INDICE.

I. Barcellona Pag.   1

II. Saragozza 32

III. Burgos 72

IV. Valladolid 103

V. Madrid 122

VI. Aranjuez 250

VII. Toledo 256

VIII. Cordova 288

IX. Siviglia 325

X. Cadice 370

XI. Malaga 386

XII. Granata 394

XIII. Valenza 469

SPAGNA.

I. BARCELLONA.

Era una mattina piovosa di febbraio, e mancava un'ora al levar del sole. Mia madre m'accompagnò fin sul pianerottolo, ripetendomi in fretta tutti i consigli che mi soleva dare da un mese; poi mi gettò le braccia al collo, diede in uno scoppio di pianto, e disparve. Io rimasi un momento là col cuore stretto, guardando la porta quasi sul punto di gridare:—Apri! Non parto più! Resto con te!—poi mi cacciai giù per le scale, come un ladro inseguito. Quando fui nella strada, mi parve che tra me e casa mia si fossero già stese le onde del mare, e alzate le cime dei Pirenei; ma benchè da tanto tempo aspettassi quel giorno con impazienza febbrile, non ero punto allegro. Incontrai alla svoltata d'una strada un medico mio amico che andava all'ospedale, e ch'io non aveva visto da più d'un mese; mi domandò: “Dove vai?”—“In Spagna,” risposi. Non mi voleva credere, tanto il mio viso accigliato e melanconico era lontano dall'annunziare un viaggio di piacere. Per tutta la strada, da Torino a Genova, non pensai che a mia madre, alla mia camera che restava vuota, alla mia piccola biblioteca, alle care abitudini della mia vita casalinga, alle quali davo un addio per molti mesi. Ma giunto a Genova, la vista del mare, i giardini dell'Acquasola e la compagnia di Anton Giulio Barrili, mi restituirono la serenità e l'allegrezza. Ricordo che mentre stavo per scender nella barca che mi doveva condurre al bastimento, mi fu data una lettera da un fattorino d'albergo, nella quale non erano che queste parole: «Tristi notizie di Spagna. La condizione d'un italiano a Madrid, in tempi di lotta contro il Re, sarebbe pericolosa. Persisti a partire? Pensaci.» Saltai nella barca, e via. Poco prima che il bastimento partisse, vennero due uffiziali a dirmi addio: mi par ancora di vederli ritti in mezzo alla barca, quando il bastimento cominciava a muoversi.

“Portami una spada di Toledo!” gridavano.

“Portami una bottiglia di Xères!”

“Portami una chitarra! Un cappello andaluso! Un pugnale!”

Di lì a poco non vidi più che i loro fazzoletti bianchi, e udii il loro ultimo grido; tentai di rispondere, ma la voce mi restò strozzata a mezza gola; mi misi a ridere, e mi passai una mano sugli occhi. Poco dopo mi rintanai nel mio bugigattolo, e addormentatomi d'un sonno delizioso, sognai i consigli di mia madre, il portamonete, la Francia, le Andaluse. All'alba saltai su, e salii subito a poppa: eravamo a poca distanza dalla costa, era già costa francese, il primo lembo di terra straniera, ch'io vedeva: curiosa! non potevo saziarmi di guardare, e mille vaghi pensieri mi giravano per la testa, e dicevo: è la Francia? ma davvero? Son proprio io che son qui? Mi venivan dei dubbi sulla mia identità. A mezzogiorno si cominciò a vedere Marsiglia. La prima vista d'una gran città di mare dà come una sorta di stordimento, che uccide il piacere della meraviglia. Vedo, come a traverso d'una nebbia, un'immensa foresta di navi, un barcaiuolo che mi porge la mano parlandomi non so che gergaccio incomprensibile, una guardia doganale che mi fa pagare, non so in virtù di che legge, deux sous pour les Prussiens; poi una oscura camera d'albergo; poi strade lunghissime, piazze sconfinate, un viavai di gente e di carrozze, drappelli di zuavi, divise militari sconosciute, migliaia di lumi, migliaia di voci, e infine una stanchezza e una malinconia profonda, che finisce in un sogno penoso. L'indomani mattina all'alba ero in un carrozzone della strada ferrata che va da Marsiglia a Perpignano, in mezzo a una diecina d'ufficiali degli zuavi, arrivati il giorno innanzi dall'Affrica, chi colle gruccie, chi col bastone, chi con un braccio al collo; ma allegri e chiassoni come scolaretti. Il viaggio era lungo: bisognava pur cercar di discorrere; però, con tutto quello che avevo inteso dire della bile che hanno i Francesi con noi, non m'arrischiavo ad aprir bocca. Baie! Mi diresse la parola un di loro, si appiccò discorso: “Italiano?”—“Sì” fu una festa; tutti, tranne uno, aveano combattuto in Italia; uno era stato ferito a Magenta; cominciarono a raccontar aneddoti di Genova, di Torino, di Milano, a domandarmi mille cose, a descrivermi la vita che menavano in Affrica. Uno tirò in ballo il Papa. “Ahi!” dissi tra me. Che! Era più buzzurro di me: diceva che dovevamo trancher le nœud de la question, e andar fino in fondo senza darci pensiero dei rurali. Intanto, via via che ci avvicinavamo ai Pirenei, mi divertivo ad osservare il progressivo alterarsi della pronunzia nei viaggiatori che salivano nel carrozzone, a vedere come la lingua francese moriva, per così dire, nella lingua spagnuola, a sentire come la Spagna ci veniva incontro; fin che giunto a Perpignano, e cacciatomi in una diligenza, udii i primi: Buenos dias e Buen viaje, schietti e sonori, che mi fecero un piacere infinito. A Perpignano però non si parla spagnuolo, ma un dialettaccio misto di francese, di marsigliese e di catalano, che strazia le orecchie. La diligenza mi sbarcò a un albergo in mezzo a un visibilio di ufficiali, di signore, d'inglesi e di bauli; un cameriere mi fece seder per forza dinanzi a una tavola apparecchiata; mangiai, mi strozzarono, mi cacciarono in un'altra diligenza, e via.

Ahimè! Io avevo vagheggiato per tanto tempo la traversata dei Pirenei, e mi toccò farla di notte; prima che arrivassimo alle falde dei primi monti, era già buio pesto. Per lunghe e lunghe ore, tra il sonno e la veglia, non vidi altro che un po' di strada rischiarata dalle lanterne della diligenza, qualche nero profilo di montagna, qualche rupe sporgente che quasi si poteva toccare stendendo la mano fuor del finestrino; e non udivo che lo scalpitìo cadenzato dei cavalli, e il fischio d'un maledettissimo vento che non cessò un momento di soffiare. Avevo accanto un Americano degli Stati Uniti, giovane, il più matto originale del mondo, che dormì non so quante ore colla testa appoggiata sulla mia spalla, e tratto tratto si svegliava per esclamare con voce lamentevole— Ah quelle nuit! Quelle horrible nuit! —senza accorgersi punto che colla sua testa dava a me ben altra ragione di fare lo stesso lamento. Alla prima stazione, scendemmo tutti e due, ed entrammo in una piccola osteria a bere un bicchierino di liquore. Mi domandò se io viaggiavo per affari di commercio. “No, signore,” risposi, “viaggio per divertimento. E lei, se è lecito?”—“Io,” disse egli con molta gravità, “viaggio per amore.”—“Per amore?”—“Per amore!” e mi raccontò, non richiesto, una lunga storia d'una passione amorosa osteggiata, d'un matrimonio fallito, di rapimenti, di duelli, di non so che altro; per venire a concludere che viaggiava per distrarsi, e dimenticare la persona amata. E cercava in fatti di distrarsi quanto poteva, perchè in tutte le osterie in cui entrammo da quella prima fino a Gerona, non fece che stuzzicare le serve, sempre con molta gravità, convien dirlo, ma anche con un'audacia che il desiderio di distrazione non bastava a giustificare.

Alle tre dopo mezzanotte arrivammo alla frontiera.— Estamos en España! —gridò una voce; la diligenza si fermò; l'inglese ed io balzammo di nuovo in terra, e c'infilammo con molta curiosità in una piccola osteria, per vedere i primi figli della Spagna fra le pareti di casa loro. Trovammo una mezza serqua di doganieri, l'oste, la moglie e i figliuoli, seduti intorno a un braciere; ci rivolsero subito la parola; io feci molte domande, e mi risposero in un modo brioso ed ingenuo, che non credevo di trovar nei Catalani, dipinti nei dizionarii geografici come gente dura e di poche parole. Domandammo che ci fosse da mangiare: ci portarono il famoso chorizo spagnuolo, una specie di salcicciotto arcipieno di pepe, che brucia le viscere; una bottiglia di vino dolce, un po' di pan duro. “Ebbene, che fa il vostro re?” domandai a un doganiere, dopo ch'ebbi sputati i primi bocconi. Quegli a cui avevo rivolto la parola parve un po' imbarazzato, mi guardò, guardò gli altri, e poi mi diede questa curiosissima risposta: “ Està reinando ” (sta regnando). Tutti si misero a ridere, e mentre io preparavo una domanda un po' più stringente, mi sentii mormorar all'orecchio: “ Es un republicano. ” Mi voltai, e vidi l'oste che guardava in su. Ho capito, risposi, e cambiai discorso. Rimontando poi nella diligenza, il mio compagno ed io ridemmo molto dell'avvertimento dell'oste, tutti e due meravigliati che da una persona di quella classe le opinioni politiche dei doganieri fossero prese tanto sul serio; ma nelle osterie dove scendemmo in seguito, udimmo ben altro. In tutte si trovò un oste, o un avventore che leggeva un giornale, e intorno un crocchio di paesani che ascoltavano. Tratto tratto la lettura era interrotta e accendevasi qualche discussione politica che io non capivo, poichè parlavan catalano; ma della quale riuscivo però ad afferrare il concetto dominante, aiutandomi col giornale che avevo sentito leggere. Ebbene, debbo proprio dire che in tutti quei crocchi alitava un'auretta repubblicana che avrebbe increspato la pelle al più intrepido amedeista. Uno fra gli altri, un omone dal cipiglio fiero e dalla voce profonda, dopo aver parlato un pezzo in mezzo a una corona di muti ascoltatori, si voltò verso di me, che dalla inesatta pronunzia castigliana aveva preso per francese, e mi disse con molta solennità: “Le dirò una cosa, caballero!”—“Quale?”—“ Le digo ” mi rispose, “ que España es mas desgraciada que Francia;” e detto questo si mise a passeggiar per la stanza col capo basso e le braccia incrociate nel petto. Intesi altri parlare confusamente di Cortes, di ministri, di ambizioni, di tradimenti e d'altre cose terribili. Una sola persona, una ragazza d'una trattoria di Figueras, saputo che ero italiano, mi disse sorridendo: “ Ahora tenemos un rey italiano. ” E dopo poco, andandosene, soggiunse con graziosa semplicità: “ A mi me gusta.

Arrivammo, ch'era ancor notte, a Girona, dove re Amedeo, accolto, a quanto si dice, festosamente, pose una lapide nella casa abitata dal generale Alvarez durante il celebre assedio del 1809; attraversammo la città che ci parve immensa, pieni di sonno com'eravamo, e impazienti di buttarci a dormire in un carrozzone della strada ferrata; giungemmo finalmente alla stazione, e allo spuntar dell'alba partimmo per Barcellona.

Dormire! Era la prima volta ch'io vedeva levarsi il Sole sulla Spagna: come potevo dormire? Mi affacciai a un finestrino, e non ritirai più la testa fino a Barcellona. Ah! nessun diletto può star a fronte di quello che si prova entrando in un paese sconosciuto, coll'immaginazione preparata a veder cose nuove e mirabili, con mille ricordi di fantastiche letture nel capo, senza pensieri, senza cure! Inoltrarsi in quel paese, spaziar collo sguardo, avidamente, da ogni parte, in cerca di qualche cosa che vi faccia capire, quando non lo sapeste, che ci siete; riconoscerlo, a poco a poco, qui in un vestito d'un contadino, là in una pianta, più oltre in una casa; vedere, via via che si va innanzi, spesseggiare quei segni, quei colori, quelle forme, e paragonare ogni cosa coll'immagine che ce n'eravamo formata prima; trovare un pascolo alla curiosità in tutto ciò che ci cade sott'occhio, o ci giunge all'orecchio: nei visi della gente, nei gesti, negli accenti, nei discorsi; gettare un oh! di stupore a ogni passo; sentire che la nostra mente si dilata e si rischiara; desiderar insieme di arrivare presto e di non arrivar mai, affannarsi per veder tutto, domandar mille cose ai vicini, far lo schizzo d'un villaggio e abbozzare un gruppo di villani; dire dieci volte all'ora: “Ci sono!” e pensare che racconterete un giorno ogni cosa; è davvero il più vivo e il più vario dei diletti umani. L'Americano russava.

La parte della Catalogna che si percorre da Girona a Barcellona, è varia, fertile e mirabilmente coltivata. È una successione di piccole valli, cinte da colline di graziosa forma, con boschi foltissimi, torrenti, gole, castelli antichi; e per tutto una vegetazione fitta e robusta, e un verde vivissimo, che rammenta il severo aspetto delle vallate delle Alpi. Il paesaggio è abbellito dal pittoresco vestito dei contadini, che risponde in modo mirabile alla fierezza del carattere catalano. I primi ch'io vidi, eran vestiti da capo a piedi di velluto nero, portavano intorno al collo una specie di scialle a righe bianche e rosse, sulla testa una berrettina alla zuava, rossissima, cadente sulla spalla; alcuni, un par di ghette di pelle affibbiate fino al ginocchio; altri un par di scarpe di tela, fatte a pantofola, colla suola di corda, aperte sul dinanzi, e legate intorno al piede con nastri neri incrociati; un vestire, in somma, svelto ed elegante, e nello stesso tempo severo. Non faceva gran freddo; ma eran tutti imbacuccati ne' loro scialli, in modo che mostravano soltanto la punta del naso, e la punta del cigarrito; e parean signori che uscissero dal teatro. Non solo per lo scialle; ma pel come lo portano, cascante da un lato, aggiustato in modo da parer messo a casaccio, ma con quelle pieghe e con quegli svolazzi che gli dian garbo di mantellina e maestà di manto. A tutte le stazioni della strada ferrata ce n'eran parecchi, ognuno con uno scialle di diverso colore, non pochi vestiti di panni fini e freschi, quasi tutti pulitissimi, e atteggiati con una certa dignità, che davan risalto al loro costume pittoresco. Pochi visi bruni; i più tendenti al bianco; gli occhi neri e vivaci, ma senza il fuoco e la mobilità degli sguardi andalusi.

Via via che si va oltre, spesseggiano i villaggi, le case, i ponti, gli acquedotti, tutte le cose che annunziano la vicinanza d'una popolosa e ricca città commerciale. Granollers, Sant'Andrea di Palomar, Clot, son circondati di opifici, di ville, di orti, di giardini; per tutte le strade si vedon lunghe file di carri, frotte di contadini, armenti; le stazioni della strada ferrata sono ingombre di gente; chi non lo sapesse, crederebbe d'attraversare una provincia d'Inghilterra, piuttosto che una provincia di Spagna. Oltrepassata la stazione di Clot, che è l'ultima prima d'arrivare a Barcellona, si vedono da ogni parte vasti edifizi di mattoni, lunghi muri di cinta, mucchi di materiali da costruzione, torri fumanti, officine, operai; e si sente, o par di sentire un rumor sordo, diffuso, crescente, che è come il respiro affannoso della gran città che si agita e lavora. In fine, s'abbraccia con un colpo d'occhio Barcellona intera, il porto, il mare, una corona di colli, e ogni cosa si mostra e sparisce in un punto, e voi rimanete sotto la tettoia della stazione col sangue sossopra e la testa confusa.

Una diligenza grande quanto un carrozzone della strada ferrata mi trasportò all'albergo più vicino, nel quale, appena entrato, sentii parlare italiano. Confesso che ne provai un piacere, come se mi fossi trovato a una sterminata lontananza dall'Italia, e dopo un anno di viaggio. Ma fu un piacere che durò poco. Un cameriere, quello stesso che avevo sentito parlare, mi accompagnò su in una camera, e poichè s'era accorto dal mio sorriso che dovevo essere suo compaesano, mi domandò con bel garbo:

“Finisce di arrivare?”

“Finisce di arrivare?” domandai alla mia volta stralunando gli occhi.

Occorre notare che in spagnuolo il modo acabar (finire) di fare una cosa, corrisponde al modo francese venir de la faire. Su quel subito non capii che cosa volesse dire.

“Sì,” rispose il cameriere, “domando se il cavaliere discende ora medesimo dal cammino di ferro?”

“Ora medesimo! cammino di ferro! ma che razza d'italiano parli, amico mio?”

Rimase un po' sconcertato. Seppi poi che a Barcellona v'è un gran numero di camerieri d'albergo, di fattorini da caffè, di cuochi, di servitori d'ogni genere, piemontesi, la maggior parte della provincia di Novara, che andarono in Spagna da ragazzi, e che parlano codesto gergo orribile, misto di francese, d'italiano, di castigliano, di catalano, di piemontese, non con gli Spagnuoli, s'intende, perchè lo spagnuolo lo hanno imparato tutti; ma coi viaggiatori italiani, così, per vezzo, per far vedere che non hanno dimenticato la lingua patria. Per questo sentii poi dire da molti catalani: “Eh! tra la vostra lingua e la nostra c'è poca differenza!” Sfido io! Potrebbero anzi dire quello che mi disse con un tuono di benevola alterezza un corista castigliano, a bordo del bastimento che mi portava cinque mesi dopo a Marsiglia:—La lingua italiana è il più bello dei dialetti che si sian formati dalla nostra.—

Appena ebbi fatto sparire le traccie che l' horrible nuit della traversata dei Pirenei mi aveva lasciato addosso, mi slanciai fuor dell'albergo, e mi misi a batter le strade. Barcellona è, all'aspetto, la città meno spagnuola della Spagna. Grandi edifizi, dei quali pochissimi antichi, lunghe strade, piazze regolari, botteghe, teatri, caffè ampi e splendidi, e un andirivieni continuo di gente, di carrozze, di carri, dalla riva del mare al centro della città, e di qui ai quartieri estremi, come a Genova, a Napoli, a Marsiglia. Una larghissima e diritta strada, detta la Rambla, ombreggiata da due file d'alberi, attraversa quasi per mezzo la città, dal porto in su; uno spazioso passeggio, fiancheggiato di case nuove, si stende lungo la riva del mare, sur un alto argine murato a modo di terrazza, contro il quale si vanno a rompere le onde; un vastissimo borgo, quasi una città nuova, si stende al settentrione, e da ogni parte nuove case rompon la cinta antica, si spandono pei campi, alle falde delle colline, si allungano in file sterminate fino ai villaggi vicini; è su tutti i colli circostanti sorgono ville, e palazzine, e opifici, che si disputano il terreno, si pigiano, fan capolino l'uno dietro l'altro, e formano intorno alla città una grandiosa corona. In ogni parte si fabbrica, si trasforma, si rinnova; il popolo lavora e prospera, Barcellona fiorisce.

Eran gli ultimi giorni di carnevale. Le strade eran corse da lunghe processioni di giganti, di diavoli, di principi, di mori, di guerrieri, e da uno stormo di certi figuri, che avevo la disgrazia d'incontrar da per tutto, vestiti di giallo, con una lunga canna in mano, in cima alla quale era legata una borsa che andavan cacciando sotto il naso di tutti, nelle botteghe, nelle finestre, fino ai terrazzini del primo piano delle case, domandando un'elemosina, non so in nome di chi, ma destinata probabilmente a pigliar qualche classica sbornia nell'ultima notte di carnevale. La cosa più curiosa ch'io vidi è la mascherata dei bambini. Si usa vestire i bambini al di sotto degli ott'anni, quali da uomini, alla moda francese, in completo assetto da ballo, con guanti bianchi, gran baffi e gran zazzera; quali da Grandi di Spagna, coperti di nastri e di ciondoli; quali da contadini catalani con la berrettina e la manta. Le bimbe, da dame di Corte, da amazzoni, da poetesse con la lira e la corona d'alloro; e gli uni e le altre, poi, col costume delle varie provincie dello Stato, chi da giardiniere di Valenza, chi da gitana andalusa, chi da montanaro basco, i più bizzarri e pittoreschi vestiti che si possano immaginare; e i parenti li conducon per mano alla passeggiata, ed è come una gara di buon gusto, di fantasia e di lusso, alla quale il popolo prende parte con molto diletto.

Mentre cercavo la via per andare alla cattedrale, incontrai un drappello di soldati spagnuoli. Mi fermai a guardarli, raffrontandoli colla pittura che ne fa il Baretti, quando racconta che lo assalirono nell'albergo, e uno gli prese l'insalata nel piatto, e un altro gli strappò di bocca la coscia di pollo. Bisogna dire che d'allora in poi sono molto cangiati. A prima vista, si piglierebbero per soldati francesi, chè hanno anch'essi i calzoni rossi e un cappotto bigio che scende fino al ginocchio. La sola differenza notevole è nella copertura del capo. Gli Spagnuoli portano un berretto d'una foggia particolare, schiacciato sul di dietro, incurvato sul dinanzi, munito d'una visiera che si ripiega sulla fronte, di panno bigio, duro, leggero e grazioso alla vista, e chiamato col nome dell'inventore, Ros de Olano, generale e poeta, che lo modellò sul suo berretto da caccia. La maggior parte dei soldati ch'io vidi, tutti di fanteria, eran giovani, bassetti di statura, bruni, svelti, puliti, come si suole immaginare che siano i soldati d'un esercito che ebbe altre volte le fanterie più leggere e più vigorose d'Europa. Oggi ancora i fantaccini spagnuoli hanno fama di instancabili camminatori e di corridori lestissimi; sono sobrii, fieri, e pieni d'un orgoglio nazionale del quale è difficile formarsi un'adeguata idea senz'averli conosciuti da vicino. Gli ufficiali portano una tunica nera e corta, come quella degli ufficiali italiani; che sogliono, fuor di servizio, tenere aperta, mostrando un panciotto abbottonato fino al collo. Nelle ore di libertà, non cingon la spada; nelle marcie, così come i soldati, portano un par di ghette di panno nero, che giungon fin quasi al ginocchio. Un reggimento di fanteria, in completo assetto di guerra, presenta un aspetto ad un tempo grazioso e guerresco.

La cattedrale di Barcellona, di stile gotico, sormontata di torri ardite, è degna di stare accanto alle più belle di Spagna. L'interno è formato da tre vaste navate, divise da due ordini di altissimi pilastri di forma snella e gentile; il Coro, posto nel mezzo della chiesa, è ornato d'una profusione di bassirilievi, di filigrane, di figurine; sotto il Santuario s'apre una cappella sotterranea, sempre illuminata, in mezzo alla quale è la tomba di sant'Eulalia, che si vede a traverso di alcune piccole finestre, aperte intorno al Santuario. La tradizione narra che gli uccisori della santa, ch'era bellissima, prima di darle la morte, vollero vedere il suo corpo nudo; ma mentre stavan per toglierle l'ultimo velo, una fitta nebbia l'avvolse e la nascose a ogni sguardo. Il suo corpo è sempre intatto e fresco come quando era viva, e non v'è occhio umano che ne possa regger la vista; onde un vescovo incauto, che sulla fine del secolo passato, volle scoperchiare la tomba, e scoprire la salma sacra, nell'atto che vi fisse lo sguardo, acciecò. In una piccola cappella a destra dell'altar maggiore, rischiarata da molte fiammelle, si vede un Cristo in croce, di legno colorito, un po' piegato sur un fianco; si narra che quel Cristo fosse sur una nave spagnuola alla battaglia di Lepanto, e che si sia contorto così per scansare una palla da cannone che vedeva venir dritta al suo cuore. Alla vôlta della stessa cappella è sospesa una piccola galea, con tutti i suoi remi, costrutta ad imitazione di quella su cui Don Giovanni d'Austria combattè contro i Turchi. Sotto gli organi, di fattura gotica, coperti di gran tappeti pitturati, pende una enorme testa di Saraceno, colla bocca spalancata, dalla quale, in altri tempi, piovevan confetti ai bambini. Nelle altre cappelle vi è qualche bella tomba di marmo, e qualche pregevole dipinto del Villadomat, pittore barcellonese, del XVII secolo. La chiesa è oscura e misteriosa. Le sorge accanto un claustro, sorretto da grandiosi pilastri formati di sottili colonne, e sormontati da capitelli sopraccarichi di statuette che rappresentano fatti dei due Testamenti. Nel claustro, nella chiesa, nella piazzetta che le si stende dinanzi, nelle stradicciuole che le girano intorno, spira come un'aura di pace melanconica, che nello stesso punto alletta e rattrista, come il giardino di un Camposanto. Un gruppo di orrende vecchie barbute custodisce la porta.

Dentro la città, dopo visto la Cattedrale, non restano a vedere altri grandi monumenti. Nella piazza della Costituzione, son due palazzi chiamati Casa de la Deputacion e casa Concistorial, il primo del decimosesto secolo, l'altro del decimoquarto, i quali conservano ancora qualche parte degna di nota; l'uno la porta, l'altro il cortile; dall'uno dei lati della Casa de la Deputacion una ricca facciata gotica della cappella di San Giorgio. V'è un palazzo dell'Inquisizione, con un angusto cortile, e finestrine dalle grosse inferriate, e porticine segrete; ma è quasi interamente rifatto sull'antico. Rimangono alcune enormi colonne romane, nella strada del Paradiso, perdute in mezzo a case moderne, circondate di scale tortuose e di oscure stanzuccie. Non c'è altra cosa che richiami l'attenzione d'un artista. In compenso, fontane con colonne rostrali, piramidi, statue; viali fiancheggiati di ville, di giardini, di caffè, d'alberghi; un circo di tori capace di diecimila spettatori; un borgo che si stende su un braccio di terra che chiude il porto, costrutto colla simmetria d'una scacchiera, e popolato da diecimila marinai; molte biblioteche, un museo d'istoria naturale ricchissimo, e un archivio che è uno dei più vasti empori di documenti storici dal secolo IX ai tempi nostri, cioè dai primi Conti di Catalogna alla guerra d'indipendenza.

Fuor della città, una delle cose più notevoli è il Cimitero, a una mezz'ora di carrozza dalle porte, in mezzo a una vasta pianura. Visto di fuori, dalla parte dell'entrata, pare un giardino; e fa sollecitare il passo con un sentimento di curiosità quasi allegra. Oltrepassata appena la soglia, si è dinanzi a uno spettacolo nuovo, indescrivibile, affatto diverso da quello a cui si era preparati. Si è in mezzo a una città silenziosa, attraversata da lunghe strade deserte, fiancheggiate da muri di uguale altezza, diritte, chiuse in fondo da altri muri. Si va oltre, si arriva a un crocicchio, e di là si vedono altre strade, altri muri in fondo, altri crocicchi lontani. Par di essere a Pompei. I morti son messi dentro ai muri, per lungo, e disposti in varii ordini, come i libri nelle biblioteche. A ogni cassa, corrisponde sul muro una specie di nicchietta, nella quale è scritto il nome del sepolto; dove non c'è sepolto alcuno, la nicchia porta scritta la parola: Propriedad, che vuol dire che il posto è stato comprato. La maggior parte delle nicchie sono chiuse da un vetro, altre da inferriate, altre da una rete sottilissima di fil di ferro, e contengono una varietà grande di oggetti postivi dalle famiglie in omaggio dei morti: come ritratti in fotografia, altarini, quadri, ricami, fiori finti, e sovente anco ninnoli che loro furono cari in vita, nastri, monili di donne, giocattoli di ragazzi, libri, spille, quadretti; mille cose che rammentan la casa e la famiglia, e indicano la professione di coloro cui appartenevano; e non si possono guardare senza tenerezza. Di tratto in tratto si vede una di codeste nicchie sfondate, e dentro buio: segno che ci si ha da mettere una cassa nella giornata. La famiglia del morto deve pagare un tanto all'anno per quello spazio: quando cessa di pagare, la cassa vien tolta di là e portata nella fossa comune del camposanto dei poveri a cui si giunge per una di quelle strade. Mentre ero là, fu fatta una sepoltura: vidi in lontananza mettere la scala, e sollevar su la cassa, e tirai via. Una notte un pazzo si cacciò in uno di quei fori vuoti: passò un guardiano del cimitero con una lanterna, il pazzo mandò un grido per fargli paura, e il pover'omo cadde a terra come fulminato, e fece una malattia mortale. In una nicchia vidi una bella treccia di capelli biondi, che erano appartenuti a una ragazza di quindici anni, morta annegata, e c'era cucita una cartolina con su scritto:— Querida! —(Cara!)—A ogni passo, si vede qualcosa che colpisce la mente ed il cuore: tutti quegli oggetti fanno l'effetto d'un mormorìo confuso di voci di madri, di spose, di bambini, di vecchi, che dicano sommessamente a chi passa:—Son io! Guarda!—Ad ogni crocicchio sorgono statue, tempietti, obelischi, con iscrizioni in onore dei cittadini di Barcellona che fecero opere di carità durante l'infierire della febbre gialla nel 1821 e nel 1870.

Questa parte del Cimitero, fabbricata, se così può dirsi, a città, appartiene alla classe media della popolazione; e confina con due vasti recinti, uno destinato ai poveri, nudo, piantato di grandi croci nere; l'altro destinato ai ricchi, più vasto anche del primo, coltivato a giardino, circondato di cappelle, vario, ricco, stupendo. In mezzo a una foresta di salici e di cipressi, s'innalzano da ogni parte colonne, cippi, tombe enormi, cappelle marmoree sopraccariche di sculture, sormontate da ardite figure d'arcangelo che levan le braccia al cielo; piramidi, gruppi di statue, monumenti vasti come case che sovrastano agli alberi più alti; e fra monumento e monumento, cespugli, cancellate, aiuole fiorite; e nell'entrata, tra questo e l'altro campo santo, una stupenda chiesuola di marmo, cinta di colonne, mezzo nascosta dagli alberi, che prepara nobilmente l'animo al magnifico spettacolo del di dentro. All'uscire da questo giardino, si riattraversano le strade deserte della necropoli, che paiono anche più silenziose e più triste che al primo entrare. Varcata la soglia, si risaluta con piacere le case variopinte dei sobborghi di Barcellona sparse per la campagna, come avantiguardie messe là ad annunziare che la popolosa città si dilata e si avanza.

Dal Camposanto al caffè, è un bel salto; ma viaggiando se ne fanno anche di più lunghi. I caffè di Barcellona, come quasi tutti i caffè della Spagna, sono un solo vastissimo salone ornato di grandi specchi, con tanti tavolini quanti ce ne posson capire; dei quali è raro che rimanga libero un solo, neanco per una mezz'ora, in tutta la giornata. La sera son tutti pieni, affollati, da dover molte volte aspettare un bel pezzo per avere un posticino accanto alla porta; intorno a ogni tavolino, v'è un crocchio di cinque o sei caballeros, colla capa sulle spalle (un mantello di panno oscuro, munito d'un'ampia pellegrina, che si porta in vece del nostro pastrano); e in ogni crocchio si giuoca al domino. È il giuoco più in voga presso gli Spagnuoli. Nei caffè, dall'imbrunire sino a mezzanotte, si sente un rumore fitto, continuo, assordante, come il rumor della grandine, di migliaia di tessere volte e rivolte da centinaia di mani, che quasi bisogna alzare la voce per farsi sentire da chi vi è accanto. La bevanda più usuale è il cioccolatte, squisitissimo in Spagna, portato per lo più in piccole chicchere, denso come conserva di ginepro e caldo da scorticare la gola. Una di queste tazzine, con una goccia di latte, e una pasta particolare, che si chiama bollo (boglio), morbidissima, è una colezione da Lucullo. Fra un bollo e l'altro, feci i miei studii sul carattere catalano, discorrendo con tutti i Don Fulanos (nome sacramentato in Ispagna come il Tizio fra noi) che ebbero la bontà di non pigliarmi per una spia mandata da Madrid a fiutar l'aria della Catalogna.

Gli animi, in quei giorni, erano molto eccitati dalla politica. A me occorse parecchie volte, parlando innocentissimamente d'un giornale, d'un personaggio, d'un fatto qualsiasi col caballero che m'accompagnava, o nel caffè, o in una bottega, o al teatro; mi occorse, dico, di sentirmi toccare la punta del piede e mormorare nell'orecchio:—Badi, questo signore alla sua destra è un Carlista.—Zitto, quello lì è un repubblicano.—Quell'altro là è un sagastino.—Questo accanto è un radicale.—Quello laggiù è un cimbrio.—Tutti parlavano di politica. Trovai un carlista arrabbiato in un barbiere, il quale, accortosi dalla mia pronunzia ch'ero un conciudadano del Rey, tentò, così alla larga, di tirarmi nel discorso. Io non dissi parola, perchè mi stava radendo, e un risentimento del mio orgoglio nazionale ferito avrebbe potuto far correre il primo sangue della guerra civile; ma il barbiere insistè, e non sapendo per qual altra via venire all'argomento, uscì a dire con accento gentile: “ Sabe Usted, caballero, si hubiera la guerra entre Italia y España, España no tuviera miedo (non avrebbe paura).”—“Ne sono persuasissimo,” risposi, badando al rasoio. Poi mi assicurò che la Francia avrebbe dichiarato la guerra all'Italia non appena avesse pagato la Germania; no hay escapatoria. Non risposi. Allora egli stette un po' sopra pensiero, e poi disse maliziosamente: “ Cosas grandes van à acontecer (accadere) dentro de poco! ” Piacque però ai Barcellonesi che il Re si fosse presentato a loro in atto confidente e tranquillo, e la gente del popolo ricorda la sua entrata in città con ammirazione. Trovai simpatia per il Re anche in alcuni che mormoravano a denti stretti:— no es español, —o come mi domandò un tale: “Pare a lei che starebbe bene a Roma o a Parigi un rey castellano?”—domanda a cui si risponde:—“ No entiendo de politica, ”—ed è discorso finito.

Ma i veramente implacabili sono i Carlisti. Dicon della nostra rivoluzione roba da cani in buonissima fede, essendo la maggior parte convinti, che il vero re d'Italia sia il Papa, che l'Italia lo voglia, e che abbia chinato il capo sotto la spada di Vittorio Emanuele, perchè non c'era modo di far altrimenti; ma che aspetti l'occasione propizia per liberarsene, come ha fatto dei Borboni e degli altri. E può giovare a provarlo il seguente aneddoto che io riferisco, come l'ho sentito narrare, senza neanco un'ombra d'intenzione di ferire la persona che n'è attore principale. Una volta un giovane italiano, che io conosco intimamente, fu presentato a una delle più ragguardevoli signore della città, e ricevuto con una squisita cortesia. Erano presenti alla conversazione parecchi italiani. La signora parlò con molta simpatia dell'Italia, ringraziò il giovane dell'entusiasmo che mostrava d'avere per la Spagna, mantenne, in una parola, una viva e gioviale conversazione coll'ospite riconoscente per quasi tutta la serata. A un tratto gli domandò: “E tornando in Italia, in che città s'andrà a stabilire?”

“A Roma,” rispose il giovane.

“Per difendere il Papa?” domandò la signora con la più schietta franchezza.

Il giovane la guardò, e rispose sorridendo ingenuamente: “No, davvero.”

Quel no scatenò una tempesta. La signora scordò che il giovane era italiano, e suo ospite, e proruppe in una tale sfuriata d'invettive contro il Re Vittorio, il governo piemontese, l'Italia, risalendo dall'entrata dell'esercito in Roma fino alla guerra delle Marche e dell'Umbria, che il mal capitato straniero diventò bianco come un cencio di bucato. Ma fatto forza a sè stesso, non rispose parola, e lasciò agli altri italiani, ch'erano amici di vecchia data, la cura di sostener l'onore del loro paese. La discussione durò un pezzo, e fu accanita; la signora s'accorse poi d'essersi lasciata andare tropp'oltre, e fece capire che n'era dolente; ma una cosa apparve chiarissima dalle sue parole, ed è ch'ella era convinta, e con lei chi sa quante! che l'unificazione d'Italia si fosse fatta contro la volontà del popolo italiano, dal Piemonte, dal Re, per avidità di dominio, per odio alla religione ec.

Il basso popolo, però, repubblicaneggia, e come ha la reputazione di essere più pronto ai fatti di quello che non sia largo a parole, è temuto. Quando in Spagna si vuol sparger la voce d'una prossima rivoluzione, si comincia sempre dal dire che scoppierà a Barcellona, o che sta per scoppiarvi, o che v'è scoppiata.

I catalani non vogliono esser messi a mazzo cogli Spagnuoli delle altre provincie; siamo Spagnuoli, dicono, ma, intendiamoci, di Catalogna; gente, vale a dire, che lavora e che pensa, e all'orecchio della quale è più gradito il rumore degl'ingegni meccanici che il suono delle chitarre. Noi non invidiamo all'Andalusia la fama romanzesca, le lodi dei poeti, e le illustrazioni dei pittori; noi ci contentiamo di essere il popolo più serio e più operoso della Spagna. Parlano in fatti dei loro fratelli del mezzogiorno, come i piemontesi parlavano una volta, ora meno, dei napoletani e dei toscani: «sì, hanno ingegno, immaginazione, parlan bene, divertono; ma noi abbiamo per contrapposto maggior vigore di volontà, maggiore attitudine agli studi scientifici, maggior istruzione popolare.... e poi.... il carattere....» Intesi un catalano, un uomo chiaro per ingegno e dottrina, lamentare che la guerra d'indipendenza avesse troppo affratellato le diverse provincie di Spagna, ond'era seguìto che i catalani contraessero una parte dei difetti dei meridionali, senza che questi acquistassero nessuna delle buone qualità dei catalani. Siamo diventati, diceva, mas ligeros de casco, più leggeri di testa, e non se ne sapeva dar pace. Un bottegaio al quale domandai che pensasse del carattere dei castigliani, mi rispose bruscamente che, a suo avviso, sarebbe una gran fortuna per la Catalogna, che non ci fosse strada ferrata tra Barcellona e Madrid, perchè il commercio con quella gente corrompe il carattere e i costumi del popolo catalano. Quando parlano d'un deputato parolaio, dicono:—Eh! già... è un andaluso.—Poi mettono in ridicolo il loro linguaggio poetico, la pronunzia sdolcinata, la gaiezza infantile, la vanità, l'effeminatezza. Quelli, per contro, parlano dei catalani come una signorina capricciosa, letterata e pittrice, parlerebbe d'una di quelle ragazze massaie, che leggono di preferenza la Cuciniera genovese che i romanzi di George Sand. Son gente dura, dicono, tutta d'un pezzo, che non ha il capo ad altro che all'aritmetica e alla meccanica; barbari, che farebbero d'una statua del Montanes un frantoio e d'una tela del Murillo un incerato; veri Beoti della Spagna, insopportabili con quel loro gergaccio, con quella musoneria, con quella gravità di pedanti.

La Catalogna, infatti, è forse la provincia di Spagna, che conta meno nella storia delle belle arti. Il solo poeta, non grande, ma celebre, che sia nato in Barcellona, è Giovanni Boscan, che fiorì sul principio del secolo decimosesto, e introdusse pel primo nella letteratura spagnuola il verso endecasillabo, la canzone, il sonetto, e tutte le forme della poesia lirica italiana di cui era ammiratore appassionato. Da che dipende una grande trasformazione, come fu questa, di tutta la letteratura d'un popolo! Dall'esser andato a stare il Boscan a Granata, quando v'era la Corte di Carlo V, e aver conosciuto là un ambasciatore della repubblica di Venezia, Andrea Navagero, che sapeva a memoria i versi del Petrarca, e glieli recitava, e gli diceva:—Mi pare che potreste scriver così anche voialtri; provate!—Il Boscan provò; tutti i letterati di Spagna gli gridaron la croce addosso. E che il verso italiano non sonava, e che la poesia di Petrarca era una sdolcinatura da femminette, e che la Spagna non aveva bisogno di strascicar l'estro sulla falsariga di nessuno. Ma il Boscan tenne duro: Garcilaso della Vega, il valoroso cavaliere, amico suo, che ricevette poi il glorioso titolo di Malherbe della Spagna, lo seguì; il drappello dei riformatori s'ingrossò a poco a poco, divenne esercito, vinse e dominò l'intera letteratura. Il vero consumatore della riforma fu il Garcilaso; ma il Boscan ebbe il merito della prima idea, onde a Barcellona l'onore d'aver dato alla Spagna chi fece mutar il viso alla sua letteratura.

Nei pochi giorni che rimasi a Barcellona, solevo passar la sera con alcuni giovani catalani, passeggiando sulla riva del mare, al lume della luna, fino a notte avanzata. Sapevan tutti un po' d'italiano, ed erano amantissimi della nostra poesia; così che per ore e per ore non si faceva che declamar versi, essi dello Zorilla, dell'Espronceda, del Lopez de Vega, io del Foscolo, del Berchet, del Manzoni; intercalati, con una sorta di gara, a chi ne diceva di più belli. È un sentimento nuovo quello che si prova dicendo versi dei nostri poeti in un paese straniero. Quando vedevo i miei amici spagnuoli tutti intenti al racconto della battaglia di Maclodio, a poco a poco scotersi, infiammarsi e poi afferrarmi pel braccio ed esclamare con un accento castigliano che mi rendeva più care le loro parole:—Bello! sublime!;—mi sentivo rimescolare il sangue, tremavo; se fosse stato giorno, credo che m'avrebbero visto diventar bianco come la carta. Mi recitarono dei versi in lingua catalana. E dico lingua, perchè ha una storia e una letteratura propria e non fu relegata allo stato di dialetto che dal predominio politico assunto dalla Castiglia che impose l'idioma suo come idioma generale dello Stato. E benchè sia una lingua aspra, tutta parole tronche, ingrata, sulle prime, a chi abbia nulla nulla l'orecchio delicato, ha nondimeno dei pregi notevolissimi, dei quali i poeti popolari si valsero con ammirabile maestria, prestandosi essa particolarmente all'armonia imitativa. Una poesia, che mi recitarono, di cui le prime strofe imitano il rumore cadenzato d'un treno di strada ferrata, mi strappò un grido di meraviglia. Ma senza spiegazioni, anche per chi conosca la lingua spagnuola, il Catalano non è intelligibile. Parlan presto, coi denti stretti, senza aiutar la voce col gesto, così ch'è difficile cogliere il senso d'un periodo anche semplicissimo, ed è un gran chè se s'intende qualche parola di volo. Anche la gente del popolo, però, parla, quando occorre, il castigliano, stentatamente e senza grazia; ma sempre assai meglio che non si parli l'italiano dal basso popolo delle Provincie settentrionali d'Italia. Neanco le persone colte, in Catalogna, parlano perfettamente la lingua nazionale; il castigliano riconosce il catalano alla prima, oltre che alla pronunzia, alla voce, e sopratutto alla illegittima frase scarsa. Per questo uno straniero che vada in Spagna coll'illusione di saper parlare la lingua con garbo, può, fin che sta in Catalogna, serbar la sua illusione; ma quando penetri nelle Castiglie, e senta per la prima volta quello scoppiettío di frizzi, quella profusione di proverbi, di modi, d'idiotismi arguti ed efficacissimi, che lo fan rimanere a bocca aperta, come l'Alfieri dinanzi a Monna Vocaboliera quando gli discorreva di calzette, addio illusioni!

L'ultima sera andai al Teatro del Liceo, che ha fama di essere uno dei più belli d'Europa, e forse il più vasto. Era pieno zeppo di gente dalla platea alla piccionaia, che non ci sarebbe più capito un centinaio di persone. Dal palco in cui ero io, si vedevan le signore della parte opposta piccine come bimbe; e a socchiuder gli occhi, non apparivan più che tante strisce bianche, una ad ogni ordine di palchi, tremolanti e luccicanti come immense ghirlande di camelie imperlate di rugiada e agitate dal zeffiro. I palchi, vastissimi, sono divisi da un assito che s'abbassa dal muro verso il parapetto, lasciando scoperto tutto il busto delle persone sedute sulle prime seggiole; in modo che, all'occhio, il teatro par fatto tutto a gallerie, e n'acquista un'aria di leggerezza che fa un bellissimo vedere. Tutto sporge, tutto è scoperto, la luce batte in ogni parte, ogni spettatore vede tutti gli spettatori, le corsie son spaziose, si va, si viene, si gira a tutt'agio da ogni lato, si può contemplare ogni signora da mille punti, passare dalle gallerie ai palchi, dai palchi alle gallerie, passeggiare, far crocchio, bighellonare tutta la sera di qua e di là, senza urtar nel gomito anima viva. Le altre parti dell'edifizio sono proporzionate alla principale: corridoi, scale, pianerottoli, vestiboli da gran palazzo. Vi son sale da ballo ampie e splendide, nelle quali si potrebbe piantare un altro teatro. Eppure, anche qui dove i buoni Barcellonesi non dovrebbero pensare ad altro che a ricrearsi dalle fatiche della giornata nella contemplazione delle loro belle e superbe donne, anche qui i buoni Barcellonesi comprano, vendono, giocano, trafficano, come anime dannate. Nei corridoi è un andirivieni continuo di agenti di banca, di commessi d'uffizio, di portatori di dispacci, e un continuo vocìo da mercato. Barbari! Quanti bei visi, quanti begli occhi, quante stupende capigliature brune in quella folla di signore! Anticamente i giovani Catalani innamorati, per cattivarsi il cuore delle loro belle, si inscrivevano nelle confraternite dei flagellanti, e andavano sotto le loro finestre con una sferza metallica a farsi spicciare il sangue dalle carni, e le belle gl'incoraggiavano, accennando: “Batti, batti ancora, così, ora t'amo e son tua!” Quante volte avrei esclamato quella sera: “Signori, per carità, datemi una sferza metallica!”

L'indomani mattina, prima del levar del sole, partii per Saragozza, e dico il vero, non senza un sentimento quasi di tristezza di lasciar Barcellona, benchè ci fossi stato sì pochi giorni. Questa città, benchè sia tutt'altro che la flor de las bellas ciudades del mundo, come la chiamò il Cervantes, questa città trafficante e magazziniera, disdegnata dai poeti e dai pittori, mi piacque e il suo popolo affaccendato m'ispirò rispetto. E poi è sempre tristo il partire da una città, comunque straniera, colla certezza di non averla a rivedere mai più! Gli è come dare un addio per sempre a un compagno di viaggio col quale abbiate passato lietamente ventiquattr'ore: non è un amico, e vi par d'amarlo come un amico, e ve ne ricorderete forse per tutta la vita, con un sentimento di desiderio più vivo che per molti di coloro a cui date il nome d'amici. Voltandomi a guardare ancora una volta la città dal finestrino del carrozzone del treno, mi vennero sulle labbra le parole di don Alvaro Tarfe nel Don Chisciotte:— Adios, Barcelona, archivo de la cortesia, albergue de los extrangeros, patria de los valientes, adios! —E soggiunsi mestamente:—Ecco lacerata la prima pagina dal roseo libro del viaggio! Così tutto passa... Ancora un'altra città, poi un'altra, poi un'altra... e poi... tornerò, e il viaggio sarà stato come un sogno, e mi parrà di non essermi neanco mosso da casa... e poi?... un altro viaggio... e di nuovo città, e di nuovo addii melanconici, e di nuovo un ricordo vago come d'un sogno... e poi? Guai se in viaggio vi lasciate cogliere da questi pensieri! Guardate il cielo e la campagna, e recitate dei versi, e fumate.

Adios Barcelona, archivo de la cortesia!

II. SARAGOZZA.

A poche miglia da Barcellona, si cominciano a vedere le rocce dentellate del famoso Montserrat, uno strano monte che, a prima vista, fa balenare il sospetto d'un'illusione ottica, tanto è difficile a credere che la natura possa aver avuto un sì stravagante capriccio. Immaginate una serie di sottili triangoli che si toccano, come quei che fanno i bambini per rappresentare una catena di montagne; o una corona a becchetti distesa pel lungo come la lama d'una sega; o tanti pani di zucchero disposti in fila, e avrete un'idea della forma che presenta da lontano il Montserrat. È un insieme di coni immensi che s'alzano I' uno accanto all'altro, e l'un sull'altro, o meglio un solo gran monte formato di cento monti, spaccato di su in giù fin quasi al terzo della sua altezza, in modo che presenta due grandi cime, intorno alle quali si aggruppano le minori; nelle parti alte, arido e inaccessibile; nelle basse, popolato di pini, di quercie, di corbezzoli, di ginepri; rotto qua e là da grotte smisurate e da spaventevoli burroni, e sparso di romitaggi biancheggianti sulle bricche aeree e nelle gole profonde. Nella spaccatura del monte, fra le due cime principali, sorge l'antico convento dei Benedettini, dove Ignazio di Lojola meditò nella sua giovinezza. Cinquantamila tra pellegrini e curiosi si recano anno per anno a visitare il convento e le grotte, e il giorno otto di settembre, vi si celebra una festa a cui concorre una moltitudine innumerevole di gente da ogni parte della Catalogna.

Poco prima di arrivare alla stazione dove si scende per salire al monte, irruppe nel mio carrozzone una frotta di ragazzi, accompagnati da un prete, alunni d'un collegio di non so che villaggio, che andavano a fare una scampagnata al convento del Montserrat. Eran tutti catalani, bei visetti bianchi e rosei, con grandi occhi. Ognuno aveva un canestrino con dentro pane e frutta; qualcuno un album, altri un canocchiale: parlavano e ridevano tutti insieme, e si avvoltolavano sulle panche, e facevano un casa del diavolo infinito. Per quanto tenessi l'orecchio teso, e mi stillassi il cervello, non riuscii a capire una parola del maledetto linguaggio che cinguettavano. Intavolai conversazione col prete. “ Mire Usted ” mi disse dopo le prime parole, accennandomi uno dei ragazzi; “ aquel niño sabe de memoria toda la Poética de Oracio;.... quell'altro là risolve dei problemi d'aritmetica da far stordire; questo qui è nato per la filosofia;” e via via, mi segnalò le doti di ciascuno. A un tratto s'interruppe, e gridò: “ Beretina! ” Tutti i ragazzi cavaron di tasca la berrettina rossa catalana e gettando alte grida d'allegrezza, se la misero in testa, chi tutta indietro che gli cascava sulla nuca, chi tutta avanti, che gli copriva la punta del naso; e il prete a far degli atti di disapprovazione; e allora quei che l'avevan sulla nuca a tirarsela sul naso, e quei che l'avevan sul naso a tirarsela sulla nuca; e lì risa, esclamazioni, e battìo di mani. Mi avvicinai a uno dei più monelli, e così per celia, certo che sarebbe stato come dire ai muri, gli domandai in italiano: “È la prima volta che vai a fare una passeggiata al Montserrat?” Il ragazzo stette un po' pensando, e poi rispose adagio adagio: “Ci so-no già sta-to altre volte.”—“Ah! caro bimbo!” gli gridai con una contentezza difficile a immaginarsi; “e dove hai imparato l'italiano?” Qui il prete prese la parola per dirmi che il padre di quel ragazzo aveva vissuto parecchi anni a Napoles. Mentre io mi volto verso il mio piccolo catalano per attaccar discorso, un maledettissimo fischio, e poi un maledettissimo grido di:— Olesa, —che è il villaggio dal quale si va al monte, mi taglia la parola in bocca. Il prete mi saluta, i ragazzi si precipitano fuori, il treno riparte. Io misi la testa fuor del finestrino per salutare il mio piccolo amico: “Buona passeggiata!” gli gridai, e lui spiccicando le sillabe: “A-di-o!” Qualcuno ride a sentir rammentare queste bazzecole: eppure sono i più vivi piaceri che si provin nei viaggi!

Le città e i villaggi che si vedono nell'attraversar la Catalogna alla vólta dell'Aragona, son quasi tutti popolati e floridi, e circondati di case industriali, di opifici, di edifizi in costruzione, onde in ogni parte si vedono sorgere di là dagli alberi dense colonne di fumo, e ad ogni stazione è un via vai di contadini e di negozianti. La campagna è una successione alternata di colte pianure, di amene colline, di vallette pittoresche, coperte di boschi e dominate da vecchi castelli, fino al villaggio di Cervera. Qui si cominciano a vedere ampie distese di terreno arido, con poche case sparpagliate, che annunziano la vicinanza dell'Aragona. Ma poi, all'improvviso, si entra in una ridente vallata, coperta d'oliveti, di vigneti, di gelsi, di alberi fruttiferi, sparsa di villaggi e di ville; si vedon da un lato le alte cime dei Pirenei, dall'altro le montagne aragonesi; Lerida, la gloriosa città dai dieci assedii, schierata lungo la sponda della Segra, sul pendio d'una bella collina; e tutt'intorno una pompa di vegetazione, una varietà di prospetti, un colpo d'occhio stupendo. È l'ultima veduta della campagna catalana; dopo pochi minuti s'entra in Aragona.

Aragona! Quante vaghe istorie di guerre, di banditi, di regine, di poeti, d'eroi, d'amori famosi ridesta nella memoria questo sonoro nome! E qual profondo senso di simpatia e di rispetto! La vecchia, nobile ed altera Aragona, sulla cui fronte brilla il più splendido raggio della gloria di Spagna! Sul suo stemma secolare sta scritto a caratteri di sangue:—Libertà e valore.—Quando il mondo si curvava sotto il giogo della tirannide, il popolo aragonese diceva ai suoi re per bocca del suo Gran Giustiziere:—Noi che siamo quanto voi, e più possenti di voi, vi abbiamo eletto nostro signore e re, col patto che conserviate i nostri diritti e la nostra libertà; e se no, no.—E i suoi re s'inginocchiavano dinanzi alla maestà del Magistrato del popolo, e prestavan giuramento sulla formola sacra. In mezzo alla barbarie del Medio Evo, la fiera gente aragonese non conosceva la tortura, il giudizio segreto era bandito dai suoi codici, tutte le sue istituzioni proteggevano la libertà del cittadino, e la legge aveva impero assoluto. Discesero, mal paghi alla ristretta patria delle montagne, da Sobrarbe a Huesca, da Huesca a Saragozza, ed entrarono vincitori nel Mediterraneo. Congiunti alla forte Catalogna, redensero dall'araba signoria le Baleari e Valenza; combatterono a Muret per il diritto oltraggiato e la coscienza violata; domarono gli avventurieri della casa d'Angiò, spodestandoli delle terre italiane; ruppero le catene del porto di Marsiglia, che pendono ancora dalle pareti dei loro tempi; signoreggiarono il mare dal golfo di Taranto alle foci del Guadalaviar, colle navi di Ruggero di Lauria; soggiogarono il Bosforo, colle navi di Ruggero di Flor; da Rosas a Catania corsero il Mediterraneo sulle ali della vittoria; e come se fosse angusto l'Occidente alla loro grandezza, andarono ad incidere sulla cima dell'Olimpo, sulle pietre del Pireo, sui monti superbi che son quasi le porte dell'Asia, il nome immortale della patria.

Questi pensieri,—benchè non proprio colle stesse parole, perchè non avevo sotto gli occhi un certo libricciuolo di Emilio Castelar,—io volgeva in mente entrando in Aragona. E per prima cosa mi si offerse agli occhi, sulla riva della Cinca, il piccolo villaggio di Monzon, noto per famose assemblee delle Cortes, e per alternati assalti e difese di Spagnuoli e Francesi: sorte che fu comune, durante la guerra d'indipendenza, a quasi tutti i villaggi di quelle provincie. Monzon è prostrato ai piedi d'un formidabile monte, sul quale s'innalza un castello nero, sinistro, enorme, quale avrebbe potuto immaginarlo il più fosco dei feudatarii per condannare a una vita di terrore il più odiato dei villaggi. La stessa Guida si arresta davanti a codesto mostruoso edifizio, e prorompe in un'esclamazione di timida meraviglia. Non v'è, io credo, in tutta la Spagna, un altro villaggio, un altro monte, un altro castello, che rappresentino meglio la paurosa sommessione d'un popolo oppresso, e la minaccia perpetua d'un signore feroce. Un gigante che prema il ginocchio sul petto d'un fanciullo steso a terra, è una meschina similitudine per dare un'immagine della cosa; e tale fu l'impressione che mi fece, che, pur non sapendo tenere in mano la matita, m'ingegnai di abbozzare alla meglio il paesaggio, perchè non mi uscisse dalla memoria; e mentre scarabocchiavo, mi venne fatto il primo verso d'una ballata lugubre.

Dopo Monzon, la campagna aragonese non è che vaste pianure, chiuse in lontananza da lunghe catene di colline rossastre, con pochi miseri villaggi, e qualche colle solitario su cui nereggiano le rovine d'un castello antico. L'Aragona, già sì fiorente sotto i suoi Re, è ora una delle provincie più povere della Spagna. Solamente sulla sponda dell'Ebro, e lungo il canale famoso che si stende da Tudela, per diciotto leghe, fin presso Saragozza, e serve insieme all'irrigazione dei campi e al trasporto delle derrate, ha un po' di vita il commercio; nelle altre parti langue, od è morto. Le stazioni della strada ferrata sono deserte: quando il treno si ferma, non si sente altra voce che quella di qualche vecchio trovatore, che strimpella la chitarra, canterellando una canzone monotona, che si riode poi in tutte le altre stazioni, e in seguito nelle città aragonesi, variate le parole, eternamente uguale il motivo. Non essendoci che vedere fuori del finestrino, mi rivolsi ai compagni di viaggio.

Il carrozzone era pieno di gente; e siccome i carrozzoni di seconda classe, in Spagna, non hanno scompartimenti, eravamo quaranta fra viaggiatori e viaggiatrici, visibili tutti uno all'altro: preti, monache, ragazzi, serve, e altri personaggi che potevano essere negozianti, o impiegati, o agenti segreti di Don Carlos. I preti fumavano, come è uso in Ispagna, il loro cigarrito, offerendo amabilmente ai vicini la scatola da tabacco e le cartoline; altri mangiavano a due palmenti, facendosi passare l'uno all'altro una specie di vescica che, compressa con ambe le mani, mandava uno schizzo di vino; altri leggevano il giornale corrugando tratto tratto le sopracciglia in atto di profonda meditazione. Uno spagnuolo, quand'è in compagnia, non si mette in bocca uno spicchio d'arancio, o una fetta di formaggio, o un boccone di pane, se prima non ha pregato tutti di mangiare con lui; e per questo io mi vidi passar sotto il naso frutta, e pani, e sardelle, e bicchieri di vino, e che so io, accompagnato ogni cosa da un gentile: “ Gusta Usted comer[1] conmigo?” al quale risposi: “ Gracias,” a contracorpo (è la parola che ci va) perchè avevo una fame da conte Ugolino. Davanti a me, proprio co' piedi contro i miei, c'era una monaca, giovane, a giudicarne dal mento, ch'era quel po' di viso che appariva sotto il velo, e da una mano che lasciava come abbandonata sur un ginocchio. Io le tenni gli occhi addosso per più d'un'ora, sperando che alzasse il viso; ma rimase immobile come una statua. Eppure dal suo atteggiamento era facile accorgersi che faceva uno sforzo per resistere alla naturalissima curiosità di guardarsi intorno; e per questo appunto mi destò un sentimento d'ammirazione.—Che costanza!—pensavo,—che vigore di volontà! che forza di sacrifizio, anche nelle più piccole cose! che nobile disprezzo delle vanità umane!—Stando in questi pensieri, chinai gli occhi sulla sua mano,—era una bianca e piccola mano—e mi parve di vederla muovere; guardo meglio, e vedo che si allunga adagio adagio fuor della manica, e allarga le dita, e si appoggia sul ginocchio un po' avanti, così, in modo da spenzolare, e si rigira un po' da un lato, e si raccoglie e si ridistende... Dei del cielo! Altro che disprezzo delle vanità umane! Era impossibile ingannarsi: tutto quel lavorìo era fatto per mettere in mostra la manina! E non alzò una volta la testa in tutto il tempo che rimase là, e non lasciò vedere il viso neanco quando scese! Oh imperscrutabile profondità dell'anima femminile!

Era scritto che in quel viaggio non dovessi incontrar altri amici che i preti. Un vecchio sacerdote, di aspetto benevolo, mi diresse la parola, e cominciammo una conversazione che durò fin quasi a Saragozza. Da principio, quando gli dissi ch'ero italiano, stette un po' sospeso, pensando forse ch'io potevo esser uno di quelli che avean scassinato le serrature del Quirinale; ma avendogli detto che non m'occupavo di politica, si rasserenò, e parlò con piena fiducia. Si cascò nella letteratura; io gli dissi tutta la Pentecoste del Manzoni, che lo fece andare in visibilio; egli a me una poesia del celebre Luis de Leon, poeta sacro del secolo decimosesto; e diventammo amici. Quando giungemmo a Zoera, penultima stazione per arrivare a Saragozza, s'alzò, mi salutò, e posto il piede sul montatoio, si voltò improvvisamente e mi susurrò nell'orecchio: “ Cuidado (prudenza) con las mujeres, que tienen muy malas consecuencias en España. ” Poi scese e si fermò per veder partire il treno, e alzando una mano in atto di paterna ammonizione, disse ancora una volta: “ Cuidado!

Arrivai a Saragozza a notte avanzata, e scendendo, mi colpì subito l'orecchio la cadenza particolare colla quale parlavano i vetturini, i facchini e i ragazzi, che si disputavano la mia valigia. In Aragona si può dir che si parla il castigliano, anche dal popolo minuto, benchè con qualche storpiatura e qualche barbarismo; ma allo spagnuolo delle Castiglie basta una mezza parola per riconoscere l'aragonese; e non c'è castigliano infatti, che non sappia imitare quell'accento, e non lo metta, all'occasione, in ridicolo, per quello che ha di rozzo e di monotono, presso a poco come si fa in Toscana della parlata di Lucca.

Entrai nella città con un certo sentimento di trepida riverenza; la terribile fama di Saragozza me ne imponeva; quasi mi mordeva la coscienza di averne tante volte profanato il nome nella scuola di Rettorica, quando lo gettavo in volto, come un guanto di sfida, ai tiranni; le strade eran buie; non vedevo che il nero contorno dei tetti e dei campanili sul cielo stellato; non sentivo che il rumore delle diligenze degli alberghi che si allontanavano. A certe svoltate, mi pareva di veder luccicare alle finestre canne di fucile e pugnali, e di udir grida lontane di feriti. Avrei dato non so quanto perchè spuntasse il giorno, per cavarmi la vivissima curiosità che mi stimolava, di visitar ad una ad una quelle strade, quelle piazze, quelle case famose per lotte disperate e uccisioni orrende, ritratte da tanti pittori, cantate da tanti poeti, e sognate da me tante volte prima di partire d'Italia, ripetendomi con gioia:—Le vedrai!—Giunsi finalmente al mio albergo, guardai fisso il cameriere che mi condusse alla camera, sorridendogli amorevolmente come per dire:—Non sono un invasore, risparmiami!—e data un'occhiata a un gran ritratto di Don Amedeo appeso alla parete del corridoio, in un canto, a particolare conforto dei viaggiatori italiani, andai a letto, chè cascavo di sonno come uno qualunque dei miei lettori.

Allo spuntar del giorno mi precipitai fuori dell'albergo. Non c'era ancor nè botteghe, nè porte, nè finestre aperte; ma non appena misi il piede nella strada, mi scappò un mezzo grido di stupore. Passava una brigatella di uomini così stranamente vestiti, che io credetti a prima vista che fossero mascherati; e poi pensai: no, son comparse di teatro; e poi ancora: no, neppure, sono matti. Figuratevi: per cappello, un fazzoletto rosso annodato intorno al capo, a modo di cércine, dal quale uscivano sopra e sotto i capelli arruffati; una coperta di lana a striscie bianche e azzurre, indossata a guisa di mantello, ampia, cadente fin quasi a terra, come una toga romana; una larga fascia azzurra intorno alla vita; un paio di calzoncini corti, di velluto nero, stretti intorno al ginocchio; le calze bianche; una specie di sandali a nastri neri incrociati sul dosso del piede; e in questa artistica varietà di vestimento, l'impronta evidente della miseria; e con quest'evidenza di miseria, un non so che di teatrale, di altero, di maestoso nel portamento e nei gesti, un'aria da Grandi di Spagna decaduti, che mette in dubbio, al vederli, se s'abbia da ridere o da compiangere, da metter la mano alla borsa per fare un'elemosina o da levarsi il cappello in segno di riverenza. E non son altro che contadini dei dintorni di Saragozza. Ma quella che ho accennato non è che una delle mille varietà della stessa foggia di vestire. Andando oltre, ad ogni passo ne incontrai una nuova: vi sono i vestiti all'antica, i vestiti alla moderna, gli eleganti, i semplici, i festivi, i severi, ognuno con ciarpe, fazzoletti, calze, cravatte, panciotti di colori diversi; le donne colla crinolina, e le sottane corte, che lascian vedere un po' di gamba, e i fianchi spropositatamente rialzati; i ragazzi anch'essi col loro manto a striscie e la loro pezzuola intorno al capo, e i loro atteggiamenti drammatici, come gli uomini. La prima piazza sulla quale riuscii era piena di questa gente, divisa in gruppi, chi seduto sugli scalini delle porte, chi appoggiato agli angoli delle case, qualcuno sonando la chitarra, altri cantando; molti in giro a chieder l'elemosina, coi panni rappezzati e laceri, ma pur colla testa alta e l'occhio fiero; parevan gente usciti allora allora da un veglione, dove avessero rappresentato tutti insieme una tribù selvaggia di qualche ignoto paese. A poco a poco si apersero le botteghe e le case, e il popolo saragozzano si sparse per le strade. I cittadini, nel vestire, non han nulla di diverso da noi; ma sì qualcosa di particolare nei volti; alla serietà degli abitanti della Catalogna, uniscono l'aria sveglia degli abitanti delle Castiglie, avvivata ancora da un'espressione di fierezza tutta propria del sangue aragonese.

Le strade di Saragozza hanno un aspetto severo, quasi tristo, com'io me lo immaginava prima di vederle. Fuori del Coso, che è una larga strada che attraversa una buona parte della città descrivendo una grande curva semicircolare,—il Coso anticamente famoso per le corse, le giostre e i tornei che vi si celebravano nelle pubbliche feste,—fuori di questa bella ed allegra strada, e d'alcune poche recentemente rifatte, che paion strade di città francese, le altre son strette, tortuose, fiancheggiate da case alte, di color cupo, di scarse finestre, somiglianti a vecchie fortezze. Son strade che hanno una impronta, un carattere, o come altri dice, una fisonomia loro propria, che vista una volta, non si dimentica più; per tutta la nostra vita, quando si sentirà nominar Saragozza, si vedranno quelle mura, quelle porte, quelle finestre, come se si avessero dinanzi. Io vedo in questo punto la piazza della Torre nuova, e potrei disegnar casa per casa, e colorirle tutte, ciascuna col suo colore; e mi par di respirare quell'aria, tanto son vive le immagini; e ripeto quello che dissi allora:—Questa piazza è tremenda.—Perchè? non lo so; sarà stata un'illusione mia; segue delle città come dei volti, che ciascuno ci legge a modo suo; le strade e le piazze di Saragozza mi fecero codesto senso; ad ogni svoltata, dicevo:—Questo luogo par fatto per combattervi;—e guardavo intorno, come se ci mancasse qualcosa: una barricata, le feritoie, i cannoni. Riprovavo tutta la profonda commozione che m'avevan data i racconti dell'orribile assedio, e vedevo proprio la Saragozza del 1809, e correvo di strada in strada con una curiosità crescente, come per trovare le traccie di quella lotta titanica che ha atterrito il mondo. Qui, pensavo, accennando a me stesso la via, dev'esser passata la divisione Grandjean, di là sboccò forse la divisione Musnier, di costì si sarà lanciata al combattimento la divisione Morlot; avanti, fino alla cantonata: mi pare che qui sia seguito l'assalto dei volteggiatori della Vistola; ancora un giro: qui fecero impeto i volteggiatori polacchi; laggiù furon trucidati trecento spagnuoli; in questo punto scoppiò la gran mina che fece saltar in aria una compagnia del reggimento di Valenza; in quell'angolo morì il generale Lacoste colpito da una palla nella fronte. Ecco le strade famose di Santa Engracia, di Santa Monica, di Sant'Agostino, per le quali i Francesi s'avanzarono verso il Coso, di casa in casa, a furia di mine e di contrammine, tra i rottami dei muri enormi e le travi fumanti, sotto una tempesta di palle, di mitraglia e di sassi; ecco i trivii, le piazzuole, gli angiporti oscuri, dove si combatterono le orrende battaglie corpo a corpo, a colpi di baionetta, a pugnalate, a falciate, a morsi; le case asserragliate, difese stanza per stanza, tra le fiamme e il rovinío; le anguste scale che corsero sangue, i tristi cortili che echeggiarono di grida di dolore e di disperazione, che furon coperti di cadaveri sfracellati, che videro tutti gli orrori della peste, della fame, della morte!

Di strada in strada riuscii davanti alla chiesa di Nuestra Señora del Pilar, la terribile Madonna, alla quale veniva a chieder protezione e coraggio la squallida folla dei soldati, dei cittadini, delle donne, prima d'andar a morire sulle breccie. Il popolo di Saragozza ha conservato per essa il fanatismo antico, e la venera con sentimento particolare di amoroso terrore, vivo anche nell'animo della gente alla quale è straniero ogni altro sentimento religioso. Però da quando entrate nella piazza, e alzate gli occhi verso la chiesa, fin al momento che, andando via, vi voltate a guardarla per l'ultima volta, badate a non sorridere, o a fare per distrazione un atto qualunque che possa parere irriverente; chè c'è chi vi vede, e vi tien d'occhio, e all'occorrenza vi segue. E se in voi è morta la fede, preparate l'animo, prima di varcare la soglia sacra, a un confuso risvegliarsi dei terrori infantili, chè poche chiese al mondo hanno come questa la virtù di risvegliarli nei cuori più gelidi e più forti.

La prima pietra di Nostra Donna del Pilar, fu posta nel 1686 in un luogo dove sorgeva una cappella innalzata da san Giacomo per deporvi l'immagine miracolosa della Vergine che vi è tuttora. È un immenso edifizio di base rettangolare, sormontato da undici cupole, coperte di tegole variopinte, che gli danno una graziosa aria moresca; le mura disadorne e di color cupo. Entrate: è una vasta chiesa, oscura, nuda, fredda, divisa in tre navate, circondata di cappelle modeste. Lo sguardo corre subito al santuario che sorge nel mezzo: là è la statua della Vergine. È come un tempio nel tempio, che potrebbe star solo in mezzo alla piazza, se si abbattesse l'edifizio che lo circonda. Una corona di belle colonne di marmo, disposte ad elissi, sorreggono una cupola riccamente scolpita, aperta nella parte superiore, e ornata intorno all'apertura di ardite figure d'angeli e di santi. Nel mezzo è l'altar maggiore; a destra l'immagine di san Giacomo; a sinistra, in fondo, sotto un baldacchino d'argento che spicca sur un'ampia tenda di velluto tempestato di stelle, in mezzo al luccichío di migliaia di voti, al chiarore d'innumerevoli lampade, la statua famosa della Vergine, postavi or sono diciannove secoli da san Giacomo, scolpita in legno, annerita dal tempo, tutta coperta, tranne il capo suo e quello del bambino, da una splendida dalmatica; e sul dinanzi, tra le colonne, intorno al santuario, e lontano, in fondo alle navate della chiesa, in tutti i punti di dove lo sguardo può giungere all'immagine venerata, fedeli inginocchiati, prostrati, col capo quasi a terra, colle mani in croce: donne del popolo, operai, signore, soldati, fanciulli; e dalle varie porte della chiesa un continuo venir di gente a passi lenti, in punta di piedi, con gravi aspetti; e in quel profondo silenzio non un mormorío, non un fruscío, non un respiro; la vita di quella folla pare sospesa; par che s'attenda da tutti un'apparizione divina, una voce misteriosa, una qualche rivelazione tremenda da quell'arcano Santuario; e anche chi non crede e non prega, è forzato a fissare lo sguardo dove si fissan tutti gli sguardi, e il corso dei suoi pensieri s'arresta in una specie d'inquieta aspettazione. Oh suonasse pur quella voce! io pensavo; seguisse pure l'apparizione; e fosse anche una parola o una vista che mi facesse incanutire dallo spavento e gettare un urlo non udito mai sulla terra; purchè mi liberasse per sempre da questo orribile dubbio che mi rode il cervello e mi contrista la vita!

Tentai d'entrar nel Santuario, non ci riuscii; avrei dovuto passare sulle spalle d'un centinaio di fedeli, qualcuno dei quali cominciava già a guardarmi in cagnesco perchè andavo attorno con un quaderno e una matita fra le mani. Cercai di scendere nella critta sotterranea ove son le tombe degli arcivescovi e l'urna che racchiude il cuore del secondo don Giovanni d'Austria, figlio naturale di Filippo IV; non mi fu concesso. Domandai di vedere le vestimenta, gli ori, le gemme, che profusero ai piedi della Vergine i grandi, i principi, i monarchi d'ogni età e d'ogni paese; mi fu risposto che non era l'ora opportuna, e neanco mostrando una luccicante peceta potei corrompere l'onesto sacrestano. Ma non rifiutò di darmi alcune notizie intorno al culto della Vergine quando gli dissi, per entrargli in grazia, ch'ero nato a Roma, nel Borgo Pio, e che dal terrazzino di casa mia si vedevan le finestre dell'appartamento del Papa.

“È un fatto,” mi disse, “quasi miracoloso, e che non si crederebbe, se non fosse attestato dalla tradizione, che dal tempo antichissimo quando fu posta sul piedistallo la statua della Vergine, fino al giorno in cui viviamo, tranne la notte che la chiesa è chiusa, il santuario non rimase vuoto un momento, un momento solo, in tutto il rigore della parola. Nuestra Señora del Pilar non è mai stata sola. Nel piedistallo della statua, a furia di baci, s'è fatto un incavo nel quale può entrar la mia testa. Neanco gli Arabi non ebbero il coraggio di proibire il culto di Nuestra Señora: la cappella di San Giacomo fu sempre rispettata. È caduto molte volte il fulmine nella chiesa, accanto al santuario, e anche dentro, in mezzo alla gente affollata: ebbene, neghino le anime dannate la protezione della Madonna: non è mai sta-to col-pi-to nes-su-no! E le bombe dei Francesi? Ne hanno ben bruciati e rovinati degli edifizi; ma a cadere sulla chiesa di Nuestra Señora gli era come se cadessero sulle rocce della Serra Morena. E ai Francesi che fecero man bassa in ogni parte, gli è bastato il fegato di toccare i tesori di Nuestra Señora? Un solo generale si permise di prendere un gingillo per fare un regalo a sua moglie, offerendo in compenso alla Vergine un ricco donativo; ma sa che cosa gli è seguito? Alla prima battaglia una palla di cannone gli portò via una gamba. Non c'è barba di generale o di re che ne abbia mai imposto a Nuestra Señora. E poi è scritto lassù che questa chiesa durerà fino alla fine del mondo....” E tirò innanzi su questo tenore, fin che un prete da un angolo buio della sagrestia gli fece un cenno misterioso, e allora mi salutò e disparve.

All'uscir dalla chiesa, colla mente tutta occupata dall'immagine del solenne santuario, incontrai una lunga fila di carri carnevaleschi, preceduti da una banda musicale, accompagnati dalla folla e seguìti da un gran numero di carrozze, che andavano verso il Coso. Non ricordo d'aver mai visto testoni di cartapesta più grotteschi, più buffi, più spropositati di quelli che portavan quelle maschere; così che solo com'ero, e punto inchinevole all'allegrezza, non potei trattenermi dal ridere, come alla chiusa d'un sonetto del Fucini. Il popolo però era serio e silenzioso, e le maschere piene di gravità; si sarebbe detto che negli uni e negli altri era più forte il malinconico presentimento della quaresima che il giubilo fugace del carnevale. Vidi qualche bel visetto alle finestre; ma nessun tipo ancora di quella bellezza propriamente detta spagnuola, dalla tez oscurecida e da los negros ojos de fuego, che il Martinez della Rosa, esule a Londra, rammentava con sì caldi sospiri in mezzo a las bellezas del Norte. Passai tra due carrozze, fendetti la calca, tirandomi dietro qualche sacrato che notai subito sul mio quaderno; e traversate alla lesta due o tre stradicciuole, riuscii sulla piazza di San Salvador, davanti alla cattedrale che le dà il nome, chiamata anche la Seo, più ricca e più splendida di Nostra Donna del Pilar.

La facciata greco-romana, benchè di maestose proporzioni, e la torre alta e leggera, non preparano allo spettacolo grandioso del di dentro. Entrai, e mi trovai immerso nelle tenebre; per un istante, i confini dell'edifizio mi restaron celati; non vidi altro che qualche sprazzo di pallida luce, rotto qua e là dalle colonne e dagli archi. Poi, a poco a poco, distinsi cinque navate, divise da quattro ordini di bei pilastri gotici, i muri lontani, e la lunga serie delle cappelle laterali, e rimasi attonito. Era la prima cattedrale che corrispondeva all'immagine ch'io m'ero formato delle cattedrali spagnuole, varie, pompose, straricche. La cappella maggiore, sormontata da una vasta cupola gotica in forma di tiara, racchiude in sè sola le ricchezze d'una gran chiesa; l'altar maggior è d'alabastro, coperto di rosoni, di volute, di rabeschi; la volta ornata di statue; a destra e a sinistra, tombe ed urne di principi: in un angolo la scranna sulla quale siedevano i Re d'Aragona per ricevere la consacrazione. Il coro, che sorge in mezzo alla navata principale, è un monte di tesori. La sua cinta esteriore, nella quale sono aperte alcune piccole cappelle, presenta una incredibile varietà di statuette, di colonnine, di bassorilievi, di fregi, di pietre, da dover star là una giornata per poter dire d'aver visto qualcosa. I pilastri delle due ultime navate, e gli archi che s'incurvano sulle cappelle, sono sopraccarichi, dalla base alla volta, di statue,—alcune enormi che par reggan sulle spalle l'edifizio,—di emblemi, di sculture e d'ornamenti d'ogni forma e d'ogni grandezza. Nelle cappelle una profusione di statue, di ricchi altari, di tombe regie, di busti, di quadri, che immersi come sono in una mezza oscurità, non offrono allo sguardo che una confusione di colori, di luccichii, di forme vaghe, tra le quali l'occhio si perde, e l'immaginazione si stanca. Dopo molto correre di qua e di là, col quaderno aperto e la matita in mano, notando e disegnando, mi s'ingarbugliò la testa, stracciai i fogli rabescati, promisi a me stesso che non avrei scritto nulla di nulla, uscii dalla chiesa, e mi rimisi a girar per la città, senza veder altro, per lo spazio d'una mezz'ora, che lunghe navate oscure, e statue biancheggianti in fondo a cappelle misteriose.

V'hanno dei momenti in cui il viaggiatore più gaio e più appassionato, girando per le strade d'una città sconosciuta, viene assalito improvvisamente da un così profondo senso di noia che se potesse, per virtù d'una parola, rivolare a casa tra i suoi, colla rapidità d'un genio delle Mille e una notte, proferirebbe quella parola con uno slancio di allegrezza. Fui colto da un cotal senso nel punto che infilavo non so che stradicciuola lontana dal centro della città; e n'ebbi quasi spavento. Richiamai in fretta alla mente le immagini di Madrid, di Siviglia, di Granata, per scuotermi, per riaccendermi la curiosità, il desiderio: quelle immagini mi parvero pallide e senza vita. Mi riportai col pensiero a casa, ai giorni prima della partenza, quando avevo la febbre, e non vedevo l'ora di spiccare il volo: e quel pensiero non fece che accrescermi la tristezza. L'idea di aver a vedere ancora tante città nuove, di aver da passar tante notti negli alberghi, di avermi a trovare per tanto tempo in mezzo a gente straniera, mi scoraggiò; mi domandai come mi fossi potuto risolvere a partire; mi parve d'essermi tutt'a un tratto allontanato sterminatamente dal mio paese, d'esser in mezzo a un deserto, solo, dimenticato da tutti, mi guardai intorno, la strada era solitaria, mi prese freddo al cuore, mi vennero quasi le lacrime agli occhi:—Io non posso star qui!—dissi tra me.—Io muoio di malinconia! Voglio tornare in Italia io!—Non avevo finito di dir queste parole che poco mancò non dessi in una risata da matto; in un momento ogni cosa riprese vita e splendore ai miei occhi; pensai alle Castiglie e all'Andalusia con una sorta di gioia frenetica, e scrollando il capo in atto di pietà per quel passeggero sconforto, accesi un sigaro, e tirai via più allegro di prima.

Era il penultimo giorno di carnevale; per le strade principali, verso sera, si vedeva un via vai di maschere, di carrozze, di brigatelle di giovani, di grosse famiglie con bambini, bambinaie, e ragazze da marito, a due a due; ma nessun strepito rincrescevole, nè squarciati canti di ubbriachi, nè serra serra importuni. Di tratto in tratto, si sentiva qualche leggero colpo di gomito, ma leggero assai, da parer il cenno d'un amico che volesse dire:—Son qui,—piuttosto che l'urto d'uno sbadato; e col colpo di gomito, certi suoni di voci tanto più soavi delle grida che gettavano le saragozzane antiche dalle finestre delle case crollanti, e tanto più ardenti dell'olio bollente che versavano sugli invasori! Oh non erano più quei tempi dei quali mi parlò pochi giorni sono, a Torino, un vecchio prete saragozzano, assicurandomi di non aver ricevuto, in sette anni la confessione d'un peccato mortale!

La sera, all'albergo, trovai un capomatto di francese che credo non abbia mai avuto l'uguale sotto la cappa del cielo. Era un uomo sulla quarantina, con uno di quei visi di pasticciano che dicono:—Son qui, gabbatemi;—negoziante, da quanto mi parve, agiato, il quale era giunto poco innanzi da Barcellona, e doveva ripartire il giorno dopo per San Sebastiano. Lo trovai nella sala da pranzo, che raccontava i fatti suoi a un crocchio di viaggiatori, i quali scoppiavano dalle risa. Mi cacciai nel crocchio, e sentii la storia anch'io. Costui era nativo di Bordeaux, e viveva da quattro anni a Barcellona. Aveva abbandonato la Francia, perchè gli era fuggita la moglie, insalutato ospite, avec le plus vilain homme de la ville, lasciandogli sulle braccia quattro ragazzi. Dal giorno della fuga non ne aveva più avuto notizia; chi gli aveva detto che era andata in America, chi in Asia, chi in Affrica; ma erano state tutte congetture senza fondamento; da quattro anni egli la considerava come morta. Un bel giorno, a Barcellona, trovandosi a desinare con un suo amico marsigliese, questi gli disse (ma bisognava vedere con che comica dignità esponeva la cosa) gli disse: “Amico, uno di questi giorni voglio andare a San Sebastiano.”—“A che fare?”—“A spassarmela.”—“Amorucci, eh?”—“Sì,... cioè... dirò: un amore propriamente non è, perchè a me, in amore, non mi piace far coda: è un capriccietto. Bella donnina, però! To', non più tardi d'ier l'altro ho ricevuto una lettera; non avevo voglia d'andare; ma c'è tanti vieni, e t'aspetto, e amico mio, e amico caro, che mi son lasciato tentare.” Così dicendo, gli porse la lettera facendo una smorfia di vanagloria dongiovannesca. Il negoziante la prende, l'apre, la scorre: “ Nom de Dieu! Ma femme! ” e senza dir altro pianta l'amico, corre a casa a pigliar la valigia, e via alla stazione. Quando entrai nella sala, aveva già mostrato la lettera a tutti i presenti, e steso sulla tavola, perchè ognuno li potesse vedere, la sua fede di battesimo, l'atto matrimoniale, ed altre carte che aveva portate con sè per il caso che sua moglie non lo volesse riconoscere. “Che cosa le volete fare?” gli domandarono tutti ad una voce. “ Je ne lui ferai pas de mal; j'ai déjà pris mon parti; il n'y aura pas de sang; mais ce sera un châtiment plus terrible encore. ”—“Ma che cosa adunque?” domandarono gli uditori. “ J'ai déjà pris mon parti, ” ripetè il francese colla più grande serietà, e tirato fuori dalla tasca un paio di forbici enormi, soggiunse solennemente: “ Je vais lui couper les cheveux et les sourcils! ” Tutti diedero in uno scoppio di risa. “ Messieurs! ” gridò l'offeso marito; “ je le dis et je tiendrai ma parole; si j'ai le bonheur de vous retrouver ici, je me ferai un devoir de vous présenter sa perruque. ” Qui seguì un diavolío di risa, di voci, d'applausi, senza che il Francese spianasse neanco un momento il suo tragico cipiglio. “Ma se le trovaste uno Spagnuolo in casa?” gli domandò uno. “ Je le ferais sauter par la fenêtre! ” rispose. “Ma se fossero molti?”—“ Tout le monde par la fenêtre! ”—“Ma farete uno scandalo, accorreranno i vicini, i carabinieri, il popolo!”—“ Et moi.... ” gridò il terribile uomo, battendosi una mano nel petto, “ je ferai sauter par la fenêtre les voisins, les gendarmes, le peuple, et la ville entière, s'il le faut. ” E tirò via a sbravazzare su questo tono, gesticolando con la lettera da una mano, e le forbici dall'altra, in mezzo alle risa sgangherate dei viaggiatori. Vivir para ver, vivere per vedere, dice il proverbio spagnuolo; e dovrebbe dir meglio viajar, viaggiare, chè certi originali par che s'incontrino solamente negli alberghi e sulle strade ferrate. Chi sa come sarà andata a finire!

Entrando nella mia camera, domandai al cameriere chi fossero due cosi che avevo osservato fin dalla sera prima, appesi alla parete, che mostravano d'aver non so qual pretensione di passare per due ritratti. “ Caramba! ” mi rispose “ nada menos que los hermanos Argensola, ” aragonesi, nativi di Barbastro, “ dos de los mas afamados poetas de España! ” ( Afamados per chi non lo sappia non vuol dire famelici, ma famosi.) E furono tali davvero i due fratelli Argensola, due veri gemelli letterarii, che ebbero la stessa indole, studiarono le stesse cose, scrissero nel medesimo stile, puro, sobrio, forbito, facendo argine con tutte le loro forze al torrente del cattivo gusto che cominciava ad invadere, ai loro tempi, sulla fine del secolo decimosesto, la letteratura spagnuola. L'uno morì a Napoli, segretario di Stato del Vicerè, l'altro a Tarragona, prete; e lasciarono tutti e due una fama onorata e cara, alla quale il Cervantes e il Lopez de Vega apposero lo splendido suggello della loro lode. I sonetti degli Argensola sono annoverati tra i più belli della letteratura spagnuola, per argutezza di pensiero e nobiltà di forma; e poichè ve n'è uno, di Lupercio Leonardo, che si sa a memoria da tutti e del quale i ministri citano spesso la chiusa per rispondere alle magniloquenti filippiche degli oratori della sinistra; lo metto qui colla speranza che potrà servire a qualcuno dei lettori per rimbeccare gli amici quando gli facessero rimprovero d'essersi innamorato, come il poeta, d'una donna che si dà il belletto.

«Yo os quiero confesar, don Juan, primero
Que aquel blanco y carmin de doña Elvira
No tiene de ella mas, si bien se mira,
Que el haberle costado su dinero:

Pero tambien que me confieses quiero
Que es tanta la beldad de su mentira,
Que en vano à competir con ella aspira
Belleza igual de rostro verdadero.

Mas que mucho que yo perdido ande
Por un engaño tal, pues que sabemos
Que nos engaña asi naturaleza?

Porque ese cielo azul que todos vemos
No es cielo, ni es azul: ¡làstima grande
Que no sea verdad tanta belleza!»

( Prima di tutto vi voglio confessare, o signor Giovanni, che quel bianco e carminio di donna Elvira non ha di suo che il denaro che le è costato; ma voglio che voi mi confessiate alla vostra volta esser siffatta la bellezza della sua finzione, che nessuna bellezza simile di volto vero potrebbe competere con essa. Ma che vale ch'io mi dia pensiero di tale inganno, se si sa che nello stesso modo c'inganna la natura? E infatti, quel cielo azzurro che tutti vediamo, non è nè cielo nè azzurro.... Peccato che non sia verità tanta bellezza! )

La mattina dopo mi volli procurare un piacere somigliante a quello che provava il Rousseau tenendo dietro al volo delle mosche; il piacere di errare per la città, alla ventura, fermandomi a guardare le cose più insignificanti, come si fa per la strada di casa nostra, quando si aspetta un amico. Visitati alcuni edifizi pubblici, tra i quali il palazzo della Borsa, che ha una stupenda sala formata da ventiquattro colonne, ornata ciascuna di quattro scudi coll'arma di Saragozza, sovrapposti alle quattro faccie del capitello; visitata l'antica chiesa di Santiago e il bel palazzo dell'Arcivescovado, m'andai a piantare in mezzo alla vasta ed allegra piazza della Costitucion, che divide in due il Coso, e riceve altre due delle principali strade della città; e di là presi le mosse, e bighellonai fino a mezzogiorno con un gusto infinito. Ora sostavo a guardare un ragazzo che giocava a nocíno, ora davo una capatina da curioso in un piccolo caffè da scolari, ora rallentavo il passo per sentire le ciancie di due serve a una cantonata, ora andavo a mettere il naso contro le vetrine d'un libraio, ora entravo a far ammattire una tabaccaia chiedendo dei sigari in tedesco, ora mi fermavo a intavolar conversazione con un rivenditore di fiammiferi, qui compravo un giornaletto, lì chiedevo del fuoco a un soldato, là domandavo la strada a una ragazza, e intanto ruminavo versi dell'Argensola, cominciavo sonetti faceti, canterellavo l'inno di Riego, pensavo a Firenze, al vin di Malaga, agli avvertimenti di mia madre, al Re Amedeo, alla mia borsa, a mille cose, a nessuna; e non avrei cangiato la mia sorte con quella d'un grande di Spagna.

Verso sera andai a vedere la Torre nuova, che è uno dei più curiosi monumenti di Spagna. È alta ottantaquattro metri,—quattro più della torre di Giotto,—e inchinata di quasi due metri e mezzo, tutta intera, come la torre di Pisa. Fu innalzata nel 1304; chi afferma che fu fatta così, chi crede che siasi inchinata poi; le opinioni sono diverse. È di forma ottagonale, e tutta costrutta di mattoni; ma presenta una varietà mirabile di disegno e d'ornamenti, un aspetto diverso a ogni piano, un misto grazioso di gotico e di moresco. Per entrare, dovetti andar a domandare il permesso a non so quale impiegato del Municipio, che abita là vicino; il quale, dopo aver guardato attentamente la punta dei miei stivali e il ciuffo dei miei capelli, diede le chiavi al custode, e mi disse: “ Puede Usted ir. ” Il custode era un vecchietto vigoroso che salì le interminabili scale con assai maggior speditezza di me. “ Verá Usted, ” mi diceva: “ Verá Usted que magnífico golpe de vista! ”—Io gli dissi che anche noi Italiani avevamo una torre inclinata, come quella di Saragozza; egli si voltò a guardarmi e rispose secco: “ La nuestra es unica en el mundo. ”—“Oh cospetto! Vi dico che n'abbiamo una anche noi, e che l'ho vista coi miei occhi, a Pisa, e poi, se non volete credere, leggete qui, lo dice anche la Guida.”—Diede un'occhiata e brontolò: “ Puede ser. ”—Può essere!—Vecchio cocciuto! Gli avrei dato il libro sul capo. Finalmente arrivammo sulla cima. È uno stupendo spettacolo. Saragozza si abbraccia tutta con uno sguardo: la grande strada del Coso, il passeggio di Santa Engracia, i sobborghi; e lì sotto, che par di poterle toccare, le cupole colorite di Nostra Donna del Pilar; un po' più in là l'ardita torre della Seo; più oltre l'Ebro famoso, che gira attorno alla città con una curva maestosa, e l'ampia valle, innamorata, come dice il Cervantes, della chiarezza delle sue acque e della gravità del suo corso; e la Huerba, e i ponti, e i poggi, che ricordano tanti scontri sanguinosi e disperati assalti!

