EDMONDO DE AMICIS

Speranze e Glorie

Le tre Capitali Torino—Firenze—Roma

MILANO

FRATELLI TREVES, EDITORI

1911

Terzo Migliaio.

PROPRIETÀ LETTERARIA.

I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l'Olanda.

Tip. Fratelli Treves.

NOTA A QUESTA NUOVA EDIZIONE

(1.ª edizione Treves—1911).

Edmondo De Amicis fu eccellente oratore. Quale concetto avesse della pubblica eloquenza, come sentisse quella «enorme fatica di tutte le potenze vitali», spiegò egli medesimo nelle Confessioni d'un conferenziere, che servono d'introduzione al libro intitolato Capo d'anno, pagine parlate. Quale fascino di persuasione e d'entusiasmo egli esercitasse sugli uditori, attestano tutti quelli che ebbero occasione di ascoltarlo. Dal ricco e vario vibrar della voce, dal gesto semplice, dal balenare dell'anima nella chiara onesta faccia, da tutta l'espressione della sua figura emanava la medesima virtù di simpatia, per cui ebbero e serbano tanta nobile popolarità i suoi libri. La tempra del suo ingegno e il suo gran cuore erano fatti apposta per assicurargli quella immediata corrispondenza spirituale con la moltitudine degli uditori, senza la quale ogni più dotta eloquenza è invano.

E fu oratore di attitudini così diverse che parrebbero opposte: seppe con mirabile giustezza di modi parlare via via alle persone colte e alla plebe, alle donne, agli studienti, ai fanciulli; fu conferenziere elegante e arringatore ardente di patria e di partito; sopra tutto riuscì spontaneamente maestro dell'eloquenza men tentata dai letterati e più difficile, quella che si rivolge alle menti inesperte, al popolo privo di cultura e agitato dalle passioni politiche, ai ragazzi che cominciano appena nelle scuole a sentire la forza della parola che illumina e commuove. Chi gli fu più vicino ricorda poi com'egli avesse felice la vena del breve detto d'occasione e del brindisi, sì nelle pubbliche cerimonie, sì nei conviti amichevoli, che gli piacevano tanto al suo tempo migliore, e nei quali studiò da par suo le significazioni e le bizzarrie dell' Eloquenza convivale.

Un senso nativo della misura e dell'opportunità governava sempre la sua parola; e il culto interiore della parola stessa, il vigile intuito dell'artista faceva sì che, qualunque cosa, in qualunque circostanza dicesse, non gli venisse, mai meno quel decoro letterario, che non lascia perdere dignità ad alcuna delle sue scritture, anche alle più umili e famigliari. D'ordinario non improvvisava; diceva prosa scritta, ma scritta per essere parlata, e però colorita e mossa secondo l'intento oratorio che si proponeva. E del resto parlata, per suo istinto e per suo istituto, era tutta la prosa del De Amicis; parlata fu virtualmente tutta quanta la sua opera letteraria, la quale tanto può sui lettori perchè a tutti fa l'effetto di una conversazione immediata dello scrittore con loro.

Egli non diede alle stampe tutte le sue conferenze, non tutti i suoi discorsi lasciò raccogliere. Pubblicò prima nel 1880, insieme con quelle di dieci altri amici, la conferenza sul Vino, ora entrata nelle nuove edizioni delle Pagine allegre; e l'anno dopo, nella Gazzetta letteraria di Torino, quella su L'espressione del viso, che aveva fatto al teatro Carignano per sovvenire ai figli del morto amico Roberto Sacchetti. Delle tre conferenze che disse al teatro Colón di Buenos Aires e poi al teatro Solis di Montevideo, fra l'aprile e il giugno del 1884, su Vittorio Emanuele, Cavour e Garibaldi, quest'ultima sola rifece e stampò in Italia, quale si legge nel presente volume. Più volte fu ristampata l'altra conferenza su I nostri contadini in America, tenuta il 31 gennaio 1887 alla Società filarmonico-drammatica di Trieste, e compresa ora nel volume di Capo d'anno: la quale diede agli uditori e all'oratore argomento di commozione indicibile, ricordata da lui nell'ultima pagina delle Confessioni d'un conferenziere, scritte appunto l'anno seguente.

Rimangono in volumetti separati la conferenza su La lettera anonima e i famosi discorsi Ai ragazzi, stimati un capolavoro di letteratura infantile, che segue ed integra l'universale libro del Cuore. Poco si conserva, e quel poco monco e disperso, dei discorsi fatti dal De Amicis in private adunanze e in comizi del partito socialista, massime in occasione di elezioni politiche: salvo i due grandi discorsi Per il 1.º maggio e Per la questione sociale, compresi in questo volume, e alcune minori cose contenute nell'altro libro che s'intitola Lotte civili.

L'ultima volta che il De Amicis parlò in pubblico fu il 20 marzo 1898, per pronunziare la commemorazione, pur essa qui stampata, di Felice Cavallotti, al teatro Nazionale di Torino; teatro popolare, riboccante quel giorno, ricordo bene, del popolo più misto che si potesse vedere, e che l'oratore sollevò tutto nel consenso e nell'ammirazione irresistibilmente.

Egli fu eletto deputato del 1.º collegio di Torino il 17 luglio di quell'anno. S'era lasciato presentare candidato per obbedire al bisogno di una protesta politica del suo partito allora insorto e perseguitato. Ma rinunziò all'ufficio, e il Parlamento non udì mai la sua parola. Due giorni prima dell'elezione gli era morta la madre amatissima. E pochi mesi dopo gli morì il figlio primogenito Furio: dolore atroce che non trovò mai più conforto.

«Folgorato nel capo», lo scrittore si ritrasse nell'ombra e nel silenzio della sua casa desolata; abbandonò per sempre la vita pubblica, non accettò più di fare conferenze e discorsi; e da allora in poi fu tutto nel quotidiano solitario lavoro, col quale però il suo spirito chiuso ai richiami esterni comunicava così largamente con gli innumerevoli lettori fedeli.

In questo libro, Speranze e Glorie, edito prima dal Giannotta di Catania, il De Amicis riunì i suoi più importanti discorsi d'argomento commemorativo e sociale. Un altro simile volume, Lotte civili, raccoglie i suoi scritti polemici per il socialismo e per la pace dei popoli. Con questi due libri si determina l'azione politica dello scrittore; la quale, a riscontro della sua opera letteraria, non deve rimanere dimenticata, perchè è troppo gran parte di quella generosa vita intellettuale, a cui non mancò mai la rispettosa e affettuosa attenzione degli italiani.

Torino, aprile 1911.

DINO MANTOVANI.

Speranze e Glorie.

I.

Per una distribuzione di premi.

ALLE ALUNNE.

Vi parlo, non perchè io pensi che non sarebbe compiuta senza le mie parole questa cara festa dedicata a voi; ma per prolungare a me di qualche momento il piacere vivissimo di vedervi.

Quanto vi potrei dire di più opportuno e di più degno ve lo dicono ogni giorno le vostre brave insegnanti, e con assai maggiore autorità che non possa esser la mia; perchè esse vi esortano al lavoro e ve ne dànno le prime l'esempio; vi raccomandano la bontà e vi dimostrano con gli atti che cosa sia l'esser buone; vi dicono:—Studiate, educatevi per la famiglia e per la patria—e alla patria, alle famiglie rendono con l'opera loro un servigio che soverchia ogni ricompensa e ogni gratitudine.

A me non resta che rallegrarmi con voi per il premio che avete meritato e che abbiamo avuto la gioia di porgervi.

Ma il dire che v'abbiamo dato un premio non è l'espressione propria della verità. Il vostro premio non è nel modesto ricordo che, per nostra mano, vi ha offerto la vostra città natale, per dimostrarvi che ha a cuore i vostri studi e che v'è grata della gloria che dànno alle sue scuole, dell'onore che fanno al suo nome gli sforzi vittoriosi della vostra volontà e del vostro ingegno.

Il vostro premio è nella serenità della vostra coscienza, nella stima delle vostre compagne, nella compiacenza delle vostre maestre, nel bacio dei vostri parenti; è nel raddoppiato vigore di volontà che questo trionfo delle vostre fatiche v'infonde; è nella dolce memoria, che v'accompagnerà per tutta la vita, d'aver ricompensato degnamente tutti coloro che vi hanno amate e educate, che hanno lavorato e palpitato per voi.

Sì, il vostro miglior premio l'avrete, nell'avvenire, quando questo tempo vi parrà tanto lontano da confondersi quasi nella vostra mente con quello della primissima infanzia. Anche allora, fra molti e molti anni, ricordandovi della vostra fanciullezza, voi rivedrete sovente col pensiero questa sala affollata, i visi delle vostre compagne e delle vostre maestre, e la vostra piccola immagine sorridente, col premio stretto sul cuore, illuminata dalla stessa luce che in questo momento v'illumina, e ogni minima cosa come in questo punto la vedrete, come se riviveste in questo giorno. E direte tra voi:—Che bel giorno! La mia maestra era contenta, mia madre era commossa, mio padre m'aspettava a casa col cuore pieno di gioia e d'alterezza, ed io…. quant'ero felice!—E rimarrete maravigliate di risentirne ancora tanta dolcezza. E se in quell'ora avrete il cuore amareggiato da un'offesa, vi sentirete più disposte a perdonarla. E se avrete da compiere uno sforzo per mettere in atto un proposito gentile o per fare un sacrificio generoso, vi riuscirà più facile di compierlo. E se avrete sotto gli occhi il ritratto di vostra madre lo bacierete con più affettuosa tenerezza perchè vi parrà di vederla sorridere per ringraziarvi di questa giornata luminosa che le avete data.

Continuate dunque a studiare e a esser buone per aver nell'avvenire molti di questi ricordi che migliorano l'animo e abbelliscono la vita.

Un solo consiglio vi dò ancora. Per proseguire sempre più rapidamente e con più lieto animo il cammino che avete incominciato con tanto onore, destate in voi un impulso allo studio anche più forte di quello del sentimento del dovere. Sia il sentimento del dovere la vostra scorta, diventi lo studio il vostro amico; abbellite questo così nella vostra immaginazione che egli vi attragga con tanta forza da rendervi superfluo ogni sforzo della volontà; cercate in ogni modo di suscitarvi in petto questa passione nobilissima che, accesa una volta, non s'estingue più, ed è alimento e premio a sè medesima per la vita intera; perchè anche nel campo del lavoro intellettuale, anzi in questo più che in ogni altro, se la volontà fa maraviglie, la passione fa miracoli. Sapete che cosa rispose un grande uomo di scienza, ammirato dal mondo, a chi gli domandò in qual maniera, non concedendogli la salute malferma che poche ore d'occupazione ogni giorno, egli avesse potuto compiere tante scoperte, scrivere tante opere utili e gloriose, a cui pareva che appena sarebbero bastate le fatiche assidue di una lunga vita vigorosa?—Vi riuscii—rispose—convertendo il lavoro forzato in lavoro spontaneo;—che era quanto dire: facendo con amore, quasi per diletto e per bisogno dello spirito, più che per forza di proposito e per iscopo di vantaggio proprio ed altrui, tutto quello che fece. E così potete far voi pure nel vostro piccolo campo scolastico; ma rammentandovi sempre, badate, che per studiare con facilità e con profitto bisogna aver la mente serena, che non s'ha la mente serena se non s'ha il cuore in pace, e che per avere il cuore in pace dovete adempiere con pari zelo tutti i doveri: esser riverenti coi genitori, rispettose con le insegnanti, affabili con le compagne, pietose con gl'infelici, buone con tutti.

E vedrete sempre alla prova, care fanciulle, che per lavorare ed esser buone non avrete da fare due sforzi distinti, perchè dal lavoro esce la bontà, come dal moto il calore, perchè dalla bontà sorge il lavoro come dalla luce la vita, perchè lavoro e bontà sono due virtù gemelle che non si scompagnano nelle anime elette se non quando le disgiungono a forza l'infermità e la vecchiezza, e tendono a ricongiungersi sempre per trarre l'una dall'altra ardore e vigore, e se non vincono ogni avversità e non sfuggono alla legge del dolore, ad ogni dolore trovano un grande conforto e ogni avversità sostengono nobilmente, quando quello e queste affrontano insieme.

Sì, siate buone, perchè dovete agli altri la bontà che loro chiedete e che, anche senza merito, per semplice virtù dell'età vostra, ottenete da tutti; perchè la bontà apre ed affina l'intelletto come il fuoco dilata e purifica l'aria; perchè è la sorgente inesausta dei sentimenti soavi e delle idee grandi; perchè è la madre e la nutrice di tutte le passioni più nobili, più operose, più benefiche, di cui si onori l'anima umana. E lavorate perchè il lavoro vuol dire allegrezza e coraggio, è attività del sangue e pace dello spirito, è sicurezza della coscienza e dignità della vita; perchè chi lavora, prega, spera, combatte, semina e costruisce, per sè e per gli altri, per il presente e per l'avvenire, e spande intorno con lo esempio, come fiore il polline fecondo, e trasfonde nel petto altrui l'onestà, la salute, la forza dell'anima sua.

Ma voi, d'animo e d'ingegno eletto, non avete bisogno d'intender da noi questi consigli. Questi vi son dati continuamente da mille voci, da mille forze più potenti della nostra parola. È lo spettacolo del lavoro immenso e perpetuo della natura, della grande forza operosa, come dice il poeta dei «Sepolcri», che affatica le cose di moto in moto, è il procedere non interrotto di ogni scienza, è il trasformarsi continuo d'ogni istituto sociale, è la notizia quasi quotidiana d'una scoperta nuova, d'una nuova via dischiusa al progresso civile, d'un nuovo ardimento dell'ingegno umano, è l'incessante, multiforme, infaticabile agitarsi di tutti gli esseri viventi per conservar l'esistenza propria e migliorarla per sè e prepararla migliore ai futuri, è tutto questo che vi dice con mille voci, ad ogni ora, ad ogni momento del giorno:—Lavorate!

È l'azzurro infinito che vi si stende sul capo, è l'alba che imbianca il mondo, il tramonto che lo imporpora e la primavera che lo infiora, è lo splendore degli astri, l'immensità del mare, il riso dei campi, la grazia dell'infanzia, sono i lampi divini che mandano dal volto le anime belle e le visioni celesti che v'apre al pensiero la musica e l'incanto sovrano che vi versa nel cuore la poesia, è questo grande linguaggio misterioso ed eterno della bellezza, che alla vostra anima pura, ancora tutta aperta ad accoglierlo e a sentirlo, vi dice da tutte le parti, ad ogni ora, ad ogni momento del giorno:—Siate buone!

Ma a che ripetervi queste parole in questo momento in cui la bontà vi splende nello sguardo e nel sorriso così dolce e limpida che ciascuna di voi ci pare della bontà un'immagine vivente, la quale desta nel nostro cuore tutti i sentimenti gentili che vorremmo infonder nel vostro?

Andate, non avete che da serbarvi in codesto stato d'animo per esser felici voi e fare intorno a voi tutti felici. Portate a casa i vostri premi e la vostra gioia; noi portiamo in cuore le vostre care immagini, l'eco del vostro canto e la dolce speranza di ritrovarvi fra un anno in questa scuola e di rivedervi ancora, come oggi siete, fiorenti di salute e raggianti di contentezza, festeggiate dalla famiglia, onorate dalla città, benedette dalla patria.

II.

Per l'inaugurazione d'un Circolo Universitario.

AGLI STUDENTI.

A voi, studenti, e agl'invitati illustri che sono tra voi, domando perdono se non fui abbastanza modesto da rifiutare l'onore immeritato che mi faceste, chiamandomi a inaugurare il vostro Circolo con un breve discorso. Ma v'era nel vostro invito un significato che accarezzava irresistibilmente quel particolare amor proprio, sospettoso d'altri e di sè, che viene coi capelli grigi; il vostro invito voleva dire che, nonostante la disparità degli anni, non mi credete ancora tanto lontano da voi per calore d'affetti e per fede nei belli ideali della giovinezza, da non poter interpretare il pensiero e l'animo d'un'adunanza di studenti. Io non seppi vincere la tentazione di mostrare pubblicamente l'attestato di gioventù spirituale, di cui m'onoraste.

Ma una ben altra ragione mi spinse: furono due modeste parole ch'io lessi nel secondo articolo del vostro statuto.

In questo tempo in cui un troppo gran numero d'insecutori furiosi della fortuna cerca d'estendere le leggi biologiche della lotta per l'esistenza dai regni inferiori della natura alla società umana, per trarne cagione a sciogliersi da ogni più alto dovere di generosità e di gentilezza, è bello questo vostro intento, col quale voi rinnegate formalmente per parte vostra la prima e più dura di quelle leggi, che è l'egoismo; intento con cui mirate ad attuare, in mezzo a voi, uno dei più arditi concetti degli apostoli della giustizia e dell'eguaglianza assoluta: il diritto di tutti a procacciarsi la vita con la cultura e con l'esercizio delle loro facoltà migliori, nel campo a cui la natura li ha destinati. «Mutuo soccorso»: è l'espressione con cui avete delicatamente significato il vostro scopo: io la saluto, come l'insegna gentilizia della vostra casa.

Ma anche senza di questo, anche se la vostra Associazione non avesse avuto altro fine che quello di un ritrovo geniale, io sarei stato lietissimo e mi sarei tenuto onorato dell'invito, per queste ragioni. Perchè il corso fortunato di molte fra le idee più feconde degli ultimi tempi, perchè la formazione del primo manipolo dei propugnatori di molte cause elette, diventati col tempo moltitudine vittoriosa, perchè l'autorità e la forza di molti uomini predestinati a grandi opere, ebbero cominciamento, voi lo sapete, in riunioni abituali della gioventù consacrata agli studi; perchè ciascuno di noi, cercando dove si siano aperti prima alla sua mente certi orizzonti, dove siano cadute certe arroganze pericolose del suo orgoglio, dove egli abbia prima imparato il rispetto del pensiero altrui, la sapiente diffidenza del giudizio proprio e il nobile ossequio dell'ingegno alla critica, trova il principio di tutto ciò nel periodo delle sue discussioni ardenti coi colleghi di vent'anni; perchè, in fine, l'intrecciarsi degli ordini diversi della coltura, l'azione reciproca delle virtù opposte dei caratteri, l'educazione delle facoltà agili e battagliere dell'intelligenza, e la conoscenza degli uomini che è il rincalzo e la scorta di tutte le facoltà, e la generazione spontanea delle amicizie che durano quanto la vita, strette da un legame di memorie senza amarezze, non sono quasi altrimenti possibili che nelle vostre riunioni e all'età vostra, la quale mette nelle sue controversie un ardore, una schiettezza, una fede nella fecondità della lotta che con gli anni scema, pur troppo, o si perde.

Sia dunque bene inaugurato, anche per questo, il vostro Circolo. Fate, come dice il poeta, cozzare i vostri pensieri dalle loro parti sonore; discutete—disputate—battagliate; correte per tutti i versi il vostro campo sterminato in cerca d'avventure e di cimenti dello spirito; affrontate audacemente tutti i problemi con codesta invidiabile facoltà di lampeggiamento dell'intelletto per la quale v'appare tante volte improvviso quello che trovano a fatica la meditazione e l'esperienza; fate fiammeggiare e rombar senza posa la grande fucina delle passioni e delle idee; e siano ben venute le vostre discussioni, anche le più tempestose, anche quelle che v'inaspriscono e v'adirano, se saranno seguite dallo slancio gentile con cui i cavalieri dell'idea si porgon la mano dopo i duelli della parola, riconoscendo che agli occhi luminosi della Scienza e dell'Arte non deve salire il fumo impuro dei nostri rancori.

Ma perdonatemi se ho rasentato un momento il sermone: tendenza consueta di chi parla a persone di cui desidera il bene ardentemente. E di questo voi non dubitate, ne son certo. Voi non credete a quello che dice un grande poeta malinconico: che lo spettacolo della gioventù è odioso agli uomini maturi. No, non è vero, per la maturità che lavora e che pensa. Può bene anche un uomo di senno e di cuore risentire, in mezzo a voi, quell'ombra di mestizia che ci suol dare la vista d'un nostro ritratto di vent'anni addietro, il quale ci rammenta affetti morti e illusioni perdute. Ma da questo leggero senso di rammarico si scioglie prontamente il nostro pensiero quando la gioventù che ci sta dinanzi è quella che siede nella più alta scuola d'uno Stato, quella a cui è affidato per l'avvenire l'onore intellettuale d'un popolo. Dal rimpianto del nostro passato noi ci volgiamo allora all'ammirazione del vostro, o studenti; del passato, voglio dire, della grande famiglia universitaria, giovane eternamente. Poichè questo ci tocca nel vivo dell'animo: che nella classe a cui appartenete sia eguagliato lo splendore delle speranze da quello delle tradizioni; che lungo tutta la via della nostra storia nuova, dalla prima germinazione oscura dell'idea nazionale fino agli ultimi trionfi dorati dal sole, si ritrovino mille nomi della vostra bella schiera; che non si sia dato da settant'anni a questa volta un momento triste, difficile o solenne, in cui la patria non abbia udito la gran voce sonora delle vostre legioni esprimere prima di lei i suoi entusiasmi più nobili e le sue risoluzioni più audaci. Questi ricordi ci ridesta la vostra presenza. Voi avete consolato della vostra ammirazione festosa gli ultimi anni travagliati dei grandi vecchi, avete vendicato col grido giovanile ingiustizie memorabili, scosso da inerzie colpevoli classi cittadine troppo paurose d'ogni cosa; avete dato teste eroiche ai patiboli, petti di ferro alle barricate, rigagnoli di sangue ardente fra il Ticino e l'Adige, sui monti di Sicilia e sulle mura di Roma. E la gioia infinita che troviamo in queste memorie viene in gran parte dalla profonda, incrollabile, superba certezza che, se la storia si ricominciasse, essa non avrebbe per cagion vostra nè un dolore di più nè una gloria di meno.

Ma v'è un'altra ragione, anche più potente, del nostro affetto per voi. Quando noi ci arrestiamo sgomenti davanti alle affollate e multiformi difficoltà, contro le quali, nel campo della speculazione e dell'opera, urta la fronte la generazione a cui appartengo e quella che la precede, noi ricorriamo con la mente alla gioventù universitaria, come in una grande guerra dubbiosa l'esercito di prima linea volge il pensiero al secondo esercito, che si ordina e si addestra nei campi, aspettando la sua ora. E con un conforto grande ci raffiguriamo nuove forme dell'arte, una più alta sapienza della legge, nuove infermità vinte, nuovi e maravigliosi cooperatori delle braccia umane, qualche idea splendida e semplice, oggi ancora velata, cospirante alla soluzione di quell'enorme problema sociale che ci tormenta la ragione e ci affanna l'anima; e come i contorni incerti di una bella terra lontana, vediamo le somme linee di una società più giusta, più fraterna, più felice della nostra; che, in fondo, è il più santo voto del cuor di tutti. E allora diciamo in cor nostro:—Là, in mezzo a loro, tutto questo cova, spunta, s'abbozza, ribolle—sono essi l'avvenire in cui abbiamo fede—le speranze che ci aiutano a vivere son le loro ambizioni—e la luce più viva che scalda il nostro tramonto è quella che c'irradia alle spalle l'aurora della loro gioventù. E allora, quanto v'amiamo! Allora quel sentimento d'orgoglio chiuso che tien poco o molto ogni generazione matura si stacca come scoria vile dall'animo nostro; allora non comprendiamo più perchè ciascun di noi non debba desiderare come una fortuna che voi gli passiate sul corpo per salire a un gradino più alto sulla scala dell'arte e della scienza: allora benediciamo ai vostri studi, alle vostre gioie, alle vostre irruenze con un entusiasmo nel quale è ancora tutta la freschezza della vostra età, con un affetto di cui non vi può dar l'immagine che la stretta dell'amplesso paterno.

Sì, noi v'amiamo come l'avvenire vivente. E seguitiamo i vostri passi con quel sentimento di curiosità pensierosa, col quale si guarda chi parte per un paese sconosciuto e mirabile, come s'egli avesse già sulla sua persona un riflesso delle maraviglie verso cui move. E infatti, che cosa sia per avvenire di questa mole deforme della società presente, di cui la cima sfolgora e il fondamento vacilla, che cosa sia per nascere dalle condizioni attuali del vecchio mondo, rimasto nell'ombra in mezzo agli opposti crepuscoli degli astri tramontati e di quelli non sorti ancora, battuto dal flutto di moltitudini irritate, delle quali cresce il malcontento con la cultura, e schiacciato dal peso di eserciti immensi, destinati a conflitti che sgomentano l'immaginazione, e a cui la ragione e il cuore dei popoli sempre più minacciosamente repugna; nè noi lo sappiamo, nè v'è scienza che lo prevegga. Ma certo è che il mondo si prepara con vasti e lenti sforzi a una profonda mutazione, e che nell'età che s'apre voi avrete a lottare, come cittadini e come uomini, con difficoltà diverse in gran parte da quelle che a noi contrastarono e contrastano, che altre virtù v'occorreranno, che altri sacrifizi vi saranno chiesti, ai quali noi non fummo chiamati. Ma a tutto voi andrete incontro con animo ardito, confortati non soltanto dalla fede nella vittoria ultima della giustizia e del bene, ma anche da questo pensiero: che per quanto maravigliose sian le novità che vi vedrete d'intorno, non saranno da meno quelle che sorgeranno dentro di voi, non tanto per effetto naturale del tempo, quanto per virtù delle cose esteriori mutate. Fioriture improvvise e stupende di facoltà latenti, fecondate da nuove passioni, nate alla loro volta da avvenimenti inattesi; svoltate subitanee e corse conquistatrici dell'ingegno per vie non solo non cercate, ma ignorate fino a poc'anzi; forze imprevedute dell'animo, suscitate da pericoli e da dolori comuni, e appassionate consacrazioni di tutte le potenze dell'intelletto e della volontà a ordini d'idee a cui per vent'anni non s'era mai affacciata la mente se non forse per combatterle o per dileggiarle: tutto questo avverrà tra voi, e tanto muteranno alcuni, che, ricercando sè stessi nelle memorie di questi giorni, stupiranno della loro immagine antica. Tutto questo avverrà. E forse fra quelli che m'ascoltano vi sono già dei fidanzati inconsapevoli dell'era nuova, campioni fortunati di idee benefiche, vittime illustri od oscure, ma egualmente nobili, di grandi passioni, fronti che si alzeranno sopra l'altre come segnacoli, nomi che saranno amati e benedetti. Noi salutiamo con riverenza in voi questo cumulo di promesse, di predestinazioni e di misteri, e se qualche cosa ci turba nel gridarvi l'evviva della partenza, è il timore di non aver abbastanza lavorato, pensato, sofferto per spianarvi la via su cui vi lanciate, la via dove v'accompagneremo con l'anima fin che ci si velerà l'orizzonte.

Ed ora, che vi potrei dire di più? Finita questa bella serata, voi rimarrete soli alle vostre liete riunioni. Ma noi, di mezzo alle cure e alle fatiche di ogni giorno, ritorneremo spesso con la mente alle poche ore di gioventù che ci avete fatto rivivere, tra queste pareti dove pure vi verrà a ritrovare il desiderio di tanti lontani che v'amano, dove vi verranno a stringer la mano colleghi d'altre provincie e d'altri popoli, dove tanta allegrezza, tanta vita, tanta primavera di pensiero e d'affetto darà fiori e frutti al futuro. Abbia dunque lunga vita, il vostro Circolo. E non sia soltanto il luogo dove le buone amicizie si cementino: sia anche quello dove, vinti dalla forza della cordialità altrui, i nemici si riconcilino, dove le gelosie dell'ingegno si spuntino, dove le opinioni dei partiti avversi si ricambino l'omaggio della cortesia; in modo che possiate dire:—Emuli negli studi, concorrenti nella vita, sciolti da ogni vincolo nella politica; ma qui—siamo fratelli.—Questo è il mio augurio al vostro Circolo. A Voi, avanguardia intellettuale della vostra generazione, a quelli che nella battaglia della vita vinceranno, a quelli che cadranno, a quelli che, crivellati di ferite, dureranno a combattere fino all'estremo, a voi tutti, sangue nuovo e generoso della patria, figliuoli prediletti del nostro pensiero e speranze sacre del nostro cuore, salute, fortuna, gloria!

Torino 1891.

III.

Per la quistione sociale.

AGLI STUDENTI.

Quando per la seconda volta mi faceste l'onore d'invitarmi a parlare, sopra un argomento di mia scelta, nella vostra Associazione, mi venne in mente alla prima di parlarvi della quistione sociale. Ma quasi ad un tempo pensai che non sarebbe stato onesto il venir qui ad esporre intorno a un soggetto gravissimo opinioni e giudizi, da cui molti potevan dissentire, senza esser preparati a confutarli. Dissi quindi tra me: non entrerò, per questa volta, nel cuore dell'argomento; non enuncierò uno solo dei principii del socialismo, i quali, d'altra parte, son noti: mi restringerò a parlare ai miei giovani amici del dovere, che, a senso mio, spetta a loro più che ad altri, di occuparsi della quistione; e compirò io stesso, così facendo, un dovere. Debbo anche premettere che non ho l'arroganza di rivolgere le mie parole a quelli tra voi, che le quistioni sociali e economiche hanno nel loro corso universitario, poichè questi potrebbero venire al mio posto e parlare in vece mia. Io non mi rivolgo che alla parte di voi, che della quistione sociale non s'occupa, e suppongo sia la parte maggiore; del che non ho ragione di stupirmi nè di farvi rimprovero, essendo un fatto razionale e comune che, nella vita affollata di passioni e di pensieri a cui tutti, di tutte le età, siamo costretti oggigiorno, sfuggano a molti per lungo tempo interi aspetti della società, ordini interi di idee, e anche di avvenimenti periodici e notissimi, che per l'osservatore attento sono i segni indubitabili di una grande trasformazione sociale.

Mi domanderete per prima cosa: ma voi, per quistione sociale, che cosa intendete?

È questa una delle molte domande alle quali non si può meglio rispondere che con un'altra domanda.

Ed ecco la mia risposta interrogativa.

Questo fatto della vita misera e del malcontento giustificato del maggior numero degli uomini, fatto comune a paesi poveri e ricchi, di tutti i gradi di civiltà, è effetto d'una legge di natura o delle leggi umane? Questa forza che accumula a un polo della società la ricchezza e la cultura, e all'altro il pauperismo e l'ignoranza, che restringe quasi a una classe sola gli effetti benefici della civiltà e della scienza, che preclude quasi affatto alle moltitudini l'educazione e la vita dello spirito, che fa sussistere gli uni in faccia agli altri tanti tesori superflui e tanti bisogni insoddisfatti, tanti ozi felici e tante disperate fatiche, è un destino dell'umanità o deriva da viziose istituzioni sociali? Che la civiltà procedente stritoli sotto i suoi passi miriadi di creature umane; che sotto i piedi di questa società incivilita stia aperta, come una minaccia per tutti, la voragine spaventosa della miseria; che prenda forma più selvaggia ogni giorno questa battaglia per la vita che assorbe il meglio delle forze di tutti, e perverte le coscienze e inferocisce i cuori, atterrando intorno a ogni vincitore cento vinti; che milioni d'uomini che lavorano sian ridotti a paventare e a maledire come un flagello ogni invenzione dell'ingegno umano la quale abbia per effetto di scemare il bisogno che ha la società dei loro sudori; che il pane, che l'esistenza di famiglie innumerevoli dipendano anche in tempi ordinari dalle mille vicende di una disordinata e furiosa guerra mercantile, della quale esse non hanno nè colpa nè coscienza; è una necessità ineluttabile o è conseguenza d'una lunga serie d'errori? Che, in fine, ogni nazione abbia nel suo seno due popoli, di cui l'uno diffida e teme e l'altro freme e minaccia; che per contenere non pochi ribelli, ma moltitudini intere, sian necessari il terrore delle leggi e la forza delle armi; che le grida festose di pochi inneggianti al progresso siano costantemente coperte dal lamento immenso, crescente, implacabile d'una folla infinita, è questo il prodotto d'una misteriosa legge sociale su cui l'uomo non può nulla, o è effetto dell'egoismo umano compenetratosi con le istituzioni e con gli usi, di qualche impedimento enorme che sia nell'organesimo della società, rimosso il quale circolerebbe agevolmente il sangue in tutte le sue membra e le verrebbe la salute e la pace? In una parola, v'è o non v'è qualche sovrano rimedio, o un complesso di rimedi, a tanto cumulo di mali?

A questa domanda il socialismo risponde:—Sì.

Milioni di voci rispondono:—No.

Ebbene, io non son qui per sostenere l'affermazione. Io son venuto—poichè suppongo che nella classe in cui vivete v'accada più sovente di udir la seconda risposta che la prima—son venuto a dirvi:—Non accettate la risposta che vi suggeriscono: cercatela voi stessi;—son venuto a combattere le ragioni di coloro che vi voglion distogliere dal cercarla perchè accettiate a occhi chiusi la loro.

Queste ragioni son parecchie e assai diverse, e credo che a pochi tra voi non sia già occorso di udirle tutte.

La più ovvia è questa. Vi dicono:—Raccoglietevi nei vostri studi, pensate a diventar nella vostra professione valenti ed utili, e avrete compiuto il vostro dovere verso la società; pensino altri a raddrizzare il mondo.—Non date retta a costoro. Non è più onestamente possibile di restringersi a servire la società solo quel tanto che è necessario per provvedere ai nostri interessi. Le condizioni del tempo in cui viviamo son così fatte che convien correggere la definizione antica dell'uomo onesto, e dire che per essere tale non basta più ad alcuno neppur l'esercizio delle più elette virtù private, se egli chiude l'orecchio e il cuore al grido dei dolori umani, s'egli non s'adopera direttamente per la rigenerazione dei suoi simili e per il trionfo della giustizia, se non volge almeno una parte della propria operosità a cercare coscienziosamente al servizio di qual dottrina sociale, per il bene di tutti, debba impiegare le sue forze. E non badate neppure a chi vi consiglia l'astensione, dicendo che v'occuperete della quistione sociale più tardi, perchè quelli stessi che vi dicono ora:—Attenetevi ai vostri studi—vi diranno allora:—Attenetevi ai vostri affari,—e vi vorranno relegare nella fortezza della casa e dell'ufficio come ora vi vogliono chiudere nel santuario della letteratura e della scienza. Occupatevi ora di quella quistione, ora che avete l'intelletto e l'animo aperto a tutte le grandi idee, ora che potete esperimentare in voi la verità di quello che un economista dottissimo disse: che l'intelligenza della scienza sociale procede dal cuore anche più che dallo spirito, ora che la durezza della lotta per la vita e la esperienza della tristizia umana non v'hanno ancora rintuzzato il senso della generosità e della compassione. Milioni di vostri fratelli a cui la fortuna ha negato il conforto e l'onore degli studi, e chiuso la via d'ogni agiatezza, confidano nell'opera della gioventù studiosa, sperano che almeno voi studierete spassionatamente la loro causa; e a questo noi v'esorteremmo del pari, quand'anche dalle vostre meditazioni doveste esser condotti a una fede opposta alla nostra, poichè noi pure, come quel focoso flagellatore dell'«Indifferenza religiosa», preferiamo gli avversari dichiarati che, combattendoci, soffiano nel nostro ardore, agli indifferenti che rifiutano di combattere; davanti ai quali ci cadono le armi dal pugno e gli entusiasmi dal cuore. Occupatevi della quistione fin d'ora, perchè in nessun modo riuscirete a scansarla nell'avvenire, qualunque campo d'azione siate per scegliere; perchè essa vi si leverà davanti negli studi solitari, nell'esercizio della professione, nell'educazione dei figlioli, nell'adempimento d'ogni vostro ufficio di cittadini; perchè essa s'attraversa oramai a tutti i passi della vita e s'affaccia a tutti gli sbocchi dell'intelligenza; perchè tutte le questioni di politica europea, e le lotte dei partiti parlamentari, e le splendide feste delle arti e delle industrie, e le grandi solennità patriottiche, e perfin le guerre internazionali, non son che episodi della storia, che la nascondono per brevi spazi di tempo; passati i quali essa riappare all'orizzonte, altissima, immobile, eterna, come la piramide di Cheope quando cade il vento del Sahara e il turbinìo delle arene si queta.

Non dovrei ribatter nemmeno coloro che vi consigliano di lasciar da un lato la quistione sociale dicendovi che essa riguarda una classe sola, o certe classi, non la vostra; perchè son certo che voi non siete tanto sdegnati dell'egoismo miserabile di quest'argomento quanto mossi a pietà dall'insensatezza di chi considera come una parte trascurabile della società la parte di lei più importante per il suo numero, più necessaria per la sua funzione, più benemerita per le sue fatiche; quella senza di cui la nazione non ha fondamento, la patria non ha difesa, e il mondo non ha nè vesti, nè tetto, nè utensili, nè pane. Ma l'argomento, pure intrinsecamente è falso. La quistione sociale abbraccia ormai tutte le classi poichè anche le classi medie, sebbene con minore intensità, per ora, e con effetti meno visibilmente dolorosi, risentono già tutti i danni di cui le inferiori si lagnano. Vi è già una gran parte della borghesia per cui l'esistenza non è meno minacciosamente precaria che per le classi chiamate con maggior proprietà lavoratrici; vi sono in tutti i campi del commercio e dell'industria le mezze fortune oppresse nella lotta disperata con le grandi; vi è un popolo di possidenti che mendica; v'è una concorrenza di cento paria per ogni stipendio che basti appena alla vita; vi sono migliaia di giovani d'ingegno e di studio a cui non è possibile di guadagnare quanto un bracciante prima dei trent'anni; v'è la vecchiezza pensionata che disputa il posto alla gioventù esordiente, la donna che lo contende all'uomo, l'uomo che lo contrasta al ragazzo; v'è una tal ressa di naufraghi intorno a ogni trave galleggiante, che quando uno per negligenza o per forza lascia andare la sua, non gli resta quasi più speranza d'afferrarne un'altra, e annega le più volte nella miseria. Il posto umilissimo che, per l'inferiorità forzata della sua educazione e per la falsità vanitosa della nostra, è assegnato nella società al lavoratore manuale, la cui opera si onora in astratto e si disprezza impersonata, e la scarsa e mutevole e spesso umiliante mercede con cui quell'opera è retribuita avendo per effetto che tutti rifuggano o cerchino d'uscire in qualunque modo dalla bolgia delle classi inferiori, ne segue che s'abbia un eccesso di produzione anche nel campo dell'intelligenza, che vi sia una sovrabbondanza enorme di gioventù colta alla quale la coltura non serve a nulla come l'oro all'affamato in mezzo al deserto, un esercito di riserva intellettuale, che, come quello della classe operaia, offre il suo lavoro in ribasso, e accetta ogni condizione di vita, e non trova a vivere nemmeno accettando ogni condizione. E il torrente ingrossa ogni giorno, e la piena è giunta per tutto a tal segno, che fin nel paese che deve alla sua grande coltura la supremazia politica e militare in Europa, si vede costretto il Governo a rifiutare il suo consenso alla fondazione di nuovi istituti d'insegnamento, perchè quelli che esistono sono già esuberanti al bisogno che ha la società di candidati. Lasciate ora che alle donne, poichè v'è anche per esse una quistione sociale, si schiudano tutte le vie, come accadrà per forza invincibile delle cose; supponete che si compia il voto del cor di tutti, d'un dimezzamento degli eserciti, che getterebbe nella concorrenza altre migliaia di giovani, i quali, per l'indole della loro educazione e per i pregiudizi connaturati allo stato presente della società, rifuggirebbero dal lavoro meccanico; e s'avrà allora un proletariato borghese non meno temibile, benchè men numeroso, anzi più potente e più attivo perchè più colto, di quel della plebe. Ma egli è già tale, e non più legato che da un così tenue vincolo di tradizione e d'interesse con la classe superiore, che è diventato in qualche paese una delle forze più vive del socialismo, un focolare spaurevole di malcontento e di ribellione acceso nel seno stesso della borghesia. Che se per ora, e fra noi specialmente, si fa meno avvertire, perchè è sparso e dubitante e perchè, trovandosi i suoi elementi in più diretta dipendenza dai privilegiati della fortuna, corrono maggior pericolo d'esser segnati e buttati sul lastrico, lasciate che scemino i suoi timori e ingrandiscano le sue speranze con l'allargarsi del socialismo nella moltitudine, nel parlamento e nella stampa, e vedrete come leverà il grido delle rivendicazioni, senza che gli si possa negare il diritto di levarlo. Non date dunque ascolto a chi vi dice che la quistione sociale non è che una quistione operaia ed agricola: il che sarebbe già qualche cosa, mi sembra; no, è la quistione di tutti, fuorchè di un pugno di ciechi e di sordi.

Altri vi dicono:—A che pro occuparvi della quistione sociale? Essa è antica come il mondo. Non mutano che i nomi: invece di schiavi, servi; invece di servi, salariati; i vinti della lotta darwiniana hanno sempre empito il mondo delle loro querele. Il socialismo rimarrà nello stato permanente di spauracchio e di freno all'individualismo prevaricatore, e sarà bene; ma null'altro. La miseria del maggior numero, come disse il Thiers, è nel piano della Provvidenza.—Domandate prima di tutto a costoro se la Provvidenza abbia mai fatto vedere al Thiers o ad altri il suo piano. Quanto alla teoria del Darwin, contentiamoci di domandare se le leggi della lotta fra le razze inferiori s'abbiano da riferire all'umanità, nella quale i vinti, che invece di sparire, si moltiplicano, non avrebbero che da unirsi, e lo possono, perchè i vincitori svaniscano come un nuvolo di polvere nell'uragano. Dicono:—la quistione è antica quanto il mondo.—E sia concesso. Ma quel che non è antico quanto il mondo è il grado a cui è pervenuto lo svolgimento del principio dell'uguaglianza, che è il fatto più generale, più costante, più ribelle a ogni umana opposizione che si conosca nella storia. Quel che non è antico come il mondo è la coscienza acquisita dell'uguaglianza civile e politica, che fanno sentire più profondamente che mai le disuguaglianze economiche; è la cultura maggiore che acuisce nelle moltitudini tutti i patimenti dell'animo derivanti, dallo spettacolo delle troppo grandi disparità delle classi; è la __miseria relativa__ smisuratamente cresciuta col moltiplicarsi delle ricchezze e dei raffinamenti sensuali della vita in un piccolo numero; è il decadimento progressivo di quello spirito religioso di rassegnazione che faceva sopportare i mali presenti con la speranza di una ricompensa futura; è, infine, un clero di tutte le chiese che, sollecitando delle riforme sociali, ossia riconoscendo che ai mali della terra c'è rimedio, fa comprendere agli sfortunati, se non con le parole, col fatto, che non si può pretendere da loro l'antica rassegnazione.

Sì, la quistione sociale sarà antica come il mondo. Ma quello che è nuovo è la gigantesca potenza accumulatasi con l'oro in mano di cittadini privati, che s'alzano come sovrani in mezzo a popoli liberi, che posseggono parti della loro patria vaste come Stati, che tengon nella propria borsa la sorte di centinaia di migliaia d'uomini, che possono turbare a vantaggio proprio gl'interessi d'un'intera nazione e corrompere scopertamente moltitudini e poteri. Quello che è nuovo è che di fronte a questi monarchi della ricchezza, e alle loro strapotenti federazioni, che allargano intorno a sè come una landa sinistra la servitù morale e il salariato, siano sorte delle società di settecento mila lavoratori, delle «Unioni di mestieri» numerose come popoli e organate come eserciti, che in tutte le città dei paesi civili, chiamati a raccolta dalla grande industria, si vadano agglomerando i proletari in battaglioni e in reggimenti, che s'intendono, si disciplinano, e s'affratellano. Quello che è nuovo pure è che si raccolgano congressi operai ai quali intervengono i delegati di diciannove nazioni, rappresentanti cinque milioni di lavoratori; che vi sian paesi dove venti città si dichiarino in favore del «socializzamento» della terra; che nel paese più colto e più potente d'Europa si mandino al Parlamento quaranta campioni della nuova idea, con maggior numero di voti che non ne raccolga alcun altro partito della nazione; quello che è nuovo è un accordo internazionale di agitatori che con una parola d'ordine lanciata da Parigi a Sidney e da Berlino a Nuova York fa nello stesso giorno dell'anno disertar gli opifici a nove milioni di operai, e vegliare sull'armi dieci eserciti come sotto l'imminenza d'uno sfacelo degli Stati. Quello che è nuovo affatto è che si spandano ogni giorno, da mille città, verso ogni parte, su tutta la faccia della terra, milioni di fogli parlanti, che predicano una speranza comune e soffiano in una sola passione, e s'accumulano nelle soffitte e nei tuguri come una provvigione di polvere da guerra. Ed è un'altra cosa nuova, che migliaia di poveri lavoratori d'ogni paese, finite le loro dieci ore di lavoro estenuante, si assoggettino la sera a una nuova fatica per istruirsi nelle quistioni sociali, si strappino il pane dalla bocca per sostenere il giornale che li protegge, e consacrino gli ultimi resti delle proprie forze alla propaganda delle loro idee e all'ordinamento del loro partito, e perdurino in questa opera con una febbre di passione, che ne conduce molti alla fossa. E non è men nuovo nè men grave che questa gran moltitudine incolta e ribollente abbia e sappia d'avere alla sua testa uno stato maggiore intrepido d'uomini di studio e d'uomini di Stato, di vessilliferi di ogni scienza e di ogni arte, che propugnano la loro causa in tutte le regioni del pensiero e in tutte le congiunture della vita. Infine, la quistione sociale sarà antica quanto il mondo; ma quello che è tutto proprio del tempo nostro, credo io, e che non fu nemmeno negli ultimi anni che precedettero la rivoluzione francese, nei quali le classi minacciate andavano incontro all'avvenire con una quasi balda spensieratezza, è questo turbamento che tutti risentiamo, qualunque sia il nostro grado di fortuna, qualunque siano le nostre idee sociologiche, davanti allo stato attuale delle cose; è questa scontentezza della ragione e del cuore, è questa lotta sorda e continua fra la nostra coscienza di cittadini e il nostro interesse di privati, è questo sentimento confuso di colpa, è questo presentimento vago di qualche cosa di grande e di fatale, che ci fa guardare intorno con occhio inquieto come viaggiatori senza guida che s'avanzino alla ventura per una terra sconosciuta.

V'è pure chi cerca di stornarvi da questo pensiero affermando che non bisogna lasciarsi illudere da certe scosse improvvise e solitarie, dalle apparenze ingrandite ad arte di certi avvenimenti; che, in realtà, il movimento è lentissimo e intralciato da discordie inconciliabili, che ha periodi lunghi di sosta, e che non saranno neppure i figli dei nostri figli che vedranno la società in grave pericolo.—Non credete nemmeno a costoro. Sotto le maggiori apparenze di quiete, anzi più sotto queste, il movimento procede con una celerità non sperata neanche da chi lo seconda. Il socialismo germanico fece i suoi più rapidi passi nel periodo delle leggi eccezionali, da cui pareva stato strozzato. La maggior parte delle sue conquiste è silenziosa, ed è la loro continuità medesima che, come quella della cresciuta di un fiume, non ci consente di seguirne con l'occhio la progressione. Dalla parte dov'è combattuto, all'ira ch'era stata preceduta dal dileggio, è susseguita ora una discussione universale e quasi continua, nella quale ai colti paladini della borghesia accade assai sovente, con loro grande stupore, di trovarsi davanti degli avversari d'officina, che in quistioni economiche di propria spettanza non sono men forti di loro. A poco a poco il socialismo invade il giornale, il libro, il teatro, penetra nelle accademie dei dotti e nei gabinetti dei monarchi, si rizza sui pergami, assalta l'una dopo l'altra le cattedre; le quali in più d'uno Stato, con maggiore o minor restrizione di idee, sono in massima parte già sue. Si può quasi asserire che meno rapidamente egli si diffonde alla superficie di quanto si propaghi dal basso all'alto. Nella vasta polemica scientifica ch'egli promove su tutte le quistioni che gli si legano, e gli si legano tutte, ogni giorno strappa agli avversari una concessione, disarma una resistenza, fa accettare un'idea. Ogni giorno, nell'esercito formidabile che gli sta a fronte, nel campo della politica, della scienza e delle lettere, un combattente s'arresta incerto, o butta via le armi, o le ritorce contro i suoi; e molti che continuano a combattere si sentono già spuntare nell'anima l'amor del nemico, e hanno già la diserzione nel cuore, e non la compiono se non per ragioni di personale interesse, o per timori e per riguardi sociali, o perchè non hanno fede che in un trionfo troppo lontano della causa che credon giusta. E di questo vacillamento e rimescolìo di coscienze si vedon mille segni ed effetti per tutta la scala della cittadinanza, dal maestro di scuola impacciato a dar ragione alla fanciullezza di tante mostruose anomalie sociali che non si possono più palliare coi sofismi antichi, al giudice che non sa più troncare in bocca all'accusato volgare la dichiarazione di principii che lesse egli medesimo nel libro d'un senatore del Regno, fino allo scrittore borghese che non può più scrivere pel popolo senza girare con artifici infiniti intorno alla grande quistione che gli si presenta inevitabile e molesta a ogni passo, scompigliandogli nella mente tutta la sua vecchia precettistica morale e patriottica, fino ai grandi predicatori dell'igiene pubblica, fino agli amministratori ufficiali dell'istruzione popolare, che dubitano e si scoraggiano vedendo l'opera loro urtare da ogni parte ed infrangersi contro la ferrea barriera della miseria e contro l'architettura stessa degli ordinamenti sociali. La resistenza alle nuove idee si riduce sempre più dal campo delle coscienze in quello degli interessi; per il che può ben essere ancora risoluta e tenace e terribile; ma non ha più per sè le grandi e belle passioni, davanti alle quali la furia degli avversari dubita qualche volta e s'allenta. Ond'è che gli assalitori che andavano ieri col passo di marcia, vanno oggi col passo di carica, e andranno di corsa domani. E non è da credere che gli impediscano gran fatto i dissensi e le divisioni che turbano le loro file. Come,—secondo il detto di un di loro,—tutte le teorie e concezioni diverse del socialismo, dal socialismo di stato del professore tedesco al comunismo pastorale del romanziere russo, viste dall'alto, non appaiono in antagonia fra di loro, ma si mostrano come i piani graduali di un vastissimo panorama, o meglio come le forme successive, le attuazioni o i tentativi di attuazione a mano a mano più larghi e compiuti d'una stessa idea; così nell'ordine dell'azione, fautori del collettivismo, apostoli della società senza Stato, ministri socialisti della chiesa cattolica e delle chiese protestanti, benchè proponendo riforme diverse e arrestandosi a diverse mete, poichè son tutti quasi concordi, e quasi violenti del pari nella critica del presente, concorrono tutti, volenti o no, ad uno stesso effetto finale, tutti apparecchiano e spingon le moltitudini alla grande evoluzione, tutti, o levino in alto il libro del Marx o la Bibbia, o la fiaccola, tutti lavorano ad allargare e ad accelerare un moto, di cui non si riscontra l'eguale—per dirla con le parole del più autorevole giornale dell'Inghilterra—se non risalendo ai primi tempi del Cristianesimo o a quelli dello sconvolgimento dello impero romano.

Altri, pure riconoscendo l'importanza del movimento socialista in Europa, vi dicono:—Non ve ne date pensiero perchè il nostro paese ne è fuori,—e ripetono la sentenza pronunziata l'anno scorso alla Camera da un illustre pensatore, a parer del quale, per ragion dell'indole e delle condizioni proprie del popolo italiano, ci vorranno più secoli prima che il socialismo metta larghe radici fra di noi.—Non credete neppure a costoro. Come se intorno all'Italia ci fosse la gran muraglia del Celeste Impero, come se il socialismo dottrinale e popolare che ci venne tutto in questi ultimi anni dal di fuori non dovesse continuare a discendere per le stesse vie per le quali è entrato! Sarà vero che la quistione sociale in Italia sia agraria principalmente, come tra i nostri fratelli latini d'occidente, e che anche sotto questo aspetto, per la costituzione particolare del nostro suolo, essa non sia della natura medesima che in altri paesi; ma non scema l'importanza e l'urgenza della quistione per la singolarità della sua natura. Certo v'è terreno men preparato al socialismo fra noi, perchè v'è più bassa che altrove la coltura del popolo, perchè v'è appena nascente la grande industria, perchè in più di mezzo il paese, come gli stessi socialisti riconoscono, il ceto operaio come ente collettivo non è ancor nato, e nell'altra metà è nato appena. Ma non dobbiamo credere che non esista l'esercito perchè, invece di esser serrato in colonne, è sparso in tiragliatori, nè che mancanza d'organamento voglia dir mancanza d'elementi, nè che non vi sian le passioni perchè mancano o sono informi le idee. E in questo appunto, per chi ben considera, dovrebbero riconoscer gli illusi il maggior pericolo. Le verità generali d'ordine sociale e economiche—è un vecchio assioma—si ritrovano allo stato di intuizione istintiva anche nell'animo dei più incolti, e però anche la parte più incolta del proletariato italiano, confusamente, le intende. Senonchè le idee—come dice un grande psicologo—seminate in menti incolte e feconde si svolgono in escrescenze selvagge e si trasformano in chimere mostruose; che è quel che avviene fra noi dove è tanto maggior temerità di dottrine quanto minor capacità vera di metter in atto anche le più ragionevoli. In luogo di rallegrarci, dunque, dell'ignoranza e della mancanza d'ordinamento collettivo che rallentano il moto fra noi, avremmo gran ragione di dolercene, poichè è appunto quest'ignoranza e questo disordine che fa le moltitudini impazienti e turbolente, come quelle in cui il furore dei desideri non è temperato dalla coscienza sicura delle proprie forze e del proprio avvenire, nè dalla soddisfazione che hanno i ceti operai d'altri paesi di sentire la saldezza del proprio organesimo e di numerare giorno per giorno i loro progressi e le loro vittorie, donde ricavan la virtù di aspettare con pacatezza e di apparecchiarsi con raccoglimento. È perchè là son colti e ordinati che studiano e discutono; è perchè studiano e discutono che vedono tutte le difficoltà del problema sociale e non credono che si possa risolvere d'un colpo. Ed è perchè le classi superiori non oppongon loro, come tra noi, o un'indifferenza o una negazione assoluta, l'una e l'altra insensata, ed entrambi irritanti, che non trascorrono e neppure minaccian di trascorrere alla violenza.

