PROLEGOMENI.
Sarà, giorno più giorno meno, un anno, io ritornai a Roma dalla Calabria, ove avevo bevuto del buon vino di Sambiase e scritto alcuni miei pensieri intorno agli ultimi nefasti della novellistica italiana che a moltissima gente, anche non novelleggiante, erano parsi troppo scismatici. Figuratevi: appena disceso dal treno corsi a vedere i miei amici del Capitan Fracassa, e con maraviglia grandissima li trovai tutti furibondi contro di me. Celiarono, motteggiarono, mi dettero ridendo dell'asino, dell'imbecille; i più benevoli mi dissero affetto da un qualche subitaneo accesso di pazzia; e non mancò chi, chiamatomi a parte, mi ammonisse fraternamente di guardarmi dai sortilegi del mio buono e sperticato amico Angelo Sommaruga, il quale mi dimostrava, dicevano, d'avanti alla baracca bizantina a caprioleggiare per chiamar gente.
Come io accogliessi quelle celie, quelle canzonature e quegli ammonimenti de' miei migliori amici, non occorre dire: risi anch'io, tanto per fare qualcosa; e ritornando a casa la notte pieno di sonno e di stupore, mi persuasi che in Italia, ora, chi affermi che per scrivere qualcosa in lingua italiana sia necessario almeno di sapere la lingua italiana, fa la figura di don Quijote visionario di cavalleria nella Spagna di Carlo V e di Filippo II. E poichè l'età e un naturale sconcerto dell'organismo mi traggono ai cimenti d'un caballero andante, mi piacque di fare il don Quijote della novissima letteratura italiana, senza lasciarmi dissuadere dal primo incontro dei molini a vento.
E la seconda avventura non fu meno terribile della prima, poichè certe mie opinioni ereticali intorno al dramma moderno parvero così goffamente serpentesche al marchese D'Arcais e a tutti gli altri ultimi credenti nella grandezza del teatro, che invano, per più notti consecutive, io mi sfiatai a confortare le mie affermazioni pubbliche di molte dimostrazioni private. Ridevano quei maledetti, e mi chiamavano il Coccapieller della letteratura italiana; e per sino il mio buon amico Arnaldo Vassallo, che non ha dubitato di collocare la Mecca in Africa e di annegare l'amico di Ero nello stretto di Messina, rinfacciandomi di essere stato bocciato nell'esame di geografia, mi ammoniva che chi non sa molto sicuramente le divisioni e la nomenclatura del sistema alpino non può sentenziare di cose drammatiche. Allora io, ritornando ostinatamente su quel medesimo argomento, pubblicai questo brano di prosa che parve una spavalderia, e non era se non un proponimento:
«La Cronaca Bizantina, tra gli altri titoli grandi all'amore di chi la scrive e alla gratitudine universale, ha questo: che tutte le cose pubblicate e tutte le opinioni manifestate in essa trovano nel pubblico dei lettori una larga cerchia di discussione. I nostri tavolini sono tutti ingombri di lettere protestanti contro la bestialità delle nostre novelle e contro la feroce violenza della nostra critica; e ogni volta che qualcuno di noi esprime con le parole o col fatto i suoi intendimenti d'arte, gli abbonati e gli amici lo assaltano da tutte le parti. Buon segno questo, poichè gli abbonati alla scadenza rinnovano l'associazione, e poichè l'amicizia non è menomata dall'impeto della critica; e noi, a traverso gli assalti e le proteste, con le parole e coi fatti seguiteremo a esplicare e a propagare questi nostri convincimenti, che in Italia il gran cadavere delle arti letterarie non possa risorgere ove non lo susciti dal sonno della morte lo squillo di tromba della coltura rinnovata; che il punto di partenza della futura arte italiana debba essere quello appunto a cui, dopo una lunga evoluzione, pervenne in Germania il Goethe; che chiunque prenda in mano la penna per scrivere, sia pure la cronaca d'un giornale, sappia quello che fa e perchè lo fa, e come prima di lui in Italia e fuori d'Italia gli altri fecero quello che egli si propone di fare; che il canone universale, in fine, sia il concetto della Weltliteratur, così bene intuito dal Goethe e così mal predicato dai fratelli Schlegel.
«Per queste nostre opinioni, nate da un esame non breve di molta parte della letteratura moderna, noi combatteremo con tutta l'ardenza del nostro spirito, senza riposo e senza quartiere; poichè, in fine, noi vogliamo una cosa onesta e savia e patriottica insieme: noi vogliamo che l'arte dell'Italia nuova, monarchica o repubblicana o nihilista ch'essa sia per essere, si liberi dall'abbietto vassallaggio francese che la tiene più forte di quanto la servitù della gleba tenesse l'Italia antica.
«Perchè questa persuasione entrasse nelle menti e guidasse l'opera dei molti che mostrano attitudine a far cose belle e buone, basterebbe che costoro sapessero un poco di storia e di letteratura europea; sapessero, sopra tutto, di storia e di letteratura italiana e francese. Ma poichè così non è; poichè in Italia chi consiglia una cosa utile è reputato peggio che pazzo; poichè il titolo d'una raccolta di novelle indiane move al riso una folla di scrittori che lo apprendono dalla Cronaca Bizantina, è segno che il male è serio e che non basta accennarlo fuggevolmente. No, accennarlo non basta; ma è necessario ritornarvi sopra ostinatamente, e dichiarare e dimostrare parte a parte tutti i sintomi del male. Tanto meglio per noi: il nostro campo di combattimento si allarga. Non si faranno più delle corride di tori, come pel passato, ma ce ne andremo pel mondo in traccia di avversari e di mostri. Forse noi abbiamo nelle vene troppo sangue di caballero andante, come don Quijote, ma certo non abbiamo terrore dei molini a vento. Da oggi innanzi la Cronaca Bizantina diventa un campo aperto.
«Noi non tenteremo più l'impresa di Roncisvalle, poichè lo squillo del corno lacera troppo gli orecchi, ma diventiamo i tenitori dello steccato: tutti i libri che si pubblicheranno, tutte le comedie e tutte le tragedie che saranno rappresentate, noi le assaliremo singolarmente ad armi cortesi, dacchè le armi di guerra e le mischie in massa si vogliono proibite, o le leveremo sugli scudi, come la nostra coscienza e i nostri criteri d'arte ci consiglieranno.
«Poichè noi in fine non ci proponiamo di assaltar la gente ai crocicchi dei boschi con le coltella tra mano, ma vogliamo in ogni modo persuaderla di una verità santa e dolce al nostro amor proprio nazionale: che la letteratura francese moderna, della quale noi ci compiaciamo, nella quale noi ci specchiamo da venti anni, è una cosa mediocre artifiziosa e moritura; e che, se noi vogliamo rivedere qualche ombra d'arte levarsi alta prima della fine dell'arte, dobbiamo stornar la vista dalle Alpi. Guardate: mentre noi stiamo tutti intenti alla bella meccanica dell' Odette, le forze comiche rampollate dall'effervescenza caustica della nostra fantasia popolare si disperdono o tralignano. Guardate: noi andiamo ad ammirare al Valle gli sbalzi di pantera della signora Duse in mezzo ai dinoccolamenti di cinque o sei marionette, e sul palco scenico del Metastasio Pulcinella imbastardito canta un'arietta francese.
«Noi ci mettiamo a una battaglia rude, con poca speranza di vittoria, suscitandoci contro molti malumori quando più avremmo bisogno di benevolenza. Ma non importa: purchè quei criteri che ho accennati in principio prevalgano, lasciamo pure che i vecchi appendicisti teatrali ridano della nostra inesperienza scenica e del nostro furore di combattimento. Noi siamo i don Quijote della critica, e ce ne congratuliamo con noi medesimi; poichè, mentre tutti quanti gli ideali umani nella Spagna, in Italia, in Francia, in Fiandra, nel Messico cadevano gelati dal risetto maligno di Carlo V imperadore, si levò don Quijote a rappresentare l'ultimo palpito di un ideale.
Sarà un'aberrazione, e le Società per la tutela ecc., seguiteranno a spandere molti quattrini per far tradurre molte comedie francesi: ma che volete? Noi non ci sappiamo rimovere dalla nostra persuasione, e, checchè sia per accadere, non scriveremo mai i due brutti versi di Gian Giorgio Trissino:
Maledetto sia il giorno e l'ora e 'l quando
Presi la penna e non cantai d'Orlando.
Le promesse, non le minacce come qualche bell'umore volle dare ad intendere, furono, questo libro lo dimostra, tenute. Io mi aggirai, pazzo cercatore di ventura, fra una turba che da prima mi guardava scompisciandosi dalle risa, poi cominciò a scaraventarmi addosso torsi e torsi e torsi di cavolo. O bei torsi di cavolo verdi e nodosi onde le schiene mie giovenili furono consolate! Chi li potrebbe noverare, o almeno classificare per categorie? I miei più cari amici me ne lanciarono con tutta la forza dei polsi, reputando in buona fede di fare opera di misericordia. I lontani dicevano e stampavano ch'io fossi un ragazzaccio che voleva far del chiasso con la facile infamia della diffamazione; i conoscenti miei, vedendo con gli occhi propri quanto io fossi nemico del chiasso vacuo e ozioso e quanto poco esso conferisse alle mie speranze e alla mia personale ambizione, arguirono ch'io fossi un mattoide.
E forse costoro hanno ragione; poichè non si può, senza presupporre un qualche guasto cerebrale, concedere che un uomo, il quale facilissimamente, col solo permutare in superlativi laudatorii alcuni peggiorativi della sua prosa, potrebbe diventare il prediletto di tutti gli scribacchiatori d'Italia e conquistare una bella fama di ragazzo miracoloso, per uno stolido e monomaniaco feticismo dell'arte si rassegni ad accumulare sopra il suo capo una così fiorente mèsse di vituperi e di disdegni e di canzonature. Comunque sia, quando io dalle sfere serenamente luminose de' miei primi studi discesi in mezzo alla nebbiuccia sporca della letteratura odierna, e abbandonai Omero e Goethe, Aristofane e Molière, Orazio e Heine per il signor Rapisardi, per Salvatore Farina, per Paolo Ferrari, proprio mi ritrovai nella pelle di don Quijote escito di fra i suoi romanzi d'avventura ai piani della Mancha. Io, per dichiarazione de' miei giudizi drammatici, ricordavo Eschilo o Shakespeare o Goethe, e i cronisti teatrali mi ridevano sul muso; citavo il Decameron, e i novellatori spiritosi mi ammonivano che il Boccaccio è un mito.
Così non mai disegno di legge per un aumento d'imposte fu con tanto vario e concorde accanimento combattuto e vilipeso, quanto questo libro man mano che appariva nei giornali. Nessuno mostrò di avvedersi che le cose dette da me erano gli elementi della più volgare erudizione e le fondamenta del più comune buon senso; ma gl'ignoranti di qualche ingegno mi presero per uno strano pedante che pretendesse d'imporre loro un programma d'insegnamento, e gli eruditucoli cretini mi vollero far passare per un ciarlatano che tentasse a furia di parole cabalistiche di conquistarsi fama di erudizione in paese di barbari. Anche non mancò qualche stupido (l'ultimo è stato un gaglioffo marchigiano sudicio e zazzeruto come un Fariseo di Heine) che denunziasse me — proprio me! — come il tamburino d'una fantastica oligarchia letteraria. Ecco che cosa si guadagna a fare il don Quijote! Vede ora il Dottor Verità che sarebbe un gusto da cane idrofobo posare per critico antropofago in conspetto del popolo?
No, caro Dottor Verità. Per quanto io mi diletti meco medesimo di tutti questi torsi di cavolo che mi piombano da ogni parte, non posso reggere all'amarezza di vedere il pio Giacinto Stiavelli affannarsi a cercare un qualche modo di farmi dispiacere, e affastellare, con grave danno del suo officio d'impiegato governativo, bibliografie sopra bibliografie per potere avventarmi di straforo qualche torsoletto accidentale col metodo dei Parti lanciatori di frecce. Non posso, senza scoppiar dalle risa, vedere due bravi giovinotti, i quali hanno l'abitudine di tagliuzzare in tanta carne da salciccia tutti quelli che non cantano la gloria dei loro sterili sudori di copiagione, e questa ciccia così stranamente tagliuzzata e pesta insaccano in certe loro parentesi tonde come il loro cervello o quadre come la loro persona, tentare la medesima gherminella contro di me. E via, o salcicciatori vilissimi! Che diavolo volete voi tagliuzzare? Non vedete che io non ho sopra le ossa dure tanta carne da fare una mortadella? Non vedete quanto siete ridicoli? Voi avete la testa di piombo e i piedi di creta, e tra il piombo e la creta l'invidia di voler fare anche voi ad ogni modo qualcosellina memorabile ha eroso un cavo, ove il canchero della vostra imbecillità dorme un sonno fatato, aspettando invano un qualche risvegliatore. Che Dio perdoni a Giosuè Carducci di aver chiamato i giovini d'Italia alle biblioteche e agli archivi! Egli, primo, ne porta le pene, poichè gli tocca di soffrire la fastidiosa prosopopea di certi sciocconi, i quali credono in buona fede che basti ricopiare una qualunque cosa inedita per ascendere le più alte vette della sapienza e dell'intelligenza umana. Tali sono, naturalmente, i due bravi norcini che mi hanno mosso a questo discorso. Costoro sono stati, fra tanti altri giovani veramente degni, scelti a insegnare filologia romanza in due Università italiane, poichè dura tuttavia in Italia e prospera la tradizione di quel ministro, che non avendo pronta alle domande d'un garzone farmacista una catedra di storia naturale, glie ne dette una di sanscrito. È naturale che questi due bravi giovinotti, vedendosi così singolarmente segnalati fra tanti migliori di loro, abbiano fatto nel cavo della loro testa plumbea questo ragionamento: se hanno data a noi una catedra universitaria quando non potevamo onestamente sperarne una di ginnasio, è certo che noi abbiamo un qualche straordinario merito che ci fa degni di tanto favore; e poichè noi nella grande miseria della nostra gioventù non altro abbiamo fatto se non ricopiare a stampatello e parte anche in corsivo con inchiostro d'anilina e non senza qualche sproposito i sonetti del Pecora, è indubitabile che per essere in Italia insegnanti e critici di filologia romanza una buona dose di pecoraggine sia indispensabile.
Io sono presidente, dunque suono il campanello, diceva il marchese Colombi; ma questi due sono più colombi del marchese Colombi, e hanno detto: noi soniamo il campanello, dunque siamo presidenti. E si son messi a salcicciare.
Se non che io non sono disposto a lasciarmi assassinare nel trabocchetto d'una parentesi quadra con le armi insidiose di due punti ammirativi; e denunzio all'Italia che due professori di filologia romanza eletti senza concorso non hanno neppur letto il compendio di storia letteraria provenzale del Bartsch, poichè pare loro uno sproposito ammirando dire che la Francia meridionale, se bene ebbe dei rifacimenti e qualche nativo virgulto rampollato sotto i passi di Carlo Martello dai campi di Poitiers, non fu veramente epica; e ignorano pienamente la storia della liturgia cristiana, poichè, se avessero saputo che il canto liturgico in Grecia contrappose la ritmica semitica alla metrica classica pagana; se avessero saputo che in Italia questa forma di opposizione fu più facile e più manifesta, perochè la liturgia trovasse nei canti popolari latini degli ausiliari contro la poesia classica e pagana, udendo proporre il desiderio che si ricercassero da qualcuno più competente di me e di loro le influenze che nelle nuove forme metriche può avere avuto la ritmica siriaca ed ebraica, non avrebbero fatto quella mossa di meraviglia pietosa da villani che, per parer furbi, ridano sul naso di chi parli loro del telefono.
Ma questi asinelli che vogliono celare la scioccheria loro sotto la pelle del Pecora non sono nè pur furbi, se bene son villani assai. E perchè sono stufo dei molini a vento, saluto caramente questo grosso signor Renier che mi pare un canonico officiante a cui il piccolo signor Novati agiti d'avanti il turibolo salmodiando in gloria con quella sua vocetta blesa che sembra impastata di sorbe acerbe e di succo di barbabietole, e passo oltre, senza badare a tutti quelli che da Milano e da Potenza, da Roma e da Meina, da Napoli e da Santa Maria di Capua, da Palermo e da Nocera dei Pagani mi hanno gridato e mi gridano tuttavia la croce addosso.
Solo, prima di raccogliere le vele, sento il dovere di rendere le più vive azioni di grazie ai due ultimi miei frombolatori, un maschio e una femmina. Sì, anche una femmina, poichè io non solo sono stato lacerato dai cani come Atteone, ma come Orfeo sono stato dilaniato dalle Menadi. Il maschio è un tal Dario Papa, del quale io non so altro se non che accompagnò Ferdinando Fontana in America, e che, chi sa perchè, ha voluto contro ogni norma di buona creanza e di delicatezza cacciare il naso in una mia question personale, ristampando una lettera provocatoria del deputato Cavallotti; cosa tanto più strana, dicono quelli che lo conoscono, quanto più questo Dario è codino e nemico del deputato Cavallotti. Ma a me, già, ne toccan di tutti i colori. La femmina è la signora Adele Bergamini, una generosa erede della scuola romana, che agli illustri italiani di tutte le scuole è stata cortese amica; e a me aspra dì critiche fierissime! Vedete, o Dottor Verità, che cosa si guadagna a fare il don Quijote?
E ora basta. Da questo libro appare come io abbia fatto pochissime questioni personali; e quelle pochissime trattovi a forza. Ora prendo tutto il fascio delle armi, e lo butto in un cantone; e mi abbandono senza difesa agli assalti dei cani, e alle rappresaglie. Il soverchio ardore della mia prosa procede dallo sdegno di vedere tante buone forze perdute per manco di proposito e per incertezza d'indirizzo: anche io speravo di scotere con qualche fanfaronesco ma opportuno fragore di ferri questa generazione italiana che se ne sta, come le rane di Esopo, in mezzo al pantano della santa ignoranza, dondolandosi nella contentezza di sè medesima, acclamando ai re travicelli della critica opportunista e laudativa. Ma questa speranza, pare, era pazza, poichè tutte quante le rane mi si son levate contro crocidando, e invocando le vendette di Giove sul mio capo.
O Giove Ottimo Massimo, tu che solo vedi come io sopra questa moltitudine di batraci abbia ragione; tu che solo intendi ed approvi lo sconsigliato e scomposto impeto cavalleresco di amore per la dignità e per la serietà dell'arte che mi ha sospinto a questa strana impresa, io non voglio che questo crocidamento ti dia oltre fastidio. Io dichiaro a te, poichè delle rane non mi curo, che non ho mai voluto mangiare nè un poeta, nè un romanziere, nè un dramaturgo — troppo mi sarebbero ingrati al gusto e allo stomaco; — che delle mie furie non ho inteso fare un mestiere, ma un libro. E il libro, eccolo. Scritto saltuariamente, come l'occasione invitava, e scritto in grandissima parte per uso di giornali, è tumultuario, è ineguale, è, soprattutto, superficiale: ciò che solo ha di buono, è l'intenzione. Comunque, io lo lancio arditamente in mezzo al popolo d'Italia, poichè in questa prosa fervono i più vivi e più caldi entusiasmi della mia gioventù; e se bene esso pare pessimista e nihilista, vi arde per entro il fuoco sacro d'un desiderio immenso, il quale io, a mio rischio e pericolo, ho voluto propagare fra tutta la presente generazione: che il senso e l'amore dell'arte in Italia rinascano liberamente e largamente, e che le fonti della coltura moderna, chiuse dagli argini dell'erudizione gelosa ed egoista, trabocchino a fecondare tutti gl'intelletti capaci di fertilità.
Il concetto mio, in fondo, è romantico; e poichè dalla storia del romanticismo ho anche appreso a confortare le parole con gli esempi, lascio qui le teoriche e le micromachie, e salgo a un cielo più luminoso. Le rane dormano in pace: io voglio dar loro larga materia di rappresaglia. E mi dilungo per sempre da questo pantano, onde io mi auguro sia presto per rampollare una più felice vegetazione, contando sotto l'arnese le ammaccature come il cavaliere dalla trista figura, ripetendo meco medesimo questi tre versi di Giovanni Antonio Du Bellay:
C'est estre fol que d'estre sage
Selon raison contre l'usage.
Ceux qui m'entendent m'entendront.
Roma, 20 novembre, 1883.
E. S.
I. LE TERRE BARBARICHE.
Per le rovine di Ostia e per la patria — La vecchiaia di Victor Hugo — Contro il romanzo sperimentale — Le novelle tedesche.
I.
O le rive del Tevere, di là da San Paolo, sino alle bocche di Ostia e di Fiumicino! Io non ho mai navigato l'Addua cerulo tra i rosei fuochi del vespero, e non so se altri fiumi d'Italia siano più lieti o più chiari o più erbosi del Tevere; ma discendendo a questi meravigliosi giorni di ottobre la corrente tiberina con una compagnia di vogatori e di poeti, seduto a prua con le spalle rivolte al maggior poeta e la faccia al sole nascente, ho sognato il mio ultimo sogno autunnale.
Passato sotto il giogo dell'ultimo ponte, il sacro fiume del Tevere si riallarga usurpando dalle paludi e dai campi un maggior alveo. La sua opera lustrale è compiuta. Purificata Roma con le acque derivate dall'Umbria, corre a morire solennemente nel mare; e quella opacità sua bigia e tranquilla dà l'imagine d'una sonnolenza secolare, non potuta turbare dai tumulti di guerra che s'addensarono a queste rive. La barca, sospinta dai vogatori, filava nel mezzo della corrente: i poeti a poppa, ammirati, contemplavano. Già il tempio di Vesta, vituperato dalla bestiale irreverenza dei nepoti, era scomparso: per tutto intorno non altro si vedeva che il cielo e la campagna e il fiume, questi tre testimoni delle leggende italiche armonizzati insieme, come tre toni concordi, in una mite larghezza di linee. Io guardai il Tevere inconscio e il Carducci, il più caldo e più amoroso celebratore dei fiumi italici, che navigava meco al porto di Ostia. E pensavo quanto vigore di salute e d'italianità i presenti mingherlini operai del verso e della prosa potrebbero dedurre da un grande amor fluviale. Al remo! al remo! questa generazione di rachitici, che si affannano faticosamente come un popolo di formiche sulla steppa sterile in traccia dei granelli dell'arte. Un esercizio di galera rafforzerebbe i muscoli di questa gente filacciosa; e lo spettacolo dell'Aniene traboccante tra i salici nel Tevere, tumultuario e sonoro e italico come quando l'antico pastore si recò alla capanna nella cesta di vimini i due gemelli fondatori, e lo spettacolo del padre fiume abbracciante l'isola sacra innamoratamente, come se ancora sonasse sotto i passi d'un coro di vergini, richiamerebbero un senso di pudore per l'incuria presente e il desiderio d'un maggiore studio alle memorie della patria. Altro che acque di Montecatini, e bagnature livornesi! Io vorrei vedere questi che cercano materia d'arte e non ne trovano, questi che tentano invano il palpito della vita nei polsi della patria arrancare sino alle bocche di Fiumicino e rompere col petto il Tevere a Ponte Milvio. Cercano la vita mobile della città? E io ho menato Giovanni Verga dal porto di Ripetta a San Paolo, e l'ho fatto navigare tra la vecchia Roma papalina ed ebrea, che spande al sole tutti i suoi cenci fetenti, che versa nel Tevere tutte le emanazioni de' suoi cessi. Cercano il libero trionfo della natura? E io ho mostrato a Giuseppe Giacosa il sole calante dietro Monte Mario, che con quei cipressi dritti in sulla fronte pare un'acropoli fondata per difesa del sacro fiume. Anche ho guidato una donna sull'Aniene; ma le femmine non intendono e non sentono nulla. Io mi son fatto navicellaio per amore dell'arte, e voglio traghettare tutta la letteratura italiana al Teverone o ad Ostia. Qui venite, o voi che ricercate nei romanzi francesi la parola dell'arte; e qui apprendete il senso della patria. Ogni fiume, ogni monte, ogni mare d'Italia vi apprenderà qualche cosa; e non cercate avventure nelle terre barbariche, prima di avere esplorata la patria. Voi siete come una nidiata di pulcini irrequieti, che non avendo ancora nè il becco nè le ali potenti vi avventate fuori dal nido ai campi lontani. Dove diavolo andate a parare? Intorno a voi è tutta una mèsse matura, e volate in cerca di granelli non sicuri, in paesi non fertili? Imparate a beccare, per dio! e non vi buttate giù dall'albero nativo sprovvedutamente. La conquista del mondo è bella; ma i nostri padri più savi avventurieri di noi cominciarono dall'assicurarsi il possesso della patria. Correte ai monti, ai fiumi, alle biblioteche d'Italia; e se non siete buoni nè di vogare, nè di imparare, nè di amare la nostra terra e la nostra vita, empite le barche di vostri faticosi volumi; e annegatevi con essi insieme.
Queste cose io pensavo, guardando; e d'improvviso, a un gomito del fiume, un branco di cavalle libere beventi con le zampe fisse in sulla riva e i colli distesi all'acqua, si scoperse alla vista. Il Carducci, non più tenuto dall'etichetta officiale, era ritornato barbaro e maremmano e giovine, e, dritto a poppa, con gli occhi lampeggianti di contentezza accennava esclamando altamente. Poi di nuovo le rive boscose fuggirono dietro di noi permutando con varietà infinita la scena; ed ecco, Maccarese ci apparve così fresco, così verde, così bello nel selvaggio deserto delle sue paludi, e i bufali non mai aggiogati ci contemplarono con un tanto strano sentimento amichevole, che il tempo presente pareva fuggisse con le sponde del fiume, e noi navigassimo alle prische età italiche. E bevendo col vino di Gabriele d'Annunzio al nume del Tevere, facemmo, senza versi, un'ode barbara; e gittando alla corrente le bottiglie infrante, mi tornava nella memoria il marchese Colombi, che ha sudato più settimane per dimostrare ai lettori del Pungolo come la poesia del Carducci sia poco moderna. Al remo, al remo anche voi, o gioviale marchese! e che un anno di galera tiberina vi faccia una volta intendere la modernità, e la barbarie!
Intanto, Ostia si dimostrava da lunge: Ostia solitaria e selvaggia tra il bosco e la palude, che specchia nel fiume le sue magnifiche rovine, magnifiche singolarmente perchè non violate dalla vigilanza dei pizzardoni o d'altra qualunque più indegna custodia officiale. E, discesi tutti a terra, e andando per quello stupendo stradone fiancheggiato dagli avanzi dei magazzini antichi, io pensavo in me medesimo non fosse forse opportuno picchiar forte con le larghe lastre del basolato sulla cervice dura degli ultimi nepoti latini, per inculcarvi il rispetto e l'amore degli avi costruttori di quei docks e di quel teatro, a cui ora mugghiano i bovi mezzo selvaggi e s'appressano, guardinghi, i polledri male domati. E ritornando a quel pensiero, mi pare ch'io non avessi torto, e che qualunque più illiberale e violento modo di propagare fra la gioventù presente l'amore della madre patria si avesse a celebrare come opera santa. A poco a poco, un egoismo piccinino e bestiale ci vince, e ci adagiamo volentieri nella contentezza della nostra miseria presente per odio d'ogni fastidio e d'ogni fatica, come i contadini di certe regioni italiche s'appagano d'un nutrimento di patate, pur di poter stare distesi per le piazze a non far nulla. Per qualche tempo il rinato desiderio dell'indipendenza nazionale fu agli italiani stimolo potentissimo a ricercare le tradizioni patrie, e a richiamare e celebrare ogni gloria passata: ora, fatto l'ultimo sforzo, ci siamo abbandonati come stanchi a una strana incuranza, a una trista incuriosità della vita anteriore del nostro popolo. Le correnti dell'attività italiana vanno sensibilmente scemando; l'indolenza naturale di nuovo ci domina e ci fiacca; la politica, l'industria, la coltura nazionale, queste grandi forze che sospingono le genti su per la scala dell'evoluzione progressiva, stagnano.
Noi abbiamo ora un ministro dell'istruzione pubblica fanatico per l'archeologia, e tutto penetrato da un caldo senso di romanità, e lo stato delle nostre scuole ci ammonisce tristamente che la gioventù d'Italia sempre più abborre dallo studio, e che non pure essa esce dalle scuole ignorante in tutto di lingua e di letteratura greca, ma pienamente innocente d'ogni peccato di coltura italiana e latina. Or non è questo un segno, e insieme una causa irreparabile, di rovina? Onde le generazioni che vengono su dovranno educare e rafforzare quel natural senso d'amore per la razza propria e per la patria che è in tutti gli uomini? I ragazzi d'Italia leggendo le tragedie alfieriane dicono che quella è retorica, e ripetono una qualche conversazione del dottor Verità contro il dramma storico; se poi sanno il francese, spegnendo il sigaro ai muri del liceo prima di entrare in classe, dimandano ridendo: — Qui nous délivrera des Grecs et des Romains? E credono di aver fatto una bella prodezza, presentando al maestro una traduzione da Tito Livio copiata in qualche provvida biblioteca.
Le relazioni officiali, sebbene ogni anno si rinnovino i relatori, concordano nel certificare un peggioramento continuo. Per qualche anno fu relatore il Villari, e tanto era pessimista l'opinione sua collettiva intorno allo stato della nostra coltura scolastica, che fu tacciata di esagerazione. Quest'anno la pena della relazione è toccata al Tabarrini, uomo, come tutti sanno, indulgente all'ottimismo e confidente nell'avvenire della coltura patria: ebbene, il giudizio suo è stato anche più severo di quello del Villari. Anche egli ha dovuto apertamente, con molto dolore, confessare che la coltura classica nelle nostre scuole è in un deperimento miserabile, e che la gioventù di Italia dopo otto anni di studio esce dai licei senza sapere la lingua italiana.
Onde questo proceda, e come, e perchè, sarebbe troppo lungo, e doloroso, e forse non utile nè onorevole a dire. La ruina delle nostre scuole si riallaccia logicamente a una universale ruina dello spirito italiano. L'ideale dello studio e il diletto del sapere vanno di giorno in giorno cadendo e disperdendosi sotto il bel sole italico. Le generazioni venute su dopo il '60 si sono adagiate mollemente al rezzo dell'albero della libertà; e con le mani al ventre e gli occhi intenti alle belle ghiande d'oro che stan sospese tra il fogliame, si cullano e si dondolano e si addormentano in una beatitudine accidiosa. Essi non sanno nulla e non vogliono saper nulla e di nulla si curano che non sia il conseguimento immediato di lor piccoli e brutali desidèri: essi non sentono più dentro l'involucro organico smaniare lo spirito inquieto di levarsi su, su, su, fuori della volgarità comune. Essi stanno bene giù nel ruscello della strada, all'ombra di quell'albero conquistato dai padri. L'ombra è bella e folta, e le ghiande dall'alto lusingano assai. Perchè moversi, perchè togliersi a quell'annichilamento volontario di sè medesimi tanto dolce, tanto dolce?
Così tutta l'Italia, in fatto di coltura generale, è in una condizione veramente infantile: intorno ai quattro o cinque o sei, i quali per la sicura e larga erudizione e pe'l contributo veramente efficace che recano allo sviluppo generale del sapere sono più che italiani, ci è una immensa moltitudine d'ignoranti, alla quale manca, non so dire se la volontà o il modo d'imparare. Gli spropositi detti nel Congresso letterario di Roma dell'anno scorso, e detti impunemente, in pubblica e numerosa assemblea di persone facenti professione di letteratura, furono tali da fare inorridire; le risposte date da uno che passa pe'l nostro meno misero scrittore teatrale a chi lo interrogava intorno all'origine e alla prima storia dei manoscritti miniati meritavano una qualche severa pena corporale; gli errori incredibili intorno alle materie di più volgare erudizione, onde sono seminati i discorsi dei più reputati produttori d'arte, non si possono numerare. Di qualunque argomento si tratti, chi ha occasione di partecipare ai ritrovi degli scrittori odierni non può resistere al bisogno di qualche escandescenza violenta. Mancano le nozioni più elementari e più necessarie, mancano i criteri più comuni: pare, alle volte, parlando con qualche edificatore di comedie o di critica o di romanzi, di essere davanti alla statua bruta pensata dall'abate Condillac per risalire all'origine della percezione sensitiva. L'esperienza del passato e del presente non immediatamente sottoposto alla visione dei sensi, non esiste. Con quali mezzi dunque e con quali speranze ci affanniamo noi fastidiosamente alla ricerca di un qualche lontano porto di salute, d'una qualche non visibile terra promessa, ove dai tralci giganteschi pendano i grappoli intatti per la vendemmia d'una nuova arte italica? Se non sappiamo ciò che è dietro di noi e intorno a noi, a quali mari vogliamo noi navigare?
Noi abbiamo, e quando dico noi comincio naturalmente da me, noi abbiamo bisogno, sopratutto e prima di tutto, di manuali. Noi siamo, dicevo, in una condizione di coltura veramente, e senza alcuna esagerazione, infantile, e dobbiamo rifarci dal sillabario. Buona parte della letteratura italiana, non saputa o saputa male, è stata in questi ultimi anni, per virtù di quei cinque o sei, messa o rimessa in luce; ma a che queste nobili fatiche possono giovare, quando di tutto quanto il nostro patrimonio letterario la massa del popolo non sa nulla? Di più, quel lavoro di escavazione reca in sè medesimo una causa di danno; poichè fa prevalere questo sciocco criterio, che ogni disotterramento o ripulimento sia un'insigne opera di critica; e alletta gl'imbecilli, impotenti non pure a pensare qualcosa col cervello proprio, ma ad acquistare il senso della selezione critica; a discreditare il metodo della ricerca scientifica con loro pazze facchinaggini di amanuensi. Per queste considerazioni, nelle quali ogni persona di buon senso vorrà pienamente accordarsi meco, io ritorno sicuramente all'affermazione mia, che, augurandoci il numero dei ricercatori intelligenti e sapienti, cresca intorno al Carducci, al D'Ancona, all'Ascoli, al Comparetti e a tutti quegli altri che della escavazione e della ripartizione del nostro materiale letterario non fanno un ozioso e pomposo e noioso esercizio di calligrafia per soddisfazione della propria piccina vanità vile, si cominci una volta a pensare ai bisogni primi delle masse, e si dichiarino gli elementi della coltura moderna. Poichè nella letteratura moderna, e non solamente in Italia, si può osservare un fatto tristissimo: che in arte, come nella scienza, accade da qualche tempo un frazionarsi del materiale, e un isolarsi degli scrittori ciascuno nel frammento attribuitosi. Non pure tutte le forme dell'arte si distaccano le une dalle altre, e si segregano con distanze insuperabili, ma ogni forma si frantuma in tante particelle minori che anch'esse pretendono di vivere ciascuna di vita propria indipendenti le une dalle altre. Così ogni faccetta della vita chiama un osservatore che la indaghi per ogni molecola più minuta, e che non passi i confini della propria piccola estensione. Or non sarebbe qui opportunamente ammonitrice la favola di Menenio Agrippa? Il primo segno del disfacimento è appunto il disgregarsi delle molecole organiche.
In vece, quando più si risale alle grandi tradizioni dell'intelletto umano, si trova non pure una universale coerenza di tutta quanta la vita alla intuizione dell'artista, ma una concordia meravigliosa di tutte quante le forme dell'arte. Pensate a Dante trascorrente in trionfo dalla lirica all'epopea, dalla musica alla retorica, dal racconto delle proprie impressioni d'amore al comento delle proprie canzoni scientifiche; pensate al Machiavelli tentante con pari fortuna l'opusculo politico e la comedia, la storia e la novella, il libro didascalico e la critica; pensate infine ai nostri artisti del Cinquecento, che in un sol lume d'intelletto abbracciavano tutte quante le arti plastiche, e qualche volta anche la poesia.
Ma, nel disgregamento dell'arte ci è un'altra ragione di miseria e di decadimento; e sta nella diminuita necessità di coltura che ne segue. Quando l'artista si delimita un piccioletto cantuccio di terra, e là zappa, e là vanga, e là semina senza riguardo delle altre terre che gli fruttificano intorno, l'opera sua è così ristretta in una angustia di confini, è così stabilmente determinata e regolata, che diventa quasi un lavoro meccanico, come di quegli operai che passano la vita a girare la medesima manovella d'una medesima ruota d'una medesima macchina; e ogni necessità d'ogni altra esperienza non immediata cessa. Ora, un'arte che mena fatalmente all'ignoranza più bestiale e al più miserabile impoverimento dello spirito, può essere seriamente considerata come fruttifera e sana?
Questo può parere in contradizione con ciò che ho detto in principio; e tutte le volte che ho saltuariamente propagato questi criterii elementari, mi hanno mosso due accuse contradittorie: di poco o nessun rispetto alle tradizioni della patria, e di fanatismo indigeno, anzi territoriale. E sono ingiuste.
Per intenderci, bisogna premettere: che in questo libro si discorre della più recente letteratura italiana, la quale è una materia bruta, fabbricata penosamente da operai deficienti d'ogni preparazione, e quasi inconsci, poichè di chiaro non hanno se non, dopo le prime prove, il senso della inutilità di loro sudori: i quali non sapendo la letteratura della patria, e non potendo in conseguenza rifare per proprio conto tutta la strada percorsa dall'evoluzione dell'arte, fanno come quei corridori fiacchi che aspettano a mezza strada i più forti; e, al sopravvenire di questi, anch'essi si lanciano. E poichè i corridori più agili negli ultimi tempi non sono stati italiani, gl'italiani presenti attendono al varco tutti gli stranieri che galoppano via innanzi agli altri. Questo libro dunque si propone di richiamare la parte più intelligente e più ignorante d'Italia a raccogliersi in sè medesima per vedere se, a poter concorrere nella universal lizza dello spirito europeo, non siano necessarie due cose: di riacquistare il senso e l'amore della patria, o in tutto cessati o in grandissima parte scemati; di fare quella preparazione larga e solida che è oramai necessaria, non pure alle opere scientifiche, ma e alle opere d'arte.
In tutta l'Europa l'abbassamento dello spirito, e quasi una reazione contro i grandi slanci ch'esso ha fatti per più d'un secolo, sono evidenti. Il periodo dell'abiezione incomincia. In tale condizione, per non lasciarsi in tutto sopraffare, è necessario avere una cognizione sicura e un retto giudizio delle cose. Prepararsi per l'avvenire, e non appigliarsi disperatamente alle tavole del naufragio presente.
Vediamo dunque; e poichè siamo qui nella prosa borghesemente polita della città, e non più il Tevere ci trascina barbaricamente alle rovine ostiensi, lasciamo le imaginazioni, e mettiamoci alle dimostrazioni. E cominciamo dai due ultimi libri di Victor Hugo, che sono: I quattro venti dello spirito, e Torquemada.
II.
Je vis les quatre vents passer.
— O venti — dissi — credete di aver voi soli una quadriga? Il grande carro dello spirito umano rotola su quattro assi, e ciascuno di questi grandi assi, epopea, dramma, ode, giambo, taglia come una spada. Poi:
Je vis Aldebaran dans les cieux. Je lui dis:
— L'antica poesia, con le sue quattro facce, Orfeo, Omero, Eschilo e Giovenale, ti è eguale. Quando cade la notte, nell'ora che cantano le cicale, quando agli uccelli spersi l'alba ride, in tutti i luoghi, sull'Arno, sull'Avone, sull'Indo, la musa che sa i nostri mali ne fa la somma. Ne vuoi una prova? Eccoti due volumi, settecento miserabili pagine, ove i quattro venti dello spirito umano soffiano potentemente, e quattro candelabri risplendono quanto tutte le costellazioni del cielo.
Ed ecco prima il vento della satira, un soffio di tramontana che divelle gli alberi e sconvolge la superficie dei mari:
Tout frissonnant d'amour, d'extases, de splendeurs,
L'hymne universel chante au fond des profondeurs
Avec toutes les fleurs et toutes les étoiles;
Il chante Dieu rêvant sous les flamboyants voiles;
Il chante; il est superbe, éclatant, triomphant,
Doux comme un nid d'oiseau dans la main d'un enfant.
Il enivre l'azur, il éblouit l'espace;
Il adore et bénit. Tout-à-coup Satan passe,
L'être immonde qui cherche à tout prostituer,
Et l'hymne en le voyant se met à le huer.
Quand'io ero ancora un giovinetto pallido, mi disse la musa: — Tu parti? Quando il Cid partiva, aveva armi di ricambio; e tu, che hai?
— Ho l'odio pe'l male e l'amore pe'l bene; e sono armato meglio d'un paladino:
O sainte horreur du mal! devoir funèbre! o haine!
Quando Mosco canta di Enna; quando Orazio segue gaiamente Canidia, e sul paiolo fumigante fa sternutire Priapo all'acre odore del filtro; quando Plauto batte Davo e canzona Anfitrione, il cielo azzurro in un cantuccio brilla radiando; e in fondo scroscia il riso dell'Olimpo. Ma l'azzurro dispare ovunque passino i vendicatori:
L'âme alors est sinistre et voit avec angoisse
Ces occultations redoutables de Dieu.
Si nasce? si muore? che tempo è questo? che luogo è questo?
Le démon souriant dit: Je suis méconnu.
La satira ora non è più quella d'un tempo, quando alla Sorbona il piccolo Andrieux, dal viso di rana, mordeva Shakspeare Amleto Macbeth Lear Otello co' suoi denti falsi rubati al vecchio Boileau. Ora, come ai tempi di Roma, la satira implacabile deve all'uomo Lume Intelletto Bontà e Pietà suprema nell'ira. Il suo immenso sforzo, è la vita. Essa vuole cacciar la morte, bandir la notte, rompere i lacci, dovesse anche rodere il titano popolare. Eccoci dunque in piena vita: tutte quante le voci del secolo scoppiano.
E, prime, le voci della soffitta imprecano, mentre da una fessura della vòlta il cielo azzurro le ascolta serenamente dall'alto. Ecco la caricatura d'un borghese arricchito, che va a messa recando
... sous son bras Jésus doré sur tranche.
— Resti fra noi: io non credo a queste scioccherie! — Egli va a messa
Fier de sentir qu'il prend dans sa dévotion
Le peuple en laisse et Dieu sous sa protection.
Ma i fantasmi si accavallano, s'addensano, si urtano. All'ombra d'una catedrale, ecco degli spettri: preti con unghie di vipistrello, un vigliacco che per virtù d'adulazioni spera di arrampicarsi in alto. La letteratura, ch'è tanta parte della vita umana, non è più quella d'una volta: dalle solitudini d'Arcadia è ritornata fra lo spesseggiare romoroso del popolo su le piazze assolate:
Oui, tel est le poète aujourd'hui. Grands, petits,
Tous dans Pan effaré nous sommes engloutis.
È un momento di sosta. Il poeta, stanco o nauseato, si ferma un momento a contemplare sè stesso. La satira diventa critica. Poi, di nuovo la critica è sopraffatta da una eruzione di entusiasmo:
Notre adoration, notre autel, notre Louvre,
C'est la vertu qui saigne ou le matin qui s'ouvre;
Les grands levers auxquels nous ne manquons jamais,
C'est Vénus des monts noirs blanchissant les sommets;
C'est le lys fleurissant, chaste, charmant, sévère;
C'est Jésus se dressant, pâle, sur le Calvaire.
E di nuovo, come un gladiatore acconciato per la lotta che fa scricchiolar le sue ossa per provarsi e misurare le forze, grida il poeta:
Il monte; il est le vers; je ne sais quoi de frêle
Et d'éternel, qui chante et plane et bat de l'aile.
Poi si slancia di nuovo. Ecco il Mont-aux-pendus sulla costa di Jersey, contro di cui si rompono i navigli; ecco dei chiaroscuri:
Du temps de Vénus Aphrodite,
Parfois seule, écoutant on ne sait quelle voix,
La déesse errait nue et blanche au fond des bois;
Elle marchait tranquille, et sa beauté sans voile,
Ses cheveux faits d'écume et ses yeux faits d'étoiles,
Etaient dans la forêt comme une vision;
Cependant, retenant leur respiration,
Voyant au loin passer cette clarté, les faunes
S'approchaient; l'œgipan, le satyre aux yeux jaunes,
Se glissaient en arrière ivres d'un vil désir,
Et brusquement tendaient le bras pour la saisir,
Et le bois frissonnait, et la surnaturelle,
Pâle, se retournait sentant leur main sur elle.
Così la coscienza umana procede luminosa fra il nostro crepuscolo; quando alla vista dei fauni, subitamente oscurata, dà addietro. E chi sono i fauni? Sono i preti che ardono i libri pieni di luce, è la forca che gitta la sua ombra nera sulla fiamma vivace della vita umana, sono le belle donne che ai balli di Corte inneggiano alla forza e alla guerra, sono i cannoni, è il vizio, tabe velenosa che rode quella Venere Afrodite passante ignuda nel fondo delle selve, che si chiama la coscienza umana:
Elle passa. Je crois qu'elle m'avait souri.
C'était une grisette ou bien une houri.
Je ne sais si l'effet fut morale ou physique,
Mais son pas en marchant faisait une musique.
Quoi! ton pavé bruyant et fangueux, ô Paris,
A de ces visions ineffables! Je pris
Ses yeux fixés sur moi pour deux étoiles bleues.
Fraîche et joyeuse enfant! moineaux et hochequeues
Ont moins de gaîté folle et de vivacité.
Elle avait une robe en taffetas d'été,
De petits brodequins couleur de scarabée,
L'air d'une ombre qui passe avant la nuit tombée,
Je ne sais quoi de fier qui permettait l'espoir.
Pendant que je songeais, croyant encore la voir
Même après qu'elle était enfuie et disparue,
Et que debout, pensif au milieu de la rue,
Contemplant, ébloui, cet être gracieux,
J'avais l'œil dans l'espace et l'âme dans les cieux,
Une vieille, moitié chatte et moitié harpie,
Au menton hérissé d'une barbe en charpie,
Vêtue affreusement d'un sinistre haillon,
Effroyable, et parlant comme avec un bâillon,
Me dit tout bas: — Monsieur veut-il de cette fille?
È il ritratto d'una santa, morta d'itterizia in convento; è la visita a un bagno di forzati; è lo spettacolo d'un cimitero. Le tenebre si fanno più folte: i fantasmi diventano più terribili e scivolano per le tenebre come lemuri, schifosamente. Ecco una processione di bonzi, seguita da una processione di preti, e dietro un arcivescovo nemico della luce. Poi i fantasmi a poco a poco si allargano, si allungano, si diffondono in idee astratte: la satira drammatica di Orazio, cede il posto alla satira predicatrice di Giovenale: i quadretti scompaiono sotto una eruzione di sermoni. Le idee, non più vestite di forme plastiche, ma libere e fluide, prorompono cozzando. Prima è la filosofia che dà la scalata al cielo: il vecchio spirito della notte, coi chiodi che tennero saldo Cristo in sulla croce, fabbrica all'uomo una catena: esso agghiaccia le fronti scaldate dall'aurora: — È necessario che una fiamma fosca rischiari un imperatore: per questo io ho scritto gli Châtiments. Io ho dovuto fare questo libro; ed ecco Parigi agonizza, e un uomo è fuggito: è un vigliacco: è l'imperatore. Così tutto è finito: la rivoluzione francese non è che una pazza, a cui Bruxelles dice: vattene. E io sono odiato. Perchè? Perchè amo i deboli e i vinti. Ma che monta? Dalle culle mi piovono benedizioni, l'uomo che piange mi sorride tra le lacrime, il firmamento è azzurro, e ogni dovere è un diritto. Gloria a Dio. Ma forse voi avete ragione: io sono un imbecille:
J'ai vu des naufragés qui s'enfonçaient dans l'ombre,
Sans aide, et j'ai sauté sur le vaisseau qui sombre,
Aimant mieux leur malheur que votre joie à tous,
Et périr avec eux que régner avec vous.
E poichè io sono straniero nella vostra città, io che la vita voglio amara più tosto che abietta, lasciatemi tornare al mio nero Guernesey. Così noi abbiamo perduto Strassburg, nè più abbiamo Metz, la casta culla dei vecchi Franchi capelluti: quel cielo azzurro è nostro, quei campi son terra nostra:
Nous, nous sommes laissés prendre ces grands pays,
Nous, France!
Ora il primo miserabile imbecille che ci venga tra' piedi, ci può gridare:
— Paix là, vous tous! Gare à qui bouge!
Mais nos pères auraient mordu dans du fer rouge!
O voi che avete il mondo in mano, buon dì! Rammentatevi che, pur essendo di marmo, siete di carne:
Il suffit d'un cheval emporté, d'un gravier
Dans le flanc, d'une porte entr'ouverte en janvier,
D'un rétrécissement du canal de l'urètre,
Pour qu'au lieu d'une fille on voie entrer un prêtre.
Ma il buon Dio invecchia, e si ripete: l'inverno è bianco e vecchio; l'aurora è bianca e vecchia:
Tu deviens fatigant, tu deviens pluvieux,
Mon pauvre éternel! prends la retraite, mon vieux.
Così Dio è sopraffatto da Zoilo, la notte vince il giorno, il Nadir lotta con lo Zenit. Senonchè lo Zenit, concludendo il libro della satira, prelude al dramma:
O Dieu vivant, pardonne au rire immonde et noir,
Pardonne au rire misérable,
Toi qu'adore, incliné comme l'arbre du soir,
Le juste sombre et vénérable.
Il libro termina com'è cominciato: un lembo azzurro di cielo ascolta le voci della soffitta, il cielo azzurro dall'alto guarda la ribellione dei bassi fondi: tutto un largo azzurreggiare calmo e sereno abbraccia i fantasmi torvi e le bestemmie che salgono con orrendo rimescolìo a galla della vita umana:
Dieu, vie, abîme, espoir! grand œil mystérieux
d'où tombe l'homme, cette larme! —
Ed eccoci al libro drammatico, che consta di una comedia in un atto e di un dramma in due. Cominciamo dalla comedia, Margarita.
Questa Margarita, questa gemma, è Nella, figlia del barone di Holburg, spogliato delle sue terre e del suo grado nella vicenda delle guerre germaniche. Egli s'è ridotto a vivere in una vecchia Burg diroccata della Soavia, ove coltiva pochi iugeri di terra mentre la figliuola mena le vacche al pascolo.
Nello stesso villaggio vive Giorgio, figlio al defunto duca di Soavia, usurpatogli il trono dallo zio Gallus. Nella e Giorgio hanno vent'anni. Si amano. Càpita un giorno fra quei boschi il principe Gallus col barone Gunich; è annoiato, e va in traccia d'una femmina che lo liberi dal tedio.
Il principe Gallus è di una strana raffinatezza di gusti:
Avoir ma Pompadour comme un roi très chrétien,
Je prémédite ça. Mille défauts; pas veuve,
Et je la cherche au bois pour l'avoir toute neuve.
— Monseigneur, ce n'est point impossible à trouver.
— Mais je la veux sauvage.
— Il faudra la rêver,
En ce cas — c'est un peu de complaisance à mettre —
Et de ne pas trop prendre votre rêve à la lettre,
Sauvage presque. . . . . . . . . . . . . . .
— Je viens chercher Vénus toute nue au désert,
Je tends les bras vers vous, bois, monts, épithalame!
O nature, un sourire! ô forêts, une femme!
— O forêts, une vierge!
— Oui, vierge. J'y consens,
Un démon vierge! un être aux penchants malfaisants,
Ayant l'aspect du lys que la nature encense!
Laïs Agnès. Le monstre à l'état d'innocence!
E Gunich gli mostra Nella discorrente con Giorgio. Quei due si nascondono dietro la Burg, e assistono a un duetto d'amore tanto frescamente e limpidamente primaverile, che il principe comincia a dubitare delle sue forze. Partito Giorgio, Gallus entra nella Burg, e chiede a Nella una tazza di latte; poi comincia a tentarla, e, parlando, apre il mantello e scopre il petto tutto lucente di decorazioni. Nella, semplicemente, solleva una tenda, e mostra al principe il ritratto di un feld-maresciallo; poi dice:
— Questa è l'effigie del barone di Holburg, mio nonno.
E, insistendo il principe, gli comanda di escire. Sopravvengono, successivamente, Giorgio e il Padre di Nella, e subito Gallus denunzia al vecchio barone l'amore della figliuola per Giorgio, e narra la scena onde è stato testimone; e provocandolo, furibondo, Giorgio, e spingendolo a palesare il suo nome, esclama:
— Je suis Gallus, landgrave de Souabe,
Le frère du feu duc régnant George premier.
L'aigle à deux têtes prend son vol sur mon cimier.
L'Allemagne n'a pas de famille plus grande.
Et, monsieur le baron d'Holburg, je vous demande
En mariage ici votre fille Nella
Pour mon neveu le duc George deux, que voilà.
E così la comedia ha lieto fine, avendo la virtù di Nella sopraffatto le turpi voglie del vecchio cinico libertino.
Nel dramma, che s'intitola Esca, di nuovo siamo fra le selve. Gallus, che ha abdicato in favore del nipote, risale in carrozza, con Gunich, una via di montagna. Precede, sopra una carretta carica di letame, un ricco fittaiolo, Harou, che va ad ammonire la sua fidanzata Lison di tenersi presta alle nozze per mezzodì. Lison, che si sta pettinando alla finestra della sua capanna, ferisce sì forte il vecchio libertino, che lo move a scendere dalla carrozza, e a nascondersi nel bosco. Harou intanto parla con la sua fidanzata, e la vorrebbe abbracciare; ma costei lo ributta, fastidita dall'odor di letame che il villanzone tramanda. Partito il fittaiolo, che ha promesso di ritornare a prenderla con la sua carretta, Lison comincia ad acconciarsi da sposa, e non possedendo uno specchio, esce mezzo nuda a specchiarsi alla vicina sorgente. Mentre ella malinconicamente contempla l'imagine della sua povera beltà, Gallus le sorge alle spalle, le conficca tra i capelli un fermaglio di brillanti, poi di nuovo dispare. Lison sbalordita e non sapendo che si pensare, arrossisce di star così nuda in mezzo al bosco; quand'ecco le si appresenta un nano con un mantello di velluto. Cadendo d'una in maggior meraviglia, la fanciulla volge a dietro il capo, e subitamente si vede allato un moro che le allaccia al collo una collana di perle. Uno strano scompiglio le turba l'intelletto; le pare di esser l'eroina d'un racconto di fate, e comincia a cantare:
— Les lutins — dans le thym — les hautbois —
Dans les bois — les roseaux — dans les eaux — ont des voix...
Donc faisons — des chansons — et dansons. — L'aube achève —
Notre rêve — et l'amour — c'est le jour. —
Ed ecco si mostra Gallus vestito di broccato d'oro, con uno scintillìo vago di croci e di gemme sul petto. Questa volta la resistenza è fiacca, e il demonio si reca via la sua preda agevolmente in carrozza, quando già, tratta da un asino, appare in lontananza la carretta di Harou, il grosso fidanzato, padrone di molti poderi, che viene con due sonatori di violino a prendersi Lison.
Nel secondo atto, in Parigi, ritroviamo Gallus e Lison transfigurata e ribattezzata nella marchesa Zabeth. Il dramma si svolge quasi tutto dietro le quinte. La marchesa è uscita, e Gallus chiacchiera con Gunich. Costui afferma essere il duca innamorato di Zabeth. Il duca nega recisamente, con un vivo fuoco d'artifizio di facezie orribilmente ciniche, fiutando tabacco. E appunto nel cavar dal taschino della sottoveste la tabacchiera, lascia cadere una carta che Gunich raccoglie. Sopra la tavola sono dei gioielli e un mazzo di fiori, portati da qualche incognito ammiratore. Lentamente, fra gli alberi del parco, fuggono le ultime note d'una mattinata musicale.
— Questi fiori e questi gioielli — dice Gunich — li avete fatti recar voi. Le mattinate musicali che ogni giorno svegliano gli uccelli del parco sono ordinate da voi. Questi versi — e gli tende la carta raccolta — son vostri. Negate?
Il duca non nega: seguita a celiare, ferocemente, finchè ritorna la marchesa con una numerosa comitiva. Si discorre dei doni offerti a Zabeth, della musica matutina, dei versi inviatile. Zabeth trova bellini i versi, belli i fiori, bellissima la musica, meravigliosi i gioielli. Gallus asserisce che i fiori costano trenta soldi, che i gioielli son mediocri, i versi sciocchi, la musica ridicola.
— Questo non direste — osserva Zabeth — se il donatore foste voi. Ma questa sera non andremo a teatro: resterete a cena con me.
Partono gli altri, restano Gallus e Zabeth.
— Voi — dice il duca — chiedetemi tutto che desiderate. La vita delle belle donne deve essere un tramite infinito di godimenti. Nel vostro parco mancano delle statue: fatevene dunque scolpire. Una donna senza milioni non è concepibile. Anche, voi avete necessità di amore; e cercatevi degli amanti: io non sono geloso.
E per un buon quarto d'ora quel demonio sferra dalla bocca maledetta una eloquenza infernale, addolcita da una musica fascinosa di alessandrini, con una sonorità lusinghevole, con un cinismo ammaliante. In fine Zabeth, non potendo più reggere, erompe:
Pas d'amour et pas d'espoir! Je souffre,
J'ai dans le cœur le vide et dans l'âme le gouffre.
E poi di nuovo, seguitando il duca a catechizzarla, grida:
Oh! sarcler dans l'herbe! oh! glaner dans le blé!
M'éveiller, m'en aller, sereine et reposée,
L'âme dans la candeur, les pieds dans la rosée,
J'avais cela! j'avais la sainte pauvreté!
Maintenant je vois croître, autour de moi, l'été,
L'hiver, sans fin, sans cesse, un luxe énorme, étrange,
Fait de plaisir, de pourpre et d'orgueil, — et de fange!
Je n'ai plus rien, je râle, et tout me manque enfin!
Le mépris, c'est le froid, l'estime, c'est la faim.
Je dois cette indigence à vos tristes manœuvres,
Monseigneur. . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . .
Tenez, duc, et voyez quelle soif est la vôtre!
Vous êtes prince et vieux, deux choses que je haïs,
Eh, bien, pourtant, peut-être, hélas! nos vains souhaits
Gardent au fond de l'ombre une porte fermée,
Je vous aurais aimé si vous m'aviez aimée.
Il duca non ha tempo di più aprir bocca. Egli tenta di parlare; ma Zabeth lo interrompe:
— Oramai — ella dice — non v'ha più speranza che nella morte. — E si reca alla lingua un anello avvelenato che aveva una notte tolto di dito al duca. E, cadendo, esclama:
Adieu. Je prends mon vol, triste oiseau des forêts.
Personne ne m'aima. Je meurs.
E Gallus, buttandosi alle ginocchia della morente, urla:
— Je t'adorais.
Così termina il libro drammatico. Del lirico è, non che difficile, impossibile rendere una qualunque imagine. Come si fa a fotografare un volo precipitoso di falchetti e di aquile? I componimenti raccolti sotto questo titolo vanno dal '54 al '70; e probabilmente molti che non recano data sono posteriori. Chi ha seguito l'evoluzione dello spirito di Victor Hugo dalla prima entrata nella terra dell'esilio sino a questi ultimi anni può, presso a poco, meglio che non per una infelice esposizione, argomentare del contenuto e della forma di questa lirica. Se nel libro satirico non v'ha, come s'è potuto vedere, una stretta coerenza delle singole parti, nel libro lirico si può dire non sia nesso di sorta fra le parti. Non è un edificio, è una selvaggia selva d'alberi d'ogni clima e d'ogni specie: i licheni di Guernesey accanto agli aloè di Marsiglia e di Nizza, i cactus accanto ai cardi, le quercie inerpicate dai fichi d'India. È un ondeggiare ampio e sonoro di fogliame, un soffio impetuoso di mille bocche, tutta quanta l'immensa orchestra del romanticismo evocata dal sepolcro per l'ultima sonata. Ecco del preludio:
Jersey dort dans les flots, ces éternels grandeurs,
Et dans sa petitesse elle a les deux grandeurs,
Ile, elle a l'océan; roche, elle est la montagne.
E dalla terra dell'esilio si leva una processione di spettri foschi, lugubremente. Naufraghi che passano a nuoto, urlando. Navi che si frangono agli scogli, nelle notti tempestose, con orrendo fragore. Alberi spogli flagellati dalle brezze del mare, cavalloni che si riversano sulla riva scoscesa con un galoppo di polledri furibondi:
A cause du vent d'ouest, tout le long de la plage,
Dans tous les coins de roche où se groupe un village,
Sur les vieux toits tremblants des pêcheurs riverains
Le chaume est retenu par des câbles marins,
Pendant le long des murs avec des grosses pierres;
La nourrice au sein nu qui baisse les paupières
Chante à l'enfant qui tette un chant de matelot;
Le bateau dès qu'il rentre est tiré hors du flot.
Ma la terra dell'esilio fu ospitale al poeta, e gli sorrise; in primavera i venti caddero, gli alberi si rinverdirono di fogliame, il mare placato si distese pianamente sotto la libera corsa delle navi, e le rocce fiorite sursero bellamente nella luce del sole d'aprile:
Mais au lieu d'angoisse et de peine
J'ai le calme et la joie au cœur.
Le lion s'est mis, dans l'arène,
A lécher le gladiateur.
Poi di nuovo sopravvengono le tenebre:
Je songe, un clair rayon luit sur le flot sonore;
Le phare dit: C'est l'ombre, et souffle son flambeau;
Je voudrais bien savoir les choses que j'ignore
Et quelle est la blancheur qu'on voit dans le tombeau.
E ritornano a volo le memorie della patria, tristamente:
Si je pouvais voir, ô patrie,
Tes amandiers et tes lilas,
Et fouler ton herbe fleurie,
Hélas!
Si je pouvais, — mais, ô mon père,
O ma mère, je ne peux pas, —
Prendre pour chevet votre pierre,
Hélas!
. . . . . . . . . .
Oh! vers l'étoile solitaire,
Comme je leverais les bras!
Comme je baiserais la terre,
Hélas!
Intanto il rombo della tormenta soffoca i rimpianti:
Oh! comme tout devient terrible sur la mer!
Le passeggiate fra le rupi, col mare in tempesta, col vento scatenato, allargano la visione: la terra dell'esilio si diffonde all'infinito, e tutta l'umanità si rimescola sinistramente sui maresi sabbiosi:
Ces erreurs, nuage durable,
Obscurcissent la terre, et font
Que l'âme humaine est misérable,
En présence du ciel profond.
Il poeta è invecchiato. La mia vita entra nelle ombre della morte, egli grida. Il ritornello della chanson d'autrefois si perde in lontananza per le praterie fiorite; tutte le sue fantasie son cupe. Egli vede da per tutto qualcosa di fatale e di lampeggiante:
Quand Eschyle au vautour dispute Prométhée,
Quand Juvénal défend Rome aux tigres jetée,
Quand Dante ouvre l'enfer aux tyrans qu'il poursuit,
Ces hommes sont pareils à l'antique euménide;
Leur face, qu'illumine une lueur livide,
Semble un masque d'airain qui parle dans la nuit.
Ma pure agli occhi del vate splende in alto una luce. Sentite come egli chiude il libro lirico con un'apostrofe all'avvenire:
Oh, que le genre humain monte sur la montagne!
Terre, souris enfin à l'homme audacieux,
Et sois l'éden, après avoir été le bagne,
O globe emporté dans les cieux.
È chiaro che siamo all'epopea.
La statua di bronzo stava ritta all'ombra, in mezzo al sonno di Parigi. Calma, la spada al fianco, in dosso l'arnese dei cavalieri feudali, se ne stava là, dritta, in armatura di battaglia, tenendo le redini nere nel guanto nero. D'un tratto, il cavaliere girò le redini e il cavallo la testa. I muscoli di bronzo mostruosi fremettero, la schiena tremò, il piede sempre levato che lascia crescer l'erba tra le fessure del pavimento si abbassò, l'altro fisso nell'architrave si alzò; il colosso chinò la grave fronte; il cavallo si fe' presso all'orlo del piedestallo; il cavaliere discese dallo zoccolo, e camminò a passi lenti. In mezzo a una grande piazza dalle arcate di pietra, sotto l'ondeggiare d'un fitto fogliame, s'intravedeva un fantasma bianco: era un cavaliero di marmo. Disse Enrico IV a Luigi XIII:
— Vieni a vedere se tuo figlio sia ancora al suo posto.
Il re marmoreo discese dal piedestallo, e le due statue s'avviarono con un fragore terribile, tra il sonno di Parigi, a un'altra piazza, in mezzo alla quale sorgeva un altro uomo immobile.
Cet homme n'était pas un homme, mais un dieu. Era Luigi XIV. L'uomo di bronzo disse: — Louis, quatorzième du nom,
Réveille-toi, Louis! et viens avant l'aurore
Voir si ton petit fils est à sa place encore. —
Le dieu de bronze au front vaguement étoilé
Ouvrit sa lèvre sombre et dit: — M'a-t-on parlé?
Et son regard cherchant à ses pieds, sembla naître.
— Oui. — Qui donc? — Moi. — Qui es tu? — Ton père, dit l'ancêtre.
— Quel est ce petit fils que ta voix m'a nommé?
— Celui que tes sujets appelaient Bien-Aimé.
— Où donc est-il, l'objet de ces idolatries?
— Dans une grande place au bout des Tuileries.
Viens. . . . . . . . . . . . . . . .
Vanno, l'antenato superando i nepoti di tutto il capo. Si lasciano alle spalle il funesto balcone, ove la Saint-Barthélemy, accovacciata, sogna sinistramente sopra Parigi. La Senna riflettè i tre fantasmi: il re soldato, il re cesare, il re dio.
Allora i mascheroni della Senna, scalpellati in marmo da Gennaro Pilone, proruppero in un cupo scroscio di risa; e quello che più forte sghignazzava, gridò: — o re, la via è selciata e ampio è il terreno: andate.
— Allez! le fleuve gronde et le vent se corrouce.
Allez! allez, les rois! Où vont-ils? qui les pousse,
N'ayant plus d'intérêt dans ce monde vivant?
Et qu'est-ce donc qu'ils ont à marcher en avant
Allez! allez! Où donc les mènes-tu, nuit blême?
Nuit! ces trois rois en vont chercher un quatrième.
E i tre re camminavano per le vie tenebrose senza udire queste grida nell'ombra. Gli alberi, come colti da un fremito sepolcrale, torcevano le braccia sofferenti e i rami morti, mentre lungo le Tuileries procedevano lentamente i due cavalieri neri e il cavaliere bianco. L'acqua del fiume fuggiva nelle tenebre. Giunti alla meta, invece della statua del Ben Amato, videro fra due assi nere un triangolo di color livido, e sotto una rotondità tenebrosa simile alla bocca d'una caverna. Lontanamente una fuga di nuvoloni disegnava sul fondo del cielo questa cifra: Novantatrè. Era quella una ghigliottina. Una porpora sanguigna, filtrando pel pavimento nero, scriveva: Giustizia. Sopra una delle assi si leggeva: Potere, e sull'altra: Pazzia. I tre cavalieri lessero tremando. Una testa passò attraverso l'ombra formidabile: anch'essa era livida. I tre cavalieri fremettero, tastando il pomo delle spade; e, disse l'antenato di bronzo alla testa mozza:
— Qual'è il tuo delitto, o testa sinistra, più pallida che non quella di Cristo crocefisso?
— Io sono il nipote di vostro nipote.
— E d'onde vieni?
— Dal trono.
— Spectre, quelle est là-bas cette machine horrible?
— C'est la fin — dit la tête au regard sombre et doux.
— Et qui donc l'a construite?
— O mes pères, c'est vous.
Tali i Quatre vents de l'esprit. Segue l'ultima tragedia, il Torquemada.
Avete visto mai in un porto di mare una vecchia nave giubilata dopo lunghi e onorati servigi? La povera vecchia nave se ne sta incatenata sull'acqua torbida e oleosa del bacino, e leva la chiglia squassando l'ancora rugginosa: intanto i battelli vivaci e risplendenti nella vernice nuova le si addensano intorno con un gran tonfo di remi, con una petulanza giovenile, come nuvoli di mosche sopra una carogna di cavallo.
Voi la guardate dal molo con un senso di pietà profonda, mormorando:
— Povera vecchia nave, non più contro le tue murate invincibili si leveranno i cavalloni impotenti; nè più ti agiterà i fianchi il palpito del vapore; nè le tue bandiere si leveranno fremendo fra le tempeste. Ma il tarlo accanito dell'acqua salata dissolverà le tue membra; ma gli assalti della risacca ti demoliranno le costole; e ogni marea ti rapirà una tavola, e ogni tempesta ti strapperà una catena. Ed ecco, un bel giorno voi non troverete più la nave incatenata al solito posto, e vi parrà che il mare l'abbia inghiottita; ma un navigante vi accennerà con la mano un punto nero sul gran piano turchino. È la povera vecchia carcassa che si è sferrata dalle sue catene e salpa ancora vittoriosa tra la furia delle burrasche. Il palpito del vapore agita di nuovo i fianchi possenti; i cavalloni, vinti, si abbattono contro le murate; e sulla vetta degli alberi le bandiere fremono ai venti. Così Victor Hugo. Pareva che questa fulminea corvetta corsara fosse stata sfasciata dalle maree di Guernesey. Gli ultimi poemi — Le Pape, L'Ane, Les Quatre Vents de l'Esprit — erano sforzi vani di sferrare dalla sabbia le àncore rugginose. Noi vedevamo con un senso di pietà profonda ogni cavallone rapirsi una tavola, e ogni tempesta conquistare una catena. Ed ecco la corvetta, con un urto improvviso, ha rotto i vincoli, e si è avventata in mezzo alla burrasca. Tentiamo di seguire la sua corsa vittoriosa, e leggiamo in fretta il Torquemada.
Il vecchio cimitero è diventato un giardino: la terra catalana, ingrassata dalle carogne dei frati, germina senza misura e senza riposo. I ciuffi della malva sgorgano fra le croci abbattute, le macchie di ortica si abbandonano sulle lapidi rotte. Il meriggio primaverile sta luminoso su quella trista verzura; e il priore, ritto nella cocolla di lana, con la testa calva, con la barba bianca, guarda il muro di cinta crollante, e pensa. Pensa che la Chiesa, ròsa dalla ruggine, crolla, come quel vecchio muro di cinta; pensa alla tristizia dei tempi e al disfacimento della decrepitezza, che addenta tutte le cose: quand'ecco alla breccia del muro si affaccia una persona umana. È il re. Il re, accompagnato dal suo nano Gucho che porta una marionetta in ciascuna mano, e dal suo Mefistofele, il marchese di Fuentel. Il re, che rompe a mezzo la meditazione del frate, e lo atterrisce con minacce tremende, e lo abbatte a' suoi piedi; poi gli domanda se nel convento siano femmine. È mezzogiorno. Dalla breccia aperta si vede una compagnia di archibusieri: il nano, accovacciato tra l'erba folta, gioca con le sue marionette. Il re, alto nella sua bella persona piena di gioventù, con un rosario alla cintura, con la bocca agitata da un sogghigno di cinismo amaro, il re sferza il marchese e il priore senza pietà: dalle sue labbra sottili la voce scorre limpidamente con uno scroscio di sarcasmi crudi, con un impeto di assalti irresistibili, con una piena di rampogne amare. Intanto un domenicano alto, magro, grigio, impietrito nella vecchiaia, cammina cammina silenziosamente pel cimitero, contemplando le croci disseminate tra l'erba. In un canto, la bocca d'una tomba scoperta si spalanca al sole, simile ad una immane gola nera.
— Chi è quel frate? — domanda il re.
— È un domenicano, è un pazzo: ha delle visioni affocate: ha sempre nella mente presenti l'inferno e Satana.
— Chi sono quei due fanciulli là in fondo?
— Rosa d'Ortez, e Sancio di Salinas infante di Burgos: ella ha sedici anni, egli diciassette. Il cardinale di Ortez li vuol maritare, e li tiene sepolti in questo chiostro finchè il giorno delle nozze non sia venuto.
— Ah, il cardinale mi vuol rubare Burgos! Buon prò gli faccia. Si sposino quei fanciulli: io mi prenderò la Navarra. L'infante è bella!
E il re si perde tra gli alberi, per veder meglio i fanciulli.
Allora il marchese afferra il priore per un braccio, e gli grida negli orecchi con una voce di minaccia:
— Dimmi la verità. Questo Sancio di Salinas è figlio di Sancia di Portogallo?
— Sì.
— Donna Sancia non diede al suo marito il re di Burgos un figliuolo ch'ella ebbe dal paggio Gorvona?
— Sì.
— E questo figliuolo è quel fanciullo perduto laggiù tra il fogliame?
— Sì.
— Dio! — urlò il Mefistofele cacciandosi le dita nei capelli; e subitamente il paggio Gorvona ripalpitò nel marchese di Fuentel; e una polla improvvisa di passione scoppiò in quell'anima scellerata; e la coscienza della paternità vinse il cortigiano. Se ne andarono tutti. Rosa e Sancio, avvinghiati insieme, con lunghi strilli d'amore, con lunghe risate squillanti, con una lieta battaglia di baci, invasero il cimitero. Il vecchio recinto, occupato dall'amore, ringiovanì. I fiori, calpestati, piegavano le teste odorose: le farfalle fuggivano dinnanzi a quei cacciatori ridenti. Ma i cacciatori scomparvero di nuovo dietro le farfalle, e l'ombra bieca del domenicano si rizzò tra le tombe. Nelle pupille profonde gli splendevano riverberi sanguinosi; la sua faccia di bronzo fremeva come la crosta d'una terra vulcanica; le sue braccia secche si levavano al cielo dalle maniche cadenti, con le dita distese e tremanti come volessero afferrare qualcosa che fuggiva. Una visione ardente, una visione di fiamma purpurea stava là nell'aria, dinnanzi alle sue pupille fulminanti, sopra le sue braccia che si stendevano per poterla afferrare. Ed ecco il vescovo d'Urgel gli sorge dinanzi, e gli domanda:
— Come ti chiami?
— Torquemada.
Il vescovo lo interroga intorno alle sue dottrine con tutta la sottigliezza d'un teologo, sforzandosi di avvilupparlo nelle reti della dialettica, tentando di abbatterlo a colpi di sofismi. Ma il domenicano, impassibile, invincibile, invulnerabile, sta saldo, e non cede d'un passo.
— Meglio la morte, che la dannazione: meglio il fuoco terreno, che il fuoco eterno: io amo d'immenso amore l'umanità, e voglio salvarla dall'inferno. Per salvarla non c'è che un modo, il rogo. Si accendano dunque i roghi, e si spicchino al cielo le anime umane di mezzo alla rabbia del fuoco liberatore. Il fantasma immane del fuoco occupa tutto quanto quest'uomo con un accanimento così tenace, che tutta la dialettica, che tutti i sofismi, che tutte le minacce del vescovo d'Urgel cascano come frecce rintuzzate. Finalmente, quando l'ultima freccia rimbalza spuntata da quella corazza adamantina, due frati afferrano il visionario e lo spingono nella tomba spalancata; poi vi gittano sopra il coperchio, e il cimitero resta deserto.
Ma ritornano i cacciatori di farfalle con lo strepito lieto dell'amore, e un lamento sotterraneo li ferisce e li ferma atterriti tra l'erba. Non tardano a pensare che la voce venga dalla tomba chiusa di fresco; e tosto si affaticano a scoperchiarla; ma le loro forze non bastano a sollevare il masso pesante. Allora Sancio strappa da un sepolcro una croce di ferro che gli serve di leva, e il coperchio è alzato, e il frate riappare alla luce del giorno. Egli è calmo: i suoi turbamenti sono cessati: la sua via è segnata. Torquemada passa la breccia del muro di cinta, e s'incammina per la via fatale.