Il custode mi lesse sul volto i pensieri che mi attraversavan la mente, e come proseguendo un discorso da me incominciato, prese ad accennarmi i punti per dove erano entrati i Francesi, e dove i cittadini avevano opposto le più gagliarde resistenze. “Non furono le bombe dei Francesi,” mi disse, “che ci fecero arrendere; noi stessi bruciavamo le case, e le facevamo saltare in aria colle mine; fu l'epidemia. Negli ultimi giorni più di quindicimila uomini dei quarantamila che difendevan la città eran negli ospedali; non si aveva più tempo per raccogliere i feriti e per sotterrare i morti; le rovine delle case erano coperte di cadaveri putrefatti che ammorbavano l'aria; un terzo degli edifizi della città eran distrutti; eppure nessuno parlava d'arrendersi; e chi ne avesse parlato, era stato innalzato apposta un patibolo in tutte le piazze, sarebbe stato ucciso; volevamo morire sulle barricate, nel fuoco, sotto i rottami delle nostre mura, piuttosto che piegare la testa. Ma quando il Palafox si trovò in punto di morte, quando si seppe che i Francesi avevano vinto in altre parti, e che non c'era più alcuna speranza, bisognò porre giù le armi. Ma i difensori di Saragozza si arresero cogli onori della guerra, e quando quella folla di soldati, di contadini, di monaci, di ragazzi, scarni, cenciosi, coperti di ferite, macchiati di sangue, sfilarono davanti all'esercito francese, i vincitori tremarono di riverenza e non ebbero cuore di rallegrarsi della vittoria! L'ultimo dei nostri contadini poteva portar la fronte più alta che il primo dei loro marescialli:— Zaragoza, e dicendo queste parole era splendido, ha escupido en la cara a Napoleon! —(Saragozza ha sputato in viso a Napoleone!)”

Io pensai, in quel momento, alla storia del Thiers, e il ricordo della narrazione ch'egli fa della presa di Saragozza mi destò un sentimento di sdegno. Non una parola generosa per la sublime ecatombe di quel povero popolo! Il loro valore, per lui, non è che fanatismo feroce, o vana manìa guerresca di contadini stanchi della vita uggiosa dei campi, e di monaci ristucchi della solitudine della cella; la loro eroica ostinazione è testardaggine; il loro amor di patria, orgoglio stolto. Essi non morivano pour cet idéal de grandeur che animava il coraggio dei soldati imperiali! Come se la libertà, la giustizia, l'onore d'un popolo, non fossero qualcosa di più grande che l'ambizione d'un Imperatore, che lo fa assalire a tradimento e lo vuol governare colla violenza!... Tramontava il sole, le torri e i campanili di Saragozza erano illuminati dagli ultimi raggi, il cielo era limpidissimo; volsi ancora uno sguardo intorno per imprimermi bene nella memoria l'aspetto della città e della campagna, e prima di voltarmi per scendere, dissi al custode che mi guardava con un'aria di benevola curiosità: “Racconti agli stranieri che verranno a visitare d'ora in avanti la torre, che un giorno, un giovane italiano, poche ore prima di partire per la Castiglia, salutando per l'ultima volta, da questo balcone, la capitale dell'Aragona, s'è scoperto il capo col sentimento del più profondo rispetto, così,—e che non potendo baciare sulla fronte, ad uno ad uno, tutti i discendenti degli eroi del 1809, ha dato un bacio al custode,”—E glielo diedi, e me lo rese, e me n'andai contento, ed egli pure, e rida chi vuole.

Con questo mi parve di poter dire che avevo visto Saragozza, e tornai all'albergo ricapitolando le mie impressioni. Mi restava però una gran voglia di fare un po' di conversazione con qualche buon saragozzano, e dopo desinare andai al caffè, dove trovai subito un capomaestro e un bottegaio, che tra un sorso e l'altro di cioccolatte, mi esposero lo stato politico della Spagna e i mezzi più efficaci

«Di portar la baracca a salvamento.»

La pensavano molto diversamente. L'uno, il bottegaio, ch'era un ometto col naso rincagnato e un grosso bernoccolo tra occhio e occhio, voleva la repubblica federale, senza transazioni, quella sera stessa, prima d'andare a letto; e metteva come condizione sine qua non per la prosperità del nuovo governo, che si fucilasse il Serrano, il Sagasta e lo Zorilla, per convincerli una volta per sempre que no se chanzea con el pueblo español, che non si scherza col popolo spagnuolo. “ Y su rey de Ustedes, ” concludeva volgendosi verso di me, “al re che ci han mandato loro,—mi perdoni, caro il mio Italiano, la franchezza con cui le parlo,—al loro re un biglietto di prima classe per tornarsene á la hermosa Italia, ove c'è miglior aria per i Re. Somos españoles ”—perdoni, caro il mio Italiano e mi metteva una mano sul ginocchio—“ somos españoles, e non vogliamo stranieri, nè cotti, nè crudi!”

“Mi pare d'aver capito il suo concetto; e lei,” domandai al capomaestro, “come crede lei che si potrebbe salvar la Spagna?”

No hay mas que un medio! ” rispose con accento solenne; “non v'è che un mezzo! Repubblica federale,—in questo sono d'accordo col mio amico,—ma con Don Amedeo presidente!”—(L'amico scrollò le spalle) “Ripeto: con Don Amedeo presidente! È il sol uomo che possa tener ritta la repubblica; non è soltanto un'opinione mia; è l'opinione di molta gente. Don Amedeo faccia intendere a suo padre che qui colla monarchia non si compiccia nulla; chiami al governo il Castelar, il Figueras, il Pi y Margal; proclami la repubblica, si faccia elegger presidente, e gridi alla Spagna:—Signori, ora comando io, e chi alza le corna, legnate! E allora avremo la vera libertà.”

Il bottegaio, il quale non credeva che la vera libertà consistesse nel pigliarsi delle legnate sulle corna, protestò; l'altro ribattè; il battibecco durò un pezzo. Si venne poi a parlare della Regina; e il capomaestro dichiarò che, sebbene fosse repubblicano, aveva per Donna Vittoria un profondo rispetto e una calda ammirazione. “ Tiene mucho (molto) de aquí ” disse toccandosi la fronte col dito.—“ Es verdad que sabe el griego? ”—(È vero che sa il greco?)

“E come!” risposi.

“Hai inteso, eh?” domandò l'altro.

“Sì,” rispose il bottegaio brontolando; “ pero no se govierna à España con el griego.

Concedeva però anche lui che, regina per regina, era a desiderarsi d'averne una dotta e savia, digna de sentarse en el trono de Isabel la Catòlica, la quale, come tutti sanno, conosceva il latino quanto un professore consumato; piuttosto che una di queste regine cervelline che non hanno il capo ad altro che alle feste ed ai favoriti. In una parola, non voleva vedere in Ispagna la casa di Savoia; ma se qualche cosa poteva piegarlo un po' in di lei favore, era il greco della Regina. Che galante repubblicano!

V'è però in codesta gente una generosità di cuore, e un vigore di animo che giustifica la loro onorevole fama. L'aragonese, in Spagna, è rispettato. Il popolo di Madrid che trincia i panni addosso agli Spagnuoli di tutte le provincie, che dà al catalano di rozzo, all'andaluso di vano, al valenziano di feroce, al galiziano di miserabile, al basco d'ignorante, tratta con un po' più di riserbo gli alteri figli d'Aragona, i quali nel secolo decimonono scrissero col proprio sangue la più gloriosa pagina della storia di Spagna. Il nome di Saragozza suona nel popolo come un grido di libertà, e nell'esercito come un grido di guerra. Ma poichè non v'è rosa senza spine, questa nobile provincia è anche un semenzaio di demagoghi inquieti, di capi di guerrillas, di tribuni, di gente di testa calda e di mano ardita, che danno un gran da fare a tutti i Governi. Il Governo deve accarezzar l'Aragona come un figliuolo ombroso e focoso, che se niente niente si picca, è muso da mandare in aria la casa.

L'entrata di re Amedeo in Saragozza, e la breve dimora che vi fece nel 1871, diedero occasione a parecchi fatti, che meritano d'essere raccontati; non solo perchè si riferiscono al Principe, ma perchè sono una eloquente manifestazione del carattere del popolo. E prima d'ogni altra cosa il discorso del Sindaco, del quale s'è fatto tanto scalpore, in Spagna e fuori, e che resterà forse fra le tradizioni di Saragozza come un esempio classico di audacia repubblicana. Il Re arrivò verso sera alla stazione della strada ferrata, dove eran venuti ad aspettarlo, accompagnati da un'immensa folla, i rappresentanti di molti Municipii, e associazioni e corpi militari e civili di varie città d'Aragona. Dopo le solite grida e i soliti applausi, si fece silenzio, e l'alcade di Saragozza, presentatosi al Re, lesse con enfatica voce il seguente discorso:

«Signore! Non è la modesta personalità mia, non è l'uomo di convinzioni profondamente repubblicane; ma bensì l'alcade di Saragozza, investito del sacro suffragio universale, colui che, per un dovere imprescindibile, si presenta a voi, e si mette agli ordini vostri. Voi state per entrare nel recinto d'una città la quale, sazia ormai di gloria, porta il titolo di sempre eroica; una città che quando corse pericolo l'integrità nazionale, fu una nuova Numanzia, una città che umiliò gli eserciti napoleonici nei loro stessi trionfi ec. Saragozza fu la più avanzata sentinella della libertà; nessun governo le parve mai abbastanza liberale ec. Nel petto di nessuno dei figli suoi albergò mai il tradimento ec. Entrate, dunque, nel recinto di Saragozza. Se non aveste coraggio, non ne avreste neanco bisogno, perchè i figli della sempre eroica madre son valorosi a viso aperto, e incapaci di tradire. Non v'è scudo, nè esercito più poderoso per difendere, in questi momenti, la vostra persona, che la lealtà dei discendenti del Palafox, poichè anche i loro nemici trovano un sacro asilo sotto i tetti saragozzani. Pensate e meditate che se seguirete costantemente la via della giustizia, se farete da tutti osservare le leggi della più stretta moralità, se proteggerete il produttore che finora tanto dà, e sì poco riceve, se sosterrete la verità del suffragio, se Saragozza e la Spagna vi dovranno un giorno il compimento delle sacre aspirazioni della maggioranza di questo gran popolo che venite a conoscere, allora, forse, vi adornerà un più splendido titolo, che quello di Re. Potete essere il primo cittadino della nazione, e il più amato in Saragozza, e la repubblica spagnuola vi dovrà la sua completa felicità.»

A questo discorso che veniva a significare in conclusione:—Non vi riconosciamo come Re, ma entrate pure fra noi, che non v'ammazzeremo, perchè gli eroi non ammazzano a tradimento; e se sarete bravo, e ci servirete a dovere, consentiremo, forse, a sopportarvi come presidente della Repubblica;—il Re rispose con un sorriso agro-dolce, che voleva dire:—Troppa degnazione!—e strinse la mano all'Alcade, con grande meraviglia di tutti i presenti. Poi montò a cavallo, ed entrò in Saragozza. Il popolo, a quel che si dice, lo ricevette con festa, e molte signore gli lanciarono dalle finestre poesie, corone di fiori e colombe. In varii punti, il generale Cordova, e il general Rosell, che lo accompagnavano, dovettero sgombrargli la strada coi proprii cavalli. Mentre entrava nel Coso, una donna del popolo si slanciò innanzi per dargli un memoriale; il Re, ch'era già passato oltre, se n'accorse, tornò indietro, e lo prese. Poco dopo, gli si presentò un carbonaio, e gli porse la sua nera mano: il Re gliela strinse. Nella piazza di Santa Engracia, fu ricevuto da una sfarzosa mascherata di nani e di giganti, che lo salutarono con certe danze tradizionali, fra le grida assordanti della moltitudine. Così attraversò tutta la città. Il giorno dopo visitò la chiesa della Madonna di Pilar, gli ospedali, le carceri, il circo dei Tori, e in ogni parte fu festeggiato con quasi monarchico entusiasmo, non senza segreta bizza dell'Alcade che l'accompagnava, il quale avrebbe voluto che il popolo saragozzano si ristringesse all'osservanza del quinto comandamento:—Non ammazzare,—senza andare più in là delle sue modeste promesse. Liete accoglienze ebbe pure il Re sulla via da Saragozza a Logroño. A Logroño, in mezzo a una folla innumerevole di contadini, di guardie nazionali, di donne, di ragazzi, vide per la prima volta il venerando generale Espartero. Appena si videro, si corsero incontro; il generale cercò la mano del Re, il Re gli aperse le braccia; la folla gettò un grido di gioia: “Maestà,” disse l'illustre soldato con voce commossa, “i popoli vi accolgono con patriottico entusiasmo, perchè vedono nel loro giovane Monarca il più fermo sostegno della libertà e della indipendenza della patria, e son sicuri che se i nemici della nostra ventura tentassero di turbarla, Vostra Maestà, alla testa dell'esercito e della milizia cittadina, saprebbe confonderli e sgominarli. La mia affranta salute non mi permise d'andare a Madrid per felicitare Vostra Maestà e la sua Augusta Sposa per il loro avvenimento al trono di San Ferdinando. Oggi lo faccio, e ripeto anche una volta che servirò fedelmente la persona di Vostra Maestà come re di Spagna, eletto dalla volontà nazionale. Maestà, in questa città ho una modesta casa, e ve la offro, e vi prego d'onorarla della vostra presenza.”—Con queste semplici parole era salutato il nuovo Re dal più vecchio e più amato e più glorioso dei suoi sudditi. Felice auspicio, a cui mal risposer gli eventi!

Verso mezzanotte andai a un veglione, in un teatro di mezzana grandezza, sul Coso, a poca distanza dalla piazza della Costituzione. Le maschere eran poche e meschinuccie; ma v'era per compenso una folla fittissima, della quale un buon terzo ballavano furiosamente. Fuor che dalla lingua, non mi sarei accorto di assistere ad un veglione d'un teatro di Spagna, piuttosto che a un veglione d'un teatro d'Italia; mi pareva di veder persino le stesse faccie. Poi il solito tramenío, la solita licenza di parole e di mosse, il solito degenerare dal ballo in una ridda clamorosa e sfrenata. Delle cento coppie di ballerini che mi passarono dinanzi, una sola mi rimase impressa nella memoria: un giovanotto d'una ventina d'anni, alto, snello, bianco, con due grand'occhi neri; e una ragazza della stessa età, bruna come un'andalusa; tutti e due belli e alteri, vestiti dell'antico costume aragonese, abbracciati stretti, viso contro viso, come se l'uno volesse respirare l'alito dell'altro, rossi come due viole e sfolgoranti di gioia. Passavano in mezzo alla folla, gettando intorno uno sguardo sdegnoso, e mille occhi li accompagnavano, e li seguiva un mormorio sordo di ammirazione e d'invidia. Uscendo dal teatro, mi fermai un momento sulla porta per rivederli passare, e poi me ne tornai all'albergo solo e malinconico. L'indomani mattina, prima dell'alba, partii per la Vecchia Castiglia.

NOTE:

[1] Le piace mangiar con me?

III. BURGOS.

Per andare da Saragozza a Burgos, città capitale della Vecchia Castiglia, si risale tutta la gran valle dell'Ebro, attraversando una parte dell'Aragona, e una parte della Navarra, fino alla città di Miranda, posta sulla strada di Francia che passa per San Sebastiano e Baiona. Il paese è pieno di ricordi storici, di rovine, di monumenti, di nomi famosi: ogni villaggio rammenta una battaglia, ogni provincia una guerra. A Tudela, i Francesi sconfissero il generale Castaños; a Calahorra, Sertorio resistette a Pompeo; a Navarrete, Enrico di Transtamare fu vinto da Pietro il Crudele; si vedono i vestigi della città di Egon ad Agoncillo, le rovine d'un acquedotto romano ad Alcanadre, i resti d'un ponte arabo a Logroño; la mente dura fatica ad abbracciare le memorie di tanti secoli e di tanti popoli, e l'occhio si stanca colla mente. L'aspetto della campagna varia ad ogni momento. Vicino a Saragozza son campi verdi sparsi di case e di viottole serpeggianti, per le quali si vede qualche gruppo di contadini, avvolti nei loro scialli variopinti, qualche somarello, qualche carro. Più oltre non sono che vaste pianure ondulate, nude, aride, senza un albero, senza una casa, senza un sentiero; ove non si vede che di miglio in miglio un armento, un pastore, una capanna; e qualche piccolo villaggio, composto di casuccie color terraceo, basse, che quasi si confondono col suolo; piuttosto gruppi di capanne, che villaggi, vere immagini di miseria e di squallore. L'Ebro serpeggia a grandi curve lungo la strada, ora vicino, che par che il treno ci si vada a tuffare, ora lontano, come una striscia d'argento, che appare e dispare fra le gobbe del terreno e i cespugli delle sponde. Lontano si vede una catena di monti azzurri, e al di là le cime bianche dei Pirenei. Presso Tudela si scopre il canale; dopo Custejon la campagna verdeggia; e via via, le pianure aride si alternano cogli oliveti, e qualche striscia di verde vivo rompe qua e là il giallognolo secco dei campi abbandonati. Sulle cime dei colli lontani si vedon rovine di castelli enormi, sormontate da torri tronche, spaccate, corrose, simili a grandi moncherini di giganti prostrati che minaccino ancora.

A ogni stazione della strada ferrata comprai un giornale; prima d'arrivare a metà viaggio n'avevo un monte: giornali di Madrid e d'Aragona, grandi e piccini, neri e rossi; nessuno, sfortunatamente, amico di Don Amedeo. E dico sfortunatamente, perchè, a legger quei giornali, c'era da cadere in tentazione di voltar le spalle a Madrid e tornarsene a casa. Dalla prima all'ultima colonna, eran tutt'una sfuriata d'ingiurie, d'imprecazioni e di minaccie contro l'Italia: corna del nostro Re, roba da chiodi dei nostri ministri, ira di Dio del nostro esercito; tutto fondato sulla voce, che allora correva, d'una prossima guerra, nella quale l'Italia e la Germania alleate si sarebbero gettate sulla Francia e sulla Spagna, per distruggervi il Cattolicismo, nemico eterno di tutt'e due, e mettere sul trono di San Luigi il Duca di Genova, e assicurare il trono di Filippo II al Duca d'Aosta. Erano minaccie nell'articolo di fondo, minaccie nell'appendice, minaccie nelle notizie, in prosa, in versi, con figurine, con lettere cubitali, con lunghe righe di puntini; dialoghi tra il padre e il figlio, l'uno da Roma, e l'altro da Madrid, questi che domandava: “Che cosa ho da fare?” quello che rispondeva: “Fucila!” di tratto in tratto un: “Vengano! siamo pronti! siamo sempre la Spagna del 1808; i vincitori degli eserciti napoleonici non hanno paura nè del muso degli Ulani di re Guglielmo, nè del gridío dei Bersaglieri di Vittorio Emanuele.”—E poi Don Amedeo designato coll'appellativo di pobre bambino, l'esercito italiano chiamato un esercito di ballerini e di cantanti, gl'Italiani di Spagna invitati a sfrattare col poco gentile avvertimento di:— Italianos al tren! —(Italiani al treno); in somma, chiedete e domandate, ce n'era una per sorte. Vi confesso che, su quel subito, rimasi un po' turbato; m'immaginai che a Madrid gl'Italiani fossero poco meno che segnati a dito per le vie; mi ricordai della lettera ricevuta a Genova; ripetevo tra me e me quell' Italianos al tren, come un consiglio che meritasse una seria meditazione; guardavo con sospetto i viaggiatori che entravano nel carrozzone, e gl'impiegati della strada ferrata, e mi pareva che, al primo vedermi, tutti dovessero dire:—Ecco là un emissario italiano; mandiamolo a tener compagnia al general Prim.—

Avvicinandosi a Miranda, la strada s'inoltra in una contrada montagnosa, varia, pittoresca; dove da qualunque parte si volga lo sguardo, non si vedon che roccie grigiastre, a perdita d'occhio, che rendon l'immagine d'un mare petrificato nell'atto della tempesta. È un paese pieno di bellezza selvaggia, solitario come un deserto, silenzioso come un ghiacciaio, che rappresenta alla fantasia come una visione di pianeta disabitato, e desta un senso misto di tristezza e di paura. Il treno passa fra due pareti di roccie puntagute, incavate, crestate, faccettate in tutti i sensi e in tutte le forme, che par che intorno a ciascuna abbian lavorato tutta la vita una folla di scalpellini furiosi, facendo alla cieca a chi ci lasciasse le traccie più capricciose. La strada riesce poi in una vasta pianura piantata di pioppi, nella quale sorge Miranda.

La stazione è lontanissima dalla città; dovetti aspettare nel caffè, fino a notte, il treno di Madrid. Per tre ore non ebbi altra compagnia che quella di due guardie doganali chiamate in Spagna carabineros, vestite d'una divisa severa, con daga, pistole e carabina ad armacollo. A ogni stazione ce ne son due: le prime volte, vedendo apparire davanti al finestrino del carrozzone le canne delle loro carabine, credetti che fosser là per chiappare qualcuno, e fors'anche.... e misi, senz'accorgermene, la mano sul passaporto. Son bei giovanotti, arditi e cortesi, coi quali il viaggiatore che aspetta può intrattenersi piacevolmente a discorrer di Carlisti e di contrabbando, come io feci, con grande vantaggio del mio frasario spagnuolo. Verso sera capitò un mirandese, un uomo sulla cinquantina, impiegato, allegro, chiaccherone, ed io lasciai i carabineros per attaccarmi a lui. Fu il primo Spagnuolo che mi parlò profondamente di politica. Lo pregai di dipanarmi un po' codesta benedetta matassa dei partiti, di cui non ero ancor riuscito a trovare il bandolo; ed egli ne fu contentissimo, e mi servì per filo e per segno. “È detto in due parole,” cominciò: “ecco come stanno le cose. Ci son cinque partiti principali: l'assolutista, il moderato, il conservatore, il radicale, il repubblicano. L'assolutista si divide in due: carlisti puri, carlisti dissidenti. Il partito moderato in due: l'uno vuole Isabella seconda, l'altro vuole Don Alfonso. Il partito conservatore in quattro: tenga bene a mente: i Canovisti, capitanati da Canovas del Castillo; gli ex-montpensieristi, capitanati dal Rios Rosas; i fronterizos, capitanati dal generale Serrano; i progressisti storici, capitanati dal Sagasta. Il partito radicale in quattro: i progressisti democratici, capo lo Zorilla; i Cimbrios, capo il Martos; i democratici, capo il Ribero; gli economisti, capo il Rodriguez. Il partito repubblicano in tre: gli unitarii, capo Garcia Ruiz; i federali, capo il Figueras; i socialisti, capo il Garrido. I socialisti si dividono ancora in due; socialisti coll' Internazionale, socialisti senza l' Internazionale. In tutto sedici partiti. Questi sedici partiti si suddividono ancora. Il Martos tende a costituire un partito suo; il Candau un altro partito; il Moret un terzo partito; il Rios Rosas, il Pi y Margall, il Castelar, vanno pure preparando ciascuno un partito proprio. Son dunque ventidue partiti, parte fatti parte da farsi: aggiunga i partigiani della repubblica con Don Amedeo presidente, i partigiani della Regina che vorrebbero dare il gambetto a Don Amedeo, i partigiani della monarchia dell'Espartero, i partigiani della monarchia del Montpensier; i repubblicani a patto che non si lasci Cuba; i repubblicani a patto che Cuba si lasci; coloro che non hanno ancora rinunziato al principe di Hohenzollern, coloro che vagheggiano l'unione col Portogallo; sarebbero trenta partiti. Volendo andar pel sottile, si potrebbe suddividere ancora; ma val meglio farsi un'idea chiara di come stanno le cose. Il Sagasta si appoggia agli unionisti, lo Zorilla si appoggia sui repubblicani, il Serrano sarebbe disposto ad appoggiarsi sui moderati; i moderati, all'occasione, farebbero lega cogli assolutisti, i quali, intanto, danno la mano ai repubblicani, che si uniscono con una parte dei radicali, per mandare in aria il ministero Sagasta, troppo conservatore per i progressisti democratici, troppo liberale per gli unionisti, che hanno paura dei federali; mentre i federali non ripongono alla loro volta una gran fiducia nei radicali, sempre tentennanti fra i democratici e i sagastini. S'è fatto un'idea chiara?”

“Chiara come l'ambra!” risposi raccapricciando.

Del viaggio da Miranda a Burgos mi ricordo come d'una pagina d'un libro leggiucchiata a letto, quando gli occhi cominciano a chiudersi e la fiammella della candela a languire: cascavo di sonno. Un vicino mi scoteva di tratto in tratto perchè guardassi fuori: era una notte serena, splendeva un bellissimo lume di luna; ogni volta che m'affacciai al finestrino, vidi dalle due parti della strada roccie enormi, di fantastiche forme, vicine tanto che pareva dovessero precipitare sul treno, bianche come marmo, e così ben rischiarate, che se ne sarebbero potute contare tutte le punte, tutti gl'incavi, tutte le gobbe, come alla luce del sole. “Siamo a Pancorbo,” mi diceva il vicino, “guardi su quell'altura: là era un terribile castello che i Francesi distrussero nel 1813. Siamo a Briviesca: guardi; qui Giovanni I di Castiglia radunò gli Stati generali, che accordarono il titolo di principe delle Asturie all'erede della Corona. Guardi il monte della Brujola che tocca le stelle!”—Era uno di quegli infaticabili ciceroni che parlerebbero anche agli ombrelli; e sempre, dicendo: guardi, mi toccava in un fianco, dalla parte della tasca. Finalmente arrivammo a Burgos; il vicino disparve senza salutarmi, io mi feci condurre a un albergo, e sul punto di pagare il vetturino, m'accorsi che non avevo più un piccolo portamonete da spiccioli che solevo tenere in una tasca del pastrano. Pensai agli Stati generali di Briviesca, e suggellai la cosa con un filosofico:—Mi sta bene!—invece di gridare come fan molti in simili occasioni:—ma per Dio! ma dove siamo! ma che paese è questo!—come se nel loro paese non ci fosse della gente destra che porta via la borsa senza neanco usar la cortesia di darvi una notizia storica o una indicazione di geografia.

L'albergo in cui scesi, come quasi tutti gli alberghi delle Castiglie, era servito da ragazze. Eran sette o otto bambolone paffute e muscolose che andavano e venivano con grandi bracciate di materassi e di biancheria, curvate indietro in atteggiamenti atletici, rosse, sbuffanti, sghignazzanti, che mettevano allegrezza a vederle. Un albergo servito da donne è tutt'altra cosa che i soliti alberghi: il viaggiatore ci si pare meno straniero, e ci riposa col cuore più queto; le donne gli danno una cert'aria di casa, che fa quasi dimenticare la solitudine in cui ci si trova. Son più premurose degli uomini; sanno che il viaggiatore inclina alla malinconia, e par che ne lo vogliano stornare; sorridono e parlano con un piglio confidente, come per far capire che s'è in famiglia, in mani sicure; hanno un non so che di massaie, che servono meno per mestiere che pel gusto di rendersi utili; vi attaccano i bottoni con un'aria di protezione; vi levan la spazzola di mano, con un atto scherzoso, come per dire: “A me, buono a nulla!” vi levano i peli dal vestito quando uscite, vi dicono: “ O pobrecito! ” quando tornate infangati, vi raccomandano di non dormire col capo basso quando vi danno la buona notte, vi porgono il caffè a letto dicendovi benevolmente: “Stia queto, via, non sta bene!” Una si chiamava Beatriz, un'altra Carmelita, un'altra Amparo (Protezione); belle tutte e tre di quella poderosa bellezza montanina, che fa esclamar con un vocione di basso:—Che-bel-pez-zo-da-ses-san-ta!—Quando correvano pei corridoi, tutta la casa tremava.

L'indomani mattina al levar del sole, Amparo mi gridò nell'orecchio:— Caballero! —Un quarto d'ora dopo ero già nella strada. Burgos, posta alle falde d'una montagna, sulla riva destra dell'Arlanzon, è una città irregolare, di strade tortuose e strette, con pochi edifizi notevoli, e la maggior parte delle case non più antiche del secolo decimosettimo. Ma ha una qualità particolare che la rende curiosa e geniale: è variopinta come uno di quei scenari da teatro di marionette, coi quali i pittori si sono proposti di strappare un grido di stupore alle serve della platea. Pare una città stata colorita apposta per una festa carnovalesca, col proposito di rimbiancarla poi. Le case son rosse, gialle, azzurre, cinerine, ranciate, con ornamenti e contorni di altri mille colori; e tutto vi è dipinto: battenti di porte, ringhiere di terrazzini, inferriate, cornicioni, mensole, bozze, sporti, davanzali. Tutte le strade sembrano parate a festa; a ogni svoltata è un colpo d'occhio diverso; in ogni parte è come una gara di colori, che fanno a quale tira più gli sguardi; vien quasi da ridere; vi son colori che non si son mai visti sui muri; verde, incarnato, porporino; colori di fiori strani, di salse, di dolci, di stoffe da veste da ballo; se ci fosse a Burgos un manicomio di pittori si direbbe che la città fu colorita un giorno che scapparono i pazzi. A render più grazioso l'aspetto delle case, moltissime finestre hanno dinanzi una specie di terrazzino coperto, chiuso davanti da un'ampia vetrata, come una scansía da museo; uno a ogni piano, per lo più, e quel di sopra appoggiato su quel di sotto, e il più basso sulle vetrine d'una bottega, in modo che dal suolo al tetto paion tutti insieme una vetrina sola d'una bottega smisurata; e dietro ai vetri d'ogni piano si vedono, come messi in mostra, visini di ragazze e di fanciulli, fiori, paesaggi e figurine di carta di Francia, tende ricamate, trine, rabeschi. S'io non l'avessi saputo, non mi sarebbe mai caduto in mente che una città siffatta potesse essere la Capitale della Vecchia Castiglia, il cui popolo ha fama di grave e di austero; l'avrei creduta una delle città andaluse dove la gente è più allegra; m'ero figurato di vedere una matrona meditabonda, e avevo trovato una mascherina ghiribizzosa.

Fatti due o tre giri, riuscii in una vasta piazza, chiamata Piazza Maggiore, o Piazza della Costituzione, tutta cinta di case color di melagrano, con portici, e nel mezzo, una statua di bronzo, rappresentante Carlo III. Non avevo ancora dato un'occhiata all'intorno, che un ragazzo avviluppato in una lunga cappa sbrandellata, strascicando due grandi ciabatte, e agitando in aria un giornale, mi corse incontro.

“Vuole l' Imparcial, caballero?”

“No.”

“Vuole una cartella della lotteria di Madrid?”

“Nemmeno.”

“Vuole dei sigari di contrabbando?”

“Neppure.”

“Vuole...?”

“Eh!”

L'amico si grattò il mento.

“Vuol vedere i resti del Cid?”

Vivaddio, che salto! non importa: andiamo a vedere i resti del Cid.

Andammo al palazzo municipale. Una vecchia portinaia ci fece attraversare tre o quattro piccole sale fin che s'arrivò a una stanza dove tutti e tre ci fermammo. “Ecco los restos,” disse la donna accennando una specie di cofano posto sur un piedistallo in mezzo alla stanza. Mi avvicinai, essa alzò il coperchio, io guardai dentro. Vi eran due scompartimenti, in fondo ai quali si vedevan alcune ossa ammonticchiate, che parevan frantumi di mobili vecchi. “Queste,” disse la portinaia “sono le ossa del Cid, e quest'altre le ossa di Ximene, sua moglie.”—Presi in mano uno stinco dell'uno e una costola dell'altra, li guardai, li palpai, li rigirai; ma non riuscendo a raccappezzare la fisonomia nè del marito nè della moglie, li rimisi. Allora la donna mi accennò una scranna di legno mezzo disfatta appoggiata alla parete, e un'iscrizione che diceva essere quella la scranna sulla quale sedettero i primi giudici di Castiglia Nunius Rasura, Calvoque Lainus, trisavoli del Cid; il che vuol dire che quel prezioso mobile sta ritto in quel medesimo posto dalla bellezza di novecent'anni. L'ho in questo momento dinanzi agli occhi, disegnato nel mio quaderno, a linee serpeggianti; e mi pare ancora di sentire la buona donna che mi domanda: “ Es Usted pintor? ” e mi mette il mento sulla matita per ammirare il mio capolavoro. Nella stanza accanto mi mostrò un braciere della stessa anzianità della scranna, e due ritratti, l'uno del Cid e l'altro di Ferdinando Gonzales, primo conte di Castiglia, tutti e due così confusi e slavati, da non porger l'immagine delle persone, meglio che gli stinchi e le costole dei due illustri consorti.

Dal palazzo municipale fui condotto sulla riva dell'Arlanzon, in una spaziosa piazza con giardino, fontane e statue, circondata da graziosi edifizii nuovi. Di là dal fiume è il borgo Bega, più oltre le aride colline che dominano la città, ad un'estremità della piazza la porta monumentale di Santa Maria, che fu innalzata in onore di Carlo V, ornata delle statue del Cid, di Fernando Gonzales, dell'Imperatore. Al di là della porta appaiono le guglie maestose della Cattedrale. Pioveva, ero solo in mezzo alla piazza, e senza ombrello; alzai gli occhi a una finestra, e vidi una donna che mi parve una criada, che mi guardava e rideva, come per dire:—Chi è quel matto?—Colto così all'improvviso, rimasi un po' sconcertato, e fatta meglio un po' di faccia indifferente, me n'andai per la via più corta verso la Cattedrale.

La Cattedrale di Burgos è uno dei più vasti, più belli e più ricchi monumenti della Cristianità. Dieci volte scrissi in capo alla pagina queste parole, e dieci volte mi mancò il coraggio di proseguire, tanto mi sento inetto e meschino, paragonando le forze della mia mente alle difficoltà della descrizione.

La facciata è sur una piccola piazza, dalla quale si può abbracciare collo sguardo una parte dell'immenso edificio; dagli altri lati, ricorrono strade tortuose e strette, che impediscono la vista. Da tutti i punti del tetto smisurato s'alzano guglie snelle e graziose, sopraccariche di ornamenti di color calcareo fosco, sporgenti oltre i più alti edifizi della città. Sul dinanzi, a destra e a sinistra della facciata, sorgono due campanili acuti, coperti di sculture dalla base alla cima, traforati, cesellati, ricamati, con una delicatezza e una grazia che innamora. Più in là, verso il punto di mezzo della chiesa, sorge una torre straricca, essa pure, di bassorilievi e di fregi. E sulla facciata, sugli spigoli dei campanili, a tutti i piani, sotto tutti gli archi, da tutti i lati, una moltitudine innumerevole di statue d'angeli, di martiri, di guerrieri, di principi, così fitte, così varie d'atteggiamenti, e poste in così netto rilievo dalle forme leggiere dell'edifizio, da presentar quasi allo sguardo un'apparenza di vita, come d'una legione celeste posta a guardia del monumento. A risalir cogli occhi su per la facciata, fino al vertice delle guglie esterne, abbracciando a poco a poco tutta quell'armoniosa leggiadria di linee e di colori, si prova un senso dolcissimo come a sentire una musica che si elevi gradatamente da un'espressione di raccolta preghiera fino all'estasi d'un'ispirazione sublime. Prima ch'entriate nella chiesa, la vostra immaginazione spazia già fuori della terra.

Entrate... Il primo moto che si desta in voi è un improvviso ringagliardimento di fede, se l'avete; è uno slancio dell'anima verso la fede, s'ella vi manca. Non vi pare possibile che quella smisurata mole di pietra sia un'opera vana della superstizione degli uomini; vi pare che affermi, che provi, che comandi qualcosa; vi fa l'effetto come d'una voce sovrumana che gridasse alla terra:—Sono!—vi solleva e vi schiaccia ad un tempo, come una promessa e una minaccia, come un bagliore di sole e uno scoppio di tuono. Prima di cominciare a guardare, provate il bisogno di ravvivar nel cuor vostro le scintille moribonde dell'amore divino; il sentirvi straniero dinanzi a quel miracolo di ardimento, di genio e di lavoro, vi umilia; il timido no che vi suona in fondo all'anima, muore come un gemito sotto il sì formidabile che vi rimbomba sul capo. Prima girate gli occhi intorno vagamente, cercando i confini dell'edifizio, che il coro e i pilastri enormi vi nascondono; poi il vostro sguardo si slancia su per le colonne e gli archi altissimi, e riscende risale e ricorre rapidissimamente le infinite linee che s'inseguono, s'incrociano, si rispondono, si perdono, come razzi incrociantisi nello spazio, su per le vôlte grandiose; e il cuore vi gode in quell'affannosa ammirazione, come se tutte quelle linee uscissero dalla vostra mente ispirata nell'atto stesso che le percorrete cogli occhi; e poi vi assale ad un tratto come uno sgomento, una tristezza che il tempo non vi basti a considerare, l'ingegno a comprendere, la memoria a ritenere le innumerevoli maraviglie che da ogni parte travedete, affollate, ammontate, abbarbaglianti, che piuttosto che dalla mano degli uomini, si direbbero uscite, come una seconda creazione, dalla mano di Dio.

La chiesa appartiene all'ordine chiamato gotico, dell'epoca del Rinascimento; è divisa in tre lunghissime navate, attraversate per mezzo da una quarta, la quale separa il coro dall'altar maggiore. Sopra lo spazio compreso tra l'altare e il coro, s'innalza una cupola, formata dalla torre che si vede di sulla piazza. Voi volgete gli occhi in su, e restate un quarto d'ora a bocca aperta: è un visibilio di bassorilievi, di statue, di colonnine, di finestrelle, d'arabeschi, d'archi sospesi, di sculture aeree, armonizzate in un disegno grandioso e gentile, la cui prima vista mette un tremito e fa sorridere, come l'improvviso accendersi, scoppiettare e risplendere d'un immenso foco artificiale. Mille vaghe immagini di paradiso che rallegrarono i nostri, sogni infantili si spiccano tutte insieme dalla mente estatica, e volteggiando su su come uno stuolo di farfalle si vanno a posare sui mille rilievi dell'altissima vôlta, e girano, e si confondono, e il vostro sguardo le segue come se le vedesse davvero, e il cuore vi batte, e vi fugge dal petto un sospiro.

Se dalla cupola volgete lo sguardo intorno, vi si offre uno spettacolo anche più stupendo. Le cappelle son altrettante chiese per vastità, per varietà, per ricchezza. In ognuna è seppellito un principe, o un vescovo, o un grande; la tomba è nel mezzo, e v'è stesa su la statua rappresentante il sepolto, col capo appoggiato sur un origliere e le mani giunte sul petto; i sacerdoti vestiti dei loro abiti più pomposi, i principi delle loro armature, le donne delle loro vesti di gala. Tutte coteste tombe son ricoperte di un ampio panno che ricasca dai lati e che assecondando i rilievi angolosi delle statue, fa parer che ci siano sotto davvero le membra irrigidite d'un corpo umano. Da qualunque parte uno si volga, vede lontano, fra gli smisurati pilastri, dietro i ricchi cancelli, all'incerto chiarore che scende dalle altissime finestre, quei mausolei, quei drappi funebri, quei rigidi profili di cadaveri. Avvicinandosi alle cappelle, si resta sbalorditi dalla profusione delle sculture, dei marmi, degli ori che ne adornano le pareti, le vôlte, gli altari: ogni cappella racchiude un esercito d'angeli e di santi scolpiti nel marmo, nel legno, dipinti, dorati, vestiti; in qualunque punto del pavimento il vostro sguardo si fermi, è spinto su di bassorilievo in bassorilievo, di nicchia in nicchia, di rabesco in rabesco, di dipinto in dipinto, fino alla vôlta, e dalla vôlta, per un'altra catena di sculture e di pitture, ricondotto al pavimento. Da qualunque lato volgiate il viso, incontrate occhi che vi guardano, mani che vi accennano, teste di cherubini che fan capolino, svolazzetti che par che s'agitino, nuvole che par che salgano, soli di cristallo che par che tremolino; una varietà infinita di forme, di colori, di riflessi, che v'abbagliano gli occhi e vi confondon la testa.

Non basterebbe un volume a descrivere tutti i capolavori di scultura e di pittura che son sparsi in questa immensa cattedrale. Nella sagrestia della cappella del Conestabile di Castiglia è una bellissima Maddalena attribuita a Leonardo da Vinci; nella cappella della Presentazione una Vergine attribuita a Michelangelo, in un'altra una Santa Famiglia attribuita ad Andrea del Sarto. Di nessuno dei tre quadri si conosce sicuramente l'autore; ma quando vidi tirar la cortina che li copriva, e udii proferire con voce riverente quei nomi, mi corse un brivido dalla testa ai piedi. Provai per la prima volta in tutta la sua forza quel sentimento di gratitudine che dobbiamo ai grandi artisti, che resero il nome d'Italia riverito e caro nel mondo; compresi per la prima volta ch'essi non sono solamente illustratori, ma benefattori della loro patria; e non solo di chi ha intelletto per comprenderli ed ammirarli, ma anche di chi sia cieco alle opere loro, anche di chi non li curi, o gl'ignori. Perchè a chi manca il sentimento del bello, non manca l'orgoglio nazionale, e chi non sente neppur questo, sente almeno l'orgoglio suo, e gode nel profondo dell'anima quando non foss'altri che un sagrestano, all'udirgli dire: nacqui in Italia... gli sorride e si rallegra; e di quel sorriso e del suo godimento ei va debitore ai grandi nomi che non gli toccavan l'anima prima di uscir dai confini del suo paese. Quei grandi nomi l'accompagnano e lo proteggono, dovunque ei vada, come indivisibili amici; lo fan parere meno straniero fra gli stranieri; gli spargono intorno al viso un riflesso luminoso della loro gloria. Quanti sorrisi, quante strette di mano, quante parole cortesi di gente ignota dobbiamo a Raffaello, a Michelangiolo, all'Ariosto, al Rossini!

Chi vuol vedere cotesta Cattedrale in un giorno bisogna che passi dinanzi ai capolavori correndo. La porta scolpita che dà nel chiostro ha fama di essere, dopo le porte del Battistero di Firenze, la più bella del mondo; dietro l'altar maggiore è uno stupendo bassorilievo di Filippo di Borgogna, rappresentante la Passione di Cristo, una composizione immensa, a cui si direbbe non possa esser bastata la vita d'un uomo; il coro è un vero museo di scultura d'una ricchezza prodigiosa; il claustro è pieno di tombe con su statue distese, e intorno una profusione di bassorilievi; nelle cappelle, intorno al coro, nelle sale della sagrestia, per tutto quadri dei più grandi artisti spagnuoli, statuette, colonne, ornamenti; l'altar maggiore, gli organi, le porte, le scale, le inferriate, ogni cosa è grande e magnifico, e desta e schiaccia nello stesso punto l'ammirazione. Ma a che pro aumentar parole su parole? La più minuta descrizione potrebbe dare un'immagine viva della cosa? E quando avessi scritto una pagina per ogni quadro, per ogni statua, per ogni bassorilievo, sarei riuscito forse a destare nell'animo altrui, solo per un istante, la commozione che io provai?

Un sagrestano mi si avvicinò, e mi mormorò nell'orecchio, come se mi rivelasse un segreto:

“Vuol vedere il Cristo?”

“Qual Cristo?”

“Eh!” rispose “si sa, quel famoso!”

Il famoso Cristo della cattedrale di Burgos, che sanguina tutti i venerdì, merita un cenno particolare. Il sagrestano vi fa entrare in una cappella misteriosa, chiude le imposte delle finestre, accende due candele sull'altare, tira un cordoncino, una tenda corre, e il Cristo è là. Se al primo vederlo non pigliate la fuga, siete anime forti: un cadavere vero piantato sulla croce non vi metterebbe più orrore. Non è una statua, come le altre, di legno dipinto; è di pelle, si dice che è una pelle umana, imbottita; ha dei veri capelli e sopracciglia e ciglia e barba di pelo; i capelli intrisi di sangue, rigato di sangue il petto, le gambe, le mani; le piaghe che paion vere piaghe, il color della pelle, la contrazione del viso, l'atteggiamento, lo sguardo, ogni cosa terribilmente vera; direste che a toccarlo si deve sentire il tremito delle membra e il calor del sangue; vi par che le sue labbra si muovano, e stia per uscirne un lamento; non potete reggere lungo tempo a quella vista; vostro malgrado, torcete il viso, e dite al sagrestano:—Ho veduto!—

Dopo il Cristo, bisogna vedere il celebre cofano del Cid. È un cofano sdrucito e tarlato, appeso ad una parete in una sala della sagrestia. La tradizione narra che il Cid portava seco questo cofano nelle sue guerre contro i Mori, e che i sacerdoti se ne servivano come d'altarino per celebrare la messa. Un giorno, trovandosi colle tasche vuote, il formidabile guerriero riempì il cofano di sassi e di ferramenti, lo fece portar da un ebreo usuraio, e gli disse:—Il Cid ha bisogno di denaro; potrebbe vendere i suoi tesori, non vuole; dategli il danaro che gli occorre, egli ve lo renderà fra breve cogl'interessi del novantanove per cento, e lascia intanto come pegno nelle vostre mani questo cofano prezioso che racchiude la sua fortuna. Ma ad un patto: che voi gli giuriate che non l'aprirete prima ch'ei v'abbia restituito l'aver vostro: v'è un segreto che non può esser noto ad altri che a Dio e a me: decidete.—O sia che gli usurai d'allora riponessero maggior fiducia negli ufficiali dell'esercito, o avessero un'oncia di più di minchioneria che quelli d'adesso, il fatto è che l'usuraio del Cid accettò la proposta, prestò il giuramento e diede il denaro. Se il Cid si sia più fatto vivo, non so; e neanche se l'ebreo abbia dato querela; il fatto è che il cofano c'è ancora, e che il sagrestano vi racconta celiando la cosa, senza sospettare neanco per ombra che sia una gherminella da briccone bollato, piuttosto che una burletta ingegnosa da galantuomo faceto.

Prima di uscir dalla Cattedrale bisogna farsi raccontare da un sagrestano la famosa leggenda di Papa-moscas. Papa-moscas è un fantoccio di grandezza naturale, posto nella cassa d'un orologio, al di sopra della porta, nell'interno della chiesa. Una volta, come i celebri fantocci dell'orologio di Venezia, al primo tocco delle ore, usciva fuori del suo nascondiglio, e ad ogni tocco gettava un grido e faceva un gesto stravagante, del che i fedeli pigliavano un grandissimo diletto, i ragazzi ridevano, le funzioni religiose erano turbate. Un vescovo severo, per metter fine allo scandalo, fece recider non so che nervi a Papa-moscas, e d'allora in poi egli rimase immobile e muto. Ma non per questo si cessò di parlar dei fatti suoi e a Burgos, e in tutta la Spagna, ed anche fuori di Spagna. Papa-moscas era una creatura di Enrico III; e di qui vien la sua grande importanza. La storia è assai curiosa. Enrico III, il re dalle avventure cavalleresche, che vendette un giorno il suo mantello per comprarsi da mangiare, soleva andar ogni giorno, incognito, a pregare nella Cattedrale. Una mattina i suoi occhi incontraron quelli d'una giovine donna che pregava dinanzi al sepolcro di Fernando Gonzales; gli sguardi, come direbbe Teofilo Gauthier, si annodarono; la giovine arrossì, il Re le tenne dietro quando uscì dalla chiesa, e l'accompagnò fino a casa. Per molti giorni, nello stesso luogo e all'ora medesima, si rividero, si guardarono, si manifestarono cogli sguardi e coi sorrisi la simpatia e l'amore; e sempre il Re seguitò fino a casa la donna, senza dirle una parola, e senza ch'ella mostrasse di desiderare che gliela dicesse. Una mattina, uscendo di chiesa, la bella sconosciuta lasciò cadere il fazzoletto; il Re lo raccolse, lo nascose in petto e le porse il suo. La donna, suffusa di rossore, lo prese, e asciugandosi le lagrime, disparve. Da quel giorno Don Enrico non la vide più. Un anno dopo, essendosi il Re smarrito in un bosco, fu assalito da sei lupi affamati; dopo una lunga lotta ne uccise tre colla spada, ma già gli mancavan le forze, e stava per esser divorato dagli altri. In quel punto udì un colpo di fucile e uno strano grido, che volse in fuga i tre lupi; si voltò, e vide una donna misteriosa che lo guardava cogli occhi fissi senza poter profferire parola; i muscoli del suo viso erano orribilmente contratti, e tratto tratto un acuto lamento prorompeva dal suo seno. Riavutosi dal primo stupore, il Re riconobbe in quella donna la giovane amata della Cattedrale. Gettò un grido di gioia e si slanciò per abbracciarla; ma la giovane l'arrestò, esclamando con un sorriso divino: “Amai la memoria del Cid e di Ferdinando Gonzales, perchè il mio cuore ama tutto quello che è nobile e generoso; per questo amai te pure; ma il mio dovere mi impediva di consacrarti questo amore che sarebbe stato la felicità della mia vita. Accetta il sacrificio....” Ciò dicendo cadde a terra e spirò senza finire la frase, premendosi sul cuore il fazzoletto del Re. Un anno dopo il Papa-moscas si affacciava per la prima volta alla cassetta dell'orologio ad annunziare le ore; il re Enrico lo aveva fatto fare per onorare la memoria della donna che aveva amata; il grido di Papa-moscas rammentava al Re il grido che la sua salvatrice aveva lanciato nella foresta per spaventare i tre lupi. La storia narra che Don Enrico avrebbe voluto udire ripetere da Papa-moscas anche le parole d'amore della donna; ma che l'artista moro che costrusse l'automa, dopo molti sforzi vani, si dichiarò incapace di soddisfare il desiderio del pietoso monarca.

Udita la storia, feci ancora un giro per la Cattedrale, pensando con tristezza che non l'avrei riveduta mai più, che di lì a poco tante meravigliose opere d'arte non sarebbero più state per me che un ricordo, e che questo ricordo un giorno si sarebbe turbato, o confuso con altri, o perduto. Un prete predicava sul pulpito davanti all'altar maggiore: la sua voce si sentiva appena; una folla di donne inginocchiate sul lastrico, col capo basso e le mani giunte, stavano ascoltando; il predicatore era un vecchio di aspetto venerabile, parlava della morte, della vita eterna, degli angeli, con un accento soave, e facendo ad ogni frase un atto della mano, come se volesse porgerla a una persona caduta, e dicesse:—Sorgi.—Io gli avrei porto la mia, gridandogli:—Sollevami.—La cattedrale di Burgos non è trista come quasi tutte le altre di Spagna; m'aveva rasserenato l'animo, e disposto quietamente ai pensieri religiosi. Uscii ripetendo a fior di labbra, quasi senza accorgermene:—Sollevami;—mi voltai a guardar ancora una volta le ardite guglie e gli svelti campanili, e fantasticando mi diressi verso il centro della città.

Svoltando a una cantonata, mi trovai dinanzi a una bottega, che mi fece rabbrividire. Ce n'è di uguali a Barcellona e a Saragozza, e in tutte le altre città della Spagna; ma non so come, non ne avevo mai viste. Era una bottega ampia, pulita, con due stupende vetrine a destra e sinistra della porta; sulla soglia, una donnina sorridente, che faceva la calza, e un ragazzo, in fondo, che giocava. Eppure, guardando quella bottega, l'uomo più freddo avrebbe sentito una stretta al cuore, l'uomo più allegro si sarebbe turbato. Ve la do in mille a indovinare. Nelle vetrine, dietro i battenti della porta, lungo le pareti, e su, fin quasi al soffitto, l'una sull'altra, in bell'ordine, come ceste di frutta, quali coperte di un bel velo ricamato, quali infiorate, dorate, scolpite, dipinte, v'eran tante casse da morto. Dentro, le casse per gli uomini; fuori, quelle pei bambini. Una delle vetrine combaciava dalla parte esterna con la vetrina d'una bottega da salumaio, in modo che le casse toccavan quasi le uova e i formaggi; e si poteva dare benissimo che un cittadino frettoloso, credendo d'andarsi a comperar la colezione, sbagliasse la porta, e andasse a inciampar nelle bare: scambio poco atto a stuzzicar l'appetito.

E poichè sono a parlar di botteghe, entriamo in una bottega da tabaccaio, a vedere che c'è di diverso dalle nostre. In Spagna, all'infuori dei cigarritos e degli Avana, che si vendono in botteghe a parte, non si fumano altri sigari che i così detti di tres cuartos (un po' meno di tre soldi), della forma dei nostri sigari romani, un po' più grossi, squisitissimi o cattivissimi, secondo la fattura, che è un po' trasandata. Gli avventori abituali, che in spagnuolo si chiamano col curiosissimo nome di parroquianos, pagando qualcosa di più si fan dare i sigari escogidos (scelti); i buongustai raffinati, aggiungendo ancora il contentino alla giunta, ottengono los escogidos de los escogidos, i scelti dei scelti. Sul banco v'è un piattino con una spugnetta intrisa nell'acqua per inumidire i francobolli, senza quella seccatura di star lì a leccare; e in un canto una cassetta per le lettere e per le stampe. La prima volta che s'entra in una di queste botteghe, specie quando c'è molta gente, vien da ridere a veder quei tre o quattro che vendono, sbatter le monete sul banco in maniera da farsele saltare fin sopra la testa, e coglierle in aria, con un gesto da giocatori di bussolotti; e fan così da per tutto per accertarsi col suono che le monete sian buone, poichè ne corron moltissime false. La moneta più usuale è il real, che vale poco più di cinque soldi nostri; quattro reales fanno una peceta, cinque pecetas un duro, che equivale al nostro scudo di buona memoria, aggiuntovi ventisei centesimi; cinque scudi fanno un doblon de Isabel, d'oro. Il popolo fa i suoi conti a reales. Il reale si divide in otto cuartos, o diciassette ochavos, o trentaquattro maravedis; monete dei mori, che han perduta quasi la forma primitiva, e rassomigliano a bottoni schiacciati piuttosto che a monete. Il Portogallo pure ha una unità monetaria più piccola della nostra: il reis, che vale presso a poco la metà d'un centesimo; e tutto si conta a reis. Figuriamoci un povero viaggiatore, che arrivi là senza saperne nulla, e che fatto un buon pranzetto e domandato il conto, si senta dire a muso duro, invece di quattro lire:—Ottocento reis!—Gli si rizzano i capelli.

Prima di sera andai a vedere il luogo dove nacque il Cid; se non ci avessi pensato io stesso, me lo avrebbero rammentato i ciceroni, chè per tutto dove passavo mi mormoravano all'orecchio:—Resti del Cid; casa del Cid; monumento del Cid.—Un vecchietto maestosamente avvolto nella sua cappa, mi disse con aria di protezione: “ Venga Usted conmigo, ” e mi fece salire su per una collina posta a cavaliere della città, sulla cima della quale si vedono tuttora i resti d'un enorme castello, antica dimora dei Re di Castiglia. Prima di giungere al monumento del Cid, s'incontra un arco di trionfo, di stile dorico, semplice e grazioso, fatto innalzare da Filippo II, in onore di Fernan Gonzales, nel luogo stesso, si dice, ove sorgeva la casa in cui nacque il famoso capitano. Un po' più oltre si trova il monumento del Cid, eretto nel 1784. È un pilastro di pietra, poggiato sur un piedistallo in muratura, e sormontato da uno scudo araldico, con questa iscrizione: «In questo luogo sorgeva la casa, nella quale nacque l'anno 1026 Rodrigo Diaz di Vivar, chiamato il Cid campeador. Morì in Valenza il 1099, e il suo corpo fu trasportato nel monastero di San Pietro di Cardena presso questa città.» Mentre leggevo queste parole, il cicerone mi espose una leggenda popolare sulla morte dell'Eroe: “Quando il Cid morì,” mi disse con molta gravità, “nessuno rimase a custodire il suo cadavere. Un ebreo entrò nella chiesa, si avvicinò alla bara e disse:—Ecco il grande Cid al quale nessuno, fin che visse, ebbe il coraggio di toccare la barba; io gliela tocco, e voglio vedere che mi può fare.—Così dicendo allungò la mano; ma nello stesso punto il cadavere afferrò l'elsa della spada e ne trasse un palmo fuori della guaina. L'ebreo gettò un grido e cadde a terra tramortito; i preti accorsero, l'ebreo fu sollevato, tornò in sè e raccontò il miracolo; allora tutti si volsero verso il Cid, e videro che teneva ancora la mano sull'elsa in atteggiamento minaccioso. Dio non aveva voluto che la salma del grande guerriero fosse contaminata dalla mano d'un miscredente.” Dicendo questo, mi guardò, e visto che non facevo il menomo segno d'incredulità, mi condusse sotto un arco di pietra, che doveva essere d'un'antica porta di Burgos, pochi passi lontano dal monumento, e indicandomi una scanalatura orizzontale che si vedeva nel muro a poco più d'un metro da terra, mi disse: “Questa è la misura delle braccia del Cid, quand'era giovanetto, e veniva qui a giuocare coi suoi compagni.” E tese le braccia lungo la scanalatura per farmi vedere quanto ce n'avanzava; poi volle che mi misurassi anch'io, ed ero anch'io più corto; allora mi diede uno sguardo di trionfo e si mosse per ritornare in città. Giunto in una strada solitaria, davanti alla porta d'una chiesa, si fermò, e mi disse: “Questa è la chiesa di Santa Agneda, dove il Cid fece giurare al re Don Alfonso VI di non aver avuto parte nell'uccisione di suo fratello Don Sancho.” Lo pregai di dirmi tutta la storia: “Eran presenti” continuò “i prelati, i cavalieri, gli alti personaggi dello Stato. Il Cid mise il Vangelo sull'altare, il Re vi stese su la mano, e il Cid disse:—Re Don Alfonso, voi mi dovete giurare che non vi siete macchiato nel sangue del re Don Sancho, mio signore; e se giurate il falso prego Iddio che vi faccia perire per la mano d'un vassallo traditore.—E il Re disse:—Amen;—ma cangiò di colore. E il Cid ripetè:—Re Don Alfonso, voi dovete giurare che non avete nè ordinata, nè consigliata la morte del re Don Sancho mio signore; e se giurate il falso, possiate morire per la mano d'un vassallo traditore!—E il re disse:—Amen;—ma cangiò una seconda volta di colore. Dodici vassalli confermarono il giuramento del Re; il Cid gli volle baciare la mano; il Re non glielo permise, e l'odiò da quel momento per tutta la vita.”—Soggiunse poi che un'altra tradizione narrava non avere il re Don Alfonso giurato sul Vangelo, ma sul chiavistello della porta della chiesa; che per molto tempo i viaggiatori di tutti i paesi del mondo eran venuti ad ammirare quel chiavistello, che il popolo gli attribuiva non so quali virtù soprannaturali, e che se ne faceva tanto parlare in ogni parte, e gli si appioppavano tante e sì strampalate favole, che il vescovo Don Fray Pascual fu costretto a farlo togliere, come quello che creava una pericolosa rivalità di potere tra la porta e l'altar maggiore.—Il cicerone non disse altro; ma ci sarebbe da metter assieme dei bei volumi se si volessero raccogliere tutte le tradizioni del Cid che corrono in Spagna. Nessun guerriero leggendario fu mai più caro al suo popolo che questo terribile Rodrigo Diaz de Vivar: la poesia ne ha fatto poco meno d'un dio; la sua gloria vive nel sentimento nazionale degli Spagnuoli, come se fossero trascorsi, non otto secoli, ma otto lustri dal tempo in che visse; il poema eroico che da lui s'intitola, e che è il primo monumento della poesia della Spagna, è ancora l'opera più possentemente nazionale della sua letteratura.

Sull'imbrunire me n'andai a passeggiare sotto i portici della piazza maggiore, colla speranza di vedere un po' di gente; ma pioveva a rovescio e tirava un vento maledetto, così che non ci trovai che qualche gruppo di ragazzi, di operai e di soldati; e me ne tornai difilato all'albergo. V'era arrivato la mattina stessa l'Imperatore del Brasile, e doveva ripartire la notte per Madrid. Nella sala dove io desinai, insieme ad alcuni spagnuoli, ai quali feci conversazione fino all'ora della partenza, desinavano tutti i maggiordomi, cameriere, servitori, staffieri e che so io, di sua maestà imperiale, seduti intorno ad una gran tavola, che occupavano tutta. In vita mia non ho visto un più strano gruppo di creature umane. C'eran dei visi bianchi, dei visi neri, dei visi gialli, dei visi color di rame, con certi occhi e nasi e bocche, da non trovarne gli uguali in tutta la raccolta del Pasquino del Teja. E ognuno parlava una lingua diversa imbastardita: chi l'inglese, chi il portoghese, chi il francese, chi lo spagnuolo; qualcuno una mescolanza non mai più udita di tutte e quattro, aggiuntovi parole, suoni e cadenze di non so che dialetti; e si capivano, e discorrevano tutti insieme con confusione tale da far credere che parlassero una sola arcana orrenda lingua di qualche terra selvaggia ignorata dal mondo.

Prima di lasciare la Vecchia Castiglia, la culla della monarchia spagnuola, avrei voluto veder Soria, fabbricata sulle rovine dell'antica Numancia; Segovia, dall'immenso acquedotto romano; Sant'Idelfonso, il delizioso giardino di Filippo V; Avila, la città natale di Santa Teresa; ma fatte in fretta e in furia, prima di prendere il biglietto per Valladolid, le quattro prime operazioni dell'aritmetica, dissi a me stesso che in quelle quattro città non ci potevano essere grandi cose da vedere, che le Guide esagerano, che la fama fa le frangie, che val meglio veder poco che molto, pur che quel poco si veda bene, e si ritenga; ed altre profonde ragioni che rispondevano rigorosamente ai dati dei miei calcoli e alle mire della mia ipocrisia.

Così partii da Burgos senz'aver visto proprio altro che monumenti, ciceroni e soldati, poichè le castigliane, impaurite dalla pioggia, non avevano osato avventurare i loro piedini nella strada; e mi rimase perciò un ricordo quasi tristo di quella città, nonostante la pompa dei suoi colori e la magnificenza della sua Cattedrale.

Da Burgos a Valladolid, la campagna è poco diversa che da Saragozza a Miranda; sono ancora quelle pianure vaste e spopolate, cinte di colline rossastre, dalle forme recise e dalle creste nude; quelle lande solitarie, mute, inondate d'una luce ardente, che volgon la fantasia ai deserti dell'Affrica, alla vita romita, al cielo, all'infinito, destando nel cuore un sentimento inesprimibile di stanchezza e di malinconia. In mezzo a quelle pianure, in quella solitudine, in quel silenzio, si comprende la mistica natura del popolo delle Castiglie, la fede ardente dei suoi re, le sacre ispirazioni dei suoi poeti, le estasi divine dei suoi santi, le sue grandi chiese, i suoi grandi chiostri, e la sua grande istoria.

IV. VALLADOLID.

Valladolid la rica, come la dice il Quevedo, famosa dispensatrice di raffreddori, era fra le città situate al nord del Tago, quella che più vivamente io desiderava di vedere, benchè sapessi che non ci sono grandi monumenti artistici, nè alcuna cosa moderna notevole. Avevo una particolar simpatia pel suo nome, per la sua storia, e per il carattere, che m'ero immaginato a mio modo, dei suoi abitanti; mi pareva che dovess'essere una città signorile, allegra e studiosa; e non potevo raffigurarmi le sue strade, che non vedessi passar di qui il Gongora, di là il Cervantes, da un'altra parte Leonardo d'Argensola, e tutti gli altri poeti e storici e dotti, che vivevan là quando c'era la splendida Corte della monarchia. E pensando alla Corte, vedevo un confuso avvicendarsi nelle vaste piazze della mia città simpatica, di processioni sacre, di corse di tori, di pompe militari, di mascherate, di balli, tutto il diavolío delle feste per la nascita di Filippo IV, dall'arrivo dell'Ammiraglio inglese col corteo dei seicento cavalieri fino all'ultimo banchetto dai famosi mille e duecento piatti di carne, senza contare i non serviti, per dirla colla tradizion popolare. Arrivai di notte, scesi al primo albergo e m'addormentai col pensiero delizioso che mi sarei svegliato in una città sconosciuta.

E lo svegliarsi in una città sconosciuta, quando ci si è andati per elezione, è infatti un piacere vivissimo. Quel pensare che dal momento che uscirete di casa fino a quando ci tornerete la notte, non farete che passare di curiosità in curiosità, e di soddisfazione in soddisfazione; che tutto quello che vedrete vi riuscirà nuovo, e che ad ogni passo imparerete qualcosa, e che ogni cosa vi s'imprimerà nella memoria per tutta la vita; che sarete tutta la giornata libero come l'aria e allegro come un uccello, senza un pensiero al mondo, fuor di quello di divertirvi; che divertendovi, gioverete nello stesso punto alla salute del corpo, dell'animo e dell'intelletto; che il termine, finalmente, di tutti questi piaceri, invece di avere per voi qualcosa di malinconico come la sera dei dì di festa, non sarà che il principio d'un'altra serie di diletti, che vi accompagnerà da quella città ad un'altra, da questa a una terza, e via via, per uno spazio di tempo al quale la vostra fantasia si compiace di non assegnare confini; tutti questi pensieri, dico, che vi si affacciano alla mente in folla, nel punto che aprite gli occhi, vi danno una cosiffatta scossa di gioia, che prima di avvedervene, vi trovate ritto in mezzo alla stanza, col cappello in testa e la Guida tra le mani.

Andiamo dunque a godere Valladolid.

Ahimè! quanto mutata dai bei tempi di Filippo III! La popolazione, che fu già di centomil'anime, è ora ridotta a poco più di ventimila; nelle strade principali fanno un po' di comparita gli studenti dell'Università e i viaggiatori che passano per andare a Madrid; le altre strade sono morte. È una città che fa l'effetto d'un gran palazzo abbandonato, nel quale si vedono ancora qua e là traccie di bassorilievi, di dorature e di mosaici, e nelle sale di mezzo alcune famiglie di povera gente, a cui la solitaria vastità dell'edifizio ispira malinconia. Molte piazze spaziose, qualche antico palazzo, case in rovina, conventi vuoti, lunghe strade erbose e deserte; tutti gli aspetti, insomma, d'una gran città decaduta. Il più bel punto è la piazza Maggiore, vasta, cinta tutt'intorno da un porticato sostenuto da grandi colonne di granito azzurrognolo, sulle quali s'alzan le case, tutte di tre piani, munite di tre ordini di terrazzini lunghissimi, dove si dice che starebbero comodamente sedute ventiquattro mila persone. Il porticato si stende ancora ai due lati d'una larga strada che sbocca nella piazza, e qui e in altre due o tre strade vicine è la maggiore frequenza della gente. Era giorno di mercato; sotto i portici e sulla piazza formicolava una folla di contadini, di erbivendole, di merciai; e poichè a Valladolid si parla il castigliano con proprietà mirabile di forma e di pronunzia, io mi misi a bighellonare fra le ceste d'insalata e i mucchi degli aranci, per cogliere a volo i motti e i suoni della bellissima lingua. Mi ricordo, tra gli altri, d'un curioso proverbio detto da una donna stizzita a un giovinastro che facea lo smargiasso: “ Sabe Usted, ” gli disse piantandosegli davanti, “ lo que es que destruye al hombre? ” Mi fermai e tesi l'orecchio: “ Tres muchos y tres pocos: Mucho hablar y poco saber, Mucho gastar y poco tener, Mucho presumir y nada valer.[2]

E mi parve di sentire una gran differenza tra le voci di quella gente e le voci dei Catalani: qui più limpide e più argentine, ed anco il gestire più gaio, e l'espressione dei volti più vivace; benchè nulla ancora di particolare nelle fisonomie e nei colori; e il vestire punto differente da quello delle nostre plebi del nord. E appunto nella piazza di Valladolid m'accorsi per la prima volta che dacchè ero entrato in Spagna non avevo ancora visto una pipa! Gli operai, i contadini, i poveri, tutti fumano il cigarrito; e c'è da ridere a veder certi omoni tarchiati e baffuti andar attorno con quel cosino microscopico in bocca, mezzo nascosto dai peli; e fumarlo diligentissimamente fino all'ultimo filo di tabacco, fino a non aver più che una scintilla moribonda sul labbro di sotto; e questa ancora tenerla lì, come una goccia di liquore, fin che ne sputan la cenere, coll'aria di chi fa un sacrifizio. E d'un'altra cosa m'accorsi, che osservai pure in seguito, per tutto il tempo che rimasi in Ispagna: non ho mai sentito fischiare.

Dalla piazza Maggiore mi recai alla piazza di San Paolo, vasta ed allegra piazza, nella quale è l'antico palazzo reale. La facciata non è notevole, nè per grandiosità, nè per bellezza: mi affacciai alla porta, e prima di provare un senso d'ammirazione per la maestà del luogo, ne provai uno di tristezza per il silenzio sepolcrale che vi regnava. Non v'è cosa che produca una impressione più vicina a quella d'un camposanto, che la vista d'una reggia abbandonata, appunto perchè ivi è forte e vivo, più che in ogni altro luogo, il contrasto tra i ricordi che desta e lo stato in cui si trova. O superbi cortei di cavalieri piumati, o splendidi conviti, o godimenti febbrili d'una prosperità che pareva eterna! Dinanzi a questi vuoti sepolcri, è un piacere nuovo quello di tossire un po', come qualche volta fanno i malati per prova, e sentir ripetere dall'eco la vostra voce robusta, che v'assicura che siete giovani e sani. Nell'interno del palazzo è un ampio cortile, circondato di busti a mezzo rilievo che rappresentano gl'imperatori romani; una bella scala, e spaziose gallerie al piano superiore. Tossii, e l'eco mi rispose:—Che salute!—ed uscii confortato. Un portinaio sonnecchiante mi accennò sulla medesima piazza un altro palazzo, al quale non avevo badato, e mi disse che in quello era nato el gran rey Felipe segundo, dal quale Valladolid ricevette il titolo di città; “ Usted sabe, Felipe segundo, hijo de Carlo quinto, padre de... ”—“ Lo sé, lo sé; ” m'affrettai a rispondere per salvare il realito, e dato un sinistro sguardo al sinistro palazzo, m'allontanai.

Di fronte al palazzo reale è il Convento dei Domenicani di San Paolo, con una facciata di stile gotico, così ricca, stracarica di statuette, di bassorilievi, d'ornamenti d'ogni maniera, che basterebbe la metà ad abbellire un vasto palazzo. In quel punto vi batteva su il sole, e l'effetto era stupendo. Mentre io stavo contemplando a mio bell'agio quel labirinto di scultura, dal quale lo sguardo, una volta cadutovi, par che non possa più uscire; un accattoncino di sette o ott'anni ch'era seduto in un angolo lontano della piazza, si spicca dal suo posto come da corda cocca, e si slancia verso di me, gridando con voce tenera e affannosa: « Señorito! Señorito! que le quiero á Usted mucho! » (ch'io le voglio molto bene). Questa è nuova, pensai, che i poveri facciano delle dichiarazioni d'amore. Mi si venne a piantare dinanzi, e io gli domandai:

Porqué me quieres?

Porque ” mi rispose con franchezza “ Usted me da una limosnita.

“E perchè ti debbo dare una limosnita?”

Porque.... ” rispose esitando; poi risoluto, col tuono di chi ha trovato una buona ragione: “ Porque usted tiene el libro.

La guida che avevo sotto il braccio! Ma vedete se bisogna proprio viaggiare per sentirne delle nuove! Io avevo la guida, la guida l'hanno i forestieri, i forestieri fanno la limosina, dunque io dovevo far la limosina a lui; tutto questo ragionamento sottinteso invece di dire:—Ho fame.—Mi piacque la speciosità del trovato, e misi nella mano del profondo ragazzo i pochi cuartos che mi trovai nelle tasche.

Svoltando in una strada accanto, vidi la facciata del Collegio domenicano di San Gregorio, pure gotica, e più grandiosa e più ricca di quella di San Paolo. Poi, di strada in strada, giunsi fino alla piazza della Cattedrale. Nel punto che sbocco nella piazza, incontro una spagnolina graziosissima, alla quale si sarebbero potuti applicare quei due versi dell'Espronceda:

«Y que yo la he de querer
Por su paso de andadura.»

o il nostro «non era l'andar suo cosa mortale» che è la grazia suprema delle donne spagnuole. Aveva nell'andatura quei mille sfuggevoli guizzi e mollissimi ondeggiamenti, che l'occhio non iscorge a uno a uno, nè la memoria ritiene, nè la parola esprime; ma che formano tutti insieme quello che ha di più seducentemente femminino la donna. Qui mi trovai in un imbarazzo; vedevo in fondo alla piazza la gran mole della Cattedrale, e la curiosità mi stimolava a guardare la mole; vedevo, pochi passi davanti a me, quella personcina, e una curiosità non meno viva mi costringeva a guardare la personcina; e non volendo perdere nè il primo colpo d'occhio della Chiesa, nè la fugace vista della donna, correvo cogli occhi dal visino alla cupola e dalla cupola al visino, con sì affannosa avidità, che la bella sconosciuta dovette credere certamente ch'io avessi scoperto una qualche corrispondenza di linee, o qualche legame misterioso di simpatia fra lei e l'edifizio; perchè si volse a guardar la chiesa essa pure, e passandomi accanto sorrise.

La Cattedrale di Valladolid, benchè non finita, è una delle più vaste cattedrali della Spagna: è una imponente massa di granito, che produce nell'animo d'un incredulo un effetto simile a quello della chiesa del Pilar di Saragozza. Al primo entrare, si vola col pensiero alla Basilica di San Pietro: è un'architettura grandiosa e semplice, che riceve dal color fosco della pietra come un riflesso di mestizia; le pareti son nude, le cappelle buie, gli archi, i pilastri, le porte, ogni cosa gigantesco e severo; è una di quelle cattedrali che fan balbettar la preghiera con un senso di terrore segreto; non avevo ancora visto l'Escurial, ma ci pensai; è opera, in fatti, dello stesso architetto; la chiesa fu lasciata incompiuta per dar opera alla costruzione del convento; e visitando il convento si ricorda la chiesa. A destra dell'altar maggiore, in una piccola cappella, sorge la tomba di Pietro Ansurez, signore e benefattore di Valladolid, e al di sopra del monumento è deposta la sua spada. Ero solo nella chiesa, e sentivo echeggiare il mio passo; mi prese tutt'a un tratto un senso di freddo acuto e non so che fanciullesco timore; volsi le spalle alla tomba ed uscii.

Uscendo, incontrai un prete e gli domandai dov'era la casa che aveva abitato il Cervantes. Mi rispose ch'era nella strada Cervantes e m'indicò da qual parte dovevo passare; lo ringraziai, mi domandò s'ero straniero, risposi di sì; “ de Italia? ”—“ de Italia. ” Mi diede un'occhiata da capo a piedi, si levò il cappello e tirò via per la sua strada. Mi mossi anch'io, in senso opposto, e mi venne un'idea:—Scommetto che s'è fermato per vedere com'è fatto un carceriere del Papa;—mi voltai, ed egli era proprio là immobile in mezzo alla piazza, che mi guardava con tanto d'occhi. Non potei trattenermi dal ridere e scusai il riso con un saluto: “ Beso a usted la mano! ” ed egli a me: “ Buenos dias! ” e tirò via; ma deve aver soggiunto, non senza meraviglia, che, per essere un Italiano, non avevo poi tanto la faccia di farabutto. Attraversai due o tre strade strette e silenziose, e riuscii nella strada Cervantes, lunga, diritta, fangosa, fiancheggiata da case meschine. Andai per un pezzo non incontrando che qualche soldato, qualche criada, e qualche mulo, e guardando qua e là pei muri in cerca dell'iscrizione:— A qui vivió Cervantes ec.;—ma non trovai nulla. Giunto in fondo, mi trovai nell'aperta campagna; non c'era anima viva; stetti un po' là a guardare intorno, poi tornai. M'imbattei in un mulattiere, e gli domandai: “ Donde está la casa que vivió Cervantes? ” Per tutta risposta diede una sfruconata al mulo, e tirò innanzi. Interrogai un soldato: mi mandò in una bottega. Nella bottega interrogai una vecchia: non mi capì, credette ch'io volessi comprare il Don Chisciotte, mi mandò da un libraio. Il libraio, che volea fare il saputello, e non sapeva risolversi a dirmi che della casa del Cervantes non aveva notizia, mi si mise a batter la campagna, parlando della vita e delle opere del milagroso escritor; così che in somma delle somme me ne dovetti andare pei fatti miei senza aver visto nulla. Eppure si dev'esser serbata memoria di quella casa (e certo, se l'avessi meglio cercata, l'avrei rinvenuta), non solo perchè il Cervantes l'abitò, ma perchè seguì là un fatto, del quale tutti i suoi biografi fanno menzione. Poco tempo dopo la nascita di Filippo IV, essendosi incontrati, una notte, un cavaliere della Corte e uno sconosciuto, vennero, non si sa perchè, a parole, misero tutti e due mano alle spade, si batterono, e il cavaliere fu ferito mortalmente. Il feritore se la svignò; il ferito, tutto intriso di sangue, corse a chieder soccorso ad una casa vicina. Abitavano in quella casa il Cervantes colla sua famiglia, e la vedova d'un rinomato scrittor di cronache, con due figliuoli. Uno di questi accorse, alzò da terra il ferito, e chiamò il Cervantes, ch'era già a letto. Il Cervantes scese, e aiutò l'amico a portare il cavaliere in casa della vedova. Due giorni dopo morì. Se ne mischiò la giustizia, si cercò di scoprir la cagione del duello, si credette che i due campioni facessero la corte tutti e due alla figlia o alla nipote del Cervantes: tutta la famiglia fu messa in gattabuia. Dopo non molto tempo vennero lasciati in libertà, e non si seppe più altro. Ma anche questa doveva capitare al povero autore del Don Chisciotte, perchè potesse proprio dire d'averne avuta una per sorte!

In quella stessa strada Cervantes, mi son goduto una scenetta che mi compensò a mille doppi di non aver trovato la casa. Passando davanti a una porta, sorpresi al piè d'una scala una castiglianina, di dodici o tredici anni, bella come un angioletto, la quale teneva fra le braccia un bambino. Non trovo parole abbastanza delicate e gentili per descrivere l'atto ch'ella faceva! Una infantile curiosità delle dolcezze dell'amor materno l'aveva soavemente tentata; i bottoni del suo camiciotto erano usciti pian piano dagli occhielli, l'un dopo l'altro, sotto la pressione d'un ditino tremante; era sola, non sentiva rumor nella strada, aveva nascosto la mano nel seno; allora, forse, era rimasta un momento perplessa; ma data un'occhiata al bambino, e sentito rinascere il coraggio, aveva fatto un leggero sforzo colla mano nascosta, e aveva messo fuori quello che poteva; e tenendo schiusi i labbruzzi al bambino coll'indice e col medio, gli diceva con tenerezza: “ Héla aqui ” (eccola qui), e aveva il volto color di foco, e un sorriso dolcissimo negli occhi. Sentito il mio passo, gettò un grido, e scomparve.

Invece della casa del Cervantes, trovai, di lì a poco, quella dove nacque don José Zorilla, uno dei più valenti poeti spagnuoli di questi tempi, vivo tuttora, da non confondersi, come fanno molti in Italia, collo Zorilla capo del partito radicale; benchè della poesia in testa ce n'abbia anche questi, e la sparga a larga mano ne' discorsi politici, con rinforzo di alte grida e di gesti furiosi. Don José Zorilla è nella letteratura spagnuola, a parer mio, un po' più di quello che nell'italiana è il Prati, col quale ha molti tratti di somiglianza: il sentimento religioso, la passione, la fecondità, la spontaneità, e un non so che di vago e di ardito, che scalda le fantasie giovanili; e un modo di leggere, a quello che si dice, risonante e solenne, benchè leggermente monotono, del quale molti spagnuoli vanno matti. La forma, direi che l'ha più corretta il poeta spagnuolo; prolissi un po' l'uno e l'altro; in tutti e due un barlume di grande poeta. Ammirabili, sovra ogni altra opera dello Zorilla, I cantos del Trovador, racconti e leggende, pieni di versi d'amore dolcissimi e di descrizioni d'un'evidenza impareggiabile. Scrisse anco pel teatro: e il suo Don Juan Tenorio, dramma fantastico, in versi ottonari a rime, è una delle più popolari opere drammatiche della Spagna. Si rappresenta ogni anno il giorno dei morti, con grande apparato, e vi accorre il popolo come a una festa. Alcuni tratti di lirica sparsi nel dramma, corrono per le bocche di tutti; e in special modo la dichiarazione d'amore di Don Giovanni all'amante rapita, che è quanto di più soave, di più tenero, di più ardente possa uscire dalle labbra d'un giovane innamorato nel più impetuoso prorompere della passione. Sfido il più freddo degli uomini a legger quei versi senza tremare! Ed è forse anche più potente la risposta, della donna:—Don Giovanni! Don Giovanni! Lo imploro dalla tua nobile compassione: o strappami il cuore o amami, perchè t'adoro!—Fateveli dire, quei versi, da un'Andalusa, e ve n'accorgerete; o se non potete far questo, vedete di leggere almeno la ballata col titolo La Pasionaria, lunghetta, ma piena d'un affetto e d'una malinconia che innamora. Io non posso ricordarmene senza che mi si riempian gli occhi di lagrime; vedo sempre quei due amanti, Aurora e Felice, giovanetti, in una campagna deserta, al cadere del sole, che s'allontanano per opposte vie, voltandosi ad ogni tratto, e salutandosi, e non saziandosi mai di guardarsi. Son versi, come li chiaman gli Spagnuoli, asonantes, senza rima, ma composti e ordinati così che la penultima sillaba d'ogni verso dispari o pari, sulla quale cade l'accento, abbia sempre la stessa vocale; che è la maniera di verso più popolare in Spagna, il verso del Romancero, nel quale moltissimi improvvisano con meravigliosa facilità; nè può uno straniero sentirne tutta l'armonia se non ci abbia fatto l'orecchio.

“Si può vedere il Museo di Pittura?”—“ Porqué no, caballerito? ” La portinaia mi schiuse le porte del Collegio maggiore di Santa Croce, e mi accompagnò nell'interno. I quadri son molti, ma fuor di qualcuno del Rubens, del Mascagni, del Cardenas, di Vincenzo Carducci, gli altri son quadri di pochissimo pregio, razzolati qua e là pei conventi, e sparsi a casaccio nelle stanze, nei corridoi, nelle scale, nelle gallerie. Ciò non di meno, gli è un Museo che lascia nell'animo una impressione profonda, non molto dissimile da quella che produce la prima volta lo spettacolo del combattimento dei tori; e infatti sono trascorsi più di sei mesi da quel giorno, ed io la risento ancora come se l'avessi ricevuta poche ore fa. Quanto di più tristo, di più sanguinario, di più orrendo è uscito dal pennello dei più feroci pittori spagnuoli, si trova raccolto là. Immaginate pur delle piaghe, delle membra mutilate, delle teste spiccate dal busto, dei corpi estenuati, flagellati, tanagliati, arsi, straziati con quanti tormenti abbiate mai trovati descritti nei romanzi del Guerrazzi o nelle Storie dell'Inquisizione, non giungerete a formarvi un'adeguata idea del Museo di Valladolid. Passate di sala in sala, e non vedete che visi stravolti di morti, di moribondi, d'indemoniati, di carnefici, e in ogni parte sangue, e sangue, e sangue, che vi pare di vederlo spicciar fuori dei muri e di sguazzarci dentro come la Babette del Padre Bresciani nelle prigioni di Napoli. È un cumulo di dolori e d'orrori da riempirne gli spedali d'uno Stato. Sulle prime si prova un senso di tristezza, poi di ribrezzo, in fine, più che di ribrezzo, di sdegno contro gli artisti macellai che prostituirono l'arte di Raffaello e di Murillo in così sconcia maniera. Il quadro più guardabile ch'io vidi, fra i moltissimi cattivi, benchè anch'esso d'un realismo spietatamente spagnuolo, rappresentava la Circoncisione di Gesù, con tutti i particolari più minuti delle cose taglienti e delle cose tagliate, e una corona di spettatori chinati ed immobili, come studenti di clinica chirurgica intorno al maestro operatore: “ Vámonos, vámonos ” dissi alla cortese portinaia, “se sto qui un'altra mezz'ora, n'esco bruciato, o scorticato o squartato; non ha da farmi veder nulla di più allegro?” Mi condusse a veder l'Ascensione del Rubens, gran quadro di grande effetto, che starebbe bene sur un altar maggiore: una Vergine maestosa e sfolgorante che sale al cielo, e ai lati, e sopra, e sotto, un visibilio di volti d'angelo, di corone di fiori, di chiome d'oro, d'ali bianche, di svolazzetti, di raggi; e tutto tremola, fende l'aere e va su, come uno stormo di passere, onde pare che da un momento all'altro debba sollevarsi e sparire.

Ma era fissato ch'io non dovessi uscire dal Museo con una gradevole immagine davanti agli occhi. La portinaia aperse una porta e mi disse ridendo:—Entri.—Entrai e detti indietro intimorito: mi parve d'esser capitato in un manicomio di giganti. La vasta sala era piena di colossali statue di legno colorito, rappresentanti tutti gli attori e tutte le comparse del gran dramma della Passione, soldati, aguzzini, spettatori, ciascuno nell'atteggiamento richiesto dal suo ufficio, chi in atto di flagellare, chi di legare, chi di ferire, chi di schernire,—orrendi volti orrendamente contratti;—poi le donne inginocchiate, Gesù confitto sopra una croce enorme, i ladroni, la scala, gli strumenti del supplizio: tutte le cose occorrenti, in somma, per rappresentare la Passione, come si faceva una volta, sulle piazze, con un gruppo di quei colossi, che dovevano occupare lo spazio d'una casa. E anche qui piaghe, chiome inzuppate di sangue, lacerazioni da far raccapriccire. “Vede quel Giudeo là?” mi disse la donna accennandomi una delle statue, una faccia patibolare che sogno ancora adesso di tratto in tratto. “Quello là, quando si facevano i gruppi fuori, si fu costretti a levarlo, tanto è brutto e tristo; il popolo l'odiava a morte e lo voleva mettere in pezzi, e siccome gli era sempre un gran da fare per le guardie a impedire che dalle minaccie non si passasse ai fatti, fu deciso di fare il gruppo senza di lui.” Bellissima mi parve una madonna, non so se del Berrugnete, di Iuan di Iuni, o dell'Hernandez, chè c'è statue di tutti e tre; inginocchiata, colle mani giunte e gli occhi volti al cielo, con una espressione di così disperato dolore, che muove la pietà come una persona viva, e pare infatti, a pochi passi, viva; così che, vedendola tutt'a un tratto, non si può trattenere un'esclamazione di stupore “ Los ingleses ” mi disse la portinaia (poichè i ciceroni si servono dei giudizi degli inglesi come di suggello ai proprii, e qualche volta appioppan loro le più scipite stravaganze) “ los ingleses dicen que no le falta mas que el habla ” (che non le manca che la parola). Mi accomodai lietissimamente al parere degli Inglesi, diedi alla portinaia i soliti reales, ed uscendo colla testa piena d'immagini sanguinose, salutai il cielo allegro con un sentimento insolito di piacere, come uno studente novizio all'uscire dalla sala anatomica, dove abbia assistito alla prima autopsia.

Visitai il bel palazzo dell'Università, la plaza Campo grande, dove la Santa Inquisizione accendeva i suoi roghi, ampia, allegra, cinta di quindici conventi; qualche chiesa adorna di pitture di grido; e quando cominciai ad accorgermi che le immagini delle cose vedute mi si confondevano nella testa, misi in tasca la Guida, e m'incamminai verso la piazza maggiore. Il medesimo feci in tutte le altre città: quando la mente è stanca, il volerla forzare ancora all'attenzione, per quella pedanteria di non mancare di riguardo alla Guida, sarà una bella prova di costanza; ma nuoce a chi viaggia collo scopo di narrar poi le impressioni delle cose viste. Poichè tutto non si può ritenere, val meglio non confondere la memoria viva delle cose principali, con una folla di ricordi vaghi delle cose di minor conto. Oltrechè non si serba mai grata ricordanza d'una città nella quale ci si è fatto il capo come un cestone.

Per cogliere l'aspetto vespertino della città, andai a passeggiare sotto i portici, dove s'incominciavano ad illuminare le botteghe; e v'era un viavai di soldati, di studenti, di ragazze, che sparivan nelle porticine, volteggiavano intorno alle colonne, guizzavano di qua e di là, sfuggendo alle mani impronte degl'insecutori avvolti nelle ampie cappe; e frotte di ragazzi scorazzavano per la piazza empiendo l'aria di grida sonore; e per tutto eran capannelli di caballeros, dai quali si udivano tratto tratto i nomi del Serrano, del Sagasta e di Amedeo, alternati colle parole justicia, libertad, traicion, honra de España, e simili. Entrai in un ampissimo caffè pieno zeppo di studenti, e là saziai, come direbbe uno scrittore scelto, il natural talento di cibo e di bevanda. Ma poichè avevo un gran bisogno di discorrere, adocchiai due studenti che sorbivano il caffè e latte al tavolino accanto, e senza far tanti preamboli, diressi la parola ad uno: cosa naturalissima in Spagna, dove si è sicuri di aver sempre una risposta cortese. I due studenti s'avvicinarono, e lì i soliti discorsi che ognuno s'immagina: Italia, Amedeo, università, Cervantes, andaluse, tori, Dante, viaggi; una scorsa, insomma, alla carta geografica, alla storia letteraria e ai costumi dei due paesi; poi un bicchier di vino di Malaga, e una stretta di mano da amici.

O caballeros di buona memoria, avventori di tutti i caffè, commensali di tutte le tavole rotonde, vicini di scranna in tutti i teatri, compagni di viaggio in tutte le strade ferrate della Spagna; voi che tante volte, mossi da gentile pietà per uno straniero sconosciuto, che scorreva con occhio malinconico l' Indicatore delle Ferrovie o la Correspondencia española, pensando alla famiglia, agli amici, alla patria lontana, gli avete offerto, con amabile spontaneità, il cigarrito, e dato appiglio a una conversazione, che gli ruppe il corso dei mesti pensieri e lo lasciò rasserenato ed allegro; io vi ringrazio, o caballeros di buona memoria; chiunque foste, o carlisti, o alfonsisti, o amedeisti, o liberali, vi ringrazio dal più profondo dell'anima, in nome di tutti gl'Italiani che viaggiarono e di tutti quelli che viaggeranno nel vostro caro paese; e giuro sull'eterno volume di Michele Cervantes, che ogni qualvolta vi sentirò accusare di animo feroce e di selvaggi costumi dai vostri civilissimi fratelli europei, sorgerò a difendervi coll'impeto d'un andaluso e colla tenacia d'un catalano, sin che mi resti tanta voce da gridare: Viva l'ospitalità!

Poche ore dopo mi trovavo in un carrozzone del treno che andava a Madrid, e non era anche finito il fischio della partenza, che io mi diedi un gran colpo della mano sulla fronte. Ahimè! era tardi; a Valladolid avevo dimenticato di visitare la stanza dove morì Cristoforo Colombo!

NOTE:

[2] Tre molto e tre poco distruggon l'uomo: molto parlare e poco sapere, molto spendere e poco avere, molto presumere e nulla valere.