In verità, se anche fossi nei panni del più egoista e del più pauroso dei conservatori, io desidererei che le nostre classi proletarie, percorrendo il cammino di trent'anni in un solo, arrivassero d'un tratto al grado di maturità civile che hanno raggiunto nella Germania e nel Belgio; lo desidererei per esser ben certo che questo spostamento, che è col tempo inevitabile, del centro di gravità del sistema sociale dalle classi medie alle inferiori, si compisse senza scosse funeste. Io vorrei esser persuaso d'ogni più sacra verità come sono di questa: che compie un'opera santa e benefica per tutti ogni colto giovine italiano, il quale, qualunque sia il suo giudizio intorno all'essenza e all'avvenire del socialismo, ne studia con amore le cause, le dottrine e le vicende per poterle esporre con schiettezza al popolo e fargliele comprendere e discuterle con lui e sfrondargli le illusioni pericolose ed eccitarlo, aiutarlo a istruirsi, a ordinarsi, a mettersi in grado di attuare sensatamente, quando il giorno verrà, la maggior parte possibile delle sue aspirazioni. Per questo, invece di dirvi:—Lasciate stare la quistione sociale perchè siete italiani,—vi dico:—Occupatevene tanto più perchè siete italiani—fate quanto è in voi perchè il vostro popolo non rimanga troppo addietro degli altri su questa via, se volete che, quando vegga gli altri vicini alla meta, non sia tentato di raggiungerli con uno sbalzo che lo potrebbe travolgere in un precipizio, nel quale sareste travolti voi pure. Mettetevi alla sua testa e ai suoi fianchi invece di sbarrargli la strada o di lasciarlo andar solo, come l'istinto e il caso lo movono. Tempo verrà in cui sarete ringraziati e benedetti da coloro stessi che ora vi supplicano o vi minacciano perchè vi tiriate in disparte. Son tutti concordi nell'eccitarvi ad amare e a servir la patria. Ebbene, l'amerete e la servirete sapientemente in tal modo. Perchè la patria non è soltanto la terra, la storia e la bandiera: la patria è viscere e sangue umano, e la felicità del popolo sta sopra alla potenza dello Stato, e la giustizia è più grande della gloria.

V'è poi il coro dei mille, i quali vi gridano:—Passate oltre: la guarigione delle infermità sociali è un'utopia.—Ma non l'ha dunque ancora sfatato la storia del mondo questo grido malauguroso, tante volte sbugiardato quante son le pietre miliari del cammino della civiltà, questa vuota parola così comoda alla infingardaggine intellettuale, così utile agli interessi minacciati, così abusata da tutte le ignoranze e da tutte le paure, con la quale si sono vilipese, beffate, respinte tutte le conquiste più gloriose della mente umana?

Voi tutti vi ricordate la notte tempestosa dell'«Innominato», quando sul punto di bruciarsi le cervella con un colpo di pistola per liberarsi dai rimorsi che lo dilaniano, egli domanda a sè stesso:—E se quest'altra vita di cui m'hanno parlato quand'ero ragazzo, di cui parlano sempre come se fosse cosa sicura, se quest'altra vita, non c'è, se è un'invenzione dei preti; che fo io? perchè morire? che cos'importa quello che ho fatto?… È una pazzia la mia!—Ma allora gli balena un pensiero tremendo:—E se c'è quest'altra vita!—Voi rammentate pure che cosa avviene a quel dubbio nell'anima sua.—Ebbene, un che di simile segue nell'anima di chi è agitato dalla nuova idea. Egli si domanda:—E se questa possibilità, che tanti affermano come sicura, di scemare i dolori del mondo, di far trionfare tra gli uomini la fraternità e la giustizia, se questa idea è un'utopia, un sogno di filantropi allucinati, se avesse ragione quel famoso parroco inglese che fissò il destino dell'umanità tra due formole matematiche, che cosa importa allora quello ch'io faccia? Perchè ho da combattere i privilegi di cui godo, da rendermi inviso alla classe in cui son nato, da torturarmi il cuore e il cervello per mali che non hanno rimedio, invece di badare ai miei interessi e di viver beato?… È una pazzia la mia!—Ma a questo punto balena anche a lui un altro pensiero.—E se non fosse un'utopia?—ed egli pure, a questo pensiero, è stretto da un senso di sgomento. Sì, e se non fosse un'utopia?—Utopia si può giudicare ogni idea che non abbia ancor avuto la prova dell'attuazione, e quale grande idea sociale fu mai provata prima che accettata? E la concordia di molti nel crederla attuabile non è una delle prime condizioni dell'attuabilità d'ogni idea? Sì, e se a questo organamento sociale che spreme la ricchezza per uno dalle vene e dalle ossa di mille, che condanna milioni d'uomini a un lavoro da bruti, non confortato da alcuna dolcezza di vita, da alcun godimento intellettuale, da alcuna speranza di sorte migliore, che smembra milioni di famiglie, che fa di milioni di case un inferno, che sfrutta ed opprime la donna, e decima, corrompe e deforma l'infanzia; se a questo stato di cose che, assoggettando una parte dei lavoratori a una fatica inumana, ne ricaccia nell'ozio forzato e nella fame l'altra parte, metà della quale, dopo aver lottato invano per risalire, cade nella mendicità, nella prostituzione e nel delitto; se a questa sciagurata divisione del mondo che, provocando di sotto l'odio e di sopra il terrore, fa somigliare la società civile a un triste castello dell'età media, dove la famiglia dei signori, seduta a banchetto, rabbrividisce al suono dei singhiozzi e delle imprecazioni dei prigionieri sepolti sotto i suoi piedi; se a questo mucchio d'orrori ci fosse davvero un rimedio, che uomo sarei io che non me ne curo, che non cerco di giovare quanto posso a scemarlo, che anzi concorro, pur non volendo, ad accrescerlo, e voglio fabbricarvi su la mia fortuna? Con che fronte posso io parlare di progresso, di civiltà, di fratellanza, di patria? E quand'anche fosse un'utopia il rinnovamento della società che ci propongono, quando non ci fosse che una minima parte di idee sane e di speranze fondate, non dovrei dedicare ogni mia forza a far sì che almeno quella minima parte s'attuasse? Utopia! S'è spenta pochi giorni sono quella menta vasta e limpida d'economista, che, or fa trent'anni, metteva il mondo a rumore con quella sua sentenza:—Il diritto di proprietà si modificherà nel senso sociale, o si sfascierà il consorzio civile.—È stato sepolto ieri quel generoso cardinale Manning che disse non potersi andare innanzi sulla via della vendita abusiva della forza e dell'attività umana, sulla via che dei fanciulli e delle madri fa delle macchine viventi, e delle spose e dei padri delle bestie da soma.—Riposa poco lontano di qui il grande statista italiano che ci profetò la guerra civile se non si migliorassero le sorti delle classi inferiori; onde è credibile che ei non stimasse quell'intento una follia. E vivo ancora e soggiorna fra noi quel venerando ministro d'Inghilterra che disse ai lavoratori:—Voi sarete presto i padroni del mondo.—E son menti elette e potenti d'ogni razza che studiano i mali e i rimedi, che affrontano da tutti i lati il problema, e cercano ad uno ad uno gli organi vitali della società nuova, con una costanza maravigliosa e una fede invitta. Oh vediamo un poco se l'ordinamento della società, che s'è andato mutando così profondamente a traverso ai secoli, abbia raggiunto davvero una tal perfezione, che debba dare un fermo alla storia, che non si possa più correggere o mutare in alcuna sua parte essenziale, senza fare il peggio anche del maggior numero, a cui riesce intollerabile ancora. L'affermazione, se non alttro, è ardita. Vediamo un po' col giudizio nostro se quello che ci propongono è veramente un'utopia!

Per questo io vi ripeto, concludendo:—Occupatevi voi pure, quanto i vostri studi ve lo consentono, della quistione sociale.

A quelli di voi che non si sono ancora affacciati alla nuova letteratura (già ricchissima e svariatissima) o per mitezza d'animo che rifugge dai cimenti della coscienza, o per il falso concetto, diffuso da quelli a cui giova, che le idee socialistiche sian proprie per essenza loro delle nature acri e violente o di gente invelenita dalla mala fortuna, io dico:—Entratevi anche per poco, non v'arrestate davanti alla sua parte arida o volgare, irta di cifre o gonfia di rettorica, procedete oltre le sue lacune nebbiose, e vedrete quante anime nobili e belle vi si son consacrate; quanti fortunati del mondo ne sono i più ardenti cavalieri; quante pagine forti e splendide di pensiero, quante altre riboccanti di pietà e di amore e di tutti gli affetti più delicati e più santi essa conta già fra le sue; e vi troverete pure delle rivelazioni di miserie che ignoravate e che vinceranno ogni vostra idea, ed esempi di virtù e d'eroismo che vi strapperanno un grido d'ammirazione, e raggi sublimi di speranza, e sogni fors'anche, ma così vasti e luminosi che tutta l'anima vostra ne uscirà abbagliata e commossa come da una visione dell'umanità ideale di Cristo.

Dico a quelli di voi che, essendosi già affacciati a questi studi, ne hanno respinto alla prima le conclusioni:—Diffidate di voi stessi, fate ancora uno sforzo per proseguire, per sciogliervi dai pregiudizi fra cui voi ed io siamo nati, dalle idee che ci furono inculcate con l'educazione, e dalla suggestione delle consuetudini della vita che sono più forti delle idee; fate ancora uno sforzo per correggervi di quel nostro difetto congenito all'organo visivo dell'intelligenza, il quale ci fa apparire il mondo di scorcio, atteggiato in modo che gli interessi intellettuali e materiali della nostra classe ci si presentano come gli interessi della società tutta quanta; fate ancora per poco questo sforzo, che è di tutti il più difficile, poichè si tratta d'uscir da noi stessi, e di tutti il più fecondo, poichè, a chi lo compie, si mostra ogni cosa sotto un aspetto nuovissimo, e gli par di ricominciare la vita dello spirito e di avanzarsi in un mondo ignorato. E se, fatto quest'ultimo sforzo, rimanete fermi nelle prime idee, palesatele e lottate per esse a viso aperto, perchè nella grande battaglia sarete più rispettati e più utili come nemici appassionati che come scettici spettatori; e non scendete mai nello sciame innumerevole dei farisei, che strisciano chi è in alto per ambizione e adulano chi è in basso per paura, che commiserando con finto affetto la plebe che disprezzano, con una mano si picchiano il petto e con l'altra nascondon la borsa, per chiederle poi dei voti con tutte e due.

A quelli di voi, finalmente, il cui cuore è già vinto e batte col mio, io mando il saluto del compagno e il bacio del fratello, e dico:—Perseverate, o prediletti, anche nel campo più faticoso, nella parte rigidamente economica di questi studi, perchè il periodo idillico del socialismo è chiuso da un pezzo, perchè esso è giunto a tal grado di maturità, che non basta più il portargli il semplice contributo della passione: dovere di tutti ora è di tradurre i sentimenti in idee, di rispondere ad ogni lamento del popolo con una ricerca alacre e paziente dell'intelletto. E andate innanzi senza alcun fine, senza attender nè sperar alcuna gratitudine, non cercando il premio che nella soddisfazione altissima di operare secondo coscienza, di non aver più bisogno di mentire, nè di soffocar la voce dell'anima, nè di mascherar l'egoismo; il che vi riuscirà assai più facile che non pensiate, perchè la grande quistione sociale, la quale tocca tutte le scienze come l'oceano bacia tutte le terre, ha pure questo di benefico, che schiaccia col peso della sua grandezza, che offusca con la forza del suo splendore ogni meschina vanità, ogni basso interesse di colui che le si consacra. Comprendendola degnamente, voi abbraccerete nel vostro affetto fiammeggiante non soltanto le classi sociali che più lo meritano e più n'han bisogno, ma pure la vostra, per la quale v'entrerà nel cuore una sollecitudine nuova e profonda; sentirete sorgere in voi attitudini e forze sconosciute; sentirete nel vostro ingegno e nel vostro petto dilatati fremere il soffio dell'umanità, come il palpito d'una seconda giovinezza, più poderosa e più dolce di quella che già vi ferve nel sangue e vi splende sul viso.

Voi conoscete l'immaginazione terribile del Carlyle, che raffigura il mondo presente in una landa selvaggia e caotica, coperta di nebbie pestilenti, gravata d'un'atmosfera di piombo, nella quale scrosciano diluvi e guizzano lampi di rivoluzione, e per le vaste tenebre non luccicano che le fosforescenze della filantropia, e non v'è più stelle nel cielo. Ebbene, manca un'immagine al quadro: una moltitudine che empie tutto l'orizzonte, estenuata e lacera, rivolta tutta verso un punto dove biancheggia il cielo, con le braccia stese a invocare il nuovo sole, il sole che le asciughi le lagrime, che le riscaldi le membra, che le abbellisca la terra, che le faccia amare la vita. Oh, questo sole splenderà, abbiamone fede! Possiate voi, che siete giovani, vederlo sorgere, e felici quelli che, salutando il suo primo raggio, potranno dire nella propria coscienza:—Io l'ho desiderato ed atteso!

Torino 1892.

IV.

Per il 1.º Maggio.

AGLI OPERAI.

Ringrazio l'Associazione generale dell'invito onorevole che m'ha rivolto, e mi affretto a dire che, accettandolo, ho compreso l'intento a cui era ispirato e il dovere che quell'invito m'imponeva. Ho compreso che questa grande Associazione, la quale non ha carattere politico, ed è composta di operai d'opinioni e di tendenze diverse, intendeva di esprimere il suo consenso, in questo giorno, a quel che v'è di comune nelle aspirazioni di tutti i lavoratori, a qualunque partito appartengano; e che perciò, nel commemorare qui il 1.º Maggio,—pure dichiarando e spiegando la mia ferma fede socialista, condizione sottintesa della mia accettazione,—avrei dovuto, non solo non offendere in alcun modo gli uditori d'opinione contraria, ma mantener l'animo a un'altezza, così serena, esporre il mio pensiero con parola così cauta e pacata, da render accetto il mio modesto discorso anche a coloro che avessero giudicato inopportuno l'invito di cui ero onorato.

Parlare serenamente! Non mi costerà alcuno sforzo, lo potete credere. Come si può aver l'animo inclinato alla violenza e al rancore in un giorno di festa? Tale, infatti, è oramai il 1.º Maggio. Festa singolare, non di meno, che desta tanti pensieri, tanti sentimenti diversi ed opposti! Pochi anni sono, prima che il Congresso internazionale dei lavoratori, tenutosi a Parigi nell'89, accettando la deliberazione già presa dalla «Federazione americana del lavoro» nel Congresso di San Luigi, fissasse alla data del 1.º Maggio la grande manifestazione per la giornata d'otto ore, ognuno, svegliandosi in questo giorno, rivolgeva la mente, come sempre, ai propri affari quotidiani: era questo un giorno come gli altri per tutti. Ora, non v'è più cittadino di paese civile, a qualunque classe o condizione sociale appartenga, il quale, aprendo gli occhi la mattina del 1.º Maggio, non volga i suoi pensieri sul nuovo significato che questa data ha assunto nel mondo.

Sono, in milioni d'uomini, pensieri d'allegrezza e di speranza; sono, in altri milioni, pensieri inquieti e tristi; è, in molti ancora, un sentimento irragionevole di terrore; è, anche negli spiriti più leggieri e più scettici, questo pensiero: che v'ha in tutti i paesi una quistione, più importante d'ogni avvenimento politico, la quale abbraccia tutti gli interessi dello Stato e degli individui, e che può a quando a quando e per varie cause esser dimenticata, mascherata, sopita; ma che incessantemente, fatalmente, anno per anno, giorno per giorno, si dilata, s'inalza, soverchia ogni altra quistione, attira a sè tutti gli sguardi e tutte le menti come un grande fenomeno della natura. Ed è già questo un effetto benefico, che nessun lavoratore può disconoscere, della festa del 1.° Maggio. E noi più che gli altri siamo indotti a meditare, noi che abbiamo una visione più larga e più netta di quello che accade in questo giorno sulla faccia della terra. Noi pensiamo che in quest'ora stessa, in centinaia di città, in villaggi innumerevoli, altre migliaia d'oratori stanno dicendo, in dieci lingue diverse, ad altre migliaia d'adunanze come questa, le stesse cose ch'io sto per dire a voi; noi vediamo nei grandi sobborghi di Berlino, di Parigi e di Bruxelles, nell'Hyde-Park a Londra, nel Prater a Vienna, nel Buen Retiro a Madrid, nel parco Cismigiu a Bucarest, nello square dell'Unione a Nuova York, nelle vaste piazze delle nuove città dell'Australia, dove il 1.° Maggio è già una festa ufficiale in più Stati, vediamo per tutto legioni di lavoratori, che in forma d'assemblee, di processioni, di cortei simbolici, di feste campestri e di canti solenni esprimono tutti una sola idea e una sola speranza; e a questa visione ci si commove l'anima come davanti a uno degli spettacoli più maravigliosi di cui ci dia esempio la storia.

E quale anima potrebbe rimaner chiusa e fredda all'udir le parole che s'alzano da quei milioni di cuori?—Sia affrancato e onorato il lavoro e diventi una legge per tutti—Siano confederati gli uomini nella lotta contro la natura e abbia tregua la lotta feroce per l'esistenza fra uomo e uomo—Cadano le barriere che dividono ogni nazione in due popoli, e si diffondano egualmente nelle moltitudini, come la luce nell'aria, i benefizi della civiltà, che sono frutto dell'opera comune—Cessi lo spargimento del sangue, cessino gli odi fra le nazioni, perchè l'ultima meta di tutte è una sola, e occorrono a raggiungerla gli sforzi concordi della razza umana.—Belle e sante utopie!—ci rispondono,—e la prova che sono utopie è che sono antiche quanto la vita sociale e non sono ancora diventate realtà.—Ah! v'ingannate. Erano aspirazioni solitarie degli umili, erano aspirazioni sparse e divise, che assumevano nelle menti incolte forme indeterminate o mostruose, e prendevano forza in una gente quando cadevano oppresse in un'altra; ma ora sono il proposito fermo di moltitudini d'ogni paese, ordinate e alleate, che operano concordemente e ad un tempo: la scienza le formola e le sostiene, le forze che le comprimevano si sfasciano, la coscienza universale le accetta; erano chiarori di lampo che solcavano la notte, e ora sono l'alba che rischiara l'orizzonte; erano soffi di vita che scotevano a quando a quando un'atmosfera morta e ora sono la primavera che risveglia il mondo.

A queste aspirazioni consente, in fondo, chiunque abbia senso d'umanità e di giustizia. Nasce il dissenso quando s'entra a discuterle fino a che punto e in qual forma esse possano tradursi in realtà. Studiando i fenomeni sociali e economici, noi osserviamo l'accentrarsi progressivo delle industrie e delle ricchezze, e il conseguente estendersi del proletariato, il trasformarsi continuo dei mezzi privati di lavoro in mezzi che non possono più essere impiegati che socialmente, l'incremento del principio di cooperazione e dello spirito di solidarietà e d'eguaglianza, e da questi e da altri cento fatti che a questi si collegano deduciamo certe leggi, per forza delle quali crediamo che si verrà necessariamente ad un ordinamento nuovo, in cui, diventati proprietà collettiva della nazione tutti i grandi mezzi di produzione, i membri tutti della società produrranno direttamente per la società medesima; la quale, accentrando i prodotti, li ripartirà equamente fra i lavoratori, in ragione della qualità e della quantità del loro lavoro. I dissenzienti ci dicono di no, affermano che un tale ordinamento non s'attuerà mai, che è impossibile ad attuarsi perchè vi si oppongono altre leggi, che essi ritengono, sopra tutte le trasformazioni sociali, immutabili. Ebbene, noi non stimiamo questa una ragiona sufficiente perchè debba avversare il grande moto della nostra idea chi concorda con noi nella critica della società presente e nel sentimento della necessità d'una riforma fondamentale. Ci pare un errore il combattere il socialismo nel suo disegno compiuto di ricostruzione sociale, invece di considerarlo—come riconosce che si dovrebbe anche un nostro illustre avversario—«nella sua intima ispirazione e nell'obbiettivo generale a cui tende, nel che esso risponde innegabilmente all'evoluzione umana»; nel che, aggiungiamo noi, è riposta la sua vera forza. Noi, sull'ordinamento della società futura, potremmo ragionevolmente rifiutare ogni discussione. E anche in questo ci dànno ragione molti dei nostri più autorevoli avversari. Potremmo rispondere con le parole loro che: «intorno ai fenomeni sociali non sono possibili se non previsioni e predizioni generali: riguardanti cioè l'avviamento e l'andamento generale dei fenomeni stessi, non speciali, particolari, individue». Potremmo domandare, come domandò il Bebel al Reichstag, se, nel dar la mossa alla grande rivoluzione, la borghesia francese poteva prevedere quale sarebbe stata in tutti i particolari la struttura intima della società che ne doveva sorgere. Potremmo dire che il pretender questo da noi è pretender cosa superiore alla potenza della mente umana.—E nondimeno—ci si può rispondere—voi mostrate al mondo, come una bandiera, un programma di ricostruzione sociale compiuta.—Ma questo è logico. Noi abbiamo scritto sulla nostra bandiera un ideale, perchè nessun grande moto sociale è possibile intorno a un programma di riforme circoscritte e parziali; perchè è istinto dell'anima umana, in ogni sua più nobile aspirazione, il mirar più alto e più lontano della possibilità immediata di conseguire il suo fine; perchè soltanto una grande riforma, che oltre ad includere un riordinamento del lavoro e della proprietà, porta con sè un profondo rinnovamento morale, sociale e politico, e abbraccia tutte le quistioni che agitano l'umanità, soltanto l'idea d'una riforma simile può raccogliere intorno a sè le moltitudini e suscitar gli entusiasmi e le forze per combattere la lotta enorme a cui siamo chiamati. Domandiamo dunque ai nostri avversari benevoli:—Perchè non venite con noi, voi che pure volete grandi miglioramenti, poichè la nostra bandiera è la sola intorno a cui si possa raccogliere l'esercito per combattere anche le battaglie minori, per compiere anche le conquiste parziali, da noi volute? Una sola cosa può trattenervi, ed è il timore che la tentata attuazione d'un'idea da voi giudicata inattuabile produca nella società uno sconvolgimento funesto. Ma è un timore infondato. I fatti economici e sociali, che, a nostro giudizio, debbono condurre la società all'ordinamento da noi presagito, noi possiamo assecondarli, ma non farli nascere. Se le leggi che deduciamo da quei fatti sono erronee, il nostro ideale non s'attuerà. Se, giunto il proletariato socialista al potere, non fosse ancora pronta nei suoi elementi la organizzazione nuova che deve sostituirsi all'antica, esso si troverebbe impotente non diciamo a compiere, ma nemmeno a tentare una sostituzione precipitata, e dovrebbe restringersi a una serie di riforme preparatorie e graduali. Noi primi siamo persuasi che una trasformazione economica così profonda non si potrà mai attuare prematuramente e con la violenza. È una verità riconosciuta anche dai nostri più fieri oppositori che «parallelo al presente movimento sociale corre un movimento scientifico e razionale che lo trattiene nella giusta misura e impedisce alla società moderna di precipitare nelle catastrofi che hanno ucciso la civiltà antica».

Vedete dunque—ripetiamo ai nostri avversari trattabili—che quel timore non dovrebbe trattenervi dal venire a noi. Avversando il nostro moto, invece, non per altro che perchè non consentite nel nostro programma ideale, voi ritardate anche il conseguimento delle riforme vostre; voi v'opponete anche alla vittoria di quel nostro programma minimo, che in gran parte approvate, e di cui molte idee—di quelle, in specie, che si riferiscono alla politica sociale dei comuni—sono già attuate o in via d'attuarsi in molte grandi città d'Europa e d'America; voi ingrossate il numero di coloro che respingono, come nel parlamento francese, le più eque, le più logiche imposte, come quella progressiva sul reddito, per la sola ragione che il socialismo le propugna, e che condannano a morte qualunque più benefica riforma dicendo che v'è in essa «un germe di socialismo»; voi, finalmente, perchè credete che non si possa giungere fin dove noi vogliamo andare, voi, che pur volete procedere, v'arrestate all'imboccatura della strada e crescete forza alla schiera di quegli «immobili» che voi stessi condannate; i quali, alla loro volta, proteggono e incoraggiano, pur non volendolo, tutti quegli altri che voltano le spalle all'avvenire e tentano di risuscitare il passato. Dice il senatore Pasquale Villari che non ci saranno più tra poco in Italia che tre partiti: i socialisti, i loro avversari intransigenti, e gli iniziatori audaci di riforme pratiche a vantaggio dei lavoratori. Ma egli mostra di dubitare che questi iniziatori sorgano in tempo. Ebbene, se non sorgeranno, sarà quanto abbiam detto finora ampiamente giustificato e provato, e se sorgeranno, sarà un negare la luce del sole il negare che sia un terror salutare del socialismo, e non altro, che li ha fatti sorgere. Ma sarebbe troppo tardi, temiamo. Per ciò, se anche la nostra ragione ripudiasse la dottrina socialista, noi, con piena e ferma coscienza d'operare il bene, ci raccoglieremo egualmente sotto la nuova bandiera; lo faremmo non foss'altro che per ottenere il primo e necessario risultato della prevalenza delle classi lavoratrici nella rappresentanza legale della nazione. E questo è un punto su cui tutti quei nostri avversari, che desiderano sinceramente un salutare rinnovamento sociale, non possono dissentire da noi, perchè non possono non esser persuasi che fin che gli interessi della classe proletaria non saranno direttamente rappresentati da cittadini appartenenti o legati al proletariato, questi interessi non avranno mai una rappresentanza sincera e feconda; perchè è illogico il pretendere o sperare che una maggioranza di rappresentanti della classe superiore possa consentire a riforme gravemente lesive degli interessi della sua classe; perchè nessuna classe sociale votò mai volontariamente, per puro spirito d'altruismo, la propria decadenza; perchè ogni vantaggio, ogni conquista importante nel campo economico non potrà mai essere che l'opera della classe che n'ha bisogno e che v'ha diritto; perchè siamo in un momento della civiltà umana—ed è un dotto statista conservatore che lo disse,—in cui nessuna classe è difesa dall'altra e bisogna che ciascuna si difenda da sè.—Ora noi vediamo che il socialismo soltanto—lo vediamo in Francia, in Germania e nel Belgio,—è riuscito, dopo tanti anni di regime rappresentativo, a mandare nei Parlamenti una schiera di rappresentanti diretti del proletariato, sufficiente per numero e per unità d'intenti a far sentire l'azione propria sull'andamento della cosa pubblica. Supponete pur dunque che il programma socialista non si possa attuare mai,—ripetiamo ai nostri avversari ragionevoli,—ma il moto socialista produrrà pur sempre l'effetto desiderato di togliere il monopolio del potere alla minoranza,—ostacolo precipuo ad ogni grande progresso sociale—o, se non altro, di mettere in faccia al potere un sindacato potente, che ne moralizzi la funzione, ne stimoli le energie e ne allarghi gli orizzonti. Non fosse che per ottenere questo fine, ripetiamo, se anche noi credessimo un'utopia l'ideale socialista, noi diremmo a chi l'annunzia:—Siamo con voi. In presenza dei fatti, quello che v'è d'utopistico nel vostro programma, cadrà. Ma resterà questo grande fatto compiuto, necessario e benefico: lo spostamento dell'asse sociale da una piccola classe, serrata nel cerchio dei propri interessi, a quella grande maggioranza, i cui interessi si confondono con quelli della nazione.

Ho detto: se anche noi credessimo un'utopia l'ideale socialista…. Non debbono dar luogo a dubbi queste parole. Certo, la persuasione non può essere nella più parte di noi così scientificamente fondata come è in quei molti dei nostri compagni di fede, dotti cultori delle scienze economiche, i quali, profondamente compresi della dottrina marxista, ne hanno dedotto con lunghi studi tutte le conseguenze teoriche e pratiche, trovando a tutte le obiezioni una risposta difficile a confutarsi. Si fonda principalmente la nostra persuasione su questo: che i vizi organici più gravi attribuiti all'ordinamento da noi voluto ci appaiono meno gravi di quelli inerenti all'ordinamento attuale; i quali sono gravi tanto da renderne impossibile, anche a giudizio dei suoi difensori, una lunga durata, senza profonde modificazioni; modificazioni che noi giudichiamo insufficienti a salvarlo. E ci fondiamo anche più saldamente sulla ragione vittoriosa che crediamo di poter opporre a quella che è l'obiezione capitale messaci innanzi da tutti i nostri avversari: l'insufficienza, cioè, del sentimento dell'interesse pubblico a sostituire come stimolo al lavoro il sentimento dell'interesse privato, in quel tanto che questo secondo interesse verrebbe ad essere, in una società collettivista, diminuito. E questa ragione vittoriosa è una verità ammessa in parte dagli avversari medesimi: che in una società in cui tutti fossero obbligati al lavoro, e il lavoratore fosse direttamente interessato alla distribuzione della ricchezza, la repugnanza istintiva al lavoro stesso sarebbe grandemente scemata; e che questa repugnanza scemerebbe ancora (e noi crediamo che si muterebbe in propensione) quando per effetto della cooperazione di tutti, della cessata concorrenza, del riscatto della macchina dalla speculazione privata, fosse ancora del lavoro quotidiano abbreviata la durata e alleggerita la fatica. Ci rispondono che noi esageriamo con l'immaginazione la grandezza di questi effetti. Ma questa è una quistione di fede, sulla quale non giova discutere; di quella fede nella natura umana, senza la quale non si sarebbe mai fatto nè tentato nulla d'ardito e di grande nel mondo, e che basta per sè sola a render possibili molti di quei fatti che sono considerati come sue proprie illusioni. Una prevalenza relativa del sentimento collettivo sull'individuale (della quale, in occasioni straordinarie, si vedono pur tanti esempi anche nella società nostra) noi non dubitiamo che avverrebbe in un ordinamento sociale in cui la sua necessità apparisse evidentissima, come è ora in una piccola associazione, e in cui gli animi non fossero più offesi e scoraggiati dallo spettacolo dell'agiatezza oziosa, delle smisurate disuguaglianze economiche e delle mille ingiustizie e degli infiniti privilegi presenti. Noi attendiamo da un mutamento così grande di cose un mutamento psichico meraviglioso. Ecco il punto da cui nessun ragionamento avversario ci può smovere, il fondamento su cui posiamo il nostro edifizio. Per quali vie, poi, e a traverso a quali vicende si perverrà alla meta che ci par sicura; se il socialismo, continuando a estendersi nel mondo civile, serberà un tipo unico o s'informerà allo spirito e ai bisogni particolari di ciascun popolo; se s'attuerà «mediante una produzione collettiva nazionale, parziale o regionale» diventando il comune trasformato, per esempio, un nuovo e potente organismo economico; o se pure la società, prima di giungere all'ordinamento socialista, passerà per uno stadio cooperativo di grandi associazioni, che andranno scemando di numero, fino a ridursi ad una sola, la quale fonderà insieme i vari sistemi di collettivismo; ed anche «qual criterio misuratore del valore finirà con trovar l'esperienza aiutata dalla scienza, se la durata media del lavoro richiesto o il medio consumo delle forze che esso esige» o altri concetti che non può afferrar per ora la nostra mente, perchè preoccupata e quasi compressa dai fatti presenti; questo noi non possiamo dire, nè altri ci deve chiedere. Quello che è evidente alla nostra ragione, certo nella nostra coscienza è che in fondo a tutte le vie convergenti del progresso economico e del progresso civile sta, inevitabile, l'organismo sociale che è nei nostri voti, ossia: la nazione costituita in una cooperativa gigantesca di produzione, di provvisione e di assistenza.

Questa fede si ravviva in noi in questo giorno, nel quale sogliamo riandar col pensiero l'opera della nostra già vasta famiglia, e rallegrarcene fra di noi, fraternamente. Ciò che ci rallegra non è tanto il duplicato numero dei nostri rappresentanti entrati da due anni nel Parlamento e il numero notevolissimo di quelli che entrarono nelle Amministrazioni comunali, quanto la prova d'altera fermezza data dal nostro partito in un periodo di persecuzione implacabile; durante il quale, su migliaia di nostri compagni tratti in giudizio, non furono che rarissime eccezioni quelli di cui non abbiano attestato la specchiata onoratezza cittadini d'ogni classe sociale e d'ogni parte politica. Quello che ci conforta non è tanto la valorosa costanza con cui il partito tenne viva per tre anni l'agitazione pubblica in favore di una amnistia che era nel desiderio di tutti gli animi onesti, quanto l'esempio di dignità civile dato nelle dimostrazioni di gioia e di affetto ai liberati, non turbate neppur da un principio di quei disordini, il cui timore era servito di pretesto a ritardare un atto di giustizia solenne. E ci compiacciamo non meno che sia venuto dal partito nostro il primo e più forte impulso a una grande manifestazione pubblica contro una politica coloniale forsennata e nefasta, alla quale egli solo—il partito socialista—antiveggente pur troppo,—fu sempre fieramente, implacabilmente nemico. Ma anche più di questo ci è grato l'osservare come le nostre idee, per effetto d'una propaganda razionale, si vadano sempre più chiarendo e ordinando anche nella mente dei meno colti lavoratori intorno al concetto fondamentale della conquista graduale e legale dei poteri pubblici. Ci è anche più grato il riconoscere come l'idea socialista diventi in molti di essi il principio impulsivo d'un'auto educazione intellettuale, che li mette in grado in breve tempo d'intervenire a discutere d'interessi cittadini anche in riunioni d'altri partiti, dove si comincia ad ascoltare e a rispettare la loro parola. Ci è un'alta soddisfazione, finalmente, il veder costituirsi da ogni parte, sotto la nuova bandiera, nuovi corpi elettorali concordi e disciplinati che spiegano nella lotta un'operosità così appassionata e sagace ad un tempo, da destar l'ammirazione anche dei più inconciliabili avversari, e che mettono in evidenza, non solo nelle occasioni straordinarie, ma nel lavoro, nell'organizzazione, nella vita socialista d'ogni giorno, tanti caratteri virili, tante fibre infaticabili, tanta gioventù coraggiosa e generosa, ardente d'entusiasmo e di fede.

Davanti a questi fatti, molti pregiudizi sono caduti, molte calunnie non hanno più eco. Non son più che i ciechi di mente e i malvagi d'animo quelli che ardiscono ancora di far risalire al partito socialista la colpa di delitti individuali, atroci per sè e insensati per il fine a cui mirano, funesti a noi, più che agli altri per le reazioni liberticide che provocano, commessi in nome d'un ideale che non è il nostro, e che noi combattiamo senza tregua, e a cui strappiamo proseliti ogni giorno. Ma quanti altri pregiudizi persistono, propagati dall'interesse, mantenuti dall'astuzia, accolti facilmente dall'ignoranza e dalla paura! Voi sapete quali siano, ed io non esco dall'argomento confutandoli, poichè è naturale che a noi prema di dimostrare a quanti, pur non accettando la nostra dottrina, festeggiano il 1° Maggio, che il concetto di questa festa, cara anche a loro, non è nato in mezzo a sentimenti e a propositi che possano gettare un'ombra sulla sua ideale bellezza.

Nemici della civiltà! Così fummo chiamati, anche ufficialmente, perchè il progresso della civiltà—a quanto si afferma—sarebbe dall'ordinamento socialista ritardato o impedito. Ma vediamo. Doppio è il movimento della civiltà: l'uno è d'avanzamento, l'altro è di diffusione, e nello stato attuale delle cose il secondo è così incerto e tardo da render vano in gran parte anche il primo. Idee, cognizioni, agi della vita, varietà e raffinatezza di godimenti sensuali e intellettuali, tutto procede; ma rimanendo circoscritto in un così piccolo numero d'uomini! La società è come un esercito disordinato, mal nutrito, gravato di pesi enormi, al quale va dinanzi, precedendolo di una distanza smisurata, un'avanguardia di cavalieri brillanti e armati di tutto punto, che vincono delle battaglie, a cui il grosso dell'esercito non partecipa, e di cui non raccoglie quasi alcun frutto. Lo disse anche in Francia, ora è poco, uno dei più eloquenti interpreti del nostro pensiero. «L'umanità fu finora obbligata a riservare alla minoranza la cura di condurre a suo vantaggio la civiltà e di creare delle forme nuove d'esistenza a cui la moltitudine non poteva arrivare che più tardi». Ebbene, sarà impedire il cammino della civiltà il volere che, per mezzo d'un impiego più razionale degli sforzi umani, ora antagonisti, la società tutta insieme compia il suo progresso in pro della società tutta intera? O come mai? Sarà nemico della civiltà chi, alleggerendo il peso opprimente del lavoro meccanico, vuol sollevare le moltitudini a una vita più spirituale, che è quanto dire più umana; chi, attenuando la lotta per la vita con l'organizzazione del lavoro e una miglior distribuzione dei beni, vuol che sian volte al progresso vero le infinite forze che si sperperano ora per la conservazione dell'esistenza e in conflitti infecondi; chi a una civiltà disprezzata e odiata dai più come un privilegio dei meno vuol sostituita una civiltà amata da tutti come un bene e una gloria comune? Sarà nemico della civiltà chi vuole che cessi finalmente questa miseranda finzione di dir con orgoglio:—Noi, nazione civile….—mentre nella nazione a cui s'accenna, in mezzo alle glorie della scienza e agli splendori del lusso e delle arti, perdurano in milioni d'uomini superstizioni di medio evo, ignoranze di selvaggi, miserie di paria, condizioni e forme di vita che ci fanno rivivere davanti agli occhi la prima età della pietra? Sarà nemico della civiltà chi vuole che questo cessi e amico della civiltà chi consente che questo duri?

Negatori della patria! Ecco un'altra accusa, contro la quale ogni fibra del nostro cuore si rivolta. Se il concetto della patria s'identifica col concetto della sua unità e della sua indipendenza, con qual coscienza si possono chiamar «negatori della patria» i socialisti, per i quali è un assioma storico la sentenza dell'Engels, uno dei loro grandi maestri: che senza la autonomia e l'unità restituite a ciascuna nazione, nè l'unione internazionale del proletariato, nè la tranquilla e intelligente cooperazione delle nazioni a un fine comune si potrebbero compiere? Avversari del concetto di patria non siamo; ma di coloro che le patrie mirano a dividere per giovarsi della loro divisione, primo impedimento necessario alla vittoria di quell'ideale comune a tutte le moltitudini proletarie, che non può essere l'ideale loro. Essi fanno una cosa sola dell'amor di patria e dell'orgoglio nazionale. E anche noi abbiamo il nostro orgoglio nazionale. Ma il nostro è di natura diversa: è un orgoglio nazionale che vorrebbe che dalla nazione non fossero costretti a esulare ogni anno, per cercare un pane straniero, duecento mila dei suoi lavoratori, mentre nella terra che essi abbandonano, capace di tutti i prodotti di tutte le terre più fertili, rimangano ancora, o per incuria dei proprietari o per mancanza d'opere di bonificamento, quasi cinque milioni di ettari di suolo incolto, e altri dodici milioni che potrebbero fruttare il doppio di quanto fruttano. È un orgoglio nazionale il nostro, il quale vorrebbe che fossero purgate della malaria la metà almeno delle nostre provincie, che fosse tolta alla patria la vergogna lacrimevole dei suoi centomila pellagrosi, che il nostro paese non fosse fra gli ultimi d'Europa sulla via della legislazione sociale, che vi fossero sacri e inviolabili i diritti politici conquistati coi sacrifizi e col sangue di tutti, che per vane ambizioni di grandezza, calpestando i principii in nome dei quali siamo risorti, non si sperperassero a migliaia di miglia dai suoi confini le carni e le ossa dei suoi figliuoli. Coloro che, sentendo nel più profondo dell'anima la pietà di queste miserie e lo sdegno di queste vergogne, combattono con tutte le loro forze perchè le une e le altre abbiano fine, e credono che dinanzi all'orgoglio patriottico debba andare la carità fraterna, no, costoro non rinnegano la patria, costoro sono i soli che l'amino e la servano sapientemente. L'immagine della patria, per essi, è una madre amorosa, equanime con tutti i suoi figli, non ambiziosa che della loro prosperità e del loro affetto, e della fama di onesta, di civile e di benefica; non un'amazzone gonfia di boria, stoltamente fastosa in pubblico e crudelmente pitocca in casa, che si benda gli occhi con la bandiera e cerca la gloria nel sangue.

Un'altra accusa è di eccitare all'odio una classe sociale contro l'altra. Ebbene, no, non lo credete, non è vero. Certo, in ogni grande famiglia di propagatori d'un'idea, anche delle più sante idee, vi sono i violenti di natura, a cui nessuna considerazione del comune interesse, nessun consiglio dei compagni di fede può moderar la parola. Vi sono gl'immoderati anche nel partito moderato, vi sono i provocatori anche fra i predicatori del Vangelo, vi furono i violenti anche fra i Santi. E noi non neghiamo, d'altra parte, che dinanzi a certi abusi mostruosi del potere e della fede pubblica, e quando vediamo all'oppressione dei deboli aggiungersi l'inganno e la derisione, ci prorompono dall'animo parole amare e iraconde. Nè di questo noi ci scusiamo. Ma accusarci d'istigare all'odio, solitamente e per proposito, una classe contro l'altra, è un assurdo, è accusarci d'operare coscientemente contro gl'interessi della nostra causa. Il detto che «la miseria nasce non dalla malvagità dei capitalisti, ma dal vizioso ordinamento della società» sta scritto in fronte, come una parola d'ordine, al più antico e più popolare dei giornali socialisti d'Italia.—«Se voi foste al posto dei vostri padroni, fareste com'essi fanno, perchè non potreste fare in altro modo» è la frase più sovente ripetuta da chi fa propaganda della nostra idea, appunto per persuadere i lavoratori che il rimedio ai mali non è da attendersi dagli individui, perchè questi non vi potrebbero porre rimedio neanche se avessero tutti le intenzioni più generose. E come sarebbe altrimenti? Noi miriamo a conquistar la coscienza e la volontà del gran numero per via della persuasione, e a render atti gli uni a persuader gli altri. È dunque nostro interesse di spegnere, non di attizzare gli odî sociali; perchè se in cuore all'uomo incolto noi suscitiamo l'odio, gli oscuriamo l'intelligenza, ossia lo distogliamo dalla riflessione, e ritardiamo il progresso del suo pensiero, senza del quale è vano lo sperare di farne un proselito utile e sicuro; e perchè la passione si spegne con la stessa facilità con cui s'accende, o consumando sè stessa o estinguendosi per effetto d'un conseguito miglioramento delle condizioni individuali; e perchè essa è un costante pericolo per tutti, spingendo l'individuo ad avventatezze, di cui su tutti ricade la colpa. No, noi non vogliamo far dei violenti: questi sono la nostra debolezza, non la nostra forza; noi vogliamo far dei convinti, dei risoluti, dei tenaci. No, noi non siamo seminatori d'odio, noi che portiamo fra gli uomini la parola della fratellanza e della pace. La nostra forza non è l'odio nè l'ira; la nostra forza è la ragione, la volontà, la fede, l'entusiasmo, l'amore.

—Nemici della proprietà—siamo anche chiamati, e questa definizione, così nuda e assoluta, è piena d'astuzia, perchè include, senza esprimerla, una vaga accusa di meditato latrocinio universale. Ma esprime falsamente il nostro concetto perchè sostituisce l'idea di «soppressione» a quella di «trasformazione» d'un istituto che si modificò variamente nel corso dei tempi, e che è per natura sua soggetto a trasformarsi secondo le condizioni e i bisogni della società che l'ha fondato. È una definizione falsa perchè nega tacitamente il carattere di proprietà alla forma collettiva, che fu la prima forma di proprietà del consorzio sociale, e di cui sussistono e si riproducono mille esempi parziali anche nei tempi presenti. È una definizione falsa perchè estende il nostro concetto della proprietà collettiva dai grandi mezzi di produzione a tutti gli altri oggetti di proprietà, che sono naturalmente esclusi dal collettivismo; il quale non impedisce nè il risparmio, nè l'accumulamento, nè la trasmissione del risparmio, nè il possesso, nè la trasmissione di tutto quanto non serva a produrre ricchezza. È ancora una definizione ingiusta perchè esclude l'idea della presa di possesso mediante un equo risarcimento; ammesso il quale, essa non riesce una violenza più che tale non sia l'attuale espropriazione legale per fini d'utilità pubblica; e perchè tace che l'appropriazione collettiva, come nel campo della proprietà industriale, per esempio, così in altri campi, non si opererebbe che in quei rami di produzione in cui la concentrazione dei capitali ha già distrutto la piccola proprietà fondata sul lavoro; e anche perchè è in contraddizione formale con la ragione prima del collettivismo, fondato appunto sul concetto «conservatore» che la proprietà è indispensabile al pieno e compiuto svolgimento della personalità umana; svolgimento che è possibile soltanto in una società in cui posseggano tutti una parte del bene comune, e che non è possibile se non a pochissimi nella società attuale, dove nove decimi della popolazione nulla possiedono, nè sperano, nè quasi possono sperare di mai possedere. È una definizione insidiosa, infine, e un'accusa che ci offende perchè tende a convertire nell'animo di chi possiede l'idea d'una lontana, legale e necessaria trasformazione della proprietà in quella d'un imminente pericolo di spogliazione tumultuaria. E ripetiamo che è una definizione astuta perchè con questo terrore d'una grande ladreria collettiva, che si potrebbe commetter domani, storna l'attenzione pubblica dalle grandi ladrerie individuali, che si commettono oggi.

Anche «nemici della famiglia» sono chiamati i socialisti. E in questo, come in altri argomenti, si vuol considerare come articolo del nostro programma un'idea di pochi o di molti, contro la quale ogni socialista, che non l'accetti, si può ribellare con ogni sua forza senza cessar perciò d'esser socialista; un'idea che non è propria del socialismo, poichè, per non citare che un solo esempio, è il nostro avversario più formidabile quell'Erberto Spencer, il quale dice che verrà tempo che l'unione per l'affetto sarà considerata come più importante di quella per la legge, e saran fatte segno alla riprovazione pubblica quelle unioni coniugali in cui il legame dell'affetto sarà spezzato. Con questa espressione corrente: vogliono abolir la famiglia, l'idea socialista è snaturata e capovolta. No, non è voler «abolire la famiglia» il vituperare il matrimonio mercantile per cui s'avviliscono le anime e degenera la razza; il voler il matrimonio «fondato sulla spontanea scelta affettiva e sopra una libertà limitata dal dovere morale rispetto al coniuge e dal dovere positivo rispetto ai figliuoli»; il voler fatta alla donna nella famiglia una più equa condizione legale; il volere un più efficace intervento sociale nella famiglia stessa per assicurare lo svolgimento integrale e l'educazione del fanciullo; lo sperare, infine, che venga un tempo in cui il sentimento della dignità propria, il rispetto della dignità altrui e un'alta coscienza del dovere possano costituire nei matrimoni e nella famiglia vincoli e garanzie anche più forti di quelle che esige e assicura la società presente. O come saranno nemici della famiglia quelli che più strenuamente combattono lo sfruttamento industriale della donna, appunto perchè alla famiglia è funesto? quelli che più ardentemente propugnano la redenzione del fanciullo dal lavoro precoce, appunto perchè alla famiglia non sia strappato e nella promiscuità con gli adulti corrotto? quelli che più altamente invocano sollievi e rimedi alla grande piaga della miseria, appunto perchè la miseria corrode gli affetti domestici, avvelena l'infanzia, dissolve la famiglia? Domandate se vogliono abolir la famiglia a quei buoni lavoratori che per soccorrer la moglie e i bambini del compagno cacciato in carcere per reato di pensiero smungono senza rammarico la loro povera borsa; domandate se vuole abolir la famiglia a quell'onesto operaio che affronta lietamente pericoli e sacrifici per la nostra Idea, non con la fede di migliorare la propria sorte, ma con la sola vaga speranza di preparare al suo sangue un avvenire migliore! Andate a domandare a quella povera madre rediviva, che soffocò contro il suo seno il grido di gioia e d'amore di Garibaldi Bosco liberato, andatele a domandare se il suo figliuolo adorato vuole «abolir la famiglia!»

Vogliono distruggere la religione,—dicono ancora. E in qual programma del partito socialista di qualsiasi paese s'è mai trovato iscritto questo proposito? O meglio: in qual programma socialista non è detto esplicitamente che per il socialismo la religione è «un affar privato» ossia un affar di coscienza, in cui la comunità non ha diritto d'intervenire? E sarà il partito, che vuole una libertà assoluta di pensiero, quello che vorrà sopprimere la libertà della fede? Sarà il partito che dice a tutti gli infelici:—Sperate!—quello che vorrà segnare un confine alla speranza umana? No, in questo, come in altri argomenti, si scambiano opinioni individuali con un articolo di dottrina. A me, come ad ogni altro socialista fermamente credente nella dottrina economica e politica del socialismo, tutti i socialisti della terra raccolti insieme non potranno mai far dire che non credo in Dio, se ci credo, nè impedire di far propaganda, in mezzo a loro stessi, della mia fede. No, le ragioni del dubbio e le ispirazioni della fede stanno al di fuori d'ogni sistema di idee politiche e sociali; la speranza in una vita immortale sta al di sopra d'ogni concetto che si possa avere dei destini terreni dell'umanità, come il mistero della creazione sta al di sopra della scienza; e n'è una prova che in tutti i partiti politici, in tutti gli ordini della scienza, in tutti i cerchi della società si trovano credenti ed increduli. No, buone madri, non siamo noi che vorremo mai soffocare nel cuor vostro quella fede in cui noi stessi siamo nati e cresciuti. Noi diciamo invece a ciascuna di voi:—Educa alla tua fede il tuo fanciullo, infondigli nel cuore la tua santa speranza, fagli giunger le mani davanti all'immagine di colui che è morto per l'ideale della giustizia, della pace e dell'uguaglianza fra gli uomini. Ma insegnagli pure—soggiungiamo subito—che è falsa religione quella che non è accompagnata da una operosa pietà della miseria e da un amore intrepido della giustizia, e che se nello spirito del credente entra la persuasione che un nuovo ordinamento sociale possa prevenir la povertà, attenuare i dolori, scemare gli odî, le violenze e i delitti, che funestano e disonorano l'ordinamento presente, è empio, è assurdo il credere che Iddio gli vieti di prepararlo e di affrettarlo con la parola e con l'opera, e possa dirgli un giorno:—Tu fosti buono, pietoso e generoso; ma fosti socialista, e io ti danno.—E ditegli ancora che il buon Dio non può amare il credente che, in mezzo a tanti bisogni e conflitti umani, incrocia le mani oziose, fissando gli occhi nel cielo per non vedere la terra; ditegli ch'Egli dice a costui: Disgiungi quelle mani inerti: stendine una a soccorrere gli oppressi ed arma l'altra per combattere chi opprime; il grido di giubilo dei consolati e dei redenti è la miglior preghiera che possa far salire a me l'anima tua.

Ci si può dire:—Codesta è la vostra difesa, e noi sospettiamo che sia piena di concessioni e di cautele. Ciò che vorremmo conoscere è quello che voi dite nella vostra propaganda individuale, e che forse non ripetete a noi, in un giorno come questo.—Ebbene, e noi vi chiamiamo ad analizzare il sottile veleno che distilliamo nella propaganda d'ogni giorno, e non quello soltanto che riserbiamo al lavoratore, ma anche quello che tentiamo di versare nell'animo di gente d'ogni classe, d'ogni età e d'ogni stato sociale; poichè non ci rivolgiamo soltanto ai più facili a conquistarsi per insufficienza di cultura o per predisposizioni di interessi individuali; ma anche a quelli che son più difficili e per ragioni di cultura e per ragioni d'interesse.

Noi diciamo al lavoratore:—Bada: a questo grande movimento sociale che si svolge in tuo favore non basta che tu assista con animo favorevole; tu lo devi aiutare. Il primo impulso alla redenzione del lavoro deve venire da te. Se vuoi che il mondo ti saluti devi portar alta la fronte; ma per portar alta la fronte bisogna levar l'animo in alto. Se vuoi entrar nell'esercito della nuova Idea, devi sacrificare a questa una parte del tuo riposo e della tua pace; devi compiere con più caldo zelo i tuoi doveri di operaio, ma resistere a chi vuol soggiogare la tua coscienza di cittadino; devi soffocare sotto la disciplina del partito rancori e gelosie; fare uno sforzo intellettuale faticoso per appropriarti gli argomenti ed acquistar la parola con cui si giustificano e si dimostrano appagabili le tue aspirazioni; devi imparare, migliorarti, dare esempio di dignità di vita, di equità, di bontà d'animo, non soltanto in cospetto alle classi superiori, ma fra i tuoi compagni e nella tua famiglia; devi fare quanto è in poter tuo per far rispettare ed amare in te la santa bandiera a cui consacri il cuore e affidi il tuo diritto e la tua speranza.

