RICORDI DEL 1870-71
DI
EDMONDO DE AMICIS.
Sesta edizione.
Volume unico.
FIRENZE, G. BARBÈRA, EDITORE. — 1882.
Quest’opera è stata depositata al Ministero d’Agricoltura, Industria e Commercio per godere i diritti accordati dalla legge sulla proprietà letteraria.
G. Barbèra.
2 gennaio 1872.
INDICE.
Ai Giovani italiani Pag. V
Un addio a Firenze 1
Una distribuzione di premi 13
La battaglia di Solferino e San Martino 25
L’inaugurazione degli Ossari di San Martino e Solferino 59
Alla Francia 72
Ricordi di Roma. — L’entrata dell’esercito in Roma 96
La cupola di San Pietro 109
Preti e frati 116
Le terme di Caracalla 124
Un’adunanza popolare nel Colosseo 130
Dell’istruzione delle donne. Aneddoto 140
Il capitano Ugo Foscolo 150
Ai coscritti 160
L’adolescenza 181
Un esempio 184
L’inaugurazione della galleria delle Alpi. Lettere 196
Certe lettere 206
Il circolo filologico di Torino. Lettera 216
Le “immagini bianche.” 226
AI GIOVANI ITALIANI.
Quando mi venne proposto di raccogliere in un volume i seguenti scritti, esitai, parendomi che i soggetti fossero troppo disparati, e che il libro sarebbe riuscito una miscellanea. Ma cedetti poi al cortese desiderio dell’Editore, considerando che questi medesimi scritti hanno veramente qualcosa di comune tra loro; si riferiscono, cioè, per la maggior parte, ad avvenimenti seguiti in Italia negli ultimi due anni: — dall’inaugurazione degli Ossari di San Martino e Solferino, all’apertura della Galleria delle Alpi, dall’entrata del nostro esercito in Roma, al trasferimento della sede del Governo; — avvenimenti de’ quali può riescir gradito ed utile, specialmente ai giovani, conoscere quei particolari che ce ne ravvicinano l’immagine e ce ne ravvivano il sentimento; e che sogliono nondimeno andar perduti, perchè la storia non li può raccogliere, e la stampa periodica non li può serbare. Io pensai che questo libro potesse far l’ufficio d’ un testimonio oculare di quei fatti, a cui si domandasse: — Che cos’hai veduto? che cos’hai sentito? che cos’hai pensato? —
Agli scritti risguardanti quegli avvenimenti, n’aggiunsi altri, i quali, senza alterare l’indole del libro, mi pare che gli accrescano varietà ed efficacia; scritti a cui diedero occasione fatti occorsi a me, o uditi narrare in questi due anni; di modo che tutto ciò che è contenuto nel libro, — dove se ne tolga la Battaglia di Solferino e San Martino, posta quasi come necessaria premessa alla descrizione della festa degli Ossari, — tutto è stato veramente pensato, sentito o veduto nel tratto di tempo accennato dal titolo. Trattandosi di fatti recentissimi, non ho creduto di dover disporre gli scritti per ordine cronologico, e mi attenni invece a quello che mi parve più atto ad agevolarne la lettura.
È un libro in cui si parla di patria, di guerra, di studi, e se ne parla con ardore e fede giovanile; però lo dedico ai giovani, colla speranza che lo leggeranno non senza giovamento; in varia forma, esso non dice al lettore che una cosa: — Ama il tuo paese e lavora.
RICORDI DEL 1870 E 1871.
UN ADDIO A FIRENZE.
[Firenze, 27 giugno 1871.]
La ragazza. Io non t’avevo cercato, e tu sei entrato in casa mia con un piglio da padrone, trovando a ridire sopra ogni cosa e affettando dispregio per tutto quello che ho di più caro. Pedante uggioso, che non sei altro! Nella tua città non c’è un quadro e una statua fatta dai tuoi; le case son tutte d’un colore; tu poi, parlando, non pronunzi una lettera doppia a pagartela uno scudo; e credi d’aver fatto tutto tu a questo mondo! E dici che io sono indietro d’un secolo! Sei un tanghero.
Il ragazzo. E tu una fiaccona vanagloriosa, che ti gonfi dei meriti dei tuoi vecchi. Nella tua città non c’è modo di mangiare due uova assodate a dovere ( storico ), non c’è marciapiedi, non c’è il negozio Perotti e Nigra; tu poi, parlando, ti mangi i c, e dici straporto invece di trasporto; e vanti le aure miti del tuo paese, mentre ci tira un vento che sbatte la gente ne’ muri.
Ragazza. Io son bella e colta.
Ragazzo. Io son forte e onesto.
Ragazza. Nientemeno!
Ragazzo. Sicuro!
Popolo. Si acciuffano, separateli, si possono far del male; badate che la morde nel collo.
Un tale (dopo averli separati). Niente paura, sono due impostori bricconi. Non l’ha mica morsa, l’ha baciata. (Risa generali.)
(Da una commedia recente, intitolata: Doveva finir così. )
Un Piemontese che deve andare a Roma tra poco, sentì il bisogno, qualche giorno fa, di mandar un saluto alla città di Firenze, e pensò di mandarglielo dalla cima della collina di Fiesole.
Una di queste sere, poco prima del tramonto, prese la via di porta a Pinti, solo soletto, come un pellegrino, e tirò innanzi a capo basso, almanaccando. La strada era deserta. Egli, che vi era passato molte volte nei giorni di festa, quando vanno e vengono tante famigliuole di operai, e brigatelle di giovani, e coppie d’innamorati, e villeggianti, e carrozze, quella sera, non vedendo anima viva, si sentiva prender dalla malinconia. Andava su a passo lento, si fermava dinanzi ai cancelli chiusi delle ville, dinanzi alle chiesuole, ai tabernacoli, ai muri scarabocchiati col carbone; girava tratto tratto uno sguardo sulla campagna dai punti più alti; per tutto era quiete e silenzio. Incontrò qualche povero, inciampò in una vecchia addormentata sullo scalino di una porta, arrivò a San Domenico, e su, per la strada più corta.
Per tutta la salita non si voltò mai a guardar Firenze. Non voleva sciuparsi l’effetto del colpo d’occhio più bello da godersi lassù, dinanzi al convento. — Poichè è l’ultima volta che la vedo, — pensava, — la voglio veder bene, tutt’a un tratto, come al cader di un velo. E faceva tra sè quei ragionamenti fanciulleschi che si fanno in tali occasioni, quasi per darsi un’illusione di sorpresa: Cosa si vede di lassù? Che città c’è nel piano? Dove sono? Dove vado?
Arrivato in cima, accanto al muricciolo, prese fiato, e poi si voltò tutto a un tratto verso Firenze.
Lo spettacolo quel giorno era più stupendo che mai. Il cielo lucido e quieto di una pace allegra; una striscia di nuvole color d’arancio all’orizzonte; il resto puro; le cime delle colline lontane pareva che fendessero l’azzurro; una freschezza primaverile spirava nell’aria. Sotto, tutto quel saliscendi di poggi e di vallette, simile a un solo immenso prato depresso qua e là, lievemente, come dal premere d’una mano carezzevole, mossa da una fantasia capricciosa; tutto un verde leggiero, variato sui punti eminenti dal verde cupo dei cipressi, disposti a file e a corone; interrotto da prati fioriti; listato di strade, di viali, di sentieri bianchi, che s’incrociano, si inerpicano sulle cime, precipitano dal lato opposto, e spariscono e riappariscono in distanza; casette, gruppi di case, ville su tutti i rialzi, nette, spiccate, che par che i colli le buttino innanzi per porgerle; oltre la città un vastissimo piano, coperto d’una nebbia leggiera, traverso alla quale biancheggiano le case lontane, come vele sul mare; e su tutta questa sterminata corona di colli, di villaggi, di ville, di giardini, ogni cosa che par che guardi a Firenze, e voglia scendere e precipitarle nel seno; l’ossatura d’una città immensa che non si può traveder compiuta senza un senso di spavento; uno spettacolo pieno di bellezza che fa pensare, e di maestà che sorride.
— Mah! — esclamò il giovane con un sospiro, sedendosi sul muricciuolo colle spalle volte a Firenze, per raccoglier meglio i suoi pensieri; è pure una dura legge che, quando s’abbandona una città, oltre al dispiacere di separarsi dagli amici e di rompere molte abitudini che erano diventate care, uno si debba accorgere che vi sono ancora da sciogliere altri legami; dei legami che lo tengono attaccato ai muri delle case, ai piedestalli delle statue e agli alberi dei viali.... Cinque anni! Mi par d’essere arrivato a Firenze ieri. Era una brutta giornata, nevicava, non c’era anima viva per le strade. Mi parve una città malinconica. Uscito appena dalla stazione, infilai via dei Panzani; diedi un’occhiata, passando, a via Tornabuoni: con quelle case di colore scuro mi fece l’effetto d’una strada tetra; andai oltre, vidi il Duomo, mi affacciai a via dei Servi: mi parve un corridoio di convento; tirai innanzi fino a via San Sebastiano: peggio. Mi sentivo soffocare in quelle stradette, mi pareva che vi mancasse l’aria e la luce; m’uggivano tutte quelle casuccie, addossate le une all’altre, strette come persone che si pigino, con quelle porticine che paion buche; una casa alta come una torre, una bassa come una capanna, una grossa, una mingherlina, una avanti, una indietro, tutte di sghimbescio, come buttate là a caso..... Piovve per molti giorni. Io stavo in via Pietra Piana, verso la porta, e passavo dell’ore alla finestra, guardando nella strada, solo e pensieroso. Ad ogni sbatter di porta, la casa tremava tutta come se volesse cadere. — Ci restassi sotto! — dicevo — tanto ho da crepare di malinconia....
Poi venne il bel tempo, e col bel tempo l’umore allegro.
Passarono tre o quattro mesi.
Un bel giorno osservai che per andare da casa all’ufficio ero passato ogni mattina per la stessa via; mi meravigliai di non aver pensato a prenderne un’altra, me ne domandai la ragione. — Forse, dissi tra me, è l’effetto di quella tal casa che vedo di scorcio sulla cantonata, appena son fuori della porta. Sarà fors’anco la chiesa che c’è di rimpetto. O son le finestre del palazzo accanto a casa mia, che guardo sempre. O i bassorilievi del palazzo più piccolo ch’è vicino alla chiesa. O sono tutte queste cose insieme. — Poi, fermandomi in mezzo a una piazza, mi venne fatto di domandarmi che cosa fosse che mi tratteneva, in quel certo punto e in quel certo modo, coll’aria e col sentimento di chi sta in casa sua; perchè mi pigliasse la voglia di appoggiare le spalle al muro e di finire il mio sigaro in pace; come non mi potessi trattenere dal chiamar gli amici che passavano, e attaccar discorso, e far crocchio, e sciupare in chiacchiere una mezz’ora. Cercai di spiegare a me stesso il perchè avessi contratto l’abitudine di rallentare il passo a quella tal svoltata, di guardare intorno su quel tal crocicchio, di andar oltre col viso in aria.....
Una mattina mi accorsi con sorpresa di avere nel capo, distinte una ad una, le immagini d’una cinquantina di case di strade diverse, delle quali avrei saputo dire, senza rischio di sbagliare, il colore della facciata, la forma delle finestre, il disegno degli ornati. Guardai meglio quelle case, ripassandoci davanti; e più le guardavo, più mi pareva che avessero tutte un’aria propria, che so io? un significato, un qualcosa che mi faceva pensare. L’una sentivo che l’avrei scelta di preferenza per invitarvi degli amici a cena, e menarvi una vita allegra: mi pareva che sorridesse. In un’altra ci sarei stato più volentieri a studiare, solo, raccolto, con una gran biblioteca: aveva un aspetto grave. In una terza pensavo che non ci si potesse vivere che facendo all’amore: tanto aveva le forme snelle e la tinta gentile. Gli architetti di quelle case bisognava che fossero giovani simpatici; dovevano aver voluto dir tutti qualche cosa con quei disegni; s’erano fatti tutti capire. Man mano che passavo per quelle vie, mi si affollavano alla memoria versi, scene di romanzo, episodi storici, ariette d’opera. E alzando gli occhi ai palazzi, alle torri, ai campanili, agli archi grandiosi, mi cominciava a parere strano che, in luogo d’ispirare quell’ammirazione subitanea e profonda, mista quasi ad un senso di terrore, che sogliono ispirare i monumenti giganteschi, costringessero invece, quando si voleva esprimere con parole l’effetto delle loro bellezze, a servirsi degli aggettivi stessi che s’usano per designare un bel fanciullo, un bel fiore, un bel ninnolo, come: — Gentile, carino. Guardando quelle torri, quei palazzi, sorprendevo spesso in me medesimo uno stranissimo desiderio, come di fare scorrere la mano su quei contorni, di palpare quei rilievi; e con questo desiderio, una specie di sollecitudine gelosa per quelle moli enormi di pietra, come se temessi che la menoma forza le potesse offendere e sciupare; e con questa sollecitudine, un bisogno vivo e continuo di correrle e di ricorrerle con quello sguardo d’amante che avvolge, e striscia, e lambe, e si stanca sulle forme care.
— Ma queste linee si muovono, — esclamavo tra me — v’è qualche cosa che si stacca e va su; c’è della vita in quelle forme! — Cominciai a capire certi amori ardenti per le glorie artistiche del proprio paese, e mi compiacqui nel sorprendere sul viso degli stranieri, che si fermavano sulla piazza, la prima espressione della meraviglia e del diletto. Presi l’uso di passare e di fermarmi tutti i giorni, a quell’ora, in quei luoghi. Mi accorsi che ogni giorno quella contemplazione di pochi istanti mi metteva in un corso d’idee alte e belle; sentii poi che la facoltà di quella maniera di diletto si rafforzava e s’estendeva ad altre forme dell’arte; che quel gusto del semplice e del grande s’insinuava anche un po’ nel sentimento e nel giudizio mio riguardo a cose che coll’arte non avevan che vedere, a fatti, a persone, a costumi; mi parve d’essere riuscito, per effetto di quel culto gentile, a domare certi moti impetuosi e quasi selvaggi dell’animo mio, a dare alla mia indole un che di più liscio e di più morbido, a migliorarmi in qualche cosa. Per questo presi ad amare quelle linee, quelle forme, quei colori; e non mi pareva più pazzo il Pieruccio dell’ Assedio di Firenze che, povero e abbandonato, trova ancora un palpito di gioia segreta, sollevando gli occhi pieni di lacrime ai monumenti della sua cara città natale....
Questo seguì a me ed a molti. Ma per chi sia venuto qui nel fiore della giovinezza, con quell’irresistibile bisogno di aprire il proprio cuore e di gridare: — Guardate! — che ci assale appunto negli anni in cui si comincia a esser uomini e si è tuttavia un po’ fanciulli; — per chi sia venuto qui coll’intima coscienza di esser atto a qualcosa, senza saper che, nè come, nè quando; con un presentimento confuso, con un desiderio inquieto, con quella forza dentro che s’agita, e tenta e non rinviene l’uscita; per chi, essendo venuto qui in quello stato, abbia sentito, al lume di questo cielo e all’ombra di questi monumenti, squarciarsi come un velo che gli avvolgeva l’ingegno, tutte le facoltà ravvivarsi con impeto e ordinarsi con armonia, e dal tumulto, prima infecondo, della mente e del cuore, prorompere per la prima volta, rozzi, ma ardenti e liberi, gli affetti, i pensieri, le immagini; — per chi sopratutto abbia raccolto qui, con lungo amore, le forme e le parole in cui potesse significare ed espandere l’animo suo, affratellandosi col popolo per sorprendergliele sulle labbra, ricominciando qui, per così dire, un’altra infanzia, rinnuovando quasi la sua natura, aspirando continuamente, avidamente, quest’aura vergine della vita italiana, per farsene sangue, e informarsene il cuore e il cervello, superbo oggi d’esservi riuscito, disperato domani di non riuscirvi, ma sempre risoluto, ostinato e appassionato; per costui non ci sarà nè parola nè omaggio che basti a significare l’affetto e la gratitudine che deve sentire per Firenze, sua ispiratrice e maestra.
Quando, a tarda notte, nel silenzio della sua cameretta, dopo un lungo lavoro condotto con furia febbrile egli sentiva il bisogno di smorzare il fuoco che gli ardeva le fibre, Firenze gli diceva: — Vieni! — e gli offriva la splendida pace delle sue notti serene, l’Arno colorato di fuoco e il bel colle di San Miniato illuminato dalla luna; e in quello spettacolo gentile e solenne, l’anima sua si quetava. E quando, dopo aver lungamente faticato e sudato invano per dar forma e vita a un concetto riposto o a un’immagine bella che gli appariva in barlume alla mente, egli buttava la penna sconfortato e si slanciava fuori di casa, Firenze, offrendogli allo sguardo i miracoli dell’arte affollati nella sua piazza famosa, gli diceva: — Ecco la bellezza! — ed egli in quella bellezza confortava e appagava l’animo, pensando ch’ella era italiana, e il suo orgoglio umiliato d’artista moriva senza dolore nell’orgoglio legittimo e santo di cittadino. E quando egli in certi momenti di sfiducia desolata e di abbattimento mortale piangeva la sua provata impotenza e le sue speranze deluse, Firenze gli diceva: — Migliaia di giovani, e quanto migliori di te! io vidi, fra le mie mura, lasciar cadere la mano disperata sopra un foglio bagnato di lagrime o sopra un marmo spezzato; dolori che straziano il cuore, e gettano anzi tempo nella tomba, io conobbi e nascosi; ed erano anime grandi. E tu, miserabile, che pretendi, e chi accusi? — E allora egli si ravvedeva e taceva, e da quella confusione salutare traeva nuova forza e nuovo coraggio per combattere, perseverare e soffrire.
A questo punto, preso da un’ispirazione diversa, il nostro amico si voltò improvvisamente alla campagna ed esclamò in atto drammatico, non senza un leggiero accento di tristezza: — Addio, dunque, bel colle di Settignano! addio Pratolino! addio Sesto! addio vallette verdi, chiesuole solitarie e casuccie quete, che ci avete fatto dire tante volte: — Beata la pace! — Stanchi d’una baldoria carnevalesca, annoiati degli altri e di noi, tristi, umiliati, noi ci siamo levati molte volte innanzi l’alba, e slanciati con desiderio smanioso alla campagna, come l’assetato alla fonte; e correndo di colle in colle, di valle in valle, e bevendo a lunghi sorsi deliziosi l’aura pregna di vita, abbiamo sentito sparire tristezze e rimorsi, e rinascere, coll’appetito vigoroso e la gaiezza campagnuola, la forza e l’ardor del lavoro! Addio contadini cortesi, vecchierelle allegre e ragazzotte col damo negli occhi, che sedeste tante volte a tavola con noi, come vecchi amici; buona gente cordiale, che spalancavate gli occhi meravigliati, vedendoci cavar di tasca il portafoglio per notare le ingenue grazie del vostro celeste linguaggio; e addio voi pure bambinelli scalzi, di cui ci chinavamo a raccogliere le parole come le note d’un canto sommesso, addio a tutti! Nessuno di noi vi ricorderà senza rimpiangervi! Dalle sponde del Tevere, rivolando col pensiero alle sponde del Po, ci soffermeremo sempre in riva all’Arno, per mandarvi un saluto, sempre!....
Qui l’amico si fermò, si turbò, e stette qualche minuto immobile, col capo basso, occupato da un pensiero tristo. Poi alzò la fronte corrugando le ciglia, coll’aspetto di chi afferra il filo di una reminiscenza lontana, e riprese a bassa voce:
— ... Piazza Castello pareva un mare di teste; c’era mezzo il popolo di Torino. Migliaia di voci cantavano l’inno di Goffredo Mameli. L’entusiasmo toccava il furore. Centomila visi erano rivolti alle finestre dove stavano i deputati della Toscana. La gente gridava loro cose, là sotto, che faceano venir freddo; tendeva le braccia come s’essi avessero a gettarsi giù, e li volesse prendere. Si voleva vederli, e vederli ancora, e poi tornare a vederli. — Fuori! — si gridava con accento di preghiera; — vada qualcuno a pregare che si mostrino ancora una volta! Pregateli che ci parlino! Li vogliamo conoscer bene! — I loro nomi correvano di bocca in bocca; alcuni erano di famiglie antiche ed illustri, imparati già nelle storie, o intesi nelle scuole, nomi solenni, che si pronunziavano con riverenza; altri non saputi mai, ma pur cari per quel suono, per quell’impronta paesana, che li faceva riconoscere alla prima. Si cercavano nella folla i pochi Toscani ch’eran venuti coi deputati, si correva intorno a loro con una curiosità infantile, si voleva sentire il loro accento decantato, si ripetevano le loro parole, si scambiavano i lei e i chiel con una dimestichezza che pareva antica.
Il nome di Fiorenssa, come si diceva, questo nome al quale il popolo, benchè l’avesse sì poco famigliare, era pure sempre usato ad unire l’immagine di qualcosa di gentile e di augusto, si ripeteva allora con amore; Firenze, già creduta tanto lontana, pareva che si fosse avvicinata ad un tratto, che fosse lì, ai confini, colle sue belle cupole e le sue belle torri; Dante! Michelangiolo! Machiavelli! e gli altri grandi nomi rivenivano alla mente e sulle labbra, anche dei popolani, con un senso nuovo, quasi come nomi di gente viva, di cui que’ deputati ci avessero portato un saluto o un ricordo. Firenze! Si travedevano colla mente, a questo nome, delle legioni di scultori, di pittori e d’architetti, che ci gridavano: — Viva! — da lontano, agitando scalpelli, tavolozze e corone. Oh come si conoscevano tutti senz’averli mai veduti! E come si sentiva la solennità di quell’istante, la fusione di quei due popoli e di quelle due storie! Era il Piemonte, il vecchio soldato, abbronzato dal sole e coperto di cicatrici, che deponeva un bacio sulla fronte bianca e splendida della madre delle arti; della quale dieci anni prima, a Curtatone, aveva potuto stringere appena, e di sfuggita, la mano insanguinata. Erano due grida sublimi, uno partito da Santa Croce e l’altro da Superga, che si mescevano in un solo: — Ecco il giorno! Oh non c’erano freddezze allora! non ci erano rancori!
— Freddezze? — riprese di lì a poco, quasi meravigliato d’essersi lasciato sfuggire quella parola; — rancori? Ma che! — continuò scrollando il capo e sorridendo, — ma chi lo crede? chi ne parla più? chi se ne ricorda ancora? Le famiglie piemontesi, forse, che si vedono, per le case e per le vie, mostrarsi le une alle altre i loro bimbi di cinque anni, che parlano il più puro e argentino toscano che si sia inteso mai, ridendone come d’una cara sorpresa e parlandone con una compiacenza non scevra d’alterezza? O le loro donne di servizio che quando c’è confusione in mercato dicono che «non ci si raccapezzano?» O i rivenditori di giornali della stessa provincia, che rifanno il verso ai nuovi venuti, perchè non gridano ancora coll’accento paesano? Sogni! interrogateli. — «Signore! — vi risponderanno: ella ritorna molto addietro; qui son nati i nostri figliuoli e i nostri fratelli più piccoli; in questa lingua e in questo accento ci chiamarono la prima volta e ci dissero le prime parole; qui ci abbiamo amici, fidanzati, parenti; in Santa Croce c’è il nostro Alfieri; che domande la ci fa? Questa è Italia, signore! La città dove siam nati ci è sacra; ma anche Firenze è cara, e l’amiamo.»
Questo diranno; e vi soggiungeranno anco molti, che non partono col cuore lieto, che prevedono dei giorni e dell’ore in cui si ricorderanno di Firenze con una tenerezza piena di malinconia e di desiderio; perchè qui si son stretti dei cuori, molti, e con nodi tenaci, come segue sovente fra chi s’è tenuto il broncio un bel pezzo. Rancori? non è vero, è una calunnia per tutti: per chi parte e per chi resta; lo so di certo, io, lo vedo ogni giorno, lo sento ogni momento. Come? chi è che brontola laggiù? chi è che alza le spalle? avanti, se c’è ancora qualcuno da questa parte o dall’altra; spingiamoli in mezzo, a vedere se osano dirselo in viso; e che le donne e i ragazzi, che amano, perdonano e dimenticano, li costringano a levar le mani di tasca, e a tenderle di qua e di là, e gridino: — Stringete! — Animo, giù il cappello, ancora una volta, davanti a Santa Croce; un ultimo sguardo alla cupola, e un saluto intorno alle colline, e addio, e via, col cuore riconoscente e sereno. Per Dio! chi ha ancora un po’ d’amaro nell’anima, non è un galantuomo....
Ed ora do il mio ultimo saluto a Firenze anch’io.
Così dicendo, s’alzò, si voltò verso la città, e mise una voce di sorpresa. S’era fatto buio senza ch’egli se ne accorgesse, e tutta la valle era popolata di lumi. Provò quell’impressione stessa che si prova talvolta, girando per la campagna di notte, quando si guarda giù, senza pensarci, dall’orlo d’un’altura, e si vede la china, di cima in fondo, sorvolata da una moltitudine immensa di lucciole, che la fan parere tutta accesa. Così tutti quei lumi, a socchiudere appena gli occhi, si confondevano in un solo strato luminoso, che rendeva l’immagine d’un gran lago di fuoco. Dalle lunghissime file dei fanali della cinta, simili a ghirlande tese intorno alla città, altre file di lumi si stendevano dentro e fuori, diritte, curve, incrociate; altre interrotte qua e là, altre continue come un raggio di luce, altre nascoste quasi affatto dagli alberi, dietro a cui si vedeva uno splendore diffuso, come d’incendio; altre vicine, che parevano a pochi passi; altre lontane, visibili appena, or sì or no; e nel piano e sui colli, per tutto fiammelle, e gruppi di punti luminosi, e tremoli bagliori; un bellissimo cielo stellato, pareva, riflesso da una vasta acqua cheta.
— Ah! — esclamò il nostro amico dopo qualche istante di mutua contemplazione agitando una mano verso Firenze; — ....seduttrice!
Poi mise un sospiro e mormorò:
— Addio, Firenze!
E scese ch’era buio fitto.
UNA DISTRIBUZIONE DI PREMI.
[Firenze, 15 giugno 1871.]
La mattina del 15 giugno 1871, nel chiostro grande di Santa Maria Novella, si fece la distribuzione solenne dei premi agli alunni delle scuole comunali.
Al vedere le carrozze e le persone che si affollavano nella piazza e in via della Scala verso le undici, nessuno, non sapendolo, avrebbe immaginato che un sì grande e frettoloso concorso fosse attirato da uno spettacolo, del quale erano attori principali dei fanciulli.
Ma vi sono molte cose da fanciulli che fanno palpitare il cuore degli uomini. E bastava il primo sguardo gettato intorno, entrando nel cortile del chiostro, per capire che la distribuzione dei premi sarebbe stata una di codeste cose.
Il cortile, vasto quant’una piazza, cinto intorno intorno di portici, dominato da un’ampia loggia da un lato, coperto tutto da una gran tenda, pareva insieme una sala e un giardino. Gli archi de’ portici, le colonne, le finestre erano fregiate di tende, di bandiere, di corone, di fronde d’alloro, di mazzi di fiori. Nel mezzo dell’un dei lati più brevi sorgeva un padiglione circondato di piante; a destra i banchi degli alunni da premiarsi; a sinistra i posti dei parenti loro; più giù, verso il mezzo del cortile, due palchi; l’uno per la banda musicale, l’altro per le sonatrici d’arpa destinate ad accompagnare il canto delle bambine; il restante spazio, coperto di lunghe panche, poste in modo che tutti rimanessero volti verso il padiglione dove il sindaco doveva chiamare gli alunni e dare i premi. Trenta antenne tenevan su la gran tenda che copriva il cortile, e dalla tenda e dalle antenne spenzolavano stendardi, orifiamme e ghirlande. Ogni cosa disposta e accomodata con una grazia semplice, propria dello spettacolo e degli attori; colori vivi e fragranze, piacere dei bambini; un luogo allegro e gentile.
Già prima d’entrare, s’ebbe uno spettacolo che predispose l’animo a quello più grandioso che si doveva veder poi. In via della Scala e per la strada che gira attorno alla stazione della strada ferrata, chi si fosse affacciato ai cancelli dei vari giardini attigui al chiostro, avrebbe visto qua e là, all’ombra degli alberi, folti e compatti, drappelli di bambine e di bambini immobili e silenziosi come battaglioni serrati in atto di aspettare il combattimento. Alle dieci e mezzo cominciarono a disporsi in due file, e a muovere dalle varie parti verso il cortile. Tutto era stato concertato a dovere, tutto riuscì appuntino.
Il bello fu vederli entrare. Dalle tre o quattro porte per cui comparvero, pareva come si fossero rotte le dighe di un torrente. Cominciarono a sfilare e non finivano più. Scuole elementari, scuole tecniche, licei, ginnasii, istituti privati; dopo due lunghe file di giovanetti impetuosi, spuntavano e venivano oltre adagio adagio, tenendosi per mano, e guardando attorno con certi visetti meravigliati, e mandando fuori un lungo oh, centinaia di creaturine che pareva stentassero a reggersi in piedi, e che bisognava tener pel braccio nell’atto che scendevano lo scalino del portico. Dopo questi, altri più grandi; dopo i grandi, le ragazze; dopo le ragazze, di nuovo quei cosini piccini, e via così. Poveri e signori, giacchettine eleganti e panni rappezzati, stivaletti lucidi e scarpuccie di vitello si succedevano, si accalcavano; qualche volta si trovavano ristrette in così piccolo spazio tutte codeste varietà, che con un abbraccio si sarebbe levato su un fascio di figli di marchesi, di bottegai e di braccianti, intrecciati come una manata di ciliegie. Ma in tutti, anche nei più poveri, appariva la traccia della mano materna; panni spelati dalla spazzola, nodi di cravattine fatti con garbo, capelli irsuti domati da un pettine pertinace.
Alle undici si cominciò ad abbracciare collo sguardo l’assieme dello spettacolo.
Era un colpo d’occhio incantevole. In mezzo tutti i ragazzi, — migliaia, — stretti, pigiati che pareva si toccassero colle teste, una gran folla di color oscuro. E tutt’intorno una corona sterminata di bimbe, vestite di chiaro, così che appariva netto il distacco fra loro e i fanciulli, fino ai punti più lontani, come fra un giro di pensieri e un giro di rose in un mazzo. Si vedevano, da un lato all’altro del cortile, in fondo in fondo, tutti quei vestitini bianchi, azzurri, gialli, rossi, e su quella striscia variopinta, un gran sventolío di nastri, di veli, di ventagli, un gran movimento di manine e di braccini, luccichío di vezzi, e tremolío di capigliature ricciute: pareva una siepe tutta fiorita quando il vento la scote. Il profumo sparso nell’aria pareva che venisse da loro, non dai fiori. E ci volle un pezzo prima che fossero tutte al posto. Fu un lungo tramestío, un saltellare di panca in panca, un va e vieni di maestre, un rimproverare a bassa voce, un obbedire ridendo e nascondendosi il viso. E intorno al palco della musica un grande affaccendarsi per disporre le cantatrici, un chiamare e uno spingere di qua e di là. — Qua i contralti! — Avanti i contralti! — Di qua i soprani! — Di là gli a solo! — E tutte rispondere e farsi strada a fatica, ansanti, coi visi accesi, cinguettando come uno stormo di uccelli. Quanta vita e quanta gioia!
Non parlo del pubblico; nel cortile, sotto il portico, sulla loggia, per tutto c’era gente. Sotto il padiglione un gruppo di personaggi illustri, che nessuno, davanti a quello stupendo spettacolo di bambini, aveva tempo di guardare. I premiandi, seduti a sinistra del padiglione, si conoscevano dal viso; dal viso pure i parenti, ch’erano dal lato opposto. E fra gli uni e gli altri era un cercarsi cogli occhi, un accennarsi, un sorridere, e ad ogni ordine od atto del sindaco, o di chi altri, che annunziasse l’avvicinarsi dell’ora fissata, uno scambio più vivo di sguardi, come per farsi coraggio a vicenda, e dirsi l’un l’altro: — Ci siamo! — Beati istanti, davvero; e commovente la vista di quei parenti, gente d’ogni ceto, ricchi e poveri, affratellati in un sentimento di letizia comune.
Uno scoppio fragoroso d’applausi annunziò che la funzione stava per cominciare: erano migliaia di bambini che salutavano il sindaco, mentre passava a veder se ogni cosa era in pronto.
La banda della guardia nazionale suonò una sinfonia.
Finita la sinfonia, tutti tacquero, e il sindaco Peruzzi, salito sul palco del padiglione, pronunciò ad alta voce il seguente
DISCORSO.
«Nel contemplare, o signori, lo spettacolo di questo vasto recinto, ove attorno a migliaia di giovanetti stanno migliaia di cittadini, niuno vi ha che non senta come sia veramente popolare questa festa dell’adolescenza e della fanciullezza. Nè ciò farà meraviglia a chi voglia considerare come in tutti i tempi sieno state popolari le feste meglio rispondenti ai bisogni, agli affetti, ai desiderii dei popoli. I popoli, pei quali era condizione di esistenza vincere gli altri in forza ed in destrezza, traevano affollati e festanti ad incoronare i vincitori nelle lotte e nei giuochi dell’ippodromo e del circo.
»Oggi invece che i popoli tanto più valgono quanto più sanno, oggi che le sorti della patria sono affidate ad istituzioni feconde soltanto se adoperate con saggezza e virtù, oggi che per provvedere alle necessità dell’avvenire è mestieri svolgere con intelligente operosità gli elementi di ricchezza del paese, oggi le nostre speranze stanno tutte nella generazione che si avanza incalzante sui nostri passi, perlochè universale è il desiderio, universale il proposito che essa sia apparecchiata a fecondare i germi sparsi arditamente da pochi della impreparata generazione cui noi apparteniamo.
»Per questo sono qui convenuti magistrati e cittadini a dimostrare agli insegnanti in qual pregio si abbiano le benefiche loro fatiche, ai discepoli quanto sia rispetto ad essi la pubblica aspettazione; per questo non lamentano i contribuenti le maggiori spese del Comune per migliorare le scuole ed accrescerle; per questo mai ci fa difetto l’aiuto largo, volenteroso, efficace di signore e di cittadini, sia per vigilar le scuole, sia per presiedere agli esami ed ai concorsi, sia per istudiar provvedimenti e riforme; per questo cresce rapidamente il numero degli alunni, i quali nelle scuole elementari sono in quest’anno 2212 più che nel precedente; nè bastano le scuole ad accogliere quanti vorrebbero esservi ammessi, sebbene alle 138 classi che si avevano nello scorso anno ne sieno state aggiunte 25, e da 180 sia salito a 211 il numero degli insegnanti. E se malgrado il numero maggiore degli scolari è minore in quest’anno il numero dei premi, non ne traggano argomento di sconforto nè i maestri nè i discepoli; serva anzi ad essi d’incitamento questo che è segno ed effetto della importanza sempre maggiore attribuita al buono e rigido governo della pubblica istruzione.
»Nell’ordinamento della quale molto ancora rimane da riformare e da fare per isfuggire il pericolo di ricoprir talvolta sol con orpello la nudità dell’ignoranza, e perchè in un col numero degli scolari cresca quello degli studiosi intenti ad arricchire di sana coltura la mente ed il cuore, a temperare fortemente il carattere, ad acquistare la consuetudine dello studio e del lavoro.
»Nel dare oggi questi premi fatti più pregievoli dalla severa parsimonia adoperata nel conferirli, io m’indirizzo con pari effusione a tutti voi, o egregi e benemeriti insegnanti, o cari giovanetti: agli insegnanti con sentiti ringraziamenti, ai premiati perchè non si lascino addormentare dalla lode, agli altri perchè non sieno vinti dallo scoramento e dall’invidia; perchè incitamento alla virtù e allo studio sia a tutti il premio, agli uni per la soddisfazione di averlo conseguito, agli altri per il dolore di non averlo, per la brama di meritarlo nell’avvenire.
»Le sorti avventurose della nostra patria condurranno parecchi di voi nell’alma città cui Firenze fu in ogni tempo figliuola amorosa e devota; e nel darvi con dolore un amorevole addio, mi è di conforto sperare che innanzi alla maestosa grandezza dei monumenti dei nostri maggiori, accesi viepiù d’amore alla patria, alla virtù, alla scienza, andrete progredendo negli studi in queste scuole iniziati, e serberete della città, dei maestri, dei condiscepoli quella ricordanza affettuosa e perenne, della quale per loro io vi prometto cordiale il ricambio.
»E voi che qui rimanete abbiate ben in mente che mai ebbe Firenze maggior bisogno di cittadini savi ed operosi: contemplate l’antica e la nuova grandezza di questa città, che per farsi degna di ospitare l’Italia ed il suo Re, ruppe arditamente le sue mura, si distese fuori della vecchia cerchia di Arnolfo, provvide a necessità morali e materiali lungamente insoddisfatte, ed insieme alla reputazione ed al benessere dei suoi cittadini ne crebbe grandemente i doveri. Questi doveri voi li adempirete fin d’ora, o giovanetti, se vi saprete render capaci di accrescer più tardi, colla virtù e col lavoro della mente e delle braccia, le fonti della privata e della pubblica prosperità.»
Terminato il discorso, che fu accolto con vivi applausi, furon distribuiti i premi agli alunni dell’istituto Ximeniano, del liceo dell’istituto fiorentino, dei ginnasi e delle scuole tecniche. Gli alunni furon chiamati uno per uno al cospetto del sindaco, che porgeva loro la medaglia, accompagnandola con qualche parola di lode. Venivano innanzi con passi tremanti, alcuni col volto un po’ pallido, altri suffusi di rossore, ma tutti cogli occhi scintillanti e colle labbra convulse; si capiva che quei cuori dovevano fare un gran battere, che avevano bisogno di trovarsi soli, con pochi, a casa, e là sciogliere il freno alla gioia soffocata. Quanti sudori, quanti piccoli sacrifizi di sollazzi fanciulleschi, quante veglie faticose ritornavano alla mente loro in quel punto, e come care a ricordarsi, e con che profonda esultanza benedette! Su certi visi splendeva l’orgoglio della vittoria; sotto certe sopracciglia aggrottate, lampeggiavano degli occhi superbi: — erano figure nobili e belle.
Dopo questa prima distribuzione di premi, dovevano cantare le alunne.
Si fece un silenzio generale.
Le voci furono sulle prime sommesse ed incerte; ci si sentiva la trepidazione; ma a poco a poco si spiegarono in un alto canto sonoro, tremolo, derivato dall’anima. Pareva una preghiera alla quale lassù non si dovesse poter resistere, qualunque cosa chiedesse. In quei versi era invocata l’Italia; veniva naturale il desiderio di sorprendere sulle labbra di quelle bambine questo nome, di cogliere, mentre lo proferivano, l’espressione del loro viso e il lume dei loro occhi. Sarà stata illusione, si sarà preso per cosa reale un desiderio nostro vivissimo.... ma ci pareva di veder balenare un pensiero sulle fronti bianche di quelle future madri di operai, di soldati, di pensatori, d’artisti. O certo è almeno che quel nome, pronunziato da loro, ci suonava più caro all’orecchio; da quelle bocche innocenti pareva che uscisse purificato e benedetto, pareva che proferendolo, facessero del bene all’Italia; veniva fatto di gridare: — Ditelo ancora.
Dopo il canto, furono distribuiti i premi agli alunni delle scuole serali e alle alunne delle scuole delle adulte.
Qui venne la volta del canto dei fanciulli.
Si fece un silenzio improvviso; pareva d’essere in teatro, in uno istante di raccoglimento profondo.
Si sentì la musica.
Tutt’a un tratto, mille voci assieme echeggiarono nel vasto recinto. Era un inno all’Italia, allo studio, alla virtù; una musica semplice e ispirata. Un coro d’artisti non avrebbe toccato il cuore più addentro. Non si può dire quello ch’era di gentile, di fresco, di vivo la piena delle voci sprigionate con rozzo e virgineo vigore da quei petti infantili. Cresceva man mano l’accordo e la forza del canto, cresceva l’ardore dei fanciulli, eccitati dall’eco della propria voce; pareva infine che ciascuno ci mettesse qualcosa di suo, che sfogasse un affetto proprio, che volesse dire non so che ai suoi compagni o alla gente; si sentivano mille suoni in quel canto; pareva a istanti una preghiera, un canto patrio, un inno di guerra, era fiero e soave ad un tempo; e poi tutti quei visi rivolti al cielo, tutti quegli occhi radianti, quei mille petti che parevano animati da un soffio solo..... commoveva. Che lunghe e pazienti cure di maestri erano a un punto significate e ricompensate in quel canto! Eppure pareva tanto spontaneo! Tutti questi sensi e pensieri si confondevano nell’anima degli spettatori in un palpito d’ammirazione affettuosa.
Si distribuirono poi i premi agli alunni delle scuole elementari maschili, e allora vennero innanzi i bambini, e fu la scena più commovente e più bella. — Ma come! — si diceva all’apparire dei più piccoli; — quella creatura lì ha ottenuto il premio? Ma se pare che incominci ora a camminare! Ora gli danno il diploma; sarà buona a tenerlo in mano? Badate che non caschi, povero angelo.
A questo seguì la Preghiera del Mosè, cantata dalle ragazze e dai ragazzi insieme, con un accordo e uno slancio mirabile. Subito dopo, la distribuzione dei premi alle alunne delle scuole elementari femminili, e da ultimo la musica.
Così ebbe fine lo spettacolo.
Cominciando dal sindaco fino all’ultimo maestro delle scuole elementari, ci sarebbe, in diverso grado, da lodar tutti, anche i ragazzi che hanno legato i mazzi di fiori, e le donne del popolo che hanno pettinato i bimbi, poichè tutti hanno giovato, per la parte loro, alla splendida e solenne riuscita della funzione; altri lo farà; io ho già detto anche troppo, e non aggiungerò che poche parole.
Codesto spettacolo insegna ed ispira. Dinanzi ad esso, ciascuno di quei mille figliuoli d’operai ha potuto dire a sè medesimo: — Sì, — io piccino, io povero, io che campo di pan nero e vo vestito di cenci, io sconosciuto al mondo, e oggetto di compassione per i pochi che mi conoscono, io se voglio, se studio, se fatico, posso costringere un giorno diecimila persone, tutta questa gente, il fiore dei cittadini della mia città, a star zitti, come fanno adesso, per sentire il mio nome, a sporgere il capo per vedermi, a mormorare: — Eccolo là; — a dire ai loro fanciulli vestiti di velluto: — Fate come lui. — Posso far andare in quel banco mio padre e mia madre, a guardarmi, quando il sindaco mi chiama, e io vado innanzi solo, e tutti fissano gli occhi in loro, e vorrebbero provare la loro contentezza e gl’invidiano, anche i signori. Posso anche farli piangere di consolazione, qui, in presenza di tutti, mentre suona la musica e la gente batte le mani. Posso farlo, se voglio. E lo voglio fare. Lo fecero, il tale e il tale che sono poveri come me, e non hanno più testa di me. Son capace a star levato la notte, io. Non ho lume? Ma io mi farò dare i mozziconi di candela dal vicino. Non ho posto in casa? Ma io studierò magari sul pianerottolo. Mi verrà sonno? E io mi griderò da me stesso: — Su!
Chi sa, al suono di quella banda e di quegli applausi, in quei cervellini esaltati, che germi di nobili ambizioni si svolgono, quanti bei propositi di sacrifizio e di lavoro si formano, quali speranze, quali visioni lontane di gloria e di felicità balenano! Forse anche quello spettacolo è cagione ed alimento di dolori segreti. Molti fanciulli avranno faticato e sperato, e furono delusi; la medaglia fregiò il petto d’un altro; essi lo vedono là, fra gli altri, orgoglioso e felice; forse, tornati a casa, si lasceranno vincere dallo sconforto, si gitteranno nelle braccia dei genitori, si metteranno a piangere. Non importa, sono dolori salutari e fecondi. Molti anni dopo, quando saranno uomini, travagliati da triste passioni, afflitti da molti disinganni, forse nel momento in cui l’amor del lavoro, il senso del bene, il proposito antico d’una vita tranquilla ed onesta, ogni cosa sarà sul punto di staccarglisi dall’anima e andar perduto per sempre, forse in quel momento sarà per loro un richiamo amoroso e potente, il ricordarsi d’aver pianto calde lagrime per una medaglia di scuola. È un insegnamento, questo spettacolo, è una ispirazione pei fanciulli, pei parenti, per tutti.
Infelice colui che, nell’udir quei canti, non s’è sentito qualcosa nell’anima aprirsi e dilatarsi oltre il giro dei pensieri e dei sentimenti consueti, come un largo spazio sereno che rompa all’improvviso un cielo velato; colui che in quel coro di voci non credette di risentire in confuso il suono d’una voce severa che gli diceva un giorno: — Studia! — E un’altra più sommessa e affettuosa, quasi eco della prima, che soggiungeva: — Sii buono; — colui che non ha sentito in quelle voci quasi un’ammonizione, un consiglio, un eccitamento al lavoro; colui che non ha sentito il desiderio di procurarsi, lavorando, almeno un istante della gioia ineffabile che splendeva negli occhi di que’ premiati; colui che non ha fermato il proposito di procurare ai suoi parenti, vecchi e lontani, un raggio della consolazione altiera e serena che brillava sul volto di quelli che aveva dinanzi; colui che non s’è rammaricato di non avergliela data, quella consolazione, quando era fanciullo, di non aver mai pensato a dargliela, di aver forse deriso chi vegliava e sudava a quello scopo; colui che non sentendosi mosso con un misto di smania fanciullesca e di risoluzione virile, a ricominciare, a riparare, a riguadagnare il tempo perduto, non ha provato un sentimento di gratitudine per cotesti bambini, i quali, senza saperlo, ci rimproverano e ci insegnano tante cose; colui infine, che disperando di poter risuscitare le loro speranze e riaccendersi del loro ardore, non li ha almeno amati e invidiati.
Ma il pensiero non s’arresta a quella folla di bambini che abbiamo visti ed intesi; la fantasia si spinge molto al di là del recinto ove furono raccolti; intravede molte migliaia di teste bionde, altre moltitudini, compatte, l’une dietro le altre, man mano più confuse, fino a perdersi lontano in un diffuso color d’oro e di rosa; ed anco da quell’ultime lontananze ci giungono all’orecchio musiche e canti. È tutta la generazione italiana che sorge, che si affaccia alla vita salutando la patria con un grande inno al lavoro. Essa porta con sè una età migliore; noi non la vedremo; che monta? Benedette queste legioni di bambini che ce la promettono, che ce l’annunziano, che ci avvertono che il tempo è rapido e che siamo incalzati sul cammino della vita, che ci ammoniscono affinchè ci affrettiamo a pagare a Dio, all’umanità e alla patria il nostro debito di lavoro e di buone opere.
Benedetto questo grandioso concerto di voci infantili; è il grido che infiamma noi, — fiacchi soldati, — alla battaglia; ne abbiamo bisogno; esso ci fa sollecitare il passo e levare la fronte al cielo.
LA BATTAGLIA DI SOLFERINO E SAN MARTINO[1]
«Per l’Italia si pugna; vincete! Il suo fato sui brandi vi sta.»
A. Manzoni. V’era da una parte un possente esercito, famoso per guerre lunghe e ostinate, per tenace saldezza di disciplina, per gagliarda virtù di soldati; percosso già quattro volte dall’avversa fortuna, ma pieno ancora di quella orgogliosa baldanza che viene da una consuetudine antica di prepotenza e d’impero; inanimito dalla presenza d’un giovine monarca, fierissimamente risoluto a una riscossa solenne; espertissimo dei luoghi, in luoghi formidabili posto, appoggiato ad altri più formidabili.
Dall’altra parte, l’esercito che porta scritto sulle bandiere: Marengo, Austerlitz, Jena, Friedland; l’esercito dalle memorie meravigliose; i vecchi reggimenti esercitati sulle sabbie africane, ardenti ancora del trionfo di Magenta, belli, impetuosi, audaci, superbi. E accanto a loro un piccolo esercito, condotto da un Re valoroso ed amato, bollente dell’ira accumulata da dieci anni, da dieci anni preparato, con cura infaticabile e geloso affetto, a quel giorno. E dietro a questi due eserciti l’eco ancor viva dell’immenso grido di libertà mandato al cielo da Milano redenta, e fresco il profumo dei suoi fiori, e calde le sue lacrime di gratitudine. E dinanzi, al di là dei nemici, al di là dei baluardi, al di là ancora delle terre, lontana, solitaria, circonfusa di mistero gentile e melanconico, un’altra città grande e sventurata, bella d’una bellezza famigliare all’anima, fin dai primi anni, nelle fantasie dei poeti e dei pittori, sognata da fanciulli, sospirata da giovanetti, amata poi col palpito più delicato e soave dell’amor di patria, e compianta sempre con un sentimento singolare di pietà, come di sorella offesa: Venezia!
Quel vasto tratto di terreno ch’è chiuso tra il Po, il Chiese, il lago di Garda e il Mincio, sembra formato dalla natura a difendere il passo di questo fiume contro un esercito che venga d’occidente. Una rete intricata e fitta di alture ne abbraccia tutta la parte di settentrione, una vasta e nuda pianura tutta la parte di mezzodì. Passando di là un esercito assalitore va a dar di capo in siti fortissimi, di espugnazione presso che disperata; passando di qui, va a riuscire dinanzi alle paludi del basso Mincio e alla fortezza di Mantova. La rete delle alture è tutta compresa in un grande quadrilatero, largo otto e lungo dodici miglia, che tocca cogli angoli Peschiera, Volta Mantovana, Castiglione, Lonato, ed è corso per mezzo da un fiumicello, il Redone, che nasce fra colline del lato occidentale e va a gettarsi nel Mincio. La prima catena delle alture costeggia, da Lonato a Peschiera, il lago di Garda; le altre si stendono quasi parallele alla prima, mano a mano più alte e più ripide, fino all’ultima, che scende in linea retta da Lonato a Castiglione, e piega poi ad un tratto verso Volta Mantovana. I due punti culminanti di questa catena, ch’è la più elevata e la più scoscesa, sono, verso settentrione, Solferino; verso mezzogiorno, Cavriana; tra l’uno e l’altro, simile a cortina di due enormi bastioni, San Cassiano. Qui è tutto un nodo di colli aspri e difficili, gli uni sorgenti sugli altri, stretti, addentellati, dirupati qua e là, sparsi di case e di torri, ad assalirsi malagevolissimi, formidabili alla difesa. Arduo su tutti, il colle di Solferino, sormontato dalla torre famosa, la Spia d’Italia; fiancheggiato da due colli minori, rotti del pari e scoscesi, l’uno nominato dai cipressi che ne copron la vetta, l’altro dalla chiesa, a cui sta presso il cimitero del villaggio; il villaggio è a mezzogiorno-levante del colle cui dà il nome.
La catena delle alture che si stende dietro a codesta, ch’è l’estrema, corre lungo la sponda destra del Redone, da ponente a levante; svolta, a poca distanza da Solferino (e qui s’innalza il colle di Madonna della Scoperta), a settentrione-levante verso Pozzolengo, e forma così, per chi assalga le alture dal piano, un secondo baluardo interno, che ha i suoi due punti più forti a Pozzolengo e a Madonna della Scoperta. Questi due punti formano con Solferino e Cavriana un quadrilatero fortissimo, a cui fanno capo tutte le strade che conducono al Mincio, tranne quella che costeggia il lago di Garda da Lonato a Peschiera, e l’altra che attraversa il piano alla volta di Mantova.
Le alture, da Pozzolengo, proseguono fino a San Martino. L’altopiano che prende questo nome da una chiesa che v’è su, sorge a sinistra della strada Lugana, la quale va da Pozzolengo fino alla riva del lago, vicino a Rivoltella, e a mezzogiorno della strada ferrata che corre da Lonato a Peschiera. Le pendici dell’altopiano, a settentrione e a ponente, sono ripide, scabre, sinuose, sparse di case che ne rendono facile e terribile la difesa, situate, come sono, a guisa di ridotti, che si guardano e si proteggono. Il sito è formidabile tra la casa Colombara, a dritta della strada Lugana, e la casa Corbù di sotto, a sinistra; più formidabile tra la chiesa di San Martino, il punto chiamato il Roccolo, e la casa Contracania, che sono come tre bastioni, congiunti da ripide balze, protetti da folti cipressi.
La pianura è attraversata dalla grande strada di Brescia che varca il Chiese a Montechiari, tocca Castiglione, passa davanti a Medole, da cui la pianura prendo il nome, e procede per Guidizzolo fino a Goito.
Tale il campo di battaglia.
Gli Austriaci, divisi in due eserciti, il Iº composto del 3º, 9º e 11º corpo, comandato dal Wimpffen, il IIº composto del 1º, 5º, 7º e 8º corpo, comandato dallo Schlick, si stendono in linea di battaglia per Pozzolengo, Solferino e Guidizzolo.
Il IIº esercito, steso sulla destra, ha l’8º corpo, comandato dal Benedek, a Pozzolengo; il 5º, comandato dallo Stadion, a Solferino; il 1º, comandato dal Clam-Gallas, in seconda linea, a San Cassiano e a Cavriana; il 7º, comandato dallo Zobel, dietro al 1º.
Il Iº esercito, steso sulla sinistra, ha il 3º corpo, comandato dallo Schwarzenberg; e il 9º, comandato dallo Schaffgotsche, intorno a Guidizzolo; e l’11º, comandato dal De Veigl, in seconda linea, a Cerlungo e a Castel Grimaldo.
Il quartiere generale dell’imperatore Francesco Giuseppe è a Cavriana.
Gli alleati si distendono in linea di battaglia per Lonato, Castiglione e Carpenedolo.