Questo è il prologo che occupa più di un terzo del dramma. Il quale si sviluppa con una rapidità semplice, vivace, calda. Il re, che in sostanza è Ferdinando il Cattolico, innamorato di Rosa, la vuole ad ogni costo; e quando il vescovo di Urgel viene coi due fanciulli, per chiedergli il permesso di maritarli, egli comanda che siano rinchiusi ciascuno in un convento. Intanto Torquemada viaggia alla volta di Roma, e giunto sulle montagne del Lazio, con le reni rotte dalla fatica, col cranio calvo martoriato dal sole, con l'ugola arsa dalla sete, si ricovera nella grotta di un romito semplice, mite, pietoso. Si chiama Francesco di Paola, e vive macerandosi nella penitenza come gli antichi solitari nella Tebaide. A poco a poco, il dialogo scoppia; e quei due uomini, l'uno di fronte all'altro, combattono: l'italiano pieno di mansuetudine, pieno di pace, pieno del santo egoismo della fede, e lo spagnuolo tutto invaso dalle fiamme e da un sanguinoso amore dell'umanità. Nel cozzo più fiero dei due campioni, sopravviene un paciere, un cacciatore vestito riccamente, con un corno al collo, con una faccia di gaudente. Egli ha visto i primi colpi di spada, e ride:
— Voi siete due pazzi, dice; e avete torto tutti due. L'uomo non deve prendersi grattacapi inutili. L'uomo deve godere. Ve lo dico io, che sono infallibile, perchè sono papa. Io mi chiamavo una volta Alessandro Borgia; ora mi chiamano Alessandro VI. Mi piace la vita allegra, mi piacciono le femmine belle, e sono un buon diavolo. Voglio farvi contenti. Tu, Francesco, resta nella tua grotta con la tua testa di morto; e tu, Torquemada, ritorna in Ispagna, e brucia tutti gli ebrei: te li dono tutti.
Eccoci dunque di nuovo in Ispagna, nella reggia di Sevilla, nella più calda furia dell'inquisizione. In piazza è pronta una grande catasta che deve ardere cento ebrei: tutti gli altri, nel giorno medesimo del supplizio, dovranno uscire dagli Stati di Ferdinando. Ma gli ebrei hanno molta esperienza del cuore dei re, e offrono trenta mila scudi d'oro per ottenere la grazia del rogo e dell'esilio. Ferdinando ed Isabella, prima di dare una risposta definitiva, si rinserrano in una stanza, e pregano con molto fervore dal cielo il lume necessario in un caso di tanto momento.
— Trentamila scudi d'oro fanno seicentomila piastre, dice il re; seicentomila piastre fanno venti milioni di zecchini, che, cambiati in bisanti turcheschi, sono il carico di un galeone; e cambiati in duros d'argento sono il carico di due galeoni. Con questo tesoro potrei snidare Boabdil da Granata.
— Ebbene, si perdoni — dice la regina; e afferra un foglio di carta per segnare l'atto di grazia. Ma si spalanca l'uscio della sala, e una statua di bronzo s'affaccia sulla soglia. È Torquemada.
— In ginocchio — comanda. La regina, tremando, s'affretta ad obbedire; ma il re tentenna.
— In ginocchio — ripete il frate, e il re, tremando, obbedisce.
— Guardate — ripiglia Torquemada, spalancando la finestra.
In mezzo alla piazza, dalla immane catasta, si è scatenato l'inferno: un mucchio di persone umane si divincola in mezzo alla rabbia delle fiamme: ai quattro angoli del rogo le statue immani dei quattro evangelisti sembrano quattro demoni di brace, pieni dell'urlo dei dannati. I reali di Sevilla, secondo l'etichetta di corte, andarono a passare a Triana, in penitenza, il giorno seguente al supplizio; ma prima di partire, il re, che non aveva dimenticata donna Rosa, ordinò al marchese di Fuentel di strapparla dal convento ov'era rinserrata, e di condurgliela nell' huerto del Rey, del quale gli affidò una chiave: l'altra fu rubata da Gucho, il nano, che vedendo essere l'inquisizione più forte del re, si vendette alla inquisizione. La notte dunque, mentre il re in compagnia della regina sgranava rosari a Triana per l'anima dei poveri morti, il marchese di Fuentel, giovandosi d'un ordine scritto di Ferdinando, potè liberare non solo donna Rosa, ma anche il suo figliuolo Sancio; e tosto li condusse nell' huerto del Rey, poi partì in cerca di cavalli per condurli oltre i confini del reame. Ed ecco, nella tenebra fonda si leva Torquemada, e riconosce nei due fanciulli che si dimenticavano in quella prima ebbrezza del rivedersi i suoi liberatori. Li riconosce, e fattosi narrare da loro ogni cosa, promette di proteggerli contro il re. In conspetto di quell'idillio fresco e odoroso come una mattinata d'aprile, quell'anima arsa dal furore del fuoco si apriva desiderosamente, e si tuffava nell'umidore della rugiada. Egli stava là, alto nella tenebra susurrante, a contemplarli, e li ascoltava con una voluttà strana.
— Noi non potevamo alzare la pietra del sepolcro con le nostre piccole braccia — diceva Sancio.
— Allora tu sferrasti una croce da un sepolcro, e l'adoperasti per leva.
La faccia del domenicano si fece nera.
— Che hai detto? Tu hai sferrata una croce? Era proprio una croce?
— Sì — rispose il fanciullo semplicemente — non c'era altro ferro che quella croce, e la divelsi.
— Sacrilegio maggiore! — urlò il frate nel suo pensiero subitamente intorbidato. — L'inferno li aspetta, implacabile, irremissibile. Dio mio, che peccato! Come salvarli dal fuoco eterno?
Qui di nuovo, nell'aria nera, egli vide un grande barbaglio di fuoco. Era la visione, era quella sinistra visione fiammeggiante che gli riappariva fatalmente sul capo. E all'istante, senza più stare, partì. Di lì a poco, mentre i due fanciulli, avvinghiati con un abbracciamento tenace, si abbandonavano nel delirio dell'amore, in cima alla scalinata dell'orto apparve una bandiera nera con una testa di morto tra quattro stinchi di morto. E dietro la bandiera, i frati della Santa Inquisizione, in due lunghe file silenziose.
Ed ora questa esposizione ha bisogno di commenti e di dichiarazioni? Non basta, nella sua rozza semplicità giornalistica, a mostrar come la mente del gran vecchio sia disorganizzata? Victor Hugo mi fa ripensare le Notti romane del Verri. Non è egli lo spirito d'un poeta antico tenuto a forza fra questa pecoraggine presente da un crudel capriccio della vita? Che fa egli tra noi? Noi non possiamo più intenderlo: lo scroscio delle campane di Notre-Dame non più suscita in tutte le genti del mondo una commozione mista di letizia e di ammirazione e di pianto: non più l'eco degli Châtiments si propaga fragoroso per tutta l'Europa. Victor Hugo è un vecchio poeta, cui un tristo incantamento costringe a restare fra gli uomini in apparenza di vita. Si sforza di richiamare dall'anima e di riversare nella poesia la potenza antica; ma in verità egli è morto.
E fin qui, spero, non ci è chi dissenta da me; poichè da alquanti anni tutti i libri che la senile attività di Victor Hugo gitta ai popoli del mondo, son considerati come opere postume, e quasi come voci d'oltre tomba.
III.
Ma, se vi dicessi una cosa non strana e nemmeno inverosimile, certo però inaspettata dalla più gran parte dei lettori? Se vi dicessi che il romanzo in Francia accenna a morire, e già gli crollano sotto le gambe per la stanchezza della vecchiaia? Leggeste l'ultimo romanzo di Zola, Au bonheur des dames, e l'ultimo di Daudet, L'Évangéliste? Discordano nei difetti, ma la conclusione del lettore è una: che il Daudet e lo Zola siano invecchiati. Questo mancare della gioventù nella prosa di Emilio Zola trapelava già in Pot-Bouille, ove a traverso i lampi dell'ingegno osservatore appariva la maniera, ove quella gentilezza e quell'intima forza d'arte che sono in tutte le opere dello Zola si erano come seccate, e l'intuizione interiore si perdeva nella esposizione dei segni esteriori. Nel Bonheur des dames la preponderanza dell'ambiente sulle persone è tale, che l'elemento umano scompare in una convulsione universale di tutte le cose inanimate, le quali si scotono e vibrano e strillano come fossero vive. Nel Daudet invece la vecchiezza è venuta tutta in un colpo: nei Rois en exil si vedeva qua e là qualche capello bianco e il solco d'una ruga; ma si sentiva nella prosa la fibra sana e forte, si sentivano i muscoli e i nervi sani. L' Évangéliste move nell'animo un senso di pena: par di vedere, dopo qualche anno, un amico lasciato saldo e diritto, andarsene tra la gente tutto curvo e tutto canuto, trascinando i piedi sul selciato, con la testa tremante e la voce fischiante tra le gengive spopolate di denti. Il nòcciolo dell' Évangéliste è, naturalmente, piccolo: in una casetta della via Val-de-Grâce abitavano, tra le altre, due famiglie: due donne danesi, Lina e la signora Essen, e il signor Lorie-Dufresne, ex sottoprefetto algerino, con due bambini. La protasi del romanzo è qui: Lina, natura nordica, sana dolce mansueta, a poco a poco si acconcia al pensiero del matrimonio, si erige un piano di felicità domestica con Lorie-Dufresne. Ed ecco, accade una cosa strana: la presidentessa della Società delle dame evangeliche di Parigi se le mette ai panni, e comincia a insinuarle le massime del misticismo bestiale onde la Società è infetta. Ella da prima repugna, inorridita, reagendo; poi cede, rinunziando al suo sogno nuziale, rinunziando alla vita.
Come vedete, l'argomento è più atto a un dramma della maniera di Dumas o di Sardou, che a un romanzo sperimentale: e la teatralità, in questo ultimo libro del Daudet, ogni tanto trionfa, e la chiusa è veramente un colpo di scena. Di più è superficiale: vorrebbe essere acutamente analitico, ed è una narrazione, non pure fredda e qua e là inverosimile, ma assai spesso illogica. Poichè tutto il dramma sta appunto nel movimento psicologico che la presidentessa delle dame evangeliche determina in Lina, era là che occorreva fermarsi. Non basta dire accadde questo, accadde quest'altro; ma come, ma perchè queste cose accaddero? Ma quali mutamenti e traviamenti soffrì il sistema nervoso di Lina per passare dalla quiete naturale a quella continua perturbazione convulsiva? Lo studio, più che altro, doveva essere fisiologico; il romanziere doveva studiare quel fenomeno nervoso come il prof. Lombroso studia i suoi pazzi e i suoi delinquenti, non già fermarsi alla rappresentazione dei segni esteriori. Di più, il caso patologico preso in esame dal Daudet non è nuovo: due volte, tra gli altri, lo tolse ad argomento Emilio Zola, nella Conquête de Plassans e nella Faute de l'abbé Mouret, anche lo toccò da vicino nella Page d'amour; e sempre lo studio analitico fu fatto con la cura minuziosa di un medico, non trascurando nessuno degli elementi esteriori che potevano produrre la perturbazione interna, rappresentando chiaramente e pienamente tutti i momenti di questa perturbazione, ricercando la malattia nell'organismo e nello spirito. Il Daudet non lo ha saputo fare. Poi nell' Evangelista appaiono con più evidenza gli artifizi proprii del Daudet. Si sa, per esempio, che egli, trovato l'argomento, vi accozza intorno tutte le osservazioni e tutte le persone formate prima; sicchè spesso quelle persone stanno come a forza nella tela, e le osservazioni paiono fatte in anima vili. Nell' Evangelista appunto questo artifizio è più chiaro: tutto il secondo capitolo, così come sta nell' Evangelista, potrebbe stare in un altro qualunque romanzo, poichè è un episodio a parte, come gli episodi dei romanzi di cavalleria, che erano già, e già erano stati adoperati prima che il romanziere formasse il piano del poema.
Del resto, poichè in questo libro ogni tanto la mano del Daudet riappare trionfale, un romanzo riescito a male non sarebbe una cosa disperata. Se non che, io faccio una osservazione complessiva: dopo che la morte scisse la coppia dei Goncourt, uno dei maggiori fattori del romanzo sperimentale venne quasi a mancare, poichè la Faustin è fiacca; il Flaubert è morto; Alfonso Daudet ed Emilio Zola dànno segni o di stanchezza o di vecchiezza, poichè il loro metodo rappresentativo mostra l'ordito come un soprabito che se ne vada alla consunzione; i discepoli dello Zola, se bene qualcuno mostri vivacità d'ingegno, non accennano a continuare troppo gloriosamente le tradizioni del maestro. Non sarebbe questo un indizio che la Francia, dopo tanta produzione romanzesca, è stanca e incomincia a sentire le angustie della sterilità? E poichè anche l'Inghilterra dopo la morte del Dickens e di Giorgio Elliott in fatto di fecondità narrativa vien manco; e poichè la Germania non ha mai potuto levarsi nel racconto a grande altezza, e la Russia dopo la morte del Gogol e del Turghenief pare voglia cedere le bandiere della prosa narrativa che aveva conquistate, in quale terra d'Europa questa più complessa e più larga forma dell'arte moderna avrà uno sviluppo nuovo? Io non lo so dire: direi, però, che un nuovo sviluppo del romanzo non possa cominciare senza una rivoluzione pacifica o una evoluzione bellicosa contro ciò che si chiama in Francia pomposamente l'arte sperimentale.
Emilio Zola ha fondato il suo metodo sopra due grandissimi errori. Anzi tutto, ha creduto che per giovarsi della scienza moderna a una nuova maniera d'intuire e di rappresentare la vita, bastasse dimostrare per via di romanzi un qualche nuovo canone scientifico; e nell'allucinazione sua è giunto a tale, da parergli che la ricerca del così detto documento umano fecondasse nel grembo dell'arte una miniera di esperienza scientifica. Ora non è questo un circolo vizioso? La dimostrazione d'una tesi scientifica reca qualche novità nel possesso dell'arte, e ne distende in qualche modo i confini, o non è in tutto simile alle altre dimostrazioni di altre tesi morali, religiose, patriottiche, e non ha in sè il peccato dell'opportunità e della temporaneità che hanno tutte le tesi? Il Niccolini in Italia è stato per cinquant'anni un dio; e ora, quando si è trattato di erigergli un monumento, ce lo siamo visto d'improvviso dolorosamente rimpiccolito tra mano. La tesi del Niccolini era patriottica, e nella rappresentazione o nella lettura delle opere sue recavano il lettore e lo spettatore una predisposizione dell'intelletto e dell'animo: ora, cessata la causa e venuta quindi quella predisposizione a mancare, l'equilibrio tra l'anima dell'opera d'arte e lo spirito del lettore è rotto, e l'ammirazione per l'artista scema. La tesi dello Zola non ha alcun merito di amor patrio, e corre per contrario un gran pericolo di caducità. Essa è fondata, come tutti sanno, sopra una alquanto controversa teorica darwiniana, sulla teorica dell'eredità; e la legge ereditaria appunto Emilio Zola ha voluto dimostrare con suoi romanzi, creando una famiglia di persone umane obbedienti a questa legge, facendone quasi un nuovo canone d'arte, poichè essa nel suo microcosmo tiene il luogo del fato antico. Or che mai sarà per avvenire nel microcosmo zoliano, se le nuove ricerche della scienza scartino questa legge?
Quello probabilmente, diranno molti, che è accaduto nel gran mondo della tragedia greca, dopo che gl'iddii greci o emigrarono o perirono. E sta bene. Se non che, prima ancora di vedere se la prosa narrativa dello Zola abbia in sè medesima tanta singolare vitalità d'arte quanta ne ha la poesia tragica greca, nasce un'altra osservazione: il principio della fatalità nell'arte greca non era una teorica scientifica, nè una didascalìa; era un sentimento universale e nativo del popolo greco, che nell'arte si ripercoteva da tutta quanta la vita, che, in una condizione passiva di riflessione e negativa di canzonatura, perdurò persino nella prosa lucianea: era il senso vago e pauroso dell'inconoscibile, che si rifugiava e si determinava in un concetto unico. Per ciò esso, crollato il mondo ellenico, non solo rivive in altre forme, ma ha tutta una larghissima vita storica, che conferisce alla tragedia e a tutta l'arte greca una importanza e una eternità di documenti umani. Ma la dimostrazione d'una qualunque tesi scientifica, sia essa la legge dell'eredità, o della gravitazione universale, o qualunque altra, che valore può avere? Come può non essere momentanea, mutabile e non necessaria, se è particolare? E come da una particolar legge si può giungere alla intuizione universale della vita? Sopra la legge dell'eredità ci è, più larga, più sicura, più efficacemente fattrice di arte perchè penetrata nella coscienza comune, quella della evoluzione, che riallaccia in un immenso movimento di vita il mondo naturale, il mondo umano, il mondo morale; ora a questa lo Zola non ha nè pur pensato, perchè partendo dal suo concetto dell'arte dimostrativa non avrebbe potuto giungervi mai. Il concetto suo è non solo artisticamente falso, ma anche scientificamente caduco, e piccino. Anzi si può dire francamente che scientifico non sia nè punto nè poco. Infatti, questo tanto vantato e raccomandato accumulamento di documenti umani, non è una cosa risibile, e, se si ha a chiamare con la parola propria, per quanto barbara anche in Francia, una mistificazione? Questi documenti umani mi hanno sempre fatto pensare alle carte d'Arborea: son documenti falsi. Quelle furono fabbricate da un frate assai abile nella calligrafia, per dimostrare che la Sardegna ha su tutta l'Italia un primato linguistico: questi da un potentissimo artista, per dimostrare la legge dell'eredità. In sostanza son fabbricati anch'essi, e lo Zola medesimo ci ha detto con qual metodo. E qui sta il circolo vizioso. Infatti questi documenti fabbricati con la presupposizione di quella legge, come possono servire per prova di quella legge medesima? La famiglia dei Rougon-Macquart edificata meccanicamente col preconcetto ereditario, che contributo può recare alla scienza, e come può essere la riprova artistica d'una proposizione scientifica? Anche scientificamente lo Zola è incorso in un errore grossolano e imperdonabile; poichè, pur pretendendo di fare opera sperimentale, non ha inteso che la gran novità della scienza moderna, (novità vecchia, per altro, poichè nel campo della speculazione discende da Cartesio e in quello della ricerca dal Galilei) sta tutta nel metodo: la scienza moderna procede induttivamente. L'esperienza non consente preconcetti o presupposizioni: essa non presuppone altro che i fatti, e dall'esame dei fatti ascende alla intuizione e alla determinazione della legge. La scienza moderna segue in tutto il metodo di Socrate, il quale per persuadere la propria coscienza della sapienza sua, prese ad esaminare tutti gli uomini ateniesi; e da questa indagine si ridusse alla persuasione piena. Emilio Zola, invece, è aristotelico.
L'altro grandissimo errore consiste nel criterio ch'egli ha dell'opera di Balzac. Egli ha considerato Balzac come l'inventore, o almeno come un rinnovatore del romanzo moderno, senza riguardo allo sviluppo generale di questa forma dell'arte. Prima di tutto, Balzac, tra la smania teorizzatrice del romanticismo, non intese di creare un sistema: egli si appigliò al romanzo, come a un qualunque mezzo d'arte e di sussistenza; e fra la pompa fantastica e la bella facilità di quel beato tempo entrò come un intruso, come un coscritto di cervice dura e di molto buon volere, che s'affatichi ad andare al passo con gli altri coscritti e a stare in riga e a non lasciarsi nella marcia sopraffare dalla compagnia. Egli fu un romantico ammiratore di Lamartine e dedicatore di libri a Victor Hugo; e in tutta l'opera sua ci è una latente aspirazione al romanticismo sentimentale. Trovò il romanzo già maturo: da una parte, la forma più largamente e profondamente sperimentale tentata sinora nel romanzo, che è la forma storica, propagantesi in tutto il mondo per virtù di Walter Scott, dall'altra il romanzo dell'anima umana cominciato forse con la Clarissa Harlowe di Richardson, accennato certamente nei libri romanzeschi di Rousseau, proseguito da Goethe, da Gian Paolo Richter, dalla Staël, tratto per la Via Sacra sopra la quadriga trionfale tra le acclamazioni del popolo da Beniamino Constant.
Per credere che il romanzo sperimentale sia un acquisto di Balzac all'arte moderna, bisogna essere ingenui come il professore Rodolfo Renier, il quale si meravigliava tempo addietro per le stampe di vederlo accusato di romanticismo; e citava in prova contraria Madame Bovary. Proprio Madame Bovary? E dire che il professore Renier, quando faceva professione di critica estetica, pubblicò certo suo studio su Cervantes! Non s'è avveduto il professore Renier che Madame Bovary è rispetto al romanzo sperimentale ciò che il Don Quijote è rispetto al romanzo di cavalleria, una caricatura o una critica, ma pur sempre sperimentale come questo cavalleresco? Ora Flaubert non rappresenta la signora Bovary come una vittima del romanticismo? E i romanzi letti da quella caballera andante dell'amore non erano proprio sperimentali, o erano il romanzo di Lancilotto e il Pecorone di ser Giovanni Fiorentino?
Badate che io adopero con tanta facile leggerezza questo aggettivo di sperimentale, perchè, nel giudizio mio, applicato al romanzo, esso non ha virtù alcuna determinativa o dichiarativa; ma è un sonaglietto messo in cima a un castelletto di carte per chiamar gente intorno a una teorichetta faticosa. Il romanzo sperimentale dunque, chiamiamolo pure così, raccoglie nelle ampie braccia del romanticismo Beniamino Constant e Walter Scott, il Manzoni e la Staël, Balzac e la Sand, lo Zola e Dumas figlio, i fratelli De Goncourt e Daudet, Richter e Rousseau, Goethe e Victor Hugo: tra l'uno e l'altro di costoro corrono distanze grandissime di metodo, d'intelletto, di studi; ma il vincolo comune è appunto in un più o meno bene inteso e conseguito amore della verità. Qual mai romanziere darwiniano è stato tanto ferocemente fautore del documento umano quanto Gian Giacomo, che volle pubblicare tutte le vergogne sue? E i Miserabili al bel tempo victorughiano non ottennero una più larga lode di verità umana, che non ne abbia ai nostri dì avuta l' Assommoir? E qual naturalista è stato più serenamente limpidamente sicuramente sperimentale del Manzoni?
Il professor Renier, che è uno dei più assidui interrogatori e responsori del Giornale dei cretini e curiosi, si meraviglia di vedere annoverati lo Zola e Flaubert fra i romantici. Altro che romantici, mio caro e buono e grosso professor Renier! Voi siete professore di filologia romanza, ma pare che abbiate poca esperienza del romanticismo, se bene quella sia una filiazione e insieme una fattrice di questo. E che altro mai fu dunque il romanticismo, se non un rinnovamento e un allargamento del mondo mitologico? La mitologia gentile cristallizzata nelle sue forme esteriori, per virtù delle fate romantiche rifiorì novellamente e frescamente e verdemente giovine in un flusso di poesia che dall'inno agli dèi della Grecia scorre sino al rinascimento di Elena e al nascimento di Euforione; di più, tutto un nuovo mondo mitico fu scoperto a benefizio dell'arte dalla esplorazione scientifica. La mitologia vedica e tutte quante le mitologie germaniche e le medievali, commiste bellamente insieme in un coro meraviglioso, danzarono armonicamente al suono di nuove e rinfrescate forme poetiche: le leggende storiche e le passioni umane furono stupendamente significate in forme mitologiche. E accanto al mito geologico delle Madri nacquero il mito della feudalità espresso nel Götz von Berlichingen e quello dell'amore infelice incarnato nel Werther; il substrato fantastico dell'arte fu accresciuto e allargato, e i miti dell'anima umana entrarono in trionfo in quel mondo delle forme estetiche ove Federigo Schiller vide il tempio dell'arte moderna. E, guardate: appunto Balzac, il quale senza essere darwiniano fu tra i più potenti intuitori della vita, in uno de' suoi romanzi si domanda se per avventura le nuove significazioni della passione non fossero una mitologia non saputa dagli antichi, rappresentatori di tutti i fatti e di tutti gli aspetti della natura.
Balzac dunque non scoperse una inconosciuta plaga romanzesca, ma nella selva già per molta parte abbattuta prese con tutta la forza delle sue braccia a tagliar alberi. E poichè la forza delle braccia sue era molta, il taglio fu, quanto non potè più essere mai, grandissimo. Egli recò in quest'opera le peculiari attitudini del suo ingegno, e la sua potente originalità; ma nella forma universale del romanzo osservativo si può dire che non mutasse nulla. Infatti ci è voluto il sospetto buon volere dello Zola per scoprire nello sciagurato esploratore di miniere una missione e un'opera innovatrice. Balzac una sola cosa ha fatto: ha conquistato al romanzo un materiale sino a lui infruttifero. A lui il senso, diciamo, poetico della vita sfuggiva; anzi, per confessione sua propria, non sentiva nè pur l'elemento musicale del verso. Era tutto penetrato e materiato di prosa: era il nume vero della prosa, apata ad ogni soffio lirico, ad ogni emanazione epica, ad ogni concitamento drammatico; e in mezzo al romanticismo, che fu tutto un lievito di poesia, appare come Guerrin Meschino fra la festa in onore di Macometto. Però, egli, come il Meschino, e come Bertoldo, ebbe il buon senso di calarsi le brache e di mostrare il sedere alla poesia: e qui sta la sua gran forza.
Egli infatti, non giungendo a cogliere il vago e l'impalpabile che era come la nota fondamentale del romanticismo francese, e nel mondo romantico non potendo afferrare l'immateriale, si buttò con animo disperato alle cose esteriori, e trovò un campo vergine nell'attività industriale della vita. La formula della pretesa rivoluzione di Balzac, eccola: les affaires! Gli affari, proprio. Egli seppe cogliere un elemento d'arte nel giro delle cambiali, nella diffusione monetaria, nelle ambizioni suscitate fra la società umana dall'agente metallico; e pose per cardine della vita moderna lo scudo. Fondò dunque anche egli una generazione di miti, e fra gli dèi del romanticismo guidò in trionfo il vitello d'oro. Si può dir questa una rivoluzione? Per me, e per chiunque ha delle rivoluzioni un concetto sano, questo non è altro nè più che un contributo. Contributo larghissimo, certo; ma rivoluzione, non mai. Questo, in quanto al materiale. In quanto alla forma che per opera di Balzac trovò questa materia, io non so intendere come un uomo di tanto ingegno, quanto è quello del Zola, possa in buona fede predicarla come un universal canone d'arte. Ha egli dunque dimenticata la singolarità dell'intelletto di Balzac? Balzac non aveva il tocco sicuro e l'imagine netta: il fantasma nella sua mente era come velato da una nebbiolina maligna, e non poteva essere buttato nella prosa con una pennellata sola, franca, brutale. Egli doveva procedere alla lucidazione minuta del suo pensiero nelle parole, lentamente, ordinatamente: alla sintesi fantastica, che da un contorno confuso elice una figura viva, non potè giungere mai, e dovette miniar sempre: se avesse trascurata una linea o un punto, la rappresentazione non sarebbe stata più piena. Perciò egli procede ordinatamente, e dovendo dar l'imagine d'una cosa comincia dai comignoli e scende alle fondamenta, e dovendo rappresentare una passione o raccontare un fatto, procede come se facesse un ragionamento logico. Egli dunque si vale dei mezzi che sono in suo potere per giungere allo scopo finale dell'arte: non elegge quella forma deliberatamente perchè gli sembri l'unica eccellente, o, almeno, la migliore. Così la sua minuziosa cura dei particolari fu per lui una necessità, non una elezione: anzi, quando la materia gli consentì un maggior ozio fantastico, egli se ne giovò volentieri: così nella terza parte del Grand'homme de province à Paris, così nella seconda di Béatrix, così nell' Interdiction, così ovunque potè subito cogliere l'elemento drammatico e raccoglierlo in pochi tratti. Questo medesimo procedimento di ciascun suo romanzo si riscontra nel complesso dell'opera sua. Egli forse è l'artista moderno che meno facile abbia avuto la universale intuizione della vita, poichè procedette partitamente, costringendo entro limiti determinati ciascuna contemplazione; e solo a mezzo dell'opera si avvide che le rappresentazioni sue non davano un'imagine complessa della vita, che fra l'una e l'altra v'era una soluzione di continuità, e volle rimediare al difetto congiungendo a forza le une alle altre quelle membra disgregate. Se non che, nessuna operazione chirurgica può trasfondere una comunione di sangue e di anima in organismi d'arte diversi; e il gran peccato di Balzac sta appunto nel nesso meccanico ond'egli volle innestare i suoi romanzi. Egli, in sostanza, lo abbiamo veduto, non fu più sperimentale degli altri romantici, poichè non procedè per induzione: egli non risalì dalla singola esperienza della vita alla intuizione ideale, e non rappresentò l'uomo direttamente; ma secondo certi suoi peculiari criteri raccolse e fuse le note particolari intorno a creature umane complesse e collettive: fece quel che, per la necessità del teatro, dovettero fare i comici: creò dei tipi. Creò in Cesare Birotteau il tipo dell'uomo colto dalla febbre ambiziosa dell'ingrandimento, nel padre Grandet l'avaro, nella marchesa d'Espardes la bella intrigante, come Plauto creò anche lui il tipo dell'avaro, come lo creò anche Molière, come tutti i comici crearono dei tipi. Ora questi tipi, isolati, sono di una efficacia grandissima, poichè ognuno di essi si scinde quasi e si moltiplica nelle infinite varietà che concorrono alla constituzione di quella categoria umana; ma quando son tutti insieme raccolti sopra un palcoscenico, ove la determinazione dell'ambiente proibisce loro ogni sviluppo, la larghezza dell'opera complessiva scema. Un mondo popolato di tipi è inconcepibile; se poi li riducete nei confini angusti dell'individuo, quel mondo diventa un microcosmo. E se leggete la Comédie humaine tutta di seguito, se bene quasi tutte le sfumature della vita moderna vi siano raccolte, sebbene vi si aggiri per entro una gran gente, la più chiara sensazione che ne dedurrete sarà di angustia: vi parrà di essere in un villaggio, ove sono in miniatura rappresentate tutte le varietà della constituzione umana, ma voi non potete resistere al fastidio di veder sempre quelle medesime facce. In Balzac accade appunto questo: in ogni romanzo ci è un tipo, e le altre persone stanno intorno per necessità scenica e narrativa, come patate intorno a una fetta di manzo: sicchè ciascuna creatura sua funge a volta a volta da tipo o da patata.
Questo, come ognun vede, è pochissimo sperimentale. E poi, Balzac non ha alcuna ambizione sperimentale: anzi egli è, direi, dottrinario e cattedratico. A lui piace straordinariamente di far lezione, e di disserire; e in un romanzo con un lunghissimo discorso mostra tutte le magagne del codice di commercio in fatto di protesti cambiari ed espone un trattato compiuto di arte tipografica e di fabbricazione della carta, in un altro fa la storia esteriore e commerciale della letteratura francese dal '20 al '30, in un terzo con singolar competenza fa la critica della giurisdizione dei tribunali di commercio nei fallimenti; e si può dire che non ci è romanzo, ov'egli non siasi fermato ad erudire o a teorizzare. Egli fa la dissertazione economica, come Walter Scott la dissertazione storica. Egli approfitta della sua molta esperienza e della sua tanto più sicura e profonda quanto meno rapida e meno larga intuizione della vita; ma è subbiettivo e deduttivo. D'onde dunque Emilio Zola ha pescato la sperimentalità e il naturalismo di Balzac? E d'onde il suo?
Anch'egli si è fatto un sistema meccanico di intuire la vita, più meccanico assai e più angusto e più subbiettivo che non quello di Balzac. Come Balzac egli ha la potenza di rappresentare vivamente le creature della sua fantasia, ma son creature della sua fantasia, e non creature umane; e poche opere d'arte sono nel loro complesso più false della sua, poichè una famiglia che tanto rigidamente strettamente fatalmente obbedisca alla legge dell'eredità, è una fanfaluca che fa ridere non pure un ricercatore scientifico, ma un qualunque accidentale lettore dei libri darwiniani. La sua arte poetica, chiamiamola così, è una sì faticosa convenzione, che ci è voluto tutto lo straordinario vigore del suo ingegno per cavarne degli effetti mirabili. Lo Zola non è penetrato di prosa, come Balzac: in lui anzi gli elementi poetici, fantastici e melodici, prevalgono; e l'anima del romanticismo palpita in lui più schiettamente. Egli ha scarso e stentato il senso umano; ha, più profondo e più largo, il senso della natura; in genere, di tutte le cose esteriori. Così, nei suoi libri, gli uomini non sono il centro della vita; anzi non sono che strumenti passivi dell'ambiente esterno. Il concetto della lotta manca, o è inteso in un senso angustissimo, da uomo ad uomo. Ma l'uomo della Zola non resiste alle altre opposizioni. Ci è il grasso che si oppone al magro, il plebeo che si lascia sopraffare dal borghese, il bastardo nervoso che soggiace al figliuol legittimo adiposo o muscoloso; ma l'abate Mouret dall'odor dell'erba e dei fiori è tratto senza difesa alla sconfitta, ma Renata dallo spettacolo della grande vita parigina è tratta quasi inconsciamente al peccato, ma Coupeau dal buon sole caldo è tratto senza rimedio al vino. Il preconcetto ereditario destituisce le creature dello Zola d'ogni energia vitale, e la forma più schietta dell'uomo zoliano è Desiderata, quella povera sciocca sorella dell'abate Mouret, che vive vegetalmente. L'uomo zoliano ha suoi bisogni fisiologici, e li vuol conseguire, a qualunque costo, rubando o prostituendosi; quindi esso si scinde in due omuncoli, uno che ruba, e un altro che si lascia rubare, uno che si prostituisce, e un altro che costringe il primo a prostituirsi. Come vedete, non ci potrebbe essere una intuizione più meschina, più falsa, più artificiosa, dell'umanità. La vita dunque è tutta nelle masse, nel complesso delle cose non animate o almeno non intelligenti: sono le piramidi dei formaggi, sono i mucchi dei cavoli, sono i fasci dei fazzoletti, è l'aria, è il cielo, che guidano il carro della vita: l'uomo solo resta passivo. Esso è allo stato in cui lo trovò Gulliver nell'isola dei cavalli: è trascinato nell'orbita della vita, inconscio e involontario, pago di poter cogliere qualche bacca rossa che lo tenti di fra la verzura d'una siepe. Esso non solo è veramente immorale, ma è anche inutile per l'arte. E in fatti a che serve l'uomo, se il dramma è tutto nelle cose brute? A che serve l'uomo, se è l'ambiente che palpita artificialmente, come un pulmone morto per virtù d'una macchina inalatrice? La stessa disuguaglianza che è tra l'elemento umano e gli altri elementi naturali, è in questi medesimi elementi fra loro. Nella lotta per la vita, lo Zola non concede rappresentanza veruna alle minoranze; nella rappresentazione, come fu già osservato, egli non crede alla prospettiva. Non vede che la massa eguale, e tutti gli oggetti colloca sul medesimo piano, senza tener conto delle differenze: i più grandi e i più piccoli, i più vicini e i più lontani, tutti sono messi a un medesimo livello e ridotti a una sola dimensione. Così la rappresentazione sua ha qualcosa di piatto, una inarmonia faticosa e affaticante, una monotonia fastidiosa. È un cubo, che vorrebbe parere piramide. È un ronzìo confuso d'insetti che vorrebbero accordare lo stridore delle elitre a qualche grande sinfonia beethoveniana. E per animare questa massa pesante, lo Zola ricorre alle più pazze aberrazioni di stile. Tutte le cose inanimate si movono e fremono e parlano; e si aggruppano in proposizioni tutte seminate d'incisi, e si volatilizzano in astrazioni singolari, e si travestono in metafore pazze. Nessun secentista mai potè essere più smodato e più barocco coloritore dello Zola. Lo stile dello Zola, nell'espressione delle cose esteriori, ha qualche rassomiglianza con quello di Victor Hugo. Anche lo Zola, come Victor Hugo, raccoglie l'anima e la voce delle cose: paragonate il libro delle cloache parigine dei Miserabili con tanti capitoli del Ventre di Parigi e di altri romanzi zoliani, rammentate i Lavoratori del mare. Molto lo Zola ha succhiato di qui, e si può dire con certezza che nella descrizione egli sia il francese più schiettamente victorughiano, e si può infine asserire che, a malgrado di certe particolari modalità tecniche derivate dal Balzac, a malgrado dello sforzo di tenersi rigidamente ossequente al suo preconcetto scientifico, egli discenda direttamente da Victor Hugo, e da tutto quanto il romanticismo. Ricordate, nella Faute de l'abbé Mouret, il Paradou? Un parco deserto, fruttificante di tutti i frutti e fiorito di tutti i fiori, selvaggio, abbandonato; qualcosa di immensamente grande e di immensamente giovine, che tramanda un odore di verginità. E una coppia, un maschio e una femmina, in istato d'innocenza, trascorrente per quell'immenso verde liberamente francamente fatalmente all'amore? Non è questo il Paradiso terrestre, non è questo il primo accoppiamento umano? E non sentite in quella prosa fremente di voluttà vegetale ripalpitare la vecchia anima di Chateaubriand passata a traverso il gran cervello di Victor Hugo? Chateaubriand aveva un preconcetto religioso, Victor Hugo un preconcetto vago tra patriottico e sociale, lo Zola un preconcetto scientifico; ma son romantici tutti; poichè il romanticismo fu singolarmente teorizzatore e infetto di pregiudizi.
E se volete cogliere al varco del romanticismo Emilio Zola, lasciate da parte i suoi romanzi scientifici, e guardate le sue novelle, che non son fatte per dimostrazione di nessuna legge darwiniana. I vecchi e i nuovi Contes à Ninon sono storielline, alcuna fantastica, le più di quella maniera che fu detta realistica: sono filiazioni della Vie de Bohême, sono piccoli poetizzamenti di piccolissimi fatti umani, ove l'arte è tutta nella forma, ove l'ossatura è nulla: il Capitano Burle che dà il titolo alla terza serie di novelle zoliane, è tale da non poterne dire, senza venir meno al rispetto dovuto a un uomo di tanto ingegno, se non che è lontana da ogni similitudine di verità; l'ultima serie, che s'intitola Naïs Micoulin, è la migliore di tutte, ma anche in questi raccontini si sente l'afflato di Mürger.
La prima novella infatti, Naïs Micoulin, narra di un signorino che cominciò una tresca con la figlia del suo mezzadro: costui, naturalmente, se ne avvide, e una volta per annegare il signorino issò la vela della barca con la quale avevalo condotto alla pesca, e virò contro vento. La navicella si capovolse, il giovine si salvò per miracolo. Naïs intanto, avendo veduto ogni cosa dalla riva, prese a vegliar sull'amante; e una volta che egli era andato a caccia col vecchio mezzadro, mentre costui, rimasto indietro, già levava lo schioppo per tirare sul signorino, Naïs con una spinta sviò il colpo. Infine, il terribile vecchio perì travolto in una frana scavatagli sotto i piedi da un gobbo che amava Naïs d'una passione da gobbo.
Ora questa Naïs, questa campagnola così stranamente percossa dalla vibrazione del senso e così vivamente animata dalla gentilezza d'amore, così serenamente impudica e così soavemente affettuosa, è appunto una discendente delle crestaine amabili che fioriscono di tanti schietti sorrisi le pagine di Enrico Mürger. È proprio così. Lo Zola, nella novella, senza il suo apparato scenico, senza la teatralità dell'ambiente, senza il suo mito scientifico, è volgare come nel Capitano Burle e in Nantas, o è fiacco come in quasi tutte le altre novelle. Riesce a qualche vivace freschezza di sentimento umano e di colore esteriore, solamente quando riprende quella vena di realismo ottimista e cortese e poetico, che dalla fantasia di Mürger di Heine di Gérard de Nerval si diffuse nel romanticismo francese.
Or accade del sistema zoliano pseudo-scientifico quel che accade del sistema empirico di Daudet, quel che accade di tutti i sistemi: invecchia. A furia d'insistere in un concetto, la mente quasi vi si paralizza e vi s'irrigidisce; di più, scemando quella freschezza e quella particolar potenza dello scrittore che in prima copriva le magagne del sistema, appare come una ossatura scarnata, misera, tarlata. E non guardate Zola: guardate invece gli escrementi dei pulcini dischiusi dalle uova che Zola ha disseminate pel mondo civile. Non vedete stronzolini miserandi, che si sgretolano e se ne vanno in cenere, mentre quei pulcini orgogliosetti pigolano tutti quanti un coro di gloria al romanzo sperimentale?
Il romanzo sperimentale! E Carlo Dickens lo avete dunque dimenticato, o pigolatori spennacchiati e molesti?
IV.
Un altro fattore barbarico di prosa, sono i romanzi tedeschi. A quale miseria siamo dunque noi pervenuti, da dover chiedere aiuto alla Germania, la quale oltre il Werther e qualche racconto filosofico di Gian Paolo Richter non ha nella storia del romanzo moderno alcun luogo onorevole? E pure, i novellieri campestri tedeschi, in Italia, ove la letteratura germanica è ignorata quanto l'italiana, hanno indotta la consuetudine del regionalismo narrativo. La casa Treves e il signor Salvatore Farina, appaltatore di romanzi stranieri come il signor Vittorio Bersezio di comedie francesi, si dànno somma cura di riversare in Italia tutte le scolature del romanticismo tedesco; e non ci è novelletta sciapita di Federigo Spielhagen, o scempiaggine di Elisabetta Marlitt, che non sia tradotta e donata in premio agli associati di questo o di quel giornale.
Veramente ora l'influenza germanica, per la gran prevalenza zoliana, scema; ma ci è stato un tempo che Salvatore Farina, Cesare Donati, e non saprei quali altri, si smammolavano a cucinare in forma narrativa i pasticcetti di ciliege e gli spezzatini d'oca novella che piacciono tanto alle borghesucce alemanne. Pareva di vedere la vetrina d'una bottiglieria, tanto giulebbe e tanto vivaci colori e tanta carta dorata c'era solo nei titoli. O Amore bendato, o Tesoro di donnina, o Fiamma vagabonda, o Fante di picche, o liquefacimento d'un cervello non certo, per natura, impotente, ove siete voi? Il popolo italiano vi ha ingoiati tutti, o tenui romanzi fatti di caramella e di polvere cipria; e voi siete passati pe' suoi organi digestivi senza potervi assimilare. Questo porco popolo vi ha ricacati al primo canto di strada. Giusta penitenza del vostro peccato.
L'influenza tedesca dunque non continua se non indiretta, aizzando il regionalismo narrativo, e propagando la novella campestre. Vediamo dunque il racconto rusticano tedesco; e, poichè tutta questa è la più sicuramente e prestamente moritura prosa che si scriva ora, cominciamo con una necrologia.
Nel 1841 apparve un'epistola in rima di Ferdinando Freiligrath a un giovine scrittore wurtemberghese noto per alcuni romanzi filosofici e per parecchi racconti rusticani che avevano levato un qualche rumore. Quel giovine, che non aveva ancora trent'anni, si chiamava Bertoldo Auerbach; e il Freiligrath gli era largo di tante lodi, che tutti gli occhi della Germania furono subitamente conversi a lui, nè d'allora in poi se ne rimossero mai. Era naturale: tramontato a poco a poco il meriggio luminoso della grande letteratura tedesca, parevano imminenti le più fosche tenebre. Sembrò dunque un miracolo, che sorgesse ancora uno scrittore, al quale Ferdinando Freiligrath potesse dire con coscienza: il tuo è un libro davvero; e il miracolo parve tanto più lieto e tanto maggiore, che la Germania, la quale nel dramma osò lottare con l'Inghilterra, nella lirica con l'Italia, nella critica filosofica e filologica con tutta l'Europa, non aveva altri romanzi famosi che quelli di Goethe e di Gian Paolo Richter. Le Dorfgeschichten si levarono dunque come uno stormo di cicogne pellegrinante dal Danubio al Reno, salutate da applausi senza fine; poi valicarono il Reno, e viaggiarono tutta quanta l'Europa e l'America, portando da per tutto il nome di Bertoldo Auerbach.
Costui era nato trent'anni innanzi a Nordstetten, tra le forre più belle e più selvagge dello Schwarz-Wald, ed era un ebreo. Studiò giurisprudenza a Tubinga; poi, convertito da David Strauss alla filosofia, seguì a Monaco il corso dello Schelling e quello del Daub in Heidelberg. Imprigionato a Monaco nel 1835, nell'irrompere dei lieviti rivoluzionari fra gli studenti, escito appena di carcere si accapigliò col Menzel che combatteva la Giovine Alemagna heiniana. Aveva seguìto con diligenza i corsi dello Schelling e del Daub nella persuasione di esser nato con buone attitudini filosofiche; ma come si trovò nella maturità e nella libertà piena delle forze, quella persuasione cominciò a mancare, e i primi passi lo spaventarono. In quel dubbio, si pose per una via falsa: volle predicare col romanzo la filosofia del suo maestro, volle spremere il succo dello Spinoza, e condirne degli scritti popolari.
La serie dei romanzi filosofici dell'Auerbach è lunga assai, e darne un elenco sarebbe cosa troppo vana e noiosa: rassomigliano un poco alle comedie a tesi; ma non sono insopportabili; anzi parecchi di essi, come La Scalza, Auf der Höhe, Edelweiss, piacquero anche in Italia e in Francia, ove l'odio per ogni sistema filosofico è fiero ed universale. Nuoce ad essi il preconcetto didascalico, e il calore e il colore si smorzano nella monotonia della dimostrazione. Ma questo i critici tedeschi non rimproverarono all'Auerbach, perchè in Germania, ove pure la teorica dell'arte per l'arte ebbe in Heine il maggior suo predicatore, il romanzo di rado è libero da preconcetti filosofici. I critici tedeschi gli rimproverarono molte altre cose che noi non gli rimproveriamo, perchè il tempo farà giustizia da sè e seppellirà i romanzi filosofici dell'Auerbach, dei quali una ristampa compiuta in molti volumi deve esser escita o prossima ad escire in luce.
Le prime Storie del villaggio apparvero nell' Europische Revue del Lewald, alla quale l'Auerbach collaborò assiduamente ne' due anni che rimase a Frankfurt sul Meno. Passò di là a Bonn e a Magonza, ove tradusse in tedesco tutte le opere dello Spinoza. Seguitò così sino alla fine la sua vita pellegrina, senza fermarsi mai a lungo in una città: fu a Vienna, affatto decaduta dallo splendore antico e non più sogno dei principianti, a Lipsia che era allora come tuttavia è l'emporio e l'officina della coltura tedesca, a Dresda, a Berlino, a Breslavia, ove si ammogliò. Con la moglie fece il viaggio di nozze per le province meridionali, e più lungamente si fermò in Heidelberg, ove gli sorridevano molti ricordi della sua vita universitaria. Rimasto vedovo, ricominciò a pellegrinare, ed entrò in Vienna tra le fiamme della rivoluzione del '48; poi visse per qualche anno nella solitudine silenziosa d'un villaggio dell'Harz. Ma, infastidito anche della solitudine, e rigermogliando in lui il desiderio d'una vita più romorosa e più laboriosa, si riammogliò a Dresda e andò a fermarsi a Berlino, ove ottenne un posto d'insegnante nelle scuole della Società operaia. Nella guerra del 1870-'71 fu addetto al quartier generale del granduca di Baden, e partecipò all'assedio di Strasburgo; due anni a dietro avea fatto un viaggio in Olanda in cerca di materiali per uno studio sullo Spinoza. Ma la reputazione di Auerbach riposa sulle due serie delle Dorfgeschichten, su queste storielle semplici che hanno un odor di timo e un sapore di birra wurtemberghese.
Dopo tanta orgia idealistica una riazione era desiderabile: dopo Hoffmann bisognava augurarsi un narratore poco fantastico, un narratore borghese che dèsse alla Germania delle novelle non fondate in quel regno dei sogni ove con tanto poco lume profetico disse Heine essere il dominio del popolo tedesco. Questo narratore fu Auerbach, intorno al quale sorsero Paul Heise, Sacher-Masoch, Spielhagen.
Noi abbiamo veduto l'Auerbach errante per la Germania senza riposo: egli non viaggiava solo per una certa irrequietudine innata in lui e per la smania del vagabondaggio: volle studiare e rappresentare tutta quanta la vita tedesca, tanto variamente colorita di sfumature digradanti, tanto popolata di tipi di costumi e di paesaggi dissimili, dai terrapieni che cingono le casematte di Berlino e dalle maree di Koenigsberg alle schiene audaci delle Alpi tirolesi e alle risaie di Szegedin, predilette dalla Theiss. Nelle storielle campestri dell'Auerbach si sente sempre il compiacimento di ritrovarsi in mezzo a quella vita desiderata, sicchè un caldo soffio tibulliano spira di pagina in pagina, e finalmente riesce stanchevole. I suoi tipi maschili e femminili esteriormente sono sempre veri, ma nella loro vita interiore assai spesso sono falsi: il pievano Ivo, per citare un esempio, ne' suoi amori con Emmerenza e nella sua vita di scolaro a Horb e a Heiningen è intuito e rappresentato stupendamente; ma quando disputa di teoriche spinoziane con un vaccaro, ma quando in seminario si abbandona alle più strane e più torbide fantasie ascetiche e metafisiche, allora tutti quanti gli artifizi di una penna abile non riescono a conferirgli colore di verità. L'Auerbach ricalcò la vecchia via romantica, e si accontentò delle apparenze della verità, difetto ch'egli ha comune con gli altri moderni novellieri tedeschi, specie coll'Heise. L'Auerbach aborre dalla lussuria del colore e dall'abuso del paesaggio, che nella moderna letteratura germanica, come in tutte quante le letterature moderne, sono una vera malattia: nelle Storie del villaggio il colore predominante è il verde, diffuso con una misura degna del grande maestro Goethe; e il paesaggio non si affaccia prepotente e petulante a sopraffare la vita delle figure umane, ma solamente appare accennato e sfumato in lontananza; sicchè queste storielle hanno un movimento gaio e una vivacità drammatica affatto nuova; e anche della novella italiana ritraggono quel lievito d'ironia pullulante e sprizzante naturalmente dall'osservazione acuta degli uomini e delle cose.
L'Auerbach tentò pure la scena, ma senza fortuna. Caldo ancora delle impressioni della rivoluzione viennese, scrisse una tragedia: Andrea Hofer, ch'era un tentativo d'introdurre il realismo nel dramma; ma le tradizioni schilleriane erano troppo fresche e troppo profondamente radicate perchè quel tentativo potesse riescire a buon fine, e la tragedia fu condannata. Nemmeno nella commedia, la quale in Germania pare non possa attecchire, l'Auerbach fu fortunato, e il suo Wahrspruch cadde fra il silenzio e gli sbadigli d'un uditorio poco difficile e avvezzo ai pasticci del Kotzebue. Fortunatissimo invece fu nel pamphlet politico. Il suo Wiener Tagbuch, ove molto vivacemente erano schizzate e colorite le vicende della rivoluzione, fu letto da tutti i Tedeschi che sapevano leggere; il suo Wieder Unser, a proposito dell'Alsazia riconquistata, stampato a Stoccarda nel '71 fra il primo tripudio della vittoria, suscitò un entusiasmo immenso; e specialmente le lettere sull'assedio di Strasburgo parvero miracolose. Così di un foglio volante pubblicato dall'Auerbach sul primo scoppiar della guerra si vendettero tre o quattrocentomila esemplari. In questo foglio, come negli altri scritti politici, l'Auerbach si dimostrò quale veramente era, un tedesco puro e fanatico, una specie di Atta-Troll wurtemberghese, ma non un Atta-Troll politico. In arte, come egli stesso scrisse ad un Italiano, seguiva in tutto il grande maestro Goethe, il quale sognava una letteratura internazionale. Così, mentre un novelliere mezzo tedesco mezzo slavo, il Sacher-Masoch, fondava a Lipsia una rivista panslavista, Bertoldo Auerbach combatteva il panslavismo risorgente e ribattagliante intorno al corso superiore dell'Oder; mentre a Monaco Paul Heise, lontano dai rumori del mondo, placidamente traduceva le poesie del Giusti e del Leopardi, Bertoldo Auerbach, questo mite e rozzo indigeno della Selva Nera, dagli accampamenti del Granduca di Baden sparpagliava una prosa piena di fiamme, attizzando nei petti tedeschi le ire, i desidèri e l'amore della Germania.
Le storielle di Auerbach non solo in Germania ebbero fortuna; ma, tradotte in molte lingue, piacquero in tutto il mondo, e, cosa strana, conferirono non poco allo sviluppo eccessivo del paesaggio. Perchè accadde quel che quelli, i quali dopo di lui scrissero racconti rusticani, non ebbero dell'elemento umano quella intuizione acuta che ebbe l'Auerbach; ma più volentieri si fermarono all'elemento esteriore. Sacher-Masoch, il californiano Bret-Harte, parecchi in Italia, spesso lottano con lui non senza onore, e qualche volta riescono più forti e più veri; ma nella freschezza, ma nella moderazione, ma nella sanità della visione e della forma, l'Auerbach sta sopra tutti: egli è sempre eguale a sè stesso, placido semplice schietto, col suo risolino ironico di buon vecchio Gevaltermann e di spinoziano giubilato. Se dalla prosa sua si levano certi vapori tiepidi e rosati che annebbiano la sincerità della rappresentazione, bisogna essergli indulgenti: egli visse tra le ruine del romanticismo, e raccolse nella prosa tedesca l'eredità di Richter, di Hoffmann, di Chamisso.
Resta, con Paul Heise, Leopoldo di Sacher-Masoch, il quale è un tipo strano assai. Popolare in Francia quasi quanto il Turghenief, mena in Germania una vita avventurosa tra la furia delle lotte politiche, delle polemiche letterarie, degli assalti di spada. L'anno scorso i giornali tedeschi annunziavano il suo ultimo duello, che ebbe appiglio da un fatto curioso. Egli dirige a Lipsia una rassegna panslavista, intitolata Auf der Höhe, In Alto, alla quale, con altre scrittrici, coopera la moglie di un maggiore Herder; ora, essendosi il Sacher-Masoch presa la libertà di scorciare un articolo troppo prolisso della signora Herder, il maggiore senza altro lo mandò a sfidare. Come la cosa sia andata a finire, non so; ma so che il Sacher-Masoch è un temibile spadaccino, e che quando, uscito degli Archivi viennesi, prima di conseguire la catedra di storia nell'Università di Gratz, incominciò a fare il privato docente, aveva già combattuto in trentadue scontri a Praga e a Vienna; e allora aveva poco più di ventiquattro anni.
I Sacher in origine erano spagnoli: andarono in Germania a battersi contro la lega smalkaldica, e finirono con acclimatarvisi e trapiantarvi la sede della famiglia; passarono in Galizia quando già questo lembo di terra slava, nello smembramento della Polonia, era stato assorbito dall'Austria. Il padre del romanziere, pur avendo vive simpatie per la Polonia sacrificata, servì fedelmente il governo imperiale, fu consigliere aulico e capo della polizia di Lwow, o Lemberg. Così Leopoldo, nato il 27 gennaio 1835, crebbe in un uffizio di questura, fra l'irrompere delle rivoluzioni polacche e delle sedizioni contadinesche. Sua madre era una galiziana, alla quale bolliva nelle vene puro e fresco il sangue degli Huzuli e delle tribù cosacche della Piccola Russia; egli dunque al cognome spagnolo paterno di Sacher accoppiò quello slavo di Masoch, ereditato dalla madre, e per tutta la vita portò stampate nella memoria le impressioni e le imagini raccolte nell'infanzia: i ceffi dei briganti incatenati coi cospiratori polacchi, le facce verdi degli ebrei e i profili audaci delle contadine slave, le leggende del buon tempo antico e i processi politici, le mormorazioni e le insurrezioni contro il giogo imperiale.
I suoi primi anni scorsero, s'è detto, tra le fiamme delle guerre civili in Galizia e in Boemia; egli si affaticò assai e si fortificò con tutti quanti gli esercizi del corpo, respirò a lungo e largamente l'aria libera delle campagne, si popolò la memoria di molte favole contadinesche, e fu anche filodrammatico di belle speranze; ma studiò poco e male, e a vent'anni, senza saper come, si ritrovò dottore in legge, e impiegato presso gli Archivi di Stato di Vienna. Ottenne di poi una catedra di storia nell'Università di Gratz, ma fu un cattivo professore: in compenso rappresentò nel Conte Donski con molta vivacità drammatica e con molta intensità di colore e di calore le rivoluzioni polacche divampate intorno alla sua prima e torbida adolescenza. Questo libro, scritto per consiglio di una vecchia signora, piacque allo scrittore nella prima foga della composizione, e piacque al pubblico mentre duravano tuttavia impressi nella memoria universale i ricordi della ribellione e i fantasmi dei ribelli generosi; ma, dopo qualche altra prova, il professore si avvide che quei libri, i quali parimente aborrivano dalle severità della storia e dalla genialità fantastica del romanzo, non lo avrebbero condotto molto lontano, nè molto in alto, e mutò strada. E prima ricalcò le orme di Walter Scott, il quale ancora in Germania ha una corte numerosa di adoratori e di imitatori; poi tentò la commedia storica, il romanzo sociale, il romanzo di costumi. Finalmente, indottovi dal Kürnberger, si acconciò ad un uso comune nelle letterature slave moderne; si rinserrò nei termini della sua provincia senza più escirne; cessò dalle scorrerie disordinate sul terreno altrui, e incominciò a scavare e a sconvolgere le viscere delle steppe galiziane, fertili di ginestre e d'inspirazioni fresche. Egli cedette al consiglio di Kürnberger senza molte speranze, e impensatamente si trovò sotto mano una miniera inesauribile, sulla quale si avventò con quella avidità medesima, con la quale i minatori delle novelle di Bret-Harte si gittano sui filoni californiani. Sacher-Masoch abbandonò la sua catedra per andare a combattere, e partecipò alle guerre del 1866; poi viaggiò a lungo in Italia, in Francia, in Spagna; e finalmente andò a fermarsi a Lipsia, ove sposò una scrittrice, Aurora di Rümelin, nota sotto il pseudonimo di Vanda von Dunaief, che lo aiuta tuttavia validamente a combattere le tendenze invaditrici della Germania, alla quale egli fu sempre nemico.
Leggendo le novelle galiziane di Sacher-Masoch, subito nella mente del critico e del lettore che rifletta a quello che legge si affaccia un dubbio: questi racconti, come tutte le cose galiziane di Sacher-Masoch, fanno parte della letteratura tedesca, o vanno collocati in una delle molte provincie della letteratura slava? Vanno paragonati coi racconti di Auerbach, di Spielhagen, di Heise, o con quelli del Gogol e del Turghenief? La soluzione del problema non è facile, e forse il Sacher-Masoch medesimo, interrogato, si troverebbe in imbarazzo. Egli è nato in una provincia slava soggetta al dominio austriaco; ha nelle vene sangue latino, sangue tedesco, sangue czeco, sangue polacco; studiò qua e là, in Galizia, in Boemia, in Austria; fu impiegato del governo austriaco, e ora fa il giornalista in Germania. I suoi racconti sono, è vero, di argomento slavo; ma sono scritti in lingua tedesca, ma sono inzuppati di filosofia tedesca, ma sbocciarono fra il rigoglio dell'ultimo romanticismo tedesco. Noi, poichè la questione è di pochissimo momento, la lasceremo insoluta.
La Piccola Russia, che ha una lingua a parte, diversa dalla russa quasi quanto la czeca, la bulgara, la croata, la serba, fu feconda di novellieri, dei quali ricorderò solamente il Gogol già citato, Giorgio Kritka, e due donne, la Cokhanohvskaja e la Vofcek. Il Sacher-Masoch ha col Gogol parentela più prossima: ambedue scrissero in una lingua diversa dalla loro, ambedue subirono le istesse influenze occidentali. Qualche centinaio d'Italiani avrà letto il Tarass Bulba di Gogol, la storia di quei tre Cosacchi che cavalcano tra gli orrori della guerra, per le steppe rimbombanti di fucilate, tra l'incendio dei villaggi crollanti, con una serenità feroce, con una tenacità selvaggia di lupi affamati; ebbene, nei Racconti galiziani molta parte di quella vita si ritrova dipinta coi colori del Gogol. Tuttavia non si può dire che il Sacher-Masoch discenda direttamente dal Gogol. Quello ch'essi hanno di comune è il punto di partenza onde mossero l'uno verso l'oriente e l'altro verso l'occidente. La prosa del Gogol rassomiglia alla rapsodia antica, ed anche quando si assottiglia piegandosi all'analisi più fine, serba un riflesso epico e le vibrazioni larghe d'una sinfonia. La prosa di Sacher-Masoch è più borghese: qualche volta ha una lieve intonazione idillica, più spesso fermenta con un lievito di umorismo amaro; ma non ha nè gli ampi ondeggiamenti, nè gli scoppi aspri del Gogol.
Più difficile sarebbe determinare con una certa esattezza i punti di contatto che Sacher-Masoch ha col Turghenief, il quale non è uno scrittore tutto d'un pezzo, come Emilio Zola, che abbia sempre ostinatamente battuta la medesima via; ma fece vibrare tutta quanta la tastiera delle inspirazioni moderne, e dal realismo gaio e cortese delle Acque di primavera si ridusse a poco a poco alle temerità torbida e scorbutiche della Terra vergine. Tuttavia qualche profilo, abbozzato fuggevolmente dalle matita lussureggiante del novelliere russo, nei Racconti galiziani si ritrova meglio accarezzato e colorito. Così, se la memoria non mi tradisce, la figura del tiranno femminile, che Sacher-Masoch predilige e rimpasta a sazietà, nelle Acque di primavera si affaccia sfumata stupendamente; così nel Vatasceco mi par di sentire un'eco dei Racconti del cacciatore. Ma come il Turghenief e come il Gogol, il Sacher-Masoch foggia la sua prosa intorno a un preconcetto politico. Quelli intesero coi loro scritti a tener vivo in Russia l'ideale della civiltà moderna; questi nel cuore della Germania combatte per l'indipendenza degli Slavi meridionali. D'altra parte, l'educazione tedesca ha non poco conferito a questo novelliere. Nell' Haydamak, la piccola scena di Dzvinka che cede alla piena della passione per Dobosch e gli stende i piedi perchè le tolga le pantofole, come una sposa la sera delle nozze, pare schizzata dalla penna wurtemberghese di Bertoldo Auerbach; così nell' Aldona, quella solennità dell'inverno candido e silenzioso che gravita intorno alla bella freddolosa appartiene all'Auerbach; come dall'Auerbach sono tolte a prestito quella fisionomia casalinga, quella bonarietà maliziosa di Gevattermann antico, che ride placidamente in molti di questi racconti. Abe Nahum Wasserkrug, quel mite e vigliacco ebreo di Brzosteck, il quale per liberare l'ultimo superstite de' suoi sette figliuoli, diventa di botto un eroe, e con un dispaccio in mano, a dosso d'un cavallaccio moribondo, si precipita in mezzo alle fiamme della guerra civile, è una macchietta simile a molte altre macchiette che si trovano disseminate nei racconti del wurtemberghese non gravidi di teoriche spinoziane. All'Auerbach specialmente il Sacher-Masoch si accosta nelle rappresentazioni esteriori e nei tipi mascolini; rassomiglia lontanamente all'Heise nei tipi femminili. Tutti tre hanno una sottigliezza amabile di osservazione; ma nella prosa dell'Auerbach quasi sempre fluttua una vaporosità rosea e calda, quella dell'Heise guizza troppo spesso e si slancia con una elasticità affatto lirica: la prosa del Sacher-Masoch è più drammatica.
Sacher-Masoch popola con tanta vivacità l'ambiente campagnolo, ch'esso sembra dileguare nel movimento e nella vita delle figure umane, le quali però spesso paiono collocate a forza in mezzo all'ossigeno della campagna troppo sottile e troppo vivo pei loro polmoni.
Questo senso di malessere e di malcontento è evidente sopratutto nelle donne. Polacche o galiziane, zingare, signore o contadine, esse sono quasi tutte delle spostate alle quali fermenta nelle vene un lievito di ribellione. Tale è Elena di Festenburg, nel Matrimonio di Valeriano Koscianski, che insorge contro il positivismo paterno e si fa rapire dal suo maestro d'italiano; tale è quella calda e lussuriosa Aldona, che sbadiglia accanto al gran fuoco di Natale, leggendo un romanzo, divincolandosi selvaticamente contro gli assalti di un uomo che l'adora; e poi, appena questi è partito sconfitto, si precipita a traverso una nevicata terribile, a traverso la notte paurosa, a traverso i boschi di abeti pieganti e crocchianti all'urto della tramontana, dinanzi a un branco di lupi affamati, flagellando i cavalli rotti dalla fatica, per raggiungere quell'uomo e abbandonarglisi ai piedi svenuta; tale è la baronessa Celina Kauwigka, nel Vatasceko; tale è Eva Kvirinowa la strega, che tradisce un cavallaro adorato, per la speranza di ascendere a un talamo baronale, e poi, caduta quella speranza, arde sè stessa e il barone tra i vimini della sua capanna; tale è la mugnaia Teodosia, che ama bestialmente Cirillo il ladro, e ogni notte lo inebria di baci, ma non vuole sposarlo perchè è uno spiantato, e passa di marito in marito; tale è Dzvinka, l'ambiziosa amante di Dobosch, ultimo degli Haydamak leggendari.
Queste femmine si aggirano pei racconti galiziani mosse da una irrequietezza nervosa che conferisce loro un aspetto malaticcio e strano. Sono modellate abilmente, ma riescono stucchevoli per l'eccessiva monotonia del colore. In fondo, i tipi non sono che due: la contadina ambiziosa, ricca, malcontenta, e la signora annoiata, superba, lussuriosa, con un'eterna sigaretta fra le labbra rosse, con le manine adunche di sparviere eternamente sprofondate nelle tasche della kasabaika impellicciata. Gli esemplari maschili sono più numerosi e più vari, dal polacco scialacquatore e scettico al brigante galiziano generoso, valoroso, superstizioso; ma tanto gli uomini come le donne popolano vivamente quella scena mutabile di steppe fiorite, di balze carpaziane scottate dalle vampe del sole estivo e dai geli invernali, di villaggi perduti nelle pianure erbose o fra le selve secolari, di piccole città provinciali piene di turbolenze di mormorazioni e di pettegolezzi.
Or dopo questo minuto esame, facciamo una domanda collettiva. La rapida propagazione del romanzo campestre e regionale non pare ai miei lettori un segno di povertà? Quando non si sa che altro innovare o permutare nel macchinismo nello spirito nella materia del racconto, si muta la scena. Così la novella si riaccosta alla narrazione di viaggio. E, pur troppo, la più gran novità tentata da qualche tempo in Italia, è appunto questa.
È dunque proprio urgente il bisogno di andare a caccia sulle terre barbariche? La selvaggina non mi par troppo lusinghevole.
II. PROSE DI ROMANZI.
Novelle nuove — Le fonti popolari del romanzo e Luigi Capuana — La novella obbiettiva di Giovanni Verga e il dialogo indiretto — Fantasie dei critici intorno alla Fantasia di Matilde Serao — Gli ultimi romanzi italiani — Colonia felice — Storia d'un fiore di loto e d'un maestro elementare.
I.
Non si può negare che la novella in Italia ricominci a fiorire: dal Piemonte, dalla Lombardia, dalla Liguria, dal Veneto, dalla Toscana, e specialmente dal reame di Napoli e da terra d'Abruzzi e dalle Calabrie e dalla Sicilia, non che dalla Marca d'Ancona e dalle altre Marche e dalle Romagne fioccano le novelle, e i novellatori si levano sempre più numerosi e fecondi. Ben vengano i novellatori e le novelle buone, e così ritorni il buon tempo antico, quando nelle corti e nelle case del popolo e nelle campagne italiane si novellava tra lo strepito dell'arme, tra lo strepito dei telai, tra lo strepito della trebbiatura. Nella novella allora si cementava il gaio e salubre realismo borghese, e la prosa rispecchiava nella sua onda chiara, nella sua onda larga, piena di gorghi profondi e di vortici voluttuosi, i casi della vita. I casi uditi qua e là, per le piazze o pei campi o per le corti dei signori, in terra di cristiani o in terra d'infedeli, nei paesi d'Europa o nei paesi d'oltremare, sgorgavano dalle labbra del Gonella tra lo scoppio delle arguzie mordenti, poi fluivano e si suggellavano perennemente nella prosa secca e salata del Sacchetti o nella prosa piena di musica e di libidine del Boccacci. Fu un movimento che incominciò in Italia, e dall'Italia andò via via dilagando per l'Europa; fu anzi la sola forma di arte letteraria onde l'Italia possa vantare, se non la maternità, certo l'adozione prima dall'Oriente. Tutte le altre forme dell'arte, l'epica, la lirica, il dramma, il romanzo, vennero dalla Francia, dalla Linguadoca, dalla Spagna e sino dalla Germania: la novella dall'Italia passò in Francia, e fece qualche fuggitiva apparizione in Ispagna e in Germania. Avete letto mai vecchie novelle francesi? Sapete la prosa della regina di Navarra, di Bonaventura Des Périers, di Agrippa d'Aubigné, e di tutti quanti i novellatori che fiorirono ed ebbero fama durante il regno dei quattro ultimi Valois? Allora l'imitazione italiana era universale; con Caterina de' Medici non solamente le mode di Toscana, non solamente l'untume della politica fiorentina, ma tutte quante le fogge e le inclinazioni e le raffinatezze dell'arte italiana si erano accampate nel parco di Fontainebleau e intorno al Castelletto: era naturale che anche le novelle di messer Giovanni, mezzo fiorentino e mezzo parigino, trovassero a Parigi ospiti cortesi e briganti insaziabili. Il primo esempio lo diede una bella e pia e galante regina: i briganti di poi non furono sazi mai. A poco a poco la prevalenza italiana scadde, e l'egemonia dell'arte si attendò in terra di barbari: il maresciallo d'Ancre fu ucciso con una pistolettata sotto gli occhi di Caterina de' Medici, e il Malherbe cacciò a forza il Petrarca dai confini della poesia francese; ma a dispetto del Malherbe la novella italiana restò abbarbicata alle terre di Sua Maestà Cristianissima, e non si potè svellere mai; e tutti i novellatori che ebbero fama in Francia dovettero alimentarsi di quell'antica polpa nutriente: cito, ad esempio, i due nomi maggiori: il Lafontaine e il Balzac. Il primo rifece in versi le migliori novelle italiane, l'altro rifece in vecchia prosa i migliori racconti francesi, che derivavano da fonte italiana. Occorre citare altri nomi, ed è necessario tirare in ballo Alfredo de Musset? Lasciamo correre: tanto, se i lettori non son convinti ancora, vuol dire ch'essi son più duri di quei frati bizantini del monte Athos, i quali, mentre le mura di Bisanzio crollavano agli assalti dei barbareschi, si contemplavano la pancia illustrata dal tramonto del sole, e non sapevano persuadersi che quella fosse luce increata.
Ritorni pure — dicevo dunque con desiderio — questa età dell'oro per la novella italiana, e i novellatori siano i ben venuti, da qualunque parte d'Italia essi si levino. Ma non ci lasciamo pigliar la mano dall'entusiasmo, e non incominciamo troppo presto ad urlare che l'età dell'oro è ritornata. Facciamo i conti di cassa con assai di calma e poco di carità fraterna.
Prima di tutto, così in tesi generale, si può dire che noi facciamo appunto quel che facevano i francesi di Caterina de' Medici: ci appostiamo con le pistole alla cintura e lo stiletto tra i denti ai valichi delle Alpi, aspettando al passaggio le balle dei romanzi francesi. La differenza sta in questo, che allora noi eravamo i ricattati, ed ora siamo i ricattatori. E sta bene: non io certo mi dorrò di questa santa rappresaglia; e primo e più forte griderei al sacco, se il brigantaggio potesse giovare allo sviluppo dell'arte. In arte, come in tutte quante le cose della vita, è necessario un movimento continuo d'importazione e di esportazione: se gli ultimi cittadini della repubblica romana non avessero studiato nei ginnasi greci, l'arte latina già decadente con la lingua latina non avrebbe preso quel nuovo slancio miracoloso che la spinse tanto innanzi; e, senza le influenze provenzali, chissà quanto più avrebbe stentato la nostra letteratura a liberarsi dalle pastoie dialettali. La circolazione dei criteri e dei prodotti artistici e il libero scambio del pensiero sono dunque due necessità della vita umana, come la circolazione monetaria e il libero scambio delle merci; ma perchè l'equilibrio duri, tutte le parti interessate debbono accettare e attuare francamente questi due canoni del commercio moderno. Se una parte si rinserra in sè stessa, e nega di accettare quel che può venirle dalle altre, l'equilibrio è rotto. Questo a punto ha fatto la Francia dopo il Trenta: si è rinserrata in un egoismo letterario superbo, ignorante, intollerante, e non vive che di sè stessa e per sè stessa, e ha chiuse tutte le vie al commercio d'importazione. L'equilibrio dunque è rotto, e tra questa e le altre parti d'Europa non vi può essere circolazione nè scambio di prodotti e di criteri artistici, perchè la Francia non ne accetta quando non portino marca di fabbrica nazionale. Sarebbe stato utile provvedere sin da principio, e bloccare tutti i porti francesi per impedire l'esportazione; ma questo, o per negligenza o per inesperienza, non si fece, e tutta quanta l'Europa, eccetto l'Inghilterra e, in parte, la Germania, fu invasa dall'esportazione francese: noi naturalmente, ne abbiamo avuto sino al collo, anzi ci siamo adoperati con le mani e coi piedi perchè l'alluvione fosse più larga e più violenta. Che cosa ne è seguìto? Permettetemi di farvi un piccolo quadro della nostra novellistica constituzionale.