Diciamo alla moglie del lavoratore:—Non trattenere tuo marito, per vane paure, dal venire con noi, se la coscienza lo muove. Raccomandagli la prudenza, ma non gli consigliare la viltà. Sono innumerevoli donne paurose come te che in tutti i tempi ritardarono il cammino delle idee più grandi e benefiche. Non temere; non in mezzo a noi egli troverà gli amici scioperati che lo possono traviare: non siamo noi, povera donna, che vorremmo strapparlo al tuo cuore. Rinunzia a qualche ora della sua compagnia e lascia ch'ei venga; egli tornerà a te più contento per la coscienza d'un dovere compiuto, e con la mente rischiarata di nuove idee, e anche col cuore meglio disposto all'affetto, perchè nella compagnia che tu temi gli si apre lo spirito alla vita del pensiero, gli s'insegna il rispetto della donna, gli s'inspira l'amore pei deboli e la pietà per tutti i dolori umani. Non contrastarlo, perchè gli turberesti l'animo senza farlo più tuo; fa ch'egli si confidi con te, accogli le sue speranze, sostieni la sua fede, e una nuova forza stringerà insieme le anime vostre, e tu sarai una seconda volta sua sposa.

Diciamo alla madre del giovane studente:—Perchè t'affanni per il tuo figliuolo, come se la via per cui s'è messo con noi fosse la via della perdizione? Se tu gli leggessi dentro all'animo, saresti lieta e altera del tesoro ch'egli vi chiude. Il sentimento che lo muove è quello stesso che spinge te a metter l'obolo della carità nella mano del vecchio e del fanciullo abbandonato: è lo stesso sentimento ingrandito, esteso a milioni di creature umane, illuminato dalla speranza di bandire dalla società tutte quelle miserie e quei mali da cui sei commossa tu pure: ma soltanto quando li vedi personificati in un infelice che mendica. Vedi: il suo ingegno e i suoi studi, prima che utili a lui, sono già utili agli altri. Nella lotta che combatte con noi egli matura precocemente il suo senno, innalza il suo carattere, fortifica le sue facoltà. Lascia che vada fra i lavoratori, dove acquista un concetto austero della vita, e si spoglia del suo egoismo di classe, e impara il rispetto della povertà e del lavoro. Lascia che mescoli il suo soprabito signorile con quelle rozze giacchette, sotto a cui battono dei cuori che lo amano. Non gli contrastare il passo quando va a cercarle; bacialo in fronte e digli:—Va.—È la voce del tuo buon Dio che lo chiama.

Diciamo al modesto borghese, sia egli un piccolo proprietario di terre, oppresse dall'imposta e destinate a ingrandire prima o poi il latifondo, o un piccolo industriale, ogni giorno più impotente a sostener la concorrenza della grande industria, o un piccolo commerciante, condannato a cader vittima presto o tardi dell'accentramento dei commerci, diciamo a ciascuno di costoro che, per un'ambizione scusabile nella società presente, avviano con grandi sacrifici i loro figliuoli alle professioni liberali:—O tu, che ti dichiari nostro nemico, considera un lato solo della grande quistione: vedi se, perdurando questo furore d'innalzarsi nella gerarchla sociale,—effetto delle troppo dure condizioni materiali e morali della vita del lavoratore,—vedi se i figli dei tuoi figli non si troveranno ridotti a lottare con una concorrenza così formidabile, da render la lotta disperata. Vedi se per prevenire questo danno ci sia altro modo che quello di stabilire l'equilibrio fra i due fattori, intellettuale e meccanico, della produzione sociale, mettendo il lavoro propriamente detto in tali condizioni da non esser più sfuggito da quanti possono come un castigo di Dio; ciò che è il primo intento del socialismo. Vedi se, non giungendo a questo, la società non sia condannata a morire d'una pletora di laureati famelici e di spostati rabbiosi. Fa tacere per poco la tua ambizione, fissa lo sguardo nell'avvenire e ti persuaderai che, pure avendo l'aspetto di tuoi nemici, siamo veri amici dei tuoi figli e dei figli loro.

Diciamo allo scienziato e all'artista:—Come puoi tu, uomo di scienza, sospettar nemica tua una dottrina che sopra una fede illimitata nel progresso della scienza in larga parte si fonda, che dal perfezionamento della macchina, dalla prevalenza dell'agricoltura razionale, dallo sfruttamento scientifico di tutte le forze della natura attende ad un tempo e una diminuzione dello sforzo umano e una raddoppiata produzione? Come puoi tu, scrittore e artista, temere il trionfo d'una dottrina che vuole estendere a tutti, nella maggior misura possibile, i godimenti dello spirito, e centuplicare con questo il numero degli uomini atti a comprendere l'opera tua? E se la società futura chiedesse a te, scienziato, il sacrifizio di volgere la tua scienza a fini più direttamente umani, e a te, artista, quello di scendere più spesso dall'altezza del tuo lavoro libero all'ufficio di educatore delle moltitudini, come non vi parrebbe dolce un tal sacrifizio, ricompensato da una tanto più diffusa ammirazione e più vasta gratitudine? E come non sentite che un più alto dovere di generosità e di sacrifizio è imposto ai privilegiati dell'intelletto, a coloro che portano sulla fronte dalla nascita questo segno luminoso della predilezione del destino?

Diciamo all'umanitario, al filantropo:—O tu che combatti l'opera nostra, perchè credi la carità sufficiente a risolver la gran quistione che affanna il mondo, disingannati in faccia all'evidenza dei fatti, e vieni con noi. No, non si scioglie la quistione con la beneficenza. Non si feconda una vasta terra portandovi l'acqua ad orciòli; ma spandendovi per una rete di larghi canali l'onda inesauribile della montagna. La tua carità non può nulla per i milioni d'uomini a cui è intercettata legalmente, per forza delle cose, una troppo gran parte dei frutti del loro lavoro; è impotente davanti al grande fatto della disoccupazione, prodotto dalle crisi disastrose, che derivano dall'anarchia della produzione; e può far meno ancora per quella grande moltitudine lavoratrice, alla quale il pane non manca, ma che domanda una diminuzione di fatica, un'educazione civile, un posto più onorato nel mondo, a cui non ha meno diritto che al pane. No, i rimedi che ti consiglia il cuore non bastano; occorre che tu dia l'opera della tua ragione. Vieni con noi, poichè il tuo cuore è buono; e senza lasciare l'opera della carità, domanda con noi la giustizia; solleva i miseri, ma lavora tu pure a sradicar la miseria; conforta i vinti, ma aiutaci a preparare una società, in cui, per quanto lo concedono la natura e la fortuna, non ci siano più nè vinti nè vincitori.

Diciamo al ricco:—Se ti dice la ragione che è giusta la nostra causa, e ti trattiene dall'abbracciarla il timore di affrettare per te e pei tuoi figli la perdita della ricchezza, tu vivi in un inganno. Proseguendo così le cose, non sarà il socialismo che ti toglierà il tuo bene; saranno le catastrofi politiche e finanziarie a cui conducono inevitabilmente il militarismo, la guerra, il debito, il disordine, inseparabili dall'ordinamento sociale che difendi. La caduta lontana della tua fortuna non sarà effetto della dottrina socialista; ma delle grandi necessità sociali e economiche da cui la dottrina è nata, e per cui si diffonde. Tu temi rivoluzioni, sconvolgimenti, rapine! Ma se è tutto questo appunto che il socialismo mira a impedire, contenendo le passioni violente che soffocano il germoglio delle idee feconde, prevenendo le rivoluzioni col sollecitar l'evoluzione, scomponendo e rifacendo l'edificio a mano a mano, perchè la società non abbia a rimanere mai sconvolta e atterrita in mezzo a un campo di macerie. Come non comprendi che questo movimento immenso tende al bene di tutti? Abbraccia la nostra causa, e combattendo per essa, tu che hai la ricchezza, darai un esempio, tu che hai l'indipendenza, sarai una forza, e ti sentirai libero dai due peggiori tormenti della tua vita, che sono la smania d'acquistare e il terrore di perdere, perchè la coscienza d'esser giusto e magnanimo varrà per te il più prezioso dei tesori, sarà la sola, vera felicità che nessun evento, nessuna forza potrà strappar dal tuo cuore.

E al fanciullo del ricco, finalmente, noi rivolgiamo questo discorso:—Tu sei nato nell'agiatezza. Se vorrai conquistarti un posto onorato nel mondo, ti costerà assai men fatica che agli altri, perchè sarai come un uomo armato in una lotta in cui quasi tutti gli altri sono inermi. Sei sicuro fin d'ora che non avrai mai da patir privazioni, mai da umiliarti per non perdere il pane, che potrai essere facilmente buono, onesto, rispettato, contento. Ora, vedi quanta miseria v'è intorno a te, quante dure fatiche che dànno appena da vivere, quanti milioni di fanciulli lasciati nell'ignoranza e nell'abbandono, quante famiglie ridotte all'indigenza senza colpa, quante disuguaglianze ingiuste, quanti dolori senza speranza, e quante ire e quanti odî. Ebbene, se ti dicessero che v'è modo di far sì che tutte queste miserie siano scemate, che il lavoro non manchi a nessuno e sia reso men duro a tutti, che tutti i fanciulli possano istruirsi e educarsi, che le disugaglianze ingiuste scompaiano, che gli odî di classe si spengano, che la società diventi come una grande famiglia, in cui, se non la felicità regni almeno la pace; ma che per ottener tutto questo bisogna che tutti i ragazzi come te rinunzino alla loro sorte privilegiata, rientrino nelle condizioni comuni, e si rassegnino a lavorare e a lottare per vivere modestamente come tutti gli altri, consentiresti tu al sacrifizio? E il fanciullo ci risponde immediatamente, irresistibilmente:—Oh, sì, vi consentirei! E come si potrebbe non consentirvi?—E noi non gli diciamo più altro: gli abbiamo messo il buon germe nel cuore.

Questi sono i nostri pensieri e i nostri sentimenti. Se non sono ogni giorno dell'anno così benevoli, nè espressi sempre con parole così miti, non è perchè tacciano nel nostro cuore: è perchè siamo uomini, ossia per natura deboli, soggetti all'orgoglio, facili a irritarci della calunnia, e anche perchè è troppo sovente offesa in noi quella libertà di pensiero e di parola, che è una sacra eredità lasciataci dai nostri padri e dovrebbe essere una condizione inviolabile del nostro patto nazionale. Ma ogni anno, in questo giorno, noi rinnoviamo sinceramente il proposito di mantener sempre l'animo e la parola alti come la nostra Idea. Non è questo l'ultimo degli effetti benefici della festa del 1° Maggio. E noi confidiamo che questa festa sarà celebrata ogni anno con più serena dignità. Oh certo, essa sarà ben più splendida e più solenne nell'avvenire! E non sarà celebrata soltanto nelle strade e nelle assemblee; ma anche nelle famiglie, nelle quali tutte l'idea socialista finirà con lo stringere quei vincoli, che ora in molte rallenta, e spezza in alcune. Sarà il giorno in cui le coscienze e i cuori restii, vinti da lento lavoro della ragione e dalla forza degli avvenimenti, faranno atto di dedizione e di riconciliazione con le persone amate; il giorno in cui il padre dirà al figliuolo:—Sì, figliuol mio, sei tu che hai ragione, sei più buono e più giusto di me, non son più soltanto tuo padre, sono un tuo __compagno__;—il giorno in cui la moglie dirà al marito:—T'ho contrariato, perdonami; non ti comprendevo, ora ti comprendo; e tutta l'anima mia è con te e per la tua causa;—il giorno in cui la madre dirà a suo figlio:—Mi arrendo; vedo ora dov'è la verità e la giustizia; la tua festa del 1° Maggio sarà d'ora innanzi anche la festa di tua madre.—Sì, sarà forse lontano, ma questo giorno verrà. Noi lo crediamo come crediamo che la terra germina sotto il raggio del sole. Crediamo che il 1° Maggio resterà e ingrandirà negli anni e nei popoli, e che dopo aver redento il lavoro ucciderà la guerra, e che dopo aver confuso le classi affratellerà le nazioni, e che sarà benedetto dalle generazioni venture come una delle date più fauste e più gloriose della storia del mondo.

Torino, 1896.

V.

Per Giuseppe Garibaldi

( Commemorazione popolare ).

Invitato a commemorare Giuseppe Garibaldi in questo giorno nel quale ogni cuore italiano risente più viva la tristezza d'averlo perduto, non terrò un discorso ampio e ordinato dell'opera e della funzione storica compiuta da lui, poichè nulla o poco oramai ne rimane a dire che non torni superfluo a un uditorio di italiani colti. Parlerò il linguaggio facile e caldo del patriotta, che, invece di dissertare sul passato, lo risuscita, lo rivive e lascia andar tutta l'anima all'onda degli affetti e delle memorie. Spero, così parlando, di consentire alla disposizione d'animo dei miei uditori, ai quali non parrà forse occasione opportuna d'un ragionamento pacato il primo anniversario di una morte compianta. In ogni modo io chiedo perdono a voi del mio ardimento, come già l'ho chiesto, dentro al cuore, alla memoria augusta e amata, a cui consacro le mie parole.

La miglior prova della grandezza di Garibaldi è questa: che nessuna narrazione, per quanto diffusa e eloquente delle sue avventure e delle sue gesta, potrebbe aver mai la efficacia che ha la esposizione brevissima e nuda dei sommi capi della sua storia.

Concedetemi di farne qui l'esperienza, a modo d'esordio, con quella semplicità che è una forma di rispetto per l'altezza dell'argomento e con quella rapidità precipitosa che il cammino lunghissimo impone.

Nasce a Nizza, nel 1807, figliuolo di un modesto capitano di mare, e comincia la vita, si può dire, con due atti eroici: a otto anni, salvando da una gora una donna che annega; a tredici, salvando una barca di compagni dal naufragio. Adora il mare, s'imbarca mozzo in un brigantino, viaggia in oriente. A diciassett'anni va sulla tartana del padre a Fiumicino, e visita la prima volta Roma, dove, tra l'entusiasmo patriottico per le grandi memorie, gli balena la prima idea dell'incanalamento del Tevere, che propugnerà cinquant'anni dopo, con ardore ancor giovanile, nella Capitale d'Italia. Continua i viaggi, è più volte assalito e depredato dai pirati, si riduce povero a Costantinopoli, dove s'ammala, e fa il precettore di ragazzi per vivere. Poi, ritornato a Nizza, divenuto capitano di bastimento, riprende le navigazioni ardite e avventurose, con le quali principia ad acquistar fama e simpatia; tanto che ad ogni suo ritorno gli corre incontro sul molo una folla di popolo, a festeggiarlo, a rallegrarsi con lui, che onora sui mari e fa onorar nei porti d'Italia e di Francia il nome della sua città nativa. Tale è l'alba della sua gloria.

In uno dei suoi viaggi in levante ode parlar per la prima volta della «Giovine Italia», e, tocco dalla fiamma che lo arderà fino alla morte, tornato appena in Europa, si presenta in Marsiglia a Giuseppe Mazzini, si ascrive all'associazione, si vota per sempre alla patria. Recatosi in Liguria, si mette all'opera, stringe relazione coi più arditi patriotti, si arrola semplice marinaio nella flotta regia per far propaganda fra gli equipaggi e cooperare con essi al moto imminente di Genova. Falliti questo e il moto di Piemonte e la spedizione di Savoia, ripara in Francia, è arrestato, riesce a fuggire, è condannato a morte, prende altro nome, s'imbarca secondo in un brigantino, e dopo aver salvato dalle acque un giovinetto nel porto di Marsiglia, salpa per l'oriente. Ma, tediato della vita mercantile, s'assolda nella flottiglia del Bey di Tunisi, e scontento anche del nuovo stato, butta via la divisa, ritorna a Marsiglia desolata dal colèra, si fa infermiere negli ospedali, compie l'opera pietosa fin che dura la morìa, e non vedendo luce d'aurora in Italia, s'imbarca sopra un bastimento di commercio e parte per l'America.

E qui incomincia il suo periodo eroico. Arrivato al Brasile, per campare, si dà al commercio di cabotaggio; poi, con una barca e sedici uomini, move guerra di corsaro contro l'impero, per la provincia di Rio Grande ribelle. Conquistata una goletta, è assalito sul Plata da due lancioni dell'Uruguay, mandati a arrestarlo; li respinge restando gravemente ferito; è raccolto quasi morente da una nave brasiliana e portato prigioniero a Gualeguay; guarisce, fugge, è inseguito, ripreso, frustato, torturato; ma riesce a tornare a Rio Grande, dove gli è dato il comando d'una flottiglia. Combatte, vince, naufraga, riprende il mare e la lotta; ricaccia il nemico dal porto d'Imbituba, protegge la ritirata dei Riograndesi, resistendo con tre navi a venticinque, poi con settanta uomini a cinquecento; si batte a Santa Vittoria, si batte alla stazione di Taquary, si batte all'assedio di San Josè, e smarriti e ritrovati la sposa Annita e Menotti bambino, già pianti perduti, a traverso a foreste sterminate, sotto pioggie dirotte, soffrendo il freddo e la fame, cacciando al laccio e domando puledri, spingendo davanti a sè un armento di buoi, che gli muoion per via, riesce finalmente a Montevideo, dove, per guadagnarsi il pane, si mette a insegnar matematiche.

Non è che una breve tregua. L'Uruguay è in guerra col Rosas, dittatore dell'Argentina. Stretta dal pericolo, la repubblica ricorre a lui, già famoso, che accetta il comando d'una flottiglia e s'accinge a un'impresa disperata. Salpa da Montevideo, sfugge alle batterie di Martin Garcia, sguiscia fra le navi fulminanti della squadra argentina, passa sotto una tempesta di fuoco a la Boyada, a las Concas, a Cerrito, e proseguendo per Corrientes, assalito da forze superiori a Nueva Cava, dopo una resistenza eroica di tre giorni e tre notti, si salva coi suoi, incendiando le navi. Incalzato dalle truppe del Rosas, a cui scampa combattendo, ritorna a Montevideo assediata, sostiene la difesa guidando a sortite temerarie la legione italiana, salva l'esercito difensore da una ritirata disastrosa, e assunto il comando d'una nuova flottiglia e risalito con questa e con parte della legione l'Uruguay, batte il general Lavalleja all'Eridero, s'avanza sul fiume fino a Salto, e si spinge per terra fino a Tapevi, dove vince la terribile battaglia di Sant'Antonio, per cui è proclamato benemerito della repubblica. E prosegue la lotta intorno a Salto, per terra e per acqua, finchè, richiamato dal Governo che gli affida nuove navi e nuove truppe, risale da capo il fiume fino a las Vacas, vince ancora una volta le schiere riunite dei luogotenenti del Gomez, e ritorna finalmente nella capitale della repubblica, dove la sua splendida campagna americana, di cui ogni vittoria ha fatto palpitare l'Italia, si chiude dopo dieci anni al giungere delle prime notizie dei moti del quarantotto, che lo richiamano alla patria.

Fa vela per l'Europa con un drappello dei suoi legionari e, salvato il naviglio da un incendio in alto mare, arriva a Nizza, abbraccia la sua vecchia madre e va a offrir la sua spada a Carlo Alberto. Non accettata l'offerta, corre a Milano, dove il governo provvisorio gli conferisce il comando di cinquemila volontari: troppo tardi. Ma risoluto a combattere a ogni costo, anche caduta Milano, respinto l'ordine del duca di Genova di scioglier le bande, richiama il paese alle armi, arringa le popolazioni, tragitta il Ticino, occupa Arona, risale il lago Maggiore, sbaraglia una colonna austriaca a Luino, s'impadronisce di Varese e, stretto infine da tre corpi nemici, s'apre la via con la baionetta a traverso alle truppe del general d'Aspre, a Morazzone; donde, travestito da contadino, andando giorno e notte per rupi e per macchie come una fiera inseguita, ripara in Svizzera ad aspettare gli eventi.

Ma non li aspetta, li provoca; e va dalla Svizzera a Nizza, e da Nizza, fra gli applausi di tutta la riviera d'occidente, a Genova, di dove salpa con cinquecento volontari per portar aiuto alla Sicilia insorta. Trattenuto dal popolo a Livorno e indotto a prendere il comando dell'esercito toscano, si conduce a Firenze, donde, mutata idea, parte con la sua colonna per recar soccorso a Venezia. Fermato dal generale Zucchi alle Filigare, retrocede e accorre a Roma, e dopo aver combattuto il brigantaggio e compressa la reazione in quel di Rieti, nominato generale romano, vince i francesi a Villa Panfili, va incontro ai Borbonici, li respinge da Palestrina, li batte a Velletri, s'impadronisce di Rocca d'Arce, ritorna alla città assediata, dirige con folgorante valore la difesa, e scampata la vita quasi per prodigio nel combattimento disperato di Villa Spada, esce dalle mura, quando tutto è perduto, con la sua legione, per risollevare l'Umbria e le Marche, e sfugge con una marcia maravigliosa d'accorgimenti, di fatiche e d'audacie a quattro eserciti, il francese, l'austriaco, il borbonico, lo spagnuolo, che gli dànno la caccia invano per venti giorni da Monte Rotondo a San Marino, dove, sotto la protezione della repubblica, depone le armi.

Ma non rinunzia a combattere. Ribelle all'arciduca Ernesto che gl'impone il ritorno in America, scompare di notte, con duecento fidi, da San Marino, guizza fra le sentinelle nemiche, perviene alla riva dell'Adriatico, e tenta, con una squadra di barche a vela, di raggiunger Venezia. È assalito dagli incrociatori austriaci, si getta sulla costa di Magnavacca, e fugge tra boscaglie e canneti, braccato da gendarmi e da croati; e gli muor tra le braccia la moglie, a cui non può dar sepoltura, e riprende la corsa per le paludi di Ravenna, e, varcato il confine toscano, riesce a rifugiarsi a Chiavari, dove l'autorità piemontese l'arresta. Costretto a lasciare il Piemonte, cerca asilo a Tunisi, ma il Bey gli rifiuta l'asilo; ripara alla Maddalena, dove salva dal naufragio un canotto sardo, ma il Governo sardo lo sfratta anche dall'isola e lo manda a Gibilterra; respinto anche da Gibilterra, si rivolge alla Spagna: lo respinge anche la Spagna; e allora si raccoglie a Tangeri, dove imprende a scrivere le sue memorie. Ma tutt'a un tratto getta la penna, e va da Tangeri a Liverpool, e da Liverpool a Nuova York, dove si mette a fabbricar candele, e di là, comandante d'un legno mercantile, dopo esser stato in fin di vita a Panama, al Perù, e dal Perù alla China, e di qui a Nuova York un'altra volta, e da Nuova York in Europa, dove si da al cabotaggio da capo, e pianta la tenda nell'isola di Caprera, donde lo chiama Vittorio Emanuele nel cinquantanove a capitanare i cacciatori delle Alpi.

Scoppiata la guerra, con una brigata di tremila e cinquecento cacciatori, senza un solo pezzo d'artiglieria, ributta gli austriaci a Ponte di Casale, entra in Lombardia, batte il nemico a Varese, lo batte a San Salvatore, lo batte a San Fermo, entra vittorioso a Como, a Bergamo, a Brescia, donde la sua presenza sola allontana il nemico; passa sotto gli ordini del re, e si batte ancora una volta prodemente, a Rezzato. E appena conchiusa la pace, si rimette all'opera. Chiamato dal Ricasoli, riordina e rianima l'esercito toscano; eletto secondo comandante dell'esercito dell'Italia centrale, va con due divisioni, per provocare l'insurrezione nelle Marche, sui confini pontifici, donde Vittorio Emanuele lo richiama; e a Genova promove la sottoscrizione per un milione di fucili, e a Torino fonda l'«Associazione della nazione armata», e, deputato di Nizza, va a combattere in Parlamento la cessione della sua città natale alla Francia. Ma dalla riva del Po lo porta un'ispirazione divina alla riva del mare. Salpa coi __mille__ da Quarto, sfugge agli incrociatori borbonici, sbarca a Marsala, vince a Calatafimi, vince a Palermo, vince a Milazzo, passa lo stretto, s'impadronisce di Reggio, trasvola come un fulmine, spazzando dinanzi a sè ogni resistenza, da Reggio a Salerno, entra trionfante in Napoli sotto la minaccia dei forti non espugnati, sconfigge l'esercito di Francesco II al Volturno, respinge una sortita da Capua, proclama l'annessione delle due Sicilie, depone la dittatura, rifiuta ogni ricompensa, e dispare.

Da Caprera, visitata da ammiratori d'ogni popolo, va, deputato di Napoli, a Torino, a perorar la causa dei suoi volontari alla Camera, dove solleva una tempesta; ma si riconcilia col Cavour tre dì dopo, e scampato a un tentativo d'assassinio nella sua isola, rifiutato il comando dell'esercito offertogli dagli Stati Uniti, composti nell'assemblea di Genova i dissidi del partito rivoluzionario, compie un viaggio trionfale nella Lombardia, preparando in segreto un colpo di mano contro l'Austria. Fallito questo, corre a Palermo a lanciare il grido: «Roma o morte», attraversa la Sicilia, salpa da Catania, sbarca con tremila volontari in Calabria. A Aspromonte è arrestato dall'esercito regio, ferito, imprigionato, prosciolto, ricondotto al suo scoglio; dove, estrattagli la palla dal piede, ma ridotto sulle grucce, dolente ancora, promove una spedizione per la Polonia insorta; dopo di che, invitato, si reca in Inghilterra ed entra in Londra fra l'entusiasmo frenetico d'un milione di creature umane, che lo salutano come un dio. Tornato in Italia, va a predisporre all'isola d'Ischia, sotto gli auspici del re, una spedizione in oriente, per suscitare un moto contro l'Austria nella Galizia e nell'Ungheria; e il disegno va a monte; ma un altro campo di guerra lo chiama; e alla testa di trentamila volontari irrompe nel Trentino, si batte contro gli austriaci a Monte Suello, dov'è ferito di palla a una gamba, si batte a Vezza, si batte a Condino, espugna il forte d'Ampola, s'impadronisce di Monte Notta, conquista Monte Giovo, vince a Bezzecca, e non depone le armi che alle porte di Trento, dove l'armistizio lo arresta.

Tornato alla sua isola, ne riparte per fare un viaggio nel Veneto e nella Toscana, predicando una spedizione su Roma; e migliaia di volontari si movono; ma quando egli sta per varcare i confini, è arrestato, è tradotto prigioniero in Alessandria, ricondotto a Caprera, posto sotto la guardia di nove legni da guerra. Ma invano. Sfugge solo di notte, in una chiatta, alla vigilanza della squadra, raggiunge la Maddalena, approda in una barca di pescatori in Sardegna, arriva ignorato a Livorno e a Firenze, vola nello Stato romano, vince i pontifici a Monterotondo, s'impadronisce di Viterbo, di Frosinone, di Velletri, e marcia su Roma. Soverchiato a Mentana, in una battaglia accanita in cui cerca invano la morte, da pontifici e francesi riuniti, e ripassato il confine, è arrestato alla stazione di Filigne, messo di forza in un treno, portato prigioniero al Varignano, e ricondotto un'altra volta a Caprera; di dove un'altra volta fa vela per accorrere in aiuto alla Francia repubblicana, invasa dai tedeschi. E batte i tedeschi a Chatillon-sur-Seine, vince a Prenois, vince nelle fazioni di Saint-Martin e di Saint-Symphorien, difende per tre giorni Digione, strappa una bandiera al nemico a Pouilly, e glorioso di venti combattimenti, in cui non toccò una sconfitta, eletto deputato d'Algeri, pagato d'ingratitudine all'assemblea di Bordeaux, rinuncia alla deputazione e ritorna, addolorato, ma senza rancori, al suo scoglio.

Ed ora non combatterà più: la sua grande epopea di capitano è finita. Ma non quella di tribuno della patria e di apostolo universale di giustizia e di pace. Parla una parola alta e serena nella quistione formidabile che sorge con l'«Internazionale», va a Roma a caldeggiare la sua antica idea dell'incanalamento del Tevere, si pone a capo della «Lega della democrazia», va ancora una volta a Milano per la commemorazione solenne di Mentana, tuona di sdegno generoso contro l'invasione francese di Tunisi, torna per l'ultima volta nella sua amata Palermo per il festeggiamento dei Vespri, si vale ancora negli ultimi giorni di ogni ora di respiro che gli dà la malattia di cui morrà per far sentire la sua voce in pro degli oppressi d'ogni paese e predicar la speranza d'un miglior avvenire per la sua Italia e pel mondo; e finalmente, un mese prima di compiere il settantacinquesimo anno, la sera del due di giugno del 1882, rende l'anima grande all'infinito. Quanti secoli trascorreranno prima che si chiuda in un'altra vita umana una così maravigliosa istoria di lotte, d'affanni, d'ardimenti, di miracoli di prodezza, di genio e di forza, rivolti tutti a un così santo fine e coronati da una così luminosa fortuna? Oh, glorifichiamolo pure. Nessuna lode è soverchia sulla sua tomba. Dante gli avrebbe dedicato un canto, Michelangelo una statua, Galileo una stella.

E ora che altro si può dire, se non quello che tutti sanno: che il merito supremo di Garibaldi fu di aver reso popolare il movimento italiano? E diciamolo pure, poichè è una di quelle verità che il consenso comune appunto rende sempre grato il ripetere. Togliamo col pensiero Garibaldi dalla storia della nostra rivoluzione. Non si può giudicare storicamente impossibile che la liberazione e l'unificazione d'Italia si compissero senza il concorso dell'opera sua. Noi possiamo supporre l'esercito dei Borboni vinto e disperso in tre grandi battaglie successive dall'esercito di Vittorio Emanuele, sceso dalle Marche, o l'insurrezione di Sicilia vincitrice, qualche anno più tardi, con l'aiuto di quella stessa brigata Reggio che Garibaldi aveva chiesto al re, comandata da un generale dell'esercito, e sbarcata a Marsala dalla regia flotta. Ma che immenso vuoto non ci ritroveremmo dinanzi! Possiamo raffigurarci Napoli senza il Vesuvio e Venezia senza San Marco? Il popolo italiano sarebbe ugualmente redento e uno; ma quasi ci pare che sarebbe un altro popolo; poichè nè Vittorio Emanuele, nè il Cavour, nè il Mazzini avrebbero potuto destargli nell'animo la fiamma per cui la nostra rivoluzione divampò davanti al mondo come un incendio. E in fatti: il Mazzini era un apostolo, non potente che per la forza della parola, la quale nè a tutti giunge, nè da tutti è intesa, ed ha effetti sparsi e lenti; oltrechè al Mazzini mancò la virtù abbagliante della fortuna. Il Cavour era un grande uomo di Stato; ma solitario e quasi invisibile al popolo nella sua altezza; nè la natura del suo genio nè quella della sua opera eran tali da essere pienamente comprese e da poter suscitare l'entusiasmo delle moltitudini lontane dal campo in cui egli operava. Vittorio Emanuele era un re popolare e guerriero; ma non era figlio del popolo; e la sua forza, la sua azione era così complessa e commista con quella del suo governo, informata d'elementi così diversi, palesi ed occulti, facili e non facili a comprendersi e a valutarsi, che non potevano le plebi, in specie quelle del mezzogiorno, vedere come incarnata in lui la rivoluzione d'Italia e quasi inviscerarsi la sua gloria e sentire nel proprio sangue il suo sangue. Ora Garibaldi raccolse in sè tutto quello che a quei tre italiani insigni mancò. Ebbe la fortuna che fallì al Mazzini, l'aureola maravigliosa che non ebbe il Cavour, e quel fascino di guerriero combattente per impulso e vincente per genio e per valore proprio che non poteva avere Vittorio Emanuele; e aggiunse a tutto ciò una potenza infinita di farsi amare. Questo era necessario all'Italia. Dieci milioni d'italiani, sciogliendosi dall'odio mortale che li aveva scatenati contro la tirannia borbonica, si ritrovarono con l'immenso amore di Garibaldi nel cuore. Egli non fu soltanto una grande forza: fu l'originalità, la bellezza, la poesia della rivoluzione italiana. Egli ebbe questo grande merito in faccia alla storia, come disse in Germania un illustre apologista del conte Cavour: quello d'insegnare ai suoi contemporanei e alle future generazioni la consolante verità: «che anche in tempi grandemente civili la santa energia d'una passione primitiva è una potenza fra gli uomini».

E quale potenza! Essa fu tale che l'averne veduto i segni incantevoli è per gli italiani della generazione che tramonta uno dei più grandi conforti della vita. E giova notare prima d'ogni cosa che Garibaldi rinfiammò all'improvviso l'entusiasmo delle moltitudini in un momento in cui ve n'era bisogno supremo. La pace di Villafranca, troncando all'improvviso sul Mincio la guerra che doveva «liberar l'Italia fino all'Adriatico» ci aveva posti in condizioni difficili e tristi. Minacciati dall'Austria, con la quale, anche più forte sul Mincio che sul Ticino, non potevamo misurarci da noi soli; diffidenti della Francia, che si temeva non paga della Savoja e di Nizza, ma intesa a chiedere nuove terre in compenso della sua protezione necessaria; irritati contro il governo di Torino che pareva peritoso, quasi restìo, per ragioni non da tutti comprese, all'annessione delle provincie centrali; ci trovavamo in uno stato tanto più intollerabile in quanto, pure avendo coscienza che non potesse durare, non vedevamo per qual via si potesse uscirne. Giorno per giorno sbollivano gli entusiasmi, crescevano i sospetti e s'inasprivano le passioni partigiane, aggravando le difficoltà che già da ogni parte premevano l'opera amministrativa del nuovo Stato, sospinto avanti e rattenuto a un punto da forze opposte. A noi che non misuriamo il tempo con la impazienza ardente che agitava gli animi allora pare un assai breve tratto quello che trascorse dal luglio del '59 all'aprile del '60; ma allora i mesi contavano per anni. Parevan già tanto lontane, dopo men d'un anno, le belle vittorie di Palestro e di San Martino, dopo le quali nessun fatto era più seguito che facesse rialzar la fronte agli italiani, e riaccendesse la loro fede nel proprio ideale e nella propria forza! Che erano i moti per cui s'eran liberate le provincie centrali? Avvenimenti fausti e onorevoli; ma non glorie guerriere. Dopo quella grande ebbrezza dei trionfi sul campo riusciva meschina e quasi vile l'azione diplomatica lenta, circospetta, coperta, che dava alimento ai più strani timori e offriva bersaglio alle più nere accuse. Occorreva qualche grande cosa. Il popolo, la gioventù sentiva questo bisogno, e fremeva, e si volgeva intorno, rodendo il freno, aspettando che da qualche parte s'alzasse una bandiera e suonasse uno squillo di tromba. Era un ribollimento di desideri, d'ire, di rammarichi, di discordie, che, se tra poco non si fosse aperto loro una via di fuga, sarebbero forse scoppiati in guerra civile.

E allora comparve Garibaldi. Diciamo: comparve allora, perchè la sua vera e grande popolarità non cominciò per tre quarti d'Italia che nel 1860. Allora si sentì quella sua voce magica che a traverso al mar Tirreno chiamava la gioventù italiana alla santa crociata di Sicilia, e c'era giunta appena la notizia del suo ardimento, che due vittorie inaspettate, l'una sull'altra, come due colpi di fulmine, facevano un'eco immensa al suo grido. Chi era questo Garibaldi? Molti, nel popolo, non lo sapevano ancora che vagamente. Un nizzardo, un soldato, che aveva combattuto in America e a Roma, quello che aveva condotto gli emigrati lombardi nel '59, un uomo biondo, vestito di rosso, buono, intrepido, povero, con una voce e uno sguardo che affascinavano, un paladino di tutti gli angariati, un vendicatore di tutte le ingiustizie, che con una mano gittava davanti a sè delle folgori e con l'altra accarezzava la fronte ai feriti e spandeva consolazioni e speranze. E allora si videro prodigi. Il suo nome passava come un soffio di fuoco sul paese, e per lui gli operai lasciavano le officine, gli studenti disertavano le scuole, i signori abbandonavano i palazzi e le ville, e le spose dicevano:—Va!—le madri non osavano di piangere, le fidanzate baciavano la sua immagine, i vecchi benedicevano, i fanciulli fremevano. Partire, raggiungerlo, attirare un suo sguardo combattendo, una sua parola cadendo, morire vedendolo passar vittorioso da lontano, era il sogno di tutti i giovani d'Italia. L'entusiasmo per lui spegneva in ogni parte passioni ignobili e bassi pensieri, rialzava cuori di scettici e anime di disperati, suscitava come nembi di scintille propositi di sacrificio e virili ambizioni in tutti gli strati del mondo sociale. Ed anche fuori della società. E si videro in conventi solitari monaci rozzi e inerti, che non avevano mai amato nè compreso la patria, comprenderla ed amarla per la prima volta nel suo nome, e compiere o meditare il proponimento d'andar a combattere al suo fianco. E perfino nelle carceri e nelle galere, dove freme l'omicida non pentito, meditando nuovi delitti, si vide qualche volta anche in quel fango umano, tocco dal caldo raggio della sua gloria, sbocciare il fiore d'un entusiasmo generoso, si sentì anche dalle bocche più nefande pronunciare il suo nome come una parola di redenzione e d'amore. Se altro egli non avesse fatto sulla terra, avrebbe diritto per questo solo alla benedizione della patria e alla gratitudine del mondo.

E tutto questo, che par leggenda, è storia, o meglio: è l'una e l'altra cosa ad un tempo, poichè di leggenda la vita di Garibaldi presenta già la vaga e grandiosa bellezza, nè ha più bisogno, come quella d'altri uomini somiglianti, d'acquistar nulla col tempo dall'immaginazione umana. Che cosa le potrebbe aggiungere, in fatti, la fantasia popolare se già ora la mente del popolo stenta a crederla e ad abbracciarla intera nella sua realtà quasi ancora parlante e visibile? E la maggior prova di questa apparenza di prodigio storico che ebbe Garibaldi nel tempo nostro è la difficoltà quasi insuperabile che trovarono molti contemporanei della classe colta, anche d'intelligenza non volgare, ma chiusa in uno stretto cerchio di idee, e d'animo non ignobile, ma freddo, a comprenderlo e ad ammirarlo. Non iscoprivano la ragion vera della sua enorme potenza, che attribuivano a una quasi miracolosa cospirazione di fortune propizie, in cui non avesse parte alcuna, o poco più che nulla, la virtù sua; scambiavano i suoi eroici errori di fanciullo sublime con aberrazioni vanitose d'un cervello angusto; giudicavano mostruosità quello che in lui era grandezza, e su questa pedanteggiavano, giungendo fino a riprovare come sconveniente e risibile la sua foggia singolare di vestire, divenuta ora gloriosa e incancellabile dalla mente delle generazioni come la divisa del Buonaparte, poichè non comprendevano da che varie e intime ragioni di sentimento poetico della vita, di amabile giovinezza d'animo, di sprezzo istintivo d'ogni servitù e d'intuito dell'istinto artistico del nostro popolo anche quella sua originalità derivasse. Facevano rispetto a lui come gli accademici arcigni che appuntano trionfando le offese alla geografia nell'Ariosto e gli errori di gusto nello Shakespeare. Guardandolo con occhio falso vedevano un Garibaldi falso, un grand'uomo sbagliato, portato sugli altari dalla passione di parte degli astuti e dall'idolatria cieca degl'ingenui. E di costoro non è tutta spenta la razza. Ma furono o saranno severamente puniti dal loro medesimo errore: morirono, moriranno senz'aver amato Garibaldi.

Tutti costoro, e anche molti di quelli che nel campo politico opposto l'ammirarono, avrebbero voluto un Garibaldi prudente e docile, una specie di «generale a disposizione del ministero» che non movesse passo se non per ordine e parlasse il linguaggio ponderato d'un diplomatico; che non fosse altro, insomma, che una bella insegna di rivoluzione, la quale il Governo potesse sventolare a tempo opportuno e ripiegare quando gli paresse. Ma il Garibaldi potato e castigato che essi sognavano era un Garibaldi impossibile. Egli non poteva essere se non quello che fu. Alle sue biasimate ribellioni egli fu mosso da quella stessa virtù che lo spinse a tutti quegli altri atti audaci, fortunati e lodati, coi quali rese i più grandi servigi al proprio e ad altri paesi; e quella virtù era una fede assoluta nella forza d'entusiasmo e di sacrificio del suo popolo, nella invincibilità della causa della giustizia e nel favore della fortuna che fin dalla prima giovinezza gli aveva «porto la chioma». Egli credeva fermamente che allo scoppiar di una guerra contro l'Austria, contro la Francia, anche contro l'Europa intera confederata a comprimere il nostro diritto, sarebbero sorti dalla terra italiana milioni di uomini prodi come lui, risoluti a una resistenza disperata, lieti come lui di dar la vita alla patria. Capace egli di far miracoli, credeva nei miracoli della sua nazione. Come pretendere che un tal uomo avesse dell'opportunità politica, dell'importanza dei trattati, della necessità delle alleanze, delle tradizioni, della legalità, delle convenienze diplomatiche lo stesso concetto che n'avevano i ministri della monarchia? E anche nelle due imprese temerarie che gli fallirono, e per cui fu tre volte prigioniero, per quanta parte non fu indotto a lanciarsi avanti e a persistere dall'incertezza ambigua del governo, che non s'oppose ai principii, e gli gridò:—Indietro!—troppo tardi, lasciando credere fino all'ultimo a milioni d'italiani che sotto al divieto palese ci fosse un consenso occulto, conforme alla doppia politica ch'egli aveva seguìto anche riguardo all'impresa di lui più fortunata? Fu chiamato Garibaldi __fulmine di guerra__, e ai suoi scoppi improvvisi e agli incendi che suscitò e alle distruzioni che fece l'Italia deve in parte la propria redenzione; ma il fulmine nè si guida nè si corregge; non si doma che disperdendone la forza nella terra. In verità, noi crediamo che, considerando l'indole e le virtù senza le quali Garibaldi non sarebbe stato chi fu, e i procedimenti dei governi ai quali egli servì e disobbedì a volta a volta, e la forza immensa ch'ebbe nel pugno, le generazioni venture si maraviglieranno che ei non abbia fatto della legge un assai maggior strazio di quello che fece.

Ma non è che le sue intemperanze e le sue temerità, perchè furon cagioni di turbamenti e di pericoli, non abbiano recato al paese altro che danno. Chi non comprende ora quanto abbia giovato ad affrettare il compimento della liberazione della patria quella voce che gridava infaticabilmente:—Armiamoci, scotiamoci, operiamo,—che manteneva in continuo fermento la gioventù come il tonare non interrotto d'un cannone, che, predicando senza posa la fede e l'audacia, faceva l'effetto come d'uno sprone infocato, perpetuamente confitto nel fianco della nazione? Chi può negare che abbian concorso a persuadere il mondo che Roma era necessaria all'Italia anche quelle due disperate imprese del sessantadue e del sessantasette con le quali egli provò che l'Italia non avrebbe avuto mai pace senza la sua capitale storica, che l'incendio cento volte soffocato si sarebbe cento volte riacceso, che Roma non italiana sarebbe stata un'eterna minaccia di guerra all'Europa? Chi può affermare che l'esercito sparso degl'impazienti e degli audaci non sarebbe stato causa di ben più gravi turbamenti interni se non l'avesse contenuto la speranza, anzi la certezza che nessuna occasione d'operare, anche arrischiatissima, egli avrebbe lasciato sfuggire, che, lui vivente, una politica indietreggiante non sarebbe stata possibile mai, e una politica immobile non avrebbe mai potuto durare, se anche fossero saliti al potere dei nemici mascherati della rivoluzione? Ogni volta che il paese, irritato degl'indugi e della pazienza dei governanti, incominciava ad agitarsi, egli si gittava innanzi a capo basso, urtava contro un muro di bronzo, e cadeva: era per molti un delitto, per tutti un dolore; ma era uno sfogo, una protesta, una sfida, un grido che non moriva senz'eco nel mondo. Caduto il ribelle, riusciva a tutti più evidente e imperiosa la necessità di raggiunger lo scopo comune, una scintilla della fiamma soffocata penetrava anche nell'animo dei più freddi, la diplomazia si riscoteva come per una sferzata, sulle traccie dell'audacia fallita faceva un passo innanzi perfin la prudenza, e la paura si vergognava. Egli viveva ancora, che già ci appariva sotto un tutt'altro aspetto anche quello che fu giudicato il suo più grande errore. Nel 1870, su tutte le vie per cui l'esercito italiano moveva a Roma, precedeva le colonne, avanguardia ideale, Garibaldi, e segnavano loro il cammino le gocce di sangue stillanti otto anni innanzi dalle sue carni.

Ma anche quelli che giudicano più severamente le sue temerità e le sue ribellioni sono forzati a riconoscere l'alta chiaroveggenza politica di cui egli diè prova, il sapiente impero che seppe esercitare sulle proprie passioni nei momenti supremi. È questo uno dei caratteri singolari della sua grandezza: di essere ammirabile per le virtù opposte. Quando è necessaria l'unione di tutte le forze della patria contro lo straniero, egli, __nemico della causa dei re__, offre il suo braccio e quello dei suoi soldati d'America a un re, che «s'è fatto il rigeneratore della penisola» e per quel re «è pronto a versare tutto il suo sangue». Dieci anni dopo, per la stessa necessità della patria, è tra i primi a fondare quel nuovo «partito nazionale» che stringe intorno alla monarchia i più alti ingegni e le spade più prodi, devote fino a quel giorno all'idea repubblicana. Con la bandiera di Vittorio Emanuele parte per la grande impresa, nel 1860, e, non accecato, ma illuminato dalla fortuna, opera per modo in Sicilia che basta per due mesi la sua autorità a tenervi luogo di governo e di leggi; onde il conte di Cavour, che da prima temeva, finisce con scrivere al Persano:—Se Garibaldi non vuole l'annessione immediata, sia lasciato libero di fare a suo talento.—Nell'ottobre dell'anno stesso, a Napoli, in quel momento terribile, in cui, disputandosi l'animo suo i fautori del plebiscito immediato e quelli dell'elezione di un'assemblea, corse pericolo l'unità nazionale, fu la sua improvvisa ispirazione:—«non voglio assemblea, si faccia l'Italia»—fa questo grido suo che salvò l'Italia. Fu nel 1861 l'inaspettata, saggia, nobilissima temperanza con la quale egli rispose a una lettera dura e provocante del più popolare generale dell'esercito, quella che troncò sull'atto un conflitto che poteva esser principio d'un periodo funesto di discordie e di guai. Nel 1862, dopo il fatto di Sarnico, spontaneamente egli si ricrede intorno all'opportunità d'una spedizione contro l'Austria, desiste dal proposito, sconsiglia gli arrolamenti, e con saggie parole dissipa dall'orizzonte ogni nube. Quattro anni dopo, quando riceve l'ordine di ritirarsi dalla frontiera del Tirolo, nel punto che gli si apre dinanzi, dopo tanti stenti e sacrifici sanguinosi, il periodo più facile e splendido della guerra, con infinito rammarico, ma senza un momento d'esitazione, senza una parola di lagnanza, obbedisce. E durante il suo viaggio trionfale in Inghilterra, benchè porti in cuore un alto proposito, benchè patriotti ardenti d'ogni paese lo stringano e mille occasioni lo tentino, non profferisce una sola parola che possa provocare contro lo Stato che l'ospita la più lieve lagnanza dei governi contro i quali è solito scatenare i suoi sdegni. E anche nell'ultimo anno della sua vita, quando ancora bollente d'ira per l'offesa subita dall'Italia a Tunisi, giunge a Palermo per la commemorazione dei Vespri, quando si teme da tutti gli amanti della pace ch'egli prorompa contro la Francia in parole terribili, per cui si risollevino le passioni che già s'eran quietate, egli, con sovrana saggezza, rivolge al popolo palermitano un discorso, nel quale della Francia non pronuncia il nome e della quistione di Tunisi tace. Bene dice il più appassionato dei suoi apologisti che egli «poteva inveire, minacciare, gittare in mezzo alla nazione parole tremende ch'eran pericolosi tizzoni d'incendio, ma che quando li vedeva divampare in fiamme minacciose al sacro edificio della patria, accorreva per il primo a soffocarli col piede» e vero è ciò che quegli soggiunge che «anche i suoi più esaltati e temerari seguaci non avrebbero osato mai di lanciare il grido ultimo della discordia, di dare il segnale irrevocabile della guerra civile, mai, fin ch'egli viveva». Sangue di guerra civile corse una volta sola sotto i suoi occhi, a Aspromonte. Ma egli ordinò di cessare il fuoco ai primi colpi, e con che nobili parole, pure giustificandosi in parte, confessò il suo errore nelle sue __memorie__.—«Io dovevo andarmene prima dell'arrivo della truppa, __e non lo feci__.—Avrei dovuto anche frazionare di più la gente—__e non lo feci__.—Tutte le misure che potevano allontanare la catastrofe io avevo in mente di eseguire, ma ciò doveva essere eseguito con la celerità che mi aveva servito in altre occasioni…. __e non lo feci__».—Quanta tristezza, che sincero e profondo rammarico nella ripetizione di quelle tre semplici parole! Rammarico tanto più generoso in quanto egli avrebbe invece potuto dire:—Se m'avessero intimato la resa prima d'assalire, io mi sarei arreso, avanti che partisse un colpo di fucile.—Se non ci fossero corsi addosso appena ci videro, non si sarebbe sparso sangue.—A farci deporre le armi bastava che ci lasciassero il tempo di riaverci dalla sorpresa…. e non lo fecero.

L'impero ch'egli esercitò sulle proprie passioni nei momenti supremi—si disse. Ma noi crediamo che questa espressione non dica il vero. A ciascuno di quegli atti che furon detti di ribelle e pericolosi alla patria egli fu mosso dalla profonda coscienza di far cosa utile alla patria, che è quanto dire, di compiere un dovere che a lui solo era imposto; e non desistette, non si ritrasse mai se non quando fu persuaso d'essere in errore. Quando la somma idea del vero, del giusto, dell'utile gli balenava, cessava in lui ogni conflitto della volontà con la passione, poichè una passione che la sua coscienza giudicasse contraria all'interesse della patria nell'anima sua non capiva. Non domò sè stesso in quei momenti supremi; ma comprese, si ravvide e cedette senza sforzo agl'impulsi mutati e concordi della sua ragione e del suo cuore. Ricordiamo quello che fu uno dei giorni più gloriosi della sua vita e dei più fortunati della nostra storia, quello splendido 26 ottobre del 1860, quando nel piccolo villaggio di Cajanello le avanguardie delle sue legioni vittoriose, venendo da Capua, e i primi battaglioni dell'esercito regio, calando da Venafro, s'incontrarono. Mai non rischiarò il sole d'Italia un così bello e fausto incontro di vincitori. Smontato di sella, in mezzo ai suoi ufficiali immobili, Garibaldi aspettava. L'alba imbiancava l'Appennino e il vecchio castello di Teano e tutto quel bel paese austero della Campania, su cui da pochi giorni, dopo molti secoli, spirava l'aria della libertà. Qua e là per la campagna, tra i vapori del mattino, fiammeggiavano da una parte le divise dei volontari, sventolavano dall'altra i pennacchi dei bersaglieri. Era da un lato la rivoluzione, dall'altro la monarchia, tutt'e due coronate dalla vittoria, piene di forza e di alterezza, memori entrambe di gelosie e di contrasti recenti, non riconciliate in fondo al cuore, presaghe di discordie e di conflitti futuri. Nell'uno e nell'altro esercito regnava il silenzio di un'aspettazione solenne. E Garibaldi, chiuso nei suoi pensieri, aspettava e taceva. A un tratto echeggiarono le fanfare reali e corse un fremito per i due campi. Che sarà passato per il cuore di Garibaldi, sia pure per la durata d'un lampo, al suono di quelle trombe? A quell'annuncio che segnava la fine del suo comando supremo, che suonava come un superbo alto là opposto al suo corso di trionfatore e gli metteva di fronte un'altra gloria a cui era necessità di vita l'offuscare la sua, forse a quell'annunzio egli si sentì rialzare nell'anima tutto il suo passato, e il rancore per la sua Nizza perduta, e l'ira per la via di Roma preclusa, e la coscienza d'aver ancora nel pugno mezza Italia, tutto questo forse, confuso in un impeto di ambizione e d'orgoglio, gli sollevò il sangue e gli velò la ragione…. Certo, ciò supponendo, può parer più ammirabile lo slancio con cui, cacciato avanti il cavallo, egli tese la mano e gridò:—Salute al re d'Italia!—e si comprende come s'induca più d'un oratore a trarre da una tal supposizione un forte effetto drammatico in onore di lui. Ma noi crediamo che non uno di quei pensieri, non un'ombra di quei sentimenti sia passata nel suo cuore in quel punto. La sua volontà era già ferma, il suo animo era già quieto fin da quando un'illuminazione improvvisa della mente gli aveva fatto dire a Napoli:—«Non voglio assemblea, si faccia l'Italia».—No, il suono di quelle trombe non turbò neppure un istante la serenità dell'anima sua, lo spettro della guerra civile non s'affacciò neppure alla sua mente; non ebbe bisogno di riflettere, non gli occorse di vincer sè stesso; egli fu grande senza lotta. Un solo pensiero egli ebbe in quel momento, e lo espresse: il desiderio d'affratellare sui campi di battaglia i volontari e i soldati, di proseguir la guerra alla testa dei liberatori di Napoli, al fianco dei liberatori delle Marche, avanguardia di Vittorio Emanuele, antesignano degli eserciti uniti. Presentendo imminente una battaglia al Garignano, chiese al re l'onore del primo scontro. Non l'ebbe. «Egli si batteva da troppo lungo tempo, le sue truppe erano stanche, si doveva mettere alla riserva». Questo solo gli turbò la serenità dell'anima. Ma fu grande anche allora. Più grande d'ogni più sdegnoso sfogo di dolore fu la tristezza rassegnata di quelle semplici parole:—«Ci hanno messi alla coda»—con le quali egli annunciò la sera ai suoi fidi il suo splendido sogno svanito.