L’esercito francese, steso alla destra, ha il 3º corpo d’esercito, comandato dal Canrobert, a Mezzane; il 4º, comandato dal Niel, a Carpenedolo; il 2º, comandato dal Mac-Mahon, a Castiglione; il 1º, comandato dal Baraguay-d’Hilliers, a Esenta; il corpo della guardia imperiale a Montechiari.
L’esercito italiano, posto all’estrema sinistra, ha la 1ª divisione, comandata dal Durando, e la 2ª, comandata dal Fanti, sulle alture di Lonato; la 3ª, comandata dal Mollard, a Desenzano e Rivoltella; la 5ª, comandata dal Cucchiari, al di là di Lonato.
Il quartiere generale dell’imperatore Napoleone è a Montechiari.
Di qui cento ventiquattro mila fanti, undici mila cavalli e cinquecento venti cannoni; di là seicento ottant’otto cannoni, cento quarantasei mila fanti, e ventimila cavalli.[2]
Gli Austriaci, che ripassarono il Mincio la sera del ventitre, hanno designato di lasciare il ventiquattro la linea di Pozzolengo, Solferino e Guidizzolo, per andare a occupare la linea di Lonato, Castiglione e Carpenedolo.
Gli alleati hanno designato di lasciare nello stesso giorno la linea di Carpenedolo, Castiglione e Lonato, per andar a occupare quella di Guidizzolo, Solferino e Pozzolengo.
I due eserciti s’incontreranno.
Ma l’esercito austriaco deve partire alle nove; gli alleati alle due; il vantaggio dell’iniziamento della battaglia è per loro.
Napoleone ha già dato gli ordini pel movimento.
L’esercito italiano si recherà a Pozzolengo, verso la catena interna delle alture.
L’esercito francese verso la catena esterna e sul piano; il Baraguay-d’Hilliers a Solferino, il Mac-Mahon a Cavriana, il Niel e il Canrobert per Medole, a Guidizzolo.
Il quartiere generale dell’Imperatore e la guardia imperiale si trasferiranno a Castiglione.
Son vicine le tre. Gli eserciti alleati sono in movimento da un estremo all’altro della linea. Il cielo è bello d’un azzurro diafano e netto, che si sfuma all’orizzonte in una tinta rosata e vaporosa. Un alto silenzio regna ancora in tutto il vasto teatro della battaglia.
Si senton le prime fucilate.
Il 2º corpo, che move verso Cavriana, ha incontrato gli Austriaci presso Casa Morino, a cinque chilometri da Castiglione; i bersaglieri dell’avanguardia hanno cominciato il fuoco.
Il 4º corpo francese, che move verso Medole, ha incontrato i primi drappelli della cavalleria austriaca. Gli squadroni dell’avanguardia francese li hanno assaliti e ricacciati nel villaggio. Il villaggio è difeso dalla fanteria e dall’artiglieria; il Niel ordina alla divisione Luzy d’impadronirsene; la divisione Luzy si ordina in colonne d’assalto e s’avanza.
Il 1º corpo, che move verso Solferino, ha incontrato anch’esso il nemico. Il Baraguay-d’Hilliers ha ordinato alla divisione Ladmirault di assalirlo nella Valle Padercini. La divisione Forey lo ha già cacciato da Monterosso e dal villaggio Fontane.
Il 3º corpo, partito da Mezzane, ha varcato il Chiese e s’avanza verso Medole per la via di Acquafredda e di Castel Goffredo.
Le due divisioni di cavalleria comandate dal Partouneaux e dal Desvaux s’avanzano lentamente, per la vecchia strada di Mantova, tra il 4º corpo e il 2º, alla volta di Guidizzolo.
La terza divisione del 1º corpo, comandata dal Bazaine, si mette in marcia sulle tracce della prima.
Le fucilate risuonano fitte dalla parte dell’esercito italiano.
La divisione Durando ha mandato verso Pozzolengo una colonna esploratrice, composta di tre battaglioni bersaglieri, un battaglione granatieri, una sezione d’artiglieria e uno squadrone di cavalleggieri d’Alessandria. La colonna, penetrata nella valle dei Quadri, ha scoperto gli Austriaci sull’altura di Madonna della Scoperta, e ha incominciato il fuoco.
Un’altra colonna esploratrice della divisione Cucchiari, composta dell’8º bersaglieri, di un battaglione dell’11º fanteria, di uno squadrone di cavalleggieri di Saluzzo e di due cannoni, condotta dal luogotenente colonnello Cadorna, s’avanza per la strada ferrata, volta a destra per la strada Lugana e procede verso Pozzolengo.
La divisione Mollard, che esplora il terreno fra la strada ferrata e il lago di Garda, ha mandato innanzi quattro colonne esploratrici, due della brigata Pinerolo, due della brigata Cuneo. La prima di esse, accompagnata dal generale Mollard, segue il luogotenente colonnello Cadorna sino al punto dove la strada Lugana taglia la strada ferrata, e di là s’avanza verso Pozzolengo per Corbù di sotto.
Tutte queste colonne vanno successivamente a dare negli avamposti nemici che si stendono da Pozzolengo a Madonna della Scoperta.
I due eserciti austriaci si dispongono rapidamente alla difesa.
Son vicine le sette. L’avanguardia del maresciallo Canrobert arriva in vista di Castel Goffredo, cinto di vecchie mura, tenuto dalla cavalleria austriaca. Il generale Renault lo assale con tre colonne: l’una a sinistra, l’altra di fronte, la terza per la via di Mantova. In pochi minuti la porta è rovesciata a colpi di scure, il villaggio invaso, il nemico fugato. Tuona il cannone a sinistra: è la divisione Luzy che assalta Medole. Il Canrobert ordina alla divisione Renault di accorrere subito a quella volta; egli stesso sollecita la marcia di tutto il corpo d’armata.
Due colonne della divisione Luzy, protette dalle artiglierie, prendon Medole ai lati; il Luzy stesso, dato il segnale dell’assalto a tutta la linea, investe il villaggio di fronte. Gli Austriaci resistono sulle prime; incalzati dalle baionette, piegano; Medole è preso, con due cannoni e mille prigionieri.
Il 9º corpo austriaco si dispone a difesa intorno a Guidizzolo, occupa Rebecco e Casanova. Il grosso del corpo s’avanza per impedire il piano di Medole al generale Niel.
In questo mezzo il maresciallo Mac-Mahon, dalla sommità del Monte Medolano vede poderose colonne austriache scendere nella pianura, e le alture tra Cavriana e Solferino incoronarsi di cannoni e di baionette; sente il cannone di Baraguay-d’Hilliers; comprende ch’egli si trova a pericoloso cimento di fronte a tante forze; lo vorrebbe soccorrere, non può: si scosterebbe troppo dal 4º corpo, e il nemico potrebbe cacciarsi in mezzo: spiega una divisione in ordine di battaglia, manda a dir al Niel che intende avvicinarsi al 1º corpo, egli si avanzi a sinistra e chiuda l’intervallo. Risponde il Niel non potere, bisognargli prender Medole prima, intender di piegare a sinistra poi, quando avrà la destra coperta dal Canrobert, il Mac-Mahon potrà allora aiutare il 1º corpo; pel momento no. Intanto, nel piano, fra il 2º ed il 4º corpo, s’avanza una lunga colonna irta di lance e luccicante di sciabole; usseri, lancieri, cacciatori d’Africa, otto reggimenti di cavalleria, le due divisioni Partouneaux e Desvaux, che vengono ad occupare la linea di battaglia tra il Niel e il Mac-Mahon.
Il generale Forey ha ributtato gli Austriaci da Grole su monte Fenile. Da monte Fenile si abbracciano collo sguardo tutte le alture del campo di battaglia: bisogna impadronirsene. Gli Austriaci, numerosi e saldi, stanno alla difesa. Tutto l’84º reggimento, col colonnello alla testa, li assale. — Viva l’Imperatore! — Il Forey è già sulla sommità di monte Fenile. Il Ladmirault libera la sua strada di alcuni piccoli corpi staccati, il Bazaine s’avanza per la via di Fontane e di Grole.
Le colonne esploratrici dell’esercito italiano sono alle mani col nemico a Pozzolengo e a Madonna della Scoperta. L’avanguardia della divisione Durando, respinta di fronte da Madonna della Scoperta, minacciata di fianco da una forte colonna, si ritira verso Fenile Vecchio, sul grosso del Corpo. Il generale Durando, misurato le forze degli Austriaci dall’alto del monte Tiracollo, manda a ordinare alla brigata Savoia che accorra immediatamente a Venzago.
Il luogotenente colonnello Cadorna, comandante la colonna esploratrice della 5ª divisione, arriva a San Martino senza incontrare il nemico; va oltre, supera l’altipiano: nessuno. Piglia per Pozzolengo, s’avvicina alla casa Ponticello, alto: i bersaglieri hanno scoperto le prime sentinelle austriache. Subito: un battaglione a sinistra, l’artiglieria sulla strada, la cavalleria in mezzo: fuoco! Gli Austriaci danno indietro. Rinforzati poco dopo, ritornano. Il Cadorna chiede soccorso alla 1ª colonna esploratrice della 3ª divisione, accompagnata dal generale Mollard, ferma a San Martino. Accorrono due compagnie di bersaglieri a sostenere il suo fianco sinistro minacciato. Non bastano: l’Austriaco ingrossa e procede. Il Cadorna si ritira. Il Mollard s’avanza con tutte le sue forze. Il Cucchiari, avvertito in tempo dal Cadorna, viene avanti anch’egli sollecitamente. Il nemico è già alla Contracania.
La divisione Fanti attende l’ordine d’avanzarsi in vicinanza di San Paolo di Lonato.
Il sole splende in tutta la maestà dei suoi raggi. Il movimento della battaglia si propaga con rapidità maravigliosa. Dall’una parte e dall’altra lunghissime colonne, seguíte da colonne più lontane, s’avanzano; si allargano, come fiumi straripanti, nei piani; si serrano, come folte macchie, sui colli; serpeggiano di catena in catena. Selve di baionette scintillano qua e là tra gli alberi e le mèssi, e balenano grandi lampi improvvisi, seguíti da uno scoppio fragoroso, o lunghe e interrotte striscie di fuoco accompagnate da uno strepito precipitoso di colpi. Splendide e serrate schiere di cavalieri corrono di trotto sonante le strade. Agili batterie si slanciano su per le chine, si schierano, fulminano, e le vette dei monti scompaiono nei nuvoli bianchi, e tremano di rimbombi sonori le valli. E pei monti e per le valli si comincia a sparger sangue e a morire.
Sono le otto. Il corpo del maresciallo Niel procede verso Guidizzolo, inseguendo gli Austriaci. Una brigata della divisione Luzy arriva a Rebecco. Rebecco è difeso da quattro reggimenti del 9º corpo. Luzy lo assale. Qui comincia un’asprissima lotta; le artiglierie traggono dai due lati furiosamente; le case sono prese, perdute e riassalite con pertinacia accanita e fiera uccisione. Ma l’Austriaco, più forte, sta saldo; il Luzy chiede soccorso: sopraggiunge a passo concitato il 63º reggimento della divisione Vinoy; si ritorna all’assalto; la brigata Benedek, che occupava Rebecco, è cacciata. Ma un’altra sottentra, e il combattimento si riaccende più vivo. Intanto la divisione Vinoy sbocca nel piano di Medole e gli Austriaci si avanzano con poderose forze d’artiglieria per contrastarle la strada. Il Vinoy spiega rapidamente le sue batterie per battere le nemiche, e s’attacca un combattimento vivissimo. Altri cannoni vengono in aiuto del Vinoy dalla riserva del 4º corpo, e fulminano dall’ala sinistra. Un secondo rinforzo d’artiglieria sopraggiunge ed entra in linea. L’artiglieria nemica cede, gli Austriaci si ripiegano su Casanova, il Vinoy gl’incalza. Arriva il generale De Failly colla 3ª divisione del 4º corpo, e si spinge nell’intervallo fra il Vinoy e il Luzy. Gli assalti si rinnovano con più impetuoso furore.
Son le nove e mezzo. Il maresciallo Canrobert è arrivato a Medole. L’Imperatore gli fa annunziare che un corpo di 20,000 uomini è uscito da Mantova; si guardi sulla sua destra, e sostenga ad un tempo la destra del 4º corpo. Il Canrobert manda immediatamente una brigata della divisione Renault sulla via di Ceresa, e provvede alla sua sicurezza dalla parte di Mantova.
Intanto, tra il 2º e il 4º corpo, le batterie delle divisioni Partouneaux e Desvaux hanno cominciato a molestare gli Austriaci. Uno squadrone del 5º usseri e uno del 3º cacciatori d’Africa hanno assalito e disperso parecchi drappelli di cavalleria e di fanteria nemica, prendendo molti prigionieri. A misura che la sinistra del corpo del Niel acquista terreno, le due divisioni di cavalleria s’avanzano.
L’Austriaco ingrossa minacciosamente dinanzi al 2º corpo. Il maresciallo Mac-Mahon lascia la strada di Mantova, va a porsi davanti a casa Marino, e di là ordina a battaglia le divisioni La Motterouge e Decaen. Le colonne austriache, seguite da una divisione di cavalleria, scendono e si schierano nel piano di fronte a lui, spingendo innanzi un grosso numero di pezzi d’artiglieria. Il Mac-Mahon, dal canto suo, spiega in un batter d’occhio quattro batterie, e il fuoco prorompe d’ambe le parti furioso. Ma per poco: due cassoni degli Austriaci saltano in aria; la loro artiglieria, sopraffatta e malconcia, retrocede; un reggimento usseri, che tenta tre volte di girare attorno all’ala sinistra francese, viene tre volte vigorosamente respinto dalle scariche della brigata Gaudin de Villaine, e rigettato sui quadrati austriaci con molto disordine e perdita grande d’uomini e di cavalli. Una palla di cannone ha portato via un braccio al generale Auger.
La guardia imperiale muove a gran passi verso Castiglione.
Napoleone, partito da Montechiari, giunge a Castiglione, sale sul castello e osserva il campo di battaglia.
— Non crediamo ancora che gli Austriaci abbiano osato di ripassare il Mincio, — dicono gli ufficiali generali che gli stanno intorno.
— L’hanno passato, è una battaglia generale, — risponde Napoleone. Scende, monta a cavallo, vola dal Mac-Mahon, gli dà gli ordini, e volge a sinistra di galoppo verso il Baraguay-d’Hilliers.
Alla destra del 1º corpo, la brigata Dieu, protetta dalle artiglierie di Monte Fenile, s’è spinta di cresta in cresta fino a Solferino; gli Austriaci si fanno di momento in momento più fitti e più accaniti; la brigata Dieu, miseramente diradando, continua ad andar oltre; il Dieu cade mortalmente ferito.
Alla sinistra, il Ladmirault ha posto in batteria quattro cannoni che fanno terribile strazio delle schiere nemiche. Le brigate F. Douay e Négrier si lanciano assieme all’assalto. Gli Austriaci danno di volta; ma, dividendosi, scoprono nuovi battaglioni, terribilmente compatti, che rovesciano sugli assalitori una tempesta di palle. Il Ladmirault, ferito alla spalla, fasciato in furia, si svincola da’ suoi aiutanti di campo che lo vogliono rattenere, e ritorna a comandare la divisione, a piedi, appoggiandosi al cavallo. Il combattimento ingrossa e inasprisce. Gli Austriaci conoscono quel terreno a palmo a palmo, e a palmo a palmo lo contendono. Il momento è gravissimo. Il Ladmirault ordina che si slancino all’assalto le ultime riserve della divisione; in quel punto un’altra palla gli passa la coscia. — Non è nulla, — egli grida agli ufficiali che gli accorrono intorno, e con supremo sforzo continua a reggersi in piedi, col braccio stretto al collo del cavallo, pallido e sanguinoso. A un tratto vacilla, è sorretto; fa chiamare il generale Négrier, gli affida la divisione; lo trasportano fuori del campo; egli si volge a guardare ancora una volta i suoi bravi soldati che combattono e muoiono per la libertà d’Italia e per l’onore della Francia.
— Avanti il 1º reggimento zuavi! — è l’ordine che manda il Baraguay-d’Hilliers alla divisione Bazaine che s’avanza in quel punto da Grole. L’ordine è eseguito: eccoli! Era un pezzo che fremevano costoro che vanno alla morte come a un convito! Il reggimento s’avanza a passo concitato, rumoreggiando sordamente come piena impetuosa che travaglia le dighe; su quei volti balena la vittoria; in quei larghi petti di ferro si prepara il grido annunziatore di morte; i fucili, agitati dalle mani convulse, si urtano e le baionette risuonano con orrendo fragore. — All’assalto! — La piena sprigionata prorompe, un grido selvaggio si leva e si prolunga come ripercosso dall’eco su per l’erta contesa, l’erta si copre di cadaveri, gli zuavi son sulle alture. L’artiglieria, in quel frattempo, trattasi a gran pena sui punti eminenti, versa una grandine di ferro sui battaglioni austriaci e sfracella le case della gola di Solferino. Una brigata del 5º corpo, decimata, si ritira dal campo. Due altre brigate del corpo stesso si ritraggono sulle alture circostanti al villaggio, e occupano fortemente la torre, il cimitero e il Monte dei Cipressi, rinvigorite d’un poderoso soccorso di genti fresche. Codesti siti sono formidabili, le salite son rotte e scoscese, su tutti i punti battono le artiglierie, i difensori traggono di dietro ai muri con un furore d’inferno.... — Si rovescino quei muri a colpi di cannone! — grida il Baraguay-d’Hilliers. Una batteria s’arrampica sur un’altura a trecento passi dal cimitero e lo bersaglia rabbiosamente con fittissimi colpi; le mura, squarciate, rovinano come per crollo di terremoto. In quel mentre le artiglierie del Forey, sostenute da due batterie della riserva, soffocano la voce dei cannoni austriaci sull’altura dei Cipressi.
Sulla sinistra le sorti non inclinano a favore d’Italia. Il generale Durando, giunto a Venzago, riceve l’ordine dall’Imperatore di congiungersi al 1º corpo. Egli manda subito un soccorso al 1º reggimento granatieri e al 3º battaglione bersaglieri che combattono a Madonna della Scoperta. Le truppe, rafforzate, vanno all’assalto; la 10ª batteria le sostiene, i cavalleggieri d’Alessandria caricano; gli Austriaci piegano. Piegano, ma rincalzano, come sempre, più vigorosi. Due battaglioni del 1º granatieri mandati verso la casa Piopa a cercare un punto dove assalire il nemico, sono assaliti e respinti. Gli Austriaci si avanzano sino a Casa Soieta; lì appostano una batteria e tempestano il 2º granatieri, che s’avanza direttamente contro Madonna della Scoperta.
Sull’estrema sinistra, poi che furon respinte sino alla strada ferrata le colonne esploratrici della 3ª e della 5ª divisione, il generale Mollard si risolve ad attaccare il Benedek col grosso delle sue forze. Arriva per la strada ferrata il generale Arnaldi colla brigata Cuneo e mezza la 6ª batteria; raggiunge la Casanova, volge a destra, attraversa i campi, s’arresta, si dispone: il 7º a destra, in prima linea, col colonnello Berretta; l’8º a sinistra, in seconda, col colonnello Gibbone; quello per la Colombara e la Contracania, questo per il Roccolo e la chiesa di San Martino. S’avanza un drappello di cavalleggieri di Monferrato, un altro di cavalleggieri di Saluzzo, un terzo, un quarto. Squilla il segnale dell’assalto; i reggimenti, saldi e impetuosi, muovono; la cavalleria si slancia di carriera; il nemico tentenna, gli assalitori incalzano rapidissimi, sorprendono tre cannoni, son signori delle alture. — Ci siamo! — grida con trasporto di gioia il generale Arnaldi, e cade. Il generale Mollard, trepidando, accorre: — Che hai? Sei ferito? — Arnaldi, gravemente colpito al ginocchio, fa uno sforzo per levarsi, non gli riesce, e due lacrime gli scendono giù per le gote. — Coraggio! — gli dice con pietà affettuosa l’amico. — Non piango per me, egli risponde; per te piango, chè non ti potrò venir compagno nei pericoli, e una tremenda giornata si prepara: non vedi? — E accenna dalla parte di Pozzolengo, e Mollard guarda, e vede sterminate schiere di nemici ondeggiare e luccicare confusamente sulle alture lontane. — Addio, Arnaldi! — e l’Arnaldi è portato via, e il colonnello Berretta assume il comando della Brigata Cuneo. Gli Austriaci intanto, respinti non rotti, si ristringono, risalgono, riprendono con impeto audace le alture. I battaglioni italiani ritornano all’assalto, l’uno dopo l’altro, infuriando; due volte, seminata di cadaveri la china, guadagnano l’alto piano; due volte ne son risospinti. Di più irato coraggio infiammati, fanno impeto ancora, e prevalgono al fine, e cacciano il nemico dall’alto, e l’inseguono.
Ma per poco. Di là dove il bravo Arnaldi accennava, l’Austriaco, grosso e risoluto, s’avanza, allargandosi, e minaccia sui due lati: a sinistra, l’artiglieria; a destra, la via ferrata. Gl’Italiani gagliardissimamente resistono: il 3º battaglione del 7º di linea e un battaglione bersaglieri della 5ª divisione, difendono, con molto sangue, i cannoni; il maggior Solaro, colpito dei primi, muore; cade ferito il maggior Borda, cade il maggior Longoni, cadono a dieci a dieci i soldati; ma invano. Il nemico, troppo più forte, procede; gl’Italiani indietreggiano lentamente, disputando il sito passo a passo, tenaci; il colonnello Berretta, con tranquillo consiglio, governa la ritirata, conforta la resistenza, frena la foga ardimentosa dell’assalitore, anima, riordina, ripara; a un tratto precipita di sella; lo guardano, ha una palla nel cuore. Resistere più oltre sarebbe spreco di sangue. Il Mollard ordina la ritirata su tutta la linea; gl’Italiani cedono il campo, protetti da due batterie d’artiglieria mandate innanzi dal generale Cucchiari, che le segue colla sua divisione. Soverchiati, non sciolti, nè scemi d’animo; laceri e sanguinosi, ma coi sembianti tuttavia splendidi d’ira e di valore, i soldati del Mollard passano al di là della strada ferrata a riprendere lena. Coraggio! Il nemico non rimarrà lungo tempo su quelle alture. Ecco: giunge la brigata Casale, giunge la brigata Aqui, giungono il 5º e l’8º battaglione bersaglieri, la 5ª divisione, il generale Cucchiari.
La divisione Fanti è sempre a San Paolo di Lonato.
Sono le dieci e mezzo. Napoleone, di sull’alture occupate dal 1º corpo, medita il campo di battaglia, e risolve. La vittoria è al centro, bisogna sfondare il centro per far piegare le ali, bisogna cacciar gli Austriaci dal colle di Solferino. La brigata Alton, non ancora provata, all’assalto.
La brigata Alton, ordinata in colonne d’assalto, s’avanza; quattro pezzi d’artiglieria l’accompagnano; il generale Forey la conduce. Si va ad assalire la torre, si va a morire; ma su quella vetta sta la vittoria: l’Imperatore è là, e vede, e con lui la Francia e il mondo.
La brigata Alton si slancia sulla destra della torre, risoluta e serrata; gli ufficiali si volgono ai soldati: — Coraggio! — I soldati si cacciano sotto a capo basso, salgono, sono già su un buon tratto, ordinati ancora, e salgono.... All’improvviso una tempesta orribile di mitraglia, di palle da cannone e di fucilate, da sinistra, da destra, di fronte, si rovescia sugli assalitori, squarcia le prime file delle colonne, sparge la salita di morti, di membra lacerate e di sangue. Tutta la brigata, alla vista di quell’eccidio miserabile, si rimescola e vacilla, e leva al cielo uno spaventevole grido.
— Avanti la guardia imperiale!
La guardia imperiale s’avanza; era là presso; già aveva ricevuto l’ordine di venire in aiuto del corpo del Baraguay-d’Hilliers. Napoleone manda ora a dire al maresciallo Saint-Jean-d’Angély che spinga innanzi la divisione Camou. La voce si sparge pel campo: la guardia imperiale s’avanza; il fiore del sangue francese; l’ultima schiera, che viene a vincere o a morire; la schiera sacra dei momenti supremi, incoronata degli allori di cento battaglie, circonfusa di maestà e di terrore, splendida dell’ultimo raggio del sole di Waterloo, formidabile, venerata, solenne; la guardia imperiale s’avanza.
La divisione Camou si divide: la brigata Picard verso le alture di sinistra; la brigata Maneque, in aiuto del Forey, contro gli Austriaci che scendono da Casa del Monte. Il Maneque ha diviso le sue forze in quattro colonne di battaglione. Orsù! Le brigate Hoditz e Reznitchek aspettano; zaini a terra, baionette in canna, e avanti. Fanteria e artiglieria austriaca infuriano dall’alto; i quattro battaglioni della guardia, lasciandosi dietro quattro larghe strisce di caduti, salgono, saldi e chiusi, e quanto più fulminati, più fieri. Eccoli al punto, giù le baionette, all’assalto: — Viva l’Imperatore! Viva la Francia! — Gli Austriaci piegano; sulle alture di Forco e di Pellegrino sfolgorano le baionette della brigata Maneque.
In quel punto il battaglione cacciatori della guardia gira attorno al villaggio di Solferino, lo assale, vi penetra, e caccia il nemico pigliandogli una bandiera, otto cannoni e cento prigionieri.
Intanto il generale Forey, soccorso da due battaglioni di volteggiatori della guardia, mandati dal generale Maneque, ritorna vigorosamente all’offesa. Accortosi che il nemico perde terreno, manda la 1ª brigata ad assalire l’altura dei Cipressi. Arriva di galoppo il generale Le Bœuf con due batterie d’artiglieria della guardia, copre d’un nembo di palle il villaggio, e sostiene gli assalti delle due brigate Forey. La prima conquista allora il monte dei Cipressi, la seconda il colle della torre, e finalmente, aprendosi una strada di sangue, la torre.
Il generale Bazaine, rovinati i muri del cimitero, ha lanciato all’assalto tutta la divisione, cacciato il nemico e strappato la bandiera al reggimento principe Wasa.
Quattordici cannoni e millecinquecento prigionieri son caduti in potere del 1º corpo e della guardia imperiale. Su tutte le alture di Solferino sventola la bandiera della Francia.
Mentre tutto ciò accade al centro, il maresciallo Mac-Mahon, rassicurato dalla parte del 4º corpo, piega verso Solferino e si congiunge alla guardia imperiale. In quella una splendida e formidabile colonna di cavalleria s’avanza rapidamente nel piano alla destra del 2º corpo: sono i ventiquattro squadroni della guardia, condotti dal generale Morris, che vengono a chiudere l’intervallo tra il 2º corpo e la divisione Desvaux.
Sull’estrema destra, nuove forze austriache si succedono senza posa di fronte al generale Niel. Cacciata una brigata, un’altra è là pronta, e sottentra. Dopo il 3º e il 9º corpo spuntano le colonne dell’11º. Il generale Vinoy, spazzato dinanzi il terreno a furia di mitraglia, attaccò Casanova, la prese, la fortificò, ne fece un punto d’appoggio validissimo alla sua linea di battaglia. Sulla destra del 4º corpo, il generale Luzy, sostenuto dalle due brigate della divisione Renault mandate dal Canrobert, dopo molti incontri durissimi, ora prevalendo, ora soggiacendo, riuscì a mantenersi fermo a Rebecco. Tra il Luzy e il Vinoy, la brigata O’ Farrel della divisione Failly s’è insignorita della casa Baita, e la difende contro gl’impetuosi ritorni degli Austriaci. Il generale Niel, rimasto senza riserva, chiede al maresciallo Canrobert che mandi a sostenere il suo centro, vigorosamente e ostinatamente assalito. Il maresciallo Canrobert, stimando che bastino poche forze a proteggerlo dalla parte di Mantova, ordina al generale Trochu di condurre la sua 1ª brigata sul campo di battaglia agli ordini del generale Niel. Il Trochu si mette immediatamente alla testa della brigata Bataille, fa deporre gli zaini, attraversa Medole, già popolato di feriti e di carri, e piglia di corsa la strada di Guidizzolo.
Intanto, sulla sinistra della linea, non prevale ancora la fortuna d’Italia. L’artiglieria austriaca, da casa Soieta, travaglia la 1ª divisione. Invano il generale Durando mette innanzi nuovi cannoni, invano spinge all’assalto, un dopo l’altro, i quattro battaglioni del 2º granatieri; le colonne nemiche s’avanzano. A mezzogiorno, il generale Durando, ridotto in pericolosissima condizione, tenta ancora di arrestare il nemico con un assalto del 4º battaglione bersaglieri e un battaglione del 2º fanteria. I due battaglioni, assalendo arditissimi, lo arrestano in fatti di fronte; ma una lunga colonna si avanza in quel mentre, con rapido giro, sulla destra, e minacciandoli di fianco li costringe a ritirarsi. Allora il generale Forgeot, comandante l’artiglieria del 1º corpo francese, volta rapidamente contro gli Austriaci un forte numero di cannoni, e li ricaccia indietro, con un fuoco violento, sconvolti.
All’estrema sinistra, il generale Cucchiari, arrivato là dove la strada Lugana taglia la strada ferrata, subito dopo la ritirata del Mollard, dispone senza indugio all’assalto la brigata Casale: l’11º, condotto dal colonnello Leotardi, in prima linea per il Roccolo e San Martino; il 12º dietro. La brigata si muove; ma il nemico, che occupò le case Armia, Selvetta e Monata, la previene, minacciandola sulla destra. Il generale Mollard, di là dove si trova, vede il pericolo, e manda a ordinare al comandante il 2º battaglione del 12º che pieghi subito a destra e respinga il nemico dai nuovi siti donde minaccia. Il comandante del battaglione, che ebbe un ordine diverso dal proprio generale, esita ad obbedire e prosegue. Il Mollard, sdegnato, lo raggiunge di carriera, e gli rinnova il comando con quel suo piglio terribile. Allora il maggiore obbedisce, e volge il suo battaglione a destra; il 3º e il 4º lo seguono; il 1º rimane a sinistra dell’11º reggimento. Il colonnello Leotardi dà il grido dell’assalto: l’11º si slancia sul Roccolo e sulla chiesa di San Martino; i tre battaglioni del 12º, insieme al 10º battaglione bersaglieri, si gettano sulle case dell’estrema destra. Gli Austriaci ricevono gli uni e gli altri con iscariche replicate di moschetteria e di mitraglia che aprono larghi e mortali vuoti nelle colonne d’assalto: il maggior Poma è ucciso; il colonnello Avenati, il maggior Manca, il maggior Zinco feriti; ma le file si stringono, il sangue degli ufficiali infiamma di più irata audacia i soldati, e la brigata Casale, vinta la pertinace difesa, guadagna le alture, invade le case di destra, penetra nella Contracania e conquista tre pezzi d’artiglieria.
Mentre codesto assalto si compie e il nemico subitamente rincalza, la brigata Aqui che vien dietro col 1º battaglione bersaglieri, si dispone anch’essa all’assalto. I due battaglioni di destra del 17º reggimento, ordinati a sinistra della strada Lugana sotto il comando del colonnello Ferrero, si slanciano, con due compagnie del 5º bersaglieri, contro la chiesa di San Martino e la Contracania, ricadute entrambe in poter del nemico. Gli altri due battaglioni del 17º, coi rimanenti bersaglieri del 5º, si gettano a sinistra fino alla casa Corbù di Sotto. Tra una e l’altra di queste due colonne prosegue a combattere vigoroso l’11º reggimento. Il primo battaglione del 12º combatte arditamente all’estrema sinistra, presso le case Ceresa e Vestone, isolato. Tutti codesti assalti soverchiano il nemico, San Martino ed il Roccolo per la quinta volta son presi, gli assalitori s’avanzano sull’altopiano, la vittoria sorride alle armi di Italia.
Al tocco, la brigata Pinerolo della 3ª divisione, chiamata in aiuto dal generale Cucchiari, s’avanza contro la Contracania in ordine d’assalto; il 13º a destra, il 14º a sinistra. Già l’artiglieria dal centro ha preso a battere il nemico, già le prime colonne si sono impadronite di varie case, quando sull’altura della Contracania si vede il fuoco della 5ª divisione rallentare, retrocedere, sparire. L’Austriaco, veduto la debolezza della sinistra italiana, aveva condotto in quel punto il nerbo delle sue artiglierie, e fulminato di mitraglia, alla distanza di duecento passi, il 1º battaglione del 12º e l’ala sinistra del 17º, tra Corbù di Sotto e Vestone. Quel 1º battaglione avea resistito, poi piegato, poi resistito ancora, e da ultimo ceduto il terreno, trascinando nella sua ritirata i due ultimi battaglioni del 17º, bersagliati a sinistra e di fronte; il movimento in addietro s’era propagato di corpo in corpo, dalla sinistra alla destra; il generale Cucchiari, slanciandosi qua e là di carriera, aveva tentato invano di arrestarlo; invano aveva spinto innanzi la 9ª batteria: gli Austriaci avean radunati sulle alture trenta cannoni e impedivano ogni efficace ritorno all’offesa. Impotente, solo, a ritentare l’assalto, il 18º reggimento si restringe a proteggere la ritirata. Il Cucchiari tenta di arrestare i soldati alla strada ferrata: non riesce; tenta di arrestarli a mezza strada per Rivoltella, e non gli vien fatto neppure: li arresta e li riordina finalmente presso quella città.
A quello spettacolo, il generale Mollard, stordito, angosciato, fremente, non sa che risolvere. Attaccherà il nemico? La brigata Cuneo è decimata, spossata, rifinita dalla sete e dal digiuno; e la brigata Pinerolo, scarsa di fronte alle forze poderose degli Austriaci, verserebbe invano il suo sangue. Si ritirerà anch’egli? Il nemico si rovescierà allora sulla sinistra francese. Il Mollard ha deciso: rimarrà fermo ai piedi delle alture, in aspetto minaccioso; terrà in rispetto il nemico, pésto ancora e sanguinoso delle zuffe ostinate della mattina; aspetterà colle armi in pugno il momento propizio a ritentar la fortuna.
La divisione Fanti, rimasta fino alle 11 a San Paolo di Lonato, s’è mossa alla volta di Solferino, per ordine di Napoleone, a fine d’appoggiare l’assalto del 1º corpo.
È un’ora e mezzo. Napoleone ordina che si prosegua a dar dentro nel mezzo della fronte nemica. La brigata Maneque della guardia ributta gli Austriaci dalle alture della Casa del Monte. La divisione Bazaine, riordinata in furia, si getta alle spalle del 5º corpo, che si ritira verso Pozzolengo. La divisione Forey va oltre, in forma di sostegno, dietro la guardia imperiale. La divisione Ladmirault, decimata e sfinita, si riposa nel villaggio di Solferino.
In questo mezzo il maresciallo Mac-Mahon, congiunto alla guardia, si volge contro San Cassiano. Due batterie della guardia preparano l’assalto cannoneggiando con fierissima foga il villaggio. Il Mac-Mahon dà il segnale: una colonna di bersaglieri algerini si getta impetuosamente sulla sinistra, il 15º fanteria sulla destra, segue una zuffa breve, ma fiera, e San Cassiano viene in poter dei Francesi. Al di là di San Cassiano s’innalza il monte Fontana, erto e difficile, fatto a modo d’una scalinata d’alture, e tenuto da quattro reggimenti austriaci, preparati a forte difesa. Sul primo rialzo del monte sorge una specie di ridotto, da cui vien giù una pioggia di palle. Il Mac-Mahon comanda l’assalto: è cosa di pochi istanti: l’eco del grido — Viva l’Imperatore! — non è spento ancora, e già sul ridotto, coronato dall’artiglieria della guardia, sventola il vessillo degli Algerini.
Il Mac-Mahon s’arresta per dar tempo alla guardia imperiale di giungere sulla sua linea.
All’improvviso, gli Austriaci, come incitati da sovrumana forza alle spalle, levando altissime grida, si precipitano con irresistibile impeto sui bersaglieri algerini, e li cacciano indietro. Gli Algerini, rafforzati da due battaglioni di fanteria, assaltano alla lor volta gli Austriaci; ma incontrato un gagliardo rincalzo, son costretti per la seconda volta a piegare. Che è questo?
Gli Austriaci combattevano sotto gli occhi del loro giovane imperatore.
Allora il Mac-Mahon prepara all’assalto tutto il corpo d’esercito. Il momento è decisivo: gli Austriaci fanno l’ultimo sforzo sul centro, ed è sforzo disperato; i due Imperatori, presenti e vicini, si sentono senza vedersi, nel raddoppiato furore delle parti; là sta per sonare la sentenza della grande giornata. Il segnale è dato, i Francesi si scagliano su pel monte; feroce l’assalto, feroce la resistenza; le artiglierie infuriano con orribile fracasso; il sangue corre; muore il colonnello Douay, muore il colonnello Laure, cadono l’un sull’altro i soldati; ma omai volgerà alla fine questo orrendo macello: gli Austriaci, incalzati dalla furia delle baionette, dilaniati dalle batterie della guardia, indietreggiano: la fortuna di Francia prevale.
In quel mentre l’11º reggimento degli usseri austriaci, respinto da uno squadrone di cacciatori della guardia, bersagliato dall’11º battaglione cacciatori, fulminato di fianco da due batterie, si riduce, miserando avanzo, tra i suoi.
Gli Austriaci si ritirano nel villaggio di Cavriana, ridotto dall’artiglieria francese in un mucchio di rovine.
Tutto ciò accadendo al centro, un sì spaventoso fragore rimbomba alla destra del 4º corpo, che pare ne tremi il cielo e la terra. Sono quarantadue cannoni francesi diretti dal generale Soleille, che traggono di concerto sul 3º e sul 9º corpo nemico, alternativamente ributtati e rincalzanti. Arde la battaglia, con mutabile risultamento intorno a Casanova e Rebecco. Una brigata di cavalleria della divisione Partouneaux vola in soccorso del generale Vinoy. Arriva da Medole il generale Trochu colla brigata Bataille, la dispone in colonna d’assalto, investe e ricaccia gli Austriaci fino alle prime case di Guidizzolo. Ricevuto là dalle scariche improvvise di schiere profonde e compatte, si ripiega su Baita. Giunge in quel punto col nerbo del 3º corpo il maresciallo Canrobert, fatto sicuro, per l’ora tarda, d’ogni sorpresa da Mantova. A quest’annuncio il generale Niel tenta un ultimo colpo: lancia le truppe della divisione Trochu fra Casanova e la Baita, con una batteria d’artiglieria.
In quel tempo, l’imperatore Francesco Giuseppe, visto squarciata nel centro la sua linea di battaglia, per frenare il corso alla fortuna che precipita, tenta un estremo sforzo a sinistra, contro i corpi del Niel e del Canrobert, mandando tutto intero il suo Iº esercito all’assalto. Le riserve del 3º, del 9º e dell’11º s’avanzano per sostenere le loro malconce divisioni. Un sanguinosissimo combattimento comincia. Il principe Windisch-Graetz si lancia avanti tra i primi, alla testa d’un reggimento della brigata Greschke; si getta con impeto verso Casanova, respinge i bersaglieri francesi che ne contrastano le vicinanze; le colonne lo seguono mirabilmente ardite e ordinate; ma ecco, una palla gli colpisce il cavallo, due altre feriscono lui e lo rovesciano di sella, le file si disordinano, il 1º reggimento dei lancieri francesi, condotto dal generale Labareyre, si avventa alla carica, e sgombra il terreno intorno a Casanova; le fanterie ripigliano animo e si caccian sotto; gli Austriaci voltan le spalle, e la bandiera del loro 35º reggimento cade nelle mani del 76º francese. È questo uno dei più duri incontri della giornata, e a più largo prezzo di sangue pagati: quattro colonnelli, il Lacroix, il Capin, il Maleville, il Jourjon son rimasti cadaveri sul campo.
Mentre qui ferveva più viva la battaglia, tre grandiose cariche di cavalleria si succedevano sulla sinistra del 4º corpo. Il generale Desvaux, viste da lontano alcune colonne austriache dirette verso Guidizzolo, lanciava prima ad assalirle tutto il 5º reggimento usseri e il 1º cacciatori di Africa della brigata Planhol, poi due volte il 3º cacciatori d’Africa della brigata Forton. Il terreno folto d’alberi e intersecato da fossi, avendo ritardata la prima carica, le colonne austriache avevano avuto tempo per formare i quadrati; onde ai reggimenti successivamente sopraggiunti non era riuscito di scompigliarle. Ma avevano loro impedito di andare a ingrossare l’assalto di Casanova, e agevolato così la vittoria del 4º corpo francese.
Sono le quattro. La battaglia, sull’ala destra francese, volge al suo fine.
Il generale Trochu, colla brigata Bataille, mandato dal generale Niel verso Guidizzolo subito dopo l’arrivo sul campo del maresciallo Canrobert, incontra gli Austriaci sulle tre strade che sboccano dal villaggio; li assalta alla baionetta, li ricaccia di fronte fino a un miglio dalle prime case, li respinge dalla parte di Baita, s’impossessa di due cannoni, e prende un grosso numero di prigionieri. Il colonnello Broutta è mortalmente ferito di mitraglia.
Così termina la battaglia sull’ala destra.
Al centro, l’Austriaco è stato cacciato dalla guardia imperiale, d’altura in altura, fino a Cavriana, e nel villaggio stesso di Cavriana, dov’è il quartiere generale dell’Imperatore nemico, penetrarono i volteggiatori della guardia e i bersaglieri algerini. Il Decaen e il La Motterouge hanno respinto gli Austriaci da tutte le case della pianura.
L’imperatore Francesco Giuseppe dà l’ordine della ritirata a tutta la linea.
In quel tempo dalla parte di Madonna della Scoperta il 2º reggimento granatieri, sopraffatto dalle crescenti forze degli Austriaci, s’era ridotto disordinatamente fuori di tiro, per riannodarsi e ritornare sul campo. Tutta la brigata Savoia era entrata in linea e si manteneva salda sui siti occupati, respingendo aspramente gli assalti dei nemici.
Alle due, nel campo dell’estrema sinistra, dura ancora l’incertezza di prima. La 3ª divisione è come abbandonata in una solitudine trista. I soldati, stracchi e muti, interrogano coll’occhio ansioso gli ufficiali, cupi anch’essi, che si sentono ancora sonar nel cuore gli ultimi lamenti dei compagni caduti. Il generale Mollard, torbido e accorato, erra pel campo, alla ventura, chiuso nei suoi pensieri. Che sarà seguìto? Che fa la 5ª divisione? E le altre? E i Francesi? Vincono? Perdono? Nessun aiuto, nessun ordine, nessun avviso; la battaglia tace; dall’una e dall’altra parte si posa sulle armi; e un vasto campo di cadaveri si stende frammezzo, tristamente deserto, e tacito d’un silenzio terribile, che par che attenda e invochi e accusi il sangue profuso invano, e le vite spente senza gloria. Guai se in quella dolorosa aspettazione, dinanzi a quel funesto spettacolo, nell’animo dei soldati sottentra al furore l’orrore, lo sgomento della rotta al desiderio impaziente della riscossa, e intiepidito l’ardore delle vene, la stremezza dei corpi prevale! Ogni momento è un pericolo. — Ritirarsi? — si domanda Mollard; qualcuno glielo consiglia. — Oh no! Mai! — Il suo sangue di soldato si rimescola. — Dopo tre vittorie francesi, e forse mentre si calcan sul capo gli allori della quarta! Dopo il trionfo di Milano, che non è ancora stato legittimato da un trionfo sul campo! Dopo aver perduto su quei colli il fiore dei nostri vecchi reggimenti! Dopo che fu sparso il sangue di Arnaldi e spezzato il cuore di Berretta! E Goito, dunque? E Pastrengo? E Santa Lucia? E Novara? Son nomi morti codesti, o non son altro che nomi? Ritirarsi, no! Gli Italiani per provare il loro diritto di vivere hanno da mostrare al mondo che sanno morire. — Sarebbe la prima volta, esclama il Mollard con quel suo accento vibrato che ogni parola sembra un colpo di spada, la prima volta che mi dovrei ritirare! Questo mi fa andare in bestia! — E scopertosi il capo, stropiccia il berretto colle mani convulse.
All’improvviso, da una parte del campo si sente una voce concitata: — Il generale Mollard! — È un uffiziale d’ordinanza del Re, arrivato di grande carriera, con una notizia sul volto. Il Mollard accorre. — Generale! — quegli esclama; — Sua Maestà le fa sapere che i Francesi vincono a Solferino, e ch’egli vuole che i suoi soldati vincano qui. La 5ª divisione è richiamata al campo. La brigata Aosta, un battaglione di bersaglieri e una batteria d’artiglieria hanno ricevuto l’ordine di venirsi a porre ai suoi comandi.
Un lampo di gioia passò sul volto di Mollard.
— Signori! — egli esclama volgendosi verso gli ufficiali del suo seguito con piglio risoluto; — il Re vuole che si conquistino le alture, e si conquisteranno.
E poi all’ufficiale d’ordinanza: — Vada a dire al Re che i suoi ordini saranno eseguiti.
L’uffiziale parte di carriera.
La notizia si è propagata pel campo colla rapidità del pensiero, e il campo ha mutato aspetto: gli ufficiali si cercano, si abbracciano e si salutano da lungi; i soldati rialzano il guardo radiante alle bandiere; in ogni parte è un sonar di fiere parole, un agitarsi impaziente, un dare e un ricevere frettoloso di comandi, un partire e un accorrere precipitoso di cavalieri, un rimescolìo, un ribollimento; fame, sete, arsura, stanchezza, tutto è svanito; i soldati si risentono freschi e gagliardi, come la mattina, all’uscir dei campi; un’altra aurora, più splendida, sorge; tutti gli sguardi si volgono alle alture; il nemico è grosso, le artiglierie fitte, i siti fortissimi; ma bisogna prenderli, e si prenderanno, è ordine del Re.
Sono le quattro. Un’altra lieta voce corre pel campo. Arriva il generale Cerale colla brigata Aosta, la brava brigata di Goito e di Santa Lucia, il 1º battaglione bersaglieri, la 15ª batteria. Vengono, come a una festa, baldanzosi e ridenti. — Viva la brigata Aosta! — si grida nel campo. I reggimenti sfilano, ufficiali e soldati si salutano, le due illustri bandiere, lacere e superbe, passano sventolando in mezzo alle schiere riverenti.
Il generale Mollard dispone l’ordine dell’assalto: la brigata Aosta a sinistra, la brigata Pinerolo a destra si slancieranno, convergendo, tra la Contracania e San Martino; il 7º reggimento della brigata Cuneo terrà dietro alla brigata Aosta; l’8º, fermo, guarderà il campo dal lato di Peschiera.
Il cielo, fino allora limpidissimo, si rannuvola improvvisamente.
Un battaglione del 14º, una compagnia di bersaglieri e due pezzi d’artiglieria si recheranno nascostamente a San Donnino, e al primo colpo di cannone partito dal grosso della divisione, s’avanzeranno a minacciare il nemico sulla sua sinistra. La 4ª batteria sosterrà la brigata Pinerolo sulla destra, la 5ª sulla sinistra, la 6ª alla stazione di Pozzolengo, la 15ª a destra della 6ª, i cavalleggieri di Monferrato all’estrema destra.
Le nuvole dense e nerissime coprono tutta la faccia del cielo, e il tuono rumoreggia.
Le truppe si moveranno tutte insieme, ordinate e silenziose; non un colpo di cannone, non un colpo di fucile prima che sian giunte al punto d’assalire alla baionetta. Sarà dato il segnale. Allora tutte le artiglierie, di concerto, fulmineranno, suoneranno tutte le bande, batteranno la carica tutti i tamburi, e sopra il fracasso dei tamburi, delle bande, dei cannoni, tuonerà d’ogni parte un grido formidabile: Viva il Re! e dieci mila baionette si scaglieranno sul nemico, e Dio sia coll’Italia. La 5ª divisione non può tardare a giungere; sono le cinque, tutto è disposto, giù gli zaini, e avanti.
Le colonne partono per recarsi sul luogo di dove si slancieranno all’assalto.
In quel momento il tuono scoppia con immenso fragore: un temporale spaventevole, misto di grassa grandine e di pioggia dirotta, prorompe; si leva un furiosissimo vento; fitti e vividi lampi balenano, e in pochi minuti il vasto campo di battaglia è tutto rigagnoli e fango.
Le colonne si fermano.
Appena il temporale ha rimesso un po’ della sua prima furia, ecco arrivare il generale Cucchiari, per la strada ferrata, colla brigata Casale, e il colonnello Cadorna per la strada di Desenzano, colla brigata Acqui. Tutta la 5ª divisione è sul campo. Il Mollard corre a concertarsi con Cucchiari. La 5ª divisione romperà la destra del nemico, e oltrepassandola, gli minaccerà la via di ritirata. La brigata Casale, il 18º fanteria, l’8º bersaglieri, due batterie e uno squadrone di Saluzzo anderanno all’assalto. Il 17º, il 5º bersaglieri, una batteria restano sulla strada ferrata a guardar la parte di Peschiera. Ora è tutto a segno, avanti, all’ultima prova.
Tutta la linea si muove.
La brigata Pinerolo s’avanza verso la Contracania. Il 14º è in prima linea, col colonnello Balegno alla testa; il 13º lo segue; la 4ª e la 5ª batteria lo proteggono. Tuona il primo colpo di cannone; il Balegno manda il grido dell’assalto; il reggimento gli fa eco e si slancia impetuoso, spaventevole, bello; ma, Dio! s’è slanciato troppo presto, le scariche dei battaglioni austriaci e delle artiglierie lo straziano, prima ch’ei sia arrivato lassù sarà dimezzato; il 13º, impedito dal terreno, è rimasto addietro, lo ha perduto di vista, non lo può più sostenere; il colonnello Balegno è ferito a morte, il reggimento inferocito continua a salire, gli Austriaci raddoppiano il fuoco, le file diradano miseramente, non si può più proseguire, no, non si faccia spreco di vite, indietro, valorosi! Il reggimento dà indietro, riscende ai piedi delle alture, si arresta alla casa Armia, si riordina: quanto scemato! Il Balegno muore. — «Pazienza, — egli dice — muoio, ma l’ho condotto io al fuoco il mio 14º!»
Avanti il 13º, alla riscossa. Lo comanda il bravo colonnello Caminati. — Soldati! — egli grida colla sua voce poderosa: — ricordatevi di mantenere la promessa che mi avete fatta! — Viva il Re! Viva il Re! — risponde clamorosamente il 13º, e si slancia in furia; fulminato, affretta la corsa; è alla Colombara, l’assalta, la circonda di cadaveri, guadagna il terreno a palmo a palmo a colpi di baionetta. Il Caminati cade. — Avanti, figliuoli! Difendete la bandiera! — e muore. Cresce, alla vista di quel sangue, l’animo e l’impeto dei soldati; la Colombara è presa. Ma una colonna austriaca s’avanza concitatamente sulla destra; il nemico, ingrossato, rincalza di fronte; il 13º si difende per mezz’ora, accanito; stretto da ogni parte, indietreggia, cede i siti conquistati, ridiscende fino a casa Fenile. E due reggimenti respinti, scellerata fortuna!
Le artiglierie tuonano intanto su tutta la linea. La brigata Aosta, seguita dal 7º reggimento, respinge il nemico presso casa Raimondi, e s’avanza coi bersaglieri a sinistra; il 5º reggimento lo scaccia da Casanova, da Armia, da Monata; il 6º conquista le case Chiodina di sopra e Chiodina di sotto. Ma qui comincia ad avversarci la sorte. Il 6º assalta la Contracania; gli Austriaci, forti di numero e di sito, lo ributtano e lo incalzano; tutta la brigata Aosta, involta nel movimento, ripiega fino alla Monata e alle case vicine; assalita sulla sinistra, si difende, perdendo terreno. Muore il maggiore Bosio del 6º reggimento, il general Cerale è ferito, ferito il colonnello Vialardi; ferito il colonnello Plochiù, ferito il maggiore Polastri, ferito il maggiore Botteri, e cento altri valorosi.
La 5ª divisione combatte con varia fortuna contro San Martino, e dai due lati della strada di Pozzolengo; si impadronisce delle case Chiodine e della casa Plandro; il generale Cucchiari, il generale Pettinengo, il generale Gozzani, ardenti di coraggio e d’entusiasmo, preparano i soldati ad assalir le Casette e le alture della Chiesa; ma il nemico è grosso e tenace, e l’assalto, pur troppo, qui come altrove, con molto valore e molto spargimento di sangue tentato, riuscirà vano.
E anche la colonna di diversione mandata a San Donnino è stata respinta dalle forze soverchianti della sinistra austriaca, e ha dovuto desistere dalle offese.
Dunque da ogni parte s’ha la fortuna nemica; dunque è fatale che il numero prevalga alla virtù, alla giustizia, all’amor di patria; che non si possa strappare dalla nostra bandiera il velo nero di Novara; che questo giorno solenne, da tanti anni sospirato, preparato, pregioito, invece di rifarci delle antiche sventure, ce ne aggravi sul capo una di più; che l’ira, da sì lungo tempo e così amaramente compressa in fondo al cuore, ci resti soffocata e ci consumi; che sia delusa la speranza d’Italia, la fiducia della Francia, l’aspettazione dell’Europa; che si debba arrossire in faccia a coloro che son venuti a spargere il loro sangue per noi, e mordere la polvere mentr’essi cantano vittoria?
Sono le sette.
Un’estrema prova. Un assalto generale su tutta la fronte; otto reggimenti in linea; tutta la brigata Aosta, tutta la brigata Casale, tutta la brigata Aqui, il 7º, il 14º, tre battaglioni bersaglieri, venti cannoni tra la Perentonella e la Monata, tutta l’artiglieria della 5ª divisione in batteria.
Avanti!
