RICORDI D'INFANZIA E DI SCUOLA

Edmondo De AMICIS

RICORDI d'INFANZIA e di SCUOLA

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BAMBOLE E MARIONETTE — GENTE MINIMA PICCOLI STUDENTI — ADOLESCENTI DUE DI SPADE E DUE DI CUORI

MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI 1913 — Quattordicesimo migliaio.

Tip. Fratelli Treves.

INDICE Al dottore ANGELO BOCCA Sindaco di Cuneo CARO AMICO DEI MIEI PRIMI ANNI INSEPARABILE NELL'ANIMO MIO DALLA MEMORIA DELLA CITTÀ ILLUSTRE E BELLA A CUI MI LEGA AMORE E REVERENZA DI FIGLIO.

RICORDI D'INFANZIA E DI SCUOLA.

I primi anni.

La traccia più remota ch'io trovi in me della mia coscienza è quella d'un giorno che stavo giocando sopra un mucchio di sabbia con un mio fratellino, maggiore di me di due anni, il quale morì quand'io n'avevo quattro, non lasciandomi neppure una vaga reminiscenza del suo viso. In che maniera mi sia rimasta l'immagine di lui in quel punto, e non l'ombra d'un ricordo di quanto avvenne in casa mia alla sua morte, che avrebbe dovuto lasciarmi un'impressione profonda, è uno di quei tanti misteri della memoria, che tenta invano il nostro pensiero. E non è meno misteriosa per me la certezza assoluta che ebbi sempre, che quella larva con cui giocavo quel giorno era mio fratello, quantunque non abbia nessuna ragione d'esserne certo. A me pare che la mia esistenza sia incominciata in quel momento. Ma dopo di questo ricomincian le tenebre, e non ritrovo più il lume d'una ricordanza che molto tempo di poi: quello d'avere una volta, scendendo la scala di casa, contato i miei anni, che eran cinque, sulla punta delle dita, e d'aver pensato che mi sarei potuto chiamar grande quando per contar la mia età mi fossi dovuto servire anche dell'altra mano. D'allora in poi gli avvenimenti di cui mi rammento, benchè separati ancora da molti spazi oscuri, come i fuochi notturni dei pastori sui monti, sono chiari nella mia memoria come quelli dei periodi più recenti della mia vita.

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Mio padre, genovese, era banchiere regio dei sali e tabacchi in una piccola città del Piemonte, che è per il sito e per i dintorni una delle più belle d'Italia: posta sull'ultimo lembo d'un altipiano, che si protende a punta e sovrasta al confluente d'un fiume e d'un torrente, i quali la cingono come d'un abbraccio; e di là dalle rive si stende, ascendendo ad anfiteatro, una campagna floridissima, tutta macchie e vigneti, coronata dalle Alpi imminenti. Tutti i ricordi dell'infanzia mi si disegnano alla mente sul verde vivo di quella campagna, sull'azzurro chiaro di quelle acque, sulla neve luminosa di quelle alte montagne. Abitavamo in una casa spaziosa, che guardava da una parte sul fiume, e aveva a terreno l'ufficio e i magazzini, e davanti un giardino, un orto, due grandi pergolati, e un vasto cortile; il quale si riempiva due volte la settimana dei carri dei rivenditori, discesi a far le provviste fin dai villaggi più lontani del circondario; e quei giorni era un moto, un traffico, un rumorìo di mercato, nel quale io mi tuffavo con gran piacere, correndo qua e là fra le bestie e la gente e su per i sacchi e le casse, curioso e eccitato, e un poco anche inorgoglito dal pensiero che tutto quell'affaccendamento mettesse capo a mio padre, che mi pareva un personaggio più potente d'un ministro. Ma le impressioni più belle e più forti di quei primi anni furono quelle che ebbi dalla natura: tanto belle che, ripensando a quel tempo, mi pare che non ci siano più stati al mondo splendori di sole così sfolgoranti, lumi di luna così limpidi, primavere così fresche e così odorose; tanto forti che anche ora il piacere che mi dànno l'aurora, il tramonto, la pioggia, la neve, l'odor della terra e il profumo delle rose e delle viole, deriva in gran parte dal ricordo delle sensazioni che tutte quelle cose mi destavano allora. Per il luogo e per le circostanze in cui trascorsi la mia infanzia, non avrei potuto esser più fortunato. Mi è sempre stato un conforto dolcissimo il pensiero d'esser cresciuto in cospetto di quella vasta bellezza alpina, in quella casa grande e sonora, inondata di luce e scossa dai venti, tra il verde di quel giardino che mi pareva immenso, in mezzo a quel trambusto di arrivi e di partenze, di lavoro e di grida, che metteva in moto ogni momento la mia immaginazione e le mie gambe, e mi faceva vivere una vita intensa e varia, tra cittadina e campestre, un po' da figliuol di signore e un po' da ragazzo d'officina, libera e vigorosa come l'aria purissima che respiravo.

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Un ricordo vivo di quegli anni, che mi fa ancora sorridere, è la condizione singolare in cui mi trovavo davanti a mia madre e a mio padre in riguardo del linguaggio. Portato via, che non avevo ancor due anni, da Oneglia, dov'ero nato e cominciavo a balbettare il genovese, e trapiantato in una città dove si parlava un dialetto diversissimo, avevo scordato quello affatto, e imparato questo dalle persone di servizio e dai miei nuovi concittadini coetanei avanti che i miei parenti ci si cominciassero a raccapezzare; perchè ai bambini il linguaggio che intendono dai compagni di gioco e dagli inferiori ossequiosi si attacca più prontamente di quello che sentono in casa. Ne seguì che per un bel pezzo mia madre ed io ci capimmo poco o punto; ed eran scene comiche, che facevan ridere tutti i presenti, quando essa mi dava una lavatina di testa in genovese ed io mi giustificavo e protestavo in piemontese, e la disputa andava per le lunghe, essendo grammatica tedesca per ciascuna parte le argomentazioni dell'altra; tanto che molte volte, per finirla, bisognava chiamare per interprete uno dei miei fratelli. E così a tavola due volte il giorno, essendo io il solo che parlasse il nuovo dialetto e non capisse l'altro, feci per molto tempo la figura d'un forestiero intruso, d'un trovatello raccolto nella città nuova, impacciato a chieder molte cose e costretto spesso al silenzio, come quei viaggiatori che si trovano solitari a una tavola rotonda d'albergo in mezzo a commensali di un'altra nazione. Non fu che anni dopo che cominciai a parlare in casa il mio dialetto d'origine, che ora posseggo quanto l'altro; ma la pianta aveva già preso il colore del concio piemontese, e però son sempre rimasto il più piemontese della famiglia; benchè, passata la prima gioventù, mi sia nato e andato crescendo sempre con gli anni, per la virtù crescente delle memorie familiari, un affetto dolce e profondo per la mia regione nativa.

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Fra le memorie della mia infanzia tiene un posto di principessa, accanto a mia madre regina, una vecchia serva, uno dei cuori più buoni e più dolci ch'io abbia conosciuto al mondo; della quale ho davanti agli occhi, lucidissimo, il piccolo viso sorridente, vero specchio dell'anima, e sento ancora la voce amorosa e tremola, di cui si diceva in casa che pareva la voce d'un'anima del purgatorio. Si chiamava Maddalena. Era come una seconda madre per me: nascondeva le mie piccole malefatte, si rallegrava come una bambina d'ogni mia gioia, s'affannava d'ogni mia sbucciatura come d'una grande disgrazia, e mi dava dei santi consigli dalla mattina alla sera; ed io le volevo bene come un figliuolo, le stavo appiccicato alle sottane ore intere, a farmi raccontar cento volte le stesse storielle, che mi parevan portenti di fantasia, e volevo addormentarmi tutte le sere al suono del suo canto lamentevole, che somigliava alle nenie degli Arabi. Posso dire che le ho serbato gratitudine per tutta la vita, e giurare che, se c'è un mondo di là, dove dobbiamo rivedere le persone care, sarà lei una delle prime che cercherò nello sciame bianco, e di quelle a cui volerò incontro con un remeggio d'ali più vigoroso. Strani giochi della memoria! Perchè essa mi condusse una sera con altri ragazzi a fare i rotoloni giù per una china, verso il fiume, dov'erano moltissime lucciole, la sua immagine mi si presenta quasi sempre coronata di lucciole, come la Madonna di stelle; e perchè fu lei che m'insegnò a intrecciar coroncine coi fiori rossi e azzurri che fanno tra il grano, oggi ancora mi balena davanti il suo viso ogni volta che vedo accoppiati, o in natura o in pittura, quei due colori. E m'è rimasta impressa così addentro nel cuore quella buona donna, che anche al presente, quando sogno qualche mio grande dolore, vedo qualche volta lei, con la rocca infilata nella cintura del grembiale, che mi guarda con viso ansioso, come faceva nel rialzarmi da una caduta, e sento la sua voce dolce che mi dice parole confuse di compassione e di conforto. Ah! se la rivedessi viva, quando mi risveglio da quei sogni, come darei ancora il capo bianco alle sue braccia, con che dolcezza piangerei ancora sulle ginocchia della mia vecchia Maddalena!

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Non per altro che per ignoranza, con l'intento di ricrearmi, fu lei che fece di me per un certo tempo una delle vittime più compassionevoli, che siano state mai, del terrore dei fantasmi; e questo con un solo racconto, che essa disse sbadatamente, filando — me ne ricordo bene — e dando ogni tanto un'occhiata alla pentola, dove bolliva la minestra per la cena. Era la storia della Morte, che, beffata da un ragazzo, gli annunzia che verrà a pigliarlo nel letto la notte; e il ragazzo, la notte, sente prima il passo di lei per la strada, poi all'uscio della camera, poi dentro; e infine la Morte se lo porta via. Questa storia mi diede una vera malattia di paura. D'immaginazione viva com'ero, io sentivo veramente, da letto, il passo della Morte, e rabbrividivo, sudavo freddo, tremavo da battere i denti; saltai più d'una volta giù dal letto e corsi nella camera di mia madre, gridando aiuto. E da quello mi nacquero cento altri terrori. Per molti giorni mi atterrì la solitudine anche di giorno; tremai alla vista improvvisa d'un lenzuolo steso, che mi pareva il mantello dello spettro; ebbi paura d'un vecchio allampanato, che da una finestra d'un ospizio di cronici, che prospettava la mia casa, mi guardava lungamente, quando giocavo nel cortile; e credo che mi sarei ammalato davvero, se non fossi stato di fibra molto robusta. È ancora così forte in me il ricordo di quei tormenti che quando in una casa o in un giardino pubblico vedo una governante nell'atto di raccontare una favola a dei bambini, provo un senso d'inquietudine, e son tentato d'avvicinarmele, per assicurarmi che non racconti loro nulla di terribile, e per pregarla di smettere, quando ciò fosse. Povera Maddalena! Essa rimase più spaventata di me degli effetti della sua imprudenza, e fece punto fermo coi suoi racconti, inesorabilmente; ciò che le alleggerì di molto le fatiche del servizio, perchè la mia curiosità insaziabile metteva alla tortura il suo povero cervello, che non era quello del Dumas padre, sebbene io le concedessi un uso larghissimo della ripetizione. — Mai più! mai più! — rispondeva alle mie preghiere. — Che nostro Signore mi perdoni, povera testa voida che sono stata!

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I miei primi compagni furono i figliuoli d'uno dei nostri facchini, il quale abitava in una casetta accanto al portone del cortile, e faceva anche da portinaio. Erano una tribù di ciabattoni, che facevano scala, come le canne degli organi, da un anno ai dodici, e ogni anno ne saltava fuori dalla casetta uno nuovo. Per me, figliuolo del padrone, avevano un certo ossequio di servitorelli, e mi ricordo che inclinavo ad abusarne. Ma su questo punto mio padre e mia madre erano severi, non me ne lasciavano passar una, ed è una delle cose di cui son loro più grato. Non si lasciavano sfuggire un'occasione di rintuzzare in me l'orgoglio signorile, d'inculcarmi il sentimento dell'uguaglianza e il rispetto della povertà. In ogni litigio che nascesse fra me e i piccoli mangiatori di polenta, se io non avevo proprio della ragione da buttar via, mi davano torto. E quando commettevo qualche grossa prepotenza, mia madre aveva un modo particolare di farmi ravvedere e chieder scusa: coglieva quel momento per fare alla famiglia uno dei regali soliti di biancheria o d'abiti smessi, che per quella povera gente era tanta manna, e voleva che portassi io stesso la roba, non accompagnato. Con la soddisfazione del compiere l'atto benefico m'entrava nel cuore il pentimento del sopruso, e con questo la vergogna; la quale alle volte mi teneva un pezzo titubante e mi faceva fare molti zig zag nel cortile, prima di presentarmi; e provavo poi un grande piacere quando, nel porger l'involto alla mamma, vedevo il piccolo offeso sorridermi, facendo capolino di dietro all'uscio, dove s'era rimpiattato al mio apparire. Il mio prediletto era Franceschino, un trippettino biondo, d'un par d'anni più di me, gran cacciatore di lumache al cospetto di Dio; che n'avrebbe scovate fin nelle crepe dei muri, e le faceva arrostire a modo suo, per semplice formalità, con un fiammifero. Un giorno, nel cortile, fui colpito nella fronte da un sasso ch'egli aveva lanciato in aria alla cieca: m'uscì il sangue, strillai, accorse mia madre, e un momento dopo la portinaia, che s'avventò sul ragazzo come una furia per pestargli le ossa. Questi, scappando in giro come una rondine, atterrito, passò accanto a noi, mia madre l'arrestò, e mentre m'aspettavo che facesse lei le mie vendette, gli mise le mani sul capo e se lo strinse al petto, per difenderlo, dicendo alla donna: — Non l'ha fatto apposta, non lo picchi, è perdonato. — Quell'atto mi cacciò dall'animo come per incanto ogni risentimento, e quasi non sentii più il dolore. Questo si chiama educare.

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Fra le mie memorie di quel tempo v'è un angelo dipinto a fresco sulla vôlta d'una cappella del duomo, dove andavo la domenica a sentir la messa con la famiglia: un'alta figura alata, ravvolta in un camicione bianco, di viso soavissimo, che pareva mi guardasse coi suoi grandi occhi azzurri. Fu quella figura che mi destò il primo sentimento religioso, facendomi pensare quanto fosse dolce il vivere dopo la morte in mezzo a migliaia di creature così belle, buone e bianche, seduto sopra le nuvole, dentro una gran luce rosata, in un'aria odorosa d'incenso, al suono dell'organo. Ricordo che pensavo a quell'angiolo ogni sera, mentre dicevo il Paternoster e l' Avemaria, prima di andare a letto, e che davo con l'immaginazione la sua forma all'angelo custode che credetti fermamente, per un pezzo, mi venisse accanto dalla mattina alla sera, invisibile. Tanto ci credevo che sovente, nei miei giochi, m'interrompevo, per domandarmi dov'egli stesse in quel momento, se davanti a me o alle spalle o dai lati, se vicinissimo o un po' discosto, se con l'ali aperte o ripiegate, e anche mi guardavo attorno, qualche volta, con la vaga idea, se non di veder lui in persona, almeno qualche indizio della sua presenza, alcun che di bianco, una forma vaporosa, un bagliore fuggente. Avevo la fede, se così può chiamarsi quello che allora sentivo; ma non rammento d'aver mai avuto paura dell'inferno, al quale quasi neppur pensavo, come a una cosa che non riguardasse i ragazzi. La religione era per me come la visione confusa d'una grande bellezza e un sentimento indeterminato di tenerezza e di bontà per tutti e per tutto, fin per i più piccoli insetti, che nei giorni di zelo più vivo badavo a scansare coi piedi. Dal che seguì che quando ebbi in chiesa le prime lezioni di catechismo dal parroco, che non ci metteva nè miele nè fiori, mi parve che m'avessero mutata la materia, e, senza rendermene chiara ragione, rimasi male, come uno che, aprendo un libro con l'idea di leggere un poema, si ritrovi sotto gli occhi un trattato scolastico. M'urtò in special modo, senza però turbarmi, quel nodoso dito sacerdotale sempre eretto e agitato in atto di minacciare le pene eterne. Quando facevo a mia madre qualche domanda relativa alla religione, non la interrogavo mai che sul paradiso, che era per me l'oggetto d'una curiosità vivissima, e intorno al quale pensavo che i grandi avessero delle cognizioni molto più precise che i bambini. E quando udivo dire d'una persona morta: — È andata in paradiso, — credevo che si dicesse per aver visto veramente qualche cosa di quella persona, come un'ombra o una fiamma, volare in alto e perdersi nell'azzurro. Quel pensiero del paradiso fu così forte allora nella mia mente, che mi attrassero poi sempre, anche nell'età matura, e mi dilettarono vivamente l'immaginazione tutte quelle scene di teatro, anche rappresentate alla peggio, nelle quali per uno squarcio delle nuvole, a traverso a un velo bianco trasparente, si vedono in un fondo luminoso delle vaghe figure celesti, sedute in vari ordini di seggi, come nell'ultima visione di Dante. Anche a vedere il paradiso in una baracca di burattini ci ho altrettanto piacere che il più piccolo degli spettatori.

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L'angelo custode non mi guardò dal crup, al quale scampai per miracolo, dopo che il medico m'aveva dato per perso. Non ho memoria alcuna dei patimenti provati, che furono atroci, come seppi poi da mia madre, poichè, già soffocato a mezzo, durai per ore a rantolare e ad annaspar con le mani, come un naufrago, rimovendo da me chiunque mi s'accostasse, come se mi rubassero l'aria, e supplicando coi cenni che si spalancasse la finestra. Ricordo soltanto che stavo spesso con l'orecchio teso per sentire se cantasse il corvo di fuori, perchè m'aveva detto Franceschino che il giorno prima della morte di mio fratello s'era sentito cantare un corvo sul tetto della casa. Ricordo d'aver visto per un momento ritta accanto al mio letto la forma nera del parroco. E un'altra cosa m'è rimasta in mente, che ancora mi fa fremere. Uscendo una mattina il medico dalla mia camera, mio padre e mia madre l'accompagnarono nella stanza accanto; donde mi venne all'orecchio un suono di voci sommesse, e poi un'esclamazione terribile di mio padre: — Anche questo! —; terribile al mio cuore in appresso, quando seppi che significava: — Anche questo figliuolo mi è tolto, — poichè il medico gli aveva levata in quel punto ogni speranza; ma non già allora, perchè non compresi. E così non compresi perchè mio padre, poco dopo, si sedesse a un piccolo tavolino accosto al letto, e menasse la matita sopra un foglio di carta, guardandomi spesso attentamente. Mi fu detto poi che, compiendo uno sforzo eroico, egli m'aveva fatto il ritratto a matita, per avere almeno quella memoria del mio viso, non ci essendo ancora in città, a quel tempo, nessun fotografo. Povero padre mio! Conservo ancora quel ritratto che mi fu lasciato da mia madre, e mi prende una pietà infinita, quando lo guardo, a pensare con quale strazio nell'animo furono fatti da lui tutti quei tratti minutissimi, che paiono l'opera d'un artista tranquillo, e specialmente quell'arruffio di riccioli bruni, sui quali egli era già preparato a darmi l'ultimo bacio. La crisi che mi salvò, la gioia dei miei parenti, la convalescenza, tutto è svanito dalla mia mente. Non mi rammento che la prima volta che fui riportato nel giardino, con un cuffietto in capo e un fazzoletto al collo, accompagnato a festa da tutti i miei, seguiti dalla povera Maddalena che piangeva dalla consolazione; rammento che era una mattina di primavera, e che provai un piacere delizioso, come se m'apparisse per la prima volta ogni cosa, al riveder la luce del sole, gli alberi fioriti, e il gatto, che si arrestò a guardarmi, stupito.

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Fra quella e la prima impressione della scuola ne ricordo un'altra, che ebbi dalla prima cognizione d'un grande dolore umano, e che vorrei poter cancellare dalla mia memoria, in cui è incisa come una ferita nella carne. C'era accanto alla nostra casa l'ospedale militare, e davanti a questo una casetta, dove abitava l'amministratore, tenente di fanteria, con sua moglie: una coppia simpatica alla città intera, che parevano fratello e sorella, e che io vedevo spesso dalla finestra passare sul viale dei bastioni, con due bambini bellissimi, fra i quattro e i sei anni, che tutti ammiravano. Una mattina, tornando con Maddalena da una passeggiata, vedemmo molta gente che s'affollava davanti all'ospedale, trattenuta a stento dai bersaglieri di guardia, tutti col viso alzato verso le finestre della piccola casa, dalle quali, tra varie voci concitate e confuse, usciva un singhiozzo di donna violento, strozzato, disperato, più somigliante all'urlo che al pianto, e che a molti della folla strappava le lacrime. Maddalena interrogò qualcuno. La risposta gelò il sangue a me pure, benchè bambino. Era accaduto questo: che il farmacista dell'ospedale, dovendo mandare della santonina per i due bimbi malati, aveva mandato invece della stricnina, e le due povere creature, prese le polveri a un tempo, erano morte quasi nello stesso punto fra le braccia del padre e della madre. La buona Maddalena si cacciò le mani nei capelli e si diede a esclamare senza fine, piangendo dirotto: — Ah povera gente! Ah povera gente! Ah povera gente! — Poi, quando fummo sull'uscio di casa, che era l'ora di desinare, mi raccomandò in fretta di non dir nulla alla mamma, chè se no, avrebbe digiunato. Ma appena entrata, al veder mia madre seduta, che piangeva, con la fronte nelle mani, comprendendo che già sapeva, proruppe in un'esclamazione d'angoscia quasi collerica, che mi scosse il cuore, benchè io non capissi ancora che era un'eco del grido eterno dell'umanità flagellata: — Signore Iddio misericordioso, come possono accadere di queste cose!

La prima scuola.

Prima dei sei anni fui mandato a imparar l'alfabeto da un maestro che teneva scuola in un ospizio di ragazzi poveri, nella quale erano ammessi a pago anche alunni esterni di famiglie agiate. V'andai volentieri; m'hanno sempre attratto fortemente tutte le cose nuove: se la natura m'avesse dato la virtù del persistere pari all'ardore dell'incominciare, sarei forse diventato un pezzo grosso. Il maestro era un uomo sui cinquanta, zoppo, senza barba, imparruccato, una figura di vecchio barbiere; ma di umor vivace, tanto che covava in quel tempo l'idea d'un matrimonio, che compì poi, con una ragazza ventenne; la quale era cagione di certe sue giornate radiose, in cui stava ritto sulla gamba sana con una certa grazia di cicogna, come in atto di farsi beffa dell'altra. Non aveva cultura; ma mente aperta e lucida, sapeva insegnare, che è una virtù assai rara fra gl'insegnanti, e render la scuola piacevole. Per insegnar la nomenclatura aveva fatto egli stesso un gran numero di cartelloni, nei quali erano disegnati e dipinti con colori chiassosi, e con cert'arte ingenua, e precisa, efficacissima sui ragazzi, campi e piazze, interni di case e d'officine, con scene relative a tutti i mestieri, animate da molte figure d'uomini e d'animali; e quei cartelloni, che mi parvero capolavori, e che ricordo con una chiarezza maravigliosa, mi fecero un'impressione così viva e piacevole, che in tutta la vita non ebbi mai più dalla pittura (Raffaello, perdonami) un diletto più delizioso.

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Nella scuola, lunga e nuda come un camerone di caserma, v'erano due file di rozzi tavoloni congiunti: una fila per gli alunni esterni, l'altra per quelli dell'ospizio, i quali eran tutti vestiti di panno grigio. La distinzione non era soltanto nel posto e nel vestire; ma anche nel trattamento che usava il maestro, il quale faceva ancora una seconda distinzione fra gli esterni di famiglia cospicua e quelli della piccola borghesia. Egli aveva la voce dolce per i signori, agrodolce per i borghesucci, agra per i poveri: questi castigava a ceffoni, scrollava gli altri per le braccia, non toccava i primi. Io appartenevo all'ordine degli scrollati. C'era tra i primi (come lo rivedo!) il figliuolo d'un banchiere, guardato con rispetto profondo da tutti; intorno al quale correva la leggenda favolosa che giocasse alla guerra in casa sua, facendo delle fortezze con gli scudi, e rappresentando assediati e assedianti con lire d'argento, fra cui gli ufficiali eran marenghi e i generali doppie di Genova, e i proiettili fiammiferi accesi, dei più fini. C'era il figliuolo d'una bella signora, che compariva alla scuola a quando a quando, vestita con gran lusso; sulla quale i ragazzi più grandi dell'ospizio facevano a bassa voce dei commenti, ch'io non capii che anni dopo, quando seppi che essa non era in regola con lo stato civile; il che mi spiegò pure perchè quel povero ragazzo piangesse qualche volta di certi scherzi, di cui mi pareva allora che avrebbe dovuto ridere. C'era anche il figliuolo d'un giudice di tribunale, che ci minacciava spesso di farci agguantare dai carabinieri, e mi ricordo d'un fatterello che lo riguarda: che un giorno, avendolo ingiurato un ragazzo dell'ospizio, il maestro, infuriato, afferrò il colpevole per un orecchio, e scotendogli il capo violentemente, gli urlò sul viso: — Ma non sai, ma non sai, di-sgra-zia-to, che quello è il figliuolo d'un giudice? — Che cose! Che tempi! Il vecchietto zoppo, adesso, farebbe ancora la tirata d'orecchi, forse anche più forte; ma non direbbe più la frase.

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Non ricordo in quanto tempo io abbia imparato a leggere. Credo non meno presto di quello che si faccia ora dopo cinquant'anni di progressi didattici. Ma ho ben presente alla memoria che una mattina di domenica, in casa, avendomi un mio fratello messo sotto gli occhi un libro di lettura per vedere a che punto fossi, rimase maravigliato che io leggessi già quasi corrente, e ne diede la notizia a mio padre e a mia madre, i quali se ne rallegrarono come di cosa inaspettata. Mi rallegrai anch'io di quel riconoscimento ufficiale della mia uscita dalla classe illetterata; ma per una mia ragione particolare, da cui mi derivò un disinganno spiacevole. Io m'ero immaginato che bastasse saper leggere le parole per divertirsi alla lettura di qualunque libro, come vedevo che facevano i grandi. Con questa illusione, quel giorno medesimo, tirai giù un volume a caso dalla libreria di mio padre, e mi misi a leggere. Era il libro Della tirannide di Vittorio Alfieri. Lessi una mezza pagina, la rilessi, e restai lì stupito e scontento: non ci capivo un'acca, come se fosse stato ebraico. E non me ne potevo capacitare. — O come va questo? — mi domandai. — È scritto in italiano, so leggere, e non intendo nulla! — Pensai d'esser cascato sopra un libro difficile: ne presi un altro. Era il Primato del Gioberti. Rifeci la prova. Peggio che peggio. Cominciai a capire allora che mi rimaneva molt'altra strada da fare prima di entrar nel regno della letteratura, e, scoraggiato, lasciai i libri e corsi a giocare, non confessando ad alcuno la mia delusione, di cui sentivo vagamente il ridicolo. Ma pochi giorni dopo ebbi un conforto. Il facchino portinaio, salito in casa per pigliare un mobile, vedendo un libro sopra un tavolino, ne compitò il titolo, a voce alta, per farmi sentire che sapeva leggere; ma lesse: — Opere schelte. — Io lo corressi, si persuase, e mi ringraziò. Fu per me una viva soddisfazione d'amor proprio che mi fece rialzare la fronte e ritornare fiducioso agli “studi„.

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Furono interrotti i miei studi da un grande viaggio, del quale serbo il ricordo come d'un sogno stupendo: un viaggio che feci con mia madre a Valenza, dove una sorella m'aveva innalzato alla dignità prematura di zio: una visione confusa di paesi ignoti, inquadrati in finestrini di vagoni e di diligenze; nella quale sono grandi lacune nere di spazio e di tempo, che mi paiono corrispondere a lunghi sopori misteriosi; e fra l'una e l'altra, in una luce vivissima, particolari di nessun conto, come un gatto visto sopra un tetto o un cencio rosso appeso a una finestra, e dei via vai d'ombre umane senza viso, e suoni vaghi di campane sconosciute, il cui ricordo mi ridesta il sentimento provato allora, d'una lontananza immensa della mia casa e della mia scuola. Uno dei ricordi più netti è la curiosità ardente con cui mi guardai attorno quando scesi alla stazione d'Alessandria, con l'idea di vedere all'orizzonte una specie di gran muraglia della China, un ammasso enorme e intricato di bastioni e di torri merlate, che si disegnassero nel cielo come una cresta alpina, mostrando le bocche di mille cannoni e le baionette di un esercito di sentinelle. Credo che la mia passione di girare il mondo sia nata dalle commozioni straordinarie che ebbi in quel viaggio; durante il quale mi rammento che mia madre doveva frenare di continuo le mie impazienze, ritenermi per un braccio quando mi lanciavo allo sportello, e farmi cenno di parlare più basso quando esprimevo i miei sentimenti con esclamazioni a voce alta, che facevano ridere tutti i viaggiatori. E non solo per il diletto che provai ho sempre creduto che i denari meglio impiegati dai parenti per l'educazione dei fanciulli siano quelli spesi a farli viaggiare; ma anche, e più, perchè ricordo bene (e me l'affermarono i miei) che quel breve viaggio fece fare quasi un salto alla mia intelligenza; tanto che, tornato a scuola, feci più profitto in un mese che non ne avessi fatto prima in parecchi. E così sempre, in appresso, risentii dopo ogni viaggio un rinvigorimento di tutte le facoltà dello spirito, mi ritrovai in uno stato di coscienza intellettuale somigliante a quello che ci è frequente nell'adolescenza, quando, voltandoci indietro a considerare ciò che eravamo poco tempo avanti, ne sentiamo quasi pietà, come dello stato d'un essere inferiore, che ci sia rimasto di sotto, a una grande distanza.

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Il giorno che tornai a scuola mi lasciò nell'animo un ricordo incancellabile. Prima che entrasse il maestro, i ragazzi dell'ospizio mi diedero la notizia che era morto il giorno avanti un loro e mio condiscepolo, del quale ricordo il nome: Giacinto, e mi domandarono se lo volevo vedere. Risposi di sì, spensieratamente, e condotto da uno di essi, m'andai a affacciare all'uscio d'una cameretta a terreno, dov'era disteso in letto il cadavere, col capo scoperto. Quel viso immobile e bianco, con gli occhi vitrei spalancati in un'espressione di stupore sovrumano, mi fece un senso così profondo di terrore e di ribrezzo, che per quanto durò la scuola non intesi nulla, e arrivato a casa, mandai giù a stento due bocconi per non farmi scorgere, e non dissi una parola; assorto sempre nell'immagine di quel viso, che mi stava davanti, solenne, misterioso, terribile, come il viso d'uno spettro che sorgesse da terra dovunque io volgessi lo sguardo. Non sfuggì il mio stato d'animo agli occhi di mia madre, che m'interrogò, e mi indusse, insistendo, a dirle il vero. Mi fece rimprovero della curiosità che m'aveva spinto a vedere; ma subito sviò da questo il discorso, impietosendosi per quel povero ragazzo morto in un ospizio di poveri, senza padre nè madre, che forse non aveva mai conosciuti, senz'alcuna assistenza amorosa, non pianto da alcuno, e che sarebbe stato sepolto senza un fiore sul feretro, e non ricordato da anima viva. Quelle parole mi destarono in cuore un senso di compassione e di tenerezza, che non ne scacciò al tutto, ma vi scemò assai, e quasi coperse d'un velo il terrore, volgendo a un altro corso i miei pensieri; a traverso ai quali quel viso bianco mi apparve sotto un nuovo aspetto, più doloroso che spaurevole, come ingentilito dall'aureola ideale della sventura. Ma per tutto quel giorno scansai sempre di trovarmi solo dove si fosse, e la sera volli che mia madre mi stesse al capezzale fin che fossi addormentato, a ripetermi le parole d'amore e di pietà, che velavano di bianco ai miei occhi il fantasma della morte.

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Stetti quasi due anni a quella scuola, che non mi riuscì punto faticosa, grazie al buon senso del maestro, e anche all'uso didattico di quel tempo, nel quale si misurava forse meglio d'adesso la capacità cerebrale dei fanciulli. E fu sul finire del second'anno che incominciai a leggere qualche libro, e a comprendere. La prima commozione profonda che ebbi dalla lettura me la diede un capitolo del Giannetto dov'è raccontata una scappata di casa del piccolo protagonista, il quale, dopo varie corse e avventure, ritrovandosi solo in campagna al calar della notte, preso dalla paura e dal pentimento, mentre sta per darsi alla disperazione, è ritrovato e ricondotto fra i suoi. Tremai e piansi a quella lettura, mi ricordo, e, chiuso il libro, m'andai a avviticchiare al collo di mia madre, giurando in cuor mio che mai, mai al mondo mi sarei arrischiato a una così tremenda avventura. Ma che è mai l'animo dei ragazzi, che può ricevere l'una sull'altra, egualmente profonde, due impressioni di natura opposta, e che potenza maravigliosa ha sulla fantasia fanciullesca ogni finzione! La mia seconda lettura fu la Vita d'un bandito: un vecchio libro ch'io scovai per caso nei fondi della biblioteca di casa, e che poi andò perduto; con mio grande rammarico, poichè ebbi più tardi cento volte il desiderio di rileggerlo, appunto per la forte scossa che n'avevo avuto da bambino. Non ricordo di qual paese nè di che tempo fosse quel soggetto da galera che correva i monti e le foreste rubando e accoppando, e uscendo sempre vittorioso, con stratagemmi sbalorditoi, dalle sue lotte temerarie con “l'arma benemerita.„ Ricordo solo che mi appassionai per lui come per un eroe, che la sua vita errante e tempestosa mi parve così bella e desiderabile da farmi vagheggiare in segreto il disegno di darmi alla macchia non appena l'età me lo consentisse, e che m'infervorai a tal punto in questo sogno che già dalle finestre di casa mia cercavo con lo sguardo per la campagna quale via avrei preso per la fuga, e su quale delle alture lontane avrei fatto il mio primo bivacco brigantesco, e forse affrontato per la prima volta la forza pubblica. Ah, come sarebbe rimasto male, se m'avesse potuto veder nell'animo, il povero autore del Giannetto!

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Ma proprio nel più caldo dei miei entusiasmi criminali mi seguì un'avventura che mi fece rinunziare di punto in bianco alla nobile carriera che vagheggiavo. Avevamo in casa un vecchio gatto rosso, al quale volevo un gran bene, e che soleva dormire ogni sera sulle mie ginocchia. Mi prese un giorno il ghiribizzo di condurlo a spasso come un cagnolino, e gli legai al collo una corda, con un nodo largo e fermo, che non gli desse noia, e non si potesse stringere. Ma, fatto appena il nodo, egli mi scappò, e non mi riuscì di raggiungerlo; nè lo rividi più per quel giorno. La mattina dopo, giocando nel giardino, lo vidi per di dietro fra i rami d'un albero, come appostato, nell'atto d'avventarsi sopra un uccello. Lo chiamai: non si mosse. Mi feci sotto l'albero, per guardarlo nel muso. Rabbrividii. Era morto. Impigliandosi fra i rami, la corda gli s'era avvolta e serrata intorno al collo come un serpente, e l'aveva soffocato. Pien di spavento e di dolore, corsi a confessare il mio delitto a mia madre, piangendo e supplicandola di non dir nulla a mio padre, al quale il gatto era carissimo. Mia madre mi perdonò e promise il silenzio, il gatto fu sepolto di nascosto, nessuno tradì il segreto. Ma fu un momento terribile quando mio padre, a tavola, uscì a dire tutt'a un tratto: — O dov'è andato il gatto rosso, che non si vede più? — Non debbono esser sonate più terribili al primo fratricida le parole divine: — Caino, che cos'hai fatto di tuo fratello? — Mi sentii la coscienza d'un assassino. Non potei reggere allo sguardo di mio padre, che pareva mi leggesse nel cuore. Finsi di sentirmi poco bene per scappar da tavola, e m'andai a chiudere nella mia camera, dove mi buttai sul letto, col cuore oppresso dalla paura e dal rimorso. C'era sul tavolino da notte la Vita d'un bandito. Al veder quel libro mi balenò un pensiero salutare; il dubbio di aver mai l'animo così forte da potermi dare con fortuna alla poetica professione che avevo scelta. Meditai alquanto su quel problema. E venni a questa conclusione: — No. Tu che sei ridotto in questo stato per la morte d'un gatto, che pure non morì di tua mano, no, tu non avrai mai l'animo di ammazzare dei carabinieri. — Il pensiero era espresso in parole più riguardose per il mio amor proprio; ma, insomma, era quello. E rinunziai da quel momento alla vita del brigante, e ridivenni Giannetto.

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Fu una sera di quell'anno stesso che il mio buon padre, sempre inconsapevole della corda, mi condusse la prima volta al teatro, dove una povera compagnia drammatica rappresentava il Tartufo del Molière. Prevengo la disapprovazione degli scrupolosi: la commedia non appannò nemmeno la mia purità infantile, perchè non ne capii il bellissimo nulla. Una sola frase richiamò la mia attenzione. Quando Tartufo, torcendo il collo e giungendo le mani, disse alla signora: — Voi avete certe armi! — tutto il teatro diede in una risata, della quale non compresi il perchè, non vedendo indosso all'attrice nè pugnali nè pistole. E domandai a mio padre: — Quali sono queste armi? — Egli sorrise, passandosi una mano sui baffi, e dopo una breve esitazione rispose: — Per armi, in questo caso, s'intende la bellezza, la grazia.... i modi gentili.... — Ne capii poco più di prima. Ma per me furono uno spettacolo incantevole la sala, il triplice ordine dei palchi, il lampadario, i lumi della ribalta, e soprattutto il telone dipinto, che rappresentava una rivolta di popolo contro un feudatario del medioevo: la commedia non mi parve che un accessorio di quelle maraviglie. E all'uscita feci rider mio padre esclamando con entusiasmo: — Ah, quanto mi son divertito! — Buon padre mio! Anche privando sè di molte cose, egli ci procurava ogni specie di divertimenti, e quando mia madre gli faceva qualche osservazione sulla spesa, le soleva rispondere: — Eh, poveri figliuoli; abbelliamo loro la vita quanto ci è possibile; chi sa mai quale sarà il loro avvenire? Avranno almeno un caro ricordo dei loro primi anni.

Ma per tutto quell'anno ogni piacere che dovetti a mio padre mi fu sempre turbato dall'immagine di quel povero gatto, il quale mi aveva distolto, morendo, dalla via della violenza e del sangue.

Qui, quae, quod.

Non avevo ancora otto anni quando fui messo al latino, nelle scuole pubbliche, in Prima Grammatica, come si chiamava allora il primo corso di Ginnasio. Troppo presto. Vengano a discorrere con me i padri che hanno la smania di far correre le scuole ai figliuoli come si corre il palio, come se la loro buona riuscita nel mondo non dipendesse da una infinità di casi intimi ed esteriori, tutti imprevedibili; appetto ai quali il dubbio vantaggio di finire i primi studi un anno o due avanti gli altri non conta il minimo che. Questa smania non aveva già mio padre, che volle far soltanto un esperimento; ma l'esperimento, benchè non subito, fallì; e non senza mio danno, perchè quel “troppo presto„ mi fece un martirio inutile di quei tre primi anni di latinità, che pure erano allora meno difficili d'adesso.

Mi fece l'effetto d'una caserma, quando c'entrai la prima volta, quella grande scuola affollata di ragazzi, molti dei quali avevano tre o quattro anni più di me, e mi parevano uomini, e mi destò un senso di reverenza paurosa quella cattedra enorme, della forma d'un pulpito, che torreggiava sopra i banchi come un castello feudale sopra le casipole d'un villaggio. Il professore, un uomo sulla quarantina, di viso aristocratico e grave, sempre insaccato in una gran palandrana oscura, che pareva un prete spretato, ci faceva dire le preghiere in coro al principio e alla fine d'ogni lezione, e benchè vigesse da sei anni lo Statuto, fra una declinazione e l'altra, picchiava spesso e sodo; ma egli pure, come il mio primo maestro, più volentieri sui panni rozzi che sui panni fini. Salvo questa parzialità delle mani, era un buon diavolo, e insegnava con buon metodo; ma non era in suo potere di far digerire il latino a uno stomaco di sette anni e mezzo. Di tutto quell'anno m'è rimasta una memoria confusa di fatiche ingrate, di sogni affannosi e di pianti. Il solo ricordo lieto è quello del giorno onomastico del professore, che si soleva festeggiare allora, in tutte le scuole inferiori, con un regalo collettivo, per il quale la scolaresca si dava moto quindici giorni avanti. Il regalo fu fatto quell'anno in un modo comicissimo, che mette conto d'accennare, per dare un'idea degli usi scolareschi del tempo. Si mise trenta soldi ciascuno, e si comprò un pan di Spagna, non so quante bottiglie di vin di Barolo, e un gran mazzo di fiori. Nell'ultima adunanza che si tenne per la strada, il collettore generale, figliuolo d'un oste, ci annunziò che avanzavano della somma otto soldi. Che cosa farne? I pareri furon diversi, si discusse: fu infine accolta a unanimità l'idea luminosa d'un piccolo droghiere, sempre carico di pensi, il quale, rammentandosi che il professore aveva da quindici giorni la tosse, propose di coronare il regalo con otto soldi di gomma arabica. E come fu portata la roba! Coram populo, di pieno giorno, come il Santo Sacramento, da tutta la compagnia: il pan di Spagna, scoperto, alla testa, portato dal più alto della classe; poi uno col mazzo, tenuto su come un flabello papale; poi altri otto o dieci, ciascuno con una bottiglia in mano; infine, il latore della gomma, e dietro di lui una processione rumorosa, che percorse le vie principali, in mezzo alla gente che si soffermava a guardare e diceva a voce alta: — Sono gli scolari di Prima Grammatica che portano la festa al professore tal dei tali. — Un ludibrio! Ora si fanno le cose con più discrezione, individualmente, e da certuni soltanto, e dai padri invece che dai figliuoli, e invece di gomma arabica si dà dell'unto nazionale. Ma il meglio l'ho ancor da dire: la scena della presentazione fu assai più amena. Era presente la signora. Tutto era già stato offerto, il professore aveva già fatto il suo discorsetto, esortandoci a dimostrargli il nostro amore con lo studio invece che col vin di Barolo, e stavamo per andarcene, quando il “gommifero„ che s'era dimenticato di fare il suo presente, si fece innanzi, e porgendo il pacco come avrebbe porto le chiavi d'una città, disse solennemente: — Signor professore, c'è ancora questo! — e poichè quegli non capiva, soggiunse con tutta serietà: — Per la sua tosse, signor professore! — Giornata felice! Dopo la quale ricordo che per alcuni giorni suonò più mite il latino e fu sospesa la distribuzione delle pacche. Ma ci vuol altro che pan di Spagna. La settimana dopo il qui quae quod riprese tutta l'asprezza dell'antico impero, ricominciarono a grandinare i pensi e le briscole, e anche il piccolo droghiere dovette riconoscere che non serve la gomma arabica a mutar l'andamento delle cose umane.

I bersaglieri.

Dalla grammatica latina mi distrasse violentemente una passione, che ebbe un effetto notevole nella mia vita, poichè si effuse quattordici anni dopo in un libro, il quale fu la prima mossa del viaggio che finisce forse con queste pagine: la passione per i soldati. O a dir meglio: per i bersaglieri, che erano il solo presidio della città; chè se ci fosse stata invece fanteria di linea, son certo che quella passione sarebbe stata assai men forte, avendo principalmente giovato a farla nascere, insieme con lo spirito guerresco del tempo e con la mia natura disposta all'affetto, la bellezza della divisa, la sveltezza degli esercizi e la prestanza personale dei “figliuoli di Alessandro La Marmora„. Fu una passione quale credo non sia stata mai più ardente in alcun ragazzo di quegli anni, neanche in quelli che erano per indole assai più fortemente inclinati di me alla vita militare: una vera frenesia, che non valsero a frenare nè esortazioni, nè rimproveri, nè danni. In tutti i giorni di vacanza, e anche negli altri, avanti e dopo le lezioni, io scappavo di casa a tutte le ore per correr dietro ai pennacchi in piazza d'armi, al bersaglio, alla ginnastica, e fin nelle marcie in campagna, allontanandomi di parecchie miglia, anche sotto la pioggia, dalla città, dove ritornavo in uno stato da impietosire i sassi. Quando sentivo suonare quelle maledette trombe sotto casa mia, non c'era più forza che mi tenesse; mi sarei calato con una fune dalle finestre, se m'avessero chiuso la porta; e tiravo via come mi trovavo, lasciando lì merenda e latino, senza cappello e senza cravatta, qualche volta in maniche di camicia, come un ladruncolo inseguito. Imparai presto a quel modo, e perfettamente, il maneggio teorico delle armi, i segnali delle trombe, l'orario, tutti i particolari della vita di quartiere, e conobbi la maggior parte dei sergenti e dei caporali della guarnigione, molti dei quali mi conoscevano e mi salutavano, chiamandomi per nome, come un cagnolino familiare. E non ero un semplice dilettante, che si contentasse di guardare: negli intervalli di riposo, in piazza d'armi e al tiro a segno, mi ficcavo tra i crocchi per sentire i discorsi e rendere dei piccoli servizi: andavo ad attinger acqua nelle gamelle o a comprar per l'uno o per l'altro un soldo d'uva o di castagne, porgevo i cappelli e gli zaini e aiutavo a spolverar le mantelline, e m'era un gran compenso il permesso che mi davano di lisciar con le mani i pennacchi o di piantar le carabine in terra per lo sperone che avevano allora infisso nel calcio. Ripensando a quel tempo, non ho che a chiuder gli occhi e a raccogliermi, e sento veramente, come se lo aspirassi, l'odor di cuoio dei centurini e delle uose, e quello delle cartucce rotte e del fumo delle schioppettate, e fino i vapori caldi della zuppa che venivano su dalle cucine della caserma. A vedermi vestito com'ero spesso, tutto impolverato e col capo nudo, molti bersaglieri mi pigliavano per un cialtroncello scappato dall'officina o dalla bottega, e quando dicevo chi era mio padre, ridevano della celia, dicendosi fra loro che per la mia età avevo già una bella disinvoltura a piantar carote. Ma io ero tanto infatuato dell'“arma„ che non m'avevo per male neppur delle beffe; e poi dalla più parte, dai soldati in special modo, non avevo che dimostrazioni di simpatia, che m'intenerivano. Di quanti ricordo ancora il viso, la voce, le diverse pronuncie dialettali, e gl'intercalari del discorso, e persino l'andatura! E ricordo pure che in quelle mie corse al suon delle trombe e davanti allo spettacolo degli esercizi di battaglione la mia immaginazione era in continuo lavorio febbrile, tutto visioni di accampamenti e di battaglie e d'avventure guerresche d'ogni specie, nelle quali mettevo in azione, sempre vincitori ed eroici, i miei soldati prediletti. Fu così viva quella passione che oggi ancora la campagna circostante alla città e le rive dei due corsi d'acqua che la fiancheggiano e tutte le strade che vi fanno capo mi si presentano sempre alla mente picchiettate di nero dalle divise e d'argento dalle baionette dei bersaglieri.

Anche una gran parte degli ufficiali conoscevo di viso e di nome, e ho ancora presente l'immagine giovanile di molti di essi, allora subalterni, che raggiunsero poi i più alti gradi, o morirono in Crimea, a San Martino, a Custoza, o combattendo contro i briganti. Ricordo un grande aiutante maggiore, dal viso fiero, che io guardavo sempre con timida curiosità, perchè si diceva che mettesse i ferri a sua moglie, per punizione, ed era vero; il famoso tenente negro, Amatore; il figliuolo di Sebastiano Tecchio, allora sottotenente, ancora imberbe, che pareva un ragazzo, e faceva girar molte teste infiorate; il tenente Franchini che, quando fu maggiore, nel 1861, arrestò e fece fucilare il famigerato Borjes; il capitano Pallavicini, quello che poi, colonnello, arrestò Garibaldi a Aspromonte, e che io vidi una mattina, andando a scuola, mentre lo portavano in carrozza, gravemente ferito al ventre in un duello, all'ospedale militare; dove riseppi dai soldati il giorno dopo che, nell'atto che gli cucivano la ferita, aveva detto sorridendo: — Oh diavolo! Non avrei mai pensato di dover vedere il colore delle mie budella! —; e molti altri. Ma fino a questi personaggi non s'alzarono le mie relazioni, nè sognavo neppure tanto onore; poichè un ufficiale dei bersaglieri mi pareva un nume. Il mio affetto era tutto per la bassa forza, come allora si diceva, ed era così pieno di poesia e di rispetto, e così ingenuo, che quando i giorni di festa, passando davanti a certi vicoli, in cui non entravano le donne oneste, vedevo qualcuno dei miei amici piumati in cattiva compagnia, ne provavo un senso penoso, un misto d'accoramento e di vergogna, che mi lasciava poi per un pezzo scontento, come per la perdita d'una cara illusione.

Il caporale Martinotti.

Fra le molte simpatie trovai un'amicizia, che è rimasta uno dei più cari ricordi della mia fanciullezza. Era un caporale trombettiere, nativo di Mortara, se non sbaglio; un giovanotto di statura media, robusto e svelto, un vero tipo di bersagliere, di viso fermo e serio; ma pieno di bontà, e di modi semplici e amabili; che si chiamava Martinotti. Prese simpatia per me a forza di vedermi galoppare, con la lingua fuori, davanti alla sua tromba. Stringemmo relazione in piazza d'armi. Poi cominciammo a passeggiare insieme nelle ore ch'egli era libero, intorno a casa mia. Egli mi trattava come un uomo; il che m'inorgogliva, e rincalzava il mio affetto di gratitudine. Mi parlava della sua famiglia, del servizio e dei superiori, mi raccontava la cronaca del quartiere, con molti particolari e con grande gravità, e io lo stavo a sentire con un raccoglimento di divoto. In casa non discorrevo più che del caporale Martinotti, che i miei fratelli chiamavano “il generale„ per canzonarmi. Egli voleva che gli dessi del tu; ma non ebbi mai tanto ardimento. Farmi veder per la strada accanto a lui era un trionfo per me, e quando mi conduceva al caffè a bere la gazosa, andavo in gloria: non mi sarei insuperbito di più se mi ci avesse condotto il conte di Cavour. Mi chiamava col nome di battesimo, ma scorciato, perchè gli pareva, così com'è, troppo lungo, e di pronuncia difficile: mi diceva Mondo o Mondino. Un giorno mi regalò un paio dei suoi galloni smessi, di lana gialla: io li portai a casa come un tesoro, me li cucii da me alle maniche della giacchetta, e con quei galloni feci per molto tempo i miei lavori di latino, che era un latino da caporale, veramente. Arrivò a tal punto la mia adorazione per lui che imitavo la sua andatura e la sua pronuncia, e fischiavo dalla mattina alla sera le “marcie„ ch'egli faceva suonare più spesso ai suoi trombettieri. Non ricordo bene quanti mesi sia durata quella felicità. So che mi pareva che non avesse mai da finire, come se il Martinotti dovesse invecchiar caporale in quella città, per gl'interessi del mio cuore. Finì invece bruscamente.

Una sera, sull'imbrunire, all'ora della ritirata, incontrandomi sui bastioni, egli mi disse:

— Sai, Mondino, parto domani sera col battaglione. — E come io non capivo, soggiunse: — Vado in Crimea.

Da un pezzo sentivo parlare della guerra di Crimea; ma, non so come, non m'era mai passato per la mente che ci potesse andare anche lui. Non mi riuscì di pronunciar parola. Egli sorrise della mia commozione, guardandomi in aria compassionevole. E credette di consolarmi dicendomi: — Spero bene di scampare ai Russi. Non ci vorranno mica ammazzar tutti. E se scampo, è facile che ritorni qui. Su, Mondino, coraggio. Ci rivedremo.

Non potei trattener le lacrime. Egli mi guardò un poco, serio serio, e poi scappò di corsa, come se l'avesse chiamato all'improvviso la voce d'un superiore. Io tornai a casa col cuore stretto, e appena entrato, diedi a mia madre la gran notizia, rotta a mezzo da un singhiozzo: — Il caporale Martinotti.... va alla guerra!

— Povero giovane! — esclamò essa, e soggiunse subito, per confortarmi, che avrei fatto bene a andarlo a salutare alla stazione.

La sera del giorno dopo corsi alla stazione: non c'era nessuno. Il battaglione era partito la mattina.

E io rimasi là un pezzo a guardar con gli occhi pieni di lacrime le rotaie luccicanti sulle quali era fuggito il mio amico, inseguendolo con la fantasia fino al paese lontanissimo, pieno di terrori e di mistero, donde pensavo che non sarebbe tornato mai più.

La guerra di Crimea e i miei amici poveri.

La guerra di Crimea è il primo avvenimento pubblico di cui trovi qualche traccia nella mia memoria; ma son tracce così rare e sparse, che ne stupisco, considerando che avevo già allora quasi nove anni, e che le grandi cose delle quali sentivo parlare ogni giorno avrebbero dovuto lasciarmi impressioni assai più fitte e più vive. Di tutto quello che precedette la spedizione non ricordo altro che una frase: — Stiamo a vedere come si dispone l'Austria — detta in casa mia, a mio padre, dal direttore delle Poste, che rivedo seduto, com'era in quel punto, in un angolo della sala da desinare, con una gamba sull'altra, e un braccio ciondoloni dietro la spalliera della seggiola. Della partenza delle truppe, dopo quella del battaglione del caporale, non rammento che un episodio, che si riduce nell'immagine d'una giovine contadina; la quale, dall'alto dei bastioni, singhiozzando, col busto spinto innanzi e con le braccia tese in uno slancio disperato di dolore, gridava gli ultimi: — Ciao! Ciao! — al treno fuggente sul ponte lontano, dove si vedevano ancora ondeggiare fuor dei vagoni i pennacchi dei bersaglieri. Poi ricordo mia madre che, con la Gazzetta del Popolo fra le mani, interrompe a mezzo, soffocata dalla commozione, la lettura della descrizione dell'incendio del Croesus, salpato pochi dì avanti da Genova coi nostri soldati. Di tutto il tempo che durò la guerra non ho più altro nella memoria che una nebbia, in mezzo alla quale vedo una dozzina di ragazzi scamiciati, raggruppati in fondo al mio cortile, che cantano in coro una canzone guerresca: vedo la bocca squarciata e torta di uno di essi, che si chiamava Clemente, e che pronunciava Crinea in vece di Crimea, e ho ancora in mente una strofetta di quella canzone, da cui si può argomentare che non ci fosse allora in una parte del popolino un'idea molto chiara delle nostre alleanze, poichè diceva:

La caserma degl'Inglesi

È situata in mezzo al mar,

Napoleone coi suoi cannoni

La faranno sprofondar.

Ciò che ricordo bene è che pensavo spesso al mio caporale lontano, e che dopo la sua partenza cessai di bazzicare coi pochi bersaglieri rimasti, come se egli avesse portato via con sè tutta la poesia del suo Corpo e tutti gli entusiasmi del mio cuore.

*

Vivissimi mi son rimasti i ricordi dei miei compagni di gioco di quel tempo, fra i quali ritorno spesso e mi trattengo lungamente col pensiero, poichè trovo in loro il primo perchè di molte idee, tendenze e simpatie, che ho conservate per tutta la vita. Essendo sempre aperto il grande cortile della casa, era il luogo di convegno e il campo di gioco di tutta la ragazzaglia del vicinato; onde mi trovai mescolato fin da bambino con ragazzi d'ogni condizione, la più parte figliuoli d'operai e di rivenduglioli; alcuni dei quali poverissimi, che perdevano i panni a brandelli e andavano scalzi sei mesi dell'anno. Con questi ebbi per anni una famigliarità fraterna, cementata da scappate comuni in campagna, da scambi di busse e di regali, da rotture e rimpaciamenti, e da migliaia di partite di palla e di pila e croce e di piccole monellerie d'ogni colore. Potrà osservare qualcuno che mi si lasciava troppa libertà, che quella compagnia non mi poteva riuscir che perniciosa. Ebbene, io son grato invece a mio padre e a mia madre d'avermi lasciato così la briglia sul collo, d'aver permesso che mi tuffassi così liberamente in quello stracciume (dal quale, del resto, date le condizioni della casa, non avrebbero potuto separarmi che segregandomi), poichè ho capito allora della vita e dell'animo della gente povera tante cose, che non capirà mai chi non è stato da ragazzo in mezzo a coetanei di quella classe sociale, chi non ha osservato in germe, per così dire, il popolo minuto, da cui ci separano più tardi troppi preconcetti e troppe diffidenze reciproche; perchè fu quella promiscuità coi piccoli scamiciati che mi fece nascere per la poveraglia una simpatia affettuosa e pietosa, la quale mi ricondusse poi sempre in mezzo agli umili, con sentimento d'amico, negli anni posteriori; poichè furono quelle amicizie che non lasciarono crescere nel mio cuore certe vanità e superbiole di “giovin signore„ le quali, svolgendosi col tempo, chiudono in molti le porte dell'animo a certi sentimenti d'umanità e di giustizia, che picchiano per entrare, troppo tardi. E quanto all'infezione morale, come dicono ora gli educatori, l'idea mi fa sorridere, veramente; poichè ho a questo riguardo dei ricordi molto chiari: ricordo che fra i ragazzi del mio ceto, che conoscevo alle scuole, e i brindelloni che m'avrebbero dovuto infettare nel cortile, non c'era alcuna differenza nè in materia di cognizioni, nè in materia di linguaggio, nè in altro che si riferisse a cose proibite; che, anzi, se una differenza c'era, stava in questo: che i ben vestiti, ai quali l'agiatezza dava maggior libertà di spirito, e il buon nutrimento più vivacità d'immaginazione, lavoravano con questa intorno agli argomenti interdetti assai più continuamente e più volentieri che i poveri, distratti molto spesso dall'appetito insaziato, dalle fatiche, dai litigi domestici, e dalle busse paterne, materne e fraterne.

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Poveri ragazzi! Non ho più saputo nulla d'alcun di loro dopo che lasciai la città; ma essi vivono, parlano ancora nella mia memoria, dopo più di quarant'anni, come se li avessi lasciati ieri: vedo ancora, oltre che i visi, i vestiti di tutti, con quelle toppe e quegli sbrani, i rammendi delle camicie rozze, gli scarponi girati loro dai fratelli, e le capigliature inesplorate dal pettine, e le crepature dei geloni alle mani, e quasi sento ancora l'odore che portava ciascuno con sè del mestiere di suo padre. Ho conosciuto poi nella vita centinaia di uomini d'altre classi sociali, che corrispondevano mirabilmente nell'indole ai tipi diversi ch'eran tra di essi; posso dire anzi d'aver incontrato ben poche persone così originali di carattere, che non mi paresse d'averle già conosciute in embrione in qualcuno di quei piccoli “mal nutriti„; poichè noi possiamo cambiare quanto vogliamo e il tenor di vita e il cerchio degli amici e dei conoscenti, ma ci ritroviamo sempre presso a poco in mezzo alla stessa compagnia drammatica, con quei certi personaggi e maschere inevitabili, che la natura ripete senza fine. Ricordo Tonino, figliuolo d'un carrettiere, che portava due cerchietti d'ottone agli orecchi, uno spirito satirico, che metteva tutti in canzonella, ma di cuor buono e d'un buon senso precoce, e dotato di molte piccole abilità meccaniche, che invidiavo e ammiravo; col quale m'era un piacere indicibile, un vero tripudio, nei giorni di pioggia, il far cuocere le castagne in un pentolino di terracotta, sotto una tettoia in fondo al giardino; dove fantasticavo d'esser stato colto dal temporale in un bosco, e d'essermi rifugiato in un antro, senza saper quando mai avrei potuto tornare a casa. Ricordo Nuccio, un viso d'arabo, figliuolo d'un pescatore, invitto giocatore a castellina, che non lasciava una noce in tasca a nessuno, una lingua d'inferno, con cui nessuno la poteva nella lotta delle ingiurie, e che insolentiva qualche volta a pagamento: capace di durarla una mezza giornata per quattro fichi secchi; Tommasino, figliuolo del pollivendolo, un pallidino con un fil di voce, di animo mite, che piangeva per nulla, e che tutti si divertivano a tormentare; Giacometto, figliuolo della lattaia, piccolo e tarchiato, buon diavolaccio, e un po' melenso, ma che quando lo mettevano a un puntaccio dava in vere furie di torello, che facevano scappare tutti quanti. E il povero Andrea, che fine avrà fatta? Un disgraziato trovatello, fasservizi d'un panattiere, che tutti picchiavano nella panatteria, così per spasso; un vero sacco da botte, e pure fresco sempre e pien d'allegria, come se i manrovesci e le pedate gli facessero l'effetto di docce igieniche: insuperabile a far saltare i soldi con la trottola e a saltare sui muriccioli a piedi giunti. E dove sarà il frate, figliuolo del cenciaio, a cui s'era dato quel soprannome perchè da bambino, per un voto fatto, era andato un pezzo vestito da fraticello; quel piccolo frate che aveva un così bel testone di filosofo piantato per traverso sopra due spalle gibbose, e che ci portava nel cortile tutti i pettegolezzi del vicinato, il più astuto e più ciarliero della compagnia, e tanto buffo da farci scoppiar dal ridere al solo suo apparire? E Gigetto, il ciabattino, gran rapinatore di nidi d'uccelli, il mio Sancio Pancia, che m'accompagnava in tutte le corse avventurose per la campagna, e che era regolarmente scapaccionato da sua madre ad ogni ritorno, perchè ritornava sempre mostrando una natica per un grande squarcio dei calzoni? E il piccolo Savoiardo, quel bel ragazzo biondo, sempre serio, orfano d'un oste, che i ragazzi più grandi tormentavano con certe allusioni misteriose a una sua sorella, sulle quali poi io meditavo lungamente.... Mi ricordo sempre d'una volta che essa venne a cercarlo nel cortile, tutta ben vestita, coi capelli corti e ricciuti, e una cintura di cuoio alla vita: mi ricordo che mandava un odore acuto d'essenza di violetta, e che per molto tempo dopo rividi sempre con l'immaginazione quei riccioli ogni volta che sentii quell'odore.

Ma il personaggio che m'è rimasto più impresso è un ragazzo sotto i dieci, che si chiamava Clemente, quello della Crinea, figliuolo d'un'erbivendola, un tipo di monello compiuto, nel quale era il germe del delinquente. È il ricordo di costui che, prima ch'io leggessi alcun libro di Cesare Lombroso, mi persuase che ci sono dei delinquenti di nascita. Era un piccolo Don Chisciotte del delitto. Il suo ideale supremo era di diventare un farabutto famoso, e si gloriava d'esser già tale, con una impudenza da pestargli la faccia. Portava sempre in tasca un coltelluccio spuntato, per impaurirci, minacciando ogni momento di servirsene. Menava vanto d'esser tenuto d'occhio dalla polizia, di non aver paura dei carabinieri, di essere anzi già sfuggito più d'una volta dalle loro mani, e diceva che per arrestar lui due non bastavano. A sentirlo, andava in giro tutta la notte, e ogni notte compiva qualche prodezza, alla quale faceva dei vaghi accenni, strizzando un occhio e appuntandosi con due dita uno dei baffi che non aveva. Ebbe un giorno la faccia tosta di condurmi in un vicolo e di indicarmi sul ciottolato certe macchie che egli diceva di sangue, sparso là da un uomo, da un prepotente, al quale egli aveva data una lezione; e un'altra volta, accennandomi la porta d'una stanza a terreno dell'ospedale civico, dove si esponevano i cadaveri degli assassinati, mi mormorò all'orecchio: — Sai? Ce n'ho già mandati un bel numero lì dentro! — Io sospettavo la smargiassata; ma che qualche cosa di vero ci fosse non dubitavo. E avevo di lui un gran terrore, che cercavo di nascondere, e me lo propiziavo regalandogli quasi ogni giorno le frutta di cui mi privavo a tavola, e anche roba che non mi spettava. Per questo egli s'atteggiava a mio protettore, e per buscar dell'altro mi dava a bere che avevo dei nemici, delle canaglie che mi volevan fare la pelle, e si vantava ogni tanto d'aver sventato una loro trama, d'averli sorpresi e cacciati in fuga col suo coltello, mentre s'aggiravano in atto sinistro intorno a casa mia. E io facevo nuovi vuoti nella dispensa domestica per ricompensare i suoi finti servigi di brigante amico.

Costui, nondimeno, non aveva ancor sulla coscienza nulla di grave; non era ancora che uno spaccone della mariuoleria. Ce n'era un altro che aveva già incominciato la carriera. Non veniva che di rado nel cortile, perchè abitava lontano; di chi fosse figliuolo non sapevo; forse di nessuno. Era sempre in giro; passava più notti al lume della luna che sotto i travicelli, se pure aveva un tetto. Era un ladruncolo di mestiere, specialista delle frutta. Passando accanto a un banco di fruttaiuolo, di pieno giorno, in presenza di chi si fosse, agguantava una pesca o un grappolo d'uva, e spulezzava con una tal velocità che non c'erano gambe che lo potessero raggiungere: era un ladro alato. Aveva una faccia trista. E come l'avrebbe potuta aver buona, povero ragazzo, cresciuto come una fiera in un bosco? Ma io non potevo allora sentirne la pietà che ne sento adesso. Temevo assai più lui di quell'altro, e per questo l'accoglievo con particolar cortesia quando onorava i miei poderi d'una sua visita. Un giorno, dopo avermi guadagnato un soldo al gioco delle bocce (lo lasciavo sempre guadagnare), egli infilò la strada per andarsene, ed io stavo osservandolo dalla soglia del portone. Passò in quel punto davanti a me un brigadiere della polizia, — un perticone alto due metri, con una durlindana che non finiva più; — il quale, vedendo il ragazzo alle spalle a un tiro di pistola, esclamò: — Ah! Ce l'ho finalmente! — e slanciatosi di corsa in punta di piedi, a passi corti e rapidissimi, lo raggiunse e lo ghermì per un braccio. Quegli si mise a urlare come un disperato, chiedendo pietà e misericordia; ma il brigadiere tenne duro, e lo tirò via. Io rimasi agghiacciato dalla paura, con la coscienza d'un complice, a cui dovesse toccare la stessa sorte fra poco; e rientrato in casa pallido e tremante, stetti rintanato tutto il giorno, spiando tratto tratto dalla finestra, col tremacuore di veder comparire da un momento all'altro il brigadiere lungo, in aria di dire: — All'altro, adesso! — Non vidi più quel ragazzo dopo quel giorno.

Fuori di questo e dell'accoltellatore putativo, tutti gli altri erano in fondo buoni figliuoli, incapaci d'una birbonata vera, alcuni affezionatissimi e già utili alle loro famiglie; e mi volevan tutti bene, nonostante i battibecchi frequenti, perchè, non tanto per proposito quanto per affetto, io non facevo sentir loro in alcun modo la mia superiorità di condizione. Il che non toglieva che facessi qualche volta il prepotente, per impulso d'istinto; ma ricordo che quando mi dicevano (e lo dicevano sempre in quei casi) ch'io facevo così perchè ero un signore, queste parole mi ferivano al cuore, e ne rimanevo umiliato e confuso, e m'affrettavo a farmi perdonare con ogni specie di cortesie, e anche d'adulazioni.

Sul campo dell'onore.

La mia passione per i soldati trovò un grande sfogo in questa banda di mocciosi, coi quali potevo fare il generale. Li armavo di randelli, li ammaestravo agli esercizi, e li conducevo fuori a far delle marcie militari con trombette di latta e con bandiere di carta, discorrendo sempre con loro d'un nemico immaginario, col quale un giorno o l'altro ci saremmo dovuti misurare, e contro il quale essi s'andavano accendendo di giorno in giorno di generosa ira guerriera: tanto è facile montar la testa alle moltitudini coi fantasmi dell'onore e della gloria, anche contro un nemico che non esiste. E veramente io vivevo nell'aspettazione continua di qualche grande prova, senza saper da che parte nè come se ne potesse presentar l'occasione. L'occasione si presentò. V'era in un altro quartiere della città un altro piccolo Bonaparte, che fu poi mio compagno nella Scuola di Modena ed è ora colonnello dei bersaglieri, il quale addestrava pure un piccolo esercito contro un nemico creato dalla sua fantasia. Apprender l'esistenza l'un dell'altro, ed esser nemici, e considerar necessario il cozzo delle due schiere, fu una cosa sola. S'era bene italiani da una parte e dall'altra, e cittadini della stessa città, e in un tempo in cui la patria comune era impegnata in una guerra contro la Russia; ma si apparteneva a due parrocchie diverse, e questo bastava ad aprire un abisso fra di noi. Noi dicevamo con disprezzo: — Quelli di Sant'Ambrogio —;questi dicevano con disdegno: — Quelli di Santa Maria —; come accade fra gli uomini, tale e quale, e anche fra i popoli, presso a poco. Si procedette con tutte le regole della diplomazia. Ci fu una formale dichiarazione di guerra portata per iscritto da due commissari in ciabatte. I due eserciti, composti d'una ventina di cazzabubboli, partirono una mattina, a un'ora convenuta, dai loro accampamenti, movendo l'un verso l'altro per vie designate. Io m'ero messo a tracolla una sciarpa azzurra rigata di bianco, avanzo d'una vecchia tenda di finestra, e brandivo una daga di legno, fasciata di carta d'argento, che m'aveva fatta un mio fratello: mi credevo formidabile. Ma quando vidi apparire in fondo alla strada, alla testa dei suoi, il generale nemico, riconobbi con umiliazione ch'egli era assai più fieramente armato di me, poichè aveva in capo un vero e proprio cappello di bersagliere, con tanto di sottogola, un vero zaino sulle spalle, e un simulacro di carabina fra le mani. A un segnale dato da un dei miei con un imbuto, le due osti si corsero incontro. Non saprei ridire l'andamento della battaglia, che dev'esser stata, come le battaglie antiche, una serie di conflitti disgiunti, i quali non avrebbero data ad alcuna parte la vittoria, se questa non fosse stata decisa dal duello dei capitani. Il mio avversario era ardito; ma fu vittima d'una illusione: scambiò con una lama vera il mio brando di legno inargentato, mi credette risoluto al sangue, die' indietro ai primi colpi, mi voltò lo zaino e riprese a gambe la via della sua parrocchia. Ma era una fuga da Orazio davanti ai Curiazi. Io gli detti dietro; corremmo un pezzo in mezzo alla gente che s'arrestava a guardarci, in atto di dire: — Santi scapaccioni! — A un certo punto, il generale fuggente, visto in terra un mattone, lo raccolse con una mossa fulminea, e mi fece fronte: io torsi il busto per scansare il proiettile, e me lo presi in un fianco. Vidi le due Orse! Accecato dall'ira, mi lanciai avanti; il generale Ambrosiano, più lesto di me, sparì come un razzo. Insomma, il vero “battuto„ ero io, e come! Ma con la scomparsa del fromboliere, il suo esercito s'era dileguato; eravamo rimasti noi padroni del terreno, noi i vincitori. Tornai a casa piegato in due; a ogni mossa, ricacciavo dentro un gemito; dissi a mia madre che era un colpo d'aria. Ma la galloria, ma il vampo che menammo di quel trionfo ipotetico fu una cosa da non immaginare. Per tutto quel giorno, e per qualche giorno appresso, non parlammo d'altro; tutti raccontavano episodi, tutti avevano fatto prodezze da Orlando; tale e quale come i “reduci„ ai banchetti. E m'era già cessato da un pezzo il dolore al fianco, ch'io lo simulavo ancora, camminando inflesso come un arco, per far durare la gloria della ferita. Quante volte, molti anni dopo, alla Scuola militare, il mio buon amico ed io ricordammo quella famosa giornata, e la nostra “singolar tenzone!„ E chi sa che il bravo colonnello non se ne ricordi ancora qualche volta, quando lavorano i muratori nella sua caserma, e gli cade lo sguardo sopra un mucchio di mattoni!

Primi palpiti....

Trovo a questo punto il ricordo di quel primo sentimento confuso e soavissimo, che si può chiamare il crepuscolo dell'amore, e che la parola non può render che malamente, come il pennello il primo barlume dell'alba. Una sera, tornando da una passeggiata col portinaio, ci fermammo in una piazzetta dove dava spettacolo una famiglia di poveri saltimbanchi, e danzava in quel punto sopra una corda, con le sottanine corte e il bilanciere in mano, una ragazzina della mia età, di forme graziose e di viso dolce e triste, accompagnata da un organetto che suonava un'aria lamentevole. Le batteva in viso la luce d'un lampione; vidi che aveva gli occhi pieni di lacrime: era forse stata battuta, o era digiuna o malata, e la facevano ballare per forza. Non so ben dire, ma ricordo bene quello che provai: un sentimento nuovo per me, una simpatia viva, dolcissima, piena di tenerezza e di pietà, diversa affatto da quanto avessi mai sentito fino allora in presenza dell'altro sesso; una commozione gentile e grave ad un tempo, della quale sentivo non so quale alterezza, e che mi lasciò pensieroso per tutta la sera, come d'un mistero, e compreso di quella malinconia che ci viene dalla solitudine della campagna all'ora del tramonto; ma non turbato neppure dall'ombra d'un pensiero sensuale, benchè fra i compagni di scuola e di gioco mi fosse già passata per gli orecchi molta parte dello scibile; anzi rifuggente con ribrezzo da ogni immagine impura che mi balenasse appena alla mente. Ciò che prova per me che non è quella peste incurabile che si crede la cognizione precoce (d'altra parte inevitabile, che che si faccia) di certe cose, poichè l'amore è più forte di lei, e quando si leva spazza via dall'anima, come un colpo di vento, ogni pensiero immondo. Disparve presto quella immagine; ma non rimase più vuoto il posto che ella aveva occupato: nel quale sottentrarono via via le piccole signorine più belle e più note della città, che usavano ballar tra di loro ogni domenica in una piazzetta del passeggio pubblico, mentre suonava la banda municipale; e tutti quegli amori furon della natura del primo, affettuosi e puri, tutti del cuore e della fantasia, accompagnati da ambizioni vaghe di gloria, da immaginazioni poetiche di nozze premature, di fughe avventurose, d'incontri romanzeschi in foreste e in deserti, di colloqui appassionati e sommessi nel silenzio delle notti stellate. Che sciocco errore è di far colpa ai ragazzi, come d'un delitto, o di deriderli di quei primi moti della passione, che sono invece la sola forza intima che possa preservarli dalla corruzione! Io ricordo che tutte quelle ragazzine m'apparivano come ravvolte in una infinità di veli, di cui il mio pensiero non raggiungeva mai l'ultimo; che le tenevo come creature sovrumane, le quali non avessero di fanciullesco che l'aspetto, così che restavo stupito, quasi deluso, quando nel passare accanto a loro, mentre discorrevano con le governanti o coi fratelli piccoli, le udivo dire qualche sciocchezza, come ne dicevano tutti i ragazzi della mia età. E avrei sentito una vergogna mortale se esse avessero potuto udire certi discorsi che facevamo fra di noi, e ogni allusione volgare che si fosse fatta a quella che per il momento stava sull'altare, m'avrebbe offeso nell'anima. Ma da quei discorsi, per quanto stava in me, esse rimanevano sempre fuori, come esseri inaccessibili alle volgarità di questa terra. Le nostre immaginazioni e i nostri discorsi licenziosi avevan per oggetto persone d'altra età e d'altra condizione, nelle quali non si guardava nè a bellezza nè a bruttezza, e neppur ci aveva che vedere la simpatia; e anche correva un lungo tratto tra l'audacia impudente delle parole e la vera capacità morale di peccare. Benchè il mio sentimento religioso fosse molto vago, e andasse soggetto a molte intermittenze, quello di cui si parlava così allegramente m'appariva pur sempre un peccato enorme, di conseguenze grandi e terribili nell'altra vita ed in questa; la prima delle quali pensavo che fosse un'immediata e profonda trasformazione morale, un'entrata violenta e pericolosa di tutto l'essere nella virilità, lo scoprimento istantaneo di molti misteri solenni della vita, una sazietà improvvisa di tutti i giochi e di tutti i piaceri della fanciullezza, e la morte d'ogni amore allo studio. Tanto è vero che, essendosi vantato con me quel tal Clemente, d'aver conosciuto l'albero del bene e del male, e avendomi raccontato che la sera della sua prima colpa era stato accompagnato fino a casa da una voce cupa e continua che veniva di sottoterra, io la bevetti come me la diede, e ne serbai per molto tempo un senso segreto di terrore.

