STORIA
DELLA DECADENZA E ROVINA
DELL'IMPERO ROMANO

DI

EDOARDO GIBBON

TRADUZIONE DALL'INGLESE

VOLUME PRIMO

MILANO PER NICOLÒ BETTONI M.DCCC.XX

INDICE

A LADY FANNY HARLEY

Piacciavi, nobilissima Lady, cedere che il vostro nome divenga leggiadro ornamento al volume con che s'apre il terzo anello della Biblioteca Storica di tutti i Tempi e di tutte le Nazioni. Prende quinci principio la serie degli storici vostri, fra' quali, dotta qual siete in varie favelle, vi sarà grato rivedere nelle nuove italiche vesti quel valoroso che sì maestrevolmente dipinse il Tramonto del grande Imperio di Roma. Ed a chi potrei io intitolar quest'Opera più convenevolmente che a Voi, onde sì bene è giustificata quella sentenza del divino Platone: «Nulla avervi di più ammirabile sopra la terra che la somma venustà della persona, commista alla peregrina gentilezza dell'animo.» Accogliete, illustre Donzella, questo pegno del conoscente mio ossequio, e sia esso quale iscrizione votiva, che segni i giorni in cui la bella Milano si allegrava allo splendore della vostra avvenenza.

Milano 20 agosto 1820.

Dev. mo Osseq. mo Servitore

NICOLÒ BETTONI.

AVVERTIMENTO

Io ti presento, o lettore, la Storia della Decadenza e Rovina dell'Imperio romano, scritta da Edoardo Gibbon, ed ora interamente e fedelmente trasportata dall' originale inglese nella lingua italiana. Non una idea, non una parola importante, venne ad essa tolta, mutata od aggiunta. Il testo a cui mi sono attenuto, è quello impresso da Strahan e Cadell, in Londra, colla data del 1791 in 8.º, ottima e sicura edizione, di cui fa cenno l'Autore nelle sue Memorie.

Di due parti è composto il mio lavoro: una comprende l'emendazione de' volumi di questa Istoria, già pubblicati in italiano colle stampe di Pisa, per opera di monsignor Fabbroni[1]: l'altra risguarda i rimanenti volumi, da me per la prima volta recati nella nostra favella.

Intorno a questa seconda parte non moverò parola. A te spetta, o Lettore, di giudicare la mia fatica. Ti prego soltanto a por mente che essendomi fatto continuatore di una traduzione, non ho potuto nè dovuto governarmi come se fossi stato l'unico traduttore di tutta l'Opera.

Per rispetto al racconciamento della Traduzione Pisana, avvertirai che la prima mia cura fu intesa a confrontare, linea per linea, parola per parola, il testo italiano col testo inglese[2], onde restaurare le numerose imperfezioni e troncature di quello, raddrizzarne le rilevanti diversità, ed emendarne i notabilissimi errori[3]. Mi diedi poscia a ripulirne lo stile, ma confesso di non aver moltissimo esercitato la lima, tranne intorno al primo tomo, di cui ho dovuto rifare le intere pagine[4]. Gli altri tomi mi apparvero lodevolmente tradotti, per quanto concerne la qualità del dire, e se non sempre esprimono l'enfasi dell'originale, spiccano tuttavia per una chiarezza che di rado s'incontra ne' volgarizzamenti ricavati dalle lingue settentrionali.

Altra cosa ora debbo soggiugnere. Lo scetticismo di Odoardo Gibbon in materia di religione, ha tirato addosso a lui molte veementi censure. Tra suoi avversari, splende primissimo Nicola Spedalieri, celebre Autore dei «Diritti dell'Uomo», e rivale ben degno di starsi a fronte di un tanto istorico e filosofo. Per tranquillare le menti, ed opporre, come altri dice, l'antidoto al veleno, ho messo infine al capitolo 16.º il Compendio della Confutazione di Gibbon, scritta dall'Apologista della Chiesa Romana. Le tre Lettere dirette ai signori Foothead e Kirk, Inglesi cattolici, seguiteranno il capitolo 25.º, e con ciò sarà proveduto ai timori dei più riguardosi.

Avrei potuto inserire moltissime note di erudizione, giovandomi a tal fine dei lavori di varj cospicui stranieri. Ma sì abbondanti già sono quelle dell'Autore, che non ho giudicato opportuno di seppellire il testo sotto le note; e mi sono ristretto ad apporne alcune pochissime e brevissime che troverai impresse in corsivo. Di queste sole mi si aspetta il rendere conto. Potrebbe avvenire che nel corso della stampa fossero richieste alcune altre postille, alle quali sin dal presente dichiaro di non aver parte veruna. Le materie teologiche non sono di mia pertinenza, nè voglio che alcuno abbia ad applicarmi la nota sentenza di Apelle.

Davide Bertolotti.

CENNI SOPRA LA VITA DI EDOARDO GIBBON

L'istoria della Decadenza e Rovina dell'Impero di Roma viene generalmente collocata tra i più bei lavori della Musa dell'Istoria, illuminata dalla face della Filosofia. Zimmermann, nome caro a tutti i cuori gentili, diceva parlando di essa: «Tutta la dignità, tutto il diletto di cui è suscettivo lo stile dell'Istoria si trovano in Gibbon: tutti i suoi pensieri hanno nerbo ed ordine, ed i suoi periodi scorrono melodiosamente». — «Io cercherò mai sempre la verità, esclamava Gibbon, finora non ho trovato che la verisimiglianza[5] ». Ed in fatto, se l'assenza delle passioni, la moderazione dei desiderj, e quel medio stato di fortuna atto a reprimere le lusinghe dell'ambizione e il grido del bisogno, offrono l'idea dell'uomo sommamente acconcio all'imparzialità necessaria per dettare l'istoria, nessun uomo dovea più di Gibbon possedere le qualità di un istorico.

Nato a Putney nella contea di Surrey li 27 Aprile 1737, da una famiglia a sufficienza antica, ma senza splendore, ei non poteva ritrarre da' suoi antenati nè fama nè infamia[6]. Le dissipazioni di suo padre avean ridotto ad una discreta misura le molte ricchezze adunate da suo avo, onde a lui ne tornava la necessità di adornare la vita con que' nobili e pacifici trionfi che dall'ingegno son procurati. La vivacità della sua mente s'era manifestata fin dall'infanzia, negl'intervalli che a lui lasciavano una debole e vacillante salute, e le infermità che sino ai quindici anni lo afflissero. Al qual tempo la sua complessione afforzossi in un tratto, senza che di poi risentito egli abbia altro male, fuori della podagra. Trascurato da' suoi educatori, Gibbon non andò obbligato che alla fertile sua memoria delle fondamenta del suo vasto sapere. Dotato di perspicacissimo spirito d'indagine, egli prese a comporre, di sedici anni, un'opera istorica in cui volea determinare il secolo di Sesostri verso il tempo di Salomone. Datosi quindi alle controversie di religione, fu vinto dall'eloquenza degli scritti di Bossuet[7] ed abbiurò il protestantismo nelle mani di un prete cattolico in Londra. Cacciato dall'Università di Oxford per tal atto, e mandato da suo padre, che fieramente ne avea preso sdegno, a Losanna, presso il ministro protestante Pavillard, con assai meschina pensione, Gibbon si ricondusse alla religione riformata, o veramente non fu più in appresso nè cattolico nè protestante, ma bensì scettico come Bayle[8].

Il soggiorno di cinque anni in Losanna riuscì però assai favorevole allo spiegamento del suo intelletto. Le immense letture da lui fatte e intorno alle quali egli avea preso per divisa: Mai non dobbiam leggere, se non se per aiutarci a pensare[9] gli porsero i materiali di quella dottrina che con tanta sagacità e con tanto splendore egli seppe svolgere ed applicare in appresso. Con tutto ciò la calma dello studio non lo pose interamente al riparo delle perturbazioni della giovanezza. Egli vide a Losanna, ed amò la damigella Curchod, poscia Mad. Necker, ragguardevole pei fregi della persona, del cuore e dell'ingegno. Quest'amore fu quale provare il dovea un garzone d'onorati sensi per una virtuosa donzella, ed egli si rallegrava al sol pensarvi, fin nei suoi anni più tardi. Amendue inclinavano a tal nodo, ma il padre di Gibbon richiamollo in Inghilterra, e questi, sono le sue stesse parole, sospirò come amante, ma obbedì come figlio[10]. Ei la rivide a Parigi nel 1763, sposa del celebre Necker, e ritrovò appresso lei, in tutti i tempi della sua vita, quella dolce intrinsichezza, conseguenza di un tenero ed onesto sentimento, cui la necessità e la ragione hanno potuto vincere, senza che di parte o d'altra vi fosse campo a rimproveri o ad amarezze.

Lo studio aveva sparso di fiori a Gibbon il soggiorno di Losanna: la sua immaginazione languiva in seno alle grandi città; la placid'aria de' campi la ravvivava. Di ritorno in Londra, ei non ricercò che nello studio i suoi piaceri. Tre anni dopo il suo ritorno in Inghilterra, pubblicò in francese il Saggio sullo studio della Letteratura, opera lodevolmente scritta, e piena di eccellente critica: poco letta in Inghilterra, essa piacque in Francia moltissimo[11].

Deliberato di dedicar la sua penna all'istoria, Gibbon ondeggiava fra diverse epoche, tutte egualmente importanti, quando un viaggio da lui fatto in Italia lo trasse in un subito dalla sua irresoluzione. «Egli è a Roma», esso dice, «che ragionando co' miei pensieri, seduto sulle rovine del Campidoglio, mentre i frati cantavano vespro nel tempio di Giove, l'idea di delineare il declino e l'occaso di questa città venne per la prima volta ad occupar la mia mente»[12].

Critico giudizioso e profondo, Gibbon passa a rassegna tutti i fatti, e supera tutti gl'inciampi. L'Istoria della decadenza e rovina dell'Impero di Roma valse a Gibbon gli elogj di Hume[13] e di Robertson, e gli assegnò non l'ultimo posto nel triumvirato degli storici inglesi.

Vent'anni di assiduo lavoro costò questa famosa Istoria al suo autore. Con affettuose tinte egli descrive il momento in cui l'ebbe finita.

«Fu il dì, o per meglio spiegarmi, la notte del 27 Giugno 1789, che nel mio giardino, nella mia villa d'estate, io scrissi le ultime linee dell'ultima pagina. Poscia ch'ebbi giù posta la penna, feci alcuni giri sotto un pergolato di acacie, d'onde lo sguardo si estende in lontano, e domina la campagna, il lago ed i monti. Temperato era l'aere ed il cielo sereno; l'argenteo globo della luna si rifletteva nell'onde, e tutta la natura posava in silenzio. Non occulterò i miei primi sensi di gioia, in quell'istante della mia libertà ricovrata, e forse della mia fama sodamente stabilita. Ma ben tosto fu umiliato il mio orgoglio, ed una pensosa malinconia mi si pose nell'animo, al riflettere che avea preso eterno commiato da un antico e grazioso compagno di viaggio, e che qualunque essere potesse il futuro durare della mia istoria, la precaria vita dello istorico più non poteva esser lunga.»

Da molte e gagliarde critiche venne però assalita quell'Opera che con tanti studj egli avea tratta a compimento.

«Gibbon,» dice la Biblioteca istorica di Muselio, dotto e laborioso Tedesco «ha trovato nemici in patria e fuori di essa, perchè espose la propagazione della fede cristiana, non come suol fare il volgo, o come è usanza de' teologi, ma bensì come si conviene allo storico ed al filosofo[14]

Gibbon fu due volte deputato al Parlamento. Nel 1779 egli ottenne da' ministri il posto di Lord commessario del commercio e dell'agricoltura, che perdè col cadere della famosa amministrazione di Bute. Egli applaudì da principio la rivoluzione francese; ma i delitti commessi in nome della libertà, o piuttosto i sentimenti di timore cui mal sapeva resistere, voltarono il suo animo, e desiderar gli fecero i trionfi della confederazione[15]. Egli viveva da dieci anni in Losanna, dimora ove ogni cosa gli tornava al pensiero le più grate memorie della sua gioventù, quando gli giunse a notizia che Lord Sheffield, suo dolcissimo amico, avea perduto una moglie diletta. Gibbon vola in Inghilterra per consolarlo, e sei mesi dopo scende nella tomba egli pure (16 gennajo 1794). Odoardo Gibbon ha lasciato le Memorie della sua Vita scritte da esso.

PREFAZIONE DELL'AUTORE

Non è mio intendimento di trattenere il lettore con estendermi sulla varietà, o sulla importanza del soggetto, che ho preso a trattare; il merito della scelta non servirebbe che a rendere più manifesta e meno scusabile la debolezza dell'esecuzione. Ma nondimeno, parendomi necessario di far conoscere al Pubblico l'Opera che gli presento, credo conveniente l'esporre con brevità la natura e i confini del mio disegno generale.

La memorabile serie di rivoluzioni, che nel corso di quasi tredici secoli indebolirono a poco a poco, e finalmente distrussero il saldo edifizio dell'umana grandezza, può giustamente dividersi nei tre seguenti periodi.

I. Il primo di questi, principiando dal secolo di Traiano e degli Antonini, quando la Monarchia Romana, già arrivata al sommo della forza e della maturità, cominciò a pendere verso la sua rovina, si estende fino alla distruzione dell'Impero d'Occidente per opera dei Barbari della Germania e dalla Scizia, rozzi antenati delle più civili nazioni dell'Europa moderna. Questa straordinaria rivoluzione che soggettò Roma al dominio di un Gotico conquistatore, si compì verso il principio del sesto secolo.

II. Il secondo periodo della decadenza e rovina di Roma può dirsi cominciare dal Regno di Giustiniano, le leggi e le vittorie del quale rendettero all'Impero d'Oriente uno splendor passeggiero: questo periodo comprende l'invasione dei Longobardi nell'Italia; la conquista delle province Asiatiche e Affricane fatta dagli Arabi, i quali avevano abbracciato la religione di Maometto; la ribellione del Popolo romano contro i deboli Principi di Costantinopoli; e l'elevazione di Carlo Magno, che nell'anno 800 stabilì il secondo Impero d'Occidente, o sia l'Impero Germanico.

III. L'ultimo ed il più lungo di questi periodi è composto quasi di sette secoli e mezzo, dal risorgimento dell'Impero Occidentale fino alla presa di Costantinopoli fatta dai Turchi, ed all'estinzione di una degenerata stirpe di Principi, i quali continuarono ad assumere i titoli di Cesare e di Augusto, anche di poi che i loro dominj furono ristretti dentro i limiti di una sola città, nella quale non restava da gran tempo vestigio alcuno della lingua e dei costumi degli antichi Romani. Dovendo riferire gli avvenimenti di questo periodo, non si può a meno di non internarsi nella Storia generale delle Crociate, in quanto esse contribuirono alla rovina dell'Impero greco. Le molte ricerche che ho dovuto fare sullo stato di Roma, durante l'oscurità e la confusione dei secoli di mezzo, mi fecero differire più che non l'avrei creduto il compimento del mio lavoro, che da principio non erami sembrato tanto lungo come lo sperimentai in appresso.

Ch'io abbia eseguito il vasto disegno immaginato, non ardisco lusingarmene: n'ebbi però l'intenzione, ed il Pubblico imparziale potrà giudicarne leggendo la mia Opera.

AVVERTIMENTO RELATIVO ALLE NOTE

La diligenza e l'esattezza sono i soli meriti che uno Storico possa dire suoi propri, se pur vi è qualche merito reale nell'esecuzione di un indispensabile dovere. Posso pertanto dir con ragione, che ho diligentemente esaminati tutti i documenti originali, che potevano illustrare il soggetto da me preso a trattare. Per dare un'idea al Leggitore del metodo da me tenuto nel lavoro delle annotazioni, mi ristringerò ad una sola osservazione.

I Biografi che a' tempi di Diocleziano e di Costantino composero o piuttosto compilarono le vite degli Imperatori, da Adriano fino ai figli di Caro, vengono ordinariamente citati sotto i nomi di Elio Sparziano, Giulio Capitolino, Elio Lampridio, Vulcazio Gallicano, Trebellio Pollione, e Flavio Vopisco. Ma vi è tanta confusione nei titoli dei MSS., e tante dispute sono insorte tra i critici (vedi Fabricio Biblioth. Lat. l. III, c. 6) intorno al numero, ai nomi ed alle opere loro, che io gli ho citati perloppiù senza distinzione alcuna, sotto il generico e ben noto titolo della Storia Augusta.

STORIA DELLA DECADENZA E ROVINA DELL'IMPERO ROMANO

CAPITOLO I.

Estensione e forza militare dell'Impero nel secolo degli Antonini.

Dal 98 al 180

Nel secondo secolo dell'Era cristiana, l'Impero di Roma comprendeva la parte più bella della Terra, e la porzione più civile del genere umano. Il valore, la disciplina, e l'antica rinomanza difendevano le frontiere di quella vasta monarchia. La gentile, ma potente influenza delle leggi e dei costumi aveva a poco a poco assodata l'unione delle province, i cui pacifici abitatori godevano ed abusavano dei vantaggi che nascono dalle ricchezze e dal lusso. Si conservava ancora, con decente rispetto, l'immagine di una libera costituzione; e l'autorità sovrana apparentemente risedeva nel Senato romano, il quale affidava agl'Imperatori tutta la potenza esecutiva del Governo. Nel felice corso di più d'ottant'anni, la pubblica amministrazione fu regolata dalla virtù e dalla abilità di Nerva, di Traiano, di Adriano, e dei due Antonini. In questo e nei due seguenti capitoli, descriveremo il prospero stato del loro Impero, ed esporremo le più importanti circostanze della sua decadenza e rovina, dopo la morte di Marco Antonino; rivoluzione che sarà rammentata mai sempre, e della quale le nazioni della terra tuttor si risentono.

Le principali conquiste dei Romani furon terminate al tempo della Repubblica, e gl'Imperatori quasi tutti si contentarono di conservare quegli Stati, che la politica del Senato, l'attiva emulazione dei Consoli, ed il marziale entusiasmo del popolo avevano acquistati. I sette primi secoli furono una rapida successione di trionfi; ma era riservato ad Augusto di abbandonare l'ambizioso disegno di soggiogare tutta la Terra, e introdurre nei pubblici Consigli uno spirito di moderazione. Egli, e per temperamento e per le circostanze, inclinato alla pace, facilmente conobbe, che Roma in quello stato di elevazione avea molto più da temer che da sperare per l'evento dell'armi; e che nella continuazione di guerre remote, l'impresa diveniva ogni dì più difficile, più incerto l'esito, il possesso più precario e men vantaggioso. L'esperienza di Augusto aggiunse peso a queste savie riflessioni, ed efficacemente il convinse, che col prudente vigor dei consigli, agevole gli riuscirebbe ottenere ogni concessione cui la salvezza o la dignità di Roma potesse richiedere dai più formidabili Barbari. Invece di espor se e le sue legioni ai dardi dei Parti, egli ottenne con un trattato onorifico la restituzione delle insegne e dei prigionieri stati già presi nella disfatta di Crasso[16].

Nel principio del suo regno tentarono i suoi Generali di soggiogare l'Etiopia e l'Arabia Felice. S'innoltrarono essi per mille miglia verso la parte meridionale del Tropico; ma l'eccessivo calore del clima ben tosto respinse questi invasori, e difese i pacifici abitatori di quelle separate contrade[17]. Le regioni settentrionali dell'Europa meritavano appena la spesa e la fatica di conquistarle. Le foreste e le paludi della Germania erano popolate da una moltitudine di uomini barbari e coraggiosi, che disprezzavano una vita, a cui la libertà non fosse compagna; e sebbene nel primo assalto parvero cedere al peso della potenza romana, ben presto con un atto segnalato di disperazione riacquistarono la loro indipendenza, e rammentarono ad Augusto le vicende della fortuna[18].

Dopo la morte di questo Imperatore fu il suo testamento pubblicamente letto in Senato. Lasciava egli a' suoi successori, come legato importante, il consiglio di contenere l'Impero in quei limiti, che la natura medesima pareva aver posti per sue stabili barriere e confini. A ponente l'Oceano Atlantico; a tramontana il Reno ed il Danubio; l'Eufrate a levante, e verso il mezzogiorno gli arenosi deserti dell'Arabia e dell'Affrica[19].

Fu gran fortuna pel riposo del genere umano, che i vizj ed il timore obbligassero i primi successori di Augusto ad apprendersi al moderato sistema, che la prudenza di lui aveva raccomandato. Occupati nel correr dietro al piacere, o nell'esercizio della tirannide, i primi Cesari raramente si mostravano agli eserciti od alle province; nè erano disposti a soffrire, che la condotta ed il valore dei loro comandanti usurpassero i trionfi, trascurati dalla loro indolenza. La gloria militare di un suddito era riguardata come una insolente usurpazione della prerogativa imperiale; e divenne un dovere egualmente che un interesse di ogni Generale romano il difendere le frontiere affidate alla sua cura, senza aspirare a conquiste, che sarebber potute divenire non meno fatali a lui stesso, che ai Barbari da lui soggiogati[20].

L'unico ingrandimento che ricevesse l'Impero romano, nel primo secolo dell'Era cristiana, fu la provincia della Britannia. In questa sola circostanza i successori di Cesare e di Augusto crederono di dover seguire piuttosto l'esempio del primo, che il precetto del secondo. La sua situazione, vicina alle coste della Gallia, pareva invitar le lor armi; la lusinghiera, sebbene incerta speranza della pesca delle perle vi chiamava la loro avarizia[21]; e poichè la Britannia era considerata come un Mondo distinto ed isolato, la sua conquista faceva appena eccezione al general sistema dei confini nel continente. Dopo una guerra di circa 40 anni[22] intrapresa dal più stupido, continuata dal più dissoluto, e terminata dal più timido di tutti gl'Imperatori, la maggior parte dell'isola soggiacque al giogo romano[23]. Le diverse tribù dei Britanni avevan valore senza condotta, ed amore di libertà senza spirito di unione. Prendevano le armi con una ferocia selvaggia, le posavano, o se le rivolgevano gli uni contro gli altri con una fiera incostanza; e mentre combattevan divisi, venivano successivamente domati. Nè la fortezza di Caractaco, nè la disperazione di Boadicea, nè il fanatismo dei Druidi potè preservare la lor patria dalla schiavitù, o resistere ai saldi progressi dei Generali cesarei, che sostenevano la gloria della nazione, mentre il trono era disonorato dai più vili e più viziosi degli uomini. Nel tempo stesso in cui Domiziano, confinato nel suo palazzo, sentiva i terrori ch'egli inspirava, le sue legioni, comandate dal virtuoso Agricola, disfacevano le forze riunite dei Caledonj a piè delle colline Grampiane, ed i suoi vascelli, arrischiatisi a scoprire una navigazione sconosciuta e perigliosa, spiegavano le insegne romane intorno ad ogni parte dell'isola. La conquista della Britannia già si riguardava come terminata; ed Agricola aveva disegno di compirne ed assicurarne il successo con la facile riduzion dell'Irlanda, per la quale credea sufficiente una legione con poche truppe ausiliari[24]. Il possesso di questa isola occidentale potea divenir vantaggioso; ed i Britanni avrebbero portate le loro catene con minor ripugnanza, se l'esempio e l'aspetto della libertà fosse loro stato per ogni parte tolto dagli occhi.

Ma il merito preminente di Agricola cagionò ben presto il suo richiamo dal governo della Britannia, e sconcertò per sempre quel vasto, ma ragionato piano di conquista. Avanti la sua partenza, il prudente Generale aveva provveduto alla sicurezza non men che al possesso. Osservando che l'isola è quasi divisa in due parti diseguali dagli opposti golfi, chiamati adesso le Sirti di Scozia, avea tirato, a traverso l'angusto intervallo di circa 40 miglia, una linea di posti militari, la qual fu poi fortificata nel regno di Antonino Pio con un terrapieno alzato su fondamenti di pietra[25]. Questa muraglia di Antonino, poco al di là delle moderne città di Edimburgo e Glascovia, fu stabilita come il confine della provincia romana. I nativi Caledonj, nell'estremità settentrionale dell'isola, conservarono la loro selvaggia indipendenza, della quale andarono debitori alla loro povertà non meno che al loro valore. Furono spesso e respinte e punite le loro incursioni, ma il lor paese non fu mai soggiogato[26]. I padroni delle contrade più belle e più ricche del globo, con disprezzo si allontanavano dai cupi monti, dove sempre regnano le tempeste del verno, dai laghi coperti di azzurra nebbia, e dalle fredde e solitarie macchie, dove i cervi della foresta erano inseguiti da una truppa di nudi Selvaggi[27].

Questo era lo stato delle frontiere romane, e tali eran le massime della politica imperiale, dalla morte di Augusto fino all'esaltazione di Traiano. Questo Principe virtuoso ed attivo, all'educazione di un soldato univa i talenti di un Generale[28]. Il pacifico sistema de' suoi predecessori fu interrotto da scene di guerra e di conquista; e le legioni, dopo un lungo intervallo, videro finalmente alla loro testa un Imperatore soldato. Le prime imprese di Traiano furono contro i Daci, popoli i più bellicosi tra quelli che abitavano di là dal Danubio, e che sotto il regno di Domiziano avevano impunemente insultato la maestà di Roma[29]. Alla forza ed alla ferocia propria dei Barbari, essi univano un disprezzo per la vita, originato in loro dalla ferma persuasione della immortalità e trasmigrazione delle anime[30]. Decebalo, lor Re, si mostrò rivale non indegno di Traiano; nè disperò mai della propria e della pubblica fortuna, finchè, per confessione ancora de' suoi nemici, non ebbe esauriti tutti i ripieghi del valore e della politica[31]. Questa memorabil guerra, interrotta da una brevissima tregua, durò cinque anni; e siccome l'Imperatore potè impiegarvi, senza riserva, le intere forze dello Stato, essa finì con la perfetta sommissione dei Barbari[32]. La nuova provincia della Dacia, che formava una seconda eccezione al precetto di Augusto, aveva quasi mille trecento miglia di circonferenza. I suoi naturali confini erano il Niester, il Teyso ossia Tibisco, il Danubio inferiore, e il mare Eusino. Si vedono ancora i vestigi di una via militare dalle rive del Danubio fino alle vicinanze di Bender, piazza famosa nella storia moderna, ed ora frontiera dell'Impero turco e del russo[33].

Traiano era avido di gloria, e finchè gli uomini saranno più liberali di applausi verso chi li distrugge che verso chi li benefica, la sete della gloria militare sarà sempre il vizio degli animi più elevati. Le lodi di Alessandro, trasmesse da una successione di poeti e di storici, avevano accesa nello spirito di Traiano una pericolosa emulazione. Simile ad Alessandro, l'Imperatore romano intraprese una spedizione contro le nazioni dell'Oriente, ma sospirando si lamentava che la sua età avanzata non gli lasciasse speranza di eguagliare la fama del figliuol di Filippo[34]. I successi però di Traiano furon rapidi ed insigni, benchè passeggieri. I Parti, già degenerati e divisi per le intestine discordie, fuggirono dinanzi alle sue armi. Egli trionfante scese pel fiume Tigri, dalle montagne della Armenia fino al golfo Persico, e godè l'onore di essere il primo, come ei fu l'ultimo, dei Generali romani che navigasse in quel mare lontano. Le sue flotte devastarono le coste dell'Arabia; e Traiano si lusingò, ma indarno, di toccare i confini dell'India[35]. Ogni giorno il Senato riceveva con istupore la notizia di nuovi nomi e di nuove nazioni, le quali riconoscevano la sua autorità. Seppe che i Re del Bosforo, di Colco, dell'Iberia, dell'Albania, di Osroene e sino il Monarca istesso dei Parti avevano accettato i loro diademi dalle mani dell'Imperatore; che le indipendenti tribù delle montagne della Media e dei monti Carduchi avevano implorata la sua protezione, e che le doviziose regioni dell'Armenia, della Mesopotamia e dell'Assiria erano ridotte in province[36]. Ma la morte di Traiano oscurò in un momento un prospetto così luminoso; ed era giustamente da temersi, che tante lontane nazioni non iscuotessero il giogo insolito, quando non più le frenasse la mano possente che loro avealo imposto.

Era antica tradizione, che quando un Re di Roma fabbricò il Campidoglio, il Dio Termine (che presedeva ai confini, e secondo l'uso di quei secoli veniva rappresentato da una gran pietra) fosse il solo tra tutti gli Dei inferiori, che ricusasse di cedere il suo posto a Giove medesimo. Da questa ostinazione si dedusse una favorevol conseguenza, interpretata dagli Auguri come sicuro presagio, che i confini della potenza romana non si sarebber ristretti giammai[37]. Per molti secoli la predizione, come è solito, contribuì al suo adempimento[38]. Ma quel Dio Termine, che avea resistito alla maestà di Giove, cedè all'autorità di Adriano. La cessione di tutte le conquiste orientali di Traiano fu la prima determinazione del suo regno. Egli rendè ai Parti il diritto di eleggere un Sovrano indipendente, ritirò le guarnigioni romane dalle province dell'Armenia, della Mesopotamia e dell'Assiria, e secondo il precetto di Augusto, stabilì un'altra volta l'Eufrate per frontiera dell'Impero[39]. La critica, che processa le azioni pubbliche ed i motivi privati dei Principi, ha imputata all'invidia una condotta, che potrebbe attribuirsi alla prudenza ed alla moderazione di Adriano. Il carattere incostante di questo Imperatore, capace a vicenda e dei più bassi e dei più generosi sentimenti, può dare qualche colore al sospetto. Non poteva egli per altro mettere in luce più luminosa la superiorità del suo predecessore, se non se confessandosi in tal modo incapace di difendere quello che Traiano avea conquistato.

Lo spirito marziale ed ambizioso di Traiano faceva un contrasto molto singolare con la moderazione del suo successore; nè men notevole fu l'inquieta attività di Adriano, ove si paragoni al tranquillo riposo di Antonino Pio. La vita di Adriano fu quasi un viaggio continuo; e siccome possedeva i diversi talenti di soldato, di politico e di letterato, così contentava la sua curiosità, soddisfacendo al suo dovere. Non curando la differenza delle stagioni e dei climi, andava a piedi e a testa nuda sulle nevi della Caledonia, e sulle cocenti pianure dell'Egitto superiore; nè vi fu provincia dell'Impero che nel corso del regno di lui, non fosse onorata dalla presenza del suo Monarca[40]. Al contrario, Antonino Pio passò la sua vita tranquilla in seno all'Italia; e nel corso di ventitre anni che tenne la pubblica amministrazione, i più lunghi viaggi di questo Principe amabile non si estesero più in là che dal palazzo di Roma al suo ritiro nella villa Lanuvia[41].

Non ostante questa differenza nella lor personale condotta, Adriano, e i due Antonini egualmente adottarono, e seguirono uniformemente il sistema generale di Augusto. Essi persisterono nel disegno di mantenere la dignità dell'Impero senza tentare di estenderne i confini. Con ogni onorevole espediente invitarono i Barbari alla loro amicizia, e procurarono di convincere il genere umano, che la romana potenza, superiore alla brama di conquistare, era soltanto animata dall'amore dell'ordine e della giustizia. Per il lungo giro di quarantatre anni un prospero successo coronò le loro virtuose fatiche; e se si eccettuino poche leggiere ostilità, che servirono ad esercitare le legioni delle frontiere, i regni di Adriano e di Antonino Pio presentano il bel prospetto di una pace universale[42]. Il nome romano era venerato dalle più remote nazioni della Terra. I Barbari più feroci spesso eleggevano l'Imperatore per arbitro delle loro dissensioni; ed uno storico contemporaneo, racconta di aver veduto imbasciatori venuti a richiedere l'onore, che lor fu ricusato, di esser ammessi nel numero dei sudditi[43].

Il terror dell'armi romane aggiungeva peso e dignità alla moderazione degl'Imperatori. Essi mantennero la pace col prepararsi costantemente alla guerra; e mentre la giustizia dirigeva la loro condotta, facevan conoscere alle nazioni confinanti, che, alieni dal far alcuna ingiuria, non eran neppur disposti a soffrirla. La forza militare, che ad Adriano e ad Antonino il Maggiore era bastato mostrare, fu impiegata contro i Parti ed i Germani dall'Imperatore Marco. Le ostilità dei Barbari provocarono il risentimento di questo Monarca filosofo, e nella continuazione di una giusta difesa, Marco ed i suoi Generali ottennero molte segnalate vittorie sull'Eufrate e sul Danubio[44]. Gli stabilimenti militari dell'Impero romano, che ne assicuravano o la tranquillità od i progressi, diverranno adesso il proprio ed importante argomento della nostra attenzione.

Nei secoli più belli della repubblica, l'uso delle armi era riservato per quegli ordini di cittadini, che avevano una patria da amare, un patrimonio da difendere, e qualche parte in promulgar quelle leggi, che era loro interesse e dovere di conservare. Ma a misura che la pubblica libertà scemò con l'estensione delle conquiste, la guerra a poco a poco si ridusse ad un'arte, e degenerò in un mestiero[45]. Le legioni medesime, anche quando erano reclutate nelle più lontane province, si tenevano per composte di cittadini romani. Questa distinzione era considerata generalmente o come qualificazione legale, o come ricompensa propria per un soldato; ma si avea un riguardo più serio al merito essenziale dell'età, della forza, e della statura militare[46]. In tutte le leve si preferivano giustamente i climi settentrionali a quelli del mezzogiorno. Si cercavan piuttosto nelle campagne che nelle città gli uomini nati all'esercizio delle armi; e si presumeva con molta ragione, che i faticosi esercizj dei fabbri, dei legnaiuoli e dei cacciatori dessero più vigore e più risolutezza, che le arti sedentarie impiegate in servizio del lusso[47]. Dopo che la qualità di proprietario non fu più considerata, gli eserciti degl'Imperatori romani erano sempre comandati per la maggior parte da uffiziali di nascita e di educazione liberale; ma i soldati comuni, come le truppe mercenarie della moderna Europa, erano tratti dalla più vile e spesso ancora dalla più scellerata parte degli uomini.

Quella pubblica virtù, che gli antichi chiamarono patriottismo, è prodotta dal forte sentimento dell'interesse, che abbiamo nella conservazione e prosperità del libero governo, del quale noi siamo membri. Un tal sentimento che avea renduto le legioni della Repubblica quasi invincibili, non potea fare che una debolissima impressione nei servi mercenarj di un Principe dispotico; e diventò necessario il supplire a questo difetto con altri motivi di diversa, ma molto efficace natura, l'onore e la religione. Il contadino o l'artigiano s'imbevè dell'utile pregiudizio, che esso era innalzato alla più nobile professione delle armi, nella quale il suo grado e la sua riputazione dipenderebbe soltanto dal suo valore; e che sebbene la prodezza di un privato soldato potesse sfuggire alla notizia della fama, sarebbe però in suo potere di arrecar gloria o vergogna alla compagnia, alla legione, e fino all'armata, ai cui onori esso era associato. Appena arrolato, se gli dava il giuramento con ogni solennità. Prometteva di non mai abbandonare la sua insegna, di sottomettere il proprio volere ai comandi de' suoi condottieri, e di sacrificare la vita per la salvezza dell'Imperatore e dell'Impero[48]. L'affetto delle truppe romane per le loro insegne, era loro inspirato dalla doppia influenza della religione e dell'onore. L'Aquila d'oro, che riluceva alla testa della legione, era argomento della loro più tenera divozione; nè si riputava cosa meno empia che infame, l'abbandonare quella sacra insegna nel tempo del pericolo[49]. Questi motivi, che dovevano la loro forza alla immaginazione, erano avvalorati da timori e da speranze di un genere più sostanziale. La paga regolare, i donativi nelle diverse occasioni, ed una sicura ricompensa alla fine del servizio, alleggerivano le asprezze della vita militare[50], mentre dall'altra parte era impossibile alla codardia o alla disobbedienza di schivare il più severo castigo. I Centurioni potevano castigare con le percosse; i Generali avevano diritto di punir con la morte; ed era massima inflessibile della disciplina romana, che un buon soldato dovea temere i suoi uffiziali più che i nemici. Da tali lodevoli artifizj il valore delle truppe imperiali ricevè un grado di fermezza e di docilità, di cui non eran capaci le impetuose ed irregolari passioni dei Barbari.

E non ostante i Romani eran sì persuasi dell'imperfezione del valore, disgiunto dalla perizia e dalla pratica, che nella lor lingua il nome di una armata era tratto dalla parola che significa esercizio[51]. Gli esercizj militari erano l'importante e continuo oggetto della lor disciplina. Le reclute ed i soldati novizj venivano costantemente esercitati la mattina e la sera, nè l'età o la perizia poteano esentare i veterani dalla giornaliera ripetizione di ciò che avevano perfettamente imparato. Si fabbricavano vaste gallerie nei quartieri d'inverno, affinchè le loro utili fatiche non fossero in alcun modo interrotte dai tempi i più procellosi; e si osservava diligentemente che le armi, destinate a questa guerra simulata, fossero di peso doppio di quello che si richiedeva nell'azione reale[52]. Non è il fine di questa opera l'entrare in alcuna minuta descrizione dei romani esercizj. Soltanto osserveremo che comprendevano tutto ciò che poteva accrescer forza al corpo, attività alle membra, o grazia ai movimenti. I soldati erano diligentemente ammaestrati a marciare, a correre, a saltare, a nuotare, a portare gravi pesi, a maneggiare ogni sorta d'armi, che si usasse per offesa o per difesa, o in battaglia lontana, o in un assalto più stretto, a fare una varietà di evoluzioni, ed a moversi a suon di flauto nel ballo pirrico o marziale[53]. In mezzo alla pace le truppe romane si rendevano familiare la pratica della guerra; e bene osserva un antico Istorico, il quale avea combattuto contro di loro, che l'effusione del sangue era la sola circostanza che distinguesse un campo di battaglia da un campo di esercizio[54]. Era politica dei più abili Generali, ed anche degli stessi Imperatori, d'incoraggiare con la loro presenza e col loro esempio questi studj militari; e sappiamo che Adriano e Traiano si degnavano spesso d'istruire i soldati inesperti, di rimunerare i diligenti, e talvolta di disputare con essi il premio della superiorità nella forza o nella destrezza[55]. Nei regni di questi Principi la tattica fu coltivata con buon successo; e finchè l'Impero ebbe qualche vigore, le loro istruzioni militari furono rispettate come il più perfetto modello della disciplina romana.

Nove secoli di guerra avevano a poco a poco introdotto nel servizio militare molte alterazioni e molti miglioramenti. Le legioni, secondo la descrizione che ne dà Polibio[56], al tempo delle guerre Puniche, differivano molto sostanzialmente da quelle che riportarono le vittorie di Cesare, o difesero la monarchia sotto Adriano e gli Antonini. Lo stato della Legione Imperiale si può descrivere in poche parole[57]. L'infanteria grave, che componeva la sua forza principale,[58] era divisa in dieci coorti, e cinquantacinque compagnie, sotto gli ordini di un numero corrispondente di Tribuni e di Centurioni. La prima coorte, che sempre pretendeva il posto di onore, e la custodia dell'Aquila, era composta di 1105 soldati, i più esperimentati per valore e per fedeltà. Le altre nove coorti erano ciascuna di 555 e l'intero corpo dell'infanteria legionaria ascendeva a 6100 uomini.

Le loro armi erano uniformi, e maravigliosamente adattate alla natura del loro servizio; un elmo aperto con un alto cimiero, un pettorale, o un giacco di maglia, le gambiere, e un ampio scudo dal braccio sinistro. Lo scudo era di figura bislunga e concava, quattro piedi lungo, e largo due e mezzo, fatto di un legno leggiero, coperto di pelle di toro, e fortemente difeso con piastre di rame. Oltre una lancia più leggiera, il soldato legionario teneva nella diritta il formidabile Pilo, dardo pesante, la cui maggior lunghezza era di sei piedi, e che era terminato da una massiccia punta triangolare di acciaio, lunga diciotto pollici[59]. Questo istrumento era per vero dire molto inferiore alle moderne armi da fuoco; giacchè terminava in una sola scarica, alla distanza soltanto di dieci o dodici passi. Quando però era lanciato da una mano forte ed esperta, non v'era cavalleria alcuna che ardisse avanzarsi dentro il suo tiro, nè scudo, nè corsaletto che potesse sostenere l'impetuosità del suo peso. Appena il soldato romano avea lanciato il suo Pilo, sguainava la spada, e correva alle strette con il nemico. Questa era una lama spagnuola corta e ben temprata a doppio filo, e propria ad usarsi egualmente e di taglio e di punta; ma il soldato era sempre avvertito di preferire l'ultimo modo, poichè così il suo corpo restava meno esposto, mentre portava più pericolosa ferita al nemico[60]. La legione ordinariamente si schierava con otto soldati di profondità, e si lasciava la regolar distanza di tre piedi sì tra le file che tra gli ordini[61]. Un corpo di truppe assuefatto a conservare quest'ordine di distanza, schierato in una larga fronte, e pronto a correr velocemente all'assalto, era atto ad eseguire qualunque disposizione, che le circostanze della guerra, o l'abilità del condottiere potessero suggerire. Il soldato aveva un libero spazio per le sue armi ed i suoi movimenti, e si lasciavano intervalli bastanti, per li quali si potessero a tempo introdurre rinforzi in sostegno de' combattenti spossati[62]. Le tattiche dei Greci e dei Macedoni erano fondate sopra principj molto diversi. La forza della falange consisteva in sedici file di lunghe picche, serrate strettamente fra loro[63]. Ma presto si scoprì con la riflessione non meno che con l'esperienza, che la forza della falange non poteva contrastare con l'attività della legione[64].

