di quella figura gentile vista al teatro e perduta d'occhio all'uscita? Io ti debbo raccontare qualche cosa di simile.
La mattina di quel giorno, partendo da T***, entrai, per caso, in un vagone, dove non c'era che una signora, seduta dalla parte opposta all'entrata, col viso rivolto fuori. Sentendomi entrare, si voltò, mi diede un'occhiata, e riprese l'atteggiamento di prima. Era una signora sui quarant'anni, pallida, sottile, un po' accasciata della persona, e vestita con quella trascuratezza signorile, che rivela più l'abitudine che lo studio dell'eleganza. Il treno partì senza che entrasse nessun altro.
Mentre io stava aspettando che si voltasse per vederla meglio, essa fece un gesto colla mano per aggiustarsi i capelli; un gesto che, sul primo momento, mi colpì; e un momento dopo, pensandoci, mi destò una lontana reminiscenza insieme a un sentimento di grata meraviglia. Avevo una canna fra le mani, la lasciai cadere; essa si voltò — la vidi in viso — e il cuore mi diede un balzo. Non m'ero ingannato, era lei. Essendosi accorta che avevo mostrato di conoscerla, da quel momento in poi si voltò di tratto in tratto a guardarmi, come se aspettasse che io le dirigessi la parola; e così potei vederla bene e finire di riconoscerla.
Dio del cielo! Io non avrei mai creduto che un viso umano potesse in così breve tempo cangiarsi tanto. È vero che non l'avevo più vista da quattordici anni; ma a quel tempo — me ne ricordo — essa aveva vent'anni al più; era fresca, florida, splendida; era una delle più belle signore della piccola città di G. che io pure abitavo; ed ora, poco più che trentenne, pareva invecchiata non di quattordici, ma quasi di trent'anni. Appena si riconosceva, piuttosto che ai lineamenti, a una certa espressione del suo sguardo dolce insieme e triste, che pareva il presentimento d'una vita sfortunata, ed era la sua più cara attrattiva. S'era fatta smorta, aveva qualche ruga sulla fronte, qualche capello bianco sulle tempie, e le mani smunte e color di cera. Che cosa era seguíto nella sua vita? Io non ne sapevo, e non ne so ancora che assai poco e in confuso. Prima dei diciott'anni era rimasta vedova, e due anni dopo s'era rimaritata. E fu appunto in quel tempo, quando colui che fu poi il suo secondo marito, le faceva la corte, che io la conobbi — nient'altro che di vista — e da lontano. Seppi poi che il suo secondo marito era un uomo disordinato e violento, e ch'essa menava una vita assai triste; ma ero lontanissimo dal pensare che potesse aver sofferto tanto da trasfigurarsi in quella maniera. Ora su quel viso si leggeva una lunga storia di disinganni, di sagrifizî, di torture. Pace, bellezza, gioventù, tutto se n'era andato. Erano stati quattordici anni di distruzione. Non le rimaneva più che quello che non si può perdere: la grazia, e quella dignità tranquilla e soave che viene dalla vita onesta, dalla rassegnazione, e dall'abitudine dei sentimenti gentili.
Passata la prima meraviglia e il primo senso di tristezza, pare che tutto avrebbe dovuto finir lì. Ma per me c'era una ragione che mi faceva sentire con più amarezza il suo cambiamento, che mi destava per lei un sentimento di viva pietà, una sollecitudine gentile, qualche cosa a cui non so trovare un nome, ma che mi metteva il desiderio di coprir di baci quella povera mano consunta; il desiderio, che so io? che un assassino ci assalisse, e che difendendola, mi toccasse una pugnalata — non dico nel petto — ma almeno in un braccio o in una mano, tanto da poter dire d'aver versato un po' di sangue per lei. Non potevo staccar gli occhi dal suo viso. Quando incontravo il suo sguardo mi veniva il suo nome sulle labbra. Stropicciavo le mani, ero inquieto; avevo bisogno di parlarle, e non osavo. Essa finì per accorgersi della mia inquietudine e ne parve meravigliata e intimorita. Allora, vedendo che non m'era più possibile tacere, perchè dovevo, se non altro, giustificare il mio contegno, mi feci coraggio e le domandai timidamente:
— Perdoni.... Lei è la signora ***? e dissi il nome del suo secondo marito.
La mia timidità, e il fatto che io sapessi il suo nome, la rassicurarono completamente. Mi rispose di sì e stette a guardarmi con molta curiosità.
— Glie l'ho domandato — soggiunsi — perchè non ne ero ben certo.... Erano quattordici anni che non avevo la fortuna di vederla.
Arrossì, pensando certo al gran cambiamento che dovevo aver notato in lei, e mi guardò attentamente come per cercare di riconoscermi e dirmi nello stesso tempo che non mi riconosceva.
— Lei non può sapere chi sono nè ricordarsi d'avermi veduto. Io non ho mai avuto l'onore di parlarle. La conoscevo di vista, nella città di G., nell'anno 1860. Io avevo quattordici anni, andavo ancora a scuola. Lei era vedova. La sua casa aveva il portone in via degli Olmi, ma lei entrava sempre per la porticina della strada accanto. Lei andava al teatro tutte le sere, nel palco numero nove, prim'ordine, a destra. Portava sovente un vestito di seta lilla. La sera del primo dell'anno le cadde un braccialetto in platea. Aveva un ventaglio tutto d'avorio e teneva per abitudine la mano destra fuori del palchetto.
La signora rimase meravigliata, stette un po' pensando, e poi esclamò sorridendo: — È vero!... Ma come mai si può ricordare di tutte queste cose?
— Vuol che glielo dica francamente? — domandai.
— Lo dica pure, — rispose, guardandomi con grande curiosità.
— E mi promette prima di credere che qualunque cosa io dica, non dirò una sola parola che non si accordi col profondo rispetto dovuto a una signora come lei?
Mi guardò un momento con stupore, e poi rispose titubando: — .... Non ne potrei dubitare. Ma di che si tratta dunque?
— Animo.... Bisogna pur dirlo. Lei è stata la prima donna che io ho amata in vita mia. — È detto.
Arrossì, si mise a ridere, e dopo avermi guardato attentamente, rispose: — Non è possibile.
— Non è possibile? — io dissi. — È tanto possibile che è vero come il sole, cara signora. Mi faccia la grazia d'ascoltare. Mi ricordo ogni cosa come se fosse ieri. L'avevo vista le prime volte al teatro, e m'ero fatto abbonare da mio padre, unicamente per vederla, e mi mettevo ogni sera nell'ultimo banco della platea in faccia al suo palco. Da principio non era che simpatia, che so io? ammirazione. Poi, a poco a poco, mi si accese il cuore e la testa.... Perdoni, signora, se m'esprimo in questi termini; non saprei dir la cosa altrimenti.... Insomma, finii per innamorarmi perdutamente di lei.... Le giuro che le dico la verità.... E non può immaginare fino a che segno arrivassi. Chi m'avesse costretto a mancare una sera al teatro, m'avrebbe messo alla disperazione. Io stavo delle mezz'ore intere a guardarla, immobile, inchiodato, pietrificato, che m'avrebbero potuto fotografare cento volte. Mi par strano persino che non se ne sia mai avvista. Se ne avvidero altri. Poveretto me, se sapesse quante ne passavo! La farò ridere. Quando lei entrava nel suo palchetto, mi pareva che il fruscío del suo vestito fosse un gran rumore che facesse voltare tutto il teatro a guardarmi, e mi sentivo morire dalla vergogna. Non perdevo, non dico un movimento della sua testa, ma nemmeno una contrazione del suo viso, delle sue labbra, della mano che teneva fuori del palco. Quando i suoi occhi cadevano, per caso, sul mio banco, mi saliva un'ondata di sangue alla testa. Cose da non credersi. Se sapesse quante parole appassionate le dicevo dentro di me, guardandola, quando sonava l'orchestra! Quante volte ho desiderato che pigliasse fuoco al teatro, per correre a salvarla! Mi rodevo di dispetto contro gli ufficiali che passavano sotto il suo palco, e colla punta del cheppi toccavano quasi il suo ventaglio. Avrei schiaffeggiato gli uomini che andavano a farle visita. Una sera fischiai un tenore che lei aveva guardato col canocchiale. Le mie serate, insomma, erano una successione di rossori, di batticuori, di gelosie, alle quali, il giorno dopo, corrispondevano altrettante sgrammaticature nella composizione latina. Capisce, signora? E fra tanti ammiratori che la circondavano, a lei non passava nemmeno per la mente che il più ardente di tutti fosse un povero scolaretto di ginnasio, il quale non doveva avere che quattordici anni dopo la fortuna di rivolgerle la parola.
La signora che durante la mia chiacchierata ora aveva sorriso, ora arrossito, e ora corrugato le sopracciglia, quand'ebbi terminato, rise più forte e si coperse il viso col ventaglio. Poi mi domandò con viva curiosità: — Ma dice tutto questo sul serio?
— Sul serio? — io continuai. — Le dirò ben altro. Me lo permette?... Che vuole?... Provo un gran piacere a rammentare quel tempo che fu il più tempestoso della mia adolescenza. La cosa era giunta al punto, che quando, in casa mia, sentivo pronunziare il suo nome, scappavo in un'altra stanza col viso rosso come una melagrana. Studiavo in una stanzina con mio fratello maggiore, il quale di tratto in tratto mi diceva: — Ma la vuoi finire coi tuoi sospiri, che mi sembri un innamorato del Metastasio? — Non studiavo più, ero distratto. Una notte sentii mio padre che parlando di me domandava sottovoce a mia madre: — Hai notato nessun cambiamento, da un tempo in qua, nelle sue maniere? E un'altra più curiosa. Il professore d'italiano ci diede da fare una composizione a tema libero; io scelsi l' Innamorato e scrissi una tale scempiaggine che fece ridere tutta la scuola e mi coprì di vergogna. Si figuri che fra le altre frasi, c'era questa: La testa dell'innamorato è un'urna di lagrime e di sospiri.... A poco a poco, m'ero ridotto al segno che arrossivo passando davanti alla sua casa, incontrando le signore che vedevo al teatro con lei, udendo pronunziare una parola che rammentasse alla lontana il suo nome. Quando vedevo comparir lei in fondo a una strada, mi pigliava un tremito alle gambe, e scantonavo; se non ero più in tempo a scantonare, mi cacciavo in una bottega; se non potevo cacciarmi in una bottega, tornavo indietro. Era un terrore. E ogni sera m'andavo a rinfocolare al teatro e facevo peggio. Mi passò fin per la mente di indirizzarle una lettera, di scrivere qualche cosa col carbone sui muri delle sue scale, di gettarle un mazzo di fiori da un tetto, di travestirmi e andar a portar legna in casa sua. Infine, vuol che le dica tutto, signora? Lei mi deve essere molto riconoscente perchè parecchie sere, tornando dal teatro tutto commosso, esaltato, mezzo fuori di me, e non sapendo come sfogarmi altrimenti, pregai per lei con un fervore che.... se ne avessi messo la metà a prepararmi agli esami, non m'avrebbero rimandato.
La signora rise di nuovo coprendosi il viso col ventaglio, e disse: — Ed io che non mi sono mai avvista di nulla! È strano!... Ma è proprio tutto vero?... — e sempre sorridendo, ma con una curiosità, se posso dir così, più raccolta e più seria, mi domandò: — E dopo? e si rimise in atto di ascoltare.
— Dopo, — io ricominciai — .... venne il peggio. Verso la fine del carnevale cominciò a frequentare il suo palco quello che fu poi suo marito. Lo vuol credere, signora? Ancora adesso, dopo tanti anni, provo un sentimento di compassione per me quando penso a quello che ho sofferto in quei giorni. Le prime volte che intesi dire intorno a me al teatro: — Eh! pare che il nodo si stringa! — Pare che sia un matrimonio bell'e fatto! ecc., — creda che, benchè fossi un ragazzo, mi son sentito agghiacciare il sangue. Ogni sorriso, ogni parola a bassa voce che loro si scambiavano, mi era una stilettata al cuore. Che so io? mi pareva d'esser tradito. A lei.... perdonavo. Lui.... bisogna pure che io dica tutta la verità.... l'odiavo con tutte le forze dell'anima. Lo vedevo per tutto. Lo sognavo, era il mio incubo. Volevo sfidarlo. Lo guardavo di sbieco. Un giorno, per la strada, se n'accorse, senza capirne il perchè, naturalmente; e si fermò a guardarmi; io abbassai gli occhi e tirai dritto. Infine corse la voce del suo prossimo matrimonio. Ne fui desolato. Non può farsi un'idea di quello che mi passava per l'anima. Pensavo di andare a qualche finestra, sulla strada dove lui passava, e di lasciargli cader sulla testa una grossa pietra. Mi proponevo di andarmi a gettare a suoi piedi e supplicarla per amor di Dio di non sposarlo se non voleva vedermi morto. Mi venne in mente di farmi frate, di fuggire in Svizzera, di diventare uno di quegli uomini terribili dei romanzi che hanno un perpetuo sorriso mefistofelico sulla faccia di marmo. Addio latino! Addio studî! Passavo ore intere nel cortile di casa mia a martirizzare le lucertole e i vermi; un giorno m'incisi una mano colle forbici e per poco non svenni vedendo spicciare il sangue; una sera rubai una bottiglia di vino nella dispensa e m'ubbriacai come un facchino in un ripostiglio di mobili vecchi, al buio.... Venne finalmente quel giorno terribile.... La sera, la banda della guardia nazionale suonò sotto le sue finestre. Da casa mia si sentiva la musica. Ero avvilito, angosciato, disperato. Mi venne l'idea d'uccidermi. Scesi nel giardino con una corda e m'avvicinai a un albero.... ma mi mancò il coraggio. Allora mi misi a piangere, mi buttai in terra, e stetti tutta la sera là, solo, al buio, accovacciato come un cane, con la mia corda fra le mani, pensando a lei, e chiamandola di tratto in tratto per nome, fin che la banda cessò di suonare ed io corsi a casa a gettarmi nelle braccia di mia madre, alla quale confidai ogni cosa. Mia madre fece le grandi meraviglie, rise, mi consolò, mi condusse a letto, mi diede la buona notte ridendo, e per parecchi giorni, di tratto in tratto, continuò a guardarmi fisso, poi a baciarmi ed a ridere ancora. Il giorno dopo lei partì con suo marito e non ho più avuto la fortuna di vederla. Ecco la storia del mio amore, cara signora. Ho aspettato quattordici anni a raccontargliela: spero che non mi accuserà di precipitazione. Se poi volesse sapere perchè glie l'ho raccontata, dico la verità, sarei imbarazzato a risponderle. Il fatto è che ho sempre desiderato d'incontrarla un giorno o l'altro per farle questo racconto; e che soddisfacendo il mio desiderio, ho trovato un'emozione gentile, piena di rispetto e di gratitudine per lei.
A questo punto la signora, che m'aveva ascoltato con un'attenzione sempre crescente, si coperse il viso, ma senza ridere; poi mormorò con voce un po' commossa, sorridendo leggermente: — Certo che... lei m'ha detto delle cose molto gentili.... e io debbo ringraziarla.... — Qui rise di nuovo, ma quasi facendo uno sforzo; tornò a coprirsi il viso e rimase qualche momento in quell'atto. Che cosa abbia pensato in quei momenti, non saprei. O che il mio racconto, richiamandole vivamente alla memoria un tempo in cui era felice, e sperava un avvenire migliore, le abbia inacerbito il sentimento dei suoi disinganni; o che ripensando il tempo in cui poteva ispirare degli affetti così ardenti, abbia sentito con più amarezza il rammarico della sua gioventù e della sua bellezza perduta innanzi tempo; o che l'immagine di quello schietto e profondo amore giovanile, le abbia fatto parer più triste di non essere stata amata da colui al quale aveva consacrata la vita; il fatto è che quando abbassò il ventaglio — con mia grande meraviglia — aveva il viso tutto rigato di lagrime.
— Signora! — le dissi vivamente, prendendole una mano. — Che vedo mai?... Le ho ridestato qualche ricordo doloroso? Mi perdoni.... sono stato imprudente.... non me ne darò mai più pace.... Mi perdoni, signora!
Essa fece cenno di no, che non avevo nessuna colpa; poi sorrise e si asciugò gli occhi con una mano lasciando un momento l'altra mano nella mia.
In quel punto il treno era arrivato alla stazione dove io dovevo scendere.
— Signora, — le dissi al momento di mettere il piede sul montatoio — mi faccia una grazia.... mi permetta di baciarle la mano che teneva fuori del palchetto!
Me la porse, glie la baciai tre volte, e rialzando il viso, vidi nel suo atteggiamento e nei suoi occhi una così cara espressione di bontà, di mestizia, di rassegnazione; e nello stesso tempo tanta dolcezza e tanta grazia, che rimasi un momento attonito a guardarla ed esclamai ingenuamente e con tutto il cuore: — Siete sempre bella!
— Non è vero! — rispose mestamente, ma sorridendo, e fece cenno di no col ventaglio.
Io m'allontanai, mi voltai indietro e feci cenno di sì col capo.
— No, — ripetè essa col ventaglio — e si ritirò dallo sportello.
Il treno partì, e nello stesso momento uscì dallo sportello la sua mano, che rimase così appoggiata, col ventaglio in giù, nello stesso atteggiamento in cui soleva tenerla fuori del suo palchetto al teatro.
Il viso non ricomparve.
Io accompagnai quella mano cogli occhi.
Era un addio — era un'immagine della sua giovinezza e della mia adolescenza — era un rimpianto del passato — era un'espressione di gratitudine — era qualche cosa d'infantile, di pietoso e di melanconico — era come la mano d'una morta che si fosse rifatta viva un momento per dare un ultimo saluto alla vita. — Addio! Addio! — dissi nel mio cuore quando mi sfuggì dalla vista — Addio, cara larva! cara memoria mia! e rimasi.... rimasi come tu mi trovasti quando c'incontrammo nel vestibolo della stazione.
EMILIO CASTELAR
5 dicembre 1873.
Caro ***.
È naturalissimo il tuo desiderio di sapere qualche particolare intorno a Emilio Castelar, ed è giusto il rimprovero che mi fai di non averne parlato che vagamente nel mio libro.
Io solevo accompagnarlo da casa sua alle Cortes e lo conobbi in quelle brevi conversazioni assai meglio che nei suoi libri. Non ti meravigli ch'egli usasse così famigliarmente con me straniero e sconosciuto, poichè, oltre ad essere molto alla mano con tutti, è così matto dell'arte italiana, che coglie con piacere ogni occasione di parlarne e d'udirne parlare anche dagli ignoranti.
Il Castelar ha questo di curioso, che a vederlo, a stargli insieme, nessuno direbbe mai che sia un grande oratore. All'aspetto non ha nulla di notevole. È piccino, grassoccio, calvo, e ha due grand'occhi, che spirano un'aria di cor contento. A udirlo poi, sembra meno che mai quello stess'uomo che strappa gli applausi alle Cortes. Parla a pause, stilla le parole come per pigliar tempo di cercare la frase, non casca mai nella declamazione, non si lascia mai sfuggire un'espressione che non convenga al linguaggio famigliare. Di più, mentre parlando alle Cortes tratta ogni argomento con una specie di dignità tragica, nella conversazione famigliare discorre in tuono di scherzo anche delle cose più gravi. Se qualche volta esce dallo scherzo, casca nell'indifferenza; ma non dà mai nel serio. Non ho mai visto sul suo viso, nè udito nella sua voce la più leggera espressione di sdegno. E infatti a lui, come oratore, manca assolutamente quell' effet terrible che descrive Vittor Hugo parlando del Mirabeau, e quella, se si può dire, forza della collera, per la quale grandeggia qualche volta il Gambetta. Egli piace, seduce e spesso commove; ma non fa mai paura. Non si può dire che ha i fulmini dell'eloquenza; ma i lampi, i raggi, che so io? l'iride; poichè i suoi discorsi brillano più di colori gentili che di luce feconda. Un giorno che era annunziato un discorso del Castelar, un ministro disse giustamente ai suoi colleghi: — Oggi il pavone Castelar fa la ruota. — Ma aveva ragione anche un dotto Carlista, il quale, rimproverato da un suo amico perchè gli piacevano quelle bolle di sapone del Castelar, si scusò dicendogli ch'eran le più belle che si facessero in Spagna.
Il primo giudizio che portai del Castelar, fu che non avesse punto fiele nell'anima. Guardandolo negli occhi quando parlava senza ira di gente che lo detesta e lo diffama, non gli vidi mai quelle crespe delle palpebre e quei guizzi e colori dell'orbe, come dice benissimo il reverendo padre Bresciani, che rivelano i sentimenti nascosti dalle parole. Soltanto mi parve che non fosse insensibile alle punture della gelosia oratoria, perchè un giorno, alle Cortes, nel momento che si alzava Cristino Martos, oratore de pelo en pecho (col pelo sul petto), come si dice in spagnuolo, per dire un uomo di polso; e che da tutte le parti della sala si faceva improvvisamente un profondo silenzio; vidi il Castelar rannuvolarsi e tentar di far uno sbadiglio che non gli riuscì di finire.
Un sentimento che prova la sua gentilezza d'animo, e che non credevo di trovare in lui, così genuinamente spagnuolo, è una profonda avversione per le corse dei tori. — Non me ne parli! — mi disse un giorno facendo un atto di ribrezzo: — è una stupida barbarie che vorrei veder bandita per l'onore del mio paese.
Da principio non riuscivo a raccapezzare come la pensasse in fatto di religione. Spiritualista avevo capito subito che lo era; ma non capivo se fosse cristiano, ossia se credesse nella divinità di Gesù Cristo. La sua opera La civiltà nei primi cinque secoli del cristianesimo (quattro volumi che si potrebbero ridurre in uno, se si bada alla sostanza, e che si vorrebbe fossero cento, se si bada alla forma) non mi lasciava dubbio che fosse ardentemente cattolico. Per contro i suoi discorsi politici non mi lasciavan dubbio che fosse libero pensatore. Un giorno gli domandai ex abrupto una spiegazione, e mi parve che la domanda non gli riuscisse gradita, come segue di tutte le domande che ci obbligano ad affermare qualcosa di cui non siamo sicuri. — Una volta, mi rispose, ero cattolico; ora.... son razionalista. — E cambiò discorso. È insomma anche lui di quei moltissimi che si agitano fra la fede e un dubbio serio ed inquieto, come scriveva il Manzoni al Giusti; e se avesse da dire in termini recisi quello che pensa e che crede, si troverebbe imbarazzato. Certo è che la fede nell'esistenza di Dio e nell'immortalità dell'anima, è il sentimento che gli ha inspirato le più eloquenti parole dei suoi libri e dei suoi discorsi.
Come tutti gli artisti, è un po' vano e ghiotto della lode; ma la sua vanità è così ingenua, che non solo non ristucca, ma piace. Qualunque lode gli si dia, se la piglia, sta zitto e lascia che si tiri innanzi, come se si parlasse di un altro. Qualche volta poi dondola il capo come per dire: — dite bene, avete ragione, io pure son di questo parere. — Un giorno mi disse amichevolmente: Se lei vuol avere un'idea del mio genere d'eloquenza, venga a sentire il discorso che farò la settimana ventura contro la politica estera del governo. Ma lei dalla tribuna dei giornalisti non può vedermi in viso, e perde il mio gesto.... Ebbene le farò dare un biglietto per una delle tribune di rimpetto; così non perderà nulla. — Il mio principale merito, — disse un'altra volta — è quello d'aver saputo dire in lingua pura e in stile elevato molte cose nuove che pare non si possano dire che a scapito della dignità dello stile e della correttezza della lingua. — In questo modo si libera la gente dalla seccatura di dare il proprio parere. Un giorno gli lessi un brano d'un suo discorso che avevo tradotto in italiano, ed egli mi disse candidamente: È bello anche in italiano.
Come tutti gli uomini d'immaginazione viva e di cuor caldo è facilissimo all'ammirazione, e non serba, nell'esprimere questo sentimento, nessuna misura. Quando loda qualcuno o qualcosa, i suoi amici non gli credono più. Un giorno, alle Cortes, un deputato domandò a un collega, il quale aveva conosciuto il Gambetta a Parigi, se questo Gambetta gli fosse parso veramente quel grande uomo che molti dicevano. — Domandalo al Castelar, — gli rispose il collega; — egli lo conosce meglio di me. — Che! — disse l'altro; — in queste cose il Castelar è un bambino. — E in fatti la biografia del Gambetta scritta dal Castelar, piuttosto che il ritratto d'uno storico fedele è il panegirico di un partigiano infatuato. Un'altra volta un deputato, me presente, domandò al Castelar che impressione gli avesse fatta Garibaldi la prima volta che gli aveva parlato. Il Castelar allargò le braccia e alzò gli occhi al cielo, esclamando con enfasi: — Amigo! La de un hombre extraordinario (quella d'un uomo straordinario). — Me lo immaginavo, — rispose l'amico; — ma già su tutto quello che dici tu bisogna fare la tara. E per dirne ancor una, ricordo che, mentre il Castelar mi levava a cielo un tal Santa Maria di Siviglia che canta con molta grazia le canzonette andaluse, affermando che il Tamberlick, il Mario, lo Stagno, appetto a lui non valevano un fico secco, parecchi amici suoi diedero in uno scoppio di risa, e uno gli domandò: — Ma quando la finirai con codeste esagerazioni, don Emilio?
Solevo interrogarlo intorno al lavorío col quale prepara i suoi discorsi, intorno a quei segreti d'artista, a quei misteri, per dirla con Giambattista Giorgini, che l'anima celebra con sè stessa. Egli mi spiegò in che maniera fosse riuscito a parlare e a scrivere così facilmente e correttamente, e le sue parole mi parvero la rivelazione d'una nuova teorica dello scrivere, alla quale ho pensato continuamente d'allora in poi. — Con chiunque parli, mi disse, — e di qualunque cosa parli, non avessi che da dare un ordine al mio servitore, non trascuro mai l'espressione, cerco sempre di dir la cosa come la direi se le mie parole dovessero venir scritte o stampate in sull'atto. E ogni volta che mi balena un pensiero, lo esprimo subito a me medesimo come se dovessi esprimerlo a un altro; non mi lascio nulla nel capo in istato di embrione; penso continuamente parlando con me stesso a periodi finiti. — In fatti corregge pochissimo le cose scritte. Ma benchè prepari di lunga mano i suoi lavori per scrivere bisogna che abbia fretta. Diceva che non poteva far nulla, se non aveva lo stampatore alla porta.
Con lui parlavo spagnuolo, e ci voleva del coraggio; ma spesso mi pregava di parlargli italiano. — Capisco l'italiano, — diceva, — ma non lo parlo, perchè non lo voglio profanare. In Italia badavo sempre a pregar la gente che mi parlassero italiano e non francese. Bella! mirabile lingua! Però, lasciatemelo dire: se per la poesia è meglio la lingua italiana, per l'oratoria preferisco la spagnuola. — Su questo punto non voleva intendere ragioni. Qualche volta anzi gli pigliavano dei dubbi anche sulla poesia, e ripeteva quei versi famosi dell'Espronceda, coi quali un cavaliere imita il suono della corsa sfrenata del suo cavallo:
Mis ojos fuego en su inquietud lanzando
Campo adelande devorando van.
E dicendoli con quella voce sonora e con quel gesto vigoroso, li faceva parere anche più belli ed efficaci di quello che sono; ma è superfluo il dire che non mi lasciava persuaso.
Tutti sanno quanto egli ama l'arte italiana, ma soltanto quelli che lo conoscono possono sapere quanto e come l'ha studiata. Non c'è quadro o statua o basso rilievo di Firenze, di Roma o di Venezia ch'egli non abbia stampato nella memoria e non sia in grado di descrivere minutamente come se l'avesse visto il giorno innanzi. Parla delle nostre città, nominando strade, palazzi e porte, come parla di Toledo e di Siviglia. Firenze, la ciudad, com'egli la chiama, de la inteligencia, è la sua città prediletta. — Allì, mi disse un giorno, el último limpiabotas tiene mas sello academico que nuestros individuo de número. — (Là l'ultimo lustrascarpe ha più carattere accademico che i nostri accademici). Un giorno, mentre alcuni amici suoi parlavano di politica, egli interruppe bruscamente la conversazione, a cui non badava, e fermandosi in mezzo alla strada colle braccia incrociate sul petto, esclamò con un accento di profondo stupore: — Y decir que la puertas de Ghiberti son del siglo quince! — (E dire che le porte del Ghiberti sono del secolo quindicesimo!) Quando si parla d'arte italiana, va in visibilio. L'ho visto cangiar di colore e tremare discorrendo d'un quadro del Tintoretto — Mas si os digo, — gridava battendosi la mano sulla fronte — que se siente crujir la seda! — (Ma se vi dico che si sente il fruscío della seta!)
Avrei da scrivere molto se volessi riferire tutti i detti arguti che intesi da lui, e gli aneddoti ameni di cui è amantissimo.
Diceva dello Zorilla: È un uomo che ha tutti i difetti d'un temperamento artistico, senz'alcuna delle buone qualità.
A un amico materialista che gli aveva mandato un libro, nel quale trattava dell'influsso del cibo sul pensiero, diceva: — Sta bene, ma tu devi ancora scrivere un libretto per dimostrare quali sono i passi del Don Chisciotte che il Cervantes scrisse nei tempi in cui mangiava pane di granturco.
Raccontava che un giorno, essendo a desinare in una famiglia, la padrona di casa, in fin di tavola,, gli aveva detto, arrossendo un pochino: — Signor Castelar, lei ci dovrebbe fare l'immenso favore di declamarci un bel discorso mentre prendiamo il caffè — Qui il Castelar rimaneva muto rifacendo tale e quale il viso che aveva fatto in quel momento, e ti assicuro che c'era da scoppiare dalle risa.
Un giorno passeggiando nel Prado, il Castelar, un suo amico monarchico e un terzo importuno ch'ero io, vedemmo venir verso di noi un uomo colla faccia stravolta, che parlava e gesticolava da sè. Il Castelar mi tocca col gomito e dice sottovoce: — Costui è uno che aspirava alla corona di Spagna. Prima che fosse eletto il duca d'Aosta andava egli stesso distribuendo ai deputati le schede col suo nome per il giorno della votazione. Non si faccia scorgere: è matto. — Il matto intese quelle parole, e si fermò; qualcuno che passava si fermò pure; si formò un gruppo di gente. Quando fummo a due passi da lui, prese un atteggiamento drammatico e voltandosi verso il Castelar, gli disse ad alta voce: — Ebbene, sì, io volevo esser re; ma non sono mai stato un impostore come lei! — Detto questo si allontanò brontolando; la gente rise; il Castelar fece uno sforzo per ridere egli pure, ma era diventato rosso come una fragola. — Bravo! — gli disse l'amico battendogli la mano sulla spalla; — son contento di vedere che non hai ancora perduto il pudore. — E che! — rispose pronto il Castelar; — credevi che io fossi diventato monarchico?
La sua sala di studio, in casa, è l'immagine della sua testa; o per meglio dire, era l'immagine, perchè non so se il Presidente della repubblica viva ancora come viveva il modesto deputato. Statuette, vasi di fiori, gabbie d'uccelli, opere di filosofia, libri di versi, medaglie antiche, cataloghi di musei, atti ufficiali, lettere di elettori, stampe, ritratti, giornali, opuscoli; si vedeva un po' d'ogni cosa sparpagliato sui tavolini, sulle seggiole e pel pavimento, in un disordine pittoresco, che faceva ridere e fantasticare. Là, in mezzo ai suoi amici e ai suoi libri, il Castelar era più bello a vedere che alle Cortes. Un giorno un amico suo fece il giro della sala con una bacchetta in mano, e toccando l'uno dopo l'altri tutti i cassetti dei tavolini, disse col tuono d'un cicerone: — Signori! Qui sono i manoscritti pei giornali del Perù. — Qui, quelli pei giornali del Messico. — Qui, quelli pei giornali di Cuba. — Qui, quelli pei giornali del Brasile. — Qui, quelli pei giornali degli Stati Uniti. — E qui, quelli pei giornali del vecchio continente. Quando un editore si presenta, il Castelar apre un cassetto, vi tuffa le mani a occhi chiusi, e butta via quello che trova. — Il Castelar disse una volta che le corrispondenze dei giornali d'America gli rendono quindicimila scudi all'anno. E pensare che pochi anni prima, per guadagnare qualche soldo, scriveva prediche per preti di campagna!
Mi raccontò egli stesso, un po' per volta, le prime vicende della sua vita, dicendomi di tratto in tratto che, se volevo, pigliassi pure degli appunti. È nato a Cadice nel 1832. Suo padre, uomo studioso, benchè agente di cambio, e possessore d'una ricca biblioteca, morì in età ancor fresca, lasciando la moglie e il piccolo Emilio, che non aveva ancora sette anni, in grandi strettezze. Una sua sorella d'Alicante li accolse in casa tutti e due, e la signora Castelar si consacrò tutta all'educazione del figliolo, facendo per lui, fra gli altri sacrifizi, quello di conservare e di arricchire la biblioteca paterna, affinchè egli prendesse per tempo amore ai libri. Il Castelar, in fatti, ebbe fin da ragazzo, più che amore, manía per la lettura, e l'ha ancora, poichè legge continuamente, per le strade, nelle Cortes, a tavola, a letto, nel bagno, da per tutto dove può tener sotto gli occhi un libro o un giornale. Con questo gran bisogno di leggere nacque in lui quasi ad un tempo un gran bisogno di parlare, e ancora bambino, diede prova di straordinaria facondia. — Facendo gli altarini — mi disse, — io e i miei piccoli compagni, solevamo pronunziare ciascuno un'orazione sacra dall'alto d'una seggiola ravvolta in una coperta da letto. Yo era el espanto de todos. (Io ero lo spavento di tutti). — A dodici anni fu mandato a Elda, dove studiò la lingua latina, e cominciò a scrivere con grande ardore novelle, discorsi storici, dissertazioni religiose, poesie, commedie, poemi, saggi d'audacia, com'egli disse, più che d'ingegno; i quali finiron tutti nel fuoco. Le prime vere prove d'ingegno e d'eloquenza le diede in Alicante dove si trasferì nel 1845 per fare il corso di segunda enseñansa. Qui si dedicò con entusiasmo alla filosofia, alla storia e alla letteratura, e in questi studi andò innanzi d'un gran tratto a tutti i suoi colleghi, parecchi dei quali, che seggono ora nelle Cortes e professano principi politici affatto contrari ai suoi, come don Carlos Navarros, il Gallastra ed altri, attestano che sin d'allora era opinione di tutti, ch'egli sarebbe diventato un grande oratore e un grande scrittore. Da Alicante andò nel 1848 a Madrid, dove vinse al concorso un posto gratuito d'alunno nella Escuela nacional de filosofia, e d'allora in poi, non solo provvide al suo mantenimento, ma scrivendo nei ritagli di tempo che gli lasciavano gli studi, guadagnò tanto da mantenere sua madre. Pubblicò in quel tempo, tra le altre cose, un giornaletto letterario, in cui i letterati ammirarono per la prima volta il suo stile nitidissimo e scintillante. Suo cugino don Antonio Aparisi, il rinomato oratore cattolico, leggendo un giorno uno di quegli articoli, disse alla signora Castelar: — Zia mia, bisogna aver gran cura di questo ragazzo, perchè se continua come ha cominciato, farà molto rumore nel mondo. — Fin qui, però, le glorie del Castelar non erano state che glorie scolastiche. Egli si rivelò per la prima volta alla Spagna nel 1854, all'età di ventidue anni. Un amico, incontrandolo un giorno per strada, gli annunziò che c'era un'adunanza popolare nel Teatro Reale, e gli domandò perchè non ci andasse. Il Castelar non rispose altro che: — Vado — e corse al Teatro. Quando arrivò, molti oratori avevano già parlato, il pubblico era stanco, l'adunanza stava per sciogliersi. Ciò non ostante il Castelar, risoluto a parlare, salì sul palco scenico e cominciò: — Signori! Io vengo qui a difendere le idee democratiche.... — Un vivo bisbiglio di disapprovazione lo interruppe. La sua persona esile, la sua voce sottile, il suo atteggiamento fanciullesco, non ispiravano alcuna fiducia; lo presero per uno scolaretto; gli gridarono: — Basta! Basta! Un'altra volta! Un'altra volta! — Il Castelar, piccato, s'incaponì e tirò innanzi. A poco a poco si fece silenzio; poi s'udi qualche voce d'approvazione; a un tratto, scoppiò una tempesta d'applausi; infine ogni periodo fu applaudito con furore, l'oratore venne condotto fuori quasi in trionfo, il suo nome corse di bocca in bocca, i giornali di Madrid lo levarono a cielo, tutta la Spagna, in pochi giorni, lo ripetè: il Castelar fu celebre da quella sera. La España, autorevole giornale letterario, disse, pubblicando il suo discorso: — Està destinado a reemplazar à todos nuestros grandes oradores y à reemplazarlos con ventaja. — E il pronostico s'è avverato.
Ora ha in mano le sorti della Spagna, se pure le sorti d'un paese così sfasciato possono mai ridursi nelle mani d'un uomo solo. Che cosa farà? È un riesci, come si dice in Toscana. Ma io questo ti posso dire, che quando lo vedevo, in mezzo ai suoi amici, prorompere in scoppi di risa da giovanetto di quindici anni; o volgere in mente qualche bel periodo poetico da incastonare in un discorso, mentre un collega badava a parlargli di leggi e di votazioni; o fare il viso del malumore perchè il giorno che doveva parlare non c'eran signore nelle tribune; e in tutte le conversazioni saltar sempre dalla politica all'arte, dal ragionamento al sentimento, dalla terra alle nuvole; se qualcuno m'avesse detto allora: — Costui fra un anno governerà la Spagna in queste e queste condizioni, — con tutta l'ammirazione che avevo per lui, avrei dato una scrollatina di capo, e detto tutt'al più: Chi sa! le vie della Provvidenza sono infinite....
E poi leggi questo brano di discorso pronunziato da lui alle Cortes, due anni fa. — «Come? Non è individualista il ministro dell'interno? E se è tale, non comprende il gran poema della libertà di commercio? La terra ha attitudini diverse; i climi dánno diversi prodotti; ma grazie al grand'Ercole moderno, grazie al commercio, con codeste navi che ora paiono grandi uccelli marini, e ora lasciano la bianca traccia nell'acque e la densa nube di fumo nell'aria, si riuniscono tutti i prodotti; la pelle che il Russo strappa agli animali smarriti nei suoi deserti di gelo e la foglia del tabacco che cresce al sole ardente del tropico; il ferro scoperto in Siberia e la polvere d'oro che il negro d'Africa raccoglie nell'arena dei suoi fiumi; le stoffe tessute in Inghilterra e i prodotti tratti dal seno dell'India, e tinti dei colori dell'Iride da quelle società, primi testimoni della storia; il dattero di cui si alimentava il patriarca biblico sotto le palme dell'antica Asia, e le perle preziose che genera il vergine seno della giovine America; il grato succo delle viti che abbellano le rive del Reno e l'ardente vino di Xeres, che reca disciolto nei suoi atomi il raggio del sole di Andalusia per riscaldar le vene degli intirizziti figli del norte....»
A me pare che questo periodo basti per giudicare il Castelar come uomo politico, come bastano certi sorrisi a rivelare tutta l'anima d'un uomo. Mi pare che un oratore il quale fa in un parlamento una tirata di quella natura non possa esser capace di portare a salvamento la baracca d'uno Stato.
Ma quando quest'uomo stesso, slanciandosi audacemente, non per proposito rettorico ma per impulso irresistibile del cuore, fuor dei confini dell'eloquenza politica, esclama con una voce che viene dal più profondo dell'anima: — Amo questa terra bagnata dalle lacrime che ho fatto spargere a mia madre! —; quando, accennando ai suicidi degli schiavi di Cuba, pronuncia con un accento che ti rimescola il sangue queste semplici parole: Signori deputati, che orrore! — quando, nella furia d'un'ispirazione che soverchia quasi le sue forze, rovescia sul parlamento attonito quei suoi periodi colossali, pieni di grandi immagini e di grandi sentenze, che passano sonando e sfolgorando come una legione di cavalieri del medio evo; quando, parlando di religione, versa la piena dei suoi pensieri affettuosi e malinconici, con una voce dolce e tremante, e col linguaggio solenne d'un sacerdote; quando racconta un atto d'eroismo, quando ricorda una sventura, quando invoca una memoria cara, quando consiglia, quando compiange, quando prega; quando infine scorda il parlamento e sè stesso, com'egli dice, e non vede più che terre e popoli lontani, e tutta la sua anima è nel suo cuore, e tutto il suo cuore nella sua parola; oh allora, quanto egli è grande ed amabile! come gli si perdonano tutte le sue vanità e tutte le sue utopie! con che gioia gli si salterebbe al collo dicendogli: — Ah! don Emilio, se non ti fossi mai immischiato nella politica!
Infine, io credo che la miglior definizione che si possa dare di lui, sia la seguente, la quale contiene in quel che dice la lode ch'egli merita e in quel che tace la censura che gli è dovuta:
È un grande artista e un gran.... buon ragazzo.
UN CARO PEDANTE
I mezzi pedanti, quelli che pedanteggiano per ambizione di farsi temere, poichè non riescono a farsi ammirare; i pedanti maligni, che s'accaniscono contro la parola perchè detestano la persona; i pedanti freddi, che sorridono e disprezzano, sono gente volgare e noiosa. Ma quello nato coll'istinto della pedanteria, quello che non dorme per un francesismo, che si scorruccia con un amico perchè ha scritto figlio invece di figliuolo, che sente una compassione sincera per chi scrive toeletta invece di teletta, che inveisce contro un monosillabo colla voce strozzata dall'ira; quello, infine, che si rode e si consuma, che non è aguzzino, ma vittima, e che fa il pedante collo zelo e col coraggio d'un missionario di Nostra Santa Lingua Immacolata, questa specie di pedante mi piace e m'ispira rispetto, e credo che sarebbe un peccato che se ne perdesse la semenza.
Di tale specie era un pedante che conobbi a Firenze, del quale m'è rimasto un ricordo amenissimo unito a un sentimento di sincera ammirazione.
La prima volta che lo vidi, giovanetto com'ero ed entrato allora, a scappellotto, nella repubblica letteraria, mi fece una viva impressione. Lo vidi una sera in fondo a una bottega di libraio, che leggeva. Le sue mani lunghe e scarne, appoggiate sul libro, parevano due enormi ragni che stessero in agguato per afferrare le mosche francesismi. Il suo naso adunco, che quasi toccava la pagina, arieggiava il becco d'un uccello che frugasse fra le parole per trovare i vermi improprietà. Tutta la sua persona alta e magra, e incurvata sul tavolino, mi dava l'immagine di non so che strumento di tortura messo là per dilaniare lo scrittore che leggeva. Parlando col libraio, ch'era piemontese, mi sfuggì qualche parola di vernacolo, e nello stesso momento vidi apparire e sparire sul suo viso, che mi si presentava di profilo, una gran macchia bianca.... il suo bianco dell'occhio. Di tanto in tanto si addentava il labbro di sotto o rideva con isforzo, facendo ballare le spalle. Tutt'a un tratto chiuse il libro con dispetto e s'alzò esclamando: — Oh che gente! Oh che galera! — Poi prese il cappello ed uscì. Tutti i presenti risero ed io pure. Spinto dalla curiosità, m'avvicinai al tavolino e diedi un'occhiata al libro.... Era mio!
Qualche tempo dopo, domandai informazioni sul conto suo a un amico che lo conosceva intimamente. — È una perla d'uomo, — mi disse; — ma un po' stravagante. Figuratevi ch'egli vive due vite: la vita reale, quella che viviamo noi, in mezzo ai nostri simili; e un'altra vita, puramente immaginaria, in un piccolo mondo ch'egli s'è creato colla lingua. In questo piccolo mondo, nel quale gli uomini son parole e le frasi avvenimenti, egli vi mette, o per meglio dire vi prova tutte le passioni che prova nell'altro. Ci ha le parole che ama come figliuoli, le parole che odia, le parole che disprezza, le parole che perseguita, le parole che gli turbano i sonni e le digestioni, le parole che lo consolano e che l'aiutano a sopportare i malanni della vita. Vi sono le frasi di cui si risente come d'un'ingiuria, quelle che lo affliggono come una sventura domestica, quelle che gli mettono nell'anima dei dubbi amari e lo fanno vivere in una continua inquietudine. Che suo figlio diventi un cattivo soggetto e che la parola cómpito cambi a poco a poco di significato, son due calamità presso a poco uguali per lui. Che l'Italia riesca a rassestare le sue finanze e che il verbo utimare pervenga a pigliare il posto del verbo exploiter, sono due buone fortune che egli desidera col medesimo ardore. Egli ha una sola grande aspirazione: che nel suo paese si scriva bene; e un solo grande dolore: che non si sappia più scrivere. I suoi affetti, i suoi pensieri, tutta la sua vita gira su questo perno: la purità della lingua.