Oh per l’amore d’Italia, in nome della libertà e della giustizia, in nome dei nostri morti, in nome di tutto quello che s’è patito e di tutto quello che s’è amato, vincete! L’ultimo raggio del sole vi saluti vittoriosi in vetta a quei colli; non tramonti con esso la gloria della nostra bandiera; quest’è l’istante supremo: coraggio, fratelli, e voi, madri d’Italia, pregate.
Tutta la linea si muove; le artiglierie prorompono tutte assieme in una scarica formidabile che echeggia come scoppio di cento folgori fino ai confini del campo; le batterie della 5ª divisione infuriano di fronte, i venti cannoni della Monata di fianco; i tamburi battono la carica, squillano le trombe dei bersaglieri, i generali e i colonnelli agitano le sciabole alla testa delle colonne, sventolano le vecchie bandiere dei reggimenti, diecimila baionette si spianano, diecimila altissime grida s’innalzano, lo spazio interposto scompare. Il nemico si turba, indietreggia, volta le spalle, è fugato.
Un altro fragoroso grido s’innalza da tutte le alture: — Viva il Re!
Subito, colla rapidità del lampo, trenta pezzi d’artiglierie sull’altopiano a fulminare l’opposto pendìo che gli Austriaci tentano di risalire, i battaglioni si stendono e li tempestano d’un gagliardo fuoco di fila, i cavalleggieri di Monferrato li flagellano di fronte e di fianco, un ultimo fuoco di mitraglia, è finito.
Dopo quattordici ore!
La vittoria era stata agevolata dal general Fanti. La 2ª divisione, ch’era la sua, partita da San Paolo di Lonato alla volta di Solferino, aveva ricevuto l’ordine dal Re di mandare la brigata Piemonte a Madonna della Scoperta e la brigata Aosta al generale Mollard. Quando la brigata Piemonte arrivava al campo del generale Durando, gli Austriaci, per ordine dell’Imperatore, si ritiravano. Allora il Re affidava codesta brigata e la 1ª divisione al generale La Marmora, ordinandogli di correre in soccorso dell’estrema sinistra. Arrivati colà, il generale Durando colla 1ª divisione, cacciava il nemico da monte Maino; il general Fanti colla brigata Piemonte lo respingeva fino a Pozzolengo, e collocata una batteria sul monte San Giovanni tempestava di granate le spalle degli Austriaci combattenti a San Martino.
È scesa la notte; l’esercito austriaco si affolla disordinatamente sopra i ponti del Mincio, e ripassa.
L’imperatore dei Francesi pianta il suo quartiere generale a Cavriana e va a riposare nella stessa casa e nella stessa stanza dove riposava la notte innanzi l’imperatore degli Austriaci.
Il vastissimo campo di battaglia tace. I villaggi e le case risonanti poc’anzi di urli feroci e di colpi, risonano ora di voci lamentevoli e fioche, di parole di dolore, di preghiera, di conforto, di pace. Da casa Marino a Cavriana, da Medole a San Martino, cinque mila cadaveri e ventitre mila feriti sono sparsi; le colline e le valli miseramente insanguinate, i campi devastati e pesti, diroccate le case, e per tutto armi disperse, cannoni atterrati, e cavalli giacenti, e tracce funeste di desolazione e di morte.
I due eserciti riposano.
Qua e là scintillano i primi fuochi del bivacco, illuminando all’intorno generali e soldati, vinti e vincitori, stesi per terra, chi ferito e chi dormente, gli uni accanto agli altri, alla rinfusa, come eguali ed amici.
Ed erano eguali, sì, generali e soldati, nella fortissima virtù dei sacrificii, nella generosa devozione ai loro Principi e nel divino amore della patria; amici sì, vincitori e vinti, nella sublime religion del valore, d’ambo le parti, in quel giorno memorabile, splendidamente glorificata col sangue.
Sono trascorsi dieci anni, o caduti dei tre eserciti; e come quel giorno giacevano confusi i vostri cadaveri sul campo, oggi riposano le vostre ossa in una tomba comune, sulla quale sventolano le bandiere dei tre popoli a significare che siete tutti egualmente amati, venerati e pianti.
L’INAUGURAZIONE DEGLI OSSARI di San Martino e Solferino.
[Pozzolengo, 24 giugno 1870, sera.]
Nello spazio di trenta giorni gl’Italiani hanno celebrato l’anniversario di due memorabili battaglie nazionali: — il 29 maggio, Curtatone e Montanara; — il 24 giugno, San Martino e Solferino; — e le hanno celebrate nella forma più nobile e più solenne: — onorando la memoria dei morti.
Scrivo da Pozzolengo, come scrissi da Mantova, coll’anima ancora tutta piena della religiosa maestà della cerimonia; ma quanto diversamente commosso! Alla mestizia non divisibile dal cuore in un giorno di commemorazione di morti, si univa sì, a Mantova, un sentimento di orgoglio, pensando che i vinti Italiani erano usciti da quella battaglia non meno gloriosi che gli Austriaci vincitori. Ma era pur tristo il pensare che quel valore e quel sangue non eran bastati a risparmiare all’Italia altri dieci anni di servitù, di carceri, di patiboli, di proscrizioni; che quello stesso terreno bagnato dal sangue dei nostri soldati era rimasto in poter dei nemici, senza un segno che serbasse la memoria dei caduti e ne raccomandasse il compianto; che dopo quella sventura, più d’una volta la bandiera italiana aveva ancora dovuto coprirsi d’un velo di lutto, e l’esercito seminar vanamente di cadaveri altri campi. Ma oggi il ricordo dei morti è uno con quello d’una grande vittoria; da questi colli ove scrivo, l’Italia gettò al mondo il suo grido più possente di libertà; qui ella creò una di quelle parole — San Martino, — che rimangono nel cuore dei popoli e degli eserciti, ispiratrici di coraggio ne’ pericoli e di conforto nelle sventure, fino alle generazioni più tarde; qui per la prima volta il nemico sentì veramente nella ostinazione disperata degli assalti che con quei quaranta battaglioni saliva su pei colli contesi l’Italia, e il suo Re.
E vi si aggiunge il particolare significato dato alla cerimonia dalla presenza sul campo di battaglia dei rappresentanti dei tre popoli che pochi anni sono vi hanno combattuto una delle più grosse e più sanguinose battaglie moderne. È l’unanimità delle nazioni nel culto dell’amor di patria, nella venerazione del valore e nella pietà della sventura; sono i popoli stessi che si stringono la mano sui sepolcri dei loro figli, per dirsi che la guerra non ha lasciato traccia d’odii o di rancori; che, cessata la cagione del dissidio, all’ira sottentra l’affetto e nel nemico sorge l’amico; che gli orgogli nazionali si fondono e scompaiono in un sentimento umanitario sovrano che stringe popoli, monarchi ed eserciti nell’amplesso fecondo della pace, sotto la grande bandiera della civiltà.
Questa mattina — ventiquattro giugno milleottocentosettanta — il cielo era sereno e splendido come dodici anni or sono, quando risonava delle grida dei primi assalti e del rimbombo delle prime cannonate.
Arrivarono alla stazione di Pozzolengo, verso le otto, i due treni della strada ferrata ch’eran partiti la notte da Milano e da Venezia. Scesero dal primo il principe Umberto e il principe di Carignano, dal secondo i rappresentanti della Camera e del Senato. V’era il ministro della guerra e il ministro d’agricoltura e commercio, i prefetti di Mantova, di Brescia, di Verona, di Padova di Vicenza; i sindaci di quasi tutte le città del Veneto e della Lombardia; molti generali dell’esercito e della guardia nazionale, ufficiali di tutte le armi, pubblicisti italiani e stranieri, e una folla d’altra gente, invitata alla festa dal Comitato della Società di Solferino e San Martino.
La Francia era rappresentata dal cavaliere de la Haye, luogotenente colonnello di stato maggiore dell’esercito francese, accompagnato dal visconte di Larochefoucault e dal visconte du Ponseau. L’Austria era rappresentata dal cavaliere Alessio de Pollak, luogotenente colonnello di stato maggiore dell’esercito austriaco.
Gran gente era affollata intorno alla stazione. Appena i Principi comparvero, s’udirono vivissimi applausi, con suoni di bande e colpi di cannone. Dopo i Principi, la folla cercò subito con gran desiderio i due ufficiali stranieri. L’ufficiale austriaco vestiva una divisa completamente verde, con un cappello a due punte come quello dei nostri generali, e un pennacchio come gli uffiziali dei nostri bersaglieri. È un uomo alto, sottile, di lineamenti delicati, di aspetto simpatico, di modi cortesi. L’ufficiale francese, una robusta e fiera figura di soldato. Fin dai primi momenti la gente spiegò una particolare simpatia per l’ufficiale austriaco, ed era ben naturale. Egli rappresentava l’esercito che in quella giornata era stato battuto; fra tutti i convenuti alla festa egli era il solo cui la vista di que’ luoghi, la presenza di quella gente, i discorsi, la cerimonia, ogni cosa, insomma, richiamava dei ricordi non lieti. Bisognava dunque farglieli dimenticare, questi ricordi; rendergli quella festa cara com’era a noi; destargli nel cuore un sentimento di compiacenza e di gratitudine tanto vivo, a forza di dimostrazioni di simpatia e di affetto, che ogni altra men grata commozione ne fosse sopraffatta e soffocata. Così si fece, e in ciò la gente diè prova d’una delicatezza squisita, a cui l’ufficiale, dal canto suo, corrispose nobilissimamente.
I due Principi si trattennero qualche minuto sotto uno splendido padiglione vicino alla strada ferrata, poi salirono in carrozza, e seguiti dai soci, dagl’invitati, dal popolo, si avviarono verso il colle di San Martino, alla villa Tracagni, dov’era stata preparata la colazione per tutti. Quel breve tratto di strada fu un continuo spettacolo. I campi formicolavano di gente accorsa dai vicini villaggi; le ville, le chiese, le casuccie più meschine erano ornate di arazzi, di fiori, di quadri; e qua e là, sul piano e pei colli, tra ’l verde degli alberi e delle siepi, biancheggiavano tende e padiglioni: tutta la campagna era parata a festa. E ispirava sentimenti e pensieri da non potersi esprimere, quella pompa di colori allegri, quella gente gaia, quello strepito, quella musica, là dove pochi anni prima, in quello stesso giorno, era corso tanto sangue! A un tratto, a una svoltata, mi si offerse per la prima volta allo sguardo il colle di San Martino, colla sua chiesuola e coi suoi cipressi, bello e terribile, come l’avevo visto tante volte dipinto e sentito descrivere. Mi balzò il cuore. Codesti luoghi famosi par che abbiano il sentimento di quello che sono. Io guardai quel colle, come si guarda una persona, in atto riverente e affettuoso; e mille ricordi mi si affollarono, e riprovai il tremito che mi aveva preso la prima volta che l’intesi nominare, con quelle divine parole: — Hanno vinto!
I Principi e tutto il seguito entrarono nella villa Tracagni dov’era preparata la colazione. Questa villa è una delle case che furono più accanitamente disputate fra Italiani ed Austriaci nella battaglia di San Martino. Quasi rovinata allora, rifabbricata ed abbellita poi, offre oggi un aspetto gradevolissimo; ma nelle pareti delle allegre stanzine, fra le pitture e gli ornati, spunta ancora qualche palla da cannone, che ricorda il passato, e fa un eloquente contrasto con quanto v’ha intorno di grazioso e di ameno.
Finita la colazione, i Principi si mossero verso la chiesa di San Martino, per il famoso viale di cipressi, in mezzo a due ali di soldati di fanteria, di guardie nazionali e di popolo.
La chiesa di San Martino è piccola, e a vederla di fuori non si distinguerebbe dalle altre chiesuole sparse per la campagna, se non per la facciata, sulla quale si vedono tre bellissimi mosaici: uno che rappresenta la Risurrezione del Redentore, ed è quel del centro; l’altro, quello di sinistra, un angelo colla spada in mano; il terzo pure un angelo con una corona d’alloro. L’interno della chiesa ha un aspetto particolare, che colpisce: le pareti nude, l’altare semplice, e sormontato da una grande croce nera che spicca sopra un’amplissima tenda bianca. La tenda scende dalla volta al pavimento, e copre tutto il presbiterio, in modo che, entrando, non si vede nulla che tiri in special modo l’attenzione. Però quell’aspetto modesto e severo prepara l’animo a ciò che si vede poi.
Entrarono i Principi e il seguito, e s’avvicinarono silenziosamente all’altare. Anche la folla di fuori, compresa della solennità della funzione, taceva; tutti gli animi stavano in grande aspettazione.
A un tratto, la tenda bianca disparve, e si videro in fondo alla chiesa, d’un sol colpo d’occhio, due mila teschi umani ordinati in lunghissime file, l’una sovra l’altra, dal pavimento alla volta, così che il muro n’era interamente coperto; le occhiaie tutte volte verso la porta. Nello stesso tempo tuonò il cannone, e suonò la musica.
Io non credo che si dia al mondo uno spettacolo più solenne e più tremendo di questo. Io non so dire quello che si provò in quel momento: — una scossa, un senso di freddo, un tumulto istantaneo nella mente e nel cuore; orrore, meraviglia, pietà. Da ultimo una pietà affettuosa, mista a un sentimento di gratitudine e di venerazione così profondo e così forte, che metteva il bisogno di piegar le ginocchia e pregare. Tutte quelle occhiaie immobili par che ci guardino; in quei nudi teschi par che ci debba essere ancora un alito di vita; pare che qualcosa si debba muovere su quella sacra parete. Son là, Italiani e Tedeschi, confusi; forse il teschio dell’uccisore poco discosto da quello dell’ucciso, gente di paesi lontani, ignoti gli uni agli altri; e chi sa che affetti erano accumulati sovra ognuno di quei capi, e che terribili dolori è costato ognuno! Un padre, una madre, un fratello, che sappiano d’avere il figliuolo o il fratello là, che cosa debbon sentire e pensare guardando que’ teschi, senza saper qual è quello che piangono! Debbono pur fare qualche congettura! È tristo; ma ora almeno le famiglie sanno che le ossa dei loro cari non sono più disseminate per la campagna, sanno che c’è un luogo dove possono andar a pregare, e sentirsi più vicini ad essi; possono dire almeno: — Dove i nostri morti sono sepolti, andarono a inginocchiarsi tre popoli; là si pregò per essi anche da coloro che li uccisero; molte generazioni andranno a piangerli e ad onorarli insieme ai mille che morirono con loro.
Si celebrarono brevi esequie per l’anime dei morti, dopo di che il vicario di Verona venne innanzi, e dai gradini dell’altare lesse un discorso pieno di nobili sensi e di alti pensieri di religione e di patria. Parlò dopo di lui il rettore del collegio di Desenzano, interrotto tratto tratto dagli applausi degli uditori e dal fragore di ripetute scariche del battaglione di fanteria e delle guardie nazionali schierate lungo il viale dei cipressi. Lesse ultimo un discorso il ministro della guerra. Disse dei sacrifici fatti dall’Italia per redimersi dalla schiavitù e costituirsi in grande e forte Stato, del generoso aiuto della Francia, della stirpe dei nostri Re, e terminò apostrofando gli Austriaci morti in battaglia. — Nemici d’un giorno — esclamò — valorosi nemici!... Il vostro sagrificio fu glorioso per il vostro paese. Se la vittoria non potè esser vostra, la mano di odio e lo spirito dei tempi nuovi erano contro di voi; ma non rimpiangete la battaglia perduta, perchè l’odio di razze fu spento nei cuori; rallegratevi, perchè oggi i vostri compagni stringono la mano a noi, uniti tutti nella via comune della civiltà e della giustizia.
Il principe Umberto pose di sua mano accanto all’altare una delle due bandiere portate in dono dalla guardia nazionale di Milano; quindi si mosse per fare il giro del presbiterio, accompagnato da tutto il suo seguito. Allora si potè osservare i teschi da vicino. Molti sono forati dalle palle o rotti dalle scheggie della mitraglia. Sopra alcuni v’è la palla fermata con un filo di ferro nel punto dove colpì; su altri pochissimi c’è scritto il nome del morto o l’indicazione del grado. Qualche teschio è quasi completamente sfracellato. Il principe Umberto si fermò ad osservarne alcuni. Nessuno della comitiva parlava. Poi scesero tutti lentamente in un piccolo sotterraneo che s’apre sotto il presbiterio dove sono ammonticchiate le ossa degli scheletri. Compiuto questo secondo giro, i Principi uscirono dalla chiesa, e dietro a loro tutti gli altri. La folla proruppe in applausi, e il cannone riprese a tuonare.
Si risalì in carrozza e si mosse alla volta di Solferino. Si passò per la strada grande che attraversa con un lungo giro tutto il campo di battaglia, in modo che vedemmo i luoghi dove seguirono gl’incontri più sanguinosi: Pozzolengo, Madonna della Scoperta, il Cimitero. Anche lungo questa strada tutte le case erano imbandierate, e frotte di contadini e di gente venuta dai villaggi parte precedevano e parte seguivano la fila delle carrozze. A destra e a sinistra v’era una sequela sterminata di baracche, di tende, di osterie come s’usano nelle feste campestri; e per tutto gente vestita a festa, bandiere, musiche, grida.
Che stupenda campagna! che colline deliziose! Io non mi potevo saziare di guardarle. Qui — dicevamo — è passata la tale divisione, là il tal corpo d’armata, più in là il tal reggimento di cavalleria; ai piedi di quella collina morì un generale; sulla cima di quell’altra furono appostate due batterie; a ogni svoltata della strada, a ogni rialzo del terreno, ci si destava un ricordo terribile e glorioso. E sempre domandavamo a noi stessi se s’era combattuto proprio là, e quasi non l’avremmo voluto credere, tanto ci pareva strano che si fosse potuto sparger sangue e morire su quei bei campi verdi, in un luogo così allegro, in mezzo a quella serena bellezza di cielo e di terra.
S’arrivò ai piedi del colle di Solferino. Si vide la torre che s’alza sopra la vetta, e tra i merli le tre bandiere, austriaca, francese e italiana; il colle dei Cipressi, erto e scosceso, sulla destra: e pensare che vi si arrampicarono gli zuavi sotto una pioggia di palle tedesche! Ci debbono essere caduti a mucchi, poveri soldati! A sinistra il monte della Chiesa, con la cappella mortuaria sulla cima; dinanzi, sulla spianata, padiglioni, archi, antenne; e dal colle della torre al villaggio di Solferino, dal villaggio alla chiesa, dalla chiesa alla torre, un via vai di gente infinito.
Entrammo nel villaggio: pareva che ci si fosse versato tutto il popolo d’una città. È un piccolo villaggio di aspetto meschino, colle vie anguste e le case rozze e nere; eppure aveva un aspetto ridente. I muri erano coperti d’epigrafi, d’immagini, di ghirlande; e qua e là, intorno alle finestre e alle porte, si vedevano le palle da cannone, dove rade, dove fitte, e accanto un breve spazio imbiancato, con su iscrizioni e date; nei cortili, negli orti, per tutto ov’era una traccia dei guasti della battaglia, l’avevan messa in vista; e la gente interrogava e i contadini spiegavano. Da ogni parte arrivavano al villaggio carrozze, brigate di giovani e di donne, signori a cavallo, guardie nazionali, fanciulli.
Verso il tocco cominciò la cerimonia funebre nella chiesuola di Solferino.
Questa chiesa era prima del cinquantanove un oratorio dedicato a San Pietro. Mezzo rovinata dai cannoni francesi, venne poi ristaurata, e se ne fece il Grande Ossario. È poco più ampia di quella di San Martino, ma più alta, e con due cappelle laterali, che le danno un’apparenza più grandiosa. La facciata è pur coperta di mosaici; e intorno a questa chiesa, come intorno all’altre, si stanno facendo dei giardini. Sul dinanzi, la china del colle fu appianata, e un larghissimo viale scende fino al villaggio.
In mezzo a due ali di soldati e di popolo, i Principi e il seguito salirono alla chiesa ed entrarono. Celebraronsi anche lì brevi esequie pei morti francesi ed austriaci, e poi parlarono monsignor Martini, vicario capitolare di Mantova, il senatore Torelli, e il luogotenente colonnello dell’esercito francese, cavaliere De la Haye. Questi, in nome dell’imperatore Napoleone presentò al Torelli le insegne di grande ufficiale della Legion d’onore.
Il principe Umberto pose accanto all’altare la seconda bandiera della guardia nazionale di Milano, e poi si fece tutto il giro del presbiterio, che è anch’esso da cima in fondo coperto di teschi: seimila e settecento scheletri furono radunati in quell’Ossario. Nel sotterraneo v’hanno parecchie nicchie il cui sfondo è rivestito d’altri teschi, e sul dinanzi di ciascuna s’innalza una gran croce fatta di ossa di gambe e di braccia, abilissimamente disposte, e congiunte con sottilissimi fili di ferro. La croce della nicchia di mezzo è interamente composta di costole. Tutte codeste ossa sono pulite e lucide e ordinate in perfetta simmetria; e punto ribrezzo od altro senso spiacevole ne deriva a chi guarda, tanto vi è visibile e parlante l’impronta della pietà gentile che le raccolse e le compose.
Si entrò poi in una stanza dove son deposti i varii oggetti ritrovati nel disseppellire i morti: medaglioni, anelli, immagini, lettere. Fra l’altre cose v’è un orologio, che pare appartenesse a un soldato francese, e che tocco da una palla o fermato da qualche goccia di sangue, segna ancora le quattro e trentacinque minuti, l’ora dell’ultimo assalto degli Austriaci a Guidizzolo. V’è una lettera d’una madre che manda dieci lire a suo figlio, pregandolo di aver cura della salute e di non far parola di quel dono a suo padre, che non ne sa nulla e potrebbe trovarci a ridire. Un’altra lettera è d’una giovinetta che ringrazia un soldato dell’offerta ch’ei le fece della sua mano, e gli ricorda i cari giorni passati insieme prima della partenza sua per la guerra. Una terza lettera è d’un padre che esorta il figliuolo a compiere coraggiosamente il suo dovere di soldato. Quasi tutti si lesse que’ fogli, e furono i momenti di maggior commozione; non pochi piansero.
Terminata la visita dell’Ossario, si uscì, e ci si trattenne alcuni minuti sotto un ampio padiglione, dove furon lette parecchie poesie. Poi si salì sul colle di Solferino.
Arrivati sulla cima, la più parte si corse a vedere la torre e ci si salì su. Il colpo d’occhio che di là si gode è veramente degno della fama che lo dice uno dei più meravigliosi del mondo. Si vede una gran parte della pianura lombarda, il lago di Garda, le cupole di Mantova, il torrione di Cremona; e sotto, ai piedi del colle, il villaggio, il cimitero, le case sparse, tutto il campo di battaglia, palmo per palmo, come una piazza d’armi. Che cielo poi, e che aria! Da un lato della piazza vicino alla torre, sotto un ampio portico, erano preparate le mense per oltre duecento persone. Dinanzi al portico, si stendeva un grande padiglione sostenuto da antenne fasciate d’alloro e di fiori. La facciata della casa a cui il padiglione appoggiavasi, splendeva, percossa dal sole, e lampeggiava come una parete d’acciaio; cinquemila daghe e cinquemila baionette v’erano raccolte e disposte in trofei, con busti e ritratti del Re e dei Principi, e arazzi e bandiere; una profusione armonica di colori e di splendori che colpiva e rapiva.
Alle tre i Principi entrarono sotto il padiglione, la folla si accalcò intorno allo steccato, e le bande della guardia nazionale di Milano e del 12º reggimento di fanteria cominciarono a suonare alternativamente le marce più popolari dei tre eserciti. Furon poi recate a migliaia di esemplari poesie, discorsi, epigrafi, racconti di episodii della battaglia, d’autori d’ogni provincia d’Italia; i duecento convitati si divisero in molti gruppi e cominciò e si protrasse fino alle cinque una conversazione animatissima.
Però mancava qualcuno in quella bella adunanza! Molti lo pensarono e lo dissero. Chi avesse invitato a quella festa almeno un ufficiale e un soldato per ciascuno dei vecchi reggimenti che furono alla battaglia di San Martino! Chi avesse invitato dieci o venti delle tante famiglie che perdettero su quei colli qualcuno dei loro cari; famiglie di povera gente, coi ragazzi e coi vecchi, che vedessero gli onori che si rendevano ai loro morti, e parlassero al Principe, e sedessero a tavola in mezzo ai generali; quei poveri vecchi che han dato alla patria qualcosa più che il proprio sangue, le proprie creature, il sostegno e la consolazione dei loro ultimi anni! E si fosse fatto venire anche un drappello di soldati francesi, una decina, cinque, uno, uno zuavo, che avremmo fatto a strapparcelo; e soldati tedeschi, un croato, da potergli stringere fraternamente la mano e fargli capire che siamo amici, che vogliamo restar amici sempre, e quelle tante altre cose che ci sarebbero venute sulle labbra in que’ momenti; quanto sarebbe riuscita più bella, più commovente, più solenne la festa!
Poco prima di sedere a mensa, il prefetto di Mantova lesse l’atto d’inaugurazione degli Ossari, che il principe Umberto firmò e dopo lui tutti gli altri.
Alle cinque, tutti presero posto alle mense, le quali erano disposte a raggi, colla tavola dei Principi nel mezzo, in modo che nessuno volgesse loro le spalle. Dinanzi ai Principi v’era una decina di vassoi pieni di palle di cannone staccate dalla torre di Solferino, frammiste a mazzi di fiori. I Comitati s’eran seduti senz’ordine, generali, senatori, sindaci, giornalisti, come veniva veniva, onde riescì più svariata e più gaia la conversazione che s’appiccò subito, in ogni parte della sala, e continuò vivissima per tutto il tempo del desinare.
Verso la fine, corse una voce per tutta la sala: — Silenzio, silenzio, — e tutti tacquero.
Il presidente del Senato s’alzò il primo e propose un brindisi al primo soldato dell’indipendenza italiana.
Il vice-presidente della Camera bevve al principe Umberto e al principe di Carignano.
Il senatore Torelli all’imperatore dei Francesi.
Il ministro della guerra all’imperatore d’Austria.
Il principe Umberto alla gloria e alla prosperità dei tre eserciti.
Il luogotenente colonnello Pollak si alzò, accompagnato da un movimento generale di attenzione, e dopo aver ringraziato in nome dell’Imperatore e dell’esercito austriaco i Principi italiani intervenuti alla festa, il comitato, le società, e tutti coloro che avevano espresso sentimenti di simpatia per la sua patria, disse con voce lenta, chiara e commossa: — Un brindisi alla bella, alla valorosa, alla prode armata italiana.
Un grido solo, da tutte le parti della sala, accolse queste parole; un grido uscito spontaneamente dal cuore di tutti, e con tant’impeto, con tanta forza, che ognuno se ne sentì rimescolare il sangue, e gli applausi si protrassero, fitti e fragorosi, per parecchi minuti, accompagnati da nuove altissime grida. L’ufficiale austriaco sedette col viso mutato.
Alle cinque e un quarto, il principe Umberto s’alzò, e tutti i commensali lo seguirono sotto il padiglione dove si prese il caffè; pochi minuti dopo si uscì per salire in carrozza. In quel punto seguì un caso bellissimo. Mentre il Principe usciva, la banda della guardia nazionale di Milano suonava la marcia reale. Appena egli fu fuori, la banda cominciò a suonare la marcia imperiale austriaca. Il luogotenente colonnello Pollak si voltò in tronco verso il capo musica e facendogli cenno colla mano, disse vivamente: — No, no; marcia reale. — E fu così spontaneo coll’atto e così ingenuo e fatto con tanto garbo, che tutti proruppero in applausi: ufficiali, deputati, senatori, popolo, quanti poterono si strinsero intorno a quel bravo colonnello, gridando, agitando le mani, facendogli ogni sorta di dimostrazioni festevoli e affettuose. Egli, così circondato e acclamato, non sapeva nè chi ringraziare nè dove volgersi; andava oltre mezzo portato dalla folla, commosso, interdetto, come trasognato.
A poco a poco tutti salirono in carrozza e si diressero, parte verso Peschiera e Pozzolengo, parte verso Lonato.
Così terminò il giorno 24 giugno 1870; giorno quindi innanzi doppiamente caro all’Italia, perchè le ricorda una delle più gloriose vittorie dei suoi figli, e una delle più nobili feste celebrate in onore dei caduti per essa.
Possano i tre popoli che si strinsero oggi la mano su questi colli, a tutti e tre cari e solenni, aver sempre dinanzi agli occhi della mente, e fitta nel profondo del cuore, l’immagine di quelle tre bandiere sventolanti insieme sulla torre di Solferino; e possa quella immagine destare nell’anima di tutti, come fece oggi nella nostra, un altissimo desiderio di pace, di fratellanza e d’amore.
ALLA FRANCIA.
Agosto, 1871.
Rileggendo le pagine che seguono, un anno dopo d’averle scritte, provai un senso d’amarezza e sorrisi quasi di pietà. Ma poichè non volevo buttare in un canto uno scritto che mi ricorda una delle più profonde commozioni della vita, e d’altra parte temevo che a rileggerlo tal quale altri ci avrebbe sorriso su, come io stesso, e per la stessa cagione; così avevo già preso la penna per mitigare la vivezza di certe espressioni, smorzare l’ardore di certi sentimenti, mutare e togliere qua e là immagini e giudizi a cui gli avvenimenti han tolto colore e valore. Ma subito mi vergognai del mio proposito, perchè m’accorsi che derivava da un sentimento poco degno: io volevo velare, nascondere in parte l’affetto che m’avevano ispirato quelle pagine, solo perchè le previsioni, le speranze, i voti significati in esse, erano falliti; io cedevo a un moto di falso amor proprio. E dissi: — no; quali mi uscirono dal cuore queste parole, tali rimangano, poichè dell’affetto che esprimono non ho nè a dolermi nè a vergognare. — Pensai dunque di ripubblicare le pagine seguenti senza alterarle in nulla da quello che erano uscendo alla luce la prima volta; pensai di lasciar loro quell’impronta di passione, smodata forse, ma generosa e libera, che le fece riuscir accette e credere sentite ai pochi che le lessero. D’altra parte, in quel ribollimento generale degli animi, non era facile, in ispecie a un giovane, di serbare la giusta misura; onde sarò scusato.
Mi prese poi un dubbio: che potesse venir giorno in cui queste pagine discordassero dolorosamente da un sentimento vivo, giusto e comune degl’Italiani, e mio. E di nuovo deliberai di correggere; ma mi vergognai di me stesso anche questa volta, pensando che l’aver espresso un sentimento di gratitudine e desiderato propizia la fortuna a un amico che ci abbia fatto un benefizio, è e rimane un atto nobilissimo sempre, anche quando codest’amico si volga contro di voi; e che, quanto più la sua nemicizia è ingiusta, tanto più il ricordo d’aver compiuto quell’atto ci è grato, perchè possiamo dire al nostro nemico: Tu ci offendi ed hai torto; noi ti abbiamo amato e onorato.
Infine, secondo il mio modo di sentire, con queste pagine ho pagato un debito.
Chi non crede che questo debito s’abbia mai avuto, le ometta; chi crede il contrario, non proverà, leggendole, altro rincrescimento che quello d’aver avuto un interprete forse troppo ardente e certo non abbastanza felice.
* * *
Firenze, 13 agosto 1870.
La rotta d’un esercito è una delle forme più desolanti in che si possa presentare la sventura agli occhi umani. Un governo cade, uno stato si spezza, una società si dissolve, interessi fortissimi s’urtano, precipitano grandi fortune, migliaia di famiglie sono gettate nella miseria e nel lutto; ma di tutto questo nulla si vede, tuttociò che ne circonda conserva il suo aspetto consueto, il pensiero indovina i dolori dietro le pareti domestiche e le lacrime sparse in segreto; ma l’immagine viva di tutto codesto sconcerto non s’ha; non s’ha uno di quegli spettacoli, che presentando in un punto tutte le forme e tutti gli effetti della sventura, soverchiano l’anima e amareggiano per molti anni la vita.
Un esercito rotto presenta codesto spettacolo. Si sono spezzati cento mila cuori, e voi vi vedete passare dinanzi cento mila visi pallidi che vi dicono l’un dopo l’altro: — Ho il cuore spezzato. — Il dolore di ciascuno s’accresce del dolore di tutti, e tutt’insieme è un dolore che schiaccia. In tutte quelle anime è caduto, col cadere delle sorti, un edifizio splendido di speranze e di sogni di vita gloriosa e lieta, donde ciascuno traeva lena e coraggio. Le gioie del ritorno, cento volte al giorno volte e rivolte e pregioite nel pensiero, son diventate ora un pensiero insopportabile; mille arditi disegni, fantasticati nei giorni della baldanza, falliti; legami d’affetto, forse, che si dovranno spezzare; promesse che non si potranno più mantenere. In ognuno di quei cuori v’è la tristezza presentita delle infinite occasioni, in cui, stando in mezzo alla gente e sentendo dire di quel rovescio, si dovrà chinare la testa, invece di levarla altiera, come quando s’era partiti. Molte parole ed atti di onesta alterezza, che c’erano da molto tempo famigliari, e che la gente ci consentiva nella fiducia della vittoria, ora non saranno più consentiti. La stessa considerazione pubblica in quante delle sue frequenti e sfuggevoli espressioni si farà sentire scemata! Tutto in noi, insensibilmente, si muterà, fino all’atteggiamento e allo sguardo.
Ed anco la coscienza ne punge. Cessato il pericolo, ne pare che si avrebbe dovuto morire prima che cedere. Ritorna alla memoria il proponimento che s’era fatto quando il pericolo era ancora lontano, che piuttosto di piegare ci saremmo fatti uccidere; l’avevamo risoluto, lo avevamo detto cento volte a noi stessi, eravamo sicuri che quel proponimento lo avremmo mantenuto, ed era appunto questa risoluzione e questa sicurezza che ci rendeva orgogliosi e ci innalzava agli occhi nostri. Ora qualche cosa da rimproverarci l’avremo sempre; dal fondo della nostra coscienza si eleverà sempre una voce sommessa per dirci che potevamo far qualcosa di più, e sarà una trafittura perpetua. Ed anche guardandoci intorno, il cuore ci si stringe. Su nessun volto dei nostri compagni avevamo mai visto la paura, nè immaginavamo che vi potesse apparire; ora la vedemmo. A ciascuno di noi, per l’addietro, pareva che da lui solo la vittoria pendesse; aver la forza di fare il proprio dovere era la cosa sola a cui ciascuno pensasse; di sè stessi si dubitava, non d’altri; ora anche d’altri. Tutto è mutato: mille argomenti di forza svanirono, mille argomenti di timore sorvennero. E sono passate poche ore! Pure fra la prima e l’ultima si è fatto un vuoto di dieci anni; ci sentiamo invecchiati; ci domandiamo se è stato un cattivo sogno; tra i nostri occhi e tutto quel che ne circonda si stende ancora un velo; in mezzo al silenzio mortale dei soldati che camminano con noi, tra quell’unico e sordo rumore di passi che rende quel silenzio più tristo, un’eco confusa del fragore della battaglia ci rumoreggia ancora all’orecchio come voce lontana e sommessa, che ci rimbrotti e ci accusi. Passano e s’avvicendano nella fantasia stanca, facce orrende di nemici intravvisti dappresso tra il fumo, e visi di compagni trasfigurati dalla morte, e chiaro e distinto il punto dove giacevano, e tutto quello che avevano intorno: quel sasso, quella traccia di sangue, quella pianta, quell’arma abbandonata...... Poi l’occhio ed il pensiero cadono sul soldato che ci viene accanto, su quello che lo precede, su quello che lo segue, più in là, intorno, vicino, lontano, su tutta la colonna che s’avanza silenziosa e quasi furtiva, come fiume raccolto e rapido; tutti stanchi, discinti, senza armi, a capo scoperto; a tutti manca qualcosa, e nessuno ci bada, ed il giorno prima era un delitto. La campagna è seminata di armi, di cappelli, di tracolle, di pennacchi; si passa e si calpesta; è desolante; tutte quelle robe sparse sono i rottami della disciplina, dell’ordine, della forza. Quanto tempo e quanta fatica prima che ogni cosa sia ricomposta!
Un giorno, un’ora infortunata sperperò il frutto del lavoro di tanti anni, di tante cure, di tanti sacrifici; l’esercito, l’orgoglio e l’amore della patria, su cui si accumulavano tante speranze e tante trepidazioni, è rotto e umiliato; i nostri amici e i nostri figli, che ieri ci sfilavano dinanzi splendidi e superbi, guardateli, li hanno vinti, non cantano più, non parlano, chinano a terra quelle care e altiere fronti giovanili che noi baciammo quando partirono, pensano e soffrono, e non vorrebbero più tornare fra noi; oh no! tornate; siete sempre nostri; noi vi stringeremo al cuore collo stesso affetto di prima; sollevate la fronte, la vittoria non è sempre dei valorosi, coraggio, guardateci no, non vogliono, fanno cenno di no, continuano a camminare in silenzio, piangono. Oh è duro, è desolante, è uno spettacolo che strazia l’anima.
* * *
Per me è un tristo argomento di pensiero il maresciallo Mac-Mahon. La Fortuna ha veramente infami giuochi, come dice il Prati. Io m’immagino il ritorno del duca di Magenta a Parigi dopo la guerra del 1870, e lo confronto in cuor mio col ritorno ch’egli vi fece undici anni or sono dopo la guerra d’Italia. Tutto il corpo di spedizione sfilò sotto gli occhi dell’Imperatore; tutta Parigi era affollata, per la lunghezza di tre o quattro miglia, dalle due parti della strada dove i soldati dovevano passare; i corpi d’armata entrarono nella città ordinati e disposti, reggimento per reggimento, battaglione per battaglione, nello stesso modo che in guerra; ogni maresciallo precedeva il suo corpo. L’entusiasmo toccava il delirio; non si applaudiva, si mandavano grida di gioia inarticolate, come i ragazzi; si piangeva. Passò il Baraguay-d’Hilliers, col suo braccio monco, canuto e venerabile, e fu salutato con uno scoppio di evviva fragorosi. Passò il Canrobert, giovane, bello, colla sua lunga chioma ondeggiante, con quella sua aria di generale della repubblica, popolare e simpatico, e fu accolto anch’egli con vivissima espansione di entusiasmo. Passò il Niel, passarono parecchi altri generali di divisione e di brigata illustri e valorosi, e su questi, come sugli altri, fu versata una pioggia di fiori e di saluti. Ma quando comparve il maresciallo Mac-Mahon, l’antico soldato di Crimea, il valoroso espugnatore di Monte Fontana, l’ardito vincitore di Magenta, il caro e terribile Mac-Mahon, lodato e benedetto per tanto tempo da lontano, da tanto tempo aspettato e invocato, il più glorioso figliuolo della Francia, come lo chiamavano, il braccio destro dell’Imperatore, l’idolo dei soldati, il primo campione dell’esercito d’Italia, allora da quell’immensa folla agitata proruppe un grido di gioia sovrumana; gli si strinsero intorno al cavallo, lo fermarono, lo afferrarono pei grandi stivali, pel fodero della sciabola, per la tunica, e lo tennero lì fermo per guardarlo negli occhi, per gridargli ch’era un valoroso, per dirgli che lo amavano, per fargli intendere coi gesti ch’egli era l’orgoglio della Francia; e intanto venivan giù dalle finestre mazzetti di fiori, ghirlande, corone d’alloro, tanto che n’era coperto lui e il cavallo e la strada; le signore sventolavano i fazzoletti dalle finestre; la folla, ondeggiando e spingendosi innanzi, raddoppiava le grida e gli applausi. — Largo! gridavano i lontani, vogliamo vederlo anche noi! tutti abbiamo diritto di vederlo! — Ma i vicini non volevano cedere; sbalzati indietro, si attaccavano al cavallo. — È il cavallo di Magenta! — dicevano, e lo accarezzavano, e lo baciavano, e gli accomodavano i fiori nella criniera..... Mac-Mahon pianse.
Ed ora? Ora lacereranno il suo nome, diranno che ha tradito la Francia, che ha condotto i suoi soldati al macello, che è un dissennato o un inetto, che lo si doveva prevedere, che si fece male a dargli il comando d’un corpo d’armata, che bisognava aver capito da un pezzo che egli non era altro che un caporale ardimentoso, ma che cervello e dottrina di generale non l’aveva avuta mai; che altre teste vogliono essere i capitani d’eserciti in questi tempi, e che è un’indegnità che gli si lasci ancora la spada, e che lo si dovrebbe porre sotto consiglio di guerra per dare una giusta soddisfazione alla Francia; e fors’anco.... fin dove possa giungere ne abbiamo avuto un esempio in Italia.
Codesti sono veramente grandi e terribili dolori che soverchiano l’anima e spezzano i cuori di tempra più dura. E sarà poi tutto suo l’errore? chi lo può sapere? chi lo saprà? Una svista d’un istante, una notizia falsa, un assegnamento fallito, uno slancio sconsiderato di coraggio, un’illusione sfuggevole, un punto, un nulla può essere stato la cagione per cui s’attaccò la battaglia, e ne seguì il rovescio. E questo basta per precipitare la fortuna d’un uomo; basta per strappargli dal capo incanutito nelle armi la corona di alloro e buttargliela ai piedi; basta per togliergli la fiducia dell’esercito, a cui consacrò il suo sangue, i più begli anni della sua giovinezza, ogni sua più bella speranza; basta a contristargli per sempre la vita, che egli sperava di chiudere in una quiete serena, bella di mille splendidi ricordi, cinto d’affetti, coronato di gloria.
È una sentenza che spaventa.
Noi siamo più calmi e più giusti; in noi l’ira cittadina tace, e il dolore, a cui l’ingiustizia delle precipitate condanne si perdona, è men vivo; sia però generosa e prudente la nostra parola. Per noi Italiani, il nome del Mac-Mahon è nome d’amico: nome di antico fratello d’armi, nome che ci ricorda i più bei giorni e i più cari entusiasmi della nostra rivoluzione; nome che ispira affetto e chiede gratitudine; non lo dimentichiamo. Si può, in Italia, portar diverso giudizio del governo napoleonico, e nutrir quindi per esso un sentimento diverso; ma pei generali, pei soldati, per tutti coloro che hanno combattuto per noi, accanto a noi, sulla nostra terra, non è possibile che un sentimento solo; e l’averlo è dovere, e l’esprimerlo è atto gentile. Per noi il Mac-Mahon era venerabile e caro quanto il più vecchio e il più prode dei nostri soldati; paghiamogli dunque oggi il debito di gratitudine che a lui ci lega, paghiamoglielo rispettandolo e difendendolo dalle ire ignobili e dalle persecuzioni crudeli. Chi ha mente e cuore per comprendere le grandi sventure e per misurare i grandi dolori manderà da lungi un saluto riverente e affettuoso al vinto di Wörth, dicendogli dal più profondo dell’anima: — Maresciallo! gl’Italiani non sono ingrati; per noi, voi siete sempre il vincitore di Magenta. Noi non dimenticheremo mai che la corona del Re d’Italia brilla del riverbero della vostra spada.
* * *
14 agosto.
Il dire ora che l’esercito francese ha tutto cattivo: generali, stato maggiore, armi, tattica, disciplina, non basta, perchè codeste son cose che si possono mutare, e le muterà l’esperienza; bisogna dare un giudizio di natura irrevocabile, che costituisca durevolmente nell’opinione volgare l’inferiorità della Francia.
E questo giudizio v’è chi l’ha trovato e lo esprime: — «Il coraggio del soldato francese non basta più oramai a vincere le battaglie; è una natura di coraggio che poteva far buona prova ai tempi dei fucili a pietra focaia, non più ora coll’armi a tiro rapido, per le quali ci vuol calma, più che altro, ed occhio. Il coraggio francese, impetuoso e tumultuario, nelle battaglie d’oggi non è altro che una cagione di disordine; riduce il combattere ad una continua rincorsa, che indugia il successo, prostra le forze, duplica le perdite, e dà poca noia al nemico, o meglio non gli dà altro che noia. I Prussiani hanno il vero coraggio saldo e longanime che ora ci vuole; il coraggio pensato, avveduto, immobile, che veglia ed aspetta e si scatena a tempo opportuno.»
Molti la pensano in buona fede così; una corsa precipitosa, un urlo e un colpo di baionetta, ecco la vantata furia francese. Qualcuno arriva persino a soggiungere: — Non è serio.
Oh vedete! Bisogna convenire che c’è della grande serietà in Europa, perchè a porre il dito a occhi chiusi sulla carta geografica, nove volte su dieci si va a toccare un popolo che è in fama d’aver un coraggio poco su poco giù della maniera di quel dei Prussiani; e una o due volte appena, ci avviene di trovare un popolo famoso per quella specie di coraggio di corsa onde va lodata la Francia. Il soldato inglese è un soldato tenace, il russo tenace, l’austriaco tenace, il prussiano tenace, lo svizzero tenace, il danese tenace, cento altri tenaci; e di corridori, d’incauti, di pazzi si conta appena il francese, l’americano, e forse qualche altro di cui ci sarebbe a discutere. C’è quasi da sospettare che quel coraggio là sia più comodo, a vedere ch’è tanto più comune.
Ma si pigli pure l’argomento da un altro lato. Si scomponga nei suoi elementi codesto coraggio dell’avvenire: si troverà ch’essi sono, per esempio, la costanza, la fermezza, la fiducia profonda e salda nella forza propria, quella virtù indomata e selvaggia che vuole, e s’ostina, e s’infiamma nell’avversità, e si ritempra in sè stessa e risorge dalle cadute più fiera.
Ebbene, se la costanza si rivela in trent’anni di guerre gigantesche vinte a furia di lunghe marce forzate e a prezzo di fatiche e di stenti inauditi e incredibili; se la fermezza c’è campo di mostrarla sulle balze nevose e dirupate dei più alti monti della terra, e a traverso i deserti, le lande, le paludi, a lontananze sterminate dalla patria, circondati di nemici, senza rifugio, senza soccorso, senza pane; se la fiducia nella forza propria ci è modo di spiegarla provocando l’Europa, gettandosi in mezzo a cinque eserciti nemici, riannodandosi, sgominati e dispersi, al suono d’un grande nome e all’annunzio d’un grande disegno; se la virtù selvaggia che vuole e s’ostina c’è maniera di provarla rinnuovando dieci volte gli assalti disperati, morendo a mille a mille nelle marce disastrose senza alzare una protesta e senza proferire un lamento, e raggruppandosi e serrandosi in una piccola schiera, nei momenti supremi della sconfitta, per atterrire il nemico della sua vittoria e mostrare al mondo come si muore; se a tutte queste cose si può dare il nome di costanza, di fermezza, di fiducia, di virtù, più che d’impeto cieco e di foga istantanea, si giudichi se al soldato francese manca il coraggio dell’avvenire.
E poi, impeto! corsa! Ma, Dio mio! mentre si fa impeto e si corre, i nemici fanno i fuochi di fila e scaricano i cannoni; la mitraglia squarcia le colonne assalitrici e sparge il terreno di membra spezzate e di sangue; e bisogna non badarci, bisogna serrar le file e procedere, bisogna passar sui cadaveri e fissar gli occhi sui crani spaccati senza lasciarsi prendere dal terrore e dalla disperazione; bisogna aver la forza di sentire col cuor fermo le grida orrende degli amici e dei compagni che giacciono mutilati e sformati, e guardare in viso la morte e saper morire; e che a dar questa virtù sovrumana bastino l’immagine della patria, i colori della bandiera e il grido del colonnello. Questa è la furia dell’assalto francese, la furia che prese il Monte dei Cipressi, la chiesa di San Nicola, la torre di Solferino, le alture scoscese e formidabili di Pellegrino e di Folco; impeto! corsa! è un impeto che copre le chine di cadaveri, è una corsa di sangue che rimanda a casa i reggimenti decimati, e popola gli ospedali di braccia tronche e di gambe recise.
Il soldato francese ha anch’egli la sua ostinazione, l’ostinazione bella e spaventevole dell’ira; domandate agli Austriaci s’egli sa farsi trafiggere sui cannoni e intorno alle bandiere.
* * *
Era da prevedersi: la fama dei generali non basta più oramai a saziare la malignità di chi sospirava l’umiliazione della Francia; si dubita dei soldati. Oh! è un dubbio infame. I campi di Wörth e le alture di Wissemburgo sono seminate di cadaveri prussiani. Le colonne del principe reale e del principe Federico s’avanzano per una campagna allagata di sangue. I dispacci che annunziano la vittoria a Berlino hanno tutti una parola di dolore sulla tremenda grandezza dell’eccidio ch’esse costarono ad ambe le parti. E non si potrebbe, senza infinita viltà, dubitare del valore francese da noi, che li vedemmo morire al nostro fianco a migliaia, col nome d’Italia sulle labbra, noi che ieri soltanto impallidimmo di meraviglia e di terrore dinanzi a un monte di teschi francesi sull’altura della chiesa di Solferino.
Non volete che lo si ricordi? Vi pesa la gratitudine?
Noi dobbiamo amare e venerare l’esercito francese fuori d’ogni ragione politica, d’ogni interesse nazionale, d’ogni legame di gratitudine. L’esercito francese ha una gloria sua e una vita sua, che passò incontaminata e splendida a traverso i regni, le rivoluzioni e le repubbliche, in nome di cui combattè da ottant’anni. Il soldato francese fu prima di tutto e sopra tutto il soldato della rivoluzione e della libertà. Mutata la bandiera, non gli si è mutato il sangue; e il suo coraggio s’accende ancora alla fiamma antica. Sotto il bigio cappotto batte tuttavia il cuore che batteva sotto la giacchetta del giovinetto dalle lunghe chiome, che volava ai confini della Francia scalzo, lacero e superbo. Nel nuovo soldato arde ancora lo spirito che reggeva la lena di quel giovanetto quando trascinava i cannoni su pei dirupi delle Alpi. Le file dei nuovi soldati tien salda ancora quella forza che stringeva i quadrati insuperabili sulle sabbie d’Egitto. Nel petto del nuovo coscritto è viva ancora quella virtù tenace e magnanima che l’animava, estenuato e scarno, nella solitudine dei deserti di neve, in quella follia sublime della campagna di Russia. Noi amiamo codeste memorie, che l’esercito francese ci rappresenta, per il fecondo tumulto di affetti e di pensieri che ci suscitarono nell’anima; le amiamo come tutto quello che è grande e solenne per isventura e per gloria; amiamo codesto soldato perchè fu valoroso, indomabile, sventurato, devoto; lo amiamo in sè, per sè, fuori del suo popolo e del suo sovrano; amiamo quel grande berretto velloso, quell’antica tunica a coda, quelle grandi ghette, quelle due tracolle incrociate delle guardie imperiali, quei colori, quei segni, quei ricordi, quelle bandiere coi nomi di Friedland e d’Austerlitz, l’aura venerabile che muove da quelle file; amiamo quest’esercito, in fine perchè anche noi, come quel giovanetto dei Miserabili, leggendo a sera tarda le pagine immortali della sua grande epopea, abbiamo sentito nella solitudine della nostra cameretta il passo misurato e pesante dei battaglioni della guardia, il grido lontano dei reggimenti, l’eco dei cento cannoni radunati e schierati sotto l’occhio fulmineo del grande capitano, e a poco a poco il cuore ci si gonfiò, l’occhio ci si empì di lacrime, il sangue ci arse, e spalancate con furia convulsa le finestre abbiam lanciato un grido d’entusiasmo nel silenzio della notte: — Viva l’Imperatore!
* * *
— Da che parte tieni tu?
— Dalla Prussia.
— Perchè?
— Perchè mi urta i nervi la blague dei Francesi.
Sì, ritorniamo su quest’argomento; così è: tutto si perdona, anche a un nemico, fuorchè il menomo segno ch’egli ci dia di credersi qualcosa da più di noi. Ne siamo magari convinti, ce lo diciamo cento volte al giorno a noi stessi, daremmo gli occhi della fronte per poterci credere in diritto di alzar la testa e di camminare impettiti come lui; forse, in luogo suo, faremmo peggio, e lo diciamo noi stessi; ma non tolleriamo ch’egli mostri d’accorgersene e ci faccia capire che lo sa. In fondo, è un sentimento comune, ma meschino; basso poi e spregevole, quando si faccia cagione e alimento unico di avversione e d’inimicizia, reprimendo in noi tutti quei moti e combattendo tutte quelle tendenze che ci porterebbero più ragionevolmente alla simpatia e all’affetto.
E poi, si noti, i Francesi hanno della blague non perchè sono uomini come tutti gli altri che fecero qualcosa da cui sia lecito trarre in qualche modo codesto diritto; ma perchè sono Francesi. Che la blague sia fondata o no su qualche cosa di vero e di sodo non si cerca; quel che preme si è che la modestia sia rispettata; noi siamo i paladini della modestia. Ma badiamo di non ingannarci. Badino i più furenti a non iscambiare il legittimo e fiero orgoglio nazionale a cui la blague d’ogni straniero riesce molesta ingiuriosa, col dispettìno e la stizzuccia che desta nelle anime piccole una superiorità incontrastata. Sentimenti molto diversi che vestono non di rado una forma.
La blague è il belletto della forza e della gloria, sempre e per tutto.
Io vorrei mettere l’Italia in luogo della Francia e che ogni Francese pigliasse un Italiano e gli dicesse, come a loro si dice, se non colle parole, col fatto: «Tu sei un uomo di spirito: io faccio tesoro di tutti i tuoi bons mots, e quando voglio dire un’arguzia la rubo a te o calco la mia sul disegno della tua. Le più belle commedie sono le tue, i più bei romanzi sono i tuoi, le vetrine dei miei librai sono tutte piene dei tuoi libri; io sono vestito da capo a piedi dei panni che mi fai tu, e mia moglie e mia figlia si vestono come piace a te; tu se’ il legislatore del buon gusto, della moda, d’ogni cosa; quando la tua città capitale starnuta, come dice Vittor Hugo, la mia le fa eco; quando dà in una risata, la mia, per entrarle in grazia, fa le viste di crepar dalle risa; i miei ministri fanno tutto quel che ti frulla pel capo; i tuoi soldati sono i primi soldati del mondo; tutte le tue cose sono belle e grandi: noi ti rubiamo tutto: lo stile, le insegne delle botteghe, i giornali, l’accento, la lingua, i balli, i proverbi, i giuochi e le lorettes.»