La cavalleria, senza la quale la forza della legione sarebbe rimasta imperfetta, era divisa in dieci truppe o squadroni; il primo, come compagno della prima coorte, era composto di 132 uomini, mentre ciascuno degli altri nove ascendeva solamente a 66. L'intero corpo formava (se si può usare la moderna espressione) un reggimento di 726 cavalli, naturalmente unito con la sua propria legione, ma separato secondo il bisogno per agire nella linea, e per comporre una parte delle ali dell'armata[65]. La cavalleria degl'Imperatori non era più composta, come quella dell'antica repubblica, dei più nobili giovani di Roma e dell'Italia, i quali facendo il loro servizio militare a cavallo, si preparavano per gli uffizj di Senatore e di Console; e sollecitavano con azioni di valore i futuri suffragi dei loro concittadini[66]. Dopo la mutazione dei costumi del governo i più facoltosi dell'ordine equestre erano impiegati nell'amministrazione della giustizia e delle pubbliche rendite[67], e qualora abbracciavano la professione dell'armi, era loro immediatamente affidata la guida di una truppa di cavalli, o di una coorte di uomini a piedi[68]. Traiano ed Adriano levarono la loro cavalleria dalle stesse province, e dalla stessa classe di sudditi, che fornivano gli uomini per la legione. I cavalli erano per la maggiore parte di Spagna o di Cappadocia. La cavalleria romana disprezzava l'armatura intera, con cui s'aggravava la cavalleria orientale. Le sue più solite armi consistevano in un elmo, in uno scudo bislungo, in leggieri stivali, e in un giacco di maglia. Un dardo, ed una lunga e larga spada erano le principali armi di offesa. L'uso delle lance e delle mazze di ferro sembra che lo prendesse dai Barbari[69].

La salvezza e l'onore dell'Impero eran principalmente affidati alle legioni, ma la politica di Roma condescendeva ad adottare qualunque utile strumento di guerra. Si facevano regolarmente leve considerabili tra i provinciali, che non aveano ancora meritata l'onorevole distinzione di cittadini romani. Si permetteva a vari Principi, ed a varie Comunità, sparse intorno alle frontiere dipendenti, di conservare per un tempo la loro libertà e sicurezza con l'obbligo di prestar servizio militare[70]. Eziandio le truppe scelte dei Barbari nemici erano spesso forzate o indotte ad esercitare il loro pericoloso valore in climi remoti, e in servizio dello Stato[71]. Tutti questi eran compresi sotto il nome generale di ausiliari, e comunque potessero variare per la diversità dei tempi o delle circostanze, rare volte però il loro numero era inferiore a quello delle legioni medesime[72]. Le truppe più valorose e fedeli tra le ausiliari erano poste sotto il comando dei Prefetti e dei Centurioni e severamente esercitate nelle arti della disciplina romana; ma per la maggior parte ritenevano quelle armi, alle quali più particolarmente le rendevano atte o la natura della patria, o la prima educazione della vita. Con queste istituzioni ogni legione, a cui si assegnava una certa porzione di ausiliari, conteneva in se ogni sorta di truppe più leggiere, e di armi lanciabili; ed era capace di affrontarsi con ogni nazione per la superiorità delle sue rispettive armi e della sua disciplina[73]. Nè era la legione priva affatto di ciò che nel moderno linguaggio si chiamerebbe treno di artiglieria. Consisteva questo in dieci macchine militari delle più grandi, ed in cinquantacinque più piccole, ciascuna delle quali obliquamente o orizzontalmente lanciava pietre e dardi con violenza irresistibile[74].

Il campo di una legione Romana presentava l'aspetto di una città fortificata[75]. Appena ne era segnato la spazio, i guastatori ne spianavano esattamente il terreno, e toglievano ogni impedimento che potesse interromperne la perfetta regolarità. La sua forma era perfettamente quadrangolare; e può calcolarsi che un quadrato, del quale ogni lato era quasi due mila piedi, bastava per l'accampamento di 20000 romani; sebbene un simil numero delle nostre truppe presenterebbe al nemico una fronte di un'estensione più che triplicata. In mezzo al campo, il Pretorio o sia quartier generale, signoreggiava tutti gli altri; la cavalleria, l'infanteria e gli ausiliari occupavano i loro respettivi posti; le strade erano ampie e perfettamente diritte, e si lasciava da tutte le parti uno spazio vuoto di 200 piedi tra le tende e il terrapieno. Questo era ordinariamente alto dodici piedi, armato con una linea di palizzate forti e incrociate, e difeso da una fossa profonda e larga dodici piedi. Questo importante lavoro si faceva dai legionari medesimi, ai quali l'uso della zappa e della vanga non era meno familiare che quello della spada o del pilo. Una valorosa attività può sovente esser dono della natura: ma una diligenza così paziente non può esser frutto che dell'abito e della disciplina[76].

Ogni volta che la tromba dava il segno della partenza, il campo era quasi in un istante disfatto; e le truppe correvano ai loro ordini senza tardanza o confusione. Oltre le loro armi, che i legionari appena consideravano come un imbarazzo, portavano ancora i loro utensili da cucina, gl'instrumenti di fortificazione, e la provvisione di molti giorni[77]. Sotto questo peso che opprimerebbe la delicatezza di un soldato moderno, erano avvezzati a fare di passo regolare quasi venti miglia in sei ore[78]. All'apparir del nemico gettavano il lor bagaglio, e con evoluzioni facili e rapide convertivano la colonna di marcia in ordine di battaglia[79]. I frombolieri e gli arcieri scaramucciavano alla fronte; gli ausiliari formavano la prima linea, ed erano secondati o sostenuti dal nerbo delle legioni. La cavalleria copriva i fianchi, e le macchine militari erano poste nella retroguardia.

Tali erano le arti della guerra, con le quali gl'Imperatori Romani difesero le loro vaste conquiste, e conservarono lo spirito militare in un tempo, in cui ogni altra virtù era oppressa dal lusso e dal dispotismo. Se nella considerazione de' loro eserciti noi passiamo dalla loro disciplina al lor numero, non sarà facile il definirlo con sufficiente esattezza. Si può computare però che la legione, la quale per se stessa era un corpo di 6831 soldati romani, poteva con i suoi seguaci ausiliari ascendere a quasi 12500 uomini. Lo stato delle truppe di Adriano e de' suoi successori in tempo di pace non era composto di meno che di trenta di questi formidabili corpi; e formava molto probabilmente una forza permanente di 375000 uomini. In vece di esser confinate tra le mura delle città fortificate, che i Romani riguardavano come il rifugio della debolezza o della pusillanimità, le legioni erano accampate sulle rive dei gran fiumi, e lungo le frontiere dei Barbari. Siccome i loro quartieri restavano per la maggior parte fissi e permanenti, possiamo arrischiarci a descrivere la distribuzion delle truppe. Tre legioni bastavano per la Britannia. La forza principale era sul Danubio e sul Reno, e consisteva in sedici legioni distribuite in questo modo; due nella Germania inferiore, e tre nella superiore; una nella Rezia, una nel Norico, quattro nella Pannonia, tre nella Mesia, e due nella Dacia. La difesa dell'Eufrate era affidata a otto legioni, sei delle quali erano poste nella Siria, e le altre due nella Cappadocia. Riguardo all'Egitto, all'Affrica e alla Spagna, siccome erano molto lontane dal divenire importante teatro di guerra, una sola legione manteneva la domestica tranquillità di ciascuna di queste vaste province. Neppur l'Italia era lasciata priva di forza militare. Quasi 20000 soldati scelti, e distinti con titoli di coorti della città e di guardie pretoriane, vegliavano alla salvezza del Monarca e della capitale. I Pretoriani, come autori di quasi tutte le rivoluzioni che lacerarono l'Impero, richiameranno ben presto e strepitosamente la nostra attenzione; ma nelle loro armi e nelle loro istituzioni non possiamo trovare alcuna circostanza che li distingua dalle legioni, se questa non fosse una splendida comparsa, ed una disciplina men rigorosa[80].

La forza navale mantenuta dagl'Imperatori potrebbe sembrare inadeguata alla loro grandezza; ma era sufficientissima ad ogni util disegno del Governo. L'ambizione dei Romani era limitata alla terra, nè mai quel popolo bellicoso fu animato dallo spirito intraprendente, che aveva spinto i naviganti di Tiro, di Cartagine e anche di Marsilia ad estendere i confini del mondo, e ad esplorare le più remote coste dell'Oceano. Era per li Romani l'Oceano un oggetto di terrore anzi che di curiosità[81]; tutta l'estensione del Mediterraneo, dopo la distruzion di Cartagine e l'estirpazione dei pirati, era inclusa dentro le loro province. La politica degli Imperatori era soltanto diretta a conservare il pacifico dominio di questo mare, ed a proteggere il commercio dei loro sudditi. Con queste mire di moderazione, Augusto pose due flotte permanenti nei porti più adatti dell'Italia, una a Ravenna sull'Adriatico, l'altra a Miseno nella baia di Napoli. Pare che l'esperienza col tempo convincesse gli antichi, che subito che le loro galere eccedevano due o tre ordini di remi, erano più atte ad una vana pompa che ad un servizio reale. Augusto medesimo, nella vittoria di Azio, avea veduto la superiorità delle sue leggieri fregate (chiamate liburnie) sopra i grandi, ma lenti castelli del suo rivale[82]. Di queste liburnie esso compose le due flotte di Ravenna e di Miseno, destinate a dominare, una la divisione orientale del Mediterraneo, e l'altra l'occidentale, e ad ogni squadra unì un corpo di diverse migliaia di marinari. Oltre questi due porti, che posson considerarsi come le due sedi principali della marineria romana, ci aveano di considerabili forze a Frejus sulla costa della Provenza, e l'Eusino era difeso da quaranta bastimenti e tremila soldati. A tutto ciò aggiungasi l'armata navale che proteggeva la comunicazione tra la Gallia e la Britannia, ed un gran numero di navi continuamente mantenute sul Reno e sul Danubio per inquietare il paese, o impedire il passaggio dei Barbari[83]. Ora se noi recapitoliamo questo stato generale delle forze imperiali, sì della cavalleria che dell'infanteria, delle legioni, degli ausiliari, delle guardie e della marina, il più largo computo non ci concede di portare il numero della milizia di mare e di terra a più di 450000 uomini; potenza militare, che per quanto possa formidabil parere, fu uguagliata da un Monarca dell'ultimo secolo, il cui regno è ristretto nei confini di una sola provincia dell'Impero romano[84].

Noi abbiam procurato di esporre lo spirito che moderava, e la forza che sosteneva la potenza di Adriano e degli Antonini. Prenderemo ora a descriver con chiarezza e precisione le province una volta unite sotto il loro dominio, ma adesso divise in tanti Stati indipendenti e tra loro nemici.

La Spagna, estremità occidentale dell'Impero, della Europa, e del mondo antico, ha in ogni tempo conservati invariabilmente gli stessi naturali confini; i monti Pirenei, il Mediterraneo e l'Oceano Atlantico. Questa gran penisola, ora così inegualmente divisa tra due Sovrani, fu distribuita da Augusto in tre province, la Lusitania, la Betica e la Tarraconese. Il regno del Portogallo è succeduto al paese guerriero dei Lusitani: e la perdita sofferta dalla prima verso levante, è compensata da un aumento di territorio verso tramontana. I confini della Granata e dell'Andaluzia corrispondono a quelli dell'antica Betica. Il resto della Spagna, la Galizia e le Asturie, la Biscaglia e la Navarra, Leone e le due Castiglie, Murcia, Valenza, Catalogna ed Aragona, tutte contribuirono a formare il terzo e più considerabile dei Governi romani, che dal nome della sua capitale era chiamato la provincia di Tarragona[85]. Tra i barbari nativi, i Celtiberi erano i più possenti, ed i Cantabri e quelli delle Asturie furono i più ostinati. Confidati nella forza de' loro monti, furon gli ultimi che si sottomisero alle armi romane, ed i primi che scossero il giogo degli Arabi.

L'antica Gallia, comprendendo tutto il paese che è tra i Pirenei, le Alpi, il Reno e l'Oceano, era più estesa che la Francia moderna. Ai dominj di quella possente Monarchia, con i suoi recenti acquisti dell'Alsazia e della Lorena, conviene aggiungere il ducato di Savoia, i Cantoni degli Svizzeri, i quattro Elettorati del Reno, ed i territorj di Liegi, Lucemburgo, Hannonia, le Fiandre ed il Brabante. Quando Augusto diede leggi alle conquiste di Suo padre, introdusse una divisione della Gallia adattata al progresso delle legioni, al corso dei fiumi, ed alle principali distinzioni nazionali di un paese che avea contenuto più di cento Stati indipendenti[86]. La costa marittima del Mediterraneo, la Linguadoca, la Provenza e il Delfinato ricevevano il loro nome provinciale dalla colonia di Narbona. Il Governo dell'Aquitania si stendeva dai Pirenei fino alla Loira. Il paese tra la Loira e la Senna era chiamato Gallia Celtica; e presto trasse un'altra denominazione dalla celebre Colonia di Lugduno o Lione. La provincia Belgica giace di là dalla Senna, e più anticamente era stata limitata solamente dal Reno, ma poco avanti i tempi di Cesare, i Germani, abusando della loro superiorità di valore, avevano occupata una considerabile porzione del territorio Belgico. I conquistatori romani abbracciarono molto volentieri una occasione così lusinghiera, e la frontiera gallica del Reno, da Basilea a Leida, ricevè i pomposi nomi di Germania superiore e inferiore[87]. Tali, sotto il regno degli Antonini, erano le sei province della Gallia, la Narbonese, l'Aquitana, la Celtica o Lionese, la Belgica e le due Germanie.

Abbiamo già avuta occasione di mentovar la conquista della Britannia, e fissare i confini della provincia romana in quell'isola. Comprendeva essa tutta l'Inghilterra, il principato di Galles, e la bassa Scozia che si estende fino a Dumbarton ed Edimburgo. Avanti che la Britannia perdesse la sua libertà, il paese era irregolarmente diviso in trenta tribù di Barbari, de' quali i più riguardevoli erano i Belgi all'occidente, i Briganti a tramontana, i Siluri a mezzo giorno del paese di Galles, e gl'Iceni in Norfolk e in Suffolk[88]. Per quanto si può notare o dar fede alla somiglianza dei costumi e della lingua, la Spagna, la Gallia, e la Britannia, erano popolate dalla stessa feroce razza di selvaggi, i quali, prima che cedessero alle armi romane, spesso disputarono il terreno, e spesso rinnovarono le contese. Dopo la lor sommissione, essi costituirono la divisione occidentale delle province europee, che si estendeva dalle colonne d'Ercole alla muraglia di Antonino, e dalla foce del Tago alle sorgenti del Reno e del Danubio.

Avanti la conquista fattane dai Romani, il paese che è ora chiamato Lombardia, non era considerato come parte dell'Italia. Era stato occupato da una possente colonia di Galli, che stabilitisi lungo le rive del Po, dal Piemonte fino alla Romagna, portarono le loro armi, e sparsero il loro nome dalle Alpi all'Apennino. I Liguri abitavano la scoscesa costa che ora forma la repubblica di Genova. Venezia non era ancor nata, ma i territorj di quello Stato, che giacciono all'oriente dell'Adige, erano abitati dai Veneti[89]. La metà della penisola, che ora compone il ducato della Toscana e lo Stato Ecclesiastico, era l'antica sede degli Etruschi e degli Umbri; ai primi dei quali l'Italia doveva i rudimenti della vita civile[90]. Il Tevere scorreva ai piedi dei sette colli di Roma, e il paese de' Sabini, dei Latini e dei Volsci da quel fiume alle frontiere di Napoli, fu il teatro delle suo prime vittorie. Su quella terra famosa i primi Consoli meritarono i trionfi; i loro successori l'adornarono di ville, e la posterità di questi vi ha eretto conventi[91]. Capua e la Campagna possedevano l'immediato territorio di Napoli; il rimanente del Regno era abitato da molte guerriere nazioni, i Marsi, i Sanniti, gli Apuli e i Lucani; e le coste marittime erano state occupate dalle floride colonie dei Greci. È da osservarsi che quando Augusto divise l'Italia in undici regioni, la piccola provincia dell'Istria fu annessa a quella sede del dominio romano[92].

Le province europee di Roma eran difese dal corso del Reno e del Danubio. L'ultimo di questi gran fiumi, che ha la sorgente in distanza di sole trenta miglia dal primo, scorre più di mille trecento miglia per la maggior parte verso scirocco, ed ingrossato dal tributo di sessanta fiumi navigabili, sbocca finalmente per sei foci nell'Eusino, che sembra appena proporzionato al ricevimento di tante acque[93]. Le province del Danubio presto ebbero la general denominazione di Illirico, o frontiera Illirica[94], e furono riguardate come le più bellicose dell'Impero; ma meritano di esser più particolarmente considerate sotto i nomi di Rezia, Norico, Pannonia, Dalmazia, Dacia, Mesia, Tracia, Macedonia, e Grecia.

La provincia della Rezia, che ben presto fece obbliare il nome dei Vindelici, si estendeva dalla sommità delle Alpi alle rive del Danubio, dalla sua sorgente sin dove si unisce con l'Inn. La maggior parte del paese piano è ora soggetta all'Elettor di Baviera; la città di Ausburgo è protetta dalla costituzione dell'Impero germanico; i Grigioni sono sicuri nelle loro montagne, e il Tirolo è contato tra le numerose province della Casa d'Austria.

Il vasto territorio compreso tra l'Inn, il Danubio e la Sava, l'Austria, la Stiria, la Carintia, la Carniola, la bassa Ungheria e la Schiavonia, erano conosciute dagli antichi sotto il nome di Norico, e di Pannonia. Nello stato originario d'indipendenza, que' fieri abitatori si tenevano intimamente collegati fra loro. Sotto il governo romano furono frequentemente uniti, e sono tuttora il patrimonio di una sola famiglia. Ora contengono la residenza di un Principe tedesco, che s'intitola Imperator de' Romani, e formano il centro non meno che la forza della potenza Austriaca. Non è inutile l'osservare, che eccettuata la Boemia, la Moravia, le frontiere settentrionali dell'Austria, ed una parte dell'Ungheria fra il Tibisco ed il Danubio, tutti gli altri dominj della Casa d'Austria erano contenuti nei confini dell'Impero romano.

La Dalmazia, a cui più propriamente apparteneva il nome d'Illirico, era un tratto lungo, ma stretto, tra la Sava e l'Adriatico. La parte migliore della costa marittima, che ancora ritiene il suo antico nome, è una provincia dello Stato veneto, e la sede della piccola repubblica di Ragusa. Le parti interiori hanno i nomi schiavoni di Croazia e di Bosnia; la prima obbedisce a un governatore austriaco e la seconda ad un bassà turco; ma tutto il paese è ancora infestato dalle tribù dei Barbari, la cui selvaggia indipendenza segna irregolarmente il dubbio confine della potenza cristiana e maomettana[95].

Il Danubio, dopo aver ricevute le acque del Tibisco e della Sava, portava, almeno tra i Greci, il nome d'Istro[96]. Prima divideva la Mesia e la Dacia, l'ultima delle quali, come abbiamo già visto, fu una conquista di Traiano, e la sola provincia di là dal fiume. Se noi esaminiamo lo stato presente di queste contrade, troveremo che alla sinistra del Danubio quella di Temisvar e la Transilvania sono state annesse dopo molte rivoluzioni alla corona dell'Ungheria; mentre i principati della Moldavia e della Valachia riconoscono l'alto dominio della Porta Ottomana. Alla destra del Danubio, la Mesia, che nei secoli di mezzo fu divisa nei barbari regni della Servia e della Bulgaria, è di nuovo riunita sotto la schiavitù de' Turchi.

Il nome di Romelia, che i Turchi danno tuttora alle vaste regioni della Tracia, della Macedonia e della Grecia, conserva la memoria del loro antico stato sotto l'Impero romano. Nel tempo degli Antonini, la bellicosa Tracia, dalle montagne dell'Emo e di Rodope fino al Bosforo ed all'Ellesponto, aveva presa la forma di una provincia. Non ostante il cambiamento di Sovrani, e di religione, la nuova città di Roma, fondata da Costantino sul lido del Bosforo, si è sempre di poi mantenuta la capitale di una gran monarchia. La Macedonia, che sotto il regno di Alessandro diede leggi all'Asia, ricavò vantaggi più solidi dalla politica dei due Filippi; e con le sue dipendenze dell'Epiro e della Tessaglia, si estese dall'Egeo fino al mar Ionio. Quando si riflette alla fama di Tebe e di Argo, di Sparta e di Atene, si può credere appena che tante immortali repubbliche dell'antica Grecia fossero confuse in una sola provincia dell'Impero romano, la quale per la superiore influenza della lega Achea fu ordinariamente chiamata la provincia di Acaia.

Tale era lo stato dell'Europa sotto gl'Imperatori romani. Le province dell'Asia, senza eccettuarne le passeggiere conquiste di Traiano, sono tutte comprese dentro i limiti dell'Impero turco. Ma invece di seguitare le arbitrarie divisioni del dispotismo e dell'ignoranza, sarà cosa più sicura e più grata l'osservare i caratteri indelebili della natura. Il nome d'Asia Minore si dava con qualche proprietà alla penisola, che, confinata tra l'Eusino e il Mediterraneo, si avanza dall'Eufrate verso l'Europa. La più estesa e florida sua divisione verso l'occidente del monte Tauro e del fiume Ali, veniva distinta dai Romani col titolo esclusivo di Asia. La giurisdizione di quella provincia si estendeva sopra le antiche monarchie di Troia, di Lidia, e di Frigia, i paesi marittimi dei Panfilj, dei Licj e dei Carj, e le colonie greche dell'Ionia, che nelle arti, ma non nelle armi, uguagliavano la gloria della lor madre. I regni della Bitinia e del Ponto possedevano la parte settentrionale della penisola da Costantinopoli a Trebisonda. Dalla parte opposta, la provincia della Cilicia era terminata dalle montagne della Siria; la terra ferma, che il fiume Ali separava dall'Asia romana, e l'Eufrate dall'Armenia, aveva formato una volta l'indipendente regno della Cappadocia. Qui possiamo osservare che i lidi settentrionali dell'Eusino, di là da Trebisonda nell'Asia, e di là dal Danubio nell'Europa, riconoscevano la sovranità degl'Imperatori, e ricevevano dalle lor mani o Principi tributarj, o guarnigioni romane. Budzak, la Tartaria-Crimea, la Circassia e la Mingrelia sono i moderni nomi di quelle selvagge contrade[97].

Sotto i successori di Alessandro, la Siria era la sede dei Seleucidi, che regnavano nell'Asia superiore, finchè la fortunata ribellione de' Parti circoscrisse i loro dominj tra l'Eufrate ed il Mediterraneo. Quando la Siria fu sottomessa ai Romani, formò la frontiera orientale del loro Impero; nè conobbe questa provincia, nella sua più gran larghezza, altri limiti che le montagne della Cappadocia a tramontana, e verso il mezzogiorno i confini dell'Egitto ed il mar Rosso. La Fenicia e la Palestina furono talora annesse alla giurisdizione della Siria, e talora ne furono separate. La prima di queste era una costa stretta e scoscesa; la seconda era un territorio superiore appena a quello di Galles in fertilità ed in estensione. Contuttociò la Fenicia e la Palestina vivranno sempre nella memoria degli uomini; perocchè sì l'America che l'Europa hanno da una ricevute le lettere, e dall'altra la religione[98]. Un arenoso deserto, privo di alberi e d'acqua, si stendeva lungo l'incerto confine della Siria, dall'Eufrate al mar Rosso. La vita errante degli Arabi era inseparabilmente connessa con la loro indipendenza, ed ogni volta che si arrischiarono a piantare abitazioni sopra terreni meno infecondi, divennero tosto sudditi dell'Impero romano[99].

I geografi dell'antichità sono stati spesso incerti a qual parte del globo dovessero riferire l'Egitto[100]. Per la sua situazione questo celebre regno è incluso nella immensa penisola dell'Affrica, ma è solamente accessibile dalla parte dell'Asia, alle cui rivoluzioni, quasi in ogni periodo della storia, ha l'Egitto umilmente obbedito. Un prefetto romano sedeva sul magnifico trono dei Tolomei; e lo scettro di ferro dei Mammalucchi è ora nelle mani di un bassà turco. Il Nilo scorre per quel paese quasi cinquecento miglia dal Tropico del Cancro al Mediterraneo, e indica ad ogni parte la maggiore o minor fertilità con la misura delle sue inondazioni. Cirene, posta verso l'occidente e lungo la costa marittima, fu prima una colonia greca, dipoi una provincia dell'Egitto, ed ora è perduta nel deserto di Barca.

Da Cirene all'Oceano, la costa dell'Affrica si estende sopra 1500 miglia; ma è così strettamente serrata tra il Mediterraneo, e il Saara, o sia Deserto arenoso, che la sua larghezza rade volte eccede ottanta o cento miglia. La divisione orientale era considerata dai Romani come la provincia più particolare, e propria dell'Affrica. Fino all'arrivo delle colonie fenicie, quel fertil paese era abitato dai Libj, i più selvaggi di tutti gli uomini. Sotto l'immediata giurisdizione di Cartagine, divenne il centro del commercio e dell'Impero; ma la repubblica di Cartagine è ora degenerata nelle deboli e disordinate Reggenze di Tripoli e di Tunisi. Il governo militare di Algeri opprime la vasta estensione della Numidia, come era unita una volta sotto Massinissa e Giugurta: ma al tempo di Augusto, i limiti della Numidia furon ristretti; e due terzi almeno del paese presero il nome di Mauritania, con l'aggiunto di Cesariense. La vera Mauritania, o sia il paese dei Mori, che dall'antica città di Tingi, o Tangeri, era distinta con il nome di Tingitana, è rappresentata dal moderno regno di Fez. Salè sull'Oceano, così infame adesso per le depredazioni de' suoi pirati, era considerata dai Romani come l'ultimo oggetto della loro potenza, e quasi della lor geografia. Si scopre ancora una città fondata da loro vicino a Mequinez, residenza di quel Barbaro, che ci abbassiamo a chiamare Imperator di Marocco; ma non pare che i suoi più meridionali dominj, Marocco stesso e Segelmessa fossero mai compresi nella provincia romana. Le parti occidentali dell'Affrica sono traversate dalle catene del monte Atlante[101], nome così a vuoto celebrato dalla fantasia dei poeti; ma che ora è diffuso sull'immenso Oceano, il quale scorre tra il vecchio continente ed il nuovo[102].

Avendo ora finito il circuito dell'Impero romano, possiamo osservare, che l'Affrica è divisa dalla Spagna da un piccolo stretto di quasi dodici miglia pel quale l'Atlantico si volge nel Mediterraneo. Le Colonne di Ercole, così famose presso gli antichi, erano due montagne che sembravano essere state distaccate da qualche sconvolgimento degli elementi; ed a' piedi della montagna europea è ora situata la fortezza di Gibilterra. L'intera estensione del Mediterraneo, le sue coste e le sue isole erano comprese nel dominio romano. Delle isole più grandi, le due Baleari, che traggono i lor nomi di Maiorca e Minorca dalla rispettiva loro grandezza, sono adesso soggette, la prima alla Spagna e la seconda alla Gran-Britannia. È più facile il deplorare che descrivere l'attuale condizione della Corsica. Due Sovrani italiani assumono il titolo regio dalla Sardegna e dalla Sicilia. Il regno di Creta o Candia, con quel di Cipro, e molte delle più piccole isole della Grecia e dell'Asia, sono state soggiogate dalle armi ottomane; mentre il piccolo scoglio di Malta sfida la lor potenza, e sotto il governo del suo Ordine militare è cresciuto in fama e in ricchezza[103].

Questa lunga enumerazione di province, i cui divisi frammenti hanno formati tanti possenti regni, può quasi indurci a perdonare agli antichi la lor vanità o la loro ignoranza. Abbagliati dall'esteso dominio, dalla forza irresistibile, e dalla reale o affettata moderazione degl'Imperatori, disprezzavano, e talvolta obbliavano le remote contrade, che erano state lasciate nel godimento di una barbara indipendenza; e a poco a poco ei presero la licenza di confondere l'Impero romano con il globo della Terra[104]. Ma il carattere e le cognizioni di uno storico moderno richiedono un linguaggio più sobrio e preciso. Questi può imprimere una più giusta immagine della grandezza romana, facendo osservare che l'Impero avea sopra 2000 miglia di larghezza dalla muraglia di Antonino e dai confini settentrionali della Dacia, al Monte Atlante e al Tropico del Cancro; che si stendeva in lunghezza per più di 3000 miglia dall'Oceano occidentale all'Eufrate; che era situato nella più bella parte della Zona temperata, tra i gradi ventiquattro e cinquantasei di latitudine Settentrionale; e che si supponeva contenere più di un milione e seicento mila miglia quadre, la maggior parte di terra fertile e ben coltivata[105].

CAPITOLO II.

Unione ed interna prosperità del romano Impero nel secolo degli Antonini.

Non per la rapidità o estensione delle sue conquiste soltanto si dee valutare la grandezza di Roma. Il Sovrano dei deserti della Russia comanda ad una porzione più vasta del globo. Nella settima estate dopo il suo passaggio dell'Ellesponto, Alessandro innalzava i trofei macedoni sulle rive dell'Ifasi[106]. In meno di un secolo l'irresistibile Gengis e i principi Mogolli di quella stirpe estesero le crudeli devastazioni, ed il passeggiero loro dominio dal mar della China ai confini dell'Egitto e della Germania[107]. Ma il saldo edifizio della potenza romana fu levato in alto o conservato dalla prudenza di molti secoli. Le contrade che obbedivano a Traiano ed agli Antonini, erano unite con le leggi, ed adornate dalle arti. Esse potevano accidentalmente soffrire per l'abuso parziale di una autorità delegata; ma il principio generale del Governo era savio, semplice e benefico. Gli abitatori delle province godevano della religione de' loro antenati, mentre negli onori e vantaggi civili per giusti gradi venivano alzati ad un'eguaglianza con i loro conquistatori.

I. La politica degl'Imperatori e del Senato, per riguardo alla religione, era felicemente secondata dalle riflessioni della parte illuminata dei loro sudditi, e dai costumi della parte superstiziosa. I diversi culti religiosi che si osservavano nel Mondo romano, erano tutti considerati dal popolo come egualmente veri; dal filosofo come egualmente falsi, e dai magistrati come egualmente utili. Di tal modo la tolleranza produceva non solo una scambievole indulgenza, ma eziandio una religiosa concordia.

La superstizione del popolo non era amareggiata da alcuna mistura di rancor teologico, nè vincolata era dalle catene di alcun sistema speculativo. Il politeista devoto, sebbene appassionatamente ligio a' nazionali suoi riti, ammetteva con una implicita fede le diverse religioni della Terra[108]. Il timore, la gratitudine e la curiosità, un sogno o un augurio, un singolar disordine, o un viaggio lontano lo disponevano continuamente a moltiplicare gli articoli della sua credenza, o ad accrescer la lista de' suoi protettori. La sottil tessitura della mitologia pagana era intrecciata di varj, ma non discordanti materiali. Col convenire che gli uomini saggi e gli eroi, i quali erano o vissuti o morti in servigio della patria, s'innalzassero a un grado di dignità e d'immortalità, si confessava universalmente ch'essi meritavano di esser almeno venerati, se non adorati, da tutto il genere umano. Le Divinità di mille piccoli boschi e di mille ruscelli possedevano, in pace, la loro locale e respettiva influenza; nè il Romano, che procurava di placare lo sdegno del Tevere, poteva derider l'Egiziano, che presentava le sue offerte al benefico Genio del Nilo. I visibili poteri della natura, i pianeti e gli elementi erano gli stessi per tutto l'universo. I rettori invisibili del mondo morale non potevan esser rappresentati che da finzioni ed allegorie gettate in una medesima stampa. Ogni virtù, ed anche ogni vizio ottenne la sua divina rappresentanza; ogni arte e professione ebbe il suo protettore, i cui attributi, nei secoli e nei paesi più distanti, erano uniformemente ricavati dal carattere dei loro particolari adoratori. Una repubblica di Dei, così opposti d'interessi e di tempre, richiedeva in qualunque sistema la mano moderatrice di un magistrato supremo, il quale col progredire della scienza e dell'adulazione fu a poco a poco investito delle sublimi perfezioni di Monarca Onnipotente, e di Creatore Sovrano[109]. Così moderato era lo spirito dell'Antichità, che le nazioni eran meno attente alle differenze, che alle somiglianze dei loro culti religiosi. Il Greco, il Romano ed il Barbaro, nell'incontrarsi avanti i loro respettivi altari, facilmente si persuadevano, che sotto nomi diversi e con diverse ceremonie essi adoravano le medesime Divinità. L'elegante mitologia di Omero dava una bella e quasi regolar forma al politeismo del Mondo antico[110].

I filosofi greci ricavavano la loro morale dalla natura dell'uomo, anzi che da quella di Dio. Essi meditavan però sulla natura divina come oggetto di una speculazione molto importante e curiosa, ed in questa profonda ricerca mostravano la forza e la debolezza dell'umano intendimento[111]. Tra le quattro più celebri scuole, gli Stoici ed i Platonici procurarono di riconciliare i discordanti interessi della ragione e della religione. Essi ci hanno lasciate le più sublimi prove della esistenza e delle perfezioni della cagione prima; siccome però impossibile era ad essi il concepire la creazione della materia, così l'artefice, nella filosofia stoica, non viene abbastanza distinto dall'opera; mentre al contrario il Nume spirituale di Platone e dei suoi discepoli sembra piuttosto un'idea, che una sostanza. Le opinioni degli Accademici e degli Epicurei erano di una tempra men religiosa; ma nel mentre che i primi erano dalla modesta loro scienza indotti a mettere in dubbio, gli ultimi dalla loro positiva ignoranza erano costretti a negare la Provvidenza di un Reggitore supremo. Lo spirito di ricerca, avvivato dalla emulazione, e sostenuto dalla libertà, aveva divisi i pubblici maestri di filosofia in una varietà di contrarie Sette; ma la gioventù ingegnosa, che da ogni parte concorreva ad Atene ed alle altre sedi delle scienze nell'Impero romano, era egualmente ammaestrata in ogni scuola a rigettare e disprezzare la religione del popolo. Come, di fatto, era egli possibile che un filosofo accettasse per verità divine le vane novelle dei poeti, e le tradizioni incoerenti dell'antichità; o che adorasse come Dei quegli enti imperfetti, ch'esso avrebbe disprezzati come uomini? Cicerone condiscese a trattare le armi della ragione e dell'eloquenza contro tali indegni avversarj; ma la Satira di Luciano fu un'arme più adeguata, ed altrettanto più efficace. Si può ben credere che uno scrittore, il quale praticava nel mondo, non si sarebbe mai arrischiato ad esporre gli Dei del suo paese alle risa del pubblico, se questi non fossero già stati l'oggetto del secreto disprezzo fra gli ordini più colti ed illuminati della società[112].

Non ostante la irreligiosità di moda, che regnava nel secolo degli Antonini, l'interesse dei sacerdoti, non meno che la credulità del popolo erano tenuti in sufficiente rispetto. Negli scritti e nei discorsi loro i filosofi dell'antichità sostenevano l'indipendente dignità della ragione, ma uniformavano le loro azioni ai comandi delle leggi e dei costumi. Riguardando con un riso di compassione e d'indulgenza i varj errori del volgo, praticavano diligentemente le cerimonie dei loro padri, frequentavano devotamente i tempj degli Dei; e talvolta condescendendo a fare la lor parte sul teatro della superstizione, coprivano i sentimenti di un ateo sotto le vesti sacerdotali. Ragionatori di questa tempra non eran molto inclinati a disputare circa le loro rispettive maniere di fede o di culto. Era indifferente per loro qual forma prender volesse la follia della moltitudine; e s'accostavano con lo stesso interno disprezzo e con la stessa reverenza esterna agli altari dei Giove Libico, dell'Olimpico o del Capitolino[113].

Non è facile il concepire per quali motivi uno spirito di persecuzione si sarebbe introdotto nei concilj romani. I magistrati non potevano essere animati da una cieca sebbene onesta devozione, giacchè i magistrati stessi eran filosofi; e le scuole di Atene aveano dato le leggi al Senato. Non potevano essere incitati dall'ambizione dall'avarizia, giacchè la potestà temporale e l'ecclesiastica erano unite nelle stesse mani. I pontefici erano scelti tra i più illustri dei senatori, e l'uffizio di sommo pontefice era costantemente esercitato dagl'Imperatori medesimi. Essi conoscevano e valutavano i vantaggi della religione in quanto ella è connessa col governo civile. Incoraggiavano le pubbliche feste, che rendono più umani i costumi del popolo. Si servivano delle arti della divinazione, come di un utile strumento di politica; e rispettavano come il più saldo legame della società la giovevole persuasione, che il delitto dello spergiuro viene infallibilmente punito in questa vita o nell'altra dai Numi[114] vendicatori. Ma mentre riconoscevano i vantaggi generali della religione, eran persuasi che la diversità dei culti contribuiva ugualmente ai medesimi salutevoli fini; e che in ogni paese la forma della superstizione, che avea ricevuta la sanzione del tempo e dell'esperienza, era la più acconcia al clima ed a' suoi abitatori. L'avarizia ed il buon gusto bene spesso rapivano alle vinte nazioni le eleganti statue dei loro Numi, ed i ricchi ornamenti dei loro tempj[115], ma nell'esercizio della religione dei loro antenati, esse generalmente provavano l'indulgenza, anzi la protezione dei conquistatori romani. La provincia della Gallia sembra, ed in vero sembra soltanto, un'eccezione a questa universal tolleranza. Sotto lo specioso pretesto di abolire i sacrifizj umani, gl'Imperatori Tiberio e Claudio soppressero la pericolosa potenza dei Druidi[116]; ma si lasciarono sussistere in una pacifica oscurità, fino all'ultima distruzione del paganesimo, i sacerdoti, gli Dei ed i loro altari[117].

Roma, la capitale di una gran Monarchia, era continuamente ripiena di sudditi e di stranieri di ogni parte del Mondo[118] che tutti v'introducevano e professavano le superstizioni favorite de' loro paesi[119]. Ogni città nell'Impero era autorizzata a mantenere la purità delle sue antiche cerimonie; ed il Senato romano, usando del comun privilegio, s'interponeva talvolta per frenare questa inondazione di riti stranieri. La superstizione egiziana, la più disprezzabile ed abbietta di tutte, frequentemente fu proibita: i tempj di Serapide e d'Iside furono demoliti, ed i loro adoratori banditi da Roma e dall'Italia[120]. Ma lo zelo del fanatismo prevalse ai freddi e deboli sforzi della politica. Gli esiliati tornarono, si moltiplicarono i proseliti, i tempj furon riedificati con maggior lustro, ed Iside e Serapide ebbero alfine un posto tra le romane divinità[121]. Nè questa indulgenza era un allontanarsi dalle vecchie massime di governo. Nei più bei secoli della Repubblica, Cibele ed Esculapio erano stati invitati in Roma con solenni ambasciate[122], ed era costume di tentare i protettori delle città assediate con la promessa di onori più segnalati di quelli, che ricevevano nel paese nativo[123]. Roma divenne a poco a poco il tempio comune dei suoi sudditi; e la cittadinanza fu conceduta a tutti gli Dei del genere umano[124].

II. La meschina politica di conservare senza alcun mescuglio straniero il puro sangue degli antichi cittadini, avea rintuzzata la fortuna, ed affrettata la rovina di Atene e di Sparta. Il genio sprezzante di Roma sacrificò quella debole vanità ad una più soda ambizione, e credè più prudente ed onorevole partito adottare e far suoi la virtù ed il merito, ovunque li ritrovasse, sia tra gli schiavi o gli stranieri, sia tra i nemici od i Barbari[125]. Nella più florida età della Repubblica ateniese, il numero dei cittadini gradatamente decrebbe quasi da trenta[126] a ventunmila[127]. Se al contrario si esamina l'accrescimento della Repubblica romana, si scopre che, non ostanti le continue perdite per le guerre e le colonie, i cittadini che nel primo censo di Servio Tullio non ascendevano a più di ottantatremila, erano moltiplicati, innanzi al principio della guerra Sociale, al numero di quattrocento sessantatremila uomini atti a portar le armi in servizio della patria[128]. Quando gli alleati di Roma pretesero una egual parte agli onori ed ai privilegi, il Senato, invero, preferì la sorte delle armi ad una concessione ignominiosa. I Sanniti ed i Lucani pagarono severamente la pena della loro temerità; ma pel resto degli Stati italiani, come successivamente rientrarono nel dovere, vennero ricevuti in seno della Repubblica[129], e presto contribuirono alla rovina della pubblica libertà. Sotto un governo democratico, i cittadini esercitano il potere della sovranità; e questo potere prima degenera in abuso, indi si perde, se venga affidato ad una moltitudine disadatta pel numero al maneggio delle pubbliche cose. Ma poscia che le popolari adunanze furon soppresse dalla politica degl'Imperatori, i conquistatori più non vennero distinti dalle nazioni vinte, se non in quanto occupavano il primo ed il più onorevol ordine di sudditi; ed il loro accrescimento, sebben rapido, non fu più esposto agli stessi pericoli. I più saggi Principi però, i quali adottarono le massime di Augusto, conservarono con la più scrupolosa cura la dignità del nome romano, e largirono la cittadinanza con una prudente liberalità[130].