Da altri seppi di lui altre cose, che mi parvero incredibili, benchè mi fossero assicurate con insistenza. Si diceva che un giorno aveva tenuto con un suo servitore il dialogo seguente:
— Tonio, il caffè.
— Ce lo porto.
— Che hai detto?
— Che ce lo porto.
— Hai gli otto giorni per cercarti un altro padrone, manigoldo.
Una volta, un suo conoscente, incontrandolo per via, gli disse: — Ho letto con molto interesse il vostro articolo. — Non me ne importa un fico, — egli rispose, — e gli voltò le spalle.
Si diceva che una sera, in una conversazione, aveva dimostrato con un lungo ragionamento e colla massima serietà che un uomo capace di scrivere, — al di là dei monti, — invece di — di là dai monti, — messo al punto, sarebbe stato capacissimo di ammazzare a sangue freddo suo padre.
Fossero o non fossero vere queste cose, dopo averne sentite tante, mi venne il desiderio di conoscerlo. Prima, però, volli sapere precisamente che cosa pensasse dei fatti miei, benchè la scena accaduta dal libraio non mi lasciasse alcun dubbio consolante. Un amico comune lo interpellò e n'ebbe questa risposta: — Ditegli che per quel ch'è sentimento, non c'è male; ma che per quello che riguarda la lingua, scrive come un Seraceno.
Meno male! — pensai. — Ora, almeno, so a che paese appartengo, e qual è la nazionalità di cui mi debbo spogliare.
Gli fui presentato; m'accolse cortesemente. Il discorso cadde subito sulla lingua. Gli domandai dei consigli. Sospirò, mi disse che i tempi eran tristi, che non v'era più amor di patria, che i bricconi avevan il mestolo in mano; le quali cose si riferivano unicamente alla lingua, e non alla politica, come potrebbe parere. Gli domandai quali degli scrittori del giorno, dei più illustri, s'intende, e toscani, avrei potuto seguire, in fatto di lingua, per non uscire dalla buona via; e glieli nominai uno dopo l'altro. — Il tale? — Per amor di Dio! — rispose; — che mi tocca di sentire! — Il tal altro? — Oh numi! Ci mancherebbe anche questa! — Tizio, dunque? — Oh povero figliuolo, che cosa le passa per il capo! — E qui prese a citarmi una lunga filza di francesismi, d'idiotismi, di neologismi, d'errori d'ogni natura, sfuggiti a quegli scrittori, usando con la maggior serietà tutte le espressioni che sogliono adoperarsi al proposito degli scapestrati e dei malfattori, come ad esempio: — Le pare che questo sia un procedere da galantuomo? — Non so il tale dei tali che fine farà. — Bisogna proprio aver perduto ogni pudore, ecc., — a tal segno che, sapendomi colpevole d'una gran parte degli errori di cui accusava quei valentuomini, ebbi un momento il timore che m'agguantasse per la cravatta e mi conducesse alla questura. — Ma chi dunque scrive italiano? — domandai. — Nessuno! gridò, alzando il bastone. — Vi sarà qualcuno che scrive con parole italiane, in lingua, frase per frase, italiana; ma il complesso dello scrivere, ma l'ordito, ma il processo del pensiero, per Dio, è francese! francese! francese! La pelle è nazionale, il sangue che circola sotto, è barbaro! Barbari tutti, italiani rinnegati, scrittori senza coscienza e senza cuore! Se ne persuada, giovinotto! E una verità vergognosa, ma è la verità, la verità, la verità! — In quel punto eravamo arrivati dinanzi alla porta di casa sua. —
Ma, — dissi io timidamente: — Alessandro Manzoni.... — Santissima Vergine! — esclamò turandosi le orecchie colle mani, e infilò la porta correndo.
Un giorno assistetti a un battibecco curioso tra lui e il più grosso dei due fondatori della prosa borghese, di cui parla il Carducci nella sua poesia l' Italia in Campidoglio. S'era negli uffizi di una Rivista mensile col Mamiani, il Berti ed altri barbari. Il nostro personaggio inveiva contro «lo scellerato vezzo» di usare i nomi propri senz'articolo. — Vi assicuro, — diceva, — che quando leggo la casa di Manzoni o la statua di Dupré, non capisco.
— Andiamo, via, — gli rispose il prosatore borghese; — codesta è una esagerazione.
— Vi dico che non capisco!
— Vi sostengo che capite benissimo.
— Vi ripeto che non capisco! gridò il purista col viso acceso.
— Giuratelo! — urlò il borghese.
— Lo giuro, per Dio! — tuonò l'altro balzando in piedi, e picchiando un gran pugno sul tavolino.
— Avete giurato il falso! — ribattè il primo colla sua voce stentorea, in mezzo alle risa e al vocío generale, — e se mi sfidate, v'ammazzo senza pietà, perchè son sicuro che andate all'inferno!
Il povero purista ricadde spossato sulla seggiola, esclamando con voce fioca e gli occhi rivolti al cielo: — La casa di Manzoni!... Oh che gente! Oh che paese!
Un'altra sera entrò gravemente nella sala e disse con un accento di tristezza e di pietà, rivolgendo la parola a tutti: Bisognerebbe avvertire il Bonghi.
Tutti pensarono che fosse accaduta al Bonghi qualche disgrazia.
— Bisognerebbe, — continuò colla stessa gravità. — che se ne incaricasse un suo amico intimo. È una cosa che ormai passa tutti i limiti. Quell'uomo perde la testa.
— Ma che cos'è seguíto? domandarono tutti con ansietà.
Era seguíto che il Bonghi, in una delle sue rassegne politiche, aveva scritto le fila dell'opposizione invece di le file. Tutti respirarono.
E di questi aneddoti ne potrei citare una cinquantina.
Con me, benchè mi tenesse in conto d'un buon diavolaccio, non potè mai fare la pace. Riconosceva i miei sforzi ed anco qualche progresso che avevo fatto dall'Arabia verso l'Italia; ma in fondo, per lui, ero sempre un Seraceno, e lo diceva ai miei amici, onorandomi di un: — Peccato! — e di un: — Forse, col tempo!... — che mi dava un po' di consolazione. Qualche volta, poichè era pedante, ma uomo di cuore, mi guardava fisso con un'espressione di benevolenza pietosa; pensava, credo, con rammarico, che io così giovane, ero già così miseramente traviato; prevedeva i dolori che m'aspettavano; si domandava che vita avrei trascinata, che razza di educazione avrei data ai miei figliuoli, che fine miserabile avrei fatta. Ma bastava che io gli domandassi improvvisamente: — Cosa pensa? — perchè vedesse ricomparire sulla mia fronte il marchio inviso di Maometto, e mi guardasse come un'anima perduta.
Ora la semenza di questa specie di pedanti si va perdendo. In fatto di lingua, tutte le maniche s'allargano; i puristi più austeri transigono; gli stessi accademici della Crusca, e i migliori, si lasciano sfuggire parole e modi nuovi, e tengon dietro al movimento della lingua; i pedanti indietreggiano da ogni parte, incalzati dalla necessità e dalla critica; la legione s'è ridotta un drappello, la marea monta e li affoga. Eppure, sarebbe un peccato che rimanessero tutti affogati. Nella letteratura, la varietà è ricchezza. È bene che ci siano i demagoghi temerari e i reazionari arrabbiati. Questi Don Chisciotte del vocabolario che si slanciano a lancia in resta contro le parole, hanno il loro bello; questi carcerieri della lingua non sono inutili; la critica del microscopio può far del bene.
Oh mio buon pedante! non ti sdegnare contro di me, se ti cadranno sotto gli occhi queste pagine: io ti giuro sul Corano che non ebbi intenzione di offenderti. Io ti temo, ma t'amo, perchè nel tuo mondo di parole tu sei un artista, e sei un artista perchè ami, soffri e combatti. E prego il cielo che ti lasci lungo tempo ancora in questa valle di lagrime e di francesismi. E t'auguro che il buon sacerdote che ti assisterà nei tuoi ultimi momenti, ti parli correttamente la parola di Dio. E desidero che quando tu non sia più, tutti rammentino il tuo nome con affetto, nessuno con interesse; e che l'amico che scriverà la tua necrologia, non turbi il riposo delle tue ossa, dicendo che tu, su questa terra, hai fatto degnamente il tuo cómpito; ma proclami altamente che hai esercitato con onore il tuo ufficio. E chieggo a Dio come una grazia che se l'anima del Petruccelli della Gattina è destinata a salvarsi, egli la ponga in un altro cerchio del paradiso, perchè la tua felicità non sia turbata dal ridestarsi delle ire e dei dolori terreni. E così sia.
UNA VISITA AD ALESSANDRO MANZONI
È male parlar di sè, e peggio scriverne; ma quando l'Io, invece d'essere lo scopo di quello che si dice, non è che un mezzo per dire più facilmente e con più garbo cose che riguardano altri e possono riuscire gradite a molti, mi pare che sia lecito di servirsene; e tanto più quando quest' altri sia Alessandro Manzoni, e quell' io tanto piccino da non poter neppure essere sospetto di vanità.
Lasciatemi dunque cominciare dal piccino.
Io ero in collegio, avevo sedici anni e scrivevo dei versi. Il mio professore di letteratura italiana, quando gli presentavo una poesia, mi permetteva di leggerla, se gli pareva che lo meritasse, in piena scuola; e i miei compagni solevano farla stampare a proprie spese, cosa di cui mi rimorde ancora la coscienza. Una delle prime poesie stampate fu un canto alla Polonia, ch'era in rivoluzione appunto in quell'anno; nel qual canto dicevo ira di Dio dello Czar e del Papa, e facevo una descrizione fantastica dell'isola di Caprera, assicurando che il sole vibrava su quell'isola i suoi più splendidi raggi e gli angeli la guardavano dall'alto con una viva simpatia.
Questo canto, concepito un giorno che il direttore m'avea messo a pane ed acqua, e composto quasi per intero nelle tenebre del Dormitorio, mi pareva allora una gran cosa; tanto che a un mio vicino di banco, il quale, dopo lettolo, mi aveva detto gravemente: — Questo canto resterà, — io, stringendogli la mano, avevo risposto con non minore gravità: — Speriamo. — In fine m'ero tanto montata la testa, che un bel giorno misi una fascia all'opuscoletto, stesi una lettera di accompagnamento, scrissi sulla busta e sulla fascia: — Al signor Alessandro Manzoni —, e buttai lettera e opuscolo, dopo esser stato un po' colla mano per aria, nella buca della posta.
Passa una settimana, passano quindici giorni, passa un mese; nessuna risposta. Non me ne meravigliai; sapevo che il Manzoni scriveva pochissimo; m'avevano detto che riceveva ogni giorno un monte di lettere e di libri; era naturalissimo che avesse buttato i miei versacci in un canto; non ci pensai più.
Un giorno, nel tempo della ricreazione, mentre facevo la ginnastica sulle parallele, il direttore mi chiama, corro, mi dà una lettera. Il carattere dell'indirizzo mi era sconosciuto. Guardo il bollo: — Milano — Chi può essere? Apro, leggo in capo alla prima pagina Gentilissimo giovanetto; volto, tutto il foglio è scritto; volto ancora, e vedo in fondo alla quarta pagina Alessandro Manzoni.
Come rimanessi non lo so dire. Sul primo momento mi s'imbarbugliò la vista e mi tremaron le ginocchia; poi rimasi qualche tempo immobile, guardando quella firma, che pareva s'ingrandisse e s'impicciolisse a vicenda, come per effetto d'una lente avvicinata e rimossa. Infine corsi in un angolo appartato del cortile e lessi.
Ah, mio Dio! Io non posso ricordar quella lettera senza un sentimento di mestizia. Riguardo ai consigli ch'io avevo avuto l'audacia di chiedere, c'era detto: — Anch'io, nella prima gioventù, m'ero formato di scritti altrui un concetto dal quale, col crescer degli anni, ho dovuto detrarre. E non di meno non ho poi provato rammarico d'un errore che m'era stato occasione di voler bene anche ad uomini con cui non avevo alcuna conoscenza. Così spero che avverrà anche a lei riguardo a me e alla mia memoria.
Riguardo alla poesia. — Se le dicessi che i versi mi paiono senza difetti, sarei un adulatore; ma parlerei ugualmente contro il mio intimo sentimento se dicessi che non mi par di vederci il presagio d'un vero poeta. In mezzo a di que' difetti che col tempo si perdono, ci sento (non dia a queste parole altro valore che quello della più schietta sincerità) quelle virtù che col tempo si perfezionano e che nessun tempo può far acquistare.
Riguardo ai versi della poesia che accennavano al Papa: — .... Religione e patria sono due gran verità, anzi, in diverso grado, due verità sante; e ogni verità può spiegar tutte le sue forze e usar tutte le sue difese senza insultarne un'altra. È vero che le persone sono naturalmente distinte dalle istituzioni, ma ci sono degli ordini di cose in cui gli oltraggi (parlo di oltraggi, non di ragionamenti, che, del resto, non sono materia di poesia) in cui, dico, gli oltraggi alle persone non possono non alterare il rispetto e la dignità della istituzione medesima, ecc.
E infine v'era scritto: — « Ho qui nel mio giardinetto un giovane melagrano che questa primavera ha portato molti fiori, i quali in parte sono caduti, in parte allegano: il rigoglio di tutti e il sano vigore di alcuni annunziano insieme che quest'alberetto è destinato a dar frutti copiosi e scelti. »
La lettera, ora che scrivo, è in un quadretto, e colui che dovrebb'essere il melagrano carico di frutti, la guarda con un misto di tenerezza e di rammarico, pensando alle sue splendide speranze dei sedici anni come a un bel sogno di tempi lontani.
La lettera fu per il collegio un grande avvenimento; il professore di letteratura la lesse nella scuola; fuori del collegio, gli amici volevano vederla; io non capivo più in me della contentezza; la rileggevo cento volte al giorno; me la dicevo a memoria; la notte sognavo che me l'avevan rubata; per istrada mi pareva che quei che mi passavano accanto si ammiccassero fra loro, come per dirsi: — Eccolo là; — a tavola facevo i bocconi piccini, in iscuola pigliavo degli atteggiamenti ispirati; in casa dei parenti sorridevo con una bonarietà affettata, per far vedere che, in fin dei conti, mi consideravo sempre come loro parente.
Quando si dice, le previsioni! Da quell'anno in poi non ho più scritto un verso altro che per onomastici di famiglia; non ho più avuto nemmeno la tentazione di scriverne; e sono ora profondamente persuaso che non sono nato per far dei versi. Chi me l'avesse detto allora, quando un prosatore mi pareva appena un uomo, e dicevo, leggendo il romanzo I promessi sposi: — Peccato che non sia in ottave!
Quattro anni dopo ero sottotenente di presidio a Pavia, con un battaglione del mio reggimento. Non avevo mai visto Milano. Una mattina, svegliandomi, mi viene il ticchio di farci una scappata. Ma, e il permesso? To', bella idea! Mi faccio mandar da casa la lettera del melagrano, la mostro al tenente-colonnello, e gli dico: — Vorrei andar a Milano a vedere il Manzoni. — Così feci; la lettera venne, la diedi al mio capitano e lo pregai di domandarmi il permesso. Il tenente-colonnello, quando intese, prima di vedere la lettera, lo scopo della mia gita, esclamò: — Oh! oh! nientemeno! — come per dire: — Ci vuol della faccia; — ma, visto ch'ebbe la lettera, accordò il permesso dicendo: — È un altro par di maniche; vada e ce ne porti notizie.
Partii la mattina seguente, era domenica, faceva un bellissimo tempo. Arrivato a Milano e sbarcato in non so che albergo vicino al duomo, domandai a un piccolo cameriere dove stesse di casa il Manzoni. — El negoziant de mobil? — mi domandò alla sua volta. Ma che negoziant de mobil, — risposi; — il conte senatore scrittore Alessandro Manzoni. — Oh mi scusi! — esclamò il ragazzo arrossendo: — io credevo....; il senatore Alessandro Manzoni sta in piazza Belgiojoso; — e mi descrisse la casa. Era di buon'ora, scappai a vedere il Duomo, poi difilato in piazza Belgiojoso. Come mi battè il cuore quando vidi quella casa! Con che venerazione mi levai il chepì entrando nella stanzina del portinaio! Ma ahimè! Alessandro Manzoni era a Brusuglio. Salii subito in una carrozza e mi feci condurre a Brusuglio. Strada facendo pensavo alle prime parole da dirgli; alla maniera di baciargli la mano prima che avesse tempo di ritirarla, come sapevo che faceva sempre; al modo di tener la sciabola in sua presenza. Star davanti al Manzoni, pensavo, colla sciabola! Mi pareva che non andasse; l'avrei lasciata volentieri nella carrozza. Per la strada passavan contadine e contadini; mi parevan tutti visi di sante persone; in ogni vecchietta vedevo Agnese, in ogni giovane Renzo, in ogni bimbo Menico. Guardavo con insolito piacere quel cielo di Lombardia così bello quand'è bello, e quella campagna verde e tranquilla; i miei sentimenti e i miei pensieri, via via che mi avvicinavo, s'innalzavano; provavo quello che si prova salendo su per una montagna; mi pareva di respirare un'aria sempre più pura, e la mia mente si staccava dalla terra.
La carrozza si fermò dinanzi alla villa, scesi, entrai nel giardino, un servitore mi venne incontro a domandarmi chi cercavo. Glie lo dissi: mi guardò da capo a piedi, e mi rispose un ma, che voleva dire: — Non so se sarà ricevuto. — Allora gli mostrai la lettera, la prese e accennandomi che lo seguissi si diresse verso la porta d'una stanza a terreno, dove entrò, dopo avermi pregato d'aspettare un momento. M'appoggiai all'uscio e tesi l'orecchio. Dopo un momento sentii una voce tremola pronunziare lentamente queste parole: — Gentilissimo giovanetto. Degl'incomodi abituali non m'hanno permesso di ringraziarla nel primo momento, come desideravo vivamente, dei versi ch'Ella m'ha fatto il favore d'inviarmi.... — Qui la voce tacque, e subito dopo uscì il servitore, il quale mi fece riattraversare il giardino ed entrare in un salotto, dove mi lasciò solo dicendomi: — Ora viene.
Io stetti qualche minuto guardando la porta cogli occhi fissi, con tutta la persona immobile, respirando appena, come se fossi stato davanti a una macchina fotografica.
La porta s'aperse....
O miei benevoli amici e non amici, che mi avete detto tante volte e con tanta ragione, che il mio cuore è una spugna, che i miei occhi son due fontanelle di lagrime, che i miei soldati sono donnette e che tutte le righe dalle mie pagine sono come tanti rigagnoli che corrono al gran mare del pianto in cui morirò un giorno annegato, siate giusti; riconoscete che almeno questa volta io avevo diritto d'intenerirmi; confessate che anche voi altri vi sareste sentiti un leggero moto di convulsione alla gola; e allora mi farò animo e vi dirò che io, lungo come un granatiere, io, colla mia sciabola d'ordinanza e colle mie pompose spalline, io, quando il Manzoni comparve, gli corsi incontro, gli afferrai la mano e diedi in uno scroscio di pianto così improvviso, così violento e così sonoro, che quello di uno qualunque dei miei soldati sarebbe parso, al confronto, un vagito di bambino.
Il buon vecchio mise la sua mano sulla mia e mi disse con accento amorevole: — Vede.... cosa vuol dire avere un carattere così.... buono e.... ingenuo; si provano delle sensazioni.... violente; si rimetta, via.... si rimetta.
Riferire per ordine la conversazione che seguì poi, se si può chiamar conversazione un dialogo nel quale uno dei due interlocutori dice appena quello che è indispensabile per dar appiglio all'altro di parlare, non saprei. Ricordo che mi domandò sorridendo: — E la poesia? — e che avendogli io risposto che l'avevo lasciata in disparte, mi disse: — Torneranno, torneranno i tempi per la poesia. — Ricordo che parlò della battaglia di Custoza e disse: — Fracta virtus!; che recitò due strofe di una canzonetta del Brofferio intitolata: El baron d'Onea, fermandosi al verso: a sauta, a pista, a braia, per non dire la parola licenziosa ch'è nel verso seguente; che parlò, richiesto ripetutamente, del Cinque maggio, dicendo che gli aveva suggerito di scrivere quell'ode sua madre, mentre egli, all'annunzio della morte di Napoleone, s'era messo a declamare dei versi del Monti; ode, soggiungeva, piena di latinismi e di francesismi, della quale era ben lontano, quando la scrisse, dal prevedere quel po' di fortuna che aveva avuta in seguito; e m'indicò, se non sbaglio, il tavolino su cui l'aveva scritta. Su quel tavolino v'era il Fior di memoria del Cantù, che gli diede occasione di parlare d'un suo nipotino, il quale comparve poco dopo. Dopo il nipotino comparve il suo figliuolo primogenito. — Vede, disse il Manzoni, che questo figliuolo è una terribile fede di battesimo e che non posso più fare il giovanotto. — A una cert'ora mi lasciò per andar a desinare, e io rimasi solo, e mi misi a studiare a memoria i quadri, i mobili, i libri; e mi stampai così bene ogni cosa nel capo, che ce l'ho ancora, e sarei in grado di fare un inventario appuntino di quel salotto, come ne ho poi fatto molte volte lo schizzo a penna nella stanza dell'uffiziale di picchetto e nel camerino del furiere. Quando tornò s'andò a fare un giro nel giardino. Ricordo ch'ero impacciato a camminare, che inciampavo nella sciabola, che parlavo senza garbo, che facevo delle domande scipite e che standogli così accanto quasi da toccarlo colle gomita, avevo non so che vergogna di esser più alto di lui di quasi tutta la testa, e cercavo di farmi piccino; e provavo poi un vivo dispetto vedendomi in quel modo tutto luccicante d'argento vicino a lui vestito modestissimamente, e mi rincresceva di non essermi infilato il cappotto; e guardandolo quando mi precedeva di alcuni passi che andava chino e lento sulle gambe mal ferme: — Ah caro vecchio, dicevo tra me, se potessi darti la mia salute e la mia forza, con che cuore te la darei, dovessi anche domandare l' aspettativa per infermità non provenienti dal servizio!
Venne finalmente l'ora d'andarsene; accommiatandomi, volli baciargli la mano; egli mi porse il viso e sentì forse l'umidità delle mie guance. — Giuan, el legnn! — disse al suo cocchiere mentre uscivo; lo ringraziai accennandogli la carrozza che mi aspettava. Vidi, uscendo, le sue due belle nipoti, che forse avevano udito lo scroscio; attraversai il giardino facendo un gran strepito con quella maledetta sciabola che mi picchiava sulle gambe; e al momento di risalire in carrozza, voltandomi, lo vidi ancora fermo sulla porta che salutava col fazzoletto.
— Addio! — risposi in cuor mio, — addio, padre, maestro, amico; addio, santo consolatore; oh se fosse qui il mio reggimento e potessi farti presentare le armi!
E lo salutai militarmente, con tutte le regole, come avrei salutato un generale.
Arrivato a Milano, all'albergo, scrissi a casa una lettera di otto pagine nella quale dicevo che Milano m'era parsa la più bella città del mondo, che il Manzoni era un angelo e che io ero felice.
La sera tardi arrivai a Pavia, e rientrando in casa trovai parecchi amici sulla porta che mi domandarono tutti insieme: — Ebbene, l'hai visto? gli hai parlato?
— L'ho visto, gli ho parlato e l'ho anche baciato! risposi.
— Sentiamo, — gridarono tutti in coro, — siedi e racconta.
— Dirò tutto, — risposi; — ma lasciatemi fare un po' di prefazione. È male parlar di sè; ma quando l'Io, invece di esser lo scopo di quello che si dice, non è che un mezzo per dire più facilmente cose che riguardano altri e che possono riuscire gradite a molti....
— Oh basta! — esclamarono gli amici — che seccatura! di' dunque, come ti sei fatto ricevere?
— Ve lo dirò, — cominciai; — ma bisogna ritornare un po' addietro. Io era in Collegio, avevo sedici anni e scrivevo dei versi. Il mio professore di letteratura....
Diavolo! senz'accorgermene ricominciavo a scriver l'articolo. Si vede che dopo otto anni da quella visita, a pensarci, mi si confonde ancora la testa.
ALCUNE OSSERVAZIONI SULLO STUDIO DELLA LINGUA ITALIANA
(per i ragazzi non toscani).
LA LETTURA DEL VOCABOLARIO
Lessi, non è molto, in uno scritto dedicato a Teofilo Gautier, il seguente periodo: — «Un giorno il Baudelaire gli domandò: — Come avete fatto per imparare a scrivere in questo modo? — E il Gautier rispose: — Ho studiato molto il vocabolario. — Si dice infatti ch'egli soleva leggere il vocabolario con molto diletto. — Legger queste parole, e veder come cadere un velo dinanzi ai miei occhi, e apparire un vocabolario, come il pugnale a Macbetto, in aria, volto di costa verso la mia mano, perchè l'afferrassi, fu un punto. Compresi, voglio dire, tutto ad un tratto, e per la prima volta, che leggere il Vocabolario della lingua italiana, leggerlo da capo a fondo, e rileggerlo, e postillarlo, e farne spogli, e continuare a leggerlo, per consuetudine, un po' tutti i giorni, è più che un bisogno, un dovere di coscienza, non solo per chi scrive, ma per qualunque cittadino il quale desideri di morire senza rimorsi. Mi rammento che al balenare di questa verità, mi vergognai di non averla scoperta prima (per conto mio, ben inteso, che del resto la scoperta ha le barbe); e che appuntando il dito contro il calamaio, come per incaricarlo di rappresentare un momento la mia persona, gli gridai: — Arrossisci! — Poi presi a snocciolargli le molte ragioni, per le quali credevo che dovesse arrossire: — che nessuno, cioè, può ragionevolmente credere d'avere studiato la lingua, se non s'è servito del mezzo più semplice, più spiccio e più sicuro di conoscerne, se non tutti, quasi tutti gli elementi, e che questo mezzo non è altro che il Vocabolario, il solo libro nel quale della lingua si può vedere tutta la ricchezza, e abbracciarne, per così dire, il complesso, con una qualche sicurezza, nella quale l'intelletto si riposi, e dalla quale proceda poi, con maggior ardimento, a studiare nei libri. Che studiar la lingua soltanto nei libri, ed anco solo nel popolo che la parla, è uno studiarla a caso, poichè nei libri non ce n'è che una parte, nè il popolo la parla tutta, tacendo pure della impossibilità, quando tutta la parlasse, di tutta raccoglierla; del che si ha una prova nel fatto, che non v'è alcuno il quale scorrendo del Vocabolario solo una minima parte, non trovi un buon numero di vocaboli propri a significare oggetti o fatti, ch'egli non soltanto non ricordava, ma di cui non sopponeva nemmeno l'esistenza, e a cui sostituiva definizioni, paragoni, giri di parole. Che il fatto di non studiarsi tutto il Vocabolario è cagione che un'infinità di cose non si dicano mai, nè si scrivano da nessuno e in nessun luogo, neppure in Toscana; non essendoci altra maniera, fuor di questa, di sapere come si dicano, quando occorre di dirle, se non facendo ricerche spesso lunghissime, qualche volta vane, sempre seccanti: onde si preferisce di lasciar correre. Che nella lingua scritta, ed anco nella parlata dalla gente colta, per ciò solo che non si studia il Vocabolario, c'è molto meno varietà di quanta ce ne protrebb'essere, essendosi ciascuno, a una certa età, formato un corredo di parole e di modi, che gli bastano ad esprimere quello che ordinariamente ha da dire, e che però non s'accresce più, salvo che per straordinarî bisogni; mentre colla lettura assidua del Vocabolario faremmo ciascuno al nostro linguaggio buttare ogni giorno delle messe nuove, e potremmo dire ogni giorno qualcosa di più, e di questo lavoro di tutti s'arricchirebbe la comune lingua parlata e scritta. E altre molte ragioni trite e ritrite, ma non mai ripetute abbastanza, la conclusione delle quali fu che io m'ero ingannato fino allora nel considerare il Vocabolario come un libro fatto soltanto per rispondere quand'era interrogato; ch'esso era invece un libro da leggersi per disteso, come una storia, o un trattato, o un romanzo; e da tenersi sul tavolino da notte; e da portarselo, a fascicoli, nelle passeggiate in campagna.
Mi misi a leggere, cominciando dall'A, con grande ardore, e divorai in pochi giorni parecchie centinaia di pagine, tempestando i margini di note in modo da non lasciarli più vedere. Che volete? Il diletto che ci provai fa tale e tanto, che non potei resistere al desiderio di esprimerlo, e sospesa la lettura, tirai giù le linee seguenti.
Mi raffiguro una sala immensa, nella quale siano stati raccolti e schierati confusamente gli oggetti di cento Esposizioni universali. Attraversare di corsa questa sala dev'essere un piacere della natura di quello che si prova leggendo il Vocabolario. Voi trascorrete dalla città alla campagna, dal mare alla terra, dalla terra al cielo, dal cielo nelle viscere della terra, colla rapidità con cui trascorrerebbe la vostra immaginazione abbandonata ai suoi grilli. Accanto a un mobile di casa, vedete un'arma del medio evo, accanto all'arma un pesce raro, più in là una pianta asiatica, poi un ingegno meccanico, poi una pietra preziosa, poi un fiore, poi un edifizio, poi un tessuto. Trovate strumenti di tutte le arti, termini di tutte le scienze, vestimenti di tutti i popoli, usi di tutti i tempi, immagini di tutte le religioni. V'accompagna per la via un vocío continuo intercalato di proverbi, di bisticci, di frizzi plebei, di grida di meraviglia, d'insulti, di complimenti, di beffe, di saluti. Incontrate una folla di parole che vi paiono larve di persone; le dotte, tronfie, professori cogli occhiali; le antiquate, archeologi tabacconi, pieni d'acciacchi, che brontolano contro la gente nuova; le nuove, fresche, sfrontate, come giovanotti entrati or ora nel mondo, con qualche lettera commendatizia di scrittore autorevole; le comuni, uomini pubblici con un lungo codazzo di clienti; le sinistre, soggetti da questura; le altisonanti, spacconi da assemblee popolari; le leziose, nobiluccie affettate; le sconcie, donnaccie senza pudore, con un marchio di riprovazione sulla fronte; le straniere, viaggiatori smarriti; i diminutivi, frotte di bambini, in lunghe file, colle mamme alla testa. E voi passate accanto all'une, senza guardarle, come persone di casa; all'altre fate un saluto in aria d'indifferenza; a queste correte incontro come a gente dimenticata, che si rifaccia viva; a quelle vi fermate innanzi un momento, per fissarvene in mente l'aspetto; e quale vi fa ravvedere d'un errore, quale vi dà un consiglio amichevole, quale vi accenna un fatto storico, quale vi espone una tradizione popolesca; e voi pensate, ridete, fantasticate, e imparate lingua, storia, morale, poesia, scienza, giuochi, mestieri finchè chiudete il libro storditi, come all'escir da una sala dove aveste veduto insieme un teatro, un mercato e un'accademia. Che si può trovare di più in un libro? Come si può negare che sia un libro incantevole? E quando si potrà dire d'averlo letto abbastanza?
Il Mantegazza nella sua Fisiologia del piacere ha dimenticato il Vocabolario, ed è una dimenticanza che non gli si può perdonare. Mi ricordo d'un professore di matematica, ardentissimo della sua scienza, il quale, portate per la prima volta in scuola le Tavole dei logaritmi, chinò il viso sul libro fino a toccare il margine col mento, e agitando in alto le braccia tese esclamò con un accento d'inesprimibile soddisfazione: — Com'è dolce nuotare in questo oceano! — E così è dolce nuotare nel Vocabolario. Si va giù per le colonne come per la corrente d'un fiume, e le parole sono villette, piante e donnine schierate lungo la riva; ci si lascia andare, e si scivola placidamente, pensando a mille cose, come quando si scartabella un albo di paesaggi, e si canta. Il Vocabolario è un libro fantastico. Si dice che la lettura delle Mille e una notte desta nella mente un turbinío di immagini abbarbaglianti, che danno una specie di ebbrezza, seguíta da sogni deliziosi. Cinquanta pagine di Vocabolario suscitano nella testa una folla d'immagini più fitta, più varia, più turbinosa, che quella delle Mille e una notte. Chiuso il libro, chiudo gli occhi, e vedo intorno a me una miriade di cose disparatissime, che girano e s'inseguono, spariscono e riappaiono, come un nuvolo di farfalle, produgendomi nella mente un tumulto piacevole, che mi dura anco nel sonno. Il Vocabolario eccita i sensi.
E lasciando da parte i piaceri, e per farla anche un po' da pedante, quante cose insegna nel suo casalingo linguaggio e colla sua paterna bonarietà, quest'aureo libro! Col suo costante, semplice e severo definire e specificare ogni cosa, dà contorno e lume alle vostre idee; così che dopo la lettura d'un'ora, se vi mettete a scrivere, non vi pare che quello che pensate e il come lo esprimete siano mai abbastanza chiari e determinati, e non vi contentate più della prima forma, e finite poi col far meglio. Col descrivere minutamente quegl'infiniti oggetti, che noi sogliamo indicare aiutando la parola col gesto, senza riuscir mai a porgerne l'immagine a chi non li abbia veduti, ci esercita alla descrizione minuta, all'uso delle parole proprie, a quel lavoro di musaico della lingua, a quella lotta contro le piccole difficoltà, che gli scrittori di libri letterarî scansano quasi sempre fingendo di sdegnarla, ma in realtà perchè la temono. Poi, la curiosità è mezza scienza, e il Vocabolario ci mette ad ogni passo una curiosità; leggendo sentite il bisogno d'aver accanto ora un botanico, ora un meccanico, ora un archeologo, ora uno storico, chè l'affollereste di domande; non l'avete? la curiosità resta, le domande si appuntano, alla prima occasione si faranno. E poi, parola e pensiero son gemelli della mente: quante faville vi accende nella testa il Vocabolario! Il Gautier diceva che ci son parole diamante, parole zaffiro, parole rubino, che non domandano che d'essere incastonate; si può dir di più; ci son parole che gettan l'idea d'un lavoro; parole che dánno la sveglia a mille pensieri che ci stavano come ravvolti e nascosti in un angolo della testa; parole che ci ravvivano la memoria di tutto un libro dimenticato. E infine la lettura del Vocabolario fa l'effetto d'una lezione di modestia, perchè si può ben esser dotti, ma in ogni colonna si troverà sempre quella parola che ci fa dire: — Non sapevo! — e ci rende accorti d'una lacuna che avevamo nella mente. Molti lo dovrebbero leggere non foss'altro che per esercitarsi a tirare indietro, come la lumaca, le corna dell'orgoglio.
Ma non solamente è un libro ameno, utile e morale; il Vocabolario si fa anco amare perchè è il libro più intimamente «nazionale» di tutta la letteratura; ci han lavorato tutti i secoli, ci abbiamo lavorato tutti; dotti, analfabeti, fanciulli; c'è un verso d'ogni poeta e un periodo d'ogni prosatore; ogni grande avvenimento ci ha lasciato un ricordo: c'è la storia della nostra lingua; vi si trovano le traccie della lotta secolare tra la lingua prima e lo spirito trasformatore del popolo; vi son le parole moribonde, le vittoriose, le storpiate, le trasfigurate, le invulnerabili, le uccise, le sotterrate, le fracide, le risorte; è un vero campo di battaglia sul quale tutte le nostre provincie e tutte le nostre città hanno mandato soldati; è un libro tutto patria; il più nostro di tutti; si prova, a scorrerlo, quel piacere della proprietà che il Mantegazza annovera tra i più dolci; si gode a maneggiarlo come a palpare un mazzo di chiavi di casa nostra; a uno straniero che ci offendesse, daremmo sulla testa, in nome d'Italia, a preferenza d'ogni altro libro, questo; a volte ci si sente presi di vera tenerezza per lui; io gli batto la mano su, e gli dico; — Maestro, amico, consigliere, che sai tutto e rispondi a tutto ed a tutti, fido compagno degli studiosi, pedantone caro e glorioso, ti saluto! —
Quante volte vi piglia la tentazione di consigliare la lettura del Vocabolario come farebbe un medico d'un medicinale! Quando voi, per esempio, che non sapete parlare il dialetto, o che vi siete intestati di non volerlo parlare, entrando in una casa di buona gente, vedete ragazzi fuggire, signorine turbarsi, e padre e madre, dopo aver tentato, a più riprese, ma invano, di farvi cambiare linguaggio, pigliar quasi il broncio, e lasciar languire la conversazione; quanto volontieri, all'uscire, consegnereste alla cameriera un biglietto di visita con su scritto, a modo di ricetta: Vocabolario! E quando vi si presenta un giovanetto, del quale si narran meraviglie, laureato, autore di belle poesie, che cinguetta il francese, l'inglese, il tedesco, e che poi, messo al punto di dovervi raccontare in italiano, alla lesta, non so qual caso seguíto a lui, s'impenna, si ripiglia, non può dire quello che vuole, e butta fuori strafalcioni da pigliar con le molle, con che matto gusto, finito quello strazio, gli mormorereste nell'orecchio, a modo di pietoso confessore: Vocabolario! — Finalmente se si potesse fare quello che un mio amico repubblicano desiderava; il quale, per gettare lo spavento in cuore ai partigiani della monarchia che gavazzano alle spese del povero popolo, avrebbe voluto che non so quale smisurato gigante immaginato da lui, lanciasse dall'Alpi a Siracusa un tale grido di disperazione, da far traballare le mura e andare in frantumi i vetri di tutti i palazzi d'Italia; sarebbe a desiderarsi che questo gigante, rizzatosi in mezzo a tante migliaia d'Italiani che non vogliono parlar la lingua propria, o la stroppiano, o l'appestano, o la castrano, o la svergognano, gridasse con tutta la forza dei suoi prodigiosi polmoni: — Vocabolario.
E poichè in questi giorni, — come intesi dire a un negoziante — tutto ciò che si scrive, anche in materia di letteratura, deve avere la sua «conclusione pratica» ne tirerò una anch'io da questo scritterello. E dirò come dice chiunque, ormai, che abbia tre lettere dell'alfabeto in testa, quando vuol mettere innanzi una proposta; se fossi Ministro della istruzione pubblica, dirò, metterei nel programma d'insegnamento per le scuole del Regno, colla più profonda convinzione di far cosa utile all'Italia, la lettura obbligatoria di tutto il Vocabolario della lingua, con spogli, commenti ed esame alla fine d'ogni anno. «Come si dice in italiano questo? e quello? e quest'altro?» domande ragionevolissime da fare a uno studente che sappia tant'altre cose. Dicono: — C'è dei Prontuari! — Lavoro fatto, non ci credo; bisogna comprar la lingua col nostro santo inchiostro e d'altra parte i Prontuari non contengon che nomi. Non c'è tempo! Vediamo: io ho il Fanfani in mano, ultima edizione, millesettecento pagine, otto volumi di sesto ordinario, di quattrocento pagine l'uno, dieci pagine al giorno:
— Un anno.
Io continuo, e voi, ragazzi, seguite il mio consiglio: cominciate.
APPUNTI
Qualunque italiano non toscano, e specialmente un italiano delle provincie settentrionali, il quale si metta a leggere il vocabolario, si persuade fin dalle prime pagine di questa verità: che la lingua italiana generalmente parlata e scritta nelle sue provincie è tanto povera, — tanto scarsa, voglio dire, di vocaboli e di modi, — da doversi chiamare piuttosto una mezza lingua, che una lingua intera. Leggendo il vocabolario, infatti, si trovano centinaia e migliaia di vocaboli e di modi vivi, efficacissimi, d'un significato che non sapremmo rendere con altre parole; i quali nell'Italia settentrionale non si dicono e non si scrivono mai, o rarissimamente, come se fossero modi e vocaboli morti. È superfluo il dir la ragione di questo fatto, il quale è comune a tutte le lingue da per tutto dove si parla un dialetto. Ma non è inutile l'accennarlo e l'insistervi per dimostrare ai giovani dell'Italia settentrionale i quali si dánno allo studio della lingua italiana, come per prima cosa essi debbano cercare d'appropriarsi di questa lingua quella grandissima parte che loro manca, e della cui mancanza nulla ci può avvertire così prontamente e così utilmente come la lettura del vocabolario.
* * *
Si notino, per esempio, i seguenti vocaboli tolti dal dizionario del Fanfani.
Appiccichino. — Uomo che si appiccica ad altri per molestare, o chiedendo o cianciando, o mostrando famigliarità soverchia.
Attacchino. — Più maligno, più pungente che Attaccalite.
Attizzino. — Chi attizza gli altri fra loro. Generalmente si dice mettimale che non è la stessissima cosa.
Cicalino. — È superfluo notare la differenza che corre fra questa parola e cicalone.
Donnino. Es.: Che camera assestata tiene questo Pietro: è proprio un donnino (Fanf.)
Farfallino. — Uomo volubile.
Ficchino. — È quasi lo stesso che Ficcanaso; ma dicesi più specialmente di chi, anche non invitato, cerca di andare o a pranzi o a ritrovi, ecc.; mentre Ficcanaso è chi si ficca per curiosità più che per altro.
Frucchino (da Frucchiare). — Chi mette le mani per ismania di darsi faccenda in diverse cose, e anche in una sola, ma con gran moto, senza senno nè gravità, e senza che le cose nelle quali mette le mani gli appartengano gran fatto.
Frugolino. — (dimin. di frugolo). — Una donnina, un bimbo, un ometto che non sta mai fermo.
Galoppino. — Uno che strappa da vivere facendo mille mestieri.
Girandolino. — Lo stesso che Farfallino.
Pertichino. — Nel linguaggio teatrale si chiama pertichino quel cantante che sta fisso in teatro, a un tanto il mese, e che è adoperato a fare le parti più umili, ordinate solo a tener bordone e far apparir meglio le parti principali. Si applica per analogia ad altre persone.
Rabattino. — Persona ingegnosissima che in mille modi, ma sempre per vie oneste, cerca di guadagnare e vantaggiare la propria masserizia.
Stillino. — Lo stesso che Rabattino; ma dicesi anche di chi aguzza l'ingegno per riuscire in alcuna cosa; da stillare, trovare accortamente il modo di far checchessia; stillo, modo, via, ecc. Es.: Trova qualche stillo per divertire, o per tenere a dada questa gente.
Tritino. — Dicesi di chi ha la manía di vestir bene, ma non potendoci arrivar colla spesa, ha sempre dei panni rifiniti, e di poco valore.
Quante volte, parlando e scrivendo, noi italiani del settentrione abbiamo bisogno di queste parole, e non le sapendo, o non avendole, come suol dirsi, alla mano, ne diciamo altre che non esprimono il nostro pensiero! Invece di stillino, per esempio, uomo ingegnoso; invece di tritino, vestito male; invece di frugolino, vivace; invece di rabattino, mestierante; invece di appiccichino, seccatore; parole generiche, adoperabili in mille casi, dalle quali il linguaggio non riceve nè colore nè garbo. L' astratto, come diceva il Manzoni, invece del per l'appunto.
* * *
Si notino quest'altre, tolte pure dal dizionario del Fanfani.
- Affannone
- Almanaccone
- Arruffone
- Cabalone
- Ciabattone
- Faccendone
- Fiutone
- Fracassone
- Frugone
- Girandolone
- Litigone
- Lumacone
- Impiccione
- Machione
- Ninnolone
- Nottolone
- Piallone
- Sballone
- Scialone
- Scioperone
- Sgomentone
- Sincerone
- Soffione
- Stronfione
- Rigirone
- Tatticone
- Tentennone
- Trafficone
- Trappolone
- Viluppone
Di queste trenta parole, ciascuna delle quali ha un significato distinto, intelligibile da qualunque italiano che le senta per la prima volta, quante sono usate, così parlando che scrivendo, dagli italiani settentrionali? Tutt'al più quattro o cinque. E che parole s'usano invece? Ci rifletta un momento un piemontese, un genovese o un lombardo, e riconoscerà che usa quasi sempre una perifrasi, o esprime la cosa con un gesto, o dice una parola la quale non rende che presso a poco il suo pensiero.