Vorrei vedere la faccia di un Italiano a cui si tenesse questo discorso.
Ma noi Italiani, prima del 1866, non credevamo forse l’Italia il prototipo della civiltà, l’avanguardia d’un’età nuova, il faro del mondo civilito ed incivilito? Non si usciva forse dai ginnasi e dai licei col profondo convincimento che in fatto di lettere, di scienza, d’arti, di armi, di coraggio, di ogni cosa ci lasciassimo addietro l’Europa? Ognuno di noi non era sinceramente persuaso e sicuro che ogni singolo Italiano dovesse infilzare con ogni colpo di baionetta una mezza dozzina di Croati? Gli Austriaci? Li abbiamo sconfitti a Goito. I Francesi? Li abbiamo battuti a Roma. I Russi? Li abbiamo vinti in Crimea. Gli Svizzeri? Li abbiamo sgominati a Castelfidardo. Il mondo intero? L’abbiamo dominato da Roma; Cesare e Bruto sono i nostri padri; in noi scorre il sangue dei vincitori del mondo; il nostro keppì è l’elmo di Scipio, e chi sa che un giorno non si ritorni a dettar legge da un capo all’altro del mondo!
E adesso non abbiamo ancora una folla di professorucoli di letteratura italiana che non sanno fare un discorso per distribuzione di premi senza levar l’Italia ai sette cieli e dir corna della Francia e del mondo?
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Il soldato francese sente e comprende le cause nobili e giuste. Chi non ricorda il linguaggio ardito, affettuoso e gentile che ci parlavano nel cinquantanove, tutti, dal vecchio sergente della guardia all’imberbe coscritto del reggimento di fanteria? L’Italia! la libertà! Oh non c’era mica bisogno di spiegarglielo il perchè li avevano mandati a combattere con noi, non c’era nemmeno bisogno ch’essi ci dicessero che lo sapevano: bastava guardarli negli occhi. Venivano come ad un convegno di antichi amici, e ci ringraziavano d’averli chiamati. Entrando in Torino sotto una pioggia di fiori, fra due ali di popolo che stendeva le braccia per strapparli dalle file e serrarseli nel petto, in mezzo a due schiere di carrozze piene di signori che li chiamavano colle grida e coi cenni per portarseli a casa a desinare: — On ne commence pas bien, dicevano con accento tra tenero ed allegro, on nous fait pleurer. — Appena usciti dalle loro caserme, domandavano ai popolani dove fossero le nostre: — I bersaglieri! Vogliamo vedere i bersaglieri! — E corsero incontro ai nostri soldati che già volavano verso di loro, e si abbracciarono. Essi sapevano poche parole d’italiano, ma si facevano intendere. Italie, Italie era il loro intercalare, il riempitivo dei loro discorsi, la loro parola d’ordine, e la dicevano colla voce commossa posandosi una mano sul petto, come si pronuncia il nome di una madre cara e sventurata. La sera essi passeggiavano a braccetto cogli operai, vecchi, donne e figliuoli insieme. Gli zuavi portavano i bambini; le manine bianche de ces petits Piémontais si appoggiavano sulle spalle atletiche di quei superbi soldati; e quando gli uni e gli altri si accomiatavano, vedevansi quelle tenere braccia infantili strette intorno a quei colli robusti e bruni, come ghirlande di fiori intorno a colonne di granito.
Noi gli abbiamo visti partire, gli abbiamo accompagnati alla stazione, abbiamo sentito battere il loro cuore sul nostro prima che andassero a presentarlo alle palle tedesche, abbiamo udito il loro ultimo grido affettuoso di «Viva l’Italia,» prima che andassero a gridare al nemico quello formidabile di «Viva la Francia;» e quando la loro voce non giungeva più fino a noi, vedevamo ancora agitarsi fuori delle finestre del convoglio le loro calotte rosse, le loro azzurre sciarpe, quei poveri fazzoletti turchini, che tanti di loro adoperarono poi invano per arrestare il sangue impetuoso nelle orrende ferite della mitraglia. Belli, prodi e generosi soldati!
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.... E oggi, come allora, noi v’auguriamo la vittoria. La lotta sarà terribile. Vi sorrida o no la fortuna, essa costerà molto sangue e molte lacrime alla Francia; di molte madri strazierà il cuore e accorcierà la vita; il lutto sarà lungo ed amaro, e la traccia delle sventure e dei dolori incancellabile. Ma, nè questo pensiero scemerà l’animo vostro, nè la immane forza nemica. Voi non difendete nè la dinastia, nè l’impero: difendete la Francia, la vostra bella ed amata Francia, le sue memorie, il suo genio, il suo nome, il suo onore, e in nome di questi affetti voi sapete morire.
Or bene; quando vi slancerete per l’ultima volta, decimati e scomposti, contro il nemico, passando sui cannoni e sui carri atterrati, per una via coperta di cadaveri e di sangue; già abbandonati da molti dei vostri generali, morti o mal vivi, al riflesso dei villaggi incendiati, in mezzo agli ultimi e più miserabili orrori della battaglia; se in quel momento supremo non bastasse più a spingervi innanzi il nome della patria, il canto della Marsigliese, la vostra lacera bandiera, i grandiosi fantasimi delle Piramidi, delle Alpi, della Vistola, di Marengo, della Beresina; se in quel momento, sentendovi mancare la lena, bastasse a farvi fare l’ultimo sforzo un lieve impulso di più, e se questo impulso ve lo sentiste nell’anima pensando che v’è un popolo che in quel punto vi manda un saluto d’affetto e di gratitudine dal più profondo dell’anima, e vi grida: — vincete! — e palpita per voi come se pugnassero al vostro fianco i suoi figli, ebbene, Francesi, la vostra terra è grande e generosa, voi avete sparso molto sangue per noi, voi siete nostri fratelli, voi avrete quel saluto e quel grido.
* * *
15 agosto.
Molti dicono: — Che i Francesi abbiano avuto la peggio da principio non mi dispiace; io gliel’avevo augurato; era bene che quello smodato orgoglio fosse un pochino fiaccato; ora basta così, sono soddisfatto, vincano pure, grido anch’io: Viva la Francia. —
Si lasci correre quel che c’è di stravagante e di pericoloso in codesto far le parti della vittoria come d’una torta sfogliata. Non è possibile gridar veramente col cuore: Viva la Francia! adesso, dopo aver desiderato ch’ella fosse condotta a questi estremi e corresse pericolo di una disfatta intera e irreparabile. Ma sia pur benedetto l’augurio, benchè tardo, e s’avveri.
Ora io domando a coloro che persistono nel primo desiderio, non per altra ragione che di quell’orgoglio odiatissimo, se non credono proprio che possa bastare a contentarli quello che accadde finora. La Francia provocò e fu vinta; volle invadere e fu invasa; gridava: A Berlino, e ora si stringe intorno alle fortificazioni di Parigi; confidava nell’onnipotenza del suo esercito, e ora chiama alle armi tutti i cittadini; credeva che i suoi nemici si dissipassero al suo soffio, e già parlava il linguaggio della vittoria, e ora dice ai suoi figli: Bisogna prepararsi a morire per salvare l’onore. E questo mutamento seguì in pochi giorni, in poche ore, può dirsi, e duramente, amaramente, a traverso d’una splendida illusione che le fece sentire intorno alla fronte l’alloro e le strappò un grido di trionfo, per ricacciarla subito nell’abbattimento e nel dolore, coronata di spine, muta ed intenta al crescente fragore dei nemici che credeva già sgominati e lontani.
Quando un popolo ha provato di questi disinganni e di queste angoscie, se proprio non gli si augurava altro che una lezione di modestia, se non lo si odia di odio cieco e selvaggio, si deve dire: Basta!
Temono forse costoro che una grande vittoria a Metz risusciti l’orgoglio mal domato dalle piccole sconfitte di Wissemburgo e di Wörth?
Ah! quando dalla parte che vince vi era il terribile dilemma: — essere o non essere; — quando dietro a quella parte v’era la grande città, il centro della vita d’un popolo, l’ultimo baluardo della sua libertà, l’ultimo ricetto della sua bandiera; quando tra le file della parte che vince, frammisti ai giovani soldati che amano la guerra e la gloria, vi sono i cittadini coi capelli grigi, gli operai, i genitori, che amano la vita pei figliuoli e la pace per il lavoro; quando si pensa alle ineffabili angosce che desterà l’incertezza, alla sterminata ecatombe che costerà la vittoria, al vuoto spaventevole che farà trista la pace, allo strascico interminabile che codesta guerra gigantesca lascierà di miserie, di malattie lunghe e penose, di legami d’affetto spezzati, di sogni di felicità svaniti, di orfani, di vedove, di vecchi parenti rimasti soli, di famiglie perpetuamente contristate dalla vista d’una cara persona mutilata e deforme; quando si pensa a questo non si teme che quell’orgoglio provocatore risorga, o se pur si teme, egli ci appare così povera cosa, in confronto del flagello con che fu punito, che in verità non ci si può fermare il pensiero.
* * *
.... Come quei quadri svariati, ove si vedono alla rinfusa paesaggi allegri e rupi nevose illuminate dalla luna, salotti signorili e campi di battaglia, donne, fanciulli e fiori, e in un cantuccio un uomo che dorme e sogna; così io veggo ora Parigi a traverso le novelle, i romanzi, le commedie, i quadri, le poesie, i giornali, che ce ne resero famigliari gli aspetti, i costumi, i tipi, le consuetudini più minute della vita di strada e di casa. Mi veggo vivo dinanzi agli occhi quello spettacolo grandioso; sento il rimescolamento suscitato in quell’aura tepida e molle di una vita di sfarzo e di piaceri, dall’improvvisa corrente infocata che porta dal campo di battaglia l’odore della polvere e lo strepito delle armi. A tratti a tratti l’elegante aspetto della splendida città imperiale si altera e si perde, o lascia apparire di sotto il profilo risentito e fiero della repubblica antica. Veggo un tratto di teatro tutto fitto di lumi; tendo l’orecchio se mi arrivasse un verso gentile del Musset o un motto arguto dell’autore di Dalila, e scoppiano le note terribili della Marsigliese. M’affaccio alla finestra per godere il brulichìo denso ed allegro di una grande strada di Parigi, e veggo una moltitudine compatta ed impetuosa che si allontana levando fiere grida di guerra e di morte. Sento una voce infantile e sonora, mi volto, mi veggo scintillare dinanzi due grandi occhi neri, mi ricordo del ritratto di Hugo, riconosco il caro e terribile gamin delle barricate, gli vado incontro; egli mi grida: — Armi! — e scompare. Guardo in un salottino lucente di seta e di specchi, una bella figura alta e flessibile, coi capelli sciolti, in atteggiamento stanco e voluttuoso; riconosco l’eroina dei romanzi, la protagonista dei proverbi, il primo fantasma acceso nei miei sogni giovanili dal Dumas e dal Sue; la chiamo, si volta, è mutata, è pallida, piange; il suo amante è alla guerra. Mi sento urtato per la via, mi volto, è l’impresario, il negoziante, il fattore, l’uomo panciuto del Kock, che schiaccia la gente nelle diligenze e arriva sempre a casa quando sua moglie ha finito; è lui, e me lo vedo vestito da guardia mobile, fiero e impettito, e mi grida colla sua grossa voce nasale: — Alla guerra! — Corro di caffè in caffè, cerco il mio tipo di giovanotto da romanzo, bello, elegante, ricco, generoso, innamorato, benedetto di tutti i doni di Dio, e lo incontro vestito da tiratore algerino, colla testa rasa, con due grosse scarpe, col viso già abbrunato dai primi soli del campo di Marte colle mani incallite dal fucile.... Parigi! bella e cara Parigi! ha pur detto bene quel grande che a viver lontani da te si sente sempre un po’ di vuoto nel cuore, ci pare sempre che qualche cosa ci manchi, si prova sempre qualche cosa che rassomiglia da lontano alla tristezza dell’esilio.
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16 agosto.
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Se le guerre non fossero per molti altri effetti deplorevoli, questo per sè solo basterebbe a farle ritenere una sventura: la sconfinata presunzione che si rivela nei giudizi e nella forma del linguaggio di tutti coloro che ne discorrono. È una cosa che non ha riscontro in nessun’altra occasione di avvenimento pubblico che sollevi delle discussioni; è la postergazione generale della modestia e del pudore; è un acciecamento completo. Si direbbe che l’aura della guerra entrandoci dentro ci tolga la facoltà di sentire rettamente di noi, e ingigantisca nella mente di ciascuno il concetto di tutte le doti e le facoltà naturali e acquisibili dell’anima sua. Improvvisamente, per virtù della guerra, si desta e si sviluppa nell’anima del bottegaio, dello scolare, del fattorino, dell’impiegato, di tutte le persone più aliene per istudi e per istituto di vita dalle cose militari, un amor proprio strategico, un amor proprio tattico, un amor proprio geografico, un amor proprio politico, un amor proprio storico, diecimila non mai provati amor propri, ombrosi, infiammabili, intolleranti, quali appena potrebbero essere scusati dalla coscienza d’un genio trascendentale e d’una dottrina meravigliosa.
La discussione non soffre confini; la parola è concitata e franca; il giudizio pronto, reciso e sicuro; tutte le parole, tutte le forme dubitative sbandite. Provatevi a dire: — Adagio, riflettiamo, aspettiamo, potremmo non avere inteso bene, ci potrebbe mancare ancora qualche elemento di giudizio, si potrebbe dare ancora qualche accidente che ci costringesse a modificare il nostro parere; si tratta di giudicare degli uomini che invecchiarono in codesti studi: quanto più si va innanzi negli anni e nell’esperienza vedete che più si indugiano i giudizi e se ne tempera la forma; tanto più dobbiamo indugiare e temperar noi; in queste cose l’inesattezza è ingiustizia, la precipitazione è colpa, la passione volgarità..... Vi ridono sul viso, si meravigliano di voi, vi dicono che gli fate pietà, che la cosa è evidente, che loro l’avevano preveduta, che non poteva seguire altrimenti, che basta un poco di buon senso ad intenderlo.
— Ma dite almeno che vi pare, che credete che sia così, che potreste ingannarvi.... — No, no, no, impossibile; l’ultimo monello di borgo San Frediano è fermamente e sinceramente convinto che s’egli fosse stato il Mac-Mahon avrebbe trovato modo di evitar la battaglia; che se avesse comandato la divisione del Douay non l’avrebbe sacrificata a quel modo; che se si trovasse lui sul campo di battaglia condurrebbe meglio il servizio degli avamposti francesi; che il Bazaine fa una bestialità ritirandosi; che Napoleone è una testa di legno; che la Francia è degenerata; che la razza latina ha bisogno del lume della sua mente e dello impulso della sua mano per rifarsi a nuovi destini....
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.... La maggior parte di coloro che parteggiano per la Prussia, interrogateli della cagione; vi diranno che è l’antipatia per la Francia. Ebbene; non invidiamo loro il sentimento di soddisfazione che dai trionfi prussiani ricavarono e forse ricaveranno; non sarà mai un sentimento che li appaghi, un sentimento di contentezza vera e nobile, in cui il loro cuore si quieti. La soddisfazione d’un trionfo che non deriva dall’affetto che si nutra per la parte che l’ottiene, non è più la soddisfazione del trionfo, ma quella della sconfitta, ed ha però sempre qualcosa di torbido e di amaro, perchè non è tutta generosa, nè tutta legittima. È una reazione, di cui l’anima non si compiace quanto d’un sentimento spontaneo e schietto, a suscitare il quale la vittoria per sè sola ed in sè sola basta, e la sconfitta non entra se non come fatto indispensabile o conseguenza necessaria. Quindi è che chi prova quella soddisfazione, non può far sì nell’esprimerla che l’espressione non ne tradisca l’origine e non abbia qualche volta delle forme dure. Siccome quel piacere non gli basta, fruga nella sconfitta a cercarvi nuovo alimento; le vuole assegnare delle cagioni che tornino a disdoro della parte che la toccò; vuol distruggere o attenuare quelle che la spiegherebbero nel modo meno umiliante; della superiorità del numero del vincitore tocca di volo; del valore dei soldati vinti tace; teme che alla parte avversa sia rimasto anche un po’ di baldanza e di fiducia, e gliene vuol negare il diritto; deve infine esercitare ed esprimere un sentimento non degno, nè a lui medesimo grato; un sentimento che non esprimeremmo mai noi, quando la fortuna sorridesse alla Francia, perchè il nostro desiderio non mira all’umiliazione d’un nemico odiato, ma alla gloria d’un amico antico ed amato, e in questa si circoscrive e si appaga....
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.... Per noi la Francia è un affetto di fonte antica, per molte e nuove cagioni cresciuto, radicato, gagliardo; e però ci sarà sempre un conforto, nè lo muterà la fortuna. Quest’affetto, dove la Francia soggiaccia, ci costerà assai più amarezza che non ne costerebbe la sua vittoria a chi oggi la vorrebbe veder nella polvere; ma perciò ci sarà più caro, come tutti gli affetti che il sacrifizio accompagna e a cui la costanza è natura. Eravamo gelosi dell’integrità della Francia come di terra nostra, e ci abbiamo veduto entrar lo straniero. Ci sentivamo compresi della gloria delle sue armi, e l’abbiamo vista oscurarsi. Amavamo i suoi valorosi soldati, e li abbiamo visti disperdere. Veneravamo i suoi vecchi generali, e li abbiamo sentiti vilipendere. Ci toccherà forse assistere all’ecatombe di codesto immortale esercito, forse veder Parigi stretta dai nemici ad una difesa disperata, forse rinnovare tra le sue mura le prepotenze e gli oltraggi dell’invasione straniera. Per noi che amiamo la Francia saranno dolori veri e profondi; e li dovremo divorare in silenzio, tra i sorrisi di coloro che affrettano oggi col desiderio tutte codeste sciagure.
Ma l’affetto che nutrivamo per la Francia gloriosa, possente e temuta, per il suo esercito prediletto dalla vittoria, per il suo popolo ardente d’entusiasmo e di fede, quell’affetto lo conserveremo vivo sempre ed immutabile per la Francia caduta, per la Francia sventurata, ferita nel cuore e coll’alloro di regina dei popoli inaridito sulla fronte sanguinosa; lo conserveremo per i suoi soldati sparsi nelle città e nelle campagne, intorno ai focolari domestici, a destare col racconto dei dolori patiti le lacrime materne e la pietà dei congiunti; lo conserveremo per il popolo francese scorato, oppresso, diradato dalle prime battaglie e dalle ultime resistenze della disperazione. Allora sì che il sentimento della gratitudine ci si farà profondo nel cuore, e diventerà un culto. Allora ci stringeremo con più caldo entusiasmo a quella Francia che non cade mai, alla Francia che palpita nelle pagine dei suoi grandi scrittori e dei suoi grandi poeti, ed in loro onoreremo il suo nome e risaluteremo la sua gloria. E basterà a confortarci la coscienza di avere amato e onorato quel grande popolo, amatolo vincitore, onoratolo vinto, senza ipocrisia, senza interesse, col cuore di fratelli, sempre.
RICORDI DI ROMA.
L’ENTRATA DELL’ESERCITO IN ROMA.
Lettere.
I.
Roma, 21 settembre 1870.
Le cose che ho da dire sono tante e tali che mi sarà impossibile scriverle con ordine e chiaramente. È già gran cosa aver la voglia di scrivere, mentre per le vie di Roma risuonano ancora le grida del primo entusiasmo e della prima gioia. Tutto quello che ho veduto ieri mi sembra ancora un sogno; sono ancora stanco della commozione; non sono ancora ben certo di essere veramente qui, di aver visto quello che vidi, di aver sentito quello che sentii.
Vi dirò subito che l’accoglienza fatta da Roma all’esercito italiano è stata degna di Roma; degna della capitale d’Italia; degna di una grande città sovranamente patriottica. Tutto ha superato non solo l’aspettazione, ma l’immaginazione. Bisogna aver veduto per credere. Dubiterete della mia sincerità, lo prevedo; nè debbo spender parole per prevenirvi, perchè è troppo naturale; capisco che non posso aspirare ad esser creduto. Eppure sento che non vi darò che una pallida immagine della realtà! Son cose che non si possono scrivere.
Ieri mattina alle quattro fummo svegliati a Monterotondo, io e i miei compagni, dal lontano rimbombo del cannone. Partimmo subito. Appena fummo in vista della città, a cinque o sei miglia, argomentammo dai nuvoli del fumo che le operazioni militari erano state dirette su varii punti. Così era infatti. Il 4º corpo d’esercito operava contro la parte di cinta compresa tra porta San Lorenzo e porta Salara; la divisione Angioletti contro porta San Giovanni; la divisione Bixio contro porta San Pancrazio. Il generale Mazè de la Roche, colla 12ª divisione del 4º corpo, doveva impadronirsi di porta Pia.
A misura che ci avviciniamo (a piedi, s’intende) vediamo tutte le terrazze delle ville piene di gente che guarda. Presso la villa Casalini incontriamo i sei battaglioni bersaglieri della riserva che stanno aspettando l’ordine di avanzarsi contro porta Pia. Nessun corpo di fanteria aveva ancora assalito. L’artiglieria stava ancora bersagliando le porte e le mura per aprire le breccie. Non ricordo bene che ora fosse quando ci fu annunziato che una larga breccia era stata aperta vicino a porta Pia, e che i cannoni dei pontificii appostati a quella porta erano stati smontati. Si parlava di qualcuno dei nostri artiglieri ferito. Ne interrogammo parecchi che tornavano dai siti avanzati, e tutti ci dissero che i pontificii davano saggio d’una meravigliosa imperizia nel tiro, che i varchi già erano aperti, che l’assalto della fanteria era imminente. Salimmo sulla terrazza d’una villa e vedemmo distintamente le mura sfracellate e la porta Pia malconcia. Tutti i poderi vicini alle mura brulicavano di soldati. In mezzo agli alberi dei giardini si vedevano lunghe colonne di artiglieria. Ufficiali di stato maggiore e staffette correvano di carriera in tutte le direzioni.
È impossibile ch’io vi dia notizie particolari di quello che fecero le altre divisioni. Vi dirò della divisione Mazè de la Roche, che è quella ch’io seguii.
La strada che conduce a porta Pia è fiancheggiata ai due lati dal muro di cinta dei poderi. Ci avanzammo verso la porta. La strada è dritta e la porta si vedeva benissimo a una grande lontananza; si vedevano i materassi legati al muro dai pontificii, e già per metà arsi dai nostri fuochi; si vedevano le colonne della porta, le statue, i sacchi di terra ammonticchiati sulla barricata costrutta dinanzi; tutto si vedeva distintamente. Il fuoco dei cannoni pontificii, da quella parte, era già cessato, ma i soldati si preparavano a difendersi dai muri. A 300 o 400 metri dalla barricata due grossi pezzi della nostra artiglieria traevano contro la porta e il muro. Il contegno di quegli artiglieri era ammirabile. Non si può dire con che tranquilla disinvoltura facessero le loro manovre, a così breve distanza dal nemico. Gli ufficiali erano tutti presenti. Il generale Mazè, col suo stato maggiore, stava dietro i due cannoni. Ad ogni colpo si vedeva un pezzo del muro della porta staccarsi e rovinare. Alcune granate, lanciate, parve, da un’altra porta, passarono non molto al disopra dello stato maggiore. Gli zuavi tiravano fittissimo dalle mura del Castro Pretorio, e uno dei nostri reggimenti ne pativa qualche danno.
Quando la porta Pia fu affatto libera, e la breccia vicina aperta sino a terra, due colonne di fanteria furono lanciate all’assalto. Non vi posso dar particolari. Ho visto passare il 40º a passo di carica. L’ho visto, presso alla porta, gettarsi a terra per aspettare il momento opportuno ad entrare. Ho sentito un fuoco di moschetteria assai vivo; poi un lungo grido Savoia! poi uno strepito confuso; poi una voce lontana che gridava: Sono entrati! — Allora giunsero a passi concitati i sei battaglioni bersaglieri della riserva; giunsero altre batterie di artiglieria; s’avanzarono altri reggimenti; vennero oltre, in mezzo alle colonne, le lettighe pei feriti. Corsi cogli altri verso la porta. I soldati erano tutti accalcati intorno alla barricata; non si sentiva più rumore di colpi; lo colonne a mano a mano entravano. Da una parte della strada si prestavano i primi soccorsi a due ufficiali di fanteria feriti; gli altri erano stati portati via. Ci fu detto che era morto valorosamente sulla breccia il maggiore dei bersaglieri Pagliari, comandante il 35º. Vedemmo parecchi ufficiali dei bersaglieri colle mani fasciate. Sapemmo che il generale Angelino s’era slanciato innanzi dei primi colla sciabola nel pugno come un soldato. Da tutte le parti accorrevano emigrati gridando. Tutti si arrestavano un istante, a guardare il sangue sparso qua e là, per la strada: sospiravano, e via.
La porta Pia era tutta sfracellata, la sola immagine enorme della Madonna che le sorge dietro era rimasta intatta, le statue a destra e a sinistra non avevano più testa, il suolo intorno era sparso di mucchi di terra, di materassi fumanti, di berretti di zuavi, d’armi, di travi, di sassi.
Per la breccia vicina entravano rapidamente i nostri reggimenti.
In quel momento uscì da porta Pia tutto il corpo diplomatico in grande uniforme, e mosse verso il quartier generale.
Entrammo in città. Le prime strade erano già piene di soldati. È impossibile esprimere la commozione che provammo in quel momento; vedevamo tutto in confuso, come dietro una nebbia. Alcune case arse la mattina fumavano, parecchi zuavi prigionieri passavano in mezzo alle file dei nostri, il popolo romano ci correva incontro. Salutammo, passando, il colonnello dei bersaglieri Pinelli; il popolo gli si serrò intorno gridando. A misura che procediamo nuove carrozze, con entro ministri ed altri personaggi di Stato, sopraggiungono. Il popolo ingrossa. Giungiamo in piazza di Termini; è piena di zuavi e di soldati indigeni che aspettano l’ordine di ritirarsi. Giungiamo in piazza del Quirinale. Arrivano di corsa i nostri reggimenti, i bersaglieri, la cavalleria. Le case si coprono di bandiere. Il popolo si getta fra i soldati gridando e plaudendo. Passano drappelli di cittadini colle armi tolte agli zuavi. Giungono i prigionieri pontificii. I sei battaglioni bersaglieri della riserva, preceduti dalla folla, si dirigono rapidamente, al suono della fanfara, in piazza Colonna. Da tutte le finestre sporgono bandiere, s’agitano fazzoletti banchi, s’odono grida ed applausi. Il popolo accompagna col canto la musica delle fanfare. Sui terrazzini si vedono gli stemmi di Casa Savoia. Si entra in piazza Colonna: un grido di meraviglia s’alza dalle file. La moltitudine si versa nella piazza da tutte le parti, centinaia di bandiere sventolano, l’entusiasmo è al colmo. Non v’è parola umana che valga ad esprimerlo. I soldati sono commossi fino a piangerne. Non vedo altro, non reggo alla piena di tanta gioia, mi spingo fuori della folla, incontro operai, donne del popolo, vecchi, ragazzi: tutti hanno la coccarda tricolore, tutti accorrono gridando: — I nostri soldati! — I nostri fratelli!
È commovente; è l’affetto compresso da tanti anni che prorompe tutto in un punto ora; è il grido della libertà di Roma che si sprigiona da centomila petti; è il primo giorno d’una nuova vita; è sublime.
E altre grida da lontano: — I nostri fratelli!
* * *
Il Campidoglio è ancora occupato dagli squadriglieri e dagli zuavi.
Una folla di popolo accorsa per invaderlo è stata ricevuta a fucilate. Parecchi feriti furono ricoverati nelle case; fra gli altri un giovanetto che marciò quindici giorni coi soldati. Il popolo è furente. Si corre a chiamare i bersaglieri. Due battaglioni arrivano sulla piazza, ai piedi della scala. I pontificii, al primo vederli, cessano di tirare; ma restano in atto di resistere.
Una specie di barricata di materassi è stata costrutta a traverso il Campidoglio. L’assalirla di viva forza potrebbe costar molte vittime; s’indugia, forse gli zuavi s’arrenderanno, si dice che hanno paura dell’ira popolare. Tutte le strade che circondano il Campidoglio sono piene di gente armata che sventola bandiere tricolori e canta inni patriottici. Intanto ai bersaglieri che attendono sulla piazza vengono recati in gran copia vini, liquori, sigari, biscotti. La moltitudine va crescendo, cresce lo strepito. Qualcuno, forse un parlamentario, è salito sul Campidoglio. Parecchi ufficiali lo seguono. La folla, dal basso, guarda con grande ansietà. Ad un tratto cadono i materassi della barricata e appaiono le uniformi dei nostri ufficiali che agitano la sciabola e chiamano il popolo gridando: — Il Campidoglio è libero. — La moltitudine getta un altissimo grido e si slancia con grande impeto su per la scala gigantesca; passa fra le due enormi statue di Castore e Polluce; circonda il cavallo di Marc’Aurelio; invade i corpi di guardia degli zuavi e rovescia, spezza e disperde tutto quanto vi trova di soldatesco. In pochi minuti tutto il Campidoglio è imbandierato. Il cavallo dell’imperatore romano è carico di popolani; l’imperatore tiene fra le mani una bandiera tricolore. Un reggimento di fanteria occupa la piazza. È accolto con grida di entusiasmo. La banda suona la marcia reale, migliaia di voci l’accompagnano. All’improvviso tutte le faccie si alzano verso la torre. Il popolo e i soldati ne hanno sfondata la porta, son saliti sulla cima, hanno imbandierato il parapetto. Un pompiere sale per mezzo d’una scala sulle spalle della statua e lega una bandiera alla croce. Un fragoroso applauso e lunghissime grida risuonano nella piazza. La grande campana del Campidoglio fa sentire i suoi solenni rintocchi. Da tutte le parti di Roma il popolo accorre entusiasticamente. Gli ufficiali che si trovano sul Campidoglio sono circondati e salutati con incredibile affetto. Si grida: — Viva Vittorio Emanuele in Campidoglio! — Le donne si mettono le coccarde tricolori sul seno. Da tutte le finestre dei vicini palazzi si agitano le mani e si sventolano i fazzoletti. Molti piangono. Il movimento della folla è vertiginoso; il rumore delle grida copre il suono della grande campana.
I conventi vicini, dove si crede che siansi rifugiati gli zuavi e gli squadriglieri, sono circondati dai bersaglieri e dalla fanteria.
* * *
Si ritorna in fretta verso il Corso. Tutte le strade sono percorse da grandi turbe di popolo con bandiere tricolori. I soldati pontificii che s’avventurano imprudentemente a passare per la città a due, a tre o soli, sono circondati, disarmati e inseguiti. Giungiamo in piazza Colonna. In mezzo alla piazza vi sono circa 300 zuavi disarmati, seduti sugli zaini, col capo basso, abbattuti e tristi. Intorno stanno schierati tre battaglioni bersaglieri. Il colonnello Pinelli e molti ufficiali guardano dalla loggia dello stupendo palazzo che chiude il lato destro della piazza. Popolani, signori, signore, donne del popolo, vecchi, bambini, tutti fregiati di coccarde tricolori, si stringono intorno ai soldati, li pigliano per la mano, li abbracciano, li festeggiano.
Nel Corso non possono più passare le carrozze. I caffè di piazza Colonna sono tutti stipati di gente; ad ogni tavolino si vedono signore, cittadini e bersaglieri alla rinfusa. Una parte dei bersaglieri accompagna via gli zuavi in mezzo ai fischi del popolo; tutti gli altri sono lasciati in libertà. Allora il popolo si precipita in mezzo alle loro file. Ogni cittadino ne vuole uno, se lo piglia a braccetto e lo conduce a desinare. Molti si lamentano che non ce n’è abbastanza, famiglie intere li circondano, se li disputano, li tirano di qua e di là, avvicendando clamorosamente le preghiere e le istanze. I soldati prendono in collo i bambini vestiti da guardie nazionali. Le signore domandano in regalo le penne.
Numerosissime frotte di cittadini continuano a passare l’una dopo l’altra pel Corso con grandi bandiere; alcuni drappelli ne hanno quattro, sei, dieci; alcune bandiere sono alte più del primo piano delle case e vengono portate da due o tre persone. Tutta codesta gente trae con sè soldati di fanteria e bersaglieri. Le canzoni popolari dei nostri reggimenti sono già diventate comuni: tutti cantano. Passano carrozze piene di cittadini che agitano in alto il cappello; i soldati rispondono alzando il keppì; le braccia si tendono dall’una parte e dall’altra, e le mani si stringono. Passano signore vestite dei tre colori della bandiera nazionale. Tutti gli ufficiali che passano in carrozza, a piedi, a gruppi, soli, sono salutati con alte grida. Si festeggiano i medici, i soldati del treno, gli ufficiali dell’intendenza. Passano i generali e tutte le teste si scoprono — Viva gli ufficiali italiani! — è il grido che risuona da un capo all’altro del Corso. In piazza San Carlo un drappello di carabinieri reali è ricevuto con indicibile festa. Da tutte le strade laterali al Corso continuamente affluisce popolo. Non v’è più gruppo di cittadini che non abbia con sè un soldato. Li osservano da capo a piedi, gli tolgono di mano le armi, gli parlano tenendogli le mani sulle spalle, stringendogli le braccia, guardandoli negli occhi cogli occhi scintillanti di gioia. — Viva i nostri liberatori! — si grida. Davanti al caffè di Roma alcuni signorini gettano le braccia al collo di due robusti artiglieri e li coprono di baci disperati. A quella vista tutti gli altri intorno fanno lo stesso; cercano correndo altri soldati, li abbracciano, li soffocano a furia di baci. — Viva il nostro esercito nazionale! — gridano cento e cento voci insieme. — Viva i soldati italiani! — Viva il nostro re! — Viva la libertà! — E i soldati rispondono: — Viva Roma! Viva la capitale d’Italia! — In molti, specialmente nei giovani, l’entusiasmo sembra delirio; non hanno più voce per gridare, si agitano, pestano i piedi, accennano le bandiere e gli stemmi reali e fanno atto di benedire, di ringraziare, di stringersi qualche cosa sul cuore.
Io, ve lo giuro, non ho mai visto uno spettacolo simile; è impossibile immaginare nulla di più solenne e di più meraviglioso. Queste grandi piazze, queste fontane enormi, questi giganteschi monumenti, queste rovine, queste memorie, questo terreno, questo nome di Roma, i bersaglieri, le bandiere tricolori, i prigionieri, il popolo, le grida, le musiche, quella secolare maestà, questa nuova gioia, questo ravvicinamento che ci fa la memoria di tempi, di casi, di trionfi antichissimi e nuovi, tutto quest’insieme è qualche cosa che affascina, che percuote qui, in mezzo alla fronte, e pare che faccia vacillare la ragione; si direbbe che è un sogno; non si può quasi credere agli occhi; è una felicità che soverchia le forze del cuore. Roma! si esclama. — Siamo a Roma? Quando ci siam venuti? Come? Che è accaduto? — Il ricordo di quello che è accaduto è già confuso come se fosse d’un tempo remoto. È un’emozione che opprime. Ad ogni strada, ad ogni piazza in cui s’entri, l’occhio gira intorno meravigliato, e il sangue dà un tuffo. Avanti, di meraviglia in meraviglia, di palpito in palpito, a misura che si procede, la fronte si solleva, il cuore si dilata, e sente più gagliardamente la vita. Ecco la piazza del Popolo. Si corre all’obelisco, ci si volta indietro, si vedono davanti le tre grandi strade di Roma, si vede a sinistra il Pincio delizioso, laggiù in fondo la cima del Campidoglio, tutt’intorno prodigiose bellezze di natura e d’arte, antiche, nuove, auguste, gaie, gigantesche, gentili; la mente sopraffatta si turba, ci prende un tremito, e bisogna sedersi ai piedi dell’obelisco, pigliarsi la testa fra le mani e aspettare che la lena ritorni.
Intanto imbrunisce. Il Corso s’è illuminato come per incanto. Il Corso, illuminato, ha veramente un aspetto fantastico. Candellieri, doppieri, lumi d’ogni forma e d’ogni grandezza risplendono sulle ringhiere dei terrazzini e sui davanzali delle finestre. A percorrere la strada in carrozza non si vede più terra: è tutto un mare di teste, a cui la strada non basta, e che straripa nei caffè, nelle piazze, nelle botteghe, negli atrii, nei vicoli. Codesta immensa folla è rischiarata da migliaia di fiaccole. Drappelli di signore a due a due passano tenendo in mano dei cerini accesi, che fanno vedere il loro seno coperto di coccarde, di sciarpe, di nastri tricolori. Sulla superficie di codesto mare di gente nuotano, sbattuti di qua e di là, cappelli di bersaglieri, keppì, berretti, canne di fucile a centinaia. Le signore gettano giù dalle finestre fiori e confetti ai gruppi dei soldati che tendono le mani. Da un capo all’altro della lunghissima strada, a ogni passo si sentono dieci voci che cantano insieme. I soldati non sono più condotti, sono travolti. I cittadini, non più paghi di tenerli a braccetto, camminano tenendogli un braccio intorno al collo. Passano donne con un pennacchio di bersagliere nelle treccie. Famiglie ferme sui marciapiedi arrestano i soldati per mettere nelle loro braccia i bambini. Il gridìo nel Corso è oramai giunto a segno che chi è stanco dalle fatiche della mattina non vi può più reggere.
Salgo in una carrozza, e chieggo d’essere condotto al Colosseo. Attraverso la stupenda piazza della Colonna Traiana, piena di gente anch’essa e illuminata; passo per parecchie piccole strade; dappertutto lumi. Guardo nei caffè, nelle osterie: dappertutto soldati e popolani insieme, dappertutto grida di viva Roma e viva il nostro esercito, dappertutto canti, amplessi, grida di gioia, bandiere. Eccoci nel Campo Vaccino. È notte fitta, e il classico lume di luna sul Colosseo non risplende ancora. Non importa; il cielo è stellato, e vedrò del sublime monumento almeno i contorni. Da tanti anni ardevo di vederlo! Il cuore mi batte a precipizio. Ormai sono in un luogo deserto, non sento più una voce, non un passo; tutto è queto ed oscuro. Eccoci, mi dice il cocchiere. Io balzo in piedi, guardo, travedo un’immensa macchia nera sul cielo, e tanto è l’impeto e la dolcezza con cui i ricordi e le immagini della memoranda giornata mi assalgono tutti in un punto, che non s’arresta il mio sguardo sui meravigliosi contorni, nè ivi si può arrestare il pensiero. Sguardo e pensiero si levano più in alto, e dal profondo del cuore, col più ardente palpito che potrà mai destare in me l’amor di patria, sciolgo un ringraziamento a quella Giustizia nel cui nome l’Italia gridò al mondo: — Voglio la libertà — e giurò di conseguirla; nel cui nome aspettò per tanti anni, confidò, sperò, sofferse, sorse, bagnò del sangue dei suoi figli tutti i suoi monti e tutti i suoi fiumi, cacciò lo straniero, si compose a nuova vita; nel cui nome è entrata oggi in Roma e ha inalberato sulla torre del Campidoglio la sua bandiera gloriosa, benedetta ed amata.
II.
Roma, 26 settembre.
Senz’aver veduto Roma è impossibile formarsi una giusta idea dell’effetto che può fare. E di Roma come di Venezia: la prima cosa che si fa, appena entrati, è di dimandarsi se si sogna o se si è desti. Sembra una città guardata a traverso d’una lente che ne ingigantisca i contorni. Si direbbe che le case, le piazze, le chiese, le fontane, le scale, le colonne, tutti i monumenti di Roma sono stati fatti da una razza d’uomini fisicamente il doppio di noi. Noi ci sentiamo piccoli, passando per queste piazze e per queste vie; ci pare d’esserci rifatti bambini; l’uomo diventa formica, come dice Victor Hugo. Per guardare il sommo degli edifici e delle colonne bisogna torcersi il collo; per vedere il fondo alle piazze ci vuole il cannocchiale; per muoversi, la carrozza; per non perdere la bussola, un volume di cinquecento pagine sotto il braccio; per non lasciarsi soverchiare dalla commozione, almeno un paio di case a Firenze che diano la rendita di cinquantamila lire. È una città che stordisce; ecco la vera parola. Non mi ricordo chi sia quell’illustre straniero che, entrando in Roma per porta del Popolo, fu sorpreso e commosso a tal segno dallo spettacolo della piazza, del Pincio, delle tre grandi strade, delle chiese, degli obelischi, di tutte le meraviglie che s’abbracciano da quella porta con uno sguardo solo, che fu costretto ad appoggiarsi sul braccio del suo vicino. Tale è veramente l’effetto che fa Roma in quel punto. Il primo bisogno che si sente è di aver accanto qualcuno da stringergli il braccio e lasciargli il livido. Se non ci fosse gente intorno, si manderebbe un grido.
* * *
Io vidi una bellissima scena. I nostri soldati entrarono in Roma per porta Pia e andarono difilato sino a Montecitorio. Fosse caso o disegno, non lo so; ma per far quel cammino passarono dinanzi ai più stupendi monumenti di Roma.
Non mi ricordo il primo entrato che reggimento fosse. Giunge in piazza di Termini, dove c’è una fontana bellissima. Per chi non ha mai visto Roma, le sue fontane, così gigantesche e fantastiche, sono una delle più profonde sorprese. I soldati si voltano, guardano e prorompono in un lungo oh! che si propaga di compagnia in compagnia, di battaglione in battaglione, man mano che giungono nella piazza. Chi rallenta il passo, chi si ferma, chi vorrebbe avvicinarsi. — Animo, animo, — dicono gli ufficiali, — ci sono altre cose più belle da vedere. — I Romani ridono al vedere i soldati tanto sorpresi di sì piccola cosa. — Vedrete ben altro, — dicono, — questo non è niente; andate, andate, vedrete ben altro. — I soldati vanno innanzi voltandosi indietro ad ogni passo e discorrendo forte tra loro.
Il reggimento giunge in piazza del Quirinale. Lo spettacolo è meraviglioso. A destra un palazzo gigantesco; in mezzo alla piazza una fontana due volte più grande, più bella, più stupenda della prima; statue, vasca, getto d’acqua, tutto colossale. Si vede in lontananza la cupola di San Pietro, una gran parte di Roma, monte Mario, il Tevere, la campagna, un panorama grandioso e imponente. I soldati rimangono attoniti, senza profferir parola, senza neanco accorgersi delle grida e degli applausi che li accompagnano; guardano colla bocca aperta e gli occhi spalancati, come se si fossero affacciati a un mondo nuovo; il silenzio dura per qualche momento; il popolo tace anch’esso come per non turbare la dolcezza di quella contemplazione. A un tratto sorge tra le file una voce altissima: — Viva Roma! — Tutto il reggimento risponde: Viva Roma! — Andate, andate, — dicono di nuovo i Romani, questo non è niente, ben altro vi resta da vedere. — Il reggimento continua la sua strada.
Ecco la piazza di Trevi, la fontana di Trevi. Che cos’è questo? Com’è qui quella roccia? Di dove scende quel fiume? Chi è quel gigante? I soldati prorompono insieme in un grido di meraviglia e di gioia, tendono le braccia, si affollano, si stringono, par che si vogliano gettare nella fontana. — Viva Roma! — gridano; — Viva l’esercito! — rispondono i Romani, e di nuovo: — Avanti, vedrete, vedrete. — Ma che si può vedere ancora di più bello? La fontana di Trevi è veramente prodigiosa, non par vera, pare una cosa sognata, una cosa da giardino fatato, letta nelle Mille e una notte. — Ah! non ce la volevano dare Roma? — esclama un ufficiale; eh! ora si capisce. — Come vi piace la città? domandano i Romani, passando e agitando le bandiere. Cosa rispondere? I soldati non rispondono che: — Roma! Roma! — Il reggimento va oltre.
Ecco la piazza Colonna, la Colonna....
Soldati e popolo cominciarono a girare attorno alla Colonna; sonavan trombe, tamburi, grida; v’eran dei Tedeschi e degl’Inglesi con noi, e in quel momento, commossi anch’essi, ci strinsero la mano dicendo: — .... Bel giorno! Bei momenti!
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LA CUPOLA DI SAN PIETRO.
Per quanto si sia parlato, scritto e disegnato della basilica di San Pietro, qualcosa da dire resta sempre. E poi, questa volta, sotto la cupola di San Pietro c’è una grande novità: i bersaglieri, dei quali non è fatto cenno, credo, nè dalle guide, nè dai libri archeologici, nè dalle opere artistiche; e spero che la mia penna d’oca, coll’aiuto delle loro penne di cappone, riuscirà a far qualcosa.
Ecco schietta e netta l’impressione che mi fece San Pietro.
Andai là con un mio amico ch’era già stato a Roma. Passando sul ponte Sant’Angelo, incontrammo un ufficiale che ci consigliò di tornare indietro. Adesso ci troverete una processione di soldati, disse; ne sono piene tutte le scale, pare una caserma, bisogna tornarci più tardi.
Più tardi? Con questa po’ di febbre che ho addosso? Dopo aver veduta quella benedetta cupola per cinque giorni, a otto miglia di lontananza, grande, netta e spiccata, che mi pareva a due passi, e mi faceva soffrire le pene di Tantalo? È impossibile; fin che non ci sono sopra, mi par di sentirmela sul petto. Andiamo a vedere questa meraviglia. A San Pietro!
La carrozza era già al di là del ponte Sant’Angelo, quando il mio compagno mi consigliò di chiuder gli occhi e di non aprirli prima che me lo dicesse; li chiusi.
A un tratto la carrozza si fermò e l’amico disse: “Guarda.”
Guardo: siamo in mezzo alla piazza. Ecco le colonne, le fontane, la gradinata, la cupola, ogni cosa come si vede nei quadri: nulla di nuovo e nessuna sorpresa.
“Dunque?” l’amico domanda, “non ti scuoti? che impressione ti fa? non ti par bello, grande, sublime?”
Io sono mortificato, non trovo parola. Questa è la famosa basilica? Questa la cupola che si vede di lontano quaranta miglia? Questo il gran colosso di San Pietro?
“Dunque?”
“Dunque..... senti, amico, vuoi ch’io ti dica la verità?”
“Quale?”
“Mi par piccolo.”
“Cosa?”
“Tutto: la piazza, la chiesa, la facciata, la cupola, tutto quello che vedo.”
Il mio amico diede in uno scroscio di risa.
“Sarà ridicolo; ma è vero. Mi par piccolo, mi par piccolo, mi par piccolo. Son disilluso.”
“Guarda quell’uomo.”
“Quale?”
“Quello seduto ai piedi d’una delle colonne di mezzo della facciata.”
Guardo l’uomo, misuro coll’occhio tutta l’altezza della colonna, misuro la larghezza, poi l’uomo di nuovo, confronto, riguardo ed esclamo:
“È immenso!”
“Ah! qui ti volevo! Bisogna confrontare, caro mio. Come ti puoi accorgere che qualcosa è gigantesco dove tutto è gigantesco? A prima giunta, tutti guardano in su, e tutti dicono come te. Scendiamo.”
Si scende di carrozza, si sale la gradinata: non finisce mai. Si guardano le colonne della facciata: ingigantiscono a ogni passo. Giungiamo dinanzi: sono larghe come case. Guardiamo in su: sono alte come campanili. Ci voltiamo indietro: quanta strada s’è fatta! Le fontane, pur ora così grandi, son diventate piccine che non paiono più quelle. Un soldato vicino a noi esprime benissimo questo stesso effetto; guarda la facciata e dice: Gonfia.
Entriamo. Guardo.... “Amico, questa volta te lo dico sul serio: sono deluso.”
“Aspetta. Vedi quella colomba in bassorilievo, di marmo bianco, qui nell’angolo?”
“Vedo.”
“A che altezza ti par che giunga della tua persona?”
“Al collo.”
“Vediamo.”
Si va innanzi.... Diavolo, non ci siamo ancora? Pareva a due passi. Eccoci. Oh questa è curiosa! Stendo il braccio in alto, mi alzo sulla punta dei piedi, e non ci arrivo.
“Guarda le lettere di quell’iscrizione lassù; come ti paiono alte?”
“Quattro palmi.”
“Sono più alte di te. Guarda quelle finte colonne; come ti paiono larghe?”
“Un braccio.”
“Tre metri.”
Comincio a capire. In mezzo alla chiesa si vede un gruppo di ragazzi intorno a una cosa alta che sembra una statua. Andiamo innanzi, innanzi, innanzi: oh cospetto! i ragazzi sono soldati d’artiglieria grandi e robusti come Ciclopi; la cosa alta è la statua di San Pietro; i soldati le baciano il piede; un pretino poco distante guarda e sorride con un’aria di sorpresa e di compiacenza; par che dica: — Sono cristiani queste bestie feroci! meno male!
V’è una lunga fila di soldati in ginocchio intorno all’altar maggiore. Altri, negli angoli lontani, stanno contemplando le statue, e per convincersi che sono di marmo, mettono loro le mani sulle spalle, sulle braccia, sulle ginocchia, come fanno i ciechi per riconoscere. Un gruppo di bersaglieri è estatico davanti a San Longino. Parlano tra loro. Mi avvicino e colgo la sentenza finale d’uno di essi, che mi ha l’aria di un monferrino: A j’è nen a dije; a l’è un bel travaj.
Siamo sotto la cupola. Su la testa. Ah! qui l’effetto è veramente prodigioso! È bello il vedere il mutamento che si fa in tutti i visi appena si voltano in su. Molti, appena guardato, chinano la testa e chiudono gli occhi, come se avessero intraveduto l’abisso. In altri il volto e l’occhio s’illuminano come a una visione di cielo. È una meraviglia che ha dell’estasi. È il solo punto della chiesa in cui collo sguardo si sollevi al cielo il pensiero. Nelle altre parti è magnificenza che seduce e splendore che affascina, non grandezza che ispira; ci si sente il teatro; si pensa più alle fatiche e ai milioni che vi si profusero, che a quegli cui furono dedicati; più ai pittori e agli scultori, che agli angeli e ai santi. L’anima è così tenacemente legata alla terra dalle meraviglie dell’arte, che a sprigionarla e levarla in alto occorre assai maggior forza e più difficile lotta, di quel che a farla uscir vittoriosa dalle tentazioni esterne della vita, contro cui la chiesa dovrebbe servir di rifugio.
Si va innanzi, indietro, a destra, a sinistra, e a misura che si procede la testa si fa pesante e la vista s’intorbida. Ad ogni passo cento nuove cose, l’una più straordinaria e mirabile dell’altra: si affacciano confusamente allo sguardo, vicine, fitte, ammontate. L’attenzione a tutte insieme non basta; sopra una sola non può fissarsi, chè le altre la tirano; così tremola e si stanca senza nulla abbracciare. Colonne enormi, statue gigantesche, bassorilievi, dipinti, mosaici, ori, ricchezze e bellezze d’ogni forma e d’ogni natura; vi si passa accanto senza neanco guardare; si travedono e si dimenticano le une nelle altre.
Si vede in fondo alla chiesa qualcosa di nero che brulica intorno alla porta; sarà una compagnia di soldati che entra. Quei colossi di angeli che reggono la pila dell’acqua benedetta sembrano due giocattoli da ragazzi. In vari punti ci sono dei soldati che si chinano a guardare sul pavimento: guardano le indicazioni della lunghezza delle più grandi basiliche del mondo. Quale arriva a metà, quale a due terzi, quale a un terzo: chiesuole. Mamma mia! esclamano i soldati napolitani. Quante moltiplicazioni dovranno fare, tornati ai loro villaggi, per dare un’idea di San Pietro col confronto della chiesa parrocchiale! Alcuni notano sul taccuino le dimensioni. Altri fanno il conto di quanti soldati ci starebbero. — Ci stanno tutti i soldati del 4º corpo d’esercito? — Sì.... e forse anche tutte le maledizioni che mandarono al servizio delle sussistenze.
Ecco la porta per salire alla cupola. Coraggio e su, che sarà una sudata memorabile. Si sale per una scala a chiocciola; i gradini sono larghissimi e appena rilevati; si va su a grandi giri, agevolmente, senza avvertir la salita. Il muro è coperto di lastre di marmo dov’è segnato il nome di tutti i principi del mondo che salirono alla cupola. C’è l’iscrizione di Ferdinando II di Napoli. Sotto, appoggiate al muro, ci stanno otto daghe da bersagliere. Più su, a ogni passo, cappelli coi pennacchi, keppì, sciabole di cavalleria, cinturini, giberne. Sopra la testa e sotto i piedi, un fracasso da stordire. Sono squadre intiere di soldati che scendono, salgono, s’incontrano, si salutano, si esprimono l’un l’altro lo stupore e l’allegria. Già si leggono pei muri le loro iscrizioni, chè il soldato, per dove passa, lascia sempre traccia di sè. Sotto quella del Borbone che dice: Re del regno delle due Sicilie, salì nella cupola ed entrò nella palla, si legge: Tale dei tali, allora caporale del genio, ha avuto l’onore di salutarla a Gaeta.