Il ritorno dei bersaglieri dalla Crimea.

Ero passato intanto al secondo anno di Grammatica; del quale non conservo altro ricordo netto che quello d'uno sproposito enorme ch'io feci in una traduzione dal latino a un esame mensile, il più sformato farfallone, il più buffo e scandaloso quiproquo che sia mai stato preso, credo, nelle scuole d'Italia, da che vi s'insegna la lingua di Cicerone, e che rimase meritamente celebre tra la scolaresca per tutta la durata del corso. Era.... Ma no, non lo dico, perchè non sarebbe creduto, perchè si penserebbe certamente ch'io l'avessi inventato per rallegrar la materia e per vantarmi d'aver superato in qualche cosa i confini dell'immaginazione umana: la memoria d'una tale scelleratezza deve scender con me nel sepolcro. Fuor della scuola, il mio ricordo più vivo di quell'anno fu il ritorno dei bersaglieri dalla Crimea. Già, quand'era venuta la notizia del primo sbarco delle truppe a Genova, avevo pensato subito al mio caporale Martinotti. Era egli scampato alle battaglie e al colera, o era una delle tante vittime che aveva lasciato il nostro piccolo esercito sulla via dolorosa dal porto di Balaclava alle trincee di Sebastopoli? E se era vivo, sarebbe ritornato nella piccola città dove l'avevo conosciuto? Il giorno che si sparse la voce: — Arrivano due battaglioni domattina — fui fuor di me dal piacere e dall'impazienza. Ma mia madre, prudente, credette di dovermi preparare a una delusione. — Bada — mi disse — ne son morti tanti! E poi, chi ti dice che non sia rimasto a Genova, o che non debba rimanere a Torino? — Quest'avvertimento mi rese pensieroso. Mi svegliai non di meno la mattina dopo con l'allegra certezza di rivederlo. Accorse ad aspettare i soldati una gran folla, per modo che dovetti restare assai lontano dalla stazione, sul margine d'un largo viale che saliva dalla strada ferrata ai bastioni; ma lì, a forza di gomiti, conquistai un posto fra i primi spettatori.

Che cavallone mi fece il sangue quando sentii i primi squilli di tromba, e vidi schierarsi in colonna giù sul piazzale i primi plotoni! Ma che soldati eran quelli? Non riconoscevo più i miei bersaglieri. Eran tutti neri come beduini, vestiti di lunghi cappotti grigi, con certe miserie di pennacchi scemi e stinti, cascanti come cenci dai cappelli logori: più fieri all'aspetto, senza dubbio, più belli cento volte di com'eran partiti; ma mi parevan soldati d'un esercito straniero, che dovessero parlare un'altra lingua, e di cui nessuno m'avesse più a riconoscere. La colonna si mosse, fra gli applausi della moltitudine. La precedeva un grosso stuolo di trombettieri, che mi dovevano passare proprio sui piedi. Ci doveva essere tra quelli il mio caporale; a ogni passo che facevano avanti, mi batteva il cuore più forte. Ah! eccolo, ecco Martinotti.... Ahimè, fu l'illusione d'un momento. Il caporale era un altro. Martinotti non c'era. I trombettieri passarono. Rimasi col cuore oppresso. Guardai tutti i gallonati della colonna: non lo vidi. Ah! è morto — pensai — il mio buon caporale è morto! O è forse rimasto a Torino o a Genova, come mi disse mia madre, e non lo rivedrò mai più, come se fosse morto. — Non restava più da passare che una compagnia, e io stavo osservando un vecchio capitano che aveva una grande cicatrice a una guancia, quando udii a due passi da me una voce allegra: — O Mondino! — Mi voltai, come a una scossa elettrica: era lui! lui, coi galloni di sergente, in serrafile, col cappotto grigio e tre penne sul cappello, col viso abbronzato, dimagrito, un po' invecchiato, mi parve, ma diritto e svelto come avanti la guerra, lui che mi salutava con la mano nera e con quel buon sorriso d'una volta, che non avevo mai dimenticato. Gli risposi con un: — Ah! — che fu come uno squillo di trombetta, e per poco non mi cacciai tra le file ad abbracciarlo. — Come sei cresciuto! — mi gridò, e non ebbe tempo di dir altro; gli ultimi due plotoni passarono fra gli applausi e gli evviva, e io fui travolto dalla folla che irruppe dietro alla colonna per accompagnarla al quartiere. Lo rividi il giorno dopo, con che festa si può pensare, e la nostra amicizia si riannodò più salda di prima. Ma, cosa strana, non ricordo assolutamente nulla delle molte cose della guerra ch'egli mi deve aver raccontate quel giorno e i seguenti, nè m'è rimasto in mente alcun particolare delle nostre relazioni dopo il suo ritorno. La sola cosa che ricordo, dopo quell'avvenimento, è un gran banchetto che fu dato a tutti i soldati nella piazza d'armi, dove eran disposte a raggiera molte lunghissime tavole, sotto un vasto padiglione imbandierato. Ma anche di questo non conservo che un'immagine confusa, come d'uno spettacolo visto di sfuggita, e a traverso un velo di vapori.

Il furore della pittura.

La guerra d'Oriente ebbe una conseguenza triste in casa mia, poichè, indirettamente, fu la causa che mi s'attaccasse la passione d'imbrattar carta coi colori; la quale diventò e fu per un certo tempo un vero furore di maniaco. Non mi pare inutile di farne un cenno poiché si tratta d'una piccola malattia per cui passano quasi tutti i ragazzi. Me l'attaccò un grande quadro, non ancor finito, rappresentante la battaglia della Cernaia, che mio padre mi condusse a vedere nello studio d'un bravo pittore lombardo (il Borgocarati, un eroe delle Cinque giornate) che era stabilito da anni nella nostra città. Fra gli altri particolari, mi colpì così vivamente lo sfolgorìo purpureo d'uno squadrone di cavalleria inglese galoppante sul davanti della tela, che non gridai: — Son pittore anch'io! — come quel tale artista famoso, ma sentii il fremito delle facoltà occulte che esprimeva quel grido. Era questa un'illusione che covavo fin dai sei anni, per aver fatto uno scarabocchio di battaglia, il quale era parso una maraviglia al mio buon padre, che l'aveva messo in un quadro, come una manifestazione non dubbia di genio. Ah, gli occhi dell'amor paterno! Faceva tanto più onore al suo cuor di padre quell'errore perchè, senza aver fatto studi regolari, egli era intendentissimo d'arte, e disegnava, miniava e modellava con gusto squisito. Vadano pur cauti i padri amorosi a profetar Raffaelli in casa propria, chè non avranno mai cautela soverchia. In realtà, avevo un sentimento vivissimo dei colori, che mi davano piaceri acuti, somiglianti a quelli che dà la musica, tanto da tenermi in contemplazione per delle mezz'ore davanti a una stoffa, a un'aiuola, a una nuvola, fantasticando come davanti a un quadro che rappresentasse una scena umana. Ma era un sentimento che non si doveva estrinsecare per mezzo dei pennelli. Avvenne a me quello che avviene a molti nati alla pittura, i quali cominciano invece col menar la penna: sbagli di porta, che fa chi ha furia d'entrar nell'arte. Ma questo dubbio non poteva neppur lampeggiare alla mia mente. Sciupai dozzine di scatole di colori a tingere risme di carta, tentando tutti i generi, dal paesaggio da confettiera al quadro storico da cartellon dei burattini, ma più che altro la pittura militare; alla quale mi incitava, senza volerlo, mio padre, col parlar sovente di Orazio Vernet, di cui era caldo ammiratore. Non si son combattute tante battaglie nel secolo sopra la faccia della terra quante io ne scombiccherai in sei mesi col mio granatino della malora. Ne buttavo giù fin quattro in un giorno. Era un vera fabbrica di carnificine dipinte. Non si possono immaginare gli orrori che ho messi in acquarello. E siccome regalavo i miei lavori, come Massimo d'Azeglio, a tutti i miei amici e conoscenti, venne un tempo in cui ne fu invasa la città, e se ne vedevano appiccicati ai muri per la strada, nelle botteghe del vicinato, e perfino agli usci delle stalle. Il caso aggravante era che avevo la faccia di firmarli, perchè non mi potessero rubare la gloria degli artisti senza coscienza. Quante volte il mio povero padre, vedendoli, deve aver detto tra sè: — Ah! di quanto mal fu matre quella benedetta inquadratura! — Perchè l'opera si moltiplicava senza migliorarsi; il decimillesimo soldato uscito dal mio pennello non aveva men diritto d'esser “riformato„ dai medici che il primo; non figliavo che mostricini tutti improntati dello stesso conio di famiglia; tutti quanti i battaglioni, tutti gli squadroni, che lanciavo all'assalto sulla carta di protocollo, gridavano in coro contro il piccolo assassino dell'arte. E intesi quel grido, finalmente, e mi sdiedi a poco a poco dalla strage. Ma non son mica malcontento, ripensandoci, d'esser passato per quel periodo di criminalità pittorica, poichè fu forse quella sfuriata, dalla quale uscii sazio e deluso, che mi distolse dal mettermi più tardi ad altre prove inutili, fu quella rosolìa artistica, patita nella fanciullezza, che mi salvò da qualche altro malanno nell'adolescenza, il quale avrebbe potuto avere effetti più gravi che lo sciupio dei colori e l'imbratto delle mura cittadine.

Il regno del terrore.

Entrai nella Terza Grammatica, sotto un professore terribile, che mi rese quell'anno memorando. Era un uomo tarchiato, con una gran faccia sbarbata e pallida da Padre Inquisitore, nella quale luccicavano due occhi chiari e freddi, che parevano due pallottole di cristallo. Non picchiava; ma era peggio che se picchiasse, perchè si serviva del latino come d'una frusta metallica, con cui ci faceva frullare come i mezzani di Malebolge sotto le scuriade dei diavoli. Ci caricava di lavoro, ci oberava di pensi, non ci lasciava girar gli occhi, nè allungar le gambe, faceva somigliar la scuola a una funzione funebre. Aveva il furore dei quaderni di bella copia: ne dovevamo tener dodici: per le frasi italiane e per le latine, per le regole delle due grammatiche, per le sentenze morali, per le similitudini, per la mitologia, e via discorrendo: una vera amministrazione letteraria, che non ci dava respiro. Non montava mai in collera, era pacatamente spietato. E il linguaggio feroce che usava così a sangue freddo! A ogni errore di grammatica: — Ah, vile malfattore — Ma lei disonora la sua famiglia — Lei tradisce la patria — Lei andrà a finire in galera — Questo è uno sproposito ignominioso — Questa è una sintassi da farla cacciare in prigione.... — Dopo due mesi di questo regime eravamo tutti ridotti un branco di schiavi tremanti. C'eran dei veri martiri del nuovo metodo, imbecilliti dai verbi difettivi, che impallidivano al suono del comando: — Mi coniughi — e non dormivano più dallo spavento delle dieci lezioni quotidiane che dovevamo mandare a memoria. Oh quel gran crocifisso appeso al muro, sopra la cattedra, come simboleggiava lo stato di tutti! Quell'Ezzelino della Grammatica s'ammalò una volta nel cuor dell'inverno: tirammo tutti un respiro di mantice; ma un respiro solo, perchè egli ci spirava terrore anche da letto. Venne a sostituirlo un suo collega, professore in aspettativa, che comparve il primo giorno in divisa di guardia nazionale, e appoggiò il fucile alla parete, accanto alla cattedra. Credendolo della stoffa dell'altro, di cui era amico intimo, pensammo che fosse venuto armato per far fuoco sugli sgrammaticanti. Era invece un buon diavolo, che ci restituì alla vita umana. Ma quel paradiso non durò che otto giorni; dopo i quali il tiranno ritornò, più truce di prima, e noi ricurvammo la fronte, con raddoppiato terrore, sotto il giogo nefando.

Tre personaggi straordinari di quella mandra atterrita mi sono ancora stampati nella memoria. Uno era un certo Gatti, il solo che non temesse Ezzelino, e che noi ammiravamo per questo come un'anima eroica, che rappresentava in faccia alla tirannia il nostro spirito secreto di ribellione. Egli faceva audacemente le nostre vendette, non con risposte o atti insolenti, ma con l'ostentazione costante d'un freddo disprezzo, con una pertinacia invitta nella volontà di non studiare; e non c'era rimprovero nè minaccia che gli facesse mutare aspetto nè piegar sua costa. Egli affrontava i fulmini fissando negli occhi al professore uno sguardo da Capaneo, che ci faceva fremere d'entusiasmo. Il professore castigava i rei facendoli stare in ginocchio sull'impiantito accanto alla cattedra, e quel “magnanimo„ stava inginocchiato per mattinate intere, col busto eretto e con la fronte alta, in un atteggiamento superbo di angelo ribelle alla Grammatica, nel quale grandeggiava ai nostri occhi come una statua di Michelangelo. Il tiranno si rodeva; ma egli non chiedeva mai grazia. Credo che alla scuola egli abbia passato più tempo in ginocchio che seduto, e che, se è tuttora in vita, debba avere ancora i calli alle giunture, come quei maomettani fanatici che hanno fatto il viaggio alla Mecca carponi. O anima altera e disdegnosa! Dovunque tu sia, possa raggiungerti questo tardo saluto d'ammirazione dell'antico compagno di schiavitù e d'inginocchiatura.

L'altro era il più attempato della classe, un ragazzotto robusto, di viso precocemente grave, poco familiare coi compagni: venuto da Saluzzo, mi pare, e tenuto a dozzina da una zia di manica larga, che gli allentava la briglia e non gli contava gli spiccioli. Lo guardavamo tutti con certa ammirazione perchè si diceva che abusasse virilmente della sua libertà; ci appariva quasi circonfuso d'una gloria satanica, come un eroe del Byron, e poichè, diffidando di noi, non accennava che velatamente, e di rado, alle sue scappate, noi davamo alle sue poche parole oscure cento interpretazioni fantastiche, assai più ardite e profonde del suo pensiero. Risento ancora la commozione della scena solenne che seguì una mattina, quando il professore, informato non so da chi delle sue sregolatezze, lo chiamò in presenza della scolaresca davanti alla cattedra, e con viso e voce d'un presidente di Tribunale statario, gli disse: — Nefande cose ho saputo sul conto suo, signor.... tal dei tali!

E dopo una pausa funerea: — Ella va attorno di notte!

E dopo un'altra pausa più lunga: — Ella bazzica con la feccia del consorzio civile!

E dopo un silenzio lunghissimo, con voce soffocata: — Ella beve!

E finalmente, con un colpo di cannone: — Sciagurato!

Corse un brivido per tutti i banchi; pareva che nessuno respirasse; durò per un minuto un silenzio di morte. Fu una scena tragica, veramente. Il piccolo accusato, immobile e muto, ci apparve come l'immagine incarnata di tutte le corruttele e di tutti i delitti della decadenza di Roma.

Non saprei ridire il discorso che sfoderò poi il professore: ricordo solo che c'entrarono la giustizia divina e la umana, e l'infamia eterna, e l'ergastolo, e altre dolcezze consimili, messe fuori con voce cavernosa e roteando gli occhi in modo da dar la terzana, e che, finita la lezione, non per ribrezzo di lui, ma per terrore del tiranno, sfuggimmo tutti lo sventurato peccatore come un maledetto da Dio.

Il terzo era un tipo amenissimo, mingherlino, con un viso di vecchio notaio, figliuolo d'una bustaia vedova: uno sgobbone indefesso, che aveva grandi pretensioni di latinista, e faceva i componimenti a musaico, a furia di frasi raccattate qua e là con una pazienza di santo, e messe insieme con gli artifici più grossolani, congiunte proprio con la forza, a marcio dispetto della logica e del senso comune, che per lui non contavan nulla, purchè la lingua e lo stile, come egli diceva, fossero “oro di coppella„. Me lo vedo ancora davanti, un giorno che leggeva al professore uno dei suoi periodi intricatissimi, al quale diceva d'aver lavorato tutta la notte.

Il professore gli disse: — Ma io non capisco.

— Lo credo bene — rispose — qui ci son delle frasi peregrine.

— Ma che frasi sono, che io non le intendo?

— Ma è tutto, tutto un tessuto di frasi. Io ho condensato. Si sa. Capire alla prima è impossibile!

E il tira tira durò un pezzo, fin che egli si rimise a sedere scoraggiato, facendo un atto del capo come per dire: — È tempo perso: il vero latino non è più inteso.

Dei fatti miei rammento una composizione italiana a tema libero, che fu il primo mio parto letterario, di cui serbi memoria. Descrissi Una lotta fra il leone e la tigre: argomento in armonia con la mia natura, si capisce. Ricordo che incominciava con la frase: Sul rosseggiar del cielo, ed era tutto uno stridío di parole terribili, scelte tra le più ricche di erre e di esse, una musica infernale di ruggiti e di rantoli, una lacerazione furiosa di carni e di regole di sintassi, che finiva in un lago di sangue. Mi aspettavo un trionfo, quando fui chiamato a leggere: fu un fiasco enorme; fu l'unica volta, credo, che risero insieme il professore e la scolaresca, e forse l'ombra invisibile del Padre Corticelli, che era il nostro grammatico ufficiale. E questo fiasco, che m'avvilì allora profondamente, è adesso per me un caro ricordo, poichè fu l'avvenimento che fruttò ai miei compagni di servaggio e di terrore il solo quarto d'ora d'ilarità collettiva ch'essi abbiano avuto in quella scuola dolorosa.

Dolorosa per me in ispecial modo perchè non ero ancora in età da poter reggere a quelle fatiche, e tra per lo strapazzo intellettuale e per l'affanno continuo, che qualche volta mi faceva sobbalzare la notte e farneticare come un allucinato, la mia salute se ne risentiva. Appena se n'accorsero mio padre e mia madre, decisero d'accordo di levarmi dalla scuola e di non rimandarmici per quell'anno, perchè mi rifacessi l'animo e le forze. Prima che finisse l'inverno mi fu fatta la grazia e uscii dai lavori forzati.

Il maestro prete.

Perchè non frollassi nell'ozio, mi fecero far ripetizione di latino da un prete, un'ora il giorno, a casa sua, dov'egli stava con sua madre e una zia; le quali m'aprivano l'uscio pian piano, e scomparivano senza dir nulla, come due larve. Era un bel pretino biondo, fresco come una rosa, con due occhi azzurri vivissimi; i quali potevano far presagire agli accorti che presto o tardi egli avrebbe gettato il collare sur un fico; come lo gettò infatti pochi anni dopo per mettersi al collo una collana vivente. Ma, ahimè! il giovine maestro non aveva più voglia d'insegnarmi il latino di quello che n'avessi io d'impararlo. Il ricordo di quell'esperienza m'ha fatto poi avversario risoluto dell'insegnamento a quattr'occhi (fuor che nel caso che insegnante e alunno siano due miracoli di buon volere), poichè quasi sempre manca all'uno e all'altro ogni stimolo; quando nella scuola collettiva, invece, lasciando anche da parte l'emulazione, s'avvivano e s'acuiscono le facoltà intellettuali del ragazzo come quelle dell'uomo in teatro, per effetto della comunione che si stabilisce fra le menti, le quali quasi operano insieme, illuminandosi a vicenda. Sotto il tiranno Ezzelino ero ammazzato dalla fatica; col prete morivo dall'uggia. Per un po' di giorni simulammo tutti e due: egli lo zelo, io l'attenzione. Poscia più che il dover potè la noia. Era un ipnotizzamento reciproco. Ci guardavamo alle volte l'un l'altro con due grand'occhi fissi, che a poco a poco s'ammammolavano, come gli occhi di chi cade in deliquio; poi aprivamo la bocca insieme e ci tiravamo in faccia uno sbadiglio sgangherato, enorme, interminabile, in cui pareva che esalassimo fino agli ultimi cuius tutto il latino che avevamo in corpo.... e non c'era molto di più nel suo che nel mio.

Ma un giorno egli fece un'uscita che mise come un soffio di vita fra di noi, e infuse in me una passione nuova, la quale lasciò una traccia profonda nella mia memoria. Era allora attivissima l'opera ecclesiastica per il riscatto dell'infanzia chinese abbandonata. Ex abrupto, il giovine prete mi ragguagliò della cosa: poi mi domandò se avrei accettato l'ufficio di raccoglier fra i ragazzi di mia conoscenza sottoscrizioni di dodici soldi l'anno, allo scopo di salvar dalla morte e dalla perdizione migliaia di poveri bambini del Celeste Impero, ch'eran buttati via come cenci o venduti come bestie; e aggiunse ch'io avrei assunto il titolo, ambito da molti, di collettore, che tutti i collettori sarebbero stati presentati al vescovo, e che quattro di essi, due ragazzi e due ragazze, scelti fra i più avvenenti, avrebbero avuto l'onore di far la questua in una funzione solenne che si doveva celebrare in una chiesa della parrocchia; per la quale egli aveva composto i versi e la musica d'un inno, da cantarsi dalle voci migliori, fra cui poteva esser la mia. Fu come avvicinare una fiammella ad un razzo. L'idea del salvamento dei bambini, l'ambizione dell'ufficio, la patente d'avvenenza e l'immagine del vescovo m'accesero improvvisamente d'uno zelo, non dirò santo, perchè era misto di troppi sentimenti profani, ma benefico per me, perchè mi risvegliò l'animo e la mente, che s'erano addormentati nel latino. E a proposito, non sarebbe una buona cosa quella di dare all'educazione intellettuale, troppo astratta, della fanciullezza, il rincalzo di qualche azione di utilità pubblica, che, avendo uno scopo diretto ed effetti sensibili, stimolerebbe altre facoltà ed altri affetti, e insegnerebbe con la dottrina la vita? Non mi pare un'idea da buttar via. Ma tiriamo innanzi.

Il sentimento religioso, che non s'era spento in me, ma era solo stato compresso, come ogni altro affetto, dall'incubo scolastico, mi si ridestò in quel periodo di riavvicinamento alla chiesa; ricominciai a dire le preghiere la sera e la mattina, andai alla benedizione, ripresi amore alle cerimonie del culto, mi venne il desiderio d'imparar a servir la messa, e per questo mi diedi a frequentare una chiesa vicina a casa mia, dove strinsi amicizia con altri piccoli topi di sacrestia, e entrai in grazia di qualche vecchio prete, che mi regalava delle immagini. Ogni volta che mi raccolgo nei ricordi di quei giorni, vedo arder ceri e scintillar pianete, sento le note dell'organo, mi par di respirare nell'aria un odor d'incenso, e risento, se così può dirsi, il sapore d'un certo stato di coscienza, non più esperimentato di poi, una dolcezza quieta del cuore e quasi una chiarezza dell'animo, che svaniscono se v'insisto troppo col pensiero, come quei motivi di musica che ci suonano alla mente, ma che ci sfuggono se vogliamo tradurli in note vocali. Vagheggiai in quei giorni l'idea di farmi prete.

Ma, Dio mio, sorse ben presto una nube di peccato in quella serenità serafica. Il pretino dagli occhi azzurri radunò un giorno in casa sua tutti i collettori e le collettrici, una ventina all'incirca, me compreso, per insegnarci l'inno da cantare in chiesa; il quale ricordo che incominciava col verso: — Là nella Cina inospite. — Le collettrici eran quasi tutte signorine della mia età, alcune bellissime. La loro presenza mi produsse un vivo eccitamento. Quando mi ci trovai in mezzo non pensai più nè alla China, nè al vescovo, nè alla chiesa; non ebbi più anima e senso che per loro. C'era nella stanza del latino un pianoforte, sul quale un ragazzetto di quindici anni, figliuolo d'un organista, provava la musica dell'inno, fra l'ammirazione di tutti. Fui morso da una maledetta gelosia, a cagione delle ammiratrici. A un certo punto, non potendomi più contenere, pregai il suonatore, con poca buona grazia, di lasciar suonare me pure. Parrà incredibile una tale ignoranza a quell'età; ma è un fatto ch'io credevo ancora che per suonare il pianoforte bastasse sapere il motivo che si voleva suonare, e picchiar le mani sulla tastiera, così a dettatura d'orecchio, come si fischia un'aria. Con questa sciocca idea insistetti tanto che il ragazzo, credendo ch'io sapessi di musica, mi cedette il posto per un momento. Immaginate quale fu alla prova il mio stupore e la mia vergogna. Una vergogna tale che, anche ora, dopo quel po' di primavere che son passate, quando mi ricordo tutt'a un tratto di quella bella figura, perchè non me ne torni a gola tutta l'amarezza, bisogna ch'io mi ragioni, e faccia onta a me stesso del mio orgoglio, ancora palpitante quando dovrebbe esser morto e sotterrato.

Ma non fu quella la peggior figura ch'io feci in quel periodo ecclesiastico della mia fanciullezza, e ricordo anche la peggiore per il gusto di schiaffeggiare quello che mi resta di vanagloria. Venne il giorno della funzione solenne. La chiesa era piena come un ovo. Ai due collettori e alle due collettrici, che dovevano andare attorno con una borsina elegante a raccogliere le offerte, era stato assegnato un banco vicino all'altare. Modestia a parte, erano due bei ragazzi e due belle ragazzine. Di una di queste non mi ricordo punto: l'altra fu poi moglie d'un Direttore della Banca Nazionale, e il mio collega diventò un avvocato celebre. Eravamo vestiti come principini, impomatati e inguantati: quattro splendori. Ci erano state indicate prima le file dei banchi dove doveva passare ciascuno. Durante la funzione io commisi il peccato di pensar troppo intensamente alla mia vicina, la futura banchiera, che era vestita d'un abito bianco, del quale sentiva la carezza il mio abito nero. Il cenno del prete che ci disse: — Vadano — mi sopraccolse in quel pensiero. Preso così all'improvviso a una così gran distanza dall'idea del mio ufficio, mi confusi, e, oltrepassato appena il primo banco, dove tutti, mi diedero un soldo, sbagliai, e invece di proseguire come dovevo, mi cacciai fra gli altri banchi, davanti ai quali era già passata una delle ragazze, e dove non ebbi più il becco d'un quattrino. Quella sequela inaspettata di rifiuti, che mi parve effetto d'antipatia personale, mi fece perder la bussola; non vidi più nulla; non compresi i cenni con cui si cercava di rimettermi sulla buona via; andai errando di banco in banco, alla cieca, impacciato e goffo, con una faccia di ebete, che invece di stimolar la carità provocava l'allegria, e dopo un pellegrinaggio interminabile, che fu una tortura mortale, ritornai al banco dei collettori, convertito per me in banco della berlina, con sette soldi nella borsa. Ahi, dura terra! Che cosa sono le impressioni di quell'età! Sta per morire il secolo che era allora a mezza strada, e ancora non posso sentir pronunciare la parola collettore, senza che una voce sarcastica mi mormori all'orecchio: — Sette soldi, signor collettore! Sette soldi, e che figurona!

Ma in quegli anni ci rialziamo facilmente anche dalle più grandi cadute. L'umiliazione patita in chiesa non tolse che fosse un giorno di festa per me quello in cui il nostro prete mi condusse con tutto il drappello dei colleghi e delle colleghe a far visita al vescovo. Questi era un vecchio tutto bianco, già curvo, di viso grave e dolce. C'eran con lui vari preti, fra cui riconobbi il Padre quaresimalista, che predicava allora nel duomo; un bell'uomo bruno, coi capelli lunghi e gli occhiali d'oro, dall'aria d'uno scienziato; la cui presenza impreveduta mi turbò, perchè una domenica, facendo dal pulpito un'invettiva terribile contro certi peccatori, con voce tonante e gesto minaccioso, egli aveva per caso fissato sopra di me, che stavo davanti al pulpito, uno sguardo scintillante, che m'aveva messo i brividi. Il vescovo domandò a ciascuno di noi come ci chiamassimo. Quando fu la mia volta, il predicatore disse non so che scherzo sulla latinità del mio nome, con accento e sorriso benevolo, e quello scherzo, che mi fece l'effetto di un'assoluzione, mi dissipò dall'animo ogni terrore. Delle parole del vescovo non ricordo che un complimento che rivolse al mio prete, sorridendo: — Lei è la colonna dell'istituzione, — e ricordo la gioia che sfolgorò sul viso del lodato, pari a quella che davano ai granatieri della Guardia gli encomî di Napoleone. Eh, povera colonna, che doveva piegar tra poco come un giunco sotto una manina scomunicata! E che singolari fissazioni ha la fantasia! Fin dalla prima volta che ho letto i Promessi Sposi ho sempre dato al cardinal Federico il viso di quel vecchio vescovo, che, se fossi disegnatore, potrei riprodurre fedelmente, mettendo al suo punto preciso il piccolo neo che aveva accanto alla bocca; per cagion del quale mi fecero arrabbiare i miei fratelli, che dicevan per celia che era finto.

In che maniera tutto quel mio fervore religioso si sia andato spegnendo, non saprei dire. C'è a questo punto nella mia memoria, come in altri punti, uno squarcio. Pare che quel piccolo mondo ecclesiastico sia sparito dalla mia vita come una meteora. Mi ricordo peraltro che il mio ufficio di collettore si veniva facendo di mese in mese più duro, poichè era sempre più difficile strappare ai sottoscrittori poveri il soldo promesso; e che un giorno tornai a casa quasi piangente perchè la pollivendola, dandomi il soldo di mal garbo, dopo aver frugato in tasca mezz'ora, mi domandò con un'occhiata severa: — Ma.... questi soldi vanno poi tutti per davvero dove dovrebbero andare? — Rinunciai all'ufficio quel giorno.

Proprio, non fui più fortunato io con la China di quello che doveva essere quarant'anni dopo il Governo del mio paese.

Davanti al tribunale.

Al riaprirsi delle scuole municipali, in autunno, dovetti riprendere la Terza Grammatica, sotto il tiranno; ma, riprendendola con un anno di più, e dopo molti mesi di riposo, mi riuscì assai meno oppressiva dell'anno avanti. M'ispirava sempre un gran terrore Ezzelino, ciò non ostante. E a questo, sventuratamente, io offersi una memoranda occasione d'esser terribile.

L'occasione fu, non dico il mio primo amore, ma il mio primo amoreggiamento, poichè non credo che si possa amare a undici anni. Uno dei miei nuovi condiscepoli, e stretto amico, che ora è un alto impiegato delle Poste, s'innamorò a modo suo, che poi fu il mio, d'una signorina della sua età, figliuola d'un avvocato, la quale andava e tornava ogni giorno da non so che scuola privata con una sua piccola amica, figliuola d'un notaro, passando per le strade che pigliavamo noi per tornare a casa. Io m'innamorai dell'amica. Il doppio incendio nacque dall'uniformità dei due orari scolastici. Andavamo tutti i giorni ad aspettar la coppia gentile a una cantonata, all'uscir dalla scuola: ardimentosi come due don Giovanni prima di vederle, intimiditi a un tratto quando apparivano in fondo alla strada, tremanti come due cani immollati quand'erano a due passi. E tutta la foga della nostra passione non andava più in là di qualche esclamazione petrarchesca che spiccicavamo a stento dalle labbra, arrossendo fino alle orecchie, quando esse ci passavano davanti col capo e cogli occhi chini, sorridenti al ciottolato. Dopo di che ce la davamo a gambe tutti e due, l'uno incalzato dal terrore del bastone avvocatesco, l'altro dalla paura dello stivale notarile, per commentar poi insieme l'avvenimento con chiacchiere interminabili, come una prodezza di cavalieri antichi.

Questo giochetto innocente durò un paio di mesi, senza variazioni notevoli, e senza tristi conseguenze.

Una mattina, a scuola, mentre un nostro compagno traduceva a voce alta un distico delle Georgiche, entrò il bidello con una lettera per il professore. Questi l'aperse, la lesse in silenzio, aggrottando le sopracciglia, e poi diede un lungo sguardo a me e un altro al mio amico, che sedeva in un banco del lato opposto. Quei due sguardi furono per noi come due lampi rivelatori della verità tremenda. Ci guardammo: l'uno lesse in viso all'altro il proprio pensiero: ci sentimmo perduti. Vedo ancora la faccia pallida e spaventata del mio complice, che doveva essere il riflesso della mia.

Il professore non interruppe la lezione; ma fu più feroce che se ci avesse fulminati subito in presenza di tutta la scolaresca. Essendosi accorto che avevamo capito, ci tormentò spietatamente per un'ora con ogni specie d'allusioni avvelenate, tirate fuori a forza dalla poesia virgiliana; l'ultima delle quali: — Ci son altri che amano! — a proposito della frase: — Le viti amano il sole —, smozzicata fra i denti e accompagnata da due sguardi fulminei, fu così manifesta, che molti compagni si voltarono a guardarci, raddoppiando in quel modo il nostro terrore.

Venne finalmente il momento fatale. — Il tale e il tale si fermino — disse il professore, quando entrò il bidello a dare il finis.

Sgombrata la scuola, ci avvicinammo alla cattedra col passo di due condannati alla corda.

Il professore ci lesse la lettera adagio adagio, piantandoci ogni parola nel cuore. Non era firmata. Era una denuncia anonima dei nostri amori; la quale conteneva una calunnia, perchè parlava di “regali fatti e ricevuti„, quando noi potevamo giurare sulla nostra borsa disabitata che il nostro amore non ci costava un soldo, e terminava esortando il professore a intimarci di smetterla se non volevamo “pagare amaramente il fio„ della nostra audacia.

Pensammo subito che l'avesse scritta uno dei due padri; il che non era verosimile per la ragione che v'erano accusate le ragazze d'averci fatto dei regali. Solo molto tempo dopo sospettammo d'un alunno di filosofia, nostro amico e canzonatore abituale. Ma la cosa rimase sempre un mistero.

Il fatto è che quella minaccia oscura: “pagare amaramente il fio,„ che lasciava spaziare l'immaginazione fra una pedata e un colpo di pistola, ci fece allibire.

Ma fu ben più tragica l'ammonizione del tiranno. Se avessimo rapite e portate in Svizzera quelle due signorine innocenti, non ci avrebbe potuto dire di peggio. Ci trattò come due marci libertini, spavento delle famiglie e disonore della città; ci parlò di tribunali; ci parlò pure, com'era suo solito, della giustizia eterna, citando il Canto quinto dell' Inferno, con la bufera che mena nella sua rapina i peccator carnali; ce ne disse tante, insomma, e con un tal cipiglio e un tale accento, che finimmo con scoppiare in pianto tutti e due; anche il mio amico, che si vantava d'essere un uomo forte, e aveva per intercalare, mi ricordo, due versi di Dante pigiati in uno:

Sta come torre e lascia dir le genti.

Così morì ammazzato il nostro amore. Ma non con la correzione dei peccatori, appunto perchè Ezzelino, secondo l'uso suo e di molti altri, ci volle fare un delitto d'una fanciullaggine in cui non era nulla d'ignobile. S'egli ci avesse dato anche una brava polpetta, ma contentandosi di dimostrarci la grave sconvenienza d'andar a posteggiare ai canti due ragazzine oneste e sole, come due birichine vagabonde, noi ci saremmo certamente persuasi e pentiti. Trattati invece in quella maniera, passata che fu la prima paura, ci invanimmo quasi d'aver avuto la temerità di calpestare a quel modo tutte le leggi umane e divine, e poi, quando ad animo quieto valutammo giusto il piccolo fallo e la riprensione enorme, questa ci parve una buffonata, e il riprensore un inetto e uno sciocco.

Non di meno, da quel giorno in poi, pigliammo un'altra strada per tornare a casa, e per consolarci dell'amore andato a picco, ci demmo con furore alla palla di gomma elastica.

Sulla mala via.

Fu in quel giro di tempo che, stando una sera nel giardino, ebbi un quarto d'ora terribile, del quale ho risentito gli effetti funesti per tutta la vita. Quasi all'improvviso mi girarono attorno gli alberi e i muri, la terra mi vacillò sotto i piedi, mi si velarono gli occhi, mi si oscurò la mente, e preso da un senso di stanchezza infinita, non potendo più reggermi ritto, mi distesi per terra ed aspettai la morte. Poi, rialzatomi con un grande sforzo, barcollando come un ferito, mi trascinai a casa, dove mi buttai sul letto e confessai la verità a mia madre; che, spaventata, mi spruzzò d'acqua la fronte e mi fece fiutare dell'aceto, esclamando: — Ah, benedetto ragazzo! Anche tu! E così presto!... Ah, non ci ricadere mai più, per l'amor del cielo!

E io ci ricaddi, pur troppo.

Ah, se quel giorno, nel punto che mi mettevo alla prima prova, avessi potuto prevedere a quale ignobile schiavitù essa m'avrebbe condotto, a che padrone tirannico, brutale e stupido dato in potere per sempre; se avessi potuto prevedere di quale enorme disperdimento di forze del corpo e dell'intelletto, di quanti turbamenti maligni della salute, di quante ore di stanchezza inquieta e triste e notti d'insonnia tormentosa o agitate da sogni spaurevoli mi sarebbe stato cagione l'abito malaugurato che stavo per contrarre; se avessi preveduto ch'io sarei stato un giorno certissimo, come ora sono, che infinite ineguaglianze e fiacchezze del mio stile di scrittore, e radure e garbugli del tessuto sottile delle idee, e mancanze improvvise dell'acume critico e della flessibilità del pensiero e della facoltà d'abbracciar con la mente vasti spazi, non sarebbero state che un effetto di quell'abito; se avessi previsto nell'avvenire quante volte avrei fuggito villanamente delle compagnie gentili o rinunziato a spettacoli d'arte desiderati e a trattenimenti intellettuali fecondi, non per altro che per soddisfare il bisogno volgare che stavo per imporre irrimediabilmente alla mia gola e al mio cervello, condannandomi per tutta la vita a respirare un'aria impura e a legger libri e a vestir panni e a mandar pel mondo dei fogli impregnati dell'odore del mio vizio; se avessi potuto antivedere, infine, quante dure lotte, dalla giovinezza fino all'età matura, avrei dovuto sostenere per liberarmi da quel vizio, destinate a finir tutte quante, dopo giorni e mesi di sforzi penosi, con una vile dedizione al nemico, non lasciandomi altro conforto che quello di veder immuni dalla mia tabe i miei figliuoli, e amareggiato anche quello dal rimorso d'ammorbar loro la casa e dalla vergogna di stampar sulle loro guance dei baci attossicati; ah, se avessi presagito allora tutto questo, con che ribrezzo avrei buttato via quello sciagurato mozzicone di sigaro che stavo per cacciarmi fra i denti, e che, dopo quarant'anni, mi brucia ancora la bocca e la coscienza!

*

Ma già anche prima del sigaro io ero da un po' di tempo sur un brutto sdrucciolo. Proprio, venivo pigliando la piega del cattivo soggetto. Che era stato? Cattivi germi, assorbiti qua e là, ammucchiandosi a poco a poco e andando in fermento, cominciavano a dar fuori; di quei germi che son come nell'aria e che tutti i ragazzi assorbiscono, salvo che sien tenuti sott'olio come le sardelle. Scatti di ribellione, bugiarderia, secchezza d'animo, volgarità di linguaggio, predilezione pei compagni sbarazzini, e propositi, più che altro, di bricconate; ma anche qualche piccola bricconata che, sebbene commessa in casa, avrebbe meritato qualche settimana di carcere correzionale, furono le prime manifestazioni del serpentello maligno che m'era entrato in corpo. Fors'anche perchè quell'anno era stato per me un anno di cresciuta straordinaria, quasi maravigliosa, prevaleva alla virtù dello spirito l'animalità imbaldanzita. Ma il male non era veramente profondo, poichè, anche nei giorni peggiori, sebbene rispondessi duro e arrogante anche a mia madre, pure i suoi rimproveri m'entravano sempre nel cuore; e più che i rimproveri suoi mi turbava il contegno di mio padre, che s'era mutato con me: il suo aspetto severo e freddo, il proposito manifesto ch'egli metteva in atto di non rivolgermi la parola e di non incontrare il mio sguardo mi facevano soffrire così nel vivo, che mangiavo in furia molte volte e scappavo da tavola il più presto possibile, col cuore serrato. Non ebbi nessun castigo, e credo che sia stato meglio. Credo che tutti i ragazzi passino per crisi somiglianti, le quali son per l'animo ciò che la tosse asinina e i bachi per il corpo, e che i parenti non se ne debbano spaventare, nè ricorrere ai grandi mezzi di correzione, lasciando invece che il male, fatto il suo sfogo, se ne vada da sè; che è ciò che segue sempre, quando la natura del figliuolo non è trista affatto; nel qual caso valgon poco o punto i castighi. Quello che mantenne vivo e cocente in me per tutta la vita il rimorso d'aver amareggiato mio padre e mia madre in quel periodo fu appunto il fatto di non esser stato punito da loro come meritavo. A poco a poco lo stato violento di coscienza in cui vivevo mi divenne insopportabile. Ero già preparato a un pieno ravvedimento: non occorreva più che una spinta, e il caso me la diede. Mia madre fu presa una notte da un grave malore, si mandò per il medico, la casa fu sottosopra; io la intesi gridare dalla mia camera con accento di dolore disperato: — Ah mio Dio, morire! Lasciare quel figliuolo ancora così ragazzo! — Quel grido mi snodò il cuore, scoppiai in pianto, m'inginocchiai sul letto, ridissi la preghiera che non dicevo più da un pezzo, supplicando Iddio che non mi togliesse la mamma, — e quando essa fu fuor di pericolo, io era uscito di malattia.

*

Erano incominciate le vacanze. Mi invase allora, come accade prima o poi a ogni ragazzo, il furore delle letture romanzesche; se pure si può chiamar “leggere„ il divorar l'un sull'altro decine di romanzi, dalla mattina alla sera, senz'un'ora di respiro, fino ad averne la mente e la vista offuscate, fino a passar più giorni di fila, come a me accadeva, senza veder nè le Alpi nè il cielo, sempre coi pugni sul libro, col mento sui pugni e con gli occhi sul foglio. Cascai prima sui romanzi del Dumas padre, e il primo di questi fu il Conte di Montecristo, che rimase sempre il mio preferito, non solo perchè mi parve e mi pare ancora il più maraviglioso per la favola e il più attraente per l'arte del racconto, ma anche per il fatto che mia madre mi aveva dato pensatamente il nome di battesimo del protagonista, per aver letto con molto piacere quel romanzo mentre stava aspettando ch'io venissi al mondo. Seguirono a quello non so quanti altri, che poi mi si confusero tutti nella mente in un solo romanzo enorme di migliaia di personaggi e di avventure d'ogni tempo e d'ogni paese. Ma questa furia s'arrestò ad un tratto, fortunatamente, per effetto della lettura d'un libro, che doveva aver poi un influsso straordinario sul mio pensiero e sul mio cuore, per tutta la vita. Non avevo letto sino allora dei Promessi Sposi che poche pagine sparse per le Antologie scolastiche. Non ricordo che alcun professore delle prime scuole ce ne consigliasse con insistenza la lettura. Misi un giorno la mano sul romanzo, un'edizione di Vincenzo Batelli di Firenze, del 1827, in tre volumi, che conservo ancora. Incominciai a leggere. L'effetto fu maraviglioso. Mi sentii come preso da mille uncini e da mille lacci sottilissimi, che mi avvolsero e mi strinsero, penetrandomi fin nel più profondo dell'anima. Fu un diletto continuo e vivissimo, non interrotto punto, nè quasi scemato dalle digressioni storiche e dalle descrizioni minute che soglion seccare i ragazzi, rotto spesso da commozioni violente, che mi strappavano il pianto, accompagnato dal principio alla fine da un consenso pieno e dolcissimo di tutti i sentimenti e di tutti i pensieri. Non distinguevo l'un dall'altro, mi ricordo bene, ma sentivo confusi tutti insieme gli effetti di quell'arte profonda e semplice, dell'armonia delle facoltà, della misura sapiente, della logica finissima, della trasparenza cristallina dello stile, di quella musica grave e delicata, e quasi segreta, che par che venga più dal pensiero che dalla parola, e suoni nell'anima senza che l'orecchio la senta. Non poteva essere compiuta la mia ammirazione; ma la simpatia fu tale da non poter più crescere. Presentii fin dalla prima lettura che avrei riletto quel libro mille volte, anche da uomo. Una quantità d'immagini, di sentenze e di frasi mi s'impressero subito e per sempre nella memoria. Mi rimase nell'animo una serenità, una pace, quasi una compostezza, che m'era prima sconosciuta; quasi un'armonia sommessa, alla quale s'intonò per un pezzo la voce di tutto il mio essere. Mi parve che entrasse nella mia vita un amico, un maestro aspettato da lungo tempo, e il cuore mi diceva che non ne sarebbe uscito mai più. Posso dire che la lettura di quel libro segnò per me il passaggio dalla fanciullezza all'adolescenza.

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Riandando col pensiero quei primi anni, sono sempre ricondotto, per ciò che riguarda l'educazione dei figliuoli, alle stesse conclusioni; non nuove per certo, ma, a mio avviso, non mai abbastanza stampate. Son persuaso che c'è meno pericolo a lasciare ai ragazzi una certa libertà, ed anche una libertà larga, che a tenerli a catena, perchè riconobbi che gl'incatenati, che son come anime compresse, non solo non riescon migliori, ma peggiori dei liberi, non foss'altro per l'arte più fine della simulazione, che suole poi essere cagione ai parenti di grandi disinganni. Son persuaso che è fatica perduta affatto quella gran cura che metton molti a mantenerli nell'ignoranza di certe cose, delle quali essi acquistano in ogni modo, per mille vie impossibili a precludersi, la cognizione precoce; e che, ciò essendo, è perniciosissimo e stupido il tenere in presenza loro certi discorsi, come quasi tutti fanno, con parole coperte, nella fiducia che essi non li intendano, poichè o li intendono, o capiscono se non altro che i loro parenti tengono dei discorsi che non dovrebbero, ma da cui non sanno astenersi, perchè ci trovan piacere; onde questi scadono nella loro stima, facendo per giunta davanti a loro una figura ridicola. Son persuaso che non ci sia nulla di più dannoso all'intelligenza e alla fibra dei ragazzi che il costringerli, per mandarli avanti presto, a studi prematuri, perchè, se anche ci reggono da principio, scontano immancabilmente lo sforzo più tardi, uscendone con le facoltà fiaccate e spuntate, compresi d'una sorda avversione per la scuola, e non più sospinti dal bisogno di leggere e di studiare da sè, per curiosità e per diletto. Son persuaso che lo spettacolo più nocivo all'educazione loro, il più funesto per il loro cuore e il loro carattere sia quello della discordia, degli urti anche più leggieri tra padre e madre, nei quali si sbriciola l'autorità di tutti e due, ledendo nel ragazzo il concetto della santità della famiglia, e lasciandogli dei ricordi incancellabili che gli offuscano più tardi nel cuore le loro immagini, e vi diventan radici inestirpabili di scetticismo. Son persuaso che è sacrosanta verità la sentenza del Capponi, che le cose udite, non le insegnate, formano l'animo dei fanciulli, ossia tutto ciò che di buono e di gentile essi intendono, che è detto in presenza loro spontaneamente, senza pensare a loro, per impulso d'istinto e di coscienza; e che perciò ammonimenti, consigli, prediche, e anche castighi, tutto è fiato e rigore sprecato se essi non vedono che nei loro parenti corrispondano perfettamente ai precetti il carattere, la vita, lo spirito dei discorsi impremeditati e abituali. Ho visto mia madre intesa tutta e sempre alle cure della famiglia, scevra d'ogni vanità femminile, aborrente dai pettegolezzi, impietosita d'ogni sventura altrui, caritatevole ai poveri, facile al perdono con tutti; ho visto mio padre lavorar dalla mattina alla sera con uno zelo d'impiegato esemplare, occuparsi in tutti i ritagli di tempo dei suoi figliuoli, e studiare, quanto gli era concesso, tutta la vita per coltivare il proprio spirito; ho intuito sin da bambino che mia madre era una donna buona e onesta e che mio padre era un uomo retto e generoso: questi sono stati gl'insegnamenti più efficaci ch'io abbia avuto da loro. Fu l'esempio che mi diedero che mi ritenne sulla buona via ogni volta che fui sul punto d'uscirne; fu il ricordo delle loro opere che mi fece sempre ripentire e ravvedere d'ogni atto insensato e ignobile. Tutto il resto, nel campo dell'educazione, è vuota ciancia e vessazione inutile. Non serve fingere coi figliuoli, e far due parti, l'una per loro e l'altra secondo il comodo proprio; è anzi meno peggio il lasciarsi vedere come si è, coi nostri difetti e con le nostre debolezze; chè, se non altro, così mostrandoci, siamo stimati sinceri. V'è un modo solo di educare: vivere degnamente. Ma è difficile, si capisce.

In Umanità.

Mi parve di aver fatto un gran salto in su nella gerarchia scolastica quando invece di alunno di Grammatica potei dire: — Sono alunno d'Umanità, — benchè non capissi punto in quale significato fosse usata quella parola; anzi appunto perchè non lo capivo: cosa frequente anche fra i grandi.

Era entrata quell'anno nelle scuole un'infornata di nuovi professori, la più parte giovani e bravi; tre dei quali nella mia classe, che corrispondeva alla quarta del Ginnasio attuale. Il solo professore di lettere italiane e latine non era nè giovane nè bravo, sebbene non mancasse nè di coltura nè di buon volere; era uno di quei molti insegnanti a cui manca l'arte specialissima dell'insegnamento, rara a trovarsi perfetta, anche fra gli uomini di gran levatura, come le voci di tenore; tanto ch'io dubito che Dante sarebbe stato un buon professore di Liceo. A quello poi non mancava soltanto l'ispirazione, ma addirittura il calorico animale; una tinca fredda, l'avrebbero chiamato in Toscana. Per questo rispetto era un vero originale, e perciò ne faccio lo schizzo. Egli insegnava letteratura come avrebbe insegnato computisteria; nessuna quistione d'arte o di storia letteraria, nessuna bellezza poetica lo faceva mai uscire neppure un momento dalla sua quiete beata, nè alterava la grave monotonia della sua voce che rassomigliava al rumore d'una macchina da cucire, nè la placidità immobile del suo buon faccione di padre guardiano. E in questa maniera otteneva effetti maravigliosi. Pareva che con la sua voce si espandesse nella scuola un'esalazione continua di cloroformio, che assopiva gli spiriti più vivaci, domava a poco a poco i temperamenti più irrequieti e otteneva una disciplina di convento. In anni posteriori conobbi parecchi altri insegnanti della stessa natura; ma nessuno dotato d'una tal potenza addormentatrice. Era contento di noi, diceva che eravamo una scolaresca tranquilla. E sfido: egli ci recideva ogni forza di ribellione come per virtù di magia. Ma lascio immaginare che buon pro facessero la letteratura italiana e la latina servite in una tal salsa di papavero.

C'era per altro chi ci svegliava. Era il professore d'aritmetica, un omino tutto nervi, con una bella testa riccioluta, elegantissimo, pieno d'ingegno e d'argento vivo; il quale si fece poi un nome nelle matematiche. Questi insegnava mirabilmente; ma era impaziente come un poledro stallino e rabbioso come un gallo andaluso. Inclinato per la sua natura violenta a picchiare, ma rattenuto dalla prudenza, ed anche dalla buona educazione, aveva trovato, per sfogarsi, qualche cosa di mezzo tra la percossa, che era proibita, e gli epiteti forti, che non gli bastavano: il pizzicotto; ma non quello semplice, che sarebbe stato una bazza: una specie di pizzicotto rotatorio. Quando lo scolaro chiamato alla lavagna non capiva le sue spiegazioni, egli s'alzava, gli afferrava il braccio sotto alla spalla con l'indice e il pollice, e stringeva e torceva fin che quegli capisse. In quell'esercizio, ch'egli faceva certo da parecchi anni, le sue dita avevano acquistato una forza di tanaglie. Era un'idea sua che la matematica si dovesse inoculare in quella maniera, come il vaccino. Dopo due mesi di scuola eravamo quasi tutti segnati, tanto che ai primi calori, quando ci andavamo a bagnare nel torrente, i suoi alunni si riconoscevano fra quelli delle altre classi, alla bollatura, come i giumenti delle mandre argentine, e si poteva anche distinguere fra di essi, alla maggiore o minore estensione e intensità di colore dei lividi, il diverso grado di disposizione che avevan per la scienza. E ciò non ostante, gli volevan tutti bene perchè del suo insegnamento tutti s'avvantaggiavano. Egli ci faceva veder le stelle, ma anche capir l'aritmetica, ed era anche giusto, perchè pizzicottava signori e poveri diavoli con egual vigoria. Per nulla al mondo l'avremmo voluto cambiare con un professore di mano più dolce, ma di metodo didattico meno efficace; tanto è grata la gioventù scolastica a chi le agevola lo studio, anche martirizzandole le carni.

Un altro professore valentissimo, anzi perfetto, era quello di storia; il quale provava mirabilmente col fatto come il miglior mezzo di tener la disciplina sia la fermezza del carattere e la dignità delle maniere. Egli aveva tutti i giorni lo stesso viso e lo stesso umore, come un uomo in cui non potesse alcuna passione; non pizzicava, non gridava, quasi non rimproverava neppure: e non di meno, credo che se ci avesse fatto lezione il re d'Italia in persona non avrebbe ottenuto maggior silenzio e maggior rispetto. Entrato lui nella scuola, non rifiatava più nessuno; un suo sguardo severo bastava a rimettere a dovere i più audaci; non lo udimmo dire in tutto l'anno una parola più forte dell'altre. E le sue lezioni eran piacevoli, benchè leggermente colorite di rettorica e fatte con intonazione un po' predicatoria. A renderlo autorevole e simpatico giovava molto anche il suo aspetto, poichè era il più prestante professore della famiglia, un giovane bellissimo, di statura alta e di portamento maestoso, vestito sempre con grande eleganza, e privilegiato d'una capigliatura e d'una barba d'un biondo d'oro, che eran l'ammirazione di tutto il bel sesso e l'invidia di tutta la gioventù brillante della città; e non lasciava trasparire per questo il menomo segno di compiacenza vanitosa o d'orgoglio, chè anzi, s'egli aveva un difetto, era quello di non rallegrar mai la scuola con un sorriso, e di dire anche gli scherzi, rarissimi, e sempre relativi alla sua storia, con una gravità di magistrato. Lo temevamo ed eravamo tutti pieni d'entusiasmo per lui, tanto che una sua parola di lode, un semplice bene o anche solo un cenno approvativo del capo davano pure ai più apatici una soddisfazione grandissima. Mi ricordo che fui veramente afflitto e morso dalla vergogna una volta ch'egli rispose a mio padre, che gli chiedeva informazioni: — Potrebbe fare; ma, Dio buono, è tanto distratto! — e che da quel giorno stetti in iscuola come una statua.

Proprio l'opposto di lui era una povera anima di professor di francese, un'effigie di fattor di campagna cinquantenne, tarchiato e sanguigno, che non riusciva a farci chetare un minuto, e che noi tormentavamo barbaramente, andando alle volte otto o dieci intorno al suo tavolino, con la grammatica in mano, col pretesto scellerato di chiedergli spiegazioni, che chiedevamo apposta tutti insieme ad alta voce. Quando capiva il gioco, perdeva i lumi, scattava in piedi, e si metteva a sprangar calci da tutte le parti e a inseguir l'uno dopo l'altro per darci il resto, saltando in giro per la scuola come un mulo infuriato, fin che andava a ricader sulla sua seggiola sfinito e convulso, trattandoci di vigliacchi e di banditi. Povero professore! E portava per nostra meritata disgrazia degli scarponi di montanaro, che ci sollevavano da terra come palle di gomma, lasciandoci le traccie dell'inchiodatura nei dintorni dell'osso sacro. Ma non ci faceva entrare il francese da nessuna parte. Colpa meno sua che della consuetudine stupida, non ancora smessa affatto, di non dare nelle scuole la grande importanza dovuta allo studio di quella lingua necessaria a tutti; la quale moltissimi debbono studiare in furia più tardi sotto la stretta del bisogno, imparandola male per sempre, e dopo aver fatto una lunga serie di figure ridicole.

Tenorino fallito.

Dallo studio mi distrasse disgraziatamente in quell'inverno l'illusione risuscitata d'avere una bella voce di tenore, in grazia della quale avrei dovuto fra due anni lasciar la filosofia per darmi alla musica; e l'idea del cambiamento non mi atterriva. È quello l'episodio della mia adolescenza che, a ricordarlo ora, mi fa ridere più saporitamente d'ogni altro alle mie proprie spalle. Illusione “risuscitata„ ho detto, perchè l'avevo avuta già tempo prima, essendomi inteso dire fin da piccino che avevo una bella voce, in special modo da mia madre, che spesso mi faceva cantare; ma non m'ero mai curato gran fatto di quel supposto dono della natura. Mi nacque la passione del canto e la speranza di poter far fortuna con l'ugola soltanto in quell'inverno, nel quale mio padre mi condusse varie volte a sentir l'opera in musica; e fu una frenesia vera, come quella dei soldati e della pittura, e che durò dei mesi. Solfeggiavo per tutta la giornata, in casa e per la strada, e per le scale della scuola, e perfino nel teatro, mentre cantavano i miei maestri, e in tutti i luoghi e i momenti in cui potessi non essere udito cantavo con quanta voce avevo in canna, come se mi fossero già pagate le note un marengo l'una. Una vocina passabile l'avevo; ma una miseria, e mancavo d'orecchio: stonavo come un ubbriaco. E capivo bene che, così come era, la mia voce non meritava nemmeno di esser coltivata per spasso, nè per metallo, nè per estensione. Ma con la maravigliosa facoltà che ebbi sempre d'ingannar me stesso mi persuadevo che da una settimana all'altra, per effetto di cause diverse, la voce mi sarebbe venuta come la volevo. Dicevo: — Mi verrà quando smetterò di fumare; — poi: — quando non berrò più che acqua; — poi: — quando non mangerò più dolci, che son quelli che mi rovinano, non altro, — e quantunque dopo ciascuna prova seguitassi a strillare come un uccello spennato vivo, pure persistevo a sperare, accagionando il difetto ora a un raffreddore, ora a una infiammazione di gola, ora all'aver troppo forzato il soffietto. E questa passione tirava con sè un corteo di altre piccole ridicolaggini. Non solo facevo dei gargarismi dalla mattina alla sera, ma imitavo il passo e il gesto dei cantanti; non solo imparavo a memoria, ma mi copiavo in bella calligrafia i libretti d'opera; e non cantavo soltanto in città, ma per sfogare più sfrenatamente le mie forze vocali facevo apposta delle corse in campagna, dove abbaiavo agli alberi per dei quarti d'ora, e mettevo in fuga uccelli da tutte le parti. Ma, ahi! (l'interiezione è imitativa) non ci guadagnavano nulla nè la trachea, nè l'orecchio; mi s'andava anzi sciupando sempre peggio quel filo di voce, che non era al tutto sgradevole prima ch'io fissassi il chiodo di fare il tenore. Infine, mi sentii tanto trattare dai miei compagni di chiavistello arrugginito e di galletto strozzato, e vidi anche nella mia famiglia dei così manifesti segni di sazietà di quel diluvio di stecche false di cui empivo la casa, che mi persuasi di dover rinunziare alla “carriera lirica„ e smontai l'organetto. Ma se perdetti ogni illusione riguardo alla voce, mi rimase sempre un gusto così vivo, anzi una passione così calda per il canto, che anche ora una nota dolce e potente mi fa impallidire dalla commozione, e una voce bella udita di sera per la strada mi fa pedinare il cantante anche per un miglio, ed è quello il dono di natura che, dopo il dono dell'ingegno, invidio di più a chi lo possiede, e ritengo il canto uno dei mezzi più efficaci di educazione dell'animo, e l'ho per uno dei più dolci conforti della vita.

Il Cinquantanove.

Cessato il furore tenorile, ebbi un'altra e ben più potente distrazione dagli studi; la quale, per fortuna dell'Italia, durò assai più lungo tempo dell'altra. Il colpo più funesto al latino lo diede in quell'anno scolastico Vittorio Emanuele, e per l'appunto il primo di gennaio, col discorso memorabile del “grido di dolore„. Entrò da quel giorno nella scolaresca uno spirito di divagazione patriottica, che non riuscirono a frenare neppure i professori più autorevoli; chè anzi lo sovreccitarono spesso, anche facendo scuola, con allusioni agli avvenimenti, e con digressioni politiche, che scappavan loro di bocca come il vino spumante dalla bottiglia. Era come diffuso per l'aria un odor di polvere; il suono delle trombe dei bersaglieri, che passavano vicino al Ginnasio, ci faceva balenar gli occhi e fiorir sotto la penna agitata le sgrammaticature; anche i vecchi professori più sconquassati prendevan nell'andatura qualche cosa di belligero, e noi non ridevamo più per la strada nemmeno delle guardie nazionali panciute, che facevano tre passi sur un mattone. Crebbe ancora il fermento sulla fine di febbraio, quando nella nostra piccola città, fatta sede del maggior deposito dei Cacciatori delle Alpi, cominciarono ad arrivare a frotte i giovani emigrati, la più parte lombardi e veneti, di ogni condizione sociale; i quali portarono come un'onda di sangue ardente nella vita cittadina, e diedero quasi un nuovo aspetto alle strade, ai caffè, a tutti i luoghi di ritrovo pubblico, dove a ogni passo s'incontrava un viso sconosciuto e s'incrociava lo sguardo con due occhi scintillanti d'alterezza e di speranza. Molti di quei visi, parecchi dei quali erano predestinati all'onore del marmo e del bronzo, mi sono rimasti scolpiti nella memoria come visi d'amici intimi. C'erano fra quel migliaio e più di nuovi venuti dei campioni della guerra del '48 e della difesa di Roma; c'erano dei futuri pittori celebri, come l'Induno, il Pagliano, il De Albertis; c'erano il Cairoli e il Bertani, e il De Cristoforis, del quale dovevo legger poi con entusiasmo, alla scuola di Modena, il Trattato della guerra. Ma non ricordo d'aver inteso allora i loro nomi, che erano ancora fiori di gloria in boccio. Il solo nome che correva sulla bocca di tutti era quello del Cosenz, comandante, che rammento d'aver visto più volte in Piazza d'Armi, quando i volontari non vestivano ancora l'uniforme, comandare gli esercizi col tubino e col soprabito nero, come un capo di barricate: una figura svelta e dritta come uno stocco, con un viso grave di filosofo, che molti per le vie salutavano rispettosamente, ricordando le sue prodezze eroiche di Venezia. E anche rammento, quando scomparve sotto il cappotto bigio ogni apparente differenza di condizione sociale fra gli emigrati, lo strano effetto che faceva nel popolino il sentir dire dell'uno e dell'altro di quei soldati semplici: — Questo è un avvocato. — Quello è un medico. — Quello là è un professore. — Quello lì è un signorone. — Ciò che valeva più d'ogni discorso o articolo di giornale a dare alla gente incolta un'idea della grandezza degli avvenimenti che si preparavano, e faceva rivolgere dalle signorine a quei rozzi cappotti certi sguardi di curiosità romantica, dei quali prima d'allora non avevano onorato mai la “bassa forza„. Beati giorni, che risplendono come zaffiri nella corona delle nostre più care memorie.

*

L'agitazione della scolaresca giunse al colmo nel marzo, quando, richiamati alle armi i contingenti, si videro arrivare i bersaglieri delle classi congedate, uomini fatti, anneriti dal sole dei campi, con le tuniche logore, coi cappelli spelati, con le scarpe contadinesche, molti con le medaglie di Crimea dai nastri sbiaditi: d'aspetto così grave la più parte, che parevano i padri dei soldati in servizio, di cui venivano a ingrossare le file. E qui mi ricordo d'un fatto, che mi fece un gran senso, e che prova come neanche in Piemonte, e neppure per le guerre più popolari, ci sia mai stato un grande ardore guerresco nei vecchi soldati che erano strappati ai figliuoli e ai loro campi e mandati a farsi ammazzare; quantunque poi, per sentimento del dovere, si portassero così bravamente che l'entusiasmo non avrebbe potuto fare di più. Era una sera di domenica. Un gran numero di quei richiamati, ancora senz'armi, passeggiavano a coppie e a drappelli per la strada principale, affollata di gente. A un certo puto vidi sventolare una bandiera, aprirsi la folla e venire avanti un folto stuolo di cittadini, ordinati in quattro file, che cantavano l'inno del Mameli; tutti signori in cilindro e in pastrano, fra i quali riconobbi con piacere alcuni dei professori del Ginnasio: quello di matematica il primo. Mentre mi passavano davanti, da un gruppo di vecchi bersaglieri che mi stava accanto uscì qualche apostrofe a voce alta, in tuono di sarcasmo: — Già, è comodo di cantare! — Loro cantano e noi andiamo a dare la pelle. — Vengano con noi a battersi invece di far del baccano. — Il drappello s'arrestò, disordinandosi; i dimostranti risposero; s'attaccarono vari battibecchi vivaci. Alcuni dei signori, risentiti, rinfacciavano ai soldati di mancar d'amor di patria; altri, più pacati, cercavano di rabbonirli, persuadendoli che non tutti avevano il dovere, che non a tutti era possibile d'andare alla guerra, e qualcuno diceva loro che s'era battuto anche lui nel '48 e nel '49. Ma i soldati parevano poco persuasi, rispondevano brontolando e alzando le spalle. Ciò che mi fece più maraviglia in quel contrasto doloroso fu la bella disinvoltura con cui alcuni dimostranti brizzolati e panciuti assicuravano, picchiandosi la mano sul petto, che sarebbero andati alla guerra essi pure, mentre si capiva dai loro faccioni pacifici che non si sognavano neppure una mattata compagna. E ripetevano con calore: — Ci rivedremo al campo! Ci rivedremo al campo! — Vedo ancora gli sguardi di diffidenza coi quali i soldati misuravano le loro rotondità, come se domandassero a sè stessi in quale campo avrebbero mai potuto rivederli, non stimando che fossero pance da arrolarsi nei bersaglieri. Il litigio durò finchè si avvicinarono due tenenti, alla vista dei quali i bersaglieri si sbandarono. Povera gente, chi sa che alcuni di loro non siano caduti i primi sotto le palle austriache all'assalto di San Martino! Quella scena mi lasciò addolorato e turbato da molti pensieri confusi; da questo fra gli altri: che, perchè una guerra fosse veramente nazionale, si dovrebbe andare a battere molta gente la quale rimane a casa, e che, in ogni modo, sarebbe delicatezza e prudenza che quelli che rimangono non cantassero troppo forte passando davanti a quelli che partono.

*

Un altro mio ricordo vivissimo è quello della venuta di Garibaldi; ma mescolato d'un forte amaro. Venne un giorno d'aprile a passare in rivista i Cacciatori delle Alpi; ma quasi di nascosto, avendo pregato prima che non si annunciasse la sua venuta, e non si trattenne tra noi che poche ore. Da noi scolari non si seppe ch'era in città che quando aveva già fatto la rivista e smesso la divisa di generale. Ero con un compagno sur un viale della Piazza d'Armi quando alcuni ragazzi, accennando una carrozza che passava di corsa, si misero a strillare: — Garibaldi! Garibaldi! — e noi dietro a tutte gambe.

.... Come s'andava un lo poi rede'.

Si fece non so quanta strada battendoci le mele coi tacchi, finchè ci mancarono le forze e cascammo sulla proda d'un fosso, anelando, come due levrieri sfiancati. Quando ripigliammo la corsa, il Generale era già all'albergo a desinare, e il desinare chiamava a casa anche noi: egli partì la sera stessa. Ci pigliammo un'arrabbiatura da morderci i gomiti. Il giorno dopo ripassammo per tutte le strade dov'egli era passato, come per fiutare le sue tracce. Ci fu detto che era andato a visitare una rivenditrice di commestibili, soprannominata la Pasqualina, che aveva bottega sotto i portici; un pezzo di donna tarchiata e fiera, che tutta la città conosceva e rispettava perchè uno dei suoi figliuoli, Paolo Ramorino, era stato commilitone e amico di Garibaldi in America, ed era morto eroicamente alla difesa di Roma, combattendo al fianco di Luciano Manara. Arrivammo subito dalla Pasqualina, e la trovammo là davanti alla bottega, attorniata da molti curiosi, ai quali accennava un sacco di riso sul quale s'era seduto Garibaldi il giorno avanti, discorrendo con lei. Ah, fortunata Pasqualina! Come ci parve bella e gloriosa! Stemmo là un pezzo a contemplar lei e il suo sacco, e poichè avevo qualche soldo in tasca, mi balenò l'idea di comprare un etto di quel riso memorando, che aveva avuto l'onore di far da cuscino all'Eroe di Sant'Antonio. Ma il mio compagno, che conosceva l'umore della brava donna, me ne distolse, osservando che ella avrebbe potuto pigliare la cosa come una canzonatura e risponderci con una ceffata, che non sarebbe stata di natura femminile. E così, miseramente, terminò la nostra spedizione; la quale fu anche più sventurata ch'io non potessi allora pensare, perchè non mi si doveva offrir modo mai più d'appagare il mio ardente desiderio. Parrà incredibile, ma è così: per una serie di accidenti e di contrattempi maledetti, qualche volta per il ritardo d'un minuto, qualche altra volta per un impedimento materiale futilissimo, quella sfortuna si ripetè dieci volte nella mia vita. Ho un rimpianto nel cuore e lo confesso con un sentimento di vergogna, come una colpa: non vidi mai Garibaldi!

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Mi stupisce come non mi sia rimasto alcun ricordo della forte impressione che mi fecero certamente le descrizioni dell'arrivo dei Francesi a Torino e le prime notizie delle battaglie di Montebello, di Palestro, di San Martino. Su questi ricordi, che debbo aver serbati vivi per un pezzo, s'è distesa, non so quando nè come, una nuvola fitta, che non m'è riuscito mai di diradare. Mi rammento solo del primo annunzio della vittoria di Magenta, che mi fu dato da mio padre, su per la scala, con una esclamazione enfatica, tendendo un braccio in alto, e sclamando: — Siamo a Milano! — Ma non c'è da meravigliarsi, chi ci rifletta, di queste eclissi di certi grandi avvenimenti nella nostra memoria, perchè è una illusione quella per cui pensiamo che noi risentissimo allora al loro annuncio, noi, come tutta l'altra gente, una commozione infinitamente maggiore di quella che ci desta il loro ricordo, e che dovessimo quasi non viver d'altro, in quel periodo di tempo, che di quelle commozioni. Come, guardando una fuga di colonne da un capo della via, non vediamo gl'intervalli che separano quelle lontane, che ci appaiono congiunte, così non vediamo più fra quegli avvenimenti passati i larghi spazi di tempo, durante i quali eravamo tutti assorti, come nei tempi ordinari, nelle nostre faccende e nei nostri piaceri, che avevano pur sempre in noi il sopravvento sui nostri pensieri e affetti di cittadini; e neppure consideriamo, d'altra parte, che la lunga aspettazione e la frequenza stessa di quei grandi fatti ci avevano come stancata la facoltà sensitiva, e reso l'animo in certo grado indifferente anche alle cose più straordinarie.

Ciò che non ho dimenticato è lo spettacolo dei frequenti Te Deum che si cantavano nel Duomo, e a cui intervenivano con grande solennità e in abito di gala tutte le autorità civili e militari; fra le quali spiccava la bella testa bruna del nuovo provveditore degli studi, venuto quell'anno, Domenico Carbone, che è rimasto una delle memorie più luminose e più care della mia adolescenza. Quanto bene, anche fuor dell'insegnamento diretto, può fare a una scolaresca un uomo d'intelligenza eletta e di alto carattere! La venuta di quel provveditore, coronato della doppia gloria di poeta e di combattente volontario del 1848, e preceduto dalla fama d'uomo integro e buono, ancor giovane, bello della persona, amorevole e severo ad un tempo, e pieno di nobiltà nelle parole e negli atti, aveva portato come un'onda d'aria pura e vivida in tutte le scuole. In ogni scuola dov'egli entrasse e discorresse, lasciava un ardore di buona volontà e di nobile ambizione, e quasi un profumo di gentilezza, che penetrava in fondo agli animi. Egli fece dei miracoli: convertì dei discoli che nessuno aveva mai domati, svegliò delle volontà che parevano addormentate per sempre. Tutti i poveri angariati, che sono in ogni scolaresca, tutte le vittime derise della prepotenza dei compagni e dall'antipatia dei maestri, anche prima d'aver esperimentato la sua bontà, si sentivano protetti dalla sola sua presenza, e prevenivano, pronunciando solo il suo nome, molte ingiustizie e molte bricconate. Tutti lo amavano e lo riverivano. Ci affollavamo sui pianerottoli per vederlo passare; per la strada, facevamo apposta delle corse e dei giri per passargli davanti e salutarlo; e quando nel Duomo, ai Te Deum, egli compariva primo nel banco dei professori e girava sugli scolari accalcati quei due grandi occhi austeri e leali, con quel buon sorriso che diceva: — Ecco i miei figliuoli — gli rispondeva il nostro cuore con un fremito di simpatia e d'alterezza. Se si potessero fabbricare degli uomini simili invece di rimpastar programmi e regolamenti!

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Racconto un fatterello che lo riguarda, non tanto per far onore a lui, quanto per far ridere a mie spese; chè ci provo piacere ormai, come i flagellanti d'un tempo a farsi frizzare la pelle.

Avevamo da anni un viceprovveditore prete, caldo più di morbin che di ardor cattolico, che portava la tonaca come una camicia di forza: non punto cattivo in fondo, ma assai piccoso, e invasato dalla smania di fare il terribile; ciò che otteneva più che altro con certe minaccie piene di mistero e con certe stralunature d'occhi da Luigi undecimo da arena. Contro costui aveva scritto una poesia satirica, che girava per le scuole, un alunno di filosofia, che io bazzicavo, essendo in relazione d'amicizia le nostre famiglie. Smanioso di legger la satira, il reverendo pensò di strapparla a me spaventandomi, e, mandatomi a chiamare in provveditoria, a un'ora che non c'era nessuno, m'ingiunse con parole solenni di portargli il corpo del reato, pena la bocciatura agli esami finali, prefiggendomi per giunta il giorno e l'ora della consegna, nell'ufficio stesso. Uscii dal colloquio con la tremarella in corpo, egualmente sgomentato dalla minaccia della vendetta e dall'idea dell'azione ignobile che mi sentivo inclinato a commettere, e passai la giornata intera in uno stato d'incertezza angosciosa. Ma il giorno dopo mi lampeggiò l'idea salvatrice: — Domenico Carbone! — Ero ben certo che egli avrebbe disapprovato l'atto del prete e non condannato la mia disobbedienza; nè avevo bisogno di far grave la cosa, ricorrendo a lui formalmente. Sapendo che all'ora fissata per la risposta egli era sempre in ufficio, col mio babau e col segretario, pensai che se avessi esposto il mio rifiuto con qualche frase oratoria, a voce scolpita, in modo da farmi sentire da lui e da costringerlo a domandare di che si trattasse, io sarei stato salvo e l'amico nelle peste. Eureka! In verità, per un ragazzo di tredici anni, non c'era male. E non solo mi sentii salvo da quel momento, ma, confondendo le carte nella mia coscienza, come fanno spesso gli uomini in tali casi, mi parve d'essere un'anima spartana, e preparai nella mente una risposta eroica, un “pistolotto„ da primo attore, che mettesse in luce gloriosa la nobiltà del mio carattere.

All'ora fissata entrai nell'ufficio, pestando i tacchi, come per far suonare gli sproni. Erano seduti a un grande tavolo, da una parte il Carbone e il segretario, che discorrevano fra di loro, dalla parte opposta lo spaventaragazzi, che in quel momento mi fece pietà. Questi mi fece cenno che m'avvicinassi, e mi domandò sotto voce “se avevo portato„.