V. MADRID.

Era giorno, quando uno dei miei vicini mi gridò nell'orecchio: “ Caballero! ”—“Siamo a Madrid?” domandai svegliandomi. “Non ancora” mi rispose “ma guardi!” Mi voltai verso la campagna e vidi lontano un mezzo miglio, alle falde d'un alto monte, il convento dell'Escuriale, illuminato dai primi raggi del sole. Le plus grand tas de granit qui existe sur la terre, come lo chiamò un viaggiatore illustre, non mi parve, a primo aspetto, quell'immenso edifizio che il popolo spagnuolo considera come l'ottava meraviglia della terra. Nondimeno misi fuori il mio:— Oh! —come altri viaggiatori che lo vedevano per la prima volta, riserbando tutta la mia ammirazione al giorno che l'avrei visto da vicino. Dall'Escurial a Madrid la strada ferrata attraversa una pianura arida, che rammenta quella di Roma. “Non ha mai veduto Madrid, lei?” mi domandò il vicino.—Risposi che no.—“ Parece imposible! ” esclamò il buon Spagnuolo, e mi guardò in aria di curiosità, quasi dicendo fra sè:—Oh vediamo un po' com'è fatto un uomo che non ha mai visto Madrid!—Poi prese a enumerarmi le grandi cose che avrei veduto: che passeggi! che caffè! che teatri! che donne! Per chi abbia un trecento mila lire da spendere, non c'è di meglio di Madrid: è un gran mostro che vive di patrimonii; se fossi in lei vorrei prendermi il gusto di cacciargli in gola anche il mio.—Io premetti colla mano il mio floscio portamonete, e mormorai:—Povero mostro!—“Ci siamo!” gridò lo spagnuolo “guardi fuori!” Misi la testa fuor del finestrino. “Quello là è il palazzo reale!” Vidi sopra un'altura una mole immensa; ma chiusi gli occhi subito, perchè mi batteva il sole sul viso. Tutti s'alzarono, e cominciò quel solito tramenío

«Di pastrani, di scialli e d'altri cenci,»

che impedisce quasi sempre la prima vista delle città. Il treno si ferma; scendo, e mi trovo in una piazza piena di carrozze, in mezzo a una folla rumorosa; cento mani si stendono sulla mia valigia, cento bocche mi urlan nell'orecchio; è un casa del diavolo di facchini, di carrozzai, di ciceroni, di fattorini di casas de huespedes, di guardie, di ragazzi. M'apro il passo a colpi di gomito, mi caccio in un omnibus pieno di gente, e via. Si va su per uno stradone, si attraversa una gran piazza, si infila una strada larga e diritta, si arriva alla Puerta del Sol. È un colpo d'occhio stupendo! È una vastissima piazza semicircolare, circondata di alti edifizi, nella quale sboccano, come dieci torrenti, dieci grandi strade; e da ogni strada una continua onda rumorosa di popolo e di carrozze; e tutto quello che vi si vede è proporzionato alla vastità del luogo; i marciapiedi larghi come vie, i caffè ampi come piazze, una vasca di fontana grande come un lago; e in ogni parte una folla fitta e mobilissima, un gridío assordante, un non so che di allegro e di festivo nei volti, nei gesti, nei colori, che fa sì che non vi paia straniera nè la gente, nè la città, e vi mette addosso una smania di mescervi in quello strepito, di salutar tutti, di correr qua e là, piuttosto per riconoscere cose e persone, che per vederle la prima volta. Scendo a un albergo, n'esco subito, mi metto a girare per la città, alla ventura. Non grandi palazzi, non antichi monumenti d'arte; ma strade spaziose, pulite, gaie, fiancheggiate da case dipinte a vivi colori, interrotte da piazze di mille forme diverse, quasi tracciate a caso, e in ogni piazza un giardino, una fontana, una statuetta. Alcune strade in leggiera salita, di modo che, entrandovi, si vede in fondo il cielo, e par che sbocchino nell'aperta campagna; ma giunti sul punto più alto, un'altra lunga strada si stende allo sguardo. Ad ogni poco, crocicchi di cinque, sei, fino a otto vie, e qui un incrociarsi continuo di carrozze e di gente; i muri coperti, per lunghi tratti, di cartelloni di spettacoli; nelle botteghe, un va e vieni incessante; i caffè, stipati; in ogni parte il brulichío d'una grande città. La strada d'Alcalà, larghissima, da parer quasi una piazza rettangolare, divide Madrid per mezzo, dalla Puerta del Sol verso oriente, e sbocca in una vasta pianura, che si stende lungo tutto un lato della città, e contiene giardini, passeggi, piazze, teatri, circo di tori, archi trionfali, musei, palazzine, fontane. Salgo in una carrozza, e dico al vetturino:— Vuela! —Passo accanto alla statua del Murillo, risalgo per la strada Alcalà, infilo la strada del Turco, dove fu assassinato il generale Prim; attraverso la piazza delle Cortes, dove sorge la statua di Michele Cervantes; sbocco nella piazza Maggiore, dove accendeva i suoi roghi l'Inquisizione; torno addietro, e passo dinanzi alla casa di Lopez de Vega; riesco nella vasta piazza d'Oriente in faccia al palazzo reale, dove si innalza la statua equestre di Filippo IV in mezzo a un giardino circondato di quaranta statue colossali; rimonto verso il centro, attraversando altre larghe strade, e piazze allegre, e crocicchi pieni di gente; e ritorno finalmente all'albergo dicendo che Madrid è grande, gaia, ricca, popolosa e simpatica, e che la vorrò veder tutta, e starci un pezzo, e godermela fin che lo consentano i registri di cassa e la mitezza della stagione.

In capo a pochi giorni, un buon amico mi trovò una Casa de huespedes, e mi ci andai a installare. Queste case di ospiti non son altro che famiglie che dan da mangiare e da dormire a studenti, artisti, forestieri, a prezzi differenti, si capisce, secondo come ci si dorme e come si mangia; ma sempre a miglior prezzo che gli alberghi, coll'inestimabile vantaggio che ci si respira un'aria di casa, ci si stringono amicizie, e vi si è trattati piuttosto come gente della famiglia che come dozzinanti. La padrona di casa era una buona signora sulla cinquantina, vedova d'un pittore che aveva studiato a Roma, a Firenze e a Napoli, ed aveva serbato per tutta la vita una ricordanza grata e affettuosa d'Italia. Anch'essa, naturalmente, nutriva per il nostro paese una vivissima simpatia, e me lo dimostrò coll'assistere ogni giorno al mio desinare, raccontandomi vita, morte e miracoli di tutti i suoi parenti e di tutti i suoi amici, come se fossi stato il solo confidente ch'ella avesse in Madrid. Pochi spagnuoli intesi parlare così spedito, così franco, e con tanta abbondanza di frasi, di motti, di paragoni, di proverbi, di parole. Sui primi giorni ne fui sconcertato; capivo poco; dovevo pregarla ogni momento di ripetere; non riuscivo a farmi intendere sempre; m'accorsi in una parola, che studiando la lingua sui libri, avevo sciupato di molto tempo a inzepparmi la testa di frasi e di vocaboli che non occorrono quasi mai nella conversazione ordinaria; mentre ne avevo lasciati da parte altri moltissimi, che sono indispensabili. Dovetti dunque ricominciare a raccogliere, a notare, e sopratutto a star sempre coll'orecchio teso per tirar profitto, quanto potevo, dai discorsi della gente. E mi persuasi di questa verità: che si può stare dieci anni, trenta, quaranta in una città straniera; ma che se non si fa uno sforzo da principio, se per molto tempo non si continua a studiare, se non si sta sempre, come diceva il Giusti, «con tanto d'occhi aperti,» o non s'imparerà mai a parlare la lingua, o si parlerà sempre male. Conobbi a Madrid degl'Italiani vecchi che stavano in Spagna dalla loro prima giovinezza, e che parlavano lo spagnuolo da cani. Già, non è punto, neanco per noi Italiani, una lingua facile, o per dir meglio, presenta la grande difficoltà delle lingue facili: che non è lecito parlarle meschinamente, perchè non è indispensabile parlarle per farsi intendere. L'Italiano che vuol parlare spagnuolo in una conversazione di gente colta, dove tutti lo capirebbero se parlasse francese, bisogna che giustifichi il suo ardimento parlando con scioltezza e con garbo. Ora la lingua spagnuola, appunto perchè molto più affine alla nostra che la francese, è assai più difficile a parlarsi presto, e per così dire, ad orecchio, senza dir degli spropositi; poichè si dice, ad esempio, assai più facilmente propre, mortuaire, délice, senza pericolo che ci scappi detto proprio, mortuario, delizia, di quello che non si dica propio, mortuorio, delicia. Si casca nell'italiano senza accorgersene, si inverte la sintassi ad ogni istante, si ha sempre la propria lingua nell'orecchio e sulle labbra, che ci inciampa, ci confonde, ci tradisce. Nè la pronunzia spagnuola ci è men dura della francese; la jota araba, facile a pronunciarsi quand'è sola, è difficilissima quando ne cascan due in una parola, o parecchie in una proposizione; la zeta che si pronuncia come pronunziano i blesi la esse, non si acquista che dopo un esercizio lungo, ed anco paziente, perchè è un suono che sulle prime ci riesce sgradevolissimo, e molti, anche sapendo, non lo voglion far sentire. Ma se c'è una città in Europa dove si possa imparar bene la lingua del paese, quella città è Madrid, e si può dir lo stesso di Toledo, di Valladolid, di Burgos. Il popolo parla come i letterati scrivono; le differenze di pronunzia fra la gente colta e la plebe dei sobborghi sono leggerissime; e lasciando anche da parte quelle quattro città, la lingua spagnuola è incomparabilmente più parlata, più comune, e perciò più determinata, e per conseguenza più efficace nei giornali, sul teatro e nella letteratura popolare, che la lingua italiana. V'è in Spagna il dialetto valenziano, il catalano, il galliziano, il murciano, e l'antichissima lingua delle provincie basche; ma si parla spagnuolo nelle due Castiglie, nell'Aragona, nell'Estremadura, nell'Andalusia, cioè in cinque grandi provincie. Il frizzo gustato a Saragozza è gustato anche a Siviglia; la frase popolesca che colpisce la platea in un teatro di Salamanca, ottiene lo stesso effetto in un teatro di Granata. Dicono che la lingua spagnuola d'oggigiorno non è più quella del Cervantes, del Quevedo, del Lopez de Vega; che la lingua francese l'ha imbastardita; che Carlo V, se rivivesse, non direbbe più che è la lingua da parlarsi con Dio; e che Sancho Panza non sarebbe più nè capito nè gustato. Ah! chi per poco abbia bazzicato nelle gargotte e nei teatrucci dei sobborghi, si accomoda a malincuore a quella sentenza!

Passando dalla lingua al palato, mi ci volle un po' di buona volontà per abituarmi a certe salse e intingoli e basoffie della cucina spagnuola; ma mi ci abituai. I Francesi, che in punto mangiare sono schizzinosi come ragazzi mal avvezzi, ne gridano ira d'Iddio; il Dumas dice che in Spagna ha patito la fame; in un libro sulla Spagna che ho sott'occhio, è scritto che gli Spagnuoli non vivono che di miele, di funghi, d'uova e di lumache. Son tutte corbellerie. Essi possono dire altrettanto della cucina nostra: ho conosciuti molti spagnuoli ai quali il veder mangiare maccheroni al sugo moveva lo stomaco. Impasticciano un po', abusano un po' del grasso, condiscono un po' troppo forte; ma via, tanto da cavar l'appetito al Dumas, compicciano. Son maestri, fra le altre cose, di piatti dolci. Il loro puchero poi, il piatto nazionale, mangiato tutti i giorni, da tutti, in tutto il paese, dico la verità, lo divoravo con una golosità rossiniana. Il puchero è, rispetto all'arte culinaria, quello che è rispetto alla letteratura un'antologia: c'è un po' di tutto, e del meglio. Una buona fetta di lesso di vacca forma come il nucleo del piatto; intorno, un'ala di pollo, un pezzo di chorizo, lardo, erbaggi, prosciutto; sotto, sopra e in tutti gl'interstizi, garbanzos. I buon gustai pronunziano con reverenza il nome di garbanzos. Sono una specie di ceci, ma più grossi, più teneri, più saporiti; ceci, direbbe uno stravagante, caduti quaggiù da qualche mondo dove una vegetazione eguale alla nostra è fecondata da un sole più potente. Codesto è il puchero usuale; ma ogni famiglia lo modifica secondo la borsa; il povero si contenta della carne e dei garbanzos; il signore ci aggiunge cento bocconcini squisiti. In fondo, è piuttosto un desinare che un piatto; e però moltissimi non mangiano altro; un buon puchero e una bottiglia di Val de peñas posson bastare a chicchessia. Non parlo degli aranci, dell'uva di Malaga, degli asparagi, dei carciofi e d'ogni sorta di legumi e di frutti, che tutti sanno essere in Spagna bellissimi e buonissimi. Cionondimeno, gli Spagnuoli mangian poco; e benchè nella loro cucina predomini il pepe, la salsa forte, la carne salata; benchè mangino dei chorizos, che, come dicon essi, levantan las piedras, ossia bruciano gl'intestini; bevono pochissimo vino. Dopo la frutta, invece di star lì a centellinare una buona bottiglia, pigliano per lo più una tazza di caffè e latte, e raramente bevon vino la mattina. Alle tavole rotonde degli alberghi non ho mai veduto uno spagnuolo vuotar la bottiglia; ed io che la vuotavo, ero guardato con aria di stupore, come un beone scandaloso. È raro, nelle città di Spagna, anco nei giorni di festa, incontrare un ubriaco; e per questo appunto, avuto riguardo al sangue focoso e al liberissimo commercio che vi si fa dei coltelli e dei pugnali, seguon assai meno risse con ferimenti e uccisioni, di quello che fuor di Spagna non si creda.

Trovata la casa e la cucina, non mi restò più altro pensiero che quello di zonzare per la città, colla Guida in tasca e il sigaro di tres cuartos in bocca,

«...... mestier facile e piano.»

I primi giorni non potevo allontanarmi dalla piazza della Puerta del Sol; ci stavo ore ed ore, e mi ci divertivo tanto, che avrei voluto passarci la giornata. È una piazza degna della sua fama; non tanto per la sua vastità e la sua bellezza, quanto per la gente, per la vita, per la varietà dello spettacolo che presenta a tutte le ore del giorno. Non è una piazza come le altre: è insieme un salone, un passeggio, un teatro, un'accademia, un giardino, una piazza d'armi, un mercato. Dallo spuntar del giorno fino a un'ora dopo mezzanotte, v'è una folla immobile, e una folla che va e viene per le dieci grandi strade che vi metton capo, e un inseguirsi, e un incrociarsi di carrozze che dà il capo giro. Là convengono i negozianti, là i demagoghi disoccupati, là gl'impiegati smessi, i vecchi pensionati, i giovani eleganti; là si traffica, si discorre di politica, si fa all'amore, si passeggia, si leggono i giornali, si dà la caccia ai debitori, si cercan gli amici, si preparano le dimostrazioni contro il Ministero, si coniano le false notizie che fanno il giro della Spagna, si tesse la cronaca scandalosa della città. Sui marciapiedi, che son larghi da poterci far passare quattro carrozze di fronte, bisogna aprirsi il passo a forza: nello spazio d'una lastra di pietra vedete una guardia civile, un venditor di fiammiferi, un sensale, un povero, un soldato, tutti in un mazzo. Passano frotte di scolari, serve, generali, ministri, contadini, toreros, signore; vagabondi spiantati che vi domandan l'elemosina nell'orecchio per non farsi scorgere, mezzani che vi guardano con occhio interrogativo, donne leggere che vi urtano al gomito; da tutte le parti cappelli in aria, sorrisi, strette di mano, saluti allegri, grida di:— Largo, —di facchini carichi e di merciaiuoli col botteghino al collo; urli di venditori di giornali, strilli di acquaiuoli, squilli di corno delle diligenze, chiocchi di frusta, rumor di sciabole, tintinnío di chitarre, canti di ciechi. Poi passano i reggimenti colle bande musicali, passa il Re, s'innaffia la piazza con immensi getti d'acqua che s'incrociano nell'aria, vengono i portatori d'avvisi ad annunciar gli spettacoli, irrompono sciami di monelli con bracciate di supplementi, esce un esercito d'impiegati dai Ministeri, ripassan le bande musicali, le botteghe s'illuminano, la folla si fa più fitta, i colpi di gomito spesseggiano, cresce il vocío, lo strepito, il moto. E non è moto di popolo affaccendato; è vivacità di gente allegra, è gaiezza carnevalesca, ozio inquieto, ribollimento, febbriciattola di piacere, che vi si attacca e vi tien lì o vi spinge in giro come un arcolaio senza lasciarvi uscir dalla piazza; una curiosità che non si stanca mai, una beata voglia di spassarsela, di non pensare a nulla, d'ascoltar chiacchiere, di bighellonare, di ridere. Tale è la famosa piazza di Puerta del Sol.

Un'ora passata là basta per far conoscer di vista, nei suoi varii aspetti, il popolo di Madrid. Il basso popolo veste come nelle nostre grandi città; i signori, se si toglie la cappa che portan l'inverno, si attengono al figurino di Parigi; e son tutti, dal duca allo scrivano, dallo sbarbatello al vecchio tentenna, lindi, azzimati, impomatati, inguantati, come uscissero allora allora dal gabinetto di toeletta. Somigliano da questo lato ai napoletani: belle capigliature nere, barbe coltissime, mani e piedi di donna. Raro il vedere un cappello basso: tutti cappelli a staio; e poi mazze, catene, ciondoli, spille, e nastri all'occhiello a migliaia. Le signore, fuor che in certi giorni di festa, vestono anch'esse alla francese; le donne del medio ceto portano ancora la mantiglia; gli antichi stivaletti di raso, la peineta, i colori vivi, il costume nazionale, in una parola, è sparito. Son però sempre quelle donnine tanto decantate per i loro grandi occhi, per le loro mani di bimbe, per i loro piedini; di capelli nerissimi, ma di pelle meglio bianca che bruna, bene appettate, diritte, svelte, vivaci.

Per passare in rassegna il bel sesso di Madrid, bisogna andare alla passeggiata del Prado, che è per Madrid quello che son per Firenze le Cascine. Il Prado propriamente detto, è un larghissimo viale, non molto lungo, fiancheggiato da viali minori, che si stende ad oriente della città, accanto al famoso giardino del Buen retiro, ed è chiuso alle due estremità da due enormi vasche di pietra, l'una sormontata da una Cibele colossale, assisa sul cocchio, tratto dai cavalli marini; l'altra da un Nettuno di eguale grandezza; tutti e due incoronati di copiosi zampilli che s'incrociano e ricascano graziosamente con allegro mormorìo. Questo grande viale, assiepato lungo i lati da migliaia di seggiole, e da centinaia di banchi d'acquaioli e di aranciai, è la parte più frequentata del Prado, e si chiama il Salon del Prado. Ma il passeggio prosegue oltre la fontana di Nettuno; vi sono altri viali, altre fontane, altre statue; si va in mezzo agli alberi e ai zampilli fino alla chiesa di Nostra Signora di Atocha, la famosa chiesa colmata di doni da Isabella II dopo l'attentato del 2 febbraio del 1852, nella quale il re Amedeo andò a visitare il cadavere del generale Prim. Di là si abbraccia collo sguardo un vasto tratto della deserta campagna di Madrid e le montagne nevose del Guadarrama. Ma il Prado è il passeggio più famoso, non il più bello nè il più vasto della città. Sul prolungamento del Salone, al di là della fontana di Cibele, si stende per quasi due miglia il passeggio di Recoletos, fiancheggiato a destra dal vasto e ridente borgo di Salamanca, il borgo dei ricchi, dei deputati e dei poeti; a sinistra da una lunghissima catena di palazzine, di villette, di teatri, di edifizi nuovi coloriti di vivi colori. Non è un passeggio solo, son dieci, l'uno accanto all'altro, e l'un più bello dell'altro; strade per le carrozze, strade pei cavalli, viali per la gente che cerca la folla, viali pei solitarii, divisi da sterminate siepi di mortella, fiancheggiati, interrotti da giardini e da boschetti, nei quali sorgon statue e fontane, e s'intersecano sentierini misteriosi. I giorni di festa vi si gode uno spettacolo incantevole: da un capo all'altro dei viali, son due processioni opposte di gente, di carrozze, di cavalli; nel Prado si può appena camminare; i giardini sono affollati di migliaia di ragazzi; suonan le musiche dei teatri diurni; in ogni parte si sente un mormorío di fontane, un fruscío di vesti, un gridío di bambini, uno scalpitío di cavalli; non v'è solo il movimento, e la gaiezza d'una passeggiata; v'è il lusso, lo strepito, il turbinío, l'allegrezza febbrile d'una festa. La città, in quell'ore, è deserta. Sull'imbrunire, tutta quell'immensa folla si riversa nella gran strada Alcalà, e allora dalla fontana di Cibele fino alla Puerta del Sol non si vede che un mare di teste, solcate da una fila di carrozze a perdita d'occhio.

Come per le passeggiate, così in fatto di teatri e di spettacoli, Madrid è, senza dubbio, una delle prime città del mondo. Oltre il gran teatro dell'Opera, che è vastissimo e ricchissimo; oltre il teatro della Commedia, il teatro della Zarzuela, il Circo di Madrid, che son tutti teatri di prim'ordine, per ampiezza, eleganza, e concorso di gente; v'è una corona di teatri minori per le compagnie drammatiche, per le compagnie equestri, per le accademie musicali, per i vaudevilles, teatri a sala, a palchi, a gallerie, grandi e piccini, signorili e plebei, per tutte le borse, per tutti i gusti e per tutte le ore della notte; e non ce n'è uno fra tanti che non sia ogni sera affollato. Poi v'è il Circo dei Galli, il Circo dei Tori, i balli popolari, i giochi; qualche giorno vi sono fino a venti spettacoli diversi, a cominciar da mezzodì fino a poco prima dell'alba. Lo spettacolo dell'Opera, per il quale il popolo spagnuolo è appassionato, è sempre splendido, non solamente nella stagione del carnevale, ma in tutte le stagioni: nel tempo ch'io fui a Madrid, cantava la Fricci al teatro della Zarzuela e lo Stagno al Circo, l'una e l'altro, circondati di valentissimi artisti, con orchestre eccellenti e grandiose apparature. I più celebri cantanti del mondo fanno a gara per andar a cantare nella Capitale della Spagna; gli artisti vi sono ricercati, festeggiati; la passione della musica è la sola che può stare in bilancia colla passione dei tori. Anche il teatro della Commedia ha gran voga. L'Hatzembuch, il Breton de los Herreros, il Tamayo, il Ventura, il D'Ayala, il Guttierrez, ed altri moltissimi scrittori drammatici, quali morti, quali viventi, noti anche fuori di Spagna, hanno arricchito il teatro moderno d'un gran numero di commedie, che pur non avendo quel profondo stampo nazionale che rese immortali le opere drammatiche del gran secolo della letteratura spagnuola, son piene di calore, di sale, di sapore di lingua, e senza confronto più sanamente educative delle commedie francesi. E si rappresentan le commedie moderne, ma non si dimenticano le antiche: negli anniversarii del Lopez de Vega, del Calderon, del Moreto, del Tirso de Molina, dell'Alarcon, di Francesco de Rojas, e degli altri grandi luminari del teatro spagnuolo, si rappresentano con pompa solenne i loro capolavori. Gli attori però non finiscono di soddisfare gli autori; partecipano dei difetti dei nostri: moto, grido, singhiozzo soverchio; e molti preferiscono ancora i nostri, perchè ci trovan più varietà di cadenze e di accenti. Oltre la tragedia e la commedia, si rappresenta poi un componimento drammatico affatto spagnuolo, lo zainete, nel quale fu maestro un Ramon de la Cruz, una specie di farsa, che è per lo più una rappresentazione di costumi andalusi, con personaggi della campagna e del volgo, ed attori che imitano il vestire, l'accento, i modi di quella gente con una maestria ammirabile. Le commedie vengon tutte stampate, e son lette avidamente, anche dal popolo minuto; i nomi degli scrittori sono popolarissimi; la letteratura drammatica, in una parola, è oggi ancora, come altre volte, la più diffusa e la più ricca.

V'è pure molta passione per la Zarzuela, che si rappresenta usualmente nel teatro a cui dà il nome, e ch'è una composizione di mezzo tra la commedia e il melodramma, tra l'opera in musica e il vaudeville, con una gradevole alternativa di prosa e di verso, di recitazione e di canto, di serio e di buffo, composizione esclusivamente spagnuola, e dilettevolissima. In altri teatri si rappresentano commedie politiche, miste di canto e di prosa del genere delle riviste dello Scalvini, farse satiriche di argomenti del giorno, una specie di autos sacramentales, con scene della passione di Gesù Cristo, nella Settimana Santa; e balli e ballonzoli e pantomime d'ogni natura. Nei teatri piccoli si danno tre o quattro rappresentazioni per sera, d'un'ora l'una, e gli spettatori si rinnovano ad ogni rappresentazione. Nel teatro Capellanes, famigerato, si balla tutte le sere dell'anno un kan-kan scandaloso oltre ogni oscena immaginazione, e là accorrono i giovinastri, le donne ardite, i vecchi libertini dal naso aggrinzato, armati di lenti, di occhiali, di cannocchiali, e di quanti istrumenti ottici valgano ad avvicinare le forme, come dice l'Aleardi, pubblicate dal palco.

Dopo il teatro, si trovan tutti i caffè pieni di gente, la città illuminata, le strade corse da innumerevoli carrozze, come sul far della sera. Uscendo dal teatro, in un paese straniero, si è un po' tristi: si son viste tante belle creature, e nessuna ci degnò d'uno sguardo! Ma un italiano, a Madrid, trova un conforto. Si cantan quasi sempre opere italiane, e si cantano in italiano; così che tornando a casa sentite canterellare colle parole della vostra lingua le ariette che vi son famigliari fin dall'infanzia; sentite un palpito di qui, un fiero genitor di là, un tremenda vendetta più oltre; e quelle parole vi fan l'effetto di saluti di gente amica. Ma per arrivar a casa, che fitta siepe di gonnelle dovete scavalcare! Si dà la palma a Parigi, e non dubito che la meriti; ma neanco Madrid non canzona; e che ardimento, e che parole di fuoco, e che provocazioni imperiose! Finalmente arrivate davanti a casa vostra; ma non avete la chiave della porta. “Non si confonda,” vi dice il primo cittadino che incontrate, “vede là in fondo alla strada quella lanterna? L'uomo che la porta è un sereno, e i serenos hanno le chiavi di tutte le case;” Allora voi gridate ad alta voce:—Sereno!—e la lanterna si avvicina, e un uomo con un enorme mazzo di chiavi tra le mani, datavi un'occhiata scrutatrice, v'apre la porta, vi fa lume fino al primo piano e vi augura la buona notte. Così tutte le sere: con una lira al mese voi siete libero dalla briga di portar in tasca le chiavi di casa. Il sereno è un impiegato del Municipio, ve n'è uno per ogni strada, ed ognuno ha un fischietto; se vi piglia foco in casa o i ladri vi fan saltare la serratura, voi non avete che a buttarvi alla finestra e gridare:—Sereno! Aiuto!—Il sereno che è nella strada fischia, i sereni delle strade vicine fischiano, in pochi minuti tutti i sereni del quartiere accorrono in vostro soccorso. A qualunque ora della notte voi vi svegliate, sentite la voce del sereno che ve l'annunzia, soggiungendo che fa bel tempo, o che piove, o che sta per piovere. Quante cose sa e quante ne tace questa notturna sentinella! Quanti sommessi addii amorosi non sente! Quante letterine non vede cader dalle finestre, e chiavette saltellare sul lastrico, e mani trinciar l'aria in atto misterioso, e amanti imbacuccati infilar le porticine, e finestrelle illuminate oscurarsi ad un tratto, e neri fantasmi dileguare, al primo chiarir dell'alba, lungo i muri!...

Non dissi che dei teatri: a Madrid v'è un concerto musicale, si può dire, ogni giorno; concerti nei teatri, concerti nelle sale accademiche, concerti nelle strade, e poi una folla di suonatori ambulanti che vi assordano a tutte le ore del giorno. Dopo tutto questo viene fatto di dimandare come mai un popolo tanto infatuato della musica, da averne bisogno, sto per dire, come dell'aria che respira, non abbia dato all'arte alcun grande maestro. Gli Spagnuoli non se ne sanno dar pace!

Ci sarebbe da imbrattar molta carta, a voler descrivere di Madrid i grandi sobborghi, le porte, i passeggi fuor della città, le piazze, le strade storiche; e cui piacesse non ommetter nulla, gli splendidi caffè: l' Imperial nella piazza della Puerta del Sol, il Fornos nella strada Alcalà, due vastissime sale, nelle quali, tolti i tavolini, potrebbe far gli esercizi uno squadrone di cavalleria; e gli altri innumerevoli che si trovano a ogni passo, in cui danzerebbero comodamente cento coppie di ballerini; le botteghe sfarzose che occupan tutto il pian terreno di vasti edifizi, tra le quali i grandi negozi di tabacchi di Avana, luogo di ritrovo dei signoroni, pieni di tanti sigari piccolissimi, grossi, enormi, tondi, piatti, puntati, fatti a serpe, ad arco, a uncino, d'ogni forma, d'ogni gusto e d'ogni prezzo, da contentare la più matta fantasia di fumatore, e ubbriacare tutta la popolazione d'una città; gli spaziosi mercati, le caserme da corpo d'esercito, il gran palazzo reale, in cui il Quirinale ed il Pitti si potrebbero nascondere senza timore di farsi scorgere; la gran strada di Atocha che attraversa la città, l'immenso giardino del Buen retiro, col suo gran lago, coi suoi poggi incoronati di chioschi, coi suoi mille uccelli pellegrini.... Ma più d'ogni altra cosa meritano attenzione i Musei d'armi, di pittura, di marina, a ciascuno dei quali sarebbe poco dedicare un volume.

L'armeria di Madrid è una delle più belle del mondo. Al primo entrare nella vastissima sala, il cuore vi dà un balzo e il sangue un tuffo, e voi restate immobile sulla soglia come uno smemorato. Un intero esercito di cavalieri coperti di ferro, colle spade nel pugno, colle lancie in resta, sfolgoranti, formidabili, si slanciano contro di voi, come una legione di spettri. È un esercito d'imperatori, di re, di duchi, chiusi nelle più splendide armature che siano mai uscite dalla mano dell'uomo, sulle quali da diciotto smisurate finestre si versa un torrente di luce, che ne cava un barbaglio di lampi, di scintille, di colori, da dar le traveggole. Le pareti sono coperte di corazze, d'elmi, d'archi, di fucili, di spade, di alabarde, di lancie da torneo, di moschettoni enormi, di lancioni giganteschi che s'alzan dal pavimento alla volta; dalla volta pendon bandiere di tutti gli eserciti del mondo, trofei di Lepanto, di San Quintino, della guerra d'indipendenza, delle guerre d'Affrica, di Cuba, del Messico; in ogni parte è una profusione di insegne gloriose, di armi illustri, di meravigliosi lavori d'arte, di effigie, di emblemi, di nomi immortali. Non si sa di dove cominciare ad ammirare; si corre, sulle prime, di qua e di là, guardando tutto e non vedendo nulla, e si è stanchi prima di aver cominciato. Nel mezzo della sala sono le armature equestri; cavalli e cavalieri disposti in fila, a tre a tre, a due a due, tutti rivolti nello stesso senso, come uno squadrone in colonna; e vi si distinguono a primo aspetto, fra le altre, le armature di Filippo II, di Carlo V, di Emanuele Filiberto, di Cristoforo Colombo. Qua e là, sopra piedestalli, si vedono elmi, cassidi, morioni, golette, rotelle, appartenenti a' re d'Aragona, di Castiglia, di Navarra, lavorate a rilievi finissimi d'argento che rappresentan battaglie, scene mitologiche, figure simboliche, trofei, grotteschi, ghirlande; alcuni d'inestimabile valore, opera dei più insigni artisti d'Europa; altri di forme strane, sopraccarichi di ornamenti, con creste, visiere e cimieri colossali; poi elmetti e corazzine di principini; spade e scudi donate da papi e da monarchi. In mezzo alle armature equestri, si vedono statue vestite di fantastiche assise di Americani, di Affricani, di Chinesi, ornate di penne e di sonagli, con archi e turcassi; spaventose maschere guerresche; abiti di mandarini intessuti d'oro e di seta. Lungo le pareti altre armature; quella del marchese di Pescara, quella del poeta Garcilaso della Vega, quella del marchese di Santa Cruz, quella gigantesca di Giovan Federico il Magnanimo, duca di Sassonia; e fra l'una e l'altra bandiere arabe, persiane, moresche, cadenti a brani. Nelle vetrine una serie di spade che a sentirvi dire il nome di coloro che le portarono, vi si rimescola il sangue: la spada del principe di Condé, la spada d'Isabella la Cattolica, la spada di Filippo II, la spada di Ferdinando Cortes, la spada del Conte duca di Olivares, la spada di Giovanni d'Austria, la spada di Conzalvo di Cordova, la spada del Pizzarro, la spada del Cid, e un po' più in là, la celata di re Boabdil di Granata, la targa di Francesco I, la seggiola da campo di Carlo V. In un canto della sala sono schierati i trofei degli eserciti ottomani, elmetti tempestati di gemme, sproni, staffe dorate, collari di schiavi, pugnali, scimitarre dal fodero di velluto, cerchiati d'oro, ricamati, imperlati; le spoglie di Alì Bascià, ucciso sulla nave capitana alla battaglia di Lepanto; il suo caffettano di broccato d'oro e d'argento, la cintura, i bozzacchini, lo scudo; le spoglie dei suoi figli; le bandiere strappate dalle galee. Da un altro lato, corone votive, croci e monili di principi goti. In un altro scompartimento, gli oggetti tolti agli Indiani di Mariveles, ai Mori di Cagayan e del Mindanao, ai selvaggi delle più remote isole dell'Oceania: collane di guscio di lumaca, pipe di lattone, idoli di legno, flauti di canna, ornamenti fatti di zampe d'insetti, schiavine di foglie di palma, foglie scritturate che servivan di salvacondotto, freccie avvelenate, scuri da carnefici. E poi da qualunque parte uno si volga, selle di re, cotte d'arme, colubrine, tamburi storici, ciarpe, iscrizioni, memorie ed immagini di tutti i tempi e di tutti i paesi, dalla calata dei Goti alla battaglia di Tetuan, dal Messico alla China; un emporio di tesori e di capolavori da cui uno si allontana, commosso, stordito e sfinito, per ritornar poi a sè come da un sogno, colla memoria stracca e confusa.

Se un giorno un grande poeta italiano vorrà cantare la scoperta del nuovo mondo, in nessun luogo potrà attingere più possenti ispirazioni che nel Museo navale di Madrid, perchè in nessun luogo si sente più profondamente l'aura vergine dell'America selvaggia, e la presenza arcana di Colombo. V'è una sala chiamata Gabinetto degli Scopritori: il poeta, entrandovi, se ha davvero anima di poeta, si scoprirà il capo con venerazione. In qualunque punto della sala cada lo sguardo, si vede un'immagine che fa battere il cuore: non si è più in Europa, nè in questo secolo; si è nell'America del secolo decimoquinto, si respira quell'aria, si vedon quei luoghi, si sente quella vita. Nel mezzo è un alto trofeo d'armi tolte agl'indigeni delle terre scoperte: scudi rivestiti di pelli di fiere, giavellotti di canna colle cocche pennute, sciabole di legno entro guaine di vimini, coll'else ornate di crini e di capelli cascanti in lunghe ciocche; mazze, aste, clave enormi; grandi spade dentellate a modo di sega, scettri informi, turcassi da giganti, vestimenti di pelo di scimmia, daghe di re e di carnefici, armi dei selvaggi di Cuba, del Messico, della nuova Caledonia, delle Caroline, delle isole più remote del Pacifico, nere, strane, orrende, che destan nella fantasia visioni confuse di lotte terribili, nell'oscurità misteriosa delle foreste vergini, entro sterminati laberinti d'alberi ignoti. E intorno a queste spoglie d'un mondo selvaggio, le immagini e le memorie dei vincitori: qui il ritratto di Colombo, là il ritratto del Pizzarro, più in là il ritratto di Ferdinando Cortes; in una parete, la carta d'America che tracciò Giovanni de la Cosa, nel secondo viaggio del Genovese, sur un'ampia tela sparsa di figure, di colori, di segni, che dovevan servire a diriger le spedizioni nell'interno delle terre; vicino alla tela, un pezzo dell'albero sotto il quale riposò il conquistatore del Messico nella famosa notte triste, dopo che s'era aperto il passo attraverso l'immenso esercito che lo aspettava nella valle d'Otumba; un vaso cavato dal tronco dell'albero presso il quale morì il celebre capitano Cook; imitazioni di barche, di barconi, di zattere usate dai selvaggi; una corona di ritratti di navigatori illustri; e nella parte di mezzo un gran quadro che rappresenta le tre navi di Cristoforo Colombo, la Nina, la Pinta e la Santa Maria, nel momento in cui scopron la terra Americana, e tutti i marinai, ritti sulle poppe, agitando le braccia e gettando alte grida, salutano il nuovo mondo e ringraziano Iddio. Non v'è parola che esprima l'emozione che si prova alla vista di quello spettacolo, nè lagrima che valga quella che vi tremola negli occhi in quel punto, nè anima umana che in quel momento non si senta più grande!

Le altre sale, che son dieci, sono anch'esse piene di oggetti preziosi. Nella sala accanto al Gabinetto degli Scopritori son raccolte le memorie della battaglia di Trafalgar: il quadro della Santissima Trinità, ch'era nello stanzino di poppa della nave Real Trinidad, e che fu tolto dagl'Inglesi pochi minuti prima che la nave andasse a fondo; il cappello e la spada di Federico Gravina, capitano generale della flotta spagnuola, morto in quella giornata; un grande modello compiuto della nave Sant'Anna, una delle poche che usciron salve dalla battaglia; bandiere, ritratti d'ammiragli, quadri rappresentanti episodi di quella lotta tremenda. E accanto alle memorie di Trafalgar, altre molte che non parlano meno efficacemente all'anima, come un calice fatto col legno dell'albero detto Ceiba, all'ombra del quale fu celebrata la prima messa nell'Avana il 19 marzo del 1519; il bastone del capitano Cook; idoli di selvaggi, scalpelli di pietra coi quali gl'Indiani di Porto-ricco foggiavano gl'idoli prima dello scoprimento dell'isola. E dopo questa, un altra gran sala, entrando nella quale uno si trova in mezzo a una flotta di galee, di caravelle, di feluche, di brigantini, di corvette, di fregate, di navi di tutti i mari e di tutti i secoli, armate, imbandierate, approvvigionate, che par non aspettino altro che il vento per prendere il mare e sparpagliarsi pel mondo. Nelle altre sale, un visibilio di macchine, di ordigni, d'armi navali; di quadri rappresentanti tutte le imprese marittime del popolo spagnuolo; di ritratti d'ammiragli, di navigatori, di marinai; di trofei d'Asia, d'America, d'Affrica, d'Oceania, fitti, ammontati, da doverci passar dinanzi correndo per far in tempo a veder ogni cosa prima che ci colga la notte. Uscendo dal Museo Navale, par di tornare da un viaggio intorno al globo: quanto si è vissuto in quelle poche ore!

V'è ancora a Madrid un grande Museo d'Artiglieria, un immenso Museo del Genio, un bel Museo Archeologico, un ragguardevole Museo di storia naturale; vi sono altre mille cose degne di veduta; delle quali bisogna nulla meno sacrificar la descrizione al meraviglioso Museo di pittura.

Il giorno in cui s'entra per la prima volta in un Museo come quello di Madrid costituisce una data storica nella vita d'un uomo; è un avvenimento importante come il matrimonio, la nascita d'un bambino, la presa d'un'eredità; se ne sentono gli effetti fino alla morte. E ciò perchè un Museo come quello di Madrid, come quello di Firenze, come quello di Roma, è un mondo; una giornata passata fra quelle pareti è un anno di vita; un anno di vita agitata da tutte le passioni che ci possono agitare nella vita reale: l'amore, la religione, il furor di patria, l'ardor della gloria; un anno di vita per quello che ci si gode, per quello che ci s'impara, per quello che ci si pensa, per i conforti che ci si raccolgono per l'avvenire; un anno di vita in cui si sian letti mille volumi, esperimentati mille affetti, corse mille avventure. Questi pensieri volgevo in mente dirigendomi a rapidi passi verso il palazzo del Museo di pittura, posto a sinistra del Prado, per chi venga dalla strada d'Alcalà; ed era tanta la gioia che mi agitava, che giunto dinanzi alla porta, mi fermai, e dissi a me stesso:—Vediamo!... Che cosa hai tu fatto nella vita per meritare d'entrar lì dentro? Nulla! Ebbene, il giorno che ti colpisca una disgrazia, china la testa, e tien per saldata la partita.—

Entrai e mi levai il cappello senza accorgermene: il cuore mi batteva forte e mi correva un leggiero tremito da capo a piedi. Nella prima sala non sono che alcuni grandi quadri di Luca Giordano: passai oltre. Nella seconda cominciai a non esser più io, e in luogo di mettermi a guardar quadro per quadro, rimisi l'esame a poi, e feci il giro del Museo quasi correndo. Nella seconda sala sono i quadri del Goya, l'ultimo grande pittore spagnuolo; nella terza, vasta quant'una piazza, sono i capolavori dei primi maestri. Entrando, vi trovate da un lato le Vergini del Murillo, dall'altro i Santi del Ribera, un po' più oltre i ritratti del Velasquez; in mezzo alla sala, i quadri di Raffaello, di Michelangelo, d'Andrea del Sarto; in fondo il Tiziano, il Tintoretto, Paolo Veronese, il Correggio, il Domenichino, Guido Reni. Tornate indietro, entrate in una gran sala a destra: vedete in fondo altri quadri di Raffaello, a destra e a sinistra il Velasquez, il Tiziano e il Ribera; accanto alla porta il Rubens, Van Dyck, frate Angelico, il Murillo. In un'altra sala la scuola francese: Poussin, Duguet, Lorrain; in due altre vastissime, le pareti coperte di quadri del Breughel, del Téniers, del Jordaens, del Rubens, del Dürer, del Schoen, del Mengs, del Rembrandt, del Bosch; in tre altre non meno vaste, quadri alla rinfusa di Joanes, del Carbajal, dell'Herrera, di Luca Giordano, del Carducci, del Salvator Rosa, del Menendez, del Cano, del Ribera. Girate per un'ora, e non avete visto nulla; per la prim'ora è una battaglia: i capolavori lottano per disputarsi la vostra anima; la Concezione del Murillo copre d'un torrente di luce il Martirio di San Bartolomeo del Ribera; il San Giacomo di Ribera schiaccia il Santo Stefano di Joanes; il Carlo V del Tiziano fulmina il Conte duca Olivares del Velasquez; lo Spasimo di Sicilia di Raffaello ottenebra tutti i quadri che gli fanno corona; gli Ubriaconi del Velasquez sconcertano con un riflesso di gioia baccanalesca i visi dei santi e dei principi vicini; il Rubens atterra il Van Dyck, Paolo Veronese sopraffà il Tiepolo, il Goya ammazza il Madrazo; i vinti si rifanno su altri minori, altrove si sovrappongono alla loro volta ai vincitori; è una gara di miracoli d'arte, in mezzo a cui la vostra anima inquieta tremula come una fiamma agitata da mille soffi, e il vostro cuore si espande in un sentimento d'orgoglio per la potenza del genio umano.

Sbollito il primo entusiasmo, si comincia ad ammirare. In mezzo a un esercito di tali artisti, dei quali ciascuno richiederebbe un libro a sè, mi attengo agli Spagnuoli, e tra questi, ai quattro che mi destarono un'ammirazione più profonda, e delle cui tele serbo una memoria più distinta.

Il più recente è il Goya, nato verso la metà del secolo scorso. È il pittore più spagnuolo della Spagna, il pittore dei toreros, dei popolani, dei contrabbandieri, delle streghe, dei ladri, della guerra d'indipendenza, di quell'antica società spagnuola che si dissolvette sotto i suoi occhi; un fiero aragonese, d'una tempra di ferro, appassionato per i combattimenti dei tori, tanto che negli ultimi anni della sua vita, soggiornando a Bordeaux, correva una volta la settimana a Madrid non per altro che per vedere quello spettacolo, e se ne tornava come una freccia senza neanco salutare gli amici; un ingegno robusto, mordace, imperioso, fulmineo, che nel calore delle sue violente ispirazioni copriva in pochi istanti di figure una parete o una tela, e dava i tocchi d'effetto con quanto gli cadeva in mano, spugne, scope, bastoni; che tracciando il viso d'un personaggio odiato, l'insultava; che dipingeva un quadro come avrebbe combattuto una lotta; disegnatore arditissimo, colorista originale e possente, creatore d'una pittura inimitabile, di ombre paurose, di luci arcane, di sembianze stravolte, e pur vere; grande maestro nell'espressione di tutti gli affetti terribili, dell'ira, dell'odio, della disperazione, della rabbia sanguinaria; pittore atletico, battagliero, instancabile; naturalista come il Velasquez, fantastico come l'Hogart, energico come il Rembrandt, ultimo lampo color di sangue del genio spagnuolo. Son parecchi quadri suoi nel Museo di Madrid, tra i quali uno amplissimo rappresentante tutta la famiglia di Carlo IV; ma i due nei quali versò tutta l'anima sua, sono: i soldati francesi che fucilano gli Spagnuoli il 2 di maggio, e una lotta di popolani di Madrid coi mammalucchi di Napoleone I, a figure di grandezza naturale. Son due quadri che fanno inorridire. Non si può immaginar nulla di più tremendo, non si può dare alla prepotenza una forma più esecrabile, alla disperazione un aspetto più spaventoso, al furore della mischia un'espressione più feroce. Nel primo, un cielo oscuro, il lume d'una lanterna, un lago di sangue, un mucchio di cadaveri, una folla di condannati a morte, una fila di soldati francesi nell'atto di sparare; nell'altro, cavalli svenati, cavalieri tirati giù di sella, pugnalati, pestati, lacerati; che visi! che atteggiamenti! par di sentire le grida e di veder correre il sangue; la scena vera non potrebbe destar più orrore; il Goya deve aver dipinto quei quadri cogli occhi stravolti, colla schiuma alla bocca, colla furia d'un ossesso; è l'ultimo segno a cui può arrivar la pittura prima di tradursi in azione; varcato quel segno, si butta il pennello e si afferra un pugnale; per far qualcosa di più terribile di quei quadri, bisogna uccidere; dopo quei colori, c'è il sangue.

Del Ribera, che noi conosciamo sotto il nome di Spagnoletto, v'è tanti quadri da formarne un Museo; la maggior parte figure di santi, di grandezza naturale; un Martirio di San Bartolommeo di più figure, e un Prometeo colossale incatenato a uno scoglio. Altri quadri di lui si trovano in altri Musei, all'Escurial, nelle chiese, chè fu artista fecondissimo e operosissimo, come quasi tutti gli artisti spagnuoli. Veduto un quadro suo, si riconoscono, al primo colpo d'occhio, tutti gli altri; e non è mestieri di aver un occhio esperto. Son vecchi santi estenuati, con teste calve, nude, sulle quali si contan le vene; occhi pesti, guancie scarne, fronti raggrinzite, petti infossati che lascian vedere le costole; braccia, mani che non hanno che pelle ed ossa; corpi rifiniti, disfatti, vestiti di cenci, gialli del giallo smorto de' cadaveri, piagati sconciamente, sconciamente sanguinosi; son carcasse che paion tratte allora dalla bara, portanti nel viso l'impronta di tutti gli spasimi delle malattie, della tortura, della fame, dell'insonnia; figure di tavole anatomiche sulle quali potete studiare tutti i segreti dell'organismo umano. Ammirabili, sì, per ardimento di disegno, per vigore di colorito e per gli altri mille pregi che procacciarono al Ribera la fama di potentissimo pittore; ma l'arte vera e grande ah! non è quella. In quei visi non è quel lume celeste, quell' immortal raggio dell'alma che rivela col sublime dolore le speranze sublimi, gl'intimi lampi e i desiderii immensi; quel lume che distrae l'occhio dalla piaga, e leva il pensiero al cielo; non v'è che il dolor crudo che mette ribrezzo e terrore; non v'è che la stanchezza della vita e il presentimento della morte; non v'è che la vita umana che fugge, senza il riflesso di quella immortale che giunge. Non v'è uno di quei Santi di cui si ricordi l'immagine con amore; si guardano, e si sente freddo al cuore, ma il cuore non batte; il Ribera non amava. Eppure nel percorrere le sale del Museo, per quanto fosse vivo il sentimento quasi di ripugnanza che molti di quei quadri m'ispiravano, bisognava che li guardassi, e non ne potevo staccar gli occhi, tanta è la forza attrattiva del vero, anche spiacente; e tanto son veri i quadri del Ribera! Quei visi li riconoscevo, li avevo visti negli ospedali, nelle stanze mortuarie, dietro le porte delle chiese; son visi di accattoni, di moribondi, di condannati a morte, che mi si parano dinanzi di notte, oggi ancora, percorrendo una strada deserta, passando accanto a un cimitero, salendo su per una scala ignota. Ve n'è alcuni che non si posson guardare; un eremita, nudo, steso in terra, che pare uno scheletro colla pelle; un vecchio santo, al quale la pelle consunta dà l'apparenza d'un corpo scorticato; il Prometeo colle viscere fuor del petto. Al Ribera piaceva il sangue, le membra lacerate, lo strazio; doveva godere a rappresentar dolori; doveva credere in un inferno più orrendo di quel di Dante, e in un Dio più terribile di quel di Filippo II. Nel Museo di Madrid egli rappresenta il terrore religioso, la vecchiezza, i patimenti, la morte.

Più gaio, più vario, più splendido il grande Velasquez. Quasi tutti i suoi capolavori son là. Sono un mondo; v'è ritratto tutto: la guerra, la corte, il trivio, la taverna, il paradiso; è una galleria di nani, d'imbecilli, di pezzenti, di buffoni, d'ubriachi, di commedianti, di re, di guerrieri, di martiri, di numi; tutti vivi, parlanti, in atteggiamenti nuovi, arditi, colla fronte serena, col sorriso sulle labbra, pieni di freschezza e di vigore; il grande ritratto del conte duca d'Olivarez a cavallo, il quadro celebre de las Meninas, quello delle Filatrici, quello dei Bevitori, quello della Fucina di Vulcano, quello della Resa di Breda; ampie tele piene di figure che par che escano dal quadro, delle quali, viste una volta, si ricorda distintamente ogni più sfuggevole tratto o moto od ombra del viso, come di persone vive, incontrate pur ora; gente con cui pare d'aver parlato, e a cui si pensa, molto tempo dopo, come a conoscenti di non si sa quando; gente che spira allegrezza e desta coll'ammirazione il sorriso, e fa sentire quasi un rincrescimento di non poterla gustare che cogli occhi, di non potersi mescolare con loro, e attingere un po' della loro rigogliosa vita. Non è effetto della prevenzione favorevole che dà il nome del grande artista, non c'è bisogno di essere intendente d'arte; la donnicciuola, il ragazzo si arrestano dinanzi a quei quadri, batton le mani e ridono; è la natura ritratta con una fedeltà superiore ad ogni immaginazione; si scorda il pittore, non si pensa all'arte, non si scopre l'intento: si dice:—È vero! È così! È l'immagine che avevo in mente!—Si direbbe che il Velasquez non ci ha messo nulla di suo, che ha lasciato fare la mano, e che la mano non fece che fissare le linee e i colori sulla tela d'una camera ottica che riproduceva i personaggi veri ch'egli ritrasse. Più di sessanta quadri suoi son nel Museo di Madrid, e non si vedessero che una sola volta, e di volo, non se ne scorderebbe uno. È dei quadri del Velasquez come del romanzo di Alessandro Manzoni, che dopo letto una diecina di volte, s'intreccia e si confonde siffattamente coi nostri particolari ricordi, che ci par d' averlo vissuto. Così i personaggi dei quadri del Velasquez si mescolano nella folla dei nostri amici e conoscenti, vicini e lontani, di tutta la vita, e ci si presentano alla mente e s'intrattengon con noi, senza che noi ci ricordiamo neppure di averli visti dipinti.

Ed ora parliamo del Murillo col tuono di voce più soave che possa uscire dalla nostra bocca. Il Velasquez, nell'arte, è un'aquila; il Murillo è un angelo; il Velasquez s'ammira, il Murillo s'adora. Le sue tele lo fanno conoscere, come se gli si fosse vissuti assieme. Era bello, era buono, era pio: l'invidia non sapeva dove morderlo, intorno alla corona della gloria egli portava un'aureola d'amore. Era nato per dipingere il cielo. Aveva sortito un genio pacato e sereno, che si levava a Dio sulle ali d'una placida ispirazione; e però i suoi quadri più ammirabili spirano un'aura di modesta dolcezza, che desta la simpatia e l'affetto prima ancora che la meraviglia. Una semplice e nobile eleganza di contorni, un'espressione piena di vivezza e di grazia, un'armonia ineffabile di colori, sono ciò che colpisce a primo aspetto; ma più si guarda, più si scopre, e la meraviglia si trasforma a poco a poco in un sentimento dolcissimo di letizia. I suoi santi hanno un aspetto benigno, che rallegra e consola; i suoi angeli, ch'egli aggruppava con una maestria meravigliosa, fanno fremer le labbra dal desiderio dei baci; le sue Vergini, vestite di bianco e avvolte in un gran manto azzurro, con grandi occhi neri, colle mani giunte, sottili, flessibili, aeree, fanno tremare il cuore di dolcezza e gonfiar gli occhi di lagrime. Egli congiunge la verità del Velasquez, agli effetti vigorosi del Ribera, all'armoniosa trasparenza del Tiziano, alla brillante vivezza del Rubens. La Spagna gli diede il nome di Pittore delle Concezioni, poichè fu insuperabile nell'arte di rappresentare questa divina idea. Vi son quattro grandi Concezioni nel Museo di Madrid. Io passai dinanzi a quei quattro quadri, delle mezze giornate, immobile, quasi estatico. Mi rapiva sopra tutte quella non intera, colle braccia incrociate sul petto, e la mezza luna traverso alla vita; molti la pospongono alle altre; io fremevo al sentirlo dire; ero preso d'una passione inesprimibile per quel viso. Più d'una volta, guardandola, mi sentii scorrer le lagrime giù per le guancie. Dinanzi a quel quadro, il mio cuore s'ingentiliva, il mio intelletto si sollevava ad un'altezza di pensieri cui non era mai arrivato. Non era l'entusiasmo della fede; era un desiderio, un'aspirazione immensa alla fede, una speranza che mi faceva intravvedere una vita più nobile, più feconda, più bella di quella che avevo condotto fino allora; un sentimento nuovo della preghiera, un bisogno d'amare, di far del bene, di soffrire per gli altri, di espiare, di nobilitar la mia mente e il mio cuore. Non son mai stato tanto vicino alla fede come in quei momenti; non son mai stato così buono e così affettuoso; e credo che sul mio volto non abbia mai brillato più splendidamente la mia anima. La Vergine dei dolori, Sant'Anna che insegna a leggere alla Vergine, Cristo crocifisso, l' Annunziazione, l' Adorazione dei pastori, la Sacra famiglia, la Vergine del Rosario, Il bambino Gesù son tutti quadri mirabili e belli d'una luce queta e soave, che va all'anima. Bisogna vedere la domenica i fanciulli, le ragazze, le donne del popolo dinanzi a quelle immagini; vedere come i loro volti s'illuminano, e sentire che dolci parole escon dalle loro labbra. Il Murillo, per loro, è un santo; ne pronunziano il nome con un sorriso, come per dire:—È nostro!—e pronunziandolo, vi guardano come per imporvi un atto di reverenza. Gli artisti non ne portan tutti lo stesso giudizio; ma l'amano anche essi sopra ogni altro, e non riescono a sceverare l'ammirazione dall'amore. Il Murillo non è soltanto un grande pittore, è una grand'anima; è più che una gloria, è un affetto della Spagna; è più che un maestro sovrano del bello, è un benefattore, un ispiratore di buone azioni, una immagine cara che, afferrata una volta nelle sue tele, si porta nel cuore tutta la vita, con un sentimento di gratitudine e di devozione religiosa. È uno di quegli uomini, dei quali un non so qual sentimento secreto ci dice che li dovremo rivedere, che il rivederli ci è dovuto come un premio, che non possono essere spariti per sempre, che in qualche luogo sono ancora, che la loro vita non è stata che un lampo d'una luce inestinguibile, che dovrà apparire un giorno in tutto il suo splendore agli occhi dei mortali. Si dirà: errori della fantasia! Ah, cari errori!

Dopo le opere di questi quattro grandi maestri, vi son da ammirare i quadri di Joanes, artista intimamente italiano, a cui il disegno corretto e la nobiltà dei caratteri valsero il titolo, benchè profferito sotto voce, di Raffaello spagnuolo; non nell'arte, ma nella vita simile a frate Angelico, poichè il suo studio era un oratorio, dove si digiunava e facea penitenza, ed egli pure, prima di mettersi all'opera, andava a pigliar la comunione. Poi i quadri di Alonso Cano; i quadri del Pacheco, maestro del Murillo; del Pareja, schiavo del Velasquez; del Navarrate il Muto; del Menendez, gran pittore di fiori; dell'Herrera, del Coello, del Carbajal, del Collantes, del Rizi. Del Zurbaran, uno dei più grandi pittori spagnuoli, degno di star accanto ai tre primi, v'è poco. Di quadri d'altri artisti, minori di quegli accennati, ma pure per meriti diversi ammirabili, son pieni i corridoi, le anticamere, le sale di passaggio. Ma non è questo il solo Museo di pittura di Madrid: vi sono centinaia di quadri nell'Accademia di San Fernando, nel ministero del Fomento, e in altre Gallerie private. Ci vorrebbero mesi e mesi a veder bene ogni cosa; che non ci vorrebbe a descrivere, anche a chi avesse ingegno da tanto? Uno dei più potenti scrittori di Francia, amantissimo della pittura e gran maestro di descrizioni, messo al punto, si spaventò, e non seppe far di meglio che cavarsi d'impiccio dicendo che ci sarebbe troppo da dire; e s'egli stimò bene di tacere, a me deve sembrare d'aver già detto anche troppo. È una delle più dolorose conseguenze d'un bel viaggio questa di trovarsi ad avere nella mente una folla di belle immagini e nel cuore un tumulto di grandi affetti, e non potere, non sapere esprimerne che una sì piccola parte! Con che profondo sdegno lacererei queste pagine quando penso a quei quadri! O Murillo, o Velasquez, o povera penna mia!

Pochi giorni dopo ch'ero arrivato a Madrid, vidi per la prima volta, sboccando dalla strada d'Alcalà nella piazza della Porta del Sole, il re Amedeo. Provai un piacere vivissimo, come se avessi riveduto il più intimo dei miei amici. È curiosa quella di trovarsi in un paese dove l'unica persona che si conosca è il Re! Verrebbe voglia di corrergli dietro gridando:—Maestà! son io, sono arrivato.—

Don Amedeo seguiva a Madrid le abitudini paterne. Si levava all'alba e andava a fare una passeggiata nei giardini del Moro che si stendono tra il Palazzo reale e il Manzanare; o si recava a visitare i Musei, attraversando la città a piedi, con un solo aiutante di campo. Las criadas, tornando a casa trafelate colla cesta ripiena, raccontavano alle padrone sonnecchianti che l'avevano incontrato, che gli eran passate accanto, quasi da toccarlo; e le padrone repubblicane dicevano:— Asì debe hacer, —e le carliste storcevan la bocca mormorando:— Que clase de rey! —(che razza di re), o come intesi dire una volta:— Quiere á toda costa que le peguen un tiro. —(Vuole a tutti i costi che gli tirino una fucilata.) Rientrato in Palazzo, riceveva il Capitano generale e il Governatore di Madrid, i quali, giusta una consuetudine antica, dovevan presentarsi ogni giorno al Re per domandargli se avesse nulla da ordinare all'esercito e alla polizia. Venivan dopo i ministri. Oltre a vederli tutti insieme in Consiglio una volta la settimana, Amedeo ne riceveva uno ogni giorno. Partito il ministro, cominciava l'udienza: Don Amedeo dava udienza ogni giorno per un'ora almeno, molte volte per due. Le domande erano innumerevoli, e gli oggetti delle domande facili a indovinarsi: sussidi, pensioni, impieghi, privilegi, croci; il Re riceveva tutti. La Regina pure riceveva; benchè non ogni giorno, a cagione del suo mutevole stato di salute. A lei spettavano tutte le opere di beneficenza. Essa riceveva in presenza d'un maggiordomo e d'una dama d'onore, alla stess'ora che il Re, ogni sorta di gente: signore, operai, donne del popolo, ascoltando pietosamente lunghi racconti di miserie e di dolori. Oltre a cento mila lire al mese ella distribuiva in opere di carità, senza contare le largizioni straordinarie agli ospizi, agli ospedali, agli altri istituti di beneficenza. Alcuni di questi fondò ella stessa. Sulla riva del Manzanare, in vista del palazzo reale, in un luogo aperto e ridente, si vede una casetta dipinta a vivi colori, con un giardinetto all'intorno, di dove, passando, si senton risa, grida e vagiti di bimbi. La Regina fece costruire quella casa per raccogliervi i figliuoli piccini delle lavandaie, i quali, mentre le madri lavoravano, solevan rimaner per le strade esposti a mille pericoli. Là son maestre, balie, donne di servizio, che provvedono a tutti i bisogni dei bimbi: è insieme un ospizio e una scuola. Le spese per la fabbricazione della casa e per il suo mantenimento furon fatte colle venticinque mila lire mensili che lo Stato aveva assegnate al Duca di Puglia. La Regina istituì pure un Ospizio pei trovatelli; una casa, o specie di collegio, pei figliuoli delle operaie da tabacco; una distribuzione di minestra, carne e pane per tutti i poveri della città. Ella stessa si recò più volte ad assistere alla distribuzione, improvvisamente, per accertarsi che non vi si facessero abusi, e avendone scoperti, provvide perchè non s'avessero a rinnovare. Oltre a ciò, le monache di carità ricevevano da lei ogni mese trentamila lire per soccorrere quelle famiglie che per la loro condizione sociale non potevano concorrere alla distribuzione della minestra. Degli atti privati di beneficenza che faceva la Regina era difficile aver notizia perchè soleva farli senza parlarne ad alcuno. Poco si sapeva pure delle sue abitudini, perchè faceva ogni cosa senza pompa, e con un riserbo che sarebbe parso quasi eccessivo anche in una signora privata. Nemmeno le dame di corte sapevano ch'ella andava a sentir la predica a San Luigi dei Francesi: una signora la vide per la prima volta, per caso, in mezzo alle sue vicine. Nel suo vestire non aveva alcun distintivo di Regina, neanco i giorni di pranzo a Corte. La regina Isabella portava un gran manto rosso colle armi di Castiglia, diadema, ornamenti ed insegne: Donna Vittoria nulla. Si vestiva per lo più coi colori della bandiera spagnuola, e con una semplicità che annunziava la corona assai più che lo splendore e lo sfarzo. Nè l'oro spagnuolo ci aveva che vedere neanco con quella semplicità, tutte le spese ch'ella faceva per sè, pei suoi bambini, per le sue cameriere, le faceva col danaro suo.

Quando regnavano i Borboni tutto il palazzo reale era occupato: il Re abitava la parte sinistra, verso la piazza d'Oriente; Isabella, la parte che guarda da un lato sulla piazza d'Oriente, e dall'altro sulla piazza dell'Armeria; il Montpensier, la parte opposta a quella della regina; i principi avevano ciascuno un appartamento verso il Giardino del Moro. Nel tempo che vi soggiornò il re Amedeo, una gran parte dell'immenso edifizio rimase vuota. Egli non aveva che tre piccole stanze: un salottino da studio, una camera da letto, e il tocador (stanzino da toeletta). La camera da letto dava in un lungo corridoio che conduceva alle due stanzine dei principi, accanto alle quali era l'appartamento della Regina, che non voleva scostarsi mai dai suoi figliuoli. V'era poi un salone pei ricevimenti. Tutta questa parte del palazzo che serviva per l'intera famiglia reale, era occupata prima dalla sola regina Isabella. Quando ella seppe che Don Amedeo e donna Vittoria s'eran contentati di così piccolo spazio, si dice che abbia esclamato con meraviglia:—Poveri giovani, non vi si potranno muovere! —

Il Re e la Regina solevan pranzare con un maggiordomo e una dama di Corte. Dopo il pranzo, il Re fumava un sigaro di Virginia (se lo sappiano i detrattori di questo principe dei sigari), e andava nel suo gabinetto ad occuparsi delle cose di Stato. Soleva pigliar molti appunti e consigliarsi spesso colla Regina, specie quando si trattava di metter l'accordo tra i Ministri, o comporre gli animi divisi dei capi di parte. Leggeva un gran numero di gazzette d'ogni colore, le lettere cieche che lo minacciavan di morte, quelle che gli davan dei consigli, le poesie satiriche, i progetti di rinnovamento sociale, tutto quello che gli mandavano. Verso le tre esciva dal Palazzo a cavallo, le trombe della Guardia squillavano, un servitore vestito di rosso lo seguiva alla distanza di cinquanta passi. A vederlo, si sarebbe detto ch'egli non sapeva d'essere il Re: guardava i bambini che passavano, le insegne delle botteghe, i soldati, le diligenze, le fontane, con un'espressione di curiosità quasi infantile. Percorreva tutta la strada Alcalà, lentamente, come un cittadino sconosciuto che pensasse ai fatti suoi, e se ne andava al Prado a godere la sua parte d'aria e di sole. I Ministri strillavano; i borbonici, assuefatti all'imponente corteo d'Isabella, dicevano ch'egli strascinava per le strade la maestà del trono di San Ferdinando; persino il servitore che lo seguiva, guardava intorno con un'aria crucciata, come per dire:—Vedete un po' che pazzie!—ma checchè si dicesse, il Re non poteva pigliar l'abitudine di aver paura. E gli Spagnuoli, convien dirlo, gli rendevan giustizia, e qual si fosse il giudizio che portassero della sua mente, della sua condotta e del suo governo, non mancavan mai di soggiungere:—In quanto a coraggio poi, non c'è nulla da dire.

Ogni domenica v'era pranzo a Corte. Erano invitati generali, deputati, professori, accademici, uomini chiari nelle lettere e nelle scienze: la Regina parlava con tutti e di tutto, con una sicurezza e una grazia, che per quanto si sapesse prima del suo ingegno e della sua coltura, superava sempre l'aspettativa. Il popolo, naturalmente, parlando di quello ch'ella sa, faceva le frangie: diceva del greco, dell'arabo, del sanscrito, dell'astronomia, della matematica. Ma è vero che discorreva argutamente di cose lontanissime da ogni consuetudine di studi femminili, e non con quel parlar vago e spicciativo che è proprio di chi non sa altro che titoli e nomi. Aveva studiato profondamente la lingua spagnuola, e la parlava oramai come la propria; la storia, la letteratura, i costumi della sua nuova patria, le eran famigliari; non le mancava per essere spagnuola davvero, che il desiderio di rimanere in Ispagna. I liberali brontolavano, i borbonici dicevano:—Non è la nostra regina;—ma tutti nutrivan per lei un profondo rispetto. I giornali più arrabbiati dicevan tutt'al più la esposa de Don Amedeo, invece di dire La reina. Il più violento dei deputati repubblicani, facendo allusione a lei in un suo discorso alle Cortes, non potè a meno di proclamarla—illustre e virtuosa.—Era la sola persona della Casa sulla quale nessuno si permettesse mai uno scherzo nè di lingua nè di penna: era come una figura lasciata in bianco in mezzo a un quadro di caricature maligne.

Quanto al Re, par che la stampa spagnuola godesse d'una libertà sconfinata. Sotto la salvaguardia dell'appellativo di Savoiardo, di straniero, di giovane della Corte, i giornali avversi alla dinastia dicevano, in sostanza, quello che volevano, e ne dicevan delle amene. Questo se la pigliava a cuore perchè il Re era feo de cara y de perfil, (brutto di viso e di profilo); quello si rodeva perchè camminava troppo stecchito; un terzo trovava a ridire sulla sua maniera di rendere il saluto; e altre piccinerìe da non credersi. Ciò non ostante il popolo di Madrid aveva per lui, se non l'entusiasmo dell' Agenzia Stefani, almeno una simpatia molto viva. La semplicità dei suoi costumi e la bontà del suo cuore eran proverbiali anche fra i fanciulli. Si sapeva ch'egli non serbava rancore con nessuno, neanco con quelli che si eran condotti poco degnamente con lui; che non aveva mai fatto un atto dispettoso a nessuno; che non s'era mai lasciato sfuggire di bocca una parola amara contro i suoi nemici. A chi parlasse di pericoli personali ch'egli potesse correre, ogni buon popolano rispondeva sdegnosamente che il popolo spagnuolo rispetta chi ha fede in lui; i suoi nemici più acerrimi, ne parlavano con ira, ma non con odio; coloro stessi che non si levavano il cappello incontrandolo per via, si sentivano stringere il cuore vedendo che altri non se lo levava, e non potevano nascondere un sentimento di tristezza. Vi sono immagini di Re caduti sulle quali si stende un drappo nero, altre che si ricoprono d'un velo bianco che le fa intravvedere più belle e più venerabili; su codesta, la Spagna ha steso un velo bianco. E chi sa se un giorno la vista di codesta immagine non strapperà dal petto d'ogni onesto spagnuolo un sospiro segreto, come il ricordo d'una cara persona offesa, o come una voce pacata e benigna che dica in suono di mesto rimprovero:—Eppure.... tu hai fatto male!

Una domenica il Re passò in rassegna i voluntarios de la libertad, che sono una specie di guardie nazionali italiane, colla differenza che quelli prestano un buon servizio spontaneamente, e queste non lo prestan neppur cattivo per forza. I voluntarios dovevano schierarsi lungo i viali del Prado; una folla immensa li aspettava. Quando io arrivai v'eran già tre o quattro battaglioni. Il primo era il battaglione dei veterani, tutti uomini sulla cinquantina, non pochi vecchissimi, vestiti di nero, col cappelletto alla Ros, con galloni sopra galloni, e croci sopra croci, lindi e luccicanti come allievi di Accademia, e nel mover degli occhi alteri e tardi, da confondere i granatieri della Vecchia guardia. C'era dopo un altro battaglione con un'altra uniforme: calzoni bigi, tunica aperta e rivoltata sul petto con larghe mostre di panno rossissimo; non più Ros, cheppì con pennacchio azzurro, e baionetta innastata sul fucile. Altro battaglione, altra uniforme; non più cheppì, di nuovo Ros; non più mostre di panno rosso, ma di panno verde; calzoni d'altro colore; non baionette, ma daghe. Un quarto battaglione, un quarto uniforme: pennacchi, colori, armi, tutto diverso. Giungono altri battaglioni, altre foggie. Alcuni hanno l'elmo prussiano, altri l'elmo senza punta; chi ha le baionette, chi le daghe diritte, chi le daghe ricurve, chi le daghe serpeggianti; qui soldati coi cordoni, là senza cordoni, più in là cordoni di nuovo; centurini, spalline, cravatte, penne, ogni cosa cangia ad ogni tratto. E son tutte divise sfoggiate e pompose con cento colori e cento gingilli che pendono, luccicano e svolazzano. Ogni battaglione ha una bandiera di forma diversa, coperta di ricami, di nastri, di frangie; fra gli altri si vedon dei militi vestiti da paesani, con una banda qualunque cucita a lunghi punti sovra un par di calzoni rappezzati; alcuni senza cravatta, altri con cravatta nera, panciotto aperto e camicia ricamata; ragazzi di quindici, di dodici anni, armati di tutto punto, in mezzo alle file; vivandierine con sottane corte e calzoni rossi, e canestri pieni di sigari e d'aranci. Davanti ai battaglioni, è un continuo correre di ufficiali a cavallo. Ogni maggiore porta sul capo, o sul petto o sulla sella qualche ornamento di sua invenzione; ad ogni tratto passa una staffetta che non si sa a che diavol di Corpo appartenga; si vedon galloni sulle braccia, sulle spalle, intorno al collo, d'argento, d'oro, di lana; medaglie e croci fitte tanto da nascondere mezzo il petto, messe l'una su l'altra, e sopra e sotto la cintura; guanti di tutti i colori dell'iride; sciabole, spade, spadine, spadoni, pistole, rivoltelle; un miscuglio, insomma, di tutte le divise e di tutte le armi di tutti gli eserciti, una varietà da stancare dieci commissioni ministeriali per la modificazione del vestiario, una confusione da perderci il capo. Non ricordo se fossero dodici o quattordici battaglioni; ciascuno dei quali scegliendo la propria divisa, s'era sforzato di riuscire quanto più era possibile diverso da tutti gli altri. Erano comandati dal Sindaco, che aveva anch'egli un'uniforme fantastica. Potevano essere un ottomila uomini. All'ora fissata, un improvviso scorrazzare di ufficiali di stato maggiore e un sonar clamoroso di trombe annunziò l'arrivo del Re. Arrivò in fatti dalla strada d'Alcalà Don Amedeo, a cavallo, vestito da capitan generale, con stivaloni, calzoni bianchi e divisa a coda di rondine; e dietro a lui un folto stuolo di generali, d'aiutanti di campo, di servitori rosso-vestiti, di lancieri, di corazzieri, di guardie. Dopo che ebbe percorsa tutta la fronte dell'esercito, dal Prado fino alla chiesa di Atocha, in mezzo a una folla fitta e silenziosa, ritornò verso la strada Alcalà. Qui era una moltitudine immensa che ondeggiava e rumoreggiava come un mare. Il Re e il suo stato maggiore s'andarono a fermare davanti alla chiesa di San José colle spalle volte alla facciata, e la cavalleria fece sgombrare, a gran fatica, un piccolo spazio per dove potessero sfilare i battaglioni.

Sfilarono per plotoni. Via via che passavano, a un cenno del comandante gridavano:— Viva el Rey! Viva Don Amadeo primero!

Il primo ufficiale che lanciò il grido ebbe una idea infelice. L'evviva gridato spontaneamente dai primi diventò come un dovere per tutti gli altri; e fu cagione che il pubblico pigliasse la maggior o minor forza ed armonia delle voci come segno di dimostrazione politica. Alcuni plotoni gridavano un evviva così fioco e corto, che pareva la voce d'un gruppo di malati che chiedessero aiuto: allora la folla prorompeva in risa. Altri plotoni gridavano a squarciagola, ed anco il loro grido era interpretato come una dimostrazione di ostilità alla dinastia. Varie voci correvano fra la gente serrata intorno a me. Uno diceva:—Ora viene il tal battaglione, è un battaglione di repubblicani, vedrete che non grida.—Il battaglione non gridava: gli spettatori tossivano. Un altro diceva:—È una vergogna, una mancanza d'educazione; a mi tampoco me gusta Don Amadeo, pero callo (taccio) y respeto. —Vi fu qualche litigio. Un giovinastro gridò viva con voce in falsetto, un caballero gli diede dell'impertinente, quegli si risentì, alzarono tutti e due le mani, un terzo li divise. Tra battaglione e battaglione passavano cittadini a cavallo; alcuni non si levavano il cappello, e fissavano nondimeno il Re; e allora si sentivan nella folla voci diverse come muy bien e mal criado. Altri che avrebbero voluto salutare, non salutavano per paura; e passavano col capo basso e il viso rosso. Altri invece, stomacati da quello spettacolo, facevano alla barba di tutti una coraggiosa dimostrazione di amedeismo, passando col cappello in mano, e guardando ora rispettosamente il Re, ora fieramente la folla, pel tratto di una decina di passi. Il Re restò immobile fino alla fine dello sfilamento con una espressione inalterata di serena alterezza. Così ebbe fine la rassegna.

Questa milizia nazionale, benchè meno disfatta e sfinita della nostra, non è più tuttavia che una larva; il ridicolo ne ha corroso le radici; ma come divertimento nei giorni di festa, benchè il numero dei volontarii sia molto scemato (ascendevano una volta a trentamila), è sempre uno spettacolo che rivende tutte le antenne e tutti i cenci rossi del signor Ottino.

LE CORSE DEI TORI.

Il trentun di marzo s'inaugurò lo spettacolo delle corse dei Tori. Discorriamone a nostro bell'agio, perchè l'argomento n'è degno. Chi ha letto la descrizione del Baretti, faccia conto di non aver letto nulla. Il Baretti non vide che le corse dei tori di Lisbona, che appetto a quelle di Madrid son giuochi da ragazzi; la sede dell'arte è Madrid; qui i grandi artisti, qui gli spettacoli sfarzosi, qui gli spettatori esperti, qui i giudici che sanciscono la gloria. Il Circo di Madrid è il Teatro della Scala dell'arte toresca.

L'inaugurazione delle Corse dei Tori a Madrid è assai più importante d'un cangiamento di Ministero; un mese prima n'è sparso l'annunzio in tutta la Spagna; da Cadice a Barcellona, da Bilbao ad Almeria, nei palazzi dei Grandi e nei tugurii dei poveri, si parla degli artisti e delle razze dei tori; si istituiscono corse di piacere fra le provincie e la Capitale; chi è corto a quattrini, fa dei risparmi per potersi procurare un bel posto nel Circo il giorno solenne; i padri e le madri promettono ai figliuoli studiosi che ce li condurranno; gli amanti lo promettono alle belle; i giornali assicurano che si avrà una buona stagione; i toreros scritturati, che si vedon già per Madrid, son segnati a dito; corre voce che i tori sono già arrivati, c'è chi li ha visti, si briga per andarli a vedere; son tori dei pascoli del duca di Veragua, del marchese de la Merced, dell'eccellentissima signora vedova di Villaseca, stupendi, formidabili; s'apre l'ufficio per gli abbonamenti, accorrono in folla i dilettanti, i servitori delle famiglie nobili, i sensali, gli amici incaricati dagli assenti; il primo giorno l'Impresario ha incassato cinquantamila lire, il secondo, trenta, in una settimana cento mila; Frascuelo, il famoso matador, è arrivato; è arrivato il Cuco, è arrivato il Calderon; ci son tutti; ancora tre giorni! migliaia di persone non parlan d'altro, vi son signore che sognano il Circo, ministri che non han più il capo agli affari, vecchi dilettanti che non stan più nella pelle; operai, poveri che non fumano più il cigarrito per aver quei pochi soldi il giorno dello spettacolo. Finalmente s'arriva alla vigilia: il sabato mattina, prima dell'alba, in una stanza a terreno della strada d'Alcalà, si cominciano a vendere i biglietti; v'è già una folla di gente prima che s'apra la porta; urlano, si pigiano, si picchiano; venti guardie civili colla rivoltella alla cintura duran fatica a ottener un po' di quiete; fino a notte è un via vai incessante. Spunta il giorno sospirato: lo spettacolo comincia alle tre; a mezzodì muove gente da tutte le parti verso il Circo; il Circo è all'estremità del borgo di Salamanca, al di là del Prado, fuori di porta Alcalà; tutte le strade che vi conducono, sono corse da una processione di popolo; nei dintorni dell'edifizio è un formicolaio; arrivano drappelli di soldati e di volontarii della libertà, preceduti dalle bande musicali; una turba d'acquaioli e d'aranciai empiono il cielo di grida; i rivenditori di biglietti corrono qua e là chiamati da cento voci; disgraziato chi non ha ancora il suo biglietto! pagherà il doppio, il triplo, il quadruplo! ma che importa? si pagò un biglietto anche cinquanta, anche ottanta lire! Si aspetta il Re, si dice che verrà pure la Regina; cominciano ad arrivare le carrozze dei pezzi grossi; il duca Fernan Nunez, il duca di Abrantes, il marchese de la Vega de Armijo, una folla di grandi di Spagna, le deesse dell'aristocrazia; i ministri, i generali, gli ambasciatori, tuttociò che v'è di bello, di splendido e di potente nella grande città. S'entra nel Circo per molte porte; prima d'entrare s'è già assordati.

Entrai: il Circo è immenso. Visto di fuori non presenta nulla di notevole, è un edifizio rotondo, basso, senza finestre, intonacato di giallo; ma all'entrare, si prova un senso vivissimo di meraviglia. È un Circo per un popolo, ci stanno diecimila spettatori, ci potrebbe armeggiare un reggimento di cavalleria. L'arena è circolare, vastissima, da contener dieci dei nostri circhi equestri, cinta da una barriera di legno, alta fin quasi al collo d'un uomo, munita dalla parte interna d'un piccolo rilievo, a pochi palmi da terra, sul quale mettono il piede i toreros per saltar al di là, quando il toro gl'insegue. Dopo questa barriera, ve n'è un'altra più alta, perchè il toro salta sovente al di là della prima; fra questa e quella corre tutt'intorno all'arena una corsía, larga un po' più d'un metro, nella quale vanno e vengono i toreros prima del combattimento, e stanno durante il combattimento i servitori del Circo, i falegnami pronti a riparare ai guasti che può fare il toro, le guardie, i venditori d'aranci, i dilettanti che godono dell'amicizia dell'Impresario, i pezzi grossi ai quali è concesso di fare un buco nel regolamento. Al di là della seconda barriera, s'alza una gradinata di pietra; al di là della gradinata i palchi; sotto i palchi corre una galleria occupata da tre giri di sedili. I palchi son grandi da capire ciascuno due o tre famiglie; il palco del Re è una gran sala; accanto al palco del Re, v'è quello del Municipio, dal quale il Sindaco, o qualcuno per lui, presiede allo spettacolo. V'è il palco dei Ministri, del Governatore, degli Ambasciatori; ogni famiglia nobile n'ha uno; i giovanotti bontonisti, come direbbe il Giusti, n'hanno uno in molti; ci son poi i palchi d'affitto, che costano un subisso. Tutti i posti delle gradinate son numerati; ciascuno ha il suo biglietto; l'entrata si fa senza il menomo disordine. Il Circo è diviso in due: la parte dove batte il sole, la parte all'ombra; in questa si paga di più; nell'altra va il basso popolo. L'arena ha quattro porte a intervalli quasi uguali fra loro: la porta per la quale entrano i toreros, quella per i tori, quella pei cavalli, quella per gli annunziatori dello spettacolo, sotto il palco del Re. Al di sopra della porta per la quale entrano i tori, s'alza una specie di terrazza, che si chiama il toril: fortunato chi ci può trovar posto! Su questa terrazza, sur un palchetto, stanno coloro che, a un cenno che si fa dal palco del Municipio, suonan la tromba e il tamburo per annunziare l'uscita del toro. In faccia al Toril, dalla parte opposta dell'Arena, sulla gradinata, c'è la banda musicale. Tutta la gradinata è divisa in scompartimenti, ognuno dei quali ha la sua porta d'entrata. Prima che cominci lo spettacolo, il popolo può entrar nell'Arena, e girare per tutti i recessi dell'edifizio; si va a vedere i cavalli, chiusi in un cortile, destinati la maggior parte, ahimè! a morire; si va a vedere i chiusi oscuri entro cui son serrati i tori, che si fan poi passare dall'uno all'altro, fino a un corridoio, dal quale si slancian nell'arena; si va a vedere l'Infermeria dove son trasportati i toreros feriti; una volta c'era da veder pure una Cappella, nella quale celebravasi la messa durante il combattimento, e i toreros andavano a pregare prima d'affrontare la belva; si va presso la porta principale d'entrata, dove sono esposte le banderillas che saranno confitte nel collo ai tori, e dove si vede una folla di toreros vecchi, quale storpio, quale senza un braccio, quale colle stampelle, e di toreros giovani, che non sono ancora ammessi agli onori del Circo di Madrid; si compra un numero del giornale il Buletin de los Toros che promette meraviglie per la funcion del giorno; ci si fa dare dai custodi il programma dello spettacolo, e un fogliolino stampato, diviso in colonne, per notarvi i colpi di picca, le stoccate, le cadute, le ferite; si gira per gl'interminabili corridoi e le interminabili scale in mezzo a una folla che va e viene, sale e scende gridando e strepitando, da far tremar l'edifizio; e finalmente si ritorna al proprio posto.

Il Circo è pieno zeppo ed offre uno spettacolo del quale è impossibile, a chi non l'abbia visto, di formarsi un'immagine; è un mare di teste, di cappelli, di ventagli, di mani che s'agitano in aria; dalla parte dell'ombra, dove sono i signori, tutto nero; dalla parte del sole, dov'è il basso popolo, mille colori vivissimi di vestiti, di ombrellini, di ventagli di carta, un'immensa mascherata; non c'è più posto per un bambino; la folla è compatta come una falange, nessuno può uscire, si stenta a muovere le braccia. E non è un brulichío, uno strepito come negli altri teatri; è diverso; è un'agitazione, una vita affatto propria del Circo; tutti gridano, si chiamano, si salutano, con un'allegrezza frenetica; i bambini e le donne strillano, gli uomini più gravi folleggiano come giovinetti; i giovani, a gruppi di venti, di trenta insieme, vociando in cadenza, e battendo le canne sulle gradinate, annunziano al rappresentante del Municipio che è l'ora; nei palchi è un ribollimento da piccionaja di teatro diurno; al gridío assordante della folla si mescono gli urli d'un centinaio di rivenditori che gettano aranci da tutte le parti; suona la banda, i tori muggiscono, rumoreggia la folla accalcata di fuori; è uno spettacolo che dà le vertigini; prima che la lotta cominci, si è già stanchi, ebbri, smemorati.

All'improvviso s'alza un grido:— El Rey! —Il Re è arrivato; è arrivato in una carrozza tirata da quattro cavalli bianchi, montati da servitori vestiti del pittoresco costume andaluso; le vetriere che chiudono il palco reale s'aprono; il Re entra con un folto corteo di ministri, di generali, di maggiordomi. La Regina non c'è; si prevedeva: si sa che ha orrore di codesto spettacolo; oh! ma il Re non ci poteva mancare, c'è sempre venuto; si dice che ne va matto. È l'ora, si comincia. Mi ricorderò per tutta la vita del freddo che sentii nelle vene in quel punto.

Squilla la tromba: quattro guardie del Circo, a cavallo, con cappello e pennacchio alla Enrico IV, mantellina nera, giustacore, stivaloni, spada, entrano dalla porta che è sotto il palco del Re, e fanno a lento passo il giro dell'Arena; la gente sgombra, ognuno va al suo posto, l'Arena riman vuota. I quattro cavalieri si vanno a mettere a due a due dinanzi alla porta, ancora chiusa, che fa fronte al palco reale. I diecimila spettatori hanno l'occhio là, si fa un silenzio generale; di là deve uscir la cuadrilla, tutti i toreros, in gran gala, che vengono a presentarsi al Re e al popolo. La banda suona, la porta s'apre, s'ode uno scoppio immenso d'applausi, i toreros si avanzano. Vengon primi i tre espadas, Frascuelo, Lagartijo, Cayetano, i tre famosi, vestiti del costume di Figaro nel Barbiere di Siviglia, di raso, di seta, di velluto ranciato, incarnato, azzurro, coperti di ricami, di frangie, di galloni, di filigrane, di lustrini, di ciondolini d'oro e d'argento, che nascondon quasi tutto il vestito; avvolti in ampie cappe gialle e rosse; con calze bianche, cintura di seta, un gruppo di treccie sulla nuca, un berretto di pelo. Vengon dopo i banderilleros e i capeadores, uno stuolo, anch'essi coperti d'oro e d'argento; poi i picadores a cavallo, a due a due, con una gran lancia nel pugno, un cappello grigio, basso, di grandissima tesa, una giacchettina ricamata, un paio di calzoni di pelle di bufalo gialla, imbottiti e guarniti al di dentro di lamine di ferro; poi i chulos, o servitori, vestiti dei loro panni di gala; e tutti insieme attraversano maestosamente l'Arena, dirigendosi verso il palco del Re. Nulla si può immaginare di più pittoresco di quello spettacolo: vi son tutti i colori d'un giardino, tutti gli splendori d'un corteo reale, tutta la gaiezza d'una frotta di maschere, tutta l'imponenza d'una schiera di guerrieri; a chiuder gli occhi, non si vede che un barbaglio d'oro e d'argento. E son uomini bellissimi, i picadores alti e tarchiati come atleti; gli altri sottili, svelti, di forme scultorie, visi bruni, occhi grandi e fieri; figure di gladiatori antichi, vestite con uno sfarzo da principi asiatici.

Tutta la cuadrilla si arresta dinanzi al palco del Re e saluta; l'Alcade fa cenno che si può cominciare; cade dal palco nell'Arena la chiave del toril dove son chiusi i tori; una guardia del Circo la raccoglie e la rimette al custode che si va a piantare accanto alla porta, pronto ad aprire. Lo stuolo dei toreros si scioglie, gli espadas saltano al di là della barriera, i capeadores si sparpagliano per l'Arena agitando le loro capas rosse e gialle, dei picadores alcuni si ritirano ad aspettare il loro turno, gli altri spronano il cavallo e vanno ad appostarsi a sinistra del toril, alla distanza di una ventina di passi l'un dall'altro, colle spalle volte alla barriera, e la lancia in resta. È un momento d'agitazione, d'ansietà inesprimibile; tutti gli sguardi son fissi alla porta dalla quale uscirà il toro; tutti i cuori battono; un silenzio profondo regna in tutto il Circo; non si sente che il muggito del toro che s'avanza di chiuso in chiuso, nell'oscurità della sua vasta prigione, quasi gridando:—Sangue! Sangue!—I cavalli tremano, i picadores impallidiscono;—ancora un istante;—squilla la tromba, la porta si spalanca, un toro enorme si slancia nell'Arena; un grido formidabile, scoppiato a un punto da dieci mila petti, lo saluta. La strage comincia.

Ah! si ha un bell'avere la fibra forte: in quel momento si diventa bianchi come cadaveri!

Io non ricordo che in confuso ciò che seguì nei primi istanti; non so dove avessi la testa. Il toro si slanciò contro il primo picador, poi retrocedette, riprese la corsa, e si slanciò contro il secondo; seguì una lotta, non ricordo; di lì a un minuto il toro si slanciò contro il terzo; poi corse in mezzo all'Arena, si fermò e guardò. Guardai io pure e mi copersi il viso colle mani. Tutta la parte dell'Arena che il toro aveva percorso era rigata di sangue; il primo cavallo giaceva in terra, col ventre squarciato, colle viscere sparse; il secondo, col petto aperto da una larga ferita da cui sgorgava il sangue a fiotti, andava qua e là barcollando; il terzo, ch'era stato buttato a terra, si sforzava di rialzarsi; i chulos, accorsi in fretta, sollevavano da terra i picadores, toglievan la sella e le briglie al cavallo morto, cercavan di mettere in piedi il ferito; un urlìo d'inferno risuonava da tutte le parti del Circo. Così comincia per lo più lo spettacolo. I primi a ricever l'urto del toro sono i picadores; l'aspettano di piè fermo, e gli piantano la lancia tra capo e collo nell'atto ch'ei s'abbassa per dar la cornata al cavallo. La lancia, si noti, non ha che una piccola punta, che non può aprire una ferita profonda, e i picadores debbono, facendo forza col braccio, tener il toro lontano, e salvare la cavalcatura. Ci vuol un colpo d'occhio sicuro, un braccio di bronzo e un cuore intrepido; non sempre ci riescono; anzi non ci riescono il più delle volte, e il toro pianta le corna nella pancia del cavallo, e il picador cade a terra. Allora i capeadores accorrono, e mentre il toro sbarazza le corna dalle viscere della sua vittima, gli agitano le capas sugli occhi, lo distraggono, si fanno inseguire, e lasciano in salvo il cavaliere caduto, che i chulos vanno a soccorrere, per rimetterlo in sella se il cavallo regge ancora, o portarlo all'infermeria, se si è sfracellata la testa.