* * *
Di questa povertà della lingua che si parla tra noi, s'ha una prova ogni momento. Un giorno, per esempio, ch'ero a desinare da una famiglia piemontese, la padrona di casa mi disse: — Lei oggi non ha appetito. — Non è che non abbia appetito, — risposi celiando; — è che ho fatto uno spuntino due ore fa. — Questa parola spuntino destò uno stupore generale, e tutti mi guardarono come per domandarmi che diavolo avessi voluto dire. Io continuai: — In ogni modo bisogna che desini per non essere poi obbligato a fare un ritocchino fra un paio d'ore. — Nuova meraviglia per questo misterioso ritocchino. — Del resto, soggiunsi, questo piatto è così squisito che vorrei pigliare ancora il contentino. — Terza meraviglia per il contentino.
Infine mi domandarono che cosa significassero quelle tre parole.
Spuntino, — è il piccolo mangiare che si fa fuori dell'ordinario e tanto per sostenere lo stomaco fino all'ora solita del cibo. (F.)
Ritocchino, — è un piccolo pasto che si fa dopo aver mangiato. (F.)
Contentino, — è quel po' che si piglia ancora d'una cosa che ci piaccia, dopo che se n'è già mangiata la propria porzione. (Si dice pure per la giunta che si dà dopo la derrata). (F.)
Queste tre parole graziosissime, usate in tutta la Toscana, entrarono da quel giorno nel vocabolario faceto della famiglia, invece delle espressioni mangiare prima del desinare, mangiare dopo, prendere ancora un boccone che erano usate prima. Ora ci sarà qualcuno il quale consideri quelle parole come fiorentinismi, e le voglia bandite solo perchè non sarebbero capite alla prima in tutta l'Italia? Si approvi o no l'idea del Manzoni, non si può rifiutare di prendere tra le espressioni e i vocaboli toscani tutti quelli che servono a dir cose che noi diciamo altrimenti con più parole e con meno garbo. Ho veduto, per esempio, dei genovesi e dei piemontesi sudar freddo per dire in italiano quello che in francese si dice foisonner, in piemontese fe foson, in genovese faa reo, ecc.; una cosa che in famiglia occorre di dire spessissimo: di alimenti, cioè, i quali per mangiare che se ne faccia, pare che non consumino e sieno più abbondanti di quello che sono veramente. Dicevano: la tal cosa pare più abbondante di quello che è, della tal cosa ce n'è sempre più di quello che si crede, ecc. Espressioni vaghe, lunghe e inesatte. Ebbene, in Toscana si dice far comparita. Chi vorrà continuare a filare un lungo periodo per dir male una cosa semplicissima, se può dirla con un toscanismo di due parole?
* * *
Una delle gran ragioni per le quali molti di noi non capiamo la necessità di arricchire la propria lingua è questa: che ignorando certi modi e certi vocaboli, non ci accorgiamo punto, scrivendo o parlando, delle perifrasi, dei giri di parole, delle contorsioni di frase di cui ci serviamo per esprimer cose che quei modi e vocaboli esprimono con poche sillabe. Se io ignoro l'esistenza della parola golino, per esempio, non capisco perchè un Toscano sbadigli quando gli dico: — il tale mi diede un colpo nella gola col pollice e coll'indice aperti. — Se non so che ci sia la parola ingozzatura, non m'accorgo di fare una lungaggine dicendo invece di: — Gli diedi un'ingozzatura, — Gli diedi un colpo colla mano aperta sul capello in modo che glielo feci scendere fin sulle spalle, ecc. ecc. Ma mettiamoci un po' a studiare la lingua, come diceva il Giusti, con tanto d'occhi aperti; vedremo quante lacune ci son nel nostro parlare e nel nostro scrivere, quante superfluità, quante improprietà, quante pedanterie, quanta miseria!
* * *
Il miglior mezzo di studiare il vocabolario mi par quello di cavarne un altro piccolo vocabolario per nostro uso, raggruppando intorno a un certo numero di soggetti generali tutte le parole e tutti i modi che ci sembrano degni di nota. Una scorsa data poi di tratto in tratto a queste note ravviva maggior quantità di lingua nella memoria che non la lettura di dieci libri. Estraggo, per esempio, dai miei appunti sul vocabolario del Fanfani, una parte di quello che riguarda il mangiare e il bere.
Sulla maniera di mangiare.
Mangiare a desco molle. — Mangiare a tavola sparecchiata.
Mangiare a battiscarpa. — Senza apparecchiare, in fretta e stando in piedi.
Mangiare a scappa e fuggi. — In fretta.
Macinare a mulino secco. — Mangiare senza bere.
Mangiare coll'imbuto. — Mangiare in fretta e senza masticare.
Espressioni comiche per indicare il mangiar molto o ingordamente.
Diluviare — Scuffiare — Pacchiare — Taffiare — Sgranocchiare — Spolparsi, per es., un tacchino — Mangiare a scoppiacorpo — Dar ripiego (Es.: Egli è una gola che darebbe ripiego a quanto v'ha in un refettorio di frati. F.) — Ungere il dente, sbattere il dente, far ballare il dente, far ballare il mento — Gonfiar l'otre — Levarsi le crespe di su la pancia — Fare una mangiataccia — Fare una spanciata — Farsi una buona satolla di qualche cosa — Far dei bocconi che paiono giuramenti falsi — Impippiarsi, ingubbiarsi d'una cosa.
Far rialto. — Si dice in famiglia per far cena o desinare meglio dell'usato (F.); a cui male si sostituisce comunemente far festa od altro.
Bocconcino della creanza. — Il morceau honteur dei francesi.
Tornagusto. — Cosa che fa tornare il gusto e la voglia di mangiare, ecc.
Fame.
Uzzolo. — appetito intenso.
Allampanare, allupare, arrabbiare dalla fame.
Far le fila sopra un piatto. — Guardarlo con avidità grande.
Far le volte del leone. — Aspettare passeggiando. (F.) L'intesi dire efficacissimamente in Toscana a proposito del passeggiare che si fa in una stanza quando s'ha appetito e s'aspetta che vengano a dire ch'è in tavola.
Pelatina. — Malore che viene alle bestie, le quali pelatesi, non mangiano; onde per ironía, quando si vede uno che mangia molto, si dice che debbe aver la pelatina. (F.)
Del bere.
Colmatura. — La parte del liquido che riempie il vaso, la quale rimane sopra l'orlo. (F.) Ho inteso dire molte volte: il di più o quello che sporge!
Culaccino. — L'avanzo del vino che occupa il fondo del bicchiere.
Far spracche. — Quel suono che si fa stringendo e riaprendo la bocca con forza quando s'è bevuto del vino generoso. (F.)
Far la zuppa segreta (graziosissimo). Bere colla bocca piena.
Bere a sciacquabudella. — Ber vino a digiuno.
Bere a garganella. — Bere senza accostare il vaso alle labbra.
Bere a gorgate.
Sbicchierare. — Vendere il vino a bicchieri. Es.: Barile con quella bottega s'è arricchito. Compra tutto vino eccellente, e benchè lo paghi caro, sbicchierando come fa, ci guadagna il doppio. (F.)
Ubbriachezza.
Prendere una sbornia — Prendere una bertuccia — Prendere una colta — Prendere una briaca — Prender l'orso — Perder l'alfabeto — Perder l'erre — Essere in bernecche — Essere in cimberli — Fare i gattini (pure del dialetto piemontese), o fare la ricevuta, per vomitare — Alzare la gloria, bere soverchio — Essere una gola d'acquaio, essere un beone — Essere un briachella, aver l'abitudine d'ubbriacarsi leggermente.
Beveria. — Il ber molto. Fare una beveria.
Combibbia. — Bevuta fatta con altri nell'osteria.
Certo che non tutti questi vocaboli e modi sono dell'uso comune neppure in Toscana, nè tutti sono da adoperarsi a occhi chiusi. Ma nel prendere appunti sul vocabolario, è meglio largheggiare che essere scarsi, poichè non v'è parola oziosa o poco usata o antipatica, — poichè anche in fatto di lingua ci sono le antipatie, — la quale adoperata in un certo senso o in un certo punto, particolarmente nel linguaggio faceto, non acquisti un'efficacia singolarissima, purchè, come diceva il Giusti, si sappia buttar là in modo da non far sospettare che si sia cercata col lumicino. E proviene appunto da non conoscere o dal non aver pronte sulle labbra che uno scarsissimo numero di espressioni, la difficoltà che incontrano i non toscani a celiare con grazia o raccontare barzellette e far descrizioni burlesche in modo da far ridere. Perchè se la cosa che hanno da dire non è per sè stessa comicissima, poco possono aggiungerle per mezzo della lingua. Vediamo per l'opposto che quando raccontano nel loro dialetto cose per sè stesse quasi punto ridicole, le fanno riuscire tali, solo coll'adoperare certi vocaboli e modi particolari che eccitano il riso.
* * *
Par strano, ma è vero: per i non toscani, massime dell'Italia settentrionale, uno dei maggiori impedimenti a scrivere e a parlar bene è la paura del proprio dialetto. Per paura, infatti, di lasciarsi scappare degli idiotismi, bandiscono scrupolosamente dall'italiano tutte le espressioni del vernacolo, delle quali molte, letteralmente tradotte, sarebbero italianissime; e ciò facendo, durano una fatica doppia, e parlano una lingua stentata, leccata e senza vita. Per citare degli esempi, ho visto una volta un piemontese arrossire di vergogna perchè credeva di aver detto un grossolano piemontesismo coll'espressione: — Il tal libro, di cui m'avevan detto tanto male, lo lessi, e non mi parre il diacolo: — ossia non mi parve tanto cattivo quanto si diceva; modo usatissimo nel dialetto piemontese. — Bell'italiano — soggiunse con ironia. — Perchè mai? — gli osservai. — non mi parve il diavolo, non è il diavolo, non sarà poi il diavolo, lo scrisse Giuseppe Giusti. — Non lo volle credere e gli dovetti far vedere il libro. Un'altra volta scandolezzai un genovese dicendo in italiano: — So assai se il tale dei tali sia venuto — Alto là! — mi gridò — la colgo in flagrante genovesismo. Il suo so assai è il nostro so assae pretto sputato. — Misi sotto gli occhi anche a lui le prose del Giusti dove trovò due o tre so assai che lo fecero rimanere a bocca aperta. E potrei citare mille altre espressioni che fanno rizzare i capelli a tutti coloro i quali a furia di scrupoli, di paure, di pedanterie, si son fatti una lingua italiana compassata, rigida, plumbea, che non è più una lingua. In Toscana, per esempio, si domanda a un libraio: — Quanto fate codesto libro? — Nove su dieci italiani delle provincie settentrionali, dovendo fare quella domanda, ficcano un prudente pagare in mezzo alle parole fate e codesto, perchè per loro fare un libro, in questo caso, è un'espressione assurda, e l'altra, invece, è intera, esatta, a prova di martello. Per la stessa ragione non dicono mai nel momento ch'egli usciva, ma nel momento nel quale o in cui; non il luogo dove o per dove, ma il luogo nel quale o per il quale; non guardai se passasse qualcuno, ma guardai per vedere se passasse qualcuno, ecc. Ciò che il Giusti chiamava argutamente parlare e scrivere colle seste.
* * *
Per spiegar meglio il modo che, secondo me, si dovrebbe tenere nel prendere appunti sul vocabolario, mi pare utile addurre ancora alcuni esempi. Leggendo il vocabolario, credetti opportuno di notare tutti i seguenti modi e vocaboli che si riferiscono a commercio, affari, denaro, ecc., perchè m'accorsi, leggendoli, che sebbene fossero necessarî per dire per l'appunto quelle date cose, non li avevo mai adoperati perchè in parte non li sapevo, e in parte non m'erano abbastanza fitti nella mente da averli pronti sulla bocca o sulla punta della penna parlando o scrivendo.
Metter su bottega. — Rizzare una bottega, un negozio.
Stiracchiare il prezzo. (È chiaro).
Salire. — Per rincarare. Es.; Quest'anno i tartufi son saliti alle stelle. (F.)
Rincarare.
- Il pane è rincarato.
- Rincarare la pigione.
- Il rincaro del cotone.
Nell'Italia settentrionale, massime parlando, si dice generalmente colla solita lungaggine il pane è divenuto caro, invece di è rincarato, e l'aumento di prezzo del cotone, invece del rincaro del cotone.
Rinvilio. — Lo scemar di prezzo. Parola che il Manzoni, correggendo i Promessi Sposi, sostituì a diminuzione di prezzo, e che ora si comincia a usare anche fuor di Toscana. Es.: C'è stato un gran rinvilio nell'olio.
Ribasso. — Es.: Il cotone HA FATTO un ribasso. Gli scrupolosi direbbero: C'è stato un ribasso nel cotone.
Richiesta. — Una tal mercanzia ha molta richiesta.
Rientrare. — Il popolo e i venditori, in Toscana, dicono rientrarci per ripigliare il costo con guadagno onesto vendendo una data mercanzia, Es.: A volere che ci rientri, quel drappo bisogna che lo venda otto lire il braccio. — A tre lire non posso darglielo: non ci rientro. (F.)
Rientro. — Entrata, rinfranco di denari o d'altro, meglio che risorsa. Es.: Giovanni non ha altro rientro che lo stipendio di 100 lire al mese. (F.)
Vantaggiare alcuno. — Risparmiargli nel comprare e avanzargli nel vendere. (F.)
Stare a sportello. — Dicono gli artefici quando in alcuni giorni di mezze feste o simili, non aprono interamente la bottega, ma tengono solamente aperto lo sportello. (F.)
Spurghi. — Le merci rimaste senza vendersi in una bottega. (F.)
Riparare. — Si dice non ripara di una persona che non è sufficiente a secondare le richieste infinite che le vengono fatte; di un mercante che spaccia moltissimo di una tal mercanzia ed ha sempre il banco assediato dai compratori. Es.: Mise su quella bottega di mercerie e si arricchirà di certo perchè non ripara. (F.)
Comprare cogli occhiali di panno. — Senza esaminare quello che si compra.
Servirsi da UN TAL NEGOZIANTE. — Modo scansato da moltissimi per timore che non sia di buon italiano.
Stare su un quattrino, su una lira. — Lo spiega l'esempio: Che credi ch'io stia sulle dieci lire? To' piglia un napoleone e vattene. (F.)
Quel fondaco va SOTTO IL NOME DEL TALE.
In quella impresa gli ci andarono DIECI MILA LIRE.
Rigirare i denari. — Utilizzare onestamente un piccolo corpo di denari. Es.: Ho pochi quattrini; ma mio fratello che ha pratica di negozi me li rigira bene.
Rigirarsela. — Non son ricco, ma me la son sempre rigirata bene.
Il suo inchiostro corre per tutto. — Dicesi d'un negoziante la cui firma sia tenuta buona in tutte le piazze. E a chi non abbia credito: Il tuo inchiostro non tinge o non corre.
Puzzare d'inchiostro. — Si dice di un abito o di altra cosa non ancora pagata nella bottega dove si è presa, e dove è già accesa la partita del debito. (F.)
Prendere una cosa a chiodo. — Senza pagarla subito.
Mangiarsi il guadagno in erba. — Consumare ciò che si guadagna prima di riscuoterlo. (F.)
Danari giustificati. — Danari spesi in cosa che li vale. (F.)
Denari secchi. — Danari morti.
Tirare la paga. — Per riscuoterla.
Vivere sul lavoro. (È chiaro).
Lavorare o fare sopra di sè. — Si dice degli artefici che non stanno con altri, ma esercitano la loro arte da per sè a loro pro e danno.
Tirare un gran dado. — Avere una gran sorte.
Fare un buon trucco. — Aver buona fortuna in una cosa.
Gli è venuta la guazza. — Si dice di chi ha trovato una buona fonte di guadagno.
Gli è balzata la palla sul guanto.
Trovare una bella vigna. — Trovare facile e pronto utile (o piacere) in alcuna cosa.
Succhiellare una bella carta. — Essere in procinto di avere una qualche buona ventura. Ecc., ecc.
* * *
Per citare un altro esempio, c'è intorno al parlare un gran numero di vocaboli e di modi efficacissimi, per la più parte lepidi, e molti comuni ai vari dialetti d'Italia, e per questa ragione, ossia per paura, non usati da chi vuol parlare e scrivere un italiano castissimo.
Stiantar bombe (il craquer dei francesi). — Stiantar bugie. — Stiantar spropositi. — Piantar carote. — Sballar favole. — Sfrottolare. — Dire delle sballonate. — Dire delle papere. — Dire dei farfalloni. — Fare delle sparate. — Dirne di quelle che non hanno nè babbo nè mamma (strafalcioni madornali); ciò che scrisse il povero Guerrazzi, poco prima di morire, parlando della sua ultima opera, Il secolo che muore.
Graziosissima l'espressione: — Dare una calcatella, per rifiorire o esagerare una cosa detta da altri.
Dire una cosa di ritorno, di ripicco, di rintoppo, di rimbecco. — Dire una cosa fuori dei denti. — Dire a uno una fitta d'ingiurie, una carta di villanie, una sfuriata d'impertinenze. — Fare una parrucca a uno, fargli una lavata di testa, un lavacapo, una risciacquata, una ripassata, una sbarbazzata. — Cantargli il vespro, cantargli la zolfa. — Trinciargli la giubba addosso, tagliargli le calze, lavarsene la bocca (per dirne male). — Dire, vomitare ira di Dio.
Ripapparsi uno (per garrirlo acerbamente). Es.: Nebbia, in presenza della gente, tratta suo marito coi guanti, ma in casa poi bisogna vedere come se lo ripappa.
Rimpolpettare. — Lo spiega l'esempio: Non è padrona di aprir bocca quella povera donna che bisogna vedere come la rimpolpettano.
Rimbrontolare (efficacissimo). — Rammentare spesso ad altri un beneficio o un favore fattogli. Es.: Tizio mi regalò una volta cinquanta lire, è vero; ma non passa giorno che non me le rimbrontoli.
Rifischiare. — Si cacciò in quell'adunanza il P., e poi andò a rifischiare ogni cosa al prefetto. Quanto più efficace che il solito riferire e riportare che si può dire in cento sensi!
Spettegolare. — Chiaccherar molto e senza proposito. — Es.: Dopo essere stata là un'ora a spettegolare se ne andò. — Già io ti dico tutto in segreto, e poi tu vai a spettegolare ogni cosa in casa delle vicine.
Tirar sagrati, tirar moccoli, attaccar moccoli, tirar giù tutti i Santi, attaccarla a Dio e al Santi.
Parlare colla bocca piccina (graziosissimo). — Per parlare timidamente. Es.: Cogl'inferiori fa il prepotente; ma coi superiori parla colla bocca piccina.
Stillare, piombare le parole, — per parlare lentamente, a stento.
Spiccicare le parole. — Spiccarle. Si dice: Non spiccica nulla, non spiccica parola, di chi volendo parlare, non gli vien fatto.
Discorrere fitto o fitto fitto. — Presto e senza interruzione.
Sfilar la corona. — Dir tutto senza riguardo.
Spippolare. — Spappolarla, per es., tale e quale. — Chiaro.
Faticare, per es., una filza di paternostri, ciò che si esprime anche al verbo Spaternostrare, Scoronciare, ecc.
Gonfiar gli orecchi a uno. — Dirgli cose che non gli piacciono.
Dare spago a uno. — Fingere di secondarlo per farlo parlare e svelare l'animo suo.
Menare a spasso uno. — Aggirarlo con parole.
Infilare gli aghi al buio. — Parlare di ciò che non si conosce.
Allungare la tela. — Per allungare il discorso. Es.: Per cinque minuti lo stetti a sentire, ma poi, vedendo che allungava la tela, gli voltai le spalle.
Dare un tasto. — Toccare un motto di qualche cosa. Es.: Se vedo il prefetto, così alla larga gli voglio dare un tasto sulla faccenda degli arresti di domenica.
Farsi da alto. — Per cominciare a parlare d'una cosa dal primissimo principio o alla lontana.
Farla cascar d'alto. — Dare con parole a una cosa un'importanza maggiore di quella che ha, volerla far parere più bella, più difficile, ecc., di quello che è.
Intonarla troppo alta. — Si dice di chi comincia a parlare con un tuono che non può e non deve poi mantenere.
Tirare a traverso. — Si dice di chi, disputando con noi, vuol torcere a cattivo senso le nostre parole, o sposta astutamente la quistione dai suoi veri termini.
Parlare per comprare. — (Chiaro).
Abbreviare il testo. — Farla corta.
Fare un discorso corto. — Modo usatissimo in Toscana, quando nel contrattare una cosa si vuol far subito la proposta ultima e difinitiva. Es.: S'ha a fare un discorso corto: la m'ha a dar tanto, ecc. Si usa anche per venire a una risoluzione contro qualcuno: Oh sai? s'ha a fare un discorso corto: tu t'hai a levar di qui.
Mozziamola! — Lasciamola lì, tronchiamo questo discorso. Gli Spagnuoli dicono graziosamente: — Doblémos la hoja — pieghiamo la pagina.
Levar le repliche. — Lo spiega l'esempio: Gli fece una di quelle filippiche che levano le repliche.
Rimanere in secco. — Si dice di quando a un tratto, a chi parla o scrive, mancano le parole o i concetti.
Rimanere colla parola in aria. — (È chiaro). In senso affine intesi dire a un contadino toscano: Per quanto si sforzasse a parlare, le parole gli rimanevano attaccate giù per la gola.
Aggiustare le parole in bocca a uno. — Insegnargli ciò che deve dire.
Far peduccio a uno. — Aiutarlo colle parole, dicendo il medesimo che ha detto lui, facendo buone e fortificando le sue ragioni.
Pissi pissi, pispilloria. — Strepito di voci che fanno molti uccelli, anche applicabile a voci umane, specialmente per indicare chiacchericcio, cicaleccio di donne. — Es.: Ogni tanto la Gigia lo piantava per andare a fare un pissi pissi di mezz'ora colle sue amiche.
Pissipissare. — Bisbigliare, far pissi pissi.
Ribobolare. — V. att. Ribobolare, per es., un bel pensiero, ossia nasconderlo con riboboli. — Il P. è un buon prosatore; ma per quel maledetto suo vezzo di far vedere che sa scrivere, un bel pensiero te lo ribobola in modo che non si capisce più.
Parlare colle seste. — Con cautela. Parlare colle seste in bocca, disse il Giusti, per parlare con ripicchiata eleganza.
Tirar su le calze a uno. — Cavargli di bocca, con arte, un segreto, ecc., ecc.
A proposito di questo e d'altri modi dello stesso genere, occorre fare un'osservazione; ed è che son modi vivi, efficaci, usatissimi e usabilissimi; ma che sono volgari, e che perciò si debbono usare parcamente, e solo quando il soggetto del discorso lo concede. Molti non la intendono così. Per costoro tutto quello che è toscano è dicibile e scrivibile a qualunque proposito. Moltissimi anzi non fanno propriamente consistere lo scriver toscano, secondo l'idea del Manzoni, che in una certa sfacciataggine di lingua, in un certo sprezzo del galateo filologico, nello scrivere, insomma, una lettera a una signora tale e quale come una lettera a un fattore; un discorso accademico tale e quale come un aneddoto carnovalesco. Sono costoro che, da qualche anno in qua, empiono romanzi, novelle, articoli, ecc., di modi come cascar l'asino, levar le gambe, tirar su le calze, tagliar le calze, essere agli sgoccioli, uscir per il rotto della cuffia, ecc., ecc., i quali modi se danno efficacia e sapor comico al linguaggio quando sono adoperati a tempo e luogo, gli tolgono, adoperati a casaccio, ogni dignità, ogni gentilezza, ogni grazia. Ed anche a rischio di farmi dare sulle dita voglio dire che lo stesso Giuseppe Giusti ha qualche volta peccato da questo lato. Poichè, per esempio, quando scrivendo a una signora dice in un solo periodo che «scegliere per un congresso una città piccola come Lucca è un voler metter l'asino a cavallo: ma che i Lucchesi ne leveranno le gambe meglio che non si crede; che il duca se l'è battuta perchè gli bolle a mala pena la pentola per sè e per i suoi, ecc.,» io sento, non in ciascuna di queste maniere di dire per sè medesima, ma nella loro frequenza, nel tuono che danno al discorso, qualche cosa che non mi piace. Il Manzoni stesso, che in fatto di lingua è così delicatamente guardingo, nell'usare frasi e vocaboli toscani ha qualche volta mancato a questo riserbo, e io credo che anche i suoi più ardenti ammiratori, fra i quali mi vergognerei di non essere in prima riga, cancellerebbero volentieri in qualche sua pagina le parole porcheria, me ne impipo, ecc., scritte da lui in omaggio all'uso toscano. Ora a me par giusto che si segua il Manzoni nel preferire un idiotismo a una pedanteria; ma mi par di vedere che molti toscaneggianti dell'Italia settentrionale vadano troppo in là. Ammetto, per esempio, che in molti casi, e in specie nel dialogo, si possa o debba dir cosa invece di che cosa o che; ma che un professore di letteratura italiana, come fanno molti, faccia perpetuamente scrivere dai suoi scolari cosa in vece di che o che cosa, non mi va. Capisco che piuttosto di scontorcere una frase e qualche volta tutto un periodo, si scriva gli invece di loro; ma non m'entra che, per seguire l'uso toscano, invece di vidi Maria e le dissi, si debba scrivere vidi Maria e gli dissi. Così pure il dire eternamente lui per egli, lei per essa, loro per essi, anche quando nè il suono nè la naturalezza lo richiedono, il che è anche contrario all'uso della Toscana, dove egli, essa, essi non sono punto parole scomparse dal vocabolario parlato. Non bisogna, mi pare, cadere nell'eccesso nè da una parte nè dall'altra. Che si metta al bando la prosa aristocratica, la lingua ripicchiata, l'affettazione, la pedanteria, sta bene. Ma che per non scrivere come un accademico si parli come un mercatino; che per non star soggetti alla tirannia grammaticale del che cosa e dell' egli, si crei un'altra tirannia del lui e del cosa, che, in una parola, dopo aver smessa la parrucca, si voglia anche levarsi la camicia, non mi pare nè bello, nè ragionevole.
* * *
Veda chi vuol spigolare nel vocabolario, seguendo il modo che ho indicato, quante parole e modi e paragoni e immagini si possono raccogliere intorno al soggetto Ritratti, solo dal piccolo vocabolario del Fanfani; e come lo studiare la lingua in questa maniera, benchè paia seccante a primo aspetto, possa riuscire dilettevole.
Un uomo magro assaettato — secco allampanato — secco arrabbiato — secco arrovellato — secco spento — secco come un uscio — secco come un osso — trito in canna — ridotto sulle cigne — ridotto in un gomitolo — ridotto un fuscello — ridotto che pare un filo — che ha fatto un gran calo — che par fatto di calza sfatta — che pare la morte secca — che regge l'anima coi denti — che si vede e non si vede — che si piglierebbe col cucchiaio — verde come un ramarro — giallo come un rigógolo — una mostra d'uomo — una carcassa — un cerotto — un ragazzo stentino — una cosa stentata — un coso stento stento — un viso di dolor di corpo — uno sbiobbo — uno scricciolo — un vecchio scaracchione, ecc.
Un giovane di buon nerbo — un uomo di buon osso — uno stiattone — un trippone — un gonfione — grasso bracato — che non capisce nella pelle — con una faccia di mascheron di fontana — con un naso che gli rifiglia il vino bevuto — un vecchio rimprosciuttito, che va via come un frullino, che ha rimesso un tallo sul vecchio, ecc.
Una zitella spersonita — ristecchita — vizza — passa rinfichita — rinfichisecchita — con un viso rinfrignato — cogli occhi cerpellini — con due gran calamai — con certe piazzate in testa (radure di capelli) che si può dir quasi pelata — una vecchia squarquoia — un vero reciticcio — un vero crostino — e perchè non ha dote, un crostino senza burro — una ricetta da lussuria, come si dice di persona che non solo non mette, ma scaccia le tentazioni. — ecc.
Una ragazza tanto fatta — una bambolona — una meggiona — una mastiona — un bel fusto, un bel tocco, una bell'asta di donna — un bel pezzo di marcantonia — un bel pezzo da ottanta — fatta colle forme — pulita come un dado — sana come una lasca — soda come una pina — una donnina minutina — gentilina — una cosolina — un pepino — una bazzina — un viso di solletico — che ha un'ideina di buona — che ha un'ideina che piace — che è l'idea della grazia — che è una gentilezza — a cui ridon prima gli occhi che la bocca, ecc.
Un uomo a sghimbescio, a scatti, a folate, — un uomo scontroso, muffoso — una testa secca — una testa volante — un cervello svolazzatoio — un vecchio cascatoio — un vecchio cucco, ecc.
Un uomo grosso di pasta — tondo di pelo — che ha un po' dello scemo — che ha l'ottavo dono dello Spirito Santo — che non ha di quel che si frigge — che serve di copertina a un altro — una lanterna senza moccolo, ecc.
Una lamaccia, un malanno — un uomo che odora di birba — un'anima bigia — un uomo di scarpe grosse e di cervello sottile — un uomo che ha l'arco lungo — un uomo che ha l'osso del poltrone, l'osso del vile, l'osso del furfante — che ha il miele sulle labbra e il rasoio a cintola — un uomo di bassa estrazione — un terremoto — bravo come un lampo — bugiardo come un gallo — ecc.
Un dabbenaccio — un galantominone — una coppa d'oro — un uomo di stocco — un uomo a tutta tempera — un uomo rotto al mondo — un uomo tagliato al dosso di tutti — un uomo attaccaticcio — un uomo di ricapito — uomo dei suoi piaceri, dei suoi comodi — un uomo tutto Gesù e Madonna — un mammamia — un santificetur — un sacco di disdette, ecc.
Tutta questa è lingua viva e fresca, che quando s'abbia in mente, vien opportunissima sulle labbra e sulla punta della penna ad ogni momento; eppure si può dire che per l'Italia settentrionale è quasi tutta lettera morta; e nasce appunto dalla mancanza di tutta questa lingua, il difetto di varietà e di lepore che si lamenta nello scrivere, e principalmente nel parlare italiano degli italiani settentrionali.
* * *
Da un tempo in qua, in molte famiglie dell'alta Italia s'insegna a parlare italiano ai bambini. È ottima cosa, se i parenti sono in grado d'insegnar bene, o se badano almeno a correggere gli errori di cui s'accorgono; ma è cosa pessima se non sanno insegnare o non hanno voglia di correggere; il qual caso è frequentissimo. Occorre infatti ogni momento di sentir ragazzi di sette od otto anni, ed anco di dieci o di dodici, parlare con una meravigliosa disinvoltura un italiano scellerato al segno da far desiderare che parlino invece il loro dialetto. E non è da credere che a poco a poco si correggano poi da sè stessi. Gli strafalcioni, le frasi viziose, i modi barbari e un gran numero di piccole improprietà di linguaggio che s'appiccicano alla lingua in quella prima età, difficilmente si perdono avanzando negli anni, fuorchè dai pochissimi che si dedicano particolarmente alle lettere; perchè coll'età cresce a mano a mano l'amor proprio, la pretensione, il timore, in chi potrebbe correggere, che la correzione venga presa in mala parte; e così accade che i giovanetti di quindici o di sedici anni parlano poco meno barbaramente di quelli di otto o di dieci.
Ecco, per esempio, un saggio dell'Italiano che si parla generalmente nell'Italia settentrionale, non solo dai bambini, ma anco dagli adulti:
«Ho veduto Tizio, e ci dissi che alla sera, in casa, noi giuochiamo, e che saressimo contenti che non ci mancasse nè egli, nè suo fratello. Ci dissi che i libri che m'aveva imprestati mi hanno piaciuto, e gliene chiamai degli altri, particolarmente quello dell'X, stampato del 1873, che è il romanzo il più bello che si possa immaginare. Lo ebbi, se non mi sbaglio, tre anni fa, lo lessi d'un fiato, ed ho ritornato a leggerlo, ecc.»
E non c'è che dire, si sentono buttar giù questi spropositi anche da persone coltissime, le quali arrossiscono quando, per caso, si lasciano sfuggire errori assai meno gravi nel parlare francese.
Ma tornando ai bambini, ecco alcuni vocaboli e modi, che si riferiscono a loro, e che sono una prova di più del gran giovamento che si può ricavare dallo spoglio del vocabolario; facendo il quale si finisce col trovarsi fra le mani un altro vocabolario bell'e fatto, che colma quasi tutte le lacune della nostra mente.
Giocare a tamburello. — Tamburello è quel piccolo cerchio, nel quale è imbulettata una pelle ben tirata, e che serve per giuocare alla palla.
Giocare a rimpiattino, a rimpiattarelli. — Gioco nel quale uno si rimpiatta e gli altri debbon trovarlo.
Giocare a ripiglino. — Gioco così detto dal ripigliar col dorso della mano i noccioli o piccole monete che si sono tirate all'aria. È pure un altro gioco che si fa in due, avvolgendosi nelle mani del filo, e ripigliandolo l'un dall'altro in varie figure.
Giocare a guanciale d'oro. — Gioco in cui uno posa il capo in grembo all'altro che siede, e questi gli chiude gli occhi in modo che non possa vedere chi sia colui che lo percosse in una mano ch'egli tiene dietro sopra le reni, dovendolo egli indovinare.
Giocare a scaldamane. — Gioco che si fa accordandosi in più a porre le mani a vicenda l'una sopra l'altra, posata la prima sopra un piano, e traendo poi quella di sotto, ecc.
Giocare a toccapoma. — Gioco in cui alcuni ragazzi si pongono appoggiati o a cantonate o ad alberi che siano attorno, e uno di essi resta nel mezzo. Quegli che sono agli alberi o cantonate cercano di mutar posto senza lasciarsi pigliare da colui che è in mezzo a quest'effetto, ecc.
Giocare a scaricabarili. — Gioco che si fa da due soli, i quali si volgono le spalle l'un l'altro, e intricate scambievolmente le braccia, s'alzano a vicenda.
Giocar di pedina. — Premersi coi piedi sotto la tavola.
Giocare a nocino. — Gioco nel quale si fanno alcune castelline di noci, quanti sono i giocatori, e ciascuno tira verso quelle con una noce che si chiama bocco. Quante castelline butta giù il tiratore, tante ne vince.
Fare alle comaruccie. — Gioco che si fa con un fantoccio, fingendo che una delle bambine l'abbia messo al mondo; la quale bambina riceve le visite, e fa le altre cerimonie delle puerpere.
Fare a pappaceci. — Gioco dei fanciulli quando tirano fichi od altro all'aria e li ricevono colla bocca.
Fare a ginocchino. — Dicesi di due che essendo accanto si urtano l'un l'altro col ginocchio. Questo modo però, come l'altro giocar di pedina, si usa di preferenza parlandosi d'un uomo e d'una donna.
Fare le tenebre. — Il battere che suol farsi con mazze sulle panche delle chiese per gli uffici della settimana santa.
Fare le bizze, fare le furie. — Si dice dei ragazzi, ed è chiaro.
Far greppo. — Quel raggrinzare la bocca che fanno i bambini quando vogliono cominciare a piangere.
Sbatacchiarsi. — Si dice (oltre che per atti di dolore disperato) dei bambini quando fanno le furie.
Smoccicare. — Mandar fuora i mocci; il che fanno spesso i bambini quando piangono. Al qual proposito è da notarsi il modo: Tirar su, che dicesi dell'aspirare fortemente col naso per impedire che colino i mocci; onde il motto che suol dirsi ai bambini quando lo fanno: Tira su e serba a Pasqua.
Aver la lucia. — Lo dicono in Firenze ai bambini quando la sera, dal sonno, non possono tenere gli occhi aperti.
Fare i lucciconi. — Si dicono lucciconi quelle grosse lagrime che ci cadono dagli occhi per qualche improvvisa cagione di dolore, e che quasi si vorrebbero celare.
Fare le cocche. — Battere una mano aperta sull'altra serrata per segno di beffa.
Fare un manichetto. — Si dice di mettere una mano nella snodatura dell'altro braccio piegandolo all'insù, che è atto di sdegno e d'ingiuria.
Dare il congone. — Atto di scherno che si fa battendo i pugni chiusi, o coi polpastrelli delle dita raccolti insieme, le gote gonfiate a questo fine.
Dare un lecchino. — Lo dicono i ragazzi per quell'atto di dispregio, che si fa mettendosi un dito in bocca, e poi, così bagnato di saliva, battendolo sul viso dell'altro.
Fare il linguino. — Mostrare la punta della lingua tenendola stretta fra le labbra; atto che ha differenti significati secondo che è fatto da bambini o da adulti.
Sonare la furfantina. — La furfantina è un concerto di fischi, urli e varii suoni fatti con la bocca, che si fa dai ragazzi per ischerno d'alcuno.
Fare la sassaiuola. — Sassaiuola, battaglia coi sassi, e il trarre più persone dei sassi contro alcuno. Es.: Quei maledetti ragazzi, appena lo videro, gli cominciarono a fare la sassaiuola.
Marinare la scuola. — Non andarvi.
Bucare la scuola. — Sottrarsi con accortezza al dovere d'andarvi.
Battere le gazzette. — Avere gran freddo.
Portare a cavalluccio. — Portare altrui sulle spalle con una gamba di qua e una di là del collo.
Portare a predellino. — Si dice quando due, intrecciate fra loro le mani, portano un terzo che ci si mette su a sedere.
Portare a barella. — Dicono i fanciulli del prender uno per le braccia e per le gambe e così portarlo da luogo a luogo.
Scendere a scorticaculo. — Scendere strascinandosi sul deretano.
Alzare di soppeso un bambino. — Alzarlo con la sola forza delle braccia.
Fare gambetta. — Attraversare un piede tra le gambe d'un altro mentre cammina o s'agita, per farlo cadere.
Dormire a gomitello. — Dormire stando a sedere dinanzi a un tavolino col capo appoggiato sul gomito.
Fare il pizzicorino. — Fare il sollecito.
Prendere per il ganascino. — Stringere la gota tra l'indice e il medio piegato indietro.
Dare i monnini (concettini). — Si dice di chi parlando con alcuno lo mette al punto di dir parola che rimi con un'altra da dover a quel tale dispiacere: come chi disse a quel chierico: — Non fu mai gelatina senza.... e qui si fermò; e il chierico subito disse, per mostrar che sapeva la sentenza: senza alloro: e l'altro ribattè: — Voi siete il maggior bue che vada in coro.
Fare il groppo o mettere il tetto. — Si dice di un ragazzo che ha finito di crescere; del quale suol dirsi pure con dispetto: non cresce nè crepa.
Figliuol di grazia, figliuol di vezzi. — Si dice il bambino prediletto della famiglia.
Trottolino. — Dicesi di bambino che va a piccoli e presti passi.
Gnaulino. — Dicesi per scherzo d'un bambino piccolo. Es.: Ha un par di gnaulini che non le danno un momento di bene. Da gnaulare (miagolare), che si dice pure del piangere dei bambini. Frignare significa piangere interrottamente sforzandosi di rattenersi.
Un sacchettino di vizii. — (Chiaro).
Malestro. — Parola di cui tutte le madri hanno bisogno, alla quale sostituiscono malamente monelleria, scappatella, ecc. Malestro si dice qualunque danno facciano per casa i ragazzi, come romper piatti, bicchieri e simili. Es.: Ragazzi, badate di non far malestri. (F.)
Ninnare. — Canterellare per fare addormentare i bambini cullandoli. Dice il Giusti:
E lo accostava, al seno e lo ninnava
Con baci e baci come fosse suo.
Spoppare. — Levar la poppa ai bambini, disusarli dal latte; onde si dice bambino spoppato, ecc.
A proposito del linguaggio dei bambini, occorre un'osservazione sull'uso che si fa dei diminutivi in Toscana. È opinione di molti che se ne faccia un uso eccessivo, per il che suol dirsi che i Toscani parlano un italiano fiacco e sdolcinato. Nulla di più falso, a mio parere, perchè rarissimamente, in Toscana, si sente usare un diminutivo che non sia giustificato dalla modificazione ch'esso porta al senso della cosa espressa. È superfluo notare la differenza che corre tra bellino e bello, poichè tutti sanno che bello corrisponde a beau e bellino a joli, e nessuno ignora il differente significato di queste due parole. Ma si osservino i seguenti esempi. In Toscana, si dice che una donna ha giudizio, e che una bambina ha un giudizino da far meravigliare. Si dice che una donna, una bottegaia, per esempio, ha una manierina che piace. Si dice che una bimba ha le sue malizine. Si dice che la madre è tutta pensieri per la sua figliuoletta, e che la figliuoletta è tutta pensierini per sua madre. Si dice che una donna è sempre ravviata, ravversata e che i suoi bimbi sono sempre ravviatini, ravversatini. Una mamma dice al suo bimbo il quale pretende ch'essa, gli porga qualche cosa: — Allunga il santo manino e pigliatela da te, ecc. Si vede da questi esempi che i diminutivi non sono adoperati a casaccio. Lo stesso può dirsi dei peggiorativi che non solo modificano il senso, ma qualche volta lo cambiano affatto. Quell'uomo, si dice, ha delle idee: giovatevene: quell'altro ha delle ideaccie: guardatevene. Si dice mettere uno a un puntaccio; e si sottintende: di fare uno sproposito; fare una partaccia a uno, ossia caricarlo di male parole; fare un'azionaccia, ossia una bricconata; avere delle praticaccie, ossia di donne perdute, che sono robaccia; fare una levataccia, ossia levarsi per tempissimo, ecc. Bella novità! — mi diranno molti italiani settentrionali che studiano la lingua; — tutti questi vocaboli, tutti questi modi di dire li sapevamo. — Tanto meglio; ma non li dite mai, non li scrivete mai, non vi suonan mai nella testa quando li potreste scrivere o dire; e in fatto di lingua, tutto quello che non viene sulle labbra o sulla penna, non si sa. Ma dunque, mi si domanderà, come s'ha da fare per rendersi famigliari tutti questi vocaboli e questi modi? Ci sono molti mezzi. Si notano, si adoprano nelle lettere agli amici, si usano esprimendo a noi stessi i nostri pensieri, si fa il proponimento di usarli parlando coll'uno o coll'altro di quelle determinate cose, si masticano, si mandan giù, si rimestano, si fatica, in una parola, per imparare l'italiano, almeno almeno come si fatica per imparare il francese.
* * *
E poichè ho accennato a una lingua straniera, cade qui a proposito un'altra osservazione. Da qualche anno in qua lo studio delle lingue straniere è diventato comunissimo in Italia. Un gran numero di giovani dei due sessi, e di tutte le classi sociali, si sono dati, per completare la loro istruzione, allo studio della lingua inglese e della lingua tedesca. (Non parlo della francese perchè si può dir quasi necessaria, come non parlo di coloro che studiano quelle altre lingue per necessità). Or bene io mi domando se questo studio dà, nella massima parte dei casi, un frutto corrispondente alla fatica che costa; un frutto cioè, che equivalga a quello che si ricaverebbe da uno studio della lingua propria fatto in egual tempo e colla medesima alacrità.
Ne dubito.
Prima di tutto, non potendo o non volendo la maggior parte di coloro che studiano quelle lingue, studiarle scientificamente, questo studio si riduce per essi a una pura fatica della memoria, a un esercizio di pazienza, a uno sgobbo scolaresco, che giova pochissimo all'ingegno, per non dire che lo mortifica e che lo rintuzza. Poi c'è un argomento di fatto che vale più d'ogni altro contro questi studî; ed è che di trenta persone che cominciano a studiare, per esempio, il tedesco, quindici si scoraggiscono e smettono in capo a un anno o a sei mesi; cinque l'imparano, e lo dimenticano poi, in tutto o in parte, perchè le vicende della loro vita li costringono a trascurarlo; altri cinque non lo dimenticano, ma non hanno occasione di servirsene utilmente, o perchè non possono viaggiare, o perchè non hanno tempo e attitudine a fare altri studî di cui la lingua per sè stessa non è che la chiave; e degli ultimi cinque infine, ce ne saranno tutt'al più tre che giungono a possedere questa lingua in maniera da poter gustare (gustare, intendiamoci, non capire soltanto) i buoni autori tedeschi. Perchè io comprendo come a un medico, a un fisico, a un ufficiale (e sottintendo i dotti di professione), metta conto di studiar tanto il tedesco da riuscire a comprendere ciascuno i libri della sua scienza, perchè di questa lingua a loro non occorre di conoscere che una parte, ossia non più di quanto è necessario per afferrare il senso dei loro libri speciali, e a ciò possono pervenire in breve tempo. Ma è tutt'altra cosa per un giovane che voglia imparare quella od altre lingue, come suol dirsi, per ornamento, il che gl'impone l'obbligo di farne uno studio vasto e profondo, in modo da riuscire a godere tutte le bellezze riposte, a sentire tutte le armonie, a toccare, per dir così, tutte le fibre della poesia del Goethe, dell'Heine, dello Shakspeare! E quanti sono quelli che dicono di toccarle, e leggono poi di soppiatto le versioni del Maffei e dello Zendrini, e non godono veramente Shakspeare che nei versi del Carcano!