M'impostai bene, e alzando la cresta e adocchiando dalla parte del provveditore, risposi con voce grossa: — Non ho portato; ho pensato che avrei commesso un'azione....

— Basta, basta — disse il prete, accennandomi con la mano che tacessi.

E io, alzando ancora la voce: — Ho pensato che avrei commesso un'azione.... un'azione....

— Ma basta, le ripeto; non occorre altro....

Ma io avevo l'abbrivo, e poichè il provveditore s'era voltato, volevo fare il colpo a ogni costo. E rincalzai: — Avrei commesso un'azione indegna.... tradito un amico....

— Ma vada, le dico! — mi gridò il prete stizzito e rosso in viso. — Poichè le ho detto che non occorre altro, vada una buona volta....

Allora me n'andai, ma lentamente, e a passi maestosi, come dev'essere uscito Pier Capponi dalla presenza di Carlo ottavo, voltandomi ancora di sull'uscio a guardare il vinto, che mi lanciò un'occhiata da darmi il fuoco.

Non seppi poi mai se il provveditore avesse chiesto e avuto spiegazione della cosa; ma non c'è dubbio che l'altro aveva capito la mia politica. Il fatto è che non ebbi più molestie per quella faccenda, e che agli esami, benchè a scappellotto, come al solito, fui promosso. Ed ecco come fra tante altre buone azioni l'autore del Re Tentenna, senza saperlo, fece anche quella di non lasciarmi commettere una birbonata.

*

Cavalier che hai bianca fede

Come bianca è la tua croce,

Tu d'eroi gagliardo erede,

Tu all'oppresso amica voce,

Tu sgomento all'oppressor....

Ricordo questi versi d'una bella poesia a Vittorio Emanuele che pubblicò il Carbone in quell'anno, e che tutti gli scolari impararono a memoria. La guerra aveva dato la stura, anche in quella piccola città subalpina, a un torrente di lirica patriottica. Professori, impiegati della prefettura, avvocati, ufficiali dei bersaglieri, tutti sfornavano rime guerresche. Non si raccoglievano venti cittadini intorno a un risotto alla milanese senza che qualcuno trombettasse una filastrocca di strofe, che poi andavano attorno manoscritte o stampate, a rinfiammar in molti l'odio contro l'Austria, in alcuni l'odio contro le Muse. Ma, dopo il Carbone, uno solo di quel vespaio di poeti m'è rimasto nella memoria. Lasciate che io ve lo presenti, ve ne prego, perchè il ricordo di lui, che è un conforto della mia vita, potrà mettere qualche dolcezza anche nella vostra. Era il professore di filosofia, uno dei più ameni originali che abbiano mai rallegrato le scuole del Regno, un cinquantenne zazzeruto, con mezzo il capo sempre insaccato in una tubaccia rugosa, che gli pareva inchiodata sul cranio, e vestito tutto l'anno d'un certo biracchio nero che gli dava alle ginocchia e mostrava l'ordito; un uomo che sarebbe divenuto famoso nella città non per altro che per un suo gesto abituale comicissimo, che era di ripiegare un braccio in alto col pugno chiuso, e di battersi dei gran colpi sul gomito con l'altra mano, come.... se volesse sculacciare la propria immagine; un curioso professore e educatore, il quale, sul serio, domandava ai suoi alunni più sodi dei pareri amichevoli intorno al modo di regolarsi con una vedova ch'egli corteggiava, e che non sapeva decidersi a sposare, perchè aveva un orario di pasti che non s'accordava col suo; il più clamoroso dei filosofi, come lo chiamavano i suoi colleghi, perchè urlava la filosofia con una tal potenza di polmoni da coprir la voce di tutti i professori delle classi vicine. Ma non son nulla tutte queste stranezze appetto all'originalità inimmaginabile dei suoi versi, che tutti i suoi scolari recitavano, facendoci delle risate da slogarsi le mascelle. Che peccato non averne più copia! Ma non li ho tutti dimenticati, grazie al cielo. Ricordo una strofa d'un inno al generale Petitti, che diceva:

Natura ti diè nome

Petitti, ma sei grande

E il nome tuo si spande

Per l'aula elettoral;

due versi in lode a Garibaldi:

Tua venuta a queste sponde

Bianca in pietra fia segnata;

e pochi versi d'un'altra poesia in onore della città di Bene, la quale si distende, a quanto egli diceva, sopra sette colli; ciò che dava al poeta il pretesto di farle quest'ardito complimento: che Roma era stata eletta in luogo di lei capitale d'Italia per un equivoco. Era vaticinato, diceva.

Che d'Italia fia regina

Tal cittade, che sia posta

Sopra sei e una collina,

E Cavour la credè Roma,

Ignorando i sette in Bene

Colli aprichi, e la gran soma

Di virtù che ascose tiene.

Sulla qual modestia della città insisteva con quest'amore di strofa:

Bene fa, e n'ha più merito

Perchè tien nascosto il bene;

Chi rimira il suo preterito

Forse ciò a capir non viene....

Come potesse insegnar la filosofia un professore che trattava la poesia in questa maniera, benchè non siano sorelle gemelle, non si capisce; eppure dicevano che non c'era gran male. Misteri della mente umana. Povero poeta dei sette colli in Bene! Ebbi l'ultime notizie di lui molti anni fa, a Torino, dove mi dissero che, avendo ricorso per non so che affare a certi falsi spiritisti birboni, costoro, per spillargli dei quattrini, lo avevan fatto bastonare dallo spirito che aveva evocato, e non già con un bastone spirituale, ma con un vero e nodoso ramo di frassino, che l'aveva messo a letto per una settimana.

Petitti guai della filosofia.

Attore drammatico.

La poesia patriottica aveva invaso quell'anno anche il teatro, dove, succeduta all'opera la commedia, non passava quasi settimana che non fosse declamata dal primo attore qualche lirica d'argomento nazionale, accolta sempre con applausi frenetici. E così m'entrò anche l'assillo della declamazione. Avevo creduto d'esser nato pittore, e poi tenore; credetti pure per un pezzo d'esser destinato alla carriera drammatica. Ero in questa illusione più scusabile perchè, se non avevo voce per cantare, per declamare n'avevo fin troppa, e non ne facevo risparmio. Fu anche questo un furore da far desiderare che fossi nato afono. Sceglievo i passi delle tragedie in cui occorresse un maggiore sforzo di mantice, e di preferenza quelli in cui il personaggio delira, come il soliloquio di Saul e quello di Aristodemo nell'ultim'atto, per poter tonare più forte. La mia specialità, come ora si dice, era il delirio dei re. Si sottintende che ero un cane. Ci accozzammo parecchi compagni, tutti malati della stessa febbre, e ululammo insieme tutto l'autunno, ora in casa dell'uno ora dell'altro, e spesso anche nel ghiareto del torrente e del fiume, dove le pietre, per nostra fortuna, non si potevano muovere. Ma il nostro teatro preferito, poichè ci potevamo sbraitare senz'essere uditi, era veramente degno dell'arte nostra: era una stalla in fondo al cortile di casa mia, dove i tabaccai dei villaggi riparavano durante il giorno i muli e i cavalli. Disgraziato Alfieri! E infelice Berchet! Poichè s'espettorava pure molta lirica. Ma proprio sul serio io mi credevo chiamato a una grande carriera tragica. E mi frullavano sotto i capelli le idee più temerarie: di dare un saggio di declamazione nel Teatro Civico, di smetter gli studi e di entrare in una compagnia drammatica, di formare io stesso una compagnia unisessuale coi miei quattro sbraitoni e di trovar dei “capitalisti„ per fabbricare un teatro apposito. E sarebbe stato strano che fra tante idee matte non mi fosse saltata anche quella di scrivere un dramma. L'idea mi saltò. Non ricordo bene quale soggetto avessi escogitato: ricordo soltanto che era un dramma cruento, e che la parte del protagonista l'avrei dovuta far io: condizione sine qua non, da imporsi al capocomico che avesse avuto l'onore di metterlo in scena. Caso senza esempio, credo, nella storia degli autori drammatici: anche prima di mettermi a scrivere il dramma io feci il cartellone — un annunzio in caratteri cubitali sopra un lenzuolo di carta — per avere un'idea dell'effetto che avrebbe fatto alle cantonate, e m'esercitai a emettere certe grida di disperazione e di terrore, che non sapevo ancor bene a che proposito, ma dovevan sonare assolutamente in certe scene, e (voglio esser sincero fino in fondo) feci molte prove del passo con cui mi sarei presentato alla ribalta e dell'atteggiamento modesto e dignitoso ad un tempo, col quale avrei ringraziato il pubblico strepitante dall'entusiasmo. Tutto era pronto, in fine: non restava che un accessorio: quello di scrivere il dramma. Dio m'assistè: non ne scrissi che la prima scena. Ma non cadde l'illusione dell'attore con la lena del drammaturgo: il mio vaneggiamento e il mio abbaio drammatico continuarono fino all'apertura del nuovo anno scolastico. I primi freddi e i primi pensi, non so come, mi levarono dal capo per sempre il ruzzo della recitazione, e salvarono così Ernesto Rossi e Tommaso Salvini da una vecchiaia avvilita.

Nuove amicizie e nuove grullerie.

Entrando nella classe di rettorica ebbi la prima mattina una sorpresa gradita. Nel far la chiamata degli alunni il professore lesse un nome che ci fece voltar tutti con viva curiosità verso il chiamato: — Angelo Brofferio. — Gli domandò il professore se fosse figliuolo del Brofferio deputato: rispose di sì. Fummo tutti colpiti dalla grande rassomiglianza che egli aveva col padre, che noi conoscevamo, più che dalle fotografie, dalle caricature frequentissime del Fischietto e del Pasquino: di profilo era tale e quale. Aveva una testa molto grossa, che pareva anche più grossa in confronto del corpo piccolino; un viso lungo, di lineamenti e d'espressione virili, rocchio bruno, la bocca arguta, un sorriso benevolmente canzonatorio. Egli si mostrò fin dai primi giorni d'ingegno aperto e pronto, e parlatore facile, con alcun che d'avvocatesco nell'intonazione e nel gesto, affabilissimo coi compagni, non punto orgoglioso della fama del padre, che era allora popolarissimo, in specie per le canzoni piemontesi; molte delle quali, cantate per i caffè e per le strade, noi sapevamo tutti a memoria. Finito quel corso, andò a compiere gli studi altrove, e io non n'ebbi più notizia che dopo circa trent'anni, quando, professore di filosofia a Milano, se non erro, egli pubblicò un libro dotto e brillante sullo Spiritismo, che fece molto rumore. Ricordo che, bravo in letteratura, egli aveva pure un'attitudine particolare alle matematiche. E m'illusi d'avercela anch'io in quell'anno, che era l'anno dell'algebra. Avendo avuto mio padre la buona idea di mandarmi durante le vacanze a prender lezioni d'algebra da un geometra suo conoscente, io ero entrato nel corso già infarinato della materia; in grazia di che avevo nei primi mesi riportato qualche successo onorevole alla prova della lavagna, salvandomi dai pizzicotti professorali. Questo era bastato a farmi credere che mi fosse dato fuori a un tratto il bernoccolo della matematica, e lo credetti tanto che ebbi l'audacia di fondare un periodico bisettimanale (di tiratura modesta, poichè n'usciva un numero solo, manoscritto), nel quale rifacevo le lezioni ad uso dei pizzicottati. Ma quest'illusione durò anche meno dell'altre perchè, non avendo studiato nelle vacanze che fino all'estrazione delle radici cubiche, quando si arrivò a questo punto del programma mi ritrovai da capo al livello degli altri.... e i pizzicotti ricominciarono. Ricominciando i pizzicotti, cessò il giornale. Ma non importa: consiglierò sempre ai padri di far preparare nell'estate i ragazzi agli studi più difficili del nuovo anno scolastico, perchè anche la più leggiera preparazione riesce loro di giovamento grandissimo, preservandoli dal danno grave di rimanere addietro al primo intoppo.

Ma, ahimè! anche dallo studio dell'algebra troppe cose mi dovevano distrarre quell'anno. Fatto già quasi un giovanotto, e tale parendo per la statura, che era d'un uomo, io andavo allargando di giorno in giorno il cerchio delle mie amicizie, e le nuove erano assai più pericolose delle altre, perchè eran fuori del giro della scuola. Le prime di queste, e le più care, furon le amicizie militari. C'erano allora fra i bersaglieri volontari, e anche fra quelli di leva, molti giovani di famiglia signorile: studenti smessi, laureati, artisti drammatici, pittori, tutti più o meno intinti di letteratura, e tutti caldi d'un entusiasmo patriottico, che dava un'impronta di nobiltà d'animo anche ai caratteri più leggieri. Stretta relazione con uno di essi, venivan gli altri come le ciliege. Con questi conobbi la prima volta il piacere e l'alterezza dell'amicizia virile. Nascondevo con loro i miei tredici anni; mi davo l'aria d'uno studente già esperto del mondo; ero tutto contento di farmi vedere alla passeggiata in loro compagnia, appoggiando il braccio sopra un braccio gallonato, con la tesa del cappello accarezzata dagli svolazzi d'un grande pennacchio, e mi pareva di fare una prodezza di brillante scapigliato trattenendomi mezz'ora con essi davanti a un caffè, all'uscita del teatro, come se tutti i passanti avessero dovuto dire: — Chi sa mai dove passerà la notte quel collorotto? — Di una di quelle sere mi ricordo in particolar modo perchè fui presentato da un sergente a un bel giovanotto, alto e elegante, impiegato al Commissariato militare; il quale si chiamava Ugo Iginio Tarchetti. Era il futuro autore dei Drammi della vita militare e di Tosca, il poeta forte e triste, che doveva morir nel fior dell'età, appena baciato dalla gloria. Chi m'avrebbe predetto allora ch'io avrei scritto dieci anni dopo un libro di spirito affatto opposto al suo, che saremmo stati citati mille volte come due antagonisti, e che, dopo averlo tenuto in conto d'un nemico mentr'era vivo, io l'avrei amato, morto, come un fratello!

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Entrai allora in quel breve periodo il quale corrisponde negli adolescenti a quello in cui le ragazze cominciano a stringersi il busto e a mettersi dei fiori nei capelli: il periodo in cui diventa il mobile più importante della casa lo specchio. Per quanto sia in vena di confessioni non oso di dire fino a quale altezza di grulleria io sia salito in quella fase di luna, quanto tempo ci mettessi a farmi il nodo della cravatta, quante volte tornassi indietro a raggiustarmi il cappello davanti alla specchiera prima d'uscire di casa, e quale sciupio abbia fatto delle pomate e delle acque d'odore delle mie sorelle, e quali torture abbia sofferto nella prigione di san Crispino per fare il piedino aristocratico. Molti padri e madri, quando i loro figliuoli piglian quella passione, credono di guarirli mettendoli in ridicolo e trattandoli dalla mattina alla sera d'imbecilli. È una sciocchezza, che i miei non commisero, comprendendo che era una malattia dell'età, come uno sfogo cutaneo: finsero invece di non badarvi, non scambiandosi che qualche sorriso discreto quando io chiedevo una cravatta nuova o un paio di scarpe di marocchino; sorriso che non mi sfuggiva. E li lodo ora di quella indulgenza, che non fu l'ultima delle cause per cui la malattia non fu lunga, perchè, umiliandomi, l'avrebbero inasprita. Certo, tutta quella ripicchiatura di paino e quei bagni quotidiani d'acqua di Colonia non miravano a guadagnarmi le grazie dei miei amici bersaglieri. Fu quello il secondo periodo degli innamoramenti platonici, spinti fino alle passeggiate sotto le finestre e alle “pedinature„ furtive e alla contemplazione estatica dei palchetti del teatro: amori repentini, languidi e mutevoli, anzi procedenti non di rado a coppie, e anche a triadi, facilissimi alle più insensate illusioni, pasciuti per settimane d'uno sguardo incontrato a caso o d'un sorriso forse più di canzonatura che di simpatia, e atteggiati di mestizie soavissime o di tetre tristezze, imparate nei libri. Ah, che bell'attore! Mi è uno spasso il ricordare le mie avventure d'immaginazione di quell'anno di bollori. Ebbi più amori io che don Juan Tenorio e Luis Mendía messi insieme. Il mio cuore ospitò più bellezze che il serraglio imperiale del Bosforo. E i miei sospiri amorosi si levavano a tutte le altezze: una settimana era la figliuola del prefetto, un'altra la moglie del professore; succedeva alla prima attrice la prima ballerina, all'istitutrice d'una casa nobile la vedova d'un colonnello. E con le adorazioni del passeggio e del teatro andavano di passo le adorazioni di casa. Quando veniva una bella signora a far visita a mia madre, non scappavo più in cortile, come per il passato, per sfuggire alla noia dei discorsi soliti: stavo lì ribadito sur una seggiola ad ascoltare il chiaccherìo della visitatrice con gli occhi come due lampioni, e con una immobilità di magnetizzato, di cui non sfuggiva il senso alle più accorte; le quali scansavano il mio sguardo indiscreto con un sorriso a fior di labbra, e, stringendomi la mano all'atto di andarsene, mi dicevano con una rapida occhiata indulgente: — Ho capito, piccolo impertinente; faresti meglio a studiare il latino. — Proprio, avevo un debole per le donne maritate, e più per quelle che portavano indosso una parte maggiore dello stipendio del marito. È incredibile il numero di mariti rispettabili che ho oltraggiati nel mio cuore. Se tutti i miei amori di fantasia avessero avuto effetto, e mi fossi dovuto battere, avrei avuto un duello ogni settimana, e a andar bene bene, mi sarei ridotto un crivello ambulante avanti d'aver finito il ginnasio. E non nel cuore, ma nel cervello, erano così vivi, benchè rapidissimi, questi amori, che n'avevo spesso la coscienza turbata, come di colpe vere; arrossivo fino ai capelli incontrando per la via certe coppie coniugali; mi pareva alle volte d'essere veramente un dissoluto senza freno nè legge, insidiatore di talami e scandalo della gente onesta, di reputazione perduta, e ne sentivo non di meno una vanagloria segreta, come se soltanto con una coscienza così fatta uno si potesse vantare d'esser uomo.

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L'uomo, peraltro, non era ancora che un lungo bambino, il quale seguitava a baloccarsi per ore intere con tutti i giocattoli che gli eran rimasti dell'età infantile, coi fantocci, con le trottole, con le palline di vetro e perfino con le oche di carta. Per darmi questi spassi mi nascondevo, e quando mi coglieva sul fatto qualcuno della famiglia, riponevo ogni cosa in furia, vergognandomi, e fingendo d'aver tirato fuori quelle carabattole per curiosità di filosofo, amante di meditare sul proprio passato. Ma non mi vergogno ora che conosco il mondo e la vita, di dire che quell'amore dei trastulli fanciulleschi mi rinacque a quando a quando fin quasi ai trent'anni, che, già reo di parecchi libri, mi divertivo per delle mezz'ore a far saltare sul tavolino di quei ranocchi di legno, che hanno sotto il filo attorto e la bacchettina cerata, e che pure adesso, qualche volta, passando davanti a una bottega di giocattoli, sento delle tentazioni straordinarie. E perchè me ne dovrei vergognare? Gli uomini non sono che ragazzi invecchiati, che nascondono la loro fanciullaggine sotto un'apparenza di gravità, e che ogni qualvolta possono, di nascosto, ci si abbandonano con un piacere infinito. E in fondo, poi, il fantasticare, come tutti sogliono, delle cose strane e impossibili, ma ardentemente desiderate, non è che un baloccarsi con idee ed immagini; e lo scrittore di libri che tra un periodo e l'altro scarabocchia dei pupazzetti o fa delle greche sui margini, si balocca come un ragazzo; e si balocca il ministro di Stato che nei momenti d'ozio piega e ripiega in dieci forme un giornale o suona il tamburo sul banco col tagliacarte, come faceva il conte Cavour, durante i discorsi dei deputati seccatori. Io credo che a chiudere in una stanza nuda l'uomo più serio del mondo con una scatola di soldatini di piombo, viene il momento che li tira fuori, e li schiera, e li fa armeggiare come un bambino di sei anni. Quella passione persistente dei trastulli infantili giovò a divagarmi alquanto dagli amori, e fu per me un calmante salutare. Ah, se una di quelle molte signore a cui facevo gli occhi di triglia al teatro, pigliando delle impostature da trovatore, m'avesse visto far correre sul tavolino per tutta una mattinata delle file di noci, sulle quali avevo appiccicati dei pezzetti di carta dorata, per rappresentare gli stati maggiori degli eserciti combattenti in Lombardia, che bella risata argentina m'avrebbe data in faccia, e che bel colpo d'ombrellino, forse m'avrebbe assestato sulla nuca! Ma si guardino le mamme dal ridere e dal far vergogna ai figliuoli grandi quando li vedono occupati in trastulli che credono indegni della loro età, e indizio di poco cervello; chè quello è anzi segno d'una semplicità d'animo, d'una vivacità d'immaginazione, d'una facoltà di dar corpo a dei cari fantasmi e di vivere col pensiero in un mondo foggiato da loro, che saranno anche negli anni più tardi un grande conforto, un rifugio dello spirito oppresso dalle realtà dolorose, e quasi una fiammella inestinguibile di gioventù; la quale gioverà molto a tener vive in essi tutte quelle altre passioni e illusioni, senza di cui la vita non sarebbe per il più degli uomini che un desiderio continuo della morte.

*

Ma in quell'anno scolastico dovevo avere una distrazione dagli studi ben più potente che non fossero gli amici bersaglieri e gli amori sospirosi. Come nel 1859 aveva dato un colpo mortale al latino Vittorio Emanuele, così fu Garibaldi nel 1860 il peggior nemico del greco; poichè in quell'anno appunto fu istituito nel Ginnasio lo studio del greco, riconosciuto di necessità urgente per affrettare la liberazione d'Italia. La partenza dei Mille da Quarto fu come un segnale convenuto fra Garibaldi e la scolaresca perchè smettessimo d'affaticarci troppo il cervello sui libri di testo. Partivano per la Sicilia, a frotte, giovani d'ogni condizione, e fin dei mostriciattoli, che erano lo zimbello pubblico: fra i quali ricordo un piccolo sarto gobbo, con le gambe arcate come due fette di popone, che fu salutato alla partenza da una tempesta di risa e d'applausi. Con la guerra del 1860 mi s'accese nella testa una nuova girandola: quella della politica. Ero stretto allora d'amicizia fraterna con due compagni di scuola, tutti e due di principî rivoluzionari: l'uno perchè figliuolo d'un mazziniano, l'altro perchè ribelle per istinto a ogni autorità, cominciando da Senofonte e venendo fino agli ultimi classici. Io ero figliuolo d'un monarchico, e non rivoluzionario per natura; ma tale m'aveva fatto a poco a poco la lettura quotidiana del Diritto, a cui mio padre s'era abbonato per simpatia letteraria. Tutti e tre, fanatici di Garibaldi, concertammo una fuga clandestina per “accorrere in suo aiuto„; la quale non ci riuscì, come raccontai altrove; e quel tentativo fallito esasperò la nostra passione patriottica. Diventammo nemici implacabili del conte di Cavour, che intralciava l'impresa di Garibaldi con “le arti subdole di una politica pusilla„: la frase ci piaceva immensamente. La cessione di Nizza e di Savoia alla Francia ci mise su tutte le furie. In tutte le nostre conversazioni facevamo dell'“infausto„ ministro uno strazio miserando. Leggevamo i suoi discorsi nei giornali con un sorriso di sarcasmo feroce. E conciammo secondo i suoi meriti anche Napoleone il piccolo, che conoscevamo a fondo, grazie al libro di Vittor Hugo. Attaccavamo intorno all'uno e all'altro delle discussioni furiose coi nostri compagni “moderati„ i quali ci accusavano di “metter dei bastoni fra le ruote alla politica del Governo„. — Sì, — rispondevamo in coro tutti e tre, — noi combatteremo il governo con tutte le nostre forze; non gli daremo tregua mai; noi non vogliamo la politica dell'asservimento allo straniero; chi non è con noi, è contro l'Italia. — Quando poi andò a armeggiare in Sicilia il La Farina, uscimmo addirittura dalla grazia di Dio: pigliammo la cosa come una sfida gettataci in faccia dal venditore di Nizza e Savoia, e parlammo di fondare un giornale per “demolirlo„. Ricordo che mi facevano fremere i giudizi che davan di Garibaldi certi vecchi impiegati, cavuriani marci, che frequentavano casa mia: uno fra gli altri, un ispettore di non so che cosa, un gigante canuto, con due grandi solini a vela, il quale parlava con una lentezza insopportabile, come se ad ogni parola che gli usciva dalla bocca gli scappasse uno scudo dalla borsa. Quando lo sentivo parlare di Garibaldi come d'un guastamestieri della politica di Torino, d'un perturbatore importuno del mondo, fortunato per disgrazia nostra, con quella solita chiusa sinistra, che faceva scrollar le spalle a mio padre: — Ci darà del filo da torcere, vedrete, vedrete! — io gli saettavo delle guardatacce da passarlo da parte a parte. Ah, come ho odiato quei due solini! E quella febbre garibaldina durò allo stato acuto fin al ritorno di Garibaldi a Caprera. Come siano andati gli studi negli ultimi mesi di quell'anno scolastico si può immaginare: come gli affari del re di Napoli, presso a poco. Ma per essere promossi, in quegli anni beati, credo che sarebbe bastato il gridare: “-Viva l'Italia!„ e fui promosso io pure. Pochi giorno dopo l'esame, passando per un vicolo vicino a casa mia, vidi molte donne affollate intorno a una merciaia, che stava seduta sullo sporto della sua botteguccia, coi gomiti sulle ginocchia e il capo fra le mani, piangendo dirottamente. Domandai perchè. Mi rispose una donna: — Gli hanno ammazzato il figliuolo a Milass. — Il mio primo senso fu di pietà, e il secondo (m'è grato ricordarlo) di vergogna. Sentii dentro una voce che mi disse: — Quello ha combattuto ed è morto, e tu da tre mesi in qua non hai fatto che sbraitare, buffone! — E da quel giorno feci un po' meno lo smargiasso contro il conte di Cavour.

Professori di liceo.

Per passare dalla Rettorica al Liceo, che fu istituito quell'anno in luogo dei due corsi di filosofia, dovemmo fare un esame di greco in iscritto, il quale si ridusse alla declinazione di qualche sostantivo; ma parve che scrivessimo un greco, dirò così, garibaldino, poichè fummo quasi tutti rimandati; e fu la nostra salvezza l'essere in tanti, avendo deciso il Ministero, perchè il Liceo non restasse vuoto, d'insaccarvici tutti a ogni modo.

E qui sulla soglia liceale mi trovo davanti un esemplare così mirabile d'una razza particolare di professori di lettere che fu assai numerosa in quel periodo rivoluzionario, e non s'è punto perduta dopo l'unificazione della patria, un tipo così perfetto e così ameno di mangiapaga a tradimento e di spandichiacchiere scansafatiche, che non posso resistere alla tentazione di farne la fotografia. Era venuto nella nostra città, non so di dove, quell'anno stesso, con una gran pancia e una gran sicumera, accompagnate da una grandissima voglia di non far nulla. Era professore di letteratura italiana. Ma di questa non discorreva che per incidente. Parlava quasi sempre dell'Italia e dei fatti propri. A parlare di sè gli dava pretesto qualunque argomento. Partiva da un verso di Dante o da una sentenza del Machiavelli, e passo passo, legando un'idea all'altra, per salvare le apparenze, con ogni specie d'artifici birboni, veniva a dire il prezzo che aveva pagato i suoi stivali o a farci osservare la bellezza della propria mano; poichè, fra le altre fisime, aveva quella di credersi uno dei più begli uomini d'Italia, e si vantava di rassomigliare a Gustavo Modena. Quanto alla politica, per entrar nell'argomento non pigliava vie traverse: entrava addirittura nella scuola col Diritto spiegato fra le mani, e ci leggeva i rendiconti dei discorsi dei deputati; dichiarando peraltro che non ce li leggeva per il contenuto, che non aveva che far con la scuola, ma per la forma, per farci notare le frasi più efficaci e più eleganti; il che non gl'impediva poi di batter la campagna, tra l'una e l'altra frase, dicendo corna del Ministero, che gli aveva fatto un monte di torti, e del Municipio, che lasciava in cattivo stato i locali scolastici. Quando non parlava di sè e della patria, ci leggeva svogliatamente qualche cosa d'un suo sunto manoscritto della storia letteraria, nel quale affermava d'avere stretto tacitescamente “il molto in poco„ e aveva stretto tanto, infatti, che più d'un secolo v'era ridotto in quattro o cinque paginette: una vera quintessenza di rose; ed era comodissimo, perchè su quella traccia s'andava di carriera: si sarebbe corsa la storia universale in un trimestre. Tutto il suo lavoro era condensato a quel modo. Dopo averci annunciato per dei mesi che avrebbe fatto “una campagna giornalistica„ contro il Municipio, per costringerlo a trasferire il Liceo in un'altra sede, egli pubblicò nella gazzetta della città dieci povere righe non firmate; per le quali poi gridò tutto l'anno: — Ho scritto, ho combattuto, ho tempestato sui giornali.... — E il curioso era ch'egli si credeva sul serio un lavoratore infaticabile: con una voce che veniva proprio dal fondo della coscienza, e picchiando i pugni sul tavolo, ci gridava ogni momento che eravamo dei mostri d'ingratitudine a battere così la fiaccona con un professore che dava all'insegnamento tutta l'anima sua, che “sudava,„ che “vegliava,„ che “s'accorciava la vita„ per noi. Del rimanente, era d'indole gioviale, parlava quasi sempre di cose allegre, soventissimo di musica, perchè da giovane aveva suonato il violino, e del Barbiere di Siviglia in particolar modo, del quale era matto ammiratore; tanto che ogni volta che trovava in un testo italiano la parola “barba„ tirava in ballo quell'opera, raccontando invariabilmente le peripezie della prima rappresentazione di Roma; donde prendeva le mosse per ricorrere tutta la vita del Rossini, ch'era il suo dio. Di qualunque cosa parlasse, poi, o di sè, o di politica, o di musica, o di letteratura, i suoi discorsi finivano tutti a un modo come i salmi: in una querimonia amara per la miseria dello stipendio. — Siamo pagati come dei portinai! — urlava. — È un obbrobrio per uno Stato civile.... Ma non importa.... Noi facciamo egualmente il nostro dovere... — E rientrava nel dovere in questa forma, per esempio: — Io vi dicevo, dunque, che la serenata del conte d'Almaviva fu composta dal tenore Garcia. Ebbene....

Un rimorso.

Bravo era il professore di matematica, una figura rotonda di buon fratoccio; il quale, peraltro, avrebbe potuto con qualche piccolo intermezzo renderci assai più piacevole il suo insegnamento, poichè si diceva che avesse una bellissima voce di tenore, e che cantasse con garbo; eccellente il professore di lettere latine, un coso risecchito, ma pien di vita, che parlava con una correttezza e con una precisione, da parer che recitasse a memoria delle lezioni scritte con cura diligentissima; e migliore di tutti il professore di filosofia. Il cantore del generale Petitti aveva portato la sua lira a Torino: il nuovo venuto era l'opposto di quello, un uomo grave e compassato, d'ingegno acuto e di parola scolpita e lucida, che faceva il miracolo di renderci facile la scienza più contraria alla natura umana, e in specie alla natura giovanile: la logica. Il professore di storia lo rammento per infliggermi pubblicamente un castigo. Era un giovine mingherlino, di viso fine e pallido, un professore improvvisato, credo, come eran molti in quegli anni, il quale studiava forse giorno per giorno la storia che c'insegnava, e aveva la parola fioca e restia, e una timidità fanciullesca, che gli raddoppiava la fatica; ma faceva ogni suo sforzo per far bene, era buono, ci trattava come compagni, e avrebbe certo insegnato molto meglio se lo avessimo incoraggiato dimostrandogli rispetto e simpatia. Noi invece ci facevamo beffe di lui e gli rendevamo la scuola una berlina e un supplizio con ogni specie di scherzi villani e d'insolenze vigliacche. E io fui uno dei più vigliacchi. Il perchè non me lo so spiegare nemmen ora; non comprendo come potessi esser malvagio con lui, e sentire ad un tempo un grande affetto, una reverenza proprio filiale, che m'è un conforto il ricordare, oltre che per altri, per il preside del liceo: un degno prete, veramente, di ottimo cuore e d'educazione squisita; ma che con noi non aveva punto che fare, e a me non aveva dato nessun segno particolare di benevolenza; ciò che prova che animo affatto cattivo non avevo. Ma c'è in ogni animo, come in ogni casa, il canto della spazzatura. Bisogna dire che avessi dentro una certa dose di malvagità che voleva a ogni costo il suo sfogo, e io la sfogavo bassamente contro un giovane mite e debole, che sapevo incapace di farmela ringozzare. Ma posso ben dire d'averla scontata, perchè tra le molte nequizie giovanili, di cui mi rimorde la coscienza, la condotta ch'io tenni con quel buon professore è una di quelle che mi fecero soffrire di più. Riveggo ogni tanto l'espressione di stupore e di rammarico che gli passò sul viso una volta che gli feci in piena scuola un atto irriverente, per il quale non mi disse neppure una parola di rimprovero, e al sorger di quell'immagine sento sempre uno strizzone al cuore e un moto d'indignazione contro me medesimo: oggi ancora, dopo tanto tempo, e benchè dal modo come mi salutò l'ultima volta ch'io lo vidi abbia compreso che m'aveva perdonato. Egli fu trasferito in un'altra città l'anno dopo, e non seppi più nulla di lui. Spero che sia ancora in vita. Se per caso egli leggerà questa pagina, sappia che l'ho scritta con gli occhi inumiditi, e che nei quarant'anni che son trascorsi, da quello in cui l'ebbi maestro, non l'ho dimenticato mai, e gli ho voluto sempre bene.

I liceisti.

La scolaresca di quel primo corso liceale, molto numerosa, era composta in gran parte di alunni venuti di fuori; alcuni dei quali pezzi di giovanotti che avrebbero potuto portar sulle spalle i professori. Molti erano convittori d'un Collegio Civico, separato dal Liceo, che venivano a scuola con un berretto militare, e portavano i giorni di festa una divisa somigliante a quella dei bersaglieri. Mi ricordo che i più tenacemente studiosi eran quelli di famiglia meno agiata, figliuoli di piccoli bottegai e di piccoli proprietari rurali, che facevano duri sacrifici per avviarli alle professioni liberali; il che prova che anche nel campo scolastico, come nel campo sociale, ha più ardore e più lena chi combatte per salire che chi lotta soltanto per non discendere.

Fu quella la classe in cui contrassi le prime amicizie durevoli, furon quelli gli amici che rividi sempre con maggior piacere per tutta la vita, poichè in quell'anno soltanto cominciarono a stringermi ai miei condiscepoli dei legami intellettuali. Per tutto un inverno ebbi vicino un futuro Conservatore delle ipoteche, un generale avvenire, un vescovo in erba e un rettore predestinato di quello stesso collegio, del quale era collegiale: altrettanto, buono allora coi compagni ed esemplare nell'osservanza della disciplina, quanto poi fu amorevole coi suoi sottoposti e saggio nell'esercizio dell'autorità. Il generale avvenire sedeva proprio nel mio banco, alla mia sinistra. Era uno dei più quieti e dei più amabili della classe, un giovinotto robusto, coi capelli neri arricciolati, con gli occhi bruni e dolci, sfavillanti di vita, con due guancie piene e floride che, quando rideva, formavano due fossettine rotonde, che davano al suo viso un'espressione di bontà infantile. Sento ancora nella mente, come se mi suonasse all'orecchio, il metallo della sua voce, che pareva quella d'un uomo raffreddato, e rivedo le sue grosse labbra vermiglie, un po' sporgenti come quelle dei mulatti, delle quali osservavo tutti i moti quando, ritto in piedi, recitava la lezione al professore, ed io gli facevo da suggeritore, com'egli faceva a me, quando ero io sotto i ferri. Accadeva spesso fra gli altri di bisticciarsi per un disparere letterario o per un libro buttato sotto il banco, e di barattarsi qualche parola acre; ma non seguiva mai con lui, tanto era d'indole mite e arrendevole, e giocondo d'umore, e affabile di maniere. Era alunno del convitto, e lo vedo ancora col suo cappello da bersagliere messo un po' di traverso, con un pennacchio azzurro e rosso, che gli ricascava sulla spalla già virile. Quante risate abbiamo fatte insieme, nascondendoci dietro i compagni del banco davanti, quando il professore di lettere italiane attaccava il ritornello solito del Barbiere e dello stipendio; di quelle risate deliziose, che hanno il gusto del frutto proibito, e di cui si perde la facoltà quando non si ha più in faccia qualcuno che ci possa gridare: — La smetta —! Mi rammento che un giorno il professore di lettere fece recitare a lui la poesia del Guidi, Alla Fortuna, della quale non ho più in mente che un verso:

Affrica trassi sul Tarpeo cattiva.

In quella parola “Affrica„ era segnato il destino del mio buon compagno, che si chiamava Giuseppe Arimondi.

Il bimbo del Consigliere.

Fu in quell'anno stesso che conobbi un altro, allora ancor bambino, predestinato alla fama in tutt'altro campo.

I prefetti regi, e con loro i consiglieri di prefettura, erano in quel periodo mutati spessissimo. Nei pochi anni che trascorsero dalla guerra di Crimea alla liberazione di Napoli ne passarono in quella piccola città non so quanti, che ho dimenticati, tranne il Bellati, governatore, il quale aveva fama di letterato per una bella traduzione del poema del Milton, e un Consigliere lombardo, il cui nome, che allora sapevo senza dubbio, m'uscì poi dalla mente, e non lo riseppi che dopo lunghissimo tempo. La consiglieressa — una giovane signora d'aspetto buono e di modi schietti e gentili — veniva qualche volta a casa nostra a render visita a mia madre, conducendo sempre con sè un figliuoletto di tre o quattr'anni, del quale mi son rimasti impressi nella memoria gli occhietti vivaci e la forma singolare del viso, dal mento fuggente a curva di mela, e, anche più del viso, una miniatura di cappotto color nocciola, che gli stava dipinto, e gli dava l'aria d'un ometto. È probabile ch'io abbia giocato più d'una volta con lui, con la condiscendenza d'un fratello maggiore, per liberarlo dalla noia che son sempre per i ragazzi le visite. Ma non rammento altro che la sua personcina e le feste che gli soleva fare mia madre, complimentandolo per quel cappottino prematuro di zerbinotto, che non dimenticò mai più neppur essa. Chi m'avesse profetato che cosa dovea diventare quel bambino, e quale influsso esercitar con la sua penna sul mio pensiero, e che ansie dolorose farmi provare per lui in un momento terribile della sua vita, gli avrei dato del matto da catena. E fu così. Quel figliuoletto d'un consigliere di prefettura, che poi fu prefetto, divenuto trent'anni dopo un pubblicista originale e potente, d'una arte dialettica maravigliosa, d'uno stile tutto punte e incavi, dal quale sprizzano le idee fitte e lucide come baleni da un'armatura a scaglie d'acciaio, ed escon mille suoni acuti e minacciosi come da un fascio di spade agitate, mi doveva prima e più d'ogni altro accendere e persuadere dell'Idea, alla quale egli dedicò tutto il suo ingegno e tutta la sua vita, e che lo condusse ammanettato davanti a un tribunale di guerra, e dal tribunale all'ergastolo, condannato a dodici anni di reclusione per un delitto politico, a cui ripugnavano con egual forza la sua ragione e la sua natura. Ma soltanto assai tempo dopo ch'io conoscevo l'uomo, seppi che erano una sola persona il direttore della Critica sociale e quel bambino; non lo seppi che il giorno in cui mia madre mi domandò: — Ma questo Turati che hanno condannato è forse figliuolo del Consigliere che abbiamo conosciuto nel 61? — Oh come sentii più forte l'affetto d'amico e di compagno di fede che mi stringeva a lui, quando si legarono nella mia mente quel cappottino color nocciola e la casacca grigia del galeotto!

La resa di Gaeta.

La resa di Gaeta, avvenuta nel febbraio di quell'anno, ridestò i nostri bollori patriottici, dati giù da qualche tempo, senza però farci andare di miglior voglia agli esercizi militari, che erano stati istituiti di fresco per tutte le scolaresche del Regno: esercizi che noi ci ostinavamo a non prender sul serio, benchè studiassimo logica e ci dichiarassimo pronti a combattere per la patria; come se per ammazzare gli Austriaci non fosse necessario prima di tutto di saper caricare il fucile. Ebbi la notizia del grande fatto in un modo e in un momento comico, di cui si rise nella scuola per un pezzo. C'era un professore d'istituto privato, noto a tutti, un vecchio gamberone che pareva un palo del telegrafo, codino fino al punto da lamentare la caduta dei Borboni; ma generalmente ben visto dalla gioventù delle scuole, perchè usava accompagnarsi per la strada con qualunque ragazzo o giovine, che avesse aspetto di scolaro, e di chiacchierare con lui in tono familiare, raccontandogli aneddoti morali e dandogli consigli filosofici. Eravamo quattro o cinque liceisti con lui davanti a un caffè, un dopo pranzo, e si discorreva di Gaeta, di cui durava l'assedio da tre mesi. — Gaeta — ci diceva egli con un sorriso compassionevole — non cadrà. Gaeta non fu mai presa, dovete sapere. Ricorriamo la storia, signorini miei. Noi vediamo che ci si ruppero le corna i Barbari, che l'assalirono invano i Longobardi e i Saraceni. Poi se ne impossessarono i Francesi e gli Spagnuoli, ma non con la forza delle armi. Vi resistette per sei mesi, sul principio del secolo, il principe Hesse-Philippsthal contro tutto l'esercito del Massena. E ci vogliono altri denti che quelli del generale Cialdini per romper quell'osso. Per anni l'aspetterete, figliuoli cari; son io che ve lo dico: per anni! — Proprio in quel punto passò di corsa un giovane impiegato della prefettura, che ci gridò senza arrestarsi, col viso radiante: — Gaeta è presa! — Ci voltammo tutti verso il professore, mettendo fuori in coro un ah! di trionfo, per godere della sua confusione. Egli fu maraviglioso. Non mutò viso, non scosse neanche un muscolo, come se non avesse inteso nulla. Cavò di tasca il suo pezzolone turchino intabaccato, si soffiò il naso adagio adagio, guardò in giro per aria come per vedere che tempo facesse, poi disse con la bonarietà solita: — A rivederci, ragazzi, — e voltataci la schiena, se n'andò via tranquillamente, con una mano nell'altra sulle reni. Doveva esser quello il suo modo di “far fronte„ agli avvenimenti avversi. Noi rimanemmo mal soddisfatti, si capisce. Ma fummo compensati la sera al teatro, dove si rappresentava la Gemma di Vergy, con illuminazione “a giorno„ per festeggiare la vittoria. Nel primo atto il tenore negro fece al pubblico una lieta sorpresa. Al momento di cantar l' a solo

Mi toglieste al sole ardente,

Ai deserti, alle foreste,

si slanciò alla ribalta con l'impeto d'un levriere sguinzagliato, e invece di dire i versi del libretto, cantò una strofa d'occasione, composta da lui, che m'è rimasta in mente tutta intera, e che voglio regalare alla storia della lirica italiana:

Là sui merli di Gaeta

Splende l'italo vessillo,

Delle trombe il fiero squillo

Chiama Italia a libertà;

Sulla rupe del Tarpeo

Sorge unanime una voce:

Vien Vittorio, vien veloce,

E l'Italia è fatta già!

Scoppiò un uragano d'applausi, dovette cantar la strofa tre volte; fini alla terza con una stecca; ma fu attribuita alla commozione, e coronò il suo trionfo. Felici giorni, anche per i tenori.

Un pericolo e un lutto.

Dopo la caduta di Gaeta, gli avvenimenti che più ci commossero furono la lettera famosa che scrisse il generale Cialdini a Garibaldi dopo la gran burrasca parlamentare dell'aprile, e la morte del conte di Cavour. Benchè anche la parte rivoluzionaria della scolaresca avesse in grazia il vincitore di Castelfidardo non meno per la prosa poetica dei suoi proclami che per le sue vittorie, pure quella lettera male ispirata, la quale svelava un sentimento acre di gelosia e sonava più che ammonimento d'avversario provocazione di nemico, ci mise il sangue in rimescolo. Credemmo tutti che ne seguisse un duello. Ricordo le dispute tempestose che avemmo nella scuola coi compagni devoti al Governo, e al caffè con gli amici bersaglieri, le botte e le risposte clamorose: — È una infamia. — È una lezione meritata. — Raccoglieremo il guanto! — Vi piglieremo a fucilate! — e le altre minaccie, gravide di guerra civile, che ci lanciammo in faccia per tutta una serata, picchiando i pugni sui tavolini, su cui ballavano i gelati e le chicchere; e ricordo pure il senso di viva soddisfazione che produsse in tutti la risposta pacata e nobile di Garibaldi, la quale troncò la lite e dissipò ogni pericolo. Quanto alla morte del conte di Cavour, son lieto di poter dire che anche la triade garibaldina, che aveva combattuto con tanto furore la sua politica, ne fu addolorata sinceramente. Già fin dal marzo ci eravamo alquanto riconciliati con lui per effetto dei discorsi stupendi ch'egli aveva pronunciati intorno alla questione di Roma: avevamo riconosciuto onestamente che non gli si poteva negare l'ingegno, e che forse, a modo suo, amava anche lui il suo paese. Non s'andava d'accordo; ma, da leali avversari, si ammetteva che avesse reso all'Italia dei servizi non dispregevoli, e che non c'era per il momento un altro uomo di pari levatura che gli potesse succedere: la passione di partito, dicevamo, non ci impedisce d'esser giusti. Ed era di questa opinione anche il professore d'italiano, quantunque per la sua rassomiglianza con Gustavo Modena egli si credesse in dovere di professare le idee della Sinistra estrema; ammirò egli pure — in morte — il gran ministro, e fu felice di provarcelo leggendoci in scuola, invece di far lezione, le più eloquenti necrologie che si pubblicarono in quei giorni dolorosi; non solo per rendere l'onore dovuto al grande morto — diceva — ma per farci imparar lo stile degli elogi funebri, che erano un genere a parte, come chi dicesse la musica sacra rispetto alla musica drammatica; al qual proposito citò lo Stabat Mater del Rossini, che lo condusse a discorrere del Barbiere di Siviglia....

Primi studi di lingua.

In quello stesso mese di giugno seguì nella mia vita di studente un piccolo avvenimento, che ebbe per me una importanza straordinaria, e che noto soltanto per i miei lettori di quindici anni; per i quali appunto mi par necessaria una breve prefazione.

Nelle scuole classiche, allora come ora, non s'insegnava, nel senso proprio della parola, la lingua italiana, come se per il solo fatto d'esser nati in Italia tutti i ragazzi dovessero naturalmente saperla, o come se bastassero a farla imparare quelle poche letture di scrittori italiani, disordinate, frammentarie e superficiali, che si facevano a scuola e in casa; delle quali, come d'ogni semplice lettura, resta tanto meno di lingua nella memoria quanto più è assorbita l'attenzione dal contenuto. I professori ci correggevano nei componimenti gli errori grossi, suggerendoci la frase e la parola da sostituire al modo errato, e consigliandoci ogni tanto di leggere i buoni autori: e questo era quanto facevano per insegnarci quella lingua, che da nessun'altra bocca fuorchè dalla loro noi potevamo imparare. E neppure dalla loro bocca non potevamo imparare gran cosa, perchè, essendo tutti piemontesi (e sarebbe stato lo stesso se fossero stati di qualunque altra regione, fuorchè toscani), essi non possedevano un vocabolario molto più ricco che non fosse il nostro; parlavano corretto e non altro. Che un ragazzo non nato in Toscana, e più se nato ai piedi delle Alpi, non potesse imparare in altro modo la lingua italiana, non parlata da alcuno intorno a lui, che studiandola come avrebbe fatto d'una lingua straniera, ossia formandosi a poco a poco, per via di ricerche e d'appunti, un corredo di vocaboli, di frasi e di costrutti, da imprimersi nella memoria a uno a uno, a modo di date e di sentenze, non passava per il capo a nessuno. Procedendo dunque di classe in classe, noi imparavamo a scansar gli spropositi; ma quanto a ricchezza di lingua non si faceva quasi nessun acquisto, e si continuava a rimpastare nel liceo, presso a poco, lo stesso materiale linguistico che s'era usato nelle prime scuole, a scrivere, cioè, un italiano misero, scolorito, rachitico, senza forza e senza finezza, e senz'alcun sentore di distinzione fra il linguaggio accademico e il familiare, come lo scriverebbe un francese o uno spagnuolo che avesse studiato la nostra lingua sui libri, quel tanto che è necessario per capire e farsi capire senza far ridere.

Mi trovavo a questi termini quando mio fratello maggiore mi mise sotto gli occhi le Poesie del Giusti — un'edizione di Capolago, che aveva in capo una prefazione del Correnti e in coda un dizionarietto di modi toscani — e mi disse: — Leggi questo, se vuoi imparare la lingua. — Del Giusti non avevo ancora letto che due o tre poesie, sparse per le Crestomazie scolastiche. Le lessi per la prima volta dalla prima all'ultima. Fu come una festa. Non saprei paragonare il piacere che n'ebbi se non a quello che si prova da fanciulli quando ci è messa in mano la prima scatola di colori o il primo strumento di musica; un piacere puramente artistico, e questo quasi tutto filologico, nel quale non entrava che in minima parte il pensiero satirico e politico del poeta, che in molti punti mi riusciva oscuro. Quella grande ricchezza di modi nuovi per me, familiari ed efficacissimi, quella varietà di scorci e di rilievi di lingua, di costrutti arditi e di legature eleganti e flessibili fra idea e idea, quella profusione di gemme e di perle fini, infilate l'una sull'altra, incastonate nel verso con quel garbo, fatte come saltar nelle mani con quella lestezza e con quella grazia; che esprimevano mirabilmente mille cose ch'io non avrei saputo neppure adombrare con la parola, e ch'erano come risposte inaspettate a mille domande curiose accumulate da un pezzo nella mia mente, mi misero il cervello in ebollizione. Quelle parole, quelle frasi mi risplendevano agli occhi come fuochi di mille colori, mi suonavano all'orecchio come le note d'un coro di voci argentine, mi si imprimevano nella memoria, e quasi nell'animo, come sguardi e lineamenti di creature umane; me le volgevo e rivolgevo nel pensiero a una a una, come per cercarne la virtù segreta; godevo a staccarle dalla strofa e ad assaporarle pure, come a spiccare dei fiori da una pianta e a odorarli l'un dopo l'altro a occhi chiusi. Il mio amore per la lingua nacque da quella lettura. E fu un amore non punto eccitato dalla coscienza d'aver delle facoltà di scrittore o dalla speranza d'acquistarle, chè a questo allora non pensavo punto: fu come la passione di chi raccoglie monete preziose o conchiglie rare per il solo piacere di osservarle e di palparle, senza neppur pensare di mostrarle agli amici. Mi comprai un grosso quaderno legato, e vi cominciai a far delle note; feci lo spoglio di tutte le poesie, trascrissi quasi tutto il dizionario; in pochi giorni il quaderno fu pieno. Mi passavano le ore come minuti in quel lavoro piacevolissimo, come a studiare una lingua nuova e maravigliosa, di cui non avessi avuto fino allora che una nozione confusa. Mi pareva d'imparare ad un tempo lingua, musica, e pittura, e di diventare da un giorno all'altro, per effetto di quello studio, più intimamente, più patriotticamente italiano. E tanta parte aveva in quella passione questo sentimento, benchè non ne avessi allora una ben chiara coscienza, che sentii la prima volta in quei giorni il bisogno di correggere la mia pronunzia, giovandomi della conversazione d'un bersagliere, nativo di Siena, poeta improvvisatore e caporale: altra piccola miseria, questa della pronunzia italiana, di cui non si davano alcun pensiero gl'insegnanti di lettere; ai quali si poteva leggere un verso del Petrarca nel seguente modo, per citare un esempio:

Giuvine dona soto un frasco louro,

senza che se ne dessero per intesi. E naturalmente, poichè la passione della lingua era mossa, il mio lavoro non s'arrestò all'ultima poesia del Giusti. Cercai altre miniere, e m'abbattei per mia ventura sul Guerrazzi, del quale avevo già letto bensì vari libri, ma soltanto con l'occhio del patriotta, non inteso ad altro che a pescarvi delle invettive contro i tiranni da innestare nei componimenti d'effetto. Ma dal Guerrazzi, preso all'amo del suo stile immaginoso e forte, non mi bastò più levar le parole e le frasi; tirando forte, portavo via il pezzo, e oltre al trascrivere, mandavo a memoria pagine intere, che recitavo poi a un mio compagno di scuola, allora guerrazziano nell'anima, ora sindaco della città da ventitrè anni; il quale in quell'esercizio gareggiava con me, e mi vinceva, perchè sapeva a menadito tutti i più bei passi dell' Assedio di Firenze, e li diceva con un garbo squisito. Poi feci nella passione della lingua delle volate come quelle che facevo nell'amore. Passai dal Guerrazzi al Guadagnoli....

Furori ginnastici.

Ma che mosca senza capo è mai un uomo di quindici anni. Figurarsi che quella gran passione filologica fu troncata di colpo, a metà delle vacanze, dall'apparizione dei fratelli Guillaume. Non era mai venuta nella città una grande Compagnia equestre: tutto quell'apparato spettacoloso di cavalli, di attrezzi, di maglie e di vestiti variopinti m'infiammò d'entusiasmo per l'acrobatica, e mi fece ricadere in piena fanciullezza. Il mio buon padre, che mi contentava in ogni cosa, mi fece fare un trampolino, e mi comperò corde, anelli, trapezi e cerchi, come s'io avessi dovuto rizzar baracca di saltimbanco. E questo feci, a un di presso. Chiamai a raccolta tutti i miei compagni che avevano tendenze d'acrobati, e mi diedi con loro allo sport circense con una passione sfrenata. Furono esercizi e camiciate da pazzi, con conseguenti capitomboli, ammaccature, torsioni e rotture di testa e scalmane da cavalli. Ma era anche quello “furor di gloria,„ poichè, facendo le mie prodezze, m'immaginavo sempre di “agire„ davanti a una moltitudine spettatrice, che io vedevo e di cui sentivo gli applausi, come un allucinato. Sul serio, covai per qualche tempo l'ambizione di diventare un direttore di circo equestre. Mio padre mi rimproverava d'andare all'eccesso. Io gli rispondevo: — Mens sana in corpore sano; — al che egli ribatteva argutamente che, intanto, era un principio bell'e buono d'insania di mente il rompersi la testa per sanificare il resto del corpo. E il corpo, infatti, salvo le enfiagioni e le sbucciature, era sano: crescevo come un girasole, ero un lupo a tavola, un ghiro a letto, e gareggiavo coi facchini del Banco, per bravata, a portar dei sacchi di sale di dieci miriagrammi, che avrebbero stroncato il mio professore di filosofia. Ma quanto a nutrir la mente sana di studi, era un altro discorso: non mi ricordo d'aver mai avuto in tanta avversione la carta stampata quanto in quel periodo: ero sulla via di diventare un fortissimo e agilissimo cretino. Ma è proprio vero che le malattie della vanità guariscono da sè stesse: poichè non era altro, per tre quarti, quella mia smania di ballar per aria. Ed ecco come guarii, con molta soddisfazione di mia madre, che stava sempre col batticuore di vedermi portare in casa a quattro braccia. Il mio esercizio prediletto era quello del salto col trampolino; la mia ambizione suprema, quella di riuscire a saltare una diligenza, come avevo visto fare a un pagliaccio del circolo Guillaume (un semidio). Ma per arrivare a tanto bisognava imparare a far il salto mortale, come il semidio lo faceva, ed io smaniavo di farlo: smaniavo, ma non mi ci provavo, perchè non c'era da scherzare: era troppo facile di rompersi il nodo del collo. Un giorno, nella compagnia solita dei miei fratelli d'arte, fra i quali m'arrogavo il primato, che m'era concesso, come a proprietario degli attrezzi, s'imbrancò un mio condiscepolo, assai più svelto e più ardito di me, che si provò a fare quel salto. Ci riuscì alla prima, fra l'ammirazione di tutti; io fui ricacciato fra gli artisti di second'ordine, e n'ebbi una gelosia mortale. Cento volte, da me solo, mi decisi a tentare la prova, e stetti ritto per dei quarti d'ora sull'alto del trampolino, coi pugni chiusi e con gli occhi fissi sulla sabbia sottostante, nell'atteggiamento d'una Saffo in calzoni sul punto di fare il gran tonfo, aspettando l'impulso del coraggio, e dandomi delle spronate vocali: — Andiamo! — Animo! — Su! — Ma l'impulso non venne mai. Tutto ben considerato, avevo una sola spina dorsale, e non conveniva arrischiarne l'integrità. E allora mi persi d'animo, e smisi. Smisi le gare con gli amici e le ambizioni di gloria ginnica; ma non perdetti l'amore degli esercizi fisici; i quali accompagnai sempre, non di meno, con l'immagine del circo e della folla plaudente, composta specialmente di signore e di signorine. E quell'amore mi durò per tutta la prima giovinezza, pigliando molte forme diverse, fra le quali quella del gioco del pallone, della palla e delle boccie; del che fui così soddisfatto da benedire anche quelle prime pazzie, perchè son fermamente persuaso di dover in gran parte alla ginnastica la salute vigorosa che ebbi fino all'età matura, e quindi la rara serenità di spirito, la maravigliosa facilità di godere d'ogni più piccola cosa e di pigliare la vita lietamente, e d'esser contento di vivere in qualunque stato: serenità che non mi lasciò mai, se non a rarissimi e brevissimi intervalli, finchè non fui colpito da quelle grandi sventure che sconvolgono anche i temperamenti più sani, come gli uragani atterrano anche gli alberi più forti.

Fisica e storia.

C'è quasi sempre nella nostra giovinezza un anno straordinario, che, quando ripensiamo a quel tempo nell'età matura, ci si presenta alla mente come all'occhio dell'oratore pubblico uno di quei volti singolari, i quali attirano la sua attenzione fra gli altri mille dell'uditorio e lo costringono a riguardarli cento volte, come se s'innalzassero al di sopra di tutti e fossero rischiarati d'una luce più viva. Tale è per me il secondo anno di liceo, che incominciò nel novembre del 1861.

Principiò bene in grazia di due nuovi professori, che m'è sempre grato ricordare, e che nomino per sentimento di gratitudine e per dovere di cittadino, perchè nel campo ristretto del loro ufficio fecero tanto bene a tanta gioventù da meritare che chiunque possa, anche dopo mezzo secolo, li onori pubblicamente. Erano molto giovani tutti e due; l'uno professore di fisica, l'altro di storia.

Il primo, Giovanni Cossavella, un bel biondo sanguigno, forte e sano come una pianta di montagna, d'un viso aperto e simpatico, che diceva a primo aspetto l'animo e l'ingegno, era un insegnante impareggiabile, nato fatto, come direbbe Tito Livio Cianchettini, per travasare idee dalla propria “nell'altrui recipiente testa.„ Il far lezione era per lui un vero godimento dell'intelletto e dell'animo, che gli faceva scintillar gli occhi, vibrar la voce e scattare il gesto come a un oratore di tribuna. Aveva nell'esposizione un ordine matematico e una chiarezza cristallina, sentiva la poesia della sua scienza e ne trasfondeva il sentimento nella scolaresca, ci rendeva amena la fisica, quanto la letteratura, con un'eloquenza viva, colorita, ondulata, direi, per esprimere la varietà piacevole delle sue intonazioni; eloquenza, per altro, che anche quando scoppiettava in motti arguti, non usciva mai un momento dal suo soggetto. Ed era modesto senz'affettazione, indulgente senza debolezza, familiare con noi, senza incoraggiarci alla licenza, buono e fermo, sempre sereno ad un modo, tutti i giorni dell'anno, come se, salendo sulla cattedra, gli fuggisse dalla mente ogni pensiero e dall'animo ogni sentimento che non fosse quello della sua scienza e del suo dovere.

L'altro, una figura smilza e pallida di abatino patrizio, era meno vivace nell'insegnamento; ma anch'egli, in forma diversa, efficacissimo. Faceva lezione come avrebbe celebrato la messa, con una dignità sacerdotale che c'imponeva rispetto e c'ingrandiva mirabilmente il concetto dell'importanza della storia. Quando ci esponeva le condizioni d'un grande trattato di pace o d'alleanza, lo faceva con una tale gravità di viso e d'accento, che stavamo tutti ad ascoltarlo raccolti e silenziosi, come compresi della solennità del momento storico, come se avessimo visto in mezzo alla scuola i principi e gli ambasciatori dei vari Stati, seduti intorno al tappeto verde, a discutere le sorti dell'Europa. Annunziava le dichiarazioni di guerra in maniera che ci faceva battere il cuore come alla lettura della scena dell' Adelchi, dove il messo di re Carlo lancia il guanto a Desiderio, e quasi esclamare in cuor nostro: — Che necessità tremenda! Quanto sangue umano si sta per versare! — In fine, trasportava così bene la nostra immaginazione nei luoghi e nei tempi remoti, che, dopo la scuola, discutevamo sui grandi avvenimenti di dieci secoli fa come su fatti di storia contemporanea, accalorandoci per Federico Barbarossa e per Giovanni delle Bande Nere come per Napoleone III e per Garibaldi. Non scherzava mai; teneva lo sguardo raccolto come un prete all'altare, parlava sotto voce come se ci confidasse dei gelosissimi segreti politici, e non lodava mai chi sapeva, restringendosi a fare col capo un atto lento d'approvazione, come per dire: — Non spetta a me di lodarla; ella ha aggiustato gli affari d'Europa; i popoli gliene saranno riconoscenti. — E non c'è da riderne, perchè era un'arte che ci teneva attenti e ci faceva studiare. Si chiamava Bartolomeo Fontana. Non ne ho più saputo nulla dopo quell'anno; ma non ho mai aperto un libro di storia senza che mi sorgesse davanti l'immagine di lui, col viso grave e con gli occhi bassi, nell'atto di “celebrar„ la lezione. Posso dire in tutta coscienza che se non son diventato uno storico illustre la colpa è d'un altro; non sua.

Avvocato!

A quel professore di storia debbo le mie prime soddisfazioni di vendiparole. Egli ci aveva esortati a far di quando in quando dei “lavori di diligenza„ che dovevano essere sunti narrativi di un periodo storico, chiusi da qualche considerazione generale. L'ambizione d'entrargli in grazia era così viva in tutti che i “lavori di diligenza„ piovevano ogni settimana a dozzine sul suo tavolino, e gareggiando fra di noi a chi scrivesse più roba, c'era chi gli rovesciava addosso delle mezze risme di carta, ch'egli mandava a prendere dal bidello; il quale usciva qualche volta carico come un somaro. L'aria del tempo voleva che ogni scritto scolaresco terminasse con una sonata patriottica. Io feci al primo di quei lavori una chiusa di questo genere, che ebbe qualche fortuna. Ciò bastò perchè vari compagni ricorressero a me abitualmente per farsi fare la tirata finale del loro “sunto„. Le richieste mi titillarono l'amor proprio, divenni un fabbricante di chiuse: chiuse rimbombanti d'amor di patria, tirate con le mani e coi piedi, code di frasoni cucite ai lavori non con filo bianco, ma con spago da imballatura, veri petardi di rettorica, furfanterie letterarie da non averne un'idea. Con l'esercizio continuo acquistai in questo mestiere indegno una destrezza spaventevole: avrei potuto aprir bottega e guadagnarmi il pane. Ne insuperbii. Ma è strano che da questo buon successo non nacquero punto in me la speranza e il proposito di diventare uno scrittore; ma sorse invece l'idea d'aver la vocazione dell'avvocatura.

Infatti, lo stile di quella prosaccia era più da improvvisatore che da letterato, apparteneva esclusivamente al genere oratorio, e al più basso. L'idea, a poco a poco, mise radici, e vegetò rigogliosa. Sì, ero nato per tuonare alla sbarra, per grandeggiare nel foro; nessun dubbio oramai; mi maravigliavo d'aver sentito così tardi la voce della natura. Era quella, dunque, la mia nona incarnazione: prima bandito, poi soldato, pittore, prete, tenore, matematico, commediante, direttore di circo equestre.... avvocato! E abbracciai la nuova illusione con lo stesso ardore con cui avevo abbracciato le altre otto. Ricordandomi il gran colpo che m'aveva fatto il discorso in difesa del generale Ramorino dell'avvocato Brofferio, mi diedi a leggere i Miei tempi (che si pubblicavano allora a fascicoli), il cui stile oratorio mi pareva giustamente il meglio atto a formar l'eloquenza d'un aspirante alla toga, e studiai a memoria tutti i frammenti di discorsi parlamentari che l'autore riferisce in quell'opera, e li andai recitando nel giardino e nel cortile, con una gran mimica curialesca, fingendo che fossero arringhe in difesa di accusati, e vedendo, dico vedendo proprio la gabbia, i giudici, l'uditorio, i carabinieri, tutti rintontiti dalla mia parola. Mi diedi a frequentare la Corte d'Assise, e marinai una volta la scuola per andar a sentire il vecchio avvocato Sineo, venuto da Torino, che mi avvampò d'entusiasmo. Poi presi a fare delle arringhe per conto mio, in difesa di mascalzoni immaginari e di Ramorini ideali. M'infervorai a tal segno, in fine, che un giorno dichiarai il mio pensiero a mio padre: avevo scelto la mia carriera, non avevo più bisogno che del suo consenso. Egli sorrise, e dopo esser stato un po' sopra pensiero, acconsentì, dicendomi che agli studi universitari, in ogni modo, io ero destinato, che potevo studiar leggi, se tale era mio desiderio. — Va bene — concluse — sarai avvocato. — Mi parve di esser laureato in quel punto, e che dovesse cominciare il giorno dopo ad affluir la clientela. Diedi l'annunzio ai miei compagni, come d'una cosa fatta, e cominciai, nel discuter con loro, a fare i gesti avvocateschi di sciogliere il braccio dalla toga e di aggiustarmi sul petto le facciuole, e in casa, nei momenti d'ozio, a palpare con amorevole familiarità i codici di mio fratello. Oh, finalmente, avevo trovato la mia strada! E intanto, per esercitarmi sempre più all'improvvisazione, giù “chiuse„ a rifascio.

I profughi Polacchi.

“Chiudevo„ qualche volta con un'invocazione all'Europa in pro della Polonia, dov'era scoppiata nel gennaio quella disperata insurrezione, che si protrasse fino all'inverno del 1864, e fu poi soffocata, come le tre precedenti, in un mare di sangue eroico. Eccitava la mia eloquenza la vista quotidiana di molti giovani polacchi, allievi d'una Scuola militare di Varsavia, i quali, dopo una rivolta, s'eran rifugiati in Italia e venuti a stabilire nella nostra città, per aspettarvi l'occasione e il modo di ritornare a combattere per il loro popolo. Eran tutti di famiglia signorile, bei biondi robusti, di viso ardito e grave, su cui si leggeva il pensiero assiduo della patria lontana e della morte prossima: pochi mesi dopo, infatti, caddero la più parte sotto il piombo russo, in un combattimento memorabile. La cittadinanza, a cui ciascuno di essi richiamava al pensiero i molti Polacchi morti generosamente per l'Italia, e che sapeva come quasi tutti avessero nella loro famiglia o fra i loro amici una vittima di quella caccia feroce data ai colpiti dalla nuova leva, onde l'insurrezione era stata provocata, li circondava di rispetto e li colmava di cortesie. E alle cortesie essi rispondevano con viva gratitudine; della quale diedero una prova gentile, in occasione della morte del sindaco, portando con le proprie braccia il feretro al camposanto. Di molti di quei giovani votati alla morte ho ancora nella mente l'immagine, che mi si presenta sempre accompagnata dal suono armonioso della loro lingua, di cui raccoglievo curiosamente qualche parola passando accanto ai loro crocchi, mentre commentavano le notizie giornaliere della guerra santa che li aspettava. Di uno in special modo mi ricordo, che nessuna mia concittadina di quel tempo può aver dimenticato: la figura più bella e più poetica che abbia mai sognato una fanciulla amorosa: un viso che pareva uscito da un quadro di frate Angelico, coronato d'una maravigliosa capigliatura bionda, d'un'espressione triste e dolcissima, non mai rischiarata da un sorriso; al quale corrispondeva la grazia del corpo alto e snello, un po' curvo, come per effetto d'una cresciuta troppo rapida: perchè aveva appena diciassett'anni, dicevano: un fiore di bellezza e d'eleganza femminea, austero non di meno, che pareva anche più delicato appetto alle altre forti piante della Vistola, in mezzo alle quali finiva allora di crescere in terra d'esiglio. Lo vidi una sera al teatro, in sedia chiusa, solo, tutto intento alla commedia, di cui forse non capiva una parola: alcune giovani signore, che gli stavan sedute intorno, facevan di tutto per attirar la sua attenzione, e altre lo guardavano col cannocchiale dai palchi: egli non diede segno d'avvedersene, nè durante la recita, nè fra un atto e l'altro; stette sempre seduto con gli occhi fissi sugli attori o sul telone, come assorto in un pensiero doloroso. Qualche cosa di tragico, certo, doveva esser seguito nella sua famiglia lontana. Egli pensava forse a suo padre che si trascinava in catene per le vie della Siberia, o a un fratello, soldato forzato, che si struggeva dall'ira tra le rupi del Caucaso, o a sua madre impazzita dal dolore in quella notte tremenda, in cui le soldatesche del governatore Wielopolski, sguinzagliate come branchi di briganti, avevano strappato alla Polonia il fiore dei suoi figli. E forse egli vedeva nell'oscurità delle selve, che la guerra insanguinava, il suo bel corpo giovanile disteso immobile sull'erba, lacerato dalla mitraglia dell'Imperatore.

Giorni d'ebbrezza.

Ma e “chiuse„ e toga e Polonia, tutto andò per aria ad un tratto, e la fisica e la storia con loro. Furono giorni affannosi e beati, in cui il sole sfolgorava come se si fosse avvicinato alla terra, e la luna mi guardava e mi parlava, e le Alpi eran così bianche e la campagna così verde come non erano state mai nè mai più saranno; giorni in cui i fiori del mio giardino, mandandomi un'ondata di profumo, mi dicevano; — A te, bel ragazzo! — e ogni musica che suonava nell'aria pareva che suonasse in onor mio, per accompagnare il canto di trionfo del mio cuore; giorni in cui la gente affollata al passeggio, che io fendevo guizzando come un pesce nell'onda e cercando intorno con gli occhi, mi pareva una moltitudine d'infelici che non avessero ragione d'esistere, e tutte le cure della vita e gli aspetti umani e le cose vicine e lontane m'apparivano come a traverso i vapori rossi d'un incendio che avvampasse l'universo. E v'era nella città una povera strada dove tutte le case mi parevano templi e palazzi d'un'architettura di sogno, e in quella strada una casa, che aveva per me la vita e l'espressione d'un enorme viso umano, il quale mi faceva arrossire e impallidire fissandomi con l'occhio d'una finestra che mi pareva accesa, e in quella casa una scala dove vedevo oscurarsi l'aria e danzare i muri e sentivo tremare le pietre sotto i miei piedi come per una scossa di terremoto. E v'era un'immagine che m'accompagnava da per tutto, e mi pareva a un tempo gentile come un fiore e immensa come un mondo, dolce insieme e terribile, familiare all'occhio e al pensiero, e pure ravvolta d'un mistero enorme e impenetrabile, in cui si smarriva la fantasia, come lo sguardo in un abisso di tenebre. E in quei giorni sdegnavo ogni volgarità, rifuggivo dai giuochi fanciulleschi, cercavo le braccia di mia madre; mi risaliva la preghiera dal cuore alle labbra, mossa dal sentimento che non altro che un Dio infinitamente buono potesse aver fatto il cuore umano capace della dolcezza infinita che m'inebbriava; e mentre adoravo la vita, vedevo bella anche l'immagine della morte, perchè mi pareva che neppur essa avrebbe potuto spegnere la fiamma onnipotente che m'ardeva, e che la vita futura non potesse esser altro che l'appagamento assoluto e il trionfo immortale della passione che mi sollevava da terra. E questo basta, perchè, fra molte altre cose, non ho mai capito come un uomo possa raccontare al pubblico il suo primo amore.

Un grande dolore.

Mi svegliò da quel sogno un colpo di fulmine.

Una sera, mio padre, sedutosi appena a tavola con noi, si lasciò cascar dalle mani la forchetta; si sforzò due volte di riprenderla, non potè; disse: — Non mi sento bene, — e alzatosi a fatica, si mise a sedere sul sofà, dove rimase qualche tempo immobile, con gli occhi fissi, senza parlare. Poi volle andare a letto, e v'andò a stento, trascinandosi, sorretto da mia madre e da uno dei miei fratelli. Si mandò a chiamare il medico, che accorse subito.

Dalla camera vicina intesi la sentenza terribile.

Era perduto.

Un colpo d'apoplessia gli aveva preso tutta la parte destra del corpo, e offeso il cervello.

Così si spegneva a un tratto, come una fiamma soffocata, quella mente acuta e lucida, dotata d'una ragione potente e di squisite facoltà artistiche, aperta a ogni idea bella e atta a ogni maniera di studio e di disciplina; così finivano cinquant'anni di lavoro utile, di vita onesta e feconda, di cure e di sacrifici affettuosi e continui perla famiglia, prima ch'egli potesse avere alcuna ricompensa dalla buona riuscita dei suoi figliuoli; finivano con lo sgomento e con l'angoscia di lasciarci quando avevamo ancor bisogno di lui, e di rigettarci, lasciandoci, da una condizione agiata nelle angustie e nell'incertezza dell'avvenire, come se egli non avesse faticato, lottato per tanto tempo che per renderci più funesta la sua fine!

Da quel giorno la nostra casa non fu più che una tomba, nella quale, ancor vivo, egli era già come sepolto, già separato da noi più terribilmente che dalla morte, poichè non avevamo più padre, e ci rimaneva ancora davanti, come l'immagine stessa della nostra sventura, la sua larva dolorosa. Parlava ancora, ma con parole sconnesse e insensate, che ci laceravano il cuore più che il silenzio della morte; ricordava ancora i nostri nomi, ma dava all'uno quello dell'altro, come se non vedesse più in noi che delle ombre, e ci ascoltava con lo sguardo fisso e con la fronte corrugata, facendo uno sforzo intenso e lungo per raccogliere e riconnettere i congegni spezzati dell'intelligenza; ma non ci comprendeva più, come se gli avessimo parlato una lingua sconosciuta o dimenticata, la quale non gli toccasse più altro che l'udito. E se qualche volta, per pochi momenti, gli ritornava un barlume d'intelligenza, eran quelli i momenti di maggiore angoscia per noi, poichè, avendo come a lampi coscienza della sua sventura, si batteva la mano sulla fronte in atto disperato, ed esprimeva il desiderio di morire, il rammarico di esser ridotto per noi un “fastidio„ e un “ingombro„, il tormento che lo straziava di non poter più parlarci ed intenderci; e questo esprimeva con esclamazioni rotte e violente e con scoppi di pianto sconsolato, che ci facevano fuggir singhiozzando.