Finchè i privilegi di cittadino romano non furono progressivamente estesi a tutti gli abitanti dell'Impero, si conservò una distinzione importante tra l'Italia e le province. La prima si riguardava come il centro della pubblica unità, e la salda base della costituzione. L'Italia pretendeva di essere la patria o almeno la residenza degl'Imperatori e del Senato[131]. Gli Stati degl'Italiani erano esenti da tasse, e le loro persone dalla arbitraria giurisdizione dei governatori. Alle loro comunità municipali, formate sul perfetto modello della capitale, si affidava sotto l'occhio immediato del supremo potere l'esecuzion delle leggi. Dalla radice delle alpi all'estremità della Calabria tutti i nativi d'Italia nascevano cittadini romani. Le loro divisioni di partito erano andate in obblio, ed essi insensibilmente eran venuti a formare una gran nazione unita per la lingua, pe' costumi, e pe' regolamenti civili, e proporzionata al peso di un Impero possente. La Repubblica si gloriava della sua generosa politica, ed era frequentemente ricompensata dal merito e dai servizj dei suoi figli adottivi. Se essa avesse sempre ristretta la distinzione di cittadini romani nelle antiche famiglie dentro le mura della città, quel nome immortale sarebbe andato privo d'alcuno dei suoi nobili ornamenti. Virgilio era nativo di Mantova: Orazio era disposto a dubitare se chiamar si dovesse Pugliese o Lucanio: in Padova si trovò uno Storico degno di raccontare la serie maestosa delle vittorie romane. La famiglia dei Catoni, tanto amante della patria, venne da Tusculo; e la piccola città di Arpino si vantò del doppio onore di aver prodotto Mario e Cicerone, il primo dei quali meritò, dopo Romolo e Camillo, di esser chiamato il terzo fondatore di Roma; ed il secondo, dopo aver salvata la sua patria dalla congiura di Catilina, la rendette capace di contendere con Atene la palma dell'eloquenza[132].

Le province dell'Impero (come esse sono state descritte nel precedente capitolo) erano prive di ogni pubblica forza, o libertà costituzionale. Nell'Etruria, nella Grecia[133] e nella Gallia[134], la prima cura del Senato fu di sciogliere quelle pericolose confederazioni, le quali insegnavano agli uomini, che come le armi romane erano state vittoriose per le altrui divisioni, così l'unione sola poteva ad esse far resistenza. Quei Principi, ai quali l'ostentazione di gratitudine o di generosità permetteva per qualche tempo di reggere uno scettro precario, venivan balzati dai loro troni, appena avean soddisfatto all'incarico loro ingiunto di avvezzare al giogo le vinte nazioni. Gli Stati liberi e le città, le quali avevano abbracciata la causa di Roma, erano ricompensate con un'alleanza di nome, ed insensibilmente cadevano in una real servitù. La pubblica autorità era per ogni dove esercitata dai ministri del Senato e degl'Imperatori, e quest'autorità era assoluta e senza freno. Ma le stesse salutevoli massime di governo, che avevano assicurata la pace e l'obbedienza dell'Italia, erano estese fino alle più remote conquiste. Una nazione di Romani si formò a poco a poco nelle province, col doppio espediente d'introdurre le colonie, e di ammettere i più fedeli e meritevoli tra i provinciali alla cittadinanza romana.

«Dovunque il Romano conquista, ivi abita» è una osservazione molto giusta di Seneca[135], confermata dalla storia e dalla esperienza. I nativi d'Italia, allettati dal piacere o dall'interesse, si affrettavano a godere dei vantaggi della vittoria; e si può osservare, che circa quarant'anni dopo la riduzione dell'Asia, ottantamila romani furono in un giorno trucidati pei crudeli ordini di Mitridate[136]. Questi esuli volontarj si occupavano per la maggior parte nel commercio, nella agricoltura e nell'appalto delle pubbliche entrate. Ma di poi che gl'Imperatori fecero permanenti le legioni, popolate furono le province da una razza di soldati; ed i veterani, comunque ricevessero la ricompensa del lor servizio o in moneta o in terreni, generalmente si stabilivano con le loro famiglie nel paese, in cui avevano onorevolmente consumata la lor gioventù. Per tutto l'Impero, ma più specialmente nelle parti occidentali, i distretti più fertili, e le situazioni più convenienti erano riservate allo stabilimento delle colonie; alcune delle quali erano di un ordine civile, ed altre di un ordine militare. Nei loro costumi e nell'interna politica le colonie formavano una perfetta rappresentanza della loro gran madre, e siccome presto divenivan care ai nazionali pei legami dell'amicizia e della affinità, esse diffondevano effettivamente una riverenza pel nome romano, ed un desiderio raramente inefficace, di parteciparne a tempo dovuto gli onori ed i vantaggi[137]. Le città municipali insensibilmente uguagliarono il grado e lo splendore delle colonie, e nel regno di Adriano si disputò se preferire si dovesse la condizione di quelle società che erano uscite dal grembo di Roma[138], o di quelle che vi erano state ricevute. Il diritto del Lazio, come veniva chiamato, conferiva alle città, alle quali era stato accordato, un più particolare favore. I Magistrati solamente, allo spirar dei loro uffizj, assumevan la qualità di cittadini romani; ma siccome questi uffizj erano annuali, in pochi anni circolavano per le principali famiglie[139]. Quelli tra i provinciali a' quali era permesso di portar le armi nelle legioni[140]; quelli che esercitavano qualche impiego civile; tutti quelli, in una parola, che servivano il pubblico, o mostravano qualche personale talento, erano premiati con una ricompensa, il cui valsente andò continuamente diminuendo con l'accrescersi della liberalità degl'Imperatori. Per altro, anche nel secolo degli Antonini, quando la cittadinanza era stata largita alla maggior parte dei sudditi, era questa sempre accompagnata da vantaggi assai solidi. La massa del popolo acquistava con tal titolo il benefizio delle leggi romane, particolarmente negli interessanti articoli di matrimonio, di testamenti e di eredità; e la strada della fortuna rimaneva aperta a coloro, le cui pretensioni erano secondate dal favore o dal merito. I nipoti dei Galli, che aveano assediato Giulio Cesare in Alesia, comandavano le legioni, governavano le province, ed erano ammessi nel Senato di Roma[141]. La loro ambizione, in cambio di disturbare la tranquillità dello Stato, era intimamente connessa con la sua salvezza e grandezza.

I Romani eran così persuasi dell'influenza della lingua su i costumi nazionali, che la più seria lor cura fu di estendere col progresso delle loro armi l'uso della lingua latina[142]. Gli antichi dialetti dell'Italia, il Sabino, l'Etrusco ed il Veneto caddero in obblio; ma nelle province l'Oriente fu men docile dell'Occidente alla voce dei suoi vittoriosi maestri. Questa differenza distingueva le due porzioni dell'Impero con una diversità di colori, la quale sebbene fu in qualche parte nascosta, durante il chiaro splendore di prosperità, divenne più visibile a misura che le ombre della notte scesero sul Mondo romano. Le contrade occidentali furon tratte a civiltà dalle stesse mani che lo sottomisero. Appena i Barbari furon ricondotti alla obbedienza, le loro menti si aprirono a tutte le nuove impressioni delle scienze e della cultura. La lingua di Virgilio e di Cicerone, sebbene con qualche inevitabil mescuglio di corruzione, fu così universalmente adottata nell'Affrica, nella Spagna, nella Gallia, nella Britannia[143] e nella Pannonia, che soltanto nelle montagne, o tra i contadini si conservarono le deboli tracce della lingua punica o della celtica[144]. L'educazione e lo studio inspirarono insensibilmente ai nativi di quei paesi i sentimenti dei Romani, e l'Italia diede le mode, come le leggi ai suoi provinciali latini. Essi ricercarono con maggiore ardore, ed ottennero con maggior facilità il titolo e gli onori di cittadino romano: sostennero la dignità della nazione nelle lettere[145] e nelle armi: ed al fine produssero nella persona di Traiano un Imperatore che gli Scipioni non avrebbero ricusato per loro concittadino. La situazione dei Greci era ben diversa da quella dei Barbari. I primi erano stati già da gran tempo inciviliti e corrotti. Essi aveano troppo buon gusto per abbandonare la loro lingua, e troppa vanità per adottare alcuna istituzione straniera. Conservando sempre i pregiudizj dei loro antenati, dopo averne perdute le virtù, affettavano di disprezzare le rozze maniere dei romani conquistatori, mentre erano astretti a rispettare la loro superior forza e prudenza[146]. Nè l'influenza del linguaggio e dei sentimenti dei Greci era ristretta negli angusti confini di quella, una volta, famosa regione. Il loro Impero, col progresso delle colonie e delle conquiste, si era diffuso dall'Adriatico all'Eufrate ed al Nilo. L'Asia era coperta di città greche, ed il lungo dominio dei Re macedoni aveva sordamente introdotta una rivoluzione nella Siria e nell'Egitto. Nelle loro magnifiche Corti quei Principi univano l'eleganza ateniese al lusso orientale, e l'esempio della Corte era, nella proporzionata distanza, imitato dai più distinti ordini dei loro sudditi. Tale era la general divisione dell'Impero romano nelle lingue latina e greca. A queste possiamo aggiungere una terza distinzione pe' nazionali della Siria, e specialmente dell'Egitto. L'uso dei loro antichi dialetti, segregandoli dal commercio degli uomini, era d'impedimento alla cultura di que' Barbari[147]. La pigra effeminatezza dei primi gli esponeva alla derisione; e l'ostinata ferocia dei secondi eccitava l'avversione dei loro conquistatori[148]. Queste nazioni si eran sottomesse alla potenza romana, ma raramente desiderarono, o ne meritarono la cittadinanza; e fu osservato che passarono più di dugento trent'anni dopo l'estinzione dei Tolomei, prima che un Egiziano fosse ammesso nel Senato romano[149].

È osservazione giusta, sebben comune, che la vittoriosa Roma fu ella stessa soggiogata dalle arti della Grecia. Quegli immortali Scrittori, che fanno ancora l'ammirazione della moderna Europa, presto divennero l'oggetto favorito dello studio e dell'imitazione nell'Italia e nelle province occidentali. Ma non portavano danno le geniali occupazioni dei Romani alle radicate massime della loro politica. Mentre riconoscevano le bellezze della lingua greca, sostenevano la dignità della latina; e l'uso esclusivo della seconda fu conservato inflessibilmente nell'amministrazione sì del governo civile, che del militare[150]. I due linguaggi esercitavano nel tempo stesso la loro separata giurisdizione per tutto l'Impero; il primo come naturale idioma delle scienze, il secondo come il dialetto legale degli atti pubblici. Quelli che univano le lettere agli affari, erano egualmente versati nell'uno e nell'altro; ed era quasi impossibile in qualunque provincia di trovare un suddito romano di una educazion liberale, che non sapesse nel tempo stesso la lingua greca e la latina.

Con tali regolamenti le nazioni dell'Impero insensibilmente si confusero nel nome e nel popolo romano. Ma vi restava ancora nel centro di ogni provincia e di ogni famiglia una infelice classe di uomini, che sopportavano il peso senza godere dei benefizj della società. Negli Stati liberi delle antiche Repubbliche, gli schiavi domestici erano esposti al capriccioso rigore del dispotismo. Al perfetto stabilimento dello Impero romano avean preceduto i secoli della violenza e della rapina. Gli schiavi erano per la maggior parte Barbari prigionieri, presi a migliaia per sorte di guerra, comprati a vil prezzo[151], avvezzi ad una vita indipendente, ed impazienti di rompere e vendicare i lor ceppi.

I più severi provvedimenti, ed il più crudel trattamento[152] contro quegli interni nemici pareano quasi giustificati dalla gran legge della propria conservazione, giacchè essi avean con disperate ribellioni condotta più d'una volta la Repubblica all'orlo del precipizio[153]. Ma quando le principali nazioni dell'Europa, dell'Asia e dell'Affrica furono unite sotto le leggi di un solo Sovrano, la sorgente dei rinforzi stranieri divenne meno abbondante, ed i Romani furono ridotti al più mite ma più tedioso metodo della propagazione. Incoraggiarono i matrimonj degli schiavi nelle lor numerose famiglie, e particolarmente nelle loro campagne. I sentimenti della natura, gli abiti della educazione, ed una specie di proprietà, benchè dipendente, contribuirono ad addolcire la durezza della servitù[154]. L'esistenza di uno schiavo divenne un oggetto di valuta maggiore; e sebbene la felicità di lui dipendesse sempre dal carattere o dalle circostanze del padrone, pure l'umanità del secondo, invece di essere scemata dal timore, era incoraggiata dal sentimento del proprio interesse. La politica o la virtù degl'Imperatori accelerò il perfezionamento dei costumi; ed Adriano e gli Antonini estesero con i loro editti la protezion delle leggi fino alla più abietta parte degli uomini. Si tolse ai privati il diritto di vita e di morte sopra gli schiavi, del quale avevano per lungo tempo e spesso abusato, e fu riservato ai soli magistrati. Furon distrutte le sotterranee prigioni; e lo schiavo ingiuriato, se giustamente si lamentava di un intollerabil trattamento, otteneva o la libertà, od un padrone meno crudele[155].

La speranza, che è il miglior sollievo della nostra imperfetta condizione, non era negata allo schiavo romano; e se trovava alcuna opportunità di rendersi utile e gradito, poteva molto ragionevolmente sperare che la diligenza e fedeltà di pochi anni sarebbe ricompensata con l'inestimabil dono della libertà. La benevolenza del padrone era così spesso animata dai più bassi motivi di vanità e di avarizia, che le leggi crederono più necessario di raffrenare, che d'incoraggiare questa profusa ed indistinta liberalità, la quale poteva degenerare in un abuso molto pericoloso[156]. Secondo l'antica giurisprudenza uno schiavo non avea patria: acquistando la libertà egli veniva ammesso nella società politica, di cui il suo patrono era membro. Le conseguenze di questa massima avrebbero prostituiti i privilegi della cittadinanza romana ad una vile e promiscua moltitudine. Furon perciò stabilite alcune opportune eccezioni; e l'onorevol distinzione di cittadino fu ristretta soltanto a quegli schiavi, i quali per giuste cagioni, e con l'approvazione del magistrato eran solennemente e legalmente manumessi. Di più questi scelti liberti non ottenevan che i privati diritti di cittadini, ed erano rigorosamente esclusi dagl'impieghi civili e dal servizio militare. Qualunque esser potesse il merito o la ricchezza dei loro figli, essi eran parimente stimati indegni di aver posto in Senato; nè si cancellavano affatto le tracce della origine servile fino alla terza o quarta generazione[157]. Così senza distrugger la distinzione degli ordini, la libertà e gli onori si mostravano in lontananza anche a quelli, che l'orgoglio e il pregiudizio sdegnavano quasi di annoverare fra gli uomini.

Fu una volta proposto di dar agli schiavi per distintivo un abito particolare, ma si temè con ragione che vi fosse qualche pericolo nel far ad essi conoscere la grandezza del loro numero[158]. Senza interpretare nel loro più stretto senso le pompose voci di legioni e di miriadi[159], si può probabilmente asserire che la proporzione degli schiavi, che si valutavano come proprietà, era più considerabile di quella dei servi mercenarj[160]. I giovani di un ingegno che prometteva, erano instruiti nelle arti e nelle scienze, ed il loro prezzo si misurava dal grado della loro abilità e dei loro talenti[161]. Quasi ogni professione o liberale[162] o meccanica, si trovava nella casa di un ricco Senatore. I ministri della magnificenza e del piacere erano moltiplicati oltre l'idea del lusso moderno[163]. Il mercante o il manifattore trovava più utile a comprare, che a prendere a paga i suoi lavoranti; e nella campagna gli schiavi erano impiegati come gli strumenti meno costosi e più utili dell'agricoltura. Si possono portare diversi particolari esempi per confermar la generale osservazione, e mostrare la moltitudine degli schiavi. Un tristo avvenimento fece scoprire che in un sol palazzo di Roma si mantenevano quattrocento schiavi[164]. Ne apparteneva un numero eguale ad una villa, che una vedova affricana di condizione molto privata cedè al suo figlio, mentre si riservava per se una maggior porzione del suo patrimonio[165]. Sotto il Regno di Augusto un liberto, le cui ricchezze erano molto diminuite per le guerre civili, lasciò tremila seicento paia di bovi, dugento cinquantamila capi di bestiame minuto, e quattromila cento sedici schiavi, i quali venivano quasi inclusi nella descrizione de! bestiame[166].

Il numero dei sudditi, i quali riconoscevano le leggi romane, cittadini, provinciali e schiavi, non si può determinare con quella precisione, che meriterebbe l'importanza del soggetto. Sappiamo che quando l'Imperatore Claudio esercitò l'uffizio di Censore, il censo fu di sei milioni novecento quarantacinquemila cittadini romani, i quali, computandovi in proporzione le donne ed i ragazzi, dovevano ascendere al numero quasi di venti milioni d'anime. La quantità dei sudditi di un grado inferiore era incerta e variabile. Ma dopo aver valutata attentamente ogni circostanza, che può influire nel comparto, sembra probabile, che al tempo di Claudio, il numero dei provinciali fosse quasi doppio di quello dei cittadini d'ogni età e d'ogni sesso; e che gli schiavi fossero almeno eguali in numero agli abitanti liberi dell'orbe romano. La somma totale di questo calcolo imperfetto ascenderebbe quasi a cento venti milioni; popolazione, che forse eccede quella della Europa moderna[167] e forma la più numerosa società che sia mai stata unita sotto lo stesso sistema di governo.

La pace e l'unione interna erano le naturali conseguenze della moderata ed illuminata politica dei Romani. Se volgiamo gli occhi alle Monarchie dell'Asia, vedremo nel centro il dispotismo, e la debolezza nelle estremità; la percezione delle entrate, o l'amministrazione della giustizia sostenuta dalla presenza dell'armi; nemici barbari stabiliti nel cuor del regno; satrapi ereditari che usurpano il dominio delle province, e sudditi disposti alla ribellione, sebbene incapaci di libertà. Ma l'obbedienza del Mondo romano era uniforme, volontaria e costante. Le vinte nazioni, raccolte in un gran popolo, ponevano giù la speranza, anzi il desiderio di riacquistare la loro indipendenza, e consideravano appena la loro esistenza come distinta da quella di Roma. L'autorità, già assodata degl'Imperatori, si stendeva senza fatica per la vasta estensione dei loro dominj, ed era esercitata con la stessa facilità sulle rive del Tamigi o del Nilo, come su quelle del Tevere. Le legioni erano destinate a servire contro i pubblici nemici, ed il magistrato civile rare volte implorava l'aiuto della forza militare[168]. In questo stato di general sicurezza il Principe ed il popolo impiegavano l'ozio e l'opulenza loro ad ingrandire e adornare l'Impero romano.

Quanti fra gl'innumerabili monumenti di architettura costruiti dai Romani, sono sfuggiti alla notizia della storia, e quanti pochi han resistito alle distruzioni del tempo e de' Barbari! E pure le sole maestose rovine che si vedono tuttavia sparse per l'Italia e per le province, servirebbero a provare che quei luoghi furono una volta la sede di un Impero colto e possente. La loro sola grandezza, o la loro bellezza meriterebbe la nostra attenzione; ma esse divengono anche più interessanti per due circostanze importanti, le quali uniscono la dilettevole storia delle arti con la storia più utile degli umani costumi. Molte di queste fabbriche erano erette a spese private, e destinate quasi tutte alla pubblica utilità.

È naturale il supporre che la maggior parte e la più considerabile dei romani edifizj fosse innalzata dagli Imperatori, che potevano illimitatamente disporre di tanti uomini e di tanti tesori. Augusto era solito di vantarsi, che aveva trovata la sua capitale fabbricata di mattoni, e la lasciava fabbricata di marmo[169]. La stretta economia di Vespasiano fu la sorgente della sua magnificenza. Le opere di Traiano portano il marchio del suo grand'animo. I pubblici monumenti con i quali Adriano adornò ogni provincia dell'Impero, furono eseguiti non solo pe' suoi ordini, ma sotto la sua immediata ispezione. Era artista egli stesso, ed amava quelle arti che accrescevano la gloria del Monarca. Esse furono incoraggiate dagli Antonini, come proprie a contribuire alla felicità del popolo. Ma se gl'Imperatori furono gli architetti primarj del loro Impero, non ne furono per altro i soli. Il loro esempio fu generalmente imitato dai principali sudditi, i quali non temevano di mostrare, ch'essi avevano spirito da concepire, o ricchezze da terminare le più nobili imprese. Non era appena eretto e consacrato a Roma il superbo Colosseo, che Capua e Verona innalzarono a spese proprie e per uso loro altri edifizj, invero men vasti, ma costruiti sullo stesso disegno e coi medesimi materiali[170]. L'iscrizione del maraviglioso ponte di Alcantara attesta, che esso fu gettato sul Tago a spese di poche comunità Lusitane. Quando a Plinio fu dato il governo della Bitinia e del Ponto, province che non erano nè le più ricche, nè le più considerabili dell'Impero, egli trovò le città della sua giurisdizione, che gareggiavano in fabbriche, le quali per l'utilità e per l'ornamento meritassero la curiosità dei forestieri, o la gratitudine dei cittadini. Era dover del Proconsole di supplire a ciò che loro mancava, di regolare il lor gusto, e talvolta di moderare la loro emulazione[171]. I ricchi Senatori di Roma e le province consideravano come un onore, e quasi come un obbligo l'accrescere lo splendore del loro secolo e della lor patria; e l'influenza della moda bene spesso suppliva alla mancanza del buon gusto o della generosità. Tra la folla di questi privati benefattori, merita di esser distinto Erode Attico, cittadino ateniese, il quale vivea nel secolo degli Antonini; e qualunque fosse il motivo che lo faceva operare, la sua magnificenza sarebbe stata degna dei Re più grandi.

La famiglia di Erode, almeno dopo che si trovò favorita dalla fortuna, fu fatta discendere per linea retta da Cimone e Milziade, da Teseo e Cecrope, da Eaco e Giove. Ma la posterità di tanti Numi e di tanti eroi era caduta nello stato il più abbietto. L'avo di Erode era stato nelle mani della giustizia, e Giulio Attico, suo padre, avrebbe finiti i suoi giorni nella povertà e nel disprezzo, se scoperto non avesse un immenso tesoro, sepolto sotto un vecchio casamento, ultimo avanzo del suo patrimonio. Secondo il rigor della legge, l'Imperatore avrebbe potuto far valere le sue pretensioni, ed Attico prudentemente prevenne lo zelo dei delatori con una libera confessione. Ma il giustissimo Nerva, che allora occupava il trono, non volle accettarne alcuna porzione; e gli comandò di servirsi senza timore del dono della fortuna. L'accorto Ateniese sempre insisteva dicendo, che il tesoro era troppo considerabile per un suddito, e ch'egli non sapeva come bene usarne. Abusane dunque, replicò il Monarca con una graziosa impazienza, giacchè ti appartiene[172]. Molti saranno d'opinione, che Attico eseguì litteralmente le ultime istruzioni dell'Imperatore; giacchè spese in util del pubblico la maggior parte dei suoi beni, i quali erano considerabilmente aumentati per un ricco matrimonio. Egli aveva ottenuta pel suo figlio Erode la prefettura delle città libere dell'Asia; e questo giovane magistrato, osservando che in quella di Troade mancava l'acqua, ottenne dalla liberalità di Adriano trecento miriadi di dramme (quasi dugentomila zecchini) per la costruzione di un nuovo acquedotto. Ma nell'esecuzione della fabbrica la spesa montando a più del doppio, ed i ministri dell'entrate publiche cominciando a mormorare, il generoso Attico impose loro silenzio col supplicare che gli fosse permesso di addossarsi il di più della spesa[173].

I più abili maestri della Grecia e dell'Asia erano stati invitati con liberali ricompense a governare l'educazione del giovane Erode. Il loro allievo divenne ben tosto un celebre oratore, secondo l'inutil rettorica di quel secolo, la quale, confinandosi nelle scuole, sdegnava di comparire nel Foro o nel Senato. Gli fu conceduto a Roma l'onor del Consolato; ma egli passò la maggior parte della sua vita in un ritiro filosofico in Atene e nelle ville adiacenti, continuamente circondato da' Sofisti; i quali riconoscevano senza ripugnanza la superiorità di un ricco e generoso rivale[174]. I monumenti del suo genio sono periti; alcuni riguardevoli avanzi conservano tuttora la fama del suo buon gusto e della sua munificenza: qualche viaggiatore moderno ha misurate le rovine dello Stadio ch'esso fece costruire in Atene. Era lungo seicento piedi, fabbricato tutto di marmo bianco, e capace di contener tutto il popolo; fu finito in quattr'anni, mentre Erode era il presidente dei giuochi ateniesi. Consacrò alla memoria di Regilla sua moglie un teatro, di cui appena potea trovarsi l'eguale in tutto l'Impero; non vi si impiegò altro legno che cedro squisitamente intagliato. L'Odeo, destinato da Pericle per l'Accademia di musica e per le nuove tragedie, sorgea come trofeo della vittoria riportata dalle belle arti sulla grandezza asiatica; giacchè il legname impiegatovi era per la maggior parte di alberi delle navi persiane. Benchè un re di Cappadocia lo avesse una volta restaurato, era nuovamente sul punto di rovinare. Erode gli rendè l'antica eleganza e munificenza. Nè la liberalità di questo illustre cittadino rimase ristretta fra le mura di Atene. I più splendidi ornamenti, fatti al tempio di Nettuno nell'Istmo, un teatro in Corinto, uno Stadio in Delfi, un bagno alle Termopile, ed un acquedotto in Canusio nell'Italia, non poterono esaurire i suoi tesori. L'Epiro, la Tessaglia, l'Eubea, la Beozia ed il Peloponeso provarono i suoi favori; e molte iscrizioni delle città greche ed asiatiche nominarono con gratitudine Erode Attico loro patrono e benefattore[175].

Nelle Repubbliche di Atene, e di Roma, la modesta semplicità delle case private annunziava l'egual condizione della libertà, mentre la sovranità del popolo si spiegava nei maestosi edifizj destinati all'uso pubblico[176]; nè questo spirito repubblicano si spense affatto per l'introduzione dell'opulenza e della monarchia. Gli Imperatori più virtuosi godevano di mostrare la loro magnificenza soltanto nelle fabbriche fatte per l'onore e per l'utile della nazione. L'aureo palazzo di Nerone eccitò una giusta indignazione, ma l'istesso terreno usurpato dal suo sfrenato lusso, fu più nobilmente occupato sotto i successivi regni dal Colosseo, dai bagni di Tito, dal portico di Claudio o dai tempj dedicati alla Pace od al Genio di Roma[177]. Questi monumenti di architettura, proprietà del Popolo romano, erano adornati dalle più belle produzioni della greca pittura e scultura; e nel tempio della Pace si aprì una libreria molto rara alla curiosità dei letterati. Poco lungi di là sorgeva il Foro di Trajano. Questo era di forma quadrangolare, circondato da un alto portico, nel quale quattro archi trionfali aprivano un ingresso nobile e spazioso; nel centro era posta una colonna di marmo, la cui altezza di cento dieci piedi indicava l'elevazione della collina che vi era stata spianata. Questa colonna, che ancor sussiste nella sua antica bellezza, presentava un esatto quadro delle vittorie riportate, da chi l'innalzò, contro i Daci. Il soldato veterano contemplava la storia delle sue proprie campagne, ed il pacifico cittadino, per una facile illusione di vanità nazionale, si associava agli onori del trionfo. Tutti gli altri quartieri della capitale, e tutte le province dell'Impero erano abbellite dal medesimo liberale genio di pubblica magnificenza, e ripiene di anfiteatri, teatri, tempj, portici, archi trionfali, bagni ed acquedotti, tutti per diversi modi utili alla salute, alla devozione, ed ai piaceri degl'infimi cittadini. Gli acquedotti meritano la nostra particolare attenzione. L'ardire dell'impresa, la solidità dell'esecuzione, e gli usi ai quali servivano, assegnano ad essi un posto tra i più nobili monumenti del genio e della potenza romana. Gli acquedotti della capitale giustamente esigon la preeminenza; ma un viaggiatore curioso, il quale esaminasse senza il lume della storia quelli di Spoleto, di Metz, o di Segovia, concluderebbe naturalmente, che quelle città provinciali erano anticamente state la residenza di qualche possente Monarca. Le solitudini dell'Asia e dell'Affrica erano una volta coperte da floride città, la cui gran popolazione, e fin l'esistenza, era dovuta a questi artificiali soccorsi di una perenne corrente di acqua fresca[178].

Noi abbiamo computato gli abitanti, e contemplato i pubblici edifizi dell'Impero romano. L'osservazione del numero e della grandezza delle sue città servirà a confermare il computo dei primi, ed a moltiplicare quella de' secondi. Non sarà disgradevole il raccorre alcuni sparsi esempi relativi a questo soggetto, ricordandoci per altro che la vanità delle nazioni e la povertà del linguaggio, hanno indifferentemente conceduto il vago nome di città a Roma ed a Laurento.

I. Si dice che l'antica Italia contenesse mille cento novantasette città; ed a qualunque epoca dell'antichità si debba applicare questa espressione[179], non vi è alcuna ragione di creder l'Italia meno popolata nel secolo degli Antonini che nel secolo di Romolo. I piccoli Stati del Lazio erano contenuti nella metropoli dell'Impero, la cui superiore influenza gli aveva attirati. Quelle parti dell'Italia, che hanno poscia per tanto tempo languito sotto l'oziosa tirannia dei preti, e dei vicerè, erano state soltanto afflitte dalle più tollerabili calamità della guerra; ed i primi sintomi, ch'esse ebbero di decadenza, furono ampiamente compensati dai rapidi progressi della Gallia Cisalpina. Ne' suoi avanzi ancora mostra Verona l'antico splendore, e pur Verona era men famosa di Aquileia o di Padova, di Milano o di Ravenna.

II. Lo spirito di miglioramento aveva passato le Alpi, e si sentiva perfino nei boschi della Britannia, che a poco a poco erano scomparsi per dar luogo a comode ed eleganti abitazioni. York era la sede del governo, Londra già si arricchiva col commercio, e Bath era celebre pel salutare effetto delle medicinali sue acque. La Gallia poteva vantarsi delle sue mille dugento città[180], e sebbene molte di queste nelle parti settentrionali, senza eccettuarne Parigi stessa, fossero poco più che rozzi ed imperfetti borghi di popol nascente, le province meridionali nondimeno emulavano l'opulenza e l'eleganza italiana[181]. Molte eran le città della Gallia, Marsiglia, Arles, Nimes, Narbona, Tolosa, Bordò, Autun, Vienna, Lione, Langres e Treveri, l'antica condizion delle quali potrebbe benissimo e forse con vantaggio gareggiare con il loro stato presente. La Spagna, che nello stato di provincia era floridissima, divenuta un Regno, è andata in decadenza. Spossata dall'abuso della sua forza, dall'America e dalla superstizione, resterebbe forse molto umiliata la sua superbia, se si ricercasse da lei il numero di trecento sessanta città, quanto Plinio ne contò sotto il Regno di Vespasiano[182].

III. Trecento città affricane avevano una volta riconosciuta l'autorità di Cartagine[183], nè si può credere che il lor numero diminuisse sotto il governo degli Imperatori. Cartagine stessa rinacque con nuovo splendore dalle proprie ceneri; e quella capitale, come Capua e Corinto, ricuperarono ben presto tutti i vantaggi, che possono aversi senza una indipendente sovranità.

IV. Le province dell'Oriente presentarono il contrasto della magnificenza romana con la barbarie ottomana. Le rovine dell'antichità, sparse per le inculte campagne, e attribuite dall'ignoranza al potere della magìa, danno appena un asilo al contadino oppresso, o all'Arabo vagabondo. Sotto il regno dei Cesari, l'Asia, propriamente detta, conteneva cinquecento città molto popolate[184], arricchite di tutti i doni della natura, ed adornate da tutti i raffinamenti dell'arte. Undici città dell'Asia si erano una volta disputato l'onore di dedicare un tempio a Tiberio, ed il Senato esaminò i loro meriti respettivi[185]. Quattro di esse furono immediatamente rigettate come incapaci di un tanto peso; ed una di queste era Laodicea, il cui splendore apparisce ancora nelle sue rovine[186]. Laodicea ricavava una considerabilissima entrata da' suoi greggi, famosi per la finezza della lana, ed avea ricevuto, poco avanti a questa contesa, un legato di più di ottocentomila zecchini lasciatole da un generoso cittadino[187]. Se tale era la povertà di Laodicea, qual deve essere stata l'opulenza di quelle città, le cui pretensioni parvero preferibili, e specialmente di Pergamo, di Smirne e di Efeso, le quali sì lungamente si disputarono il titolar primato dell'Asia[188]? Le capitali della Siria e dell'Egitto erano di un ordine ancor superiore nell'Impero. Antiochia ed Alessandria riguardavan con disprezzo una folla di città dipendenti[189], e non cedevano, che con ripugnanza, alla maestà della stessa Roma.

Tutte queste città comunicavano una con l'altra, e colla capitale per mezzo delle strade maestre, le quali partendosi dal Foro di Roma, traversavan l'Italia, penetravano nelle province, e non terminavano che ai confini dell'Impero. Se si prenda esattamente la distanza dal muro di Antonino a Roma, e di là a Gerusalemme, si troverà che la gran catena di comunicazione da maestro a scirocco si estendeva per la lunghezza di quattromila ottanta miglia romane[190]. Le pubbliche strade erano esattamente divise dalle colonne miliarie, e andavano in retta linea da una città all'altra con assai poco riguardo agli ostacoli o della natura o della privata proprietà. Si foravano i monti, e si gettavano grand'archi su i fiumi più larghi e più rapidi[191]. Il mezzo della strada era molto elevato sopra l'adiacente campagna, ed era fatto con molti strati di sabbia, di ghiaia e di cemento, e lastricato di larghe pietre, o di granito[192] in alcuni luoghi vicini alla capitale. Tale era la stabile costruzione delle strade maestre dei Romani, la cui solidità non ha interamente ceduto allo sforzo di quindici secoli. Esse procuravano ai sudditi delle più distanti province una corrispondenza facile e regolare; ma il loro oggetto primario era stato di facilitare la marcia delle legioni; nè alcun paese si considerava come pienamente soggiogato, finchè non era renduto in tutte le sue parti accessibile all'armi ed all'autorità del conquistatore.

Il vantaggio di ricevere più sollecite le notizie, e di spedire con celerità i loro ordini, indusse gl'Imperatori a stabilire, per tutto il loro esteso dominio, le poste regolari[193]. Si eressero da per tutto case in distanza soltanto di cinque o sei miglia; ciascuna delle quali era costantemente provvista di quaranta cavalli, e con l'aiuto di queste poste era facile di fare cento miglia in un giorno per le strade romane[194]. Il comodo delle poste si concedeva a quelli, che avevano un mandato imperiale; ma quantunque nella sua istituzione fosse destinato al pubblico servizio, era qualche volta concesso al privato dei cittadini[195].

La comunicazione dell'Impero romano per mare non era meno libera ed aperta che per terra. Il Mediterraneo si trovava circondato dalle province; e l'Italia, a guisa di un immenso promontorio, si avanzava nel mezzo di questo gran lago. Sulle coste d'Italia vi sono pochi seni sicuri; ma l'umana industria avea supplito alla mancanza della natura; e il porto artificiale di Ostia, specialmente, collocato all'imboccatura del Tevere, e fatto dall'Imperator Claudio, era un utile monumento della romana grandezza[196]. Da questo porto, lontano dalla capitale sole sedici miglia, i vascelli con un vento favorevole arrivavano spesso in sette giorni alle Colonne d'Ercole, ed in nove o dieci in Alessandria d Egitto[197].

Per quanti mali la ragione o la declamazione abbia imputato agl'Imperj troppo estesi, la potenza di Roma era accompagnata da alcune conseguenze utili al genere umano; e la stessa libertà di commercio, che dilatava i vizj, diffondeva ancora i vantaggi della vita sociale. Nei più remoti secoli dell'antichità, il Mondo era inegualmente diviso. L'Oriente era da tempo immemorabile in possesso delle arti e del lusso, mentre l'Occidente era abitato da rozzi e guerrieri Barbari, che o disprezzavano o ignoravano affatto l'agricoltura. Sotto la protezione di un governo assodato, le produzioni dei climi più felici, e l'industria delle nazioni più culte s'introdussero a poco a poco nelle parti occidentali dell'Europa; ed un libero ed util commercio incoraggiò i nazionali a moltiplicare i prodotti, e a migliorare le arti. Sarebbe quasi impossibile di numerare tutti i generi del regno o animale o vegetabile, che furono successivamente trasportati nell'Europa dall'Asia e dall'Egitto[198]; ma non disconverrà al decoro, e molto meno all'utilità di una storia il toccar leggermente alcuni dei capi principali. I. Quasi tutti i fiori, l'erbe ed i frutti, che nascono nei nostri giardini europei, sono di estrazion forestiera, manifestata spesso dai lor nomi medesimi; la mela era nativa d'Italia, e quando i Romani ebber gustato il sapore più delicato dell'albicocca, della pesca, della melagranata, del cedro, dell'arancia, si compiacquero di dare a tutti questi nuovi frutti la comune denominazione di pomo, distinguendoli con aggiunger l'epiteto del loro paese.

II. Al tempo d'Omero la vite cresceva inculta in Sicilia, e forse ancora nel vicin continente: ma non era perfezionata dall'arte degli abitanti selvaggi, i quali non sapeano estrarre un liquore soave al gusto[199]. Mille anni dopo, l'Italia potè vantarsi, che delle ottanta specie dei vini più generosi e celebri, più di due terzi eran prodotti dal proprio suolo[200]. Questa pianta preziosa s'introdusse nella provincia narbonese della Gallia; ma al tempo di Strabone il freddo nella parte settentrionale delle Sevenne era così eccessivo, che si credeva impossibile di farvi maturare le uve[201]. Questa difficoltà, non pertanto, a poco a poco fu superata; e vi è qualche ragione di credere che le vigne di Borgogna sieno d'antichità eguale al secolo degli Antonini[202]. III. L'olivo, nel Mondo occidentale, era il compagno ed il simbolo della pace. Due secoli dopo la fondazione di Roma, questo utile albero era sconosciuto e all'Italia ed all'Affrica; ma vi fu poi naturalizzato, e finalmente portato nel cuore della Spagna e della Gallia. La timida ignoranza degli antichi, i quali pensavano, che gli fosse necessario un certo grado di calore, nè potesse crescere che nelle vicinanze del mare, fu insensibilmente distrutta dall'industria e dall'esperienza[203]. IV. La coltivazione del lino passò dall'Egitto nella Gallia ed arricchì l'intero paese, per quanto potesse impoverire le terre particolari nelle quali era seminato[204]. V. L'uso dei prati artificiali divenne familiare all'Italia e alle province, e specialmente l'erba medica, ossia il trifoglio, che deve alla Media il nome e l'origine[205]. Le sicure provvisioni di un cibo sano ed abbondante pel bestiame nel verno moltiplicarono il numero delle mandrie, le quali a vicenda contribuirono alla fertilità del terreno. A tutti questi vantaggi si può aggiungere un'assidua attenzione alle pesche ed alle miniere, le quali impiegando una moltitudine di mani laboriose, servivano ad accrescere i piaceri del ricco, e la sussistenza del povero. Columella, nel suo elegante trattato, descrive il florido stato dell'agricoltura spagnuola sotto il regno di Tiberio; ed è da osservarsi, che quelle carestie, dalle quali fu così spesso angustiata la Repubblica nella sua infanzia, raramente o non mai si sentirono nell'Impero esteso di Roma. La casuale scarsezza in una provincia, era immediatamente riparata dall'abbondanza dei suoi più fortunati vicini.