Il toro, fermo in mezzo all'Arena, colle corna insanguinate, anelante, guardava intorno come per dire:—Ne avete assai?—Uno stuolo di capeadores gli corse incontro, l'attorniò, e cominciarono a provocarlo, a aizzarlo, a farlo correre di qua e di là, scotendogli le cappe sugli occhi, facendogliele passare sulla testa, attirandolo e sfuggendolo con rapidissime giravolte, per tornare a provocarlo e a sfuggirlo daccapo; e il toro a dar dietro or all'uno ora all'altro, a inseguirli fino alla barriera, e là a picchiar cornate contro gli assiti, a scalpitare, a far capriole, a muggire, a riconfiggere le corna, passando, nel ventre dei cavalli morti, a far degli sforzi per saltare nella corsia, a correr l'Arena da tutte le parti. Intanto erano entrati altri picadores per sostituire i due ai quali era stato ucciso il cavallo, e s'eran posti, lontani l'un dall'altro, dalla banda del toril, colla lancia in resta, aspettando che il toro assalisse. I capeadores lo tirarono destramente da quel lato: il toro, visto il primo cavallo, gli si slanciò contro a capo basso. Ma questa volta il suo assalto andò fallito; la lancia del picador gli si confisse nella spalla, e resistette; il toro s'ostinò, ponzò, fece impeto con tutta la sua mole; ma invano; il picador tenne duro, il toro dette indietro, il cavallo fu salvo, e uno scoppio fragoroso d'applausi salutò il salvatore. L'altro picador fu meno fortunato: il toro lo assalì, egli non riuscì a piantar la lancia, il corno formidabile penetrò nel ventre del cavallo colla rapidità d'una spada, si dibattè nella ferita, si ritrasse: gli intestini del povero animale caddero e rimasero sospesi dondolando come un sacco quasi fino a terra; il picador rimase in sella. Qui si vide un'orrenda cosa. Invece di scendere, il picador, visto che la ferita non era mortale, diè una spronata e s'andò ad appostare da un'altra parte per aspettare un secondo assalto: il cavallo attraversò l'Arena con le viscere fuor, del corpo, che gli battevan nelle gambe e gl'intralciavano il passo; il toro l'inseguì per qualche momento, e si fermò. In quel punto s'udì uno squillo di tromba: era il segnale che i picadores dovevano ritirarsi, s'aperse una porta, se n'andarono l'un dopo l'altro al galoppo; rimasero due cavalli morti, e qua e là guazzi e righe di sangue, che due chulos copriron di terra.

Dopo i picadores vengono i banderilleros. Pei profani è la parte dello spettacolo, perchè meno cruenta, più dilettevole. Le banderillas sono frecciuole lunghe un due palmi, ornate di carta colorata, munite d'una punta metallica formata in modo che, una volta confitta nelle carni, non se ne può più staccare, e il toro agitandosi e scuotendola non fa che configgerla più addentro. Il banderillero prende due di queste freccie, una per mano, e si va a piantar ritto una quindicina di passi davanti al toro, e alzando le braccia e gridando, lo provoca ad assalirlo. Il toro gli si slancia contro; il banderillero, alla sua volta, corre verso il toro; questi abbassa la testa per dargli le corna nel ventre, quegli gli pianta le banderillas nel collo, una di qua e una di là, e con una rapidissima giravolta si salva. Se si china, se gli fallisce un piede, se esita un secondo, è infilato come un ranocchio. Il toro mugge, sbuffa, salta e si mette a inseguire i capeadores con uno spaventoso furore; in un minuto tutti son saltati nella corsia, l'arena è sgombra, la belva col muso schiumante, cogli occhi sanguigni, col collo rigato di sangue, pesta la terra, si dibatte, percuote la barriera, domanda vendetta, vuol uccidere, ha bisogno di strage, nessuno s'attenta ad affrontarla, gli spettatori empiono l'aria di grida:—Avanti! coraggio! L'altro banderillero!—l'altro banderillero si fa innanzi e pianta le sue freccie, poi un terzo, poi di nuovo il primo. Quel giorno gliene piantaron otto; la povera bestia, quando si sentì configger le ultime due, mandò un muggito lungo, straziante, orrendo, e slanciatosi dietro ad uno dei suoi nemici, lo inseguì sino alla barriera, spiccò un salto, e cascò con lui nella corsia; i dieci mila spettatori si levarono in piedi tutti in un punto, gridando:—Lo ha ucciso!—Ma il banderillero s'era scansato. Il toro corse e ricorse avanti e indietro fra le due barriere, sotto una pioggia di bastonate e di pugni, sin che s'abbattè in una porta aperta, rientrò nell'arena, e la porta si richiuse. Allora tutti i banderilleros e tutti i capeadores gli si slanciarono di nuovo intorno; uno passandogli dietro, gli diè uno strappo alla coda, e disparve come un fulmine; un altro, trapassando rapidissimamente, gli avvolse la capa intorno alle corna; un terzo spinse l'audacia sino ad andargli a togliere con una mano un piccolo nastro di seta che aveva attaccato sulla groppa; un quarto, più temerario di tutti, puntò un'asta in terra, mentre il toro correva, e spiccato un salto, gli passò al di sopra e andò a cascare dall'altra parte, buttando l'asta tra le gambe dell'animale stupefatto. E tutto questo facevano con una rapidità da prestigiatori e una grazia da ballerini, come se avessero scherzato con una pecora! E intanto la folla immensa faceva rimbombare il circo di risa, di applausi, di grida di gioia, di meraviglia, di terrore.

Squilla un'altra volta la tromba; i banderilleros han finito; ora tocca all' espada; è il momento solenne, è la crisi del dramma; la folla si queta, le signore si sporgon fuori dei palchi, il Re si alza in piedi. Il celebre Frascuelo, tenendo in una mano la spada e la muleta, che è un pezzo di stoffa rossa attaccata a un bastoncino, entra nell'arena, si presenta dinanzi al palco reale, si leva il berretto, e consacra al Re, pronunciando una poetica frase, il toro che va ad uccidere; poi getta il berretto in aria, come per dire:—Vincerò o morirò!—e seguìto dallo splendido corteo dei capeadores, si muove con passo risoluto verso il toro. Qui segue una vera lotta corpo a corpo, degna d'un canto d'Omero. Da un lato la belva colle sue corna terribili, colla sua forza enorme, colla sua sete di sangue, inasprita dal dolore, acciecata dall'ira, torva, insanguinata, spaventosa; dall'altra un giovane di vent'anni, vestito come un ballerino, a piedi, solo, senza difesa con una leggera spadina tra le mani. Ma egli ha diecimila sguardi addosso! Il Re gli prepara un dono! La sua amante è lassù, in un palco, cogli occhi fissi su di lui! Mille signore tremano per la sua vita! Il toro si ferma, lo guarda; egli guarda il toro, e gli agita dinanzi il panno rosso; il toro si caccia sotto, l' espada si scansa, il corno formidabile gli rasenta il fianco, urta il panno rosso e colpisce nel vuoto. Un tuono d'applausi scoppia su tutte le gradinate, in tutti i palchi, in tutte le gallerie. Le signore guardano col canocchiale e gridano:—Non ha impallidito!—Si fa silenzio daccapo, non si sente una voce, non un bisbiglio. L'audace torero fa volteggiare a più riprese la muleta sugli occhi dell'animale inferocito, gliela passa sulla testa, tra le corna, intorno al collo, lo fa retrocedere, avanzare, girare, saltare; si fa assalire dieci volte, e dieci volte, con un leggerissimo movimento, scansa la morte; lascia cader la muleta, la raccoglie sotto gli occhi del toro, gli ride sul muso, lo provoca, l'insulta, se ne trastulla; tutt'a un tratto si ferma, si mette in guardia, alza la spada, piglia la mira; il toro lo guarda; ancora un istante, e si slancieranno addosso, l'un all'altro, nello stesso punto; uno dei due deve morire; diecimila sguardi corrono con una rapidità fulminea dalla punta della spada alla punta delle corna, dieci mila cuori battono di ansietà e di terrore, tutti i visi sono immobili, non si sente un respiro, l'immensa folla par pietrificata,—ancora un istante,—ecco il punto! Il toro si slancia, l'uomo vibra la spada; un solo altissimo grido, seguito da uno scoppio tempestoso di applausi, prorompe da ogni parte; la spada penetrò fino all'elsa nel collo del toro, il toro barcolla, e gettando dalla bocca un fiotto di sangue, cade come colpito da un fulmine. L'uomo ha vinto! Allora segue un tumulto indescrivibile; la moltitudine sembra forsennata; tutti si levano in piedi, scotendo le braccia, gettando alte grida; le signore sventolano i fazzoletti, batton le mani, agitano i ventagli; la banda suona; l' espada vincitore s'avvicina alla barriera e fa il giro dell'arena; via via che passa, dalle gallerie, dai palchi, dalle gradinate, gli spettatori rapiti d'entusiasmo gli gettano addosso manate di sigari, portafogli, bastoni, cappelli, tutto quello che cade loro sotto le mani; in pochi momenti il fortunato torero ha le braccia ingombre di roba, chiama in soccorso i capeadores, rigetta i cappelli agli ammiratori, ringrazia, risponde come può ai saluti, alle lodi, ai titoli gloriosi che gli si gridan da mille parti, e giunge finalmente sotto il palco del Re. Allora tutti gli occhi si rivolgono sul Re. Il Re mette una mano in tasca, tira fuori un portasigari pieno di biglietti di banca e lo butta giù; il torero lo coglie in aria, la moltitudine prorompe in applausi. Intanto la banda suona l'aria funebre al toro; s'apre una porta, entrano di galoppo quattro stupende mule ornate di pennacchi, di fiocchi e di nastri gialli e rossi, condotte da uno stuolo di chulos che gridano e fan chioccare le fruste; trascinano via un dopo l'altro, i cavalli morti, e poi il toro, che vien subito portato in una piazzetta vicino al circo dove l'aspetta una turba di monelli, per intingere il dito nel suo sangue, dopo di che vien scorticato, tagliato e venduto. Rimasta libera l'arena, squilla la tromba, suona il tamburo: un altro toro si precipita fuori della gabbia, assalta i picadores, squarcia il ventre ai cavalli, offre il collo alle banderillas, è ucciso da un' espada; e così si presentano nell'arena, l'un dopo l'altro, senza alcuna interruzione, sei tori.

Quante scosse, quanti brividi, quanti accessi di freddo al cuore e di sangue al capo, vi pigliano durante quello spettacolo! Quanti pallori improvvisi! Ma voi, straniero, voi solo impallidite: il ragazzo che avete accanto ride, la fanciulla che vi siede dinanzi è pazza dalla gioia, la signora che vedete nel palco vicino, dice che non s'è mai divertita tanto! Che gridìo! Che esclamazioni! Là per imparare la lingua! Comparisce il toro, è giudicato da mille voci:—Che bella testa!—Che occhi! Quello farà sangue!— Anda que vales un tesoro! —Gli gridano delle frasi d'amore. Ha ucciso un cavallo:— Bueno! —Guarda quanta roba gli ha cavato dal ventre!—Un picador fallisce il colpo, e ferisce malamente il toro, o si perita ad affrontarlo: allora è un diluvio d'ingiurie atroci;—Poltrone! Impostore! Assassino! Vatti a nascondere! Fatti ammazzare!—Tutti s'alzano, lo segnano a dito, gli mostrano i pugni, gli tiran sul viso le scorze d'arancio e i mozziconi dei sigari, lo minacciano col bastone. Quando l' espada fredda il toro alla prima, allora sono parole da innamorati in delirio, gesti da pazzi:—Vieni qui, angelo!—Dio ti benedica, Frascuelo!—Gli mandan dei baci, lo chiamano, tendon le mani come per abbracciarlo. Che profusione di epiteti, di frizzi, di proverbi! Quanto fuoco! Quanta vita!

Ma io non dissi che delle vicende d'un toro; in un'intera corrida seguon mille accidenti. In quello stesso giorno un toro cacciò la testa sotto il ventre d'un cavallo, sollevò cavallo e cavaliere, e portatili un po' in trionfo a traverso l'arena, li scaraventò in terra tutti e due come un sacco di cenci. Un altro toro uccise quattro cavalli in pochi minuti; un terzo investì così malamente un picador, che questo cadde, diè del capo nella barriera e svenne, e fu portato via. Ma non per questo, nè per un ferimento grave, e neanco per la morte d'un torero s'interrompe lo spettacolo; il programma lo dice; se uno muore, ce n'è un altro pronto. Il toro non assalta sempre; ve ne son dei vigliacchi, che vanno incontro al picador, s'arrestano, e dopo un istante di esitazione, fuggono; altri, dopo il primo assalto, non assaltan più; altri, d'indole mite e benigna, non rispondon neanco alle provocazioni, si lascian venire addosso il picador, si lascian piantare la lancia nel collo, danno indietro, scrollan la testa, come per dire:—Non voglio!—, fuggono e poi si voltano, tutt'a un tratto, a guardare con aria attonita lo stuolo dei capeadores che gl'insegue come se volessero dimandare:—Che volete da me? Che v'ho fatto? Perchè mi volete uccidere?—Allora la folla prorompe in imprecazioni contro il toro vigliacco, contro l'impresario, contro i toreros; e prima qualcuno dei dilettanti del toril, poi gli spettatori della banda del sole, poi i signori della banda dell'ombra, poi le signore, poi tutti gli spettatori del circo gridano a una voce: Banderillas de fuego! —Il grido è diretto all'Alcade; le banderillas di fuoco servono a inferocire il toro; son banderillas munite d'un razzo che s'accende nell'atto stesso che la punta penetra nelle carni, e brucia la ferita cagionando un dolore atroce, e stordisce ed irrita l'animale al punto da mutarlo di vigliacco in temerario, di queto in furioso. Per metter le banderillas de fuego ci vuole il permesso dell'Alcade; se l'Alcade esita a darlo, tutti gli spettatori s'alzano in piedi; e allora è un colpo d'occhio stupendo; si vedon dieci mila fazzoletti che sventolano come le bandierine di dieci reggimenti di lancieri, e formano dai palchi all'Arena, tutt'intorno, uno strato bianco ondeggiante sotto il quale sparisce quasi la folla; e dieci mila voci gridano:— fuego! fuego! fuego! —Allora l'Alcade cede; ma se s'ostina nel suo no, i fazzoletti spariscono, s'alzano i pugni e i bastoni, prorompono le ingiurie:— No sea usted necio! —Non faccia il minchione!—Non rompa i corbelli!— Las banderillas al Alcalde! Fuego al Alcalde!

L'agonia del toro è tremenda. Qualche volta il torero non aggiusta il colpo a dovere, e la spada penetra bensì fino all'elsa, ma fuor della via del cuore. Allora il toro si mette a correr l'arena colla spada confitta nelle carni, irrigando il terreno di sangue, mandando altissimi muggiti, divincolandosi e scontorcendosi in mille modi per liberarsi da quella tortura; e in quell'impetuosa corsa, qualche volta la spada salta via; qualche volta si configge più addentro, e gli cagiona la morte. Sovente l' espada è costretto a dargli una seconda stoccata, non di rado una terza, talora una quarta; il toro versa un torrente di sangue; tutte le capas dei capeadores ne sono intrise, n'è macchiato l' espada, n'è aspersa la barriera, per tutto cola sangue, gli spettatori indignati coprono il torero d'ingiurie. Qualche volta il toro profondamente ferito, cade a terra; ma non muore, e resta là immobile, colla testa alta, minaccioso, come per dire:—Venite, assassini, se vi basta l'animo!—Allora la lotta è finita; bisogna accorciar l'agonia; un uomo misterioso scavalca la barriera, s'avvicina a passi furtivi, si apposta dietro al toro, e colto il momento, gli vibra un colpo di pugnale nella testa, che gli penetra al cervello e lo fredda. Spesso neanche questo colpo non riesce; l'uomo misterioso deve vibrarne due, tre, persino quattro; allora l'indignazione del popolo si scatena come una tempesta, gli danno del boia, del codardo, dell'infame, gli augurano la morte, se lo avesser nelle mani, lo strozzerebbero come un cane. Altre volte il toro, ferito a morte, barcolla un pezzo prima di cadere, e barcollando s'allontana a lento passo dal luogo dove fu colpito per andar a morir in pace in un canto appartato; tutti i toreros lo seguono lentamente, come un corteggio funebre, a una certa distanza; la folla tien dietro cogli occhi a tutti i suoi movimenti, conta i suoi passi, misura il progresso dell'agonía; un silenzio profondo accompagna i suoi ultimi momenti; la sua morte ha qualcosa di maestoso e di solenne. Vi son dei tori indomabili, che non vogliono chinar la testa se non traendo l'ultimo respiro; tori che, versando ruscelli di sangue per la bocca, minacciano ancora; tori che, trafitti da dieci colpi di spada, pugnalati, dissanguati, alzano ancora il collo con un movimento superbo che fa retrocedere lo stuolo dei loro persecutori fino a metà dell'arena; tori che hanno un'agonía più spaventevole della loro prima furia, che straziano i cavalli morti, spezzano la barriera, calpestano rabbiosamente le capas sparse per l'arena, saltano nella corsia, corrono intorno colla testa alta guardando gli spettatori con un'aria di sfida, cadono, si rialzano, muoiono muggendo.

L'agonia dei cavalli, meno lunga, è più dolorosa. Ad alcuni il toro spezza una gamba, ad altri trafigge il collo da parte a parte, altri uccide, con una cornata al petto, sul colpo, senza che versin neanco una goccia di sangue; altri, presi dallo spavento, piglian la carriera, diritto davanti a sè, e vanno a urtare la testa con un tremendo colpo contro la barriera, e cadono morti; altri si dibattono lungo tempo in un lago di sangue prima di morire; altri, feriti, sanguinosi, sbudellati, storpiati, galoppano ancora con una furia disperata, vanno incontro al toro, stramazzano, si rialzano e combattono ancora, fin che son portati via, disfatti, ma vivi; e allora gli si rimetton gl'intestini al posto, gli si cucisce la pancia, e servono per un'altra volta; altri, paurosi, all'avvicinarsi della belva, tremano verga a verga, scalpitano, rinculano, nitriscono, non vogliono morire; e son quelli che destano più pietà. Qualche volta un sol toro ne uccide cinque; qualche volta, in una corrida, ne muoion venti, tutti i picadores sono intrisi di sangue, l'arena sparsa di viscere fumanti, i tori stanchi di uccidere.

I toreros, anch'essi, hanno i loro brutti momenti. I picadores, talvolta, invece di cadere sotto il cavallo, cadono tra il cavallo e il toro; allora questo si precipita su di loro per ucciderli; la folla getta un grido; ma un capeador ardito getta la capa sugli occhi alla belva, e rischiando la sua vita salva quella del compagno. Sovente, invece di slanciarsi contro la muleta, il toro accorto, si slancia contro l' espada, lo rasenta, lo investe, lo insegue, lo costringe a buttar via l'arma e a salvarsi, pallido e tremante, di là dalla barriera. Qualche volta l'urta colla testa e lo atterra; l' espada sparisce in un nuvolo di polvere, la folla grida:—È morto!—il toro passa, l' espada è salvo. Qualche volta gli arriva sotto ad un tratto, lo solleva colla testa e lo sbatte da un lato. Non di rado il toro non si lascia pigliar di mira colla spada, il matador non riesce a coglierlo di fronte, e poichè non lo può ferire, giusta gli statuti, che in quel dato punto e in quel dato modo, si stanca inutilmente per lunga pezza, e stancandosi si confonde, e corre cento volte il rischio di farsi uccidere; e intanto la folla urla, fischia, l'insulta; finchè il pover uomo, disperato, si risolve a uccidere o a morire, e vibra il colpo come vien viene; ed o gli riesce ed è levato a cielo, o gli fallisce, ed è vilipeso, schernito, tempestato di scorze d'arancio, fosse anche il più intrepido, il più valente, il più decantato torero della Spagna.

Nella folla, poi, durante lo spettacolo, seguono mille avvenimenti. Di tratto in tratto scoppia una rissa fra due spettatori. Pigiata com'è la gente, qualche bastonata tocca ai vicini; i vicini dan di mano ai bastoni e picchiano anch'essi; il circolo delle bastonate s'allarga, la rissa si estende a tutto lo scompartimento della gradinata; in pochi momenti, cappelli in aria, cravatte in brani, visi sanguinosi, grida da intronare il cielo, tutti gli spettatori in piedi, le guardie in moto, i toreros, di attori, divenuti spettatori. Altre volte è un gruppo di giovanotti burloni che si voltan tutti insieme da una parte gridando: “Eccolo là.”—“Chi?”—Nessuno; ma intanto i vicini si alzano, i lontani salgono in piedi sui sedili, le signore si sporgon fuori dei palchi; in un momento tutto il Circo è sossopra. Allora il gruppo dei giovanotti dà in una sonora risata; i vicini, per non parer minchioni, fanno eco; si ride nei palchi, si ride nelle gallerie, diecimila persone ridono. Altre volte è uno straniero, spettatore per la prima volta della corsa dei tori, che sviene; la notizia si spande in un baleno, tutti s'alzano, tutti cercano, tutti gridano, si fa un casa del diavolo che non ha nome. Altre volte è un bell'umore che saluta un suo amico posto all'estremità opposta del Circo con un portavoce che fa l'effetto d'uno scoppio di tuono. Quella grande folla è agitata in pochi istanti da mille sentimenti contrarli; passa con una vicenda incessante dal terrore all'entusiasmo, dall'entusiasmo alla pietà, dalla pietà all'ira, dall'ira all'allegrezza, alla meraviglia, alla gioia sfrenata.

L'impressione insomma che lascia nell'animo questo spettacolo è indescrivibile, è un miscuglio di sentimenti nel quale è impossibile raccapezzar nulla di schietto, non si sa che pensarne. A momenti, inorriditi, vorreste fuggire dal Circo, e giurate di non tornarci mai più; a momenti, meravigliati, rapiti, quasi ebbri, non vorreste che lo spettacolo avesse mai fine; ora vi sentite quasi pigliar male; ora anche voi, come i vostri vicini, prorompete in grida, in risa e in applausi; il sangue vi fa ribrezzo, ma il coraggio meraviglioso dell'uomo vi esalta; il pericolo vi stringe il cuore, ma la vittoria vi rallegra; a poco a poco la febbre che agita la folla s'impadronisce di voi; non riconoscete più voi stesso; siete un altro; avete anche voi degli accessi d'ira, di ferocia, d'entusiasmo; vi sentite vigoroso e audace; la lotta vi accende il sangue; il balenío della spada vi mette un fremito; e poi quelle migliaia di visi, quello strepito, quella musica, quei muggíti, quel sangue, quei silenzi profondi, quei fragori improvvisi, quella vastità, quella luce, quei colori, quel non so che di grande, di forte, di crudele, di magnifico, che v'abbarbaglia, vi stordisce e vi rimescola....

Bello è il veder uscir la gente; son dieci torrenti che sgorgano da dieci porte e allagano in pochi minuti il borgo di Salamanca, il Prado, i viali di Recoletos, la strada Alcalà; migliaia di carrozze aspettano nei dintorni del Circo; per un'ora, da qualunque parte uno si volga, non vede che un formicolaio a perdita d'occhio; e tutti tacciono; le emozioni hanno spossato tutti; non si sente che il rumore dei passi; pare che la folla voglia dileguarsi furtivamente; una specie di tristezza è sottentrata alla clamorosa allegria di poc'anzi. Io, per mio conto, la prima volta che uscii da quel Circo, avevo appena tanta forza da reggermi in piedi; la testa mi girava come un arcolaio, le orecchie mi fischiavano, per tutto vedevo corna di tori, occhi iniettati di sangue, cavalli morti, luccichío di spade. Presi la via più corta per andare a casa, e appena arrivato, mi cacciai in letto, e m'addormentai d'un sonno profondo. L'indomani mattina venne in gran fretta la padrona di casa a domandarmi: “Ebbene? che gliene parve? s'è divertito? ci tornerà? che cosa ne dice?”—“Non so” risposi “mi par d'aver sognato, gliene parlerò poi, ho bisogno di pensarci.”—Venne il sabato, la vigilia della seconda corsa dei tori. “Ci va?” mi domandò la padrona. “No...” risposi pensando ad altro. Uscii, infilai la strada d'Alcalà, mi trovai, senza accorgermene, davanti alla bottega dove si vendono i biglietti; c'era un visibilio di gente; dissi fra me:—Ci ho da andare?... Sì?... No?...—“Vuole un biglietto?” mi domandò un ragazzo: “ un asiento de sombra, tendido numero seis, barrera, quince reales? ” Ed io risposi: “Qua!”

Ma per comprender bene la natura di codesto spettacolo, bisogna conoscerne la storia. Quando si sia fatto per la prima volta un combattimento coi tori, non si sa in modo sicuro; la tradizione narra che fu il Cid Campeador il primo cavaliere che scese colla lancia nell'arena, e uccise da cavallo il formidabile animale. D'allora in poi i giovani nobili si dedicarono con grande ardore a questo esercizio; in tutte le feste solenni vi furon corse di tori; e solamente alla nobiltà era concesso l'onore di combattere; i re stessi scendevan nell'arena; durante tutto il medio-evo era codesto lo spettacolo favorito delle corti, e l'esercizio prediletto dei guerrieri, non solo tra gli Spagnuoli, ma anco tra gli Arabi; e gli uni e gli altri gareggiavano nell'arena toresca come sul campo di battaglia. Isabella la Cattolica volle proibire le corse dei tori, perchè, avendone vista una, le aveva fatto orrore; ma i molti e potenti partigiani dello spettacolo la distolsero dal mandare ad effetto quel disegno. Dopo Isabella, le corse presero un grande incremento. Carlo V stesso uccise di propria mano un toro nella piazza maggiore di Valladolid; Ferdinando Pizzarro, il celebre conquistatore del Perù, fu un torero valente; il re Don Sebastiano di Portogallo colse nell'arena più d'un alloro; Filippo III fece abbellire il circo di Madrid; Filippo IV vi combattè; Carlo II protesse l'arte; sotto il regno di Filippo V, si costrussero, per ordine del Governo, parecchi circhi; ma l'onore di torear apparteneva sempre esclusivamente alla nobiltà; non si toreaba che a cavallo, e con cavalli bellissimi, e però non si spargeva altro sangue che quello del toro. Solamente verso la metà del secolo scorso l'arte si estese al popolo, e sorsero i toreros propriamente detti, artisti di professione, che combattevano a piedi e a cavallo. Il famoso Francisco Romero de Ronda perfezionò il toreo a piedi, introdusse l'uso di uccidere il toro, faccia a faccia, con la spada e la muleta, e fissò le regole dell'arte. D'allora in poi lo spettacolo diventò nazionale e il popolo vi accorse con entusiasmo. Il re Carlo II lo proibì; ma la sua proibizione non fece che convertire l'entusiasmo popolare, come dice un cronista spagnuolo, in una aficion epidémica. Il re Ferdinando VII, appassionato pei tori, istituì una scuola di tauromachía a Siviglia; Isabella II fu più entusiasta di Ferdinando VII; Amedeo primero non fu da meno, a quello che si dice, di Isabella II. Ed ora il toreo fiorisce più che mai nella Spagna; più di cento sono i grandi proprietarii che allevano tori per gli spettacoli; Madrid, Siviglia, Barcellona, Cadice, Valenza, Jerez, Porto di Santa Maria hanno un circo di tori di prim'ordine; non meno di cinquanta sono i piccoli circhi capaci di tremila fino a novemila spettatori; in tutti i villaggi, dove non c'è circo, si fanno le corridas nelle piazze; a Madrid tutte le domeniche, nelle altre città ogni volta che si può, da per tutto con immenso concorso di gente dalle città vicine, dai villaggi, dalla campagna, dai monti, dalle isole, e persino di fuori Stato. Non tutti gli Spagnuoli, è vero, son matti di codesto spettacolo; molti non ci vanno mai; non pochi lo disapprovano, lo condannano, lo vorrebbero veder bandito dalla Spagna; qualche giornalista, di tanto in tanto, alza un grido di protesta; qualche deputato, l'indomani dell'uccisione d'un torero, parla di fare un'interpellanza al Governo; ma son tutti nemici timidi e fiacchi. Per contro si scrivono apologie delle corse dei tori, si fabbricano nuovi circhi, si rinnovano gli antichi, si deridono gli stranieri che gridano alla barbarie spagnuola.

E non si fan solo corridas di tori l'estate, nè lo spettacolo è sempre uguale. L'inverno, nel circo di Madrid, ogni domenica c'è rappresentazione; non sono quei tori belli e focosi dell'estate, non sono i grandi artisti che la Spagna ammira; son torelli di picciola mole e di piccolo animo, sono toreros non ancora provetti nell'arte; ma c'è spettacolo a ogni modo, e benchè non ci vada il Re, nè il fiore della cittadinanza, come alle corse d'estate, il circo è sempre pieno di gente. Si sparge poco sangue, non si uccidono che due tori, si chiude lo spettacolo con dei fuochi d'artifizio; è un divertimento, come dicono con disprezzo i torofili appassionati, da serve e da bambini. Ma v'è un episodio, negli spettacoli d'inverno, che diverte assai. Quando i toreros hanno ucciso i toros de muerte, l'arena rimane a disposizione dei dilettanti; da tutte le parti ci salta dentro gente; in un minuto v'è un centinaio di operai, di scolari, di monelli, chi con un mantello in mano, chi con uno scialle, chi con un cencio qualunque, affollati a destra e a sinistra del toril, pronti a ricevere il toro. La porta s'apre, un toro colle corna fasciate si slancia nell'arena, e lì comincia un parapiglia da non potersi descrivere; la folla lo circonda, lo insegue, lo tira di qua e di là, lo capea coi mantelli e cogli scialli, lo provoca e lo tormenta in mille maniere, finchè il povero animale non potendone più, è fatto uscir dall'arena, e un altro gli sottentra. È incredibile l'audacia con cui quei ragazzi gli si caccian sotto, lo trascinan per la coda, gli saltano addosso; incredibile l'agilità con cui ne scansano i colpi. Qualche volta il toro, voltandosi all'improvviso, ne arriva qualcuno, lo atterra, lo butta in aria, lo solleva in alto sulle corna; talora ne rovescia nella polvere con un sol colpo una mezza dozzina, e toro ed uomini spariscono in un nuvolo di polvere, e lo spettatore teme per un istante che ne sia stato ammazzato qualcuno. Nemmanco per idea! Gl'intrepidi capeadores s'alzano coll'ossa péste e col viso polveroso, scrollan le spalle, e daccapo. Ma non è neanco questo il più bell'episodio degli spettacoli d'inverno. Qualche volta invece dei toreros affrontano il toro le toreras; donne vestite da danzatrici di corda; faccie, davanti alle quali, non gli angeli, ma Lucifero:

«Farìa dell'ali agli occhi una visiera;»

le picadoras a cavallo a un asino, la espada —quella ch'io vidi era una vecchia sessantenne, chiamata la Martina, asturiana, nota in tutti i circhi di Spagna,—la espada a piedi, collo stocco e la muleta, come il più intrepido matador del sesso forte; tutta la cuadrilla accompagnata da un corteo di chulos con grandi parrucche e grandi gobbe. Per quaranta lire quelle disgraziate rischian la vita! Un toro, il giorno ch'io assistei a quello spettacolo, ruppe un braccio a una banderillera, e a un'altra lacerò le sottane per modo che la lasciò in mezzo al circo con appena tanta roba addosso da coprir quello che dev'essere assolutamente coperto.

Dopo le donne, le fiere. In vari tempi si fece combattere il toro coi leoni e colle tigri; pochi anni or sono ebbe luogo una di codeste lotte nel Circo di Madrid. È celebre quella che fece fare il conte duca di Olivares per festeggiar il giorno onomastico, se non m'inganna la memoria, di Don Baltasar Carlos d'Austria, principe delle Asturie. Il toro combattè col leone, colla tigre, col leopardo, e riuscì vincitore di tutti. Anche nel combattimento di pochi anni sono, la tigre e il leone ebbero la peggio; l'una e l'altro si slanciarono impetuosamente addosso al toro; ma prima di riuscire ad addentargli il collo, infilati dal terribile corno, caddero a terra in un lago di sangue. Il solo elefante, un elefante enorme che vive tuttora nei giardini del Buon Ritiro, riportò la vittoria: il toro lo assalì, quegli non fece che mettergli la testa sul dorso e premere, e la pressione fu così delicata che il malcauto assalitore ne fu schiacciato come una polpetta. Ma è agevole immaginare quanta destrezza, quanto coraggio, e che imperturbabile tranquillità d'animo occorra ad un uomo per affrontare con la spada un animale che uccide il leone, che assale l'elefante, e che per tutto dove tocca, squarcia, spezza, rovescia ed insanguina! E vi son degli uomini che l'affrontano tutti i giorni!

I toreros non son mica artisti, come qualcuno può supporre, da mettersi in un mazzo coi saltimbanchi, e pei quali il popolo non nutra altro sentimento che quello dell'ammirazione. Il torero è rispettato anche fuori del Circo, gode la protezione dei giovani aristocratici, va al teatro in palco, frequenta il più signorile caffè di Madrid, è salutato per la strada con profonde scappellate da persone di garbo. Gli espada illustri, come il Frascuelo, il Lagartijo, il Cayetano, guadagnano la bellezza di qualche diecina di mila lire all'anno, possedono case e ville, abitano in appartamenti sontuosi, vestono con isfarzo, profondon monti di scudi nei loro vestiti inargentati e dorati, viaggiano da principi e fumano sigari d'Avana. Il loro vestire, fuor del Circo, è curiosissimo: un cappello all'Orsini di velluto nero, una giacchettina stretta alla vita, sbottonata, che non arriva a toccare i calzoni; un panciotto aperto fino all'ombelico, che lascia vedere una camicia bianca finissima; nessuna cravatta; una fascia di seta rossa o azzurra intorno ai fianchi; un par di calzoni giusti alla gamba come calze da ballerini, un par di scarpette di pelle del Marocco ornate di ricami, un piccolo codino a treccia che scende sul dorso; e poi bottoni d'oro, catenelle, diamanti, anelli, ciondoli, tutta una bottega da orefice addosso. Molti tengon cavallo da sella, qualcuno carrozza, e quando non ammazzano, son sempre in giro al Prado, alla Puerta del Sol, nei giardini di Recoletos, colle loro spose o le loro amanti splendidamente vestite e amorosamente superbe. I loro nomi, i loro visi, le loro gesta sono assai più noti al popolo che le gesta, i visi e i nomi dei comandanti d'esercito e dei ministri di Stato. Toreros nelle commedie, toreros nelle canzoni, toreros nei quadri, toreros nelle vetrine dei venditori di stampe, statue che rappresentan toreros, ventagli coi ritratti dei toreros, fazzoletti con l'effigie dei toreros; se ne vede, se ne rivede e se ne intravvede da tutte le parti. Il mestiere del torero è il più lucroso e più onorifico mestiere a cui un coraggioso figliuolo del popolo possa aspirare. Moltissimi, di fatti, vi si dedicano. Ma pochissimi riescono eccellenti; i più rimangon mediocri capeadores, pochi arrivano ad essere banderilleros di vaglia, meno ancora picadores di grido; bravi espada, poi, non diventano che pochi prediletti dalla natura e dalla fortuna; bisogna esser venuti al mondo con quel bernoccolo; si nasce espada come si nasce poeta. Di uccisi dal toro ce n'è di rado, si contan sulle dita per un lungo giro di tempo; ma gli stroppiati, i malconci, i ridotti in stato da non poter più combattere, sono innumerevoli. Se ne vedono per le città col bastone e le stampelle, chi senza un braccio, chi senza una gamba. Il famoso Tato, che fu il primo dei toreros contemporanei, perdette una gamba; nei pochi mesi ch'io stetti in Spagna, fu mezzo ammazzato un banderillero a Siviglia, fu ferito gravemente un picador a Madrid, fu malconcio il Lagartijo, furono uccisi tre capeadores dilettanti in un villaggio. Non c'è quasi torero che non abbia sparso sangue nell'Arena.

Prima di partire da Madrid volli parlare col tanto celebrato Frascuelo, il principe degli espadas, l'idolo del popolo di Madrid, la gloria dell'arte. Un genovese, capitano di bastimento, che lo conosceva, s'incaricò di fare la presentazione; fissammo il giorno, ci trovammo nel caffè imperiale della Puerta del Sol. Mi vien da ridere quando penso all'emozione che provai vedendolo comparire da lontano e venire verso di noi. Era vestito con gran lusso, carico di ciondoli, luccicante come un generale in grande uniforme; attraversò il caffè, mille teste si voltarono, mille occhi si fissarono su di lui, su di me, sul mio compagno: io mi sentii diventar pallido. “Ecco il signor Salvador Sanchez,” disse il Capitano (Frascuelo è un soprannome). E poi, presentando me a Frascuelo: “Ecco il signor tale dei tali, suo ammiratore.” L'illustre matador s'inchinò, io feci una riverenza, sedemmo e cominciammo a discorrere. Che strano uomo! A sentirlo discorrere si sarebbe detto che non aveva cuore d'infilzare una mosca con una spilla. È un giovanotto di venticinque anni, di mezzana statura, svelto, bruno, bello, con uno sguardo fisso e un sorriso d'uomo distratto. Gli domandai mille cose intorno all'arte sua e alla sua vita; parlava a monosillabi; bisognava che gli cavassi le parole di bocca, a una a una, a furia di domandare. Ai complimenti rispondeva guardandosi la punta dei piedi con uno sguardo modesto. Gli chiesi se fosse mai stato ferito: si toccò un ginocchio, una coscia, la spalla, il petto, e disse: “Qui, e poi qui, e poi qui e poi ancora qui;” sorridendo colla semplicità d'un bambino. Mi scrisse l'indirizzo di casa sua, mi invitò ad andarlo a trovare, mi diede un sigaro, e se n'andò. Tre giorni dopo, alla corsa dei tori, ero in un posto vicino alla barriera; egli mi passò davanti per raccogliere i sigari che gli gettavano gli spettatori; gli lanciai un sigaro di Milano di quei colla paglia; lo prese, lo guardò, sorrise, e cercò chi gliel'aveva gettato; gli feci un cenno, mi vide, ed esclamò:— Ah! el italiano! —Mi pare ancora di vederlo: aveva un vestito color cenerino coperto di ricami d'oro e una mano macchiata di sangue.....

Ma, insomma, un giudizio finale sulle corse dei tori! Sono o no una cosa barbara, indegna d'un popolo civile? Sono o no uno spettacolo che guasta il cuore? Fuori una parola schietta! Una parola schietta? Io non voglio, rispondendo in un modo, tirarmi addosso un diluvio d'invettive, e rispondendo in un altro, darmi della zappa sui piedi, dacchè debbo confessare che sono andato al Circo tutte le domeniche. Ho narrato e descritto, il lettore ne sa quanto me, giudichi lui, e mi conceda di non metterci bocca.

Vidi, a Madrid, la famosa cerimonia funebre che si celebra ogni anno, il 2 di maggio, in onore degli Spagnuoli che morirono combattendo, o furon passati per l'armi dai soldati francesi, sessantacinque anni or sono, in quella tremenda giornata che empì d'orrore l'Europa e fece scoppiare la guerra d'indipendenza.

All'alba tuona il cannone, e in tutte le chiese parrocchiali di Madrid, e dinanzi a un altare eretto accanto al Monumento si comincia a celebrar messe, e si seguita fino a sera. La ceremonia consiste in una solenne processione che parte per lo più dalle vicinanze del palazzo reale, va a sentire un sermone nella chiesa di Sant'Isidoro, dove giacquero sepolte fino al 1840 le ossa del morti; e poi si reca al Monumento a sentire la messa.

In tutte le strade per le quali dovea passare la processione erano schierati i battaglioni dei volontari, i reggimenti di fanteria, gli squadroni di corazzieri, le guardie civili a piedi, le artiglierie, i cadetti; da ogni parte suonavan trombe, tamburi, bande; si vedeva da lontano, al di sopra della folla, un viavai continuo di cappelli di generali, di pennacchi d'aiutanti, di bandiere, di spade; accorrevano da tutte le strade le carrozze del Senato e delle Cortes, grandi come carri trionfali, dorate fin nelle ruote, listate di velluto e di seta, sopraccariche di frangie e di fiocchi, e tirate da superbi cavalli impennacchiati. Le finestre di tutte le case erano ornate di arazzi e di fiori; tutto il popolo di Madrid era in moto.

Vidi passare la processione per la strada d'Alcalà. Venivano innanzi i cacciatori della milizia cittadina a cavallo; poi i ragazzi di tutti i collegi, di tutti gli asili, di tutti gli ospizi di Madrid, a due a due, migliaia; poi gl'invalidi dell'esercito, quali con le stampelle, quali con la testa fasciata, alcuni sorretti dai compagni, altri decrepiti, quasi portati; soldati, generali, con antiche divise, col petto coperto di ciondoli e di nastri, e lunghe spade e cappelli piumati; poi una folla d'ufficiali di tutti i Corpi, luccicanti d'oro e d'argento, e vestiti di mille colori; poi gli alti impiegati dello Stato, i deputati provinciali, i deputati del Congresso, i Senatori; poi gli araldi del Municipio e delle Camere, con ampie toghe di velluto e le mazze d'argento; poi tutti gli impiegati municipali, tutti gli alcaldes di Madrid, vestiti di nero, colle medaglie al collo; infine il Re, vestito da generale, a piedi, accompagnato dal Sindaco, dal capitano generale della Provincia, dai generali, dai ministri, dai deputati, dagli ufficiali d'ordinanza, dagli aiutanti di campo, tutti col capo scoperto. Chiudevano la processione le cento guardie a cavallo, sfolgoreggianti come guerrieri del medio evo; le guardie reali a piedi, con gran berretto di pelo alla foggia della guardia napoleonica, tunica rossa a coda di rondine, calzoni bianchi, due larghe tracolle incrociate sul petto, ghette nere fino al ginocchio, spada, fiocchi, cordoni, fermagli, gingilli; poi ancora volontari, soldati di fanteria, artiglieri, popolo. Tutti andavano a passo lento; sonavano tutte le bande e tutte le campane; il popolo era silenzioso; e quell'insieme di bambini, di poveri, di preti, di magistrati, di veterani mutilati, di grandi di Spagna, presentava un aspetto gentile e magnifico, che ispirava ad un tempo tenerezza e riverenza.

La processione sboccò nel Prado e si diresse verso il Monumento. I viali, i campi, i giardini erano pieni di popolo. Le signore ritte nelle carrozze, sulle seggiole, sui sedili di pietra, coi bambini tra le braccia; gente sugli alberi e sui tetti; a ogni passo, bandiere, iscrizioni funebri, elenchi delle vittime del 2 di maggio, poesie appiccicate ai tronchi delle piante, giornali listati di nero, stampe rappresentanti episodi della strage, ghirlande, crocifissi, tavolini con vassoi per limosine, candele accese, ritratti, statuette, giocattoli pei ragazzi coll'immagine del Monumento; per tutto ricordi del 1808, emblemi, segni di lutto, di festa, di guerra. Gli uomini quasi tutti vestiti di nero; le donne in gran gala, con lunghi strascichi e il velo; frotte di contadini accorsi da tutti i villaggi, coi loro panni festivi; e in mezzo a tutta questa folla un gridìo assordante di acquaiuoli, di guardie, di ufficiali.

Il Monumento del 2 maggio, che sorge nel punto dove furon fucilati il maggior numero degli Spagnuoli, benchè non abbia un valore artistico pari alla fama, è,—per servirmi d'una parola da strapazzo ma significativa,—imponente. È semplice, nudo, e al parer di molti anche pesante e sgraziato; ma arresta lo sguardo e il pensiero, anche di chi non sappia che cosa sia; a prima vista, si capisce che in quel luogo dev'essere accaduto alcun che di tremendo. Sopra un rialto ottagonale di granito con quattro gradinate, s'innalza un grandioso sarcofago di forma quadrata, munito d'iscrizioni, di stemmi, e d'un bassorilievo che rappresenta i due ufficiali spagnuoli morti il 2 maggio nella difesa del Parco d'artiglieria. Sul sarcofago sorge un piedistallo d'ordine dorico, sul quale stanno quattro statuette che simboleggiano l'amor di patria, il valore, la costanza, la virtù. In mezzo alle statue s'erge un alto obelisco, con suvvi scritto a caratteri d'oro: Dos de mayo. Intorno al Monumento si stende un giardino rotondo, intersecato da otto viali che convergono al centro; ogni viale è fiancheggiato da cipressi; il giardino è cinto d'una cancellata di ferro, circuita alla sua volta da una gradinata di marmo. Quel boschetto di cipressi, quel giardino chiuso e solitario, in mezzo al passeggio più allegro di Madrid, è come una immagine della morte in mezzo alle gioie della vita; non si può passar di là senza volgergli uno sguardo; non si può guardarlo, senza pensare; di notte, quando vi batte la luna sembra un'apparizione fantastica, e spira intorno un'aura di mestizia solenne.

Arrivò il Re, fu celebrata la messa, sfilarono tutti i reggimenti, e terminò la cerimonia. Così si celebra l'anniversario del 2 di maggio dal 1814 in poi, con una dignità, con un affetto, con una venerazione, che non onora solamente il popolo spagnuolo, ma il cuore umano. È la vera festa nazionale della Spagna, è il solo giorno dell'anno in cui tacciono le ire di parte, e tutti i cuori si uniscono in un sentimento comune. Nè in questo sentimento, come si potrebbe credere, è nulla d'amaro contro la Francia. La Spagna ha rovesciato tutta la colpa della guerra, e delle stragi che ne furono cagione, sovra Napoleone e Murat; i Francesi sono amichevolmente accolti come tutti gli altri stranieri; delle infauste giornate di maggio non si parla che per rendere onore ai morti e alla patria; tutto, in questa cerimonia, è nobile e grande; dinanzi a quel sacro Monumento la Spagna non ha che parole di perdono e di pace.

Un'altra cosa da vedersi, a Madrid, sono i combattimenti dei Galli.

Lessi un giorno nella Correspondencia, il seguente avviso:—« En la funcion que se celebrarà mañana en el circo de Gallos de Recoletos, habrà, entre otras, dos peleas (combattimenti), en las que figurarán gallos de los conocidos aficionados Francisco Calderon y Don Josè Diez, por lo que se espera serà muy animada la diversion. » Lo spettacolo cominciava a mezzogiorno: ci andai. Fui colpito dalla originalità e dalla leggiadria del teatro. Sembra un chiosco da collinetta di giardino; ma è vasto tanto da contenere poco meno di un migliaio di persone. La forma è perfettamente cilindrica. Nel mezzo sorge una specie di palco circolare, alto poco più di tre palmi, coperto d'un tappeto verde, e aggirato da una ringhiera dell'altezza di quelle dei terrazzini: è il campo di battaglia dei galli. Tra ferro e ferro della ringhiera si stende una sottilissima rete di fili metallici, che preclude lo scampo ai combattenti. Intorno a questa specie di gabbia, il piano della quale è grande quanto una gran tavola da pranzo, ricorre un cerchio di poltrone, e dietro a questo, un po' più alto, un secondo; le une e le altre rivestite di panno rosso. Su parecchie delle prime è scritto a lettere di scatola:— Presidente Secretario —ed altri titoli di personaggi che compongono il tribunale dello spettacolo. Al di là delle poltrone s'alza come una gradinata di banchi, fino alla parete, nella quale s'apre una galleria sostenuta da dieci sottili colonne. La luce viene dall'alto. Il rosso vivo delle poltrone, i fiori dipinti sui muri, le colonne, la luce, l'aria, in una parola, del teatro, ha un non so che di nuovo e di pittoresco, che piace e rallegra. A prima vista, pare che in quel luogo si debba piuttosto sentire una musica festiva e gentile che assistere ad una lotta di bestie.

Quando entrai, v'era già un centinaio di persone.—O che gente è questa?—mi domandai. E veramente il pubblico del circo dei Galli non rassomiglia a quello di nessun altro teatro; è una mescolanza sui generis che si vede soltanto a Madrid. Non c'è donne, non ragazzi, non soldati, non operai, poichè è giorno di lavoro e un'ora incomoda; e nondimeno vi si nota una maggior varietà di aspetti, di vestiti e di atteggiamenti che in qualunque altro ritrovo popolare. È tutta gente che non ha che fare lungo la giornata: commedianti coi capelli lunghi e lo staio spelato; toreros,—c'era Calderon, il famoso picador,—colla loro ciarpa rossa intorno alla vita; studenti colle traccie sul viso della notte passata al gioco; negozianti di galli, giovanotti eleganti, vecchi signori aficionados vestiti di nero, con guanti neri e cravattone. Questi intorno alla gabbia. Più in là, rari nantes, qualche inglese, qualche bighellone, di quei che si vedon per tutto, i servitori del circo, una donna di mala vita, una guardia civile. Tranne i forestieri e la guardia, gli altri,—signori, toreros, negozianti, commedianti,—si conoscon tutti, e parlan tutti tra loro, a una voce sola, della qualità dei galli annunziati dal programma dello spettacolo, delle scommesse del giorno innanzi, degli accidenti delle lotte, di zampe, di penne, di sproni, di ali, di becchi, di ferite, ostentando la ricchissima terminologia dell'arte, e citando regole, esempi, galli dei tempi andati, e lotte e vincite e perdite famose.

Lo spettacolo cominciò all'ora fissata. Si presentò un uomo in mezzo al circo con un foglio in mano e cominciò a leggere; tutti tacquero. Lesse una serie di numeri che indicavano il peso delle varie coppie di galli che dovevan combattere, poichè, coppia per coppia, non possono pesare l'un più dell'altro di là d'una misura determinata del codice gallistico. Ricominciaron le chiacchiere, poi ricessarono a un tratto. Un altr'uomo con due cassette tra le braccia venne innanzi; aperse uno sportello della ringhiera, salì sul palco, e attaccò le due cassette ai due capi d'una bilancia pendente dal soffitto. Due testimoni s'accertarono che il peso era quasi eguale dalle due parti, tutti sedettero, il presidente si mise al suo posto, il segretario gridò:— Silencio! —, il pesatore e un altro servitore presero una cassetta ciascuno, e sporgendola dai due opposti sportelli della ringhiera, l'apersero tutti e due insieme. I galli uscirono, gli sportelli si richiusero, gli spettatori serbarono per qualche momento un silenzio profondo.

Eran due galli andalusi di razza inglese per servirmi della curiosa definizione datami da uno spettatore, alti, smilzi, diritti come fusi, con un lungo collo mobilissimo, completamente spennati nelle parti posteriori, e dal petto in su; senza cresta, la testa piccina, e un par d'occhi che rivelavano l'indole battagliera. Gli spettatori li osservarono attentamente senza profferire parola. Gli aficionados, in quei pochi istanti, giudicano dai colori, dalle forme, dai movimenti dei due animali quale sarà probabilmente il vincitore; poi propongono le scommesse. È un giudizio, come ognun può comprendere, molto incerto; ma è l'incertezza che dà vita al gioco. A un tratto, il silenzio è rotto da uno scoppio di grida.

Un duro (uno scudo) por el derecho! Un duro por el izquierdo! (il sinistro)— Va! Tres duros por el negro! Quatro duros por el pardo! (il grigio)— Una onza (ottanta lire) por el chico! Va! Va por el negro! Va por el pardo!

Tutti urlano, agitano le mani, si accennano l'un l'altro col bastone, le scommesse s'incrociano in tutti i sensi; in pochi momenti v'è un migliaio di lire in gioco.

I due galli, da principio, non si guardano. Uno volto da una parte, l'altro dall'altra, cantano, allungando il collo verso gli spettatori, come se domandassero:—Che cosa volete?—A poco a poco, senza far segno di essersi visti, s'avvicinano; pare che l'uno voglia pigliar l'altro di sorpresa. All'improvviso, colla rapidità del lampo, spiccano un salto coll'ali aperte, s'urtan nell'aria, e ricadono, spandendo intorno un nuvolo di penne. Dopo il primo urto, si fermano, e si piantano l'uno dinanzi all'altro, col collo teso e i becchi che quasi si toccano, guardandosi fissi, immobili, come se volessero avvelenarsi cogli occhi. Poi di nuovo s'avventano l'un contro l'altro con una grande violenza, dopo di che gli assalti si succedono senza interruzione. Si feriscono a zampate, a spronate, a colpi di becco; si stringono coll'ali in modo che paiono un gallo solo con due teste; si caccian l'un sotto il ventre dell'altro, si sbattono contro i ferri della ringhiera, si inseguono, cadono, strisciano, svolazzano; e via via i colpi si fan più fitti, volan via le piume della testa, i colli diventan color di fuoco, e metton sangue. Poi prendono a punzecchiarsi nel capo, intorno agli occhi, negli occhi, si scarnificano colla furia di due forsennati che abbian paura d'esser divisi; par che sappiano che uno dei due deve morire; non mettono una voce, non un gemito; non si sente che lo strepito delle ali agitate, delle penne che si rompono, dei becchi che picchian nell'ossa; e non un istante di tregua; è un furore che va dritto alla morte.

Gli spettatori seguon coll'occhio intento tutte le mosse, contan le penne divelte, numerano le ferite; e il gridìo si fa sempre più concitato, e le scommesse più forti:— Cinco duros por el chico! (il piccolo)— Ocho duros por el pardo! Veinte duros por el negro! Va! Va!

A un certo punto, uno dei due galli fa un movimento che tradisce l'inferiorità delle sue forze, e comincia a dar segno di stanchezza. Pur resistendo sempre, le sue beccate si succedon più rade, le sue spronate più fiacche, i suoi salti più bassi; par che comprenda che dovrà morire; non combatte più per uccidere, combatte per non essere ucciso; retrocede, fugge, cade, si rialza, torna a cadere, barcolla come preso dal capogiro. Allora lo spettacolo comincia ad essere orribile. Dinanzi al nemico che cede, il vincitore inferocisce; le sue beccate cadono fitte, rabbiose, spietate negli occhi della vittima colla regolarità dell'ago d'una macchina da cucire; il suo collo s'allunga e scatta col vigore d'una molla, il suo becco afferra le carni, si torce e dilania; poi si figge nella ferita, e vi si dibatte come per cercare le fibre più riposte; poi picchia e ripicchia sul capo, come se volesse aprire il cranio e cavarne il cervello. Non c'è parola che esprima l'orrore di quel picchiare continuo, instancabile, inesorabile. La vittima si dibatte, scappa, s'aggira per la gabbia, e quegli dietro, accanto, addosso, indivisibile come un'ombra, colla testa china su quella del fuggitivo come un confessore, sempre picchiando, punzecchiando, lacerando. Ha qualcosa dell'aguzzino, del boia; par che dica qualcosa nell'orecchio alla sua vittima, par che accompagni ogni colpo con un insulto:—To', prendi, soffri, muori, no! vivi, prendi anche questa, quest'altra, ancor una!—Un po' della sua rabbia sanguinaria s'insinua nelle vostre vene, quella crudeltà codarda vi mette una smania di vendetta, lo strozzereste colle vostre mani, gli schiacciereste il capo col piede. Il gallo vinto, tutto intriso di sangue, spennato, vacillante, tenta ancora di tratto in tratto qualche assalto, dà qualche beccata, e sfugge, e si slancia contro i ferri della ringhiera per cercare uno scampo.

Gli scommettitori s'accendono ed urlano di più in più forte. Non possono più scommettere sulla lotta, scommettono sull'agonia.— Cinco duros á que no tira tres veces! (Che la vittima non tenta più tre assalti).— Tres duros á que no tira cinco! Quatro duros á que no tira dos! Va! Va!

A questo punto udii una voce che mi fece rabbrividire:— Es ciego! —(È cieco).

Mi avvicinai alla ringhiera, guardai il gallo vinto e torsi il viso con raccapriccio. Non aveva più pelle, non aveva più occhi, il suo collo non era più che un osso sanguinoso, il capo era un teschio, le ali, ridotte a tre o quattro penne, strascicavano come due cenci; pareva impossibile che così disfatto potesse vivere e camminare; non aveva più forma. Eppure quel resto, quel mostro, quello scheletro stillante di sangue, si difendeva ancora, si dibatteva nelle tenebre, scotendo le ali dimezzate come due moncherini, allungando il collo scarnificato, agitando il teschio a caso, qua e là, come i cani neonati; era schifoso ed orribile; io socchiudevo gli occhi per vederlo in confuso. E il carnefice continuava a beccare le piaghe, a sforacchiare le occhiaie, a picchiare sul nudo cranio; non era più una lotta, era un rodimento; pareva che volesse disfarlo, senza ucciderlo; a volte, quando la vittima rimaneva un momento immobile, si chinava a guardarla coll'attenzione d'un anatomico; a volte si scostava e la guardava dall'alto coll'indifferenza d'un becchino; poi di nuovo addosso coll'avidità d'un vampiro, e lì becca, e succhia e strazia con più vigore di prima. Finalmente il moribondo, fermatosi all'improvviso, chinò il capo a terra come preso dal sonno, e il carnefice, guardandolo attentamente, ristette.

Allora le grida raddoppiarono; non si poteva più scommettere sulle convulsioni dell'agonia, si scommetteva sui sintomi della morte:— Cinco duros á que no levanta mas la cabeza! (che non rialza più il capo).— Dos duros á que la levanta! Tres duros á que la levanta dos veces! Va! Va!

Il gallo moribondo rialzò adagio adagio la testa; il boia, pronto, gli rovesciò addosso una tempesta di beccate; le grida tornarono a scoppiare; la vittima fece di nuovo un leggero movimento,—toccò un'altra beccata,—si scosse,—toccò una beccata ancora,—versò sangue per la bocca, vacillò e cadde. Il vincitore, vigliacco, si mise a cantare. Venne un servitore e li portò via tutti e due.

Tutti gli spettatori s'alzarono e cominciò una rumorosa conversazione; i vincitori sghignazzando, i vinti bestemmiando, e gli uni e gli altri discutendo i meriti dei galli e le vicende della lotta:— Buena pelea! Buenos los gallos! Los gallos malos! No valen nada! No entiende Usted! Cállese Usted! Buenos! Malos!

Sentarse, caballeros! —gridò il presidente; tutti sedettero e cominciò un'altra lotta.

Io diedi un'occhiata al campo di battaglia, ed uscii. Qualcuno esiterà a crederlo: quello spettacolo mi fece più orrore che la prima corsa dei tori. Non avevo idea d'una ferocia così crudele; non credevo, prima di vedere, che una bestia, dopo averne reso impotente un'altra, potesse torturarla, martoriarla, straziarla in quel modo, coll'accanimento dell'odio e colla voluttà della vendetta; non credevo che il furore d'una bestia potesse giungere al segno di presentare il carattere della più forsennata malvagità umana. Oggi ancora, ed è trascorso tanto tempo, ogni volta che ricordo quello spettacolo, volto involontariamente la testa da un lato, come per fuggir l'orrenda vista del gallo moribondo; e non mi accade mai di metter le mani sovra una ringhiera, senza ch'io abbassi gli occhi coll'idea di vedere il suolo sparso di penne e di sangue. Se andrete in Spagna, seguite il mio consiglio:

«State contente, umane genti,
ai tori

IL CONVENTO DELL'ESCURIALE.

Prima di partire per l'Andalusia andai a vedere il famoso convento dell'Escuriale, il Leviatan dell'Architettura, l'ottava meraviglia del mondo, il più gran mucchio di granito che esista sulla terra, e se volete altre denominazioni grandiose, immaginatene pure, chè non ne troverete nessuna che non gli sia stata ancora applicata. Partii da Madrid di buon mattino. Il villaggio dell'Escurial, che diede il nome al convento, è a otto leghe dalla città, a poca distanza dal Guadarrama; e la strada attraversa una campagna arida e spopolata, chiusa all'orizzonte da monti coperti di neve. Quando arrivai alla stazione dell'Escuriale, veniva giù una pioggiolina fitta e fredda che dava i brividi. Dalla stazione al villaggio c'è un mezzo miglio di salita; m'infilai in una diligenza, e di lì a pochi minuti fui sbarcato in una strada solitaria, fiancheggiata a sinistra dal convento, a destra dalle case del villaggio, e in fondo chiusa dalla montagna. A primo aspetto non si raccapezza nulla; si credeva di vedere un edifizio, si vede una città; non si sa se si è già dentro al convento o se si è ancora fuori; da ogni parte si vedon quelle mura; si va oltre, ci si trova in una piazza; si guarda attorno, si vedon delle strade; non si è ancora entrati, e già il convento ci circonda, e noi abbiamo perduto la bussola, e non sappiamo più da che parte voltarci. Il primo sentimento è tristo: tutto l'edifizio è di pietra color terrigno, e rigato di bianco tra pietra e pietra; i tetti son coperti di lamine di piombo. Sembra un edifizio di terra. Le mura sono altissime e nude, e hanno un gran numero di finestre che paion feritoie. Più che un convento, si direbbe che è una prigione. Per tutto si vede quel color cupo, morto; e non anima viva, e un silenzio di fortezza abbandonata; e di là dai tetti neri, la montagna nera, che par che penda sull'edifizio, e gli dà un'aria di misteriosa solitudine. Il luogo, le forme, i colori, ogni cosa par scelto da chi fondò l'edifizio coll'intento di offrire agli occhi degli uomini uno spettacolo tristo e solenne. Prima d'entrare, voi avete perduto la vostra gaiezza; non sorridete più, pensate. Vi arrestate alle porte dell'Escuriale con una sorta di trepidazione, come alle porte d'una città vuota; vi pare che, se in qualche angolo del mondo regnasse ancora il terrore della Inquisizione, dovrebbe regnar tra quelle mura; direste che là dentro se n'ha a vedere l'ultima traccia e a sentire l'ultima eco.

Tutti sanno che la basilica e il convento dell'Escurial furon fondati da Filippo II dopo la battaglia di San Quintino, in adempimento d'un voto fatto a san Lorenzo, durante l'assedio, quando gli assedianti eran stati costretti a cannoneggiare una chiesa consacrata a quel santo. Don Juan Batista di Toledo iniziò l'opera, l'Herrera la compì; i lavori durarono vent'un anno. Filippo II volle che l'edifizio presentasse la forma d'una graticola a commemorazione del martirio di san Lorenzo; e tale è infatti la sua forma. Il piano è un parallelogrammo rettangolare. Ai quattro angoli s'alzano quattro grandi torri quadrate col tetto a punta, che rappresentano i quattro piedi della graticola; la chiesa e il palazzo reale che sorgon da un lato, simboleggiano il manico; gli edifizi interni che congiungono i due lati più lunghi, tengon luogo delle sbarre traversali. Altri edifizi minori sorgono fuori del parallelogrammo, a breve distanza dal convento, lungo uno dei lati lunghi, e uno dei corti, e formano due grandi piazze; dagli altri due lati sono i giardini. Facciate, porte, atrii, ogni cosa è in armonia colla grandezza e col carattere dell'edifizio; ed è inutile ammontar descrizioni su descrizioni. Il palazzo reale è splendidissimo, e convien vederlo, per non mescolar poi disparate impressioni, prima di entrare nel convento e nella chiesa. Questo palazzo occupa l'angolo levante-tramontana dell'edifizio. Alcune sale son piene di quadri, altre tappezzate dal pavimento alla volta di tappeti che rappresentan corse di tori, balli popolari, giuochi, feste, costumi spagnuoli, disegnati dal Goya; altre regalmente mobiliate e parate; il pavimento, le porte, le finestre coperte di meravigliosi lavori d'intarsio e di dorature stupende. Ma fra tutte le sale è notevole quella di Filippo II; una cella meglio che una sala, nuda e squallida, con un'alcova che risponde all'oratorio reale della chiesa, in modo che dal letto, tenendo schiuse le porte, si può vedere il sacerdote che dice la messa. Filippo II dormiva in quella cella, vi fece la sua ultima malattia e vi morì. Si vedono ancora alcune seggiole usate da lui, due panchettini sui quali appoggiava la gamba tormentata dalla gotta, e uno scrittoio. Le pareti son bianche, il soffitto piano e senza ornamenti, il pavimento di mattoni.

Visto il palazzo reale, si esce dall'edifizio, si attraversa la piazza e si rientra per la porta principale. Un custode vi si attacca ai panni, attraversate un ampio vestibolo, vi trovate nel cortile dei Re. Là vi potete formare una prima idea della immane ossatura dell'edifizio. Il cortile è tutto chiuso da muri; dal lato opposto alla porta è la facciata della chiesa. Sur una spaziosa gradinata s'alzano sei enormi colonne doriche, ognuna delle quali sostiene un grande piedestallo, e ogni piedestallo una statua. Son sei statue colossali, di Battista Monegro, rappresentanti Giosafat, Ezechiello, Davide, Salomone, Giosuè, Manasse. Il cortile è lastricato, sparso di cespi d'erba, umido; i muri paion roccie tagliate a picco; tutto è rigido, massiccio, pesante, e offre non so che fantastico aspetto di edifizio titanico, cavato in una montagna di pietra, e atto a sfidare le scosse della terra e i fulmini del cielo. Là si comincia a capire che cosa sia l'Escuriale.

Si sale la gradinata e si entra nella chiesa.

L'interno della chiesa è tristo e nudo; quattro enormi pilastri di granito bigio sostengono le vòlte dipinte a fresco da Luca Giordano; accanto all'altar maggiore, scolpito e dorato alla spagnuola, negli intercolonni di due oratori reali, si vedono due gruppi di statue di bronzo inginocchiate, colle mani giunte verso l'altare; a destra Carlo V, l'imperatrice Isabella e parecchie principesse; a sinistra Filippo II, colle sue mogli. Sopra la porta della chiesa, a trenta piedi dal suolo, in fondo alla navata maggiore, s'alza il coro, con due giri di seggiole d'ordine corintio, di semplice disegno. In un canto, vicino a una porta segreta, è la seggiola che occupava Filippo II. Egli riceveva da quella porta le lettere e le imbasciate importanti, senza che se n'avvedessero i preti che cantavano nel coro. Questa chiesa che, appetto all'intero edifizio, par piccina, è nullameno una delle più vaste chiese della Spagna; e benchè appaia così spoglia d'ornamenti, racchiude immensi tesori di marmi, d'ori, di reliquie, di quadri, che l'oscurità in parte nasconde, e dai quali il triste aspetto dell'edifizio distrae l'attenzione. Oltre le mille opere d'arte che si vedon nelle cappelle, negli stanzini attigui alla chiesa, nelle scale che salgono alle tribune, v'è in un corridoio dietro al coro uno stupendo crocifisso di marmo bianco di Benvenuto Cellini, coll'iscrizione: Benvenutus Zelinus, civis florentinus facebat 1562. In altre parti si vedon quadri del Navarrete e dell'Herrera. Ma ogni sentimento di meraviglia muore in quello della tristezza. Il colore della pietra, la luce dubbia, il silenzio profondo che vi circonda, richiama incessantemente il vostro pensiero alla vastità, ai recessi ignoti, alla solitudine dell'edifizio, e non vi lascia luogo al diletto dell'ammirazione. L'aspetto di quella chiesa vi desta un senso inesprimibile di inquietudine. Voi indovinereste, quando non lo sapeste altrimenti, che intorno a quelle mura, per un grande spazio, non v'è che granito, oscurità e silenzio; senza vedere lo smisurato edifizio, lo sentite; sentite che vi trovate in mezzo a una città disabitata; vorreste affrettare il passo per vederla presto, per liberarvi dall'incubo di quel mistero, per cercare, se in qualche parte vi fosse, la luce viva, il rumore, la vita.

Dalla chiesa, per parecchie stanze nude e fredde, si va nella sacrestia, un'ampia sala a volta, nella quale tutta una parete è occupata da armadi di legni svariati e finissimi, che racchiudono gli ornamenti sacri; la parete opposta, da una serie di quadri del Ribera, del Giordano, del Zurbaran, del Tintoretto e d'altri pittori italiani e spagnuoli; e in fondo il famoso altare della Santa forma col celeberrimo quadro del povero Claudio Coello, che morì di crepacuore per la chiamata di Luca Giordano all'Escuriale. L'effetto di questo quadro è veramente superiore ad ogni immaginazione. Rappresenta, con figure di grandezza naturale, la processione che si fece per collocare in quel medesimo luogo la Santa forma; vi è ritratta appunto quella sacrestia, e l'altare; il priore inginocchiato sulla gradinata, colla custodia e l'ostia sacra nelle mani; intorno a lui i diaconi; da un lato Carlo II in ginocchio; più in là monaci, chierici, seminaristi ed altri fedeli. Le figure sono così vive e parlanti, la prospettiva così vera, il colorito, l'ombre, la luce così efficaci, che al primo entrare nella sacrestia, si scambia il quadro con uno specchio che rifletta una funzione religiosa celebrata in quel momento in una sala vicina. Poi l'illusione delle figure sparisce; ma resta quella del fondo del quadro, e si ha proprio bisogno di avvicinarsi fin quasi a toccarlo, per credere che quella non è un'altra sacrestia, ma una tela dipinta. Nei giorni di giubileo questa tela si arrotola, ed appare in mezzo a una piccola cappella un tempietto di bronzo dorato, dentro al quale si vede una magnifica custodia che racchiude l'ostia sacra, tempestata di diecimila tra rubini, diamanti, amatiste, granate, disposti in forma di raggi, che abbarbaglian la vista.

Dalla sacrestia andammo al Panteon. Un custode con una fiaccola accesa mi precedette, scendemmo una lunga scala di granito, giungemmo a una porta sotterranea dove non penetrava raggio di luce. Al di sopra di questa porta si legge la seguente iscrizione in lettere di bronzo dorato:

«Dio Onnipotente e Grande!

»Luogo consacrato dalla pietà della dinastia austriaca alle spoglie mortali dei re cattolici, che stanno aspettando il desiderato giorno sotto l'altar maggiore sacro al Redentore del genere umano. Carlo V, il più illustre dei Cesari, desiderò questo luogo di ultimo riposo per sè e pel suo lignaggio; Filippo II, il più prudente dei re, lo designò. Filippo III, monarca sinceramente pietoso, diede principio ai lavori. Filippo IV, grande per la sua clemenza, costanza e devozione, lo ampliò, lo abbellì e lo condusse a termine l'anno del Signore 1654.»

Il custode entrò, lo seguii, mi trovai in mezzo ai sepolcri, o meglio in un sepolcro oscuro e freddo come la grotta d'una montagna. È una piccola sala ottagonale, tutta marmo, con un altarino nella parete opposta alla porta, e nelle rimanenti, dal suolo alla vòlta, l'una sull'altra, le tombe, distinte con ornamenti di bronzo e bassorilievi; la vòlta corrisponde all'altar maggiore della chiesa. A destra dell'altare son sepolti Carlo V, Filippo II, Filippo III, Filippo IV, Luigi I, i tre Don Carlos, Ferdinando VII; a sinistra le imperatrici e le regine. Il custode avvicinò la fiaccola alla tomba di Donna Maria Luisa di Savoia, moglie di Carlo III, e mi disse con aria di mistero:—Legga.—Il marmo è rigato in vari sensi; con un po' d'attenzione riescii a raccapezzare cinque lettere; è il nome—Luisa—scritto dalla stessa regina Luisa con la punta delle forbici. A un tratto il custode spense la fiaccola e rimanemmo nelle tenebre: mi si agghiacciò il sangue nelle vene.—Accenda!—gridai. Il custode rise d'un riso lungo e lugubre, che mi parve il rantolo d'un moribondo, e rispose:—Guardi!—Guardai: un debolissimo raggio di luce, scendendo da un'apertura vicino alla vôlta, lungo la parete, sin quasi al pavimento, rischiarava appena tanto da renderle visibili, alcune tombe di regine; e pareva un raggio di luna; e i bassorilievi e i bronzi delle tombe luccicavano a quel barlume d'una luce strana, come se stillassero acqua. In quel momento sentii per la prima volta l'odore di quell'aria sepolcrale, e mi prese un brivido di freddo; penetrai, coll'immaginazione, in quelle tombe, e vidi tutti quei cadaveri irrigiditi; cercai uno scampo al di sopra della vòlta, mi trovai solo nella chiesa; fuggii dalla chiesa, mi perdetti nei labirinti del convento; mi rifeci presente a me stesso, in mezzo a quelle tombe, e sentii che veramente ero nel cuore dell'edifizio mostruoso, nella parte più profonda, nel recesso più gelido, nel penetrale più tremendo; e mi parve d'esser prigioniero, sepolto in quel gran monte di granito, e che mi gravitasse tutto addosso, e che da tutti i lati mi premesse, e mi chiudesse l'uscita; e pensai al cielo, alla campagna, all'aria libera come a un mondo remoto, e con un sentimento ineffabile di mestizia.—Signore!—mi disse solennemente il custode, prima di uscire, tendendo la mano verso la tomba di Carlo V:—L'imperatore è là, tal quale come quando ce l'hanno messo, cogli occhi ancora aperti, che par vivo e parlante! È un miracolo d'Iddio che ha il suo perchè! Chi vivrà vedrà!—E dicendo quest'ultime parole abbassò la voce come per timore che l'imperatore sentisse, e fatto il segno della croce, mi precedette su per la scala.

Dopo la chiesa e la sacrestia, si va a visitare il Museo di pittura, che contiene un gran numero di quadri d'artisti d'ogni paese, non già de' migliori, chè questi furon portati al Museo di Madrid; ma pur tali da meritare una visita attenta di mezza giornata. Dal Museo di pittura si va alla Biblioteca, passando per la grande scala sulla quale s'incurva una smisurata vòlta tutta dipinta a fresco da Luca Giordano. La Biblioteca è composta d'una vastissima sala ornata di grandi pitture allegoriche, che contiene più di cinquantamila volumi preziosissimi, quattromila dei quali regalati da Filippo II, e d'un'altra sala dove è una ricchissima raccolta di manoscritti. Dalla Biblioteca si va al Convento.

Qui l'immaginazione umana si perde. Se qualcuno dei lettori ha letto l' Estudiante de Salamanca dell'Espronceda, si rammenti di quell'instancabile giovane, quando, tenendo dietro alla signora misteriosa che incontrò di notte ai piedi d'un tabernacolo, trascorre di strada in strada, di piazza in piazza, di vicolo in vicolo, e svoltando, e girando e rigirando arriva fino a un punto dove non ravvisa più le case di Salamanca, e si trova in una città sconosciuta; e continua a svoltare cantonate, a traversar piazze, a percorrer strade; e via via che va oltre gli par che la città s'allarghi, e le strade si allunghino, e i vicoli s'incrocino più fitto; e va ancora, e va sempre, e va senza posa, e non sa se sogna, o se è desto, o ubriaco, o impazzito; e nel suo cuore di ferro comincia a penetrare il terrore, e i più strani fantasimi gli si affollano nella mente smarrita; così lo straniero nel convento dell'Escuriale. Infilate un lungo corridoio sotterraneo stretto da toccarne le pareti coi gomiti, basso da urtar quasi la testa nella vòlta, e umido come una grotta sottomarina; arrivate in fondo, svoltate, siete in un altro corridoio. Andate oltre, incontrate delle porte, guardate: altri corridoi si allungano a perdita d'occhio. In fondo a qualcuno vedete un barlume di luce, in fondo ad altri una porta aperta che lascia intravedere una fuga di stanze. Di tratto in tratto sentite il rumor d'un passo, v'arrestate, non lo sentite più; poi lo risentite; non sapete se è sopra il vostro capo, o a destra, o a sinistra, o dietro, o davanti. V'affacciate a una porta, e retrocedete impaurito: in fondo allo sterminato corridoio in cui avete lanciato lo sguardo, avete visto un uomo immobile, come uno spettro, che vi guardava. Tirate innanzi, riescite in un cortile angusto, cinto di mura altissime, erboso, sonoro, illuminato di una luce scialba, che par che scenda da un sole ignoto, simile ai cortili delle streghe che ci descrivevano da ragazzi. Uscite dal cortile, salite su per una scala, riuscite sopra una galleria, guardate giù: è un altro cortile silenzioso e deserto. Infilate un altro corridoio, scendete un'altra scala, vi trovate in un terzo cortile; poi daccapo corridoi e scale e fughe di sale vuote e cortili angusti, e per tutto granito, erba, luce scialba, silenzio di tomba. Per un po' di tempo vi pare che riuscirete a tornare sui vostri passi; poi la memoria vi si turba, e non ricordate più nulla; vi pare d'aver fatto dieci miglia, di essere in quel laberinto da un mese, di non poterne più uscire. Vi affacciate sur un cortile e dite:—l'ho già visto!—No, v'ingannate, è un altro. Credete di essere da quella tal parte dell'edifizio, siete dalla parto opposta. Domandate al custode dov'è il claustro, vi risponde:—È qui;—e camminate ancora per mezz'ora. Vi par di sognare: vedete di sfuggita lunghi muri dipinti a fresco, ornati di quadri, di croci, d'iscrizioni; vedete e dimenticate; chiedete a voi stessi: dove sono? Vedete una luce d'un altro mondo; non avevate idea d'una siffatta luce; è l'effetto del riflesso del granito? è il lume della luna? No, è giorno; ma è una luce più trista delle tenebre; è una luce falsa, sinistra, fantastica. E avanti, di corridoio in corridoio, di cortile in cortile; vi guardate innanzi con sospetto; aspettate di veder all'improvviso, allo svoltar d'un canto, una fila di frati scheletriti, col cappuccio sugli occhi e le braccia in croce; pensate a Filippo II; vi par di sentire il suo passo lento allontanarsi per gli anditi oscuri; vi ricordate tutto quello che avete letto di lui, dei suoi terrori, dell'Inquisizione, e ogni cosa vi s'illumina agli occhi della mente d'una subita luce; capite ogni cosa per la prima volta; l'Escuriale è Filippo II, lo vedete a ogni passo, sentite il suo respiro, egli è ancora là, vivo e spaventevole, e con lui l'immagine del suo Dio tremendo. Allora voi vorreste ribellarvi, sollevare il pensiero al Dio del vostro cuore e delle vostre speranze, e vincere il terrore misterioso che il luogo v'ispira; ma non potete; l'Escuriale vi circonda, vi possiede, vi schiaccia; il freddo delle sue pietre vi penetra nelle ossa; la tristezza dei suoi laberinti sepolcrali v'invade l'anima; se siete con un amico, gli dite:—Usciamo;—se foste colla vostra amante la stringereste al cuore con un senso di trepidazione; se foste solo, pigliereste la corsa; infine salite una scala, entrate in una stanza, v'affacciate a una finestra, e salutate con uno slancio di gratitudine i monti, il sole, la libertà, il Dio grande e benefico che ama e che perdona.

Che respirone si tira a quella finestra!

Di là si vedono i giardini, che occupano uno spazio ristretto, e son semplicissimi; ma quanto si può dire eleganti e belli, e in perfetta armonia coll'edifizio. Vi si vedon dodici leggiadre fontane, ciascuna circondata da quattro quadrati di mortella che rappresentano scudi reali, disegnati con un gusto sì squisito e arrotondati con una tal finitezza, che a guardarli sulle finestre, paion tessuti di felpa e di velluto, e formano nella bianca arena dei sentierini un graziosissimo spicco. Non alberi, non fiori, non capanni: in tutto il giardino non si vedono che fontane, quadrati di mortella, e due soli colori, il verde e il bianco; ed è tale la bellezza di quella nobile semplicità, che non se ne può staccare lo sguardo, e quando lo si è staccato, il pensiero vi ritorna, e ci si arresta con un diletto dolcissimo temperato di una sorta di mestizia gentile. In una stanza vicina a quella che guarda in sul giardino, mi si fece vedere una serie di reliquie, che considerai in silenzio senza lasciar trapelare al custode il mio intimo sentimento di dubbio: una scheggia della santa croce regalata dal Papa a Isabella II, un pezzo di legno bagnato del sangue, ancora visibile, di san Lorenzo, un calamaio di santa Teresa, ed altri oggetti, fra i quali un altarino portatile di Carlo V, e una corona di spine e un par di tanaglie da tortura, trovate non so più dove. Di là mi condussero sulla cupola della chiesa di dove si gode un colpo d'occhio immenso. Da un lato lo sguardo si stende per tutta la campagna montuosa che corre fra l'Escuriale e Madrid; dall'altro si vedono le montagne nevose del Guadarrama; sotto, si abbraccia con un'occhiata tutto lo smisurato edifizio, i lunghi tetti di piombo, le torri; si vede nell'interno dei cortili, dei claustri, dei portici, delle gallerie; si possono ricorrere col pensiero i mille andirivieni dei corridoi e delle scale, e dire:—Un'ora fa ero laggiù—qui—lassù—là sotto—laggiù lontano,—e maravigliarsi d'aver fatto tanto cammino, e rallegrarsi d'essere uscito da quel labirinto, da quelle tombe, da quelle tenebre, e di poter tornare in città e rivedere gli amici.

Un viaggiatore illustre disse che dopo aver passato una giornata nel convento dell'Escurial, ci si deve sentir felici per tutta la vita, solo pensando che si potrebbe essere ancora fra quelle mura e che non ci s'è più. È quasi vero. Ancora adesso, dopo tanto tempo, nei giorni piovosi, quando sono tristo, penso all'Escurial, poi guardo le pareti della mia stanza, e mi rallegro; nelle notti insonni, vedo i cortili dell'Escurial; quando sto male e dormo un sonno torbido e penoso, sogno di girare per quei corridoi, solo, al buio, inseguito dal fantasma d'un vecchio frate, gridando e picchiando a tutte le porte, senza trovare l'uscita, finchè vo a dar del capo nel Panteon e la porta mi si chiude fragorosamente alle spalle e resto sepolto tra le tombe. Con che piacere rividi i mille lumi della Puerta del Sol, i caffè affollati, e la grande e rumorosa strada d'Alcalà! Rientrando in casa feci un tale strepito che la serva, ch'era una buona e semplice galiziana, corse tutta affannata dalla padrona e le disse:— Me parece que el italiano se ha vuelto loco! —(Mi pare che l'italiano sia diventato matto.)

Più dei galli e più dei tori, mi divertirono i deputati delle Cortes. M'era riuscito di ottenere un posticino nella tribuna dei giornalisti, e mi ci andavo a piantare ogni giorno, e ci stavo fino alla fine con un piacere infinito. Il Parlamento spagnuolo ha un aspetto più giovanile del nostro; non perchè i deputati sian più giovani; ma perchè son più attillati e più lindi. Là non si vedono quelle chiome scarmigliate, quelle barbe incolte, e quelle casacche di nessun colore che si vedon sui banchi della nostra Camera: là barbe e capelli ravviati e lucidi, gran camicie ricamate, soprabiti neri, calzoncini chiari, guanti ranciati, mazzine col pomo d'argento e fiori all'occhiello. Il Parlamento spagnuolo s'attiene al figurino della moda. E quale il vestire, tale il parlare: vivo, gaio, fiorito, scintillante. Noi lamentiamo già che i nostri deputati siano solleciti della forma più che non convenga ad oratori politici; ma i deputati spagnuoli la curano assai più studiosamente e, convien dirlo, con assai miglior garbo. Non solo parlano con facilità meravigliosa, così che è rarissimo il sentire un deputato che s'interrompa a mezzo il periodo per cercare la frase; ma non c'è chi non si sforzi di parlar corretto, e di dare alla sua parola un po' di lustro poetico, un po' di sapor classico, un po' d'impronta di grande stile oratorio. I ministri più gravi, i deputati più timidi, i finanzieri più rigorosi, quand'anche parlino di argomenti lontanissimi da quanto può dare appiglio alla rettorica, infiorano i loro discorsi di bei modi da Antologia, d'aneddoti ameni, di versi famosi, d'apostrofi alla civiltà, alla libertà, alla patria; e tiran via a precipizio come se recitassero cose imparate a mente, con un'intonazione sempre misurata ed armonica, e una varietà di atteggiamenti e di gesti che non lascia luogo un istante alla noia. E i giornali, giudicando i loro discorsi, lodano l'elevatezza dello stile, la purità della lingua, los rasgos sublimes, i tratti sublimi, che vi si ammirarono, se si tratta dei loro amici, si sottintende; oppure dicono con disprezzo che lo stile è sesquipedale, la lingua corrotta, la forma, in una parola, questa benedetta forma! incolta, ignobile, indegna delle splendide tradizioni dell'arte oratoria spagnuola. Questo culto della forma, questa grande facilità di parola degenera in vanità ampollosa; e certo che non s'hanno a cercare nel Parlamento di Madrid i modelli della vera eloquenza politica; ma non è men vero quello che universalmente si dice: che codesto Parlamento è fra tutti gli europei il più ricco di facondi oratori nel senso generale della parola. Bisogna sentire una discussione sur un argomento di alta politica, che muova le passioni! È una vera battaglia! Non son più discorsi, son diluvii di parole, da fare ammattire gli stenografi e confonder la testa agli uditori delle tribune! Sono voci, gesti, impeti, rapimenti d'ispirazione che fan pensare all'Assemblea francese nei giorni turbolenti della rivoluzione! Vi si sente un Rios Rosas, oratore violentissimo, che domina i tumulti col ruggito; un Martos, oratore dalla forma eletta, che uccide col ridicolo; un Pi y Margall, vecchio venerabile, che atterrisce coi sinistri pronostici; un Collantes, parlatore infaticabile, che schiaccia la Camera sotto una valanga di parole; un Rodriguez, che con meravigliosa flessuosità di ragionamenti e di giri, incalza, avviluppa e soffoca gli avversari; e in mezzo ad altri cento, un Castelar che vince e trascina amici e nemici con un torrente di poesia e di armonia. E questo Castelar, noto in tutta Europa, è veramente la più completa espressione dell'eloquenza spagnuola. Egli spinge il culto della forma fino all'idolatria; la sua eloquenza è musica; il suo ragionamento è schiavo del suo orecchio; ei dice o non dice una cosa, o la dice in un senso meglio che in un altro, secondo che torna o non torna al periodo; ha un'armonia nella mente, la segue, la obbedisce, le sacrifica tutto quello che la può offendere; il suo periodo è una strofa; bisogna sentirlo per credere che la parola umana, senza misura poetica e senza canto, si possa avvicinar così all'armonia del canto e della poesia. È più artista che uomo politico, ha d'artista, non solo l'ingegno, ma il cuore; un cuore di fanciullo, incapace di odio o d'inimicizia. In tutti i suoi discorsi non si trova un'ingiuria; nelle Cortes non ha mai provocato una seria quistione personale; non ricorre mai alla satira, non adopera mai l'ironia; nelle sue più violente filippiche non versa una dramma di fiele; e questa n'è una prova che, repubblicano, avversario di tutti i ministeri, giornalista battagliero, accusatore perpetuo di chi esercita un potere, e di chi non è fanatico per la libertà, non s'è fatto odiare da nessuno. E però i suoi discorsi si godono e non si temono; la sua parola è troppo bella per esser terribile; il suo carattere troppo ingenuo perchè egli possa esercitare una influenza politica; egli non sa armeggiare, tramare e barcamenarsi; egli non è buono che a piacere ed a splendere; la sua eloquenza, quando è più grande, è tenera; i suoi più bei discorsi fan piangere. Per lui la Camera è un teatro. Come i poeti improvvisatori, per aver l'ispirazione piena e serena, egli ha bisogno di parlare a quella data ora, in quel determinato punto e con quel certo tempo libero dinanzi a sè. Perciò, il giorno che deve parlare, prende le sue misure col Presidente della Camera; il Presidente dispone in modo che gli tocchi la parola quando le tribune sono affollate e tutti i deputati al loro posto; i suoi giornali annunziano la sera innanzi il suo discorso affinchè le signore possano procurarsi il biglietto; egli ha bisogno d'aspettazione. Prima di parlare è inquieto, non può posare un istante, entra nella Camera, esce, rientra, torna ad uscire, gira pei corridoi, va nella biblioteca a sfogliare un libro, scappa nel caffè a bere un bicchier d'acqua, par preso dalla febbre, gli sembra che non saprà accozzar due parole, che farà ridere, che si farà fischiare; del suo discorso non gli rimane una sola idea lucida nella mente, ha confuso tutto, ha dimenticato tutto.—Come va il polso?—gli domandano sorridendo gli amici. Giunto il momento solenne, sale al suo banco col capo basso, tremante, pallido, come un condannato che va a morire, rassegnato a perdere in un sol giorno la gloria conquistata in tanti anni e con tante fatiche. In quel momento i suoi stessi nemici senton pietà del suo stato. Egli si alza, volge uno sguardo intorno, e dice:— Señores! —È salvo; il suo coraggio si rinfranca, la sua mente si rischiara, il suo discorso gli si ricompone nella testa come un'arietta dimenticata; il Presidente, le Cortes, le tribune spariscono; egli non vede più che il suo gesto, non ode più che la sua voce, non sente più che la fiamma irresistibile che lo accende e la forza misteriosa che lo solleva. È bello sentir dire da lui queste cose: «Io non vedo più le pareti della sala,» dice, «vedo genti e paesi lontani che non ho mai visti.»—E parla per ore e per ore, e non un deputato esce dall'aula, non una persona si muove nelle tribune, non una voce lo interrompe, non un gesto lo distrae; neanche quando fa una scappatella in barba del Regolamento, il Presidente non ha il coraggio d'interromperlo; egli fa balenare a suo bell'agio l'immagine della sua repubblica vestita di bianco e coronata di rose, e i monarchici non s'arrischiano a protestare, perchè, così vestita, la trovan bella anch'essi; il Castelar è signore dell'Assemblea: tuona, sfolgora, canta, strepita e scintilla come un fuoco d'artifizio, fa sorridere, strappa grida di entusiasmo, finisce in mezzo a un immenso fragore d'applausi, e se ne va colla testa in visibilio. Tale è questo famoso Castelar, professore di storia all'Università, fecondissimo scrittore di politica, d'arte, di religione; pubblicista che razzola cinquantamila lire all'anno nei giornali d'America, accademico eletto ad unanimità dall' Academia española, segnato a dito per le vie, festeggiato dal popolo, amato dai nemici, giovane, gentile, vanerello, generoso, beato.