Credo una gran verità che non si possa dire esservi in un paese vera coltura se non ci fioriscono gli studî filologici; ma ha da essere lo studio della filologia, ossia la vera e buona scienza di pochi od anche di molti; non una manía universale di legger male e di balbettar peggio tre o quattro lingue straniere.
Invece di faticar tante ore a inchiodarsi nel cervello migliaia di radicali e di frasi esotiche, imparate le quali, il pensiero straniero si presenta pur sempre velato alla loro intelligenza, quanto sarebbe meglio che molti giovani si consacrassero allo studio amoroso e costante della propria lingua! Può essere una soddisfazione il saper sostenere, tiranneggiando il proprio pensiero, una conversazione di mezz'ora con una persona nata cinquecento miglia lontano da noi; ma è certo una soddisfazione più intima il saper trovare ogni momento, parlando la lingua materna, una formola evidente e gentile in cui il proprio pensiero s'adatti e risplenda come una gemma nell'anello; il poter rendere e stampare nell'anima altrui le più tenui sfumature dei nostri sentimenti; vedere il volto d'una persona che s'ama rispondere via via con una gradazione più viva di roseo ad ogni nostra espressione che giunga più dritta al cuore e lo rimescoli più addentro con una punta più delicata; rivelare a persone sconosciute, con poche parole fuggitive, il nostro grado di cultura; colorire e illuminare tutte le nostre idee; e infine essere italiani di lingua come s'è italiani di cuore.
* * *
Questi saggi d'appunti intorno al mangiare, al commercio, al parlare, ai ritratti, ai bambini, possono dare un'idea di quanto si sarà acquistato nello studio della lingua quando si sia fatto altrettanto riguardo a una trentina d'altri soggetti, intorno ai quali si può raggruppare, man mano che si procede nella lettura del vocabolario, la maggior parte di quello che si nota. Per conto mio non conosco mezzo più spiccio, nè più facile, nè più profittevole.
UNA PAROLA NUOVA
Tocchiamo di volo, con un esempio, la molto agitata questione delle parole nuove.
Scrivendo intorno a un paese dell'Europa settentrionale, dove l'arte dello scivolare sul ghiaccio è in grandissima voga, dovevo parlare molto minutamente di quest'arte, e non vedevo modo di parlarne senz'adoperare la parola patinare e le sue derivate, che non si trovavano allora in alcun vocabolario italiano[1]; e mi peritavo ad adoperarle, prevedendo che i puristi, ed anco i non puristi, i quali qualche volta sono assai più pedanti, m'avrebbero dato sulle dita. Prima di mettere sulla carta quelle terribili parole, mi rivolsi a un linguista rigorosissimo, di quelli a cui un lui messo invece d'un egli manda a male il desinare, e gli domandai con umili parole il suo parere.
— Non ci può esser dubbio, — mi rispose, — patinare è una parola barbara; bisogna scrivere sdrucciolare.
— In teoria — dissi, — consento; ma nel caso pratico.... Per esempio, scriverebbe ella che un contadino olandese sdrucciolò dall'Aja ad Amsterdam e che uno studente di Leida sdrucciolò per tre ore di seguito?
— E perchè no? mi domandò il linguista con accento severo.
— Le citerò degli altri esempî, — continuai; — direbbe ella in una conversazione che una certa signora sdrucciola, che ha l' abitudine di sdrucciolare, che sdrucciolò molte volte nello scorso carnevale?
Il linguista strinse le labbra e rimase sopra pensiero.
— Vede, — io ripresi, — che ne potrebbero nascere delle conseguenze spiacevoli. Ma lasciamo pur da parte questi esempi a doppia faccia. Io le voglio fare un breve ragionamento. A Torino e a Milano moltissime signore patinano, e la maggior parte di esse tengono conversazione; e nelle loro conversazioni si parla di patinamento, usando le parole patino, patinatrice, patinatore. Orbene, risponda alla mia domanda, e sia franco. Dovendo fare in una di queste conversazioni un complimento alla padrona di casa ch'ella avesse visita patinare il giorno prima, di quale parola si servirebbe? Intendo un complimento a voce, in presenza di molta gente, badi bene.
Il linguista esitò un momento e poi disse:
— Certo che.... se io dicessi brava sdrucciolatrice.... anche rimossa ogni idea d'equivoco.... quei signori.... e forse anche la signora.... si metterebbero a ridere; ma, caro signor mio, qui si tratta di scrivere e non di parlare!
— Ma che Dio la benedica, caro signor linguista, — io esclamai; — ma per chi si scrive, dunque? e che altro è lo scrivere che un parlare colla penna? e perchè una parola non deve essere più quella quando è messa sulla carta? Veda, nessuno mi leva dalla testa che sia appunto questo falso concetto delle due lingue, la parlata e la scritta, la cagione principalissima della poca leggibilità dei libri italiani. Faccia la prova lei che parla perfettamente la così detta lingua povera. Apra un qualunque buon libro francese, legga supponendo di parlare in una conversazione di gente colta e senza pedanteria, e vedrà che rarissimamente le occorrerà una parola o un'espressione che strida colla naturale e logica semplicità del linguaggio parlato. Pigli un libro italiano anche dei meglio scritti, e se supporrà di dire ella stessa quello che legge, dovrà arrossire ogni momento. Guardi, apro a caso il primo libro che mi vien sotto le mani, è un romanzo: — Quando primamente si guardò nello specchio.... Oserebbe ella dire in una conversazione: quando primamente mi guardai nello specchio, invece di dire la prima volta? Apro un altro libro, una novella: — Deposi sulla tomba dei miei genitori una semplicetta corona di fiori. Crede ella che ci sia mai stato un orfano in Italia che abbia espresso quel pensiero servendosi della parola semplicetta in quella maniera? Un altro libro, un racconto: — La leggiadra e innamorata fanciulla.... Crede ella che ci sia mai stato un italiano ragionevole il quale abbia una volta sola in vita sua, altro che per ischerzo, dette quelle tre parole in quell'ordine?
— No, — rispose il linguista; — ma....
— Ma, — ripresi io, — che cos'è dunque questo arsenale di frasi e di parole che non si possono dire senza far ridere e che si scrivono nelle scritture più famigliari, come se passando dalle labbra sotto la penna, cambiassero senso, suono, natura? E viceversa che cosa sono tutte queste parole che tutti dicono, che tutti capiscono, che tutti sono costretti a usare, e a cui nessuno può sostituirne dell'altre senza farsi canzonare, e che malgrado ciò, secondo lei, secondo mille altri, non si debbono scrivere? Ella mi potrà dire, a proposito del patinare, che questa parola si dice nell'Italia settentrionale ma non in Toscana; e io le rispondo che non è colpa dell'Italia settentrionale se nella Toscana non si patina, primo; e secondo, che sono disposto a scommettere cento contr'uno che in nessuna città di Toscana, in nessuna conversazione, nessunissima persona domanderebbe mai a un Torinese o a un Milanese se quest'anno, per esempio, si è sdrucciolato o scivolato al Valentino o nell'Arena, ma domanderebbero tutti se si è patinato; e quelli che ignorano questa parola, dopo averla intesa per la prima volta, l'adopererebbero costantemente per la semplice e indiscutibile ragione che è necessaria.
Il linguista stette un po' pensando e poi disse:
— Eppure.... un'altra parola ci deve essere. Il Bentivoglio, nella sua Storia della guerra di Fiandra, parla di quest'arte di sdrucciolare sul ghiaccio. Si ricorda ella della parola che usa?
— Me ne ricordo, caro signor mio. Non adopera veramente nessun verbo che si possa sostituire al patinare, perchè tocca la cosa di volo, e toccando una cosa di volo si può sempre esprimersi con una perifrasi. Ma sa ella come se la cava l'eminentissimo cardinale per indicare i patini? Gli Olandesi, scrive, si mettono ai piedi certe, dirò così, ali! Pare a lei un'azione da galantuomo il chiamare ali degli zoccoli?
— Ebbene... adoperi la parola patinare in carattere corsivo.
— Così fece il Giusti, risposi. Ma quest'uso di scrivere le parole in corsivo non mi va; mi pare una transazione puerile; eccetto che la parola così scritta non debba essere adoperata che una volta sola. Seguendo quest'uso si verrebbe a poco a poco a veder dei libri stampati metà in corsivo e metà no, e ad avere una lingua doppia, bastarda, ridicola. Che significa il corsivo? Che riprovate la parola. Se la riprovate perchè l'usate? Perchè non ce n'è altra. E se non ce n'è altra, perchè riprovate quella?
La conversazione non terminò qui; ma non approdò a nulla perchè il linguista non ebbe il coraggio di dare il suo consenso assoluto alla parola patinare. Allora mi rivolsi a uno scrittore e parlatore elegantissimo, — un uomo che il Giusti diceva pieno zeppo d'ingegno e del quale il Manzoni faceva grandissimo conto in materia di lingua, — e questo signore ebbe la bontà di scrivermi la lettera che segue:
«E il suo patiner? Ella ha senza dubbio preso a quest'ora il suo partito, e io mi sarei trovato molto impicciato a suggerirgliene uno. Che vuole! Il bimbo si battezza dove nasce, e poi gira il mondo portando attorno per tutto il suo nome. Così le cose che a noi vengon di fuori ci vengono col nome che hanno, e la parola che è stata per noi il mezzo di cognizione, il più delle volte rimane. Per questo non c'è la minima difficoltà in nessuna parte del mondo, e consommé, per dirne una, è parola di tutte le lingue, che si dice a Londra e a Pietroburgo come a Parigi. Noi italiani facciamo prima le boccacce e ci proviamo chi in un modo e chi nell'altro a tenere indietro queste parole forestiere, e a peggio andare, per non usare la parola scansiamo di nominare la cosa. Ma le sono ubbie queste, e i fatti son fatti, e sono all'ultimo i padroni del mondo. La conclusione è che noi abbiamo dato agli altri le parole finchè abbiamo dato le cose. Ma ora che di maestri siamo diventati discepoli, invece di dare prendiamo, e questo è sempre meglio che nulla. Io direi dunque patinare essendo questo il solo modo di dire la cosa. Non volendo passare sotto queste forche, uno scrittore ha sempre modo di uscirne. Si descrive, si definisce invece di nominare. Si pigliano vocaboli che hanno un senso affine, e con qualche aggiunto, o colla loro collocazione, si fa tanto che il lettore capisce quello che s'è voluto dire; ma capisce insieme che la parola venuta alla bocca non era quella, e che l'autore ha dovuto stillarsi il cervello per trovarne un'altra, la quale sarà in ogni caso una traduzione più o meno felice della prima, che un altro rifarà poi a suo modo, più o meno felicemente; cosicchè invece d'aver un modo spiccio, sicuro, comune, se n'avrà molti, anzi nessuno, perchè i molti e il nessuno son pure sinonimi quando si parla di lingua.»
Dunque? Dunque io direi d'aver sempre presenti, in fatto di lingua, questi due detti: uno del Leopardi, l'altro del Giusti.
Il Leopardi, domandato da suo fratello Carlo se una certa parola, che non si trovava nei buoni autori, si potesse usare: — È vero, — rispose, — che i buoni scrittori non l'hanno usata; ma non hanno nemmeno lasciato per testamento che non si potesse usare.
E il Giusti, a proposito di diligenza, parola francese, che, a suo avviso, aspettava cittadinanza dalla Crusca e la doveva ottenere perchè il
cambio delle voci
Fra gente e gente, come l'ombra al corpo,
Tien dietro al cambio delle cose umane
disse:
Nè straniero vocabolo corrompe
L'intrinseca virtù d'una favella
Quando lo stile riman paesano.
Ammessa questa massima, ci sarebbe da divertirsi a raccogliere tutte le espressioni e i vocaboli ricercati e ridicoli che usarono gli scrittori troppo teneri della purità per scansare le frasi e le parole nuove. Per esempio il Tommaseo esprime l'idea della giustezza, o come si dice militarmente, della precisione del tiro delle artiglierie, dicendo che i cannoni con dottamente computato émpito mandano la strage nelle mura merlate. L'Ugolini suggerisce di dire viene da ornarsi, sta ad ornarsi, vado ad ornarmi, invece di viene dalla toeletta, sta alla toeletta, va a far toeletta. Ma, signor Ugolini, io gli vorrei dire se avessi l'onore di conoscerlo, mi può ella giurare che se una signora di sua conoscenza dicesse a lei: — m'aspetti un momento, vado ad ornarmi, — ella non dovrebbe fare un leggiero sforzo per trattenersi dal ridere? — Così un dotto, ma troppo tenace purista, voleva che in scritti destinati principalmente ai soldati, io scrivessi drappello invece di plotone, berretto invece di cheppì, fiaschetta invece di borraccia. Ma se non posso — io badavo a rispondergli; — perchè il plotone non è un drappello, il berretto non è un cheppì, la borraccia non è una fiaschetta; — e se adopero una parola per l'altra, non mi capiscono più. — Non importa, — avrebbe voluto rispondermi; ma non osava, e non volendo d'altra parte rendersi complice dei miei barbarismi, si stringeva nelle spalle e mi lasciava nelle peste.
O Dio buono! Altro è dire in un vocabolario, in un trattato, in un elenco di modi errati, questa parola non va e questa frase è barbara; altro è dover esprimere quella tal cosa in una commedia, in una novella, in un qualunque scritto destinato al pubblico, dove una perifrasi sciupa una bella idea, un'espressione non immediatamente compresa manda a male un dialogo, una parola affettata o vaga o equivoca guasta tutta una descrizione. Per dare degli esempi di difficoltà superate, si citano le prose di questo o di quello, che trattano di storia, di letteratura, di morale, e si dice: — Trovateci una parola o un modo impuro, se potete. — Non ci si trova, lo so benissimo. Ma vorrei che questo e quello scrittore avessero raccontato un viaggio in strada ferrata, descritto un salotto alla moda, riferita una conversazione di signore, rappresentato un accampamento di soldati, e scritto tutto questo con spontaneità, grazia ed efficacia, senza farsi cogliere in fallo dai puristi: allora sì che mi rimetterei e mi darei del bue. Ma dove sono i modelli di questo genere di scritti? Andiamo, via; allarghiamo un po' la manica e facciamo a compatirci.
CONSIGLI
( Risposta a un giovanetto ).
.... Vi dirò quello che per mia esperienza ritengo utile; ma vi prego di credere che non ho nessunissima pretensione d'insegnare. Voi, probabilmente, vi sarete già formato un parere; io v'espongo il mio. Se saremo d'accordo, tanto meglio; se vi parrà che io sbagli, darete una scrollatina di spalle, e non ci terremo il broncio per questo.
Il primo consiglio che vi darei sarebbe di far i bauli e di prendere il treno di Firenze. Se potete far questo, non m'occorre di dirvi altro per ora: vi riscriverò a Firenze. Ma se, com'è più probabile, non potete, ecco ciò che io farei se fossi in voi. Prima di tutto mi stamperei bene nella testa che lo studio della lingua è uno studio che richiede molto tempo, molta pazienza e molta regolarità: mezz'ora tutti i giorni giova più che due giorni interi ogni due settimane. E farei e cercherei di mantenere i seguenti propositi: — Parlare il meno possibile il mio dialetto. — Parlando italiano, parlar sempre con cura, sorvegliare sempre me stesso, e purgare il mio linguaggio di tutti i grossi errori di grammatica e di proprietà, non avvertiti, che sfuggono nella maggior parte d'Italia a quasi tutte le persone colte. — Terzo, correggere e perfezionare la mia pronunzia: il che può far benissimo un italiano di qualunque provincia, senza cadere nell'affettazione e senza riuscir ridicolo, purchè lo faccia a poco a poco e non lasciando apparire lo sforzo. — Per riuscire a scriver bene non mi pare che ci sia mezzo migliore che quello di cominciare a parlar bene, poichè se è vero che lo scrivere è un parlare pensato, chi parla bene non avrà più, pensando per scrivere, che da perfezionare, mentre chi parla male, dovrà far doppio lavoro: ossia evitar di scrivere gli spropositi che gli escono abitualmente dalla bocca, e poi con un secondo sforzo della mente, fare quello che l'altro fa alla prima. Ora, non capisco come si possa riuscire a parlar bene senza pronunziar bene, poichè mi pare che qualunque più bella espressione italiana perda della sua efficacia se è pronunziata coll'accento e i suoni del dialetto; e la perde non solo per chi ascolta, ma anche per chi parla.
Dopo questo farei una volta per sempre la fatica di leggere e di annotare tutto il vocabolario, e lascerei che i grulli ridessero di questa pedanteria. L'ha fatta il Manzoni, l'ha fatta il Grossi, l'ha fatta Teofilo Gautier, il più colorito e più ricco scrittore della Francia; e non erano pedanti. Farei così: raggrupperei tutti i vocaboli e modi notati nel vocabolario intorno a un certo numero di argomenti: per esempio, campagna, arte, industria, morale, architettura, vestiario, movimento, affari, affetti, ecc.; e intorno a ognuno di questi argomenti raccoglierei poi a mano a mano tutto quello che mi verrebbe fatto di notare nei libri. Un quaderno dunque! Uno sgobbo da scolaretto! E sia pure. Capisco che molti ridono di queste cose, e dicono che bisogna studiare in una maniera più larga. Ma mi consolerei pensando che in questa maniera stretta studiarono la lingua il Monti, il Foscolo, il Leopardi, il Giusti, il Guerrazzi; che, poveretti, credevano ancora ai quaderni. Ma che norma seguire nell'annotare e nello scegliere? Non lo so dire. In certe cose non si possono dar consigli. Io sceglierei ciò che mi bisogna e ciò che mi piace. Vi son parole e modi antipatici a uno, simpatici a un altro. Chi li trova antipatici non li adopera mai quand'anche li veda adoperati da tutti. È dunque inutile che li noti e li ritenga a mente. Per esempio, vi sono degli scrittori che per cento lire non scriverebbero ad ogni piè sospinto. Ma è italiano! direte. Lo so, — vi rispondono; — ma lo detesto. — Il gusto deve andare innanzi a tutto. Quindi in questo lavoro di scegliere vocaboli e modi, ciascuno deve fare quello che gli pare. Se fa male, ossia contro il gusto dei più, peggio per lui; non c'è altro da dire.
Dopo il vocabolario, i libri. Io leggerei quasi esclusivamente libri toscani, anche quei di poco o nessun valore per la sostanza, perchè in un libro scritto da un toscano c'è sempre, in fatto di lingua, qualche cosa da imparare; intendo di dire qualcosa di speciale, come diceva il Grossi, di vivo, che non si trova negli scritti più forbiti degli altri italiani. Tra questi libri toscani, ne sceglierei alcuni, od anche uno solo, da leggere ad alta voce o da farmi leggere mezz'ora tutti i giorni. Conosco un tale che scelse l'epistolario del Giusti. Ci sono molte affettazioni, molte smorfie; v'è in qualche punto la caricatura della naturalezza; v'è spinto sovente fino all'eccesso quello ch'egli chiamava il parlare da serve o parlare alla casalinga, il contrario di quello definito da lui: — parlare tirato a chiaro d'ovo di grammatica e di vocabolario. — Ma è tanto ricco, tanto sciolto! v'è un fare così da padrone che, a studiarlo con discernimento, ci si può imparare più che in cento altri libri inappuntabili. Ma bisogna tempestarci su molto tempo, — anni ed anni, — ogni giorno un po'; — bisogna digerirlo e ridigerirlo; — empirsene la testa e gli orecchi in modo che tutti i momenti, a tutti i propositi, ci vengano alla memoria e sulle labbra quei modi, quei suoni, quei periodi. E questo si può dire di tutti gli altri libri. Leggerne pochi, ma con infaticabile perseveranza, fin che vengano a noia; fin che, lasciando cader gli occhi sopra una pagina qualunque la memoria precorra lo sguardo, e torni quasi inutile proseguire la lettura. E studiare a memoria molto e ridire ad alta voce le cose studiate, fin che s'è molto giovani, come scrisse Giacomo Zanella; perchè a una certa età questa fatica si può continuare a farla se si è sempre fatta; ma non si comincia a fare a caso vergine; e chi non possiede una buona quantità di lingua prima dei venticinque anni, è raro che l'acquisti dopo.
Il difficile è il ritenere, l'appropriarsi così intimamente i vocaboli e i modi che si vanno via via notando, da averli poi pronti, spontanei quando si parla o si scrive. Per ottenere questo ci vuole una certa industria. Conosco uno che oltre al notare parole e modi nel suo gran quaderno a colonne, li scriveva, via via che gli occorrevano, sul margine dei libri, sulle buste delle lettere, sulle assicelle degli scaffali, sulle porte, sui muri, sui giornali; tanto che nella stanza dove studiava, in qualunque punto fissasse gli occhi, vedeva una nota e se la rinfrescava così nella memoria. E qualunque parola o modo notasse, lo riferiva immediatamente, nel suo pensiero, a qualche persona o cosa che gli occorresse di vedere o di fare abitualmente nella giornata. Legava ogni parola a un'immagine, ogni frase ad un fatto, e se ne serviva il più presto possibile in una lettera o in una conversazione per istamparsela in mente, per mettervi, in certo modo, il suo suggello, per impiegarla subito nella sua casa. E dedicava ogni giorno una mezz'ora a rimestare, a combinare, a logorare, sto per dire, le sue note. Si formava coll'immaginazione un personaggio qualunque e scriveva di lui, per esempio, una tiritera come questa: — mi pareva un galantuomo; feci fondamento sopra di lui, e non credevo di fidarmi sul vento; oltrechè mi parve che fosse un uomo di ricapito, benchè sapessi che era anche un uomo dei suoi comodi o dei suoi piaceri. Ma m'ingannai e alla prima occasione mi girò sotto. Gli scopersi mille difetti. Prima di tutto è avaro; ha il granchio alla borsa, ha la gotta alle mani, paga colle gomita, sta sul tirato, vive a stecchetto; ma è pure ambizioso, e camperebbe con uno stecco unto per scialare fuori di casa, ecc. Accortosi che l'avevo preso in tasca, si ruppe con me, me l'ha giurata addosso, è nero con me, ha il sangue guasto con me, s'è guastato con me, si lava la bocca di me, gira largo quando mi vede, ecc., ecc. — Tutti questi modi, estratti dalle sue note, combinava poi un altro giorno in un altro modo intorno a un altro soggetto, e studiava a mente quello che aveva scritto. Lo capisco; è una fatica uggiosa, non se ne tocca con mano il frutto che dopo molto tempo, alle volte se ne riman quasi umiliati, sovente si perde il coraggio. Ma bisogna perseverare, esser cocciuti, volere fermamente e a qualunque costo, e vien poi il giorno in cui s'è contenti di non aver ceduto. Se non costasse lunghe e penose fatiche l'imparare a scriver bene, i libri leggibili sarebbero più numerosi di quello che sono.
Scrivendo, però, io mi sforzerei di dimenticare tutte le mie note e tutti i miei esercizi. Presa la penna in mano, non frugherei più nella mia memoria. Quello che deve cader sulla carta, deve cader da sè. Tutto ciò che è cercato è quasi sempre ricercato. È inutile tentar d'ingannare il lettore. Anche il lettore meno perspicace ha un senso finissimo che lo avverte d'ogni menoma affettazione, e gli fa discernere nettamente la parola e il modo scritto spontaneamente da quello tirato fuori cogli uncini dai magazzini della memoria. Tutto ciò che non vien sulle labbra parlando è difficile che venga a proposito sulla punta della penna. Per questo ripeto che il migliore esercizio da farsi per imparare ad usar la lingua è quello di parlare. Parlando s'ha sempre un giudice la cui fisonomia accusa involontariamente con moti appena percettibili, ma di significazione non dubbia, tutte le affettazioni, tutte le lungaggini, tutte le oscurità del vostro linguaggio. Un ascoltatore è il miglior maestro di semplicità, di rapidità e d'efficacia.
Resta la quistione delle parole nuove. Io direi che non mette conto di parlarne. Fa bene a occuparsene, piuttosto di non far nulla, chi non ha altro da fare. Quello che importa è che la frase, l'andamento, il giro del periodo, l'impasto della lingua sia italiano. La quistione delle parole dubbie, ammesse da Caio, respinte da Tizio, è un puro perditempo. Anzi, in queste cose, vi consiglierei di evitare le discussioni. In fatto di lingua le discussioni non approdano per lo più a nulla e non fanno che guastare il sangue, perchè in questa materia (strano a dirsi) la gente più modesta ha un amor proprio ombroso, ostinato, intrattabile. È impossibile, credo, trovare un italiano, anche digiuno d'ogni studio di lingua, il quale in una questione di parole si lasci persuadere da chi ne sa più di lui. Non c'è usciere piemontese che non si creda in grado d'insegnare un po' di vero italiano a un accademico della Crusca, e voi non potete immaginare quanti maestrucoli di villaggio danno di ciuco al Manzoni. A che giovò per esempio, la discussione promossa dal povero vecchio, come dicevano i suoi avversarî, sull'unificazione della lingua? Abbiamo visto saltar su da tutte le parti dei linguaiuoli furiosi che ripeterono per la centesima volta le loro vecchie ragioni, abbiamo sentito dire molte impertinenze, siamo ricaduti fino agli occhi nei vergognosissimi pettegolezzi comareschi dei tempi andati; e ognuno è rimasto del proprio parere. La questione della lingua bisogna risolverla colla pratica. Un buono e bel libro scritto secondo le teorie del Manzoni, val più di cento discussioni. Ciascuno scriva come crede che si debba scrivere, senza pretendere di dettar la legge agli altri; il pubblico vedrà da sè dov'è la maggior evidenza, la maggior grazia, la maggior ricchezza; e la miglior teoria trionferà a poco a poco, tacitamente, senza bisogno che ci pigliamo pei capelli. Quello che importa sopra ogni cosa è di studiare tenendo sempre ferma questa sacrosanta verità nella testa: — che senza molta fatica e molta pazienza non si riesce a nulla in nessuna cosa; e che anche studiando molto, lo studio della lingua è uno studio di tutta la vita, come tutti gli altri studi; e che chi lo sberta come una pedanteria che ammazza l'ingegno, è un fiaccone che non ci s'è mai messo, o un corbello che non l'ha mai capito.
IL VIVENTE LINGUAGGIO DELLA TOSCANA
I.
Ho riletto in questi giorni il libro di Giambattista Giuliani intitolato Moralità e poesia del vivente linguaggio della Toscana (Successori Lemonier, terza edizione); e ho riprovato la doppia soddisfazione che dà ogni libro veramente bello e veramente utile. Son certo che molti dei miei giovani lettori lo conoscono; ma dubito che molti abbiano avuto la pazienza di postillarlo, di trascriverne i tratti più notevoli, di ordinare le note, di spremerne il sugo in modo da poter mettere il libro da parte colla sicurezza d'averne ricavato il maggior vantaggio possibile. Per questo, credo che non riusciranno inutili le pagine seguenti. Propongo, in somma, a quelli fra i lettori che studiano con amore la lingua, di leggere, o rileggere, il libro del Giuliani in compagnia d'uno che può risparmiar loro una parte della fatica che avrebbero a durare per far quella lettura da soli e con profitto.
Questo libro è quasi tutto composto di discorsi, di frasi, di parole raccolte dalla bocca di contadini e contadine delle varie provincie toscane. Il Giuliani ci ha lavorato molti anni. Girò tutta la Toscana, soggiornò nei villaggi e nelle borgate, s'affratellò coi campagnuoli, ne studiò i lavori e i costumi, e a furia d'interrogare e di notare, mise insieme il suo libro, che è una miniera di purissima lingua. E non di lingua soltanto, perchè son contadini e contadine che parlano d'agricoltura, delle loro famiglie, dei loro amori, delle loro disgrazie; quindi c'è racconto, descrizione, affetto. Letto questo libro, par di essere vissuti un anno in quelle beate valli popolate di case e d'oliveti, e d'aver conosciuto quel buon popolo schietto e cortese; e per molto tempo rimangono nella mente quei vignaiuoli, quegli opranti, quei carrettieri, quei cacciatori, quelle fattoresse, quei garzoni, quelle nonne, quelle spose, quelle ragazze, colle quali s'è discorso alla sfuggita, come tanti personaggi di un romanzo.
Io non credo che ci sia al mondo altro popolo contadinesco, — per servirmi delle parole del Giuliani, — il quale parli una lingua così gentile, così potente, così splendidamente poetica come quella parlata dal popolo della campagna toscana. Certuni (non toscani, s'intende), leggendo questo libro sono stati presi qua e là dal dubbio che non fosse tutta farina dei contadini. — Certe idee, — dissero, — certe frasi son troppo belle, troppo poetiche per dei contadini. — Io penso invece che sono tanto poetiche e tanto belle da non poter sospettare che siano di Giovanbattista Giuliani, per quanto egli abbia ingegno e buon gusto. E dico il vero: se fossi sicuro che il racconto intitolato Tre vittime del lavoro, compreso nel libro di cui parliamo, non è stato scritto, quasi sotto dettatura della contadina Teresa e del pastore Domenico Nesti, ma steso per intero, e per sola forza d'immaginazione, dal signor Giuliani, piglierei questa sera il treno diretto di Firenze per andare ad abbracciare il degno abate e gridargli ch'è il primo scrittore d'Italia; tanto io credo che quel meraviglioso racconto sia al di sopra delle forze di qualunque ingegno, anche toscano, e che la natura sola l'abbia potuto dettare.
E poi giudicheranno i lettori, non di quel racconto, ma dell'altre cose. Spigoleremo nel volume del signor Giuliani. Gran lavoro davvero da riempirne le pagine d'un libro! Ma qui si tratta di spigolare riordinando. Il ritenere le cose di lingua dipende in gran parte dall'ordine col quale ci si presentano. Nel libro del Giuliani, composto in gran parte in forma di vocabolario, si trovano discorsi, frasi, immagini di natura svariatissima, l'una sull'altra, alla rinfusa. Nella stessa pagina, tre persone diverse parlano d'agricoltura, d'amore e di morte. Noi procederemo in un'altra maniera. Di più, non cogliendo altro che il fiore delle tante bellezze sparse in quel libro, lasceremo da banda quella parte di lingua, ed è moltissima, che riguarda esclusivamente l'agricoltura dal lato tecnico, e che perciò riuscirebbe inutile al maggior numero dei lettori.
Cominciamo dalle espressioni poetiche del linguaggio del dolore, dell'amore e d'altri sentimenti. Molte volte rimarremo meravigliati del pensiero, non meno che della forma. Una contadina della montagna pistoiese, per esempio, parlando degli ultimi giorni d'una sua conoscente, morta poi di malattia, dice che aveva la carne già morta e lo spirito sempre vivo...; che le morì la carne addosso prima ancora che se ne fosse ita con Dio. Un'altra contadina della stessa montagna dice che quando il dolore è di quello cocente, la parola resta dentro: espressione di cui si ammirerebbe la potenza se si trovasse in un verso di Dante. — Una contadina senese dice le seguenti parole che a me paiono sublimi: La mamma io la perdetti ch'ero piccolina; a ogni modo mi par di mentovare un gran nome! — A casa, — dice un'altra pistoiese, — ci sta il nonno, che gli voglio un bene all'anima. Sempre sotto la sua ombra mi son riparata. — Un'altra, parlando d'un figliuolo morto: — La morte, come fa presto! Non si sa la mattina quando ci si leva, se si finisce il giorno.... Ma Dio ce li dà in pegno i figliuoli; a tutte l'ore li puole ripigliare, e bisogna renderli. — Una donna del Casentino, raccontando un suo sogno d'una passeggiata fatta colla bambina che poi le è morta: — Per la strada non si faceva altro che coglier fiori e fiori, parea fosser nati a bella posta per noi: era un non so che d'allegria per tutto. — A volte, — dice un'altra di Valdensa, — m'arrabbierei dalla disperazione; ma Dio è misericordioso, e ci svia la mente da queste tristizie. — Un'altra madre: — A noi mamme ci costano sangue tutti a un modo i figliuoli. C'è n'è tante che non se ne rifanno a mancargli un figliuolo. Tutti non si nasce d'una stampa; le dita delle mani non son mica tutte compagne. — A rifletterci bene, dice una contadina di Montamiata, — è proprio vero, il mondo è una catena continua d'amore: s'esce d'un amore e s'entra in uno più grande a pigliar marito. — Un cieco delle montagne di Siena dice: — perso gli occhi, perso il mondo; la luce è la bellezza della vita. — Un'altra madre del Casentino dice dei suoi figliuoli morti: — Mi ricordo di quando li avevo tutti e due; come brillavano! allora sì che quella era vita!... Senza la vista degli occhi (era diventata cieca) si è più di là che ili qua, sparisce il meglio della vita. — Un'altra madre: — Quando cominciano a chiamare babbo, mamma, anco che non lo scolpiscano bene bene, è una tenerezza che ci cascano i lucciconi (lagrimoni) ridendo.... — Quando c'è l'amore, — dice un'altra, — tutto passa! Quello sì che è proprio un accorda cristiani! — Ed altre, parlando sempre dei figliuoli: — Le darei il fiato per tenerla viva — Che almeno la rivegga in paradiso! Mi reggo viva in questa speranza. — Sebbene fossi più di là che di qua, l'avere il mi' figliuolo daccanto nel letto, mi pareva di essere più degna di stare nel mondo, ecc.
Ecco ora un saggio d'altre espressioni più brevi di dolore e di affetto tolte qua e là dal libro e riferite tali e quali. Non dimentichiamo mai che son contadini e contadine che parlano. — Era una vista che levava il pianto dal cuore. — Sono dolori che ne va la vita. — Quando viene un rimescolo di sangue l'uomo non scerne più il bianco dal nero. — Sono pene di morte che fanno andare il cervello in aria. — Mi consumavo dentro. — Mi sento schiantar dentro dalla passione. — È un pensiero che mi pesa sull'anima. — È un coltello che m'ha passata l'anima. — È una disgrazia che m'ha ferita a morte. — Se non fossi in mano di Dio, sarei già morta sfatta dal dolore. — Una puntura, per forte che sia, finisce presto, basta che non arrivi al cuore; ma feriti al cuore, addio: è una morte da vivo; non si guarisce più. — Li ricordo quei giorni! Li ho contati a goccie di sangue, li ho contati. — Parea distrutta dalla gran passione. Vede quel sasso? Tant'era lei. — E Teresa? Oh quella sì che il dolore le s'è fitto nell'ossa! — Vedevo lui ( il marito morto,) e mi pareva volesse dir tante cose, e non poteva; che strazio è stato il mio! — Spasimava tra la vita e la morte. — Mi si travolse il cervello. — Mi pareva di non aver più senso di nulla. — Ero un turbine di dolore, ecc.
Ma nulla di più gentile e di più caro che il linguaggio d'amore. — «M'ero messa a certi arrischi per vederlo (dice una contadina della montagna pistoiese parlando del suo damo, che fu poi suo marito) che a ripensarci mi s'accapona la pelle. Bastava mentovarmi il mio damo, io ero gelosa di tutte e di tutto. Mi pativa il cuore, che l'aria me lo guardasse. La prima volta che lo vidi, mi principiò subito a garbare.» — Un giovane contadino di Val di Greve dice: — «Io per me tra 'l lavoro penso alla mia dama, non sento manco la fatica, tutto mi piace; è un gran gusto quando c'è l'amore che rischiara la giornata.» Una contadinella, parlando del suo innamorato: — «Quando si va in chiesa, quanti ne passa e quanti ci entrano, il più bello di tutti è lui: pare un fiore, che lo distinguo tra mille. Anche se mi ritrovo alle feste e che ci sia lui, lo vedo sopra tutti; gli voglio bene; il cuore non mentisce.» — S'ha un bel dire, ma non c'è barba di scrittore che valga a mettere insieme di queste parole. Un'altra, una contadina di Crespole, racconta così l' andamento del suo amore: — «La prima volta che vidi il mi' omo, era la festa della Madonna delle Grazie. Un giorno fra gli altri venne da me una mi' zia e mi chiama: Vien qua, Betta, senti, t'ho da dire una cosa: c'è quel giovinotto di Vellano, che t'ha visto in chiesa, ti ricordi? Ti conobbe tanto allegra e con quel sorriso (bellissimo!) che t'ha messo gli occhi addosso; e finchè t'ha potuto vedere, t'ha guardato e ha detto: Quella è la ragazza che fa per me; la voglio pigliar per moglie, mi garba troppo.» — Una ragazza di Cutigliano scrive al suo amante: — Anche solo a poter prendere qualche boccata d'aria dove tu respiri, sarei contenta. — La stessa, in un'altra lettera, temendo d'essere abbandonata: — «Rammentati bene che v'è un Dio sopra di noi, che se tu avessi il cuore voltato a tradirmi, non te ne darebbe il tempo.» — In uno stornello c'è la parola strazia fanciulle, per amante volubile; e una povera ragazza abbandonata dice ingenuamente al suo damo: — Come volete ch'io faccia a campare? Undici sillabe in cui c'è più amore che in tutto il canzoniere d'un petrarchista.
Tralascio di riferire un gran numero di parole e d'espressioni del linguaggio contadinesco, che non potremmo usare. Ma ve n'è molte, fra queste, che dánno tanta grazia e tanta originalità al discorso, che sarebbe un peccato lasciarle da parte. Voglio dire di quei vocaboli e modi che si soglion chiamare illustri, e che non convengono al linguaggio famigliare. Per esempio, si trattenga dal sorridere, chi può, raffigurandosi un contadino il quale dica le proposizioni seguenti: — Aveva una dottoranza nel su' dire, che ci si stava a bocca aperta a sentirlo. — Quando si torna di maremma, guai a non aversi un po' di riguardanza. — Per esser povera gente, l'hanno portato al cimitero con onoranza. — Si vede che il vino nelle botti non ha preso possanza. — Bisogna aspettare che il sole acquisti possanza di scioglier la neve. — Ho continua temenza che si faccia del male. — Vecchio, aveva nel cuore l'ardenza della gioventù. — Ero sfinita, e tutti mi guardavano come una meraviglia di doglianza. — Lavorava per acquistarsi nominanza. — Uno dei bimbi le morì perchè non ebbe custodimento. — Ora le racconterò l' andamento della mia gamba (s'intende del suo male). — Mi sarei mangiate le mani, dal rosicamento che mi sentivo dentro. — Non mi nutricavo che di pianti e di sospiri. — Mi fu posto dinanzi un fiasco e potei bere a tutto tonfo, si figuri! A quella confortazione subito riebbi la vista. — Quest'aria è una spirazione di salute, ecc. — Noto di volo il curioso paragone piangere come una vite tagliata e la graziosissima espressione donna usciaiola per donna che sta sempre sull'uscio a spettegolare, a tirarla giù all'uno e all'altro; tanto differente da quelle buone donne che lavorano di genio, che si tirano il bene da tutti, che non si guastano con nessuno e che non si dan pensiero delle maldicenze, tenendo per massima che un paio d'orecchie sorde chetano cento lingue.
II.
Si veda se c'è nulla di più grazioso e di più efficace delle espressioni seguenti, tutte raccolte dalla bocca di contadini, e sparse per il libro del Giuliani. — L'orologio cammina cammina senza ritegno, e non dice più vero. — Il verno è nato, la stagione declina. — Bella serata ch'è questa! È uno stellato fitto, una chiarità che rallegra, starei qui tutta la notte a godere le stelle. — Carlo voleva partire; sua moglie non fece altro che contraddirgli l'andata. — I ricchi delle volte stanno peggio di noi perchè hanno il baco che li rosica giorno e notte. — Io non dissi parola; ma piangevo nel mio dentro. — A contare tutto quello che ho passato nel mondo, sarebbe una leggenda da far rabbrividire. — Voleva intendere, voleva sapere (parla d'uno che sotto colore di chiedere albergo, s'era ficcato in casa per rubare); non aveva terren sotto i piedi. — Non toccava nemmeno terra dall'allegria. — Non batte gli occhi da tanto che sta lì a guardarla. — Creda che quando si vuol bene davvero, le parole muoiono in bocca. — Che acqua! è una freschezza che rompe il bicchiere. — Voglio tornar a casa perchè altrimenti c'è quel benedetto vecchio che m' ingolla viva. — Un dì per me dice tre (parla un vecchio), calo fuor di maniera. — La carità, se la facciamo bene, Dio la scrive in cielo. — Che serve disperarsi? Tanto questo mondo è una fiatata. — Conoscete il mi' figliuolo? Il vostro bimbo inchina tutto a quell'idea (gli somiglia). Lo rammenta fin nei capelli. — Guadagnarsi il pane a stille di sudore, assaettarsi al lavoro, condurre una vita arrovellata. — Mio marito lavora tanto che quando torna a casa si mette subito a letto e si sveglia dalla parte che s'è abbandonato. — Come diremmo questo, otto su dieci di noi settentrionali, quando non avessimo tempo a pensarci? Si sveglia nella stessa posizione.... nello stesso atteggiamento.... nel quale....
Un bello studio ci sarebbe da fare, con questo libro alla mano, su quei modi e costrutti che i fautori della prosa compassata rigettano con orrore, e i novatori, invece, che badano all'efficacia più che alla regolarità dello stile, cercano e adoperano, non solo senza scrupolo, ma con predilezione. Lasciamo stare le espressioni come le seguenti: — Di quei figliuoli non ne rinasce (invece di rinascono ). — C' è morto pezzi di giovinotti (invece di ci son morti ), ecc., che non han bisogno di essere giustificate. Notiamo invece: — Il mio omo è da tre settimane che si sente male. — A casa ci sta il mio nonno che gli voglio un bene dell'anima. — Per noi queste libecciate è una disgrazia grande. — L'uva ce n'è di tante specie. — La maremma son tutti luoghi ammacchiati. — C'era due che contrattavano della seggina. Quello che comprava gli è parso che il venditore l'avesse alterata di prezzo, ecc. Che cosa si deve dire di queste licenze? che si possono pigliare? Il Manzoni non esiterebbe a rispondere di sì poichè egli stesso ha scritto nei suoi Promessi Sposi (edizione corretta), oltre a moltissime proposizioni consimili, le seguenti: — Tutti coloro che gli pizzicavan le mani.... — Queste sono sottigliezze metafisiche che una moltitudine non ci arriva...., ecc. Ma nonostante l'illustre esempio, io starei umilmente con coloro che credono di non doverlo seguire. Che si debba preferire un idiotismo efficace a una pedanteria d'effetto contrario, siamo d'accordo; ma a patto che quell'idiotismo sia indispensabile ad esprimere quella data cosa; a patto che quando ci sono due espressioni di uguale efficacia da scegliere, una sgrammaticata e una no, si scelga quest'ultima; a patto, infine, che non si consideri ogni idiotismo come una gemma per la sola ed unica ragione che è un idiotismo. In quelle due proposizioni del Manzoni, per esempio, non mi pare affatto giustificata la violazione della sintassi regolare. Non trovo che il dire tutti coloro a cui pizzicavan le mani o che si sentivano pizzicare le mani, ecc., sia tanto pedantesco, tanto forzato, da dover preferire l'altra maniera. Mi pare anzi che sia appunto questa maniera, preferita come più naturale, quella che, in simil caso, riesce più forzata. Ma, si dirà, è una forma del linguaggio parlato, e voi stesso dite che bisogna scrivere come si parla. Certo; ma come si parla da chi parla bene, correttamente ed elegantemente. Ora io scommetto che nessun toscano colto dice coloro che gli pizzican le mani altro che qualche volta e senz'avvedersene. Abitualmente dirà, per esempio, coloro che si sentono pizzicar le mani. È grammaticale e non è certo meno semplice e meno spontaneo. Capisco che si scriva in quel modo quando si fanno parlare dei ragazzi, degli operai, dei contadini: si vuole, si deve imitare il loro linguaggio; lo si imiti, lo si riferisca anzi tal quale; sta benissimo. Ma non capisco perchè abbia da parlare lo stesso linguaggio lo scrittore, anche quando parla per conto proprio e di materie che non richiedono assolutamente l'estrema semplicità del dire. Non mi va, per esempio, che Emilio Broglio scriva nella sua Vita di Federico II: — I compagni gli riuscì di fuggire. La gran pedanteria che sarebbe stata di scrivere invece: — Ai compagni riuscì di fuggire! — Dove andremo a riuscire se ci mettiamo su questa via? Transigere colle sgrammaticature, è un conto; adorarle, è un altro. Si finirà per considerare come la migliore prosa quella che sarà più spropositata e più triviale. Vi sono, è vero, molti modi e costrutti popolari graziosissimi che non stridono nel linguaggio corretto; questi, per esempio, che si trovano nel libro del Giuliani: — Si sente già cantare i cicalini; i cicalini, il caldo li sollecita. — Aver sempre queste pene al cuore, non ci si regge. — Questo stromento, vedete, è la prima volta che me ne servo. — Si sentiva un gran fracassío di voci; ma vedere, non si vedeva niente, ecc. Altri la penserà diversamente e metterà al bando anche questi modi; è affar di gusto, e sui gusti, come dice il volgo, non ci si sputa.