La novella moderna in Italia è nata intorno al '66, con la casa Treves che la tenne al battesimo e che non la volle più fare uscire di tutela: nacque dunque intorno al '66, e fu quella infelice e vituperevole cosa che poteva essere, dopo la rotta di Custoza e il vituperio di Lissa. Con l' Affondatore parve che tutte le forze e tutte le speranze della nova Italia sprofondassero nei gorghi dell'Adriatico: Caterina Percoto seguitò a raccontare storielle friulane semplici oneste sonnolente, secondo i desidèri del buon Tommaséo; e Paolo Tedeschi filava novelline pallide alla maniera germanica, continuando il Dall'Ongaro. La novella era dunque tuttavia sotto il dominio politico e letterario dell'Austria, e fu a punto un editore irredento che la fece emigrare a Milano, fu il Treves. Una delle delizie della mia infanzia, tra i romanzi di Walter Scott e i molti pellegrinaggi sui tetti, furono certi libriccini con la copertina color marrone chiaro che il Treves timidamente sparpagliava da Milano; di questi libriccini, che mi stornarono dai Fatti d'Enea e da altre migliori letture, non rammento nè i titoli nè gli argomenti; rammento bensì la copertina color marrone chiaro, e anche mi pare che fossero raccontini originali e tradotti dal tedesco: si vede che il Treves aveva ancora qualche fede nella letteratura tedesca. Ma la fede cadde presto, e il Treves non tardò ad avvedersi che se voleva far fortuna bisognava gittarsi alla Francia. Fu così che sorse in Milano quel maledetto laboratorio chimico di romanticismo mezzo manzoniano e mezzo francese, che assorbì e lambiccò e volatilizzò tutte le forze letterarie dell'Italia, e che tuttavia tra le macerie si affatica a questa bestiale opera di assorbimento, di lambiccamento e di volatilizzamento. Perchè in Milano dal Treves e dagli altri emuli suoi si incontrarono e si diedero la mano in un connubio mostruoso, non libero di ribellione e di battaglie, i vecchi avanzi del romanticismo, e i giovani codini manzoniani, e parecchi spiriti rivoluzionari che in un altro ambiente, con altra compagnia e con altri studi, avrebbero potuto fare un'opera utile assai al disgelo dell'Italia letteraria. Questo parrà un paradosso e leverà i miei buoni amici Primo Levi e Luigi Perelli a rumore, ma è un fatto incontestabile che intorno al cadavere del Manzoni Paolo Ferrari e Giuseppe Rovani si accordarono in una miracolosa comunione di entusiasmo e di spropositi, che il Tarchetti morì in casa di Salvatore Farina, meschino e rugiadoso e troppo fortunato manzoniano, che il Praga più di una volta si trovò a bere in compagnia di Camillo Boito. Nella capitale morale d'Italia s'incontrarono il Bonghi, il Cantù, il De Amicis, il Bersezio, Cesare Donati, Leone Fortis, Pompeo Gherardo Molmenti, il Capranica, il Caccianiga, il Bettòli e altri mercanti di letteratura d'ogni colore, i quali pigliarono la cosa dal lato pratico e mossero dal criterio di scrivere libri facilmente e sicuramente vendibili: il criterio appunto onde muovono gl'impresari dei teatri di boulevard e i direttori dei giornali a un soldo nella vecchia e buona città di Parigi. Ognuno, secondo la natura e la misura dell'ingegno suo, si mise a speculare sulle debolezze sui vizi sulla sensibilità sulla vigliaccheria del pubblico; e i libri loro si venderono con più o meno di fortuna: così Edmondo De Amicis, dopo avere per un pezzo portato in processione sopra un piatto i suoi occhi di bersagliere lacrimanti come due fontane, cambiò tattica di botto e si gittò a viaggiare, alla moda francese; così gli altri piantarono il romanzo storico crollante da tutte le parti, e si gittarono in una cloaca di romanticismo borghese, senza un indirizzo chiaro, senza discernimento, senza criteri sicuri, andando a tentoni, correndo da un modello all'altro, punzecchiati spronati flagellati dal pensiero goloso e invidioso della Francia, ove gli esemplari dei libri si vendono a migliaia. Dato un tale ambiente d'ignoranza di pecoraggine e di affarismo, era naturale che tutti i cattivi istinti venissero a galla gorgogliando, e che la mediocrità si facesse innanzi fra gli applausi: era naturale che Pompeo Gherardo Molmenti si spiccasse da Venezia facendo salamelecchi, e sparpagliando raccontini tisici dissanguati, e sbuffi d'una erudizione bolsa e contrabbandiera sulle turbe acclamanti. La rocca lombarda pareva un'acropoli inespugnabile, e Leone Fortis sui merli sonava a raccolta pavoneggiandosi nelle sue vecchie penne di pappagallo. Delle femmine che gittarono le loro gonnelle in mezzo a questo vituperio della prosa italiana non voglio parlare, però che sermoneggiar le femmine sia peggio che lavar la testa agli asini.
Dico solamente che di quanti parteciparono a questo vituperio, uno solo mostrò ingegno vero e sano, e fu il Verga, al quale dipoi si levarono ai fianchi un altro siciliano e una napolitana, Luigi Capuana e Matilde Serao. Di questi tre il più forte è il Capuana. Il Verga ha più calore di fantasia e più potenza di colore, la Serao ha più finezza di sentimento e di nervi femminili; ma il Capuana ha per sè due buone qualità, che gli dànno il vantaggio sopra tutti i suoi competitori: la sicurezza dell'osservazione e la coltura. Un segno comune di tutti i nostri novellatori mascolini e femminini è l'ignoranza. Nessuno di loro, tranne il Capuana, ha inteso che nel nostro paese, ove la novella e il romanzo non hanno tradizioni fresche, è necessario uno studio serio ordinato e largo di tutte le letterature moderne, e della nostra novellistica antica; tutti, tranne pochissimi, stanno appostati ai valichi delle Alpi con le pistole alla cintura e lo stiletto fra i denti aspettando al passo gli ultimi romanzi francesi; tutti sono, chi più chi meno, nelle condizioni di Leone Fortis, il quale dopo avere per tanti anni predicato alle turbe il verbo della letteratura francese, credeva in ultimo nella sua grassa e vacua ingenuità che in Francia s'ignorasse il sonetto. Credete che esageri? E bene, che cosa ha fatto il Verga prima dei Malavoglia? Quale altra cosa ha fatto se non rimpastare in quattro o cinque o sei romanzi la Signora dalle Camelie? E si accorse egli che in Francia fosse stato un Onorato di Balzac, che in Francia fosse un Emilio Zola prima che il plauso della folla gli gittasse sotto il naso l' Assommoir? E la signorina Serao non gitta ella nelle sue novelle e ne' suoi romanzi, senza misura e senza pietà, come uno scolaretto che ha fatto troppe e troppo mal digeste letture, il realismo nervoso del Daudet, e quello plastico e colorito del Flaubert, e quello sodo e meccanico dello Zola, insieme al romanticismo convalescente di Dumas figlio e al romanticismo tisico di Ottavio Feuillet? E non è vero forse che nessuno dei nostri novellatori si è mai fatto una questione di lingua e di stile; ma ognuno italianizza il proprio dialetto, con non poche fioriture francesi?
Ora tutto questo non può continuare. Leone Fortis aveva già cantato il miserere alla lirica italiana; e la lirica in Italia è risorta per opera di un poeta che si fortificò e si nutrì lungamente e copiosamente di letteratura latina e di filologia romanza. Io credo che noi avremo dei romanzi e delle novelle esemplari, quando i nostri novellatori avvenire saranno come il Boccacci. Non monta che sappiano il latino e il greco come il Boccacci; ma è necessario che sappiano bene il francese e la letteratura francese, l'inglese e la letteratura inglese, il tedesco e la letteratura tedesca, l'italiano e la letteratura italiana.
E se potessero bere alle grandi fonti indiane, non ci perderebbero nulla, perchè fu dall'altipiano dell'Iran che scaturì l'Oceano dei fiumi delle novelle.
II.
Pare un paradosso strano, e pure è una verità appurata e provata con molte studiose ricerche, che i popoli latini, e più il popolo d'Italia, hanno pochissima potenza di creazione fantastica. Tutta la nuova materia d'arte che fu accumulata dopo il crollo della vita pagana, o venne dall'Oriente con molta varietà d'importazione, o fu una produzione indigena della razza sassone e della razza celtica: la razza latina non concorse al gran cumulo di materiale se non con qualche tradizione classica e con qualche getto di lirica d'amore. Così, mentre i monaci pellegrini recavano dalle terre d'Oltremare coi frantumi del Santo Sepolcro e coi ramoscelli d'olivo dell'orto di Getsemani le fantasie maturate al sole del Cattai o dei piani del Gange; mentre dai boschi armoricani e dalle paludi bretone e dalle torbaie della Turingia e della Pannonia il canto epico sonava accordato sul ritmo gregoriano; mentre nelle valli pireneiche tra la crescenza odorosa degli oleandri la nova lirica si metteva a fiorire con un tumulto d'amore melodioso, l'Italia badava a innestare i rampolli cristiani sul vecchio tronco gentile, e si trasmutava e si rifondeva cristianamente le sembianze di Virgilio. Nocquero le tradizioni e le presunzioni patrie, o fu un difetto dell'intelligenza nostra? Non so. Certo la lingua italiana germogliò ultima dal carcame fecondatore della romanità; certo il popolo d'Italia conferì poco o punto al patrimonio epico lirico e drammatico fondato dagli altri popoli d'Europa. Noi non fummo altro mai che manipolatori del materiale altrui, e quasi amministratori del patrimonio altrui. Guardate alla storia della nostra epica, della nostra lirica e della nostra drammatica, da Sordello Mantovano che poetò in lingua d'oc sino al signor Parodi e al signor Gualdo che scrivono drammi e romanzi in lingua francese, e ditemi se fu mai popolo così sterile di fantasia come il popolo italiano. Nè questa sterilità è solamente negli scrittori o solamente nel popolo; ma il popolo e gli scrittori si accordano meravigliosamente in una deficienza strana delle facoltà imaginative. Pio Rajna mostrò già con documenti e con prove sicure come il più fantasioso de' nostri poeti, l'Ariosto, nulla o presso che nulla traesse dall'attività procreatrice della sua mente, ma solo con una sintesi miracolosa raccozzasse e fondesse una mole immensa di favole di cavalleria penetrate in Italia coi romanzi francesi, coi poemi inglesi, con le canzoni di gesta e coi frammenti epici tedeschi: Alessandro D'Ancona ha provato come il materiale della lirica popolare sia tutto o presso che tutto d'importazione straniera; e se Domenico Comparetti avesse seguitato i suoi studi di novellistica comparata, facilmente avrebbe potuto dimostrare che nella selva folta di novelle popolari che copre tutta l'Europa non c'è un solo virgulto italiota. Guardate ai novellieri italiani: la materia ch'essi foggiarono con tanta maestria d'arte da fare della novella una forma veramente italiana, venne d'Oriente nelle emanazioni del buddhismo o fu qua e là raccattata per le terre d'Europa. Quando i novellatori vollero attingere alla larga fonte del popolo, la trovarono tutta scrosciante e zampillante di acque forastiere; così accadde che nella prosa narrativa l'elemento indigeno entrasse in una misura scarsa assai, e l'elemento popolare non tardasse a cadere in discredito. Così vedendo ora che un novellatore italiano della scuola sperimentale si è messo con proposito deliberato a formare novelle popolari con materia tratta tutta dalla sua mente, e con fortuna grande, io mi sarei aspettato un più largo plauso dagl'Italiani. Se non che gl'Italiani l'importanza e la difficoltà di certe cose non le intendono.
Dice il Capuana nella prefazione del suo bel libro di fiabe che, avendo scritto una delle sue novelle per un caro bimbo che gli chiedeva una bella fiaba, pensò di costruirne altre a diletto de' suoi nipotini; poi, leggendole, lo prendeva una gran soggezione di quei cari diavoletti che gli sedevano a torno, e stavano tutt'occhi e tutt'orecchi ad ascoltare. Certo, l'autorità fanciullesca in fatto di storie imaginose è grande, ma non bisogna poi esagerarne il peso, come fa il Nencioni. Io non ho dato a leggere ai ragazzi il libro del Capuana, ma so che il gusto infantile è facilmente appagabile. Io pure sono stato un bimbo curioso e desideroso di fanfaluche strane, come tutti i bimbi di questo mondo, e avendo avuto poche narratrici, mi erano di un diletto indicibile le Mille e una notte udite leggere la sera accanto al fuoco. Tutti sanno come in questo suo rifacimento dall'arabo il signor Galland impegolasse gli studiosi artifizi orientali di molta pomata francese; e pure la storia di Aladino, raccontata con una prosa sciatta e spropositata e pretensiosa insieme faceva fremere di godimento e di paura il mio spirito bambinesco. Anche una vecchia traduzione in prosa dell'Iliade popolò la mia mente di fantasie meravigliose e mi scosse forte i nervi tra il settimo e l'ottavo anno; e pure la narrazione era fatta più penosa dall'ortografia arcaica. Leggete a un bambino le fanfaluche meno bambinesche, le favole di Esopo tradotte per uno da Siena, il Novellino, i fatti di Enea, e lo spirito suo penderà dalle vostre labbra, come quello di Saul pendeva dagli arpeggiamenti di David.
La cosa dunque va considerata più dall'alto, e a me pare che la prima questione che il libro del Capuana debba suscitare, sia questa: il gran materiale narrativo e cantativo che alimenta l'intelligenza di tutti i popoli d'Europa è esso malleabile e foggiabile alle molteplici forme dell'arte? Io dico di sì; e chiunque guardi alla storia delle letterature antiche e delle letterature moderne dovrà accordarsi meco. Non è forse appurato che la letteratura italiana non fu già fabbricata toscanamente sui modelli provenzali alla corte sveva di Palermo, ma venne via via crescendo e avvantaggiandosi, come in tutte le terre d'Italia i dialetti germogliati dal terriccio latino misto di concime barbarico si mettevano a fiorire? E non è forse noto all'universale che l'Ariosto, e poi i poeti che intorno a Lorenzo il magnifico portarono per Firenze la licenza allegra del carnasciale, attinsero dal popolo materia nova e più fresca?
Se non che, questi e molti altri che io per brevità dimentico, rinnovarono e rinfrescarono alle chiare fonti popolari l'epica un po' appassita nelle mani troppo dotte del Boccacci, e la lirica stroppiata dai petrarcheggianti; ma nessuno si mise per esercizio d'arte ad imitare le rozze forme popolaresche. In Italia, no; ma in Germania e in Inghilterra e in Francia si tentò questo più volte con varia fortuna; e a me pare che la questione si possa più chiaramente formolare così: le imitazioni delle forme popolari nella selvatichezza nativa sono solamente un esercizio atto a dilettare i bambini, o possono essere vere e proprie fogge dell'arte? Di nuovo, io dico di sì.
Ecco: da qualche tempo l'arte sente il bisogno di tuffarsi alle fonti della vita; e dal Balzac in poi il romanzo ha deviato dalla sua antica forma narrativa, piegando allo studio fisiologico e psicologico dell'uomo. A questa deviazione della prosa narrativa il Balzac conferì più di tutti studiando i segni esteriori e gli effetti visibili dei sentimenti interni, la Sand analizzando con una sottigliezza femminile tutte quante le crespe e gli avvolgimenti dello spirito, gli ultimi romanzatori naturalisti proseguendo certe leggi della vita appurate dalla scienza. Tutte queste vie menano, più o meno brevemente, alla verità; ma ad una verità, direi, relativa: ci è sempre come una piccola nuvola vaporosa, che offusca l'evidenza della rappresentazione. Nel Balzac è lo stile troppo martoriato e qua e là gonfio o colorito soverchiamente o contorto; nella Sand è la tabe sentimentale che s'appiglia e corrode l'analisi più sottile; nello Zola è il rigore della tesi scientifica e il calore secentistico dello stile. Manca a tutti quella serenità plastica e semplice della concezione e dello stile, che il Flaubert ebbe per un momento in Madame Bovary, e che tutta quanta la letteratura popolare possiede naturalmente.
Qualche anno a dietro, trascrivendo io novelle popolari della campagna romana, provavo un vero godimento estetico ascoltando dalla bocca d'una serva, in una prosa semplice limpida, efficace, le fantasie più pazze mescolate di osservazioni acute o profonde, corrette e regolate da un criterio sano e giusto della vita. E trascrivendo in fretta o rileggendo dopo avere trascritto, mi nascevano nella mente dei pensieri e dei raffronti in folla. Per esempio, ripensavo al Bertoldo e al Bertoldino di Giulio Cesare Croce; e non sapevo capacitarmi come di là non avesse preso le mosse qualche opera di prosa, come dai leggendari e dai frantumi epici si mossero tante opere di poesia: non trovavo, nella prosa italiana, la rispondenza del Morgante e dei due Orlandi. Ora questo, che nel secolo XV era possibile, ma non più nei secoli che seguirono, di nuovo è possibile e utile e forse anche necessario oggi. Avete mai badato alla famigliarità, con la quale il popolo tratta i re e le regine? E questi re e queste regine delle novelle popolaresche non vi sembrano essi dei sovrani constituzionali? Rammentate il buon re Alboino di Giulio Cesare Croce e il buon re Pantagruel di Rabelais? Ebbene, l'ideale del re costituzionale è quello: come vedete, prima assai dell'89 il popolo lo aveva pienamente intuìto e rappresentato. Così il popolo ha pienamente intuìto e rappresentato tutta quella parte della vita che gli è stata accessibile. E bene, perchè i novellatori sperimentali non imparano anche dal popolo, ma se ne stanno contenti alle teoriche darwiniane? Da cinquant'anni in qua le trascrizioni di racconti popolari pullulano da tutte le parti, e la demopsicologia è quasi diventata una scienza a sè. E bene, fate che dal dominio della scienza tutto questo gran materiale passi nel dominio dell'arte.
Scartate tutte le scorie fantastiche: resterà una selva folta di osservazioni e d'insegnamenti: resterà una miniera vergine di esperienza. E non isdegnate d'imparare dalla vostra serva, poichè fu una moltitudine miserabile di servi che, crollata la carcassa romana, fondò una vita nuova una lingua nuova una metrica nuova, e ritrovò le prime nuove forme dell'arte.
In quanto alla prova in sè, ho detto che è fortunata, e anche in questo chiunque ha qualche pratica di novelle popolari si accorderà meco. Il Capuana non ha rimpastato delle favole già diffuse, ma ne ha costruite di nuove con gli elementi che entrano in tutti i prodotti della fantasia popolare: elementi, come ho già accennato e come facilmente pare, non indigeni, ma d'importazione forestiera. Lasciando dunque da parte l'elemento fantastico e mitologico, che è ciò che più move lo spirito bambinesco, e guardando solamente alla manipolazione e alla intuizione dei criteri e delle forme e dello stile popolari, io dico che queste fiabe mi paiono una cosa perfetta. Il Capuana ha saputo cogliere mirabilmente quel sano e giocondo ottimismo, quella tranquilla aspirazione al benessere, quel placido e sicuro senso della vita che sono i caratteri più chiari delle produzioni letterarie del popolo. Di più, egli mostra di essersi assimilato, con la semplicità rustica e ingenua della narrazione, con la fusione naturale del dialogo e del racconto, lo stile popolaresco. Non fosse altro, per avere tanto felicemente pensato e con tanto studio condotto a perfezione questo libro, merita il Capuana il primo posto fra i novellieri italiani; però che esso dimostri una cosa, la più importante di tutte in tempi di povertà universale, ch'egli ha conscienza di quello che fa.
Luigi Capuana è un vecchio giovine, e, se vi piace meglio, un giovine vecchio; e a chi lo conosca pe'l complesso della sua molta attività di novellatore e di critico, fa una strana maraviglia lo spettacolo di quella bella maturità vigorosa improntata nella testa calva e nel poco pelame bianco. La sua persona inclinante sensibilmente alla pinguedine parrebbe in punto di precipitare nella vecchiaia adiposa e sonnacchiosa; ma sotto quell'apparenza senile si sente la forza del sistema muscolare nel pieno rigoglio dello sviluppo organico, e dagli occhietti grigi balena la gioventù dello spirito. Luigi Capuana è giunto ora alla perfezione del suo essere; e vi è giunto col sacrifizio dei capelli e della barba. È colpa del pelo, morto troppo presto, o del Capuana, maturato con troppa lentezza? Io non ho mai veduto la sua fede di nascita, e non credo che lo stato civile sia un utile elemento di critica. Certo questo singolare scrittore sta ora nel sommo della sua curva, e le ultime opere del suo intelletto hanno la franchezza robusta della piena virilità.
Non piccolo segno questo di serietà e di forte tempra artistica in un paese ove da venti anni in qua i novellatori vanno innanzi con le bende sugli occhi, deviando e tentennando, senza sapere quel che si vogliano, nè quel che si facciano, senz'altro pensiero che di una faticosa e vana produzione di materia grezza. Il Capuana non ha avuto mai sdrucciolamenti, nè pencolamenti, nè pentimenti; ma un pensiero solo, anzi un solo caldissimo e purissimo sentimento di religioso amore per l'arte lo ha tratto sempre più in alto, dalle prime prove, romantiche tuttavia e mal sicure, dei Ritratti di donna e di Giacinta, alle opere quasi perfette di C'era una volta e di Homo! Il Capuana ha avuto una maturità lenta e faticosa. A lui non concessero i numi una materia cerebrale spumante per la fermentazione precoce, ed effervescente in una bella fumata di vario colore, graziosa e leziosa e capziosa al contrasto dei raggi solari, nè volle il divo Apolline assentirgli quel facile prezioso talento di assimilazione, pe'l quale tanti cervellini mascolini e femminini assorbono tanto materiale d'importazione francese, e con poca fatica di ruminamento lo rivomitano mal digerito e sporco ancora dei colori repubblicani. Egli è giunto all'altezza presente non senza molto sforzo della volontà e una assai pertinace tensione di tutta la sua attività vitale. Non si è ritrovato sbalestrato in alto per un capriccio della fortuna o del favor popolare; ma ci è giunto per proposito deliberato, arrampicandosi. Per questo, mentre gli altri, che pur non sono rimasti in terra, si guardano intorno sbigottiti per l'altezza e già colti dalla vertigine, egli sta sicuro e spazia intorno tranquillamente, poichè sa il terreno, e la via atta, e quella che ancora resta a fare.
Per le quali cose, il Capuana non può essere giudicato equamente da un libro solo; ma è necessario seguirlo a traverso tutta la sua attività critica e risalire tutta la curva della sua ascensione narrativa per abbracciare l'efficace opera di ammaestramento e di moralizzamento ch'egli ha fatto e va tuttavia facendo nell'arte del novellare. Egli è stato dei primi a gittar le grida contro l'empirismo dell'arte constituzionale; e, venuto di Sicilia rozzo ancora e immaturo, e in molta parte impreparato e ineducato, si gittò a combattere a mezza spada con quei brillanti spiriti, che tra l'accasermamento italiano in Firenze andavano rivendendo a buon mercato le scolature del Figaro, che nella rocca di Milano abbandonata dal Manzoni nelle mani dei Farisei costruivano teoriche estetiche ed etiche tra le piramidi e l'odor del formaggio. In una prefazione che il buon Leopoldo Marenco pose innanzi a certa sua commedia, si domanda al lettore con un tono tra di maraviglia dispettosa e di compassione stizzosa se conoscano un certo Capuana che osò dir male di lui, Leopoldo Marenco, grande ciambellano della pastorelleria comica e del lattime teatrale e conferitore patentato di speroni d'oro in cartone dipinto a tutti gli attori giovani del felice regno d'Italia. E si seccavano, a Firenze e a Milano, di questo barbuto nero che veniva a intorbidare la soave persuasione del rinascimento spirituale crescente all'ombra del gran caprifico della Constituzione; poichè temevano una novità nella loro arte da rigattieri peggio di una riforma dello Statuto, e un pungiglione critico più che tutti gli assilli repubblicani. Leone Fortis lo guardò come il cane della favola quando si vide insidiato il mucchio della paglia, e Paolo Ferrari sudò freddo pe'l tremito e per l'orrore vedendo la prima volta quella barba siciliana. Tutti così, questi robivecchi provveditori di materiale scenico e di bambagia gazzettiera! Non hanno nemmeno la virtù della resistenza; ma si oppongono col peso della loro inerzia, e brontolano, percossi dalla paura e dallo stupore. Così, quando Paolo Ferrari vide nelle vetrine dei librai milanesi il libretto di Luigi Lodi consecrato a lui, si voltò a Leone Fortis con un'aria d'uomo infastidito, dicendo: — Sarà uno dei soliti adulatori. Ma come ne ebbe letto due pagine, la faccia gli diventò verde, e le braccia gli cascarono lungo i fianchi, e il libro cadde per terra.
E pure, in questo tristo ambiente lombardo giunse il Capuana a piantare una incudine; e battendo e battendo e battendo, e sempre più liberando sè stesso dalle scorie, fu il primo e più efficace predicatore dei canoni naturalisti; e certamente giovò assai a fermare sull'orlo del precipizio il suo compatriota Giovanni Verga, che da principio cedeva troppo volentieri alle calde furie del suo intelletto. Il Verga conferisce anch'esso non poco a porre in miglior luce il Capuana; poichè quel siciliano lombardizzato e incivilito, dopo aver gittato molto calore della fantasia e molto fremito nervoso ad aliare un alito afrodisiaco in certa bambagina avviluppata intorno ad esili scheletri narrativi, dopo aver buttato le ultime scorie romantiche in certi strani compiacimenti di lascivia idilliaca, pareva che dovesse morire di spinite mentale; quando, inaspettatamente, ricomparve rinnovato, riapparve in forma d'un uomo maturo e del più serio fra i nostri artisti leggeri. E nessuno pensò che forse una buona parte del miracolo si doveva a quel singolare martellatore di Luigi Capuana, il quale, dopo aver predicato il vangelo naturalista, aveva dedicato ad Emilio Zola un romanzo, il primo romanzo sperimentale stampato in Italia dopo il Manzoni. La grande fortuna dello Zola in Italia procede segnatamente dal Capuana; il quale, mentre i capelli cadevano e andavano sempre più brizzolandosi, studiava la letteratura contemporanea in Italia e in Francia con più di serietà, che non i farfallini fanfulleggianti che camparono quindici anni sul panciotto rosso di Teofilo Gautier e sulle bricciche di Alfonso Karr.
Di più egli ebbe una fortunata intuizione; una di quelle intuizioni che non possono lampeggiare se non in un intelletto veramente materiato d'arte. Intese tutto il beneficio che potrebbe venire all'arte narrativa dallo studio del materiale popolaresco; e con tanto amore studiò e si compenetrò delle forme e dello spirito dell'arte del popolo, che nel 1879, pubblicando le poesie siciliane di Paolo Maura, potè aggiungervene in fine due che paiono affatto simili alle popolari, che ha potuto ultimamente pubblicar quelle fiabe, le quali, come dicevo poco fa, a me paiono una cosa perfetta. E nel suo ultimo volume di novelle, Homo!, l'utilità degli studi di letteratura popolaresca appare ad evidenza. Per esempio, una delle novelle, Comparàtico, che io senza esitare giudico meravigliosa e tale da stare gloriosamente anche nel Decameron o tra le più perfette cose di Balzac, è un rifacimento in prosa italiana di una storia in poesia siciliana che il Capuana scrisse nel '68, e presentò al Vigo, che, senza punto avvedersi dell'inganno, la stampò nella sua Raccolta amplissima di canti popolari siciliani. Confrontino i lettori la novella e la storia, e leggano gli altri racconti di questo volume così maschiamente palpitante di umanità, così vivo, così forte, così originale; e mi sappiano dire se ho avuto torto io di collocare il Capuana sopra tutti quanti gli altri romanzatori d'Italia.
III.
E ora, il secondo posto tocca a un altro siciliano, al quale io ho assai minore stima che non al Capuana, perchè manca a lui quella serietà e quella larghezza di preparazione che l'altro possiede. Costui è Giovanni Verga, il quale veramente con gli anni si è venuto rimutando in meglio, e non è più così sciattamente arruffato com'era in principio; ma tutto lo studio egli lo pone nella tecnica, sicchè, riprendendo in Italia il sistema zoliano, non ha saputo indurvi se non qualche novità formale di poco momento e di maggiore e più fastidioso artifizio. Nel romanzo veramente non indusse nessuna novità, se non una pesante monotonia poco zoliana, che fece naufragare i Malavoglia come quella barca carica di lupini che ne è il substrato. Allora ha voluto fare una cosa non tentata dallo Zola, se non in qualcuno degli ultimi raccontini: ha voluto fare la novella sperimentale; e il tentativo gli è riescito felicemente. La Vita dei campi, pubblicata qualche anno addietro, è un libro quale nè Emilio Zola, nè, con buona pace del signor Vittorio Pica che ha una sconfinata ammirazione per costoro, gli scolari suoi hanno saputo scrivere, e confrontando ora le Novelle rusticane coi racconti pubblicati ultimamente dallo Zola in due volumi intitolati dal Capitano Burle e da Naïs Micoulin, appare chiaramente una cosa: che in Italia la vita della campagna s'intuisce con un acume sottile e profondo insieme, e si rappresenta con una vivezza di colore e con una forza di disegno che nessun novelliere francese del nostro tempo ha.
Guardate in Francia, oltre lo Zola, i novellatori più reputati, di qualunque categoria o scuola essi siano: hanno un'amabilità graziosa d'imaginativa, e un facile dominio della forma e una finezza d'osservazione pariginamente e argutamente maligna; ma in Francia la novella fatta con intendimento largo non c'è, mentre ci è, o almeno comincia ad essere, in Italia. Il Verga ha rinchiuso la materia delle sue novelle entro una breve cerchia di campagna siciliana; e si è messo a rappresentare la vita agricola quale veramente è, senza preoccupazioni sentimentali o subbiettive, con una serie di quadretti e di schizzi. Egli non si è lasciato prender la mano dall'ambiente, come è accaduto a qualche altro novellatore campagnolo; ma ha saputo sempre temperare la prepotenza del paesaggio e vincere il fascino della natura esteriore con lo scoppio del sentimento umano. Le sue novelle son dissimili l'una dall'altra: ora predomina il racconto, come in Pane Nero, ora la rappresentazione, come in Libertà, ora l'analisi, come in Malaria; ma sempre è la vita umana che geme che freme che ride, non già i canneti nè i castagneti nè i littorali. La materia è nuova, poichè dalla georgica virgiliana in poi uno studio obbiettivo di questa parte della famiglia umana, che provvede al nutrimento di tutti, in Italia non è stato fatto mai. È stato bensì fatto in Inghilterra in Germania in Russia, e le novelle del Verga stanno degnamente tra i racconti agricoli del Goldsmith dell'Auerbach del Turghenief.
Solamente in una cosa pecca il Verga, ed il peccato è grave: nella forma. Egli non pecca di sciatteria, o di lambiccatura: ma si affatica a farsi uno stile proprio semplice e colorito e vivo insieme. Però lo sforzo è così grande e così chiaro, che questo stile diventa come un lungo singhiozzo senza riposo che fa pena; e la semplicità e la vivezza e il colorito si pèrdono in una contorsione faticosa e fastidiosa. La prosa deve avere il suo periodo come la poesia, ma la prosa del Verga non ha periodo: essa pare tutta una gran tirata monoritma, rotta qua e là da versi tronchi e da paure inaspettate.
Di più il Verga ha inciampato nel grande ostacolo che si frappone fra le gambe di tutti i naturalisti: il dialogo. Il romanzo sperimentale, si sa, è tutto un macchinismo di effetti prospettici che concorrono a dare una similitudine più o meno fallace della verità. Ora nel racconto l'artifizio è facilmente mascherabile, poichè è il raccontatore che scrive e che con le sue proprie parole vuol suscitare nei lettori i fantasmi. Ma quando, per maggior colore di verità, il narratore fa parlare i fantasmi, la difficoltà cresce a dismisura.
Questa del dialogo, diceva una romanzatrice che lo fa di solito pessimamente, la signorina Serao, è una questione insolubile: se vogliamo tenerci alla verità e scrivere come gl'italiani delle varie parti d'Italia parlano, violiamo le leggi grammaticali della lingua comune; se ci teniamo nel debito ossequio della grammatica, ci discostiamo da ogni apparenza di verità, e l'efficacia della rappresentazione ne soffre. E aveva pienamente ragione: infatti leggendo una novella di materia bretone di Emilio Zola, ove lo scrittore ad ogni passo avverte: — il tale disse in patois la tal cosa, — vien voglia di ridere. O che razza di naturalismo è mai cotesto, in cui per raffigurarsi il parlare d'una persona bisogna tradursene i discorsi dal francese comune in dialetto di Bretagna? Lo stesso, se non peggio, accade in Italia, ove l'autocrazia del dialetto toscano va sempre più perdendo d'autorità e di vigore; e la signorina Serao medesima ce ne dà una prova, ella che con una così felice costanza trasporta nell'italiano academico della sua prosa tutte le innumerevoli improprietà del volgare napolitano; ella che giorni addietro cominciò una novella, pubblicata con gran pompa dalla Domenica letteraria, con un singolarissimo sproposito. La novella cominciava con una scampanellata, e quando fu aperto l'uscio, domandò alla serva una signora romana che aveva sonato:
— Ci sta Caterina?
Domanda che mostra ad evidenza a quali fatali errori meni l'italianizzamento di questo o quel dialetto. Tutte le persone che la signorina Serao introduce a dialogare nella sua prosa, di qualunque parte d'Italia siano, parlano un napolitano illustre curiosissimo. Ancora un altro esempio. Con questo sistema, chi volesse dar la parola in un romanzo a qualche indigeno della provincia di Chieti, si troverebbe a fronte d'uno strano impaccio. Nei dialetti chietini l'uso e il valore degli ausiliari verbali è in ragione inversa dall'uso e dal valor comune: io ho fatto in volgar chietino si traduce so' fatte: bisognerebbe dunque far spropositare questo sciagurato così: io sono fatto la tal cosa.
Anche il Verga ha cercato una soluzione empirica di questo problema, e la soluzione sua, se non è tanto antigrammaticale quanto quella della signorina Serao, è per contrario più artifiziosa e faticosa, e causa non ultima del poco favore che immeritamente trovano i suoi racconti. Egli cerca, con effetti prospettici, di dare non già il dialogo, ma una rappresentazione del dialogo; quindi ogni tanto fra il racconto suo scatta una esclamazione, un proverbio, una qualunque frase o una parola della persona che egli finge in atto di parlare; di più, fa uno strano abuso del dialogo indiretto, per modo che le sue novelle ci offrono questo risibile spettacolo: il dialogo è raccontato, il racconto invece è parlato. Sicchè, per troppo sforzo di verità, si riesce a un meccanismo che alla prima novella, per la novità, piace; alla seconda, discoprendosi, comincia a infastidire; e infine diventa insopportabile.
Per cercare una soluzione possibile e razionale di questa questione, la quale è d'importanza capitale perchè raccoglie in sè anche le sorti della comedia, bisogna pensare a una cosa, sfuggita, non so come, a tutti quelli che, nell'esperienza dell'arte o teorizzando, vi hanno meditato intorno: in Italia non si parla la lingua italiana, ma si parla il dialetto. Tranne i Toscani, tutti gl'Italiani quando si trovano a discorrere con persone che non siano del loro paese, traducono dal proprio dialetto, e il più delle volte traducono male. Ho notato ultimamente questo fatto nella propria persona di Giovanni Verga. Noi parlammo un giorno lungamente insieme, e io notavo lo stento e l'imperfezione del suo italiano, com'egli, certamente, si scandolezzava della sconcezza del mio. Poi andammo a mangiare delle sardelle sopra una tartana messinese ancorata nel porto di Ripa Grande; e subito il Verga cominciò a parlar siciliano coi marinari con una così facile speditezza, che io dissi in me medesimo:
— Diavolo! E perchè costui non fa parlar siciliano i Siciliani delle sue novelle?
IV.
Intorno alla Fantasia di Matilde Serao i critici hanno imaginato una straordinaria moltitudine di belle fantasie. Da qualche tempo la critica italiana, sforzata ad affacciarsi tutte le domeniche ai balconcini dei giornali ebdomadari, e a stare tutto dì in esposizione come il Santissimo, era di malo umore. Pareva infreddata, poichè si udivano qua e là come gli scoppi e gli spurghi del catarro di Enrico Nencioni, poichè si propagavano certi rumori come di chi si soffi il naso con troppa violenza. I giovanastri distruggitori d'imagini cominciavano a sentir la noia dell'iconoclastia, gli altri brontolavano contro gl'iconoclasti. Un universal tono di lamentazione e di pianto coloriva tutti i fogli letterari d'un color cinereo chiazzato di lacrime; e sembrava giunto il momento di dire:
— La smettiamo questa comedia?
Pareva che il buon senso e il buon gusto del popolo italiano, rifluendo spontaneamente per un miracolo d'atavismo, dovessero una buona volta, con provvido atto di coraggio, empire i pitali critici di tutta quanta la presente diarrea letteraria, e gittare tutto questo sudiciume alle cloache del Tevere. Aimè, vana speranza! Il miracolo atavistico non seguì, e il popolo non si mosse: per contrario la critica, guarita del catarro ai primi caldi estivi, ritrovò nei suoi vecchi polmoni la voce dell'entusiasmo; e per rifarsi della lunga musoneria, e per riaversi dal malumore, e per folleggiare, e per bamboleggiare, e per civetteggiare, si tolse in mezzo una femmina, e la levò in alto sulle braccia distese, cullandola sballottandola trabalzandola in processione, con un maledetto chiasso d'acclamazione, come d'una frotta di ragazzi dopo troppe ore di clausura e di tortura scolastica.
Che il diavolo vi porti, o critici italiani che volete ad ogni costo fare i pretoriani, ed eleggere per acclamazione l'imperadore! Voi fate peggio dei montoni di Panurge. Voi siete come un passo di quaglie, che, dopo valicato il mare, si butta a una radura. Le bestioline stanno qua e là acquattate tra le ginestre tra le felci tra le stoppie, dispersamente, affaticate dal lungo volare; ed ecco il re delle quaglie, più grosso e di più lunghe zampe e con un ciuffetto sopra la testa, prende a scorrer le file, contando le pellegrine; poi di subito comincia a cantare. E da ogni parte, dalle ristoppie e dalle felci, dalle ginestre e dai cespugli di erica tutte le altre quaglie prendono a cantare in coro: — Qua, qua, qua. È la gioia del riposo, o il dolore d'un nuovo viaggio, o la paura dei cacciatori? Il re delle quaglie dà la nota: tutte le altre cantano con esso lui: — Qua, qua, qua. E corrono cercando il cibo tra i solchi della terra, o si spiccano tutte quante a volo.
Fra i critici italiani ora non v'è re, nè regolatore, nè intonatore; ma, come alle primitive età dei popoli o in tempo di rivoluzione, il governo è tumultuario, e la bacchetta di direttor dell'orchestra cade in mano del primo usurpante. Questa volta è stato Luigi Lodi. Luigi Lodi è venuto da Bologna a Roma con l'anima tutta nera di rimorsi e tutta tremolante di contrizione. Dopo avere per molti anni combattuto ai fianchi di Lorenzo Stecchetti, era singolarmente nauseato dei combattimenti. Aveva voluto intorno al dottor Guerrini raccogliere una falange di poliorceti critici e poetici, e la falange gli si permutò d'avanti in una ragazzaglia di mirmidoni. Aveva, con tutto l'impeto della gioventù e con molto aiuto di buoni argomenti, voluto schiacciare Paolo Ferrari, e dalle ceneri di quel commendatore sparpagliate ai venti non rinasceva alcun virgulto promettente. Allora la critica la letteratura la guerra gli vennero in uggia; e poichè l'Italia non voleva se non quella cacarella in santa pace, aiutata e vellicata, come da clisteri di decotto malvaceo, dai soffietti, concluse seco medesimo:
— Sia dunque il soffietto. E prese a soffiare più forte di tutti. E il primo libro che gli capitò fra mano, fu la Fantasia. Cominciò dunque a fantasticare inni di gloria a questa Fantasia, proclamandola il più efficace e più largo e più fortunato tentativo romanzesco fatto sinora in Italia, levandola sopra i migliori romanzi di Daudet. Figuratevi: tutte le quaglie acquattate nelle bassure dei giornali d'Italia, come per accordo premeditato, cominciarono a cantare osanna; e l'onda dell'entusiasmo ammirativo, raccolta dai fogli minori in uno zampillo colossale, scaturì dal ventre della Nuova Antologia per opera di Enrico Nencioni in un inno mezzo fra bacchico e trionfale, che alla prima lettura mi parve la gran pisciata della giumenta di Gargantua in piazza di Notre-Dame.
Sembrò allora rifiorita l'alba d'uno di quei beati giorni che il popolo italiano, ubriacato dalla bellezza del tempo sereno e dalla dolcezza del sole, espande l'essere suo in una quasi pazzia gloriosa, e farnetica gioiosamente contemplandosi e adorandosi e celebrandosi con immenso rapimento d'amore. Tutti i critici, ragunati in coro, proclamarono nella Fantasia l'unico romanzo italiano veramente vitale, e il popolo battè le mani. Nessuno pensò che una consimile proclamazione fu fatta all'apparire dell' Eva, poi de' Malavoglia del Verga, della Giacinta del Capuana, di Malombra del Fogazzaro, di Mater dolorosa del Rovetta; che il nostro romanzo, di acclamazione in acclamazione, se ne va trionfalmente a finire in un cesso. Questo pensò ben qualcuno, che qui non è il caso di nominare; ma gli amici lo ammonirono che non bisogna dir male delle femmine, e poi a colui non garba il mestiere di guastafeste. Lasciò dunque cantar l'inno di gloria. Ma ora che l'entusiasmo si è raffreddato, e che questo romanzo è entrato nel dominio storico, se ne può dir male? Se lo ha scritto una femmina, tanto peggio per lei. È forse negato ai posteri un giudizio onesto intorno ai romanzi della signorina di Scudéry? Perchè dunque le femmine, vive, godranno d'un privilegio che ad esse, morte, non è concesso?
E comincio con un esordio che può parer singolare. L'anno scorso la signorina Serao era stranamente decaduta nell'opinione della gente. Cessato il rumore del suo primo romanzo, che se non fu maggiore certo fu eguale al chiasso suscitato intorno al secondo, la sua reputazione andò precipitando di articolo in articolo. I lettori del Capitan Fracassa odoravano la prosa sua sotto ogni pseudonimo, e se ne infastidivano: la natural gelosia sessuale irrompeva contro questa femmina che voleva ad ogni modo invadere le più sicure e più dilette conquiste mascoline, e l'esagerazione del biasimo fu allora quasi eguale alla presente dell'ammirazione.
Or un amico suo, che l'ha proseguita sempre d'una calda benevolenza, che ha del suo ingegno più che femmineo grandissima stima, e nativamente radicato nell'animo il senso di equità, e che, avendo letto la Fantasia mentre si stampava in appendice della Rassegna, vedeva quanto quella universal reprobazione fosse ingiusta e irragionevole, andava da per tutto dichiarandone i meriti; e mi ricordo che molti, lodatori di poi di questo romanzo oltre ogni confine di serietà, lo canzonavano allora e gli davano del matto, come gli darebbero del matto ora se si attentasse di dirne i difetti. Del resto, di questi gratuiti definitori di matti non altrimenti è possibile liberarsi, se non infischiandosi pienamente dei manicomi, della cavalleria e delle femmine; e appellandosi contro di loro, come all'arbitro più sicuro, a Matilde Serao, alla quale, subito dopo letto il suo romanzo, disse quel suo amico a voce quasi le cose medesime che io pubblico oggi per le stampe; ed ella ne fu contenta.
E la prima cosa che le disse, credo, fu questa, che la Fantasia, a differenza del Cuore infermo, ha una ossatura solida e logicamente si regge bene; ma nella fattura è così rozza, così arruffata, da non potersi considerare come opera d'arte. E veramente, nella signorina Serao, la quale di solito pare non abbia conscienza dell'arte, ma tira via ad ammucchiar prosa e prosa e prosa, seguendo l'impulso del momento o le reminiscenze dell'ultima lettura, tumultuariamente, è questo un progresso grandissimo; del quale andò colui lodandola in conspetto del popolo, ammonendo quelli che la vituperavano onestamente alla lontana ch'ella accennava in fine a una serietà di propositi e a qualche men vile intendimento. Aimè, i critici di poi lo hanno, al solito, fatto pentire di quella gratuita e imprudente propaganda benevola! Pare dunque proprio al Nencioni che la coerenza, chiamiamola così, di questo romanzo sia straordinaria, non pure nell'opera peculiare della signorina Serao, ma nella storia complessiva dell'arte narratoria? E via! La coerenza, la solidità del contenuto di questo romanzo procedono da un fatto semplicissimo: questo non è un romanzo, è una novella molto esigua, allungata e distesa infinitamente. È un duetto, insomma, parlato qualche volta davanti ad altra gente, ma di cui si può dire non sian collocutori se non quei due. Tutta l'altra gente è inutile, impaccia anzi e impedisce il dramma con la sua presenza spassionata e fastidiosa. Tutta l'altra gente giova alla scena e giova a crescer la mole del romanzo: non altro. Quella Caterina e quell'Alberto, così sciocchi, così scoloriti, così seccanti, sono incomodi; e neppur tanto, da recare un qualche intoppo allo sviluppo del dramma. Ogni tanto si movono, parlano, chiamano l'attenzione del lettore; e quando il lettore si volge con l'animo ad essi, li vede in ascolto del duetto, lei taciturna goffa impacciata, lui noioso petulante piagnucolante, l'uno e l'altra tanto stupidi, da non intender nulla di ciò che loro accade da torno. E quando il dramma, onde non si sono avveduti, scoppia, non sapendo che altro fare e come escir dalla scena, muoiono. Certo, le anime loro son volate al limbo del romanzo moderno, ove nel bacio del Signore riposano quelle innumerabili moltitudini di creature romanzesche che mai non fur vive. Riposino in pace. Il dramma dunque è di una povertà francescana, e tutta la lotta si restringe a un duello: usanza barbarica, come ognun vede, e, più specialmente, gallica. In quasi ogni calata dei Galli sul territorio latino, s'avanzava un barbaro tracotante e cianciatore, e proponeva di riporre le sorti della guerra in un combattimento di due. Del resto, anche greca; poichè l'Iliade comincia col duello di Menelao e di Paride, e termina con quello di Ettore e del Pelide. Però queste battaglie duali ad Omero parvero troppo povera materia epica, e non fece egli così miseramente terminar la guerra di Troia; ma il primo combattimento fu seguìto da una serie infinita di pugne, ove si mescolarono battagliando gli uomini e gli dèi, e al secondo non successe se non la tregua pei funerali di Ettore e per gli apparecchi dell'assedio. La signorina Serao si è per contrario accontentata del duello, e poichè non siamo sul campo dell'epopea, ma in quello del romanzo, la battaglia non è d'armi, bensì di affetti; e poichè il romanticismo ha, a poco a poco, soppresso tutti gli affetti umani a benefizio dell'amore, a cui si è appresso per virtù di Balzac aggiunta l' auri sacra fames, siamo ad una lotta d'amore. Il substrato dunque è questo: una creatura umana che induce l'altra all'amore. Roba, mi pare, un po' vecchia; ma non importa: vediamo se la signorina Serao abbia saputo in qualche modo rinnovare questo vecchiume.
Prima di tutto, ha fatto i combattenti dispari di forze. Il maschio è felicemente constituito in tutto, nell'organismo nell'intelletto nell'animo, persino nelle sostanze. È un uomo forte bello sano buono agiato, che potrebbe offrire quasi il tipo della sua razza. La femmina invece è un mostro: malaticcia bisbetica infinta fantastica, tutta nervi, e nervi sempre in convulsione per gli accessi dell'isterismo, cattiva. Non ha altra arma se non quella pallida e brutta bellezza delle persone malate, onde il romanticismo cominciò a trarre argomento di pietà, e finì col trovarvene d'amore. E, naturalmente, poichè i precetti del romanticismo questo comandano, dei due combattenti non è già il più forte che vince, ma il più fiacco. Dico naturalmente, perchè, anche questo si sa, il preconcetto di riforma umanitaria che il romanticismo succhiò dalle dottrine di Gian Giacomo Rousseau indusse nell'arte questo assurdo pregiudizio, che essa dovesse, con le armi sue, combattere la legge naturale della selezione, in vigor della quale gli esseri più imperfettamente organizzati e armati alla lotta per la vita, soccombono: pregiudizio, diremo, istintivo, però che quella legge non fosse ancora, non pur formulata, ma intuìta; poichè il romanticismo non fu se non un intravedimento confuso incerto istintivo di tutte le nuove conquiste della scienza. E veramente non si può dar molta colpa a Giorgio Sand se, in un tempo che le miracolose intuizioni di Lamark passavano inosservate e non ancora il Lyell aveva abbattuto la dottrina dei cataclismi geologici di Cuvier, ebbe intorno alla selezione naturale e alla mutua relazione dei sessi un'opinione tanto incerta e tanto assurda, da attribuire alla femmina la scelta del maschio, da propugnare per mezzo del romanzo una mostruosa poliandria, che avrebbe infallibilmente menato alla estinzione della specie umana. Ma nell'anno 1883, dieci mesi dopo la morte di Carlo Darwin, quando una falsa interpretazione delle leggi dell'amore è segno non più di fantasia malsana, sì d'ignoranza, una persona, qualunque sia il suo sesso, che pretenda di scrivere un romanzo sperimentale e lo fondi su quell'assurdo errore, mostra di non avere nessuna attitudine e nessuna preparazione per intuire la vita. E poi, mostra di avere inconsciamente, forse indirettamente a traverso il tramite di Dumas figlio e di Feuillet, succhiato il sangue della Sand. Dico inconsciamente, perchè appunto la signorina Serao ha ereditato dal romanticismo quel terribile peccato della inconsapevolezza e dell'arruffìo che ebbe il suo momento giovenilmente bello nel periodo dei Masnadieri e del Werther, poi, invecchiando, diventò una cancrena dell'arte e il più sicuro segno di debolezza. Nella intuizione e nella rappresentazione della vita ella procede a guisa d'un sonnambulo, a cui i fantasmi si risvegliano nello spirito spontaneamente. Sono letture frettolose e tumultuarie, senza criterio determinato e quasi senza scopo, che la movono: tutte le sue osservazioni sono di seconda mano, e per la più parte false; tutte le sue contemplazioni della vita sono derivate da altri, e quasi sempre paradossali. Da Giorgio Sand e da' suoi successori ha tratto quel concetto inestetico immorale e scientificamente errato della donna; da Emilio Zola ha usurpato il preconcetto ereditario, poichè le due femmine de' suoi due romanzi deducono tutta la loro essenza drammatica dalla fatalità di quella legge cui son sottoposte; dal Daudet ha imitato quella composizione frammentaria del racconto, che conferisce un'apparenza di varietà alla materia per sè stessa monotona. Infatti la prima parte, la vita di collegio, ha poco o nulla da fare col resto, come la vita napolitana non si collega a quella della campagna se non pe'l filo ideale e invisibile della lotta che, cominciata là, dovrà qui scoppiare: l'esposizione di Centurano poi, che è affatto superflua, che non giova se non a crescer la mole del libro e a dar agio a quei due di trovarsi insieme, è una interpolazione; di più essa è imitata da una consimile esposizione narrata da Flaubert in Madame Bovary, come le scene del collegio sono un'amplificazione d'un capitolo d'un romanzo di Vittorio Cherbuliez e, diciamo, un infemminimento della prima parte d'un vecchio romanzo di Dumas figlio. Così, nella determinazione della lotta fra quei due si sente l'influenza della rigidezza e dei pregiudizi sistematici dello Zola, pe'l quale l'umanità si scinde in due individui, anzi in due temperamenti cozzanti. Ma è inutile proseguire, però che quanto sinora si è detto basti a mostrare che se alcuno avesse la pazienza di far l'analisi chimica dei romanzi della signorina Serao, troverebbe un miscuglio strano di reminiscenze amalgamate insieme nella papparella d'una prosa qua ciangottante con la più petulante sguaiataggine del dialetto della borghesia napolitana, là incipriata d'una polverina francese, altrove lambiccata e stiracchiata e maculata di strane chiazze di colore.
E ancora: fossero almeno quelle due persone che fanno tutto il substrato della Fantasia veramente e vivamente e pienamente umane! Ma due più sconce creature io non le ho vedute mai in nessun romanzo. Del maschio non è rappresentata che la parte organica: è un uomo forte, sano, grande, che tira di scherma, che mangia molto, che fabbrica vino. E poi? È qui tutto? Che cosa quest'uomo ha nel cervello, e che cosa ha nell'anima? E oltre alle funzioni organiche della locomozione della nutrizione della riproduzione, costui non ha altro elemento e attività di vita? Povero diavolo! E come allora può egli entrare per tanta parte nel dramma? Ove quella donna lo ferisce? Nell'intelletto no, poichè ha la scatola cerebrale affatto vuota; nell'anima neppure, poichè è un bruto domestico: dunque nei sensi. Ma in prima quella donna non è tale da suscitare un qualunque concitamento sensuale; e poi, se il movente fosse stato tutto libidinoso, il dramma avrebbe dovuto avere un altro sviluppo, avrebbe dovuto cominciare dal soddisfacimento della passione afrodisiaca, non terminare con esso, poichè, segnatamente nelle nature sane, il senso non può aver forza se non momentanea e finchè lo stimolo è immediato: invece quei due, dormendo l'uno accanto all'altra, andando insieme pei boschetti solitari, si desiderano chiacchierando e baciandosi, e non mai quello stupido le alza le gonnelle. Dunque? Dunque il gran fattore dell'amore è il deus ex machina del romanzo moderno, è l'ambiente. Eccolo, il gran generoso che accoglie nelle sue immense braccia tutte le assurdità più balorde, e conferisce loro una sembianza e un pretesto di verità. Esso ha accolto anche quei due, dei quali l'uno era nato per far l'agricoltore, e l'altra la comediante quando il pubblico si fosse stancato delle smorfie della signora Duse, e che in grazia dell'ambiente fanno una fine così miserabile e così insensata. Spalancate le nari, e fiutate: non sentite dall'esposizione agricola di Centurano fluire un odor misto di formaggi e di fiori? Sono i fiori della Faute de l'abbé Mouret e i formaggi del Ventre de Paris che accordano nella miscela delle loro emanazioni i temperamenti discordanti di quei due, e trasformano in un eroe da dramma francese un buon borghese napolitano che non avrebbe speso cinquecento lire per dormire una notte con una ballerina. È il padre eterno, Emilio Zola, che viene a trar d'imbarazzo questa romanzatrice di pochi espedienti.
Quanto alla femmina, essa è uno strano mostro. In principio parrebbe, da quel suo misticismo e da altri segni esteriori, isterica; poi l'isterismo svanisce, ed ella ci appare ammalata d'una malattia indefinibile, mista di nevrosi, di clorosi, e di chi sa mai quante altre maledizioni. Che malattia sia quella, nessun medico saprebbe dire. Posso bensì dirlo io, sebbene non abbia mai studiato medicina; e posso dirlo senza tema di errare, fondando la diagnosi mia sopra uno dei migliori articoli di giornale che Matilde Serao abbia scritto. Questa malattia si chiama tabe romantica, e si va transmutando traverso le fasi del romanticismo. Ai tempi della Staël si chiamava lo spleen, era d'importazione inglese, era la più fastidiosa seccaggine che abbia mai travagliato il romanzo: era una minor forma del dolore universale, e prediligeva le passeggiate solitarie al chiaro della luna e i racconti epistolari. Più tardi, lo spleen scomparve soffocato dalle convulsioni, le quali si adattavano stranamente alla vivacità e al movimento delle comedie di Scribe, ed erano per ogni forma d'arte feconde di espedienti. Poi ci fu un piccolo accesso di tisi, ma dopo la Dame aux camélias la tubercolosi fu sbandita dal romanzo e dalla comedia, poichè è una malattia troppo terribile e troppo scientificamente determinata. Ora ne abbiamo due, la clorosi e la nevrosi, che si avvicendano e si accoppiano. E a proposito di queste due malattie non è chi non sappia che esse, giunte nel dominio scientifico, non sian più dramatizzabili, perchè una clorotica o una nevrotica che abbia bisogno delle cure del medico non è più atta all'esercizio, non che dell'amore, di quasi tutta la vita; e quando per conseguenza esse ci si dimostrano nella vita e nell'arte, in tutta la pallida pompa del loro malore, agenti di corruzione estetica e morale, si infingono: sono donne macilente e scarnate dalla tenia, che cercano nella malattia in voga un'arme di amore; sono femmine impudiche, che ne traggono argomento e scusa a loro disordini. Così, in tutto il romanticismo, queste false infermità si son riverberate dall'arte nella vita, e dalla vita son rifluite nell'arte.
E ci è, in conforto di questa osservazione, una sicurissima prova di fatto. Flaubert, l'unico romanziere romantico che non abbia poetizzato le malattie romantiche, che scrivesse anzi il suo miglior romanzo per mostrare come dai libri quelle malattie si propaghino alla vita, fu figlio d'un medico che studiò con grandissimo amore tutte le malattie nervose, e fu egli stesso nevrotico. O romanzatori e poeti comici della nevrosi, avete voi mai aperto un libro di medicina, e sapete voi che sia questa nevrosi? Ecco come Maxime Du Camp, il costante amico di Flaubert, ne racconta la malattia: «Quando io giunsi a Rouen, il padre Flaubert era accasciato da un'oppressione morale, onde gli si vedevano le tracce sul volto. Era un misto di umiliazione, di disperazione e quasi di rassegnazione a fronte d'una maggior forza ch'egli non poteva vincere. La sua scienza era vana, e il suo amor paterno soffriva per l'impotenza dell'arte. La malattia sacra, la grande nevrosi, quella che Boerhaave ha chiamato il terremoto umano, aveva colpito Gustavo. Il povero gigante sopportava questa sventura con qualche filosofia. Si sforzava al sorriso e alla celia per chetar l'inquietudine de' suoi; ma quando dimenticava la pietosa comedia, lasciava ricadere il capo e non ci voleva molto a capire da quali pensieri fosse tormentato. Nulla mai aveva fatto preveder questo. Alla sua infanzia linfatica eran succedute un'adolescenza e una giovinezza sanissima; era d'un vigore e d'una corporatura che nulla avean potuto dar a temere. Il male fu fulmineo. Nel mese di ottobre 1843 egli si trovava a Pont-Audemer; suo fratello Achille andò a riprenderlo. Partirono una sera insieme in un cabriolet, e Gustavo appunto guidava. La notte era scura; nei dintorni di Bourg-Achard, mentre un carretto passava co' suoi cavalli fragorosi di sonagliere a sinistra del cabriolet e si scopriva da lontano a destra il lume d'un'osteria solitaria, Gustavo fu colpito, e cadde. Il fratello lo salassò immediatamente. Altri assalti nervosi seguirono; ne ebbe quattro nella quindicina seguente. Il padre Flaubert era fuori di sè, e però ch'egli fosse della scuola di Broussais, non vedeva rimedio oltre il salasso, accrescendo così un'eccitazione nervosa che dava a temere assai. Un giorno ch'egli salassò Gustavo e il sangue non spicciava dalla vena del braccio, gli fece versar nella mano dell'acqua tiepida: nello scompiglio non s'avvidero che l'acqua era quasi bollente, e gli produssero una ustione di secondo grado. Eccesso di pletora, troppa forza, troppo vigore, disse il padre Flaubert, e proibì all'ammalato i liquori, il vino, il caffè, i cibi succulenti e il tabacco. Lo rimpinzavano di valeriana e d'altre diavolerie.
«Egli ingoiava le droghe con rassegnazione, mangiava vivande sciapite, non fumava più, beveva decotto di foglie d'arancio, e diceva con un sorriso mite: — Il vino di Sauterne è alquanto più buono. — Aveva preso dalla biblioteca paterna tutti i libri che trattavano di malattie nervose e li aveva letti; dopo questa lettura, mi disse in un momento d'espansione: — Sono perduto. — »
Dopo di che, non io augurerò alle romanzatrici sperimentali la malattia di Flaubert, — troppo sarei feroce; — auguro bensì loro di imitare Flaubert nella lettura ch'ei fece dei libri medici, prima di gettare nell'ospizio dei trovatelli dell'arte delle creature miserabili come quella infelicissima Lucia Altimare.
Questa Lucia è una discendente di Corinna, è una sorella delle femmine di Dumas figlio. È ammalata non si sa di che, è bisbetica, è fantastica, è la solita donna elettrica e fatale, che ci ha rotto fatalmente le tasche. Alcuni critici fantasiosi hanno voluto vedere in essa una satira delle sue sorelle. O critici fantasiosi, e dove dunque avete voi l'intelletto, se non nei piedi? Quella è la solita rana galvanizzata che si contorce nelle comedie di Dumas, che si dimena sotto i panni della signora Duse, che fa un balletto osceno in quasi tutti i romanzi moderni. Dov'è la satira, o che razza di satira è mai questa?
E ora non voglio altro dire, se non che questo romanzo non si può onestamente considerare come opera d'arte. L'opera d'arte comincia di là, ove giunge l'ultima perfezione di tutti gli scritti della signorina Serao: dal rifacimento grossolano. E poichè questa mia asserzione non è accettabile se non è bene intesa, ricorriamo a un esempio. Il poema di cavalleria nella sua più perfetta forma non è nato per generazione spontanea, ma risulta da una lunga evoluzione che si può così in grosso dividere in tre periodi: primo periodo di gestazione, quando il materiale epico si raccolse e fu poetato fuori d'Italia; secondo periodo di elaborazione, quando questo materiale medesimo, passato in Italia, si dissolvè nell'acido della fantasia popolare e fu italianamente rimanipolato; terzo periodo di perfezione, quando questi rifacimenti pervenuti ai nostri grandi poeti furono rianimati dal caldo ed eterno soffio dell'arte.
Il romanzo moderno in mano della signorina Serao è nel secondo periodo, poichè appunto ella non altro ci ha dato sinora, se non rifacimenti empirici e tumultuari di materiale francese. In lei nulla di proprio, anzi nulla di stabile; ma un ondeggiamento continuo dei criteri e della forma. Dei criteri si è già detto a bastanza: in quanto alla forma, si può dire che essa sia come una materia inorganica, come una minestra fatta di tutti gli avanzi, di un banchetto copioso, nella quale certi stracci stranamente tinti nuotano in una broda incolore, nella quale certi pimenti troppo forti tentano invano di saporire la scipitaggine dell'insieme. La sua lingua poverissima vi si dissolve sotto le mani per la inesattezza, per la inopportunità, per la miscela dei vocaboli dialettali italiani francesi. E poi nel tessuto de' suoi libri manca ogni principio di politura. Nella Fantasia che abbia una certa finitezza d'arte non ci è che la prima parte, e qualche scena qua e là: per esempio quella del primo bacio. Tutta l'esposizione agricola non è, o non pare, che una relazion d'un cronista; tutta la vita di quella Lucia prima del matrimonio è malamente accennata in una lettera; tutto il resto, fa rabbia.
E ora, se qualcuno credesse ch'io con queste mie osservazioni contraddica la propaganda di benevolenza che in favore di questo romanzo andò facendo quell'amico di lei e mio, s'ingannerebbe. Io sèguito a reputarlo una bellissima cosa, anzi una cosa miracolosa in ragione delle cattive speranze che questa donna dava di sè; poichè, per imperfetto, per arruffato che sia, in confronto delle altre sue cose è stupendo. Ma quando noi, facendo astrazione dal sesso e dalle consuetudini dello scrittore, giudichiamo il libro secondo le leggi universali dell'arte, allora è un altro paio di maniche.
E dire che i critici hanno voluto mettere questo romanzo sopra i migliori romanzi francesi, i quali, se non altro, hanno il merito grandissimo dell'autonomia. Oh, i critici! che il diavolo se li porti.
V.
Facciamo ora un pasticcio. Prendiamo alcuni novellatori vari di sesso, di intendimenti e di ingegno; e mescoliamoli.
E cominciamo da un commendatore.
Io sono uno dei più antichi lettori del Barrili. Ho letto l' Olmo e l'Edera molti anni addietro, in un giornale illustrato di Milano, in collegio. Poi, nel collegio medesimo, comprai una volta le Confessioni di fra Gualberto, e furono causa di scandali e di penitenze non poche; poi lessi, via via, Val d'olivi, Capitan Dodero e un altro romanzo, del quale non rammento più il titolo; ma rammento benissimo tutta quanta la tela, e ci era tra le altre cose un diavolo, di cui ritrovai il nome più tardi nella logica aristotelica, ed era Aporema, il sillogismo della contradizione: parlava mezzo in prosa e mezzo in rima. Più tardi, ho seguìto il Barrili da Semiramide all' Undecimo comandamento, e sebbene da queste letture non sia escito tutto ardente di entusiasmo, pure non ho mai ritrovato in quei libri tracce galliche o pappagalliche, come negli altri. Così, nemmeno negli ultimi due romanzi, pubblicati ad un tempo in Milano e in Roma, queste tracce appaiono.
In questi due libri ci è tutto quanto il Barrili, ci è tutto quanto il romantico aperto e schietto, sebbene lievemente corretto dalla pratica della vita borghese; il romantico che, incapace o aborrente dalla intuizione immediata della vita, ripara tra le penombre della storia o tra la nebbia rosata del sentimento. Di più ci è il Barrili dei tempi migliori, il Barrili di dieci e di venti anni addietro. Non più quel pervertimento delle facoltà fantastiche che lo trasse alle stranezze del Merlo Bianco, non più quella posa academica e catedratica che lo condusse alla monotonia fastidiosa del Biancospino. Nell' Anello di Salomone si ritrova quel caldo e simpatico soffio di fantasia storica che alita per le pagine di Semiramide e di Tizio Caio Sempronio. Nella Sirena son rifiorite tutte quelle gentilezze, tutte quelle eleganze, tutte quelle finezze del sentimento che fanno di Val d'olivi un piccolo capolavoro romantico.
L' Anello di Salomone, come appare dal titolo, volge tutto intorno al regno e agli amori del re sapiente, ed è il romanzo del Barrili che si legge più volentieri dopo Come un sogno, sebbene la materia sia per grandissima parte nota, sebbene la favola non sia nè molto artifiziosa nè molto ingegnosa, sebbene tutta quella gente che si move per le pagine del racconto sia circonfusa da un velo di nebbia poetica. Questo romanzo non è propriamente un racconto storico, nel significato romantico della parola: rassomiglia più tosto ai racconti egiziani di Giorgio Ebers. Tuttavia in una cosa ne differisce: l'Ebers è, più che altro, un archeologo e un filologo, che approfitta delle felici disposizioni della sua fantasia per diffondere tra il popolo gli usi e la vita dell'antico Egitto: il Barrili invece è un organismo incompiuto di novelliere e di poeta, che non contento e dispettoso della vita reale, si butta, coll'aiuto dell'archeologia e della filologia, in piena leggenda biblica, tra l'opera gloriosa dell'edifizio del Tempio, tra i caldi amori di Salomone per Abisag Sunamite. Però, io preferisco i romanzi di Ebers, poichè le facoltà imaginative servono assai meglio questo archeologo, che l'archeologia e la filologia e l'esegesi biblica non servano il nostro romanziere. Nell' Anello di Salomone, il Delitzsch o il Justi o il Vigouroux o qualunque altro esegeta moderno molte cose troverebbe a ridire: per esempio, se il Barrili, invece del testo comune, avesse preso un moderno testo critico della poesia biblica, il Cantico dei cantici, quale veramente è, spoglio di ogni affezione afrodisiaca, gli avrebbe senza dubbio consigliato un tipo salomonico più vicino all'umanità e all'animalità. Ma se ci impantaniamo in questa discussione, e in altre dispute esegetiche, non ne caveremo più i piedi: lasciamo dunque in pace l'esegesi, l'archeologia, la filologia; e passiamo oltre senza osservare che il re Salomone del Barrili, quando non è mosso dall'attività d'amore, rassomiglia un poco al re Carlone dei poemi di cavalleria e al re Alboino di Bertoldo, seduto eternamente sopra un trono d'oro che non deve essergli molto soffice, sempre sguainante al sole il cencio dell'autorità e della dignità regia, ma buon diavolaccio in fondo, amico delle belle donne e della buona tavola. Del resto non è una cosa strana, nè il Barrili è il primo che abbia scritto un romanzo intorno alla vita di Salomone. Salomone, come ha colpito ora la fantasia del Barrili, colpì la mente del popolo nel medio evo, e in quel singolare arruffìo di tutte le nozioni umane restò stampato nella memoria universale, e con Virgilio, con Boezio, con alcuni imperatori romani, con alcuni capitani e filosofi greci visse d'una vita nuova ed entrò come fattore principalissimo nella mitologia medievale. La sua vita, i suoi giudizi, la sua sapienza, i suoi amori diventarono materia fantastica e poetica, e informarono molta arte di prosa e di poesia: vi è tutto un poema tedesco intitolato Salaman und Markolf; e da questo, e da altri che intorno a questo e dopo di questo furono composti e si propagarono da per tutto, nacque la favola di Bertoldo, si fermò il tipo di re Alboino, e forse anche quello di re Carlone ne ebbe a sopportare l'influenza.
Ma lasciamo questa materia, perchè il romanzo del Barrili non va considerato con criteri mitologici, o storici, o filologici; il romanzo del Barrili va preso qual è, come una fortunata intuizione fantastica del tipo e della vita ebraica nel tempo dello splendore più grande, come una calda e viva imaginazione orientale, ove si sentono qua e là scaturire con un'abbondanza singolare i fiotti della poesia biblica e balenare i lampi del dramma. È un romanzo che cinquant'anni a dietro avrebbe fatto la fortuna d'uno scrittore; ora, poichè i tempi sono mutati e l'orbita del racconto non è più quella di una volta, esso ha il difetto di tutte le cose nate troppo tardi.
E ora, una femmina. —
La marchesa Colombi non ha la maschilità nervosa di Emma, nè la foga della Serao; è la più tranquilla e la più casalinga di quante donne scrissero e scrivono in prosa. Di solito nella donna la professione dello scrivere turba l'equilibrio della vita; nella marchesa Colombi, no. Per lei l'arte deve essere come un lavoro di ricamo, un passatempo, o uno sfogo di certi tenui ribollimenti dello spirito; poichè in fondo alla sua prosa appare sempre la madre di famiglia amica dell'ordine, amica dell'economia, amica del buon pranzo e del buon fuoco nel caminetto. M'inganno, marchesa, o le cose stanno proprio così come io dico? Una volta in Italia si fece un gran vocìo d'ammirazione intorno a un racconto della marchesa che voleva parere socialista e naturalista, e che s'intitolava In risaia; ma non valeva più degli altri, e la cosa migliore di quel libro era l'intenzione. Dopo, passato quel fortunatissimo quarto d'ora, ella si mise a fabbricar racconti per gli editori di provincia e prosa pei giornali di provincia. La marchesa Colombi rassomiglia in piccolo a Giulio Claretie, il più fecondo costruttore di prosa che sia ora in Francia; anche la marchesa, come il Claretie, per qualunque giornale glie ne chiegga, ha sempre in pronto della copie: non dice di no a nessuno, non si esaurisce mai, non cade mai tanto giù da non farsi leggere volentieri. Io credo che se ella vivesse cento anni, come io le auguro, tra romanzi e articoli di giornale metterebbe insieme la materia di cinquecento volumi; e sarebbero tutti per valore eguali, nè tanto belli da strappar le grida dell'ammirazione, nè tanto brutti da meritarsi troppo acerbe censure dai critici gunaicofagi. Sarebbero tutti come quegli uomini i quali vestono correttamente, ossia non hanno addosso nulla che dia nell'occhio, nè una cravatta troppo vistosa, nè una macchia d'olio sulla falda del vestito. Anche il Tramonto d'un ideale è un libro del quale non si può dir male, quantunque neppure se ne possa dir bene: è una storiella semplice, ove la marchesa ha voluto accostarsi alle temerità sperimentali non senza rammentarsi delle sane e prudenti consuetudini degli ultimi manzoniani; ha voluto ogni tanto toccare in fretta i fianchi gladiatorii dello Zola, senza però dimenticare che Salvatore Farina le tien gli occhi addosso. Così, essendosi forse proposto in principio di fare uno studio serio e analitico della vita campestre, ha finito col rimpastare una delle solite storielle che paiono un paesaggio della Brianza dipinto sopra un piatto di porcellana. Però, le ragazze potranno leggerlo, nelle vacanze, senza danno; e forse anche lo leggeranno volentieri, perchè, come tutti gli altri della marchesa, è correct.
Non tanto, bensì, che qualche sbrendolo rosso non appaia qua e là e che qua e là lo stile non sia macchiato d'olio. Ecco, per esempio, alcune macchie delle prime pagine: «E si finiva a stappare una bottiglia» (pag. 5); «quel nodino (della cravatta) ballonzolava allegramente, come se fosse una parte di lui, vivamente interessata alla sua ilarità» (pag. 6); « vestitura, per vestito, due volte» (pag. 6 e 40); «la vedovanza sarebbe un valore» (pag. 7); «le serve continuavano a mutarsi» (pag. 11); « cucinature » (pag. 16); «e sfibbiando il vestito che mise a nudo il suo petto» (pag. 19); «ed andò a coricarsi col suo male» (pag. 20); «ferito nel suo cuore di padre al riconoscere che Giovanni pareva mortificato» (pag. 40); «dopo averla veduta lei muoversi» (pag. 49); «una bella collaretta, bianca increspata» (pag. 51). Ma tutte queste macchioline sono inezie, in confronto di questa. Sentite che cosa pensi la marchesa del Manzoni e del purismo:
«Avviò colla sua vicina un discorso sulla letteratura; ed essendo classico, purista e puritano, sparlò dei novatori, e fece un lungo elogio dei Promessi Sposi.»
Il Manzoni classico, il Manzoni autore dell' Adelchi? Il Manzoni purista, il Manzoni che scrisse i Promessi Sposi? Il Manzoni puritano, il Manzoni degl' Inni sacri e della Morale cattolica? Ah! questi poi sono... Come si potrebbe dire, per serbarsi cortesi con una marchesa?
Ultimo, un orso. Udite:
«Darò qualche esempio, che dimostri, come le parentesi aggravano il matrimonio, in quel modo, appunto, che rendon pesante lo stile. Fra mille, ch'io ne so, scelgo le avventure di due sorelle Napolitane: l'Almerinda e la Berenice Scielzo. Nel MDCCCLXV, la seconda era moglie, da poco più di due anni. La prima, invece, si avvicinava alla trentina; aveva, da un pezzo, per marito, il commendatore don Liborio Ruglia, consigliere di cassazione; e, da diciotto mesi, per amante, il cavalier Maurizio della Morte, capitano di cavalleria nel Regio Esercito.»
Così Vittorio Imbriani attacca la sua novella Dio ne scampi dagli Orsenigo, pubblicata in questi ultimi giorni, della quale io amerei meglio tacere, per non mi dare della zappa sui piedi. In fatti, in questo libro io ho predicato con tutte le forze de' miei polmoni e ho inveito e ho bestemmiato contro le consuetudini empiriche e contro l'ignoranza dei nostri raccontatori; ho gridato forte più volte, sino alla piena sazietà dei lettori, che la novella nostra ha bisogno di rientrare nel campo della coltura letteraria scientifica e storica disertato dopo il Manzoni e il Guerrazzi; che i romanzieri moderni debbono specchiarsi nei novellatori antichi e attingere alle fonti boccaccesche molta pura e fresca linfa italiana per lavarsi dalla melma francese; che, fino a che i nostri scrittori di prosa narrativa non escano dalla cerchia angusta e soffocante dello stile zoliano e non imparino la lingua italiana, vedranno tutte le opere del loro intelletto morire miseramente per le scrofole e per la tigna.
Ora dovrei io intonare il canto della vittoria e portare in trionfo sopra lo scudo questa novella di Vittorio Imbriani, la quale non contraddice a nessuno de' miei criteri novellistici; ma veramente è una cosa originale ove il sapore e il colore italiano si sentono dalle prime parole, ove ad ogni momento si sente l'artista conscio di sè e padrone di sè, si sente, in nome di Dio, l'uomo che si propone uno scopo, e per virtù dell'ingegno lo consegue. Tuttavia, come dicevo sopra, questo racconto mi dà la zappa sui piedi, poichè, con tutti i suoi meriti grandi, è un cattivo racconto, e non tanto leggendolo si perde la fede nelle facoltà narratorie di Vittorio Imbriani, quanto nel metodo narrativo che a me pare il migliore. Io dunque, leggendo, da prima dubitavo di aver preso un granchio grossolano rimproverando tanta brava gente d'una santa ignoranza; poi, pianamente, ho veduto che il granchio lo ha preso Vittorio Imbriani.
Egli, infatti, sta fuori del movimento narrativo odierno, e questo suo racconto è più una opera subbiettiva scritta a sfogo d'un desiderio egoistico di diletto, che un romanzo moderno, nel significato usurpato da questo vocabolo dopo Balzac; e non è nemmeno una novella scritta solamente per distrazione o per passatempo della gente. È, nè più nè meno, come quasi tutte le cose di Vittorio Imbriani, una storiella scritta per dispetto. Di chi, non saprei dire; forse appunto della sciatteria universale, forse anche del malumore che contro di lui cova in molti luoghi. Certo il dispetto traspare ad ogni pagina, dall'affettazione d'uno stile mezzo popolare mezzo cortigiano, d'una lingua tra di ciompo moderno e di scrittore cinquecentista, d'una ortografia così faticosa che move al singhiozzo; traspare dalla mancanza quasi assoluta e voluta, e voluta mostrare, del dramma; appare, più chiaramente, da quel continuo infischiarsene del pubblico e del racconto, dal principio alla conclusione, che è questa: «Della sorella dell'Almerinda, Berenice, e di quel che le avvenne, osservandissimi lettori e lettrici, narrerò — un'altra volta, con comodo, quandochessia.»