E poichè siamo all'eloquenza politica diamo uno sguardo alla letteratura. Raffiguriamoci una sala di Accademia piena di confusione e di strepito. Una folla di poeti, di romanzieri e di scrittori d'ogni natura, aventi quasi tutti qualcosa di francese nel volto e nei modi, benchè studiosissimi tutti di non lasciarlo parere; leggono e declamano le opere loro, facendo gli uni a soverchiar la voce degli altri, a fine di farsi sentire dal popolo accalcato nelle tribune; il quale, dal canto suo, bada a legger le gazzette e a disputar di politica. A quando a quando una voce vibrata e armoniosa vince il tumulto; e allora cento voci, prorompono insieme in un canto della sala, gridando:—È un carlista!—e una salva di fischi tien dietro alle grida; oppure:—È un repubblicano!—e un'altra salva di fischi, da un'altra parte, soffoca la voce vibrata e armoniosa. Gli accademici si tirano dei giornali rappallottolati, si urlan l'un l'altro nell'orecchio:—Ateo!—Gesuita!—Demagogo!—Neo-cattolico!—Banderuola!—Traditore!—A tender ben l'orecchio verso quei che leggono, si colgono strofe armoniose, periodi ben torniti, frasi potenti; il primo effetto è gradevole; son davvero poesie e prose piene di calore, di vita, di sprazzi di luce, di felici comparazioni tolte da tutto quello che splende e che suona nel cielo e sul mare e sulla terra; e ogni cosa vagamente lumeggiato di colori orientali e riccamente vestito di armonie italiane. Ma ahimè! non è che letteratura per gli occhi e per gli orecchi; non è che musica e pittura; raramente la musa, in mezzo a un nembo di fiori, lascia cadere la gemma d'un pensiero; e di codesta pioggia luminosa non rimane che un leggiero profumo nell'aria, e l'eco d'un lieve mormorio nell'orecchio. Intanto, s'odon nella strada grida di popolo, colpi di fucili e suon di tamburi; a ogni tratto, qualche artista diserta l'arringo, e va a sventolare una bandiera tra la folla; spariscono a due, a tre, a frotte, e vanno a ingrossare il drappello dei gazzettieri; lo strepito e la vicenda continua degli avvenimenti, distolgono i più tenaci dalle opere di lunga lena; invano qualche solitario nella folla grida:—In nome del Cervantes, fermate!—Alcune voci potenti si sollevano al di sopra di quel gridìo; ma son voci d'uomini raggruppati in disparte, molti dei quali in procinto di partire per un viaggio senza ritorno. È la voce dell'Hatzembuch, il principe del dramma; è la voce del Breton de los Herreros, il principe della commedia; è la voce dello Zorrilla, il principe della poesia; è un orientalista che si chiama Gayango, un archeologo che si chiama Guerra, un commediografo che si chiama Tamayo, un novelliere che si chiama Fernand Caballero, un critico che si chiama Amador de Los Rios, un romanziere che si chiama Fernandez y Gonzalez, e una schiera d'altri ingegni arditi e fecondi; in mezzo ai quali è ancora viva la memoria del gran poeta della rivoluzione, Quintana; del Byron della Spagna, Espronceda; d'un Nicasio Gallego, d'un Martinez della Rosa, d'un duca di Rivas. Ma il tumulto, il disordine e la discordia invadono ed avvolgono, come un torrente, ogni cosa. E per uscir di allegoria, la letteratura spagnuola si trova in quasi eguali condizioni della nostra: una schiera di illustri che declinano; ma che ebbero due grandi ispirazioni: o la religione o la patria, o entrambe; e che però lasciarono un'orma propria e durevole nel campo dell'arte; e una schiera di giovani che vengono innanzi a tentoni, domandando che cosa hanno da fare, piuttosto che facendo davvero; ondeggianti tra la fede e il dubbio, o aventi la fede senza il coraggio, o non avendola, indotti dall'uso a simularla; malsicuri anch' essi della propria lingua, e titubanti fra le Accademie che gridano:—Purezza!—e il popolo che grida:—Verità!; incerti tra la legge della tradizione e il bisogno del momento; lasciáti, in un canto dai mille che danno la fama o vituperati dai pochi che la suggellano; costretti a pensare in un modo e a scrivere in un altro, a non esprimersi interi, a lasciarsi sfuggire il presente per non si staccare dal passato, a barcamenarsi alla meglio fra opposte difficoltà. Gran ventura poter far surnuotare, per qualche anno, il proprio nome al torrente di libri francesi onde il paese è allagato! Dal che nasce lo sconforto prima nelle proprie forze e poi nel genio nazionale; e di qui o l'imitazione che mantiene nella mediocrità, o l'abbandono della letteratura dai larghi studi e dalle larghe speranze, per il facile e proficuo scribacchiar nei giornali. Unico, fra le tante rovine, riman ritto il teatro. La nuova letteratura drammatica non ha più dell'antica nè l'invenzione meravigliosa, nè la forma splendida, nè quell'impronta originale di nobiltà e di grandezza, che era propria d'un popolo dominatore dell'Europa e del Nuovo Mondo; e meno ancora la fecondità incredibile e la varietà senza fine; ma per compenso una più sana dottrina, un'osservazione più profonda, una delicatezza più squisita, e una maggiore conformità allo scopo vero del teatro, che è di correggere i costumi e di nobilitare i cuori e le menti. In tutte le opere letterarie poi, come nel teatro, nei romanzi, nei canti popolari, nei poemi, nelle storie, sempre vivo e dominante il sentimento che informa più profondamente, forse, che ogni altra letteratura europea, la letteratura spagnuola, dai primi tentativi lirici del Berceo ai vigorosi inni guerrieri del Quintana:—l'orgoglio nazionale.

E qui accade di parlare del carattere degli Spagnuoli. Il loro orgoglio nazionale è tale oggi ancora, dopo tante e sventure e una sì bassa caduta, da far dubitare allo straniero che vive in mezzo a loro, s'essi sian spagnuoli di tre secoli fa, o spagnuoli del secolo decimonono. Ma è un orgoglio che non offende, un orgoglio innocentemente rettorico. Non deprimon già le altre nazioni per parer alla volta loro più alti; no; le rispettano, le lodano, le ammirano, ma lasciando però trasparire il sentimento di una superiorità che, nel concetto loro, ritrae appunto da quell'ammirazione, una luminosa evidenza. Sono, per le altre nazioni, benevoli di quella benevolenza che il Leopardi dice giustamente essere propria degli uomini pieni del concetto di se medesimi; i quali, credendosi ammirati da tutti, amano i loro creduti ammiratori, anche perchè giudicano ciò conveniente a quella maggioranza onde stimano che la sorte gli abbia favoriti. Non può esservi stato al mondo un popolo più fiero della sua storia che il popolo spagnuolo. È una cosa incredibile. Il ragazzo che vi lustra gli stivali, il facchino che vi porta la valigia, il mendicante che vi chiede l'elemosina, alzan la testa e mandan lampi dagli occhi al nome di Carlo V, di Filippo II, di Ferdinando Cortes, di Don Giovanni d'Austria, come se fossero eroi del loro tempo, e li avesser veduti il giorno prima entrare trionfalmente nella città. Si pronuncia il nome di España coll'accento col quale dovevan pronunciar Roma i Romani a' tempi più gloriosi della repubblica. Quando si parla della Spagna, è bandita anche la modestia, dagli uomini naturalmente più modesti, senza che sul loro viso appaia il menomo indizio di quell'esaltamento a cui si condona l'intemperanza del linguaggio. Si inneggia a freddo, per uso, senza accorgersene. Nei discorsi al Parlamento, negli articoli delle gazzette, nelle scritture delle accademie, si chiama il popolo spagnuolo, senza perifrasi, un pueblo de héroes, la grande nazione, la meraviglia del mondo, la gloria dei secoli. È raro il sentir dire o leggere cento parole da chi si sia e a qual si voglia uditorio, senza che o prima o poi non suoni il ritornello obbligato di Lepanto, di scoperta d'America, di guerra d'indipendenza, a cui tien dietro sempre uno scoppio d'applausi.

E appunto la tradizione della guerra d'indipendenza costituisce nel popolo spagnuolo una forza intima immensa. Chi non sia vissuto o poco o molto in Spagna non può credere che una guerra, per quanto fortunata e gloriosa, possa lasciare in un popolo una così profonda fede nel valor nazionale. Baylen, Victoria, San Marcial sono tradizioni per la Spagna assai più efficaci che non siano per la Francia Marengo, Jena, Austerlitz. La stessa gloria guerriera degli eserciti di Napoleone, veduta a traverso la guerra d'indipendenza che vi stese su il primo velo, appare agli occhi della Spagna assai meno splendida che a ogni altro popolo d'Europa. L'idea di una invasione straniera desta negli Spagnuoli un sorriso di sdegnoso disprezzo; non credono alla possibilità d'esser vinti nel loro paese; bisognava sentire con che tòno parlavan della Germania quando correva voce che l'imperatore Guglielmo fosse risoluto a sostenere colle armi il trono del duca d'Aosta. E non c'è dubbio che, se avessero a combattere una nuova guerra d'indipendenza, forse combatterebbero, con meno fortunato successo, ma con prodezza e costanza pari a quella maravigliosa che spiegarono allora. Il 1808 è il 93 della Spagna; è una data che ogni spagnuolo ha dinanzi agli occhi scritta in carattere di fuoco; se ne gloriano le donne, i ragazzi, i bambini che cominciano a scioglier la lingua; è il grido di guerra della nazione.

E quella stessa alterezza l'hanno dei loro scrittori e dei loro artisti. L'accattone invece di dir España, vi dice qualche volta la patria de Cervantes. Nessun scrittore al mondo ebbe mai nel suo popolo la popolarità che ha in Spagna l'autore del Don Chisciotte. Io credo che non vi sia un contadino, un pastore, dai Pirenei alla Sierra Nevada, dalla costa di Valenza ai colli d'Estremadura, che interrogato di chi sia il Cervantes, non risponda con un sorriso di compiacenza:— El imortal autor del Quijote. —La Spagna è forse il paese dove si celebrano più anniversarii di grandi scrittori: da Juan de Mena all'Espronceda, ognuno ha il suo giorno solenne, nel quale si offre alla sua tomba un tributo di canti e di fiori. Nelle piazze, nei caffè, nei carrozzoni della strada ferrata, per tutto occorre di sentir citar versi di poeti illustri, da ogni sorta di gente; chi non ha letto, ha sentito leggere; chi non ha sentito leggere, ripete la citazione come un proverbio, per averla udita da un altro; e quando uno dice un verso, tutti drizzan gli orecchi. Chi conosca per poco la letteratura spagnuola, può fare un viaggio in quel paese colla sicurezza di aver sempre di che discorrere e di come ispirar simpatia, dovunque capiti, in chiunque s'abbatta. La letteratura nazionale è là veramente nazionale.

Il difetto degli Spagnuoli che colpisce fin dalle prime lo straniero, è questo: che nell'estimare le cose, gli uomini e gli avvenimenti del loro tempo e del loro paese, sbagliano, se così può dirsi, la misura; ingigantiscon tutto; vedono ogni cosa come a traverso una lente che ne dilata spropositatamente i contorni. Non avendo avuto da lungo tempo una partecipazione immediata nella vita comune d'Europa, mancò loro l'occasione di paragonarsi cogli altri Stati, e di giudicar sè stessi dal paragone. Perciò le loro guerre civili, le guerre d'America, d'Affrica, di Cuba, sono per loro quello che son per noi, non la piccola guerra del 1860 e 61 contro l'esercito papale od anche la rivoluzione del 1860; ma la gran guerra di Crimea, quella del 1859, quella del 1866. Dei combattimenti, sanguinosi senza dubbio, ma non grandi, che illustrarono le armi spagnuole in quelle guerre, parlano come i Francesi di Solferino, i Prussiani di Sadowa, gli Austriaci di Custoza. I Prim, i Serrano, gli O'Donnell, sono generali che mettono al lato dei più insigni degli altri paesi. Mi ricordo del chiasso fatto a Madrid per la vittoria riportata dal general Morriones su quattro o cinque mila Carlisti. I deputati, nella sala di conversazione delle Cortes, esclamavano enfaticamente:— Eh! La sangre española! —; alcuni dicevan persino che se un esercito di trecentomila Spagnuoli, si fosse trovato in luogo dei Francesi nel 1870, sarebbe corso difilato a Berlino. E certo non si può dubitar del valore spagnuolo, che diede di sè tante prove; ma è lecito il supporre che fra Carlisti disordinati e Prussiani stretti in corpi d'esercito, fra soldati d'Europa, per farla più larga, e soldati d'Affrica, fra grandi battaglie campali, dove la mitraglia miete le vite a migliaia, e combattimenti di diecimila soldati per parte, con disparità grande di armamento e di disciplina, ci corra. E come parlan di guerra, parlan d'ogni altra cosa; non già il popolo solo, ma la gente colta. Agli scrittori si prodigano lodi sperticate; si dà di grande poeta a molti, il cui nome non è mai uscito di Spagna; gli epiteti di inarrivabile, di sublime, di meraviglioso, sono moneta corrente che si spende e si riceve senza il menomo dubbio sulla bontà della lega. Si direbbe che la Spagna guarda e giudica ogni sua cosa, piuttosto come un popolo americano, che come un popolo europeo; e che invece dei Pirenei, la separi dall'Europa un oceano, e la congiunga all'America un istmo.

Del resto, quanto son simili a noi! A sentir parlare il popolo di politica, par d'essere in Italia; non si discute, si sentenzia; non si censura, si condanna; ad ogni giudizio basta un argomento, e per foggiare un argomento basta un indizio. Il tal ministro? Un furfante. Il tal altro? Un traditore. Quell'altro tale? un ipocrita; una fitta di ladri tutti; uno ha fatto vendere gli alberi dei giardini d'Aranjuez, l'altro ha portato via dei tesori dall'Escuriale, un terzo ha vuotato le casse dello Stato, un quarto ha venduto l'anima per un sacchetto di dobloni. Negli uomini che hanno avuto mano in tutti i rivolgimenti politici da trent'anni in qua, non hanno più fede; anche nel popolo minuto serpeggia un sentimento di sconforto, del quale s'intende l'espressione ad ogni tratto e in ogni lato:— Pobre España! Desgraciado pais! Desdichados españoles!

Ma l'esacerbamento delle passioni politiche e il furore delle lotte intestine non ha mutato il fondo dell'antico carattere spagnuolo. Solamente quella parte della società alla quale si dà il nome di mondo politico, questa solamente è corrotta; il popolo, benchè pur sempre inchinevole a quei ciechi e talora selvaggi impeti di passione che tradiscono la mescolanza del sangue arabo col sangue latino, è buono, leale, capace di sensi magnanimi e di sublimi slanci d'entusiasmo. La honra de España è ancora un motto che fa battere tutti i cuori. E poi hanno modi franchi e gentili; forse men fini, ma certo più amabilmente ingenui, di quelli onde van lodati i Francesi. Invece di farvi un sorriso vi porgono un sigaro, invece di dirvi una garbatezza vi stringon la mano, e sono più ospitali a fatti che a offerte. Nondimeno le formole di saluto serbano l'antica impronta cortigianesca; l'uomo dice alla donna:—Ai suoi piedi;—la donna dice all'uomo:—Le bacio la mano;—gli uomini, fra loro, sottoscrivon le lettere col Q. B. S. M.,— que besa sus manos, —come da servo a signore; gli amici soli si dicono addio e il popolo ha il suo saluto affettuoso di Vaya Vsted con Dios che val più di tutti i baci sulle mani.

Con codesta natura calda e espansiva della gente, è impossibile stare un mese a Madrid senza farsi cento amici, anche senza cercarli. Figuratevi quanti se ne può far chi li cerca. Questo era il caso mio. E non posso dir proprio amici, ma conoscenti ne ebbi tanti che non mi pareva più di essere in una città straniera. Anche gli uomini illustri sono di facilissimo abbordo e però non c'è bisogno, come altrove, di un monte di lettere e d'imbasciate d'amici per arrivar fino a loro. Ebbi l'onore di conoscere il Tamayo, l'Hatzembuch, il Guerra, il Saavedra, il Valera, il Rodriguez, il Castelar, e molti altri chiarissimi quali nelle lettere e quali nelle scienze, e li trovai tutti a un modo: aperti, cordiali, focosi; uomini coi capelli bianchi, ma con occhi e voci di giovani ventenni; appassionati per la poesia, per la musica, per la pittura; allegri, gesticolanti, ridenti d'un riso fresco e sonoro. Quanti ne vidi leggendo dei versi del Quintana o dell'Espronceda, impallidire, piangere, balzare in piedi come scossi da una scintilla elettrica, e mostrar tutta l'anima negli sguardi raggianti! Che giovanili anime! Che ardenti cuori! Come mi compiacevo, vedendoli ed ascoltandoli, di appartenere a questa povera razza latina, di cui diciamo ora le sette pèste, e come mi rallegravo pensando che più o meno siamo tutti fatti su quello stampo, e che, perdio, potremo abituarci a poco a poco a invidiare lo stampo degli altri, ma non riusciremo a perdere il nostro mai!

Dopo tre mesi e più di soggiorno a Madrid, dovetti partire per non lasciarmi poi cogliere dall'estate nel mezzogiorno della Spagna. Ricorderò sempre quella bella mattina di maggio, ch'io abbandonai, forse per sempre, la mia cara Madrid. Partivo per andar a vedere l'Andalusia, la terra promessa dei viaggiatori, la fantastica Andalusia della quale avevo tanto inteso decantare le meraviglie in Italia e in Spagna, dai romanzieri e dai poeti; quell'Andalusia per la quale posso dire che avevo impreso il viaggio; eppure ero tristo. Avevo passato tanti bei giorni a Madrid! Ci lasciavo tanti cari amici! Per andare alla stazione della strada ferrata del mezzogiorno, attraversai la strada d'Alcalà, salutai da lontano i giardini di Recoletos, passai davanti al palazzo del Museo di pittura, mi fermai a guardare ancora una volta la statua del Murillo, e arrivai alla stazione col cuore stretto.—Tre mesi?—domandavo a me stesso pochi momenti prima che il treno partisse;—son già passati tre mesi? Non è stato un sogno? Eppure sì, gli è come se avessi sognato! Non rivedrò forse mai più la mia buona padrona di casa, mai più la bambina del signor Saavedra, mai più il viso dolce e sereno del Guerra, mai più gli amici del caffè Fornos, mai più nessuno! Ma che! Non potrò tornare?... Tornare! Oh no! Lo so bene che non potrò tornare! E allora... addio, amici! Addio, Madrid! Addio, o mia piccola stanza di strada dell'Alduana!—Mi pare che in questo momento mi si strappi una fibra nel cuore, e sento il bisogno di nascondere il viso.

VI. ARANJUEZ.

Come arrivando per la via del settentrione, così partendo da Madrid per la via del mezzogiorno, si percorre una campagna disabitata che rammenta le provincie più povere dell'Aragona e della Vecchia Castiglia. Son vaste pianure giallastre e secche, nelle quali par che il terreno, a picchiarci su, debba risuonare come un uscio, o screpolarsi come la crosta d'una torta abbrustolita; e pochi villaggi meschini, dello stesso colore del suolo, che pare dovrebbero accendersi come un mucchio di foglie inaridite, solo ad avvicinare un fiammifero allo spigolo d'una casa. Dopo un'ora di strada, la mia spalla cercò la parete del carrozzone, il mio gomito cercò un sostegno, la mia testa cercò la mano, e caddi in un profondo sopore, come un membro dell' Ateneo d'ascoltazione di Giacomo Leopardi. Pochi minuti dopo che avevo chiuso gli occhi, fui riscosso da un disperato gridío di donne e di ragazzi, e balzai in piedi chiedendo ai vicini che cosa fosse seguito. Ma prima che avessi finito la domanda, una risata generale mi rassicurò. Un drappello di cacciatori sparsi per la campagna, vedendo arrivare il treno, s'eran messi d'accordo per far un po' di paura ai viaggiatori. In quei giorni si parlava della comparsa d'una banda di Carlisti nelle vicinanze di Aranjuez: i cacciatori, fingendo d'essere l'avantiguardia della banda, mentre passava il treno, avevan gettato alte grida come per avvertire il grosso degli armati che accorressero, e gridando, avevan fatto l'atto di sparare contro i carrozzoni; onde lo spavento e le grida della gente; e poi avevan tutt'a un tratto voltato i fucili col calcio in aria, per far vedere che l'era stata una burla. Passata la tremerella, chè n'ebbi per un momento un pochino anch'io, ricaddi nel mio sopore accademico; ma ne fui scosso daccapo, di là a pochi minuti, in una maniera assai più gradevole che la prima volta.

Guardai intorno: la vasta campagna deserta s'era trasformata come per incanto, in un immenso giardino pieno di boschetti leggiadrissimi, percorso in tutti i sensi da larghi viali, sparso di casine campestri e di capanni fasciati di verzura; e qua e là zampilli di fontane, e recessi ombrosi, e prati fioriti, e vigneti, e sentierini, e un verde, un fresco, un odor di primavera, un'aura di letizia e di piacere, da imparadisare l'anima. Eravamo arrivati a Aranjuez. Discesi dal treno, infilai un bel viale ombreggiato da due file di alberi giganteschi, e mi trovai dopo pochi passi in faccia al palazzo reale.

Il ministro Castelar scrisse pochi giorni sono nel suo memorandum che la caduta dell'antica monarchia spagnuola fu predestinata il giorno che una turba di popolo colle ingiurie sulle labbra e l'ira nel cuore invase il palazzo d'Aranjuez per turbare la tranquilla maestà dei suoi Sovrani. Io ero appunto su quella piazza dove il 17 marzo del 1808 seguirono gli avvenimenti che furono il prologo della guerra nazionale, e come la prima parola della sentenza che condannò a morte l'antica Monarchia. Cercai subito cogli occhi le finestre dell'appartamento del Principe della Pace; me lo raffigurai quando fuggiva di sala in sala, pallido e scapigliato, in cerca d'un nascondiglio, all'eco delle grida della moltitudine che saliva le scale; vidi il povero Carlo IV deporre colle mani tremanti la corona di Spagna sulla testa del Principe delle Asturie; tutte le scene di quel terribile dramma mi si presentarono dinanzi agli occhi; e il silenzio profondo del luogo, e la vista di quel palazzo chiuso e abbandonato, mi misero freddo al cuore.

Il palazzo ha la forma d'un castello; è fabbricato di mattoni, con contorni di pietra bianca, e coperto di un tetto d'ardesia. Tutti sanno che lo fece costruire Filippo II dal celebre architetto Herrera, e che quasi tutti i re successivi lo abbellirono, e vi soggiornarono nella stagione estiva. V'entrai: l'interno è splendido: v'è una stupenda sala pel ricevimento degli ambasciatori, un bel gabinetto chinese di Carlo III, una mirabile sala di toeletta di Isabella II; e una profusione d'oggetti d'ornamento preziosissimi. Ma tutte le ricchezze del palazzo non valgono il colpo d'occhio dei giardini. L'aspettazione non è delusa. I giardini d'Aranjuez (Aranjuez è il nome della piccola città che giace a poca distanza dal palazzo) sembrano stati fatti per una famiglia di re titanici, ai quali i parchi e i giardini dei nostri re dovessero parer aiuole da terrazze o campicelli da presepio. Viali a perdita d'occhio fiancheggiati da alberi di smisurata altezza, che consertano i rami inclinandosi gli uni verso gli altri, come incurvati da due venti contrari, percorrono in tutti i sensi una foresta di cui non si vedono i confini; e a traverso questa foresta, il Tago largo e rapido descrive una maestosa curva formando qua e là cascatelle e bacini; e una vegetazione fitta e pomposa, lussureggia fra un laberinto di vialetti, di crocicchi e di sbocchi; e in ogni parte biancheggiano statue, vasche, colonne, schizzi d'acqua altissimi che ricascano a sprazzi, a fiocchi, a goccie, in mezzo a ogni maniera di fiori d'Europa e d'America; e al fragore maestoso della cascata del Tago, s'unisce il canto d'innumerevoli usignoli che vibrano le loro allegre note nell'ombra misteriosa dei sentieri solitarii. In fondo ai giardini sorge un piccolo palazzo di marmo, di modesta apparenza, che racchiude tutte le maraviglie della più magnifica reggia; e nel quale si respira ancora, per così dire, l'aura della vita intima dei Re di Spagna. Qui le stanzine segrete di cui si tocca il soffitto colla mano, la sala da biliardo di Carlo IV, la sua stecca, i cuscini ricamati dalla mano delle regine, gli orologi musicali che rallegravano gli ozii degli infanti, le scalette, le finestrine che serban cento piccole tradizioni dei capricci principeschi; e infine il più ricco luogo comodo d'Europa, dovuto a un ghiribizzo di Carlo IV, che racchiude in sè solo tante ricchezze da tirarne di che fare un palazzo, senza togliergli la nobile primazia di cui va altero fra tutti i gabinetti destinati allo stesso scopo. Di là da questo palazzo, e tutt'intorno ai boschi, si stendono vigneti e oliveti e piantagioni d'alberi fruttiferi e ridenti praterie. È una vera oasi circondata dal deserto, che Filippo II scelse in un giorno d'allegro umore quasi per temperare con una gaia immagine la cupa melanconia dell'Escurial. Tornando dal piccolo palazzo di marmo verso il grande palazzo reale, per quei lunghissimi viali, all'ombra di quegli alberi sterminati, in quella profonda quiete di foresta, pensavo agli splendidi cortei di dame e di cavalieri che un giorno vi si aggiravano dietro ai passi di giovani monarchi folleggianti o di regine capricciose e sfrenate, al suono di musiche amorose e di canti che narravan la grandezza e la gloria della invitta Spagna; e ripetevo malinconicamente col poeta di Recanati:

«.... Tutto è pace e silenzio
E più di lor non si ragiona....»

Ma pur guardando certi sedili di marmo mezzo nascosti fra i cespugli, e figgendo lo sguardo nel buio di certi sentieri lontani, e pensando a quelle regine, a quegli amori, a quelle follie, non potevo trattenere un sospiro, che non era di pietà, e un segreto senso d'amarezza mi pungeva il cuore; e dicevo come il povero Adan nel poema il Diablo mundo:—Come son fatte codeste grandi dame? Come vivono? Che fanno? Parlano, amano, godono, come noi?—E partii per Toledo fantasticando l'amor d'una regina come un giovane avventuriere delle Mille e una notte.

VII. TOLEDO.

Quando ci si avvicina a una città sconosciuta, bisognerebbe aver accanto qualcheduno che l'avesse già vista, e ci potesse avvertire del momento opportuno per metter la testa fuori e coglierne l'aspetto con un colpo d'occhio. Ebbi la fortuna di essere avvertito per tempo. Un tale mi disse:—Ecco Toledo!—ed io saltai al finestrino, e feci un'esclamazione di meraviglia.

Toledo sorge sur un'altura rocciosa e dirupata, ai piedi della quale scorre il Tago descrivendo un'amplissima curva. Dal piano non si vedon che roccie e mura di fortezza, e di là dalle mura le cime dei campanili e delle torri. Le case son nascoste, la città vi par chiusa e inaccessibile, e meglio che d'una città vi presenta l'aspetto di una rôcca abbandonata. Dalle mura alla sponda del fiume non c'è una casa, nè un albero; tutto è nudo, secco, irto, ripido; non vi si vede anima viva; direste che per salire bisogna arrampicarsi, e vi sembra che al primo apparir d'un uomo su quei dirupi gli debba cadere addosso dall'alto delle mura una tempesta di freccie. Scendete dal treno, montate in una carrozza, arrivate all'imboccatura di un ponte. È il famoso ponte d'Alcantara, che accavalcia il Tago, sormontato da una bella porta araba in forma di torre, che gli dà un aspetto ardito e severo. Passato il ponte, vi trovate in un'ampia via che sale a larghi serpeggiamenti fino alla sommità della montagna. Qui vi par proprio di essere sotto una città forte del medio evo, e di trovarvi voi stesso nei panni d'un arabo o d'un goto o d'un soldato di Alfonso VI. Da tutte le parti vi pendon sul capo roccie scoscese, mura diroccate, torri, e rottami di antichi bastioni; e più su, l'ultimo muro di cinta della città, nero, coronato di merli enormi, aperto qua e là da grandi breccie, dietro le quali fan capolino le case prigioniere; e via via che salite, vi par che la città si ristringa e si nasconda. A mezzo la salita, incontrate la Puerta del Sol, un gioiello di architettura araba, composta di due torri merlate, che si congiungono sur una graziosissima porticina ad arco doppio, sotto la quale passa la strada antica; e di là, se vi voltate indietro, vedete giù il Tago, la pianura, i colli. Passate oltre, trovate altre mura e altre rovine; e finalmente le prime case della città.

Quale città! Sul primo momento mi sentii mancare il respiro. La carrozza aveva infilato una stradina tanto stretta che i mòzzi delle ruote toccavan quasi i muri delle case.

“Ma perchè passate di qui?” domandai al vetturino.

Il vetturino si mise a ridere, e rispose: “Perchè non c'è altra strada più larga.”

“O che tutta Toledo è fatta così?” ridomandai.

“Tutta fatta così!” rispose.

“È impossibile!” esclamai.

“Vedrà!” soggiunse.

In verità non lo credevo. Scesi a un albergo, buttai in una stanza la mia valigia, e scesi le scale a precipizio per andar a vedere questa stranissima città. Un fattorino dell'albergo mi fermò sulla porta, e mi domandò sorridendo: “Dove va caballero?”

“A veder Toledo” risposi.

“Solo?”

“Solo; perchè no?”

“Ma è già stato qui altre volte?”

“Mai.”

“Allora non può andar solo.”

“E perchè?”

“Perchè si smarrirà.”

“Dove?”

“Appena uscito.”

“O la ragione?”

“La ragione è questa;” rispose, accennandomi un muro al quale era affissa una pianta di Toledo. M'avvicinai e vidi un garbuglio di linee bianche sur un fondo nero che pareva uno di quei ghirighori che fanno i ragazzi sulla lavagna per consumare il gesso a dispetto del maestro. “Non importa,” dissi, “voglio andar solo; e se mi smarrirò, mi troveranno.”—“Non farà cento passi,” osservò il fattorino. Uscii e infilai la prima strada che vidi, tanto stretta che, allargando le braccia, toccavo tutti e due i muri. Fatti cinquanta passi, mi trovai in un'altra strada più stretta della prima, e da questa riuscii in una terza, e via così. Mi pareva di girare, non per le strade d'una città, ma per gli anditi d'un edifizio; e andavo oltre coll'idea di dover riuscire da un momento all'altro in un luogo aperto.—È impossibile,—pensavo,—che la città sia tutta costruita in questa maniera; non ci si potrebbe vivere.—Ma via via che procedevo, mi sembrava che le strade si facessero più strette e più corte; ogni momento dovevo svoltare; dopo una strada curva, veniva una strada a zig-zag, dopo questa un'altra fatta ad uncino, che mi riconduceva nella prima, e così giravo per un pezzo sempre in mezzo alle stesse case. Di tratto in tratto riuscivo in un crocicchio di parecchi vicoli che scappavano in direzioni opposte, e quale si perdeva nel buio d'un portico, quale urtava, dopo pochi passi, contro il muro d'una casa, quale scendeva giù come per sprofondarsi nelle viscere della terra, quale s'arrampicava per un'erta salita; alcuni, larghi appena tanto da dar passo ad un uomo; altri stretti in mezzo a due muri senza porte e senza finestre; tutti fiancheggiati da edifizii di grande altezza, che lasciavano apparire appena una sottile striscia di cielo fra tetto e tetto; con poche finestre munite di grosse inferriate, con grandi porte tempestate di chiodi enormi, con cortili angusti ed oscuri. Camminai un pezzo senza incontrar nessuno, fin che riuscii in una delle strade principali, tutta fiancheggiata da botteghe e piena di contadini, di donne, di ragazzi; ma poco più larga d'un corridoio ordinario. Ogni cosa è proporzionato alla strada: le porte paion finestre, le botteghe paion nicchie, e vi si vedon dentro tutti i segreti della casa: la tavola apparecchiata, i bambini in culla, la madre che si pettina, il padre che si cambia la camicia; tutto è lì sulla strada; non par di essere in una città, ma in una casa abitata da una sola grande famiglia. Svolto in una strada meno frequentata, non vi si sente il ronzìo d'una mosca, il mio passo risuona fino al quarto piano degli edifizii, qualche vecchierella fa capolino alla finestra. Passa un cavallo, par che passi uno squadrone: tutti s'affacciano a guardar che cosa segue. Il più leggero rumore echeggia in ogni parte; un libro che cade in una stanza al secondo piano, un vecchio che tosse in un cortile, una donna che si soffia il naso non so dove; si sente tutto. In qualche punto cessa ad un tratto ogni rumore, siete soli, non vedete più segno di vita: son case da streghe, crocicchi da congiure, chiassuoli da tradimenti, angiporti da delitti, finestrine da colloquii d'amanti infami, porte sinistre che fanno sospettare scale macchiate di sangue. Ma pure in tutto questo laberinto di strade non ce n'è due che si somigliano; ognuna ha qualcosa di proprio; qui un arco, là una colonnetta, più oltre una scultura; Toledo è un emporio di tesori d'arte; per poco che si scrostino i muri, si scoprono in ogni parte dei ricordi di tutti i secoli: bassorilievi, arabeschi, finestrine moresche, statuette. I palazzi hanno porte munite di lastre di metallo incise, di martelli istoriati, di chiodi colle teste cesellate, di scudi, di emblemi; e formano un bel contrasto colle case moderne dipinte a ghirlande, medaglioni, amori, urne, animali fantastici. Ma questi abbellimenti non tolgono nulla all'aspetto severo e tristo di Toledo. Dovunque volgiate lo sguardo, v'è qualche cosa che vi rammenta la città forte degli Arabi; per poco che la vostra immaginazione lavori, riesce a ricomporre, coi tratti rimasti qua e là, tutto il disegno del quadro cancellato, e allora l'illusione è completa; rivedete la gran Toledo del medio evo; e dimenticate la solitudine e il silenzio delle sue strade. Ma è un'illusione di pochi istanti, dopo la quale ricadete in una trista meditazione, e non vedete più che lo scheletro della città antica, la necropoli di tre imperi, il grande sepolcro della gloria di tre popoli. Toledo vi rammenta i sogni fatti da giovanetti dopo la lettura di leggende romanzesche del medio evo. Voi avrete visto molte volte, nei sogni, delle città oscure, cinte di fossi profondi, di mura altissime, di roccie inaccessibili; e sarete passati su quei ponti levatoi, e sarete entrati in quelle strade torte ed erbose, ed avrete respirato quell'aria umida di prigione e di tomba. Ebbene, avete sognato Toledo.

La prima cosa a vedersi, dopo l'aspetto generale della città, è la Cattedrale, che vien considerata a giusto titolo come una delle più belle del mondo. La storia di questa Cattedrale, stando alla tradizione popolare, rimonta sino ai tempi dell'Apostolo Santiago, primo vescovo di Toledo, che avrebbe designato il luogo dove venne innalzata; ma la costruzione dell'edifizio tal quale oggi si ammira, fu cominciata nel 1227, sotto il regno di San Ferdinando, e terminata dopo duecento e cinquant'anni di lavoro quasi continuo. L'aspetto esterno di questa immensa chiesa non è nè ricco nè bello come quello della cattedrale di Burgos. Davanti alla facciata si stende una piccola piazza, ed è il solo punto d'onde si possa abbracciare collo sguardo una vasta parte dell'edifizio; tutt'intorno corre una stradicciuola, dalla quale, per quanto si torca il collo, non si vede che l'alto muro di cinta che chiude la chiesa come una fortezza. La facciata ha tre grandi porte, chiamate l'una del Perdono, l'altra dell' Inferno, la terza del Giudizio; ed è fiancheggiata da una robusta torre, che termina in una bella cupola ottagona. Per quanto, girando intorno all'edifizio, si sia visto che è immenso, al primo entrare si è colpiti da un senso profondo di meraviglia; e subito dopo da un altro vivissimo piacere, che vien da quella freschezza, da quella quiete, da quell'ombra soave, e da una misteriosa luce, la quale penetrando per le vetrate a colori di innumerevoli finestre, si frange in mille raggi azzurri, gialli, rosei, che guizzano qua e là lungo gli archi e le colonne come striscie d'arcobaleno. La chiesa è formata da cinque grandi navate divise da ottantotto pilastri enormi, composti ciascuno di sedici colonne fusate, e strette come un fascio di lancie; una sesta navata taglia ad angolo retto queste cinque, passando fra l'altar maggiore ed il coro; e la volta della navata principale si alza maestosamente sull'altre, che sembrano curvarsi come per renderle omaggio. La luce variopinta e il color chiaro della pietra danno alla chiesa come un'aria di raccolta letizia che tempera l'aspetto malinconico dell'architettura gotica, senza nulla togliere alla sua gravità austera e pensosa. Passar dalle strade di quella città fra le navate di quella Cattedrale, gli è come passar da una segreta a una piazza: si guarda intorno, si respira, si risente la vita.

L'altar maggiore, a volerlo considerar per la minuta, richiederebbe altrettanto tempo che la chiesa intera; è una chiesa, è un visibilio di colonnine, di statuette, di fogliami, d'ornamenti svariatissimi, che sporgon lungo gli spigoli, s'alzano sopra gli architravi, serpeggiano intorno alle nicchie, si sostengono l'un l'altro, si ammontano, si nascondono, presentando in ogni parte mille profili, e gruppi, e scorti, e dorature, e colori, e ogni maniera di artifiziose leggiadrie, che porgon tutte insieme l'aspetto di una magnificenza piena di decoro e di grazia. Di fronte all'altar maggiore è il coro, diviso in tre ordini di seggiole meravigliosamente scolpite da Filippo di Borgogna e dal Berruguete, con bassorilievi rappresentanti fatti storici, allegorici, sacri, che si considerano come uno dei più insigni monumenti dell'arte. In mezzo, in forma di trono, è il seggio dell'arcivescovo; intorno, un giro di enormi colonne di diaspro; sugli architravi, delle statue colossali d'alabastro; ai due lati, degli enormi pulpiti di bronzo con suvvi dei messali giganteschi, e due smisurati organi, l'uno di fronte all'altro, dai quali par debba prorompere da un istante all'altro un torrente di note da far tremare le volte.

Il piacere dell'ammirazione, in queste grandi cattedrali, è quasi sempre turbato dai ciceroni importuni che vogliono ad ogni costo che vi divertiate a modo loro. E per mia disgrazia mi ebbi a persuadere che i ciceroni spagnuoli sono i più ostinati della razza. Quand'uno di costoro s'è fitto in capo che voi avete da passar la giornata con lui, è finita. Potete scrollar le spalle, non rispondere, lasciar che si sfiati senza neanco voltare il viso, girare per conto vostro come se non l'aveste veduto: è tutt'uno. In un momento d'entusiasmo, dinanzi a un quadro o a una statua, vi sfugge una parola, un gesto, un sorriso: basta, siete legato, siete suo, siete preda di questa implacabile pieuvre umana, che come quella di Victor Hugo, non lascia la vittima che a tagliarle la testa. Mentre stavo contemplando le statue del Coro, vidi colla coda dell'occhio uno di codeste pieuvres, un vecchietto mezzo sfatto, che mi si avvicinava a lenti passi, di sbieco, come un sicario, guardandomi coll'aria di dire:—Ci sei.—Io continuai a guardar le statue; il vecchio mi venne accanto, e si mise anch'egli a guardare; poi ad un tratto mi domandò: “Vuol che l'accompagni?”

“No,” risposi, “non m'occorre.”

Ed egli senza scomporsi: “Sa chi era Elpidio?”

La domanda era così strana, che non potei trattenermi dal domandare alla mia volta: “Chi era?”

“Elpidio,” rispose, “fu il secondo vescovo di Toledo.”

“E con questo?”

“E con questo.... fu il vescovo Elpidio che ebbe l'idea di consacrare la chiesa alla Vergine, che è la ragione per la quale la Vergine venne a visitare la chiesa.”

“O come si sa?”

“Come si sa? si vede.”

“Volete dire che s'è visto.”

“Voglio dire che si vede ancora: abbia la bontà di venir con me.”

Ciò dicendo si mosse, ed io, curiosissimo di sapere qual fosse questa prova visibile della discesa della Vergine, lo seguii. Ci fermammo davanti a una specie di tabernacolo, vicino a uno dei gran pilastri della navata del mezzo. Il cicerone mi mostrò una pietra bianca incastrata nel muro, coperta da una rete di ferro, e con intorno questa iscrizione:

«Quando la reina del cielo
Puso los pies en el suelo
En esta piedra los puso.»

“Dunque,” domandai “la Santa Vergine ha messo proprio il piede su questa pietra?”

“Proprio su questa pietra,” mi rispose, e fatto passare un dito tra i fili di ferro della rete, e toccata la pietra, si baciò il dito, si fece il segno della croce e mi accennò come per dirmi: “A lei.”

“A me?...” risposi; “oh in verità, amigo, non posso.”

Porqué?

Porque no me siento digno de tocar aquella piedra divina.

Il cicerone capì, e guardandomi fisso con uno sguardo serio, mi domandò: “ Usted no cree?

Io guardai un pilastro. Allora il vecchio mi fece cenno che lo seguissi, e si mosse verso un angolo della chiesa, mormorando con aria di tristezza: “ Cadauno es dueño de su alma. ” Ciascuno è padrone dell'anima sua. Un chiericotto ch'era là vicino, e che aveva indovinato la cosa, mi lanciò uno sguardo che pareva una frecciata, e brontolando non so che, s'allontanò dalla parte opposta.

Le cappelle sono quali convengono a una tal chiesa; quasi tutte racchiudono qualche bel monumento; nella cappella di sant'Jago, dietro l'altar maggiore, sono due magnifiche tombe d'alabastro, che contengono i resti del connestabile Alvaro di Luna e di sua moglie; nella cappella di sant'Idelfonso, la tomba del cardinale Gil Carillo di Albornoz; nella cappella de los Reyes nuevos, le tombe di Enrico II, di Giovanni II, di Enrico III; nella cappella del Sacrario, una stupenda corona di statue e di busti di marmo, d'argento, d'avorio, d'oro, una collezione di croci e di reliquie d'inestimabile valore, i resti di santa Leucadia e di santa Eugenia chiusi entro due casse d'argento cesellate con finissimo lavoro.

La cappella Mozarabe, che corrisponde alla torre della chiesa, e fu costrutta per perpetuare la tradizione del primitivo rito cristiano, è forse la più meritevole d'attenzione. Una delle pareti è tutta coperta da un dipinto a fresco, gotico, rappresentante un combattimento fra i mori e i toledani, meravigliosamente conservato fin nelle più delicate sfumature. È un dipinto che vale un libro di storia. Vi si vede Toledo di quei tempi, con tutte le sue mura e le sue case; le assise dei due eserciti, le armi, i volti, ogni cosa eseguito con una finitezza ammirabile e non so quale speziosità, di colorito, che risponde perfettamente alla idea vaga e fantastica che ci formiamo di quei secoli e di quella gente. Altri due dipinti a fresco, laterali al primo, rappresentano i navigli che portan gli Arabi in Spagna, e anch'essi offrono mille minuti particolari della marina medioevale e quell'aria, se così posso dire, dei tempi, che fa pensare e veder mille cose non rappresentate nel quadro, come una musica lontana quando si guarda un paesaggio.

Dopo le cappelle si va a veder la sacrestia, nella quale sono accumulate tante ricchezze che basterebbero a restaurar di punto in bianco le finanze della Spagna. V'è tra le altre una vastissima sala, nella cui vòlta si vede un dipinto a fresco di Luca Giordano, che rappresenta una visione di paradiso, con una miriade di angeli, di santi, di figure allegoriche che spaziano nell'aria o sporgono, che paion scolpite, fuor della cornice delle pareti, in mille atteggiamenti arditissimi, e mosse e scorci da far sbalordire. Il cicerone, accennandovi aquel prodigio de imaginacion y de trabajo, che a detta di tutti gli artisti, per servirmi d'una curiosissima espressione spagnuola, è di un merito atroz, (d'un merito atroce); vi suggerisce di guardare attentamente il raggio di luce che scende dal mezzo della volta fin contro la parete. Voi guardate, e fate, guardando, un giro per la sala, e dovunque vi troviate, vi pare che quel raggio vi cada a piombo sul capo. Da quella sala passate in una stanza pure mirabilmente dipinta a fresco dal nipote del Berruguete, e da questa in una terza dove un sacrestano vi spiega sotto gli occhi i tesori della Cattedrale: gli enormi candellieri d'argento, le pissidi scintillanti di rubini, gli ostensorii tempestati di diamanti, i paramenti di damasco ricamati in oro, le vesti della Vergine coperte di rabeschi, di fiorami e di stelle di perle, che ad ogni ondeggiamento del tessuto mandan bagliori e lampi di mille colori, a cui regge lo sguardo a fatica. Un'ora vi riesce scarsa per veder di sfuggita tutta quella mostra di tesori, che basterebbero a saziar l'ambizione di dieci Regine e ad arricchir gli altari di dieci basiliche; e quando il sacrestano, dopo avervi fatto vedere ogni cosa, cerca negli occhi vostri l'espressione della meraviglia, non vi trova che quella d'uno stupore attonito, che accusa l'immaginazione vagante altrove, lontano, nelle reggie favolose delle leggende arabe, dove i genii benefici accumulano tutte le ricchezze sognate dall'ardente fantasia dei Sultani innamorati.

Era la vigilia del Corpus Domini, e nella sacrestia si preparavano le robe per la processione. Nulla di più sgradevole, e di più sconveniente alla queta e nobile maestà della chiesa, che quell'affaccendamento da teatro che vi si vede in quelle occasioni. Par proprio di essere dietro le quinte d'un palco scenico la sera d'una prova generale. Dall'una all'altra sala della sacrestia andavano e venivano con grande strepito monelli scamiciati, portando gran bracciate di camici, di stole e di piviali; qui un sacrestano di cattivo umore apriva e sbatteva imposte d'armadi; là un prete tutto rosso in viso chiamava con voce stizzosa un chierico che non sentiva; altri preti attraversavano la sala di corsa, coi paramenti metà indossati, metà strascicanti; chi rideva, chi strillava, chi parlava da una stanza all'altra ad alta voce; per tutto si sentiva un fruscìo di sottane, un respirare affannoso, un pestìo, un tramenìo da non dirsi.

Andai a vedere il claustro; ma poichè era aperta la porta della chiesa per la quale ci si va, lo vidi prima d'entrarvi. D'in mezzo alla chiesa si scorge una parte del giardino del claustro, un gruppo di grandi alberi frondosi, un boschetto, un mucchio di rigogliosa verzura che par che chiuda la porta, e si mostra come inquadrato sotto un arco elegante e in mezzo a due svelte colonne del portico che ricorre tutt'intorno. È una vista deliziosa che fa pensare ai giardini orientali, veduti tra mezzo alle colonne delle moschee. Il claustro è vasto, e circondato di un portico di forme leggiadre e severe; i muri sono coperti di grandi dipinti a fresco. Qui il cicerone mi consigliò di riposare un poco per prepararmi a salire sul campanile; m'appoggiai a un muricciuolo, all'ombra d'un albero, e stetti là fin che mi risentii in forze per fare, come si dice volgarmente, un'altra camiciata. Intanto il mio duca mi celebrava in un linguaggio ampolloso le glorie di Toledo, spingendo l'impudenza dell'amor di patria fino a chiamarla una gran ciudad comercial che poteva rivender Barcellona e Valenza, e una città forte da stancare, a un bisogno, dieci eserciti tedeschi, e millanta batterie di cannoni Krupp. Ad ogni sua spacconata, io rincaravo la dose, e il buon uomo ci si coccolava con un gusto infinito. Quanto c'è da divertirsi, a saperli far cantare! Finalmente, quando l'altero Toledano si sentì gonfio di gloria da non capir più dentro al claustro, mi disse:— Podemos ir, —e s'avviò verso la porta del campanile.

Arrivati a metà altezza, ci fermammo per pigliar fiato. Il cicerone bussò a una porticina, e uscì un cazzabubbolo di sacrestano che aperse un'altra porta e mi fece entrare in un corridoio, nel quale vidi una schiera di giganteschi fantocci bizzarramente vestiti; quattro dei quali (mi disse il cicerone) rappresentavano l'Europa, l'Asia, l'America, l'Affrica, e due altri la Fede e la Religione; ed eran fatte in modo che un uomo potesse nascondervisi dentro e sollevarli da terra. “ Se sacan ” (si tiran fuori), soggiunse il sacrestano, “ en ocasion de las fiestas reales, e si portano in giro per la città;” e per farmi veder in che modo, s'infilò sotto le gonnelle dell'Asia. Poi mi condusse in un angolo dove era un mostro enorme che, toccato non so come, scoteva un lunghissimo collo, e una testaccia orribile, facendo un rumore assordante. Ma non mi seppe dire che cosa quel brutto arnese significasse, e m'invitò invece ad ammirare la meravigliosa immaginazione spagnuola che creò tantas cosas nuevas da venderne a tutti i mondi che nuotano nell'infinito. Ammirai, pagai, e ripresi la salita colla mia pieuvre toledana. Dall'alto del campanile si gode un colpo d'occhio stupendo: la città, i colli, il fiume, un vastissimo orizzonte, e sotto, la gran mole della Cattedrale che pare una montagna di granito. Ma v'è un'altra altezza, poco lontano di là, dalla quale si vede meglio ogni cosa; e però mi trattenni sul campanile pochi momenti, tanto più che in quell'ora splendeva un sole ardentissimo che confondeva tutti i colori della città e della campagna in un oceano di luce.

Dopo la Cattedrale, il mio cicerone mi condusse a vedere la famosa chiesa di San Juan de los Reyes, posta sulle rive del Tago. La mente mi si turba ancora a pensare ai giri e rigiri che dovemmo fare per andarvi. Era mezzogiorno, le strade deserte; via via che ci allontanavamo dal centro della città, la solitudine si faceva più trista; non si vedeva una porta nè una finestra aperta, non si sentiva il più leggero rumore. Un momento ebbi il sospetto che il cicerone fosse di balla con qualche assassino per tirarmi in un luogo appartato e farmi spogliare; una faccia sospetta l'aveva; e poi guardava qua e là coll'aria sospettosa, di chi medita un delitto. “C'è ancora molto?” domandavo io di tratto in tratto; ed egli rispondeva sempre: “ Aqui está,” e non si arrivava mai. A un certo punto la mia inquietudine si cangiò in spavento: in una stradetta tortuosa si aperse una porta, usciron due uomini barbuti, salutarono con un cenno la pieuvre, e ci vennero dietro. Mi tenni per spacciato. Non c'era che un mezzo di salvamento: menare un pugno al cicerone, da sbatterlo in terra, passare sulla sua carcassa e pigliar la corsa. Ma per dove? E d'altra parte mi vennero in mente gli sperticati elogi che prodiga il Thiers alle jambes espagnoles nella sua Storia della guerra d'Indipendenza; e pensai che lo scappare non sarebbe stato che un espediente per farmi piantare il pugnale nella schiena invece che nello stomaco. Ohimè! morire senza veder l'Andalusia! Morire dopo aver preso tanti appunti, dopo aver dato tante mancie, morire colle tasche piene di lettere di raccomandazione, col portamonete gonfio di dobloni, col passaporto coperto di firme, morire tradito! Come Dio volle, alla prima svoltata, i due barbuti sparirono, e fui salvo. Allora, tocco dal pentimento d'aver sospettato che quel povero vecchio fosse capace d'un delitto, passai alla sua sinistra, gli offersi un sigaro, gli dissi che Toledo valeva due Rome, gli feci mille finezze. Finalmente arrivammo a San Juan de los Reyes.

È una chiesa che pare un palazzo reale. La parte più alta è coperta da una terrazza circondata d'un parapetto traforato e scolpito, sul quale si innalza una corona di statue di re; e nel mezzo sorge una bella cupola esagonata che completa con bella armonia l'edifizio. Dai muri pendono lunghe catene di ferro che furon tolte ai prigionieri cristiani dopo la conquista di Granata, e che insieme al color fosco della pietra, danno alla chiesa un aspetto severo e pittoresco. Entrammo, attraversammo due o tre grandi stanze nude e senza pavimento, ingombre di mucchi di terra e di rottami, salimmo una scala, e riuscimmo sur un'alta tribuna dentro la chiesa, che è uno dei più belli e nobili monumenti dell'arte gotica. È una sola grande navata, divisa in quattro vòlte, i cui archi s'incrociano sotto ricchi rosoni. I pilastri sono coperti di ghirlande e di rabeschi; i muri, ornati d'una profusione di bassorilievi, con enormi scudi dalle armi di Castiglia e d'Aragona, aquile, chimere, animali araldici, fogliami, iscrizioni emblematiche; la tribuna, traforata e scolpita con ricca eleganza, gira tutto intorno; il coro è sostenuto da un arco arditissimo; il colore della pietra è grigio chiaro, e ogni cosa è ammirabilmente finito ed intatto, come se la chiesa fosse stata fabbricata pochi anni prima, invece che sul finire del secolo decimoquinto.

Dalla chiesa scendemmo nel claustro che è una vera meraviglia d'architettura e di scultura. Colonne svelte e gentili, che si potrebbero spezzare in due con un colpo di martello, somiglianti a fusti d'alberelli, sostengono i capitelli sopraccarichi di statuette e di ornamenti, dai quali si spiccano, come curvi rami, archi ornati di fiori, d'uccelli, d'animali grotteschi e d'ogni maniera di fregi. I muri sono coperti d'iscrizioni in carattere gotico, frammiste a fogliami e rabeschi delicatissimi. Dove sia che si guardi, si trovan congiunte la grazia e la ricchezza con un'armonia che innamora; in un eguale spazio, non si poteva accumulare, con arte più squisita, una maggior copia di cose più gentili e più belle; è un lussureggiante giardino di scultura, è una gran sala addobbata di ricami, di trapunti e di broccati di marmo, un gran monumento maestoso come un tempio, magnifico come una reggia, delicato come un giocattolo, grazioso come un mazzo di fiori.

Dopo il claustro c'è da vedere un Museo di pittura, che non contiene se non quadri di poco pregio; e poi il Convento, coi suoi lunghi corridoi, colle sue scale anguste, colle sue celle vuote, già vicino in più punti a cadere in rovina, in altri già rovinato; per tutto nudo e squallido come un edifizio incendiato.

Poco lontano da San Juan de los Reyes, v'è un altro monumento degno d'esser veduto; un curioso ricordo dell'epoca giudaica; la sinagoga designata ora col nome di Santa Maria Blanca. Si entra in un giardino incolto, si picchia alla porta d'una casa d'aspetto meschino, la porta s'apre.... È un senso piacevolissimo di meraviglia, una visione d'Oriente, la rivelazione improvvisa d'un'altra religione e d'un altro mondo. Si vedono cinque strette navate, divise da quattro lunghe file di pilastrini ottagoni, che sostengono tanti archi turcheschi appoggiati su capitelli di stucco di forme diverse; il soffitto di legno di cedro, diviso in scompartimenti uguali; qua e là, sui muri, arabeschi e iscrizioni arabe; la luce che viene dall'alto; ogni cosa bianco. La sinagoga fu ridotta dagli Arabi a moschea; la moschea, ridotta a chiesa dai Cristiani; di modo che essa non è propriamente nessuna delle tre cose; ma serba però il carattere di moschea, e l'occhio vi spazia con diletto, e l'immaginazione insegue di arco in arco le fuggenti immagini di un paradiso voluttuoso.

Visto Santa Maria la Blanca, non mi sentii più la forza di veder altro; e respingendo tutte le proposte tentatrici del cicerone, gli ordinai di ricondurmi all'albergo. Dopo un lungo andare per un labirinto di stradette solitarie, arrivammo; misi una peceta y media nella mano del mio innocente assassino, che trovò la mancia scarsa, e mi domandò ancora (quanto risi della parola!) una piccola gratificacion; ed entrai nella sala da pranzo a mangiare una costoletta, o chuleta (che si legge ciuleta ), come la chiamano gli Spagnuoli con un nome che farebbe arricciar il naso in qualche provincia d'Italia.

Verso sera andai a vedere l'Alcazar. Il nome fa sperare un palazzo arabo; ma d'arabo non gli resta che il nome; l'edifizio che si ammira oggidì, fu costrutto sotto il regno di Carlo V, sulle rovine d'un castello, che esisteva già nel secolo ottavo benchè non se ne trovino che vaghe indicazioni nelle cronache del tempo. Questo edifizio sorge sur un'altura a cavaliere della città, di modo che si vedon le sue mura e le sue torri da tutti i punti un po' alti delle strade, e il forestiero se ne può servire di guida per non smarrirsi nel labirinto. Salii sull'altura per una larga strada serpeggiante come quella che conduce dal piano alla città, e mi trovai davanti alla porta dell'Alcazar. È un immenso palazzo quadrato, agli angoli del quale si innalzano quattro grosse torri, che gli danno un aspetto formidabile di fortezza. Davanti alla facciata si stende una vasta piazza, e tutt'intorno una cintura di baluardi merlati alla foggia orientale. Tutto l'edifizio è di un vigoroso color calcare, svariato di mille sfumature da quel potente pittore di monumenti che è il torrido sole del Mezzogiorno; e reso più vivo dal limpidissimo cielo, sul quale si disegnano i contorni maestosi delle mura. La facciata è scolpita a rabeschi con un gusto pieno di nobiltà e d'eleganza. L'interno del palazzo corrisponde al di fuori: è un vasto cortile cinto di due ordini sovrapposti di archi graziosi sostenuti da leggiere colonne; con una monumentale gradinata di marmo, che s'alza nel mezzo del lato opposto alla porta, e si divide, a poca altezza dal suolo, in due branche, che menano, l'una a destra e l'altra a sinistra, nell'interno del palazzo. Per godere la bellezza del cortile bisogna andarsi a porre dove la scala si biforca, là si abbraccia con uno sguardo tutta l'armonia dell'edifizio che produce un senso di allegrezza e di piacere come un gran concerto musicale di gente sparpagliata e nascosta.

Fuor che il cortile, le altre parti dell'edifizio, le scale, le stanze, i corridoi, ogni cosa è rovinato o cade in rovina. Ora si sta lavorando per ridurre il palazzo ad uso di collegio militare, s'imbiancano i muri, si rompon le pareti per far grandi dormentorii, si numerano le porte, si converte la reggia in caserma. Restano però intatti i grandi sotterranei che servivan di scuderie al tempo di Carlo V, e che possono contenere ancora parecchie migliaia di cavalli: il custode mi fece affacciare a un finestrino, dal quale vidi un abisso che mi diede un'idea della loro vastità. Poi salimmo per una serie di scale malferme in una delle quattro torri; il custode aperse colle tanaglie e col martello una finestra inchiodata, e mi disse coll'aria di chi annunzia una meraviglia:— Mire Usted!

È un panorama immenso. La città di Toledo si vede a volo d'uccello, strada per strada, casa per casa, come se ne vedrebbe la pianta stesa sovra una tavola; qui la Cattedrale che s'alza sulla città come uno smisurato castello, e fa parer piccini come casette da giocattolo tutti gli edifizi circostanti; là la terrazza coronata di statue di San Giovanni dei Re; in un altro punto le torri merlate della porta nuova; il circo dei tori; il Tago che scorre ai piedi della città in mezzo a due sponde rocciose; di là dal fiume, accanto al ponte di Alcantara, sur una rupe scoscesa, le rovine dell'antico castello di San Servando; più oltre una verde pianura, e di là roccie e colli e monti a perdita d'occhio, e su, un cielo purissimo, e il sole cadente che indora la sommità dei vecchi edifizii e fa scintillare il fiume come una immensa fascia d'argento.

Mentre io contemplavo quel magico spettacolo, il custode, che aveva letto la storia di Toledo e lo voleva far sapere, mi raccontava ogni sorta di storielle, con quel fare tra poetico e faceto, che è proprio degli Spagnuoli del mezzogiorno. Prima d'ogni cosa, mi volle far conoscere la storia delle opere di fortificazione, e benchè dove egli diceva di veder netto e distinto quello che m'accennava, io non vedessi nulla di nulla, riuscii a capire qualcosa.

Mi diceva che Toledo era stata cinta di mura tre volte, e che si vedevano ancora chiaramente le traccie di tutte e tre le cinte. “Guardi,” diceva, “segua la linea che descrive il mio dito: quella è la cinta romana, la più stretta, e se ne vedono ancora i ruderi. Ora guardi più in là. Quell'altra, più ampia, è la cinta gotica. Ora descriva collo sguardo una curva che abbracci le due prime: quella è la cinta araba, la più recente. Ma gli Arabi hanno fabbricato anche una cinta ristretta sulle rovine della cinta romana.... Questa la vedrà facilmente. Ora osservi la direzione delle strade che convergono verso il punto più alto della città, segua la linea dei tetti, di qui, così: vedrà che tutte le strade vanno su a zig-zag; e sono state fatte apposta in questo modo per poter difendere la città anche dopo che fossero perdute le mura; e le case sono state fabbricate così serrate l'una contro l'altra, per poter saltare di tetto in tetto; si vede; e poi gli Arabi l'han lasciato scritto; ed è per questo che mi fan ridere i signori spagnuoli di Madrid che vengon qui e dicono:—Poh! che strade!—Si vede che non sanno un'acca di storia; se ne sapessero un tantino, se leggessero, un po' invece di passar la giornata al Prado e a Recoletos, capirebbero che le strade strette di Toledo hanno il loro perchè, e che Toledo non è una città per gl'ignoranti.”

Io mi misi a ridere.

“Non crede?” continuò il custode; “gli è un fatto sacrosanto. Non più d'una settimana fa, per citarle un caso, venne qui un bellimbusto di Madrid colla sua sposa. Già, salendo le scale, avevano detto roba da chiodi della città, delle strade strette, delle case nere. Quando s'affacciarono a questa finestra, e videro quelle due vecchie torri laggiù nella pianura, sulla riva sinistra del Tago, mi domandarono che fossero, ed io risposi: Los palacios de Galiana.—Oh! che bei palazzi!—esclamarono, e si misero a ridere, e guardarono da un'altra parte. Perchè? Perchè non sapevano la storia. Ora neanco lei, m'immagino, non la saprà: ma lei è straniero, e la cosa cambia. Sappia dunque che il grande imperatore Carlomagno è venuto, quand'era giovanissimo, a Toledo. Regnava allora il re Galafro, e abitava in quel palazzo. Il re Galafro aveva una figliuola che si chiamava Galiana, bella come un angelo; e siccome Carlomagno fu ospitato dal Re e vedeva ogni giorno la principessa, se ne innamorò con tutte le forze dell'anima, e la principessa, di lui. Ma c'era un rivale di mezzo, e questo rivale era il re di Guadalajara, un moro gigante, di una forza erculea e d'un coraggio da leone. Questo re, per poter vedere la principessa senza farsi scorgere, aveva fatto aprire una strada sotterranea che andava nientemeno che dalla città di Guadalajara fin sotto le fondamenta del palazzo. Ma che vale? la principessa non lo potea vedere neanche dipinto, e quante volte egli veniva, tante volte lo rimandava colle trombe nel sacco. Ma non per questo il re, innamorato, smise di farle la corte; e tanto le stette attorno, che Carlomagno, il quale non era uomo da lasciarsene imporre, come lei può capire, perdette la pazienza, e per farla finita una volta, lo sfidò. Si batterono; la lotta fu terribile; ma il moro, con tutto che fosse un gigante, ebbe la peggio. Quando fu morto, Carlomagno gli tagliò la testa, e andò a deporla ai piedi della sua innamorata, che gradì la delicatezza dell'offerta, si fece cristiana, diede la mano di sposa al principe, e partì con lui per la Francia, dove fu acclamata imperatrice.”

“E la testa del moro?”

“Lei ha voglia di ridere; ma son fatti sacrosanti. Vede laggiù, nel punto più alto della città, quell'edifizio antico? È la chiesa di San Ginés. E sa che cosa c'è dentro? Dentro c'è nientemeno che la porta d'un sotterraneo che si stende fino a tre leghe fuori di Toledo. Lei non lo crede: sentirà. Nel luogo dove sorge ora la chiesa di San Ginés, v'era una volta, prima che gli Arabi invadessero la Spagna, un palazzo incantato. Nessun re aveva mai avuto il coraggio d'entrarvi; e quelli che forse si sarebbero sentiti da tanto, non ci erano entrati, perchè, giusta la tradizione, il primo che avesse oltrepassato quelle soglie, sarebbe stato la perdizione della Spagna. Finalmente il re Rodrigo, prima di partire per la battaglia di Guadalete, sperando di trovar là dentro dei tesori che gli fornissero il modo di combattere l'invasione degli Arabi, fece rovesciar le porte, e preceduto dai suoi guerrieri che gli rischiaravan la via, entrò. A gran fatica riparando le fiaccole dal vento furioso che tirava per gli anditi sotterranei, arrivarono in una stanza misteriosa, nella quale videro un cofano, sul quale stava scritto:—Chi mi aprirà, vedrà meraviglie.—Il Re ordinò che lo si aprisse; con incredibili sforzi si riuscì ad aprirlo; ma invece dell'oro e dei diamanti, non vi si trovò che una tela rotolata, sulla quale eran dipinti degli arabi armati, con sotto questa iscrizione:— La Spagna sarà tra poco distrutta da costoro. —Quella notte stessa scoppiò una violenta tempesta, il palazzo incantato cadde, e poco tempo appresso gli Arabi entrarono in Spagna. Pare che lei non creda!”

“Che cosa dite! E come credo!”

“Ma questa storia è legata con un'altra. Lei sa, senza dubbio, che il conte Giuliano, comandante della fortezza di Ceuta, tradì la Spagna, lasciando passare gli Arabi, ai quali avrebbe potuto sbarrare la strada. Ma non può sapere perchè il conte Giuliano ha tradito. Il conte Giuliano aveva una figliuola a Toledo, e questa figliuola andava ogni giorno a bagnarsi nel Tago, insieme a parecchie fanciulle sue amiche. Disgrazia volle che il luogo dove andavano a bagnarsi, che si chiama oggi Los baños de la Cava, fosse vicino a una torre, nella quale il re Rodrigo soleva passar le ore bruciate. Un giorno la figliuola del conte Giuliano, che si chiamava Florinda, stanca di sguazzare nell'acqua, sedette sulla sponda del fiume, e disse alle sue compagne:—Compagne! Vogliamo vedere chi ha la gamba più bella?—Vediamo! risposero quelle; e detto fatto, si vanno a sedere intorno a Florinda, e mostrano ciascheduna le sue bellezze. Ma Florinda le vinceva tutte; e sventuratamente, proprio nel momento ch'ella diceva alle altre:—Vedete?—il re Rodrigo faceva capolino a una finestra, e vedeva ogni cosa. Giovane, libertino, si figuri! pigliò fuoco come un fiammifero, fece la corte alla bella Florinda, la sedusse, e poi l'abbandonò; e di qui il furore di vendetta del conte Giuliano, il tradimento, l'invasione.”

A questo punto mi parve d'averne inteso abbastanza; diedi al custode un paio di reali ch'ei prese e mise in tasca con un atto dignitoso, e dato un ultimo sguardo a Toledo, discesi.

Era l'ora della passeggiata; la strada principale, larga appena tanto da potervi passare una carrozza, era piena di gente; ci sarà stato un qualche centinaio di persone, ma parevano una gran folla; imbruniva, le botteghe si andavano chiudendo, e qualche raro lume cominciava a brillare qua e là. Andai a desinare, ed uscii subito per non perdere lo spettacolo della passeggiata. Era notte, non v'era altra illuminazione che il chiarore della luna, non si vedeva la gente in viso, mi pareva d'essere in mezzo a una processione di spettri, mi prese la malinconia.—Pensare che son solo,—dicevo;—che in tutta questa città non c'è un'anima che mi conosca, che se cascassi morto in questo momento, non ci sarebbe un cane che direbbe:—Poveretto! Era un buon diavolo!—Vedevo passare dei giovanotti allegri, dei padri di famiglia coi loro bambini, degli sposi, o che avevan l'aria di sposi, con una bella creaturina a braccetto; tutti avevano una compagnia, parlavano, ridevano, e passavano senza neanco gettarmi uno sguardo. Quanto ero tristo! Quanto sarei stato felice se un ragazzo, un povero, una guardia di polizia fosse venuta a dirmi:—Signore, mi par di conoscerla!—È impossibile, sono uno straniero, non sono mai stato a Toledo; ma non importa, non vada via, stia qui, parliamo un poco, son solo!

In buon punto mi ricordai che a Madrid m'era stata data una lettera di raccomandazione per un signore di Toledo; corsi all'albergo, la presi e mi feci condurre subito in casa sua. Il signore c'era e mi ricevette cortesemente. All'udire pronunziar il mio nome provai una gioia che gli avrei gettato le braccia al collo. Era il signor Antonio Gamero, autore d'una stimatissima Storia di Toledo. Passammo la serata insieme; gli domandai cento cose, me ne disse mille; e mi lesse alcune splendide pagine del suo libro che mi fecero conoscere Toledo meglio che non l'avrei conosciuta nel soggiorno d'un mese.

La città è povera, e più che povera, morta; i ricchi l'hanno abbandonata per andar a stare a Madrid; gli uomini d'ingegno han seguìto i ricchi; non v'è commercio; la fabbricazione delle lame, unica industria che vi fiorisca, provvede alla vita di qualche centinaio di famiglie, ma non basta alla città; l'istruzione popolare è trasandata; il popolo è inerte e miserabile. Ma non ha perduto il bel carattere antico. Come tutti i popoli delle gran città decadute, è fiero e cavalleresco; abborre dalle basse azioni; fa giustizia di propria mano, quando può, degli assassini e dei ladri; e benchè il poeta Zorilla, in una sua ballata, l'abbia chiamato senza metafora un popolo imbecille, non è tale; è sveglio e ardito. Partecipa della serietà degli Spagnuoli del settentrione e della vivacità degli Spagnuoli del mezzodì; tiene il luogo di mezzo tra il Castigliano e l'Andaluso; parla lo spagnuolo con garbo, con più varietà d'accenti che il popolo di Madrid, con meno rilassatezza che il popolo di Cordova e di Siviglia; ama la poesia e la musica; è altero di annoverare tra i suoi maggiori il soave Garcilaso della Vega, riformatore della poesia spagnuola, e l'arguto Francisco de Rojas, l'autore del Garcia del Castañar; ed è orgoglioso di veder accorrere fra le sue mura artisti e dotti di tutti i paesi del mondo, a studiarvi la storia di tre genti, e i monumenti di tre civiltà. Ma qual che sia il popolo, Toledo è morta; la città di Wamba, di Alfonso il Bravo e di Padilla, non è più che una tomba. Dacchè Filippo II le tolse la corona di capitale, ella è andata sempre declinando, e declina ancora, e si consuma a poco a poco, sola sulla sommità della sua trista montagna, come uno scheletro abbandonato sur una rupe in mezzo alle onde del mare.

Tornai all'albergo poco prima della mezzanotte e siccome splendeva la luna, e le notti di luna, benchè in quelle straduccie non penetri la luce dell'astro d'argento, Toledo non è illuminata, così dovetti camminare poco meno che a tastone come il ladro nella casa del delitto. Colla testa piena, come avevo, di ballate fantastiche, nelle quali son descritte le strade di Toledo, corse, la notte, da cavalieri imbacuccati nelle cappe, che cantano sotto le finestre delle belle, si battono, si ammazzano, dan la scalata ai palazzi e rapiscono le fanciulle; così m'immaginavo di aver a sentir suoni di chitarre e rumor di spade e grida di moribondi. Nulla di tutto questo: le strade eran deserte e silenziose, e le finestre buie; e appena si udiva di tratto in tratto, alle cantonate e sui crocicchi, qualche leggiero fruscío o qualche bisbiglio fuggitivo, che non si sarebbe nemmen potuto dire da che parte venisse. Giunsi all'albergo senz'aver rapito nessuna toledana, ciò che poteva avere qualcosa di spiacevole; ma anche senz'essermi fatto fare nessun occhiello nel ventre, ciò che senza dubbio aveva qualcosa di consolante.

La mattina del giorno dopo visitai il bell'edificio dell'ospedale di Santa Croce, la chiesa di Nuestra señora del Transito, antica sinagoga; i resti di un anfiteatro e d'una naumachia dei tempi dei Romani, e la famosa fabbrica d'armi, nella quale comperai un bel pugnaletto col manico inargentato e la lama coperta di rabeschi, che ho in questo momento sul tavolino, e che, a serrar gli occhi ed a stringerlo, mi fa parer d'esser ancora là, nel cortile dell'opificio, a un miglio di distanza in Toledo, sotto il sole di mezzogiorno, in mezzo a un crocchio di soldati e a un nuvolo di fumo di cigarritos. Mi ricordo che tornando a Toledo alla bella pedona, mentre attraversavo un tratto di campagna solitario come un deserto e muto come una catacomba, una voce formidabile gridò:— Fuera el extranjero!

La voce veniva dalla città, mi fermai, lo straniero ero io, quel grido era diretto a me, mi si rimescolò il sangue: la solitudine ed il silenzio del luogo accrescevano la mia paura. Tirai innanzi, e la voce di nuovo:

Fuera el extranjero!

—Ma è un sogno—esclamai arrestandomi di nuovo,—o son desto? Chi è che grida? dove? perchè?—

Ripresi a andare, e la voce una terza volta:— Fuera el extranjero!

Mi fermo una terza volta, e mentre tutto turbato giro gli occhi intorno, vedo un ragazzo seduto in terra, che mi guarda ridendo, e mi dice:— Es un loco (un pazzo) que cree vivir en el tiempo de la guerra de independencia; mire Vsted; allí està la casa de locos. E mi accennò l'Ospedale dei Pazzi, sull'altura, le estreme case di Toledo. Misi un respirone, che avrebbe smorzato una torcia a vento.

La sera partii da Toledo, col rammarico di non aver avuto tempo per vedere e rivedere tutto quello che v'è di antico e di mirabile; mitigato però questo rammarico, dal desiderio ardentissimo dell'Andalusia, che non mi lasciava un momento di pace. Ma per quanto tempo ebbi dinanzi agli occhi Toledo! Per quanto tempo vidi e sognai quelle roccie scoscese, quei muri enormi, quelle tetre strade, quel fantastico aspetto di città medioevale! Ed oggi ancora me ne ravvivo spesso l'immagine con una sorta di tristo piacere e di austera malinconia, e quell'immagine mi divaga la mente in mille strani pensieri di tempi remoti e di casi meravigliosi.

VIII. CORDOVA.

Arrivato a Castillejo dovetti aspettare fino a mezzanotte il treno dell'Andalusia; desinai a uova sode e ad aranci, con un po' d'innaffio di Val de Peñas, brontolai una poesia dell'Espronceda, chiaccherai un po' con un doganiere (il quale, tra parentesi, mi fece la sua professione di fede politica: Amedeo, libertà, accrescimento di paga ai doganieri, ec.); finchè s'udì il sospirato fischio, ed entrai in un carrozzone pieno stipato di donne, di ragazzi, di guardie civili, di scatole, di cuscini, d'involti; e via, con una rapidità insolita sulle strade ferrate di Spagna. La notte era bellissima; i miei compagni di viaggio parlavano di tori e di Carlisti; una bella ragazza, che più d'uno divorava cogli occhi, fingeva di dormire, per scaldare le fantasie con un saggio dei suoi atteggiamenti notturni; chi faceva cigarritos, chi sbucciava aranci, chi canterellava ariette di Zarzuela. Nullameno, dopo pochi minuti, m'addormentai. Credo che avevo già sognato la Moschea di Cordova e l'Alcazar di Siviglia, quando fui svegliato da un rauco grido:

Puñales?

—Pugnali? Caspita! Per chi? Prima ch'io vedessi chi avea gridato, mi balenò davanti agli occhi una lama lunga ed acuta, e lo sconosciuto ridomandò:

Le gusta?

Bisogna convenire che vi sono dei modi assai più piacevoli di essere svegliati. Io guardai in viso i miei compagni di viaggio con un'espressione di stupore che li fece prorompere tutti insieme in uno scoppio di risa. Allora mi fu detto che ad ogni stazione della strada ferrata c'eran dei venditori di coltelli e di pugnali, che offrivano ai viaggiatori la loro merce come da noi si offrono i giornali e i rinfreschi. Rassicurato della vita, comprai il mio spauracchio: cinque lire, un bel pugnale da tiranno di tragedia, con manico fregiato, iscrizione sulla lama e fodero di velluto ricamato; e lo misi in tasca, pensando che mi avrebbe fatto comodo in Italia per sciogliere questioni cogli Editori. Il venditore n'avrà avuti una cinquantina in una gran fascia rossa che gli stringeva la vita. Altri viaggiatori ne comprarono; le guardie civili complimentarono uno dei miei vicini per la buona scelta fatta; i ragazzi gridarono:—Uno anche a me!—le mamme risposero:—Ve ne compreremo uno più lungo un'altra volta.—Oh beata la Spagna! io esclamai, e pensai con raccapriccio alle nostre barbare leggi che ci vietano l'innocente trastullo d'un po' di lama affilata.

Attraversammo la Mancia, la celebrata Mancia, teatro immortale delle avventure di Don Chisciotte. È tal quale io me l'immaginava: ampie pianure nude, lunghi tratti di terreno sabbioso, qualche mulino a vento, pochi villaggi meschini, viottole solitarie, casuccie abbandonate. Vedendo quei luoghi, provai quel vago senso di malinconia che desta sempre in me la lettura del libro del Cervantes, e ridissi a me stesso quello che, leggendo, mi dico sempre: Costui non può far ridere, o sotto il sorriso fa spuntare la lacrima. Don Chisciotte è una figura mesta e solenne; la sua pazzia è un lamento; la sua vita è la storia dei sogni, delle illusioni, dei disinganni, delle aberrazioni di tutti; la lotta della ragione coll'immaginazione, del vero col falso, dell'ideale col reale; tutti noi abbiamo del Don Chisciotte, tutti noi prendiamo dei mulini a vento per giganti, tutti noi siamo a volta a volta spinti in su da un impeto d'entusiasmo, e ricacciati giù da una risata di scherno; tutti siamo un misto di sublime e di follia; tutti sentiamo con amarezza profonda il contrasto perpetuo tra la grandezza delle nostre aspirazioni e la debolezza delle nostre facoltà. Bei sogni della fanciullezza e dell'adolescenza, propositi generosi di consacrar la vita alla difesa della virtù e della giustizia, care immaginazioni di affrontati pericoli, di lotte venturose, di gesta magnanime e di eccelsi amori, ad una ad una cadute, come foglie di fiori, sull'angusto e uniforme sentiero della vita, come ce le ravvivi nell'anima, e quanti vaghi pensieri e profondi insegnamenti ne derivi, o generoso e sventurato cavaliere dalla triste figura!

Si toccò Argasamilla di Alba, dove Don Chisciotte nacque e morì, e dove il povero Cervantes, esattore del gran priorato di San Giovanni, in nome del magistrato speciale di Consuegra, fu arrestato dagli irascibili debitori, e tenuto prigione in una casa che, a quanto si dice, esiste tuttora, e nella quale è fama egli concepisse il disegno del suo romanzo. Passammo accanto al villaggio di Val de Peñas, che dà il nome a uno dei più squisiti vini di Spagna, nero, frizzantino, esilarante, il solo, forse, che permetta allo straniero del Norte le copiose libazioni dei suoi banchetti; e giungemmo infine a Santa Cruz de Tudela, villaggio famoso per le sue fabbriche di navajas, (coltelli, rasoi) presso il quale la via comincia a sollevarsi dolcemente verso la montagna.

S'era levato il sole, eran discese donne e bambini dalla carrozza, eran saliti contadini, ufficiali e toreros, che andavano a Siviglia. Si vedeva, in quel ristretto spazio, una varietà di vestimenti che non si vede da noi in un mercato: cappelli a punta di contadini della Sierra Morena, calzoni rossi di soldati, grandi sombreros di picadores, scialli di gitane, mantas di catalani, lame di Toledo appese alle pareti, cappe, ciarpe, fronzoli di tutti i colori d'Arlecchino.

Il treno s'innoltrò tra le roccie della Sierra Morena, che separa la Valle della Guadiana da quella del Guadalquivir, famosa per canti di poeti e gesta di briganti. La strada corre tratto tratto fra due pareti di sasso tagliate a picco, alte tanto, che per vederne la sommità convien mettere tutta la testa fuor del finestrino, e torcere il viso in su, come per guardare il tetto del carrozzone. Altrove le roccie son più distanti, e sorgono le une sulle altre, le prime in forma di macigni enormi franati, le ultime ritte, sottili, simili a torri ardite, innalzate su smisurati bastioni; in mezzo, un ammonticchiamento di massi, tagliati a denti, a scalini, a creste, a gobbe, dove quasi sospesi in aria, dove separati da caverne profonde e da precipizi spaventevoli, che presentano una confusione di forme capricciose, di abbozzi fantastici d'edifizi, di figure gigantesche, di rovine, e offrono a ogni passo mille profili ed aspetti inattesi; e su quella infinita varietà di forme un'infinita varietà di colori, di ombre, di guizzi, di sbattimenti di luce. Per lungo tratto, a destra, a sinistra, in alto, non si vede che pietra, senza una casa, senza un sentiero, senza un palmo di terra dove si possa posare il piede d'un uomo; e man mano che si va oltre, roccie, burroni, precipizii, ogni cosa s'allarga, s'approfonda, s'innalza, fino al punto culminante della Sierra, dove la sovrana maestà dello spettacolo strappa un grido di meraviglia.

Là il treno si arrestò per qualche minuto, e tutti i viaggiatori misero la testa fuor del finestrino.

Aquí, ” disse un tale ad alta voce, “ iba saltando de risco en risco el Roto de la mala figura para cumplir su penitencia.

(Cardenio, uno dei più notevoli personaggi del Don Chisciotte, che saltava in camicia, su per le roccie della Sierra, per far penitenza dei suoi peccati).

Yo, ” continuò il viaggiatore, “ quisiera que obligáran à hacer lo mismo à Sagasta.

Tutti risero, e cominciarono a cercare, ciascuno per conto suo, un uomo politico inviso, al quale infliggere, coll'immaginazione, quel castigo; e chi propose il Serrano, e chi il Topete, e chi altri; di modo che, in pochi minuti, se i desiderii fossero stati soddisfatti, si sarebbe visto tutta la Sierra popolata di ministri, di generali e di deputati in camicia, ruzzolanti di bricca in bricca, come il masso famoso di Alessandro Manzoni.

Il treno ripartì, le roccie sparirono, e la deliziosa valle del Guadalquivir, il giardino della Spagna, l'Eden degli Arabi, il paradiso dei pittori e dei poeti, la beata Andalusia si dischiuse ai miei occhi. Risento ancora il fremito di gioia fanciullesca col quale mi slanciai al finestrino, dicendo a me stesso:—Godiamo!

Per un lungo spazio la campagna non offre alcun nuovo aspetto all'ardente curiosità del viaggiatore. A Vilches si stende una vasta pianura, e al di là la rasa campagna di Tolosa, dove Alfonso VIII, re di Castiglia, riportò sull'esercito mussulmano la celebrata vittoria de las Navas. Il cielo era limpidissimo, si vedevano in lontananza i monti della Sierra di Segura. A un tratto, mi vien fatto uno di quei rapidi movimenti, che par che rispondano a un grido interno di stupore: i primi aloè, dalle ampie foglie carnose, inaspettati annunziatori della vegetazione del Tropico, sorgono ai lati della via. Al di là cominciano ad apparire i campi tempestati di fiori. I primi tempestati, quei che seguono quasi coperti, poi vaste distese di terreno vestite interamente di rosolacci, di margherite, di fioralisi, di pratoline, di primavere, di ranuncoli, in modo che la campagna si presenta come una successione d'immensi tappeti di porpora, d'oro, di neve; e lontano, in mezzo agli alberi, innumerevoli striscie azzurre, bianche, gialle, a perdita d'occhio; e vicino, sulle sponde dei fossi, sui rialzi, fin sulla scarpa, fin sulla proda della via, fiori a strati, a cespi, a ciuffi, gli uni sugli altri, aggruppati a guisa di grandi mazzi, tremolanti sugli alti steli, che quasi si toccano colla mano. Poi campi biondeggianti di grano dalle grossissime spighe, fiancheggiati da lunghi roseti; poi boschetti d'aranci, vasti oliveti, collinette variate di cento sfumature di verde, sormontate d'antiche torri moresche, sparse di casine variopinte, e tra l'una e l'altra, ponti bianchi e snelli che accavalciano rigagnoli nascosti dagli alberi. All'orizzonte appaiono le cime nevose della Sierra Nevada; sotto quella striscia bianca, altre strisce azzurre, ondulate, dei monti più vicini; la campagna di più in più variata e florida; Arjonilla, in mezzo a un bosco d'olivi, di cui non si scorgono i confini; Pedro Abad, in mezzo a una pianura coperta di vigneti e d'alberi fruttiferi; Ventas di Alcolea, su gli ultimi colli della Sierra Morena, popolati di ville e di giardini. Ci s'avvicina a Cordova, il treno vola, si vedono le piccole stazioni mezzo nascoste dagli alberi e dai fiori, il vento porta le foglie delle rose dentro alle carrozze, grandi farfalle trasvolano rasente le finestre, un profumo delizioso si spande nell'aria, i viaggiatori cantano, si trascorre per un giardino incantevole, spesseggiano gli aloé, gli aranci, le palme, le ville; s'ode un grido:—Ecco Cordova!

Quante belle immagini e grandi ricordi si destan nella mente al suono di questo nome!

Cordova, l'antica perla d'occidente, come la chiamano i poeti arabi, la città delle città, Cordova dai trenta borghi e dalle tremila moschee, che chiudeva tra le sue mura il più grande tempio dell'Islam! La sua fama si spandeva per l'Oriente, ed oscurava la gloria dell'antica Damasco. Dalle più remote regioni dell'Asia traevano i fedeli alle rive del Guadalquivir, per prostrarsi nel Mhirab meraviglioso della sua Moschea, al chiarore delle mille lampade di bronzo, fuse colle campane delle Cattedrali di Spagna. Accorrevano gli artisti, i dotti, i poeti, da ogni parte del mondo maomettano, alle sue fiorenti scuole, alle sue biblioteche immense, alle corti magnifiche dei suoi Califfi. Affluivano i ricchi e le belle, tratte dalla fama della sua splendidezza. E di qui si spandevano, avidi di sapere, lungo le coste dell'Affrica, per le scuole di Tunisi, di Cairo, di Bagdad, di Cufa, e fino all'India e alla China, a raccoglier libri, ispirazioni e memorie; e le poesie cantate alle falde della Sierra Morena, volavano, di cetra in cetra, fino alle vallate del Caucaso, ad eccitare l'ardore dei pellegrinaggi. La bella, la poderosa, la sapiente Cordova, coronata di tremila villaggi, ostentava alteramente i suoi bianchi minareti in mezzo ai boschetti d'aranci, e spandeva intorno per la valle divina un'aura voluttuosa di letizia e di gloria!

Scendo dal treno, attraverso un giardino, mi guardo intorno, son solo; i viaggiatori che scesero con me sparirono chi di qua chi di là; sento ancora il rumore d'una carrozza che s'allontana; poi tutto tace. È mezzogiorno, il cielo purissimo, l'aria accesa. Vedo due casine bianche: è l'imboccatura d'una strada, entro, vado oltre. La strada è stretta, le case piccine come le villette che s'innalzano sui poggi artificiali dei giardini, quasi tutte d'un sol piano, colle finestre a pochi palmi da terra, i tetti che quasi si toccan col bastone, i muri bianchissimi. La strada svolta, guardo, non vedo nessuno, non sento un passo, non una voce. Dico: sarà una strada abbandonata. Piglio un'altra strada: casette bianche, finestre chiuse, solitudine, silenzio. O dove sono? mi domando. Vado innanzi: la strada, stretta da non potervi passare una carrozza, serpeggia; a destra e a sinistra si vedono altre strade deserte, altre case bianche, altre finestre chiuse; il mio passo risuona come in un corridoio; il bianco dei muri è tanto vivo che persino il riflesso m'offende, e son costretto a camminare a occhi socchiusi; mi par di andare in mezzo alla neve. Giungo a una piazzetta: tutto chiuso e nessuno. Allora mi comincia a entrar nel cuore un senso di vaga malinconia, non mai provata pel passato; un misto di piacere e di tristezza, simile a quello che provano i fanciulli, quando, dopo una lunga corsa, giungono in un bel sito campestre, e se ne rallegrano, ma col tremito d'essersi troppo dilungati da casa. Al di sopra di molti tetti s'alzano le palme degl'interni giardini. Oh fantastiche leggende di Odalische e di Califfi! Oltre, di strada in strada, di piazza in piazza; comincio ad incontrare qualcuno, ma tutti passano e spariscono come fantasmi. Tutte le strade si somigliano, le case non hanno più di due o quattro finestre; e non una macchia, non uno sgorbio, non una screpolatura nei muri, che son lisci e bianchi come un foglio di carta. Tratto tratto sento un bisbiglio dietro una persiana, e vedo quasi nello stesso momento spuntare e sparire una testa bruna con un fiore tra le treccie. M'affaccio a una porta.....

Un patio! Come descrivere un patio? Non è un cortile, non è un giardino, non è una sala: è queste tre cose insieme. Tra il patio e la strada v'è un vestibolo. Ai quattro lati del patio s'alzano colonne sottili che sostengono all'altezza del primo piano una specie di galleria chiusa da ampie vetrate; sopra la galleria si stende una tela che ombreggia il cortile. Il vestibolo è lastricato di marmo, la porta fiancheggiata da colonne, sormontata da bassorilievi, chiusa da un sottile cancello di ferro di vaghissimo disegno. In fondo al patio, in dirittura della porta, sorge una statua; in mezzo, una fontana; intorno, seggiole, tavolini da lavoro, quadri, vasi di fiori. Corro a un'altra porta: un altro patio, colle pareti coperte dall'edera, e una corona di nicchie, con entro statuine, busti, urne. M'affaccio a una terza porta: un patio colle pareti lavorate di musaico, una palma nel mezzo, e intorno un mucchio di fiori. A una quarta porta: dopo il patio, un altro vestibolo, dopo questo un secondo patio, nel quale si vedono altre statue, altre colonne, altre fontane. E tutte queste sale e questi giardini son puliti e nitidi da poter passare la mano sui muri e per terra senza che ci resti la traccia; e freschi, odorosi, rischiarati da una luce incerta che ne accresce la bellezza e il mistero.

Avanti ancora, di strada in strada, alla ventura. Via via che cammino, mi s'accresce la curiosità, e affretto il passo. Mi pare impossibile che la città debba esser tutta così; temo d'imbattermi in una casa o di riuscire in una strada che mi richiami alla mente le altre città e rompa il mio bel sogno. Ma no, il sogno dura: tutto è piccino, gentile, misterioso. Ogni cento passi, una piazzetta deserta, nella quale mi arresto trattenendo il respiro; di tratto in tratto un crocicchio, e non un'anima viva;—e sempre bianco e tutto bianco,—e finestre chiuse,—e silenzio. Ed a ogni porta un nuovo spettacolo: archi, colonne, fiori, zampilli, palme; una meravigliosa varietà di disegni, di tinte, di luce, di profumi; qui di rose, là di aranci, più là di viole; e col profumo un soffio d'aria fresca, e coll'aria un suono sommesso di voci di donne, e stormir di foglie, e canto d'uccelli; un'armonia varia e soave, che senza turbare il silenzio della strada, molce l'orecchio come l'eco d'una musica lontana. Ah! non è un sogno! Madrid, l'Italia, l'Europa, sono certo a una grande distanza di qui! Qui si vive un'altra vita, qui spira l'aria d'un altro mondo, io sono in Oriente!

Mi ricordo che a un certo punto mi arrestai in mezzo alla strada e, non so come, mi accorsi improvvisamente ch'ero tristo e inquieto, e che nel mio cuore v'era un vuoto che la meraviglia e il piacere non bastavano a colmare. Io sentivo un bisogno irresistibile di penetrare in quelle case e in quei giardini, di squarciare, per dir così, il velo di mistero, che avvolgeva la vita della gente sconosciuta che vi era dentro; di partecipar di quella vita; di afferrare una mano, e di fissare i miei occhi in due occhi pietosi, e di dire:—Sono uno straniero, son solo, voglio esser felice anch'io, lasciatemi stare in mezzo ai vostri fiori, lasciatemi godere di tutti i segreti del vostro paradiso, ditemi chi siete, come vivete, sorridetemi, quetatemi, la mia testa brucia!—E questa tristezza giunse sino a tal segno, che dissi a me stesso:—Io non posso stare in questa città, io ci soffro, io parto!—

E sarei partito in fatti, se in buon punto non mi fossi ricordato che avevo in tasca una lettera di raccomandazione per due giovani di Cordova, fratelli d'un amico mio di Firenze. Smisi il proposito di partire e corsi subito a cercarli.