Povero padre mio! Allora soltanto, nelle mie lunghe ore pensierose, riandando il passato, io compresi tutta la sua bontà, tutte le sue virtù d'uomo e di padre. Il suo amore per noi avea qualche cosa d'austero: egli ci amava, ma non ci adorava, e in questo pure era saggio, e per questo la sua carezza, benchè frequente, ci faceva l'effetto benefico d'una ricompensa ambita. Egli era stato per tutti noi il primo maestro. Quand'eravamo ancora bambini, ci conduceva a far delle lunghe passeggiate in campagna, che per noi erano una festa, e, strada facendo, ci diceva sempre in forma dilettevole qualche cosa di utile, accennandoci le bellezze del paesaggio, insegnandoci i nomi delle piante, stimolando e appagando in mille modi arguti la nostra curiosità infantile. Egli ci tracciava delle tavole sinottiche per facilitarci lo studio del latino, c'insegnava il francese, che sapeva benissimo, e la calligrafia, in cui era maestro, ci faceva dei quadretti coloriti per farci imparare la nomenclatura italiana degli oggetti domestici, e ci disegnava delle carte geografiche con un metodo suo proprio, che gli costavano settimane di fatica. Dotato di molte e finissime abilità meccaniche, le esercitava continuamente a nostro vantaggio: ci legava i libri, ci faceva dei giocattoli, ci fabbricava dei piccoli mobili, ci scolpiva le teste delle marionette, ci dipingeva gli scenari per il teatrino. E pure essendo padre così operoso e pieno di pensieri estranei al suo ufficio, era un impiegato, più che diligente, ardente di zelo; tanto da mandare ogni anno al Ministero dei grandi progetti di riforme computistiche, intorno a cui lavorava per mesi e mesi. E non restringeva la sua vita intellettuale nel cerchio dell'ufficio e della casa: leggeva libri nuovi d'ogni genere, sapeva a memoria un gran numero di poesie, che recitava mirabilmente, aveva un'ammirazione appassionata per i grandi scienziati e i grandi artisti, visitava studi di pittori e stabilimenti industriali, andava a cercare ogni uomo illustre per qualsiasi merito, il quale passasse per la nostra città, presentandoglisi senz'altro titolo che quello d'ammiratore, come un giovinetto entusiastico. Non ho di lui altra immagine che quella d'un uomo bianco di capelli e di barba; così mi sembra d'averlo sempre veduto; eppure non mi pareva vecchio, e non mi passava mai per la mente ch'egli potesse morire prima ch'io fossi un uomo fatto, tanto era sano, vigoroso, vivace, anche nei suoi discorsi in famiglia, pieni di ricordi e di idee, di citazioni e d'arguzie. E mi ricordo che provavo un gran piacere, come a un segno ch'egli mi desse di dover vivere lungamente, quando, mettendo io nella sua larga mano tutt'e due le mie, egli, per scherzo, me le serrava come in una morsa, fino a farmi cacciare uno strillo, che esageravo, per dargli un'idea più grande della sua forza. Visse lungamente, sì, ma morì troppo presto per noi, e per il premio a cui gli dava diritto la sua nobilissima vita. Povero padre mio, mio maestro e mio amico, che m'hai dato l'esempio di tutte le virtù e colmato di tutti i benefizi, e ch'io non ho potuto ripagare con una sola prova di riconoscenza pubblica, io che, certamente, essendo l'ultimo dei tuoi figliuoli, fui il più doloroso, il più disperato dei tuoi ultimi pensieri!

E mentre dicevo tra me queste cose, di notte, sentivo nella camera accanto il suo vaneggiamento compassionevole, delle esclamazioni affannose e senza senso, che m'entravan nel cuore come colpi di pugnale, e le parole dolci e tristi di mia madre che lo vegliava; le quali mi facevano soffrire anche più delle sue. Che terribili notti, e che terribili giorni!

Cambiamento di rotta.

Ma tanta è la forza della vita a quindici anni che l'animo non rimane prostrato a lungo neppur dai più grandi dolori; dai quali si divincola, per rialzarsi impetuosamente, come il getto d'acqua vigoroso che respinge la mano da cui è compresso. Così avvenne a me dopo pochi giorni. Della condizione mutata della famiglia, in ciò che riguardava i mezzi economici, non ebbi alcun dolore, anzi non mi diedi nemmeno pensiero: eppure era mutata per modo ch'io non avrei più potuto far gli studi universitari senza sacrifizi gravi di mia madre e dei miei fratelli. Erano disposti a farli, e li avrebbero fatti lietamente; lo compresi, e me lo dissero; ma compresi pure che era mio dovere di prendere spontaneamente una deliberazione che li liberasse da quell'obbligo; di scegliere, cioè, una carriera che mi mettesse in grado al più presto di guadagnarmi la vita. Addio, dunque, sognati trionfi del foro! Ma rinunziai al foro senz'alcun rammarico, come avevo rinunziato al palcoscenico e al circo equestre. Gli entusiasmi patriottici erano ancora caldi, il periodo delle guerre nazionali ancora aperto, la mia passione per l'esercito non del tutto spenta: scelsi la carriera militare. Fu deciso senz'altro che avrei finito ancora il secondo corso del Liceo, e che ai primi dell'anno prossimo sarei entrato in un collegio a Torino, per prepararmi agli esami d'ammissione alla scuola di Modena. E il buon volere, anzi l'allegrezza con cui presi quella decisione non fu punto turbata dal fatto, che acquistassi proprio in quei giorni, lucida e ferma, destinata a non più cadere, la coscienza di poter riuscire, comunque fosse, uno scrittore.

Fu per un caso, come quasi sempre avviene, che mi s'accese quella nuova girandola, a fuoco perpetuo.

Una mattina il professore di lettere italiane ci fece fare in scuola un componimento sul tema: I Promessi Sposi. Due giorni dopo, avendo letto tutti i lavori, ebbe la bontà di sentenziare che il meno peggio era il mio; ma con una frase assai più cortese di questa, seguita da vari commenti, che terminavano con una falsa profezia. E fu proprio quella falsa profezia che decise del mio destino. Avrei forse presa, più tardi, la medesima strada, anche se non mi ci avesse spinto allora quel piccolo avvenimento; ma è un fatto che soltanto dopo quel giorno cominciai a studiare e a scrivere col proposito determinato e con la speranza viva di riuscire a qualche cosa con la penna, e che da quel momento in poi la mia passione per la letteratura non ebbe più intermittenze. Le prime cose che scrissi furono dissertazioni in forma di lettere, dirette ora all'uno ora all'altro dei miei amici; ma lettere che mi sarebbero costate un occhio se le avessi mandate per la posta, e che nessuno avrebbe lette fino a metà, se avessi avuto il coraggio di regalarle a chi mi era servito di bersaglio per scriverle. Eran quaderni, e trattavano di tutto, senza dir propriamente nulla, girigogoli di frasi, fughe interminabili di parole, cascate fluviali di periodi, non altro che esercizi d'immaginazione e di stile, nei quali cacciavo a forza tutte le mie reminiscenze di letture, e facevo dei larghi giri di falco per venire a una data immagine o a una data locuzione, quasi sempre non mia, che mi pareva un fiore o una perla, e anche votavo addirittura delle sacca di roba altrui, tinta soltanto dei colori della mia tintoria, e sparpagliata con cert'arte perchè si confondesse meglio con la merce dei miei magazzini. Ma c'era pure in quella prosa di cicalone e di ladro qualche cosa di personale, ed era la musica, che s'è mutata poco d'allora in poi. Con quegli esercizi mi sfranchivo la mano a scrivere, imparavo a tradurre in parole il sentimento quale mi spirava nell'animo, a esprimere in modi diversi il mio pensiero, a snodare e a annodar fra loro i periodi, a maneggiare con destrezza il materiale di lingua che avevo già accumulato nella memoria. E di pari passo con la prosa sfrenavo i versi, perchè credevo fermamente d'avere tutti i bernoccoli letterari. Avevo letto la prima volta nella primavera di quell'anno le liriche e le ballate del Prati, e quell'onda sonora di rime, quel barbaglio di lampi e di colori m'aveva prodotto l'effetto, che suol fare in un giovane la prima vista d'una grande sala da ballo sfarzosa, in cui turbini una folla di belle signore infiorate e gemmate. E le mie poesie erano tutte un'imitazione quasi plagiaria del “superbo signore dei colori e dei suoni„ tirate via con una facilità di versaiolo estemporaneo, sonore come concerti di campane e luminose come fuochi di Bengala; inni e ballate d'un Prati rimbambito. Ma non posso dire il piacere che godevo in quelle lunghe ore di scribacchiamento diurno e notturno, in cui mi giungeva importuna l'ora del desinare e della cena, e mi coglieva come improvvisa la sera, e non avevo più quasi alcun senso della vita esteriore. E fu una provvidenza per me quella specie di febbrone letterario perchè, tenendomi così assorto continuamente, mi faceva vivere fuori della grande tristezza che pesava sulla mia famiglia, e quasi dimenticar la sventura. Solo di quando in quando mi s'alzava davanti tutt'a un tratto l'immagine del povero vecchio che giaceva immobile in un letto all'estremità opposta della casa, e il pensiero ch'egli non sapeva nulla di quella mia nuova felicità, che non avrebbe mai letto nulla nè di quello che scrivevo allora, nè di quanto avrei scritto nell'avvenire, mi faceva posare la penna e restare un pezzo meditabondo, con gli occhi pieni di lacrime. Ah, come avrei voluto ch'egli venisse ancora, come faceva nel passato, a portarmi a copiare qualche tavola dei suoi progetti di riforma amministrativa, e come mi pentivo amaramente di non avergli qualche volta nascosta la mala voglia con cui interrompevo le mie letture per obbedirlo, come mi pareva odiosa in quei momenti la mia ingratitudine, e con che parole dolorose e supplichevoli ne domandavo perdono alla sua memoria!

Aspromonte.

Da quella furia di scribacchino mi fece uscire per qualche giorno, nel mese d'agosto, Garibaldi. Il grido di Roma o Morte ridestò improvvisamente la fiamma delle mie passioni politiche e mi ricacciò in mezzo ai miei compagni rivoluzionari a fremere e a vociare contro “l'uomo di Novara„ e “la sfinge di Parigi„. Noi volevamo, si sottintende, andare a Roma a qua-lun-que co-sto, e non dubitavamo neppur per sogno che Garibaldi, il quale moveva allora verso Catania coi suoi volontari, ci sarebbe arrivato, a dispetto di tutti i diavoli e di tutti i santi. E non volevamo intender ragioni. A chi ci diceva: — E se ci assale la Francia? — rispondevamo: — E noi faremo la guerra alla Francia. — E se ci salta addosso l'Austria? — E ne daremo anche all'Austria. — Pilade, Oreste, Elettra, a morte tutti. Il giorno che venne la notizia d'Aspromonte, ci accozzammo una quindicina in una trattoria, presieduti da un reduce garibaldino del sessanta, uno sbarbatello indemoniato, che per l'occasione s'era messo in capo il suo vecchio berretto rosso sdruscito, e, scovata in casa dell'oste una bandiera stinta e sbrindellata, che non aveva mai visto che il fuoco della marmitta e pareva un avanzo di venti battaglie, percorremmo la città cantando l'inno del Mercantini e urlando Roma o Morte, fra lo stupore, i sorrisi e gli sguardi di riprovazione dei cittadini pacifici, a cui facevamo l'effetto d'un branco di evasi dal manicomio. Eravamo sopra tutto furibondi contro il colonnello Pallavicini, che era partito pochi giorni avanti dalla nostra città per andare ad assumere il comando dei bersaglieri, condotti poi da lui stesso all'assalto d'Aspromonte; di quei suoi bersaglieri dai quali era partita la palla fatale che aveva spezzato il piede a Garibaldi; sì, l'avevamo a morte con quel colonnello Pallavicini, che ci eravamo “scaldato in seno„ per tanti anni, e che ci aveva ripagato della nostra “ospitalità cittadina„ a quel modo, mordendo a sangue il nostro dio. Qualcuno parlò di fargli la festa, se avesse avuto la fronte di ritornar fra noi. La sua promozione a generale inasprì anche di più le nostre ire, come una provocazione aggiunta all'offese. Si ventilò l'idea di comprare una sua grande fotografia, che era esposta nella vetrina d'un libraio, per farne un auto da fè davanti alla Prefettura; ma ne volevano cinque lire, e preferimmo di spenderle in birra. Salì poi al colmo la nostra indignazione (e, fuor di scherzo, fu una grande tristezza) quando vedemmo passare per le vie della città una colonna di garibaldini prigionieri, che eran condotti a un forte delle Alpi. Come m'è rimasto impresso quello spettacolo! Saranno stati un centinaio, fiancheggiati da due file di bersaglieri: i primi in camicia rossa, uomini maturi la più parte, alcuni coi capelli grigi, e col petto scintillante di medaglie, figure belle e superbe che camminavano a fronte alta e a passo risoluto; gli ultimi una frotta di poveri ragazzi laceri, semiscalzi, dall'aspetto stanco e triste, che diceva una storia miseranda di digiuni e di stenti; figure di mendicanti, più che di soldati, che alle nostre grida di: “Viva Garibaldi!„ si voltavano a guardarci con aria attonita, girando gli occhi intorno come se cercassero del pane. Ah, che furiose discussioni quella sera, al caffè, coi nostri amici bersaglieri, che ci chiamavano i Romaomorti e si burlavano dei liberatori di Roma senza scarpe e inneggiavano al “vincitore di Aspromonte!„ S'affollò gente nella sala, accorse il padrone, s'andò a un pelo dal fare a pugni. E il nostro nemico, il vincitore, ritornò finalmente. Lo incontrai una sera a buio, sotto i portici, vestito da borghese, che andava a passo spedito, guardando verso la strada, come per raggiungere qualcuno. Gli cedetti il passo, fremendo, e gli lanciai un'occhiata omicida. Non se ne accorse: aveva ben altro per il capo. Voltandomi indietro, lo vidi poco dopo uscir di sotto le arcate e salire in una carrozza patrizia, dove lo aspettava una bella signora. Le due teste si avvicinarono, la carrozza partì, io rimasi come un grullo, e Aspromonte restò invendicato.

Un fiume d'inchiostro.

Rientrai allora nella mia fucina letteraria e non ne uscii più per il rimanente di quell'anno. Ebbi solo qualche giorno di malinconia, all'aprirsi dell'anno scolastico, pensando ai miei antichi compagni che entravano nel terzo corso del Liceo, al quale io avevo rinunciato: un sentimento come di nostalgia della scuola, ch'io lasciavo prima d'aver compiuti gli studi, e più che altro di rimpianto degli studi classici abbandonati, come d'uno scadimento della mia dignità intellettuale. Ma fu una malinconia presto soverchiata dall'ardor del lavoro, se può darsi questo nome a quella mia eruzione di parole, che riprese dopo i giorni d'Aspromonte più copiosa e più violenta che mai. Rimasi veramente stupefatto quando, molti anni dopo, ritrovai in fondo a un cassone i miei manoscritti di quel tempo, d'aver potuto rovesciar sulla carta in pochi mesi un tal diluvio d'inchiostro: racconti, dialoghi, satire, paralleli di scrittori, pappolate filosofiche: una specie di Decamerone, fra le altre cose, che Dio e il Boccaccio me lo perdonino. La mia passione prese davvero in quell'ultimo periodo il carattere d'una malattia mentale, degenerando di letteraria in libraria, in un bisogno pedantesco e puerile di vedere i miei parti in forma di volumi stampati e legati, con gran lusso calligrafico d'intestazioni, di indici e di fregi, e ciò che è più strano, immuni di correzioni quanto più fosse possibile; tanto che ci lasciavo spesso intatti dei grossi spropositi per non deturpare la pagina con un frego. E come non mi spiego da che mi nascesse quella fisima, poichè non davo a leggere le mie “opere„ neppure agli amici più stretti, non capisco neppure il perchè di quella smodata produzione, non pensando io neppur per ombra a dare alle stampe quelle bracciate di prosa. Avevo bisogno di scrivere, credo, come avevo avuto l'anno avanti il bisogno di saltare e di arrampicare; erano umori del cervello che dovevan dar fuori; bisognava che m'affaticassi le facoltà eccitate per castigarle e renderle atte più tardi a un lavoro pensato e tranquillo. Nondimeno, mi vergogno ancora un poco, quando ci ripenso, di quella lunga orgia di letteratura, la quale mi dimostra quanto stessi ancora male a buon senso in quell'anno, quantunque mi cominciassero a spuntare i baffi. Mi conforta solo il ricordare che non mi facevo grandi illusioni intorno al valore intrinseco dei miei finti libri; dei quali, per mia fortuna, ero io l'unico lettore. Il che non toglieva, peraltro, che io avessi la certezza, ma proprio la certezza assoluta di riuscire un giorno a qualche cosa, la previsione netta e sicura che la carriera militare non sarebbe stata che un episodio della mia vita, che la mia vera ed unica vocazione fosse quella di metter del nero sul bianco a beneficio del genere umano. Non era una certezza fondata sui saggi che davo di me a me medesimo in quel periodo di esercitazione letteraria meccanica; ma sul presentimento di facoltà che sarebbero poi sorte nella mia mente, su promesse confuse della coscienza, su non so quale armonia che mi suonava dentro, non ancor formulata in idee, vaga, profonda, dolce, continua, su non so che cosa che mi sentivo correre per le vene e per le fibre e brillare sotto la fronte e nel cuore, e ch'io pensavo sarebbe sgorgato fuori come uno zampillo di fuoco per effetto d'un avvenimento inaspettato, dello spettacolo d'una città nuova, della compagnia di nuovi amici, della vita libera, dal dischiudersi delle porte dorate della gioventù, di cui stavo per varcare la soglia.

La partenza.

Venne finalmente il giorno della partenza per Torino. Parrebbe ch'io avessi dovuto lasciar con dolore quella casa dov'ero entrato bambino e donde partivo giovinetto, e quella piccola città, che era per me come la città nativa, dov'ero vissuto quattordici anni, dov'ero cresciuto così sano e forte e lasciavo tante memorie. Eppure questo non fu. La prima età ha di questi momenti di duro egoismo, in cui la furia d'uscir del guscio, l'ebbrezza di mutare orizzonti e di slanciarsi nella vita preme con tanta forza su tutti gli altri affetti, da cacciarli quasi dal cuore. Quella città, che doveva diventarmi poi così cara, mi si era fatta in ultimo intollerabile. Vi conoscevo tutti i visi, avevo impresse nella mente le facciate di tutte le case, potevo rammentare per ordine tutte le botteghe di tutte le strade, e questa conoscenza di tutto mi dava un senso di sazietà d'ogni cosa: perfino dall'aspetto dei dintorni bellissimi, che m'erano stampati nel cervello sentiero per sentiero e albero per albero, mi veniva un tedio infinito: mi dibattevo fra quelle mura come un falchetto in una stia da uccellino; sentivo una tale smania d'andarmene che il solo odore del fumo della strada ferrata, alle volte, mi faceva fremere come fa l'amante al profumo d'un fiore regalatogli dalla sua bella. E ciò non ostante non m'è rimasta nella memoria alcuna traccia dei particolari della partenza: non mi ricordo neppure degli addii dati in casa, nè di chi m'abbia accompagnato alla stazione, nè dello stato d'animo, triste o lieto, in cui mi ritrovavo all'ultimo momento. Mi ricordo soltanto che il giorno prima della partenza chiamai a raccolta nel cortile quelli che rimanevano dei miei antichi compagni scamiciati di gioco e di milizia, e che distribuii fra tutti, perchè ne facessero un regalo ai loro fratelli piccoli, quanto mi era restato in casa dei miei trastulli della fanciullezza: stampe colorite, che rappresentavano soldati francesi e italiani, casette e figurine di presepio, e trombe e daghe di legno dei miei tempi bellicosi. Solo allora, quando vidi portar via quella roba che m'era stata un tempo così preziosa, provai un senso di tenerezza e di mestizia, come se in quel punto si fosse spezzato il legame che teneva ancora unito in me il giovinetto al fanciullo, e quei giocattoli fossero stati una parte viva di me, che morisse in quel punto, e la portassero a seppellire. V'è da quel momento un buio nella mia memoria fino a quello in cui mi trovai solo in un vagone, sul treno che andava a Torino, con una grande sacca coricata sul sedile, dentro la quale c'era tutta la compagnia dei grossi burattini dalle teste di legno, scolpite dal mio buon padre, che avevan deliziato non solo la mia, ma anche la fanciullezza dei miei fratelli, e che mia madre m'aveva affidati con molte raccomandazioni perchè li portassi a un mio nipotino di Torino. Vedo ancora quella vecchia sacca da viaggio ricamata a colori vistosi, e quasi risento sotto le mani le teste dure di quegli antichi amici, che facevan gobba da tutte le parti. E a questo ricordo mi vien sulle labbra un sorriso d'ironia malinconica. Sì, proprio, in quella sacca era chiusa l'immagine del mio avvenire. Ahimè! Che cosa ho fatto altro nella vita che far ballare dei burattini? E non ho nemmeno la coscienza d'essere stato un grande burattinaio. Eccomi qui, coi capelli bianchi, già preparato a un'altra partenza, e mi pare d'aver di nuovo accanto quella sacca. Allora c'era chiuso il mio avvenire, ora c'è chiuso il mio passato. Vanitas vanitatum: ecco il fondo delle cose, e la conclusione di tutto. Quando queste parole, che sogliono rattristar l'animo e offender l'orgoglio dell'uomo, gli son diventate un conforto, vuol dire che il suo cammino è finito.

Un mistero.

Quella città, non più riveduta che due volte in trentaquattro anni, e non ricordata che raramente, e di sfuggita, e senz'affetto, nel tempo della gioventù, ha preso poi nel mio spirito, nell'età matura, una vita intensa e quasi risplendente, mi è diventata oggetto fino a questi giorni di sempre più frequenti e più vive riflessioni. E in questo non è nulla di singolare, perchè, meditando l'uomo sul mistero di sè medesimo, via via che invecchia, sempre più assiduamente, è naturale che risalga sempre più spesso col pensiero ai propri principi, e quindi ai luoghi dove passò l'infanzia. Ma singolare è che a quella città io ritorni sempre più sovente nei sogni, e strano, inesplicabile per me che questi sogni siano tutti lo svolgimento d'uno stesso fatto doloroso, e impossibile ad un tempo. Mi ritrovo nella strada maestra, fiancheggiata da un capo all'altro da un doppio ordine di portici bassi, in un'ora che non è nè di giorno nè di notte, poichè i portici è la strada sono qui oscuri, là rischiarati da una luce di crepuscolo, altrove come ingombri d'una nebbia fitta, che ora si squarcia, ora si riaddensa; ma è l'ora della passeggiata domenicale, poichè va e viene gente da tutte le parti, e le botteghe son chiuse. In ogni sogno sono arrivato allora allora, con un vivo desiderio di ritrovare gli antichi amici molti dei quali vivono ancora; mi caccio tra la folla, e vo innanzi cercandoli con lo sguardo, curioso e impaziente. Ma cammino e cammino, e non ne incontro nessuno, e non rivedo neppure, fra tutta quella gente, uno solo dei tanti visi noti, che mi si presenterebbero nella realtà, e che dovrei incontrare per questo anche in sogno. Invano ricorro da un capo all'altro i portici di destra e di sinistra, osservando i crocchi davanti ai caffè, le brigate che passano e i gruppi che stan fermi alle cantonate, dove sempre ne vedevo qualcuno, quando vi passavo da ragazzo: non riconosco anima viva. È tutta una popolazione sconosciuta, come mi sarebbe quella d'una città dove non fossi mai stato. Vedo spesso venir verso di me, in quella luce incerta di foresta, una persona che mi par di quelle ch'io cerco, e dico tra me, rallegrandomi: — È il tal dei tali! — ma, andandogli incontro, m'accorgo d'aver sbagliato: è un altro, un ignoto. A poco a poco la folla si dirada, percorro lunghi tratti deserti, fiancheggiati da edifizi non mai veduti, da alti muri di fortezza o di carcere, da case e da muri di cinta in rovina; mi trovo in mezzo alla campagna, solo; rientro un'altra volta sotto i portici, dove non suona più il passo che di pochi solitari: corro dietro all'uno, corro incontro all'altro: nessun amico, nessun conoscente; nessuno mi riconosce, nessuno mi guarda; chi svolta a destra, chi svolta a sinistra, tutti scompaiono. Corro a casa degli amici più stretti, agli uffici dove sono impiegati, a quella tal farmacia, in quel dato caffè che so che frequentano: non c'è nessuno, non c'è che sconosciuti; suono, picchio, chiamo, domando ad alta voce: — Il tale? Il tal altro? — Nessuno sa nulla. Affannato, addolorato, mi rimetto a correre per la via maestra, infilo i vicoli laterali, giro e rigiro in mezzo a case che riconosco, non so come, benchè non sian più quelle d'una volta, per crocicchi e per piazzette che si allargano e si restringono come se gli edifizi dintorno danzassero, per vicoli che s'allungano e si perdon nelle tenebre, intorno a vecchie chiese che si trasformano al mio avvicinarsi in cattedrali enormi, e da per tutto incontro, fiancheggio, raggiungo delle ombre umane; ma da nessuna parte rivedo un amico, un conoscente, un viso del passato. E questa corsa angosciosa dura fin che mi risveglio, col cuore pieno di tristezza. Da anni e anni faccio sempre, con poche variazioni, questo medesimo sogno. È impossibile che non ci sia una ragione. L'ho cercata molte volte, meditando a lungo; ho anche letto dei libri di onirologia scientifica, con la speranza di cavarne qualche lume a scoprire il mistero: non ci ho trovato nulla che mi giovasse. Eppure, dico, una ragione ci ha da essere, nella mia vita, nella mia coscienza, che so io? una ragione che dispero di ritrovare, ma che son persuaso non possa essere che triste, e legata strettamente con altri misteri dell'anima, tristi del pari, che non mi saranno svelati mai. Per questo non la cerco più da qualche tempo. Ora se una voce soprannaturale mi dicesse: — La so, — e mi domandasse: — La vuoi sapere? — risponderei: — Voglio ignorarla. — Sarà una superstizione indegna d'un uomo; ma è così. Ho paura non so di che, come l'Osvaldo dell'Ibsen. E non di meno desidero sempre di rifare quel sogno, tanto è cara al mio cuore, tanto mi par bella anche non popolata che di spettri, tanto mi attira e mi affascina quella piccola città alpina, dove l'età più felice della mia vita si chiuse con la morte del più saggio e dolce amico ch'io abbia avuto sopra la terra. Cuneo è la città, e pronuncio con sentimento di riverenza e di gratitudine questo nome, il quale mi desta la visione d'una città immensamente lontana, posta quasi ai confini del mondo, che si disegna in contorni azzurri sulla bianchezza d'un'alba luminosa.

BAMBOLE E MARIONETTE

IL “RE DELLE BAMBOLE„.

Così lo chiamano molte delle sue piccole clienti, ed è Gerardo Bonini, inventore, fabbricante e negoziante di bambine inanimate, che ha la bottega in via Roma. Non è difficile trovarla perchè vi si vede davanti a tutte le ore del giorno una schiera di ragazzine del popolo che, ammirando le vetrine, si scordano dell'involto, del cavolo o delle pagnotte che debbono portare a casa, per abbandonarsi a un'orgia di desideri. E tutte le signorine piccole che passan di là, condotte per mano dalla mamma o dalla governante, per una ventina di passi tirano l'accompagnatrice, sporgendo il viso innanzi, e per un'altra ventina di passi si fanno tirare, torcendo il capo indietro.

Passando di là una mattina, mi ricordai d'un giorno che, avendo detto in casa mia, in presenza della figlioletta d'una nostra vicina: — A momenti verrà il Bonini (un mio amico ufficiale), — quella, illusa dall'omonimia, diede uno scatto sulla seggiola, come se avessi detto: — A momenti verrà l'Imperatore di tutte le Russie; — e quel ricordo mi destò curiosità di conoscer l'uomo e le sue opere.

Pensai di presentarmi senz'altro. — Ho lavorato anch'io per i bambini, — dissi tra me; — non sdegnerà di ricevermi come un collega. — Ed entrai in quella bottega stretta, lunghissima, male rischiarata; ma che alla fantasia di bambine innumerevoli appare più vasta e più sfolgorante del palazzo imperiale degl'Incas.

Il Bonini stava in fondo alla sua reggia piena di tesori visibili e invisibili, leggendo la Gazzetta del popolo, come uno oscuro cittadino qualsiasi. È un ometto sui cinquanta, di viso intelligente e benevolo, dotato di quella dolcezza particolare di modi che è propria di tutti coloro che hanno una clientela fanciullesca signorile, siano essi bottegai, sarti, medici o ripetitori. Temetti non di meno, per un momento, che il suo aspetto mi avesse ingannato perchè, appena inteso lo scopo della mia visita, afferrò per i piedi una delle sue bambole, e a modo dell'Eviradnus di Victor Hugo col cadavere del piccolo Ladislao, si mise a picchiar botte da orbo sul banco, come se fosse irritato dalla mia presenza. Mi ricredetti subito, peraltro. Era quella una delle sue bambole infrangibili, benedette dai padri di famiglia, ed egli ne faceva quel mal governo per provarmi l'invulnerabilità delle sue creature.

Poi, alzando le sottanine alla bambola, mi fece osservare come fossero ben riprodotte le forme anche delle gambe; ciò che una volta non si faceva. Erano due belle gambe, infatti, ma di donna, non di bimba; anzi così bene imitate che l'atto del Bonini sarebbe potuto parer disonesto.

E prese a discorrere familiarmente. Riconobbi subito l'artista al modo con cui mi raccontò, colorandosi in viso, come egli e sua moglie avessero fatto un viaggio a Parigi per visitare i grandi magazzini di bambole, e rubare — è la sua espressione — con gli occhi. Scopersi poi sotto l'artista il filosofo quando, dicendomi che le mamme preferiscono le bambole “vestite da bimba„ a quelle “vestite da signora„ perchè queste “svegliano nelle ragazze delle idee ambiziose„ fece un fine sorriso, che voleva dire evidentemente: — Ha capito? Lei credeva forse che fosse il lusso delle mamme quello che sveglia l'ambizione nelle figliuole.... Si disinganni; è il lusso delle bambole. —

Conosciuto l'uomo, decisi di fare un interrogatorio minuto, tanto più che, piovendo, non si era disturbati dagli avventori. La grande affluenza, del resto, è dopo mezzogiorno, e sopra tutto in dicembre, sotto Natale. Allora la bottega è affollata dalla mattina alla sera, il numero raddoppiato dei commessi basta appena al servizio, son tutti costretti qualche giorno a far di meno della colazione, e dopo chiusa la bottega, il lavoro dura ancora nel laboratorio, dove molte ragazze passano le notti intere ad allestir corredi straordinari; e si succedono così le giornate fra un tal rimescolìo e una tal confusione di bambole e di bimbe, di vocine naturali e di vocine meccaniche, di braccini di carne e di braccini di legno, gesticolanti ad un tempo, e d'occhietti viventi e d'occhietti di vetro luccicanti da tutte le parti, che in qualche momento, dice il Bonini, stanco di corpo e di mente e come preso da un'allucinazione, egli è sul punto di confondere la merce con la clientela, di rivolger la parola a una puppattola e di dar la corda a una signorina.

*

— In tanti anni — gli dissi — avrà potuto fare sulla sua clientela molte osservazioni preziose.

Sì, ne fece molte e curiose. La prima è che, rispetto alle bambole, le clienti si possono dividere in tre famiglie: quelle che le desiderano e le amano moderatamente, le appassionate ardenti, e quelle indifferenti o quasi, o per precocità d'altri gusti o per apatìa di natura. Quest'ultime, però, sono assai rare.

E corrugando le ciglia, dopo un breve silenzio, come per interporre uno spazio, che impedisse il sospetto d'un accordo interessato tra il fabbricante e il filosofo, soggiunse: — Difficilmente queste riescono buone madri.

— Anch'io lo credo, — risposi, e stavo per citare sbadatamente il proverbio “chi non ama le bestie non ama i cristiani„, ma tacqui perchè mi parve un'offesa all'arte.

— Lei dovrebbe vedere, — rispose il Bonini, — è un divertimento. — E parlò delle “appassionate„. Ce n'è di quelle che entrano nella bottega con la febbre, che prorompono in grida di ammirazione, in esclamazioni di gioia, in risa, in trilli di piacere, da parer che ammattiscano. Alcune, non di meno, si mostran poi ragionevoli, si contentano o, meglio, si rassegnano a quella che conviene alla borsa del padre o della madre. Ma altre no, e fanno scene di tragedia, singhiozzando e pestando i piedi, fino a buttarsi sul pavimento e a rivoltolarvisi, menando in aria le piote, come frenetiche. — Ma anche quelle che si rassegnano, se vedesse che sguardi lanciano alle bambole a cui debbono rinunziare; sguardi d'amore, sospiri, se sentisse, addii, col capo rivolto indietro, con certe espressioni di tenerezza e di struggimento, che nessuna attrice drammatica sarebbe capace di rifarle. Mi fa pena a vederle, qualche volta, glie l'assicuro.

Fra le “appassionate„ poi, v'è una “categoria„ particolare, interessantissima. Son le dignitose che entrano col manifesto proposito di dissimulare la propria passione. E a parole si mostran tranquille, non spiccicando che monosillabi, non esprimendo con la voce nè curiosità nè meraviglia: a chi non le osservi bene posson parere quasi indifferenti. Ma tremano e fremono, si fanno pallide e rosse, schizzano scintille dagli occhi, e al momento di metter la mano sulla bambola desiderata e ottenuta, ma non sperata, quasi tutte si tradiscono. Bisogna veder le mosse, lo slancio con cui alcune se ne impossessano e se le serrano al petto: tigrette affamate che abbrancano la preda. — E non vogliono a nessun patto che io mandi loro la bambola a casa: se la vogliono portare da sè, anche se è pesante, a braccia incrociate, viso contro viso, girando gli occhi diffidenti, scansando ogni bimba che incontrano per la strada, “per paura di un colpo di mano„.

E le astute! Anche queste fanno delle scenette impagabili. Ce n'è delle piccolissime che hanno già la finezza di fingere di non capire che una certa bambola sia più cara d'un'altra, e cercan di dare alla loro scelta una ragione diversa dalla vera, che paia anche una prova della loro gentilezza di cuore: non vogliono quella tale perchè è più grande e meglio abbigliata; ma perchè ha l'aria più buona. Altre credono di pigliare all'amo i parenti con certi sotterfugi di un'evidenza comicissima: vogliono una bambola da trenta lire, per esempio, invece di una da cinque; ma quella si contentano di prenderla in camicia, mentre questa è vestita; perchè c'è compenso, secondo loro. E bisogna sentire qualche altra, quando la mamma, mentre contratta una bambola già quasi accettata, cerca, movendosi, di non lasciargliene vedere una più cara, che potrebbe far rifiutare la prima, bisogna sentire con che tuono le dicono: — Eh, mamma, non serve che tu ti metta in mezzo: l'ho già vista. Tu cerchi di pararla perchè costa di più. Ah, vedi che diventi rossa! Ebbene, è quella lì appunto che io voglio. —

Fra le astute ci sono le ostinate impassibili, che sono un “genere„ tremendo; ed hanno tutte un procedimento uguale, come se l'avessero imparato tutte da una sola. Si vede alle volte una intera famiglia, disposta in cerchio intorno a una bimba alta un palmo, scalmanarsi un'ora inutilmente, con le buone e con le brusche, per indurla a cedere; e quella rimane là in mezzo immobile, incocciata a volere la bambola preferita, dura e muta come un paracarro. Conosce i suoi polli, ha fatto i suoi conti; sa per prova che, a tener duro, la spunterà, senza darsi l'incomodo di piangere e di strepitare: le basta tacere e non muoversi, respingendo a colpi di gomito ben assestati le mani carezzevoli che tentano di posarsele sulle spalle per rabbonirla. Non c'è che pigliarla in braccio e portarla via come un pacco. Ma le bimbe che fanno così hanno dei parenti incapaci di quegli atti eroici. Falliti i negoziati e sciupate le minacce, il padre o la madre finisce con rassegnarsi e munger la borsa, con la magra consolazione — qualche volta espressa a voce alta — di pensar che la sua figliuola è un carattere.

Domandai al Bonini che parte egli rappresentasse in questi piccoli drammi. — Una parte odiosa, — rispose sorridendo, — quasi sempre. — E mi raccontò un fatterello divertente. Anni fa, gli venne in bottega, con la mamma e una zia, una bella bimba, una ricciolina bruna, di quelle “tragiche„; la quale fece tali furie perchè non le volevan comprare una bambola delle più care, si mise a strillare e a dimenarsi con tale frenesia, che la madre, sgomenta, affannata dal timore che le pigliassero le convulsioni, si diede a gridare quasi piangendo: — Dio mio! Che cosa fare! M'aiuti lei! Trovi qualche modo! — E il Bonini trovò: agguantò la bambola desiderata, corse in fondo alla bottega, fece mostra di ravvolgerla in un panno, dove mise invece quella scelta dalla signora, ingrossando il volume con una dozzina di giornali, legò l'involto traditore in fretta e in furia, e portatolo alla bimba, le disse: — Prenda, se la porti a casa, aggiusteremo i conti un'altra volta. — Ah, buon Dio! — esclamò; — seppi poi quello che era accaduto a casa, all'apertura dell'involto: una tempesta, un inferno tale, caro signore, che ebbi rimorso dell'opera mia.

— E poi? — domandai.

— E poi.... La bimba è tornata qui altre volte.... Da anni non ci vien più, è una signorina da marito, la vedo qualche volta passar per via Roma: ebbene, lo vuol credere? Lo capisco dalle occhiate che mi tira.... Non mi ha ancor perdonato!

Gli domandai fino a che età venissero le ragazze a comperar bambole. Sorrise, e rispose sottovoce: — Alcune vengono fino a un'età.... incredibile. — E si mostrò osservatore fine ed artista parlando del come certe ragazze grandi si presentano, nelle ore che non c'è nessuno, un po' impacciate, con due rose vive sulle guance, sorridendo e vergognandosi a un tempo: graziosissime, veramente. E qualche volta egli s'avvede benissimo della commediola concertata che recitano insieme, per salvare la dignità, la figliuola e la mamma; le quali esaminano la merce discorrendo fra loro come se la compera fosse destinata ad una sorella più piccola, di cui non esiste l'effigie. Quante ne ha viste passare in ventidue anni! Quante ne riconosce ancora, che hanno preso marito e son madri! Per alcune, tra l'ultima bambola che comprarono per sè e la prima che vengono a comperare per la loro bambina, non passano che cinque o sei anni. Vedendole comparire, dopo qualche tempo, con una governante che ha un batuffolo in braccio, gli par che vengano a restituire l'ultimo acquisto che hanno fatto nella sua bottega. Qualcuna gli dice scherzando: — Quando le comperavo per me, non tirava i prezzi a questo modo. — E spesso egli vede la bambina far le medesime scenate che fece la madre, e quando questa le dice: — Ma che modi son questi? Ma non hai vergogna a farti sentire? Ma non vedi che tutti ti guardano, ecc. — si ricorda che eran proprio quelle stesse parole che la nonna diceva a lei, pochi anni addietro, e proprio sulle stesse pianelle del pavimento, e con lo stessissimo frutto; e ha buona speranza di veder ancor ripetere la scena dalla bambina presente con una bambina futura.

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Di un gran numero delle sue clienti serba i nomi in un registro “a figlia e matrice„ dove sono segnate le riparazioni da fare alle bambole: poichè egli non è meno rinomato raccomodatore che fabbricatore, e fa l'agevolezza del pagamento cumulativo in fin d'anno, come i medici. Diedi un'occhiata all'ultimo libro: in poco più d'un anno quasi tremila riparazioni: è un bel rompere. Si trovano in quei fogli i nomi d'un gran numero di famiglie note dell'aristocrazia, dell'alta industria, dell'alta finanza e della politica, e le registrazioni sono fatte in modo che, a legger quel libro altrove, senza sapere a chi appartiene, si fremerebbe d'orrore e di pietà, e si riderebbe anche cordialmente. Figuratevi! — Signorina A. B. le gambe rotte — Contessa S. D. R. perduti gli occhi — Marchesa D. O. T. — una parrucca — Signora E. Z. — cambiarle le calze; e avanti così. A una baronessa va rinnovato il meccanismo, un'altra signora ha perduto la voce, un'altra ha perduto la testa. Ma in realtà non c'è da ridere, perchè molte delle clienti vengono a portar la bambola con gli occhi ancora lagrimosi, addolorate come d'una disgrazia vera, e, lasciandola, fanno raccomandazioni su raccomandazioni, con voce commossa, come la madre al chirurgo che deve operare il figliuolo. E la sala delle operazioni è là presso, tutta ingombra di ferri, di pinze, di fili, di piccoli congegni per tener unite le membra avulse, di boccette di colori per ritingere i visi slavati, di vasetti di pasta per curare le scoriazioni e le piaghe; e vi si vedono sui tavoli, sulle seggiole, sul davanzale delle finestre, buttate in tutti gli atteggiamenti, grandi bambole nude, con le capigliature tragicamente arrovesciate, con “gli occhi mobili„ stralunati, con le “bocche parlanti„ spalancate, le une cieche, le altre zoppe, le altre mutilate, teste separate dal busto, tronchi con le braccia tese, braccia e gambe disperse; uno spettacolo orrendo, che mi ricordò un cert'antro fantastico di Jack lo squartatore, visto in un baraccone di Piazza Vittorio Emanuele, nel carnevale passato. Ma v'è in un angolo un cassone che dà anche meglio l'idea di tutti gli strazi che possono fare di un simulacro fragile di corpo umano quegli artiglietti così industriosi e pazienti nel lavoro di distruzione che son le manine fanciullesche eccitate dalla curiosità istintiva dell'anatomia del giocattolo: un cassone che vi richiamerebbe alla mente il carnaio della casa di Sédan, descritto dallo Zola, dov'era ammucchiato tutto quello che cadeva dalle tavole d'operazione del dottore Bouroche. È una miscela miseranda di pezzi di cranio, di mezze facce, di occhi divelti, di frammenti d'arti superiori e inferiori, di manine e di piedini recisi, e di nasetti staccati e di chiome bruciate, che fanno pensare a mille accidenti domestici e pianti e dolori e scenate e diverbi coniugali conseguenti.... — Sei tu che l'hai avvezzata male. — Ma se ha il tuo carattere per l'appunto! — Non è il mio carattere, è la tua educazione. — Ma come?... — Ma certo!... — Ah, che esistenza, Dio mio!...

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Merce ve n'è da contentare il bel sesso di tutte le scuole elementari della penisola: cassetti sopra cassetti, casse dietro casse, strati sopra strati, collegi, folle, generazioni di bambole; e poichè le straniere, per scemar le spese della dogana, che prende due lire il chilogramma per le bambole intere, si fanno venire divise in due, e anche le indigene, per occupar meno spazio, si dividono, così ci sono casse piene di corpi senza testa, e casse piene di teste scompagnate, in modo che le clienti possono metter la testa che vogliono sul corpo che loro piace: operazione che scongiurerebbe tanti guai se si potesse fare nei matrimoni! E poichè pagano di meno le teste senz'occhi, ci sono casse piene di teste con le occhiaie vuote e casse piene d'occhi di tutti i colori, che, al levar del coperchio, vi fissano in viso cento sguardi interrogatori, come stupiti della luce improvvisa. E poi ancora scatole sopra scatole piene di piccole capigliature bionde, brune, castagne, arricciolate, increspate, ondulate, incipriate, che danno l'immagine di tanti cofanetti di don Giovanni, contenenti le ciocche delle cento belle sedotte. Ma quelle cassette di teste, con quei cartellini scritti a grossi caratteri, quanto fanno pensare di più! Ce n'è tanta varietà quanta ne può offrire una Camera di deputati: Teste di legno — Teste di ferro — Teste di cera — Teste infrangibili — Teste piccole — Teste grandi — Teste fini.... — E v'è accanto a questo un altro grande compartimento, quello delle marionette, che sono pure una “specialità„ del Bonini; altri scatoloni innumerevoli, con certi strani accoppiamenti di nomi sulle etichette, come vecchie e streghe — monache e diavoli — fantasmi e garibaldini, — e fra le più appariscenti, tre scatole che si toccano, su cui è scritto: — dottori — assassini — sindaci. — E poi bambole da capo, il compartimento dei corredi, dove sono maraviglie di piccolissime calze di tutte le tinte, con legaccioli che paiono anelli da dito, di camicine trinate, di ombrellini, di manicotti in cui non entra il mignolo, di piccoli corredi compiuti, che costano lo stipendio d'un anno di molti maestri elementari del regno d'Italia; e poi il magazzino delle stoviglie da tavola e da lavamani, che un tempo venivan tutte di fuori e ora si fabbricano con molto gusto e a mite prezzo a Laveno; e in fine la sezione dei mobili, dove ai prodotti di fabbrica sono frammiste tavole e seggiole minuscole, fatte pazientemente a mano da lavoratori solitari, da giovani artisti senza impiego, e anche da vecchi servitori dello Stato pensionati e cavalieri, che, serbando l'incognito, si guadagnano con quei gingilli il tabacco da naso.

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Il Bonini mi mostrò le bambole più belle, chiomate e vestite, chiuse in una scatola, e le scoperse come fa con le piccole clienti, levando il coperchio con un gesto rapido e presentando la scatola ritta, in modo che la bambola apparisca tutt'a un tratto, come sur un uscio spalancato, in tutta la sua virtù seduttrice. E si capisce come, così presentate, facciano colpo. Alcune appariscono con un braccio teso, come per porgere la mano alla compratrice; altre con un piede alzato, come per slanciarsi verso di lei; questa con la testina inclinata da una parte, come per vezzo; quella con gli “occhi mobili„ voltati in su come se dicesse: — Sia ringraziato il cielo! Son libera! — E altre ancora in atteggiamenti drammatici, tutte con quel visetto fatto a pesca, con quella bocca a botton di rosa, con quegli occhi grandi e freddi di damine senza cuore e di cocottes senza pensieri. E vedendole così passare pensavo al loro diverso destino, ai mille scopi diversi con cui sarebbero state comprate. — Per questa, forse, la compratrice è già per la strada, gongolante, e sarà qui a momenti; per quella, o sta per nascere o non è ancor concepita; e quest'altra apparterrà a una bambina che, per ottenerla, sta stillandosi il cervello sull'aritmetica e sulla geografia. E quante serviranno a strappare il consenso all'estrazione d'un dente o alla trafittura degli orecchi per le piccole búccole! L'una dormirà la notte di Natale sotto un cuscino da letto, l'altra la sua prima notte libera sulla strada ferrata, e parecchie saranno regalate alla figliuola per ripagare d'un favore il babbo, o serviranno a distrarre la bimba mentre il donatore parlerà nell'orecchio alla mamma. Ed altre son destinate a rallegrar la convalescenza di piccole inferme, e forse più d'una ad esser pôrta, soffocando i singhiozzi, da una madre desolata, ultimo conforto a una malattia senza speranza, e a cadere un giorno dalla piccola mano scarnita, e a spezzarsi sul pavimento nel punto che la sua mammina adottiva chiuderà gli occhi per sempre. E quante carezze amorose, quante parole gentili, quanti teneri baci avranno questi corpicini insensibili, quanti piccoli cuori palpiteranno contro questi brevi petti pieni di tritura di sughero, su quante innocenti e soavi nudità premeranno queste fantoccie i loro labbruzzi freddi di porcellana, strette fra due braccini candidi e scaldate da un alito odoroso, dentro un lettuccio visitato da sogni azzurri! — Eh, sì; ma molte si buscheranno anche delle pacche secche, poichè è sempre in vigore, m'immagino, quel bell'uso materno, così sapientemente educativo, di consolar la bimba che cade picchiando la bambola ch'essa ha fatto cadere con sè; e poi perchè.... où il y a des femmes il y a des claques, come dice il proverbio dei nostri amici.

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Vidi infine le rarità: prima fra queste una piccola montanara di Varallo, dove nacque il “re delle bambole„, vestita di tutto punto come le sue compaesane vive, con quei ricami variopinti, che paiono mazzetti di fiori, con quei calzoncini di panno nero, con quelle treccie solide, con quegli ori antichi: una bella maschiotta bionda, che costò al Bonini e a sua moglie mesi di lavoro, e fece furore all'Esposizione di Palermo; per il che è conservata in bottega come una gloria di famiglia. — Questa non si vende, — mi disse l'autore de' suoi giorni. Infatti, aveva un'aria onesta. Ma le altre “rarità„ che rappresentano contadine sarde, romane e napolitane, si vendono; ed è curioso che sono quasi tutti viaggiatori stranieri quelli che le comprano, non come giocattoli, ma come esemplari di vestiari italiani, per non comprare un quadro del Michetti, del Quadrone o del Corelli; facendo così una economia non disprezzabile. Domandai al Bonini se avesse delle bambole col fonografo dentro. Mi rispose che n'aveva avute; ma che non ne possedeva più. — Il modello che avevo fatto venire — soggiunse — cantava una strofetta francese e poi faceva una risata.... Ma sa, di quelle risate sguaiate, da canzonettiste parigine, che in una famiglia per bene fanno un brutto sentire.... — Bambole corrotte, — osservai; — ha fatto bene a farle fuori, perchè.... basta alle volte una sola anche in un grande magazzino.... — Ed ero sul punto d'aggiungere: —.... per guastare tutte le altre, — ma rinvenni a tempo dalla mia distrazione e fermai al volo lo sproposito.

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Ma ora viene il meglio, un vero finale da teatro. Stavo ancora amoreggiando con la bella varallese, quando mi vedo buttar sul banco una grossa bambola che agita le braccia e le gambe, gnaulando, come un bimbo in culla, con una tale apparenza di vita, che mi desta quasi un senso di ripugnanza. Mentre sto in ammirazione di quello sgambettìo, sentendomi toccare una polpa, guardo giù, e vedo un'altra puppattolona con la veste lunga, che mi fa intorno un giro di valzer. Non mi sono ancora scansato, ed ecco un'altra bambola enorme, che alterna dei passi sul pavimento, tenuta per le mani da un commesso, tale e quale come un bimbo che impara a camminare. Un'altra bambola tanto fatta, nello stesso tempo, mi viene incontro sul banco a passi risoluti, diritta, gettando delle strida di galletto, come per domandarmi qualche cosa, e, voltandomi a un leggero rumore, vedo dall'altra parte un'altra fantocciona paffuta, in camicia, che succhia il poppaiolo a tutta forza, come divorata dalla fame. Non so dire lo strano senso di stupore e quasi d'inquietudine che provai in mezzo a quell'inaspettata eruzione di vita artificiale, accompagnata da un ronzìo sordo di congegni nascosti, somigliante ai borborigmi dei bimbi malati; tanto che mi parve ad un tempo di trovarmi al teatro Regio a una scena del ballo Puppenfee e in una sala della Maternità in un momento di scompiglio. E non badai a pregare il Bonini di non dar la corda ad altri automi, e lasciai che dèsse un secondo giro anche ai primi, così che finii con trovarmi in mezzo a un girìo e a uno sbracciamento di corpiciattoli e a un concerto di miagolii, di gemiti e di strilli, che mi facevano voltare in fretta di qua e di là, quasi inconsciamente, come se m'avessero chiamato per nome da cento parti. Ma all'improvviso mi prese un dubbio, che mi fece subito scrutare i miei sentimenti e interrogar la coscienza, quasi diffidando, con curiosità viva ed attenta.... E dissi tra me: — Come?... Sarebbe vero?... dopo quasi un mezzo secolo? — Ed era proprio vero. — Oh rossor! — come dice l'Alfieri — O vecchio rimbambito! Insomma.... mi divertivo.

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E scappai fuori per non cedere alla tentazione di comprare. Ma per un pezzo, per la strada, non potei staccare il pensiero da quanto avevo veduto, perchè la vista dei passanti, invece di distrarmi, mi riconduceva la mente a quello spettacolo. Ed era ben naturale, tante son le rassomiglianze che corrono fra questo bel mondo e la bottega del signor Bonini! Persone senza il capo sulle spalle, occhi fissi che non vedono, bocche aperte che non mangiano, e crani vuoti e facce pitturate e parrucche, se ne vedono a ogni passo. E i bei visetti a prezzo fisso, e i personaggi di gomma elastica, e gli uomini che hanno nel ventre il principio motore d'ogni passo e d'ogni atteggiamento, e le donnine eleganti che non hanno in corpo che tritura di sughero, non si contano. E se son rare le creature femminine infrangibili, quanti non sono gli uomini pubblici che s'agitano e gridano per un'idea, soltanto fin che dura la corda che ha dato loro il padrone, e quanti i poveri disgraziati che delle manine di bimba carezzano e spezzano per un capriccio, e quante le belle signore che ballano il valzer allegramente mentre il bambino abbandonato succhia del latte di vacca freddo da una mammella di vetro!

E v'è anche questa rassomiglianza, che come delle accomodature delle bambole malmenate dalle bambine non sono queste che fanno le spese, così avviene quasi sempre nel mondo degli uomini, che rompono gli uni e pagano gli altri.

UN PICCOLO TEATRO CELEBRE.

Vidi una domenica, nella via Principe Amedeo, verso le tre dopo mezzogiorno, un concorso straordinario al teatro dei fratelli Lupi, dove si rappresentava Le sette meraviglie del mondo. La ressa era tale che s'eran dovute mettere due guardie municipali ai due lati della porta per impedire che seguissero disgrazie. La gente formava sulla piccola scalinata esteriore un monte di teste, a cui sovrastavano i visi ansiosi dei ragazzini tenuti in collo; alcuni dei quali, piangendo per il timore di non poter entrare, tendevano le braccia verso lo sportello del bullettinaio con un atto d'invocazione supplichevole, che metteva pietà e faceva ridere. La strada era per un buon tratto affollata, d'una folla diversa dalle solite: eran famiglie numerose strette in gruppo, molte signore, moltissimi ragazzi, una falange di governanti, di balie, di servitori, soldati di fanteria e bersaglieri, gente di campagna, donne del popolo. Alcune di queste, vicino a me, tenevano in mano il programma dello spettacolo, e lo leggevano forte, compitando, masticando quelle misteriose parole: Il mausoleo d'Artemisia, gli orti pensili di Babilonia, con un viso di divote che sentissero nominare un miracoloso santuario sconosciuto. Intesi un operaio, che aveva un po' d'accollo, dire in accento di trionfo ai vicini, mostrando un suo ragazzetto con la medaglia delle scuole municipali: — Questo non paga. I premiati hanno diritto. Ah, quei Lupi, che uomini! — Da ogni parte, girando fra la folla, sentivo commentare il programma, predir maraviglie della rappresentazione e decantar la “compagnia„. C'erano ragazzi che saltavano dalla gioia, che strepitavano dall'impazienza, che si cacciavano fra le gambe alla gente come cani, e si facevan largo a gomitate e a capate; e n'arrivavano altri continuamente, precedendo di corsa le loro famiglie, ansanti e col viso rosso; e al veder la porta affollata qualcuno si batteva il pugno sulla fronte in atto di disperazione. A un certo punto arrivarono i musicanti che, dopo aver tentato invano di aprirsi il passo, ritornando indietro per entrar dalla piazza Carlina, si soffermarono intorno a un signore alto, in giacchetta e cappello alla calabrese, fermo a una cantonata. In quel punto un ragazzo accanto a me, accennando con la mano quel signore, esclamò con accento appassionato d'ammirazione e di riverenza: — È lui!... Luigi Lupi! — Fu quell'esclamazione che mi diede l'ultima spinta a scriver queste pagine.

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Dei Lupi era già marionettista il nonno, nato a Ferrara, che cominciò in qualità di garzone o, come si dice in linguaggio teatrale, di “personaggio„ d'un marionettista rinomato, il quale girava per le città del Piemonte e veniva ogni anno a “far la stagione di carnevale„ a Torino. Vennero per molti anni al Teatro Paesana, nel palazzo dei Conti di Paesana, in via della Consolata; poi il Lupi mise su teatro da sè, e seguitando a girare come il suo maestro, continuò a venire a Torino l'inverno, non più al Paesana, al San Martiniano, dove gli succedette il figliuolo Enrico. Era un piccolo teatro senza facciata, posto al crocicchio di due strade uggiose della vecchia Torino, e così si chiamava dalla vicina chiesetta di San Martiniano, che fu abbattuta quando s'aprì la nuova via Pietro Micca. Ricordo che vent'anni fa, abitando là accanto, sentivo ogni sera tardi la musica del ballo e qualche volta scoppi d'applausi e fucilate; ma senza badarci, perchè non ci attirano le marionette se non quando ci danno una immagine del mondo che non si conosce ancora o quando ci rappresentano la caricatura della vita di cui s'è fatto esperienza. Quel nome del compagno di martirio di San Processo fece per trent'anni battere il cuore di tutti i ragazzi torinesi d'ogni condizione: non credo che ci sia un mio concittadino della mia generazione a cui esso non desti un ricordo confuso di vivi desideri e di vivi piaceri, e che, passando davanti a quella casa e dando uno sguardo a quella porta, sormontata ora da un'insegna di tappezziere, non ci veda riflessa come in uno specchio la sua immagine di fanciullo. In quel teatrino, che vide più volte nei suoi palchetti Ernesto Rossi, Virginia Marini e altri artisti celebri, dove recitò un prologo col capo nelle “nuvole„ Leopoldo Marenco, e di cui furono frequentatori, nella fanciullezza, la principessa Margherita e il duca di Genova, vennero su i due figliuoli di Enrico Lupi, ora proprietari e direttori; i quali, prevedendo che quella casa sarebbe caduta prima o poi sotto il piccone del conte di Sambuy, ne sloggiarono nel 1884, e, comperato il D'Angennes, un tempo primo teatro della commedia dopo il Carignano, andarono a installare il Gianduja e Giacometta dove avevano recitato Gustavo Modena e Adelaide Ristori. Ebbero per un pezzo un rivale formidabile nel Teatro Gianduja, fondato e diretto da un marionettista argutissimo, Giambattista Sales, che fu il primo a metter sulla scena la maschera di quel nome, e con questo sostennero una lotta accanita, tirando a superarlo nella varietà e nella ricchezza degli spettacoli; ma con la morte del Sales il Gianduja decadde e, dopo aver tentato inutilmente di rialzarsi con la rappresentazione d'opere liriche, nel 1865 scomparve. D'allora in poi, ossia da circa trent'anni, i Lupi non hanno più rivali a Torino, e poichè nessuna delle altre buone “compagnie„ italiane, essendo tutte girovaghe, può disporre di un copioso e vario materiale di scena com'è quello che essi possedono, si può dire che non hanno più emuli neppure in Italia.

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Il primo e più forte impulso al perfezionamento del piccolo teatro lo diede il padre Enrico, che fu uomo singolare per vivacità d'ingegno e vigore di volontà, non fornito di coltura scolastica, ma ricco di cognizioni d'ogni ordine acquistate leggendo avidamente ogni specie di libri, studiando gli uomini e la vita in tutte le classi sociali, intervenendo, anche vecchio, a conferenze, a riunioni pubbliche, a lezioni universitarie, e bazzicando pubblicisti, artisti, professori, con lo spirito sempre inteso all'osservazione e pronto a trar partito d'ogni cosa. I suoi due figliuoli ereditarono tutte le sue facoltà. Hanno nome Luigi tutt'e due e si firmano Luigi I e Luigi II, come due monarchi, padre e figliuolo, regnanti a un tempo. Sono, come i fratelli Goncourt, due lavoratori intellettuali associati, fra cui esiste un accordo perfetto. Ciascuno, peraltro, ha attribuzioni sue proprie. Il maggiore cerca i soggetti, compone, traduce, riduce, dirige l'andamento del teatro; l'altro provvede alla messa in scena, alla fattura dei personaggi, ai vestiari, a tutti i particolari della rappresentazione. Il primo, che ha passato la cinquantina, è il più originale della coppia. Uno dei caratteri più notevoli della sua originalità è di essere da trentaquattro anni impiegato nell'ufficio di polizia del municipio di Torino. È un uomo d'alta statura, di testa grossa e di membra robuste, che, visto una volta, non si dimentica più: la fronte ostinata, il naso audace, la bocca comica, gli occhi vivi e risoluti d'un uomo immaginoso e operoso, il collo e la voce ingrossati dall'esercizio della recitazione a voce forzata, gli atteggiamenti e i modi d'un artista. E d'artista ha pure il linguaggio scolpito e colorito, e correttamente italiano, come il suo modo di scrivere; ma attraente più che altro per la passione che lo scalda quand'egli discorre delle cose sue. A sentirlo parlare delle vicende corse dalla sua compagnia, ch'egli portò a Napoli, a Montevideo, a Buenos Aires, delle rappresentazioni che andava a dare con suo padre al castello di Moncalieri per il piccolo principe Oddone e per la principessa Maria Pia, dei viaggi ch'egli fece a Londra, a Parigi, a Chicago, a Vienna, a Berlino, in Danimarca per studiare i progressi della sua arte e osservare le grandi Esposizioni che voleva riprodurre sul suo teatro; ma sopra tutto a udirlo giudicare, dal lato dell'opportunità e dell'adattamento alle sue scene, le grandi opere drammatiche e liriche e gli avvenimenti politici e guerreschi d'ogni paese, ai quali egli tien dietro con attenzione assidua spiando ai quattro canti dell'orizzonte ogni fatto o personaggio o questione “teatrabile„ pare d'aver dinanzi un grande impresario autore attore e direttore d'una grande compagnia di prosa, di canto e di ballo, che pensi e lavori per il gran pubblico, e si riman poi maravigliati, girando lo sguardo intorno, di veder appesi alle pareti degli artisti di legno. E non si può disconoscere che nel cogliere i punti culminanti d'un periodo storico o della vita d'un uomo avventuroso e famoso, nell'intrecciare a qualunque soggetto i piccoli casi della sua marionetta protagonista, nella scelta delle situazioni drammatiche e dei quadri finali, ed anche nella condotta dei dialoghi appassionati ed arguti, e in special modo nelle “riviste„ egli dia prova di facoltà teatrali singolarissime; fra le quali primeggia una immaginazione ardente, temeraria, diabolica, ma sempre corretta, — se questo participio si può congiungere a quegli aggettivi, — da un buon senso raro, che anche nelle sue corse più stravaganti la tien legata per un filo sottilissimo a un sano intento morale e a un severo rispetto della decenza.

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Domanderete di che si componga il suo repertorio.

È una domanda che sgomenta. Per rispondervi dovrei scrivere un volume. È un repertorio che, fra drammi, commedie, farse, riviste, balli e fantasie, abbraccia in tempo e in spazio l'universo; va dal diluvio universale all'assedio di Makallè, comprende la mitologia, la storia patria e la cronaca cittadina, si stende dalla China alla California, dalla Cafreria alla Groenlandia, dalle regioni dell'etere agli abissi dell'oceano, dai cerchi del paradiso alle bolge dell'inferno. C'entrano le vecchie commedie dell'arte, drammi raffazzonati di tutte le letterature, i balli del Pratesi e del Manzotti, le opere del Meyerbeer e del Verdi, tutti i fasti militari della nazione dalla battaglia di Goito alla occupazione di Roma, tutti i congressi, i terremoti, le epidemie, le inondazioni, le incoronazioni, le esposizioni, le grandi scoperte che si succedettero sulla faccia dei due continenti negli ultimi cinquant'anni. Tutti i sovrani, tutti i grandi statisti e generali ed eroi, tutti gli italiani celebri in qualunque campo e per qualsiasi fatto, dal 1821 ai nostri giorni, passarono su quel palcoscenico, non di nome soltanto, ma nella loro effigie, scolpiti apposta, con rassomiglianza mirabile, vestiti come vestivano, riprodotti perfino, quanto era possibile, nei gesti e nella voce, presentati negli atti più importanti della loro vita pubblica e nei particolari più noti della loro vita privata. Il teatro dei Lupi rispecchiò tutta quanta la nostra nuova vita nazionale. Gianduia arrischiò il carcere quando la parola non era libera, sfidò le polizie, preconizzò la rivoluzione, congiurò, fu tribuno, soffiò negli entusiasmi, glorificò i martiri, celebrò le vittorie, pianse sulle sventure patrie, vendicò le vittime illustri dell'ingiustizia dei governi e dei popoli. Con un tal repertorio, pensate al cumulo dei copioni che debbono dormire nei suoi magazzini: s'avvicinano al migliaio. E per rappresentare tutta questa roba immaginate quello che deve aver visto quel palco di vestiari di tutte le fogge, d'armi di tutte le forme, d'edifizi mobili di tutte le architetture, di onde e di rocce, di piante e di ponti, di treni e di troni, di animali da tiro, da corsa e da soma, domestici e selvatici, asiatici ed europei, immaginari e reali, dall'asino e dal bue di Betlemme ai cammelli della colonia Eritrea, dal cerbero della Divina Commedia ai draghi del Celeste Impero; figuratevi le sacca di polvere da schioppo e di Bengala, di licopodio e di magnesio che vi debbono essere state bruciate, e i miriagrammi di legno e di cartapesta che vi debbono esser passati in sembianza umana.

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Le teste, appunto. Voi certo non immaginate (nè io l'immaginavo) che le teste degli attori di legno possano dare ai fratelli Lupi assai più pensieri che non ne diano ai capocomici le teste degli attori in carne ed ossa. Ed è così, poichè essi vogliono una rassomiglianza perfetta nelle teste dei personaggi illustri, morti o vivi che siano, e in quelle di tutti gli altri una corrispondenza rigorosa della fisonomia col carattere; e non è cosa facile agli artisti il soddisfare a una tale esigenza attenendosi ad un tempo all'esagerazione dei lineamenti voluta dall'ottica teatrale, senza spinger neppure questa esagerazione oltre il limite d'una caricatura discreta. Vi furono in questo genere due scultori genovesi, i fratelli Pittaluga, morti da circa trenta anni, valenti tanto, che molte delle teste fatte da loro servono ancora di modello e son riprodotte, con poche modificazioni, in centinaia di esemplari. Ma altre moltissime debbono esser fatte d'immaginazione, e non riuscendo alla prima, rifatte, e fino a tre o quattro volte rimodellate in creta, prese nel gesso, gittate in cartapesta, colorite a olio, con cura e fatica infinita di chi le ordina e di chi le forma. E così negli scenari, dopo il vecchio Morgari, che fu insuperabile, son rari i pittori che ottengano gli effetti speciali voluti da certe rappresentazioni fantastiche d'un teatro di marionette. E per il vestiario e per tutto ciò che vi si connette è il medesimo: è difficile trovar lavoratori che abbiano l'abilità e il buon volere di far degli stivali minuscoli perfetti in ogni loro parte, delle scarpettine di signora lunghe quanto un dito, delle parrucche grandi come la mano, brizzolate, architettate, disordinate con arte, e una quantità innumerevole di piccoli oggetti, come parasoli, panierini, portafogli, valigette, attorno a cui le dita più agili e più delicate si stancano e s'impazientano. E ad ogni nuova produzione spettacolosa c'è un esercito d'attori, d'attrici, di comparse grandi e piccole da vestire, calzare, incappellare, armare e ingioiellare, secondo l'uso di vari tempi e paesi, consultando album di costumi, studiando quadri, facendo ricerche di figurini, utilizzando vestiari smessi; di modo che non bastano all'opera la signora Lupi e le sue figliuole, e vi s'aggiungono modiste e crestaine e stiratrici, e qualche volta per un solo spettacolo dura il lavoro per un mese intero. Durante il quale è bellissimo a vedere il laboratorio, dov'è uno sfoggio di manti regali, di strascichi di dame, di sottanine di danzatrici, di divise di guerrieri, una profusione di piccole cose strane, graziose e pompose, un barbaglio di colori e di splendori, da impazzirci un collegio di bambine e uno sciame di gazze.

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Tutta la famiglia Lupi lavora al teatro: i due fratelli, la moglie e i figliuoli del primo: quattro maschi e tre ragazze, di cui due fra i diciannove e i ventidue anni. E bisogna vederli tutti là, tranne i due più piccoli, appollaiati sul ponte, o appoggiatoio, come lo chiamano, sovrastante al palcoscenico, durante la rappresentazione. Ecco il soggetto d'un quadro originale per un pittore ardito. La prima volta che, stando sul palco, vidi di profilo quelle otto teste d'uomini e di donne, l'una dietro l'altra, sporgenti da quella specie d'inginocchiatoio aereo, illuminate di sotto in su, ora parlanti ad una ad una, ora tutte insieme, con ogni sorta di sforzi violenti delle labbra e di strane intonazioni di voce, da quella di basso cavernoso a quella di soprano in falsetto, mentre le sedici mani movevano con un centinaio di fili una folla di personcine di sotto, mi parve di vedere una famiglia di numi sorretti da una nuvola che dirigessero le faccende e si pigliassero spasso d'una piccola umanità agitantesi sopra il polo d'un asteroide. Ma riconobbi subito che il fare i numi a quel modo non doveva essere una delizia. Stare delle ore in quell'atteggiamento contratto, col calore di tutti quei lumi nel viso, forzare e variare continuamente la voce, lavorando a un tempo con le dieci dita e consultando con lo sguardo obliquo il copione posto nel mezzo che fa l'ufficio di suggeritore, e mentre si parla e s'opera in alto invigilare e dar ordini a chi lavora in basso e ruzzolare e arrampicarsi ogni momento per un rompicollo di scaletta da bastimento quasi verticale, è una fatica da ammazzare anche dei numi. Non mi maravigliai, quando calò la tela, di vederli scendere dall'Olimpo, in maniche di camicia e con le braccia nude, bagnati di sudore e anelanti, come scendono gli acrobati dai trapezi. E allora soltanto m'accorsi che le due signorine portavano un vestito maschile, camicino e calzoni di traliccio grigio, che le facevano parere due operai; ma due operai dai quali il più terribile capo fabbrica avrebbe tollerato qualunque infrazione al regolamento, sostituendo dei sorrisi alle multe. Ma il dietro scena d'un teatro di marionette, per chi ci sale la prima volta, è pieno di altre sorprese piacevoli. Stando accanto alle quinte mi veniva fatto di scansarmi con un leggiero inchino, come si fa con le attrici vive, ogni volta che usciva di scena una signora, e rimanevo poi stupito al vederla tutt'a un tratto sollevarsi in aria, invece d'andare al suo camerino, e restarmi appesa in faccia come un salcicciotto. E così avevo un'illusione amenissima al veder tra le quinte del lato opposto una delle signorine Lupi che dava gli ultimi ritocchi all'abbigliamento dei personaggi prima che si presentassero al pubblico, accomodando a uno una spilla, stirando a un altro il vestito, aggiustando a un terzo il cappello, come si fa ai bambini filodrammatici, con atti lesti e carezzevoli, a cui quelli rispondevano, appunto come i bambini, con gesti che parevano d'impazienza, mossi dalla mano irrequieta che li reggeva dall'alto. E mentre vari personaggi agivano alla ribalta, mi pareva che ragionassero davvero degli affari propri, come fanno gli attori fra due battute, quei due altri più piccoli che le altre due ragazze, voltate dalla parte interna dell'appoggiatoio, facevano passeggiare e gestire pacatamente in fondo al palco, per dar vita alla scena. E quella confusione che si vedeva lungo i muri, in una mezza oscurità, di personaggi della commedia che stava per finire e dello spettacolo coreografico che stava per cominciare, di ballerine, di mime, di dame scollate, di marionette in giubba e in uniforme, con la tuba e con l'elmo, e di comparse di ogni età e d'ogni statura, mi dava quasi l'illusione di trovarmi sul palcoscenico di un grande teatro quando finisce l'opera e sta per cominciare il ballo. Ci era solo questa differenza, che nella mia qualità di consigliere comunale, com'ero allora, non potevo trovare là nessun argomento che mi servisse a combattere in nome della moralità la dotazione del Teatro Regio.

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Ma per conoscere a pieno le fatiche dell'arte e la valentìa della famiglia Lupi bisogna vederla all'opera in una giornata campale. Lo spettacolo, in tal caso, è assai più grandioso e terribile osservato dalle scene che visto dalla platea. Già è bellissimo veder gli apprestamenti della battaglia: le masse d'armati raccolti nell'oscurità, rotta dai lampi delle baionette e delle lance; i cavalieri appostati dietro le quinte, come alla vedetta; i muli carichi di munizioni che s'allungano in fila ai due lati del palco; i comandanti con la spada sguainata che aspettano dalle due parti il gran momento, coi grandi occhi sporgenti e fissi davanti a sè, come spianti il doppio mistero dell'orizzonte e della morte. Quando l'istante solenne è vicino, i direttori danno gli ultimi consigli, lanciano gli ordini supremi. Le truppe son pronte? Pronte. I cannoni sono in batteria? Sono. Le miccie sono accese? Sì. E allora avanti e Dio ci guardi! Le avanguardie scambiano le prime fucilate, i primi cavalieri scaramucciano, i primi feriti battono il capo di cartapesta sul palco, e giacciono irrigiditi; ma alcuni per rialzarsi tra poco più indemoniati di prima. Dietro le scene uno batte la grancassa per imitare il tuono del cannone, un altro dà nella tromba, un terzo muove la macchina che fa correre in lontananza un reggimento, un quarto galoppa intorno al palco accendendo i razzi fissi alle quinte che rendon lo strepito del fuoco di fila.

I ferri si scaldano: sul palco è un succedersi tumultuoso di mischie feroci, un cozzar di teste e di petti, un grandinar di colpi, un mulinìo di lame,

un incalzar di cavalli accorrenti,

di muli, di cannoni e di mitragliatrici che precipitano dai ponti e dalle rocce, con un fracasso d'inferno; e mentre su, sull'appoggiatoio, i fratelli Lupi, coi figliuoli, agitano le braccia furiosamente cacciando urli, minaccie, gemiti, grida di soccorso, frammiste a comandi e ad avvertimenti concitati agli aiutanti di sotto; questi e le ragazze, con una rapidità fulminea in cui ogni atto è preciso, ogni passo misurato, ogni secondo contato, corrono e ricorrono fra le quinte e le pareti, staccano le marionette, le porgono, le riprendono, le riappendono, le riporgono, raccattando di volo armi, elmi, giberne, bandiere, turbinando come fantasmi in una nuvola densa di fumo e in un odore acre di zolfo. E quando credete che il pandemonio sia per finire, non è che un artificio per crescer l'effetto: la battaglia riattacca più ardente, raffittisce il foco, raddoppiano i lampi, s'addensa il fumo, s'accelera il turbinìo; ai fragori del palcoscenico s'uniscono i clamori della platea, con gli urli d'ira dei combattenti si confondono le grida di entusiasmo dei ragazzi; è una furia febbrile e crescente d'uomini che salgono e che scendono, di lumi che girano, di marionette che volano, di fili di ferro che s'incrocian per aria, è un moto vertiginoso di ombre, di bagliori, di teste, di braccia, di attrezzi, una tempesta di schianti, di tonfi e di strida, una nebbia fitta, un rovinìo, un casa del diavolo che, quando cala la tela e tutto si queta, vi lascia sbalorditi, intronati come all'uscir da un manicomio dove siano scoppiati insieme una ribellione e un incendio.

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Ma più d'ogni spettacolo è divertente l'esame del “personale„ artistico. La prima cosa che mi stupì, quando visitai per la prima volta il palco scenico, fu la statura dei personaggi, che visti dalla platea paiono poco più alti d'un palmo, e son più di mezzo metro, come bimbi. E mi meravigliò l'esattezza minuziosa, perfin superflua, dei vestimenti. Non crediate che sian fatti soltanto per ingannar l'occhio da lontano, chè possono affrontar l'analisi della lente. Ecco, per esempio, un povero diavolo di vagabondo: egli è vestito di panni logori, pieni di sbrani, di rimendature, di toppe, di macchie d'unto, spelati ai gomiti e coi bottoni che ciondolano, e ha la cravatta a corda, la camicia di tela rozza e rugosa, le scarpe acciabattate e crepate. Il signore elegante ha il solino di moda, i bottoncini d'oro ai polsini e allo sparato, e la catenella dell'orologio che gli pende dal taschino della sottoveste. C'è un vecchio medico intabaccato, con un cappello cilindrico che mostra dieci anni di servizio, gli occhiali sulle orecchie, e una palandrana d'un color di ragno arrabbiato, che farebbe venir l'acquolina in bocca a Ermete Novelli. Ma le più belle son le signore, vestite secondo l'ultimo figurino, con un gusto squisito, dai fiori del cappellino agli stivaletti, che son piccole meraviglie, con spille, orecchini, anelli, borsa, ventaglio, con capelli veri, pettinati all'usanza del giorno, che si ravviano col pettine al momento dell'andata in scena, con le sottanine ricamate e insaldate, perchè, se segue un accidente impudico, il pubblico veda che son vestite di tutto punto, da signore per bene. E la proporzione delle loro forme è ammirabile: hanno petto, spalle, fianchi, braccia di donnine vere, tanto che è un diletto il voltarle e rivoltarle fra le mani, e col pretesto di vedere come son vestite vi lasciate andare a prolungar l'analisi con un sentimento di curiosità colpevole. E la varietà dei tipi! La prima volta che fui sul palco, di giorno, il signor Lupi me ne presentò una dozzina, il fiore della sua aristocrazia, tutte giovani e eleganti, appendendole l'una accanto all'altra per il loro fil di ferro lungo due metri a una spranghetta che mi stava sopra il capo, e definendo in due parole ciascuna: — Ecco un tipo sentimentale — Quest'altra è più bella, ma meno simpatica. — Veda questa, che aria distinta! — E quando me le vidi schierate davanti, come un comitato di patronesse d'opera pia, aspettanti la visita d'un pezzo grosso, tutte impettite, con quegli occhi larghi e luccicanti, che volete? sentii una certa suggezione, mi parve di dover dir qualche cosa, poco mancò che non dimandassi loro se avevano sofferto il mal di mare nel viaggio in America.