Questo bel parlare dei contadini toscani, che ha conservato tutta l'antica purezza, può anche servire a levar molti scrupoli a coloro che scrivendo italiano si guardano con orrore da tutti i modi del loro dialetto, come se fossero tutti e necessariamente non italiani per la sola ragione che appartengono al dialetto. Quanti sono, per esempio, gli italiani delle provincie settentrionali che sarebbero presi da mille dubbi sul punto di scrivere le frasi seguenti! — Che? le sai le divozioni? domanda una contadina a una bimba. E la madre risponde: — Altro, se le sa! — Addio, e questa volta non star più tanto a scrivermi (non farmi più aspettar tanto le lettere). — Lui non pensa che a me; per essere, (è una contadina che parla del marito) ho inciampato bene assai, ecc. — Così c'è da imparare tutte quelle maniere di chiudere il periodo che usiamo anche parlando, senz'accorgercene, perchè lo vuole l'orecchio; ed anco quelle parole accoppiate che pure si dicono, non perchè lo richieda il senso, ma perchè il suono le chiama. Per esempio: — Troverò io il verso e la maniera. — Senza dire nè chè nè come. — E uscendo dal libro del Giuliani, quest'altre: — Senza sapere nè perchè nè per come — Senza dire nè asino nè bestia, — non ne seppe nè grado nè grazia, — non fa nè ficca, — non cresce nè crepa, — una lingua che taglia e fora, che taglia e fende, che taglia e cuce, — dàgli, picchia e mena, dàgli, picchia e martella — sono d'accordo bene e meglio — sono un paio e una coppia — è lei in petto e persona — viene in casa spesso e volontieri, ecc., ecc.
Ed ora torniamo alle bellezze della lingua contadinesca, che il Giuliani raccolse con tanto amore. Davvero, quando penso alla fatica che gli dev'esser costata questo lavoro, lo ammiro, perchè conosco un po' anch'io i contadini toscani, e so per prova quanto è difficile il farli parlare come occorre che parlino perchè un raccoglitore di lingua se ne possa valere. Non è che non attacchino discorso volentieri; chè anzi sono cortesissimi, e una volta che han preso a discorrere, terrebbero a bada un'accademia. Il male è che quando s'accorgono che li fate parlare per sentirli, o temono che li vogliate canzonare, e vi sguisciano di mano; o compiacendosi della vostra ammirazione, e volendo meritarla meglio con un parlare più scelto, vi cominciano a tenere dei discorsi così arruffati, così lontani dalla loro grazia e chiarezza abituale, che vi fanno cascare, come suol dirsi, il pan di mano. Mi ricordo d'un contadino che invece di dire: son sceso perchè avevo da dire una parola al tale, volendo parlare in punta di forchetta, mi disse: — son sceso per via d'una parola che avrei avuto l'idea, ecc., e non ricordo come sia andato a finire. Non basta dunque girare per la campagna e interrogare i contadini; bisogna guadagnarsene la confidenza, pigliare dimestichezza con loro, imparare a farli discorrere senza che se n'accorgano, trovare il verso di farsi ripetere dieci volte lo stesso discorso, ed altre arti in cui non tutti riescono, e il Giuliani riuscì mirabilmente. Il curioso è che i più di quei buoni contadini credono di parlar male. Un oprante senese, per esempio, disse al Giuliani queste parole ingenue e graziosissime: — Mi pare forestiere lei perchè la sua parlata non combina colla nostra. Si sa anco noi che il peggio parlare è il nostro; bisogna compatirci; siamo poveri contadini, che non si conosce la lettura. — Così mi ricordo d'una ragazzina fiorentina, figliuola d'un barbiere, che disse ingenuamente: — Mi piace tanto come parlate voi altri piemontesi l'italiano! —
III.
I contadini parlano spesso e volentieri della loro salute e dei loro malanni, e per questo v'è nel libro del Giuliani un gran numero di espressioni efficacissime relative a quell'argomento.
Una volta gagliardo era che sfidava il vento, dice un contadino. — Fora l'aria come una saetta. — Va che manco una saetta l'arriva. — Corre che vola. — Ha un braccio che non c'è il compagno. — Sta bene in gamba. — Mangia di voglia. — È pochino (piccoletto della persona) ma saldo più dell'acciaio.
Ma pur troppo occorre più spesso di parlar di malanni che di salute, e quindi v'è più messe di lingua da mietere in quel campo che in questo.
— Poveretto, a vederlo, casca da tutte le parti, — rifiata a stento, — è bianco morto, senza nemmen la forza di rifiatare. — È all'ultime fiatate. — Ha un viso da campar più poco. — In otto giorni che ha le febbri non si conosce più. — Poverino, a che s'è condotto! Che voglia durarla a lungo, non credo: le pere mezze (quasi sfatte) a una ventata sono in terra. — Quando viene il colpo mortale, si casca giù come pere mezze, e dove uno batte ci resta. — Si strugge a oncia a oncia e tanto ha sempre quel suo sorriso sulle labbra. — Non si lagnava neanco quando il male lo cuoceva dentro. — Le morì il babbo; dalla gran passione si lasciò andare giù giù, strutta come una candela. — È schietta dentro (sana di viscere); ma non ha più la faccia rosata come prima. — Ebbe un grosso male, un male di pericolo. — Ha una freddagione che gli mozza la vita. — Ci ha un dente che quando c'entra lo spasimo non gli dà requie. — A volte l'enfiagione è cosa di poco, sfuma presto; ma se il male infuria, se ne va la testa all'aria. — Oggi m'ha preso una pena tanto mai grossa allo stomaco. — Ho dovuto tenere il letto per un mese, e non ho avuto nessuno che mi guardasse. — Avevo un erpete infistolito; dal gran tribolamento mi sentivo mancare la vita; ma tanto mi son ripigliata, mi riebbi adagio adagio, e questa la riconto. — A un tratto cascò morta e non c'è stato più verso a farla risentire. — La peggior vita è non essere nè sano nè malato, nè dentro nè fuori, nè di qua nè di là; essere tra la vita e la morte; onde si dice di uno che non muore e non campa. — Dopo quella caduta, questa gamba non mi dice più come prima.
E si veda se è possibile dipingere più mirabilmente una figura umana di quello che fa una povera contadina colle parole seguenti: — .... Ma gli ha i segni della morte in faccia; non vede più lume, sdentato, il capo senza un pelo, e con quella faccia grinzosa, che la morte non si può figurare più al naturale. — Qui vocaboli, elissi, cadenza, sintassi, tutto giova all'evidenza della descrizione. Son tante pennellate e non ce n'è una superflua nè una che manchi. Qualcuno, son certo, leggendo le parole e frasi sopra citate, dirà che le conosceva. Ne son persuaso. Ma convien ripetere la solita osservazione. In materia di lingua conoscere non significa sapere, perchè sapere vuol dire avere alla mano, sulle labbra, pronto al bisogno: vuol dire servirsi della lingua. Che importa sapere che esiste l'espressione cosa di poco, per esempio, se ogni volta che occorre di esprimere quell'idea, si dice, ci scappa detto o ci vien scritto invece: cosa di poca importanza? Ognuno di noi, italiani delle provincie settentrionali, possiede nei ripostigli della mente una parte di lingua viva, efficace, bella, — una parte della lingua raccolta nel libro del Giuliani; — ma che non adopera perchè non è ancora abbastanza sua, perchè appunto l'ha nei rispostigli della mente e non sulla punta della lingua e della penna, come i Toscani ce l'hanno. Per questo lo studiar la lingua, per una persona colta delle nostre provincie, non è tanto un imparare parole e modi nuovi, quanto un ravvivare nella memoria, un rimestare, un impadronirsi meglio di quello che già si è acquistato; imparare a spendere il tesoro nascosto; addestrarsi a maneggiare per tutti i versi lo strumento che si sa maneggiare per un verso solo.
Il tempo è un altro grande argomento di discorso per i contadini; onde il libro del Giuliani è ricchissimo di espressioni e d'immagini che vi si riferiscono.
Il sole cuoceva la carne sull'ossa, dicono. — Per la via s'avvampava. — Con questo caldo s'avvampa vivi. — Il sudore ci casca in terra a goccioloni. — Badi: sul buon del giorno si vive bene quassù; il crudo è la mattina e la sera. — Oggi ve la siete scaldata a codesto sole la groppina? — A queste solate. — A queste nebbiate, — Signore! par d'esser rinati nel riveder la faccia del sole! — È un'aria che fa riavere! — Quelle chiare giornate che si campa tanto volentieri, passano come un lampo! E ci rientra tante faccende allora! Le giornate d'ora (inverno) rilucono appena. — Oggi tirava un vento che pareva di fitto inverno. — Tirava un vento diacciato che arrivava alla midolla. — Che vita tribolata si conduce noi poveri, il verno per un verso, l'estate per un altro! — Nel verno si tribola per un conto e d'estate per un altro. — A volte il vento mena gran rovina. — Attaccò per bene a piovere sulla mezzanotte. — Giù acqua e baleni, pareva il finimondo. — Per ora non c'è disegno di piovere. — È un tempo perverso, infierito. — E questa ammirabile descrizione che fa una povera contadina della montagna pistoiese, presso Castiglione: — Il vento percoteva forte, i castagni svettavano (agitavano le vette, le cime), l'aria rintronava, un mugolío si sentiva che mi parevano urli di morte.
Ciò non ostante, mi pare che il linguaggio più immaginoso e più poetico sia quello che si riferisce all'agricoltura; e per questo l'ho serbato in fondo.
Ecco, per esempio, un breve discorso d'un contadino della Valdinievole, che è una vera meraviglia d'immagini, d'armonia, di gentilezza. Il Giuliani gli domanda una spiegazione del proverbio: Sotto la neve pane e sotto l'acqua fame. — Perchè, egli risponde, sotto la neve il grano accestisce meglio ( accestire significa venir su con parecchi fili da un sol ceppo), compone vita adagino adagino, piglia più campo. Si sa: dalle barbe riscoppiano più fili e la figliolanza si fa maggiore. E poi, non si dubiti, che se il caldo viene a suo tempo, la maturazione s'affretta a buon modo: lo spigame abbonda. Una moltitudine di spighe porta, che è una dovizia. Ma unguanno è venuta tant'acqua, che il grano ammutolisce: perchè, m'intende? l'acqua ripiove giù giù dalle barbe del grano e lo strugge. — Si metta questo discorso in versi ed è poesia della meglio.
«Nel corpo (ossia nella parte interna del castagneto), — dice un contadino di Montamiata, — i castagni pigliano alterezza » per dire che crescon meglio.
«Belli quassù i grani! — dice un contadino di Valdinievole, — s'ergono su su col collo pieno; a vederli è una dignità.»
Un contadino di Versilia dice al compagno: — Non lo gittare questo seme, credi a me, non è terra degna, non lo merita.
Un contadino pistoiese dice che basta una solata a far levare il capo all'erba, e che si rià a un tratto perchè il sole è vita alle piante.
Un diluvio d'acqua, — dice un senese, — è più una rovina che altro, ma se vien regolata, che la possa ricevere, il campo gode e lavora.
Le patate a questa rinfrescata si son risentite, — dice un di Versilia, — e godono che è un piacere a vederle.
Il grano, — dice un pistoiese, — è venuto adagino, pigliò vigore, e vede come rizza il capo rigoglioso! — È pieno, tien corpo, è bene spigato. — Il sole quassù ha molta possanza, ecc.
Vuol essere custodimento, — dice un pisano, — se si vuole che la pianta venga in orgoglio.
Il buon sugo (pure un pisano) rinvigorisce le piante, le mantien fresche e le fa venire in essere a tutto punto.... Si cuoce a fiamma la legna che prende essere di carbone.
Giù nelle fondate (un altro pisano) le viti non ci approdano: è il trionfo dei grani. — Miri che trionfo di verde! — A volere che la campagna trionfi ci vorrebbe un pochino d'acqua.
Son terre magre e sassose (un senese); è uno sgomento a domarle.
Il grano cresce rigoglioso ch'è una bellezza, proprio una meraviglia di speranza.
Pel freddo il faggio s'abbandona e resta mortificato; par che il freddo gli rompa l'anima.
È una pianta che vuol di molto custodimento, guai abbandonarla! resta senza fiato.
La terra dà quanto riceve; nutrita poco, dimagra come i cristiani, e non ha più nerbo a reggere le piante; la terra rende frutto secondo che si nutrica, ecc., ecc.
E questo è quel «dialetto come tutti gli altri» o «il dialetto che più s'avvicina alla lingua» e che avrebbe «la pretesa di farsi considerar come lingua,» quel gergo toscano, infine, che l'ignoranza presuntuosa e cocciuta di molti non vuole nè ammirare, nè studiare, nè sentire. — Pare impossibile! — diceva il Manzoni, scrollando il capo, con un sorriso tra mesto e stizzoso.
QUELLO CHE SI PUÒ IMPARARE A FIRENZE
Che cosa può far dire il dispetto! Qualche tempo fa, essendo corsa la voce che il ministro della guerra voleva trasferire la Scuola militare da Modena a Firenze, perchè gli allievi avessero miglior modo d'imparare l'Italiano, un giornale dell'Alta Italia disse le seguenti parole tali e quali: — Che cosa potranno mai imparare (gli allievi) a Firenze? Qualche idiotismo, e nulla più. — È grossa, anzi crassa, o per dir meglio, briccona. Eppure, se vogliamo esser giusti, non c'è da meravigliarsene più che tanto, perchè l'opinione di chi scrisse quelle parole è l'opinione di molti e in Piemonte e in altre provincie d'Italia. Fino all'età di diciassette anni, mi ricordo d'aver sempre inteso dire nelle scuole, dai miei professori di letteratura italiana, che i toscani parlano con affettazione, che dicono molti spropositi di grammatica, che scrivono male, ecc., e mi ricordo pure che noi scolari piemontesi credevamo fermamente di conoscer la lingua meglio dei toscani. — I toscani, — dicevamo, — sapranno un maggior numero di vocaboli e parleranno con maggiore facilità; ma noi che studiamo seriamente la lingua, noi ne abbiamo senza dubbio una conoscenza più esatta, la scriviamo con più correttezza e la parliamo in modo più scelto. — Perchè il gran che, a quei tempi e in quelle scuole, era di scrivere scelto.
E infatti, quando andai per la prima volta a Firenze, per starvi lungo tempo, v'andai volentierissimo, ma coll'idea d'impararvi la pronunzia, non la lingua. Avevo la testa tutta imbottita di parole illustri, sapevo a memoria delle filze sterminate di periodi d'A ntologia, avevo con me una mezza dozzina di quaderni pieni di frasi di «buona lega,» di «italiane eleganze,» di «modi eletti;» e non mi passava nemmeno per il capo che il primo venuto dei fiorentini si potesse impancare a insegnarmi la lingua italiana; — i-ta-li-a-na, — ripetevo tra me — non toscana, buffoni.
Però, il giorno medesimo che arrivai a Firenze, appena uscito dall'albergo, ebbi una piccola mortificazione d'amor proprio. Due monelli di sette o ott'anni giocavano nella strada. Uno di essi teneva un coltellino aperto sulla palma della mano e nell'atto di pigliar la mira per gettarlo contro un uscio, diceva all'altro: — Sta attento: io lo tiro, vi si configge, oscilla e po' si queta. — La grazia, la proprietà, l'efficacia di quelle parole, mi colpì. Osservai che non v'erano nè idiotismi nè sgrammaticature. Interrogai la mia coscienza, e la coscienza mi rispose che, per dire quella stessa cosa, io mi sarei espresso altrimenti e men bene. Sentii un po' di dispetto e un pochino di vergogna. Ma fu un lampo. Ripensai ai miei quaderni e a certi: — bravo! — dei miei professori, e il mio orgoglio scolaresco rivenne a galla.
Conobbi dei fiorentini, frequentai qualche famiglia, passarono alcuni mesi.
Ahimè! Allora cominciarono le dolenti note.
Fin che, in una conversazione di molta gente, si trattava di parlare, colle solite frasi coniate, di politica, di letteratura, di teatri, il mio italiano correva a meraviglia. Ma quando ero faccia a faccia con una signora, e dovevo parlare delle mie faccenduole, esprimere sentimenti intimi, rispondere collo scherzo allo scherzo, raccontare, descrivere, discutere intorno ad argomenti delicatissimi, dire, in una parola, quei mille nienti di cui s'alimenta la conversazione famigliare libera e vagabonda, a tavola e accanto al fuoco; allora la mia lingua era restía, i miei frasoni scappavano come uccellacci selvatici, volevo dire una cosa e ne dicevo un'altra, m'impigliavo nei miei periodi come dentro una rete, stentavo, m'indispettivo, e qualche volta rinunziavo a esternare un mio pensiero per paura di non riuscirci. Quanti sorrisi leggerissimi ho visti guizzare sulle labbra dei miei ascoltatori, mentre parlavo; sorrisi che allora mi facevano fremere, e che ora benedico, perchè m'accorgo che furono i più utili insegnamenti che io m'abbia avuti in materia di lingua! Qualche volta una signora cortese mi dava amabilmente la baia, e anche questa era una eccellente correzione. — Il tale, — io dicevo, — s'appressò a me. — T'appressa, Oreste! — essa esclamava con accento tragico. — Io esprimevo l'idea più semplice, poniamo il caso, con una frase ricercata ed altisonante, ed essa esclamava: — Oh come parla bene! — Ogni giorno cadeva dal mio vocabolario, ferito a morte da uno scherzo affilato, un piemontesismo, un francesismo, una pedanteria, una frase poetica. Ogni giorno mi confermavo meglio nella dolorosa persuasione che invece di parlare italiano, componevo; che il mio tesoro linguistico era uno scrigno di diamanti falsi, e che se volevo riuscire a parlare e a scrivere a dovere, dovevo rimettermi a studiar daccapo. Son pur bestia! dicevo come Vittorio Alfieri nel suo sonetto a monna Vocaboliera.
Ma il cimento più duro per il mio amor proprio fu quando misi per la prima volta in mani fiorentine gli stamponi dei miei poveri scritti. Una signora mi presentò un giorno una quarantina di pagine tutte tempestate di punti neri. Mi morsi le labbra dal dispetto. — Vediamo, — dissi con la più profonda sicurezza di riuscir vittorioso alla prova, — vediamo e discutiamo. — Cospetto! — pensavo: — scrivere è tutt'altra cosa che parlare. Mi può essere sfuggito qualche sproposito; ma cento, non credo. Son fresco di studi, so dove ho pescato la mia lingua, citerò i passi degli scrittori. La vedremo.
Si cominciò.
— Questa frase non va, — mi diceva.
— Perchè non va?
— Perchè non ha garbo, perchè non viene spontanea a chi vuol dire quello che lei ha voluto dire.
— Ma l'ha adoperata il tale dei tali, e dicevo il nome d'uno scrittore consacrato.
— Me ne dispiace per lui; ha fatto male ad adoperarla; io non l'adoprerei davvero.
— Ma è o non è italiana?
— Ma anche conciofossecosacchè è italiano. Lei l'userebbe per questo?
— Ma come direbbe lei invece?
La cortese correttrice mi suggeriva la correzione. Era nove volte su dieci la semplicità sostituita all'affettazione, l'evidenza all'equivoco, la grazia alla pedanteria. Ma quella correzione era come un colpo di catapulta che faceva traballare tutto l'edifizio della mia educazione letteraria; e perciò io resistevo, mi dibattevo, citavo, cavillavo, qualche volta credendo davvero di aver ragione, e non di rado facendo dentro di me il proposito di non sottomettermi mai più a quella tortura. Ma il giorno dopo ci ripensavo, davo a me stesso di corbello e di cocciuto e facevo la correzione. E mi ricordo che mi meravigliavo di vedere, durante le discussioni vivissime, e qualche volta anche acerbe, che il mio testardo amor proprio sollevava, di vedere, dico, il viso della mia correttrice sempre pacato e sorridente. Non capivo ch'essa non s'impazientiva perchè era profondamente sicura d'aver ragione, e che io avrei finito per riconoscerlo. — Oh questa poi! — esclamavo qualche volta; — questa assolutamente non la passo! — Ebbene, ne riparleremo domani, — essa rispondeva. E il giorno dopo non c'era neppur più bisogno di parlarne.
Molte volte bastava una semplice osservazione per farmi ravvedere; ed era quando si trattava di tutte quelle piccole affettazioni, che sono nella lingua ciò che sul viso umano sono le smorfie, le rughe, i vezzi ridicoli, i mille segni e atteggiamenti sfuggevoli e inesprimibili, che rendono una persona antipatica; affettazioni delle quali molti scrittori italiani, anche valentissimi, non si sono ancora spogliati, e che sebbene paiano difetti di poco o punto rilievo, deturpano lo stile e rendono i libri noiosi.
Leggevo, per esempio, nei miei scartafacci: — «Cadde sul destro piede.»
— Perchè non sul piede destro? — mi domandava.
— Perchè è meno elegante, — rispondevo. Si metteva a ridere così di cuore che io tiravo un frego sull'eleganza.
Leggevo: — Partissi da casa....
— Ma perchè non partì da casa? Che direbbe di me se le dicessi che questa mattina partiimi da casa d'una mia amica e andaimi a casa d'una parente?
Leggevo: — Prese quel partito, però che fosse l'unico ragionevole che....
— Oh terrore! — esclamava accompagnando la parola con un gesto drammatico.
— Ma è italiano! — io dicevo.
— Ma e batti con questo italiano! Vuole scommettere che senza dire mai nè una parola nè una frase che non sia italiana, io, questa sera, nel mio salotto, parlo in maniera da far scappare tutti i miei amici?
Non erano mica, come si vede, correzioni di errori di grammatica o d'altri strafalcioni gravi. Erano quasi sempre cambiamenti di una parola in un'altra di senso affine, trasposizioni, raddrizzamenti di frasi torte, tocchi e ritocchi da nulla; ma che facevan mutar faccia a un periodo e colore a un pensiero, e dove il lettore avrebbe inarcato le ciglia o non badato, facevano sì che o non badasse o sorridesse di compiacenza. Era soprattutto un insegnamento continuo intorno al modo di distribuire e di combinare tutta quella parte minuta della lingua, tutto quel tritume di monosillabi, che è la maggior difficoltà delle lingue moderne; di distribuirlo e di combinarlo in maniera, che il linguaggio non ne rimanesse irto e rotto, le giunture dei periodi rigide, i passaggi stentati, il suono sgradevole, come vediamo accadere al più degli scrittori non toscani. Erano delicatezze di lingua alle quali non avevo mai pensato, che anzi non avevo mai neppur sentite nei buoni scrittori, o le avevo sentite nell'effetto complessivo del loro modo di scrivere; ma senza rendermi ragione del come e del perchè. — Paiono inezie, — mi diceva quella colta signora; — e molti ne ridono; ma a pensarci bene, sono cose essenziali per chi voglia scriver bene. Perchè in che altro si distingue uno scrittore elegante ed efficace da uno scrittore rozzo e sgradevole? Scriverebbero tutti bene ad un modo, se lo scriver bene consistesse nel non violar la grammatica, nel non adoperare nessuna parola e nessuna frase della quale non vi sia esempio negli scrittori, nel far capire, presso a poco, quello che si pensa. L'eleganza, la grazia, l'arte vera del parlare e dello scrivere, sta tutta nelle segrete cose, nei nonnulla che sfuggono all'attenzione dei più, in un'armonia che gli orecchi non educati non sentono. E in questo, se ne persuada pure, signor mio, e lasci dir la gente: i toscani possono insegnare qualche cosa ai loro fratelli d'Italia.
Di questa verità non erano persuasi, neppure dopo due o tre anni di soggiorno a Firenze, molti Italiani delle Provincie settentrionali, per i quali l'aspirazione toscana, il te per il tu, il dai retta per il dà retta, l' un per il non, e qualche altro idiotismo eran cose che, messe nella bilancia, facevano saltare in aria tutte le grazie, tutte le ricchezze, tutte le meraviglie del linguaggio toscano. Ma nel fatto era come se ne fossero persuasissimi; perchè senza volerlo, imparavano a parlare ed a scrivere; la loro lingua si snodava; adoperavano, senza accorgersene, modi vivacissimi e frasi semplici e piene di garbo, per dir cose che esprimevano prima con perifrasi e giri di parole ridicoli; si abituavano a raccontare e a scherzare senza compasso e senza fatica; e in fine canzonavano l'italiano stentato e mal connesso dei nuovi arrivati a Firenze, e trovavano insopportabili certe maniere di scrivere che avevano ammirate fino allora con pecoraggine scolaresca.
Vi sono però molti, i quali andarono per qualche loro faccenda a Firenze, stettero una settimana all'albergo, sentirono bestemmiare i fiacchierai in piazza della Signoria, colsero a volo qualche frammento di conversazione in mezzo alle erbivendole di Mercato Vecchio, passarono tutt'al più una serata in una famiglia fiorentina, e poi tornati a casa, dissero che a Firenze non c'è da imparare che qualche idiotismo, che la lingua italiana non è là, che un qualunque italiano colto può parlar meglio d'un toscano, che l'idea del Manzoni è una stramberia.
Dio vi perdoni e vi converta, signori.
UN BEL PARLATORE
Ogni volta che l'ho sentito parlare, mi sono persuaso che sono un barbaro e son tornato a casa umiliato.
Non so come parli alla Camera e sulla cattedra; suppongo che parli bene; ma non credo che l'eloquenza politica e la scolastica siano la sua vera eloquenza. Bisogna sentirlo in conversazione.
Qui è veramente ammirabile.
Prima di tutto, bisogna dire, per chi non l'ha mai visto, che la sua persona non toglie nulla, ma neppure giova gran fatto all'efficacia del suo parlare. Se ne può fare il ritratto in due tocchi: una gran zazzera sopra un viso magro ed irregolare nel quale brillano due piccoli occhi pieni d'ingegno. Ha un sorriso un po' canzonatorio, un gesto un po' curialesco, una voce dolce e pieghevole. È superfluo il dire che è nato in Toscana; ma necessario soggiungere che è senatore, e che ha passato di qualche anno la cinquantina.
Bisogna, dunque, sentirlo in conversazione.
È un po' pigro, anche a parlare; e perciò non è molto facile fargli scioglier la lingua. Se non è in vena, e se il soggetto della conversazione non lo tira, è capace di non aprir bocca in tutta la serata. Peggio, poi, quando s'accorge che lo si vuol far parlare per starlo a sentire. In questo caso è timido e cocciuto come un bambino. Un giorno una signora, sollecitata da un amico curioso, gli mise dinanzi un libro di poesie (poichè legge mirabilmente i versi) e lo pregò ripetutamente di leggere. — Ma come vuole che io legga, — egli rispose quasi indispettito, — con tutto questo apparato? Diventerei rosso fino alla radice dei capelli! — E non ci fu verso di fargli leggere un rigo.
Bisogna ch'egli s'impegni in una conversazione quasi senz'accorgersene, che vi scivoli, che vi si trovi legato senz'averlo voluto. Una volta che ha preso la parola, gl'interlocutori a poco a poco tacciono e diventano ascoltatori. Allora egli non si avvede d'essere sul palco scenico e la platea può esser sicura d'avere il fatto suo.
Seduto in un angolo del salotto, cogli occhi socchiusi e il sorriso sulle labbra, passandosi di tratto in tratto una mano sul ciuffo, poi sulla fronte, e poi sul mento, egli dice mille cose argute e gentili con una grazia e una nobiltà di forma e d'accento che è impossibile a esprimersi. Parla lentamente e pesa le parole, ma senza sforzo; si direbbe che le scocca, che le fa scattare l'una dall'altra, che sente e che fa sentire in ognuna di esse un valor nuovo, scoperto o piuttosto dato da lui, come un'effigie a una moneta. Qualche volta fa aspettare una parola, si capisce che la cerca, e che gli sfugge; ma la coglie sempre, ed è sempre la propria, la necessaria, quella che s'aspettava. Talora si direbbe che ha compiuto l'espressione del suo pensiero, e non è; aggiunge ancora un aggettivo, un avverbio, un monosillabo, che fa sempre l'effetto dell'ultimo tocco d'un pittore sicuro. Si direbbe che cerca le difficoltà per pigliarsi il piacere di vincerle. Non gira mai intorno al proprio pensiero. Scava dentro di sè, mette fuori tutto, fa comprender tutto; colorisce, brunisce, orla, frangia, si trastulla in mille modi colla sua lingua; tocca con una destrezza meravigliosa soggetti disparatissimi, si diverte a sguisciar di mano, fa mille sorprese colla frase e coll'inflessione della voce; e di qualunque cosa parli, sia di filosofia, sia di finanze, sia di letteratura, sia di corbellerie, ha sempre la stessa evidenza e lo stesso colorito caldo e brillante di linguaggio, che seduce egualmente uomini, signore e bambini.
Qui dovrebbero essere, — pensavo io quando l'udivo parlare, — coloro che dicono che scrivere come si parla è la sapienza degli ignoranti. Essi mi direbbero forse che questo signore, per quanto parli bene, scrive certamente meglio. Meglio, sì, ossia, con più ordine, con più sobrietà, con un nesso più stretto fra pensiero e pensiero, fra periodo e periodo; meglio, in una parola, ma non in una maniera diversa. Ossia non adopera, scrivendo, nè una frase nè una parola che non adopererebbe parlando, e scrive nondimeno con una eleganza e una nobiltà di stile e di lingua ammirabile. Egli può studiare a memoria quello che scrive e ripeterlo in conversazione, senza che nessuno s'accorga che sia stato scritto. Leggendo la sua prosa, par di sentir parlar lui; lui, — notiamo bene, — lui nascosto dietro una cortina o coll'anello di Gige nel dito; e non un altro personaggio che non si sa chi sia, un personaggio non vero, un terzo fittizio che si caccia fra l'autore e il lettore, un burlone che si vergognerebbe di parlare come scrive e si vergogna di scrivere come parla, un vanitoso imbellettato, un ipocrita letterario, un ciurmadore di parole. Scrivere come si parla vuol dire scrivere come vorremmo saper parlare; osservare, scrivendo, le stesse leggi che ci sforziamo (e non ci riesce sempre, perchè ci manca il tempo per riflettere), di osservare parlando; non mettere sulla carta nessuna frase, nessuna parola, nessuna trasposizione di parole, che usata parlando, in un crocchio di persone educate, colte e nemiche d'ogni affettazione e d'ogni caricatura, farebbe inarcar le ciglia o dare in uno scroscio di risa o dire che siamo pedanti o pretenziosi o sciocchi. Col quale principio, ch'era quello del Manzoni, se si esaminano nove su dieci dei libri italiani, e quelli per i primi di cui son colpevole io, mi duole il doverlo dire, si trova ogni momento una frase, una parola, un'attaccatura, un'inflessione di periodo, un qualche cosa, insomma, che non va, che non ha una ragione d'essere, che non dev'essere scritto perchè non può essere detto, che ci farebbe arrossire se ci sfuggisse discorrendo con una signora, che è un'eleganza, come diceva il Manzoni, del cassone, una ruga dello stile, una smorfia della lingua. E con questo si spiega come al Manzoni non finisse di piacere nessun prosatore italiano. Cercava il suo ideale e non lo trovava. Leggeva tendendo l'orecchio e non sentiva parlare, o sentiva leggere una cosa scritta. Diceva del Nicolini medesimo che parlava meglio di quello che scriveva. Nelle sue meditazioni tranquille e profonde sull'arte dello scrivere, non aveva trovato nessuna buona ragione colla quale si potesse giustificare una differenza qualunque tra il linguaggio parlato e lo scritto, su qualunque materia si scriva, poichè nel dialogo sulla Finzione egli scrisse cose altissime e stupende di filosofia e di morale senza scostarsi dalla lingua, dalla forma, dal tono d'una conversazione famigliare. E se qualche volta, in quello e in altri scritti, se n'è scostato, se n'è accorto poi e ha mutato, e se non ha mutato, sentiva che avrebbe dovuto mutare, e non c'è bisogno d'averlo conosciuto intimamente, per poter dire che sapeva di non essere riuscito a scrivere in tutto e per tutto come voleva, a incarnar meglio il suo principio, a dare l'esempio più strettamente conforme alla teoria.
Così la pensa il bel parlatore di cui ho parlato, il quale, se scrivesse dei libri, sarebbe col fatto il più potente propugnatore della teoria manzoniana, com'è, parlando, il più ammirabile maestro di conversazione ch'io abbia conosciuto. E l'ho in fatti per un tale maestro che quando mi viene sulla punta della penna un'espressione o una parola o un giro di periodo sospetto, chiudo gli occhi, mi raffiguro lui che parla, intrometto furtivamente nel suo discorso quella parola o quell'espressione, e se non la sento stridere, la scrivo; se stride, la caccio in bando del mio regno.
Forse, s'egli leggesse queste pagine, direbbe che il mio regno è popolato di bricconi e mi consiglierebbe di bandire ancora. Abbia pazienza, caro maestro; mi lasci un altro po' di tempo e le assicuro che «sarà fatta giustizia» e «forza rimarrà alla legge.»
DALL'ALBUM D'UN PADRE (A VITTORIO BERSEZIO.)
Questa creatura che occupa tanta parte della mia vita, e senza la quale mi sembra che non potrei più vivere, come se fosse legata a me da un'arteria invisibile, tre anni sono non esisteva nemmeno nella mia mente! È strano. Mi pare che ripensando profondamente al mio passato, dovrei trovarne qualche traccia, qualche preannunzio. Cos'è quest'apparizione? Di dove vieni? Chi sei? Che sei venuto a dire nel mondo? Qual è il tuo perchè, straniero? Che cosa cerchi, sconosciuto? Perchè al mio appello hai risposto tu, cogli occhi celesti, e non un altro cogli occhi neri? Rispondi, personaggio misterioso.
* * *
L'età più bella dei bimbi, per chi ha occhio d'artista oltre che cuore di padre, è quando passano ancora ritti sotto la tavola e si può reggerli con una mano sola, portarli a cavalluccio sul collo, nasconderli sotto un giornale, metterli in prigione in mezzo a due vocabolari; e tutto il loro vestiario, dalla scuffietta alle scarpe, sta comodamente dentro un vecchio cappello del babbo. A quell'età la madre impazzisce per infilare una calza al suo bimbo; ma quando una volta su dieci egli vi spinge il piedino dentro da sè, essa lo abbraccia con impeto ed esclama alteramente: — Sei un uomo!
* * *
Hanno un visetto che pare una mela cogli occhi, un collo esile che si cinge quasi col pollice e l'indice, due manine che c'è bisogno di guardarle per persuadersi che hanno già tutt'e cinque le dita e un piedino che proprio non si può pigliare sul serio. La loro testina, secondo il momento che gliela fiutate, ha odore di passero, di micio, di coniglio, di nido di rondini, di mattoni, di legno, di vernice, d'olio di lume, di tutto quello che c'è in casa, che essi possan toccare; e il fiato un leggiero odore latteo misto colla fragranza di non so che fiori; un fiato che, ad aspirarlo, par che debba far bene al sangue, come l'aria della campagna.
* * *
Eppure v'è chi non ama queste creature! Io vedo col pensiero un bambino roseo e ridente che dalle braccia di sua madre tende tutt'e due le mani in atto amoroso verso un signore lungo, stecchito e severo, il quale dà indietro con un movimento quasi di ripugnanza, e facendo un sorriso forzato, gli agita dinanzi agli occhi un dito nodoso che non vuol essere toccato. Oh uomo lungo, stecchito e severo, sii pure un grande ministro o un letterato famoso o un fondatore di opere pie: io ti detesto.
* * *
Bisogna vedere come sono atteggiati nella culla, la mattina, prima che si sveglino. Chi può trattenere i baci e le risa? Sono atteggiamenti di soldati morti sul campo di battaglia, atti di dolore disperato, contorsioni d'acrobatici, abbandoni svenevoli d'innamorati languenti. Ora son tutti in un gomitolo sul cuscino, ora rintanati sotto, ora capovolti, in modo che cercando il visetto trovate la punta dei piedi, e volendo afferrare un piede ficcate il dito nella bocca. E allora è bello pigliar tutto in un fascio bimbo, lenzuola, coperta e coltrone, e fuggir per la casa, colla preda calda fra le braccia.
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Chi vede senza ridere un bambino di tre anni, quando appena svegliato, vestito e messo in terra, rimane un momento immobile, soffregandosi gli occhi, e poi va innanzi a passo lento, tutto d'un pezzo insonnito, scarmigliato, di malumore, piagnucolando e guardando la gente di traverso; — o quando è preso dal freddo, che ha il nasino livido, e cammina a passetti di marionetta, facendo la gobbina, e mille vezzi e graziette minuscole, come per dire: — Son piccino, sono una cosa da nulla, scaldatemi o sparisco; — o quando tuffa mezzo il capo in un tazzone di caffè e latte tenuto a due mani, e tracannando avidamente, fa la guardia colla coda dell'occhio a un pezzo di biscotto sul quale sospetta che voi abbiate qualche intenzione ostile; — chi vede queste cose senza ridere, non ha un senso comico delicato.
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A quell'età nulla di più bello che il vederli correre. La loro corsa ha qualche cosa del saltellare d'una palla elastica, del barcollamento d'un ubbriaco e dei movimenti d'una foglia portata dal vento. La piccola creatura si spicca dallo sgabello, si slancia fuori della stanza, inciampa nel gatto, rovescia una seggiola, infila un corridoio, e via sgambettando e annaspando colle mani, di stanza in stanza, inseguito dalla madre, fino all'angolo più lontano della casa, dove si rifugia dietro un sacco da viaggio, e di là tenta un'ultima resistenza per strappare una concessione al nemico. Ah! invano! Bisogna lasciarsi lavare la faccia.
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Chi può dire che cos'è la voce dei bambini? C'è il gorgheggio dell'usignuolo, il pissi pissi della rondine, il pigolío dei pulcini, il gnaulío del gatto. Son note di flauto, mormorii e bisbigli infinitamente soavi, strida e garriti che lacerano le orecchie, trilli di soprano, scoppi di voce virile, stonature di tenore sgolato, falsetti di maschere, fioriture e passaggi strani; tutti i suoni che escono da una gabbia di cento uccelli e da un'orchestra di cento strumenti. Accostate il viso alla loro bocca e fatevi mormorare qualche parola nell'orecchio: alle volte n'esce un suono che vi rimescola; vi pare d'aver posto l'orecchio allo spiraglio d'una porta misteriosa e sentito una voce sovrumana.
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Egli ride. Non l'ho mai visto ridere così di cuore. È un riso smodato, squarciato, sgangherato. Ho perfin paura che gli manchi il respiro. Si butta a destra e a sinistra, rovescia la testa indietro, gli si empion gli occhi di lagrime, gli si fa il viso pavonazzo. Ora basta, via, ti puoi far male, smetti di ridere. È un riso inestinguibile, una convulsione, un riso da schiantare le viscere. Ma finiscila una volta! Ma perchè ridi? Che cos'è stato?... Ah! non m'ero accorto che m'ha messo un cappelletto di carta sulla testa.
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Vestiti paiono qualche cosa: spogliati, non son più nulla. Si palpa quel corpicino, si sente quell'ossatura sottile, che par che si debba spezzare a premervi sopra la mano, e si trema pensando a che tenue filo è legata quella cara vita. Quanto tempo e quanti dolori, per lui e per chi l'ama, prima che questo piccolo braccio possa respingere l'offesa di un uomo! Guardatelo lì ignudo nato quest'ometto spoppato ieri! Come! Ha da venire un giorno in cui tu avrai la barba e il cappello cilindrico? e capirai Tito Livio? e saprai risolvere un'equazione di secondo grado a tre incognite? Eh via! spaccone, questo non può essere.
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Dovrei proprio guarirmi da questa debolezza. Sono seduto a tavolino, scrivo, ho la testa piena di pensieri gravi, la menoma distrazione m'inquieta, mi preme di finire; e con tutto ciò, bisogna che lasci la penna, che m'alzi, che attraversi la stanza rimovendo le seggiole, inciampando nei giocattoli e scomodando quattro o cinque persone, per andare a stringere fra l'indice ed il pollice, per un momento solo, la polpina di quella gambetta che dal mio posto vedevo biancheggiare in un angolo oscuro dietro la spalliera della poltrona. Appagato questo capriccio ritorno al tavolino col cuore in pace e colla mente disposta. Altrimenti, non mi riusciva di finire la pagina.
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Gran voluttà quella di malmenare un bambino e di coprirlo di vituperi! Sei un fantaccione, sei pesante, sei rotondo, sei duro, sei brutto; mangi come un bue e dormi come una talpa; sei un ignorantone e un fannullone che mi rovini e mi fai dannar l'anima; un giorno o l'altro ti do un carico di legnate, non ti voglio più, ti butto fuori di casa, farai una cattiva fine, sei un soggetto d'ergastolo, sei la mia vita, t'adoro!
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Anche l'amore dei bambini ha le sue furie. Un vero padre si sente qualche volta un po' antropofago e vorrebbe stare in una casa isolata per poter saziare la sua fame senza che accorrano i vicini alle grida della vittima. Non strillare, hai inteso? Il mio dovere è di mantenerti, il tuo è di lasciarti baciare, sulla testa, — negli occhi, — nella bocca, — sul petto, — nel collo, — fin che mi resta fiato. Strilla! Strilla! Che m'importa? Pur che io mi sazi. Ah! se non avessi paura di soffocarti! Già, è scritto: un giorno o l'altro ti finisco.
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Questa mattina passeggiavo per la stanza con lui disteso sulle braccia, come in una culla. Egli teneva gli occhi chiusi e lasciava spenzolare la testa e le gambe. La fantesca disse: — Par morto. — Questa parola mi agghiacciò il sangue. Mi misi a pensare che cosa seguirebbe di me se egli morisse. Mi parve che sarei impazzito. M'internai in quell'immaginazione. Prenderei sulle braccia il bambino morto, — pensai, — uscirei di casa, attraverserei la città, piglierei la campagna, e via, di sentiero in sentiero, di villaggio in villaggio, di giorno, di notte, al vento, alla pioggia, muto, infaticabile, stringendo colle mani irrigidite quel corpicino freddo, fin che arriverei in mezzo a una pianura immensa e sinistra, dove darei tutt'a un tratto in un tale scoppio di pianto che mi si romperebbe una vena nel petto e cadrei senza vita.
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Ha rotto un bicchiere, ha rovesciato un lume, straccia la tappezzeria, sbatacchia gli usci, fa tintinnare i vetri,... getta in aria i fantocci,... copre la voce di tutti.... Che inferno in questa casa! che pace nel mio cuore!
* * *
Quando son triste, vedo in ogni suo trastullo l'immagine di una disgrazia che gli potrà accadere, e mi perdo in mille presentimenti dolorosi. Rompe una gamba a un fantoccio: io penso: si romperà una gamba in una caduta? Gioca colle pallottole: io mi domando: — Diventerà un giocatore? Quando suona il tamburo, m'immagino che possa morire in guerra; quando rovescia un altarino, temo che diventi uno scettico; quando lo vedo rannicchiato in un cantuccio in mezzo a due seggiole, mi pare che un giorno abbia da essere gittato in una prigione. Lui! Son sogni. Fin che io vivo non gli seguiranno disgrazie. Lo seguirò come l'ombra il corpo. Sarò il suo amico, il suo confessore, la sua sentinella. Ma poi? Ah! Il pensiero di lasciarlo solo nel mondo mi spaventa, ho paura della morte, son diventato pusillanime. Vorrei vivere un secolo, ridurmi decrepito, cieco, paralitico, inchiodato perpetuamente sopra una seggiola; purchè nei giorni di dubbio o di pericolo, potessi afferrarlo per la mano, toccargli il capo, supplicarlo, se non potessi più colla voce, almeno coi gesti e colle lagrime, di non uscire dalla via dell'onore.