L'agricoltura è il fondamento delle manifatture; giacchè le produzioni della natura sono i materiali dell'arte. Sotto l'Impero di Roma, la gente ingegnosa ed industre s'impiegava diversamente, ma continuamente in servizio dei ricchi. Questi favoriti della fortuna univano ogni raffinamento di comodo, di eleganza, e di splendore negli abiti, nella tavola, nelle case e nei mobili; e volevano tutto ciò che poteva o lusingar il fasto, o soddisfare il senso. Questi raffinamenti, sotto l'odioso nome di lusso, sono stati severamente condannati dai moralisti d'ogni secolo; e forse sarebbe più conveniente alla virtù, ed alla felicità degli uomini, se ciascuno possedesse i beni necessarj alla vita, e niuno i superflui. Ma nella presente imperfetta condizione della società, il lusso, sebben conseguenza del vizio o della pazzia, sembra esser l'unico mezzo di correggere l'ineguale distribuzione dei beni. Il diligente meccanico e l'abile artista, i quali non ebbero parte alcuna nelle divisioni della terra, ricevono una tassa volontaria dai possessori dei terreni; e questi sono eccitati dal sentimento dell'interesse a migliorare quei beni, col prodotto dei quali possono procurarsi nuovi piaceri. Questa operazione, i cui particolari effetti si provano in ogni società, esercitava un'energia molto più estesa nel Mondo romano. Le province avrebber ben presto perduto la loro opulenza, se le manifatture ed il commercio del lusso non avessero insensibilmente restituite ai sudditi industriosi le somme, che da loro esigevano le armi e l'autorità di Roma. Finchè la circolazione fu confinata nei limiti dell'Impero, essa imprimeva alla macchina politica un nuovo grado di attività, e le sue conseguenze, talvolta benefiche, non potevano mai divenire perniciose.

Ma non è facil cosa di contenere il lusso dentro i limiti di un Impero. I paesi più remoti del Mondo antico furono saccheggiati per supplire al fasto ed alla delicatezza di Roma. Le foreste della Scizia fornivano alcune preziose pelli. L'ambra si portava per terra dai lidi del Baltico al Danubio, ed i Barbari stupivano del prezzo, che essi ricevevano in cambio di una merce sì inutile[206]. I luppoli di Babilonia e le altre manifatture dell'Oriente erano ricercatissime. Ma il ramo più considerabile e ricco di straniero commercio si faceva con l'Arabia e con l'India. Ogni anno, verso il solstizio d'estate, una flotta di cento venti vascelli partiva da Mioshormos, porto dell'Egitto sul mar Rosso. Con l'aiuto dei venti periodici traversavan l'Oceano quasi in quaranta giorni. La costa del Malabar, o l'isola del Ceylan[207] era il solito termine della loro navigazione, ed i mercanti delle più remote contrade dell'Asia aspettavano il loro arrivo in quegli scali. Il ritorno della flotta egiziana era stabilito nel mese di Dicembre o di Gennaio. Ed appena il suo ricco carico era stato trasportato su i cammelli dal mar Rosso al Nilo, ed era calato per quel fiume fino ad Alessandria, si spargeva senza indugio nella capitale dell'Impero[208]. Gli oggetti del traffico orientale erano splendidi, ma di poca utilità; la seta[209] che si vendeva a peso d'oro, le pietre preziose, tra le quali la perla aveva il primo posto dopo il diamante[210]; ed una moltitudine di aromati, che si consumavano nel culto religioso, e nelle pompe dei funerali.

La fatica ed il pericolo del viaggio venivano ricompensati da un profitto quasi incredibile; ma questo profitto si faceva sopra i sudditi Romani, e pochi individui si arricchivano a spese del pubblico. Come i nazionali dell'Arabia e dell'India si contentavano delle produzioni e manifatture del loro paese, così l'argento per parte dei Romani era il principale, se non il solo strumento di commercio. Il Senato giustamente si lagnava, che per femminili ornamenti si mandassero tra le nazioni straniere e nemiche[211] le ricchezze dello Stato, che più non ritornavano. La perdita annuale si fa ascendere da uno scrittore esatto e critico a più di un milione e seicento mila zecchini[212]. Questo era lo stile di uno spirito mal contento, e sempre occupato dal malinconico aspetto di una vicina povertà. E ciò non ostante se si paragoni la proporzione tra l'oro e l'argento, quale era nel tempo di Plinio, e qual fu determinata nel regno di Costantino, si scoprirà in quel periodo un considerabilissimo aumento[213]. Non vi è la minima ragion di supporre, che l'oro fosse divenuto più raro: è perciò evidente che l'argento era divenuto più comune, e che per grandi che fosser le somme trasportate nell'India e nell'Arabia, erano ben lungi dall'esaurire l'opulenza del Mondo romano; ed il prodotto delle miniere suppliva abbondantemente alle esigenze del commercio.

Non ostante l'inclinazione degli uomini ad innalzare il passato, e ad avvilire il presente, sì i provinciali che i Romani sentivano veramente, e di buona fede confessavano lo stato prospero e tranquillo dell'Impero. «Essi conoscevano che i veri principj della vita sociale, le leggi, l'agricoltura e le scienze, già inventate dalla saggia Atene, erano allora solamente stabilite dalla potenza romana, la quale con felice influenza aveva uniti i barbari più feroci sotto un governo eguale ed un linguaggio comune. Affermavano che con i progressi delle arti la specie umana era visibilmente moltiplicata. Celebravano l'accresciuto splendore delle città, il ridente aspetto della campagna, tutta coltivata ed adorna come un immenso giardino, e le feste di una lunga pace, che si godeva da tante nazioni, dimentiche delle loro antiche animosità, e libere dal timore d'ogni futuro pericolo[214].» Qualunque dubbio possa nascere dall'accento rettorico e declamatorio, che sembra dominare in questo passo, esso nell'essenziale perfettamente combina con la verità della storia.

Era quasi impossibile che l'occhio de' contemporanei scoprisse nella pubblica felicità le nascoste cagioni della decadenza e della corruzione. Quella lunga pace, ed il governo uniforme dei Romani, introducevano un veleno lento e segreto nelle parti vitali dell'Impero. Le menti degli uomini si ridussero a poco a poco al medesimo livello, si estinse il fuoco del genio, e svanì fin lo spirito militare. Gli Europei erano coraggiosi e robusti. La Spagna, la Gallia, la Britannia e l'Illirico fornivano alle legioni soldati eccellenti, e formavano la forza reale della Monarchia. Il loro valor personale ancor sussisteva, ma essi non più avevano quel coraggio pubblico, che si nutrisce con l'amor dell'indipendenza, col sentimento dell'onor nazionale, coll'aspetto del pericolo, e con l'assuefazione al comando. Essi ricevevano le leggi ed i governatori dalla volontà del Sovrano, ed affidavano la loro difesa ad un esercito mercenario. La posterità dei loro più valorosi generali si contentava del grado di cittadini e di sudditi. Gli spiriti più ambiziosi correvano alla Corte o alle insegne degl'Imperatori; e le province abbandonate, prive della forza o dell'unione politica, caddero insensibilmente nella languida indifferenza della vita privata.

L'amor delle lettere, quasi inseparabile dalla pace e dal raffinamento, era di moda tra i sudditi di Adriano e degli Antonini, i quali erano essi stessi e dotti e curiosi. Questo amore si sparse per tutta l'estensione del loro Impero; le più settentrionali tribù della Britannia avevano acquistato l'amore della rettorica: sulle rive del Reno e del Danubio si copiavano e si leggevano Omero e Virgilio, ed ogni più debol lampo di merito letterario veniva magnificamente ricompensato[215]. La medicina e l'astronomia si coltivavano con qualche reputazione; ma eccettuato l'inimitabil Luciano, quel secolo d'indolenza non produsse un solo scrittore d'ingegno originale che meritasse l'attenzione della posterità. Regnava ancor nelle scuole l'autorità di Platone, d'Aristotile, di Zenone e di Epicuro; ed i loro sistemi, trasmessi con cieca deferenza da una generazione di scolari all'altra, impediva ogni sforzo generoso, che avesse potuto correggere gli errori dell'umano intendimento, o estenderne i confini. Le bellezze dei poeti e degli oratori, invece di accendere nei lettori un egual fuoco, inspiravano solamente fredde e servili imitazioni; o se alcuno si avventura ad allontanarsi da quei modelli, si allontanava nel tempo stesso dal buon senso o dalla ragione. Al rinascere delle lettere il giovanil vigore dell'immaginativa, la nazionale emulazione, una nuova religione, nuove lingue, ed un nuovo mondo riscossero dal lungo letargo il genio dell'Europa. Ma i provinciali di Roma, schiavi di una artificiosa ed uniforme educazione straniera, erano molto deboli per competere con quei valorosi antichi, i quali con esprimere i loro genuini sentimenti nella lingua nativa, avevano già occupati tutti i posti di onore. Il nome di poeta era quasi andato in obblio; e dai Sofisti si usurpava quel di oratore. Un nembo di critici, di compilatori e di commentatori oscurava le scienze; e la decadenza del genio fu presto seguita dalla corruttela del gusto.

Il sublime Longino, che in un periodo meno remoto, ed alla corte di una Regina della Siria conservava lo spirito della antica Atene, fa lamentevoli osservazioni sopra questa decadenza de' suoi contemporanei, che avviliva i sentimenti, snervava il coraggio, e deprimeva i talenti. «Nello stesso modo (dic'egli) che quei ragazzi, i quali da bambini sono stati troppo strettamente fasciati, rimangono sempre pimmei, così le nostre tenere menti, incatenate dai pregiudizj e dagli abiti di una stretta servitù, non sono capaci di dilatarsi, o di arrivare a quella ben proporzionata grandezza, che noi ammiriamo negli antichi; i quali vivendo sotto un governo popolare, scrivevano con la stessa libertà, con la quale operavano[216].» Questa degradata statura del genere umano, per continuar la metafora, andò giornalmente vie più scemando, ed il Mondo romano era veramente popolato da una razza di pimmei, quando i fieri giganti del Settentrione l'invasero, e rinvigorirono ed emendarono le degenerate nazioni. Rinacque per essi lo spirito generoso di libertà; e dopo la rivoluzione di dieci secoli, la libertà divenne la felice madre del buon gusto e delle scienze.

CAPITOLO III.

Costituzione del romano Impero nel secolo degli Antonini. Una Monarchia, secondo la definizione che più facile presentasi, è uno Stato, in cui ad una sola persona, venga questa con qualsisia nome distinta, si affida l'esecuzione delle leggi, il governo dell'entrate, ed il comando dell'armi. Ma se la pubblica libertà non è protetta da intrepidi e vigilanti custodi, l'autorità di un magistrato così formidabile tralignerà in dispotismo fra breve. In un secolo di superstizione l'influenza del clero potrebbe utilmente servire a sicurare i diritti del genere umano: ma il trono e l'altare sono sì strettamente connessi, che di rado lo stendardo della Chiesa si è veduto a sventolare dal lato del popolo. Una nobiltà guerriera ed un popolo inflessibile, padrone delle armi, tenace del diritto di proprietà, e raccolto in adunanze secondo la legge, formano il solo contrappeso atto a sostenere una costituzione libera contro le usurpazioni di un Principe ambizioso.

La vasta ambizione del Dittatore aveva atterrato ogni argine della costituzione romana, e la destra crudele del Triumviro aveva distrutto ogni riparo. Dopo la vittoria di Azio, il destino del Mondo romano dipendeva dal volere di Ottaviano, a cui l'adozione dello zio dette il nome di Cesare, e dipoi l'adulazione del Senato quello di Augusto. Questo conquistatore aveva sotto di sè quarantaquattro legioni veterane[217] che conoscevano la propria forza e la debolezza della costituzione politica, avvezze per venti anni di guerra civile alle stragi ed alle violenze, ed appassionate per la famiglia di Cesare, dalla quale solamente aveano ricevute ed aspettavano le più larghe ricompense. Le province, lungamente oppresse dai ministri della Repubblica, sospiravano il governo di un solo, che fosse il padrone e non il complice di quei piccoli tiranni. Il popolo di Roma, vedendo con un segreto piacere l'umiliazione della aristocrazia, non domandava altro che pane e spettacoli, e la mano liberale di Augusto lo contentava. I ricchi e culti Italiani, i quali aveano quasi generalmente abbracciata la filosofia d'Epicuro, godevano le presenti dolcezze della pace e della tranquillità, nè volevano interrompere sogno sì grato con la memoria della antica tumultuosa libertà. Il Senato avea colla potenza perduta la dignità; molte delle più nobili famiglie erano estinte; la guerra, o la proscrizione avean fatti perire i repubblicani riguardevoli per ardimento e per senno; e si era appostatamente lasciato libero l'ingresso in quell'ordine ad una mista moltitudine di più di mille persone, le quali disonoravano il lor grado in vece di trarne decoro[218].

La riforma del Senato fu uno dei primi passi, coi quali Augusto, non più tiranno, ma padre si mostrò della patria. Fu egli eletto Censore, e di concerto col suo fedele Agrippa, esaminò la lista dei Senatori, ne scacciò alcuni membri, i vizj o l'ostinazione dei quali esigevano un pubblico esempio, ne indusse quasi dugento a prevenire con un volontario ritiro la vergogna dell'espulsione, ordinò che non potesse essere Senatore chi non possedeva quasi ventimila zecchini, creò un numero sufficiente di famiglie patrizie, ed accettò il titolo decoroso di Principe del Senato, che dai Censori era sempre stato conceduto al cittadino più illustre per dignità e per servizj[219]. Ma rendendo così al Senato la sua dignità, ne distruggeva l'indipendenza. I principj di una libera costituzione sono irrevocabilmente perduti, quando la potestà legislativa è creata dalla potestà esecutiva.

Dinanzi a questa adunanza, così formata e disposta, Augusto recitò un discorso studiato, nel quale copriva la sua ambizione col velo del patriottismo. «Deplorava, anzi scusava la sua passata condotta: la pietà filiale gli aveva messe le armi in mano per vendicare un padre ucciso; la sua umanità era stata talvolta obbligata a cedere alle leggi crudeli della necessità, ed a far lega forzata con due indegni colleghi; sinchè visse Antonio, la Repubblica l'avea obbligato a non abbandonarlo in balìa di un Romano degenerato, e di una barbara Regina; era al presente in libertà di soddisfare al suo dovere ed alla sua inclinazione. Rendeva solennemente al Senato ed al popolo i loro antichi diritti e desiderava soltanto di mescolarsi nella folla de' suoi concittadini, e di partecipare con essi alla felicità, che avea procurata alla sua patria[220] ».

Tacito solo (se Tacito fosse stato presente) avrebbe potuto descrivere le varie agitazioni del Senato, i nascosti sentimenti degli uni, ed il zelo affettato degli altri. Era pericoloso il fidarsi all'espressioni di Augusto, e più pericoloso il mostrare di non crederle sincere. I vantaggi respettivi della Monarchia o della Repubblica hanno spesso tenuti divisi gli speculativi ricercatori; la grandezza presente dello Stato romano, la corruzione dei costumi, e la licenza dei soldati somministravano nuovi argomenti ai settatori della Monarchia; e queste massime generali di governo si trovavano ravvolte con le speranze e co' timori di ciaschedun privato. In mezzo a tal confusione di sentimenti, la risposta del Senato fu unanime e decisiva: ricusarono di accettare la dimissione di Augusto; lo supplicarono di non abbandonar la Repubblica ch'egli aveva salvata. Dopo una decente resistenza, l'accorto tiranno si sottomise agli ordini del Senato, ed acconsentì a ricevere il governo delle province, ed il comando generale degli eserciti romani sotto i ben conosciuti nomi di Proconsole e d'Imperatore[221]. Ma li volle ricevere per soli dieci anni. Sperava, diss'egli, che anche avanti questo termine, le piaghe della discordia civile sarebbero perfettamente rimarginate, e che la Repubblica, ritornata nel suo primiero stato di sanità e di vigore, non avrebbe più bisogno del pericoloso intervento di un magistrato così straordinario. Questa commedia fu diverse volte ripetuta durante la vita d'Augusto, e se ne conservò la memoria fino agli ultimi secoli dell'Impero, solennizzando sempre i perpetui Monarchi di Roma con una pompa singolare ogni decimo anno del loro regno[222].

Il Generale degli eserciti romani, senza violare in alcun modo i principj della costituzione, poteva ricevere ed esercitare un'autorità quasi dispotica sopra i soldati, sopra i nemici, e sopra i sudditi della Repubblica. In quanto ai soldati, la gelosia della libertà avea, fin dai primi secoli di Roma, ceduto il luogo alle speranze di conquista, ed al sentimento della militar disciplina. Il Dittatore o il Console avea diritto di obbligare la gioventù romana a portar le armi, e di punire una disobbedienza ostinata o codarda con le pene più severe ed ignominiose, scancellando il trasgressore dalla lista dei cittadini, confiscandone i beni, e vendendolo siccome schiavo[223]. Il servizio militare sospendeva i più sacri diritti della libertà, confermati dalle leggi Porcia e Sempronia. Nel suo campo il Generale esercitava un potere assoluto di vita e di morte, la sua giurisdizione non era vincolata da alcuna formalità legale, e l'esecuzione della sua sentenza era immediata[224] e senza appello. I nemici di Roma regolarmente si dichiaravano dalla autorità legislativa. Le più importanti risoluzioni per la pace o per la guerra venivano seriamente dibattute nel Senato, e solennemente ratificate dal Popolo. Ma nei paesi molto lontani dall'Italia, i Generali si prendevan la libertà di portar le armi delle legioni contro qualunque popolo, e come più lor pareva espediente al servizio pubblico. Dal successo e non dalla giustizia delle loro imprese essi aspettavano gli onori del trionfo. Usavano dispoticamente della vittoria, specialmente quando non furono più ritenuti dalla presenza dei Commissarj del Senato. Quando Pompeo comandava nell'Oriente, egli ricompensò i suoi soldati ed i suoi alleati, detronizzò Sovrani, divise regni, fondò colonie, e distribuì i tesori di Mitridate. Ritornato a Roma, ottenne con un sol decreto del Senato e del popolo la ratifica universale di tutta la sua condotta[225]. Tale era il potere sopra i soldati o sopra i nemici di Roma che veniva concesso ai Generali della Repubblica, o era da loro usurpato. Essi erano nel tempo stesso i governatori o piuttosto i Monarchi delle province conquistate, univano alla civile l'autorità militare, amministravano la giustizia, come pure le pubbliche entrate, ed esercitavano la potenza esecutiva dello Stato, e la legislativa ad un tempo.

Da quanto sì è già osservato noi primo capitolo di quest'opera, si può ricavare un'idea dello stato delle armate e delle province, quando Augusto prese in mano le redini del governo. Ma siccome era impossibile ch'esso potesse in persona comandare le legioni di tante frontiere lontane, gli fu dal Senato, come già a Pompeo, concessa la permissione di delegar l'esercizio del suo potere ad un sufficiente numero di Luogotenenti. Questi uffiziali per grado e per autorità non sembravano inferiori agli antichi Proconsoli ma la dignità loro era dipendente e precaria. Essi riconoscevano il lor potere dalla volontà di un superiore, alla fausta influenza del quale attribuivasi legalmente il merito delle azioni[226]. Eran essi i rappresentanti dell'Imperatore, ed egli solo era il Generale della Repubblica, e la sua giurisdizione, sì civile che militare, si estendeva sopra tutte le conquiste di Roma. Dava però al Senato almeno la soddisfazione di sempre delegare il suo potere ai membri di questo corpo. I Luogotenenti Imperiali erano di grado consolare o pretorio; le legioni eran comandate da Senatori, e la Prefettura dell'Egitto era l'unico governo importante affidato ad un cavaliere romano.

Sei giorni dopo che Augusto fu forzato ad accettare un dono sì liberale, volle con un facil sacrifizio appagare la vanità dei Senatori. Rappresentò che gli avevano esteso il potere anche al di là del termine necessario all'infelice condizione dei tempi. Essi non gli avevan permesso di ricusare il faticoso comando degli eserciti e delle frontiere, ma insistè che se gli permettesse di rimettere le province più pacifiche e sicure alla dolce amministrazione del civil magistrato. Nella divisione delle province, Augusto provvide alla sua propria potenza, ed alla dignità della Repubblica. I Proconsoli del Senato, e particolarmente quelli dell'Asia, della Grecia e dell'Affrica gioivano una distinzione più onorevole dei Luogotenenti imperiali, che comandavano nella Gallia, o nella Siria. I primi erano accompagnati dai littori, e gli altri dai soldati. Si fece una legge che dovunque l'Imperatore fosse presente, restasse sospesa l'ordinaria giurisdizione del governatore; s'introdusse l'uso che le nuove conquiste appartenessero alla dote imperiale, e presto si scoprì che l'autorità del Principe, l'epiteto favorito di Augusto, era la medesima in ogni parte dell'Impero.

Per ricompensa di questa concessione immaginaria, ottenne Augusto un importante privilegio, che lo rendè padrone di Roma e dell'Italia. Con pericolosa eccezione alle antiche massime, egli fu autorizzato a conservare il suo comando militare, sostenuto da un numeroso corpo di guardie, anche in tempo di pace e nel cuore della capitale. Il suo comando veramente era limitato sopra i cittadini obbligati al servizio dal giuramento militare; ma tale era l'inclinazione dei Romani alla servitù, che i magistrati, i Senatori ed i Cavalieri prestarono volontariamente il giuramento, finchè l'omaggio della adulazione si convertì insensibilmente in una annuale e solenne protesta di fedeltà.

Benchè Augusto considerasse la forza militare come il più saldo fondamento di un Governo, nondimeno prudentemente la rigettò come strumento molto odioso. Era più disposto per natura e per politica a regnare sotto i venerabili nomi dell'antica magistratura, e ad unire artificiosamente nella sua persona tutti i dispersi raggi della giurisdizione civile. Con questa mira permise al Senato di conferirgli a vita la potestà consolare[227] e la tribunizia[228], che fu nel modo stesso continuata a tutti i suoi successori. I Consoli eran succeduti ai Re di Roma, e rappresentavano la maestà dello Stato. Essi soprintendevano alle cerimonie della religione, levavano e comandavano le legioni, davano udienza agl'Imbasciatori stranieri, e presedevano alle adunanze del Senato e del popolo. La generale amministrazione delle finanze era a loro affidata, e sebbene raramente avesser tempo di amministrar la giustizia in persona, erano tuttavia considerati come i supremi custodi delle leggi, dell'equità e della pubblica pace. Tale era la loro giurisdizione ordinaria; ma questa diveniva superiore a qualunque legge ogni volta che il Senato imponeva ai Consoli di vegliare alla salvezza della Repubblica: allora per difesa della pubblica libertà essi esercitavano un temporaneo dispotismo[229]. Il carattere dei Tribuni era per ogni riguardo diverso da quello dei Consoli. L'apparenza dei primi era umile e modesta, ma le loro persone erano sacre e inviolabili. Avevan essi più forza per opporsi che per operare. Il loro incarico era di difendere gli oppressi, di perdonar le offese, di accusare i nemici del popolo, e di arrestare con una sola parola, se lo credevano necessario, tutta la macchina del governo. Finchè sussistè la Repubblica, la pericolosa influenza che il Console o il Tribuno tenevano dalla loro giurisdizion rispettiva, fu diminuita da diverse restrizioni importanti. La loro autorità spirava con l'anno, nel quale erano eletti; la prima dignità fu divisa in due, e l'ultima in dieci persone; e siccome questi due Magistrati erano nei pubblici e nei privati interessi fra loro contrarj, così questi scambievoli conflitti contribuivano il più delle volte ad assodare anzi che a distruggere la bilancia della costituzione politica. Ma quando fu riunita alla tribunizia la potestà consolare, quando ne fu a vita rivestita una sola persona, quando il Generale delle armi fu nel tempo stesso ministro del Senato e rappresentante del popolo romano, impossibile divenne il resistere all'esercizio di quella imperiale autorità, alla quale non si potevano facilmente assegnare i confini.

La politica di Augusto aggiunse presto al cumulo di questi onori le splendide non men che importanti dignità di sommo Pontefice e di Censore. Con la prima egli acquistò il regolamento della religione, e con la seconda una ispezione legale sopra i costumi ed i beni del popolo romano. Se tanti distinti ed indipendenti poteri non combinavano esattamente gli uni con gli altri, la compiacenza del Senato era pronta a supplire ogni difetto con le concessioni le più ampie e straordinarie. Gl'Imperatori, come primi ministri della Repubblica, furono dichiarati esenti dall'obbligazione e dalla sanzione di molte leggi incomode; ebbero l'autorità di convocare il Senato, di proporre diverse questioni in un giorno stesso, di presentare i candidati destinati pei grandi impieghi, di estendere i confini della città, d'impiegare l'entrate pubbliche a loro talento, di far la pace o la guerra, di ratificare i trattati; e per una amplissima clausola furono autorizzati ad eseguire tutto ciò che stimavano vantaggioso all'Impero, e conveniente alla maestà delle cose private o pubbliche, umane o divine[230].

Quando tutte le diverse parti della potenza esecutrice furono unite nella Magistratura Imperiale, i magistrati ordinarj della Repubblica languirono nella oscurità, senza vigore, e quasi senza affari. Augusto conservò gelosamente i nomi e la forma dell'antica amministrazione. Ogni anno il solito numero di Consoli, di Pretori, e di Tribuni[231] eran rivestiti colle insegne delle loro cariche rispettive, e continuavano ad esercitare alcune delle funzioni meno importanti. Questi onori allettavano ancora la vana ambizione dei Romani; e gli Imperatori medesimi, sebbene investiti a vita del poter consolare, spesso aspiravano al titolo di quell'annuale dignità, ch'essi condescendevano a dividere con i più illustri dei loro concittadini[232]. Nell'elezione di questi magistrati, il popolo, sotto il regno di Augusto, fu lasciato libero di suscitare tutte le turbolenze di una rozza democrazia. Questo Principe artificioso, invece di mostrare il minimo segno d'impazienza, umilmente sollecitava i lor voti per se o pe' suoi amici, e soddisfaceva scrupolosamente a tutti i doveri di un candidato ordinario[233]. Ma si può attribuire a' suoi consigli la prima determinazione del successore, colla quale furono le elezioni trasferite al Senato[234]. Le assemblee del popolo vennero per sempre abolite, e gl'Imperatori si liberarono da una pericolosa moltitudine, la quale, senza riacquistare la libertà, avrebbe potuto disturbare, e forse mettere in pericolo il nuovo stabilito Governo.

Mario e Cesare, dichiarandosi i protettori del popolo, aveano sovvertita la costituzione della patria. Ma appena il Senato fu abbassato e disarmato, questo corpo, composto di cinque o seicento persone, divenne uno strumento facile ed utile per chi aspirava al dispotismo. Sulla dignità del Senato, Augusto ed i suoi successori fondarono il lor nuovo impero, ed affettarono, in ogni occasione, di adottare il linguaggio e le massime dei patrizj. Nell'esercizio della loro potenza essi consultavan frequentemente il supremo consiglio della nazione, ed in apparenza si conformavano alle sue decisioni negli affari più importanti di guerra e di pace. Roma, l'Italia, e le province interne erano sottoposte all'immediata giurisdizione del Senato. Quanto agli affari civili era esso la suprema corte di appello; e quanto alle materie criminali, era un tribunale costituito per giudicare tutti i delitti commessi da' pubblici ministri, o da quelli che offendevano la pace e la maestà del popolo romano. L'amministrazione della giustizia divenne la più frequente e seria occupazione del Senato; l'antico genio dell'eloquenza trovò l'ultimo asilo nel trattare dinanzi a lui le cause importanti. Il Senato possedeva molte considerabili prerogative come Consiglio di Stato, e come tribunal di giustizia; ma in quanto alla qualità legislativa, per cui veniva considerato come rappresentante del popolo, si riconoscevano in quel corpo i diritti della Sovranità. Le leggi ricevevano la sanzione da' suoi decreti, e dalla sua autorità derivava ogni poter subalterno. Si adunava regolarmente tre volte il mese nei giorni stabiliti delle calende, delle none, e degl'idi. Vi si discutevan gli affari con una decente libertà, e gl'Imperatori medesimi, superbi del nome di Senatori, sedevano, davano il voto, e si confondevano con i loro eguali.

Ripigliamo in poche parole il sistema del Governo imperiale, come fu istituito da Augusto, e conservato da quei Principi, i quali intesero il loro proprio interesse e quello del popolo. Esso si può definire, un'assoluta Monarchia velata con l'apparenza di una Repubblica. I padroni dell'orbe romano avvolgevano di folta nube il lor trono e la loro irresistibile forza, professandosi umilmente ministri dipendenti del Senato, i supremi decreti del quale essi dettavano ed obbedivano[235].

La Corte era formata sul modello della pubblica amministrazione. Gl'Imperatori (eccettuati quei tiranni, la cui capricciosa follia violava tutte le leggi della natura e dell'onore) disprezzavano ogni pompa e formalità, che potesse offendere i loro concittadini, senza accrescere la loro potenza reale. In tutti gli officj della vita affettavano di confondersi con i loro sudditi, e mantenevan con essi un'egual corrispondenza di visite e di trattamenti. Il loro vestire, la loro tavola, il loro palazzo non eran diversi da quelli di un Senatore opulento; ed il treno loro, sebbene splendido e numeroso, era interamente composto dei loro schiavi domestici, e liberti[236]. Augusto o Traiano si sarebbero vergognati d'impiegar il più vile dei Romani in que' bassi uffizj, che nella famiglia e nella camera di un Monarca limitato dalle leggi, sono adesso ansiosamente cercati dai più superbi signori della Gran Brettagna.

L'apoteosi è il solo caso[237] in cui gli Imperatori si dipartissero dalla solita loro prudenza o modestia. I Greci dell'Asia inventarono i primi per li successori di Alessandro questa servile ed empia adulazione, che presto dai Re fu trasferita ai governatori dell'Asia; ed i magistrati romani furono spesso adorati come divinità provinciali con la pompa degli altari e dei tempj, delle feste, dei sagrifizj[238]. Era naturale che gl'Imperatori non ricusassero quel che avevano accettato i Proconsoli; e gli onori divini, che le province rendettero agli uni e agli altri, mostravano piuttosto il dispotismo che la servitù di Roma. Ma ben tosto i vincitori imitarono le vinte nazioni nell'arte di adulare; ed il genio imperioso del primo dei Cesari consentì troppo facilmente ad accettare in vita un posto tra le deità tutelari di Roma. Il carattere più moderato del suo successore si guardò da questa pericolosa ambizione, non mai più di poi ravvivata fuor che dalla follia di Caligola e di Domiziano. Augusto permise, è vero, ad alcune città provinciali di erigere i tempj in suo onore, a condizione però che insieme col Sovrano fosse Roma onorata dal loro culto. Egli tollerava una superstizione particolare, di cui egli poteva esser l'oggetto[239]; ma si contentò di esser venerato dal Senato e dal popolo nel suo umano carattere, e saggiamente lasciò al suo successore la cura della sua pubblica apoteosi. Quindi s'introdusse il regolar costume di porre per solenne decreto del Senato nel numero degli Dei ogni Imperatore estinto, il quale nè in vita nè in morte si fosse mostrato tiranno; e le cerimonie dell'apoteosi si mescevano colla pompa del tuo funerale. Questa legal profanazione, in apparenza stolta, e così contraria alle nostre massime rigorose, fu ricevuta quasi senza alcuna mormorazione[240], perchè conveniente alla natura del politeismo, ed accettata però come istituzione di politica e non di religione. Sarebbe un degradar le virtù degli Antonini, paragonandole con i vizj di Ercole o di Giove. Lo stesso carattere di Cesare o di Augusto era di gran lunga superiore a quelli delle deità popolari. Ma questi Principi ebbero la disgrazia di vivere in un secolo illuminato, e le loro azioni eran troppo fedelmente raccontate, per poterle adombrare col velo di quelle favole e di quei misteri, che soli possono eccitare la divozione del volgo. Appena la divinità loro fu dalla legge stabilita, che cadde in obblio senza contribuire o alla loro reputazione o alla dignità dei lor successori.

Nell'analisi del Governo imperiale, noi abbiamo spesso chiamato l'avveduto fondatore col ben noto nome di Augusto, che non gli fu per altro conferito, se non quando l'edifizio era quasi giunto al suo compimento. Da una bassa famiglia, di cui era nato nella piccola città d'Aricia, prendeva egli l'oscuro nome di Ottaviano, nome macchiato col sangue delle proscrizioni; ed egli stesso desiderava di poter cancellare ogni memoria delle sue azioni passate. Come figlio adottivo del Dittatore egli prese l'illustre soprannome di Cesare, ma aveva troppo buon senso per non mai sperare di essere confuso, o desiderare d'essere paragonato con questo grand'uomo. Fu proposto nel Senato di decorare il ministro di quel corpo con un titolo nuovo, e dopo una discussione ben seria, fu tra molti altri scelto quello di Augusto, come più degli altri esprimente il carattere di pace e di santità da lui uniformemente affettato[241]. Era perciò il nome di Augusto distinzione personale, e quel di Cesare distinzione di famiglia. Il primo avrebbe dovuto naturalmente spirare col Principe, al quale era stato compartito, e l'altro poteva trasmettersi per mezzo dell'adozione e dei matrimonj in altre famiglie. Nerone era dunque l'ultimo Principe, che potesse allegare qualche ereditario diritto agli onori della discendenza di Giulio. Ma alla sua morte questi titoli si trovavano connessi, per una pratica costante di un secolo, alla dignità Imperiale, e sono stati conservati da una lunga successione d'Imperatori romani, greci, franchi e tedeschi, dalla rovina della Repubblica fino a dì nostri. Fu presto per altro introdotta una distinzione. Il sacro titolo di Augusto fu sempre riservato al Monarca, mentre il nome di Cesare venne più liberamente conferito a' suoi parenti; ed, almeno dal regno di Adriano in poi, con quest'appellazione si distinse la seconda persona nello Stato, che fu risguardata come l'erede presuntivo dell'Impero.

Il tenero rispetto di Augusto per una libera costituzione, che avea egli stesso distrutta, non si può spiegare che con un attento esame del carattere di questo scaltrito tiranno. Un sangue freddo, un cuore insensibile, ed un animo codardo gli fecero prendere, all'età di diciannov'anni, la maschera dell'ipocrisia, che mai più non si tolse dal viso. Con la stessa mano, e forse con lo spirito stesso, sottoscrisse la proscrizione di Cicerone, ed il perdono di Cinna. Artificiali erano le sue virtù come pure i suoi vizj; ed il suo interesse soltanto lo fece prima il nemico, e poi il padre di Roma[242]. Quando innalzò l'ingegnoso sistema dell'autorità imperiale, la sua moderazione era infinita da' suoi timori. Desiderava allora d'ingannare il popolo con l'immagine della civile libertà, e gli eserciti con l'aspetto di un Governo civile.

La morte di Cesare gli stava sempre dinanzi agli occhi. Aveva, è vero, colmati i suoi aderenti di ricchezze e di onori, ma si ricordava, che gli amici più favoriti del suo zio erano stati nel numero dei congiurati. La fedeltà delle legioni potea difendere la sua autorità contro una ribellione scoperta, ma la loro vigilanza non poteva assicurare la sua persona dal pugnale di un risoluto repubblicano; ed i Romani, che veneravano la memoria di Bruto[243], avrebbero applaudito a un imitatore di lui. Cesare avea provocato il suo destino più con l'ostentazione della sua potenza, che con la potenza medesima. Il Console o il Tribuno avrebbe potuto regnare in pace, ma il titolo di Re aveva armati i Romani contro la sua vita. Sapeva Augusto, che gli uomini si lasciano governare dai nomi, nè fu ingannato nell'aspettativa di credere, che il Senato ed il popolo avrebber sopportato la schiavitù, purchè fossero rispettosamente assicurati che tuttor godevano dell'antica lor libertà. Un Senato debole, ed un popolo avvilito si riposarono con piacere in questa dolce illusione, finchè la mantenne la virtù, o la prudenza dei successori d'Augusto. I congiurati contro Caligola, Nerone e Domiziano, animati dalla premura della propria sicurezza, e non dallo spirito di libertà, attaccarono la persona del tiranno, senza dirigere i loro colpi contro l'autorità dell'Imperatore.

La storia ci presenta, è vero, una occasione memorarabile, nella quale il Senato dopo settant'anni di pazienza fece uno sforzo inutile per riprendere i suoi da lungo tempo obbliati diritti. Quando il trono restò vacante per l'uccisione di Caligola, i Consoli convocarono il Senato nel Campidoglio, condannarono la memoria dei Cesari, diedero libertà per parola d'ordine alle poche coorti, che freddamente seguivano la parte loro, e per quarantott'ore operarono come Capi indipendenti di una libera Repubblica. Ma mentre ch'essi deliberavano, i Pretoriani aveano risoluto. Lo stupido Claudio, fratello di Germanico, era già nel loro campo rivestito della porpora imperiale, e preparato a sostenere la sua elezione con le armi. Il sogno di libertà svanì, ed il Senato si risvegliò in mezzo a tutti gli orrori di una servitù inevitabile. Abbandonata dal popolo e dalla forza militare, quella debole adunanza fu costretta a ratificare la scelta dei Pretoriani, e ad accettare il benefizio di un general perdono prudentemente offerto, e generosamente mantenuto da Claudio[244].

L'insolenza degli eserciti destò in Augusto terrori più grandi. La disperazione dei cittadini non poteva che tentare quello che i soldati ebbero, in ogni tempo, la forza di eseguire. Quanto era precaria l'autorità di questo Principe sopra uomini da lui ammaestrati a violare ogni dovere sociale! Esso avea uditi i loro sediziosi clamori; e temeva i più tranquilli momenti della loro riflessione. Si era comprata una rivoluzione con somme immense; ma per farne un'altra sarebbe stato d'uopo raddoppiare le ricompense. Le truppe professavano il più vivo affetto alla Casa di Cesare; ma l'affetto della moltitudine è capriccioso ed incostante. Augusto seppe risvegliare in suo prò tutti quei pregiudizj romani, che ancor rimanevano in quelle menti feroci; autorizzò il rigore della disciplina con la sanzione della legge; ed interponendo la maestà del Senato tra l'Imperatore e l'esercito, seppe arditamente esigere la loro obbedienza come primo magistrato della Repubblica[245].

Nel lungo corso di dugento vent'anni, dallo stabilimento di questo artificioso sistema fino alla morte di Commodo, i pericoli inerenti ad un governo militare rimasero in gran parte sospesi. I soldati raramente ebbero occasione di conoscere la loro propria forza, e la debolezza dell'autorità civile; scoperta fatale che avanti e dopo produsse così terribili calamità. Caligola e Domiziano furono assassinati nel loro palazzo dai proprj domestici; le convulsioni che agitarono Roma alla morte del primo, non passarono le mura della città. Ma Nerone involse tutto l'Impero nella sua rovina. In diciotto mesi quattro Principi furono assassinati, e l'urto delle armate fra loro nemiche fece crollare il Mondo romano. Eccettuato questo solo breve, sebben fierissimo traboccamento di militare licenza, i due secoli da Augusto a Commodo non furono insanguinati da guerre civili, nè turbati da rivoluzioni. L'Imperatore era eletto dall'autorità del Senato e dal consenso dei soldati[246]. Le Legioni rispettavano il lor giuramento di fedeltà; ed è necessaria un'ispezione minuta degli annali romani per iscoprire tre piccole ribellioni, le quali furon tutte soppresse in pochi mesi, senza pur correre il rischio di una battaglia[247].

Nei regni elettivi la vacanza del trono è un momento di crisi e di pericolo. Gl'Imperatori romani, desiderosi di risparmiare alle legioni questo intervallo di sospensione, e la tentazione di una scelta irregolare, investivano il destinato lor successore di tanta porzione di autorità presente, che potesse bastargli dopo la lor morte ad assumerne il resto, senza che l'Impero si accorgesse di aver cangiato padrone. Così Augusto, poichè da morti intempestive restaron recise le sue più belle speranze, le ripose all'ultimo tutte in Tiberio; ottenne per questo suo figlio adottivo le dignità di Censore e di Tribuno, e con una legge rivestì il Principe futuro di un'autorità uguale alla sua sulle province e sugli eserciti[248]. Così Vespasiano soggiogò l'anima generosa del suo figlio maggiore. Tito era adorato dalle legioni orientali, che aveano sotto il suo comando terminato di conquistar la Giudea. Il suo potere era temuto, e siccome le sue virtù erano coperte dall'intemperanza della gioventù, sì sospettava de' suoi disegni. In vece di dare orecchio a tali ingiusti sospetti, il prudente Monarca associò Tito a tutti i poteri dell'Imperial dignità; e il grato figlio sempre si mostrò ministro umile e fedele di un padre così indulgente[249].

Il buon senso di Vespasiano l'impegnò veramente ad abbracciare ogni mezzo di assodare la sua elevazione recente e precaria. Il giuramento militare, e la fedeltà delle truppe erano state consacrate dall'uso di cent'anni al nome e alla famiglia dei Cesari; e benchè questa fosse stata continuata soltanto con il fittizio rito della adozione, i Romani però ancor riverivano nella persona di Nerone il nipote di Germanico, ed il successore diretto di Augusto. Non senza ripugnanza e rimorso si erano i Pretoriani indotti ad abbandonare la causa del tiranno[250]. Le rapide cadute di Galba, di Ottone, e di Vitellio insegnarono agli eserciti a riguardare gl'Imperatori come creature della lor volontà, ed istrumenti della loro licenza. Vespasiano era di bassa estrazione; l'avo di lui era stato soldato comune, ed il padre avea un piccolo impiego nelle finanze[251]. Il merito lo aveva innalzato in una età avanzata all'Impero; ma questo merito era più solido che brillante, e le sue virtù erano disonorate da grande e sordida avarizia. Questo Principe provvide al suo proprio interesse coll'associazione di un figlio, il cui carattere più splendido ed amabile potesse richiamare l'attenzione del pubblico, dall'origine oscura della famiglia dei Flavi, alle future glorie della medesima. Sotto il dolce governo di Tito, il mondo Romano godè di una felicità passeggiera, e la memoria di un Principe sì adorabile fece tollerare per quindici anni i vizj del suo fratello Domiziano.