Singolarissima natura, semplice nell'apparenza, ma nel fondo così complessa, dotata di virtù e capace di passioni così rare a trovarsi congiunte in un uomo, che, vivo ancora, egli può esser giudicato a volta a volta dagli stessi giudici in cento modi dissimili, apparire ai lontani, sotto certi aspetti, infinitamente diverso da quello che è, rivelare anche a chi gli vive accanto da anni, con parole inaspettate e atti imprevedibili, lati nuovi e mirabili di sè stesso, essere nel suo paese medesimo adorato, odiato, benedetto, vilipeso, levato al cielo come il più alto benefattore del suo popolo e segretamente desiderato morto come un flagello vivente, come una calamità incarnata della sua patria. Lo credono i più d'animo incerto, pieghevole a tutte le pressioni di chi lo circonda, operante quasi sempre più per impulso altrui che di moto proprio; ed è invece così tenace nelle sue idee e forte nelle sue volontà, e sta così fieramente in difesa dell'indipendenza loro, che il discutere con lui—come dice uno dei suoi biografi—anche per chi egli più stima ed ascolta, è la più ardua, la più erculea delle imprese.—E così forte di volontà nelle cose grandi, è nelle piccole il più arrendevole uomo che sia stato mai, incapace di rifiutare un favore, che anche gli costi un sacrificio, a chiunque lo chiegga con dolcezza, facile come un fanciullo a lasciarsi ingannare da ogni più lieve apparenza di generosità e di rettitudine. Ha trascorso quasi tutta la sua vita fra le lotte e il sangue, in faccia alla morte, esperimentando tutte le forme dell'iniquità e dell'efferatezza umana; e ha serbato una così dolce mitezza d'animo che si leva una notte d'inverno per andar a cercare un'agnella smarrita, di cui ha udito il belato fra le rocce della sua isola, e ama gli alberi e i fiori come creature vive, e si arresta commosso davanti alla bellezza d'un'aurora o al canto d'un usignuolo, ed espande in versi i suoi affetti come un innamorato di venti anni. Il fulminatore del Papato, che vuol fondare la religione del Vero, il flagellatore furibondo d'ogni superstizione, che è per milioni di credenti il più sacrilego propagatore di miscredenza demagogica, crede fermamente in Dio, crede nell'efficacia delle preghiere di sua madre morta, che gli appare davanti di pieno giorno, crede trasmigrate in due uccelli che si posano ogni giorno sul suo balcone le anime delle sue bambine perdute. L'uomo che par fatto dalla natura alle battaglie e alle tempeste, che fa sua la sentenza del capitano spagnuolo:—«la guerra è il vero stato dell'uomo»,—e al quale si direbbe che l'alito immenso delle moltitudini debba essere un elemento necessario dell'aria che respira, ama invece di così profondo amore il raccoglimento e la solitudine, che, ogni volta ch'ei possa, frappone il mare fra sè e il mondo, e vive per mesi e per anni nel silenzio d'un'isola deserta come chi a una tal vita, e non ad altra, sia nato, e da quella non uscito mai che per forza degli eventi, a malgrado proprio, e facendo violenza alla sua natura. E quest'uomo stesso, che ha un così grande bisogno di pace e di riposo del corpo e dello spirito, nè l'uno nè l'altro riposa neppur nella solitudine della sua isola, dove lavora infaticabilmente del braccio e del pensiero: studia agricoltura, dissoda la terra, alleva animali, scrive romanzi e memorie, risponde a epistole infinite, volge in mente mille disegni, tenta tutti i problemi, incita all'opera quanti conosce. E questo, finalmente, è anche più mirabile. Salito da natali oscuri a un'altezza che nessuno raggiunse nell'età sua, vissuto tanto da veder avverato, e in gran parte per sua virtù, quello che alla sua giovinezza era parso un sogno, la redenzione d'Italia, divenuto oggetto d'ammirazione e d'amore a tutti i popoli, egli che potrebbe godere serenamente la sua gloria, considerando la propria missione compiuta e confidando che quanto rimane a fare altri faranno, egli no, egli, più grande dell'opera propria, dello stato presente non s'appaga; e non solo dello stato del suo paese, che non vede potente e felice come aveva sognato, ma dell'andamento delle cose nel mondo intero; e d'ogni grande quistione che resti a risolvere in Italia o altrove si affanna, e ad ogni grido di sventurati e d'offesi che da qualunque parte gli giunga s'impietosisce e si accora, e impreca ai violenti, tuona contro i ricchi, saetta gl'ignavi, lancia anatemi, invoca riforme; e dimentico della sua gloria, parendogli di non aver fatto nulla perchè non ha fatto tutto, si tormenta, si rattrista, s'inasprisce il sangue, è infelice. Maravigliosa l'anima sua come la sua vita. Marinaio, negoziante, maestro di scuola, lavoratore della terra, cospiratore e generale, corsaro e dittatore, liberator di popoli e scrittore di romanzi, seguìto come un nume e arrestato come un bandito, potente come un re e povero come Giobbe, chiamato il leone, il filibustiere, «Santo Garibaldi», eroe, fanciullo, mago, matto, anticristo, mandato da Dio. Avranno ragione i posteri che diranno:—è un mistero.

E qui ci arrestiamo perchè a spingerci più oltre nello studio dell'anima di Garibaldi ci manca l'ardimento e l'ingegno. Per compiere questo studio degnamente, per illuminare tutta quanta agli occhi nostri la grande figura di lui, dovremmo, prima di tutto, andar a cercare l'origine della maggior parte delle sue idee politiche, sociali, morali, e anche di molte consuetudini della sua vita privata, in quella specie di evo medio del nuovo mondo, in quel caos ardente di popoli giovani, selvaggiamente indomiti, spensierati ed eroici, agitantisi nella ricerca tumultuosa d'una forma civile di società e di governo e lottanti a un tempo contro la natura, la barbarie, l'anarchia e la tirannide; in mezzo ai quali egli temprò l'animo e la spada e si vestì d'un'armatura di gloria per le future guerre d'Italia. Dovremmo spiegare come nei grandi viaggi oceanici, nei lunghi silenzi pensieroi di marinaio innamorato del mare e del cielo, e uso a contemplare la società di lontano, a traverso al desiderio e alle immagini dolci e care dei ritorni, sia potuto sorgere in lui e farsi così saldo, da resistere all'urto d'ogni più dura esperienza delle cose e degli uomini, quel suo ideale d'un'umanità semplice e buona, d'una società rinnovata dalle fondamenta, retta dall'amore più che dalle leggi, e quasi vivente nell'innocenza dell'età primitiva; al quale accennava di continuo in forma vagamente profetica, quasi che temesse, determinando i propri pensieri, di distruggere in sè l'illusione amata. E ancora, in questo suo ideale splendido e fermo dovremmo dimostrare la ragione prima di quello sdegno amaro e generoso che lo dominò nell'ultimo periodo della vita, quando, dopo aver tanto operato per la patria, egli vide il moto maraviglioso della rivoluzione nazionale arrestarsi all'unità e alla libertà politica, lasciando qual'era la miseria delle plebi, permanenti l'ignoranza e la superstizione, intatti istituti decrepiti e privilegi odiosi e mille avanzi enormi e sinistri del passato, ch'egli credeva possibile spazzare a colpi di decreti e di leggi; e che questo non si facesse, gli pareva delitto di principi, tradimento di ministri, perfidia di parlamenti, stoltezza e ignavia codarda di popoli. E in fine, in quella sua cultura varia e strana, piena di oscurità e di lacune, nella quale s'univano la poesia, l'agronomia e la matematica, cinque lingue viventi, molte e lucide cognizioni di scienza militare e di storia antica, e canti interi di Dante e del Tasso, e con la predilezione del Foscolo, dell'Hugo e del Guerrazzi l'ammirazione gentile che lo condusse ad abbracciare Alessandro Manzoni, in quella cultura multiforme e incompiuta, che gli consentiva le simpatie intellettuali più disparate e i tentativi letterari più arditi e diversi, dovremmo rintracciar le sorgenti della sua eloquenza singolarissima di parlatore e di scrittore, di quel suo stile ingenuo insieme ed enfatico, rotto e tormentato, splendente non di rado di selvatica bellezza, e qualche volta terribile, del quale egli diede saggi indimenticabili in pagine che corruscano e scrosciano come cateratte di lava, e, supremo saggio, la sfolgorante allocuzione guerriera ai suoi legionari romani del '49. E quando il patriotta, l'idealista, l'apostolo, l'oratore, lo scrittore fossero sviscerati, rimarrebbe pur sempre, oggetto ammirando di studio, il capitano. E non già per risolver la quistione, tante volte posta innanzi durante la sua vita da ammiratori e avversari, se d'un grande capitano egli avrebbe spiegato le vaste facoltà quando avesse condotto un grande esercito: quistione accademica e vana. Ma per dimostrare come dagli stratagemmi fortunati che gli soccorrevano nei combattimenti d'un pugno d'uomini sulle rive dei fiumi e nelle foreste dell'America, risalendo a mano a mano alla condotta meravigliosa della ritirata da Roma, alla mossa stupenda sopra Palermo, alla battaglia ammirabile del Volturno e alle sapienti campagne del Tirolo e di Francia, le sue facoltà potenti di capitano si andassero allargando con l'allargarsi dei campi d'azione, e sorgessero nuove facoltà sulle antiche con l'ingrandir delle imprese.

Ma dopo tutto ciò, una cosa ancora rimarrebbe a spiegarsi, la quale sarà oggetto di curiosità grande ai nostri nipoti: da che nascesse veramente la virtù fascinatrice della sua persona prima ch'egli possedesse quella che gli venne dalla fortuna e dalla gloria delle sue gesta maggiori. E anche questa spiegazione, come quella di molte qualità singolari della sua indole, dovremmo andarla a cercare di là dall'Oceano. Poichè là la cercai e la trovai in parte, concedetemi qui di evocare un ricordo personale. Un giorno, in una delle più grandi e belle città del Rio della Plata, fui condotto, senza preannunzio, alla sede d'un'associazione popolare; dove, in due piccole sale bianche s'accalcavano molti uomini silenziosi. V'era a una parete un ritratto di Garibaldi, e alcune sue parole di saluto, inquadrate; sulla parete opposta una vecchia bandiera nera spiegata, con l'effigie del Vesuvio fiammeggiante. Quell'adunanza era tutta composta di vecchi, i più tra i sessantacinque e i settant'anni, parecchi ottuagenari; erano antichi coloni, operai, artefici, commercianti; pochi mulatti e creoli; tutti gli altri italiani; liguri e piemontesi la più parte: facce brune, solcate di rughe profonde, grandi barbe canute, rozze mani e rozzi panni, fronti severe, corpi ancora gagliardi. L'aspetto di tutti quei vecchi immobili, anche prima di saper chi fossero, mi destò un vivo sentimento di simpatia e di reverenza. Immaginate quale fa l'animo mio quando mi si disse:—Questi sono gli avanzi dell'antica legione di Montevideo e questa è la loro bandiera: sono i superstiti di quella memorabile battaglia di Sant'Antonio, di cui fu salutato l'annunzio in Italia con un grido d'entusiasmo, come quello d'una prima vittoria della nostra causa: sono quei legionari garibaldini che, moribondi di fame e di sete, circondati d'agonizzanti e di morti, trincerati dietro a mucchi di cavalli uccisi, combatterono da mezzogiorno a mezzanotte contro un nemico quattro volte più forte e uscirono vittoriosi da una delle più disperate strette che la storia delle guerre ricordi. La mia commozione di quel momento ve la potrei esprimere; ma ciò che in alcun modo non saprei rendere è l'alterezza, l'ardore, l'irruente eloquenza con cui tutti quegli uomini carichi d'anni, provati da mille vicende, occupati alcuni di gravi cure, e parecchi poveri e costretti a un duro lavoro per vivere, si misero, quasi improvvisamente ringiovaniti, a parlare del loro antico capitano, prima l'un dopo l'altro, poi dieci insieme, poi tutti in coro, raccontando, descrivendo, imitando.—Tale era il suo viso, in questo modo egli camminava e gestiva, così portava il mantello di «gaucho», così si gettava a nuoto, così mulinava la carabina.—Io son quello che gli resse la staffa quando saltò a cavallo per slanciarsi a Las Cruces a salvare il colonnello Nera, ferito a morte.—Io ero presente quando prese prigioniero quel carnefice del Millan che lo aveva messo alla tortura, e disse:—non voglio vederlo: liberatelo!—Io gli stavo accanto a Sant'Antonio quando quel cavaliere indemoniato del Gomez si slanciò solo sopra di noi per dare il fuoco alle nostre tettoie, e Garibaldi ci gridò:—Risparmiate la vita a quel bravo!—E si vedeva che quei ricordi erano il loro orgoglio e la loro gioia, che non li avrebbero dati, come diceva Garibaldi, «per un globo d'oro», che se ne pascevano da quarant'anni come d'una passione che raddoppiasse loro la vita. E io li guardavo, li ascoltavo, maravigliato, e mi veniva alla mente il proverbio turco:—chi ha bevuto una volta alla fontana di Tofanè è innamorato della regina del Bosforo per tutta la vita.—Così quegli uomini, che avevano bevuto da giovani l'incanto di Garibaldi, dopo quasi mezzo secolo lo sentivano ancora. Egli aveva segnato a fuoco sulle loro fronti il suo nome, per la vita intera. E via via che s'infervoravano nel risuscitare memorie, nelle loro parole, nei loro occhi, nei loro gesti l'immagine del Garibaldi antico mi appariva e con essa la ragione intima e prima della sua potenza. Sì, era quella faccia leonina, che accoppiava alla forza d'una testa romana la bellezza d'un profilo greco, eran quegli occhi azzurri che mandavano baleni di spada e raggi d'amore, era quella bocca fremente da cui uscivano squilli di tromba e accenti di bontà infantile, quell'entusiasmo che non contava i nemici, quella fortezza che sorrideva fra gli spasimi, quella gaiezza che cantava in faccia alla morte; e sopra tutto questo, come disse Giorgio Sand, qualche cosa d'arcano, per cui non gli somigliava nessuno, e che faceva pensare: la irradiazione dei grandi predestinati, il riflesso della visione interna d'un mondo. Sì, era tutto questo. E dissi a quei vecchi:—Continuate: voi siete le prove palpitanti della sua grandezza; egli è più vivo nelle vostre parole che in mille pagine di storia; parlatene ancora; io porterò l'eco della vostra voce nella nostra patria lontana.—E oggi per la prima volta adempio la mia promessa. Mandiamo un saluto insieme a quei prodi veterani, di cui la maggior parte vive ancora: fra venticinque giorni essi l'avranno, e sarà come un bacio della patria sulla loro fronte gloriosa.

Ma, come suole accadere delle persone amate e perdute, che noi rivediamo sempre col pensiero nel loro ultimo aspetto, più spesso che l'immagine del Garibaldi fiorente e potente di America, di Roma, di Palermo, ci si riaffaccia alla mente quella del Garibaldi degli ultimi anni: quanto mutato! Durante i suoi anni migliori, noi avevamo sognato per lui una vecchiezza vegeta e lieta, che fosse come uno sfiorire lento e quasi insensibile della sua maturità poderosa, una discesa trionfale e serena come d'un astro che tramonta. E la sua vecchiezza fu invece travagliata e dolorosa. Noi dovemmo vedere l'infermità che lo torturava alterare a poco a poco, violare i lineamenti, diventati sacri per noi, del suo viso, e stender quasi sulla sua fronte il velo della morte prima che ne fuggisse il lume della vita. Tutti i milanesi e migliaia d'altri cittadini ricordano, come una delle commozioni più profondamente pietose della loro vita, lo spettacolo dell'ultima entrata ch'egli fece nella capitale lombarda per la commemorazione dell'ultima sua battaglia italiana. Il popolo, che da anni non l'aveva più veduto, credeva di rivedere, se non il Garibaldi antico, un'immagine ancora risplendente di lui. Lo vide invece avanzarsi, portato lentamente da una grande carrozza, disteso sopra un letto come un ferito a morte, col viso consunto e cereo, con le mani rattratte e fasciate, col corpo immobile, che a stento girava ancora il capo bianco e lo sguardo svanito.—Pareva,—disse uno degli spettatori,—la salma d'un santo portato a processione da un popolo di devoti, più che il corpo vivo d'un uomo.—Non era più Garibaldi. La folla immensa, ch'era preparata a festeggiarlo con la sua gran voce di mare in tempesta, taceva, costernata, e lo guardava con un senso di stupore e di sgomento. No, nessuno poteva rassegnarsi a credere che Garibaldi non si sarebbe più levato da quel simulacro di feretro su cui si mostrava. Che la legge della vita colpisse inesorabilmente tutti gli altri, che la vecchiaia, che le infermità atterrassero col tempo ogni pianta umana più salda e più superba, si capiva; ma che avessero incatenato anche quel braccio, spento anche quello sguardo, prostrato anche quella forza, pareva quasi un errore, una violenza crudele della natura. Pareva di vedere la gioventù stessa d'Italia e tutti i nostri passati entusiasmi distesi là moribondi sotto quella specie di mantello funebre che avvolgeva il corpo dell'eroe. Le fronti si scoprivano, le mani si tendevano verso di lui, gli occhi lo accompagnavano, umidi di pianto; ma le bocche rimanevan mute. Solo un mormorio diffuso e dolcissimo, come una preghiera sommessa della moltitudine, lo precedeva e lo seguiva. Eran le voci dei giovani della nuova generazione, che mormoravano:—Noi che non abbiamo combattuto, non combatteremo più oramai al suo fianco.—Eran le voci delle donne del popolo che dicevano ai ragazzi:—Guardatelo bene perchè presto morirà.—Erano i suoi vecchi compagni d'armi che sospiravano:—Non lo rivedremo mai più!—Era la città delle cinque giornate che dava al capitano delle trenta vittorie l'addio supremo!

E dopo d'allora noi numerammo trepidando i suoi giorni; ripigliando speranza, non di meno, e rallegrandoci ogni volta che la gagliarda vitalità del suo spirito usciva ancora in qualche manifestazione improvvisa; come avvenne per l'oltraggio fatto a noi dalla Francia col trattato del Bardo, quando dal suo orgoglio lacerato d'italiano proruppero quelle parole terribili che scossero per un momento l'Italia, come un fulmine scoppiato fuor da una tomba. Ma l'opera della natura proseguiva, senza tregua, spietata e rapida: dopo ognuno di quegl'impeti, egli ripiegava il suo bel capo stanco sopra il guanciale come il pensiero nel passato. Perchè accompagnarlo con la parola fino all'ultimo istante? Quella camera nuda dove pende a una parete il ritratto di sua madre, quella finestra per cui appare il cielo sereno e la marina immobile, le due capinere che, come sempre, si vengono a posare sul davanzale, e che egli, con voce spenta, raccomanda ai suoi, perchè continuino a nutrirle quando sarà morto, l'ultimo sforzo del capo con cui si volta a domandare del suo piccolo Manlio lontano, l'ultimo atto convulso col quale si asciuga la fronte, l'ultimo sguardo lento e sorridente che volge ai suoi figli e al suo mare…. questo quadro è vivo nella memoria del mondo. Anche nella sua morte, come dice il Thiers della morte di Napoleone a Sant'Elena, «tutto fu grande, solenne e semplice».

Ed ora quale ultimo omaggio più degno possiamo rendere alla sua memoria che di rappresentarci al pensiero quella che dev'essere la prediletta delle sue visioni nel mondo sovrumano dov'egli sperava di rivedere sua madre? Rappresentiamoci questa visione, che è della nostra storia di ieri, e par già d'uomini e di gesta di secoli remoti; passino a lui dinanzi, ed a noi, i suoi dieci eserciti, le sue bandiere lacere, i suoi eroi, i suoi fratelli, i suoi figli, e dai loro cuori valorosi, commossi dal ricordo delle battaglie sacre, non dalle nostre povere labbra, erompa l'inno della gratitudine e della gloria.

Ritto, immobile sopra una roccia, che sovrasta al flutto delle generazioni, bello, biondo, superbo come negli anni più fiorenti della sua giovinezza, alzando il viso splendido e dolce di redentore, sorridendo dai fieri e profondi occhi celesti, con le braccia erculee incrociate sul petto vermiglio e i capelli d'oro e il mantello grigio dati al vento, egli li vede trascorrere ai suoi piedi, e rivive con tutta l'anima nel passato.

Qual capitano al mondo assistette mai a una sfilata più maravigliosa di armati e di memorie?

Al primo manipolo di combattenti ch'egli trasse con sè sulla piccola flottiglia della repubblica di Rio Grande contro i trenta navigli della squadra imperiale brasiliana, a quello scarso drappello temerario, così stranamente svariato di riograndesi, d'italiani, di spagnuoli, di mulatti, di negri, infiammati dal suo primo grido di guerra per la libertà, fra i quali brilla il viso ardito e onesto del Carniglia, il gigante genovese, fedele a lui fino alla morte,—tien dietro impetuosamente, cantando l'inno nazionale del Figuerroa, sventolando lo stendardo nero in cui fiammeggia il Vesuvio, la bella legione di Montevideo, dalle assise verdi, bianche e purpuree, che va a combattere in difesa della sua «patria d'esiglio»;—italiani d'ogni provincia, ricchi e poveri, commercianti e avventurieri, antichi sergenti dell'esercito sardo, futuri generali dell'esercito italiano: il giovane Medici, che porterà trent'anni dopo alla tomba del Pantheon la spada del primo re d'Italia, Francesco Anzani, suo fratello d'anima, un secondo Garibaldi, cui non mancò che la fortuna, Gaetano Sacchi, il suo primo alfiere, i primi compagni, i primi spettatori della sua aurora gloriosa, quelli ch'ei ricorderà per tutta la vita con la più dolce predilezione del suo cuore d'eroe.

Passa la legione di Montevideo, e un altro esercito viene innanzi, più tumultuoso, più ardente, più italiano, che agita in alto la bandiera di Giuseppe Mazzini: la legione dei Vicentini, il battaglione dei Pavesi, le reliquie dei suoi commilitoni d'America, il fiore dei prodi delle Cinque giornate, uno stuolo di signori lombardi, uno sciame di nizzardi e di liguri, un'accolta di combattenti di tutti i Corpi franchi dell'alta Italia, in divisa di soldati e in panni di cittadini, chiusi in casacche strappate ai Croati, vestiti del costume italico con la giacca di velluto e il cappello piumato, armati di fucili e di sciabole d'ogni forma e di spiedi e di bastoni e di scuri: l'esercito dei volontari del '48 che passa e lo saluta d'un evviva frenetico, rammentandogli il primo sangue italiano sparso su terra italiana sotto le ali vittoriose del nome suo….

Ed ecco un altro esercito più bello, più potente, più glorioso: l'esercito di Roma: i suoi valorosi di Villa Panfili e di Villa Spada, il battaglione dei Reduci, i quattrocento universitari, i trecento doganieri, i trecento emigrati, la sua brava legione del quarantanove; e primi tra i primi l'eroico Luciano Manara, stretto al fianco d'Emilio Dandolo sanguinante, nelle cui braccia rese l'anima; Goffredo Mameli, bello come un dio risorto; Emilio Morosini, l'eroe di diciott'anni, grondante sangue da tre ferite; il prode Dalla Longa, morto salvando il cadavere d'un fratello; e in mezzo alle schiere, piantala in groppa a un puledro, la sua Annita intrepida e amata che frustò i codardi sulla via d'Orvieto, e il suo fido Ugo Bassi, coronato a Bologna dalla morte che ambiva, e il gentile Luigi Montaldi, il gemello del Mameli, crivellato dalle baionette dei vinti del 30 aprile, e il Montanari, e l'Isnardi e il Marocchetti, che accettarono il suo fiero invito sulla piazza del Vaticano, e gli furono compagni in tutte le vicende dell'epica ritirata. E:—Gloria a te,—gli gridano—o grande rivendicatore di Roma!—e l'inno immortale del biondo fratello caduto ascende dall'anima loro al suo cuore.

Le note dei «fratelli d'Italia» si perdon nell'aria, e un altro esercito s'inoltra, d'aspetto diverso e nuovo, ordinato e disciplinato come un vecchio esercito, una fiumana di cappotti grigi e di berretti turchini, segnati dalla croce di Savoia, battaglioni serrati e rapidi di studenti, d'artisti, di dottori, di patrizi, d'operai, di poeti, comandati da antichi ufficiali di Venezia, di Roma e del Tirolo, l'esercito del '59, i valorosi Cacciatori delle Alpi; e tra le prime file il tenente Pedotti con una palla nel cuore, e il Guerzoni con la spalla infranta, e il De Cristoforis col ventre lacerato, e Narciso Bronzetti, superbo di tre ferite mortali, sorridono al loro generale adorato, e agitando le carabine e le spade vittoriose gli gridano i nomi delle loro tre battaglie, e al suono dei tre nomi benedetti balena la fronte augusta tre volte….

Ed ora: tre volte gloria! Ecco l'esercito leggendario, i trentamila vincitori del '60, un torrente color di fuoco, i «mille» immortali, soldati di tutti i popoli, centinaia di giovinetti e d'uomini canuti, stormi di calabresi e di «picciotti», una pleiade di generali registrati dalla storia, il Sirtori, il Cosenz, il Turr, il Lamasa, l'antico campione del Vascello; e in capo alle file dei più bravi, i morti venerabili e i feriti memorandi: il Tukery, fulminato all'assalto di Palermo, Benedetto Cairoli che gitta sangue dalla fronte, Nino Bixio che si strappa dal petto con le proprie mani la palla borbonica, Deodato Schiaffino, bello come una figura del Da Vinci, caduto sotto un'intera scarica di plotone a Calatafimi, Achille Majocchi che agita tra il fumo il braccio troncato, l'Elia che ricevette nella bocca il piombo diretto al cuore di Garibaldi, e Filippo Migliavacca, l'eroe di Varese, morto come un romano antico a Milazzo, e Pilade Bronzetti, il cui sacrificio sublime al Volturno salvò l'esercito da un colpo mortale. E tutti passano lanciando le note trionfali dell'inno del Mercantini all'immagine luminosa del loro dio.

E un altro esercito si avanza, quanto diverso da quello che s'allontana! ma pure bello e solenne nella sua austera tristezza: due legioni di soldati agguerriti d'ogni terra d'Italia, il battaglione eletto dei Palermitani, una moltitudine d'inermi, stuoli di ragazzi scalzi, di veterani coi capelli grigi e il petto scintillante di medaglie, laceri, infraciditi dalle lunghe pioggie, stremati dalle marce forzate e dalla fame, pensierosi tutti e taciturni come chi porta nell'anima una santa speranza uccisa; ma alla vista del grande caduto d'Aspromonte rialzan tutti insieme la testa e gli gettano l'antico motto: «Roma o morte!» con l'alterezza e con l'entusiasmo antico, e gli gridano:—Benedetta la tua ferita, o nostro capitano e nostro padre, poichè fu il piombo fraterno a cui t'offristi quello che ruppe, in un colle tue carni, la prima pietra delle mura di Roma!—Ed egli risponde loro dolcemente:—Benedetta la mia ferita!

E altri tre eserciti s'avanzan di corsa, empiendo il cielo del loro grido. Passano i venti reggimenti rossi del '66, fiancheggiati dalle artiglierie dell'esercito regio, portando in trionfo l'intrepido Lombardi, grondante d'acqua del Chiese, tinta del sangue della sua fronte spaccata, e il fortissimo Chiassi ferito nel cuore, e il temerario Castellina, crivellato di palle a Vezza, e le sue guide e i suoi aiutanti che fecero una barriera di petti fra lui e la morte sulla via di Tiarno, e lo stuolo eroico ch'egli spinse all'ultimo assalto di Bezzecca. E poi un'altra grande ondata di divise purpuree, biancheggianti di polvere, i bersaglieri del Burlando e dello Stallo, i carabinieri genovesi del Mayer, ultimi a lasciare il campo fatale, i lombardi e i romagnoli del Missori, e sovrastanti a tutti, soffocati dalla rabbia e dal dolore, risoluti a morire, il vecchio Fabrizi, Alberto Mario, il Friggeri, il Pezzi, il Cantoni morto, il conte Bolis morto, il Giovagnoli morto; tutto l'esercito di Monterotondo e di Mentana, illuminato da un raggio d'oro della gloria di Roma. E finalmente l'esercito internazionale dei Vosgi, vestito di mille fogge e armato d'ogni forma d'arme, una folla tempestosa d'italiani, di francesi, di spagnuoli, di greci, di polacchi, d'algerini, di soldati stanziali e di volontari e di franchi tiratori e di guardie mobili, che sollevano in alto anch'essi i loro morti gloriosi e le loro bandiere insanguinate, e confondono la loro voce con le voci lontane di quelli che passarono, gridando:—Gloria a te, che ci guidasti per tante vie e su tante terre a combattere, sempre per una causa grande come l'anima tua. Gloria a te, sempre il primo ad assalire, sempre l'ultimo a cedere, sempre il più forte nella sventura, sempre il più mite nella vittoria, sempre grande egualmente nell'ira e nell'amore, nella oscurità e nella potenza, nel trionfo e nella morte! Gloria a te, tribuno infaticato di tutti i popoli, cavaliere generoso di tutte le patrie, amore e vanto del sangue tuo e della razza umana!

E quando le ultime grida dell'ultimo esercito muoion nello spazio, un'altra folla s'avanza ancora col dolce mormorio d'un fiume tranquillo, e son le creature sconosciute a cui egli salvò la vita, i nemici a cui fu benigno, gli offensori a cui perdonò, e i feriti che rialzò da terra sul campo, e i moribondi a cui resse il capo negli ospedali, e le madri orbate a cui terse le lacrime e fece risollevare la fronte, e le fidanzate a cui tolse un fanciullo e restituì un eroe, e gli umili e gl'infelici d'ogni terra ch'egli soccorse e carezzò e benedisse; e—Gloria a te—gli gridano anch'essi, levando il volto e le mani—e sia benedetta la gloria tua!

Rimani dunque eternamente, sulla tua roccia solitaria, bello, biondo, superbo come negli anni fiorenti della tua giovinezza, col tuo viso splendido e dolce di redentore, sorridente dai profondi occhi celesti, con le braccia erculee incrociate sul petto vermiglio e i capelli d'oro e il mantello grigio dati al vento, e passi reverente ai tuoi piedi, rispecchiando la tua grande immagine, l'onda infinita della posterità.

VI.

Per Gustavo Modena.

(Inaugurandosi un suo busto in Torino.)

Ecco quale fu, nella maturità degli anni e del genio, effigiato mirabilmente, l'artista grande, il cittadino fortissimo. Per tutt'e due questa è un'ora di gloria. Come l'attore vedeva nel suo uditorio un popolo e di là dal teatro l'Italia, noi vediamo nel suo simulacro l'apostolo e il soldato della libertà, e sopra la corona dell'artista, l'aureola del patriotta.

L'Italia e l'arte furono i suoi affetti supremi, alla redenzione d'entrambe consacrò ogni sua forza; ma non di pari affetto le amò: risolutamente, in ogni evento, antepose la Madre alla Dea.

Simbolo della doppia opera sua fu egli stesso quando in Roma assediata, confidente del Mazzini triumviro, recitò a beneficio dei feriti, mentre tuonava il cannone alle mura e nelle vie dintorno squillavano le trombe. Fra le ansie e i cimenti della guerra compiva un atto benefico, in pro della patria, col mezzo dell'arte: tale fu la sua vita. E così strettamente si congiunsero in lui l'ideale dell'artista e l'intento del cittadino, la potenza del genio e la fortezza dell'animo, che non può nessuno, senza offender la ragione e la giustizia, scindere virtù da virtù nell'ammirazione che gli tributa.

Nel Davide ventenne che esordisce superbamente a Venezia due anni dopo che è nata Adelaide Ristori, quattro anni prima che nasca Tommaso Salvini, palpita ancora l'intrepido studente di Padova che una santa indignazione avventa, inerme, contro le baionette tedesche da cui ha le carni lacerate. Nel Cittadino di Gand, spregiatore della morte, freme il patriotta del 1831 che vuol morire sotto le rovine d'Ancona e che nella difesa sanguinosa di Cesena arrischia fra i più temerari la vita. Vestito del lucco fiorentino, quando primo fra gli stranieri dà volto e voce alle ire magnanime di Sordello e Farinata, egli è l'esule doloroso che Dante perscruta «scendendo in sè stesso» e nelle calamità dell'Italia dei suoi giorni comprende lo spirito del poema sacro. Ed è ancora il difensore valoroso di Treviso e di Palmanova che ci appare sotto l'assisa del sergente Guglielmo; è il potente oratore dell'assemblea costituente toscana, propugnante l'unione immediata a Roma, che tuona nell'eloquenza infiammata di Caio Gracco; e nel diacono di Ravenna, che narra a re Carlo il passaggio ardimentoso delle Alpi, mentre l'autor dell'«Adelchi» ascolta ed ammira, parla il fuoruscito senz'asilo, che valica a piedi le montagne del Giura, lacero e digiuno, ma non prostrato dell'animo, divorato dalla febbre, ma sorridente d'amore alla sposa eroica e dolce che lo accompagna.

Dubbio è veramente sotto quale aspetto gli si debba oggi onoranza maggiore. Nobile, ammirabile è l'artista sommo che, offertagli la direzione della regia Compagnia sarda, ricusa per coscienza repubblicana il lucro e l'onore, e va di città in città, di villaggio in villaggio, principe ramingo e solitario dell'arte, non chiedendo all'arte che la vita, e trascinando la sua gloria come una croce. Ma ammirabile non men dell'artista è il ribelle che, minacciato dal capestro austriaco e dalla mannaia romana, tradotto in catene a Messina, scampato per miracolo in Francia, ritorna a sfidare il carnefice nella Romagna insorta, donde non porta in salvo la testa che per avventurarla un'altra volta tra i primi nell'insurrezione di Savoia. Ma ammirabile non men del ribelle è il cooperatore proscritto della «Giovine Italia» che, scacciato da Marsiglia a Berna, da Berna a Bruxelles, da Bruxelles a Londra, esercitando i commerci più umili, rifiutando i sussidi, stentando il pane, porta alta fra ogni gente la dignità della sua bandiera e della sua sventura. E più grande dell'attore trionfante, nel pieno splendore della sua fama, fra gli applausi frenetici di Milano redenta, è l'attore del 1848, al quale i primi annunzi del ridestarsi d'Italia confondono il cuore e troncano la parola alla ribalta; è il direttore di Compagnia che scrive al compagno d'arte e d'affari:—«Guerra e rivoluzione sciolgono ogni contratto»—e calpestando danaro e corone accorre per la quarta volta, soldato della patria, dove fuma la polvere e il sangue.

Cittadino e artista, ebbe due grandi intenti: innalzar l'arte ad apostolato di risorgimento nazionale, facendo del palco tribuna all'amor patrio, altare all'eroismo, gogna alla tirannide, e rigenerar l'arte stessa riconducendola al vero, senza deviarla da quell'ideale del bello e del grande, cha fu il sole dell'anima sua.

Ma convien ricordare quali fossero l'arte e il teatro quando, reduce dall'esilio, egli s'accinse all'opera, per comprendere qual cumulo di difficoltà gl'ingombrasse la via, quanto vigor di coraggio e di costanza gli occorresse a superarle, e come fosse da tanto egli solo che, già chiaro per ardimenti, dolori e invitta fede italiana, raccoglieva in sè il rispetto e la simpatia delle varie classi cittadine, nel sentimento della patria concordi, nel sentimento dell'arte divise.

Cadente il regno della tragedia classica e della commedia goldoniana e non ancor pregiate che dalla schiera colta le opere italiane dei nuovi ingegni e le poche buone che venivan d'oltralpe; appassionata la moltitudine per un bastardo romanticismo drammatico, nel quale ai pochi attori eletti che, pur piegando al falso, intendevano al vero, prevaleva un branco d'istrioni manierati e gonfi come il linguaggio dei loro eroi; miserrimo non per tanto lo stato della più parte delle compagnie comiche, preferendo l'aristocrazia il teatro francese e la borghesia la musica, a cui il teatro di prosa era anche peggio d'ora immolato; disparatissimi infine, senza confronto più che al presente, per essere smembrata l'Italia, i gusti delle varie cittadinanze, che dalla scena distraeva il presentimento, la preparazione, l'incalzarsi dei grandi avvenimenti politici: tali erano il teatro, l'arte, il pubblico quando Gustavo Modena sorse.

In così aspro campo, in contro a tante forze ebbe a combattere, e combattè tutta la vita.—Memorando ardimento!—come disse dell'Alfieri il Leopardi. Gli è strappato il frutto di otto anni di fatiche dalla confisca austriaca del suo podere di Treviso; da una città all'altra d'Italia è costretto a viaggiare con le cautele d'un fuggiasco per evitar gli Stati donde è bandito; è relegato da ultimo dentro ai confini del Piemonte e della Liguria dove gli è forza di scendere fino ai teatri più miseri, e dalla salute mal ferma è ricondotto ogni inverno al suo romitorio di Torre Pellice, donde lo ricaccia alla scena, e dalla scena al commercio, il bisogno; ma non si perde d'animo mai. Altero e indomabile, egli lotta con le censure dispotiche, coi municipii gretti, con gli appaltatori ingordi, con le compagnie privilegiate, con cittadinanze indifferenti o, per ragion di parte, malevole, che gli avvelenano la gioia dei trionfi, e, pure lottando e peregrinando senza tregua, lavora e crea senza posa. Crea personaggi, educa alunni, divina ingegni, incoraggia autori, propone e discute soggetti di dramma, ricorre tutte le letterature drammatiche, commenta e traduce, scrive di politica e d'arte, vagheggia fino agli ultimi giorni, per il risorgimento del teatro, il suo sogno d'una Compagnia libera, e soltanto sul letto di morte, e dopo aver provveduto alla sorte della moglie adorata che gli singhiozza sul cuore, trova finalmente riposo. Quanto fu tempestosa la sua vita, tanto la sua morte è serena; affranto da tante fatiche, egli s'addormenta senz'affanno, e sul suo viso tragico, ultimo riflesso della coscienza intemerata, resta un sorriso.

Quale fu l'arte sua? Audacia sarebbe il tentar di descriverla con ricordi vaghi dell'adolescenza. Ma chi lo potrebbe far degnamente?

Dicendo, come altri disse, che classico e realista ad un tempo, e novatore senza infrangere ogni tradizione della scuola antica, studiava i grandi personaggi nella storia, nella letteratura, nell'anima propria, e li coloriva giovandosi con sagacia acutissima della sua varia e profonda esperienza della vita, e dava loro con efficacia insuperabile il grido delle sue gagliarde passioni, si dice l'armonia e la profondità delle sue facoltà artistiche, non l'originalità stupenda della sua recitazione.

Dicendo che, maestro impareggiabile nell'arte di modulare il verso e il periodo e di dare allo studio faticoso l'apparenza dell'ispirazione spontanea, egli accoppiò a una mobilità maravigliosa del volto una voce a cui erano concessi i passaggi più ardui e le note più alte e terribili che possano erompere dal petto umano, che la sua persona poderosa si ergeva come la forma ideale della maestà e della forza e si piegava e immeschiniva fino all'aspetto più compassionevole dell'infermità e della miseria, e che il suo passo parlava e il suo gesto scolpiva e i suoi occhi fulminavano, si dice quello che d'altri grandi attori fu detto.

E chi anche lo descrivesse nella rappresentazione intera d'un personaggio, rammentando, come altri fece, le voci, i gesti, i passi, ogni idea sua propria, renderebbe pur sempre una sola delle cento facce del suo genio; il quale da Lindoro a Saul, da Luigi undecimo a Edipo, ascese tutta quanta, la scala smisurata del dramma, come nella dizione magistrale della «Divina Commedia» risalì da Vanni Fucci a San Pietro.

Potremmo accumulare immagini sopra immagini, e faremmo per chi non l'intese opera vana, come il definir con parole a chi non lo vide ciò che distingue dagli altri mille il viso d'un uomo. Non v'è giudizio di posteri per l'arte che rifà più vivamente la vita. Grida di dolore e di sdegno a cui sobbalzava la folla come alla voce stessa della patria e in cui pareva espandersi l'odio d'un'intera generazione contro la tirannide, scoppi di pianto disperato onde mille visi impallidivano, lampi della parola che illuminavano recessi ignorati dell'anima e altezze non prima vedute del pensiero ond'egli era interprete, e atteggiamenti nobili e superbi come forme statuarie di Michelangelo, voi non siete più che nella mente d'alcuni, nati nella prima metà del secolo, e sarete fra pochi anni scomparsi affatto anche dalla memoria degli uomini.

Scomparsi, ma non perduti.

Come non si perde l'acqua fecondatrice che la terra beve e rispande in umor vitale su per le fibre dell'erbe e degli alberi, tale è di tutto ciò, che fu la grande arte sua: gli accenti, gli atti, gli sguardi, tramutati in forza di passione e di idee nella generazione che li vide e li udì, operano ancora, eredità ignorata, nella generazione presente, e in mille echi e riverberi vivono tuttavia nell'arte d'oggi, e nell'arte avvenire perdureranno. L'arte si trasforma e procede, ma Gustavo Modena non muore. Sulla fronte dei novatori più arditi brilla ancora un raggio del suo spirito, e fin che nel teatro italiano avranno culto la verità e la grandezza, ad ogni rappresentazione dei capolavori ch'egli segnò del suggello del suo genio, si vedrà passare in fondo alla scena l'ombra enorme del suo capo.

Ma non nell'arte soltanto e nel nostro spirito: rimane gran parte dell'anima sua in quell'epistolario incomparabile, nel quale, più che l'arguzia inesausta e la cultura varia e l'agile vigore d'uno stile esuberante di vita, anche i suoi più fieri avversali politici son forzati ad ammirare la sincerità profonda e la saldezza incrollabile della sua fede.

Repubblicano fu, nel fondo dell'anima, dalla prima giovinezza alla morte, e propugnatore d'una politica audacemente rivoluzionaria, aborrente da ogni aiuto straniero, che non procedesse anch'esso da rivoluzione, intendendo a una confederazione europea di repubbliche. E certo è che quanto ei voleva sarebbe stato saggio e attuabile se tutti gli italiani avessero avuto mente e fibra pari alla sua. Questo appunto egli credè fermamente, come lo credè il suo maestro; onde gli parve verità afferrabile quell'ideale che, giusta la sentenza d'un grande, è la verità veduta di lontano; e lontana facevano allora la verità dalla sua fede le moltitudini immature a quella forma di reggimento liberissimo e impotenti a quell'azione indipendente, unanime, eroica, fuor della quale egli non vedeva salute. Il disinganno lo trafisse; ma da quello ch'ei stimò errore e sventura del suo popolo, non da misere ambizioni deluse, non da angusto risentimento d'orgoglio offeso, derivò l'amarezza iraconda che lo fece così fieramente severo coi suoi contemporanei e con l'opera loro. E però il suo dolore è nobile, l'ira generosa, e il grido che s'alza dalla sua coscienza spartana contro la servilità e la corruzione che dànno di sè i primi segni, è grido di profeta. E fa professione di scettico invano: egli infuria e impreca perchè soffre, e soffre perchè ama ancora; e nel suo riso di disprezzo trema un ruggito e il sarcasmo atroce che gli scatta dalle labbra stilla sangue del suo cuore.

Ah, quanto è diversa l'opera dell'uomo dalla parola della sua collera! Dice:—Disprezzo il mio prossimo, sono nauseato di tutti e d'ogni cosa;—ma, stanco e infermo, e bastante appena a provvedere a sè stesso, recita a beneficio di compagni d'arte e di Società operaie, soccorre emigrati e proscritti, e fino a pochi giorni prima di morire porge la sua povera borsa a quanti naufraghi del teatro gli tendon la mano. Scrive:—L'Italia è morta; stoltezza è sacrificare i moltissimi buoni alla rigenerazione dei molti vilissimi;—ma sottoscrive a prestiti per la causa italiana, sussidia giornali, fonda tiri a segno, dà il suo obolo e il suo consiglio per affrettare ogni moto in cui appaia un barlume di speranza, e la notizia dei supplizi di Mantova gli strappa dall'anima dilaniata lacrime di sangue. Afferma—che il nome della sua patria gli s'è fatto odioso e che vuol rifugiarsi e farsi seppellire in un angolo della Svizzera dove non ne giunga più il suono;—ma, invitato a recarsi in America, dove potrebbe assicurar l'agiatiezza della sua vecchiaia, dalla patria non ha il coraggio di staccarsi e, indispettito contro sè medesimo, rifiuta, e resta nel suo eremo, dove si leva innanzi giorno per attinger l'acqua e accendere il fuoco. Grida in un impeto di rabbia:—Meglio la casa d'Absburgo che ci trattava a ragione come negri;—ma quando in nome dell'arciduca Massimiliano gli sono offerti salvacondotto, onori e guadagni perchè vada a recitare in Milano austriaca—No—risponde—piuttosto la fame.

Tale era in fondo questo povero grande cuore ferito che, a parole, malediceva la patria e rinnegava l'umanità; tale era quest'anima in stato di procella perpetua, quest'artista glorioso e sdegnoso che, se il teatro gli fosse stato precluso, sarebbe riuscito uno scrittore illustre, che, se a più alte prove lo avessero posto gli eventi, sarebbe stato un eroe, che se avesse sortito la ricchezza l'avrebbe usata come quei benefattori insigni che la storia ricorda e il popolo benedice.

Bello è che sorga un monumento in suo onore nella Capitale del Piemonte, che fu ultimo rifugio alla sua vita errante e campo dei suoi ultimi trionfi. Non meno di quello che sorgerà nella sua Venezia nativa sarà rispettato e amato questo dal popolo, che per trent'anni lo attese. E la gioventù verrà con reverenza a contemplare questa fronte che non piegò mai, questi occhi in cui rifulse il genio, questa bocca che non macchiò nè adulazione nè menzogna, questo petto nel quale fremettero tutti i dolori e tutte le ire della patria oppressa, e che con pari coraggio sfidò la tirannia, sopportò la povertà, lottò per l'ideale e affrontò la morte….

Resti qui dunque perpetuamente, o Maestro venerato, la tua immagine, fidata alla guardia amorosa di questa Torino che raccolse il tuo ultimo sospiro e custodisce le tue ossa; resti invulnerata dai secoli al bacio del sole e della gloria, e dalla bocca di pietra spiri ancora alle generazioni venture il soffio della libera e grande anima tua.

VII.

Per Felice Cavallotti.

Sono trascorsi sette giorni; alla prima oppressione dello sgomento e del dolore, che ci oscurarono lo spirito e ci strapparono il pianto dal cuore, è succeduta la tristezza profonda e lucida, che ricorda, medita e lamenta: eppure non possiamo ancor pronunziare senza un fremito d'angoscia ribelle a ogni rassegnazione, senza una ripugnanza del cuore incredulo e delle labbra tremanti—come se fossero un'orribile menzogna, queste tre sciagurate parole:—Felice Cavallotti non è più!—Noi non possiamo rassegnarci a pensare:—Altre ingiustizie pubbliche, altre violazioni della libertà, altri conati della reazione si succederanno,—ed egli le ignorerà; la patria patirà nuovi dolori, correrà nuovi pericoli, subirà forse altre vergogne—e le sue labbra taceranno; altri frodatori del comune avere, altri corruttori delle istituzioni patrie e profanatori del santo nome d'Italia compiranno le loro imprese, e la sua mano vindice—smascheratrice implacabile di tutti i mercanti del patriottismo—rimarrà inerte; supremi interessi nazionali si discuteranno, si combatteranno grandi battaglie politiche, care feste della patria, anniversari di giornate gloriose, conquiste e trionfi della libertà e del diritto si celebreranno in adunanze fraterne e solenni,—ed egli non v'assisterà. Felice Cavallotti che voleva dir forza, moto, azione, speranza inestinguibile, giovinezza perpetua—Felice Cavallotti che per noi teneva luogo d'una legione, del quale sentivamo anche da lontano l'alito possente e la voce che echeggiava sul paese come uno squillo di tromba—Felice Cavallotti che la nostra immaginazione, precorrendo il tempo, godeva a rappresentarsi ancora operoso e combattente nell più tarda vecchiaia, circondato dalla reveranza e dalla gratitudine pubblica…. bisogna pur che ci rassegniamo a profferire, a ripetere, a configgerci nel cervello e nel cuore queste tre terribili e quasi incredibili parole:—Felice Cavallotti e morto!

Commemorarlo? A che pro, se da tanti giorni non si parla che di lui? se la sua vita intera è presente al pensiero di tutti? E com'è possibile, mentre dura intenso ancora il dolore, aver libera la facoltà che ordina i fatti, collega i particolari, chiarisce e giudica i moventi e gl'intenti delle passioni e degli atti? Altri farà questo un giorno, forse molti lo faranno, e faranno opera utile e bella. Lo prenderanno fanciullo, crescente nel seno d'una famiglia amorosa, ma più vicina alla povertà che all'agiatezza, esercitato fin dai primi anni a sopportar con animo forte le privazioni, educato agli studi severi dal padre, dotto filologo, ch'egli aiuta nei suoi lavori; spiegheranno come nella furia delle sue prime letture di libri cavallereschi abbia avuto origine quello spirito generoso, avventuroso, battagliero, irrequieto che agitò tutta la sua vita; lo seguiranno a passo a passo, da quando, poco più che fanciullo, si mette a capo d'una dimostrazione patriottica e vaticina in un opuscolo l'unificazione della Germania, via via, per le varie tappe, soldato dì Garibaldi a Milazzo e al Volturno, collaboratore dell'«Indipendente» del Dumas a Napoli, poi a Milano, studente di legge, poeta e giornalista ad un tempo, faticante per guadagnarsi il pane; poi soldato un'altra volta nel '66, combattente a Vezza, in Val Camonica; poi da capo giornalista, nella capitale lombarda, polemista baldanzoso e indomabile, che smette a ogni tratto la penna per impugnare la sciabola; tradotto di processo in processo, fuggiasco all'estero, nascosto in Milano, poetante nella prigionia, e dopo ogni processo e ogni prigionia più infiammato e più audace di prima.

E pervenuto a questo punto il biografo non sarà ancora che al principio. Egli dovrà accompagnarlo nella sua vita parlamentare per un quarto di secolo, deputato di Corteolona, di Pavia, di Milano, di Piacenza; saldo sempre nella sua fede repubblicana, ma, com'egli disse—«italiano prima, repubblicano poi»;—lottante, salvo rare e brevi tregue, contro tutti i ministeri; paladino dell'Italia irredenta, nemico dell'alleanza austriaca, oppugnatore degli armamenti rovinosi, avversario della politica affricana, denunciatore di tutte le violazioni della legge, di tutti gli abusi del potere, di tutti gli sperperi dell'amministrazione; fiero, infaticabile rivendicatore della moralità pubblica, fu istigatore di tutti i prevaricatori e corrotti e complici loro, potenti ed oscuri, nel parlamento, nella stampa, nei tribunali, nei comizi, in tutte le regioni e da tutte le tribune d'Italia. Ma dovrà aggiungere il biografo come a questa lunga e guerresca vita parlamentare, segnata di discorsi e di tempeste memorabili, egli intrecciasse ancora, quasi senza interruzione per molti anni, l'opera poetica e drammatica, alternata di dure lotte e di vittorie sudate, e come all'opera della creazione artistica accompagnasse l'opera erudita, critica e polemica, condotta con lunghi e pazienti studi, nel campo del teatro, della storia, della nuova poesia: opera interrotta alla sua volta da nuovi processi, da nuovi duelli, da nuove tempeste, da commemorazioni ispirate e memorande di grandi fatti e di grandi morti, e da faticose e ardimentose campagne elettorali; e come infine in mezzo alle lotte, alle cadute e ai trionfi, inteso sempre e soprattutto alla grande voce del paese, egli abbandonasse ogni cosa sua quando suonava il grido d'una sventura pubblica, e accorresse a Napoli e a Palermo a soccorrere e a confortar le vittime dell'epidemia col coraggio d'un eroe e con l'amor d'un fratello. Sì, ammirabile vita, nella quale i venturi, secondo i principii politici e l'indole loro, potranno trovare errori, violenze, temerità, disarmonie; ma non disconoscere una grande forza diretta da una coscienza onesta, da un profondo amore della patria, da un'ardente passione per la verità, per la giustizia, per il bene;—ma non rifiutarsi ad ammirare una maravigliosa cospirazione di virtù della mente e dell'animo, rarissime a trovarsi riunite, quali son l'impeto dell'entusiasmo e la tenacia ferrea della volontà, la vigoria infaticabile del pensiero e dell'azione, e con una nobile ambizione di gloria, col sentimento e il culto della bellezza, con la vivacità degli affetti, con tutto quello che fa bella e cara la vita, la forza d'un cuore sempre pronto ad affrontar le persecuzioni, gli odii, il dolore, la povertà, a rinunziare senza titubanza e senza rammarico a ogni bene della vita e alla vita stessa, come se per lui la pace, gli affetti, la gloria, l'esistenza non avessero valore alcuno se accettate a prezzo di una transazione con la propria coscienza a d'una violenza fatta alla propria ragione. Sì, ammirabile vita, che si può simboleggiare in questa bella figura: un soldato con la camicia rossa, con una corona di poeta sulla fronte, ritto sopra una tribuna; il quale mostra le mani alla patria per cui ha combattuto per quarant'anni con la spada, con la penna e con la parola, e le dice:—Guardate, sono pure! Non le ho macchiate mai che del mio sangue.