Quanto risero, quando io dissi loro l'impressione che Cordova mi faceva! Mi proposero d'andar subito a vedere la Cattedrale, infilammo una stradina bianca, e via.

La moschea di Cordova, che venne ridotta a Cattedrale dopo la cacciata degli Arabi; ma che è pur sempre moschea, fu costrutta sulle rovine della cattedrale primitiva, poco lontano dalla sponda del Guadalquivir. Abdurrahman ne cominciò la costruzione l'anno 785 o 786.—Inalziamo una moschea,—egli disse,—che vinca quella di Bagdad, quella di Damasco e quella di Gerusalemme; che sia il più grande tempio dell'Islam, che diventi la Mecca d'Occidente.—Si pose mano all'opera con grande ardore, gli schiavi cristiani portavano alle fondamenta le pietre delle chiese distrutte, Abdurrahman lavorava egli stesso un'ora ogni giorno, la moschea, nello spazio di non molti anni, fu fatta, i Califfi successori di Abdurrahman l'abbellirono, dopo un secolo di quasi continui lavori fu compiuta.

—Eccoci,—mi disse uno dei due ospiti, arrestandosi tutt'a un tratto davanti a un vasto edifizio.

Io credetti che fosse una fortezza. Era il muro che cinge la moschea, un vecchio muro merlato, nel quale s'aprivano una volta venti grandi porte di bronzo, contornate di bellissimi rabeschi, e di finestrine arcate, rette da sottili colonne: coperto ora da un triplice strato di calce. Un giro intorno a quel muro di cinta è una passeggiatina da farsi dopo desinare: si giudichi della vastità dell'edifizio.

La porta principale della cinta è a tramontana nel punto dove sorgeva il minareto di Abdurrahman, sulla cima del quale sventolava lo stendardo maomettano. Entrammo; io credevo di veder subito l'interno della Moschea, e mi trovai in un giardino pieno di aranci, di cipressi e di palme, cinto da tre lati da un porticato leggerissimo, e chiuso al quarto lato dalla facciata della moschea. Nel mezzo di questo giardino era al tempo degli Arabi la fonte per le abluzioni, e all'ombra di questi alberi si raccoglievano i fedeli prima d'entrare nel tempio. Stetti qualche momento guardando intorno, e aspirando l'aria fresca e odorosa con un senso vivissimo di piacere; e mi batteva il cuore al pensare che la famosa moschea era lì accanto, e mi sentivo ad un tempo spinto verso la porta da una immensa curiosità, e trattenuto da non so quale trepidazione fanciullesca.—Entriamo,—mi dicevano i compagni.—Ancora un momento,—rispondevo; lasciatemi assaporare bene la dolcezza dell'aspettazione.—Finalmente mi mossi, e senza neanco guardare la meravigliosa porta che i compagni m'accennarono, entrai.

Che cosa feci o dissi appena entrato, non so; ma certo qualche strana voce mi deve esser sfuggita o debbo aver fatto qualche gesto assai strano, perchè alcune persone che in quel punto venivano verso di me, si misero a ridere, e si voltarono di nuovo a guardare intorno, come per rendersi conto della profonda sensazione ch'io avevo manifestata.

Immaginate una foresta, e supponete di trovarvi nel più fitto, e di non veder altro che tronchi d'alberi. Così, nella moschea, da qualunque parte uno si volga, lo sguardo si perde tra le colonne. È una foresta di marmo della quale non si scorge la fine. Si seguono collo sguardo ad una ad una le lunghissime file delle colonne che s'incrociano ad ogni passo con altre innumerevoli file, e s'arriva a un fondo semi-oscuro, nel quale par di vedere biancheggiare ancora altre colonne. Son diciannove navate che s'allungano nella direzione dei passi di chi entra, attraversate da altre trentatre, sostenute, fra tutte, da più di novecento colonne di porfido, di diaspro, di breccia, di marmi d'ogni colore. Ogni colonna sorregge un pilastrino, e tra l'una e l'altra s'incurva un arco, e un secondo tra pilastrino e pilastrino, questo sovrapposto al primo, e tutti e due della forma d'un ferro di cavallo; in guisa che, immaginando essere le colonne tanti tronchi d'albero, gli archi rappresentano i rami, e la similitudine della moschea a una foresta è completa. La navata del mezzo, assai più larga che le altre, riesce innanzi alla Maksura, che è la parte più sacra del tempio, dove si adorava il Corano. Qui, dalle finestre del soffitto, scende un pallido raggio di luce che rischiara una fila di colonne; là v'è un tratto oscuro; più oltre scende un altro raggio che rischiara un'altra navata. È impossibile esprimere il sentimento di mistica meraviglia che vi si desta nell'animo a quello spettacolo. È come la rivelazione improvvisa d'una religione, d'una natura e d'una vita ignota, che vi rapisce la fantasia tra le delizie di quel paradiso pieno d'amore e di voluttà, dove i beati, seduti all'ombra dei platani frondosi e dei roseti senza spine, libano nei vasi di cristallo i vini scintillanti come perle, mesciuti da fanciulli immortali, e riposano nell'amplesso delle amabili vergini dai grandi occhi neri! Tutte le immagini dell'eterno piacere che il Corano promette ai fedeli, vi si presentano in folla alla mente, alla prima vista della moschea, vive, ardenti, scintillanti, e vi danno una momentanea ebbrezza dolcissima, che vi lascia nel cuore una non so qual molle malinconia! Un breve tumulto nella mente, e una rapida scintilla che percorre le vene, tale è la prima sensazione che si prova all'entrare nella cattedrale di Cordova.

Cominciammo a girare di navata in navata, osservando ogni cosa minutamente. Quanta varietà in quell'edifizio che sembra a primo aspetto uniforme! Le proporzioni delle colonne, i disegni dei capitelli, le forme degli archi cangiano, si può dire, ad ogni passo. Delle colonne, la maggior parte sono antiche, e furon tolte dagli Arabi alla Spagna del Norte, alla Gallia, all'Affrica romana; e qualcuna è fama appartenesse ad un tempio di Giano, sulle rovine del quale venne costrutta la chiesa che gli Arabi distrussero per costrurre la moschea. Sopra parecchi capitelli si scorgono ancora le traccie delle croci che v'erano scolpite, e che gli Arabi ruppero a colpi di scalpello. In qualche colonna sono confitti ferri ricurvi ai quali si dice che gli Arabi legassero i Cristiani; e se n'accenna uno, tra gli altri, cui la tradizione popolare narra esser stato legato un cristiano per lo spazio di molti anni; nel qual tempo, a furia di raschiare coll'unghie, riuscì a incavare nella pietra una croce che i ciceroni fanno vedere con profonda venerazione.

Giungemmo alla Maksura, che è l'opera più completa e più meravigliosa dell'arte degli Arabi nel decimo secolo. Sul dinnanzi, sono tre cappelle contigue, colla volta ad archi dentellati, e le pareti coperte di stupendi musaici, che rappresentan gruppi di fiori e sentenze del Corano. In fondo alla cappella di mezzo, è il mihrab principale, il luogo sacro dove stava lo spirito di Dio. È una nicchia di base ottagonale, chiusa di sopra da una colossale conchiglia di marmo. Nel mihrab era deposto il Corano, scritto dalla mano del califfo Othman, coperto d'oro, guernito di perle, inchiodato sovra una seggiola di legno d'aloe; e intorno ad esso venivano a fare sette giri ginocchioni le migliaia dei fedeli. Avvicinandomi al muro mi sentii mancar sotto il pavimento: il marmo è incavato!

Uscendo dalla nicchia, mi arrestai lungo tempo a contemplare la vòlta e le pareti della cappella principale, la sola parte della moschea che si conservò quasi intatta. È un luccichìo abbarbagliante di cristalli di mille colori, un intreccio di arabeschi che confonde la mente, una complicazione di bassorilievi, di dorature, di ornamenti, di minuzie di disegno e di colorito, d'una delicatezza, d'una grazia, d'una perfezione da far disperare il più paziente pittore. È impossibile ritener nulla nella mente di quel portentoso lavoro; voi potreste tornar cento volte a guardarlo, che non vi rimarrebbe dinanzi agli occhi, ripensandoci, altro che un formicolìo di puntini azzurri, rossi, verdi, dorati, luminosi, o un ricamo intricatissimo, cangiante continuamente e rapidissimamente di disegno e di colori. Solamente dalla focosa e instancabile immaginazione degli Arabi poteva uscire un siffatto miracolo d'arte.

Ricominciammo a girare per la moschea, osservando qua e là sui muri i rabeschi delle antiche porte che si scoprono via via sotto il detestabile intonaco cristiano. I miei compagni mi guardavano, ridevano e si mormoravan nell'orecchio non so che.

“Non se n'è ancora accorto?” mi domandò l'uno.

“Di che?”

Si riguardarono e sorrisero di nuovo.

“Crede lei d'aver visto tutta la moschea?” ripigliò il compagno.

“Io sì,” risposi guardandomi intorno.

“Ebbene,” disse il primo “lei non ha veduto tutto; e quello che le riman da vedere è nientemeno che una chiesa.”

“Una chiesa!” esclamai stupefatto; “ma dov'è?”

“Guardi,” rispose l'altro compagno, accennando, “è nel bel mezzo della moschea.”

“Potenzinterra!” E io non l'avevo veduta!

Si giudichi da questo della vastità della moschea. Andammo a vedere la chiesa. È una bella e ricchissima chiesa, con un altar maggiore magnifico e un coro degno di star accanto a quelli delle cattedrali di Burgos e di Toledo; ma come tutte le cose messe fuor di posto, muove più la stizza che l'ammirazione. Senza codesta chiesa, l'aspetto della moschea sarebbe molto migliore. Lo stesso Carlo V, che diede al Capitolo il permesso di costruirla, quando vide la prima volta il tempio maomettano, se ne pentì. Accanto alla chiesa è una specie di cappella araba, mirabilmente conservata, ricca di musaici non meno variati e splendidi che quelli della Maksura; nella quale è fama si radunassero i ministri della religione per discutere il libro del profeta.

Tale è la moschea d'oggigiorno. Ma quale doveva essere al tempo degli Arabi! Non era chiusa intorno intorno da un muro; ma aperta, in modo che da ogni sua parte si vedeva il giardino, e dal giardino si vedeva fino in fondo alle lunghissime navate, e l'aria spandeva fin sotto le volte della Maksura la fragranza degli aranci e dei fiori. Le colonne, che ora son meno di mille, erano millequattrocento; il soffitto era di legno di cedro e di larice, scolpito e smaltato con finissimo lavoro; le pareti eran rivestite di marmo; la luce di ottocento lampade riempite d'olio odoroso, faceva scintillare come perle i cristalli dei musaici, e produceva sul pavimento, sugli archi, sui muri, un gioco meraviglioso di colori e di riflessi. Un mare di splendori,—cantò un poeta,—riempiva il misterioso recinto, e il tepido ambiente era pregno d'aromi e d'armonie, e il pensiero dei fedeli vagava e si smarriva nel labirinto delle colonne luccicanti come lancie percosse dal sole.

Federico Schack, autore d'una bell'opera intitolata: Poesia e arte degli Arabi in Spagna e in Sicilia, fece una descrizione della moschea in un giorno di festa solenne, che dà una immagine vivissima del culto maomettano e completa il quadro del monumento.

All'uno e all'altro lato dell'Almimbar, o pulpito, ondeggiano due stendardi, per significare che l'Islam ha trionfato del Giudaismo e del Cristianesimo, e che il Corano ha vinto l'antico e il nuovo Testamento. Gli almnedani salgono sulla galleria dell'alto minareto e intuonano il selam o il saluto al profeta. Allora le navate della moschea si riempiono di credenti, i quali, con bianchi vestiti e festoso aspetto, accorrono alla orazione. In pochi istanti, per tutta l'estensione dell'edifizio, non si vede più che gente inginocchiata. Per la via segreta che congiunge il tempio all'alcazar, giunge il Califfo e va a sedere al suo posto elevato. Un lettore del Corano legge una Sura sul leggìo della tribuna. La voce del muccin risuona nuovamente invitando alle preghiere del mezzogiorno. Tutti i fedeli si alzano e mormorano le loro preghiere, facendo reverenze. Un servitore della moschea apre le porte del pulpito e impugna una spada, colla quale, voltandosi verso la Mecca, ammonisce che si lodi Maometto, mentre già dalla tribuna lo celebrano cantando i mubaliges. Sale quindi il predicatore sul pulpito, togliendo di mano al servitore la spada, la quale ricorda e simboleggia la soggezione della Spagna al potere dell'Islam. È il giorno che si deve proclamare il Djihad o la guerra santa, la chiamata di tutti gli uomini atti ad andare alla guerra, perchè scendano in campo contro i Cristiani. La moltitudine ascolta con silenziosa devozione il discorso, intessuto di testi del Corano, il quale comincia così:

«Lodato sia Allà, che ha ingrandita la gloria del Islam, mercè la spada del campione della Fede, e che nel suo santo libro ha promesso al credente aiuto e vittoria.

»Allà sparge i suoi benefizii sui mondi.

»Se non spingesse gli uomini a slanciarsi armati contro gli uomini, la terra si perderebbe.

»Allà ha ordinato di combattere contro i popoli fin che conoscano che non v'è che un Dio.

»La fiamma della guerra non si estinguerà fino alla fine del mondo.

»La benedizione divina cadrà sovra la criniera del cavallo guerriero fino al giorno del giudizio.

»Armati da capo a piedi, o leggermente armati, alzatevi, partite!

»Oh credenti! Che sarà di voi se, quando vi si chiama alla battaglia, rimanete col viso rivolto al suolo?

»Preferite la vita di questo mondo alla vita futura?

»Credetemi: le porte del paradiso stanno all'ombra delle spade.

»Colui che muore nella battaglia per la causa di Dio, lava col sangue che sparge tutte le macchie dei suoi peccati.

»Il suo corpo non sarà lavato come gli altri cadaveri perchè nel giorno del giudizio le sue ferite manderanno fragranza come il musco.

»Quando i guerrieri si presenteranno alle porte del paradiso, una voce domanderà di dentro:—Che avete fatto nella vostra vita?—

»Ed essi risponderanno:—Noi abbiamo brandito la spada nella lotta per la causa di Dio!

»Allora le porte eterne si apriranno e i guerrieri entreranno quarant'anni prima degli altri.

»Su, dunque, credenti; abbandonate donne, figli, fratelli, averi, e uscite alla guerra santa!

»E tu, o Dio, signore del mondo presente e del mondo futuro, combatti per gli eserciti di coloro che riconoscono la tua unità! Atterra gli increduli, gl'idolatri, i nemici della tua santa fede! Rovescia i loro stendardi, e rimettili, con quanto posseggono, come bottino, ai mussulmani!»

Il predicatore, appena terminato il suo discorso, esclama, volgendosi alla Congregazione:—Chiedete a Dio!—e prega in silenzio. Tutti i fedeli, toccando il suolo colla fronte, seguono il suo esempio. I mubaliges cantano:—Amen! Amen, o Signore di tutti gli esseri!—Ardente come il calore che precede l'imminente tempesta, l'entusiasmo della moltitudine, rattenuto prima in un silenzio meraviglioso, prorompea allora in sordi mormorii, che alzandosi come le onde e traboccando per tutto il tempio, fanno finalmente risuonar le navate, le cappelle, le volte dell'eco di mille voci unite in un sol grido:—Non v'è altro Dio che Allà!—......

La moschea di Cordova è oggi ancora, per consentimento universale, il più bel tempio mussulmano, e uno dei più ammirabili monumenti del mondo.

Quando uscimmo dalla moschea, era già trascorsa d'un buon tratto l'ora della siesta, che nelle città della Spagna meridionale fanno tutti, e ch'è una necessità il fare, a cagione dell'insopportabile calore dell'ore bruciate; e le strade cominciavano a popolarsi. Ohimè!—dicevo io ai miei compagni:—quanto sta male il cappello a staio per le strade di Cordova! Come avete cuore di appiccicare il figurino della moda su questo bel quadro orientale? Perchè non vi vestite da Arabi?—Passavano zerbinotti, operai, ragazzi: guardavo tutti con grande curiosità, sperando di trovare qualcuna di quelle fantastiche figure, che il Doré ci rappresentò come esempi del tipo andaluso: con quel bruno carico, con quelle grosse labbra, con quei grandi occhi. Non ne incontrai. Andando verso il centro della città, vidi le prime Andaluse, signore, signorine, donne del popolo, quasi tutte piccine, sottili, ben fatte, alcune belle, molte simpatiche, la maggior parte nè carne nè pesce, come in tutti i paesi. Nel vestire, all'infuori della così detta mantilla, nessuna differenza dalle donne francesi e nostre; gran volume di capelli finti, a treccie, a ciocche, a lunghi riccioli, e sottane succinte, a sgonfietti e increspature, e stivaletti col tacco a punta di pugnale. L'antico costume andaluso è scomparso dalle città.

Credevo che sul far della sera le strade sarebbero state affollate; ma non vidi che poca gente, e soltanto nelle strade dei quartieri principali; le altre rimasero deserte come nelle ore della siesta. E convien passare appunto per queste strade deserte, per goder Cordova la notte. Si vedono brillare i lumi nei patios; si vedono, negli angoli oscuri, le coppie amorose strette in intimo colloquio; la ragazza, per lo più, alla finestra, con una mano abbandonata mollemente fuori dell'inferriata, e il giovane accanto al muro, in atteggiamento poetico, e coll'occhio all'erta; non mai tanto però che gli riesca di staccar la bocca da quella mano, prima che se ne accorga chi passa; e si senton suoni di chitarra, mormorii di fontane, sospiri, risa di fanciulle, fruscii misteriosi....

L'indomani mattina, ancora tutto turbato dai sogni orientali della notte, ricominciai a girare per la città. Per descrivere tutto quello che v'è di notevole ci vorrebbe un volume; è un vero Museo d'antichità romane ed arabe; vi si trovano a profusione colonne militari, iscrizioni in onore degli imperatori, resti di statue e di bassorilievi; sei antiche porte; un gran ponte sul Guadalquivir, del tempo di Ottavio Augusto, ricostrutto dagli Arabi; rovine di torri e di mura, case che appartennero ai Califfi, e che serbano le colonne e gli archi sotterranei delle sale da bagno; e per tutto porte, vestiboli, scale, da far la delizia d'una legione d'archeologi.

Verso mezzogiorno, passando per una stradina solitaria, vidi scritto sul muro d'una casa, accanto a un'iscrizione romana:— Casa de huespedes. Almuerzos y comidas; —e leggendo, sentii lo stimolo, come dice il Giusti, di sì bassa fame, che deliberai di saziarla in quel qualunque bugigattolo al quale m'ero abbattuto. Infilai una porticina, mi trovai in un patio. Era un patio meschino, senza marmi e senza fontane, ma bianco come la neve e fresco come un giardino. Non vedendo nè tavole nè seggiole, temetti d'aver sbagliato porta, e mi mossi per uscire. Una vecchierella, sbucata non so di dove, mi arrestò.

“Si mangia?” domandai.

Si señor ” mi rispose.

“Che cosa c'è?”

Uevos, chorizo, chuletas, pescado, naranjas, vino de Málaga.

Muy bien: tráigame Usted todo lo que Usted tiene.

Cominciò a portarmi la tavola e la seggiola, ed io sedetti e aspettai. A un tratto sentii aprire una porta dietro di me, mi voltai.... Angeli del cielo, che vidi! La più bella di tutte le più belle Andaluse, non solo di quelle vedute a Cordova, ma di tutte quelle che vidi poi a Siviglia, a Cadice, a Granata; una ragazza, mi si lasci dir la parola, tremenda, da far fuggire, o commettere qualche diavoleria; uno di quei visi che facevan gridare: oh povero me! a Giuseppe Baretti, quando viaggiava in Spagna. Stette qualche momento immobile, cogli occhi fissi nei miei, come per dire:—ammirami;—poi si voltò verso la cucina e gridò:— Tia, despáchate! —(Zia, spicciati); il che offrì a me l'occasione di renderle muchas gracias colla lingua impacciata, e a lei il pretesto d'avvicinarsi rispondendo:— No hay de que —con una voce così soave, che mi sforzò ad offrirle una seggiola, sulla quale sedette. Era una ragazza sui vent'anni, alta, diritta come una palma, bruna, con due grand'occhi pieni di dolcezza, luccicanti ed umidi che pareva avessero versato allora allora una lagrima; e una nerissima capigliatura ondulata, con una rosa fra le treccie. Pareva una delle vergini arabe della tribù degli Usras, che facevano morir d'amore.

Cominciò la conversazione ella stessa.

Usted es extranjero, me parece?

“Sì.”

Frances?

“Italiano.”

Italiano? Paisano del Rey?

“Sì.”

Le conoce Usted?

“Di vista.”

Dicenque es un buen mozo. ” (bel giovanotto).

Io non risposi, essa si mise a ridere; e mi domandò:— Que mira Usted? —e continuando a ridere, nascose il piede, che, sedendo, aveva messo bene innanzi, perchè lo vedessi. Oh! non v'è donna in quei paesi, che non sappia che i piedini andalusi sono famosi nel mondo.

Colsi l'occasione, tirai il discorso sulla fama delle donne d'Andalusia, e le espressi la mia ammirazione colle parole più calde del mio dizionario. Mi lasciò dire, guardando con molta attenzione dentro una fessura della tavola, poi rialzò il viso e mi domandò:

Y en Italia, como son las mujeres?

“Oh! belle, anche in Italia.”

Pero.... seran frias! ” (fredde).

“Oh no, davvero!” m'affrettai a rispondere; “ma lei sa... in ogni paese le donne hanno un non so che di diverso da quelle di tutti gli altri paesi; e fra tutti i non so che, quello delle Andaluse, per un povero viaggiatore che non ha ancora i capelli bianchi, è forse il più pericoloso di tutti; e c'è una parola per dire quello che penso; se non se la ricordasse, glie la direi; le direi: Señorita, Usted es la Andalusa mas.... ” (più....)

Salada! ” (esclamò la ragazza coprendosi il viso colle mani).

Salada!... la Andalusa mas salada de Córdoba.

Salada, salata: tale è la parola che si usa comunemente in Andalusia per dire una donna bella, vezzosa, carina, languida, ardente, e tutto quello che volete; una donna con due labbra che dicano:— Bebedme! —bevetemi; e due occhi che vi costringano a mordervi il labbro di sotto.

La zia mi portò le uova, le costolette, il chorizo, gli aranci, e la ragazza riprese la conversazione.

Usted es italiano: ha visto Usted al Papa?

“No, mi dispiace.”

Es posible? Un italiano que no viò al Papa! Y diga Usted: porqué le hacen tanto sufrir los italianos? ” (perchè lo fanno tanto soffrire?)

“Soffrire, in che modo?”

Ya! Dicen que le han cerrado en su casa y que le tiran pedradas en las ventanas! ” (e che gli tiran sassate nelle finestre).

“Ma no! non lo creda! non c'è ombra di vero, ec.”

Viò Usted Venezia?

“Oh! Venezia, sì.”

Es verdad que es una ciudad que sobrenada en la mar? ” (una città che galleggia sul mare).

E qui mi fece mille istanze, perchè le descrivessi Venezia, e le dicessi com'era fatta la gente in quella strana città, e che fa tutto il giorno, e come va vestita. E mentre io discorrevo, oltre lo sforzo che avevo a fare per esprimermi con un po' di garbo, e per mandar giù le ova mal cotte e il chorizo stantìo, dovevo veder lei avvicinarsi man mano a me, forse senza accorgersene, per udir meglio; e avvicinarsi tanto da farmi sentir l'odore della rosa che aveva nei capelli, e il calore del suo respiro; dovevo, dico, far tre sforzi in una volta, l'uno colla testa, l'altro collo stomaco, e il terzo con tutto, e sentirmi anche dire di tanto in tanto:— Que bonito! —che significa:—Quanto è bello!—complimento che si riferiva al Canal Grande, e che mi faceva l'effetto che farebbe a uno spiantato, un sacchetto pieno di marenghi, fattogli sonar sotto il naso da un banchiere impertinente.

Ah! señorita! ” dissi in fine, cominciando a perdere la pazienza; “che vale che le città sian belle, alla fine dei conti? Chi ci è nato, non ci bada; e il viaggiatore.... nemmeno. Io sono arrivato ieri a Cordova, è una bella città, non c'è dubbio; ebbene: lo vuol credere? ho già dimenticato tutto quello che ho visto, non ho più voglia di veder niente, non so neanco più in che città mi trovi. Palazzi! moschee! mi fan ridere! Quando vi avranno messo un fuoco nell'anima chi vi consumi, andrete a smorzarlo nella moschea! Si faccia un po' più in là, scusi. Quando vi sentirete una smania addosso che vi farebbe stritolar un piatto coi denti, andrete a contemplare i palazzi? Creda! è una triste vita quella del viaggiatore! È una penitenza delle più dure! È un supplizio! È un...” Un prudente colpo di ventaglio mi chiuse la bocca, che andava tropp'oltre e colle parole e coll'atto. Attaccai la costoletta.

Pobrecito! ” mormorò l'Andalusa ridendo, dopo aver dato un'occhiata intorno; “ Son todos ardientes como Usted los italianos?

“Che so io! Son tutte belle come lei le Andaluse?”

La ragazza stese la mano sulla tavola.

“Nasconda quella mano,” le dissi.

Porqué? ” domandò essa.

“Perchè voglio mangiare in pace.”

“Mangi con una mano sola.”

“Ah!”

Mi parve di stringere la manina d'una bimba di sei anni; il coltello cadde in terra; un denso velo si stese sulla costoletta.

A un tratto mi sentii la mano vuota, apersi gli occhi, vidi la ragazza tutta turbata, mi voltai indietro: giusto cielo! c'era un bel pezzo di giovanotto, con la giacchettina attillata, coi calzoni stretti, col piccolo cappello di velluto, oh terrore! un torero! Diedi un guizzo, come se mi fossi sentito piantar nel collo due banderillas de fuego.

—Capisco a volo!—dissi tra me, come quel tale nella commedia Moglie e Buoi; e sfido a non capire! La ragazza, un po' imbarazzata, fece la presentazione:—“ Un italiano de paso por Cordoba,” e soggiunse in fretta: “che vorrebbe sapere a che ora parte il treno per Siviglia.”

Il torero, che al primo vedermi, aveva corrugato la fronte, si rasserenò, mi disse l'ora della partenza, sedette, ed entrò amichevolmente in conversazione. Io gli domandai notizie dell'ultima corrida che s'era fatta a Cordova; era un banderillero, mi raccontò per filo e per segno le vicende della giornata. La ragazza, in quel frattempo, coglieva dei fiori nei vasi del patio. Terminai la mia colazione, offersi un bicchier di Malaga al torero, feci un brindisi al felice piantamento di tutte le sue banderillas avvenire, pagai lo scotto ( tres pecetas, c'eran compresi i begli occhi, si capisce), e poi, fatto muso franco, anche per dissipare fin l'ombra d'un sospetto nell'anima del mio formidabile rivale, dissi alla ragazza:—“ Señorita! A chi parte non si nega nulla; io, per lei, sono come un moribondo, non mi rivedrà mai più, non sentirà mai più pronunziare il mio nome: può dunque lasciarmi un ricordo: mi dia quel mazzolino di fiori.”

“Eccolo,” mi disse la ragazza; “l'avevo fatto per lei.”

Diede un'occhiata al torero; il torero fece un atto di approvazione.

Le doy gracias con toda la fuerza de mi corazon, ” risposi, e m'avviai per uscire. M'accompagnarono tutti e due verso la porta.

Hay funciones de toros en Italia? ” mi domandò il giovane.

“Oh Dio! no. Non le abbiamo ancora.”

“Peccato! Cerchi di metterle in moda anche in Italia, e io andrò a banderillar a Roma.”

“Farò tutto il possibile. Signorina, perch'io la possa salutare abbia la bontà di dirmi il suo nome.”

Consuelo.

Quédese Usted con Dios, Consuelo!

Váyase Usted con Dios, señor italiano!

E infilai la stradina solitaria.

Nei dintorni di Cordova non c'è notevoli monumenti arabi a vedere. Eppure tutta la valle era un tempo sparsa di stupendi edifizi. Lontano tre miglia dalla città, a settentrione, alle falde d'un monte, sorgeva Medina Az-Zahra, la città fiorente, una delle più meravigliose opere d'architettura del califfato di Abdurrahman III, iniziata dal Califfo stesso in omaggio a una sua favorita di nome Az-Zahra. Le fondamenta furon gettate l'anno novecentotrentasei, e diecimila operai vi lavorarono per venticinque anni. I poeti arabi celebrarono Medina Az-Zahra come la più splendida delle reggie umane, e il più delizioso giardino della terra. Non era un edifizio, ma un vastissimo congiunto di palazzi, di giardini, di cortili, di porticati, di torri. Ivi piante pellegrine della Siria, giuochi fantastici di fontane altissime, fiumicelli fiancheggiati dalle palme, e vasti bacini colmi di mercurio, che scintillavano ai raggi del sole come laghi di fuoco; porte d'ebano e d'avorio, tempestate di gemme; migliaia di colonne di preziosissimi marmi, grandi terrazze aeree, e fra la moltitudine innumerevole delle statue, dodici animali d'oro massiccio, luccicanti di perle, che schizzavan dalla bocca e dalle nari acque odorose. In questa immensa reggia formicolavano migliaia di servi, di schiavi, di donne, e accorrevano da ogni parte del mondo i musici e i poeti. E nondimeno, codesto Abdurrahman III, che visse fra tante delizie, che regnò per cinquant'anni, che fu potente, glorioso e fortunato in ogni vicenda e in ogni impresa, scrisse prima di morire che durante il suo lungo regno non era stato felice che quattordici giorni! E la sua favolosa città fiorente, settantaquattr'anni dopo che n'era stata posta la prima pietra, fu invasa, saccheggiata ed arsa da un'orda barbaresca, ed oggi non ne restan che poche pietre, che appena ne rammentano il nome. Di un'altra splendida città, di nome Zahira, che sorgeva ad oriente di Cordova, fatta costrurre dal poderoso Almansur, governatore del Regno, non restan neanco le rovine: una mano di ribelli la ridusse in cenere poco dopo la morte del suo fondatore.

«Tutto ritorna alla gran madre antica.»

Invece di fare una scarrozzata nei dintorni di Cordova, mi diedi a errare qua e là, almanaccando sui nomi delle strade, che per me è uno dei più saporiti piaceri che si possan provare in una città sconosciuta. Cordova, alma ingeniorum parens, avrebbe di che scrivere ad ogni angolo di strada il nome d'un artista o d'un dotto illustre nato fra le sue mura; e, sia detto ad onor suo, li ha tutti ricordati con materna gratitudine. Voi ci trovate la piazzetta di Seneca, e la casa,—se sarà quella,—nella quale nacque; la via di Lucano; la via di Ambrosio Morales, l'istoriografo di Carlo V, continuatore della Cronaca generale della Spagna cominciata da Florian di Ocampo; la via di Paolo Cespedes, pittore, architetto, scultore, archeologo, autore d'un poema didattico El arte de la pintura, sfortunatamente non finito, sparso di stupende bellezze. Ardente di entusiasmo per Michelangelo, del quale aveva ammirato le opere in Italia, gli sciolse nel suo poema un inno di lode che è uno dei più bei tratti della poesia spagnuola; e mio malgrado, m'escon dalla penna gli ultimi versi, che ogni italiano, anche non conoscendo la lingua sorella, può intendere e sentire. Non credere, egli dice al lettore, di poter scoprire la perfezione della pittura in altra cosa

«Que en aquella escelente obra espantosa
Mayor de cuantas se han jamas pintado,
Que hizo
[3]
el Buonarrota de su mano
Divina, en el etrusco Vaticano!

Cual nuevo Prometeo en alto vuelo
Alzándose, estendiò las alas tanto,
Que puesto encima el estrellado
[4]
cielo
Una parte alcanzò
[5]
del fuego santo;
Con que tornando enriquecido al suelo
Con nueva maravilla y nuevo espanto,
Diò vida con eternos resplandores
À marmoles, à bronces, à colores.
¡O mas que mortal hombre! ¿Angel divino
O cual te nomaré? No humano cierto
Es tu ser, que del cerco empireo vino
[6]
Al estilo y pincel vida y concierto:
Tu mostraste à los hombres el camino
Por mil edades escondido, incierto
De la reina virtud; a ti se debe
Honra que en cierto dia el sol renueve.»

Mormorando questi versi, riuscii nella via Juan de Mena, l' Ennio spagnuolo, come lo chiamano i suoi concittadini, autore d'un poema fantasmagorico, intitolato: Il labirinto, imitazione della Divina Commedia, di gran fama ai suoi tempi; e non privo, in vero, di qualche pagina di poesia ispirata e profonda; ma, nell'assieme, gonfio di pedantesco misticismo, e freddo. Giovanni II, re di Castiglia, andava pazzo di questo Labirinto, lo teneva accanto al messale nel suo gabinetto, lo portava seco alla caccia; ma, vedete capriccio di Re! il poema non aveva che trecento strofe, e a Giovanni II parevan poche, e sapete per qual ragione? Per la ragione che l'anno è di trecento sessantacinque giorni, e a lui pareva che quanti sono i giorni dell'anno tante dovessero essere le strofe del poema; e pregò il poeta di comporne altre sessantacinque, e il poeta lo obbedì; lietissimo, l'adulatore! di vedersi offerto un pretesto per adulare ancora; benchè l'avesse già tanto adulato, fino al segno di pregarlo che gli correggesse i suoi versi! Dalla via Juan de Mena, passai nella via Gongora, il Marini della Spagna, non meno grande d'ingegno, ma forse anche più corruttore della sua letteratura che non sia stato della nostra il Marini, poichè guastò, stroppiò, imbastardì in mille modi anche la lingua; onde Lopez de Vega argutamente fa chiedere da un poeta gongorista al suo ascoltatore:—Mi capisci?—e questi risponde:—Sì!—e il poeta di rimando:—Menti! perchè non mi capisco neanch'io.—Non però scevro affatto di gongorismo neanche il Lopez, cui bastò l'animo di scrivere che il Tasso non era che l'aurora del sol di Marini; nè scevro il Calderon, nè gli altri più grandi. Ma basti di poesia, per non uscire di carreggiata.

Dopo la siesta, andai a ricercare i miei due compagni, che mi condussero nei sobborghi della città, nei quali vidi per la prima volta donne e uomini di tipo veramente andaluso, quale io me lo raffigurava, con occhi e colori e atteggiamenti d'Arabi; e intesi pure per la prima volta il parlar proprio del popolo d'Andalusia, più molle e più cantato che nelle Castiglie, ed anche più gaio e più immaginoso, e accompagnato da un gesticolare più vivo. Domandai ai miei compagni se fosse vero quello che suol dirsi dell'Andalusia: che cioè colla pubertà precoce sian precoci i vizii, e voluttuosi i costumi, e gli amori sfrenati. Harto verdadero! risposero: troppo vero! e qui spiegazioni, descrizioni e racconti, che tengo nella penna. Ritornammo in città, mi condussero in uno stupendo Casino, con giardini e sale splendide, in una delle quali, la più vasta e la più ricca, ornata dei ritratti di tutti i Cordovesi illustri, sorge una specie di palco scenico, su cui salgono i poeti a leggere le loro poesie le sere solenni destinate a pubblico certame d'ingegno; e i vincitori ricevono una corona d'alloro dalle mani delle più belle e colte fanciulle della città, assise sur un semicerchio di seggiole inghirlandate di rose. La sera ebbi il piacere di conoscere parecchi giovani Cordovesi, ardentemiente afectos, come si dice in spagnuolo leccato, al cultivo de las Musas, franchi, cortesi, vivacissimi, con una farraggine di versi nella testa, e infarinati di letteratura italiana; cosicchè, figuratevi, dall'imbrunire a mezzanotte, per quelle misteriose stradine che m'avevan fatto girar la testa la sera prima, fu un continuo clamoroso scambiarsi di sonetti, d'inni e di ballate delle due lingue, dal Petrarca al Prati, dal Cervantes allo Zorilla; e una allegrissima conversazione chiusa e suggellata da molte cordiali strette di mano, e da calde promesse di scriversi, di mandarsi libri, di venire in Italia, di tornare in Spagna, ec. ec.; non altro che parole, come sempre, ma parole non meno care per questo.

L'indomani partii per Siviglia. Alla stazione vidi Frascuelo, Lagartijo, il Cuco, e tutta la compagnia dei toreros di Madrid, che mi salutarono con uno sguardo benevolo di protezione. Mi cacciai in un vagone polveroso, e quando il treno si mosse, e Cordova apparve ai miei occhi per l'ultima volta, la salutai coi versi del poeta arabo, un po' troppo sensuali, se si vuole, per il gusto d'un europeo; ma, in fin dei conti, adatti all'occasione:

« Addio, Cordova! Per vivere sempre fra le tue mura, vorrei far vita più lunga di Noè. Vorrei avere i tesori di Faraone per spenderli in vino e in belle Cordovesi, dagli occhi soavi, che invitano ai baci.»

NOTE:

[3] Fece.[4] Stellato.[5] Conseguì.[6] Venne.

IX. SIVIGLIA.

Il viaggio da Cordova a Siviglia non desta la meraviglia come quello da Toledo a Cordova; ma è pur bello ancora; sono sempre quei boschi di aranci, quegli oliveti sconfinati, quei colli vestiti di pampini, quei prati coperti di fiori. A poche miglia da Cordova si vedon le torri diroccate del formidabile castello di Almodovar, posto sur una roccia altissima, che domina un immenso spazio all'intorno; a Hornachuelos, un altro vecchio castello sulla sommità d'una collina, in mezzo un paesaggio solitario e melanconico; più oltre la bianca città di Palma, nascosta in un foltissimo bosco d'aranci, cinto alla sua volta da una corona di orti e di giardini; e via via si trascorre in mezzo a campi biondeggianti di grano, fiancheggiati da lunghissime siepi di fichi d'India, da filari di piccole palme, da boschetti di pini, da folte piantagioni di alberi fruttiferi; e ad ogni tratto si vedon colli e castelli e torrenti e svelti campanili di villaggi celati tra gli alberi, e cime azzurre di monti lontani.

Son belle sopra ogni cosa le piccole case campestri sparse lungo la strada. Non ricordo d'averne veduta una che non fosse bianca come la neve. È bianca la casa, bianco il parapetto del pozzo vicino, bianco il muricciuolo che cinge l'orto, bianchi i due pilastrini della porta del giardino; ogni cosa par stata imbiancata il giorno innanzi. Alcune di queste case hanno una o due finestrine binate alla moresca, altre qualche arabesco sulla porta, altre il tetto coperto di tegole variopinte come le case arabe. Qua e là, pei campi, si vedon cappe rosse e bianche di contadini, cappelli di velluto in mezzo all'erba, ciarpe di tutti i colori. I contadini che si vedono sulle aiuole, o che accorrono a veder passare il treno, sono vestiti tal quale ce li rappresentano i quadri di costumi di quarant'anni fa: hanno un cappello di velluto con una grandissima tesa un po' rivoltata, con una piccola cupola a pan di zucchero; una giacchettina corta, un panciotto aperto, un par di calzoni tagliati al ginocchio come quelli dei preti, un par di ghette alte fino ai calzoni, e una fascia intorno alla vita. Questa foggia di vestire, incomoda, ma bella, s'attaglia mirabilmente alle forme snelle di quegli uomini, i quali preferiscono assai lo star bellamente male allo star bene senza grazia, e s'acconciano di buon grado a stintignare una mezz'ora ogni mattina, pur di avere indosso un paio di calzoncini che mettano in rilievo il fianco svelto e la gamba ben tornita. Non han nulla di comune coi nostri contadini del settentrione, dal muso duro e dall'occhio attonito. Quelli vi fissan negli occhi, con un sorriso, i loro grandi occhi neri, come se vi volessero dire:—Non mi riconoscete?—lancian degli sguardi audaci alle signore che metton la testa fuori del finestrino; accorrono per porgervi un fiammifero prima che voi glielo abbiate domandato; qualche volta rispondono in rima a una vostra interrogazione, e son capaci persino di ridere per farvi vedere i loro denti bianchi.

A la Rinconada si comincia a vedere, in dirittura della strada ferrata, il campanile della Cattedrale di Siviglia; e a destra, di là dal Guadalquivir, le belle colline coperte d'oliveti, ai piedi delle quali giaccion le rovine d'Italica. Il treno volava, e io parlavo tra me e me, a mezza voce, affrettando le parole via via che spesseggiavan le case, con quell'affanno pien di desiderio e di gioia, che si prova salendo le scale dell'amante. Siviglia! Siviglia è là! È là la regina dell'Andalusia, l'Atene spagnuola, la madre del Murillo, la città dei poeti e degli amori, la famosa Siviglia, di cui pronunciavo il nome fin da fanciullo con un sentimento di dolce simpatia! Chi m'avesse detto, qualche anno fa, che io l'avrei veduta! Eppure non è un sogno! Quelle case son ben di Siviglia, quei contadini laggiù son Sivigliani; quel campanile ch'io vidi, è la Giralda! Io a Siviglia? È strano! Mi vien voglia di ridere! Che farà mia madre in questo momento! Se fosse qui! Se fosse qui il tale, il tal altro! Peccato esser solo! Ecco le case bianche, i giardini, le stradine.... Siamo nella città.... Ora si scende.... Ah! come è bella la vita!....

Arrivai a un albergo, buttai la valigia nel patio, e cominciai a errare per la città. Mi parve di riveder Cordova ingrandita, abbellita e arricchita; le strade son più larghe, le case son più alte, i patios più spaziosi; ma l'aspetto generale della città è il medesimo; è quella bianchezza purissima, quella rete intricata di stradine, quell'odor diffuso d'aranci, quell'aria gentile di mistero, quella sembianza orientale, che desta nel cuore un sentimento dolcissimo di amorosa malinconia, e nella mente mille fantasie e desiderii e visioni d'un mondo lontano, d'una vita nuova, d'una gente ignota, d'un paradiso terrestre pieno d'amori, di delizie, di pace. In quelle strade si legge la storia della città; ogni balcone, ogni frammento di scultura, ogni crocicchio solitario rammenta l'avventura notturna d'un Re, le ispirazioni d'un poeta, le vicende di una bella, un amore, un duello, un rapimento, una favola, una festa. Qui è una memoria di Maria Padilla, là di don Pedro, più oltre del Cervantes, altrove del Colombo, di Santa Teresa, del Velasquez, del Murillo. Una colonna rammenta la dominazione Romana, una torre, lo splendore della monarchia di Carlo V, un alcazar, la magnificenza della corte degli Arabi. Accanto alle modeste casine bianche, s'innalzano i sontuosi palazzi marmorei; le piccole strade tortuose sboccano nelle vaste piazze popolate di aranci; dal crocicchio deserto e silenzioso si riesce, con un breve giro, nella strada corsa da una folla rumorosa; e per tutto dove si passa, si vedono a traverso i graziosi cancelli dei patios, fiori, statue, fontane, fughe di sale, muri coperti di arabeschi, finestrine arabe, sottili colonne di marmi preziosi; e a ogni finestra, in ogni giardino, donnine vestite di bianco, mezzo nascoste, come timide ninfe, fra le foglie dei pampini e i cespugli delle rose.

Di strada in strada arrivai alla riva del Guadalquivir, sui viali del passeggio della Cristina, che è per Siviglia ciò che per Firenze il Lungarno. Qui si gode uno spettacolo incantevole.

Mi avvicinai prima alla famosa Torre dell'Oro. Questa famosa Torre, chiamata dell'Oro o perchè vi si chiudeva l'oro che i bastimenti spagnuoli portavano dall'America, o perchè il re Don Pedro vi nascondeva i suoi tesori, è ottagona, formata da tre piani rientranti, coronata di merli e bagnata dal fiume. La tradizione narra che questa torre fu costrutta al tempo dei Romani, e che vi soggiornò per lungo tempo la bellissima favorita di quel Re, quando la torre era congiunta all'alcazar da un edifizio che venne demolito per far luogo al passeggio della Cristina.

Questo passeggio si stende dal palazzo del duca di Montpensier fino alla Torre dell'Oro ed è tutto ombreggiato da platani d'Oriente, da quercie, da cipressi, da salici, da pioppi, e d'altri alberi del settentrione, che gli Andalusi ammirano come ammireremmo noi le palme e gli aloè nelle campagne del Piemonte e della Lombardia. Un gran ponte accavalcia il fiume, e conduce al sobborgo di Triana, del quale si vedono le prime case sulla sponda opposta. Una lunga fila di bastimenti, di golette, di barconi si stende sul fiume, e fra la Torre dell'Oro e il palazzo del Duca, è un va e vieni di barchette. Tramontava il sole. Una folla di signore formicolava pei viali, frotte di operaie passavano nel ponte, ferveva il lavoro sui bastimenti, sonava una banda musicale nascosta tra gli alberi, il fiume era color di rosa, l'aria odorava di fiori, il cielo pareva tutto in fuoco.

Rientrai in città, e godetti il meraviglioso spettacolo di Siviglia notturna. I patios di tutte le case erano illuminati; quei delle case modeste, rischiarati da una mezza luce che ne abbelliva d'un'aria di mistero la grazia; quei dei palazzi, pieni di fiammelle, che facevan sfolgorare gli specchi e scintillare come getti d'argento vivo gli zampilli delle fontane, e luccicare di mille colori i marmi dei vestiboli, i musaici delle pareti, le vetriere delle porte, i cristalli dei doppieri. Si vedeva dentro un formicaio di signore, si sentiva per tutto un suon di risa, di voci, di musiche; pareva di passare in mezzo a tante sale da ballo; da ogni porta usciva un'onda di luce, di fragranze e d'armonie; le strade erano affollate; fra gli alberi delle piazze, sotto gli atrii, in fondo ai vicoli, sui terrazzini, da ogni parte si vedevan gonnelle bianche ondeggiare, sparire e riapparire nell'ombra; e testine ornate di fiori vezzeggiare alle finestre; e gruppi di giovani attraversar la folla gettando allegre grida; e gente salutarsi e discorrere fra le finestre e la strada, e per tutto un moto affrettato, un gridìo, un riso, una gaiezza carnevalesca. Siviglia non era più che un immenso giardino, nel quale folleggiava un popolo fremente di giovinezza e d'amore.

Per uno straniero, quelli son momenti assai tristi. Mi ricordo che avrei dato del capo nel muro. Erravo qua e là mezzo sbalordito, col capo basso, col cuore stretto, come se tutta quella gente si divertisse per insultare la mia solitudine e la mia malinconia. Era troppo tardi per portare le lettere di raccomandazione, troppo presto per andare a dormire: ero schiavo di quella folla e di quell'allegrezza, e dovetti subirla per molte ore. Provai un sollievo sforzandomi di non guardar in viso le donne; ma non ci riuscivo sempre, e quando i miei occhi incontravano per caso due pupille nere, la trafittura era più acerba, appunto perchè improvvisa, che se avessi sfidato il pericolo col cuore pronto. Ero pure in mezzo a quelle Sivigliane tremendamente famose! Le vedevo passare, strette al braccio dei loro mariti e dei loro amanti, toccavo le loro vesti, inspiravo il loro profumo, sentivo il suono delle loro molli parole, e il sangue mi saliva al capo come un'onda di fuoco. Fortunatamente mi ricordai d'aver inteso dire a Madrid da un Sivigliano che il Console d'Italia soleva passar la serata nella bottega d'un suo figliuolo negoziante; cercai questa bottega, la rinvenni, vi trovai il Console, e consegnandogli una lettera d'un amico suo:—Caro Signore!—gli dissi con un tuono drammatico che lo fece ridere;—mi soccorra lei; Siviglia mi fa paura!

A mezzanotte la città non aveva mutato aspetto; v'era ancora tutta quella folla e tutta quella luce; tornai all'albergo e mi chiusi nella camera coll'intenzione di andar a letto. Peggio che peggio. Le finestre della camera davano sur una piazza dove formicolava un visibilio di gente intorno a una banda musicale che non finiva mai di suonare; cessata la musica, cominciaron le chitarre, le grida degli acquaioli, i canti, le risa; tutta la notte fu un baccano da svegliare le talpe. Io feci un sogno delizioso e tormentoso ad un tempo; ma più tormentoso. Mi pareva d'esser legato al letto da una lunghissima treccia nera attorcigliata in mille nodi, e di sentirmi sulle labbra una bocca di brage che mi toglieva il respiro, e intorno al collo due manine vigorose che mi schiacciavano il capo contro il manico d'una chitarra.

La mattina seguente andai difilato a vedere la Cattedrale.

Per descrivere ammodo codesto smisurato edifizio, bisognerebbe aver sotto mano una raccolta di tutti gli aggettivi più sperticati e di tutte le più strampalate similitudini che uscirono dalla penna degli iperboleggiatori di tutti i paesi, ogni volta che ebbero a dipingere qualcosa di prodigiosamente alto, di mostruosamente largo, di spaventosamente profondo, d'incredibilmente grandioso. Quando ne parlo cogli amici, senza accorgermene, faccio anch'io, come il Mirabeau di Vittor Ugo, un colossal mouvement d'épaules, e gonfio le gote e ingrosso a grado a grado la voce a somiglianza di Tommaso Salvini nella tragedia Sansone, quando con un accento che fa fremer la platea, dice che si sente ricrescer ne' nervi il vigore. Parlar della Cattedrale di Siviglia, stanca come suonare un grosso strumento a fiato o sostenere una conversazione da una sponda all'altra d'un torrente rumoroso.

La Cattedrale di Siviglia è isolata in mezzo ad una vastissima piazza, e però se ne può misurar la grandezza con un colpo d'occhio. Sul primo momento, pensai al motto famoso che proferì il Capitolo della Chiesa primitiva, decretando l'8 luglio del 1401, la costruzione della nuova Cattedrale:—Inalziamo un siffatto monumento che faccia dire ai posteri che noi eravamo pazzi.—Quei reverendi canonici non hanno fallito al loro intento. Ma per accertarsene bisogna entrare. L'aspetto esterno della Cattedrale è grandioso e magnifico; ma senza paragone meno che l'interno. Manca la facciata; un alto muro circonda tutto l'edifizio a modo d'una fortezza. Per quanto si giri e si guardi, non si riesce a fissar nella mente un contorno unico che, al pari dell'epigrafe d'un libro, porga un chiaro concetto del disegno dell'opera; si ammira e si prorompe più d'una volta nell'esclamazione:—È immenso!—ma non ci si appaga; e s'entra nella chiesa frettolosamente, desiderosi di provare un sentimento di meraviglia più intero.

Al primo entrare si rimane sbalorditi, ci si sente smarriti come in un abisso; e per qualche momento non si fa che descrivere collo sguardo immense curve per quell'immenso spazio, quasi per accertarsi che la vista non c'inganna e la fantasia non c'illude. Poi ci si avvicina a uno dei pilastri, si misura, e si guardano gli altri lontani: son grossi come torri, e paion sottili da far fremere al pensiero che l'edifizio vi poggia su. Si percorrono ad uno ad uno, con uno sguardo rapido, dal pavimento alla vòlta, e par di poter contare i momenti che lo sguardo impiega a salire. Son cinque navate, che formerebbero ciascuna una grande chiesa. In quella di mezzo potrebbe passeggiare a testa alta un'altra Cattedrale colla sua cupola e il suo campanile. Tutte insieme formano sessantotto vòlte ardimentose che, a guardarle, par che lentamente si allarghino e si sollevino. Tutto è enorme in questa Cattedrale. La cappella maggiore, posta nel mezzo della navata principale, e alta fin quasi a toccar la volta, pare una cappella costrutta per de' sacerdoti giganti a' quali gli altari comuni non arrivino sino al ginocchio; il cero pasquale sembra un albero di bastimento; il candelabro di bronzo che lo sopporta, un pilastro d'una chiesa; gli organi, case; il coro, è un museo di scultura e di cesellatura, da meritare ei solo una visita d'una giornata. Le cappelle sono degne della chiesa: vi sono profusi i capolavori di sessantasette scultori e di trentotto pittori. Il Montanes, il Zurbaran, il Murillo, il Valdes, l'Herrera, il Boldan, il Roëlas, il Campana, v'hanno lasciato mille traccie immortali della loro mano. La cappella di san Ferdinando, che racchiude i sepolcri di questo Re, della sua sposa Beatrice, di Alfonso il Saggio, del celebre ministro Florida Blanca, e d'altri personaggi illustri, è una delle più belle e più ricche. Il corpo del re Ferdinando, che redense Siviglia dalla signoria degli Arabi, vestito della sua assisa guerriera, colla corona e col manto, riposa in una cassa di cristallo, coperta d'un velo. Da un lato è la spada che portava il giorno della sua entrata in Siviglia; dall'altro la canna, emblema del comando. In quella stessa cappella si conserva una piccola vergine d'avorio, che il santo Re portava seco in guerra, e altre reliquie di gran valore. Nelle restanti cappelle sono grandi altari di marmo, tombe di stile gotico, statue di pietra, di legno, d'argento, chiuse in ampie casse di cristallo, col petto e le mani coperte di diamanti e di rubini; e stupendi quadri, che, sgraziatamente, la scarsa luce che scende dalle alte finestre non rischiara tanto che si possano ammirare in tutta la loro bellezza.

Ma dalla considerazione delle cappelle, dei quadri, delle sculture, si ritorna senza posa ad ammirare la Cattedrale nel suo grandioso e, se si potesse dire, formidabile aspetto. Dopo essersi slanciati su fino a quelle altezze vertiginose, lo sguardo e la mente ricadono a terra, quasi stanchi dello sforzo, come per ripigliar nuova lena a salire. E le immagini che vi pullulano nel capo, rispondono alla vastità della Basilica: angeli smisurati, teste di cherubini mostruose, ali grandi come vele di naviglio, e svolazzi di manti candidi immensi. L'impressione che vi produce codesta Cattedrale è tutta religiosa; ma non mesta; è quel sentimento che trasporta il pensiero negli spazi interminati e nei tremendi silenzi, nei quali s'annegava il pensiero di Leopardi; è un sentimento pieno di desiderio e di ardire; il brivido voluttuoso che si prova sull'orlo d'un abisso; il turbamento e la confusione delle grandi idee; il divino terrore dell'infinito.

Come è la cattedrale più varia della Spagna (chè l'architettura gotica, la germanica, la greco-romana, l'araba e quella nominata volgarmente plateresca vi lasciarono ciascheduna una impronta), ella è pure la più ricca e la più privilegiata. Nei tempi della maggior potenza del clero, vi si bruciavano, ogni anno, ventimila libbre di cera; vi si celebravano, ogni giorno, su ottanta altari, cinquecento messe; il vino che si consumava nel sacrifizio ascendeva all'incredibile quantità di diciottomila settecento cinquanta litri. I canonici avevano un servidorame da monarchi, si recavano alla chiesa in splendide carrozze tirate da superbi cavalli, si facevano sventolare dai chierici, mentre celebravan la messa, con enormi ventagli ornati di piume e di perle; diritto concesso loro dal Papa, del quale alcuni approfittano ancora oggigiorno. Non occorre parlare delle feste della settimana santa che sono ancora adesso famose nel mondo, e alle quali accorre gente da tutte le parti d'Europa.

Ma il privilegio più curioso della cattedrale di Siviglia è la così detta danza de los seises, che ha luogo ogni sera, sull'imbrunire, per otto giorni consecutivi, dopo la festa del Corpus Domini. Poichè fui a Siviglia in quei giorni, l'andai a vedere, e mi parve cosa degna di esser descritta. Da quanto me n'era stato detto prima, mi pareva che la dovesse essere una pagliacciata scandalosa, ed entrai nella chiesa coll'animo preparato a un sentimento di sdegno per la profanazione del luogo sacro. La chiesa era buia; la sola cappella maggiore illuminata; una folla di donne ginocchioni ingombrava lo spazio fra la cappella e il coro. Alcuni preti stavan seduti a destra e sinistra dell'altare; davanti alla gradinata era disteso un ampio tappeto; due file di ragazzi dagli otto ai dodici anni, vestiti da cavalieri spagnuoli del medio evo, con cappello piumato e calze bianche, eran schierati gli uni di fronte agli altri, in faccia all'altare. A un cenno dato da un sacerdote, una soave musica di violini ruppe il silenzio profondo della chiesa, e le due schiere di ragazzi si mossero con un passo di contraddanza, e cominciarono a dividersi, a intrecciarsi, a sciogliersi, a riannodarsi, con mille graziosissimi giri; e poi proruppero tutti insieme in un canto armonioso e gentile, che echeggiò nell'oscurità della vasta cattedrale come la voce d'un coro d'angeli; e un momento dopo, si misero ad accompagnare la danza ed il canto colle nacchere. Nessuna cerimonia religiosa mi commosse mai come questa. È impossibile esprimere l'effetto che producevano quelle vocine sotto quelle immense vòlte; quelle creaturine ai piedi di quell'altare enorme; quella danza composta, quasi umile; quel costume antico, quella folla prostrata, e intorno intorno quelle tenebre. Uscii dalla chiesa coll'anima serena come se avessi pregato.

A proposito di questo ballo mi fu raccontato un aneddoto assai curioso. Due secoli or sono, un arcivescovo di Siviglia al quale pareva che colle contraddanze e le nacchere non si lodasse degnamente il Signore, volle proibire la cerimonia. Ne seguì un sottosopra: il popolo strepitò; i canonici alzaron la voce; l'arcivescovo fu costretto a chieder soccorso al papa. Il papa, curioso, volle vedere coi suoi occhi il ballonzolo per poter giudicare con conoscimento di causa. I ragazzi, vestiti da cavalieri, furon condotti a Roma, ricevuti nel Vaticano e fatti danzare e cantare in presenza di Sua Santità. Sua Santità rise, non disapprovò, e volendo dare un colpo al cerchio e uno alla botte, ossia contentare i canonici senza scontentare l'arcivescovo, decretò che i ragazzi potessero continuare a ballare finché avessero logorato i vestiti che si trovavano addosso; dopo di che la cerimonia si sarebbe considerata come abolita. L'arcivescovo rise sotto i baffi, se li aveva, e i canonici risero anch'essi, come quelli che avevan già trovata la maniera di farla in barba all'arcivescovo e al papa. E infatti essi rinnovarono ai ragazzi ogni anno una parte del vestiario, in modo che non si potesse dire mai che tutto il vestiario era logoro; e l'arcivescovo che, da uomo scrupoloso, pigliava l'ordine del papa alla lettera, non si potè opporre alla ripetizione della cerimonia. Così si continuò a ballare e si balla e si ballerà fin che piaccia ai canonici e a Domeneddio.

Mentre stavo per uscir dalla chiesa, un sacrestano mi fece un cenno, mi condusse dietro al coro, e m'indicò una lastra del pavimento, sulla quale lessi una iscrizione che mi fece battere il cuore. Sotto quella pietra sono sepolte le ossa di Ferdinando Colombo, figlio di Cristoforo, nato a Cordova, morto a Siviglia il 12 luglio del 1536, nell'età di cinquant'anni. Sotto l'iscrizione si leggono alcuni distici latini del seguente significato:

«Che vale ch'io abbia bagnato dei miei sudori l'intero universo, ch'io abbia percorso tre volte il nuovo mondo scoperto da mio padre, ch'io abbia abbellito le rive del tranquillo Beti, e preferito i miei gusti semplici alle ricchezze per riunire intorno a te le divinità della sorgente di Castalia, e offrirti i tesori raccolti già da Tolomeo, se tu, passando in silenzio su questa pietra, non rivolgi nemmeno un saluto a mio padre, e a me un lieve ricordo?»

Il sacrestano che ne sapeva più di me, mi spiegò questa iscrizione. Ferdinando Colombo fu, giovanissimo, paggio di Isabella la Cattolica e del principe Don Giovanni; viaggiò nelle Indie con suo padre e suo fratello, l'ammiraglio Don Diego, seguì l'imperatore Carlo V nelle sue guerre, fece altri viaggi in Asia, in Affrica e nell'America, e per tutto raccolse con infinite cure e ingenti spese libri preziosissimi, dei quali compose una biblioteca, che dopo la sua morte passò nelle mani del capitolo della cattedrale, e rimane tuttora col titolo famoso di Biblioteca Colombina. Prima di morire scrisse egli stesso i distici latini che si leggono sulla pietra della sua tomba e manifestò il desiderio di essere sepolto nella cattedrale. Negli ultimi momenti della sua vita, si fece portare un vassoio pieno di cenere, se ne asperse il viso pronunziando le parole della Sacra Scrittura: Memento homo quia pulvis es, intonò il Te Deum, sorrise e spirò colla serenità d'un santo. Subito mi prese il desiderio di visitar la biblioteca e uscii dalla chiesa.

Un cicerone mi arrestò sulla soglia per domandarmi se avevo visto il Patio de los Naranjos (il cortile degli aranci), e avendogli risposto di no, mi ci condusse. Il cortile degli aranci è posto a tramontana della cattedrale, e cinto d'un gran muro merlato. Nel mezzo sorge una fontana, circondata da un boschetto d'aranci, e da un lato, accanto al muro, un pulpito di marmo, ai piedi del quale narra la tradizione che predicasse san Vincenzo Ferrero. Nello spazio di questo cortile, che è amplissimo, sorgeva l'antica moschea che si crede sia stata costrutta verso la fine del secolo duodecimo. Ora non ne rimane più traccia. All'ombra degli aranci, sull'orlo della vasca della fontana, vanno a pigliare il fresco i buoni sivigliani en las ardientes siestas del estio; e a rammentare il voluttuoso paradiso di Maometto non resta che la leggiadra verzura e l'aria imbalsamata, e ad ora ad ora qualche bella fanciulla dai grandi occhi che vi saetta trasvolando in mezzo agli alberi lontani.

La famosa Giralda della cattedrale di Siviglia, è un'antica torre araba, costrutta, a quanto si afferma, nell'anno mille, sul disegno dell'architetto Gaver, inventore dell'algebra; modificata nella parte superiore dopo la riconquista, e ridotta così a campanile cristiano; ma pur sempre araba all'aspetto, e tuttavia più altera dello sparito stendardo dei vinti, che non della croce a lei nuovamente imposta dai vincitori. È un monumento che produce una sensazione nuova; fa sorridere; è smisurato e imponente come una piramide egizia, e ad un tempo gaio e gentile come un chiosco di giardino. È una torre di mattoni, quadrata, d'un bellissimo color di rosa, nuda fino a una certa altezza, e di qui in su ornata di finestrine moresche, binate, sparse qua e là come a caso, munite di balconcini che fanno un bellissimo vedere. Sul piano dove posava anticamente un tetto variopinto, sormontato d'un'asta di ferro che sorreggeva quattro enormi palle dorate; sorge il campanile cristiano, di tre piani, il primo occupato dalle campane, il secondo cinto d'una balaustrata, il terzo formato da una specie di cupola, sulla quale gira come una banderuola una colossale statua di bronzo dorato, che rappresenta la Fede, con una palma da una mano e dall'altra uno stendardo, visibile a grande distanza da Siviglia, e quando vi batte il sole, scintillante a somiglianza di un enorme rubino confitto nella corona d'un re titano che signoreggi collo sguardo tutta la vallata andalusa.

Salii fino alla sommità, e là fui ampiamente compensato delle fatiche della salita. Siviglia, tutta bianca come una città di marmo, cinta d'una corona di giardini, di boschi e di viali, in mezzo ad una campagna sparsa di ville, si stende sotto allo sguardo in tutta la pompa della sua bellezza orientale. Il Guadalquivir carico di navi l'attraversa e l'abbraccia con un larghissimo giro. Qui la Torre dell'Oro disegna le sue graziose forme sulle acque azzurre del fiume, là l'Alcazar ostenta le sue austere torri, più oltre giardini del Montpensier spingono oltre i tetti degli edifizii un ammasso enorme di verzura; lo sguardo penetra dentro il circo dei tori, nei giardini delle piazze, nei patios delle case, nei claustri delle chiese, in tutte le strade che vengono a sboccare intorno alla cattedrale; lontano, si scorgono i villaggi di Santi-Ponce, di Algaba ed altri che biancheggiano alle falde delle colline; a destra del Guadalquivir, il grande borgo di Triana; da un lato, lontanissimo, le creste dentellate della Sierra Morena; dal lato opposto altri monti svariati d'infinite tinte azzurrine; e sopra questo meraviglioso panorama il più puro, il più trasparente, il più incantevole cielo che abbia mai sorriso allo sguardo dell'uomo.

Sceso dalla Giralda, andai a vedere la biblioteca Colombina, posta in un edifizio antico, accanto al Patio de los Naranjos. Dopo aver visto una collezione di messali, di bibbie, di manoscritti preziosi, uno tra i quali attribuito ad Alfonso il Saggio, intitolato: Il Libro del Tesoro, scritto con diligentissima cura nella vecchia lingua spagnuola; vidi,—lasciatemelo ripetere,—vidi,—io—coi miei occhi inumiditi, e premendomi una mano sul cuore che mi batteva forte, vidi un libro, un trattato di cosmografia e di astronomia, in latino, coi margini coperti di note scritte dalla mano di Cristoforo Colombo. Egli aveva studiato quel libro quando volgeva in mente il grande disegno, aveva vegliato su quelle pagine, le aveva toccate, forse la sua divina fronte, in quelle veglie faticose, si era qualche volta chinata con uno stanco abbandono su quelle pergamene, e le aveva bagnate di sudore! È un pensiero che fa fremere! Ma c'è ben altro! Vidi uno scritto della mano di Colombo, nel quale sono raccolte tutte le profezie degli antichi scrittori sacri e profani intorno alla scoperta d'un nuovo mondo; scritto del quale egli si servì, a quanto pare, per indurre i sovrani di Spagna a fornirgli i mezzi di tentare la sua impresa. V'è, fra gli altri, un passo della Medea del Seneca, che dice: Venient annis sæcula seris, quibus oceanus vincula rerum laxet, et ingens Pateat tellus. E nel volume del Seneca, che si trova pure nella biblioteca Colombina, accanto al passo citato, v'è una annotazione del figlio Ferdinando, che dice:—Questa profezia è stata avverata da mio padre, l'ammiraglio Cristoforo Colombo, l'anno 1492.—Mi si riempiron gli occhi di lacrime; avrei voluto esser solo per baciare quei libri, per stancarmi a forza di rivolgerli tra le mani, per poterne staccare un piccolo frammento e portarlo con me, come una cosa sacra. Cristoforo Colombo! Ho visto i suoi caratteri! Ho toccato i fogli ch'egli ha toccato! L'ho sentito così vicino a me! Uscendo dalla biblioteca, non so.... mi sarei gettato in mezzo alle fiamme per salvare un bambino, mi sarei spogliato per soccorrere un povero, avrei fatto lietamente qualche grande sacrifizio; ero tanto ricco!

Dopo la biblioteca, l'Alcazar; ma prima di arrivare all'Alcazar, benchè si trovi nella stessa piazza della cattedrale, sentii per la prima volta che cos'è il sole dell'Andalusia. Siviglia è la città più calda della Spagna, quella era l'ora più calda della giornata, ed io mi trovavo nel punto più caldo della città; v'era un oceano di luce; non una porta, non una finestra aperta, non un'anima viva; se m'avessero detto che Siviglia era disabitata, l'avrei potuto credere. Attraversai la piazza lentamente cogli occhi socchiusi, col viso raggrinzato, col sudore che mi filava a grosse goccie giù per le guancie e per il petto, con le mani che mi pareva d'averle tuffate in un secchio d'acqua. Vicino all'Alcazar trovai una specie di baracca d'un acquaiolo, e mi cacciai sotto colla precipitazione d'un uomo che si ripari da una tempesta di sassi. Ripreso un po' di fiato, mi mossi verso l'Alcazar.

L'Alcazar, antico palazzo dei Re mori, è uno dei monumenti meglio conservati della Spagna. Visto di fuori, pare una fortezza: è tutto cinto di alte mura, di torri merlate e di vecchie case, che formano davanti alla facciata due spaziosi cortili. La facciata è nuda e severa come le altre parti esteriori dell'edifizio. La porta è ornata di arabeschi dorati e dipinti, fra i quali si vede una iscrizione gotica che accenna il tempo in cui l'Alcazar fu restaurato per ordine del re Don Pedro. L'Alcazar, infatti, benchè sia un palazzo arabo, è opera più dei re Cristiani che dei re Arabi. Fondato non si sa precisamente in che anno, fu ricostrutto dal re Abdelasio verso la fine del dodicesimo secolo; conquistato dal re Ferdinando verso la metà del secolo decimo terzo; rifatto una seconda volta, nel secolo seguente, dal re Don Pedro; abitato poi, per più o meno tempo, da quasi tutti i re di Castiglia; e infine scelto da Carlo V per celebrarvi il suo matrimonio coll'Infanta di Portogallo. L'Alcazar fu testimone degli amori e dei delitti di tre schiatte di Re; ogni sua pietra desta un ricordo e custodisce un segreto.

Si entra, si attraversano due o tre sale, nelle quali non riman più d'arabo che il soffitto e qualche musaico a piè dei muri, e si riesce in un cortile dove si rimane attoniti dalla meraviglia. Un portico ad archi elegantissimi si stende lungo i quattro lati, sostenuto da colonnine di marmo, unite a due a due; e gli archi e i muri e le finestre e le porte son coperte di sculture, di musaici, di arabeschi intricatissimi e delicatissimi, dove traforati come veli di trina; dove fitti e chiusi come tappeti trapunti; dove sporgenti e penzoli come mazzi e ghirlande di fiori; e fuor che i musaici dai mille colori, ogni cosa è bianco, nitido, luccicante come l'avorio. Ai quattro lati son quattro grandi porte per le quali si entra nelle sale reali. Qui la meraviglia si muta in incanto. Quanto di più ricco, di più vario, di più splendido può sognare la più ardente fantasia nel più ardente dei suoi sogni, si trova in codeste sale. Dal pavimento alla volta, intorno alle porte, lungo gli spigoli delle finestre, negli angoli più appartati, in qualunque parte cada lo sguardo, appare un tal formicolío di ornamenti d'oro e di pietre preziose, una così fitta rete di arabeschi e d'iscrizioni, una così meravigliosa profusione di disegni e di colori, che appena si son fatti venti passi, si è sbalorditi e confusi, e l'occhio erra qua e là stanco, quasi cercando un palmo di parete nuda, in cui rifugiarsi e riposare. In una di queste sale il custode vi accenna una macchia rossastra che copre un buon tratto del pavimento marmoreo, e vi dice con voce solenne:

“Questa è la traccia del sangue di Don Fadrique gran mastro dell'Ordine di Sant'Jago, ucciso in questo luogo medesimo, l'anno 1358, per ordine del re Don Pedro, suo fratello.”

Mi ricordo che quando udii queste parole guardai in viso il custode coll'aria di voler dire:—Gnamo, via;—e che il buon uomo mi rispose con un tuono secco:

Caballero, se io le dicessi di creder la cosa sulla mia parola, ella avrebbe ogni ragione di dubitarne; ma quando la cosa la può veder lei coi suoi occhi, sbaglierò, ma... mi pare...”

“Sì,” m'affrettai a dire, “sì, è sangue, lo credo, lo vedo, non parliamone più.”

Ma se si può scherzar sulla macchia del sangue, non si può sulla tradizione di quel delitto; l'aspetto del luogo ne ravviva nella mente tutti i più orrendi particolari. Per l'ampie sale dorate par di sentir risuonare il passo di Don Fadrique, inseguito dai balestrieri armati di mazze; il palazzo è immerso nelle tenebre; non si sente altro rumore che quello dei carnefici e della vittima; Don Fadrique cerca di entrar nel cortile, Lopez de Padilla lo agguanta, Fadrique si scioglie, è nel cortile, afferra la spada, maledizione! la croce dell'elsa s'è intricata nel mantello dell'Ordine di Sant'Jago, i balestrieri sopraggiungono, ei non ha più tempo a sguainare la lama, fugge qua e là a tentoni, Fernandez de Roa lo raggiunge e lo atterra con un colpo di mazza, gli altri gli si avventano addosso e feriscono, Faldrico spira in un lago di sangue....

Ma questo tristo ricordo si perde in mezzo alle mille immagini della vita deliziosa dei re Arabi. Quelle finestrine gentili, alle quali par che si debba affacciar da un momento all'altro un volto languido di Odalisca; quelle porte segrete, davanti alle quali vi fermate vostro malgrado, come se aveste sentito il fruscío d'una veste; quei dormentori dei Sultani, immersi in una oscurità misteriosa, nei quali vi par di sentir confusi in un solo i gemiti amorosi di tutte le fanciulle che vi perdettero il fior verginale; quella prodigiosa varietà di colori e di fregi che a somiglianza di una concitatissima e sempre cangiante sinfonia vi leva i sensi in non so quale smarrimento fantastico che vi fa dubitar di sognare; quell'architettura delicata e leggerissima, tutta colonnine che paion braccia di donne, archetti capricciosi, stanzini, volte affollate di ornamenti che pendono in forma di stallatiti, di diacciuoli e di grappoli, variopinte come aiuole fiorite; tutto questo vi mette il desiderio di sedervi in mezzo a una di quelle sale, e di star là premendovi sul cuore una bella testa bruna d'Andalusa, che vi faccia dimenticare il mondo e il tempo, e con un lunghissimo bacio che vi assorbisca la vita vi addormenti per sempre.

Al pian terreno, la più bella sala è quella degli ambasciatori, formata da quattro grandi archi che sostengono una galleria di quarantaquattro archi minori, e in alto una leggiadra cupola scolpita, dipinta, dorata, ricamata con una grazia inimitabile e uno sfarzo favoloso. Al piano superiore, dov'eran gli appartamenti d'inverno, non rimane che un oratorio di Ferdinando e d'Isabella la Cattolica, e una piccola stanza che si dice sia quella in cui dormiva il re Don Pedro. Di qui si scende per una scala stretta e misteriosa nelle stanze in cui abitava la famosa Maria di Padilla, favorita di Don Pedro, che la tradizione popolare accusa d'aver istigato il re al fratricidio.

I giardini dell'Alcazar non sono molto vasti, nè straordinariamente belli; ma i ricordi che destano valgon più della vastità e della bellezza. All'ombra di quegli aranci e di quei cipressi, al mormorio di quelle fontane, quando splendeva in quel purissimo cielo andaluso una grande e candida luna, e il folto sciame dei cortigiani e degli schiavi posava; quanti lunghi sospiri di ardenti sultane! quante umili parole di re superbi! che tremendi amori, e che tremendi amplessi!—Itimad! mio amore!—mormoravo io, pensando all'amante famosa di re Al-Motamid, e intanto giravo di sentiero in sentiero come inseguendo il suo fantasma;—Itimad! Non lasciarmi solo in questo tacito paradiso! Arrestati! Rendimi un'ora della felicità di questa notte! Ti ricordi? Tu venisti a me, e la tua ricca chioma cadde sulle mie spalle come un manto; e in quel modo che il guerriero impugna la sua spada, io afferrai il tuo collo più bianco e più morbido di quello del cigno! Com'eri bella! Come il mio cuore ansioso estinse la sua sete dentro la tua bocca color di sangue! Il tuo bel corpo uscì dalla tua veste splendidamente ricamata, come una lama nitida e scintillante esce dalla guaina; e allora io premetti con ambe le mani i tuoi grandi fianchi, e la tua vita sottile e tutta la perfezione della tua bellezza! Come sei cara, Itimad! Il tuo bacio è dolce come il vino, e il tuo sguardo, come il vino, fa smarrir la ragione!

Mentre facevo così la mia dichiarazione amorosa con frasi e immagini rubacchiate ai poeti arabi, e proprio nel momento che infilavo un sentiero tutto fiancheggiato da' fiori, mi sentii a un tratto venir su tra gamba e gamba uno zampillo d'acqua; feci un salto indietro, ricevetti uno spruzzo nel viso; mi voltai a destra, uno spruzzo nel collo; mi girai a sinistra, uno spruzzo nella nuca; mi misi a correre, acqua di sotto, dai lati, da tutte le parti, a zampilli, a sprazzi, a pioggia, così che in un momento mi trovai fradicio come se mi avessero tuffato in una tinozza. Nel punto che apro la bocca per gridare, tutto cessa, e sento una sonora risata in fondo al giardino; mi volto, e vedo un giovanotto, appoggiato a un muricciuolo, che mi guarda coll'aria di dire:—Le è piaciuto?—Quando uscii mi mostrò l'ordigno che aveva toccato per farmi quella broma (facezia), e mi confortò assicurandomi che il sole di Siviglia non mi avrebbe lasciato molto tempo in quello stato di spugna intrisa, a cui ero passato così bruscamente, me infelice! dalle braccia amorose della mia sultana.

La sera, malgrado le voluttuose immagini che m'avea suscitate nella mente l'Alcazar, fui abbastanza calmo da poter considerare la bellezza delle sivigliane senza esser poi costretto cercare uno scampo tra le braccia del console. Io non credo che in nessun paese esistan donne più atte delle andaluse a far concepire il disegno d'un rapimento; non solo perchè destin la passione che fa far le corbellerie; ma perchè davvero paion fatte apposta per esser prese, abballottate e nascoste, tanto son piccole, leggiere, rotondette, elastiche, morbidine. I loro piedini vi entrerebbero agevolmente tutti e due in una tasca del soprabito, con una mano le levereste su per la vita come le bambole, e premendole un po' con un dito le pieghereste come una verghetta di giunco. Alla bellezza naturale accoppian poi l'arte di camminare e di guardare in una maniera da far dar di volta al cervello. Scivolano, sguisciano, ondeggiano; in un momento solo, passandovi accanto, vi mostrano il piedino, vi fanno ammirare il braccio, vi mettono in evidenza la vitina, vi scoprono due file di denti bianchissimi, e vi lanciano uno sguardo lungo e velato che si figge e muore nel vostro; e poi tiran via con aria di trionfo, sicure d'avervi messo il sangue sossopra.

Per avere un'idea della bellezza delle donne del popolo e della loro foggia di vestire, andai a vedere il giorno dopo la fabbrica di tabacchi, che è una delle più vaste d'Europa e conta non meno di cinquemila operaie. L'edifizio è di fronte al vasto giardino del duca di Montpensier; le operaie si trovan quasi tutte in tre grandissime sale, divisa ciascuna in tre parti da tre file di pilastri. Il primo colpo d'occhio è stupendo; vi si presentano tutte insieme allo sguardo ottocento ragazze, divise in gruppi di cinque o sei, sedute intorno ai tavolini da lavoro, fitte come una folla, le lontane confuse, le ultime appena visibili; tutte giovani, poche bambine; ottocento chiome nerissime e ottocento visi bruni di ogni provincia d'Andalusia, da Iaen a Cadice, da Granata a Siviglia. Si sente un brulichío come in una piazza piena di popolo. Le pareti, dalla porta d'entrata fino alla porta d'uscita, in tutte tre le sale, sono tappezzate di gonnelle, di scialli, di fazzoletti, di sciarpe; e, cosa curiosissima, tutto quell'ammasso di cenci che basterebbe a riempire cento botteghe da rigattiere, presenta due colori dominanti, tutti e due continui, l'uno sotto l'altro, come i colori d'una lunghissima bandiera: il nero degli scialli sopra, il roseo delle vesti sotto; misto al rosso il bianco, il porporino, il giallo; e par di vedere un'immensa bottega di maschere o un'immensa sala da ballo in cui le ballerine, per esser più libere, abbiano appeso al muro tutto ciò che non è strettamente necessario a salvare il pudore. Le ragazze si rimettono quei vestiti per uscire; per lavorare veston roba da strapazzo; ma ugualmente bianca o rosea. Il caldo essendo insopportabile, tutte s'alleggeriscono quant'è possibile, e perciò fra quelle cinquemila ve ne saranno appena una cinquantina delle quali il visitatore non possa contemplare a suo bell'agio il braccio e la spalla, senza tener conto dei casi straordinari che si presentano all'improvviso passare da una sala all'altra, dietro le porte e le colonne, e in fondo agli angoli lontani. Vi sono dei visi bellissimi; ed anco i non belli hanno qualche cosa che attira lo sguardo e s'imprime nella memoria: il colorito, l'occhio, le ciglia, il sorriso. Molte, e specie le così dette gitane, sono d'un bruno carico come le mulatte, e han le labbra tumide; altre, gli occhi tanto grandi che un loro ritratto fedele parrebbe un'esagerazione mostruosa; la maggior parte son piccine e ben fatte, e tutte hanno una rosa o una viola o un mazzetto di fiori di campo fra le treccie. Sono pagate in ragione del lavoro che fanno; le più abili e le più operose guadagnano fino a tre lire il giorno; le pigre— las holgazanas —dormono colle braccia incrociate sul tavolo e la testa appoggiata sulle braccia; le mamme lavorano dimenando una gamba cui è legata una cordicella che fa dondolare una culla. Dalla sala dei sigari si passa in quella dei cigarritos, da quella dei cigarritos in quella delle scatole, da quella delle scatole in quella delle casse, e per tutto si vedon sottane color di rosa, treccie nere ed occhioni. In una sola di quelle sale quante storie d'amore, di gelosie, d'abbandoni e di miserie! All'uscire di quella fabbrica, per un pezzo vi par di vedere da ogni parte pupille nere che vi guardano con mille espressioni diverse di curiosità, di noia, di simpatia, di allegrezza, di mestizia, di sonno.

Lo stesso giorno andai a vedere il Museo di pittura.

Il Museo di pittura di Siviglia non possiede un gran numero di quadri; ma quei pochi valgono un grande Museo. Vi sono i capolavori del Murillo, e fra questi l'immortale Sant'Antonio da Padova, che ha fama di essere la più divinamente ispirata delle sue creazioni, e una delle più grandi meraviglie del genio umano. Visitai quel Museo col signor Gonzalo Segovia e Ardizone, uno dei più illustri giovani di Siviglia, e vorrei ch'egli fosse ora qui, accanto al mio tavolino, per testificare con una noticina firmata che nel punto ch'io fissai gli occhi su quel quadro, lo afferrai pel braccio e gettai un grido.

Una volta sola, in vita mia, provai una commozione della natura di quella che m'assalì alla vista di quel l'immagine. Era una bella notte d'estate, il cielo tutto scintillante di stelle, e la vasta campagna che si abbracciava con uno sguardo dal luogo alto dove mi trovavo, immersa in una quiete profonda. Una delle più nobili creature ch'io abbia incontrato finora nella vita, era accanto a me. Poche ore prima avevamo letto alcune pagine d'un libro dell'Humboldt. Guardavamo il cielo, e parlavamo del moto della terra, dei milioni dei mondi, dell'infinito, con quel tuono sommesso, quasi di voce lontana, che vien spontaneo quando si parla di tali cose, di notte, in un luogo silenzioso. A un certo punto tacemmo, e ciascuno si abbandonò, cogli occhi fissi nel cielo, alle sue fantasie. Io non so per qual ordine di pensieri riuscii dove riuscii; non so che misterioso movimento d'affetti si sia prodotto nel mio cuore; non so che cosa abbia veduto, o traveduto, o sognato; so che tutto ad un tratto mi parve che si squarciasse un velo davanti alla mia mente, sentii dentro di me una infinita sicurezza di ciò che fino allora avevo piuttosto desiderato che creduto, il mio cuore si dilatò in un sentimento di gioia suprema, d'una dolcezza angelica, d'una speranza immensa; un'onda di lagrime ardenti mi sgorgò impetuosamente dagli occhi, e afferrando la mano amica che cercava la mia, gridai dal più profondo dell'anima:—È vero! È vero! È vero!—e mi misi a piangere come un bambino.

Il Sant'Antonio di Padova mi fece riprovare la commozione di quella sera. Il santo è inginocchiato in mezzo alla sua cella: il bambino Gesù, circonfuso d'una luce bionda e vaporosa, attirato dalla forza della preghiera, scende fra le sue braccia; Sant'Antonio, rapito in estasi, si slancia con tutto il suo corpo e tutta la sua anima verso di lui, rovesciando indietro la sua testa raggiante in uno spasimo di voluttà sovrumana. Tale fu la scossa che mi diede questo quadro, che pochi minuti di contemplazione mi lasciarono stanco come se avessi percorso un grande Museo; e mi prese un tremito che mi durò per tutto il tempo ch'io rimasi in quella sala. Vidi in seguito gli altri grandi quadri del Murillo: una Concezione, un San Francesco che abbraccia Cristo, un'altra Visione di Sant'Antonio, ed altri che non son meno di venti, tra i quali la incantevole e famosa Vergine della Servietta, dipinta dal Murillo sur una servietta vera, nel Convento de' Cappuccini di Siviglia, per soddisfare un desiderio del laico che lo serviva: una delle sue più delicate creazioni, nella quale profuse tutta la magia dei suoi inimitabili colori; ma nessuno di questi quadri che pur sono oggetto di meraviglia a tutti gli artisti del mondo, staccò il mio pensiero e il mio cuore da quel divino Sant'Antonio.

V'hanno pure in quel Museo quadri dei due Herrera, del Pacheco, di Alfonso Cano, di Paolo di Cespedes, del Valdes, del Mulato, che fu servitore del Murillo e ne imitò abilmente la maniera; e infine il famoso gran quadro l' Apoteosi di San Tommaso d'Aquino di Francesco Zurbaran, uno dei più eminenti artisti del secolo decimosettimo, soprannominato il Caravaggio spagnuolo, forse superiore a questi nella verità e nel sentimento morale, naturalista possente, colorista vigoroso, inimitabile rappresentatore di frati austeri, di santi macerati, di eremiti pensosi, di sacerdoti terribili; e poeta insuperato della penitenza, della solitudine, della meditazione.

Dopo avermi fatto vedere il Museo di Pittura, il signor Gonzalo Segovia mi condusse per un andirivieni di stradine, nella strada Francos, che è una delle principali della città, e fermatosi dinanzi a una piccola bottega da mercante di panni, mi disse sorridendo:

“Guardi; non le fa pensare a nulla questa bottega?”

“In verità,” risposi, “a nulla.”

“Guardi il numero.”

“È il numero quindici: e con questo?”

“Oh! cospetto,” esclamò allora il mio amabile cicerone:

«Numero quindici,
A mano manca!»

“La bottega del Barbiere di Siviglia!” gridai.

“Appunto,” egli mi rispose; “la bottega del barbiere di Siviglia; ma badi, se ne parlerà in Italia, non giuri, perchè le tradizioni sono spesso traditrici, e io non vorrei addossarmi la responsabilità d'una affermazione storica di tanta importanza.”

In quel momento il mercante s'affacciò alla porta della bottega, e indovinando il perchè eravamo là, rise, e ci disse:— No está. —Figaro non c'è, e facendoci un grazioso saluto, si ritrasse.

Allora pregai il signor Gonzalo di farmi vedere un patio, uno di quegl'incantevoli patios, che, a guardarli dalla strada, mi facevan fantasticare tante delizie. “Voglio vederne almeno uno,” gli dissi, “penetrare una volta in mezzo a quei misteri, toccar le pareti, assicurarmi che sono una cosa vera, e non una visione.”—Il mio desiderio fu subito appagato. Entrammo nel patio d'un amico suo. Il signor Gonzalo disse al servitore lo scopo della visita, e rimanemmo soli. La casa non aveva che un piano. Il patio non era più spazioso d'una sala comune; ma tutto marmo e fiori, e uno schizzo d'acqua nel mezzo, e intorno quadri e statuette, e fra tetto e tetto una tenda che riparava dal sole. In un canto si vedeva un tavolino da lavoro, e qua e là seggiole e panchettine, sulle quali s'eran forse posati poco prima i piedi di qualche Andalusa che in quel momento ci osservava di fra le stecche d'una persiana. Io guardai minutamente ogni cosa, come avrei fatto in una casa abbandonata dalle fate; sedetti, chiusi gli occhi e immaginai d'essere il padrone; poi m'alzai, bagnai una mano allo zampillo della fontana, palpai una colonnetta, m'affacciai alla porta, presi un fiore, alzai gli occhi alle finestre, risi, misi un sospiro, e dissi:—“Quanto debbono esser felici coloro che vivon qui!”—In quel punto sentii ridere, mi voltai, e vidi lampeggiar dietro una persiana due neri occhietti, che sparirono subito. “In verità,” dissi “non credevo che su questa terra si potesse ancora vivere tanto poeticamente! E pensar che voi vi godete queste case per tutta la vita! E che avete ancora voglia di stillarvi il cervello colla politica!”—Il signor Gonzalo mi spiegò i secreti della casa.—“Tutti questi mobili,” mi disse “questi quadri, questi vasi di fiori, all'avvicinarsi dell'autunno scompaion di qui e risalgono al primo piano, che è l'abitazione dell'inverno e della primavera. All'avvicinarsi dell'estate, letti, armadii, tavole, seggiole, ogni cosa si riporta nelle stanze a pian terreno, e la famiglia dorme qui, e desina, riceve gli amici e lavora, in mezzo ai fiori e ai marmi, al mormorío della fontana. E poichè la notte si lascian le porte aperte, dalle stanze dove si dorme si vede il patio illuminato dalla luna, e si sente l'odor delle rose.”—“Oh basta!” esclamai, “basta, signor Gonzalo, abbia pietà degli stranieri!”—E ridendo di cuore tutti e due, uscimmo per andar a vedere la famosa Casa de Pilatos.

Passando per una stradina solitaria, vidi nelle vetrine d'una chincaglieria un assortimento di coltelli così spropositatamente larghi e lunghi e stravaganti, che mi venne il desiderio di comprarne uno. Entrai, me ne fu schierata una ventina sotto gli occhi, ed io me li feci aprire uno per uno. Ad ogni scatto di lama indietreggiavo d'un passo. Non credo che si possa immaginare un'arma di aspetto più barbaro e più orrendo di questa. Da un manico di rame, o d'ottone, o di corno, un po' curvo, e lavorato a trafori che lascian vedere delle striscioline di talco di varii colori, balza fuori, producendo un rumore simile a quello d'una raganella, una lama larga come la palma della mano, lunga due palmi, acuta come un pugnale, della forma di un pesce, ornata d'intagli colorati di rosso che paion righe di sangue rappreso, e d'iscrizioni minacciose e feroci. Sur una è scritto in spagnuolo:— Non aprirmi senza ragione, non chiudermi senza onore; —sur un'altra:— Dove tocco è finita; —sur una terza:— Quando questa serpe morde, il medico non ci ha più che fare; —ed altre galanterie di questa natura. Il nome proprio di questi coltelli è navaja che vuol dire anche rasoio, e la navaja è l'arma da duello del popolo. Ora, è un po' caduta in disuso, ma una volta era in grande onore; v'erano i maestri, ciascuno aveva il suo colpo segreto, si facevan dei duelli secondo tutte le regole della cavalleria. Comprai la più spropositata navaja della bottega, e ripigliammo la nostra strada.