Appena Nerva ebbe accettata la porpora dagli assassini di Domiziano, che si avvide di esser per la grande età inabile ad arrestare il torrente dei pubblici disordini, tanto moltiplicati sotto la lunga tirannide del suo predecessore. I buoni rispettarono la sua mite indole, ma per correggere i degenerati romani facea d'uopo un carattere più vigoroso, la cui giustizia potesse spaventare i colpevoli. Ai suoi molti parenti preferì nella scelta uno straniero. Egli adottò Traiano, in età di circa quarant'anni; il quale comandava allora una possente armata nella Germania inferiore; ed immediatamente con un decreto del Senato lo dichiarò suo collega e successore nell'Impero[252]. È una vera disgrazia, che mentre siamo oppressi dalla disgustosa relazione dei delitti e delle pazzie di Nerone, dobbiamo investigare le azioni di Traiano tra i barlumi di un compendio, o nella incerta luce di un panegirico. Esiste però un altro panegirico molto lontano dal sospetto di adulazione. Dugento cinquant'anni incirca dopo la morte di Traiano, il Senato, nel far le solite acclamazioni per l'avvenimento di un nuovo Imperatore, gli augurava di superare Augusto in felicità, e Traiano in virtù[253].

Si può certamente credere che un tal padre della patria fosse in dubbio, se dovesse o no affidare il sommo potere al carattere incerto ed incostante del suo parente Adriano. Nei suoi ultimi momenti l'Imperatrice Plotina o determinò artificiosamente l'irresoluzione di Traiano, o arditamente suppose una finta adozione[254], della cui verità sarebbe stato pericoloso il disputare, ed Adriano fu pacificamente riconosciuto come suo legittimo successore. Sotto il suo regno, come abbiamo già detto, l'Impero fiorì in pace ed in prosperità. Egli incoraggiò le arti, riformò le leggi, assicurò la disciplina militare, e visitò tutte le province in persona. Il suo ingegno vasto ed attivo sapeva egualmente levarsi alle più estese mire, e discendere alle più minute particolarità del governo civile; ma le passioni sue dominanti erano la curiosità e la vanità. Secondo che queste in lui prevalevano, e secondo i diversi oggetti che le eccitavano, Adriano si mostrò, a vicenda, principe eccellente, sofista ridicolo, e geloso tiranno. In generale la di lui condotta meritava lode per la giustizia e la moderazione. Nei primi giorni però del suo regno fece morire quattro Senatori consolari, suoi nemici personali, ed uomini stati giudicati degni dell'Impero; e la noia di una penosa malattia lo rendè, in ultimo, fantastico e crudele. Il Senato dubitò se lo dovesse chiamare Dio o tiranno; e furono conceduti alla memoria di lui gli onori divini, per le preghiere di Antonino Pio[255].

Il genio capriccioso di Adriano influì sulla scelta del suo successore. Dopo aver gettati gli occhi sopra molti soggetti di un merito distinto, da lui stimati ed odiati, adottò Elio Vero, nobile voluttuoso ed allegro, caro per la sua non comune bellezza all'amante di Antinoo[256]. Ma mentre Adriano si applaudiva della sua scelta, e delle acclamazioni dei soldati, dei quali si era assicurato il consenso con un esorbitante donativo, una morte immatura rapì ai suoi amplessi il nuovo Cesare[257]. Questi lasciò solamente un figlio ancor bambino, che Adriano raccomandò alla gratitudine degli Antonini. Pio l'adottò, ed all'avvenimento di Marco, fu rivestito di una porzione del poter sovrano. Aveva il minor Vero, fra molti vizi, una virtù, che consisteva nel dovuto rispetto verso il suo più saggio collega, al quale abbandonò volontariamente le cure più penose dell'Impero. Il filosofo Imperatore chiuse gli occhi sulla stolta condotta di lui, ne pianse l'acerba morte, e gettò un velo decente sopra la sua memoria.

Appena la passione di Adriano, fu o soddisfatta o delusa, egli risolse di meritare la gratitudine della posterità, mettendo il merito più illustre sul trono romano. Il suo occhio penetrante facilmente scoprì un Senatore di circa cinquant'anni, irreprensibile in tutta la condotta della sua vita, ed un giovane di quasi diciassette anni, che in età più matura presentò poscia il bell'aspetto di tutte le virtù, il maggiore di questi fu dichiarato figlio e successore di Adriano, a condizione però ch'egli stesso adotterebbe subito il più giovane. I duo Antonini, (giacchè si parla adesso di loro) governarono il Mondo romano per quarantadue anni con lo stesso spirito invariabile di prudenza e di virtù. Benchè Pio avesse due figli[258], preferì il bene di Roma all'interesse della sua famiglia; diede la sua figlia Faustina in moglie al giovane Marco, gli ottenne dal Senato la potestà tribunizia e proconsolare, e disprezzando nobilmente, o piuttosto ignorando la gelosia, lo associò a tutte le fatiche del Governo. Marco, dall'altra parte, riveriva il carattere del suo benefattore, lo amava come padre, l'obbediva come Sovrano[259], e dopo la morte di lui resse lo Stato secondo l'esempio e le massime del suo predecessore. Questi due regni sono forse il solo periodo della storia, nel quale la felicità di un gran popolo sia stata il solo oggetto di chi lo governava.

Tito Antonino Pio era giustamente stato chiamato un secondo Numa. Lo stesso amore della religione, della giustizia e della pace, formava il carattere distintivo di questi due Principi. Ma la situazione dell'ultimo gli aprì un campo più largo all'esercizio di queste virtù. Numa poteva solamente impedire pochi vicini villaggi dal devastarsi scambievolmente le loro campagne. Antonino diffuse l'ordine e la tranquillità sulla maggior parte della Terra. Il suo regno è distinto dal raro vantaggio di fornire pochissimi materiali per la storia, la quale veramente non è quasi altro che il registro dei delitti, delle pazzie e delle sventure degli uomini. Nella vita privata era amabile e buono. La natural semplicità della sua virtù non conosceva la vanità, o l'affettazione. Godeva con moderazione dell'illustre suo grado, e dei piaceri innocenti della società[260]; e la benevolenza del suo animo si palesava nella dolce serenità del uno volto.

La virtù di Marco Aurelio Antonino era di un carattere più severo e più faticoso[261]. Era il frutto di molte dotte conferenze, di una vasta e paziente lettura, e di molte notturne applicazioni. In età di dodici anni abbracciò il rigido sistema degli stoici che gl'insegnò a sottomettere il corpo allo spirito, le passioni alla ragione, a considerar le virtù come l'unico bene, il vizio come l'unico male, e tutte le cose esterne come cose indifferenti[262]. Le sue Meditazioni, composte nel tumulto di un campo sussistono ancora; egli condescendeva eziandio a dar lezioni di filosofia in un modo più pubblico di quel che forse convenisse alla modestia di un savio, o alla dignità di un Imperatore[263]. Ma la sua vita era il più nobil commento dei precetti di Zenone. Rigido con sè stesso, compativa gli altrui difetti, ed era giusto e benefico con tutto il genere umano. Si dolse che Avidio Cassio, il quale eccitò una ribellione in Siria, gli avesse, con una morte volontaria, tolto il piacere di farsi d'un nemico un amico, e giustificò la sincerità di questo sentimento col moderare lo zelo del Senato contro gli aderenti del traditore[264]. Detestava la guerra come il flagello dell'umanità; ma quando la necessità di una giusta difesa lo sforzò a prender l'armi, si espose coraggiosamente sulle gelate rive del Danubio a otto campagne d'inverno, il cui rigore tornò finalmente fatale alla sua debole complessione. La sua memoria fu venerata dalla grata posterità, e più d'un secolo dopo la sua morte molti conservavano l'immagine di Marco Antonino, tra quelle dei loro Numi domestici[265].

Se si avesse da stabilire nella storia del Mondo il periodo, nel quale la condizione degli uomini sia stata più prospera e felice, si dovrebbe subito nominare quello che corse dalla morte di Domiziano all'avvenimento di Commodo. La vasta estensione del romano Impero venne regolata da un assoluto potere sotto la scorta della virtù e della prudenza. Gli eserciti furono contenuti dalla mano forte ma moderata di quattro successivi Imperatori, il carattere e l'autorità dei quali esigevano involontario rispetto. Il sistema dell'amministrazione civile fu gelosamente conservato da Nerva, da Traiano, da Adriano e dagli Antonini, i quali si dilettavano della immagine della libertà, e si riguardavano con compiacenza come i ministri e i custodi delle leggi. Principi tali sarebbero stati degni di ristabilir la Repubblica, se i Romani dei loro tempi fossero stati capaci di godere di una ragionevole libertà.

Le fatiche di questi Principi furon premiate dalla grandissima ricompensa che inseparabilmente accompagnava i loro successi, dall'onesto orgoglio della virtù, e dal puro e sommo diletto di vedere la felicità universale, della quale essi eran gli autori. Una riflessione, giusta ma trista, amareggiava però il più nobile dei piaceri umani; e doveano spesso ricordarsi quanto fosse instabile una felicità, la quale dipendeva dalla indole di un uomo solo. Forse si avvicinava il fatal momento, nel quale qualche giovane dissoluto o qualche tiranno geloso, distruggerebbe il lor popolo con quell'assoluto potere ch'essi aveano impiegato a farlo felice. Il freno ideale del Senato o delle leggi poteva servire a far risaltar le virtù, ma non a correggere i vizj dell'Imperatore. La forza militare era uno strumento cieco ed irresistibile di oppressione; e la corruzione dei costumi romani sempre avrebbe fornito adulatori facili ad applaudire, o ministri pronti a servire al timore o all'avarizia, ai sensuali piaceri od alla crudeltà dei loro padroni.

L'esperienza dei Romani aveva già giustificato questi funesti timori. Gli annali degl'Imperatori presentavano una forte e varia pittura della natura umana, che noi invano ricercheremmo tra i misti e dubbj caratteri della storia moderna. Nella condotta di que' Monarchi si possono scoprire tutti i gradi del vizio e della virtù; la perfezione più sublime e la più bassa degenerazione della nostra specie. L'aureo secolo di Traiano e degli Antonini era stato preceduto da un secolo di ferro. È quasi superfluo il numerare gl'indegni successori di Augusto. I loro incomparabili vizj, ed il teatro illustre, sul quale hanno rappresentato, gli hanno salvati dall'obblivione. Il cupo inflessibil Tiberio, il furioso Caligola, lo stupido Claudio, il malvagio e crudele Nerone, il brutale Vitellio[266], ed il timido e barbaro Domiziano sono condannati ad una perpetua infamia. Per quarant'anni (se si eccettui solamente il breve e dubbioso respiro[267] del regno di Vespasiano) Roma gemè sotto una continua tirannide, la quale esterminò le antiche famiglie della Repubblica, e riuscì fatale a quasi ogni virtù, e ad ogni talento che comparve in quello sfortunato periodo.

Sotto il regno di questi mostri la schiavitù dei Romani fu accompagnata da due circostanze particolari; la prima derivata dalla loro antica libertà, l'altra dalle loro estese conquiste, onde si rendè la lor condizione più compiutamente misera che quella delle vittime della tirannia in qualunque altro secolo o paese. Queste cagioni produssero la squisita sensibilità degli oppressi, e l'impossibilità di fuggir dalle mani dell'oppressore.

I. Quando la Persia era governata dai discendenti di Sefi, Principi che con brutal crudeltà lordavano spesso il lor Divano, la mensa, ed il letto col sangue dei lor favoriti, si racconta il detto di un giovane gentiluomo, ch'egli non mai si partiva della presenza del Sultano, senza toccarsi la testa, quasi dubitando se gli stesse ancora sul collo. L'esperienza di ogni giorno poteva giustificare lo scetticismo di Rustano[268]. Ciò non ostante la spada fatale, sospesa sopra il suo capo con un sol filo, non pare che turbasse il sonno, o alterasse la tranquillità del Persiano. Sapeva che uno sguardo del Monarca poteva ridurlo in polvere, ma un colpo di fulmine o di apoplessia poteva tornargli egualmente mortale; ed era dovere di un uomo saggio lo scordarsi delle calamità inevitabili della vita in mezzo ai piaceri dell'ore fugaci. Si gloriava di esser chiamato schiavo dei Re; egli comprato forse da oscuri parenti in un paese non mai da lui conosciuto, allevato dalla sua fanciullezza nella severa disciplina del serraglio[269]. Il suo nome, la sua ricchezza, i suoi onori eran dono di un padrone che poteva senza ingiustizia riprendersi ciò che gli avea donato. Il discernimento di Rustano, se pur ne avea, non serviva che a confermare i suoi costumi co' pregiudizj. Nel suo linguaggio non v'eran parole per esprimere altro governo che la monarchia assoluta. La storia orientale gl'insegnava che tale era sempre stata la condizione degli uomini[270]. Il Corano e gl'interpreti di quel libro divino gli ripetevano, che il Sultano era il discendente del Profeta, e il vicerè del Cielo, che la pazienza era la prima virtù di un Mussulmano, ed una illimitata obbedienza il gran dovere di un suddito.

Lo spirito dei Romani era preparato molto diversamente per la schiavitù. Oppressi sotto il peso della lor propria corruzione e della militare violenza, per lungo tempo essi conservarono i sentimenti, o almeno le idee dei liberi loro antenati. L'educazione di Elvidio e di Trasca, di Tacito e di Plinio fu la stessa che quella di Catone e di Cicerone. Dalla filosofia greca essi avevano attinte le nozioni più giuste e più generose intorno alla dignità dell'umana natura, ed all'origine della civil società. La storia della lor patria aveva loro insegnato a venerare una Repubblica libera, virtuosa e trionfante, ad abborrire i fortunati delitti di Cesare e di Augusto, e a disprezzare internamente quei tiranni che adoravano con la più abbietta adulazione. Come magistrati e Senatori, erano ammessi in quel gran Consiglio, che aveva una volta dettate leggi alla Terra, il cui nome dava ancora la sanzione agli atti del Monarca, e la cui autorità era così spesso prostituita ai più vili disegni della tirannide. Tiberio e quegl'Imperatori, che adottarono le sue massime, procurarono di velare i loro assassinj con le formalità della giustizia, e forse gustavano un piacer secreto nel rendere il Senato complice e vittima insieme della lor crudeltà. Da questo corpo, gli ultimi degni d'esser chiamati Romani furon condannati per delitti immaginari o per reali virtù. I loro infami accusatori affettavano il linguaggio di patriotti indipendenti, che accusavano un cittadino pericoloso dinanzi al tribunale della sua patria; e questo pubblico servizio era premiato con ricchezze ed onori[271]. I giudici servili dichiaravano di sostenere la maestà della Repubblica, violata nella persona del suo primo magistrato[272], alla clemenza del quale più applaudivano nel tempo, in cui più temevano la inesorabile sovrastante di lui crudeltà[273]. Il tiranno riguardava la loro viltà con giusto disprezzo, ed ai loro sentimenti secreti di detestazione corrispondeva con un odio sincero e scoperto per tutto il Corpo senatorio.

II. La divisione dell'Europa in un numero di Stati indipendenti, connessi però gli uni con gli altri per la general somiglianza di religione, di lingua e di costumi, produce le conseguenze più utili per la libertà del genere umano. Un moderno tiranno, a cui non facesser resistenza i rimorsi ed il popolo, troverebbe ben presto un efficace ritegno nell'esempio de' suoi eguali, nel timore della presente censura, negli avvertimenti de' suoi alleati, e nelle minacce de' suoi nemici. L'oggetto del suo sdegno, fuggendo dagli angusti limiti de' suoi Stati, otterrebbe facilmente in un clima più felice un sicuro rifugio, una nuova fortuna adeguata al suo merito, la libertà di lagnarsi, e forse i mezzi di vendicarsi. Ma l'Impero dei Romani si stendeva per tutto il Mondo, e quando cadde nelle mani di un solo, divenne una prigione sicura e terribile pei suoi nemici. Lo schiavo del dispotismo imperiale, o fosse condannato a strascinar le sue dorate catene in Roma o nel Senato, o a passar la vita in esilio sulle rupi scoscese di Serifo, o sulle gelide rive del Danubio, aspettava il suo fato con tacita disperazione[274]. Funesta era la resistenza, e la fuga impossibile. Per ogni parte era cinto da una vasta estensione di mare e di terra, ch'esso non mai poteva sperar di valicare senza essere scoperto, preso, e restituito al suo Sovrano irritato. Al di là dei confini, la sua vista ansiosa non iscopriva che l'Oceano, deserti inospiti, tribù nemiche di Barbari, di costumi feroci e di linguaggio sconosciuto, o Re dipendenti, che con piacere avrebber comprata la protezion dell'Imperatore con il sacrificio di un reo fuggitivo[275]. Dovunque siate, dice Cicerone all'esiliato Marcello, ricordatevi che voi siete egualmente dentro le forze del conquistatore[276].

CAPITOLO IV.

Crudeltà, pazzie ed uccisioni di Commodo. Elezione di Pertinace. Suoi tentativi per riformare lo Stato. È trucidato dai Pretoriani.

Una dolcezza naturale, che la rigida disciplina degli stoici non avea potuto distruggere, era la qualità più amabile, ad un tempo, e l'unico difetto pel carattere di Marco Aurelio. Il suo eccellente discernimento fu spesso ingannato dalla non diffidente bontà del suo cuore. Era egli circondato da uomini artificiosi, i quali, abili a studiar le passioni dei Principi e a nasconder le proprie, se gli accostavano coperti da un finto velo di filosofica santità, e si procacciavano ricchezze ed onori, coll'affettare di disprezzarli[277]. La sua eccessiva indulgenza verso il fratello, la consorte ed il figlio, passò i limiti di una virtù privata, e divenne una pubblica offesa per l'esempio e le conseguenze funeste che i loro vizj produssero.

Faustina, figlia di Antonino Pio e moglie di Marco Aurelio, non è meno famosa per le sue disonestà che per la sua bellezza. La grave semplicità di quel Principe filosofo non era capace di fermare la licenziosa incostanza di lei, o di fissare quella sfrenata passione di varietà, che le faceva spesso trovare un merito personale nel più vile degli uomini[278]. Il Cupido degli antichi era, generalmente, una divinità molto sensuale; e gli amori di una Imperatrice, costringendola a fare essa prima le più aperte dichiarazioni, rade volte sono suscettivi di una gran delicatezza di affetti. Marco Aurelio pareva o insensibile ai disordini di Faustina, o il solo in tutto l'Impero che gl'ignorasse. Questi, atteso il falso pregiudizio di tutti i secoli, gettarono qualche disonore sopra l'offeso consorte. Egli promosse molti degli amanti di lei a cariche onorevoli e lucrose[279], e per trent'anni continui le diede prove invariabili della più tenera confidenza e di un rispetto che non terminò se non con la di lei vita. Nelle sue Meditazioni Marco Aurelio ringrazia gli Dei, per avergli concessa una moglie così fedele, così amabile, e di una semplicità di costumi tanto maravigliosa[280]. Il Senato ossequioso la dichiarò Dea, alle sue premurose richieste. Era ella rappresentata, ne' tempj a lei dedicati, con gli attributi di Giunone, di Venere e di Cerere, e fu decretato, che la gioventù dell'uno e dell'altro sesso andasse nel giorno nuziale a porger voti dinanzi all'altare della casta lor Protettrice[281].

I vizj mostruosi del figlio hanno adombrato lo splendore delle virtù del padre. Si è rimproverato a Marco Aurelio di avere scelto un successore piuttosto nella sua famiglia che nella Repubblica, e sacrificata la felicità di milioni d'uomini alla sua eccessiva tenerezza per un indegno ragazzo. L'attento padre, per altro, e i dotti e virtuosi uomini, dei quali cercò l'assistenza, niente trascurarono per estendere il limitato intelletto del giovane Commodo, per correggerne i vizj nascenti, e per renderlo degno del trono a lui destinato. Ma la forza dell'educazione raramente è molto efficace, eccetto in quelli nati con felici disposizioni, ed ai quali è quasi superflua. I frivoli discorsi di un indegno Favorito facevano in un momento scordare a Commodo le noiose lezioni dei gravi filosofi; e Marco Aurelio perdè il frutto di tante cure, ammettendo il suo figlio in età di quattordici o quindici anni ad una piena partecipazione della dignità imperiale. Egli morì quattr'anni dopo, ma visse assai per pentirsi di un passo imprudente, che liberò un giovane così impetuoso dal giogo della ragione e dell'autorità.

Molti fra i delitti, i quali disturbano la pace interna della società, derivano dal freno che le necessarie ma ineguali leggi di proprietà hanno posto ai desiderj degli uomini, ristringendo in pochi il possesso di quelle cose che molti desiderano. Di tutte le nostre passioni quella di dominare è la più imperiosa e meno sociabile, giacchè l'orgoglio di un solo esige la sommissione di tutti. Nel tumulto delle discordie civili le leggi della società perdono il vigore, e raramente quelle dell'umanità occupano il loro posto. L'animosità di partito, l'orgoglio di una vittoria, la disperazion del successo, la memoria delle ricevute offese, il timore di nuovi pericoli, tutto insomma contribuisce ad infiammar la mente, e ad affogar le voci della pietà. Per questi soli motivi quasi ogni pagina della storia è stata imbrattata di sangue civile; ma simili motivi non giustificano le crudeltà non provocate di Commodo, il quale godendo di tutto, niente aveva a desiderare. L'amato figlio di Marco successe al suo padre in mezzo le acclamazioni del Senato e degli eserciti[282]. E quando ascese al trono questo giovane fortunato, non trovò nè rivali da combattere, nè nemici da punire. In quella tranquilla ed eccelsa fortuna dovea egli naturalmente preferire l'amore degli uomini alla loro detestazione, e le dolci glorie dei suoi cinque predecessori all'ignominiosa sorte di Nerone e di Domiziano.

E veramente Commodo non era, come lo rappresentano, una tigre nata con sete inestinguibile di sangue umano, e capace, sin dall'infanzia, delle più disumane azioni[283]. Nato più debole che malvagio, divenne, per una semplicità ed una timidezza naturale, schiavo dei suoi cortigiani, i quali a poco a poco ne corrupper lo spirito. La sua crudeltà, che da prima fu l'effetto delle altrui suggestioni, degenerò in abito e divenne finalmente la passione che l'animo gli dominava[284].

Commodo, alla morte del padre, si trovò imbarazzato nel comando di una grande armata, e nella condotta di una guerra difficile contro i Quadi ed i Marcomanni[285]. Quei giovani vili e malvagi, che Marco Aurelio avea discacciati, ripresero ben presto il loro posto, e la loro influenza appresso il giovane Imperatore. Esagerarono le fatiche e i pericoli di una campagna nelle selvagge contrade di là dal Danubio; ed accertarono l'indolente Principe, che il terror del suo nome e le armi dei suoi Generali sarebber bastanti od a terminar la conquista di quei Barbari scoraggiati, o ad impor loro condizioni forse più vantaggiose della conquista medesima. Destramente lusingandone la sensualità, essi paragonavano continuamente la tranquillità, la magnificenza ed i raffinati piaceri di Roma co' tumulti di un campo della Pannonia, in cui il lusso non trovava[286] agj, nè materiali per essi. Porse Commodo orecchio a sì grati consigli. Mentre stava sospeso tra la propria inclinazione, e il rispetto che ancor serbava per li consiglieri del padre, passò insensibilmente l'estate, e differì all'autunno il suo ingresso trionfale in Roma. Le sue grazie naturali, le sue popolari maniere[287], e le supposte virtù gli conciliarono il pubblico amore. La pace onorevole, che aveva accordata a quei Barbari, inspirava una gioia universale[288]; si attribuiva al suo amor per la patria l'impazienza di riveder Roma; e si perdonava facilmente ad un Principe di diciannov'anni lo sfrenato corso dei suoi divertimenti.

Pei tre primi anni del suo regno il sistema, ed anche lo spirito del passato governo fu conservato da quei fidi consiglieri, ai quali Marco Aurelio aveva raccomandato il suo figlio, e per la prudenza ed integrità dei quali Commodo conservava ancora un forzato rispetto. Egli con i suoi malvagi compagni si dava alle dissolutezze con tutta la sfrenatezza del sovrano potere; ma le sue mani non erano ancor lorde di sangue, ed aveva anzi mostrata una generosità di sentimenti, che poteva forse cambiarsi in soda virtù[289]: un infausto accidente determinò il suo incerto carattere.

Una sera, mentre l'Imperatore ritornava per un portico stretto ed oscuro dall'anfiteatro al palazzo[290], un assassino, che l'attendeva al passo, se gli avanzò con la spada sguainata, gridando ad alta voce: Questo ti manda il senato. La preventiva minaccia impedì il colpo: l'assassino fu preso dalle guardie, e rivelò immediatamente gli autori della congiura. Questa era una congiura domestica, e non di Stato. Lucilla, sorella di Commodo e vedova di Lucio Vero, mal soffrendo di occupare il secondo grado, e gelosa dell'Imperatrice regnante, aveva armato il Sicario contro la vita di suo fratello. Non si era avventurata a comunicare il reo disegno a Claudio Pompeiano, suo secondo marito, Senatore di un merito distinto e di una fedeltà inviolabile; ma, imitatrice dei costumi di Faustina, trovò nella folla de' suoi amanti alcuni uomini perduti ed ambiziosi, pronti a servire i suoi furori non men che il suo amore. I congiurati provarono il rigor della giustizia, e l'abbandonata principessa fu punita da prima con l'esilio e di poi con la morte[291].

Ma le parole dell'assassino restarono profondamente impresse nella mente di Commodo, il quale sempre impaurito concepì uno sdegno implacabile contro l'intero corpo del Senato. Quelli ch'esso avea temuti come importuni ministri gli sembrarono allora segreti nemici. I delatori, che sotto i regni precedenti erano avviliti e quasi dissipati affatto, divennero nuovamente formidabili, appena scoprirono che l'Imperatore desiderava di trovare nel senato e malcontenti e traditori. Questa assemblea, considerata sotto Marco Aurelio come il gran Consiglio della nazione, era composta dei più cospicui Romani; e lo splendore di ogni sorta ben presto divenne delitto. Le ricche ricompense stimolavan lo zelo dei delatori; una rigida virtù era tenuta per una tacita censura della irregolare condotta del principe; gli importanti servigi per una pericolosa superiorità di merito; e l'amicizia del padre faceva sempre incorrere lo sdegno del figlio. Il sospetto teneva luogo di prova, l'accusa di condanna. Il supplizio di un illustre Senatore portava seco la perdita di tutti coloro, che potevano o piangere o vendicare il fato di lui; e quando Commodo ebbe una volta assaggiato il sangue umano, divenne incapace di pietà o di rimorso.

Tra tante innocenti vittime della tirannide, i più compianti furono i due fratelli Massimo e Condiano, della famiglia Quintilia. Il loro amore fraterno ha tolto i loro nomi all'obblio, e gli ha renduti cari alla posterità. Gli studi, le occupazioni, la carriera e fino i piaceri loro furono i medesimi. Godendo di un ricco patrimonio non mai ebber l'idea di separar gl'interessi: esistono ancora alcuni frammenti di un trattato che essi fecero insieme; e fu osservato in ogni azione della lor vita, che i loro corpi erano animati da una sol'anima. Gli Antonini, i quali stimavano le loro virtù, e si compiacevano della loro unione, gl'innalzarono nello stesso anno al consolato; e dipoi Marco Aurelio affidò alle loro unite cure il Governo civile della Grecia, ed il comando di un grande esercito, col quale riportarono una segnalata vittoria contro i Germani. Il barbaro Commodo con una crudele generosità gli unì nella morte[292].

Dopo di avere sparso il sangue più nobile del Senato, il tiranno rivolse finalmente il suo furore contro il principal ministro delle sue crudeltà. Mentre Commodo nuotava nel sangue e nelle dissolutezze, confidava l'amministrazione dell'Impero a Perenne, ministro vile ed ambizioso, che aveva ottenuto quel posto coll'uccisione del suo predecessore, ma che possedeva grande abilità e fermezza. Per via di estorsioni, e sequestrando i beni dei nobili sacrificati alla sua avarizia, aveva costui ammassate immense ricchezze. I Pretoriani gli obbedivano come all'immediato lor Capo; ed il suo figlio, che già mostrava un genio militare, era comandante supremo delle legioni illiriche. Perenne aspirava all'Impero, o, quel che agli occhi di Commodo valeva lo stesso, era capace di aspirarvi, se non fosse stato prevenuto, sorpreso e messo a morte. La caduta di un Ministro è un avvenimento poco importante nella storia generale dell'Impero; ma questa fu accelerata da una circostanza straordinaria, la quale mostrò quanto la disciplina fosse già rilassata. Le legioni della Britannia, malcontente dell'amministrazione di Perenne, deputarono mille cinquecento uomini scelti, con ordine di andare a Roma, e presentare all'Imperatore lo loro lagnanze. Questi deputati militari, colla risoluta loro condotta, col fomentare le divisioni tra i Pretoriani, coll'esagerare le forze dell'armata britannica, e con risvegliare i timori di Commodo, esigettero ed ottennero la morte del Ministro, come il solo riparo alle loro offese[293]. Questo coraggio di un esercito lontano, e la scoperta che fecero della debolezza del Governo, eran sicuri presagi delle più terribili convulsioni.

Non molto dopo, un nuovo disordine, prodotto da piccolissimi principi, mostrò più chiara la trascuratezza nelle cose di pubblica amministrazione. Cominciò a regnar nelle truppe lo spirito di diserzione, e invece di fuggire o celarsi per porsi in sicuro, i disertori infestarono le strade maestre. Materno, semplice soldato, ma intraprendente e di un coraggio maggiore della sua condizione, raccolse queste bande di ladri in una piccola armata. Aprì le prigioni, invitò gli schiavi a rompere le loro catene, e devastò impunemente le opulente e non difese città della Gallia e della Spagna. I governatori delle province furono per lungo tempo tranquilli spettatori, o forse anche partecipi delle sue rapine. Gli ordini minaccianti dell'Imperatore li riscossero alfine da quella supina indolenza. Materno, trovandosi circondato da tutte le parti, e prevedendo di dover succumbere, prese per ultimo espediente una disperata risoluzione. Ordinò a' suoi compagni, che si disperdessero, e passate le Alpi in piccoli distaccamenti, e travestiti variamente, si trovassero tutti in Roma per le tumultuose feste di Cibele[294]. Il suo ambizioso disegno di assassinar Commodo, e impadronirsi del trono vacante, non era da ladro volgare. Aveva egli preso tanto bene le sue misure, che già le strade di Roma erano tutte piene delle sue truppe nascoste. L'invidia di uno dei complici scoprì questa singolare impresa, e la sconcertò nel momento che[295] era matura per l'esecuzione.

I Principi sospettosi innalzano spesso ai primi posti gli ultimi tra gli uomini, per la vana persuasione che questi non avranno affetto per altri che pei loro benefattori, dal cui favore soltanto dipendono. Cleandro, successor di Perenne, era nato in Frigia, e di una nazione, il cui carattere ostinato, ma servile, non si piegava che a trattamenti i più duri[296]. Mandato a Roma, come schiavo, servì nel palazzo imperiale, si rendè necessario alle passioni del suo signore, e montò rapidamente al grado più eccelso, di cui un suddito potesse godere. Il suo ascendente sopra l'animo di Commodo fu ancora più grande di quello del suo predecessore: di fatto, Cleandro non avea nè abilità nè virtù, che potessero destar nel seno dell'Imperatore l'invidia o la diffidenza.

L'avarizia era la sua passion dominante, ed il primo mobile della sua condotta. Si mettevan pubblicamente all'incanto le dignità di Console, di Patrizio, e di Senatore; e veniva posto nel numero dei malcontenti chi ricusava di sacrificare una gran parte delle proprie sostanze[297] per ottenere quelle cariche vane e disonorate. Nei ricchi impieghi delle province, il Ministro divideva con i governatori le spoglie dei popoli. L'amministrazione della giustizia era venale ed arbitraria: ed un ricco colpevole poteva non solo ottenere la rivocazione della sua giusta condanna, ma far soffrire ancora qual castigo volesse all'accusatore, ai testimonj ed al giudice.

Nello spazio di tre anni, con questi mezzi, Cleandro accumulò tesori maggiori di quelli che mai avesse posseduti alcun altro liberto[298]. Commodo era contentissimo dei magnifici doni che l'accorto cortigiano sapeva a proposito portare a' di lui piedi. Per addolcire l'odio pubblico, Cleandro fece sotto nome dell'Imperatore costruire bagni, portici e piazze destinate agli esercizj del popolo[299]. Si lusingava che i Romani abbagliati e distolti da quest'apparente liberalità, sarebber meno sensibili alle scene sanguinose, che loro esibiva ogni giorno; sperava che si scorderebbero la morte di Birro, Senatore di un merito illustre e genero dell'ultimo Imperatore, e che gli perdonerebbero il supplizio di Ario Antonino, ultimo rappresentante del nome e della virtù degli Antonini. Il primo, più ingenuo che prudente, avea procurato di scoprire, al suo cognato, il vero carattere di Cleandro. All'altro divenne fatale una giusta condanna, che egli, essendo Proconsole in Asia, avea pronunziata contro una indegna creatura del Favorito[300]. Dopo la caduta di Perenne, Commodo, spaventato, sembrò, ma per poco, risoluto di voler ritornare alla virtù. Esso annullò gli atti i più odiosi di quel Ministro, ne aggravò la memoria con la pubblica esecrazione, ed ai consigli perniciosi di quello scellerato attribuì gli errori della inesperta sua giovinezza. Ma il suo pentimento durò trenta giorni soltanto; e la tirannide di Cleandro fece spesso desiderare l'amministrazion di Perenne.

La peste e la fame misero il colmo alle calamità di Roma[301]. Il primo di questi mali poteva solamente imputarsi al giusto sdegno degli Dei; ma il secondo fu considerato come l'effetto immediato di un monipolio di grano, sostenuto dalle ricchezze e dall'autorità del Ministro. Il maltalento popolare, dopo essersi lungamente sfogato in segreto, scoppiò finalmente in una adunanza del Circo. Il popolo, lasciando i suoi favoriti divertimenti pel più grato piacere di vendicarsi corse a torme fino ad un palazzo de' sobborghi, dove stava ritirato l'Imperatore, e richiese con sediziosi clamori la testa del pubblico nemico. Cleandro, che comandava i Pretoriani[302], fece sortire un corpo di cavalleria per dissipare i sediziosi. Questi si ritirarono precipitosamente verso la città, e molti ne furono uccisi, e molti più calpestati a morte; ma quando la cavalleria s'inoltrò nelle contrade, il suo impeto fu arrestato da una grandine di pietre e di dardi scagliati dai tetti e dalle finestre delle case. Le guardie[303] a piedi, gelose da gran tempo dei privilegi e della insolenza della cavalleria pretoriana, presero il partito del popolo. Il tumulto divenne una zuffa regolare, e fece temere di una generale strage. I Pretoriani, al fine, cederono oppressi dal numero, ed i flutti di quella furia popolare ritornarono con raddoppiata violenza contro le porte del palazzo, dove Commodo, immerso nella dissolutezza, solo tra tanti ignorava la guerra civile. L'annunziargli l'infausta nuova era un esporsi alla morte. Egli sarebbe perito in questa supina sua sicurezza, se due donne, Fadilla sua maggior sorella, e Marcia la più cara delle sue concubine, non avessero osato di presentarsegli innanzi. Esse, con i capelli scarmigliati e bagnate di pianto, se gli gettarono a' piedi, e con tutta l'eloquenza, che inspira un timore presente, scoprirono all'Imperatore atterrito i delitti del Ministro, la rabbia del popolo, e l'imminente tempesta che sarebbe scoppiata in breve sopra il palazzo e la sua persona. Commodo si riscosse dal letargo del piacere, e fe' gettare al popolo la testa di Cleandro. Il desiderato spettacolo acchetò subito il tumulto, e il figlio di Marco Aurelio avrebbe ancora potuto ricuperare l'amore e la confidenza dei sudditi[304].

Ma ogni sentimento di virtù e di umanità era spento nell'animo di Commodo. Mentre che lasciava le redini dell'Impero agl'indegni suoi Favoriti, esso non valutava il sommo potere che per la illimitata licenza di appagare i suoi sensuali appetiti. Passava i giorni in un serraglio di trecento bellissime donne, e di altrettanti ragazzi di ogni grado e di ogni provincia; e quando la seduzione riusciva inutile, quell'amante brutale ricorreva alla violenza. Gli Storici antichi[305] si sono estesi in descrivere quelle dissolute scene della prostituzione, che facevan fremere egualmente la natura e la modestia; ma sarebbe difficile il tradurre le loro troppo fedeli descrizioni nella decenza del moderno linguaggio. I trattenimenti più vili riempivano gl'intervalli della libidine. L'influenza di un secolo illuminato, e le cure d'un'attenta educazione, non avean potuto inspirare a quell'anima rozza e brutale il minimo amor del sapere; ed egli fu il primo de' romani Imperatori affatto privo di gusto pei piaceri dell'intelletto. Nerone stesso era musico e poeta eccellente, o affettava di esserlo, e noi non condanneremmo il suo genio, se quegli studj, che non dovean servirgli che di dolce sollievo, non fossero divenuti l'affare più serio per lui, e l'oggetto più vivo della sua ambizione. Ma Commodo, sin da' suoi prim'anni, mostrò avversione a tutte le scienze ed arti liberali, ed eccessivo amore ai divertimenti della plebaglia, ai giuochi del circo e dell'anfiteatro, ai combattimenti dei gladiatori, ed alla caccia delle fiere. I maestri di ogni scienza, che Marco Aurelio procacciò al suo figlio, erano ascoltati con disattenzione e con noja; mentre che i Mori ed i Parti, che lo addestravano a lanciare il dardo, ed a tirar l'arco, trovavano in lui un attento scolare, il quale uguagliò ben presto i suoi più abili maestri nella giustezza della mira e nella destrezza della mano.

I vili cortigiani, la cui fortuna dipendeva dai vizj dei loro Sovrani, applaudivano a questi ignobili esercizj. La perfida voce dell'adulazione gli rammentava che con simili imprese, con l'uccisione del leone Nemeo e del cignal d'Erimanto, l'Ercole dei Greci avea meritato un posto tra gli Dei ed una immortal memoria tra gli uomini. Si scordavano solamente di fargli osservare, che ne' primi tempi delle società, quando i più fieri animali contrastano spesso all'uomo il possesso di un inculto paese, una guerra terminata felicemente contro questi nemici è la più innocente è la più utile impresa dell'eroismo. Quando il romano Impero fu ridotto a civiltà, da gran tempo s'erano già le fiere allontanate dall'aspetto degli uomini, e dai contorni delle popolate città. Il sorprenderle nei loro solitarj covili, e trasportarle a Roma, acciocchè fossero uccise solennemente dalla mano d'un Imperatore, era impresa ugualmente ridicola pel Sovrano[306], che gravosa pel popolo. Ignaro Commodo di tai differenze, abbracciò avidamente la gloriosa rassomiglianza, e prese da se stesso, come leggiamo ancora nelle medaglie, il nome d'Ercole Romano[307]. Si videro accanto al trono la clava e la pelle del leone tra l'altre insegne della sovranità; e si alzarono statue, nelle quali Commodo era rappresentato nel carattere, e cogli attributi di quel Nume, il valore e la destrezza del quale egli si sforzava d'imitare nel giornaliero corso de' suoi feroci trattenimenti[308].

Trasportato da queste lodi, che a poco a poco estinguevano il sentimento innato della vergogna, risolvè di fare dinanzi al popolo quegli esercizj, che fin allora aveva per proprio decoro eseguiti dentro le mura del suo palazzo, e alla presenza di pochi suoi Favoriti. Nel giorno prefisso, l'adulazione, il timore e la curiosità attirarono all'anfiteatro una moltitudine innumerabile di popolo, e fu giustamente fatto qualche applauso alla non ordinaria perizia del Principe. Mirasse egli al cuore o alla testa della fiera, il colpo era ugualmente certo e mortale. Armato di dardi la cui punta era fatta a foggia di mezzaluna, arrestava sovente il rapido corso dello struzzo, tagliandogli il lungo ossuto collo[309]. Scioglievasi una pantera, e nel momento che si lanciava sopra un malfattore tremante, volava lo strale, che l'uccideva senza alcun danno dell'uomo. Le cave dell'anfiteatro mandavan fuori ad un tratto cento leoni, e cento dardi lanciati dalla mano sicura di Commodo gli uccidevano, mentre correvan furiosi intorno l'arena. Nè la massa enorme dell'elefante, nè la squammosa pelle del rinoceronte potevan salvarli dal colpo fatale. L'India e l'Etiopia somministravano i loro più straordinarj prodotti; e diversi animali furono uccisi nell'anfiteatro, non prima veduti che nelle opere dell'arte o forse dell'immaginazione[310]. In tutti questi giuochi si prendevan tutte le più sicure precauzioni per non esporre la persona dell'Ercole romano al disperato salto di qualche fiera, che non avesse riguardo alla dignità dell'Imperatore ed alla santità del Nume[311].