Ora questo peccato di esagerazione, e di affettazione, non è nuovo in Vittorio Imbriani; e tutti sanno a quali stranezze lo abbia tratto la sua irragionevole manìa di opposizione. Irragionevole, intendiamoci, nella misura e nel modo dell'esplosione, perchè il motivo è quasi sempre giusto. Le facoltà mentali di Vittorio Imbriani non sono bene equilibrate, e non si affaticano tutte insieme con una attività concorde e costante a uno scopo unico; ma son come una scolaresca in vacanza, che va galoppando pei cortili del ginnasio senza governo, e si gitta or qua or là, con altissime grida, e con la violenza d'uno stuolo di cani alla caccia. E proprio l'intelletto dell'Imbriani non è mai giunto a maturità, ed ha tutte le ardenze incomposte e tutti gl'impeti inconsiderati e tutte le esuberanze della gioventù: col crescere degli anni, col crescere della coltura, è rimasto sempre il medesimo, senza potere o volere ascendere mai a quella serena e sublime sfera della sofrosune della moderazione, ove lo spirito umano si libera da tutte le affezioni e da tutte le intemperanze. Egli fa come i giovinetti che sentono il primo afflato del dio, e tentano sè stessi; e prima si gittano a corpo perduto nella poesia, poichè oltre di questa non veggono il porto della salute; poi, in un momento, la piantano in asso, e si abbandonano con le braccia aperte alle tempeste del dramma; onde fuggono sfiduciati o nauseati, per provare altra via; e finalmente si ritraggono, dopo molto consumo di fuoco, al luogo primo onde mossero, per vedere dall'alto, diradate le nebbie delle illusioni prime, che cosa sia da fare.
L'Imbriani ha voluto fare della critica d'erudizione, e ci si è messo con una frenesìa ardente e con un maraviglioso impeto di pazienza ricercatrice, e si è perduto in quisquilie di poco momento; ha voluto fare della lirica, e si è buttato alle braccia di Polinnia con tanta foga di passione, che è miracolo se non l'ha strozzata col suo inno al canape; ha voluto novellare, ed è giunto a tali eccessi di contradizione al gusto e alle abitudini moderne, che la lettura del suo racconto, ove l'ingegno per l'ardore soverchio pare sfavilli ad ogni pagina, è appena sopportabile.
VI.
Ci è due motori di ascensione su da la volgarità comune: o il sentimento universale che sospinge all'alto il più forte, o il sentimento proprio, una solitaria necessità di astrazione, che trae l'uomo fuori della folla. Nel primo caso, quasi sempre, si hanno gli onori del trionfo; nel secondo, assai spesso, si è puniti d'infamia. E così nel primo come nel secondo caso non a torto, sebbene e l'uno e l'altro siano due esplicazioni dell'attività umana; poichè gli uomini nello sviluppo e nella perfezione della vita vogliono avere tutti quanti la parte loro, vogliono tutti spiegare una concordia di energie motrici; e repugnano per istinto dagli sforzi singolari, non coerenti e spesso anche non utili al desiderio comune. Ecco perchè il popolo ha deificato Gesù nazareno, e dopo un anno ha dimenticato David Lazzaretti.
Così in tutti i campi ove la lotta della vita affatica le creature umane: così anche nei campi dell'arte, ove la battaglia è più evidente, poichè si combatte sopra un palco in conspetto di tutti; ove il giudizio è immediato, poichè gli spettatori stanno intenti allo spettacolo. Per questo, Gian Giorgio Trissino, uno degli italiani che più sono stati tormentati da smanie innovatrici, vedendo tutta l'opera della sua vita miseramente morire soffocata nel trionfo del romanzo di cavalleria, maledisse a sè medesimo e a quelle smanie sue. Ma forse nella sconfitta del Trissino entrò anche per gran parte una certa stopposità e pesantezza d'ingegno: cerchiamo dunque un esempio più vicino a noi, e più persuasivo.
Carlo Dossi.
È difficile che alcuno del poco numero delle persone che leggono in Italia non abbia udito rammentare con grandissime lodi o con un permaloso e dispettoso arricciamento del naso questo nome; ma più difficile ancora è che abbia letto qualche scritto di Carlo Dossi; e pure il Dossi da quasi dieci anni scrive e scrive, e le cose sue sono stampate e ristampate sino ad oggi, e sempre i fogli, letterari o no, ne dànno notizia al pubblico. Or come accade che tutta l'opera di questo novelliere resti pertinacemente estranea al rimescolamento evolutivo, e, confessiamolo volentieri, progressivo dello spirito italiano? E, sopra tutto, questa tenace astrazione che il popolo italiano fa dall'opera del novellatore, è ingiusta? Sono due questioni che meritano una qualche considerazione accurata, non tanto pe'l fatto particolare, quanto per la categoria di fatti onde son parte. L'organismo della vita spirituale di un popolo, quando l'arte non è più una libera e necessaria emanazione del suo genio ma una produzione artificiale per diletto estetico o per mezzo di educazione, rassomiglia assai a un gran congegno meccanico; e se non si dirugginiscono e non si ungono tutte le ruote, molta parte dell'energia e del lavoro si disperdono vanamente. Vediamo dunque di ungere qualche ruota, poichè il caso di Carlo Dossi non è tanto singolare quanto si può credere a bella prima; ma da molti anni in qua ci è in Italia un grandissimo sperpero di forze, però che il senso dell'opportunità sia per molta parte smarrito.
Innanzi tutto dichiariamo francamente che a Carlo Dossi non mancano nè l'ingegno, nè la coltura, nè le altre facoltà dello spirito che concorrono a constituire un grande scrittore. Pochi, come lui, hanno l'intuizione profonda, sicura, larga, della vita; pochi, come lui, sono abili a battere sull'incudine questo metallo della lingua italiana che, non saprei se per manco o per eccesso di duttilità, pare da qualche tempo così poco malleabile. Pochissimi, come lui, sanno guidare le facoltà naturali della mente e correggere la formazione e la espressione dei fantasmi, secondo l'architettura dell'arte. Quale cosa dunque gli manca, e quale straordinario ostacolo si leva tra lui e il popolo? Perchè tra questo artista, che pure ha tanta forza, e la gente, che pure ha bisogno di accentrarsi come per aiuto intorno a qualche forte, non si apre quella corrente di comunione simpatica che è la più salda leva del lavoro meccanico dello spirito? E, sopra tutto, la colpa è del pubblico, o dell'artista?
A me pare che la colpa sia di Carlo Dossi.
Egli fa parte d'una categoria di uomini e di scrittori, che io direi la categoria dell'umiltà selvatica. Non è un selvaggio violento come Byron, come Shelley, come il Carducci: è timido, è vergognoso quasi della sua selvatichezza; e non gli basta l'animo di levarsi in mezzo alla gente, audacemente, e di chiamare tutta la gente a battaglia. No: egli ha paura quasi di farsi vedere tra la folla; ha paura che quelle sue novità insolite suscitino il riso della moltitudine; ha anche quello spavento inconscio e innato, che è naturale appunto a certi selvaggi di animo mite e ai bambini. Chi sa? Forse il romore lo atterrisce, forse la vista del pubblico lo sgomenta, forse il pensiero della battaglia gli è insopportabile. E se ne sta in disparte, sempre più inselvatichendo, sempre più chiudendosi nel suo guscio, sempre più levando, tra la sua persona e l'opera sua e il pubblico, ostacoli. Non è vero che egli scriva una lingua fantastica, come qualcuno ha gratuitamente asserito: la prosa del Dossi, da qualche idiotismo lombardo e qualche latinismo in fuori, è delle più pure che si siano scritte in Italia dopo il Guerrazzi, e il suo stile, per efficacia nervosa e muscolosa, può competere appunto con lo stile del Guerrazzi; nè l'ortografia sua, che fa paura a tanta gente, è una cosa strana, poichè non è il primo lui che abbia scritto l'italiano accentuando le sdrucciole; nè il contenuto de' suoi racconti è pazzo, come molti credono, poichè il Dossi, l'ho già detto, è un acuto e profondo intuitore. No: non sono queste bazzecole che proibiscono a Carlo Dossi le porte di quel tempio della fama che sono spalancate a tanti minori di lui. La causa sta tutta in quella sua naturale e indomabile timidezza selvatica.
La prima cosa ch'egli pubblicò credo fosse quella Colonia felice, che è pur sempre rimasta la miglior sua cosa. È, come l'autore confessa dal frontespizio appunto del suo libro, una utopia lirica. Una utopia alla Rousseau, che è in contraddizione aperta coi resultamenti e coi postulati ultimi della scienza.
L'utopia appare nel primo principio, ove un principe filantropico e filosofico, un Marco Aurelio platonizzato e imbevuto delle dottrine enciclopediche, manda una trentina di deportati d'ambo i sessi a vivere in libertà assoluta in un'isola deserta. Il primo atto di questa nuova vita è la guerra: per la partizione della proprietà, e per la supremazia. Un uomo forte e un uomo furbo si contendono il comando; e, ognuno co' suoi seguaci, si battono. Prevale la volpe, e il leone con quelli che gli restano fedeli si rifugia nel bosco. Ivi, da una sua baldracca, gli nasce una figlia; e quindi, il primo bisogno umano, la casa e la famiglia, lo sospinge per desiderio di pace verso il nemico. Lo trova oppresso da discordie intestine; e desideroso di tregua. Si accordano dunque, e si constituisce una comunità retta dal leone e dalla volpe, aggruppata in famiglia, corretta da un embrione di codice penale. Così, col crescere delle famiglie, la necessità del lavoro e la consuetudine del lavoro sviluppano a grado a grado i sentimenti e le consuetudini e gl'istinti umani, e vanno con un progresso evidente cancellando le macchie da quelle conscienze. Così, dopo la famiglia, la religione; finalmente, la patria.
Questa è la matassa della Colonia felice, non nuova, come ognun vede, poichè se ne ritrovano gli elementi in moltissime opere d'arte di ogni altezza e di ogni specie, dalla Tempesta di Shakspeare al Robinson Crusoè di Daniele de Foe; ma tale in ogni modo da promettere in chi sapeva sgomitolarla a vent'anni un fortissimo romanziere all'Italia. Certo, i difetti son molti e gravi: e, prima di tutto, la tesi romantica e derivata nella sua essenza morale dalle dottrine di Rousseau è contradetta, come osserva l'autore ristampandola per la quarta volta, dalle più sicure ricerche della psichiatria; poi, essa è tutta penetrata e ulcerata di romanticismo, e quei deportati che vi si movono per entro, se bene modellati con tratti sovente scultorii, hanno tutti quanti del sangue di Emilio e di Eloisa nelle vene; e negli atti, e nelle parole, e persino nei nomi sono fuori d'ogni apparenza di verità. Ancora: la lingua, l'ho detto, a malgrado di certi meneghinismi e certi latinismi e certe stramberie subbiettive, è, contro ogni consuetudine lombarda, schiettamente italiana; e lo stile spesso d'un'efficacia grandissima, per lo spoglio di tutte le frasche inutili. Ma è la lingua quella, ma è quello lo stile più confacente al racconto? Ma il latinismo nella prosa narrativa non è un elemento repugnante peggio della sgrammaticatura; e quella concisione tra tacitiana e spartana come si piega essa alle necessità della novella, che nacque tra gli avvolgimenti voluttuosi e l'ampio drappeggiamento della prosa boccaccesca? Poteva esser questo, come l'autore confessa nella diffida preliminare, un eccesso giovanile; ma furono appunto questi eccessi e questi errori, che fecero considerare la Colonia felice, non come un risultamento positivo di molte buone forze intellettive, ma solamente come una certa promessa.
Or come fu tenuta la promessa?
Ecco. Nel Dossi, subito dopo quella prima prova, la salvatichezza naturale prevalse. E non si lanciò egli arditamente in mezzo ai nemici che in Milano segnatamente non gli mancarono, sforzandosi d'imporre certi suoi criteri e la superiorità della sua mente, concedendo qualcosa per guadagnar molto. Egli si rinserrò nel suo timido egoismo e nell'amicizia di pochissimi entusiasti; e invece di erompere all'aperto, ove le forze dell'intelletto si maturano e si sviluppano, si ritrasse in sè medesimo, o per paura, o per dispetto. A lui mancò dunque quella violenta evoluzione fuori del proprio io, che dopo le prime prove sospinge l'artista sulla via della maturità piena. Dopo aver filato con molta maestria il suo bozzolo, non potè o non volle forarlo, e vi restò dentro prigione. La sua mente si cristallizzò in certi piccoli criteri, in certe utopie scolastiche, che diventavano monomanie. La questione dell'accento, questione bizantina nella quale, dal Trissino in poi, molti italiani dettero vanamente del capo, e alla quale Carlo Cattaneo non potè addurre altro pretesto se non la comodità degli stranieri, diventò per lui una legge inflessibile; certe strutture o dure o artificiose del periodo e la libidine dell'imagine per causa di brevità propagataglisi dagli scrittori della latinità decadente, crebbero in malattie constituzionali e incurabili. Finalmente, il romanticismo gli restò abbarbicato nella midolla. Così le opere sue, dopo quella Colonia felice, non vanno considerate se non come sfogo d'un intelletto fortissimo, se non come appagamento d'un desiderio egoistico e solitario di arte. Non ci è, se non forse in embrione nella Desinenza in a, quella larghezza di concepimento con cui fu pensata la Colonia felice; non ci è una sola via di comunione con lo spirito e col sentimento del popolo. Sono esercitazioni di composizione e di stile che a qualche lettore di gusto squisito e non pauroso di quel fuoco d'artifizio d'accenti possono qualche volta parere anche meravigliose, ma che il popolo a ragione respinge da sè tenacemente, non ostante le molte edizioni che di questi libri seguitano a fare.
E infatti: nello sviluppo complessivo di tutte le forme dell'arte narrativa, quale posto spetta ai racconti di Carlo Dossi? Sono, per gran parte, cose romantiche, ma non proseguono nessuna delle varie ultime evoluzioni della novella romantica: più tosto si ricongiungono a quel periodo del romanticismo che io chiamerei proto-romantico, al romanticismo di Rousseau, senza la larghezza filosofica del ginevrino, e a quello del Richter, senza la profondità umoristica del figlio del Pastore-organista di Wonsiedel, con qualche incrostazione di romanticismo socialista.
È naturale quindi, ed è giusto, che intorno al Dossi sia sempre eretta una barriera che lo separa dal pubblico. Il pubblico del secolo decimonono ha una grande necessità di romanzi, e una grande predilezione al romanzo, e una grande massa di materia romanzabile. Questo buon pubblico, che si è regalato l'immenso capriccio del romanticismo e ha voluto veder risuscitato per la virtù magica dell'arte il medio evo e si è ubriacato del liquore anodino della sentimentalità effervescente pe'l pimento della fantasia, è stato in fine preso da una voglia brutale. Esso vuol vedere ora sè stesso riflesso con tutti i palpiti e tutti i movimenti della vita come in un grande specchio. Questo matto pubblico si è appassionato per l'anatomia; e volentieri si distende sul marmo, perchè il romanziere incida, poi cacci le mani nella spaccatura, e apra; e mostri le viscere, e mostri la tessitura dei muscoli, e scopra i nervi; e faccia vedere a tutta la gente l'artifizio della macchina umana, come un bamboletto che squarti un fantoccio di cartapesta. E il romanziere non può starsene in disparte, e costruire faticosamente piccole teoriche d'arte e di stile. Egli deve aggirarsi per entro alla folla, e compenetrarsi del sentimento che la move, e accumulare da essa il materiale.
Se no, si rassegni alla mala fortuna. Nè la pena è ingiusta; e io stesso, che ho una grandissima ammirazione per l'ingegno e per la coltura di Carlo Dossi, che lo propongo come esempio di serietà di propositi e di fanatico amore per l'arte ai molti faccendieri della moderna novellistica italiana, io stesso, se si proponesse per lui l'ostracismo dalla presente attività del romanzo, voterei per l'ostracismo.
Gli è che i romiti e gli stiliti e tutti, in genere, i mistici solitari, fanno un sacrifizio sterile così nella religione come nell'arte.
VII.
L'ottavo capitolo del Karma Çataca, un poema indiano poco letto dai romanzatori occidentali, è intitolato Padma, il loto; poichè il protagonista è appunto un loto. Comincia così:
«Era a Cràvastî, sotto il regno di Prasenajit. Un giorno egli venne per vedere Bhagavat e, dopo un'offerta di parasoli di polveri di profumi e di fiori, s'assise di rimpetto a lui per udire la legge.
«In questo tempo un loto nacque fuori stagione nello stagno dei loti di un campo coltivato da un giardiniere, il quale fece questo pensiero: — Un giorno il re Prasenajit ha, per tre volte, offerto al Çramana Gautama dei parasoli delle polveri dei profumi dei fiori, per onoranza; io gli debbo offrire questo loto. —
«Fatta questa riflessione, prese il loto e si avviò a Cràvastî. In questa un fedele di Nârâyana era intento a fare offerte a tutti gli esseri soprannaturali. Vide venire quest'uomo portante un loto così bello, nato fuori stagione, e gli disse:
— Ehi! cedimi questo loto: lo voglio offrire al buon Nârâyana: te ne do cinquecento kârsâpanas.
«Nello stesso tempo passava il maestro di casa Anâthapindada che andava con una compagnia di cinquecento servi a veder Bhagavat. Il maestro di casa udì il romore delle parole di quell'uomo, che gli fecero fare questo pensiero: — Ecco un uomo che segue un falso insegnamento, e offre un sì gran prezzo per un dono a Nârâyana! Perchè non offrirei io un prezzo abbastanza cospicuo da comperare (il loto) e farne un dono a Bhagavat? — Disse dunque al giardiniere:
— Ti do mille kârsâpanas: dammi il loto.
«Queste parole aizzarono l'amor proprio del fedele di Nârâyana, che promise di darne duemila; e, così, questi due uomini giunsero a profferire, rincarando, la somma di centomila kârsâpanas. Allora disse fra sè il giardiniere:
— Un maestro di casa come Anâthapindada è giunto, in causa d'un sol uomo, a centomila kârsâpanas: questo Bixu Gautama dev'essere un gran personaggio di certo. Perchè non andrò ad offrire io stesso (il loto) a Bhagavat?
«Fatte queste riflessioni, il giardiniere disse al maestro di casa Anâthapindada:
— Maestro di casa, io non so che farmi di tante ricchezze; vado io stesso a far la offerta a questo Bhagavat. —
«E, preso il loto, andò a Jetavana.
«Il giardiniere scorse di lontano il felice Buddha ornato di trentadue segni, ecc....; questo spettacolo gli suscitò una letizia violenta. Pieno di gaudio, andò al luogo ov'era Bhagavat, adorò col capo i piedi di Bhagavat, e gittò (il loto) sopra di lui in segno di offerta. Per la potenza di Bhagavat questo loto si transmutò in ruota di carro che camminava quando Bhagavat camminava, si fermava quando Bhagavat si fermava.
«Alla vista di questo miracolo anche più s'allegrò, in causa di Bhagavat; e fece un voto per la Bodhi perfetta e intiera, sopra la quale non è nulla:
— Oh! disse — Per questa radice di virtù possa io diventare in questo mondo cieco, senza guida e senza maestro, un Tathâgata, Arhat, un perfetto e intiero Buddha, dotato di scienza e di guida, conoscente il mondo, buon cocchiere, dottore degli Dei e degli uomini, un felice Buddha. —
«Bhagavat rispose al giardiniere:
— Amico, sta bene, sta bene! Nell'avvenire tu sarai in mezzo al mondo cieco, senza guida e senza maestro, un Tathâgata, Arhat, ecc..., il felice Buddha Padmottama. —
«Tale fu la sua dichiarazione.»
Così, tradotto con più di fedeltà che di eleganza, il testo indiano. Ora domando io: perchè non è concesso ai paria del nostro insegnamento quel che si concedeva ai paria dell'India antica? Perchè non possono anche quelli, come potevano questi, presentarsi candidati alla Bodhi perfetta e intiera d'un posto in ginnasio? Perchè non possono questi miseri insegnanti, quando per miracolo un loto, o un lampo di intelligenza, nasce nello stagno della loro mente, offrirlo al felice Buddha che governa l'instruzione pubblica? Il giardiniere del poema indiano potè resistere alle tentazioni, e conquistarsi col suo loto la felicità della Bodhi. Ma quando in Italia un maestro elementare ha la sventura di non essere pienamente e placidamente un asino e un cretino, e scrive un libro, chi gli consente di offerirlo a Bhagavat? Chi gli concede di accostarsi al ministro? I maestri di casa e i fedeli di Nârâyana stanno appostati in folla nella piazza della Minerva, e proibiscono l'ingresso al Ministero. Per questo da Cerignola un maestro elementare mi stende con ambe le mani un suo libro di novelle, supplicando di leggerlo, invocando aiuto per ascendere alla sublime sfera della Bodhi ginnasiale. Or che gli posso fare io? Io non sono nè il maestro di casa Anâthapindada, nè il fedele di Nârâyana; e sono io stesso tanto lontano dalla Bodhi, quanto il maestro di Cerignola. Una cosa sola io posso fare: sfogliare il loto di questo giardiniere dell'infanzia in conspetto del mondo, e citare dinanzi al giudizio degli uomini i numi della Minerva, che si scolpino dall'accusa di non voler prendere in esame e in considerazione i libri dei maestri elementari.
Il maestro di Cerignola si chiama Michele Siniscalchi, e i suoi raccontini portano il titolo complessivo di Tentativi; e — dice l'autore e veramente è così — non per falsa modestia. Sono in fatti proprio dei tentativi, dai quali appare chiaramente una grandissima attitudine a novellare, congiunta con molta vivacità e facilità d'ingegno, con una sicura cognizione della lingua italiana, con una acuta intuizione della vita campestre. La vita cittadina il povero maestro di Cerignola non la può sapere: egli l'ha vista da lontano e fuggevolmente facendo il soldato, e più con la fantasia che con gli occhi: così la descrizione d'una cantante nel suo camerino ch'egli timidamente tenta è senza dubbio una di quelle fantasticherie che popolano lo spirito di alcuni soldati meno bestiali in certe ore di riposo, quando nello sciogliersi del corpo dalla stanchezza nascono o rinascono i desidèri. E tutte, in genere, le storielle cittadine del signor Siniscalchi sono così: hanno l'aria di quelle frottole che gli studenti raccontano dopo l'esame nella farmacia del villaggio nativo. Però non tutte. Una a pagina 47, intitolata Monte Calvario, è un piccolo capolavoro di verità semplice ed evidente: è un'inezia, un ricordo d'una mezz'ora di vita militare, a Messina, di rimpetto al carcere femminile, e non si può leggere senza pena. Ma i tentativi più felici sono i bozzetti pugliesi. Il maestro di Cerignola partecipa anche lui al gran movimento campagnolo che si va manifestando nella nostra produzione novellistica; e, per la felicità di certe pitture, per l'efficacia di certe osservazioni, per la vitalità di certe pagine, io non esito a collocarlo tra i capi della Land-league italiana. Giudicate:
«In quella comparve il padrone, un giovane di trent'anni, grosso, obeso, panciuto, di un'apparenza ignobile e ributtante, col viso imberbe, rosso e butterato. Gaetano, appena lo vide, divenne livido in volto e mandò scintille dagli occhi.
— Canaglia — gridò il signorotto bestemmiando — non fate altro che dormire, che vi pigli un accidente! E questo marmocchio cos'ha che strilla in tal modo? Non avete da mangiare e siete sempre ammorbati di piscialetti, siete sempre dietro alle vostre donnacce. Portatele a noi le vostre donne...
«A queste parole, Gaetano, che già si frenava a stento, strinse nervosamente la falce, e fece l'atto di slanciarsi contro di lui; ma il compagno che capì la sua intenzione gli afferrò il polso in una stretta di ferro, susurrandogli:
« — Non è tempo ora!
«Il padrone intanto si allontanava tranquillamente, dimenando le anche da bue, senza pensare che c'era mancato un pelo perchè la sua testa rotolasse per terra.»
E ditemi se molti dei novellieri italiani che vanno per la maggiore non avrebbero da imparare da questo maestro elementare. Il quale partecipa anche a molti vizi comuni. Egli non si è potuto liberare in tutto dalle reminiscenza dell'Arcadia; e per lui, come per parecchi altri raccontatori di vita rurale, ancora l'ecloga di Titiro fluisce tra gli ondeggiamenti dei salici, ancora i pastorelli del Sannazaro ballano vestiti di velluto chermisino tenendosi per mano in tondo e cantando una cantilena polita, ancora l'abatino sotto le vesti di pastore arcadico aspetta con una fistola di cartone dorato alla fontana dell'acqua marcia la nipote di Monsignore acconciata da ciociaretta, con un vincastro piccolino in mano, e gli occhiettini di malachite ridenti malignamente di lascivia agreste e verginale.
Anch'egli crede al sentimento o al senso dell'amore nei contadini, e ne fa una delle molle della sua arte narrativa. Anch'egli, come tutti gli altri, ha preso questo abbaglio. Ma no, ma no, ma no: nella popolazione agricola il bisogno d'amore non è nè allo stato di sentimento e nè pure a quello di sensualità: nelle campagne il grande ardore solare, e l'immane peso del lavoro, e il perpetuo assillo della fame spengono o attutiscono il senso dell'amore: nelle campagne l'amore ha due forme sole, due stimoli soli, due soli scopi finali, l'istinto sessuale dell'accoppiamento e la necessità della generazione per aiuto al lavoro. Ma poichè questo peccato è comune, perchè rimproverarlo al signor Siniscalchi?
Perchè non dire piuttosto gli altri suoi meriti? Dei quali potrei fare una litania lunga, se avessi anch'io l'anima inzuccherata d'ottimismo come Enrico Nencioni, il quale in un suo recente articolo levava sulle più alte cime della gloria il De Amicis, e lo collocava più su del Manzoni, accanto al Tommasèo, per la proprietà della lingua, senza pensare che molti altri italiani, come il maestro elementare Siniscalchi, scrivono non meno propriamente del De Amicis, senza per questo avere uno stile tutto a piccole proposizioni allineate in fila come una compagnia di bersaglieri, o come salcicce in un budello. Ma io sono pessimista; e non andrò ricercando nei tentativi del signor Siniscalchi gli appigli alla lode. Questi raccontini sono d'altra parte troppo brevi, troppo frammentarii, troppo esigui per poterli considerare altrimenti che come indizi sicuri di una felicissima propensione all'arte del novellare; e non già una propensione iniziale e tuttavia rozza o incerta, ma già matura e già pronta, e già capace di molto maggiori frutti. Si vede in essi l'uomo che è impacciato e avvilito e spaventato dalla sua condizione di maestro elementare, che non osa di avventurare il suo forte ingegno a più alte prove, perchè non sa ancora egli stesso, nè sanno gli altri, se a un maestro elementare sia lecito di scrivere e di stampar novelle.
Non ridano i lettori, poichè pur troppo la condizione dei maestri elementari in Italia è tale, da far rabbrividire chiunque abbia viscere umane. Sono uomini o sono bruti? Chi sa? Ne ho conosciuto uno in Abruzzo, ai confini dello Stato romano, che da tre anni non aveva avuto un soldo dal comune, e campava d'elemosina, dormendo in un canile, mangiando patate, insegnando l'abbicì e gli elementi dell'abaco a un branco di piccole bestie selvagge, mezzo cani e mezzo porci, che gli lanciavano i torsi di cavolo e gli rinfacciavano quelle poche patate. Ci è una mia bella e buona amica che va in visibilio d'ammirazione dinanzi a don Chisciotte, e pensa con un vivo entusiasmo d'amore a quel povero erede dell'ultimo anelito medievale, cavalcante senza pietà e senza speranza tra il crescere della platealità moderna. E via, o mia bella amica! E i maestri elementari, que' primi e più utili seminatori della scienza, costretti tra la più bestiale classe umana, più abietti, più affamati, più disperati dei contadini?
Io non sono una creatura sentimentale, tutt'altro; e ho letto con un acuto senso di piacere le invettive che un novelliere pornografico e infame nella posterità, Restif de la Bretonne, scagliò contro il sentimentalismo rivoluzionario e romantico di Diderot per le caste indiane. Io credo con Restif che le caste siano necessarie all'equilibrio umano, che nella lotta per la vita ci abbiano a essere i vincitori e gli sconfitti, i forti e i deboli, che una parte dell'umanità debba soffrire a benefizio dell'altra, che i contadini siano nel loro diritto sovrapponendosi con la forza del numero e della maggiore agiatezza a questo primo embrione dell'umanità civile che è il maestro elementare. Io credo che questa depressione d'una classe umana giovi a fermentare il lievito dell'attività e inasprisca le necessità del combattimento. Ma, in nome della giustizia, non siamo vigliacchi! non uniamoci tutti quanti contro una classe sola. E quando un maestro elementare ha le forze necessarie alla battaglia, lasciamolo combattere.
Perchè si nega a questi poveretti il modo di ascendere all'insegnamento secondario? Perchè, quando uno di essi ha più ingegno e più coltura degli altri, non si prendono in esame i suoi libri? Perchè non si mette il maestro elementare Siniscalchi a fronte d'uno dei tanti insegnanti ginnasiali, o in tutto inetti o pietosamente mediocri? Egli lo sconfiggerebbe.
Forse perchè i regolamenti e le norme ministeriali non accordano misericordia ai libri di novelle? Anche questa è bella. In tutte le parti del mondo, i romanzieri e i novellatori godono un favore e un culto singolare. In Inghilterra e in Francia è tanto il favore popolare, che essi non hanno bisogno di battere alle porte del Governo; in Germania li fanno professori di storia o di letteratura; in Ispagna li fanno ambasciadori o rettori di Università o ministri. E in Italia il Governo non riconosce i diritti della novella e del romanzo nei dominii dell'arte; e quando alcuno presenti un'opera di prosa narrativa a documento de' suoi studi e del suo ingegno, un qualunque pecorone burocratico lo respinge con una benevolenza pietosa, e con le parole del cardinale d'Este a Lodovico Ariosto! O che bestialità di criterio è mai questa? O qual differenza ci è tra una e un'altra opera d'arte; e perchè un miserabile fascicolo di madrigali deve avere più valore d'un libro di buoni racconti?
Non so. Il fatto è questo; e, con mio grandissimo dispetto, non posso altrimenti protestare contro un tanto stolido governativo disprezzo per l'arte narrativa, che dando, in questo mio esame dell'ultima letteratura italiana, il primo posto al romanzo.
III. BELLE MUSE E BRUTTI MUSI.
L'ultima barbarie e l'epica carducciana — Contro Gabriel D'Annunzio e contro i critici verecondi e inverecondi — Melodrammatici vecchi e nuovi — Un rimatore novissimo.
I.
La seconda serie delle odi barbare rassomiglia assai poco alla prima. Con quelle il Carducci, che era andato di esperienza in esperienza ricercando sè stesso in tutte le forme della metrica neolatina, dalla lauda spirituale e dalla canzone politica o d'amore alla canzonetta francese del XVI secolo e al giambo di Augusto Barbier, sempre più avvicinandosi a quella perfetta fusione dello spirito moderno col latino e con l'italico dei più felici e più liberi tempi italici, che è la ragione intima e il fondamento di tutta la sua poesia, aveva infine trovata la formola più precisa, e il più perfetto accordo fra la materia e la veste esteriore: una veste di meravigliosi colori e di stupenda eleganza, nella quale la sua lirica giunta alla maturità piena della gioventù si mosse come una bellissima donna che per la conscienza della beltà propria e dell'acconciatura elegante va sicuramente all'amore. Con le nuove odi barbare il Carducci ha fatto un passo, direi, laterale; e dopo un ultimo grande impeto lirico nell'ode a Garibaldi, in quella per Eugenio Napoleone, e in qualche altra, si è abbandonato all'elegia. L'ultima barbarie carducciana, alla quale si deve l'immensa popolarità onde ora gode, con molto onore del buon gusto italiano, il maggior nostro poeta, è schiettamente elegiaca. Predomina il distico, che nelle prime odi invece ebbe una parte modesta assai; e anche nelle altre forme metriche un mite afflato elegiaco prevale:
Qual da la madre battuto pargolo
od in proterva rissa mal domito
stanco s'addorme con le pugna
serrate e i cigli rannuvolati,
tal nel mio petto l'amore, o candida
Lalage, dorme: non sogna o invidia,
s'al roseo maggio erran giocondi
gli altri felici pargoli al sole. Pare che tutto il mondo fantastico che per questa poesia si aggira sia nato nello spirito del Carducci da qualche contemplazione malinconica, da uno di quegli spettacoli della natura che in un momento di languore o di fastidio vi suscitano nell'animo un ineffabile e indomabile senso di tenerezza. E ci è due circostanze di fatto, che possono avere in qualche modo conferito alla formazione di questa singolare e insigne poesia. Mentre faceva e pubblicava nel Fanfulla domenicale queste odi, scoppiò la polemica tibulliana; e in uno degli assalti disse il Carducci che la tibullica di Rocco De Zerbi gli era venuta tra mano mentre compiva un pellegrinaggio votivo alle classiche terre di Baia e di Cuma, rileggendo le elegie romane di Goethe. E chi bene osservi, in queste odi troverà che l'ultimo e miglior Goethe e Tibullo vi sono entrati come fattori indiretti, e che l'orizzonte cumano lumeggiato da qualche caldo e solenne tramonto vi campeggia e vi sovrasta.
L'elegia carducciana ha una grande varietà d'intonazione. Tavolta la lieta serenità oraziana vi si diffonde blandamente, come per un riflusso di giovinezza:
O sole, o Bromio, date che integri,
non senza amore, non senza cetera
scendiamo a le placide ombre
là dov'è Orazio, — l'amico ed io.
Tal'altra un'amarezza caustica le conferisce un colorito heiniano:
Io levai gli occhi al sole — O lume superbo del mondo,
tu su la vita guardi com'ebro ciclope da l'alto! —
Gracchiarono i pavoni schernendomi tra i melograni,
e un vipistrello sperso passommi stridendo sul capo.
E ci è infine il malinconico ottimismo tibulliano, come nei distici per la certosa di Bologna e per Sirmione, e lo scoppio d'una tetraggine fantastica e biliosa:
Calvi, aggrondati, ricurvi, sì come becchini alla fossa,
stan radi alberi intorno a la sucida riva.
Stendonsi livide l'acque in linea lunga che trema
sotto squallido cielo per la lugubre macchia.
Bevon le nubi dal mare con pendule trombe, ed il sole
piove sprazzi di riso torbido sopra i poggi.
I poggi sembran capi di tignosi nell'ospitale,
l'un fastidisce l'altro da' finitimi letti. E questi distici dànno anche la nota comune e più evidente delle elegie carducciane: il paesaggio. Già nella prima barbarie la tendenza al paesaggio appariva: ogni tanto, nel turbine di una strofe alcaica o jambica o saffica si scopriva un lembo di mare turchino con quattro vele rosse, o una rada con un naviglio ammainante, o un vespero maremmano, o una scena fluviale tra i veli del crepuscolo. Nell'ode alle fonti del Clitumno anzi, il paesaggio storico alla maniera del Macaulay è una delle più splendide cose del Carducci. Ma nella barbarie ultima il substrato si può dire che sia tutto di paesaggio. Le antiche predilezioni carducciane per la natura libera ritornano, un po' intorbidate e intristite per gli anni trascorsi. L'idillio maremmano rifluisce naturalmente, ma non è più la grande epopea della coltivazione, che trova qui una nuova fioritura di canti, e non più Maria si leva di fra la mésse matura, nè più il pio bove che sembra un monumento mugghia guardando dal mite occhio i campi arati. Il Carducci è ridiventato selvaggio, e più gli piacciono le terre incolte. Segno anche questo di una cosa che io vorrei dire con molta cautela e con molta titubanza, non perchè non ne sia pienamente persuaso, ma perchè alla gente che ha criteri di storia letteraria o troppo meschini o falsi può fare un brutto senso: segno di romanticismo.
E qui, per non esser frainteso, una piccola dichiarazione, che gioverà anche all'intelligenza di molte altre parti di questo libro. Il romanticismo è una parola elastica, a cui l'odio onde il Carducci l'ha proseguita ha non poco conferito d'infamia. Basta ora dire di un libro o di uno scrittore, che sia romantico, per condannarlo alla gogna. Di più, ognuno interpreta questo maledetto vocabolo secondo il capriccio suo. Che cos'è il romanticismo? Gli amici dicono che sia l'arte per divinazione, la poesia emanante dalle budella, l'afflato più o men soave del ventricolo: i nemici pretendono che sia la nebbia, il fariseismo, la campanella squillante nella Waldkapelle. Or finchè non si ascenda sopra questi luoghi comuni che servirono già per armi di polemica, e sono adesso come il catino del barbiere sul cocuzzolo di Don Quijote, e non si abbracci in una larghissima percezione tutta la storia letteraria europea dall'Enciclopedia francese ai nostri giorni, non si potrà mai avere un criterio onesto del romanticismo. L'imagine vera del romanticismo ce la dà appunto l'Enciclopedia, poichè esso non fu se non la ricerca di nuova materia e di nuove forme dell'arte. Quello stesso impeto innovatore che invase la scienza si apprese all'arte: da una parte la scienza ricercava, dall'altra l'arte elaborava i risultamenti della ricerca. Così noi vediamo l'esplorazione filologica e storica aiutare rinnovare rinsanguare la letteratura moderna; e dedurre da questo suo officio una efficacia e un'importanza immensa. Ogni altra determinazione del romanticismo è assurda e impossibile, poichè non si può altrimenti intendere il Goethe procedente dal Faust all' Ifigenia, creatore del mito di Werther e rinnovatore di quello di Elena. Il romanticismo dunque procede con la scienza moderna, e non si arresterà se non quando questa avrà percorsa tutta l'orbita sua, e sarà abbattuta o rinnovata alla sua volta da una nuova rivoluzione dello spirito umano intorno a sè stesso e intorno alla vita universale delle cose. In principio esso fu, più che altro, intuitore; e procedè intravedendo. Ora che la scienza ha fatto in tutti i campi conquiste sicure, procederà con più bella e più vivace franchezza. Dopo la ricostruzione che la filologia ha fatto e séguita a fare di tutto il materiale antico, non sarà più possibile o lecito un errore drammatico come quello commesso da Victor Hugo, nè più la falsa interpretazione della poesia popolare che ha condotto tanti poeti romantici a tanti errori; quando i libri di Darwin saranno entrati nella conscienza comune, e l'arte moverà da verità acquisite e incontestate, e non da una divinatoria intuizione della unità delle specie, come in Goethe, il romanticismo avrà infine un substrato e un fondamento solido, e procederà con la seria sicurezza che offre la scienza a nuove e più meravigliose avventure. Noi siamo in pieno mondo romantico: i tumulti antiromantici non altro intento nè altro effetto hanno avuto, se non di correggere le aberrazioni del romanticismo; e tutta l'opera del Carducci è senza alcun dubbio il più nobile e più felice sforzo tentato nell'ultima metà del secolo in Europa per ricondurre il romanticismo, traviato e pervertito dai guastamestieri, alle sue più sane e più gloriose tradizioni. La poesia carducciana è stupendamente significata nell'ode per le terme di Caracalla da quel complesso delle rovine, della visitatrice inglese del ciociaro febbroso, e del vapore, come la poesia di Goethe è rappresentata nel risvegliarsi di Faust in su le rive dell'Egeo tra una folla di fauni e di ninfe del gentilesimo. In Goethe è il medio evo che gitta le braccia al collo del paganesimo, è il dottore scolastico e lambiccatore di filtri che sposa Elena moglie di Menelao: nel Carducci è Lidia che affaccia allo sportello del vagone il pallido volto, è il presente che si fonde col passato. In fine, — strano caso di analogia, — il primo accenno del romanticismo tedesco è nelle odi romane di Klopstock; e quelle odi son barbare, anzi da esse appunto procede la barbarie germanica.
Il Carducci ha fatto con piena conscienza la sua campagna d'arte; e dopo essersi per poco fermato, per maggior segno di contradizione e per orizzontarsi, nel territorio delle forme classiche cristallizzate, si è slanciato in pieno romanticismo giovandosi di quei maggiori aiuti che gli studii filologici suoi proprii gli offerivano. Così, dai Juvenilia è giunto all'ultima barbarie, ove di romantico ci è perfino quella tendenza al fantastico, quell'aspirazione all'inconoscibile, quella smania di valicare i confini dello spazio e del tempo. Egli rinnova l'inno vedico all'aurora come Schiller rinnovò quello agli dèi della Grecia, e passando pel Chiarone gli s'imprime nella memoria e nel verso un paesaggio che potrebbe servire per le tregende del Brocken o per la caccia selvaggia. E quel cascherino del marchese Colombi accusa il Carducci di essere un poeta antico. Ma se egli è l'unico che in Italia abbia inteso lo spirito dell'arte moderna, e saputo animarne tutta la sua meravigliosa opera poetica!
E fin qui, niente di male. Ora poi mi tocca di entrare in un argomento che anche al Carducci pare una pazzia. Si tratta di una certa interpretazione ch'io ho data degli ultimi sonetti carducciani: Ça ira.
L'annunzio di questi sonetti variamente mosse l'animo e la curiosità della non poca gente che intende oramai la poesia del Carducci, e se ne compiace. Anch'io, lo confesso volentieri, sapendo dei sonetti e dell'argomento, non potetti frenare un certo movimento di stupore.
Infatti, dopo le Nuove odi barbare, non sapevo quale altra via potesse tentare il Carducci. La sua parte di poeta civile, lo disse egli stesso, col riacquisto di Roma con l'avvenimento della Sinistra al potere con le ultime riforme elettorali, era naturalmente finita; dopo, nella molle apatìa del governo progressista, la sua attività poetica s'era fermata a quella tranquilla e ideale contemplazione della natura e dell'amore nella vita e nella storia, onde nacquero le prime e le seconde odi barbare. Con le quali la sua parabola poetica pareva compiuta, dacchè egli aveva ricongiunto nel cemento tenace dell'ode classica i suoi sentimenti di uomo moderno col desiderio dell'antichità pagana; e non era facile prevedere dove si sarebbe vòlto. Avrebbe egli preso le mosse dall' Idillio maremmano, come già dalle Primavere elleniche procedè al gran trionfo della barbarie? Ahimè! — Il male è che s'invecchia — diceva la primavera scorsa il Carducci agli amici che gli stavano intorno.
Col mutare del tempo non solo il capo incanutisce; ma nella macchina umana molte ruote si ossidano, e non più dai centri nervosi scattano violente le esuberanze della vita, e non più le polle del sentimento scaturiscono vive dalle fonti. Chi può ridare al Carducci l'impeto selvatico della giovinezza? Chi può ridargli quel desiderio aspro della Maremma? I figli di Maria non più pendono poppanti dalla mammella, ma vanno a scuola e s'apparecchiano all'esame di licenza ginnasiale. E se ancora i butteri guidano i polledri a bere nei vesperi ardenti, non più le facoltà affettive del poeta si lanciano ad essi con gli scatti delle strofe indomite. Non più. Il Carducci è oramai nonno, è membro del Consiglio Superiore di pubblica istruzione, è troppo infastidito dalle commissioni d'esame: la vita cittadina lo ha in molta parte mutato, e la Cronaca Bizantina lo ha in molta parte assorbito. Si levino pure le villane fiorenti tra le cime del grano: il Carducci ha già salutato Iperione precipitante, bevendo con Lidia sotto la pergola; e poi, il Carducci deve apparecchiarsi per le sue lezioni di storia letteraria.
Dunque, proprio la parabola mi pareva pienamente descritta; e poichè egli si mostra non saprei se stanco o sazio della barbarie, il momento del riposo sembrava venuto per lui. E già qualcuno credeva ch'egli fosse per ritrarsi in disparte e in riposo, lungi dall'affannoso ronzìo della folla, quando furono annunziati questi sonetti settembrizzatori. Che mai potevano essere? Un ritorno agli antichi impeti repubblicani, onde scaturì Versaglia? Questa, in genere, fu l'opinione della gente; e, dopo la prefazione ai Giambi ed epodi, pareva un ritorno strano. In vece si tratta d'altro; e proprio il Carducci si è messo per una via nuova, poichè in questi sonetti il suo spirito si applica alla contemplazione storica, e la sua vena lirica batte alle porte dell'epopea.
Riparlare qui della rivoluzione di settembre, dopo il Thiers, dopo il Michelet, dopo il Carlyle, sarebbe una pazzia. Più tosto, per l'intelligenza piena del nuovo poema carducciano, è bene richiamare la memoria del lettore all'ultimo storico della Rivoluzione: al Carlyle. Questi non ebbe nè la sapienza politica di Thiers, nè il grande splendore poetico e fantastico di Michelet. Anche raccontando fatti della storia francese, si lasciò guidare dalle consuetudini della sua educazione germanica, e dal suo senso pratico d'isolano britannico. Non tanto si curò di fare uno studio politico, non tanto considerò la Rivoluzione come materiale epico, quanto gli parve meglio e più opportuno tenersi alla verità dei fatti, e alla semplicità; e fece quasi, direbbesi, un racconto sperimentale. Così la sua storia è un'opera obbiettiva, onde gli elementi e i movimenti epici si levano naturalmente, non per virtù dello scrittore, ma per virtù dei fatti appurati e narrati semplicemente; e per un poeta che voglia trarre inspirazione da quella gloriosa irruzione della vitalità umana, è la fonte migliore. E dal Carlyle appunto ha tolto il Carducci l'inspirazione di questi sonetti, i quali nel breve ambito di centosessantotto endecasillabi rappresentano, non già in una unità complessa, ma così a tratti e a scatti pittorici spezzati, la grande epopea di settembre.
La materia era alta, e difficilissima a maneggiare. Se ne rammentano i lettori? I Prussiani tenevano mezza la Francia, e cioncavano entro Verdun; Longwy era caduta, e il rombo della cannonata di Valmy giungeva alle mura di Parigi, aizzando il tumulto, scatenando i macellatori: l'Abbadia era piena di condannati a morte, le mura delle Tuileries erano nere ancora e fumanti e crollanti per l'assalto e per l'incendio, e il popolo di Parigi affamato ardeva d'una sanguigna febbre di omicidio; l'Assemblea intanto, tra le tempeste della discussione, deliberava; e all'esercito si mandavano aiuti, e per la salute interna si provvedeva, e Dumouriez il traditore era chiamato dal campo dinanzi al giudizio della patria; gli assegnati si spacciavano a peso di carta.
Questa la materia, la quale è tanta e tanto alta, che anche il poema epico stenterebbe a comprenderla tutta. E d'altra parte l'organismo dell'epopea pare incompatibile con le presenti condizioni della vita e dello spirito; e prima che un poema possa ancora essere scritto e largamente letto, sarà necessaria una lunga educazione epica. Del resto, tale è l'evoluzione naturale dell'epopea. Nella natura umana una necessità epica, un desiderio di narrazione è innato; ma prima che questo bisogno possa essere appagato, occorre una lenta e graduale preparazione, un eccitamento successivo delle facoltà epiche sino alla necessità. Di più, il poema non può escire maturo e grande e armato da un cervello umano, ma deve via via venire crescendo col crescere dei bisogni epici. L'epopea moderna dunque, quando abbia trovata la vera via dell'ascensione progressiva, crescerà a poco a poco dal frammento e dal canto singolare sino all'organismo multiplo del poema; è tutta questione di tempo, e di trovare la via buona.
E mi pare che il Carducci l'abbia trovata. Egli con questa sua prima prova, incerta ancora per molte parti, pone questo che sarà il cardine dell'epopea avvenire: pone, come punto di partenza dell'epopea, non già l'elemento fantastico e favoloso, ma la verità storica. In fatti, non più lo spirito umano si diletta del meraviglioso. La scienza si va miracolosamente propagando, e rinnova la conscienza estetica e la conscienza morale degli uomini. Non più l'oziosa fantasticaggine della mente intorno ai fenomeni: ora l'attività interiore, applicata all'indagine delle cause e all'esame dei fatti, ha seccato quella fonte di godimenti; e anche il bisogno del meraviglioso, nella universale evoluzione dello spirito umano, si è andato lentamente mutando nel bisogno della verità.
Dicono che il romanzo storico sia uno sviluppo del romanzo cavalleresco: non è vero, il romanzo storico è la prima forma narrativa, nella quale il punto di partenza è la verità storica. Esso dunque potrà essere precursore, e in parte origine dell'epica storica, come il romanzo d'avventura fu in gran parte origine dell'epica cavalleresca. I sonetti del Carducci vanno appunto giudicati con questo criterio. E proprio dalla verità storica essi ritraggono l'efficacia maggiore, e i migliori effetti pittorici e drammatici insieme. Il più bello è intorno all'annunzio della resa di Longwy; parlano i fuggitivi:
L'un dopo l'altro i messi di sventura
Piovon come dal ciel. Longwy cadea,
E i fuggitivi da la resa oscura
S'affollan polverosi all'Assemblea.
— Eravamo dispersi in su le mura:
A pena ogni due pezzi un uom s'avea:
Lavergne disparì ne la paura:
L'armi fallian. Che più far si potea?
Morir — risponde l'Assemblea seduta.
Questa non è fantasia poetica: è la verità minuta, secondo la ritrovò e la narrò il Carlyle. Ancora; son due ritratti:
In conspetto a Danton pallido enorme
Furie di donne sfilano cacciando
Gli scalzi figli sol di rabbia armati.
Marat vede nell'aria oscura torme
D'uomini con pugnali erti passando,
E piove sangue donde son passati.
Non è il Carducci che li dipinge così per una subitanea visione della sua potenza imaginativa; è la verità storica che gli dà il fantasma.
Non vorrei ora che qualcuno credesse, per ciò che io ho detto, che in sostanza tutto questo nuovo metodo epico consista nel versificare un libro di storia: — troppo questo tornerebbe a grado del deputato Cavallotti. — La questione sta tutta nel punto di partenza; quando la base è la verità storica, quando il poeta corregge il fantasma per modo ch'esso risponda alla verità, basta; il resto non muta, e il procedimento e il meccanismo epico rimangono quali furono sempre. E che la verità non rimpicciolisca l'effetto, anzi ne sia il fattore massimo, gli esempi addotti lo dimostrano; e chi pensi che nei nostri meravigliosi romanzatori di cavalleria la fortuna non tanto procede dalla ricchezza fantastica quanto dal senso umano che trapela dai pori delle corazze d'acciaio dei cavalieri, non ha bisogno di altre dimostrazioni.
Il Carducci ha colto con un miracoloso intuito i tratti epici della rivoluzione di settembre e li ha rappresentati con una evidenza e con una potenza alla quale egli forse non era giunto ancora. Il sonetto nelle sue mani ha acquistato una capacità pittorica straordinaria, poichè i fantasmi sono nettamente chiusi nella cornice dei quattordici versi, e oltre la cornice il lettore deve cercarne con la sua facoltà imaginativa e con la sua erudizione storica i legami. Sicchè ogni sonetto si riallaccia necessariamente all'altro; e nel complesso essi dànno, con pochi schizzi rapidi e sicuri, l'immagine vivente e tutto quanto il movimento del gran dramma.
Così, noi ci troviamo dinanzi a due fatti degni di molta considerazione. Primo, la rivoluzion francese tolta a materia d'arte ai nostri giorni; secondo, un primo passo epico del Carducci. La rivoluzione francese, il vero materiale epico del nostro tempo, ha spaventato sinora tutti quelli che osarono di tentarla. Victor Hugo volle assaltarla con tutta la potenza del suo ingegno più che umano, con tutta l'audacia delle sue consuetudini romantiche, e fu respinto dalla grande epopea rivoluzionaria alla piccola tragedia reazionaria della Vandea e al dramma borghese di Waterloo. Il Goethe, che negli epigrammi pubblicati tra gli Xenien dell'almanacco schilleriano, poi introdotti nel Walbur gissnachttraum del primo Faust, aveva stuzzicato con pungiglioni di vespa il gran colosso, quando volle abbracciarlo con una stretta d'amore fu ributtato anch'egli, e dovette accontentarsi di qualche episodio dell'emigrazione. È vero che quell'episodio fu materia degli stupendi esametri dell' Arminio e Dorotea; ma la rivoluzione non cedè agli assalti. Non so; la rivoluzione francese è una materia repugnante dall'arte. Forse essa, nella sua terribilità storica, sta troppo chiaramente e vivamente stampata nello spirito universale, perchè ci sia necessità e modo di ravvivarne i fantasmi con l'arte; oppure essa per natura è barocca e teatrale, e rifugge da tutte le rappresentazioni che non siano la festa dell'Ente Supremo, o gl'immani fantocci di David, o i pasticci tragici d'argomento repubblicano di Gabriel Legouvé: rifuggì persino alla larga vena ciceroniana di Michelet.
Pure al Carducci qualche cosa ha concesso; ed è singolare che sia stato un italiano il primo epico della rivoluzione, come italiani furono i più grandi epici del ciclo carolingio. Sarebbe forse una fatalità storica; oppure il materiale epico ha bisogno di essere elaborato lungi dai luoghi ove si formò? Chi sa? Certo la materia dell' Iliade e dell' Odissea, dell' Eneide, della Gerusalemme e dei poemi di cavalleria, per tre quarti si svolse fuori della Grecia e dell'Italia. Tuttavia le concessioni non sono state grandi. «Impossibile mettere in versi quella storia, se non a brevi tratti,» dice il Carducci. E perchè impossibile? se si potè mettere in versi quella delle crociate, e la leggenda cavalleresca? E perchè è possibile metterla in versi a brevi tratti? Sono questioni oziose, a prima vista; eppure molto bene potrebbe venirne dal ventilarne. Si dice che l'epopea sia morta, e chi guardi al fatto deve confessare ch'essa è almeno petrificata dalla catalessia. Ora come e perchè questa grandissima forma dell'arte è caduta? Non sarebbe tutta una questione di metodo? Io per me dico di sì; e quando veggo la Légende des siècles, Hermann und Dorothea, i romanzi poetici di Hamerling, i poemi cavallereschi di Swinburne e di Tennyson, la Canzone di Legnano, quando veggo sopra tutto le tendenze descrittive narrative drammatiche della lirica moderna, sempre più mi persuado che un largo movimento epico si vada inconsciamente propagando, e che l'epopea storica vada lentamente maturandosi nella coscienza umana. Certo, non sarà più l' epos antico, e l'elemento leggendario non potrà più entrarvi come fattore primo: il fattore sarà un altro, forse la verità storica, forse un altro, ma l'epopea nasce, ma l'attività poetica piega sensibilmente a quella via, e la lirica uscendo dalle strette del subbiettivismo prende naturalmente forma epica. Esempio ultimo e più patente, questi sonetti carducciani.
I quali non sono ancora epopea, come sarà forse la Canzone di Legnano; ma non son più lirica. Forse il Carducci non aveva nessuna premeditazione epica, se no, non avrebbe scelta la forma del sonetto; e questa inspirazione gli è nata forse inconsciamente, leggendo la storia del Carlyle. Ma il fatto sta che egli è escito dalla cerchia magica della lirica, che egli senza avvedersene quasi è entrato in un momento nel campo sereno della poesia obbiettiva, che la verità storica si è subitamente impossessata del suo spirito; e i sonetti sono scaturiti, l'uno dopo l'altro, investendo e vestendo d'una viva luce i fantasmi che si levano più alti da quel grande scompiglio. Questa certo non è ancora epopea; ma è già il racconto o la rappresentazione epica; ma è già il frammento epico animato da una singolare forza di coesione. Fate un piccolo movimento mentale: triplicate il numero dei sonetti, inseritene fantasticamente altri ventiquattro che rannodino l'uno all'altro con la narrazione quei dodici, in modo che i fantasmi non stiano più così staccati e solitari; e voi avrete il racconto epico moderno, il quale può via via risalire sino alla bancarotta di Law o alla morte di Luigi XIV e allargarsi fino al ritorno dalla spedizione d'Egitto.
Questo il Carducci non ha fatto, perchè non voleva fare epopea, perchè gli pareva impossibile fare una epopea della storia della rivoluzione francese. Ma certamente egli ha congiunto un sonetto all'altro con un nesso ideale, tanto più che si appella a esempi dei secoli XIII e XIV, quando il sonetto fu anche strofe. Non si tratta dunque propriamente di epopea; questi sonetti sono forse l'ultimo stadio della lirica carducciana.
Così, in due riprese, dichiarando e determinando meglio il mio concetto la seconda volta, annunziai io quella nuova fioritura poetica spuntata improvvisamente nello spirito del Carducci ai primi soli di maggio. Ed ecco, la gente prese a fantasticare, e ci furono degli sciocchi e degli uomini di sano giudizio che tolsero argomento da quelle parole mie a dissertazioni e a dispute intorno all'epopea, intorno al Carducci, intorno a me: qualcuno nella Gazzetta Italiana mi die' dell'asino, però ch'io non avessi ricordato il sonetto famosamente infame:
Sudate, o fuochi, a preparar metalli;
per contrario un signor M. T. dimostrò con molto garbo l'assurdità delle mie fantasie epiche, e dalle mie parole giudicando che il Carducci con quei dodici sonetti si fosse proprio proposto di fare una piccola iliade della rivoluzion francese, diede addosso al Carducci. Il quale è stato così costretto, rispondendo ai critici del Ça ira, di bastonare non pur me che ho gridato al lupo, ma il signor M. T. che è corso alle mie grida. Sicchè io, che secondo l'opinione del signor M. T. sono una lancia-spezzata del Carducci, gli ho fatto più danno che non un nemico.
E poichè tutte le mie speranze per l'epopea storica riposavano nel Carducci, e il Carducci non pur nega di volerne fare mai, ma ne dimostra con molti argomenti la non possibilità, accidenti all'epica storica! Io vi rinunzio senza dolore, anzi, stampo qui le mie fanfaluche per penitenza mia e per ammonimento agli altri critici fantasiosi. Se non che, io allora non intendo più la ragione e la materia e la forma della Canzone di Legnano, della quale pubblicando un canto il Carducci in una nota rivendicò al poeta il diritto di percorrere non pur tutto lo spazio della terra, ma tutto l'ambito della storia: affermò, ciò è, il principio cardinale e più liberale del romanticismo, di tor materia d'arte ovunque se ne trovi. Or la canzone di Legnano non è epos, non è poesia narrativa di materia storica? e non ricorda anche col titolo il canto guerriero o politico che fu preludio e coefficiente dell'epopea romanza?
Di più non mi pare che l'epopea sia in tutto morta: il poema-novella, per esempio, se fu falso e lirico e subbiettivo in Byron, se fu sensualmente effeminato in Tommaso Moore, se per colpa di molti romantici d'ogni paese, da Bürger al De Musset, da Walter Scott al Grossi abortì, per virtù di Wolfango Goethe ritrovò la larghezza e la serenità omerica nell' Arminio e Dorotea; e vive ancora, rinvigorito e nobilitato dagli anni, nella poesia inglese, ove, se di nuovo si è macchiato degli antichi peccati romantici in mano di Longfellow e di Tennyson, è apparso meravigliosamente illustrato d'un novissimo lume di verità umana nei poemi di Browning. L'epopea intesa nel significato etimologico di poesia raccontata non mi par peritura, poichè il bisogno della narrazione è nativo e perenne nello spirito umano, poichè essa ha una così straordinaria pieghevolezza di forma e tanta capacità di materia e tanta potenza di transmutamenti, quanta non ebbe mai nessun mostro della mitologia greca e delle mitologie medievali. Chi potrebbe determinare la universal legge della formazione epica? Essa sfugge a ogni delimitazione di confini, e se in Grecia l'ombra di Omero cantore dilegua d'avanti alla persona di Erodoto scrittore, l'epopea persiana per contrario nasce scritta con Firdusi quando già la Persia aveva avuto tutto un periodo di civiltà e di poesia lirica e drammatica; e in tutte le letterature semitiche l'ultima genita fu la poesia gnomica.
Così intesa l'epopea, e così certamente l'intendo io, non so vedere perchè dei rifacimenti epici non siano possibili. La contemplazione ideale della storia umana, che ha partorito al romanticismo la tragedia di Schiller due secoli dopo Shakspeare, non può essere argomento di qualunque forma di poesia? Tutta quanta la poesia, da un pezzo in qua, non è più nè cantata nè recitata: a Pindaro, che intona l'ode cantata e ballata in conspetto del vincitore trionfale e tuttavia insozzato dalla polvere e dal sudor della corsa, è succeduto il grande poeta moderno che fa tutto un corso di studi e tutta una larga preparazione per disposare lo spirito della patria antica con quello della patria moderna sul talamo dell'ode barbara infiorato di rose. Le condizioni dei popoli mutano, e mutano le fogge della poesia, e in luogo dell'aedo cantante per inspirazione e quasi per afflato divino subentra Socrate che prima di morire, per vedere se il fato non lo abbia sortito alla poesia, mentre la teoria indugia a tornare da Delfo, scrive un preludio ad Apollo ed una favola esopica; ma la poesia permane, e quando più par morta, ecco rinasce dalle ceneri: dopo la cronaca poetica di Ennio, che pareva dovesse vietare per sempre al popolo latino ogni aspirazione epica, ecco l'Eneide scritta, anzi a giudizio del poeta non ancora a bastanza elaborata quanto era il desiderio e il proponimento. Che poemi intorno a Garibaldi e a Napoleone, come dice Domenico Milelli, siansi bensì fatti, ma con poca fortuna, non monta: moltissima lirica in morte di Vittorio Emmanuele e in morte e in vita di Garibaldi si è scritta in Italia e fuori d'Italia, e se si avesse a giudicare da questi epinicii e da questi epicedii, bisognerebbe dire che la lirica è morta di ossessione per gli urli e per lo sbraitare freneticamente sgrammaticato del deputato Cavallotti. Invece, per la morte di Eugenio Napoleone e per le geste di Garibaldi il Carducci ha saputo trovare le più fresche, le più violente, le più gloriose emanazioni del suo spirito poetico. Perchè dunque non potrebbe, egli che col Ça Ira ha dato la rappresentazione epica, che con la Canzone di Legnano è entrato nel campo vero dell'epopea, egli che dalla ideale intuizione della storia ha saputo dedurre così mirabili effetti, tentare con fortuna sicura ciò che a lui e al Milelli pare una impossibile cosa?
Certo l'epopea elaborata dal popolo, ripresa e segnata col suggello immortale dell'arte dagli scrittori, non è più possibile oggi; ma questa legge di formazione dell'epopea non è forse la universal legge genetica dell'arte? E quando l'orbita fatale dell'arte d'un popolo è stata tutta percorsa, e comincia il periodo dei rifacimenti e dei rimanipolamenti individuali, l'epopea non si trova, come tutte quante le altre forme dell'arte, in uno stato di catalessia, onde non può trarla momentaneamente che la virtù peculiare di un intelletto? Tutta quanta l'arte moderna, lo ha detto il Carducci, non è per lo scrittore che un mezzo egoistico di diletto estetico, e pel popolo un passatempo e un lusso non necessario. Così stando le cose, e poichè la lirica subbiettiva dovrà necessariamente scadere quando gli uomini si siano infastiditi di pur versificare la gioia o la noia della vita, non dovrà l'arte della poesia cercar nuovo alimento in una obbiettività, onde la forma epica sarà la più logica e la più opportuna? Poemi su Garibaldi non se ne potranno forse fare, per ora; si potrà bensì fare una rappresentazione epica della battaglia di Legnano o della rivoluzione francese, senza che i tentativi anteriori falliti possano contraddire questa speranza. I tentativi falliti non contano: dopo il Trissino, che naufragò nel gran mare dell'epopea con l' Italia liberata dai Goti e si pentì amaramente di non avere invece tentato il romanzo di cavalleria, venne Torquato Tasso, che dal poema romanzesco era distolto per l'esempio del padre e per l'esperienza sua propria, e guidò la nave al porto della salute.
Epopea dunque nazionale e primitiva non più, perchè non ci è nè la materia nè la gioventù nè la necessità popolare; ma l'esercizio epico, come l'esercizio lirico, come l'esercizio della prosa narrativa, perchè no? Tutto ciò è alessandrino, d'accordo; ma e qual cosa mai è tutta l'arte moderna, se non un alessandrinismo più o meno ingegnoso e sapiente? E non abbiamo noi fondata, e non scriviamo noi la Cronaca Bizantina?
II.
Ed ora per la prima, ma non per l'unica volta in questo libro, mi tocca di dir male d'un giovine a cui mi lega la più grata e affettuosa consuetudine, che io ho sempre proseguito d'un affetto più che fraterno, al quale non ho risparmiato mai le ammonizioni e le prediche e i vituperii quando mi pareva che deviasse dalla grande strada apertagli dal destino, anche a rischio di essere accusato dal dottor Verità e da altri più bugiardi di lui d'un turpissimo peccato: d'invidia. Parlo di Gabriele D'Annunzio.
Gabriele, fanno ora due anni, giunse a Roma dall'Abruzzo con la bella e fresca ricchezza dei suoi vent'anni, e con molta opulenza di poesia e di prosa poetica. E subito mi venne a vedere. Ero, me ne rammento benissimo, sdraiato sopra una panca negli uffici del Capitan Fracassa, e sbadigliavo tra le ciance di molta gente; e alla prima vista di quel piccolino con la testa ricciuta e gli occhi dolcemente femminili, che mi nominò e nominò sè con un'inflessione di voce anch'essa muliebre, mi scossi e balzai su stranamente colpito. E l'effetto fu, in tutti quelli che lo videro, eguale. Lo conducemmo nel salotto, e tutta la gente gli si raccolse d'intorno. Non mai scrittore comico trionfante, in quel luogo ove l'ammirazione e la curiosità d'ogni cosa nuova scoppiano con sì facile violenza, s'ebbe un accoglimento tanto festoso. Mi par di vedere ancora Gennaro Minervini, quell'ultimo erede dello spirito napolitano, stargli d'avanti a guardarlo con gli occhi spalancati senza parlare; e Cesare Pascarella, con lo scialle raggruppato intorno al collo, frenare a stento la smania di accarezzarlo. E dovunque, poi, lo condussi, era la medesima cosa: persino la faccia incresciosa di Angelo Sommaruga al primo aspetto di quel fanciullo fu rasserenata da un sorriso. Aspettato con impazienza curiosa, dopo il giudizio singolarmente benevolo che della sua poesia infantile diè il Chiarini, con lo spettacolo della sua estrema giovinezza, con la irradiazione di simpatia che la sua sembianza e le sue parole e i suoi atti di fanciulla mandavano, conquistò nel primo istante questa cittadella romana che a tanta gente pare inespugnabile, e che apre invece tanto facilmente le porte. Gabriele ci parve subito una incarnazione dell'ideale romantico del poeta: adolescente gentile bello, nulla gli mancava per rappresentarci alla fantasia il fanciullo sublime salutato da Chateaubriand in Victor Hugo. E col crescere della consuetudine, la concorrenza dell'affetto e dell'ammirazione crebbe. Nell'inverno e nella primavera del '82, Gabriele fu per tutti noi argomento d'una predilezione e quasi d'un culto non credibile. Egli era così mite e così affabile e così modesto, e con tanta grazia sopportava il peso della sua gloria nascente, che tutti accorrevano a lui per una spontanea attrazion d'amicizia, come a un gentile miracolo che nella volgarità della vita letteraria non troppo spesso occorre. A ogni persona che novamente lo vedeva, era un'esclamazione di meraviglia. Ricordo l'esclamazione del Carducci, quando glie lo presentarono: anche ricordo il barone De Renzis, che molte cose ha veduto nella sua vita, con le mani in tasca e con la gamba destra tesa un po' innanzi, starlo a udire la prima volta scotendo lievemente il capo, quasi non credesse a' suoi occhi. Per me poi quel primo anno d'amicizia fu il maggior diletto di tutta la mia faticosa e turbolenta vita di seccatore del prossimo letterario. Io ritrovavo in Gabriele ingentilite le mie passioni di buttero platonico, e quella tendenza di espansione all'aperto, di riavvicinamento alla santa e selvaggia natura, che mi trasse nei primi anni della gioventù a scrivere e a stampare bruttissimi versi. In lui era tanto spontaneo il senso della barbarie e tanto curiosamente commisto a una nativa gentilezza di donna, che lo avreste detto una di quelle querce educate al tempo del barocchismo e potate in guisa da dar la sembianza d'una qualche cosa poco selvatica, educata questa per altro e potata da un meraviglioso artefice che avesse saputo dal taglio far nascere come un nuovo albero vivo e bellissimo. Noi andavamo assai spesso a passeggiare insieme, e in quel lungo andare a piedi o in carrozza, e nei colloqui, e nella comunione di tutti i pensieri cementavamo il concorde immenso amore dell'arte. O Gabriele, te ne rammenti? Io ricordo con un senso di tenerezza ineffabile un pellegrinaggio che noi facemmo su la via Appia. Era una mite mattinata di febbraio, e le siepi di bianco spino e di rose canine tuttavia rugiadose pareva che buttassero tutte insieme le gemme novelle alle prime carezze del sole: per l'aria le cornacchie viaggianti dalle terme di Caracalla alla tomba di Cecilia Metella si riversavano con un giubilante clamore di festa. Come la gioventù ci si espandeva lietamente e liberamente dal petto, mentre noi correvamo d'avanti alle terme tirando al vento colpi di rivoltella, e con che ilare impeto di fame assalimmo la frittata della colazione! La frittata era cattiva, ma tra la pergola il sole cortese di febbraio trapelava con molto sorriso, e d'avanti una scena meravigliosa di pianura e di colli sovrastata dall'Aventino ci accendeva nell'animo le fiamme dell'entusiasmo. Noi recitammo a vicenda l'ode carducciana per le terme di Caracalla, e io mangiando di quella frittata benedetta pur ti guardavo; e ti spiavo nei miti occhi fanciulleschi le ragioni e l'origine del Canto novo. Chi mi avrebbe detto allora, o Gabriele, ch'io dovevo essere accusato d'invidiarti?
Anche d'un'altra colazione mi sovviene, in casa mia, un giorno che nè egli nè io avevamo tanti denari da poter mangiare in una trattoria. Noi mettemmo in comune il peculio imponderabile, e comperammo della ricotta e del pane; e in quella concordia della nostra miseria ridevamo come due matti. Poi, come la primavera avanzava, io mi trassi dietro Gabriele in una mia poco felice escursione in Sardegna. Erano le calende di maggio, e il tempo per la dolcezza lusingava all'aperto. Il poeta piccolino volle accompagnare Cesare Pascarella e me alla stazione della ferrovia, e il desiderio di rivedere il mare lo indusse a venire sino a Civitavecchia. Era il pomeriggio, e il sole tuttavia alto batteva sopra il grande spazio del mare con una sì gloriosa pompa di porpora e d'oro, che noi restammo tutti tre dritti in sul molo con le mani protese per difesa degli occhi, con gli occhi spalancati, e il petto anelante per la delizia della brezza salata, immobili, estatici. La lusinga per il piccolino poeta della salsedine era potente troppo: venne anch'egli in Sardegna. Ed ahi! con che spasimi e con che vomiti scontò egli quel soddisfacimento della passione. Scorrendo poscia quella sventurata e generosa isola, Cesare Pascarella ed io fummo testimoni e parte d'un inaspettato spettacolo, poichè il nome del giovinetto barbaro aveva già valicato il mare, e ovunque noi scendemmo fu un coro di ammirazione e di acclamazione. Io veggo qui d'avanti a me la faccia di Gabriele sfavillante di contentezza a un banchetto che l'amicizia di molti cortesi e intelligenti giovini cagliaritani ci diede. Felice Uda, veterano del giornalismo, con un bicchiere colmo di vino d'Oliena in mano, guardando quel ragazzo teneramente, diceva un brindisi: e il piccolino ascoltando le sue lodi a cui tutta la mensa si accordava come con un coro comune, raggiava dagli occhi e dall'atteggiamento di tutta la persona la sacra gioia della conscienza del proprio ingegno. Allora questo bambino, che si teneva tra la capelliera arruffata una mano, mi parve veramente bello.
Poi una mattina, a Nuoro, ci svegliò il fattorino della posta che recava le prime copie del Canto novo. Io lo lessi tutto quanto in letto, se bene lo sapevo già a memoria; e non so dire con quanto impeto di entusiasmo abbracciai l'amico, levandomi. Quel giorno si andò con una compagnia numerosa a fare una passeggiata a cavallo, e galoppando in prova con Gabriele su pei sentieri della montagna, e poi da la cima del monte contemplando la scena stupenda che ci si spiegava alla vista intorno e all'in giù, il mio spirito si abbandonava giubilando a uno dei più puri e più vivi diletti che lo abbiano mai consolato: la contemplazione della santa natura a fianco d'un amico o d'un'amica, che la intuisca e l'adori con intelletto d'arte. O quella escursione per la Sardegna, dalle steppe di Terranova alle fatate grotte di Alghero, ove qualche ninfa delle onde marine si è costruito un nido per l'amore! I colombi selvaggi si buttavano a stormi fuori dalle grotte, quando noi ci appressammo con la barca; e quando un'altra barca dallo scalo di Terranova ci portò alla nave del ritorno, i gabbiani volavano sopra di noi nell'aria serena, quasi salutando il loro poeta. Chi avrebbe potuto pensare allora, o Gabriele, che quella nave ci valicava alla tua rovina poetica?