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Perchè è da sapersi che a chi s'intrattiene fra gli attori d'un teatro simile segue un caso psichico curiosissimo, il quale non avviene a chi visita un magazzino di bambole, sian pure stupendamente formate; avendo queste tutte lo stesso viso, la stessa età e un vestimento convenzionale. Fra quelle marionette, invece, che rappresentano una grande varietà di tipi, ed età, ceti, professioni, caratteri diversi, con una riproduzione così perfetta, oltre che degli aspetti fisici, di tutti i particolari del vestire, la nostra immaginazione è presa a poco a poco in un inganno che, distraendola dalla considerazione della grandezza, finisce con fargliele vedere e considerare come persone vive. Riesce maggiore l'illusione quando s'è fatto l'occhio all'esagerazione dei lineamenti e dell'espressione dei visi, non sensibile a lungo perchè comune a tutti, e non mai spinta oltre quel segno che pure nel vero è possibile; la quale, poi, produce quest'altro strano effetto che, uscendo di là, ci paiono mancanti di rilievo, di vigore, d'espressione, quasi facce appena abbozzate, i primi visi umani che ci si paran dinanzi; come accade a chi vive tra i pazzi, che quando rientra fra i savi, gli riesce a tutta prima sbiadito e monotono il loro linguaggio sensato e pacato. Ed è appunto questa illusione che rende piacevolissimo il “soggiorno„ in mezzo al popolo dei fratelli Lupi. Io mi ci son divertito, non dico “come„ ma assai più d'un ragazzo. Ci avrei passato la giornata intera. Il popolo è innumerevole. Per lo spiraglio d'un guardaroba socchiuso, dietro a una tenda che il Lupi solleva, negli angoli del palcoscenico, nei vani oscuri delle pareti, da per tutto vedete crocchi di signore, pattuglie d'armati, conciliaboli di facce equivoche, personaggi di corte sfolgoranti d'oro, barboni misteriosi, occhioni che vi scrutano, bocche spalancate come per cacciare un grido, rattenuto al vostro apparire, frotte di popolani, brigate di signori in abito nero, gruppi di ballerine in maglie color di carne. Una di queste mi diede nell'occhio: il Lupi stese la mano per prenderla. Stavo per dire: — Non la disturbi, — ma era già sull'impiantito, che faceva le sue piroette, voltando il busto e il capo dalla parte opposta alla gamba alzata, gonfiando le sottanine trasparenti tempestate di pagliuole d'argento, e pubblicando, come dice l'Aleardi, le arcane forme pienotte con tanta vivacità e tanta grazia, che non mi parve più una stravaganza quel romanzetto di Felice Govean, nel quale il protagonista s'innamora perdutamente della prima ballerina del Gianduja. Non fo celia: metteva voglia di prenderla per la vita e di portarsela via: un impertinente avrebbe domandato al signor Lupi il suo indirizzo. Ma la cosa più amena è che fra un così gran numero di visi verosimili vi occorre ogni tanto di trovarne uno che vi fa dare un guizzo per la sua somiglianza straordinaria con qualche persona che conoscete. Ho trovato là, fra color che son sospesi, due ministri, un'attrice celebre, un mio vicino di casa; e qualche altro di cui riconobbi il viso, senza ricordare chi fosse, ma che mi fece dire senz'ombra di dubbio: — Con costui ho desinato. — E, punto dalla curiosità, continuai a cercare, e feci anche delle scoperte sgradevoli. Ficcando gli occhi tra una folla di donne, mi scappò un'esclamazione: — La regina Taitù! — Era lei pretta sputata. Un po' più in là trovai Menelik, Maconnen, Mangascià, il generale Baratieri, con la sua uniforme d'Africa, somigliantissimo, ma ancora con l'aria scipionica, perchè era stato modellato dopo Senafè. Il Lupi alzò una mano, sollevò un personaggio e disse con accento di rispetto: — Il maggiore Toselli. — Ebbene, nessuno ne avrebbe sorriso, e non mi parve una profanazione. Era anch'essa una forma di gloria quel piccolo simulacro che aveva scosso il cuore e fatto batter le mani a tanti fanciulli e strappato qualche lagrima anche a dei grandi, e pensai che se il bravo soldato l'avesse potuto vedere ne avrebbe sorriso dolcemente, come un trionfatore che senta fra il plauso d'un popolo gridare il suo nome da un bambino.

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Le sorprese sono infinite. Trovate due personaggi perfettamente uguali: che rappresentino i Menecmi di Plauto o i Gemelli del Goldoni? No. Il protagonista è uno solo; ma vuole il dramma che a un dato punto egli si tolga la berretta sulla scena: operazione impossibile a cagione del filo che regge i suoi destini: e non c'è altro che sostituire a lui, con uno stratagemma di cui non s'avveda il pubblico, un alter ego con la berretta in mano: una sberrettata che costa ai signori Lupi venticinque lire. Trovate qui un personaggio col viso fresco e coi capelli neri; poco discosto il medesimo col viso rugoso e col pelo grigio; un po' più oltre ancora lo stesso, con la faccia decrepita e il cranio pelato: è un personaggio che deve apparir nel dramma in tre età diverse; e se è vero che nel corpo umano si rinnovano di continuo le cellule, in modo ch'esso è tutto intero rinnovato ogni tanto tempo, la marionetta non rappresenta forse più il vero che l'attore? Così, per rappresentare l'epopea garibaldina, che ebbe un successo strepitoso, i Lupi fecero fare una famiglia di Garibaldi, da Garibaldi bambino a Garibaldi morente, e d'uno stesso Garibaldi vari esemplari, grandi e piccoli, per mostrarlo sul proscenio, a qualche distanza, e lontanissimo. Così crede il pubblico di vedere tre fratelli Girard, che fanno i giochi maravigliosi, e ne vede quindici. Di Gianduia poi ce n'è una coorte; Gianduia di ogni età e di ogni altezza, Gianduia ingrassati, allampanati, enfiati, feriti, afflitti, ridenti, contraffatti; come si richiede per un personaggio che è contemporaneo e cooperatore degli eroi di tutti i secoli e di tutte le genti. Le teste storiche o di viventi illustri, che potrebbero abbisognare altre volte, i Lupi le conservano: ne hanno piene delle scatole da petrolio, ammontate a parte in un magazzino. Luigi Lupi ne aperse una piena di teste di Gesù, modellate assai bene, e levandole e presentandomele rapidamente l'una dopo l'altra, mi produsse un'illusione singolare, somigliante a quella che dà il cinematografo: mi parve di veder lo stesso viso, da prima sorridente, rattristarsi, balenar d'ira, rasserenarsi di nuovo, poi rimbrunirsi da capo, impallidire, stillar sangue, alzar gli occhi al cielo e rimaner immobile nella morte. Le teste di Cristo, badate, sono le sole che non son mescolate con altre. Ma che bizzarre miscele ritrovate mettendo le mani nelle altre scatole! — To', Maino della Spinetta — To', Tommaso Villa — La regina Vittoria — Davide Lazzaretti. — Mi venne in mano una testa che mi destò una vaga reminiscenza, ma non accompagnata da un nome. Domandai: era Alessandro Manzoni. La rassomiglianza era imperfetta, mi spiegò il Lupi, perchè, volendosi fare alla testa il mento mobile, s'era dovuto alterare il contorno inferiore del viso; del che si mostrò dolente. Ma l'effetto di quella mostra di teste ha qualcosa di repugnante: vi fa pensare ai cestoni orrendi della ghigliottina del Terrore. Corrono un'altra sorte, però, le teste degli uomini notevoli di second'ordine, pei quali è improbabile che ritorni un'altra ora di celebrità dopo quella accidentale che li portò sul palco scenico: le teste di questi, opportunamente svisate, rimangono in servizio sotto altri nomi, passano sulle spalle di altri personaggi. A quali marionette saranno toccate le teste di tanti membri di Comitati d'Esposizioni, di consiglieri comunali e di regi prefetti, che vedemmo passare, salutate dagli applausi, sulle scene del teatrino di Gianduia? Forse gli stessi Lupi non le riconoscono più. Saranno diventate teste di portinai, di mercanti, di lacchè, di gendarmi. Oh la gloria, com'è traditrice!

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V'è accanto al palcoscenico uno stanzone che serve insieme da magazzino di vestiari e da laboratorio. Al primo entrare vi si presenta uno spettacolo tremendo. Pendono in un angolo centinaia di corpi ignudi d'impiccati, col capo nascosto in un cappuccio da fratelli della Misericordia, ma bianco e tirato fin sulle spalle, come l'orrido berretto da notte che si metteva un tempo ai condannati a morte. Vi par di vedere lo spaventevole verger du roi Louis che descrive il Gringoire del Banville, non sapendo chi gli sta davanti, a Luigi undicesimo. È il dormitorio delle marionette provvisoriamente disoccupate. Là potete far degli studi anatomici, ammirare la bella proporzione delle membra, la perfezione delle giunture, la delicata fattura dei piedi e delle mani, le polpe delle regine e delle servette, i toraci atletici dei guerrieri e dei briganti. E vi trovate anche pance di Falstaff, schiene di Rigoletti, gambe di Quasimodi, corpiciattoli di nani, tutte le deformità miserande d'un ospizio di “incurabili„. Ma non si può immaginare come tormenti la curiosità la vista di tutti quei cappucci lugubri sotto i quali l'immaginazione si raffigura dei visi contratti dagli spasimi dell'agonia o composti nella quiete solenne dell'eternità. Domandai al Lupi se fosse lecito, per amor dell'arte, violare il segreto della morte. Egli fece un cenno d'assenso. Io scopersi una testa....

Oh via dagli occhi miei,

Fuggi, s'apra la terra e ti ringoi,

come dice Macbetto allo spettro di Banco. Mai una più spaurevole faccia di vecchio pazzo e feroce non uscì dalla matita del Dorè nel furore delle sue ispirazioni infernali, nè da quella del Goya nel tracciare a ludibrio dell'uomo le caricature spietate della sua maschera. Mi balenò un ricordo. Era forse lui. Non poteva essere altri che lui. Ed era lui infatti, me lo disse il Lupi. Era un vecchio alchimista matto e solitario della parodia di Giulietta e Romeo, il quale, pochi mesi addietro, aveva fatto una così profonda impressione al bambino d'un mio amico, che se l'era sognato di notte e il padre aveva dovuto scender dal letto per quetare il suo terrore. Con mano peritosa scopersi un altro impeso, vicino a quello, e prima che ne apparisse il viso, mi lambì la mano una ciocca morbida di bellissimi capelli biondi. O nuovo miracolo gentile! Era un angiolo, un viso bianco e puro di Margherita, con due grandi occhi innocenti e un sorriso da pargolo che sogna gli splendori del paradiso. Ma aveva bisogno d'una mano di vernice perchè gli aveva sciupato una guancia un colpo di trombone dei briganti in un assalto dato alla sua casa tre anni innanzi. E continuai a scoperchiare teste, e vidi facce così superlativamente buffe che mi fecero scoppiare in una risata, visi d'una gravità da Presidenti di Corte di Cassazione, musi incartapecoriti d'usurai senza viscere, grinte di megere furibonde, rictus di Gymplaines e di Calibani, ceffi da Corti dei miracoli e da galera, frontespizi di bricconi così insolenti, così cinici e odiosi da spendere volentieri qualche franco, come dice il sor Camola, per pagare il piacere de dagh una martelada. E anche dei visi di uomini onesti e simpatici; ma quegli altri erano i più anche là, come nel mondo.

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Ma proseguiamo. Se tu, piccolo lettore, penetrassi dietro a quelle scene vedresti ben altre maraviglie. Ce n'è una a ogni passo: locomotive di strada ferrata che potrebbero far servizio negli imperi di Blefuscu e di Liliput, carrozze di gala da piccole fate, batterie di cannoni che sembrano uscite dalla vetrina dei modelli dell'Armeria reale, piccoli sofà e seggioloni di velluto, con le gambe e le spalliere scolpite, con rilievi di vero bronzo e candelabri che, salvo la grandezza, starebbero bene sopra una mensa di principi; poichè i fratelli Lupi vogliono la riproduzione del vero, anche nelle cose minime, più esatta assai di quanto sia richiesto dall'effetto teatrale e dai più difficili spettatori; e ciò non per altro che per amor dell'arte, per ambizione, direi quasi, della coscienza, come quei raffinati che mettono il lusso anche nelle cose che non si vedono. Nè tutto è qui: ecco una flotta di corazzate con le artiglierie, di piroscafi coi passeggieri, di bastimenti mercantili col carico, di barche d'ogni forma coi rematori: quanto occorre per rappresentare splendidamente la gran festa d'inaugurazione del canale di Suez. Ecco un castello che si sfascia a pezzo a pezzo sotto le percosse degli arieti o rovina tutto di un colpo, allo scoppiar d'una mina, come per un crollo di terremoto. Ecco cavalli che scalpitano e s'impennano, elefanti che mulinano la proboscide, leoni che squassano la giubba, scimmie che s'arrampicano su per gli alberi come scimmie vive, serpenti che strisciano e si rizzano sulla coda da metterti i brividi. Cerca con la fantasia quanto puoi desiderare di più prezioso per regalo di capo d'anno e lo troverai qui più grande e più seducente di come l'immagini. E qui puoi anche vedere con che ingegnosa industria di fili a una marionetta è fatto levare il portamonete dalla tasca interna del soprabito con un gesto spocchioso di figliuol prodigo, a un'altra cavar la spada dal fodero con la vivace eleganza d'un ufficialetto di cavalleria, a una terza spegnere una lampada con l'apparenza ch'essa sia spenta dal suo soffio: una delle prodezze marionettistiche più freneticamente applaudite. E ti puoi anche fare un'idea dell'attenzione e della destrezza che si richiedono per fare con garbo tutti quei movimenti delle gambe, delle braccia, del capo, degli occhi, della bocca; per evitare quei mille accidenti, così facili, di fili che s'imbrogliano, di vestiti che s'impigliano, d'ingombri, di contrattempi e di cozzi, dei quali basta uno solo a mandar a male una scena od un quadro; per guardarsi, in mezzo ad attori di natura così accensibile, a un tal cumulo di tela, di legno e di carta, a tanto fuoco di lumi, di razzi, di lampi, d'esplosioni e di fiammate, da una svista, da una distrazione momentanea che muterebbe a un tratto tutto quel palazzo magico in un falò spaventoso. Vedi quanta fatica, quante cure costa a chi ti diverte quello spettacolo che forse tu credi sia anche per loro uno spasso; vedi che ardua cosa è il governare anche il più facile dei popoli, un popolo che non mangia e non parla.

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Ma visitando l'interno del piccolo teatro, o piccolo lettore, avresti anche molte delusioni; le quali, per altro, ti sarebbero compensate da una più viva ammirazione dell'ingegno e dell'arte con cui le illusioni ti sono prodotte. Vedi, per esempio: quei cavalieri e quelle dame in gran gala che nel Napoleone a Mosca ballano con ebbrezza spensierata in fondo a un salone del Kremlino già morso ai fianchi dall'incendio, e che ti fecero un effetto così fantastico, non ballano: sono fantocci tutti d'un pezzo confitti in un disco invisibile che gira come la ruota d'un arcolaio. Quelle contraddanze così intricate e precise di zingarelle e di moretti, che ti paiono richieder l'opera di cento mani, non sono che il movimento d'una delle così dette scalette, un apparecchio contrattile di regoli di legno, su cui è piantato il corpo di ballo, maneggiato da due mani sole. Quelle ballerine innumerevoli che ne La coda del gatto scendono sul palco come un'onda umana inesauribile, e che ti strapparono un grido d'ammirazione, non son che una cinquantina di bambole infitte in un tamburo rotante, il quale te le ripresenta continuamente, come uno scrittore povero le medesime frasi e le medesime immagini da un capo all'altro del libro. E anche quella calata dei mille lumi dell'esercito abissino sopra Amba-Alagi, che ti scosse quasi come la vista della realtà, non è che l'effetto di un moccolo acceso fatto passare dietro a uno scenario bucherellato come un crivello. E non son più vere le belle cascate d'acqua, che ti fanno batter le mani dall'allegrezza: sono cascate di sabbia bianca mista con pezzetti di cristallo, che un apparecchio raccoglie e rimanda in secchielli alla sorgente, senza disperderne un grano. E quel tuono così bene imitato che par che venga dal cielo e t'incute quasi sgomento, ahimè! non è che un rumore di ciottoli cascanti dentro a un cassone, mossi dalla stessa mano che produce il sibilo del vento nella foresta per mezzo d'una confricazione di grossi fili di ferro. E quel mare azzurro, in fine, quel bel mare ondeggiante, che ti pare debba soverchiare da un momento all'altro le sponde e irrompere nella platea, non è che un saliscendi di pezzi di legno congiunti a cerniera che scote dietro le quinte un ragazzo della tua età, il piccolo Edmondo Lupi; il quale comincia la sua carriera facendo le onde e rappresentando il Colosso di Rodi nelle Sette meraviglie del mondo, come la cominciarono suo padre e suo nonno, e come la comincieranno, è da sperare, i suoi figliuoli. Ma tu, buon ragazzo, non isvelar questi segreti ai tuoi compagni, perchè a questo mondo, vedi, non bisogna togliere alla gente che le illusioni pericolose: strapparle quelle che, senza danno, ci fanno più belle le cose e più vive le commozioni piacevoli, è una brutalità, come sciupare i fiori.

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I grandi, però, anche conoscendo quegli inganni, non si diverton meno dei piccoli che gl'ignorano; e i grandi sono la maggior parte del pubblico. È improprio, in fatti, chiamar teatro dei bambini il teatro Lupi, nel quale, fuor che i giorni di festa, otto su dieci spettatori sono adulti. E un buon numero di questi, uomini maturi e vecchi, e anche gente colta, sono frequentatori assidui. Per effetto di quali vicende, di quali rivolgimenti psichici si saranno ridotti al teatro delle marionette? In molti, senza dubbio, non è altra causa che la semplicità dell'animo; ma in altri dev'essere una castrazione volontaria della fantasia, desiderosa di diletto, ma amante della quiete; una repugnanza, nata da un'esperienza amara della vita, alla rappresentazione troppo verosimile delle miserie e dei dolori umani, quale si fa nel teatro vero; un ritornare indietro di proposito, un rifugiarsi nel mondo della fanciullezza per sazietà o per aborrimento di quello degli uomini; e c'è forse in loro una stretta corrispondenza fra la passione per le marionette e l'indole delle letture preferite e di tutti gli altri passatempi: son forse di quei signori che passano ore ed ore, sui sedili dei giardini pubblici, a veder giocare i bambini. Ma è singolare come questi bambini con la barba non cerchino soltanto in quel teatro una ricreazione amena, come prediligano anzi i drammoni di grande effetto, e brontolino alle commediole e alle farse, giudicandole quasi una degradazione dell'arte, e paragonino e discutano quelle produzioni come drammi del Dumas e del Sardou, e propongano perfino dei soggetti ai fratelli Lupi con lunghe lettere esortatorie. E bisogna vedere con che serietà assistono allo spettacolo, come s'impazientano agli applausi e alle risa intempestive dei ragazzi che turbano la rappresentazione, e con che sdegno zittiscono gli sbadati che lascian cascare la canna, come se rompessero una frase dello Shakespeare in bocca a Tommaso Salvini. A vederli, ci vien sulle labbra un sorriso di pietà; ma a pensarci bene, non è questo il senso che ci dovrebbero ispirare. Che uomini i quali hanno vissuto più d'un mezzo secolo, lottato, sofferto, visto mille casi strani e terribili; e che hanno ancora passioni, dolori, cure gravi, possano prestar per tre ore alla conversazione di dieci pupi di legno un'attenzione che non presterebbero alla disputa d'un Consiglio di ministri intorno agli interessi più vitali dello Stato, non ci dovrebbe destar piuttosto, confortandoci, un sentimento d'ammirazione per la miracolosa facoltà che ha la natura umana d'illudersi, di dimenticare, di consolarsi con dei fantasmi e dei sogni delle sue miserie infinite?

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Le sere dei giorni feriali la sala non ha un aspetto diverso da quello degli altri teatri. Per vederla nella singolarità della sua bellezza bisogna andare alla rappresentazione diurna della domenica, quando centinaia di ragazzi e di bambini riempiono le sedie e le panche e formano in platea e nei palchetti come tanti mazzi, ghirlande, aiuole di teste bionde, e la varietà dei colori chiari e vivi dei vestiti le dà l'apparenza d'una sala infiorata e imbandierata per una festa. Anche prima che s'alzi il sipario v'è in quella piccola folla oricrinita l'agitazione, il rimescolìo d'una gabbiata d'uccelli digiuni al momento che si mette il panico nelle cassette. Gli uni son seduti, altri inginocchiati, altri ritti sulle panche o sulle ginocchia delle mamme o delle cameriere, o appoggiati coi gomiti alle sedie davanti, pigiati nei palchetti in doppia, triplice fila di teste, che fanno scala, le più alte col mento posato sulle teste più basse, e queste col mento sul parapetto, come disposte da un fotografo per il ritratto. All'alzarsi del sipario, si può dire che cominciano due spettacoli. È delizioso, durante una scena spettacolosa, vedere tutti quegli occhi spalancati come a un'apparizione dell'altro mondo, quelle espressioni di stupore altissimo, in cui pare sospesa la vita, quelle piccole bocche aperte in forma di O, di anelli e di semicircoli, quelle piccole fronti nivee corrugate come per uno sforzo profondo di cogitazione filosofica, che si riscotono poi bruscamente come al destarsi da un sogno. Poi, tutt'a un tratto, a una scena comica, a una risposta o a un atto buffo d'un personaggio, file intere di corpicini si torcono dal ridere, schiere di teste si arrovesciano indietro, scrollando matasse di riccioli, scoprendo i piccoli colli bianchi, schiudendo le bocchine come scrignetti rossi pieni di perle minute, e nell'impeto della gioia alcuni abbracciano il fratello o la sorella, altri si abbandonano fra le braccia della mamma, e molti dei più piccoli si buttano sulla sedia con le gambe all'aria, mostrando innocentemente la biancheria più segreta. E vedere come nel rapimento dell'ammirazione respingono furiosamente il fazzoletto importuno che cerca il loro nasino o ammollano una ceffata senza prefazione a chi para loro la vista del palcoscenico. Sono trecento paia di mani che applaudono con tutte le forze e non fanno fra tutte lo strepito di quattro mani virili: par di vedere e di sentire il frullo di centinaia di alette rosate, rattenute da altrettanti fili alle panche. E vi sono anche gli spettatori indifferenti, i ghiottoni piccolissimi che non voltano il viso verso il palco se non quando sentono delle fucilate; ma per riattaccarlo subito alla poppa con un giro risoluto del capo, come dicendo: — Corbellerie! Io ci ho di meglio! — Ma al rumor delle fucilate altri si spaventano e strillano, a certe scene tragiche qualcuno scoppia in pianto e tende le braccia verso l'uscita, ed altri, più forti, non piangono, ma, celando il viso in seno alla mamma, guardano il restante della scena con un occhio solo. E le esclamazioni ammirative e entusiastiche, è una gioia a sentirle. Allo scoprirsi improvviso di certi quadri, all'apparire di certi agnelli o asinelli o porcellini che paion vivi, sono scoppi di oh!, lunghi mormorii di maraviglia, a cui tien dietro quasi sempre qualche esclamazione solitaria d'una vocina sottile, che risuona nel silenzio come un vagito in una chiesa, un: — Ah com'è bello! — che prorompe d'infondo all'anima, che esprime una pienezza di contento, una beatitudine celeste. Ma è sempre Gianduia quello che produce gli effetti più grandi. Son qualche volta accessi di riso convulso, cori di singhiozzi e di trilli, risate acute, cantanti, prolungate, inestinguibili, che fanno voltar tutti gli adulti, col viso sorridente, verso le panche, come se gli attori fossero saltati dal palco nella platea, e che quando si smorzano in modo da lasciar riprender la parola alla famiglia Lupi, lasciano ancora qua e là qualche strascico sonoro, qualche piccino piegato in due, che non può smettere nè frenarsi, che col capo chino e col viso nelle mani seguita a ridere e a ridere, perdendo le lacrime e la saliva, sfinito; ma non acquietato nè da rimproveri nè da carezze, inebbriato e soffocato dal proprio riso, non ridotto al silenzio che quando la mamma gli mette un braccio intorno al collo e gli preme la pezzuola sulla bocca.

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Sentii una volta uno di questi scoppi di allegrezza, anzi un seguito di scoppi, quasi senza interruzione, dal palcoscenico, dove, giungendo a traverso la tela, affiochiti e confusi come se venissero di lontano, fanno un effetto insolito, vanno anche più diritti al cuore che a sentirli dalla sala. Pareva di udire un suono di cascatelle d'acqua, il canto di mille uccelli in un bosco, e ogni scroscio di risa finiva in un lungo sospiro di voluttà, simile al mormorio d'una onda larga e lenta che viene a morir sulla riva. Si rappresentava L'ultima notte dell'anno. Era un successo così straordinario che gli stessi fratelli Lupi e i figliuoli, curvati sull'appoggiatoio, costretti ogni momento a interrompere la recitazione, mostravano nei visi accesi e sudanti una viva compiacenza dell'opera loro. Ed io pensavo, guardandoli, quanti ragazzi e bambini essi avevano divertiti e commossi, quanti piccoli dolori avevano consolati; pensavo quanto migliaia di piccole creature, grazie a loro, s'erano svegliate la mattina d'un giorno di festa gettando un'esclamazione di contentezza: — È quest'oggi! — e immaginavo i tanti scolaretti poveri che avevano studiato per un pezzo fino a notte avanzata per guadagnar la medaglia che dà l'entrata gratuita, e vedevo i tanti visetti smagriti d'infermi che s'erano illuminati d'un sorriso alla promessa d'esser condotti a quel teatro. E, pensando a questo, l'opera loro m'appariva in un aspetto così gentile, la loro famiglia in una luce così amabile! Non pensavo più che anche per essi il primo scopo del lavoro era la vita, non vedevo più in loro che dei benefattori della fanciullezza. Mi pareva che i due fratelli Luigi avessero qualche cosa di paterno per quella grande famiglia rumorosa che sentivo e non vedevo, e guardando quelle due belle ragazze, inginocchiate in alto, mentre agitavano i fili con atti graziosi, rosse nel viso come se le riscaldasse l'alito dei loro piccoli spettatori, mi compiacevo a far passare col pensiero sui loro capelli tutte quelle manine bianche che applaudivano e sulla loro fronte tutte quelle bocche vermiglie che ridevano. Oh quelle risa argentine, quel riso fresco e beato, la più dolce delle musiche della terra, quel riso che ci fa rivivere nell'infanzia e rivedere il volto di nostra madre giovane, quel riso che dice innocenza e speranza, ignoranza della vita e gioia di vivere, che si diffonde intorno nelle anime come una virtù feconda e consolatrice, sia benedetto chi lo ride e ringraziato chi lo desta.

GENTE MINIMA

GREMBIULINI BIANCHI.

Erano dieci anni che non vedevo più un asilo infantile. Mi ricevette la direttrice, una monaca sui quarant'anni, di persona esile, col viso scolorito e gli occhi chiari, d'una espressione giovanile e dolcissima. Mi fece entrare in una vasta scuola, dov'eran raccolti trecento fra bambine e bambini in lunghi ordini di banchi, messi a gradinata, in modo che s'abbracciavano tutti con uno sguardo. Avevan tutti un grembiule bianco, pulitissimo; erano quasi tutti biondi. Entrava una luce viva per tre grandi porte vetrate. Era una bellezza da innamorare l'aspetto di quelle trecento piccole creature, strette le une alle altre come gli uccelletti sulle bacchette delle gabbie, e disposte come i fiori nei tepidari, a file sopra file, ciascuna delle quali presentava come tre striscie di colori, il bianco dei grembiulini, il rosa dei visi e l'oro dei capelli. Si capiva, davanti a quel quadro, come la mente umana non abbia potuto raffigurarsi il paradiso senza bimbi. A un certo momento, la direttrice disse uno scherzo, e io vidi aprirsi trecento bocciuoli di fiori rossi e brillarvi dentro migliaia di perle bianche.

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Ero arrivato poco prima dell'ora della colazione. Uscirono tutti a due a due, guidati da tre maestre monache e da una laica, ed entrarono in tre stanze nude; una delle quali, la più ampia, fu occupata dalle “signorine„ l'altre dai “giovanotti„. Tutt'intorno erano appesi alle pareti i canestrini rotondi, che avevan portati da casa col loro becchime per la mattina, e fui maravigliato della rapidità con cui le monache li distribuirono, senza leggere i nomi sulle piastrine, e senza fare uno sbaglio, come se fosse dipinto sopra ogni canestro il ritratto del proprietario. In pochi secondi furono tutti serviti. E allora cominciò lo spettacolo sempre nuovo e sempre bello dei mangia panini a tradimento.

Si misero a sedere, parte su panchettine, lungo le pareti, parte sull'impiantito, a file e a cerchi, che davan l'immagine di corone e di spalliere fiorite d'un'aiuola. Ma non tutti: c'eran dei piccoli “Taddei„ che, volendo fare il loro manducamento in santa pace, si cercavano un posto solitario; ed era ameno il vedere gli apparecchi minuziosi e lenti che facevano alcuni, con la serietà di vecchi gastronomi, come per un pasto che dovesse durare tre ore. Altri, spiriti contemplativi, stavano col canestrino chiuso fra le ginocchia, guardando per aria, col pensiero chi sa dove, e bisognava che le maestre li eccitassero a mangiare, agitando il bocconcino davanti alla bocca ritrosa, come si fa coi passerotti di nido. Le femmine, mangiando, cinguettavano; i maschi, più placidi, sgranocchiavano in silenzio: in una delle stanze occupate da questi sgranocchiatori non si sentiva una voce, tanto che, stando all'uscio, credevo che non ci fosse nessuno, e mi stupii, voltandomi, di veder là dentro quaranta ganascine al lavoro. Tutti quelli che avevan nel canestro qualche cosa di dolce, mangiavano prima tutto il dolce, rimanendo poi a pane asciutto; come fanno spesso, in altre cose della vita, anche i grandi. Le maestre vigilavano perchè questi privilegiati non facessero dei contratti birboni coi loro compagni, poichè accadeva sovente, mi dissero, che per un pezzettino minuscolo di cioccolata o di confetto alcuni dessero allegramente tutte le loro provvigioni, con la giunta d'un bacio di gratitudine. Parecchi, invece di mangiare, si facevano del cibo un balocco. Una bimba, che aveva un bocconcino di carne in salsa dentro una ciotola, pestò nella salsa il formaggio, il biscottino e le ciliege, e ne fece con molta cura una pasta d'un solo colore, che poi si mise a leccare col raccoglimento di chi assapora una ghiottoneria sopraffina, dando ogni tanto in una esclamazione di piacere. Vedendo un bambino che faceva correre sull'impiantito una pallottola, domandai a una maestra se fossero permessi i giocattoli: quella guardò ed accorse subito, esclamando: — Ah! che porcellino! — La pallottola era un rosso d'ovo sodo, annerito dalla polvere: il bimbo si scusò, dicendo che l'avrebbe mangiato dopo. Ammirai la prodigalità con cui le bambine che avevano una colazione abbondante ne facevan parte alle compagne mal provvedute: ad alcune le monache dovevano far riprendere quello che avevan dato perchè non rimanessero affatto digiune. Di tratto in tratto se n'alzava una e correva ad offrire un pinocchio o un acino d'uva secca o una ciliegia alla direttrice; la quale accettava ogni cosa ringraziando, ma per render tutto un minuto dopo; e le donatrici accettavano la roba resa con una compiacenza così manifesta da far capire che avevan fatto il regalo pro forma, con la certezza di rientrar nel proprio. Una bambina stava mangiando un pezzetto di carne in umido: una monaca le domandò: — Con che cosa è fatta codesta carne? — Quella intese che domandasse di che cosa fosse fatta, e dopo un momento di riflessione rispose: — La carne è fatta di sangue. — A un'altra che aveva un pezzetto di frittata, la direttrice domandò: — Chi t'ha fatto quella frittata? — E la bimba, come avrebbe nominato una persona celebre, che tutti dovessero conoscere, rispose: — Pinota (Giuseppina). — Chi sarà stata questa Pinota? Non ci fu modo di farglielo dire: parve che fosse offesa dalla nostra ignoranza nel suo sentimento d'alterezza di famiglia. C'era una sola bimba, alla quale si permetteva di portare all'asilo una piccola boccetta di vino annacquato, perchè era convalescente. Io la colsi sul fatto mentre ne dava da bere un sorso, di nascosto, a una compagna più piccina di lei, dicendole con gravità materna: — Tira giù, che ti rinforza.

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Via via che finivan di mangiare venivano intorno alla direttrice, che rivolgeva a tutte delle interrogazioni, con molto acume e molto garbo, per esercitarle a discorrere. Ma era oppressa dalle loro carezze. Si vedeva che l'adoravano. Sei o sette bimbe le stavano appiccicate ai panni, con le guancie strette alla sua vita, facendole così una cintura di testine bionde, che confondevano le capigliature, e la costringevano a tener le braccia levate, e le impedivano di muoversi; e tutte le altre tendevano verso di lei le manine aperte somiglianti a grandi margherite agitate dal vento. Un quadro incantevole quella monaca dal viso pallido e dal vestito nero, baciata da tutta quella fanciullezza rosata e bianca, che le faceva salire al viso la fiamma dell'amor materno, più vermiglia e più bella che non possa apparire in viso a una mamma vera. Una delle più graziose bambine che l'abbracciavano mi parve, dal rossore della palpebra, che avesse un occhio malato: seppi poi che quell'occhio era di vetro; ma che in un anno da che essa veniva all'asilo nessuna delle sue compagne se n'era accorta, e che le maestre badavano attentamente a prevenire tra lei e l'altre ogni gioco che potesse far scoprire il segreto. Vidi un bambino bellissimo, di famiglia povera, che aveva una grande capigliatura dorata e arricciolata, e domandai perchè facesse eccezione quello solo alla regola dei capelli corti per i maschi. Mi rispose la direttrice che quando aveva detto alla mamma di farlo rapare, questa s'era battuta la mano sulla fronte e aveva esclamato: — Oh povera me! — con un accento di così profondo dolore, che a lei era mancato il coraggio d'insistere. Poi mi furono presentate tre sorelline brune e pallide, dall'aria triste: una di cinque anni, le altre due gemelle, di tre anni e mezzo. Avevan perduto la madre da pochi mesi. A tutte tre s'era fatto credere ch'essa era partita per un lungo viaggio; ma che sarebbe ritornata. Un mese dopo, vedendo la bambina maggiore sempre addolorata, la direttrice le aveva detto: — Fatti animo: vedi le tue sorelline, che giuocano con le compagne. — Ed essa aveva risposto: — Ma è perchè le mie sorelle, che son piccole, non capiscono ancora che cosa vuol dire aver la mamma lontana. — Lei, poveretta, credeva di capire, e l'aspettava!

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Uscirono tutti a due a due, prima i più grandi e poi i più piccoli, e fecero parecchi giri per il cortile, in processione. Mi fermai in uno dei punti dove svoltavano, per vederli sfilare. Quante forme diverse di testine e di pettinature, quante espressioni variate di sguardo e di sorriso! Alcuni mi sorridevano con un'aria di famigliarità scherzosa, come se fossimo stretti amici da un anno. I bimbi salutavano mettendo la mano tesa contro la fronte, le bimbe facendo un piccolo inchino brusco del capo, come se ricevessero l'una dopo l'altra da una mano invisibile una pacchina sulla nuca. Quando carezzavo il capo o prendevo la mano ad uno, cinque o sei mi porgevano la manina o la zucchetta, e tutti gli accarezzati, quando mi ripassavano davanti dopo fatto il giro, domandavano la carezza un'altra volta. Qualcuno usciva dalle file per venirmi ad afferrare la mano o il braccio, e vi posava su il viso, e non si voleva più staccare. A momenti ne passava come un'ondata, tutti belli e biondi della stessa sfumatura, come se fossero stati scelti e messi insieme per far bellezza. Molti portavano il nome trapunto in grandi caratteri sulla cintura o inciso sui fermagli metallici, come colli viventi da spedirsi per la strada ferrata; e mi fu detto che alcuni di questi, dimandati del loro nome, per non darsi la noia di rispondere, indicavano col dito la propria pancia. Le bimbe, per la maggior parte, eran più pulite: alcune s'arrestavano qua e là per spolverarsi il grembiule o il vestito: cosa che i maschietti non facevano mai. Fra le une e gli altri notai molti visi seri, ma d'una serietà singolare, come di persone grandi occupate da pensieri gravi. Alle volte ne passavano parecchi in un gruppo, che mi guardavan tutti con la coda dell'occhio, senza alzar la testa, sorridendo furtivamente, come per farmi un segno d'intelligenza di nascosto alla direttrice. Uno dei bimbi più piccoli usci correndo dalla schiera, mi si venne a piantar dinanzi, si tirò su a due mani il grembiale e il vestito, come davanti a un medico, e stette guardandomi: io non capivo: la direttrice m'illuminò: voleva che guardassi le sue calze nuove. Eran due giorni che, per quella vanità, ogni momento, senza badare al sesso degli spettatori, alzava il sipario.

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La processione si sciolse sotto un porticato, dove cominciò la “ricreazione„. Chiudendo gli occhi, avrei creduto di trovarmi in un bosco dove cantassero mille uccelli e mille fontane. Dalla parte delle bimbe c'era meno rimescolìo e meno strepito; dall'altra si vedevano girare e saltare le teste come le palline di midollo di sambuco nella danza elettrica. Nacque qualche litigio, subito sedato. Domandai a una monaca se si picchiassero spesso. Dopo una breve esitazione, mi rispose di sì, sorridendo, e soggiunse: — I bimbi, per solito, danno dei pugni; le bimbe usano già le unghie. — Che fine sale satirico in quel già, detto da una monaca!

Una bimba venne a mostrare alla direttrice un ditino graffiato. Questa chiamò la gatta avversaria e le ordinò di baciare la compagna. Non scorderò mai il sorrisetto finissimamente femmineo con cui la colpevole, ancora indispettita, accolse il comando, nè il bacio rapido e secco, un vero bacio di ribelle, che diede alla compagna, voltandole quasi ad un punto le spalle, come un automa girante sopra sè stesso. — Una panca segnava il confine fra i due sessi. Una bambina di tre anni lo passò, ed entrò fra i maschi. Uno di questi, della stessa età, le si piantò davanti con un'impostatura di padre guardiano, e fissandola negli occhi, le disse con voce burbera: — Che fai tu qui? Non è il tuo posto.... fila! — Domandai alla direttrice se tutte le bimbe sconfinanti fossero ricevute con quella forma di galanteria. — No, — rispose sorridendo; — va a simpatie. — Del resto, c'è anche fra di loro spirito di gentilezza. I nuovi entrati, per esempio, e in specie i più piccoli, sono ben ricevuti da tutti; ai convalescenti che rientrano tutti fanno festa; non c'è uno sciancato o un malaticcio che non trovi qualche piccolo protettore. Provai a rivolgere qualche domanda a qualcuno; ma a me non osavano rispondere: rispondevano alla direttrice, e bisognava ch'io mettessi l'orecchio alla loro bocca per raccogliere il filo tenuissimo di voce che ne usciva a stento. Ma un momento dopo, da quella stessa bocca lasciata libera uscivano degli squilli di trombetta da passare i timpani. Domandai a una bambina piccolissima dove stesse di casa. La bambina, che stava rivolta verso il cortile, appuntò davanti a sè un ditino microscopico, che invece di indicare una qualunque parte di Torino pareva che accennasse a un bottone del mio vestito, e rispose con voce appena intelligibile: — Giù di lì. — L'informazione è precisa, — mi disse ridendo una monaca; — lei può trovar la casa a occhi chiusi.

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Tra il diletto che mi davano i bambini e l'ammirazione che mi destava la direttrice non saprei dire quale fosse il sentimento più vivo. Essa parlava con me; ma aveva l'occhio a tutti e a tutto; non le sfuggiva, in mezzo a quella folla agitata e rumorosa, nè una voce di lamento nè una mossa scomposta; di tutti sapeva il nome e la condizione di famiglia; non diceva una parola ad alcuno che non avesse uno scopo d'insegnamento; era dolce e grave, affabile e ferma ad un tempo; parlava continuamente e pensava sempre. — Da ogni bambino — mi diceva — imparo ogni giorno qualche cosa. — Io credevo d'aver fatto molte osservazioni sulla fanciullezza; ma non una gliene potei dire, ch'ella non avesse già fatta, e me ne disse cento, che mi riuscirono nuove e che mi parvero acutissime. Benchè monaca, come conosceva, o meglio come capiva il mondo! E la sua bontà era più ammirabile perchè non si fondava sopra le liete illusioni che addolciscono l'animo; ma era fortificata appunto da quella cognizione della tristizia umana, che in tanti altri cuori la scema. Aveva spesso occasione di andar nelle case dei suoi bimbi poveri, e mi diceva, mettendosi una mano sulla fronte: — Che cosa ci si vede, alle volte! Come si capisce che tante povere creature non hanno alcuna colpa di esser malvagie! Come si diventa indulgenti! — Ma la serenità che le veniva dalla coscienza della sua vita operosa e benefica non la lasciava insistere in alcun triste pensiero. Essa interruppe il discorso triste per accennarmi con un sorriso una bambina di quattro anni, di mente molto sveglia e di carattere un po' difficile, la quale, pochi giorni prima, aveva fatto una amenissima ammonizione alla mamma. Questa, una mattina che la sua figliuola aveva fatto le bizze in casa, s'era raccomandata alla direttrice perchè, senza accennare a lei, raccontasse il caso in iscuola e desse un avvertimento generale che giovasse alla colpevole. E la bimba, ritornata a casa la sera, aveva detto alla madre, fissandola con due occhi scrutatori e tentennando il capo: — Stamani la direttrice ha raccontato un caso che pareva proprio quello avvenuto fra me e te.... Non vorrei che qualcuno avesse parlato.... Ma se vengo a scoprire!

*

Dopo la ricreazione, rientrarono tutti nella scuola, in quei banchi disposti a scala, che presentavano la piccola scolaresca come affollata sulla gradinata d'un tempio. La direttrice, con una voce armoniosa e modulata mirabilmente, intonò un canto che diceva con molta proprietà ed efficacia di termini tutti gli usi e le virtù della mano. I bambini fecero coro, prima con un po' di titubanza, poi con un accordo straordinario per l'età loro. Al canto era accompagnata la mimica e la ginnastica. Ora alzavan le braccia agitando le mani, e pareva di veder per aria trecento “rondinelle della vergine„, che battessero le ali, rattenute ai banchi da altrettanti fili; ora s'inchinavan tutti da una parte come i fiori di un'aiuola sotto un soffio di vento; ora si pigliavan per mano, intrecciando le braccia, in modo da formare una sola ghirlanda da un capo all'altro dei banchi; ora posavan sui banchi la fronte, tutti a un punto, in atto di dormire, e mettevano il desiderio di far correre la bocca su quelle file di testine come la mano sopra una tastiera. E si sentivano in quel canto note di usignuoli, suoni di violino e di flauto, tintinnii di campanelli, mormorii di rigagnoli e sospiri di vento fra gli alberi, e certe smorzature prolungate (corrispondenti a un'incertezza o all'aspettazione d'un suggerimento della direttrice) d'una soavità e d'una grazia da non parer suoni di voci umane. Una giornata intera sarei stato là a vederli e a sentirli. Via via che procedevano nel canto, non perdendo mai d'occhio il viso e il gesto della direttrice, s'eccitavano e si accaloravano, e la buona monaca pure s'eccitava: le sue guancie smagrite si facevano color rosa, i suoi occhi chiari splendevano, la sua bella voce vibrava, le sue mani sottili tagliavan l'aria con gesti larghi e vigorosi, tutto il suo corpo esile fremeva come quello d'una giovane poetessa ispirata. E quanta poesia spirava in lei, e intorno a lei, da tutti quei visi fiorenti, da tutta quella innocenza, dal misterioso avvenire che aleggiava intorno a quelle trecento fronti serene, dalla beata gioia di vivere che si espandeva in quelle trecento voci argentine, fra le pareti bianche di quella scuola inondata di luce e di armonia! O benedetti bambini, seminatori eterni di speranza! Noi possiamo ben credere, quando non vi vediamo, che un giorno sarete tormentati voi pure dalle tristi passioni che ci tormentano, e macchiati degli stessi vizi e delle stesse colpe; ma quando ci state dinanzi in una scuola, quando guardiamo le vostre fronti non velate d'un'ombra, i vostri occhi in cui non brilla un pensiero che dobbiate nascondere e le vostre bocche da cui non è uscita ancora una parola d'odio, allora l'illusione che sarete migliori di noi ci rinasce irresistibilmente nell'animo; ed è questa cara illusione, è questa santa speranza, rinascente in ogni padre con ogni nuovo figliuolo e nella umanità ad ogni nuova generazione, quella che più fortemente ci aiuta a vivere e ci impedisce d'intristire.

*

Osservando la direttrice mentre cantava coi bambini, mi ricordai d'aver inteso dire da qualche visitatore di quell'asilo ch'ella s'affaticava senza alcun riguardo alla propria salute, e anche nell'eccitazione di quel momento il suo aspetto confermava quel giudizio. Io glielo dissi, uscendo, dopo averle espresso con parole riverenti la mia più viva ammirazione. Essa sorrise con una leggiera espressione di tristezza, e rispose con un gesto vago della mano, che voleva dire: — Che importa! Spendo la vita per i bambini e morirò contenta. — Quando rimasi solo sull'uscio, sentii che ritornava alla scuola correndo, per riguadagnare qualche secondo del tempo che le avevo fatto perdere. Un minuto dopo, infatti, mi raggiunse per la via il canto affiochito e dolce dei suoi trecento figliuoli.

PERSONAGGI INFANTILI.

I.

Cantavano, seduti tutti e duecento sopra sei lunghe file di panchetti bassi, in modo che parevano accocolati sul pavimento e presentavan l'aspetto, così fitti com'erano, d'una nidiata enorme di uccelli; i quali, al mio entrar nel camerone, voltarono il becco tutti insieme, rallentando il canto e mostrandomi duecento bocche aperte, come se aspettassero l'imbeccata. Quando fui davanti a loro, accanto alla direttrice, ebbi per un momento tutti quegli occhi addosso spalancati e fissi; ma, con mio rammarico, riconobbi subito di non aver quello sguardo affascinatore dei fanciulli, del quale certi ispettori si vantano, perchè vidi che tutti quegli occhi non erano attirati dalla virtù della mia pupilla, ma dal pomo d'argento della mia canna. Che imprudenza! Se non avessi portato la canna non avrei perduto l'illusione....

Stetti ascoltando un po' quel canto di bambini che mi fa ogni volta lo stesso effetto quasi di stupore, come d'un canto che venga di lontano, di fra le nuvole, da creature in cui rimanga la memoria, ma non più il senso delle passioni umane, e che sempre mi si traduce agli occhi nell'immagine d'un'alba limpida che imbianca una terra sconosciuta....

Poi andai intorno per osservare ad una ad una quella messe di teste che, al primo sguardo, m'eran parse tutte compagne. Ah quando si dice: il tipo regionale! In ogni folla di bambini è rappresentata l'umanità intera. C'erano là teste di siciliani, di sardi, di tedeschi, di russi, d'inglesi, di giapponesi, d'indiani; e più di piemontesi, certo; ma chi le avrebbe riconosciute a Milano? E là pure, come in tutti gli asili infantili, non c'era viso che non portasse qualche segno della lotta quotidiana con gli uomini, con gli animali e con le cose: tracce di graffiature umane o feline, lividi, ammaccature, scottature, gonfietti, come se li avessero marcati a uno a uno per riconoscerli. E così quelle voci, che parevan tutte eguali nel canto, come suonarono diverse quando la direttrice fece alzare l'uno dopo l'altro a dire i numeri! Fu come far correre la mano sopra una tastiera: una rapida manifestazione d'animi e di temperamenti fisici distinti, che alla mia fantasia trasformava istantaneamente quei bimbi negli uomini e nelle donne avvenire, sospinti da mille disparate passioni per mille vie dolorose a diversi destini, da cui rifuggiva il pensiero spaurito.

II.

Era l'ora della ricreazione: tutti s'alzarono e si sparsero per il camerone aspettando che smettesse di piovere per andar nel giardino.

Allora cominciai a fare qualche “conoscenza„.

Il primo fu un bimbo di poco più di cinque anni, figliolo d'un gasista, un faccione pacato e serio di bimbo precoce che pensi agli affari di casa. — Questo — mi disse una maestra — lo chiamammo il papà. — Era un originale amabile, che aveva l'istinto della protezione dei piccoli e del mantenimento dell'ordine pubblico. Quando un bambino piangeva egli andava a consolarlo e ad asciugargli le lacrime strofinandogli il viso con la sua pezzuola, che non sempre glielo puliva; denunciava alle maestre i torti fatti a questo o a quello; quando nasceva una lite, si cercava sempre lui come paciere. Ma il curioso, mi dissero, era la gravità con cui compiva il suo ufficio, senz'alcuna dimostrazione di tenerezza, consolando con buone ragioni, esortando con un certo frasario pedagogico. Quando qualcuno l'andava avvertire che c'era in qualche parte una vittima, egli diceva gravemente: — Vado mi — e s'avviava col passo e con l'aria d'una guardia civica chiamata a far rispettare la legge.

Mentre facevo i miei complimenti a questo brav'uomo me ne indicarono un altro che passava, un musetto di topo, con due piccoli occhi scintillanti e una bocca aguzza di ghiottone. — Questa è la gola più lunga della compagnia — mi dissero — e uno scroccone di prima forza, che si sfrega sempre intorno a quelli che hanno qualche cosa di buono nel panierino. Quando lo vediamo seduto accanto a un altro bimbo, non c'è da sbagliare: è certo che questo ha un boccone scelto. I ben provvisti egli li conosce tutti, li trova al fiuto, e non bazzica che con loro. Non può immaginare con che costanza li seguita, con che arte li loda, li liscia e li serve, con che fine garbo di cortigiano riesce a farsi dare la ghiottoneria su cui ha messo gli occhi, e con che trovate astute, qualche volta, a pigliarsela. È capace di “lavorare„ il suo uomo per una intera mattinata. Guardi: ora par cucito a quel bambino col vestito verde: è sicuro che quello gli confidò d'aver nel panierino qualche cosa di prelibato. — Infatti, una maestra ci andò a guardare e ritornò dicendo: — Un pacchetto di zucchero biondo. Aspetti, e lo vedrà all'opera all'ora della colazione.

Quello che mi mostrarono dopo era uno dei bambini più strani ch'io abbia mai conosciuto. Mi parve di vedere un uomo di quarant'anni rimpicciolito: tutto faccia e pancia; un viso di buffone accorto, che nel ridere strizzava un'occhio, e torceva la bocca da una parte, corrugandosi tutto in un modo così lepido, con uno sguardo così astutamente e comicamente canzonatorio, che quando mi fissò restai lì stupito, sospettando che si burlasse di me. In verità se m'avesse detto a chiare note: — Tal dei tali, ti conosco e non ti piglio sul serio, — non mi avrebbe fatto una più strana impressione; tanto che arrestai la mano già stesa a fargli una carezza e non mi riuscì di dirgli una parola, parendomi che m'avrebbe risposto con una ghignata. Mi fece l'effetto d'un nano burlone confuso per sbaglio con dei bambini. E seguitava a guardarmi sorridendo a quel modo come se gli paressi il frontespizio più buffo del mondo. Un caso singolarissimo, — più apparente che reale, voglio credere, — di precocità di senso critico e di malizia beffarda.

III.

Con troppa presunzione mi volli provare ad argomentar dall'aspetto d'alcuni le facoltà intellettuali e il carattere. Vedendo una bambina con gli occhi neri e pieni di vita e di fisonomia mobilissima, espressi a una maestra la mia ammirazione per la sua bellezza, e stavo per soggiungere: — dev'essere intelligentissima — quando essa m'interruppe: — sì, è una bella bimba; ma non capisce nulla. — Pensai che sbagliasse; ma confermò. Proprio, la più dura di mente, forse, di tutto l'asilo; anche nel parlare era addietro d'un anno da tutte le sue coetanee; una lanternina graziosa, ma senza moccolo. Ed io registrai il mio primo granchio.

E subito dopo ne presi un altro. C'era un viso di madonnina, bianco e dolcissimo, di quei visi che fanno dire alle donnicciole: — È una bimba troppo buona, non farà vita lunga. — Questa dev'essere un angioletto, — dissi alla maestra. — Un angioletto, costei? — mi rispose maravigliata. — È un serpentino a sonagli che se ce ne fossero dieci compagne ci sarebbe da perder la testa.

Possibile! E voltandomi ad altre bambine che facevano cerchio: — Non è vero, — domandai, — che questa ragazzina è buona?

Tutte insieme scossero fortemente la testa in atto negativo.

— E che cosa fa per non esser buona?

Stettero un po' zitte, guardandosi a vicenda. Poi una disse risolutamente: — Picchia. — E allora tutte le altre, preso animo, la servirono di barba e di parrucca:

— Graffia.

— Strappa i capelli.

— Tira calci.

— Dà dei titoli.

E come in una scarica di plotone c'è sempre il colpo che parte in ritardo, dopo un breve silenzio ci fu una che soggiunse: — E morde anche.

E davanti a quel “plebiscito d'amore„ l'accusata restò sorridente, girando sulle accusatrici il suo dolce sguardo di santerella, come se le avessero fatto un panegirico. — O povero illuso, — dissi in cuor mio, — che pretendi di legger nelle anime a traverso ai visi! Che povera scienza è la tua!

In quel punto attirò i miei occhi la testa grossissima e sformata d'un ragazzo che mi mostrava le spalle, ed essendosi egli voltato nel punto stesso, fui colpito, quasi con un senso di ribrezzo, dalla strana rassomiglianza che presentava il suo viso con la faccia orribile messa dal Lombroso sulla copertina del suo Uomo delinquente. Ma questa volta non mi potevo ingannare. In quel viso mostruoso, che si stringeva dal basso all'alto come un trapezio, sotto quella fronte bassissima, irta di setole, dalla quale sporgevano due grandi orecchi che parevano i manichi d'una pentola deforme, brillavano due occhi di grandezza ineguale e sporgenti dall'orbita, ma così angelicamente buoni e amorosi, che non ebbi l'ombra d'un dubbio quando la maestra, chiamatolo e messagli una mano sul capo, mi disse: — Questo, vede, è un angelo; la più dolce, la più cara creatura che sia stata qui da molti anni. — Allungai la mano per prendergli il mento, e mi commosse, mi diede quasi una stretta al cuore l'atto pronto con cui egli l'afferrò, come un affamato afferra un pane, e la grazia affettuosa con cui se la mise sul capo, chiudendo gli occhi, come per raccogliersi tutto nel sentimento di quella carezza....

IV.

Cessata la pioggia, uscirono tutti nel giardino, dove vidi molte scenette curiosissime.

I maschi, riuniti in file di dieci o dodici, ciascuno con una mano appoggiata sulla spalla di quello che lo precedeva, andavano e venivano per i sentieri, pestando i piedi e cantando una strofetta. In un angolo, lungo il muro, c'erano poche fragole che sarebbero state tutte sulla palma della mano. Ogni volta che' una delle file cantanti passava di là, tutti, come se obbedissero a un comando, voltavano il viso verso quelle tentazioni porporine, rallentando il passo e smorzando la voce, e seguitavano così col collo torto e con gli occhi rivolti verso il frutto vietato, fin che lo perdevan di vista, come fa una pattuglia di soldati quando passa davanti a una bella ragazza; e in quel passaggio sfavillavano tutti i visi d'un desiderio così vivo, che, a vederli, si ridestavano in me pure, come un vago ricordo, gli stimoli antichi del palato infantile, e mi pareva di ringiovanire in quel senso. Oh, gli asili infantili, che case di cura sarebbero per i malati di disappetenza! Mentre quei cori giravano, si formavano qua e là gruppi in ginocchio attorno a un bimbo o a una bimba che aveva trovato una lumaca o un'ape o una pietruzza luccicante, corone di teste rapate o capellute, chinate e strette, che non si vedeva più un viso, veri mucchi di zucchine d'oro, come si vedono nei mercati d'erbaggi, appiccicate le une alle altre in maniera che le maestre le dovevan separare a forza perchè pigliassero un po' di respiro. E intanto io ammiravo l'arte perfetta d'imitazione con cui certe bambine, benchè di famiglia povera, facevano alle signore che si rendon visita: — Venga avanti — Non la disturbo? — Ma si figuri! Faccia il favore d'accomodarsi. — Era tanto tempo che desideravo di rivederla!... — E mille riverenze da contraddanza e sorrisi di damine in solluchero. E mentre da una parte seguiva questo scambio di cerimonie, vedevo di sbieco dall'altra una piccola baruffa, non so se finta o vera, in cui le “damine„ si ricambiavano con voci angeliche la parola del Cambronne e si voltavan la schiena battendosi la manina sulle mele minuscole, con un atto di disprezzo che, senza dubbio, avevano preso dal vero.

Le mie osservazioni furono interrotte in quel momento dalle grida di cinque o sei piccini che accorrevano ad annunciare alla direttrice, col viso spaventato: — C'è un bambino che ha perduto un braccio!

La direttrice corse a vedere. Era un bimbo, al quale la mamma, perchè non movesse un braccio che s'era un po' forzato cadendo, gliel'aveva stretto al busto con una fascia, di sotto alla giacchettina, di cui ciondolava vuota la manica; e per questo gli s'era fatta intorno una folla, che lo guardava e lo tastava, facendo mille commenti terribili.

V.

La direttrice mi presentò varii altri personaggi notevoli dei due sessi: prima una bambina bionda, piccolissima, che aveva tutto il capo bianco di diavoletti, messile dalla mamma, per mandarla arricciolata a una processione di non so che Santo che si doveva far la sera nel sobborgo. Era una bambina celebre per un motto pronunciato un mese innanzi in casa sua; dove, essendo morto un suo zio verso l'ora del desinare e piangendo tutta la famiglia senza mettersi a tavola, lei, che non capiva la morte e sentiva la fame, s'era lagnata del ritardo, e all'osservazione del babbo — che era ora di piangere e non di mangiare — aveva risposto: — ma prima mangiamo e poi piangeremo — ma con tale accento di franchezza, con così manifesta coscienza di dire una cosa ragionevole, che tutti n'avevan dovuto sorridere, anche nel dolore. Io le rivolsi qualche domanda, a cui non rispose. — Scòtiti, — le disse la direttrice, — di' qualche cosa. — E allora, dopo uno sforzo mentale visibilissimo, essa mi disse con un filo di voce: — Mio padre s'è tagliato i capelli.

Stavo per rallegrarmi di quell'avvenimento quando me ne fu presentata un'altra, un triennio ambulante, bruna come una gitanella, che aveva le lacrime agli occhi, e pareva molto afflitta. — È orfana di padre e di madre, — mi dissero; — è entrata ieri, è ancora malinconica; non c'è modo di farla sorridere. — Nemmeno il papà, che le stava accanto in quel momento, era riuscito a rasserenarla. Teneva la testina chinata sopra una spalla in un atteggiamento d'abbandono stanco, come una malata, e pareva che non vedesse e non udisse nessuno; pareva un viso su cui, per natura, non potesse spuntare il sorriso. Mi dissero che aveva un fratello gemello, entrato nell'asilo con lei, ma che era allegro, e giocava con gli altri. La direttrice mandò una maestra a cercarlo, e questa ritornò poco dopo col bimbo per mano. Non si può dire la dolcezza del sorriso sfuggevole che brillò negli occhi alla sorella al primo vederlo, nè la grazia amorosa e triste con cui gli s'avvicinò e gli appoggiò il capo sul petto mettendogli un braccio al collo, come se lo ritrovasse dopo una lunga separazione in mezzo a una moltitudine di gente sconosciuta, e volesse dirgli: — Non te n'andar più, non lasciarmi più sola, non ho che te a questo mondo.

La maestra mi presentò una bimba con due occhi celesti splendidi, una figurina di poetessa ispirata, dicendomi a bassa voce: — Ha molto ingegno.... e un'ambizione! — ed io dissi, con voce anche più bassa: — Ha degli occhi bellissimi. — Quella se n'andò; ma tornò poco dopo, e, tirata la maestra in disparte, le parlò nell'orecchio; poi scomparve da capo. Punto dalla curiosità, domandai che cosa avesse detto. — Guardi che astuzia! — rispose la maestra ridendo; — mi domandò: che cosa ha detto quel signore dei miei occhi? E me lo domandò perchè l'aveva inteso. — Per prudenza, essa le aveva risposto: — M'ha detto che si vede dai tuoi occhi che devi esser buona. — Ma era stata prudenza inutile, perchè la furbacchiola non aveva chiesto che una ripetizione, approvata dall'autorità, del complimento.

E non fu quella la sola osservazione che potei fare sulla precocità della vanità femminile, poichè tutte le bambine belle che mi presentarono, — assuefatte come son tutte a sentirsi dir belle da parenti e da conoscenti, — dopo che m'avevan risposto alle domande solite del nome e dell'età, si capiva che stavan lì ad aspettare il complimento solito; si vedeva dalla sospensione d'animo che sollevava un poco il loro piccolo petto e dal tenue flusso di sangue che il palpito affrettato del coricino mandava alle loro guance contratte da un leggerissimo sorriso forzato. E perchè appunto per questo io non dicevo nulla, mostravano sul viso, quando se n'andavano, una vaga ombra di delusione. E me ne dispiaceva; ma la prudenza.... Anche Gabriele d'Annunzio, forse, avrebbe taciuto.

VI.

Poi mi fecero veder le maraviglie dell'Asilo: una bimba con la capigliatura nera strisciata d'oro; conciata a quel modo dalla mamma che, incaponita di tingerla alla Tina di Lorenzo, lasciava qualche volta a mezzo l'operazione e la mandava fuori così, chiomata del bicolore austriaco; un'altra che quasi nascondeva il visetto sotto un turbante di riccioli lucidissimi, una matassa stupenda di anelli di velluto corvino, in cui tutte le compagne cacciavan le mani per diletto, e che tremolavan tutti a ogni scossa del capo come animati da mille spiritelli irrequieti; e infine il bimbo dai cinque panciotti, imbottito in quella forma dalla mamma per un suo terrore morboso dei' raffreddori di petto, e che, oppresso da quella rigatteria, camminava annaspando con le braccia larghe come se invocasse soccorso. Ah, c'era da divertirsi, e anche da commoversi, non altro che ad osservare in quei bimbi la varietà dei prodotti dell'industria domestica, e in un solo capo di vestiario. Una collezione di calzoncini, per esempio, da far rimpiangere di non esser andati là con una istantanea: tutti i più strani saggi di taglio a cui possano riuscire le forbici inesperte e affrettate d'una povera donna del popolo che ha le faccende a gola e che utilizza senza scrupoli artistici quanti avanzi di stoffa le cascano nelle mani, con la certezza che la vittima inconsapevole accetterà qualunque ludibrio. Calzoni di due colori e di più di due, raccorciati con filze, allungati con giunte, scaccati di toppe, fatti di tende da letto, di federe di guanciali e di scialli logori, con borsoni posteriori capaci quattro volte del contenuto, con spaccature somiglianti a finestre a sesto acuto: mezze brachine della forma d'imbuti accoppiati, di trombe gemelle e di sacchetti da ricotta, che mettevano su quei corpicini delle apparenze buffe di fianchi, di pancie e di deretani enormi e spostati, o li serravano, per scarsità di panno, come maglie chirurgiche, facendo schizzar per di dietro, a ogni più piccolo movimento, degli spicchi di carne rosata, impazienti della prigionia, impudicamente ribelli all'avarizia tiranna della sarta: una raccolta di figurini di fantasia da farne una sezione umoristica a parte nella prossima Esposizione nazionale.

Ma da queste osservazioni ero continuamente ricondotto a quella della varietà dei caratteri che si manifestava nei modi molto diversi di ricevere le dimostrazioni amorevoli. Molti indifferenti affatto, parecchi quasi repugnanti, qualcuno stupito, che si toccava la parte del capo dov'era stato baciato, come se non capisse che cosa io gli avessi fatto. Ma i più si mostravano contenti e grati, e fra questi alcuni che si riscotevano e brillavano sotto la carezza come per la soddisfazione d'un bisogno vivo dell'animo, e che ritornavan poco dopo a prendermi la mano e a mettersela da sè sulla spalla o sotto il mento e a strisciarmisi attorno come gattini, guardandomi di sotto in su con una espressione di grande dolcezza; quello dalla testa deforme, fra gli altri, e la bimba dei diavoletti, e un morino piccolissimo, nato con un orecchio solo, con due begli occhi pensierosi, nuotante nel più spropositato par di brachesse della collezione. Ed anche quand'eran lontani, incontravo di tanto in tanto, qua e là, i loro occhi soavi, che mi sorridevano con quella espressione di familiarità fraterna, propria della infanzia, che dà del tu a tutte le età e a tutte le stature ed ha per tutti quelli che l'amano lo stesso sorriso.

E qua e là, ma sempre da lontano, incontravo pure lo sguardo del bimbo burlone, che parea che osservasse ogni mio atto e volesse farmi capire, con quel suo sogghigno obliquo e rugoso e col suo occhietto strizzato, che gli parevo ridicolo. E che volete! Avevo un bel dirmi che in un moccicoso di quell'età non poteva corrispondere il pensiero all'espressione della maschera: quel sogghigno di piccolo Mefistofele mi riusciva molesto e, quasi senza volerlo, badavo a scansarlo, come si fa qualche volta in casa d'altri davanti a certi ritratti di persone sconosciute, che par che ci frughino con lo sguardo nell'anima e pensino di noi roba da chiodi.

VII.

Suonata l'ora della colazione, rientrarono tutti nel camerone e presero posto, in piedi, a due tavole lunghissime, su cui era scodellata la minestra di riso e fagioli. Fu un divertimento a vedere come gingillavano tutte quelle manine per annodarsi sotto la nuca le fettucce del tovagliolo: i più non riuscivano a incrociarle; molte bimbe, per sbaglio, se le legavano alla treccia; altre non facevano che annaspar nel vuoto con mille movimenti strani e graziosi da zampine di gatto. Ma il “banchetto„ procedette con ordine ammirabile. Non vi fu che un “incidente„ da lamentare: un bimbo, dicendo che non aveva appetito, rovesciò la sua scodella in quella del vicino; poi si pentì e rivolle la sua minestra; ma l'altro, che era un minestraio emerito, si rifiutò: dopo molto contrasto, nondimeno, scese a patti, e gli offri, generosamente, un fagiolo — uno solo — che il primo respinse con sdegno, invocando a grida la maestra. A capo della stessa tavola vidi un banchettante che si ribeveva le lacrime, ma nel senso materiale della parola, poichè mangiava avidamente e piangeva insieme a goccioloni fitti, che gli piovevano nella minestra, e quel gran dolore manducante riusciva più comico perchè gli stava dietro la cuoca col cucchiaione brandito, pronta à riempirgli da capo la scodella per consolargli l'anima. Un solo bimbo mangiava in disparte, con gli occhi ancora rossi di pianto, imboccato da una maestra. Aveva appena tre anni; era entrato nell'asilo quella mattina facendo una scena tale di disperazione che, per veder di quetarlo, gli avevano attaccata al petto una medaglia; e s'era quetato come per miracolo. Nel momento che gli passavo accanto egli spalancava la bocca per ricevere il fatto suo: eppure, in quello stesso momento, senza neanche torcere il capo, guardandomi con la coda dell'occhio e ingoiando la cucchiaiata, prese la medaglia con due dita e me la mostrò. Ahimè! Quando mai si potranno sopprimere le onorificenze ufficiali?

VIII.

Finito il banchetto, senza discorsi, le maestre distribuirono i panierini e tutti si sparsero per quella e per l'altre stanze per riunirsi da capo, qua e là, a coppie e a gruppi, sedendosi in parte sulle panchettine lungo le pareti e in parte sull'ammattonato, a mangiare in libertà quello che s'eran portati da casa. La direttrice mi condusse in un angolo dov'eran due fratelli che leticavano e — Veda che caso — mi disse: — questi due fratelli hanno il panierino in comune. Ebbene: ogni mattina dell'anno, regolarmente, s'accapigliano per la divisione del mangiare; ogni mattina il più grande vuol prender tutto per sè, e non c'è che l'autorità che lo faccia cedere. La lite è così certa e preveduta che gli altri bimbi vengono a vedere prima che incominci. Che cos'è mai l'istinto della proprietà! — Veramente, a me pareva l'istinto del furto; ma mi guardai dal dirlo perchè, in bocca mia, l'osservazione sarebbe potuta parer “sovversiva„.

M'avvicinai a un bimbo paffuto che mi guardava fisso, e gli domandai che cosa gli avesse dato la mamma per colazione. Mi rispose con una grossa voce: — Un pesce!

Al modo come lo disse pareva che dovesse essere un salmone. Lo pregai di farmelo vedere. E mi mostrò il pugno da cui spuntavano le estremità d'una mezza acciuga, ridotta non più che un filo dalle vigorose fregagioni che — come mi fu detto da un'assistente — egli aveva liberalmente concesso alle pagnotte circonvicine.

Venne in quel punto una maestra a dirmi che andassi a vedere all'opera lo “scroccone„. Passammo nell'altra stanza e lo vedemmo solo, col suo muso di topo sul petto, tutto intento a levar la crosta a un panino. Finita la scrostatura, si mise a leccar la mollica da tutte le parti, con grande cura, come se la volesse inumidir tutta quanta prima d'addentarla. — Ne prepara qualcuna delle sue, senza dubbio, — disse la maestra. — Infatti, dopo che ebbe condito bene il suo pane, si voltò verso un gruppo di bimbi che assediavano il possessore dello zucchero biondo e, cavallerescamente, liberò l'assediato, facendo in là gl'importuni che volevano intingere il dito nella sua proprietà. Poi gli si sedette accanto in atto ossequioso e gli disse nell'orecchio non so che cosa, a cui quegli acconsentì, porgendo il pacchetto aperto. Povero ingenuo! Egli credeva d'aver che fare con un pane asciutto, che avrebbe fatto poco danno. Era invece un pane traditore che, maneggiato da una mano abile, girando rapidamente come un buratto.... produsse un vuoto spaventoso;

onde sospiri e pianti ed alti guai.

IX.

Entrammo poi in una “classe„ dove non c'erano, sparsi per i banchi, che sei o sette bambini; due dei quali dormivano così saporitamente, con le testine rase appoggiate sui gomiti, che nemmeno scossi a più riprese non si destarono, e si dovette lasciarli stare. Agli altri la maestra rivolse alcune delle solite domande scolastiche, a cui diedero le risposte solite; comicissime alcune per il contrasto che faceva la solennità della loro forma letteraria col viso di putto di chi le pronunciava.

A un bimbo che sonnecchiava col capo ciondoloni domandò tutt'a un tratto: — Che cos'è l'Italia?

Quegli balzò in piedi e, dopo aver guardato me e la maestra con due occhi spauriti, mandò giù la saliva e rispose solennemente: — È la mia terra.

Un altro, che stava rodendo una ciambella, dopo che la maestra gli ebbe detto nell'orecchio il titolo d'una poesia, si rizzò e, sollevando in aria le due piccole braccia e spalancando la bocca impastata, mise fuori un O sonoro, come alla vista d'un fuoco d'artifizio maraviglioso, un O così prolungato ch'io ebbi tutto il tempo di domandare a me stesso e di cercare con la fantasia quale cosa al mondo potess'essere degno oggetto di quella stupefacente invocazione. E venne fuori finalmente....

Oooooo tricolor bandiera,

Sventola sopra i monti,

Sui petti e sulle fronti,

Sull'armi e sugli altar....

Ma l'intonazione, il gesto non si può descrivere: gli s'enfiava il collo, gli uscivan gli occhi dal capo, una parola sì e una no gli restava in gola per mancanza di fiato: pareva la caricatura d'un tribuno che arringasse un popolo. Tutto quell'entusiasmo, però, si spense d'un colpo. Espettorata appena l'ultima sillaba, ricadde sul banco e riaddentò la ciambella.

Ma il più ameno fu l'ultimo. La maestra gli suggerì il titolo d'una poesia: egli si alzò e cominciò:

Una goccia, o nuvoletta....

e poi da capo: — Una goccia.... una goccia,... — e seguitò a gocciolare senza andare avanti. Tutt'a un tratto cavò il fazzoletto e se lo mise al naso come se gli uscisse il sangue. — Oh! — gli disse la maestra, — il sangue dal naso ti uscì ieri mattina: ma ora non t'esce: fa un po' vedere. — Ma quegli fece un gesto con la manina libera, come per dire: — Aspetta, aspetta, che deve venire, — un gesto così comicamente affannato e affettato, che la maestra diede in uno scoppio di risa, e si contentò della goccia. — Ma vede che malizia, — disse poi allontanandosi, mentre quello continuava la commedia. — Ah, le dico che ci abbiamo certi artisti!

X.

Di là rientrai nella sala grande, dove quasi tutti si trovavan raccolti, ed era un gran moto, un ronzìo, un pio pio, quasi un ribollimento di suoni rotti, acuti e sommessi, quale si può dare soltanto in una folla di creature non ferme mai un minuto in un solo pensiero e che parlano un linguaggio ancora monco e spezzato come i loro pensieri. E guardando quello spettacolo feci anche quella volta il proposito, che si fa sempre all'uscire da un di quei luoghi, di tornarvi al più presto, e che non si mantiene quasi mai; ma che in quel momento è sincero e vivissimo, ispirato quasi da un istinto di protezione, come se quelle deboli creature, a cui bastò un'ora a legarci, avessero bisogno di noi e fosse durezza il separarsene per non rivederle mai più. Intanto, m'erano rivenuti intorno il papà, la bimba dai diavoletti e tutti gli altri più espansivi a domandar la carezza d'addio, tendendo le loro manine che stringevano ancora dei pezzetti di pane e dei torsi di mela, e dicendomi cento Ciao, su tutti i toni, come a una persona della loro famiglia che partisse per un viaggio. Poveri bambini! Ed io pensavo, accarezzandoli, ch'eran loro, invece, che partivano per un lungo viaggio, per il viaggio misterioso della vita, nel quale, appunto perchè eran di natura più dolce e più affettuosa degli altri, chi sa quanto avrebbero avuto più degli altri da soffrire e da piangere ed anche più spesso desiderato la fine....