Oh, ecco una finestra, guardiamo giù. Mi corbelli? Siamo già oltre il tetto dei più alti palazzi. Si ripiglia la salita, si cammina altri dieci minuti, ecco una porta: si esce al cielo aperto. Eccoci sul tetto della chiesa: è una piazza d’armi. Si vede da una parte un edifizio rotondo, alto quanto una chiesa ordinaria; non è altro che una delle cupolette minori che fanno da stato maggiore alla principale. È grande e stupenda, ma nessuno la guarda; non s’ha tempo per guardare tutte le minuzie. Si corre al parapetto, si guarda nella piazza, è un formicaio. Si guardano le statue che sorgono in fila sul sommo della facciata: che moli! Piedi che non istanno sul tavolino dove scrivete; pieghe dei panni in cui si può nascondere un uomo; dita che paiono clave. V’è una chiave di San Pietro che a prima giunta si piglia per un’àncora di bastimento. I soldati scorrazzano da tutte le parti, chiamandosi e salutandosi dalla piazza al tetto, dal tetto alla cupola, ed esprimendosi la meraviglia con quel ridere allegro e quelle esclamazioni scherzose: — Che bagattella! — E chi vuol andare di qua, chi di là; si tirano, si spingono, si aggruppano, si sparpagliano, correndo, ridendo e chiacchierando, come i ragazzi nel cortile di un collegio, — ”Bisogna farsi coraggio,” dice uno, “e salire, perchè se non si va in paradiso questa volta, non ci si va più.” — ”Ma questa cupola par piccola,” ripeto al mio amico. E lui: “Guarda in cima.” L’ultimo terrazzino sotto la palla è pieno di soldati; o come mai si vedono così piccoli se son così vicini?
Su, alla cupola. Sali e gira e rigira, ecco una porta che dà sur una galleria; la galleria dà nell’interno della chiesa; mi affaccio, mi tiro indietro, ho paura che mi pigli la vertigine. “Guarda la sala del Concilio, laggiù in quella nave della chiesa,” mi dice il compagno. Guardo; “Ma come! là dentro stavano tutti quei vescovi? Ma se è grande come una scatola da tabacco!” Cosa sembrano gli uomini? Mi ricordo il detto del Guerrazzi: quello che sono, insetti. Intorno a quell’altarino di mezzo ce n’è uno sciame; sembrano una macchia nera che si muova. Guardo dietro di me, nel muro, e m’accorgo che quelle testine d’angiolo a mosaico ch’io vedeva di giù, starebbero bene sopra un par di spalle larghe quattro metri.
Si risale. Scale lunghe e diritte di cui si vede appena la sommità, scale a chiocciola dove per salire bisogna afferrarsi a una fune, scale di legno a zig zag, scale comprese fra due pareti curve dove bisogna camminare rotolandosi sulla parete più bassa; e daccapo scale dritte, e daccapo scale a chiocciola, e avanti, sudando, ansando e soffiando; ecco finalmente un raggio di luce, una porta, eccoci sulla sommità, ecco tutta Roma: oh che aria viva e leggera!
La prima esclamazione che mi colpisce arrivato là è d’un artigliere lombardo. — Madona! — egli esclama giungendo le mani — alter ch’el domm de Milan!
Si guarda giù, sul tetto della chiesa, dove si era poc’anzi: si vede una processione di formiche. La gente che passeggia per la piazza si discerne appena; le due grandi fontane sembrano due pennacchi bianchi agitati; le cupole minori della basilica, campanelle di quelle piccine, che si mettono sulle statuette dei santi. Tutta la città si abbraccia con uno sguardo. Subito danno nell’occhio le mura del Colosseo e delle Terme, nere e gigantesche. Le statue in cima alle colonne, le punte degli obelischi, le curve sponde del Tevere, il Pincio, la villa Borghesi, il Quirinale, San Giovanni Laterano, il Gianicolo, che sembra una collinetta di giardino, tutto si vede distintamente. Il giardino del Vaticano sembra un’aiuola. Il Vaticano un edifizio comune, coi cortiletti; è tutto chiuso e deserto. Ecco Monte Mario. Ecco laggiù la campagna romana, nuda e sinistra; di qui debbono aver veduto il passaggio delle divisioni del Cadorna, compagnia per compagnia, cannone per cannone. Ecco Monterotondo, Tivoli, Frascati, Albano, e più a destra, lontano, quella sottile striscia luminosa, il mare. Roma! Roma! Benedetto nome che non s’è mai stanchi di dirlo; c’è qualche segreto in questo suono; Roma! Pare che sempre ce lo ripeta l’eco nell’orecchio: Roma! Eccola qui tutta....
Un soldato accanto a me guarda anch’egli Roma con aria pensierosa; pare che voglia dire qualche cosa, sorride, alza una mano, la batte sul parapetto: Finalment....
Sentiamo quel che vien dopo.
— Ghe semm!
Senti come l’ha detto con gusto! E tutti gli altri soldati, sul punto di scendere, agitando una mano: — Addio, addio, Roma!
E giù per le lunghe scale tortuose echeggia il suono dei passi precipitosi e delle voci allegre.
PRETI E FRATI.
Nelle caserme pontificie si trovarono molte copie d’un inno di guerra, dettato in francese, che par che dovessero cantare gli zuavi andando a combattere. Ha molti punti di somiglianza colla Marsigliese. Ha un ritornello che comincia: Catholiques, debout! Ha una strofa che arieggia quella dell’inno francese: Entendez-vous dans ces campagnes, colla differenza che ai féroces soldats sono sostituiti les barbares. Ha un verso che dice: Viendront-ils nous PRENDRE (ci dev’essere un verbo più feroce, ma non lo ricordo) nos églises, nos prêtres? E il verso dopo: Non, non, on n’y touchera pas. E altre amenità poetiche su quest’andare.
Ma dal verso in cui è detto che gli Italiani vanno a Roma per far man bassa sulle chiese e sui preti, si capisce che dovette esser quella la finzione di cui si servirono principalmente i fautori del governo papale per suscitare e tener vivo il fanatismo nei soldati, per ispirare nel popolo l’avversione al governo italiano, e per alimentare la diffidenza in quei molti che, pure essendo cattolici in buona fede, manifestavano o lasciavano trapelare sentimenti e desiderii italiani.
Questo fatto spiegherebbe pure l’astensione d’una parte del popolo dalle dimostrazioni entusiastiche così nella città di Roma che nei villaggi della provincia.
A Monterotondo, discorrendo con un cittadino dei più noti, e in voce di liberale, gli domandammo come fosse contento del nuovo stato di cose:
“Per me sono contentissimo;” rispose, e lo diceva sinceramente: “tutto va bene, non si potrebbe desiderare di meglio.” E poi a bassa voce: “Hanno rispettato le chiese, hanno lasciato stare i preti; messe, vespri, funzioni, ogni cosa come prima.”
“Oh curiosa! Ma credeva che si venisse qui a guastare il mestiere ai preti, lei?”
“Io?... nemmen per sogno.”
Certo che lo credeva, e con lui chi sa quanti, che all’entrare dei nostri soldati si saranno chiusi in casa e fatti dar del codino. Ma ora che si son disingannati e rassicurati, non credo che saranno meno sinceramente Italiani degli altri.
Non ricordo in che villaggio, una donna del popolo fermò il primo ufficiale che vide, e gli disse con voce affannosa e supplichevole: “È una buona persona il nostro curato, glie l’assicuro; è un galantuomo; non gli dispiace mica che vengano i soldati del Re; non gli facciano nessun male, lo dica ai soldati, ci faccia questa carità....”
Quella donna credeva fermamente che il mandato dell’esercito italiano fosse di far la festa ai preti, come diceva don Abbondio. Ora lamentatevi, se vi pare, ch’essa non abbia messo fuori della finestra la bandiera tricolore.
Passava un drappello di seminaristi, per una via di Nepi, poco dopo che v’erano passati i soldati. Un popolano, accennandoli, disse in tuono burlesco: “Ora.... quelli là.... è finita....” E mi guardava.
“Perchè finita?” gli domandai.
“A questi lumi di luna....”
“Ma che lumi di luna! I seminarii e i seminaristi seguiterete ad averli; ce li abbiamo anche noi, e ce li avremo sempre.”
Fece un atto di sorpresa, e poi domandò: “In Italia? Ce li avete anche voi in Italia?”
“Sicuro.”
“E passeggiano per le strade?”
“Passeggiano per le strade.”
“E nessuno gli dice nulla?”
“E cosa volete che gli dicano?”
C’era da perdere la pazienza; mi ripugnava quasi di credere a tanta ignoranza.
In una via remota di Roma, poco dopo l’entrata dell’esercito, si vide un vecchietto che all’aria, doveva aver avuto una tal paura delle cannonate da perdere il lume della ragione. Alla paura delle cannonate gli era poi sottentrata la paura delle dimostrazioni. Passavano alcuni giovani cantando e sventolando bandiere. Non avendo più tempo di fuggire, credette di dover far l’Italiano per non essere accoppato. Cominciò collo sforzarsi a sorridere, e poi, raccolto tutto il suo coraggio, gridò con una voce da moribondo: — Accidenti ai preti!
Le bricconate fatte per viltà sono più rivoltanti di quelle fatte di proposito. Uno dei giovani del drappello lesse nel viso al vecchio e gli disse con piglio severo: “Per essere Italiano non c’è mica bisogno di dir delle insolenze ai preti, sapete!”
Il vecchio rimase attonito.
“Non ce n’è proprio bisogno,” soggiunse il giovane allontanandosi e continuando a guardarlo. Il povero Italiano fallito non profferì più parola. Anche a lui, certo, era stato dato a credere il viendront-ils degli zuavi.
Un oste, all’apparir dei soldati, s’affrettava a nascondere certi palloncini da luminaria su cui era scritto: W. Pio IX. Un ufficiale lo sorprese, e gli disse:
“Lasciate quella roba dove si trova.”
“Ma io....”
“Lasciatela.”
“Ma io non son mica per il Papa; io son per lor signori.”
“Ma per esser per noi, non c’è mica bisogno di rinnegare il Papa!”
“Ma questa roba....”
“Ma questa roba vi potrà ancora servire, e tra poco, speriamo, perchè le cose s’aggiusteranno.”
“Lei dice bene.”
“E voi facevate male.”
Del resto, i preti mostrarono di non aver le paure che s’adoperavano a mettere negli altri. Mentre nelle vie dei villaggi la buona gente tremava per la loro vita, essi, dalla finestra, assistevano tranquillamente al passaggio dei reggimenti, e molti non abborrivano dall’onorare d’un cortese saluto gli ufficiali a cavallo.
Un solo frate mostrò d’aver paura dei soldati, e fu vicino a Civita. Veniva innanzi con un somarello verso un battaglione di bersaglieri, pallido e tremante, e giunto a pochi passi dai primi soldati, si fermò e giunse le mani in atto di chieder grazia. — Fa nen ’l farseur — gli disse un caporale. Gli altri gli domandarono notizie del Santo Padre. Qualcuno gli offrì del pane. Rassicuratosi, pareva matto dalla contentezza.
E non mancarono i preti che accolsero festevolmente i soldati. A Baccano un prete e un frate stettero a veder sfilare sei battaglioni di bersaglieri sulla porta del convento, sereni e ridenti ch’era un piacere a vederli. Tutti i soldati, passando, dicevano qualche cosa all’uno, all’altro.
“Si va a Roma, reverendo.”
“Dio v’accompagni!”
“Senti! È dei nostri!”
Il prete si mise una mano sul cuore.
— Viva! viva! si gridò dalle file. E il frate e il prete ringraziarono.
Non ho sentito mai, nè altri può affermare d’aver mai sentito, un soldato dire una parola sconveniente ad un prete. Scherzi, sì; ma urbanissimi, e condonabili sempre alla gaiezza del soldato. Se l’ Unità Cattolica osservasse che è inurbanità il dirigere la parola a chi non si conosce, le si potrebbe rispondere che nessuno obbligava i preti a mettersi alle finestre o a piantarsi sull’uscio della casa parrocchiale quando i reggimenti passavano. Se vi stavano, vuol dire che ci si divertivano; non so se ci sarebbero stati quando fossero passati gli zuavi.
Nei primi due giorni non si videro in Roma nè preti nè frati, o almeno pochissimi. Ma non si può dire che stessero nascosti per timore: qual ragione di temere i nostri soldati a Roma più che nella provincia? Stavan chiusi, si capisce, per non aver a prendere parte, neanco come spettatori, alle dimostrazioni del popolo. Tuttavia, ripeto, alcuni se ne videro anche il primo giorno, e passavano in mezzo alle bandiere e alle grida, sicurissimamente, come in casa propria, senza esser nemmeno guardati. E sì che le vie di Roma, stando a quello che scrisse don Margotti, eran piene di facinorosi, di tigri assetate di sangue e di donne di mala vita, tutta gente, come diceva l’oste milanese della Luna piena, latina di bocca e latina di mano.
La mattina dopo il 20, venendo dal Campo Vaccino sul Campidoglio, la prima cosa che vedo, in cima a una delle grandi scale che danno sulla piazza, è un gruppo di bersaglieri e di frati che se la discorrono fraternamente, seduti sugli scalini. I bersaglieri mangiavano; due o tre frati rivolgevano tra le mani una gamella, guardandola di sopra e di sotto; altri tenevano in mano un pane di munizione; altri osservavano con molta curiosità i cappelli piumati appesi al muro. Ci fosse stato un fotografo! Parevano amici vecchi. A un bersagliere che scendeva domandai: che cosa dicono i frati? — So’ chiù etaliani de noautri, — mi rispose ridendo.
La sera, per le strade, se ne videro molti. Ce n’era di tutti i colori: bianchi, neri, bigi, cacao. Alcuni erano accompagnati da soldati. La gente guardava e rideva. Era infatti una mescolanza così nuova e strana, che pareva di sognare. E il modo con cui andavano assieme! Come fosse la cosa più naturale del mondo, come fossero stati insieme sempre: discorrevano di politica.
Passando in certe strade remote, i soldati vedevano qua e là sparire delle tonache e chiudersi degli usci. Da certe finestre spuntavano visi di reverendi rannuvolati, guardavano intorno come per consultare il tempo, e sentite grida o musiche lontane, richiudevano le imposte. Altri uscivano in fretta da una porticina, si arrestavano a un tratto, come le lucertole, a spiare in giro, e poi via rasente il muro a lunghi passi. Per certe strade quiete e deserte pareva di sentire dei fruscii misteriosi, come di notte per gli anditi delle chiese e delle sagrestie.
Qualche prete, attraversando in fretta via del Corso e travedendo qualche nuova uniforme, si fermava in un canto, fuori della folla, per vedere che bestia fosse. Ne vidi due che sbirciavano da lontano due carabinieri in tenuta di parata. Lo guardarono dalla testa ai piedi, dai piedi alla testa, e poi si consultarono l’un l’altro tacitamente, stringendo le labbra coll’aria di dire: — Che roba è?
Curiosità n’avevano, certo; ma non guardavano mai diritto. Passando accanto ai soldati, lanciavano occhiate di traverso, rasente il cappello, al di sopra della spalla, tra le dita della mano, o facevano scorrere due dita intorno al collo come per allungarsi il collare, tanto per aver agio di voltare la faccia senza parer di guardare.
Lasciamo gli scherzi; debbono aver detto in cuor loro: — Qual differenza dai nostri zuavi!
Chi avesse visto in viso quei due cardinali, di cui non ricordo il nome, che passarono in carrozza dinanzi ai bersaglieri, presso Castel Sant’Angelo, poco dopo ch’era stato ordinato alle truppe di render loro gli onori come ai principi del sangue; chi avesse visto il sorriso che fecero quando si videro presentare le armi, lo sguardo benigno e gentile che girarono sui soldati, e l’atto di ringraziamento con cui accompagnarono lo sguardo, e la serena e lieta dignità con cui si ricomposero dopo quell’atto; chi li avesse visti avrebbe giurato che un sorriso, uno sguardo e un atto così, quei due cardinali non lo avevano mai fatto ai loro bene amati campioni.
E cardinali, e preti, e frati, se v’era fra loro chi credesse a quello che le femminucce di Civita e di Nepi credevano, e quanti Romani cattolici trepidavano per le chiese e pei sacerdoti, debbono essersi tutti solennemente e irrevocabilmente ricreduti. Sentivano dire che i soldati italiani erano barbari, e non li hanno visti torcere un capello a un reverendo; ch’erano empi, e li hanno veduti affollarsi nelle chiese a baciare i piedi dei santi; ch’erano vandali, e li hanno visti pagare ogni cosa a soldi sonanti, e regalare le pagnotte ai frati; ch’erano licenziosi e insolenti, e hanno sentito dire dai popolani: — Che rarità di soldati son questi che non dicon nulla alle donne! — Volere o non volere, un grande edifizio di menzogne è caduto, e perdio, si potrà raccoglierne i ruderi, ma non si rifabbrica più.
Quante conversioni politiche hanno fatto i nostri soldati!
Quanto poi ai preti e ai frati, io avrei voluto leggere nel loro cuore la sera del 20 settembre. Se è vero che la meravigliosa dimostrazione di Roma, tanto superiore a ogni previsione e a ogni speranza, abbia più che commosso, sopraffatto e sbalordito nella corte pontificia i più fieri e ostinati nemici d’Italia, che non avrà potuto di più sul cuore dei molti in cui la convinzione era fiacca e la nimicizia determinata solamente dall’interesse? Quelle poche fibre italiane, che il conte di Cavour non voleva credere morte neanche nel cuore del Papa, debbono essersi scosse nel loro cuore la sera del 20 settembre. Le grida e i canti del popolo debbono essere risonati nelle celle silenziose dei monasteri, come un avvertimento, come un consiglio, come un rimprovero. Molti debbono aver invidiato dal più profondo dell’anima quella gioia; debbono aver rimpianto di essersi ridotti in condizione da non poterla godere; alcuni, forse, tendendo l’orecchio alle musiche lontane, debbono aver provato un sentimento di tenerezza mesta ed amara, debbono essersi ricordati di avere una patria, debbono aver sentito che l’amavano; debbono aver profferito in segreto il suo nome, debbono averla invocata, debbono aver domandato con sincere lacrime a Dio che ispirasse nel cuore del Pontefice il bisogno di riconciliarsi con lei, di riconoscerla, di benedirla, di troncare con una parola generosa la guerra insensata che in mezzo a tanta gioia e a tanto affetto li condannava alla solitudine e all’abbandono come rinnegati o stranieri.
LE TERME DI CARACALLA.
“Andiamo alle terme di Caracalla.”
“Andiamo; si può passare vicino al Circo Massimo.”
“E attraversare il Campo Scellerato.”
“E veder l’arco di Giano.”
“E la Cloaca Massima.”
Niente di meno! Ponete d’essere due amici a far questo dialogo, e ditemi se non c’è da sentirsi gonfiare, e mettersi a parlar latino, anche a rischio di far fremere di sdegno grammaticale il sacro suolo e le venerande rovine.
Per andare alle terme di Caracalla si passò accanto a tutti quei monumenti; ma in fretta, e senza molto badarvi, che tanto c’era stato detto e ridetto delle terme, da toglierci pel momento ogni altra curiosità e ogni altro pensiero.
— Vi faranno più impressione del Colosseo, — ci aveano detto molti. Noi non lo credevamo possibile, e perchè il Colosseo ce n’aveva fatta moltissima, e perchè l’idea prosaica che in fin dei conti le terme erano uno stabilimento di bagni, come si diceva scherzando, ci teneva in freno l’immaginazione.
Per istrada, si celiava confrontando la prima austerità dei costumi romani, quand’era proibito al genero di fare il bagno in presenza del suocero, colla licenza degli ultimi tempi, allorchè si vedevano sporgere dall’acqua alla rinfusa teste di patrizi e di matrone, e i consoli spruzzare i senatori, e l’imperatore tuffarsi nella natatoria in mezzo ai popolani, e le schiave aspettar le padrone nelle celle per ricomporre sui capi stillanti i crines suppositi, e ungere le membra d’unguento.
— Le terme, signori, — dice a un tratto il cocchiere.
Una gran muraglia nera e una gran porta, è tutto quello che mi ricordo della parte esterna. Il primo momento in cui ci si trova davanti a qualche cosa di straordinario e di grande non resta mai distinto nella memoria. La porta s’apre, entriamo in una specie di vestibolo, e udiamo una voce che dice: — Qui v’erano le celle pei signori romani che non volevano bagnarsi in pubblico. — Non si guarda, si va innanzi altri pochi passi, ci siamo.
Guardiamo un pezzo in silenzio.
Siamo in mezzo a un campo cinto da quattro muri altissimi. Nel muro dirimpetto a noi v’è una gran porta per cui si vede un altro campo. In fondo a questo una seconda porta, in dirittura della prima, per cui si vede un altro campo ancora, e via via, fino a un muro lontanissimo che sembra chiudere l’edifizio. Alla nostra sinistra una porta come le prime, e altri campi, e altri muri, e altre porte; e tutto deserto e silenzioso come una città abbandonata. Guardiamo in terra: v’è ancora in un angolo un pezzo di pavimento di mosaico uguale e intatto come fatto ieri. In alcuni punti il terreno si alza, in altri si abbassa. Vicino al muro v’è un tronco di statua. Accanto alla porta alcune nicchie vuote.
— Qui c’era un grandioso porticato, — dice uno. Non ve n’è più traccia, andiamo innanzi. È una solitudine che fa quasi paura. Eccoci nel secondo campo. Muri, porte e mucchi di terra come nel primo, e deserto e silenzio. Oh! eccoci nel centro dell’edifizio. Di qui si capisce qualcosa. Vediamo.
Guardo intorno: che triste e grande spettacolo! Mura altissime, nere, scalcinate, solcate da larghe e profonde screpolature, che serpeggiano dalla sommità al suolo, lasciando in qualche punto travedere l’esterna campagna. Alte e leggere vôlte, somiglianti a cupole di chiese, rotte a mezzo della loro immensa curva, e terminanti in punte, in lingue, in tronchi d’arco prolungati e sottili, che minacciano rovina. Qua e là enormi pilastri monchi, spezzati a mezzo come da un urto violento, o man mano digradanti in grossezza dal basso all’alto, fino a disegnarsi nel cielo smilzi e snelli come obelischi. Porte e finestre sformate, squarciate agli spigoli come dall’uscita forzata di un corpo più grande, e dentellate in giro, e dentro buie come bocche di mostri. Scale coi gradini divelti, spaccati, corrosi, in mille modi scemati e guasti, come da una mano rabbiosa. E via pei muri fori d’ogni forma, e incavature larghe e profonde, di cui non si scerne la fine, e vestigia interrotte della commessura dei piani, e traccie di porte, di nicchie, di pareti, di canali, di vasche. E in terra, in mezzo a codeste rovine gigantesche, larghi pezzi di pavimento, simili a macigni franati, sostenuti da pali, coperti ancora dell’antico mosaico; massi di marmo bianco, rottami di colonne di porfido, pietre di sedili, frammenti di statue, ornati di capitelli, lastre e sassi; ogni cosa alla rinfusa, sossopra, come crollato pur ora. E fra masso e masso, fra rudero e rudero, l’erbe e i fiori silvestri, con cui la terra, ultima trionfatrice, apertosi il varco a traverso pavimenti marmorei, risaluta il cielo e la luce, a lei per tanti secoli e da sì formidabile strato contesi.
Si guarda e si pensa. È tristo, è penoso lo sforzo che si fa per ricostrurre nella mente nostra l’intero edifizio. Quegli avanzi non bastano; sono troppo rotti e sformati. Si segue coll’occhio la curva d’un arco, e si dimentica il contorno della colonna; si va oltre nella direzione d’un andito, e il profilo d’un pilastro ci sfugge; ci sfuggono, a misura che si disegnano, le linee, e colle linee le proporzioni, e colle proporzioni l’effetto, che sarebbe immenso, dell’assieme. Quegli avanzi son come le note interrotte d’una musica lontana, che s’indovina e non si gusta. — Se ci fosse qualcosa di più, — si pensa; — se per esempio quella parete fosse finita, se qui non ci fosse questo vuoto, se là rimanesse ancora quell’atrio, quante cose se ne potrebbe argomentare e capire! che peccato! — E più e più volte si ricomincia, con mesto desiderio, questa ricostruzione mentale. Si vedono di sbieco, per una porta, i primi gradini di una scala; chi sa dove mena? Si corre con grande curiosità, si guarda; che stizza! la scala è troncata a metà. Si vede l’imboccatura d’un andito: diavolo, dove riesce? Si corre a vedere: oh delusione! riesce nei campi. Si stanca l’occhio sulle volte e sulle pareti che dovevano essere dipinte, caso mai ci restasse un po’ di colore, qualche linea, una traccia qualsiasi: nulla. Nulla delle vaste gallerie dove si facevano i giuochi, nulla dei portici stupendi che cingevano l’edifizio centrale, nulla delle enormi colonne che sostenevano il piano di mezzo. Ebbene, ci si attacca a quel poco che resta, si combina, si congettura, si fantastica. Le sale dal centro si può supporre che cosa fossero. Qui si capisce che si nuotava, là si dovevano vestire, sopra ci dovevano essere le biblioteche, di qui doveva scendere l’acqua. Si seguono attentamente le ondulazioni del terreno, si tien l’occhio fisso nelle nicchie vuote, come se ci fossero ancora le statue, si entra nelle celle dove l’immaginazione è più raccolta, e si guarda a lungo in terra e sulle pareti, che cosa? nulla, ma si guarda, nè ci si può allontanare prima d’aver molto guardato.
E il pensiero s’immerge nel passato.
Animo, rifacciamo queste mura, e su di esse i grandi dipinti fantastici, e lungo le pareti i duemila sedili marmorei, e nelle nicchie i capolavori dello scalpello antico, l’Ercole, la Flora colossale, la Venere Callipigia; e lungo i portici e in giro per le sale le colonne di porfido; e lassù, in alto, le celle dorate e inghirlandate; e laggiù, in fondo, i giardini ombrosi e le fontane dai cento zampilli. E duemila Romani in preda all’ebbrezza dei piaceri. L’aria è profumata. Cadono nelle celle le bianche stole delle matrone, e le schiave affannate sciolgono i calzari purpurei e le treccie brillanti di perle. Dall’acque, infuse di balsami, emergono i volti accesi di voluttà. Sull’orlo delle vasche si affollano i servi colle striglie argentee e i vasi degli unguenti. Al rumore delle acque cascanti si mescono le musiche e i canti dei cenacoli; le grida del popolo plaudente ai giuocatori risonano dalle gallerie; e s’odon le voci dei poeti che declamano i versi, e via per gli anditi e per le scale e pei recessi dell’edifizio enorme echeggiano accenti allegri, e trasvolano veli candidi, e passano, salgono, scendono, s’incontrano senatori canuti e dame chiomate, e giovinetti, e ancelle, e schiavi; e si mescono in un vocìo confuso tutte le lingue ed in un diffuso splendore tutte le ricchezze del mondo.
Ed ora muri diroccati, mucchi di sassi, un po’ d’erba selvatica, e silenzio.
Poter rivivere un istante quella vita, o vederla vivere un istante, trasvolando, con un’occhiata, a traverso un velo!
Ora tutto è mutato. Invece delle vaste sale cinte di colonne, quei gabbiotti soffocanti degli stabilimenti di bagni, coll’avviso: — È proibito di fumare. — Invece delle grandi piscine, la tinozza dove si sta rattrappiti e immobili, come i feti nei vasi; e invece delle musiche dei cenacoli, il campanello per la biancheria.
Eravamo nell’ultima sala, o campo (chè non v’è più tetto) quando il silenzio profondo che regnava intorno fu rotto improvvisamente da una voce: — Veni cà.
Guardammo in su: era un soldato di fanteria che dal sommo d’un muro altissimo chiamava i suoi compagni rimasti giù, e accennava alla bella veduta che gli si offriva all’intorno.
Alcuni soldati vicini a noi raccoglievano le pietruzze dei mosaici. Altri esperimentavano l’eco gridando dei comandi militari. Più in là v’era una signora con un ufficiale.
Salimmo anche noi dov’era il soldato. La scala è aperta, se ben mi ricordo, in un pilastro. È una scala larga e comoda; ma infinita. Giungemmo senza fiato sur un piano, credendo che fosse l’ultimo; ma guardando intorno, ci accorgemmo che non eravamo nemmeno a mezz’altezza. Da ogni parte ci sovrastavano archi e mura, che pareva s’innalzassero a misura che salivamo. Guardammo giù, e ci meravigliammo d’esser saliti tanto. Da quel punto, abbracciando collo sguardo una gran parte dell’edifizio, potevamo formarci un più adeguato concetto della sua grandezza. Ci trovavamo sopra una lingua di vôlta sottilissima, che pareva stare in aria per miracolo. A guardar giù per le fessure girava la testa. Da un lato si vedeva una lunga fila di porte. Ci avanzammo; ma fatti pochi passi, ed accortici che mancava il soffitto, si dovette tornare addietro. Si scopriva di là tutta la campagna romana del mezzogiorno; si vedeva il monte Testaccio, i deserti prati del popolo romano, la basilica di San Giovanni Lateranense, e uno sterminato acquedotto.
Si scende, si torna verso l’uscita, di sala in sala, di rovina in rovina, sempre fra mura gigantesche e grandi porte, per cui si vedono altre mura e altre porte lontane. Ad un tratto, voltandoci a sinistra, vediamo un grande portico oscuro, e uno spazio di terreno senz’erba, sparso di marmi. Ci avviciniamo; son pezzi di statue. V’hanno delle teste enormi colla fronte e gli occhi levati in alto, che dovevano sorreggere qualcosa; torsi di guerrieri atletici senza capo; in un canto un mucchio di teste di dèi, di soldati, d’imperatori, di vergini, tutte mutilate, e col viso rivolto verso chi guarda; rottami di colonne che tre uomini non possono abbracciare, e mucchi di figurine e di pezzi d’ornato staccati dai capitelli, e pietre di mosaico sparse. Tutti questi marmi lasciati così in terra e disposti con un certo ordine, danno a quel luogo qualcosa dell’aspetto d’un camposanto; quelle teste paiono crani; al primo vederle si dà un tremito, come se guardassero. V’è fra le altre cose, una manina di donna colle dita tronche e un po’ di braccio piccino e gentile, abbandonata in terra, mezzo nascosta e lontana da tutti gli altri rottami. È singolare: desta quasi un sentimento di pietà.
Uscimmo senza parlare. Tale è l’effetto che fanno le terme: la gente entra, guarda, gira, e nessuno parla; si passano accanto e non si badano, tutti pensano; si entra allegri, si esce tristi. Tornando in città ci parve d’entrare in un mondo nuovo. Io pensavo alla strana impressione che m’aveva fatto fra quelle mura il suono di certe parole piemontesi. Ed avevo sempre dinanzi delle figure, antiche, in atteggiamenti allegri ed alteri, e ponendole accanto a quelle rovine, mi sentivo stringere il cuore. E ripetevo quasi macchinalmente tra me: — Tutto è passato!
UN’ADUNANZA POPOLARE NEL COLOSSEO.
Erano le tre dopo mezzogiorno. Il popolo romano si recava al Campidoglio per eleggere la giunta provvisoria. Tutte le strade che conducono al Campo Vaccino erano percorse da folti drappelli di cittadini con bande musicali e bandiere. Arrivati al Campo, i drappelli si confusero in tre o quattro lunghissime colonne, e mossero insieme verso il Colosseo. Andavano a otto a otto, a dieci a dieci, allineati e stretti come soldati, levando tratto tratto altissime grida e lunghi applausi.
Le gallerie del Colosseo erano già affollate. Centinaia di fazzoletti e di bandiere sventolavano fra gli archi altissimi, e dentro suonava un gridìo continuo e diffuso come muggito di mare in tempesta. Si vedeva una colonna dopo l’altra versarsi nel vasto recinto, e rimpicciolire subitamente come se ne sparisse per incanto una parte. Turbe di popolo che tenevan tutta la strada si vedevano ristringersi e quasi perdersi, come piccoli drappelli, in un cantuccio dell’arena. Continuamente affluiva popolo, e la folla dentro non pareva crescere. Una parte della prima galleria era piena zeppa di gente; ma così lontana, benchè solo a mezz’altezza del muro, da non riconoscerne i visi a occhio nudo. Dalla galleria in giù, su tutti i gradini, su tutti i macigni, su tutti i rialzi del terreno v’era popolo: donne, bambini, signori, poveri, tutti vestiti a festa, con nastri tricolori e coccarde. Da una parte dell’arena v’era un palco, e sul palco un pulpito; intorno molte grandi bandiere tenute da cittadini. Sul cielo del pulpito un gruppo di pompieri. Intorno al palco, sul tetto dei tabernacoli e sui macigni della gradinata, una fitta di gente che presentava allo sguardo una vasta e continua superficie di volti e di sì attaccati ai cappelli. Davanti al pulpito il grosso della folla. Da ogni parte braccia alzate di gente che si accennavano gli uni agli altri il cerchio maestoso dell’anfiteatro; sulle più alte punte dei muri gente e bandiere. Le bande suonavano, le grida si levavano al cielo, un sereno purissimo e una splendida luce di sole faceano più bella e più solenne la festa.
Ecco Mattia Montecchi.
Un fragoroso applauso prorompe dalla folla e un lungo ed altissimo evviva.
Il vecchio patriota romano, accompagnato dagli amici, avvolto e nascosto quasi dalle bandiere, sale sul pulpito a capo scoperto, e preso appena fiato comincia con voce commossa:
— Popolo romano, rivendicato alla libertà e restituito per sempre alla comune patria....
S’interrompe un istante, e poi con irresistibile slancio:
— .... Io ti saluto!
L’ultima sua parola muore in un singhiozzo; egli si copre gli occhi col fazzoletto e ricade sulla seggiola.
La folla manda un grido d’entusiasmo, tendendo le braccia e agitando le bandiere.
— Silenzio! silenzio!
Il Montecchi rincomincia a parlare, a voce bassa, interrompendosi tratto tratto. La folla, ondeggiando e rimescolandosi, si stringe intorno al pulpito. Le parole dell’oratore non giungono fino a me. Mi faccio innanzi per intendere qualcosa.
— ..... Il potere temporale del Papa, — egli esclama, — è caduto!
Applausi vivissimi.
— È caduto nella polvere! — grida una voce tra la folla, e un braccio convulso si solleva e si agita al disopra delle teste.
— È caduto per sempre! — ripete il Montecchi.
— Nella polvere! — ripete in accento imperioso la voce di prima.
— Silenzio! silenzio!
— La caduta del potere temporale dei papi, — il Montecchi prosegue, — è uno dei più grandi fatti registrati dalla storia!
Un giovane accanto a me alza una mano e grida con tutta la forza dei suoi polmoni: — Dalla storia della civiltà!
Il Montecchi si volta e guarda come per chiedere che cosa fu detto, e soggiunge: — Uno dei più grandi fatti registrati dalla storia.
— Della civiltà! — ripete il giovane.
— Della civiltà, — aggiunge il Montecchi in atto di condiscendenza. — Ora tocca a noi di mostrarci degni della nostra fortuna. Roma non può restare, nemmeno per pochi giorni, senza governo....
— Viva l’Italia!
— ..... I nostri nemici potrebbero trarne argomento a dire che il popolo romano non è ancora maturo alla libertà....
— Viva la libertà! Abbasso i nemici di Roma! Viva Vittorio Emanuele in Campidoglio!
— Viva! ma prego.... lasciatemi continuare....
— Viva Montecchi!
— Vi ringrazio.... fate un po’ di silenzio.... Bisognava eleggere una Giunta.... Noi avremmo voluto che il popolo facesse l’elezione in modo regolare, colle schede, coi voti.... Ma non v’era più tempo.... abbiamo dunque pensato di rivolgerci direttamente al popolo romano....
— Bravo! Viva!
— .... Al popolo romano, e di facilitargli l’opera preparando un elenco di cittadini appartenenti a tutte le classi della società e a tutti i partiti politici....
— Benissimo!
— Un momento.... Ora, vedete anche voi che sarebbe impossibile aprire una discussione sopra ciascuno dei nomi, che sono quarantaquattro. Bisognerà dunque limitarsi ad approvare o disapprovare l’elenco nel suo complesso. Ci sarà qualche nome che ad alcuni non piacerà; ma capirete che non è possibile fare un elenco di quaranta persone che riescano ugualmente accette a tutti. Ad ogni modo qualche nome si potrà cambiare. Terminata la lettura io darò la parola a uno di voi, il quale esponga il suo parere, e dica le ragioni che può aver da dire, in generale, contro le proposte della Commissione che raccolse i nomi. Dopo che quest’uno avrà parlato, state bene attenti....
— Viva Vittorio Emanue.... — grida all’improvviso una voce acuta.
— Silenzio! Smetti! non è il momento! — si mormora da ogni parte.
— Guardalo lì quello che non vuole che si dica Viva il Re! — grida l’entusiasta importuno ad uno dei suoi interruttori.
— Ma chi ti dice ch’io non voglio che si gridi viva il Re? Dico che non è il momento.
— Già, non è il momento adesso che ci ha liberati!
— Ma senti che bestia!
— Ma guarda....
— Silenzio! — grida il Montecchi; — accordatemi ancora qualche minuto d’attenzione. Sentite. Dopo che uno di voi avrà parlato, io metterò a’ voti l’elenco, nella sua totalità, s’intende; e allora, ricordatevene bene, chi intenderà di approvarlo leverà in alto il cappello....
Tre o quattrocento persone si scoprono il capo.
— No! no per ora! — grida il Montecchi; — ve lo leverete poi; come volete approvare adesso l’elenco se non v’ho ancora letto i nomi?
Risa generali; caldi diverbi fra coloro che si tolsero il cappello e coloro che risero; bisbiglio prolungato.
Il Montecchi: — Vi prego.... un po’ di silenzio.... pochi momenti ancora.... Chi intenderà di approvare l’elenco alzerà il cappello, chi non vorrà approvarlo terrà il cappello in capo. Se ci sarà qualche nome da cambiare, quello di voi che viene qui a parlare lo dirà, e i nomi saranno cambiati. Ma mi raccomando; lasciate leggere tutti i nomi di seguito senza interrompere. Parlerete dopo. Vedete, è l’unica maniera di far presto e bene. Se per leggieri dissensi su questo o quel nome, dovessimo restare un altro giorno ancora senza governo, forniremmo pretesto ai nostri nemici di calunniare il popolo di Roma.
Vivi applausi. — Viva la Giunta! Viva Montecchi! Viva Vittorio Emanuele in Campidoglio!
— Viva!... Ora vi prego per l’ultima volta.... un po’ di silenzio.
Uno di que’ che sono intorno al pulpito alza tanto la bandiera che quasi la dà negli occhi al Montecchi.
— Tien giù quella bandiera! — gli grida il vicino.
— Ma è la bandiera nazionale, sai! — risponde l’altro sdegnato.
— Vedo; ma perchè è la bandiera nazionale devi cavar gli occhi alla gente?
— Guarda il prete!
— A me prete?
— Silenzio! si grida all’intorno.
— Leggerò i nomi, — ripiglia il Montecchi; — state attenti; ma ve ne riprego, non m’interrompete, se no si va troppo per le lunghe; abbiate un po’ di pazienza....
— Legga! Legga pure!
Un profondo silenzio si fa per tutta la folla.
Il Montecchi legge: — Tale dei tali.
Passa senza contrasto; un momentaneo bisbiglio e silenzio.
— Tale dei tali.
Vivi applausi, il popolo è ben disposto, l’affare va bene.
— Tale dei tali.
Uno scoppio d’urli e di fischi, un agitar di mani, un pestar di piedi, un rimescolamento, un fracasso d’inferno si leva e si prolunga per cinque minuti da ogni parte dell’affollato uditorio. Il Montecchi incrocia le braccia sul petto e sta aspettando in atto rassegnato e dimesso che la tempesta si queti.
Finalmente alza una mano.
— Silenzio! Silenzio! — si grida dalla folla.
— Signori!.... — comincia il Montecchi con un filo di voce; — vi prego; le cose sono andate così bene finora, continuiamo come abbiamo cominciato, non discutiamo i nomi, non perdiamo tempo, parlerà uno per tutti, tutti insieme non si conclude nulla, lasciatemi leggere tutto l’elenco, abbiate un po’ di pazienza ancora....
— Bravo! Bene! Legga! Legga! Non si discute! Silenzio! Legga! Lasciatelo leggere!
Il Montecchi legge: — Tale dei tali.
Un altro e più violento scoppio di grida e fischi e pestar di piedi e agitare di mani. E di nuovo il Montecchi incrocia le braccia in atto di rassegnazione.
— Abbasso! Abbasso! — grida la folla.
— No, viva! viva! — alcuni rispondono.
— Chi viva? Abbasso! Chi sono quei paolotti laggiù? Fuori! È passato il tempo! Abbasso! Abbasso!
Il Montecchi: — Prego....
— Abbasso i mercanti di campagna!
Il Montecchi con voce semispenta: — Prego, non discutano i nomi....
— Non si discute! Non si discute! Se dice per di’ che so’ mercanti de campagna!
Scoppio d’applausi.
— Non discutano, prego....
— Hanno fatto massacrare ’l popolo romano!
Applausi fragorosissimi.
— ..... Ma prego....
— Non li volemo!
— .... Un po’ di silenzio....
— Non li volemo!
Cento voci assieme: — Parliamo uno alla volta, perdio!
Il fracasso è assordante, la folla agitatissima; alcuni apostrofano con calde parole il Montecchi, altri apostrofano la folla dalle gallerie, si sventolano le bandiere, si formano dei capannelli, si batton le mani, si strepita, è un casa del diavolo infinito.
A poco a poco ritorna la quiete. Il Montecchi continua a leggere. Il primo nome passa. Il terzo è accolto da lunghi applausi. Otto o dieci altri non incontrano opposizione. Qualcheduno solleva un po’ di mormorio.... Sia lodato il cielo, l’elenco è finito!
Vivi applausi.
Il Montecchi ricade sulla sua seggiola e si asciuga la fronte.
Allo strepito succede nella folla un vivissimo bisbiglio.
— Ora chi parla? — Chi vuol parlare? — Parla tu. — Il tale ha detto che parlerà. — No, parla quell’altro. — Parliamo noi. — Parlino loro. — Zitti! parlano.
A piedi del pulpito, poco al disopra della folla, si alza una testa e si stende una mano.
— Silenzio! Silenzio!
Si fa un generale silenzio e si ode una voce incerta e sottile:
— Io piglio la parola in un momento solenne....
Un rumore improvviso da una parte dell’anfiteatro copre la voce dell’oratore.
— ....Io piglio la parola in un momento solenne....
Un tale accanto al pulpito lo interrompe; l’oratore si volta bruscamente: — In nome di chi parla lei? In nome del deputato Checchetelli?
Segue un diverbio, il Montecchi s’intromette, l’oratore ricomincia a parlare.
— Forte! Forte! — grida la folla.
— Salga su! gridano i membri della Commissione. Venga qui sul pulpito! si farà sentir meglio!
E tutti insieme pigliano l’oratore per le braccia e lo tirano su. Tutta la persona di lui sovrasta alla folla. È un giovane sui venticinque anni, alto, pallido. Ha il capo fasciato. È stato ferito dagli zuavi salendo in Campidoglio. La folla prorompe in applausi.
— Silenzio!
Egli parla.
Sulle prime non si sente; ma la sua voce man mano si innalza e si rafforza, e la parola esce vibrata e distinta.
— ....Ben fecero gli egregi uomini della Commissione a radunarsi in questo antico ed augusto ricinto. Essi dimostrarono con ciò che d’ora innanzi gl’interessi del popolo non saranno più abbandonati agl’intrighi delle consorterie, ma discussi e propugnati alla luce del sole, in mezzo al popolo e col popolo!
Scoppio d’applausi.
— Non si scherza, — bisbiglia il popolo. — Le canta chiare. — Non ha paura di nessuno.
L’oratore prosegue: — ....In questo recinto che il tempo corrose, ma non distrusse; fra queste mura annerite dai secoli....
Violente interruzioni: — Alla questione!
L’oratore, levando al cielo lo sguardo e la mano: — Io veggo gli archi del Colosseo popolarsi di arcani fantasmi....
Nuovo e più violento scoppio di disapprovazione e di protesta. — Alla questione! — Non volemo prediche! — Le prediche so’ finite! — Non abbiamo bisogni di lezioni!
L’oratore continua a parlare; ma la sua voce è soffocata dallo strepito della moltitudine.
Una voce stentorea si alza al di sopra di tutte le voci, e fa voltare tutte le faccie:
— La cosa è chiara! L’elenco no’ ce piace! Non volemo liberali del momento, non volemo liberali di occasione....
Applausi fragorosi.
— Volemo gente provata, patrioti schietti, che ce se veda chiaro nella vita loro!
Applausi fragorosi.
E la voce con nuovo e più formidabile sforzo: — Non volemo mercanti de campagna!
Terza salva d’applausi.
— Va’ a parlar tu! — Va’ sul pulpito! — Fa’ valere le nostre ragioni! — Va’! — Presto! — Su!
Il fortunato oratore, sollecitato e spinto da tutte le parti, chiamato dal Montecchi, eccitato dalle grida della gente lontana, si apre un varco tra la folla e si slancia verso la tribuna. Sbalzato da un suo spintone cinque o sei passi indietro, mi trovo in una corrente che move verso l’uscita, mi ci abbandono, e in pochi minuti, pésto, sudante e spossato, mi trovo fuori del Colosseo.
Ecco tutto quello ch’io vidi.
Stetti un momento là incerto tra il tornar dentro e l’andarmene, e poi presi un partito fra i due; salii sur un rialzo del terreno accanto all’arco di Costantino, e come soleva dirmi il mio amico Arbib, mi misi a fare della poesia inutile, guardando il Colosseo. — Le solite grida — pensavo — la solita confusione, la commedia solita delle radunanze popolari; ma che importa quello che vi si faccia e quello che vi si concluda? Sono grida di libertà, e basta perchè a sentirle di qui e a sentirle uscire dal Colosseo, mi déstino nell’anima una gioia nuova, ineffabile, superiore a tutte le gioie che mi sian mai venute finora dall’amor di patria. — Viva il Re — viva la libertà — viva l’esercito — ....nel Colosseo! In questo campo! In mezzo a questi archi!
E giravo l’occhio intorno come per assicurarmi del luogo dov’ero.
— .... Il Bonghi dice che qui ci sentiremo piccoli. Perchè? Piccolo si sentirà chi si vorrà misurare con chi fu grande. Noi qui non veniamo a misurarci; ma ad ispirarci, ad attingere forza e coraggio, a meditare e ad ammirare. Il Colosseo! — ho sentito dire; — che vi può dire il Colosseo? Vi narrerà le glorie dei gladiatori e i supplizi dei cristiani? Ed io vi rispondo: — Sì....
In quel punto uscì dall’anfiteatro un altissimo evviva e un allegro suono di banda.
— Sì..., ecco che cosa mi dice il Colosseo. Mi dice che dove gli uomini schiavi si sgozzavano per ricreare un tiranno, ora convengono i cittadini a salutare un Re Eletto ed amato; mi dice che dove perirono sotto le scuri o in mezzo alle fiamme gli apostoli della libertà e dell’eguaglianza, ora convengono gli uomini liberi ed eguali a esercitare i loro diritti e a compiere i loro doveri, coll’anima lieta e serena: e vi par poco codesto? Vi par che si possa dire che il Colosseo è muto?
Un altro scoppio di grida misto a suono di trombe mi giunse all’orecchio.
E poi una voce distinta: Viva la libertà!
— Ah! — io esclamai, rivolto al Colosseo, come se mi potesse intendere; — Consolati, vecchio gigante; così monco e sfracellato come ti trovi, tu non fosti mai tanto bello nè tanto grande ai tempi degl’Imperatori!
In quel punto vi batteva su il sole, e tra arco e arco si vedeva dentro un concitato sventolío di bandiere.
DELL’ISTRUZIONE DELLE DONNE.
Aneddoto.
Qualche tempo fa, un giornalista arguto e dotto ha pubblicamente dichiarato di preferire le donne che scrivono bacio con due c a quelle che lo scrivono con un c solo; e quelle che prendono Polonia per un nome di donna, a quell’altre che sanno che la Polonia è un paese.
Leggendo il forbito articolo con cui quel giornalista s’adoperava a dimostrare la ragionevolezza delle sue preferenze, io mi ricordai d’una scenetta seguita a un mio amico, dalla quale mi parve potersi ricavar qualche lume circa la quistione della Polonia e del bacio. È un caso tutto pratico, che forse non gioverà meno d’un ragionamento lungo.
Premetto che quest’amico ha scritto qualche cosa e scrive ancora. Non è un’aquila, come suol dirsi; ma una tal quale attitudine alle lettere si dice che l’abbia; quindi anche un po’ di vanità, la quale, benchè non sia espressa in parole determinate, resulterà, temo, dal complesso del racconto. I lettori gli perdonino, in considerazione della universalità del difetto. Io riferirò le sue stesse parole.
......... Man mano che scrivevo qualche cosa (egli mi disse), ne mandavo dieci o dodici copie a casa. La mia famiglia ne riteneva due o tre, e regalava le altre ai vicini. Un giorno mia madre mi scrisse, fra le altre cose, che mi facessi animo, che continuassi a lavorare con ardore, poichè c’erano delle signore impazienti. Queste signore impazienti, che essendo vicine e amiche di mia madre io avrei potuto conoscere alla mia prima scappata a casa, mi stimolarono potentemente. Non ch’io almanaccassi conquiste o cose simili, neanco per sogno; ma mi lusingava l’idea di destare delle simpatie di lontano, di prepararmi un’accoglienza particolarmente gentile, di arrivare là aspettato, desiderato, che so io? Di tratto in tratto mi scrivevano da casa: Si legge, si legge, ed io andavo in solluchero.
Finalmente venne l’occasione di tornare per qualche giorno in famiglia.
Non dico il fantasticare continuo ch’io feci durante il viaggio. Avevo sempre davanti agli occhi le lettrici. Mi rappresentavo coll’immaginazione l’arrivo, il primo incontro, le voci di sorpresa, le strette di mano prolungate, gli occhi curiosi fissi nei miei a cercarvi l’espressione degli affetti versati nelle scritture, le domande ingenue intorno a questo o a quel particolare, di questo o quel lavoro, il voler sapere come l’uno fu pensato, quando l’altro fu steso, di dove il terzo fu tratto, e mille altre fanciullaggini, che son passate pel capo a tutti coloro che imbrattarono un po’ di carta; e se qualcuno lo nega, mente.
Potrei giurare che la mia non era una vanagloriaccia volgare. C’era dell’ingenuità, e oserei anche dire, della gentilezza. Cercavo, e sentivo in me il bisogno, non tanto d’una soddisfazione d’amor proprio che mi servisse di premio, quanto d’un incoraggiamento, d’un saggio di quello che potessero essere le gioie d’uno scrittore onesto, per trarne stimolo a perseverare nello studio delle lettere e nel culto degli affetti gentili, e nella risoluzione di non iscrivere mai altro che cose utili e buone.
Nella città dove aveva scritto, non m’erano punto mancate soddisfazioni della natura di quelle che andavo a cercare nel vicinato di mia madre; ma non so perchè, mi pareva che queste dovessero essere assai più dolci e più efficaci di quelle; principalmente perchè la mia famiglia ne sarebbe stata testimone, ed io avrei goduto per me e per essa. Insomma, arrivai, e le prime domande che feci in casa furono:
“E le vicine? Chi sono? Dove sono? Cosa fanno? Quando vengono?”
“Le vicine,” mi rispose mia madre, “sono le signore tali e tali. Le troverai tutte insieme questa sera in casa della signora C., qui sotto, al primo piano, alle otto. T’avverto che non sono giovani.”
“Nemmeno una?”
“Nemmeno una.”
Veramente, pensai, sarebbe stato meglio..... Ma che importa, in fondo? La simpatia, l’amicizia, la corrispondenza d’amorosi sensi quale deve correre, in generale, fra chi scrive e chi legge, non ha che fare cogli anni. O piuttosto ci ha che fare pel mio meglio: perchè i libri e gli scrittori non diventano veri, sodi, indivisibili amici che in età riposata, quando le gioie rumorose della vita non sono più per noi, e l’anima si raccoglie in sè stessa.
“Bada.....” soggiunse mia madre, “non ti credere di trovare delle letterate o delle dottoresse. Sono buone signore, ma nulla più che buone. Di letteratura credo che se ne intendano poco.”
Ma che importa anche questo! io dicevo tra me. Meglio: anime ingenue, schiette, non traviate dai libri, senza vernice di rettorica, di affettazione, di sensitività raccattata e falsa: gente che legge col cuore, e che risponde col cuore.
“Nota,” disse ancora mia madre, “che una di queste signore s’è tutta turbata quando le dissi che tu dovevi arrivare, perchè aveva paura che non sapessi parlar altro che italiano.”
Povera signora! io continuai a pensare. Quanto le deve riuscir più grato e più dolce il veder espressi in una lingua a lei mal nota, e che pur desidera di imparare, gli affetti più riposti, i moti più delicati, le immagini più soavi dell’anima sua! Ah! così — ella deve esclamare leggendo — così si dice! Così dirò! Da ora innanzi lo potrò esprimere questo sentimento! Questo bisogno del cuore d’ora innanzi lo potrò significare!
“Ma l’hanno letto tutto, il mio libro, non è vero?” domandai.
“Vorrei credere; me l’hanno detto, mi chiedevano sempre notizie di te, mi pregavano continuamente di scriverti che tu facessi, che tu mandassi; avrebbero voluto che tu scrivessi con dieci penne alla volta.”
Ah! io esclamava in cuor mio, sento che scriverò duecento volumi!
Venne l’ora della visita; erano avvisate, e m’aspettavano. Il marito della signora del primo piano mi venne a prendere. Aspettavo dei complimenti, ma non mi disse che le parole d’uso. Mi fece pietà. A che duro giogo son condannate le donne! dicevo tra me. È impossibile che costui comprenda sua moglie. Era in fatti un vecchiotto con una faccia di citrullo da far cascare le braccia.
“Avrò l’onore” mi disse scendendo le scale “di presentarle le mie due ragazze grandi.”
Arrivammo alla porta, egli suonò, io presi un’aria modesta, ed entrammo.
Era una sala grande, mobiliata con una certa eleganza, e illuminata da tre bei lumi ad olio, posti su tre tavolini ai tre angoli più lontani dalla porta. C’era una quindicina di persone divise in tre crocchi. La padrona di casa, in quel momento, era assente. Il padrone mi condusse al gruppo più vicino e mi presentò alle sue due ragazze, bruttine, che mi salutarono con un certo ritegno.