Sì, fu proprio alla rovina di Gabriele che noi navigammo sospinti dalla furia del vapore. Poichè, un mese di poi, il piccolino ritornò alla patria, onde nell'ultimo autunno venne di nuovo a noi stranamente mutato. Nell'estate, chi sa per qual tristo fatto o per quale fenomeno psicologico, era avvenuto in lui un rivolgimento: la fanciulla inconsciamente timida e selvatica si era transmutata in una civetta che sulla timidezza e sulla selvaticheria calcolava. Gabriele, che da Roma era partito ingenuo modesto gentile, ritornò a Roma furbo vanesio sdolcinato. Una improvvida necessità di assaporare immediatamente tutte le tristi e sterili gioie della popolarità gli si annidò come un canchero nell'organismo e nello spirito. Addio, passeggiate amichevoli al tenero sole romano che erano un mutuo ammaestramento e un incitamento! Addio, serene e pure contemplazioni della natura, e larghi bagni di ossigeno tanto salutari al corpo e allo spirito! Gabriele si abbandonò alla folla, a quella vil folla dalla quale il suo nativo istinto d'artista fatalmente lo segrega. E prima si ragunò d'intorno una volgare compagnia adulatrice di ragazzacci e d'impiegati; poi, come l'inverno aprì le porte delle grandi case romane, cedette alle lusinghe delle dame. Io non dimenticherò mai lo stupore che mi ferì vedendo la prima volta Gabriele addobbato e azzimato e profumato per una festa. L'anno innanzi non mai lo avevamo potuto indurre a vestirsi altrimenti che d'una giacchetta scura e d'una cravatta di raso bianco: spesso, anzi, dimenticava anche la cravatta. Ma quella sera che si pranzava abruzzesemente con una compagnia di abruzzesi in casa di Ciccillo Michetti, vedendolo così lindo e così studiosamente preoccupato della lindezza sua, mi parve brutto. Mangiando, si guardava i polsini con uno strano entusiasmo d'amore, e dell'avergli io fatto cadere qualche briccica di pane sull'abito nero s'ebbe a male come d'un'offesa. — Diavolo! diss'io, non ricordo se a lui proprio o a me, Gabriele si è dunque imbecillito? — Ma quella prima ferita dell'amicizia fu piccola, in confronto di quelle che seguirono. Gabriele si buttò storditamente a quella nuova e stupida vita, assaporando con una voluttà malsana il diletto della lode bugiarda e dell'adulazione sfacciata. Le dame che forse non avevano letto, certo non avevano inteso, i suoi versi, in conspetto di quel piccolino selvaggio rincivilito, di quel cagnolino con un nastrino di seta al collo, furono prese da una morbosa e romantica ammirazione. Per sei mesi Gabriele passò da una festa di ballo ad un pranzo aristocratico, da una passeggiata a cavallo a una cena in compagnia di qualche cretino blasonato e impomatato, senza aprir mai un libro, senza fermar mai l'intelletto a un pensiero serio. L'arte, che prima era per lui quasi un fattore della vita, divenne un gioco bambinesco per diletto di quelle povere dame, che volevano dei sonetti negli albums e sopra i ventagli così come sulle mensole vogliono della chincaglieria giapponese. In questo ambiente, a questo fine, con questi mezzi furono scritti i pochi e poveri versi raccolti di poi col titolo d' Intermezzo di rime. Versi poveri stentati e sciocchi, ai quali nessun'altra penitenza sarebbe stata più opportuna e più debita del silenzio. Se non che, il Chiarini in un accesso d'ira generosa passò ogni confine di moderazione, e denunziò alla questura Gabriele come un poeta porcellone e inverecondo. Non mancava che questo! Luigi Lodi, il quale con grandissimo stento era stato alcuni anni senza dimostrare al popolo d'Italia coi soliti esempi degli elegiaci latini del Boccaccio e dei poeti del Rinascimento che non ci è poesia bella e viva, la quale non sia oscena, afferrò subito l'occasion pei capelli. Luigi Lodi è uno strano uomo: non ha ancora trent'anni, e già campa di memorie, come un vecchio. Da che scrive nel Capitan Fracassa, i suoi migliori articoli sono di ricordi; da che coopera alla compilazione della Domenica letteraria, i più vivaci e briosi scatti della sua prosa son rifacimenti di cose fatte in gioventù: prima alcune notizie intorno alla vita e alle consuetudini degli scrittori bolognesi, poi la polemica contro la verecondia. Poichè in sostanza intorno all' Intermezzo di rime si è fatto lo stesso chiasso vacuo e ozioso che già si fece intorno a Lorenzo Stecchetti: gli assalitori furono, invece del signor Rizzi e del signor Alberti, Giuseppe Chiarini, il Dottor Verità e due Enrici, il Panzacchi e il Nencioni: il difensore, al solito, fu Luigi Lodi. Occorre qui riferire gli argomenti di attacco e di parata? L'Italia per un mese è stata troppo piena di queste chiacchiere; e da un secolo in qua esse sono state troppe volte ripetute. L'argomento capitale dell'offesa era questo: che l'arte, avendo una missione educatrice, non può passare i confini della decenza; l'argomento della difesa era per contrario che confini in arte non ce n'è. I litiganti stavano dunque a fronte come due ciechi che abbiano in mano un pezzo di stoffa, e si accapiglino gridando l'uno: — Questa stoffa è bianca; — e l'altro: — Questa stoffa è nera, — senza speranza di potersi accordare. Il Chiarini, il quale, se bene apertamente non difese, certo accolse con favore il tentativo di Lorenzo Stecchetti, e scrivendo delle prime prove poetiche di Swinburne celebrò con grandissime lodi l'immoralità di quel grandissimo poeta, transmutato subitamente in un puritano intransigente, vituperò con orribili vituperii l'immoralità di Gabriele. Il più coerente fu il Dottor Verità, che potè ripetere le sue solite scioccherie in lode dell'arte sacrestana.
Il Chiarini non intese che a proposito di quei versi la questione non era da porre nella moralità, poichè se all'artista si nega l'autorità e il potere di trasformare o di sviluppare secondo gl'intendimenti suoi la morale umana, come l'arte potrà avere una seria efficacia etica? Egli ebbe un barlume di ragione quando disse che uno dei segni dell'imbecillità è di mostrare le parti pudende; ma fu un barlume fuggitivo soffocato dal riflusso della retorica. Anche il Panzacchi intravide il punto giusto della questione, quando invece dell'oscenità parlò della lascivia; però anch'egli non ebbe che un intravedimento e non dichiarò francamente e lucidamente il suo pensiero. Mi sia dunque lecito, ora che la disputa è terminata, di dir l'ultima parola.
La questione della moralità in arte è delicata assai: può essere non pure illiberale ma in tutto academica ed oziosa, quando per moralità non s'intenda se non la convenzione e l'abitudine esteriore della vita; ed è invece d'una importanza capitale quando alla morale si dia il vero e proprio e pieno significato di obbedienza alle leggi eterne della vita. Ora il fatto dell'amore, che è tanta parte dell'arte così com'è tanta parte della vita, è stato dagli uomini ricoperto d'uno strano mistero. Prevale tuttavia il concetto cristiano che l'accoppiamento sia un peccato; e più prevale l'assioma gesuitico che il peccato sia bensì da commettere il più spesso possibile, ma il più celatamente possibile. La difesa della nudità e della verecondia è dunque una mala difesa, poichè il danno che alla moralità umana reca la consuetudine di tenere celate le funzioni dell'amore non è calcolabile. Quasi tutti i genitori umani lasciano che i loro figli si erudiscano dai compagni o dalle compagne più sapienti di loro; e non ci è chi non sappia per esperienza il gran male di questa erudizione contrabbandiera e dell'essere il fatto dell'amore tenuto in una nebbia romantica di misterio peccaminoso. Ci è nei Contes drôlatiques di Balzac una storiella di due che giunsero alla prima notte delle nozze e si abbracciarono nel letto senza sapere che altro restasse loro da fare; ma la seconda notte la sposa andò per erudizione da un vecchio che le svelò con l'esperienza l'arcano, e lo sposo da una vecchia che similmente assaporò la primizia: di poi vissero ambedue contenti di avere acquistata a sì buon prezzo la scienza. Ciò ch'è nella vita, è nell'arte. Con quali argomenti si vorrebbe escludere dall'àmbito dell'arte la rappresentazione piena e integra dell'amore? Con criteri morali no, per le ragioni che abbiamo fuggevolmente accennate; con argomenti storici meno che mai, perchè da Omero che con tanto serena magnificenza narra l'accoppiamento di Paride con Elena dopo il duello, sino al Carducci che con tanto casta potenza descrive la lotta d'amore d'un'Evia con l' amator silvano sulla cima del nevoso Edone, non ci sarebbe un poeta non condannabile; e la Bibbia dovrebbe essere arsa. La misura della moralità dell'arte non sta dunque nella maggiore o minor pienezza della rappresentazione amorosa: sta in vece tutta nella maggiore o minor limpidezza del flusso erotico che vi scorre per entro.
L'amore ha, come tutta quanta la vita, la sua legge eterna; ed è la riproduzione. Il diletto dell'amore dunque procede dall'equilibrio organico e spirituale che segue al soddisfacimento della necessità della riproduzione; e poichè alla legge della riproduzione è connessa quella della scelta della femmina, il diletto è, direi, complesso. Finchè dunque l'esercizio dell'amore non tende che a quel fine supremo, il godimento è sano, e l'arte che lo rappresenta è santa. Se non che, il pervertimento della natura umana giunge sino ad intorbidare questa purissima gioia. L'amore, allontanandosi dalla finalità sua fatale, e trovando in sè medesimo la sua ragione di essere, diventa inutile, malsano, fonte di diletto fittizio, fattore di arte miserabile e corruttrice. Confrontate, per un esempio, il Canto novo con l' Intermezzo di rime: là troverete palpitante e alitante di pagina in pagina una bella e viva e fresca smania generatrice; qui troverete gli allettamenti i vellicamenti i puttaneggiamenti onde un collegiale vizioso, insinuata la mano sotto le gonnelle d'una educanda desiderosa mentre tutta l'altra compagnia è intenta a giocare alla tombola, le aizza e le rinfocola la prurigine del peccato. L'accoppiamento sano non può essere afrodisiaco: è semplice casto solenne come tutte le più utili e più naturali esplicazioni della vita: la libidine è degli eunuchi, degli ammalati e della gente che, per non obbedire al destino finale dell'amore, cerca sfoghi non consentiti dalla natura. Infatti, nell' Intermezzo di rime l'accoppiamento non pure non è mai descritto; ma è tanto poco accennato, che quasi non appar necessario. O Gabriele, a questo dunque dovevi tu giungere?
Se non che, pare ora che Gabriele si risvegli dal suo sogno lussurioso, e che i fantasmi lascivi che gli sono stati materia e causa d'una sì miserabile e malsana poesia, dileguino dal suo spirito. Così egli si riscotesse da vero! Io intanto qui voglio ristampare per augurio l'ultimo suo sonetto, pregando gli dèi della Grecia che rasserenino il sangue e lo spirito dell'amico, e gli mandino molte solenni visioni omeriche. Ecco il sonetto:
Ora così tra le colonne parie
de'l mio sogno di lusso e di piacere
le purissime forme statuarie
chiudo io per sempre. O sacre primavere
de l'arte antica, o grandi e solitarie
selve di carmi ove raggianti a schiere
passan li eroi, ne l'arida barbarie
de l'evo or chiedo splendami a'l pensiere
la vostra luce! — Troppo in un malsano
artifizio di suoni io perseguii
a lungo de l'amor le larve infide.
Ora un lucido senso alto ed umano
me invade, poi che novamente udii
cozzar ne'l verso l'armi de'l Pelide.
Egli mi scriveva giorni a dietro:
«Non mi sento ora nel possesso pieno di tutte le mie forze fisiche e intellettuali. Sono indebolito dall'amore e dai piaceri dell'amore e dalla consuetudine della vita orizzontale. Non ho più quella bella sanità gioconda d'una volta: gli occhi mi dànno spesso fastidio, e il fastidio m'impedisce di occuparmi e mi mette nei nervi l'irrequietezza irosa dei piccoli mali. Sai che vorrei? Vorrei qui della gran neve e del gran freddo che mi sforzasse all'esercizio e alle lunghe passeggiate e alle larghe respirazioni dell'aria salutare. Oh, se venisse la neve dalla Majella o da Montecorno! Verrà; la invocherò con tanta passione di amante, che verrà.»
E io dal letto, onde scrivo, mi associo con Gabriele nell'invocazione, e gli prego dai venti dell'Appennino abruzzese una stupenda nevicata.
III.
In genere i costruttori di melodrammi per musica, come i volgarizzatori di romanzi francesi, mi fanno ribrezzo: pure mi piace che nello scomparire di tutti i segni esteriori dei vari mestieri letterari, che nel confondersi di tutti i tipi d'uomini di lettere in una categoria confusa e camaleontica che va dallo scrittore-professore allo scrittore-giornalista, uno almeno si distacchi dalla volgarità comune. E questo è il librettista; tutti gli altri sono scomparsi.
Dove sono andate a finire tutte quelle classi di letterati, dilettanti o mestieranti, che pur giovavano, se non altro, alla vendita dei libri? Dov'è l'abate, professore di belle lettere, autore di un trattato intorno all'arte dello scrivere? Dov'è il canonico, autore d'un mese di Maria in versi sciolti e d'una versione in terza rima del Salterio? E l'academico tronfio d'una cicalata sul miglior modo di tostare il caffè, recitata in concistoro? E il parassita rimatore, che in due giorni derivava dalla facile vena un sonetto per monsignore arcivescovo e una canzone petrarchesca per le nozze della duchessina e un madrigale pel ventaglio della principessa e una inscrizione per la tomba del pizzicagnolo, strappando la vita a morso a morso, a furia di endecasillabi? E i dilettanti di piccola erudizione, e i questionatori grammaticali, e gli armenti di Arcadia, dove dunque sono andati a finire? La stampa periodica, politica o letteraria, quotidiana o domenicale o bimensile o mensile, li ha tutti assorbiti. Chi riconoscerebbe in Ferdinando Martini il presidente dell'Accademia dei Tribolati; e chi nel Rigutini uno dei tanti che intorno al Perticari al padre Cesari a Basilio Puoti strillavano o predicavano teoriche linguistiche, e davano al minuto lezioni di purismo? Nessuno, certo; poichè anche le ultime pastorelle arcadiche stampano versi nei giornali clericali, o, al più, compilano diari danteschi.
Anche il comediante, quell'ultimo e più genuino legatario dell'antica reputazione e dell'antica fisonomia italiana, ha tralignato; e nessuno oserebbe asserire che il commendatore Pietriboni rassomigli allo zingaro di cent'anni fa, ruffiano paltoniere poeta e attor comico insieme, il quale la mattina imbastiva un dramma e lo rappresentava la sera tra l'immenso plauso della moltitudine, pur tenendo nell'opinione della gente un luogo medio tra la meretrice e il ladro. Tuttavia, dicevo, mi piace che il librettista resista ancora; e sebbene esso non è proprio constituito e rinserrato in una categoria singolare con statuti propri, ma lo incontriamo da per tutto nel tramenìo faticoso della vita moderna, pure porta segnate in fronte certe note specifiche che lo distaccano e lo distinguono da tutta l'altra folla dei succhiatori d'inchiostro.
Il librettista è un tipo vario ed elastico: ce n'è che restano nel puro aere sereno dell'opera seria, ce n'è che discendono sino all'abiezione dell' operetta: quasi tutti congiungono alla difficile capacità del libretto quella più volgare della romanza per camera. Sta fra l'accordatore di pianoforti e il sonatore di violino nelle scuole di ballo, un po' più sublime di questo, un po' più umile di quello; ma di ambedue queste professioni ritrae una certa esteriore e non necessaria intuizione musicale e l'abitudine di industriarsi e di aiutarsi con qualche altro mestiere. Così non di rado il librettista è anche redattore di critica bibliografica o artistica o musicale, o è impiegato del Debito Pubblico; e ce n'è anche tra i barbieri e tra gli uffiziali della milizia territoriale: degli scolari poi di giurisprudenza si sa che uno almeno ogni cinque è autore, in pectore o in fatto, d'una comedia o d'un libretto d'opera.
Di rado il librettista procede dal comediante; per lo più sbuccia dalla scorza d'un poeta giovinetto, dopo il primo fiasco; e, naturalmente, più volentieri sbuccia dalla scorza d'un giovinetto poeta romantico. Dico naturalmente, perchè il romanticismo è il miglior ausiliare dell'opera musicale, la quale mal si acconcia alla semplicità del sentimento umano e al piccolo spettacolo della vita; ma vuol prorompere con le furie della passione, e vuole puntellarsi a uno spettacolo che prenda tutti quanti i sensi dell'uditorio e li converga a forza verso un oggetto unico. Infatti, — non so se altri mai vi abbia posto mente, ma certo è così, — guardate alla storia della nostra scena musicale, dai primi melodrammi metastasiani a Riccardo Wagner, dalla Didone ai Nibelüngen: che ascensione trionfale del romanticismo a traverso la musica dai primi flussi naturali della melodia alle più dotte e più studiose combinazioni dell'algebra armonica! Parlo del materiale musicato, non della musica, la quale io, con molta paura di dire uno sproposito, direi che abbia tenuto un cammino inverso.
I librettisti dunque vivono in pieno mondo romantico; e, ligi ai comandamenti della legge romantica, viaggiano. Viaggiano da un capo all'altro dell'orbe, da un momento all'altro del tempo, a traverso lo spazio, a traverso i secoli, con la fantasia badiamo, come il capriccio della mente o il capriccio della moda li guida. Non rifuggono dal mondo romano, travisato romanticamente; ma più amano il medio evo, e più volentieri fuggono agli aranceti del reame di Castiglia e alle selve di banani e ai canneti di bambù che coprono il suolo dell'India. Onde questa predilezione, e perchè? Forse che nel melodramma musicale questa prevalenza dell'antichità medievale procede da una prima scossa contro gli dèi della Grecia, come accadde nella poesia romantica? Oibò: se così fosse, il libretto d'opera, come la lirica tedesca, dopo la furia della ribellione, sarebbe a poco a poco ritornato, rinnovato e ringiovanito, a cantare un più forte e più passionato inno agli dèi della Grecia, i quali in più parti gli gioverebbero, poichè la tragedia greca era in sostanza un grandioso libretto d'opera. Invece il melodramma va sempre più sprofondando negli abissi medievali; e dalla ingenua bestialità del Trovatore è precipitato nelle nebbie tedescamente folte e fantastiche del Mefistofele, e dopo aver respirato una boccata di aria pura nel Lohengrin, si è gittato via per la campagna popolata di spettri, dietro la caccia selvaggia, dietro la cavalcata delle Valchirie, nei Nibelüngen e nel Parsifal. Or io non voglio parlare nè del Boito, il quale ha nell'arte poetica quella stessa serietà d'intendimenti e anche di coltura che ha nell'arte musicale, il quale è ritornato agli dèi della Grecia col libretto d' Ero e Leandro, che a me pare una delle più felici e più squisite fioriture liriche di questo ventennio; nè del Wagner, il quale con immenso amore e con immensa fortuna volle e seppe infondere un nuovo soffio di vita nelle antiche epopee della patria. Io dico della turba infinita, la quale in tutte le parti del mondo taglia melodrammi musicali dalla stoffa medievale, non perchè i fantasmi del medio evo sorgano dal fondo della conscienza artistica rinnovata con lo studio della storia e del materiale romanzesco; ma perchè dà campo a una inesauribile fabbrica di trovadori, ma perchè è tutto pieno di risorse preziose, dal torneo alla corte d'amore, dalla gara dei giullari pel conquisto della violetta all'assalto del castello, dal combattimento in campo chiuso al colloquio sentimentale al lume della luna, ella sporgente il bel corpo di fata dal verone della finestra ogivale, egli là giù perduto nella notte: la luce elettrica intanto scatta bianca di mezzo le quinte e va a ferire in viso la castellana; giù nell'orchestra un pizzicamento di violoncello finge il crocidare dei ranocchi nel fosso del castello. E poi, la messa in iscena di un melodramma medievale è la più facile cosa del mondo. In ogni magazzino teatrale ci è sempre un certo fondo di scenarii con torrazzi feudali e notti stellate, e interni gotici con finestroni binati e coloriti e ampie cappe di camino; in quanto ai panni, l'impresario va da un rigattiere, e chiede del medio evo, senza parsimonia; e, si sa, di corazze di latta e di elmi di cartone con pennacchi rossi, e di farsetti di velluto color nocciòla, e di calze di seta le botteghe dei rigattieri non difettano; e nemmeno mancano di stiletti e di spadoni: non ci è, forse, una bella veste bianca per la castellana, ma a questa la prima donna provvede da sè. E poi un'altra cosa, più importante forse, ribadisce il trionfo del medio evo nel melodramma musicale: il gusto del pubblico. È inutile: questo benedetto pubblico è come un lattante ostinato alla mammella, e non vuole svezzarsi dal medio evo. E per questa parte i librettisti hanno ragione: poichè la gente paga per volere udir cantare un tenore vestito da Marco Visconti e una prima donna vestita da Maria Tudor, e perchè scontentarla? Poniamo una zimarra di lana bianca in dosso e una borsetta di pelle gialla a lato alla Signora delle camelie, e non se ne parli più. In quanto alla manìa indiana ed egiziana scoppiata ultimamente, parrebbe anch'essa una emanazione della prima grande rivoluzione romantica, la quale anche nel mondo primitivo ariano cercò nuove fonti d'inspirazione; parrebbe, se non fosse ridicolo pensare che i costruttori di libretti d'opera si preoccupino d'altro che d'ammucchiare le masse corali sotto la specie d'una folla indiana, che di edificare un viale di sfingi sulle rive del Nilo per cornice d'un duetto romantico, che di giovarsi del tempio buddhistico per comodo d'un finale a piena orchestra. Leggete l' Africana, e vedete se dall'atto terzo in giù vi riesce di capire in qual paese vi troviate; leggete l' Aida e il Re di Lahore, e se avete qualche esperienza di cose indiane ed egiziane fate a meno, se potete, di ripetere i primi due versi dell' Inferno. Nè io me ne maraviglio, da che la musica ha soffocato sotto le sue ampie ali l'elemento poetico, da che, segnatamente nell'arte scenica, prevalgono in modo vituperevole l'empirismo e il macchinismo; mi maraviglio anzi che in mezzo a tanta abiezione vi siano dei maestri quali Arrigo Boito e Riccardo Wagner, i quali con molta serietà hanno tentato di rilevare il melodramma musicale a una dignità quale forse non ebbe mai. Anzi mi pareva strano, leggendo due libri pubblicati ultimamente, che nel 1834 un librettista scrivesse versi come questi:
Non ti diero invano
Alto senno le Muse ed alma forte,
Ed a te bolle italo sangue in petto;
Invan non fosti eletto
Quaggiù custode delle cozie porte,
Nè invan, cinta di torri e d'armi piena,
Il dorso inchina a te l'onda tirrena.
Il librettista scrittore di questi versi fu Felice Romani, e la canzone esorta discretamente la maestà di Carlo Alberto a tener vivo il pensiero del riconquisto d'Italia. Discretamente per due ragioni, l'una politica e la seconda d'arte: prima perchè Felice Romani viveva e scriveva in corte dei Re di Sardegna, ed il rammentare solo i bisogni e le speranze d'Italia era già una gran cosa; secondo, egli per una singolare consuetudine del suo temperamento poetico non sapeva escire, anche nel concitamento lirico, da una certa serena e sicura moderazione degli affetti. Per questo, non per tepidità patriottica, il Romani fu meno veemente e meno caldo del Leopardi. Non fu tepidità patriottica, poichè non trascurò occasione di far sonare la voce della patria impaziente agli orecchi dei principi savojardi; e celebrando con grandi lodi il senno di Vittorio Emanuele I, lo ammonì arditamente
Iddio ti diede
Tanta in Italia sede
Perchè tu fossi, come forte, pio;
e cantando con una canzone petrarchesca Carlo Alberto legislatore, non dimenticò di dire:
E ancor tu l'ami quest'Italia e vedi
Risorger forse nel fatal domani
L'astro oscurato della sua grandezza.
Solamente nel '42, posando ai piedi di una coppia nuziale, in nome di Torino esultante, un carme ricalcato sui Sepolcri, non disposò la nota patriottica ai modulamenti della melodia cortigianesca. Lo sposo era il duca di Savoia Vittorio Emanuele, e la sposa un'arciduchessa austriaca: gli parve forse che dalle nozze felici dovesse nascere la libertà d'Italia; certo egli non pensava che sette anni più tardi avrebbe dovuto chiudere un sonetto con queste due tristi terzine:
Te incolpa, o Italia, te che cieca e stolta
Fra vane ambizioni e rei consigli
Fosti pronta ai garriti, all'opre ignava.
Tal che inerme ed oppressa un'altra volta
I tuoi ferri strascina e grida ai figli:
Genia divisa eternamente è schiava.
Un pensiero, sopra gli altri, gli stava inchiodato nella mente: voleva che Genova, unita al Piemonte, movesse la guerra per la salute della patria; sempre, rivolgendosi alla città o al re di Sardegna, propugna questo suo pensiero, e vuole ad ogni modo che i nepoti degli Amadei e i nepoti dei Doria siano i liberatori della patria. Era un'utopia come un'altra, poichè nè i nepoti dei Doria nè quelli degli Amadei avrebbero potuto affrancare l'Italia, se essa finalmente non si levava, e non rompeva il ferro delle catene. Ad ogni modo questa lirica patriottica in Piemonte dal '30 al '59 è degna di studio. Tanto più curiosa a studiare, per la singolarità del poeta. L'impresa di Novara, dopo quella del Trocadero; l'impresa di Novara, sollecitata e auspicata in rima da uno scrittore di libretti d'opera, s'intende più chiaramente. E poi questa dinastia savoiarda è come circonfusa di un'aureola romantica: tenutasi per tanti secoli salda nel dominio del suo feudo alpino come una famiglia di licheni abbarbicata a una rupe, si mostra, a cavallo, al bel sole d'Italia armata in guerra a capo del popolo che si leva dal sonno nel nome della patria e della libertà; e quando tutte le genti italiche, nel tripudio della vittoria, pareva che dovessero andare ad appendere corone al tempio di Giove Liberatore, ecco un cavaliere medievale, simile ad Umberto Biancamano, con la visiera levata e la faccia nera pel fumo del combattimento, scese da le Alpi; e tutto il popolo lo gridò re: così la moltitudine dei Franchi acclamò Clodoveo. Poi questa stirpe invecchiata, povera di sangue, fiacca di muscoli e di nervi, si adagiò in mezzo al popolo d'Italia, come i re fannulloni in mezzo al popolo di Francia, e regge tuttavia per virtù della bellezza d'una donna. Non ci è in tutto questo qualcosa di melodrammatico, e non doveva essere appunto un librettista il poeta di questa dinastia? Solamente è strano che celebratore d'una romantica generazione di re sia stato un librettista classico.
Le inclinazioni e le predilezioni classiche nel Romani appaiono più chiaramente forse dalla lirica che dai melodrammi, ove molte cose dovette il poeta concedere alle necessità della musica e alla volontà dei musicatori. È classico in tutto, nel contenuto e nella forma; anzi nella forma fu così strettamente ligio persino alla nomenclatura classica della lirica, che, ristampando certi suoi versi intorno all' Amante esule che canta alla luna come i cani randagi e i poeti sentimentali, vi pospose la seguente nota: «Questa elegia fu già stampata, ora sotto il nome di Ode, ora sotto quello di Romanza, i quali nomi sono rigettati dall'autore per le sue idee particolari intorno all'indole di siffatte poesie.» Tuttavia qua e là, nelle canzonette erotiche o elegiache, nell'inno sacro manzoniano per la Resurrezione e nella trilogìa intitolata da Folchetto di Marsiglia, qualche germe romantico tenta di gittar le radici; ma il terreno non è propizio, poichè lo studio del Foscolo e, più sensibile forse, del Monti, lo ha fatto sterile ad ogni seminagione romantica. Il Monti, il gran mago che affascinò da prima anche il Manzoni, in sul principio di questo secolo abbracciò con la grande potenza musicale tutte le facoltà poetiche dell'Italia; e ci voleva una forza non comune a liberarsene: ci volle, appunto, la forza del Manzoni e del Leopardi. I minori soggiacquero, e non poterono escire dalla cerchia segnata dal mago. Tra questi, il Romani. Del resto era naturale. Si esciva dalla preponderanza arcadica e dai sonetti del Minzoni: gli orecchi erano stanchi di quella rimerìa vuota e strepitosa come un rullìo di tamburi, e le bocche erano sazie di giuncate; la gente prendeva a seccarsi dell'avvocato Zappi e a sparlare della moglie. In Italia si cominciava a studiare il latino per altro che per intendere gli statuti di Arcadia, e come una inconsciente necessità di un bagno nelle pure linfe classiche nasceva tra la gente; ma il Parini fuori di Milano era poco e male inteso, e il Foscolo ancora troppo giovine. Venne il Monti, l'abate Monti con quella sua larga vena sgorgante liberamente come l'eloquenza ciceroniana, e rievocò tutta l'antichità classica, non già con le cabalette metastasiane, ma con un violento flusso melodico e armonico in una, che pare il corso di un fiume, e insieme lo scoppio di una facondia copiosa. Molti furono ammaliati dalla novità del mondo evocato; ma i più cedettero al fascino musicale. Leggete, per un esempio dichiarativo e persuasivo, questa stanza d'una canzone petrarchesca del Romani pel busto del Monti:
Cogli occhi al ciel rivolti,
Al ciel che lo pascea di tanto lume,
Stassi il poeta in estasi rapito,
Qual se la voce ascolti
Del genio ispirator, del suo gran Nume
Chiamato in terra e da nessun sentito.
Spazia lo sguardo ardito
Per entro a campi che non han misura,
Regni di fantasia noti a lui solo;
E qual disciolta a volo
Fiamma si leva al ciel per sua natura,
S'erge lo spirto a region divina
Ove s'interna, ove sè stesso affina.
Nel Monti dunque più volentieri si specchiò il Romani, non tanto, per altro, che molto non ritraesse anche dal Foscolo. Di più, il caprifico d'Arcadia gli aveva lasciato qualche barbilla confitta bene addentro nel midollo cerebrale. Le anacreontiche e le romanze sono tutte, quale più quale meno, fiori bianchi del bosco Parrasio:
Esci, o sospir, dal core,
Vola al mio bene, e dille,
Che sei sospir d'amore,
Ma non le dir di chi.
Ecco, mi pare, una strofetta degna dell'avvocato Zappi; e qui pure è da ricercare il nodo che unisce la poesia lirica alla poesia melodrammatica di Felice Romani. Il melodramma moderno infatti ha origine boschereccia: è nato dal grembo d'Arcadia; nè occorre uno studio molto profondo della poesia metastasiana a persuadersene. Nacque arcadico, e morrà forse romantico, poichè il romanticismo gli ha subito aperto le braccia e va lentamente soffocandolo. Nel Romani, l'ho detto, il romanticismo poco o nulla fe' presa: più tosto prevalsero le reminiscenze arcadiche, le quali nella lirica si rifugiarono in una determinata forma di componimento, ma nel melodramma proruppero più prepotenti, ovunque le lusinghe melodiche le tentavano, troppo mal temperate dalla premeditazione classica dei recitativi, e da qualche involontaria irruzione romantica.
In genere, si può dire che il Romani è classico nella lirica obbiettiva, e arcadico nella lirica subbiettiva; ma obbiettivo o subbiettivo che sia, classico o romantico o arcadico, una cosa è certa: che in lui le naturali facoltà liriche sono guidate e corrette da un infinito amore della misura e della forma. Non mai egli trascende oltre i confini del sentimento umano, e la passione in lui, anche nel momento del maggiore impeto lirico, è regolata con quella moderazione, nella quale sta l'eccellenza dell'arte. Certo, gli mancò il soffio potente che dà le penne maestre alle cose poetiche e le sospinge in alto; ma questo libro di lirica, ove appaiono più chiaramente gli studi e le inclinazioni sue, sarà molto utile a chi voglia studiare la genesi del melodramma moderno.
Poichè nella poesia del Romani, anche nella canzone petrarchesca, anche nell'ode saffica fatta un po' liberamente, la presenza del melodramma si sente nel movimento drammatico dell'affetto e nell'onda melodica; così come ne' suoi melodrammi le consuetudini liriche si affacciano tra le esigenze della scena e il capriccio della musica. E il librettista appare anche nelle novelle, le quali il Romani non volle imitare dal francese, ma trasse da vecchi romanzi di cavalleria: l'intenzione era buona, o almeno a me pare buona, poichè si accorda in parte con certi miei criteri novellistici; ma il cancro della situazione, e le ulceri della declamazione, e le fistole della cabaletta e del duetto gli rodevano da troppo tempo la carne; e le sue novelle sono melodrammi in prosa narrativa.
Tuttavia queste preoccupazioni d'arte in un librettista sono molto significanti; e mostrano, se non altro, una cosa: che il Romani non solo alla lirica, ma e alla novella e al libretto d'opera giudicava necessaria una qualche preparazione; e certo egli prima di scrivere la Norma lesse i commentari della guerra gallica.
IV.
Nelle presenti condizioni dello spirito italiano, un uomo che goda di qualche favore letterario e si presenti al pubblico con un libro di lirica, o deve avere smarrito affatto il senso comune, o è provveduto d'un coraggio leonino e d'una fiducia strana nelle proprie forze poetiche. La lirica infatti dopo un ultimo lampo di luce si va rapidamente ringolfando nelle tenebre. Non ci strappiamo i capelli per disperazione, nè ci cospargiamo di cenere il capo: questa ruina è fatale, non per noi solamente, ma per tutta l'Europa. L'Inghilterra resiste ancora, per un singolare fenomeno della sua natura tenace, e dal Byron ai nostri giorni ha tutta una gloriosa tradizione poetica non interrotta mai; la Francia (lasciamo in pace Victor Hugo), prima ha levato sugli scudi il Coppée e gli altri poveri parnassiani lodatori in rima delle cocottes e delle passeggiate in omnibus, poi è caduta ammirando alle ginocchia del signor Rollinat; e ciò è il vituperio ultimo della poesia francese. E gli altri popoli del concerto europeo? Non ne parliamo neppure, poichè da quel poco che io ne posso sapere debbo concludere che la miseria è universale. So che in Germania hanno levato alle stelle come miracoli i romanzi poetici dell'Hamerling e le novellette in rima di Paolo Heise e hanno ristampato più di cinquanta volte quella retoricata indegna pure di uno dei poeti svevi flagellati dallo Heine, ch'è il Trombettiere di Säckingen dello Scheffel; so che più d'un critico tedesco molto reputato ha rimproverato alla Germania la sua abiezione lirica; so che la Spagna moderna ha celebrato come un dio quell'Espronceda, che ebbe bensì qualche lampo di poesia, ma la confusione della sua mente e la nessuna cura dell'arte e la scarsa preparazione metrica e grammaticale l'offuscarono in tutto. Vogliamo andare in traccia di qualche filone lirico di là dal Danubio e di là dal Volga? Non ne vale la pena. La Rômania incorona di molti lauri Vâsili Alexandri, perchè la sua storia letteraria si può dire cominci con lui: così nelle enciclopedie di poesia latina si ristampano anche i frammenti poetici di Cicerone, e il mio amico Guido Mazzoni traducendoli li fa più belli che non siano nell'originale. In quanto alla poesia russa, io non me ne intendo; ma non ho mai letto nè udito dire che una polla di lirica nichilista sia scaturita di mezzo agli scoppi della dinamite. Lasciamo dunque che il concerto europeo discuta la questione danubiana, e congratuliamoci con noi medesimi. Sì, noi abbiamo ragione di esser superbi; e possiamo levar la fronte alta in conspetto dei poeti inglesi: noi nella storia universale della lirica abbiamo fatto un miracolo.
Poichè, riaversi dall'urto della reazione cattolica proceduta dal Manzoni, riaversi dall'infiacchimento della reazione romantica proceduta dal Prati e dall'Aleardi, rialzarsi, dopo gli inni sacri dopo la lirica patriottica dopo la lirica da salotto, con una freschezza e una forza strana d'ideali classici nel contenuto e nella forma, rifare, in senso inverso, tutta quanta la rivoluzione poetica del Goethe dopo le più pazze aberrazioni del romanticismo — è stato un miracolo poco credibile. Dopo gl'inni sacri, dopo le lettere a Maria, che cosa potevamo aspettarci e augurarci noi? Qualche Rollinat da strapazzo spinto in piazza non già da Sarah Bernhardt, poichè non siamo in repubblica, ma da Leone XIII o dalla figliola dilettante di letteratura di qualche ministro del Re d'Italia. Abbiamo invece avuto un riverbero di luce foscoliana; abbiamo invece avuto finalmente un poeta lirico che ha saputo intuire, che ha saputo rappresentare la vita moderna senza discostarsi mai dagli ideali classici che son cementati nel midollo delle nostre ossa; possiamo invece andare con l'Inghilterra dinanzi a tutti gli altri popoli d'Europa, e vogliamo lamentarci, e vogliamo cospargere i nostri capi di cenere? Oibò. Portate fiori e corone di lauro, e sia il canto funebre della nostra lirica come l'epigramma di Simonide pei caduti alle Termopili, o come l'inno funebre del Rigveda. Non in tutto però come l'inno del Rigveda, poichè guai a colui che volesse ricondurre a nozze la vedova, senza avere i fianchi abbastanza forti per fecondarla. E questo appunto io mi domandavo, leggendo le lodi dei giornali a un libro di versi del signor Luigi Gualdo: — Il signor Gualdo ha egli forze sufficienti a tanta fecondazione? — No. Letto il libro, ho subito veduto che il signor Gualdo si è messo sconsigliatamente a una impresa pazza. È come se don Chisciotte avesse tentato col soccorso di Sancho la giornata di Roncisvalle. Egli ha voluto serrare nelle braccia debilucce di damerino una femmina troppo forte troppo repugnante troppo avvezza ad abbracciamenti leonini; ed ella sdegnata o nauseata gli è insorta contro serrandolo con le dita alla gola, e soffocandolo sotto i guanciali del letto. La vedova aveva bisogno d'altri mariti ben più potenti, e questo nuovo poeta preconizzato e levato alle stelle dai giornali è un piccolo dicitore in rima, del quale nessuno si occuperebbe, se non avesse scritto dei buoni romanzi in lingua francese. Avesse scritto anche i versi in francese! Allora lo avremmo paragonato a un rimatore di corte del secolo XIII, dispregiatore della lingua volgare; e lo avremmo messo insieme col signor Rollinat.
La leggerezza maggiore del signor Gualdo sta in questo: ora che la lirica cessa per un mancare dei motivi poetici, mettersi a fabbricar lirica senza un lungo lavoro di meditazione e di preparazione, senza avere accumulato nella mente una qualche quantità di materiale nuovo poetabile, è come montare in un treno di strada ferrata senza avere i quattrini per pagare il biglietto, è come affidarsi al mare senza sapere gli elementi del nuoto. Di che consiste il contenuto poetico del signor Gualdo? Vediamo.
Il signor Gualdo deve sopra tutto aver posto molto studio nei parnassiani francesi, poichè le due forme poetiche predominanti nel suo libro sono le due forme predilette dai parnassiani, e quelle che d'ordinario accennano al crollo della lirica: la narrazione e la chiacchierata in rima, che sta fra la moralisatio medievale e la tirada del dramma spagnolo e il recitativo del melodramma. Di più, ci è qualche ritratto e qualche paesaggio, in ultimo: altro segno di sfacimento lirico, che appare specialmente di questi tempi in Germania. Le forme esteriori dunque rivelano subito la debolezza del signor Gualdo, poichè quando l'impeto lirico si va attenuando nei vezzi del raccontino, poichè quando la foga della passione si squaglia e si diffonde nella cascaggine della chiacchiera rimata, la lirica si sfascia. Domandatene a Pindaro, che cantava le lodi dei cocchieri vincitori, e non altro; domandatene a Saffo, che esprimeva la passione per una donna amata, e niente di più; domandatene a Victor Hugo, al Leopardi, al Carducci. Diavolo, o se vi mancano i nervi, se vi manca il fuoco sacro, se vi mancano i concitamenti dell'animo, e perchè farsi scorticare come Marsia? E perchè rifare in italiano le storielline miserabili e i ciangottamenti leziosi del Coppée e di Sully-Prudhon? Fate dei madrigali, per Dio, e scriveteli sui ventagli delle signore; ma non ci date lo spettacolo di accoppiamenti contro natura, costringendo la lirica nel letto della poesia narrativa, nascondendo le chiacchiere da salotto sotto le gonnelle d'una rimerìa fastidiosa.
Ma altri peccati ben più gravi ha il signor Gualdo sulla conscienza. Il suo libro è intitolato Nostalgie, e il titolo è singolarmente lirico e subbiettivo. Ebbene, credereste voi che egli, per quanto ci si affatichi, non riesce mai ad essere subbiettivo, non riesce mai a far palpitare il suo io in mezzo a tutti quei contorcimenti di strofe? Credereste voi che di nostalgico in questo libro di versi non ci è proprio nulla, nulla, nulla? Già, si capisce dalla forma: quando il poeta lirico ha bisogno di ricorrere alla novelletta o alla poesia che io chiamerei discorsiva, quando non sa far sprizzare nessuna scintilla nè dalla contemplazione dei fatti della vita, nè dalla contemplazione degli spettacoli della natura, vuol dire che in fondo all'anima sua non c'è niente, nemmeno un lampo d'amore, che è l'elemento lirico più comune; vuol dire che nell'intelletto suo non ci è niente, se non qualche reminiscenza dei parnassiani francesi, del Leopardi, dell'Aleardi, di Emilio Praga, dei peggiori romantici tedeschi. E allora, siamo sempre là, perchè mettersi a costruire della lirica con molta fatica?
Già: la fatica e lo sforzo nel libro del signor Gualdo, che io volentieri direi un rimario, appaiono per più segni. E prima, è evidente lo stento nella ricerca dell'argomento. Al signor Gualdo manca persino quella volgare facilità del Coppée di transformare ogni fatto della cronaca quotidiana in un raccontino poetico, e ogni scipitaggine pettegola in un monologo rimato; manca l'intuizione della vita moderna. Per tenersi entro l'àmbito della modernità scrive una Storia di mare, che può esser di tutti i tempi e di nessun tempo, poichè narra di due che s'innamorano nuotando in mare, e poi la passione fa loro mancare le forze, e si annegano; poi scrive qualche altra storiella, ove il senso della modernità, anzi il senso della vita manca assolutamente; e finalmente piomba a capofitto nel grande espediente romantico: va a rimuginare tra i ferravecchi del passato. Grande espediente davvero, e gran fattore di poesia epica e di poesia lirica e di poesia drammatica e di ogni più alto soffio poetico, quando i rimuginatori sono il Goethe lo Schiller il Carducci; quando sono dei veri poeti, e insieme degli eruditi, quando sanno la storia, e dalla storia sanno far scoppiare la scintilla dell'inspirazione, e hanno riguardo alle forme popolari della poesia narrativa. Ma il signor Gualdo che non intuisce e non sa rappresentare la vita moderna, in mezzo alla quale vive, come potrà far rivivere agli occhi del lettore un medio evo studiato nelle commediole del Giacosa, una Grecia imparata nel compendio storico del signor Berrini, un Egitto intraveduto, non già nei romanzi di Giorgio Ebers, che sarebbe troppo, ma negli scenari dell' Aida e un poco anche nel libretto? Leggete la Separazione, un raccontino medievale con la solita castellana che aspetta il marito e il solito paggio sospiroso d'amore; leggete i sonetti intitolati dagli Amori, ove si discorre dell'amor greco e dell'amor medievale e dell'amor secentista e dell'amor moderno con una freddezza, con un obbiettivismo, con una incompetenza storica e amatoria che fa torto al signor Gualdo, il quale, dicono, è uomo di buone fortune. Tale è il contenuto di questo libro: contenuto quaresimale e che ci richiama alla presente miseria poetica degli altri popoli d'Europa, e ad una vecchia miseria nostra, della quale cominciavamo a dimenticarci. Ma ho detto che per più segni appare lo stento. Ritorniamo dunque alla forma. Il signor Gualdo non ha nemmeno la facilità della forma esteriore, la sveltezza scorrevole del verso, la fluidità frolla della strofe. Per lui comporre parecchi versi in una strofe deve essere una fatica ingrata, se s'ha a giudicare dal fastidio che ne risente chi legge. Eccovi in prova delle terzine:
Mi parve ancor che qui ove tutto passa,
Ove il dolore sol di nostro è certo,
E ogni voglia ne attira odiosa e bassa,
Ove tutti si va per cammin erto
E faticoso ad una ignota mèta,
Non sapendo il perchè d'aver sofferto,
Ove lo spirto mio non si disseta
E ribellar sentiamo prigioniera
L'alma rinchiusa nella fragil creta,
Temibile non è per l'uom la sera,
Che alfin dirà ciò che a ciascuno è ignoto,
E affermerà se la speranza è vera
O se il destino d'ogni senso è vuoto.
Non sente il lettore lo stento del rimatore per aggiogare un qualunque concetto a quelle terzine strascicantisi con una pena pietosa sulla strada maestra del senso comune tutta piena di polvere, tutta consparsa dai ciottoli pericolosi delle rime? Di più il signor Gualdo non si tiene alle forme metriche della lirica, vecchie o nuove; ma tranne qualche sonetto, tranne queste terzine, che sono un metro non già lirico ma epico o elegìaco, egli foggia la strofe a fantasia; e questo è un altro segno d'incertezza e di stento. Non mai egli si avventura a tentare il marmo pario dell'ode alcaica; non mai si affida ai ripiegamenti larghi e pericolosi della canzone; non mai si abbandona all'impeto d'una strofe settenaria, come fece tante volte con tanta fortuna il Prati. Oibò. Egli si adagia nel comodo seggiolone imbottito di borra della quartina; o foggia delle strofe strane, ove gli endecasillabi rimano due a due; oppure caccia timidamente il cuneo d'un settenario nel gran ceppo d'una lunga stanza endecasillaba. E più in là non va, perchè le forze non bastano. Mi pare dunque di poter conchiudere che al signor Gualdo le forze troppo fanno difetto, perchè il suo esperimento lirico gli si possa perdonare. Disse una volta Giulio Salvadori che l'ultima lirica italiana è come un tirso nudo che i poeti, carducciani o no, rivestono di fronde. Il signor Gualdo stenta anche a trovare le fronde. I motivi della sua lirica sono presi o dalla presente lirica francese, o dal romanticismo tedesco e italiano di trent'anni a dietro. Egli non ha saputo nemmeno mettersi a paro delle ultime tradizioni liriche italiane, e nemmeno sta saldo e sicuro in una determinata forma; ma oscilla incerto tra il romanticismo antico e il romanticismo moderno. Così nella poesia intitolata Una voce, la prima parte, nella quale parla la fanciulla morta dalla tomba, è una derivazione schietta del romanticismo tedesco; mentre la seconda parte, nella quale il rimatore dice che il discorso della sepolta fu un sogno, e fa risplendere il sole e spuntare i fiori dalla terra ingrassata dai morti, è un motivo tolto dal Praga. Anche la sua forma grammaticale e la sua forma metrica sono incerte; poichè ora egli si abbandona a una famigliarità di locuzione poetica che tocca i confini della sciatteria, e ora invece s'affatica e suda, per mantenersi all'altezza di un certo stile aulico che rammenta i còmpiti degli scolari ginnasiali. Di più nel suo libro c'è parecchi versi sbagliati o duri. Eccone qualcuno:
Dell'ideal col vero unione estrema (pag. 200);
Dall'albero pendea una vela lacera (pag. 122);
Smarrito è omai il vessillo che fluttua (ib.);
Ed il cozzar dei destrier bardati (pag. 184);
Region che attira le instancabili ale, ecc.
Io dunque mi domando di nuovo: perchè il signor Gualdo si è attentato a mettere insieme con gran fatica un cattivo libro di rime italiane, invece di scrivere un altro romanzo? La cosa è strana, poichè noi ora abbiamo un gran bisogno di romanzi, e pochissimo bisogno di lirica. E finchè la Francia continua a precipitare di Rollinat in Rollinat, possiamo viver contenti di quel che abbiamo, e condannare alla deportazione in terra francese tutti i cattivi rimatori che si ostinano a cicalare con molto sudore loro, e molto fastidio nostro.
IV. PALCO SCENICO
In vituperio dei barbagianni — Il capolavoro del teatro moderno — I medici del dramma.
I.
La Società per l'acquisto e tutela delle opere drammatiche ha dato commissione al signor Pietro Calvi di un dramma intitolato Bianca Capello. La cecità umana è grande, lo sapevo; e il pervertimento del buon gusto e del buon senso in Italia è giunto a tale, che la nozione del bello e del brutto, del buono e del cattivo, diventa una cosa ogni dì più disperata. Tuttavia io non credeva che il naufragio del senso comune fosse tanto irreparabile. Questa associazione sòrta d'improvviso in mezzo alla crescente attività della nostra Roma monarchica e constituzionale, questa associazione che nata appena apparve viva e forte, dava buone speranze di sè. Erano clericali, ma le preoccupazioni politiche cedevano dinanzi all'amore dell'arte drammatica; erano ricchi e spendevano liberalmente. I primi tentativi furono felici: l'area desiderata per l'edifizio del teatro fu concessa; i migliori attori d'Italia volentieri disertarono le irrequiete compagnie di ventura per prender soldo in questo esercito stanziale; i critici più rabbiosi, come per miracolo, o applaudirono o, almeno, assentirono. Io stava a vedere e silenziosamente applaudiva anch'io, maravigliandomi forte che in Italia si facesse in fine una cosa per bene. Ed ecco, veggo che a quest'associazione nata con auspizi così felici manca una piccola cosa: una persona di buon gusto che guidi con qualche intelligenza la scelta dei lavori drammatici. Se il signor Calvi fosse un giovine in tutto ignoto e avesse presentato all'associazione una Bianca Capello qualunque, l'associazione avrebbe fatto opera onesta accogliendola e pagandola; ma questo signor Calvi ci è già apparso nei calori d'una estate alla ribalta del Costanzi tra le carnosità della signora Ruta e le carnosità di Ponzio Pilato. Faceva molto caldo quelle sere al Costanzi, e Maria Magdalena e Ponzio Pilato e il cavaliere Alamanno Morelli davano al pubblico plaudente uno spettacolo miserando della nostra abiezione drammatica. Faceva molto caldo quelle sere al Costanzi, eppure io mi sentivo filtrar dai pori della pelle un sudor freddo; e ogni volta che il signor Calvi piccinino e mingherlino si prostrava alla ribalta dinanzi al pubblico, un senso di raccapriccio e di pietà e di paura mi prendeva in mezzo a tutto quel fuoco della illuminazione e della respirazione e dell'ammirazione.
E ripensavo al buon tempo goldoniano, quando la comedia sboccò d'improvviso in piazza di San Marco dalla riva degli Schiavoni con un bel coro intorno di risate umane; e ripensavo al buon tempo della comedia dell'arte, quando i nostri comici se ne andavano pel mondo recitando e fabbricando comedie a braccia; e alla età dell'oro del Lasca e del Bibbiena e del Machiavelli e di messer Lodovico Ariosto; e alle rappresentazioni sacre che empivano le chiese di diavoli e di fiamme sulfuree; e alle processioni di flagellanti che passavano per le vie cantando laudi spirituali. E invocavo la congregazione dei flagellanti di Gubbio che venisse là nel teatro Costanzi cantando laudi, e cacciasse dal tempio a staffilate quel mercante di mitologia biblica che faceva parlare Ponzio Pilato come un cavalier medievale della fabbrica Giacosa, e Maria Magdalena come una carcassa femminile piena del fumo di stoppa di Vittoriano Sardou e del vapore di acido nitrico di Alessandro Dumas.
Non ci vorrebbe meno di una compagnia di flagellanti bene armata di staffili e di verghe per spazzar via questa pietosa ignominia dal nostro palcoscenico; ma forse anche basterebbe una legge del parlamento che ordinasse i teatri interdetti per dieci anni almeno, finchè i nostri fabbricanti di cose drammatiche non abbiano bene confitta nella mente questa persuasione, che a scrivere un dramma occorra un po' più d'ingegno e un po' più di coltura che a cucire un paio di scarpe. Ma quale delle nostre comedie in prosa e dei nostri drammi in versi mostra che questa persuasione sia entrata nell'animo dei nostri dramaturghi? Dalla Speronella del primo Marenco — pur tanto migliore del secondo — sino al Conte Rosso, io li ho non già uditi recitare sulla scena, ma letti quasi tutti, pazientemente; e ancora le mascelle mi dolgono dagli sbadigli. E questa persuasione, che a far qual cosa di vivo e di durevole nell'arte occorra, oltre alla forza dell'ingegno, una larga nutrizione dei pensieri e delle forme e delle cose altrui, è tanto lontana dall'animo non pur degli scrittori ma dei lettori e degli spettatori, che quando alcuno si attenta a dirlo pubblicamente con qualche calore, quelli s'indispettiscono come d'una scempiaggine fastidiosa e questi scoppiano a ridere come d'una scempiaggine allegra.
Eppure la ragione prima e vera della nostra miseria letteraria sta appunto nella miseria della nostra coltura. Interrogate qualcuno dei nostri scrittori di teatro intorno alla storia del teatro italiano; domandate loro quale intento si propongano, oltre quello di solleticare la digestione dei droghieri fortunati e dei cavalieri della Corona d'Italia, se e perchè e in quale maniera e in quale misura l'opera loro si riallacci al complesso del nostro possedimento dramatico. Domandate, domandate al commendatore Paolo Ferrari per quale odissea di accidenti calamitosi e vergognosi la comedia italiana, che, uscita troppo avviluppata di panni romani dalle mani dell'Ariosto era balzata viva e verde e inghirlandata di fiori della Val di Chiana dalle mani del Machiavelli, sia precipitata sopra un letto di Procuste tra il marchese Colombi e Alberto Pregalli, dei quali il primo le ride con certe goffe contorsioni della faccia di fauno ripulito e l'altro le empie gli orecchi con le sue tirate ventose di predicatore spostato; ma nè l'uno nè l'altro ha tanto vigore di nervi e tanto ardore nel sangue da prenderla pei fianchi e soggiogarla.
Ovvero domandate al commendatore Giuseppe Giacosa la storia del teatro tedesco. Certo egli non la sa, perchè se la sapesse non avrebbe tratto fuori dal suo cervello d'avvocato un medio evo mezzo da melodramma e mezzo da litografie per le scatolette di fiammiferi. Certo nessuno di quelli che in Italia scrivono cose dramatiche sa che il teatro tedesco è sorto per opera di un cattivo scrittore di drammi e di comedie, che studiò assai Aristotele e un poco anche la letteratura scenica inglese. Il Manzoni, che lo sapeva, scrisse due tragedie che non hanno rallegrato nessun droghiere, ma di cui i nostri discendenti potranno accettare l'eredità senza il benefizio dell'inventario. Ma vorranno essi accettare i martelliani del Giacosa, e gli endecasillabi del Marenco, e la prosa del Ferrari, del Montecorboli, del Castelvecchio, del Castelnuovo, del Chiaves, dell'Interdonato e di tutta la infinita turba che insulta la comedia e il dramma e il buon senso e la grammatica italiana? Non credo; e già i fatti si accordano col mio pensiero. Il Giacometti, che pure non fu in tutto un volgare costruttore di materiale rappresentabile, è morto da un anno, e già l'opera sua è sepolta con lui. Tommaso Gherardi del Testa, che pure più degli altri ebbe vivacità di scena e di lingua toscana, è morto da due anni, e invano gli amici suoi si adoperano a tenerne viva la memoria. Il fatto è triste, ma è evidente: tutte le cose drammatiche che appaiono sul palcoscenico da venti anni in qua, sono polvere e in polvere ritorneranno. Quando io vidi rappresentare al Valle il Conte Rosso di Giuseppe Giacosa, mi turai forte il naso con le dita, perchè sentivo nell'aria un gran fetore di putrefazione.
Chi dia un'occhiata complessiva alla massa della nostra produzione drammatica dal '60 in poi, dovrà subito stornarne lo sguardo con un sentimento misto di paura e di orrore, tanto è il guazzabuglio delle forme e degli intendimenti e delle inclinazioni. Qualunque sforzo di unificazione è vano: pare che, chetate le preoccupazioni politiche del '60, trasportata a Firenze la capitale d'Italia, si aprissero le porte di un ospedale di pazzi, e una gran turba di imbecilli e di furiosi e di allucinati se ne sparpagliasse per tutto il novissimo reame. Da tutte le parti sorsero dramaturghi: la più parte venne su dalla classe degli avvocati, molti anche ne sbocciarono fra mezzo il pecorame dei filodramatici, e non ne mancarono tra gli studenti di ostetricia, tra gl'impiegati al Debito pubblico, tra i maestri elementari e tra i sottotenenti di fanteria. Era come una frenesia furibonda che colpì un quarto almeno dell'Italia nuova. L'Italia era fatta, si doveva fare il teatro italiano. Da principio il fuoco maggiore di questa grande irradiazione di luce dramatica fu Firenze, ove, come dice il Costetti, «c'era di autori, tra giornalisti-autori e attori-autori, un visibilio: da Alessandro Salvini, noto per i suoi drammi scritti in una notte sul tavolone dell'osteria, al cav. Gaetano Gattinelli autore di ponderosi drammi storici, e ad Achille Montignani reo del Vizio di Educazione; e da Giovanni Sabbatini babbo degli Spazzacamini di Aosta, a Ferdinando Martini ond'erano ancor freschi gli allori di Fede e dei Nuovi ricchi.» C'erano anche Luigi Gualtieri, il Bellotti-Bon, il Coletti, il Costetti medesimo. Più tardi, rivendicata Roma all'Italia, la frenesia non che cedere crebbe; ma accaddero due fatti strani: l'empirismo e il macchinismo, che sino al '70 erano stati norma quasi universale della molta produzione dramatica, accennarono a scemare, e quell'ombra di accentramento che s'era fatta in Firenze intorno al Cocomero ribattezzato nel nome del Niccolini non si potè rifare intorno al Valle; ma cominciò uno sminuzzamento e uno sparpagliamento dell'arte scenica intorno a tanti piccoli centri quante sono le città d'Italia; sminuzzamento che a molti parve una ruina e a molti una cosa utile, e a me non pare nè un bene nè un male, perchè io credo che le ragioni della nostra abiezione dramatica si debbano cercare più in alto, e, dove si debbano cercare, l'ho detto.
Dopo il '70, dunque, prevalse un più alto concetto dell'arte scenica: i macchinismi antichi, le antiche tiritere di moralità imbottite di paroloni grandi e variate di colpi di scena e di cannonate secondo i precetti di Vittore Ducange, o le antiche tirate storiche rosse ancora di riverberi alfieriani, gli antichi pasticci malamente imbastiti alla maniera di Scribe, caddero: l'orizzonte si rasserenava. Ferdinando Martini, il quale già con le sue comedie aveva mostrato, se non una via nuova, certo nuovi e migliori modelli, diede co' suoi proverbi derivati dal De Musset forse il primo esempio di una cosa dramatica fatta con intendimento d'arte; Paolo Ferrari, che s'era venuto via via rinnovando e migliorando e liberando dalle vecchie scorie filodramatiche, spiegava le ali a un volo più alto; altri minori spuntavano o si maturavano al calore della nuova scuola dramatica francese: ogni nuova comedia nervosa di Dumas, ogni nuovo dramma ventoso di Sardou, generavano qualche nuovo acolito del palcoscenico. I molti centri dramatici si facevano la concorrenza: a Milano il Ferrari e i ferraristi; a Napoli una stella nuova subitamente sòrta all'orizzonte e subitamente accennante a declinare, Achille Torelli; a Torino un'altra stella improvvisa, anzi un fungo di settembre cresciuto e accarezzato e levato su gli scudi troppo presto, Giuseppe Giacosa; a Roma, maggiore di tutti e unico veramente grande, Pietro Cossa. Il Martini, come subito aveva veduto di non esser nato per la comedia e pel dramma, così intese che i suoi scherzi in versi potevano bensì far la delizia di un salotto e piacere anche a una platea, ma non mai essere opera seria e durevole, e disertò dal palcoscenico: restarono, eminenti su la turba infinita, il Ferrari, il Giacosa, il Cossa.
Paolo Ferrari si è gittato da ultimo alla comedia a tesi e, dicono i molti suoi ammiratori, tiene il campo coi maggiori comici francesi del nostro tempo: Dumas, Sardou, Augier. Questa opinione dei troppi ammiratori di Paolo Ferrari ha urtato i nervi di molti che non adorano soverchiamente il dramaturgo modenese, e Luigi Lodi scrisse un libretto caldo e vivace per dimostrare che il Ferrari è lontano dai tre francesi, quanto una bertuccia da un uomo. In questa questione io non voglio entrare; io dico solamente che ciò che avvelena senza speranza di salute l'opera dramatica di Paolo Ferrari è appunto questa sua derivazione dal francese. Tracce dell'Augier nel Ferrari è inutile cercarne: si trovano bensì, e profonde e larghe, tracce del Dumas e del Sardou, si trova qua e là sparpagliata la retorica romantica del Dumas e la retorica declamatoria e la festività superficiale del Sardou. Di proprio veramente il Ferrari nelle sue comedie non ha messo nulla: ci ha messo delle persone impagliate come quelle del Sardou e delle persone putrefatte come quelle del Dumas, ma nemmeno una persona viva ci è in mezzo a quella moltitudine: gli ammiratori sdegnati mi spingeranno addosso il marchese Colombi, ma il marchese Colombi non è un uomo, è un fantoccio di Norimberga che fa delle contorsioni, come Rabagas. Queste persone, è vero, vanno e vengono e s'intrecciano e s'accapigliano e s'accoppiano con abbastanza di disinvoltura; ma parlano con una goffaggine così bestiale un italiano così pretensioso nella sua spropositata semplicità, che a leggerlo non si resiste.
Il Giacosa poi, dopo avere anch'egli fatto movere sopra un teatrino di marionette alcuni fantocci di Norimberga vestiti da cavalieri antiqui, ha voluto tentare in grande l'impresa; e — lo ha mostrato il Carducci — senza aver letto mai una canzone di gesta nè una canzone trobadorica e senza sapere di storia e di costumanze medievali e di usi cavallereschi se non quanto ne sanno i parrucchieri e le bambinaie, ha voluto fare nè più nè meno che il dramma medievale. E cent'anni dopo che il Goetz von Berlichingen e la prima parte del Faust erano apparsi come un corollario dramatico della Divina Comedia, il signor Giuseppe Giacosa, che sarebbe forse diventato col tempo un buon avvocato, ci ha voluto anche dare lo spettacolo pietoso di un'Arcadia medievale savoiarda; ha voluto versare nelle piccole forme de' suoi pupazzetti tutta la mannite del romanticismo aleardiano e tutti gli sbuffi delle sue affezioni monarchiche.
Resta Pietro Cossa, l'unico nome che si pronunzi con qualche rispetto, l'unico nome che accenni a resistere alla morte. Quando una buona ventata avrà spazzato via tutto il mondo di cartone fabbricato dal Ferrari e tutto il mondo di pasta frolla fabbricato dal Giacosa, due figure dramatiche se ne andranno belle e vive e palpitanti tra la ruina dei nostri ignobili teatri: Messalina e Nerone. Di tutta la moltitudine che appena si può numerare, solamente il Cossa ebbe veramente intelletto dramatico; e oltre all'intelletto una coltura non comune delle cose latine e delle cose italiane. Egli potè proporsi un intento e in gran parte raggiungerlo, perchè sapeva d'onde pigliava le mosse e dove voleva arrivare. Egli non andò brancicando da Alessandro Dumas a Vittoriano Sardou come il signor Ferrari, e non s'attentò ad entrare nel mondo romano senza nemmeno sapere il latino, come fa il signor Castelvecchio e come farebbe il signor Giacosa se non si fosse invece buttato in pieno medioevo. Egli infine — oh miracolo inaudito! — dando alla forma del dramma qualche varietà, a queste innovazioni sue cercò una ragione e una scusa nell'arte; e si prese una cura infinita di foggiarsi una forma di endecasillabo adattata al dialogo. Ma quale dei nostri comediografi, oltre il Martini, ha voluto o saputo fare in prosa un dialogo sopportabile?
Se non che, dell'abiezione nostra io mi conforto nella miseria universale. Pare che il dramma in Europa sia finito col Goethe e con lo Schiller, con questi due che raccogliendo l'eredità del Lessing seppero celebrare i mistici sponsali di Faust con Elena e fondere insieme il succo di betulla della poesia di Shakespeare col succo di lauro della poesia di Sofocle. Dopo il Goetz, dopo il Guglielmo Tell, dopo il Wallenstein il dramma è finito: ha ripalpitato debolmente negli alessandrini dell' Hernani, nei cori delle tragedie manzoniane, negli endecasillabi della Messalina; ma sono i palpiti dell'agonia. Si rinserri il gran cadavere in un'urna d'oro, con molti unguenti preziosi; e intorno all'urna ogni popolo d'Europa inchiodi, come barbagianni su le porte delle stalle, i suoi ciarlatani del palcoscenico. La Francia inchioderà Alessandro Dumas e Vittoriano Sardou, noi inchioderemo il Ferrari e il Giacosa, gli altri popoli inchioderanno altri: poichè non c'è paese d'Europa ove non siano barbagianni.
E poichè la vigliaccheria italiana, non pure in politica ma in arte, è tale, che non si può senza suscitare un senso misto di ribrezzo e di terrore accusare un francese di barbagianneria, prendiamo una delle migliori comedie francesi ed esaminiamola, vincendo la nausea che la lettura di tali sconcezze desta in ogni animo non volgare.
II.
Il Demi-monde, rappresentato la prima volta al teatro del Ginnasio dramatico la sera del 20 marzo 1855 e rimesso sulla scena del Teatro francese nell'ottobre del 1874, è forse la comedia moderna che ha il fondo più ampio e maggiore larghezza d'intendimenti.
Questo Demi-monde, dice il Dumas (pag. 100 e seg.) «est de création moderne. Autrefois, l'adultère comme nous le comprenons n'existait pas. Les moeurs étaient beaucoup plus faciles, et il y avait, pour définir la chose que représente aujourd'hui le mot adultère, un autre mot beaucoup plus trivial, dont Molière s'est servi souvent et qui ridiculisait plus le mari qu'il ne condamnait la femme; mais, depuis que les maris, armés du Code, ont eu le droit d'écarter du sein de la famille la femme qui oubliait les engagements pris, il s'est opéré dans les moeurs conjugales une modification qui a créé un monde nouveau; car toutes ces femmes compromises, répudiées, que devenaient-elles?... La première qui s'est vue mettre à la porte a été cacher sa honte et pleurer sa faute dans la retraite la plus sombre qu'elle a pu trouver; mais la seconde? La seconde s'est mise à la recherche de la première, et, quand elles ont été deux, elles ont appelé un malheur ce qui était une faute, une erreur ce qui était un crime, et elles ont commencé à se consoler et à s'excuser l'une l'autre; quand elles ont été trois, elles se sont invitées à dîner; quand elles ont été quatre, elles ont fait une contredanse. Alors, autour de ces femmes sont venues peu à peu se grouper: les jeunes filles qui ont débuté dans la vie par une faute; les fausses veuves; les femmes qui portent le nom de l'homme avec qui elles vivent; quelques-uns de ces vrais ménages qui ont fait leur surnumérariat dans une liaison de plusieurs années; enfin toutes les femmes qui veulent faire croire qu'elles ont été quelque chose, et ne veulent pas paraître ce qu'elles sont. A l'heure qu'il est, ce monde irrégulier fonctionne régulièrement, et cette société bâtarde est charmante pour les jeunes gens. L'amour y est plus facile qu'en haut et moins cher qu'en bas.»
Certo, sarebbe difficile esprimere con una più arguta evidenza questa faccia della vita francese; si tratta ora di vedere se il Dumas abbia saputo con pari efficacia rappresentarla nel dramma: si tratta, infine, di determinare se il Dumas abbia potenza di creazione dramatica così come ha abilità e amabilità grande di chiacchierone. Tre quarti della nostra generazione dicono di sì, io dico di no: vediamo.
Il demi-monde rappresentato nella comedia del Dumas è constituito da quattro femmine: la sedicente baronessa Susanna d'Ange, che senza aver mai avuto marito passa per vedova; Valentina di Santis, che vive distaccata dal marito; la viscontessa di Vernières, che caduta in ruina s'arrovella e suda sangue per fermare intorno a sè un'ombra dello splendore antico; Marcella, nipote della viscontessa, a cui l'aria viziosa, fattale intorno dalla zia, incomincia a guastare il sangue buono. Però, il dramma palpita solo nel petto di Susanna: le altre femmine son trascinate lì solamente per fare intendere o per dare ad intendere al pubblico degli spettatori e dei lettori che le persone le quali si movono sul palcoscenico rappresentano tutta una classe della novissima generazione parigina. Ecco, per me, il primo errore: errore gravissimo, procedente da una falsa interpretazione del concetto e del fine del dramma.
Aristofane, Plauto, Shakespeare e Molière quando furono dinanzi a questa, che certo è una delle più gravi difficoltà della scena; quando si trovarono a dovere sviluppare e presentare nella breve orbita di un dramma la passione o le passioni di molta parte del genere umano, adoperarono degli artifizi più o meno imitabili, ma che tutti riescirono all'atto: Aristofane ricorse ai cori, Plauto e Molière risalirono all'universale e raccolsero in tipi singolari e immutabili la varietà e la mobilità delle note particolari, Shakespeare popolò il dramma d'una moltitudine di persone e di un fiotto larghissimo di passione. I comici francesi moderni, e, sopra tutti, il Dumas, non volendo ricorrere agli artifizi dei cori e dei tipi e non avendo la potenza di fecondità e di rapidità creatrice che ebbe Guglielmo Shakespeare, si sono appresi a una mezza misura, nella quale sta l'errore massimo: hanno inteso, come lo intese Socrate, che l'efficacia della persuasione e della rappresentazione procede non già per via sillogistica, discendendo dall'universale al particolare, dall'archetipo all'individuo singolare, ma per via induttiva, risalendo dall'esame dei casi o delle persone singole alla verità e al tipo universale; ma non hanno saputo trovare l'applicazione dramatica di questa formula logica. Nel Demi-monde lo sforzo appare più chiaramente, perchè questo dramma ha una comprensione bene determinata e una molto esatta definizione di confini. Si trattava di rappresentare nella cerchia di cinque atti quella classe di persone così bene espressa dal Dumas. Aristofane avrebbe fatto risonar la comedia di molti cori maschili e femminili e bestiali, Plauto e il Molière avrebbero creato il tipo della demi-mondaine, lo Shakespeare avrebbe ammucchiato la scena di persone, come Michelangelo ammucchiava di figure la tela. Che cosa ha fatto il Dumas? Non ha creato il tipo, perchè il tipo è un artifizio vecchio da cui l'arte moderna rifugge, e non a torto: si è affaticato invece a costruire una macchina femminile che in mezzo al demi-monde sarebbe una demi-mondaine, e isolata è una femmina come ce n'è in tutti i mondi parigini. Era dunque indispensabile costruire anche il demi-monde, o almeno un pezzetto di demi-monde. Eccovi dunque Valentina, eccovi la viscontessa, eccovi Marcella; ma queste tre femmine non bastano, ma ce ne vorrebbero delle altre, ma ci vorrebbero anche gli uomini che vivono in questo mondo e se ne compiacciono; ma quelle tre femmine sono un appiccicaticcio, perchè non servono che a sviare e a impacciare e a rallentare il dramma. Il quale si trova ristretto tra Susanna e due uomini, Oliviero de Jalin — uno di quei tipi ideali di gentiluomini moderni più difficili assai a ritrovare nella vita che i gentiluomini antichi del primo Dumas, — e Raimondo de Nanjac, uno dei soliti capitani degli zuavi algerini, che nelle comedie e nei romanzi francesi appaiono tutti ardenti di sentimenti semplici e generosi, mentre nei telegrammi dell'agenzia Stefani e nelle relazioni dei nostri consoli tunisini si dimostrano invece conformi in tutto ai sergenti d'arme di Carlo d'Anjou. Così leggendo o ascoltando in teatro la comedia del Dumas, le tre femmine supplementari naturalmente si distaccano e si disperdono fuori di un ambiente passionato che non è fatto pei loro polmoni: restano i due uomini e Susanna, due macchine di legno e una persona femminile che non riesce a rappresentare tutta una categoria femminile, perchè nè raccoglie in sè tutti i caratteri della specie, nè è riverberata dalla passione e dalla vita delle altre persone simili a lei.
Ancora. Avendo il Dumas alle mani un materiale comico così ricco e opportuno, d'onde si è messo a studiarlo e a rappresentarlo?
«.... Sous cette surface chatoyante, dorée par la jeunesse, la beauté, la fortune, sous ce monde de dentelles, de rires, de fêtes, d'amour, rampent des drames sinistres et se préparent de sombres expiations, des scandales, des ruines, des familles déshonorées, des procès, des enfants séparés de leurs mères, et qui sont forcés de les oublier de bonne heure pour ne pas les maudire plus tard. Puis la jeunesse s'en va, les courtisans s'éloignent; alors arrivent du fond du passé, pour s'emparer de l'avenir, les regrets, les remords, l'abandon, la solitude. Parmi ces femmes, les unes s'attachent à un homme qui a eu la sottise de les prendre au sérieux, et elles brisent sa vie comme elles ont brisé la leur; d'autres disparaissent sans qu'on veuille savoir ce qu'elles sont devenues. Celles-ci se cramponnent à ce monde comme la vicomtesse de Vernières, et y meurent entre le désir de remonter et la crainte de descendre; celles-là, soit qu'elles se repentent sincèrement, soit qu'elles aient peur au désert qui se fait autour d'elles, implorent, au nom des intérêts de famille, au nom de leurs enfants, le pardon de leur mari. Des amis communs interviennent; on met en avant quelques bonnes raisons. La femme est vieille, elle ne fera plus parler d'elle; on replâtre tant bien que mal ce mariage en ruine, on rebadigeonne la façade, on va vivre un an ou deux dans une terre; puis on revient, le monde ferme les yeux et laisse rentrer de temps en temps, par une petite porte, celles qui étaient sorties publiquement par la grande.» (Pag. 101 e seg.)
In questa breve filza di osservazioni acute sono chiaramente accennate le due vie che poteva prendere il dramma. La via diritta, la via maestra battuta dal sole, ma polverosa, ma aspra di sassi e di ostacoli d'ogni maniera, era la seconda: prendere la demi-mondaine che per l'intervento degli amici si riconcilia col marito e col mondo, fare scaturire la passione da questo combattimento tra la vita vecchia che ancora la perseguita e la vita nuova che stenta ad accoglierla, creare tutta una moltitudine di persone mosse da una varietà di sentimenti umani; rappresentare in somma chiaramente e crudamente lo spostamento che nell'equilibrio della vita moderna mettono questi matrimoni crollati e rimpastati alla meglio, queste società di femmine che a forza di debiti riescono a pagare il petrolio e i gelati delle loro serate, queste vedove che non ebbero mai marito e s'affannano a cercarne uno. Questa via avrebbe scelto il Molière, e chi può dire dove sarebbe giunto? Ma il Dumas ha scelto l'altra: il Dumas ha scelto il sentierolo angusto ed erboso, assiepato di sambuchi, profumato dai fiori scarlatti del sentimento. Egli non ha rimpastato un matrimonio crollato, nè ha messo sul palcoscenico degli uomini e delle femmine comuni: egli aveva bisogno d'una demi-mondaine straordinaria, di una donna nervosa e appassionata, caduta per una sventura, tormentata da una smania furiosa di risalire, che sta aggrappata al parapetto ruinoso di un pozzo, e più le pietre le cedono sotto, più conficca le unghie nel calcinaccio per sostenersi. Così, in questo palpito convulso del sentimento, tutto quanto il concetto comico si affievolisce e sfuma; e il pubblico, senza più pensare al demi-monde, è vinto da questo temperamento elettrico che fa sobbalzare i fantocci di bambagia ammucchiatigli intorno. È vinto, e batte le mani; ma credete che sia la visione chiara e larga del demi-monde evocata sulla scena che lo conquista? oibò, sono gli occhi fulminanti di Rosa Chéri o il fremito della voce e della bocca della Croizette. Nessun mondo appare sulla scena: sulla scena ci è la solita femmina di Alessandro Dumas che ha affascinato una generazione e ne affascinerà forse anche un'altra, poi cadrà inerte e insensibile; poichè non è una donna, è un frammento di materia organica squassato da una pila di Bunsen.
Dopo di che, io non rimetterò in campo la vecchia ed oziosa questione, se la forma dramatica prevalente oggi sia compatibile coi criteri universali ed eterni dell'arte. Non la rimetterò in campo, perchè mi pare che dall'esame del Demi-monde risultino evidenti ed innegabili questi due fatti: che il Dumas non ha saputo rappresentare quella classe di persone che si proponeva di rappresentare; che non ha saputo cogliere la nota vera ed efficace di quella parte di vita che si proponeva di rifare sul palcoscenico.
Questi due vizi originali, che, scomparsi dal romanzo col Balzac, durano tuttavia nella produzione dramatica del popolo francese, sono una velenosa eredità del romanticismo e procedono da una falsa interpretazione del concetto della vita e del concetto del dramma. La vita è un fiotto largo placido ed eguale, turbato appena da pochi piccoli ribollimenti di schiuma: il dramma è una rappresentazione larga, complessa e serena della vita: chi empie il dramma di ribollimenti e di folgori fa rotta falsa. I nostri amici di Francia fanno rotta falsa, tanto è vero che Dumas in un suo preambolo a una traduzione francese del Faust mostra di non aver inteso il concetto dramatico del Goethe. Dobbiamo farla anche noi, perchè la piroetta di Sarah Bernhardt nell'agonia di Margherita Gauthier suscita una tempesta di applausi?