Quando arrivai sull'uscio, e mi lasciarono, sentii ancora nella mia una piccola mano che ci doveva essere da un po' senza che me n'avvedessi, e sollevando il mento a quell'ultimo accompagnatore, riconobbi il piccolo disgraziato che somigliava alla figura del libro del Lombroso, quello a cui la natura aveva così crudelmente smentito sul viso la bontà angelica dell'anima. E lo fissai per qualche momento in quei piccoli occhi ineguali e sporgenti che dicevano così umilmente: — Son brutto; ma son buono; non mi guardate; ma amatemi, — e mi domandai nel cuore, con tristezza, quante umiliazioni, quanti dolori non gli sarebbe costata nella vita quella menzogna spietata della natura; e stretto fra le mani il suo capo deforme, fui costretto a prolungare il bacio che gli stampai sulla fronte, — mentre egli mi s'attaccava al bavero con le manine, — per avere il tempo di scomporre sulla mia faccia l'espressione di profonda pietà che temevo egli potesse comprendere....

Ma, rialzando il capo per uscire, dovevo aver l'ultima stoccata da quella strana faccia canzonatoria di mefistofeluccio, che era lì a due passi, e che mi guardava socchiudendo un occhio e torcendo la bocca, con l'aria di dirmi: — Ti conosco, e non me ne vendi. — Non poteva essere, lo capisco bene; ma tant'è, l'orgoglio è irragionevole: se non c'era lì la direttrice, gli allungavo una pacca.

I BAMBINI DI VAL D'ANDORNO.

Una delle più care bellezze dell'alta valle di Andorno sono i bambini; per i quali io credo che il Correggio redivivo, se li vedesse una volta, andrebbe a villeggiare ogni anno a Campiglia. Salendo dalla Balma a Piedicavallo, se ne vedono da ogni parte; in mezzo ai prati, fra i pietroni del Cervo, su per i sentieri che salgono e si perdono fra i faggi e i castagni, e a mucchi e a processioni in ogni villaggio: tanto numerosi da far pensare che non ci sia altra valle in Italia così prolifica. E poichè d'estate, emigrando quasi tutta la popolazione maschile (composta in gran parte di muratori e di scalpellini), è rarissimo incontrare dalla Balma in su un uomo giovane o maturo, ne segue che al nuovo arrivato vien fatto di domandarsi donde provenga tutta quella razza minuta: se sia una produzione spontanea della terra, o merce importata, per la stagione estiva, da altri paesi. Sono tutti floridi e biondi, di tutte le sfumature dell'oro monetato e delle barbe di pannocchia di meliga: teste d'inglesi e di scandinavi d'una carnagione maravigliosa di colorito e di freschezza, con occhi di tutte le gradazioni dell'azzurro, da quello forte delle loro Alpi a quello chiarissimo del loro torrente, leggermente verdeggiante come i cieli del Veronese: alcuni con biancori di latte sulla fronte, dietro le orecchie e nel collo; e tutti segnati di due rose rosse sulle guance, eguali di forma e di tono in quasi tutti, come quelle delle bambole che l'artefice imporpora una dopo l'altra con lo stesso tocco meccanico del pennello. E non solo per i capelli e per i colori, sono belli anche per i lineamenti fini, per la forma gentile della bocca, per la grazia scultoria di tutte le forme: e più belli appariscono per il risalto che dà alle loro capigliature aurine scompigliate dall'aria viva e ai loro visi bianchi e rosati il verde vivissimo della vegetazione su cui si disegnano per solito le loro personcine rotondeggianti, quando, dall'alto dei muri a secco o di mezzo alle macchie, in gruppi o in schiere immobili, coi piedi nudi nell'erba, stanno a vedere il forestiere che vien su lentamente in carrozza per lo stradone della valle.

V'è per lo più molta rassomiglianza tra fratelli e sorelle; ci son famiglie numerose in cui tutti i figliuoli e le figliuole rappresentano una serie di edizioni in formato vario dello stesso libro, non riveduto nè corretto: tanto rassomiglianti che, incontrandoli per via, a una certa distanza, l'un dopo l'altro, vi pare di vedere sempre lo stesso bimbo, ora ingrandito ora rimpicciolito, ora maschio ora femmina, come se cambiasse di statura e di sesso a modo d'un personaggio dei racconti fantastici dell'Hoffman. Ci diranno i fisiologi se questo possa derivare dall'essere stati tutti concepiti nelle condizioni medesime, nei ritorni periodici e a data fissa dei padri emigrati, i quali riportano a casa quella quantità solita di risparmi di danaro e di castità, a cui corrisponde sempre fra i due coniugi, con gli stessi pensieri e gli stessi discorsi, la stessa misura d'allegrezza domestica e d'impulso generativo.

A loro l'ardua sentenza.

Questi ragazzi così somiglianti, peraltro, questi bei fiori montanini nati di rudi lavoratori pratici e positivi in sommo grado, dei quali è ultima qualità lo spirito poetico, si distinguono per nomi classici e romantici, che paiono stati scelti da padri letterati e da madri poetesse; benchè, in realtà, non sia invalsa la consuetudine di quei nomi insoliti che per ovviare alla confusione dei cognomi, diventati comuni a un gran numero di famiglie per effetto della rete fitta di parentele che allaccia i valligiani, devoti al proverbio del “moglie e buoi„. La sera, all'udir le mamme chiamar di sull'uscio la prole dispersa per i vicoli e per la campagna, vi par di udir invocare gli eroi e le eroine della storia e della poesia di ogni paese e d'ogni secolo. Dante vi passa accanto piegato in due sotto una fascina che lo nasconde tutto; Clorinda, settenne, raccatta per la strada le reliquie fecondatrici dell'orto; qui stimola i porci Temistocle; là sferza le vacche Tarquinio; Rinaldo strascica il sedere sui ciottoli con una fetta di polenta fra le mani, e

Erminia intanto fra le ombrose piante

si soffia il nasino con la camicia.

Coi nomi terribili e romanzeschi non concorda l'indole, che è generalmente placida e prudente. Il forestiere, che passa per la prima volta, essi guardano con occhio intento e scrutatore, come se prevedessero d'aver da trattare con lui un appalto o una vendita: con occhio scrutatore, ma rispettoso. E rispettosi sono coi villeggianti abituali, che sogliono salutare in modo originale, pronunciando il loro nome, quando li incontrano, e fissandoli, come fanno i soldati coi superiori, senza inchinare la testa. Sono anche poco rissosi, come se volessero serbare le forze battagliere per la lotta disperata che combatteranno un giorno coi lavoratori concorrenti di tutto il mondo, e attendere a leticar fra di loro quando saranno proprietari di quella terra divisa in mille scacchi e in mille striscie, sulla quale e per la quale s'accapigliano intanto i loro parenti. E sono dignitosi: nessuna di quelle piccole mani, neanche dei più poveri, si stende a chiedere il soldo al passante; e quando uno ne stringono, non c'è caso che lo sciupino o lo perdano; somigliantissimi pure in questo ai loro genitori. E anche nei loro spassi mostrano mirabilmente l'eredità delle facoltà acquisite. In nessun altro luogo vidi mai i ragazzi costrurre muricciuoli e casette di sassi, mulini e condotti d'acqua con arte così esperta e con diligenza così paziente, per ore ed ore, in silenzio, concordi fra molti all'opera come squadre d'operai disciplinati, prolungando il lavoro anche per vari giorni e smettendolo e ripigliandolo ogni giorno all'ora stessa, come al suono della campana d'un opificio.

Bambine di sette o otto anni aiutano la mamma ai lavori muratori, portando nella loro gerla minuscola quattro manate di sabbia o un par di mattoni per volta, con la serietà muta e col passo lungo e grave d'operaie adulte. Bambini, alti un palmo, stanno seduti tutta una mattinata, per trastullo, sulla proda d'una strada, a picchiare con un chiodo e un martello un pezzo di sienite, come se avessero preso il lavoro a cottimo, senza alzare una volta in un quarto d'ora la testina bionda, dardeggiata dal sole.

Questa forza tranquilla di volontà, congiunta a un amor proprio precocemente guardingo, dimostrano in ogni cosa. Intoppate per la strada dei quinti d'uomo, usciti appena dalla prima elementare, che non possiedono un vocabolario di più di venti sostantivi (i verbi sono sempre incerti); ma che, se gli interrogate in italiano, incapati di rispondervi nella lingua nazionale, s'ingegnano d'accozzare alla meglio quelle venti parole, facendo lunghe pause riflessive fra l'una e l'altra, come fanno in Italia i viaggiatori inglesi e tedeschi, con una flemma di filologi scrupolosi, senza darsi un pensiero della vostra impazienza, non intesi ad altro, con tutte le forze del cervello, che a scansare gli spropositi.

Ricordo uno di questi che, domandato da me di un suo zio impresario a Torino, volendomi dar la notizia che era stato decorato della Corona d'Italia, dopo due buoni minuti di cogitazione, mise fuori questa curiosa frase di suo conio: — L'hanno fatto passar cavaliere — ma con un accento di trionfo, che traduceva il pensiero: — l'ho cercata un pezzo, ma l'ho trovata bene. — E hanno delle trovate singolari, da montanari sottili, diverse in questo da quelle degli altri bimbi, che vengon fuori in una forma di gravità comicamente impropria all'età loro. Un piccino, a cui diedi una pera candita perchè la dividesse in parti uguali fra sè e le due sorelle più piccole che gli stavano al fianco, volendo, ma non osando di farsi sotto i miei occhi la parte del leone, stette pensieroso un pezzo con gli occhi fissi sul frutto, e poi disse solennemente alle sorelle: — Qui non si fa niente senza il coltello, — e con questo pretesto si diresse verso casa per fare il comodo suo; ma con l'incesso e il viso d'un uomo assorto in tutt'altri pensieri, per distornare, s'intende, il mio sospetto; il quale mutavano invece in certezza gli sguardi obliqui e indagatori di cui ogni tanto mi saettava.

E come un bell'esempio di posatezza e di precisione rammento un bimbo di men di tre anni, bellissimo, che, avendogli io porto una scatoletta della Regia su cui fissava lo sguardo con grande curiosità, la rivoltò con le manine per tutti i versi, l'aperse con cautela, vi guardò in fondo attentamente, ne tirò fuori l'una dopo l'altra tre sigarette, le esaminò ad una ad una, le rimise dentro adagio adagio dalla stessa parte dove le aveva prese, gingillò un pezzo con le dita finchè riuscì a far rientrare la linguetta nel taglio e, dopo essersi assicurato col pollice che era chiusa bene, me la ripose sulla palma della mano e ve la premè colla sua zampetta come per farmi prender atto che era fatta in tutte le regole la restituzione della mercanzia.

Questi ragazzi, che sentono parlare in casa di tutti i paesi d'Europa e d'Africa e d'Oriente e d'America, dove i loro padri lavorarono e lavorano, viaggiano un po' coll'immaginazione, anche prima d'uscire dal guscio, per il mondo intero. Appena sono in forza da portar la secchia della calce, la più parte vanno a fare il tirocinio di muratori nelle città grandi, e, compiuto questo, emigrano dall'Italia. Ma le separazioni della famiglia si fanno senza lagrime, e quasi senza commozione, perchè tutti ci hanno il cuore preparato fin dall'infanzia. Non senza tristezza, però, quando li vedo giocar per le strade così rosei e sereni, io me li raffiguro giovinetti, curvi sotto il carico su per le alte scale oscillanti degli edifici in costruzione, o ammucchiati nelle soffitte, dove essi stessi si fanno da mangiare e si rimendano i panni, stillando ogni sorta di più duro risparmio; e poi, più grandi, soli in terre straniere, in mezzo a gente di cui ignorano la lingua, invisi quasi sempre ai concorrenti indigeni per il loro accanimento al lavoro e per la loro parsimonia spartana, e vittime qualche volta di persecuzioni crudeli.

Ma mi conforta il pensiero che darà saldo coraggio a tutti l'immagine della valle nativa a cui sempre pensano, e che, se campano, li riavrà tutti quanti certissimamente, arricchiti o poveri, stretti a lei fino alla morte. Quanti sono già dispersi per il mondo che vidi bambini fare i castelli coi sassi e scheggiar la sienite col chiodo, coi capelli biondi dorati dal sole e agitati dal vento!

Ogni anno leva il volo una schiera di questi miei antichi amici, e i loro nomi e i loro visi prima si confondono, poi svaniscono nella mia memoria.

Ma i vuoti si riempiono continuamente. Ritornando nella valle vi trovo ogni anno nuove capigliature d'oro, nuovi occhi celesti, nuove guance vermiglie, un drappello nuovo di Danti, di Temistocli e di Goffredi, figliuoli di padri lontani che non vidi e non vedrò mai; e questi nuovi eroi nascono e crescono così somiglianti, sotto ogni aspetto, ai partiti, che, insomma, mi par di ritrovarmi sempre in mezzo alla stessa popolazione infantile. Bella e strana popolazione di piccoli impresari in forma di cherubini, di futuri capomastri, che paiono putti scappati dai quadri del Rubens, di scalpellini e di muratori in erba a cui possono invidiare le rose e i gigli del viso i figliuoli dei principi: innocenti sì, e amabili come tutti i bambini; ma che pure hanno qualcosa nell'indole, negli occhi e nella parola da far credere che nella notte di Natale, quando sognano la scarpetta che hanno messo sulla finestra, non vagheggino di trovarvi dentro dei dolci, ma una cedola del Consolidato 5%.

PICCOLI STUDENTI

MOMENTI SOLENNI.

Il regolamento delle scuole municipali dice che gli esami orali sono “pubblici„. Non feci dunque che esercitare uno dei miei diritti di cittadino chiedendo d'assistere agli esami degli alunni della 1ª elementare della scuola “Giuseppe Grassi.„ Desideravo di vedere con che animo e con che aspetto i miei concittadini di sette anni affrontavano la prima prova del fuoco sul campo di battaglia della scienza.

Nei corridoi e per le scale, in mezzo a gruppi di alunni e d'alunne, trovai molte mamme, che davano gli ultimi conforti ai figliuoli, o stavano aspettandoli; alcune sedute lungo i muri, con l'aria paziente e rassegnata di postulanti d'anticamera; altre che andavan su e giù, col viso ansioso, come se aspettassero il risultato d'un'operazione chirurgica. E pensai a quanti altri milioni di madri, in quei giorni, erano, come quelle, prese per una fibra del cuore nei congegni di quella macchina immensa dell'istruzione pubblica, che lavora il cervello delle generazioni crescenti in tutti i paesi civili.

Salito al primo piano, entrai in una stanza ariosa e chiara, dove quattro maestre e due maestri sedevano intorno a una gran tavola coperta d'un tappeto verde, ciascuno rivolto verso un piccolo alunno, che gli stava accanto, in piedi. Il direttore, — un omone dal viso barbuto e benigno, — girava attorno alla tavola, usciva, rientrava, assentendo col capo alle risposte giuste e corrugando la fronte ai farfalloni che coglieva a volo. A quella vista il mio pensiero fece un improvviso salto indietro di quarant'anni, e sentii come il vago ridestarsi d'un terrore antico, che era già quasi morto anche nella mia memoria. Mi ricordai, come in sogno, d'aver avuto una forte tremarella in una stanza di quello stesso colore, davanti a una tavola verde come quella, in presenza di un'altra gran barba nera di direttore, di faccia a un altro finestrone con le tende bianche, dal quale veniva dentro lo stesso raggio di sole, lo stesso odore di fiori d'acacia, lo stesso silenzio di strada solitaria, che sentivo in quel punto. E mi rallegrai veramente al pensare che non ero là per essere esaminato.

Oltre agli esaminati v'era in un angolo un gruppetto d'esaminandi, che al vedermi entrare, credendomi un'autorità scolastica, si scossero tutti a un tempo come una nidiata di passeri spauriti e mi piantarono gli occhi addosso con l'aria di domandarmi qual particolare ufficio di aiutante aguzzino io venissi a fare in quella stanza di tortura; e quando mi videro tirar fuori una matita dilatarono gli occhi anche di più, come se avessi cavato di tasca un par di tanaglie. Io sorrisi amichevolmente, per rassicurarli; ma dovettero pensare che il mio sorriso significasse: — Ora v'accomodo io, — o qualcos'altro di simile, perchè non si rasserenarono punto; anzi mi parve che si turbassero peggio. E allora rimisi la matita in tasca.... per non farli più tristi.

Sedetti in un angolo, vicino a un maestro dai capelli bianchi, che dava l'esame di lingua. Gli esaminatori erano divisi in tre coppie; in ciascuna delle quali uno esaminava sulla lingua, l'altro sull'aritmetica. Essendo stati promossi senza esami gli alunni migliori, gli esaminandi non erano che gli “scadenti„ o, per parlare col dovuto rispetto, i meno dotti della scolaresca.

Quando sedetti, il maestro bianco stava esaminando un visetto di poco più di sette anni, così biondo, rosato e bello, che non avrei avuto cuore di “bocciarlo„ neanche se avesse straziato la grammatica come una tigre. Ma pareva che se la cavasse. Stava per finire. Colsi per aria l'ultima domanda, che era di letteratura storica: — Quali sono i colori della bandiera italiana?

— Bianco, rosso..., — rispose, e dopo un momento di titubanza: — verde.

— Bravo, — disse il maestro. Era promosso. Si cominciava bene. N'ebbi piacere.

Da principio non mi riuscivo a raccapezzare in quella confusione di domande e di risposte che mi venivano all'orecchio, a frammenti, da varie parti. — Scrivi: diciotto. — Che cosa sono i sassolini? — Pere cite (pietre piccole). — Il sa-crifi-cio di Le-o-nida.... — Quattordici, tredici, dodici.... — Il maiale grugnisce. — Ma bene, quattro nocciole e tre nocciole fa nove nocciole: si raccolgono i frutti dell'annata.... — Quadrupede, dunque, significa.... — La mia patria m'ha dato il Signore, Mio pensiero, mia fede.... — E scrivi venti con due zeri? Mariuolo!...

A questo punto ci fu un intervallo di silenzio, dopo il quale udii distintamente la voce grave d'una maestra, che domandò: — Che cosa fa il bue?

E una voce argentina e franca rispose: — Il bue ci dà il latte.

Cercai con lo sguardo il colpevole e lo vidi chinar la fronte sotto due occhi fulminei.

Debbo dire che la maggior parte mostravano assai meno timore di quello che m'aspettassi. Ma ce n'eran parecchi che n'avevan in corpo per tutti. Li riconoscevo, dopo che avevan dato una risposta, dal movimento forzato di deglutizione che facevan tutti, allungando il piccolo collo come se mandassero giù un osso di pesca. A più d'uno tremavano le mani e le labbra. Si vedeva su certe fronti lo sforzo violento dell'intelligenza tesa a tutta possa, quasi con l'espressione d'un dolore fisico, che si mutava tutt'a un tratto in serenità a un: — Bene — dell'esaminatore, come la contrazione del viso d'un assetato a una sorsata d'acqua fresca. Alcuni, per comprender meglio, si cacciavan sotto, col viso voltato in su, quasi fra le ginocchia del maestro, quasi a toccar col naso il suo naso, fissandolo negli occhi con gli occhi spalancati, acconsentendo col capo a tutti i movimenti del suo capo, riflettendo col viso tutti gli atteggiamenti del suo viso, come ipnotizzati. E a che grado di tenuità si riducevano per la paura certe voci! Erano bisbigli di confessionale, gemiti d'aurette, mormorii di fili d'acqua, sospiri moribondi d'anime in pena. Parecchi eran così piccoli che arrivavano appena col mento all'orlo della tavola, in modo che, quando leggevano col viso spinto innanzi, non mostrando nè spalle nè collo, pareva che la loro zucchina rapata posasse sul tappeto verde come divisa dal busto, e quando scrivevano con la penna del maestro, iperbolicamente lunga per loro, la quale, tenuta ritta, sorpassava di quattro dita il loro capo, pareva che scrivessero con uno spiede.

— Quali sono gli alimenti principali dell'uomo? — domandò un maestro.

L'interrogato, ch'era figliuolo d'un operaio povero, rispose prontamente, come chi non ha il minimo dubbio sull'ordine razionale dell'enumerazione: — La polenta, le patate, l'insalata....

La stessa domanda era rivolta quasi nello stesso tempo a un altro alunno, che, confondendola con un'altra domanda usuale di suono simile, rispose con scioltezza: — Gli alimenti principali dell'uomo sono la testa, il collo, le spalle....

Era questi un piccolo originale, che non dimenticherò mai, un viso sorridente e ardito, con due occhi chiari di ribelle sereno, inaccessibile per indole a ogni sopraccapo scolastico, che pareva dire a tutta la Commissione esaminatrice: — Ma non sapete che io non ho neppure un pelo che si dia pensiero di voi, dell'esame, del ministero dell'istruzione pubblica e di tutto lo scibile umano? —

Amenissimo era il lavorìo che facevan quasi tutti con le dita per rispondere alle domande d'aritmetica, richiedenti somme e sottrazioni mentali. Alcuni, per dignità, facevano il calcolo di nascosto, sotto la tavola o dietro la schiena; altri, senza un riguardo al mondo, calcolavano con le mani sotto il naso dell'esaminatore, afferrando successivamente le dita della mano sinistra col pollice e con l'indice della destra e scotendole a tutta forza come per provare la saldezza delle articolazioni, e nel contare battevano fitto le labbra e le palpebre come le divote che recitano il rosario. A uno di questi matematici “prestidigitatori„ un morettino di sette anni, il maestro domandò quanti anni avrebbe avuti fra altri sette anni. Dopo aver molto armeggiato con le mani sotto la tavola, egli rispose trionfalmente: — Quarantanove. — E, secondo il suo modo di vedere, come dice il Ferravilla dell'orso bianco che incanutisce in nero, egli aveva calcolato giusto: solo che aveva moltiplicato, invece di sommare. Un semplice malinteso.

Ah! come parevan lunghi ad alcuni quei pochi minuti! Per la grande finestra aperta si vedeva il cielo, qualche vetta d'albero, degli uccelli che roteavano nerazzurro; e i poveri ragazzi, nei momenti d'incertezza o di smarrimento, rivolgevano quasi tutti lo sguardo da quella parte, verso l'aria pura e la libertà, con un sentimento d'invidia — si capiva — per quell'altre piccole creature volanti, che non conoscono nè grammatica nè numeri; e quel sentimento era compreso da più d'una maestra che, impietosita, per richiamare all'attenzione l'alunno, lo pigliava dolcemente per un orecchio o pel mento e gli faceva voltare il capo verso di sè, — come si fa girare un mappamondo sferico sul suo asse, — dissimulando un sorriso.

Dopo un quarto d'ora ch'ero là il mio atteggiamento di “potenza neutrale„ aveva rassicurato anche i più timorosi. Non solo non mi guardavan più con terrore; ma qualcuno dei più vicini, in certi momenti critici, cercando ansiosamente una risposta, mi rivolgeva uno sguardo che implorava soccorso. E avrei suggerito volentieri; fui anzi tentato più volte di far dei segni salvatori dietro le spalle del vecchio maestro; ma oltre che il rispetto per questo, che era, più che indulgente, amorevole, mi trattenne — lo dico sul serio — una considerazione di alta politica, il pensiero della mia fede nell'avvenire d'un ordinamento sociale, in cui, essendo aperto a tutti il concorso nel campo degli uffici intellettuali, la selezione delle intelligenze dovrà essere anche più severa, e quindi la prova degli esami anche più rigorosa che al presente. — Sii logico, — dissi a me stesso, — ed ebbi la forza di non fare un cenno nemmeno a un povero ragazzo col naso ammaccato, che, sul punto d'affogare in una sottrazione, volgendomi uno sguardo di naufrago, pareva che mi dicesse il verso di Dante:

Non hai tu spirto di pietade alcuno?

Ah! come la politica indurisce il cuore.

— La morte di Socrate!

Queste parole solenni, dette da una bella voce di contralto, mi fecero voltare bruscamente verso l'angolo opposto della tavola: era una giovane maestra, dagli occhi severi e dal naso aristocratico, che le aveva dette a un ragazzo minuscolo, presentatosi in quel momento, con un visino smarrito, che pareva una mela lessa. — La morte di Socrate! — pensai. — E che potrà mai rispondere quel piccolo malcapitato? — Ma, con mia maraviglia, l'ometto era ferrato sull'argomento. La morte di Socrate non era che un raccontino di poche righe, compreso nel libretto delle Prime letture, e imparato a mente dagli alunni nel corso dell'anno. L'ometto si fece onore. Disse anzi la chiusa: — Ammirabile risposta! — (la risposta di Socrate) — con un accento di gravità filosofica, che fece ottimo effetto.

Si presentò poco dopo al maestro mio vicino uno scolaretto poveramente vestito, rosso in viso e tutto ansante, che doveva aver fatto poco prima un pugilato con un suo compagno, perchè gli spenzolava il bottone dal collo della camicia, e mostrava il petto nudo: un povero petto scarnito e incavato, dal quale e dagli occhi pallidi, e come stanchi, si capiva che nell'annata egli doveva contar più giornate che pasti. Alla prima interrogazione, di vermiglio che era, si fece smorto: aveva una gran paura, e gli si leggeva in viso ch'era paura d'una cosa lontana più che del maestro presente; ahimè! delle botte materne e paterne, forse, che avrebbero suggellato un esame infelice. Mi fece una grande pietà. — Ah, questa volta — pensai — vada al diavolo la logica: io suggerisco. — Ma, con mia viva soddisfazione e con stupore del maestro, il piccolo pugilatore fece un “esamone„. Superato il primo intoppo, tirò avanti col vento in poppa, rispondendo a tutte le domande, nel secondo esame come nel primo, senza incagliare una volta sola. Ed era commovente il vedere come quel povero viso a grado a grado s'illuminava, come quel piccolo corpo si riscoteva a ogni parola di lode, come sotto una carezza. L'esaminatrice d'aritmetica, contenta, gli disse terminando: — Bene. Ancora una cosa. Sapresti scrivermi il numero cento? — E quegli, trionfante oramai, stirato prima il braccio in aria con l'atto d'uno schermitore che sta per impugnare la spada, prese la penna, piantò i gomiti sulla tavola con un far da padrone, e scrisse in mezzo al foglio un 100 enorme, in vere cifre da lotteria, inappuntabile. Poi buttò la penna da parte, e alzò il viso baldamente, come dicendo: — Si vuol altro da me?... Son qui pronto!

Il direttore, che aveva assistito all'esame, gli fece i rallegramenti, e disse al maestro: — Lo proporremo per la villa Genèro.

Dei del cielo! Il mese d'agosto in una villa ridente, sulla bella collina di Torino, in mezzo agli alberi e ai fiori, col Po sotto gli occhi e le Alpi di fronte! Al povero ragazzo uscirono dagli occhi due raggi di sole....

Venne poi un altro, palliduccio e di aspetto malinconico, a cui la mamma aveva annodato con molta cura una cravattina nuova, che metteva più in vista la giacchetta trita. Fattegli alcune domande, il maestro dai capelli bianchi gli mostrò nel libro di lettura una vignetta, che rappresentava una signora con la sua figliuola, vestita riccamente, la quale tendeva la mano a una ragazza povera, accompagnata dalla sua mamma vestita a bruno; e c'era scritto, sotto la stampa: — La figliuola della vedova. — Interrogato, il ragazzo pose il dito prima sull'una e poi sull'altra figura, e disse: — Questa è la fanciulla ricca, questa è la povera.

— Perchè, — gli domandò l'esaminatore, — dici che questa è la povera? — e aspettava che gli rispondesse: perchè è vestita da povera. Il ragazzo rispose invece, con certo accento di mestizia: — Perchè non ha più suo padre.

Il maestro parve stupito e commosso da quella risposta, e, fatto cenno a me che quel ragazzo appunto aveva perso il padre pochi mesi avanti, gli rispose con sapiente delicatezza, passandogli una mano sul capo: — Hai ragione.... In fatti.... un bimbo non è mai povero fin che ha suo padre.

E altri ne passarono: visi umili che domandavano misericordia, faccine toste che parea che fossero al loro centesimo esame, buoni ragazzi in disdetta che non ne azzeccavano una, bricconcelli fortunati che le infilavano tutte, e bocchine slattate da un lustro che dicevano quattro e sette fa dieci con una grazia adorabile, e anche più d'un becco roseo invermigliato di sugo di ciliegie. Ne venne uno che per leggere il nome di Epaminonda preparò i muscoli labiali con un movimento comicissimo, come se avesse dovuto imboccare un trombone smisurato; poi un altro, un biondino tutto sgomento, il quale balbettò il nome di Cincinnato con tanti cin, da parere che imitasse il suono dei piatti turchi, mettendo a duro cimento la serietà di tutto il corpo esaminante; e dopo di lui un meschinello che a non so qual domanda difficile, dopo un lungo silenzio, non trovò altra risposta che due lacrime. E vidi ancora far molti calcoli da molti aritmetici maneschi; uno dei quali, avendogli detto la maestra: — Ma che cosa ci hai in quella testa? — si passò una mano sulla testa e si guardò la mano; e, tenendo dietro alle letture del Complemento del sillabario, feci molte volate vertiginose da Mosè a Demostene, da Garibaldi ad Enea, da Federico il Grande a Orazio Coclite, a Giobbe, a Scipione, a Emanuele Filiberto, divertendomi a immaginare la ridda matta che dovevan ballare quei grandi personaggi nell'oscurità di quelle piccole teste; e dopo la solita formula: — Va pure, — sentii certi

possenti aneliti

d'una seconda vita.

che non credo se ne sentano di più profondi e di più dolci nelle aule dei tribunali regi alla lettura dei verdetti d'assoluzione.

L'ultimo che si presentò alla maestra che avevo accanto fu il più lepido della processione. Non pareva impaurito, ma attonito. Poteva aver sette anni al più; un viso di nulla, che somigliava una miniatura. La maestra gli fece una domanda, e, tardando la risposta, gli disse, un po' impazientita, con l'occhio rivolto altrove: — Su via! — Quegli credette che quel via significasse vattene, e, non desiderando di meglio, girò senz'altro sui talloni e se la diede a gambe. Quando l'esaminatrice si voltò, e non lo vide più, restò a bocca aperta un momento; poi s'alzò di scatto e corse nel corridoio, dove lo raggiunse, e lo ricondusse per mano al suo posto — visibilmente accorto del disinganno.

E questo innocente “tentativo d'evasione„ fu l'ultimo episodio notevole a cui assistetti. Uscito prima che si sciogliesse la Commissione, trovai ancora nel corridoio del primo piano e in quello a terreno un buon numero di mamme, di nonne e di zie, che aspettavano con santa pazienza da un paio d'ore, e vidi gli abbracciamenti con cui alcune accoglievano “gli usciti fuor del pelago„ sommettendoli a un interrogatorio concitato, seguito da un arruffio di risposte, che provocavano nuove domande, le quali le lasciavano più inquiete di prima. Non tutti, peraltro, si mostravano incerti o modesti. Un piccolo spaccone rispose ad alta voce, tagliando l'aria con un gesto di capitan Fracassa: — Ho saputo tutto! — Intesi un altro trionfatore che si vantava; ma la mamma, una donna del popolo, gli tagliò in bocca le vanterie, dicendogli: — Sta zitto, vanerello, che è stato sant'Antonio: tu non sai quanto t'ho raccomandato.... — C'era un gruppo di donne che circondavano un bimbo d'un'altra classe, del quale si diceva che avesse fatto maraviglie, e tutti ci facevano dei commenti laudativi, lavorando di fantasia: — qualche cosa di non mai visto nè inteso, — gli esaminatori trasecolati, — un vero portento, — e guardavano il marmottino da capo a piedi, con grande ammirazione, come se gli vedessero già in dosso l'uniforme di Presidente dei Ministri. Un po' più in là raccolsi un frammento di dialogo di due popolane, una delle quali si lagnava, dicendo: — L'hanno interrogato su tutte le combinazioni più difficili. Già questi maestri e maestre, agli esami, si sa, vanno tutti per protezione. — E domandandole l'altra perchè non fosse andata ad assistere agli esami, che erano a piede libero: — Eh, cosa ci sarei andata a fare, — rispose, — io che non conosco l'errore!

M'ero soffermato in quel momento a pochi passi dal portone della Scuola, davanti al quale stavano affollati una cinquantina tra scolari e scolare delle prime due classi, che facevano un cicaleccio vivissimo. A un tratto tutti tacquero, e li vidi dividersi rispettosamente in due ali, guardando tutti verso il mezzo (dove io non vedevo), con gli occhi scintillanti come di simpatia e d'ammirazione. Certo, entrava qualche personaggio autorevole, l'Ispettore governativo, il Provveditore, che so io? il Sindaco di Torino. — Che ragazzi bene educati, — pensai; — buoni piccoli piemontesi, in cui pare innata, in cui è così profonda la reverenza dell'Autorità, che dimenticano, all'apparire d'un Superiore, ogni divertimento, ogni cura....

Non avevo finito di dir questo che il personaggio entrò.

Era un cameriere di caffè che portava un gelato.

PICCOLI SCRITTORI.

Ho sotto gli occhi i componimenti di trentacinque alunni della seconda elementare d'una scuola municipale di Torino: ragazzi dai sette agli otto anni, di tutte le classi sociali. Chi non ha mai letto una raccolta di “prose„ di questo genere non immagina quanto ci sia da divertirsi e da meditare.

Si noti che il componimento fu fatto nella scuola, senza brutta copia, sotto gli occhi della maestra; la quale, dettato il tema, non aggiunse alcun suggerimento, e che perciò questi lavori sono la schietta manifestazione dell'animo e della capacità intellettuale degli alunni.

Il tema era: — dite quali siano le occupazioni del vostro babbo, della vostra mamma, di ogni persona della vostra casa. —

Non mi trattengo sulla grammatica e sull'ortografia. Noto di volo, soltanto, che gli errori grammaticali sono quasi tutti i medesimi, derivando la maggior parte o da anomalie della lingua, come quello frequentissimo di scrivere al nominativo miei fratelli perchè si dice al singolare mio fratello, o dalla suggestione del dialetto, come quello del dativo gli in vece di le; nel che non si può supporre che i miei piccoli scrittori intendessero di seguire la teoria manzoniana. Quanto all'ortografia, sono pecche comuni (e la ragione si capisce) l'orrore della virgola, il disprezzo dell'apostrofe, l'appiccicatura degli articoli ai sostantivi, e la cattiva amministrazione delle consonanti, risparmiate o spese a sproposito, per non aver la norma della pronunzia esatta. Lo scoglio in cui tutti battono è l'acca del verbo avere. Io credo che molti ragazzi la sognino. E non son forse i più quelli che dimenticano di scriverla; ma quegli altri che, ricordandosi che ci vuole, senza sapere ben dove, la scrivono di dietro invece che davanti, convertendo così il verbo in un'interiezione, — ah, — la quale in certi punti fa un effetto comico, come se volesse dire: son stufo. E degli errori di senso è il più ovvio quello che proviene dall'intromettersi d'un pensiero in un altro pensiero, il quale rimane così troncato nella mente del fanciullo ed espresso a metà sulla carta, come uno di quegli avvisi pubblici a cui si sovrappone in parte un altro avviso. Nella correttezza grammaticale, del resto, come nella regolarità calligrafica, vi sono tra i lavori grandi differenze; non tutte riferibili al vario grado di capacità degli alunni, poichè molte derivano dal loro umore della giornata; che è come dire dalla rottura d'un balocco o dalla perdita d'un soldo o dalla soppressione del caffè e latte mattutino. Ma dei dispiaceri di questa natura si risente molte volte anche lo stile degli scrittori di quarant'anni.

*

Restringo le mie osservazioni al campo morale, che è più fecondo e più vario. Ricavo per prima cosa da questi componimenti che la maggior parte delle famiglie si occupano dei loro piccoli scolari assai più di quanto non si soglia credere, poichè non c'è quasi ragazzo, di questi trentacinque, anche di quelli di più umile condizione (e non c'è ragione di sospettare che non sian veritieri), il quale non dica che il padre o la madre o un fratello o una sorella gli fa recitare ogni giorno la lezione o gli rivede il lavoro, e tutti quanti accennano il particolare, che, ogni volta che escon di casa per andar a scuola, la mamma guarda loro nel zaino per veder se ci hanno ogni cosa. Mi par questo un segno certo di progredita istruzione popolare, poichè non credo che nelle famiglie povere di trent'anni addietro si facesse altrettanto. Quasi tutti dicono minutamente e con ordine l'orario di tutti i loro parenti. E da questo e da altri accenni a consuetudini domestiche si capisce la vita ordinata e operosa di molte famiglie, in cui tutti si levano all'alba e lavorano tutta la giornata, e si aiutano e si ricreano insieme nel breve tempo che passano uniti; e appariscono vagamente figure di madri ammirabili, e sventure nobilmente sopportate, e case di piccoli “borghesi„ nelle quali il decoro visibile è mantenuto a prezzo d'una rigida vita interiore, confortata dalla buona armonia e dalla buona coscienza. E per questo rispetto la lettura dei componimenti m'ha rallegrato.

Un'altra cosa consolante ho notata, che contraddirebbe a una mia opinione, ma che, potendo essere un semplice caso, non basta a distruggerla; ed è questa, che dalla classificazione dei componimenti non resulta che i ragazzi di famiglie popolane siano inferiori, per il minor aiuto intellettuale che hanno in casa, a quelli di famiglie agiate, poichè degli undici, sui trentacinque, che ebbero i punti migliori, sei sono figliuoli di povera gente.

Notevole è pure che sono figliuoli del popolo quelli che scrissero espressioni più vive di affetto e di gratitudine per i loro parenti; il che può derivare dal fatto ch'essi li vedono faticare per la famiglia in una forma più sensibile che non sia quella del lavoro della mente, e sono indotti più degli altri alla riflessione dall'austerità della vita, e comprendono e valutano meglio le privazioni che s'impongono per loro il padre e la madre, per effetto dell'esperienza dolorosa che ne fanno sovente essi pure.

Curioso è che i tre alunni più affettuosi della classe sono tutti e tre figliuoli di cuochi.

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Uno di questi chiude il componimento colle parole seguenti, che trascrivo alla lettera: — Oh se potessi essere al posto di mio babbo, e non farlo più lavorare! Io penso che ha cinquant'anni! Io penso alla mia povera mamma che è mezza ammalata! Dio benedica tutta la famiglia! — Il figliuolo d'una lavandaia, orfano del padre, scrive: — Io non ho il babbo, ma dico che cosa fa la mamma. — E dice la sua lunga giornata di lavoro. — Viene a casa tanto stanca che nemmeno mangia la cena. È molto buona e fa tutto quello che può per me, mi guarda perchè i vestiti siano puliti, mi fa la colazione, mi pettina e ha cura di me. — Originale e bella è questa chiusa del figliuolo d'un fabbro ferraio: — Oh bambini, obbedite sempre i vostri genitori. Essi sono gli angioli. Ti anno allevato, ti mantennero ti mandano a scuola ordinato e pulito essi ti diedero la vita e ti fecero camminare. — Questo ti fecero camminare non è bellissimo? Non è men bella quest'altra chiusa, del figliuolo d'un carbonaio: — Povero babbo a durar fatica dalle 5 alle 9 e mezza. Povera sorella che dura fatica a lavorare. Povero fratello, è ammalato e molto. — Ma la più singolare mi par quella del figliuolo d'un conciatore, che dice: — Quanto sono carini i miei genitori! Quando noi gli chiediamo qualche cosa non osano dir di no, dicono di sì. Anno proprio compassione di noi. Il padre si chiama Antonio Lotta, la madre si chiama Maria Lotta, io mi chiamo Giulio Lotta. — E come è semplice e graziosa questa frase del figliuolo d'un lavorante orefice: — Il babbo è molto buono, la mamma è buona come il babbo —;e quest'altra: — La mamma pensa a tutti e a tutto. La sorella, quando la madre è fuori, essa fa da madre. — È una perla quell' essa.

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Due caratteri principali si riscontrano in questi piccoli scrittori: i riserbati e laconici, che dicono il meno possibile, restringendosi a indicar secco secco le ore in cui le persone della famiglia si levano, mangiano, e vanno a dormire, e gli espansivi, che profondono le notizie e le confidenze. Questi parlano in special modo dei fratelli e delle sorelle, e si possono dividere alla volta loro in “affettuosi„ e in “critici„. La maggior parte dei primi ricordano con molta tenerezza le sorelle e i fratelli più piccoli; ciò che conferma la massima pericolosa d'un mio amico, padre molto prolifico, secondo il quale bisogna che nelle famiglie ci sia sempre un bambino, perchè ingentilisce il cuore dei figliuoli grandi. Dice uno: — Quando la mamma mi lascia da guardare il fratellino più piccolo sono molto contento perchè gli do anche da mangiare. — Un altro fa l'elogio del fratellino, che studia molto, e dice di sua sorella minore: — Mi diverto in tutte le maniere con lei. — Un terzo scrive: — Maria è la mia gioia la faccio saltare e qualche volta fa le bizze. E allora — soggiunge come la cosa più naturale del mondo — la mamma mi batte. — Dice il medesimo un quarto: — Io o anche la sorellina che a appena cinque anni e quella sorellina è il mio divertimento, e quando ho fatto il lavoro mi diverto e lei fa un pochi capriccetti, e mi fa castigar dalla mamma. — È un destino!... Un altro butta là nel mezzo del componimento, senz'alcuna attaccatura col resto, questa frase curiosa: — Mio fratello qualche volta mi fa dei piaceri.

I “critici„ sono anche più ameni; ma indiscreti, qualche volta. Ve n'è uno che giudica in questo modo le sue tre sorelle: — Ada è buona, ma un po' capricciosa; quella che si chiama Teresa va solamente a scuola all'asilo (come si sente in quel solamente l'orgoglio dello scienziato!), Adelaide è un po' cattiva. — Altri fanno a carico dei loro fratelli rivelazioni più gravi, come quelle che seguono:

Poi ho un fratellino che ha appena due anni, e è un biricchino di prima riga.

Ho un fratellino di 7 anni che va a scuola, non vuole saperne di studiare.

Ho un fratello grande che è bocciato.

Uno dà intorno a suo fratello dei ragguagli più minuti, in una forma amenissima: — Il mio fratello più grande non studia abbastanza, ma fa dannare il babbo e la mamma. Torna a casa con un castigo da fare per la maestra. Il babbo e la mamma gli chiamano: te ne ha dato dei castighi da fare e lui dice di no e ha vergogna di dir di sì.

E che dire di un cervello sodo di sette anni e mezzo, il quale scrive: — Ho due fratelli, il maggiore è in 3ª e pare che quest'anno metta giudizio?

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Molte cose strane e oscure dicono riguardo alla professione e alle occupazioni del padre. La professione alcuni non l'accennano; altri pare che non n'abbiano un'idea molto chiara. Dice uno: — mio padre è impiegato fuori di porta — senz'altro: provatevi a indovinare. Un altro definisce la professione paterna in questo modo singolare, un po' indeterminato, mi sembra: — Il babbo va via alle 7 per guadagnarsi il pane col sudore della sua fronte. — Altrettanto singolare e non molto più lucida è quest'altra definizione: — L'occupazione del padre è di pensare molto ai colori per fare i quadri con dei fiori e altre cose. — Il figliuolo di un “impiegato al gas„ dice: — Mio padre a mezzanotte va a spegnere i ceri. — Definisce un altro in questa ardita forma grammaticale l'occupazione di sua madre: — L'occupazione di mia madre è che pensa alla roba di non perderla. — Il più originale, per altro, e il più misterioso è quello che, dopo aver detto: — L'occupazione del mio babbo è di fare il benestante, — soggiunge: — cioè 5 o 6 giorni sarà a Torino, 8 o 9 giorni sarà in campagna a lavorare, e quei 5 o 6 giorni che è a Torino un'ora sarà al mercato un'ora sarà all'ufficio, insomma ha tanto da lavorare che un'ora è in casa e un'altra è fuori. — Un benestante, come si vede, che non poltrisce sulle sue rendite. Ne cito ancor uno che fra le occupazioni del padre registra questa: — poi il babbo viene a casa e sta due ore a leggere il popolo (la Gazzetta del popolo) — e un altro che fa questa straordinaria rivelazione: — Il babbo va a letto la sera alle 11 e non si alza più che alla mattina.

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Ma le uscite bizzarre, lepide, gentili che si trovano in questi pochi componimenti, se volessi citarle tutte, riempirebbero troppe pagine. Non si direbbe che è un epigramma pensato questa doppia proposizione: — Mio fratello va al ginnasio, ma studia? — E come è ben resa la varia operosità d'una brava ragazza di casa con questi due tocchi: — Mia sorella mi corregge il lavoro e scopa il negozio. — E che fior di logica semplicità v'è in questa frase: — Allora i genitori mi fanno ripetere la lezione, se la so mi dànno la merenda e se non la so non me la dànno — e nella seguente: — la mamma mi lava i vestiti se sono sporchi, me li cucisce se sono stracciati. — Dopo aver accennato le occupazioni dei parenti, uno passa a dire le proprie con questo ingenuo avvertimento: — Vengo a parlare di me. — Un altro: — Adesso parlo di me. — E un terzo, più solenne: — Ed ora parlo di me stesso. — Questi me ne rammenta un quarto che notifica in una forma nuova affatto la composizione della propria famiglia: — A casa mia ho il babbo, la mamma, la sorella e me.

Fra le chiuse più degne di nota trascrivo le seguenti, che paiono state cercate per ottenere un “effetto finale„:

Io sono un bambino di 7 anni e 7 mesi.

Io ho otto anni e mi levo alle 7 e mezza.

Io sono della scuola Angelo Brofferio e mi levo alle 7.

Ve n'è uno che, fra l'altre, dà questa importante notizia; la quale, per quanto concerne lui, è certamente una piccola spacconata: — Dopo cena qualche volta andiamo al caffè a bere dei liquori.

Da un periodo arruffato d'un altro si capisce che in casa sua sono incaricati i ragazzi di apparecchiar la tavola; ma sentite con quali restrizioni, e come giudiziosamente e ordinatamente specificate: — Ma mettono solamente il tovagliolo e le tovaglie perchè se mettono i tondi li rompono e le posate si tagliano o cadono per terra e possono fargli del male sugli occhi dentro alla bocca sulla fronte.

Il figliuolo d'un calderaio ha sulla fine questa maravigliosa uscita, che a qualcuno farà dare un balzo sulla seggiola: — Il babbo viene a casa ed è l'ora della cena. Noi amiamo e dopo amato usciamo. — Si capisce che voleva dir ceniamo; ma che il verbo “amare„ ch'egli aveva forse in mente per l'espressione d'un pensiero d'affetto alla chiusa, essendosi cacciato avanti tutt'a un tratto, gli cascò sulla carta invece dell'altro.

Fra le cose commoventi noto quella del figliuolo d'un muratore, per intender la quale conviene sapere che una società di filantropi torinesi fondò delle “colonie alpine„ dove son mandati ogni anno a passar l'estate un certo numero di fanciulli poveri delle scuole municipali, scelti fra i più deboli di salute. Il povero ragazzo scrive che a casa sta coi piedi nudi per non sciupare le scarpe, perchè ho da andare alle colonie alpine, e così ci vuole un paio di scarpe buone, — ed enumera dopo questo gli altri oggetti di corredo richiesti, soggiungendo con una esclamazione di gioia: — E io ho già tutto!

Ma la più saporita l'ho serbata per la fine. Dice un ragazzo: — L'occupazione di mio fratello maggiore è di levarsi la mattina alle 3 e di andare a Chieri al passo di corsa. — Dêi del cielo, ci son venti chilometri! — E che dannata professione sarà mai questa? — mi domandai leggendo; ma, per quanto ci pensassi, non mi riuscì di scoprirla. Seppi poi dalla maestra che quel fratello è “volontario d'un anno„ nei bersaglieri, e che l'alunno aveva inteso d'accennare a una “marcia di resistenza„ fatta dal reggimento; ma s'era espresso in modo, come si vede, da far scambiare la fatica straordinaria con una occupazione quotidiana — spaventevole.

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Se tanto c'è da spigolare in trentacinque componimenti, che non si troverebbe in una grande raccolta? Certo, io non dico agli insegnanti elementari, che l'insegnarono a me, quanto ci sia da imparare spingendo l'analisi di questi lavori oltre l'ortografia e la grammatica. Ma mi arrischio a dirlo agli scrittori giovanissimi, e a tutti coloro che studiano il cuore e la mente umana; poichè credo fermamente che i fanciulli, a studiarli profondamente e con amore, siano, dopo gli scrittori di genio, i migliori maestri dell'uomo.

I DESIDERI DEI RAGAZZI.

Non sono immaginazione mia: li manifestarono per scritto trentacinque alunni d'una seconda classe elementare delle scuole municipali di Torino, ai quali la maestra diede per tema: I miei desideri, e fece fare il componimento nella scuola, senza brutta copia, concedendo un'ora di tempo. La maggior parte sono ragazzi dai sette agli otto anni, che venti mesi fa non leggevano ancora l'alfabeto, e diciotto sui trentacinque, figliuoli d'operai. Da ieri ho fra le mani i loro componimenti, — un mucchio di foglietti di carta rigata, coperti d'ogni forma di scrittura, dalla calligrafia quasi perfetta alla pura e pretta raspatura di gallina, e sparsi d'una flora maravigliosa di grossi e piccoli spropositi che fanno ridere e pensare.... — e non so risolvermi a buttarli in un canto, prima d'averne raccolto in un mazzo i fiori più belli per offrirli agli studiosi e ai dilettanti di letteratura fanciullesca.

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Prima di principiare a leggere pensai che questi componimenti non potessero essere che elenchi di balocchi e di giochi, tutti eguali a un dipresso, come le vetrine dei venditori di giocattoli; non pensai, fra l'altre cose, che potesse essere così generale, come lo riscontrai, in ragazzi di quell'età il desiderio dei viaggi; il quale poteva dare, come dà infatti, ai loro lavori una varietà inaspettata e dilettevole; e sono appunto le espressioni diverse di questo desiderio ciò che mi divertì sopra tutto e che mi parve più meritevole d'osservazione nei periodi bizzarramente scarmigliati e claudicanti dei miei piccoli prosatori.

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Quasi tutti manifestano, prima d'ogni altro, il desiderio di viaggiare, e nominano le città che preferirebbero di vedere. Le città più “desiderate„ sono, per ordine di voti, Milano, Napoli e Roma. Penso che abbia il primato Milano per la ragione che, essendo la più vicina a Torino, è quella di cui i ragazzi sentono parlare più spesso. Quelli che vorrebbero andare a Roma son quattro, e due di questi paiono mossi da sentimenti politici opposti, perchè l'uno vorrebbe andarvi soltanto “ per vedere dove abita il papa „, l'altro, per vedere quel bel palazzo dove ci sta Umberto I. Il terzo, indifferente al monarca e al pontefice, dice che desidera di andar a Roma non per altro che perchè “ c'è stato il suo padrino „, ed è dubbio il quarto perchè scrive che vorrebbe andare “ sul bastimento a rona „ e può darsi che abbia inteso di scrivere a Arona sul Lago Maggiore. C'è un altro, del resto, che parla d'andare “ col bastimento „ a Milano. Per Firenze non ci sono che due aspiranti, per Genova uno e uno per la Sicilia. Ce n'è sette, invece, per l'America; ma è da notarsi che i più di questi dicono l'America perchè ci ebbero o ci hanno qualche parente; ed è lo stesso dei tre che desiderano d'andare in Francia. Due soli hanno desideri senza confini; uno che vorrebbe visitare tutto il mondo, e un altro che desidera di viaggiare tutti i paesi; e altri due sognano viaggi avventurosi di scoperte e di lotte. Il mio desiderio, sarebbe di attraversare il mare e di cercar le oasi (voleva dir le isole forse), e il secondo: Mi piacerebbe visitare i deserti dove c'è le bestie feroci. C'è anche un originale che vorrebbe non solo andare, ma stare in Asia; in quale parte non lo dice; si può intendere fra Gerusalemme e Pechino; e la ragione della sua scelta è un po' vaga: — perchè è molto bello e mi piace molto e c'è un sole molto caldo. — Invitato dalla maestra a spiegarsi meglio, si chiuse in un silenzio pien di mistero. Più comprensibile è uno dei sette già rammentati, che vorrebbe visitare quella grande città d'America (non dice quale) perchè ci sono quelle grosse piante, quei tronchi che sono di una grandezza straordinaria; ed esprime in questa forma ingenua la sua ammirazione per la fecondità della natura: — E poi da quelle piante piccole a venire e quelle piante straordinariamente grosse! — E gli accozzamenti delle grandi città e dei piccoli comuni sono curiosi. Uno vorrebbe veder Milano, Firenze, Castellamonte; un altro vorrebbe andare in America, e poi a Crescentino, un comune della provincia di Novara, dove dice che è “ puro il cielo „. Ma la cosa più amena sono le ragioni che adducono, gli scopi particolari che si prefiggono alcuni al loro viaggio. Quello che dice: — vorrei andare a Genova a pigliare i bagni di mare, ma ho un po' paura della burrasca — si capisce; ma quello che vorrebbe andare a Firenze! Non pensate che sia per veder Santa Croce, i musei, i monumenti: si può dare in mille a indovinare. — Per bere il latte che è squisito! — Donde gli sarà mai venuto un così straordinario concetto del latte fiorentino? Può fare il paio con quell'altro che desidera d'andare a Napoli, oltre che per vedere il vulcano o vesuvio, sapete perchè? Perchè si mangiano dei maccheroni napoletani; e questo passi; ma soggiunge il sudicioncello: — e sono molto buoni e non si prendono col cucchiaio ma si mangiano con le mani. — Chiedo scusa per costui, come cittadino torinese, ai miei compaesani di Napoli, e li assicuro che si tratta d'un'opinione affatto personale dello scrittore.

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Al mare accennano più d'una metà, ed è notevole che quasi tutti quelli che v'accennano desiderino di fare i bagni marini. Sarà un segno di progredita cultura igienica? Perchè non uno su trenta scolaretti di Torino, quando io ero ragazzo, avrebbe forse espresso un tal desiderio; certo, non ci avrebbe pensato nessun ragazzo di famiglia povera. L'immagine più poetica, riguardo al mare, è quella del figliuolo d'un operaio, il quale dice: — Mi piacerebbe andare sugli alti mari dove si vede per tutto acqua e celo; — ma vorrebbe avere con sè la mamma, la zia e un cugino “ per dividere i pericoli „. Sono anche di più quelli che desiderano di andare in montagna; ed è naturale anche questo poichè vivono tutti davanti allo spettacolo incantevole delle Alpi. Uno dice che vorrebbe andare in montagna per vedere i buoi; un altro per stare molti giorni ad una certa altezza numerosa; un bel traslato ardito, se lo volle riferire, come pare, al numero dei metri d'altitudine. Un ragazzo povero esprime lo stesso desiderio con una frase semplice e triste che tocca il cuore: — Vorrei andare sulle più alte montagne, a pigliare un po' d'aria buona, che non sono mai andato in nessun paese. — Andare a passar l'estate in campagna, senza determinazione di luoghi, è il desiderio più comune; più vivo in quelli che non lo possono soddisfare, ed espresso da tutti con un'insistenza e un calore di parola, in cui si sente un bisogno vero del corpo e dello spirito, un fremito d'uccelletti ingabbiati, assetati d'aria e di verde. Conviene anche dire, peraltro, che quanto a viaggi e a escursioni i desideri di una buona parte sono assai moderati, arrestandosi in alcuni ai Santuari d'Oropa e di Graglia, e in altri a villaggi dei dintorni di Torino e alla basilica di Superga; nella quale uno degli scrittori vorrebbe andare a vedere “ quei sotterranei dove è morto il re „. Parecchi sono anche più modesti: non desiderano che “ una passeggiata nel Corso Palestro „ che vedono ogni giorno, poichè è a un passo dalla loro scuola, o una di quelle passeggiate in via Po (chi sa quali?), o fino alla succursale (niente di meno), che è una stazione minuscola della strada ferrata di Milano, dentro la cinta. Ce n'è uno, poi, che non vuol andare in nessun luogo, e manifesta per i viaggi un'avversione assoluta; dicendo che vorrebbe star tutta la vita a Torino, per una ragione che siete mille miglia lontani dall'immaginare: p erchè c'è aria fina. E neppure potete immaginare la ragione, tanto è semplice, che adduce un altro del non poter fare i grandi viaggi che vorrebbe. — Ma fare tutti questi viaggi non posso- -dice — perchè o da frequentar la scuola tutte le mattine.

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Sento una domanda del mio buon amico Moneta: — La propaganda per la pace ha recato qualche frutto? Si può riconoscere in codesti componimenti uno scemato spirito guerresco nel desiderio scemato di quei giocattoli che rappresentano strumenti e idee di guerra e di morte? — Mi manca, per dare una risposta, il termine di paragone; ma temo che, se anche l'avessi, non potrei dare una risposta molto consolante. Su trentacinque sono undici che desiderano trombe, soldati di piombo, fucili, sciabole, pistole, un intero arsenale. Credo soltanto minore di quello che sarebbe stata trent'anni fa la richiesta dei tamburi (due soli ne chiedono) perchè, non usandosi più il tamburo nell'esercito, manca l'impulso dell'imitazione. È vero, peraltro, che uno solo di quegli undici esprime chiaramente delle idee belligere, e anche in senso puramente difensivo, dicendo: — Vorrei essere vestito da soldato per andare in guerra a combattere contro il nemico e salvar la mia patria. — Quasi tutti gli altri non chiedono armi che per giocare. Ce n'è uno, anzi, che confessa la propria avversione alla guerra in un modo assai comico, ed è di quelli che vorrebbero viaggiare in Africa. — Ma andare in Africa — soggiunge — non mi piace perchè c'è la battaglia, ma io vado quando non fanno la battaglia. — E dice anche, contraddicendosi, che non gli piace d'andare in Africa, perchè vi sono neri gli Abissini.

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Più delle armi sono desiderati gli animali, naturalmente, poichè dopo l'uomo — primo oggetto d'osservazione pei fanciulli, — son quello che più gli rassomiglia; e fra gli animali, per la bellezza delle forme, e per la vivacità delle mosse e la varietà degli usi a cui serve, il più desiderato è il cavallo. Sedici alunni vorrebbero averne uno, ma due soli specificano: un cavallino sardo. Poi viene il cane, desiderato da cinque: uno dei quali vorrebbe uno di quei cani inglesi, e un altro, un bel can barbone; ma per licenziare la serva, parrebbe: perchè — dice — il can barbone è docile e serve a far la spesa ai padroni. Sono desiderati da altri una pecora, una pecorella viva, un asinetto, ed altri animali domestici; di uccelli non è nominato che il canarino. Anche il gatto ha un voto solo; forse perchè quasi tutti ne hanno uno da tormentare in casa propria. Ma a proposito di bestie il più saporito periodo lo scrisse quello che vorrebbe “ un bel cane e un cagnolino da guardia: sentite se si può essere più assennati e più previdenti; par che ripeta un discorsetto di suo nonno: — Ma con questi due cani — dice — uno piccolo, e l'altro grosso, non vorrei che fossero invidiosi, che non si mordessero malamente, come fanno certi cani, e non mi piacerebbe niente se venissero arrabbiati, allora poi li farei uccidere perchè senò si uccidono tra loro....„

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Tra le cose inanimate quelle che destano più desideri sono la lavagnetta col gesso e il teatro coi burattini; ma perchè l'una e l'altro servono all'imitazione della vita. Anche la lavagnetta, in fatti, benchè dicano quasi tutti — le mascherine — di desiderarla per esercitarsi alle operazioni aritmetiche (che suol essere il pretesto con cui se la fanno comperare), in realtà la vogliono per rabescarvi su dei fantocci. Quattro desiderano una biblioteca, senza dir altro; uno eccettuato, il quale ha pretensioni bibliografiche molto discrete, poichè la vorrebbe composta di tutti e cinque i libri di lettura delle cinque classi elementari e di una bella storia sacra per leggere la venuta dei magi. Di altri libri che si desiderino non trovo accennati che due l ibri di preghiere e un bel libro di preghiere a Gesù Bambino. Opere d'arte ne desidera uno solo, che vorrebbe una statua, e non aggiunge parola: la prima statua venuta. Non metto fra gli oggetti d'arte i due quadri, uno del re e uno della regina, a cui accenna un altro, perchè possono essere desiderati per sentimento di devozione alla monarchia; come forse per sentimento religioso desiderano altri tre un bel crocifisso, un bel quadro della Madonna, una Madonna dipinta. Un solo filarmonico si palesa, uno che vorrebbe un pianoforte per imparare a sonarlo molto bene. Fra gli oggetti di desiderio più singolari noto una bell'arnia e un servizio da caffè. Ma come badano tutti, quando può nascere equivoco, a far ben capire che vogliono oggetti da grandi, e non dei trastulli. — Vorrei un bell'orologio — dice uno — ma non di quelli da cinque centesimi, e che vada. Un altro vorrebbe una barca — ma proprio di quelle da metterci noi dentro e partire; — l'espressione potrebbe essere forse più elegante, ma non più chiara. E uno di quelli che desiderano un cavallo spiega bene: — un cavallo, ma da andare in groppa. Un quarto mette in un mazzo, come tre cose affini, questi tre desideri: un teatro, una gallina, una spada. È strano come non uno di questi trentacinque ragazzi, di cui la più parte sono di famiglia povera, esprima il desiderio d'un bel vestito, d'un oggetto d'ornamento, d'una qualunque cosa che dimostri la vanità di volersi distinguere esteriormente. Qualcuno si stupirà che non sia stata ancor nominata la bicicletta, e ci sarebbe davvero da stupire se non l'avesse rammentata nessuno. I desiderosi del nuovo “locomobile„ come lo chiama prosaicamente il regolamento municipale, o del ferreo corsiero, come lo chiama poeticamente Lorenzo Stecchetti, son cinque; uno dei quali espone il suo desiderio con questa piccola spampanata: — Mi piacerebbe andare a Napoli a traversare il mare che è veramente bello; ma se io avevo una bicicletta sarei già andato.

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Nell'ordine della “proprietà dei beni immobili„ i desideri son pochi, e non irragionevoli. La proprietà più ambita è il giardino — un giardino con molti fiori — un giardino tutto fiorito di rose — ed altri, definiti brevemente, con immagini graziose, che esprimono un desiderio vivo. V'è un solo ragazzo, più pratico, chè vorrebbe “ un campo pieno di frumento „. Tre desiderano una casa, che uno chiama una costruzione, e la vorrebbe mobiliare a modo suo, col proponimento, pare, di rimaner celibe, perchè scrive: una piccola casetta per mettervi un lettuccio, un sofà, un guardaroba, con alcune seggiole e un seggiolone. Più numerosi son quelli che desiderano indeterminatamente la ricchezza; ma quasi tutti (e in questo è evidente che esprimono un'idea inculcata loro alla scuola più che un sentimento spontaneo) dicono di desiderar d'essere ricchi per poter soccorrere i poveri. Uno solo determina l'ammontare del patrimonio che vorrebbe avere, aggiungendo quali sventurati soccorrerebbe di preferenza: — Vorrei avere una lira per fare elemosina agli infelici, cioè come lo storpio, il cieco e il monchino. Desideri riguardo all'avvenire, e in specie alla carriera, tre soltanto ne espongono: uno che vorrebbe esser marinaio, e due che vogliono far l' avvocato. E pare che uno di questi faccia conto di pescar nel Foro fior di quattrini perchè dice: — I miei desideri sono pure, quando sarò già avvocato, due bellissimi cavalli e una magnifica carrozza, e quando avremo voglia d'andare a cavallo, io e il mio papà, andremo, e quando avremo voglia di andare in carrozza, andremo. — E perchè no? Non si direbbe che c'è sotto una sfida ai socialisti? Un altro, meno ambizioso, dice di desiderare un caffè; ma non si capisce se sia per “esercitare il negozio„ o solamente per vuotare a suo libito le bocce e le zuccheriere; che è forse la versione più ragionevole. Osservo, a questo proposito, che non ci sono in tutti e trentacinque i componimenti se non pochissimi indizi di ghiottoneria. Quattro soli desiderano dei dolci, pochi altri delle frutta; e dice uno di questi che vorrebbe andare in America perchè c'è lo zucchero e in Africa perchè c'è i datteri. Cito ancora ad onore un ragazzo sobrio che vorrebbe fare una bella cena in un giardino, e bevere un pochino, ma non bevere molto, e un altro capetto scarico, il quale desidera che i suoi genitori diano un pranzo in casa, e numera le persone che vorrebbe invitate, una caterva di parenti, congiunti, padrini, madrine ed amici, da dar fondo alle dispense dell' Albergo d'Europa.

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Alcuni di questi componimenti si distinguono per un'abbondanza d'idee, per un'effusione di sentimento e un colore di sincerità, che li fanno parer lettere scritte spontaneamente, a sfogo dell'animo, più che lavori di scuola; e danno perciò a conoscere in parte, l'indole dello scrittore; la quale rimane affatto nascosta in tutti gli altri, segnati d'una comune impronta scolastica. Quattro di questi scrittori originali mi colpirono in particolar modo.

Il primo è un “appassionato„, un cuore “ardente e tenero„. Egli dà al componimento la forma d'una lettera, disordinata e oscura, in cui frammette, come un ritornello poetico, all'espressione dei propri desideri parole di caldo affetto, note quasi d'amore, per la sua maestra; alla quale dà del lei e del tu, espandendo l'anima lirica con una concitazione di stile singolarissima: — Io vorrei andare a Roma — scrive, salvo i peccati mortali d'ortografia — stare due mesi in campagna, ma che lei venisse a vedermi, vorrei giocare alla palla e pregherò per te che non ti arrivi nessuna disgrazia, io le voglio molto bene e vorrei andar nel mare, e guardi di venire a vedermi, che saremo felici, e guardi di non esser mai malata, a me piace d'andare a giocare e guardi di venire al più presto che puoi. Ma l'adoratore rientra in sè tutt'a un tratto alla chiusa, e dice rispettosamente: — Con tutta stima la riverisco.

Il secondo è un'immaginazione effervescente e sfrenata, che esprime rapidamente una quantità di desideri diversi, come se cercasse degli effetti d'antitesi imitando l'arte vittorhughesca di affollare con disordine pensato immagini disparatissime. Egli vorrebbe andare in villeggiatura, a Roma, a Massaua, sul Monte Bianco, a Parigi, sul vapore, in vettura, in tram, in pallone, e dopo aver aggiunto che vorrebbe stare in un gran palazzo e che gli piacerebbe d'essere il re, e accennato altre sue vaste aspirazioni e splendidi sogni, finisce il componimento esprimendo il desiderio modestissimo di pigliare un bagno.

Quest'altro è un filosofo semiserio, che mescola la lepidezza con l'affetto e con l'ironia, rivolgendo tratto tratto la parola a sè medesimo per darsi delle ammonizioni e dei consigli, coloriti di canzonatura. Dopo aver significato il desiderio d'andare in campagna per mangiar frutta, dice: — Ma per te, mio Cesarino, non ci andrai che quando le scuole saranno al fin dell'anno; — e poi enumera le uve che mangierà — l'uva bianca, l'uva nera, l'uva mericana, ecc., e soggiunge paternamente a sè stesso: — Ma io ti dirò, caro Cesarino, che a mangiare tanta uva fa del male, e rovina anche la salute, e fa perfino venire mal di gola; e infine si dà questo memento gentile: — Tu mangierai le frutta, ma le viole le governi per portarle alla maestra, che è tanto buona e gentile coi bambini della sua classe.

L'ultimo è un bel tipo comico di Michelaccio, amante del quieto e grasso vivere. Sentite che beati ozî vagheggia. A lui piacerebbe d'andar l'estate prossima al suo paese nativo (e lo nomina); — a spassarmela in campagna — dice — perchè là si sta molto bene, si mangia, si beve, si dorme e si va a spasso, e poi c'è molta uva, c'è di tutto e questi sono i miei più cari desideri. E dopo aver detto che andrebbe volentieri ad Alassio, dove ha un amico, già suo compagno di scuola ( antico compagno, lo chiama), che se ne sta coricato nella sabbia calda dal sole, esce in questa impagabile frase esclamativa, di cui rispetto l'ortografia: E!! — ne son ben malcontento di non poterci far parte! — Ma il più curioso è che questo allegro ragazzo, che parla del paese di Cuccagna come d'un proprio feudo, è figliuolo d'un povero operaio, il quale non ha ombra di casa nè di poderi. E la chiusa del componimento è una gemma. Per dire che vorrebbe scriver dell'altro, ma che, essendo arrivato in fondo al foglio, deve far punto per mancanza di spazio, butta là questa espressione equivoca che può esser presa in un senso.... terribile: non posso più trattenermi.

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V'è ancora espresso, in queste pagine, un ordine particolare di desideri, meritevoli d'un cenno a parte: desideri, che sarebbe più proprio chiamar propositi, di studiare, di esser buoni, di migliorarsi. Quasi tutti li esprimono: molti, certo, più per sentimento di convenienza che per impulso dell'animo, o anche per forza di consuetudine, o per dare buon concetto di sè; ma della sincerità d'alcuni è impossibile dubitare, tanto è amabilmente semplice il loro linguaggio. Dice uno: — mi piacerebbe che la madonna mi facesse essere buono a scuola e a casa. — Un altro: — Io voglio ancora studiare con tanta voglia e con tanta bontà (non è bellissimo?) e poi darò ancora 1000 e poi ancora 1000 consolazioni alla mia signora maestra. Ed hai miei superiori. C'è uno che fa un vero atto di contrizione: — Il mio più bel desiderio è di studiar bene, che la Sig. Maestra è tanto buona, di non dargli tanti dispiaceri non star cattivo, come ho fatto. E adesso guarderò di fare tutto quello che posso per star buono. E carino è l'esordio che fa un altro al componimento: — Io farò tutto quello che so per farlo bene e per scriverlo bene (senza dir che cosa); poi, di sbalzo, dice i suoi desideri, il primo dei quali è di possedere una penna d'avorio, e il secondo è espresso candidamente, così: — Io vorrei che mio padre e mia madre non mi sgridassero mai. — E ci sono anche quelli che si propongono un ideale di buona condotta addirittura disperato, come uno che vorrebbe avere un cortile per giocare “ ma non di fare del chiasso, perchè nel giocare un pochino si fa sempre di chiasso „. — Che delicatezza! E in casa sarà forse il terremoto. Il più commovente, in fine, è l'atto di mesta rassegnazione d'un povero ragazzo, il quale, dopo aver esposto molti desideri, mostrando di capire che per lui sono cose dell'altro mondo, che non potrà aver mai, dice che si contenterebbe d'andare alle Colonie alpine dei ragazzi poveri, e soggiunge: — Ma i miei genitori non vogliono perchè dovrò andare a lavorare, ebbene, sia così.

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E queste ultime parole, che paiono un lamento compresso, mi turbano nell'animo la giocondità che m'avevan messo tante altre cose amene trovate in queste pagine, perchè mi rappresentano al pensiero non soltanto il ragazzo che le scrisse, ma quegli altri innumerevoli a cui nessuno dei mille desideri della fanciullezza, nemmeno i più umili, sono appagati, e che, non comprendendo ancora che cosa veramente sia l'esser poveri, non comprendono che i genitori non possono, e pensano che non vogliano, e dicono come quello: — E sia così! — rassegnatamente, ma col cuore di chi si rassegna ad un torto. Ah, i desideri dei ragazzi! Essi sono ad un tempo una delle più care e delle più tristi cose del mondo. Poterli appagare è una delle più dolci soddisfazioni della ricchezza; non potere è una delle amarezze peggiori della povertà. Questo dovrebbero aver sempre in mente quei fortunati ai quali è concessa la grande gioia di essere benefici. Accanto alla carità che domanda al ragazzo povero di che cosa abbia bisogno, ci dovrebbe esser sempre la carità che gli domanda che cosa desidera; dietro la mano che gli dà un pane, una mano che gli porga un trastullo; perchè non basta ch'egli non pianga, bisogna ch'egli sorrida; perchè nella fanciullezza che passa senza sorriso si prepara l'uomo che tratterà i fanciulli senza pietà e che odierà i suoi simili per vendetta

IL GAROFANO ROSSO.

Alle undici e mezzo, mentre la cameriera ansava ancora su per le scale con la cartella del disegno sotto il braccio, Alba sonò il campanello e, appena le fu aperto, si slanciò nella sala da desinare, dove l'aspettavano il padre e la madre, coi regali pel suo giorno natalizio.

In un batter d'occhio vide e toccò tutto: il mazzo di fiori, l'anello, il libro illustrato e il canestrino da lavoro, disposti sulla tavola apparecchiata, su cui brillava un raggio di sole; poi, ringraziando e ridendo, abbracciò e baciò con impeto il babbo e la mamma, e poi.... si lasciò guardare.

Era più bella che mai quella mattina: i suoi capelli ondulati e i suoi grandi occhi parevan più neri del solito, e il bel garofano rosso, contornato di violette, che le usciva dall'abbottonatura del giubbetto bianco, non reggeva al confronto della sua piccola bocca capricciosa e imperiosa.

Suo padre stette un minuto in adorazione davanti a lei; e i suoi occhi pieni di tenerezza facevano un contrasto singolare coi minacciosi baffi grigi che gli andavan dalla bocca alle orecchie. Sarebbe bastato uno sguardo a chi che sia per accorgersi che quel pezzo d'uomo del signor Mazzi, dalla faccia di vecchio soldato e dalle mani d'antico operaio, più temuto che amato dai duecento cinquanta lavoratori della sua grande fabbrica d'ombrelli e di bardature, una delle più fiorenti di Torino, non era che il servitore umilissimo di quella ragazzina di dodici anni, in cui pareva che si fosse affinato ancora il sangue signorile della mamma. Bella, figliuola unica, delicata di salute: aveva tutto quello che ci voleva per far la tiranna. Una lunga malattia sofferta da lei due anni innanzi, a cagion della quale, perduto un anno, ripeteva l'ultimo corso elementare nelle scuole del Municipio, aveva ancor rinsaldato il suo impero. A ogni sua nuova prepotenza giurava bensì il signor Mazzi che sarebbe stata l'ultima; ma quando un'altra volta la vedeva addolorarsi d'una ripulsa o ricorrere all'arma terribile del digiuno per far trionfare la sua volontà, quando, sopra tutto, le vedeva gonfiar per la collera quel bel collo esile e bianco, come se fosse sul punto di schiattare, ogni forza alla lotta gli mancava. Faceva ancora un'ultima mostra di resistenza invocando il soccorso della signora Mazzi, che con la sua mollezza di bionda grassa e linfatica gli consigliava di cedere per la pace, e poi.... cedeva per la pace. Era così cresciuta liberamente nell'animo d'Alba una fitta e intricata vegetazione di piccoli e grandi difetti; la quale, peraltro, non aveva soffocato il fiore della bontà e della pietà, nato in lei e mantenuto vivo da una precoce e quasi maravigliosa intuizione delle miserie e dei dolori del mondo che non conosceva.

Quando si credette ammirata abbastanza, disse:

— Papà, ti ho da domandare un favore.

Ma in quel punto istesso s'affacciò all'uscio la cameriera ad annunziare che il signor Boleri, avvocato criminale e radicale, brillante ed entrante, buon amico di casa Mazzi, desiderava dir due parole al padrone.

Questi entrò nella stanza accanto, e la signorina che, fra gli altri difetti, aveva anche quello d'una curiosità indiscreta, s'avvicinò all'uscio socchiuso per ascoltare. Ma il dialogo non le arrivò all'orecchio che a frammenti.

Alle prime parole dell'avvocato, dette col suo solito accento gioviale, il Mazzi rispose con tutt'altro accento: — Mi rincresce, non posso.

— Andiamo, — replicò l'amico, — non vorrai far scomparire il presidente onorario della Fratellanza artigiana, a cui quel povero diavolo s'è raccomandato. È un buon operaio, alla fin dei conti; ha lavorato per due anni nella tua fabbrica e non hai mai avuto motivo di lagnartene.

Ma il Mazzi ripetè il suo no, borbottando delle ragioni che la ragazza non intese.

L'altro allora tornò all'assalto, e questa volta sul serio: — Sta bene, — disse; — ma pensa che da sei mesi cerca lavoro, e non ne trova; che chiedendoti d'esser riammesso, fa ammenda del suo torto, se pure ti fece un torto, e che ha famiglia.... e fame.