Ma la stessa plebaglia più vile fu presa da vergogna ed indignazione allorquando vide il suo Sovrano entrare in lizza da gladiatore, e gloriarsi di una professione dichiarata così giustamente infame dalle leggi e dai costumi romani[312]. Commodo scelse l'abito e le armi del Secutore, la cui pugna con il Reziario formava una delle scene più animate nei giuochi sanguinosi dell'anfiteatro. Il Secutore avea per armi un elmo, una spada e lo scudo. Il nudo suo avversario aveva soltanto una larga rete e un tridente; con quella cercava d'avviluppare il nemico, e con questo d'ucciderlo. Se gli falliva il primo colpo, era costretto ad evitar fuggendo il Secutore, finchè egli avesse preparata la rete per un secondo tiro[313]. L'Imperatore combattè settecento trentacinque volte da Secutore. Grande era la cura di registrare queste eroiche azioni negli annali dell'Impero; e Commodo, per colmo d'infamia, riscosse dai fondi destinati ai gladiatori uno stipendio sì esorbitante, che divenne una nuova e vergognosissima tassa pei Romani[314]. Facilmente si supporrà, che il padrone del Mondo era sempre vincitore in quelle pugne. Nell'anfiteatro le sue vittorie non sempre erano sanguinose, ma quando esercitava la sua destrezza nella scuola dei gladiatori, o nel palazzo, i suoi infelici avversarj erano spesso onorati di una mortal ferita dalla mano di Commodo, e costretti a sigillare col proprio sangue la loro adulazione[315].

Commodo sprezzò ben presto il nome di Ercole; e quello di Paulo, celebre Secutore, divenne il solo di cui egli si compiacesse. Fu scolpito nelle statue colossali, e ripetuto con frequenti acclamazioni[316] dal Senato, che con interno cordoglio applaudivagli[317]. Claudio Pompeiano, il virtuoso marito di Lucilla, fu il solo tra i Senatori che sostenesse la dignità del suo ordine. Come padre permise a' suoi figli di provvedere alla loro salvezza, andando all'anfiteatro; come Romano, dichiarò che la sua vita era nelle mani di Commodo; ma che non mai egli vedrebbe il figlio di Marco Aurelio prostituire in tal guisa la sua persona e la sua dignità. Non ostante la sua virile risoluzione, Pompeiano scampò dallo sdegno del tiranno, ed ebbe la buona sorte di conservar la sua vita, e con essa il suo onore[318].

Commodo era giunto al sommo grado del vizio e dell'infamia. Tra le acclamazioni di una corte adulatrice, non potea per altro dissimulare a se stesso che avea meritato e il disprezzo e l'odio d'ogni suddito saggio e virtuoso. La certezza dell'abborrimento altrui, l'invidia che portava ad ogni sorta di merito, il giusto timore del pericolo, l'uso alle stragi contratto nei suoi giornalieri piaceri, irritavano il suo feroce carattere. La storia ci ha lasciata una lunga lista di Senatori consolari sacrificati al suo vano sospetto, il quale perseguitava con ispeciale ansietà tutti coloro, che per isventura aveano relazioni, benchè lontane, con la famiglia degli Antonini, non risparmiando neppure i ministri de' suoi delitti, o de' suoi piaceri[319]. Finalmente la sua crudeltà gli divenne funesta. Egli che avea versato impunemente il più nobil sangue di Roma, perì, subito che si rendè formidabile a' suoi proprj domestici. Marzia, la favorita sua concubina, Ecletto suo cameriere, e Leto Prefetto del Pretorio, spaventati dal fato dei loro compagni e predecessori, risolverono di prevenire il colpo, che pendeva ad ogn'ora su i loro capi, o pel furioso capriccio del tiranno, o pel subitaneo sdegno del popolo. Marzia colse l'occasione di presentare al suo amante una tazza di vino, dopo che si era straccato nella caccia delle fiere. Commodo si pose a dormire, ma mentre egli era travagliato dagli effetti del veleno e dell'ubbriachezza, un giovane robusto, e lottatore di professione, entrò nella camera di lui, e senza resistenza lo strangolò. Il corpo fu portato segretamente fuori del palazzo, avanti che in città o alla Corte si avesse il minimo sospetto della morte dell'Imperatore.

Tal fu il destino del figlio di Marco Aurelio, e tanto facile fu il distruggere un tiranno aborrito, il quale abusando indegnamente del suo potere, avea per tredici anni oppressi tanti milioni d'uomini, ognuno dei quali e per valore e per talenti era eguale al Sovrano[320].

I congiurati provvidero olle cose loro con quel sangue freddo e con quella celerità, che richiedeva la grandezza dell'impresa. Risoluti di metter sul trono vacante un Imperatore, il cui carattere giustificasse o sostenesse l'azione da loro fatta, elessero Pertinace, allora Prefetto della città, vecchio Senatore consolare, il cui illustre merito avea fatto obbliare l'oscurità della sua nascita, innalzandolo alle prime dignità dello Stato. Aveva questi successivamente governato la maggior parte delle province dell'Impero; e con la sua fermezza, prudenza, ed integrità si era ugualmente segnalato in tutti i suoi grand'impieghi e militari e civili[321]. Era egli rimasto allora quasi il solo degli amici o dei ministri di Marco Aurelio; e quando lo svegliarono sull'ultima ora della notte, per dirgli che il cameriere ed il prefetto del Pretorio l'aspettavano alla porta, li ricevè con una intrepida rassegnazione, e li pregò di eseguire gli ordini del loro padrone. Invece della morte gli offrirono il trono del Mondo romano. Egli per qualche tempo diffidò delle loro intenzioni e delle loro parole: ma poi convinto che il tiranno più non viveva, accettò la porpora con la sincera e natural ripugnanza di uno, che conosce i doveri ed i pericoli del potere supremo[322].

Leto immantinente condusse il suo nuovo Imperatore al campo dei Pretoriani, spargendo nel tempo medesimo per la città l'opportuna nuova che Commodo era morto subitamente d'apoplessia, e che già il virtuoso Pertinace era salito sul trono. I soldati riceverono con più sorpresa che piacere la nuova della sospetta morte di un Principe, il quale solamente per loro erasi dimostrato indulgente e liberale; ma la necessità delle circostanze, l'autorità del loro Prefetto, la riputazione di Pertinace, ed i clamori del popolo, gli obbligarono a soffocare il loro segreto rammarico, ad accettare il donativo promesso dal nuovo Imperatore, a giurargli fedeltà, ed a condurlo con allegre acclamazioni e con rami di lauro in mano al Senato, perchè il consenso delle truppe fosse ratificato dalla civile autorità.

Quella gran notte era già molto avanzata; al nascer del giorno e del nuovo anno il Senato aspettava di esser chiamato ad assistere ad una vergognosa cerimonia. Malgrado di tutte le rappresentanze, perfino di quei cortigiani, i quali conservavano ancora un'ombra di prudenza e di onore, Commodo avea risoluto di passare la notte nella scuola dei gladiatori, e di là andare a prender possesso del Consolato, vestito da gladiatore, ed accompagnato da quella infame truppa. Ad un tratto, avanti l'alba, ricevono i Senatori l'ordine di adunarsi nel tempio della Concordia, per esservi insieme coi Pretoriani, e ratificar l'elezione di un nuovo Imperatore. Restarono per poco in un sospeso silenzio, dubbiosi della inaspettata loro liberazione, o sospettando di qualche crudele artificio di Commodo; ma finalmente, accertati che il tiranno era morto, si dettero in preda a tutti i trasporti della gioia e dell'indignazione. Pertinace modestamente rappresentò la bassezza della sua nascita, ed accennò varj nobili Senatori più degni del trono; ma obbligato di cedere a' voti dell'assemblea ed alle più sincere proteste di una fedeltà inviolabile, ricevè tutti i titoli annessi alla dignità imperiale. La memoria di Commodo fu segnata di eterna infamia; risonarono in ogni parte del tempio i nomi di tiranno, di gladiatore, di pubblico nemico. I Senatori tumultuariamente decretarono, che ne fossero aboliti gli onori, cancellati i titoli da' pubblici monumenti, rovesciate lo statue, e strascinato il corpo con un uncino nella sala dei gladiatori, per saziare il furor del popolo; ed espressero la loro indignazione contro quei servi officiosi, che avevano giù ardito di sottrarne il cadavere alla giustizia del Senato. Ma Pertinace gli fe' rendere gli ultimi onori che non potè ricusare alla memoria di Marco Aurelio, e al pianto di Claudio Pompeiano primo suo protettore, il quale deplorava la crudel sorte del suo cognato, e più deplorava i delitti pei quali egli l'avea meritata[323]. Questi sforzi d'inutil rabbia contro un Imperatore già morto, che fu l'oggetto, mentre visse, della più vile adulazione del Senato, mostravano uno spirito di vendetta più giusta che generosa. La legittimità di questi decreti era per altro appoggiata ai principj della costituzione imperiale. In ogni tempo il Senato romano ebbe l'incontrastabil diritto di censurare, o deporre, o punir con la morte il primo Magistrato della Repubblica, qualora avesse abusato dell'autorità confidatagli[324]; ma quella debole adunanza era costretta a contentarsi di esercitare sopra un tiranno di già caduto quella pubblica giustizia, dalla quale, durante la sua vita ed il suo regno, lo avea messo al coperto il formidabil potere di un militar dispotismo.

Pertinace trovò una maniera più nobile di condannar la memoria del suo predecessore, contrapponendo ai vizj di lui le sue proprie virtù. Nel giorno stesso del suo avvenimento, cedè tutto il privato suo patrimonio alla moglie ed al figlio, per toglier loro così ogni pretesto di richiedere favori a carico dello Stato. Non volle lusingar la vanità della prima con il titolo di Augusta, nè corrompere l'inesperta giovinezza del secondo colla dignità di Cesare. Distinguendo accuratamente i doveri di padre e quei di Sovrano, educò il suo figliuolo con una severa semplicità, che mentre non gli dava una sicura speranza al trono, poteva un giorno renderlo degno di salirvi. In pubblico il contegno di Pertinace era grave ed affabile. Viveva senza superbia o gelosia co' più virtuosi tra i Senatori, dei quali tutti fin dalla vita privata ei conosceva il vero carattere; considerava que' primi come amici e compagni, coi quali desiderava di godere la tranquillità del tempo presente, come era stato a parte con loro dei passati pericoli. Gl'invitava sovente a famigliari trattenimenti, la cui semplicità era chiamata ridicola da quelli che rammentavano e desideravano il prodigo lusso di Commodo[325].

La cura, qual si poteva la migliore, delle ferite fatte allo Stato dalla man del tiranno, era la piacevole ma insieme malinconica occupazione di Pertinace. Le vittime innocenti, che ancora sopravvivevano, furon richiamate dal loro esilio, liberate dall'orror della carcere, e rimesse al possesso dei loro beni e delle lor dignità. I corpi insepolti dei trucidati Senatori (giacchè Commodo stendea la sua crudeltà fin dopo la morte) furon riposti nelle tombe dei loro antenati, fu giustificata la loro memoria, e nulla si risparmiò per consolarne le afflitte e desolate famiglie. Tra queste consolazioni la più gradita fu il castigo dei delatori, nemici comuni del Sovrano, della virtù e della patria. Per altro nella ricerca ancora di questi legali assassini usò Pertinace una costante moderazione, che tutto alla giustizia donava, e nulla ai pregiudizi ed al risentimento del popolo.

Le finanze richiedevano la più attenta cura dell'Imperatore. Benchè si fosse usato ogni genere d'ingiustizia e di estorsione per radunare i beni dei sudditi nella cassa del Principe, pure le stravaganze di Commodo aveano di sì gran lunga superata la sua rapacità, che alla sua morte non si trovò nell'esausto tesoro più di sedicimila zecchini[326], con i quali conveniva pagare e le ordinarie spese del Governo, e soddisfare alla pressante richiesta di un liberal donativo, che il nuovo Imperatore avea necessariamente promesso ai Pretoriani. Pure in tanta angustia ebbe Pertinace la generosità di abolire tutte le gravose tasse inventate da Commodo, e di cassare tutte le ingiuste pretensioni del Fisco, dichiarando in un decreto del Senato «ch'egli volea piuttosto governare con innocenza una Repubblica povera, che acquistare ricchezze per vie tiranniche ed infami». Egli considerava l'economia e l'industria come le pure e vere sorgenti della ricchezze; e da questo ricavò ben presto un gran soccorso per le pubbliche necessità. La spesa del palazzo fu subito ridotta alla metà. Egli mise al pubblico incanto tutti gli strumenti di lusso[327], i servizj di oro e di argento, i cocchi di una costruzion singolare, tutte le vesti di seta e ricamate, ed un gran numero di bellissimi schiavi dell'uno e dell'altro sesso; eccettuando soltanto, con attenta umanità, quelli che, nati liberi, erano stati involati alle braccia dei piangenti lor genitori. Nel tempo stesso ch'egli obbligava gli indegni favoriti del tiranno a restituire parte delle loro mal acquistate ricchezze, soddisfaceva i legittimi creditori dello Stato, e pagava le da gran tempo arretrate pensioni a coloro, che per giusti meriti le aveano ottenute. Annullò le gravose restrizioni, che erano state fatte sopra il commercio, e concesse tutte le terre incolte dell'Italia e delle province a coloro che vollero migliorarle, esentandole per dieci anni da qualunque imposizione[328].

Una condotta così uniforme avea già assicurata a Pertinace la ricompensa più nobile per un Sovrano, la stima e l'amor del suo popolo. Quelli che si rammentavano le virtù di Marco Aurelio, con gran piacere contemplavano nel nuovo loro Imperatore i tratti di quel luminoso originale; e si lusingavano di godere lungamente la benigna influenza del suo governo. Un frettoloso zelo di riformare lo Stato corrotto, non secondato da quella prudenza, che gli anni e l'esperienza avrebbero dovuto dettare a Pertinace, divenne funesto a lui ed alla patria. La sua inopportuna virtù sollevò contro di esso quella turba servile, che trovava un interesse privato nei pubblici disordini, e preferiva il favor di un tiranno alla inesorabile egualità delle leggi[329].

In mezzo alla comune letizia, il torvo e rabbioso aspetto dei Pretoriani disvelava il loro interno mal animo. Si erano a contraggenio sottomessi a Pertinace; temevano essi il rigore dell'antica disciplina, ch'egli si disponeva a ristabilire, e sospiravano la licenza del regno passato. Furono i loro dispiaceri segretamente fomentati da Leto loro Prefetto, che troppo tardi si accorse, che il nuovo Imperatore era disposto a ricompensare i servigi di un suddito, ma non a lasciarsi regolare da un Favorito. Il terzo giorno del suo regno i soldati presero un Senatore illustre, per condurlo al campo e rivestirlo della porpora imperiale. In cambio di essere abbagliata da quell'onore pericoloso, fuggì da loro la vittima spaventata, e corse a rifuggirsi ai piedi di Pertinace. Poco tempo dopo Sosio Falco, uno dei Consoli di quell'unno, giovane temerario[330], ma di famiglia ricca ed antica, porse orecchio alla voce dell'ambizione; e in una breve assenza di Pertinace tramò una congiura, che fu sconcertata dal suo pronto ritorno a Roma, e dalla sua ferma condotta. Falco fu sul punto di essere giustamente condannato a morte come pubblico nemico, se non lo avessero salvato le premurose e sincere istanze dell'offeso Imperatore, che supplicò il Senato a non far che fosse la purità del suo regno macchiata dal sangue di un Senatore benchè colpevole.

Questi infelici successi non fecero che irritar maggiormente il furore dei Pretoriani. Ai 28 di Marzo, ottantasei giorni solamente dopo la morte di Commodo, scoppiò nel campo una sedizione generale, che gli Uffiziali non poterono o non voller sopprimere. Due o trecento dei più disperati soldati marciarono sul mezzo giorno verso il palazzo imperiale coll'armi in mano e col furore negli occhi. Ne furono aperte le porte dai loro compagni, che vi eran di guardia, e dai domestici della antica Corte, che avean già cospirato segretamente contro la vita del troppo virtuoso Imperatore. Alla nuova della lor venuta, Pertinace, sdegnando di fuggire o di ascondersi, andò incontro agli assassini; e rammentò loro la sua propria innocenza e la santità del recente lor giuramento. Per pochi momenti restaron quanti in un sospeso silenzio, vergognandosi del loro atroce disegno, ed atterriti dal venerabile aspetto e dalla maestosa fermezza del lor Sovrano; ma il disperar del perdono riaccese ben tosto il loro furore. Un barbaro nativo di Tongres[331], dette il primo colpo a Pertinace, che in un momento cadde trafitto da mille ferite. La sua testa divisa dal corpo, e posta sopra una lancia, fu portata in trionfo al campo dei Pretoriani al cospetto di un popolo afflitto e sdegnato, che piangeva l'ingiusto fato di un Principe eccellente, e la passeggiera felicità di un regno la cui memoria non dovea servire che ad aggravare le calamità che stavano per iscoppiare[332].

CAPITOLO V.

I Pretoriani vendono pubblicamente l'impero a Didio Giuliano. Clodio Albino nella Britannia, Pescennio Negro nella Siria, e Settimo Severo nella Pannonia si dichiarano contro gli assassini di Pertinace. Guerre civili e vittorie di Severo sopra i suoi tre rivali. Rilassamento della disciplina. Nuove massime di governo.

Il potere del brando riesce più sensibile in una estesa monarchia che in una piccola società. Han calcolato i più sperimentati politici, che niuno Stato, senza presto snervarsi, può mantenere più della centesima parte dei suoi sudditi in armi ed in ozio. Ma benchè questa relativa proporzione esser possa uniforme, la sua influenza sul resto della società dee variare secondo il grado della positiva sua forza. Sono inutili i vantaggi della scienza e della disciplina militare, se un numero competente di soldati non è unito in un sol corpo, ed animato da un solo spirito. Questa unione sarebbe inefficace in una piccola truppa, ed impraticabile in un numerosissimo esercito: e l'azione della macchina sarebbe ugualmente distrutta o dall'estrema piccolezza o dall'eccessivo peso delle sue molle. Pur confermare questa osservazione serve senza più il riflettere non esservi superiorità veruna di forza naturale, di armi artificiali, o di acquistata destrezza, che possa mettere un uomo nello stato di tenere in soggezione costante un centinaio di suoi simili: il tiranno di una sola città o di un piccolo distretto ben presto si accorgerebbe che cento guerrieri armati sarebbero una debol difesa contro diecimila agricoltori, o cittadini; ma centomila ben disciplinati soldati comanderanno dispoticamente a dieci milioni di sudditi; ed un corpo di dieci o quindicimila guardie metterà il terrore addosso al più numeroso popolo che mai abbia ingombrato le contrade di una immensa Capitale.

Le truppe Pretoriane, il cui licenzioso furore fu il primo indizio e la prima cagione della decadenza dell'Impero romano, non ascendeano che appena a quel numero[333]. Dovevano esse l'istituzione loro ad Augusto. Avvistosi quell'accorto tiranno, che il suo usurpato dominio potea colorirsi dalle leggi, ma conservarsi solo con le armi, aveva a poco a poco formato questo corpo formidabile di guardie, pronte sempre a difendere la sua persona, a contenere il Senato, ed a prevenire o dissipare ogni primo moto di ribellione. Distinse queste truppe favorite con doppia paga e privilegi che le metteano sopra dell'altre; ma siccome avrebbe il loro formidabile aspetto atterriti ad un tempo ed irritati i Romani, ne stanziò tre sole coorti nella Capitale, mentre il resto era disperso nelle circonvicine città dell'Italia[334]. Ma dopo cinquant'anni di pace e di schiavitù, Tiberio avventurò un decisivo passo, che strinse per sempre le catene della sua patria. Sotto gli speciosi pretesti di sollevare l'Italia dal grave peso de' quartieri militari, e d'introdur tra le guardie una disciplina più rigorosa, le radunò a Roma in un campo permanente[335] benissimo fortificato[336], e situato in modo che tutta la città dominava[337].

Questi servi così formidabili sono sempre necessari, ma spesso fatali al trono del dispotismo. In questa maniera, introducendo i Pretoriani, per così dire, dentro la reggia e il Senato, gl'Imperatori, gli avvezzarono a conoscere la propria lor forza e la debolezza del Governo civile; a riguardare i vizj dei loro sovrani con un famigliare disprezzo; ed a perdere quel riverente timore, che la sola distanza ed il mistero possono conservare verso un immaginario potere. In mezzo agli oziosi piaceri di una città opulenta, il loro orgoglio si nutriva col sentimento della irresistibil lor forza, nè era possibile celare ad essi, che la persona del sovrano, l'autorità del Senato, il pubblico tesoro e la sede dell'Impero erano interamente nelle lor mani. Per distrarli da queste pericolose riflessioni, i Principi più saldi, e meglio stabiliti erano astretti a frammischiar le carezze co' comandi, le ricompense co' castighi, a lusingare il loro orgoglio, a condescendere a' loro capricci, a dissimulare le loro irregolarità, ed a comprare la precaria lor fedeltà con un liberal donativo, che quelli dall'avvenimento di Claudio in poi, esigevano come un legittimo diritto, nell'elezione di ciascun nuovo Imperatore[338].

I partigiani delle guardie procurarono di giustificare con gli argomenti una potenza, che queste sostenevan con le armi; e di provare che, secondo i migliori principj della costituzione, il lor consenso era essenzialmente necessario alla creazione di un Imperatore. L'elezione dei Consoli, dei Generali e dei magistrati, benchè recentemente usurpata dal Senato, era un antico incontrastabil diritto del popolo romano[339]. Ma dove allora trovar questo popolo? Non certamente tra la mista moltitudine degli schiavi e degli stranieri, che ingombrava le strade di Roma; vil plebaglia, non men dispregevole per la bassezza dei sentimenti, che per la miseria. I difensori dello Stato, scelti tra il fiore della gioventù italiana[340], ed allevati nell'esercizio dell'armi e della virtù, erano i veri rappresentanti del popolo, ed aveano il miglior diritto ad eleggere il Capo militare della repubblica. Quest'argomento, benchè mancante di ragione, divenne convincentissimo, quando i fieri pretoriani ne accrebbero il peso, gettando, come il barbaro conquistatore di Roma, le loro spade nella bilancia[341].

I pretoriani che aveano violata la santità del trono con l'atroce assassinio di Pertinace, ne disonorarono la maestà con la loro susseguente condotta. Il campo era senza capo, essendosi il Prefetto Leto, autor della tempesta, prudentemente involato alla pubblica indignazione, in quel furioso tumulto. Sulpiciano, suocero dell'Imperatore e governatore della città, ch'era stato mandato al campo al primo rumore di ribellione, procurava di calmare la furia della moltitudine, quando gli fu imposto silenzio dal clamoroso ritorno degli assassini portanti in cima ad una lancia la testa di Pertinace. Benchè la storia ci avvezzi a vedere ogni principio ed ogni passione cedere ai dettami imperiosi della ambizione, ciò non ostante pare appena credibile, che in quei momenti di orrore dovesse Sulpiciano aspirare ad un trono macchiato di fresco dal sangue di un parente sì stretto, e di un Principe così eccellente. Aveva già egli principiato ad usare l'unico efficace argomento, a contrattar cioè la dignità imperiale; ma i più accorti tra i pretoriani temendo di non conseguire in questo privato contratto il giusto prezzo di sì valutabil merce, corsero su i terrapieni, e ad alta voce promulgarono, che il Mondo romano si sarebbe pubblicamente venduto al miglior compratore[342].

Questa infame offerta, eccesso il più insolente della militare licenza, sparse per tutta la città un dolore universale, un senso di vergogna e di sdegno. Arrivonne finalmente il grido agli orecchi di Didio Giuliano, senatore opulento, che insensibile alle pubbliche calamità se ne stava occupato nei piaceri del banchetto[343]. La sua moglie e la figlia, i suoi liberti ed i suoi parassiti facilmente lo persuasero, ch'era degno del trono, ed instantemente lo scongiurarono ad abbracciare sì fortunata occasione. L'ambizioso vecchio andò in fretta al campo dei pretoriani, dove Sulpiciano era tuttora in trattato con essi, e dal basso del terrapieno principiò a fare dell'offerte. L'indegno mercato era condotto per mezzo di fedeli emissarj, che passavano alternativamente da un candidato all'altro, informando ciascuno dell'offerte del suo rivale. Avea già Sulpiciano promesso un donativo di cinquemila dramme, cioè più di 320 zecchini per soldato, quando Giuliano, avido del trono, salì in un tratto alla somma di seimila dugento cinquanta, ossia più di 400 zecchini. Furono subito aperte le porte al compratore che, dichiarato Imperatore, ricevè il giuramento di fedeltà dai soldati, ne' quali fu tanta umanità da stipulare che perdonare ei dovesse a Sulpiciano e dimenticare di averlo avuto a competitore.

Era dovere dei pretoriani di eseguire le condizioni della vendita. Posero il lor nuovo sovrano, che servivano e disprezzavano, nel centro delle lor file, lo circondarono da ogni parte con i loro scudi, e in ordine di battaglia lo condussero per le strade deserte della città. Fu ordinato al Senato di radunarsi, e gli amici più ragguardevoli di Pertinace, non meno che i nemici personali di Giuliano, crederono necessario di mostrarsi più degli altri lieti e contenti di questa rivoluzione felice[344]. Poscia ch'ebbe ingombrato il Senato di armati, Giuliano ragionò lungamente sulla libertà della sua elezione, sulle proprio eminenti virtù, e sulla sua piena confidenza nell'amor del Senato. L'ossequiosa assemblea si congratulò della propria e pubblica felicità, gli giurò fedeltà, e gli conferì tutte le diverse prerogative della potestà imperiale[345]. Dal Senato fu Giuliano con la stessa militar processione condotto a prender possesso del palazzo. I primi oggetti, che colpirono la sua vista, furono il tronco cadavere di Pertinace, ed i frugali preparativi per la sua cena. Riguardò quello con indifferenza, questi con disprezzo. Ordinò che si preparasse un sontuoso banchetto, e consumò gran parte della notte giocando ai dadi, e vedendo i balli di Pilade, celebre saltatore. Fu per altro osservato che, dileguata la folla dei cortigiani, e rimasto solo nell'oscurità, nella solitudine ed in balìa della terribile riflessione, passò tutta la notte senza dormire, forse rammentando a se stesso la sua temeraria follìa, il fato del suo virtuoso predecessore, e l'incerto e pericoloso possesso di un Impero, che non aveva acquistato col merito, ma comprato con il denaro[346].

Ragione di tremare egli aveva. Sopra il trono del Mondo, si trovò senza amici e senza aderenti. Le guardie stesse si vergognavano di servire ad un Principe che avevano accettato per avarizia; nè v'era cittadino, il quale non considerasse con orrore l'innalzamento di lui, come l'ultimo insulto fatto al nome romano. I nobili, il cui grado cospicuo e le ampie ricchezze esigevano le più attente precauzioni, dissimulavano i loro sentimenti, e ricevevano le affettate civiltà dell'Imperatore con un sorriso di compiacenza e con proteste di fedeltà. Ma il popolo, che il numero e l'oscurità rendevan sicuro, lasciava libero il corso a' suoi trasporti. Per le strade e per le pubbliche piazze di Roma non si udivano che clamori ed imprecazioni. La moltitudine arrabbiata insultava la persona di Giuliano, ne rigettava le liberalità, e consapevole dell'impotenza del proprio risentimento, chiamava ad alta voce le legioni delle frontiere a vendicare la violata maestà dell'Impero romano.

La pubblica scontentezza si sparse tosto dal centro alle frontiere dell'Impero. Gli eserciti della Britannia, della Siria e dell'Illirico deplorarono la morte di Pertinace, in compagnia, e sotto il comando del quale avean fatte tante guerre e tante conquiste. Riceverono con sorpresa, con indignazione e forse con invidia, la strana nuova della pubblica vendita, che i Pretoriani fatto avean dell'Impero e fieramente ricusarono di ratificare il vergognoso accordo. La subita loro ed unanime sollevazione riuscì fatale a Giuliano, ed alla pubblica pace nel tempo stesso; giacchè i Generali delle rispettive armate, Clodio Albino, Pescennio Negro, e Settimio Severo, eran più ansiosi di succedere a Pertinace che di vendicarne la morte. Lo loro forze erano precisamente eguali. Ciascun di loro capitanava tre legioni[347] con un seguito numeroso di ausiliarj; e benchè diversi di carattere, eran tutti soldati forniti d'esperienza e di capacità.

Clodio Albino, governatore della Britannia, era superiore ai suoi rivali per la nobiltà della famiglia, contando tra i suoi antenati alcuni dei personaggi più illustri dell'antica repubblica[348]. Ma il ramo, da cui discendeva, era caduto in povertà e trapiantato in una provincia remota. È difficile di formare una giusta idea del suo vero carattere. Viene accusato di aver sotto il filosofico manto dell'austerità nascosti tutti i vizj che disonorano l'umana natura[349]. Ma i suoi accusatori sono quegli scrittori venali, che adoravano la fortuna di Severo, calpestando le ceneri del suo infelice rivale. La virtù o l'apparenza di quella procurò ad Albino la confidenza e la stima di Marco Aurelio, e l'aver egli conservato sul figlio la medesima influenza ch'ebbe sul padre, è una prova almeno, ch'egli era d'un'indole assai pieghevole. Il favore di un tiranno non sempre suppone una mancanza di merito in colui che ne è l'oggetto; può egli a caso ricompensare un uomo di merito e di abilità, o considerarlo utile al suo servizio. Non pare che Albino servisse il figliuolo di Marco Aurelio o come ministro delle sue crudeltà, o come compagno de' suoi piaceri. Era egli lontano, impiegato in un onorevol comando, quando ricevè dall'Imperatore una lettera confidenziale, in cui l'informava delle trame di alcuni Generali malcontenti, e lo autorizzava a dichiararsi difensore e successore del trono, prendendo il nome e le insegne di Cesare[350]. Il governator della Britannia saggiamente scansò quell'onore pericoloso, che lo avrebbe esposto alla gelosia, o involto nella prossima rovina di Commodo. Usò egli, per innalzarsi, degli artificj più nobili o almeno più speciosi. Ad un prematuro avviso della morte dell'Imperatore adunò le sue truppe, e deplorò con un eloquente discorso le inevitabili calamità del dispotismo; descrisse la felicità e la gloria goduta dai loro antenati sotto il governo consolare, e dichiarò la sua ferma risoluzione di rendere al Senato ad al popolo la loro legittima autorità. Le legioni britanniche risposero con alte acclamazioni a questo discorso popolare, che fu ricevuto a Roma con applausi secreti. Tranquillo possessore di quel piccolo Mondo, e comandante di un esercito, meno distinto invero per la sua disciplina che pel numero e pel valore[351], Albino disprezzò le minacce di Commodo, conservò verso Pertinace un ambiguo ed altiero contegno, e subito si dichiarò contro l'usurpazione di Giuliano. Le convulsioni della Capitale davano un nuovo peso a' suoi sentimenti, o piuttosto alle sue proteste di amore di patria. Un decente riguardo gl'impedì di prendere i pomposi titoli di Augusto e d'Imperatore; forse imitando l'esempio di Galba, che in una simile occasione si era dato il nome di luogotenente del Senato e del popolo[352].

Il solo merito personale avea innalzato Pescennio Negro da una nascita oscura e da un oscuro stato al governo della Siria; impiego importante e lucroso, che in tempo di civil confusione gli dava un vicino prospetto dal trono. Sembra per altro che i suoi talenti fosser più adattati al secondo grado che al primo. Rivale troppo debole, sarebbe riuscito un eccellente generale di Severo, il quale ebbe bastante grandezza d'animo per adottare diverse utili istituzioni di un vinto nemico[353]. Nel suo governo, Negro si acquistò la stima dei soldati e l'amore dei provinciali. La sua rigida disciplina accrebbe il valore, e conservò l'obbedienza dei primi; mentre a' voluttuosi Sirj rendevasi grato con la moderata fermezza del suo governo, e più ancora con l'affabilità delle sue maniere, e colla soddisfazione, che apparentemente dimostrava, assistendo alle loro frequenti e pompose feste[354]. Appena fu sparsa in Antiochia la nuova dell'atroce assassinio di Pertinace, i voti di tutta l'Asia invitarono Negro a prendere la porpora imperiale, ed a vendicarne la morte. Le legioni della frontiera orientale si dichiararono per lui; le ricche, ma inermi province dalle frontiere dell'Etiopia[355] fino all'Adriatico, con piacere si sottomisero a lui; ed i Re, che erano di là dal Tigri e dall'Eufrate, congratulandosi della sua elezione, gli offerirono omaggio e soccorso. Negro non avea l'animo abbastanza grande per sostenere questa subita rivoluzione della fortuna; si lusingò che il suo avvenimento non sarebbe disturbato da alcun rivale, nè macchiato di sangue civile; ed occupato nella vana pompa del trionfo, trascurò i mezzi di assicurarsi della vittoria. Invece di entrar in trattato coi potenti eserciti dell'Occidente, che soli potevano o decidere o bilanciare almeno la gran contesa; invece di marciare immediatamente verso Roma e l'Italia, dove ansiosamonte si aspettava la sua presenza[356], Negro perdè nei piaceri di Antiochia quei preziosi momenti, dei quali seppe diligentemente profittare la decisiva attività di Severo[357].

La provincia della Pannonia e Dalmazia, che si stendeva dal Danubio all'Adriatico, fu una delle ultime e più faticose conquiste dei Romani. Dugentomila di quei Barbari, venuti una volta in campo a difendere la libertà nazionale, spaventarono il vecchio Augusto, ed esercitarono la vigilante prudenza di Tiberio, che li combattè alla testa di tutte le forze riunite dell'Imperatore[358]. I Pannonj finalmente cederono alle armi ed alla disciplina dei Romani. Ma però la fresca memoria della perduta libertà, la vicinanza ed anche il mescuglio delle tribù indipendenti, e forse il clima stesso, che (come è stato osservato) produce gli uomini di statura gigantesca, ma di poco intelletto[359], tutto in somma contribuì a conservar qualche avanzo della loro ferocia nativa, e sotto la mansueta sembianza di provinciali romani si scorgevano sempre i fieri lineamenti della nazione. La guerriera lor gioventù forniva sempre di reclute le legioni accampate sulle rive del Danubio, le quali per le continue loro guerre contro i Germani ed i Sarmati, eran giustamente stimate le migliori truppe dell'Impero.

L'esercito della Pannonia era allora comandato da Settimio Severo, nativo dell'Affrica, il quale nell'ascendere di grado in grado per gli onori privati, avea saputo nascondere la sua ardita ambizione, che nè le attrattive del piacere, nè il timor del pericolo, nè le altre umane passioni avean fatta deviare dal costante suo corso[360]. Alla prima nuova dell'assassinamento di Pertinace, egli radunò le sue truppe, dipinse con i colori più vivi il delitto, l'insolenza e la debolezza dei Pretoriani, ed animò le legioni alle armi ed alla vendetta. Finì con un'eloquentissima perorazione, promettendo quasi ottocento zecchini ad ogni soldato, donativo magnifico, e doppio di quello, con cui l'infame Giuliano avea comprato l'Impero[361]. Immediatamente l'esercito, alzando grandi acclamazioni, salutò Severo con i nomi di Augusto, di Pertinace e d'Imperatore; od egli così pervenne a quel grado sublime, al quale si credeva chiamato dal proprio merito, e da una lunga serie di sogni e di presagi, utili parti della sua superstizione o politica[362].

Il nuovo pretendente all'Impero conobbe il vantaggio particolare della sua situazione, e ne profittò. La sua provincia si estendeva fino alle alpi Giulie, che gli davano un facile accesso nell'Italia; ed egli si ricordò il detto di Augusto, che un'armata della Pannonia poteva in dieci giorni venire alla vista di Roma[363]. Usando di una celerità proporzionata alla grandezza della impresa, egli poteva con ragione sperare di vendicar Pertinace, punir Giuliano, e ricever gli omaggi del Senato e del popolo, come lor legittimo Imperatore, prima che i suoi competitori, separati dall'Italia, per un immenso tratto di mare e di terra, avessero alcuno avviso dei suoi successi, e tampoco della sua elezione. In tutta questa spedizione concesse appena pochi momenti al riposo ed al cibo; marciando a piedi, e coll'intera armatura, ed alla testa delle sue colonne, s'insinuava nella confidenza e nell'amore delle truppe, ne accresceva l'attività, animando il loro coraggio e le loro speranze; ed avea piacere per fino di esser a parte delle fatiche di ogni comune soldato, rappresentandogli sempre per altro la grandezza della ricompensa.

Lo sventurato Giuliano, che si aspettava e si credea preparato a disputare l'Impero con il governator della Siria, vide inevitabile la sua rovina all'avvicinarsi delle rapide ed invincibili legioni della Pannonia. L'arrivo precipitoso di ogni corriere accresceva i suoi giusti timori. Gli fu successivamente annunziato che Severo avea passate le Alpi; che le città dell'Italia non volendo, o non potendo opporsi ai suoi progressi, lo avean ricevuto con le più vive proteste di gioia e sommissione; che la piazza importante di Ravenna si era renduta senza resistenza, e che la flotta adriatica era in potere del conquistatore. Il nemico ora allora a dugentocinquanta miglia da Roma, ed ogni momento accorciava il breve tempo accordato alla vita ed all'Impero di Giuliano.

Procurò egli, per altro, di prevenire o di prolungare almeno la sua rovina. Implorò la fede venale dei Pretoriani, empiè la Capitale di vani preparativi di guerra, tirò delle linee intorno ai sobborghi; e si fortificò perfino nel palazzo, come se fosse stato possibile, senz'alcuna speranza di soccorso, di difendere queste ultime trincere contro il vittorioso invasore. La vergogna e il timore ritennero in dovere i Pretoriani, ma tremavano essi al solo nome delle legioni della Pannonia, comandate da un Generale sperimentato ed avvezzo a vincere i Barbari sul gelato Danubio[364]. Lasciavano essi sospirando i bagni ed i teatri per prender quelle armi che non sapean quasi più maneggiare, e sotto il cui peso parevano oppressi. Gl'indocili elefanti, il cui terribile aspetto si sperava che dovesse intimorire le armate del Settentrione, gettavano in terra i condottieri mal pratici. Le evoluzioni degl'inesperti soldati di marina, tratti dalla flotta di Miseno, erano oggetto di riso per la plebaglia, mentre il Senato vedeva con secreto piacere le angustie e la debolezza dell'usurpatore[365].

Ogni moto di Giuliano manifestava la sua timorosa incertezza. Ora insisteva presso il Senato, che dichiarasse Severo nemico della patria; ora desiderava che il Generale della Pannonia fosse associato all'Impero; ora mandava pubblici ambasciatori di grado consolare per trattare con il rivale; ed ora spediva dei secreti assassini per ucciderlo. Ordinò alle Vestali, ed a tutti i collegi dei Sacerdoti che co' loro abiti di cerimonia, e portando innanzi i sacri pegni della religione romana andassero in processione solenne ad incontrare le legioni della Pannonia, e nel tempo stesso vanamente si sforzava d'interrogare o di placare i destini con magiche cerimonie e sacrifizj illegittimi[366].

Severo, che non temeva nè le armi nè gl'incantesimi di Giuliano, si assicurò dal solo pericolo di una secreta congiura, facendosi accompagnare da seicento soldati scelti e fidati, i quali sempre armati gli furono a fianchi la notte ed il giorno, durante tutta la marcia. Nulla arrestò il suo rapido corso; ed avendo passato, senza ostacolo, le foci degli Appennini, trasse nel suo partito lo truppe e gli ambasciatori spediti per ritardare i suoi progressi, e fece una breve fermata a Interamna, quasi settanta miglia lungi da Roma. Era già sicura la sua vittoria; ma la disperazione dei Pretoriani avrebbe potuta renderla sanguinosa; e Severo aveva la lodevolissima ambizione di voler salire sul trono senza sguainare la spada[367]. I suoi emissarj, dispersi nella Capitale, assicurarono le guardie, che se abbandonassero il loro indegno Principe, e gli autori della morte di Pertinace alla giustizia del conquistatore, egli non più riguarderebbe l'intero corpo come reo di quel funesto accidente. Gl'infidi Pretoriani, la resistenza dei quali era solamente sostenuta da una fiera ostinazione, accettarono con piacere sì vantaggiose condizioni, arrestarono la maggior parte degli assassini, e dichiararono al Senato ch'essi più non volevan difendere la causa di Giuliano. Quest'assemblea, convocata dal Console, riconobbe unanimemente Severo per legittimo Imperatore, decretò gli onori divini a Pertinace, e pronunziò la sentenza di degradazione e di morte contro lo sventurato successore del medesimo. Fu Giuliano condotto in un appartamento privato dei bagni del palazzo, e decapitato come un vil delinquente, dopo di essersi comprato con immensi tesori un regno angustioso e precario di soli sessantasei giorni[368].

La celerità quasi incredibile di Severo, che in sì breve tempo condusse una numerosa armata dalle rive del Danubio su quelle del Tevere, prova l'abbondanza delle provvisioni, prodotta dall'agricoltura e dal commercio, la bontà delle strade, la disciplina delle legioni, e l'indolente carattere delle conquistate province[369].