Ma anche la Canace di Sperone Speroni suscitava nell'uditorio una passione immensa di orrore e di battimani!
Ed ora quelli che mi rinfacciano il Demi-monde sono essi contenti? E pare a loro che io avessi qualche ragione di asserire che dopo il Goethe il dramma sia finito in Europa? Finito, intendiamoci, finchè non prevalga un concetto più sano. E il concetto che dovrebbe prevalere è appunto il contrario di quello che ora domina. Il criterio universale dell'arte nuova dovrebbe essere l'aforismo aristotelico accettato e attuato dal Goethe, che l'eccellenza nell'arte si raggiunga solo con la liberazione degli affetti. Guardate: dal Werther all' Hermann und Dorothea, dal Goetz von Berlichingen all' Ifigenia, che parabola di liberazione e di ascensione!
Qui noi ci dovremmo specchiare; poichè presto o tardi, quando un concetto più sano e più alto dell'arte dramatica prevalga, il teatro moderno francese resterà tagliato fuori dalla via maestra procedente da Eschilo e da Aristofane all'infinito. Ma chi può resistere alle tentazioni di una retoricata e di una tesi, o ai contorcimenti furiosi e libidinosi di Sarah Bernhardt?
III.
Se non che, è accaduta una cosa buffa. La rovina del teatro, rovina materiale procedente dal lungo sfacelo morale, è diventata così manifesta, che il Ministro della istruzione pubblica del regno d'Italia ha chiamato a consulto intorno al letto dell'infermo scrittori e critici dramatici d'ogni parte d'Italia, ma più delle parti settentrionali. Cattivi medici, per dio, che sino a ieri non s'avvidero del male e cantavano l'inno della salute — non quello di Gioacchino Du Bellay, per altro — sulla carogna tutta fracida per la cangrena! Cattivi medici, che sino a ieri si compiacquero del puzzo del moribondo, e affondarono le dita nelle sue piaghe! Ora il Ministro li ha chiamati a Roma per provvedere. E via. Volete che il signor Giacosa salvi il dramma dalla morte? Ma non sono stati gli sciroppi martelliani del signor Giacosa una fra le molte cause del male? Volete che il signor Leone Fortis consigli un rimedio? È strano; perchè il signor Leone Fortis ha portato per dieci anni sopra gli scudi della sua critica sfarfalleggiante Paolo Ferrari in trionfo: or come potrebbe consigliare un empiastro per le piaghe che il contatto di Paolo Ferrari ha aperte nei tessuti del dramma? Volete che il buon Yorick figlio di Yorick ordini un metodo di cura ricostituente? Ma non lo seccate, quel burlone di Yorick! Egli ha la barzelletta pronta e l'umore ilare e una grande provvista di piacevoli facezie nella memoria; e se ne infischia del ministro, delle commissioni e del teatro italiano. Egli è monarchico e avvocato, e lascia la medicina ai repubblicani come il dottor Bertani e il dottor Falleroni.
Lasciateli in pace tutti, questi cerusici improvvisati. Che volete che facciano? Non hanno nemmeno una patente di flebotomia; e portano seco tutto il bagaglio del loro campanilismo, tutta la merce avariata della loro esperienza scenica, tutto il frascume della loro coltura dramatica. Hanno scritto molti martelliani e molte cronache teatrali e hanno udito recitare molte comediole italiane e francesi: hanno già peccato a bastanza: debbono proprio diventare pendagli di forca? È troppo, perchè sono brava gente in fondo e per dieci anni hanno levato sopra le cime dell'entusiasmo la gloria del teatro italiano risorto; e per dieci anni con le trombe alla bocca e col mazzuolo della gran cassa in mano hanno chiamato il popolo all'ammirazione. Deve proprio questa buona gente rimediare alle colpe sue? Deve confessare in conspetto della moltitudine che quel rimbombo di gran cassa e quello strepito di trombe hanno inacerbito il male? Deve il signor Giacosa consigliare un antidoto contro il dolciume dissolvente del medio evo martelliano?
È una pretensione pazza. E poi, a che serve? Questo povero dramma non ha più una goccia di sangue nelle vene; e non ci è virtù medica che possa salvarlo. Emilio Zola consigliò cordiali darwiniani e bistecche scientifiche e clisteri sperimentali; e volle in sostanza dar ad intendere che ci è un talismano capace di salvare il moribondo, un talismano perduto nelle più profonde viscere del palcoscenico e non ritrovato ancora da niuno esploratore dramatico, la verità; e gli parve che, se si popolasse la scena di alberi e di case vere, il dramma rinascerebbe più forte che mai. Vanitas vanitatum! Il teatro è per sè stesso una finzione, o una convenzione, come osservò benissimo il Goncourt, e se ne vola alle altezze dell'Olimpo con la leggenda, coi miti, con tutte le creazioni fantastiche della mente umana. Chi è che pretende di trattenerlo? Forse il signor Giacosa, che ho visto effigiato giorni a dietro sulla coperta d'un libriccino, reggendo i fili d'un teatrino di marionette? Chi è che deve curarlo? Forse Leone Fortis? Ma non ha egli accompagnato al cimitero la salma del Bellotti-Bon? E non gli pareva di accompagnare il cadavere del dramma?
Accennare ai peccati maggiori e ai più profondi mali del teatro moderno non serve; e poi l'ho già fatto: ho già detto che la causa della nostra abiezione dramatica, come di tutta la bella nostra miseria letteraria, sta nel fatto innegabile, che tutti quanti scriviamo siamo un branco di asini. L'arte scenica secondo le consuetudini moderne è, più che altro, un mestiere. Sudicio mestiere, che serve a speculare sul cattivo gusto, sull'ignoranza, sulla pazienza del pubblico, come una volta si speculava sulla dabbenaggine e sulla paura dell'inferno. E non sono io che lo dico; è Sardou in persona, il padre eterno del dramma moderno, del quale Augier è il figliuolo e Dumas lo spirito santo. È il dramma medesimo che lo grida al popolo, stendendo le braccia dall'alto del palco scenico, invocando un qualche messia che discacci i mercatanti dal tempio. Or dove troverà esso questo messia, se il marchese Colombi non glie ne intagli uno dalla carta del Pungolo della domenica? Il Marchese Colombi è famoso per le messiadi, ed è ben capace di sforbiciarne uno per settimana; e i buoni milanesi attendano pazientemente, e si consolino dell'esposizione fallita nell'aspettazione di questo cristo dramatico. Esso si adergerà forse dai tetti della Galleria alle nuvole, e toccherà col capo le sfere armoniose, e spiegherà sul capo della gente un largo Pungolo istoriato di pupazzetti e di critica; e urlerà con una gran voce fatidica:
— «In principio era il caos; e tutte le cose dramatiche roteavano disperse pel gran mare del nulla;
Ed ecco dal fondo del caos balzò un dramma; ed era di Leone Fortis; e il nome suo era Cuore ed arte; e le genti ascoltando lodavano il nome di Leone Fortis;
Ed ecco nacquero di poi nel paese di Francia altre cose; e tutte erano drammi; e il numero ne era senza fine; e furono tripartite in tre tribù;
E la tribù prima si disse di Sardou; e venne dal ventre del Signore, senza genitori mascolini o femminini; e lo spirito del Signore si posò in lui; e benedisse alla sua discendenza, che fu numerosa come le arene del mare;
E la seconda tribù si disse di Dumas; e venne dalla mente del Signore, senza genitori mascolini o femminini; e lo spirito del Signore si posò in lui; e benedisse alla sua discendenza, che fu numerosa come le stelle del cielo;
E la terza tribù si disse di Augier; e venne dai polmoni del Signore, senza genitori mascolini o femminini; e lo spirito del Signore si posò in lui; e benedisse alla sua discendenza, che fu numerosa come le pulci della terra;
Ed ecco i maschi della tribù di Fortis videro le femmine della tribù di Sardou;
E della tribù di Dumas;
E della tribù di Augier;
E fornicarono insieme in conspetto del Signore.
Allora il Signore Iddio disse: Siano questi accoppiamenti fecondi;
E nasca una gran generazione sopra la terra; e tutti abbiano in faccia i segni del peccato; e cantino le lodi del Signore; e scrivano comedie insino che non venga il messia sopra la terra;
E sarà questo messia concepito senza peccato d'amore; e nascerà in una stalla del paese di Milano detta Teatro della compagnia stabile; e i re magi Fortis, Giacosa e Yorick verranno ad offrirgli oro incenso e mirra; e il profeta Colombi ne annunzierà la venuta agli uomini della terra.»
Tale, pur troppo, è la storia dramatica che i critici insegnano alle turbe, che gli scrittori comici tengono per conto di vangelo. Come volete che l'ammalato guarisca? L'empirismo il ciarlatanismo il campanilismo hanno trovato in tutte le arti, e più in quella del palcoscenico, un letto comodo e ampio ove si sdraiano ruttando gli sbuffi della loro ignoranza. Che ci vuol fare il Ministro della istruzione pubblica? Non ci è stabilimenti di bagni marini, nè ospedali, nè compagnie stabili, nè teatri nazionali che possano giovare alla salute del dramma. Specialmente quando Milano, per dispetto di Roma, manda Leone Fortis a chiedere al Governo una compagnia stabile per uso e consumo suo.
Ho nominato Luigi Bellotti-Bon, la cui morte veramente dramatica deve avere conferito non poco alla determinazione del Ministro di chiamar gente in aiuto del teatro morente. Ma e la catastrofe della compagnia Moro-Lin, che pare proprio il finale d'una bella comedia, dove la lascio? Povero Moro-Lin! Si mosse da Venezia con una compagnia giovine, bene constituita, bene educata, e viaggiò l'Italia diffondendo come un riverbero di luce goldoniana. Pareva che le ultime speranze del nostro teatro comico riposassero in lui; pareva che Giacinto Gallina fosse l'ultimo erede della nostra scarsa sostanza comica. E veramente l'ultimo sano concetto dell'arte dramatica indugiava a perdersi nel gran naufragio di tutti i criteri artistici per virtù di quei veneziani. Il dramma in lingua italiana nelle mani dei ciabattini era andato via via precipitando alla pantomima alla coreografia al funambolismo, infronzolato e gonfiato dalle tendenze predicatorie. Il teatro dialettale si sfasciava miseramente da tutte le parti, da che Piripicchio di su le tavole del teatro Quirino recitava dei vaudevilles travestiti in vernacolo napolitano, da che il Ferravilla e gli altri comici più popolari imprimevano all'arte comica un movimento reazionario e antigoldoniano, soffocando la comedia a benefizio del tipo comico. E in mezzo alla marea montante del cattivo gusto che si compiace di tutte le più sconce e più miserabili operette, che stacca i cavalli dalla carrozza di Sciosciammocca per trascinarla in trionfo, la compagnia Moro-Lin pareva una tavola di salvamento. E vedendola passare acclamata di teatro in teatro, una speranza rinasceva, non forse la comedia dialettale veneziana fosse per ripigliare l'antica via trionfale. Ed ecco: la compagnia, per difetto di mezzi, si scioglie; e il povero Moro-Lin dichiara nei giornali che l'arte scenica in Italia è disperata, e ch'egli pianta il teatro e si butta a un mestiere manuale. Il provvedimento quindi del Ministro può essere indizio di un grande amore alle nostre sorti dramatiche; ma a che vale il coraggio contro la morte? A che valgono le buone intenzioni ministeriali contro la morte? Il meglio forse sarebbe di ordinare a spese dello Stato i funerali del dramma. In quanto agli scrittori e agli attori comici, si potrebbe fare per essi quello che Rabelais sognava per i poeti: una specie di ospizio, ove vivessero lontano dalla gente, di cui a furia di pasticci mal fatti e mal cotti hanno pervertito il gusto. Nelle domeniche poi e nelle altre feste comandate si potrebbe recitare, per sollazzo loro e per penitenza dei molti peccati, il Cuore ed arte di Leone Fortis.
Io, intanto, faccio una confessione: non ho animo d'andare innanzi. La questione del teatro è tanto oscenamente buffa e tanto pietosamente disperata, che non si può a lungo fermarvisi intorno senza molta offesa della carità patria. — Volevo scrivere una pubblica lettera all'onorevole Ferdinando Martini, che dicono, se bene io non lo credo, tutto affannato dietro a più di una comedia, per dissuaderlo da questa pazzia; ma lasciamo correre, e auguriamoci che queste comedie abbiano la sorte delle molte altre cose che l'onorevole Martini comincia. Anche dicono sia prossima ad esser recitata una comediola villereccia di Giovanni Verga. Ritorniamo dunque alla favola pastorale e alle rappresentazioni de' Rozzi? Tanto meglio. Faccia il popolo d'Italia quell'accoglienza che vuole all'Arcadia sperimentale e alla comedia a dialogo indiretto: io voglio, per una volta al meno, fare il Ponzio Pilato; — non, per altro, quello del signor Calvi.
V. MOLINI A VENTO
Un giornalista morto — La critica dei quadri e delle statue — Il marchese Colombi, la marchesa Colombi e i poeti contemporanei — Le fanfaluche del dottor Verità — Un pazzo glorioso — Il giornale dei cretini e curiosi.
I.
Da che ai poeti non si dan più laure nè lauri nè, meno che mai, pensioni, la letteratura è diventata un esercizio faticoso quotidiano forzato; e il cervello umano deve giorno per giorno segregare quel tanto di poesia o di prosa che occorre a tradurre bene o male e più o meno onestamente la vita. Di qui nasce quella forma giornalistica che va a poco a poco prendendo tutto il lavoro dello spirito umano; di qui anche procede la cresciuta libertà e la dignità che da qualche secolo il pensiero stampato ha saputo conquistarsi. Da quando i riformatori e i rinnovatori dello spirito pubblico non mangiano più alle mense del re di Prussia e non sono più cavallari di casa d'Este, la letteratura è come un giovine escito di tutela. Resterebbe tuttavia a vedere se per gli scrittori non fosse meglio servir casa d'Este come cavallari, anzi che, in professione di giornalisti, tutto il popolo più vizioso e più tirannicamente prepotente. I cavallari di casa d'Este, mi pare, erano in uno stato di soggezione relativamente men duro che non sia il nostro; poichè avevan bensì l'obbligo di celebrare le glorie della casa, ma erano compensati da due grandissime libertà: libertà nei criteri dell'arte, e nella misura e nel modo del lavoro. Dovevano bensì badare alle faccende della Garfagnana, però potevano scrivere un poema di cavalleria in quanti anni volessero. Ma questo lavoro a dozzina che si fa ora, senza certezza del domani, senza speranza di altre ricompense oltre il salario pattuito, accomuna gli operai della letteratura con le meretrici vagabonde, le quali se una notte non riescono ad invescare un qualche bisognoso d'amore, il dì seguente non mangiano. E poi la libertà, non dico della politica, ma dell'arte, è distrutta. Siamo, anche in arte, sotto l'imperio delle maggioranza; e la maggioranza vile che non sa nulla, che non intende nulla, che non desidera se non cose sciocche e volgari, vuole anch'essa i suoi istrioni, i suoi glorificatori, i solleticatori de' suoi istinti o cattivi o malsani o imbecilli; e se non è contenta degli istrioni, non li paga. Ecco perchè io dico che il mestiere del cavallaro è più bello e più nobile. E poichè in noi medesimi non possiamo facilmente riconoscere le magagne, guardiamo prima in un giornalista di cinquanta anni addietro: in Felice Romani.
È un tipo perfetto di scrittore moderno: scrittore, badiamo, di grandissimo ingegno, a cui nulla mancava per correre gloriosamente questa o quella delle grandi vie dell'arte; e che, per la necessità della vita e della letteratura, dovette smarrirsi in un affannoso e vano viavai, e rifare i passi già fatti per poi ricominciare da capo, e così sempre, come il bisogno lo urgeva, come l'occasione di lavorare lo invitava. Lo abbiamo veduto scrittore di libretti d'opera, poeta lirico, novelliere. Eccolo infine critico letterario. Quando saranno pubblicati i suoi esercizi di letteratura politica e di critica musicale, avremo tutta quanta l'opera d'un giornalista, a volta a volta poeta lirico o dramatico, cronista teatrale o critico, estensore di notizie politiche e novellatore. Anche l'abate Parini fu un gazzettiere; ma allora la compilazione delle gazzette era più semplice e meno letteraria che ora non sia. E poi, il male forse già cominciava. Ora vediamo la critica di questo melodramatico.
Certo non si può dire che Felice Romani avesse grandi attitudini critiche. I suoi articoli sono d'una leggerezza, d'una, direi, inconsistenza strana. A leggerli, non dispiacciono, poichè sono scritti con una forma onestamente e italianamente piana, poichè sono sempre penetrati di buon senso, poichè sono intessuti con molto garbo; ma se voi ne spremete via tutti i fronzoli delle frasi piacenti e delle notizie più o meno utili, non vi resta in mano che il biasimo o la lode, l'affermazione o la negazione. E veramente, se crisis significa ancora giudizio, e se il giudizio nasce quando di una cosa qualche cosa si afferma o si nega, parrebbe che tutta la critica dovesse consistere di un verdetto di o non colpabilità. Se non che, sin dalla prima origine, essa ha usurpato un ben più alto e maggiore officio; e prima dichiarando e producendo le ragioni del giudizio, poi risalendo dai fatti singolari alle categorie generali, essa non si accontenta più dell'umile mestiere di giudice, ma è diventata legislatrice. Ora il Romani non si attenta mai di dettare o di dichiarare e interpretare secondo l'intendimento suo le leggi universali e immutabili dell'arte, ma esercita appunto il mestiere di giudice non senza timidezza e titubanza.
Nella lode e nel biasimo egli non è schietto e reciso mai, ma condannando concede sempre le circostanze attenuanti, e nella lode pare sempre pauroso di aver passato i confini della giustizia. Gli manca dunque la prima e più necessaria attitudine critica, che è la sicurezza nel giudicare, procedente non già da una stolta e risibile credulità nel proprio criterio infallibile, ma dalla chiara, sicura e rapidissima visione dei fatti. Il critico, come il condottiero d'eserciti offeritore di battaglie, deve avere una chiaroveggenza naturale che gli dimostri subitamente, senza dubbio e senza ombra, le cose con le ragioni e le connessioni loro; e, come l'offeritore di battaglie, deve procedere sicuramente, senza ripiegare e senza esitare. Quando ciò manchi, quando l'intuizione non sia immediata e necessaria, e difetti, in conseguenza, non dico l'ardire, ma la franchezza e la pienezza del giudizio, il critico non offra battaglie.
Di più, questa facoltà nativa non basta, quando non sia accompagnata da altre che si acquistano dall'esperienza e dallo studio. Il critico deve esercitare l'attività sua indagatrice e giudicatrice non pure sulle cose immediatamente sottoposte al suo esame, ma su tutte quelle che possono in qualunque modo avere una ideale convenienza con esse. Egli deve avere già matura nella mente una larga preparazione, e, direi quasi, un substrato critico. Non può, senza che il giudizio suo sia affatto empirico, mutabile e subbiettivo, esaminare i fatti per sè stessi, singolarmente. Fra tutte le cose della vita la relazion prima e universale è la legge di associazione: le cose per sè stesse non hanno valore, ma lo acquistano dalla coesistenza: così un colore solo non sarebbe nè il bianco, nè il rosso, nè il verde, nè il giallo, ma sarebbe il colore, e se la sensazione umana non fosse multipla, non sarebbe il colore, ma la sensazione. Così nel mondo dello spirito, ove i fantasmi dall'associazione acquistano vita, ove dall'associazione i giudizi sono coordinati a constituire la conscienza umana. Ciò al Romani manca. Egli parte dal criterio sciocchissimo che la critica si debba fare senza preconcetti, e i suoi giudizi sono tutti fondati sulla sensazione estetica. Di più, si mette in una condizione di neutralità che vorrebbe esser segno di forza, ed è di debolezza. Quando in arte cozzano intendimenti opposti, ci è di quelli che prendono con molto calore a parteggiare, altri invece se ne stanno in disparte e dichiarano che in arte le rivoluzioni sono un danno o una cosa vana, e accettano tutto, e fondono in sè medesimi quelle dissensioni. Questo fatto, quasi sempre, è indizio di non aver bene inteso quella divergenza d'intendimenti, o di non aver la forza di combattere per questi o per quelli. Può bensì esservi neutralità in arte; ma deve essere una neutralità, direi, armata. Quegli che si tien lontano dalla zuffa, deve avere degl'intendimenti suoi propri, diversi da quelli che s'urtano in battaglia, e aspettare che il combattimento cessi, e che le due parti nella prima stanchezza si fermino a riposare, per metterli in campo e farli sicuramente prevalere. Ora il Romani, che si trovò fra la lotta del romanticismo e del classicismo, non sa a qual partito appigliarsi: di qui, la memoria e lo studio del Monti e l'educazione arcadica lo traggono all'Olimpo pagano; di là, le tentazioni dell'audace scuola boreale lo sviano alle steppe del romanticismo. Ed egli, cadendo da una canzone petrarchesca a un duetto della Norma, sbigottito dal fragore della fucilata e accecato dal fumo, non vedendo bene di che si tratti e per chi si combatta, va gridando: pace, pace, pace! Nella sua critica si trovano gli ondeggiamenti che abbiamo già osservati nella sua varia poesia. A lui pare il meglio che le due parti si accordino e rechino in comune il patrimonio. Parla dunque dei combattimenti del romanticismo come di guerre civili: li deplora, e loda così i vincitori come i vinti. Insomma, per non errare, non dà torto a nessuno.
E pure, a malgrado di tutti questi difetti, a malgrado dell'inettitudine critica del Romani, io augurerei all'Italia che tutti quelli che fanno quotidianamente o domenicalmente esercizio di critica avessero quel buon senso e quel buon gusto nativo onde gli articoli del Romani sono penetrati; avessero, sopra tutto, quella coltura non profonda, per verità, ma larga e complessa, ch'egli ebbe. Egli non intese che cosa si nascondesse sotto quel fumo di polvere romantica che lo accecava; ma allora questo non era facile. Occorreva avere quella chiaroveggenza intuitiva e quel substrato critico che a lui mancava. Ma ora che il romanticismo è un fatto avvenuto, perdurante ancora, è vero, ma, nelle sue origini e nelle prime gesta, di dominio storico, è lecito scriverne senza averlo bene inteso? Ebbene, udite come lo dichiari Vittorio Bersezio, un giornalista di molto nome, presentando al pubblico d'Italia l'opera giornalistica di Felice Romani: «In Germania, donde, col carattere di lotta nazionale, prese le mosse il rivolgimento antinapoleonico, antimperialista, antifrancese, la letteratura così detta classica, prima insinuata e messa in voga dall'influenza straniera, poi importata e quasi imposta dalla conquista, rappresentava agli occhi del popolo la soggezione, la vergogna e il danno della patria. Vi si aggiunse ancora l'elemento della diversità di razza: le forme, le immagini, le idee che avevano sorriso alle menti serene degli antichi Greci e dei Latini del secolo aureo, non potevano affarsi all'ingegno più vago di complessità e di indeterminatezza, al gusto delle astruserie nebbiose, propri della schiatta germanica; tanto più che quella letteratura classica non veniva loro innanzi che in una pallida, meschina, secca imitazione, da dirsi piuttosto parodia, quale era la letteratura imperialista francese. La civiltà latina datava dall'antichità, e da questa attingeva modelli, ispirazioni ed argomenti alla sua letteratura; quella germanica dal medio evo, e in questo si propose a sua volta di andare a cercare la sostanza e la forma del suo nuovo pensiero. E così fu creato il romanticismo.»
O Rousseau, tu che pure vanti nella generazione del romanticismo qualche diritto di paternità, lo hai tu udito dalla tomba questo scovritore della poesia imperialista francese? Ma che poesia imperialista, ma che reazione antimperialista, ma che astruserie nebbiose! Povero Klopstok, povero Lessing, povero Goethe! Il signor Bersezio, con una ginnastica cronologica che farebbe fiaccare il collo al clown più esperimentato, fa di tutti costoro gli avversari di Gabriele Legouvé, delle femmine che scrivevano romanzi, e dei maschi che scrivevano drammi romantici ai tempi del primo impero!
Ma se vi scandalizzaste di così poco ai tempi che corrono, fareste ridere i polli: lo sproposito, non accidentale e solitario ma collettivo, ma segno manifesto d'una piena ignoranza di tutta la materia onde si vuol disserire o disputare o chiacchierare, è, nella critica spicciola che si fa ora in Italia, un peccato di poco momento; anzi non è quasi peccato. Poichè i giornali, segnatamente i letterari, non si possono empire di sole novelle, nè di soli versi, la critica è diventata uno degli esercizi più largamente diffusi, più facili, più grati e più proficui. E chi avrà la pazienza di seguirmi vedrà che il Bersezio, il quale del resto non fa professione di giudicatore di poesia o di prosa, in confronto di altri può passare per un critico sapiente.
II.
Aprendosi in Roma solennemente al popolo d'Italia una esposizione d'arte, era naturale che la critica dormente subito si risvegliasse per giudicare e per augurare. E già da tempo i giornali, ove le maggiori forze letterarie d'Italia si consumano per l'esercizio quotidiano e pel quotidiano attrito con la folla, bandivano e vantavano il nome dei critici: il Fanfulla quello di G. D'Annunzio; la Rassegna e il Pungolo milanese quello di F. Fontana; l' Opinione quello del barone De Renzis; l' Illustrazione italiana quello di L. Bellinzoni, scrittore del Popolo Romano; la Stampa quello di R. Giovagnoli; altri giornali, altri nomi. E appena in conspetto dei reali d'Italia la mostra artistica fu aperta al pubblico, ecco la sinfonia critica si mosse e i giudizi e gli augúri si levarono a volo, non tanto ordinati in fila per altro, quanto gli uccelli di Romolo. Sicchè la buona gente che ha l'odorato un po' grosso deve aver pensato che nel nostro bel paese la critica d'arte sia in tutto fiore, e che da ogni gleba di terra italica allo splendor caldo raggiato da ogni nuova esposizione nasca un critico armato in arcione, come dai denti del serpente seminati nascevano i guerrieri con le spade in mano. Dolce lusinga, che persuade i nostri fabbricanti di candele steariche a lasciar l'arte in braccio dei critici per badare solamente alle candele. Ma io, che non faccio il critico d'arte, nè il fabbricante di candele steariche, non posso liberarmi dal fastidio di un pensiero che mi va ronzando come un tafano nella testa: ciò che si va scrivendo da molti anni in Italia in occasione d'ogni nuova esposizione, è proprio critica d'arte o è stearica fusa in candele con molto grasso d'asino e molto scoppiettìo di lucignoli umidi?
Poi, come accade nei pomeriggi d'estate che le persone dopo il pranzo si gittano mezzo vestite sui letti, e prima una zanzara si leva con un sibilo sottile e gira intorno alla faccia tentando la carne scoperta, poi altre vengono da tutte le parti e intrecciano per l'aria un ronzìo quasi di piccole seghe che seghino i nervi dell'udito, così con quelli altri pensieri mi vengono a infastidire. Si è mai fatta in Italia vera critica d'arte? Per l'arte moderna, non mi pare. In fatto di cose moderne, accade un fatto brutto: poichè queste ricadono nell'àmbito della cronaca quotidiana, e poichè la cronaca quotidiana si raccoglie nei giornali da persone che, per l'insufficienza degli studi e per la preoccupazione assidua del presente, non hanno nessun pensiero del passato e non sanno o non vogliono guardare all'avvenire, i fatti del giorno appaiono come staccati da tutti i fatti simili che furono e che potranno essere appresso. Che cosa è mai un paesaggio del Gignous? È un paesaggio del Gignous. Che cosa è un romanzo del Verga? È un romanzo del Verga. Ma come, ma perchè, ma con quale vicenda di gloria e di vergogna il paesaggio e il romanzo si vennero via via sviluppando in Italia e fuori d'Italia sino al Gignous e al Verga? E nella storia generale del paesaggio e del romanzo quale è il posto che tocca a questi due, e quali sono le loro parentele artistiche, e quali furono i loro ascendenti, e quali presumibilmente saranno i loro discendenti? Questo la critica gazzettiera non dice; ma con più o meno di verità descrive il quadro e racconta il romanzo, con più o meno di buon gusto e di esperienza estetica ne dà un giudizio frettoloso; poi vi fa sapere che il pittore ama i gatti e i biscottini di Novara e le donnine dagli occhi verdi, che il romanziere parla poco e veste bene e conquista più femmine che il Cid campeador non espugnasse castella; e la critica è fatta. Ora, se scopo e ragione della critica non è appunto questa classificazione delle opere d'arte nel tempo e, diciamo, nello spazio, a che serve questa benedetta critica, che è in fondo una cosa seccante assai, della quale il popolo italiano proprio non vuol sapere? Forse a dar notizia delle nuove filiazioni dell'arte? Ma allora i cataloghi delle librerie e i cataloghi delle esposizioni sarebbero il meglio.
Di più, ci è un altro guaio serio: di quelli che descrivendo raccontando e giudicando, dànno notizia al pubblico delle novità dell'arte, pochissimi hanno quella esperienza tecnica che pure nella critica è necessaria. Certo, una qualche facoltà estetica tutti l'abbiamo, e proprio deve avere ammalati i nervi dell'udito chi non sente subito il verso zoppicante, e proprio deve avere ammalati i nervi dell'occhio chi non vede subito la bruttezza d'un dipinto. Ma per intendere e mostrare agli altri ciò che il verso ha in più o in meno è o non è necessaria qualche nozione di metrica? Dunque come si fa l'analisi estetica d'un dipinto senza sapere almeno gli elementi del disegno? Ora, raccogliete in massa tutti quelli che nei giornali scrivono d'arte, ed esaminateli; e se di questi due soli sopra dieci sanno gli elementi del disegno, ghigliottinatemi in piazza Navona dinanzi alla fontanaccia del Bernini con le mani legate dietro la schiena e la testa incappucciata di nero. Ma non ci è bisogno di raccozzarli tutti quanti insieme in un luogo chiuso per far quest'esame: basta, come io ho fatto, raccogliere tutti i giornali ove si discorre dell'ultima Esposizione, e leggere. Ahimè, quanto scoppiettìo di lucignoli e quanto grasso d'asino squagliato nella prosa!
Morto il Selvatico, in Italia che abbia una competenza sicura in fatto d'arte non ci è che Camillo Boito e, per la pittura, il Massarani; ma anche al Massarani e al Boito molte cose mancano, che pur sarebbero necessarie: manca quella sottigliezza di amatore intelligente che molti, per esempio il Gautier, ebbero ed hanno in Francia; e manca il sistema. Ora, poichè la critica è appunto un'opera di ordinamento e di comparazione delle varie produzioni dell'arte, la prima necessità è appunto il sistema; è appunto un complesso organico di criteri inflessibili che guidino quest'opera ordinatrice per modo, che tutto il lavoro d'un intelletto giudicatore sia come una massa omogenea. Anche nel Massarani e nel Boito questo manca: essi non si fanno trarre solamente dalla sensazione estetica o, come si dice bruttamente, dall' impressione, ma dei criteri certi li hanno, non però coordinati armonicamente in un accordo unico, disseminati e come isolati nella mente, e a volta a volta concordi o discordanti. Di più, la consuetudine degli incarichi officiali ha corretto questi criteri per modo che la critica del Boito e del Massarani ha sempre una certa sembianza più di rapporto al Governo che di giudizio d'una mente libera e imperiosa. Ma questi due dell'Esposizione romana non hanno scritto; hanno scritto bensì molti, dei quali io tengo raccolte dinanzi a me le scritture in un fascio di giornali, e leggendole mi sentivo dentro molti impeti di pietà e di riso, tanto la miseria è grande.
Volete che vi parli del signor Bellinzoni? A che serve? Egli è altrettanto noto nel campo della critica pittorica e scultorica, quanto il suo collega Canori in quello della critica musicale. Basterà citare una definizione dell'arte, con la quale egli cominciò un articolo sulla Battaglia di San Martino del Cammarano: « La missione ideale dell'arte è di ricordare, di tramandare ai posteri i grandi fatti che onorano l'umanità. » E allora il Cesare di Ettore Ximenes non è un'opera d'arte, e nemmeno è un'opera d'arte il Voto di F. P. Michetti, poichè nè l'assassinio del dittatore nè quel costume barbarico fanno onore all'umanità. Ma lasciamo stare il signor Bellinzoni: a lui forse giova di porre come cardini della sua critica criteri così allegri; se no il Popolo Romano e l' Illustrazione Italiana non pubblicherebbero i suoi articoli; e piuttosto occupiamoci del nostro amico G. D'Annunzio, nel quale le signore di Roma salutarono un nuovo e meraviglioso critico d'arte.
Il nostro amico D'Annunzio si è buttato alla critica di botto, come i fantasmi che scorrono la sua lirica si buttano nel mare. Guardate: di quella mirabile tavolozza che abbagliò tutta l'Italia, non gli resta se non qualche vescichetta di verdemare e qualche pezzettino di inchiostro chinese, e la sua prosa, come della trobadoria sicula dice il Carducci, pare il balbettare infantile della decrepitezza. Peccato! Ma il caso non è disperato, perchè Gabriele è così giovine e ha tanto ingegno, che riescirà, ritemprato da nuovi studi, a tentare nuove forme dell'arte. Intanto io, che scrivo queste cose di lui col dispetto doloroso d'uno che vegga traviare un fratello e non giunga a fargli intendere la voce della ragione, leggendo i suoi Ricordi francavillesi ripensavo al padre Bartoli che scrisse una storia della Compagnia di Gesù con una prosa così folta d'immagini e così calda, che quella di Gabriele in confronto è una cosa scialba; e mi persuadevo che la dismisura in prosa, come in poesia, è il maggior segno di povertà. Questa povertà, pur troppo, il D'Annunzio la mostra chiaramente nella critica, ove pare un uomo sprofondato fino al petto in un pantano, che si sforzi vanamente con le braccia e con le gambe di liberarsi dalla melma; e più s'affatica, e più affonda. Dopo aver rimescolato con una rabbia frenetica tutte le vecchie vescichette di colore in un articolo di ricordi francavillesi, ove forse voleva mostrare l'ambiente nel quale l'ingegno del Michetti si maturò, cominciò nel Fanfulla quotidiano e domenicale una serie di articoli, ove invano tentò di coprire col frascame e coi capricci della fantasia la miseria dell'analisi e la insufficienza della coltura artistica e la incertezza dei criteri; ove l'abitudine del colore ogni tanto, per necessità, riappare; ove non ci è altra cosa che descrizione, descrizione, descrizione come nelle poesie liriche, come nelle novelle. Ora, nella critica d'arte, la descrizione è forse l'ultima cosa; se ciò non fosse, anch'io farei della critica d'arte; e quando in dodici colonne di giornale non si è riescito a cogliere e a mostrare l'aspetto generale di una esposizione, le varie inclinazioni d'arte che vi appaiono, le connessioni di queste prove con le prove anteriori; quando non si classificano ordinatamente tutte le forze che concorrono a questa mostra, e non si confronta questo momento dell'arte moderna con gli altri momenti dell'arte moderna; quando non si sa risalire dall'ultima manifestazione via via su per la storia generale dell'arte, allora le descrizioni fatte di strofe stemperate nel verdemare, ove le incertezze tecniche si nascondono nei viluppi della frase, ove l'ignoranza si ripara con le graziette leziose del raccontino, possono piacere alle signore, ma fanno pena a chi per rispetto della critica e dell'arte non vuol fare critica d'arte.
Una sola volta il D'Annunzio ha avuto qualche barlume critico, ed è stato a proposito del quadro del Michetti; ma anche questa volta, dio, quanta miseria! Egli che ha visto il quadro nascere sulla tela; egli che ha udito le prime osservazioni fatte dai primi che lo videro, non ha inteso che, volendo scriverne, la questione prima e più importante da porre era questa: perchè il Michetti non lo ha finito? Non per difetto di tempo solamente, perchè la tela è così grossa che la fattura non avrebbe mai potuto essere tanto perfetta quanto è negli studi. Ci è dunque una ragione d'arte in questo sacrifizio che il pittore ha fatto della forma esteriore al concetto; una ragione che forse il Michetti sente istintivamente, e che il critico, per l'esame dei fatti consimili, per la contemplazione delle leggi universali dell'arte, dovrebbe esprimere. Forse in pittura fatti consimili mancano; ma non mancano forse nella scoltura, e certo nelle arti letterarie ce n'è ad esuberanza. Per esempio, un critico di qualche acume in conspetto del quadro del Michetti non avrebbe dovuto rammentarsi di Shakespeare? A me pare di vedere in quel quadro, nell'ammucchiamento della folla come di masse corali, un movimento shakespeariano; e poi la temerità della scena selvaggia, e certe audacie lineari, come la curva della donna che allontana da sè il penitente deviato, e certi subitanei scatti lirici in mezzo alla universale intonazione epica, come il bambino biondo dagli occhi azzurri e quella unica ammantata di nero che par fiorita dalla mente di Dante prima dell'esilio, e la piena del sentimento che trabocca oltre la cornice, e quel signorile disprezzo della fattura e del piccolo che ha persuaso a lasciare in abbozzo un tanto quadro un pittore che ha saputo far quegli studi, non trovano un riscontro se non in Shakespeare. Raccontare come il quadro sia nato è poco, specialmente quando accanto al quadro sono esposti, visibili a tutti, gli studi; descrivere il quadro è una vana velleità bambinesca, segnatamente quando esso è dipinto dal Michetti; dire che la rivoluzione pittorica nello spirito del Michetti è nata dallo spettacolo di quella scena barbarica in una chiesa di Migliànico, è una volgarità. Come? Lo spettacolo d'un fatto umano abbastanza comune induce un artista come il Michetti, il quale aveva già corsa gloriosamente tutta una lunga via, a pigliarne d'improvviso un'altra tutt'affatto opposta, a gittare la sua tavolozza antica e gloriosa alle maree dell'Adriatico per una tavolozza nuova, a mutar tutto, materia, criteri d'arte, inclinazioni, e tutto in un momento? Non mi par serio. Molte cose hanno dovuto concorrere a questo mutamento; e molto il Michetti ha dovuto pensare studiare osservare cercare, prima di trovare il motivo ch'egli ha espresso così stupendamente. Questi pensieri, questi studi, queste osservazioni, queste ricerche un critico serio doveva dire; e il D'Annunzio avrebbe potuto farlo meglio d'ogni altro.
Ma un'altra cosa c'era da fare, e più importante, forse, di tutte. Oramai non ci è nessuno che non riconosca nel Michetti uno dei maggiori pittori moderni; tanto questo è vero, che i critici in genere dicono egli non rassomigli a nessuno, nè antico nè moderno. E questo sta bene. Ma nella storia dell'arte al Michetti tocca un posto. Ora non dovrebbe essere officio precipuo della critica definire questo posto? Il giudizio intorno a un artista non è pieno e sicuro senza una determinazione certa della sua opera; e la critica intorno al Michetti non sarà mai una cosa seria, se non si dà un'occhiata alla pittura antica e all'altra pittura moderna dell'Italia e delle altre parti d'Europa.
Se no, le osservazioni isolate non avranno che un valore subiettivo, non saranno che il risultato delle sensazioni estetiche più o meno corrette da una maggiore o minore esperienza tecnica. E questa esperienza tecnica manca al mio amico D'Annunzio e a quasi tutti quelli che scrissero della ultima Esposizione. Manca a Ferdinando Fontana, il quale racconta una brutta storiella, poi in fine dice: «questo il pittore N. ha stupendamente rappresentato nel suo quadro;» e la critica è fatta e servita calda al pubblico. Manca al mio Ettore Gentili, il quale nel Bersagliere dice delle cose pazze, con una grande prosopopea di critico consumato nel mestiere: dice, per esempio, che nel quadro del Cammarano appare un gran talento di rapportista, mentre tutti quelli che s'intendono di pittura pretendono il contrario; dice poi questo: «Ora tu vedi non più il quadro di Michetti, ma il tuo. Durante questo passaggio dalla repulsione alla convivenza, amico lettore, l'evidenza di certe parti ti diede la possibilità di completarle imaginando le altre; i tuoi ricordi, la fantasia, il sentimento ti aiutarono a vedere il vero attraverso il falso, a sceverare ciò che in questo quadro vi è di visto e reso da ciò che è soltanto imaginato e voluto: la sostanza dalla facitura; sei giunto dalla convenzione alla realtà; così come Michetti è giunto dalla realtà alla convenzione.»
Ora, per quanto io mi sforzi ad adottare questo sistema mentale di lenti convesse e biconvesse, non giungo dalla realtà a questa convenzione, che il mio amico Gentili sia un critico d'arte più forte di me. Infatti, lasciando da parte la bizzarria e la freschezza della dicitura, mi pare che il mio amico Gentili abbia preso, o voglia lasciar prendere agli altri, lucciole per lanterne. Nel quadro di Michetti la convenzione o il falso o il diavolo che si porti il mio amico Gentili? Ma se tutti quelli che hanno nervi dinanzi a quel quadro se li sentono tremare nel corpo, per l'orrore dello spettacolo! E poi, il Gentili non ha badato a una cosa: alla dualità del sentimento che scoppia in quel quadro. Guardate la folla: è placida, è inconscia come un bestiame nella stalla, contempla, dice le preghiere latine che non intende; guardate quelli che compiono il sacrifizio o che lo hanno già compiuto: sono squassati dalla ferocia della fede. Quando mai il mio amico Gentili ha trovato in un quadro il sentimento umano colto più veramente ed efficacemente? Nè anche il signor Cesare Olati, che fa la critica nella Lega della Democrazia, ha inteso questo dualismo, e pochi altri, parmi, lo hanno inteso: eppure io credo che l'eccellenza di questa opera d'arte stia, in molta parte, là.
Ma lasciamo i critici, nessuno dei quali, per esempio, ha pensato dinanzi al quadro del Michetti a tutta quanta la nostra lirica religiosa, che, con le compagnie dei flagellanti, si diffuse in due secoli per l'Italia, radicandosi in ogni sacrestia, rinascendo in ogni confraternita con polloni nuovi. Un critico di qualche serietà, prima di scrivere, avrebbe riletto molte laudi spirituali; poichè mi pare officio necessario della critica ricercare e dichiarare come certi fatti della vita siano espressi nelle varie forme dell'arte, nello sviluppo del tempo. Ora il fatto espresso dal Michetti rientra appunto fra le pratiche buddhistiche entrate nell'esercizio della fede cristiana; e poichè, nei primi secoli della nostra vita letteraria, da quelle pratiche prese le mosse tutto un grande impeto lirico, sarebbe utile rileggere Jacopone da Todi dinanzi al quadro del Michetti.
Ma lasciamo correre. In Italia, già, le cose si fanno tutte così. La critica letteraria non è altro di meglio o di più che un bollettino bibliografico; la critica d'arte è una conversazione estetica più o meno noiosa, da quella del d'Annunzio che chiacchiera con una signora, a quella del deputato Giovagnoli che predica ad un sindaco. Poichè l'empirismo affoga l'Italia, signori e signore, facciamo una cosa: chiudiamo bottega di critica, e andiamocene in piazza a rizzare i carrettoni con le boccette degli elixir. Tanto, siamo una folla di cavadenti.
E dacchè siamo qui a dimostrare in conspetto dell'Italia i cavadenti della critica, eccovi il peggiore di tutti: un criticastro verde come un ramarro per l'esuberanza della bile, e macchiato in faccia dai segni d'una singolare malattia di fegato.
III.
«Dal tronco d'Isai nascerà un germoglio, e dalla sua radice un ramo; e sarà in lui lo spirito del Signore, etc.»
Cito solamente la prima strofe, perchè le altre parlano quasi solamente di bestie che non possono esser di molto interesse pel lettore, quando si parla del marchese Colombi. E cito questa strofe d'un carme profetico d'Isaia per la venuta del Messia, perchè rassomiglia stranamente a certa prosa del signor Eugenio Torelli-Viollier, ch'io chiamo il marchese Colombi perchè è marito dell'amabile novellatrice nota col nome di marchesa Colombi. Veramente la prosa del signor marchese è lontana della poesia biblica, quasi quanto la prosa della marchesa è lontana dalla perfezione; ma a questo argomento ritorneremo in sèguito. Prima, c'è qualche cosa d'altro a dire. Il marchese Colombi è andato seminando per le glebe infeconde del Pungolo della domenica una sua cicalata spropositata, e noiosetta, e pesantuccia, e sminuzzata in molti paragrafetti, come i commentari De bello gallico, intorno al Carducci e ai poeti contemporanei. Veramente tutto il discorso si aggira intorno al Carducci, e gli altri poeti contemporanei non si sa quali siano, poichè il marchese Colombi ne nomina uno ogni tanto, come per gittare un tartufo sopra un pasticcio di fegato d'oca. Ma lasciamo andare; se no, dieci pagine almeno di questo libro si dovrebbero empire di tartufi di pasticci e di fegato d'oca; però che il marchese Colombi sia sempre quel bestione faceto che tutti sanno; e così parlando dal palcoscenico, come scrivendo nei giornali, egli è la sola creatura veramente comica del nostro teatro contemporaneo.
Chi volesse classificare il marchese Colombi, si troverebbe imbarazzato. Infatti, una qualunque classe, o famiglia, o genìa critica per lui è difficile trovare, poichè egli non è nè della stirpe del chierichino, nè di quella del professore, che il Carducci celebrò con un umorismo tanto sanguinosamente italiano. Dove dunque collocheremo il marchese Colombi, che da qualche tempo è stato colpito dalla pazzia melanconica di far della critica? Ecco, mi pare che il posto suo veramente sia tra i mariti delle grandi attrici. Li conoscete? Stanno al botteghino, e sopraintendono con una prosopopea maravigliosa alla vendita dei biglietti; e, quando l'occasione, per non escire dalla bella imaginazione ariostesca, porga i capelli, li afferrano, e dicono corna delle altre grandi attrici e anche dei grandi attori, se bene non facciano concorrenza alle mogli loro.
Quale titolo ha il signor marchese Colombi per poter parlare di poesia? Forse la licenza liceale? Forse la licenza ginnasiale? Io per me, sino a prova contraria, nego; e nego che un critico possa presentarsi al giudizio della gente con minori titoli di un aspirante al posto di vice-segretario nel Ministero di agricoltura e commercio. Forse un romanzo intitolato da Ettore Caraffa? Ma lasciamo stare i romanzi, poichè di questa debolezza giovanile del marchese Colombi forse in Italia mi rammento io solo, e io non voglio recar dolori alla gente quando posso farne di meno. E poichè tutta la gente ha dimenticato in Italia che il signor marchese Colombi, quando era un filisteo della casa Sonzogno, ha fatto di tutto, anche, meminisse horret, dei romanzi storici, perchè dovrei rinnovarne io la memoria? Io non sono maligno e vendicativo come il marchese Colombi; e certi delitti giovanili li lascio nascondere dalla ruggine del tempo. A che serve? ripeto: l'Italia, per brutte che siano le nuove commedie italiane, è pur sempre la patria dei comici. Solamente non andateli a cercare nel commendatore Pietriboni o nel signor Emanuel: i comici veri sono questi burloni che scrivono di critica poetica senza saper nemmeno gli elementi della metrica. Non è vero, marchese Colombi? Le academie si fanno o non si fanno; e così pure le commedie, in nome di Dio!
Questo nuovo marchese dice cose che farebbero rabbrividire il marchese vecchio; dice, per esempio: « I nostri versi, grazie a tutte quelle licenze, quelle forme convenzionali, di cui ho trattato negli articoli precedenti, sono facilissimi a fare, e tutti ne fanno.» Costui è matto. Come: la nostra metrica è facilissima? Ma che cosa vuol dir questo? E qual'è la metrica difficile, e quali sono i versi difficili? Sinora, la facilità e difficoltà del poetare sono state cose subiettive, e procedevano dalla maggiore o minore attitudine poetica del poetante. Ed ecco, il marchese Colombi le scopre nel metro, o, come dice lui, nel verso. Salute, o marchese, e che Dominedio vi conservi la vena comica! Ma non basta, perchè se questa non fosse una scioccheria insensata, sarebbe un grandissimo sproposito. Ha mai letto il marchese Colombi un libretto di Dante intitolato De vulgari eloquio? Ci è una parte che tratta appunto della metrica nostra, con una competenza maggiore assai di quella dimostrata dal signor marchese negli articoli precedenti; e ci vuole molta pazienza e anche un po' d'ingegno per raccapezzarsi in mezzo a quella difficilissima architettura e a tutti quegli artifizi della poetica volgare. E il marchese Colombi ci viene a dire che i versi italiani sono facilissimi. Ma forse egli non intende il latino, e non ha potuto leggere il De vulgari eloquio. E allora poteva ben leggere il libro del Böhmer sulla poetica dantesca. Ma forse egli non intende nemmeno il tedesco. E allora, in nome del diavolo, sapesse almeno l'esposizione che fece il D'Ovidio del libro del Böhmer! Dove dunque ha egli studiato la metrica prima di scrivere di metrica? Egli dice che i versi italiani sono facili; e forse in fondo non ha torto; tutto in questo mondo può esser facile, anche la prosa quando si scrive come la scrive il marchese Colombi, anche la critica quando si fa alla maniera del marchese Colombi.
Dice poi il teorizzatore: « Gli uomini più grandi, quelli che sembrano quasi divini, hanno la loro parte terrestre. Ognuno ha in sè un demonio che lo schiaffeggia, ognuno sente in sè — come ha cantato Arrigo Boito — un demonio in contrasto con un angelo. Povero colui il quale si meraviglia che Leopardi, negli ultimi anni della sua vita, fu avaro e maligno, e che Musset fu cinico. Quando scrissero i loro versi, parlava in loro l'angelo, ed a noi basta sapere, per chiamarli poeti, che in quel momento erano quali la poesia, la loro poesia li mostra. »
Questa teorica, ho detto, è mezzo platonica e mezzo romantica. Dice infatti Socrate nell'apologia platonica, che egli ha dentro di sè un demonio inspiratore, onde move ogni atto dell'animo suo. Solamente il demonio socratico è meno villano del demonio colombesco, e non schiaffeggia nessuno. Di più, mentre il demonio del marchese è la parte terrestre del poeta, quello socratico ne è per contrario la parte divina; e nell'apologia medesima dice Socrate, che avendolo l'oracolo di Delfo designato pel più sapiente degli uomini, egli volle avere una riprova della verità dell'oracolo; e prese a paragonar sè stesso con tutti quelli che godevano reputazione di sapienza. E cominciò dai poeti. Ora, dice Socrate, subito vidi ch'io ero più sapiente di loro, poichè quelli non fanno con conscienza quello che fanno, ma per impulso naturale e come farneticanti a guisa degli indovini.
E una cosa poi manca nella teorica socratica, che si ritrova invece in quella del marchese Colombi: l'angelo. Quest'angelo è d'importazione moderna, e basta guardare a' suoi grandi occhi turchini e alle penne azzurre delle ali, e al lembo di camicia che gli esce dall'apertura dei calzoni, per riconoscere in lui i segni del romanticismo. Sì: quest'angelo del marchese Colombi è di quel grande stormo di pennuti angelici, a cui diede il volo il romanticismo, e che empirono il cielo d'un grande starnazzamento di ali. A poco a poco essi fuggirono di là dalle nuvole, cacciati dal fumo e dal puzzo d'olio e di carbon fossile onde l'industria moderna va appestando la terra; e solamente qualcuno ne restò indietro, non per amore delle figlie degli uomini: qualche povero angelo spennato a cui mancò la forza pel gran viaggio. Ora il marchese Colombi ne ha preso uno, e lo ha cacciato nello stomaco del poeta, insieme con un tristo demonio schiaffeggiatore.
Così popolato l' interno del poeta, è chiaro che la poesia, nella mente del marchese Colombi, sia un che di fantastico o di sovrumano o di ineffabile; e veramente egli ne parla con certi suoi aforismi che paiono responsi della Sibilla: « Non c'è poesia se non c'è originalità, perchè non c'è originalità se non c'è sincerità. » Non vi pare di sentire: Ibis. redibis. non. morieris. in bello? E pure, per chi sappia in qualche modo interpretare i sogni e gli oracoli, l'aforismo del marchese Colombi è chiaro o, almeno, è originale. In fatti, per giungere ad enunciarlo con una faccia tosta tanto ammirabile, è necessario, per lo meno, non sapere di che consista, come nacque, onde derivò tutta quanta la poesia latina; e, confessiamolo, gli uomini che a questi chiari di luna si mettono a definire la poesia senza sapere nemmeno un'ode d'Orazio, anche in Italia son pochi. Il marchese Colombi vuole che la poesia sia, quanto al contenuto, sincera; e afferma che se si potesse provare che Silvia e Nerina non vissero mai, il Leopardi diventerebbe di punto in bianco, un retore e un rimatore. Or non avevo ragione io di dire: quest'uomo è un pazzo?
Pazzo o mattoide, come più vi piace, e rassomigliante assai a quei poveri mentecatti, dei quali il cervello è come preso nella morsa d'una fissazione che sconvolge tutto il naturale movimento del loro spirito. Il marchese Colombi vuol dimostrare che il Carducci non è un poeta moderno; e questa fissazione gli turba per modo le funzioni della mente, che lo costringe a fabbricare tutta una teorica poetica nell'anno di grazia 1883, dopo duemil'anni e più di poesia tra greca, latina e neolatina. Or che ci volete fare? Ci è più d'un pazzo che si crede Dominedio e vuol creare il mondo: il marchese Colombi vuol definire adesso la poesia. Lasciamolo stare: queste infermità si curano col riposo. Solamente, si proibisca al marchese Colombi di nominar Dante. Vade retro, Satana! Indietro, marchese: non contaminate il sacro nome di Dante, e non cercate di gabellare per sue le vostre fantasticherie sulla sincerità poetica e sull'originalità. Dante ha ben detto quale sia il suo sistema poetico: Dante dice molto chiaramente che il fattore primo e la caratteristica della poesia nuova, dopo Guitton d'Arezzo, è l' imagine; e molto chiaramente dice che gli esemplari debbono essere Virgilio e Stazio, e gli altri poeti latini. Ma perchè discorrere di queste cose al marchese Colombi? Se non ha letto nemmeno Dante, che gli posso fare io? Se egli cita Io mi son un che quando, e non sa nemmeno che Dante ha scritto il Convito, che gli posso fare io? Il meglio sarà di lasciarlo teorizzare: il riposo gli farà bene. E veniamo alla profezia.
La quale, come ho detto in principio, rassomiglia stranamente all'undecimo carme d'Isaia; solamente non è scritta in quattro strofe di sei settenari con gli accenti tutti nelle sedi pari, come nel testo biblico, ma è stampata in mezza colonna di prosa, come nella vulgata: questa volta dunque il materiale poetico passando dall'Oriente in Occidente non ci ha guadagnato, e si è aggravato di certe incrostazioni mezzo tra polemiche e dimostrative, che ne guastano la bella e bestiale semplicità. Dice infatti il marchese Colombi che la poesia non è morta e che il poeta dell'avvenire verrà; e sarà un uomo interamente moderno, e nella sua poesia metterà tutta la vita moderna, senza sdegnarne le funzioni più umili, i fenomeni più apparentemente insignificanti. Questo poeta avrà natali umili, e apparirà nelle colonne d'un giornale, fra il bue dell'articolo di fondo e l'asinello della cronaca cittadina. Saprà parlare ai grandi ed ai piccoli, la sua poesia sarà carne della carne e sangue del sangue del suo tempo. Questo poeta verrà certamente; è ora forse sui banchi del liceo, è forse un piccolo di stamperia, è un artigianello frequentatore delle scuole serali: è necessario ed inevitabile: verrà: preparate le vie del Signore.
E fin qui, niente di male. Secondo la teoria del marchese e secondo quella di Socrate, i poeti e gl'indovini e i pazzi molte parti hanno in comune, e la profezia del marchese può forse far ridere chi non ha letto tutta la sua lunga tiritera; ma io ho riso tanto in mezzo a tutto quel fascio di ingenuità primitive e di spropositi incredibili, che il carme profetico mi pare quasi bello e spiritoso. Ma il guaio serio è che il marchese non si è accontentato di predire; ha voluto anche motivare la predizione, e ha accusato non solo il Carducci, ma anche me, di aver condannato a morte la poesia.
Ma proprio quest'uomo è pazzo? Il Carducci ha detto una volta, e il marchese cita le sue parole, che «la poesia oggigiorno non è più nè un elemento di civiltà per la nazione, nè un bisogno estetico della società, nè istrumento di rivoluzione o mezzo di rinnovamento; ella, salvo qualche volta o più volte il dramma e il romanzo, è tutta individuale.» Oggigiorno, dice il Carducci, e lo dice in uno di quei momenti di stizza o di pietà, dai quali chiunque abbia qualche rispetto dell'arte non può esimersi vedendo la sciocchezza l'ignoranza la ciarlataneria predicare alle turbe con una maravigliosa sfacciataggine di su le colonne d'una gazzetta. Oggigiorno, dice dunque il Carducci; e non domani. Chi può dire quello che sarà domani? Può essere che le cose precipitino a ruina, e può anche essere che vadano un poco meglio, se le teoriche poetiche del marchese non prevalgano, e se i critici prima di teorizzare leggano almen Dante. Il Carducci non si sente invasato dallo spirito profetico, e lascia al marchese Colombi le profezie. E anch'io lascio al marchese le profezie, e non ho mai condannato a morte la poesia. Ma quanto a me il marchese Colombi è d'una severità spaventosa. Egli mi avventa passando, in una specie d'inciso, una botta non saprei se di punta o di taglio, e dopo avere contro ogni buona regola grammaticale scritto il mio cognome con l'iniziale minuscola, afferma categoricamente che la mia critica è guidata da questo ragionamento: «Io non sono poeta, dunque la poesia ha fatto il suo tempo; non sono romanziere, dunque il romanzo è una forma esaurita dell'arte.»
Dove diavolo il marchese è andato a pescare codeste fanfaluche? O bella! E se, per fargli dispetto, mi saltasse il ticchio di scrivere un romanzo, o un canzoniere, o una epopea, o un poema eroicomico? Vorrebbe forse impedirmelo il signor marchese? O che vi sarebbe di strano, quando persino lui ha pubblicato qualche cosa, non so più bene che cosa? Io dunque non riescivo ad intuire la causa di questa botta falsa; e proprio concludevo nel mio pensiero che il marchese Colombi sia oramai rimbambito, quando mi è ritornata nella memoria una cosa: mi son rammentato che una volta ho detto male di un romanzo della marchesa Colombi. Il marchese Colombi è marito della marchesa: dunque sarebbe questo un atto di cavalleria coniugale? Dunque il marchese Colombi rientrerebbe nella categoria critica che io ho paragonata a quella dei mariti delle grandi attrici? E viva allora il marchese Colombi! Già, il marchese Colombi, nato in una commedia, non può fallire alla sua natura comica; e così quando scriveva articoli di mode con un nome femminile, come ora vendendo al suo amico Fortis bugie e buffonerie, è un che di mezzo tra il padre nobile e il pantalone. Diamine! Le accademie si fanno o non si fanno.
Se non che, sono state queste le ultime bugie e le ultime buffonerie che il povero marchese ha vendute a buon prezzo al suo amico Leone. — Però che quando già si apprestasse alla pugna, contro i poeti contemporanei e contro di me che non sono stato mai un poeta contemporaneo, se bene, se la profezia del marchese non sia fallace, ho molta speranza di esserlo una volta o l'altra, quando, letta moltissima prosa del mio amico Arnaldo Vassallo e digeritala, una nuova materia e una nuova forma poetica sorgeranno nell'anima mia, — qualcuno gli ammaccò un occhio con uno scapaccione.
Ben fatto, per Dio! I poeti contemporanei sono stati ben vendicati, dovrei gridare se fossi quel posatore d'antropofagia che dice il dottor Verità. Ma io sono meno feroce assai di quanto alcuno creda, e della sventura toccata al signor Torelli mi duole sinceramente come d'una mia propria: anzi molto di buon animo avrei sopportato dieci scariche del suo tristo umore, se questo avesse potuto salvarlo dalla bestiale violenza di quel dentista che l'ha aggredito. Però il Pungolo della domenica può bensì perdere il Torelli, ma il vizio di spropositare non mai; ed ecco papa Leone Fortis, il Telamonio, sorgere al posto dell'Oileo abbattuto da un pugno.
Pare impossibile! Dominedio li fa, e il Pungolo li accoppia!
IV.
Leone Fortis venuto a Roma per guarire da tutti i suoi mali il teatro italiano, se ne ritornò a Milano ammalato egli stesso d'una tremenda malattia, che i medici meneghini non seppero se chiamare abruzzofagia o abruzzofobia. Ritornò a Milano, e si mise a urlare sotto gli squallidi colonnati del Pungolo domenicale che l'Abruzzo ha invaso Roma, e che la colonia abruzzese accampata in Roma ha aperto in piazza Colonna una beccheria di lupi e di femmine nude e d'altre simiglianti porcherie. — Se voi li vedeste — dice il pio Leone alla platonica compagna de' suoi colloquii, tenendosi amabilmente, a volta a volta, ora il piè sinistro nella mano destra ed ora il piè destro nella mano sinistra; — se voi li vedeste questi giovinetti barbareschi e selvatici che vendono carne di Yella e fegato di Lalla e squartano ogni mattina un autore illustre per mangiarne la coratella! Sono piccolini e magrolini e graziosini e dolci come fondants; e non puzzano di bestie macellate. Ma sono tutti stillanti e odoranti di acque nanfe e di cedronella e di opoponax; e fingono di essere così selvaggi, l'uno per serbarsi il favor delle dame e l'altro per desiderio di acquistarselo o per dispetto di non poterselo acquistare. Essi hanno trovato una posa nuova, in poesia e in critica, ed è la posa della bestialità, della butterità, della ferocia, la quale corrisponde a puntino alla posa cascante, pastorelleggiante, bonboneggiante dell'Arcadia antica. Essi non s'accorgono che la loro critica e la loro lirica sono in contrasto assoluto con la loro costruzione fisica.
Tale, su per giù, il ragionamento capzioso che il dottor Verità fece nel Pungolo, per dimostrare che Gabriele D'Annunzio ed io ci affatichiamo ad ingrossar la voce, e facciamo della poesia e della critica spacconesca pe'l desiderio di parere quel che non siamo, una coppia di selvaggi in giro per le fiere di campagna, mostranti all'ammirazione della gente la faccia tinta col nerofumo, e una finta capelliera lanuta, e certi denti posticci acuminati; e guardantici ogni tanto in cagnesco con molte smorfie per far ridere la gente.
Ora il dottor Verità, quando siede a confabulare con quel piede in mano, è un retore non dispregevole; e girando il discorso con una bella abilità di chiacchierone, e cucendo insieme molti aforismi e molti epifonemi e molti sofismi con qualche opportuno sproposito, e, ove occorra, con una o due piccole bugie, tesse una teorichetta critica argutella e chiacchierina, da deporre sul tavolino da lavoro della signora che ha la pazienza di ascoltarlo da tanto tempo. Ve ne ricordate? Era il tempo delle Odi barbare, e il dottor Verità, per creare una ostilità al Carducci, prese a catechizzare quella buona signora. Fece un giro largo, parlò della poesia latina, dei tentativi barbarici del Seicento, della Sehnsucht, della Weltschmerzesdichtung, della necessità melodica in Italia, del sentimento italiano, delle tradizioni italiane, di Dante, di Leonardo da Vinci, di Giovanni Prati, di Paolo Ferrari, dei trovadori e del Porta. E tante ne disse, e tanto diluì in un fiume di parole argomenti e argomentazioni e sfarfalloni, che la compiacente signora, guardandolo con un'aria tra di stanchezza e di compassione e di ammirazione, stava per cedere. Se non che, il dottore Verità volle avere troppo pieno il trionfo; e per abbattere nella sua colloquitrice le ultime repugnanze della ragione, ricorse a un mezzuccio volgare e pericoloso, onde i teorizzatori dovrebbero sempre rifuggir con orrore. Persuaso egli stesso, forse, volle confortar la teorica con un esempio; e disse: — Per esempio, cara signora, se qualcuno volesse acclimatare il sonetto nella poesia francese, darebbe un sicuro segno di pazzia; poichè la natura francese e la lingua francese e le tradizioni francesi repugnano dal sonetto, come....
Per mala ventura, la signora aveva sul tavolino da lavoro un libriccino poetico di Teodoro Vibert, intitolato Dizaine de Sonnets; e subito guardò il dottore con un'aria di angoscia interrogativa.
— Dottore, e Coppèe, del quale voi mi avete parlato tante volte? E Victor Hugo, e Lamartine, e Baudelaire, e Musset, e tutti quanti i poeti francesi sino a Ronsard non hanno scritto milioni di sonetti, endecasillabi ed alessandrini?
Il dottore restò sbalordito, e non disse più verbo. Peccato! Aveva costruita una così carina teorichetta barbarica, tutta di cera vergine, con due capocchiette azzurre di spillo nel luogo degli occhiettini, con una ghirlandetta di carta dorata sulla fronte, con due ramettini di palma nelle manine piccoline!
Questa volta, dubitando di qualche sdrucciolone simile a quello, si è attenuto a un metodo assai più semplice e meno pericoloso: ha lasciato da parte gli esempi, le citazioni, e tutti gli altri ferravecchi della critica letteraria; e si è tenuto alla fisiologia. Bravo, per dio! Il dottor Verità, quel vecchio brontolone nemico di tutte le novità audaci, diventa anche egli sperimentale. È un bel trionfo pel naturalismo. Se non che, non bisogna affidarsi alla fisiologia con animo troppo leggiero. La critica fisiologica può essere un buon metodo di analisi, quando il critico abbia del soggetto una nozione sicura, lo abbia potuto studiare nel suo sistema organico, nelle funzioni esteriori della vita, nelle irruzioni private della vita interiore: allora, comparando e fondendo questi elementi di ricerca con quella parte della propria attività spirituale che il soggetto abbandona al pubblico, la definizione o il giudizio o la classificazione possono avere un valore positivo. Ma il dottor Verità non ha mai ascoltato le pulsazioni del mio sangue, nè mi ha mai sentito il polso, nè ha tentato le mie articolazioni, e non mi ha mai veduto tirare di scherma, o nuotare, o pugillare, o ballare. Anzi, che io sappia, non mi ha nè pur veduto mai. Or su quali dati scientifici poggia la sua dimostrazione di critica fisiologica? Di più, io non ho mai avuto l'onore di parlare col dottor Verità; nè egli, che io sappia, è stato mai testimone delle mie consuetudini. Con che fondamento scientifico dunque egli fa la diagnosi del mio io etico, e mi dichiara la miglior pasta di ragazzo che abbia mangiato mai pasticcini sopra la faccia della terra? Io sono molto contento della buona opinione che il dottor Verità porta delle mie facoltà morali; ma in nome della scienza e della critica positiva, protesto. Il dottor Verità mi ha rilasciato un documento di mitezza e di bontà, senza nessuna prova sperimentale; e questo, per la dignità della critica e per la serietà della scienza, non è comportabile.
Non è comportabile che nella critica positiva, fisiologica e storica, s'introducano la leggerezza di cuore e la lestezza di mano che hanno discreditato per sempre la critica estetica. Sei anni sono, il dottor Verità voleva abbattere il tentativo barbarico del Carducci con l'esempio della poesia francese, della quale era affatto digiuno; e ora, il vecchio incorreggibile, perchè il D'Annunzio non ha un'ampia ventraglia cascante, egli, che lo avrà veduto due volte e avrà scambiato con lui venti parole, vuole abbatterlo con argomentazioni fisiologiche? È curiosa. Gli nega una gran parte di quella potenza amatoria che il D'Annunzio espande nella sua lirica; e asserisce che da una delle Yelle gli è stato detto che il D'Annunzio è un millantatore. Or quale è questa Yella che fa al dottor Verità delle confidenze tanto curiose? Fuori il nome, per dio, o il ritratto almeno! Noi vogliamo affiggerla a tutti i canti delle vie l'effigie di questa Yella che va a confessare al dottor Verità i suoi peccati di maggio! Ma io dubito forte che questa Yella il dottor Verità l'abbia veduta come ha veduta la mia testa, che dice spettinata. Spettinata la mia testa? Io protesto di nuovo, o Dottore: la mia testa è rasa sino alla pelle come quella d'un coscritto.
Se non che io forse ho torto di ritornar sopra questi pettegolezzi che il dottor Verità move intorno a noi, e che in fondo sono una specie di réclame all'americana; e farei meglio a lasciar correre. Ma il dottor Verità asserisce che il D'Annunzio e io scriviamo posando e montando e gonfiando noi stessi; e qui è necessario fermarsi un momento. Prima di tutto: che cosa intende il dottore per posa? Intende certe norme giudicatrici nella critica e nell'arte, dalle quali gli accusati non si discostano, a rischio di sembrare, fra i tanti che vanno innanzi ad occhi chiusi, delle bestie strane? E allora gli accusati, lo dichiarano volentieri, posano e sono contenti di posare.
Il dottor Verità, come il suo collega il marchese Colombi, crede l'arte una libera emanazione dell'intestino retto o dell'utero, a seconda del sesso. Egli non pensa che da molto tempo in qua l'arte non è se non l'espressione imaginosa di certi criterii scientifici, o la rappresentazione evidente di una teorica filosofica. La persona dell'artista, se pure si tratti di arte subbiettiva, non ci entra se non come elemento secondario. Che cosa pensa il dottor Verità del Goethe, il quale, dopo avere scritto a vent'anni i Dolori del giovane Werther, visse settant'anni ancora, serenamente, e morì nel bacio del signore, tra il compianto delle dame di Weimar? E se il Leopardi fosse stato un bell'uomo forte e sano, lo avrebbe la sua constituzione fisica o lo avrebbero le conversazioni del dottor Verità distolto dalla filosofia di Schopenhauer?
Così, come ci entra l'organismo fisico del D'Annunzio nell'organismo della sua poesia? Questa poesia la sa veramente il dottor Verità, o la sa per le chiacchiere di qualche Yella immaginaria? Questa poesia non è se non l'irruzione violenta, e qua e là scomposta, di un sanissimo e giustissimo e potentissimo senso della natura e della vita. Questa poesia è una emanazione diretta delle teoriche darwiniane, che insegnano a considerare l'uomo nella natura come un qualunque essere animale, e non come un microcosmo concentrico di tutti quanti i raggi e di tutte quante le attività della vita. Ha letto il dottor Verità il Canto Novo? Quando mai il senso umano irruppe con tanta libertà di espansione, con tanta spontaneità di movimento, con tanto esuberante splendore di forma? Era veramente un canto novo, poichè per entro vi palpitava l'animalità senziente e intelligente, che è la caratteristica dell'umanità darwiniana. Come ci entrava in questo la persona del poeta, il quale a Lalla, subbiettivamente, prometteva le nozze; e come ci entrava anche Lalla? Nel Canto novo ci erano un maschio e una femmina, che si chiamavano Gabriele e Lalla, e avrebbero potuto chiamarsi anche altrimenti ed essere organicamente constituiti in altro modo senza che la sostanza della poesia ne fosse mutata; ci erano un maschio e una femmina, ed esprimevano in magnifiche strofe alcaiche ed in sonetti meravigliosi il diletto della vita e dell'amore sul gran letto della natura. La pittura del Michetti non è anch'essa tale? Or chi va a ricercare se il Michetti sia gracile o robusto? E chi lo accusa di posare, se, avendo un animo dolcissimo, ha esposto in Roma un quadro che alle persone troppo rassomiglianti nell'organismo nervoso al dottor Verità fa rizzare i capelli sul cranio? Se la dialogatrice del dottor Verità pensa che la persona e l'opera dell'artista debbano avere una identica constituzione organica, di chi la colpa, se non del dottor Verità che le empie la testa di queste fanfaluche?
Lo stesso sia detto per la critica mia, la quale al dottor Verità, che non mi ha veduto mai, pare troppo dissonante dalle proporzioni del mio corpo e dalle mie facoltà etiche. Secondo il dottor Verità, un critico che non si levi ogni mattina col santo e deliberato proposito di inginocchiarsi davanti a qualche autore illustre con una gran furia di genuflessioni e con molto fumo d'incenso, facendo salamelecchi come un pappagallo sulla gruccia, dev'essere una specie d'antropofago, con una barba lunga sino all'ombelico, con due braccia da Sansone schiacciatore di Filistei, con un palmo di pelo sul cuore; se no, posa. E io che, a quanto asserisce il dottor Verità, sono un mingherlino tisico e dolce come il buon pane, non ho diritto di trattar male la gente.
Belle argomentazioni da dire a Cicerone, quando inveiva contro Verre, o a Demostene, quando, per potere irrompere con più libera violenza contro Filippo il Macedone, correva lungo la riva del fiume con la bocca piena di sassolini per correggere il difetto della parola! Di più queste parole, in bocca d'uno che da molti anni campa di critica, sono una confessione pericolosa. Dunque il dottor Verità crede nella critica subbiettiva, procedente da un impeto della passione? Tanto peggio per lui, e per quelli che hanno creduto nella critica sua. Io no. Io porto della critica una ben più alta e severa opinione: essa è per me una cosa sacra, più sacra dell'arte; e quando abbandono il mio spirito all'analisi d'un libro o d'uno scrittore, o d'un complesso di libri e di scrittori, io mi libero pienamente del mio individuo senziente, e non resta se non l'individuo pensante, con la scorta di quella poca coltura che bene o male può guidare e illuminare il mio giudizio. Di che ferocia mi va parlando il dottor Verità? Io non torcerei un capello a nessuno; e se mangio assai spesso degli autori illustri e di fama stagionata, come dice elegantemente il dottor Verità, gli è che ho adottato un metodo critico un po' diverso da quello che per molto tempo la diffusione giornalistica ha fatto prevalere in Italia. Il giornale dovendo vivere un giorno, e soddisfare la necessità immediata di notizie, anche nella critica campa alla giornata; e dando conto di questa o quella opera d'arte che più stuzzica la curiosità del momento, non si cura o non vuole o non può ricercare il nesso che la presente opera può avere con le altre di altri tempi e di altri paesi. Questo metodo, che nella cronaca gazzettiera è, per necessità, comportabile, diventa affatto irragionevole e pericoloso quando si allarga al giudizio di tutta la moderna produzione letteraria. Poichè la perfezione nelle opere della mente umana non è assoluta, non è una determinata altezza alla quale occorra di giungere, ma è relativa, è, più che altro, una specie di scala, il primo officio della critica dev'essere di misurare le altezze. È necessario dunque aborrire dal metodo empirico di Gustavo Planche, è necessario non fermarsi al caso particolare e giudicare un'opera singolare per sè sola, con la norma del senso estetico o, come più spesso accade, con la norma dell'opportunità. La critica letteraria, come la critica d'arte, è, più che altro, un'opera di classificazione e di confronto. Ora, confrontando i frutti della nostra attività presente con quelli che ci furono lasciati in eredità, giudicando una singola opera d'arte non in sè, ma nello sviluppo complessivo di quella forma dell'arte, accade che la dolce nebbia di ottimismo tanto cara agli scribacchiatori italiani si disperda per l'aria. Ecco perchè io sono feroce. Questo, in quanto alla sostanza. In quanto alla forma, che è quella che più urta i nervi del prossimo, è un'altra faccenda. In Italia, e in moltissima parte d'Europa, certe consuetudini d'ipocrisia son rimaste tenacemente abbarbicate. L'usanza di segarsi la gola con tutte le regole della politezza e del galateo ha invasa tutta quanta la vita; dopo che Racine dovette radere la barba ai suoi eroi greci e vestirli di velluto per non far paura alle dame adunate nel salone di madama di Maintenon, il gesuitismo è diventata la norma di tutta quanta la vita: nell'arte, per i molti sforzi e a malgrado delle molte opposizioni, questa incrostazione lojolesca va scomparendo: or perchè dovrebbe restare nella critica? Che volete? Quando io debbo dire a uno scrittore, magari illustre, magari stagionato, che è un asino, non trovo nessuna parola più efficacemente pittorica nella sua brevità trisillaba e proparossìtona del vocabolo che serve a distinguere quella mite bestia da tutti quanti gli altri esseri animali.