Si contengono, pensai.
“La signora tale,” soggiunse il padrone indicandomi una signora sulla quarantina, lunga ed asciutta, “è una grande amica della sua signora madre.”
M’inchinai e sedetti.
La signora mi presentò suo figlio, un giovanetto di sedici anni, che mi strinse la mano con un atto vivace, guardandomi fisso.
“Ci siamo!” dissi tra me; ora piovono gli allori.
“Dunque,” cominciò la signora dopo avermi squadrato da capo a piedi (sorriso, sguardo penetrante, sorpresa, nulla di tutto questo. — Si contiene! — pensai) “dunque lei è venuto a passare qualche giorno colla mamma, non è vero?”
“Sì, signora.”
“Oh bravo! Ha fatto bene. E... come ci si trova a Firenze?”
“Bene... veramente. Non potrei desiderare di meglio.”
“E... sento che si occupa.”
“Un poco.”
“Scrive, scrive.”
Accennai di sì.
“Bravo, fa bene; se ne troverà contento. Non fa come gli altri giovani che sciupano il tempo nei divertimenti, e poi viene il giorno che se ne pentono. A star a tavolino, invece di bazzicare i cattivi compagni, si guadagna sempre qualcosa, o, alla peggio, non ci si perde nulla, non è vero?”
“Gran Dio!” io tra me dissi, “cos’è questo?”
“Abbiamo letto le cose sue, sa?”
Io chinai il capo.
“Sicuro. Oh! abbiamo letto, abbiamo letto. Ha fatto dei bei lavori, in verità. No, no, se lo lasci dire, e poi già l’hanno detto anche degli altri: si vede che c’è la stoffa.”
Seguì un minuto di silenzio.
“Anche mio figlio, vede, ha disposizione a scrivere.”
Il ragazzo arrossì, interruppe sua madre, e mi lanciò una timida occhiata.
“Sì, sì, ha della disposizione. Quando è in vena, vede, si mette a tavolino e tira giù delle lettere di otto pagine, tutte d’un fiato, senza fermarsi un momento. Ma bisogna che sia in vena. E scrive anche in buon stile.”
“Mamma!” interruppe il figlio vergognandosi.
“Oh! ha ingegno anche lui. Peccato che lei non si fermi qui un po’ di più, che avrebbero tempo a conoscersi e studiare insieme.... e farsi vedere i lavori.... perchè tante volte, dicono, col confronto...”
“Ma no, mamma!” esclamò il figliuolo impazientito. “Ma cosa dici? Qui.... il signore.... è uno scrittore.”
Io ero annientato.
“Ma è quello che dico,” rispose risentitamente la signora; “appunto perchè scrive, ti potrebbe aiutare. Non ti dico mica che tu ne sappia più di lui; ma quattr’occhi, come suol dirsi, vedono meglio di due, e facendo i vostri lavori insieme, mi pare, posso ingannarmi, ma mi pare che riuscirebbero anche meglio. L’emulazione...”
Comparve la padrona di casa: un viso di buona donna. Mi venne incontro porgendomi tutt’e due le mani e sorridendo amichevolmente; mi balenò un raggio di speranza; mi volsi a lei come al mio salvatore.
“Oh ben arrivato!” esclamò con voce carezzevole, “sono tanto contenta di far la sua conoscenza, sono molto amica di sua madre, ho sentito spesso parlar di lei....”
Ripresi fiato.
“Ho sentito che è un così bravo scienziato....”
Dio eterno! — io pensai — cos’ha capito costei? Addio speranza!
“Venga, venga con me, lo voglio presentare alle mie amiche.”
E presomi per mano, mi condusse in un altr’angolo dov’erano tre signore, sedute in fila, tutt’e tre stecchite, serie, mute, che parevano statue. Due erano giovani, ma poco piacenti.
La padrona di casa me le nominò tutt’e tre, e poi, accennando me a loro, disse:
“Il signor tale.”
Fecero tutt’e tre un cenno col capo.
“Giovane molto.... distinto.”
Altro cenno come prima.
“Che è tanto bravo a far delle composizioni.”
Seguì un istante di silenzio, io stavo là immobile come pietrificato.
“Compone musica?” domandò una delle tre signore con aria noncurante.
“No, no,” riprese la padrona; “compone (e mi volse uno sguardo interrogatore, stropicciando il pollice e l’indice della mano destra, nell’atto di chi fa scorrere del denaro) compone.... delle prose, non è vero?”
Accennai di sì. Le signore parvero poco soddisfatte; la padrona scomparve, io sedetti. Una delle tre statue, forse mossa a compassione dell’imbarazzo che mi si doveva leggere in viso, mi rivolse la parola. Era un’amica di mia madre, una delle lettrici.
“Dunque,” disse dopo aver pensato un po’, “lei si diletta a scrivere?”
“Sì, signora.”
“È un bel passatempo.”
Io la guardai.
“E poi,” continuò essa, “è anche uno sfogo.”
“Già.”
“Abbiamo tutti dei momenti in cui la piena dei pensieri ci sforza, per così dire, ad espanderci. Si direbbe quasi che è un bisogno che ha l’uomo.... lasciando poi da parte che è un ottimo esercizio, perchè s’impara a scrivere con facilità.”
“Dio!”
“Non c’è niente di meglio che la pratica in materia di scrivere. Ha qualche cosa di stampato?”
Mentre io mi voltavo a guardarla esterrefatto, si sentì in un angolo del salotto una gran risata. Alzai gli occhi e vidi un gruppo di gente che veniva verso di me, ridendo sgangheratamente. Qualcuno doveva aver raccontato qualche aneddoto. La padrona di casa, premendosi una mano sul petto per non scoppiare dal ridere, mi venne accanto; tutti gli altri intorno. — Questa merita proprio che lei la descriva in uno dei suoi.... temi. — E interrotta tratto tratto dalle risa degli astanti, mi ripetè l’aneddoto. Il quale, da quanto me ne lasciò comprendere l’infelicissimo stato in cui mi trovavo, consisteva, a spremerne il sugo, in uno scambio di cappelli seguito la sera innanzi fra due amici di casa, e non riconosciuto che la sera dopo, nello stesso salotto.
“Lei deve farci una novella sopra,” disse la padrona.
“Una poesia!” disse un altro.
“No, un’ode!” esclamò un terzo.
E lì tutti a ridere.
“Amplificando,” mi disse il padrone di casa, con piglio di confidenza, vedendo ch’io non parevo persuaso, “amplificando, aggiungendo, come sanno far loro, se ne potrebbe fare, non dico mica un poema (e rise), ma una cosettina.... Oh! il signor Lippi!”
Tutti insieme si allontanarono da me per correre intorno a un giovanotto entrato allora, una faccia di scimunito, attillato, lisciato, impomatato, che rispondeva con molto sussiego ai saluti, ai sorrisi e alle dimostrazioni d’allegrezza che gli si facevano intorno. Mi parve di capire che fosse un bravo dilettante di piano.
La padrona lo condusse dinanzi a me, e tutti gli altri dietro.
Me lo nominò, m’inchinai. Nominò me a lui, e soggiunse:
“Ne avrà sentito parlare.”
Egli, in mezzo al silenzio generale, alzò gli occhi alla volta corrugando la fronte, stette un po’ pensando, e poi dondolò gravemente la testa per dire che non mi conosceva.
Tutti mi guardarono, io arrossii.
Dopo pochi minuti quel tale era seduto dinanzi al piano e suonava; altri giuocavano alle carte; altri, nell’angolo opposto, giuocavano a certi giuochi di società di cui non mi ricordo. Da quel momento in poi io vidi ogni cosa come a traverso d’un velo. Lasciato solo in un canto, divoravo in silenzio la mia rabbia, la mia vergogna, la mia umiliazione; avrei voluto essere dieci metri sotto terra; mi sentivo il più infelice degli uomini. Oh i miei poveri sogni! mie speranze! miei libri! notti passate a tavolino, colla fronte ardente e il cuore in sussulto! Pensavo a mia madre e ne sentivo quasi pietà.... Se fosse qui — pensavo — se mi vedesse! Ma io non pretendeva mica molto, io, — dicevo poi tra me coll’accento d’un povero che si lamenta d’un rifiuto, — io non domandavo mica d’essere ammirato, festeggiato, lodato; io cercava solamente una parola gentile, uno sguardo che mi dicesse: — Ti conosco; — un sorriso da cui potessi capire che qui si sa ch’io penso, sento, lavoro. Ma siete dunque dei bruti, voialtri?
Ricordo, così in confuso, che mi fu portato il quaderno d’un bambino perchè ci facessi le correzioni. Ricordo che mi fu presentato un maestro di prima elementare, che mi domandò: — Che studi ha fatto? — dopo che la padrona ci aveva lasciati soli dicendomi colla più ingenua bonarietà: — Ho trovato una compagnia per lei. — Ricordo che mi fu domandato da una signora se in Toscana si parla bene, e ch’io risposi che parlavano molto bene i contadini; alle quali parole diedero tutti in una sonora risata. Ricordo che sul punto d’accommiatarmi, mentre tutti mi stavano guardando con un’aria così tra di curiosità e di compassione per la mia musoneria, un bambino mi salutò gridando: — Addio, poeta! — saluto che provocò un’ultima e sonora risata di tutta la compagnia. E finalmente mentre ero già in fondo alla scala un ultimo: — Scriva! Scriva! — della padrona, che mi fece l’effetto d’una stoccata nel petto.
— Mai più, — dicevo tra me un’ora dopo buttandomi a letto ancora tutto pieno di amarezza e di stizza; — mai più in mezzo a codesta gente! Semplicità? Primitività? Candore? Ma è una ignoranza che opprime, una volgarità che schiaccia, un cretinismo che soffoca tutto quello che v’è di più nobile e di più alto nell’intelletto umano! Ma i figliuoli di codeste buone donne, se Dio ne guardi, avranno un lampo d’ingegno, se avranno cuore, se sentiranno il bisogno d’espandersi, d’essere riconosciuti, confortati, ispirati, ma cosa troveranno in casa? Far di queste figure dinanzi alle madri degli altri.... vada; ma dinanzi alla propria, ah! dev’essere duro!
E dopo d’allora, ogni volta che in una casa di gente bennata mi fanno sentir declamar versi e leggere composizioni italiane dalle bambine che vanno a scuola, non mi annoio più, come una volta, non mi stizzisco più, non mi par più che sia un’ostentazione sciocca e ridicola, perchè penso che quelle bambine, quando saranno madri di famiglia e terranno conversazione in casa, a nessun giovane che studi e che lavori faranno mai passare una serata d’inferno come quella ch’io passai.....
Così il mio amico. Mi pare, ripeto, che sia un caso pratico abbastanza eloquente. Lascio la conclusione ai lettori e fo punto.... Ah! mi sono scordato di dire, ma credo quasi inutile d’aggiungere, che tutte quelle signore, se non scrivevano bacio con due c, certamente, nell’atto di scrivere, dovevano stare un po’ sopra pensiero; eppure credo che fossero ancora superiori d’un grado alla donna tipo del giornalista in discorso, perchè Polonia sapevano tutte che non era una creatura come loro.
IL CAPITANO UGO FOSCOLO.
[Firenze, 24 giugno 1871.]
Tutti, al giungere della salma di Ugo Foscolo, si levano il cappello e abbassano riverentemente la fronte esclamando: — Onore al grande poeta.
Io mi pianto qui diritto, alzo la testa, porto la mano aperta alla tesa del cappello ed esclamo con accento soldatesco: — Onore al capitano Ugo Foscolo!
Il capitano Foscolo è poco conosciuto.
Nei collegi militari, quando un giovanetto dà segno di esser nato alle lettere e alla poesia, i maestri gli sogliono dire: — Bravo, studii, non si perda d’animo, la poesia si può benissimo conciliare colle armi; veda, per esempio, nell’antichità Tirteo; in tempi posteriori, Cervantes, Calderon de la Barca, Camoens; in Italia, Dante, che combattè a Campaldino, come lei sa; poi, in Grecia, Riga; Koërner in Germania; Ugo Foscolo.... —
Alto! signor maestro; alto dinanzi al giacinto greco educato ai soli d’Italia, come disse Francesco Domenico. Per gli altri, vada; ma di Ugo Foscolo, che è tanto vicino a noi, si dovrebbe dire qualcosa di più e di meglio che la solita formola: poeta e guerriero, quando lo si cita ai giovani poeti che un giorno saranno ufficiali. Guerriero! Gran cosa! Che un uomo dotato d’ingegno poetico eccellente abbia potuto andare alla guerra, non deve parer cosa singolare e mirabile se non a chi tenga come verità ammessa e riconosciuta che dire poeta, spaccone e poltrone, sia come dire bianco, rosso e verde. E questo un professore non lo deve credere. Al contrario, stando alla sentenza del Leopardi, secondo la quale non può immaginare e scrivere cose veramente nobili e grandi se non chi, avendone il modo, le farebbe; un maestro deve sempre mostrare di meravigliarsi che tutti i poeti, e massime i più bellicosi, non siano andati a fare il soldato quando se ne presentò l’occasione.
Quindi, parlando del Foscolo ai giovani militari, si dovrebbe dir loro, non già: — Vedete, esempio stupendo! Foscolo scrisse versi immortali e si battè da valoroso; — ma bensì: — Vedete, virtù rara! Foscolo il letterato, Foscolo il poeta, Foscolo colla testa piena di Omero, di Virgilio e di Dante, Foscolo fece il suo servizio d’ufficiale con una sollecitudine da contentare il colonnello più brontolone dell’esercito imperiale; Foscolo tenne la contabilità di tre depositi con una diligenza da disgradarne l’ufficiale d’amministrazione più consumato; Foscolo s’occupò delle camicie, delle scarpe, dei cappotti, della zuppa dei suoi soldati con una cura costante, affettuosa, paterna; ed amò infatti i suoi soldati come figliuoli, e ne fu amato come padre.
Qui sta il mirabile, qui la virtù caratteristica di Foscolo soldato, che gli altri poeti non ebbero, o che degli altri, almeno, non possiamo citare. Combattere da valoroso, certo, è qualcosa; ma far bene il servizio di quartiere e tenere in regola i registri, per un poeta, è molto di più; chè, in fin dei conti, nel combattere c’è poesia, o s’è assuefatti a vedercene, mentre in quelle altre faccende, chi ce la vuole, bisogna che ce la metta tutta di suo. E il Foscolo ce la mise, e per questo, ripeto, più che per altro, fu singolare e mirabile; e per questo vuol essere ricordato e lodato.
Bello è vedere il Foscolo, giovanissimo, ma pure colla profonda certezza di esser nato alla gloria e di riuscire un giorno da più che qualcosa, il Foscolo che aveva speso la sua adolescenza negli studi, e trionfato a Venezia col Tieste, e scritto la celebre ode a Buonaparte, e redatto il Monitore Italiano con Pietro Custodi e Melchiorre Gioia, e riempito omai del suo nome mezza Italia; bello è vederlo, al primo grido di guerra, dimenticar versi, fama ed amore, e abbandonarsi tutto allo spirito guerriero che gli ruggìa dentro, e fare come semplice soldato le campagne del VII, e combattere a Cento, a Forte Urbano, alla Trebbia, a Novi, in Toscana. Bello il vederlo sui monti di Genova, sotto gli occhi del maresciallo Soult, slanciarsi tra i primi all’assalto del forte dei Due Fratelli, e cader ferito, e meritare le lodi del generale Massena. Bello il vederlo la sera, stanco delle lunghe fazioni del giorno, arringare il popolo genovese, ridotto ormai a cibarsi di gatti e di buccie di limone, e accenderlo di coraggio e di speranza; e potendo stare meno a disagio nello stato maggiore, preferire d’aver comuni cogli altri i digiuni e gli stenti del soldato; e tra questi stenti, in mezzo alle grida delle madri genovesi moribonde di fame, scrivere l’ode a Luigi Pallavicini e la lettera fatidica a Buonaparte. Bello infine vederlo pellegrinare pei campi italiani, facendo, com’egli scrisse, da difensore ufficioso ai soldati colpevoli sottoposti ai Consigli di guerra; e compiere la sua missione topografica nella Valtellina traducendo Omero, e raccogliere documenti per la storia dell’arte militare, e dar opera alla pubblicazione del Montecuccoli, e cercare ogni mezzo di rendersi utile e d’usare il suo ingegno in pro dell’esercito e della patria. Tutto questo è bellissimo; ma non vale le poche lettere d’ufficio scritte da Valenciennes al capo di stato maggiore e al generale di divisione.
Scrisse queste lettere come comandante di tre depositi del così detto Esercito dell’Oceano, al campo di Boulogne. Era suo vivissimo desiderio di seguire in Inghilterra il genio di Bonaparte, per vedere coi suoi occhi una spedizione, la quale per i cambiamenti di sistema di guerra e pei progressi della marina, avrebbe fatto epoca negli annali delle guerre. Ma pur troppo il suo desiderio andò deluso, ed egli non vide combattere altre colonne che quelle del dare e dell’ avere, e invece di riportare vittorie si dovettero contentare di riportar totali.
La sua corrispondenza data dal giorno in cui assunse il comando dei tre depositi, il 3 gennaio 1805. Le lettere sue sarebbero quarantotto; di conosciute non ve n’è che dieci o dodici; ma bastano a far capire con che buon volere e che cuore il Foscolo facesse il dover suo. Si vede che il proprio servizio egli lo pigliava sul serio quanto il proprio genio, e che il suo maggior dolore era di non poter compiere questo servizio meglio di quel che facesse, sia perchè si trovava male in arnese fin dal giorno del suo arrivo al campo, sia perchè i depositi difettavano di tutto, persino del più necessario alla vita; coloro cui spettava di provvedervi avendo il capo alla guerra più assai che ad ogni altra cosa.
Un gran tormento per lui era l’amministrazione.
I superiori gli raccomandavano continuamente l’economia, e a lui non bastava il cuore di farla con quei poveri soldati già ridotti agli estremi. «Mi ingegnerò; — rispondeva al generale — e d’ora in poi darò solo la metà paga; ma è impossibile, atteso il freddo e il bisogno che il soldato ha della birra, di fargliela aspettar tutta.»
I soldati dei depositi erano travagliati dalla febbre; ma poco male la febbre. «I rognosi — scrivea egli al suo capo di stato maggiore — vanno guarendo; ma i nuovi arrivati ne hanno avuto la loro porzione.»
Anche la rogna!
E sempre, in queste sue lettere, l’accento della più sincera e più calda premura: «Io vi supplico, mio generale, di scrivermi s’io devo continuare a far somministrare il pane da zuppa.» E un’altra volta: «Vi supplico di far sì che i capi dei corpi mi mandino la porzione di massa pel pane da zuppa. Il capo battaglione Begani è testimonio delle noie con cui mi punge il fornaio pel suo credito di un mese; e fra otto giorni sarò forzato a sospendere la zuppa. Che se a questa privazione s’aggiunge anche la privazione della paga, immaginate che diverrà del povero soldato!»
A dar un’idea dello stato in cui codesti soldati si trovavano, valgano i seguenti periodi, che sono veramente commoventi, e si notino quelle parole sul cappotto, sui depositi, sulle rappezzature, sulle frodi, che son proprio quelle stesse che si senton dire tutti i giorni nei nostri reggimenti: mali sempre veri e lamenti sempre inutili.
«Il buon volere di tutti i soldati — scrive al generale — e le cure dei sotto-ufficiali hanno sino ad ora riparato con l’industria e con le rappezzature l’imminente nudità. E posso dire che i tre depositi giunti a Valenciennes logori e indecentissimi potrebbero presentemente ad una rivista sostenere il confronto della tenuta con ogni individuo de’ reggimenti; ove per altro non si guardi più oltre della scorza e si conceda il cappotto copritore di magagne a quegl’infelici che non hanno nè uniforme, nè giubba con maniche. Ma tutti questi ripari vanno diventando insufficienti, e le rappezzature consumano una parte della paga del povero soldato. So che i Corpi sogliono riguardare i depositi come un ammasso di pezzenti; ma vera o falsa quest’opinione, io non soffrirò mai che il soldato sotto i miei ordini abbia a vergognarsi della propria persona; ed invocherò con tutto il vigore il vostro aiuto per fare osservare quelle leggi che pagano il sudore del soldato e lo proteggono dalla frode.»
Bene e bravo!
S’occupava egli stesso della compra delle camicie pei soldati, e a furia di ricerche, essendo riuscito a trovarne delle buone a tenuissimo prezzo, scriveva al generale per fargli notare che nei corpi si pagano molto di più e che sulla massa dei soldati si ruba.
Per dare un premio ai sott’ufficiali di buona condotta, e perchè non gli reggeva l’animo di vederli mal vestiti, il povero Foscolo anticipava loro, di sua tasca, un po’ di danaro sui risparmi futuri delle loro masse; faceva man mano accomodare gli oggetti dei soldati coi pochi sussidii che la sua povertà gli concedeva di prestare; assisteva egli stesso a tutti i contratti perchè non si defraudasse il soldato; ratificava gli atti più minuti dell’amministrazione; esigeva che gli operai e i mercanti andassero di persona al suo ufficio a prendere le ricevute; e così a forza di pazienza e di cura faceva in modo che le cose camminassero il meno peggio possibile.
«Interponete la vostra autorità, mio generale — egli scriveva — perchè io possa vedere i miei soldati contenti di me come io sono omai divenuto contento di loro. La sala di disciplina è vuota; il servizio, regolare; i tre corpi, concordi, e tutti zelanti per il proprio dovere.»
Ma non era sempre così. Egli aveva ragione di lamentare, fin d’allora, la poca subordinazione in cui vivono naturalmente gl’individui lontani dalle severità dei corpi, ed esigeva che i sott’ufficiali contabili, lontani dai suoi occhi, venissero a presentargli ogni giorno il proprio lavoro. Brontolava anch’egli, fin d’allora, perchè i sott’ufficiali tendevano a violare l’ordinanza dell’uniforme. Deplorava che il vestito dei soldati fosse fatto, anche allora, a casaccio, e che la cintura dei calzoni, in ispecie, non arrivasse al ventre, e che quei benedetti fondi si logorassero in così poco tempo. E si doleva col generale che gli ufficiali comandanti i drappelli lasciassero per la strada gli infermi e si portassero via i cappotti; « cosa non so se contro i regolamenti — soggiungeva — ma certamente contro l’umanità e la prudenza;» anche allora. — Gli toglievano i migliori sergenti; scriveva ai corpi, e i corpi non gli davan retta; voleva chiudere i conti e non gli spedivan le carte; ed egli s’indispettiva, povero Foscolo, e si rodeva, e si sfogava col suo generale: «Sono assai male trattato; lasciatemi almeno il foriere Gilli, unico capace ad aiutarmi nella noiosa, imbrogliata e per me nuova contabilità di tre differenti Depositi.»
Oh povero autore dei Sepolcri!
E a questo s’aggiungevano altri guai. Il vivandiere aveva tre figliuole; queste tre figliuole non adornavan l’amor d’un velo candidissimo, punto punto; ne seguivano gelosie tra i sergenti, risse, duelli; e il povero Foscolo era costretto a consegnare i soldati in quartiere, ad arrestare, ad inquisire, a stendere relazioni su relazioni. I sergenti rubavano sui fogli di prestito; un sergente-maggiore gli scappava, un soldato portava via le catene dai carri d’artiglieria, un altro veniva alle mani coi cittadini, e lì richiami, proteste, scandali. E intanto sopraggiungevano in folla i prigionieri inglesi, e bisognava rafforzare il servizio di guardia, e il numero dei soldati non bastava, e i soldati si lamentavano.
«Ah! mio generale — scriveva allora il Foscolo disperato — confesso che la forza e la pazienza mi cominciano a mancare.»
L’anima del Foscolo, disse giustamente un critico, era lirica; lirica nelle lettere famigliari, lirica negli articoli di giornale, lirica nelle prefazioni, lirica persino nelle postille di commentatore. È vero, e queste sue lettere sono liriche anch’esse, piene di passione, di vigore, di vita.
«Vi raccomando mio fratello — scriveva al vice-presidente della Repubblica italiana. — Egli è colto, coraggioso e bello.» Curioso quel bello, messo lì in fondo a una supplica con quella franchezza; chi ce lo mettesse ora!
«Il solo Bravosi — scrive al generale di divisione — resta fidecommesso nella stanza della rogna; ed il solo Ragazzi, ladro, esce tutti i giorni dalla sua prigione, fra l’immondizia e lo squallore, esempio quotidiano ai malfattori.» È scolpito.
E poi certi passaggi curiosi. Scrivendo a un sergente-maggiore, dopo un’invettiva violenta, conclude solennemente:
«E il cacciatore Gabbetto è creditore vostro di lire 3 per una camicia!»
Altrove una tirata sulle stufe, sulle marmitte, sui vetri rotti.
E di qualunque cosa parlasse, sempre lo stesso impeto, lo stesso fuoco, come se declamasse una poesia o improvvisasse un’orazione.
Nè queste cure impedivano al Foscolo di studiare. Dopo gli esercizi militari, che spesso Napoleone faceva fare per lunghe e lunghe ore anche colla pioggia dirotta, e specie nei giorni di riposo, mentre i soldati coltivavano gli orti intorno alle baracche, e gli ufficiali ballavano, amoreggiavano o giocavano al biliardo, il Foscolo studiava ardentemente la lingua inglese, incominciava la traduzione dello Sterne, scriveva la stupenda Epistola a Vincenzo Monti; e commosso dallo spettacolo di dugentomila uomini accampati sulla sponda dell’Oceano, meditava la seconda edizione del Montecuccoli e volgea in mente i carmi alteri come il brando che dovevano accender la musa di Silvio Pellico; tanto è vero, come scrisse il Pecchio, che chi sa rinunciare alla bottiglia, alla pipa e alle carte, abbonda sempre di tempo anche in mezzo alle funzioni della guerra. In una parola, il poeta fortificava in lui, anzichè snervare il soldato, e gli dava lena a sopportare con animo invitto i disagi, nonostante ch’egli avesse amato prima ed abbia amato poi la vita molle ed agiata. L’amò poeta, soldato la disprezzò. E certo doveva aver virtù di tal genere, — osservò giustamente uno de’ suoi biografi. — nè altre virtù potevan renderlo così accetto, com’ei fu, ai militari, non punto propensi a concedere la loro ammirazione a chi segue più riposato cammino.
Tale fu la vita militare di Ugo Foscolo.
Da ultimo, per i mutamenti politici e per quelli dell’animo suo, si stancò della carriera delle armi, e deliberò di escirne; ma non l’ottenne senza difficoltà e senza noie. Aspettava una riforma, non venne; chiese le demissioni, non gliele volevano dare; la divisa militare gli pesava; cosa che segue sovente anche ai dì nostri a chi la vestì con troppo ardore e troppe speranze.
«Questa divisa italiana — egli scriveva, — mi pare sì umiliata, sì misera, sì perigliosa, che io darei un paio di scudi a chiunque la portasse, quando io sono alle volte obbligato a portarla.»
E non la vestiva che per far rispettare la sua carrozza dai gabellieri.
Ma non fu colpa sua; a suo tempo ei l’amò, codesta divisa, e la vestì con orgoglio, e con orgoglio scrisse a Gioachino Murat quelle memorabili parole:
«Principe, le lettere sono il primo scopo della mia vita; ma io le ho sempre associate alle armi per dar loro il coraggio e l’esperienza, che distingue i grandi scrittori.»
E ricordino queste parole, e le ripetano sempre tutti i letterati militari presenti e futuri.
E ricordino pure, in certi momenti d’uggia e di stizza, quando il giogo della disciplina preme più forte, e il sangue comincia ad accendersi, ricordino che molte volte anche l’autore dei Sepolcri si sentì dire da qualche maggiore arrabbiato:
— Signor Foscolo!... le scale son sudicie.... Signor Foscolo!... lei non ha la cravatta d’ordinanza. Signor Foscolo!... si eserciti; lei non maneggia ancor bene lo stile d’ufficio! —
E Foscolo, focoso, indocile, superbo; Foscolo, che travedeva cogli occhi della mente le generazioni avvenire chinate innanzi alla sua immagine, Foscolo stette a sentire, e mandò giù e tacque; e s’egli tacque, altri può ben rassegnarsi a tacere: lo si pigli ad esempio anche in questo.
Ed oggi che la sua salma è restituita all’Italia, e di lui, della sua indole, del suo cuore, della sua vita si parla e si scrive con ardore nuovo e giudizi diversi, non ci sfuggano allo sguardo, tra le foglie della corona d’alloro, i galloni del vecchio berretto di capitano; tra i versi dei Sepolcri raffiguriamoci le cifre e le righe dei registri; poichè anche quel berretto coperse dei nobili sudori, e fors’anche su quei registri, qualche volta, a tarda notte, in una cameretta solitaria del quartiere di Valenciennes, egli lasciò cadere la fronte stanca e contristata. Teniamo conto della pietà gentile ch’ei nutriva pei suoi soldati laceri ed infermi, e dell’ira generosa con cui ne difendeva i diritti e ne proclamava i sacrifizi; mettiamo sulla bilancia anche quelle fatiche, quei disinganni, quei dolori; e in mezzo agl’inni e alle musiche che lo salutano grande cittadino e grande poeta, sorga un grido soldatesco accanto alla tomba, che dica:
Gloria al capitano Ugo Foscolo!
Forse, chi sa? s’egli si potesse destare un istante, quel grido, più che ogni altro, varrebbe a richiamare sulle sue smorte labbra un sorriso e un lampo nei suoi occhi infossati. Forse egli mormorerebbe con voce commossa: — Oh!... il mio campo di Boulogne! I miei soldati! —
AI COSCRITTI.
Febbraio, 1870.
In queste sere s’è visto passare per la città molti coscritti. Passavano per lo più a notte fatta, quando le vie sono illuminate, e comincia il viavai delle carrozze, e quel vario agitarsi di gente allegra che è solito nei giorni di carnovale. Passavano in fretta, due a due, vestiti dei loro panni da paesani, ravvolti nelle coperte da campo, condotti da pochi soldati, voltandosi di qua e di là a guardare le porte dei teatri, le botteghe tappezzate di maschere e i banchi dei venditori di fiori, coperti di ghirlande e di mazzi. Della gente, altri dava loro un’occhiata di sfuggita, altri si fermava agli angoli delle vie per vederli sfilare, e qualche cocchiere bestemmiava ch’era costretto a fermare il legno; i fattorini dei caffè, col naso contro le vetrine, accompagnavano collo sguardo il drappello frettoloso fin che spariva.
Una sera fra le altre, trovandomi con un amico mentre passava uno di questi drappelli, gli dissi:
“Osserva in questo momento le faccie della gente che guarda, e dimmi se ne vedi una che abbia una espressione decente. Costui che c’è vicino ride d’una certa foggia di calzoni che aveva un coscritto che gli passò dinanzi. Quest’altro ha mormorato a fior di labbra: — Gli hanno un freddo da cani! — e se n’è andato cacciando il mento sotto il mantello, più contento di sentirsi al caldo dopo aver visto qualcuno che batte i denti. Quell’altro là guarda i coscritti colla stessa aria di curiosità con cui si guardano i condannati condotti al palco. Questo giovanotto che ti sta accanto ha esclamato: — Oh che vita! — Quello lì che hai davanti ha brontolato: — Oh poveri disgraziati! — E tutti gli altri, guardali bene, chi più chi meno hanno la testa chinata da un lato, e il viso atteggiato a quella egoistica pietà che si compiace nel confronto dei dolori altrui colla quiete e col benessere proprio; quella pietà bugiarda e poltrona, che pronuncia la parola trista colla voce allegra, e deplora senza amare; pietà che oscilla fra la compassione e lo scherno, senza la sincerità dell’uno e la sfacciataggine dell’altro; pietà più oltraggiosa del disprezzo. Perchè ciò?”
“Perchè tutta questa gente non capisce il soldato,” mi rispose l’amico; “perchè vedendo passare codesto drappello di coscritti, la maggior parte non considerano altro che la privazione del teatro, della passeggiata e della bettola, e non vanno colla mente più in là della caserma dove ci si diverte poco e si dorme a disagio. Nessuno di costoro, io credo, scorge nel fatto stesso di questa privazione, nel contrasto di questi giovani che cominciano ora una vita di abnegazione e di stento, con tutta l’altra gente che ne comincia una di allegrezza e di festa, nessuno vi scorge l’idea grande e generosa che v’è significata e posta in atto, e che deve impedire la pietà suscitando l’ammirazione. Quando nel soldato non si vede più che una persona gravata di molte fatiche e priva di molti divertimenti, quando non lo si capisce più che come individuo, vuol dire che non lo si capisce più affatto.”
Gli domandai se credeva che fossero molti quelli che non lo capivano più.
“La maggior parte,” egli mi rispose. “Nel nostro paese, siamo oramai pervenuti a quei giorni pronosticati dal Bossuet, in cui gli uomini non hanno più la mente e il cuore ad altra cosa, che agli affari e ai piaceri. Fuori di lì pare che non s’intenda e non si senta più nulla. La morale, il dovere, l’abnegazione, il sagrificio, i principii più sacri del pari che i sentimenti più nobili, sembra che pel generale degli uomini si siano mutati come nei fantasmi d’un sogno, che brillano a brevi istanti nel pensiero, e dileguano. E non è punto da meravigliare quando si pensi che suol accadere dei popoli lo stesso che degli uomini, e specialmente dei giovani. Come un giovane, dopo essersi sciolto (per forza di qualche doloroso disinganno) da una passione violenta contratta con molta speranza di felicità e di fortuna, ricade in un abbandono spossato e tristo, e rinnega tutti gli affetti gentili che quella passione gli aveva suscitati nel cuore, e deride tutti gli alti propositi che gli aveva fatto fermare, e si butta allo scettico, e divien freddo e duro; così il nostro paese dopo quella grande espansione d’entusiasmo, di virtù e di fede che ha fatto quattro anni or sono con esito tanto diverso dalla sua aspettazione, ora è caduto nell’apatia, stanco, incredulo e svogliato. In mezzo a questo desolante spettacolo di fracidi vizi e di virtù frolle, come dice il Giusti, l’esercito è quanto gli rimane di meglio; ma la maggior parte, ripeto, non lo comprende più. E perchè per comprenderlo bisogna aver cuore, e quando non s’ha cuore la mente sola non basta ad afferrare il senso di certe cose; perchè quando dal cuore sono fuggiti certi sentimenti e certe virtù, non si può più capire un’istituzione che appunto da quelle virtù e da quei sentimenti trae la sua vita e la sua forza; perchè quando non s’ha più spirito di abnegazione e di sacrificio non si vede più che cosa importi a uno Stato il possedere una grande scuola in cui quello spirito si fortifichi e s’inspiri. Quindi, si considera l’esercito come un’altra qualunque istituzione, di cui, quando non si toccano i frutti dì per dì, si dice ch’è inutile. Non vi si vede dentro il grande lavoro morale che vi si fa, i caratteri molli che vi si ritemperano, i buoni principii che vi si rassodano, le aspirazioni generose che vi si attingono; tutto questo non dà nell’occhio, non si tocca, non si sente; chi è che va a frugar nell’anima dei quarantamila uomini che ogni anno tornano a casa? Si vedono passar per le strade, uscir di quartiere, girare in piazza d’armi, fare la sentinella, combattere le battaglie finte, finire il servizio, e tornarsene, e tutto è lì; l’esercito non è altro e non significa altro. Qual meraviglia che il coscritto desti un sentimento di pietà in chi vede l’esercito sotto quest’aspetto? È un uomo che va a sgobbare e a soffrire.”
Questo disse il mio amico. Però badate, o lettori: coloro per cui le parole di sacrifizio e di abnegazione non sono che parole, coloro, che a parlargli il linguaggio del cuore sorridono, coloro che tengono la vostra vita per una vita di forzati, in cui non si faccia nulla per impulso spontaneo di virtù e tutto per timor della pena, badate, costoro quando mostrano di pigliare a petto la vostra causa, mentono. Chi vi compiange invece di ammirarvi e di farvi coraggio, è quegli stesso che compiange l’operaio che suda per procacciare il pane ai suoi figliuoli, perchè in lui come in voi non capisce il sacrifizio, e come non lo capisce, così lo suppone un dolore senza conforti, da cui l’anima naturalmente repugni, come dal più duro supplizio. E come lo suppone senza conforti, così non sa rendersi ragione del come e del perchè possano esistere nel cuor vostro de’ sentimenti che ve lo facciano parer leggiero, che ve lo facciano compiere lietamente, e considerarlo come un dovere, e ricordarlo, dopo fatto, come una gloria. Costoro sono quegli stessi che si domandano perchè il soldato Perrier si sia fatto uccidere per salvare la vita al sottotenente Cocatrix; perchè il sottotenente Gabba abbia amato meglio di pigliarsi una palla nel fianco che rispondere al nemico: — Mi arrendo; — perchè Alfredo Cappellini abbia voluto morire quando poteva mettersi in salvo senza venir meno al suo onore. Con che scopo? domandano. Con che scopo!
Ma abbiatelo per fermo: quando non s’ha punta virtù di sacrifizio, quando non s’ha cuore da amare questa virtù per sè stessa, senza scopo e senza perchè; quando si disconoscono questi grandi sentimenti che sono quanto v’è di più eletto e di più rispettabile nell’uomo, allora non c’è più nè magnanimità, nè coraggio, nè forza, e neanche onestà vera e soda. L’uomo non è più onesto se non quanto e finchè gli conviene. Non riconoscendo più altro movente e altra norma alle azioni proprie che l’utile e l’interesse diretto del suo benessere, quando questo cessa come consigliere di onestà, l’istinto brutale sottentra e l’ordine morale è sconvolto.
Ma voi non siete di costoro; voi siete giovani, voi avete lasciato or ora le vostre famiglie e serbate l’anima piena di fede e di affetto, e intraprendete lietamente questa nuova vita faticosa ed austera a cui foste chiamati.
Per ciò a voi si può parlare un linguaggio che altri non capirebbe o volgerebbe in riso; a voi si possono porgere i consigli che il cuore detta e che si rivolgono al cuore; voi non torcete il labbro, per Dio, quando si fa appello ai sentimenti più generosi dell’anima umana.
Anzitutto non bisogna nascondervi la verità. Noi non siamo di coloro che mettono in luce un solo aspetto della vita militare, il migliore. Noi diciamo apertamente ch’essa è dura e penosa. Per aver diritto di porgere dei conforti, convien mostrare di conoscere le ragioni per cui si stimano necessarii. E queste ragioni son molte. Il soldato vive lontano da casa, sacrifica la libertà, ed è sottomesso a una legge inesorabilmente severa. Un accesso di collera, un offuscarsi momentaneo della ragione può esser causa dell’infelicità dell’intera sua vita, lo può perdere per sempre. Bisogna ch’egli rompa bruscamente tutte le abitudini del passato; bisogna che rinunci a molti di que’ piccoli comodi e di quei modesti piaceri d’elezione che ogni altra condizione sociale, per quanto umile, permette. In molte occasioni, bisogna ch’ei ponga a repentaglio la salute e la vita nello stesso modo che altri arrischierebbe al giuoco uno scudo, senza esitazione e senza rammarico. Bisogna che molte volte egli sopporti fatiche tremende, che trascinano l’anima alla disperazione; fatiche a cui egli stesso si meraviglia poi d’aver potuto resistere, come quelle che reputava fermamente superiori alle forze mortali. La fame, la sete che mette il fuoco nelle viscere, deforma il sembiante umano e ottenebra l’intelletto; lo sfinimento che prostra l’uomo a terra come privo di vita; il sole che infiamma il cervello; la caldura che mozza il respiro; la trista solitudine del casotto nelle notti d’inverno, in mezzo al gelo e alla neve; le infermità non credute, che non esentano dalla fatica, e la convertono in un tormento e in un pericolo; le lunghe ore d’immobilità e di silenzio nelle rassegne; la compagnia obbligata di persone invise o sprezzate o ripugnanti; i sonni brevi e interrotti da subite chiamate e dalla necessità improvvisa di fatiche nuove; il cibo qualche volta malsano o scarso o tardo; le mille esigenze della condotta fuori del servizio; le cure minute e tediose della divisa e delle armi; l’isolamento da ogni classe di cittadini in città sconosciute; in qualche luogo e in qualche caso la diffidenza della popolazione, o l’antipatia, o l’ira aperta e l’odio; e mille altre cose.
Ma che perciò? Perchè la vita del soldato trae con sè questi mali, dovremmo noi fare come certi suoi mascherati amici, che dopo averglieli enumerati dal primo all’ultimo, ricominciano dall’ultimo per ritornare al primo? Che amicizia è questa, di aprir la piaga pel solo gusto di vederci dentro, senza spargervi il balsamo risanatore?
Noi diciamo invece al coscritto: — Questi sono i mali che tu avrai da patire, e sono molti e non lievi; ma non disanimarti: intraprendi la tua strada coll’animo armato di coraggio e di costanza, non lasciarti accasciare sui primi passi. Non c’è vita, per quanto dura, che non abbia le sue consolazioni. Di queste te ne verrà una parte dalla natura stessa della vita che tu farai; vita nuova e varia e piena di accidenti impreveduti e strani; vita in cui ai giorni lenti e tristi s’avvicendano molto spesso i giorni allegri e rapidi. Muterai sovente soggiorno e conoscerai molta parte del tuo paese che ora t’è ignoto poco meno che un paese straniero; e vedrai terre e città per te nuove d’aspetto e di costumi, e ti si aprirà la mente a nuove idee, e acquisterai in pochi mesi l’esperienza di varii anni, e molte di quelle cognizioni che nessun tempo ti avrebbe fatto acquistare se tu fossi rimasto a casa tua. Altre consolazioni tu potrai ricavare dalla tua coscienza, purchè tu gliele sappia domandare. Non sorridere; non c’è soldato, per quanto ei comprenda male i suoi doveri, per quanto ei si tenga poco della sua divisa e senta leggermente la dignità del suo carattere, non c’è soldato, anche fra i più svogliati e i più scontenti, il quale in fondo al cuore non celi pure un po’ d’alterezza, un orgoglio indistinto, una tal quale compiacenza d’essere soldato; o se non la sente fin ch’è soldato, la sentirà poi, la sentirà di sicuro. Non sono rari i soldati che maledicono una volta all’ora l’uniforme che vestono e la vita che menano; ma sono certamente rarissimi quelli che, tornati a casa, non si tengono onorati d’aver vestito quell’uniforme e di aver menata quella vita. Non c’è vecchio soldato il quale non comprenda e non senta che quei cinque anni di vita militare gli hanno lasciato in fondo al cuore qualche cosa di buono e di stimabile; qualche cosa che gli conferisce una superiorità incontestata sugli altri; un diritto particolare alla pubblica considerazione. E tu procura di nutrire e di mantenere in te questo sentimento fin da quando ti trovi al servizio. Perchè di una qualità di cui sarai certamente lieto ed altero molto tempo dopo che l’avrai rilasciata, non dovresti essere altero e lieto mentre l’hai? Non è giusto nè utile. Tientene dunque di essere soldato. Se non avrai questo sentimento, le fatiche e le privazioni ti parranno doppiamente penose, perchè ti mancherà l’alimento principale che dà la forza per sostenerle: la soddisfazione di compiere un dovere che onora.
Un altro conforto lo troverai nei tuoi amici. La vita molle, snerva e intisichisce il sentimento dell’amicizia; la vita rigida, lo rafforza e lo dilata. La parola camerata, che propriamente significa amico di caserma, vuol dire assai cose di più che la parola amico, perchè accenna alla natura speciale dell’affetto che fa nascere tra soldato e soldato la comunanza della vita militare. Camerata vuol dire un compagno che ti vuol bene, perchè avete mangiato molto tempo insieme la minestra della stessa marmitta; perchè in marcia avete molte volte dormito l’uno accanto all’altro sui mucchi di pietre della strada; perchè molte volte vi siete portato il rancio l’uno all’altro quand’eravate di guardia, e molte volte vi deste il cambio di sentinella, e vi aiutaste a stringervi il cinturino, e v’imprestaste la giberna per andare alla parata della guardia, e la pipa per passare il meno noiosamente possibile le ore di uscita nei giorni ch’eravate consegnati. Per tutte queste ragioni il camerata è più che un compagno e un amico, è un fratello; anzi, più che un fratello, perchè la comunanza dei pericoli della guerra infonde in questo affetto fraterno un non so che di forte, di solenne e di sacro, che tra fratelli, nella vita ordinaria, manca. E tu vedrai, coscritto, che i tuoi più cari ricordi d’amicizia saranno sempre quelli della caserma; che il viso di cui ricorderai più lungamente la fisonomia sarà quello del tuo vicino di letto; che i motti, gli scherzi, i consigli, gli atti garbati, i servizii amichevoli, le testimonianze e le prove di affetto e di fedeltà che porterai per maggior tempo nel cuore saranno quelli dei tuoi compagni di squadra; che fra i servigi di cui conserverai più viva e durevole la gratitudine sarà quello d’un sorso d’acqua datoti da un camerata in un’ardente giornata di luglio dopo molti chilometri di cammino, una visita ch’egli t’abbia fatto all’ospedale quand’eri malato, o una lira ch’egli ti abbia prestata in una tua occasione di bisogno. Credi, coscritto, a quest’affetto, che è quanto di più bello e di più nobile ha la vita del soldato. È un affetto che non si dimostra colle carezze e colle tenere parole; è un affetto chiuso e ruvido; ma profondo, ma schietto, ma tale che tu ci puoi confidare sempre e con sicurezza intera. Hai tu mai veduto due soldati della stessa compagnia che s’incontrano e si riconoscono dopo molti anni che hanno finito il servizio, quando son tutti e due padri di famiglia, mutati di viso, di panni e di costumi? Se tu gli hai veduti, e se il loro grido di sorpresa, la loro gioia, il subito illuminarsi del loro volto e l’impeto affettuoso con cui si sono gettati l’uno nelle braccia dell’altro non t’ha fatto dire: — Io li invidio — allora tu hai il petto vuoto come un tamburo. Ma no, tu avrai goduto della loro gioia, e sinceramente ammirato l’intima corrispondenza dei loro cuori, e detto a te stesso: — Quando sarò soldato, sarà codesto uno dei miei più cari conforti.
Un altro dei tuoi conforti, sarà la memoria affettuosa della tua famiglia. L’amore della patria e della bandiera non è veramente schietto e gagliardo se non quando germoglia dall’affetto della famiglia, che di tutti gli affetti è l’origine e l’alimento. L’amor di patria non è che l’amore della propria famiglia esteso dalle mura della nostra casa paterna fino ai confini dello Stato di cui siamo cittadini. Lo spirito di abnegazione che ci dà forza per faticare e soffrire, e coraggio per combattere e affrontare la morte in difesa del paese, non è che quello stesso spirito che ci induce a lavorare e a sudare più che non faremmo per noi, quando nostro padre è vecchio e inetto al lavoro; non è che lo spirito che ci fa vegliare le notti al capezzale di nostra madre colpita dal contagio, quando gli amici e i parenti paurosi l’hanno abbandonata; è lo stesso spirito fatto più potente e più ardito. L’amor di patria non è che l’amore d’una vasta parentela ignota; quando questo manca, nessun altro affetto attecchisce e mette radici profonde.
Custoditelo dunque, quest’affetto; mantenetelo vivo ed intero come lo sentiste nell’istante in cui vi siete separati dalla vostra famiglia; preservatelo religiosamente dalle offese del tempo, del mal esempio e dei cattivi costumi; preservate quest’affetto, il quale alla sua volta preserverà voi da molte bassezze, da molte colpe e da molti rimorsi. Non è possibile che un figliuolo sinceramente affettuoso e devoto si macchii mai di una codardia. Il pensare che un tal atto imprime il marchio del disonore sulla fronte di chi gli ha dato la vita, e contrista gli ultimi suoi giorni, basta per sè solo a rattenerlo sulla via del dovere e della virtù in qual più difficile cimento egli si venga a trovare. Il soldato che contamina il suo nome e tradisce la sua bandiera apre nel cuore dei suoi la più terribile ferita che vi possa aprir mano umana. Al contrario, nessun orgoglio è ad un tempo più caro e più legittimo in una famiglia, che quel d’aver dato all’esercito un bravo soldato. E il far sì che la nostra famiglia vada giustamente altera di noi, e aggiunga all’affetto naturale che ci porta il sentimento della gratitudine, è una delle più generose e gentili prove di virtù che possa dar l’uomo sulla terra. Onorate dunque il vostro nome onorando la divisa di cui la patria vi veste, e date ogni giorno un pensiero affettuoso alla casa paterna; dateglielo in mercè di tutte le trepidazioni che destano tra quelle pareti i vostri pericoli, di tutti i voti che si fanno là per la vostra salute, di tutto quel che si soffre, di tutto quel che si teme, di tutto quel che s’invoca per voi.
Questi sono i doveri che avete verso voi stessi. Ascoltate ora quelli che avete verso i vostri superiori e verso la disciplina.
Non date fede a coloro che, lamentando le gravezze della vita militare, distinguono malignamente voi dai vostri capi, per insinuarvi che coteste gravezze ricadono solamente sui soldati, e che man mano che si salgono i gradini della gerarchia, s’alleggerisce quel pesante fardello di doveri e di sacrifizi che voi portate tutto intero. Non date fede a costoro.
Persuadendovi che i carichi e i compensi sono ingiustamente ripartiti, essi mirano a scoraggirvi, perchè dallo scoraggiamento nasca il mal volere, e da questo l’indisciplina. Essi vi dicono una menzogna. Ascendendo di grado in grado, i carichi mutano di natura, non scemano; il peso passa dalle spalle sul capo; ma resta, e si rende forse più grave. I vostri capi, quanto più stanno in alto, tanto faticano meno della persona; ma tanto più hanno faticato per l’addietro. Voi siete giovani, essi sono molto innanzi cogli anni. Voi siete legati a codesta vita di sacrifizio per cinque anni; essi fino alla vecchiaia; molti fino alla morte. Voi menate codesta dura vita nel fiore della vostra giovinezza, in cui la salute rigogliosa, il sentimento d’un avvenire lungo e indeterminato, e le illusioni proprie della vostra età vi danno animo e vigore a sopportare lietamente le fatiche e le privazioni; in voi, ad ogni levar di sole, si ritempra di nuova forza il coraggio e di nuova letizia la speranza. Ma essi, i vostri capi, menano la vita militare in un’età avanzata, in cui l’entusiasmo giovanile, che ogni cosa avviva e abbellisce, essendo svanito in tutto od in parte, le privazioni e le fatiche, benchè per sè stesse men gravi delle vostre, riescono nullameno ad un effetto eguale, se non maggiore. Le umiliazioni che toccano a voi, i castighi che a voi s’infliggono hanno l’aspetto di essere più penosi e severi, e materialmente lo sono; ma riescono in fondo meno amari di quelli de’ vostri superiori, in cui l’età e il grado stesso raffinano la suscettibilità dell’amor proprio e rendono più duro l’orgoglio. Voi siete sotto gli occhi dei vostri superiori; essi sono sotto gli occhi di altri superiori, sotto i vostri e sotto quei del paese. La vostra responsabilità è ristretta nella cerchia del vostro buon volere, e l’assumete e la smettete in un con lo zaino e col cappotto; i vostri capi l’hanno sempre, l’hanno in momenti terribili, l’hanno tale che alle volte ella schiaccia le anime più grandi e spezza le fibre più vigorose. Voi colpisce qualche volta il castigo immeritato di un superiore violento; essi subiscono non di rado la sentenza ingiusta e la collera cieca d’un popolo e d’un’età, vittime espiatorie degli errori di molti. No, non è ingiusta la ripartizione dei carichi; credetelo, molti dei vostri capi v’invidiano spesso gli esercizi di punizione e la cella; molti vorrebbero talvolta mutare nella faticosa agitazione della vostra umile vita quella loro quiete stanca e pensosa, a cui dan nome di riposo gl’inesperti, e d’ozio i maligni.
Portate adunque rispetto ai vostri superiori, quanto più sono locati in alto; e non solo quel rispetto militare che la disciplina v’impone, allegandone la necessità e prefiggendone le forme; ma quell’altro rispetto intimo, cordiale, devoto, che ogni cittadino deve a chi regge un alto ufficio nel suo paese, ed ha per lo più, con molti e difficili doveri, pochi e malsicuri compensi. Rispettate i vostri capi anche come cittadini. Ricordatevi che molti di essi sono diventati vecchi nelle file dell’esercito; che molti hanno portato lo zaino e mangiato nella gamella, come voi, per assai più anni che voi non vi mangerete; che molti erano già soldati provetti e alteri di cicatrici antiche quando voi eravate poco più che fanciulli; che molti hanno combattuto per la libertà italiana o sono andati a cercare una guerra giusta e una bandiera libera in terra straniera, assai prima che voi foste nati. Ma non basta che li rispettiate: essi amano voi, amateli. Sono stolidi o tristi coloro che suppongono che i vostri capi non abbiano per voi altro sentimento che quello d’una indifferenza fredda o d’un’uggia stizzosa che cerca e desidera il fallo per vendicarsi col castigo delle cure e delle noie che loro toccano per cagion vostra. E perchè non vi dovrebbero voler bene? Perchè un colonnello coi capelli grigi (a meno che non fosse di natura eccezionalmente cattiva) non dovrebbe tenere in conto di suoi figliuoli voi, giovani di vent’anni, che in confronto suo siete tanti ragazzi, voi che gli ricordate i giorni più belli della sua giovinezza, le più care emozioni della sua vita soldatesca, quei giorni spensierati ed allegri ch’egli rimpiange pur sempre, e che vorrebbe forse rivivere anche a prezzo delle sue spalline e dei suoi quattro galloni? Ma non capite che voialtri comprendete tutto in voi stessi, e significate tutto per lui: il suo passato, la sua famiglia, il suo orgoglio, la sua vita? Gli è perchè non vi viene a stringere la mano uno per uno che voi supponete ch’egli non vi voglia bene? Voi sapete pure che non lo può fare perchè i più di voi abuserebbero di quella famigliarità, ed è giusta la sentenza che dice: — Da’ la mano al soldato ed egli si piglierà il braccio. — Ma andate un po’ da un colonnello a parlargli male dei suoi soldati! Guardateli un po’ bene negli occhi questi comandanti di corpo quando si congedano dai loro reggimenti! Andateli un po’ a cercare quando sono in ritiro e camminano col bastone, e parlate loro della quinta compagnia, della settima, della nona, di quella certa testa vuota di caporale foriere, di quella buona pelle di soldato, di quel tal altro rompicollo di tamburo, e vedrete come si ricordano di tutto e di tutti, anche molti anni dopo; come si riconducono coll’immaginazione a quei tempi, come s’esaltano, come s’inteneriscono!