* * *
È una cosa che fa fremere. Qualche volta, guardandolo, io mi raffiguro le molte migliaia di bambini dell'età sua, nati nello stesso paese, e che in questo mentre sono come lui innocenti, amorosi, carezzevoli; me li raffiguro nelle loro culle, fra le braccia delle loro madri, coperti di baci e chiamati coi più dolci nomi della lingua umana; vedo nel cuore dei loro genitori le medesime speranze, lo stesso presentimento ch'essi saranno onesti e contenti, anzi la medesima profonda certezza, e non altrimenti fondata, che io nutro riguardo al mio: e penso che non di meno da tutta questa legione di angioletti usciranno dei ladri, dei falsari, degli assassini, dei parricidi, che getteranno la disperazione e il disonore nelle loro famiglie. Quando questo pensiero mi s'inchioda nel capo, mi tocca fare un grande sforzo per liberarmene. Questa mattina presi il mio bimbo sulle ginocchia e gli domandai: — Bimbo, sarai un'assassino tu? — Egli non capisce ancora il significato di questa parola. — Si, — rispose — ma voglio dei dolci.
* * *
Se potessi indovinare il suo avvenire, come fanno le zingare, dalla palma della mano! Che cosa tratterà questa manina? La spada? Il pennello? La penna? L'archetto del violino? Il coltello anatomico? Povera manina, quante volte sorreggerà la testa stanca d'un lavoro ingrato o d'un pensiero doloroso! Di quante lettere listate di nero romperà il suggello! Quante destre di falsi amici e di donne indegne gli occorrerà di stringere! Ma tu la conserverai pura d'ogni macchia, figliuol mio, e se quando ti colpirà un grande dolore immeritato, ti verrà fatto di levarla in alto, non la leverai per maledire, ma per giungerla coll'altra, come ogni sera e ogni mattina t'insegna a fare tua madre.
* * *
Guardo la sua manina, la stringo, la nascondo tutta nel mio pugno, e sorrido pensando che passarono per questa forma anche le mani dei guerrieri più formidabili e degli artefici più potenti del mondo. E da questo pensiero son condotto alla mia immaginazione prediletta dell'infanzia degli uomini grandi. Mi raffiguro Omero che si dispera perchè gli hanno rubato una pesca; Cesare che trema dinanzi a un topo; Dante che salta in sella a un cavallino di legno; Michelangiolo, che mentre suo padre gli mostra una statua, è tutto intento a schiacciare un nocciolo coi piedi; e la signora Buonaparte che dice al futuro vincitore d'Europa: — Vergogna! Alla tua età, quando se n'ha bisogno, si dice, e non s'imbratta in codesto modo la casa.
* * *
Se diventasse un grand'uomo! È un sogno di tutti i padri; ma non è impossibile. Egli è un enimma infine; un geroglifico il cui significato è ancora ignoto; una parola della quale non è scritta che la prima lettera; un numero dell'immenso lotto umano. Questo dubbio è il più dolce alimento della mia vita. Mi pare di possedere uno scrigno misterioso, nel quale è possibile che ci sia un pugno di sabbia o un mucchio di perle. Son vicino a trent'anni, e il mio avvenire che cominciava a restringersi, s'è improvvisamente allargato; ho perduto le ultime illusioni della gioventù, ho ritrovate le speranze infinite dell'infanzia. Che importa che i miei capelli cadano? I suoi diventan folti. Che importa che io discenda? Egli sale.
* * *
E se riuscisse invece d'intelligenza scarsa e di fibra debole, non solo da non uscire dall'oscurità, ma da rimanere degli ultimi in mezzo agli oscuri? Quando mi coglie questo pensiero, sento un irresistibile bisogno di stringermelo al petto e di coprirlo di carezze, come per domandargli perdono della vana ambizione che me lo fa sognare diverso da quello che forse egli è destinato ad essere. Sento il bisogno d'assicurarlo fin d'ora che quanto sarà più angusto il posto che gli è riservato nel mondo, tanto sarà più grande quello ch'egli avrà nel mio cuore. Pensando che un giorno, forse, tornando dalla scuola egli mi dirà piangendo: — Son l'ultimo; — io mi sento uno struggimento d'amore per lui. Ma questo non sarà, perchè io l'aiuterò nei suoi studî, mi rimetterò al greco e alle matematiche, veglierò con lui, e gli verserò tanto affetto nel cuore, che il cuore illuminerà la mente. Quando qui sotto v'è un tesoro, anche qua sopra v'è qualcosa.
* * *
I bambini sono grandi consolatori. Chi lo sa più di te, povera vecchia fantesca? In casa tu sei amata; ma la tua testa calva, il tuo viso rugoso, tutta la tua persona deformata dagli anni, ti rendono incresciosa alle persone che ti sono più care e sono cagione ch'esse non ti rendano, ora che ne avresti tanto bisogno, le carezze che tu prodigasti loro quand'erano bambini. Alberto, giovinetto, si ritira bruscamente indietro quando tu accosti il tuo volto al suo per guardare le vignette del libro ch'egli sfoglia; Enrico da molto tempo non vuol più che tu gli faccia il nodo della cravatta per non sentire il tuo alito e il contatto delle tue mani; e quando vuoi baciare Adelaide, la ragazzina che hai portata in braccio per tanti anni e divertita con tante istorie nelle lunghe sere d'inverno, sei costretta, perchè non ti respinga, a baciarla furtivamente quando dorme. V'è una sola creatura al mondo che non respinge le tue carezze, che ama la tua testa calva e il tuo viso rugoso, che ti compensa di ogni ingratitudine e d'ogni amarezza, ed è questo bambino di tre anni — Ernesta, — egli ti dice baciandoti sulla bocca, — tu sei bella.
* * *
E sempre ricasco nel pensiero della bellezza. Non credevo che un padre, oltre l'affetto che tutti comprendono, dovesse nutrire pel suo figliuolo un sentimento così affine a quello di uno scultore per la sua statua. Io pure spio con trepidazione il viso di chi lo guarda, interpreto i sorrisi e commento i complimenti come un artista incerto dell'opera sua. Ogni sua bellezza mi pare un merito delle mie mani, ogni sua imperfezione l'effetto d'una mia svista. Ogni giorno mi si presenta in un aspetto diverso. Lo guardo e lo riguardo, di faccia, di profilo, davanti, di dietro, di sopra, di sotto; correggo cogli occhi certi suoi tratti; rimango perplesso; ci ripenso; ma finisco sempre col darmi una fregatina alle mani e dire che è un bel lavoretto.
* * *
Gran livellatori del cuore umano i bambini! V'è una povera donna con un bimbo in braccio seduta sullo scalino della porta, che vede passare una signora in carrozza con un bimbo sulle ginocchia. Il bimbo della signora è vestito di velluto, il suo è vestito di cenci; quello ha un fascio di giocattoli, il suo non ha mai avuto giocattoli; quello mangia dei confetti, il suo rosicchia un pezzo di pan nero. Eppure degli sguardi che le due donne si scambiarono sui propri figliuoli, quello che espresse un sentimento d'invidia è quel della signora! La povera donna se n'accorse ed esclamò con un fremito di orgoglio: — Il mio è più bello!
* * *
Io non so se tutti i padri vedano nei loro bambini quello ch'io vedo nel mio; so che più lo guardo e più ammiro l'infinita amabilità dell'infanzia, che mi pare un compenso dato da Dio alle ansietà e alle cure ch'essa ci costa. Ha dei movimenti di capo, delle espressioni di stupore, dei lampi di sorriso, dei gesti sfuggevoli, dei vezzini, delle civetterie, dei nonnulla inesprimibili che mi strappano un grido d'amore. — Non provocarmi! — gli dico qualche volta. E in questa grazia incantevole di gesti e di atteggiamenti, una varietà immensa, una trasfigurazione continua, una sorpresa ogni momento. Mi pare che chiuso con lui in un castello solitario, senza libri, senza lavoro, senz'altra cura che di custodirlo, non avrei un'ora di noia.
* * *
Comincia, parlando, a legare insieme due proposizioni. È un gran piacere per me il seguire attentamente l'estrinsecazione laboriosa del suo pensiero, vedere con che bizzarri artifizî esprime l'idea più semplice, con che buffe contrazioni del viso pronunzia ogni parola nuova, come tira e scontorce e spreme il suo piccolo capitale di venticinque parole; che stroppiature mostruose, che sgrammaticature colossali, che spropositi enormi e incredibili, mette fuori colla più ingenua sicurezza, e qualche volta guai a chi gli ride in faccia! E notare come in questo suo linguaggio stravolto e spropositato, un giorno si raddrizza una parola, un altro giorno si combina una concordanza, e a poco a poco i vocaboli si dispongono in ordine, e le consonanti difficili escono spiccate e sonore, fin che lo strumento completato e accordato, potrà prendere parte al concerto della conversazione domestica, non facendo più che qualche stonatura per caso.
* * *
È strano ch'io ci pensi oggi per la prima volta: questo visetto, questa vocina, questa grazia angelica, che ora rallegra la mia vita, fra qualche anno non saranno più. Ogni giorno che passa mi ruba qualche cosa di questo bambino roseo. Fra qualche anno egli avrà un altro viso, parlerà con un'altra voce, gestirà in un'altra maniera, e della creatura d'oggi non mi rimarrà che qualche ritratto e qualche reminiscenza. Questo corpicino non è che una forma che mi passa dinanzi e che deve svanire. Sono irragionevole; ma è un pensiero che mi rattrista.
* * *
Non capisco più, ora, come io abbia potuto vivere tanto tempo, ed essere quasi felice, in una casa sempre tranquilla —, dove non c'era mai una seggiola fuori di posto —, dove non si rompeva mai una bottiglia — dove non s'inciampava mai in una marionetta —, dove non si facevano mai delle oche di carta —, dove non si vedeva mai nessuno sotto una tavola —, dove non c'erano che dei letti enormi —, dove non si sentivano mai che dei passi lenti e gravi —, dove non s'udivano che voci pacate che dicevano senza errori di grammatica delle cose sempre ragionevoli.
* * *
Sovente, vedendolo così ben vestito e ben pasciuto, con un monte di ninnoli davanti, io dico tra me: — E se un rovescio improvviso di fortuna mi costringesse a non trattarlo più in questa maniera? Tutto il mio sangue si rimescola violentemente a questo pensiero, e nello stesso tempo la mia fronte si solleva e la mia anima ingigantisce. Ah! non sarà mai, bambino mio! dovessi comprare ogni tuo giocattolo con una notte di lavoro, scontare ogni tuo vestitino nuovo con una ruga della fronte, pagare ogni tuo giorno di contentezza con una ciocca di capelli bianchi, conservare il color di rosa del tuo volto colla tortura del mio cervello e delle mie ossa! Che m'importerebbe che la gente ridesse della mia faccia scarna e del mio vestito logoro? Io ti condurrei a passeggiare con me in qualche parte solitaria della campagna, e starei a veder tramontare il sole premendomi la tua testa sul cuore. Ah, non temere! Fra te e la povertà, ci sono i miei trent'anni, la mia volontà indomabile e le forze smisurate dell'amore che mi divora.
* * *
Oggi gli ho fatto fare un bagno in una zuppiera rotta, e vedendolo così tutto nudo e bello che grondava acqua e rideva, pensavo: — Eppure queste povere creaturine, la febbre le consuma, il vaiuolo le accieca, la tosse convulsiva le soffoca, il crup le strozza, e bisogna vederli diventar neri, dibattersi, stralunar gli occhi pieni di lagrime, chieder soccorso agitando le manine, e rimanere irrigiditi; bisogna vederli chiudere in una cassetta, vederli portar via ravvolti in un panno nero, vederli calare in un fosso e coprir di terra e di sassi; e poi tornare a casa pensando ch'essi sono là soli sotto la neve, in mezzo a un campo pieni di scheletri; e rientrando in casa, rivedere i loro giocattoli e i loro vestiti, la culla vuota, la seggiolina vuota, la stanza vuota, tutto l'universo vuoto, e sentir risuonare in quell'orrendo silenzio le risa dei bimbi dei vicini! Ah! quando questo accade, mi par che non si possan far che due cose: o spezzarsi il cranio contro una parete o cadere in ginocchio e rimanere perpetuamente colla fronte inchiodata sulla culla.
* * *
Dopo che la mia vita è legata a questa creatura, il pensiero della morte non mi atterrisce o non mi rattrista più se non in quanto si lega a quello del suo avvenire. Ma se per la sua vita dovessi sacrificare la mia; se dovessi, colla sicurezza di salvarlo, fargli scudo del mio corpo, e difenderlo senza difendermi, immobile con lui nelle braccia, e dieci assassini alle spalle; oh! io fremo di non so che voluttà feroce e superba a questo pensiero: io credo, sento, giuro che mi lascerei crivellare di pugnalate, coprendogli la testa di baci, senza aprir la bocca per gridare: — Pietà! — e senza versare una lagrima sul mio destino.
* * *
Questa mattina, fra le altre sue stranezze, ho scoperto ch'egli crede che gli uomini siano fatti di legno, e per quanto gli abbia detto.... — Interrotto dalla caduta d'una palla di gomma elastica che rovesciò il calamaio.
SOPRA UNA CULLA
I.
Sono tre giorni che ha 'l visetto bianco
E gira l'occhio illanguidito e lento,
E non cerca la madre, e leva a stento
Le braccia dimagrate e il capo stanco.
Parla, dottore — dirami aperto e franco
La triste verità ch'io già presento;
E tu fa core, amica; — ecco il momento;
Dammi la mano — e sta stretta al mio fianco.
E grave? — .... Assai? — .... C'è da temer la morte?
Ebbene, amica — qui — qui sul cor mio,
E opponiamo al dolor l'anima forte.
Ma no! non posso! mi si spezza il core!
Ho bisogno di piangere! Mio Dio,
Pietà! M'uccido se il mio bimbo muore!
II.
Bambino mio, cos'hai? cosa ti senti?
Sorridi — guarda — moviti — respira;
Non vedi il padre tuo, qui, che delira?
Non le senti le sue lacrime ardenti?
Non lacerarmi il cor co' tuoi lamenti!
Oh dottore — soccorrilo — egli spira;
Vedi come già trema, e come gira
Gli sguardi tralunati e semispenti.
Che aspetti dunque? Di parole vane
Non è più tempo! Salvalo, per Dio!
Prova! Tenta! non hai viscere umane?
No, no, perdona! io son pazzo, lo vedi;
Ma salva dalla morte il bimbo mio,
E bacierò l'impronta de' tuoi piedi!
III.
Come ha già il volto smorto ed affilato,
Povero bimbo, povero angioletto!
Ah per pietà, coprite quel visetto;
Non lo posso veder così mutato.
Appena appena gli si sente il fiato
Ed un leggiero tremito nel petto;
Sembra già morto — ha già mutato aspetto;
Ha chiuso gli occhi — è immobile — è diacciato!
Dottore! Amica mia! Ma dunque è vero!
Egli morrà! Lo porteranno via!
Porteranno il mio bimbo al cimitero!
Il mio bimbo! il mio cor! Ma rispondete!
Dite che è un sogno della mente mia,
O mi spezzo la fronte alla parete!
IV.
Che? — C'è speranza ancor ch'egli non mora?
Non è la tua pietà — dottor — che mente?
È salvo se fra un'ora si risente?
Se fra un'ora il suo volto si colora?
Un'ora! Un'ora eterna! Un'ora ancora
Per vederlo morir più lentamente!
Ma prima sarò anch'io morto — o demente,
O invecchierò di trenta anni in quest'ora.
Ebben — coraggio — starò qui prostrato,
Muto — aspettando colle braccia in croce
Che il mio povero bimbo sia spirato.
Ed aspetta anche tu — cara — pregando;
Non alzar contro Dio l'incauta voce....
Inginocchiati qui.... te lo comando!
V.
Pietà, tremendo Iddio! Pietà, Signore!
Nel santo nome della madre mia.
Pietà del mio bambino in agonia,
Non rapite quest'angelo al mio core.
Io redento dal pianto e dal dolore
Vivrò una vita santa, umile e pia,
E non avrò più senso che non sia
Bontà, dolcezza, pentimento, amore.
E se è fermo nel Vostro alto consiglio
Ch'egli debba morir — ch'io non intenda
La voce che dirà: — non hai più figlio!
Datemi, eterno Iddio, questo conforto;
Ch'io non la senta la parola orrenda;
Ch'io resti prima o forsennato o morto.
VI.
Povero core! Povero bambino!
Era un angiolo d'anima e d'aspetto;
Pareva un fiore — e qualche riccioletto
Gli usciva già di sotto al cuffiettino.
La notte, lo cullavo — e sul mattino
Venia — nudo e ridente — nel mio letto,
E sgambettando mi puntava al petto
E contro il volto il suo rosso piedino.
Ed ogni sera — in lui rapito — chino
Teneramente sul suo bianco nido
Gli coprivo di baci il corpicino;
E in mezzo ai baci mi fuggía dal core
Un gemito, un singhiozzo, un riso, un grido,
E cadevo in ginocchio ebbro d'amore.
VII.
Addio, mia bella visïon fuggita,
Bel sogno mio svanito sull'aurora,
Larva adorata che brillasti un'ora
Sul deserto cammin della mia vita!
Non tutta ancor l'anima mia smarrita
Può intendere il dolor che la divora;
Ancor vaneggio; — non lo sento ancora
Tutto lo strazio della mia ferita.
Avrò per sempre il mio bimbo morente
Dinanzi agli occhi — ed il mio labbro muto
Cercherà la sua fronte eternamente.
Arte, fede, avvenir, gloria, fortuna,
Speranze, gioventù — tutto è perduto;
Tutto è morto e sepolto in questa cuna.
VIII.
No! non lo credo! Tu m'inganni! Giura
Che dici il vero! Per pietà, dottore,
Non lacerarmi un'altra volta il core,
Non ti far gioco della mia sventura!
È uno scherno crudel della natura!
È un vano inganno! È un sogno mentitore!
È salvo? Vive? Vive ancor? Non muore?
Ah! la povera mia mente s'oscura!
Indietro tutti — via da me — lasciate
Ch'io profonda sul mio santo angioletto
Questa piena di lacrime infocate!
Ride! Parla! Mi guarda! Eterno Iddio,
Che il grande nome tuo sia benedetto!
Mio figlio è salvo — l'universo è mio!
GIOVANNI RUFFINI
Un giorno, a Parigi, ricevetti una lettera con questo poscritto: — «Se non lo sa, le annunzio che il Ruffini, l'autore del Dottore Antonio e del Lorenzo Benoni, sta in via Boulogne, numero trentasei.»
Vi sono molti che pure desiderando vivamente di conoscer di persona un uomo illustre che amano ed ammirano, per nulla al mondo andrebbero a bussare alla sua porta senz'essere accompagnati da un conoscente comune, o avere in tasca una lettera di raccomandazione, o essere stati assicurati in mille modi che possono presentarsi senza timore di parere impertinenti. Per me, quando ho un desiderio di questa natura, trovo che la maniera più naturale e più dignitosa di soddisfarlo, è quella di andar per la via più corta a casa del personaggio, e dire alla cameriera che viene ad aprire: — Abbia la bontà di annunziare al padrone che il tale dei tali ha un vivissimo desiderio di vederlo. — Non mi conosce? che importa? O che vado là per far ammirar me, e non per ammirar lui? Ma potrebbe supporre che vi abbia condotto a casa sua una curiosità volgare, o l'ambizioncina di dire poi che l'avete conosciuto. Ma che! Se è un uomo d'ingegno deve aver l'occhio fino e conoscere gli uomini: gli basterà guardarmi in viso e sentire il suono d'una mia parola, per capire che il cuore che mi batte, ch'egli mi fece del bene, che ho della gratitudine per lui, e che v'è più rispetto e più amore in quella mia risoluzione di farmi innanzi così alla bella libera, che in tutte le esitazioni e in tutti gli scrupoli degli ammiratori timidissimi.
Andando per via Clichy verso via Boulogne, pensavo al Dottore Antonio, che avevo letto cinque anni innanzi, di primavera, all'uscire di una grave malattia. Pei libri che si lessero la prima volta in tempo di convalescenza, quando pare di esser rinati a un'altra vita, e stando ancora in letto più per prudenza che per bisogno, si guarda colla curiosità d'un prigoniero quel po' di cielo azzurro che appare dalla finestra, e quella ciocca di verde che spunta sul terrazzino della casa dirimpetto; pei libri che si lessero in quei giorni, qualunque essi sieno, si nutre un sentimento particolare di gratitudine. Se poi son libri che facciano amare soavemente quella vita che si è temuto di perdere, e desiderare con ardore quel lavoro che ci fu tanto doloroso di smettere, e ammirare con entusiasmo quella natura varia e bellissima che le quattro pareti della nostra stanza ci hanno nascosta per tanto tempo; se son libri, in una parola, che aggiungano una nota dolcissima all'inno di gratitudine che si alza dal nostro cuore verso tutto quello che è intorno noi e sopra di noi, come se ogni cosa si rallegrasse della nostra salvezza, e ci animasse a rimetterci in cammino con coraggio; allora quei libri diventano amici di tutta la vita, e il nome di chi li scrisse ci resta nell'anima come il nome di un benefattore.
Entrando in via di Boulogne mi ricordai delle affettuose parole colle quali un amico mio mi espresse un giorno l'impressione che aveva ricevuta dai romanzi del Ruffini. — È uno di quelli scrittori, ai quali, dopo letto l'ultima pagina d'un loro libro, domandereste un consiglio per pigliar moglie, confidereste una vostra sorella per un viaggio, rimettereste nelle mani denari, memorie secrete, lettere intime, ogni cosa.
Tirai il campanello, mi aperse una vecchia cameriera. — C'è? — C'è. — Abbia la bontà di dirgli che il tale dei tali ha un vivissimo desiderio di vederlo. — Scomparve, e tornò di lì a un minuto a dirmi ch'entrassi.
Entrai in una cameretta modesta — lo vidi — aveva capito — mi venne incontro sorridendo — balbettai qualche parola — sedemmo.
I primi momenti in cui si trovano l'uno di fronte all'altro un uomo illustre e uno sconosciuto che è stato spinto verso di lui da un sentimento di ammirazione e di affetto, passano quasi sempre in silenzio, poichè il visitatore, lì per lì, è occupato suo malgrado a fare un raffronto tra la persona che ha dinanzi e quella che si raffigurava; e l'uomo illustre, dal canto suo, indovinando quel raffronto, per quanto sia superiore ad ogni sentimento di vanità, rimane sospeso nell'atto di cercar negli occhi dell'ammiratore l'impressione che la sua persona gli produce. Fuor che nei momenti dell'inspirazione, il viso di uno scrittore o d'un artista non riflette mai così limpidamente la bellezza dell'ingegno e del cuore. Vi si vede una soddisfazione serena, mista a un non so qual leggiero turbamento di pudore virile, che farebbe parer bello anche un viso non bello, e desterebbe un moto di simpatia anche in un'anima dalla quale fosse svaporata ogni freschezza di sentimenti gentili.
Il Ruffini ha l'aspetto d'un buon padre di famiglia; uno di quei bei volti aperti e soavi, che in questi tempi, come dicono coloro che hanno per intercalare il mondo peggiora, non si vedono più; una di quelle fisonomie che ricordano certi grandi ritratti che ornan le sale delle case patrizie. Così a occhio si direbbe che ha una sessantina d'anni; e godo di poter aggiungere che ha l'apparenza d'un uomo destinato a sbarcarne altri sessanta. Però malgrado il suo aspetto pacato, s'indovina da certi moti risentiti delle labbra e da certi suoni profondi della voce, che la sua vita deve essere stata agitata da passioni vigorose e afflitta da qualche grande dolore. Come nelle pagine del Dottor Antonio, così sul suo viso, nel suo accento, nei suoi discorsi vi è qualche cosa di melanconico. Ma è una melanconia temperata di tanta benignità e di tanta dolcezza, che non se ne sente punto l'amaro. Ha poi una semplicità infantile di modi e di linguaggio, che vi fa parere d'essergli sempre vissuti insieme, e una maniera di guardarvi e d'interrogarvi come se foste voi in casa vostra, ed egli ci fosse venuto, mosso dallo stesso sentimento che condusse voi a casa sua.
Alle prime parole che gl'intesi dire fui meravigliato che non avesse perduto l'accento genovese dopo tanti anni che vive lontano dal suo paese. È nato a Taggia, vicino a San Remo, su quella beata riviera ligure che egli dipinse con una meravigliosa freschezza di colori nel suo secondo romanzo. Si sa che nel 1848 i suoi concittadini lo mandarono al Parlamento piemontese, e che lo rielessero non è molto, benchè egli dichiarasse che non avrebbe accettato il mandato, come in fatti non l'accettò, per non spellar la mano nei ferri dell'altrui bottega. Ora vive un po' a Londra, un po' in Isvizzera e un po' a Parigi; ma più lungamente a Parigi, dove ha molti amici e molti ricordi. È stato gravemente malato or fa un anno, credo appunto in Parigi, e non s'è ancora rimesso affatto dalla malattia; ma la sua è una convalescenza colla quale molti uomini di pari età vorrebbero poter cangiare la propria salute.
Gli feci quella solita dimanda, che per gli uomini come lui dev'essere importuna come una mosca, tanto spesso e da tanti se la senton fare! ma che pure è naturalissima, e scappa dalla bocca prima che si sia pensato a mandarla fuori: — E ora che sta facendo?
— Non faccio nulla — rispose — perchè non ho niente da dire. —
Risposta semplicissima che chiude una profonda sentenza: — Scrivere quando si ha bisogno di scrivere, — o come diceva il Manzoni — aspettare che la musa ci venga a cercare, e non iscalmanarsi a correr dietro alla musa. — E poi soggiunse per chiarir meglio il suo pensiero:
— Ognuno non ha che una certa quantità di roba nel sacco, e quando il sacco s'è vuotato, se si vuol continuare a dare, non si dan più che parole —
Gli domandai se nei soggetti de' suoi romanzi ci fosse il fondamento d'un qualche fatto vero e n'ebbi la risposta che m'aspettavo. Egli ha conosciuto quasi tutti i suoi personaggi, ha raccontato i loro casi, s'è servito delle loro parole. Di qui l'efficacissimo colore di verità che brilla nei suoi racconti, i dialoghi che par di sentire piuttosto che di leggere, e i personaggi che, a libro chiuso, si confondono nella memoria del lettore con gente vera ch'egli conobbe in altri tempi, così che alle volte gli bisogna quasi fare un atto di riflessione per separare le persone dalle larve. Dio sa quante cose gli avrei domandato intorno ai suoi libri, ai suoi studî e alla sua vita se non me ne avesse trattenuto il timore che egli, osservatore sottile, mi leggesse negli occhi il proposito segreto di spiattellare in una gazzetta tutto quello che gli usciva dalla bocca. E perciò fui costretto a lasciar cascare la conversazione sull'interpellanza contro il decreto del prefetto di Lione e sulla discussione intorno all'ordine della Legion di Onore. Il Ruffini conosce la Francia intus et in cute, e spiega, parlando di politica, quell'accorgimento fino e quel buon senso rettissimo, col quale suol giudicare gli uomini e le cose nei suoi romanzi; ma pure non mi potei trattenere dall'interrompere quei suoi discorsi per ricondurlo a parlare di sè, e cogliendo a volo tutti gli appicchi ch'egli diede involontariamente alle mie interrogazioni indiscrete, riuscii a raccapezzare qualcosa.
Come abbia cominciato la sua vita letteraria, i più, credo, lo sanno. Emigrò giovanissimo, andò a Londra, e trovandosi corto a denari, dovette pensare a guadagnarsi la vita col lavoro. Prima d'allora non avea scritto altro che articoli per gazzette, e benchè si sentisse dentro quella certa smania inesplicabile che agitava l'anima del Giusti prima che si fosse rivelato a sè stesso, non aveva mai sognato di salire un giorno su per la sterminata scala dell'arte fino all'altezza a cui è salito. Gli venne in mente di scrivere un libro — che fu poi il Lorenzo Benoni — per far conoscere in Inghilterra quel periodo importantissimo della vita italiana, e destar così un sentimento di simpatia per il suo paese «che allora aveva bisogno di tutti.» Manifestò il suo disegno ad alcuni amici che lo approvarono, e trattò della pubblicazione coll'editore d'un giornale, che lo esortò a scrivere i primi capitoli, i quali sarebbero stati stampati subito per tastare l'opinione pubblica, e o smettere a tempo o tirare innanzi di buono. Il Ruffini scrisse le prime cento pagine e gliele portò; ma l'editore non fu soddisfatto, e cangiato avviso, volle vedere il lavoro finito prima di cominciarne la stampa. Allora il Ruffini si perdette d'animo, buttò in un canto il suo manoscritto e si dedicò ad altre cose. Qualche tempo dopo, essendo andato a Parigi e avendo dato a leggere quel poco che aveva fatto ad una colta ed arguta signora, che gliene fece caldissime lodi, e lo spronò vigorosamente a scrivere, riprese animo, si rimise al lavoro, lo condusse a fine, e mandò il romanzo con una lettera di raccomandazione di suo fratello, a un editore di Edimburgo, il quale approvò, stampò e ricompensò l'autore con cento lire sterline: non sperata fortuna! che fu, come tutti sanno, il primo anello d'una catena d'oro. Il Lorenzo ebbe un successo splendido; la stampa inglese incoraggiò l'autore con larghissime lodi; lo stesso Mazzini, benchè in quel libro ci fosse qualche nota stridente per un orecchio repubblicano, gli espresse per lettera la sua ammirazione; la fama del Ruffini fu assicurata. Poi venne il Dottor Antonio, e dopo il Dottor Antonio, tutti gli altri gioielli smaglianti di limpidissima luce.
Come ha potuto il Ruffini ridursi in grado di scrivere in inglese, per quanto si assicura, puro, facile ed elegante, in così breve tempo, poichè egli medesimo dice che quando andò in Inghilterra non conosceva che pochissimo la lingua? Voglio che un ingegno potente divini, in gran parte, il linguaggio del quale ha bisogno per rivelarsi ed espandersi; ma quanto deve aver faticato in quelle prime lotte del pensiero colla parola, così lunghe e difficili anche per chi scrive nella lingua che gli è famigliare dall'infanzia, egli che doveva scrivere in una lingua straniera, e tanto diversa dalla sua! Io credo che quando va a Londra, non dimentichi mai di visitare quella stanzina al quarto piano, nella quale vegliò le prime notti, colla mente affollata di pensieri e d'immagini che non trovavan l'uscita, e il cuore gonfio d'affetti che prorompevano in lagrime prima che in parole! Chi avesse potuto in quei momenti susurrargli nell'orecchio con uno di quegli accenti di voce sovrumana che annunziano il futuro agli eroi delle leggende: — Tu sarai ricco, celebre ed amato in questo paese, nel tuo, in molti altri, per una lunga vita e dopo la vita!
È facile avvedersi da qualche parola buttata qua e là che il Ruffini si dà pensiero del rimprovero che molti gli potrebbero fare, che qualcuno gli fece, d'aver scritto in inglese invece che in italiano. Per me credo che non occorra nemmeno discolparlo. Per potergli fare un carico d'aver scritto in inglese, bisognerebbe potergli anche scrivere a colpa di aver emigrato, d'esser andato a Londra, di essersi trovato nella strettezza, di aver avuto bisogno di farsi capire dalla gente da cui voleva farsi leggere. D'altra parte i suoi libri, benchè scritti in inglese, sono tanto italiani e per soggetto e per sentimento e per scopo, che si può quasi affermare che appartengono alla letteratura italiana più che alla letteratura inglese. Scritti in italiano, non si sarebbero certamente diffusi quanto si diffusero, e non avrebbero ottenuto in egual misura lo scopo che l'autore si propose: — di far conoscere ed amare l'Italia fuori d'Italia. — Il Ruffini ha fatto una buona azione in inglese; e una buona azione è sempre una buona azione in qualunque forma la si faccia; e il nostro amor proprio nazionale non è punto meno solleticato da che gl'Inglesi ci dicano: — Alcuni dei nostri più cari romanzi sono d'un Italiano; — che dal poter dir noi: — abbiamo un Italiano che scrisse alcuni romanzi degni di stare accanto ai più cari romanzi inglesi. —
I romanzi del Ruffini furono tradotti in molte lingue. Mi parlò egli stesso di una traduzione tedesca che si fece mesi sono, e da quanto mi parve di capire, tutte queste traduzioni gli fruttarono qualche cosa, — eccettuate le traduzioni italiane — dalle quali non gli venne il bellissimo nulla. Non lo disse, ma credo di poterlo affermare; e mi spiace di poterlo affermare. Eppure i libri del Ruffini furono e sono tuttora molto letti in Italia. Dal che si può tirare una conseguenza che non è onorevole per il commercio letterario italiano.
S'informò delle condizioni della nostra stampa letteraria e mi domandò che vita possa menare fra noi uno scrittore al quale non manchi il favore pubblico. Gli risposi che in Italia, uno scrittore al quale il pubblico sia favorevolissimo, può oramai considerarsi quasi sicuro di non morir di fame, purchè lavori il doppio di quello che dovrebbe per rispetto all'arte sua e per riguardo alla propria salute, e purchè i suoi libri abbiano una straordinaria diffusione. E siccome mi nominò uno scrittore giovane, autore di alcuni romanzi dei quali si fecero parecchie edizioni, gli avrei voluto far sapere che appunto quello scrittore, che pure si può annoverare tra i più fortunati del giorno, può scrivere ogni sera qualche pagina di romanzo, perchè lungo il giorno ne scrive molte, e Dio sa che camiciate gli costano, sul corso forzoso, sulle imposte comunali e sui progetti di strade ferrate. E gliene avrei potuto nominare un altro, morto giovane, ch'era pieno d'ingegno e d'affetto, e operosissimo, e i cui libri si leggevano avidamente, e che pure, non molto tempo prima di morire, si trovava ridotto a desinare di castagne secche. E gli avrei potuto anche dire d'un uomo illustre, vivente, autore di alcune opere note anche fuori d'Italia, che per reggersi ritto, scrive ogni giorno una lettera politica a un giornale di provincia, che manda cento lire al mese a un amico suo, il quale si fa passare per corrispondente, e rimette i denari a lui, che salva così il pudore della povertà. Il Ruffini che s'è fatto una piccola fortuna con quattro novelle, avrebbe sorriso se gli avessi detto queste cose. Certo che si può obbiettare: — Scrivete delle novelle come le sue. — Ma tra farsi una fortuna e campare, ci corre più che tra le novelle del Ruffini e gli scritti di coloro che ho accennati, benchè ci corra moltissimo. E non dico questo per cavarne un'accusa contro l'Italia; ma per dire le cose come sono.
Non so quanto tempo io sia rimasto con quel caro uomo, — medico di anime e fattore di galantuomini, — cogli occhi fissi nei suoi e colla mente tesa per cogliere ogni suo pensiero e impadronirmi di ogni sua parola. E mi pareva di vedere intorno a lui, come un corteo, tutti i gentili fantasmi che ci fece amare nei suoi libri, e lontano, in fondo al quadro che mi rappresentavo colla fantasia, quella bella marina ligure, quel bel cielo, quel lido verde e queto, ch'egli ci fece parere più bello e ci rese più caro. E udendolo parlare italiano così un po' lentamente e con qualche giro di frase straniera, e pensando ai lunghi anni ch'egli visse fuori della sua patria, e al suo soggiorno in Francia, e ai suoi viaggi in Isvizzera e in Inghilterra, che lo allontanano da noi, provavo come un senso di mestizia, e gli avrei voluto dire quello che ora scrivo, non per chi leggerà, ma proprio per lui: — Tornate fra noi, caro amico, che se non abbiamo potuto agevolare i primi passi che faceste sulla nobile via delle lettere, nè raccoglier di prima mano i fiori di cui l'avete cosparsa, v'abbiamo però accompagnato da lontano con un sentimento d'orgoglio, misto di rammarico e di desiderio. Tornate fra noi perchè abbiamo bisogno d'una persona cara e venerabile, sulla quale versare una parte dell'affetto che avevamo accumulato sul capo di quel vecchio illustre, del quale voi avete la bell'anima, e se non pari gloria, la stessa gloria: quella di aver fatto del bene. —
Uscendo di casa sua, mi accorsi che per la prima volta, dopo due mesi che stavo a Parigi, mi sentivo libero da un certo stordimento, da un turbinio di desiderî, da non so che tumulto del cuore e della testa, che non mi lasciava ben avere, nè lavorare, nè pensare, come se ogni giorno fosse il giorno dell'arrivo, e che a volte mi prostrava in uno sgomento da non potersi esprimere, come di chi credesse d'esser diventato tutt'ad un tratto povero, stupido, nullo, e che tutti, incontrandolo, dovessero sentir compassione di lui. Il Ruffini mi guarì da questa malattia. Dopo di allora non l'ho più visto. Se gli cadranno sott'occhio queste pagine, pensi che i medici debbono tollerare le piccole indiscretezze dei malati — accetti la, mia pubblica professione di gratitudine, — sorrida, — e mi perdoni.
1873.
L'AMORE DEI LIBRI
Un tale, tempo fa, scrisse contro la pessima abitudine di moltissimi italiani, i quali benchè siano dediti alla lettura e possano spendere, non comprano mai un libro.
Le cagioni di quest'abitudine di non comprare, o meglio, di questa mancanza dell'abitudine di comprare, son molte; ma le principali mi paion queste: che la libreria non è ancora considerata come un mobile necessario al decoro della casa, che il libro non è ancora capito come oggetto d'ornamento, che si ama la lettura, infine, ma che non si ama ancora il libro.
Io credo infatti che di tutti i mobili quello che si vende meno in Italia sia lo scaffale.
Moltissimi non capiscono in nessuna maniera come e perchè si abbia da conservare un libro dopo che si è letto.
Ogni momento, dai librai, occorre di sentir dire a qualcuno: — leggerei volontieri questo libro. — Gli domandano perchè non lo compra. — Perchè non lo compro? — risponde l'interrogato. — E che vuol che ne faccia quando l'abbia letto? — Per costoro un libro letto non essendo più che un ingombro, hanno ragione di non voler spender denari per empirsi la casa di carta sudicia. Entrate nelle case. Nella maggior parte vedete delle raccolte di conchiglie, d'uova, di pietruzze, di francobolli esteri, persino di scatoline di fiammiferi; ma non ci vedete una raccolta di libri. In ogni parte c'è qualche cosa che vi rammenta che la famiglia mangia, gioca, dorme, suona; nulla che vi rammenti che legge. È gala se vedete sparsi qua e là pei tavolini e pei cassetti una ventina di volumi, un terzo dei quali appartengono al ragazzo che va a scuola e quattro o cinque a un gabinetto di lettura. I pochi che rimangono, — la sola proprietà libraria della casa, — son laceri e scuciti e hanno i primi fogli coperti di cifre e di fantocci. Se ne servono per smorzare la candela, per accendere il fuoco, per fornire di carta le parti della casa dove è bene che ci sia sempre carta. — Perchè stracciate questo libro? domandate. — Oh bella! — rispondono — se l'abbiamo già letto e riletto tatti!
Una casa senza libreria è una casa senza dignità, — ha qualcosa della locanda, — è come una città senza librai, — un villaggio senza scuole, — una lettera senza ortografia.
Quanto è bella una biblioteca! Quante cose ci vede e quanto piacere ne può ricavare anche chi legge per puro spasso, se appena ha un po' di sentimento e d'immaginazione!
I più mirabili frutti dell'ingegno umano son qui, raccolti in un piccolo spazio, sotto la mia mano. Frutti d'ispirazioni divine, frutti di meditazioni e di studi che segnarono di rughe precoci le più nobili fronti umane, frutti delle più splendide fantasie dell'universo, son qui ridotti nella forma di piccoli parallelepipedi, imprigionati fra quattro assicelle, divisi per tempi, per paese, per lingua, per materia, per dignità, numerati e schierati come un esercito. Uno scompartimento mi apre i secoli passati, un altro mi trasporta nei paesi lontani, questo mi tocca il cuore, quello mi stimola la vena del riso, un terzo mi fa sognare, un quarto mi fa pensare e un quinto mi fa piangere. Io posso scegliere secondo il mio umore; è una farmacia morale; vi sono gli scompartimenti per i giorni foschi, quelli per i giorni sereni, quelli per i giorni di fiaccona, quelli per i giorni in cui mi piglia la furia del lavoro. E alla varietà delle materie corrisponde la varietà degli aspetti. Vi sono i colossi, — vocabolari e grandi opere illustrate, — che formano quasi l'ossatura di questo piccolo mondo. Vi sono file compatte di volumi tarchiati, di color oscuro, — vecchie edizioni economiche di opere classiche, — modeste all'aspetto, ma piene di vital nutrimento, come nel mondo reale gli uomini di vero merito. Sotto questi, l'aristocrazia delle legature, la classe privilegiata della biblioteca, rivestita di pelli luccicanti e rabescata di fregi d'oro. Poi la gioventù elegante e gaia: il roseo del Lemonnier, il turchinetto del Barbera, il rosso aranciato dell'Hachette, il giallo chiaro del Levy, cento colori di cento edizioni civettuole, che fanno a chi più tira gli sguardi. Poi daccapo lunghe file di volumetti uniformi e poveri, che sono come il popolo minuto della biblioteca, guardato con indifferenza e trattato con pochi riguardi. Più sotto le edizioncine diamante, genterella irrequieta, che va e viene dalla città alla campagna, per strada ferrata e in carrozza, dalla tasca alla valigia, dalla valigia al tavolino da notte, e si contenta dei ritagli della nostra giornata. In questa folla abbiamo le nostre simpatie, i vecchi amici, gli amici di ieri, i maestri, i benefattori, i cattivi consiglieri, i capi scarichi, le anime perdute, i rigoristi, i seccanti, i buffoni, i parassiti, i predicatori, i mettimale, i consolatori. E in fondo finalmente, al pian terreno, quattro dita sopra il pavimento, il cimitero, dove sono ammontati alla rinfusa, sbrandellati e coperti di polvere, libretti ed opuscoletti d'ogni forma e d'ogni colore, che vissero un giorno od un'ora nella nostra mente: stravizi dello spirito, come dice il Guerrazzi; segatura dell'ingegno umano: poesie di nozze, primi saggi di poeti falliti, romanzi rachitici, almanacchi, libelli, imitazioni, plagi, capricci, corbellerie, cenci e cocci della letteratura, destinati al banco del tabaccaio alla cesta dello spazzino.
L'amore dei libri, crescendo a poco a poco, finisce poi col diventare un sentimento affatto distinto dall'amore della lettura, e fonte, per sè solo, di mille piaceri vivissimi, piaceri della vista, del tatto, dell'odorato. Certi libri, si gode a palparli, a lisciarli, a sfogliarli, a fiutarli. L'odore della stampa fresca dà dei fremiti di voluttà. A occhi chiusi, fiutando, si riconosce se un libro è antico, o soltanto vecchio, o recente, o recentissimo. Certi colorini di certe edizioni innamorano, e s'incapriccisce per certi sesti e certi frontispizî, come per certi corpicini e certi visetti. Si prova veramente per i libri piccoli e graziosi un sentimento di sollecitudine più gentile, che pei libri grossi, e a sollevare con uno sforzo certi libroni si ride d'una compiacenza che non saprei definire; ma che è tutt'altra da quella che si sente sollevando qualunque altro peso. Si gode disponendo i proprî libri in un nuovo ordine, che formi una nuova combinazione di colori; si lavora di mosaico; si fa ogni giorno un cambiamento; una biblioteca anche piccola da lavorare; c'è da colmare le lacune, da barattare le edizioni, da ricevere i nuovi venuti, da congedare quei che partono, da curare quei che soffrono, da ristorare quei che invecchiano, da far la corte a quei che splendono; è insomma un piccolo Stato da governare, nel quale si provano tutti i piaceri, tutti gli sconforti, tutte le invidie ed anche tutte le gloriole d'un piccolo re, che non potendo allargare i suoi confini quanto vorrebbe, si diverte e si consola rimestando continuamente quel po' che possiede.
È un grande errore quello di credere che s'impari ugualmente dai libri che si possedono e da quelli che si pigliano a prestito. Un libro non fa tutto il pro che può fare se non è cosa nostra. Bisogna poter logorarselo, sottolinearselo, farvi dei punti d'esclamazione, piegare le pagine, segnarne i margini colle nostre unghie. Un libro che non fa che passarci per casa, non lascia traccia profonda. E poi, che differenza! Se lo avete in casa, lo leggete e lo rileggete appunto nei casi in cui siete meglio disposti a riceverne un'impressione viva ed utile, perchè ciò che vi fa cercar quella lettura piuttosto che un'altra, è una disposizione particolare dell'animo, la quale se doveste cercare il libro altrove, sarebbe forse già mutata prima che il libro fosse nelle vostre mani.