Il torto forse sta nel prendersi dei grattacapi inutili, poichè già, come dice il dottor Verità, la critica non fa male a nessuno. Ma poichè non ci è in Italia chi voglia prenderseli, io mi voglio buttare nella voragine. Perchè dunque vorrebbe il dottor Verità che io fossi un antropofago? Io vorrei che tutti i mangiati da me prosperassero e ingrassassero come il dottor Verità, e avessero una buona volta degli intendimenti artistici o critici. E non è vero, come dice il dottor Verità, che io non giuri se non nel nome del Carducci. Naturalmente, siccome nel nostro ventennio noi non troviamo se non il Carducci da poter comparare con gli artisti della prima metà di questo e dei secoli antecedenti; siccome noi dal Carducci abbiamo appreso, tra tante altre cose, la religione dell'arte e l'odio dell'ignoranza e del ciarlatanismo, abbiamo per lui, più che il rispetto, il culto che nasce spontaneamente in conspetto dei benefattori. Ma ciò non ci vieta di misurare gli altri ciascuno secondo l'altezza sua, e ove per troppo impeto si sia errata o passata la misura, di rettificare.
Ma lasciamo andare. A che serve seccare la gente con certi pettegolezzi subbiettivi? Io ho cominciato il mio mestiere di cronista bibliografico dicendo d'un cattivo libro ch'era solamente buono per torchecul; e quella parola nella quale io, antico ed entusiasta lettore di Rabelais, non sospettavo tanto pepe, mi scatenò contro una tempesta. Ora mi ci sono abituato, e tiro via portando le pene della mia ferocia. Così, pel dispetto che mi faceva Gabriele D'Annunzio dichiarante agli amici che gittava in braccio alle femmine tutto il suo mondo poetico, io stampai dei sonetti di rimprovero e di ammonimento e di richiamo al passato: dissi in versi quel che tutti gli amici del D'Annunzio dicevano in prosa. Ma il torto fu di stampare quei versi. Io lo sapevo che ne avrei portato la pena; tuttavia li volli pubblicare a dispetto dell'opinione della gente. Ed ecco, il dottor Verità, seduto a fronte della paziente compagna de' suoi colloqui, tenendosi a volta a volta il piè destro nella mano sinistra o il piede sinistro nella mano destra, si arma de' miei versi a danno del D'Annunzio. Pazienza!
V.
Ora forse il dottor Verità potrebbe ammonirmi che non tocca a me rinfacciare ad Ottone di Banzole la sua poca reverenza e la sua molta virulenza critica; poichè io non credo che nella critica le dolcezze siano raccomandabili: nel giudizio mio i colpi debbono essere o bòtte dritte con la spada bene aguzzata, o fendenti con la sciabola bene affilata. E le nuove invenzioni della scherma mi paiono un segno di debolezza. Io amo la scherma antica, senza finte, senza cavazioni, senza parate: unica difesa, l'arnese fatato; unica offesa, il braccio vigoroso. Io odio gli zuccherini della critica pastorelleggiante, che condanna la grammatica in nome del galateo, che assesta una coltellata nell'atto d'una reverenza, che ha sempre paura di troppo aver fatto male, e dopo il biasimo ha sempre pronto, per compenso, un salamelecco, come le madri che mostrano una caramella ai poppanti per indurli a farsi nettare il naso. Per me è una grandissima gioia svillaneggiar l'avversario prima di piombargli sopra, come nei poemi omerici, come nei romanzi di cavalleria. Però, non senza una condizione. La villania e l'insulto e la provocazione non debbono scoppiare dalle labbra di un fiacco nell'atto della dedizione; ed avventare in faccia al nemico un'ingiuria nell'atto di consegnargli la spada, può essere una vigliaccheria ed è quasi sempre una pazzia. Ora il signor Ottone di Banzole, del quale mi piace d'intrattenermi più per giustificazion mia, che per merito o per peccato suo, proprio nel punto di buttar via la spada inutile, ha con una grandissima intemperanza provocato tutte le generazioni letterarie dell'Italia dal '50 in giù. Uditelo: «Entrando in questa guerra letteraria, promisi sempre a me stesso di non morirvi: concepii un disegno, e lo attuai. Vinto ad ogni battaglia ed insultato come tutti i vinti, non scesi mai, nè scenderò mai alla scempiaggine della replica, alla bassezza del lamento: i vinti hanno torto. Altri sarà più fortunato, perchè più forte; pochi più sinceri ed intrepidi. Poichè ogni pompa dell'arte mi era contesa per la miseria dell'ingegno, ebbi l'orgoglio della nudità del mio pensiero.» Come questa nudità abbia potuto giovare al signor di Banzole nella gran disgrazia della quale si confessa, non so, e non mi preme di sapere. Ma ciò che non gli si può perdonare è che, con tutta quella miseria della quale si accusa, nell'abiezione della sconfitta, egli voglia trascinare nella sua ruina tutti quelli che dopo il '50 hanno osato di scrivere in Italia. Non toccava a lui, vinto, dir ciò. In bocca sua questa, che per qualche parte potrebbe essere una verità, diventa una puerilità pazza. E rimproverandogliela, io mi sento preso da un senso di pietà, come davanti a un ammalato di mente; nè trovo parole aspre.
Questa sua pazzia il signor Ottone di Banzole ha espresso in un libro intitolato Quartetto; e sono quattro stromenti, un violino una viola un violoncello e un contrabasso, i quali prima di prendere a sonare ciascuno la sonata sua si accordano in un diapason preliminare, che sembra un articolo di critica letteraria scritto dal deputato Medoro Savini. Qui la pazzia, accumulata lentamente nelle quattro sonate, scoppia con una intensità frenetica che veramente fa pena; qui la malattia trapela ad evidenza dalle cose dette e dalla forma con che son dette. Il signor di Banzole nelle cinquanta paginette di questa sua, non saprei se orazione accademica o prelezione scolastica o conferenza pedagogica o irruzione maniaca, fa un pasticcio meraviglioso; e senza un criterio purchessia, senza una norma o un pretesto o una qualunque giustificazione della sua conscienza, fondandosi unicamente sui fatti o male o poco o punto osservati, non proponendosi se non di mostrare il fatto, senza ricercarne nè le cause, nè gli effetti, strozza con le sue mani tutta quanta la produzione letteraria italiana della seconda metà del secolo; e tutti questi pollastri così strangolati cucina in fricassea nel brodetto d'una specie di filosofia fatta a modo suo d'idealismo hegeliano non bene inteso e di buddhismo schopenhaueriano mal digerito.
Riferire i giudizi critici del signor di Banzole sarebbe farsi complice della sua pazzia. Egli consacra tre pagine a infamare la memoria di Pietro Cossa, e lo chiama un nano ingigantito dal cattivo gusto del pubblico e della cronaca teatrale, un povero diavolo di macchinista scenico a cui venne fatto una volta di vestire decentemente da romana antica una pettegola parigina, e si credette di avere scoperto il mondo romano; che seppe una volta dipingere con coloracci forti una scena, e si credette di aver costruito tutto un teatro. Questa è una curiosa maniera di scrivere. Quali sono i criteri drammatici del signor di Banzole? Quali i modelli, secondo lui, più imitabili? Il teatro francese moderno non gli va: in Italia, non gli piace nemmeno il Goldoni, pare. Poi cita a modello le tragedie del Foscolo e del Manzoni. Come si fa a raccapezzarsi in tanto guazzabuglio? E come ha fatto a raccapezzarsi il signor di Banzole?
Così, ove tratta del Carducci, a mala pena si intende ciò che egli voglia dire. Adopera un frasario così romanticamente nuvoloso, così incomprensibile e inafferrabile e impalpabile per l'impasto di reminiscenze bibliche e victorughiane, che è una cosa meravigliosa a leggere. Pare di udire le campane della chiesa di Nôtre-Dame scampananti a morto. «Nullameno ignorato ed incompreso per molti anni, invece di capitanare il nuovo movimento, parve ne continuasse un altro; mentre i giovani volontari della letteratura, che avevano forse lasciate allora le bandiere del ( sic! ) Garibaldi, ne cercavano un altro egualmente splendido, ma altrettanto facile. Invece il nuovo duce, che, varcate le Alpi scrutava in quel momento per la Germania preludendo alle teoriche e ai trionfi di Moltke, affermava la necessità di una profonda dottrina per ogni ordine di milizie, e di una grande tradizione per una grande arte.» Che diavolo significa questo? È un giudizio subbiettivo? È un fatto storico? A me paiono parole senza senso. Più giù, riparlando del Carducci, rimprovera questi e il D'Ancona di fossilizzarsi nelle ricerche della critica storica, dimenticando che il Carducci ha pubblicato, se non altro, tre volumi di Confessioni e battaglie, dimenticando che il moderno metodo critico è appunto tale, e tale essendo ha rinnovato tutte le forme e tutta la materia dell'arte; non pensando che poche righe più sotto avrebbe lodato il Bartoli di ciò che rimprovera nel Carducci e nel D'Ancona.
E sèguita, con un tafferuglio strano di nomi cozzanti e discordanti, di teoriche e di tendenze e d'inclinazioni diverse, di dati storici messi a forza insieme nello stesso periodo a pretesto di una stramberia, mescolando senza discernimento classicismo e romanticismo, naturalismo e idealismo, lodando in una pagina quelli che vitupera nella pagina successiva, facendo infine una grandissima frittata di tutti gli scrittori e di tutti gli scritti che, nella foga di tirar via, gli sono venuti in memoria; e questa frittata friggendo nell'olio stantìo di un'articolessa di politica estera sullo sviluppo del panslavismo in Europa, sullo sviluppo del nikilismo (è scritto proprio così) in Russia.
E dire che costui è un bravo giovine che fa onestamente e avvedutamente traffico di suini! La cosa è tanto strana, che non si può intendere senza premettere nel cervello del signor di Banzole una grave alienazione. Il signor di Banzole ha la memoria ammucchiata di letture frettolose e smozzicate, di teoriche male intese e mal digerite, di fantasmi malamente e fiaccamente formati: di più, l'instrumento della lingua non gli sta troppo sicuramente nelle mani. Come dunque gli è saltato il ticchio di mettersi a sonare una sinfonia così tumultuaria? A che serve far della critica, quando non si vuol giungere a uno scopo, magari falso, magari incerto, magari cattivo? Ora, da tutta la filastrocca del signor di Banzole una conclusione unica si può dedurre: che egli, giunto alla persuasione dolorosa della sconfitta, abbia, per una puerile allucinazione mentale, sperato di trascinar seco nel precipizio cinquant'anni di vita letteraria. Infatti, in ultimo, la sua prosa pare come sonante e trionfante d'una certa frenesia gioiosa ed orgogliosa, d'una certa pazzìa gloriosa. E attraverso le nebbie sentimentali delle sue fantasticaggini romantiche, mi par di vederlo, con le chiome rase da una qualche sconosciuta Dalila, crollare con le forti braccia di mercante di porci le colonne del tempio dell'arte, urlando con la gran voce d'un maniaco, che si creda d'essere il Padreterno:
— Pera Sanson, con tutti i Filistei.
VI.
Si pubblica in Padova un Giornale degli eruditi e curiosi, che alcuni eruditi amici miei chiamano pittorescamente dei cretini e curiosi; e in verità, da che l'arte della stampa ha aperto tanta facilità di sfogo alla sciocchezza umana, non mai una imbecillità più puerile è stata perpetrata da più persone in conspetto del popolo. Questo giornale, che vorrebbe offrire un contributo alla piccola erudizione, è fatto in modo da rammentare quel giochetto di domande e risposte, onde ancora si dilettano le ragazze borghesi, e che fra i giuochi innocenti è il più stupido. Le domande che in questo foglio si propongono sono così insipide, così oziose, così assurde, e le risposte così piccinamente boriose, così gonfie di solennità e di degnazione, da farvi schiattar per le risa. Una volta, in un accesso di dubbio disperato, uno domandò se si avesse a scrivere dinanzi o dinnanzi; e un altro, con una feroce aria di gravità sdegnata, rispose che veramente, poichè questa parola risulta da due elementi, d' e innanzi, bisognerebbe scriverla con doppia enne, ma poichè io la scrivo con una enne sola, bisogna rassegnarsi; e qui una sfuriata contro due miei peccati, la prolissità e la monomania sentenziatrice. E dire che io, per non far torto a nessuno e per risolvere pienamente la questione, scrivo con una o con due enne spensieratamente, senza lasciarmi turbare il sonno da una consonante nasale. Un terzo domandò quale fosse il più bel libro di Edmondo De Amicis; e un quarto gli rispose con molta prosopopea. Un quinto infine domandò chi fosse Marco Balossardi e un sesto rispose: Olindo Stecchetti, il D'Annunzio e il Carducci; e costui firmò il quesito suo così: Asellus Maximus. Il Carducci, in un momento di lieto umore, rispose: «Asellus sarà maximus; ma io non sono Marco Balossardi.» Anche ci è di quelli che ricorrono a questa fonte di erudizione per sapere chi sia Chiquita, chi Gandolin, chi Matamoros; e i misteri della presente Arcadia giornalistica sono uno ad uno svelati da gl'infallibili eruditi che cooperano a questo giornale.
Se non che, poichè per fortuna della patria questa forma del cretinismo non è largamente diffusa in Italia, il giornale morrebbe per manco di alimento, se non avesse un sostentatore inesauribile. E costui è — occorre dirlo? — il professore Rodolfo Renier. Il professore Rodolfo Renier è l'Apolline delfico del Giornale dei cretini e curiosi: è lui che dà i responsi, dritto sul tripode della sua maestà catedratica, illuminando con la immensa luce della sua erudizione l'Italia. Egli ha ricopiato le liriche di Fazio degli Uberti e certi sonetti del Pecora, e ha fondato il Giornale storico della letteratura italiana per cantar le glorie di Fazio degli Uberti, del Pecora, e del professore Rodolfo Renier; di più per assicurarsi una clientela fra la bassa erudizione, soddisfa con grave sperpero di intelletto e di studi la curiosità di tutti quelli che desiderano di sapere chi sia Chiquita.
Il professore Rodolfo Renier è un singolarissimo tipo di erudito. Dopo aver fatto in Firenze, in società col professore Arturo Linaker, della critica estetica che faceva sbellicar dalle risa sin le pietre di Mercato Vecchio, vedendo come veramente lo studio della storia letteraria avesse fatto qualche progresso anche in Italia e come la critica sperimentale cominciasse a prevalere, nel primo entusiasmo di questa strana e grande scoperta si buttò anch'egli alla ricerca del materiale con un impeto indomabile; ed essendo proposto nella scuola tra altre esercitazioni critiche uno studio intorno alla lirica di Fazio degli Uberti, questo Rodolfo si buttò addosso a quell'imitatore di Dante con una furia pazza, e gli consacrò tutta la vita. Se lo aveste veduto quando andava in giro per l'Italia a ricopiar manoscritti! Pareva che da quella copiagione sua tutta la critica moderna dovesse andare a soqquadro, e che la rivelazione di Fazio degli Uberti dovesse sconvolgere tutti i criteri che sin qui hanno retto l'edifizio della nostra storia letteraria. Io lo vidi una volta nella biblioteca corsiniana, e l'ilarità che nell'anima mia suscitò la sua conversazione mentre tornavamo via da Trastevere per ponte Sisto affollato di serve, mi è durata di poi per molto tempo. Venivamo via in quattro o in cinque coi nostri scartafacci di transcrizione in mano, ed era l'ultimo autunno, e il vespero carezzevole spandendo sui lavori del Tevere un lume d'un color di viola pareva che ci rimproverasse blandamente le nostre vili fatiche. E il signor Renier parlava del suo Fazio con un tanto intenerimento di voce e un così risibile calor di passione, che d'allora in poi mi ha fatto avere in orrore tutti quanti gl'imitatori di Dante. Pareva che questo suo Fazio fosse il maggior poeta del mondo. E questo Fazio di poi ci ha seccato per un pezzo. Poichè dalla passione che dal solo copiarne il canzoniere si suscitava nel signor Renier, tutti si aspettavano o ch'egli avesse scoperto in quella legnosa lirica una qualche sconosciuta virtù, o che almeno di là si spiccasse a qualche non pensabile slancio critico. E dovunque si andava, nel piccolo formicaio dell'erudizione italiana, era una persecuzione:
— Sai, — mi diceva il mio amico Zenatti, terminata di leggere una lettera — è Fazio Renier che mi scrive: mi parla degl'imitatori di Dante.
— Sai — mi diceva il mio amico Morpurgo, giunto appena da Firenze — ho visto Rodolfo degli Uberti.
— E che fa?
— Copia le liriche di Fazio.
Si usciva di scuola col Monaci, e domandava:
— E il signor Renier ha terminato il suo Fazio?
Si apriva il Preludio, e si trovava o una qualunque pappolata del signor Rodolfo, ove Fazio era ricordato amorosamente, o una notizia di cronaca ove la edizione critica delle liriche di Rodolfo Renier a cura di Fazio degli Uberti era minacciata da un momento all'altro. Poi cominciò un'altra storia. Questo mattacchione del signor Rodolfo (com'è arciducale questo imitatore di Dante!), per fare un po' di propaganda al suo metodo critico, pubblicò uno o due opuscoli di cose inedite per occasione di nozze. Non l'avesse mai fatto! Tutti gli eruditi che stavano in aspettazione, rimasero con un palmo di naso. Quella era dunque la novità? Novità veramente era, poichè cosa più scempia non fu pensata mai: si trattava di sopprimere nella edizione dei testi antichi l'intelligenza e la personalità del critico, per rimettersi in tutto al manoscritto: si trattava di sostituire alla critica del testo la copia pura e semplice, rimettendosi per ogni dubbio ortografico metrico o grammaticale all'autorità di un amanuense ignoto e, probabilmente, ignorante. Questo fu il topolino che dopo una quasi quinquennale gestazione partorì la testa vuota del signor Renier; e intorno a questo topolino combattè Giulio Salvadori con troppo più possenti armi che non fossero necessarie ad accoppare un novatore tanto rodolfo. Dopo, venne il famoso canzoniere; e, dio, che spettacolo allegro! Quando esso fu pubblicato, già tutte le persone di buon senso erano persuase che questo Renier fosse uno sciocco o un mistificatore, e l'accoglienza a quel volume che non aggiunse nulla a quanto dell'Uberti già si sapeva, fu poco lieta. L'effetto fu questo, che da una parte si vide come in Italia ci sia della gente, la quale, per non aver tanto ingegno da esercitare un qualunque onorato mestiere, si butta all'erudizione senza sapere nè la grammatica italiana nè la metrica; dall'altra il signor Renier, deluso nelle sue folli speranze, si sforzò di riparare in qualche modo al disastro lodandosi largamente da sè medesimo e facendosi lodare da qualche più intimo amico. E se lo spettacolo, per la strana prosopopea con la quale il signor Renier vorrebbe imporre questa sua sgrammaticata erudizione e per l'insigne officio cui il ministro dell'istruzione pubblica lo ha eletto, non è ridicolo, io voglio consumar nel pianto la mia restante vita.
Di qualunque cosa scriva il signor Renier, fa smascellar dalle risa; e più volte in questo libro io ho dovuto occuparmi di suoi sfarfalloni grossi come la gran botte di Norimberga. Sebbene egli disserisca di qualunque materia con una solennità comica e lacrimevole insieme, la povertà del suo cervello è strana. Figuratevi: si è consacrato tutto a un argomento così misero, qual'è quello degl'imitatori di Dante, e l'ingenuità de' suoi spropositi ogni volta che parli di cose dantesche non è credibile. Eccone una, per esempio. Il professor Bartoli in un momento di allucinazione critica ha voluto dimostrare che la Beatrice di Dante non sia se non una beatrice, un qualificativo astratto e generico materiato con una specie di mito femmineo. Non ci è stato in Italia uno che abbia accettato questa fantasticheria del Bartoli: era dunque naturale che il professor Renier subito ne fosse colpito, e ogni volta ch'egli deve parlare dell'amica di Dante, scrive senz'altro beatrice, come se quell'arzigogolo fosse entrato o potesse entrar mai nella persuasione della gente seria. Ed eccone un altro, più bello e più schiettamente odorante d'olezzo d'asino.
Nella smania di fare e di rifare ogni giorno il mondo dell'erudizione, onde il signor Rodolfo è posseduto, ha scoperto in una delle più remote provincie germaniche un povero diavolo d'un tedesco, un tal Bertoldo Wiese, e lo ha aizzato nel suo giornale, che spudoratamente s'intitola dalla letteratura italiana, contro il Carducci. Questo povero minchione d'un tedesco si è d'improvviso trovato nella pelle d'un cane randagio lanciato in un cortile contro un orso a qualche festa popolare germanica; e le sue capriole e i suoi salti e i suoi abbaiamenti sono stati tali da fornir per un mese argomento di riso a un capitolo di canonici. Figuratevi: l'imbecillità e la goffaggine di questo cagnotto furono così madornali, ch'esso andava a torno pel cortile divincolando la coda, abbaiando con una strana iattanza, e ora addentando una scopa appoggiata al muro, ora buttandosi fieramente sopra un qualche cencio abbandonato in terra, senza poter mai toccar l'orso.
Il professore Rodolfo, con un berrettaccio di pelo d'asino sulla zucca, affacciava la testa di su 'l muro del cortile, e incitava patriotticamente quel vile cagnottolaccio tedesco contro il nostro grande e nobile orso italiano. La gente in su le prime, non avendo bene inteso il giuoco, guardava; ma poi di subito se ne andò stomacata, poichè le vigliaccherie e le ribalderie hanno ancora la virtù di muovere a schifo gli animi umani. Restò uno, più attaccabrighe degli altri, e cacciò via a pedate la bestia aizzata e la bestia aizzatrice. Costui, se piace al professor Rodolfo Renier, sono io. Or ecco, fuori d'ogni velame di metafora, la storia del cagnotto tedesco e delle pedate.
Il Carducci pubblicò nel 1871 a Pisa, pei tipi dei Nistri, una preziosa raccolta di Cantilene e ballate, strambotti e madrigali dei secoli XIII e XIV, tratte di su 'l codice magl. stroz. VII, 1040; e quella pubblicazione fu sempre meritamente tenuta dagli italiani e dagli stranieri come una magistrale opera di critica per la grandissima diligenza dell'edizione e per la capitale importanza della materia. Or dopo dodici anni questo tedesco ci viene a dire che, avendo confrontata l'edizione carducciana col manoscritto, ha scoperto una infinità di errori e di omissioni; e pretende di correggere il Carducci.
Pretende di correggere il Carducci, questo Bertoldo, e sa d'italiano quasi quanto ne sa il professor Renier! E per chi si prenda il gusto di scorrere quelle sue emendazioni, è una festa di risate graziose. Egli, naturalmente, non sa nè la grammatica nè la metrica italiana; e, costretto dalla necessità ad adottare il metodo critico del professor Renier, si rimette in tutto all'amanuense che transcrisse il codice, e rimprovera con una fierezza di lanzichenecco il Carducci, di non aver stampato degli endecasillabi di dodici, tredici o quattordici sillabe, e di non aver lasciato nella edizione sua tutti gli spropositi ortografici e grammaticali, onde il copista infiorò la sua copia. Di più, questo povero diavolone d'un tedesco non sa leggere i manoscritti italiani: l'esse, per esempio, è per lui un rompicapo chinese, e ora lo scambia con un elle, e ora invece l'elle gli pare un esse. In fine, egli si rizza su dal confessionale con una canna in mano, come uno di quei preti che in San Pietro paiono intenti a pescare all'amo e invece dan l'assoluzione abbassando la canna sul capo di tutti i peccatori che vengono a deporre il pesciolino d'un peccatuzzo veniale a' loro piedi; ma non dà l'assoluzione: anzi squassa in alto e palleggia ferocemente quella canna, e pare un cherusco escito dalla melma della palude con la canna da respirare in mano. In fatti, si tratta d'un peccato mortale: il Carducci, secondo il nostro Bertoldo, ha omesso nella sua edizione alcune importantissime poesie inedite di Dante, del Cavalcanti e di altri; e, per riparare a tanta incuria, le pubblica lui.
Per gli altri e pel Cavalcanti, il nostro Bertoldo non stia in pena: hanno già avuto più volte l'infamia o l'onor della stampa. Il caso grave è intorno a Dante, del quale ecco gli endecasillabi omessi, chi sa perchè, dal Carducci:
Indi spiro sanzessermi p ro ferta
dante lavolglia discerno melglio
chotu qualu nque cosa te piu certa
P er chio la veggio neluerace spelglio
chefa dise' parelglio laltre chose
et nulla face luj dise parelglio
Tu vuolgli vdir qua n te chedio mi n puose
nelexcelso giardino dove costei
acosi lunga scala ti dipuose
E quanto fudilecto agliocchi miej
ela p ro pia ragion delgra n disdengno
clydiomo chu sai et che fei
Orfigluol mio nouel gustar dellegno
fu p er le lacagio n e dita n to exilio
ma solame n te il trapassar del se n gno
Quindj onde mosse tuo do n na vergilio
quattro milia trece n to et due volumj
disol desideraj q u esto concilio
Et uudi luy tornar atutti ilumj ( sic )
dela sua strada noue cie n to trenta
fiate me n tre chio i n terra sumj.
Or come il Carducci ha potuto commettere la grave negligenza di tralasciare questi versi? È strano. Veramente da prima, leggendo dei versi come questi:
dante lavolglia discerno melglio,
fu perle lacagione ditanto exilio,
et uudi luy tornar atutti ilumi,
fiate mentre chio in terra sumj,
non che endecasillabi di Dante, mi parvero muggiti d'un rinoceronte; poi mi venne un lontano ricordo, come di cosa altra volta imparata a memoria e recitata in iscuola; e subitamente mi sovvenni che quei versi inediti di Dante dovevano essere editi in un libro, stampato bensì in pochissimi esemplari fuori di commercio, ma che pure un erudito di buona volontà, con qualche sforzo può riescire a procurarsi. Corsi infatti a prendere questo libro, che è intitolato, — Dante Alighieri, La Divina commedia con note tratte dai migliori commenti per cura di E. Camerini, 6ª edizione stereotipa, Milano, Sonzogno, 1877, — e a pagine 401-2, ( Paradiso, XXV) lessi:
Indi spirò: Senz'essermi profferta 103
Da te, la voglia tua, discerno meglio
Che tu qualunque cosa t'è più certa,
Perch'io la veggio nel verace speglio 106
Che fa di sè pareglie l'altre cose,
E nulla face lui di sè pareglio.
Tu vuoi saper quant'è che Dio mi pose 109
Nell'eccelso giardino, ove costei
A così lunga scala ti dispose,
E quanto fu diletto agli occhi miei, 112
E la propria cagion del gran disdegno,
E l'idioma ch'usai e ch'io fei.
Or, figliuol mio, non il gustar del legno 115
Fu per sè la cagion di tanto esilio,
Ma solamente il trapassar del segno.
Quindi, onde mosse tua donna Virgilio, 118
Quattromila trecento e duo volumi
Di sol desiderai questo concilio;
E vidi lui tornar a tutti i lumi 121
Della sua strada novecento trenta
Fiate, mentre ch'io in terra fu' mi.
Sì, o signori: non ispalancate la bocca e non levate gli occhi al cielo in atto di meraviglia. Non è il caso di meravigliarsi di cosa alcuna, quando si ha da fare con certa gente. Quel povero minchione d'un discendente d'Arminio vuol venire a fare il dottore in casa nostra, e rimprovera al Carducci di non aver pubblicato, come cosa inedita, alcuni endecasillabi che poi sono delle terzine del Paradiso: pazienza. È un vecchio vizio tedesco quello di cacciare il naso nelle cose italiane, e quel povero Bertoldo è degno di pietà, poichè ha trovato un Cacasenno che gli ha spalancato le porte d'Italia.
Ma colui che meriterebbe da vero una pubblica flagellazione a posteriori, in piazza Navona, in conspetto di tutto il popolo ragunato con le trombe e con le cassette di latta per la festa della Befana, è appunto quello stolido Cacasenno, quel disgraziato professore di filologia romanza, che ha dedicata tutta la vita agl'imitatori di Dante, e non ha nè pur letta la Divina Comedia. Ma che cosa, oltre le liriche di Fazio degli Uberti, ha mai letto il professor Renier? Non mai un trattato di geografia di certo, poichè nell'ultimo fascicolo del suo Giornale storico della letteratura italiana egli pone Dublino in Iscozia. O Giornale storico della letteratura italiana, merdosior omnibus latrinis! Si son messi in tre a farlo, e tanto allegri sono i loro spropositi, e con sì comica solennità li affidano alle mani della tipografia, che io vorrei chiamare questi tre il Bertoldo, il Bertoldino e il Cacasenno della erudizione italiana. Se non che, manca ad essi quel grosso buon senso che la leggenda popolare attribuisce a' suoi eroi. Fanno per altro ridere, e il cavalier Marco Balossardi e Corrado Ricci hanno riso in rima alle loro spalle. I versi del cavalier Balossardi saranno in breve pubblicati, e rideranno anche i lettori: io voglio qui citare il sonetto di Corrado Ricci, che è tuttavia inedito:
Per un'ulcera dura nel prepuzio
M'hanno applicato al ventre un ossocrozio
Onde ho passato sette giorni in ozio
A legger certo libro del Manuzio.
C'è dentro una ricetta di Stercuzio
Notissima al Traversi, al Graf, al Grozio:
Sei oncie di Novati in sei di lozio,
Undici di Renier in tre di Luzio.
Sapendo sulla fede del Leibnizio.
Che quelle droghe (che non pagan dazio)
Come purgante sono un benefizio,
Ne presi insin che non senti'mi sazio,
E dopo tre o quattr'ore di supplizio,
Ho cacato le liriche di Fazio.
Tale è il professor Rodolfo Renier, e tale pur troppo è qualche altro, che senza essere tanto pienamente inetto a ogni opera intellettuale, crede anch'egli che la critica nessun'altro più degno officio possa usurpare, oltre un cieco e spesso vano ragunamento di materiale.
L'esplorazione scientifica, per virtù del Carducci del D'Ancona del Comparetti dell'Ascoli, e di altri più giovani usciti dalle loro scuole, dava in principio frutti bellissimi; e a poco a poco, mettendo in luce del nostro materiale letterario o non mai o malamente studiato, dava un nuovo impulso all'esame di tutto quanto il nostro patrimonio d'arte e conferiva alla critica una serietà e una solidità non mai conseguite in Italia; e sopra tutto propagando il metodo sperimentale educava la gioventù a un esercizio dell'intelletto non più vagabondo e capriccioso, ma positivo ordinato profondo. E veramente il primo effetto di questa propaganda non poteva essere migliore, poichè i primi giovani che uscirono da queste scuole, per esempio il Rajna e il D'Ovidio, furono tali da potersene onorare qualunque popolo più dotto e più scientifico del nostro. In sèguito molti altri giovani con non minore fortuna batterono la medesima via; ma per grandissima sciagura qualche mercante s'è cacciato con suo ciarlatanesco apparato di richiami e di romori nel tempio. Dico mercante per modo di dire e per un maledetto amor di metafora, ma avrei dovuto dire, per non deviare dalla verità, imbecille. Costoro... ma poichè non son molti, per buona fortuna, e poichè le loro note caratteristiche si raccolgono, come in un tipo unico, nel professor Renier, parliamo in numero singolare, e cerchiamo di definire il pedante giovine.
Costui dunque, il pedante giovine dico, ha la scatola del cranio vuota in tutto di materia cerebrale; ha per converso non saprei dire se nel midollo spinale o nelle palme delle mani o in qualche altra parte della persona, un prurito una fregola una smania ferocissima di apparire fra gli eruditi eruditissimo, e fra i nuovi ricercatori più ricercatore e più nuovo di tutti. E ricerca, e dovunque trovi o un conto di lavandaia, o una lettera di un maggiordomo, o una qualche ghirlandetta di sonetti d'un qualche Stiavelli dell'antichità non polluta mai dal rude amplesso della stampa, copia; ma prima gitta tra gli amici la voce. E da per tutto, ove sono ingenui che si siano lasciati cogliere da quell'apparato di cerretanismo, la voce corre: Il Renier.... perdono, volevo dire il pedante giovine. Il pedante giovine ha scoperto un importantissimo conto d'una lavandaia del secolo XIV. Sapete? Il giovine pedante ha fatto una scoperta preziosa: ha ritrovato una lettera di un maggiordomo di un camerlengo apostolico del secolo XVI. Hai veduto? Il pedante giovine fa un'edizione critica dei sonetti d'uno Stiavelli del XV secolo. E il giornale amico annunzia dignitosamente: «L'egregio dottor pedante giovine, professore di storia comparata delle lingue e letterature neolatine nella R. Università di Torino, ha fatto una serie di scoperte d'una importanza capitale per lo studio delle nostre fonti letterarie: un conto di lavandaia del secolo XIV, che sconvolge tutti i criteri sin qui vigenti intorno alla coltura generale di quel tempo; una lettera di un maggiordomo d'un camerlengo apostolico del secolo XVI, che apre nuovi orizzonti allo studio della calligrafia vaticana dopo che le guardie palatine furono vestite dell'uniforme pensata da Michelangiolo; una ghirlandetta di sonetti d'uno Stiavelli del secolo XV, che gitterà una nuova luce nelle tenebre del petrarchismo.
«Con quest'ultima l'illustre dottor Rodolfo comincia una larghissima esplorazione intorno agl'imitatori del Petrarca. Crediamo di sapere che egli consacrerà molti anni della sua vita a transcrivere e pubblicare tutta la lirica petrarcheggiante, dal canzoniere di Giusto de' Conti da Valmontone sino alla più tarda e più ignota petrarcheria. Opera colossale che servirà di risposta a tutti quei farfallini che, con una leggerezza senza esempio, osarono rimproverare alcuni insignificanti spropositi di grammatica, di metrica e di buon senso a un erudito di tanto peso».
E così il Pedante prosegue la sua via, con molte risa delle persone sensate, allucinando gl'ignoranti o gl'ingenui. E quando alcuno ardisca di movergli qualche osservazione, pietosamente, tanto per fargli, con buone maniere, intraveder l'abisso della sua imbecillità, allora s'infuria, e prende ad abbaiare, e prende a seccare il prossimo con una petulanza fastidiosa, che v'induce la voglia di acchetarlo con un calcio. A costui manca la prima e più necessaria facoltà critica: l'intelligenza. Egli non capisce nulla, non sa nulla, non sa far nulla: sgrammaticato e destituito di ogni senso melodico, egli transcrive spropositando come un copista del XIV secolo; gli manca per altro la perizia calligrafica che gli amanuensi antichi ebbero. Egli non intende nemmeno quanta distanza corra tra le sue vili fatiche e l'opera dei veri e utili ricercatori. Nessuno è più inflessibilmente positivo nella pubblicazione dei testi antichi del professore Ernesto Monaci, il quale dalla edizione diplomatica è passato addirittura alla fotografia dei manoscritti; ma il professor Monaci ha una larghissima e profonda erudizione di tutta quanta la storia letteraria dei popoli neolatini e un acume critico sicuro, e ogni pubblicazione sua colma una lacuna e risolve dei dubbi: così col canzoniere portoghese, così col chigiano, così sempre. Ma questo signor Renier, quest'oracolo delfico del Giornale dei cretini e curiosi, il quale copia tanto per copiare e per scrivere il suo nome arciducale sopra una edizione d'un testo antico, il quale non sa nemmeno, copiando, obbedire alle leggi metriche e grammaticali, e dopo aver copiato, quando dalla copia appare ad evidenza l'inettitudine sua a qualunque esercizio d'intelligenza, vuol empire l'Italia del suo malumore, e della sua boria, e della sua sciocchezza puerile, questo signor Renier meriterebbe un pensum enorme: poichè non è egli se non uno scolaraccio ambizioso e di cervello tardo, che vuole a forza imporsi sull'altra scolaresca con sue appariscenti reverenze al maestro, e con un copioso imbrattamento di carta. Meriterebbe gli si dessero a ricopiare tutti i codici della Riccardiana dieci volte; e dopo, lo si condannasse ad appiccar di sua mano il fuoco a tutta quella carta imbrattata. E sì che su questa scolaresca siede maestro, ammonimento e terrore a tutti gli imbecilli facinorosi, Giosuè Carducci, il quale alla sua gloria poetica congiunge l'altra, più grata forse a lui, di essere stato dei primi rinnovatori, certo il più efficace propagatore della critica positiva in Italia. Giosuè Carducci non è un vile amanuense, se bene pochi siano più di lui operosi ed assidui esploratori di biblioteche; ma nella indagine critica reca tutta la lucidità della sua mente e tutto il larghissimo contributo della sua dottrina, e non si racchiude in un circolo vizioso, ma trascorre in trionfo tutto un immenso campo, e dalla più antica letteratura italiana o latina passa alla polemica con gli scribacchiatori del giorno; e dopo aver pubblicato quel libro di cantilene e ballate etc. (o Bertoldo, salute!) che è più importante di tutta quanta l'epica e tutta quanta la lirica di tutti quanti gl'imitatori di Dante e del Petrarca, stampa tre volumi di Confessioni e battaglie e ne apparecchia uno sui trobadori della corte di Monferato. E poichè mi son seccato del signor Renier e degl'imitatori di Dante, e certo anche i lettori ne debbono essere infastiditi, passiamo, per compenso, alle Confessioni e battaglie, con le quali il Carducci ha scosso da sè quella incrostazione leggendaria che si era formata intorno alla sua persona.
Quale sia il processo chimico della leggenda, si sa. Appena un uomo, per meriti o per demeriti grandi presso il prossimo suo conquista in patria e fuori una larga popolarità, ecco intorno a lui comincia uno strano concorso di animalacci e di animaletti. Vengono le vipere, e schizzano sul suo nome il veleno dalle gengive; vengono i cani arrabbiati, e vi schizzano la bava dell'idrofobia; vengono le lumache, e vi strisciano sopra intonacandolo d'una patina argentea. Così quel nome scompare sotto una multipla vernice, come gl'insetti in un pezzo d'ambra; e i presenti e i posteri guardano la vita di quell'uomo a traverso quegli strati cristallini, che ne ingrandiscono un qualche aspetto, e un altro ne impiccoliscono, altri infine nascondono affatto. Quando il nome di Giosuè Carducci passò i confini di Romagna e di Toscana, lo accompagnarono strani romori. Dicevasi che fosse un uomo sanguigno nervoso turbolento bilioso nella critica, sanguinario nella satira; e per di più un professore fra socialista e repubblicano, smodatamente amico della diva bottiglia. Queste cose che io, con altri compagni miei, udii nel '76 da un professore di ginnasio il quale aveva imparato il tedesco dallo Zendrini ed è un uomo di molto ingegno e di moltissima dottrina, si dicevano per tutta l'Italia, ove nella fantasia della gioventù la leggenda carducciana era sorta, tutta tinta d'un bel rosso di sangue, fra quelle dei re di Roma. Con le Poesie il Carducci non s'era fatto molti nemici: la prevalenza del romanticismo nell'Italia non faceva badar molto a quel classico maremmano balzato su da una biblioteca con una muscolatura salda e con una erudizione rara. S'erano uditi degli urli per l'inno a Satana, s'era udita più d'una predica velenosa di qualche don Margotto, ma niente altro di grave. Il fragore e le battaglie e la popolarità del Carducci cominciarono veramente con le Nuove Poesie; e cominciò allora la leggenda, contro la quale il Carducci si è dibattuto con tutto l'impeto del suo ingegno, con tutta la violenza della sua natura. E i dibattimenti e i combattimenti li abbiamo ora tutti insieme in questi tre volumi.
Nelle confessioni il Carducci narra parecchi periodi della sua vita di ragazzo indocile e rivoluzionario fra i vesperi caldi della Maremma toscana, fra i cavallari che menavano i polledri a bere, fra gli stormi di falchetti e di aquile che si spiccavano a volo verso il levante; la sua vita di scolare negli scolopi e poi nelle biblioteche fiorentine ove raccolse una così ricca messe di erudizione; la sua vita d'insegnante e di poeta a san Miniato e in Bologna, che fu e tuttavia è per lui una seconda patria. Queste confessioni, sparpagliate quà e là in varii capitoli, hanno questo d'importante pei lettori moderni e pei critici avvenire, che con una grandissima evidenza mostrano l'evoluzione delle facoltà poetiche del Carducci in relazione con la sua vita e co' suoi studii: evoluzione progressiva e meravigliosa dai Juvenilia scritti in Toscana fra il dominio assoluto del romanticismo, e le Odi barbare balzate all'amico sole di Romagna dal petto del poeta vittorioso. E poichè la vittoria non si potè conseguire senza un aspro e lungo combattere, le battaglie sono forse di maggior momento. Il Carducci, si sa, è un uomo forte di complessione, forte nella poesia, forte nella polemica: egli dunque, che pure ha tanti e tanto sicuri amici, non lascia in pace i nemici se non li ha gittati con la faccia a terra. Alcuni dicono ch'egli ecceda nella violenza. E sarà, forse. Egli non ama la polemica fatta tra due salamelecchi, con molti sorrisi d'incoramento agli avversarii: « A tali parole non mancheranno di batter le mani certi amici miei, i quali, per amor della dignità delle lettere, amano foggiarsi dello scrittore un cotal modello accademico, che dovrebbe moversi per entro una raggiera di stucco indorato e passeggiare alto da terra sulle nuvole fatte a batuffoli di bambagia, salvo a lasciar la sua posa di nume melodrammatico per bisbigliar basso in un crocchio — Il tale o il tal altro è un birbante — e stendere nel medesimo tempo la mano inguantata al su lodato birbante se entri nella stanza. Certamente non dobbiamo rinnovare gli esempi del Castelvetro e del Caro: ma la pace a tutti i costi è politica da vigliacchi. » Tale è, in fatto di civiltà polemica, l'opinione del Carducci; e se essa può non troppo piacere agli avversari, deve necessariamente tornare a grado dei lettori indifferenti, pel calore e per la vita che ne viene alla prosa; e poi l'ira del Carducci è santa, poichè non è se non la stizza d'un uomo che con tutto l'animo stia intento a un'opera di grave momento, e i tafani gli ronzino intorno pungendolo per la faccia.
I suoi sforzi di rinnovare il contenuto e la forma della poesia e della prosa critica egli li fece con piena conscienza della serietà de' suoi intendimenti, della maturità delle sue forze, con una preparazione di studii e di esperienze quale, credo, nessun poeta moderno ebbe dopo il Goethe: quelli che lo attaccarono furono manzoniani di seconda mano, o cronisti a cui altra materia difettava, o critici lunghi e mingherlini con mustacchi irsuti e la testa piena di fanfaluche. Costoro lo assalirono con leggerezza strana, senza pensare alla gravità dell'impresa, reputando che i poeti classici fossero una specie di bestie da soma, sulla schiena delle quali il primo imbecille venuto potesse picchiare con pieno e libero arbitrio. Doveva il Carducci, secondo il precetto evangelico, starsene in pace invocando ancora altre bastonate? Egli è pagano, e i pagani certi scherzi non li sopportavano. Si levò dunque anche lui, con le pugna in alto, e per ogni buffetto restituì dieci cazzotti. I suoi avversari furono scavalcati, tutti gli assalti scoperti o abilmente occultati furono respinti, e le violenze sue, non meno dei suoi versi, giovarono a sospingere la gioventù d'Italia alle conquiste della coltura moderna.
Del resto, predecessori in bastonagione, tra i classici e tra i romantici, non gli mancano. Il Goethe, il Dio, che veramente passeggiava in trionfo fra una raggiera di stucco indorato sulle nuvole dell'Olimpo di Weimar, non risparmiò la punta e il taglio de' suoi epigrammi al povero Anacarsi Klootz, che non li meritava; e l'abate Monti menò senza misericordia su la schiena del De Cureil. E non ebbe torto. Poi il Carducci non è una bestia feroce, e allo Zendrini morto perdonò cose che allo Zendrini vivo non aveva potuto perdonare.
Sino a qualche anno a dietro la prosa del Carducci era stata poco letta: gl'italiani, come i francesi, son tanto avversi alla critica, che i magistrali studi carducciani non hanno avuto subito quella popolarità, che, per vantaggio e per onore del nostro paese, avrebbero dovuto avere; poichè nessuno come lui, se non forse il Sainte-Beuve, accoppia a una potenza meravigliosa d'intuizione, a una preparazione larghissima, a un metodo veramente sperimentale, la vivezza del movimento drammatico e il calore e il colore dell'entusiasmo. Le Confessioni e battaglie hanno fatto il miracolo, e mentre in Francia dei più virulenti e più strombazzati libri critici di Zola, per confessione dell'editore, non si vendono tre mila copie, questi volumi carducciani si ristampano a migliaia di esemplari, e le domande del pubblico sempre più crescono.
VI. LA REPUBBLICA LETTERARIA.
Il signor Parlagreco e il deputato Cavallotti — La genesi della gloria cavallottèa — L'evoluzione drammatica del deputato Cavallotti nello spazio e nel tempo — Le passeggiate liriche e i salti mortali metrici e grammaticali del deputato Cavallotti — La critica, le prefazioni, le note, la polemica e le cartoline postali del deputato Cavallotti — Contro la democrazia.
I.
Un feroce uomo, il signor Parlagreco, scrive nell' Arcadia, giornale boscareccio fondato in Napoli per combattere o per abbattere la baracca bisantina: «Non voglio richiamare gli sproloqui dello Scarfoglio contro Felice Cavallotti; sono morti prima di nascere, e il popolo italiano, o repubblicano, o moderato, o codino, va sempre entusiasta per applaudire il Cantico dei cantici, la Sposa di Menecle, e aspetta con ansia il Povero Piero, il Nicarete, la Lea, ecc.» Non io certo vorrò ricercare se la sintassi e l'ortografia di questo bollente signore abbiano le carte in regola per viaggiare attraverso le terre della repubblica letteraria: di questo egli darà conto agli dèi grammaticali. E nè meno io mi curerò di appurare se il signor Parlagreco abbia il diritto e il dovere di parlare in nome del popolo d'Italia. Veramente, poichè il popolo italiano non parla greco, non parrebbe; ma forse questo signore è della famiglia dei greci cavallottici procedenti dall' Alcibiade, e allora s'intende ch'egli reputi in piena fede di parlare italiano. Ma ciò non mi preme: veggano il signor Parlagreco e il deputato Cavallotti di regolare i loro conti glottologici col popolo italiano; io non ci entro. Solamente a una cosa non mi so rassegnare, ad essere accusato d'avanti alla nazione italica d'un peccato che non ho ancora commesso. Quali sono gli sproloqui contro il deputato Cavallotti che il signor Parlagreco non vuol richiamare? Io sono tuttavia innocente, e con piena purità di coscienza mi accingo ora a peccare. Col deputato Cavallotti io ho spezzato il panettone dell'amicizia e bevuto il Chianti della fraternità repubblicana una sera che nel palazzetto Sciarra l'associazione dei diritti dell'uomo celebrava il suo trasmutamento di sede; di poi niun altro contatto o contrasto ho avuto con lui, se non quello significato dai documenti che ristampo dalla Cronaca Bizantina del 1º settembre 1883. Eccoli:
«Pregati dal nostro amico E. Scarfoglio, riproduciamo qui sotto, dal Fascio della Democrazia, due lettere che lo riguardano, e in pari tempo una sua risposta, che il Fascio, non si sa perchè, si è ricusato di inserire.
Appagando il desiderio del nostro amico Scarfoglio, crediamo non inutile avvertire che la Bizantina intende rimanere assolutamente estranea a questa polemica.
La Direzione. »
«Un infelice qualunque, affetto da grafomanìa, certo Scarfoglio, affligge i lettori della Domenica Letteraria con una brodosa e sgrammaticata tiritera, per raccontar loro la storia decennale del giornalismo di Roma dal 1870-1880. L'argomento sarebbe, in sè, non privo d'interesse e meriterebbe, certo, di meglio che un Tucidide così male in gambe. Al qual Tucidide io sono tanto mortificato di non essere nelle buone grazie, ma non so che farci e non posso disperarmene: anzi son molto contento che egli trovi i miei versi sbagliati, perchè così almeno tornano, e che la mia Luna di miele non piaccia a lui, perchè così almeno piace a me e ai pubblici, che val meglio. Per contentar lui, l'avrei dovuta scrivere probabilmente com'egli scrive i suoi articoli: e allora — poveretto me! — i pubblici invece di applaudirmela m'avrebbero tirato le panche sulla scena, e invece di smaltirne quattro edizioni in pochi dì, me l'avrebbero lasciata a disposizione dei topi in magazzino, come una pappolata di uno Scarfoglio qualsiasi.
Ma se gli autorevoli giudizi estetici di un critico così illustre mi fanno buon sangue, mi sorprende invece che Ferdinando Martini, il quale ad essere gentiluomo ci tiene e m'ha assistito in questione d'onore — che Luigi Lodi il quale di questioni simili anche lui ne ha avute meco — lascino stampare in un giornale loro — al mio indirizzo — allusioni a questioni d'onore — d'un buon gusto e d'una delicatezza da offendere le più elementari regole della creanza cavalleresca.
E sì gli amici Martini e Lodi, i quali mi conoscono di vista, dovrebbero sapere, non foss'altro in linea di fatto, che la mia fronte sinora non è segnata da nessuno: il resto della mia pelle non dico, ma nessuno me l'ha mai chiesta per farne pelle di tamburo. E si avrebbero (sic) anche potuto risparmiare l'incomodo di esibire ai loro lettori in trofeo la suddetta mia fronte segnata (sic) dalla sciabola di Arbib.
Non foss'altro per non mettere in ridicolo il signor Arbib, sorpreso di vedersi tramutato in eroe marchiatore di democratici, e per non lasciar mettere in imbarazzo con una frase ineducata i padrini di quel duello, colleghi miei e dell'onorevole Martini. I quali avrebbero potuto spiegare a lui più in disteso ciò che venne a mia domanda sommariamente inserito nel verbale stesso di quella vertenza; cioè come e qualmente il signor Arbib, rompendo sempre indietro sin che fu stretto e investito a mezza sciabola da me, mi venne, allora, quasi letteralmente, levato di mano dai padrini, mentre io mi trovavo a vari passi più in là del posto ov'egli era al principiare dello scontro. Pantomima che il verbale con eufemismi morbidi ma chiari così narra: «L'onorevole Cavallotti avanzandosi e così essendosi trovati gli avversari a mezza sciabola, i padrini ordinarono la cessazione dello scontro per presunta ferita dell'onorevole Arbib.» Pantomima che poi l'onorevole Pullè, del signor Arbib padrino, e regolatore del duello, traduceva in moneta spicciola, quando, alle vive lagnanze del sottoscritto perchè si fosse arrestato in quel momento lo scontro, rispondeva testualmente di averlo fatto per riguardi di umanità, perchè vedeva il signor Arbib perduto. — E i padrini colleghi assentivano.
Fu per questo motivo che non ritenendo esaurita una partita passata in tal modo, rifiutai di stringere, dopo lo scontro, la mano dell'avversario, verso il quale, del resto, nessun astio mi muove. E mi duole che la goffaggine ineducata di un ragazzo ignaro del galateo di queste questioni m'abbia — e proprio in un giornale di F. Martini e L. Lodi — costretto a ritornare su quello spiacevole incidente, e ad uscir dal silenzio che per ragioni di cortesia — verso di me non usata — mi ero imposto fin qui.
Milano, 20 agosto.
Felice Cavallotti.»
Preg. sig. e Collega,
«Ho letto la dichiarazione che il signor Felice Cavallotti, deputato al Parlamento, ha pubblicato nel numero 16 del suo reputato giornale. Ella, signor Direttore, intenderà di leggeri le ragioni per le quali a me non si addice di intavolare una discussione su ciò che il signor Cavallotti narra; ma confido che nella sua imparzialità e rettitudine non troverà indiscreto che io la preghi di pubblicare nel suo giornale l'acclusa copia del verbale dello scontro ch'io ebbi coll'on. deputato Cavallotti. La prego di gradire i sensi della mia maggior osservanza.
Roma, 13 febbraio 1884
Dev.mo Edoardo Arbib.»
PROCESSO VERBALE.
«In seguito ad un articolo del signor Edoardo Arbib nel giornale La Libertà del 12 febbraio corrente contro alcuni deputati di estrema sinistra intervenuti al Comizio dei Comizi, il signor Felice Cavallotti avendo ieri, 12 febbraio, rivolte al signor Edoardo Arbib parole ingiuriose, questi gliene domandò soddisfazione per mezzo degli onorevoli deputati Leopoldo Pullè e G. B. Tenani.
Il signor Felice Cavallotti nominò suoi rappresentanti nella vertenza gli onorevoli deputati Benedetto Capponi Giuli e Alessandro Fortis.
Convenuti insieme i rappresentanti delle due parti, stabilirono che i signori Cavallotti ed Arbib si sarebbero battuti in duello alla sciabola senza riserva di colpi, coi bracciali di sala d'armi e fino a che uno dei due duellanti fosse, per dichiarazione medica, nella impossibilità di proseguire.
Lo scontro ha avuto luogo quest'oggi alle ore 4½ pom. in una villa fuori Porta del Popolo.
Al primo assalto, investendo il signor Felice Cavallotti e trovandosi gli avversari quasi a corpo a corpo o come dicesi più che a mezza, sciabola, fu ordinato dai padrini delle due parti l' alt, anche per presunta ferita del signor Arbib.
Al secondo assalto, il signor Felice Cavallotti essendo rimasto ferito alla regione temporo-frontale destra (ferita lacero-contusa) ed avendo i medici presenti dichiarato essere impossibile continuare il duello in causa del sangue che, sgorgando in copia dalla ferita, avrebbe certamente offuscata la vista, lo scontro ebbe termine, osservate scrupolosamente da ambo le parti tutte le leggi della cavalleria.
( firmati ) G. B. Tenani. B. Capponi. L. Pullè. A. Fortis. »
Onorevole signor Direttore,
Nel Fascio della Democrazia del 23 agosto pervenutomi oggi, leggo un articolo dell'onorevole deputato Cavallotti, che mi richiama alla mente il cardinale Richelieu. Il cardinale di Richelieu, si sa, fu un grande uomo di Stato; e fu anche uno scellerato costruttore di tragedie. E, come spesso accade, tutta la vanità sua si posava su quelle tragedie. Così l'onorevole deputato Cavallotti. Egli, che pure ha tanti meriti patriottici e tanto zelo d'irrequietudine politica, offusca la sua bella gloria di deputato radicale con ogni sorta di peccati in versi e in prosa; e, che è il peggio, qua la sensibilità del suo amor proprio è più delicata. Guai a toccargli la piaga della vanità letteraria! Si drizza tutto armato di punte e digrignando i denti.
Or io nel mio paragrafo di cronaca bizantina sul giornalismo, pubblicato dalla Domenica Letteraria del 19 agosto, posi il dito su quella piaga; e sapevo che l'onorevole Cavallotti mi avrebbe mostrato i denti. Per ciò le insolenze ch'egli mi regala nel sullodato articolo sono minori assai della mia aspettazione; poichè due cose, un biasimo e una lode, hanno una virtù singolare di muovere all'ira l'onorevole Cavallotti: e sono di far versi sbagliati, e di scrivere bellissimi epigrammi latini.
Tuttavia quelle insolenze sono più che sufficienti ad indurre un uomo anche meno focoso di me a una questione personale. Ma io, prima di cedere al desiderio grandissimo di fare un assalto di sciabola con l'onorevole di Piacenza, faccio una riflessione. L'onorevole Cavallotti ha la singolare abitudine di ridurre al silenzio i suoi critici per forza d'armi. Ora io non voglio che l'onorevole Cavallotti se la cavi così a buon mercato. Da qualche anno io vado scrivendo nei giornali certe mie considerazioni intorno alla vita letteraria dell'Italia costituzionale; e queste mie considerazioni saltuarie si collegano e si raccolgono organicamente in un libro, che è quasi finito. Ne manca una parte, la letteratura democratica così per gl'intendimenti sociali o politici come per il catoniano disdegno d'ogni politezza d'arte e di grammatica; e di questa letteratura il portabandiera è appunto l'onorevole Cavallotti.
Ora debbo io, per l'impazienza giovenile di una questione d'onore col Tirteo dell'Italia di Umberto I, privare me stesso del diletto di questo studio, e diminuire il mio libro di un centinaio di pagine curiose e necessarie all'armonia dell'insieme? Se ciò che si differisce si togliesse via per sempre, non esiterei un istante a gittare al diavolo tutto quanto il libro. Ma ci è un proverbio latino — l'onorevole Cavallotti ne può far tesoro per un prossimo epigramma — che ci ammonisce del contrario. Io dunque aspetterò di avere scritto intorno all'onorevole Cavallotti tutto ciò che ho nella mente; e poi mi metterò a disposizione dell'onorevole medesimo con la duplice grandissima gioia di avere scaricata la mia coscienza critica da un peso non lieve, e di trovarmi a fronte d'un cattivo scrittore con altra cosa in mano che non una penna.
Giudichino i lettori della saviezza e dell'opportunità di questa mia determinazione. Prima di tutto, io conquisterò così ai critici più timidi il diritto di dir male dell'onorevole Cavallotti; in secondo luogo, darò all'onorevole Cavallotti il modo di vendicarsi con una sciabolata collettiva delle più aspre censure onde siano stati mai proseguiti i suoi scritti, e di mostrare ancora una volta alla faccia del mondo che la sua mano è più atta alla sciabola che non alla penna.
L'onorevole Cavallotti poi coglie pretesto dallo aver detto io che Edoardo Arbib lo ferì sulla fronte, anzi che nella faccia, per rinnovare una sua vecchia questione col medesimo signor Arbib; ma io in ciò non voglio entrare. L'onorevole Cavallotti ha in qualche parte del suo volto una cicatrice, della quale l'opinione pubblica dà il merito o la colpa al signor Arbib. Se il signor Arbib è innocente, il colpevole sarà un altro: per me, che volevo fare solo un'osservazione estetica, è tutt'uno.
In fine, l'onorevole Cavallotti si richiama a Ferdinando Martini e a Luigi Lodi, ch'egli crede direttori della Domenica Letteraria e responsabili di quanto vi si stampa; ma egli deve sapere che, avendo l'onorevole Martini declinata ogni responsabilità della redazione di quel giornale, e non avendola assunta nè Luigi Lodi nè altri, i soli responsabili sono gli autori degli scritti pubblicati e firmati.
Così stando le cose, io dichiaro formalmente che di tutte le ulteriori pappolate che l'onorevole Cavallotti potrà scrivere in proposito non terrò conto, se non come di documenti critici per la polemica spadaccina dell'onorevole summentovato; finchè non abbia potuto esaminare con piena serenità di animo e di giudizio tutto il materiale di prosa e di poesia che questo deputato amico delle docce e degli epigrammi latini ha messo insieme pei sorci dell'Italia futura.
Con sincera stima, ecc.
Catanzaro, 25 agosto 1883.
Edoardo Scarfoglio.
E ora, naturalmente, io non aggiungerò commenti; nè andrò a ricercare chi, tra il deputato Cavallotti che comincia a incanutire, e me, che non ho ancor trovato nella mia capelliera il primo pelo bianco, abbia dato in questa burrascosa questione più sicuro segno di calma, di serietà, di dignità; chi, tra il deputato Cavallotti, che asserisce con tanta jattanza il contrario di ciò che è sancito dal processo verbale del duello, e me, che ricordai spensieratamente una ferita non dubitata incresciosa a un così frequente duellatore, siasi mostrato più goffamente ineducato e più ignaro del galateo delle questioni d'onore. I documenti sono chiaramente dimostrativi. Solo, io ho voluto determinare nettamente la posizione mia a fronte del nemico, perchè non mi s'abbia a prendere per qualche povero diavolo d'un Renzo Tramaglino sopraffatto da un don Rodriguccio della letteratura e della democrazia. Il deputato Cavallotti ha voluto atterrirmi con suoi strillacci e con suoi braveggiamenti. Diavolo! e non sapevate, o terribile nemico della prosodia italiana, che don Quijote si diletta mirabilmente delle avventure pericolose? Voi vi appellate ai pubblici che applaudono le vostre comedie e vi chiamano al proscenio prima che sull'atto primo s'alzi la tela, come una ballerina di cospicui polpacci prediletta dalla moltitudine? E in conspetto di questi pubblici io vi voglio svergognare, o sciagurato verseggiatore che recate attorno in vituperio pei palchi scenici del felice regno d'Italia il fantasma della democrazia italiana. Voi siete più vanitoso d'una femminella? E io vi voglio ferire nella vanità. E a proposito della vostra vanità poetica e delle femmine, rammentate, onorevole strimpellatore di troppe chitarre, una vostra avventura genovese? Eravate andato a Genova per la recita di non so quale vostra comedia, e dovevate partire la sera. Nel pomeriggio vi condusse un amico da una bella donna, a cui e voi e l'amico faceste a gara la corte. La bella vi richiese di recitarle dei vostri versi recenti; e, alla domanda lusingatrice, voi, subitamente acceso di una grande tenerezza di voi medesimo e dimenticata la donna bella e l'amore, correste a scavezzacollo all'albergo a tòrre il manoscritto de' vostri versi. L'amico, rimasto solo ad assalire, raddoppiò l'impeto, e, se la cronaca galante non mente, giunse a dar la scalata; sì che quando voi sopraggiungeste col manoscritto, erano ancora e l'uno e l'altra caldi e purpurei per la battaglia. Ben vi stette allora, e ben vi stia ogni volta che una mano audace vi sfrondi il frascame del vostro matto orgoglio poetico.
Su dunque, onorevole Pirgopolinice: in guardia!
II.
Ed ora è tempo, sembrami, che cominciamo a parlar d'arte. Però l'onorevole Cavallotti e l'arte son due termini tanto contradittorii, che non giungo a metterli insieme; poichè, se l'arte è la tecnica del pensiero umano, non aspettatevi la perfezione da un manovale. L'onorevole Cavallotti è nè più nè meno di un manovale, cui niuna più alta e degna cura travaglia, che una furia smaniosa di recar pietre e mattoni e calce all'edifizio barocco della sua vanità poetica. A torto o a ragione — molti credono a ragione, noi mostreremo che a torto — egli si è nutrita per vent'anni nell'animo la persuasione d'avere una singolare energia lirica e drammatica; e su questa base di buona fede ha eretto una sua baracchella fatta di furberia e d'imprevidenza, di spacconeria e di bambineria miste d'un tantino di ciarlataneria. La baracchella è sorretta da una travatura di logica e assodata col cemento d'una certa esperienza delle cose. Il deputato Cavallotti, prima ancora che la riforma della legge elettorale ne sancisse l'importanza, intese che la rappresentanza delle minoranze è una cosa seria; e poichè dopo il '60 in Italia non ci era minor minoranza della democrazia, si mise con le mani e coi piedi a voler diventare il poeta della democrazia italiana. Conferiva al proposito la singolarità della sua natura tra di pazzarellone e di retore, che lo trae a sgrammaticare con lieta spavalderia, e a sofisticare intorno a quisquilie oziose con dottoresca pedanteria. Conferiva anche l'indole della democrazia italiana, la quale non altro essendo che una vera e misera academia ha bisogno d'un suo poetaccio da lanciar contro il nemico come un ronzinante da corse di villaggio: un poetaccio qualunque sciancato e pieno di guidaleschi che sbatacchi le campane della lirica in tono con gli sbatacchiatori del campanone oratorio e dei campanelli elettrici del giornalismo. Così la poesia del deputato Cavallotti è opportunista, come fu opportunista la politica del deputato Gambetta. Accade questo: che gli avversari, per poter vituperare la politica cavallottèa, ne lodano la poesia, e gli amici acclamano in coro alla poesia e alla politica insieme. Niuno scrittore dunque in Italia fu proseguito di più concorde favore, e più gloriosamente levato in sugli scudi. Aggiungasi: il Cavallotti è, alla sua maniera, un pocolin don Chisciotte. Dilettasi stranamente di levar la voce in tono di minaccia, e volentieri sfodera la durlindana. Ei fa guardia alla porta della baracca della sua vanità, e guai allo sconsigliato che s'attenti di valicarne la soglia! Il traditor di Tirteo non soffre la critica, se bene ha rotto santamente i co...rbezzoli ai veristi ed a' barbari. E bisogna vedere con che feroce passione e con che miracolo di pazienza raccolga egli da' più oscuri fogliettucoli di provincia le sentenze diverse intorno all'opera sua, e le ristampi allineate a due a due sì che ciascuna dia all'altra un calcio, per potere da quella discordia concludere alla sua eccellenza lirica e drammatica. E quando la penna non basti, s'apprende a più ferrei argomenti.
Combattè una volta tre giorni consecutivi in Bologna contro tre diversi avversari, per essere state le sue poesie escluse dal patrimonio di non so qual biblioteca popolare o circolante; e assai altre volte con dimostrazioni di sciabola ridusse i contraddittori all'ammirazione. Di più, questo bellicoso fantaccino della sgrammaticatura attende con meravigliosa sollecitudine all'edifizio della sua popolarità: ben miserabile dev'essere quel borgo ove, recitandosi qualche sua comedia, egli non vada a confortare e ad accertare con la esibizione della sua persona il trionfo, apparecchiatogli dagli amici politici del luogo come una festa della democrazia. Ed è prodigo di sè con tanta facilità di espansione comunistica, e con sì bella grazia d'orso repubblicano, ch'è di molta letizia a vedere. Non già che sia nel discorso affabile e di modi e di gesti e di voce gratamente gentile, che anzi poco parla, e quel poco con scatti e troncamenti e riprese di suono simili ad urli canini e con gran furia di mani e di sguardi; ma si compiace egli d'incanagliarsi e di apparire più democratico di tutti i più democratici. Predilige le trattorie umili e la compagnia dei repubblicani di modesto ingegno, e va con un cappello piombante sull'occhio sinistro e con la persona atteggiata a un tal qual burbanzoso disdegno dell'aristocrazia delle forme esteriori. Nè ci è un più frequente banchettatore: nel suo nome e col suo intervento la democrazia italiana divora innumerabili costolette di manzo e vuota un infinito numero di fiaschi di Chianti. Alle frutta, naturalmente, scattano i brindisi in onore della repubblica e del poeta. Qual è in Italia il rimatore infelice che non abbia bevuto in versi all'alcibiadeo? Io ricordo, fra tutti, l'inno allo assenzio che Giacinto Stiavelli recitò alle frutta d'un pranzo cavallottesco. Così l'onorevole Cavallotti coltiva la sua fama con passione d'orticoltore diligente, e corre l'Italia da capo a fondo, qua piantando il cavolo d'una discorsa politica, là inaffiando le barbabietole d'una comedia, urlando, battendosi, pranzando. E tutto gli giova: nel Povero Piero, speranza del buon Parlagreco, si applaude l'interrogazione pei fatti di Baronissi, nel Cantico de' cantici si saluta la riforma elettorale, e la Sposa di Menecle si rileva dalla morte dopo le elezioni generali per protesta contro il Depretis. La democrazia italiana trae da' drammi cavallottei argomento e pretesto di gridare in gloria o di urlar per la rabbia, e sopra il fermento delle piccole passioni repubblicane innalza la bicocca dell'arte ciabattina.
III.
Rammentate l'aneddoto di Ercole al bivio? Lo avrete certo tradotto dieci volte in latino dagli esercizi dello Schultz. Ercole dunque una notte dormiva; e dormendo, gli apparvero due strade, una erta sassosa polverosa, l'altra piana dolce assiepata; e d'avanti a ognuna si teneva una donna. Presero queste a parlare, ciascuna invitando con quanti più allettamenti poteva. Erano la Virtù e la Voluttà, e la prima accennava in cima all'erta il tempio della Gloria alberato di lauri, e l'altra con gli occhi dolci mostrava la via piana conducente all'amore. Ercole molto stette in dubbio, pesando nell'animo le promesse; in fine si drizzò dal sonno, e s'avviò all'erta. Il deputato Cavallotti non è Ercole, certo; e pure, parandoglisi innanzi la via del dramma storico imbottita di borra e quella scoscesa della lirica, in un selvaggio impeto d'ambizione cesarea ha voluto percorrerle tutte due; e, un piede in quella e l'altro in questa, ha fatto dieci passi; poi, crescendo l'angolo del bivio, s'è dovuto fermare. Ed è rimasto a cavalcioni de' due muriccioli divisorii, dimenandosi forsennatamente come uno spauracchio d'uccelli, e gittando i sassi della lirica negli orti del dramma.
Non mette certo il conto di giudicare come cose serie gli atti e le voci d'un energumeno; ma poichè a quelle mosse e a quegli strilli molta gente s'è voltata a guardare, e la democrazia negli urli di quel matto si glorifica e si sublima, e qualche signor Parlagreco contamina l'innocenza della sua giovinezza con peccati mortali d'ammirazione, facciamo per una volta il medico de' pazzi; e cominciamo dalla malattia drammatica, che è la più grave.
Il deputato Cavallotti ha avuto, e tuttavia ha, una evoluzione drammatica simile in certo modo a quella del Goethe: dal medio evo è giunto alla Grecia antica; poi, con uno slancio shakspeariano, onde il Goethe non fu capace, s'è dalla storia delle guerre messeniche e del secolo di Pericle ributtato indietro, tuffando audacemente le gambe lunghe nel fossatello della vita moderna. Quale rivolgimento estetico e quali ragioni d'arte hanno determinato questa marcia di Leonida del dramma cavallottèo attraverso il tempo e lo spazio, dalla sonorità ventosa de' suoi endecasillabi medievali alla volgarità pettegola della sua prosa greca e alla sciatteria pesante de' suoi martelliani moderni? Quale concetto il deputato Cavallotti ha del dramma? Quali sono i suoi criteri drammatici? Ma non gli facciamo tante domande insieme e a bruciapelo: il fremente Achille della democrazia italiana ci risponderebbe delle insolenze. Ricerchiamo invece ne' suoi drammi e nelle sue prefazioni le risposte.
Entrando nel medio evo — prego mi si creda in parola che io, seguendo il costume dei librettisti e dei poeti drammatici, chiamo medio evo non pure il tempo delle corazze ma e quello dei tocchi piumati e dei farsetti di seta — il Cavallottino giovinetto portava scritta in fronte la sentenza drammatica di Victor Hugo: « Il faut se garder de chercher de l'histoire pure dans le drame, fût-il historique. Il écrit des légendes et non des fastes. Il est chronique et non chronologique.» Così nell'anno di grazia 1871, regnanti già e imperanti sopra le cose drammatiche Dumas, Sardou, Augier, un repubblicano, ossia un propugnatore necessario del progresso in politica e in arte, bandiva dalle scene autunnali del teatro Re di Milano la formula drammatica del Cromwell. Non c'è che dire: i democratici in Italia camminano a grandi passi verso le speranze dell'avvenire.
Il Cavallotti dunque nacque, al mondo del teatro, vittorughiano: dramma storico, ma storico solo e tanto da dar l'effetto ottico sufficiente a coonestare la selezione della poesia contro la prosa; ciò è, dramma intimo con scenario storico. Ora si noti, in onta del dramma storico in genere e del Cavallotti in particolar modo: il dramma storico fu concepito nel primo abbracciamento di Efraimo Gotofredo Lessing col romanticismo dalla contemplazione complessiva e comparativa della tragedia greca e del dramma di Shakspeare. La tragedia greca fu la forma che una determinata parte del mondo fantastico ellenico trovò naturalmente passando dal campo della leggenda fluttuante in quello stabile dell'arte; il dramma di Shakspeare fu l'espressione più viva, più nobile, più complessa che la rappresentazione dell'uomo interiore trovò passando dal dominio della speculazione a quello dell'arte. Il dramma romantico tedesco ritrasse dell'uno e dell'altra, e nel medio evo, ricercando le fonti drammatiche della vita germanica, animò le rigide fattezze della leggenda d'una calda immortalità di passione umana: così esso dall' Emilia Gallotti, ove si sente la durezza della composizione meccanica, andò ascendendo sino al Guglielmo Tell, ch'è la più fresca espressione della sua gioventù, e al Götz von Berlichingen, ch'è la più rozza espansione della sua forza. Dopo, divenne retorico e academico nè più nè meno della tragedia classica in mano di Racine; poichè i romantici francesi, dimentichi o inconsci delle cause storiche e critiche onde nacque il dramma tedesco, e considerandolo, non già come una forma accidentale transitoria empirica, ma come una universale rivoluzione scenica e una perenne formula d'arte, se l'adattarono al proprio genio e a' bisogni propri; e nell'àmbito del dramma tedesco inscrissero il cerchio del dramma francese. Così l'accoppiamento del grottesco col serio, la fusione del drammetto satirico con la grande tragedia passionata secondo l'esempio shakspeariano, potè sembrare qualche grandissima innovazione, e non era in fondo nella generale evoluzione del dramma che un accidente di poco momento; così la base storica parve necessaria alla espressione drammatica dell'anima umana, e non è. Ecco in qual modo certe modalità occasionali del romanticismo tedesco s'irrigidirono nel dogmatismo francese; e, deviando dalla loro ragione storica, conferirono alla constituzione d'un'academia drammatica, la quale per peccato d' Hernani, di Ruy Blas, dei Burgraves e del Cromwell, si popolò di addetti e popolò il mondo scenico di vittime. Una delle quali, e non delle meno infelici, fu il deputato Cavallotti.
Costui, senza pur pensare che in Italia, meglio assai che in Francia, la rivoluzione drammatica tedesca era stata intesa e ritentata dal Manzoni, si lasciò attrarre dagli allettamenti vittorughiani, e dal '71 al '72 scrisse tre drammi intimi incorniciati di storia patria e straniera, i Pezzenti, il Guido, l' Agnese. Così posta la questione, le disquisizioni oziose che si sogliono e più solevansi in addietro fare intorno alla maggiore o minore opportunità del dramma storico mi paion superflue. Io quindi nè moverò rimprovero al Cavallotti d'aver scombussolata la storia di mezza l'umanità, nè andrò a ricercare se ne' suoi drammi la verità storica sia poco o molto violata, nè entrerò ne' suoi accapigliamenti e scapigliamenti co' critici per quanto nel dramma abbia ad entrare di materia storica e quanto di elemento umano. Io tengo solo a porre una premessa di fatto, contro la quale nessuno può fare opposizione, poichè il Cavallotti l'ammette spontaneamente: il traditore di Tirteo ha nell'anno 1871 spiegato le vele sul mar burrascoso del teatro drizzando la bussola al faro vittorughiano. Ora, data questa premessa, la conseguenza necessaria è: che il traditor di Tirteo, quando prese a sgambettare sul palcoscenico, non aveva nessun sano criterio drammatico, non sapeva, in somma, quale fosse l'essenza, quale la storia del dramma. Il dramma gli apparve come una rappresentazione scenica di affetti umani con apparato storico, per maggior agio di prospettiva poetica: ne ebbe, in fine, un concetto academico, bisantino, empirico. Non era nato pel dramma. A me rammenta un academico della tragedia e dell'epopea con cui ho qualche famigliarità, se bene è seccante di molto, il Trissino: tra la Sofonisba e i Pezzenti scelgo cento volte la Sofonisba, se non altro per la purezza della lingua e la classica solennità dello stile.