Vediamo ora, rapidamente, il poeta lirico, il drammatico, l'oratore, il polemista, il cittadino, l'uomo.

Poeta fu, nel più profondo dell'anima. Di poeta ebbe—per usar le parole d'un suo illustre avversario—il soffio, l'essenza alata, l'anima lirica. Non cercò nuove forme: fece sue quelle della poesia patriottica che palpitava in tutti i cuori quand'egli s'affacciò alia vita, le forme del Rossetti, del Berchet, del Manzoni. Dice egli stesso all'autore della «battaglia di Maclodio»:—«quest'umile cetra apprese le forme da te, e il mio canto modula alla tua scuola gli accenti d'una speranza che non è più la tua».—L'impeto della passione soverchiante non gli poteva consentire le sottili e pazienti industrie di stile e d'armonia, che più tardi vennero in onore. La sua poesia fu propriamente un canto sgorgante dall'anima, poesia di battaglia, piena dì strepito d'armi, di schianti di fulmine, di fremiti di popolo, di grida d'ira e di dolore. La successione delle sue strofe di decasillabi somiglia all'incalzarsi di manipoli di combattenti che corrono all'assalto; nelle quali le rime sono punte di spada e i tronchi finali urrà di vittoria. Ma nell'uniformità dei metri facili e sonori, quanta varietà d'ispirazioni, dall'inno alla satira, alla romanza, all'elegia, all'epigramma, ed anche quanta sincerità e freschezza giovanile di passione! L'anima affaticata dagli urti e dalle procelle, ferita qualche volta dal taglio del sarcasmo di qui si fa arma, si rifugia in sè stessa, cerca conforto negli affetti gentili e pace in fantasie e sogni di solitudine e di oblìo, e allora un nuovo poeta vi appare, d'una dolcezza e d'una delicatezza squisita, che vi tocca le più intime fibre del cuore. Ma già questo poeta voi lo indovinate anche nelle poesie di battaglia, dove a ogni tratto spunta un fiore, brilla una goccia di pianto, suona una nota di mestizia soavissima. Vi ricordate quando dice al Manzoni morto:—«dormi, o vecchio, e sopra la tua zolla ti conforti i placidi sonni la rosa che ti donò Garibaldi»?—e quando dice a Adelaide Cairoli, rammentandole il giorno che pregava alla tomba del suo primo figliuolo caduto:—«Ma allora, dopo la preghiera, ti rialzavi più forte, perchè ti rimanevano, ti baciavano ancora in viso quattro figli; e t'era così dolce il cercare su quei quattro volti il sorriso del tuo morto!»—E quando al poeta che impreca, infuriando, al cadavere della donna amata che lo fece soffrire, dice quella dolce e sapiente parola:—«Ah no, non insultarla! Ah non nelle maledizioni e nello scherno troverai il refrigerio che vai cercando, povero poeta! Tu non sarai guarito se non il giorno che perdonerai!»

E vorrei proseguire: vorrei imitar l'esempio di Emilio Augier, che all'Accademia francese, dovendo tesser l'elogio d'un poeta illustre, disse:—Quale omaggio migliore gli si può rendere che quello di recitare i suoi versi? e conchiuse:—Non aggiungiamo nulla: portiamo con noi intera la nostra commozione, e che il poeta tramonti nella sua gloria.—Ma recitar quei versi che furono la più schietta e calda espressione dell'anima sua, e darmi così l'illusione di riudir quella voce che non udrò mai più, non potrei: la commozione me li soffocherebbe nel cuore. Evochiamo una sola, la più bella forse delle sue creazioni, quella in cui più mirabilmente s'accordano l'altezza del concetto, la grandezza del disegno e l'andamento grave e solenne del ritmo che par che segni il passo di Leonida armato nel silenzio della notte. Alla mente di tutti, senza dubbio, è presente la figura augusta dell'eroe che, al raggio delle stelle, risorto dalla tomba d'Antelo, con la grande asta nel pugno, discende, circonvolato dall'aquile, per andar a cercare se sia sorta nel mondo una nuova gloria pari a quella delle Termopili, e riposar là, in mezzo ai fratelli degni, dei suoi trecento. Si sofferma, ma non si arresta a Clierniea. No,—dice ai Tebani morti che lo chiamano:

No, no, dormite in pace! Vano fu il sangue, eroi! Periste e non salvaste l'ellenia libertà!

Giunge a Maratona; ma non s'arresta.—No,—grida ai caduti che lo invocano—qui non rimango.—

Tutto, voi, tutto aveste! la gloria e la vittoria Pei lari! È troppo dolce, morti, dormir così!

Giunge alle isole Arginuse, sulle onde sparse di triremi infrante e di salme insanguinate; ma non cede all'invito di Callicràtida: «No»—dice—«foste prodi, cinque contro venti; ma foste Elleni contro Elleni—e fu una squallida lotta».

Giunge al campo di battaglia d'Isso; ma procede, dicendo ai soldati di Alessandro, vincitori dei Persiani:

… Salvete, o morti! Leonida non dorme Dove a un tiranno i lauri il greco acciar donò.

E non s'arresta a Gerusalemme dove l'invocano i crociati spenti, perchè, dice, «io non pugnai per espiar peccati nè mossi in cerca d'avventure e di ricchezza». E non s'arresta alle Piramidi, alla voce dei soldati di Buonaparte, perchè, grida:

Io non guidai sul colle i miei Trecento a Dite, La libertà sul labbro e la conquista in cor!

E non s'arresta a Zama, dove gridano il suo nome i soldati di Scipione, sgominatore d'Annibale:

E voi giacete! Io passo! Troppi eravate in campo! E i numidi elefanti v'apersero il sentier.

E trascorre oltre il campo di Munda, sordo alle voci dei legionari di Cesare, ai quali rinfaccia il motto del capitano:

Sul colle io per la patria pugnai, non per la vita: Vincitori di Munda, lasciatemi passar!

E attraversa fiumi e monti, passa il Pirene, giunge in Provenza, si sofferma sul Rodano dove Mario distrasse i Teutoni; ma non s'arresta alla voce dei soldati di Mario, perchè sul sacro colle egli non attese, scrutando le stelle, l'ora in cui potesse combattere con la certezza della vittoria.

E varca le Alpi e scende in Lombardia; ma, sospinto dal ricordo della pace di Costanza, neppure a Legnano si arresta, perché

Se non dà frutti il sangue che val gloria d'allori? Se libertà non germina, che val d'armi virtù? Morti feconde io cerco, non vinti o vincitori; Morti feconde e libere, tra quei che non son più.

E giunge finalmente sulla riva del Tevere, in vista di San Pietro, davanti a un'ara modesta, donde cento voci fioche lo salutano:

Noi pur, noi pur pugnammo in cinque contro venti, E non fu indarno, o patria, nè il sangue, nè il morir!

A noi non la vittoria, ma dei fiacchi lo scherno: Non i felici oròscopi, ma il pallido dover: Non fratricidi allori, ma l'abbandon fraterno: Non di tiranni il soldo, ma il raggio d'un pensier.

L'alme donammo al fato, non bugiarde parole, Dall'ombra degli avelli guardando all'avvenir!…— L'Ombra, inchinando l'asta, grida:—Stanotte vuole Coi morti di Mentana Leonida dormir!

E così ora «tramonti il poeta nella sua gloria» accanto al suo Leonida, egli che alle Termopili sarebbe morto tra i primi, e che in difesa della libertà e della giustizia combattè per trecento.

L'autor drammatico. Nessuno, certo, attende qui un'analisi ragionata di quell'opera complessa e varia, coronata di successi clamorosi, provocatrice di aspre battaglie, feconda di tante vive discussioni storiche e artistiche, nella quale dal dramma storico in versi, i «Pezzenti», il «Guido», l'«Agnese»,—dove la poesia e la fantasia predominavano e la storia non era che fondamento e facciata,—Felice Cavallotti passò al grande dramma storico in prosa—l'«Alcibiade» e i «Messenj»—poggiato sopra una più minuta indagine del tempo e sopra un più profondo studio del vero, per trascorrere poi, con la «Sposa di Menecle», alla commedia intima di soggetto antico, e infine al moderno dramma psicologico, spingendosi fino all'idillio e al proverbio. Il cuore e la ragione insieme si ribellano oggi anche a una critica riverente. A noi basta rammentare che se neppur nel teatro non cercò nuove forme, attenendosi, come voleva la natura del suo ingegno, alla tradizione romantica, sulle traccie di Victor Hugo e dello Schiller, anche nel teatro portò il soffio della sua anima lirica, che tutto riscalda e vivifica, la santa fiamma dell'amor di patria e di libertà, una forza grande di sincerità giovanile e di virile coscienza, un continuo, amoroso, poderoso conato verso la bellezza e la grandezza, che ci leva in alto lo spirito e ci move il cuore anche quando non arriva dove fende. Chi potrebbe oggi esaminare, ponderare, discutere, mentre le creature della sua mente ci si affollano intorno velate di nero come la sua immagine, a cui fanno un corteo dolente e glorioso, come figli intorno al simulacro funerario del padre? Altro non possiamo fare che rammentarle e salutarle. E sfolgorante Raul che, levando la spada in cospetto al cadavere di Maria, grida al duca d'Alba: «Troppo tardi. Oggi saremo in molti ai funerali. A me, pezzenti!»—È tragico il vecchio padre traditore del suo sangue che svela al figliuolo adorato la propria infamia, mentre suonano i rintocchi della campana che lo chiamano a combattere, con quelle semplici e terribili parole:—«Ferma! Io son Guido!»—È bello e generoso il giovine Scandiano che al duca di Mantova, ebbro di piacere e d'orgoglio, narra tra gli splendori della festa la fame e la disperazione del popolo di Mantova. È splendido il vecchio re di Messenia che, ritto sulle rupi, strappa la bandiera tirannica di Sparta e chiama alla rivolta il suo popolo col superbo grido:—«dove passa Aristomene, Sparta non ha bandiera!»—E pietoso e venerando è il vecchio Menecle che riprende dalle pareti lo scudo e la spada antica per chiedere alla morte per la patria l'oblio della dolce illusione perduta. E più alto di tatti, come una statua d'oro e di bronzo, segnata di mille colpì, ma salda e trionfante ancora sul suo piedistallo di marmo pario, ci sorge davanti il greco gigantesco e multiforme, che riunì in sè Cesare e Coriolano, Sardanapalo ed Antonio,—«tutte le faccie del polièdro umano»—e mentre passano dietro di lui, come visioni, i giardini e le piazze, le sale d'Atene, la spiaggia di Sicilia, il lido di Sparta, le acque dell'Ellesponto, le montagne di Frigia, e quella fuga maravigliosa d'assemblee, di eserciti, di campi di battaglia, di feste trionfali e di solitudini, che pare il giro di un mondo intorno ad un uomo,—noi non salutiamo in lui l'Alcibiade antico, vincitor di Bisanzio e di Calcedonia, ma la creazione più grande, più fortunata, più cara del poeta perduto; la salutiamo con la certezza che, quando pure dovessero le altre andar travolte dal tempo, quella resterà, splendida e palpitante di vita immortale. E se anche tanti pregi di pensiero e d'ispirazione non risplendessero nelle sue tanto applaudite e combattute opere drammatiche, sarebbero queste ancora amate e riverite da noi per il tesoro di studi amorosi e di dotti commenti che egli vi profuse intorno, per le tempestose ansie giovanili che gli costarono, per le ebbrezze ardenti che gli diedero, per i profondi e dolci conforti che recarono ai suoi grandi dolori e alle sue affannose fatiche di soldato della libertà e di tribuno della patria.

Eppure la più alta e potente manifestazione del suo ingegno e dell'animo suo egli la diede, a nostro credere, nell'oratoria. Oratore grande, insuperabile forse, se la natura non gli avesse negato qualcuna di quelle piccole doti sussidiarie, puramente fisiche, onde il grande oratore s'integra. Due oratori erano in lui, potenti del pari. L'oratore popolare e improvviso, che stentatamente incominciava, che vi faceva assistere al lavorìo, alla lotta laboriosa e violenta del sentimento e del pensiero con la parola, e che poi, infervorato dal suo sforzo medesimo, trascinato dalla passione, sprigionava un torrente di idee e d'immagini, dalle onde irruenti e sonore, e travolgeva ogni forza restìa dell'uditorio;—e l'oratore parlamentare delle grandi occasioni, che del discorso ordiva avanti la trama, nel quale le idee si svolgevano ordinate e concatenate, col corso largo e pieno d'un grande fiume, e logica, sentimento, precisione quasi scientifica di forma, tutti gli accorgimenti più fini dell'arte s'univano con l'ardore d'un'alta ispirazione, che tutto levava in alto. L'oratore nato, sussidiato dall'artista letterario, si rivelava nell'architettura ardita e grandiosa del periodo, sorreggente una grande quantità di idee accessorie, aggruppate armonicamente intorno all'idea principale, intarsiato di parentesi e d'incisi che, senza fare ingombro, illuminavano il concetto come di tanti raggi successivi, e condotto vittoriosamente, fra ogni sorta di pericoli, ad una frase geniale che superava tutte le altre in efficacia, e che nello stesso tempo giungeva inaspettata e pareva necessaria.

Maraviglioso era veramente come un uomo di natura così impetuosa sapesse, quando occorreva, trovar le parole gravi, misurate, guardinghe che facevan passare senza contrasti le idee più audaci, quasi rispettate per la dignità dell'abito; come qualche volta, nell'infuriare d'una tempesta, quasi per effetto d'una illuminazione improvvisa dell'intelletto e dell'animo, egli lanciasse, in luogo delle parole eccessive che tutti aspettavano, una così sincera e nobile invocazione alla concordia per l'interesse supremo della patria, che n'eran tutti gli animi disarmati e placati; come da quella bocca, donde erompevano tanti tuoni e tante fiamme, potesse sgorgare, al bisogno, un rivo d'eloquenza così mite e così serena. Vi ricordate di quel mirabile parallelo tra il generale della Lunigiana e il generale di Sicilia, che, fatto da tutt'altri, avrebbe scatenato un uragano? Vi ricordate della difesa ch'egli fece del «fiore baciato dalla sventura», quando dal banco dei ministri era lanciato un oltraggio a una giovinetta, mentre sul capo di suo padre, accusato politico, pendeva una condanna tremenda? Vi ricordate con che dignità di sentimento e di parola egli diceva nel Parlamento l'elogio d'un avversario morto, e riconosceva d'un avversario vivo la bontà e la rettitudine, e come qualche volta, sfuggitagli una frase offensiva, la temperasse come voleva la giustizia, in modo che non era la sua una ritrattazione del pensiero, ma del sentimento, non un atto di semplice convenienza, una gentilezza sentita e squisita di cavaliere e di galantuomo? Vi ricordate l'orazione in onore di Garibaldi morto, pronunciata il 3 giugno dell'83, al «Castelli» di Milano, la quale strappò il pianto da tremila cuori, e la grande commemorazione epica dei caduti a Domokos, e le belle, austere, fraterne parole ch'egli disse nella prima riunione dei partiti estremi, discordi fino a quel giorno, per la fondazione della Lega della libertà?—Era l'eloquenza d'un poeta e d'un, sapiente—era una così alta e commovente ispirazione che quasi riusciva dolce agli altri oratori di non poterla raggiungere—erano la ragione, l'entusiasmo e la fede parlanti il più eletto linguaggio che possa uscire dall'animo d'un cittadino. Quante volte Vittorio Alfieri gli avrebbe posto la mano sul capo, ripetendogli i versi di Eschilo a Timoleone:

Ah! no, più caldi mai, nè mai più veri Forti divini detti in cor mortale Mai non spirò di libertade il nume!

E non di meno, non si potrebbe affermare con certezza che fosse l'oratoria, non invece la facoltà puramente ragionatrice, non la forza analitica e polemica la sua virtù intellettuale preminente. Di lui si può dire quello che dell'autore dell'«Emilio» disse Enrico Taine. Non c'è loico più serrato. La sua dimostrazione s'annoda in fili d'acciaio, maglia a maglia, per lunghe pagine, come una enorme rete senza uscita, in cui, volenti o no, si rimane avvinti. Non un filo gli sfugge o gli si rompe, ed egli ha costantemente sotto gli occhi e dentro la mano la rete intera. Dagl'infiniti e bene ordinati compartimenti della sua salda memoria escono prontamente, a un richiamo, nomi, date, parole, fatti, circostanze di fatti, che a vicenda si rischiarano e si rincalzano, disponendosi e collegandosi logicamente come le formule successive d'un'operazione matematica, che non possa esser condotta in altra forma nè riuscire ad altro risultato da quello a cui egli tende. La punta della sua idea v'è già penetrata nella mente, credete che non vi si possa addentrare di più, ed egli ve la configge ancora più addentro con un martellamento fitto e preciso, che vince anche le ultime resistenze inconscie dell'animo vostro. Nessuna maraviglia che chi possedeva una così potente arte dialettica l'adoperasse anche quando ad altri poteva parere superflua, o inopportuna, o senza speranza di effetto utile. Ma maraviglioso è che egli vi ricorresse e l'esercitasse magistralmente anche nei momenti di maggior concitazione dell'animo, che egli ragionasse in quel modo con la penna alla mano un'ora prima d'andare a rischiar la vita con l'arma nel pugno, che neanche il presentimento della morte, che qualche volta lo assalì in quei momenti, potesse turbare in lui quella facoltà delicatissima a cui pare indispensabile la quiete serena dell'animo e la libertà assoluta della mente. E questo prova quanta sincerità, quanta pensata fermezza ci fosse anche nelle sue determinazioni che potevano parer più violente, come la sua passione fosse mossa sempre da una idea e sorretta e vigilata, dalla coscienza, come fosse in lui convinzione vigorosa e tenace ciò che non era creduto da molti che ira, odio, sete di rappresaglia e di vendetta, come la sua spada, anche nelle quistioni che parevan più strettamente personali, fosse quasi sempre la spada d'un'idea.

No, non si battè per impeto d'ira o per febbre di vanità chi, venti volte, prima di venire alla prova, scrisse di proprio pugno la sua difesa e il suo testamento, con l'espressione precisa delle sue ultime volontà, con la previdenza chiara e minuta di tutte le conseguenze possibili della sua morte. Certo, spuntava un sorriso sulle labbra a chi gli udiva dire:—Io sono un uomo pacifico…. furono le circostanze che mi forzarono…. E la natura delle questioni in cui mi trovai impegnato….—Eppure, nella sua coscienza, questo era vero. Ma ci perdoni la cara memoria se noi lamentiamo il concetto da cui la sua ragione partiva, e se esprimiamo la speranza che la sua fine lacrimata e funesta serva almeno di ammonimento alla generazione che sorge. Ma come! Un passato di trent'anni di fecondo lavoro intellettuale, di nobili lotte, di servizi resi alla patria, un avvenire di forse altri trent'anni di vita egualmente benefica, un tesoro inestimabile di entusiasmo, d'eloquenza e di forza, una mente privilegiata, da cui mille quistioni altissime d'interesse pubblico attendono luce ed impulso, in cui milioni d'uomini fondano speranze di protezione e d'aiuto,—tutto questo, per una parola, deve esser messo a un cimento, nel quale un passo falso, il tradimento d'un muscolo, la svista d'un istante possono distrugger tutto in un nulla? Ah! è una follìa, un errore, una vergogna! Ed è appunto questo pensiero che oggi ci aggiunge angoscia ad angoscia: è il dover riconoscere che ci troviamo ancora a questo segno di barbarie, è il dover confessare che, pure riconoscendo l'assurdità di quest'idea dell'onore che, in un tempo di vantata eguaglianza, si circoscrive in una sola classe sociale, non s'abbia ancora il coraggio civile di uscirne, e che la società culta, che pure la condanna nella sua coscienza, tolleri, incoraggi, accarezzi, con la cospirazione d'una legge ipocrita, il pregiudizio stolto, la tradizione dell'usanza stupida e feroce che la insanguina e la disonora.

Era fors'anche suo pensiero che nelle lotte politiche avesse il duello questa giustificazione: che molte volte esso racqueta e riconcilia due avversari che si stimano; fra i quali, altrimenti, sarebbe impossibile o più difficile assai la riconciliazione. Questa e ogni altra ragione possiamo ammettere, per ispiegarci la sua condotta, fuorchè la mancanza di bontà d'animo, di cui dai nemici fu accusato. Ah! dell'accusa sorride—sorride amaramente chi sentì il suo abbraccio fraterno dopo una lunga separazione, e sa quante calde e devote amicizie egli ebbe anche fra i suoi più appassionati avversari,—chi si ricorda quanto fosse buono e amabile il sorriso su quel volto coperto di cicatrici, quand'egli espandeva l'animo con gli amici intimi, sorridenti alla volta loro di tante ingenuità giovanili del suo cuore e della sua parola,—chi si rammenta con quanta gentilezza, nelle famiglie che l'ospitavano, la sua mano gagliarda si posasse sul capo dei bambini e la sua bocca usata a soffiar la tempesta esortasse i giovinetti allo studio, all'amor del bene, al culto della verità e dell'ideale.—Gli mancava la bontà dell'animo.—A Felice Cavallotti! Ah non lo pensa chi ha visto la sua fronte superba chinata al capezzale degli infermi, chi ha sentito i suoi singhiozzi disperati accanto al cadavere della sua figliuola, chi ha assistito una volta sola all'espansione della sua gioia e della sua tenerezza di fanciullo fra le braccia della vecchia madre adorata, che gli ripeteva con tanta dolcezza:—Felice, Felice mio, sii più prudente….—come se presentisse il destino. Buono era, e n'è una grande prova il fatto che molte volte, candidamente, egli si rimproverasse, si dolesse di non potere esser più buono di quello che era. Povero Cavallotti! Non è molto tempo che, rispondendo ai consigli d'un amico, egli diceva a questo con un sorriso ingenuo:—Già, tu sei più buono di me.—Ma il giudizio fu coscienziosamente respinto.—No, Cavallotti—gli fu risposto.—Io non son più buono di te; non lo sono quanto te. Facile è la bontà a chi, lontano dalla lotta, non s'espone all'offesa che lacera e avvelena l'anima e non sente in faccia l'alito violento dei nemici che, non dandoti tregua alla guerra e negandoti ogni virtù gentile, ti scoraggiano dalla gentilezza e dal perdono. Ah no! Io so ben discernere quello che è in te violenza necessaria e durezza acquisita di lottatore da quello che è prima e schietta natura. Di questa, che è tutta d'oro, tu hai salvato fra le battaglie quanto era umanamente possibile, e quello che ti resta è ancora un tesoro che t'invidio.—Ah, gli mancava la bontà dell'animo!—A Felice Cavallotti! Ma se contro a mille prove dell'asserto, non possibile che a chi non lo conobbe, stesse quella sola indimenticabile poesia, quello straziante e divino grido d'amore e d'angoscia che dal treno di Gallarate egli lancia all'angolo del cimitero dove dorme la sua figliuola, se egli non avesse pronunciato in tutta la sua vita altre dolci parole che quelle con cui s'illude che la sua creatura senta passare il suo dolore e possa rispondere alla disperata invocazione del suo cuore trafitto, se in cinquantacinque anni non gli fosse scoppiato dall'animo che quell'unico grido, basterebbe quello per farci credere, affermare, giurare che egli fu buono.

L'accusa, di mancanza di bontà e di gentilezza gli fu più spesso ripetuta nell'ultimo periodo della sua vita. E qui m'occorre di fare una dichiarazione. Io mi son proposto, com'era mio stretto dovere, di commemorare il compianto cittadino al di fuori d'ogni idea e d'ogni sentimento di parte politica; ma a rischio d'esser accusato d'infrangere il proposito debbo accennare all'ultima grande lotta ch'egli combattè in nome della giustizia e della moralità pubblica, poichè il rifiutare, per non dar ombra ai vivi, un onore dovuto a un morto, non mi parrebbe generosità, ma codardia. Dal più profondo della mia coscienza, non velata in questo momento da ombra d'odio e di rancore, esce la voce che m'impone un tributo d'ammirazione e di plauso al lottatore dell'ultima ora. Giorno verrà, senza dubbio, in cui si riconoscerà universalmente che sarebbe stata una vergogna incancellabile per il nostro paese se almeno una voce d'accusa e di sdegno non si fosse levata, e che se quella voce non fosse rimasta senz'eco, che se la giustizia ch'ella chiedeva avesse avuto corso e compimento, non sarebbe forse stata spinta fino agli estremi la forsennata impresa dell'Africa, sarebbe forse almeno stato evitato il macello miserando che la chiuse. «Opera negativa» fu detta la sua con la stessa logica con cui si direbbe negativa l'opera del magistrato che, accusando e condannando, toglie e non dà dei cittadini al paese, o l'opera del soldato che, difendendo la patria sul campo, uccide e non crea.—Ha varcato il segno—da altri si disse—non doveva ostinarsi e incrudelire; si deve rispetto anche ai caduti per propria colpa.—E, certo, la parola è generosa, è l'espressione d'un sacro dovere di tutti verso i caduti che si pentono e si confessano, o cedon l'armi e rimangon muti. Ma quando i caduti rialzan la fronte minacciando, si ribellano alla giustizia e alla sorte, provocano la coscienza pubblica e tentano d'ingannare o d'imbavagliare la storia, l'ostinarsi nella lotta è dover di coscienza e necessità di vita. E poichè tanti sacerdoti della stampa che mentre egli combatteva solo quell'aspra battaglia, bersagliato di mille colpi e coperto di mille vituperi, l'applaudivano nella loro coscienza e copertamente l'incoraggiavano e gli desideravano la vittoria, pensando forse in cuor proprio che se avessero avuto la sua indipendenza, il suo ingegno e il suo coraggio, non per amor della giustizia, ma per sgombrar la via ad altre ambizioni, avrebbero condotta la stessa lotta con pertinacia anche più implacabile, poichè si videro tanti di costoro lamentare la sua morte e inneggiare alla sua vita senza arrischiar neppure una timida lode a quell'ultima opera sua, compiamo noi più risolutamente il debito nostro, affermando a voce alta, e con tutta la forza del nostro cuore, che quella fu la più forte, la più onorata, la più ammirabile pagina della sua vita.

E se anche qualche volta, se anche molte volte, nel flagellare i trafficatori della propria coscienza e i depredatori del danaro pubblico, egli fosse trasceso—supposto che in questo si possa trascendere—molto, tutto si dovrebbe condonare a chi per questo riguardo era uno dei pochi invulnerabili e puri, e dei pochissimi in cui la purità fu merito vero. In tutta la sua vita non v'è traccia nè indizio d'un atto compiuto per iscopo d'interesse materiale. Alla patria diede tutto e non chiese nulla. Dandosi alla politica, sposò la povertà. E non si diede alla politica, come altri, per esser fallito all'arte e alle lettere; le si diede nel colmo dei suoi trionfi d'artista. Ebbe offerte di cattedre e le rifiutò; avrebbe potuto trarre guadagni dalla sua penna feconda di pubblicista, e se ne astenne per dignità di tribuno; avrebbe potuto trarne dal teatro, solo che avesse rallentato alquanto la sua opera politica, e non lo fece per sentimento altissimo del suo dovere di cittadino. Quelle prolungate polemiche, che si dicevan mosse da spirito di ambizione e d'orgoglio, non erano soltanto per lui uno sforzo doloroso dell'animo, ma un dispendio enorme di tempo e di lavoro, ch'egli scontava poi in privazioni d'agiatezza, di libri, di svaghi desiderati. La sua spesa quotidiana era quella d'uno degli impiegati più modesti, la sua abitazione a Roma una camera di studente, la sua villa di Dagnente una povera bicocca; e al vestire non si sarebbe distinto quasi mai da un operaio di buon salario. Eppure mai, mai non si sentì dalla sua bocca una parola di rammarico, mai nemmeno un'espressione vaga di aspirazione a una vita più agiata e più signorile. Una cosa sola rimpiangeva di quando in quando: l'arte da cui s'era dovuto separare. Ma per quanto dicesse, fra le due dive nemiche, l'arte e la politica—l'una bella, splendida, sorridente, che lo chiamava—l'altra austera, dura, gelosa, che lo teneva—era questa quella ch'egli amava di più ardente amore—era la tiranna ingrata e spietata, che lo torturò e che l'uccise.

Quale esistenza! Ricorriamola ancora con uno sguardo. Quale miracolo continuo di moto; di passione, di lavoro! V'è una frase d'una sua lettera che definisce la sua vita.—Son qui—scrive a un amico—in mezzo a una tempesta di cose, che mi porta via la testa.—E questa tempesta durò quanto egli visse; nè può immaginare quanto turbinosa ella fosse chi non gli stette per qualche tempo vicino. Non conoscono i più che la sua assiduità operosa al Parlamento, la sua attività insuperabile nei periodi di lotta elettorale, i suoi viaggi faticosi in provincie lontane a scopo di propaganda e d'inchiesta, e la sua produzione straordinaria di pubblicista. Ma di pari passo con l'opera pubblica egli ne mandava un'altra che pochi soltanto conoscevano, ed era il patrocinio generoso di cause oscure e di oppressi sconosciuti, era una corrispondenza cortese e pronta con innumerevoli amici, sollecitatori e postulanti ignoti, d'ogni classe e d'ogni natura, erano visite e corse da per tutto ov'egli fosse richiesto per consolare un dolore, per comporre un dissidio, per profferire una parola utile. E tra l'una e l'altra di queste infinite cure pubbliche e private egli trovava il tempo di nutrir di nuovi studi lo spirito, di raccoglier documenti intorno alle quistioni del giorno, di gittare nella forma poetica le sue gioie, le sue tristezze, i suoi sogni. Bene qualche volta si rifugiava nel suo romitorio di Dagnente per prender respiro; ma lo raggiungevano là pure, da ogni parte, i telegrammi, le lettere, le sollecitazioni d'ogni forma, e vi facevano in pochi giorni una piena che lo travolgeva e lo risospingeva al lavoro. Una voce inesorabile, appena egli chiudesse gli occhi, gli gridava:—Dèstati, scrivi, parla, combatti, va!—Ma io sono stanco—rispondeva.—Fa uno sforzo.—Ma io son malato.—Non importa.—Ma io m'accorcio la vita.—È il tuo destino.—Ed egli si destava, scriveva, parlava, combatteva.—Diceva ultimamente, a Torino, passandosi una mano sulla fronte con un suo gesto abituale:—Ah! se potessi riposare per un anno…. per qualche mese…. Ma non posso.—E pareva rassegnato. Un solo pensiero lo turbava: il pensiero di una vecchiezza inferma, in cui non avrebbe più potuto lavorare nè combattere, e sarebbe rimasto in un canto, inutile come una spada arrugginita. E soggiungeva:—Vorrei morir prima!—Fu pago il suo desiderio, sventuratamente. La nobile spada non s'arrugginì—s'infranse—e passerà lungo tempo, pur troppo, prima che sul campo di battaglia dove egli cadde ne baleni un'altra così prode, così tersa, così gloriosa.

Ma egli fu ben altro, e ben di più che la spada d'un partito. Più alto fu il suo destino, più alto l'ufficio ch'egli compì. A dritto fu chiamato il continuatore del pensiero di Garibaldi, non circoscritto in una formola precisa, ma vasto tanto da comprendere tutte le aspirazioni dei tempi nuovi. Sopravvisse e parlò in lui la giovinezza ardente della rivoluzione italiana, con tutti i suoi più santi entusiasmi, con tutte le sue più luminose speranze. In ogni manifestazione del suo pensiero e del suo cuore è un accenno vago, ma caldo a qualche cosa di più grande che non sia il concetto astratto della libertà o una data forma di governo. Si sciolgono a ogni tratto il suo spirito e la sua parola dai vincoli angusti del programma politico del presente, e si slanciano verso l'avvenire. Disse egli un giorno:—Non sento il bisogno di cambiar l'ideale—e spiegò tutto sè stesso in quelle parole. Il suo ideale abbracciava vagamente tutti i bisogni e tutte le rivendicazioni popolari dell'età nostra. S'egli non combattè che per la libertà e per la giustizia è perchè comprendeva che eran queste le prime battaglie da vincere, e reputava saggezza il non disperdere in un più largo campo le sue forze, che gli occorrevan tutte a tener alta la sua bandiera. Ma nell'anima sua si raccoglievano e fiammeggiavano in una sola, invitta passione lo sdegno di tutte le miserie, il sentimento di tutti i diritti, l'amore di tutti i popoli. Comprese, sentì, previde più che non disse; ma ciò che non disse fu compreso. E però la sua voce, benchè non pronunciasse il nuovo verbo delle moltitudini, suonò nel loro cuore come la voce d'un fratello, e la sua morte fu lutto e pianto del popolo, e si posò sul suo feretro, con gli omaggi dei parlamenti e coi fiori della gioventù studiosa, con le corone dell'Italia irredenta e con la palma del martirio di Cuba, il saluto amoroso e triste di tutti i lavoratori del mondo.

Sì, convien risalire fino ai grandi fattori dell'unità della patria per ritrovare una morte così universalmente, così sinceramente compianta, e che abbia lasciato fra noi il sentimento d'un vuoto così vasto e così doloroso. E nessuno certo se ne allieta, neanche fra i suoi più acerbi nemici, nessuno che abbia senso di gentilezza e di carità di patria, perchè sentono tutti che è caduta una forza, che s'è spento un raggio, che è sparito un vanto vivente della patria. E questo solo ci conforta; che ciò ch'egli ci lasciò—l'esempio—nè tempo nè fortuna ci possono togliere. Esso sarà raccolto e sarà fecondo. La gioventù d'ogni parte e d'ogni fede ha qualche cosa da imparare e da imitare da lui. Egli fu soldato, tribuno, poeta, maestro; disprezzò la ricchezza, non ambì il potere, non adulò la fortuna, non s'infinse, non vendette, non mercanteggiò la sua forza,—fu buono, aperto e intrepido—fortissimo fu contro ogni forma di dolore e di pericolo, e fu potente e povero, illustre e incorrotto. Sì, tale egli fu, e le generazioni venture lo sapranno; tale tu fosti, o Felice Cavallotti, e te lo ridirà ogni anno, il giorno della tua morte, la tua patria, come te lo gridò nel primo schianto del dolore, mandando un bacio di madre alla tua bella fronte inanimata. E così sia seguito il tuo esempio come sarà venerata la tua tomba e glorificato il tuo nome. Nel nome di quanti ti amarono e ti piangono, Felice Cavallotti, sia benedetta la tua memoria!

Le tre Capitali.

NOTA A QUESTA NUOVA EDIZIONE

(1.a edizione Treves—1911).

Il De Amicis intitolò Le tre capitali, raccogliendoli tardi, questi suoi tre scritti giovanili, due dei quali, con titolo un po' diverso, appartenevano già ai Ricordi del 1870-71 (Firenze, Barbèra, 1872); più importante di tutti il terzo, che ha valore di documento letterario e storico insieme. L'autore, sottotenente nel 3.° Reggimento fanteria, brigata Piemonte, dopo la campagna del 1866 era stato comandato presso il Ministero della Guerra a Firenze e incaricato di dirigere l'Italia militare. Accompagnò, come corrispondente di quel giornale, l'esercito italiano alla presa di Roma, e scrisse immediatamente le sue impressioni del 20 settembre 1870 e delle giornate seguenti.

Molti anni dopo, nel 1898, quando l'editore Niccolò Giannotta di Catania gli propose di iniziare con questi tre scritti riuniti in un volumetto la sua piccola Biblioteca popolare contemporanea, il De Amicis avvertiva:

«Rilessi, prima d'acconsentire, gli scritti, che avevo in parte dimenticati, e, rileggendoli, mi venne spesso sulle labbra un sorriso, che non era certo di compiacenza letteraria, e mi prese più volte un senso di tristezza, come accade sempre a chi si richiama alla memoria speranze alle quali non corrispose la vita ed entusiasmi su cui passò un'onda di nuovi affetti e di nuove idee. Acconsentii nondimeno alla pubblicazione di queste pagine perchè penso che la descrizione degli effetti intimi ed immediati prodotti da certi avvenimenti storici nell'animo d'un testimonio oculare non debba riuscire indifferente nè inutile ai giovani della generazione che quegli avvenimenti non vide; perchè l'affetto e la reverenza che sono espressi in questi scritti per le tre grandi città in cui palpitò e palpita il cuore d'Italia mi paiono sentimenti di cui non sia superfluo ripetere l'espressione anche dopo unificata la patria; e perchè in fine, in mezzo ai troppi difetti v'è se non altro in queste povere prose il pregio della sincerità giovanile, che, disponendo il lettore alla benevolenza, suol giovare indirettamente all'effetto cercato, ma non conseguito dall'autore per mancanza d'arte.»

D. M.

TORINO.

Un Torinese che volesse far da guida ad un Italiano d'un'altra provincia venuto qui per la prima volta, per metterlo in una disposizione d'animo favorevole alla città sconosciuta dovrebbe, prima di lasciarlo entrare in Torino, condurlo diritto a Superga. V'hanno spettacoli che sono per la vista degli occhi ciò che sono per la vista della mente quelle grandi intuizioni istantanee del genio, che abbracciano secoli di storia e regioni d'idee. Lo spettacolo che si gode da Superga è un di questi, ed è anche più grande e più bello della sua fama. Dalla sommità della cupola, con un solo giro degli occhi, in tre secondi, s'abbraccia tutto l'immenso cerchio dell'Appennino genovese e delle Alpi, dai gioghi di Diego e di Millesimo alla piramide superba del Monviso, dal Monviso alle porte della val di Susa, al Gran San Bernardo, al Sempione, al Monrosa, alle ultime montagne che fuggono verso levante di là del Lago Maggiore; sotto, tutti i colli di Torino, popolati di ville e di giardini; più in là i bei poggi del Monferrato, vestiti di vigneti e coronati di castella, e le colline ubertose della sinistra del Tanaro; e oltre a queste una successione di tappeti verdi sterminati, una campagna senza fine, che si perde nelle pianure vaporose della Lombardia, argentata dalle mille curve del Po, seminata di centinaia di villaggi, rigata di strade innumerevoli, coperta d'una vegetazione lussureggiante di boschi, di verzieri e di messi, nettamente visibile in tutti i suoi rilievi infiniti fino alle più grandi distanze, come se ogni sua parte ci s'avvicinasse al fissarvi sopra lo sguardo. Ed è una natura così fresca e così italiana di forme e di colori, così maestosamente serena nella immensità dei suoi orizzonti azzurrini, e così grande e terribile d'antiche e di nuove memorie, che dopo averla percorsa intera, quando si volgon gli occhi giù sulla città tutta piana e rosseggiante lungo le rive del Po e della Dora, chiusa in un vasto cerchio di verzura cupa, dominato dal bel monte conico dei Cappuccini, somigliante a uno smeraldo enorme, viene spontaneo sulle labbra il «Te beata» che gridò a Firenze Ugo Foscolo, e si resta maravigliati che tutta quella bellezza non abbia ancora avuto anch'essa da qualche grande poeta il tributo d'una lode immortale.

Ho cercato molte volte, curiosamente, con uno sforzo dell'immaginazione, di rendermi conto dell'effetto che può produrre la città di Torino in un Italiano che la veda per la prima volta….

Certo, un Italiano che arrivi qui coll'idea di trovare una città uggiosa, e un po' triste, come certi stranieri la definiscono—un villaggio ingrandito—un mucchio di conventi e di caserme—deve provare un disinganno piacevole, uscendo dalla stazione di Porta Nuova, in una bella mattinata di primavera. Alla vista di quel grande Corso, lungo quanto i Campi Elisi di Parigi, chiuso a sinistra dalle Alpi, a destra dalla collina, davanti a quell'infilata di piazze, a quelle fughe di portici, a quel verde rigoglioso, a quella vastità allegra, piena di luce e di lavoro, deve esclamare:—È bello—o tirare almeno uno di quei larghi respiri, che equivalgono ad una parola d'ammirazione. E andando su verso piazza Castello…. Ma un Italiano che venga a Torino per la prima volta, se appena ha una scintilla d'amor di patria nel sangue, è impossibile che, addentrandosi nel cuore della città, serbi tanta freddezza d'animo da non giudicarla che con l'occhio dell'artista. Egli deve sentirsi sollevato, travolto da un torrente di ricordi, sfolgorato da una miriade d'immagini care e gloriose, che trasfigurino la città ai suoi occhi e gli facciano parer bella ogni cosa. Deve veder Carlo Alberto, affacciato alla loggia del palazzo reale, in atto di bandire la guerra dell'indipendenza; incontrar sotto i portici il conte Cavour, che va al Ministero, dandosi la storica fregatina di mani; vedere i Commissari austriaci del 59 che portano l'«ultimatum» al Presidente del Consiglio; i corrieri che divorano la via Nuova recando le notizie delle battaglie di Goito, di Pastrengo e di Palestro; le deputazioni dell'Italia centrale che vanno a presentare i voti dei plebisciti; una legione di vecchi generali predestinati a morire sui campi di battaglia; a una cantonata Massimo d'Azeglio, in fondo a una strada Cesare Balbo, qui il Brofferio, là il Berchet, laggiù il Gioberti; visi tristi e gloriosi di prigionieri dei Piombi e di Castel dell'Uovo; giovani a cui brilla sulla fronte, come un raggio, il presentimento dell'epopea dei Mille; battaglioni abbronzati di bersaglieri della Crimea che passano di corsa e stormi di giovani emigrati che sbarrano la strada, agitando i cappelli, alla carrozza di Vittorio Emanuele; in ogni parte cento immagini di quella vita ardente e tumultuosa, piena di speranze e d'audacie, di __grida di dolore__, di canti di guerra e di fanfare trionfali, che s'agitò per quindici anni fra queste mura.

Il centro di Torino ha una bellezza sua propria, invisibile allo straniero indifferente, ma che deve affascinare l'Italiano nuovo arrivato. Ogni suo angolo, ogni sua casa parla, racconta, accenna, grida; ogni arco de' suoi portici è stato l'arco di trionfo d'un'idea vittoriosa; sopra ogni pietra del suo lastrico si sono incontrati e stretti la mano per la prima volta due italiani di provincie diverse, due esuli, due soldati della grande causa comune; tutto v'è ancora caldo del soffio immenso di amor di patria che vi passò, infiammando e travolgendo ogni cosa, come un uragano di fuoco. Quale Italiano può arrivar là senza sentirsi commosso? In poche città i luoghi e i monumenti più memorabili si trovano meglio disposti per colpire tutt'insieme lo sguardo e la mente: in un giro di pochi passi, intorno al Palazzo Madama, si vede e si ricorda tutto. Ed è anche bella per l'artista e per il poeta quella piazza vastissima, che arieggia il cortile d'un palazzo smisurato. Quella reggia severa e nuda, dietro a cui s'innalza la cupola grigia della vecchia cattedrale, il Palazzo Madama, grave come una fortezza, sorvolato da nuvoli di colombi, il tendone bianco delle Alpi che chiude via Dora Grossa, la cortina verde delle colline che chiude via di Po, quel contrasto di baracconi da fiera e di palazzi austeri, di folla e di strepito da un lato e di solitudine tranquilla dall'altro, danno a quella parte di Torino un aspetto misto così stranamente di città nuova e di città vecchia, di gaiezza meridionale e di gravità nordica, di maestà di metropoli e di semplicità provinciale, da far pensare a due città lontane che un prodigio abbia ravvicinate e congiunte.

Ma qui non può farsi un'idea di Torino il forestiero. Quietato il tumulto dei ricordi, bisogna ch'egli s'inoltri in quella parte della città che è compresa fra via di Po, via Roma, il Corso del Re e il fiume. S'egli non è mai uscito d'Italia, ne avrà senza dubbio un'impressione nuova. La città par fabbricata sopra un immenso scacchiere. Per quanto si giri, non si riesce che a descrivere una greca continua. Tutte le strade, a primo aspetto, si rassomigliano: tagliano tutte un lunghissimo rettangolo di cielo con due file di case di color uniforme, su cui lo sguardo scivola dal cornicione al marciapiede senza che nulla l'arresti, allineate a corda com'erano i vecchi reggimenti piemontesi, coi guidoni e le guide sulla linea, dopo un'ora di lavoro. Si va avanti, e par sempre di passare e di ripassare nei medesimi luoghi. Si può camminare a occhi chiusi: non c'è da sbagliare: ogni tanti passi, riaprendo gli occhi, si vedranno due interminabili vie diritte a destra e a sinistra, l'una chiusa dalle Alpi, l'altra chiusa dalle colline. Qualche somiglianza con altre città ci si trova: si ricorda via Toledo di Palermo, Livorno, certi quartieri di Marsiglia e di Barcellona. Ma qui c'è qualche cosa di particolare, difficile a definirsi: non so che di più rigido e di più corretto. Non son le case francesi, gabbioni con faccia di palazzi, parate di decorazioni posticce; bottegaie rinfronzolite. Sono file di «umiliate», schiere d'alunne di collegio-convitto, grosse massaie benestanti, tarchiate, in veste da camera, che si danno francamente per quello che sono, e spirano un'aria di bontà contegnosa, l'amor della vita regolare, l'abitudine delle passioni contenute. Il color giallo impera, con tutte le sue sfumature, dal calcare cupo all'oro pallido, misto d'innumerevoli tinte verdognole e grigie, che però si perdono in una tinta generale giallastra, un po' sbiadita, che dà alla città un certo aspetto tranquillo di decoro ufficiale. Qua e là spicca la nota ribelle d'una casa azzurra, in qualche punto scoppia il grido acuto d'un edifizio rosso che fa un po' di scandalo in quel silenzio di colori modesti; ma subito dopo si ristabilisce la disciplina in due lunghe file di case della solita tinta, un po' imbroncite, che han l'aria di disapprovare quelle pazzie. Percorse le prime strade, si comincia a notare qualche corrispondenza tra la forma della città e il carattere della popolazione. C'è espressa una certa ostinazione in quella uniformità, c'è un'idea di schiettezza in quello sdegno d'ogni ostentazione, un certo indizio di procedere aperto in quell'ampiezza di spazi, un'immagine di forza in quella tarchiatura di edifizi, una perseveranza che va dritta allo scopo in quella rettitudine di linee. Passando per quelle vie si ricorda involontariamente la disciplina dell'antico esercito sardo, le antiche abitudini militari della cittadinanza, la rigidezza della burocrazia, l'onnipotenza dei regolamenti, lo stile duro dell'Alfieri, la semplicità nuda di Silvio Pellico, la correttezza un po' pedantesca d'Alberto Nota, l'andamento cadenzato e simmetrico dei lunghi periodi oratorii di Angelo Brofferio, e la chiarezza ordinata degli articoli di don Margotti, di Giacomo Dina e del dottore Bottero. S'indovina la vita della città a primo aspetto. Non c'è, come a Firenze, il piccolo crocicchio, l'angoletto, la piazzetta, dove ognuno si pare a casa sua, dove è possibile il dialogo tra la strada e la finestra e la fermata d'un'ora con le spalle alla cantonata. Qui c'è per tutto la città aperta, larga, pubblica, che vede tutto, che non si presta al crocchio, che interrompe le conversazioni intime, che dice continuamente, come il poliziotto inglese:—Circolate, lasciate passare, andate pei vostri affari.—Si può essere usciti col miglior proposito di andare a zonzo: si finisce sempre con fissarsi una meta. A un certo punto si sente un po' di sazietà; l'artista si rivolta contro quella regolarità compassata. S'ha la testa così piena di angoli retti, di parallelismi, di simmetrie, di omologie, che, per dispetto, si vorrebbe poter scompigliare tutta quella geometria con un colpo di bacchetta fatata, che mettesse Torino sottosopra. Ma a poco a poco, come certi motivi monotoni, che, a furia di sentirli ripetere, ci si fissano nel capo irresistibilmente, così quella regolarità, a grado a grado, fa forza al gusto e soggioga la fantasia. Si prende amore a quell'uniformità che lascia la mente libera, a quella specie di dignità edilizia, non ancora offesa dall'insolenza ciarlatanesca della réclame colossale, a quelle corrispondenze di prospetti che s'indovinano prima di vederli, come le rime delle strofe metastasiane, a quella nettezza rigorosa, a quei grandi lembi rettangolari di cielo che ci si stendono sul capo, e a quelle vie lunghissime in cui insensibilmente il passo s'affretta, lo sguardo s'acumina, il petto si dilata, la mente si rischiara, e a quelle grandi piazze e a quei grandi giardini che fanno qua e là un largo squarcio improvviso, pieno d'aria e di verde, nella rete uggiosa delle strade gemelle. La città sonnecchia un poco tra via di Po e via San Lazzaro, dove grandi isolati di color cupo gettano come un'ombra di tristezza nelle vie larghe e solitarie, nelle quali non si sente strepito di lavoro, e la pedata di chi passa risuona sotto le vôlte dei portoni muti e nei cortili erbosi; ma si ravviva sui confini di Borgo Nuovo, dove per sei vie allegre e chiare, piene di popolo minuto, si vede il verde fitto del Corso del Re, e ringiovanisce all'estremità di tutte le strade che van da ponente a levante dove le colline del Po mettono un riflesso di serenità e di grazia campestre. E quanto più si va lontano dal centro, tanto più la città si fa varia e amena. Si trovano degli angoli ariosi, tranquilli e simpatici, che fanno pensare alla vita raccolta d'un buon capo-sezione giubilato, che vada ogni giorno a quell'ora a leggere il giornale al caffè vicino e a far la passeggiata igienica nel viale accanto, ed abbia la sua oretta fissa per la visita galante a una buona amica di quarant'anni; piccoli crocicchi puliti, d'aspetto giovanile, formati da alte case poderose, che dominano un vasto orizzonte, dentro alle quali par di vedere le camerette di tanti studenti di provincia, poveri, ma di buona razza piemontese, che martellino ostinatamente sui libri, menando una vita di sacrifizi, per prepararsi un avvenire onorato e lucroso; grandi case aperte ad angolo verso la strada con cinque ordini di terrazzini, che mostrano mille piccoli particolari intimi della vita torinese, dal servitore che innaffia i fiori della contessa al primo piano, su su, scendendo per la scala sociale via via che si sale per la scala della casa, fino all'impiegatuccio tirato che legge il giornale sotto i tetti e alla moglie dell'operaio che stende i suoi cenci fuori della soffitta. Le strade essendo lunghissime, presentano successivamente aspetti diversi: andando avanti diritto per una strada sola, si attraversa una piccola parte di Torino commerciale, una parte di Torino elegante, un quartiere povero, un quartiere affollato, un quartiere deserto; si vede la città in tutti i suoi aspetti, senza svoltare una volta sola. E non si trovan grandi contrasti. I palazzi schierati alla pari con le grandi case borghesi, alcuni anche dissimulati da una facciata comune, come il Palazzo dell'Università e il Palazzo dell'Accademia filarmonica, non servono a dar carattere alle strade. Non c'è il palazzo vistoso del gran signore, che schiaccia gli edifizi circostanti, e dà l'immagine d'una vita splendida e superba. L'architettura è democratica ed eguagliatrice. Le case possono chiamarsi fra loro:—Cittadina—e darsi del tu. La distribuzione delle classi sociali a strati sovrapposti, dal piano nobile ai tetti, toglie alla città quelle opposizioni visibili di magnificenza e di miseria che accendono nell'immaginazione il desiderio inquieto e triste delle grandi ricchezze. Girando per Torino, si prova piuttosto un desiderio di vita agiata senza sfarzo, d'eleganza discreta, di piccoli comodi e di piccoli piaceri, accompagnati da un'operosità regolare, confortata da un capitale modesto, ma solido come i pilastri dei suoi portici, che dia la sicurezza dell'avvenire.