Quanto è grande l'efficacia d'una biblioteca sull'educazione dei ragazzi! Il destino di molti uomini dipese dall'esserci o non esserci stata una biblioteca nella loro casa paterna. L'aver avuto sotto mano, a tutte le ore del giorno, il modo di soddisfare le prime curiosità infantili, d'ingannare sfogliando libri la noia delle giornate piovose, gettò in molti cervelli i primi germi d'un amore allo studio che divenne col tempo passione ardente per la scienza e fecondò precocemente certe facoltà dell'ingegno che lo studio obbligato e circoscritto della scuola avrebbe lasciate inerti. E lasciando pure da parte i grandi effetti, è bene ispirare all'infanzia il culto dei libri, anche prima dell'amore della lettura. È ben per il bambino che ci sia un angolo della casa, dove è eretto quasi un altare allo studio e al sapere, al quale, senza comprenderne ancora la ragione, egli vede dai suoi parenti usar certe cure e testimoniare un certo rispetto; una stanza silenziosa, dove di tratto in tratto egli vede qualcuno immobile e serio; un luogo consacrato al pensiero come ce n'è uno consacrato alla mensa, uno al lavoro, uno al riposo. E da giovinetto, leggerà con un piacere particolare quei libri che gli son famigliari all'occhio fin dell'infanzia, che ha veduto mille volte ordinare, pulire, accarezzare dai suoi genitori; che avevano già per lui, ciascuno secondo la sua forma e il suo colore, un significato fantastico, prima che conoscesse l'alfabeto. Certo ci dev'essere una differenza tra il giovinetto che fin dai suoi primi anni ha veduto la sua famiglia conservare e rispettare religiosamente i libri, e quello che l'ha veduta vivere di brigantaggio librario e fare dei libri letti quello che si fa delle scarpe vecchie e degli abiti smessi.
E poi! che c'è che ravvivi più intimamente e più dolcemente nel cuore del figliuolo la famiglia o lontana o dispersa, i genitori morti, l'infanzia, l'affetto e le cure di cui fu circondato? I libri che portano il nome del padre, ch'egli stesso mise nelle sue mani, di cui parlò con lui, gli ricordano le sue letture predilette, i suoi giudizî, le sue opinioni, mille sfumature della sua indole. Su certi libri gli par di vedere, al lume della candela, chinarsi quegli occhiali luccicanti e quella barba bianca. Altri gli rammentano la famiglia seduta in cerchio, intenta alla lettura d'un solo; atteggiamenti di persone care, esclamazioni e risa allegre o singhiozzi mal soffocati delle sorelle piccine, che pure gli sarebbero già fuggiti dalla memoria da lungo tempo. Il figliuolo di chi amò i libri, amerà i libri, e non sarà mai un'anima affatto volgare quella in cui rimarrà questo culto.
Ah! vediamo di formarci intorno per tempo questa corona d'amici muti e fedeli; fabbrichiamoci questa pacifica fortezza per ripararvici dentro nei giorni in cui saremo assaliti dai dolori della vita. Questi giorni vengono, e con essi il bisogno della solitudine e del silenzio. Sarà triste allora il non aver un angolo della casa dove poter rifugiarsi per tentar di dimenticare i vivi confortandosi coi morti!
MANUEL MENENDEZ (RACCONTO)
I.
La canzonetta andalusa intitolata Don Manuel Menendez è una favola che non ha quasi punto che fare col fatto vero, il quale si può sapere soltanto dai Sivigliani che conobbero intimamente il personaggio, e che son rari, perchè egli partì da Siviglia di quattordici anni, quando perdette il padre e la madre; non vi tornò che dieci anni dopo, e ne ripartì per sempre in capo a pochi mesi. In questo breve tempo riempi la città del suo nome. Non stava però sempre in città: partiva, tornava, spariva, senza che nessuno sapesse nè perchè, nè dove; e qualche volta la notizia del suo ritorno giungeva inaspettata ai suoi amici insieme con quella d'un colpo di spada ch'egli aveva dato o toccato fuori della Porta di Cordova per una quistione di donne o di politica. Molti dicevano che aveva un ramo di pazzia, e la credevano conseguenza d'una cornata nel capo che aveva ricevuto, a tredici anni, da un toro novillo, nei giochi domenicali del circo. L'aveva ricevuta infatti, e ne portava ancora la traccia; ma il suo cervello n'era rimasto illeso. Aveva una meravigliosa esuberanza di vita che espandeva in amore, in moto, in versi, in lacrime, in sangue, senza riuscire a trovar pace; un cuor grande, un orgoglio satanico, degl'impeti di rabbia in cui si sfracellava una mano contro il muro, una forza d'animo da far fremere e il coraggio d'un forsennato. Una signora aveva detto di lui uno scherzo che gli si attagliava a meraviglia: — Io mi son fitta in testa che se nelle comete ci sono degli uomini, debbono essere tutti come Manuel Menendez. — La sua parola non usciva, esplodeva, e pareva sempre che una parte della sua vita fuggisse nel suono della sua voce. Quando un torero, impaurito, vibrava un colpo da traditore o straziava l'animale senza ucciderlo, il più formidabile: — Codardo! — che risonasse nel circo di Siviglia, era il suo; nel teatro di San Fernando, quando si sentiva improvvisamente nel silenzio d'una scena sublime, uno di quei bravo fuggiti dalle viscere, che fanno correre un brivido per la platea, nessuno domandava di chi fosse: tutti sapevano che era di Manuel Menendez. Qualche suo amico diceva ch'egli aveva un talento colosal; ma era una pura sballonata andalusa. Le sue liriche non erano che un solo lungo periodo, un'ondata di parole sonore e d'immagini luccicanti, che finiva in un verso inaspettato, il quale doveva fare un gran colpo; e tutta la poesia era architettata su questo verso, che il più delle volte non si capiva. Non si capiva la sua poesia come non si capiva la sua vita. Chi lo vedeva a mezzanotte attraversare la Halameda de Hercules senza cappello; chi lo vedeva uscire all'alba da una piccola porta della Cattedrale; chi lo vedeva andare e venire tutta una mattinata per la famosa strada delle cento svoltate, colla testa bassa, come se cercasse uno spillo; nella sua casa, dalla strada, di notte, ora si sentiva leggere, ora ridere sgangheratamente, una volta spezzare i vetri delle finestre, un'altra volta singhiozzare una donna; qualunque cosa si raccontasse di lui, fuorchè una vigliaccheria, era creduta. Tutta Siviglia lo conosceva. La società alta, che bazzicava poco, lo guardava di mal occhio un po' per diffidenza e un po' per paura; il basso popolo lo rispettava perchè aveva salvato un vecchio facchino dalle acque del Guadalquivir; e non v'era forse un ventaglio in tutta la città, da quello della Governatrice a quello dell'ultima operaia della fabbrica di tabacchi, il quale, almeno una volta, fingendo di riparar dal sole il viso della sua padrona, non avesse lasciato passare tra le sue stecche uno sguardo o curioso o provocatore, diretto a quell'indomabile scapato; poichè Menendez aveva un bel viso d'arabo, contornato da una selva di capelli neri, e il suo vestire strano, ma elegante, segnava come una maglia le forme vigorose e signorili del suo bel corpo di ventiquattr'anni. Così era Menendez, e non una specie d'animale selvaggio come lo dipinge la canzone popolare, non certo stata fatta dal popolo; o così fu almeno fino all'ultimo dì del settimo mese del suo soggiorno in Siviglia, che è la data del suo gran cangiamento. Il suo amico don Hermógenes, che vive ancora, si ricorda di quel giorno come di ieri, e assicura che egli presentì quel cangiamento fin da quel giorno. — Manuel — gli disse — tu sei un uomo sfrenato; codesto non è il modo di vivere; tu ti uccidi; tu hai bisogno d'un amore potente che ti soggioghi; finora hai sempre comandato, ora bisogna che tu obbedisca; bisogna che tu trovi un'anima più forte della tua; bisogna che tu trovi una dominatrice. — L'ho trovata — rispose sorridendo Manuel. — Chi è? — domandò con aria incredula don Hermógenes — Fermina! disse Menendez, — Fermina? gridò l'amico; Fermina del sobborgo di Triana? Fermina di Granata? Fermina la princesa? — Menendez accennò di sì. — Don Hermógenes balzò d'un salto alla finestra e gridò con voce solenne: — Sivigliani don Manuel Menendez è morto!
II.
Un mese dopo, Manuel Menendez era un altro. Tutti i Sivigliani che avevano una testina capricciosa da governare, respiravano. Egli non si vedeva più nè alla Villa Cristina, nè al Circo, nè al San Fernando. Chi l'avesse voluto trovare, avrebbe dovuto passare il ponte di ferro, voltare a sinistra, andare innanzi lungo il fiume fin quasi all'estremità del borgo di Triana, salire al secondo piano d'una casa bianca posta in faccia alla Torre d'oro, e guardare per il buco della serratura in una cameretta modesta, ombreggiata dagli alberi della riva destra del Guadalquivir. Egli era là, seduto ai piedi della più bella e più strana creatura dinanzi a cui si fosse mai curvata la sua fronte di saraceno, e versava l'anima in un torrente di parole amorose e insensate, ch'essa ascoltava in silenzio, lavorando a una corona di fiori — Fermina, — le diceva a bassa voce; — tu sei un mistero. Tu sei una creatura d'un altro pianeta. Da che mondo sei venuta? Come hai fatto a innamorarti d'un uomo? Io giurerei che ci fu un tempo che tu avevi i capelli azzurri e le pupille rosse. Perchè non ridi mai? Tu mi fai paura. Non sto volentieri solo con te. Tu, con quegli occhi, devi veder qualche cosa o qualcheduno che io non vedo, e che forse è qui, dietro di me, che ti guarda. La tua anima dev'essere un'anima trasmigrata, la tua voce dev'essere contraffatta, e la tua lingua non è certamente lo spagnuolo. Forse se mi parlassi tutt'a un tratto colla tua voce vera e colla tua lingua nativa, io rimarrei pietrificato. Però son contento d'essere amato da te; il tuo amore è un anello che mi congiunge col soprannaturale. Dimmi la verità: chi hai amato nell'altra vita? Io son geloso d'un abitante di Sirio. — A queste parole Fermina con un movimento rapido e vigoroso della mano gli sconvolgeva tutti i capelli e Menendez metteva un grido d'amore. Poi, a un tratto, essa aggrottava le sopracciglia e fissava uno sguardo sospettoso sopra un leggiero segno rosso del collo di lui. — Che cosa guardi? — domandava il giovane meravigliandosi. — Nulla, — rispondeva lei rassicurata; — ma.... guardati, Manuel! — E dopo qualche momento soggiungeva freddamente: — Io andrei a pugnalare una regina.
III.
Fermina era tale veramente da ispirare a chiunque la vedesse le bizzarre fantasie che passavano pel capo a Menendez; la sua indole, la sua bellezza e la sua vita erano ugualmente singolari. Nel sobborgo di Triana la chiamavano la princesa; i giovani sul serio, le ragazze con ironia; ma queste più d'ogni altri sentivano ch'essa meritava veramente l'onore di quel soprannome. Era forse la più alta ragazza del sobborgo: Menendez, che sarebbe stato un bel corazziere della guardia reale, non la passava che di mezza la fronte. Il suo occhio nero e triste e le larghissime soppracciglia che si toccavano, davano al suo viso bruno, d'una struttura un po' africana, un'espressione quasi di minaccia; la quale si cangiava a un tratto in una ilarità dolcissima, appena schiudeva le sue labbra tumide e irrequiete. Ma come le diceva Menendez, essa non sorrideva che una volta al giorno; e per solito teneva gli occhi socchiusi quasi in atto di disprezzo. Portava una rosa nei capelli, una mantiglia di trina bianca, un busto nero, una veste rosea, e due stivaletti di stoffa chiara che stringevano vigorosamente il suo piede di bimba e la sua gamba fina e nervosa. Era questo il costume invariabile in cui Fermina si mostrava, una volta la settimana, ai mille sguardi curiosi, amorosi, rabbiosi, impertinenti, procaci, che la saettavano da tutte le parti. Nessuno però osava d'accostarsele, nemmeno quando era sola, poichè si sapeva che le tre o quattro mani audaci che s'erano stese sopra di lei, nella prima settimana del suo soggiorno in Siviglia, s'erano tirate indietro insanguinate. — O è un angelo — si diceva, — o è un mostro; — ma nessuno sapeva sicuramente quello che fosse. Si diceva che fosse venuta da Granata, si sapeva che stava sola, si credeva che vivesse del suo lavoro; e sul resto non si facevano che congetture; nè i suoi vicini di casa, nè le poche ragazze con cui scambiava un saluto, conoscevano i fatti suoi meglio di chi la vedeva passare per strada. Essa s'era invaghita di Menendez, e Menendez era pazzo d'amore per lei; s'adoravano; erano alteri l'un dell'altro; si guardavano lungamente, con una attenzione profonda, senza sorridere; si temevano; si trattavano qualche volta, per eccesso d'amore, con modi violenti e brutali, che provocavano lacrime di rabbia dalle due parti, e finivano in pioggie di baci ch'eran tocchi di ferro rovente e in espansioni di tenerezza da cui rimanevano prostrati. Una sola cosa turbava la felicità di Menendez: un sentimento vago e intermittente di gelosia, ch'essa, senza volerlo, alimentava, respingendolo con una fierezza, la quale pareva a Menendez troppo sdegnosa, e quindi non sincera. Ma s'ingannava, perchè Fermina sentiva veramente più che disprezzo, orrore per tutti quei piccoli e bassi sentimenti che pullulano dall'amore anche più schietto nelle anime volgari. — Manuel, — gli aveva detto una volta — il giorno in cui tu mi crederai capace d'averti tradito, ossia d'essere una creatura spregevole, il mio amore sarà morto. Pensaci bene. Io non sono una donna come le altre donne; tu non devi essere un uomo come gli altri uomini. Voi altri siete quasi tutti vigliacchi. Io ho posto amore a te perchè non me lo sei parso. Non lo diventare. Io sono superba. T'ho dato il mio onore: rispettalo. Non giocare col mio amore. Io non son di quelle che perdonano. Se si cade una volta dal mio cuore, non vi si rientra più. Fermina t'ha detto una volta che t'ama: ti basti per tutta la vita. Stampati bene queste parole in fondo all'anima, Menendez.
IV.
S'amavano, e tutta Siviglia lo sapeva, o piuttosto lo vedeva. Andavano a passeggiare di notte in mezzo ai platani d'Oriente de las delicias de Cristina; andavano in barca, sul Guadalquivir, sino a San Juan d'Aznalfarache, a passar le ore calde all'ombra degli aranci; ed era ben raro che qualcuno vedesse Fermina inginocchiata dinanzi all'enorme altar maggiore della Cattedrale, senza riconoscere un momento dopo nell'ombra di qualche cappella vicina, la figura elegante ed immobile di Menendez. Per strada erano guardati da tutti con quel sentimento amaro insieme e voluttuoso di invidia, che ispira anche ai giovani la vista di due amanti felici, poderosi e superbi. Essi passavano come due principi in mezzo al mormorío della folla, Fermina, guardando al di sopra delle teste, Menendez, cercando inutilmente uno sguardo che si fissasse nel suo; gettavano il loro amore in faccia a Siviglia; portavano la loro felicità in trionfo; e per tutto dove passavano, lasciavano una larga traccia d'orgogli feriti e di amoruccoli schiacciati. A grado a grado, però, Fermina s'era acquistata la simpatia di molta parte del sesso femminino del suo ceto; molte avevano piegata la testa dinanzi alla sua invincibile alterezza; era considerata quasi come un ornamento del sobborgo; era presa a modello; aveva suscitato delle imitatrici; c'eran molte rozze e facili Gitane, che s'erano messe a camminare col capo rovesciato indietro e gli occhi socchiusi, lasciando sporgere fuor del busto il manico d'un pugnale, che non avrebbero mai adoperato.
V.
In questo stato di cose, un improvviso rivolgimento seguì nell'animo del Menendez. Nessuno, a Siviglia, ne seppe la cagione, fuorchè colui o coloro che ne furono colpevoli; ma tutti quelli che conoscevano il carattere di lui, non se ne meravigliarono punto. In certe nature esiste sempre intera e pronta la formidabile macchina del sospetto, alla quale basta buttare un nome e dare una scossa, perchè il più forte affetto vi rimanga stritolato. Chi, in vita sua, non è stato almeno una volta o vittima o colpevole d'una di queste precipitose distruzioni? Un dubbio leggerissimo, che c'era passato un giorno per la mente, e di cui avevamo sorriso, trova nella riga d'una lettera, nella parola d'un amico, in un avvenimento fortuito e insignificante, una presa fatale che lo rialza lentamente, come una lenza, dalla più oscura profondità dell'anima dove stava sepolto, e ce lo rimette sotto gli occhi come un insetto schifoso che agita con furia orribile le sue cento braccia smaniose di preda. Atterriti per un momento, ripigliamo coraggio e fede, e schiacciamo il piccolo mostro. Ma è inutile. Già da tutti i ripostigli della memoria, sono usciti, come una folla di piccoli cattivi genii, mille ricordi, fino allora sopiti, di sorrisi sfuggevoli, di mezze parole, di movimenti appena percettibili delle sopracciglia e delle labbra, d'una porta socchiusa, d'un rumor di passi, d'un fruscío, d'un bisbiglio, d'un'ombra, che prima ribollono confusamente nel capo, e poi si congiungono e si combinano, pigliano forza, fuoco e parola, denunziano, affermano, provano, stravolgono il cuore e la ragione, mettono in mano il pugnale o la penna, e spingono al delitto o alle offese che non si perdonano, in minor tempo che non ci saremmo spinti dalla evidenza immediata della realtà. Quando questo accadde a Menendez, erano le undici di sera; egli si trovava in casa, ritto dinanzi a un tavolino, con una lettera fra le mani. Sul primo momento, temette d'essere impazzito; balzò in piedi, si slanciò alla finestra, e rimase qualche tempo immobile come una statua, con una mano sulla fronte e l'altra sul cuore, guardando fissamente in mezzo alla piazza. Poi mise un grido soffocato d'angoscia e di rabbia, e si precipitò fuor di casa. Attraversò come una freccia la piazza del Trionfo, girò intorno alla Caridad, oltrepassò quasi correndo la Torre D'Oro, saltò in una barca, raggiunse la riva destra del fiume, si slanciò nella casa di Fermina e percosse la porta.... Fermina non c'era! Per un caso straordinario non aveva ancora potuto tornare a casa, e per la sciagura di tutti e due quell'assenza, in quell'ora, corrispondeva fortuitamente a un'indicazione della calunnia, era un'accusa, una prova, una maledizione. Menendez rimase come pietrificato davanti alla porta. Il dolore dell'amante era già morto dentro al suo cuore, e non vi fremeva più che l'ira feroce del suo enorme orgoglio ferito. Un pensiero satanico gli balenò alla mente, scese di volo le scale e si diresse di corsa verso casa. Arrivato al ponte, si fermò. Un altro pensiero gli aveva quasi percosso e schiacciato il primo. — E se non è vero? — si domandò, e per un momento gli brillò l'anima. Ma la fatalità lo perseguitava. In quel punto gli passò accanto una donna, lo guardò in viso e gli disse fuggendo: — Fermina ti tradisce! — A quelle parole il furore, risollevandosi impetuosamente, gli velò l'intelletto, e lo ricacciò innanzi come un dannato. Per colmo di sventura, rientrando nella sua stanza trovò una lettera di Fermina che diceva: — domattina non sarò in casa; — e anche quest'annunzio avverava sciaguratamente una previsione. Allora Menendez perdette affatto il lume della ragione, ruggì, rise, maledì, afferrò la penna, scrisse a grandi caratteri sopra un foglio di carta il nome di Fermina, un epiteto, l'indicazione d'un'ora e d'un prezzo, un insulto orrendo; poi volò fuor di casa con quel foglio, rifece la via di prima, arrivò alla casa dì Fermina, attaccò alla porta con le mani convulse il cartello infame, e si cacciò digrignando i denti giù per le scale. Arrivato in fondo, si fermò: sentì aprirsi quella porta, vide illuminarsi la scala, e udì quasi nello stesso punto un grido disperato e il rumore della caduta d'un corpo. Dopo pochi momenti sentì aprire altre porte, — scender gente, — una donna leggere il biglietto — e molte voci prorompere in un grido d'indignazione: — Mentira! (Menzogna!)...
VI.
Un'ora dopo egli si trovava nello stato d'uno che si svegli da un sogno spaventoso. Quel grido l'aveva svegliato. Inutilmente aveva subito tentato di riadunare e di ricomporre insieme prove, indizî, argomenti, ricordi, ombre; tutto era fuggito e svanito colla stessa rapidità fulminea con cui s'era raccolto, e aveva preso forma e saldezza. Come poca cosa era bastata a farlo credere, così un grido era bastato a disingannarlo. Egli era rimbalzato da una certezza a un'altra certezza; non aveva più bisogno di prove; s'era spiegato tutto; aveva capito tutto; sentiva dentro ed intorno a sè un silenzio solenne, e non vedeva più che la figura immobile, bianca e sinistra di Fermina, e fra loro un abisso. Egli la conosceva, capiva che non avrebbe più perdonato, sentiva che l'aveva uccisa. Un avvilimento profondo, uno sgomento mortale, un amor nuovo rinvigorito dal rimorso e dalla disperazione, un desiderio immenso di morire, e insieme una prostrazione di forze che gl'impediva un qualunque atto risoluto, s'erano impadroniti di lui. Passò la notte disteso in terra, vicino alla finestra, e la mattina all'alba, si trovò, senz'accorgersene, sul ponte di ferro, dove rimase improvvisamente inchiodato. Fermina veniva verso di lui. Appena la vide, capì ch'essa lo aveva visto, e lesse nel suo volto e nel suo atteggiamento una risoluzione che gli troncò l'ultimo filo di speranza. Era vestita come nei giorni festivi; veniva innanzi a passo franco, quasi impetuoso, colla testa alta, coll'occhio socchiuso e fisso dinanzi a sè, col viso pallido ed immobile come una maschera di marmo. Quando gli fu vicina, egli aprì la bocca per parlare, ma la parola gli restò dentro. Essa passò senza guardarlo, dritta e maestosa, colla morte nel cuore e col disprezzo sul volto, mandandogli in viso un'ondata d'odor di rosa, e s'allontanò senza voltarsi. Menendez vide come un velo nero stendersi fra lei e i suoi occhi e sentì che tutto era finito.
VII.
Tutto quello ch'egli fece quel giorno e il giorno dopo, lo fece quasi macchinalmente, e senza energia, perchè era senza speranza. Era il primo solenne castigo che riceveva il suo carattere orgoglioso e violento, e n'era come istupidito. Scrisse a Fermina una lunga lettera; non ebbe risposta; non se ne stupì, e quasi nemmeno se n'accorò, tanto era sicuro che questo doveva accadere. Le riscrisse; la lettera questa volta gli ritornò intatta; la riprese e la buttò in un canto senza badarci. Andò, a sera inoltrata, col cuore tremante, a picchiare alla sua porta; c'era il lume alla finestra; lei era in casa; ma la porta non s'aperse. Tornò dopo un'ora; il lume c'era ancora; la porta rimase chiusa. Se n'andò a casa, e passò mezza la notte seduto alla finestra, col capo appoggiato sopra una mano. Il giorno dopo non iscrisse più, nè andò più a cercar Fermina, e forse, se non fosse uscito, non avrebbe mai più osato cercarla. Ma uscì, e gli seguì un caso che decise della sorte di tutta la sua vita. Era giorno di festa: girando a caso, di strada in strada, quasi senza coscienza di sè, si trovò nei viali della Cristina. Era l'ora della passeggiata; dalla Torre d'oro al palazzo di san Telmo formicolava una folla brillante e gaia; una musica festosa riempiva l'aria; il sole dorava le acque del Guadalquivir; Menendez si sentì per un momento alleggerito del peso mortale della sua tristezza, e si lasciò trascinare dalla corrente. All'improvviso una ragazza del popolo, passandogli accanto, gli gridò all'orecchio: — Es mentira, Menendez! — e disparve. Menendez impallidì e cercò di sottrarsi agli sguardi curiosi dei vicini che avevan sentito; ma quasi subito un'altra ragazza, distante da lui una decina di passi, gridò più forte: — Mentira! — Menendez si voltò dalla parte opposta, confuso e sgomento, e cercò di fendere la folla, per uscire dal passeggio. Ma una terza, una quarta, e poi un gruppo di ragazze del sobborgo di Triana, che l'avevano riconosciuto, gli gridarono alle spalle: — Mentira, Menendez, mentira! — Molta gente si fermò; altre ragazze, avvicinandosi, ripeterono quel grido; il suo nome corse di bocca in bocca; la folla s'aperse per fargli circolo intorno; e questo fu il suo salvamento. Approfittando di questo vuoto, si slanciò, stravolto e bianco come un cadavere, fuori del viale, raggiunse una carrozza, vi saltò dentro, e s'allontanò rapidamente udendo ancora per un buon tratto le grida lontane delle sue persecutrici. Appena entrato in casa si coperse il volto colle mani e diede in uno scoppio di pianto desolato e rabbioso. — Dunque la voce s'è sparsa! — gridò — Io sono il ludibrio di Siviglia! Io non potrò più mostrare il viso in mezzo alla gente! Io son disprezzato, insultato, disonorato! — A questo punto un'idea grande e nuova gli balenò alla mente, la sua anima generosa vi rispose con un rimescolamento profondo, il suo volto s'illuminò, tutte le sue fibre si rinvigorino, tutto il suo sangue s'accese. Poi, come se la voce d'un amico invisibile gli avesse susurrato una preghiera nell'orecchio: — Sì, — rispose con un accento di condiscendenza: — ancora una prova. — E si slanciò fuor di casa.
VIII.
Fermina lavorava, col lume, in un angolo della stanza, quando sentì un passo rapido e leggiero su per la scala, e s'accorse, troppo tardi, che aveva lasciata la porta socchiusa. Ebbe appena il tempo di alzarsi e di ricadere sulla seggiola: Menendez si precipitò ai suoi piedi, curvò la fronte sul pavimento, e gridò singhiozzando: — Perdono, Fermina!
Essa non rispose.
Aveva il viso pallidissimo, e stava rivolta verso la finestra, cogli occhi dilatati e colle labbra tremanti.
— Fermina! — continuò Menendez con una voce che pareva gli dovesse spezzare il petto — perdonami! Sono stato un vile e un pazzo! Tu sei un angelo! Io sono un disgraziato! Mi sono lacerato il cuore colle mie mani, ho pianto lacrime di sangue, m'hanno insultato per le strade, credevo d'impazzire, non posso più vivere così, perdonami, rendimi il tuo amore, non mi condannare a uno strazio eterno, dimentica, amami! Vedi, io mi striscio ai tuoi piedi, batto la fronte per terra, non ho più voce, non ho più lacrime, non ho più stima di me, non ho più onore nel mondo, non ho più che l'amore che mi strazia e la disperazione che mi uccide! Fermina, abbi compassione di Menendez!
Fermina continuava a guardar la finestra; aveva il viso stravolto e convulso, il seno ansante, tutta la persona agitata da un tremito febbrile; pareva che facesse uno sforzo per ottenere prima da sè stessa quello che Menendez voleva da lei; che aspettasse essa pure un improvviso cangiamento del proprio cuore; e Menendez osservava con profonda ansietà tutti i movimenti del suo viso. Finalmente proruppe con accento disperato:
— È inutile, Menendez! Non posso! non sento più niente! son vuota! son morta! Potresti supplicarmi per tutta la vita, ucciderti sotto i miei occhi, diventare un re, un santo, un Dio.... è inutile! Non credo più! Non amo più! M'hai uccisa! Hai capito, Menendez? Hai forse dimenticato che cos'hai fatto? Fermina t'aveva dato il suo onore e tu v'hai sputato sopra in faccia a tutta Siviglia! Dio! Dio! Dio! E questo è stato possibile! e tu vuoi che io ti perdoni! — Poi, facendo un violento sforzo, si ricompose, e soggiunse freddamente: — Va, Menendez, lasciami sola, lasciami nella mia tomba, tutto è finito, addio.
— Pensaci ancora, — disse Menendez con voce supplichevole.
Fermina si svincolò da lui e gli accennò la porta senza guardarlo in viso.
— Ma sei dunque senza cuore! — gridò il giovane balzando in piedi colla rabbia nel sangue e la minaccia sul volto.
Fermina lo guardò.
Menendez diede indietro e si gettò fuor della porta.
IX.
Appena tornato a casa, si mise a preparar le sue robe per partire la mattina dopo. Egli aveva deciso d'andare a passar un mese a La Rinconada, piccolo villaggio circondato d'oliveti, poco lontano dalla città, dove stava don Luis de Guevara, suo amico d'infanzia, facultativo, ossia medico condotto, che gli aveva più volte offerto la sua casa per quando volesse fuggire i grandi calori di Siviglia. Terminato ogni cosa, si buttò sul letto, e per la prima volta dopo la sera fatale del suo delirio, dormì. All'alba si svegliò più tranquillo, corse alla finestra, fermò la prima carrozza che vide passar sulla piazza, si vestì, fece portar giù le sue valigie, si mise a tracolla il suo fucile da caccia, discese rapidamente, e montando sul legno, ordinò al cocchiere di condurlo sulla riva destra del fiume, in faccia alla Torre d'oro. Un gran cangiamento era seguíto in lui; non pareva più l'uomo del giorno innanzi; il suo volto non esprimeva più nè ansietà nè dolore; era pallido e portava le traccie della tempesta dei giorni scorsi; ma risoluto e quasi altiero. Scese dinanzi alla casa di Fermina, salì le scale con passo deciso, sospinse l'uscio e si piantò ritto immobile sulla soglia.
Fermina fece un atto di sorpresa sgradevole, e si voltò verso la finestra.
— Una sola parola, Fermina, — disse con accento pacato Menendez.
Fermina voltò la testa verso di lui, tenendo gli occhi socchiusi.
— Sei profondamente sicura — disse Menendez, — puoi giurarmi sul tuo onore, per la memoria di tua madre, per la salvezza dell'anima tua, che lo stato presente del tuo cuore non è l'effetto d'uno sforzo che fai sopra te stessa? che senti veramente e immutabilmente di non amarmi più?
— Sì — rispose con accento risoluto Fermina.
— Addio — disse Menendez, e disparve.
X.
Fermina mise un sospiro, lasciò cadere il suo lavoro e chinò la testa sopra una mano. Essa vedeva partire Menendez senza dolore, ma non senza tristezza. Non era più il suo amante che perdeva, è vero; ma era pure un'immagine cara, la forma umana in cui le si era presentata per la prima volta la felicità; l'aspetto dal quale non avrebbe mai più potuto scindere il ricordo dei più bei giorni della sua giovinezza. Sul primo momento, anzi, mentre sentiva ancora il rumore lontano della carrozza, che credeva lo conducesse via da Siviglia per sempre, fu colta da un dubbio improvviso, che la fece tremare, e sentì il bisogno d'interrogare ancora una volta sè stessa, di frugare ancora una volta nel più profondo dell'anima se mai vi fosse rimasta una scintilla, una speranza, una promessa. Ma interrogò, frugò, e non vi trovò nulla, e ne sentì quasi un sollievo. Ripetè anzi a sè medesima, e con maggior sicurezza che per l'addietro, che in quell'anima non c'era mai stato e non ci poteva essere il grande, cieco e tremendo amore ch'essa aveva sognato; l'unico amore che la sua natura virile e superba potesse accettare e rendere; l'amore di Menendez era un delirio passeggiero della mente, non una febbre profonda e perpetua del cuore; Menendez non l'aveva capita perchè non l'aveva stimata; se si fossero riconciliati, si sarebbero rotti un'altra volta; essa non avrebbe più potuto amarlo che per pietà, ed egli avrebbe diffidato daccapo, alla prima occasione, e con fondamento; forse anche in lui era morto l'amore, e non era più che l'orgoglio umiliato e il rimorso che l'aveva spinto a chieder compassione e perdono; e d'altra parte s'era accomiatato coll'animo più tranquillo, cominciava forse a rassegnarsi, a dimenticare; col tempo avrebbe dimenticato; era meglio per tutt'e due che tutto fosse finito in quella maniera. — Sia così, — disse sospirando Fermina: — è un sogno svanito, io gli perdono, e Dio l'accompagni. — E riabbassò sopra il lavoro la sua bella fronte pensierosa.
XI.
I giorni passarono; nessuno a Siviglia vide più Menendez; qualcuno disse ch'era partito per Cuba; tutti lo credettero, e qualche raro amico lo rimpianse; ma la maggior parte non lo rammentarono più che per vituperare il suo nome. Fermina, invece, dopo che s'era sparsa la notizia dell'avventura, aveva acquistato, anche sull'altra riva del Guadalquivir, una piccola celebrità romanzesca, d'una parte della quale si sentivano un po' altere tutte le ragazze di Triana, come se il raro esempio di sdegnosa fermezza dato da lei, avesse rialzato in faccia a Siviglia la dignità di tutto il sesso femminino del sobborgo, non generalmente presa sul serio prima d'allora. Un poeta sconosciuto aveva scritto dei versi sul muro della sua casa; la moglie del Capitano generale d'Andalusia le aveva data un'ordinazione di fiori per aver modo di parlarle; le ragazze, incontrandola per strada, le dicevano: — Muy bien, Fermina! —; tutti la guardavano con una certa curiosità rispettosa, e ci fu tra gli altri un panciuto negoziante di telerie, marito d'una indiavolata brunetta di Badajoz, che incontrandola due giorni dopo la partenza di Menendez, esclamò con uno slancio di gratitudine: — Benedetta lei, senorita, che ce ne ha liberati! — Ma Fermina viveva più che mai raccolta e sola, e tutta occupata del suo lavoro, non lasciandosi vedere che raramente dalle vicine di casa. Non era contenta, ma tranquilla, e non pensava più a Menendez che con un sentimento di vaga mestizia, come avrebbe pensato ad un morto.
XII.
Erano passati quindici giorni dalla partenza di Manuel Menendez. Una mattina, poco dopo il levar del sole, Fermina stava lavorando nella sua stanza, seduta accanto alla finestra, e alzava di tratto in tratto la testa, per rivolgere uno sguardo malanconico al fiume, alla Torre d'oro, alla Cristina, alle guglie lontane della cattedrale, a cento luoghi e a cento cose che le rammentavano il suo immenso amore svanito, e sospirava. In quei momenti, avrebbe voluto poter riamare Menendez, anche sapendo di non doverlo mai più rivedere, non foss'altro che per dare un alimento alla sua anima vuota; e andava frugando, infatti, dentro all'anima, non più col timore, come aveva fatto altre volte, ma colla speranza di ritrovarvi ancora qualche cosa. Ma anche in quei momenti o non vi trovava nulla, o vi trovava soltanto un resto di sdegno pronto a riaccendersi, e s'affrettava a spegnerlo cacciandovi sopra un altro pensiero. — Morto, morto —, diceva tra sè, scrollando la testa con tristezza, e sentiva profondamente che se anche Menendez le fosse ricomparso davanti, essa l'avrebbe ricevuto come le altre volte, senza risentirne la più leggiera scossa, senza dubitare un momento dell'immutabilità del suo cuore, senza dover fare il menomo sforzo per ripetergli: — Va, lasciami sola nella mia tomba, tutto è finito.
Il corso dei suoi pensieri fu improvvisamente interrotto da un leggiero fruscío; si voltò, mise un grido e balzò in piedi.
Menendez era dinanzi a lei.
Fermina si ricompose subito; ma non potè far a meno di fissare per qualche momento uno sguardo inquieto sopra di lui.
Il suo viso era pallido e dimagrato; il suo occhio, smorto; le sue labbra, livide. Aveva la cappa sulle spalle e una borsa da viaggio a tracolla. Stava ritto sulla soglia della porta, un po' curvo e colle gambe un po' piegate; e fissava Fermina con uno sguardo profondo, pieno d'amore e di mestizia.
— Siete stato malato! — gli disse lei con un leggiero accento di pietà.
Menendez esitò un momento e poi rispose con voce debole:
— Sì.... un poco.
Fermina abbassò la testa.
— Ed ora parto —, soggiunse il giovane.
— Per dove? — domandò Fermina senza alzare la testa.
— Per Cuba.
— Oggi?
— Adesso.
— Per sempre?
— ..... Per sempre.
Fermina mise un sospiro, si passò una mano sulla fronte, e poi disse con un accento pietoso: — Ebbene.... addio, Menendez; il Signore t'accompagni.... e.... addio!
— Non hai altro da dirmi? — domandò Menendez colla voce tremante — sei sempre la stessa?
Fermina gli rivolse uno sguardo che rivelava il suo cuore desolato di non potergli dare che una triste risposta.
— Ebbene, — disse allora Menendez avvicinandosi al suo tavolino;.... — poichè non ci vedremo più, fammi una grazia, Fermina. Accetta questo ricordo. — E dicendo così, mise sul tavolino una piccola cassetta di mogano, colla chiavina nella serratura. — Non respingerlo, Fermina! te ne prego! Non è un dono. Non contiene che un foglio di carta in cui è rivelato un segreto che tu devi conoscere; un segreto di famiglia, che non ho rivelato ad altri che a te; una cosa sacra. Accettalo, Fermina; ti giuro sul mio onore che è necessario che tu lo accetti; riconoscerai tu pure questa necessità quando avrai visto di che si tratta, e dirai che avevo ragione e che ho fatto il mio dovere..... Ed ora non ho più altro da dirti. Addio, Fermina!.... dimenticami e sii felice!
Fermina si asciugò una lagrima e gli porse una mano, voltando il viso dall'altra parte.
Menendez le coprì la mano di baci e si diresse verso la porta.
— Menendez! — disse vivamente Fermina.
Menendez si voltò.
— Addio! — ripetè la ragazza con voce alterata, ma ferma; — sono più sventurata di te, perchè non ho più nulla nel cuore! Va, Menendez! Va, e il Signore sia sulla tua strada!
Menendez uscì, socchiuse la porta e cominciò a scender lentamente la scala, coll'orecchio intento, col respiro sospeso, col cuore che gli batteva come se volesse rompergli il petto.
A un tratto sentì il rumore della chiavina della cassetta che girava nella serratura.
Le gambe gli piegarono sotto e un velo nero gli si stese sugli occhi.
Si appoggiò al muro del pianerottolo.
Passarono alcuni secondi.
All'improvviso, un grido sovrumano di dolore, di terrore e d'amore, risonò di cima in fondo alla casa, come un colpo di fulmine; la porta si spalancò, Fermina balzò d'un salto in fondo alla scala, si precipitò dinanzi a Menendez, e prese a baciargli con una furia disperata i piedi, le ginocchia, i panni, singhiozzando, gridando, chiedendo perdono, invocando Iddio, fin che la voce le mancò, gli occhi le si chiusero e cadde svenuta.
I vicini erano già accorsi, e fra essi il signor Luis de Guevara, che aveva accompagnato Menendez dalla Rinconada a Siviglia, e lo stava aspettando nella strada.
— Don Luis, — gli disse Menendez appena lo vide, sollevando Fermina svenuta, e voltandola in modo ch'egli la potesse vedere nel viso: — ti presento mia moglie.
XIII.
Quindici giorni dopo, infatti, il segretario dell'amministrazione del Circo dei tori di Siviglia, dovendo mandare a Fermina la chiave del trentesimo palco del lado de la sombra (della parte dell'ombra), indirizzava la lettera: — A doña Fermina Menendez; — ed essendo quella la prima lettera ch'essa riceveva col titolo di doña e col proprio nome legato a quello del suo amante, baciò tre volte la busta e la mise in serbo come una cosa preziosa. Qualunque altra Sivigliana, però, avrebbe in quel giorno baciato invece della busta la chiave, poichè per il felicissimo arrivo di Sua Maestà la Regina Isabella, la quale per la prima volta si faceva vedere a Siviglia colla corona, l'Impresario del Circo aveva preparato uno spettacolo unico nei fasti del toreo andaluso; e basti il dire che la prima spada si chiamava il Tato, e che si sarebbero slanciati nell'arena otto tori, comprati a peso di dobloni novi, doblones de Isabel, nei pascoli dell'eccellentissimo marchese di Veragua, primo allevatore della Spagna. Per questo, sebbene lo spettacolo cominciasse alle due pomeridiane, la plaza era già quasi piena a mezzogiorno, e al tocco non ci si poteva più entrare. Era una delle più belle giornate che si possan vedere a Siviglia nel mese di settembre. Il vasto Circo poligonale presentava sulle sue trenta gradinate una meravigliosa confusione di visi bruni, di treccie nere, di ventagli agitati e di mani per aria; vi brillava il fiore della bellezza del sobborgo di Triana, v'erano le più famose danzatrici delle escuelas de baile, centinaia d'operaie della fabbrica dei tabacchi colle sottane bianche o rosee, gruppi di gitane con mazzetti nei capelli e sul seno, i più belli e più terribili schermitori di coltello della provincia, coi loro cappellotti di velluto nero e loro cinture rosse ed azzurre; tutto il più ardente sangue andaluso che circolava in quel tempo dal Campo della fiera alla porta di San Juan e dalla Cartuja alla Trinidad; un'immensa raccolta d'amori, di gelosie, di capricci, di gioie, di miserie, un incrociarsi rapidissimo e continuo d'apostrofi clamorose e di occhiate furtive, di fiori e di risa, di parole galanti e d'aranci: tutto ciò rallegrato da una musica strepitosa e saettato da un sole ardente. Alle due precise, gli alguaciles entrarono nell'arena per far sgombrare la folla, e nello stesso momento, da due lati contigui del Circo, cento visi si voltarono quasi tutti insieme verso un punto solo e al gridío generale seguì improvvisamente un profondo silenzio. Fermina, vestita di bianco, con un gran mazzo di fiori fra le mani, col viso splendido d'una letizia dignitosa e severa come la sua bellezza, era comparsa nel suo palco, insieme con Menendez, pallido e sorridente, in mezzo a una corona d'amici. Al primo silenzio, seguì dopo pochi momenti un lungo mormorío favorevole, quasi amoroso e altri mille sguardi si fissarono sui due sposi. Tutta Siviglia sapeva quello ch'era accaduto. A un tratto, una gitana seduta sul primo gradino sotto il palco, balzò in piedi, si levò una rosa dai capelli e buttandola a Fermina, gridò: — A ti, doña Fermina Menendez, y Dios te dé la buena suerte! — Subito dopo un'altra ragazza buttò un mazzetto a Menendez e gridò: — A ti, don Luis Menendez, cuor valoroso! — L'esempio fu rapidamente imitato: da tutti i gradini vicini al palco cominciarono a piovere fiori sugli sposi, accompagnati da un gridío appassionato e festoso: — A te, bella creatura! — A te, sangue di prode! — A voi, la più bella coppia di Siviglia! — Amatevi! — Buona fortuna! — Molti giorni come questi! — Dio vi protegga! — In pochi minuti la notizia e l'entusiasmo si propagarono per quasi tutto il Circo, e da ogni parte si buttarono fiori, si agitarono fazzoletti e mantiglie, si mandarono evviva e saluti; tanto che Fermina, sopraffatta dalla commozione, lasciò cader la testa sulla spalla di Menendez, e la Regina Isabella, che aveva già preso posto nel palco reale con tutto il suo corteggio, si voltò a domandare al giovane generale Serrano chi fossero i due personaggi che mettevano sottosopra i suoi sudditi. Il general bonito, il bel generale, come si chiamava allora il futuro vincitore d'Alcolea, si fece innanzi rispettosamente, e disse col tuono più dolce della sua voce: — Sono due sposi, Maestà. La sposa è la più bella giovane di Siviglia, e lo sposo è un giovane che ha fatto onore al sangue andaluso. In un accesso di gelosia, avendo offeso mortalmente la sua fidanzata con un cartello infamante, e non essendo riuscito in altro modo a farsi perdonare e riamare, ottenne l'una e l'altra cosa presentandole una cassettina nella quale c'era la penna fatta in due pezzi, che aveva scritto il cartello; sotto la penna, un foglio di carta con su scritto col sangue: — Espiazione, e sotto il foglio di carta la sua mano destra....