La Casa de Pilato, posseduta dalla famiglia di Medina-Cœli, è, dopo l'Alcazar, il più bel monumento d'architettura araba che esista a Siviglia. Il nome di Casa di Pilato le venne da che il suo fondatore, Don Enriquez de Ribera, primo marchese di Tarifa, la fece costrurre, secondo si narra, ad imitazione della casa del pretore Romano ch'egli aveva vista a Gerusalemme dove s'era recato in pellegrinaggio. L'aspetto esteriore dell'edifizio è modesto; l'interno è meraviglioso. Si entra dapprima in un cortile, non meno bello di quello incantevole dell'Alcazar, cinto d'un doppio ordine di archi sostenuti da leggiadre colonne di marmo, che forman due leggerissime gallerie, l'una sovrapposta all'altra, e delicate tanto alla vista da far temere che rovinino al primo soffio di vento. Nel mezzo è una graziosa fontana, sorretta da quattro delfini di marmo e coronata d'una testa di Giano. I muri sono ornati, in basso, di fulgidi musaici; più su, coperti di ogni maniera di capricciosi arabeschi; qua e là aperti in belle nicchie che contengon busti d'imperatori romani. Ai quattro angoli del cortile, sorgono quattro statue colossali. Le sale son degne del cortile: i soffitti, i muri, le porte sono scolpiti, ricamati, fioriti, istoriati con una delicatezza da miniatura. In una vecchia cappella di stile misto di gotico e d'arabo, di forma elegantissima, si conserva una piccola colonna alta poco più di tre piedi, donata da Pio V a un discendente del fondatore del palazzo, allora vicerè di Napoli; alla qual colonna, narra la tradizione che sia stato avvinto Gesù Cristo per essere flagellato; il che, se pur fosse vero, proverebbe che Pio V non aveva nemmeno un pelo che ci credesse, chè altrimenti non avrebbe commesso, così alla leggiera, l'inqualificabile sproposito di privarsene per fare un regalo al primo venuto. Tutto il palazzo è sparso di sacre memorie. Al primo piano, il custode vi accenna una finestra che corrisponde a quella presso cui era seduto san Pietro quando rinnegò Gesù, e il finestrino dal quale la fante lo riconobbe. Dalla strada si vede un'altra finestra con un terrazzino di pietra, che occupa precisamente il posto di quella dove Gesù fu mostrato al popolo colla corona di spine. Il giardino è pieno di frammenti di statue antiche portate dall'Italia da quello stesso Don Pedro Afan de Ribera, vicerè di Napoli. Fra le altre fiabe che si raccontano intorno a quel misterioso giardino, si dice che Don Pedro Afan de Ribera vi aveva posto l'urna, recata dall'Italia, che conteneva le ceneri dell'Imperatore Traiano, e che un curioso senza garbo, avendola rovesciata con un urto, le ceneri dell'Imperatore s'erano sparse fra l'erba, e nessuno era più riuscito a raccoglierle. Così l'augusto monarca, nato a Italica, per uno stranissimo caso era tornato vicino alla sua città nativa, non assai bene in arnese, a dir vero, per poter recarsi a meditare sulle sue rovine; ma pur vicino in ogni modo.

Dopo quello che ho accennato, si può dire, non d'aver visto, ma d'aver cominciato a vedere Siviglia. Io però mi arresto qui, perchè tutto deve aver una fine. Lascio da un lato i passeggi, le piazze, le porte, le biblioteche, i palazzi pubblici, le case dei grandi, i giardini, le chiese; ristringendomi a dire che, dopo aver girato per parecchi giorni dal levar del sole al tramonto, dovetti partire da Siviglia col peso di molti rimorsi sulla coscienza. Non sapevo più dove battere il capo. Ero giunto a tal segno di stanchezza che l'annunzio d'una nuova cosa da vedere mi faceva più spavento che piacere. Il buon signor Gonzalo mi ispirava coraggio, mi confortava, mi accorciava il cammino colla sua piacevolissima compagnia; ma tant'è, di quello che vidi gli ultimi giorni non serbo che una memoria molto confusa.

Siviglia, benchè non meriti più il titolo glorioso di Atene spagnuola, come ai tempi di Carlo V e di Filippo II, quando madre ed ospite d'una folta ed eletta schiera di poeti e di pittori, era la sede della civiltà e delle arti del vasto impero dei suoi monarchi; è pur sempre fra le città di Spagna, eccettuata Madrid, quella in cui la vita artistica si mantiene più rigogliosa, e per la copia degli ingegni, e per l'opera dei mecenati, e per la natura del popolo amantissimo delle belle arti. V'è una fiorente Accademia letteraria, una Società protettrice delle arti, un'Università di bella fama, e una famiglia di dotti e di scultori, che godono d'una onorevole reputazione in Ispagna. Ma la prima gloria letteraria di Siviglia è una signora, Caterina Bohl, autrice delle novelle che portano il nome di Fernan Caballero, diffusissime in Spagna, e in America, tradotte in quasi tutte le lingue d'Europa, e note anche in Italia, dove alcune vennero non è molto pubblicate, a ogni persona che s'occupi nulla nulla di letteratura straniera. Son quadri ammirabili di costumi andalusi, pieni di verità, d'affetto, di grazia, e sopra tutto d'un così possente vigore di fede, d'un entusiasmo religioso così intrepido, d'una carità cristiana così ardente, che il più scettico uomo del mondo ne sarebbe scosso e turbato. Caterina Bohl è una donna che affronterebbe il martirio con la fermezza e la serenità di sant'Ignazio. E la coscienza della sua forza si rivela ad ogni sua pagina: non si ristringe a difendere la religione e a predicarla, assale, minaccia, fulmina i nemici; e non solo i nemici della religione, ma ogni uomo ed ogni cosa che accolga, per dirla con una frase fatta, lo spirito del secolo, poich'ella non perdona a nulla di quanto s'è fatto al mondo dai tempi dell'Inquisizione in poi, ed è più inesorabile del Sillabo. Ed è questo forse il suo più gran difetto di scrittrice, perchè i suoi predicozzi religiosi, e le sue invettive sono soverchio fitte, e quando non rivoltano, ristuccano, e nuocciono, più che non giovino alle sue stesse mire. Ma non c'è ombra di fiele nell'anima sua, e quale è nei libri, tale nella vita: gentile, buona, caritatevole; in Siviglia è venerata come una santa. Nacque nella città, si maritò giovanissima, ed ora è vedova per la terza volta. Il suo ultimo marito, che fu ambasciatore di Spagna a Londra, si uccise, ed ella da quel giorno non ha più deposto il lutto. Ha ora poco meno di settant'anni, fu bellissima, ed il suo aspetto nobile e sereno serba l'impronta della bellezza. Suo padre, ch'era uomo fornito di acuto ingegno e di vasta cultura, le fece apprendere in tenera età varie lingue: conosce profondamente il latino, e parla con facilità mirabile l'italiano, il tedesco, il francese. Oramai, benchè giornali ed editori d'Europa e d'America la stimolino con larghissime offerte a scrivere, non scrive più; ma non vive per questo inoperosa. Legge dalla mattina alla sera ogni sorta di libri, e leggendo o fa la calza o ricama, poichè ha fermissimamente deciso che i suoi studi di letteratura non debbano togliere neanche un minuto alle sue faccende da donna. Non ha figliuoli, vive in una casa solitaria, della quale ha ceduto il miglior quartiere a una famiglia povera, e spende una buona parte dell'aver suo in elemosine. Un tratto curioso del suo carattere è l'affetto vivissimo che porta alle bestie: ha la casa piena d'uccelli, di gatti e di cani; e la sua sensitività, a questo riguardo, è così delicata, ch'ella non ha mai voluto metter piede in una carrozza, dal timore di veder dare una frustata al cavallo per cagion sua. Tutti i dolori l'affliggono come suoi proprii dolori: la vista d'un cieco, d'un malato, d'una sventura quale essa sia, la turba per una giornata intera; non può chiuder gli occhi al sonno, se non ha prima asciugato una lacrima; darebbe lietamente tutta la sua gloria per risparmiare una trafittura di cuore ad uno sconosciuto. Prima della rivoluzione viveva meno solitaria: la famiglia Montpensier la riceveva con grandi onoranze, le più illustri famiglie di Siviglia facevano a gara per averla in casa; ora non vive che coi suoi libri e con poche amiche.

Ai tempi degli Arabi, Cordova aveva il primato nella letteratura, Siviglia nella musica; Averroes diceva:—Quando a Siviglia muore un dotto e si voglion vendere i suoi libri, si mandano a Cordova; ma se a Cordova muore un musico, i suoi strumenti si mandano a vendere a Siviglia.—Ora Cordova ha perduto anche il primato letterario, e Siviglia li ha tutti e due. Non son più i tempi, certo, in cui un poeta, cantando le bellezze d'una fanciulla, faceva accorrere intorno a lei, da tutte le parti del regno, una folla d'innamorati; e un principe invidiava un altro principe, solo perchè era stato fatto in sua lode un verso più bello di quanti ne fossero mai stati ispirati da lui; e un Califfo premiava l'autore d'un bell'inno con un regalo di cento cammelli, d'uno stuolo di schiavi e d'un vaso d'oro; e una ingegnosa strofa improvvisata a tempo scioglieva dalle catene uno schiavo o salvava la vita a un condannato a morte; e i musici passeggiavan per le strade di Siviglia con un corteggio da monarchi, e il favore dei poeti era cercato come quello dei re, e la lira era temuta come la spada. Ma il popolo sivigliano è pur sempre il popolo più poeta della Spagna. Il frizzo, la parola amorosa, l'espressione della gioia e dell'entusiasmo sgorgano dalle sue labbra con una spontaneità e una grazia che seduce. Il popolano di Siviglia improvvisa versi, parla che par che canti, gestisce che par che declami, ride e folleggia come i fanciulli. A Siviglia non s'invecchia. È una città in cui si sfuma la vita in un sorriso continuo, senz'altro pensiero che di godersi il bel cielo, le belle casine, i giardinetti voluttuosi. È la città più quieta di Spagna; è la sola, che dalla rivoluzione in poi, non sia stata agitata da alcuni di quei tristi commovimenti politici che sconvolsero le altre; la politica non passa la prima pelle; si bada a fare all'amore; tutte le altre cose si pigliano in ridere; todo lo toman de broma, dicono dei sivigliani gli altri spagnuoli; e in vero, con quell'aria profumata, con quelle stradine da città orientale, con quelle donnine piene di fuoco, confondersi! A Madrid si parla male di loro; si dice che son vani, falsi, mutevoli, pettegoli. È gelosia! Invidiano la loro indole felice, la simpatia che ispirano agli stranieri, le loro ragazze, i loro poeti, i loro pittori, i loro oratori, la loro Giralda, il loro Alcazar, il loro Guadalquivir, la loro vita, la loro storia! Così dicono i sivigliani battendosi una mano sul petto e cacciando in aria un nuvolo di fumo dal loro inseparabile cigarrito; e le loro belle donnine si vendicano delle madrilene e di tutte le donne del mondo, parlando con maligna pietà dei lunghi piedi, delle larghe vite e degli occhi morti che in Andalusia non riceverebbero l'onore d'uno sguardo e l'omaggio d'un sospiro. Bello ed amabile popolo in verità, al quale, ahimè! bisogna pur vedere il rovescio della medaglia, soverchia la superstizione e mancan le scuole, come a quasi tutta la Spagna meridionale, in parte non per sua colpa, ma in parte sì; e questa, forse, non è la parte minore.

Il giorno fissato per la partenza mi arrivò addosso inaspettato. È strano: io non ricordo quasi nulla dei particolari della mia vita a Siviglia; è un gran che se so dire a me stesso dove desinai, di che cosa parlai col Console, come passai le serate, perchè stabilii di partire quel dato giorno; ero assente da me stesso; vivevo, se posso così esprimermi, fuori di me; fui per tutto il tempo che rimasi in quella città, un po' intontito. Fuor che nel Museo e nel patio, il mio amico Segovia deve aver trovato che sapevo di poco; e ora, non so perchè, penso a quei giorni come a un sogno. Di nessun'altra città m'è rimasta una ricordanza così vaga come di Siviglia. Oggi ancora, mentre son ben sicuro di essere stato a Saragozza, a Madrid, a Toledo, qualche volta, pensando a Siviglia, mi piglia un dubbio. Mi pare che sia una città molto più lontana degli ultimi confini della Spagna, che per tornarci dovrei viaggiare mesi e mesi, e attraversare terre sconosciute e grandi mari e popoli in tutto diversi da noi. Penso alle strade di Siviglia, a certe piazzette, a certe case, come penserei alle macchie della luna. A volte, l'immagine di quella città mi passa dinanzi agli occhi, come una forma bianca, e dispare, quasi senza che io possa afferrarla colla mente; la vedo odorando un arancio cogli occhi chiusi; fiutando I' aria, in certe ore della giornata, sulla porta d'un giardino; canterellando una canzoncina che sentii cantare da un ragazzo su per le scale della Giralda. Non so spiegare a me stesso questo secreto; ci penso, come a una città che avessi ancora da vedere, e godo nel guardare stampe e nello sfogliar libri comprati là, perchè son cose che attestano a me stesso che ci sono stato. Un mese fa ricevetti una lettera del Segovia che mi diceva:—Ritornate fra noi;—e n'ebbi un piacere matto, e nello stesso tempo risi come se m'avessero detto:—Fate una corsa a Pekino.—E appunto per questo Siviglia mi è cara su tutte le altre città della Spagna; l'amo come una bella donna sconosciuta, che attraversando un bosco misterioso, m'avesse gettato uno sguardo ed un fiore. Quante volte, quando un amico mi scuote dicendomi:—A che pensi?—o nella platea d'un teatro o nella sala d'un caffè, io, per tornare a lui, debbo uscire dallo stanzino di Maria Padilla, o da una barca che scivola all'ombra dei platani della Cristina, o dalla bottega di Figaro, o dal vestibolo di un patio pieno di fiori, di zampilli e di lumi!

M'imbarcai sur un bastimento della Compagnia Segovia, presso la Torre dell'Oro, in un'ora che Siviglia era tutta immersa in un profondo sonno, e un sole ardentissimo la copriva d'un mare di luce. Mi ricordo che pochi momenti prima della partenza, un giovinetto venne a bordo a cercarmi, e mi rimise una lettera di Gonzalo Segovia, la quale racchiudeva un sonetto che serbo tuttora, come uno dei più preziosi ricordi di Siviglia. Sul bastimento era una compagnia di cantanti spagnuoli, una famiglia inglese, degli operai, dei bambini. Il capitano, da buon andaluso, aveva una parola cortese per tutti. Appiccai subito discorso con lui. Il mio amico Gonzalo è figliuolo del proprietario del bastimento; parlammo della famiglia Segovia, di Siviglia, del mare, di mille cose allegre. Ah! il pover uomo era ben lontano dal pensare che, pochi giorni dopo, quel malaugurato bastimento si sarebbe sfasciato in mezzo al mare, ed egli avrebbe fatto così un'orrenda fine! Era il Guadaira del quale scoppiò la caldaia a breve distanza da Marsiglia, il giorno 16 giugno del 1872.

A tre ore il bastimento partì alla volta di Cadice.

X. CADICE

Quella fu la serata più deliziosa di tutto il mio viaggio.

Poco dopo che il bastimento s'era mosso cominciò ad alitare una di quelle aurette gentili che scherzano come la manina d'un bimbo col fiocco della cravatta e coi capelli delle tempie; e da prora a poppa si levò un vocío di donne e di ragazzi, come segue in una brigata d'amici al primo chiocco di frusta che annunzia la partenza per una scampagnata festiva. Tutti i passeggieri si radunarono a poppa, all'ombra d'un'ampia tenda variopinta come un padiglione chinese, e chi sedette sui cordami, chi si sdraiò sulle panche, chi si appoggiò al parapetto, ognuno rivolto dalla parte della torre dell'Oro, per godere lo spettacolo famoso e incantevole di Siviglia che s'allontana e dispare. Qualche donnina aveva ancora il viso bagnato delle lagrime dell'addio, qualche bambino era ancora un po' stordito dallo strepito della macchina a vapore, qualche signore non aveva ancora finito di bisticciarsi coi facchini che gli avevan un po' strapazzato i bauli; ma di lì a pochi minuti tutti si rasserenarono, si cominciò a mondare aranci, ad accender sigari, a far girare fiaschettine di liquori, ad appiccar conversazione cogli sconosciuti, a canterellare, a ridere; in un quarto d'ora fummo tutti amici. Il bastimento scivolava colla soavità d'una gondola sulle acque chete e limpide, che riflettevano come uno specchio le vesti bianche delle signore; e l'aria portava un gratissimo odore d'aranci dai boschi delle sponde popolate di ville. Siviglia s'era nascosta dietro la sua cinta di giardini; e noi non vedevamo più che un mucchio immenso d'alberi verdissimi, e di sopra la nera mole della cattedrale, e la Giralda color di rosa, sormontata dalla sua statua fiammeggiante come una lingua di fuoco. Via via che ci allontanavamo la cattedrale appariva più grande e più maestosa come se tenesse dietro alla nave e guadagnasse terreno; ora pareva che, pure inseguendoci, si allontanasse dalla sponda; ora che si fosse posta a cavallo del fiume; un momento sembrava che fosse tutt'a un tratto ritornata al suo posto; un momento dopo appariva tanto vicina da far sospettare che il bastimento tornasse indietro. Il Guadalquivir serpeggia a brevi curve; secondo che il bastimento andava di qua o di là, Siviglia appariva e spariva. Ora faceva capolino da una parte, come se si fosse allungata fuor della sua cinta; ora balzava tutt'a un tratto al di sopra dei boschi, biancheggiando come un altopiano coperto di neve; ora lasciava veder qua e là in mezzo al verde alcune striscie bianche, e si nascondeva daccapo, e faceva ogni sorta di vezzi e di civetteríe da donnina capricciosa. Poi disparve, e non la rivedemmo più; e non rimase che la cattedrale. Allora tutti si voltarono a guardare le sponde. Pareva di navigare in un lago d'un giardino. Qui una collina vestita di cipressi, là un poggio tutto fiorito, più oltre un villaggio schierato lungo la sponda; e sotto i pergolati dei giardini e sulle terrazze delle ville, signore che ci guardavan col canocchiale; e qua e là famiglie di contadini vestiti di vivi colori, e barchette a vela, e ragazzi nudi che si tuffavan nell'acqua e facean tomboli e guizzi, strillando e agitando le mani verso le signore del bastimento che si coprivano il viso col ventaglio. A qualche miglio da Siviglia, incontrammo tre bastimenti a vapore a breve distanza l'un dall'altro. Il primo ci venne addosso all'improvviso, in una giravolta del fiume, così che io, non esperto di quella maniera di navigazione, temetti un momento che non si fosse più in tempo ad evitare lo scontro. I due bastimenti si passaron vicini quasi da toccarsi, e i passeggieri dell'uno e dell'altro si salutarono e si gettaron sigari e aranci, incaricandosi a vicenda di portare un saluto a Cadice e a Siviglia.

I miei compagni di viaggio eran quasi tutti Andalusi; così che dopo un'ora di conversazione, io li conosceva dal primo all'ultimo, nè più nè meno che se fossero stati tutti miei amici d'infanzia. Ognuno disse subito a chi lo voleva e a chi non lo voleva sapere, chi egli era, quant'anni aveva, che cosa faceva, dove andava, e qualcuno anche quante amanti aveva avute e quante pecetas portava nella borsa. Io fui preso per un cantante, e non è strano per chi pensi che in Spagna il popolo crede che tre quarti degl'Italiani campino cantando o ballando o recitando. Un signore, vedendo che avevo un libro italiano tra le mani, mi domandò di punto in bianco:

“Dove ha lasciato la compagnia?”

“Qual compagnia?” domandai io.

“O che lei non cantava colla Fricci al teatro della Zarzuela?”

“Mi spiace; ma io non ho mai messo piede sul teatro.”

“To'; allora bisogna dire che il secondo tenore e lei si rassomigliano come due goccie d'acqua.”

“Bisogna dir così.”

“Scusi, sa.”

“Non c'è di che.”

“Ma lei è italiano?”

“Italiano.”

“Canta?”

“Me ne rincresce: non canto.”

“È curiosa! A giudicar dalla struttura del suo collo e del suo petto avrei detto che lei doveva avere una stupenda voce di tenore.”

Io mi toccai il petto e il collo e risposi:

“Può darsi, proverò, non si sa mai: due delle condizioni volute le ho: sono italiano e ho un collo da tenore: la voce deve venire.”—A questo punto, la prima donna della compagnia che aveva sentito il dialogo, entrò nella conversazione, e dopo di lei tutta la compagnia:

“Il signore è italiano?”

“Per servirla.”

“Glielo domando appunto perchè ho bisogno d'un piacere. Che cosa voglion dire quei versi del Trovatore che dicono:

«Non può nemmeno un Dio
Donna rapirti a me.»

“È maritata la signora?”

Tutti si misero a ridere.

“Sì,” rispose la prima donna; “ma perchè mi fa questa domanda?”

“Perchè.... non può nemmeno un Dio rapirla a me, vuol dire quello che suo marito, se ha due bravi occhi nella testa, dovrebbe dire di lei ogni mattina quando si leva e ogni sera quando va a letto: Ni Dios mismo podria arrancármela.”

Gli altri risero; ma alla prima donna parve così stravagante quella supposta arroganza di suo marito, di affermarsi sicuro anche da un Dio, mentre forse ella sapeva che non aveva avuto sempre l'accortezza di guardarsi dagli uomini; che appena degnò il mio complimento d'un sorriso per far vedere che l'aveva capito. E mi domandò subito la spiegazione d'un altro verso, e dopo di lei il baritono, e dopo il baritono il tenore, e dopo il tenore la seconda donna, e via via, per un pezzo non feci che tradur cattivi versi italiani in pessima prosa spagnuola, con gran soddisfazione di quella buona gente che per la prima volta poteva dire di capire un poco quello che aveva tante volte cantato coll'aria di capire moltissimo. Quando ognuno ne seppe quanto voleva, la conversazione si ruppe; io stetti un po' col baritono che mi canterellò un'aria di zarzuela; poi mi attaccai a un corista, il quale mi disse che il tenore faceva all'amore colla prima donna; poi tirai in disparte il tenore che mi scoperse gli altarini della moglie del baritono; poi discorsi colla prima donna che disse roba da chiodi dell'intera compagnia; ma erano tutti amiconi, e incontrandosi in quell'andare e venire sulla coperta, gli uomini si azzeccavan dei pizzicotti, le donne si mandavan dei baci, gli uni e le altre si scambiavano sguardi e sorrisi che rivelavano intelligenze secrete; e chi solfeggiava di qui, e chi canterellava di là, e chi faceva un trillo in un canto, e chi in un altro tentava un do di petto che finiva in un rantolo; e intanto discorrevan tutti insieme di mille corbellerie. Suonò finalmente la campanella e ci gettammo a tavola coll'impeto di tanti invitati ufficiali a un pranzo di gala per una festa d'inaugurazione d'un monumento. A quel desinare, in mezzo alle grida e ai canti di tutta quella gente, bevvi per la prima volta un bicchiere schietto di quel formidabile vino di Jerez, del quale si cantan le meraviglie ai quattro angoli della terra. Appena l'avevo tracannato, che mi parve di sentire una scintilla scorrere per tutte le mie vene, e la testa infiammarmisi come se l'avessi piena di zolfo. Bevvero tutti gli altri, e a tutti pigliò un'allegria sfrenata e una parlantina irresistibile; la prima donna si mise a discorrere in italiano; il tenore in francese; il baritono in portoghese, gli altri in dialetto; io in tutte le lingue e lì brindisi e canzoncine ed evviva ed occhiate e strette di mano sopra la tavola e giuochi di pedina di sotto e dichiarazioni di simpatia che s'incrociavano in tutti i sensi come le impertinenze in un Parlamento quando destra e sinistra s'accapigliano. Finito il desinare, si salì tutti in coperta, rossi, tronfi, sbuffanti, avvolti in una nuvola di fumo di cigarritos; e là, al lume della luna, che inargentava l'ampio fiume, e copriva di una luce limpidissima i boschi e le colline ricominciarono più clamorose le conversazioni, e dopo le conversazioni i canti, non più di ariette di zarzuela, ma d'operoni coi fiocchi, duetti, terzetti, cori, con accompagnamento di gesti e di passi da palco scenico, intercalati di declamazioni di versi, di racconti, d'aneddoti, di risa sgangherate, di applausi fragorosi; finchè sfiatati e rifiniti, tutti tacquero, qualcuno s'addormentò col viso in aria, qualche altro s'andò ad accucciolare sotto coperta, la prima donna sedette in un canto a guardar la luna. Il tenore russava; io approfittai della buona occasione per andare a farmi ripetere a bassa voce un'arietta della zarzuela: El sargento Federico. La cortese andalusa non si fece pregare, cantò; ma tutt'a un tratto tacque e chinò il viso. La guardai: piangeva. Le domandai che cos'avesse. Mi rispose malinconicamente:—Penso a uno spergiuro.—Poi diede in uno scoppio di risa e ricominciò a cantare. Aveva una voce armoniosa e snella, e cantava con un sentimento come di tristezza amorosa; il cielo era tutto tempestato di stelle, e il bastimento scorreva così placidamente sul fiume che pareva appena che si muovesse; e io pensavo ai giardini di Siviglia, all'Affrica vicina, e a una persona cara che m'aspettava in Italia, e mi pigliava il piantoriso, e quando la donna cessava di cantare, le dicevo:—Canti ancora—e

«Lingua mortal non dice
Quel ch'io sentiva in seno...»

Allo spuntar dell'alba il bastimento stava per entrare nell'Oceano; il fiume era immenso; la riva destra appariva appena, in lontananza, come una lingua di terra di là dalla quale luccicavan le acque del mare. Alcuni istanti dopo il sole s'affacciò all'orizzonte, e il bastimento uscì dal fiume. Allora ci si spiegò dinanzi agli occhi un tale spettacolo, che se si potessero confondere in una sola arte rappresentativa la poesia, la pittura e la musica, io per me credo che Dante colle sue più grandi immagini, il Tiziano coi suoi più fulgidi colori e il Rossini colle sue più potenti armonie, non sarebbero riusciti, tutti e tre insieme, a significarne la magnificenza e l'incanto. Il cielo era una meraviglia di color zaffiro senza la macchia d'una nube, e il mare così bello che pareva un immenso tappeto di raso serico; e luccicava al sommo delle lievi increspature che vi faceva l'aura leggerissima, come se fosse tutto coperto di gemme azzurre, e formava specchi e striscie luminose, e in lontananza mandava lampeggiamenti di luce d'argento, e mostrava qua e là alte e bianchissime vele, simili ad ali sornotanti di giganteschi angeli caduti. Non ho mai visto tanta vivezza di colori, tanta pompa di luce, tanta freschezza, tanta trasparenza, tanta limpidità d'acque e di cielo. Pareva una di quelle aurore della creazione che la fantasia dei poeti ci dipinse così pure e così sfolgoranti da non esser più le nostre, al paragone, che un pallido riflesso; ed era più che lo svegliarsi della natura e il ridestarsi della vita; era come una festa, un trionfo, un ringiovanimento del creato, che sentisse espandersi nell'infinito un secondo soffio di Dio.

Scesi sotto coperta per pigliare il canocchiale; quando salii vidi Cadice.

La prima impressione che mi fece fu di mettermi in dubbio se fosse o non fosse una città; poi risi; poi mi voltai verso i miei compagni di viaggio coll'aria di chi domanda che lo rassicurino che non s'è ingannato. Cadice sembra un'isola di gesso. È una gran macchia bianca in mezzo al mare senza una sfumatura oscura, senza un punto nero, senza un'ombra; una macchia bianca tersa e purissima come una collina coperta di neve intatta che spicchi sur un cielo color di berillo e di turchina in mezzo a una vasta pianura allagata. Una lunga e sottilissima striscia di terra l'unisce al continente; da tutte le altre parti è bagnata dal mare, come un bastimento sul punto di far vela, non trattenuto più alla riva che da una catena. A poco a poco si distinsero i contorni dei campanili, i profili delle case, le imboccature delle strade; e ogni cosa pareva più bianco via via che ci avvicinavamo, e per quanto guardassi col canocchiale, non mi veniva fatto di trovare in quella bianchezza il più piccolo neo, neanco sopra gli edifizi, neanco intorno al porto, neanco negli estremi sobborghi. Si arrivò nel porto dove non erano che pochi bastimenti a grande distanza gli uni dagli altri, scesi in una barca senza neppur portare con me la valigia perchè dovevo ripartir la stessa sera per Malaga, e così vivo era il mio desiderio di veder la città, che quando la barca giunse alla riva, spiccai innanzi tempo il salto e caddi in terra come corpo morto, che risenta ancora, ahimè! i dolori d'un corpo vivo.

Cadice è la città più bianca del mondo; e non gioverebbe oppormi che non vidi tutte le città, perchè ho per me la buona ragione, che una città più bianca d'una che è superlativamente e completamente bianca non ci può essere. Cordova e Siviglia non han nulla che fare con Cadice; quelle son bianche come la carta, Cadice è bianca come il latte. Per darne una idea, non ci sarebbe di meglio che scrivere mille volte di seguito la parola «bianca» con una matita bianca su carta azzurra e notare in margine:—Impressioni di Cadice—Cadice è uno dei più stravaganti e graziosi capricci umani. Non son bianchi soltanto i muri esterni delle case: son bianche le scale, bianchi i cortili, bianche le pareti delle botteghe, bianchi i muricciuoli, bianchi i pilastri, bianchi gli angoli più riposti e più oscuri delle case più povere, delle strade più appartate; bianco ogni cosa dai tetti alle cantine, per tutto dove può entrare la punta di un pennello, persino i fori, persino le screpolature, persino i nidi degli uccelli. In ogni casa è un deposito di calce e di bianco, e ogni volta che l'occhio scrutatore degli inquilini scopre una macchietta, si dà di piglio al pennello e si copre. I servitori non sono ricevuti dalle famiglie se non sanno fare l'imbianchino. Uno scarabocchio di carbone sur un muro è uno scandalo, un attentato contro la quiete pubblica, un atto di vandalismo. Potete girar tutta la città, guardar dietro a tutte le porte, ficcare il naso in tutti i bugigattoli, e non troverete che bianco e sempre bianco ed eternamente bianco.

Con tutto questo, Cadice non arieggia nemmeno alla lontana le altre città andaluse. Le sue strade sono lunghe e diritte, e le case alte, e senza i patios di Cordova e di Siviglia. Ma per questo l'aspetto della città non riesce men nuovo e gradevole agli occhi dello straniero. Le strade sono diritte, ma strette, e poichè sono anche lunghissime, e molte attraversano tutta la città, così vi si vede in fondo, come per lo spiraglio d'una porta, una sottilissima lista di cielo, che fa parer quasi che la città sia costrutta sulla sommità d'una montagna tagliata a picco da tutte le parti. Inoltre, le case hanno un gran numero di finestre, e ogni finestra è munita, come a Burgos, d'una specie di vetrina sporgente che s'appoggia su quella della finestra di sopra e sorregge quella della finestra di sotto; così che in molte strade le case sono completamente coperte di vetro, e si vede appena qualche tratto di muro, e par di passare in un corridoio d'un immenso Museo. Qua e là, fra una casa e l'altra, sporgono i rami eleganti d'una palma; in ogni piazza v'è un mucchio lussureggiante di verzura; su tutte le finestre ciuffi d'erbe e ciocche di fiori.

In verità, io ero ben lontano dall'immaginare che fosse così gaia e ridente questa terribile e sventurata Cadice, arsa dagl'Inglesi nel secolo decimosesto, bombardata sulla fine del decimottavo, devastata dalla peste, e poi ospite delle flotte di Trafalgar, sede della giunta rivoluzionaria durante la guerra dell'Indipendenza, teatro di stragi orrende nella rivoluzione del 1820, bersaglio delle bombe francesi nel 1823, e antesignana della rivoluzione che sbalzò dal trono i Borboni, e sempre inquieta e turbolenta e prima fra tutte a lanciare il grido della battaglia. Di tante vicende e di tante lotte non restano che palle di cannone confitte nei muri, poichè su tutte le altre traccie della distruzione è passato l'inesorabile pennello, che copre d'un velo bianco ogni vergogna. E come delle guerre nuovissime, così non vi rimane traccia nè dei Fenici che la fondarono, nè dei Cartaginesi e dei Romani che l'ampliarono e l'abbellirono; quando non si volesse considerar come traccia la tradizione che ci dice: qui sorgeva un tempio ad Ercole, là sorgeva un tempio a Saturno. Ma il tempo ha fatto ben di peggio che togliere a Cadice i monumenti antichi: le tolse il commercio e le ricchezze, dopo che la Spagna perdette i suoi possedimenti d'America; ed ora Cadice giace là inerte sul suo scoglio solitario, aspettando invano le mille navi che venivano un giorno imbandierate e festose a recarle i tributi del nuovo mondo.

Avevo una lettera di raccomandazione per il nostro console, gliel'andai a portare, e fui cortesemente condotto da lui sulla cima d'una torre di dove potei abbracciare con uno sguardo tutta la città. Fu una nuova e più viva meraviglia. Cadice, vista dall'alto, è bianca, tutta bianca e purissimamente bianca come vista dal mare; in tutta la città non v'è un tetto; ogni casa è chiusa di sopra da una terrazza cinta di un parapetto imbiancato; quasi su ogni terrazza si innalza una torricina, pure bianca, sormontata da un'altra terrazza, o da una cupoletta, o da una specie di casotto da sentinella: ogni cosa bianco. E tutte queste cupolette, queste punte, questi merli, che formano alla città un contorno svariatissimo e bizzarro, spiccano e appaiono più bianchi sul vivo azzurro del mare. Lo sguardo percorre tutto l'istmo che unisce Cadice al continente, abbraccia un lunghissimo tratto della costa lontana su cui biancheggiano le città di Puerto real e di Puerto Santa Maria e villaggi e chiese e ville; e spazia nel porto e sull'oceano e pel bellissimo cielo che gareggia col mare di limpidezza e di luce.

Io non potevo saziarmi di guardare quella strana città. A socchiuder gli occhi, appariva come coperta d'un immenso lenzuolo. Ogni casa sembra costrutta ad uso di osservatorio astronomico. Tutta la popolazione, in caso che il mare inondasse la città, come ne' tempi antichi, si potrebbe raccogliere nelle terrazze e starci, salvo la paura, a tutt'agio. Mi fu detto che, pochi anni sono, in occasione di non so che eclissi, in pieno giorno, si vide questo spettacolo. I settantamila abitanti di Cadice saliron tutti sulle terrazze per osservare il fenomeno. La città, di tutta bianca, era diventata di mille colori; ogni terrazza era gremita di teste; si vedeva con un colpo d'occhio, quartiere per quartiere, tutta la popolazione; un mormorío sordo e diffuso si elevava al cielo come il muggito del mare, e un movimento immenso di braccia, di ventagli, di canocchiali rivolti in alto faceva parere che si aspettasse la discesa di qualche angelo dalla sfera del sole. Al momento fissato, si fece un silenzio profondo; appena cessato il fenomeno, tutta la popolazione mandò un grido che parve uno scoppio di tuono; e pochi momenti dopo, la città riapparve bianca.

Sceso dalla torre, visitai la cattedrale, vasto edifizio di marmo, del secolo decimosesto, non certo paragonabile alle cattedrali di Burgos e di Toledo, ma pure d'un'architettura nobile e ardita, e ricca, come tutte le chiuse spagnuole, d'ogni maniera di tesori. Fui a vedere il Convento dove il Murillo, dipingendo un quadro sopra un altar maggiore, cadde dal palco, e riportò la ferita, che fu cagione della sua morte. Feci una corsa nel Museo di pittura, che contiene alcuni bei quadri del Zurbaran. Entrai nel Circo dei tori, che è tutto di legno, e fu costrutto in pochi giorni per offrire uno spettacolo alla regina Isabella. E verso sera andai a fare un giro sur un delizioso passeggio lungo la riva del mare, in mezzo agli aranci e alle palme, dove mi furono segnate a dito ad una ad una le più belle ed eleganti caditane. A me, qualunque sia il giudizio degli Spagnuoli, il tipo femminino di Cadice non parve da meno di quello tanto celebrato di Siviglia. Le donne sono un po' più alte e un po' più grassoccie, e d'un bruno più carico. Qualche osservatore fino credette di poter asserire che ritraggon molto del tipo greco: non so da che parte. Io non ci vidi, salvo la statura, che il tipo andaluso; e bastò per farmi tirare dei sospironi che avrebbero mandato innanzi una barca, e costringermi a ritornare quanto prima potei al mio bastimento, come a un luogo di rifugio e di pace.

Quando rimisi il piede a bordo, era notte, il cielo scintillava tutto di stelle, e l'aria portava or sì or no la musica della banda che suonava sul passeggio di Cadice. I cantanti dormivano, ero solo, la vista dei lumi della città e quella musica e il ricordo dei bei visini caditani mi dava malinconia; non sapevo che far di me; scesi sotto coperta, presi il mio quaderno e incominciai la descrizione di Cadice. Ma non mi riuscì che di scrivere una diecina di volte le parole bianco, azzurro, neve, splendore, colori; dopo di che abbozzai una figurina di donna e poi chiusi gli occhi e sognai l'Italia.

XI. MALAGA.

Il giorno dopo, al declinare del sole, il bastimento attraversava lo stretto di Gibilterra.

Ora, guardando quel punto sul mappamondo, mi par tanto vicino a casa mia, da non dover esitare un momento, quando me ne saltasse il ghiribizzo e non vi si opponesse il mio bilancio domestico, a far la valigia e a correre a Genova per andar a godere un'altra volta il bellissimo colpo d'occhio dei due continenti. Ma allora mi parve di essere tanto lontano, che avendo scritto una lettera a mia madre, sul parapetto del bastimento, coll'intenzione di darla ad impostare a uno dei passeggieri che scendevano a Gibilterra, nell'atto che scrivevo l'indirizzo, risi della mia buona fede, come se fosse quasi impossibile che la lettera arrivasse a Torino. Di qui!—pensai;—dalle colonne d'Ercole!—e dicevo colonne d'Ercole come avrei detto Capo di Buona Speranza o Giappone.

«..... Sono nel bastimento Guadaira —ho alle spalle l'Oceano e dinanzi il Mediterraneo, a sinistra l'Europa e a destra l'Affrica. Vedo di là il capo di Tarifa e a destra le montagne della costa affricana, che appaiono un po' in confuso come una nuvola grigia; vedo Ceuta, vedo un po' più là, come una macchia bianca, Tangeri; e in dirittura del bastimento lo scoglio di Gibilterra. Il mare è quieto come un lago e il cielo color di rosa e d'oro. Tutto è sereno, bello e magnifico, e io mi sento nella mente una inesplicabile e dolcissima confusione di grandi idee, che se potessero esser tradotte in parole, mi pare che riuscirebbero in una gioiosa preghiera cominciata e chiusa col tuo nome.....»

Il bastimento si fermò nel golfo di Algesira: tutta la compagnia dei cantanti scese in una gran barca venuta di Gibilterra, e s'allontanò agitando ventagli e fazzoletti in atto di saluto. Quando il bastimento ripartì, imbruniva. Allora potei misurar per ogni verso collo sguardo la mole enorme dello scoglio di Gibilterra. Da principio mi pareva che in pochi minuti ce lo saremmo lasciato alle spalle; ma furon ore. Via via che ci avvicinavamo, ingigantiva, e ogni momento presentava un nuovo aspetto; ora il profilo d'un mostro smisurato, ora l'immagine d'una scala immensa, ora la forma d'un castello fantastico, ora un ammasso informe come d'un mostruoso aereolito caduto da un mondo spezzato in una battaglia di mondi; e presentava via via dietro una punta alta come una piramide egizia, un rigonfiamento grande come una montagna, e scoscendimenti e rupi a picco e curve lunghissime che si perdevan nel piano. Era notte; lo scoglio disegnava i suoi foschi contorni così netti e recisi sul cielo rischiarato dalla luna, come un ritaglio di carta nera sur una lastra di vetro. Si vedevan le finestre illuminate delle caserme inglesi, i casotti delle sentinelle sulla sommità delle bricche aeree, e qualche incerto contorno d'albero che appariva appena come cespo d'erba sulle rupi più vicine. Per lungo tempo ci parve che il bastimento non muovesse; o che lo scoglio ci seguisse, tanto era sempre vicino e imminente; poi a poco a poco cominciò a rimpicciolire; ma i nostri occhi si stancarono di guardare prima che lo scoglio di minacciarci colle sue fantastiche trasfigurazioni. A mezzanotte mandai un ultimo saluto a quella formidabile sentinella morta d'Europa, e andai a ficcarmi nel mio nascondiglio.

Mi svegliai allo puntar dell'alba a poche miglia dal porto di Malaga.

La città di Malaga, vista dal porto, presenta un aspetto gradevole, e non privo di maestà. A destra un alto monte roccioso, sulla cui cima e giù per l'un dei fianchi sino al piano, nereggiano le gigantesche rovine del castello di Gibralfaro, famoso per la disperata resistenza opposta dagli Arabi all'esercito di Ferdinando e d'Isabella la Cattolica; e alle falde del monte la cattedrale, che s'innalza maestosamente su tutti gli edifizi circostanti, lanciando al cielo, come direbbe un poeta ardito, due belle torri e un altissimo campanile. Tra il castello e la chiesa e dinanzi al monte e ai lati, una moltitudine, una canaglia, per dirla alla Vittor Ugo, di casuccie affumicate, e poste le une sulle altre, alla rinfusa, come se fossero state buttate giù dall'alto, a modo di macigni. A sinistra della cattedrale, lungo la spiaggia, una fila di case color cinerino, violaceo, giallognolo, con un contorno bianco alle finestre e alle porte, che rammenta i villaggi della riviera ligure. Al di là una corona di colline verdi e rossastre, che chiudon la città come le mura d'un anfiteatro; a destra e a sinistra, lungo la riva del mare, altri monti e colline e roccie a perdita d'occhio. Il porto quasi deserto, la spiaggia quieta, il cielo purissimo.

Prima di scendere a terra, mi congedai dal capitano che doveva proseguire il suo viaggio per Marsiglia, salutai il nostromo e i passeggieri, dicendo a tutti che sarei arrivato a Valenza proprio il giorno che ci doveva arrivare il bastimento, e che perciò mi sarei imbarcato di nuovo con loro per andare a Barcellona e a Marsiglia; e il capitano mi disse:—L'aspettiamo,—e il cameriere mi promise che m'avrebbe serbato il posto. Quante volte, in seguito ricordai le ultime parole di quella povera gente!

Scesi a Malaga coll'intenzione di partire la sera stessa per Granata. L'interno della città non offre nulla di notevole. Fuor della parte nuova che occupa lo spazio anticamente coperto dal mare, ed è costrutta alla moderna, con vie larghe e diritte, e case grandi e nude; il rimanente della città è un labirinto di stradicciuole tortuose e un agglomeramento di case senza colore, senza patios, senza grazia. V'è qualche piazza spaziosa, con giardini e fontane; qualche colonna e qualche arco di edifizi arabi; nessun monumento moderno, molta immondizia e non grande frequenza di popolo. I dintorni son bellissimi e il clima più mite che a Siviglia.

A Malaga avevo un amico, andai a cercarlo, passammo la giornata insieme. Da lui ebbi una curiosa notizia. A Malaga è un'Accademia letteraria composta di più di ottocento soci, nella quale si celebrano gli anniversarii di tutti i grandi scrittori e si fa due volte la settimana una lettura pubblica sur un argomento di scienza o di letteratura. Quella sera stessa vi si doveva celebrare una festa solenne. Alcuni mesi prima l'Accademia aveva stabilito il premio di tre bei fiori d'oro, smaltati di varii colori, per i tre poeti che componessero la miglior ode al progresso, la miglior romanza sulla riconquista di Malaga, la miglior satira contro uno dei vizii più comuni della moderna società civile. Era stata fatta una convocatoria a tutti i poeti della Spagna, le poesie eran piovute a rifascio, un giurì le aveva segretamente giudicate, e quella sera stessa doveva profferire la sentenza. La cerimonia si faceva con gran pompa: vi avevano ad assistere il Vescovo, il Governatore, il Comandante di marina, i consoli, i personaggi più cospicui della città, con giubba, ciondoli e ciarpe, e un gran numero di signore vestite da ballo. Le tre più belle Muse della città dovevano presentarsi sur una specie di palco scenico inghirlandato e imbandierato, aprire ciascuna il plico che conteneva la poesia premiata, e proclamare tre volte il nome dell'autore; se l'autore rispondeva, invitarlo a leggere i suoi versi, e presentargli il fiore; se non rispondeva, leggerli esse medesime. In tutta la città non si parlava d'altro che dell'Accademia, si congetturavano i nomi dei vincitori, si predicevano meraviglie delle tre poesie, si magnificava l'apparatura della sala. Questa festa poetica, alla quale si dà il nome di juegos floreales, non si celebrava più da dieci anni. Altri giudichi se queste gare e queste pompe giovino o nuocciano alla poesia e ai poeti. Per me sia pur dubbia e sfuggevole la gloria letteraria che può largire la sentenza d'un giurì e l'omaggio d'un Vescovo e d'un governatore, credo che il ricevere in dono un fior d'oro dalla mano d'una bellissima donna, sotto gli sguardi di cinquecento andaluse, al suono d'una musica soave e in mezzo al profumo dei gelsomini e delle rose, sia una gioia anche più viva e più profonda di quella che viene dalla gloria vera e durevole.—No?—Ah! siamo sinceri!

Uno dei miei primi pensieri fu di assaggiare un po' di vero vin di Malaga, non per altro che per rifarmi dei molti dolori di capo e di stomaco cui andavo debitore allo scellerato intruglio che si spaccia in molte città d'Italia colla bugiarda raccomandazione di quel nome. Ma o ch'io non abbia saputo chiedere, o che non m'abbian voluto capire, il fatto è che il vino che mi fu dato all'albergo, mi bruciò le viscere e mi fece dar di volta al cervello. Potei nondimeno recarmi verticalmente fino alla cattedrale, e dalla cattedrale al castello di Gibralfaro, e in qualche altro luogo, e formarmi un'idea della bellezza delle malaghesi senza vederle doppie e tremole, come potrebbe supporre qualche maligno.

Strada facendo, il mio amico mi parlò di codesto repubblicanamente famoso popolo di Malaga, che ogni momento ne fa una delle sue. È un popolo ardentissimo; ma mutevole e docile, come tutti i popoli che senton molto e pensan poco, ed operano più per impulso di passione che per forza di convincimento. Per un nonnulla si raduna una folla immensa e si leva un tumulto da metter la città sossopra; ma il più delle volte basta un atto risoluto d'un uomo autorevole, un tratto di coraggio, un lampo di eloquenza per sedare il tumulto e disperdere la folla. L'indole del popolo, in fondo, è buona; ma la traviano la superstizione e la passione. E sopratutto la superstizione è forse più radicata a Malaga che in ogni altra città dell'Andalusia, a cagione della ignoranza maggiore. Tutto sommato, Malaga è la città meno andalusa ch'io m'abbia veduto, e v'è imbastardita persino la lingua, perchè vi si parla peggio che a Cadice, dove già vi si parla male.

Ero ancora a Malaga, ma la mia immaginazione s'aggirava già per le vie di Granata e nei giardini dell'Alhambra e del Generalife. Poche ore dopo il mezzogiorno, partii, e per dir la verità, fu quella la sola città di Spagna che lasciai senza mandare un sospiro. Quando il treno partì, invece di voltarmi a salutarla come avevo fatto a tutte le altre sue sorelle, mormorai i versi cantati da Giovanni Prati a Granata quando il duca d'Aosta partì per la Spagna:

«Non più Granata è sola
Sulle sue mute pietre:
L'inno in Alhambra vola
Sulle moresche cetre;»

ed ora, riscrivendoli, penso che la musica della banda della Guardia Nazionale di Torino ispira la letizia e la pace meglio delle cetre moresche, e che il lastrico dei portici di Po, contuttochè muto esso pure, è meglio connesso e più liscio che le pietre di Granata.

XII. GRANATA.

Il viaggio da Malaga a Granata fu il più avventuroso e sfortunato ch'io abbia fatto in Spagna.

Perchè i lettori compassionevoli mi possano compiangere quanto vorrei, bisogna che sappiano (mi vergogno d'intrattener la gente con queste piccinerie) che a Malaga avevo fatto solamente una leggerissima colazione all'andalusa, della quale, al momento di partire, mi restava appena una confusa reminiscenza. Ma ero partito colla sicurezza di poter scendere a qualche stazione della strada ferrata, dove fosse una di quelle sale, o pubblici strozzatoi, nelle quali si entra galoppando, si mangia ansando e si paga scappando, per tornare nel carrozzone impinzati, soffocati e derubati, a maledire l'orario, i viaggi e il ministro dei lavori pubblici che tradisce il paese. Partii, e per le prime ore fu una delizia. La campagna era tutta colline gentili e campi verdissimi, sparsi di villette coronate di palme e di cipressi; e nel carrozzone, in mezzo a due vecchiotti che tenevan gli occhi chiusi, v'era un'andalusina che guardava intorno con un sorrisetto briccone che pareva voler dire:—Via, lanciatemi degli sguardi languidi.—Ma il treno andava colla lentezza d'una diligenza sconquassata, e non si soffermava che pochi momenti alle stazioni. Al declinare del sole, lo stomaco cominciò a suonare a soccorso, e a render più fieri gli stimoli della fame dovetti fare un lungo tratto di strada a piedi. Il treno si fermò dinanzi a un ponte malfermo, tutti i viaggiatori scesero e sfilarono a due a due per andar ad aspettar le carrozze sull'altra sponda del fiume. Eravamo in mezzo alle roccie della Sierra Nevada, in un luogo deserto e selvaggio, che ci faceva parere d'esser gente condotta in ostaggio da una banda di briganti. Rimontati che fummo nei carrozzoni, il treno riprese a andare colla fiaccona di prima, e il mio stomaco ricominciò a languire più miseramente che mai. Arrivammo, dopo lungo tempo, a una stazione tutta ingombra di treni, dove una gran parte dei viaggiatori si precipitarono a terra, prima che io mettessi il piede sul montatoio.

“Dove vuol andare?” mi domandò un impiegato della strada ferrata, vedendomi scendere.

“A desinare,” risposi.

“Ma lei non va a Granata?”

“A Granata.”

“Se è così, non ha tempo; il treno riparte subito.”

“Ma gli altri sono discesi.”

“Li vedrà tornare di corsa di qui a un momento.”

I treni delle merci ch'eran dinanzi, m'impedivano di vedere la stazione; credetti che fosse lontana; non scesi. Passan due minuti, ne passan cinque, ne passan otto, e i viaggiatori non tornano, e il treno non si muove. Salto giù, corro alla stazione, vedo un caffè, entro in una gran sala.... Dei del cielo! Cinquanta affamati stavano intorno a una tavola da refettorio, col muso sul piatto, coi gomiti in aria, cogli occhi all'orologio, divorando e gridando; e un'altra cinquantina si pigiavano intorno al banco, afferrando e intascando pani, frutti, confetti, mentre il padrone e i camerieri, ansimanti come cavalli, stillanti di sudore, correvano, si sbracciavano, urlavano, inciampavan nelle seggiole, urtavano gli avventori, buttavan qua e là spruzzi di brodo e d'intingoli; e una povera donna, che doveva essere la padrona del caffè, prigioniera in una nicchietta dietro al banco assediato, si metteva le mani nei capelli in atto di disperazione. A quella vista, mi cascaron le braccia. Ma subito mi feci forza e mi slanciai al saccheggio. Respinto da una gomitata nel petto, mi slanciai daccapo; ributtato da una fiancata nel ventre, raccolsi tutto il mio vigore per tentare un terzo assalto. In quel punto suonò la campanella. Fu uno scoppio di imprecazioni, e poi un cader di seggiole, un acciottolìo di piatti, un serra serra, un tramenìo di casa del diavolo. Chi trangugiando in furia gli ultimi bocconi, diventava livido e cacciava gli occhi fuor del capo come un impiccato; chi allungando una mano per afferrare un arancio, sospinto da un che scappava, l'andava a tuffare in un piatto di crema; chi girava per la sala in cerca della valigia con un gran sberleffe di salsa sulle guancie; chi, per aver voluto ber d'un sol fiato andatogli il vino per traverso, tossiva da schiantarsi lo stomaco; e gl'impiegati di sulla porta gridavano:—Presto!—e i viaggiatori dalla sala rispondevano:— Ahógate! (affogati),—e i camerieri davan dietro a chi non aveva pagato, e chi voleva pagare non trovava i camerieri, e le signore facevan l'atto di svenire, e i ragazzi strillavano, e ogni cosa era sossopra.

Fu una fortuna ch'io potessi infilarmi nel mio carrozzone prima che il treno partisse.

Ma là m'aspettava un nuovo supplizio. I due vecchi e l'andalusina, che doveva essere figliuola dell'uno e nipote dell'altro, erano riusciti a fare un po' di preda in mezzo a quella maledetta folla del banco; e mangiavano a due palmenti. Io mi misi a guardarli con occhio malinconico, contando i bocconi e le dentate, come fa il cane accanto alla tavola del padrone. L'andalusa se n'accorse, e mostrandomi un qualchecosa che pareva una polpetta, fece un atto grazioso col capo come per domandarmi se la volevo.

“Oh! grazie!” risposi con un sorriso da moribondo; “ho mangiato!”

Angelo mio, soggiunsi subito tra me e me, se tu sapessi che in questo momento preferirei le tue polpette alle acerbe poma, come direbbe nobilmente messer Niccolò Macchiavelli, colte nel famoso orto delle Esperidi!

“Assaggi almeno un sorsetto di liquore!” disse lo zio.

Non so per che fanciullesca picca contro di me, o contro quella buona gente; ma era una picca che in simili occasioni provano spesso anche gli uomini; risposi anche questa volta:—“No, grazie, mi farebbe male.”

Il buon vecchio mi guardò da capo a piedi coll'aria di dire che non gli parevo un omino da patire una goccia di liquore, e l'andalusa sorrise, e io diventai rosso dalla vergogna.

Si fece notte, e il treno continuò a andare al passo della cavalcatura di Sancho Panza, non so per quante ore. Quella sera esperimentai per la prima volta in vita mia i tormenti della fame, che immaginavo d'aver provati già nella famosa giornata del ventiquattro giugno milleottocentosessantasei. Per alleviar quei tormenti, pensavo ostinatamente a tutti i mangiari che m'inspirano più ripugnanza, ai pomidoro crudi, alle lumache nel brodo, ai gamberi arrostiti, ai bianchetti in insalata. Ahimè! una voce di scherno mi gridava d'in fondo alle viscere che, se li avessi avuti, me ne sarei leccato le dita. Allora mi misi a far delle mescolanze immaginarie di piatti disparati, come sarebbe di creme e di pesci, spruzzati di vino, con una manata di pepe e uno strato di conserva di ginepro; per veder di tenere a segno lo stomaco. Oh infelice! Lo stomaco vigliacco non ripugnava neanco da quelle sozzure. Allora feci un ultimo sforzo, e immaginai di essere a tavola in un albergo di Parigi, al tempo dell'assedio, e di sollevar pian piano per la coda un topino in salsa piccante, che riacquistando improvvisamente gli spiriti, mi addentasse il pollice, e mi fissasse in viso due occhietti inviperiti, ed io, colla forchetta alzata, fossi nel dubbio o di dargli l'andare o d'infilzarlo senza pietà. Ma, grazie a Dio, prima ch'io uscissi da questo bivio orribile, per consumare un atto che non avrebbe avuto riscontro nella storia degli assedii, il treno si fermò e un barlume di speranza mi ravvivò gli spiriti affaticati.

Eravamo arrivati non so a che villaggio. Mentre cacciavo la testa fuor del finestrino, una voce gridò:—Scenda chi va a Granata!—Mi precipitai giù dal carrozzone e mi trovai a faccia a faccia con un omaccione baffuto che mi tolse la valigia di mano, dicendomi che l'andava a mettere nella diligenza, perchè da quel villaggio fino a non so quante miglia dalla imperial Granada, non c'è strada ferrata.

“Un momento!” gridai allo sconosciuto con voce supplichevole: “Quanto tempo c'è per partire?”

“Due minuti!” rispose.

“C'è un'osteria?”

“È là.”

Volai nell'osteria, trangugiai un uovo sodo, e scappai verso la diligenza gridando: “Quanto tempo c'è ancora?”

“Altri due minuti!” mi rispose la voce di prima.

Rivolai all'osteria, mandai giù un altr'uovo, e corsi di nuovo alla diligenza, ridomandando: “Si parte?”

“Fra un minuto!”

All'osteria daccapo, e un terz'ovo, e poi alla diligenza: “Si va?”

“Fra mezzo minuto!”

Questa volta tirai un moccolo da far rabbrividire, ricorsi all'osteria, inghiottii un quart'ovo e un bicchier di vino, e mi slanciai di corsa verso la diligenza. Ma fatti appena dieci passi, mi sentii mancare il respiro, e mi fermai coll'ovo a mezza gola. In quel punto schioccò la frusta.—Aspettate!—urlai con una voce rantolosa, agitando le mani come un uomo che affoghi.

Que hay? ” (che c'è?) domandò il vetturino.

Non potei rispondere.

Se le ha quedado un huevo en la garganta! ” (Le è rimasto un uovo nella gola) rispose per me uno sconosciuto.

Tutti i viaggiatori diedero in uno scoppio di risa, l'ovo andò giù, risi anch'io, raggiunsi la diligenza che partì subito, e ripreso ch'ebbi fiato, feci ai miei compagni di viaggio il racconto delle mie disgrazie, che li esilarò e gl'impietosì più che non avrei osato sperare dopo quella crudele risata sul mio strangolamento.

Ma le mie disgrazie non eran finite. Uno di quei sonni irresistibili, che mi saltavano addosso a tradimento nelle lunghe marcie notturne in mezzo ai soldati, mi prese tutt'a un tratto, e mi torturò fino alla stazione della strada ferrata, senza ch'io potessi dormire un momento. Credo che una palla da cannone appesa per uno spago in mezzo al cielo della diligenza, avrebbe dato meno noia ai miei disgraziati compagni di viaggio, di quello che ne diede la mia povera testa dondolando, come fece, da tutte le parti, che pareva non fosse più attaccata al collo che per un nervo. Avevo da una parte una monaca, dall'altra un ragazzo, davanti una contadina, e per tutto il tragitto non feci che picchiar capate su quelle tre vittime, col monotono va e vieni del battaglio d'una campana. La monaca, poveretta, si lasciava picchiare e taceva, forse in espiazione dei suoi peccati di pensiero; ma il ragazzo e la contadina brontolavano di tratto in tratto:— Es una barbaridad! Así no se puede estar! Tiene una cabeza de plomo! (una testa di piombo).—Finalmente uno scherzo d'uno dei viaggiatori ci liberò tutti e quattro da quel supplizio. La contadina essendosi lamentata un po' più forte del solito, una voce in fondo alla diligenza esclamò:—Si consoli! Se non le ha rotto la testa finora, può star sicura che non gliela rompe più, perchè vuol dire che l'ha a prova di martello.—Tutti risero, io mi svegliai chiedendo scusa, e le tre vittime furon così contente di vedersi libere da quello spietato picchiare, che invece di vendicarsi con qualche parola acerba, mi dissero:— Pobrecito! Ha descansado Usted muy mal! Se ha lastimado Usted la cabeza! (Poveretto! Ha riposato molto male! Deve essersi fatto male alla testa!)

Arrivammo finalmente alla strada ferrata, e, vedete, iniqua sorte! solo com'ero nel carrozzone che avrei potuto dormire come un sultano, non riuscii a chiuder occhio. Mi sentivo una spina nel cuore pensando che avevo fatto quel viaggio di notte, e che non avevo veduto nulla, e che non potevo godere dello spettacolo di Granata lontana! E mi sonavano in mente i dolci versi di Martinez della Rosa:

«Oh amata patria mia! Ti riveggo al fine! Riveggo il tuo bel suolo, i tuoi campi lieti e fecondi, il tuo splendido sole, il tuo quieto cielo!

»Oh sì! veggo la famosa Granata stendersi al piano dall'uno e dall'altro colle, le sue torri sollevarsi in mezzo ai giardini eternamente verdi, i suoi fiumi cristallini baciar le sue mura, i monti superbi circondar la sua valle, e la Serra Nevada coronare gli orizzonti lontani!

»Oh! la tua memoria mi seguiva in ogni parte, Granata! turbava i miei piaceri, la mia pace, la mia gloria, e mi opprimeva l'anima e il cuore! Sulle gelide rive della Senna e del Tamigi, io ricordava le amene sponde del Dauro e del Genil, e sospirava! e ben sovente, intonando una lieta canzone, il mio dolore s'inacerbiva, e il pianto mal represso soffocava la mia voce!

»Invano l'Arno delizioso mi offerse le sue rive smaltate di fiori, asilo degli amori e della pace. La pianura irrigata dal quieto Genil,—diceva,—è più fiorita! Il soggiorno della bella Granata è più caro!—E mormorava queste parole con accento sconsolato, e ricordando la casa dei miei padri, alzava gli occhi melanconici al cielo.

»Qual'è la tua magia, il tuo ineffabile incanto, o patria, o dolce nome, che ci sei tanto caro! Il nero Affricano, lungi dal suo deserto nativo, guarda con doloroso sdegno i campi verdeggianti; il rozzo Lappone, rapito alla sua terra materna, sospira le notti perpetue e il perpetuo gelo; ed io, io cui la sorte benigna concesse di nascere e di crescere nel tuo beato grembo, benedetto di tanti doni da Dio, io, lontano da te, avrei potuto dimenticarti, Granata?»

Arrivai a Granata, era buio fitto, non vidi neanco il profilo d'una casa. Una diligenza, tirata da due cavalli

«....... anzi due cavallette
Di quelle di Mosè là dell'Egitto»

mi sbarcò in un albergo, dove dovetti aspettare un'ora che mi si facesse il letto, e finalmente, poco prima delle tre della mattina, potei metter la testa sul guanciale. Ma le mie disgrazie non eran finite. Quando cominciavo a pigliar sonno, sentii un mormorio indistinto nella stanza accanto, e poi una voce maschile che disse chiaramente:—Oh che piedino!—Chi ha viscere di umanità, giudichi. Il guanciale era un po' scucito, tirai fuori due bioccoli di lana, me li cacciai nelle orecchie e riandando col pensiero le traversie del mio viaggio m'addormentai del sonno dei disperati.

La mattina per tempo uscii e passeggiai per le strade di Granata fin che fosse un'ora decente per andar a trar fuor di casa un giovane granatino che avevo conosciuto a Madrid, in casa di Fernandez Guerra, di nome Gongora, figliuolo d'un archeologo illustre, e discendente del famoso poeta cordovese Luigi Gongora; di cui dissi qualcosa di volo. La parte della città che vidi in quelle poche ore non rispose alla mia aspettativa. Credevo di trovar le stradine misteriose e le casine bianche come a Cordova e a Siviglia; trovai invece delle piazze spaziose, alcune belle strade diritte, e le altre tortuose ed anguste sì, ma fiancheggiate da case alte, dipinte in gran parte di falsi bassorilievi, con amorini e ghirlande e svolazzi di tende e di veli di mille colori; senza quell'aspetto orientale delle altre città andaluse. La parte più bassa di Granata è quasi tutta fabbricata colla regolarità d'una città moderna. Passando per quelle strade, mi pigliò il dispetto, e avrei certo portato al signor Gongora una faccia rannuvolata, se per caso, in quell'andar così alla ventura, non fossi riuscito nella famosa Alameda, che gode la fama di essere il più bel passeggio del mondo, e che mi compensò a mille doppi della odiosa regolarità delle strade che vi conducono.

S'immagini chi legge un lungo viale di sì straordinaria larghezza, che vi potrebbero passare cinquanta carrozze di fronte, fiancheggiato da altri viali minori, lungo i quali corrono file di alberi smisurati, che formano a una grande altezza una immensa vòlta di verzura fitta tanto da non lasciar penetrar un raggio di sole; e alle due estremità del viale di mezzo due fontane monumentali che gettan l'acqua a larghi sprazzi ricadenti in finissima pioggia vaporosa, e tra viali e viali, ruscelli cristallini, e in mezzo, un giardino tutto rose e mirti e gelsomini e schizzi d'acqua; e da un lato il fiume Genil che scorre in mezzo a due sponde coperte di boschi d'allori, e lontano i monti coperti di neve, sui quali le palme lontane disegnano le loro fantastiche chiome; e per tutto un verde vivo, chiuso, stracarico, che lascia vedere qua e là qualche striscia di cielo d'un color zaffiro che innamora.

Tornando dall'Alameda, incontrai un gran numero di contadini che uscivan dalla città a due a due, a drappelli, colle loro donne e i loro ragazzi, canterellando e celiando. Il loro vestire non mi parve diverso da quello dei contadini della campagna di Cordova e di Siviglia. Avevano il cappello di velluto, alcuni colla tesa larghissima, altri colla tesa alta e ricurva; una giacchettina fatta di liste di panno di vario colore, una fascia rossa o azzurra, calzoni stretti, abbottonati lungo la coscia, e un par di ghette di cuoio aperto da un lato in modo da lasciar vedere le gambe. Le donne son vestite come nelle altre provincie, e non v'è differenza notevole neanche nei visi.

Andai a casa del mio amico, e lo trovai sepolto nei suoi studi archeologici, davanti a un mucchio di vecchie medaglie e di pietre istoriate. Mi ricevette con una allegrezza e una cortesia carissimamente andalusa, e scambiati che ci fummo i primi saluti, pronunziammo tutti e due a una voce quella magica parola che in ogni parte del mondo desta in ogni anima un tumulto di grandi ricordi e un sentimento di desiderio segreto; che dà l'ultima spinta verso la Spagna a chi ha concepito il disegno del viaggio e non ancora preso la risoluzione della partenza; che fa battere il cuore dei poeti e dei pittori, e scintillar gli occhi delle donne: l'Alhambra!

Ci precipitammo fuor di casa.

L'Alhambra è posta sur un'alta collina che domina la città, ed offre da lontano l'aspetto d'una fortezza, come quasi tutti i palazzi orientali. Ma quando io m'avviai col Gongora su per la strada de los Gomeles per andar a visitare la reggia famosa, non ne avevo ancora visto le mura neanco da lontano, e non avrei saputo dire da che lato della città si trovasse. La strada de los Gomeles è in salita e descrive una leggiera curva, onde per un buon tratto non si vede dinanzi altro che case, e si può credere che l'Alhambra sia ancora lontana. Il Gongora non parlava; ma gli leggevo in viso che godeva nel più vivo dell'anima pensando alla meraviglia e al diletto che avrei provato io. Guardava in terra sorridendo; rispondeva a tutte le mie domande con un cenno che voleva dire:—a momenti;—e di tratto in tratto alzava gli occhi quasi furtivamente per misurare la strada che ci rimaneva a percorrere. Ed io godevo tanto di quel suo piacere che gli avrei gettato le braccia al collo per ringraziarlo.

Arrivammo dinanzi a una gran porta che chiude la strada; il Gongora mi disse:—Ci siamo,—io entrai.

Mi trovai in un gran bosco di alberi d'un'altezza smisurata, inclinati gli uni verso gli altri di qua e di là d'un grande viale che ascende su per la collina e si perde nell'ombra; e fitti tanto che appena vi potrebbe passare un uomo frammezzo, e dovunque si guardi, non si vedon che tronchi che par che chiudan la via come una parete continua. Gli alberi incrociano i rami al di sopra del viale; nel bosco non penetra un raggio di sole; l'ombra è oscurissima; e da ogni parte mormorano ruscelli, e cantano usignoli, e spira una freschezza primaverile.

“Siamo già nell'Alhambra” mi disse il Gongora; “si volti indietro, e vedrà le torri e le mura merlate della cinta.”

“Ma dov'è il palazzo?” domandai.

“È un mistero,” mi rispose; “andiamo innanzi, a caso.”

Salimmo per un viale che fiancheggia il gran viale del mezzo, e va su a giravolte verso la sommità della collina. Gli alberi vi formano sopra come un padiglione di verzura che non lascia vedere un palmo di cielo, e l'erbe, i cespugli e i fiori gli fanno ai lati due leggiadrissime spalliere variopinte e odorose, e un po' inclinate l'una verso l'altra, come se tendessero a congiungersi, attratte a vicenda dalla vaghezza dei colori e dalla soavità delle fragranze.

“Fermiamoci un momento,” dissi “voglio tirare un gran sorso di quest'aria; mi par che debba contenere non so che germi arcani che infusi nel sangue allunghin la vita; è un'aria che odora di gioventù e di salute.”

“Ecco la porta,” esclamò il Gongora.

Mi voltai come se m'avessero punto in un fianco, e vidi pochi passi dinanzi a me una grossa torre quadrata, di color rosso cupo, coronata di merli, con una porta arcata, sopra la quale si vedono scolpiti una chiave ed una mano.

Interrogai il mio duca, il quale mi disse che quella era l'entrata principale dell'Alhambra, e che si chiamava la porta della Giustizia perchè sotto quell'arco i Re arabi solevan pronunziare le loro sentenze. La chiave significa che quella porta è la chiave della fortezza, e la mano simboleggia i cinque principali precetti dell'Islam: orazione, digiuno, beneficenza, guerra santa e pellegrinaggio alla Mecca. Un'iscrizione araba attesta che l'edifizio fu costrutto quattro secoli or sono dal sultano Abul Hagag Jusuf, ed un'altra che si legge tuttora sulle colonne dice: «Non c'è altro Dio che Allah, e Maometto è il suo profeta! Non v'è potere nè forza fuori di Allah!»

Passammo sotto la porta e continuammo a salire per una strada incassata, fin che ci trovammo sulla sommità della collina in mezzo a una spianata ricinta d'un parapetto e sparsa di piante e di fiori. Io mi voltai subito verso la valle per godere il colpo d'occhio; ma il Gongora mi afferrò pel braccio e mi fece guardare dalla parte opposta. Ero dinanzi a un grande palazzo dello stile del Rinascimento, mezzo in rovina, e fiancheggiato da alcune piccole case di meschina apparenza.

“Che gioco è questo?” domandai “Mi conduce qui per vedere una reggia araba, e mi trovo la via chiusa da un palazzo moderno? Chi ha avuto la scellerata idea di rizzar quell'edifizio in mezzo al giardino dei Califfi?”

“Carlo V.”

“Era un vandalo. Non gli ho perdonato ancora la chiesa gotica che piantò in mezzo alla Moschea di Cordova; ed ora questa baracca finisce di mettermelo in tasca tutto intero colla sua corona e la sua gloria. Ma in nome del cielo, dov'è l'Alhambra?”

“È là.”

“Dove là?”

“In quelle casuccie.”

“Eh via!”

“Glie ne dò la mia parola d'onore.”

Incrociai le braccia e lo guardai; egli rise.

“Ma dunque,” esclamai; “questo gran nome dell'Alhambra non è che una delle solite iperbolaccie ciarlatanesche dei poeti! Io, l'Europa, il mondo, siamo indegnamente corbellati! E valeva la pena di sognar l'Alhambra per trecento sessantacinque notti di seguito, per venir poi a vedere un gruppo di catapecchie con qualche colonna mozza e qualche iscrizione affumicata?”

“Quanto mi ci godo!” rispose il Gongora dando in uno scoppio di risa; “orsù, venga a persuadersi che il mondo non è corbellato: entriamo nelle catapecchie.”

Entrammo per una piccola porta, attraversammo un corridoio, ci trovammo in un cortile. Io afferrai la mano del Gongora con un vivissimo slancio, ed egli mi domandò con un accento di trionfo:

“S'è persuaso?”

Non risposi, non lo vidi, ero già sterminatamente lontano da lui: l'Alhambra aveva già cominciato ad esercitare su di me quel fáscino misterioso e profondo a cui nessuno può sfuggire e che nessuno sa esprimere.

Eravamo nel patio detto de los Arrayanes (dei mirti), che è il più vasto dell'edifizio, e presenta insieme l'aspetto d'una sala, d'un cortile e d'un giardino. Una gran vasca di forma rettangolare, piena d'acqua, cinta d'una siepe di mirto, si stende da un lato all'altro del patio, e riflette come uno specchio gli archi, gli arabeschi e le iscrizioni dei muri. A destra dell'entrata si stendono due ordini sovrapposti d'archi moreschi, sostenuti da leggiere colonne; e dal lato opposto del cortile s'alza una torre, con una porta, per la quale si vedono le interne sale semioscure e le finestrine binate, e di là dalle finestre, l'azzurro del cielo e le cime dei monti lontani. I muri sono ornati, fino a una certa altezza dal suolo, di splendenti musaici, e dal musaico in su, arabescati con disegno finissimo, che par che tremoli e si cangi a ogni passo; e qua e là fra gli arabeschi e lungo gli archi s'allungano e serpeggiano e s'intrecciano come ghirlande iscrizioni arabe che racchiudon saluti, sentenze e leggende.

Presso la porta d'entrata è scritto in caratteri cufici:—Salute eterna!—Benedizione!—Prosperità!—Felicità!—Lodato sia Iddio per il beneficio dell'Islam.

In un altro punto è scritto:—Io cerco il mio rifugio nel Signore dell'Aurora.—Altrove:—O Dio! A Te si debbono grazie eterne e lodi imperiture.—

In altre parti son versi del Corano e poesie intere in lode dei Califfi.

Stemmo qualche minuto guardando senza aprir bocca; non si sentiva il ronzio d'una mosca; di tratto in tratto il Gongora faceva movimento per avviarsi verso la torre, e io lo trattenevo pel braccio, e sentivo che fremeva d'impazienza.

“Ma bisogna spicciarsi,” mi disse finalmente, “se no non torneremo a Granata prima di sera.”

“Ma che so io di Granata!” gli risposi; “che so io di sera e di mattina e di me stesso; io sono in Oriente!”

“Ma lei non è che nell'anticamera dell'Alhambra, caro il mio arabo!” mi disse il Gongora spingendomi innanzi; “venga, venga con me, che le parrà ben altrimenti d'essere in Oriente!”

E mi condusse, riluttante, fin sulla soglia della porta della torre. Di là mi voltai a guardare ancora una volta il cortile dei mirti, e misi una voce di stupore. Fra due colonnine della galleria arcata che è di fronte alla torre, dal lato opposto del cortile, s'era affacciata una ragazza, un bel viso bruno d'andalusa, con un mantello bianco avvolto intorno al capo e cascante sulle spalle; e stava appoggiata sul parapetto in un atteggiamento melanconico, cogli occhi fissi su di noi. Non si può dire l'effetto fantastico che produceva quella figura in quel punto; la grazia che riceveva dall'arco che le si curvava sul capo, e dalle due colonne che le facevan cornice, e la bella armonia che dava a tutto il cortile, quasi come fosse un ornamento necessario di quell'architettura, concepito dalla mente dell'architetto nell'atto stesso che ne immaginava il disegno. Pareva una sultana che aspettasse il suo signore pensando a un altro cielo e a un altro amore. E continuava a guardarci, ed il cuore mi cominciava a batter forte, e interrogavo cogli occhi il mio amico, come per esser assicurato che non travedevo. Tutt'a un tratto la sultana rise, abbassò il mantello bianco e scomparve.

“È una serva,” mi disse il Gongora.

Rimasi ingrullito.

Era infatti una serva dell'amministratore dell'Alhambra che soleva far quello scherzo agli stranieri.

Entrammo nella torre, chiamata torre di Comares, o volgarmente degli Ambasciatori.

L'interno della torre forma due sale, la prima delle quali si chiama la sala della Barca, chi dice perchè ha la forma d'una barca, e chi perchè era chiamata dagli arabi sala della baraka, o benedizione, la qual parola sarebbe stata contratta dal volgo in quella di barca. Questa sala non sembra più opera umana: è tutta un prodigioso intreccio di ricami in forma di ghirlande, di rosoni, di rami, di foglie, che copron vòlta, archi, pareti, da ogni parte e in ogni senso, fitti, attorcigliati, reticolati, sovrapposti gli uni agli altri, e pure meravigliosamente distinti fra loro, e combinati in maniera che si presentano allo sguardo tutti insieme e tutt'a un tratto, ed offrono un aspetto di magnificenza che sbalordisce e di grazia che incanta. Mi avvicinai a una parete, fissai gli occhi sul punto estremo d'un arabesco e provai a seguirne i giri e i rigiri su per la parete; è impossibile; lo sguardo si perde, la mente si turba, e tutti gli arabeschi dal pavimento alla vòlta par che si muovano e si confondano per farvi sfuggire il filo della loro inestricabile rete. Potete fare uno sforzo per non guardare intorno, fissar tutta la vostra attenzione sur un palmo solo di parete, metterci il viso sopra, e seguire il filo col dito: è inutile; dopo un minuto i ricami si scompigliano, si stende un velo tra voi e il muro, e il vostro braccio ricade. La parete pare tessuta come il panno, è crespa come il broccato, forata come la trina, reticolata come una foglia; non si può guardar da vicino; non se ne può fissar nella mente il disegno: sarebbe come voler contare le formiche in un formicaio; bisogna contentarsi di scorrer le pareti con uno sguardo vago; poi riposare, e riguardare daccapo, e riposando, pensare ad altro, e discorrere. Dopo aver guardato un po' intorno coll'aria d'un uomo preso più dal capogiro che dall'ammirazione, mi voltai verso il Gongora perchè mi leggesse nel viso quello che avrei voluto dirgli.

“Entriamo nell'altra catapecchia,” mi rispose sorridendo, e mi spinse nella grande sala degli Ambasciatori, che occupa tutto l'interno della torre, poichè veramente la sala della barca appartiene a un piccolo edifizio che, sebbene congiunto alla torre, non ne fa parte. La sala è di forma quadrata, spaziosa ed illuminata da nove grandi finestre ad arco in forma di porte, che presentan quasi l'aspetto di altrettante alcove, cosiffatto è lo spessore dei muri; e ciascuna è divisa per mezzo, verso il di fuori, da una colonnina di marmo che sorregge due archetti eleganti, sormontati alla loro volta da due piccole finestre arcate. Le pareti sono coperte di musaici e d'arabeschi indescrivibilmente delicati e multiformi; e d'innumerevoli iscrizioni che si stendono a guisa di larghi nastri ricamati sopra gli archi delle finestre, su per gli spigoli, lungo i fregi, e intorno alle nicchie, nelle quali ponevansi i vasi ripieni di fiori e d'acque odorose. Il soffitto che s'eleva ad una grande altezza, è composto di pezzuoli di legno di cedro, bianchi, dorati e azzurri, commessi insieme, in forma di cerchi, di stelle e di corone; e forma tante volticine e cellule e finestrette centinate dalle quali scende una vaga luce, e dalla cornice che congiunge il soffitto alle pareti, pendono pezzi di stucco faccettati e ricamati a modo di stallattiti e di ciocche di fiori. Il trono era posto nella finestra di mezzo del lato opposto alla porta d'entrata. Dalle finestre di questo lato si gode la stupenda vista della valle del Dauro, profonda e silenziosa, come se anch'essa sentisse il fascino della maestà dell'Alhambra; dalle finestre degli altri due lati, si vedon le mura di cinta e le torri della fortezza; e dalla parte dell'entrata, in lontananza, gli archi leggeri del cortile dei mirti, e le acque della vasca che riflettono l'azzurro del cielo.

“Ebbene,” mi domandò il Gongora, “valeva la pena di sognare l'Alhambra per trecentosessantacinque notti?”

“È strano,” gli risposi; “quello che mi passa per la testa in questo momento. Quel cortile come lo si vede di qui, questa sala, queste finestre, questi colori, tutto quello che mi circonda, mi pare che non mi riesca nuovo; mi par che risponda a una immagine che avevo in capo, non so da quando, non so come, confusa in mezzo a mille altre, forse nata in un sogno, che so io! Quando avevo sedici anni, ed ero innamorato, e guardandoci fissi negli occhi, io e quella bambina, soli, in un giardino, all'ombra d'un capanno, ci lasciavamo sfuggire, senza accorgercene, un grido di gioia, che ci rimescolava il sangue come se fosse uscito dalla bocca d'una terza persona che avesse scoperto il nostro segreto; ebbene, allora io desideravo spesso di essere un re e di avere una reggia; ma nel dar forma a quel desiderio, la mia immaginazione non si arrestava mai nelle grandi reggie dorate dei nostri paesi, e volava in terre lontane, e là, sulla cima di un'altissima montagna, si fabbricava una reggia a modo suo, nella quale ogni cosa era gentile e piccino, e illuminato d'una luce misteriosa; e si vedevan lunghe fughe di sale decorate di mille ornamenti capricciosi e delicati, con finestre alle quali avremmo potuto affacciarci solamente noi due, e piccole colonne dietro cui quella bambina avrebbe appena potuto nascondere il viso per farmi uno scherzo amoroso, quando avesse sentito avvicinarsi il mio passo di sala in sala, o suonar la mia voce in mezzo al mormorio delle fontane del giardino. Senza saperlo, nel fabbricare colla fantasia quelle reggie, fabbricavo l'Alhambra; in quei momenti ho immaginato qualcosa di simile a queste sale, a queste finestre, a quel cortile che si vede di qui; di tanto simile che, più guardo intorno, meglio me ne ricordo, e mi par di riconoscere il luogo, piuttosto che di vederlo la prima volta. Quando s'è innamorati si sogna tutti un po' d'Alhambra, e se si potessero tradurre in linee e in colori tutti quei sogni, s'avrebbero dei quadri che farebbero strabiliare per la loro somiglianza con tutto quello che qui si vede. Quest'architettura non esprime la potenza, la gloria, la grandezza; esprime l'amore e la voluttà; l'amore coi suoi misteri, coi suoi capricci, colle sue effervescenze, coi suoi slanci di gratitudine verso Dio; la voluttà colle sue malinconie e i suoi silenzi. V'è dunque un legame intimo, un'armonia fra la bellezza di quest'Alhambra e l'anima di coloro che hanno amato a sedici anni, quando i desiderii son sogni e visioni. E di qui nasce l'indescrivibile fáscino che esercita questa bellezza; e per questo l'Alhambra, tuttochè così deserta e dimezzata, è ancora la più incantevole reggia del mondo, e al vederla per l'ultima volta, gli stranieri versano una lagrima. Gli è perchè salutando l'Alhambra, si dà un ultimo addio ai nostri più bei sogni giovanili, che fra le sue mura si son rifatti vivi per l'ultima volta! si dà un addio a dei visi immensamente cari che hanno rotto l'oblio di molti anni per affacciarsi un'ultima volta in mezzo alle colonnine di queste finestre! si dà un addio a tutti i fantasmi della giovinezza! si dà un addio a quell'amore che non rinasce mai più.”

“È vero!” rispose il mio amico; “ma che cosa dirà quando avrà visto il cortile dei Leoni! Venga! corriamo!”

Uscimmo a rapidi passi dalla torre, attraversammo il cortile dei mirti, e giungemmo davanti a una porticina posta di fronte a quella d'entrata.

“Si fermi!” mi gridò il Gongora.

Mi fermai.

“Mi faccia un favore.”

“Cento.”

“Un solo: chiuda gli occhi e non li apra che quando glielo dirò io.”

“Eccoli chiusi.”

“Ma badi che ci tengo; se li apre, m'inquieto!”

“Non dubiti!”

Il Gongora mi pigliò per mano e mi condusse innanzi: tremavo come una foglia.

Facemmo forse una quindicina di passi e ci arrestammo. Il Gongora disse con voce commossa:—Guardi!—Guardai, e lo giuro sul capo dei miei lettori: mi sentii scorrere due lagrime giù per le guancie.

Eravamo nel cortile dei Leoni.

Se in quello stesso momento m'avessero fatto uscire per dove ero entrato, non so se avrei saputo dire quello che avevo visto. Una foresta di colonne, un visibilio d'archi e di ricami, un'eleganza indefinibile, una delicatezza inimmaginabile, una ricchezza prodigiosa, un non so che di aereo, di trasparente, di ondeggiante, come un gran padiglione di trina; un'apparenza quasi d'un edifizio che si debba dissolvere con un soffio, una varietà di luci, di prospetti, di oscurità misteriose, una confusione, un disordine capriccioso di cose piccine, una maestà di reggia, una gaiezza di chiosco, una grazia amorosa, una stravaganza, una delizia, una fantasia di fanciulla appassionata, un sogno d'un angelo, una follia, una cosa senza nome; tale è il primo effetto del cortile dei Leoni.

È un cortile non più spazioso d'una gran sala da ballo, della forma d'un rettangolo, coi muri alti come una casetta andalusa d'un sol piano. Tutt'intorno ricorre un leggero portico, sostenuto da sveltissime colonne di marmo bianco aggruppate in un disordine simmetrico a due a due, a tre a tre, prive quasi di piedestallo, così che paion fusti d'alberi posati in terra; munite di capitelli svariati, alti, sottili, a guisa di pilastrini, su cui si incurvano dei piccoli archi di graziosissima forma, i quali meglio che appoggiati, sembran sospesi sulle colonne, a modo di cortine, che sorreggano le colonne stesse come nastri e ghirlande spenzolanti. Dal mezzo dei due lati più corti, si avanzano due gruppi di colonne che formano due specie di tempietti quadrati, di nove archi ciascuno, sormontati da una cupoletta multicolore. I muri di questi tempietti e quello esterno del portico sono una vera trina di stucco, ricamati, orlati, ritagliati, traforati da una parte all'altra, e trasparenti come un lavoro a maglia e cangianti di disegno a ogni passo; qui rabescati a fiori, là a stelle, più oltre a scudi, a scacchiere, a figure poligonali ripiene di minutissimi ornati; dove terminati in dentelli, in crespe, in festoni, dove in nastri ondeggianti intorno agli archi, in specie di stallattiti, di frangie, di ciondoli, di fiocchi, che par che debban oscillare e scompigliarsi al più leggero movimento dell'aria. Larghe iscrizioni arabe ricorrono lungo i quattro muri, sopra gli archi, intorno ai capitelli, sulle pareti dei tempietti. In mezzo al cortile s'alza una gran vasca di marmo sostenuta da dodici leoni, e circondata da un canaletto lastricato, in cui metton capo altri quattro piccoli canali, i quali descrivendo una croce fra i quattro lati del cortile, attraversano il portico, entrano nelle sale circostanti e si congiungono ad altri condotti d'acqua che girano per tutto l'edifizio. Dietro ai due tempietti, e nel mezzo degli altri due lati, s'aprono sale e fughe di sale, con grandi porte aperte, che lascian vedere il fondo oscuro, sul quale le bianche colonnine spiccano come dinanzi all'imboccatura di una grotta. A ogni passo che si fa nel cortile, quella foresta di colonne par che si muova e si disordini per disporsi in un'altra maniera; dietro una colonna che pareva sola, ne saltan fuori due, tre, una fila; altre scompaiono, altre si stringono, altre si disgiungono; a guardar d'infondo a una delle sale, tutto appare mutato; gli archi della parte opposta, sembran lontanissimi; le colonne, spostate; i tempietti, d'un'altra forma; si vede a traverso i muri, si scopron nuovi archi e nuove colonnine, qui illuminati dal sole, là nell'ombra, lì rischiarati appena dal po' di luce che passa pei fori degli stucchi, più lontano perduti quasi nel buio. È un continuo variare di prospetti, di lontananze, d'inganni, di misteri, di giuochi, che vi fa l'architettura e il sole, e la fantasia sovreccitata e bollente.

Che cosa doveva essere questo patio,—mi disse il Gongora,—quando i muri interni del portico erano luccicanti di musaici, i capitelli delle colonne scintillanti d'oro, i soffitti e le volte dipinti di mille colori, le porte chiuse da tende di seta, le nicchie piene di fiori, e sotto i tempietti e nelle sale correva l'acqua odorosa, e dalle nari dei leoni schizzavano dodici zampilli che ricascavan nella vasca, e l'aria era pregna dei più deliziosi profumi dell'Arabia!

Ci trattenemmo nel cortile più d'un'ora, che ci passò come un lampo; ed anch'io feci quello che fanno tutti in quel luogo, spagnuoli e stranieri, uomini e donne, poeti o non poeti che siano. Feci scorrer la mano sui muri, toccai tutte le colonnine, le strinsi colle due mani una per una come la vitina d'una bimba, mi ci nascosi in mezzo, le contai, le guardai da cento parti, percorsi il cortile in cento sensi, provai se era vero che dicendo una parola sottovoce in bocca a uno dei leoni, la si sentiva distintamente dalla bocca di tutti gli altri; cercai sui marmi le macchie di sangue delle leggende poetiche, mi stancai gli occhi e la mente sugli arabeschi. Vi eran parecchie signore. Le signore, nel cortile dei Leoni, fanno ogni sorta di fanciullaggini; mettono il viso fra le colonne gemelle, si nascondono negli angoli oscuri, siedono in terra, stanno per ore immobili colla testa appoggiata sulla mano, sognando. Quelle signore facevan così. Ve n'era una vestita di bianco che, passando dietro alle colonne lontane, quando credeva di non esser veduta, pigliava una certa andatura molle e maestosa di sultana melanconica, e poi rideva con una sua amica: era incantevole. Il mio amico mi diceva: “Andiamo,” e io rispondevo: “Andiamo,” e non potevo muovermi. Non provavo soltanto un sentimento dolcissimo di meraviglia; ma fremevo di piacere, e avevo addosso una smania di toccare, di frugare, che so io, di veder dentro quei muri e quelle colonne, come se fossero d'una materia arcana, e si dovesse scoprire nelle loro intime parti la causa prima del fáscino che quel luogo esercitava. In tutta la mia vita non ho mai pensato nè detto, nè dirò mai tante care follie, tante belle scempiaggini, tante fole, tante gentili cose senza senso, quante ne pensai e ne dissi in quell'ora.

“Ma bisogna venir qui,” mi diceva il Gongora, “al levar del sole, bisogna venirci al tramonto, bisogna venirci di notte quando splende la luna, per veder che meraviglie di colori, di ombre e di luce! C'è da perderci il capo!”

Andammo a vedere le sale. Al lato di levante v'è una sala chiamata della Giustizia, alla quale si giunge passando sotto tre grandi archi, di cui ciascuno corrisponde a una porta che dà nel cortile. È una sala lunga e stretta, di ricca e ardita architettura, colle pareti coperte di intricati arabeschi e di preziosi musaici, e la vòlta tutta punte e groppi e sgonfi di stucco che pendon dagli archi, lungo le pareti, e qua e là s'ammucchiano, si abbassano, escon gli uni dagli altri, e gli uni gli altri si comprimono e si sovrappongono e par che si disputino lo spazio, come le bolle d'un'acqua in bollore, presentando ancora in molti punti le traccie dei colori antichi, che dovevan dare a quella vòlta l'aspetto d'un padiglione coperto di fiori e di frutta sospese. La sala ha tre piccole alcove, in ciascuna delle quali, sulla vòlta, si vede ancora una pittura araba, a cui il tempo e la estrema rarità dei lavori di pennello che son rimasti degli Arabi, danno un grandissimo valore. Le pitture son fatte sul cuoio, e il cuoio è attaccato al muro. Nello stanzino di mezzo son rappresentati, sur un fondo dorato, dieci uomini, che si suppone esser dieci re di Granata, vestiti di bianco, col cappuccio in capo, con una mano sulla scimitarra, seduti su cuscini ricamati. I dipinti delle altre due alcove rappresentano castelli, dame e cavalieri, scene di caccia e d'amore, delle quali è difficile afferrare il significato. Ma i volti dei dieci re rispondono meravigliosamente all'immagine che noi ci formiamo di quella gente: è quel colore olivastro, son quelle bocche sensuali, son quegli occhi neri dallo sguardo intento e misterioso che par sempre di veder luccicare negli angoli oscuri delle sale dell'Alhambra.