Questo carattere apparente di Torino muta tutt'a un tratto all'entrare in quella parte della città che si stende fra via Santa Teresa e piazza Emanuele Filiberto. Qui la città invecchia all'improvviso di parecchi secoli, si oscura, si stringe, s'intrica, si fa povera e malinconica. Il forestiero che vi capita per la prima volta ne rimane stupito, come dalla trasformazione istantanea d'una scena teatrale. Appena v'è entrato, la città gli si chiude intorno, intercettandogli la vista da tutte le parti, ed egli vi resta preso come in un agguato. Le vie serpeggiano e si spezzano bizzarramente, fiancheggiate da case alte e lugubri, divise da una striscia sottile di cielo, nelle quali non s'aprono che portoni bassi e cavernosi, per cui si vedono cortili neri, scalette cupe, anditi bui, vicoli senz'uscita, sfondi umidi e tristi di chiostro e di prigione. Par di essere discesi in una Torino sotterranea, dove non scenda che una luce riflessa. E andando avanti verso il Palazzo Municipale, tutto si fa più stretto, più nero e più vecchio. Si riesce in crocicchi angusti che ricordano le scene del Goldoni, dove si spettegola tra la strada e le finestre, in angoli di viuzze raccolte e sinistre, in cui pare che tutte le famiglie che v'abitano debbano far vita comune, come una tribù di gitani: si vedono dei chiassuoli misteriosi, chiusi fra alti muri senza finestre, d'un grigio sudicio, coperti di grandi macchie diaboliche; e là immagini di madonne agli spigoli delle case, botteghe di barbiere col lume acceso di mezzogiorno, covi di rigattieri che paiono vani di cantine, albergucci di villaggio, con insegne grottesche, e cortiletti coperti di tettoie rustiche, ingombri di carri di mercanti di campagna, e caffè sepolcrali, che quattro avventori riempiscono. E si gira in mezzo a file di bottegucce che han tutto fuor dell'uscio fra odori di formaggi, di scarpe, d'olio, d'acciughe, in un puzzo di stantìo e di rinserrato, in una mezza luce di crepuscolo, fra un va e vieni fitto di gente affrettata che si stringe al muro per lasciar passare carri e carrette, che ingombrano tutta la strada, e si vedono fra quella gente certe figure che non si ritrovano che là: beghinette incartocciate a cui si domanderebbero i connotati di Carlo Emanuele III, droghieri vecchi come le strade, che han l'aria di aver militato contro la Spagna, mummie d'orefici secolari, a cui vien voglia di dare, passando, la notizia fresca dell'unificazione d'Italia. C'è in tutta quella parte di Torino un malumore d'antica cittaduzza fortificata, una tristezza di museo archeologico, un tal vecchiume di muri, di merci, di facce, d'esalazioni, di tinte, che vien fatto di guardarsi intorno coll'idea di veder ancora gl'Israeliti col nastro giallo al braccio o di tender l'orecchio per sentir se la campana dell'antica torre di Dora Grossa annunziasse per caso un'esecuzione capitale o la raccolta del Consiglio decurionale della città. E quest'illusione si fa più viva arrivando sulla piazza del Municipio. Davanti a quel palazzo giovine di due secoli, ma d'aspetto già antico, in quella piazzetta ombrosa affollata di gente della campagna, circondata di portici ingombri di banchi di merciaie, attraversata dalla folla che va al mercato di Porta Palazzo, in mezzo alle statue colossali di Carlo Alberto e di Vittorio Emanuele, fra il Duca di Genova che brandisce la spada e la figura atletica del Conte Verde che atterra i Saraceni, di fronte alla via stretta e austera per cui lo sguardo va diritto al palazzo silenzioso delle antiche Segreterie, si rimane presi così strettamente dalle memorie e dalle immagini d'un altro tempo che par di riviverci e di vedere e di capire fin nelle sue più intime cose l'antica capitale del Piemonte, quella piccola città rude, severa, soldatesca, cocciuta, che preparò ostinatamente, in silenzio, la grande lotta, e si cacciò per la prima, a capo basso, contro il colosso nemico, coll'impeto del toro da cui ha tolto lo stemma. E si scorda quasi, stando in quel punto, la bella Torino vasta, gaia, crescente, che le si allarga intorno da ogni parte, e par di fare un salto miracoloso, al rientrare improvvisamente in via Dora Grossa, che spande un torrente d'aria e di vita nuova a traverso a quel mondo invecchiato.

Come canzoni monotone e tristi che finiscano in una risata argentina, tutte quelle vecchie strade che corrono da levante a ponente, vanno a riuscire in istrade spaziose e chiare, sboccano in piazze e in giardini, conducono ad una nuova Torino giovanile, attraversata da larghi viali, piena di verde, ribelle all'antica disciplina architettonica, dove al grande isolato succede la casa geniale, al grosso pilastro la colonna snella, al terrazzino a ringhiera il terrazzo a balaustri, al giallo tedioso mille colori ridenti e leggieri, a una Torino simmetrica sempre, ma senza monotonia, che spalanca verso le Alpi la gran bocca di piazza dello Statuto, come per aspirare a grandi ondate l'aria sana e vivificante della montagna. Tutta questa parte di Torino riceve un riflesso particolare di bellezza dalla grande catena alpina che corona l'orizzonte delle sue smisurate piramidi bianche. Pare che le Alpi mettano nelle sue piazze e nelle sue strade tranquille il sentimento del silenzio immenso delle loro solitudini. Da ogni parte spuntano le loro cime; tutto si disegna sulla loro bianchezza; le ultime case della città sembrano fabbricate alle loro falde; in meno d'un'ora pare che si debba arrivare ai piedi delle prime montagne. Al levar del sole tutta la grande catena si tinge d'un colore di rosa leggerissimo, d'una grazia infinita, che impone quasi il silenzio all'ammirazione, come se la parola dovesse rompere l'incanto, e far svanire la visione. E durante il giorno lo spettacolo cangia ad ogni ora. A momenti si vedono appena dietro a un velo di nebbia, come una linea misteriosa, i contorni altissimi delle cime che paiono profili di nuvole enormi ed immobili. Poi la catena immensa passa, per tutte le sfumature più fresche e più pompose dell'azzurro, presentando tutta una tinta unita senz'ombre, che le dà l'apparenza d'una prodigiosa muraglia verticale e merlata che separi due mondi. Ora le montagne appariscono vicinissime, a traverso all'aria limpida, variate d'infiniti contrasti d'ombra e di luce, per cui si discernono nettamente tutte le creste, tutti i dorsi, tutte le gole, tutti gli scoscendimenti, i più piccoli rilievi e le più leggiere ondulazioni dei loro fianchi mostruosi, come si vedrebbero col telescopio; ora svaniscono quasi nel chiarore bianco del mezzogiorno, smisuratamente lontane, d'una tinta vaporosa che si confonde col cielo, e ingannano l'occhio che le cerca con profili fantastici d'altezza soprannaturale, che si dileguano quando si crede d'averli afferrati. Alle volte si mostrano qua e là a larghi tratti, come inquadrate negli squarci delle nuvole dopo un rovescio d'acqua, nette e fresche sul cielo terso e profondo; altre volte cinte di immensi viali bianchi, coronate d'aureole candide, impennacchiate di nuvolette luminose, che danno un aspetto più solenne, con quel sorriso di grazia passeggiera, alla maestà impassibile della loro grandezza.

Ma lo spettacolo, sempre bellissimo, è maraviglioso verso sera, quando la luce calda del tramonto retrocede di altura in altura, e tutte quelle vette superbe si disegnano a contorni bruni sul cielo purpureo, come le guglie d'una città favolosa sullo splendore d'un incendio, e quando tutto il grande cerchio delle montagne essendo già immerso nell'ombra, il monte Rosa solitario brilla ancora della sua bella luce rosata, come se vi battesse il raggio d'un altro sole, e le sue cime gloriose fossero privilegiate d'un'aurora eterna.

Il forestiero deve cogliere quel momento, quando è tutto compreso della bellezza formidabile delle Alpi, e di quel sentimento affettuoso e triste che si prova alla vista dei confini della patria, per andare a cercare il più piacevole degli effetti di contrasto di cui si possa godere a Torino. Deve salire in una carrozza, e farsi condurre rapidamente, per la via più dritta, sulla riva sinistra del Po. Là era il poema, qui è l'idillio, davanti al quale il pensiero, che già vagava di là delle Alpi, ritorna tutto in Italia. È un paesaggio tutto verde, pieno di grazia, e un po' teatrale, tanto ogni sua parte è in vista, si mostra, si porge quasi allo sguardo, e par che tradisca l'intenzione d'un artista, più che l'opera della natura. Le colline schierate sulla sponda opposta s'avanzano sul fiume, si ritraggono, si dispongono ad anfiteatro, si risospingono innanzi, s'innalzano le une sulle altre a curve leggiere e gentili, che si fanno accompagnare con uno sguardo carezzevole e con un atto di consenso del capo; e sono coperte di vigneti, ombreggiate di boschetti di pini, sparse di case e di ville, non tante fitte da toglier loro la grazia della solitudine campestre, simili qua e là nella vegetazione e nelle forme a certi tratti delle colline del Bosforo e del Reno. Una schiera di case da villaggio si stende lungo la riva; da una parte il Castello rosso del Valentino specchia nelle acque le sue mura severe e i suoi tetti acuti, e il fiume s'allunga fra due sponde romite, che si curvano in mille piccoli seni folti di salici e d'ontani; dalla parte opposta il paesaggio s'apre in una grande chiarezza, e s'alza in disparte, a grandi curve riposate e superbe, la collina di Superga, coronata della sua Basilica solitaria, accesa dal sole. Lo strepito d'un mulino, il mormorio di una cascatella del fiume e le voci delle lavandaie inginocchiate lungo le sponde, sono i soli rumori che turbino il silenzio di quel vasto giardino pieno di gentilezza e di pace, dinanzi al quale il più prosaico Prudhomme torinese si arresta, ammirando. E il vecchio Po, largo e lento, spande in mezzo a quella gentilezza la poesia guerriera dei suoi ricordi e delle sue glorie.

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Ma non ha visto Torino chi non ha visto i suoi sobborghi, ciascuno dei quali ha un carattere suo proprio, non abbastanza osservato, forse, neppure dagli stessi Torinesi. C'è da fare un giro curiosissimo, partendo da San Salvario, e andando su per l'antica piazza d'Armi e per il Borgo San Donato, fino a Borgo Dora. Il Borgo San Salvario è una specie di piccola «city» di Torino, dalle grandi case annerite, velato dai nuvoli di fumo della grande stazione della strada ferrata, che lo riempie tutto del suo respiro affannoso, del frastuono metallico della sua vita rude, affrettata e senza riposo; una piccola città a parte, giovane di trent'anni, operosa, formicolante di operai lordi di polvere di carbone e di impiegati accigliati, che attraversano le strade a passi frettolosi, fra lo scalpitìo dei cavalli colossali e lo strepito dei carri carichi di merci che fan tintinnare i vetri, barcollando fra gli omnibus, i tranvai e le carrette, sul ciottolato sonoro. L'aspetto del sobborgo è ancora torinese, ma arieggia la «barriera» di Parigi. I portici sono affollati di gente affaccendata, che si disputa lo spazio; le scale delle case risuonano di passi precipitosi; nei caffè si parla d'affari; tutto dà l'indizio di una vita più concitata che nelle altre parti di Torino. È una piccola Torino in «blouse», che si leva di buon'ora, e lavora coll'orologio alla mano, senza perdere tempo; che frequenta il teatro Balbo, passeggia sul Corso del Re e va a prendere la tazza al Caffè Ligure, allegra e chiassosa la sera, democratica, un po' rozza, piena di buone speranze, ariosa e pulita, e affaticata, ma che par contenta di sè, in mezzo alla verzura e ai larghi viali che le fanno corona, davanti alla stazione che l'assorda coi suoi fragori e i suoi sbuffi di gigantesca officina.

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Di là andando su per il Corso Vittorio Emanuele, si arriva alla vecchia piazza d'Armi, in mezzo a una cittadina nata ieri, a una specie di giardino architettonico, pittorescamente disordinato, dove ogni settimana sboccia una casa; dove si ritrova l'«hôtel» dei Campi Elisi, la palazzina del Viale dei Colli, la villetta genovese, il casino svizzero, un vero visibilio di capricci sfarzosi, ciascuno dei quali par la protesta d'una bella signora contro l'antica tirannia dell'architettura regolamentare. Le strade strette e discrete, dove il silenzio non è interrotto che raramente dal rumore di qualche carrozza privata, si biforcano e serpeggiano fra i muri variopinti e le cancellate eleganti dei giardini, girando intorno alle case mute in curve rispettose e cortesi, e formando crocicchi simpatici, da cui si vedono qua e là spicchi obliqui di villette lontane, terrazze a balaustri, piccoli portici, giardinetti d'inverno coperti di vetrate, padiglioncini e chioschetti coloriti; dietro ai quali appaiono e dispaiono livree di cocchieri e cuffiette bianche di governanti. Si dimenticherebbe di essere a Torino, se tutti quei tetti acuti, quei cornicioni frangiati, quei camini di forme graziose e bizzarre, non si disegnassero sulla bianchezza delle Alpi. È un quartiere ridente, misto di città e di campagna, pieno di fragranze d'erbe e di fiori, con un leggero color di mistero, un po' femmineo, che fa venir sulle labbra dei versi di Alfredo De Musset, e sveglia mille fantasie voluttuose di amori aristocratici, di scalette di seta e di duelli all'ultimo sangue nel silenzio dei giardinetti chiusi, al chiarore della luna. I giovani romanzieri di Torino si serviranno largamente, senza dubbio, nei loro romanzi avvenire, di questa piccola città pomposa e gentile; e intanto essa s'allarga rapidamente, e si popola da ogni parte, aspettando il Re gigantesco destinato a torreggiare sulle sue case.

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Poco lontano di là, girando a destra, tutto cambia: s'entra in una città militare. L'Arsenale, i Magazzini d'Artiglieria, il Laboratorio pirotecnico, l'Opificio militare meccanico, la Cittadella, la grande Caserma della Cernaia, si stendono in lunga catena da piazza Solferino a piazza San Martino, e danno a quella parte della città un aspetto tutto soldatesco, compiuto dai tre monumenti guerreschi del Duca di Genova, d'Alessandro Lamarmora e di Pietro Micca, che brandiscono le spade e la miccia. Qui a certe ore del giorno par d'essere in una città forte, in tempo di guerra. I coscritti fanno l'esercizio sui viali e sulla piazza Venezia, per le strade passano i picchetti di guardia, i carri di viveri e le vetture d'ambulanza, passano ordinanze del treno a cavallo e ordinanze di fanteria coi bimbi degli ufficiali per mano, escono frotte di carabinieri dalla Cittadella, stormi d'ufficiali dalla Scuola d'equitazione, sciami d'operaie dagli opifici militari; e qualche volta, mentre l'Arsenale d'Artiglieria riempie le strade vicine dei suoi rumori minacciosi, dal Laboratorio pirotecnico si sentono delle detonazioni, la Caserma della Cernaia echeggia di canti e di squilli di tromba, le bande dei reggimenti passano suonando, e le macchine a vapore del genio militare percorrono le strade, facendo tremare le case. Compiscono il quadro i vecchi ufficiali giubilati che leggono la gazzetta all'ombra dei platani, e le lunghe processioni di «figlie di militari», vestite di nero e d'azzurro, che passano sui viali, in doppia fila, per ordine di statura. Tutto quel quartiere di Torino piglia colore dall'esercito. Sotto i portici ci son le piccole trattorie che tengon pensione, affollate d'ufficiali verso l'imbrunire, camere mobiliate e libere ai mezzanini, gran quadri di fotografi, pieni di militari puliti e lustri, voltati tutti di prospetto, piccoli banchi di merciaiuoli, dove il soldato va a comprare lo specchietto, la pipa, il foglio di carta da lettera e la matassina di filo, e pilastri tappezzati di giornali popolari illustrati, per chi vuole ingannare il tempo nel corpo di guardia e nella stanza di picchetto. La popolazione ha pure il suo carattere speciale. La gente di bottega conosce i segnali delle trombe e gli orari, le erbivendole parlano di «traslocazioni di corpi» e di «campi d'istruzione», e i monelli fischiano le arie della ritirata. È una piccola Torino in armi, balda e allegra, nella quale s'incontra una sentinella a ogni passo, e si cammina, la notte, sotto la perpetua minaccia del «chi va là»; bella e pittoresca sopra tutto di notte; coi suoi lunghi muri silenziosi, coi suoi vasti cortili nascosti, quando la luna batte sui merli della grande caserma di Alfonso Lamarmora, e pende

Comme un point sur un i

sul carabiniere solitario, ritto davanti al suo casotto, sopra gli spalti deserti della Cittadella addormentata.

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Andando innanzi verso ponente, oltrepassato il Borgo di San Donato, che s'allunga sopra una strada sola, pigliando gradatamente l'aspetto di un villaggio grazioso, s'entra, per il Corso Principe Eugenio, in una parte di Torino stranissima, poco nota, nella quale la città si perde nella campagna, e dove son raccolti i principali istituti di beneficenza, fra cui il Ritiro del buon Pastore, l'Ospedale di San Luigi, il Manicomio, lo Stabilimento di don Bosco, l'Ospedale di Cottolengo; edifizi chiusi e muti, dall'aspetto di conventi e di carceri, colle persiane rovesciate, coi finestrini ingraticolati, con porte e porticine sbarrate, che danno al luogo l'aspetto misterioso d'un quartiere di città orientale. Qui vive un mondo invisibile d'infermi, di vecchi, di traviate, di «preservande», di ragazze abbandonate, di bimbi senza parenti, di giovinetti poveri, di maestre e di suore che pregano, soffrono, studiano, lavorano, si preparano alla vita e alla morte, separati dal mondo, nel raccoglimento severo della loro piccola città solitaria. Le strade sono quasi deserte. Passano carrozze colle tendine calate, s'incontran preti, qualche monaca, poveri, si sentono canti di bambini, echi lontani di litanie, rumori di porte interne aperte e chiuse cautamente, e tintinnii di campanelli di parlatorii, a cui succedono silenzi profondi. Tutto spira pace, rassegnazione e penitenza. Chi passa di là abbassa la voce senz'avvedersene; scorda la Torino rumorosa del lavoro e dei piaceri, e s'abbandona, rallentando il passo, alla meditazione dei dolori e delle miserie umane, punto da una curiosità triste di penetrare in quei recinti severi, d'interrogare quelle sventure, di scrutare quel mondo sconosciuto e nascosto, a cui tanta gente pietosa consacrò la vita e la fortuna. E alla tristezza di quel quartiere singolare, corrisponde la campagna circostante, piana e silenziosa, specialmente d'inverno, all'ora del tramonto, quando al di sopra delle case e dei campi coperti di neve, già immersi nell'ombra azzurrina della sera, scintilla ancora sotto l'ultimo raggio del sole l'alta statua dorata di Maria Ausiliatrice, ritta sulla cupola della sua chiesa solitaria, colle braccia tese verso le Alpi.

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Proseguendo di là per il Corso San Massimo s'arriva alla grande piazza ottagonale di Emanuele Filiberto. Ma per vederla in tutta la sua bellezza bisogna capitarvi una mattina di sabato, d'inverno, in pieno mercato. Uno Zola torinese potrebbe mettere lì la scena di un romanzo intitolato «Il ventre di Torino». Sotto le vaste tettoie, fra lunghe file di baracche di mercanti di stoffe, di botteghini di chincaglierie e d'esposizioni di terraglia all'aria aperta, in mezzo a monti di frutta, di legumi e di pollame, a mucchi di ceste e di sacchi, tra il va e vieni delle carrette che portan via la neve, tra il fumo delle castagne arrosto e delle pere cotte, gira e s'agita confusamente una folla fitta di contadini, di servitori, di sguatteri, di serve imbacuccate negli scialli, di signore massaie, di ordinanze colla cesta al braccio, di facchini carichi, di donne del popolo e di monelli intirizziti, che fanno nera la piazza. Intorno ai banchi innumerevoli è un alternarsi affollato e continuo di offerte e di rifiuti, di discussioni a frasi secche e tronche, di voci di maraviglia e di sdegno, d'apostrofi e di sacrati, che si confondono tutti insieme in un mormorìo sordo e diffuso, come d'una moltitudine malcontenta. Là bisogna andare per vedere le erbivendole famose, formidabili di tarchiatura, di pugni e di lingua, e per studiare la potenza insolente del vernacolo, la ferocia spietata dell'ingiuria plebea, il lazzo che schiaffeggia, il sarcasmo che leva la pelle, strazia la carne e incide le ossa. Da una parte c'è il mercato delle contadine, venute da tutte le parti del circondario, partite a mezzanotte dai loro villaggi per arrivare in tempo a pigliare un buon posto a destra e a sinistra d'un viale fiancheggiato di platani; e son là schierate, ritte o sedute, colle loro derrate esposte su mucchi di neve sudicia, strette le une alle altre come per tenersi calde, inzoccolate, imbottite, infagottate, fasciate di pezzuole e di scialli, con guanti di cenci e con fazzoletti attorcigliati intorno alla fronte, con cappelli da uomini sul capo, con vecchi mantelli da carrettiere sulle spalle, e lo scaldino fra le mani, coi nasi e i menti pavonazzi; e in mezzo a loro passa la processione accalcata e lenta dei compratori. Qui un pretucolo soffia tra le penne d'un pollo per scoprire le polpe, là una vecchia signora cogli occhiali spera le uova ad una ad una di contro alla luce, più in là un vecchio celibe, accompagnato dalla cuoca con la sporta, scruta un formaggio con la lente; da ogni parte si tasta, si palpa, si soppesa, si fiuta, si disputa, in un tuono di lamento stizzoso, gesticolando coi cavoli in mano, brandendo i cardi, scotendo le galline, gettando nelle orecchie di chi passa frammenti di dialoghi monosillabici, che fanno indovinare dei tira tira d'un'ora per un centesimo, delle economie disperate, delle avarizie rabbiose, delle pazienze da santi, delle miserie segrete di famiglie decorose, tutte le durezze e le angosce della gran lotta per la vita. Passano signorine eleganti, grossi borghesi buongustai, cuochi grassi e tronfi, cameriere padrone, curiosi allegri, una folla continuamente cangiante, fra cui si fanno largo ogni specie di rivenditori ambulanti, vecchi decrepiti, bambine, mostriciattoli col botteghino al collo, che offrono un almanacco, un tartufo, due limoni, una catenella d'acciaio, un pezzo di tela, facendo un vocìo assordante, dominato dalla voce stentorea del venditore della «Cronaca dei Tribunali» e dalla cantilena funebre del sacrestano che scuote un bossolo domandando l'elemosina per le anime del Purgatorio. Per tutta la piazza è un affaccendamento e un rimescolìo rumoroso, un farsi e un disfarsi continuo di crocchi intorno a carrozze di cavadenti, a venditori di specifici, a strimpellatori di violini, a banditori d'incanti, a ciarlatani cappelluti che raccontano storie di delitti davanti a grandi quadri rosseggianti di sangue, a teatrini da burattini, rizzati in mezzo alla neve, a grandi fiammate di paglia, accese dai fruttaiuoli infreddoliti per sgranchirsi le membra. E non si può dire quant'è pittoresca e bizzarra quella confusione di gente e di cose, di lavoro e di festa, di città e di campagna, vista a traverso la nebbia della mattina, che lotta ancora col sole, in mezzo a quei grandi alberi sfrondati, imperlati di brina.

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D'in fondo alla piazza, scendendo per una gradinata, si riesce in una larga strada ricurva, che va verso la Dora, davanti a un altro spettacolo curiosissimo. La strada è tutta da un capo all'altro una sola enorme bottega di rigattiere all'aria libera, un'esposizione grandiosa e compassionevole di miserie, di cui non è possibile farsi un'immagine fuorchè supponendo che un intero quartiere di Torino, invaso da un furore di distruzione, abbia rovesciato giù dalle finestre tutte le masserizie delle sue case, dai solai alle cantine, fino all'ultima carabattola dell'ultimo armadio. E tutto è ordinato, pulito, messo in vista, con una cura scrupolosa, come la merce più rara, e accanto a ciascuna delle cento rigatterie, che formano quell'interminabile bazar di cenci e di tritumi, siede il venditore meditabondo, appoggiato alla sua carretta, in atteggiamento filosofico, cogli occhi fissi sulle rovine da cui ricava la vita. La varietà e la stranezza degli oggetti è maravigliosa. È una confusione di cose e d'avanzi di cose da far impazzire il disgraziato che ne dovesse far l'inventario. La pianeta del prete, il cappello sfondato del bersagliere, la marionetta rotta del teatrino di San Martiniano, il vestito di seta lacerato al veglione del teatro Scribe, la serratura del cinquecento, il romanzo incompiuto di Eugenio Sue, il chiodo rotto, il basto dell'asino, il quadro a olio, il berretto piumato del tenore, denti finti, spille scapocchiate, padelle senza manico, elmi, mappamondi, gambe di tavola, spogli d'alcove, di salotti, di studi d'avvocato, di soffitte, d'officine, di taverne, muffiti, sbrindellati, rosicchiati dai topi, bucati dalle tignole, marciti dalla pioggia, smangiati dal fango, consunti dalla ruggine, senza colore, senza forma, senza nome, senza prezzo: c'è tutto quello che il mare agitato della vita umana rigetta da sè, tutto quello che la mente può immaginare di più miserabile, di più inutile, di più spregevole, di più rifinito e di più snaturato dal tempo, dall'uso e dalla violenza. In quello strano mercato comincia il lavoro nel cuor della notte, al lume delle lanterne, e il formicolìo della folla allo spuntare dell'alba. Là va la sartina, furtivamente, a cercare lo scialle smesso; ci va il padre di famiglia, corto a quattrini, a comprare il lume a petrolio; ci va l'artista a scovar l'abito per il modello; ci va l'antiquario, il bibliomane, l'attore spiantato, l'ebreo rigattiere, una processione di collettori di bagattelle e di curiosi d'ogni specie, impazienti tutti d'arrivare i primi a pescare in quel mare magno in cui si nascondono qualche volta tesori sconosciuti e piccole fortune insperate; e tutti girano e cercano avidamente fino a giorno alto, in mezzo a un via vai di contadini e di contadine che contrattano panni logori, di cenciaiuoli girovaghi, carichi di stivali sdrusciti e di pentole fesse, di facchini, di raccoglitori di cicche e di carte, di guardie municipali, di donne di servizio, di bottegai, di sensali, che fluttuano in due opposte correnti fra il mercato dell'erbe e il gran pandemonio della piazza vicina.

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Chi ha fatto questo giro, e s'è ancora spinto poi, per il corso San Maurizio, fino in faccia al Borgo Po, che chiude come uno scenario graziosissimo il grande palcoscenico della piazza Vittorio Emanuele, ha visto la città di Torino. Ma gli resta da studiare il movimento e l'aspetto della popolazione, che è pure curioso. Il più grosso torrente della vita scorre dalla stazione di Porta Nuova fino a Piazza Castello, dove arriva gonfiato dall'affluente di via Santa Teresa; e là si rispande per via di Po e per via Dora Grossa, e serpeggia in mille rigagnoli per le vie strette della vecchia Torino, fino al gran lago ondeggiante della piazza Emanuele Filiberto. La gente si perde nella vastità delle piazze, dove non si vedono che «rari nantes»; presenta un aspetto generale d'eleganza nell'ultimo tratto di via Roma e sotto i portici, e piglia gradatamente un colore modesto e popolano, via via che scende verso il fiume o risale verso i quartieri di settentrione e di ponente. L'ordine è nella folla come nell'architettura: passa una processione a destra e una processione a sinistra d'ogni strada, l'una opposta all'altra: da una parte non si vedono che nuche, dall'altra non si vedono che visi. Certi personaggi si succedono con una frequenza che si nota subito: il vecchio giubilato, sbarbato e pulito, che va rasente il muro; il giovane ufficiale d'artiglieria della Scuola d'applicazione; lo studente vestito con una certa sprezzatura d'artista; la sartina dal corpicino snello e asciutto, con quattro cenci addosso, messi con garbo signorile e aggraziati da un'andatura capricciosa insieme e composta; l'operaio di statura media, d'aspetto rude, di membra solide, di movimenti da soldato; l'uomo nuovo, l'industriale, il commerciante, l'agente d'affari, fra i trenta e i quarant'anni, trascurato nel vestire, di viso serio, grigio innanzi tempo, leggermente invermigliato dal Barolo vecchio, col sigaro di Cavour spento fra le dita della mano inquieta, e un pensiero fisso sulla fronte; il grosso padre di famiglia, borghese benestante, con un viso benevolo, che manifesta poche idee, ma quelle poche nette e salde, e inchiodate profondamente nel cervello, nella coscienza e nel cuore, e tratto tratto qualche signora alta, sottile e bianca, coll'occhio azzurro e il piede patrizio, che fa col suo mantello di velluto nero una macchietta vigorosa e pomposa nel grigio volgare della folla. Tutti camminano guardando diritto davanti a sè; si discorre senza rallentare il passo; poche conversazioni ad alta voce; nessuna apostrofe da un lato all'altro della strada; si parla a mezza voce, a frasi spedite, gesticolando in uno spazio circolare di non più di due palmi di raggio, e risalendo prontamente sul marciapiede, per forza d'abitudine, ogni volta che s'è stati costretti a discendere. E già, nelle strade frequentate, si vede, come nelle grandi città del nord, una gara ad arrivare i primi, a lasciarsi indietro chi ci cammina accanto, come se ogni vicino fosse un concorrente in affari. Tutte le scorciatoie sono utilizzate, si svolta rasente i muri, s'attraversa la strada di corsa, s'inseguono i tranvai, si fa folla agli incrociamenti delle carrozze e dei carri, e s'apostrofano carrettieri e cocchieri con voci e gesti impazienti di gente che ha i minuti contati. Ma una certa apparenza di gentilezza corregge il carattere un po' aspro di questa vita frettolosa di città industriale. I saluti sono premurosi, i cappelli s'abbassano profondamente, la gente si scansa con giri svelti e larghi, i bottegai riaccompagnano i compratori alla porta in atto cerimonioso, il cameriere si inchina all'avventore sulla soglia della trattoria, il fiaccheraio riverisce la «pratica», il venditore di giornali ringrazia del soldo con un buon augurio, le erbivendole si chiamano «madama», le due frasi spicciole del galateo torinese «ca fassa grassia» e «ca scusa» si sentono da ogni parte e ad ogni proposito come il «pardon» e il «s'il vous plait» a Parigi; la città fa i suoi affari alla lesta, ma con dignità, da signora educata, non da rozza merciaia. E come Parigi ha l'«ora dell'assenzio», Torino ha l'ora del vermut, l'ora in cui la sua faccia si colora e il suo sangue circola più rapido e più caldo. Allora le scuole riversano per le strade nuvoli di ragazzi, dagli opifici escono turbe di operai, i tranvai passano stipati di gente, gli equipaggi s'inseguono, le botteghe dei liquoristi s'affollano, un esercito d'ufficiali e di soldati d'ogni arma si spande in ogni parte e mette un soffio di gioventù per le vie, e nella mezza oscurità della sera par di vedere Torino come all'immaginazione piace di raffigurarsela in un avvenire lontano: una Torino di cinquecentomila abitanti, che riempia la sua cinta daziaria, con un nuovo centro e nuovi sobborghi, tutta sonante di lavoro e rigurgitante di vita.

Ma il più bello spettacolo vivo, e nello stesso tempo il più originale, che offra Torino, è la passeggiata sotto i portici di Po, le sere d'inverno. I portici sono i «boulevards» di Torino. L'albergo d'Europa può rappresentare il «Grand Hôtel»; la chiesa dell'Annunziata, la «Madeleine»; il caffè Fiorio, «Tortoni»; il Teatro Regio, il «Grand Opéra». Anche qui la folla maggiore, e il fiore dell'eleganza e del lusso passano a destra. La prima cosa che dà agli occhi è il contrasto della bottega splendida col baraccone da villaggio che le sorge in faccia, nello stesso tempo officina e negozio; il banco della fruttaiola di fronte alla trattoria aristocratica; il rivenditore d'almanacchi e di libri usati in faccia al grande libraio signorile. La contessa vestita in gala passa accanto ai banchi di legumi e di caci, la conversazione leccata dei __dandy__ è interrotta dall'urlìo plebeo dei cavamacchie e dei venditori di fotografie; tutto il mondo elegante sfila in mezzo a quella lotta muta e continua del grande e del piccolo commercio, schierati l'uno di fronte all'altro, in atteggiamento ostile, come due catene di sentinelle avanzate dei due grossi eserciti nemici della borghesia e della plebe. Qui la folla è fitta e nera, divisa in due correnti, che si toccano, e spesso si confondono, e straripano fuori dei portici. In alcuni punti è un vero serra serra, come all'uscita da un teatro, tanto che nello spazio di tre braccia quadrate si ritrovano spesso un capitano d'artiglieria, una coppia matrimoniale, un prete, un accademista, una crestaia, un operaio, stretti in un mazzo, che paiono una famiglia sola. Qualche volta per pigliar spazio la folla è costretta a fermarsi, e tutti «segnano il passo» come una colonna di soldati. L'aspetto e il contegno generale è grave, come l'andatura, e come disse un professore arguto, sembra che tutti «meditino un regolamento». La gente gira tutt'intorno alla Galleria Subalpina, a passi lenti, processionalmente, come nella sala d'un museo, non facendo che un leggiero bisbiglio, che lascia sentire distintamente le note acute dei cantanti nella sala sotterranea del Caffè Romano. Sotto i portici non si sente che un mormorìo sordo ed eguale, fra cui risuonano forte, qua e là, le sciabole degli ufficiali e le risa argentine delle fioraie e delle sartine, che fanno una scappata a traverso al bel mondo, coll'involtino in mano, prima di tornare a casa, e i colpi secchi delle porte dei caffè aperte e richiuse bruscamente per timore del freddo. Par di essere in una galleria d'un palazzo grandissimo, dove i convitati sfilino rispettosamente al cospetto d'un principe. E siccome gl'incontri sono frequentissimi e si ripetono, così è un salutarsi continuo di militari, un continuo scappellarsi d'amici e di conoscenti, di studenti e di professori, di grossi e di piccoli impiegati, che si voltano obliquamente, passandosi accanto, per non urtarsi nel petto. Della gente non si vede che il viso e i fiati fumano. Ma i baracconi riparano dal freddo. Si sta bene in quella calca, così stretti, l'uno addosso all'altro, e pare che tutti provino piacere a pigiarsi, a sentirsi davanti, dietro e dai lati dei pesanti pastrani, dei grandi mantelli d'ufficiali, dei grossi borghesi ben pasciuti e caldi, usciti allora da una sala da desinare. Da tutte le strade laterali arriva gente, chiudendo l'ombrello, pestando i piedi, scuotendo i panni bianchi di neve, e tutti si ficcano in quella folla, con gusto, tirando un respiro, come se entrassero in casa. E la folla essendo così pigiata, si colgono a volo da tutte le parti, passando, brani di dialoghi sommessi, frammenti di discussioni scientifiche, giudizi letterari di studenti, notizie sullo stato dei fondi pubblici, qualche volta frasi staccate di confidenze di signorine, che un'ondata di gente ha separate dai parenti che vengon dietro, conversazioni francesi e tedesche, parole dolci vibrate a bruciapelo nei momenti di maggior confusione: specialmente allo svolto dei portici in faccia alla Galleria, dove accade spesso d'incontrarsi faccia a faccia con marito e moglie, e sentirsi ad un punto il fumo del sigaro del marito negli occhi, il manicotto della signora contro le mani e la testa del bimbo in un fianco. Chi non c'è abituato, può seccarsi sulle prime, e impazientarsi di quello strano modo di passeggiare; ma tutti, prima o poi, ci pigliano piacere. C'è non so che idea di intimità domestica in quel lento va e vieni di gente affollata sotto quegli archi, dinanzi a quelle vetrine splendide, che finiscono con lo stamparsi nella memoria, ad una ad una, come i mobili della casa propria; c'è un'apparenza come di affratellamento e di buon accordo universale, un'immagine viva di quell'unanimità di sentimenti e di propositi che fece forte e ammirato il popolo piemontese, qualche cosa di geniale e di benevolo, che non si sa ben dire, ma che mette un calor salutare nel petto, dalla parte sinistra.

Torino, però, si presenta in molti aspetti molto diversi, che un forestiero non può osservare in pochi giorni. Ci son poche città che cambino viso così stranamente col cambiare della stagione e del tempo. Ha una bellezza sua propria quando è coperta di neve, quando le Alpi son tutte bianche, le colline bianche, i giardini, gli alberi dei viali lunghissimi, i larghi corsi, le grandi piazze, tutto bianco; specialmente di notte, quando a traverso la neve fitta, che vela la luce delle file interminabili dei lampioni, non si riconoscono più le vie, si confondono i crocicchi, la città sembra immensa, e nei vasti spazi deserti regna un silenzio cupo di città disabitata, in cui fuggono e spariscono come ombre impaurite le carrozze e la gente, e vi par spenta la vita per sempre. È bella anche nelle mattinate d'inverno grigie e rigide, quando il cielo coperto piglia successivamente mille colori strani di viola, d'oro e di porpora, che paiono riflessi di grandi incendi lontani, e ogni strada è chiusa da una cortina di nebbia, come dal fumo del fuoco di fila d'una barricata, nel quale i monumenti si drizzano come larve, e le persone appariscono all'improvviso, come se sbucassero di terra, e tutta la popolazione affaccendata della mattina, morsa dal freddo, precipita il passo, batte i piedi, stropiccia le mani, soffia sulle dita, saltella e scantona ad un angolo retto, con le spalle ingobbite e il gomito al muro, come se fosse inseguita e sferzata da una legione d'aguzzini invisibili, e par che i raggi del sole s'arrestino intimiditi sui cornicioni delle case, e che la città sia condannata al gelo e alla mezza luce d'un'alba perpetua. Ma è bella sopra tutto di primavera, in quei giorni che da un inverno lungo e uggioso si salta improvvisamente nella bella stagione, e si sente la verità di quello che disse George Sand: la primavera dell'Italia settentrionale è la più bella del mondo. Allora Torino si riscuote tutta, e par che ringiovanisca in poche ore; la popolazione si spande per i giardini e per i viali, come a una festa; per le grandi strade passano torrenti di luce e d'aria; a ogni cantonata par che soffi una brezza nuova; si sentono ondate d'odor di campagna e di fragranze alpine, che dànno una scossa al sangue; il cielo, le montagne, le colline, gli sfondi lontani delle vie, tutto è terso, netto, fresco, allegro; Torino ha l'aria d'una città americana, venuta su da pochi anni, nel primo sboccio della sua verde adolescenza; ma dorata da un raggio di bellezza italiana.

Ma per veder Torino nel suo più bell'aspetto, bisogna vederla nell'occasione d'una di quelle grandi feste nazionali, in cui accorrono qui Italiani d'ogni provincia, vecchi ministri che vi passarono i più belli anni della loro età matura, deputati maturi che vi passarono gli anni più belli della gioventù, giornalisti che vi fecero le prime armi, ricchi che ci vissero nella strettezza, antichi emigrati, senatori, generali, tutti i superstiti di quella grande legione di uomini di Stato, di scrittori, di lottatori, di soldati, di tribuni, che preparò e iniziò qui la rivoluzione italiana, e se n'andò con la capitale. È bello e commovente quel ritorno. Tutti hanno qui mille memorie; sparpagliandosi per la città, ne ritrovano una ad ogni passo; riconoscono luoghi e persone, rivedono col pensiero gli amici e i compagni perduti, ricordano alla svolta d'ogni via, si può dire, un avvenimento e una commozione. Il popolo torinese è tutto in giro, e in quei giorni rivive anch'esso in quel bel tempo, che par già tanto lontano, in quei begli anni di speranze e d'entusiasmi; anch'esso riconosce a ogni passo un ospite antico, deputati incanutiti, generali incurvati, gravi pubblicisti di cui ha letto le prime appendici letterarie, ministri che vivevano in una cameretta al quarto piano in via Dora Grossa, visi, voci, gesti che ravvivano tutti i suoi più cari ricordi e gli fanno battere il cuore. Allora certi luoghi della città, certi angoli storici ripigliano per qualche ora l'aspetto antico; si rivedono nei vecchi caffè i personaggi e i crocchi d'una volta; da ogni parte si stringono mani d'amici, si alternano esclamazioni di stupore e di piacere, e conversazioni concitate, piene di domande, di date, di nomi, di parole tristi e affettuose, e di echi sonori delle antiche passioni giovanili; e piazza Castello si rianima, e sotto i portici ripassa un soffio del cinquantanove, e tutta la città si sente rifluire al cuore il suo vecchio sangue di guerriera e di regina, e apparisce più bella e più altiera in mezzo alla vasta cintura verde dei suoi platani e al grande anfiteatro azzurro delle sue Alpi.

FIRENZE

(Giugno, 1871).

Un Piemontese, che deve andare a Roma tra poco, sentì il bisogno, qualche giorno fa, di mandar un saluto alla città di Firenze, e pensò di mandarglielo dalla cima della collina di Fiesole.

Una di queste sere, poco prima del tramonto, prese la via di porta a Pinti, solo soletto, come un pellegrino, e tirò innanzi a capo basso, almanaccando. La strada era deserta. Egli, che vi era passato molte volte nei giorni di festa, quando vanno e vengono tante famigliuole di operai e brigatelle di giovani e coppie d'innamorati e villeggianti e carrozze, quella sera, non vedendo anima viva, si sentiva prender dalla malinconia. Andava su a passo lento, si fermava dinanzi ai cancelli chiusi delle ville, dinanzi alle chiesuole, ai tabernacoli, ai muri scarabocchiati col carbone; girava tratto tratto, dai punti più alti, uno sguardo sulla campagna: per tutto era quiete e silenzio. Incontrò qualche povero, inciampò in una vecchia addormentata sullo scalino di una porta, arrivò a San Domenico, e su, per la strada più corta.

Per tutta la salita non si voltò mai a guardar la città. Non voleva sciuparsi l'effetto del colpo d'occhio più bello da godersi lassù, dinanzi al convento.—Poichè è l'ultima volta che la vedo,—pensava,—la voglio veder bene, tutt'a un tratto, come al cader di un velo.—E faceva tra sè quei ragionamenti fanciulleschi che si fanno in tali occasioni, quasi per darsi un'illusione di sorpresa:—Che cosa si vede lassù? Che città c'è nel piano? Dove sono? Dove vado?

Arrivato in cima, accanto al muricciuolo, prese fiato, e poi si voltò tutto a un tratto verso Firenze.

Lo spettacolo, quel giorno, era più stupendo che mai. Il cielo lucido e quieto di una pace allegra; una striscia di nuvole aranciate all'orizzonte; il resto puro: le cime delle colline lontane pareva che fendessero l'azzurro; una freschezza primaverile spirava nell'aria. Sotto, tutto quel saliscendi di poggi e di vallette, simile a un solo immenso prato depresso qua e là, lievemente, come dal premere d'una mano carezzevole, mossa da una fantasia capricciosa; tutto un verde leggiero, variato sui punti eminenti del verde cupo dei cipressi, disposti a file e a corone; interrotto da prati fioriti; listato di strade, di viali, di sentieri bianchi, che s'incrociano, s'inerpicano sulle cime, precipitano dal lato opposto, e spariscono e riappariscono in distanza; casette, gruppi di case, ville su tutti i rialti, nette, spiccate, che par che i colli le buttino innanzi come per porgerle; oltre la città un piano vastissimo, coperto d'una nebbia leggiera, a traverso alla quale biancheggiano le case lontane, come vele sul mare; e su tutta questa sterminata corona di colli, di villaggi, di ville, di giardini, ogni cosa che par che guardi a Firenze, e voglia scendere e precipitarle nel seno: l'ossatura d'una città immensa che non si può immaginar compiuta senza un senso di sgomento; uno spettacolo pieno di bellezza che fa pensare, e di maestà che sorride.

—Mah!—esclamò il giovane con un sospiro, sedendosi sul muricciuolo, con le spalle volte a Firenze, per raccoglier meglio i suoi pensieri.—È pure una dura legge che, quando s'abbandona una città, oltre al rammarico di separarsi dagli amici e di rompere molte abitudini che erano diventate care, uno si debba accorgere che vi sono ancora da sciogliere altri legami: legami che lo tengono attaccato ai muri delle case, ai piedistalli delle statue e agli alberi dei viali….. Cinque anni! Mi par d'essere arrivato a Firenze ieri. Era una brutta giornata, nevicava, non c'era anima nata per le strade. Mi parve una città malinconica. Uscito appena dalla stazione, infilai via Panzani; diedi un'occhiata, passando, a via Tornabuoni: con quelle case di colore scuro, mi fece l'effetto d'una strada tetra; andai oltre, vidi il Duomo, m'affacciai a via dei Servi: mi parve un corridoio di convento; tirai innanzi fino a via San Sebastiano: fu peggio. Mi sentivo soffocare in quelle stradette, mi pareva che vi mancasse l'aria e la luce; m'uggivano tutte quelle casucce, addossate le une all'altre, strette come persone che si pigino, con quelle porticine che paion buche; una casa alta come una torre, una bassa come una capanna, una grossa, una mingherlina, una avanti, una indietro, tutte di sghimbescio, come buttate là a caso…. Piovve per molti giorni. Io stavo in via Pietra Piana, verso la Porta, e passavo dell'ore alla finestra, guardando nella strada, solo e pensieroso. Ad ogni sbatter d'uscio, la casa tremava tutta come se volesse cadere.—Ci restassi sotto!—dicevo—tanto ho da crepare di malinconia….

Poi venne il bel tempo, e col bel tempo l'umore allegro.

Passarono tre o quattro mesi.

Un bel giorno osservai che per andare da casa all'ufficio ero passato ogni mattina per la stessa via; mi maravigliai di non aver mai pensato a prenderne un'altra, e me ne domandai la ragione.—Forse, dissi tra me, è l'effetto di quella tal casa che vedo di scorcio sulla cantonata, appena son fuori della porta. Sarà fors'anco la chiesa che c'è di rìmpetto. O son le finestre del palazzo accanto a casa mia, che guardo sempre. O i bassorilievi del palazzo più piccolo ch'è vicino alla chiesa. O sono tutte queste cose insieme.—Poi, fermandomi in mezzo a una piazza, mi venne fatto di domandarmi che cosa fosse che mi tratteneva, in quel certo punto e in quel certo modo, con l'aria e col sentimento di chi sta in casa sua; perchè mi pigliasse la voglia di appoggiare le spalle al muro e di finire il mio sigaro in pace; come non mi potessi trattenere dal chiamar gli amici che passavano, e attaccar discorso, e far crocchio, e sciupare in chiacchiere una mezz'ora. Cercai di spiegare a me stesso il perchè avessi contratto l'abitudine di rallentare il passo a quella tal svoltata, di guardare intorno su quel tal crocicchio, di andar oltre col viso in aria….

Una mattina m'accorsi con stupore di avere nel capo, distinte ad una ad una, le immagini d'una cinquantina di case di strade diverse, delle quali avrei saputo dire, senza rischio di sbagliare, il colore della facciata, la forma delle finestre, il disegno degli ornati. Guardai meglio quelle case, ripassandoci davanti; e quanto più le guardavo, tanto più mi pareva che avessero tutte un'aria propria, che so io? un significato, qualche cosa che mi faceva pensare. L'una sentivo che l'avrei scelta di preferenza per invitarvi degli amici a cena, e menarvi una vita allegra: mi pareva che sorridesse. In un'altra ci sarei stato più volentieri a studiare, solo, raccolto, con una gran biblioteca: aveva un aspetto grave insieme e sereno. In una terza pensavo che non ci si potesse vivere che facendo all'amore, tanto aveva le forme snelle e la tinta gentile. Gli architetti di quelle case bisognava che fossero giovani simpatici; dovevano aver voluto dir tutti alcun che con quei disegni, e s'erano fatti tutti capire. Man mano che passavo per quelle vie, mi s'affollavano alla memoria versi, scene di romanzo, episodi storici, ariette d'opera. E alzando gli occhi ai palazzi, alle torri, ai campanili, agli archi grandiosi, mi cominciava a parere strano che, in luogo d'ispirare quell'ammirazione subitanea e profonda, mista quasi ad un senso di terrore, che sogliono ispirare i monumenti giganteschi, costringessero invece, quando si voleva esprimere con parole l'effetto delle loro bellezze, a servirsi degli aggettivi stessi che s'usano per designare un bel fanciullo, un bel fiore, un bel ninnolo, come:—Gentile, amabile, caro…. Guardando quelle torri, quei palazzi, sorprendevo spesso in me medesimo un desiderio bizzarro, come di fare scorrere la mano su quei contorni, di palpare quei rilievi; e con questo desiderio, una specie di sollecitudine gelosa per quelle moli enormi di pietra, come se temessi che la menoma forza le potesse offendere e sciupare; e con questa sollecitudine, un bisogno vivo e continuo di correrle e di ricorrerle con quello sguardo d'amante che avvolge, e striscia, e lambe, e si stanca sulle forme amate.

—Ma queste linee si muovono,—esclamavo tra, me—v'è qualche cosa che si stacca e va su; c'è senso e vita in quelle forme:—Cominciai a capire certi amori ardenti per le glorie artistiche del proprio paese, e mi compiacqui nel cogliere sul viso degli stranieri, che si fermavano sulla piazza, la prima espressione della maraviglia e del diletto. Presi l'uso di passare e di fermarmi tutti i giorni, a quell'ora, in quei luoghi. M'accorsi che ogni giorno quella contemplazione di pochi istanti mi metteva in un corso d'idee alte e belle; sentii poi che la facoltà di quella maniera di diletto si rafforzava e s'estendeva ad altre forme dell'arte; che quel gusto del semplice e del grande s'insinuava anche un po' nel sentimento e nel giudizio mio riguardo a cose che con l'arte non avevan che vedere, a fatti, a persone, a costumi; mi parve d'essere riuscito, per effetto di quel culto gentile, a domare certi moti impetuosi e quasi selvaggi dell'animo mio, a dare alla mia indole un che di più liscio e di più morbido, a migliorarmi in qualche cosa. Per questo presi ad amare quelle linee, quelle forme, quei colori; e non mi pareva più pazzo il «Pieruccio» dell'«Assedio di Firenze», che, povero e abbandonato, sente ancora un palpito di gioia segreta, sollevando gli occhi pieni di lacrime ai monumenti della sua cara città natale….

Questo seguì a me ed a molti. Ma per chi sia venuto qui nel fiore della giovinezza, con quell'irresistibile bisogno di aprire il proprio cuore e di gridare:—Guardate!—che ci assale appunto negli anni in cui si comincia a esser uomini e s'è tuttavia un po' fanciulli;—per chi sia venuto qui coll'intima coscienza di esser atto a fare qualcosa, senza saper che, nè come, nè quando; con un presentimento confuso, con un desiderio inquieto, con quella forza dentro che s'agita, e tenta e non rinviene l'uscita; per chi, essendo venuto qui in quello stato, abbia sentito, al lume di questo cielo e all'ombra di questi monumenti, squarciarsi come un velo che gli avvolgeva l'ingegno, tutte le facoltà ravvivarsi con impeto e ordinarsi con armonia, e dal tumulto, prima infecondo, della mente e del cuore prorompere per la prima volta, rozzi, ma ardenti e liberi, gli affetti, i pensieri, le immagini;—per chi sopra tutto abbia raccolto qui, con lungo amore, le forme e le parole da poter significare ed espandere l'animo suo, affratellandosi col popolo per sorprendergliele sulle labbra, ricominciando qui, per così dire, un'altra infanzia, rinnovando quasi la sua natura, aspirando continuamente e avidamente quest'aura vergine della vita italiana, per farsene sangue, e informarsene il cuore e il cervello, superbo oggi d'esservi riuscito, disperato domani di non riuscirvi, ma sempre risoluto, ostinato e appassionato; per costui non ci sarà nè parola nè omaggio che basti a significare l'affetto e la gratitudine che deve sentire per Firenze, sua ispiratrice e maestra.

Quando, a tarda notte, nel silenzio della sua cameretta, dopo un lungo lavoro condotto con furia febbrile egli sentiva bisogno di smorzare il fuoco che gli ardeva le fibre, Firenze gli diceva:—Vieni!—e gli offriva la splendida pace delle sue notti serene, l'Arno colorato di fuoco e il bel colle di San Miniato illuminato dalla luna; e in quello spettacolo gentile e solenne l'anima sua si quetava. E quando, dopo aver lungamente faticato e sudato invano per dar forma e vita a un concetto riposto o a un'immagine bella che gli appariva, in barlume alla mente, egli buttava la penna sconfortato e si slanciava fuori di casa, Firenze, offrendogli allo sguardo i miracoli dell'arte affollati nella sua piazza famosa, gli diceva:—Ecco la bellezza!—ed egli in quella bellezza confortava e appagava l'animo, pensando ch'ella era italiana, e il suo orgoglio umiliato d'artista moriva senza dolore nell'alterezza legittima e santa di cittadino. E quando in certi momenti di sfiducia desolata e di abbattimento mortale egli piangeva la sua provata impotenza e le sue speranze deluse, Firenze gli diceva:—Migliaia di giovani, e quanto migliori di te! io vidi, fra le mie mura, lasciar cadere la mano disperata sopra un foglio bagnato di lagrime o sopra un marmo spezzato; dolori che straziano il cuore, e gettano anzi tempo nella tomba, io conobbi e nascosi; ed erano anime grandi. E tu, miserabile, che pretendi, e chi accusi?—E allora egli si ravvedeva e taceva, e da quella confusione salutare traeva nuova forza e nuovo coraggio per combattere, perseverare e soffrire.