Le prime cure di Severo furon rivolte a due oggetti, uno dettato dalla politica, e l'altro dal decoro; cioè la vendetta, e gli onori dovuti alla memoria di Pertinace. Avanti di cui entrare re in Roma, il nuovo Imperatore comandò, che i pretoriani disarmati, o con gli abiti di cerimonia, con i quali eran soliti di accompagnare il loro sovrano, aspettassero il suo arrivo in una vasta pianura vicino alla città. Fu obbedito da quelle orgogliose truppe, il cui pentimento era l'effetto dei lor giusti timori. Uno scelto distaccamento dell'armata illirica li circondò colle lancie distese. Non potendo nè fuggir, nè resistere, aspettavano il loro fato con una tacita costernazione. Montò Severo sul tribunale, rimproverò aspramente la loro perfidia e la lor codardia, li licenziò con ignominia come traditori, gli spogliò degli splendidi loro ornamenti, e li bandì sotto pena di morte alla distanza di cento miglia da Roma. Durante questa esecuzione era stato mandato un altro distaccamento ad impadronirsi delle armi e del campo loro, per prevenire le subite conseguenze della loro disperazione[370].

Il funerale e la consacrazione di Pertinace fu dipoi celebrata con ogni apparato di lugubre magnificenza[371]. Il Senato rendè con un piacere malinconico gli ultimi doveri a quel principe eccellente ch'egli avea amato, e che piangeva tuttavia. La mestizia del suo successore era probabilmente meno sincera. Costui pregiava, è vero, le virtù di Pertinace, ma queste virtù avrebber sempre ritenuta la sua ambizione in uno stato privato. Severo recitò la funebre orazione di lui con una eloquenza studiata, e non ostante la sua interna contentezza, affettò un vero dolore; e con questi religiosi officj verso la memoria di Pertinace, persuase alla credula moltitudine, ch'egli era il solo degno di succedergli. Conoscendo per altro che le armi e non le cerimonie poteano sostenere le sue pretensioni all'impero, lasciò Roma dopo trenta giorni, e senza gonfiarsi di una vittoria così facile, si preparò a combattere i suoi rivali più formidabili.

I rari talenti e la fortuna di Severo hanno indotto un elegante Storico a paragonarlo al primo e al più grande dei Cesari[372]. Il parallelo è imperfetto almeno. Come trovare nel carattere di Severo quella imponente superiorità d'animo, quella generosa clemenza, e quel vasto genio, che sapeva unire e conciliare l'amor del piacere, la sete delle cognizioni, ed il fuoco dell'ambizione[373]? Possono al più questi due Principi paragonarsi con qualche ragione nella celerità de' loro moti e delle loro civili vittorie. In men di quattr'anni[374] Severo soggiogò i ricchi Orientali ed i valorosi abitatori dell'Occidente. Vinse due competitori abili e rinomati, e disfece numerosi eserciti, per armi e disciplina uguali al suo. In quel secolo l'arte della fortificazione, ed i principj della tattica erano famigliari ai Generali romani; e la costante superiorità di Severo era quella di un artefice, che si serve dei medesimi strumenti con più abilità ed industria dei suoi rivali. Non entrerò per altro in minuto racconto delle sue militari operazioni; ma siccome le due guerre civili contro Negro ed Albino furon quasi simili per la condotta, per l'esito, e per le conseguenze, così raccoglierò in un sol punto di vista le circostanze più forti, e più atte a mostrare il carattere del vincitore e lo stato dell'Impero.

La dissimulazione e la perfidia, benchè sembrino incompatibili con la dignità del Governo, pure ci paiono meno vili negli affari di Stato che nell'ordinario commercio della privata società. Qua mostrano una mancanza di coraggio, là solamente una mancanza di forza; e siccome è impossibile agli Statisti più abili di soggiogare con la forza lor personale milioni d'uomini e di nemici, il Mondo perciò, sotto il nome di politica, pare che lor permetta una dose abbondante di astuzia e di dissimulazione. Ciò non ostante i più gran privilegi della ragione di Stato non possono giustificare gli artifizj di Severo. Egli prometteva solamente per tradire, lusingava per rovinare, e sebbene, secondo le circostanze, si vincolasse con giuramenti e trattati, la sua coscienza serva del suo interesse, sempre lo scioglieva da un'incomoda obbligazione[375].

Se i suoi due rivali, riconciliati dal loro comune pericolo, si fossero avanzati contro di lui senza indugio, forse Severo sarebbe stato oppresso dalle lor forze riunite. Se almeno lo avessero attaccato nel tempo medesimo con fini diversi, e con armate diverse, la contesa forse sarebbe stata lunga e dubbiosa. Ma essi caddero, un dopo l'altro, facili vittime degli artifizj e delle armi del loro accorto nemico, addormentati nella sicurezza della moderazione delle sue proteste, e sconcertati dalla rapidità delle sue azioni. Egli prima marciò contro Negro, la cui reputazione e potenza egli più temeva: ma evitò ogni dichiarazione di guerra, e sopprimendo il nome del suo antagonista, espose solamente al Senato ed al popolo la sua intenzione di ordinare le province orientali. In privato parlava di Negro col più affettuoso riguardo, chiamandolo suo vecchio amico e suo successore[376] ed altamente applaudiva il suo generoso disegno di vendicare la morte di Pertinace. Era dovere di ogni Generale romano di punire il vile usurpatore del trono; ma il perseverare nelle armi, e resistere ad un legittimo Imperatore, riconosciuto dal Senato, bastava per farlo reo[377]. I figli di Negro erano caduti nelle sue mani insieme con quelli degli altri governatori provinciali, ritenuti a Roma come ostaggi per la fedeltà dei loro genitori[378]. Finchè la potenza di Negro fu da temersi, o almeno da rispettarsi, Severo li fece educare colla più tenera cura in compagnia dei proprj figli; ma presto furono avvolti nella rovina del padre, e sottratti prima coll'esilio, poi colla morte allo sguardo della pubblica compassione[379].

Mentre Severo era occupato alla guerra in Oriente, avea ragiono di temere che il governatore della Britannia non passasse il mare e le alpi, occupasse la sede vacante dell'Impero, e si opponesse al suo ritorno coll'autorità del Senato, e colle forze dell'Occidente. La dubbia condotta di Albino, non nell'assumere il titolo imperiale, lasciò campo ai trattati. Obbliando e le sue proteste di patriottismo, e la gelosia del potere sovrano, egli accettò la precaria dignità di Cesare, come ricompensa della sua fatale neutralità. Finchè la prima contesa non fu decisa, Severo trattò un uomo, di cui avea giurata la morte, con ogni segno di stima e riguardo. Nella lettera medesima, in cui gli annunzia la disfatta di Negro, chiama Albino suo fratello e collega, gl'invia gli affettuosi saluti della sua moglie Giulia e de' suoi figli; e lo prega a mantenere gli eserciti, e la Repubblica fedeli al lor comune interesse. I latori di questa lettera aveano ordine di presentarsi a quel Cesare con rispetto, chiedere un'udienza privata, ed immergergli i loro pugnali nel cuore[380]. Fu la congiura scoperta, e il troppo credulo Albino passò alla fine nel Continente, e si preparò ad una disuguale contesa contro il suo rivale, che mosse ad affrontarlo, conducendo un vittorioso esercito di veterani.

Le fatiche militari di Severo non sembrano adeguate alla grandezza delle sue conquiste. Due azioni, l'una vicina all'Ellesponto, l'altra negli angusti passi della Cilicia, decisero della sorte di Negro; e le truppe europee conservarono il solito loro ascendente sugli Asiatici effeminati[381]. La battaglia di Lione, dove combatterono 150,000 Romani[382], fu ugualmente fatale ad Albino. Il valore dell'esercito britannico resistè lungamente alla prode disciplina elle legioni illiriche, e tenne la vittoria dubbiosa. La riputazione, e la persona di Severo per pochi momenti sembrarono irreparabilmente perdute, finchè questo Principe guerriero, raccolte le sue truppe impaurite, le ricondusse a una decisiva vittoria[383]. Quel memorabil giorno vide terminata la guerra.

Le discordie civili dell'Europa moderna sono state contraddistinte non solamente dalla fiera animosità, ma ancora dalla ostinata perseveranza delle fazioni nemiche. Esse sono state generalmente giustificate per qualche principio, o almeno colorite con qualche pretesto di religione, di libertà, o di dovere. I capi erano nobili, potenti per independente proprietà e per ereditaria influenza. I soldati combattevano come uomini interessati nella decisione della lite, e siccome lo spirito militare, e lo zelo di partito erano vivamente diffusi in tutta l'intera società, un vinto Generale veniva immediatamente soccorso da nuovi aderenti, ansiosi di spargere il loro sangue nella causa medesima. Ma i Romani, dopo la caduta della Repubblica, non combattevano che per la scelta di un padrone; l'insegna di un pretendente popolare al trono era seguita da pochi per affetto, da alcuni per timore, da molti per interesse, da niuno per principio. Le legioni, non accese da amore di parte, erano tratte alla guerra civile da liberali donativi, e da ancor più liberali promesse. Una disfatta, togliendo al Generale i mezzi di soddisfare al suo impegno, scioglieva i suoi mercenarj soldati dal giuramento, e loro permetteva di provvedere alla propria salvezza con abbandonare a tempo un partito infelice. Poco premea alle province sotto nome di chi fossero oppresse o governate. Tratto dall'impulso del potere presente, appena questo cedeva ad una forza superiore, si affrettavano ad implorare la clemenza del vincitore, il quale per soddisfare al suo immenso debito, sacrificava le province più colpevoli all'avarizia de' suoi soldati. Nella vasta estensione dell'Impero romano v'erano poche città fortificate, che dar potessero asilo ad un'armata sconfitta; nè v'era persona, famiglia, o ordine d'uomini, che col solo suo credito, non sostenuto dal potere del Governo, fosse capace di ristabilire la causa di un moribondo partito[384].

Nella guerra, per altro, tra Negro e Severo, una sola città merita distinzione onorevole. Bisanzio, uno dei passaggi più importanti dall'Europa nell'Asia, era stato munito con forte guarnigione; e una flotta di cinquecento vascelli vi si ricettava nel porto[385]. L'impetuosità di Severo rendè vano questo prudente apparato di difesa; lasciati i suoi Generali all'assedio di Bisanzio, egli forzò il men difeso passo dell'Ellesponto, ed impaziente di combattere un nemico men forte, si affrettò ad incontrare il rivale. Bisanzio, assalito da una numerosa e crescente armata, e poscia da tutte le forze navali dell'Impero, sostenne un assedio di tre anni, e si mantenne fedele al nome ed alla memoria di Negro. I cittadini ed i soldati (non si sa per qual cagione) erano animati da egual furore; parecchi dei principali uffiziali di Negro, che sdegnavano il perdono, o ne disperavano, si erano gettati in quell'ultimo asilo; le fortificazioni venivano riputate inespugnabili, ed un celebre ingegnere adoperò, nella difesa di quella piazza, tutte le forze della meccanica conosciuta agli antichi[386]. Bisanzio alla fine si rendè alla fame. I magistrati ed i soldati furono passati a fil di spada, le mura abbattute, i privilegi soppressi, e quella città, che dovea poi esser capitale dell'Oriente, divenne un piccolo villaggio aperto, e soggetto alla insultante giurisdizione di Perinto. Dione lo Storico, che aveva ammirato il florido stato di Bisanzio, ne deplorò la calamità, accusando la vendetta di Severo di aver tolto al popolo romano il baluardo più forte contro i Barbari del Ponto e dell'Asia[387]. La verità di questa osservazione non fu che troppo giustificata nel secolo susseguente, quando le flotte dei Goti coprirono l'Eusino, e penetrarono per l'indifeso Bosforo nel centro del Mediterraneo.

Negro ed Albino furono scoperti ed uccisi ambedue, mentre fuggivano dal campo di battaglia. Il fato loro non eccitò sorpresa nè compassione. Avean giocato la vita per un Impero, e soggiacquero alla sorte stessa, che vincitori avrebbero fatta sopportare al vinto, nè Severo avea quell'arrogante superiorità, che permette a un rivale di vivere in condizione privata. Ma l'inesorabile suo carattere, stimolato dall'avarizia, lo portò alla vendetta, quando nulla gli rimaneva più da temere. I più considerabili tra i provinciali, che senza avversione alcuna al fortunato pretendente, avevano ubbidito al governatore, sotto l'autorità del quale si erano casualmente trovati, furono puniti con la morte, con l'esilio, e specialmente con la confiscazione de' loro beni. Molte città dell'Oriente furono private dei loro antichi onori, ed obbligate a pagare al tesoro di Severo il quadruplo delle somme che avevano somministrato in servizio di Negro[388].

Fino all'ultima decisione della guerra, la crudeltà di Severo fu in qualche modo raffrenata dall'incertezza dell'evento, e dal suo simulato rispetto verso il Senato. Ma la testa di Albino, accompagnata da una lettera minacciante, annunziò ai Romani, ch'egli era risoluto di esterminare tutti gli aderenti dei suoi sventurati competitori. Era irritato dal giusto sospetto, che in se portava, di non esser mai stato caro al Senato, e mascherò la sua antica animosità con il pretesto di nuovi tradimenti scoperti. Perdonò per altro francamente a trentacinque Senatori, accusati di aver favorito il partito di Albino, e si sforzò poi con la sua condotta di convincerli, ch'egli avea perdonate ed obbliate le loro supposte offese. Ma nel tempo stesso condannò altri quarantuno[389] Senatori, dei quali la Storia ci ha trasmesso i nomi: le vedove, i figli ed anche i clienti loro soggiacquero allo stesso supplizio, ed i più nobili provinciali della Spagna e della Gallia caddero involti nella stessa rovina. Una così rigida giustizia, (giacchè così la chiamava) era nell'opinione di Severo la sola condotta valevole ad assicurare la pace al popolo, o al Principe la stabilità; e leggermente si piegava a lamentarsi che per poter essere clemente, gli convenisse prima esser crudele[390].

Il vero interesse di un Monarca assoluto in generale coincide con quel de' suoi sudditi. Il loro numero, l'opulenza, l'ordine e la sicurezza loro sono i soli, e i più saldi fondamenti della sua vera grandezza; e quando ei fosse totalmente privo di virtù, potrebbe, anzi dovrebbe la prudenza, invece di lei, dettargli le stesse regole di condotta. Severo considerava l'Impero romano come suo patrimonio, e quando se n'ebbe assicurato il possesso, rivolse ogni sua cura a coltivare e migliorare un acquisto così prezioso. Leggi salutevoli, inviolabilmente eseguite, corressero ben presto la maggior parte degli abusi, che dalla morte di Marco Aurelio in poi si erano introdotti in ogni parte del Governo. Nell'amministrazione della giustizia l'attenzione, il discernimento e l'imparzialità dettavano all'Imperatore le sentenze; e qualora deviò dal rigoroso sentiero della giustizia, fu generalmente per favorire i miseri e gli oppressi; non tanto, a dir vero, per sentimento di umanità, quanto per la naturale inclinazione di un despota ad umiliare la superbia dei grandi, ed a ridurre tutti i sudditi allo stesso comun livello di dipendenza assoluta. Il suo dispendioso gusto per le fabbriche, pei pomposi spettacoli, e soprattutto una distribuzione liberale e costante di grano e di provvisioni, furono i mezzi più sicuri di cattivarsi l'amore del popolo romano[391]. Si dimenticarono le sventure della guerra civile. Le province goderono un'altra Volta una tranquilla e prospera calma, e molte città, ristabilite dalla munificenza di Severo, presero il titolo di sue colonie, ed attestarono con pubblici monumenti la loro gratitudine e felicità[392]. Questo guerriero e fortunato Imperatore[393] rendè alle armi romane la loro riputazione, e con giusto orgoglio si vantò di avere ricevuto l'Impero oppresso da guerre straniere e domestiche, e di lasciarlo tranquillo in una pace profonda, universale, gloriosa[394].

Benchè le ferite della guerra civile sembrassero perfettamente saldate, il suo mortal veleno corrompeva però sempre gli umori vitali della costituzione. Severo aveva vigore, e talento in buon dato; ma l'anima ardita del primo dei Cesari, o la profonda politica di Augusto appena avrebbero potuto abbassare l'insolenza delle vittoriose legioni. Severo per gratitudine, per una falsa politica, e per un'apparente necessità fu costretto ad allentare il freno della militar disciplina[395]. Lusingò la vanità dei soldati coll'onore di portare l'anello d'oro, e permise loro di vivere nell'ozio de' quartieri colle proprie mogli. Aumentò la loro paga oltre ogni esempio passato, e gli avvezzò ad aspettarsi, e ben presto ad esigere donativi straordinari in ogni occasione di pubblico pericolo, o di pubbliche feste. Gonfiati dalle prosperità, snervati dal lusso, e posti al di sopra degli altri sudditi con i loro pericolosi privilegi[396], divenner ben presto incapaci di sostenere le fatiche militari, gravosi alla patria, ed impazienti di una giusta subordinazione. I loro uffiziali sostentavano la superiorità del loro grado con un lusso più ricercato e profuso. Esiste ancora una lettera di Severo, nella quale si lamenta della licenza dell'esercito, ed esorta uno dei suoi Generali a cominciare dai Tribuni medesimi la necessaria riforma; giacchè (come giustamente riflette) l'uffiziale che ha perduta la stima de' suoi soldati, non può mai farsi ubbidire[397]. Se avesse l'Imperatore seguitato il corso di queste riflessioni, avrebbe veduto, che la primaria cagione di questa generale corruttela doveva ascriversi non certamente all'esempio, ma alla perniciosa indulgenza del comandante supremo.

I Pretoriani, che uccisero il loro Imperatore, e venderono l'Impero, aveano ricevuto il giusto castigo del lor tradimento; ma quel necessario, benchè pericoloso corpo di soldati fu ben presto ristabilito da Severo sopra un nuovo sistema, e quattro volte accresciuto sopra l'antico numero[398]. Da principio queste truppe si reclutavano nell'Italia; ma quando le province adiacenti ebbero a poco a poco adottati gli ammolliti costumi di Roma, la Macedonia, il Norico e la Spagna furono ancor esse comprese in tali leve. Invece di quelle truppe magnifiche, più acconce alla pompa della Corte che agli usi della guerra, Severo stabilì che si scegliessero da tutte le legioni delle frontiere i soldati più forti, più valorosi e fedeli, e fossero, come per ricompensa onorevole, promossi al più segnalato servizio delle guardie[399]. Con questa nuova istituzione la gioventù italiana fu allontanata dall'esercizio delle armi, e la capitale fu atterrita dall'aspetto, e dai costumi feroci di una moltitudine di Barbari. Ma Severo si lusingò che le legioni avrebbero considerati quei Pretoriani scelti tra loro, come rappresentanti tutto l'ordine militare; e che il pronto ajuto di 50,000 uomini, superiori per l'armi e per le istituzioni a qualunque esercito che potesse condursi in campo contro di loro, farebbe svanire per sempre le speranze di ribellione, ed assicurerebbe l'Impero a lui, ed alla sua posterità.

Il comando di queste favorite e formidabili truppe divenne subito la prima carica dell'Impero. Siccome il Governo era degenerato in un militar dispotismo, il Prefetto del Pretorio, che in origine era stato un semplice capitano delle guardie, fu posto non solamente alla testa dell'esercito, ma ancora delle finanze e delle leggi medesime. In ogni dipartimento del Governo egli rappresentava la persona dell'Imperatore, e ne esercitava l'autorità. Il primo Prefetto, che godesse e abusasse di questo immenso potere, fu Plauziano, ministro favorito di Severo. Egli regnò, per così dire, dieci anni, finchè il matrimonio della sua figlia con il primogenito dell'Imperatore, che parea dovesse assicurare la sua fortuna, diventò l'occasione della sua perdita[400]. I maneggi della Corte irritando l'ambizione, ed eccitando il timore di Plauziano, minacciarono di produrre una rivoluzione, ed obbligarono l'Imperatore, che ancor l'amava, ad acconsentire, suo malgrado, alla di lui morte[401]. Dopo la caduta di Plauziano, il celebre Papiniano, illustre giureconsulto, fu destinato ad occupare la mista carica di Prefetto del Pretorio.

Fino al regno di Severo, gl'Imperatori virtuosi, o almeno prudenti, si erano segnalati col loro zelo, o affettato rispetto verso il Senato, e con un tenero riguardo al delicato sistema della civil politica istituito da Augusto; ma Severo aveva passata la gioventù nella cieca obbedienza del campo, e l'età più matura nel dispotismo del comando militare. Il suo carattere altiero e inflessibile, non seppe, o non volle vedere il vantaggio, che v'era nel mantenere una potenza intermedia (benchè immaginaria) tra l'Imperatore e l'esercito. Sdegnava egli di professarsi servo di un'assemblea, che detestava la sua persona, e tremava al suo aspetto. Comandava, quando il pregare sarebbe stato egualmente efficace; prese la condotta e lo stile di un sovrano e di un conquistatore, ed esercitò senza riserva insieme tutta la potestà legislatrice e l'esecutrice.

Questa vittoria sopra il Senato era facile, e senza gloria. Tutti gli occhi e tutte le passioni erano rivolte verso il supremo Magistrato, padrone dell'armi, e delle ricchezze dello Stato; mentre il Senato, non eletto dal popolo, non difeso dalle milizie, nè animato dallo spirito patriottico, appoggiava la sua cadente autorità sulla debole e vacillante base dell'antica opinione. Il bel sistema d'una Repubblica svanì insensibilmente, e dette luogo ai più naturali e sostanziali sentimenti della monarchia. Siccome la libertà e gli onori di Roma furono successivamente comunicati alle province, alle quali il vecchio Governo era stato o sconosciuto, o in odio, a poco a poco si dileguò la tradizione delle massime repubblicane. Gl'Istorici greci del secolo degli Antonini[402] osservarono con un maligno piacere, che sebbene il Sovrano di Roma, per rispetto ad un antico pregiudizio, si fosse astenuto dal prendere il nome di Re, ne possedeva per altro il potere in tutta quanta l'ampiezza. Sotto il regno di Severo, il Senato fu ripieno di culti ed eloquenti schiavi, venuti dalle province orientali, che giustificavano l'adulazione personale, riducendo la servitù a principj speculativi. Questi nuovi avvocati del dispotismo erano con piacere ascoltati dalla Corte, e con pazienza dal popolo quando inculcavano i doveri dell'obbedienza passiva, e deploravano le calamità inevitabili, che accompagnano la libertà. I giureconsulti, e gl'istorici si accordavano ad insegnare, che l'autorità imperiale non si appoggiava ad una commissione delegata, ma alla irrevocabil renunzia del Senato, e che l'Imperatore, libero dal vincolo delle leggi civili, avea un pieno arbitrio sulla vita, e su i beni dei sudditi, e potea disporre dell'Impero come del suo privato patrimonio[403]. I più illustri giureconsulti, e specialmente Papiniano, Paulo ed Ulpiano fiorirono sotto i Principi della famiglia di Severo, e la romana giurisprudenza, strettamente unita col sistema della monarchia, parve essere giunta all'ultimo grado di maturità e di perfezione.

I contemporanei di Severo alla tranquillità ed alla gloria del suo Regno perdonarono le crudeltà, che lo condussero al trono. Ma i posteri, che provarono gli effetti funesti delle massime, e dell'esempio di lui, giustamente lo considerano come il principale autore della decadenza dell'Impero romano.

CAPITOLO VI.

Morte di Severo: tirannia di Caracalla: usurpazione di Macrino: pazzia di Elagabalo: virtù di Alessandro Severo: sfrenata licenza dell'esercito: stato generale delle finanze romane.

Le vie che menano alla grandezza, quantunque ripide e perigliose, possono però tener desto un animo attivo, mediante la coscienza e l'esercizio delle proprie sue forze; ma il possesso di un trono non può mai soddisfar pienamente una mente ambiziosa. Provò Severo, e riconobbe questa trista verità. La fortuna ed il merito lo aveano da un umile stato innalzato al primo trono del Mondo. «Egli era stato ogni cosa» (come dicea egli stesso) «ed ogni cosa era di picciol valore[404] ». Occupato dalla cura non di acquistare, ma di conservare un Impero, oppresso dall'età e dalle malattie, non curante di gloria[405], e sazio di comandare, la vita non aveva più veruna lieta prospettiva per lui; il desiderio di mantenere l'Impero nella sua famiglia divenne il solo scopo della sua ambizione, e del paterno suo affetto.

Severo, come la maggior parte dogli Affricani, era appassionato per li vani studj della magia e della divinazione, profondamente versato nell'interpretazione dei sogni e degli augurj, e dottissimo nella strologia giudiciaria, scienza che quasi in ogni secolo, fuori che nel nostro, si è sostenuta in dominio sopra lo spirito umano. Egli, essendo governatore della Gallia Lionese, avea perduta la prima sua moglie[406]. Nella scelta della seconda, non pensò che ad unirsi con una, il cui oroscopo promettesse fortuna; ed avendo rinvenuto che una giovane dama di Emesa nella Siria era nata sotto una costellazione che prometteva il trono, ne ricercò e ne ottenne la mano[407]. Giulia Domna (tale era il suo nome) meritava tutto ciò che le stelle le promettevano. Conservò fino in età avanzata le bellezze della persona[408], ed unì a vivace immaginazione, fermezza d'animo, e giudizio esquisito, doti raramente concesse a quel sesso. Le sue amabili qualità non fecero mai grande impressione sul cupo e geloso carattere del suo consorte; ma nel regno del figlio essa amministrò gli affari principali dell'Impero con una prudenza, che sostenne l'autorità di Caracalla, e con una moderazione, che ne corresse talvolta le stravaganti follìe[409]. Giulia si applicò alle lettere ed alla filosofia con qualche buon successo e colla più splendida riputazione. Era essa protettrice di tutte le arti, ed amica d'ogni uomo d'ingegno[410]. La riconoscente adulazione dei letterati ha celebrate le sue virtù; ma se porgiamo orecchio agli scandalosi racconti dell'antica storia, la castità non era la più cospicua virtù dell'Imperatrice Giulia[411].

Due figliuoli, Caracalla[412] e Geta, furono i frutti di quel matrimonio, e i destinati eredi dell'Impero. Le belle speranze del padre e dei Romani vennero presto deluse da questi vani giovani, che già mostravano l'indolente sicurezza dei Principi ereditarj, ed una presunzione, che la fortuna dovesse tener il luogo del merito e dell'applicazione. Senza veruna emulazione di virtù o di talenti, essi fin dall'infanzia mostrarono l'uno verso l'altro un'antipatia costante ed implacabile. Questa avversione, cresciuta con gli anni, e fomentata dagli artifizi degli interessati lor favoriti, produsse in principio fanciullesche gare, che a poco a poco si fecero più serie, e finalmente divisero il teatro, il circo, e la Corte in due fazioni animate dalle speranze e dai timori dei rispettivi lor capi. Il saggio Imperatore procurò con le ammonizioni e con l'autorità di soffocare questa animosità ognor crescente. La fatale discordia de' figli oscurava ogni bella sua mira, e minacciava di rovesciare un trono alzato con tanta fatica, assicurato con tanto sangue, e difeso coll'impiego di tante armi e di tanti tesori. Tenendo egli fra loro con mano imparziale la bilancia del suo favore, conferì ad ambidue il titolo di Augusto, col venerato nome d'Antonino, e per la prima volta il Mondo romano ebbe tre Imperatori[413]. Tuttavia questa condotta eguale non ad altro servì che ad animar la contesa, mentre il fiero Caracalla allegava i diritti della primogenitura, e Geta più moderato si guadagnava l'affetto del popolo e dei soldati. Tra le angustie di un padre deluso, Severo predisse che il più debole dei suoi figli cadrebbe vittima del più forte, il quale sarebbe poi rovinato dai proprj vizj[414].

In questi frangenti ricevè Severo con piacere la notizia di una guerra nella Britannia, e di una invasione in quella provincia fatta dai Barbari del Settentrione. Benchè la vigilanza dei suoi Generali potesse essere bastante a rispignere il lontano nemico, risolse però di porre a profitto quell'onorevole pretesto, per allontanare i suoi figli dal lusso della capitale, che snervava i loro animi, ed irritava le loro passioni, e per assuefare la lor giovanezza alle fatiche della guerra e del comando. Non ostante la sua età avanzata (perchè aveva allora più di sessant'anni) e la gotta che l'obbligava a farsi portare in lettiga, si trasferì personalmente in quell'isola remota, accompagnato dai figli, da tutta la Corte, e da una formidabile armata. Passò immediatamente le muraglie di Adriano e di Antonino, ed entrò nel paese nemico con idea di terminare la conquista per lungo tempo tentata della Britannia. Penetrò fino all'estremità settentrionale dell'isola, senza incontrare nemico alcuno. Ma le nascoste imboscate dei Caledonj, che all'improvviso assalivano o la retroguardia o i fianchi dell'esercito, la freddezza del clima, e le fatiche di una marcia invernale per le montagne, ed i paludosi luoghi della Scozia fecero perire, per quel che si dice, cinquantamila Romani. I Caledonj cederono finalmente a quegli ostinati e possenti attacchi, supplicarono per la pace, e rilasciarono al vincitore una parte dello loro armi, ed un vasto tratto di territorio Ma l'apparente lor sommissione durò finchè fu presente il terrore: e ritiratesi appena le legioni romane, essi ripresero di nuovo la loro ostile indipendenza. L'inquieto loro spirito mosse Severo a mandare nella Caledonia un altro esercito, co' più sanguinosi ordini di estirparne non di soggiogarne i natii; ma li salvò la morte del loro fiero nemico[415].

Questa guerra di Caledonia, perocchè non distinta da decisivi eventi, nè seguitata da conseguenze importanti, meriterebbe appena la nostra attenzione, se non venisse supposto con grande probabilità, che l'invasione di Severo appartiene all'epoca più illustre della storia, ovvero della favola britannica. Fingal, del quale un nostro moderno Autore ha fatto rivivere la fama con quella de' poeti e degli eroi di quel tempo, comandava, per quanto dicono, ai Caledonj in quella memorabile occasione: egli resistè alla potenza di Severo, e riportò sulle rive del Carun una segnalata vittoria, nella quale il figlio del Re del Mondo Caracul fuggì precipitosamente attraverso i campi del suo orgoglio[416]. Queste tradizioni scozzesi sono tuttavia coperte da qualche nebbia, che le più ingegnose ricerche dei critici moderni non hanno potuto ancor dissipare[417]; ma se con certezza si potesse abbracciare la grata supposizione, che sia vissuto Fingal, ed Ossian abbia cantato, il bel contrasto della situazione e dei costumi delle contrarie nazioni riuscirebbe dilettevole ad un filosofico ingegno. Il parallelo non sarebbe molto vantaggioso alla nazione più culta, quando si paragonasse la vendetta implacabile di Severo colla generosa clemenza di Fingal; la timida e brutal crudeltà di Caracalla col valore, collo affetto, e col genio elegante di Ossian; i mercenarj uffiziali, che per timore o interesse servivano sotto le insegne imperiali, con i liberi guerrieri, che alla voce del Re di Morven volavano alle armi; quando in una parola si contemplassero i rozzi Caledonj animati dalle virtù naturali, ed i Romani degenerati e corrotti dai bassi vizj del lusso e della schiavitù.

La declinante salute, e l'ultima malattia di Severo infiammarono la fiera ambizione e le nere passioni dell'anima di Caracalla. Impaziente di ogni indugio e divisione dell'Impero, egli tentò più di una volta di accorciare quei pochi giorni di vita, che restavano al padre, e procurò, ma vanamente, di eccitare una sedizione fra le truppe[418]. Il vecchio Imperatore avea spesso criticata la malaccorta indulgenza di Marco Aurelio, che con un solo atto di giustizia avrebbe salvati i Romani dalla tirannide dell'indegno suo figlio. Posto nelle circostanze medesime, provò quanto facilmente l'affetto di padre addolcisca il rigore di giudice. Egli deliberava, minacciava, ma non sapeva punire; e questo suo ultimo e solo esempio di clemenza fu di più danno all'Impero, che non la lunga serie delle sue crudeltà[419].

Le angustie dell'animo irritarono i mali del corpo: egli desiderava impazientemente la morte, e questa sua impazienza ne affrettò la venuta. Morì a York l'anno sessantacinquesimo della sua età, e diciottesimo di un regno fortunato e glorioso. Nei suoi ultimi momenti raccomandò la concordia ai suoi figli, ed i suoi figli all'esercito. Il salutevole avviso non giunse al cuore, anzi neppure mosse l'attenzione di quei giovani impetuosi; ma le truppe più obbedienti, memori del lor giuramento di fedeltà e dell'autorità dell'estinto Signore, resisterono alle sollecitazioni di Caracalla, e proclamarono ambedue i fratelli Imperatori di Roma. I nuovi Principi baciarono subito i Caledonj in pace, ritornarono alla capitale, celebrarono il funerale del padre con onori divini, e furono riconosciuti con piacere per sovrani legittimi dal Senato, dal Popolo, e dalle province. Pare che fosse accordata al maggiore qualche preeminenza di grado, ma governavano l'Impero ambidue con eguale ed indipendente potere[420].

Una tale divisione di governo avrebbe generato discordie fra i due più affezionati fratelli. Era impossibile ch'essa potesse lungamente sussistere tra due implacabili nemici, che nè bramavano una riconciliazione, nè potevan fidarsene. Chiara cosa ell'era, che uno solamente regnar doveva, e l'altro doveva perire; e ciascuno di loro, da' suoi proprj disegni giudicando di quelli del suo rivale, usava la più esatta cura per difendersi dai ripetuti assalti del veleno o del ferro. Il rapido loro viaggio per la Gallia e l'Italia, durante il quale mai non mangiarono ad una stessa tavola, o dormirono in una casa stessa, presentò alle province l'odioso spettacolo della fraterna discordia. Arrivati in Roma, immediatamente si divisero la vasta estensione del palazzo imperiale[421]. Non fu lasciata comunicazione veruna tra i loro appartamenti; le porte ed i passaggi furono diligentemente fortificati, e poste e mutate sentinelle, come ad una piazza assediata. Gl'Imperatori non s'incontravano che in pubblico, in presenza dell'afflitta lor madre, e circondato ciascuno da un numeroso stuolo di armati. In quelle stesse occasioni di pubbliche cerimonie, la dissimulazione delle Corti potea mal celare il rancore dei loro cuori[422].

Questa guerra intestina già cominciava a lacerare lo Stato, quando fu suggerito un piano, che pareva ugualmente vantaggioso ai due fratelli nemici. Fu proposto che non essendo possibile di riconciliare i loro animi, separassero i loro interessi, o dividessero fra loro l'Impero. Le condizioni del trattato erano già distese con qualche esattezza. In esse si conveniva, che Caracalla, come fratello maggiore, rimarrebbe padrone dell'Europa e dell'Africa occidentale, rilasciando la sovranità dell'Asia e dell'Egitto a Geta, il quale potea risedere in Alessandria, o in Antiochia, città per opulenza e grandezza poco inferiori alla stessa Roma; che si terrebbero del continuo accampati numerosi eserciti sulle due rive del Bosforo Tracio, per difendere le frontiere delle Monarchie rivali; e che i Senatori d'origine europea riconoscerebbero il Sovrano di Roma, mentre i nativi dell'Asia seguiterebbero l'Imperatore dell'Oriente. Le lagrime dell'Imperatrice Giulia ruppero un trattato, la cui prima idea avea ripieno ogni petto romano di sorpresa e di sdegno. La vasta massa dell'Impero era talmente assodata dalla mano del tempo e della politica, ch'era necessaria la più gran violenza per separarla in due parti. I Romani avevan ragion di temere che le disgiunte membra sarebbono ben presto ridotte da una guerra civile sotto il dominio di un solo Signore; ma se la separazione era durevole, la divisione delle province dovea terminare nella dissoluzione di un Impero, la cui unità erasi mantenuta fino a quel tempo inviolata[423].

Se quel trattato fosse stato eseguito, il Sovrano della Europa avrebbe presto conquistato l'Asia; ma Caracalla riportò una vittoria più facile e più scellerata. Artificiosamente egli porse orecchie ai preghi della madre, e consentì di trovarsi nell'appartamento di lei col suo fratello, per trattare delle condizioni della pace e della riconciliazione. Nel mezzo del loro abboccamento, alcuni Centurioni, che Caracalla aveva nascosti, si avventarono colle spade sguainate addosso al misero Geta. La sventurata madre procurò di salvarlo nelle sue braccia; ma nell'inutile sforzo fu ferita ella stessa in una mano; e coperta del sangue di Geta, vide il barbaro fratello animare e secondare[424] il furore degli assassini. Appena fu commesso il misfatto, Caracalla, coll'orrore sul volto, corse frettoloso al campo dei Pretoriani, come suo unico asilo, e si prosternò dinnanzi alle statue dei Numi tutelari[425]. I soldati presero ad alzarlo e confortarlo. Egli con rotte e confuse parole, gl'informò del suo fortunato scampo dall'imminente pericolo; fece loro credere di aver prevenuto i disegni del suo nemico, e dichiarò la sua risoluzione di vivere e di morire con le sue truppe fedeli. Geta era stato il favorito dei soldati; ma vano era il lamento, pericolosa la vendetta, ed essi rispettavano ancora il figliuol di Severo. Il loro malcontento si dissipò in oziose mormorazioni, e Caracalla presto li persuase della giustizia della sua causa, distribuendo loro con prodigo donativo i tesori accumulati sotto il regno del padre[426]. Le disposizioni dei soldati erano le sole importanti per la potenza o salvezza di lui; e la loro dichiarazione in suo favore comandò le rispettose proteste del Senato. Quella docile assemblea era pronta sempre a ratificare la decisione della fortuna; ma siccome Caracalla desiderava di addolcire i primi moti della pubblica indignazione, il nome di Geta fu rammentato con rispetto, ed egli ricevè gli onori funebri dovuti ad un Imperatore romano[427]. La posterità, deplorandone la sventura, ha gettato un velo sopra i suoi vizj. Noi consideriamo questo giovane Principe, come vittima innocente dell'ambizione di suo fratello; non rammentandoci che gli mancò piuttosto il potere, che il desiderio, per commettere attentati eguali di vendetta e di strage.

Il delitto per altro non rimase impunito: nè le occupazioni, nè i piaceri, nè l'adulazione poterono sottrarre Caracalla ai rimorsi di una coscienza colpevole; ed egli confessò, tra le angoscie di un animo martoriato, che la conturbata sua fantasia gli presentava spesso le immagini sdegnose del padre e del fratello, tornati in vita a minacciarlo e rimproverarlo[428]. La cognizione del suo delitto avrebbe dovuto indurlo a persuadere gli uomini, colle virtù del suo regno, che quel sanguinoso misfatto era stato involontario effetto di una funesta necessità. Ma il pentimento di Caracalla lo portò solamente a togliere dal mondo tutto ciò che potea rammentargli la sua colpa, o risvegliare in lui la memoria dell'assassinato fratello. Ritornando dal Senato al palazzo, trovò la madre, che in compagnia di varie nobili matrone piangeva l'acerbo fato del suo figliuolo minore. Il geloso Imperatore la minacciò di pronta morte; e fu la sentenza eseguita contro Fadilla, ultima figlia superstite dell'Imperator Marco Aurelio; ed anche l'afflitta Giulia fu obbligata a por fine ai lamenti, a soffocare i sospiri, ed a ricevere l'assassino con sorriso di approvazione e di gioia. Si pretende che sotto il vago pretesto dell'amicizia di Geta, più di ventimila persone di ambidue i sessi incontrassero la morte. Le guardie di Geta, i liberti, i ministri de' gravi affari, ed i compagni degli ozj e de' piaceri, quelli che per lui aveano ottenuto cariche nelle armate o nelle province, e tutti i numerosi loro clienti furono inclusi in quella proscrizione, colla quale si cercò di esterminare chiunque avesse avuta la minima corrispondenza con Geta, o ne deplorasse la morte, o ricordasse ancora il suo nome[429]. Elvio Pertinace, figlio del Principe di questo nome, perdè la vita per un motto imprudente[430]. Fu bastante delitto per Trasea Prisco il discendere da una famiglia, in cui l'amore della libertà parea una qualità ereditaria[431]. I particolari motivi di calunnia e di sospetto furono finalmente esauriti; e quando un Senatore veniva accusato di essere secreto nemico del Governo, l'Imperatore si contentava della generica prova, che fosse quegli ricco o virtuoso: piantato una volta questo principio, egli ne dedusse le più sanguinose illazioni.