Ma il Mazzi persistette nel rifiuto, ragionando. Doveva dare un esempio. Avrebbe voluto dir di sì; ma non poteva e non doveva. — Hanno voluto lottare, — concluse, — lui e gli altri della combriccola, e hanno perso: tanto peggio per loro. È una guerra a oltranza che si combatte fra loro e noi. Io non do tregua. Faccio come essi fanno: mi servo di tutte le armi che sono in mia mano.

— Ma tu combatti contro un disarmato, — ribattè il Boleri, — contro un vinto, che ti chiede grazia.

— Me la chiede oggi, tornerebbe a combattermi domani. È inutile che tu insista. Ho deciso.

— È la tua ultima parola?

— Me ne dispiace per te, che hai preso la cosa a cuore. È l'ultima.

— Ebbene, — rispose l'avvocato, avviandosi per uscire, — ti credevo non soltanto più pietoso, ma più prudente.... e meno orgoglioso. Beccati questa, e buon pro ti faccia. Darai alla bambina questo mazzetto. Tanti saluti.

*

Il signor Mazzi rientrò nella sala da desinare col viso rannuvolato e porse ad Alba il mazzo di fiori.

— Papà, — gli disse questa, con voce franca; — riprendi quell'operaio.

— No, — rispose il padre, secco. Ma si pentì subito di quella durezza, e soggiunse benevolmente: — Parliamo d'altro, Albina mia. Avevi un favore da domandarmi, m'hai detto?

— Era quello.

— Come, quello? — domandò il padre, stupito, fermandosi in mezzo alla sala.

— Sì, — rispose la ragazza, e s'accalorò a poco a poco, continuando: — era quello, appunto; Maria Cinzano, una mia compagna di scuola, figliuola di quel tuo operaio; è lei che me n'ha parlato questa mattina; m'ha detto: — verrà un avvocato da tuo padre, per raccomandar mio padre. Io mi raccomando a te. Faglielo riprendere. È senza lavoro. Siamo nella miseria. — E m'ha dato questo mazzettino per la mia festa, un garofano rosso. Io le ho detto di sì. Mi puoi dir di no, tu, il giorno della mia festa?

E gli saltò al collo.

Ma, con sua maraviglia, egli non sorrise.

— Tu hai detto di sì, — le disse egli col viso serio, — perchè hai buon cuore; non te ne faccio rimprovero. Ma non posso contentarti.

— Ma perchè?

— Il perchè non lo puoi capire.

— Ah! lo capisco bene. È il perchè che dicesti al signor Boleri. Ma non è un buon perchè. E poi.... come ho da fare a andar a dire alla mia compagna che m'hai detto di no? E oggi appunto ho da fare un componimento sopra un signore caritatevole che salva dalla miseria una povera famiglia! In che maniera ho da trovar le idee? Perchè sono nella miseria, hai da sapere. Ah! ora capisco. È un mese che la vedo cambiata, è dimagrita, chi sa come mangia; vive forse di pan nero; non studia più; viene a scuola con gli occhi rossi. Ho da andarle a dire che tu vuoi che muoia di fame?

— Non voglio questo, — rispose burbero il padre. — Basta così, e mettiamoci a tavola.

— Ebbene, — disse la ragazza, — se non mangia lei, non mangio io.

— Alba!... Ti castigo.

— Castigami!

Il signor Mazzi incrociò le braccia sul petto, voltandosi verso sua moglie che stava seduta sul sofà, e ascoltava sorridendo. — Ma sai che questa ragazza passa tutti i segni! Ma non s'è mai vista un'audacia simile! — E tornò a voltarsi verso la figliuola: — Ma che obblighi ho io verso un briccone che mi piantò da un'ora all'altra, quando avevo bisogno di lui, e che adesso, ridotto alla miseria per colpa sua, mi offre un lavoro.... di cui non so che fare? — Poi si voltò da capo alla moglie: — Figurati! Un presuntuoso, un traditore, che, l'anno passato, mi mette su una decina di compagni.... fanno tutto il loro armeggio sott'acqua.... imbastiscono una specie di Cooperativa.... Poi, un bel giorno, si licenziano, e con che arie! Vanno a offrire i loro servizi ai miei clienti, brigano al Municipio, fanno parlare i giornali.... In capo a un anno, si capisce, sono andati a gambe all'aria e ci han rimesso quel po' di fondi raggruzzolati non so come.... E io dovrei riprendere il caporione! Per far piacere a quel gran protettore di tutti i cialtroni disoccupati che è l'avvocato Boleri! — E si voltò un'altra volta verso la ragazza: — Tu non conosci gli operai, povera ingenua. Tu non sai che razza di cani son tutti quanti.

— Sei stato operaio anche tu, — rispose la ragazza.

— Sì, e me ne vanto, perchè ero diverso dagli altri; ma per questo li conosco, e li tratto come si meritano.

— Ebbene, fai male a far così.... Non saresti mica diventato ricco tu, se non avessero lavorato per te.

Il padre la fissò. Poi disse: — Sta a vedere che m'hanno fatto una grazia. Essi danno a me il loro lavoro; io do loro il mio danaro.

La ragazza stette un po' pensando; poi rispose: — Ma essi te ne fanno guadagnare molto più di quanto ne dai.

A queste parole, il signor Mazzi scattò: — Cosa dici? Chi t'ha insegnato a metter fuori di queste ragioni? — E, dopo un momento di riflessione, riprese con maggior collera: — Questa non è farina del tuo sacco.... È forse la maestra che t'imbecca di codesta roba?... A questi lumi di luna, non ci sarebbe da stupire.... Dimmi un po': ho indovinato?... Ah, bene! Andrò io a dirle due parole all'orecchio, alla tua maestra.

— Non è lei! — s'affrettò a risponder la ragazza.

— E chi è dunque?... Lo voglio sapere, m'intendi?... O mi dici chi è, o vo dalla maestra domani mattina.

— L'ho letto.

— Dove l'hai letto?

— Ebbene, sì! — rispose Alba, ripigliando animo; — l'ho letto nei libretti che hai tu, che hai portato tu a casa.

— Che libretti? Dove sono? Vieni a mostrarmeli! — gridò il signor Mazzi, fremente.

Ed entrò a passi concitati nella stanza accanto, seguitato dalla figliuola, la quale, senza ombra di timore, andò difilata a una libreria, si chinò e tirò fuori dallo scaffale più basso, di sotto a un grande album di disegni di macchine, e porse al padre alcuni opuscoletti impolverati. Erano il Catechismo dell'operaio, I diritti del lavoro, Riflessioni d'un disoccupato, che il signor Mazzi, mesi addietro, aveva strappati di mano a certi giovani operai della sua fabbrica. Avendo veduto suo padre nasconderli là sotto come roba proibita, la ragazza, punta dalla curiosità, li aveva scovati e sfogliati.

Il signor Mazzi arrossì dallo sdegno. — Anche a te si doveva attaccare questa infezione! — gridò, — non ci mancava altro! — E fece a pezzi gli opuscoli e li buttò a pedate in un angolo della stanza. — Ed ora, — soggiunse, agitando l'indice della destra, — non più una parola al proposito, nè ora nè mai! Siamo intesi, o saran cose serie. A tavola, signorina.

*

Sedettero a tavola. La figliuola quasi non mangiò. Il padre, risoluto a tener duro, finse di non badarvi. Era tempo davvero che si mostrasse fermo una volta se non voleva diventare addirittura lo strofinacciolo di quella monella. E non disse parola. Ma via via che il desinare procedeva ed egli la vedeva ostinata a non mangiare, nonostante le placide esortazioni di sua madre, gli andava succedendo nell'animo allo sdegno il dolore. Vedete un po'! Una giornata ch'egli si era immaginata così allegra! Gli altri anni, in quel giorno, soleva riandare a tavola la breve storia della sua figliuola, rammentare le sue amabili bizzarrie di bimba, le sue prime parole, i suoi motti più arguti, i primi piccoli trionfi della sua bellezza bruna ed altera, che lo avevan fatto palpitare d'orgoglio. Quel desinare era sempre stato una festa per lui. Ed ora, doveva vederla digiunare, imbronciata e triste, e ingozzare egli stesso un pane avvelenato, col cuore gonfio di dispetto. E la guardava di sfuggita, quasi timidamente, perchè conosceva la sua caparbietà, e sapeva che era capace, per un punto, di stare a pane asciutto una settimana, facendogli soffrir le pene dell'inferno e rischiando di buscarsi una malattia. E tutto questo per la bella faccia di quel mascalzone di trinciapelli che gli aveva già dato tanti altri fastidi! Poter del mondo! Al pensare che pel fatto di costui essa gli faceva una tal scena, al ricordar le ragionacce che aveva pescate in quegli scellerati libricciattoli per gettargliele in viso con quella petulanza, egli non sentiva più alcuna pietà, e si raffermava con tutte le forze nella sua risoluzione, e fissava gli occhi su quel visetto pallido, contornato di capelli neri, quasi in atto di sfida, come per esercitarsi alla resistenza in cui avrebbe dovuto persistere per qualche giorno, per restaurare la sua autorità paterna in rovina.

*

Il desinare finì com'era cominciato, tristamente. Finito appena, il signor Mazzi uscì a passi risonanti, e la ragazza che, essendo giovedì, non aveva scuola dopo mezzogiorno, rimase a casa a far con mille stenti il suo esercizio di composizione sull'argomento della famiglia indigente e del ricco benefico. La sera, la cena non fu più gaia del desinare. La signorina mangiò appena una foglia di lattuga e un bocconcino di pane, che finse d'inghiottire a gran fatica, e rimase muta e cocciuta. A un certo punto, però, il padre perdè la pazienza, e l'attaccò con la signora: — Ma scotiti dunque! Come puoi tollerare...? Non hai nulla da dire a un'impertinente che digiuna apposta per torturare suo padre?

— Eh, Dio mio! — rispose con placidità la signora. — Sai pure che con questa benedetta creatura non si può nè vincerla nè impattarla. E poi.... insomma.... dà prova di buon cuore. Contentala una volta, e che sia finita. È la più spiccia, mi pare.

Il signor Mazzi saltò su. — Oh, questa è maravigliosa! Un bel sistema d'educazione! La madre che ha anche meno giudizio della figliuola! Ma non capisci che se ripigliassi quello dovrei ripigliare gli altri, e che sarebbe un disdoro in faccia a tutti, un atto di debolezza che mi toglierebbe ogni autorità nella fabbrica! Ma è possibile che tu non intenda mai nulla di queste cose?... Son io, dunque, che ho il torto!... Ah, che belle consolazioni mi dà la famiglia!

E sbattuto il tovagliolo sulla tavola, se n'andò nella sua stanza, dove sedette, al buio, e restò a masticar la sua rabbia; con l'orecchio teso, però, aspettando di sentire da un momento all'altro il passo della figliuola. Voleva un po' vedere se non sarebbe venuta, come tutte le sere, a dargli la buona notte. E, in fondo, egli sperava che in quel momento, che è quello della tenerezza, quando tutto s'accomoda fra padre e figliuoli, ella avrebbe domandato perdono. Trascorsa mezz'ora, infatti, udì il suo passo nell'oscurità, e si drizzò sul busto, come per mettersi sulle difese, e non perdonare alla prima. Ma perdette un poco della sua forza sentendo che il passo, invece che incerto e timido come sperava, era risoluto. Quando si vide davanti l'ombra graziosa della sua figliuola, spiccante nel chiarore crepuscolare della finestra, fu sul punto di afferrarla e di serrarsela al petto. Ma si rattenne.

Essa disse con voce fredda: — Buona notte, papà.

— Non hai altro da dirmi? — domandò il padre.

La ragazza titubò un momento; poi rispose:

— Riprendi il Cinzano.

— Ancora! — gridò il signor Mazzi balzando in piedi. — Ah, questo è troppo!... No! Hai inteso? No, mai! mai al mondo, se anche tu digiunassi per un mese!... Va a letto.

La ragazza se n'andò, senza rispondere, a passi di ribelle.

*

Di là a un'ora, dopo aver girato un pezzo per la casa, il signor Mazzi si soffermò, col lume in mano, davanti all'uscio della camera d'Alba, e pose l'orecchio al buco della serratura. Sentì il suo respiro regolare: dormiva. Nondimeno dopo un momento d'incertezza, egli aperse l'uscio pian piano e, mettendo una mano davanti alla fiammella della candela, entrò in punta di piedi. La ragazza stava supina sul letto, con tutto il busto coperto. Non gli era mai parsa così bella e così gentile. Ma sul suo viso assopito era ancora dipinta la tristezza; il suo labbro inferiore sporgeva un poco, nell'atteggiamento della bocca dei bambini, quando si lagnano d'un torto e son lì per piangere; il suo respiro gli parve affannoso. E a un tratto egli rabbrividì, osservando che aveva le braccia incrociate sul petto, come una morta. Alla sua immaginazione eccitata sembrò che quel nasino si fosse assottigliato, che quel viso fosse già dimagrito, da mezzogiorno in poi. Ansioso, le prese delicatamente le mani, per disgiungerle, che non le facessero pressione sul cuore; ma fremè, atterrito, e non compì l'atto, vedendo fra le sue dita una macchia rossa, che pareva di sangue. Guardò meglio e riconobbe il garofano di Maria Cinzano. Respirò. E rimase pensieroso. Povera Alba! Si teneva il fiore dell'amica sul cuore. Era pure affettuosa e buona! E gli si presentò l'immagine di quell'altra ragazza che, pure in quel momento, dormiva forse anche essa col respiro affannoso, agitata in sogno da una dolce speranza o da un presentimento sinistro. Ma si ribellò subito alla pietà che stava per vincerlo e gli prese un nuovo senso di sdegno al pensare che quei bricconi avevano scaltramente abusato della bontà della sua figliuola per giungere al loro fine, e turbata la pace della sua casa. Che canaglia! Povera bambina! Ma essa pure.... aver di quelle idee, alla sua età, nella sua condizione! Infetta di socialismo.... la sua creatura! E pensò di levarle quel fiore contagioso dalle mani per rimetterlo nel bicchier d'acqua ch'era sul tavolino da notte. Ma un senso di delicatezza lo rattenne. E dopo averla guardata affettuosamente un altro po', usci adagio adagio, e se n'andò a dormire...; ma vedendosi ancora dinanzi la bambina addormentata, con quella macchietta rossa sul petto, che pareva una ferita al cuore.

*

La mattina dopo egli non andò, come di solito, a darle il buon giorno a letto. Alba ne fu afflitta, perchè sperava che col bacio mattutino egli le avrebbe portato il consenso desiderato. E si levò col fermo proponimento di proseguire la lotta. Andò nella sala da desinare, dove l'aspettava il caffè e latte, mise sulla tavola, come un'insegna di guerra, il bicchiere d'acqua col garofano rosso, sedette davanti alla tazza fumante, fece in là il pane con la mano, e stette aspettando che s'affacciasse all'uscio suo padre per fargli vedere che persisteva nel digiuno provocatore. Suo padre s'affacciò, in fatti; e data un'occhiata obliqua al pane intatto, corrugò la fronte e richiuse l'uscio. Allora Alba sbattè il cucchiaino sulla tavola e si morse le labbra. Ma sperava ancora ch'egli cedesse. Aveva l'abitudine di cogliere ogni mattina un fiore dai vasi del terrazzino e d'infilarglielo in un occhiello del soprabito perchè uscisse con un suo ricordo. Sarebbe uscito, quella mattina, senza il fiore?... Pareva di sì, pur troppo, perchè l'ora della scuola s'avvicinava ed egli non ricompariva. Infine, si dovette risolvere ad andare a prendere i libri nella sua camera. Suo padre ne uscì mentr'essa v'entrava. Era forse andato, come altre volte, a legger di nascosto il suo componimento italiano. Le parve un buon segno. Tossì. Ma quegli non rispose. Oh! come si sarebbe piegata a supplicarlo con le più dolci parole per non dover andare alla scuola con la vergogna di quel no sulla fronte! Ma conosceva addentro suo padre, la machiavellina, e sapeva che se c'era un mezzo certo di spuntarla con lui non era quello di deporre le armi e di chinare la testa. E non si mosse. Accastellò i libri e i quaderni, stando in ascolto, con un'ultima speranza.... Ahimè! Il passo paterno s'allontanò, l'uscio di casa s'aperse e si richiuse, e la sua ultima speranza si spense.

*

S'avviò alla scuola, accompagnata dalla cameriera, col cuore pieno di tristezza e di confusione, rallentando il passo e soffermandosi a ogni tratto per giunger tardi, quando tutte le sue compagne fossero già nei banchi e Maria Cinzano non avesse più tempo di parlarle. E diceva tra sè, amaramente: — O non sa ancor nulla, e mi verrà incontro piena di speranza, col viso buono e sorridente, e allora con che cuore le darò la triste notizia? O le han già dato la notizia, e la vedrò più pallida del solito, scoraggiata, con gli occhi pieni di lacrime, e come potrò reggere a quella vista? — Ma la ragazza non le si presentò nè con l'uno nè con l'altro di quei due aspetti. Entrando nella scuola, nel punto che v'entrava la maestra, essa la vide seduta al suo posto, nel primo banco, e incontrò subito i suoi occhi, che l'aspettavano. Come le trafisse l'anima lo sguardo acuto, freddo, sarcastico, quasi feroce, che quella le vibrò di sotto in su, mordendo l'asticciuola della penna! Era uno sguardo d'odio e di disprezzo, il sorriso bieco d'una nemica, la dichiarazione d'una guerra sorda e implacabile, che non le avrebbe lasciato più pace. Alba ebbe un tremito; ma, per sentimento d'alterezza, si fece forza, e dovendo passar davanti alla compagna per andare al suo banco, rallentò il passo, per dissimulare il timore. Fu peggio per lei. Maria Cinzano, quand'essa le passò accanto, ebbe il tempo di dirle all'orecchio, con voce soffocata e fischiante: — Tuo padre non ha cuore.

Alba sentì come un colpo di stile che le forasse la tempia, e andò ai posto a passi ineguali, smorta, con gli occhi offuscati come da una nebbia. La maestra incominciò la lezione; ma essa non sentì. Le risonavano di continuo all'orecchio, come un fischio mordente, ripetuto mille volte, quelle terribili parole. Provava un sentimento di pietà amara per suo padre, un misto di avvilimento e di rabbia, e una tristezza profonda. Lanciava ogni tanto uno sguardo alla sua nemica, che le voltava la schiena, curva sul banco, e sentiva a vicenda un violento bisogno di vendicarsi e una viva e triste pietà alla vista di quelle spalle ossute e di quel collo sottile, che la facevan pensare alle privazioni e agli stenti a cui il padre suo la condannava. E si stringeva il capo fra le mani e faceva un grande sforzo per non dare in uno scoppio di pianto.

La maestra, — una buona madre di famiglia, che, di nascosto, mentre faceva lezione, rimendava i panni dei suoi cinque figliuoli, — osservò, a traverso i suoi occhiali verdognoli, il viso mutato della ragazza, e per distrarla dalla tristezza, senza domandargliene la cagione, la chiamò a leggere il componimento sul quaderno, come solevan far tutte, accanto al proprio tavolino, mentre essa seguiva la lettura sulla bella copia.

Alba discese dal banco e salì sul piccolo palco, dove la maestra troneggiava. Le mancaron quasi le forze quando si trovò là, sola, in faccia alla scolaresca, col quaderno aperto fra le mani. Era un nuovo e peggior supplizio per lei il dover leggere ad alta voce, a un passo dal primo banco, quasi sul viso di Maria Cinzano, quel componimento malaugurato, in cui si decantava un signore benefico, che con un atto generoso e delicato salvava dalla disperazione una famiglia povera ad era colmato di grazie e di benedizioni. Che sanguinosa ironia! Cominciò a leggere con voce fioca e con gli occhi velati, come avrebbe letto un atto d'accusa contro di sè e contro suo padre. Non vedeva, ma sentiva lo sguardo iroso della sua compagna confitto nel suo viso, sentiva che a ciascuna delle sue frasi sulla carità e sulla gentilezza del signore immaginario, guizzava un sorriso di scherno su quella bocca a cui suo padre rifiutava il pane. A un certo punto, forzata da non so qual curiosità dolorosa, alzò gli occhi un momento dalla lettura, e vide quello sguardo, vide quel sorriso. La voce le si spense, le salì al viso un'onda di sangue, le tremò il quaderno fra le dita. Si vinse, nondimeno, e riprese a leggere col viso sempre più pallido, con la voce sempre più fioca. Ma, ad un tratto, quando voltò la pagina per leggere le ultime righe, i suoi occhi si fissarono, dilatati, sulla facciata di destra, dove non c'era più scritto, come attratti da qualche cosa di inaspettato, che risplendesse.

— Vada avanti, — disse la maestra.

Ma la ragazza non continuò: i suoi occhi brillarono, il suo viso s'accese, il suo petto si gonfiò. All'improvviso, con un atto impetuoso strappò il foglio dal quaderno e lo gettò a Maria Cinzano, che, stupita, lo afferrò per aria e lo fermò sul banco. La maestra, maravigliata, stette a vedere. Quella lesse, e rimase un momento come trasognata; poi pose un braccio a traverso il foglio, chinò la fronte sul braccio, e si mise a piangere. Allora Alba saltò giù dal palco e baciò la compagna sul capo. Questa le gettò un braccio intorno al collo e le disse piano all'orecchio, singhiozzando: — Perdonami.

Sul foglio c'era scritto col lapis, a grandi caratteri: — Dirai a Maria Cinzano che suo padre può ritornare alla fabbrica e che sarà il benvenuto.

*

Palpitando di gioia e di gratitudine, appena finita la scuola, Alba divorò la strada di casa sua, facendo trafelare la cameriera che la seguiva. Per poco non strappò il cordone del campanello, entrò nella sala da desinare come un colpo di vento, si gettò d'un salto sul petto di suo padre, e gli coperse il viso di baci, senza parlare, con una foga che gli mozzò il fiato e gli fece brillar due lacrime negli occhi. Dopo l'abbraccio soltanto vide là il viso gioviale dell'avvocato Boleri, con cui il signor Mazzi, che aveva anticipato il pranzo, stava per uscire.

— Bene, bene, — brontolò il padre, bonariamente; — ma non credere che siano le tue scenate d'impertinente che mi hanno fatto piegare. — E la madre, con la sua dolcezza flemmatica, soggiunse sorridendo: — È stato il mazzetto che t'ha visto fra le mani, mentre dormivi.

— Ahi Ho avuto dunque una buona idea! — esclamò la ragazza, battendo le mani.

— Come, una buona idea? — domandò il padre meravigliato.

— Ma sì! — rispose Alba, con un sorriso fine; — l'idea del mazzetto. Io sentii che ronzavi attorno all'uscio; sapevo bene che avresti finito con entrare. Adora presi il mazzetto di Maria Cinzano e finsi di dormire. Pensai: Papà è tanto buono.... vedendomi quel mazzetto sul cuore s'intenerirà.... e farà quello che voglio.

L'avvocato Boleri diede in una risata.

Ma il padre fece un passo indietro, sdegnato. — Ah! questo è male! È stata una finzione! Questo mi amareggia tutto il piacere!

— Andiamo, — gli osservò l'avvocato. — Non hai tu detto che volevi combatter gli operai con qualunque arma? La tua figliuola ha messo in pratica il tuo principio, per il suo fine.

— Ah, papà! — gli gridò Alba, afferrandogli le braccia, — non mi far quel viso, poichè sei stato così buono. Ora tu sei in collera e io non voglio. — E slanciatasi in un canto della sala, prese dal bicchiere il garofano dell'amica, glielo infilò nell'occhiello e gli disse: — Va alla fabbrica di buon umore. Ci troverai il Cinzano. Trattalo bene come hai promesso sul quaderno; pensa che hai sul cuore il fiore della sua figliuola.

Il padre la guardò un momento, e poi le diede un bacio sulla fronte.

Ma quando fu nella strada ripetè al Boleri, a denti stretti, la sua frase solita:

— Questa, giuro al cielo, è l'ultima volta che la vince.

— Ma che! — gli rispose allegramente l'avvocato; — è la prima! Voglio dire che è la prima di una nuova serie di vittorie.... come la tua figliuola è forse la prima di una nuova generazione di signorine. Tutte le grandi lotte sociali, caro mio, cominciano in scaramucce tra padri e figliuoli. La famiglia è il primo laboratorio d'ogni idea nuova. Che ci vuoi fare? Tu credi che la tua figliuola sia soltanto più buona di te; è invece anche più giusta, e vede più lontano. Tu sei il secolo decimono; lei è il ventesimo; l'un contro l'altro armato. E poi, si chiama Alba. Le hai dato un nome profetico, caro mio. Preparati alla lotta, e confortati pensando che in mille altre famiglie come la tua seguirà lo stesso. E rassegnati fin d'ora perchè, in questa lotta, non saranno i vecchi quelli che vinceranno.

— Sciocchezze! — ribattè il Mazzi, aggrottando le sopracciglia, e, come per distrazione, fece l'atto di levarsi il garofano dall'occhiello.

— No, lascialo, — gli disse l'amico, trattenendogli la mano, — non sarebbe gentile.... E poi, ti sta bene. Ti dà l'aria d'un giovane socialista.

Il Mazzi fece un atto di dispetto; ma sorrise, e ritenne il fiore.

ADOLESCENTI

SUI BANCHI DEL GINNASIO (Frammento).

················

Eran le otto e venti. Su nel grande corridoio, tutto tappezzato di carte geografiche e d'orari, non passeggiava più che il bidello, solo in mezzo a due lunghissime file di cappotti appesi alle pareti, che davano al ginnasio l'aspetto d'un'enorme rigatteria: solo e tronfio secondo il suo solito, come se portasse in corpo tutta la scienza che s'era insegnata da vent'anni nelle stanze affidate alla sua scopa.

A un tratto, udendo un passo risoluto dietro di sè, si voltò in tronco, e fece un saluto dignitoso al professore Carati che andava alla sua classe.

Arrivato all'uscio, il professore aperse con uno spintone i battenti, e in quattro passi impetuosi, come se pigliasse la rincorsa per un salto, salì sulla cattedra.

La scuola, — un'ampia stanza rischiarata da due finestroni, tutta bianca e nuda, fuorchè dalla parte della cattedra, dove pendevano alla parete un crocifisso e il ritratto del re, tra una grande lavagna e un planisferio, — era occupata da dieci banchi neri, divisi da una corsia, tutti pieni di alunni. In un banco a sinistra del professore c'erano quattro ragazze. Nei due penultimi spiccavano le uniformi orlate di rosso e luccicanti di bottoni metallici di dieci convittori del Vittorio Emanuele. Erano in tutto una cinquantina di scolari, cento occhi vivi, ridenti, petulanti, curiosi, paurosi, fissi negli occhi d'un solo.

Ma il professor Carati aveva dietro agli occhiali un par di pupille piccolissime e nerissime, che, quando le fissava in faccia a qualcuno, gli faceva sentir dentro lo sguardo acuminato e freddo come un succhiello. Quella mattina aveva l'occhio sinistro ammaccato da un librone cadutogli sul viso da uno scaffale alto della sua libreria. Era un ometto di media statura, con un naso ardito, con una bocca a taglio di rasoio, con certe mandibole rilevate come se ci avesse due noci tra pelle e pelle; piantato su due gambe d'acciaio sempre tese, che, quando era ritto, presentavan di profilo la forma di due archi rientranti inflessibili. Egli era venuto su fin da ragazzo per forza d'una volontà indomata, conquistando tutti i posti gratuiti dal Convitto Vittorio Emanuele al Collegio delle Province, ed era allora, oltre che professore al Ginnasio, libero docente all'Università e ufficiale di complemento degli Alpini: un vero Alpino delle lettere, fatto per le lunghe marce in salita, e per la lotta con le bufere. Come non aveva mai avuto indulgenza per sè, non ne aveva per gli altri. Trattava gli scolari come soldati d'una compagnia di disciplina; giusto, risoluto, e dopo che aveva deciso, inesorabile. Le sue punizioni erano fulmini senza tuoni e senza lampi. E in tutto agiva così a scatto di molla. Moveva delle domande improvvise che facean l'effetto di stoccate in pieno petto; diceva dei no, dei mai, dei via, che facevan trasaltare la scolaresca come lo scoppio d'un petardo. Per far sentire la forza del latino pronunziava certe frasi, una di Livio specialmente: exercitum fundit, fugatque; regem obtruncat et spoliat; duce ostium occiso urbem primo impetu capit, in modo che pareva di sentir scalpitare dei branchi di cavalli e cozzar delle spade. Diceva bocciare e bocciato con tante ci che ai paurosi degli esami metteva un brivido per le ossa. Vedeva tutto, indovinava ogni cosa; aveva un occhio di lince e un udito di gatto; si spiegava con grande chiarezza, senza una parola superflua; e, terminata la lezione con un taglio netto, andava via di volo, cacciando da sè interrogatori, adulatori, parenti, e in special modo le mamme appiccichine, come uno sciame di mosche. Aveva — come dicevano — il latino nero, — e trentadue anni.

Girato uno sguardo rapido sulla classe, sedette, fece raccogliere i lavori dai caposquadra, e, aperto il registro dei punti, chiamò a voce alta: — Votini! —

Alberto Votini, un bel ragazzo dal viso aristocratico, figliuolo d'un banchiere, s'alzò stentatamente, coi muscoli ancora indolenziti da una lunga corsa sul velocipede, e rimase piegato a mezzo, con le mani appoggiate al banco, come per iscomodarsi il meno possibile.

— La lezione, — disse il professore.

Eran quattro regole sull'uso dei casi.

Il Votini cominciò, si corresse, s'ingarbugliò, rimase in asso.

— Segga, — disse il professore. — Zero. Recidivo. Mi scriverà quaranta volte queste regole per posdomani.

Il ragazzo sedette, sorridendo da un angolo della bocca al suo vicino, per mostrare che s'infischiava del latino e dei suoi ministri.

— Annina Rosetti, — disse il professore.

Tutti gli alunni si voltarono con curiosità verso il banco delle ragazze per vedere se il professore avrebbe usato delle preferenze. E d'in fondo al banco s'alzò una ragazzina di undici anni, vestita a lutto, piccolina, con un viso gentile e timido, che si coprì di rossore. Capiron tutti che non era sicura del fatto suo.

La ragazza, infatti, espose con voce tremante, poco bene, le due prime regole, — tartagliò la terza, — storpiò la quarta.

Il professore disse con voce squillante, notando: — Tre. — Tutti i ragazzi si guardarono, scambiando un sorriso di approvazione: riconoscevan la giustizia. La ragazza sedette, con le lacrime agli occhi.

Interrogò altri tre: tutti risposero male: s'eran tutti fondati sull'esame bimensile, che non avrebbe lasciato al professore il tempo d'interrogare.

Il professore chiuse il registro con un colpo secco; poi, con un accento che faceva d'ogni parola una frustata, disse: — Poltroni: non avete vergogna a mangiare il pane dei vostri parenti? Voi, per le vostre famiglie, non siete che animali domestici; e ancora.... questi servono a qualche cosa. Vi dovreste coprir la faccia con le mani quando incontrate per la strada i ragazzi del popolo che lavorano dieci ore il giorno nelle officine. Voi dite: Gli uni lavorano, gli altri studiano. Ma voi non studiate. Che sacrifici fate voi da mettere in confronto con le loro fatiche? Voi convertite in una ingiustizia odiosa la superiorità di condizione sociale in cui vi ha messi la fortuna. La vostra poltroneria è un insulto alla fanciullezza povera che stenta e lavora. E osate parlar di patria nei vostri componimenti! La patria ha bisogno d'intelligenze colte e utili, e voi le preparate dei parassiti ignoranti. Non avete in corpo che un'ambizione miserabile. Ma, badate: cadrete nella mota a mezza via, e i valorosi vi passeranno sul ventre. Intanto, non sperate compassione in fin d'anno, nei giorni in cui i codardi piangono. Io vi schiaccierò. Scrivete.

E in mezzo a un silenzio profondo, dettò il tema d'esame: un passo di Cornelio da voltare in italiano e due periodi italiani da tradurre in latino.

Quasi tutti, secondo l'uso, invece di legger prima attentamente il passo da tradurre per veder di coglierne il senso generale, si buttaron subito sui vocabolari a cercar le parole della prima frase, anche quelle che sapevano. E per un pezzo non si sentì più nella scuola che il fruscìo dei libroni scartabellati.

La più tranquilla di tutti era Maria Bianchi, coi suoi lineamenti regolari di santina di frate Angelico, sui quali non si vedeva mai l'espressione d'uno sforzo intellettuale. Quando intoppava in una difficoltà, posava la penna, e, fissati gli occhi chiarissimi sulla finestra, cominciava a riflettere, a girare lentamente col pensiero intorno al punto difficile, come un ufficiale con lo sguardo attorno a una fortezza nemica; e se qualche rumore la scoteva, si voltava a guardare, stupita quasi che ci fossero altri che lei nella scuola. Vico Nelli, suo vicino di banco ed amico, la guardava tratto tratto, dal secondo banco di destra, pensando con invidia a quella mente pacata in cui tutte le idee si posavano pronte e nette come le immagini sur uno specchio; mentre lui, come gli diceva sua madre, capiva, è vero, e ricordava, ma tutto a mezzo, e aveva la testa piena di nozioni indeterminate e ondeggianti, come il linguaggio della musica, che studiava da due anni; e passandosi sulla fronte la mano larga e pallida, cercava di mettere in atto il consiglio di sua madre, la quale imparava il latino con lui: “non passar mai alla traduzione d'una proposizione secondaria senza esser certo d'aver tradotto bene la principale, per non correr pericolo di frantenderle tutte.„ E ripeteva tra sè: — vediamo; vediamo; — ma il motivo della fantasia dell'Alard, che il maestro di violino gli aveva data per lezione, non gli lasciava raccogliere le idee. Ma il più agitato di tutti era un certo Morelli, seduto all'altra estremità dello stesso banco, — figliuolo d'un impiegato del Registro, — timido per natura, e affetto per giunta d'una malattia particolare, tutta scolastica, che i medici hanno ancora da definire, — un terrore degli esami, degli studi, dei professori, di tutto quanto avesse relazione con la scuola, — terrore che gl'ingigantiva il concetto di tutte le difficoltà, che gli scompigliava in capo davanti alla cattedra la lezione saputa perfettamente fino a un minuto innanzi, che gli ottenebrava, gli sbarrava l'intelligenza, nel momento della prova, alla idea più semplice, alla domanda più chiara. Passato a stento dalla 1ª alla 2ª, era rimasto con lo spavento addosso del pericolo corso, come uno scampato a un eccidio, e a otto mesi di distanza gli opprimeva già l'anima il pensiero dei nuovi esami. Arrestato da una difficoltà fin dalla prima frase del tema, egli cominciava ad affannarsi, come sempre, sfogliando con mano concitata dizionari, Esercizi e grammatica, e lanciando da ogni parte delle occhiate di naufrago che invoca soccorso.

I due veri principi della classe, superbamente sicuri del fatto proprio, erano il Derossi e il Carpini, seduti alle estremità di due banchi vicini, in modo che la corsia soltanto li separava. Erano differentissimi fra di loro, sotto ogni aspetto. Il Derossi, figliuolo d'un ricco fabbricante di seta, biondo, bello e riboccante di vita, aveva un'intelligenza larga e brillante, riscaldata da un cuore d'artista, generoso e palpitante d'ambizione. Il Carpini, per contro, — figliuolo d'un ingegnere, — una figura secca, che mostrava più anni di quelli che aveva, con una testa piccola e fatta a punta, coperta di capelli neri appiccicati come se si fosse tuffato nell'acqua, con due occhi grigi e freddi, un po' loschi, nei quali non passava che a momenti un vivo balenìo, aveva un ingegno meno pronto e meno vasto, ma più fermo e più esatto di quello del Derossi. Ragazzo com'era, non aveva già altro in mente che la sua carriera d'ingegnere: contava già sulle dita ogni giorno gli anni del ginnasio, del liceo, dell'Università e del Valentino, meditando dei salti e delle scorciatoie; e non gli premeva tanto di levarsi in alto quanto d'arrivar lontano, e il più presto che avesse potuto. Trattava già i suoi compagni come concorrenti; non aiutava nessuno; non amava nessuno; avrebbe, potendo, rubato le frasi latine e le regole al cervello dei suoi colleghi, non tanto per arricchir sè quanto per spogliar loro; combatteva già, senza scrupoli, la lotta per la vita, con un intuito precoce delle durezze del mondo, e con la coscienza sicura che nella società egli sarebbe stato coi lupi e non fra gli agnelli. Fin dai primi giorni la scolaresca aveva messo lui e il Derossi l'uno di fronte all'altro, come due campioni che si sarebbero disputati la primazia; ed essi, indovinatisi a vicenda, non s'erano ancora scambiati una parola in due mesi, benchè due volte la settimana si trovassero insieme a tirar di scherma nella sala del maestro Gandolfi, dove andava pure il Votini. Ma il Carpini, che all'ammirazione dei compagni non teneva gran fatto, non si appassionava punto in quella specie di rivalità pubblica; mentre l'altro, caldo di natura, abituato a primeggiare e un po' gonfiato da sua madre, era gelosissimo, e si preparava a combattere con tutte le forze. Questo si vedeva benissimo dal loro contegno, quella mattina. Il Carpini lavorava quieto e raccolto; il Derossi era eccitato e, scrivendo, sbirciava a ogni poco il vicino, con un sorriso nel quale già si riconosceva il difetto che gli andava crescendo nell'anima da un anno: la vanagloria.

Accanto al Carpini c'era un povero ragazzo di nome Pitto, passato dalla 1ª alla 2ª per un miracolo di cui era ancora stupefatto, — piccolo, — lo zimbello della scuola, — una di quelle povere creature assolutamente inette agli studi, — le quali dicono e scrivono gli spropositi enormi che passano in tradizione — che imparan la lezione senza intenderla e traducono a caso — vittime innocenti della scuola, instupidite e schiacciate ogni giorno di più dalle difficoltà che s'accumulano, e come perduti in un caos tenebroso di idee e di parole, in cui vanno brancolando alla cieca fin che un professore abbia l'onesto coraggio di consigliare i loro parenti a liberarli da quel supplizio inumano. Il povero ragazzo, che s'era impuntato alla prima parola, domandava tratto tratto una spiegazione al Carpini, il quale gli rispondeva in fretta, senza curarsi d'essere inteso; e quegli, rimasto al buio come prima, guardava per aria, con l'espressione rassegnata e indifferente d'uno assuefatto a quegli impicci, e che non spera nè teme più nulla. Ogni tanto, mosso a compassione, gli suggeriva una parola o una frase un convittore, che stava nel banco dietro al suo.

Costui, di nome Borzini, era il bello spirito della classe, uno dei diavoli più indiavolati del Vittorio Emanuele, che aveva sempre qualche ammaccatura, o lividura, o gonfio, o graffio, o una mano o la testa fasciata, in conseguenza di pugilati o di cadute che gli fruttava la ginnastica temeraria e matta a cui s'abbandonava durante le ricreazioni. Il suo ideale era di diventare ufficiale d'artiglieria. Caricaturista, imitatore di voci e di gesti, motteggiatore terribile, — studiava poco; ma con certe sue furberie e industrie, che gli giovavano molto; e aveva una grande immaginazione sregolata, che gli faceva tirar giù dei componimenti interminabili, pieni di scorrezioni e di idee e frasi originali, per lo più comiche; e una memoria maravigliosa, ma non sorretta dalla riflessione; nella quale, come in un magazzino di strada ferrata, entrava affollatamente una gran quantità di roba da una porta per uscir quasi subito dall'altra. Un'ora dopo la dettatura del tema, egli non aveva ancora tradotto che una frase: stava facendo la caricatura d'un certo Pantone, suo compagno, il quale ripeteva la 2ª dopo aver ripetuta la 1ª ginnasio e la 4ª elementare: e lo rappresentava vecchio come l'alleluia, ancora alunno della 5ª ginnasiale, che accompagnava a scuola i suoi figliuoli, già liceisti.

Questo Pantone, seduto nell'ultimo banco in mezzo agli altri ripetenti, era il più attempato della classe: un ragazzone sonnolento e molle, che incretiniva lentamente e dolcemente, rattrappito dentro a una scorza d'indifferenza così spessa, che nessun rimprovero di professore o di parente arrivava neppur più a passargli la prima pelle. Vorace come un bufalo, egli si consolava di qualunque più clamorosa “topica„ con la idea d'una data pietanza o minestra che avrebbe mangiato la sera, o con la gioia infantile di poter aggiungere un oggetto nuovo a una sua strana collezione, composta di pelli di topo, di bottelli di scatole di Liebig, di caratteri tipografici, di calamite, di prismi di vetro, di carte asciuganti di tutti i colori, che non usava, e che serbava pulitissime. Egli se ne stava lì inerte, con la schiena arrotondata, come un grosso gatto infingardo, intento alla sua ricreazione prediletta di sforacchiarsi con la punta d'una penna la pelle della mano, che s'era ridotta come la mano d'un crocifisso; e aspettava le dieci per risolversi a copiare il lavoro da un altro.

Un altro bel personaggio era un ragazzo di nome Fossotto, seduto in fondo al primo banco di sinistra, vicino all'uscio; un tipo rozzo e sano di montanaro, ruzzolato giù da un villaggio di Val Vermenagna, dove stava suo padre, capomastro, che aveva rammucchiato qualche migliaio di lire e voleva far del figliuolo “un uomo di scienza„ mentre questi, invece, aveva per aspirazione suprema di essere un giorno impiegato postale del “servizio mobile„ e ciò per aver visto una volta, durante una fermata di treni, l'interno d'un vagone-posta, con l'impiegato dentro, che scriveva e fumava. Era un testone ben costrutto, un piccolo studente posato, che rivoltava adagio adagio e per tutti i versi le frasi latine, e le metteva le une sulle altre con gran riguardo, come già aveva fatto coi pietroni da bimbo, nella sua valle nativa, quando giuocava coi suoi compagni in zoccoli a fabbricar muriccioli, mostrando ch'eran mirabilmente risurte per li rami le virtù manuali del padre. Questi l'aveva messo a una magra dozzina da una vedova sua conoscente; pretendeva che, per esercizio, gli scrivesse le lettere in latino, ch'egli si faceva tradurre dal parroco; e veniva a Torino una volta al mese ad aspettarlo all'uscita della mattina davanti alla porta del Ginnasio, dove lanciava occhiate furibonde ai ragazzi fumatori, borbottava dietro alle spalle delle studentesse, e mostrava il pugno ai velocipedisti che passavano sul corso Siccardi. Il figliuolo portava anche d'inverno, per ordine del padre, la testa rapata, delle grosse camicie di fil di canapa, e un par di scarpacce, che si guardava ogni momento per verificarne lo stato. Ed era diligente nello studio, benchè non leggesse nè scrivesse una sillaba più del necessario; pien di buon senso; punto affettuoso con gli amici; ma incapace d'un'impostura. L'unico suo tormento era quello d'esser canzonato dalla scolaresca per la sua barbarissima pronunzia italiana: perchè pronunziava come se avesse la bocca piena di pasta, e i muscoli labiali ribelli alle parole lunghe, e gli era negata dalla natura l' esse ci; tanto che il convittore Borzini gli aveva messo il soprannome di vovo al gussio.

A destra di lui sedeva un certo Astocchi, il suo rovescio, figliuolo d'un padre troppo buono, che l'adorava senza conoscerlo; un sacchetto di vizi; fannullone, mellifluo, adulatore, impostore, invidioso; una vera mela marcia messa a contatto d'una mela sana; e dall'altra parte, un curioso originale, figliuolo d'un illustre professore d'anatomia, una faccia rugosa di vecchio commediante, che il convittore Borzini aveva soprannominato l' astro spento, perchè era stato un fanciullo miracoloso nella 3ª e 4ª elementare, aveva avuto sei mesi di celebrità nella 1ª ginnasio, e poi — a un tratto — come se gli si fosse spezzata la molla della volontà sotto la pressione delle lodi, — non aveva più fatto nulla di buono, ed era sceso dai primi fra i mediocri, e da questi fra gli ultimi, non conservando più dell'antica grandezza che un perpetuo sorriso tra minaccioso e sprezzante, che diceva: — Guai se volessi! — Pover a voi se mi ci rimetto! — Ma non ci si rimetteva mai, e non era più che una superba rovina intellettuale.

Nel banco delle ragazze, — tra Maria Bianchi, che toccava i quattordici anni, e Annina Rosetti, una sensitiva, che diventava smorta a veder leticare due compagni all'uscita e s'imporporava a ogni interrogazione del professore, — c'erano due alunne che facevano un vivo contrasto tra di loro. Una certa Italia Marri, rossa di capelli, fatticcia della persona, diritta come un colonnino, di voce e di mosse maschili, — sempre rannuvolata con le compagne — imperterrita davanti al professore — e facile ad irritarsi con tutti; alla quale il Borzini aveva posto il soprannome di russa per la sua somiglianza con una studentessa russa dell'Università di Zurigo, di cui aveva visto la fotografia; e la signorina Irene Montepilli, cugina di Maria, una bella ragazza vanerella, che s'era data agli studi classici per questa sola ragione, che le aveva profondamente ferito la fantasia una graziosa studentessa di legge, la quale aveva sostenuto gli esami pubblici di laurea, due anni prima, con un vestito nero che le stava dipinto. Comparire un giorno in quella stessa aula universitaria, vestita in quella maniera, in mezzo agli applausi, era da due anni la passione, il sogno della sua vita. Ma la signorina studiava pochino, aveva il vezzo di fare tutti i sostantivi femminili, e una repugnanza innata al corretto uso del soggiuntivo. In compenso, rideva a ogni proposito e sproposito, per mostrare il doppio giro dei chicchi bianchi; rideva tanto che, se ogni volta che apriva la bocca le fosse entrata dentro una regola di grammatica, eh! ne avrebbe potuto insegnare a Tommaso Vallauri. Ed era questa illusione forse che le faceva guardare dall'alto al basso il suo sesso — digiuno di studi classici: — una sua frase prediletta, che aveva trovato in un articolo bibliografico del giornale l' Eleganza.

Questi erano i personaggi principali della classe; gli altri, i soliti. Qualche ragazzo d'ingegno, che aveva poca volontà; alcune intelligenze mediocri, molto studiose; dei giovanetti poveri e buoni; dei signorini villani; parecchi somarelli di nascita, una decina di mascalzoni, e il resto, nè carne nè pesce.

Il lavoro durò vivo e raccolto per un'ora e mezzo. Poi molti cominciarono a lanciar occhiate al Derossi e al Carpini, curiosi di vedere chi dei due avrebbe avuto il coraggio d'affrontare per il primo, in faccia alla classe, il giudizio del professore; perchè l'aver fatto meglio in minor tempo sarebbe stato una doppia vittoria.

Il Derossi, avendo perso un po' di tempo ad aiutare i vicini, era rimasto un po' indietro. Ma quando vide, con la coda dell'occhio, che il Carpini stava per finire la copiatura, piccato, s'affrettò, e riuscì a terminar la pagina mentre l'altro ci scriveva su il nome.

Tutti e due scesero dal banco nello stesso punto, in modo che si toccarono con le spalle, andarono tutti e due insieme alla cattedra, e porsero tutti e due a un tempo il lavoro, l'uno a destra e l'altro a sinistra; poi tornarono l'uno accanto all'altro al loro posto, il Derossi col viso acceso, il Carpini indifferente, — senza guardarsi.

Il professore si mise a leggere i due lavori.

Tutti alzarono il capo e stettero attenti per indovinare il giudizio dal suo viso. Ma, terminata la lettura, il viso del professore rimase impassibile.

Allora si rimisero tutti al lavoro, in fretta, molti consultando a ogni minuto l'orologio (c'erano nella classe tredici orologi); e in pochi minuti quasi tutti finirono e rimisero il foglio. Una delle prime fu la russa, che il professore rimproverò per un grosso sgorbio che aveva fatto nel margine.

— M'è cascata la penna, — disse la ragazza, un po' secco.

— Non doveva lasciarsela cascare, — rispose il professore sullo stesso tono.

E la ragazza ribattè a bassa voce: — Non è un delitto.

Ma per fortuna la ribattuta non fu intesa.

Uno degli ultimi fu il povero Pitto che si decise a dare la pagina con parecchie righe lasciate in bianco, e la diede con l'aria avvilita e triste del colpevole che fornisce volontariamente al giudice le prove del suo delitto. Poi fu il Morelli, preso da un tale affanno che, avvicinandosi alla cattedra, incespicò e dovette afferrarsi a un banco, fra le risa sommesse di tutti i compagni: eccettuata Annina Rosetti, che gli diede uno sguardo furtivo, pieno di pietà e di simpatia. E dopo il Morelli, il Fossotto, che aveva per massima di esser sempre uno degli ultimi, e se era possibile, l'ultimo — per prudenza. Ma quella mattina fu l'ultima la Rosetti, che si fece avanti col viso scarlatto, in punta di piedi, così timida e leggiera, che pareva dovesse svanire da un momento all'altro come una larva. In quel punto comparve sull'uscio il bidello e diede con accento grave il solito finis; a cui seguì immediatamente un rimescolio affrettato di tele cerate, di zaini e d'assicelle, e un rumor sordo di quaderni e di libri sbattuti; al di sopra del quale si sentì, come sempre, lo strepito indecente che faceva Pantone. Perchè questo bertuccione intorpidito e sonnacchioso aveva sempre un brusco risveglio al momento di riporre i libri, e metteva in quell'operazione tutta la vitalità che gli rimaneva; premeva i volumi stringendo i denti, serrava le cinghie con vigore erculeo, pareva che provasse un diabolico piacere a stroncare lì dentro Cornelio, Fedro, lo Schiaparelli e il Gandino, per vendicarsi dei tormenti e delle umiliazioni che gli avevano inflitte per il passato; ed era così furioso in quell'impiccamento, che alle volte ci si sbucciava le mani.

Un gesto del professore ristabilì all'improvviso il silenzio. Egli assegnò la lezione e il lavoro, triplo di quel del dì precedente. Poi, per finire con un monito soldatesco, com'era suo solito, disse, o piuttosto sparò queste parole: — Studiate, dunque, faticate. Siate brutali con voi stessi. Giù dal letto avanti giorno, — una tuffata del capo nell'acqua fredda, — quattro rotazioni delle braccia, — e al lavoro. È duro, dite voi. Ma la vita è dura per tutti. A nulla si riesce senza soffrire. L'hanno bandita i fiacchi la sentenza che la vita degli studi è la vita della quiete e della sicurezza. Anche negli studi i valorosi cimentano la salute e la vita, e molti ne muoiono — onoratamente. Si può anche sul banco della scuola essere eroi. Scotetevi, se avete dell'alterezza e del sangue....

Qui s'interruppe, come preso dal dubbio di parlare invano, e disse con accento sdegnoso, accennando l'uscio: — Via! — E tutti uscirono, in silenzio.

Mentre s'ordinavano nel corridoio per l'uscita, il Votini s'avvicinò al Derossi, e gli domandò se sapeva dove stesse dì casa Garotti, il loro antico compagno delle elementari, che copiava i pensi a pagamento. — Non so, — rispose quello —,ma so dove sta il Garrone, che è alle tecniche con lui, Via delle Palme, numero 7. È lontano. — Poh! — rispose il Votini. — Otto minuti di velocipede.

Nel corridoio c'erano quella mattina molte signore, alcune ben vestite, altre assai dimessamente, come beghinette; studenti di liceo, che aspettavano i fratelli del ginnasio; padri, cameriere, servitori. Fra gli altri, il padre e la madre del Pitto, che venivano sempre agli esami bimensili; lui, un notaro in riposo, piccolo e curvo; lei pure piccola e incartocciata, sempre l'uno stretto all'altro, attenti a salutare con inchini ossequiosi tutti i professori, e come smarriti fra quei torrenti di scolaresca che sgorgavano da tutte le parti; dentro ai quali andavan cercando il loro piccolo martire, con gli occhi ansiosi, in cui si leggeva il terror del latino. I ragazzi si staccavan dalle file via via che vedevano i loro parenti. Alcuni di questi s'avvicinavano ai professori, e li interrogavano. Ma nessuno osò abbordare il Carati, che passò a naso ritto, facendo sonare i tacchi come un carabiniere in servizio. In coda alle file, a una certa distanza, venivano a coppie e a gruppi le ragazze delle varie classi, lentamente, aspettando che sfuriasse l'onda mascolina, la quale fiottava giù per le scale, e allagava la strada. Qui, appena usciti, qualche studente di liceo accendeva il sigaro; e alcuni del ginnasio pure, ma guardandosi attorno con sospetto, e facendosi schermo del mantello. Sullo scalino del portone troneggiava il bidello, con le braccia incrociate sul petto. Una cameriera gli si avvicinò rispettosamente e gli domandò: — Scusi: c'è ginnastica stasera per il ginnasio? — Egli la guardò da capo a piedi, e rispose severamente: — Consulti gli orari.

E proprio a destra e a sinistra del portone stavano aspettando, in mezzo ad altre, la signora Derossi e la signora Carpini, che non si conoscevano ancora fra di loro, ma di cui ciascuna conosceva il figliuolo dell'altra; e ciascuna rassomigliava al proprio: la signora Derossi, grassa, bionda e elegante; la Carpini asciutta e bruna, con due occhi grigi e freddi, vestita di scuro.

Eran venute tutte e due a sentir le prime notizie dell'esame bimensile.

Quando i due ragazzi comparvero, esse si riconobbero, e si scambiarono uno sguardo.

La guerra era dichiarata.

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Uscì in quel punto, a passi impetuosi, il professor Carati, il quale, vedendo un gruppo di scolari che ingombravano il passo, disse forte: Ite in crucem, popelli![1]

E, data un'occhiata di traverso alle mamme, soggiunse fra i denti: Et vos, femellae dicaces![2]

— Ha inteso? — domandò dolcemente a una sua vicina la signora Derossi, a voce bassa, ma con l'intenzione adulatoria di farsi sentire da lui: — quello parla bene il latino!

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I COMMEDIANTI E I RAGAZZI.

.... Era una gran festa per molti dei miei compagni di scuola, e per me, quel cartellone che annunziava l'arrivo della compagnia drammatica. La città era piccola; non ci veniva che una compagnia all'anno, dai primi di novembre ai primi di dicembre; una compagnia povera e canina, si sottintende. Ma ci parevano tutti grandi attori. Un'ora dopo ch'erano arrivati, sapevamo a che albergo eran discesi. — La prima donna e il brillante sono alla Sbarra di ferro. — Il prim'uomo è alla Corona. — È stato visto il padre nobile al Caffè dell'Unione. — Prima che cominciassero a recitare, li conoscevamo di vista dal primo all'ultimo; li pedinavamo per la strada, di lontano; li esaminavamo profondamente, al Caffè d'Italia, guardando le loro immagini negli specchi, per non farci scorgere. Quanti ne ho visti passare, dei primi attori impomatati, col soprabito nero stretto alla vita e spelato ai gomiti; delle prime donne pallide e tristi, vestite di cenci zingareschi; dei tirannelli gialli, insaccati in certi casacconi verdi e imbacuccati in grandi scialli grigi; e dei poveri diavoli d'amorosi allampanati, tutti cilindro e mantello, che parevan lo spettro della fame. Nelle città piccole si va poco alla commedia: qualche volta il teatro si chiudeva dopo quindici recite, per disperazione; la compagnia non aveva più quattrini nè per rimanere nè per andarsene, e i cittadini dovevan fare una colletta.... Ma questo non scemava mica la nostra ammirazione per gli artisti. Tutt'altro. Essi grandeggiavano, ai nostri occhi, in quella miseria, vittime dell'ignoranza e della barbarie pubblica; e per lungo tempo dopo ch'erano partiti, li rimpiangevamo, ricordando i loro atteggiamenti e le loro tirate, e dicendo che i signori della nostra città erano un branco d'ignoranti e di pitocchi.

*

Infatti, le commozioni che gli attori ci destavano erano così maravigliose, che dovevan parerci animali senza cervello e senza cuore coloro che non le provavano. Gli effetti della finzione drammatica, nei ragazzi, sono poco meno profondi che gli effetti della realtà; al che giova pure il non conoscere affatto, nemmeno per intuito, la classe degli attori; i quali paiono creature quasi sovrumane, e il mistero che li avvolge duplica la loro potenza. Anche i peggiori cani, allora, ci facevano tremare, strepitare dall'entusiasmo, assai più che non abbian fatto pochi anni dopo i più grandi artisti del mondo. Come stavamo immobili, inchiodati sulla panca, col respiro sospeso, col cuore che ci saltava fino alla fontanella della gola, con l'impressione come d'una mano che ci serrasse alla strozza, quando il dialogo concitato di due personaggi accennava a finire in una risoluzione disperata o in un colpo di spada! Non dimenticherò mai, vivessi cent'anni, l'effetto che mi fece una scena di Margherita Pusterla, una sera ch'ero in palco con la famiglia, tutto contento, dopo aver fatto il mio lavoro di quarta elementare. Quando Alpinolo afferrò per il collo quel boia di Luchino Visconti, e gli appuntò il pugnale sul viso, caricandolo di contumelie, fremetti e risi di gioia, sprofondando le unghie nel velluto del parapetto. Poi Alpinolo fugge, Luchino (che era un pezzo d'omo, con un vocione spaventevole) si slancia alla finestra, urlando: — Inseguitelo! — accenna le vicende dell'inseguimento, grida: — Lo raggiungono.... si salva.... no.... gli son vicini.... sfugge.... è raggiunto! — Quella terribile parola è raggiunto mi fece scoppiare in un singhiozzo convulso, che fui appena in tempo a soffocare col fazzoletto. Mio padre mi condusse fuori del palco, nel corridoio, cercando di quetarmi. Ma nel corridoio arrivava ancora la voce stentorea di Luchino; capii che Alpinolo gli era stato ricondotto davanti, legato; era una cosa orribile; ricominciai a singhiozzare; mio padre dovette accompagnarmi giù, nell'atrio del teatro; ma là ancora rimbombava quella formidabile voce; fui costretto a uscire nella strada; ero inconsolabile, avevo il petto rotto, e continuai a disperarmi per un bel pezzo, in mezzo al cerchio dei monelli che aspettavan le cicche, non piangendo più, ma singhiozzando ancora, con quel tiranno esecrato davanti agli occhi.

*

Naturalmente, a noi pareva che quegli attori avessero anche fuori del teatro l'importanza, la potenza affascinatrice dei personaggi che rappresentavano sulle scene. Ci pareva che nessun banchiere milionario avrebbe osato rifiutar la mano della sua figliuola a quel bel primo attore, ardente e superbo, che aveva fatto così bene Francesco primo la settimana passata; e non eravamo lontani dal credere che, assalito da una banda d'assassini, il tiranno non avrebbe avuto che a gridare con quella sua voce sibilante: — Indietro, miiiiseee....rabili! — come gridava nel dramma Il delitto misterioso, per vederli sparire come uno stormo d'uccelli. Tra l'amicizia del Presidente del Consiglio e l'amicizia del caratterista, avremmo scelto questa, senza un momento di esitazione. Mi ricordo del grandissimo rispetto che sentii per un mio zio burlone, dopo una sera che, rientrando in casa, disse d'aver giocato una partita al biliardo col brillante. Quanto alle prime donne bastava che non fossero mostri: ne eravamo tutti cotti; era un innamoramento all'anno, dai primi di novembre ai primi di dicembre, regolare e inevitabile, come la pioggia d'autunno. Ne ricordo ancora una mezza dozzina, come se le avessi viste ieri: un donnone con una voce di bombarda; una mingherlina, gobbina, che pareva sempre che piangesse; una bionda, un angelo, che fece tre stagioni, sempre incinta di molti mesi, poveretta; e dell'altre, tozzotte, belloccie, malaticcie, bruttine, con certe voci stridule e certe pronuncie dell'altro mondo; ma che ci rapivano in estasi, quando comparivano sul palco scenico, coi capelli sciolti per le spalle, facendo le pazze col solito spediente del piantoriso. Ah! Dio grande! Essere amati da una prima donna! Era la suprema delle felicità e delle glorie umane! Come dovevano essere superiori a tutte le miserie della vita, che sovrumano linguaggio dovevan parlare, come ci parevano scolorite e prosaiche tutte le altre donne, in confronto a loro! Ma nessuno di noi avrebbe osato sperare neppure uno sguardo da una di quelle creature arcane e sfolgoranti, che ci apparivano in sogno, nei panni di Maria Stuarda e di Diana di Poitiers. Incontrandole per la strada, arrossivamo; e una loro parola che cogliessimo a volo mentre passavano, una frase straordinaria e misteriosa, come: Ho aspettato la sarta fino alle sette.... oppure: — Ci hanno portato i bagagli al Bue rosso.... — ci sonava nel capo per tutta la giornata, come il suono d'un'arpa celeste.

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Gli uomini, per altro, ci facevano un'impressione più profonda, perchè, a quell'età, si ammira più il grandioso e il terribile di quello che non s'ami il tenero e il gentile. La nostra grande passione erano le scene in cui un personaggio coraggioso e generoso, invasato dall'ira, incalzava un altro personaggio a traverso al palco scenico, gridandogli sul viso. — Codardo, sciagurato, infame, miserabile, assassino del sangue tuo, oppure del sangue mio. — Quanto più ne sputava, tanto più applaudivamo. E in queste scene, bisogna dirlo, anche i più tangheri avevano dei momenti felici. Ma sopra tutte ci entusiasmavano le scene culminanti dei drammi patriottici, che in quegli anni avevano gran voga. Erano i bei tempi dei Martiri del 21, del Fanciullo Mortara, dei Processi di Mantova, se non sbaglio il titolo, e di altri drammi pieni di congiurati, di commissarii di polizia, di sgherri papali, di gendarmi austriaci: — drammi mediocri, per quanto mi ricordo, come lavori d'arte, — ma d'efficacia maravigliosa sui giovanetti, specialmente per le tirate degli oppressi contro gli oppressori, alcune delle quali non mancavano davvero di eloquenza. Noi pestavamo i piedi, battevamo i pugni, piangevamo lagrime ardenti a quelle espressioni clamorose d'amor di patria, nelle quali gli attori ci apparivano venerabili e gloriosi quanto gli eroi medesimi che rappresentavano. C'era un Maroncelli, mi ricordo, per il quale avremmo dato metà del nostro sangue. E sì che allora le tirate patriottiche erano fatte in maniera da toglier qualunque illusione artistica. Arrivato a quel punto, l'attore si voltava addirittura verso la platea, come per arringare il pubblico, e recitava la sua filastrocca, come un pezzo staccato dal dramma, cambiando voce e intonazione, con lo sguardo come perduto verso un orizzonte lontano. Ma che ci importava! Eran sublimi. E se qualche volta uno spettatore scettico e impertinente, accanto a noi, esclamava a mezza voce: — Che cani! — era bell'e giudicato, da noi altri: non poteva essere che un asino e un vile. Che belle, indimenticabili serate! Ci fermavamo alla porta per veder uscire il Confalonieri, Silvio Pellico, il vecchio Schiller. — Son loro, — ci dicevamo nell'orecchio: — eccoli qui. — E ci pareva un nuovo e maggiore indizio di grandezza quell'aria stracca, e così tra sprezzante e burlona, con la quale uscivano dal tempio della loro gloria, accendendo un mezzo sigaro e tirandosi il bavero sugli orecchi, come il comune dei mortali.

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Potrei fare il ritratto di quasi tutti, se sapessi disegnare, tanto mi son rimasti stampati, cesellati nella memoria. Uno m'entusiasmò principalmente, un primo attore romagnolo, giovane, il quale, a quel che dicevano, imitava Ernesto Rossi, ch'io non avevo ancora inteso. Ripensandoci ora, mi sembra che dovess'essere un birbaccione: smaniava come un ossesso, e aveva una voce arrantolata da metter paura ai bambini. Ma quando faceva il Bravo di Venezia, nell'ultim'atto, gli avrei gettato sul palcoscenico una bracciata di cartelle del Debito pubblico. Cento altri visi ricordo, delle maschere terribili e grottesche, delle figure che mi parevano modelli insuperabili di bellezza e d'eleganza, dei colossi dal passo elefantino, una varietà infinita di gambe, soprattutto, gambe vestite di maglie di tutti i colori, gambe sottili e maligne di Luigi undecimi e di Filippi secondi, ristecchite dalle fatiche continue della caccia al desinare; gamboni idropici di Don Marzi, gambe torte e bitorzolute di Paoli e di Romei, belle gambe scultorie di Cesari di Bazan, alle quali paragonavo con invidia le mie seste ginocchiute di scolaretto cresciuto precocemente. Ma quello che mi restò più vivo di tutti nella mente, è un tiranno, — lombardo, mi pare; — quello stesso che faceva il Luchino Visconti in quella serata terribile. Ma faceva pure delle parti buone, — le parti di gran forza, — nei drammi patriottici. Era un curiosissimo originale: di media statura, tarchiato come un atleta, un po' panciuto, con un gran naso a gancio, senza collo, tozzo, tutto d'un pezzo; di trentacinque anni, o press'a poco. Capiva pochissimo quello che diceva: l'ho capito dopo; recitava con una monotonia micidiale; faceva il duca d'Alba e il padre amoroso tutt'a un modo; ma aveva un organo vocale di tal potenza, quel buon bestione, che, nelle tirate patriottiche, in special modo, quando la sprigionava tutta quanta dalle spaziose atre caverne, faceva tremare il teatro, e suscitava un uragano d'applausi. No, nessuna parola può dare un'idea di quella voce; non ne ho mai più udita una simile. Aveva un organo di cattedrale, un cannone, un leone, il corno d'Astolfo nel corpo; avrebbe coperto lo strepito d'un arsenale col suo mostruoso vocione. Non so più in quale dramma, nominando per caso gli Svizzeri, faceva una sfuriata contro gli Svizzeri mercenari. Me ne ricordo sempre. Diceva a voce bassa, naturalmente, terminando un periodo: — .... come usano gli Svizzeri; — e poi, tutt'a un tratto, esplodendo come un mortaio: — Oooooh gli Svizzeri! Caaarne ven-du-ta! Oooooh se l'ombra di Guglielmo Tell potesse levarsi dal suo sepolcro, ecc. — Pareva di sentire il fragore del tuono in una valle delle Alpi. E non se la pigliava mica a cuore il furbacchione. Che! Il suo accento non aveva neppure un leggerissimo tremito, la sua faccia rimaneva impassibile; egli metteva fuori tutta quell'ira di Dio senza scomporsi menomamente, come se avesse chiacchierato con un amico con la tromba a volano. Ma come resistere a quella voce? Io me la sentivo rombare poi nella camera per tutta la notte; e per tutto il giorno dopo non facevo che gonfiare il collo, declamando: — Oooooh Svizzeri! Caarne venduta! — con un entusiasmo.... del quale si risentiva poi miseramente la mia composizione latina.

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Poveri commedianti! Quanto eravamo lontani, allora, dall'immaginare le miserie e i dolori che nascondevano sotto i loro manti di re e sotto i loro giustacuori di gentiluomini! Ci pareva che dovessero essere tutti felici, fortunati in amore, cercati, festeggiati per tutto dove si presentavano. Non c'è alcuno di noi che non abbia sognato allora di far l'artista drammatico. — La famiglia ci farà un po' di opposizione sulle prime, — pensavamo — ma poi, quando riconoscerà la vocazione, e proverà l'ebbrezza degli applausi, acconsentirà, e come! — Intanto c'ingegnavamo d'imitare gli attori. Copiavamo la pettinatura del prim'uomo, ci annodavamo la cravatta come il brillante, imitavamo la pronunzia, il passo, il modo di ridere ora dell'uno ora dell'altro, avremmo voluto poterci vestire sul loro modello. Quel certo primo attore romagnolo aveva un cappotto di mezza stagione, color caffè e latte, che gli stava come dipinto, un po' troppo lungo, forse; ma una bellezza, che ci lasciavo gli occhi sopra. Mi pareva che passeggiar per la città con quel cappotto caffè e latte, dopo aver recitato la sera innanzi il Bravo di Venezia com'egli lo recitava, dovesse essere il più dolce dei trionfi umani: lui, invece, modesto, si fermava delle mezze ore davanti alle vetrine dei salumai. Noi sapevamo i fatti loro, come spie, da tanto che n'eravamo curiosi, e con tanto ardore ne accattavamo notizie da ogni parte. Luigi undecimo faceva cucina in casa: chi lo avrebbe mai pensato! La prima donna sonava la chitarra. L'attore che faceva così bene Carlo Quinto aveva detto una sera, nel Caffè della rotonda, ad alta voce: — Val più un pelo dello Shakspeare che tutta la parrucca di Vittorio Alfieri! — L'amoroso fumava tabacco turco. E in quei quaranta giorni di convivenza spirituale con loro, mettevamo un certo affetto a tutti; quando qualcheduno era fischiato, ne provavamo un dolore sincero; e il giorno dopo della loro partenza, si era sempre un po' malinconici come se fossero partiti con loro mille idee, mille fantasie amabili, tutta la folla viva e rumorosa dei personaggi storici e delle creature immaginarie che essi avevano incarnato sulla scena, e la nostra piccola città fosse ricaduta in un silenzio stupido e uggioso.

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E ora, — mi domando sovente, — dove saranno andati a finire quei commedianti, che vivono ancora così tenacemente nella mia memoria, con le loro fisonomie, con la loro voce, coi loro vestiti? I padri nobili, poveretti, saran morti quasi tutti, poichè, volere o non volere, è sfumato un quarto di secolo dopo quegli anni; più d'un tiranno avrà chiusi gli occhi all'ospedale, pur troppo; altri avranno corso le più bizzarre avventure; celebre, tra i giovani, non è diventato nessuno, ch'io sappia. E quelle povere prime attrici? Io le vedo confusamente proseguire il loro pellegrinaggio faticoso di piccola città in piccola città, spolmonarsi nei teatri spopolati e semioscuri, piangere nelle camere nude degli alberghi di terz'ordine, incanutite, malate, spossate; e ne sento una grande pietà, come se a quel tempo le avessi amate davvero, non come un fanciullo, ma come un uomo. Infine, esse hanno rallegrato e commosso la nostra prima età, e sono come vecchie amiche perdute, per noi altri. Come possiamo ricordarle senza affetto e senza gratitudine? Qualche volta, assistendo a una rappresentazione drammatica nel teatro d'una piccola città dove sono andato a passar ventiquattr'ore con un amico, riconosco uno di quegli antichi attori, invecchiato, sfiatato, caduto nelle parti secondarie, con la storia di venticinque anni di stenti scritta sul viso. Non lo riconosco subito, naturalmente; bisogna che gli si presenti l'opportunità di fare quel certo gesto o di metter fuori quel dato grido, per il quale la sua immagine è viva nel mio capo; allora, alla terza o alla quarta scena, per lo più, ritrovo il mio Kean, il mio don Ramengo, il marito di Maria Giovanna dei tempi antichi, il Conte di Montecristo che mi fece tornare a casa per quattro sere col cuore gonfio dalla commozione. Che piacere, un poco triste, ma vivo, riprovo sempre in quel momento! Con che profonda attenzione lo ascolto allora, quante cose rivedo e risento al suono della sua voce! E come andrei ad aspettarlo all'uscita del teatro, per fargli festa, e parlare con lui del nostro buon tempo, se non temessi di esser preso per un burlone o per un matto! Non più di sei mesi fa, per esempio (è il ricordo che mi ispirò di scrivere l'articoletto), ne feci uno graditissimo di questi riconoscimenti. Passeggiando col professore D'Ovidio in piazza Solferino, mi vedo camminar davanti, a una decina di passi, un poco di sbieco, un signore grasso, largo di spalle, vestito alla diavola, ma pulito, con una grossa canna in mano; una figura che mi ridesta una lontanissima reminiscenza. — Possibile! dico tra me. Che sia proprio lui! Ancora lui, così saldo e vegeto, dopo tanti anni! — Affretto il passo, guardo curiosamente quel viso.... Era lui, — lui in corpo e in anima, — Luchino Visconti, la voce di cannone, quello della carne venduta, il formidabile tiranno che m'aveva fatto scappar dal teatro, soffocato dai singhiozzi. Il mio primo impulso sarebbe stato di fermarlo, di dirgli: — Ma come, lei qui? Ma come va? Ma dov'è stato? Ma venga.... — Sai chi è quello lì? dissi al D'Ovidio, e gli raccontai la storia. — Fermiamolo dunque, — rispose egli ridendo; e mi sospinse verso di lui. Ma il solito timore di parere un cervello balzano mi trattenne. Che sciocco! Avrei passato forse una bellissima serata, avrei desinato con lui, avrei inteso la storia di chi sa che strane vicende, gli avrei fatto piacere a raccontargli le mie commozioni di ragazzo, e dopo aver votato parecchie bottiglie, ci saremmo forse alzati da tavola vociando insieme: — Ooooooh Svizzeri! Caaaarne venduta! — E invece non feci che accompagnarlo con lo sguardo finchè svoltò a una cantonata....

Ma lo accompagnai con uno sguardo di sincera e profonda simpatia, mandandogli un saluto dal più vivo del cuore, e salutando affettuosamente con lui tutti i suoi compagni e tutti i suoi colleghi, vivi e morti, amorosi e tiranni, bravi attori e poveri cani.... idoli della mia infanzia, cari ricordi della mia gioventù, fantasmi dolcemente tristi della mia età matura....

UN'ASCENSIONE IN PALLONE.

Era una promessa fatta a due giovani studenti, miei compagni di viaggio carissimi; ma speravo di non esser costretto a mantenerla. Già m'ero pentito d'aver promesso quando da un piroscafo del lago avevo visto sospesa nel cielo di Ginevra quella palla color di patata, grossa quanto un'arancia, e al pensiero di doverci andar dentro il giorno dopo m'era preso un principio di capogiro. Il giorno dopo fui fortunato: trovammo scritto sulla porta del recinto: — Vent trop fort, ascensions suspendues; — e sperai nella continuazione del vento. Ma la mattina seguente il cielo era limpido, l'aria immobile, il fato ineluttabile. — Sia fatta la vostra volontà — dissi — così in cielo come in terra, — e m'avviai alla stazione di partenza per le regioni eteree con un buon umore di condannato ai ferri; temperato, peraltro, da una curiosità vivissima della sensazione nuova che avrei provata.

*

Vicino al recinto incontrai un mio buon amico di Torino e lo invitai a fare l'ascensione con noi. Credette che parlassi di montagne. — No — gli dissi — sul pallone dei signori Baud, di Losanna. — Tu vuoi scherzare, — mi rispose, e pestando un piede in terra: — Io amo questa, — soggiunse. E mi disse la ragione della sua ripugnanza. Era un ricordo di ventisette anni fa. Un suo conoscente, a Firenze, s'era voluto levare il capriccio, spendendo un centinaio di lire, di fare un'ascensione areostatica con altri tre o quattro signori. Ma aveva fatto assegnamento sopra un “coraggio fisico„ che non aveva. Partito appena il pallone, con la rapidità d'una freccia, dal Politeama Vittorio Emanuele, egli era impallidito come un morto, s'era accucciato nella navicella come un cane, e stando così, stravolto e tremante, non aveva fatto che ripetere come un ebete: — Cala, cala, cala, — per tutta la durata del viaggio; terminato il quale, portato a casa in carrozza, s'era cacciato in letto e n'aveva avuto per un mese. Ringraziai l'amico dell'incoraggiamento amichevole, pagai a uno sportello (caruccio) il bel piacere che m'aspettava, e, passato tra i ferri d'un contatore, mi trovai di faccia all'enorme sfera di seta chinese, chiusa in una rete di quattrocento corde e gonfia di tremila cinquecento metri cubi d'idrogeno, che doveva portarmi dove non desideravo di andare.