A questo punto, preso da un'ispirazione diversa, il nostro amico si voltò improvvisamente alla campagna ed esclamò in atto drammatico, non senza un leggiero accento di tristezza:—Addio, dunque, bel colle di Settignano! addio Patrolino! addio Sesto! addio vallette verdi, chiesuole solitarie e casucce quete, che ci avete fatto dire tante volte:—Beata la pace!—Stanchi d'una baldoria carnovalesca, annoiati degli altri e di noi, tristi, umiliati, noi ci siamo levati molte volte innanzi l'alba e slanciati con desiderio smanioso alla campagna, come l'assetato alla fonte; e correndo di colle in colle, di valle in valle, e bevendo a lunghi sorsi deliziosi l'aura pregna di vita, abbiamo sentito sparire tristezze e rimorsi, rinascere, con l'appetito vigoroso e la gaiezza campagnola, la forza e l'ardor del lavoro! Addio contadini cortesi, vecchierelle allegre e ragazzotte col «damo» negli occhi, che sedeste tante volte a tavola con noi, come vecchi amici; buona gente cordiale, che spalancavate gli occhi maravigliati, vedendoci cavar di tasca il portafoglio per notare le ingenue grazie del vostro celeste linguaggio; e addio voi pure, bambinelli scalzi, di cui ci chinavamo a raccogliere le parole come le note d'un canto sommesso; addio a tutti! Nessuno di noi vi ricorderà senza rimpiangervi! Dalle sponde del Tevere, rivolando col pensiero alle sponde del Po, ci soffermeremo sempre in riva all'Arno, per mandarvi un saluto, sempre!…

Qui l'amico si fermò, si turbò, e stette qualche minuto immobile, col capo basso, occupato da un pensiero triste. Poi alzò la fronte corrugando le ciglia, coll'aspetto di chi afferra il filo di una reminiscenza lontana, e riprese a bassa voce:

—….Piazza Castello pareva un mare di teste; c'era mezzo il popolo di Torino. Migliaia di voci cantavano l'inno di Goffredo Mameli. L'entusiasmo toccava il furore. Centomila visi erano rivolti alle finestre dove stavano i deputati della Toscana. La gente gridava loro cose, là sotto, che facevano venir freddo; tendeva le braccia come se essi avessero a gettarsi giù, e li volesse prendere. Si voleva vederli, e vederli ancora, e poi tornare a vederli.—Fuori!—si gridava con accento di preghiera;—vada qualcuno a pregare che si mostrino ancora una volta! Pregateli che ci parlino! Li vogliamo sentire ancora!—I loro nomi correvano di bocca in bocca; alcuni erano di famiglie antiche ed illustri, imparati già nelle storie, o intesi nelle scuole, nomi solenni, che si pronunziavano con riverenza; altri non saputi mai, ma pur cari per quel suono, per quell'impronta paesana che li faceva riconoscere alla prima. Si cercavano nella folla i pochi Toscani ch'eran venuti coi deputati, si correva intorno a loro con una curiosità infantile, si voleva sentire il loro accento decantato, si ripetevano le loro parole, si scambiavano i «lei» e i «chiel» con una dimestichezza che pareva antica.

Il nome di «Fiorenssa», come si diceva, questo nome al quale il popolo, benchè l'avesse sì poco familiare, era pure sempre usato ad unire l'immagine di qualcosa di gentile e di augusto, si ripeteva allora con amore; Firenze, già creduta tanto lontana, pareva che si fosse avvicinata ad un tratto, che fosse lì all'orizzonte, colle sue belle cupole e le sue belle torri; Dante! Michelangelo! Machiavelli! e gli altri grandi nomi rivenivano alla mente e sulle labbra, anche dei popolani, con un senso nuovo, quasi come nomi di gente viva, di cui que' deputati ci avessero portato un saluto o un ricordo. Firenze! Si vedevano con la mente, a questo nome, delle legioni di scultori, di pittori e d'architetti, che ci gridavano:—Viva!—da lontano, agitando scalpelli, tavolozze e corone. Oh come si conoscevano tutti senz'averli mai veduti! E come si sentiva la solennità di quell'istante, la fusione di quei due popoli e di quelle due storie! Era il Piemonte, il vecchio soldato, abbronzato dal sole e coperto di cicatrici, che deponeva un bacio sulla fronte bianca e splendida della madre delle arti; della quale dieci anni prima, a Curtatone, aveva potuto stringere appena, e di sfuggita, la mano insanguinata. Erano due grida sublimi, uno partito da Santa Croce e l'altro da Superga, che si mescevano in un solo:—Ecco il giorno!—Oh non c'erano freddezze allora! Non c'erano rancori!

—Freddezze?—riprese di lì a poco, quasi maravigliato d'essersi lasciato sfuggire quella parola;—rancori? Ma che!—continuò scrollando il capo e sorridendo,—ma chi lo crede? chi ne parla più? chi se ne ricorda ancora? Le famiglie piemontesi, forse, che si vedono, per le case e per le vie, mostrarsi l'una all'altra i loro bimbi di cinque anni, che parlano il più puro e argentino toscano che si sia inteso mai, ridendone come d'una cara sorpresa e parlandone con una compiacenza non scevra d'alterezza? O le loro donne di servizio, venute dalle falde delle Alpi, che quando c'è confusione in mercato dicono che «non ci si raccapezzano?» O i rivenditori di giornali, nati sulle rive del Po, che rifanno il verso ai nuovi venuti, perchè non gridano ancora coll'accento paesano? Sogni! Interrogateli—«Signore!—vi risponderanno:—ella ritorna molto addietro; qui son nati i nostri figliuoli e i nostri fratelli più piccoli; in questa lingua e in questo accento ci chiamarono la prima volta e ci dissero le prime parole; qui ci abbiamo amici, fidanzati, parenti; in Santa Croce c'è il nostro Alfieri; che domande la ci fa? Questa è Italia, signore! La città dove siam nati ci è sacra; ma anche Firenze ci è cara, e l'amiamo».

Questo diranno; e vi soggiungeranno anco molti che non partono col cuore lieto, che prevedono dei giorni e delle ore in cui si ricorderanno di Firenze con una tenerezza piena di malinconia e di desiderio, perchè qui si son stretti dei cuori, molti, e con nodi tenaci, come segue sovente fra chi s'è tenuto il broncio un bel pezzo. Rancori? Non è vero, è una calunnia per tutti: per chi parte e per chi resta; lo so di certo, io, lo vedo ogni giorno, lo sento ogni momento.

Come? Chi è che brontola laggiù? Chi è che alza le spalle? Avanti, se c'è ancora qualcuno da questa parte o dall'altra; spingiamoli in mezzo, a vedere se osano dirselo in viso; e che le donne e i ragazzi, che amano, perdonano e dimenticano, li costringano a levar le mani di tasca, e a tenderle di qua e di là, e gridino:—Stringete!—Animo, giù il cappello, ancora una volta, davanti a Santa Croce; un ultimo sguardo alla cupola, e un saluto intorno alle colline, e addio, e via, col cuore riconoscente e sereno. Per Dio! Chi ha ancora un po' d'amaro nell'anima non è un galantuomo….

Ed ora dò il mio ultimo saluto a Firenze anch'io.

Così dicendo, s'alzò, si voltò verso la città, e mise una voce di ammirazione. S'era fatto buio senza ch'egli se ne accorgesse, e tutta la valle era popolata di lumi. Provò quell'impressione stessa che si prova talvolta, girando per la campagna di notte, quando si guarda giù, senza pensarci, dall'orlo d'un'altura, e si vede la china, di cima in fondo, sorvolata da una moltitudine immensa di lucciole, che la fan parere tutta accesa. Così tutti quei lumi, a socchiudere appena gli occhi, si confondevano in un solo strato luminoso, che rendeva l'immagine d'un gran lago di fuoco. Dalle lunghissime file dei fanali della cinta, simili a ghirlande tese intorno alla città, altre file di lumi si stendevano dentro e fuori, diritte, curve, incrociate; altre interrotte qua e là, altre continue come un raggio di luce, altre nascoste quasi affatto dagli alberi, dietro a cui si vedeva uno splendore diffuso, come d'incendio; altre vicine, che parevano a pochi passi; altre lontane, visibili appena, or sì or no; e nel piano e sui colli, per tutto fiammelle, e gruppi di punti luminosi, e tremoli bagliori; un bellissimo cielo stellato, pareva, riflesso da una vasta acqua cheta.

—Ah!—esclamò il nostro amico dopo qualche istante di muta contemplazione agitando una mano verso Firenze;—….seduttrice!

Poi mise un sospiro e mormorò:

—Addio, Firenze!

E scese ch'era buio fitto.

ROMA.

L'ENTRATA DELL'ESERCITO ITALIANO IN ROMA.

Roma, 21 settembre 1870.

Le cose che ho da dire sono tante e tali che mi sarà impossibile di scriverle con ordine e chiaramente. È già gran cosa aver la voglia di scrivere, mentre per le vie di Roma risuonano ancora le grida del primo entusiasmo e della prima gioia. Tutto quello che ho veduto ieri mi sembra ancora un sogno; sono ancora stanco della commozione; non sono ancora ben certo di essere veramente qui, di aver visto quello che vidi, di aver sentito quello che sentii.

Vi dirò subito che l'accoglienza fatta da Roma all'esercito italiano è stata degna di Roma, degna della capitale d'Italia, degna d'una grande città sovranamente patriottica. Tutto ha superato non solo l'aspettazione, ma la immaginazione. Bisogna aver veduto per credere. Dubiterete della mia sincerità, lo prevedo; ma non voglio spender parole per prevenirvi, perché capisco che non posso aspirare ad esser creduto. Eppure sento che non vi darò che una pallida immagine della realtà! Son cose che non si possono ridire.

Ieri mattina alle quattro fummo svegliati a Monterotondo, io e i miei compagni, dal lontano rimbombo del cannone. Partimmo subito. Appena fummo in vista della città, a cinque o sei miglia, argomentammo dai nuvoli del fumo che le operazioni militari erano state dirette su vari punti. Così era infatti. Il 4.° corpo d'esercito operava contro la parte di cinta compresa tra porta San Lorenzo e porta Salara, la divisione Angioletti contro porta San Giovanni, la divisione Bixio contro porta, San Pancrazio. Il generale Mazè de la Roche, con la 12.a divisione del 4.° corpo, doveva impadronirsi di Porta Pia.

Via via che ci avviciniamo (a piedi s'intende) vediamo tutte le terrazze delle ville affollate di gente che guarda verso le mura. Presso la villa Casalini incontriamo i sei battaglioni bersaglieri della riserva che stanno aspettando l'ordine di avanzarci contro Porta Pia. Nessun corpo di fanteria aveva ancora assalito. L'artiglieria stava ancora bersagliando le porte e le mura per aprire le breccie. Non ricordo bene che ora fosse quando ci fu annunziato che una larga breccia era stata aperta vicino a Porta Pia, e che i cannoni dei pontifici appostati là erano stati smontati. Si parlava di qualcuno dei nostri artiglieri ferito. Ne interrogammo parecchi che tornavano dai siti avanzati, e tutti ci dissero che i pontifici davano saggio d'una maravigliosa imperizia nel tiro, che i varchi già erano aperti, che l'assalto della fanteria era imminente. Salimmo sulla terrazza d'una villa e vedemmo distintamente le mura sfracellate e la Porta Pia malconcia. Tutti i poderi vicini alle mura brulicavano di soldati; si vedevano in mezzo agli alberi lunghe colonne di artiglieria; lampeggiavano fucili tra 'l verde dei giardini; scintillavano lancie al di sopra dei muri; ufficiali di Stato maggiore e staffette correvano di carriera in tutte le direzioni.

È impossibile ch'io vi dia notizie particolari di quello che fecero le altre divisioni. Vi dirò della divisione Mazè de la Roche, che è quella ch'io seguii.

La strada che conduce a Porta Pia è fiancheggiata ai due lati dai muri di cinta dei poderi. Ci avanzammo verso la porta. La strada è dritta e la porta si vedeva benissimo a una grande lontananza; si vedevano le materasse legate al muro dai pontifici, e già per metà arse dai nostri fuochi; si vedevano le colonne della porta, le statue, i sacchi di terra ammonticchiati sulla barricata costrutta dinanzi; tutto si vedeva nettamente. Il fuoco dei cannoni pontifici, da quella parte, era già cessato: ma i soldati si preparavano a difendersi dalle mura. A poche centinaia di metri dalla barricata due grossi pezzi della nostra artiglieria traevano contro la porta e il muro. Il contegno di quegli artiglieri era ammirabile. Non si può dire con che tranquilla disinvoltura facessero le loro manovre, a così breve distanza dal nemico. Gli ufficiali erano tutti presenti. Il generale Mazè, col suo Stato maggiore, stava dietro i due cannoni. Ad ogni colpo si vedeva un pezzo del muro o della porta staccarsi e rovinare. Alcune granate, lanciate, parve, da un'altra porta, passarono non molto al disopra dello Stato maggiore. Gli zuavi tiravano fittissimo dalle mura del Castro Pretorio, e uno dei nostri reggimenti ne pativa molto danno.

Quando la Porta Pia fu affatto libera, e la breccia vicina aperta sino a terra, due colonne di fanteria furono lanciate all'assalto. Non vi posso dar particolari. Vidi passare il 40.° a passo di carica; vidi tutti i soldati, presso alla porta, gettarsi a terra in ginocchio, per aspettare il momento d'entrare. Udii un fuoco di moschetteria assai vivo; poi un lungo grido «Savoia!» poi uno strepito confuso; poi una voce lontana che gridò:—Sono entrati!—Arrivarono allora a passi concitati i sei battaglioni dei bersaglieri della riserva; sopraggiunsero altre batterie di artiglieria; s'avanzarono altri reggimenti: vennero oltre, in mezzo alle colonne, le lettighe pei feriti. Corsi con gli altri verso la Porta. I soldati erano tutti accalcati intorno alla barricata; non si sentiva più rumore di colpi; le colonne a mano a mano entravano. Da una parte della strada si prestavano i primi soccorsi a due ufficiali di fanteria feriti: uno dei quali, seduto in terra, pallidissimo, si premeva una mano sul fianco: gli altri erano stati portati via. Ci fu detto che era morto valorosamente sulla breccia il maggiore dei bersaglieri Pagliari, comandante del 35.°. Vedemmo parecchi ufficiali dei bersaglieri con le mani fasciate. Sapemmo che il generale Angolino s'era slanciato innanzi dei primi con la sciabola nel pugno come un soldato. Da tutte le parti accorrevano emigrati gridando. Tutti si arrestavano un istante, a guardare il sangue sparso qua e là per la strada: sospiravano, e ripigliavan la corsa.

La Porta Pia era tutta sfracellata; la sola immagine enorme della Madonna, che le sorge dietro, era rimasta intatta; le statue a destra e a sinistra non avevano più testa; il suolo intorno era sparso di mucchi di terra, di materasse fumanti, di berretti di zuavi, d'armi, di travi, di sassi.

Per la breccia vicina entravano rapidamente i nostri reggimenti.

In quel momento uscì da Porta Pia tutto il Corpo diplomatico in grande uniforme, e mosse verso il quartier generale.

Entrammo in città. Le prime strade erano già piene di soldati. È impossibile esprimere la commozione che provammo in quel momento; vedevamo tutto in confuso, come dietro una nebbia. Alcune case arse la mattina fumavano, parecchi zuavi prigionieri passavano in mezzo alle file dei nostri, il popolo romano ci correva incontro. Salutammo, passando, il colonnello dei bersaglieri Pinelli; il popolo gli si serrò intorno gridando. A misura che procediamo nuove carrozze, con entro ministri ed altri personaggi di Stato, sopraggiungono. Il popolo ingrossa. Giungiamo in piazza di Termini: è piena di zuavi e di soldati indigeni che aspettano l'ordine di ritirarsi. Giungiamo in piazza del Quirinale. Arrivano di corsa i nostri reggimenti, i bersaglieri, la cavalleria. Le case si coprono di bandiere. Il popolo si getta fra i soldati gridando e plaudendo. Passano drappelli di cittadini con le armi tolte agli zuavi. Giungono i prigionieri pontifici. I sei battaglioni dei bersaglieri della riserva, preceduti dalla folla, si dirigono rapidamente, al suono della fanfara, verso piazza Colonna. Da tutte le finestre sporgono bandiere, s'agitano fazzoletti bianchi, s'odono grida ed applausi. Il popolo accompagna col canto la musica delle fanfare. Sui terrazzini s'affacciano famiglie intere che batton le mani. S'arriva a piazza di Trevi. I soldati prorompono in esclamazioni di maraviglia alla vista della grande roccia coronata di statue, donde precipita un fiume; gli ufficiali debbono sospingerli innanzi.

S'entra in piazza Colonna: un altro grido di maraviglia s'alza dalle file. La moltitudine si versa nella piazza da tutte le parti, centinaia di bandiere sventolano, l'entusiasm divampa: non v'è parola umana che valga ad esprimerlo. I soldati sono commossi fino a piangerne. Non vedo altro, non reggo alla piena di tanta gioia, mi spingo fuori della folla, incontro operai, donne del popolo, vecchi, ragazzi: tutti hanno la coccarda tricolore, tutti accorrono gridando:—I nostri soldati!—I nostri fratelli!

È commovente; è l'affetto compresso da tanti anni che prorompe tutto in un punto ora; è il grido della libertà di Roma che si sprigiona da centomila petti; è il primo giorno d'una nuova vita; è sublime.

E altre grida da lontano:—I nostri fratelli!

*

Il Campidoglio è ancora occupato dagli squadriglieri e dagli zuavi.

Una folla di popolo accorsa per invaderlo è stata ricevuta a fucilate. Parecchi feriti furono ricoverati nelle case; fra gli altri un giovanetto che marciò quindici giorni coi soldati. Il popolo è furente. Si corre a chiamare i bersaglieri. Due battaglioni arrivano sulla piazza, ai piedi della scala. I pontifici, al primo vederli, cessano di tirare; ma restano in atto di resistere. Una specie di barricata di materasse è stata costrutta in alto. L'assalirla di viva forza potrebbe costar molte vittime; s'indugia, forse gli zuavi s'arrenderanno, si dice che hanno paura dell'ira popolare. Tutte le strade che circondano il Campidoglio sono piene di gente armata che sventola bandiere tricolori e canta inni patriottici. Intanto ai bersaglieri che attendono sulla piazza son portati in gran copia vini, liquori, sigari, biscotti. La moltitudine va crescendo, cresce lo strepito. Qualcuno, forse un parlamentario, è salito sul Campidoglio. Parecchi ufficiali lo seguono. La folla, dal basso, guarda con grande ansietà. Ad un tratto cadono le materasse della barricata e appaiono le uniformi dei nostri ufficiali che agitano la sciabola e chiamano il popolo gridando: Il Campidoglio è libero.—La moltitudine getta un altissimo grido e si slancia con grande impeto su per la vasta scala, passa fra le due enormi statue di Castore e Polluce, circonda il cavallo di Marc'Aurelio, invade i corpi di guardia degli zuavi e rovescia, spezza e disperde tutto quanto vi trova di soldatesco. In pochi minuti tutto il Campidoglio è imbandierato. Il cavallo dell'imperatore romano è carico di popolani; l'imperatore tiene fra le mani una bandiera italiana. Un reggimento di fanteria occupa la piazza. È accolto con grida di entusiasmo. La banda suona la marcia reale, migliaia di voci l'accompagnano. All'improvviso tutte le faccie si alzano verso la torre. Il popolo e i soldati ne hanno sfondata la porta, son saliti sulla cima, hanno imbandierato il parapetto. Un pompiere sale per mezzo d'una scala sulle spalle della statua e lega una bandiera alla croce. Un fragoroso applauso e lunghissime grida risuonano nella piazza. La grande campana del Campidoglio fa sentire i suoi rintocchi solenni. Da tutte le parti di Roma accorre il popolo a ondate. Gli ufficiali che si trovano sul Campidoglio sono circondati e salutati con incredibile affetto. Si grida:—Viva Roma libera!—Viva i nostri soldati!—Le donne si mettono le coccarde tricolori sul petto. Da tutte le finestre dei palazzi vicini si agitano le mani e si sventolano i fazzoletti. Molti piangono. Il movimento della folla è vertiginoso; il rumore delle grida copre il suono della grande campana.

I conventi vicini, dove si crede che siansi rifugiati gli zuavi e gli squadriglieri, sono circondati dai bersaglieri e dalla fanteria.

*

Si ritorna in fretta verso il Corso. Tutte le strade sono percorse da grandi turbe di popolo che agitano armi e bandiere. I soldati pontifici che s'avventurano imprudentemente a passare per la città a due, a tre, o soli, sono circondati, disarmati e inseguiti. Giungiamo in piazza Colonna. In mezzo alla piazza vi sono circa trecento zuavi disarmati, seduti sugli zaini, col capo basso, abbattuti e tristi. Intorno stanno schierati tre battaglioni di bersaglieri. Il colonnello Pinelli e molti ufficiali guardano giù dalla loggia del palazzo che chiude il lato destro della piazza. Popolani, signori, signore, donne del popolo, vecchi, bambini, tutti fregiati di coccarde tricolori, si stringono intorno ai soldati, li pigliano per le mani, li abbracciano, li festeggiano.

Nel Corso non possono più passare le carrozze. I caffè di piazza Colonna sono tutti stipati di gente; ad ogni tavolino si vedono signore, cittadini e bersaglieri alla rinfusa. Una parte dei bersaglieri accompagna via gli zuavi in mezzo ai fischi del popolo; tutti gli altri sono lasciati in libertà. Allora il popolo si precipita in mezzo alle loro file. Ogni cittadino ne vuole uno, se lo piglia a braccetto e lo conduce con sè. Molti si lamentano che non ce n'è abbastanza, famiglie intere li circondano, se li disputano, li tirano di qua e di là, affollandoli di preghiere e d'istanze. I soldati prendono in collo i bambini vestiti da guardie nazionali. Le signore domandano in regalo le penne.

Numerosissime frotte di cittadini continuano a passare l'una dopo l'altra pel Corso con grandi bandiere; alcuni drappelli ne hanno quattro, sei, dieci; alcune bandiere sono alte più del primo piano delle case e vengono portate da due o tre persone. Tutta questa gente trae con sè soldati di fanteria e bersaglieri. Le canzoni popolari dei nostri reggimenti sono già diventate comuni: tutti cantano. Passano carrozze piene di cittadini che agitano in alto il cappello; i soldati, rispondono alzando il cheppì; le braccia si tendono dall'una parte e dall'altra, e le mani si stringono. Passano signore vestite dei tre colori della bandiera nazionale. Tutti gli ufficiali che passano in carrozza, a piedi, a gruppi, scompagnati, sono salutati con alte grida. Si festeggiano i medici, i soldati del treno, gli ufficiali dell'intendenza. Passano i generali e tutte le teste si scoprono.—Viva gli ufficiali italiani!-è il grido che risuona da un capo all'altro del Corso. In piazza San Carlo un maresciallo dei carabinieri a cavallo, scambiato per un generale, è ricevuto da una dimostrazione clamorosa, che gli cagiona un grande stupore. Da tutte le strade laterali al Corso continuamente affluisce popolo. Non v'è gruppo di cittadini che non abbia con sè un soldato, e ciascun gruppo osserva il suo da capo a piedi, gli toglie di mano le armi, gli parla tenendogli le mani sulle spalle, stringendogli le braccia, guardandolo negli occhi cogli occhi scintillanti di gioia.—Viva i nostri liberatori!—si grida. Davanti al caffè di Roma alcuni giovinetti gettano le braccia al collo di due robusti artiglieri e li coprono di baci disperati. A quella vista tutti gli altri intorno fanno lo stesso; cercano correndo altri soldati, li abbracciano, li soffocano a furia di baci.—Viva il nostro esercito nazionale!—gridano cento e cento voci insieme.—Viva i soldati italiani!—Viva la libertà!—E i soldati rispondono:—Viva Roma!—Viva la capitale d'Italia!—In molti, specialmente nei giovani, l'entusiasmo sembra delirio; non hanno più voce per gridare, si agitano, pestano i piedi, accennano le bandiere e fanno atto di benedire, di ringraziare, di stringersi qualche cosa sul cuore.

Non vidi mai, ve lo giuro, uno spettacolo simile; è impossibile immaginare nulla di più solenne e di più maraviglioso. Queste grandi piazze, queste fontane enormi, questi monumenti augusti, queste rovine, queste memorie, questa terra, questo nome di Roma, i bersaglieri, le bandiere tricolori, i prigionieri, il popolo, le grida, le musiche, quella secolare maestà, questa nuova gioia, questo ravvicinamento che ci fa la memoria di tempi, di casi, di trionfi antichissimi e nuovi, tutto questo insieme è qualche cosa che affascina, che percuote qui, in mezzo alla fronte, e pare che faccia vacillare la ragione; si direbbe che è un sogno; non si può quasi credere agli occhi; è una felicità che soverchia le forze del cuore.—Roma!—si esclama.—Siamo a Roma? Quando ci siam venuti? Come? Che è accaduto?—Il ricordo di quello che è accaduto è già confuso come se fosse d'un tempo remoto. È una commozione che opprime. Ad ogni strada, ad ogni piazza in cui s'entri, l'occhio gira intorno maravigliato, e il sangue dà un tuffo. Avanti, di maraviglia in maraviglia, di palpito in palpito, via via che si procede, la fronte si solleva, il cuore si dilata, e sente più gagliardamente la vita. Ecco la piazza del Popolo. Si corre all'obelisco, ci si volta indietro, si vedono davanti le tre grandi strade di Roma, si vede a sinistra il Pincio delizioso, laggiù in fondo la cima del Campidoglio, tutto intorno prodigiose bellezze di natura e d'arte, antiche, nuove, auguste, gaie, gigantesche, gentili; la mente sopraffatta si turba, ci prende un tremito, e bisogna sedersi ai piedi dell'obelisco, pigliarsi la testa, fra le mani e aspettare che la lena ritorni.

Intanto imbrunisce. Il Corso s'è illuminato come per incanto. Il Corso, illuminato, ha veramente un aspetto fantastico. Candellieri, doppieri, lumi d'ogni forma e d'ogni grandezza risplendono sulle ringhiere dei terrazzini e sui davanzali delle finestre. A percorrere la strada in carrozza non si vede più terra, è tutto un fiume, a cui la strada non basta, e che straripa nei caffè, nelle piazze, nelle botteghe, negli atrii, nei vicoli. Questa immensa folla è rischiarata da migliaia di fiaccole. Drappelli di signore a due a due passano tenendo in mano dei cerini accesi, che rischiarano il loro petto coperto di coccarde, di sciarpe, di nastri tricolori. Sopra questo fiume di gente nuotano, sbattuti di qua e di là, cappelli di bersaglieri, cheppì, berretti, canne di fucile a centinaia. Le signore gettano giù dalle finestre fiori e confetti ai gruppi dei soldati che tendono le mani. Da un capo all'altro della lunghissima strada, a ogni passo, si sentono dieci voci che cantano insieme. I soldati non sono più condotti, sono travolti. I cittadini, non più paghi di tenerli a braccetto, camminano tenendo loro un braccio intorno al collo. Passano donne con un pennacchio di bersagliere nelle treccie. Famiglie ferme sui marciapiedi arrestano i soldati per mettere nelle loro braccia i bambini. Il gridìo nel Corso è oramai giunto a segno che chi è stanco dalle fatiche della mattina non ci può più reggere.

Salgo in una carrozza, e mi lascio condurre al Colosseo. Attraverso la stupenda piazza della Colonna Traiana, piena di gente anch'essa e illuminata; passo per parecchie piccole strade; dappertutto lumi. Guardo nei caffè, nelle osterie: dappertutto soldati e popolani insieme, dappertutto grida di viva Roma e viva il nostro esercito, dappertutto canti, amplessi, grida di gioia, bandiere. Eccoci nel Campo Vaccino. È notte fitta, e il classico lume di luna sul Colosseo non risplende ancora. Non importa; il cielo è stellato, e vedrò del momento sublime almeno i contorni. Da tanti anni ardevo di vederlo! Il cuore mi batte a precipizio. Ormai sono in un luogo deserto, non sento più una voce, non un passo; tutto è queto ed oscuro. Eccoci, mi dice il cocchiere. Io balzo in piedi, guardo, veggo un'immensa macchia nera sul cielo, e tanto è l'impeto e la dolcezza con cui i ricordi e le immagini della memoranda giornata mi assalgono tutti in un punto, che non s'arresta il mio sguardo sui meravigliosi contorni, nè vi si può arrestare il pensiero. Sguardo e pensiero si levano più in alto, e dal profondo del cuore, col più ardente palpito che possa destare in un cuore umano la gratitudine, saluto e ringrazio i padri e i fratelli che non son più, quelli che languirono negli esigli e nelle carceri, e quelli che spirarono sui patiboli e sui campi di battaglia per darci questa grande patria, la quale, dopo cinquant'anni di dolore e di sangue, oggi s'integra e s'incorona al cospetto del mondo. O benedetti morti che ci avete preparato questo santo giorno! O poveri morti che non l'avete potuto vedere con noi! Siate amati, onorati, benedetti in eterno!

LA CUPOLA DI SAN PIETRO.

Per quanto si sia parlato, e scritto della basilica di San Pietro, qualcosa da dire resta sempre; e poi, questa volta, sotto la cupola di San Pietro c'è una grande novità: i bersaglieri, dei quali non è fatto cenno, credo, nè dalle guide, nè dai libri archeologici, nè dalle opere artistiche; e spero che la mia penna d'oca, con l'aiuto delle loro penne di cappone, riuscirà se non altro a rallegrarvi.

Andai là con un mio amico ch'era già stato a Roma. Passando sul ponte Sant'Angelo, incontrammo un ufficiale che ci consigliò di tornar indietro.

—Adesso ci troverete una processione di soldati,—disse;—ne sono piene tutte le scale, pare una caserma, bisogna tornarci più tardi.

Più tardi? Con questa po' di febbre che ho addosso? Dopo aver veduto quella benedetta cupola per cinque giorni a otto miglia di lontananza, grande, netta e spiccata, che mi pareva a due passi, e mi faceva soffrire le pene di Tantalo? È impossibile; fin che non ci sono sopra, mi par di sentirmela sul petto. Andiamo a vedere questa maraviglia. A San Pietro!

La carrozza era già di là dal ponte Sant'Angelo, quando il mio compagno mi consigliò di chiuder gli occhi e di non aprirli prima che me lo dicesse: li chiusi.

A un tratto la carrozza si fermò e l'amico disse:—Guarda.

Guardo: siamo in mezzo alla piazza. Ecco le colonne, le fontane, la gradinata, la cupola, ogni cosa come si vede nei quadri: nulla di nuovo, nessuna maraviglia.

—Dunque?—domanda l'amico,—non ti scuoti? che impressione ti fa? non ti par bello, grande, sublime?

Io son mortificato, non trovo parola. Questa è la famosa basilica? Questa la cupola che si vede di lontano quaranta miglia? Questo il gran colosso di San Pietro?

—Dunque?

—Dunque…. senti, amico, vuoi ch'io ti dica la verità?

—Quale?

—Mi par piccolo.

—Che cosa?

—Tutto: la piazza, la chiesa, la facciata, la cupola, tutto quello che vedo.

L'amico diede in uno scroscio di risa.

—Sarà ridicolo; ma è vero. Mi par piccolo, mi par piccolo, mi par piccolo. Son disilluso.

—Guarda quell'uomo.

—Quale?

—Quello seduto ai piedi d'una delle colonne di mezzo della facciata.

Guardo l'uomo, misuro con l'occhio tutta l'altezza della colonna, misuro la larghezza, poi l'uomo di nuovo, confronto, riguardo ed esclamo:

—È immenso!

—Ah! qui ti volevo! Bisogna confrontare, caro mio. Come ti puoi accorgere che qualcosa è gigantesco dove tutto è gigantesco? A prima giunta, tutti guardano in su, e tutti dicono come te. Scendiamo.

Si scende di carrozza, si sale la gradinata: non finisce mai. Si guardano le colonne della facciata: ingigantiscono a ogni passo. V'arriviamo davanti: sono larghe come case. Guardiamo in su: sono alte come campanili. Ci voltiamo indietro: quanta strada s'è fatta! Le fontane, pur ora così grandi, son diventate piccine che non paiono più quelle. Un soldato vicino a noi esprime benissimo questo stesso effetto; guarda la facciata e dice:—«Gonfia».

Entriamo. Guardo….—Amico, questa volta te lo dico sul serio: sono deluso.

—Aspetta. Vedi quella colomba in bassorilievo, di marmo bianco, qui nell'angolo?

—Vedo.

—A che altezza ti par che giunga della tua persona?

—Al collo.

—Vediamo.

Si va innanzi…. Diavolo, non ci siamo ancora? Pareva a due passi. Eccoci. Oh questa è curiosa! Stendo il braccio in alto, mi alzo sulle punte dei piedi, e non ci arrivo.

—Guarda le lettere di quell'iscrizione lassù; quanto ti paiono alte?

—Quattro palmi.

—Sono più alte di te. Guarda quelle finte colonne; come ti paiono larghe?

—Un braccio.

—Tre metri.

Comincio a capire. In mezzo alla chiesa si vede un gruppo di ragazzi intorno a una cosa che sembra una statua. Andiamo innanzi, innanzi, innanzi: oh cospetto! i ragazzi sono soldati d'artiglieria grandi e grossi come Ciclopi; la cosa è la statua di San Pietro; i soldati le baciano il piede; un pretino poco distante guarda e sorride con un'aria di stupore e di compiacenza; pare che dica:—Son cristiane queste bestie feroci! Meno male!

C'è una lunga fila di soldati in ginocchio intorno all'altar maggiore. Altri, negli angoli lontani, stanno ammirando le statue, e per persuadersi che sono di marmo metton loro le mani sulle spalle, sulle braccia, sulle ginocchia, come fanno i ciechi per riconoscere. Un gruppo di bersaglieri è estatico davanti a San Longino. Parlano tra di loro. Mi avvicino e colgo la sentenza finale d'uno di essi, che mi ha l'aria di un monferrino: «A j'è nen a dije; a l'è un bel travaj» (non c'è che dire; è un bel lavoro).

Siamo sotto la cupola. Su la testa. Ah! qui l'effetto è veramente prodigioso! È bello il vedere il mutamento che si fa in tutti i visi appena si voltano in su. Molti, appena guardato, chinano la testa e chiudono gli occhi, come se avessero intraveduto l'abisso. In altri il viso e l'occhio s'illuminano come a una visione di cielo. È una maraviglia che ha dell'estasi. È il solo punto della chiesa in cui collo sguardo si sollevi al cielo il pensiero. Nelle altre parti è enormità che stupisce e splendore che abbaglia, non grandezza che ispira; ci si sente il teatro; si pensa più alle fatiche e ai milioni che vi si profusero, che all'Idea cui furono consacrati; più ai pittori e agli scultori, che agli angeli e ai santi. L'anima è così tenacemente legata alla terra dalle maraviglie dell'arte, che a sprigionarla e a levarla in alto occorre assai maggior forza e più difficile lotta che non a farla uscir vittoriosa dalle tentazioni esterne della vita, contro cui la chiesa dovrebbe servir di rifugio.

Si va innanzi, indietro, a destra, a sinistra, e man mano che si procede la testa si fa pesante e la vista s'intorbida. A ogni passo cento nuove cose, l'una più straordinaria e mirabile dell'altra, s'affacciano confusamente allo sguardo, vicine, fitte, ammontate. L'attenzione non basta a tutte insieme, sopra una sola non può fissarsi, che le altre la tirano, e così tremola e si stanca senza nulla abbracciare. Colonne enormi, statue colossali, bassorilievi, dipinti, mosaici, ori, ricchezze e bellezze d'ogni forma e d'ogni natura: vi si passa accanto senza neanco guardare; si vedono e si dimenticano le une nelle altre.

Si vede in fondo alla chiesa qualcosa di nero che brulica intorno alla porta: è una compagnia di soldati che entra. Quei colossi di angeli che reggono la pila dell'acqua benedetta sembrano due giocattoli da ragazzi. In vari punti ci sono dei soldati che si chinano a guardare sul pavimento: guardano le indicazioni della lunghezza delle più grandi basiliche del mondo. Quale arriva a metà, quale a due terzi, quale a un terzo: chiesuole. «Mamma mia!» esclamano i soldati napolitani. Quante moltiplicazioni dovranno fare, tornati ai loro villaggi, per dare un'idea di San Pietro col confronto della chiesa parrocchiale! Alcuni notano sul taccuino le dimensioni. Altri fanno il conto di quanti soldati ci starebbero.—Ci stanno tutti i soldati del 4.° corpo d'esercito?—Sì…. e forse anche tutte le maledizioni che mandarono al servizio delle sussistenze.

Ecco la porta per salire alla cupola. Coraggio e su, chè sarà una sudata memorabile. Si sale per una scala a chiocciola; gli scalini sono larghissimi e appena rilevati; si va su a grandi giri, agevolmente, senza avvertir la salita. Il muro è coperto di lastre di marmo dove son segnati i nomi di tutti i principi del mondo che salirono alla cupola. C'è l'iscrizione di Ferdinando II di Napoli. Sotto, appoggiate al muro, ci stanno otto daghe da bersagliere. Più su, a ogni passo, cappelli coi pennacchi, cheppì, sciabole di cavalleria, cinturini, giberne. Sopra la testa e sotto i piedi, un fracasso da stordire. Sono squadre intiere di soldati che scendono, salgono, s'incontrano, si salutano, si esprimono l'un l'altro lo stupore e l'allegria. Già si leggono pei muri le loro iscrizioni, poichè il soldato, per dove passa, lascia sempre traccia di sè. Sotto quella del Borbone che dice: «Re del regno delle due Sicilie, salì nella cupola ed entrò nella palla», si legge: «Tale dei tali, allora caporale del genio, ha avuto l'onore di salutarlo a Gaeta».

Oh, ecco una finestra, guardiamo giù. E non si canzona! Siamo già oltre il tetto dei più alti palazzi. Si ripiglia la salita, si cammina altri dieci minuti, ecco una porta: si esce al cielo aperto. Eccoci sul tetto della chiesa: è una piazza d'armi. Si vede da una parte un edifizio rotondo, alto quanto una chiesa ordinaria: non è altro che una delle cupolette minori che fanno da stato maggiore alla principale. È grande e stupenda, ma nessuno la guarda; non s'ha tempo per guardare tutte le minuzie. Si corre al parapetto, si guarda nella piazza: è un formicaio. Si guardano le statue che sorgono in fila sul sommo della facciata: che moli! Piedi che non istanno sul tavolino dove scrivete; pieghe dei panni in cui si può nascondere un uomo; dita che paiono clave. V'è una chiave di San Pietro che a prima giunta si piglia per un'ancora di bastimento. I soldati scorrazzano da tutte le parti, chiamandosi e salutandosi dalla piazza al tetto, dal tetto alla cupola, ed esprimendosi la maraviglia con quel ridere allegro e quelle esclamazioni scherzose:—Che bagattella!—E chi vuol andare di qua, chi di là; si tirano, si spingono, si aggruppano, si sparpagliano, correndo, ridendo e chiacchierando, come i ragazzi nel cortile di un collegio.—Bisogna farsi coraggio,—dice uno,—e salire, perchè se non si va in paradiso questa volta, non ci si va più.—Ma questa cupola par piccola,—ripeto al mio amico. E lui:—guarda in cima.—L'ultimo terrazzino sotto la palla è pieno di soldati; o come mai si vedono così piccoli se son così vicini?

Su, alla cupola. Sali e gira e rigira, ecco un uscio che dà sur una galleria; la galleria dà nell'interno della chiesa; mi affaccio; ma mi tiro subito indietro, preso dalla vertigine.—Guarda la sala del Concilio, laggiù in quella nave della chiesa,—mi dice il compagno. Guardo.—Ma come! là dentro stavano tutti quei vescovi? Ma se è grande come una scatola da tabacco!—Che cosa paiono gli uomini laggiù? Mi ricordo il detto del Guerrazzi: «quello che sono, insetti». Intorno a quell'altarino di mezzo ce n'è uno sciame: sembrano una macchia nera che si muova. Guardo dietro di me, nel muro, e m'accorgo che quelle testine d'angiolo a mosaico, ch'io vedeva di giù, starebbero bene sopra un paio di spalle di titano.

Si risale. Scale lunghe e diritte di cui si vede appena la sommità, scale a chiocciola dove per salire bisogna afferrarsi a una fune, scale di legno a zig zag, scale comprese fra due pareti curve dove bisogna camminare rotolandosi sulla parete più bassa; e da capo scale dritte, e da capo scale a chiocciola, e avanti, sudando, ansando e soffiando: ecco finalmente un raggio di luce, una porta, eccoci sulla sommità, ecco tutta Roma: oh che aria viva e leggiera!

La prima esclamazione che mi colpisce, arrivato là, è d'un artigliere lombardo.—«Madona!»—esclama giungendo le mani—«alter ch'el domm de Milan!»

Si guarda giù, sul tetto della chiesa, dove si era poc'anzi: si vede una processione di formiche. La gente che passeggia per la piazza si discerne appena; le due grandi fontane sembrano due pennacchietti bianchi agitati; le cupole minori della basilica, campanelle di quelle piccine, che si mettono sulle statuette dei santi. Tutta la città si abbraccia con uno sguardo. Subito dànno nell'occhio le mura del Colosseo e delle Terme, nere e gigantesche. Le statue in cima alle colonne, le punte degli obelischi, le sponde curve del Tevere, il Pincio, la villa Borghese, il Quirinale, San Giovanni Laterano, il Gianicolo, che sembra una collinetta di giardino, tutto si vede distintamente. Il giardino del Vaticano pare un'aiuola; il Vaticano, un edifizio comune, coi cortiletti: è tutto chiuso e deserto. Ecco Monte Mario. Ecco laggiù la campagna romana, nuda e sinistra; di qui debbono aver veduto il passaggio delle divisioni del Cadorna, compagnia per compagnia, cannone per cannone. Ecco Monterotondo, Tivoli, Frascati, Albano, e più a destra, lontano, quella sottile striscia luminosa, il mare. Roma! Roma! Benedetto nome che non s'è mai stanchi di dirlo; c'è qualche segreto in questo suono: Roma! Pare che sempre ce lo ripeta l'eco nell'orecchio: Roma! Eccola qui tutta….

Un soldato accanto a me guarda anch'egli Roma con aria pensierosa; pare che voglia dire qualche cosa, sorride, alza una mano, la batte sul parapetto:—«Finalment»….

Sentiamo quel che vien dopo.

—«Ghe semm!»

Senti come l'ha detto con gusto! E tutti gli altri soldati, sul punto di scendere, agitando una mano:—«Addio, addio Roma!»

E giù per le lunghe scale tortuose echeggia il suono dei passi precipitosi e delle voci allegre.

PRETI E FRATI.

Nelle caserme pontificie si trovarono molte copie d'un inno di guerra, dettato in francese, che par che dovessero cantare gli zuavi andando a combattere. Ha molti punti di somiglianza colla «Marsigliese». Ha un ritornello che comincia: «Catholiques, debout!» Ha una strofa che arieggia quella dell'inno francese: «Entendez-vous dans ces campagnes», con la differenza che ai «féroces soldats» sono sostituiti «les barbares». Ha un verso che dice: «Viendront-ils nous prendre (ci dev'essere un verbo più feroce, ma non lo ricordo) nos églises, nos prêtres?» E il verso dopo: «Non, non, on n'y touchera pas». E altre amenità poetiche su quest'andare.

Ma dal verso in cui è detto che gli Italiani vanno a Roma per far man bassa sulle chiese e sui preti, si capisce che dovette esser quella la finzione di cui si servirono principalmente i fautori del governo papale per suscitare e tener vivo il fanatismo nei soldati, per destar nel popolo l'avversione al governo italiano, e per alimentare la diffidenza di quei molti che, pure essendo cattolici in buona fede, manifestavano o lasciavano trapelare sentimenti italiani.

Questo fatto spiegherebbe pure l'astensione d'una parte del popolo dalle dimostrazioni entusiastiche così nella città di Roma come nei villaggi della provincia.

A Monterotondo, discorrendo con un cittadino dei più noti, e in voce di liberale, gli domandammo come fosse contento del nuovo stato di cose:

—Per me sono contentissimo;—rispose, e lo diceva sinceramente:—tutto va bene, non si potrebbe desiderare di meglio.—E poi a bassa voce:—Hanno rispettato le chiese, hanno lasciato stare i preti; messe, vespri, funzioni, ogni cosa come prima.

—Oh curiosa! Ma credeva che si venisse qui per far man bassa su tutto questo, lei?

—Io?… nemmen per sogno.

Certo che lo credeva, e con lui chi sa quanti, che all'entrare dei nostri soldati si saranno chiusi in casa e fatti dar del codino. Ma ora che si son disingannati e rassicurati, non credo che saranno meno sinceramente italiani degli altri.

Non ricordo in che villaggio, una donna del popolo fermò il primo ufficiale che vide, e gli disse con voce affannosa e supplichevole:—È una buona persona il nostro curato, glie l'assicuro; è un galantuomo; non gli dispiace mica che vengano i soldati italiani; non gli facciano nessun male, lo raccomandi lei ai soldati, ci faccia questa carità….

Quella donna credeva fermamente che il «mandato» dell'esercito italiano fosse di far la festa ai preti, come diceva don Abbondio. Ora lamentatevi, se vi pare, ch'essa non abbia messo fuori dalla finestra la bandiera tricolore.

Passava un drappello di seminaristi, per una via di Nepi, poco dopo che v'erano passati i soldati. Un popolano, accennandoli, disse in tuono burlesco:—Ora…. quelli là…. è finita….—E mi guardava.

—Perchè finita?—gli domandai.

—A questi lumi di luna….

—Ma che lumi di luna! I seminari e i seminaristi seguiterete ad averli; ce li abbiamo anche noi, e ce li avremo sempre.

Fece un atto di stupore, e poi domandò:—In Italia? Ce li avete anche voi in Italia?

—Anche noi in Italia.

—E passeggiano per le strade?

—Passeggiano per le strade.

—E nessuno gli dice nulla?

—E che volete che gli dicano?

C'era da perdere la pazienza; mi ripugnava quasi di credere a tanta ignoranza.

In una via remota di Roma, poco dopo l'entrata dell'esercito, si vide un vecchietto che, all'aria, doveva aver avuto un tale spago delle cannonate da perdere il lume della ragione. Alla paura delle cannonate gli era poi sottentrata la paura delle dimostrazioni. Passavano alcuni giovani cantando e sventolando bandiere. Non avendo più tempo di fuggire, credette di dover far l'italiano per non essere accoppato. Cominciò con sforzarsi a sorridere, e poi, raccolto tutto il suo coraggio, gridò con una voce da moribondo:—Accidenti ai preti!

Le bricconate fatte per viltà sono più rivoltanti di quelle fatte per nequizia. Uno dei giovani del drappello lesse nel viso al vecchio e gli disse con piglio severo:—Per essere Italiano non c'è mica bisogno di mandare accidenti ai preti, sapete!

Il vecchio rimase attonito.

—Non ce n'è proprio bisogno,—soggiunse il giovane allontanandosi e continuando a guardarlo. Il povero Italiano fallito non profferì più parola. Anche a lui, certo, era stato dato a credere il «viendront-ils» degli zuavi.

Un oste, all'apparir dei soldati, s'affrettava a nascondere certi palloncini da luminaria su cui era scritto: «W. Pio IX». Un ufficiale lo sorprese, e gli disse:

—Lasciate quella roba dove si trova.

—Ma io….

—Lasciatela.

—Ma io non son mica per il papa; io son per lor signori.

—Ma per essere per noi, non c'è mica bisogno che rinneghiate il papa.

—Ma questa roba….

—Ma questa roba vi potrà ancora servire, e tira poco, speriamo, perchè le cose s'aggiusteranno.

—Lei dice bene.

—E voi facevate male.

Del resto, i preti mostrarono di non aver le paure che s'adoperavano a metter negli altri. Mentre nelle vie dei villaggi la buona gente tremava per la loro vita, essi, dalla finestra, assistevano tranquillamente al passaggio dei reggimenti, e molti non abborrivano dall'onorare d'un cortese saluto gli ufficiali a cavallo.

Un solo frate mostrò d'aver paura dei soldati, e fu vicino a Civita. Veniva innanzi con un somarello verso un battaglione di bersaglieri, pallido e tremante, e giunto a pochi passi dai primi soldati, si fermò e giunse le mani in atto di chieder grazia.—«Fa nen 'l farçeur»—gli disse un caporale. Gli altri gli domandarono notizie del Santo Padre. Qualcuno gli offrì del pane. Rassicuratosi, pareva matto dalla contentezza.

E non mancarono i preti che accolsero festevolmente i soldati. A Baccano un prete ed un frate stettero a veder sfilare sei battaglioni di bersaglieri sulla porta del convento, sereni e ridenti ch'era un piacere a vederli. Tutti i soldati, passando, dicevano qualche cosa all'uno o all'altro.

—Si va a Roma, reverendo.

—Dio v'accompagni!

—Senti! È dei nostri!

Il prete si mise una mano sul cuore.

—Viva! viva!—si gridò dalle file. E il frate e il prete ringraziarono.

Non intesi mai, nè altri può affermare d'aver mai inteso un soldato dire una parola sconveniente ad un prete. Scherzi, sì; ma urbanissimi, e condonabili sempre alla gaiezza soldatesca, Se l'«Unità Cattolica» osservasse che è inurbanità il dirigere la parola a chi non si conosce, le si potrebbe rispondere che nessuno obbligava i preti a mettersi alle finestre o a piantarsi sull'uscio della casa parrocchiale quando i reggimenti passavano. Se vi stavano, vuol dire che ci si divertivano. Non so se ci sarebbero stati quando fossero passati gli zuavi.

Nei primi due giorni non si videro in Roma nè preti nè frati, o soltanto pochissimi. Ma non si può dire che stessero nascosti per timore: qual ragione avrebbero avuto di temere i nostri soldati a Roma più che nella provincia? Stavan chiusi, si capisce, per non aver a prendere parte, neanco come spettatori, alle dimostrazioni del popolo. Tuttavia, ripeto, alcuni se ne videro anche il primo giorno, e passavano in mezzo alle bandiere e alle grida, sicurissimamente, come in casa propria, senza esser nemmeno guardati. E sì che le vie di Roma, stando a quello che scrisse don Margotti, eran piene di «facinorosi», di «tigri assetate di sangue» e di «donne di mala vita», tutta gente, come diceva l'oste milanese della «Luna piena», latina di bocca e latina di mano.

La mattina dopo il 20, venendo dal Campo Vaccino al Campidoglio, la prima cosa che vedo, in cima a una delle grandi scale che dànno sulla piazza, è un gruppo di bersaglieri e di frati che se la discorrono fraternamente, seduti sugli scalini. I bersaglieri mangiavano; due o tre frati rivolgevano tra le mani una gamella, guardandola di sopra e di sotto; altri tenevano in mano un pane di munizione; altri osservavano con molta curiosità i cappelli piumati appesi al muro. Ci fosse stato un fotografo! Parevano amici vecchi. A un bersagliere che scendeva domandai:—Che cosa dicono i frati?—«So' chiù etaliani de noautri»,—mi rispose ridendo.

La sera, per le strade, se ne videro molti. Ce n'era di tutti i colori: bianchi, neri, bigi, cacao. Alcuni erano accompagnati da soldati. La gente guardava e rideva. Era infatti una mescolanza così nuova e strana, che pareva di sognare. E il modo con cui andavano assieme! Come fosse la cosa più naturale del mondo, come fossero stati insieme sempre. Discorrevano di politica.

Passando in certe strade appartate, i soldati vedevano qua e là sparire delle tonache e chiudersi degli usci. Da certe finestre spuntavano visi di reverendi rannuvolati, guardavano intorno come per consultare il tempo, e, sentito grida o musiche lontane, richiudevano le imposte. Altri uscivano in fretta da una porticina, si arrestavano a un tratto, come le lucertole, a spiare in giro, e poi via rasente il muro a lunghi passi. Per certe strade quiete e deserte pareva di sentire dei fruscii misteriosi, come di notte per gli anditi delle chiese e delle sagrestie.

Qualche prete, attraversando in fretta via del Corso e vedendo di sfuggita qualche nuova uniforme, si fermava in un canto, fuori della folla, per vedere che bestia fosse. Ne vidi due che sbirciavano da lontano due carabinieri in tenuta di parata. Li guardarono dalla testa ai piedi, dai piedi alla testa, e poi si consultarono l'un l'altro tacitamente, stringendo le labbra coll'aria di dire:—Che roba è?

Curiosità n'avevano, certo; ma non guardavano mai diritto. Passando accanto ai soldati, lanciavano occhiate di traverso, rasente il cappello, al di sopra della spalla, tra le dita della mano, o facevano scorrere due dita intorno al collo come per allargarsi il collare, tanto per aver agio di voltare la faccia senza parer di guardare.

Lasciamo gli scherzi; debbono aver detto in cuor loro:—Qual differenza dai nostri zuavi!

Chi avesse visto in viso quei due cardinali, di cui non ricordo il nome, che passarono in carrozza dinanzi ai bersaglieri, presso Castel Sant'Angelo, poco dopo ch'era stato ordinato alle truppe di render loro gli onori come ai principi del sangue; chi avesse visto il sorriso che fecero quando si videro presentare le armi, lo sguardo benigno e gentile che girarono sui soldati, e l'atto di ringraziamento con cui accompagnarono lo sguardo, e la serena e lieta dignità con cui si ricomposero dopo quell'atto; chi li avesse visti avrebbe giurato che un sorriso, uno sguardo, un atto così quei due cardinali non lo avevano mai fatto ai loro bene amati campioni.

E cardinali, e preti, e frati se v'era fra loro chi credesse a quello che le femminucce di Civita e di Nepi credevano, e quanti Romani cattolici trepidavano per le chiese e pei sacerdoti, debbono essersi tutti solennemente e irrevocabilmente ricreduti. Sentivano dire che i soldati italiani erano barbari, e non li hanno visti torcere un capello a un reverendo; ch'erano empi, e li hanno veduti affollarsi nelle chiese a baciare i piedi dei santi; ch'erano vandali, e li hanno visti pagare ogni cosa a soldi sonanti, e regalare le pagnotte ai frati; ch'erano licenziosi e insolenti, e hanno sentito dire dai popolani:—Che rarità di soldati son questi che non dicon nulla alle donne!—Volere, o non volere, un grande edifizio di menzogne è caduto e, per Iddio, si potrà raccoglierne i ruderi, ma non si rifabbrica più.

Quante conversioni politiche debbono aver fatto i nostri soldati!