Questo pei vecchi, che hanno per voi un affetto paterno. Ma avete pure tanti ufficiali giovani, sul fior degli anni come voi, che vi conoscono uno per uno, che vi stanno sempre vicini, che passano, si può dire, la giornata con voi, che sanno i vostri bisogni, che vi prodigano le loro cure, che sono come vostri amici e vostri fratelli maggiori. Abbiate fiducia in loro, ricorrete a loro quando vi occorre un parere o un consiglio, fate veder loro che essi v’ispirano più assai affetto che timore; siate aperti e franchi, e cacciate dall’animo quella diffidenza ombrosa e cocciuta che vi fa vedere in ogni superiore un soprastante malevolo, o un persecutore, un nemico. Nemico! e perchè? Nessuna cosa l’ufficiale ambisce più vivamente che l’affetto e la fiducia dei suoi soldati, e nulla più gli dispiace e l’offende che il veder qualcuno fra loro che lo guarda in cagnesco senza una ragione fondata; ma solamente perchè vede in lui personificato il rigore e il castigo. Che gusto volete che ci trovi l’ufficiale a farsi malvolere da coloro in mezzo a cui ha da passare metà della sua vita? Perchè il suo primo e più vivo desiderio non dovrebbe esser quello di non aver mai da punire, mai da rimproverare, mai da inquietarsi?
Ma il voler bene col cuore non basta; bisogna provarlo coi fatti: ubbidire, e ubbidire colla spontaneità e colla sollecitudine che previene il rimprovero senza lasciar travedere il timor del castigo; e non solo fare il proprio dovere, ma mostrare di capirlo, e non solo mostrar di capirlo, ma far vedere che lo si ha per giusto e per necessario. E sopra tutto non abbandonarsi mai a quell’andazzo di trovar tutto male, di censurar tutto, di far un gran che di tutti i piccoli inconvenienti, quasi inevitabili, del servizio, e mormorar contro i superiori, e dire che ogni cosa va per la peggio, e che coloro che comandano non sanno mai quel che si raccapezzino. Questo spirito di censura avventata e leggiera è la peste della disciplina; guardatevene, o sarete eternamente scontenti voi e farete eternamente scontenti gli altri. Ricordatevi che quando cent’occhi stanno aperti su quello che fa un solo è molto facile trovarvi di che ridire; che il vedere il male è cosa assai diversa dal saper fare il bene; che è una illusione comune dei molti che stanno in basso quella di credere che, messi loro alla prova riuscirebbero indubitatamente a far meglio dei pochi che stanno in alto; che tutti coloro che comandano oggi, ubbidivano ieri, e che forse ieri criticavano tutti e tutto come oggi facciamo noi, e che non per questo sono riusciti a rinnovare il mondo quando è venuto il loro momento; che le cose guardate di sotto in su hanno tutt’altro aspetto che quando si guardano di su in giù; e tutti gli altri dettami della più volgare esperienza e del più comune buon senso.
Ma tutto questo non basta ancora. Bisogna preparar l’animo a tollerare molte piccole ingiustizie, molti piccoli torti, molti piccoli dispiaceri, per cui non c’è rimedio, e i reclami non servono, e le proteste fanno peggio; cose che sono seguite e seguono sempre dove c’è molta gente che fa vita comune, e c’è grande varietà di temperamenti e d’umori; in tutti i collegi, in tutti gli istituti, in tutte le classi di cittadini, dappertutto, insomma, dove c’è superiori e inferiori, dove molti comandano e molti ubbidiscono, e per conseguenza c’è chi comanda male e chi non obbedisce bene. E tutti codesti inconvenienti inevitabili non attribuirli ciecamente alla disciplina militare, la quale in fin dei conti non si distingue dalle altre se non in questo: che va soggetta a norme più precise, e dipende meno dal capriccio delle persone, il che ne compensa fino a un certo punto la maggior severità; ma ritenerli, codesti inconvenienti, come vizi inevitabili di tutte le discipline. Poichè giova convincersi profondamente di ciò: che disciplina ve n’ha da per tutto; che in tutte le amministrazioni v’è un certo numero d’individui che fanno delle lavate di testa e un certo numero che se le pigliano; individui che impongono delle multe e individui che le pagano; individui che infliggono a torto dei castighi e individui che li subiscono con santa rassegnazione; individui che dicono: — Lei è un asino, — e individui che rispondono: — Sì signore; e che quello che si fa e si sopporta in un reggimento per non andare in prigione e per non stare a pane ed acqua, si fa e si sopporta da migliaia e migliaia di impiegati governativi e non governativi per non essere cacciati dall’impiego e per non restare colla famiglia in mezzo a una strada; il che porta al pane ed acqua lo stesso. Dei bocconi amari se ne trangugiano da per tutto, miei cari coscritti, anche nei gabinetti dei ministri e nelle corti dei re, d’onde qualcuno è uscito col cuore spezzato e coi capelli grigi innanzi tempo.
Ma neanche tutto questo non basta ancora. Non basta rispettare e amare i superiori, e assoggettarsi docilmente alla disciplina, e adempiere i doveri che ci sono imposti dalle necessità del servizio. Pel soldato è anche un dovere quello di procurare un vantaggio a sè stesso imparando a leggere e a scrivere.
E a convincervi che quello d’istruirsi è un dovere, e ad ispirarvi il buon volere di compierlo, vi basti questo semplice ragionamento. La maggior parte dei guai d’Italia deriva dell’ignoranza, poichè l’ignoranza è per sè stessa il massimo dei mali. E sapete perchè? Il perchè è questo: che la maggior parte dei padri di famiglia che non sanno leggere nè scrivere, d’ordinario non si curano di mandare a scuola i figliuoli perchè non ne vedono l’utilità; e i figliuoli crescono ignoranti come loro. Privi della coltura che deriva dallo studio (e qui per istudio s’intende il leggere dei libri buoni), questi fanciulli non ricevono in vita loro altra educazione che quella del padre. Che cosa ne segue? Ne segue che se il padre e la madre sono gente onesta e di buoni costumi e affezionata alla famiglia e sollecita del bene dei figliuoli, questi vengon su per bene e diventano galantuomini; galantuomini ignoranti, è vero; ma non importa; l’esser galantuomo è già una gran cosa, e può bastare. Ma se il padre e la madre sono cattivi soggetti, disamorati, trascurati, ed esempio di scandalo ai loro figliuoli, questi, nove su dieci, riescono bricconi come i genitori, e forse peggio, perchè manca in loro l’educazione dell’intelligenza e del cuore che danno i buoni libri; retta e saggia educazione che distruggerebbe o mitigherebbe gli effetti di quell’altra cattiva che hanno ricevuto in casa. Da ciò deriva che nelle classi ignoranti la malvagità dell’animo e la sregolatezza dei costumi si propagano e si conservano di padre in figlio e di famiglia in famiglia assai più che negli altri ordini della società, dove i ragazzi trovano nel maestro un secondo padre, che spesse volte cancella in loro la mala impronta avuta dal padre vero, tanto da farli riuscire assai migliori, e talora affatto diversi da quel ch’era parso che sarebbero riusciti da principio. Non ne abbiamo noi una prova in questo, che vi son delle famiglie le quali nel giro di quattro o cinque generazioni hanno fornito dieci o dodici soggetti alle prigioni e alle galere, per misfatti essenzialmente diversi? Non abbiamo noi de’ villaggi, delle borgate intere in cui la popolazione è notoriamente trista e facinorosa sopra tutte le altre? Gli è perchè fra codesta gente la malvagità si tramanda coll’esempio d’età in età, d’individuo in individuo, senza incontrar mai un impedimento od un freno nell’istruzione che illumina l’intelletto, fortifica la coscienza e ingentilisce i costumi. Imparate dunque a leggere e a scrivere non solamente per uso vostro, ma pel bene dei vostri figliuoli futuri; procurate di tornare a casa con questo vantaggio positivo ricavato dal servizio militare; imparate a scrivere per tenervi in corrispondenza colle vostre famiglie; imparate a leggere per facilitarvi la conoscenza dei vostri doveri di soldato colla lettura dei regolamenti e delle istruzioni, e per procurarvi un passatempo utile e gradito nelle ore di riposo. Il servizio incaglia e ritarda d’assai codesto insegnamento, lo so; le fatiche d’ogni giorno vi concedono poco tempo e vi lasciano poca voglia per la lettura, anche questo è vero; ma fate quel che potete: poco sarà sempre assai meglio di nulla. Il soldato — disse uno scrittore francese — è bello a vedersi principalmente in questi due casi: quando si slancia contro al nemico a baionetta calata, e quando siede ai piedi del suo letto con un sillabario tra le mani.
Ancora un consiglio. Il soldato italiano — ha detto poco tempo fa un giornale — è dovunque amico, dovunque modesto, simpatico, costumato e cortese come non è nessun soldato in nessun paese del mondo. Questo è vero, ed è così generalmente riconosciuto, che lo possiamo affermare anche noi senza adulazione; e lo affermiamo con un sentimento vivissimo d’alterezza, perchè crediamo che non si possa fare ad un esercito un elogio più onorevole. Or bene: serbate intatta questa nobile fama, voi giovani coscritti; crescetela, rassodatela. Abbiate sempre per fermo che un esercito, quanto è più rispettato dai suoi concittadini, tanto è più temuto dai suoi nemici. Tenete per sicuro che nessun reggimento è amato e stimato se i soldati non si sono fatti individualmente benvolere e stimare colla moderazione e colla dignità del contegno. Ricordatevi che appunto in virtù di questo suo contegno il soldato italiano non ebbe molte volte che da presentarsi in mezzo alla popolazione per sedare un disordine o per quetare un tumulto. Persuadetevi che la popolarità che ciascun soldato acquista colle buone maniere in mezzo ai cittadini, risparmia, in molti casi, alle compagnie e ai reggimenti interi la triste necessità di usare le armi e di spargere del sangue. Il soldato, come deve coll’esempio inculcare al cittadino l’amore dell’ordine e l’osservanza della legge, deve così, rispettando ed amando il popolo di cui è figlio e difensore, inspirargli quel rispetto e quell’affetto che il popolo deve a lui per ragion di gratitudine e di natura.
Ecco i vostri doveri.
Ora vedete di diventar presto soldati.
Le condizioni dell’esercito impongono che s’affretti straordinariamente la vostra istruzione. Supplite alla strettezza del tempo colla buona volontà. L’educazione dei coscritti suol richiedere un tempo lungo, giacchè, pel solito, storditi e sopraffatti dalla nuova maniera di vita in cui sono gittati, essi non possono, nei primi giorni, prestare alle istruzioni quell’attenzione riposata e raccolta che vi prestano poi. Procurate di vincere questa difficoltà accomodandovi quanto prima è possibile alle nuove abitudini e alle nuove occupazioni che vi sono imposte; non vi limitate a quell’esecuzione automatica dei comandi che ne rende necessaria la ripetizione all’infinito; pensate, osservate, ricordate; sollecitate gl’istruttori colla rapidità dei progressi; quando si vuol imparar presto una cosa, l’è già per buona parte imparata; lo zelo alleggerisce tutti i doveri e tronca a mezzo tutte le difficoltà. Chi trascura le prime istruzioni, resterà eternamente un mezzo coscritto; ciò che non s’apprende a far bene subito si continua a far male sempre, o s’apprende a far meglio in seguito a prezzo di rimproveri e di punizioni. Studiate coscienziosamente i vostri doveri; presto sarete chiamati a compierli; la scarsità della forza generale dell’esercito richiede un servizio più attivo e più oculato in ciascun individuo; mettetevi in caso di corrispondere all’assegnamento che si fa su di voi. Badate sopra tutto al servizio di guardia; qualche volta sul capo d’un soldato pesa una grande responsabilità; pensateci; proponetevi di non macchiare mai il numero diciotto; conservatelo bianco come il bianco della vostra bandiera.
E codesta bandiera amatela, veneratela; le recenti sfortune non l’hanno oscurata che d’un velo di lutto pei caduti in battaglia; ma non v’hanno impresso una macchia, no, non ve l’hanno impressa, per quanto abbiamo di più sacro nel cuore, per l’onore del sangue italiano. La nostra bandiera è splendida e incontaminata come nei più bei giorni della nostra rivoluzione immortale. La vittoria non ha stretto patti con nessun esercito al mondo; tutte le bandiere sono bagnate di lacrime; la mala fortuna ha strappata una foglia a tutti gli allori; a ogni popolo è toccato un giorno fatale che gli ripercosse il grido dei trionfi antichi in un grido di dolore; mille eserciti sgominati si risollevarono dalla sventura più formidabili e più fieri.
Sì, amatela e veneratela codesta bandiera; essa pure ha avuto i suoi bei giorni di gloria; essa pure sventolò molte volte, al cader del sole, sulla sommità di un’altura lungamente contesa; molte volte essa pure, ritta fra i rottami d’un bastione smantellato, fu salutata vittoriosa dal morente della trincea; molte volte essa pure ha sentito echeggiare in mezzo ai suoi figli le grida d’una gioia superba. Altre bandiere furon più temute; nessuna al certo fu più lungamente invocata nè benedetta con più caldo e più costante amore.
V’ho detto la verità, coscritti, credetelo. Se il mio non vi pare l’accento della convinzione e dell’affetto, non lo attribuite a una sincerità dubbia o a un cuor tepido; attribuitelo alla mia penna inetta e restìa, e alla natura stessa di questo povero linguaggio umano a cui sfuggono sempre i moti più riposti e più delicati dell’anima.
L’ADOLESCENZA.
Quei tre o quattr’anni che passano tra l’infanzia e la giovinezza, son pieni di sconforti e di malinconie come quando si comincia a sentir che s’invecchia. L’anima, smaniosa d’affollarsi alla vita, se la vede chiusa da ogni parte, e si dibatte in una prigionia affannosa. Come il germe, a primavera, tenta la scorza che lo ravvolge, e s’agita impaziente, così in quegli anni, l’uomo si sente chiuso nel ragazzo, e ne freme. Ha bisogno d’aria e di luce, e vorrebbe levarsi a volo, urta le ali nelle pareti domestiche, e le ripiega rintuzzate e dolorose. Vede sotto di sè un piccolo mondo di bambini, dove si gioca, si ride, si canta, si folleggia, e non vi può più discendere; vede di sopra un altro mondo più vasto, dove si pensa, si lavora, si combatte, si ama, e non vi può ancora salire. Travede già, come dietro un velo, la donna, bella, cara e misteriosa, argomento segreto di desiderio e di sogno; e la donna si china a baciare i bambini, si volta a guardare gli uomini, e a lui passa accanto, e nol vede. Egli vorrebbe attirare quello sguardo, parerle bello, piacerle; e non è che un bambino allungato, con una grossa testa su due spallucce misere, e un busto cascante su due stecchi di gambe da cui saltan fuori due ginocchioni angolosi. Sente i primi stimoli della vanità, vorrebbe esser ben vestito, elegante; e gli fanno portare i panni smessi di suo fratello maggiore, e gli taglian le cravatte nei vestiti vecchi di sua sorella, e non si fidano ancora di lasciargli in mano l’orologio. Vorrebbe esser preso per un ometto e contar per qualcosa; se apre la bocca in mezzo alla gente, o dice una freddura, che cade inosservata, o dice uno sproposito, e gli dan sulla voce. Vorrebbe essere garbato e piacevole; e se capita in un salotto non sa come rigirarsi, urta in una seggiola, mette i piedi sullo strascico di una signora, e pesta un callo al padrone di casa. Vorrebbe esprimere quel che gli bolle dentro, aprire il suo cuore, sfogarsi; e scrive dei versi che fanno ridere il maestro, e il babbo glieli strappa di mano, e gli mette sotto il naso un trattato d’aritmetica. Vorrebbe agitarsi, svagarsi, girare, veder cose nuove; e deve tornare a casa alle otto a scartabellare il dizionario latino, in un cantuccio della sua stanza, solo, mentre sente il fruscio dei vestiti delle sue sorelle, che si preparano pel teatro o pel ballo. Sconfortato, umiliato, ora s’insinua in mezzo alla gente per implorare uno sguardo, un sorriso; ora si chiude in sè stesso, indispettito e selvatico, e come stanco degli uomini e della vita. E allora seguono le lunghe ore di solitudine passate alla finestra, di notte; o in campagna, a guardare tra i fili dell’erba; e la sua fantasia vivida e irrequieta si slancia avidamente nell’avvenire, in un avvenire sconfinato ed arcano, pieno di grandi disegni e di grandi speranze. Allora egli si finge una vita a modo suo; casi mirabili e strani, lotte, pericoli, trionfi, viaggi, aurore di cieli ignoti, e vasti giardini taciti, popolati di fantasime care; e lì ricordi indistinti di profili verginali, cento volte raccolti e ricomposti e vagheggiati con trepido amore, e convegni solitari, e parole ardenti, e dolcezze che soverchiano le forze dell’anima. Ma poi quella splendida visione lo rattrista o lo stanca, ed egli riabbraccia con impeto la vita; si getta di nuovo in mezzo allo strepito dei sollazzi infantili; se ne sdà, non pago, e si volge appassionato agli studi; irrequieto, li abbandona, e cerca il riposo dello spirito nelle fatiche smodate del corpo; il suo mondo fantastico gli si mesce nella mente al reale, e lo assalgono nelle tenebre subite paure, da molto tempo perdute; terrori religiosi impensatamente ridesti; poi freddezze feroci che gli armano la mano contro gli animali innocenti, e ardimenti insensati che lo spingono sull’orlo dei tetti e sulla cima degli alberi; poi malinconie profonde che gli fanno cercar le braccia della madre, e piangere sul suo seno lacrime calde e pacificatrici.
L’eccessiva timidezza di molti ragazzi di quell’età proviene appunto da che essi hanno dentro tutto quel tumulto di pensieri e d’affetti, e voglion tenerlo celato, e treman sempre che altri lo scopra, e li stimi più ragazzi di quel che sono; essi medesimi credono che quello sia un resto di fanciullaggine, e se ne vergognano; mentre è invece la prima scintilla della giovinezza che li feconda e li trasforma.
UN ESEMPIO.
Prima del levar del sole, il vecchio dottore dell’80º reggimento era già fuori di città, e andava per una viottola solitaria verso la villa d’una signora amica sua.
Arrivato a un punto dov’era un vasto campo arido, che pareva una piazza d’armi, si fermò, e stette guardando qua e là colla fronte corrugata, come se la vista di quel luogo gli richiamasse alla mente qualcosa di triste.
La villa era posta sopra un poggetto poco distante da quel campo; e tra il campo e il poggio si stendeva un tratto di terreno senza alberi e senza siepi. Il tempo era torbido: non si sentiva un rumore e non si vedeva nessuno.
Entrato nella villa, il dottore, con sua grande meraviglia, trovò la signora già alzata. Essa gli venne incontro col viso turbato, dicendo: “Vi ringrazio, dottore, so perchè venite, me l’han detto ieri. Che notte ho passata, se sapeste, con quel pensiero fisso! Sentite, se avessi potuto prevedere una cosa simile, di certo non sarei venuta a star qui; ma è la prima e l’ultima che mi capita; lascerò la casa, e intanto, per questa mattina, prendo con me i miei due ragazzi e scappo da una mia amica....... Permettete.”
S’alzò in fretta, e affacciatasi all’uscio di una camera attigua domandò a una donna di servizio se i figliuoli erano lesti. “Si spiccino” soggiunse, e tornò a sedere accanto al dottore.
“Ah! dottore,” riprese a dire sospirando, “ma che proprio non ci fosse un altro luogo in tutti i dintorni della città da dover venire per l’appunto davanti la mia casa?...”
“È la piazza d’armi,” rispose il dottore distratto.
“Dio mio! e se per disgrazia non fossi stata avvisata? Tremo a pensarci, vedete. Via, via, lontano di qui, a cinque, a dieci miglia se occorre, purchè io non veda nulla e non senta nulla. Voi mi terrete compagnia, è vero?”
Il dottore non rispose; stette qualche istante pensieroso e poi, con aria severa e con accento benevolo, disse: “Signora, voi avete due figliuoli: tutti e due son destinati alla carriera militare; uno ha quattordici anni, l’altro ne ha sedici; sono nell’età in cui, molte volte, un avvenimento, uno spettacolo, un’emozione che a noi può parere senza effetto o d’un effetto cattivo, dà un nobile e forte stampo al carattere, che dura per tutta la vita; noi siamo tutti fatti di impressioni avute da ragazzi; se volete avere due figliuoli soldati, seguite il mio consiglio, signora: restate.”
La signora, all’udir quel restate, tremò; poi cominciò a riflettere.
Entrarono i due ragazzi, alti, per l’età loro, e robusti, di fisonomia aperta e simpatica; somigliantissimi alla madre. Uno avea la divisa d’un collegio militare. Stavan tutt’e due serii, col capo basso e le sopracciglia aggrottate, come se facessero il broncio. Salutato il dottore, si ritrassero in un canto della stanza senza parlare, in atto di protesta.
“Che c’è?” domandò la madre.
“Noi non si vuole andar via,” rispose il più piccolo con quella voce tra il pianto e la stizza che fanno i ragazzi scontenti.
La madre guardò il dottore, volse uno sguardo inquieto alla finestra, e poi domandò con un sospiro,” voce bassa: “Tra un’ora, è vero?”
“Tra un’ora,” rispose il medico.
“E..... son due?” disse anche più piano la signora.
“Due.”
“E per cosa?”
“Vigliaccheria.”
“Oh sentite!” esclamò essa vivamente dopo un istante di riflessione; “potete dir quel che volete, ma è orribile!”
“Oh sentite voi!” rispose anche più vivamente il dottore: “io vi posso assicurare che quello che c’è di più orribile in questa tragedia non è quello che voi vedrete, è quello che ho veduto io!”
Dopo un istante ripigliò:
“Voi, signora, conoscete la mia vita; ho i miei anni e ho avuto le mie disgrazie; ho perso madre, padre, fratelli, da giovane; ho dovuto mandar giù dei bocconi amari anco nel corso della mia vita di medico militare; m’è toccato di quei momenti che, a non credere in qualche cosa dopo la morte, c’è da fare uno sproposito. Poi il dolore d’esser preso prigioniero, di leggere sul viso dei nemici che il nostro esercito era stato battuto, e le altre disgrazie che dopo cascarono addosso al paese; furon tutte trafitture di cuore, come vi potete immaginare, terribili. Eppure, vedete, mi paion tutte cose da nulla in confronto di ciò che ho provato alla vista di quello spettacolo deplorabile, di cui i due sciagurati di stamani non furono che un piccolo episodio: il 3º battaglione del mio reggimento che si sbandava alle prime fucilate, come un branco di briganti! Son passati parecchi mesi, ho avuto d’allora in poi delle emozioni vive, anche durante la mia prigionia; poi il piacere d’esser liberato, di tornare in patria, di rivedere il mio reggimento, i miei amici; eppure l’impressione avuta quel giorno mi è rimasta viva nell’anima come se fosse d’ieri, quello spettacolo l’ho sempre davanti agli occhi, sento quelle voci, vedo quella gente, ci penso, la sogno, e c’è dei momenti che mi si schianta il cuore e che nasconderei il viso dalla vergogna.”
“Oh... poi!” disse la signora.
“Sì! sì!” l’interruppe il dottore, “e così fosse più generale questo sentimento, cara mia! Quando la vergogna di molti, appunto perchè è di molti, non è più sentita da nessuno, pessimo segno. Per me una delle prime qualità d’un esercito, a voi parrà strano, ma io lo credo sul serio, è il pudore. Quando s’è stati vinti, bisogna sentirsi bruciar la fronte e soffrire; chi cerca scuse e conforti, è già mezzo battuto per un’altra volta.”
“Capisco; ma come mai quel battaglione s’è portato male e gli altri no? Io credevo che fossero tutti gli stessi i soldati.”
“Che volete?” rispose il dottore, pigliando una mano del ragazzo più piccolo, che tenne poi lungamente fra le sue; “bisogna dire che quello fosse un battaglione segnato da Dio. Già io n’avevo avuto un cattivo presentimento fino dal principio della battaglia. Quando seppi che appunto quel battaglione lì era stato scelto, fra tanti altri, a esplorare una collina sulla sinistra del nemico, che vuol dire avventurarsi a un combattimento improvviso, contro forze sconosciute, senza sostegno, e forse a molta distanza dal resto del reggimento, non so perchè, tremai. Lo vidi passando, quel battaglione, mentre aspettava l’ordine di andare innanzi, fermo in un campo, mezzo nascosto fra gli alberi. Guardai bene in faccia quei soldati... non mi piacquero. In lontananza si sentiva un fuoco di fucili fitto; di tratto in tratto qualche palla fischiava più da vicino, e ad ogni fischio quei soldati si guardavano e ridevano; ma.... dopo essersi molto guardati. C’eran dei visi bianchi come un panno lavato che volevano ridere e non mostravano che i denti. Canterellavano, scherzavano, tutte cose forzate. — Va male — dissi tra me, e tirai di lungo. Ripassai di là poco dopo: il battaglione se n’era andato, ma avea lasciato delle brutte traccie: vidi tre o quattro fucili e tre o quattro zaini sparsi fra l’erba; qualche soldato, profittando del granturco alto, se l’era battuta. Guardai un po’ intorno, non vidi nessuno, seguitai la mia strada. Pratico dei luoghi, presi a traverso i campi, salii sopra un’altura, scesi fino a mezza la china opposta e mi trovai di fronte a una collina, sulla quale cominciavano a salire, adagio adagio, i cacciatori del battaglione. La valle era strettissima, in modo ch’io vedevo distintamente ogni cosa dal lato opposto. La china era tutta coperta di granturco, sulla cima c’era un bosco. Pareva che nel bosco non ci fosse nessuno. Dietro i cacciatori saliva il battaglione, già mezzo scompigliato; a poco a poco furon tutti lassù e sparirono fra gli alberi. La collina e la valle rimasero deserte e silenziose; non si sentiva che l’eco del cannone lontano. Però, a guardar bene, mi pareva che qua e là tra il granturco si movesse qualcosa; tratto tratto travedo un luccichìo, come di canne di fucili; osservato meglio, sospettai che fossero soldati rimasti indietro, che scappavano. Nel punto ch’io mi movevo per andare a vedere, sentii dalla parte del bosco prima il rumore di poche fucilate, poi un rumore più fitto, poi uno strepito vivissimo di colpi. — Ci siamo! dissi; si sono incontrati. — Ma di lì a poco mi parve che il rumore, invece d’allontanarsi, come speravo, s’avvicinasse: tesi l’orecchio, si avvicinava davvero; alzai gli occhi, e vidi comparire in cima alla collina alcuni soldati, che correvano, e poi altri e altri ancora, il battaglione intero, affollato e disordinato, senza il maggiore. Il sangue mi diede un tuffo così forte che credetti di mancare; poi mi prese un freddo che m’agghiacciò, e guardai instupidito. Il battaglione scendeva la china di corsa, urlando e sparpagliandosi, buttando via zaini e berretti, che pareva gli si fosse scatenato alle spalle l’inferno. Qualcuno si fermava di tanto in tanto e si voltava indietro a sparare; i più venivan giù a precipizio col capo basso e le braccia aperte, inciampando, cadendo, rialzandosi per precipitarsi di nuovo, come forsennati; altri, feriti, barcollavano qua e là, o si rotolavano per le terre, gettando acute grida. Molti ufficiali e sergenti, ed anco soldati semplici, a quando a quando si fermavano, cercavano di trattenere gli altri, e gridavano: — Fermi! Non è nulla! Fronte al nemico! Fuoco! Non sono che un battaglione come noi! — Inutile; la fuga era irresistibile da tutte le parti. Quelli che avrebbero voluto resistere si picchiavano la fronte, si mordevano le mani, minacciavano, si scambiavano, come si poteva in quella confusione, ordini, consigli, cenni; finchè riuscirono a riunirsi in un drappello di cinquanta o sessanta. Allora presero la china di traverso, e correndo disperatamente, arrivarono tutti insieme dinanzi a un ponte che cavalcava il rio nella valle, prima che ci arrivasse il grosso dei fuggiaschi. Là si schierarono a traverso la strada, soldati e ufficiali alla rinfusa, stretti, in atteggiamento di difesa, risoluti a impedire il passaggio. Dopo pochi momenti arrivò la turba dei soldati, pallidi, senza fiato, col viso travolto, la più parte a capo scoperto, senz’armi. Arrivarono e si videro dinanzi quella schiera, tutta irta di sciabole, baionette, pistole; titubarono un istante, poi, mossi dal terrore che gl’incalzava alle spalle, gridarono tutti insieme: — Largo! — Fronte al nemico! — rispose dall’altra parte una voce risoluta. Piovvero in quel punto, dall’alto della collina, le prime palle nemiche; allora quello sciame di miserabili di scagliò sul piccolo gruppo dei valorosi; partirono alcuni colpi dalle due parti, caddero dei feriti; ne seguì un parapiglia senza nome. Gli ufficiali e i soldati fermi, afferravano gli altri per le braccia e pel collo, li scrollavano, li voltavano indietro a forza; quelli si divincolavano; si buttavano in terra, scivolavano a destra, a sinistra, fra le siepi, pei solchi, col ventre a terra. Era una lotta a urtoni, a pugni, a piattonate. Da un lato si sentiva gridare con voce rabbiosa: — Largo! — Dall’altro un grido terribile: — Vigliacchi! — Qualche voce supplicava: — Salvate l’onore! Coraggio, figliuoli! Siamo ancora in tempo! — Fu tutto invano; i fuggiaschi, colla forza del numero e l’impeto della paura, ruppero quella barriera di petti intrepidi e si precipitarono al di là del ponte, lasciando solo il piccolo drappello a far fronte al nemico che già era a mezzo della china. Rifiniti dalla corsa, si ricoverarono in una casa poco lontana, dove c’erano già dei feriti; io sopraggiunsi in quel punto. Arrivarono poi i pochi ufficiali e soldati che aveano fatto un’ultima resistenza e lasciati sul terreno parecchi morti; appena arrivati tentarono disporre gli altri a difesa; vano tentativo anche questo: quella gente non aveva più goccia di sangue nelle vene, nè sentimento di vergogna, nè aspetto umano. Si sparpagliarono per le scale, s’arrampicarono sui tetti, si rifugiarono nelle cantine, serrando a furia porte e finestre; ci riuscì a stento a far trasportare in una stanza tre quattro dei feriti più gravi, uno col viso fatto in due dalla sciabola d’un ufficiale, gli altri feriti di palla nella schiena. Stavo prestando loro le prime cure, quando a un tratto scoppiò un fracasso più forte, uno sbatter più furioso di porte e correr di qua e di là, urlando a squarciagola. Era una compagnia di nemici, sbucata non si sa di dove, che s’avvicinava di corsa alla fattoria. Si sarebbe potuto resistere; non si sentirono che poche fucilate, i più precipitarono nel cortile per arrendersi. Entrarono infuriando i nemici, i nostri soldati buttarono i fucili in terra, gridando: — Prigionieri! Pace! — Quelli, non potendo credere a tanta codardia, sospettando un inganno, gli si scagliarono addosso lo stesso, e cominciarono a picchiarli coi calci dei fucili. Alcuni di quei vigliacchi si buttarono in ginocchio; uno, che fu poi riconosciuto, implorò la pietà d’un ufficiale nemico, dicendogli: — Io sono per voi! — E allora giù quel berretto! — gli rispose l’ufficiale, dandogli un ceffone che gli buttò il berretto in terra. Altri si presentarono ad altri ufficiali dicendo: — Noi non ci siamo battuti. — Qualche bell’esempio si vide: due ufficiali si fecero uccidere, uno ferire mortalmente, alcuni soldati opposero una resistenza accanita nell’interno della casa. Finalmente si arresero tutti, e quando i prigionieri ed io fra questi sfilammo dinanzi alla compagnia nemica, il capitano, avvicinatosi ad uno dei nostri ufficiali, gli disse in cattivo italiano, con un accento di compassione che mi suonerà nell’orecchio finchè io viva: — Signor ufficiale, lasciatevelo dire, voi vi siete battuto bene, e tra i vostri soldati ce n’è dei bravi, ma ci sono anche dei gran poltroni! — L’ufficiale diventò pallido, tremò per tutta la persona come preso dalla febbre e poi, voltandosi verso un gruppo dei soldati che s’erano portati peggio, urlò con una voce lunga e selvaggia che ci fece compassione ed orrore: — Ah!... infami!”
La signora si coperse il viso colle mani.
“S’eran portati da vigliacchi, furono trattati da vigliacchi. I nemici li misero due a due, con una fila di cavalleggieri per parte, e avanti, a traverso i campi, a passo dei cavalli, e chi si lamentava, sciabolate sulla schiena, il cavallo addosso, e improperii. Il drappello entrò sul far della notte nella città di ***, in che stato, se lo figuri. Ebbene, nelle vie di quella povera città, che era pur nostra, in mezzo a quei poveri cittadini che già sapevano come fosse finita la battaglia, e venivano incontro ai prigionieri col cuore straziato e gli occhi rossi di pianto; in quelle vie, questi miserabili commisero l’ultima, la più vergognosa e la più laida delle loro viltà. Ridotti com’erano, in mano dei vincitori, spossati, laceri, col viso livido dalle percosse, col marchio dell’infamia sopra la fronte, questi svergognati... cantarono!”
La madre e i ragazzi fecero un segno d’orrore.
“Cantarono!” proseguì il dottore; “forse per la gioia d’essersi liberati dai pericoli avvenire della guerra, forse per far vedere che a loro importava poco d’essere stati battuti, fors’anche per amicarsi i nemici. I nemici sorridevano di disprezzo, i cittadini si voltavano indietro indignati, gli ufficiali prigionieri si coprivano il viso. Un d’essi, non potendo più reggere, si presentò al comandante la scorta e lo pregò, in nome della fratellanza di tutti gli eserciti, che li facesse tacere lui. Tutto, — gli disse, — noi siamo disposti a sopportare, fuorchè questo strazio; se non volete liberarcene voi, dateci almeno le nostre sciabole, che si possa sfracellar la testa a qualcuno. — Il comandante ordinò ai suoi soldati che imponessero silenzio; venne giù una tempesta di piattonate, e i prigionieri tacquero. Quella sera fummo divisi, ed io non li vidi più. Ma a me, agli ufficiali, ai pochi soldati che si batterono, rimasero nella mente le fisonomie e i nomi dei più vigliacchi; ci accordammo per riferire ogni cosa appena tornati al reggimento, e far dare un esempio solenne; si tenne la parola; dieci furono già fucilati; ne restano altri due, che vedrete; noi abbiamo fatto il nostro dovere, non ho avuto mai la coscienza più tranquilla.”
La signora appoggiò la testa sopra una mano e mormorò quasi macchinalmente, cogli occhi fissi: “Ma è la morte... dottore!”
“Sempre così!” esclamò questi balzando in piedi con impeto e cominciando a passeggiare per la stanza; “siamo sempre gli stessi! Finchè si tratta di dire: — combattere per la patria, avanti, coraggio morire, — sta bene; ma quando poi si tratta di restare al proprio posto per morire davvero, allora pare che non ci abbia da essere obbligato se non chi ha il coraggio naturale di starci; per gli altri è un affare di temperamento; chi non può, pazienza, non siamo tutti eroi. Così, fin che si tratta di scagliarsi contro i vigliacchi in prosa e in poesia, gridando all’infamia, alle anime abbiette, alla patria disonorata, con tutte l’altre parole, tutti ci stanno; quando poi ve ne conducono dinanzi uno, allora patria, valore, onore, bandiera son tutte bolle di sapone che si sciolgono, e non resta che il sentimento dell’umanità. Signora! voi non vedete che un uomo che deve morire, solo, là in mezzo a un campo, con una croce in mano e gli occhi rivolti al cielo; e vivaddio! ho viscere d’uomo io pure, e quello spettacolo fa male anche a me. Ma non è a codesto moribondo che voi dovete fermarvi col pensiero; voi dovete vedere codest’uomo stesso nascosto in un fosso o dietro una siepe, col viso a terra, tremante, mentre cento passi più innanzi vi sono i suoi compagni che offrono il petto alle palle, e invece di slanciarsi innanzi e di vincere, debbono star fermi e morire, perchè i vili hanno diradato le file. Dovete immaginarvi codest’uomo quando dice: — I miei compagni saranno uccisi, non importa; la mia bandiera sarà vituperata, non importa; io sono un vigliacco, non importa; mi sputeranno in viso, non importa; ma vivo! — dovete immaginarvelo così, per sentire che codest’uomo deve sparire dal mondo, che lo fareste sparir voi colle vostre mani, che la sua vita è un insulto ai morti. Per carità, signora! Questa pietà è fatale! Dietro a ogni vigliacco rimasto in piedi, c’è un mucchio di valorosi sacrificati. Credetelo; bisogna essere inesorabili; dobbiamo far capire a questa gente senz’anima e senza cuore, che sopra un campo di battaglia c’è qualcosa di più prezioso a conservare che queste quattr’ossa che ci fanno commettere tante bassezze; bisogna farle capire che quando la patria ha bisogno di sangue, dobbiamo darglielo, e che chi non lo vuol versar sul campo, in mezzo agli altri, lo dovrà versare solo, in una piazza d’armi, inevitabilmente; bisogna tagliare la parte fradicia, signora! Siamo ancora in tempo; guai se ci trema la mano; a una nuova occasione saremmo schiacciati e svergognati per sempre! Dio non voglia....”
Qui s’interruppe, stette un po’ silenzioso, guardò l’orologio e soggiunse a bassa voce, con grandissima calma: “Ditemi piuttosto, signora, che questo non è il momento di proferire parole d’ira e di disprezzo; è meglio tacere e pensare.”
La signora si sentì correre un brivido per l’ossa.
I due ragazzi si slanciarono verso la finestra.
“No! Qui subito! Non voglio....” gridò con accento imperioso la madre, balzando in piedi.
Il dottore la trattenne e la fece risedere. I ragazzi si fermarono; tutti tacevano; si sentiva in lontananza un rumore confuso.
Il dottore prese i due ragazzi per mano e li condusse alla finestra, e tutti e tre cominciarono a guardare attentamente verso la campagna. Il dottore parlava a voce bassa e accennava qualcosa di fuori; i ragazzi, col braccio teso, accompagnavano i suoi movimenti.
“Eccoli,” disse sotto voce il più grande.
Si sentiva un brulichìo più distinto.
Il più piccino mormorò, facendosi pallido: “Non si reggono quasi in piedi! “
“Dottore!” esclamò la madre con accento supplichevole senza ardire di moversi dall’angolo della stanza dove si trovava.
Dopo qualche istante di silenzio e d’immobilità, i due ragazzi, con un solo movimento improvviso e rapido, si voltarono indietro inorriditi e appoggiarono il viso sulle spalle del dottore.
Avevan fatto sedere i due soldati sull’orlo di un fosso; nel chinarsi, uno di essi era caduto.
“Dottore!” disse ancora una volta la signora con una voce appena intelligibile.
Il dottore posò le mani sul capo dei due ragazzi, e facendoli voltare a forza il viso verso la campagna, li tenne tutte e due così, immobili, colla fronte alta, pallidi, dicendo severamente:
“Guardate!”
Per un minuto, in quella stanza, non si sentì un alito; a un tratto la signora cadde in ginocchio colle mani giunte.
Un momento dopo si sentì una scarica fragorosa.
La signora mandò un grido altissimo, si slanciò sui figliuoli, li strinse al petto con impeto disperato, e coprendoli di baci e di lagrime, proruppe in una voce mista di pietà, d’angoscia, di terrore e d’amore:
“Oh promettete a vostra madre che sarete valorosi.... sempre!”
L’INAUGURAZIONE DELLA GALLERIA DELLE ALPI.
Lettere.
Torino, 16 settembre 1871.
Torno da un giro per la città: che movimento! che vita! Sono parecchi anni che Torino non vede una folla simile e una simile allegrezza. La stazione della strada ferrata è circondata da migliaia di persone; via Roma, via di Po, via Doragrossa, i portici, i viali sono un formicolaio. A ogni passo s’incontra un deputato, un senatore, un giornalista. Quanti antichi amici rivede Torino! La concorrenza dei forestieri è tale fin d’oggi, che negli alberghi difficilmente si trova posto. Ogni treno che arriva, versa sulla piazza Carlo Felice centinaia di persone. Ed è uno solo l’argomento dei discorsi di tanta gente: il traforo delle Alpi. E anche a non volerne parlare, non si può; a ogni passo c’è qualcosa che lo rammenta. Le case sono tappezzate di proclami del Sindaco, della Società delle strade ferrate, delle Società operaie. Le vetrine dei librai non hanno che vedute delle Alpi, ritratti degl’ingegneri, disegni di macchine. Si vendono piccole perforatrici, gallerie di cartone, tappeti ricamati che rappresentano il convoglio della strada ferrata sul punto di entrare nell’apertura del monte, paesaggi, carte topografiche, guide. Il popolo è animato di vero entusiasmo. Nessuna grande festa nazionale è mai stata così ben compresa e sentita nel suo vero senso, e in tutto il suo valore, come questa dell’inaugurazione della galleria. C’è più che dell’allegrezza sui volti, c’è un raggio d’orgoglio italiano!
L’illuminazione sotto i portici è splendidissima: migliaia di fiammelle, riflesse da migliaia di cristalli e di specchi, danno a tutto quel tratto che si estende da via Roma al caffè Londra, l’aspetto d’una sola lunghissima sala parata a festa. In ogni parte ferve il lavoro per le feste di domani.
È notte avanzata; dalla mia stanza sento ancora il grido lontano dei venditori di giornali: — Il traforo delle Alpi! — e penso che fra molti secoli, quando dell’èra nostra non si serberà più che una pallida memoria, quel grido si ripeterà ancora con un palpito d’ammirazione riconoscente.
Torino, 17 settembre.
Questa mattina, gl’invitati alla festa d’inaugurazione della galleria, partirono da Torino con tre treni successivi: il primo alle sei, il secondo alle sette, il terzo alle otto. Una folla numerosa assisteva alla partenza.
V’erano fra gli invitati quattro ministri italiani, i presidenti del Senato e della Camera, i sindaci di Torino, di Roma, di Milano, di Venezia, di Bologna, di Firenze, di Napoli, un gran numero di senatori, di deputati, di generali, di pubblicisti; e molte signore splendidamente vestite. Gli uomini erano tutti in abito nero.
Il viaggio parve breve, benchè ognuno fosse impaziente d’arrivare. Da Torino a Bardonecchia è tutto un seguito di vedute stupende, che preparano gradatamente l’animo alla grande emozione del passaggio delle Alpi. Prima le ridenti colline che circondano la pianura torinese, e lontano il Monviso e il Monte Rosa, e le mille cime dei monti minori; poi le ultime colline di Rivoli, e via via fino a Bussoleno, sempre monti altissimi, valli profonde, gole, villaggi, torrenti; e ogni cosa bella di una bellezza severa che sembra quasi una espressione di rispetto alla sovranità delle Alpi imminenti. Da Bussoleno, la strada ferrata si volge verso il colle di Fréjus, nel cui seno è scavata la galleria. Da questo punto, per arrivare a Chaumont, si attraversa un lungo tratto di paese svariato e difficile, nel quale la strada percorre gallerie, valica torrenti, passa per trincee profonde aperte nella roccia, s’appoggia a sostegni enormi di pietra: sale, discende, serpeggia. Poco prima d’arrivare a Chaumont s’entra in uno spazio di terreno ubertoso, popolato d’alberi fruttiferi e coperto di grandi vigneti. Dopo Chaumont, da capo monti, meglio, nodi di monti, intricati ed aspri, e nuove gallerie, e nuovi ponti; e a destra e a sinistra oscuri burroni, grandi boschi di pini, rupi scoscese, cascate altissime d’acqua, il forte d’Exilles, il forte di Serre-la-Garde, la stretta di Serre-de-la-Voûte; e finalmente la valle si allarga e la strada segue le falde della montagna fino alla grande galleria. Si passa dinanzi a Salberstrand e a Oulx, si entra nella valle di Bardonecchia, si valica il torrente, si attraversano ancora due gallerie, si vede il colle di Fréjus....
Ecco la bocca della galleria.
Appena quella buia apertura si presenta allo sguardo, un senso quasi di terrore stringe il cuore. Si pensa involontariamente all’enorme mole granitica che s’innalza al di sopra, e sembra che, sdegnosa dell’ingiuria fatta alla sua selvaggia maestà secolare, ci si voglia precipitar sul capo, e stritolar con noi il nostro orgoglio. Ma penetrato appena il convoglio nella vasta galleria, appena gettato lo sguardo sui muri di pietra e sulla volta robusta che sembra curvarsi fieramente per sostener il pondo enorme delle Alpi, appena visti i lumi e sentito che si respira liberamente e si corre con impeto facile e sicuro, il cuore si queta, la mente si espande in una maestosa idea di grandezza e di forza, e l’anima abbraccia tutto, con un palpito di meraviglia e di gratitudine, questo portento eterno del genio e del lavoro.
Quanti pensieri, quanti sensi nuovi e profondi ci assalgono confusamente in quel punto! Dodici anni di lavoro! Noi vi passiamo, finalmente, su questo terreno bagnato di tanti sudori! È questo il luogo dove per tanti anni gli uomini insigni che condussero a fine la grande impresa, studiarono, lavorarono, lottarono, ora oppressi da un dubbio doloroso, ora rianimati da una speranza possente, ora felici di una certezza lungamente sospirata! Si sentono in quel cupo strepito precipitoso del treno mille rumori che parlano all’anima: i colpi fitti, fulminei, rabbiosi della perforatrice che divora la roccia, il sibilo confuso delle cento ruote, lo scoppio tonante delle mine, la tempesta delle scheggie sulle pareti, sulle macchine, sugli assiti, il comando dei soprastanti, le grida, le risa degli operai, il suono vario e continuo dell’opera, l’eco di tutta quella vita sotterranea che si agitò per tanti anni nei vergini recessi del monte senza sorriso di sole, senz’alito d’aria salubre, senza altro spettacolo che sè stessa e la rupe, solitaria, misteriosa, solenne! E quante vittime nella lotta! E come le loro immagini si presentano alla mente nell’atto di dire: — Io pure lavorai e soffersi! Ricordate me pure! — Sono operai macilenti e pallidi che hanno speso gli anni più belli della vita nel laborioso cammino attraverso delle Alpi; sono vecchi che hanno perduto la luce degli occhi; sono giovani a cui le macchine e le mine hanno portato via le braccia e spezzata la testa! E in mezzo a questa folla d’invalidi, di mutilati e di morti che par che risollevino il capo per domandarvi la loro parte di affetto e di gloria, si alza la figura bella e venerabile del Sommeiller, a cui splende ancora negli occhi la gioia dell’ultimo colpo lanciato dalla perforatrice nel vuoto, al grido di: — Viva la Francia e viva l’Italia! —
E il treno va e va, e cresce nell’animo nostro, a misura che si procede, la commozione, e la fantasia lavora, lavora. Ora ci pare che non s’abbia più a uscire di là sotto; ci pare d’esserci sprofondati nelle viscere della terra e di precipitare verso una mèta arcana; ora pare che il treno, a un tratto, ritorni furiosamente addietro, come impaurito dall’ignoto verso cui si slanciava; ora si trema di giungere troppo presto all’uscita, e si vorrebbe che quel momento indugiasse ancora, per prolungare il sentimento di meraviglia fantastica che ci agita il cuore e la mente; ora ci piglia come una smania di aria, di luce, un desiderio impaziente dell’azzurro del cielo e del verde della campagna; ora si rimane come attoniti e smemorati, e ci vien fatto quasi di domandare a noi stessi: — Ove siamo? — Siamo già in Francia? — Siamo ancora in Italia? — Un tale guarda l’orologio ed esclama: — Siamo in Francia! — I cuori danno un balzo, gli occhi si cercano, le mani si stringono. — Siamo in Francia! — si ripete. È un senso di gioia inesprimibile; pare che in quel momento le due nazioni si siano strette e baciate, ed abbiano gridato insieme: — Abbiamo vinto! — Ma che! Già la luce del gas impallidisce! Si sente un soffio d’aria vivida e pura! Le pareti biancheggiano! Il vapore getta un lungo grido di trionfo! Ecco i monti! Il Sole! La Francia!
È un momento sublime.
Modane è subito lì sotto, e la strada ferrata ci arriva con una gran curva, che si percorre in pochi minuti.
Si discese alla stazione di Modane, dove si aspettò circa tre quarti d’ora prima di risalire sul convoglio per ritornare in Italia. Erano là, ad attendere, il ministro francese Le Franc, vari altri personaggi francesi, l’ambasciatore Nigra, i rappresentanti del governo svizzero. Parve ad alcuni che l’accoglienza fatta dai Francesi ai ministri italiani sia stata assai fredda. Ma forse quello che parve freddezza era invece un sentimento di mestizia che non poteva esser dissimulato da cittadini d’una nazione sventurata, in presenza dei rappresentanti di un’altra nazione, in cui la gioia del grande avvenimento non era turbata da alcuna memoria dolorosa.
Si risalì nel convoglio, e si tornò a Bardonecchia, dove stavano aspettando gli invitati della seconda e della terza partenza.
Accanto alla strada ferrata, a sinistra dell’apertura della galleria, è stato costrutto un monte, alto circa una trentina di metri, di forma rettangolare, sul quale si stende uno spazio piano di trecento metri di lunghezza e settanta di larghezza, poco più poco meno. Questo monte è composto interamente colla terra, coi sassi e colle altre materie estratte dal colle di Fréjus. Sovra il piano era stato innalzato un grandioso padiglione, ornato delle bandiere italiane e francesi, e sotto il padiglione erano state poste le mense: due lunghissime tavole parallele. Alle due pomeridiane tutti i convitati presero posto a propria scelta, ed ebbe principio il pranzo, che si protrasse fin quasi alle cinque, accompagnato da musiche ed evviva del popolo accorso in folla da tutte le terre circonvicine.
I convitati potevano essere un milleduecento.
La postura del monte in cui erano piantate le mense, il pittoresco paese che si stendeva all’intorno, la vista delle Alpi sovrastanti, quei mille convitati, quelle bandiere incrociate, quelle grida del popolo, quelle musiche, infine l’assieme di quello spettacolo era una cosa che meravigliava e esaltava.
S’alzò pel primo il ministro Visconti-Venosta; disse dei vantaggi che deriveranno ai due popoli dall’apertura delle Alpi, e terminò con un brindisi alla prosperità della Francia.
Parlò dopo di lui il ministro francese Le Franc. Il suo discorso era atteso da tutti con grande desiderio, e fu ascoltato con profondo silenzio. Disse della grandezza dell’opera, e accennò il vario merito di coloro che vi presero parte: Cavour, Paleocapa, Menabrea, Sismonda, Sommeiller, Grandis, Grattoni, Médail. Ricordò il re Carlo Alberto con parole affettuose e riverenti. Terminò esprimendo la sua profonda fede nella stabilità della pace e dell’amicizia tra Francia ed Italia. La sua voce era commossa, e il suo viso improntato dell’affetto che versava nel discorso; era il ministro della Francia, accusata di sensi ostili all’Italia, e parlava di fratellanza e di unione.... Uno scoppio di applausi e di grida altissime seguì le sue parole.
Il ministro De Vincenzi fece un brindisi a tutti coloro che cooperarono alla grande impresa.
Il Ceresole, rappresentante della Svizzera, parlò del traforo delle Alpi e del taglio dell’Istmo di Suez, le due più gigantesche e gloriose opere moderne della razza latina.
Il ministro Sella, rammentò il Sommeiller, parlò della nuova impresa del traforo del Gottardo, e del commercio avvenire tra la Francia e l’Italia.
L’ingegnere Lesseps propinò all’alleanza politica dei due paesi; e il Rorà all’incremento della loro prosperità commerciale.
L’Amilhau, direttore della Società delle strade ferrate dell’Alta Italia, presentò in nome della Società, medaglie d’oro ai governi d’Italia e di Francia, all’ingegnere Grattoni, al Grandis, alla memoria del Sommeiller.
Il Grattoni ringraziò tutti gl’Italiani e gli stranieri che prestarono l’opera loro al compimento dell’impresa, e ricordò con nobili e commoventi parole il suo illustre compagno Sommeiller, sventuratamente rapito ai vivi prima ch’ei vedesse il giorno che doveva compensare le sue fatiche e glorificare il suo nome.
Una parte dei convitati che rimasero a Bardonecchia durante la traversata della galleria ebbe agio di osservare una macchina perforatrice.