I drammi del Cavallotti dunque non sono opere d'arte, sono raffazzonature sceniche, intorno a cui non altra critica è possibile, che empirica: la critica del marchese d'Arcais e di tutti, in genere, i cronisti teatrali: se le situazioni siano con tanta felicità combinate, da scotere il pubblico sonnecchiante e moverlo all'applauso; se i caratteri sian costruiti con sufficiente somiglianza del vero, sì da non parer proprio precipitati dalle nuvole; se i versi abbiano la sonorità voluta per toccar forte qualunque più duro timpano; se il meccanismo, in fine, sia ben congegnato. Da queste questioni che, sole, può la critica fare intorno al medio evo drammatico del Tirteo d'Italia, appare un fatto singolare: che il dramma cavallottèo, come tutti i drammi seguìti alle tragedie manzoniane, non è in fondo che una comedia dell'arte in versi, e scritta. Non ha la vivacità briosa, nè l'agile vita e la festevolezza che l'improvvisamento conferiva alla comedia dell'arte; ne ha per altro il difetto d'ogni intendimento morale e d'ogni ragione d'arte, poichè come quella non trascende i confini della scena, e oltre il momentaneo diletto degli spettatori non ha scopo. Vediamo dunque se la drammatica cavallottèa abbia in sè qualche argomento di diletto, e onde lo deduca.
Il Cavallotti accampa a sua difesa contro i critici urlanti alla verità storica violata l'assioma vittorughiano, che l'elemento storico nel dramma non debba entrare se non per bellezza scenografica e per produrre l'effetto prospettico necessario alla poesia; di più il Cavallotti medesimo, giudicando il dramma in prosa troppo maggiore delle forze d'un principiante, qual egli era nel '71, dichiara d'averlo scritto in versi per non restar senza il soccorso della Musa, statagli sempre, secondo una sua inconcepibile illusione, fedelmente amica. Lasciamo dunque da parte la questione, che sarebbe fuor di luogo discorrendo d'un saggio di coreografia teatrale, se il dramma sia necessariamente una forma poetica d'arte o se possa, senza deviare dalla sua natura, vestir l'umili penne della prosa, e accettiamo le dichiarazioni del deputato Cavallotti. Concediamogli tutto, senza far notare a lui e agli ammiratori e agl'indifferenti che il suo leggero animo in una cosa di tanto momento è un segno della sua assoluta inettitudine drammatica e della sua mancanza d'ogni criterio d'arte. Solo, ci sia lecito movere una domanda: la forma poetica onde furon vestiti questi drammi è almeno sopportabile? Risponda il Cavallotti. Apro a caso il volume I delle Opere, e trascrivo dai Pezzenti (Atto secondo, scena terza, pag. 99):
..... ed altro
Nome non ho, nè aver voglio. E tu, prode,
Che me chiami codardo, or, perchè, cinto
Qui d'armi, innanzi ad un codardo tremi?
Solo, io così, ti fo paura? oh, guarda
Se la paura è qui. Ma di codesti
Pezzenti i cenci, oh, non di tanto spregio
Copriste il dì, che a San Quintin, di sangue
Tinti, al re vostro composero il manto!
Perchè ingrassati da le spoglie nostre
In voi tanta superbia! E a morte infame
Me consacrar tu speri? Ah, questo solo,
Questo sol tu non puoi! dal dì che il sangue
De' nostri eroi vi rosseggiò, la gloria
Stette sui palchi e li converse in are.
Altri brandi ha la Frisia: ed altri il mio
Sangue sorger farà: di piombo o scure
Si versi, oh, non temer, fecondi ovunque
Son gli amori del sangue e della gleba!
Ma impallidir lassù non mi vedrai
Come a me innanzi impallidir t'ho visto!
Bel finale d'atto, eh? Tronfio, sonoro, rotondeggiante. Pare la predica contegnosamente solenne d'uno zio canonico a un nipote scapestrato. Vi figurate l'attore giovine con questa predica in bocca? Le braccia incrociate sul petto con mossa sdegnosa, le gambe tese e il capo fieramente inarcato sul collo, predica.
Anche mi ricorda qualche escandescenza di Buovo d'Antona contro il Maganzese in una tragedia di burattini. Versoni pesanti e boriosi, imbottiti di borra e gonfi di vento, che potrebbero parer degni del Frugoni se avessero la fluidità frugoniana; ma il rimbombante arcade non commise mai peccati melodici simili a questo:
Nome non ho, nè aver voglio. E tu prode.
Anche Innocenzo Frugoni non fu mai tanto colpevole contro la sintassi della lingua italiana, quanto è il Cavallotti in questi venti versi. Non certo egli avrebbe scritto:
Perchè ingrassati da le spoglie nostre
In voi tanta superbia.
E nè pure:
di piombo o scure
Si versi, oh, non temer, fecondi ovunque
Son gli amori del sangue e della gleba!
Seguitiamo a pescare:
... Vigliacco,
Vanne col marchio dovuto a' tuoi pari!...
Si rea dunque son io, perchè qui tutti
Mi calpestino ormai?! Cancella il tempo
Giuramenti di sposo, amor, costanza,
Fede: ogni affetto uman copre d'oblio:
E di un'ora il fallir non basterebbe
A cancellarlo di una vita il pianto?!
Oh, ma il mio sposo rivedrò... Vo' aprirgli
Tutto l'animo mio... Qual di noi due
Più colpevole? Il solo egli è che dritto
Di gettarmi non ha la colpa in viso...
Che non ha dritto di niegar perdono...
Pregarlo voglio...
Ahi misera! ma questa
Vampa d'amor che nessun pianto spegne,
Che implacabile m'arde e mi persegue,
Come cacciarla dal cuor mio?! Rodolfo!
Rodolfo mio!
Ecco: il momento drammatico è diverso dal primo; ma la pedanteria declamatoria, e la boria, e la fragorosità vacua son pari così nella scena dell'ira generosa come in quella della disperazione amorosa. Carlo Innocenzo Frugoni, il buon arcade, ne sarebbe contento: scommetto per altro tutte le Opere del deputato Cavallotti contro una copia sola del Bertoldino, ch'egli non sarebbe stato nè contento nè capace d'uno sproposito di grammatica grosso come questo:
E di un'ora il fallir non basterebbe
A cancellarlo di una vita il pianto;
e che, non pur lui, ma tutti quanti i becchi di Arcadia raccolti in coro urlerebbero di spasimo a una trasposizione bestiale come questa:
Il solo egli è che dritto
Di gettarmi non ha la colpa in viso...
Ma tutti quanti gli Arcadi del mondo, con a capo il Frugoni, il Zappi, il Lemene e quanti altri illustri in rimeria espressero dal piffero, dalla fistola, dalla zampogna la quintessenza dell'imbecillità umana, andrebbero in brodo di giuggiole al vaghissimo spettacolo di tanta pompa d'interpunzione interrogativa ammirativa e sospensiva, che dà con molta evidenza la sembianza della vivacità drammatica e della duttilità metrica onde quella tirata avrebbe potuto esser consolata. Bastano questi esempi, o ancora ne volete? Io non ne reco altri: ai già persuasi, bastano; i cocciuti nell'incredulità paghino con alquante lire le spese della cocciutaggine loro, e aprano il volume comperato, senza pure sfogliarlo, a caso, così come Robinson Crusoè apriva la Bibbia. Non ci è tenacità d'ammirazione che regga a questa prova.
Intanto, noi possiamo concludere con piena e serena coscienza della verità, che troppo l'onorevole Cavallotti fece a fidanza con l'amicizia della Musa. Povera Musa cavallottèa! Ell'era una ciana, avvezza a trascinar le ciabatte sopra una strada faticosa accidentata da' triboli della sgrammaticatura e dai ciottoli della mala prosodia. Ell'era zoppa, poveraccia!, e sempre con affanno doloroso avea posato in terra i piedi, onde l'uno era troppo breve e l'altro troppo lungo. Che soccorso poteva dare a un deputato teatrale in imbarazzo? Il soccorso di Pisa? Neppur quello. Soccorso di spropositi, e di retorica. Infatti dalla veste poetica ritrae il dramma medievale cavallottesco un peso academico e una sciatteria piazzaiola, una fredda burbanza predicatoria e una trivialità ciarlatanesca. Per chi proponevasi il dramma della passione e la tragedia dell'anima umana non era prudente mettersi alla gran prova con un tal bagaglio di cenci. Ad ogni modo, ricerchiamo tra' cenci gli afflati della passione.
E, in parola d'onore, mettendomi a questa ricerca, mi par d'essere Diogene girante con la lanterna in mano alla scoperta dell'uomo. Io veggo salire da tutta questa ciurmaglia di versacci una sciaurata nebbia che mi fascia di tenebre la vista; stringo le mani, e prendo un vapor vischioso che subito sfugge. È questa la passione cavallottèa? In verità, questo mestier di Diogene mi va male a sangue. Ad ogni modo rassegnamoci, e per non restare con le mosche in mano procediamo con rigor logico. Qualcosa troveremo, se Aristotele ci aiuti. Ed ecco, ho trovato due cose, in fondo all'immondezzaio del dramma cavallottèo: due cose informi che si movono in quella vacuità infronzolata di ciarpe, le quali potrebbero essere due bacherozzoli, o anche due passioni. Poniamo che siano passioni, e definiamole: le chiamerò amor sessuale, e amor di patria. Quello ha più luogo nell' Agnese, questa ne' Pezzenti, se bene nel primo e nell'ultimo dramma del cavallottèo ciclo medievale s'avvicendino e s'abbraccino fraternamente. Nei Pezzenti dunque prevale l'amor di patria: è il dramma dei Gueux lottanti brigantescamente e generosamente contro la prepotenza spagnola nei Paesi Bassi. Sono i Masnadieri di Schiller nobilitati dalla volgarità d'una tesi patriottica, un fenomeno d'acclimazione simile a quello del Werther nella prosa del Foscolo. Ma te fortunato, o Werther! Tu, mutando paese e mutando prosa, poco perdesti, poichè feceti il Foscolo amare e morire al gran sole d'Italia con tanta nobiltà di passione e tanta bellezza d'arte, che non avesti a rimpiangere le nebbie della patria. I poveri Masnadieri furono troppo atrocemente puniti de' loro misfatti, e scontarono nelle latomie della poesia cavallottèa il peccato dell'emigrazione. Mancava l'aria in quel chiuso tenebroso, e i briganti schilleriani, perduta la freschezza della loro gioventù romantica, si trasmutarono in un branco di pupazzi meccanici, e presero a declamare faticosamente uno stupido gergo misto di durezze alfieriane mal digerite, di pomposità niccoliniana male rispampanata, di stramberie vittorughiane male intese, di svenevolezze arcadiche e di ampollosità catedratica. Poveri Masnadieri! Si travestirono con un giustacuore verde e una fascia scarlatta, e passeggiarono furiosamente sul palcoscenico, quarantotteggiando con una buffa posa di filodrammatici educati ai tragedioni del Giacometti e ai drammissimi di Teobaldo Ciconi. Il loro peccato giovenile fu grave, poichè sbucarono essi tumultuariamente con impeto di furia e d'assalto dalla fantasia di Federigo e s'appiattarono nella gran selva del romanticismo a insidiar la vita e le sostanze altrui; ma non meritavano di finire nelle feroci mani cavallottesche. I democratici, quando ci si mettono con caldo animo, smarriscono ogni senso d'umanità. Poi, non dovevano essi passare sotto la gogna d'un romanzaccio di Fernandez y Gonzales. E, qui, non voglio io rinnovare l'accusa mossa al Cavallotti da Eugenio Torelli-Viollier, e portata davanti al tribunale. Sono anzi d'accordo coi giudici che assolsero il deputato Cavallotti dall'imputazione di plagio; ma ciò non mi vieterà di dire che da quel processo il traditor di Tirteo uscì laureato d'infamia davanti alla divinità dell'arte. Un artista di qualche pudore si sarebbe lasciato ghigliottinare in piazza, checchè potesse seguirne alle sorti della democrazia, anzi che confessare di aver tolto inspirazione dai romanzi d'un appendicista di quel conio. E qui non mi mangi il deputato Cavallotti, nè mi citi in sua difesa l'esempio di Shakspeare: tra il Bandello e Gonzales corre, su per giù, la distanza medesima che tra Shakspeare e il deputato Cavallotti.
Tutti i grandi maestri dell'arte presero il materiale ovunque lo trovarono; e poichè anzi la formazione dell'arte non è individuale, ma rassomiglia in qualche modo alla genesi dei polipai, che nascono dalle secrezioni complessive di miliardi e miliardi d'infusorii, il maggior segno di forza sta nella facoltà di animare e rimpastare a nuove fogge di vita le primitive elaborazioni tuttavia rozze e in istato, direi, inorganico. Se non che, questo assorgere dell'arte dalla materia bruta non accade senza una legge; ed è la legge dell'evoluzione. La materia dell'arte si va a grado a grado organizzando e sviluppando da forme inferiori a forme più perfette, e salda anello ad anello di quella gran catena della bellezza che tanto conferisce a tenere avvinti gli uomini alla vita, ed è un elemento di tanta importanza nella evoluzione progressiva della specie umana. Ciò accade naturalmente, come il fatto della fruttificazione dall'albero. La fantasia popolare gitta i semi, e i semi germogliano; poi spuntano le prime gemme, e comincia lo sviluppo delle foglie; e la vita della pianta, circolando piena e libera per tutte le fibre, si espande con una viva emanazione d'amore, e fiorisce. Ed ecco, l'albero gentilmente piumato di verde e di roseo attinge dal sole l'energia e la letizia dell'essere, e levandosi vagamente superbo sopra i minori virgulti, passa in trionfo dalla giovinezza del fiore alla maturità del frutto. Così la vita si svolge con graduale ascensione dalle più umili alle più perfette forme; e la povera leggenda, seminata tra i colloquii notturni d'un campo di pastori orientali, leva le cime orgogliose nel dramma di Shakspeare, nel poema dell'Ariosto, nella novella del Boccacci, in tutti i più gloriosi documenti della grandezza umana. Ma le frutta fracide, che cadono dall'albero, non concorrono alla general vita della pianta: esse restano abbandonate in terra, sin che qualche porco non se ne nutra. I romanzi di Fernandez y Gonzales, e de' pari suoi, son frutta fracide, son come le materie eterogenee ed immonde che nel bollore del vino salgono a galla con la schiuma. Nati dall'imputridire di una parte dell'organismo dell'arte, non possono rientrare nella metempsicosi della vita dell'arte se non in forma di concime: son buoni solo pei porci. Di più, se il dramma del Cavallotti trasse dal romanzo di Gonzales l'inspirazione esteriore e occasionale, esso derivò dai Masnadieri di Schiller la sua essenza vitale. È dunque anche una profanazione. E se bene da un democratico della sotto-specie cavallottèa bisogna aspettarsi qualunque eccesso, questo Schiller non meritava. Povero Federigo! se ti vedesse Tecla così imbrodolato con la zozza d'un romanzaccio da portinai per le immonde mani d'un deputato sgrammaticante.
Dunque, colorito drammatico schilleriano nella concezione romantica del brigantaggio bello e generoso, materia tolta da un romanzone d'appendice, resta di vera e piena proprietà cavallottesca la tesi patriottica: ciò è, il deputato Cavallotti ha messo di suo ne' Pezzenti una passione d'amore soverchiante ogni altra opposizione d'affetto, e ricongiugnente nella morte due divisi dalla rivolta nazionale contro l'invasione straniera. Tutto ciò, si noti, nel '71, quando una tal tesi, dalla Giulietta e Romeo all' Imelda Lambertazzi di don Baldassarre Odescalchi, era stata fritta e rifritta in almeno cinquecento tragedie, e dalle sublimi altezze del dramma scendendo all'umiltà della prosa, era stata, da Walter Scott in giù, trascinata nelle bassure di tutti i romanzi storici dei due mondi. Di più, la tesi patriottica può solamente essere assolta dalla santità dello scopo a cui tende, e accettata in pochi determinati momenti della vita nazionale d'un popolo, quando l'arte restringendo i suoi confini appresta anch'essa armi alla guerra e diventa agente di rivoluzione: la rivoluzione compiuta, l'arte rivoluzionaria deve morire, se non si acconcia ad essere academica. L'amor patrio dei drammi cavallottei è dunque academico e retorico; e que' disgraziati Pezzenti meriterebbero una larga limosina di calci nel sedere, tanto son seccanti.
Quanto all'amor sessuale drammatizzato cavallottescamente, fa ridere i polli. Dove mai il deputato Cavallotti ha imparato a far l'amore, e dove a rappresentarlo scenicamente? Il dramma dell'amore cavallottino è l' Agnese, il cui nòcciolo, si sa, è questo: Agnese Gonzaga, nauseata del marito che la tratta male, si fa cogliere a chiacchierare con Rodolfo Scandiano da una sua donna, la quale riporta ogni cosa. Di qui la catastrofe. Ora, delle due una: o l'amore di questi due fu coerente alla evoluzione fatale dell'amore dal desiderio all'atto, e allora il dramma è stupido; o si fermò a quella chiacchierata, e allora è inutile. A ogni modo, ci troviamo davanti a una Parisina rifatta bestialmente da un deputato progressista, a cui mancò l'animo di far amare due dietro le quinte a quel modo che i cani s'amano e Diogene avrebbe voluto amare in piazza. O forse il Gonzaga cercava un qualunque pretesto per levarsi la mogliera da torno, e bastò quel colloquio innocente? Allora il dramma non esiste più, perchè in questa coreografia cavallottesca la politica entra indirettamente, e solo per corollario e per cornice dell'amore. Resta per tanto questo substrato drammatico: un desiderio vago, impalpabile, incerto, che trova unico nutrimento e unico sfogo in quattro chiacchiere sconclusionate. Per tanto poco ammazzar due persone? E ammazzare anche tutti gl'infelici che, per uno stupido scrupolo d'onestà critica, vorranno leggere quella mastodontèa congerie di versacci? Questi repubblicani sono proprio bestiali.
Quei poveri diavoli si adorano dunque alla lontana, e passeggiano a vicenda sul palcoscenico, offrendo agli spettatori un perfetto esempio del cretinismo amoroso cui giunse nell'ultimo suo rimbambimento il romanticismo europeo. Ella — infelicissima! — soffre la pena ineffabile e incredibile onde son sopraffatte le grandi anime romantiche alle prime percosse d'amore: vorrebbe, e non può; potrebbe, e non vuole; e gira e rigira, salamandra della retorica idealistica, nel fuoco fantastico della propria passione, sbracciandosi a declamare, svociandosi a predicare, e offendendo qua e là, nella sua nobile ignoranza di gran dama e nella inconsapevolezza dell'affetto trasmodante, la metrica e la grammatica. Egli — poveraccio! — fa all'amore come può, e come deve un eroe romantico. A lui non son concessi i facili e volgari diletti dell'accoppiamento: egli deve, per non macchiare la nobiltà del suo sangue romantico, moversi sulla scena con la faccia atteggiata a una fatale angoscia e con le braccia incrociate sul petto, poi ogni tanto scrociar queste braccia, e con la mano sinistra afferrare l'elsa della spada, con la destra prendersi la fronte piegante pe'l peso d'un dolor disperato. E deve ogni tanto dire qualcosa, tanto per non parer muto. Ecco l'amore cavallottesco. Ma aspettate, scordavo il meglio: scordavo i versi. Gli amanti del deputato Cavallotti rimano tutti. Ecco pertanto le strofe, con le quali Vincenzo o Antonio (nel dramma si trasmuta con bella metamorfosi aleardiana in un Rodolfo) Scandiano conquistò il cuore della bella Agnese. È una mesta serventese, dice lo Scandiano, il quale, se bene si piacque di far brutti versi, non sapeva che il serventese fu di genere mascolino, che non fu mai mesto, che non fu mai nè canzoncina amorosa nè arcadicheria piagnolosa, ma sempre canto politico o satirico, e che nel 1390, dopo Dante il Petrarca e il Boccacci, non se ne scriveva più nè in Italia nè in Linguadoca nè in Papuasia. Comunque, ecco la serventese scandianesca, che reca per titolo: La canzone dell'orfano:
Via pei cieli più profondi,
Via pe 'l limpido zaffiro,
Oltre il sole ed oltre i mondi,
Spinge il guardo l'orfanel:
— «Che mai cerchi dello empiro
Fra le danze ed il sorriso?
Che mai cerchi così fiso
Tra le nuvole del ciel?
— «Oh, la madre mia nell'ultimo
De' suoi dì, con guardo anelo,
Fiso anch'ella cercò il cielo,
Poi, baciandomi, spirò!
«Cerco in ciel qual sia la nuvola
Che portò l'anima bella:
Cerco in ciel qual sia la nuvola
Che nel grembo la ospitò.
«Di là certo dove il volo
Il suo spirto raccogliea,
L'orfanel che lasciò solo
Quaggiù in terra ella vedrà.
«E alla squallida vallea
Dove ei piange abbandonato,
Per ritorre il figlio amato
Forse un dì ritornerà.
«Son carezze e baci e fiori,
Son sorrisi su la terra:
Ma la valle dei dolori
Sol per l'orfano quest'è:
«Fior, carezze, amplessi e baci
Chiede indarno a un muto avello;
Torna, o madre, all'orfanello
E riprendilo con te! — »
O Pietro Paolo Parzanese, o Francesco Martuscelli, o voi tutti rimatori per gli asili d'infanzia, quando mai foste voi colpevoli d'una scempiaggine così lietamente cretina? E voi rimaste per gli asili infantili, non per dare al dramma il soccorso della Musa. Povera Musa, linfatica vivandiera nell'orfanotrofio dell'amore cavallottino!
Ma coll'andare del tempo, potè il Cavallotti liberarsi dalla Musa, e avventurarsi più franco e più forte nella perigliosa selva del dramma in prosa. O coraggio inaudito! Ma non stiamo a scherzare con le cose serie; e se il deputato Cavallotti, in questa sua esitanza a passare dalla poesia alla prosa drammatica, ci rassomiglia un poco Giuseppe Prud'homme, che male c'è? Gli ci son voluti alquanti anni e tre drammaccioni elefantini per giungere a tanto: ammiriamo la sua costanza nei propositi, molto più ch'essa lo ha condotto niente meno che all' Alcibiade. Qui, un'altra evoluzione è accaduta nel concetto cavallottesco del dramma storico. Il deputato Cavallotti, scostandosi alcun poco dai canoni vittorughiani, mosso dall'esempio di Pietro Cossa, ha cominciato a credere che il dramma debba essere una ricostruzione storica. Addio dunque, o quarantotteggiamenti faticosi e amoretti leziosi! Il deputato Cavallotti si butta a capofitto nell'archeologia. Se non che, manca a lui quella fresca potenza fantastica che concesse a Pietro Cossa di riconcepire gli eroi e le eroine dell'imperio romano come creature moderne, e non ci è sforzo umano che possa rimediare a quel difetto. Così il Cavallotti alcibiadeggiante offre alla vista un singolare spettacolo. Pare ch'egli siasi messo tra le gambe un sacco di tela d'Olona; poi abbia preso un gran fascio di libri, i quali sia andato furiosamente scartabellando. Ecco tutti gli storici greci da Erodoto a Senofonte ateniese e a Plutarco, ecco anche dei compendi di storia greca e dei dizionari storici e delle enciclopedie archeologiche, ecco poeti e prosatori greci, Pindaro e Luciano, Saffo e Platone, Aristofane e Isocrate, Omero e Demostene, Eschilo e Anacreonte. E scartabellando, arruffa e arraffa, come un ladro notturno nella furia del ladroneccio, notizie e citazioni, brani di prosa e brani di poesia, date e aneddoti; e ogni cosa gitta nel sacco. Poi questo sacco di tela Olona ben gonfio ponesi sulle spalle, e va gridando per le vie teatrali d'Italia:
— Chi vuole dell' Alcibiade? Ce n'è in sei quadri per la rappresentazione, e in dieci con prefazione e note per la lettura. Chi vuole dell' Alcibiade?
E posa il sacco in terra per mostrare la mercanzia; e nel posarlo, odesi un rumore. È suono di cocci d'anfore greche, e di pignatte lombarde. Sono anfore o sono pignatte? È una pignatta mostruosa, dai fianchi sconciamente obesi come quelli d'una femmina gravida, e vorrebbe atteggiarsi alla snellezza graziosa di un'anfora. Parrebbe che vi fermentasse dentro qualche generoso vino dell'arcipelago eolico, e vi bollono le patate della più sciatta volgarità meneghina in una broda di prolissità cicalona e di pedanteria presuntuosa. Oh quanto sono pezzenti questi Greci cavallotteschi! S'aggirano come pazzi a traverso i mutamenti di scena a vista d'un dramma infinito come la bontà divina, e portano indosso certi abiti cenciosi rappezzati pittorescamente: Socrate ha una tunica fatta di brani di dialoghi platonici, e Alcibiade ha due pagine di Tucidide cucite sopra le natiche. Pare un ospizio di mendicità.
Poi, io odio questi falsi Greci per una mia ragione subbiettiva: da essi procede il mio primo debito. Ero in collegio, e tra le altre strane malattie della crescenza una sopra tutte mi travagliava ostinatamente: la mania non pur di comperare io, ma d'indurre i miei compagni a comperar libri. Una volta dunque, non so come nè perchè, scelsi dal catalogo dell'editore Barbini l' Alcibiade, e poichè pareva che esso costasse pochi soldi, giunsi dopo molti stenti ad indurre altri cinque a quell'acquisto: venne il pacco, e con gran meraviglia mi parve troppo più grosso del dovere. Lo apersi con qualche vago presentimento d'una sciagura, e trovai sei volumoni pesanti come sei macine di mulino: in tutto sessanta atti, sei prefazioni, ventimila note, e trentasei lire da pagare al libraio. Nessuno degli acquisitori, a quell'inaspettato aumento di prezzo, volle il libro; e i sei volumi mi restarono sullo stomaco adolescente come sei macine di molino. D'allora, ho preso in odio la Grecia.
Eppure, la Grecia del Cavallotti è tanto greca quanto io sono calmucco, e rassomiglia con un sì strano miracolo al suo medio evo, che ad ogni momento pare Alcibiade debba levar la faccia sentimentale alla luna per cantare qualche mesta serventese. Del resto, se non canta una serventese mesta, recita certe ballate o ballatette o cantilene prato-aleardiane e manzo-berchetiane che vi fanno, con reverenza alla Grecia, cader le brache per lo sconforto. Poi questo Alcibiade ha una sua maniera d'amore tra di fringuello impaniato e d'Ercole circense. Ogni tanto rammentasi di dover essere un uomo elegante, un effeminato amabile e galante, e atteggia la faccia a una malinconia soavemente romantica; poi lo riprende lo spacconismo, e allora fa il braccio di ferro e ingrossa la voce come fosse in un comizio democratico, per chiamar gli sguardi delle belle e del pubblico alla formosità della sua persona. Infine, questo sciagurato diventa pienamente cretino; e mentre i Traci gl'incendiano la capanna, ei canta a gara, con la patetica signora dalle camelie che s'è tratta dietro, un duetto sì dolcemente stupido, che al solo ricordarlo io sento l'anima mia tuffarsi in un quieto pelago d'imbecillità. Tale è l'Alcibiade cavallottesco, un Alcibiade così grottesco e così goffo e così noioso, che tutti i ragazzacci delle scuole d'Italia dovrebbero corrergli dietro urlando; un coso mostruoso, che pare un san Clemente fatto a mosaico da qualche lapidario bisantino. Povero Alcibiade! Egli si move sulla scena con pretensione di greca grazia, e davanti a' suoi passi tutte le pagine scartabellate per metterlo insieme si levano come tante bianche lingue sibilanti. Povero Alcibiade, costruito di aneddoti e di citazioni! O minestrone di carote e di patate e di bietola, tu sei troppo democraticamente indigesto al mio stomaco aristocratico: io non potrei oltre ingollar di te, senza crepare.
Addio dunque, o Grecia cavallottesca, ove nè la garbata arguzia ateniese nè il muscoloso vigor laconico nè il generoso fanatismo tebano allignano. O Grecia di beoti romantici e di arcadi predicatori, o Grecia in dieci quadri e cinquecento pagine, pedantesca e buffonesca, vattene al diavolo.
E qui di nuovo mi raccomando al deputato Cavallotti che non mi mangi: non è stato lui il primo a mandare al diavolo la sua Grecia di cartapesta? E ha fatto bene, poichè veramente non occorreva incomodar Tucidide e rompere i santi sacramenti allo scoliaste di Platone per evocar dalla notte dell'impotenza fantastica cavallottèa degli Alcibiadi rimpastati dalla vecchia creta di Armando Duval, dei Messeni rifatti con le briciole dei Masnadieri di Schiller e dei Gueux di Fernandez y Gonzales, delle spose di Menecle modellate col gesso misto di polvere cipria della Traviata. A che serviva questo faticoso rimpastamento? I Greci cavallottèi aborrivano per natura dai costumi da' sentimenti dalle consuetudini feroci e gentili de' tempi classici: eran de' Grecucci nutriti di mollica di pane e repugnanti con molta nausea dal midollo leonino. Che ci facevano in Grecia? Essi non eran Greci: erano lombrici nati dal putridume del dramma romantico, e strisciavano sulla polvere del palcoscenico levando ogni tanto il capo e dimenando l'anterior parte del corpo con malinconia sentimentale. Il meglio ch'essi sapevan fare era di recitar ballate e ballatette d'amore alla maniera del Prati del Berchet dell'Aleardi. Poveri bachi educati al calduccio malaticcio degl'inni manzoniani, con che cuore andavate al bosco del dramma storico?
Anche, il deputato Cavallotti ritraendosi dalla notte de' tempi pagani all'età moderna, ha infine trovato una soluzione democratica e savia d'un gran problema di forma drammatica. Non più la sonorità ventosa e pedantesca dell'endecasillabo sciolto, non più il peso indigesto e somaresco d'un prosone da cucina allietato goffamente di romanze romantiche e di prologhi alessandrini; il dramma di costumi moderni gli ha offerto un gancio, a cui ogni deputato oscillante tra la poesia e la prosa può apprendersi con sicurezza piena: il martelliano. Eccolo, il gran salvatore: bolso come un cavallaccio da carretta, floscio e capace come la matrice d'una vecchia meretrice, comodo e paziente di qualunque più sconcia ingiuria alla dignità dell'arte, qual mai più utile ausiliario potrebbe augurarsi uno scrittor comico materiato di volgarità? Il deputato Cavallotti, che ha infine ritrovato sè medesimo, se l'è cacciato tra le gambe come i ragazzi fanno delle scope; e via di corsa caracollando di palcoscenico in palcoscenico. Volete delle comediole brevi che vi rallegrino lo spirito gravato dallo stracotto di manzo? Eccovi un chierichino e un'educanda che traducono alla peggio il cantico dei cantici e si sposano; ed eccoveli esibiti in una raggiera di martelliani idropici che si vomitano l'un l'altro addosso, e l'un sull'altro s'ammucchiano russando, come una compagnia d'ubriachi che vadano in fila, e, caduto il primo, gli altri successivamente inciampino nell'ostacolo. Volete un drammetto lacrimevole, che vi solletichi piagnucolosamente le corde dell'aberrazione sentimentale? Eccovi una lirica del Leopardi comicizzata pietosamente. Volete proverbi drammatici? Volete de' Poveri Pieri, o dolce Parlagreco? Ma parlate italiano, in nome del buon Dio, e chiedete: il deputato Cavallotti non vi farà sospirare alle stelle. Egli ha fatto come chi instituisce fornace di mattoni o di fiaschi. La fornace è sempre all'ordine, poichè gran copia di torba martelliana dì e notte alimenta il fuoco: basta prender cocci di drammacci vecchi e di romanzi smessi e di liriche intristite, pestare e inacquar di lagrime o di giulebbe, poi alla meglio rimpastare e gittar nel forno. Ecco drammi quadri, pesanti, piatti come mattoni, ecco comediole vezzose, leziose, graziose come fiaschi vuoti. Rompetevi i mattoni sulla testa o rompetevi i fiaschi sulle natiche, come più vi piace, e siate contenti, che il diavolo v'abbia in gloria! Che altro desiderate? Volete anche lo Spartaco, aspettato con tanto palpito dal deputato Bovio? E via, con queste anticaglie! Non distraete l'onorevole Pirgopolinice dal forno. Egli fa il fornaio con tanta grazia, con tanto gusto, con tanta fortuna, che veramente sarebbe un gran peccato. E poi il forno, dicono, gli rende bene. Non ci è deputato nè scrittor comico nè scrittore di libri in Italia, che faccia migliori affari di questo mattonaio. Perchè rompergli la testa, ora che la sua evoluzione drammatica è compiuta, che i suoi ideali drammatici son conseguiti? E lasciatelo alla dolcezza dei fiaschi, o ferocissimo Parlagreco.
IV.
Ora è necessario che il deputato Cavallotti faccia atto di santa pazienza, e non arruffi le penne nè fulmini ira dagli occhi per la gelosia, se io vado a frugar sotto i panni della sua vergine Musa. Vergine, intendiamoci, e Musa per un fatale accecamento d'amore del deputato Cavallotti, poichè in realtà ella non è, lo abbiamo detto, che una ciana. Ma non levate le mani al cielo per lo stupore: non per nulla pensarono i Greci il bamboletto Amore bendato. Egli va volando per gli orti, pei verzieri e pei prati, con quella benda sugli occhi: e come la primavera con larghezza imparziale anima e vivifica tutta l'universa natura, fioriscono odorando negli orti, nei verzieri, nei prati le belle piante e le brutte, le malefiche e le benigne, l'erbe d'alimento e quelle velenose; e tutte con le lusinghe della gioventù rinnovata allettano il dolce volatore. Ora il pargoletto andando ciecamente in quel tripudio della stagione più grata, e sentendo misti insieme tanti richiami d'odore, fermasi qua e là per diletto; e qualche volta s'annida nel grembo morbido d'una rosa, ma qualche volta si posa in cima a un bel fiore di cardo. Ed ecco, un fiero raglio d'asino geloso viene a trarlo dall'errore e a precipitarlo nel terrore.
Questo incolse al deputato Cavallotti quando con lieto impeto giovenile buttossi ciecamente a volo nei pascoli fioriti della poesia. Fiorivano i pascoli con letizia d'emanazioni soavi alla dolce tenerezza del sole, ed ogni pianta sbocciava all'afflato d'amore: le rose della lirica carducciana, meravigliose di colore e d'odore e potenti di spine, sopraffacevano per la bellezza i mughetti aleardiani e i giacinti senili del Prati; e ancora gli antichi fiori dell'ultima poesia italiana olezzavano acutamente, poichè dal vario canto del Foscolo, del Leopardi, del Manzoni del Parini emanava una fragranza mista di bacche d'alloro, di crisantemi, d'incenso, di giaggiòlo educato con sapienza d'ortolano amoroso. Il Cavallotti, non ancor deputato, svolazzò con impeto sopra tanto vario fiorire; e finalmente posossi. Dove? Posossi con leggerezza d'animo, non sapendo ben dove; e quello era un cardo, a cui gli asini traevano con desiderio, lietamente ragliando. La sua vergine Musa gli apparve commista alla folla di un qualche comizio democratico, e tra per la ressa della moltitudine, e la cecità della passione, e l'impeto dell'età tenera, gli piacque meravigliosamente. Così non si avvide egli ch'ella era una ciana. E fo io ora opera pietosa, svelando all'amante i peccati della donna amata? Non credo: per altro, l'onorevole Cavallotti ha abbastanza di spirito cavalleresco nella fantasia e di fegato in corpo e di buona fede nell'animo, da sostener con le armi la bellezza e l'innocenza dell'amica; e io debbo, per ammaestramento agl'ingenui che potrebbero cader nelle panie di quella meretrice, alzarle le gonne. E, a non andar troppo per le lunghe, lascerò le dimostrazioni e mi accontenterò delle citazioni.
Ho già detto che la Musa cavallottèa è zoppa, e posa con molta fatica in terra i piedi, de' quali l'uno è troppo lungo e l'altro troppo corto. Or ecco pochi esempi, tratti da qualche volume delle Opere. Una delle difficoltà gravi, nelle quali dànno del petto i poetastri impotenti non pure all'arte, ma e al meccanismo della poesia, è la questione dei dittonghi: questione che ogni Italiano, non dico sufficientemente nutrito di prosodia, ma appena appena favorito dalla natura di qualche senso melodico, risolve senza difficoltà. L'onorevole Cavallotti tra le vocali pare invece uno che siasi buttato in mare, senza saper nuotare, con molte zucche alla cintura, e che, non pensando che le zucche ad ogni modo debban salvarlo dall'annegare, si dimeni affannosamente tuffando ad ogni momento per lo sforzo il capo sott'acqua, e bevendo con indicibile terrore dalla grande onda del mare. Naturalmente, quando s'incontrano due vocali in una parola, esse o si pronunziano in un tempo solo o in due: non diciamo quando si debban pronunziare in un sol tempo e quando in due, perchè i democratici non sono sottomessi all'autorità delle leggi: solo affermiamo che questa duplice relazione ritmica debba essere regolata da una legge. Or vedete a qual capriccioso tumulto metrico abbia il poco rispetto alle leggi tratto il deputato Cavallotti.
Nelle Poesie (pag. 135) trovo questo dodecasillabo:
Del lungo viaggio fu lungo il soffrir,
ove viaggio è una parola trisillaba. Invece a pag. 274 delle medesime Poesie trovo questo decasillabo:
Viaggiatrice dell'aria discendi!,
ove viaggiatrice è di quattro sillabe. Perchè il viaggio, trasformandosi in viaggiatrice, s'accorcia d'una sillaba? Misteri della prosodia cavallottèa! Se non che, io credo di avere scoperto il segreto in due versi dei Pezzenti (pagine 129 e 131):
Verso Almaèr si spinse. A lui spedito, ecc.
Quante miglia ad Almàer? Trenta e la via, ecc.
In questi due versi occorre la parola Almaer, la quale prima, accentuata sulla seconda vocale del dittongo, è trisillaba, poi, accentuata sulla prima, diventa bisillaba: l'onorevole Cavallotti dunque crede che il dittongo, quando rechi l'accento nella prima vocale, sia monosillabo, quando invece nella seconda, bisillabo. Accettiamo questa bizzarria prosodiaca, che non ha fondamento nè ragione se non nel cervello cavallottèo, e vediamo almeno se questo pazzarellone d'un deputato sia coerente seco medesimo. Ahimè, ecco una contradizione! In due versi delle Poesie (pag. 237, 275) troviamo la medesima parola, con varia misura. I versi sono:
D'uno straccio trionfal, ecc.
Viva Italia! ed il suon trïonfale, ecc.
Perchè nel primo verso la parola trionfale è quadrisillaba per natura, e nel secondo per diventar tale ha bisogno della dieresi? In quale dei due il deputato Cavallotti ha peccato contro la prosodia? Egli sdegna di rispondere. E taccia pure, se la solennità del canonicato democratico gli consiglia il silenzio. Intanto io fo notare a chiunque sa quante sillabe occorrano per mettere insieme de' versi, che questa incoerenza cavallottèa in materia di dittonghi è cagione che un quarto almeno dei suoi versi non torni; e chi avesse vaghezza di falciare in questo prato, metterebbe insieme un tal fascio di spropositi metrici, che dieci asini almeno ne avrebbero a bastanza per dieci mesi. Sentite la dolcezza di questa musica?
Lo stranïer tremò. ( Poesie, pag. 148);
Della battaglia nell' infuriar! ( Tirteo, pag. 65).
Quest'ultimo verso, secondo le regole cavallottèe, dovrebbe essere un endecasillabo; e invece è messo in fine d'una elegia di Tirteo come un decasillabo. Così nel verso
I fiamminghi hanno infranta e vittoriosa ( Pezzenti, p. 105)
la parola vittoriosa dovrebbe, sempre secondo le regole cavallottèe, essere pentasillaba: invece, è costretta ad essere di quattro sillabe. Per compenso, questa volta in omaggio alle proprie norme prosodiache, l'Alcibiadeo nel verso
Lieto il ciel m'appare — e più non sei ( Pezzenti, p. 147)
fa la parola lieto di tre sillabe, come liuto. Proseguire nell'esame, e raccoglier tutti gli spropositi metrici che questa maledizione del dittongo fa commettere al deputato Cavallotti, sarebbe fatica più improba delle dodici d'Ercole raccolte insieme. Avete mai veduta una pioggia di rane? Voi ve ne andate quando con più impeto arde il solleone per una via polverosa, e d'improvviso il cielo s'empie di nuvole, e tra le nuvole udite un rombo di tuoni che da tutto l'orizzonte si va condensando sul vostro capo: ecco, tra tuono e tuono rompe un lampo, poi subito piove. Vien l'acqua a gocce che nel cadere s'aggruppano e crescono, e sulla polvere si vede come una caduta di palle. D'improvviso, per miracolo, ogni palla rimbalza in forma d'una raganella, che prende a balzare crocidando: e per tutta quanta la via, mentre le palle d'acqua si fondono in rivi, è un immenso balzellamento e un crocidare a festa. Cadono le raganelle dal cielo, o la polvere fecondata scoppia con una subitanea generazione di batraci? Io vi so dire che i dittonghi cavallottei, piombando come palle morte sul polverone della sua poesia, ne rimbalzano in forma di rane; e le rane crocidano lietamente ai calori estivi spropositi e spropositi e spropositi.
Ciò accade al deputato Cavallotti, quando gli occorre d'incontrare due vocaboli nella medesima parola. Udite ora che gli avvenga quando l'incontro è tra l'una e l'altra parola. Allora dal confine di ciascuna parola le due vocali si guatano biecamente come due cagnacci posti a guardia di due campi finitimi, e latrano; spesso anche le vocali di guardia son più di due, e allora sulla complessiva musica del verso si leva l'abbaiare d'un intero canile.
Ecco qualche piccolo esempio:
A o gni cippo funereo; a o gni deserta fossa, ecc.
( Poesie, pag. 143.)
Subir d ee i l suo castigo. Ella alla fede, ecc.
( Pezzenti, pag. 141.)
Ma non sempre, come in questi due versi, come in un infinito numero d'altri, i cani urlano in coro: ce n'è alcuni, ne' quali i guardiani astiosi stanno ciascuno al confine del proprio verso, e ringhiano nemicamente, senza potersi accordare. Così, mentre nell'ottonario
La tua donna e i t uoi a ltari ( Poesie, pag. 68)
il quadrittongo uoia fa due sillabe, nell'endecasillabo
No, no, non gli credete! Ella v i a ma ( Pezzenti, 106)
il dittongo ia è del pari bisillabo, e nella pronunzia induce una pausa che fa rassomigliar quel suono al canto d'amore d'una mite bestia amica dei cardi: Hi... a, Hi... a, Hi... a.
Del resto, chi volesse ricercare ne' versi del deputato Cavallotti le onomatopee animalesche, troverebbe degli effetti armonici d'una singolarità meravigliosa, poichè qua udrebbe belar tutto un ovile, e là chiocciar tutto un pollaio: anche udrebbe sinfonie di grugniti e gioconde orchestre di ragli. Se non che, io mi son seccato delle vocali, e mi prende invece una dolce vaghezza delle consonanti. Aimè, anche qui la Musa cavallottèa zoppica sciaguratamente. Badate: cito dai Pezzenti (pag. 134):
Giona — Dettate, pure, reverenza...
Dunque?
Tobia — Più forte... Oh, ma di là non senti!...
È chiaro che dovrebbero esser questi due endecasillabi: è chiaro anche che la somma di due endecasillabi dà ventidue sillabe.
Contate ora, e vedete: son venti sillabe. Il deputato Cavallotti fa dunque dei miracoli? Oibò: la democrazia aborre dalla taumaturgia: si diletta per contrario assai del funambulismo. Qui il deputato Cavallotti ha fatto una capriola, anzi ne ha fatte due, poichè quel perfido interrogativo bisillabo, dunque?, fa due offici: termina il primo, e comincia il secondo verso. Vale dunque per quattro sillabe, e rassomiglia ad Arlecchino servo di due padroni. In compenso, l'onorevole alcibiadèo fa qualche volta degli endecasillabi di dodici sillabe. Eccone uno:
I pensieri miei ti pose... Allor che in cielo...
( Pezzenti, pag. 74).
Ma più spesso pecca per economia. Ecco due endecasillabi dei Pezzenti, che chieggono invano l'elemosina d'una sillaba:
Eran d'ossa e carne viva... Oh padre (pag. 144);
Del fior de' miei dì. Coraggio adunque (pag. 76).
E finiamola con la metrica; poichè lo zoppicare della Musa cavallottèa parmi ad esuberanza mostrato. Ma le magagne di quella sciagurata non son tutte prosodiache: ella ha sulla coscienza anche de' peccati grammaticali. Inorridite:
Mentre qui siam seicento che hanno appena
Le scarpe indosso... ( Pezzenti, pag. 136).
In questi due versi ci è due osservazioni da fare, delle quali la prima fa piangere e la seconda fa ridere. La prima è un'ingiuria alla grammatica, non pure italiana, ma di qualunque umano linguaggio: Noi siamo seicento che hanno; la seconda è un'ingiuria al senso comune: noi hanno appena le scarpe indosso.
Tanto valeva allora buttar via anche quelle, poichè come avrebbero potuto le scarpe giovare al dosso? Poi vi sono le città che si ripetono l'una coll'altra il grido ( Poesie, pag. 145); anche c'è:
Ma d'ieri la rivincita, voi, prode,
Chiedere ben vi sta... ( Pezzenti, pag. 87);
inoltre un empiè ( Poesie, pag. 12), e non so quanti apparì. Di più, il deputato Cavallotti non ha ombra di rispetto per l'esse impura. È vero ch'essa è impura, ma è pur sempre un'esse! Ecco:
Or son essi d'Italia i Scipioni ( Poesie, pag. 165);
Bisogno il strinse a far de la mia spada
( Pezzenti, pag. 122).
In fine, il deputato Cavallotti nell'elisione è feroce. Udite scoppi di bombarde:
Le insegne giacquero delle legion;
Stettero i teschi dei centurion. ( Poesie, pag. 187).
..... Quei vostri
Occhi han tanta facondia e ragion tanto
Migliori delle nostre... ( Pezzenti, pag. 97.)
Or che ci attenderemmo noi da una pettegola che pecca contro le più elementari norme del galateo metrico e grammaticale? Ella è sboccata e cenciosa, è sciatta e sgraziata nel parlare e nel gesto. L'improprietà del suo linguaggio e la goffaggine del suo stile muovono al riso. Crollate il capo in atto di contradizione, o dolce Parlagreco? Ebbene, ascoltate:
Egli negò procombere fra l'armi e il cozzo orrendo
( Poesie, pag. 140).
Ascoltate ancora:
E sbatte imposte, ( il vento ) arbusti schianta, e arene
E frane e fronde sibilando aggira ( Poesie, pag. 156).
Che cosa dice il signor Parlagreco di questo vento che aggira non pur le arene e le fronde, ma e le frane? E che cosa dice dello stormir del vento che trovasi a pag. 166 delle Poesie? E vuole egli del barocco? Apra, a sua scelta, un qualunque volume del maestro, e legga. Io per me rinunzio ad enumerare gli errori d'una puttanella che pecca cento volte il giorno.
Mi bastava mostrare che puttanella è: anche bastavami porre in chiaro questo fatto, che il deputato Cavallotti, non che l'attitudine organica alla lirica, ma non ha nè meno quel povero substrato metrico e grammaticale, che è pur necessario a voler mettere insieme de' versi. Egli si trova nelle medesime condizioni di Giacinto Stiavelli, il quale, da che io lo conosco, è travagliato da un dubbio feroce: se poeta sia una parola bisillaba o trisillaba.
— Diavolo! se la fai bisillaba, si pronunzia peta — gli diss'io una volta. Ed egli a me:
— Il Cavallotti la fa sempre bisillaba.
Che potevo opporre allora, e che posso ora? Nulla. Il Cavallotti ha diritto di fare ciò che gli piace: chi oserebbe togliere o limitare la libertà dello sproposito a un democratico? Solamente domando: non vi parrebbe ridicolo ch'io mi fermassi più a lungo intorno a una poesia, a cui mancano persino l'innocenza grammaticale e il pudor prosodiaco? Che vi aspettate da lei? Ella ha fornicato con mezzo mondo, e ha per una notte dormito nel letto d'ogni poeta moderno. Grandi o piccini, nostrali o forestieri, belli o brutti, a tutti ha aperto le gambe, sì che per troppa varietà di fecondazione è rimasta sterile. Ella ha tutti i vizi delle sue pari: è cicalona, è fanfarona, è stupida, è enfatica. Nel parlare gestisce smodatamente, ed è una cosa bella vedere tanta impudicizia repubblicana mista con tanta prosopopea di dignità. Mi dà l'immagine della moglie di Masaniello vestita da regina. Di più, come molte sue pari, tende, per inclinazione di sciocchezza o per posa, all'amor platonico, all'ideale, alle tenerezze ineffabili dell'infinito, a tutte quelle dolci cose impalpabili e imponderabili che non esistono se non nella fantasia della gente viziosa. Il deputato Cavallotti, il fantaccino della lirica antigrammaticale, il pazzarellone, il tumultuario, l'anarchico, quegli che a cavalcioni d'un dodecasillabo sfiancato o d'un ottonario zoppo va caracollando giocondamente pei giardini della retorica, ogni tanto è preso da ciò che un romantico vecchio direbbe nostalgia del cielo. Lascia gli eroi delle Cinque giornate e i martiri bosniaci, Rattazzi e Garibaldi e Giulio Uberti, e tutti gl'infelicissimi ch'egli travolse in un vortice di strofacce al suono del suo trombone scordato; e vola. O nuvole che vi spandete con morbidezza di veli sulla serena faccia del sole, fermatevi e mirate; il deputato Cavallotti, repubblicanamente rosso nel volto, col cappello piombante sull'occhio sinistro e le mani in tasca, passa a volo, e va a visitare gli angioli del Signore. O angioli buoni e biondi, fatevi alle soglie del paradiso ad accogliere il visitatore: è un'aquila o un gallinaccio che viene a voi? In verità mi pare un gallinaccio, che abbia tolto a prestito le ali da qualche palomba romantica. Ma non lo dite a nessuno, o angioli santi, se non volete che la democrazia italiana m'immoli alla diva Sgrammaticatura.
Anche, la musa cavallottèa si diletta delle passeggiate. È una vagabonda, che corre a perdifiato a traverso i compendi di storia. Ella trascina Leonida a traverso il compendio storico che constituisce la miglior parte del Giannetto, e per giungere al monumento delle Cinque giornate attraversa più storia che non ne occorrerebbe a un candidato all'esame di licenza liceale. Così, la poesia del Cavallotti, oltre al suo intendimento civile, ha anche una ragione didascalica: non pure squassa tutti i ferravecchi rugginosi della vecchia lirica patriottica con fragore fanfaronesco, ma si compiace stranamente di narrare e d'ammaestrare. A vederla cavalcare sul quadrupede della strofe cavallottesca, che ha del rossinante e del ciuco, dà l'imagine di don Chisciotte e di Sancio fusi insieme per qualche strano fatto d'alchimia antropologica.
V.
Da Sancio Panza non ha il deputato Cavallotti ereditato il grossolano buon senso bertoldesco; ne ha però dedotta la manìa sentenziatrice, le consuetudini contradittrici, la prosopopea predicatoria. Tutte le opere del Tirteo nostrale son gravate d'una immensa congerie di prefazioni, di controprefazioni, di note, di citazioni, di richiami, di polemiche: paiono le finanze del regno d'Italia ai tempi del ministro Sella. L' Alcibiade, nell'edizione per la lettura, è come un dromedario carico di troppo peso, che restando inginocchiato in terra neghi di portarlo. Oltre la filastrocca a Yorick figlio di Yorick per dimostrargli che l'Alcibiade cavallottèo, se bene pare romantico e sentimentale e dolcemente imbecille, è in fondo veramente e pienamente greco, poichè fa tutte le cose che i biografi, gli storici, gli scrittori greci d'ogni tempo e d'ogni natura dicono egli abbia fatto; ci è d'avanti e dietro e fra mezzo, in corpo dieci, in corpo nove, in corpo otto, in corsivo, in gotico, in rotondo, un tal semenzaio d'erudizione, da far crepare d'invidia un'enciclopedia. Alcibiade va a Sparta? Ed eccovi tutte le notizie che si sanno intorno alla storia, alle leggi alle consuetudini spartane. Alcibiade ripara in Tracia? Ed eccovi della Tracia sino agli occhi. E a proposito della Tracia, tornami nella memoria un caso che mi avvenne in liceo. Era professore di greco un dolce prete, che evea viso e mitezza più tosto femminea che sacerdotale: si chiamava, e si chiama, Biagio Lanzellotti, e non mai mi sono io abbattuto in un più diligente correttore di compiti e in un uomo d'indole più delicata e più gentile. Era però, ed è ancora, credo, alquanto minuzioso e amico delle piccolezze scolastiche. Una delle cose cui più teneva erano le note didascaliche, e la piccola erudizione; sì che nelle feste davaci a fare degli studietti tra filologici e storici, con piena libertà d'argomento. Or quando io fui sopraffatto da quelle quattro copie dell' Alcibiade, onde ho già parlato, dovendo un giorno fare uno di quegli studietti e mancandomene il tempo o la voglia, pensai di cavallotteggiare; e copiai con molta placidezza d'animo tutto ciò che il deputato Cavallotti dice dei Traci. Il buon prete lesse tutto lo sproloquio, e lodò la mia diligenza: però ad altri, che avevan fatto a meno del concorso d'Alcibiade, diede nella classificazione un maggior punto. Questo piccolo incidente scolastico mi fece per tempo valutar rettamente l'erudizione cavallottèa, la quale suscita per la sua mole un vero spavento d'ammirazione nell'animo dei lettori innocenti. Essa non è che uno spoglio d'enciclopedie e di dizionari storici, che farebbe onore di pazienza a uno scolaro sgobbone. Accusato di violata verità storica, per avere retoricamente attribuito ai superstiti della catastrofe dell'ambizione arduinica un senso di italianità che prima di Dante e della lega lombarda era, per lo meno, singolare, si difende gittando addosso ad Eugenio Torelli-Viollier tutta una biblioteca storica. Povero marchese Colombi! Egli non è molto forte in erudizione di storia e d'ogni altra parte del sapere umano, e quella scarica di citazioni che dalla catapulta del deputato Cavallotti gli piombò contro, dovè stenderlo tramortito al suolo. Quel mattacchione d'un democratico prese il Provana, un dotto uomo che partecipò con Cesare Balbo il santo errore di ricercare nella storia d'Italia le fonti del patriottismo italiano; e dopo aver citato il Provana, prese a citar per disteso tutti i passi delle cronache e i brani delle storie citati brevemente, con la semplice indicazione dell'autore, dell'opera e della pagina, dal Provana; così riescì a mettere insieme, con molta fatica calligrafica, un cinquanta pagine di erudizione, schierando di fronte a quel povero diavolaccio mingherlino del marchese Colombi almeno cinquanta storici, annalisti, cronisti, dal Cronista sassone a Cesare Balbo. A che giovava tutta quella spampanata spacconesca? Mah! Il deputato Cavallotti rassomiglia un poco ai mercantelli ambulanti, i quali girano per le fiere; e dove la fiera è più popolosa e tumultuosa, fermansi con la gerla al collo e si ragunano intorno i contadini. E cominciano a spiegare e ad agitare in alto alla vista di tutti i fazzoletti ad uno ad uno, e a mostrare uno ad uno i pacchi di fettuccia, le minuterie, le cianfrusaglie di ogni maniera onde son carichi; e finchè ogni cosa non abbiano spiegata o mostrata, non son contenti e non tacciono. Se non che, il deputato Cavallotti pecca ogni tanto di qualche omissione. Perchè, per esempio, nel caso del marchese Colombi ha dimenticato il Giannetto? Ma son peccati veniali.
Poi questo Pirgopolinice è d'una burbanza singolare. A sentirlo, pare il nume tutelare della pedanteria grammaticale, delle minuzzaglie prosodiache, delle cianciafruscole ortografiche. Ha un fare tra soldatesco e canonicale, e tratta gli altri critici come una ragazzaglia di coscritti a cui egli debba comandar la manovra. Teorizza per inspirazione divina, con un'affettazione di semplicità bonacciona che vi fa scoppiare dalle risa. Par sempre che dica: — Vedete, ragazzi; voi siete de' bravi ragazzi, e col tempo diventerete grandi poeti e grandi critici come me; ma per ora peccate in questo e peccate in quest'altro, non sapete la grammatica nè la metrica. Venite qua, chè v'insegnerò io l'una e l'altra. Ed egli, veramente, è in grado di farlo. In fatti, nella prefazione alle Anticaglie ci è una parte che più specialmente tratta di metrica, anzi di metrica barbara; e il più significante appunto ch'egli fa al sistema del Carducci, è questo: che la barbarie carducciana non è una novità, poichè quei falsi versi classici non sono che accoppiamenti di versi, diciamo, romantici. Veramente era inutile darsi tanta pena per questa grande scoperta, da che il Carducci avvertì chiaramente di avere armonizzato la sua barbarie di suoni e di versi italiani: anche era inutile, poichè, essendo quel barbarume un'insalata di versi italiani, non doveva un deputato martelliano gridare allo scandalo. Ma lasciamo correre, giacchè ci è un'altra cosa da notare. Si sa che per contrapposizione al Carducci, il quale osò di far poesia italiana con metri greci, il Cavallotti tradusse della poesia greca con metri italiani: ora avete voi notati quali furono i metri prediletti dal deputato Cavallotti nella sua traduzione delle elegie di Tirteo? Il dodecasillabo fatto di due senari, e il decasillabo di due quinari accoppiati! Ma allora son barbari anche questi? Per barbari, dormite in pace, son barbari assai. Anche, nella critica è notevole l'acume del deputato Cavallotti: egli ha una facoltà divinatoria che non gli fallisce mai, e i suoi vaticini son più sicuri dei responsi dell'oracolo delfico. Non è vero, o Giacinto Stiavelli? In te scoprì il deputato Cavallotti non so se il seme o il rampollo d'un gran poeta; e ti preconizzò un avvenire di gloria e di fortuna poetica. E tu dovesti chiedere al Debito pubblico una consolazione della poesia traditrice! Così, da che il deputato Cavallotti vide nel medio evo di Leopoldo Marenco una chiara luce drammatica, quell'infelicissimo dovè fuggire a scavezzacollo dal palcoscenico, se non volle che il pubblico gli rivomitasse addosso tutta quella pappardella di versi sciolti saponacei. Che il traditor di Tirteo sia anche un pochettin iettatore? Affrettiamoci, per carità, a toccarci le note specifiche del sesso mascolino; e lasciamolo in pace.
Non prima, per altro, di avere brevissimamente toccata un'altra parte, e la più integrante forse, della letteratura cavallottèa: le cartoline postali. Il deputato Cavallotti ha per la posta in genere e per la cartolina postale in ispecie un culto veramente fanatico. Il deputato La Porta, che da anni ed anni sospira con infantile ingenuità d'animo al Ministero delle poste e de' telegrafi, e in questa speranza conforta la sua fede nell'onorevole Depretis, non può augurarsi un più largo e più sicuro contribuente. Con la cartolina postale il Cavallotti zappa l'orto della sua popolarità, e non ci è democratico in Italia che non ne abbia una incollata al muro come una sacra reliquia, e non ci è giornale a cui non ne pervenga qualche dozzina per trimestre. Appena il deputato Cavallotti ha detto o scritto o fatto qualcosa, un discorso, un proverbio martelliano, un telegramma contro il Ministero, una poesia, subito si mette all'opera; e scrive un centinaio di cartoline...
Ma lasciamolo scrivere, poichè finalmente mi son seccato di perdere il tempo con questo mattacchione. In lui la democrazia italiana si letifica e si glorifica: lui leva sugli scudi quasi ad insegna della sua vacuità sonora e della sua prosopopea academica. Se lo tengano pur caro, e scolpiscano per motto dell'arma repubblicana un ircocervo cavallottèo.
Contenti loro, contenti tutti.
VI.
Chiunque prenda ad osservare le relazioni della nostra misera letteratura con la nostra vile politica deve necessariamente notare questo fatto: che i moderati in politica sono in arte disordinati e plebei, e per contrario l'aristocrazia dell'arte è prediletta da quelli che politicamente fan professione democratica. Non avete mai pensato a questo, dottor Verità, versando la broda bottegaia della vostra prosa critica sulla poesia oligarchica del Carducci? Io son venuto a questa conclusione per un lungo esame induttivo, di cui la più sicura prova sta nella questione della lingua: questione per ora sopita, ma che non tarderà a svegliarsi con più caldo furore. E in questa disputa i fautori della lingua unitaria, dal Manzoni al Bonghi, furon tutti codini, mentre dal Guerrazzi al Carducci e ad Alberto Mario i repubblicani inclinarono sempre al regionalismo della forma. E basta, mi pare, poichè ciascuno può secondo il desiderio moltiplicare gli esempi. Io voglio invece recare una eccezione di questa general regola nel nome e negli scritti di Felice Cavallotti, repubblicano intransigente nei comizi popolari, monarchico con restrizione mentale in Parlamento; poichè in costui la fede politica e i criteri d'arte, le consuetudini di agitatore e la forma dei versi e della prosa si armonizzano in una comune inarmonia di sciattataggine e di volgarità democratica. Anzi io direi che, se qualche documento di sè può offerire la presente democrazia italiana, questo son le opere compiute che il deputato Cavallotti va man mano pubblicando e distribuendo ai molti associati, che vengono per tal modo ad essere quasi gli azionisti della gloria cavallottèa.
Infatti la democrazia in Italia ci si addimostra nelle ragunate tumultuarie e rissose di Romagna e nelle pesanti tornate dell'associazione dei diritti dell'uomo, nei giornalettini repubblicani, socialisti, nichilisti di provincia e nel Fascio della democrazia, in Parlamento e in piazza, nelle scorribande fragorose degli studenti e nelle dimostrazioni pompose di tutto il popolo democratico, ci si addimostra, dico, come un miscuglio d'academico e di lazzaronesco. Anch'io ho avuto, qualche anno addietro, una fede politica, e naturalmente sono stato repubblicano: repubblicano platonico, per verità, poichè non ho mai sparso una goccia di sangue o d'inchiostro pro o contra nessuna forma di governo: ma insomma repubblicano ero d'avanti al testimonio della mia coscienza, e dal Comizio dei comizi alla processione per la morte di Garibaldi ho seguìto con attenta e silenziosa osservazione tutto lo sviluppo e studiato l'organismo della democrazia italiana. E ciò che mi fece venire in uggia la repubblica, fu appunto la processione per la morte del Generale. Cominciò a seccarmi il mio amico Dionisio Martinati, che la mattina del 3 giugno con un drappelletto di studenti, tutti coi bastoni in mano, batteva il Corso obbligando quanti non l'avevano ancor fatto a chiuder bottega. Io voleva mangiarlo vivo quando poi venne al caffè a gloriarsi dell'impresa. Diavolo! c'è proprio necessità assoluta d'incitare con argomento di bastoni i mercanti romani alla vacanza? Ogni sera alle nove e le feste dopo mezzodì essi chiudono inesorabilmente le porte dei negozi: se poi la democrazia si mette a invitare i tedeschi a bere, non sarà più possibile a un repubblicano pulito di comprarsi un paio di guanti.
Poi cominciò una pioggia o una peste d'avvisetti, d'avvisoni, d'avvisacci: dalle più profonde tenebre dell'ignoto varie forme democratiche uscivano, come formiche dalle buche del formicaio, con una chiamata a una ragunanza, stampata sopra fogliettucci o fogliettoni, d'avanti. O quanta democrazia! Non mai avrei creduto che fosse tanta, poichè le mura di Roma non bastavano a tutta quella spampanata d'avvisi. Se non che, non tardai ad avvedermi che gli avvisi non fanno la democrazia, e che la democrazia italiana un sol miracolo ha ottenuto dal suo dio (gli ultimi ad aver qualche dio sono i democratici,) ed è una varia democratomorfosi, una proteiformità smisurata, che le concede di trasmutarsi e di rimpastarsi con vicenda infinita. Infatti il cittadino Antonio Fratti, studente perpetuo di giurisprudenza e oratore officiale della oligarchia mazziniana (la chiamo oligarchia perchè i mazziniani non superano la ventina), mi apparve in quei giorni di lutto cinque o sei volte, con quella sua faccia grassottella d'olandese giovine, con quelle mani guantate di nero: lo trovavo da per tutto, e da per tutto udivo quella sua eloquenza di piombo raffreddato che mi dava la sensazione d'un'acquerugiola fitta e seccante sulla nuca. Avete mai visto un veltro alla caccia? Io no; ma non me lo posso raffigurare se non scattante per l'erta e alla piana come un dardo scoccato, e voltante qua e là e battente la pista con tanto precipizio di fuga, da parer presente ad ogni istante in ogni luogo come fosse esso solo una muta di cani. Tale è, sebbene non credo abbia parentela col Veltro di Dante, la democrazia in Italia; poichè ogni democratico fa parte d'ogni sodalizio democratico, e pone il suo nome sotto cinquanta manifesti diversi, e appare in cinquanta luoghi diversi nella medesima sera. Così rammento il bello e fulvo Napoleone Parboni, che in quei giorni andava per ogni dove portando la barba rossa e il vocione sonoro, e arringava la democrazia con quella sua romanesca bonarietà di padre di famiglia e di compagnone giocondo. Venne l'onorevole Bovio da Napoli, col torace pieno di parole vuote di senso; ed Edoardo Pantano, l'Eleonora Duse della democrazia italiana, gli si moveva ai fianchi nevroticamente: il deputato Cavallotti, seduto sopra un tavolino, pensava qualche luna di miele. Ahimè, quanto vento di retorica, e quanta academia, e quanta imbecillità in quei rimescolamenti della democrazia officiale! Si discusse tutta una sera se si avesse, o no, a rispettare l'estremo desiderio del Generale; e quando, dopo le dispute, tolta la bandiera, si mosse al Campidoglio per dimostrazione di dolore e di affetto, pochissimi vennero: io ricordo vivamente il gran senso di vergogna che mi percosse quando entrammo in meno di dugento nella grande aula del Consiglio, ove i padri coscritti sedevano a deliberare. E Giovanni Bovio ventriloquo, e il Parboni, e il Pantano, e il deputato Cavallotti? Era quasi mezzanotte, e tutti i canonici della democrazia, poichè non potevano esser veduti e nessuno dava segno di volerli ascoltare, s'erano dispersi. Per un momento mi parve che vi fosse il cittadino Fratti, perchè mi passò sotto il naso un odore di viole di Parma; ma le recava all'occhiello Arnaldo Vassallo, che attraversò la folla per andare ad occupare il suo posto di giornalista.
Così, a grado a grado, tutti i preparativi della processione mi venivano abbattendo nell'animo l'ideale democratico: una persona sola e un sol fatto mi colpirono allora e mi accesero d'entusiasmo, Guglielmo Oberdank e l'assalto che gli studenti dettero alla stamperia del Cassandrino. Guglielmo si levò improvvisamente fra il tumulto d'un'assemblea universitaria tutto ardente negli occhi e nella faccia, e nominò Trieste con tanta santità di furiosa passione, che nessuno osò di contradire; ma un concorde grido di tutta quanta la scolaresca plaudente salutò le terre italiche non ancora rivendicate all'Italia, e ribadì forse nell'animo del giovine eroe la fede e l'amor del martirio: sette mesi dopo, il corpo di Guglielmo penzolava ai venti della patria da una forca tedesca. Al Cassandrino si mosse tutti ordinati e silenziosi come a una crociata della dignità umana. Nessuno diede ordini o fece proposte, nè fuvvi discussione o deliberazione di alcuna sorta; ma non appena uno sorse sopra una tavola, a leggere le ingiurie bestiali che quel fogliettaccio papalino scagliava contro il corpo ancor caldo del Generale, subito per tacita unanime determinazione movemmo tutti quanti all'assalto.
In piazza di Pietra trovammo carabinieri e guardie di polizia; ma vedendoci andare con tanta serietà d'intendimenti e con sì poco fragore, nessuno pensò la natura dell'impresa. E come fummo a piazza Poli, ci lanciammo con l'impeto d'una canèa furibonda entro i cortili e alle porte della stamperia. O dio, che gioiosa rabbia di distruzione e che indomabile violenza di vendetta! Io veggo ancora Guglielmo Oberdank afferrare le cassette piene di caratteri e sbalzarle lietamente per l'aria, e Umberto Dal Medico mezzo sepolto sotto una pioggia di piombo frugar tuttavia con le mani cercando qualcosa da fracassare. Quello fu il bel giorno, e per dieci ore io sentii nella carcere del mio corpo la mia gioventù palpitare di un caldo entusiasmo repubblicano; poi, sino alla processione, il calore andò con graduale celerità scemando. Il giorno della processione me ne andai in piazza del Popolo prima dell'ora stabilita. Era un puro e luminoso pomeriggio d'estate, e il chiarore ardente del sole veniva dall'alto così chiaro e così ardente e così grande, che pe'l caldo e per la luce i già ragunati penavano. Tra questi io mi aggirai, ascoltando i discorsi e guardando. Il vecchio e il giovine Petroni, addossati all'obelisco di Sesostri, davano retta al gran Parboni tutto glorioso nell'aureo splendor della barba; e il professore Orazio Pennesi, con l'abito nero fiorito d'una gran coccarda, o d'una medaglia, o d'una decorazione, o del diavolo, moveva intorno la tuba lucente e la faccia fatalmente wertheriana per farsi amar dalle donne. Per un momento la figura pantagruelica del buon Filipperi, giunto di Trastevere con tutti i garzoni della sua osteria, mi suscitò nei nervi un senso di gaiezza simpatica; ma vedendo in quel punto venir dal Corso il deputato Bovio col bovietto Pantano a destra e Ulisse Bacci a sinistra, tutti in gran solennità come tre canonici in pompa magna salienti all'altare per la messa cantata, e da Ripetta sboccare un manipolo di mazziniani con le labbra ferme e gli occhi bassi e le mani incrociate sul petto in atto di religioso tremore, come neofiti che andassero alla consecrazione, mi riprese una nausea dispettosa di tutta quella ciarlataneria, di tutta quella goffaggine, di tutta quella academia dimostrate sfacciatamente in piazza al conspetto del sole splendente. E me ne andai per via del Babbuino come un cane arrabbiato, tanti e tanto maligni erano i pensieri che mi staffilavano il cervello. Questa è dunque la democrazia? Un'accozzaglia di beceri, di imbecilli, di ambiziosi volgari che cercano ogni occasione di mettersi in vista, di chiacchierare, di spampanare al conspetto della gente una coccarda o una decorazione repubblicana; che gittano il vomito della loro retorica e i fiori bianchi della loro stupida fede di bonzi mazziniani sui più sacri nomi e sulle più floride speranze d'Italia; che insteriliscono con l'effusione del loro sudore senile tutte le energie giovenili delle generazioni sorgenti ora dalla gran matrice della patria. Questa è dunque la democrazia? Accidenti alla democrazia! come direbbe il buon Filipperi; e me ne andai a dormire, per non vedere il deputato Cavallotti e il gran Parboni farsi trascinare in trionfo pe'l Corso sopra un carro col busto di Garibaldi. Conferii per altro indirettamente anch'io alla coreografia di quella pagliacciata democratica, poichè prestai un paio di calzoni neri a un reduce dalle patrie battaglie.
Così la mia fede democratica crollò dalle fondamenta in quel sonno antipatriottico, che mi fu rotto da una bella donna: di poi ho io assai volte ripensato a quella processione, a quel sonno, a quella donna, sempre più discostandomi dalla democrazia, e rintanando la mia coscienza politica in un mio nichilismo selvaggio, ove non giunge nè la vacua sonorità del deputato Bovio nè la stridula petulanza del deputato Cavallotti nè la jattanza povera dei bovini e dei cavallottini che hanno intorno al Fascio costituita una specie di burocrazia repubblicana pomposa e noiosa più della burocrazia officiale. O pura anima di Alberto Mario, semplice e schietta, e vibrante a ogni afflato di libertà come un'arpa eolia al passare del vento, sei tu volata al tuo olimpo pagano? Che gli dèi del gentilesimo ti tuffino nelle acque di Lete, sì che tu non possa vedere questo manipolo di mosconi che sciamano sul carcame repubblicano con un ronzìo misto di retorica, di spropositi, di bugie. Per Alberto Mario fu la repubblica un bel sogno classico e gentile, che la poesia greca e la sapienza romana e il senso estetico del Rinascimento gli tingevano d'un ideal colore di porpora e di zaffiro. Pei mosconi? È argomento di chiacchiere o materia di pompa. Il deputato Bovio sèguita ad arruffar parole, e predica una sua stramba scienza democratica che comincia da Giordano Bruno e termina al Campanella, senza pur toccare Cartesio, senza pur intravedere Spencer; Edoardo Pantano sèguita a sbrodolar la sua prosa presuntuosa e sciocca, e va contro i muletti della stampa monarchica a bisdosso d'un asino sciancato e academico; il deputato Cavallotti, in nome della democrazia, sèguita a violar le leggi della prosodia e quelle della grammatica, e alla recita delle sue comedie il pubblico si leva acclamando al suffragio universale e chiamando al proscenio l'attrice più cara e l'autore, per salutare con un applauso unico l'istrionismo dell'arte e quello della libertà. Ben facesti a morire, o Alberto Mario, chè altrimenti ti toccava vedere una strana gioventù crescente alla grama ombra del tristo alberetto repubblicano. Non fu Ettore Vollo, uno studente mazziniano, che furibondo d'esser considerato come un minor colpevole dei fatti di piazza Sciarra, si fece arrestare quasi a forza; poi, rilasciato in libertà provvisoria, quando lo richiamarono pe'l processo volle attraversar piazza Colonna di pieno giorno tra due questurini, e dietro un fattorino pubblico che gli portava la valigia? Fu proprio lui, e anche fu lui che durante il processo si dimenò come un sorcio in trappola per conseguire il martirio d'un mese di carcere! Aimè, i giudici implacabili non glie lo concessero; e con una sentenza assolutoria falciarono tutte le erbette ambiziose germinanti nei prati dell'Arcadia del sacrifizio. Povero Vollo, così giovine e già tanto cavallottesco!
INDICE
Dedica Pag. 5
Prolegomeni 9
I. Le terre barbariche. — Per le rovine di Ostia e per la patria — La vecchiaia di Victor Hugo — Contro il romanzo sperimentale — Le novelle tedesche 27
II. Prose di romanzi. — Novelle nuove — Le fonti popolari del romanzo e Luigi Capuana — La novella obbiettiva di Giovanni Verga e il dialogo indiretto — Fantasie dei critici intorno alla Fantasia di Matilde Serao — Gli ultimi romanzi italiani — Colonia felice — Storia d'un fiore di loto e d'un maestro elementare 103
III. Belle muse e brutti musi. — L'ultima barbarie e l'epica carducciana — Contro Gabriel D'Annunzio e contro i critici verecondi e inverecondi — Melodrammatici vecchi e nuovi — Un rimatore novissimo 175
IV. Palco scenico. — In vituperio dei barbagianni — Il capolavoro del teatro moderno — I medici del dramma 233
V. Molini a vento. — Un giornalista morto — La critica dei quadri e delle statue — Il marchese Colombi, la marchesa Colombi e i poeti contemporanei — Le fanfaluche del dottor Verità — Un pazzo glorioso — Il giornale dei cretini e curiosi 261
VI. La repubblica letteraria. — Il signor Parlagreco e il deputato Cavallotti — La genesi della gloria Cavallottèa — L'evoluzione drammatica del deputato Cavallotti nello spazio e nel tempo — Le passeggiate liriche e i salti mortali metrici e grammaticali del deputato Cavallotti — La critica, le prefazioni, le note, la polemica e le cartoline postali del deputato Cavallotti — Contro la democrazia 329