Quanto poi ai preti e ai frati, io avrei voluto leggere nel loro cuore la sera del 20 settembre. Se è vero che la maravigliosa dimostrazione di Roma, tanto superiore a ogni previsione e a ogni speranza, abbia più che commosso, sopraffatto e sbalordito nella corte pontificia i più fieri e ostinati nemici d'Italia, che non avrà potuto di più sul cuore dei molti in cui la convinzione era fiacca e la nimicizia determinata solamente dall'interesse? Quelle poche __fibre italiane__, che il conte di Cavour non voleva credere morte neanche nel cuore del Papa, debbono essersi scosse nel loro cuore la sera di quel giorno. Le grida e i canti del popolo debbono essere risonati nelle celle silenziose dei monasteri, come un avvertimento, come un consiglio, come un rimprovero. Molti debbono aver invidiato dal più profondo dell'anima quella gioia; debbono aver rimpianto di essersi ridotti in condizione da non poterla godere; alcuni, forse, tendendo l'orecchio alle musiche lontane, debbono aver provato un sentimento di tenerezza mesta ed amara, debbono essersi ricordati di aver una patria, debbono aver sentito che l'amavano, debbono aver profferito in segreto il suo nome, debbono averla invocata, debbono aver domandato con sincere lacrime a Dio che ispirasse nel cuore del pontefice il bisogno di riconciliarsi con lei, di riconoscerla, di benedirla, di troncare con una parola generosa la guerra insensata che in mezzo a tanta gioia e a tanto affetto li condannava alla solitudine e all'abbandono come rinnegati o stranieri.

LE TERME DI CARACALLA.

—Andiamo alle terme di Caracalla.

—Andiamo; si può passare vicino al Circo Massimo.

—E attraversare il Campo Scellerato.

—E veder l'arco di Giano.

—E la Cloaca Massima.

Niente di meno! Ponete d'essere due amici a far questo dialogo, e ditemi se non c'è da sentirsi gonfiare, e mettersi a parlar latino, anche a rischio di far fremere di sdegno grammaticale il sacro suolo e le venerande rovine.

Per andare alle terme di Caracalla si passò accanto a tutti quei monumenti; ma in fretta, e senza molto badarvi, che tanto c'era stato detto e ridetto delle terme, da toglierci pel momento ogni altra curiosità e ogni altro pensiero.

—Vi faranno più impressione del Colosseo,—ci avevano detto molti; ma noi non lo credevamo possibile, e perchè il Colosseo ce n'aveva fatto una grande, e perchè l'idea, prosaica che in fin dei conti le terme erano uno «stabilimento di bagni», come si diceva scherzando, ci teneva in freno l'immaginazione.

Per istrada, si celiava confrontando la prima austerità dei costumi romani, quand'era proibito al genero di fare il bagno in presenza del suocero, con la licenza degli ultimi tempi, allorchè si vedevano sorgere dall'acqua alla rinfusa teste di patrizi e di matrone, e i consoli spruzzare i senatori, e l'imperatore tuffarsi nella «natatoria» in mezzo ai popolani, e le schiave aspettar le padrone nelle celle per ricomporre sui capi stillanti i «crines suppositi», e ungere le membra d'unguento.

—Le terme, signori,—dice a un tratto il cocchiere.

Una gran muraglia nera e una gran porta son tutto quello che mi ricordo della parte esterna. Il primo momento in cui ci si trova davanti a qualche cosa, di straordinario e di grande non resta mai distinto nella memoria. La porta s'apre, entriamo in una specie di vestibolo, e udiamo una voce che dice:—Qui v'erano le celle pei signori romani che non volevano bagnarsi in pubblico.—Non si guarda, si va innanzi altri pochi passi: ci siamo.

Guardiamo un pezzo in silenzio.

Siamo in mezzo a un campo cinto da quattro muri altissimi. Nel muro dirimpetto a noi v'è una gran porta per cui si vede un altro campo. In fondo a questo una seconda porta, in dirittura della prima, per cui si vede un altro campo ancora, e via via, fino a un muro lontanissimo che sembra chiudere l'edifizio. Alla nostra sinistra una porta come le prime, e altri campi, e altri muri, e altre porte; e tutto deserto e silenzioso come una città abbandonata.. Guardiamo in terra: v'è ancora in un angolo un pezzo di pavimento di mosaico uguale e intatto come fatto ieri. In alcuni punti il terreno s'alza, in altri s'abbassa. Vicino al muro v'è un tronco di statua; accanto alla porta alcune nicchie vuote.

—Qui c'era un grandioso porticato,—dice uno. Non ve n'è più traccia, andiamo innanzi. È una solitudine che fa quasi paura. Eccoci nel secondo recinto. Muri, porte e mucchi di terra come nel primo, e deserto, e silenzio. Oh! eccoci nel centro dell'edifizio. Di qui si capisce qualcosa. Vediamo.

Guardo intorno: che triste e grande spettacolo! Mura altissime, nere, scalcinate, che serpeggiano dalla sommità al suolo, lasciando in qualche punto veder la campagna. Vôlte alte e leggiere, somiglianti a cupole di chiese, rotte a mezzo della loro grande curva, e terminanti in punte, in lingue, in tronchi d'arco prolungati e sottili, che minacciano rovina. Qua e là enormi pilastri monchi, spezzati a mezzo come da un urto violento, o man mano digradanti in grossezza dal basso all'alto, fino a disegnarsi nel cielo smilzi e snelli come obelischi; porte e finestre sformate, squarciate agli spigoli come dall'uscita forzata di un corpo più grande e dentellate in giro, e dentro buie come bocche di mostri; scale coi gradini divelti, spaccati, corrosi, in mille modi scemati e guasti, come dall'opera di mille mani rabbiose. E via pei muri fori d'ogni forma, e incavature larghe e cupe, di cui non si scerne il fondo, e vestigia interrotte della commessura dei piani, e tracce di porte, di nicchie, di pareti, di canali, di vasche. E in terra, in mezzo a queste rovine gigantesche, larghi pezzi di pavimento, simili a macigni franati, sostenuti da pali, coperti ancora dall'antico mosaico; massi di marmo bianco, rottami di colonne di porfido, pietre di sedili, frammenti di statue, ornati di capitelli, lastre e sassi; ogni cosa alla rinfusa, sossopra, come crollato pur ora. E fra masso e masso, fra rudero e rudero, le erbe e i fiori silvestri, con cui la terra, ultima trionfatrice, apertosi il varco a traverso i pavimenti marmorei, risaluta, dopo un giro di secoli, il sole.

Si guarda e si pensa. È triste, è penoso lo sforzo che si fa per ricostrurre nella mente nostra l'intero edifizio. Quegli avanzi non bastano: sono troppo rotti e sformati. Si segue coll'occhio la curva d'un arco, e si dimentica il contorno della colonna; si va oltre nella direzione d'un andito, e il profilo d'un pilastro ci sfugge; ci sfuggono, via via che si disegnano, le linee, e con le linee le proporzioni, e con le proporzioni l'effetto, che sarebbe immenso, del tutto. Quegli avanzi son come le note interrotte d'una musica lontana, di cui s'indovina, più che non si sente, la melodia.—Se ci fosse qualcosa di più,—si pensa;—se per esempio quella parete fosse finita, se qui non ci fosse questo vuoto, se là rimanesse ancora quell'atrio, quante cose se ne potrebbe argomentare e capire! Che peccato!—E più e più volte si ricomincia, con mesto desiderio, questa ricostruzione mentale. Si vedono di sbieco, per una porta, i primi gradini di una scala; chi sa dove mena? Si corre con grande curiosità, si guarda: che stizza! La scala è troncata a metà. Si vede l'imboccatura d'un andito: o dove riesce? Si corre a vedere: oh delusione! riesce nei campi. Si stanca l'occhio sulle vôlte e sulle pareti che dovevano essere dipinte, caso mai ci restasse un po' di colore, qualche linea, una traccia qualsiasi: nulla. Nulla delle vaste gallerie dove si facevano i giuochi, nulla dei portici stupendi che cingevano l'edifizio centrale, nulla delle enormi colonne che sostenevano il piano di mezzo. Ebbene, ci si attacca a quel poco che resta, si combina, si congettura, si fantastica. Le sale del centro si può supporre che cosa fossero. Qui si capisce che si nuotava, là si dovevano vestire, sopra ci dovevano essere le biblioteche, di qui doveva scendere l'acqua. Si seguono attentamente le ondulazioni del terreno, si tien l'occhio fisso nelle nicchie vuote, come se ci fossero ancora le statue, si entra nelle celle dove l'immaginazione è più raccolta, e si guarda a lungo in terra e sulle pareti, che cosa? Nulla; ma si guarda, nè ci si può allontanare prima d'aver molto guardato.

E il pensiero s'immerge nel passato.

Animo, rifacciamo queste mura e su di esse i grandi dipinti fantastici, e lungo le pareti i duemila sedili marmorei, e nelle nicchie i capolavori dello scalpello antico, l'Ercole, la Flora colossale, la Venere Callipigia; e lungo i portici e in giro per le sale le colonne di porfido; e lassù, in alto, le celle dorate e inghirlandate; e laggiù, in fondo, i giardini ombrosi e le fontane dai cento zampilli. E duemila Romani in preda all'ebbrezza dei piaceri. L'aria è profumata. Cadono nelle celle le bianche stole delle matrone, e le schiave affannate sciolgono i calzari purpurei e le treccie brillanti di perle. Dall'acque, infuse di balsami, emergono i volti accesi di voluttà. Sull'orlo delle vasche si affollano i servi colle striglie argentee e i vasi degli unguenti. Al rumore delle acque cascanti si mescono le musiche e i canti dei cenacoli, le grida del popolo plaudente ai giuocatori risonano dalle gallerie, e s'odon le voci dei poeti che declaman i versi, e via per gli anditi e per le scale e pei recessi dell'edifizio enorme echeggiano accenti allegri, e trasvolano veli candidi, e passano, salgono, scendono, s'incontrano senatori canuti e dame chiomate, e giovinetti, e ancelle, e schiavi; e si confondono in un vocìo continuo tutte le lingue ed in uno splender diffuso tutte le ricchezze del mondo.

Ed ora muri diroccati, mucchi di sassi, un po' d'erba selvatica, e silenzio.

Oh! poter rivivere un minuto quella vita, o vederla vivere un istante, con uno sguardo solo, come si vede una cosa fuggente!

Ora tutto è mutato. Invece delle vaste sale cinte di colonne, quei gabbiotti soffocanti degli stabilimenti di bagni, coll'avviso:—È proibito di fumare.—In luogo delle grandi piscine, la tinozza dove si sta rattrappiti e immobili, come i feti nei vasi; e in cambio delle musiche dei cenacoli, il campanello per la biancheria!

Eravamo nell'ultima sala, o campo (chè non v'è più tetto), quando il silenzio profondo che regnava intorno fu rotto improvvisamente da una voce:—«Veni cà».

Guardammo in su: era un soldato di fanteria che dal sommo d'un muro altissimo chiamava i suoi compagni rimasti giù, e accennava alla bella veduta che gli si offriva dintorno.

Alcuni soldati vicino a noi raccoglievano le pietruzze dei mosaici. Altri esperimentavano l'eco gridando dei comandi militari. Più in là v'era una signora con un ufficiale.

Salimmo anche noi dov'era il soldato. La scala è aperta, se ben mi ricordo, in un pilastro. È una scala larga e comoda; ma interminabile. Giungemmo senza fiato sur un piano, credendo che fosse l'ultimo; ma guardando intorno, ci accorgemmo che non eravamo nemmeno a mezz'altezza. Da ogni parte ci sovrastavano archi e mura, che pareva s'inalzassero man mano che salivamo. Guardammo giù, e ci meravigliammo d'esser tanto saliti. Da quel punto, abbracciando con lo sguardo una gran parte dell'edifizio, potevamo formarci un concetto più adeguato della sua grandezza. Ci trovavamo sopra una lingua di vôlta sottilissima, che pareva stare in aria per miracolo. A guardar giù per le fessure girava la testa. Da un lato si vedeva una lunga fila di porte. Ci avanzammo; ma fatti pochi passi, ed accortici che la vôlta mancava, si dovette tornare addietro. Si vedeva di là il monte Testaccio, i deserti «prati del popolo romano», la basilica di San Giovanni Lateranense, e la fuga sterminata degli archi d'un acquedotto a traverso la campagna romana, nuda, triste, infinita come un oceano immobile e morto….

Si scende, si torna verso l'uscita, di sala in sala, di rovina in rovina, sempre fra mura gigantesche e grandi porte, per cui si vedono altre mura e altre porte lontane. A un tratto, voltandoci a sinistra, vediamo un grande portico oscuro, e uno spazio di terreno senz'erba, sparso di marmi. Ci avviciniamo: son pezzi di statue. Ci son teste enormi con la fronte e con gli occhi levati in alto, che dovevano sorreggere degli architravi; torsi di guerrieri atletici senza capo; in un canto un mucchio di teste di dèi, di soldati, d'imperatori, di vergini, tutte mutilate, e col viso rivolto verso chi guarda; rottami di colonne che tre uomini non possono abbracciare, e mucchi di figurine e di pezzi d'ornato staccati dai capitelli, e pietre di mosaico sparse. Tutti questi marmi lasciati così in terra, e disposti in un cert'ordine, dànno a quel luogo qualcosa dello aspetto d'un camposanto; quelle teste paiono crani; al primo vederle si dà un tremito, come se guardassero. V'è, fra le altre cose, una manina di donna colle dita tronche e un po' di braccio piccino e gentile, abbandonata in terra, mezzo nascosta e lontana da tutti gli altri rottami, che desta un senso di pietà, come se fosse di carne….

Uscimmo senza parlare. Tale è l'effetto che fanno le terme: la gente entra, guarda, gira, e nessuno parla; si passano accanto e non si badano: tutti pensano; si entra allegri, si esce tristi. Ritornando in città ci parve d'entrare in un mondo nuovo. Pensavo alla strana impressione che m'aveva fatto fra quelle mura il suono di certe parole piemontesi e come a Giacomo Leopardi sull'«ermo colle» sovveniva a me pure

l'eterno e le morte stagioni e la presente e viva e il suon di lei…;

la quale un giorno sarebbe parsa ad altri altrettanto remota quanto pareva a me quella dello splendore delle Terme.

Ahimè! Che poca cosa ci paiono anche i nostri trionfi e le nostre gioie nazionali davanti a questi cimiteri di secoli!

UN'ADUNANZA POPOLARE NEL COLOSSEO.

Erano le tre dopo mezzogiorno. Il popolo romano si recava al Campidoglio per eleggere la Giunta provvisoria. Tutte le strade che conducono al Campo Vaccino erano percorse da folti drappelli di cittadini con bande musicali e bandiere. Arrivati al Campo, i drappelli si confusero in tre o quattro lunghissime colonne, e mossero insieme verso il Colosseo. Andavano a otto a otto, a dieci a dieci, allineati e stretti come soldati, levando tratto tratto altissime grida e lunghi applausi.

Le gallerie del Colosseo erano già affollate. Centinaia di fazzoletti e di bandiere sventolavano fra gli archi altissimi, e dentro suonava un gridìo continuo e diffuso come il muggito del mare in tempesta. Si vedeva una colonna dopo l'altra versarsi nel vasto recinto, e rimpicciolire subitamente come se ne sparisse per incanto una gran parte. Turbe di popolo, che tenevan tutta la strada, si vedevano ristringersi e quasi perdersi, come piccoli drappelli, in un cantuccio dell'arena. Continuamente affluiva popolo, e la folla dentro non pareva crescere. Una parte della prima galleria era piena zeppa di gente; ma così lontana, benchè solo, a mezz'altezza del muro, da non riconoscerne i visi a occhio nudo. Dalla galleria in giù, su tutti i gradini, su tutti i macigni, su tutti i rialti del terreno v'era popolo: donne, bambini, signori, poveri, tutti vestiti a festa, con nastri tricolori e coccarde. Da una parte dell'arena s'alzava un palco, e sul palco un pulpito; intorno molte grandi bandiere tenute in pugno da cittadini. Sul cielo del pulpito un gruppo di pompieri. Intorno al palco, sul tetto dei tabernacoli e sui macigni della gradinata, una fitta di gente che presentava allo sguardo una vasta e continua distesa di visi e di «sì» attaccati ai cappelli. Davanti al pulpito il grosso della folla. Da ogni parte braccia alzate di gente che si accennavano gli uni agli altri il cerchio maestoso dell'anfiteatro; sulle più alte punte dei muri gente e bandiere. Le bande suonavano, le grida andavano al cielo, un sereno purissimo e una splendida luce di sole faceano la festa più bella e più solenne.

Ecco Mattia Montecchi.

Un fragoroso applauso prorompe dalla folla e un lungo e altissimo evviva.

Il vecchio patriotta romano, accompagnato dagli amici, avvolto e nascosto quasi dalle bandiere, sale sul pulpito a capo scoperto, e preso appena fiato comincia con voce commossa:

—Popolo romano, rivendicato alla libertà e restituito per sempre alla comune patria….

S'interrompe un istante, e poi con irresistibile slancio.

—….Io ti saluto!

L'ultima sua parola muore in un singhiozzo; egli si copre gli occhi col fazzoletto e ricade sulla seggiola.

La folla manda un grido d'entusiasmo, tendendo le braccia e agitando le bandiere.

—Silenzio! Silenzio!

Il Montecchi ricomincia a parlare, a voce bassa, interrompendosi tratto tratto. La folla, ondeggiando e rimescolandosi, si stringe intorno al pulpito. Le parole dell'oratore non giungono fino a me. Mi faccio innanzi per intendere qualcosa.

—….Il potere temporale del Papa,—egli esclama,—è caduto!

Un tuono d'applausi.

—È caduto nella polvere!—grida una voce tra la folla, e un braccio convulso si solleva, e si agita, al disopra delle teste.

—È caduto per sempre!—ripete il Montecchi.

—Nella polvere!—ripete con accento imperioso la voce di prima.

—Silenzio! Silenzio!

—La caduta del potere temporale dei papi,—prosegue il Montecchi,—è uno dei più grandi fatti registrati dalla storia!

Un giovane accanto a me alza una mano e grida con tutta la forza dei suoi polmoni:—Dalla storia della civiltà!

Il Montecchi si volta e guarda come per chiedere che cosa fu detto, e soggiunge:—Uno dei più grandi fatti registrati dalla storia.

—Della civiltà!—ripete il giovane.

—Della civiltà,—aggiunge il Montecchi in atto di condiscendenza.—Ora tocca a noi di mostrarci degni della nostra fortuna. Roma non può restare, nemmeno per pochi giorni, senza governo….

—Viva l'Italia!

—….I nostri nemici potrebbero trarne argomento a dire che il popolo romano non è ancora maturo alla libertà….

—Viva la libertà! Abbasso i nemici di Roma! Viva Vittorio Emanuele in Campidoglio!

—Viva! Ma prego…. lasciatemi continuare.

—Viva Montecchi!

—Vi ringrazio…. fate un po' di silenzio…. Bisognava eleggere una Giunta…. Noi avremmo voluto che il popolo facesse l'elezione in modo regolare, per mezzo delle schede, coi voti…. Ma non c'era più tempo…. Abbiamo dunque pensato di rivolgerci direttamente al popolo romano….

—Bravo! Viva!

—….Al popolo romano, e di facilitargli l'opera preparando un elenco di cittadini appartenenti a tutte le classi della società e a tutti i partiti politici….

—Benissimo!—Viva Montecchi!—Viva Roma!—Viva….

—Un momento…. Ora, vedete anche voi che sarebbe impossibile aprire una discussione sopra ciascuno dei nomi, che sono quarantaquattro, Bisognerà dunque ristringersi ad approvare o disapprovare l'elenco nel suo complesso. Ci sarà qualche nome che ad alcuni non piacerà; ma capirete che non è possibile fare un elenco di quaranta persone che riescano a tutti ugualmente accette. Ad ogni modo qualche nome si potrà cambiare. Terminata la lettura, io darò la parola a uno di voi, il quale esponga il suo parere, e dica le ragioni che può aver da dire, in generale, contro le proposte della Commissione che raccolse i nomi. Dopo che quest'uno avrà parlato, state bene attenti….

—Viva Vittorio Emanue….—grida all'improvviso una voce acuta.

—Silenzio! Smetti! Non è il momento!—si mormora da ogni parte.

—Guardalo lì quello che non vuole che si dica Viva il Re!—grida l'interruttore importuno ad uno dei suoi censori.

—Ma chi ti dice ch'io non voglio che si grida viva il Re? Dico che non è il momento.

—Già, non è il momento adesso che ci ha liberati!

—Ma senti che bestia!

—Ma guarda….

—Silenzio,—grida il Montecchi;—accordatemi ancora qualche minuto di attenzione. Sentite. Dopo che uno di voi avrà parlato, io metterò a' voti l'elenco, nella sua totalità, s'intende; e allora, ricordatevene bene, chi intenderà di approvarlo leverà in alto il cappello….

Tre o quattrocento persone si scoprono il capo.

—No! non ancora!—grida il Montecchi;—ve lo leverete poi; come volete approvare l'elenco se non v'ho ancora letto i nomi?

Risa generali; caldi diverbi fra coloro che si tolsero il cappello e coloro che risero; bisbiglio prolungato.

Il Montecchi:—Vi prego…. un po' di silenzio…. pochi momenti ancora…. Chi intenderà di approvare l'elenco alzerà il cappello, chi non vorrà approvarlo terrà il cappello in capo. Se ci sarà qualche nome da cambiare, quello di voi che verrà qui a parlare lo dirà, e i nomi saranno cambiati. Ma mi raccomando; lasciate leggere tutti i nomi di seguito senza interrompere. Parlerete dopo. Vedete, è l'unica maniera di far presto e bene. Se, per leggieri dissensi su questo o su quel nome, dovessimo restare un altro giorno ancora senza governo, forniremmo pretesto ai nostri nemici di calunniare il popolo di Roma.

Vivi applausi.—Viva la Giunta! Viva Montecchi! Viva Vittorio Emanuele in Campidoglio!

—Viva!… Ora vi prego per l'ultima volta…. un po' di silenzio.

Uno di quei che sono intorno al pulpito alza tanto la bandiera che quasi la dà negli occhi al Montecchi.

—Tien giù quella bandiera!—gli grida il vicino.

—Ma è la bandiera nazionale, sai!—risponde l'altro sdegnato.

—Vedo; ma perchè è la bandiera nazionale devi cavar gli occhi alla gente?

—Guarda il prete!

—A me prete?

—Silenzio,—si grida all'intorno.

—Leggerò i nomi,—ripiglia il Montecchi;—state attenti; ma ve ne riprego, non m'interrompete, se no si va troppo per le lunghe; abbiate un po' di pazienza….

—Legga! Legga pure!

Si fa in tutta la folla un silenzio profondo.

Il Montecchi legge:—Tale dei tali.

Passa senza contrasto; un momentaneo bisbiglio e silenzio.

—Tale dei tali.

Vivi applausi; il popolo è ben disposto, l'affare va bene.

—Tale dei tali.

Uno scoppio d'urli e di fischi, un agitar di mani, un pestar di piedi, un rimescolamento, un fracasso d'inferno si leva e si prolunga per cinque minuti da ogni parte dell'affollato uditorio. Il Montecchi incrocia le braccia sul petto e sta aspettando in atto rassegnato e dimesso che la tempesta si queti.

Finalmente alza una mano.

—Silenzio! Silenzio!—si grida dalla folla.

—Signori!…—comincia il Montecchi con un filo di voce;—vi prego; le cose sono andate così bene finora, continuiamo come abbiamo cominciato, non discutiamo i nomi, non perdiamo tempo, parlerà uno per tutti, tutti insieme non si conclude nulla, lasciatemi leggere tutto l'elenco, abbiate un po' di pazienza ancora….

—Bravo! Bene! Legga! Legga! Non si discute! Silenzio! Legga! Lasciatelo leggere!

Il Montecchi legge:—Tale dei tali.

Un altro e più violento scoppio di grida e fischi e pestar di piedi e agitare di mani. E di nuovo il Montecchi incrocia le braccia in atto di rassegnazione.

—Abbasso! Abbasso!—grida la folla.

—No, viva! viva!—alcuni rispondono.

—Chi viva? Abbasso! Chi sono quei paolotti laggiù? Fuori! È passato il tempo! Abbasso! Abbasso!

Il Montecchi:—Prego….

—Abbasso i mercanti di campagna!

Il Montecchi, con voce semispenta:

—Prego, non discutano i nomi….

—Non si discute! Non si discute! «Se dice per di' che so' mercanti de campagna!»

Scoppio d'applausi.

—Non discutano, prego….

—«Hanno fatto massacrare il popolo romano!»

Applausi fragorosi.

—….Ma prego….

—«Nun li volemo!»

—….Un po' di silenzio….

—«Nun li volemo!»

Cento voci assieme:—Parliamo uno alla volta, perdio!

Il fracasso è assordante, la folla agitatissiina; alcuni apostrofano con calde parole il Montecchi, altri apostrofano la folla dalle gallerie, si sventolano le bandiere, si formano dei capannelli, si batton le mani, si strepita, è un casa del diavolo infinito.

A poco a poco ritorna la quiete. Il Montecchi continua a leggere. Il primo nome passa. Il terzo è accolto da lunghi applausi. Otto o dieci altri non incontrano opposizione. Qualcheduno solleva un po' di mormorio…. Sia lodato il cielo, l'elenco è finito!

Si applaude.

Il Montecchi ricade sulla sua seggiola e si asciuga la fronte.

Allo strepito succede nella folla un vivissimo bisbiglio.

—Ora chi parla?—Chi vuol parlare?—Parla tu.—Il tale ha detto che parlerà.—No, parla quell'altro.—Parliamo noi.—Parlino loro.—Zitti! Parlano.

A piedi del pulpito, poco al disopra della folla, si alza una testa e si stende una mano.

—Silenzio! Silenzio!

Si fa un grande silenzio e si ode una voce incerta e sottile:

—Io piglio la parola in un momento solenne….

Un rumore improvviso da una parte dell'anfiteatro copre la voce dell'oratore.

—….Io piglio la parola in un momento solenne….

Un tale accanto al pulpito lo interrompe; l'oratore si volta bruscamente:—In nome di chi parla lei? In nome del deputato Checchetelli?

Segue un diverbio, il Montecchi si intromette, l'oratore ricomincia a parlare.

—Forte! Forte!—grida la folla.

—Salga su!—gridano i membri della Commissione.—Venga qui sul pulpito! Si farà sentir meglio!

E tutti insieme pigliano l'oratore per le braccia e lo tirano su. Tutta la persona di lui sovrasta alla folla. È un giovane sui venticinque anni, alto, pallido. Ha il capo fasciato. È stato ferito dagli zuavi salendo in Campidoglio. La folla prorompe in applausi.

—Silenzio!

Egli parla.

Sulle prime non si sente; ma la sua voce man mano si innalza e si rafforza, e la parola esce vibrata e distinta.

—….Ben fecero gli egregi uomini della Commissione a radunarsi in questo antico ed angusto recinto. Essi dimostrarono con ciò che d'ora innanzi gl'interessi del popolo non saranno più abbandonati agl'intrighi delle consorterie, ma discussi e propugnati alla luce del sole, in mezzo al popolo e col popolo!

Scoppio di battimani.

—Non si scherza,—bisbiglia il popolo.—Le canta chiare.—Non ha paura di nessuno.

L'oratore prosegue:—….In questo recinto che il tempo corrose, ma non distrusse; fra queste mura annerite dai secoli….

Violente interruzioni:—Alla questione!

L'oratore, levando al cielo lo sguardo e la mano:—Io veggo gli archi del Colosseo popolarsi di arcani fantasmi….

Nuovo e più violento scoppio di disapprovazione e di protesta:—Alla questione!—«Non volemo» prediche!—Le prediche «so'» finite!—Non abbiamo bisogno di lezione!

L'oratore continua a parlare; ma la sua voce è soffocata dallo strepito della moltitudine.

Una voce stentorea si alza al disopra di tutte le voci e fa voltare tutte le facce:

—La cosa è chiara! L'elenco «nun ce» piace! «Nun volemo» liberali del momento, «nun volemo» liberali d'occasione….

Applausi tonanti.

—«Volemo» gente provata, patriotti schietti, che «ce se veda chiaro» nella vita loro!

Un'esplosione d'applausi.

E la voce di prima, con nuovo e formidabile sforzo:—«Nun volemo mercanti de campagna!»

Terza salva d'applausi.

—Va' a parlar tu!—Va' sul pulpito!—Fa' valere le nostre ragioni! Va'!—Presto!—Su!

Il fortunato interruttore, sollecitato e spinto da tutte le parti, chiamato dal Montecchi, eccitato dalle grida della gente lontana, si apre un varco tra la folla e si slancia verso la tribuna. Sbalzato da un suo spintone cinque o sei passi indietro, mi trovo in una corrente che move verso l'uscita, mi ci abbandono, e in pochi minuti, pesto, sudante e spossato, mi trovo fuori del Colosseo.

Ecco tutto quello ch'io vidi.

Stetti un momento là incerto tra il tornar dentro e l'andarmene, e poi presi un partito fra i due: salii sur un rialto del terreno accanto all'arco di Costantino, e come soleva dirmi il mio amico Arbib, «mi misi a fare della poesia inutile», guardando il Colosseo.—Le solite grida,—pensavo,—la solita confusione, la commedia solita delle radunanze popolari; ma che importa quello che vi si faccia e quello che vi si concluda? Sono grida di libertà, e basta perchè, a sentirle di qui e a sentirle uscire dal Colosseo, mi destino nell'anima una gioia nuova, ineffabile, superiore a tutte le gioie che mi sian mai venute finora dall'amor di patria.—Viva l'Italia—viva la libertà—viva Roma redenta—….nel Colosseo! In questo campo! In mezzo a questi archi!

E giravo l'occhio intorno come per assicurarmi del luogo dov'ero.

—….Il Bonghi dice che qui ci sentiremo piccoli. Perchè? Piccolo si sentirà chi si vorrà misurare con chi fu grande. Noi qui non veniamo a misurarci; ma ad ispirarci, ad attingere forza e coraggio, a meditare e ad ammirare. Il Colosseo!—ho inteso dire;—che vi potrà dire il Colosseo? Vi narrerà le glorie dei gladiatori e i supplizi dei cristiani? Ed io vi rispondo:—Sì….

In quel punto uscì dall'anfiteatro un altissimo evviva e un allegro suono di banda.

—Sì…. ecco che cosa mi dice il Colosseo. Mi dice che dove gli uomini schiavi si sgozzavano per ricreare un tiranno, ora convengono i cittadini a salutare l'aurora d'una vita nuova; mi dice che dove perirono sotto le scuri o in mezzo alle fiamme gli apostoli della libertà e dell'uguaglianza, ora convengono cittadini liberi ed eguali a esercitare i loro diritti e a compiere i loro doveri, coll'anima lieta e serena; e questo vi par poco? E vi par che si possa dire che il Colosseo è muto?

Un altro scoppio di grida misto a suono di trombe mi giunse all'orecchio.

E poi una voce distinta:—Viva la libertà!

—Ah!—esclamai, rivolto al Colosseo, come se mi potesse intendere;—consolati, vecchio gigante; così monco e sfracellato come ti trovi, tu non fosti mai tanto bello nè tanto grande ai tempi degl'Imperatori!

UNA MATTINATA ALL'ALBERGO.

Non so se sia stato più vivo il piacere che provai entrando in Roma il 20 settembre, o quello che ebbi la mattina dopo, svegliandomi nella cameretta dell'albergo, appena rinvenni dall'illusione solita di credermi ancora dove avevo dormito la notte prima. Appena aperti gli occhi, il mio primo pensiero fu quello che m'era venuto a Monterotondo la mattina del 20:—Dunque quest'oggi «s'attacca!»—E stetti un momento perplesso. A un tratto mi parve di sentirmi nell'orecchio una potentissima voce:—Roma!—e mi scossi da capo a piedi, e balzai d'un salto alla finestra. Apersi le imposte, e visto appena le bandiere e udito le grida del popolo, m'entrò nel cuore tanta gioia che mi diedi a ridere come un pazzo. Poi chiamai il cameriere, senza sapere perchè. Venne subito, allegro anche lui ch'era un piacere.

—Che mi comanda?

—È un romano,—dissi tra me, guardandolo;—un romano cameriere! Mi fa pena; avrà forse un lontanissimo antenato console, senatore, pontefice massimo….

—Come vi chiamate di nome di battesimo?

—Caio.

—….Caio Flaminio,—pensai,—Caio Gracco, Caio Sicinio, Caio Curzio….

—Qual'è il vostro cognome?

—Tittoni

—Caio Tittonio, andatemi a chiamare un barbiere.

—Vado subito.

—Un barbiere romano.

—Guardi che caso! Il barbiere dell'albergo è lombardo.—Non lo voglio; andate a cercarmi un barbiere «romano de Roma»; fate anche mezzo miglio, se occorre, vi ricompenserò della corsa; ma portatemi un barbiere romano.

—Sarà servito.

E se n'andò ridendo.

Non era senza perchè la mia pretensione: volevo scrutare lo spirito politico delle classi inferiori, e tutti sanno che quando s'è parlato con un barbiere si può contare d'aver parlato con mezzo mondo.

Il barbiere venne. Era un barbiere dello stampo dei nostri: un vecchietto azzimato, pulito, gaio, con le mani fredde e i rasoi cattivi.

Mentre cominciava l'operazione, io studiavo la maniera d'entrare in discorso.

Egli mi prevenne domandandomi con molta gentilezza:

—Il signore è emigrato?

—No.

—Italiano?

—Sì.

—Giornalista?

Diedi un balzo sulla seggiola e mi voltai a guardarlo negli occhi. Come mai poteva già sapere che insieme con l'esercito s'erano rovesciate su Roma le cavallette della stampa?

—Non sono giornalista.

—Dicevo, sa…. perchè ho visto il tavolino coperto di giornali e di carte…. Che gliene pare di Roma?

—È superba.

Fece un risolino modesto.

—….Noia, c'è male…. E poi, ora, è tutt'altra vita che «ce se vive»!

—Siete contento del cambiamento?

—Se sono contento? «Me pare da diventà matto, me pare». L'Italia una, per Dio…. Ora speriamo che «ce» sarà fatta giustìzia.

—Di che?

—Eh signore, «ce so» molte cose da mettere a posto a Roma.

—Me lo immagino….

—….Prima di tutto, sa che cosa dovrebbe fare Sua Maestà il re Vittorio Emanuele Secondo, appena entrato in Roma?

—Desidero di saperlo.

—Dovrebbe….—e qui stese un braccio e alzò la voce,—dovrebbe mettere a posto «li macellari», dovrebbe; che «so na razza de cani», glielo dico io, e fanno pagare tutto il doppio, e «so» screanzati che «nemmanco se ponno guardare in der grugnaccio, se ponno», capisce?

—Oh cospetto! È proprio questa la prima cosa che deve fare il re?

—Questa…. e un'altra. Fare una legge con la quale dica che d'ora in avanti è fatta facoltà «a li barbieri de» metter la bottega dove «je» pare, senza quella «prepotenza» che c'è adesso che le botteghe debbono essere a quella data distanza l'una dall'altra. Per cagion di questo, vede, a me m'è toccato di fare «er giovanaccio de bottega» cinqu'anni di più, chè il locale vicino ce l'avevo, e li baiocchi pure, ma la bottega non la potevo mettere per via di quella legge «'nfame». Accidenti ai governi dispotici e viva Vittorio Emanuele! Quant'ho benedetto sto giorno io!… E poi un'altra cosa.

—Dite.

Qui abbassò la voce e mi disse nell'orecchio:

—Dei barbieri che tengono dal Papa, qui, in Roma, ce n'è la su' parte, glielo assicuro io.

—Ebbene?

—Accopparli.

—Siete severo.

—Sì, accopparli, senza misericordia «co' sta razza de cani»; se no «er» governo italiano se ne accorgerà, stia pur sicuro.

—Speriamo che faranno la barba con la dovuta prudenza.

—Non ci speri; bisogna far man bassa.

—E altro?

—Altro…. ci son tante cose; ma dica un po', «ce» porteranno delle buone leggi, «se» spera?

—Meglio di quelle che avevate, lo crederei.

—Bene; e dica…. Sento che «ci» hanno una grande severità pei ladri, è vero?

Accennai di sì, voltandomi a guardarlo.

—È giusto…. Poi c'è la leva militare…. Eh già…. quella alle donne «sarà un po' difficile de fajela entra'».

—Lo penso anch'io.

—«Gran disciplina co' sti soldati eh»?

—Quanta n'occorre, certamente. Avrete però osservato che gli ufficiali hanno buone maniere e che i soldati son buoni ragazzi.

—Già…. e scusi, sa, se son curioso…. si parlava giusto ieri sera…. che cos'è la «ricchezza mobile»?

—La ricchezza mobile?

—Già.

—….Provate l'altro rasoio, questo mi fa male.

—Quest'altro «je» va?

—Questo mi va…. Avete visto la luminaria di ieri sera?

—La luminaria, sì…. ma che «ce» porteranno tutte «ste imposte che se dice»?

—Eh già, le imposte, vedete…. in Italia…. relativamente a quello che potrebbero essere, tenuto anche conto delle condizioni agricole e industriali del paese, e considerata la proporzione delle forze produttive in relazione con le esigenze, dirò così, che sono molte e gravi, d'una grande amministrazione…. Capirete che la finanza è finanza, i bisogni, bisogni, i doveri, doveri, e per quanto si faccia e dica dai contribuenti, è pur sempre certo che i carichi dei cittadini sono in certo qual modo, e fino ad un certo punto, regolati sui principii d'un sistema economico senza del quale s'è sempre visto che gli Stati non si reggono e tutte le proprietà pubbliche e private ne vengono a soffrire gravemente….

—È chiaro.

—Lo capite anche voi.

—Diavolo!

—Picchiano: fatemi il favore d'aprire. Entrò il calzolaio: un gobbetto coi capelli grigi e il naso a becco.

—Scusate,—dissi al barbiere,—non posso rimandarlo indietro; bisogna ch'io mi misuri un paio di stivaletti; mi spiccio in un momento.

—Faccia pure.

Gli stivaletti andavano.

—Quanto volete?—domandai.

—Diciotto lire.

—….Son carini.

—Non è vero? Paiono fatti apposta per il suo piede.

—Eh no, voglio dire che sono un po' salati. A Firenze li pago sedici.

—….A Firenze è un altro par di maniche, caro signore; qui si paga tutto più caro. Ma io non sto sul tirato. A lei ch'è italiano glieli do per diciassette.

Il barbiere fu preso da un accesso di tosse.

—Ohè, dico!—gridò il calzolaio fissandolo fieramente;—che ci avete da fare delle osservazioni voi?

—«Gnente, gnente»; dicevo che l'Italia è un bel paese.

—E io vi dico che v'impicciate negli affari vostri, che già…. noi altri…. «armanco»…. agl'italiani la gola «nun je la tajamo».

—E «manco» noi «nun je stroppiamo li piedi».—Potrest'essere più educato, «me pare».

—Più educato?—(accendendosi)…. Io già, se ve l'ho a dire chiara e netta, la corte agli zuavi non glie l'ho mai fatta.

—E io neppure!

—Resta a sapersi!

—Come resta a sapersi?

—«Se conoscemo».

—Sicuro che «se conoscemo».

—«Er regno» dei preti è finito.

—Me ne rallegro.

—Non «de» core.

—Più «de» voi.

—Ci ho i miei dubbi.

—Via, via,—dissi, mettendomi in mezzo,—lasciamo queste quistioni; non son giorni questi da bisticciarsi fra amici; bisogna andar tutti d'accordo, e gli uni dimenticare i torti degli altri, se ce ne sono. Stringetevi la mano subito, in presenza mia, o non do il becco d'un quattrino a nessun dei due.

Si porsero la mano, ma senza toccarsela.

—Animo, stringetevela,—dissi.

—Lui ha da dir prima viva l'Italia!—disse il barbiere.

—E io «nu je vojo dà» questa soddisfazione,—risponde l'altro.

—Animo, ditelo per far piacere a me.

—Viva…. l'Italia.

Si strinsero la mano.

Ma il calzolaio subito con un rincalzo di passione:—E io lo «so» stato sempre italiano, capite!

—Sì, sì, lo credo,—gli dissi,—vi si vede in viso, eccovi i denari, andatevene pure.

—E io non glie l'ho fatta mai la corte agli zuavi, sapete, non glie l'ho fatta mai.

—Andate, andate.

—E non è questa la maniera «de» screditar la gente….

—Via….

—E «se» rivedremo….

—Chetatevi, ve ne prego, vien gente….

Entrò la stiratora, una donnicciuola sui cinquant'anni, con un'aria di vittima, col cappellino e lo scialle messi per traverso: il calzolaio si fermò sull'uscio.

—È lei, signore,—mi domandò la donna con voce tremante,—che mi ha da dar della biancheria?

—Io; ma bisogna che me la riportiate domani.

—Si farà…. quello…. che…. si…. potrà.

—Che cos'avete?

La stiratora scoppiò in pianto.

—Che v'è accaduto?—domandai, avvicinandomele.

—Ah! signore…. mio fratello e mio cognato….

—Son morti?

—No…. sono impiegati alla Revisione.

—Ebbene?

—….Li mandano via.

—Chi?

—Gl'Italiani.

—Ma, che! Rimarranno nel loro impiego, statene sicura; il governo italiano non toglierà il pane a nessuno; datevi pace, buona donna.

—Ah! no…. no…. è inutile…. glielo hanno già detto….

E un altro scoppio di pianto.

—L'avranno voluto loro,—esce a dire il calzolaio,—e se lo son meritati.

—Che cosa?—domanda sdegnosamente la donna, sollevando il viso bagnato di lacrime.

—«Ah! credete che nun se sappia er perchè? Ci avemo er nostro giuramento (giungendo le mani e modulando la voce); no se pole, ci avemo er nostro giuramento de mantenecce fedeli ar Papa»!

—Non è vero!

—Andiamo via, chè «so» i soliti mezzi «de» cercar gl'impieghi….

—«Eh, stateve zitto»,—gli ribatte il barbiere,—«nun me» state a far tanto l'italiano «co' sta» povera donna, che tanto ve se vede sotto la coda!

—A chi?

—A voi!

—Ve do questa scarpa sulla faccia!

—Finitela, via.

—E io «ve faccio attastà sto» rasoio.

—Fuori di casa tutti quanti!

—Ma dica lei che è emigrato….

—Non sono emigrato.

—Senta lei che è giornalista….

—Non sono giornalista; lasciatemi stare, uscite subito tutti di qui, sono stanco dei vostri piati, andate a gridar in piazza e non mi seccate più in casa mia!

Ciò dicendo li spingo l'un dopo l'altro verso l'uscio, ed escono vociando tutti insieme fin giù per le scale.

—«Er regno de preti è finito»!—Non è la maniera «de» metter la gente in mala vista dei forestieri!—Non è vero…. il giuramento…. si resta senza pane….—È finito!—Ci rivedremo!—Giù le code!—Non è vero!

—Andate! Andate, che il diavolo vi porti!

E chiusa in furia la porta mi gettai sul seggiolone esclamando:—Pace! Pace,

O esacerbati spiriti fraterni!

Ah, buon Dio! Anche il 20 Settembre, visto dietro le quinte….

RICORDI DELLE CATACOMBE

(Venticinque anni dopo).

Ci andava innanzi lentamente, portando un cerino acceso e strascicando i sandali, un piccolo frate tarchiato, che in alcuni punti teneva quasi con le spalle tutta la larghezza del corridoio, e ci copriva con la sua ombra.

È violenta e triste la prima impressione che si risente discendendo dalla grande Roma piena di luce e di vita in quel freddo cimitero sotterraneo, dove sulla morte è anche ora passata la devastazione, e dove si vedon congiunti tutti i più tetri aspetti d'una cava, d'una grotta e d'una carcere. E si va innanzi a malincuore, nell'odore umido della terra, diffidando del suolo ineguale, e pensando con inquietudine che, se il frate sparisse, si perderebbe la lena alla corsa, e forse il lume della ragione, prima di ritrovare l'uscita. Ma, a poco a poco, quel labirinto di anditi angusti, quelle fughe di buche sepolcrali nereggianti nelle pareti come grandi bocche semiaperte, quei piccoli vani per gli uffizi del culto, dove i fedeli stavan raggruppati e stretti, come quando aspettavan nei circhi l'irruzione delle belve, attirano e soggiogano tutti i vostri pensieri. Se vi resta ancora un pensiero profano, cede anche questo alla vista della prima ampolla incastrata nel tufo, nella quale siete spinti a cercare le tracce del sangue che vi fu racchiuso, e quasi un ultimo fremito della vita che fuggì con esso dalle vene del martire, o svanisce alla prima lettura di una di quelle iscrizioni semplici e rozze: «Pax tecum», con accanto un nome di battesimo, che non vi par di leggere, ma d'udir profferire intorno a voi dalla voce sommessa di chi ha amato e sepolto chi lo portava. Il frate si soffermava a quando a quando per rischiarare la cripta di una famiglia, di cui è scomparso ogni avanzo, o nomi di pellegrini d'altri secoli incisi nelle pietre, o una grata sottile, dietro la quale, fra poche ossa biancheggianti, ci fissavano due occhiaie profonde, con quello sguardo immobile da mille e ottocento anni, che par che aspetti con fede invincibile l'adempimento d'una promessa. Ma più che altro ci arrestavamo a quelle buche mortuarie dei bambini, così strette, da parere che neanche un piccolo cadavere potesse entrarvi, se non spinto dentro a forza come un corpo ancora vivente e ribelle alla sepoltura. Ah, lì pure sono i bambini quelli che vi prendono al cuore, quei poveri piccoli cristiani messi a dormire l'un sull'altro, ammucchiati, quasi schiacciati, oppressi anche nella morte dalla terra, come eran stati nella vita dal terrore, e così lontani dalla luce del giorno e dal verde dei campi, rimpiattati, più che sepolti, come carne maledetta. E col sorgere della pietà vi cade ogni ribrezzo del luogo: una curiosità grave e reverente vi spinge innanzi per quel labirinto tenebroso; voi cercate con gli occhi gli epitaffi e i sepolcri come se non tutti vi dovessero essere ignoti; sentite a poco a poco come una stretta del vincolo che v'unisce ai morti che là riposarono, e il nome che essi ebbero comune con voi vi risuona nell'animo con un novo suono, dolce e solenne; vi guida sotto a quelle vôlte, infine, quasi un ricordo lontano di ricordi lontani, soavi e misteriosi, che vi passan per la mente affollati, senza forma di parola, come una melodia appena intesa. Quanto vi par lontana la capitale d'Italia! Ma più lontane di ogni cosa, quasi monumenti e mostre d'un'altra religione, le superbe basiliche dorate e le sfarzose carrozze pontificali, che avete visto poc'anzi, lassù, in quel mondo dove splende il sole.

*

Si discese a un altro piano di gallerie, e si riprese a andare, nell'ombra del frate. Il lumicino rischiarava di sfuggita anditi laterali, dove entra a stento una persona, e che svoltano nell'oscurità a pochi passi dall'imboccatura, altri anditi riempiti da frane di sabbia, ed altri incominciati a scavare, e lasciati lì; i quali s'allacciano forse a una rete di sotterranei più vasta. Si passa sotto a vôlte che vi fanno curvare la fronte; si discende per brevi tratti, come verso l'orlo d'un precipizio; poi si risale lentamente, si torna a discendere, si svolta e si risvolta, e par di tornare sui proprii passi e di riconoscere crocicchi, cubiculi, sfondi già visti; quando in realtà si procede. A volte, il suono dei vostri passi v'illude: vi par di sentir camminare altra gente davanti e dietro di voi, dei passi che s'avvicinano e s'allontanano, nei corridoi accanto, al piano di sopra, al piano di sotto, come di gente sorpresa che si sparpagli da tutte le parti, in punta di piedi. In altri momenti, quando il frate svolta un breve tratto prima di voi e rimane per poco invisibile, il fruscìo della sua tonaca e dei suoi sandali non vi par più il suo; suona come se invece d'andar oltre, si riavvicinasse, e vi balena alla fantasia un incontro miracoloso, l'apparizione di uno spettro di quella necropoli che v'aspetti alla svoltata, immobile e muto, e vi chiude il passo come a un miscredente sacrilego. E allora continuate a sognare, e vedete passar vagamente, lungo le pareti nere, al chiarore danzante della fiammella, uomini pallidi e austeri, capi curvati, visi estatici, occhi accesi di pianto e di speranza, che si fissano nei vostri con un'espressione di bontà ineffabile, gruppi furtivi di gente povera e umile, una confusione silenziosa di fanciulle, di vecchi, di servi, di gladiatori, di coloni, di patrizi, che vanno a passo lento, con le lampade d'argilla a la mano, e dileguano per gli ambulacri, come ombre; e pei lunghi anditi vi giungono all'orecchio salmodie di una dolcezza infinita, e dalle porte dei cubiculi singhiozzi di madri che adagian nella fossa i corpicini, dicendo con accento di sovrumana certezza:—Ti rivedrò! Aspettami in pace, figlio mio!—e sentite alle spalle i passi gravi e gli aneliti dei fedeli che portano i corpi lacerati dalle fiere, stillanti di sangue. Come dovevano amarsi! E come dovevano amare il loro Dio vilipeso, beffato, effigiato sui muri con un capo animalesco, pendente da un patibolo infame, quelli che davan la carne al fuoco e ai flagelli piuttosto di dire che non l'amavano! E intorno alle immagini loro si dilata e si rischiara al vostro pensiero quel labirinto funereo che vide tanti addii supremi, tanta rassegnazione, tanto dolore, tanto coraggio; sentite nella stessa riverenza amorosa, che la memoria di quei morti v'ispira, d'esser loro eredi e loro figli; ma con un senso acuto di rammarico,—col rammarico di non poter dare al servigio della vostra fede il santo amore della povertà e l'eroico disprezzo della vita con cui essi professarono la propria. L'immaginazione, frattanto, vi fa un singolare inganno in quel pellegrinaggio: il vostro pensiero, di là sotto, non risale già alla Roma attuale; quella che __sentite__ sul vostro capo è l'antica; sentite e pensate come se, risalendo all'aria aperta, vi doveste ritrovare fra gli splendori e gli orrori del regno dei Cesari; e quando vi s'affaccia improvvisa l'immagine dell'aula di Montecitorio, che avete fissato di visitar tra un'ora coi vostri compagni di viaggio, vi produce un senso così vivo di stupore, che del vostro stupore medesimo rimanete maravigliati, come d'un caso non mai provato di «doppia coscienza».

Si discende ancora a un altro piano, e da questo a un altro, in un'aria che vi par sempre più fredda, in un buio che vi par sempre più denso, in un nuovo labirinto di gallerie strettissime, che discendono e risalgono, e s'aprono in bivii e in crocicchi, e s'allargano in ambulacri e in oratori, fiancheggiate di loculi, di bisomi, di cripte, dove al raggio del lumicino vi appaiono altre ampolle di sangue, altri nomi di morbi, altri ossami ammucchiati, e altri occhi di teschi che vi fissano, con quello sguardo profondo che domanda ed aspetta. In alcuni punti i corridoi si restringono, le vôlte s'abbassano, tutti i vani s'impiccoliscono, e par che la terra stia per chiudersi su di voi da ogni parte e seppellirvi vivente; e allora vi prende un senso d'oppressione, e quasi un brivido di sgomento al pensiero di tutta quella solitudine oscura, di tutti quei cimiteri che vaneggiano l'un sull'altro al disopra del vostro capo, di tutti quegli anditi intricati, di tutte quelle fughe di sepolcri, di tutte quelle ombre informi che avete visto allungarsi sulle pareti, di tutti quei passi misteriosi che v'è parso d'udire, di tutte quelle occhiaie vuote che v'hanno guardato. Ma basta anche allora il nome di una fanciulla sconosciuta, con una rozza palma disegnata accanto, e quella semplice aggiunta:—Martire—scolpita a caratteri ineguali nel sasso, a rimettervi nello stato d'animo di poco prima, a ridestarvi tutto quanto di più dolce e di più luminoso avete sentito e sognato nei giorni più puri della fanciullezza davanti alla immagine grande e candida di Cristo. La vostra mente trascorre da quella in cui v'aggirate alle altre necropoli,—alle altre quaranta già dissepolte,—a quelle innumerevoli non ancora esplorate,—spazia per tutta la distesa e a tutte le profondità della enorme città sotterranea che ospitò milioni di morti e abbracciò la cinta di Roma, e sentite la potenza prodigiosa del soffio che di là sotto ha sollevato il mondo, e vi conforta un nuovo e grande pensiero.—Sì, v'è ancora nel mondo un amore immenso e una immensa speranza, nata da quella che raggiò nelle catacombe; la forza maravigliosa che si sprigionò da queste tenebre non è morta negli uomini: essa è solamente sparsa, o inconscia di sè, o compressa; ma si raccoglierà, e saprà, e si espanderà vittoriosa un'altra volta sulla faccia della terra, e rovescierà altri idoli bugiardi, e spezzerà altre catene scellerate, e innalzerà essa pure dei monumenti che sfideranno i secoli, e inneggierà ai suoi martiri nelle lingue di tutti i popoli, e celebrerà le sue vittorie con le feste più poetiche e più solenni che possa concepire la mente umana. Sì, la storia ricomincia, e gli anatemi ai nuovi credenti lo annunziano, perchè non son che un'eco affievolita e paurosa degli oltraggi antichi. «Exitiabilis superstitio rursus erumpit».

Questo pensavo, quando un soffio di aria viva mi percosse in viso, il lumicino del frate si spense e sfolgorò il sole….

FINE.