Mentre la Regina appuntava il cannocchiale verso gli sposi, le trombe squillarono, la folla gettò un altissimo grido, e il primo toro dell'eccellentissimo signor marchese di Veragua si slanciò muggendo in mezzo all'arena.
IN SOGNO
Non so se molti altri abbiano un ordine speciale di sogni che si possano procurare a loro piacere: io ho quello dei viaggi, e mi basta, per viaggiare in sogno anche tutta una notte, fissarmi col pensiero, quando sto per addormentarmi, in qualche luogo lontano del quale mi sia rimasto un ricordo molto vivo; dopo di che, mi passano dinanzi cento altri luoghi, città, campagne e genti, trasformandosi rapidamente, senza che nel sogno s'intrometta mai una visione di altra natura. E questo è strano: che gli avvenimenti, no; ma i luoghi e i personaggi che sogno, son sempre luoghi e personaggi che ho visti; il che non m'accade quando, addormentandomi, non metto l'immaginazione sulla via delle reminiscenze; poichè se chiudo gli occhi pensando a Sydney o a Batavia, vago poi, sognando, per tutta la terra, ed è facile che mi trovi a discorrere di politica, a un'ora dopo mezzanotte, con qualche defunto imperatore chinese. Quale è la ragione di questo? In che maniera la mente, errando fra le più bizzarre fantasie nel campo degli avvenimenti, rimane nello stesso tempo legata alla realtà geografica dei miei viaggi? Come mai in fatti di luoghi e di persone, non fo', sognando, che ricordarmi, e non vaneggio che in fatto di casi e di discorsi? Perchè questa costante distinzione? Sarà forse la centesima volta che mi rivolgo la stessa domanda, e per la centesima volta non ci so trovare altra risposta che voltar la testa sul cuscino da destra a sinistra, raccogliendo tutti i miei pensieri nel giardino del duca di Montpensier, il quale, da quanto sembra, dev'essere questa notte il punto di partenza d'un lungo pellegrinaggio, poichè mi torna e mi ritorna in mente con una ostinazione invincibile, e ormai vedo che m'addormenterò all'ombra degli aranci ducali. Sia almeno un viaggio allegro e tranquillo, che non m'accada, come altre volte, di svegliar mia madre con grida di spavento o sospiri di dolore.
Com'ero entrato nel giardino del duca di Montpensier, del Rey naranjero, come lo chiamano in Spagna? Era probabilmente il mio borbonico amico Segovia che m'aveva fatto avere il permesso. Non me ne ricordo bene. Non ricordo nemmeno gran cosa del giardino. La più viva, anzi la sola rimembranza viva di quel luogo è la fontana a cui diedi il nome dei cinque sensi. Ah! veramente io posso dire d'aver passato là l'ora più deliziosamente sensuale del mio soggiorno a Siviglia. Era tra mezzogiorno e il tocco, splendeva un sole abbarbagliante e tirava un'arietta leggerissima. Io stavo seduto sull'erba all'ombra d'un gruppo d'allori accanto alla vasca d'una fontana, sotto i rami curvi d'un roseto; con una mano mi mettevo in bocca gli spicchi d'un arancio che stillava sugo a grandi goccie; coll'altra accarezzavo la gamba d'un putto di marmo finissimo che dalla bocca mi schizzava acqua diaccia rasente i capelli; le foglie delle rose, scosse dall'aria, mi cadevano sul petto; l'acqua limpida della vasca rifletteva come uno specchio il mio viso non turbato dall'ombra d'un pensiero; al disopra del verde cupo degli alberi, vedevo la terrazza bianca e arabescata d'una casetta di stile moresco; e più lontano l'enorme statua dorata della fede che girava fiammeggiando sulla sommità della Giralda nell'azzurro purissimo del cielo andaluso. — Ancora qualcosa per l'orecchio! — esclamai con un fremito di piacere. E un momento dopo sentii dietro gli allori, prima il rumore leggiero d'un rastrello, poi la voce fresca e sonora d'una ragazza, che cantava con un accento sivigliano pieno di dolcezza: — Io sono bella e tu hai vent'anni! — Allora ebbi un momento d'ebbrezza; aspirai una gran boccata d'aria, tuffai il viso nell'acqua, morsi insieme l'arancio e le rose, risi e mi ravvoltolai nell'erba come un bambino. Poi, a poco a poco, preso da un languore dolcissimo.... chiusi gli occhi.... e rimasi assopito....
E tu mi hai svegliato, caro e crudele Parodi! E perchè? Le meraviglie del Restaurant Blond valgono forse le delizie del giardino dei Montpensier? Ma bisogna esser giusti, e riconoscere che il signor Blond ci dà il più succoso brodo e il più saporito manzo di Parigi, e che è grazia di Dio l'aver per due lire questo pranzetto e questo spettacolo. Quale spettacolo! Venti tavolate d'affamati; una folla in movimento perpetuo, che parla in venti lingue diverse di mille cose assurde o sublimi; cercatori di fortuna d'ogni parte del mondo; giovanetti colle prime speranze, vecchi colle ultime; inventori di sistemi e di riforme universali, pieni d'utopie e di debiti; grandi uomini senza senso comune; forse qualche grand'uomo davvero; qualche rompicollo oscuro, del quale fra tre mesi sarà recitata dieci volte la prima commedia al Téàtre français, e il suo nome correrà l'Europa; mezzani che ballano a un tanto per sera al Mabille o al Valentino: giocolieri di teatro che si mettono una spada nella gola fino all'elsa; giornalisti della macchia che ti piantano il pugnale nelle erni fino al manico; un bavarese che almanacca da dieci anni un favoloso progetto di rinnovamento sociale fondato sull'alleanza del Papa colla democrazia; un brasiliano che ha inventato dei romanzi armonici e odorosi, dalla copertina dei quali il lettore, giunto a certe pagine, fa uscire con una leggiera pressione del dito, un profumo e un'arietta d'occasione; un polacco che ha creato un genere di commedia da rappresentarsi, non sul palco scenico ma nella vita reale, o piuttosto un genere novo di vita da viversi in forma di commedia; un inglese che vuol ottenere dal Governo l'istituzione nelle Università della Francia d'un corso permanente di lezioni sull' Arte di governare le donne; l'inevitabile inventore della lingua universale; l'indispensabile regolatore della locomozione aerea; avanguardie mattamente audaci di tutte le scienze e di tutte le arti; tutte le deformità intellettuali che corrispondono alle deformità fisiche: menti sbilenche, ingegni gobbi e guerci, genî idropici, fantasie affette d'elefantiasi; giocatori, innamorati, bevitori d'assenzio, atei, fanatici, cinici; gente che s'ammazza a studiare e gente che si finisce nei bagordi; uomini che dormono sui tetti e giovani che dormono sotto gli alberi dei Campi Elisi; qualcuno matto d'allegrezza, qualche altro che si brucierà le cervella la settimana ventura; tutti in cerca di qualcuno: chi dell'editore, chi del mecenate, chi dell'impresario, chi di scolari, chi d'affigliati, chi di vittime, chi di complici; un'accozzaglia cosmopolitica che lavora, digiuna, farnetica, si dibatte sull'immenso lastrico di Parigi, per lasciar il nome alla posterità, o l'ambizione in carcere, o l'ingegno al manicomio, o il cadavere all'ospedale. Sì, caro Parodi, questo spettacolo è bizzarro, ma quest'aria mi soffoca; domani pranzeremo al Passage des Princes; ho anch'io i miei capricci di povero diavolo; ho bisogno ogni tanto di sdraiare la mia vanità in una sala dorata e di tuffare la mia miseria in un bicchiere di Champagne....
..... Champagne? Kellner, Champagne al signore. — Sie beschämen mich mit Ihren Höflichkeiten, biondo capitano Schopper. Il vostro bastimento è un palazzo splendido e voi siete il re del Danubio. Oh la bellissima sera! Per le finestre aperte, di là dalle acque rosate del fiume, vedo fuggire la riva boscosa del Banato di Temesvar, e tra finestra e finestra, i grandi specchi incorniciati d'oro mi riflettono la campagna malinconica della Slavonia rischiarata dal tramonto del sole. E la fortuna m'ha messo dinanzi il più bel visetto e il più svelto corpicino ungherese che sia mai passato sul nuovo ponte di Pest. Signor Castelulù, recitatemi i versi sulla statua di Michaiù Vitézlù, io adoro la lingua rumena; e voi, capitano Schopper, soffiatemi nel viso un nuvoletto di fumo del vostro sigaro d'Avana. Alla tua salute, mio buon Mahmud Dejézaerli, gloria predestinata della pittura musulmana; buoni studi a Vienna, e che io ti rivegga fra dieci anni installato in una bella villetta sulla riva del Bosforo, accanto alla più bianca moschea di Bujukderé! Mi pare che qualcuno laggiù canti le lodi del Reno. Capitano Schopper, mandate quell'insolente a baloccarsi sul suo rigagnolo con una barchetta di carta, e insegnategli a rispettare il nostro immenso Danubio. Ah! voi ridete, capitano Schopper! ridete dell'effetto che mi fa il vostro Champagne, è vero? Ebbene....
.... Ebbene, che è questo? Cosa accade qui? La riva della Slavonia è sparita, il cielo s'oscura, le acque s'agitano, il vento mugge, la sala splendida s'è cangiata in uno stambugio rischiarato da un lanternino, l'elegante capitano Schopper in un vecchio cencioso, la bella signorina ungherese in una povera contadina con due bimbi in braccio; e il bastimento rulla, beccheggia e scroscia spaventosamente mandando ogni cosa sossopra. — No, no, señor Capitan, per amor di Dio, per pietà delle mie due creaturine, non ci moviamo di qua, il mare è cattivo, può seguire una disgrazia, aspettiamo che faccia giorno, non passiamo il capo Trafalgar, ve ne scongiuro, non per me, per le mie povere creaturine! — Non posso, buona donna; el capitan tiene sus obligaciones: ci son cinque passeggieri che vanno in Africa; io debbo sbarcarli domattina all'alba a Algesira; non posso passar la notte a Trafalgar; bisogna tentar d'andare innanzi; seguirà quello che Dio vuole! — No! no! señor Capitan! noi naufraghiamo! noi moriamo! i miei bambini! Ave Maria purissima, se n'è andato! Lei, signor italiano, per carità, vada lei, vada a supplicare il capitano che non si mova di qui, che non ci faccia morire! Dio mio! Dio mio! — Chetatevi, buona donna, vado io. Capitano! Dov'è il capitano? Non c'è modo di trovare questo capitano? È a prua! — È a poppa! — Passi di qui! — Scenda di là!...
Di qua, di là! Che il malanno vi colga! Son tre ore che cammino e non mi sono ancora raccapezzato. Sarà ben sonata la mezzanotte. Ah! se me ne fossi rimasto nel mio piccolo albergo di Leicester-square, invece di venirmi a cacciare in questo labirinto fetido e oscuro! Dopo una strada un'altra strada, dopo una svolta un'altra svolta, e crocicchi dietro crocicchi, e case accanto a case, e non una porta aperta, non un lume a una finestra, non un policeman, non una voce umana, non il suono d'un passo, non un indizio di vita; null'altro che interminabili muraglie nere che si perdono nella nebbia, e un silenzio di città disabitata. Cammino, corro, divoro la via, e mi par sempre d'essere nello stesso luogo. Forse non faccio che girare e rigirare nelle medesime strade. Questo sospetto mi sgomenta e le forze cominciano a mancarmi. E poi.... che serve ch'io lo nasconda a me stesso? Ho paura! paura d'essere assassinato, di cadere in una fogna, d'inciampare in un cadavere, di mettere i piedi in una pozza di sangue. Come son venuto qui? Dove sono? Sapessi almeno dove sono! Sono in White Chapel? a San Gilles? in Waping? Se fossi sicuro d'essere a Bethnal Green, per esempio, cercherei di trovare Mile end Road, e di là saprei andare alla torre di Londra; o se fossi in Seven Dials, potrei sperare di riuscire in Regen Street o d'infilare Piccadilly. Ma qui non so da che parte voltarmi, cammino a caso, come un pazzo. M'imbattessi anche in un branco di ladri, purchè incontrassi qualcuno! Questo silenzio sepolcrale mi gela il sangue. Dio mio! non domando che il rumore d'un passo o il latrato d'un cane! E un'altra strada, un'altra di queste interminabili e lugubri strade! Ah, io non vado più innanzi; in questa strada c'è qualcosa d'orrendo, ci son dei morti, le mie gambe tremano, il mio cuore si agghiaccia, la mia ragione si perde, io mi metto a gridare, io.... Che! Sei tu! Tu, mia amica! Tu, amor mio! Tu qui, a Londra! con me! Ma è un sogno! Ma parla! No! fuggimmo prima, qua la mano, coraggio, seguimi, vola.... Oh l'inesprimibile piacere! il vento ci porta, il cielo si rischiara, il sole ci batte in fronte, Londra è sparita, siamo sul mare, siam salvi!
.... Dove siamo? Ah! tu mi domandi dove siamo, classichetta che tu sei, piena di greci e di romani, tu che diventi rossa a nominarti Pindaro, che piangi quando ti dico che un giorno faremo un viaggio nella Troade, tu che mi hai fatto diventar geloso di Annibale e prendere in tasca Catone, testolina imbottita di grandi nomi e di grandi versi! Ebbene. Questa volta sarai felice; ma devi indovinar tu dove siamo. Guarda questo cielo splendido, questo mare azzurro, questi colli cinerini, queste roccie nude, queste pietre sparse, e indovina. Ah, tu impallidisci! — Ebbene, non è la Troade. — No, non sono le rovine di Cartagine. — Nicea? Meno che mai, signorina. Cerchi, cerchi ancora, frughi nelle sue reminiscenze storiche, interroghi tutti i suoi desiderî classici. Ma sì, amica mia, sì! Atene! Atene! Atene! Siamo sull'Acropoli! Ah io sono pazzo della tua gioia! Qua, nelle mia braccia, ed ammira: quella è la costa orientale del Peloponneso, — più in qua l'isola di Salamina; — lì il Pireo, — là il Falereo, — a destra, su quel colle nudo, il tempio di Teseo, — su questa roccia, in direzione della mia mano, le rovine dell'Areopago; — qui sotto il teatro di Bacco, dove il tuo Eschilo e il tuo Sofocle facevano rappresentare le loro tragedie; — in fondo a quella gola, il tempio delle Eumenidi; — tu tremi, poverina, a sentir questi nomi; — ed ora, voltati: ecco le quarantasei colonne del Partenone, — e adesso alzati e fa pure qualche pazzia perchè le pietre su cui sei stata seduta finora sostenevano l'enorme Minerva Promacos di Fidia, la quale mostrava al cielo la punta della sua lancia dorata, la prima immagine della patria che rivedeva il navigatore ateniese, venendo dal capo Sunium. Ah! la mia cara classichina che piange!... Dov'è il nostro bambino? Era qui un momento fa. Zitta! Non t'inquietare; non può esser lontano; tu cercalo di qua, io lo cerco di là; si sarà nascosto nell'Erecteo; Checchino, dove sei? Checchino! Checchino!...
.... Sentite, galantuomo: ho girato il mondo, e ho conosciuti molti buffoni; ma vi dico schiettamente che uno del vostro stampo l'avevo ancora da inciampare. Animo, via; il proverbio insegna che ogni bel gioco dura poco, il che vuol dire che un gioco stupido deve finire appena incominciato. Mettete giù il bambino che avete nella mano destra, che è mio, e quello che avete sulle spalle, e quello che avete sotto il braccio, e i tre che tenete nella cesta. Eh, dico, metteteli giù, o m'arrampico su per la vostra colonna, e vi scaravento in terra come un sacco di cenci. Vi paiono scherzi da fare codesti? O di dove siete sbucato, faccia patibolare? Chi siete? Come? Osereste? Ah! l'orribile mostro, che si mette in bocca la testa del mio bambino! Aiuto! A me, a me, Ateniesi! Sia lodato il Cielo, vien gente. O perchè tutti ridono? Che c'è da ridere, Ateniesi? È una vergogna che in una città colta e gentile come la vostra, si permetta a un mascalzone come costui di torturare i bambini in mezzo a una piazza pubblica. Rispondete dunque. A voi, cittadino, rendetemi conto voi di quest'infamie. Sentiamo! — Eh, monsieur, vous êtes fou; vous n'êtes pas à Athènes, vous êtes dans la ville de Berne, devant la statue du mangeur d'enfants, devant la Kindlifresser-Brunnen, que tout le monde connait; regardez donc dans votre guide Bedeker, farçeur....
.... Statue! Berna! Son baie. A Berna non c'è questa campagna solitaria, nè questo cielo di zaffiro, nè questa immensa pace che mi penetra fino al più profondo dell'anima. Oh la mia bella Bulgaria! Belle roccie coniche, coronate di castelli muscosi, e tinte di rosa e di viola dai primi raggi del sole; belle colline vestite di macchie inestricabili che l'autunno ha screziate dei suoi mille colori pomposi e tristi; bruni villaggi mezzo sepolti nella terra, come per sottrarvi alla vista del minareto odioso che vi torreggia sul capo; vasti pascoli ondulati, immensi armenti, alti pastori dal grande saio e dal berretto velloso, curvi sopra le traccie dei cavalli dei lilas, che passarono or ora trascinando alle fortezze del Danubio i vostri fratelli incatenati; bel paese selvaggio e melanconico, bel popolo austero, silenzioso e dolce, io ti rispetto e ti amo! Sia maledetta la strada ferrata che m'ha rotto il filo delle fantasie. Ora convien scendere e asciugarsi a piedi una galleria d'un miglio e mezzo: cose che non seguono che in Turchia. Entriamo dunque nella tana. Ma stiamo stretti, signori, e badiamo di non perderci, perchè è buio fitto. Vorrei però sapere come fa a passare il treno per questo cunicolo largo due braccia. Mi spieghino loro questo miracolo, signo.... Non c'è più nessuno! Poh, peggio per loro. Io accendo il mio cerino e tiro innanzi tranquillamente.... Oh! che vuol dir questo? Qui non ci sono rotaie! Questa non è una galleria di strada ferrata! Questo è un corridoio! I muri son segnati di croci e d'iscrizioni.... spagnuole! Oh l'orribile cosa! I sotterranei dell'Escuriale!...
.... È stato un momento di debolezza; la preghiera m'ha ridato coraggio; andiamo innanzi; troverò un'uscita; Dio m'assisterà; il tutto è di riuscire a un cortile. Mi trema il cuore però. Mi spaventa questo corridoio sterminato. Questo corridoio non c'era la prima volta che venni al convento. E questo rumore.... che non è quel del mio passo! Ah! mi si rizzano i capelli! No, un momento, un po' di riflessione: questo è il suono del mio passo; infatti se io mi fermo.... Gran Dio! suona ancora! Io divento pazzo! Ma dove suona dunque? Non certo davanti a me, perchè mi metto a correre e lo sento sempre alla stessa distanza; nemmeno di dietro, perchè se mi fermo, non mi raggiunge; e sopra la vôlta non può essere, perchè non lo sentirei così distinto; sotto, è impossibile. Dov'è dunque? Ho sognato? Eppure no, lo sento, lo sento vicino a me, monotono, ostinato, sinistro. Questo non è uno spettro, questo è un frate, un prete, un custode che vuol farmi incanutire dal terrore. Oh! ma la rabbia che mi divora è anche più forte del terrore. Questo sconosciuto aguzzino mi è anche più odioso che terribile. O tu che mi cammini davanti, o dietro, o accanto, o sopra, o sotto, chiunque tu sia, sei un miserabile che disprezzo e sbeffeggio; e ti sfido a comparirmi davanti! E se non compari, ti dico che sei un vigliacco e ti sputo nel viso; e se fosti anche Filippo II, in carne ed ossa, colla corona e colla spada, io ti giuro che non ho paura di te, e ti comando di farmiti dinanzi, perchè possa piantarti nel cuore un palmo del mio pugnale marocchino, e rimandarti a marcire colla tua stupida prosapia sotto l'altar maggiore di San Lorenzo! — Nessuna risposta, e il passo continua a risuonare vicino a me, lento, cadenzato, implacabile! Io divento furioso! Avanti, avvicinati, dimmi da che parte sei, vieni a portata della mia mano, chè io mi possa liberare da questa tortura! Sei dentro al muro? Ebbene, guarda, io lo percoto coi pugni e coi calci, io lo raschio col pugnale, lo sgretolo colle unghie, lo rigo col mio sangue. Fuori! fuori! fuori! — E nessuno risponde, e sempre alla medesima distanza, quel passo misurato, sonoro, lugubre come il picchio d'un martello sopra una bara! Ah questo è troppo, non posso più, ho paura, è un sogno che m'uccide, svegliatemi, svegliatemi!....
..... Dev'essere il barcarolo che m'ha svegliato con una pedata in un fianco. Dove andiamo? La campagna è tutta piana e velata dalla pioggia come da una nebbia; si vede confusamente qualche mulino a vento e qualche campanile; il canale è largo e colmo; mi pare che si debba essere tra Leuwarden e Dokkum. Non si starebbe mica male tappati in questo trekschuit piccino e tepido, con un libro in mano e colla pipa in bocca; ma bisognerebbe buttar fuori questi diciassette bimbi paffuti, che mi premono da tutte le parti, e questo donnone, questo faccione di luna in quintadecima, questa sorella carnale della Veneranda, che mi fa gli occhi soavi parlando a fior di labbra. E bisogna dire che di questi diciassette marmocchi, le sia molto piaciuto il primo, poichè l'ha ristampato sedici volte senza correzioni, e tutti portano l'impronta netta della beata melensaggine della mamma. Oh questa è Olanda davvero! E chi sarà quel capo matto che ha rovesciato sui Paesi Bassi questa valanga di putti? e com'è possibile che questa madre d'un popolo, abbia ancora dei grilli per la testa? E mi tocca i piedi! Tocca? Pesta, per Giove! Avete una maniera un po' troppo vigorosa di manifestare le vostre simpatie, signora mia.... vorrei dirle. Che cosa dite? Eh? Io? Ma voi siete pazza. Io vostro marito? Io v'ho sposata davanti al borgomastro di Dokkum? Questi diciassette bimbi son.... nostri? Voi avete il contratto matrimoniale? Ah! la mia memoria si rischiara.... Ma dunque è vero! Dunque finora io ho sognato! Non v'inquietate, moglie mia: apro la finestra e metto la testa fuori per pigliare una boccata d'aria; — vi amo più della vita; — metto fuori anche il busto; — v'adoro; — mi sporgo ancora un po' innanzi; — lasciatemi appoggiare il piede sulla seggiola; — così, amor mio; — ed ora tu, Dio pietoso, accogli il mio spirito, e voi, acque dell'Olanda, il mio corpo!... Dannazione eterna! Chi mi trattiene?
.... Caballero, ci perdoni se l'abbiamo tirato indietro così bruscamente; siamo guardie civili, dobbiamo obbedire agli ordini; è proibito ai viaggiatori di metter la testa fuori del finestrino dei vagoni; potrebbe seguire una disgrazia; ci son Carlisti da ogni parte; ieri erano a Calatayud; avanti ieri scorrazzavano intorno a Siguenza; non per nulla ci hanno messi cinque per vagone, armati fino ai denti; non s'appoggi sui fucili: son carichi. — E sta bene! E anche questo è un bel modo di viaggiare! Due facili carichi dinanzi, due fucili carichi di dietro, un pistolone rasente il ginocchio, il manico d'una daga contro il fianco, e sei cinghie di zaino che mi spenzolano sulle spalle; e se m'affaccio al finestrino, una palla cilindro-conica nel cranio; e tutte queste dolcezze, per andare al Marocco. Povera Spagna! Quanto la ritrovo mutata! La campagna, deserta, i villaggi barricati, le stazioni della strada ferrata arse, diroccate, circondate di parapetti e di fossi; per tutto gruppi di contadini oziosi e di soldati stanchi; tende, sentinelle, cavalli rifiniti, traccie d'accampamenti, case affumicate, miseria. Non sembra però che i miei compagni di viaggio si diano gran pensiero di questo sottosopra. Vedo là due sposi che colombeggiano; qui un operaio brillo che fa delle proposte di matrimonio a una vecchia contadina aragonese; più in là cinque scamiciati che giocano alle carte; un ufficiale dei cacciatori che canta, un postiglione castigliano che trinca, e un vecchio parroco di campagna che stabacca voluttuosamente fra un periodo e l'altro dell' España católica. Allegri, figliuoli, e che Dio vi conservi. Ora canta anche il postiglione, l'operaio gli fa eco, i cinque scamiciati entrano nel coro; come, come, anche loro, le signore guardie? Ma, e la consegna? E la disciplina? E i Carlisti? Oh che bel paese di matti! Il carnovale in mezzo alla guerra civile. Ma bene! Viva la.... darei un buffetto sul naso a quei due sposi, che si guardano nel bianco degli occhi. Corpo di Carlo V! Non c'è peggior supplizio per un povero viaggiatore, che di dover assistere a queste fanciullaggini! Smettiamo dunque; il vagone non è un'alcova, che diavolo!
.... E un'altra coppia, — e un'altra, — e un'altra. Eccomi qui in piena Arcadia. Ora mi dovrò asciugare quest'uggioso spettacolo fino a Colonia. Già non ci dovevo venire. Me l'avevano detto che questi scellerati piroscafi del Reno, in autunno, sono il nido galleggiante di tutti gli amori nuziali del Belgio, dell'Olanda, della Svizzera tedesca e dei paesi delle due rive. Eccole qui, tutte queste bionde sdolcinate e scarmigliate, che alzano gli occhi al cielo e lasciano ricadere la testa. Ecco gli sguardi velati, le strette di mano furtive, i baci mandati col ventaglio, le toccatine di piede, i bisbigli, i languori, le sciocchezze infinite che cinquanta maledetti notari tabaccosi hanno legittimate pel mio malanno. Quella belga fraschetta! Quella magontina petulante! Questa lussemburghese ipocrita che nasconde coll' Allgemeine Zeitung il braccio di suo marito! Le sfrontate! Gli ufficiali tedeschi salutano il piroscafo dalle terrazze delle ville, le chiese gotiche specchiano le loro guglie cesellate nelle acque, i vecchi castelli disegnano le loro gigantesche forme nere sul cielo, passa la roccia di Coblenza, sparisce la rovina di Hammerstein, si nasconde dietro ai monti lo splendido castello di Rheineck, si dileguano come sette nuvole enormi le Sette Montagne; e loro non vedono nulla! e continuano a bamboleggiare colla punta delle dita e colla punta dei piedi, stupidamente sicuri di non esser visti, come se fossimo tutti addormentati, orbi, o cretini.... Eppure se tutte queste sciocchezze non si facessero, non avrei trovato, le sere dei giorni di festa, nei giardini d'Anversa e nei viali di Basilea, una folla d'angioletti coi capelli d'oro, che mi scacciarono dal capo le idee nere, e mi riempirono il cuore di dolcezza! Ah! io sono un ingrato! Ebbene, sì, sorridete, guardatevi, amatevi, parlatevi nell'orecchio, giocate colle punte dei piedi, godete, inebbriatevi, scordatevi di noi e del Reno e dell'universo! purchè vengano gli angioletti coi capelli d'oro....
.... Eccoli qui! Una folla di bimbi e di bambine che invadono il Prater di Vienna, sparpagliandosi in mezzo agli alberi sfrondati, per i viali coperti di foglie gialle. L'autunno s'è cangiato a un tratto in primavera; l'aria grigia s'è riempita di fragranze e risuona di voci armoniose, e tutto spira freschezza e allegria. A gruppi, a schiere, a circoli, a stormi, vanno e vengono, come un nuvolo d'uccelletti e di farfalle; e rendono l'immagine d'un grande giardino di rose e di gigli vivi, che da sè stessi intreccino e disfacciano rapidamente mazzi, corone e ghirlande palpitanti e sonore. Ciarpe scozzesi e pelliccie russe, giubbette ungheresi e berrette polacche, penne purpuree, riccioli biondi e nastri azzurri, ondeggiano e si confondono in mezzo ai cerchi, alle carrozzine, alle racchette, ai cervi volanti, ai palloncini color di rosa. Tutto ride, tutto brilla, tutto splende, tutto tripudia, e un senso divino di giovinezza e di speranza invade l'anima mia. Siate benedetti, o bei fiori appena sbocciati della razza umana! Benedetti i vostri visi rosei, benedetti i vostri capelli di seta, benedette le vostre gambettine nude, benedetti i vostri giochi, la vostra gioia, la vostra innocenza, le vostre famiglie, la vostra vita! Io v'adoro, creaturine! Venite, accorrete intorno a me, fatemi fare qualche cosa, fatevi servire, imponetemi i vostri capricci, divertitevi di me! Volete picchiarmi? Volete farmi l'urlata? Volete saltarmi a piedi giunti? Volete ch'io vi porti sulle spalle? Volete che m'arrampichi sopra un albero, per farvi ridere? Se mi rompessi la testa, voi dite. E che m'importa di rompermi la testa per voi! Animo, sull'albero. Sono già molto alto, non è vero? Ma salirò ancora. Così? — Noch! — Così? — Immer noch! — Ma volete dunque ch'io salga fino....
.... Oh l'incantevole panorama! Un golfo coperto di navi, due mari che si congiungono, tre città che s'abbracciano, l'Europa e l'Asia che si guardano, mille minareti e mille cupole, in mezzo a migliaia di chioschi, di bazar, di bagni, di terrazze, d'acquedotti, dentro a una corona immensa di giardini e di boschi; e in ogni parte una folla variopinta e innumerevole che sale e scende per venti colline e venti porti, in mezzo ai cipressi, alle fontane e alle tombe; e su tutto questo il cielo d'Oriente! Oh com'è bello, splendido e grande! Io non credevo che una così meravigliosa bellezza si potesse vedere sulla terra altro che in sogno. Ora comprendo il musulmano moribondo che dice: — portatemi alla finestra. — Vi comprendo, poeti che avete spezzata la penna, pittori che avete lacerato la tela, scienziati che avete perduta la flemma, mercanti che avete balbettato dei versi, fanciulle che avete gettato un grido e abbracciato vostra madre, gente d'ogni paese e d'ogni tempra, che vi siete sentiti rimescolare il sangue e inumidire gli occhi davanti a questa visione di paradiso! Oh se potessi portar qui tutto quello che amo, e viver qui, a questa sublime altezza, su questa terrazza aerea salutata dal primo e dall'ultimo raggio del sole! Custode, non mi seccate. — Faccio il mio dovere, captàn. Tutta Costantinopoli sa che il nostro signore e padrone Abdul Aziz, che Allà protegga e conservi, non vuole che nessuna fronte umana si alzi sopra l'ultimo parapetto della torre del Seraskir. Fammi dunque il favore di abbassare la testa. — Lasciami in pace, ti do cinque lire franche. — Abbassa la testa, captàn. — Ti do due scudi franchi. — Abbassa la testa, captàn! — Ti do un napoleone d'oro, che tua moglie diventi sterile e gli uccelli del cielo insudicino la tua barba! S'è mai visto un mulo di turco più mulo di costui? Siamo d'accordo?
.... D'accord, monsieur, d'accord. Donnez moi le napoleon et voici la chaise. — Sta bene; ma aiutatemi a salire, perchè è buio fitto, e sostenetemi di dietro perchè la folla ondeggia. Ed ora dove devo guardare? — Al di là della Senna, signore. — Ah! un fascio di raggi bianchi ha illuminato per un momento un mare di teste nel Campo di Marte. Ora dalla riva in faccia s'alza e s'allarga un nembo di foco che vien giù a schizzi, a sprazzi, a pioggioline, a cascatelle splendide in forma di fiori, di pagliole, di stelle, di fiocchi, d'anelli, e produce nelle acque un tremolío di riflessi, un turbinío di scintille, un lampeggiamento di colori, che par che la Senna travolga perle, cristalli e vezzi d'oro. Intanto dal ponte, dalle case, dalla riva destra si spandono torrenti di luce che colorano via via di verde smeraldo, di giallo sulfureo e di rosso sanguigno le sponde, la folla, l'altura del Trocadero, il padiglione dello Scià; cento cannoni tonano, cento musiche echeggiano, e l'immensa voce della moltitudine empie il cielo come il muggito d'un oceano. A un tratto, tutto si spegne, tutto tace, e la folla, immersa daccapo nelle tenebre, volta le sue trecentomila teste a monte della Senna. L'incendio di Parigi comincia. Vampe di luce indiana e fasci di luce elettrica vibrati tutt'insieme da mille punti, illuminano tutte le sommità dei più alti edifizî. I tetti delle Tuilleries sfolgorano come piramidi di carbonchio, la cupola del Panteon è di bragia, il palazzo dell'Industria è d'argento percosso dal sole, il palazzo degli Invalidi è verde acceso, la torre di San Giacomo, la colonna di Grenelle, la scuola militare, San Sulpizio, Nostra Signora di Parigi mostrano i loro grandiosi contorni segnati di foco, le loro cime coronate d'aureole e velate di fumo luminoso, e il cielo appare colorato qua e là d'aurore e di tramonti di soli ignoti; e infine una miriade di razzi scoppia da un capo all'altro di Parigi con un fragore formidabile, e si risolve in una immensa pioggia silenziosa di fiori ardenti, accompagnata da un grido universale d'allegrezza infantile....
.... Vera allegrezza infantile! Lasciate stare codeste fanciullaggini, e pensate alla morte! — Ah! siete voi, signor Danmann? — Son io, il vecchio e uggioso filosofo danese, che vi sermoneggia in fondo a una carrozza, tra Turnu-Severin e Palanka, un'ora prima del levar del sole; distogliendo voi, stizzito, (perchè vedo che vi stizzite) dal cercare cogli occhi fra le capanne e le siepi, a traverso la nebbia, le incerte forme bianche delle contadine valacche. Lasciatemi dunque finire il discorso. Vi voglio ripetere il mio consiglio, un buon consiglio per la pace della vostra vita. Pensate tutti i giorni, e lungo tempo alla morte; ma sprofondatevi in questo pensiero e chiudetevi in esso come in una tomba, giovandovi di tutta la forza della vostra immaginazione. Raffigurate voi a voi stesso, colto da una malattia mortale —, moribondo —, morto; stampatevi bene in mente l'aspetto del vostro cadavere; osservate ogni movimento degli uomini che vi stendono nella cassa, che inchiodano il coperchio, che vi portan via; — guardate a traverso le assicelle la città affaccendata ed allegra; — sentite il freddo della fossa in cui vi calano —; udite il rumore della terra che vi gettano sul capo; immaginatevi là solo, immobile, scheletrito, orrendo, e meditate senza staccar gli occhi da quell'orrore. Ebbene, credete a me: chi non ne ha fatto esperimento, non può concepire il grande e salutare cangiamento che produce questa meditazione funebre di tutti i giorni nella nostra maniera di vedere e di sentire il mondo e la vita. La nostra sventura è quel sentimento vago d'immortalità terrena, il quale ci fa vedere tutte le cose che ne circondano, più grandi e più importanti di quello che sono; onde più grandi i dolori, e anche le gioie, perchè sproporzionatamente maggiori delle cause, sorgenti di tristezza. Ma l'abitudine del pensiero della morte, ravvivando continuamente il sentimento della precarietà d'ogni cosa, ci presenta tutto ridotto alle sue proporzioni reali, e restituisce così l'equilibrio tra noi ed il vero, e coll'equilibrio la pace, e colla pace un misurato e più sicuro godimento della vita. Provate e rimarrete meravigliato, amico mio, vedendo come fuggiranno da voi tutti i piccoli sentimenti ignobili, tutti quei piccoli dolori senza cagione, quella turba miserabile d'irucole, d'invidiole, d'ambizioncelle, di dispetti, di crucci, che rode sordamente l'anima umana, e la rende più infelice che non le grandi sventure. Provate: in ogni vostra piaga morale versate prontamente questo pensiero, come versereste un balsamo in una piaga del corpo. Ogni volta che v'assale l'orgoglio, osservate le vene della vostra mano, tastate le vostre costole, trattenete per qualche momento il respiro, e sentendo così improvvisamente la debolezza della vostra vita, tornerete umile. Quando qualcuno v'offende, rappresentatevi alla mente il suo scheletro, tutte le più minute parti del suo fragile organismo, un vaso sanguigno del suo capo che, rompendosi, lo può rendere da un momento all'altro forsennato o cadavere; e perdonerete. Abituatevi a vedere in ogni uomo un moribondo; nello spettacolo della natura un quadro fantasmagorico che brilla e svanisce; in tutti i beni della terra, il bene d'un momento, che un raffreddore vi può togliere; abituatevi a sentirvi morire, fatevi del pensiero della morte un sostegno, un rifugio; e non temete ch'esso vi stanchi della vita, e vi renda freddo agli affetti e al lavoro, chè anzi ogni vostro affetto si colorerà d'una mestizia divina, e si farà più profondo. Ah! con che delirio d'amore bacerete la vostra amante, pensando che con una stretta delle braccia potreste slanciare la sua anima nell'eternità e il suo corpo nella tomba! E il vostro lavoro sarà più fecondo, perchè stando quasi colla vostra mente fuori della vita, contemplerete gli uomini e le cose dall'alto, coll'anima più quieta e coll'occhio più sereno. Eccoci a Palanca; qui dobbiamo separarci; ricordatevi i consigli del vecchio Danmann, e addio. — Permettetemi d'abbracciarvi, signore. — A me figliuolo. — .... Gran Dio! Voi non siete Danmann, voi non siete vivo! Voi siete di bronzo!...
.... Una statua. Ah, riconosco le tue sembianze, o potente e caro agitatore della mia giovinezza. In quest'aspetto io ti vedevo apparire come un fantasma luminoso, sulla soglia della mia stanza, quando a tarda notte alzavo dai tuoi libri il volto trasfigurato. Così vedevo codesta fronte, che porta la traccia delle battaglie ardenti e perpetue della tua mente; così tutta la tua nobile figura, che pareva sempre naturalmente atteggiata sul piedestallo che ora ti sorregge, « tutto altero e grandioso, fuor che gli occhi, che son dolci.» Ti riconosco; sei tu «che t'avanzavi come un conquistatore nell'eterno dominio del vero, del bene, del bello, lasciando dietro di te, vaga apparenza, la volgarità che tutti c'incatena;» tu il profondo e sottile investigatore del cuore umano, l'instancabile rimestatore di problemi, poeta della libertà e dell'amore, scultore di tiranni e d'eroi, pittore di vergini e di banditi, glorificatore di schiavi e di martiri; tu «il vero uomo » tu «il giovane eterno» tu che eri ad ogni otto giorni «un essere novo e più vicino alla perfezione;» ingegno tremendo e gentile, anima eccelsa e semplice, uomo grande dinanzi alla patria, grande in seno alla famiglia, grande nella lotta contro te stesso e contro la morte! Sei tu, dunque? Oh! permetti all'ultimo dei tuoi devoti, a uno che, te vivo, avrebbe attraversato l'Europa per andar a gridare sotto le finestre della tua casa che tu sei grande e che ti ama, permettigli di mettere per un istante sotto la tua mano di bronzo la sua fronte infocata, come farebbe per chiedere la benedizione d'un Dio.
.... Chi profana il nome di Dio? Non c'è altro Dio che Allà e Maometto è il suo profeta. Ascari, caricate di catene questo miserabile che si prostra ai piedi d'un idolo di bronzo. — Tu vaneggi, Kaid! Questa è la statua di Federico Schiller e io sono nella città di Magonza. — Tu menti, Nazareno! Questo è il simulacro d'un Dio bugiardo e tu sei nel palazzo imperiale di Fez. — Un momento, in nome di Dio! Abbassate le spade: io domando di parlare al Sultano! — Voltati indietro e atterra la fronte: egli s'avanza.... — Ah! Mulei-el-Hassen, i ministri, la corte! Sia ringraziato il Cielo, son salvo! Mulei! Maestà! Sono accusato d'idolatria, sono innocente, io non riconosco e non adoro che il vero Iddio, Signore dei mondi, immensamente misericordioso. Voi non mi farete morire. Mi dovete riconoscere. Venni qui con un'ambasciata. Voi montavate un cavallo bardato di verde, e avevate la cappa bianca e il cappuccio sul turbante; eravate bello e gentile, Mulei, e i vostri occhi eran pieni di dolcezza. Indietro dunque colle vostre spade, soldati! la mia vita è nelle mani del vostro Signore. Mulei, voi siete giusto e buono; io son lontano dalla mia patria, solo, senza difesa; son giovane, sono amato, ho bisogno di vivere, pronunziate una parola, fate un cenno, sorridete, guardatemi! Oh, voi vi movete a pietà, Mulei; la vostra fronte si rasserena, le vostre labbra si schiudono; una parola, dunque, una sola parola! Fate almeno allontanar queste spade che mi balenano sugli occhi. Ma scotetevi una volta, principe senza cuore! Non vedete, per Dio! che son già tutto intriso di sangue....?
.... È mio sangue, signor tenente; son io che l'ho macchiato; lei non è ferito; la palla è toccata a me.... in un fianco; non vada via, signor tenente; stia qui accanto a me; io sento che la vita m'abbandona; m'aiuti o morire. — Ma che morire, figliuol mio! Perchè parli di morire? La tua ferita non è grave; fatti coraggio; appoggiati qui alla sponda del fosso; mettimi la testa sul braccio; così; ora ti sbottono il cappotto; a momenti capiterà qui il medico; non ti perder d'animo, via; vedrai che per questa volta ci si mette ancora una toppa. — Ah, no, signor tenente! Questa volta è finita.... Sento che è finita.... Mi si velano gli occhi.... Addio! addio, mio buon uffiziale! addio, mia buona madre! addio a tutti! — Morto!... Forse il suo cuore batte ancora. Ah! non batte più. Povero ragazzo! Egli non poteva avere più di ventidue anni. Ecco un taccuino, una lettera diretta a suo padre; al signor Pietro Caretti, contadino. Contadino! Fiesole, presso Firenze. Un biglietto da due lire: la sua paga degli ultimi cinque giorni. Il ritratto d'una vecchia: sua madre. Un anellino di capelli neri: la sua amante. Ecco tutto il suo passato e tutto il suo avvenire, sommersi in una pozza di sangue; tutto il suo piccolo mondo, frantumato da un pezzetto di piombo; affetti, promesse, disegni, speranze, tutto finito! E da chi? Da qualche altro ragazzo che è laggiù in quei campi, dietro quei nuvoli di fumo, e che forse ha anch'egli sul cuore un ritratto e una lettera.... ma quella lettera è scritta in tedesco! Ecco perchè un dei due si è pigliato una palla nel fianco.... — Avanti! avanti! — Ma come, dove avanti, signor maggiore? Dobbiamo arrampicarci su per questo muro? È impossibile! — Avanti a ogni modo! Aggrappatevi all'erba e all'edera, laceratevi il viso e le mani; ma salite! — Saliamo dunque.... Me se non si può! l'edera cede e si rompe! — Ma come si rompe! Se è marmo!
.... Marmo? E infatti le mie mani stringono due colonnette; il mio piede destro posa sulla testa d'un santo; il mio piede sinistro, sulla groppa d'un leoncino, e sulla mia testa, s'alza una finestrina a sesto acuto; io m'arrampico su per un delicatissimo monumento d'architettura gotica, tutto rilievi e trafori, e pieno d'aria e di luce; e giù sotto di me, vi sono altre colonnette, altri santi, altri ricami di marmo; e ancora più sotto.... Dio eterno! Io sono a un'altezza prodigiosa, sulla guglia estrema del campanile della cattedrale di Strasburgo! Vedo Wissemburg, la montagna del Geisberg, il Reno, la foresta nera, l'Eichelberg, la valle della Murg! Sono sospeso tra il cielo e la terra! Ah! purchè riesca a cacciare la testa nel finestrino! Coraggio. — Su — adagio adagio — di statuetta in statuetta — di rilievo in rilievo.... Ma questo vento che mi caccia i capelli negli occhi! Questo immenso vuoto che mi circonda! Queste colonnette sottili come verghe di salice! Queste teste di santo grosse come una noce! Ah, il coraggio m'abbandona! Le mie mani tremano, i miei piedi scivolano, le colonne si muovono, i santi vacillano, i rilievi si staccano, il terrore m'invade, l'abisso mi attira, la vertigine m'accieca! Ah l'orrenda morte! Oh madre mia! Aiuto! Io precipito....
Cos'è stato? Mi son svegliato con un grido? Chi mi chiama? Ah, la voce di mia madre nell'altra stanza. Che dici?
— Ti dico quello che t'ho già detto tante volte, figlio mio: di non dormire mai sul fianco sinistro.
FINE.