Al lato norte del cortile v'è un'altra sala chiamata de las dos Hermanas, (delle due Sorelle) da due grandi lastre di marmo che ne formano il pavimento. È la sala più gentile dell'Alhambra. È piccola, di forma quadrata, coperta da una di quelle vòlte in forma di cupola, che gli Spagnuoli chiamano mezzi aranci, sorretta da colonnine ed archi disposti in cerchio, tutta lavorata in forma d'una grotta di stallattiti, con una infinità di punte e d'incavi, coloriti e dorati, e così leggera alla vista, che par sia sospesa in aria, e a toccarla debba tremolar tutta come una tenda, o squarciarsi come una nuvola, o svanire come se non fosse che un mucchio di bolle di sapone. Le pareti rivestite, come in tutte le altre sale, di stucco, e coperte di arabeschi incredibilmente fitti e delicati, sono uno dei più meravigliosi prodotti della fantasia e della pazienza umana. Più si guarda, e più le innumerevoli linee si stringono e s'incrociano, e da una figura nasce un'altra, e da questa una terza, e tutte tre ne presentano una quinta che c'era sfuggita e questa si divide tutt'a un tratto in altre dieci che non s'erano vedute, e poi si ricompone e si trasforma daccapo; e non si finisce più di scoprir nuove combinazioni, perchè quando le prime si riaffacciano, di già son dimenticate, e fan l'effetto della prima volta. E ci sarebbe da perder la vista e la ragione a voler venir a capo di quel labirinto; ci vuole un'ora per vedere il contorno d'una finestra, gli ornamenti d'un pilastro, gli arabeschi d'un fregio; un'ora non basta per imprimersi nella mente il disegno d'una delle stupende porte di cedro. Ai due lati della sala vi sono due piccole alcove; nel mezzo, un piccolo bacino con un tubo per lo zampillo, che è congiunto al canaletto che attraversa il cortile e va alla fontana dei Leoni. In dirittura della porta d'entrata, dal lato opposto, v'è un'altra porta, per la quale si entra in un'altra sala stretta e lunga, chiamata la sala degli Aranci. Da questa sala, per una terza porta, si entra in un piccolo gabinetto chiamato il gabinetto di Lindaraja, straricco di ornamenti, e chiuso da una graziosissima finestra a due archi che guarda in un giardino.

Per godere tutta la bellezza di questa magica architettura bisogna uscir dalla sala delle due Sorelle, attraversare il cortile dei Leoni, ed entrare nella sala chiamata degli Abencerrages che si trova dal lato di Mezzogiorno, di fronte a quella delle Sorelle, della quale ha quasi la stessa forma e gli stessi ornamenti. D'in fondo a questa sala lo sguardo attraversa il cortile dei Leoni, passa per la sala delle due Sorelle, entra nella sala degli Aranci, penetra nel gabinetto di Lindaraja e s'infila nel giardino del quale appare la folta verzura sotto gli archi di quel gioiello di finestra. Le due aperture di questa finestra, viste rimpicciolite così per la lontananza, e così piene di luce in fondo a quella fuga di sale oscure, paion due grandi occhi aperti che guardino, e fanno immaginare che di là ci siano chi sa quali misteri di paradiso.

Visto la sala degli Abencerrages, andammo a vedere i bagni che si trovano fra la sala delle due Sorelle e il cortile dei Mirti. Scendemmo una scaletta, passammo per uno stretto corridoio, riuscimmo in una splendida sala, chiamata sala de los Divanes, nella quale venivano a riposare le belle dei re, sui tappeti persici, al suon delle cetre, dopo aver fatto il bagno nelle stanze vicine. Questa sala fu ricostrutta sulle rovine dell'antica, e arabescata, dorata e dipinta da artisti spagnuoli, come l'antica doveva essere; in modo che si può considerare come una sala dei tempi degli Arabi rimasta intatta in tutte le sue parti. Nel mezzo è una fontana, in due pareti opposte due specie di alcove nelle quali si adagiavan le donne, più alto le tribune dove stavano i suonatori. Le pareti sono listate, brizzolate, screziate, picchiettate di mille vivissimi colori, e presentan l'aspetto d'una tappezzeria di stoffe chinesi trapunte di fili d'oro, con quegli interminabili intrecci di figure che farebbero ammattire il più paziente musaicista della terra.

Eppure in quella sala lavorava un pittore! Lavorava da tre mesi a copiar quelle pareti! Era un tedesco. Il Gongora lo conosceva, e gli domandò: “È un lavoro che ammazza, non è vero?” E quegli rispose sorridendo: “Non mi pare,” e si ricurvò sul suo quadro.

Lo guardai come avrei guardato una creatura d'un altro mondo.

Passammo negli stanzini da bagno, piccoli, fatti a vòlta, e rischiarati dall'alto per mezzo di alcuni fori aperti nel muro, in forma di stelle e di fiori. Le tinozze sono d'un sol pezzo di marmo, vaste, e serrate fra le due pareti. I corridoi che conducono da uno stanzino all'altro son bassi e stretti in modo che appena ci può passare un uomo; e vi fa un fresco che è una delizia. Affacciandomi a uno di quegli stanzini, fui preso tutt'a un tratto da un pensiero tristo.

“Che cos'ha che si rannuvola?” mi domandò l'amico.

“Penso,” risposi, “al come viviamo noi, d'estate come d'inverno, in quelle case che paion caserme, in quelle stanze al terzo piano o buie o inondate da un torrente di luce, senza marmo, senz'acqua, senza fiori, senza colonnine; penso che dovremo viver tutta la vita così, e morire fra quelle pareti, senza aver provato una volta la voluttà di questi palazzi fatati; penso che anche in questa misera vita terrena si può immensamente godere, e che io non godrò nulla! Penso che potevo nascere quattro secoli fa re di Granata, e che sono nato invece un poveromo!”

L'amico rise, e stringendomi un braccio fra l'indice e il pollice, come per darmi un pizzicotto, mi disse:

“Non pensi a questo. Pensi a quanto di bello, di gentile e di segreto debbono aver visto queste tinozze; ai piedini che sguazzarono nelle loro acque odorose, alle lunghe capigliature che si sparsero sui loro orli, ai grandi occhi languidi che guardarono il cielo a traverso i fori di quella vòlta, mentre sotto gli archi del cortile dei Leoni risonava il passo concitato d'un Califfo impaziente, e i cento zampilli della reggia dicevano col loro affrettato mormorio:—Vieni, vieni, vieni!—e in una sala profumata uno schiavo tremante di riverenza chiudeva le finestre colle cortine color di rosa.”

“Ah! mi lasci un po' l'anima in pace!” risposi scrollando le spalle.

Attraversammo il giardino del gabinetto di Lindaraja, e un cortile d'aspetto misterioso chiamato il patio della Reja, e per una lunga galleria che guarda la campagna, giungemmo sulla sommità di una delle estreme torri dell'Alhambra, sotto un piccolo padiglione aperto tutt'intorno, chiamato Tocador (toeletta) de la reina, che par sospeso sur un abisso come il nido d'un'aquila.

Lo spettacolo che si gode di lassù, lo si può dire senza paura d'essere smentiti da alcuno, non ha l'uguale sulla faccia della terra.

S'immagini una immensa pianura verde come un prato coperto d'erba novella, attraversata in tutti i sensi da sterminati filari di cipressi, di pini, di quercie, di pioppi, sparsa di foltissimi boschetti d'aranci, che a tanta lontananza non paion più che cespugli, e di grandi orti e giardini così affollati di alberi fruttiferi che presentano quasi l'aspetto di poggerelli vestiti di verzura; e a traverso questa immensa pianura il fiume Genil che luccica fra i boschi e i giardini come un gran nastro inargentato; e tutto intorno colline boscose, e di là dalle colline, altissime roccie di fantastiche forme che rendon l'immagine di una cinta di muri e di torri titaniche che separi quel paradiso terrestre dal mondo; e lì proprio sotto gli occhi, la città di Granata, parte distesa sul piano, parte sulla china d'un colle, tutta sparsa di gruppi d'alberi, di macchie, di mucchi informi di verzura che s'alzano e ondeggiano sopra i tetti delle case come enormi pennacchi, e par che tendano ad espandersi, a congiungersi e a coprir la città intera; e più sotto ancora, la valle profonda del Dauro, meglio che coperta, riempita, colmata quasi da un cumulo prodigioso di vegetazione che si solleva come una montagna, oltre la quale emerge ancora un bosco di pioppi giganteschi che agitano le cime sotto le finestre della torre quasi a portata della mano; e a destra, di là dal Dauro, sur una collina che s'alza al cielo ardita e svelta come una cupola, il palazzo del Generalife, coronato di giardini aerei, e quasi nascosto in mezzo a un bosco di allori, di pioppi e di melagrani; e dalla parte opposta, uno spettacolo meraviglioso, una cosa incredibile, una visione d'un sogno: la Sierra Nevada, le più alte montagne d'Europa, dopo le Alpi, bianche di neve, bianche fino a poche miglia dalle porte di Granata, bianche fino ai colli dove giganteggiano i melagrani e le palme, e si spiega in tutta la sua splendida pompa una vegetazione quasi tropicale. S'immagini ora sopra questo immenso paradiso, che racchiude tutte le ridenti grazie dell'oriente e tutte le più severe bellezze del settentrione, che sposa l'Europa all'Affrica tributando all'imeneo tutte le più belle meraviglie della natura, e che manda al cielo confusi in un solo tutti i profumi della terra, s'immagini sopra questa valle beata il cielo e il sole di Andalusia, che volgendo al tramonto, tinge d'un divino color di rosa le cime, e di tutti i colori dell'iride e di tutti i riflessi delle più limpide perle azzurrine i fianchi delle montagne della Sierra; e frange i suoi raggi in mille sfumature d'oro, di porpora e cinerine, nelle roccie che coronan la pianura; e declinando in mezzo a un incendio di raggi, getta, come un saluto, una corona luminosa intorno alle torri pensierose dell'Alhambra e ai pinnacoli inghirlandati del Generalife; e si dica se si può dare al mondo qualche cosa di più solenne, di più glorioso, di più innebriante di questa festa amorosa del cielo e della terra, dinanzi alla quale da nove secoli trema di voluttà e palpita di orgoglio Granata.

Il tetto del mirador de la reina è sostenuto da piccole colonne moresche fra le quali si stendono degli archi schiacciati che danno al padiglione un aspetto stranamente capriccioso e gentile. Le pareti sono dipinte a fresco, e vi si vedono lungo i fregi le iniziali d'Isabella e di Filippo V intrecciate con amorini e fiori. Accanto alla porta d'entrata, resta ancora una pietra del pavimento antico, tutta bucherellata, sulla quale si dice si mettessero le Sultane per avvolgersi nel nuvolo dei profumi che si bruciavan di sotto. Ogni cosa, lassù, spira amore e letizia. Vi si respira un'aria pura come sulla cima d'una montagna, vi si sente una fragranza confusa di mirti e di rose, e non vi arriva altro rumore che il mormorio del Dauro che si rompe tra i macigni del suo letto dirupato, e il canto di migliaia di uccelli nascosti nella folta verzura della valle; è un vero nido da innamorati, un'alcova pensile per andarvi a sognare, una loggia aerea per salirvi a ringraziar Dio d'esser felici.

“Ah! Gongora,” esclamai dopo aver contemplato per qualche momento quello spettacolo incantevole; “io darei dieci anni di vita per poter far comparir qui, con un colpo di bacchetta magica, tutte le persone care che mi aspettano in Italia!”

Il Gongora mi accennava un largo spazio del muro tutto nero di date e di nomi scritti colla matita, col carbone, e incisi colla punta dei temperini dai visitatori dell'Alhambra.

“Che cos'è scritto qui?” mi domandò.

M'avvicinai e gittai un grido:—Chateaubriand!

“E qui?”

“Byron!”

“E qui?”

“Victor Hugo!”

Scendendo dal mirador de la reina io credevo d'aver visto l'Alhambra, e commisi l'imprudenza di dirlo al mio amico. Se avesse avuto in mano un bastone, son certo che me l'avrebbe dato fra capo e collo; ma non avendolo, si contentò di guardarmi coll'aria d'uno che domandasse se mi aveva dato volta il cervello.

Ritornammo nel cortile dei mirti, e visitammo le sale poste dall'altro lato della torre di Comares, la maggior parte mezzo rovinate, altre trasformate, alcune affatto nude, senza pavimento, senza tetto; ma tutte meritevoli d'esser vedute, e per i ricordi che destano, e per bene comprendere la struttura dell'edifizio. L'antica moschea, è stata convertita in cappella da Carlo V; una grande sala araba, in oratorio; qua e là si vedono ancora resti di arabeschi e di soffitti di cedro scolpiti; le gallerie, i cortili, i vestiboli, sembran di un palazzo devastato dalle fiamme.

Visto anche questa parte dell'Alhambra, credetti davvero che non mi rimanesse nulla a vedere, e commisi daccapo l'imprudenza di dirlo al Gongora. Questa volta non si potè più contenere; e condottomi nell'atrio del cortile dei mirti dinanzi a una pianta dell'edifizio affissa al muro, mi disse:

“Guardi, e vedrà che tutte le sale e i cortili e le torri che abbiamo visti finora, non occupano nemmeno la ventesima parte dello spazio che abbracciano le mura dell'Alhambra; vedrà che non abbiamo ancora visitato i resti di altre tre moschee, le rovine della casa del Cadì, la torre dell'Acqua, la torre delle Infante, la torre della Prigioniera, la torre del Candil, la torre dei Picos, la torre dei Pugnali, la torre dei Siete melos, la torre del Capitano, la torre della Strega, la torre delle Teste, la torre delle Armi, la torre degli Idalghi, la torre delle Galline, la torre del Cubo, la torre dell'Omaggio, la torre della Vela, la torre della Polvere, gli avanzi della casa di Mondejar, i quartieri militari, la porta di ferro, i muri interni, le cisterne, i passeggi; perchè ha da sapere che l'Alhambra non è un palazzo, ma una città; e che ci sarebbe da passar la vita a cercar arabeschi, a leggere iscrizioni, a scoprir ogni giorno un nuovo colpo d'occhio di colline e di montagne, e a andare in estasi una volta regolarmente per ognuna delle ventiquattr'ore della giornata.”

Ed io credevo d'aver visto l'Alhambra!

Per quel giorno non ne volli saper altro, e Dio sa come avevo la testa quando tornai all'albergo. Il giorno dopo, allo spuntar del sole, ci ritornai; ci ritornai la sera; e continuai a andarci ogni giorno per tutto il tempo che rimasi a Granata, col Gongora, con altri amici, coi ciceroni, solo; e l'Alhambra mi parve sempre più vasta e sempre più bella, e ripercorsi quei cortili e quelle sale, e vi passai ore ed ore, seduto tra le colonne o appoggiato alle finestrine, con un piacere di più in più vivo, scoprendo ogni volta bellezze nuove, e abbandonandomi sempre a quelle vaghe e deliziose fantasie, fra le quali aveva errato la mente il primo giorno. Non saprei più dire per dove gli amici mi facevan passare per entrar nell'Alhambra; ma mi ricordo che ogni giorno, nell'andare, vedevo mura e torri e strade deserte che non avevo viste mai, e mi pareva che l'Alhambra avesse mutato di sito, o si fosse trasformata, o le fosser sorti intorno, come per incanto, nuovi edifizii che ne alterassero l'aspetto primitivo. Chi potrebbe descrivere la bellezza di quei luoghi quando tramontava il sole! quel bosco fantastico quando vi batteva il lume della luna! la pianura immensa e le montagne coperte di neve, nelle notti serene! i grandiosi contorni di quelle mura enormi, di quelle superbe torri, di quegli alberi smisurati, sul cielo tempestato di stelle! lo stormire prolungato di quei mucchi immani di verzura che riempiono le valli e coprono i fianchi delle colline, quando soffiava la brezza! Era uno spettacolo dinanzi al quale, i miei compagni, nati a Granata, ed abituati a vederlo fin dalla infanzia, restavano senza parola, così che facevamo lunghi tratti di cammino in silenzio, ciascuno immerso nei suoi pensieri, col cuore compreso d'una mestizia dolcissima che a volte ci faceva inumidir gli occhi e alzar il viso al cielo con uno slancio di gratitudine e di tenerezza.

Il giorno del mio arrivo a Granata, quando rientrai all'albergo, a mezzanotte, invece del silenzio e della quiete, trovai il patio illuminato come una sala da ballo, gente ai tavolini che sorbiva granite, gente su nelle gallerie che andava e veniva, chiaccherando e ridendo; e mi toccò aspettare un'ora prima di andare a dormire. Ma passai quell'ora molto gradevolmente. Mentre stavo guardando una carta di Spagna affissa alla parete, un omaccione col viso color di barbabietola e una pancia che gli cascava sulle ginocchia, mi si avvicinò, e toccandosi il berretto, mi domandò s'ero italiano; risposi di sì, ed egli soggiunse sorridendo:—“Ed io pure; io sono il padrone dell'albergo.”

“Me ne rallegro, tanto più che vedo che lei ci si fa d'oro.”

“Dio buono....” mi rispose con un tuono che voleva parer melanconico; “sì.... non mi lamento; ma.... me lo creda, caro signore, per quanto gli affari vadan bene, quando si è lontani dal proprio paese, qui (e si mise una mano sull'enorme torace) qui si sente sempre un vuoto!”

Gli guardai la pancia.

“Un gran vuoto,” ripetè l'albergatore; “la patria non si dimentica mai... Di che provincia è lei, signore?”

“Della Liguria. E lei?”

“Del Piemonte. Liguria! Piemonte! Lombardia! Quelli son paesi!”

“Son bei paesi, non c'è dubbio; ma lei, alla fine dei conti, non si può lamentare della Spagna. Sta in una delle più belle città del mondo, è padrone d'uno dei più belli alberghi della città, ha una folla di forestieri tutto l'anno, e poi vedo che gode d'una salute invidiabile.”

“Ma il vuoto!”

Gli guardai di nuovo la pancia.

“Eh capisco, signor mio; ma lei s'inganna, sa, se mi giudica dalle apparenze. Lei non può immaginare quello che provo io quando capita qui un Italiano. Che vuole? Sarà una debolezza.... non so.... ma io lo vorrei vedere tutto il giorno a tavola, e creda che se mia moglie non mi trovasse a ridire, io sarei capace di mandargli per conto mio una dozzina di piatti d'antipasto... come nulla.”

“A che ora si desina domani?”

“Alle cinque. Del resto.... qui si mangia poco.... paesi caldi.... tutti si tengon leggeri.... di qualunque nazionalità sieno.... è una regola.... Ma non ha visto l'altro italiano che è qui?”

Così dicendo guardò intorno, e un uomo che ci stava osservando da un angolo del cortile, ci si avvicinò. L'albergatore, dette poche parole, ci lasciò soli. Era un uomo sulla quarantina, meschinamente vestito, che parlava co' denti stretti e stropicciando di continuo le mani con un movimento convulsivo, come se facesse uno sforzo per trattenersi dal picchiare dei pugni. Mi disse che era lombardo, corista, arrivato il giorno innanzi a Granata con altri artisti di canto scritturati al teatro dell'Opera per la stagione d'estate.

“Sucido paese!” esclamò senz'altro preambolo, guardandosi intorno come se volesse pronunziare un discorso.

“Non sta volentieri in Spagna?” gli domandai.

“In Spagna? Io? Scusi: gli è lo stesso come se mi domandasse:—Sta volontieri lei in galera?”

“Ma perchè?”

“Perchè?... Ma non vede che gente sono gli Spagnuoli: ignoranti, superstiziosi, orgogliosi, sanguinarii, impostori, furfanti, ciarlatani, infami?”

E restò un minuto immobile in un atto interrogativo, con le vene del collo gonfie che pareva gli volessero scoppiare.

“Mi perdoni,” risposi, “il suo giudizio non mi pare abbastanza favorevole per poterle dire che la penso come lei. Quanto a ignoranza, mi scusi, non tocca a noi Italiani, a noi che abbiamo ancora città in cui si pigliano a sassate i maestri di scuola, e si stilettano i professori che danno zero agli scolari; non tocca a noi, per ora, di riveder le buccie agli altri. Quanto a superstizione, oh poveri noi! quando vediamo nella città d'Italia, in cui è più diffusa l'istruzione popolare, seguir un sottosopra da non dirsi, per un'immagine miracolosa della Madonna trovata da una donnicciuola in mezzo strada.... Quanto a delitti, io le dichiaro francamente che se dovessi far un raffronto fra i due paesi coi quadri statistici alla mano in presenza d'un uditorio di Spagnuoli, senza conoscer prima i dati e le risultanze, avrei una maledetta paura.... Non voglio dire con questo che noi, su per giù, non ci troviamo in migliori acque che la Spagna; voglio dire che un italiano, giudicando gli Spagnuoli, se vuol esser giusto, bisogna che sia indulgente.”

“Non mi va, scusi.... un paese senza indirizzo politico! un paese in preda all'anarchia! un paese.... Andiamo, mi citi un grand'uomo spagnuolo di questi tempi!”

“Non saprei.... ce n'è così pochi da per tutto!”

“Mi citi un Galileo!”

“Oh dei Galilei non ce n'hanno nemmen uno.”

“Mi citi un Rattazzi!”

“Eh non ce l'hanno neppure.”

“Mi citi.... ma già, non hanno niente. E poi, o che il paese le par bello?”

“Ah! scusi; su questo punto non la cedo; l'Andalusia, per citarle una sola provincia, è un paradiso; Siviglia, Cadice, Granata, sono stupende città.”

“Come?... E a lei piacciono le case di Siviglia e di Cadice, che a passare rasente i muri un povero diavolo s'imbianca dalla testa ai piedi? Le piacciono quelle strade che dopo un buon pranzo si stenta a passarci? E trova belle le donne andaluse, con quegli occhi da spiritate? Andiamo, lei è troppo indulgente, non è un popolo serio. Hanno chiamato Don Amedeo, e ora non lo voglion più; gli è perchè sono indegni d'esser governati da un uomo civilizzato!” (testuale).

“Ma non trova dunque nulla di buono in Spagna?”

“Nulla.”

“Ma perchè ci sta?”

“Ci sto.... perchè ci mangio.”

“È qualche cosa.”

“Ma come ci mangio? Come un cane! chi non sa cos'è la cucina spagnuola!”

“Ma scusi: invece di mangiare come un cane in Spagna perchè non va a mangiare come un uomo in Italia?”

Qui il povero artista si trovò un po' impacciato; ed io per levarlo d'impaccio gli offersi un sigaro, che accettò ed accese senza far parola. E non fu il solo italiano in Spagna, che mi parlasse in quei termini del paese e degli abitanti, negando persino la serenità del cielo e la grazia delle andaluse. Io non so che gusto ci sia a viaggiare in quella maniera, col cuore chiuso ad ogni sentimento benevolo, e continuamente intesi a censurare e a vilipendere, come se ogni cosa buona e bella che si trova in un paese straniero, fosse stata rubata al nostro, e noi non ci potessimo vantare di valer qualcosa se non colla condizione che tutti gli altri non valgano nulla. La gente che viaggia con siffatta disposizione d'animo, mi fa più che stizza, pietà, perchè si priva volontariamente di molti piaceri e di molti conforti. Così mi pare almeno a giudicar gli altri da me, poichè dovunque io vada, il primo sentimento che m'inspiran le cose e la gente è un sentimento di simpatia; un desiderio di non trovar nulla che mi costringa a censurare; un bisogno di abbellire ai miei stessi occhi le cose belle, di nascondermi le spiacevoli, di scusare i difetti, di poter dire schiettamente a me stesso ed agli altri che sono contento di tutti e di tutto. E per raggiunger questo fine non ho da fare alcun sforzo; ogni cosa mi si presenta quasi spontaneamente sotto il suo aspetto più gradevole; e la mia immaginazione colora benignamente gli altri aspetti di un leggero color di rosa. So bene che in codesto modo non si studia un paese, non si scrivon Saggi critici, nè si acquista la fama d'uomini profondi; ma so che si viaggia coll'anima serena, e che i viaggi fanno un pro che non si può dire.

Il giorno dopo andai a vedere il Generalife che era come la villa dei Re arabi, e il cui nome va congiunto a quello dell'Alhambra, come quello dell'Alhambra a quel di Granata; benchè oramai del Generalife antico non rimangan che pochi archi e pochi rabeschi. È un piccolo palazzo, semplice, bianco, con poche finestre, con una galleria ad archi, coronato da una terrazza, e mezzo nascosto in mezzo a un bosco d'allori e di mirti, sulla sommità d'un monte floridissimo che sorge sulla riva destra del Dauro, di fronte alla collina dell'Alhambra. Dinanzi alla facciata del palazzo si stende un piccolo giardino, e altri giardini s'alzano l'uno sull'altro, quasi in forma d'una vasta gradinata, fino al sommo del monte, dove sorge un'altissima loggia che chiude il recinto del Generalife. I viali dei giardini, le larghe scale che conducon dall'uno all'altro, e le aiuole piene di fiori, sono fiancheggiate da alte spalliere, sormontate da archi e divise da capanni di mirti curvati e intrecciati con graziosi disegni; e ad ogni ripiano sorgon casine bianche, ombreggiate da pergolati, e da gruppi d'aranci e di cipressi disposti con pittoresca simmetria. L'acqua vi è profusa ancora come ai tempi degli arabi e dà al luogo una grazia, una freschezza e una vita da non potersi descrivere. Da ogni parte si sente mormorio di ruscelli e di fontane; si svolta da un viale, s'incontra uno zampillo; ci si affaccia a una finestra, si vede uno schizzo che giunge fino al davanzale; si entra in mezzo a un gruppo d'alberi, e si riceve nel viso gli spruzzi d'una cascatella; dovunque ci si volga, c'è acqua che salta, o che scorre, o che piove, gorgogliando e luccicando tra l'erbe e i cespugli. Dall'alto della loggia scende la vista sopra tutti quei giardini che van giù a chine, a salti, a scaglioni; si sprofonda nell'abisso di vegetazione che separa i due monti, abbraccia tutta la cinta dell'Alhambra, colle cupole dei suoi tempietti, colle torri lontane, coi sentieri che serpeggiano fra le sue rovine; si stende sulla città di Granata, sulla pianura, sui colli, e scorre con uno sguardo solo tutte le cime della Sierra Nevada, che paion tanto vicine da poterci arrivare in un'ora. E mentre contemplate questo spettacolo, vi accarezza l'orecchio il mormorio di cento zampilli e il suono fievole delle campane della città, che vien su a ondate, or sì or no, insieme a un odor misterioso di paradiso terrestre, che dà dei fremiti di voluttà da far impallidire.

Di là dal Generalife, sulla sommità d'un monte più alto, ora nudo e squallido, sorgevano ai tempi degli Arabi altri palazzi reali e si stendevano altri giardini, congiunti fra loro da grandi viali fiancheggiati da mirti. Ora tutte quelle meraviglie d'architettura, coronate di boschi, di fontane e di fiori, quelle fatate reggie aeree, quei nidi splendidi e odorosi d'amore e di delizia, sono scomparsi, e appena qualche mucchio di macerie o qualche breve tratto di muro

«Ne fa fede e ricordo al passeggiero.»

Ma quelle rovine che desterebbero altrove un sentimento di malinconia, non lo destano dinanzi allo spettacolo di quella bellissima natura, al cui incanto non pare che abbian mai potuto aggiungere nulla le più meravigliose opere dell'uomo.

Rientrando in città, mi fermai a una estremità della Carrera del Darro, dinanzi a una casa riccamente adornata di bassorilievi che rappresentano scudi araldici, armature, cherubini e leoni, con un piccolo terrazzino sull'angolo, sopra 'l quale, parte sur un muro, parte sull'altro, lessi la seguente misteriosa iscrizione, in grandi caratteri di stampa:

Esperando la del cielo,

che significa, tradotto letteralmente:— Aspettando quella del cielo. —Curioso di sapere il senso riposto di quelle parole, le notai per interrogarne il dotto padre del mio amico, il quale me ne diede due spiegazioni, l'una pressochè sicura, ma poco romantica; l'altra romantica, ma molto dubbiosa. La quale è questa. La casa apparteneva a Don Fernando di Zafra, segretario dei Re Cattolici, che aveva una bellissima figliuola. Un giovine idalgo, di famiglia nemica o inferiore di nobiltà alla famiglia dei Zafra, s'innamorò della figliuola, ne fu amato, la chiese in sposa, non l'ebbe. Il rifiuto del padre aggiunse esca al fuoco amoroso dei due giovani, le finestre della casa son basse, l'innamorato, una notte, riuscì a dar la scalata, e a entrar nella stanza della fanciulla. O abbia rovesciato una seggiola entrando, o abbia tossito, o abbia gettato un leggero grido di gioia al veder la sua bella amante colle chiome sciolte e le braccia aperte, la tradizione non lo dice, e nessuno lo sa; ma è certo che Don Fernando di Zafra, inteso rumore, accorse, vide, e cieco di furore si slanciò sul malcapitato giovane per metterlo a morte. Ma il giovane riuscì a fuggire; Don Fernando, inseguendolo, s'abbattè in uno dei propri paggi fautore di quegli amori, che aveva aiutato l'idalgo a entrar nella casa; lo scambiò, in su quel subito, per il seduttore; e senza udir spiegazioni e preghiere, lo fece afferrare e impiccare al terrazzino della casa. La tradizione narra che mentre la povera vittima gridava:—Pietà! Pietà!—l'offeso padre gli rispose accennandogli il terrazzino:—Là starai esperando la del cielo! (aspettando quella del cielo);—risposta ch'egli fece poi incidere sur una pietra del muro, a perpetuo spavento dei seduttori e dei mezzani.

Consacrai il resto della giornata alle chiese e ai conventi.

La cattedrale di Granata merita, anche meglio di quella di Malaga, che pure è bella e magnifica, di essere descritta parte per parte; ma basta oramai di descrizioni di chiese. Fu fondata nel 1529 dai re cattolici, sulle rovine della principal moschea della città; ma rimase incompiuta. Ha una grande facciata con tre porte, ornata di statue e di bassorilievi; ed è formata da cinque navate, divise da venti smisurati pilastri composti d'un fascio di sottili colonne. Le cappelle racchiudono quadri del Boccanegra, sculture del Torrigiani, tombe ed ornamenti preziosi. È mirabile sopra tutte la cappella maggiore, sorretta da venti colonne corintie, divise in due ordini, sul primo dei quali si alzano le statue colossali dei dodici apostoli, e sul secondo un cornicione coperto di ghirlande e di teste di cherubini. Di sopra ricorre un giro di leggiadre finestre a vetri coloriti che rappresentano la Passione, e dal fregio che le corona si slanciano in alto dieci archi arditi che forman la vòlta della cappella. Negli archi che sorreggon le colonne si ammirano sei grandi dipinti di Alonso Cano, che hanno fama di essere l'opera sua più completa e più bella.

E poichè ho nominato Alonso Cano, nativo di Granata, uno dei più valenti pittori spagnuoli del secolo decimosettimo, che sebbene discepolo della scuola sivigliana piuttosto che fondatore, come altri vorrebbe, d'una scuola sua, non è meno originale dei suoi più grandi contemporanei; voglio metter qui alcuni tratti della sua indole e della sua vita, poco conosciuti fuori di Spagna, ma singolarmente notevoli. Alonso Cano fu il più accattabrighe, il più iroso, il più violento dei pittori spagnuoli. Passò la vita litigando. Era ecclesiastico. Dal 1652 al 1658, per sei anni consecutivi, senza un giorno d'interruzione, litigò coi canonici della cattedrale di Granata, della quale egli era ragioniere, perchè non voleva, giusta i patti stipulati, diventare suddiacono. Prima di partire da Granata, spezzò colle sue mani una statua di sant'Antonio da Padova, che aveva fatto egli stesso d'incarico d'un auditore della Cancelleria, perchè costui si permise di osservargli che il prezzo che gliene domandava gli pareva un po' caro. Nominato maestro di disegno del principe reale, che, a quanto pare, non era nato col bernoccolo della pittura, lo aspreggiò in tal maniera, che lo costrinse a ricorrere al Re per esser levato dalle sue mani. Rimandato, per una grazia speciale, a Granata, presso il Capitolo della cattedrale, serbò così profondo il rancore degli antichi suoi litigi con quei canonici, che in vita sua non volle più dare una pennellata per loro. Ma questo è poco. Nutriva un cieco, bestiale, inestinguibile odio contro gli ebrei, e s'era ficcato in capo che il toccare in qualunque modo un ebreo o un qualsiasi oggetto stato toccato da lui, gli dovesse recare sventura. Con questa fissazione fece le più strampalate stravaganze del mondo. Se passando per la strada urtava in un ebreo, si levava issofatto il vestito infetto, e tornava a casa in maniche di camicia. Se per caso riusciva a scoprire che, lui assente, un servitore aveva ricevuto un ebreo in casa sua, cacciava il servitore, buttava via le scarpe colle quali aveva premuto l'impiantito profanato dal circonciso, faceva disfare e rifare, qualche volta, persino l'impiantito. E trovò modo di litigare anche morendo. Essendo ridotto in fin di vita, e presentandogli il confessore un crocifissaccio fatto coll'accétta perchè lo baciasse, egli lo spinse in là colla mano, e disse:— Padre, datemi una croce nuda, perchè io possa venerare Gesù Cristo come egli è in sè e come io lo contemplo nella mia mente. —Con tutto ciò, aveva un cuore eletto, caritatevole, abborriva da ogni volgare azione, ed amava di profondo e purissimo amore l'arte in che si rese immortale.

Tornando alla chiesa, quando ebbi fatto il giro di tutte le cappelle e mi disponevo ad uscire, mi colse il sospetto che qualcosa mi rimanesse ancora a vedere. Non avevo letto la Guida e nessuno m'aveva detto nulla; ma io mi sentivo dentro una voce che mi diceva:—Cerca!—e cercavo infatti cogli occhi da tutte le parti senza saper che cercassi. Un cicerone mi osservò, mi si avvicinò, come fanno tutti, di sbieco, come un assassino, e mi domandò con aria di mistero: “ Quiere Usted algo? ” (Vuol qualche cosa?)

“Vorrei,” risposi, “che mi diceste se c'è altro da vedere in questa cattedrale, oltre a quello che si vede di qui!”

Cómo! ” esclamò il cicerone, “ todavia no ha visto Usted la capilla real?

“Che c'è nella cappella reale?”

Que hay? Caramba! Nada ménos que los sepulcros de Ferdinando é Isabel la Católica!

Volevo dire! Avevo nella mente il posto preparato per questa idea, e l'idea non c'era! I re cattolici dovevano ben essere sepolti a Granata, dove combatterono l'ultima gran guerra cavalleresca del medio evo, e dove diedero a Cristoforo Colombo l'incarico di armare le navi che lo condussero al nuovo mondo! Corsi, più che non andai, alla Cappella reale, preceduto dal cicerone zoppicante; un vecchio sacrestano ci aperse la porta della sacristia, e prima di lasciarmi entrare a veder le tombe, mi condusse davanti a una specie d'armadio a vetri, ripieno di oggetti preziosi, e mi disse:

“Lei saprà che Isabella la Cattolica per fornire a Cristoforo Colombo il denaro che gli occorreva ad armare le navi per il suo viaggio, non sapendo dove trovarne, perchè le casse dello Stato eran vuote, mise in pegno le sue gioie.”

“Sì; ebbene?” domandai con impeto, e prevedendo la risposta, mi sentivo battere il cuore.

“Ebbene,” rispose il sacrestano; “la scatola nella quale la Regina chiuse le sue gioie per farle impegnare, è questa.”

E così dicendo aperse l'armadio, prese la scatola e me la porse.

Oh! dicano un po' quello che vogliono gli uomini forti; per me, quelle son cose che mi fanno tremare e piangere! Ho toccata la scatola che contenne i tesori pei quali Colombo potè scoprire l'America! Ogni volta che ripeto queste parole, il sangue mi si rimescola! E soggiungo:—L'ho toccata con queste mani,—e mi guardo le mani.

Quell'armadio contiene ancora la spada di re Ferdinando, la corona e lo scettro d'Isabella, un messale e parecchi altri ornamenti del re e della regina.

Entrammo nella Cappella, fra l'altare e una gran cancellata di ferro che lo separa dallo spazio rimanente, davanti a due grandi mausolei marmorei, ornati di statuette e di bassorilievi di gran pregio, sull'un dei quali sono stese le statue di Ferdinando e d'Isabella, vestiti dei loro abiti reali, colla corona, la spada e lo scettro; sull'altro, le statue di altri due principi di Spagna; e intorno alle statue, leoni, angeli, stemmi, ed ornamenti svariati, che presentano un aspetto regalmente austero e magnifico.

Il sacrestano accese una fiaccola e accennandomi una specie di botola, situata in dirittura della corsia che separa i due mausolei, mi pregò di alzare il coperchio per scendere nel sotterraneo. Il cicerone m'aiutò, scoprimmo la botola, il sacrestano scese, e io gli tenni dietro giù per una scaletta angusta fino a una piccola stanza sotterranea, nella quale eran cinque casse di piombo, cerchiate di ferro, ciascuna segnata di due iniziali sormontate da una corona. Il sacrestano abbassò la fiaccola, e toccandole con una mano, l'una dopo l'altra, tutte e cinque, mi disse con voce lenta e solenne:

“Qui riposa la gran regina Isabella la Cattolica.”

“Qui riposa il gran re Ferdinando V.”

“Qui riposa il re Filippo I.”

“Qui riposa la regina Giovanna la pazza.”

“Qui riposa donna Maria, sua figliuola, morta nell'età di nove anni.”

“Dio li abbia tutti nella sua santa pace!”

E piantato la fiaccola in terra, incrociò le braccia e chiuse gli occhi, come per darmi agio di fare le mie meditazioni.

Ci sarebbe da aggobbire a tavolino, chi volesse descrivere tutti i monumenti religiosi di Granata: la stupenda Certosa, il Monte-Sacro che racchiude le grotte dei martiri, la chiesa di San Geronimo dove è sepolto il gran capitano Consalvo di Cordova, il convento di Santo Domingo fondato dall'Inquisitore Torquemada, quello dell'Angelo che contiene pitture del Cano e del Murillo, ed altri molti; ma io suppongo che chi legge sia già assai più stanco di me, e però gli faccio grazia di un monte di descrizioni che probabilmente non gli darebbero che una idea assai confusa delle cose.

Ma poichè ho nominato il sepolcro del gran capitano Consalvo di Cordova, non posso trattenermi dal tradurre un curioso documento che a lui si riferisce, e che mi fu dato appunto nella chiesa di San Geronimo da un sacrestano ammiratore delle gesta di quell'eroe.

Il documento è redatto a modo di aneddoto nei termini seguenti.

«Ogni passo del gran Capitano, Don Gonzalo di Cordova, fu un assalto, ed ogni assalto una vittoria; il suo sepolcro nel convento dei Geronimi di Granata, fu adornato di dugento bandiere conquistate da lui. I suoi emuli invidiosi, ed in particolar modo i Tesorieri nel regno di Napoli, nel 1506, indussero il Re a chieder conto a Gonzalo dell'uso che aveva fatto delle grandi somme ricevute dalla Spagna per le spese della guerra in Italia; e in fatti il Re fu tanto piccino da acconsentire ed anco assistere all'atto della conferencia.

Gonzalo accolse quella domanda con altissimo disprezzo, e si propose di dare una severa lezione ai Tesorieri ed al Re, intorno al modo di trattare e considerare un conquistatore di Regni.

Rispose con grande indifferenza e serenità che avrebbe preparato i conti per il giorno seguente, e fatto vedere chi dei due fosse il debitore, se lui o il fisco: il quale reclamava centotrenta mila ducati rimessigli per prima rata; ottanta mila scudi per la seconda, tre milioni per la terza, undici milioni per la quarta, tredici per la quinta; e così seguitava a riferire il grave, gangoso (dalla voce nasale) e scimunito segretario che autorizzava un atto così importante.

Il gran Gonzalo mantenne la sua parola; si presentò alla seconda udienza, e tirato fuori il voluminoso libro nel quale aveva notate le sue giustificazioni, cominciò a leggere a voce alta e sonora le seguenti parole:

«Ducento mila settecento trentasei ducati e nove reali ai frati, alle monache e ai poveri, affinchè pregassero Dio per il trionfo delle armi spagnuole.

Cento milioni in pale, zappe e picconi.

Cento mila ducati in polvere e palle.

Dieci mila ducati in guanti profumati per preservare i soldati dal puzzo dei cadaveri dei nemici stesi sul campo di battaglia.

Centosettanta mila ducati per rifare campane distrutte dal continuo sonare per sempre nuove vittorie riportate sopra i nemici.

Cinquanta mila ducati in acquavite per i soldati in una giornata di battaglia.

Un milione e mezzo di ducati per mantenere prigionieri e feriti.

Un milione in messe di grazia e Te Deum all'Onnipossente.

Trecento milioni di suffragi pei morti.

Settecento mila quattrocento novantaquattro ducati in spie e.....

Cento milioni per la pazienza che ho mostrato ieri all'udire che il Re domandava dei conti a chi gli ha regalato un Regno.

Questi sono i celebri conti del grande Capitano, i cui originali stanno nelle mani del Conte di Altimira.

Uno dei conti originali con la firma autografa del gran Capitano esiste nel Museo militare di Londra, dove con gran cura vien custodito.»

Letto questo documento, tornai all'albergo facendo tra Consalvo di Cordova e i generali spagnuoli dei nostri tempi dei maligni raffronti, che alta ragion di stato, come si dice nelle tragedie, mi vieta di riferire.

In quell'albergo ne vedevo ogni giorno una nuova. V'eran molti studenti d'università venuti da Malaga e da altre città dell'Andalusia per dar l'esame di laurea a Granata, non so se perchè qui fossero di manica più larga, o per che altra ragione. Desinavan tutti alla tavola rotonda. Una mattina, a colezione, uno d'essi, un giovanetto di poco più di vent'anni, annunziò che alle due dopo mezzogiorno doveva dar l'esame di diritto canonico, e che non essendo molto sicuro del fatto suo, aveva deciso di bere un bicchier di vino, per rinfrescarsi le sorgenti dell'eloquenza. Non uso a bere che vino annacquato, commise l'imprudenza di vuotare d'un sol fiato un bicchiere di vino di Jerez. Il suo viso si alterò all'istante in così strana maniera, che se non avessi visto il cangiamento coi miei occhi, avrei creduto che non fosse più il viso di prima.

—Ora basta!—gli gridaron gli amici.

Ma il giovane, che si sentiva diventato tutt'a un tratto forte, ardente e temerario, lanciò ai compagni uno sguardo compassionevole, e ordinò con un atto maestoso al cameriere di versargli un altro bicchiere.

—Ti ubriacherai!—gli dissero.

Per tutta risposta, egli mandò giù il secondo bicchiere.

Allora gli prese una parlantina meravigliosa. A tavola v'era una ventina di persone, in pochi minuti attaccò discorso con tutti, e fece mille rivelazioni sulla sua vita passata e sui suoi disegni per l'avvenire. Disse che era di Cadice, che aveva ottomila lire di rendita all'anno, e voleva darsi alla carriera diplomatica, perchè con quella rendita, aggiuntovi qualcosa che gli avrebbe lasciato un suo zio, poteva fare una buona figura dove si sia; che aveva stabilito di pigliar moglie a trent'anni, e di sposare una donna alta come lui, perchè, a suo avviso, la moglie doveva avere la stessa statura del marito, per evitare che l'uno o l'altro pigliasse il di su; che quando era ragazzo s'era innamorato della figliuola d'un console americano, bella come un fiore e soda come una pina, ma con una voglia rossa dietro un orecchio, che stava molto male, benchè essa la sapesse coprire assai bene colla mantiglia, e faceva veder colla salvietta in che modo la copriva; e che Don Amedeo era un uomo troppo ingenuo per poter riuscire a governar la Spagna; e che fra il poeta Zorilla e il poeta Espronceda, egli avea sempre preferito l'Espronceda; e che ceder Cuba all'America era una corbelleria, e che dell'esame di diritto canonico egli se ne rideva, e che voleva bere altre quattro dita di vino di Jerez, che era il primo vino d'Europa.

Bevve il terzo bicchiere, malgrado i buoni consigli e le disapprovazioni degli amici, e dopo aver cicalato un altro po' in mezzo alle risa dell'uditorio, all'improvviso tacque, guardò fisso fisso una signora che aveva dirimpetto, abbassò la testa e s'addormentò. Io credetti che per quel giorno non si sarebbe presentato all'esame; ma m'ingannai. Un'oretta dopo lo svegliarono, andò su a lavarsi il viso, corse all'Università ancora tutto assonnato, diede l'esame, e fu promosso a maggior gloria del vino di Jerez e della diplomazia spagnuola.

I giorni seguenti gl'impiegai a vedere i monumenti, o per dir meglio, le rovine dei monumenti arabi che, oltre all'Alhambra e al Generalife, attestano l'antico splendore di Granata. Poichè fu l'ultimo baluardo dell'Islam, Granata è fra le città di Spagna quella che ne serbò più numerosi ricordi. Sulla collina che si chiama di Dinadamar (fonte delle lagrime), si vedono ancora le rovine di quattro torri, che s'innalzavano ai quattro angoli d'una grande cisterna, nella quale affluivano dalla Sierra le acque che servivano agli usi della parte più alta della città. Là eran bagni, giardini e ville, delle quali non rimane più traccia, e di là si abbracciava con un colpo d'occhio la città coi suoi minareti, colle sue terrazze, colle sue moschee biancheggianti in mezzo alle palme e ai cipressi. Là presso si vede ancora una porta araba, chiamata porta d'Elvira, formata da un grande arco coronato di merli. Più oltre rovine di palazzi di Califfi. Presso il passeggio l' Alameda, una torre quadrata, con entro una gran sala ornata di quelle solite iscrizioni arabe. Presso il Convento di San Domingo, resti di giardini e di palazzi che erano una volta congiunti all'Alhambra per mezzo d'una via sotterranea. Dentro la città, l'Alcaiceria, mercato arabo quasi intatto, formato di parecchie stradine diritte e strette come corridoi, fiancheggiate da due file di botteghe l'una unita all'altra, che presentano uno strano aspetto di bazar asiatico. Infine, non si può far un passo per Granata, che non s'incontri un arco, un arabesco, una colonna, un mucchio di pietre che rammenta il suo fantastico passato di Sultana.

Quanti giri e rigiri non feci per quelle strade tortuose, nelle ore più calde della giornata, sotto un sole che mi scottava il cervello, senza incontrare anima nata! Anche a Granata, come nelle altre città d'Andalusia, la gente non si fa viva che la notte; e la notte si rifà della prigionia del dì, affollandosi e rimescolandosi sui passeggi pubblici colla fretta e la furia d'una moltitudine, una metà della quale cercasse l'altra metà per affari urgenti. La folla più fitta è all'Alameda; e però passai all'Alameda le mie serate, col Gongora che mi parlava di monumenti arabi, con un giornalista che mi parlava di politica, con un altro giovanotto che mi parlava di donne, non di rado tutti e tre insieme, con mio piacere infinito, perchè quella gazzarra da scolaretti, a tempo e luogo, mi rinfresca l'anima, come fa all'erba (per rubare una bella similitudine) quella pioggerella estiva che cade con affrettato moto come di trepida gioia.

Se avessi da dire qualcosa del popolo di Granata, mi troverei impacciato perchè non l'ho visto. Di giorno, per le strade, non incontravo nessuno; di notte non ci si vedeva; non v'eran teatri aperti; quando avrei potuto trovar qualcuno in città, ciondolavo per le sale o per i viali dell'Alhambra; e poi avevo tanto da fare per veder ogni cosa nello spazio di tempo che m'ero prefisso, che non mi restavan nemmen dei ritagli per intavolar conversazione, come feci nelle altre città, in mezzo alle strade e nei caffè, coi popolani in cui m'imbattevo.

Ma per quanto seppi da chi era in grado di darmi delle notizie sicure, il popolo di Granata non gode d'una eccellente riputazione in Spagna. Si dice che è maligno, violento, vendicativo, accoltellatore, il che non è punto smentito dalle cronache cittadine delle gazzette; e non si dice, ma si sa che in Granata l'istruzione popolare è anche più bassa che a Siviglia, e che in altre città spagnuole di minor conto; e che, in generale, tutte le cose che non posson esser fatte dal sole e dalla terra, che ne fanno pur tante, vanno alla peggio, o per indolenza, o per ignoranza, o per confusione. Granata non è congiunta dalla strada ferrata a nessuna città importante, vive sola, in mezzo ai suoi giardini, dentro la cerchia delle sue montagne, lieta dei frutti che la terra le produce sotto la mano, cullandosi mollemente nella vanità della sua bellezza e nell'orgoglio della sua storia, oziando, sonnecchiando, fantasticando, e contentandosi di rispondere, con uno sbadiglio, a chi le rimprovera il suo stato:—Io diedi alla Spagna il pittore Alonso Cano, il poeta Luigi di Leon, lo storico Ferdinando del Castillo, l'orator sacro Luigi di Granata, il ministro Martinez della Rosa; ho pagato il mio debito; lasciatemi in pace;—che è la risposta che fan quasi tutte le città meridionali della Spagna, troppo più belle, ahimè! che saggie e operose; e troppo più altere che civili. Ah! chi le ha vedute, non può mai stancarsi di esclamare:—Peccato!

—Ora che ha visto tutte le meraviglie dell'arte araba e della vegetazione tropicale, le resta a vedere, perchè possa dire di conoscer Granata, il borgo dell'Albaicin. Prepari l'animo a un mondo nuovo, metta la mano sul portamonete e mi segua.—

Così mi disse il Gongora l'ultima sera del mio soggiorno a Granata. Era con noi un giornalista repubblicano, di nome Melchiorre Almago, direttore dell' Idea, un giovanotto simpatico e gentile, che per accompagnarci sacrificò il desinare e un articolo di fondo che andava ruminando fin dalla mattina. Ci mettemmo in cammino, arrivammo fino alla piazza dell' Audiencia. Là il Gongora mi accennò una viuzza tortuosa che va su per un colle, e mi disse:—Qui comincia l' Albaicin;—e il signor Melchiorre toccando una casa col bastone, soggiunse:—Qui comincia il territorio della repubblica.—

Infilammo la viuzza, passammo da quella in un'altra, da questa in una terza, sempre salendo, senza ch'io vedessi nulla di straordinario, per quanto guardassi curiosamente da tutte le parti. Strade strette, case meschine, vecchie addormentate sugli scalini delle porte, mamme che spidocchian bambini, cani che sbadigliano, galli che cantano e ragazzi cenciosi che corrono e schiamazzano, e altre cose che si vedono in tutti i sobborghi; in quelle strade non c'era nulla di più. Sennonchè, via via che salivamo, l'aspetto delle case e della gente s'andava mutando: i tetti più bassi, le finestre più rade, le porte più piccine, gli abitanti più cenciosi. Nel mezzo d'ogni strada correva un rigagnolo dentro un letto in muratura all'uso arabo; qua e là, sopra le porte e intorno alle finestre, si vedevano resti di arabeschi e frammenti di colonnine; negli angoli delle piazze, fontane e pozzi del tempo della dominazione dei Mori. Ad ogni centinaio di passi che si faceva, pareva di tornar addietro di cinquant'anni verso l'età dei Califfi. I miei due compagni mi toccavano tratto tratto col gomito dicendo:—Guardi quella vecchia—Guardi quella bambina—Guardi quell'uomo.—Ed io guardavo e dimandavo:—Che gente è questa?—Se mi fossi trovato là all'improvviso, avrei creduto, al veder quegli uomini e quelle donne, di essere in un villaggio dell'Affrica; tanto i visi, il vestire, il modo di muoversi, di parlare, di guardare,—a così breve distanza dal centro di Granata,—eran diversi da quelli della gente che avevo vista fino allora. Ad ogni svoltata, mi fermavo per guardare in volto i miei compagni, e questi mi dicevano:—Questo non è nulla; qui siamo nella parte civile dell'Albaicin; questo è il quartiere parigino del sobborgo; andiamo oltre.

Andammo oltre; le strade parevan letti di torrenti, sentieri scavati nelle roccie, tutte rialzi, fossi, scoscendimenti, macigni; alcune ripide da non poterci salire un mulo, altre strette da passarci un uomo a stento; quali ingombre di donne e di fanciulli seduti in terra; quali erbose e deserte e tutte d'un aspetto squallido, selvaggio, strano, del quale non potrebbe fornire neanco un'immagine il più meschino dei nostri villaggi, perchè quella è una miseria che serba l'impronta d'un'altra razza e i colori d'un altro continente. Girammo per un labirinto di strade, passando di tempo in tempo sotto un grande arco arabo o per un'alta piazzuola dalla quale si abbracciava con uno sguardo la valle immensa, i monti coperti di neve e una parte della città sottoposta, e arrivammo alla fine in una strada più sassosa e più angusta di quante s'eran viste fino allora, nella quale ci arrestammo per pigliar fiato.

—Qui—mi disse il giovane archeologo—comincia il vero Albaicin. Guardi quella casa!—Guardai; era una casa bassa, affumicata, mezzo rovinata, con una porta che pareva la finestra d'una cantina, dinanzi alla quale si vedeva movere sotto un ammasso di cenci, un gruppo, o piuttosto un mucchio di vecchie e di bambini, che al nostro apparire alzarono gli occhi pieni di sonno e colle mani scarne tolsero di sulla soglia non so quali immondizie che impedivano il passo.

“Entriamo,” disse l'amico.

“Entrare?” domandai.

Se m'avessero detto che di là da quel muro v'era un quissimile della famosa Corte dei Miracoli che descrisse Vittor Hugo, non avrei esitato a credere. Nessuna porta m'aveva mai detto più imperiosamente di quella:—Allontanati.—Non saprei trovarle miglior paragone di quello della bocca spalancata d'una gigantesca strega, che mandasse un alito pregno di miasmi pestilenziali. Ma mi feci coraggio ed entrai.

Oh meraviglia! Era il cortile d'una casa araba, cinto di colonnine graziose, sormontato da archi leggerissimi, con quegli indescrivibili ricami dell'Alhambra intorno alle porticine e alle finestrine binate, colle travi e gli assiti del soffitto scolpiti e coloriti, colle nicchiette per i vasi dei fiori e le urne dei profumi, col bagno nel mezzo, con tutte le traccie e i ricordi della deliziosa vita d'una famiglia opulenta! E in quella casa abitava quella povera gente!

Uscimmo, entrammo in altre case, in tutte trovai qualche frammento d'architettura e di scultura araba. Il Gongora mi diceva di tratto in tratto:—Qui c'era un Harem—Là i bagni delle donne—Lassù la stanzina d'una favorita;—e io figgevo gli occhi avidi su tutti i pezzi di muro rabescato e su tutte le colonnine delle finestre, come per domandar loro la rivelazione di qualche segreto, un nome, una parola magica colla quale potessi ricostrurre in un istante l'edifizio rovinato ed evocare le belle arabe che ci eran vissute. Ma ahimè! in mezzo alle colonne e sotto gli archi delle finestrine non si vedevano che cenci e visi rugosi!

Fra le altre case, entrammo in una dove trovammo un gruppo di ragazze che cucivano all'ombra d'un albero del cortile, sorvegliate da una vecchia. Lavoravano tutte intorno a una gran pezza di panno a striscie nere e bigie, che mi parve un tappeto o una coperta da letto. Mi avvicinai e domandai a una delle cucitrici: “ Que es esto?

Alzaron tutte la testa e con un movimento concorde spiegarono il panno in modo che potessi veder bene il loro lavoro. L'avevo appena visto, che gridai:—“Lo compro.”

Si misero tutte a ridere. Era un mantello da montanaro andaluso, fatto per portarsi a cavallo, della forma d'un rettangolo, con un'apertura nel mezzo per farci passar la testa, ricamato in lana di vivi colori lungo i due lati più corti, e intorno all'apertura. Il disegno dei ricami che rappresentano uccelli e fiori fantastici, verdi, azzurri, bianchi, rossi e gialli, tutti in un mucchio, è rozzo, come lo potrebbe fare un bambino; la bellezza del lavoro è tutta nella veramente meravigliosa armonia dei colori. Non saprei esprimere la sensazione che produce la vista di quel mantello, se non dicendo che ride, e che desta allegrezza; e che mi pare impossibile l'immaginare nulla di più gaio, di più festivo, di più fanciullescamente e graziosamente capriccioso. È una cosa da guardare quando s'è di malumore per rasserenarsi, o quando si vuol scrivere una strofa gentile per l'albo d'una signora, o quando s'aspetta una persona che si vuol ricevere col più piacevole dei nostri sorrisi.

“Quando saranno finiti questi ricami?” domandai a una delle ragazze.

Hoy mismo, ” (oggi stesso) risposero tutte in coro.

“E quanto vale questo mantello?”

Cinco.... ” balbettò una.

La vecchia la fulminò con un'occhiata che voleva dire:—Citrulla!—e rispose in fretta: “ Seis duros.

Sei duros sono trenta lire; non mi parve molto; e misi la mano al portamonete.

Il Gongora slanciandomi uno sguardo che voleva dire:—Minchione,—e trattenendomi pel braccio disse: “Un momento! Seis duros sono uno sproposito!”

La vecchia gli lanciò un'altra occhiata che voleva dire:—Brigante!—e rispose: “Non posso darlo a meno.”

Il Gongora le diede un altro sguardo che voleva dire:—Bugiarda;—e disse: “Andiamo, lo potete dare a quattro duros; alla gente del paese non chiedete di più.”

La vecchia insistè, e continuammo per un po' a scambiarci cogli occhi i titoli di minchione, di gabbamondo, di guastamestieri, di bugiardo, di avaro, di sciupone, finchè il mantello mi fu dato per cinque duros; pagai, lasciai il mio indirizzo, ed uscimmo benedetti e raccomandati a Dio dalla vecchia, e seguiti per un buon tratto dai grandi occhi neri delle ricamatrici.

E continuammo ad andare di strada in strada, in mezzo a case di più in più meschine, a visi di più in più neri, a cenci di più in più luridi. E non s'arrivava mai alla fine, e io dicevo ai miei compagni: “Mi fanno la finezza di dirmi se Granata ha dei confini, e dove li ha? Si può sapere dove andiamo, e come si farà per tornare a casa?” e i miei compagni ridevano e tiravano innanzi.

“O che c'è da vedere ancora qualcosa di più strano?” dimandai a un certo punto.

“Di più strano?” mi rispose un dei due: “Ma questa seconda parte del borgo che lei ha veduta appartiene ancora alla civiltà; è il quartiere se non parigino almeno madrileno dell'Albaicin; e c'è ben altro; andiamo oltre.”

Si percorse una lunghissima strada sparsa di donne appena vestite che ci guardavano come gente piovuta dalla luna; si attraversò una piazzetta piena di bambini e maiali amichevolmente confusi; si passò per altre due o tre stradicciuole, ora salendo, ora scendendo, ora in mezzo alle case, ora in mezzo alle macerie, ora tra gli alberi, ora tra le roccie, e si arrivò finalmente in un luogo solitario, sul fianco d'una collina, di dove si vedeva, in faccia il Generalife; a destra l'Alhambra; sotto, una valle profonda coperta d'un foltissimo bosco.

Cominciava a imbrunire, non si vedeva nessuno, non si sentiva una voce.

“Qui finisce il borgo?” domandai.

I due compagni risero e mi dissero: “Guardi da quella parte.”

Mi voltai e vidi lungo una strada che si perdeva nel bosco lontano, una sterminata fila di case.... di case? di tane scavate nella terra, con un po' di muro dinanzi, con buchi per finestre e screpolature per porte, e piante selvatiche d'ogni specie di sopra e dai lati; veri covi di belve, nei quali, al chiarore di lumicini appena visibili, formicolavano i gitani a centinaia; un popolo brulicante nelle viscere del monte, più povero, più nero, più selvaggio di quello visto fino allora; un'altra città, sconosciuta alla maggior parte dei Granatini, inaccessibile agli agenti della polizia, chiusa agli impiegati del censimento, ignara d'ogni legge e d'ogni governo, vivente non si sa come, numerosa non si sa quanto, straniera alla città, alla Spagna, alla civiltà moderna, con linguaggio e statuti ed usi proprii, superstiziosa, falsa, ladra, accattona, feroce.

“S'abbottoni il soprabito e badi all'orologio,” mi disse il Gongora; “e andiamo avanti.”

Non avevamo fatto cento passi quando un ragazzo seminudo, nero come le pareti del suo tugurio, ci scorse, gettò un grido, e facendo cenno ad altri ragazzi che lo seguissero, si slanciò verso di noi; dietro i ragazzi accorsero le donne; dietro le donne, gli uomini; e poi vecchie e vecchi e altri bambini; e in men che non si dice fummo circondati da una folla. I miei due amici, riconosciuti come Granatini, riuscirono a mettersi in salvo; rimasi io solo nelle péste. Mi pare di vedere ancora quei ceffi, di udire ancora quelle voci, di sentirmi ancora addosso quelle mani. Gesticolando, gridando, dicendo mille cose che io non capivo, tirandomi per le falde, pel panciotto, per le maniche, mi si stringevano addosso come un branco d'affamati, mi alitavan nel viso, mi mozzavano il respiro. Eran la più parte seminudi, macilenti, colle camicie che cadevano a brani, coi capelli scarmigliati e polverosi, orribili a vedersi; mi pareva d'esser Don Rodrigo in mezzo alla folla degli appestati in quel famoso sogno della notte d'agosto. Che vuole questa gente? mi domandavo; dove mi son lasciato condurre? Come uscirò di qui? Provavo quasi un senso di paura e guardavo intorno con inquietudine. A poco a poco cominciai a capir qualcosa.

—Io ho una piaga in una spalla,—mi diceva uno;—non posso lavorare; mi dia qualche soldo.

—Io ho una gamba rotta,—diceva un altro.

—Io ho un braccio paralitico.

—Io ho fatto una lunga malattia.

Un cuarto, señorito!

Un real, caballero!

Una peceta para todos!

Quest'ultima voce fu accolta con un grido generale d'approvazione:— Una peceta para todos! (Una lira per tutti).

Tirai fuori, con un po' di trepidazione, il portamonete; tutti si alzarono sulla punta dei piedi; i più vicini ci misero il mento dentro; quei di dietro misero il mento sulla testa dei primi; i più lontani stesero le braccia.

“Un momento,” gridai; “chi è fra tutti voi altri colui che ha più autorità?”

Tutti ad una voce, tendendo le braccia verso una sola persona, mi risposero: “ Esta!

Era una spaventevole vecchia tutta naso e tutta mento, con un gran ciuffo di capelli bianchi ritto sul capo a modo di pennacchio, con una bocca che pareva la buca delle lettere, con poco più d'una camicia addosso, nera, incartapecorita, mummificata; la quale mi si avvicinò inchinandosi e sorridendo, e tendendo le mani per afferrare le mie.

“Che volete?” domandai facendo un passo indietro.

La ventura! ” gridarono tutti.

“Ditemi dunque la ventura,” risposi tendendo la mano.

La vecchia strinse fra le sue dieci, non dico dita, ma ossi informi, la mia povera mano, vi posò su il suo naso aguzzo, rialzò il capo, mi guardò fisso, appuntò il dito verso di me, e dondolandosi e fermandosi ad ogni frase, come se recitasse delle strofette, mi disse con accento ispirato:

Tu has nacido en un dia señalado. —(Tu sei nato in un giorno segnalato.)

Y el dia que morirás será un dia señalado tambien. —(E il giorno che morirai sarà pure un giorno segnalato.)

Tu tienes un caudal asombroso. —(Possiedi ricchezze spaventose.)

Qui borbottò non so che d'amanti, di matrimonio, di felicità, onde capii che supponeva ch'io fossi ammogliato, e poi soggiunse:

El dia que te casaste hubo en tu casa muchos dares y tomares. —(Il giorno che ti ammogliasti si fecero grandi feste in casa tua: vi furono molti dare e pigliare.)

Y otra se quedó llorando. —(E un'altra donna ne pianse.)

Y cuando tu la vees te se abren las alas del corazon. —(E quando tu la vedi ti si aprono le ali del cuore.)

E avanti su questo tenore, dicendo che avevo amanti e amici e tesori e gioie che m'aspettavano tutti i giorni dell'anno in tutti i paesi del mondo. Mentre la vecchia parlava, tutti tacevano, come se credessero che profetasse davvero. Chiuse finalmente la profezia con una formola di commiato, e chiuse la formola allargando le braccia e spiccando un salto in un atteggiamento di danza. Io diedi la peceta, e la folla proruppe in grida, in applausi, in canti, facendomi intorno mille strani gesti e salti, e salutandomi a spintoni e a colpi di mano sulla spalla come un vecchio amico, finchè, a forza di divincolarmi e di urtare ora l'uno ora l'altro, riuscii ad aprirmi un varco e a raggiungere gli amici. Ma un nuovo pericolo ci minacciava. La notizia dell'arrivo d'uno straniero s'era sparsa, le tribù s'erano mosse, la città dei gitani era tutta in rumore; dalle case vicine, dai tugurii lontani, dall'alto della collina, dal fondo della valle, accorrevano ragazzi, donne coi bimbi in collo, vecchi col bastone, storpi e malati impostori, profetesse settuagenarie che volevano dir la ventura; un esercito di pezzenti ci veniva addosso da ogni parte. Era notte; non c'era da esitare; pigliammo la corsa, come scolaretti, alla volta della città. Allora ci scoppiò alle spalle un gridío di casa del diavolo e i più lesti si misero ad inseguirci. Grazie al cielo, dopo una breve galoppata, ci trovammo al sicuro, stanchi, ansanti, coperti di polvere; ma salvi.

“A qualunque costo,” mi disse ridendo il signor Melchiorre, “bisognava scappare; se no si sarebbe tornati a casa senza camicia.”

“E noti,” soggiunse il Gongora, “che non abbiamo veduto che le porte del borgo dei gitani; la parte civile; non si può dire il Parigi, nè il Madrid; ma almeno la Granata dell'Albaicin; se fossimo andati oltre! se lei avesse veduto il resto!”

“Ma quante migliaia sono questa gente?” domandai.

“Non si sa.”

“In che modo vivono?”

“Non si capisce.”

“Che autorità riconoscono?”

“Una sola: los reyes (i re), capi delle famiglie o delle case, quelli che hanno più danari e più anni. Essi non escon mai dal loro borgo, non sanno nulla, vivono al buio di tutto ciò che accade fuor della cerchia delle loro case. Le dinastie cadono, i governi si trasformano, gli eserciti si battono, ed è un miracolo se ne giunge la notizia fino al loro orecchio. Domandi loro se Isabella è ancora sul trono o no: non lo sanno. Domandi loro chi è Don Amedeo: non ne hanno mai inteso il nome. Nascono e muoiono come le mosche, e vivono come secoli fa, moltiplicandosi senza uscire dai propri confini; ignoranti e ignorati, non vedendo altro in tutta la loro vita fuor che la valle che s'apre sotto i loro piedi e l'Alhambra che torreggia sul loro capo.”

Ripassammo per tutte le strade percorse prima, ora deserte ed oscure, e mi pareva che non finissero mai; e sali e scendi e svolta e gira e rigira; finalmente s'arrivò nella piazza dell' Audiencia, in mezzo alla città di Granata, nel mondo civile. Alla vista dei caffè e delle botteghe illuminate, provai un senso di piacere, come se fossi tornato alla vita cittadina dopo un anno di soggiorno in una landa disabitata.

La sera del dì dopo partii per Valenza. Mi ricordo che pochi momenti prima di partire, dovendo pagare il conto dell'albergo, osservai al padrone che nella nota c'era segnata una candela di più, e gli domandai ridendo: “Me la toglie?” Il padrone afferrò la penna, e togliendo venti centesimi dal totale della somma, rispose con voce che voleva parer commossa:

“Diavolo! fra Italiani!....”

XIII. VALENZA.

Il viaggio da Granata a Valenza, fatto tutto de un tiron, come si dice in Spagna, o d'un fiato, è uno di quegli spassi che un uomo ragionevole si piglia una volta sola nella vita. Da Granata a Menjibar, villaggio posto sulla riva sinistra del Guadalquivir tra Iaen e Andujar, è una nottataccia di diligenza; da Menjibar all'Alcazar di San Juan è una mezza giornata di strada ferrata, in un carrozzone senza tendine, in mezzo a pianure nude come la palma della mano, con quel po' po' di sole; e dall'Alcazar di San Juan a Valenza, tenuto conto di tutta una serata che si passa nella stazione dell'Alcazar aspettando il treno, è un'altra notte e un'altra mattinata, per arrivar poi alla sospirata città sul punto di mezzogiorno quando la natura, come direbbe Emilio Praga, raccapriccia all'orrida idea che ci siano ancor quattro mesi di estate.

Ma bisogna dire che il paese che si percorre sul principio e sulla fine di questo viaggio è così bello che se si fosse capaci di un sentimento gentile quando si casca dal sonno e si va in acqua dal caldo, ci sarebbe da andare mille volte in visibilio. È un viaggio di vedute inaspettate, di cambiamenti improvvisi, di contrasti stravaganti, di colpi di scena, per così dire, della natura, di trasformazioni meravigliose e fantastiche, che lascia nella mente non so che vaga illusione d'aver percorso, non un tratto della Spagna, ma tutto un meridiano della terra, a traverso i paesi più disparati. Dalla vega di Granata, che attraversate al lume della luna, quasi aprendovi la via fra i boschi e i giardini, in mezzo a una vegetazione pomposa che par che vi s'affolli intorno come un mare gonfiato per avvolgervi ed inghiottirvi nei suoi cavalloni di verzura; riuscite in mezzo a monti brulli e dirupati ove non si vede traccia d'abitazione umana, rasentate l'orlo dei precipizii, costeggiate le rive dei torrenti, scorrete in fondo ai burroni, vi par di esservi smarriti in un labirinto di roccie. Di qui riuscite un'altra volta in mezzo alle colline verdi e ai campi fioriti dell'alta Andalusia, e poi tutto a un tratto spariscon campi e colline, e vi trovate in mezzo alle montagne di pietra della Sierra Morena, che vi pendon da ogni parte sul capo e vi chiudon tutt'intorno l'orizzonte come le pareti d'un abisso immenso. Uscite dalla Sierra Morena, vi si stendon davanti le deserte pianure della Mancia; uscite dalla Mancia, v'inoltrate nella florida pianura d'Almansa, svariata d'ogni maniera di coltivazioni, che presenta l'aspetto d'un vastissimo tappeto a scacchiere dipinto di tutte le sfumature di verde che possano uscire dalla tavolozza d'un paesista. E finalmente di là dalla pianura d'Almansa, s'apre un'oasi deliziosa, una terra benedetta da Dio, un vero paradiso terrestre, il regno di Valenza; dai confini del quale fino alla città, si trascorre in mezzo ai giardini, ai vigneti, a folte macchie d'aranci, a villette bianche coronate di terrazze, a villaggi allegri dipinti di vivi colori, a gruppi, a filari, a boschetti di palme, di melagrani, di aloè, a canneti di zucchero, a sterminate siepi di fichi d'India, a lunghe catene di collinette e di poggi di forma conica, coltivati a orticelli, a giardinetti, ad aiuoline, scaccheggiati minutamente di cima in fondo e variopinti come grandi mazzi di erbe e di fiori; e per tutto una vegetazione ardente, che colma ogni vuoto, che soverchia ogni altezza, che veste ogni sporgenza, che s'alza, che spenzola, che striscia, che si pigia, s'ammucchia, s'intralcia, vi impedisce la vista, vi chiude la strada, vi abbarbaglia di verde, vi stanca di bellezza, vi confonde coi suoi capricci e le sue follie, e vi fa l'effetto come d'una figliazione improvvisa della terra accesa d'una febbre voluttuosa dal fuoco d'un vulcano segreto.

Il primo edifizio che dà nell'occhio entrando in Valenza, è un immenso Circo di tori, situato a destra della strada ferrata, formato da quattro ordini sovrapposti di archi sorretti da robusti pilastri, tutto di mattoni, arieggiante, alla lontana, il Colosseo. È il Circo dei tori, dove il quattro settembre del 1871 il re Amedeo al cospetto di diciassette mila persone strinse la mano al celebre torero soprannominato il Tato, monco d'una gamba, che, essendo direttore dello spettacolo, aveva chiesto il permesso d'andargli a presentare i suoi omaggi nel palco. Valenza è tutta piena di ricordi del duca d'Aosta. Il sacrestano della cattedrale possiede un cronometro d'oro, colle sue iniziali in diamanti, e una catena imperlata, regalatagli da lui quando andò a pregare nella capella di Nuestra Señora de los Desamparados. Nell'Ospizio di questo nome i poveri si ricordano d'aver un giorno ricevuto dalla mano sua il loro pane quotidiano. Nell'opificio di musaici di un tal Nolla si conservan due mattoni, sull'uno dei quali egli incise di suo pugno il proprio nome, e sull'altro il nome della regina. Nella piazza di Tetuan il popolo addita la casa del conte di Cervellon, nella quale ei fu ospitato; che è la casa medesima dove Ferdinando VII firmò nel 1814 i decreti che annullavano la Costituzione, dove abdicò la regina Cristina nel 1840, dove passò alcuni giorni la regina Isabella nell'anno 1858. Infine, non v'è angolo della città nel quale non si possa dire: qui strinse la mano a un popolano; qui visitò un opificio, qui passò a piedi, lontano dal suo seguito, circondato da una folla, fiducioso, sereno, sorridente.

E fu appunto Valenza, poichè sono a parlare del duca d'Aosta, fu Valenza la città nella quale una bambina di cinque anni, recitandogli dei versi, toccò quel terribile argomento del Rey extranjero colle più nobili e più sensate parole che si sian forse pronunziate in Spagna da parecchi anni a questa volta; parole che se tutta la Spagna avesse raccolte e meditate, forse ella si sarebbe risparmiate molte delle calamità che l'hanno colpita e che l'aspettano; parole che forse, un giorno, qualche spagnuolo rammenterà sospirando, e che già fin d'ora traggono dagli avvenimenti una luce meravigliosa di verità e di bellezza. E poichè i versi son gentili e facili, io li trascrivo. La poesia è intitolata Dio e il Re, e dice così:

«Dios, en todo soberano,
Creò un dia á los mortales,
Y á todos nos hizo
[7]
iguales
Con su poderosa mano.

No reconoció Naciones
Ni colores ni matices
[8]
Y en ver los hombres felices
Cifró sus aspiraciones.

El Rey, che su imágen es,
Su bondad debe imitar
Y el pueblo no ha de indagar
Si es aleman ó francés.

¿Porqué con ceño
[9]
iracundo
Rechazarle
[10]
siendo bueno?
Un Rey de bondades lleno
[11]
Tiene por su patria el mundo.
[12]
Vino de nacion estraña
Cárlos Quinto emperador,
Y conquistó su valor
Mil laureles para España.

Y es un recuerdo glorioso
Aunque en guerra cimentado,
El venturoso reinado
De Felipe el Animoso.

Hoy el tercero sois Vos
Nacido en estraño suelo
Que viene á ver nuestro cielo
Puro destello de Dios.

Al rayo de nuestro sol
Sed bueno, justo y leal,
Que á un Rey bueno y liberal
Adora el pueblo español.

Y á vuestra frente el trofeo
Ceñid
[13]
de perpetua gloria,
Para que diga la historia
—Fué grande el Rey Amadeo.—»

Oh povera ragazzina, quante cose saggie hai detto tu, e quante cose insensate hanno fatto gli altri!

La città di Valenza, se vi s'entra ripensando alle ballate dei poeti che ne cantarono le meraviglie, non pare che risponda alla bella immagine che ce n'eravamo formata nella mente; e d'altra parte non offre quell'aspetto sinistro al quale ci si prepara, se si bada alla sua giusta fama di città turbolenta, battagliera, fomentatrice di guerre civili e piuttosto vaga dell'odor della polvere che della fragranza dei suoi boschetti d'aranci. È una città costrutta sur una vasta e florida pianura, sulla riva destra del Guadalaviar, che la separa dai suoi sobborghi, un po' lontana dalla rada che le serve di porto, tutta strade tortuose, fiancheggiate da case alte, sgraziate e multicolori, e però di men gradevole aspetto che le strade delle città andaluse, e prive affatto di quella vaga aria orientale che muove così caramente la fantasia. Sulla riva sinistra del fiume si stende uno stupendo passeggio formato da maestosi viali e da bei giardini, al quale si giunge uscendo dalla città per la porta del Cid, fiancheggiata da due grosse torri merlate, chiamata col nome dell'eroe perchè per essa egli passò nel 1094 dopo avere scacciato i Mori da Valenza. La cattedrale, costrutta in uno spazio dove sorse un tempio a Diana al tempo dei Romani, poi una chiesa a San Salvatore al tempo dei Goti, poi una moschea al tempo degli Arabi, convertita daccapo in chiesa dal Cid, mutata una seconda volta in moschea dagli Arabi nel 1101, e per una terza volta in chiesa dal re Don Iaime dopo la cacciata definitiva degli invasori, è un vasto edifizio, straricco di ornamenti e di tesori; ma che non può reggere il confronto colla maggior parte delle altre cattedrali spagnuole. V'hanno parecchi palazzi degni di esser visti, come il palazzo dell' Audiencia, che è un bel monumento del decimosesto secolo, nel quale si radunavano le Cortes del regno di Valenza; la casa de ayuntamiento, costrutta tra il secolo XV e il XVI, nella quale si conserva la spada di Don Iaime, le chiavi della città e la bandiera dei Mori; e sopra tutti la Lonja, la Borsa dei negozianti, per la sua celebre sala formata da tre grandi navate divise da ventiquattro colonne torte sulle quali s'incurvano con uno slancio ardito gli archi leggieri delle vôlte, e l'occhio riceve da quell'architettura una gradevole impressione di gaiezza e d'armonia. E infine v'è un museo di pittura che non è tra gli ultimi di Spagna.

Ma a dire il vero in quei pochi giorni ch'io rimasi a Valenza aspettando un bastimento, ebbi più il capo alla politica che all'arte. Ed esperimentai la verità delle parole che prima di partir dall'Italia avevo inteso dire da un illustre italiano, il quale conosce la Spagna come casa sua: «Lo straniero che vive, anche per breve tempo, in Ispagna, è condotto a poco a poco, senza quasi ch'ei se n'accorga, a scaldarsi il sangue e a beccarsi il cervello sulla politica, come se la Spagna fosse il suo paese, o le sorti del suo paese pendessero dalle sorti della Spagna. Le passioni son tanto ardenti, la lotta è così accanita, e in questa lotta è sempre così apertamente in giuoco l'avvenire, la salute, la vita della nazione, che non è possibile, a chi nulla nulla sia latino d'immaginazione e di fibra, il rimaner spettatore indifferente. Bisogna agitarsi, parlar nei crocchi, pigliar sul serio le elezioni, imbrancarsi nella folla che fa le dimostrazioni politiche, rompersi con qualche amico, formarsi una società di gente che la pensi come noi, e farsi, in una parola, spagnuolo fino al bianco dell'occhio. E via via che si diventa spagnuoli, si scorda l'Europa, come se fosse agli Antipodi, e si finisce col non veder più che la Spagna, come se la governassimo noi, e tutti i suoi interessi fossero nelle nostre mani.» Così è, e così m'avvenne. In quei pochi giorni era naufragato il Ministero conservatore, e i radicali avevano il vento in poppa; la Spagna era tutta in ribollimento; cadevano governatori, generali, impiegati di tutti i gradi e di tutte le amministrazioni; una folla di gente nuova irrompeva negli uffizi dei ministeri gettando grida d'allegrezza; lo Zorilla doveva inaugurare un'èra nuova di prosperità e di pace; Don Amedeo aveva avuto un'ispirazione dal cielo; la libertà aveva vinto; la Spagna era salva. Anch'io, sentendo suonar la banda dinanzi alla casa del nuovo governatore, sotto un bel cielo stellato, in mezzo al popolo allegro, ebbi un barlume di speranza che il trono di Don Amedeo potesse finalmente allargar le radici, e mi rammaricai d'essere stato troppo facile a pronosticar male. E quella commedia che rappresentava lo Zorilla nella sua villa quando non voleva a nessun costo accettare la presidenza del Ministero, e rimandava indietro amici e deputazioni, e finalmente, spossato dal continuo dir di no, cadeva in deliquio dicendo di sì, mi dava, allora, un alto concetto della fermezza del suo carattere, e mi induceva a bene augurare del nuovo Governo. E dicevo tra me ch'era un peccato partir dalla Spagna allora che l'orizzonte si faceva azzurro e il palazzo reale di Madrid si tingeva di color di rosa. E già ventilavo il disegno di tornare a Madrid per goderci la soddisfazione di poter mandare in Italia delle notizie consolanti, le quali m'avrebbero fatto perdonare l'imprudenza che avevo avuto fino allora di non dire delle bugie. E ripetevo i versi del Prati:

«Oh qual destin t'aspetta
Aquila giovinetta!»

e salvo un po' di gonfiezza negli appellativi, mi pareva che racchiudessero una profezia, e immaginavo di vedere il poeta in piazza Colonna, a Roma, e di corrergli incontro per dargli il mi rallegro e serrargli la mano....

La più bella cosa a vedersi in Valenza è il mercato. I contadini valenzani sono di tutta la Spagna i più artisticamente e bizzarramente vestiti. Per fare una bella figura in mezzo alle maschere dei nostri veglioni, non avrebbero che da entrare in teatro tal quale si trovano i giorni di festa e di mercato per le strade di Valenza e per le vie della campagna. Al vedere i primi così vestiti, vien da ridere, e non si può credere in nessuna maniera che sian contadini spagnuoli. Hanno non so che aria di greci, di beduini, di giuocatori di pallone, di danzatori di corda, di donne mezzo spogliate per andare a letto, di comparse da tragedia non finite di vestire, di gente faceta che voglia far ridere a spese sue. Hanno una camicia bianca ed ampia che tien luogo di giacchetta, un panciottino di velluto di vario colore aperto sul petto, un par di calzoni di tela, della forma di quei degli zuavi, che non arrivano al ginocchio, e paion mutande di donna, e svolazzano come le gonnelline d'una ballerina; una fascia rossa o azzurra intorno alla vita; una specie di uose di lana bianca, ricamate, che lascian vedere il ginocchio nudo; un par di sandali di corda come i contadini catalani; e per copertura della testa, che portan quasi tutti rapata come i chinesi, un fazzoletto rosso, o turchino, o giallo, o bianco, avvolto a modo di cartoccio e annodato sulle tempie o sulla nuca; sul quale metton qualche volta un cappelletto di velluto, di forma simile a quello che s'usa nelle altre provincie di Spagna. Quando vanno in città portan quasi tutti sulle spalle o sul braccio, ora a guisa di scialle, ora di mantellina, ora di ciarpa, una capa di lana, lunga e stretta, a striscie di vivissimi colori, per lo più bianco e rosso, ornata di fiocchi di frangie e di rosette. L'aspetto che presenta una piazza dove siano raccolti qualche centinaio di uomini così vestiti, è facile a immaginare; è una scena carnevalesca; una festa, un tumulto di colori che mette allegrezza come la musica d'una banda; uno spettacolo nello stesso tempo ciarlatanesco, gentile, pomposo e ridicolo; al quale i volti accigliati e gli atteggiamenti maestosi, che distinguono i contadini valenziani, aggiungono una sfumatura di gravità che ne accresce la stravagante bellezza.

Se v'è un proverbio insolente e bugiardo, è quell'antico proverbio spagnuolo che dice: in Valenza la carne è erba, l'erba è acqua, gli uomini son donne e le donne nulla. Lasciando da parte quella della carne e dell'erba, ch'è un bisticcio, gli uomini, specie del basso popolo, sono alti e robusti ed hanno un aspetto ardito quanto i catalani e gli aragonesi, con qualcosa di più vivo e di più luminoso negli occhi; e le donne sono per consentimento di tutti gli Spagnuoli e di quanti stranieri hanno viaggiato in Spagna, le più classicamente belle del paese. I valenziani, i quali sanno che la costa orientale della penisola fu prima occupata dai Greci e dai Cartaginesi, dicono: è chiaro! Aqui se quedó el tipo de la belleza griega. (Qui rimase il tipo della bellezza greca.) Io non ardisco dire nè sì nè no, perchè il definire la bellezza delle donne d'una città in cui si son passate alcune ore, mi parrebbe una licenza da compilatore di Guide. Ma è facile accorgersi d'una differenza recisa che corre tra la bellezza delle andaluse e la bellezza delle valenziane. La valenziana è più alta di statura, più grassoccia, meno bruna, e ha tratti più regolari, e occhi più soavi, e andatura e atteggiamenti più matronali. Non è un pepino come l'andalusa, che fa sentire il bisogno di mordersi un dito quasi per sedare la subita e disordinata insurrezione di desiderii capricciosi che ci si desta dentro alla sua vista; ma è una donna che si guarda con un sentimento di più tranquilla ammirazione, e mentre si guarda, come dice dell'Apollo del Belvedere il La Harpe, notre tête se relève, notre maintien s'ennoblit; e invece di fantasticare una casetta andalusa per nasconderla agli occhi del mondo, si desidera un palazzo di marmo per accogliervi dame e cavalieri che vengano a renderle omaggio.

A sentir gli altri Spagnuoli, il popolo Valenziano è feroce e crudele oltre ogni immaginazione. Chi vuol disfarsi d'un nemico, trova l'uomo servizievole che, per pochi scudi, s'incarica della bisogna colla indifferenza con cui accetterebbe la Commissione di portare una lettera alla posta. Un contadino valenziano che si trovi ad avere il fucile tra le mani mentre passa uno sconosciuto per una strada solitaria, dice al compagno:— Voy à ver si acierto, —(Vediamo se tiro giusto,) e piglia la mira e spara. Si racconta questa che, da quanto mi fu assicurato, è storica e seguì non molti anni sono. Nelle città e nei villaggi della Spagna i ragazzi ed i giovanotti del popolo soglion giocar fra loro, com'essi dicono, ai tori. Uno fa il toro e dà le capate; un altro, con un bastone stretto sotto l'ascella, a modo di lancia, portato a cavalluccio da un terzo che rappresenta il cavallo, respinge gli assalti del primo. Una volta una brigata di giovani valenziani pensarono di far questo gioco con qualche novazione che gli desse un po' più di somiglianza alle vere cose dei tori, e procurasse agli spettatori e agli artisti un po' più di emozione che i giuochi consueti; e la novazione fu di sostituire al bastone un lungo coltello aguzzato e affilato, una di quelle formidabili navajas che abbiamo viste a Siviglia e di darne all'uomo che faceva la parte di toro, due altre un po' più corte, le quali, tenute ferme da una parte e l'altra del capo, tenesser luogo di corna. Incredibile, ma vero! Si fece il gioco a coltellate, si sparse un lago di sangue, parecchi furono uccisi, altri feriti a morte, altri malconci, senza che il gioco si convertisse in rissa, senza che le regole dell'arte fossero una volta violate, senza che alcuno levasse la voce per far cessare la strage!

Relata refero, e son ben lontano dal credere tutto ciò che dei valenziani si dice; ma è certo che a Valenza la sicurezza pubblica, se non è un mito, come dicono poeticamente le nostre gazzette parlando delle Romagne e della Sicilia, non è neanco il primo dei beni che vi si goda, dopo quello della vita. Me ne persuasi la prima sera del mio soggiorno in quella città. Non sapevo andare al porto, credevo che fosse vicino, dimandai a una bottegaia per dove dovevo passare. Gettò un grido di meraviglia.

“Al porto vuol andare, caballero?”

“Al porto.”

Ave Maria purisima, al porto a quest'ora?” E si voltò verso un crocchio di donne che stavan accanto alla porta dicendo in dialetto valenzano:

“Donne, rispondetegli voi per me: questo signore mi domanda per dove si passa per andare al porto!”

Le donne risposero ad una voce: “Dio lo guardi!”

“Ma da che?”

“Non si fidi!”

“Ma per che ragione?”

“Per mille ragioni.”

“Ditene una.”

“Potrebb'essere assassinato.”

Mi bastò una ragione sola, come ognuno può capire; e non cercai più in là.

Del resto, a Valenza come altrove, per quel poco commercio ch'ebbi colla gente, non trovai che cortesia, come straniero, e come italiano, un'accoglienza amichevole, anche da coloro che non volevan sentir parlare di re stranieri in genere, e di principi di Casa Savoia in specie, e ch'erano i più; ma che mi usavano la finezza di dirmi prima:—non tocchiamo questa corda.—Allo straniero che, richiesto di dove sia, risponde:—Son francese,—fanno un sorriso garbato come per dire:—Ci conosciamo.—A quegli che risponde:—Son tedesco od inglese,—fanno un leggero cenno col capo come per dire:—M'inchino;—a quegli che risponde:—Sono italiano!—porgon la mano con un atto vivace, come se volessero dire:—Siamo amici,—e lo guardano con un'aria di curiosità come si guarda per la prima volta una persona della quale si sia inteso dire che ci somiglia, e sorridono piacevolmente al sentir parlare la lingua italiana come si sorride al sentir qualcuno che senza volerci mettere in canzonatura imita la nostra voce e il nostro accento. In nessun paese del mondo un italiano sente meno la lontananza della patria che in Spagna. Glie la rammenta il cielo, la lingua, i volti, i costumi; la venerazione con cui vi si pronunzia il nome dei nostri grandi poeti e dei nostri grandi pittori; quel sentimento vago e gentile di curiosità con cui vi si parla delle nostre città famose; l'entusiasmo con cui vi si ascolta la nostra musica, l'impeto degli affetti, la foga del linguaggio, il ritmo della poesia, gli occhi delle donne, l'aria, il sole. Oh! bisogna che non ami neppur la sua patria, l'italiano che non prova un moto di simpatia per quel paese, che non si sente inclinato a scusare i suoi errori, che non deplora sinceramente le sue sventure, che non gli augura la buona fortuna. Belle colline di Valenza, sponde ridenti del Guadalquivir, giardini fatati di Granata, casine bianche di Siviglia, torri superbe di Toledo, e strade rumorose di Madrid, e venerande mura di Saragozza, e voi, ospiti affettuosi e cortesi compagni di viaggio, che mi parlaste d'Italia come d'una seconda patria, che dissipaste colla vostra festiva gaiezza le mie malinconie vagabonde; io avrò sempre in fondo al cuore un sentimento di gratitudine e di affetto per voi, e custodirò nella mente le vostre immagini come uno dei più cari ricordi della mia giovinezza; e penserò sempre a voi come a uno dei più bei sogni della mia vita.

Queste parole dicevo tra me, guardando a mezzanotte Valenza illuminata, appoggiato sul parapetto del bastimento il Genil, ch'era sul punto di partire. S'erano imbarcati con me alcuni giovani spagnuoli che andavano a Marsiglia, per far vela da quel porto alla volta delle Antille, dove sarebbero restati per parecchi anni. Uno di essi piangeva in disparte. A un tratto si alzò, e guardò verso la riva, in mezzo a due bastimenti ancorati, ed esclamò con un accento di desolazione:-Oh! Dio mio! speravo che non venisse!—

Dopo pochi momenti una barca s'avvicinò al bastimento, una figurina bianca, seguita da un uomo avvolto in una cappa, salì in fretta la scala, e mettendo un profondo singhiozzo, si gettò fra le braccia del giovane che le era corso incontro.

In quel punto il nostromo gridò: “Signori! si parte!”

Allora si vide una scena straziante; dovettero separare i due giovani a forza, e portar la donna quasi svenuta nella barca, che si scostò un poco e rimase immobile.

Il bastimento partì.

Allora il giovane si slanciò coll'impeto d'un disperato al parapetto, e gridò singhiozzando con una voce che passava l'anima: “Addio, cara! Addio! Addio!”

La figurina bianca tese le braccia e forse rispose; ma la sua voce non fu intesa. La barca s'allontanò e disparve.

Uno dei giovani mi disse nell'orecchio:—Son sposi.—

Era una bella notte; ma trista. Valenza disparve presto, e io pensai che forse non avrei mai più riveduto la Spagna, e piansi.

Fine.

NOTE:

[7] fece.[8] sfumature.[9] cipiglio.[10] respingerlo.[11] si legge glieno e significa pieno.[12] venne.[13] si legge segnid e significa cingete.