Si prova una strana sensazione alla vista di questa macchina tanto celebrata. Prima di averla veduta, s’inclina a immaginarla di mediocre grandezza: vedendola, pare enorme, ed ha veramente un aspetto imponente. Non ne saprei fare una descrizione: è una macchina complicata, di cui non si può dare un’idea senza scendere a molte particolarità. A un cenno, dato dal capo degli operai, vien data l’aria, le ruote si muovono, l’aria sibila, e la sbarra perforante s’immerge da centottanta a duecento volte in un minuto nella viva pietra, con un impeto prodigioso. Ad ogni colpo, l’aria si stende, e dopo aver dato la sua forza viva si rispande all’intorno con un soffio vigoroso. L’apparecchio produce uno strepito assordante; e questo strepito, e la rapidità del moto, e la rabbia, direi quasi, dei colpi, tutto il complesso, insomma, dello strumento e dell’azione ha qualche cosa di terribile; dà una scossa ai nervi ed al sangue, come se in qualche modo si partecipasse noi pure a quell’immane sforzo; il vigore, l’impeto della macchina diventa per un istante nostro; una parte di noi pare che si muova, si divincoli e frema in mezzo ai robusti ordigni del meraviglioso apparato. Gli operai spiano nel volto dei circostanti l’espressione della meraviglia, e guardano la macchina con occhio altero, e vi si appoggiano su con un atto di famigliarità rispettosa, come sopra una bella e superba fiera domata; e forse, in quel momento, molti degli uomini illustri che li contemplano, si senton piccini accanto a loro.
Verso le sette si ripartì per Torino.
Come nell’andare, così nel tornare, si vide a tutte le stazioni della strada ferrata una gran folla che sventolava bandiere e salutava il treno con fragorosi applausi.
Si arrivò a Torino poco dopo le otto. La stazione era illuminata con fuochi di bengala. Il grande atrio, dalla parte di via Nizza, era tutto fregiato di bandiere e di fiori. Le bande musicali suonavano. Le Società operaie ricevettero gli invitati con altissimi evviva, a cui fece eco una moltitudine immensa accalcata in piazza Carlo Felice. La grande facciata della stazione, presentava l’aspetto d’una parete continua di fuoco, a cui reggeva con fatica lo sguardo. Nel mezzo dell’arco centrale si vedeva un grandissimo quadro rappresentante l’Italia e la Francia, due figure gigantesche che si porgono la mano ai piedi delle Alpi. Il Corso del Re, illuminato a grandi archi successivi dalla piazza della stazione fino al Ponte di Ferro, con un apparato, all’imboccatura tra via Lagrange e via Nizza, rappresentante la facciata del Fréjus a Bardonecchia, offeriva l’immagine della galleria. Il giardino della piazza era anch’esso rischiarato da infiniti lumicini nascosti fra l’erba, lungo i sentieri, intorno al laghetto, da cui si alzava con altissimo zampillo la fontana. Era illuminata via Roma, piazza San Carlo, piazza Castello. Tutti gli archi dei portici che girano intorno a questa piazza, tutti gli spigoli dei pilastri, tutti i rilievi delle case scintillavano di fiammelle. Via di Po presentava un aspetto meraviglioso. Di due in due pilastri, a destra e a sinistra, si alzava un sottile tubo a gas, terminante in tre rami fiammeggianti, a forma di giglio. Più in alto pendeva una lunghissima fila di stelle luminose dal capo della strada fino a piazza Vittorio Emanuele. La folla era immensa; l’ordine, fino all’ora in cui scrivo, perfetto.
Così si chiuse questa giornata memorabile.
E ho bisogno di ripetere ancora io quelle parole che ho sentito dir tante volte dall’alba di questa mattina a quest’ora: — La barriera delle Alpi è caduta! — E pareva un disegno insensato! Paure di roccie ribelli ad ogni forza umana, timori di segrete scaturigini d’acqua, previsioni di calori eccessivi e di scarsezza di aria, incertezze, dubbi, sconforti, tutto è svanito; non è più che un ricordo, e un ricordo che par già molto lontano! Le due grandi imprese, il traforo delle Alpi e l’unificazione d’Italia, insieme iniziate e per lo spazio di dieci anni condotte insieme, si sono compiute a pochi giorni di distanza. L’esercito italiano entrava in Roma il 20 settembre del 1870, e il 25 dicembre dell’anno stesso scoppiava l’ultima mina nella galleria del colle di Fréjus! Quasi nel tempo istesso, l’Italia porgeva una mano alla sua antica madre e l’altra alla sua antica alleata; da un lato ella gridava: — Libertà! — dall’altro: — Pace! — E sarà veramente un tacito patto di pace fra i due popoli questa grandiosa vittoria comune, che oggi s’è celebrata; essi non si scambieranno per la nuova via che parole di fratellanza e utili commerci e disegni di nuove opere gloriose; non si comunicheranno che ciò che innalza, ingrandisce e purifica!
CERTE LETTERE.
Qualche anno fa, un giovanotto di vent’anni che scriveva articoli di letteratura amena e n’aveva lode e incoraggiamenti, ricevette una lettera senza nome (mi pare da Bergamo, dov’egli era vissuto parecchi mesi), nella quale, fra gli altri complimenti dello stesso genere, gli si faceva questo, ch’era la chiusa: «Invece d’imbrattare le colonne del giornale con quelle sciocche tiritère a cui ella ha posto nome di etc., farebbe meglio a pubblicare qualche pagina di storia, che darebbe anche una miglior idea di noi agli stranieri.»
Non è mutata una sillaba. Quel tale serba ancora la lettera, e la serberà sempre, non per il valore ch’ella possa avere in sè stessa, ma perchè gli ricorda una delle più forti impressioni della sua età giovanile. Chi la scrisse — se mai gli cadranno sott’occhio queste pagine — ne riderà; e chi la ricevette — se si dovessero un giorno incontrare — ne riderebbe con lui; l’uno è stato un po’ troppo duro, l’altro un po’ troppo sensitivo, ecco tutto; in fondo fu una scioccheria. Ma l’impressione, ripeto, fu tanto forte, che il povero imbrattatore di colonne non l’ha più dimenticata.
La lettera gli arrivò una mattina nel punto ch’egli si disponeva a scrivere una delle sue solite tiritère. L’aperse, la lesse e la buttò in un canto. A un tratto un suo collega che lavorava allo stesso tavolino gli disse: — Ti senti male? — Egli si provò a sorridere; ma fu un sorriso così sforzato e sfuggevole, che l’amico gli ridomandò con una certa inquietudine: — Hai ricevuto qualche cattiva notizia? — Egli era diventato pallido come un moribondo.
Quante volte abbia riletto poi quella malaugurata lettera, se lo dicesse, non lo crederebbe nessuno. A momenti s’accostava alla stufa per bruciarla, e la rimetteva in tasca; poi voleva riderne, e rideva forte infatti, ma il riso non andava giù, ed egli si rifaceva più serio di prima. Ora diceva: — È uno stupido, un invidioso, un codardo, — e chiamava a raccolta tutte le belle ragioni di Massimo D’Azeglio, per persuadersi che delle lettere anonime non bisogna darsi pensiero. Ora, sconfortato e umiliato, diceva: — Ha ragione, sono un imbrattacarte, non riescirò mai a nulla, non scriverò mai più. — E di fatto, per parecchi mesi, dall’aprile del 1867 fino al gennaio dell’anno seguente, il povero scrittorello, sempre coll’amaro in cuore di quella lettera, non iscrisse una riga; non già per dispetto, timore, o pigrizia; ma veramente perchè s’era convinto che la letteratura non fosse fatto suo. E tanto se n’era convinto, che non di rado, a ricordargli quelle poche coserelle che aveva rabescato altre volte, arrossiva.
Forse non avrebbe scritto mai più (tanto è vero che il più lieve accidente può aver effetto alle volte sull’intera vita) se uno scrittore da lui venerato ed amato fin dall’infanzia, uno di quegli uomini, come diceva il Giusti, che per vederli bisogna guardare in su, e ai quali non pare possibile che si sia mai potuto dire o scrivere, da nessuno e per nessuna cagione, una parola dura e irriverente; se quest’uomo, dico, senza volerlo, senza saperlo, ricordando, come suole, casi e persone di molti anni addietro, non l’avesse fortificato per sempre contro le lettere di quella natura, con un esempio meraviglioso della vanità e della impudenza umana.
Ma ho da scriverlo quest’esempio?
Sono in dubbio, porche da un lato mi trattiene il timore di peccare d’indelicatezza pubblicando cose dette da quell’uomo in un colloquio privato; tanto più che so che gli spiace, e che dall’indiscrezione di altri ebbe già in parecchie occasioni dei sopraccapi. E dall’altro lato, la certezza di giovare con quell’esempio a qualcuno, specialmente ai giovani che scrivono con grande ardore e si scoraggiano con grande facilità, mi stimola a propalarlo.... E farò così: non dirò il nome della persona, per riparare in parte all’indiscrezione.
Il giovane della lettera, dunque, ebbe la fortuna di parlare con quell’uomo uno degli ultimi giorni dell’anno 1867. Non lo vedeva allora per la prima volta; ma entrò nullameno in casa sua con viva trepidazione, come segue a tutti, vecchi o giovani, illustri od oscuri, che si presentino a lui. Nel momento in cui egli entrò, il grande scrittore s’accostava al camminetto con due pezzi di legna in mano; il giovane salutandolo rispettosamente, glieli tolse di mano e si chinò per metterli sul fuoco. Ma siccome il metter bene due pezzi di legna sul fuoco, quando ce n’è già un mucchio che minaccia di scomporsi e di spandersi, non è un’impresa facile, specialmente per chi sia un po’ confuso dalla presenza d’un uomo illustre, e tanto più se debba far quel lavoro sotto i suoi occhi, così il povero giovane gingillò un pezzo colle mani, provò e riprovò, si scottò le dita, s’insudiciò di cenere, e finì col lasciar cadere i due pezzi di legna a caso, in modo che tutti gli altri si ruppero sotto il colpo, ne uscì un nuvolo di scintille, la brace si sparpagliò sul pavimento e il fuoco si spense. Egli si rialzò col viso rosso come una ciliegia, facendo un atto che voleva dire: — Perdoni! — e un altro che significava: — Sono un tanghero! — e Dio sa se in quel punto non si sarebbe andato a rimpiattare per la vergogna! Ma il venerando vecchio fece un sorriso così allegro, così benevolo, in cui si leggeva così chiaramente ch’egli aveva capito la cagione prima di quel sottosopra, — la commozione prodotta dalla sua presenza, — che il giovane si rincorò a un tratto, sorrise alla sua volta, e dato di piglio alle molle riaccomodò ogni cosa in un batter d’occhio. Ma quel sorriso, ripeto, era stato così caro, aveva espresso così ingenuamente l’anima buona e gentile di quell’uomo, aveva rivelato così appieno il suo finissimo acume d’osservatore, che il giovane, d’allora in poi, l’ha sempre avuto dinanzi agli occhi come l’espressione abituale della sua fisonomia; e ogni volta che ci pensa riprova un senso di dolcezza vivissima, e benedice quei due pezzi di legna, quel suo imbarazzo, quel suo rossore, e n’è assai più lieto che se avesse riportato il difficile trionfo d’una grande e repentina fiammata.
O dove divago?
Vengo all’esempio.... Ma prima un’altra cosa. Quante curiosità vi assalgono nella stanza di un grande scrittore, specialmente se sapete ch’egli ha un’opera manoscritta in pronto per la stampa, finita, corretta, e che quest’opera è lì sopra un tavolino accanto a voi, un mucchio di fogli, tutti in un carattere nitido e grande, da poterne leggere qualche parola di sfuggita! E quanto più viva è la vostra curiosità quando sappiate che quest’opera è il frutto degli studi e delle meditazioni di trent’anni, che fu cominciata e proseguita in segreto fino a due o tre anni addietro, che forse non sarà pubblicata che dopo la morte (lontana, Dio voglia) dell’autore, e che tratta una delle più feconde e solenni quistioni della storia moderna! E poi la curiosità di vedere sullo scrittoio di quell’uomo quali sono i libri ch’egli legge usualmente, quali, tra questi, i più logori, e le pagine piegate, e le postille sul margine; e di tutti i libricciatoli della giornata quali sono penetrati sin là; e fra le innumerevoli lettere che gli si scrivono, quali quelle ch’egli ha messo in disparte per la risposta, e di chi! Che folla di curiosità! Ebbene, a un dato momento, lui uscì dalla stanza, e il giovane rimase qualche minuto solo! Sulle prime stette immobile, guardava intorno titubante, tremava. Poi si slanciò al tavolino, e cominciò a leggere in fretta e in furia il manoscritto, ansando e guardando all’uscio a ogni parola; avrebbe voluto divorarlo in un istante, scolpirselo nella memoria, portarselo via tutto; e leggeva sempre più a precipizio, e le parole e le righe, gli tremolavano e gli si confondevano allo sguardo come i tratti d’un volto riflesso dall’acqua agitata; e la mente non afferrava nulla, e cresceva la smania, e incalzava la paura.... Dio eterno! L’illustre ospite apparve sull’uscio prima che quel disgraziato giovane si allontanasse dal tavolino! Questa volta diventò pallido e abbassò il capo senza fiatare. Ma rialzando gli occhi poco dopo con grande ansietà, ebbe un palpito di gioia infantile: l’ospite illustre sorrideva, ed era daccapo quel sorriso allegro, benevolo, fine, che diceva: — Ho capito, ho capito, leggi pure.
Oh benedetta la curiosità!
Ma l’esempio?
Ora ci vengo.... Ancora una parola. Lui — l’ innominato — era uscito dalla stanza per andare a prendere un libro, che, appena tornato, posò sul tavolino, sotto gli occhi del giovane, dicendo: — Se lo tenga. — Era un grosso libro, la più celebrata delle sue opere, ornata di molte incisioni che il giovane non aveva mai viste. Questi cominciò a guardare le prime pagine, e l’impressione che gli fecero quei disegni, rappresentanti personaggi, luoghi e fatti famigliari e carissimi a lui fin dalle prime letture della fanciullezza, fu così schietta e viva, che ad ogni voltar di pagina, prorompeva in esclamazioni e voci di sorpresa e di contentezza, come al rivedere amici antichi, ridendo, battendo la mano sulla tavola, sobbalzando sulla seggiola, dimenticando affatto che c’era là presente quell’uomo. — Oh guarda chi vedo! — esclamava — Così proprio me l’immaginavo! — E quest’altro! — Ti riconosco! — Oh! eccolo qui quel tale! — Oh bello! la casa, la chiesa, il sagrato.... — A un tratto si ricordò di lui che era presente, tacque, si vergognò di quella vivacità smodata, e pensando d’aver fatto la figura d’un ragazzaccio senza garbo nè grazia, e che forse il viso del suo ospite glielo avrebbe fatto capire con quell’espressione incerta tra la stizza e la pietà che si assume in simili casi, alzò gli occhi timidamente.... Un altro sorriso! Un sorriso più amorevole e più caro del primo! Un sorriso che rifletteva tutta la compiacenza segreta del giovane lettore, un sorriso che ringraziava e animava, e diceva: — Capisco, capisco, ridi pure.
Ma l’esempio!
Eccomi. Si venne a parlare della smania che hanno certuni di aver lettere dagli uomini di grido, dell’insistenza con cui le domandano, dell’abuso che ne fanno poi quando le ottengono, menandone vanto, non già come di favore ottenuto a furia d’istanze, e accordato per puro debito di cortesia, ma come omaggio particolare e spontaneo reso a loro, senza che essi se l’aspettassero, senza che ci avessero mai neanco pensato. Il giovane diceva appunto d’aver visto una lettera d’un tale al poeta R., colla quale, senza una ragione al mondo, lo pregava per quello che aveva di più caro e di più sacro a scrivergli, a mandargli almeno una carta di visita con qualche riga, una parola, il suo nome, quello che volesse, purchè scritto da lui. Il poeta tocco da così calda preghiera, gli mandò una sua carta di visita con un verso qualunque. Due o tre giorni dopo, codesto tale entrava frettolosamente in un caffè e avvicinandosi a un crocchio di giovanotti dell’età sua, studenti e professori, esclamava con grand’enfasi: — Io cado dalle nuvole! Sapete che cosa ho ricevuto stamani? ecc. — La verità fu scoperta in seguito e se ne fece un gran chiasso: quel tale aveva fatto passare il poeta come un suo ammiratore; il poeta lo seppe, andò in bestia, e non scrisse più un rigo ad anima viva.
Quest’aneddoto fece sorridere il grande scrittore, e gli richiamò alla memoria parecchi casi somiglianti, seguiti a lui, e ch’egli forse aveva dimenticati da un pezzo.
L’esempio?
Ci si verrà a poco a poco. “Una volta,” egli disse “ricevetti una lettera d’un tale che mi pregava di esprimergli il mio parere su certi suoi versi. Io non risposi perchè... se si avesse da rispondere sempre, bisognerebbe non aver da far altro, e se si risponde a uno, bisogna rispondere a tutti. Dopo un certo tempo ricevetti un’altra lettera in cui quello stesso signore diceva che non sapeva capire perchè non rispondessi, e fra le altre frasi scriveva questa: — Disprezzo? non crederei. — E poi: — Mancanza di tempo? nemmeno. E via così una serie di supposizioni, e a ciascuna supposizione la sua buona ragione per provare che non si poteva ammettere. — Dunque perchè? — La lettera era abbastanza strana per dispensare anche la seconda volta dal rispondere, e non risposi. Ricevetti finalmente una terza lettera di poche righe, in cui mi si ricordava che — fra le altre virtù cristiane ve n’è una che si chiama l’ Umiltà.” —
Qui il venerando uomo guardò il giovane sorridendo, quasi con aria di dimandargli: — Le pare? — E il giovane, rimasto un istante a bocca aperta, domandò alla sua volta con un movimento d’indignazione: “Ma è possibile?”
“Un’altra lettera,” proseguì il vecchio illustre sorridendo piacevolmente.... “e questa non aveva nome, ed era molto più dura. Mi pare di ricordarmela testualmente.” — ”Ho letto,” diceva questo tale, “tutte le vostre opere, e mi sono molto seccato, perchè voi lavorate per la bottega, e tutti coloro che lavorano per la bottega, sono portati da quelli della bottega. Io vi auguro una lunga vita, non per il piacere di vedervi vivo, ma perchè hanno da tornare per voi e pei vostri pari i tempi della ghigliottina, e mi preme che arriviate in tempo a vederli.”
Il giovane diede un balzo sulla seggiola e guardò lui col viso dipinto di stupore, di dolore e di sdegno.
“E un’altra ancora;” riprese a dire lo scrittore col suo consueto sorriso e con una voce che si faceva più benevola e più allegra a misura che s’inaspriva il senso del linguaggio ch’ei riferiva; “una lettera d’un uomo che occupava una carica abbastanza importante (e la disse) mi mandò un suo manoscritto chiedendo consiglio. Era un lungo manoscritto, e non ebbi il tempo di leggerlo subito. Egli me lo ridomandò poco tempo dopo con una lettera asciutta, ed io glielo restituii. Allora mi scrisse una terza lettera in questi termini.” Stette un minuto pensando, e riprese: “Signore! Se voi non volevate leggere il mio lavoro dovevate scrivermi che non potevate; ma non cavarvela col modo villano di non rispondere. Conosco altri letterati in *** i quali, senz’essere poeti e romanzieri, non sono da meno di voi, e m’hanno risposto. Si dice che voi avete l’uso di non rispondere perchè vi spiace che altri possegga i vostri autografi. Ebbene, non abbiate timore per questo: io vi assicuro che se mi scriverete, farò del vostro scritto un siffatto uso che tolga a chiunque lo abbia poi nelle mani, la volontà di conservarlo. Finisco raccomandandovi due autori di cui avete molto bisogno: Monsignor Della Casa e Melchiorre Gioia.”
Parrà incredibile, ma è vero! Queste lettere furono scritte, con queste parole, a quell’uomo, da persone che coltivavano le lettere, e che forse, nei loro libri e nei loro discorsi, allora e poi, si facevano un merito di lodarlo, di onorarlo, di levarlo a cielo, per carpire almeno quel cencino di gloria che si concede facilmente a chi celebra i grandi che ammiriamo ed amiamo, comunque li celebri, almeno in ricompensa del buon volere! Queste lettere furono scritte a lui, grande, semplice, buono; a lui, il nostro amico più intimo, il nostro maestro più caro, la nostra gloria più pura! A lui, che quando siamo tristi e scorati, andremmo a picchiare alla sua porta come poveri, per pregarlo che ci metta la mano sul capo e ci dica: — Figliuoli!
Del resto, per tornare sulla terra, non è a dirsi che effetto abbiano fatto sul nostro giovane quelle lettere; come si sia vergognato della sua vanità, del suo orgoglio, della sua pochezza d’animo, ricordando quella ricevuta da lui, e le conseguenze che gli aveva portate; come abbia pensato e sentito che quando a un uomo pari a quello che gli stava dinanzi, si erano scritte delle lettere di quella fatta, a lui si avrebbe quasi avuto il diritto di scrivergliene delle peggio, e di pretendere che se ne tenesse; come in fine si sia proposto di ricominciare a studiare, a scrivere, a lavorare, a fare quello che poteva, senza badare a lettere con nome o senza nome, da qualunque parte venissero, qualunque cosa dicessero, dal consigliare il Della Casa ad augurare la mannaia, con tutte le sfumature intermedie.
Ah! s’io fossi pittore come vorrei ritrarre il viso di quell’uomo mentre diceva di quelle lettere! Qualche volta corrugava la fronte e socchiudeva gli occhi, come per imitare il cipiglio che dovevano fare gli autori scrivendo; a momenti non si ricordava più della frase, la cercava, e trovatala, sorrideva per la compiacenza di non averla dimenticata dopo tanti anni; di tratto in tratto rinforzava l’accento col gesto, come fanno i ragazzi quando si lamentano, che dicono: — E tu mi hai fatto questo, e questo, e questo! — con una ingenuità, con una serenità, con una bonomia, che se non fosse stata una domanda sciocca e villana gli si sarebbe detto! — Mi faccia la grazia di dirmene dell’altre! —
Il giovane, uscendo da quella casa, come segue a tutti, col cuore un po’ stretto, e in special modo lui, che sapeva di non poterci ritornar prima d’un’altr’anno, ripeteva tra sè: — E tu avevi avuto una stoccata al cuore da quella lettera! T’avevano ferito nell’amor proprio! Non credevi possibile che ci fosse un uomo al mondo a cui dovessi parere uno sciocco! Eri deluso, sfiduciato, prostrato! Specchiati lì, e vergognati, pusillo!
Fu una lezione salutare.
E come dicevo, mi pare che non sia inutile neanche per gli altri. Ma per carità, chi ha indovinato il nome, zitto! È il babbo di tutti, ma anche col babbo ci vuol discrezione.
IL CIRCOLO FILOLOGICO DI TORINO.
Lettera.
Torino, 11 ottobre 1871.
Ho pensato più volte che in Firenze si dovrebbe istituire un Circolo filologico come quello di Torino.
Poche sere fa, passando per via dei Mercanti, fui invitato a visitar le sale del Circolo da un mio amico, che fu tra i primi a promuoverne l’istituzione. Entrai di mala voglia; ma subito mi rallegrai di esser entrato. Quel luogo mi ha fatto un’impressione curiosa. Così alla prima, se non avessi saputo dov’ero, mi sarei trovato imbarazzato a indovinarlo. Non vi si vede, e non vi si sente quel non so che di tutti i luoghi dove si studia, quel raccoglimento, quella tetraggine quasi, che contrasta spiacevolmente alla vivacità del curioso che vi entra per la prima volta, come se gli dicesse: — O zitto, o fuori. — È un luogo allegro e signorile, che presenta a volta a volta l’aspetto di una sala da ballo, di una biblioteca, di un ufficio di giornale, di un casino. Vi sono delle stanzine geniali, dipinte a colori vivi e svariati, con quadri, specchi e tende ampie che strascicano; qua e là, sulle pareti, iscrizioni circondate di rami di alloro; sopra una porta: Primo corso d’inglese; sur un’altra: Secondo corso di tedesco; sur una terza: Primo corso di spagnuolo, e via via; in una sala una bella biblioteca; in un’altra una gran tavola coperta di giornali; in una terza una fila di poltrone, disposte in giro come per sedervi a consiglio; poi un grazioso caffè, un vasto terrazzo, finestre spaziose, aria, fiori, lumi. Oh! qui si deve studiare colla fronte spianata e col sorriso sulle labbra! Sia lodato il cielo... ed il Circolo, che mi riconcilia colle grammatiche e coi vocabolari!
“Veda” mi diceva il mio amico, congedando due custodi che ci avevano accompagnato fino allora con assai più garbo che gli uscieri dei Ministeri; “qui, pagando cinque lire al mese, uno studente, un impiegato, un commerciante possono venir a prendere tre lezioni la settimana di francese, di tedesco, d’arabo, d’inglese, di spagnuolo, d’ungherese, di greco moderno, di russo; possono servirsi dei libri della biblioteca; possono venir la sera, d’inverno, a leggere giornali accanto al fuoco, a lavorare, a parlar la lingua che studiano; in una parola, possono passare il tempo con piacere, con utilità e con risparmio dal primo all’ultimo giorno del mese, non spendendo più di quel che ci vuole per andar due volte all’opera o dieci volte al caffè.”
Domandai chi fossero i professori.
“I professori” mi rispose, “sono i più distinti della città; basta dire che vi è il Müller, il Gras, il Segalla, il Giuliani, il De Bender, dodici in tutti. Si sono profferti a gara, rinunciando anche a quel più di guadagno che ricaverebbero dall’insegnare in altri istituti; fanno il loro dovere con amore, intervengono nelle sale di conversazione, si occupano di tutti gli allievi.”
“E chi paga?”
“Pagano i soci; sono quasi cinquecento; le poche lire mensili date da ciascuno bastano a far le spese di ogni cosa; gli allievi sono numerosissimi e appartengono a tutte le classi della società: negozianti, impiegati, avvocati, ingegneri, medici, ufficiali, preti, studenti; le scuole riboccano di scolari; v’è chi studia due lingue insieme, chi persino tre, tutte sono studiate, anco l’arabo; vi sono delle famiglie intiere che vengono: padre, figliuoli, figliuole.”
“Anche le figliuole?”
“Certo: vi è una sezione femminile separata; le allieve sono quasi duecento; parecchie sono delle prime famiglie di Torino. Quest’anno, si fece l’inaugurazione solenne; il corso è diretto da una signora; i professori sono aiutati da tre signorine incaricate ciascuna dell’insegnamento di una lingua; le lezioni per gli uomini si danno la sera, quelle per le donne lungo la giornata; e le donne studiano con più ardore, con più costanza e più successo degli uomini.”
“E a pagare tanti maestri, e un quartiere così vasto, e una illuminazione così splendida, bastano le cinque lire dei soci?”
“Ce n’è d’avanzo; l’entrata supera l’uscita. Oltre a questo, vi sono dei proventi straordinari. Il municipio, quando vide che l’istituzione portava buoni frutti, le accordò un sussidio; gliene accordò un altro il Ministero dell’istruzione pubblica; un terzo la Camera d’agricoltura e commercio; s’incassano oltre a ventimila lire l’anno. V’è un consiglio d’amministrazione, un presidente, un vice-presidente, un segretario, un cassiere, un economo, un esattore, un bibliotecario, un censore, un consigliere, e tutti fanno il loro dovere e nessuno è pagato.”
“Ma bene!”
“E abbiamo anche le nostre piccole glorie. Il Circolo ebbe una medaglia dal Congresso pedagogico del 1869; ebbe incoraggiamenti e consigli dal Baruffi, dal Peyron, dal Flecchia, dal Vallauri; in una città del Belgio, Verviers, s’istituì un Circolo come questo, e il presidente scrisse qui ringraziando dell’esempio che gli si era dato; venne a Torino la deputazione spagnuola per l’offerta della Corona al principe Amedeo, e parecchi dei suoi più cospicui personaggi si recarono a visitare il Circolo, assistettero alla lezione di spagnuolo, conversarono cogli allievi, recitarono versi, promisero e mandarono poi dalla Spagna libri e giornali, e s’adoperarono a far sorgere là un’istituzione simile alla nostra. Infine, il Governo pensa al modo d’introdurre nel Circolo l’insegnamento della filologia comparata, perchè ha veduto che qui si studia e si lavora di proposito, e l’istituzione è fondata sopra una base che vale più di tutti i sussidi e di tutti i favori: — la buona volontà e il buon accordo di tutti.”
Domandai chi avesse avuto la prima idea dell’istituzione.
“Un giovanotto di 24 anni” mi rispose l’amico; “un semplice applicato alla cancelleria civile del Tribunale di Torino, un certo Luigi Salesse.”
Salesse! — io ripetei tra me. — Ecco uno di quei nomi che chi ha occasione di scrivere per la stampa deve raccogliere e pubblicare, per debito di cittadino e di scrittore, come farebbe del nome dell’inventore d’una buona macchina o dell’autore d’un buon libro; che certo egli non ha fatto un’opera meno utile, nè durato una fatica minore. Chi ci s’è provato, in queste cose, lo può dire. Egli si sarà levato una mattina con quell’idea in capo, venutagli forse in sogno, chi sa? se ne sarà subito acceso, e senza pensare a difficoltà, senza dubitare della riuscita, si sarà detto allegramente: all’opera! E lo stesso giorno avrà cominciato a parlarne cogli amici, a sollecitare, a progettare, a scrivere... Ma ohimè! Qualcheduno lo avrà deriso, altri avrà fatto spalluccie, altri non gli avrà dato che delle buone parole; non sarà mancato forse chi dietro le spalle l’accusasse di vanità, di secondi fini, di raggiro; ed egli si sarà scoraggito e sarà tornato a casa col cuore pieno di melanconia. Ma la mattina dopo, affacciandosi alla finestra della sua cameretta, e sentendosi soffiare nel viso l’aria vigorosa di Torino, si sarà riconfortato, avrà sperato di nuovo, avrà deciso di ritentare la prova: s’ha tanta forza a 24 anni! E poi bisogna tener alta la bandiera della volontà piemontese! E allora daccapo a cercare, a proporre, a discutere, a pregare, finchè sarà riuscito a raccogliere una dozzina d’amici concordi, e li avrà radunati in casa sua... Appunto, le prime riunioni furon fatte in una stanzina al quarto piano in via Roma, al lume d’una candela; non ci sarà stato fuoco, di certo; ma che importa del buio e del freddo a un giovane di 24 anni, che ha una idea luminosa nel capo e una passione ardente nel cuore? Ora, in queste sale, ci sono stufe e lampade e tappeti: questo gli premeva, ci riuscì, non voleva nulla per sè, non è nemmeno membro del Consiglio, ha ottenuto il suo scopo, è contento.[3] —
“Sicuramente,” dissi poi al mio amico, “io sarò allievo del Circolo filologico; fa’ conto come se fossi già iscritto, voglio tornar a sedere su quei banchi.” E apersi la porta di una delle scuole. “Non so quale affetto melanconico mi ci spinga. Sento come un bisogno di rinfrescarmi l’anima in codesto lavorìo di quaderni, di temi, di appunti, che ho smesso ieri, si può dire, e che mi par già tanto lontano, che mi spavento a pensarci. Deve parere di tornare un po’ addietro a sedersi là. Ci voglio tornare, e studiare, e fare i miei lavori con impegno e tirarmi gli sguardi compiacenti del maestro. E quando il maestro ripeta qualcosa ch’io abbia già inteso, far delle figure sulle copertine dei libri, stuzzicare il vicino, o pensare che la domenica non c’è scuola e che mi potrò divertire. E quando finisca la lezione, esser uno dei primi a saltar fuori e a fare strepito giù per le scale e a mescolarmi allegramente a quella svariata scolaresca di giovanotti, di uomini maturi, di negozianti, di dottori. Oh mi piace, sento che mi farà bene, e scommetto che fa bene a tutti. Vi sono due cose che è utile guardare di tanto in tanto, e pensarci su, che dicono sempre qualcosa di nuovo e di buono, un bel cielo stellato e una stanza con una cattedra e tre o quattro file di banchi.”
Diedi poi un’occhiata alle iscrizioni, e lessi un proverbio arabo che dice: «Ciascuna lingua vale un uomo.»
Un detto del Baretti: «Il progresso cresce gigante là dove si ciba di giornali esteri; dove no, resta nano.»
Uno del Napione: «Le traduzioni producono presso a poco lo stesso effetto che i viaggi per l’ingegno.»
Uno di Carlo Quinto: « Un hombre que conozca cinco lenguas es igual à cinco hombres. »
E avanti, in ogni stanza, in ogni andito, sopra ogni porta c’è una sentenza o un consiglio o un eccitamento allo studio.
Sopra un tavolino, accanto alla porta d’uscita, trovai un regolamento e gli diedi una scorsa. Vi sono delle buonissime cose; i fondatori del Circolo hanno veramente saputo ricavare dall’istituzione tutti i vantaggi che poteva dare. Per esempio, sul finire di ogni corso si apre un esame per chi lo vuole, e a coloro che lo superano vien data una patente di conoscenza pratica della lingua, della quale il municipio e le amministrazioni private tengon conto fra gli altri titoli prodotti per ottenere un impiego. Ogni anno sono ammessi gratuitamente al Circolo dieci giovani sprovveduti di mezzi propri per frequentare le scuole private. V’è un ispettorato per ogni lingua, composto di due soci nominati dal Consiglio, che sopraintendono alla esatta osservanza dei programmi e dei regolamenti. Ogni professore è obbligato a stendere una relazione bimestrale intorno all’andamento della sua scuola. Ogni socio può fare qualunque proposta gli paia opportuna, scrivendola sopra un registro che è nella sala di lettura, e la direzione è tenuta a rispondergli nello spazio di tre giorni. È permessa una rivendita di bibite e di gelati accanto alla sala di conversazione per rinfrescare un po’ le labbra novizie alla pronuncia faticosa delle dure frasi tedesche. Ah! lo dimenticavo: è proibito severamente a qualunque allievo di passare per la via dei Mercanti e di alzare gli occhi alle finestre mentre sono in iscuola le ragazze.....
Oh peccato! Io non avrei mica la pretensione d’andarmi a cacciare fra le scolare e il professore; io rinuncierei anche a guardare per il buco della serratura i bei visi, e le ricche capigliature, e le file dei piedini che spuntano sotto i banchi; prometterei anche di non aspirare, come dice il Musset, il profumo dei vestiti delle signore, che egli afferma che si sente, e che è un profumo misterioso: no. Io confesso il mio debole, volerei alla porta della scuola di spagnuolo, starei coll’orecchio allo spiraglio, vorrei afferrare qualcuna almeno di quelle parole larghe, maestose e sonore, in cui pare che l’anima di chi parla si espanda e si riposi, con una sorta di compiacenza altera; qualcuna di quelle altre gentili e carezzevoli, che ci ricordano tanto le nostre, che ci toccano dentro subito come le nostre, che rispondono quasi a un suono che avevamo già nella mente prima d’intenderle, che ci paiono veramente parole della nostra cara lingua dimenticate, voci nostre ripetute da un’eco che ce le alteri, saluti di gente amica che per lunga dimora in paesi stranieri abbia frammisto ad altri gli accenti di un linguaggio che c’era comune..... bizzarrie. Almeno il verbo querer vorrei sentire, farlo ripetere, l’indicativo presente, prima persona, col te, più piano, così.... Ma non si potrà, e pazienza! Ci basterà il pensare la sera che lungo il giorno, in quelle scuole risonanti delle nostre rozze voci virili, si sono intese delle voci argentine e soavi, e moduleremo il nostro accento sull’onda sonora che ci tremerà nella mente desiderosa. E lo dicevo che a riveder dei banchi di scuola si ritorna un po’ addietro! Vedete che arcadicherie!
Mi cadde ancora sott’occhio, prima di uscire, un quadro statistico che dà la divisione degli allievi secondo le lingue. È notevole che la inglese, la quale ebbe il numero maggiore di studenti nel primo anno, ne perdette nel secondo e nel terzo una gran parte, che si dedicarono al tedesco: centoquarantotto furono i frequentatori di quest’ultima scuola nell’anno 1871. Il francese è sempre al di sotto dell’inglese e del tedesco; quest’anno poi, dopo la guerra (è facile che ne sia stata questa la cagione) perdette la metà circa degli inscritti, i quali di 254 che erano nel secondo anno, si ridussero ultimamente a 127. Per lo spagnuolo vi fu sulle prime un vero entusiasmo; la sola sezione femminile diede più di quaranta scolare. La elezione del principe Amedeo a re di Spagna, l’arrivo della deputazione, la visita fatta da quei personaggi al Circolo, furono la cagione della voga in cui venne improvvisamente quella lingua; ed anco un po’ la sua altrettanto diffusa, quanto mal fondata reputazione di facilità. Ma quel primo entusiasmo sbollì presto, e lo spagnuolo non conta più che ventidue iscritti. Otto ne ha il portoghese, sei l’arabo, l’ungherese quattro.
È pure a notarsi la divisione degli allievi secondo le professioni. Per me un fatto che prova la reale utilità di questa istituzione è che la classe più largamente rappresentata nella scolaresca è quella dei negozianti. Si potrebbe dubitare infatti, che una parte degli studenti, degli ufficiali, dei possidenti vadano là per ozio per curiosità; ma non i negozianti, giovani i più che sono occupati l’intero giorno, e sacrificano le poche ore di svago e di riposo che potrebbero goder la sera. Nel secondo anno, oltre al gran numero di negozianti e di studenti, vi furono 67 impiegati, 44 avvocati, 38 militari, 34 ingegneri, 18 procuratori, 15 medici, 2 ecclesiastici, ed altri molti di professioni diverse. L’età media degli iscritti è dai venti ai trent’anni. Pochissimi quelli che superano i quaranta.
E mi parve con questo di saperne abbastanza per scrivere una lettera intorno al Circolo, ed uscii. Ed uscendo ripetevo tra me quello che ho scritto di sopra: — Mi pare che in Firenze si dovrebbe istituire un Circolo filologico come quello di Torino.
Ci ripensai, e mi confermai nell’opinione che nessuna città meglio che Firenze potrebbe dar vita e incremento a un’istituzione di questa fatta; Firenze dove il grande concorso di stranieri d’ogni paese è stimolo, occasione e mezzo ad un tempo d’imparar lingue; Firenze che ha da essere di nuovo la città quieta e serena degli studi, e che agli studi appunto dovrà rivolgere una parte dell’attività nuova che la vita di città capitale le sviluppò nel seno; Firenze infine, — e questo ve lo dico nell’orecchio, — dove si può con minor rimorso che altrove consacrarsi allo studio d’una lingua qualunque che non sia l’italiana.
Se poi in un Circolo filologico di Firenze si instituisse l’insegnamento della lingua italiana, io credo che il concorso degli stranieri della classe artistica, industriale e operaia, sarebbe considerevole, (che tre lezioni d’italiano la settimana per cinque lire al mese farebbero comodo a tutti); e il concorso di questi stranieri riuscirebbe di grande agevolamento per gl’Italiani che studiassero le lingue loro. Questo agevolamento in Torino non c’è, o non può esserci che in misura assai scarsa; e se pure si ricava già tanto utile da questa istituzione, che non se ne potrebbe ricavare in Firenze?
Io conobbi costì uno studente del liceo, un giovanetto di diciassett’anni, pieno d’ingegno e d’energia, il quale, pure coltivando con grande zelo i suoi studi scolastici, s’era dato alla lingua inglese e alla tedesca con tanto ardore, che passava le notti sulle grammatiche e sui vocabolari come le avrebbe passate al ballo o al teatro. Ma studiar da sè non gli bastava, e d’altra parte egli era troppo corto a quattrini per dare un venti trenta lire al mese a un maestro. Come fare? A furia di pensarci, trovò il mezzo di supplire o bene o male alle lezioni, almeno per imparare la pronuncia. La sera, finito appena di desinare, correva nella chiesa dei protestanti, si cacciava nel coro, e mentre i suoi vicini tedeschi o inglesi cantavano le loro preghiere, egli se ne stava là tutto raccolto e intento ad afferrare ed imprimersi nella memoria quei suoni, quegli accenti, quelle cadenze; poi cominciò a cantare anche lui; poi, uscendo, prese a fermarsi accanto a qualche crocchio, a dir qualche parola, ad appiccare un po’ di discorso; insomma tirò innanzi così per parecchi mesi ed imparò qualche cosa. — Ma è lunga! — esclamava sovente; — è lunga e dura! Povero giovane, quanto sarebbe stato felice se un giorno gli avessero detto: — Puoi risparmiarti tutti questi sacrifizi, si sta per aprire una scuola così e così, avrai modo di studiare quante lingue vuoi, con tutto comodo, e con cinque lire al mese! — Io pensai a codesto giovane girando per le sale del Circolo di Torino, e avrei voluto averlo un momento con me, per vedere il suo viso usualmente atteggiato ad una serietà e ad una tristezza precoce, rasserenarsi e sorridere, come quando gli vien fatto di cogliere alla prima il senso d’un intricato periodo tedesco. Torna a Firenze — io gli avrei detto; — e fa’ istituire il Circolo tu stesso; qui l’ha fatto un impiegato di ventiquattr’anni; tu fa’ vedere che ci può riuscire anche uno studente di diciassette. E chi sa che se gli cadranno sott’occhio queste linee non gliene venga l’idea?
LE “IMMAGINI BIANCHE.”
A M A E G A E.
Quando ho studiato una gran parte della giornata, mi piace passar la sera in una stanzina modesta, con pochi visini ridenti, intorno a una tavola su cui tra i libri e le carte si veggano panierini da lavoro e telai da ricamo e forbici e refe e mani in moto. E che il lume batta bene su quei visi, per vedere se è gente che sente quello che dice.
Io m’immagino che in questo crocchio vi siano due signorine dai quindici ai diciassette anni, sorelle, simpatiche, nelle quali un’educazione prudente e sagace sia riuscita a mantenere il difficile accordo dell’ingegno colla modestia, della coltura colla semplicità; ragazze in cui sia stato sciolto il problema dell’istruzione della donna sovra il dato: «Nè idiota, nè letterata;» ragazze che faccian dire a chi odia ugualmente i due estremi: «Così basta e sta bene.»
Sediamoci e sentiamo: il caso è raro, e val la pena di badarci.
Si parla di letteratura fin dalle prime parole; non di articoli, di casi, di tempi; ma di libri. E, cosa singolare! è difficile ricordarsi del come si sia entrati in questo discorso. Forse perchè gli autori non si sono afferrati l’un dopo l’altro, levati su di peso e lasciati cadere sulla tavola, dicendo: «Attenti! Ora si ragiona di costui.» Ma perchè il discorso li chiama e li conduce, ed essi son là prima che si sia pensato a evocarli, saltan su all’improvviso dietro un’idea gentile; vengono, scompaiono, riappariscono, leggeri e rapidi, senza farsi sentire. Non sono ombre, come nelle conversazioni dei pedanti, lunghe e lente; ma bagliori che tremolano un istante, e via. Non c’è tempo a trattenerli perchè si lavora e si ride; s’inchinano e si salutano e si congedano; e così tutto procede sollecito e allegro: le parole, il ricamo, il tempo.
“Che cosa facevano, signorine, prima ch’io venissi?”
Aspettatevi una risposta diversa perchè hanno la giornata diversamente divisa.
“Io ho studiato un canto di Dante.”
“Io ho rimendato panni vecchi.”
Accennate loro di volo un passo d’un autore, interrogandole collo sguardo per sapere se ne ricordano. L’una guarderà l’altra, starà un po’ pensando, e poi, volgendosi verso di voi, con un’aria umile e una voce sommessa, come di chi confessa un peccato, vi dirà:
«Non lo so.»
E l’altra subito: «Non lo so.»
All’una o all’altra, nel discorrere, si presenterà opportuna la citazione del passo d’un libro, d’una sentenza, d’un verso. Non è mica facile il farla bene. O ci si mette, senz’addarsene, un po’ di tono di pretensione; o il timore che altri ce lo senta, questo tono, ci fa esitare e confondere; o il buttar là le parole alla libera può parere una pretensione più accorta. Ma esse, senza tanti rigiri, vi dicono ingenuamente: «Aspetti!» e volgendo gli occhi in su, cercano di ridursi alla mente la frase esatta; l’una guarda l’altra, s’aiutano, sorridono, e la citazione vien fuori, fresca, modesta e cara, come se fosse uscita alla prima.
Voi esprimete il vostro parere sur un libro che hanno letto, e questo parere sarà uguale al loro. Allora esse acconsentono collo sguardo, col sorriso, coi gesti, con tutta la persona ad ogni vostra parola; si guardano, dicendosi l’una all’altra: «Ma sì!» e precorrono coll’espressione del viso il vostro discorso; e se vi manca l’ultima parola d’una frase, ve la dicono, è quella; e se v’interrompono con un’osservazione, completano il vostro pensiero; ed esclamano poi ad una voce, con un accento pieno di vigore e di grazia: «Come è vero!» Ma se di quel libro non avranno lo stesso concetto, non v’aspettate finzioni o silenzi; esse vi diranno con un’aria di rincrescimento sincero: «Non ci piace;» e si guarderanno di nuovo nell’atto di dirsi: «Peccato!»
Ah! le avete toccate nel vivo, avete nominato uno dei loro libri prediletti, un amico della loro infanzia, ora lasciate che s’aprano e si sfoghino. Ecco, da un moto della loro fronte s’indovina che quel nome ha destato una folla di ricordi cari e gentili, e ravvivata tutta la gioia delle prime letture. Non sanno come cominciare, ma è impossibile che tacciano. Ebbene, diranno le parole solite: «Ho provato questo, ho sentito quest’altro, mi pareva, pensavo, l’anima, il cuore, la vita;» ma ve le diranno in modo che vi parranno nuove, come tutte le parole in cui si versa l’affetto nel suo imperioso prorompere. L’una ricorderà concitatamente una scena, l’altra, impaziente, coglierà un’istantanea sospensione della prima, per tagliare il discorso e ricordare la sua; le voci si confonderanno: «È così, non è così, aspetta, senti;» tratto tratto usciranno in una esclamazione impetuosa e sonora: «Bello!» e dall’accento, dall’occhio, dai gesti, da tutto quello che in una creatura umana si muove ed esprime, trasparirà la loro anima, bella innocente e buona; finchè all’improvviso taceranno tutt’e due insieme, e chineranno il viso sul lavoro, per rialzarlo dopo un istante soffuso di rossore, e dirvi con un timido sorriso:
— Che furia, eh? —
Fatele ancora parlare, interrogatele, forzatele ad esprimere i loro pensieri e i loro sentimenti più famigliari e più occulti. Voi vedrete che in quelle loro menti limpide, ogni libro letto o discorso udito ha lasciato un’impronta netta e spiccata come una mano nella neve. E vi son pur rimasti i modi e le forme pellegrine delle scritture forbite, onde qualche volta, parlando, vestono in gala, senza addarsene, un pensiero comune e dimesso, e ne riesce un contrasto graziosissimo tra la cosa e la parola; senonchè l’intimo senso, educato alla semplicità e all’armonia, ne le avverte subito, e si ripigliano con una sollecitudine e un turbamento più grazioso ancora del contrasto. E ogni titolo di libro richiama alla loro memoria immagini varie e gradite, un’amica del collegio, una gita in campagna; ed hanno per ogni ricordo una parola che lo colora e lo illumina. E vorrebbero dir tutto in fretta, tutt’e due; ma se il bisogno di aprirsi le spinge, il timore di dir troppo le frena; onde, parlando, s’interrogano, s’interrompono a un tratto, ricominciano; e le parole ora si svolgono lente e peritose; ora si affollano e si espandono con libera foga. Da ultimo libere e continue, e allora i visi si fanno più rosei, la voce prorompe più tremola, le mani stropicciano il ricamo; e segue una vicenda rapidissima di aneddoti, di scherzi, di nomi d’autori, di versi, di vezzi, di rossori, di risa; e voi restate là come un fanciullo sotto una pioggia di fiori, di dolci e di ninnoli, che vorrebbe afferrarli tutti, e non può, e stende e ritira le mani, e poi finisce col giungerle esclamando: — Che piacere!
Così veramente hanno da essere congiunti in una donna la coltura e la grazia, il cuore e l’ingegno! Allora la sua immagine vi resterà nella mente come dovrebbe sempre restarvi, o sia una madre, o un’amante, o un’amica: ella vi resterà splendida e bianca.
Grande è la potenza di queste immagini bianche nella vita dell’uomo!
Io vi pongo innanzi queste due, e vi dico che vi fanno del bene.
Quando voi, che avete il bisogno e l’uso di scrivere, state nella vostra stanza, a tavolino, scrivendo; e tutto ad un tratto, per una cagione ignota, inesplicabile, ma non rara nelle anime giovanili, i libri, l’arte, l’avvenire, ogni cosa impallidisce e s’agghiaccia dinanzi a voi e dentro di voi; e una folla di gente che voi travedevate col desiderio muta ed ansiosa intorno al vostro tavolino, prorompe in una risata sonora; e le pareti della stanza pare che s’accostino e s’abbassino per soffocarvi, e la penna vi scivola di mano, e la testa vi cade sul petto; in quel momento in cui vi sembra di misurare per la prima volta, con un sentimento di mestizia infinita, lo spazio solitario ed oscuro che vi separa dal mondo degli svaghi, degli amori e delle ebbrezze, a cui avete dato un addio, stolti! per gli studi e la gloria; — in quel momento, forse, quelle due immagini bianche vi torneranno dinanzi, e vi domanderanno con un sorriso amorevole: — E noi? — Ah sì! — voi esclamerete allora, ripigliando la penna rasserenati e animosi: — non foss’altro che per voi, io lavoro!
E quando voi, mettendovi a scrivere colla impressione viva di letture, di persone o di spettacoli che abbiano risvegliata ad un tratto la parte meno degna dell’anima vostra, ripeterete a voi stessi quella frase d’uno scrittore che io conosco: — Non voglio imbrattar carta pei bambini o per le femminuccie; — e una folla fantastica di cortigiane, di giocatori, di libertini, di adultere vi verranno intorno coi volti accesi e convulsi, e vi diranno: — Scrivi per gli uomini; noi siamo la vita: ritrai; — e voi, forzando vigliaccamente la vostra natura per non parer semplici e sciocchi, comincierete a ritrarre; — allora vi ricompariranno dinanzi quelle due immagini bianche, e accennando la carta che avrete nascosta arrossendo, vi domanderanno con un viso turbato e severo: — Che scrivi? — Ah no! — voi esclamerete allora lacerando lo scritto: — Mai! non foss’altro che per rispetto vostro, mai!
E quando, scrivendo con un’ispirazione serena ed onesta, vi tremolerà alla mente, or sì or no, un concetto alto e bello, e starete là immobili, intenti, coll’arco dell’intelletto teso, per colpirlo nel punto in cui vi balena; e dopo molto sforzo riuscirete a coglierne un raggio, e vi fallirà il vigore per prolungar la prova, e direte a voi stessi: — Basta, forse c’è già un’evidenza ch’io non ci scorgo, forse il lettore afferrerà il concetto intero alla prima; — (artificiose illusioni di artisti sfibrati) allora, forse, vedrete qualcosa agitarsi sul vostro capo, ed alzando gli occhi vi appariranno le due immagini bianche, su, molto in su, sorridenti e serene, le quali vi accenneranno: — Qui, bisogna salir fin qui, ancora uno sforzo, fino a noi! — E allora voi vi riporrete intorno al vostro concetto, lo afferrerete forse subito, forse lo avrete già afferrato.
Ah, voi, immagini bianche, non credete di poter tanto, voi, innocenti e modeste? E se vi dicessi che v’è qualcuno che, parlando con voi, sente e si rimprovera altamente e amaramente le lacune che ha nel capo; — che, uscendo da casa vostra, rinnova ogni giorno il proposito di mettersi a studiar molto, molte cose, ed in furia, per ridursi presto in grado di rispondere a tutte le vostre domande e soddisfare tutte le vostre curiosità; — che la sera tardi, forse mentre a voi, prese dal sonno, sfugge il libro di mano, egli apre i suoi, ne apre uno, lo smette, ne apre un altro, lo chiude, vorrebbe scorrerli tutti insieme, non lo può, s’inquieta e si rattrista, dicendo: — Dovevo studiar prima, — e si conforta: — Avrò tempo a studiar poi, — e si rallegra: — Mi faranno studiar loro!
Benedette le donne che fanno amare il lavoro!
Voi siete di queste, e avete diritto a un ringraziamento; e più che a un ringraziamento, a un augurio; e io ve lo faccio a mio modo.
Possa esser reso a chi verrà da voi, — e da tutte le immagini bianche come voi, — la serenità e l’ardore del lavoro e l’amore della vita raccolta e pura, che voi ispirate a tutti coloro che vi si avvicinano e v’ascoltano. Se avrete nella vita delle ore vuote o dolorose, vi possano venir dinanzi tutti quelli che da voi hanno attinto forza, ispirazioni gentili, e pace, e dirvi l’uno: — Ho scritto un romanzo, il più nobile personaggio è una donna, leggete, siete voi; — e un altro: — Ho fatto una statua che rappresenta un angelo; venite a vedere; ho colto l’espressione del vostro viso quando dite dei versi che vi fanno piangere; — e un terzo: — Ho scritto un’opera di matematica, ridete pure, non è cosa per voi; ma molte volte, quando mi cadeva la testa dalla stanchezza e dal sonno, mi ricordavo di voi e ripigliavo coraggio; vi porgo il libro per questo. — E... sentite ancora, vi dirò una bizzarria, ma la dico col cuore. Possa venire un giorno in cui ciascuna di voi, madre d’un uomo onesto, operoso ed insigne, stando la sera nella sua stanza a rileggere un libro che gli ricordi il collegio o le sue conversazioni di fanciulla, oda a un tratto nella via un gridìo confuso e un suono di banda; e giunga in quel punto, a passi concitati, un amico che le dica: — È il popolo che acclama vostro figlio! — e questo figlio sia presente, e afferrandovi per un braccio e accennandovi il balcone illuminato dal riflesso di cento fiaccole, le gridi: — Madre! il tuo posto è là!
E chi può affermare che non spunterà un tal giorno per voi? Oh! tremolatemi sempre dinanzi agli occhi, care immagini bianche.
Fine.