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Siamo appena entrati che sopraggiunge una folla di gente d'ogni paese, fra cui molte signore e signorine impennacchiate, molto più impazienti di me di levarsi a volo; le quali discutono in dieci lingue della forza di resistenza della seta e delle corde, delle valvole automatiche e del palloncino compensatore, come se avessero fatto un corso compiuto d'areostatica. — Ma noi abbiamo la fortuna, — così dicono i miei due compagni, — d'essere della prima infornata. — I fortunati sono undici, non contando il capitano; poichè c'è un capitano, col berretto gallonato, un grosso svizzero biondo e flemmatico, a cui saranno affidate le nostre vite. E ci stringiamo tutti in un gruppo, col nostro biglietto numerato alla mano, che fa nascer subito fra di noi una familiarità di compagni d'avventure. Ci sono due rotonde signore quarantenni, due piccole immagini dell'areostato, e il marito d'una di esse, che sento chiamare da altri viaggiatori monsieur Charles, sferico come la sua compagna, un viso di buon diavolo angustiato, che mostra una passione per la navigazione aerea anche meno ardente della mia. Dagli sguardi inquieti che rivolge a tutti i suoi compagni di viaggio capisco il suo pensiero. Par che il caso abbia raccolto nella nostra infornata, — fatta eccezione dei miei figliuoli, — le più maestose moli umane di Ginevra. Uno è un vero colosso. Sarà sufficiente la forza di resistenza di duecento chilogrammi che ha ciascuna delle quattrocento corde? Questa domanda si legge nei suoi occhi, e negli occhi d'altri, che si squadrano a vicenda, come per pesarsi. Il colosso, un giovine svizzero burlone, dice forte: — Dove andremo a cascare? In qualche crepa di ghiacciaio, o in un lago? O ci andremo a infilare nei pini del Brünig? Il cuore non mi dice nulla di buono. — Tu l'entends? — domanda monsieur Charles alla signora; ed io colgo a volo un tais-toi, c'est ridicule, che mi dice chiaro che è lei, con quel becco imperioso di pappagallo, che vuole far l'ascensione, e ch'egli s'è deciso ad avventurarsi nel cielo per evitare una battaglia sulla terra. Un altro, — un grosso tedesco giallognolo, — non mi par più smanioso di lui di abbandonare il globo terracqueo. — Souffrez-fous le fertige? — mi domanda nell'orecchio. — Più del necessario per divertirmi, — rispondo. Finalmente cade la catena che chiude il passaggio, e per un ponte mobile montiamo sulla navicella, dove il capitano distribuisce le nostre gravità in modo da mantener l'equilibrio. Una voce grida: — Attention! — Tutti si voltano da una parte, dove scopro la principale ragione per cui molti si decidono a quel viaggio: una grande macchina fotografica rivolta verso di noi. Tutti prendono delle impostature d'areonauti temerari. — C'est fait! — grida il fotografo. Discorsi! Il peggio resta da farsi. Il capitano dà un fischio, sei inservienti in uniforme staccano a un punto dagli anelli le sei corde che ci agganciavano al pianeta.... e il pallone si solleva.

*

Non è che questo? È una delizia. L'ascensione è lenta. Non par di salire. Io mi trovo fra il colosso e monsieur Charles, che mi volta le spalle, mostrandomi di profilo un viso sbiancato, che par la fotografia animata dello Sgomento. Questo mi dà animo. E tutto va bene fin ch'io guardo lontano, all'orizzonte, che si va a grado a grado allargando. Ma a un certo punto commetto l'imprudenza di chinare il viso sul largo foro centrale della navicella e di guardar giù, proprio a filo sotto i miei piedi, misurando con un'occhiata tutto lo spazio — l'altezza d'un par di torri di Giotto — che ci separa già dalla terra. Mi fo indietro subito; ma troppo tardi: la vertigine m'ha acciuffato. Fu un minuto solo; ma.... lungo. Una tentazione vergognosa mi prese d'accoccolarmi dolcemente fra i due parapetti della navicella, chinando il capo e chiudendo gli occhi. Ma uno sguardo mi salvò: vidi la mano con cui monsieur Charles stringeva una delle corde, e la violenza compassionevole della commozione che indicavano i muscoli gonfiati e tremanti in quella stretta di naufrago, distraendomi, mi rinfrancò. Mi rimase un malessere, non di meno, nuovo affatto, e difficile a esprimere: una maledetta voglia di sedere, un sentimento di solitudine fisica, un senso fastidioso del mio peso, quasi un ribrezzo della cedevolezza dei vimini di quel cestone odioso, a cui m'appoggiavo col fianco.... — Parfaitement dêsagréable — intesi dire da una delle due signore, che non vedevo. — C'est ça, risposi tra me; era pure la mia opinione. È strano: non avevo quasi coscienza in quel momento della legge fisica in virtù della quale salivamo, nè dell'apparecchio macchinoso che ci portava: mi pareva che ci levasse in alto qualche smisurato uccello di rapina, a volo lento e silenzioso. La navicella non faceva il minimo moto, nè le corde il più leggiero fruscìo: avrei giurato che stavamo immobili nello spazio. — C'est égal; ce ne sera jamais mon métier, — disse una voce. — Nemmeno il mio, — pensai. Che si dice del mare! È un elemento infido; ma vi sentite sotto qualche cosa, su cui in qualche modo ci si può reggere; ma l'aria.... l'aria non è niente. No, non sarà mai questo il mio genere di sport, se ne dovrò scegliere uno. Cento volte meglio la bicicletta. — E tutti quei modi coi quali si suole esprimere un sentimento di gioia o d'entusiasmo: — “parersi sollevato al disopra della terra„ — “sorvolare a questo basso mondo„ — “sentirsi rapito in alto„ — mi parevano smargiassate rettoriche. In verità, non avevo creduto mai di essere così strettamente affezionato, come mi sentivo in quel quarto d'ora, al mio pianeta nativo.

*

Di sotto, intanto, i fiumi diventavan rigagnoli, le case scatole, i parchi aiuole, gli uomini insetti come se una forza mostruosa stringesse, raccorciasse, rattrappisse ogni cosa. Che mirabile spettacolo! Ginevra dorata dal sole, l'Arve e il Rodano inargentati, una vasta corona di colline seminate di borghi e di ville, la grande mezzaluna color celeste del lago di Leman, i monti verdi del Giura e le rocce grigie della Savoja, la catena superba del Monte Bianco, un'immensità d'azzurro, di verzura e di neve, fatta per lo sguardo d'un'aquila. In quella immensità splendida le due signore si davan la briga di cercare l'isoletta del Rousseau e il castello del Voltaire. Altri due sentivo che discutevano sul confine della Francia. — Voilà le capitaine qui lit son journal — disse il colosso. Infatti, il capitano leggeva tranquillamente la Tribune de Genève, come se fosse stato in una sala del Cafè du nord. Quest'osservazione parve che tranquillasse un poco monsieur Charles che tentò d'abbozzare un sorriso. Se il capitano leggeva il giornale, pericolo imminente d'un disastro non c'era. Ma una voce che disse: — Nous dévions — lo turbò da capo. S'era levata veramente un po' d'aria; la grande bandiera svizzera attaccata al polo inferiore dell'areostato s'agitava; il pallone era deviato alquanto fuor della direzione del recinto da cui era partito. Ma nessun movimento era sensibile. Monsieur Charles osservava con uno sguardo obliquo il dinamometro appeso all'anello d'acciaio, come se gli indicasse il grado variante del pericolo, e non ne staccava gli occhi che per gettare qualche rapida occhiata dentro la cinta dell'Esposizione. Ah le Esposizioni, viste da quell'altezza! Paiono quello che sono in realtà: trastulli di popoli. Vedevo una piccola città carnevalesca, divisa in due da un ruscello, simmetrica da un lato, disordinata dall'altro, variata di cento architetture di mille colori, che innalzavan le cupole, le guglie, le torri, i frontoni dipinti, i tetti a cono e a piramide, luccicanti e imbandierati, sopra un labirinto di giardini e di boschetti, biancheggianti di zampilli e di cascate, e per tutto un brulichìo di esseri minuscoli che entravano e uscivano da mille buche e s'affollavano per le vie larghe un dito e per le piazze grandi come la mano, come un popolo di formiche affaccendate. Vidi passare sur uno dei due ponti dell'Arve il tranvai elettrico che faceva il giro della Mostra. Che miseria! Uno scarabeo giallo fuggente sopra un fuscello a traverso un fil d'acqua. Mi diede nell'occhio, a un'estremità della cinta, un qualche cosa della grandezza e della forma d'un mezzo guscio d'ovo tagliato pel lungo: era il grande circo per le giostre e per le feste ginnastiche, posto sulla riva del fiume, di là dal “villaggio svizzero„. E il grande villaggio, la maraviglia e il trionfo dell'Esposizione, pareva formato di châlets tolti dalle vetrine d'una bottega di Brienz: una cosa da raccattarsi con due mani e da porgersi per balocco a un bambino. Sulla piazzetta della chiesa del villaggio si vedevan movere dei puntini rossi e bianchi. Dovevano essere le belle ragazze svizzere che si preparavano per le danze nazionali. Com'era mai credibile che per uno di quei puntini rossi uomini tanto fatti potessero perder la pace?

*

Nous descendons, monsieur? — mi domandò monsieur Charles, senza guardarmi.

Non, nous montons toujours.

Diable!

A lui pareva già d'averne per più di quanto aveva pagato. Ma se io dicessi che mi sentivo ancora in credito non direi la verità vera. Stavo molto meglio, peraltro; tanto che feci a me stesso quest'osservazione: — Che bisogno c'è di stringer così forte la corda con la mano destra? — E allentai la mano.... un poco. E m'arrischiai a guardare un'altra volta per l'apertura del mezzo — un'occhiata sola, rispettosamente sfuggevole — quanto mi bastò per veder giù — a una profondità d'abisso — la folla dei viaggiatori aspettanti — una macchia scura punteggiata di rosa dai visi che guardavano in alto, verso il piccolo mondo di seta e di gas, da cui io guardavo loro, con un desiderio amoroso di raggiungerli. Poi mi raccolsi nell'ammirazione del lago di Ginevra, una chiazza d'acqua chiara, in cui i grandi piroscafi apparivano come moscherini anneganti che si dibattessero senza far cammino, e la lunga fila dei villaggi e delle ville della riva settentrionale sembrava una fioritura di minutissimi bocciuoli multicolori, raggruppati in ghirlande e in mazzetti, con gli steli immersi nell'acqua. Che dolce silenzio! Nè il rumore della galleria delle macchine, nè lo scampanìo festoso, nè il muggito degli armenti del villaggio svizzero, nè la musica barbara dell'accampamento dei negri, nè gli strilli degli arabi venditori del “caffè delle fate„ non arrivavano più alla nostra “superba altezza„ dove un'aria purissima, dilatandoci i polmoni, pareva che ci serpeggiasse per tutte le vene, e ci ringiovanisse il sangue e lo spirito. Oh tutti gli altri modi di viaggio inventati dall'ingegno umano, coi quali si striscia sull'acqua e sulla terra, tra il fumo, lo strepito e la polvere, molestati dall'immagine d'uno sforzo continuo delle cose, come ci parevano rozzi, faticosi ed umili, appetto a quell'ascensione dolce e muta di nuvola carezzata dall'aria, di cui non si sentiva e non si vedeva il moto, come se non noi ci movessimo, ma si allontanasse la terra! Nessuno parlava più, nè badava ai suoi vicini. Ciascuno, da quella terrazza aerea, beveva da solo, come un ingordo, la grande bellezza, non dicendo una parola per non perdere un sorso, in un atteggiamento d'ammirazione immobile, che pareva uno stupore profondo.

*

Ma qui sento un lettore impaziente che mi domanda: — Ebbene, e poi? Che cosa provaste quando non vedeste più la faccia della terra? Quando cominciaste a sentir difficoltà di respiro? Quando l'uscita del sangue dagli orecchi? Quando i primi deliqui?

A questo punto, per chi non ha ancora capito, debbo fare una dichiarazione.... molto dolorosa alla mia vanità. Debbo dire che attaccata al pallone c'era una corda cilindro-conica, d'un diametro da trent'uno a ventinove millimetri, tessuta di canapa di Napoli, di qualità sopraffina, capace di sostenere uno sforzo di più di novemila chilogrammi, e che questa corda — debbo dire anche questo — scendeva fino a terra, dove s'avvolgeva intorno a un cilindro, mosso da una macchina a vapore della forza di venticinque cavalli, la quale.... Insomma, il pallone era frenato. — È detta.

Eh si, potete scrollar le spalle quanto vi piace; ma a venir giù dall'altezza di sei mila o di cinquecento metri mi pare che la patta sarebbe stata a un di presso la stessa. E questo è quanto. Ed era certo del medesimo parere monsieur Charles, il quale mi domandò ancora una volta, senza voltare il capo: — Nous montons toujours? — Nous montons toujours. — E allora perdette la santa pazienza: — Eh qu'est-ce qu'il f.... donc ce capitaine avec son f....u journal? — Non credevo di poter fare una risata a quell'altezza; ma il fenomeno avvenne. — On nous a trompé — esclamò il colosso, per ispassarsi del pover uomo; — il n'y a plus de cable; c'est une ascension libre que nous faisons! — Un nom de dieu inimitabile gli rispose, che il buon Dio deve aver perdonato, tanto somigliava più a una supplicazione che a una bestemmia. E lo scherzo crudele del mio vicino sarebbe continuato se non si fosse sentita una voce dall'altra parte della navicella, che disse forte: — Wir gehen hinunter (noi discendiamo). — Dolce lingua tedesca! Ma era vero? Non ci accorgevamo di discendere più che non ci fossimo accorti di salire. Qualcuno anzi sosteneva che si saliva ancora; altri diceva che s'era immobili. Si discendeva così a rilento, in ogni modo, che non ce ne poteva accertare l'ingrandirsi delle cose sottostanti, non apparente ancora in quel primo tratto. Ma l'incertezza fu breve. Dato uno sguardo in basso, vidi Ginevra più vasta, l'Arve dilatato, le architetture dell'Esposizione ingrandite, tutto il formicolìo nero sparso per il labirinto delle vie e delle piazzette, che cominciava a riprender l'aspetto d'una moltitudine umana. Poi la discesa si fece ogni momento più sensibile. Sotto, sui frontoni del palazzo delle Belle Arti, sulle facciate, dentro alle aiuole, nei giardini, pareva che le statue crescessero, che le pitture pigliassero vita, che i fiori sbocciassero, che gli zampilli s'innalzassero a salti; un ronzìo confuso, soverchiato da mille suoni sparsi di voci, d'acque, di ruote, di musiche, ci giungeva crescendo agli orecchi; e guardando per il foro della navicella giù nel recinto le piccole facce voltate in su della folla che ci aspettava, simili a una gran canestrata di mele rosee, cominciai a distinguervi i cerchietti degli occhi e i buchi neri delle bocche aperte. Ancora un minuto, ed ecco i cento visi sorridenti, ecco gl'inservienti che accorrono, eccoci riattaccati da sei solidi ganci alla superficie terrestre.

O caro prossimo mio, mi è dolce assai sovente il viver lontano da te; ma non al di sopra! Non sono superbo. E non fui degli ultimi a passare il ponticello mobile che mi rimetteva tra l'umanità camminante. Il primo, s'intende, fu monsieur Charles, col viso ancora rannuvolato. Vari conoscenti, che l'aspettavano, l'affollarono di domande. Egli lanciò loro, passando, un'occhiata a colpo di falce, e rispose con voce rauca: — Délicieux.

— Ti sei divertito? — mi domandarono i miei due giovani compagni. — Un'altra volta faremo un'ascensione libera....

— Figuratevi! — risposi — non ne vedo l'ora — Ma soggiunsi in cuor mio: — Sì, all'Esposizione internazionale di Carmagnola.

DUE DI SPADE E DUE DI CUORI RACCONTO

DUE DI SPADE E DUE DI CUORI.

Molti uomini illustri ebbero qualche predilezione particolare della gola; per esempio, il Fontenelle per gli sparagi, il Rossini per i maccheroni, il Niccolini per le radici: era dunque scusabile il non illustre Arturo Pironi, appena dodicenne, d'avere egli pure la sua, che era per il gelato di crema. Se fosse stato re, avrebbe dato qualche volta il suo regno per un sorbetto giallo. E bisogna dire che il piacere di mandar giù quella dolcezza, com'egli faceva, sei volte la settimana, se lo guadagnava proprio col sudore della fronte. Suo padre gli dava ogni mattina otto soldi per far le quattro corse in tranvai fra piazza San Martino, dove stavan di casa, e il lontano Ginnasio Gioberti, dov'egli l'aveva messo perchè c'era professore di lettere un suo cugino: ma il piccolo ghiottone non rimetteva alla Società elettrica che venti centesimi. Andava e tornava la mattina con le sue sante gambe, correndo come uno struzzo; tornava a casa di galoppo anche la sera, sputando un'ala di polmone, perchè, sebbene vivacissimo, era di complessione delicata; e faceva in tranvai la sola prima corsa pomeridiana, che rompeva in due, per saltar giù a spendere i suoi risparmi in un gelato canarino, al caffè del Teatro Alfieri, a mezza strada. A quell'ora non c'era quasi mai nessuno: egli entrava per la porta piccola, sedeva nel primo stanzino, accanto all'uscio della sala del biliardo, ordinava con un accento che voleva dire: — Propere propera; — vuotava il piattino in un minuto, ripuliva il cucchiaino con la lingua, e poi via, come chi scappa senza pagare. Ma durante la dolce operazione dava tali segni di beatitudine, che spesso i camerieri stavan lì a guardarlo, godendosela, come a veder mangiare un affamato, e qualche volta anche la padrona del caffè veniva a dare un'occhiata sorridente a quel bel ragazzo biondo, a cui pareva che ogni cucchiaiata di gelato facesse l'effetto d'un sorso di vino di Sciampagna, e gli andasse in tanto sangue. Lo chiamavano fra di loro: il gelato di crema.

*

Un giorno, al principio d'aprile, nell'atto che si metteva a sedere nel posto solito, egli udì nella sala del biliardo le voci di vari giocatori; uno dei quali pronunciò un nome che attirò la sua attenzione. Era il nome dell'avvocato Bussi, un amico di suo padre, che non veniva più in casa da un pezzo, ma ch'egli sentiva rammentar sovente.

— Il Bussi, — diceva uno dei giocatori, — è un tiratore. Siamo andati sei mesi insieme alla sala Gandolfi; poi io smisi, egli seguitò. L'ho visto tirare due anni fa al Teatro Scribe, nell'accademia a beneficio dell'Ospedaletto: ha un polso di ferro, ed è un tempista. Dell'altro non so; ma non vorrei essere nel suo soprabito... Tiro al rinterzo.... otto a sei.

— Si accomoderanno, — disse un altro, — fra avvocati!

— Tu mi canzoni, — ribattè il primo. — Una presa di sciocco in pieno caffè San Filippo, in mezzo a una corona di colto pubblico.... Sei impallato: oggi non è il tuo giorno.... L'avvocato Bussi non è uomo da tirarla giù come un ovo fresco. E poi, quando c'entra la politica! Sta certo che si batteranno, se non si son già battuti questa mattina.

— Impossibile, — disse un terzo. — La scenata è seguìta ieri sera alle undici. Non possono aver regolato tutto nella notte. Son cose che vanno per le lunghe. Al più presto si batteranno oggi. Quanto alza la rossa?

— Oggi no, — rispose un quarto. — Alza due dita. Oggi il Bussi ci ha la causa del gobbo di Vanchiglia alle Assise. Questa mattina era all'udienza, deve fare oggi la sua arringa. Si batteranno domattina, a giorno.

— Ho paura, — tornò a dire il primo, — che il complimento sarà pagato caro.

— Chi sa mai! — esclamò un altro, che non aveva ancora parlato. — Non sempre chi maneggia meglio la sciabola è quello che dà la botta. L'avvocato Pironi....

Il ragazzo lasciò cadere il cucchiaino e restò senza fiato.

— L'avvocato Pironi, — continuò il parlatore invisibile, — è un uomo di sangue caldo, di quelli che sul “terreno„ perdono il lume degli occhi e si caccian sotto per persi. Costoro alle volte sconcertano anche un bravo tiratore, che si becca una sciabolata senza capir nè come nè perchè.... Steccaccia da capo! Non gioco più! Sono una sbercia.

— Eh, s'ammazzino pure, — disse quello di prima. — Ce ne son troppi. Sapete che n'abbiamo seicento dentro la cinta di Torino?... Questi son calci, o signori! Ventiquattro. Si fa la rivincita?... Morto un avvocato, ne nascon dodici....

Il povero ragazzo non udì più altro: pagò, senza finire il gelato, si cacciò i libri sotto il braccio, si slanciò fuori del caffè come da una casa incendiata, corse fino in mezzo a piazza Solferino, dove s'arrestò ad un tratto, coi piedi come inchiodati alla terra, e là ebbe una visione così lucida e terribile di suo padre disteso al suolo, immobile e sanguinante da un'orrenda ferita, che gli venne su dal cuore un singhiozzo, gli ondeggiarono agli occhi gli alberi e le case, e gli mancarono sotto le ginocchia....

Ma fu un momento. Egli era delicato di fibra, ma gagliardo d'animo. Subito si sentì come scattar dentro una molla d'acciaio che lo rizzò sul busto e gli fece alzare la fronte in atto di risoluzione virile. — No! — disse tra sè, — non perderò mio padre.... mio padre non si batterà.... non me lo uccideranno, ci dovessi lasciare la vita!

*

S'andò a buttare sur un sedile del giardino pubblico, vicino al monumento del generale De Sonnaz, appoggiò i gomiti sulle ginocchia e il capo fra le mani, e si mise a pensare.

Ma la commozione e lo stupore gl'impedirono per un po' di tempo di raccapezzarsi. Era possibile? Suo padre battersi in duello col Bussi! Un tempo erano stati amici. Pochi anni addietro il Bussi veniva qualche volta a casa sua, con la moglie e col figliuolo: un ragazzetto della sua età, che era lo spasso di tutti, e giocavano insieme. Poi, fra la signora Bussi e la mamma, senza ch'egli ne sapesse il perchè, s'era rotta ogni relazione; ma non fra suo padre e il marito di lei, che egli aveva visti ancora insieme molte volte per le strade di Torino. Come avevano potuto tutt'a un tratto, in un luogo pubblico, venire a un diverbio violento, insultarsi e sfidarsi come due nemici mortali? Capiva allora perchè suo padre avesse quella mattina desinato fuori, dicendo che era invitato da un collega, con cui doveva parlar d'affari. Aveva dovuto andar fuori per trattare coi padrini, che non voleva ricevere in casa sua, per non destare sospetti. Oh! povero babbo! Chi sa che ore tristi d'ansietà, chi sa che dolorosa giornata era quella per lui, costretto a fingere con la famiglia, a prepararsi al cimento terribile, senza una parola di conforto dei suoi, senza poter espandere l'animo suo, come se fosse solo al mondo, e la sua vita non premesse a nessuno! La prima idea che gli venne fu di correre a casa del nemico, di gettarsi ai suoi piedi e di supplicarlo, abbracciandogli le ginocchia e piangendo, d'aver pietà di lui, di risparmiar la vita a suo padre, di perdonare l'offesa.... Ma respinse sull'atto quell'idea. Quel Bussi, che gli voleva uccidere il babbo, gli si presentava nell'aspetto d'un uomo fremente d'ira e di vendetta, d'un assassino feroce e inesorabile, che nessuna preghiera avrebbe potuto rimovere dal suo proposito; gli metteva orrore e ribrezzo; gli pareva che al solo vederlo si sarebbe sentito gelare il sangue e morir la voce nella gola. Gli venne un altro pensiero: di dir tutto alla mamma. Ma rigettò anche questo, comprendendo che sarebbe stato un passo peggio che inutile. A che pro gettare il terrore e la disperazione in cuore alla sua povera madre, che avrebbe passato una giornata e una notte d'angoscie di morte? Sarebbe forse riuscita a impedire che suo padre s'andasse a battere? Egli aveva bene un'idea, benchè confusa, di che cosa fosse per un uomo della classe signorile il sentimento così detto dell'onore, e capiva che se per questo suo padre arrischiava la vita, non c'era da sperare che s'inducesse a soffocarlo per amore della famiglia. Poi pensò a un altro mezzo: ad avvertire la Polizia. Sapeva di molti casi in cui la Polizia, avvertita che due signori si dovevan battere, era arrivata in tempo sul luogo per impedire il duello.... Ma neppur questo mezzo gli parve da scegliersi. E se suo padre fosse stato arrestato? E se, risapendo dopo che la Polizia era stata avvertita da lui, l'avvocato Bussi avesse sospettato che egli fosse stato spinto a quell'atto da suo padre stesso, per paura di battersi? Gli balenò infine un'idea, che gli parve la meglio di tutte: d'impedire il duello egli medesimo. Svolse nella mente questa idea con un sentimento crescente di speranza e di conforto. — Per andarsi a battere, — pensò, — mio padre uscirà la mattina molto presto. Io veglio la notte, senza spogliarmi, per sentire quando s'alza ed esser pronto a uscir subito dopo di lui; gli tengo dietro per la strada, di lontano, fin dove si dovrà battere; si batteranno in campagna, come s'usa; mi nascondo dietro un albero o una siepe; quando li vedo l'uno di fronte all'altro salto su, mi getto in mezzo, m'avvinghio al babbo, supplico, grido.... Voglio vedere se l'altro avrà il coraggio di ferir mio padre che non si potrà difendere; mio padre non riuscirà a svincolarsi da me; tutti si commuoveranno, sentiranno pietà.... — Ma appunto questa parola pietà, che gli suonò quasi all'orecchio come se l'avesse pronunciata a voce alta, gli fece cader dall'animo anche quel proposito. No, non era possibile. Egli avrebbe potuto impietosire suo padre: ma l'altro! E che figura ci avrebbe fatta suo padre? E se anche in questo caso si fosse sospettato che egli stesso avesse suggerito al figliuolo quel passo, per vigliaccheria? Non trovando risposta a queste domande, non venendogli altre idee, e disperando che gliene venisse, egli fu invaso dallo sgomento, rivide l'immagine del babbo disteso a terra nel sangue, e si mise a piangere a calde lacrime nel cavo delle mani, scrollando il capo in atto sconsolato....

All'improvviso, come se una mano vigorosa lo sollevasse dal sedile, egli balzò in piedi col viso illuminato da un pensiero, s'asciugò in fretta le lacrime, riafferrò i suoi libri e ritornò al caffè quasi di corsa.

*

— Un altro gelato? — gli domandò sorridendo il cameriere. — No, — rispose il ragazzo, con voce concitata; — la Guida di Torino. — Il cameriere gli portò un grosso libro, che egli conosceva, perchè l'aveva nello studio suo padre. Lo aperse, cercò l'elenco degli avvocati, vide dove stava di casa l'avvocato Bussi, ringraziò e tirò via. Stava in via San Domenico. Egli vi arrivò in un batter d'ali, s'affacciò all'uscio di uno sgabuzzino del portone, dove stava rattoppando una scarpa un vecchio ciabattino con gli occhiali, e gli domandò se stesse lì di casa l'avvocato Bussi. Ci stava: al secondo piano. Domandò ancora: — A che scuola va il suo figliuolo? — La seconda domanda dovè parere indiscreta all'ombroso Crispino, il quale gli rispose con mal garbo: — A scuola non ce l'ho messo io: vada a chiedere le informazioni in casa. — Ma il ragazzo ridomandò: — A che scuola va il suo figliuolo? — con un accento così commosso di preghiera, d'impazienza e d'affanno, che quegli rispose quasi a suo malgrado, come a un comando, guardandolo con due grand'occhi stupiti: — Qua vicino, al Ginnasio Balbo, in via Porta Palatina. — Non aveva ancor detto la via che il ragazzo era già scappato. Svoltò in via Milano, infilò via della Basilica, riuscì in via Palatina e arrivò trafelato davanti alla porta del Ginnasio, dove stava ritto il custode — un ometto sbilenco dal muso volpino — il quale, vistogli i libri sotto il braccio, gli lanciò un'occhiata severa, dicendo tra sè: — Ecco un monello che ha marinato la scuola, e che viene ad aspettare un altro poco di buono, per andare insieme a batter le strade. Che grinta! Questo deve dar delle belle consolazioni, a suo padre!...

All'uscita degli scolari Arturo si piantò nel mezzo della soglia e cominciò a chiamare: — Bussi — Bussi — Bussi, cercando a destra e a sinistra il viso del suo piccolo amico d'un tempo, che non era certo di riconoscere. Non n'eran passati trenta che una voce gli rispose: — Son qui — e gli si parò davanti un ragazzo, il quale, guardatolo appena, gli domandò con accento di stupore, sorridendo: — Pironi?

Era un ragazzo assai più alto e più robusto di lui, benchè non avesse che un anno di più: bruno di pelo e di pelle, e d'aspetto piacente; benchè di una espressione precocemente ferma, quasi d'un uomo, e leggermente beffarda; la quale gli avrebbe fatto cattivo senso s'egli avesse avuto l'occhio meno velato dalla passione. Ma Arturo non ci badò, lo prese per mano, lo tirò dall'altra parte della strada e gli disse affannosamente: — Senti.... domani mattina.... mio padre e tuo padre.... si battono in duello....

La notizia non produsse l'effetto ch'egli s'aspettava. Quegli non fece che un leggiero segno di stupore, dicendo:

— Oh, diavolo!... E perchè mai?

Arturo gli disse in furia quello che sapeva, e come l'aveva saputo, e soggiunse con voce rotta: — Ora noi dobbiamo impedire, capisci, a qualunque costo. Mio padre può uccidere il tuo, o restar ucciso. Questo non dev'essere. È un orrore. Son venuto da te. Aiutami tu. Tentiamo insieme. Noi soli possiamo impedire una tremenda disgrazia.

Il ragazzo si grattò il mento con un dito; poi rispose tranquillamente: — Impedire.... va bene. Ma in che maniera?

Arturo gli espose il suo disegno. Il duello si sarebbe fatto senza dubbio la mattina prestissimo. Dovevano vegliar tutti e due, attenti a quando il babbo uscisse di casa, e uscir dopo di lui, senza farsi sentire. Certamente, secondo l'uso, l'uno e l'altro sarebbero stati aspettati dai padrini sulla strada, con una carrozza. Essi si dovevano attaccare dietro alla carrozza, e non lasciarla più. Così, senza gran fatica, potevano arrivare al luogo fissato per il duello. Là si sarebbero facilmente ritrovati, e nascosti insieme, in qualche modo, ad aspettare il momento. Giunto il momento, si sarebbe gettato ciascuno ai piedi del proprio padre, supplicandolo di non battersi. Non avrebbero osato, per certo, di battersi in presenza dei loro figliuoli, si sarebbero commossi tutti e due, lasciati persuadere dai padrini a desistere, forse riconciliati. — È questo l'unico mezzo, — concluse. — Io solo non impedirei nulla. Mi raccomando a te. Non lasciarmi solo. Aiutami, per quanto hai di più caro al mondo. Te ne scongiuro!

L'altro rimase un poco sopra pensiero; ma con un sorriso sulle labbra, come se fosse più allettato dalla novità bizzarra dell'impresa che commosso dall'idea del pericolo paterno e della gentilezza dell'azione. Poi rispose con molta placidità: — L'idea è buona; ma.... quanto alla riuscita, ho i miei dubbi. Per quello che riguarda mio padre, intanto, io sono certo d'una cosa, come se fosse già avvenuta, ed è che, quando mi vedrà comparire, invece di commoversi, mi ammollerà una piattonata sulla schiena. Mi vuol bene; ma.... me l'ammollerà. Me la sento. Ma questo non vorrebbe dire. Il male è che si farebbe un buco nell'acqua.... credo. Dimmi un po': e se non ne facessimo nulla? Non bisogna poi montarsi la testa. Non tireranno mica a finirsi. Tutti i giorni seguono dei duelli senz'altra conseguenza che una scalfittura al braccio o una sdrucitura al capo: il medico ci dà qualche punto, i duellanti si stringon la mano, e poi.... vanno insieme a far colazione.

— No! no! — esclamò Arturo, col pianto nella gola; — non dir così, te ne supplico. Tuo padre è stato offeso, il mio è impetuoso. Quando hanno le armi alla mano perdon la testa. E poi, chi lo sa? E se si battono con la pistola? Uno dei due può morire. Pensa che rimorso, che disperazione ne avremmo tutti e due! Pensa alla tua povera mamma! Pensa che domani mattina, fra poche ore, tu potresti non aver più padre, o potrei non averlo io! E questo per una parola! È una cosa orrenda! Tu scherzi; ma sei buono. Abbiamo giuocato insieme da bambini, ci volevamo bene. Aiutiamoci come due fratelli. Non lasciarmi solo. Io ci vado solo, se tu non vieni, anche a costo di cascar morto per la strada. E allora direbbero tutti: — Perchè non ci è andato anche l'altro? Penserebbero male di te.... Oh, vieni, vieni.... Come ti chiami?... Carlo? Sì, ora mi ricordo. Vieni, Carlo, te ne prego; m'inginocchio qui sulla strada, se non mi dici di sì; ho bisogno di te; tu puoi salvar la vita a mio padre; te ne scongiuro in nome di mia madre, e della tua; e se mi aiuti, ti vorrò bene sempre, anche quando sarò grande, sarò sempre per te quello che tu vorrai, pronto a darti anche la mia vita, se me la chiedessi! — E così dicendo, gli mise le mani tremanti sulle spalle e il viso contro il viso.

Carlo, che aveva sorriso alle prime, parole, cessò di sorridere alle ultime, lo fissò, e gli disse con un accento di pietà, da fratello maggiore: — Povero Arturo!

Questi gli strinse le spalle più forte, aspettando la risposta, con tutta l'anima negli occhi.

Carlo rispose: — Verrò.

Arturo gli avvinghiò un braccio intorno al collo e gli baciò le due guance; e domandò ancora: — Me lo prometti?

— Sarò là, — rispose l'altro, risolutamente. Poi, sorridendo da capo in aria di canzonatura: — Ma dimmi un po'.... E se andassero a battersi a Rivoli? Avremmo una dozzina di chilometri da fare dietro la carrozza. Sarebbero lunghetti.

Arturo fece un gesto risoluto come per dire che a qualunque distanza egli avrebbe avuto la forza d'arrivare. E gli disse, guardandolo negli occhi: — Mi hai promesso! Mi fido di te!

E l'altro, rifacendosi serio: — Hai la mia parola.

Arturo lo baciò un'altra volta, gli disse con tutta l'anima: — Grazie! — e s'allontanò correndo; senz'accorgersi che Carlo lo stava osservando, come fanno gli scommettitori coi cavalli da corsa, per vedere se avesse gambe pari all'impresa. Poi anche Carlo se n'andò, col suo passo solito, dicendo tra sè: — Le seste le ha buone; vedremo i polmoni. Mio padre si batte! Oh diavolo.... diavolo. Non so se la darà al signor Pironi; ma a me la darà, di sicuro. Si tratta d'aver prima buone gambe, e poi.... buona schiena. Macte virtute, Carole. Sarà una scarrozzata di nuovo genere. Purchè non vadano a Rivoli!

*

Rientrato in casa, Arturo pose ogni cura a dissimulare il suo stato d'animo alla mamma; la quale era ancora assai giovane, e d'indole così espansiva, e così familiare con lui, che gli pareva alle volte, più che una madre, una sorella. E quel giorno era più allegra del solito; il che gli fece più pena, e gli rese più difficile la dissimulazione. All'ora del desinare, quando sentì la scampanellata di suo padre, tremò, non ebbe cuore d'andargli incontro, sedette a tavola a aspettarlo, tutto trepidante.

Ma riprese animo quando lo vide comparire con l'aspetto consueto, e più quando egli cominciò a discorrere, come faceva sempre, dei casi occorsigli nella giornata, non solo senz'alcuna apparenza di turbamento, ma con una vivacità insolita, e in un tono anche più affabile dell'usato. Gli pareva solo qualche volta che, dopo aver fatto una domanda, non ponesse mente alla risposta, come se avesse interrogato così per parlare, e che di tratto in tratto, quando fissava lo sguardo sulla finestra dirimpetto, rimanesse assorto un momento come se vedesse in lontananza, per aria, qualche cosa di singolare. Ma a quel modo egli aveva fatto altre volte. Il ragazzo si tranquillò alquanto, a poco a poco; non solo, ma a un certo punto una risata improvvisa che diede suo padre a uno scherzo della mamma gli fece brillare una speranza, che gli aperse il cuore.

— E se non fosse vero che si deve batterei — pensò. — Egli aveva inteso dire più d'una volta di “quistioni d'onore„ — come le chiamavano, — composte dai padrini amichevolmente; aveva visto in qualche gazzetta qualcuno dei così detti “verbali„ sottoscritti da quattro persone, le quali dichiaravano, dopo aver esaminato il caso, non esservi ragione di battersi fra due signori, che pure s'erano ingiuriati e sfidati. Perchè non potevano essersi riconciliati, per intromissione degli amici, suo padre e l'avvocato Bussi? Come avrebbe potuto suo padre mostrarsi così tranquillo, se avesse dovuto il giorno dopo rischiar la vita? — E s'afferrò con tutte le forze a questa speranza, nella quale ogni sorriso di suo padre lo riconfortava, e si sentì crescere in cuore, a grado a grado, una gioia immensa.

Tutt'a un tratto suo padre si battè una mano sulla fronte e sclamò: — Che smemorato! — Poi, rivolto alla mamma: — Mi scordavo di dirti che domattina devo partire per Vercelli.

Al ragazzo corse un brivido per le vene.

— Per quella benedetta causa dei fratelli Bonomi, — soggiunse suo padre. — Ritornerò la sera. Parto col primo treno.

— Ma, — domandò la moglie, un po' stupita. — Non m'avevi detto che la causa era rimandata al mese venturo?

— Così era, infatti, — rispose l'avvocato. — Ma fu anticipato il dibattimento, perchè ne fu rinviato un altro, che lo doveva precedere. Ho ricevuto un telegramma in tribunale. È un contrattempo che mi secca. Ma non c'è che fare.

— Sei proprio certo di ritornar la sera? — domandò la signora, senza un'ombra di sospetto.

— Certissimo. È un affare di poche ore. Non mi porto neppure la valigietta. Non t'avrai nemmeno da svegliare.

Detto questo, cambiò discorso. Ma Arturo, ripreso dallo sgomento e dall'affanno, non udì più nulla. Si levò da tavola appena finito di desinare, andò nella sua camera, accese il lume e sedette a tavolino, fingendo di fare il suo lavoro di scuola. A una cert'ora suo padre si affacciò all'uscio e gli disse: — Vado nello studio a lavorare, Arturo; non mi disturbare; ti do fin d'ora la buona notte.

— Buona notte, babbo! — rispose il ragazzo con voce soffocata, e rimase là atterrito, agghiacciato dal pensiero che potesse esser quella l'ultima volta ch'egli si sentiva dir: — Buona notte, — da quella voce....

*

Poi si gettò sul letto, svestito a mezzo, spense il lume, e restò con gli occhi aperti nel buio e con l'orecchio teso, per sentire quando suo padre andasse a dormire. Scoccarono le undici, e non aveva ancora udito il suo passo. Che cosa poteva mai fare fino a quell'ora così tarda, poichè non era possibile che avesse l'animo tanto tranquillo da occuparsi dei suoi affari d'ufficio?

Arturo si ripetè più volte, con ansietà sempre più viva, quella domanda: — Che cosa sta facendo?

Un'idea terribile gli passò pel capo: — Scrive il suo testamento!

Ne ebbe subito una certezza assoluta. Sì, egli faceva quella cosa terribile. Suo padre aveva il presentimento della morte, e si preparava a morire. E a quel pensiero lo prese una pietà e una tenerezza infinita. Suo padre, ancora così giovane, e così buono, che aveva circondato la sua infanzia di tante cure, che aveva tanto lavorato per lui, che dedicava ogni suo momento libero a istruirlo e a ricrearlo, e che cercava e trovava ogni giorno qualche nuovo modo di rendergli più bella la vita! E di ricordo in ricordo, risalendo fino al principio della sua memoria, riandò tutte le prove d'affetto che gli aveva date, se lo raffigurò in tutti i momenti in cui gli era apparso più rispettabile e più amabile, rivide i suoi sorrisi, riudì le sue parole, risentì le sue carezze, e, giunto al termine di quella corsa del pensiero, ritrovandosi dinanzi l'immagine di lui disteso a terra insanguinato, fu oppresso da una stretta di dolore più violenta ancora di quella che aveva risentito la mattina al primo intender la notizia funesta, e scoppiò in dirottissimo pianto. Ma, infine, la stanchezza lasciata in lui dalle commozioni profonde della giornata fu più forte dell'affanno, e nonostante tutti i suoi sforzi per resistere al sonno, si assopì leggermente.

E sognò.

Sognò che pioveva a rifascio, tuonava e lampeggiava. Egli era solo in casa; ma in una stanza che non aveva mai vista. Tra un tuono e l'altro, e qualche volta confusa col tuono, sentiva la voce di suo padre, che lo chiamava, come invocando-soccorso: — Arturo! Arturo! Figliuol mio! — Ma egli non capiva donde venisse quella voce, poichè pareva ad un tempo vicina e lontana, che venisse dal piano di sopra e da quel di sotto, di dentro ai muri, di sotto ai mobili, e di fuori, dai terrazzini, o dall'aria. Si slanciò nella stanza accanto: la risentì: — Arturo! Arturo! Figliuol mio! — Gli parve che la voce fuggisse davanti a lui. Si diede a girare di stanza in stanza, correndo, per un labirinto di stanze sconosciute, ora oscure come sotterranei, ora illuminate dai lampi, per lunghi anditi, per sale vastissime, di cui il tuono incessante faceva tremar le vetrate, e dove, con suo grande stupore, inciampava in cespugli e in tronchi d'alberi e sentiva erba e sassi sotto i suoi piedi; e sempre si udiva chiamare: — Arturo! Arturo! Figliuol mio! — da una voce sempre più supplichevole, sempre più fioca, sempre più lontana. Lo prese la disperazione, si mise a correre con più furia, singhiozzando: — Babbo! Babbo! dove sei? dove sei?... — Infine il tuono cessò, seguì un silenzio profondo, e nell'oscurità muta, non più rotta dai lampi, egli sentì un passo leggiero che s'avvicinava....

Si svegliò di sobbalzo, vide che era giorno, e sentì ancora quel passo....

Fece appena in tempo a tirarsi addosso le coperte: suo padre era sulla soglia dell'uscio.

Veniva a dargli il bacio d'addio.

Egli finse di dormire; sentì che s'avvicinava in punta di piedi al suo capezzale.

Lo assalì una tentazione violenta di gettargli le braccia al collo. Ma capì che se l'avesse fatto sarebbe scoppiato in pianto e avrebbe tradito il suo secreto. Con uno sforzo vigoroso di tutto l'animo e di tutti i nervi, si contenne, e simulò il respiro fitto e regolare del sonno.

Sentì la bocca di suo padre sulla fronte.

Tremò tutto; ma si vinse.

Suo padre s'allontanò come un'ombra.

*

Non era ancora a mezzo delle scale, che Arturo, finito di vestirsi in un lampo, si trovava già sul pianerottolo. Al momento che suo padre usciva dal portone, egli scendeva l'ultimo scalino, e di là, sporgendo il capo, vide nella luce incerta dell'alba una carrozza ferma vicino al marciapiede, e tre signori ritti accanto allo sportello; i quali salutarono suo padre, e salirono dentro con lui. Il fiaccheraio frustò il cavallo, la carrozza partì, ed egli vi si cacciò dietro, afferrandosi all'asse delle ruote posteriori.

Il cavallo andava di trotto lento: lo poteva seguitare senza fatica. La carrozza svoltò in via Cernaia e pochi momenti dopo sul corso Vinzaglio. Il suo primo pensiero fu chi potesse essere il terzo di quei signori che erano saliti nel legno con suo padre. Che lo dovessero accompagnare due padrini, lo sapeva; ma chi era il terzo? Non gli venne in mente che fosse il medico. Ma non insistè in quel pensiero. Era una bella mattinata di primavera, limpida e piena di fragranze di campagna. Ma la città, ancora dormente, con le vie deserte e le botteghe chiuse, presentava l'aspetto triste d'una città disabitata, e le pedate del cavallo e il rumore delle ruote echeggiavano in quella solitudine silenziosa come sotto una gran vôlta invisibile. Al crocicchio di Corso Oporto attraversò la via un'altra carrozza, il cui fiaccheraio gridò rizzandosi sulla cassetta: — Ohè! camerata! ne porti uno gratis! — e quasi nello stesso punto Arturo fu colpito alla guancia dallo sverzino della frusta, che il “camerata„ aveva menata con un giro del braccio all'indietro. Ne sentì un bruciore acuto; ma lo bruciò di più la vergogna. Cominciava a passare qualche operaio, ad aprirsi qualche finestra: gli pareva che tutti dovessero guardarlo, e pigliarlo per uno straccione vagabondo, e gridare al cocchiere: — Frusta di dietro! — Correva per lunghi tratti col mento sul petto, non vedendo i passanti e gli alberi che come ombre fuggenti, inzaccherandosi nelle pozzanghere che aveva fatto la pioggia la notte, fissando gli occhi nel numero della carrozza come per raccogliere in quello tutta la sua mente, e non pensare ad altro. Svoltando dal Corso Vinzaglio sul Corso Duca di Genova il cavallo prese un trotto più rapido, ed egli cominciò a sentir la stanchezza, e a filar grosse goccie dalla fronte e dalle tempie. Lo affaticava sopra tutto lo star chino con le mani sull'asse, che era troppo basso; provò a tenersi alle molle, ma s'affaticò anche di più, perchè doveva star colle braccia troppo aperte, e quell'atteggiamento gli opprimeva il respiro; tornò ad appoggiarsi come prima. Quando la carrozza girò a destra sul Corso Umberto, egli principiò a temere che non gli bastassero le forze per proseguire lungamente. Ma raccolse tutto il suo vigore e il suo coraggio, e continuò a correre. Gli pareva che se si fosse arrestato sarebbe stato un presagio sinistro, che se suo padre fosse andato innanzi senza di lui, sarebbe andato certamente a morire. Ma oramai grondava di sudore, gli saltava il cuore nel petto, gli usciva il respiro come un soffio di mantice. Pensare che il suo povero babbo era lì, a tre palmi dal suo capo, che c'era solo fra di loro una sottile parete di legno, e che pure gli pareva tanto lontano, e come separato da lui da una muraglia enorme e da un abisso insuperabile! E domandava a sè stesso se egli pensasse a lui in quel momento, e immaginava i tristi pensieri e l'affanno doloroso che lo dovevano opprimere, e ansando, sobbalzando a ogni scossa della carrozza, movendo continuamente le mani dall'asse alle molle e da queste all'asse, piegando tratto tratto sulle ginocchia e rialzandosi con uno sforzo sempre più penoso, ripeteva tra sè: — No, no, non ti abbandonerò, padre mio.... non ti lascierò ferire.... cadrò prima sfinito in mezzo alla strada.... O ti salverò o morirò.... Coraggio, babbo mio! Il tuo Arturo è con te.... Senti il mio cuore che batte vicino al tuo.... Senti il respiro del tuo figliuolo che ti accompagna!

*

Dentro la carrozza, intanto, suo padre taceva e pensava. Gli stava seduto accanto il medico, un biondone corpulento, che sonnecchiava, e gli sedevano in faccia i due padrini, due avvocati sulla quarantina, barbuti e gravi; ma di quella falsa gravità con cui i padrini cercano per solito di dissimulare agli altri e a sè stessi la coscienza inquieta d'esser complici di un atto insensato e incivile. L'avvocato Pironi pensava alla moglie, che aveva ingannata, al ragazzo, al quale aveva dato quasi a tradimento forse l'ultimo bacio; pensava che era fuggito di casa come un ladro, e che forse egli era un ladro veramente; perchè poteva essere che, uscendo di nascosto da quella casa, ne avesse portato via la felicità, la pace, l'agiatezza, l'avvenire del figliuolo, e anche la salute, e anche la vita della madre. E per la prima volta domandò alla propria coscienza se egli avesse diritto di disporre a quel modo dell'esistenza e della fortuna della donna che aveva legata alla propria sorte e del fanciullo che aveva messo al mondo, giurando sull'onor suo di proteggerli e di consacrare a loro tutto sè stesso. E una voce solenne della coscienza gli rispose: — No, tu non hai questo diritto, perchè la tua vita non è tua! No, tu non dovevi fare quello che hai fatto, non dovresti fare quello che farai, perchè è un'azione sleale e crudele verso i tuoi, barbara verso la civiltà, stolta davanti alla ragione, iniqua davanti alla legge di Cristo. — E che dovevo fare? — si ridomandò, difendendosi dalla coscienza propria. — Non dovevi oltraggiare l'amico. — Ma l'ho oltraggiato, e gli dovevo una riparazione. — Sì, glie ne dovevi una; ma era quella di umiliare, di punire il tuo orgoglio, da cui era uscito l'oltraggio; non quella di mettere in gioco due vite che sono strette alla tua, ma non son cosa tua; no, non per altro che per salvare il tuo orgoglio, tu metti l'una e l'altra a cimento; perchè ti manca il nobile coraggio di chieder perdono, tu hai il coraggio scellerato di gettar la disperazione nella tua casa; per parere un uomo coraggioso non t'importa d'essere un marito e un padre spietato; copri con la maschera del gentiluomo un egoismo feroce; il tuo coraggio non è che debolezza violenta; ti è più facile esser sanguinario che generoso; prostituisci l'anima per salvare l'amor proprio. E va, dunque, battiti, fatti ammazzare, e che tua moglie e il tuo figliuolo scontino per tutta la vita con la miseria e col pianto una parola insolente che t'è sfuggita nell'ira, e che tu non volesti ritirare per superbia. Vigliacco! — A queste parole non trovò più obbiezioni, chiuse gli occhi, fingendo d'appisolarsi, e pensò con profonda tristezza al figliuolo, che era appunto in sull'età in cui un ragazzo ha maggior bisogno del consiglio e degli aiuti del padre; che era intelligente e studioso, ma di animo troppo sensitivo e di immaginazione troppo eccitabile; e sano e bello, e di carattere vigoroso e risoluto, ma di complessione non gagliarda, e che però egli avrebbe dovuto preservare con gran riguardo da ogni commozione troppo forte, che gli sarebbe potuta riuscir funesta. L'avrebbe dovuto riguardare da ogni forte commozione, e stava per dargli quella terribile di vedersi portare a casa suo padre con una mano recisa o con la fronte spaccata, e forse moribondo, e forse morto! Un atroce rimorso gli passò il cuore a quel pensiero, e aprendo gli occhi giusto in quel punto a uno scossone della carrozza, e vedendo la nuova piazza d'armi, lungo la quale correvano, egli si ricordò delle tante volte che aveva portato a scorrazzare su quel piano verde il suo Arturo bambino, e gli tornarono vivi alla mente il suo aspetto infantile, i suoi atti graziosi, le voci d'allegrezza e il caro miscuglio di piemontese e d'italiano che balbettava allora, e la grande gioia ch'egli provava a farsi rincorrere da lui e a pigliarlo in braccio dopo essersi lasciato raggiungere; e a quei ricordi gli venne su dal cuore come una ondata di tenerezza e di pietà così improvvisa e impetuosa, che si dovè addentare le labbra per ricacciar giù le lacrime, di cui si sarebbe vergognato. E giurò in cuor suo che, se fosse scampato da quel duello, mai più, mai più nella vita avrebbe rimesso i suoi cari a una così triste prova, nè l'animo proprio a una così crudele tortura. — Perdonami questa volta — disse tra sè; — una sola volta m'avrai da perdonare, figliuol mio! Mai più tuo padre non giocherà sulla punta della spada la tua salute e il tuo cuore! E questa volta Dio mi protegga per amor tuo, mio buono, mio adorato, mio povero Arturo! —

*

Mentre questo diceva il padre, la carrozza, correndo sempre più rapidamente, svoltava sul corso Peschiera, e il povero Arturo era all'estremo delle sue forze. Eran già quasi due miglia ch'egli aveva fatto di corsa, e per un ragazzo come lui, di petto debole, eran già troppe. Avrebbe resistito di più se si fosse messo alla prova fresco di lena; ma ci s'era messo già affaticato dagli affanni del giorno avanti, e dalla notte insonne e travagliata, e dal digiuno: solo uno sforzo enorme della volontà l'aveva sorretto fino a quel punto. Era tutto in acqua, aveva i muscoli sfiniti, il cuore gli saltava alla gola, gli martellavano le tempie, gli tremavano le braccia, gli si aggranchivano le mani, la vista gli s'intorbidiva, le idee gli si confondevano; la sua respirazione non era più che un anelito continuo e doloroso; andava avanti quasi senza conoscenza, come spinto da un impulso di dentro, che si veniva man mano affievolendo; gli pareva di correre perdendo sangue da una piaga; si sentiva mancare non solo il vigore, ma il pensiero e la vita. La carrozza infilò il corso Sommeiller, e poi svoltò a destra. Come a traverso una nebbia egli riconobbe gli olmi e le case del viale di Stupinigi, e disse quasi inconsciamente, come un'eco: — Stupinigi! — Poi balenò nella sua mente oscurata un ricordo. Si ricordò che molti duelli si facevano nei boschi di Stupinigi. Non c'era dubbio. Suo padre andava là. C'erano dieci chilometri! Si vide perduto. Sfuggendogli la speranza di poter resistere, lo abbandonò l'ultimo resto del vigore. Le gambe gli piegavano, si lasciò trascinare; non gli restò che un po' di forza nelle mani, con cui si teneva rabbiosamente stretto all'asse delle ruote. Ma gettando a destra uno sguardo di naufrago, vide la facciata dell'ospedale Mauriziano, ed ebbe nel punto stesso quasi l'apparizione viva di suo padre portato là da quattro uomini, col viso bianco e le braccia ciondoloni. A quella visione perdè la testa, allentò le mani, e cadde nel mezzo della strada, appena oltrepassato l'ospedale, mandando un gemito, e dicendo disperatamente: — Addio, babbo! addio! addio! — E impotente a rimettersi in piedi, riuscì ancora a trascinarsi carponi fino alla proda del viale, dove andò giù disteso, come un corpo morto.

*

Pochi momenti dopo, come in un sogno, udì il rumore d'una carrozza che passava, e quasi ad un tempo il suono del suo nome.

Aperse gli occhi: vide Carlo Bussi inginocchiato davanti a lui.

— Pironi! — esclamò quegli, pigliandogli una mano. — Pironi!... Che hai? Cos'è stato?

— .... Non posso più, — rispose Arturo.

— Alzati! — gli disse concitato il compagno — fatti forza! Siamo ancora in tempo. La carrozza di mio padre è passata ora. T'ho visto passando. T'ho creduto morto. Su, Arturo, su! Possiamo ancora raggiungerli. Non andranno lontano. La carrozza va adagio. Guarda.... Oh che fortuna! S'è fermata!

A un centinaio di passi più oltre, infatti, la carrozza s'era fermata per aspettare che passasse il treno della strada ferrata, la quale attraversava il viale di Stupinigi in quel punto. Doveva passare il treno di Milano, partito allora dalla stazione di Porta Nuova. Il cantoniere aveva chiuso le due barriere.

— Coraggio! — ripetè Carlo, aiutando l'amico a mettersi a sedere e facendogli appoggiar la schiena a un paracarri. — Ecco il tuo berretto. Abbiamo cinque minuti di vantaggio. Hai il tempo di riprender fiato. Su, Pironetto, su. Vuoi darla vinta a un ronzino da trenta soldi l'ora? Ci ho delle pasticche di menta: ingollane una, chè ti rimetterà in gamba. Hai fatto il più: fa ancora un ultimo sforzo. Fino a Stupinigi non ci vanno; ho inteso dire al cocchiere il nome d'una villa. Ci arriveremo e non li lascieremo battersi. Vedrai come mi buscherò la piattonata del genitore! Che credi che non abbia faticato anch'io? Nella furia di scappare ho infilato nell'anticamera le scarpe del servitore. Guarda che torpediniere! Ho dovuto far miracoli per portarle a salvamento. Credevo di lasciarne una davanti al Municipio. Lèvati presto. Non avrai più da correre. Io ti metto a sedere sull'asse delle ruote, tu ti appoggi con le mani alle mie spalle, e vai come un milionario. Su, su, senti il treno che arriva. Andiamo subito. Vedrai che tutto andrà bene. Ma non perdiamo più un momento!

A quelle parole Arturo si sentì nel petto come un nuovo soffio di vita, si levò in piedi, e ciondolando un poco, ma a passi spediti, tirato per la mano da Carlo, arrivò sin dietro alla carrozza, nel momento che passava il treno con un fracasso di tuono.

— Riaprono! — disse Carlo. — Su, Arturo, in sella!

E, preso l'amico fra le braccia, lo pose a sedere sull'asse, si fece metter le mani sulle spalle, e s'afferrò al ferro con le sue, l'una a destra e l'altra a sinistra, pronto alla corsa.

La frusta schioccò; la carrozza si mise in moto.

— Ci stai bene? — domandò Carlo.

Arturo accennò di sì.

— Fa conto di far gli esercizii alla sbarra fissa. Ma agguantami forte, e attento ai sobbalzi. Non aver paura, però. Non s'andrà molto lesti. Mi sono accorto che il fiaccheraio è sborniato. E non darti pensiero di me. Io ho i polmoni del Bargozzi. Vedrai che avremo fortuna....

*

Proprio in quel momento, nella carrozza, uno dei padrini, — un signore lungo e secco, con due occhi di gatto e un pizzo di barba grigia — dava gli ultimi consigli all'avvocato Bussi, seduto dirimpetto a lui, intorno al modo di regolarsi nel duello. — Dunque, siamo intesi. L'avversario è fuor d'esercizio, si stancherà dopo la prima furia. Tu aspetta che molli, e allora fa quello che t'ho detto: — così — così — e là! — E sarà servito. — E rifece con la mano ossuta l'accenno di due finte e d'un colpo di bandoliera, strizzando l'occhio felino.

L'avvocato Bussi non rispose. Aveva l'aria d'un uomo seccato. Volgeva in mente da un po' di tempo dei pensieri assai discordanti dalla conversazione; i quali s'esprimevano in un sorriso sarcastico sulle sue labbra taglienti, usate alla canzonatura. — Curioso — diceva tra sè — questo bravo signore, che si vanta di credere in Dio, e che m'insegna tranquillamente a sgozzare il prossimo, come mi darebbe una ricetta per una salsa! E quest'altro palloncino pien di vento, che non riesce a nascondere la felicità d'esser per la prima volta padrino in un duello, come se fosse una delle imprese d'Ercole, e schizza dagli occhi l'impazienza d'andarlo a strombettare ai quattro canti di Torino! E questi due armadi a ruote che portan via di nascosto me e quell'altro come due ragazze rapite, e quel signore che c'impresta cortesemente la villa perchè ci possiamo ammazzare a nostro comodo, e il medico che ci accompagna con l'ago e col filo per rimendarci la pelle.... tutto questo m'ha l'aria d'una lugubre buffonata. Vorrei sapere perchè mi vado a battere. Quando il Pironi mi regalò quell'epiteto, io ero ben certo che tale non mi credeva, e che quanti eran lì eran certi della stessa cosa, e che capivano ch'egli m'aveva lanciato quella parola perchè l'avevo messo al muro e non sapeva più che altro rispondermi. Avrei dovuto ridergli in faccia, senz'altro. Io mi batto dunque per dimostrare che non son uomo da lasciarmi dire delle impertinenze. Ma se egli mi ferisce, a che servirà l'aver dimostrato che non mi lascio dire delle impertinenze, se dimostrerò ad un tempo che mi lascio dare delle sciabolate? Che corbelleria! Ma è una corbelleria che può finire.... con la fine d'uno dei due. Si può essere più bestialmente matti?... Basta: purchè non ci sian là a vederci dei contadini. È il mio pensiero fisso da ieri: un pensiero che mi dà una noia.... da non credersi. Mi pare che mi vergognerei, e che buscherei una botta per effetto della distrazione. E perchè me ne vergognerei?... Perchè la gente del popolo ride del duello. È certo per questo. Ma perchè, se io vedo due popolani che rissano col coltello, non rido, ed essi ridono quando vedono due di noi che si battono con la sciabola? Vediamo un poco. Forse.... perchè essi non si battono che in un accesso di furore, il quale, se non giustifica la rissa, la spiega, e le dà almeno un aspetto tragico; quando il nostro combattimento condotto con tutte le regole, — dopo uno scambio di saluti, con le debite pause, in presenza di quattro signori, in un luogo prestabilito, senza neanche la giustificazione apparente dell'ira — è veramente una cosa buffa e antipatica. E io me ne vergognerei anche perchè quella gente, vedendo un duello, comprendono che è assurda la distinzione enorme che noi facciamo fra le nostre risse e le loro, e godono di coglierci in una contraddizione stupida e odiosa fra la nostra ferocia di duellanti e le nostre vanterie di gente civile e gentile; contraddizione tanto più odiosa in quanto ad ammazzare essi non imparano, e noi ci esercitiamo per molti anni. Ah, buffoni, buffoni, buffoni! Ma dunque non si arriverà mai a questa villa del malanno?

*

In quel momento, i due ragazzi sentirono uscir dalla carrozza un grido soldatesco: — Ferma!

— Giù! — disse Carlo. — Siamo arrivati. Rimpiattiamoci subito. — Arturo si buttò giù dall'asse, corse dietro all'amico e saltò con lui dentro al fosso che fiancheggiava la strada; dove tutt'e due s'accucciarono, levandosi il cappello e sporgendo il capo al disopra della proda appena quanto occorreva per veder ciò che avveniva.

La carrozza si fermò davanti alla cancellata d'una villa signorile, della quale appariva il tetto di là dagli alberi d'un vasto giardino, cinto d'un muro. La cancellata, ch'era socchiusa, fu spalancata da una mano invisibile, la carrozza entrò, i battenti si chiusero.

— Siamo perduti! — esclamò Arturo.

— Neppur per sogno, — rispose Carlo.

— Come faremo ad entrare?

— Come fanno i ladri. Non c'è bisogno d'entrar per la porta. Vieni con me, ma lesto.

Così dicendo, Carlo saltò sulla strada, l'attraversò, si gettò di corsa, seguito da Arturo, in un campo accanto alla villa, arrivò fino ai piedi del muro di cinta, lo misurò con uno sguardo, e disse al compagno: — Scavalchiamolo.

— Ma non faremo in tempo! — esclamò Arturo affannato. — Intanto si batteranno!

— Non temere, — rispose Carlo. — I preparativi son lunghi. Fa a modo mio.

Mise Arturo con le spalle al muro, gli fece piantar forte i piedi e incrociare le mani a seggiolino, e dettogli: — Tien saldo! — gli pose un piede sulle mani, afferrandosi alle sue braccia, prese una spinta con l'altro piede, gli salì ritto sulle spalle e tastò con le dita la sommità del muro.

— Accidenti al proprietario! — esclamò, e ricadde a terra.

— Che cosa c'è? — domandò Arturo, sgomento.

— C'è che la cresta del muro è incrostata di schegge di vetro, a servizio dei galantuomini. Bisogna sacrificar le giacchette. Dammi la tua.

Se le tolsero tutt'e due, Carlo le prese fra i denti, e, risalito sulle spalle del compagno, gettò l'una sopra l'altra sul sommo del muro, vi piantò le mani come due artigli, si tirò su, si rigirò verso il compagno appoggiandosi sul ventre, tese le braccia verso di lui, e gli disse: — Afferrati, punta i piedi contro le sporgenze e vien su senza paura: ho le pale solide.

In quella maniera, facendo uno sforzo di piccolo atleta, tirò a sè il compagno come un secchio.

— Bada a non bucarti! — gli disse quando Arturo s'attaccò alle giacchette.

Arturo mise un grido.

— Che c'è?

— Nulla; una puntura.

— Io salto dentro. Tu aspetta.

Carlo saltò giù nel giardino, e tese le braccia allargate verso Arturo, dicendogli: — A te, ora!

Questi si lascio andar giù e gli cadde fra le braccia.

— Bene arrivato! — esclamò Carlo, — siamo nella fortezza!

Si trovavano all'estremità d'un lungo sentiero che andava diritto in mezzo a due fughe di piccole aiuole, divise da altri sentieri, fino a una siepe altissima di mortelle; la quale attraversava il giardino come un muro divisorio, aperta qua e là in vani arcati dalla forma di porte.

— Si battono là dietro! — disse Arturo. — Corriamo!

E tutt'e due scamiciati, grondanti di sudore, trafelanti, si lanciaron di corsa verso il muro verde....

*

Appena entrato nella villa e sceso di carrozza vicino alla porta, dove stava già l'altro legno, l'avvocato Bussi s'era trovato davanti a un largo viale, fiancheggiato da due alte pareti di mortelle e chiuso in fondo dalla facciata della palazzina. Al capo opposto del viale, c'era l'avvocato Pironi col medico e co' suoi padrini. Questi e quelli del Bussi s'erano subito mossi gli uni verso gli altri, e, incontratisi a mezza via, avevano fissato lì il campo del duello, e tracciato delle linee sulla terra con la punta delle canne. Poi avevano levato dalle fodere e dato le sciabole al medico, che le aveva asperse d'acido fenico, dopo aver preparato bende, pinze e boccette sopra un sediletto di legno, vicino a una delle aperture di fianco.

Mentre i due ragazzi stavano scalando il muro, i due avversari, chiamati dai padrini, si avvicinavano, si levavano il cappello e il vestito, si rimboccavano la manica della camicia sul braccio, si facevano fasciar la mano con un fazzoletto, e, impugnate le sciabole, si mettevano l'uno di fronte all'altro, avendo ciascuno i proprii padrini a destra e a sinistra. Uno dei padrini del Bussi, quello dal pizzo grigio, che aveva pure una sciabola in mano, faceva da direttore del combattimento.

Tutt'e due avevano il viso pallido, ma risoluto. Tutti gli altri tacevano. Non si sentiva che un cinguettìo allegro d'uccelli e il latrato lontano d'un cane. Il sole batteva il primo raggio sulla facciata rosea della palazzina.

A un cenno dei padrini, i due avversari fecero il saluto con la sciabola.

Il signore del pizzo gridò: — A voi!

Era il segnale dell'assalto.

Si misero in guardia e incrociarono le lame....

In quel punto, di là dalla parete delle mortelle, suonò un grido acuto e doloroso: — Aiuto!

L'avvocato Bussi s'arrestò il primo, stupefatto, come se avesse riconosciuto quella voce, ma incredulo, come se gli paresse un'illusione.

La voce ripetè con un grido più lungo e più supplichevole: — Aiuto!

Era il suo Carlo. Il Bussi non sentì più altro, gittò un'occhiata intorno, vide il vano della siepe, vi si lanciò, tutti lo seguirono.

Fatti appena venti passi, s'arrestarono.

Arturo giaceva in terra, disceso a traverso a un sentiero, tutto insanguinato e fuor dei sensi; Carlo, inginocchiato accanto a lui, atterrito e tremante, gli sorreggeva il capo con una mano, e con l'altra, rossa di sangue, gli stringeva un braccio intorno al polso; lungo il sentiero serpeggiava una striscia sanguigna.

L'avvocato Pironi mise un grido disperato: — Mio figlio è morto! — e gli si gittò accanto in ginocchio; il medico si chinò e gli prese il braccio; tutti gli altri affollarono Carlo di domande.

Questi, quasi fuor di sè, rispose balbettando. Disse com'eran venuti là, per impedire ai loro padri di battersi, e come avevano scavalcato il muro, incrostato di scheggie di vetro. Nell'afferrarvisi, Arturo s'era ferito al polso. Non se n'era accorto subito. Poi, correndo a traverso al giardino, sentendosi mancar le forze, aveva scoperto la ferita; aveva perduto molto sangue; era caduto là, fra le sue braccia.

— Dottore! — gridava intanto il Pironi, — dottore, me lo salvi!

Il dottore, che aveva esaminato il braccio e lo stava fasciando, lo rassicurò, dicendo, che era stata ferita l'arteria radiale, ma leggermente, che il compagno, comprimendola, aveva arrestato in tempo l'effusione del sangue, e che non c'era pericolo.

Ma il Pironi, invaso dallo sgomento, non vedendo il figliuolo dar segno di vita, non gli credette, e gridò più affannosamente: — Mi muore! mi muore! ma non lo vede che mi muore?

— No, — rispose il medico, avvicinando alle nari del ferito una boccetta, — ecco che rivive.

Arturo aperse gli occhi, riconobbe suo padre, gli sorrise, e alzando il braccio illeso fece l'atto di mettergli la mano sulla spalla.

Il padre gettò un grido di gioia e gli coperse la fronte di baci, singhiozzando.

— Babbo —, mormorò Arturo appena potè raccogliere la voce —, è stato Carlo.... Io ero caduto per la strada..., mi rialzò, mi fece coraggio.... È lui che mi ha tirato su pel muro.... Senza di lui non sarei qui.... Egli m'ha fermato il sangue.... È lui che ha fatto tutto....

Il Pironi alzò il viso verso Carlo, che gli stava ritto al fianco, lo fissò negli occhi, e gli disse: — Tu sei un uomo! — e lo baciò sul cuore.

Poi balzò in piedi, raccolse la sciabola che aveva buttata via, e voltatosi verso il Bussi, che stava immobile a pochi passi, gli disse con un accento risoluto, che discordava dallo sguardo, sfavillante di gratitudine per il suo figliuolo:

— Son pronto!

— Io pure! — rispose fieramente il Bussi, e gettò la sciabola a terra.

Il Pironi gli s'avventò al collo, e mentre s'abbracciavano, gli disse nell'orecchio: — Dimentica! — Poi, svincolandosi, a voce alta, perchè tutti sentissero: — Perdonami!

Pochi minuti dopo, il ragazzo ferito, sorretto sulle braccia dai due padri, sulle cui spalle appoggiava le mani ancora insanguinate, facendo fra l'uno e l'altro come un vincolo vivo, e il suo bravo compagno, sollevato anch'egli da terra, in sogno di festa, da due padrini, furono portati alle carrozze, fra gli applausi e gli evviva, come in trionfo....

················

Ma l'avvocato Pironi non doveva arrivare a casa senz'aver provato un nuovo affanno. Nella carrozza, dove entrarono il Bussi e il medico con lui e con Arturo, questi, dopo esser rimasto un pezzo assopito, ridestatosi, volle rispondere a tutte le domande che gli eran rivolte, e s'affaticò per modo che, nel punto che stavano per sboccare da via Sacchi sul corso Vittorio Emanuele, ebbe un leggero deliquio. — Che cos'è questo? — domandò il Pironi spaventato. Era debolezza. Il medico consigliò un cordiale. Il Pironi gridò: — Ferma! — La carrozza si fermò all'angolo del caffè Mogna. Dissero tutti e tre insieme: — Un cognac? — Del vino chinato? — Un Marsala? — Arturo aperse gli occhi languidi e mormorò sorridendo: — No.... un gelato di crema.

Poi soggiunse, richiudendo gli occhi: — Doppio.

INDICE.

Dedica Pag. VII

RICORDI D'INFANZIA E DI SCUOLA [da pag. 1 a 188].

I primi anni Pag. 3

La prima scuola 18

Qui, quae, quod 30

I bersaglieri 34

Il caporale Martinotti 39

La guerra di Crimea e i miei amici poveri 42

Sul campo dell'onore 52

Primi palpiti 56

Il ritorno dei bersaglieri dalla Crimea 60

Il furore della pittura 64

Il regno del terrore 67

Il maestro prete 73

Davanti al tribunale 81

Sulla mala via 86

In Umanità 95

Tenorino fallito 100

Il Cinquantanove 103

Attore drammatico 118

Nuove amicizie e nuove grullerie 121

Professori di liceo 132

Un rimorso 135

I liceisti 138

Il bimbo del Consigliere 140

La resa di Gaeta 143

Un pericolo e un lutto 146

Primi studi di lingua 148

Furori ginnastici 153

Fisica e storia 156

Avvocato! 159

I profughi polacchi 162

Giorni d'ebbrezza 164

Un grande dolore 166

Cambiamento di rotta 171

Aspromonte 175

Un fiume d'inchiostro 178

La partenza 181

Un mistero 184

BAMBOLE E MARIONETTE.

Il “Re delle bambole„ 191

Un piccolo teatro celebre 210

GENTE MINIMA.

Grembiulini bianchi 247

Personaggi infantili 261

I bambini di Val d'Andorno 283

PICCOLI STUDENTI.

Momenti solenni 293

Piccoli scrittori 307

I desideri dei ragazzi 318

Il garofano rosso, racconto 335

ADOLESCENTI.

Sui banchi del Ginnasio 357

I commedianti e i ragazzi 376

Un'ascensione in pallone 389

DUE DI SPADE E DUE DI CUORI racconto [da pag. 403 a 442].

[Ed. Treves.] OPERE di E. DE AMICIS[Ed. Treves.]

IN-16.

La vita militare. 67.ª impressione della edizione del 1880, rifusa dall'autore, con l'aggiunta di due bozzetti L. 4 —

— — edizione popolare. 55.º migliaio 1 —

Pagine sparse. Nuova edizione economica con prefazione di Salvatore Farina 2 —

Marocco. 23.ª edizione 5 —

Novelle. 28.ª impressione della nuova edizione del 1878, riveduta e ampliata dall'autore. Illustrata da 7 incis. di Bignami 4 —

Olanda. 22.ª edizione riveduta dall'autore 4 —

Costantinopoli. 32.º migliaio. Nuova edizione 5 —

Ricordi di Londra. 27.ª edizione con 21 disegni 1 50

Ricordi di Parigi. 23.ª edizione 1 —

Ritratti letterari. 7.ª edizione 2 —

Poesie. 13.ª edizione 4 —

Gli Amici. 24.ª edizione. Due volumi 2 —

Cuore. Libro per i ragazzi. 610.º migliaio 2 —

Del 500.º migliaio fu fatta un'edizione speciale a L. 4 —

La medesima rilegata in gran lusso 20 —

Alle Porte d'Italia. 18.ª impressione della nuova edizione del 1888, completamente rifusa e ampliata dall'autore 3 50

Sull'Oceano. 32.ª edizione 5 —

Il romanzo d'un maestro. 11.ª edizione 5 —

— — Edizione economica in due volumi. 33.ª edizione 2 —

Fra scuola e casa , racconti e bozzetti. 12.ª edizione 4 —

La maestrina degli operai. Racconto. 5.ª edizione bijou 3 —

Ai ragazzi , discorsi. 16.ª edizione 1 —

— — Legato in tela e oro 5 — Legato uso antico 8 —

La carrozza di tutti. 25.ª edizione 4 —

Memorie. 12.ª edizione 3 50

Ricordi d'Infanzia e di Scuola. 14.ª edizione 4 —

Capo d'anno , Pagine parlate. 7.ª edizione 3 50

Nel Regno del Cervino , nuovi racconti e bozzetti. 10.ª ediz. 3 50

L'Idioma Gentile. 57.ª edizione 3 50

Pagine allegre. 11.ª edizione 4 —

Nel Regno dell'Amore. 12.º e 13.º migliaio 5 —

Lotte Civili (Edizione postuma) 2 —

Speranze e Glorie — Le tre Capitali (Torino-Firenze-Roma) 2 —

IN-8 ILLUSTRATE.

Marocco 10 — Sull'Oceano 10 —

Costantinopoli 10 — Alle Porte d'Italia 10 —

La Vita Militare 6 — Novelle 6 —

— — Edizione popolare 2 50 Gli Amici 4 —

Olanda 10 — La lettera anonima 4 —

Cuore 5 — Nel Regno dell'Amore 7 —

ULTIME PAGINE (1908).

I. Nuovi Ritratti Letterari ed Artistici. 4.º migliaio 3 50

II. Nuovi Racconti e Bozzetti. 4.º migliaio 4 —

III. Cinematografo Cerebrale. 4.º migliaio 3 50

ANTOLOGIA DE AMICIS.

Alla Gioventù. Letture scelte dalle opere di EDMONDO DE AMICIS. Antologia scolastica e famigliare per cura di Dino Mantovani . 27.º migliaio 2 —