Il supplizio di tante vittime innocenti era accompagnato dalle lagrime segrete dei loro amici e delle loro famiglie. La morte di Papiniano, Prefetto del Pretorio, fu pianta come una pubblica calamità. Negli ultimi sette anni di Severo egli avea esercitato i più importanti ufficj dell'Impero, o guidato, con i suoi savi consigli, i passi dell'Imperatore nel sentiero della giustizia e della moderazione. Severo, ben conoscendone la virtù ed i talenti, sul punto di morire lo supplicò di vegliare alla prosperità ed all'unione della famiglia imperiale[432]. Le onorate fatiche di Papiniano servirono solamente ad infiammare l'odio, che già Caracalla avea concepito contro il Ministro del padre. Dopo l'assassinio di Geta, il Prefetto ebbe ordine di usare tutta la forza del suo sapere e della sua eloquenza, per fare una studiata apologia di quell'atroce misfatto. Il filosofo Seneca aveva condisceso a comporre una somigliante lettera al Senato, in nome del figlio, e dell'assassino di Agrippina[433]. «È più facile commettere un parricidio, che giustificarlo»; questa fu la nobile risposta di Papiniano[434], il quale non esitò un momento tra la perdita della vita, o quella dell'onore. Una virtù così intrepida, che si era mantenuta pura ed illibata tra gl'intrighi della Corte, tra più serj negozj, e tra gli artifizj della sua professione, sparge più lustro sulla memoria di Papiniano, che non tutti i suoi grandi impieghi, le numerose sue opere, e la riputazione di eccellente giureconsulto, che egli ha goduta in tutti i secoli della giurisprudenza romana[435].

Era fin allora stata particolare felicità dei Romani, e consolazione loro ne' più infelici tempi che le virtù degl'Imperatori fossero piene di attività, e pieni d'indolenza i lor vizj. Augusto, Traiano, Adriano, e Marco Aurelio visitarono in persona i loro vasti dominj, ed il loro passaggio era segnato con atti di sapienza e beneficenza. La tirannide di Tiberio, di Nerone, e di Domiziano, che quasi costantemente risederono in Roma, o nelle ville adiacenti, fu ristretta negli ordini senatorio ed equestre[436]. Ma Caracalla si mostrò il nemico comune del genere umano. Lasciò la Capitale (nè mai più vi fece ritorno) circa un anno dopo la morte di Geta. Passò il resto del suo regno nello diverse province dell'Impero, particolarmente nelle orientali, ed ogni provincia divenne a vicenda il teatro della sua rapina e della sua crudeltà. I Senatori, forzati dal timore a secondare tutti i suoi capricci, erano obbligati di preparargli ogni giorno con immense spese nuovi divertimenti, che con disprezzo abbandonava alle sue guardie, e ad erigere in ogni città palazzi e teatri magnifici, ch'egli o sdegnava di visitare, o comandava che tolto fossero demoliti. Le più ricche famiglie furono rovinate con tasse e confiscazioni private, mentre il corpo intero dei sudditi il era oppresso da ricercate e gravose imposizioni[437]. In mezzo alla pace, e per una leggierissima offesa egli comandò uno scempio generale in Alessandria di Egitto. Da un posto sicuro nel tempio di Serapide, contemplava e regolava la strage di molte migliaia di cittadini e di stranieri, senza avere riguardo alcuno al numero, o alla colpa di quegl'infelici; giacchè (com'egli freddamente ne scrisse al Senato) tutti gli Alessandrini, e quelli ch'erano periti, e quelli che si erano salvati, meritavano ugualmente la morte[438].

Le savie istruzioni di Severo non fecero mai una impressione durevole sullo spirito del suo figlio, che sebbene non mancasse d'immaginazione e d'eloquenza, non avea nè giudizio, nè umanità[439]. Caracalla ripeteva spesso una massima pericolosa degna di un tiranno, e da lui posta in pratica sempre: «assicurarsi l'affezione dei soldati, e poco valutare il resto dei sudditi[440] ». Ma la liberalità del padre era stata regolata dalla prudenza, e la indulgenza di lui verso le truppe fu temperata dalla fermezza e dall'autorità. Il figlio non conobbe altra politica che una cieca profusione, la quale produsse l'inevitabil rovina dell'esercito e dell'Impero. Il valor dei soldati, in vece di essere fortificato dalla severa disciplina del campo, si ammollì nel lusso delle città. L'accrescimento eccessivo della loro paga e i donativi[441] impoverirono lo Stato per arricchire, l'ordine militare, che si mantiene assai più modesto in pace, ed utile in guerra con una povertà onorevole. Il contegno di Caracalla era altiero e pieno d'orgoglio, ma colle truppe egli dimenticava perfino la dignità del proprio grado, incoraggiava l'insolente loro famigliarità, e trascurando gli essenziali doveri di un Generale, affettava d'imitare il vestire, ed i costumi di un soldato comune.

Era impossibile, che il carattere e la condotta di Caracalla potessero inspirare amore o stima; ma finchè i suoi vizj furono utili alle armate, visse sicuro da ogni pericolo di ribellione. Una secreta congiura, suscitata dalla propria sua gelosia, riuscì fatale al tiranno. La Prefettura del Pretorio era divisa tra due ministri. Il dipartimento militare era affidato ad Avvento, soldato di maggiore esperienza che abilità, e presedeva al dipartimento civile Opilio Macrino, che per la sua destrezza negli affari erasi innalzato a quella sublime carica. Ma il favore ch'egli godeva, variava secondo il capriccio dell'Imperatore, e la vita di lui poteva dipendere dal più leggiero sospetto, e dalla più casuale circostanza. La malizia o il fanatismo avea dettata ad un Affricano, versato a quanto credeasi, nella scienza del futuro, una predizione molto pericolosa; cioè, che Macrino e il suo figlio erano destinati all'Impero. Se ne sparse subilo il rumore per la provincia; e quando il profeta fu mandato carico di catene a Roma, egli ancora in presenza del Prefetto della città sostenne la verità della sua predizione. Quel magistrato, che avea ricevute le più premurose istruzioni di fare ricerca dei successori di Caracalla, spedì immediatamente l'esame dell'Affricano alla corte imperiale, che risedeva allora nella Siria. Ma non ostante la celerità dei pubblici corrieri, un amico di Macrino trovò mezzo di avvertirlo del suo vicino pericolo. L'Imperatore ricevè le lettere da Roma, e siccome egli era allora impegnato in guidare un cocchio alla corsa, le consegnò senza aprirle al Prefetto del Pretorio, ordinandogli di spedire gli affari ordinarj, e di dargli ragguaglio dei più importanti. Lesse Macrino l'imminente suo fato, e risolse di prevenirlo. Infiammò alcuni uffiziali inferiori, già malcontenti, ed impiegò la mano di Marziale, disperato soldato, che non avea potuto ottenere il grado di Centurione. La devozione di Caracalla avealo mosso a fare un pellegrinaggio da Edessa al celebre tempio della Luna a Carre. Era accompagnato da un corpo di cavalleria; ma essendosi fermato sulla strada per qualche necessario bisogno, le guardie si tennero per rispetto in distanza, e Marziale accostandosi a lui sotto pretesto di ossequio, lo trafisse con un pugnale. Fu il temerario assassino immediatamente ucciso da un arciere scita della guardia imperiale. Questo fine ebbe quel mostro, la cui vita disonorò l'umana natura, e il cui regno accusò la pazienza dei Romani[442]. I soldati riconoscenti, obbliando i suoi vizj, ne rammentavano solamente la parziale generosità, ed obbligarono i Senatori a prostituire la loro dignità, e quella della religione, con accordargli un posto fra i Numi.

Finchè egli fu sulla terra, Alessandro il Grande fu il solo Eroe, che questo Nume giudicasse degno della sua ammirazione. Ne prese il nome e l'insegne, formò per la sua guardia una falange macedone, perseguitò i discepoli di Aristotile, e con entusiasmo puerile fece mostra del solo sentimento, che indicasse in lui qualche stima per la virtù e per la gloria. Non è difficile comprendere che dopo la battaglia di Narva e la conquista della Polonia, Carlo XII, benchè non avesse le più amabili qualità del figliuolo di Filippo, potesse vantarsi d'averne emulato il valore e la magnanimità. Ma Caracalla in tutte le azioni della sua vita non mostrò la minima somiglianza coll'eroe macedone, se non che nell'uccisione di un gran numero dei suoi amici, e di quei di suo padre[443].

Dopo l'estinzione della famiglia di Severo, il Mondo romano rimase per tre giorni senza padrone. La scelta dell'esercito (giacchè poco riguardo si aveva alla autorità di un Senato lontano e debole) restò sospesa, non presentandosi alcun pretendente, che per merito o per nascita potesse cattivarsi l'affetto dei soldati ed unire i loro suffragi. La decisiva preponderanza delle guardie Pretoriane gonfiò le speranze dei loro Prefetti, e quei possenti ministri cominciarono a sostenere il legittimo loro diritto di occupare il trono vacante. Avvento, benchè il Prefetto più anziano, conoscendo la sua età ed i suoi incomodi, la sua picciola reputazione ed i suoi mediocri talenti, rinunziò quell'onore pericoloso alla scaltra ambizione del suo collega Macrino, che affettando un vero dolore, evitò il sospetto di avere avuto parte nella morte del suo Sovrano[444]. Le truppe non amavano, nè stimavano il suo carattere. Girarono gli occhi all'intorno in cerca d'un altro competitore, e finalmente cederono con ripugnanza alle sue promesse di una illimitata liberalità ed indulgenza. Poco tempo dopo il suo avvenimento conferì al figlio Diadumeniano, in età di soli 10 anni, il titolo imperiale, e il nome di Antonino sì caro al popolo. Si sperò che la bellezza del giovane, assistita da un donativo straordinario, al quale quella cerimonia servì di pretesto, potesse guadagnare il favor dell'esercito, ed assicurare il trono vacillante di Macrino.

L'autorità del nuovo Sovrano era stata ratificata dalla lieta sommissione del Senato e delle province. Esultavano per l'inaspettata loro liberazione da un odiato tiranno; e non sembrava necessario di esaminare le virtù di un successore di Caracalla. Ma appena furono cessati i primi trasporti di sorpresa e di gioia, si cominciò ad esaminare i meriti di Macrino con una severa critica, ed a biasimare la precipitata scelta dell'armata. Si era fino allora considerato, come principio fondamentale della costituzione, che l'Imperatore dovesse sempre essere scelto tra i Senatori, e che il sovrano potere, non più esercitato da quell'intero corpo, fosse sempre delegato a qualcheduno dei suoi membri. Ma Macrino non era Senatore[445]. La subita elevazione dei Prefetti del Pretorio faceva rammentare la bassezza della loro origine; e l'Ordine Equestre era sempre stato in possesso di quel grande uffizio, che esercitava un arbitrario potere sopra le vite e sopra i beni de Senatori. Si cominciò a mormorare, che un uomo, la cui oscura estrazione[446] non era mai stata illustrata da qualche segnalato servizio, osasse portare la porpora, invece di rivestirne qualche cospicuo Senatore, per nascita e per dignità, meritevole dello splendore del trono. Appena i malcontenti ebbero esaminato con occhio acuto il carattere di Macrino, vi scoprirono facilmente alcuni vizj e molti difetti. La scelta de' suoi Ministri gli meritò spesso giusti rimproveri; ed il popolo, mal soddisfatto, con la solita libertà accusava insieme l'indolente dolcezza e l'eccessiva severità del Sovrano[447].

La temeraria ambizione di Macrino l'aveva fatto montare a tale altezza, ch'era difficile il mantenervisi, ed impossibile il caderne senza incontrare la morte. Educato nelle forme della Corte e tra gli affari civili, tremava in presenza della fiera e indisciplinata moltitudine, della quale aveva preso il comando; erano disprezzati i suoi militari talenti, e n'era sospetto il coraggio. Un rumore sparsosi pel campo, scoprì il fatale segreto della congiura contro l'estinto Imperatore; la viltà dell'ipocrisia aggravò l'atrocità del delitto, e s'unì l'odio a far maggiore il disprezzo. Per alienare affatto i soldati, e procacciarsi una rovina inevitabile, altro non mancava a Macrino, che pretendere di riformare la disciplina; e per la sua particolare sventura, si vide costretto a cominciare questa odiosa riforma. La prodigalità di Caracalla avea quasi rovinato lo Stato e lasciato tutto in disordine; e se quell'indegno tiranno fosse stato capace di riflettere sulle inevitabili conseguenze della sua condotta, si sarebbe forse rallegrato al tristo prospetto delle miserie e calamità, che preparava ai suoi successori.

Usò Macrino in questa necessaria riforma una circospetta prudenza, che avrebbe con modo facile e impercettibile saldate le piaghe dello Stato, e restituito gli eserciti romani nel loro primo vigore. Fu egli costretto di lasciare ai soldati già arrolati i pericolosi privilegi e l'esorbitante paga accordata loro da Caracalla; ma obbligò le nuove reclute ad accettare il più moderato, comechè liberale sistema di Severo, ed a poco a poco le avvezzò alla modestia ed all'obbedienza[448]. Un errore funesto distrusse i salutevoli effetti di un disegno così giudizioso. In cambio di disperdere immediatamente nelle diverse province la numerosa armata, che l'ultimo Imperatore avea radunata in Oriente, Macrino la lasciò raccolta nella Siria per l'intero inverno, che seguì il suo avvenimento. In mezzo all'ozioso lusso dei loro quartieri conobbero le truppe la loro forza ed il lor numero; si comunicarono i loro lamenti, e rivolsero in mente i vantaggi di una nuova rivoluzione. I veterani, invece di essere lusingati dalla vantaggiosa distinzione, riguardarono quel primo passo come sicuro presagio dell'intera riforma, che l'Imperatore meditava. Le reclute entravano con ritrosia e ripugnanza in un servizio, le cui fatiche erano state accresciute, e le ricompense diminuite da un Sovrano avaro e non guerriero. Le mormorazioni dell'armata finirono impunemente in sedizioni clamori, ed i particolari ammutinamenti indicavano uno spirito di avversione e disgusto, che aspettava il più leggiero pretesto per iscoppiar da per tutto in una generale ribellione. Presto se ne presentò l'occasione ad animi così disposti.

L'imperatrice Giulia avea provate tutte le vicende della fortuna. Da un'umile condizione era stata innalzata ad un alto posto, per gustarne soltanto la superiore amarezza. Fu condannata a gemere sopra la morte di uno dei figli, e sopra la vita dell'altro. Il crudo fato di Caracalla (benchè da gran tempo la prudenza lo avesse fatto a lei prevedere) risvegliò nel suo animo tutti i sentimenti di una madre e di una Imperatrice. Non ostante i rispettosi riguardi, che l'usurpatore avea per la vedova di Severo, fu cosa ben dura per una Sovrana il discendere alla condizione di suddita; e con volontaria morte mise prontamente fine alla angustiosa ed umiliante sua dipendenza[449]. Giulia Mesa, di lei sorella ebbe ordine di lasciare la Corte ed Antiochia. Si ritirò in Emesa con immense ricchezze, frutto di un favor di vent'anni, accompagnata da due figliuole, Soemia e Mammea, ciascuna delle quali era vedova, ed aveva un sol figlio. Bassiano, che tale era il nome del figlio di Soemia, si era consacrato all'onorevole ministero di gran sacerdote del Sole; e questo stato, abbracciato per prudenza, o per superstizione, contribuì ad innalzare il giovane siro all'Impero di Roma. Un numeroso corpo di truppe era stanziato in Emesa; e siccome la severa disciplina di Macrino le costringeva a passare l'inverno nel campo, erano ansiose di vendicarsi della crudeltà di quelle insolite fatiche. I soldati, che concorrevano in folla al tempio del Sole, riguardavano con venerazione e piacere l'abito e la figura elegante del giovane Pontefice: vi riconobbero, o crederono di riconoscervi le fattezze di Caracalla, di cui adoravano ancor la memoria. L'artificiosa Mesa si avvide con piacere di questa nascente parzialità, e prontamente sacrificando la riputazione della sua figlia alla fortuna del suo nipote, fe correr la voce, che Bassiano era figlio naturale del loro ucciso Sovrano. Le somme distribuite con mano liberale dagli emissarj di lei, dileguarono ogni obbiezione, e questa larghezza provò sufficientemente la parentela, o almeno la somiglianza di Bassiano con Caracalla. Il giovane Antonino (giacchè egli prese e disonorò questo venerabile nome) fu dichiarato Imperatore dalle truppe di Emesa, attestò il suo ereditario diritto, ed invitò ad alta voce gli eserciti a seguitare le insegne di un Principe giovane e liberale, che avea preso le armi per vendicare la morte del padre, e l'oppressione dell'ordine militare[450].

Mentre da una compagnia di donne e di eunuchi si concertava la congiura con prudenza, e si conduceva con vigorosa rapidità, Macrino che con un moto decisivo avrebbe potuto schiacciare il suo nemico fanciullo, ondeggiava fra i due opposti estremi del terrore e della sicurezza, che lo ritenevano ad Antiochia nell'indolenza. Lo spirito di ribellione si diffuse per tutti i campi e tutte le guarnigioni della Siria: diversi distaccamenti successivamente uccisero i loro uffiziali[451], e si unirono ai ribelli; e la tarda restituzione, che fece Macrino della paga e dei privilegi militari, fu attribuita alla nota sua debolezza. Egli finalmente partì d'Antiochia per incontrarsi col giovane rivale, la cui armata, piena di zelo, diventava ogni giorno più formidabile. Le truppe di Macrino si presentarono alla battaglia senza ardore e con qualche ripugnanza, ma nel calore del combattimento[452] le guardie Pretoriane, quasi per un impulso involontario, sostennero la superiorità del loro valore e della lor disciplina. Le file dei ribelli erano già rotte, quando la madre e l'ava del Principe siro (che secondo il costume orientale seguitavan l'esercito) si gettarono dai loro coperti carri, ed eccitando la compassione dei soldati, procurarono di rianimarne il cadente coraggio. Antonino stesso, che nel resto della sua vita non fece mai azioni da uomo, in quella importante crisi del suo destino operò da eroe. Montò a cavallo, ed alla testa delle riordinate sue truppe si scagliò colla spada in pugno dove erano più folti i nemici; mentre l'eunuco Ganni, le cui occupazioni fino allora s'erano confinate alla cura del serraglio, ed all'effeminato lusso dell'Asia, spiegava i talenti di un Generale abile e sperimentato. Era incerta ancor la vittoria, e forse Macrino l'avrebbe riportata, se non avesse tradita la propria causa con una fuga vile e precipitosa. La sua codardia servì solamente a prolungargli la vita per pochi giorni, e ad imprimere sopra le sue disgrazie la meritata ignominia. È inutile aggiungere, che il suo figlio Diadumeniano fu involto nella stessa rovina. Appena gli ostinati Pretoriani si avvidero, che combattevano per un Principe, il quale vilmente gli avea abbandonati, si renderono al vincitore: i due emuli eserciti romani, mescolando lagrime di tenerezza e di gioia, si riunirono sotto le insegne dell'immaginario figlio di Caracalla, e l'Oriente riconobbe con piacere il primo Imperatore che nato fosse nell'Asia.

Macrino si era degnato di scrivere al Senato avvisandolo delle piccole turbolenze cagionate nella Siria da un impostore; e venne fatto immediatamente un decreto, che dichiarava il ribelle e la sua famiglia pubblici nemici; colla promessa del perdono, per altro, a qualunque dei delusi aderenti, che lo meritasse coll'immediato ritorno al dovere. Nei venti giorni che passarono da questa dichiarazione alla vittoria di Antonino (che fu in sì breve intervallo deciso il destino dell'Impero romano) la Capitale e le province, specialmente le orientali, furono tra la speranza e il timore agitate da tumulti, e macchiate di civil sangue inutilmente versato, poichè qualunque dei due rivali vincesse nella Siria, l'Impero dovea in esso avere un padrone. Le lettere studiate, colle quali il giovane vincitore annunziò all'obbediente Senato la sua vittoria, erano ripiene di proteste di virtù, e di moderazione. Egli promettea di seguitare nel suo governo i luminosi esempj di Marco Aurelio e di Augusto; ed affettava di recarsi a gloria la forte rassomiglianza che l'età sua e la sua fortuna avea con quella di Augusto, il quale nella prima gioventù con una guerra felice vendicò la morte del padre. Prendendo il nome di Marco Aurelio Antonino, figlio di Antonino, e nipote di Severo, tacitamente sostenne il suo ereditario diritto all'Impero; ma arrogandosi il potere tribunizio e proconsolare, avanti che un decreto del Senato glielo avesse conferito, offese la delicatezza dei pregiudizj romani. Questa nuova ed imprudente violazione della costituzione fondamentale dee forse attribuirsi all'ignoranza dei cortigiani della Siria, o alla sprezzante alterigia delle milizie che lo seguivano[453].

L'attenzione del nuovo Imperatore veniva distratta dai più frivoli divertimenti, ond'egli consumò molti mesi nel pomposo suo viaggio dalla Siria nell'Italia, passò a Nicomedia il primo inverno dopo la sua vittoria, e differì fino alla nuova estate il suo trionfale ingresso nella capitale. Un fedele ritratto però, che lo precedette, e fu posto per ordin suo sull'altare della Vittoria nel tempio dove si radunava il Senato, presentò ai Romani la giusta, ma vergognosa immagine della persona e de' costumi di lui. Era dipinto nei suoi abiti sacerdotali di seta e d'oro, sciolti ed ondeggianti alla foggia dei Medi e dei Fenicj; portava un'alta tiara sul capo, e le numerose collane ed i monili, di cui andava adorno, erano tutti coperti di gemme preziose. Avea le ciglia tinte di nero, e le gote dipinte di un rosso e bianco artificiale[454]. I gravi Senatori confessarono sospirando, che dopo avere lungamente sofferta la truce tirannia de' suoi concittadini, Roma era finalmente umiliata sotto l'effeminato lusso del dispotismo orientale.

Il Sole era in Emesa adorato sotto il nome di Elagabalo[455], e sotto la forma di una pietra nera fatta a cono, che secondo l'universale credenza era caduta dal cielo in quel sacro luogo. A questo Nume suo tutelare attribuiva Antonino, non senza qualche ragione, il suo innalzamento al trono; e in tutto il suo regno l'unica sua seria occupazione fu di far mostra della superstiziosa sua gratitudine. Il grande oggetto del suo zelo e della sua vanità fu di far trionfare il Dio di Emesa sopra tutte le religioni della terra; e il nome di Elagabalo (giacchè pretese come Pontefice, e favorito di prender quel sacro nome) gli fu più caro, che tutti i titoli della grandezza imperiale. In una solenne processione per le contrade di Roma il suolo era coperto di polvere d'oro, e la pietra nera, adornata di preziose gemme, era posta sopra un carro tirato da sei bianchissimi cavalli, riccamente guarniti. Il devoto Imperatore tenea le redini, e sostenuto dai suoi Ministri, si movea lentamente all'indietro, per avere la sorte di goder sempre la vista di quella divinità. Furono celebrati, con ogni accompagnamento di lusso o di solennità, i sacrifizj del Dio Elagabalo in un tempio magnifico, innalzato sul monte Palatino. I vini più squisiti, le vittime più rare, ed i più preziosi aromati si consumavano con profusione sull'ara. Intorno ad essa un coro di sirie donzelle intrecciava danze lascive al suono di barbari strumenti, mentre i più gravi personaggi dello Stato e dell'esercito, vestiti di lunghe toghe fenicie, vi esercitavano le più vili funzioni con uno zelo affettato, ed una indignazione secreta[456]. Il fanatico Imperatore volle deporre in quel tempio, come nel centro comune della religione, gli Ancili, il Palladio[457], e tutti i sacri pegni del culto di Numa. Una moltitudine di divinità inferiori, diversamente situate, corteggiava la maestà del Dio di Emesa; ma la sua Corte era ancora imperfetta, finchè una compagna di un ordine superiore non fosse ammessa entro il suo letto. Pallade era stata da principio eletta per sua consorte; ma temendosi che il guerriero aspetto di lei non atterrisse la molle delicatezza di un Nume della Siria, fu la Luna, che gli Affricani adoravano sotto il nome di Astarte, creduta più conveniente per essere consorte del Sole. La immagine di questa, con le ricche offerte del suo tempio, come per dote, fu trasportata con solenne pompa da Cartagine a Roma, e il giorno di queste mistiche nozze fu generalmente celebrato nella Capitale e per tutto l'Impero[458].

Un voluttuoso, che non abbia rinunziato alla ragione, segue con invariabil rispetto i moderati dettami della natura, ed accresce i diletti del senso col sociale commercio, coi dolci legami, e con i delicati colori del gusto e dell'immaginazione. Ma Elagabalo, (parlo dell'Imperatore di questo nome) corrotto dalle passioni della gioventù, dai costumi della sua patria, e dalla propria prosperità, si abbandonò ai piaceri più grossolani con isfrenato furore, e trovò presto la sazietà e la nausea nei mezzo dei suoi godimenti. Si chiamarono in soccorso tutti gl'irritanti rimedj dell'arte: una moltitudine confusa di donne, di vini e di cibi, e la ricercata varietà d'atteggiamenti lascivi e di salse servivano a ravvivare i suoi languenti appetiti. Nuovi termini, e nuove invenzioni in queste scienze, le sole che il Sovrano coltivasse e proteggesse[459], segnalarono il suo regno, e ne trasmisero l'obbrobrio alla posterità. Una capricciosa prodigalità suppliva alla mancanza del buon gusto e dell'eleganza, e mentre Elagabalo dissipava i tesori dello Stato nelle maggiori stravaganze, egli stesso e i suoi adulatori facevano applauso ad un genio e ad una magnificenza incognita alla bassezza de' suoi predecessori. Sue delizie erano il confondere gli ordini delle stagioni, e dei climi[460], il farsi beffe delle passioni e dei pregiudizj dei sudditi, e sovvertire tutte le leggi della natura e della decenza. Un numeroso seguito di concubine, ed una rapida successione di mogli (tra le quali vi fu una Vestale rapita a forza dal sacro asilo[461],) non servivano a soddisfare l'impotenza delle sue passioni. Il padrone del Mondo romano, affettando d'imitare le femmine nel vestito o nelle maniere, preferì la conocchia allo scettro, disonorò le prime cariche dell'Impero, distribuendole a' suoi numerosi amanti; uno de' quali ricevè pubblicamente il titolo e l'autorità di marito[462] dell'Imperatore, o dell'Imperatrice, come ei da se stesso più propriamente si nominava.

Forse l'immaginazione, il pregiudizio e la calunnia hanno ingranditi i vizj e le pazzie di Elagabalo[463]. Ma ristringendoci ancora alle pubbliche scene rappresentate avanti il romano popolo, ed attestate da gravi e contemporanei scrittori, la loro indicibile infamia vince quella d'ogni altro secolo o paese. Le dissolutezze di un Sultano restano nascoste agli occhi dei curiosi dalle inaccessibili mura del suo serraglio. I sentimenti di onore e le maniere galanti hanno introdotto nelle moderne Corti d'Europa il raffinamento nel piacere, il rispetto per la decenza, ed il riguardo per la publica opinione; ma i doviziosi e corrotti nobili di Roma adottavano tutti i vizj, che v'introduceva il concorso delle nazioni e dei costumi stranieri. Sicuri della impunità, e non curanti della censura, vivevano senza alcun freno nell'umile e sommessa società dei loro schiavi o dei loro parassiti. L'Imperatore, dal canto suo, riguardando tutti i suoi sudditi con egual disprezzo ed indifferenza, sosteneva senza ritegno veruno il sovrano suo privilegio delle dissolutezze e del lusso.

I più indegni tra gli uomini non temono di condannare negli altri quei vizj medesimi, nei quali essi pure s'ingolfano. Per giustificare questa parzialità sono sempre pronti a trovare qualche leggiera differenza nell'età, nel carattere, o nelle circostanze. I licenziosi soldati, che avevano innalzato al trono l'indegno figlio di Caracalla, arrossirono dell'infame loro scelta, e fremendo alla vista di quel mostro, si rivolgevano con piacere a contemplare le nascenti virtù del suo cugino Alessandro, figliuol di Mammea. L'accorta Mesa prevedendo che il suo nipote Elagabalo con i suoi proprj vizj correva ad inevitabil rovina, volle dare alla sua famiglia un altro più sicuro sostegno. Profittando di un momento favorevole di tenerezza e di devozione, avea indotto il giovane Imperatore ad adottare Alessandro, e dargli il nome di Cesare, affinchè le sue divine occupazioni non fossero più lungamente interrotte dalle cure terrene. Questo Principe amabile, posto nel secondo seggio, presto si acquistò l'amore del pubblico, ed eccitò la gelosia del tiranno, che risolse di por fine ad un pericoloso paragone, corrompendo i costumi del suo rivale, o togliendogli la vita. Furono inutili i suoi tentativi, ed i suoi vani disegni vennero sempre scoperti dalla sua folle loquacità, o sconcertati da quei domestici virtuosi e fedeli che la prudente Mammea aveva dati al suo figlio. In un precipitoso trasporto di collera risolse Elagabalo di far con la forza quel che non avea potuto eseguir con la frode, e con una sentenza dispotica degradò il suo cugino dalla dignità e dagli onori di Cesare. Fu ricevuto quest'ordine dal Senato con silenzio, e dalle truppe con furore. I soldati Pretoriani giurarono di difendere Alessandro, e vendicar la maestà di un trono disonorato. I pianti e le promesse del tremante Elagabalo, che solamente pregavali a lasciargli la vita ed il suo amato Jeroele, sospesero il lor giusto sdegno; e si contentarono d'incaricare i loro Prefetti di vegliare sulla salvezza d'Alessandro, e sulla condotta dell'Imperatore[464].

Era impossibile che tale reconciliazione potesse durare, o che Elagabalo, per vile che fosse, volesse regnare a condizioni così umilianti. Procurò ben presto con una pericolosa prova di esplorare gli animi dei soldati. Il rumore della morte di Alessandro, ed il natural sospetto, ch'egli fosse stato veramente ucciso, eccitò nel campo una ribellione, che la presenza e l'autorità di quel Principe diletto poterono sole acquietare. Irritato da questa novella prova del loro affetto verso il suo cugino, e del loro disprezzo verso la sua persona, l'Imperatore si arrischiò a punire alcuni capi della sedizione. La sua intempestiva severità divenne in un momento funesta ai suoi Favoriti, alla sua madre, a lui stesso. Fu Elagabalo trucidato dagli sdegnati Pretoriani, e strascinato il suo mutilato cadavere per le strade di Roma, poi gettato nel Tevere. Il Senato dannò la memoria di lui a perpetua infamia, e la posterità ha ratificato questa giusta sentenza[465].

In luogo di Elagabalo fu da' Pretoriani innalzato al trono il cugino di lui, Alessandro. La relazione che questi avea con la famiglia di Severo, di cui prese il nome, era la stessa che quella del suo predecessore: la virtù di lui ed il pericolo, che avea corso, lo avevan renduto caro ai Romani, ed il Senato con gran liberalità gli conferì in un sol giorno tutti i titoli e tutto il potere della dignità imperiale[466]. Ma siccome Alessandro era un modesto e rispettoso giovane in età di soli diciassette anni, le redini del governo rimasero in mano della sua madre Mammea, e di Mesa sua ava. Dopo la morte di quest'ultima, che poco sopravvisse all'elevazione di Alessandro, Mammea fu la sola reggente e del figlio e dell'Impero.

In ogni secolo ed in ogni paese, il sesso più saggio, o almeno più forte, ha usurpato tutte le cariche dello Stato, e confinato l'altro nelle cure e nei piaceri della vita domestica. Nelle monarchie ereditarie per altro, e particolarmente in quelle dell'Europa moderna, il galante spirito di cavalleria, e la legge di successione ci hanno avvezzati ad una singolare eccezione; ed una donna è spesso riconosciuta per assoluta Sovrana di un vasto regno, nel quale sarebbe creduta incapace di esercitare il minimo impiego militare e civile. Ma siccome gl'Imperatori romani erano sempre considerati come Generali e Magistrati della Repubblica, così le loro consorti e le madri loro, benchè distinte col nome di Auguste, non furono mai associate ai loro personali onori, ed uno scettro retto da una man femminile sarebbe sembrato un portento inesplicabile agli occhi di quei primi Romani, che si maritavano senza amore, ed amavano senza delicatezza e rispetto[467]. La superba Agrippina tentò, è vero, di aver parte agli onori dell'Impero, al quale essa aveva innalzato il suo figlio; ma la sua folle ambizione, detestata da tutti i cittadini, che ancor veneravano la maestà di Roma, fu sconcertata dalle arti e dalla fermezza di Seneca e di Burro[468]. Il buon senso e l'indifferenza dei Principi successivi si trattenne dall'offendere i pregiudizj dei loro sudditi; ed era riservato all'infame Elagabalo di disonorare gli atti del Senato con il nome della sua madre Soemia, che sedeva accanto ai Consoli, e soscriveva, come gli altri Senatori, i decreti di quell'assemblea legislatrice. La sua sorella Mammea ricusò prudentemente questa inutile ed odiosa prerogativa, e fu promulgata una legge solenne, che escludeva per sempre le donne dal Senato, e consacrava agli Dei infernali il capo di chiunque violasse un tale decreto[469]. L'oggetto della virile ambizione di Mammea era la realtà, non l'apparenza del potere. Ella si conservò un impero assoluto e durevole sullo spirito del figlio, ed in ciò non potè quella madre soffrire un rivale. Alessandro, col consenso di lei, sposò la figlia di un patrizio, ma il di lui rispetto pel suocero, e l'amore per l'Imperatrice, erano incompatibili colla tenerezza, e coll'interesse di Mammea. Il Patrizio, ben presto accusato di tradimento, soffrì l'ultimo supplizio, e la moglie di Alessandro fu scacciata vergognosamente dal palazzo, e rilegata nell'Affrica[470].

Non ostante quest'atto di gelosa crudeltà, e l'avarizia di cui viene tacciata Mammea, il generale tenore del suo governo fu ugualmente utile al figlio, ed all'Impero. Coll'approvazione del Senato scelse sedici dei più saggi e virtuosi Senatori, che formassero un perpetuo Consiglio di Stato, ove si agitassero, e si decidessero tutti gli affari pubblici d'importanza. Questo Consiglio aveva per capo il celebre Ulpiano, illustre egualmente per la sua scienza, e pel rispetto alle leggi romane. La fermezza e la prudenza di questa aristocrazia ristabilì l'ordine, e l'autorità del Governo. Dopo avere purgato la città da ogni culto e lusso straniero, residui della capricciosa tirannide di Elagabalo, si applicarono ad allontanare le indegne di lui creature da ogni dipartimento della pubblica amministrazione, ed a sostituire in loro vece persone abili e virtuose. La dottrina e l'amore della giustizia divennero le sole raccomandazioni per gli uffizj civili, ed il valore e l'amore della disciplina, i soli requisiti per gli impieghi militari[471].

Ma la cura più importante di Mammea e dei saggi suoi consiglieri fu l'educazione del giovane Imperatore, le cui qualità personali doveano fare la felicità, e la miseria del Mondo romano. La fertilità del suolo secondava, e quasi preveniva la mano coltivatrice. L'eccellente intendimento di Alessandro lo persuase ben presto dei vantaggi della virtù, del piacere d'istruirsi, e della necessità del lavoro. Una dolcezza ed una moderazione naturale lo preservarono dagli assalti della passione, e dalle attrattive del vizio. Il suo inviolabile rispetto per la madre, e la sua stima pel saggio Ulpiano difesero l'inesperta sua giovanezza dal veleno dell'adulazione.

La semplice descrizione delle giornaliere sue occupazioni presenta il bel quadro di un perfetto Monarca[472], e col dovuto riguardo alla differenza dei costumi, meriterebbe l'imitazione dei Principi moderni. All'alba si levava Alessandro: i primi momenti della sua giornata erano consacrati alla privata devozione, e la sua cappella domestica era ripiena delle immagini di quegli Eroi, che perfezionando e riformando l'umana vita, aveano meritata la grata venerazione della posterità. Ma essendo egli persuaso, che il servire agli uomini era il culto più grato agli Dei, impiegava la maggior parte della mattina nel suo Consiglio, dove discuteva i pubblici affari, e decideva le cause private con una pazienza, ed una saviezza superiori alla sua età. L'amenità della letteratura lo ricreava dalla noia degli affari; ed una parte del tempo era sempre riservata ai favoriti suoi studj della poesia, della storia e della filosofia. Le opere di Virgilio e di Orazio, le Repubbliche di Platone e di Cicerone formavano il suo gusto, ne dilatavano l'intendimento, e gli fornivano le più nobili idee dell'uomo e del Governo. Agli esercizj dello spirito succedevano quelli del corpo; ed Alessandro, ch'era di alta statura, attivo e robusto, superava quasi tutti i suoi eguali nelle arti ginnastiche. Dopo il bagno, ed un piccolo pranzo, si applicava con nuovo vigore agli affari del giorno, e fino all'ora di cena (ch'era il pasto principale dei Romani) stava in compagnia dei suoi segretarj, leggendo o rispondendo alla moltitudine delle lettere, dei memoriali, o delle suppliche, che naturalmente dovevan indirizzarsi al Signore della maggior parte del Mondo. La sua tavola era semplice e frugale, ed ogni volta che potea seguire liberamente la sua propria inclinazione, invitava pochi scelti amici, uomini dotti e virtuosi, ed era Ulpiano sempre di questo numero. I loro discorsi erano familiari ed istruttivi, e gl'intervalli venivano opportunamente ravvivati dalla lettura di qualche piacevole composizione, invece dei ballerini, dei commedianti, e fino dei gladiatori, così spesso chiamati alle tavole dei ricchi e lussuriosi Romani[473]. Il vestire di Alessandro era semplice e modesto; il suo contegno cortese ed affabile. In certe ore il suo palazzo era aperto a tutti i sudditi; ma s'udiva la voce di un banditore, che, come nei misteri Eleusini, pronunziava la medesima salutevole ammonizione «Niuno entri in queste sacre mura, se non ha l'animo puro ed innocente[474] ».

Questo uniforme tenor di vita, che non lasciava un momento al vizio od alla follìa, dimostra più di tutte le frivole particolarità compilate da Lampridio, la saviezza e la giustizia del governo di Alessandro. Dall'avvenimento di Commodo in poi, l'Impero romano avea sofferto per quarant'anni i successivi e diversi vizj di quattro tiranni. Dopo la morte di Elagabalo, godè per tredici anni una fortunata calma. Le province, sollevate dalle gravose tasse inventate da Caracalla e dal suo preteso figlio, fiorivano nella pace e nella prosperità sotto l'amministrazione di magistrati, i quali erano persuasi dall'esperienza, che il migliore ed unico modo di ottenere il favor del Sovrano consisteva nel conciliarsi l'amore dei sudditi. Mentre che si mettevano alcune moderate restrizioni all'eccessivo lusso dei Romani, diminuì il prezzo delle grascie, e l'interesse dal denaro, per le paterne cure di Alessandro, che con prudente liberalità sapeva, senza nuocere all'industria, sovvenire ai bisogni ed ai divertimenti del popolo. Fu ristabilita la maestà, la libertà, e l'autorità del Senato, ed ogni virtuoso Senatore potea accostarsi all'Imperatore senza timore e senza rossore.

Il nome di Antonino, nobilitato dalle virtù di Pio e di Marco, era stato comunicato per adozione al dissoluto Vero, e per discendenza al barbaro Commodo. Dopo essere stato il più onorevole distintivo dei figli di Severo, fu conferito al giovane Diadumeniano, e finalmente prostituito all'infame gran Sacerdote di Emesa. Alessandro, malgrado delle studiate e forse sincere istanze del Senato, nobilmente ricusò l'imprestato lustro d'un nome, mentre con tutta la sua condotta procurava di ristabilire la gloria e la felicità del secolo[475] dei veri Antonini.

Nel governo civile di Alessandro, la prudenza era rinvigorita dall'autorità; ed il popolo, persuaso della pubblica felicità, ricompensava il suo benefattore con l'amore e con la gratitudine. Restava a compirsi l'impresa più grande, più necessaria, e più pericolosa, la riforma cioè delle milizie, l'interesse ed il carattere delle quali, confermato da lunga impunità, le rendeva incapaci di freno, ed insensibili alla felicità dello Stato. Nell'esecuzione del suo disegno, l'imperatore fece sembiante d'amar l'esercito senza temerlo. La più rigida economia in ogni altro dipartimento del Governo, gli somministrava un fondo d'oro e d'argento per la paga ordinaria delle truppe e per le ricompense straordinarie. Rallentò ad esse il severo obbligo di portare sulle spalle, marciando, le provvisioni per diciassette giorni. Furono lungo le pubbliche strade eretti ampi magazzini, ed appena entravano i soldati in paese nemico, che un numeroso seguito di muli e di cammelli accompagnava la loro orgogliosa mollezza. Siccome Alessandro disperava di potere reprimere il lusso dei soldati, procurò almeno di dirigerlo verso oggetti di pompa, e di ornamento marziale, bei cavalli, armi lucenti, e scudi adorni di argento e d'oro. Prendeva parte a tutte le fatiche, ch'era costretto d'imporre, visitava in persona i malati ed i feriti, teneva un esatto registro dei loro servizj e della sua propria gratitudine, e mostrava in ogni occasione il più gran riguardo per un corpo, la cui conservazione era (com'egli stesso affettava di esprimersi) così intimamente connessa con quella dello Stato[476]. Colle vie le più dolci procurò d'inspirare a quella fiera moltitudine il sentimento del suo dovere, e di ristabilire almeno una debole immagine di quella disciplina, alla quale i Romani dovevano i loro successi contro tante altre nazioni, guerriere al pari di loro e più di loro potenti. Ma fu vana la sua prudenza, e funesto il suo coraggio; poichè i tentativi di una riforma non servirono che ad irritare quei mali, ch'egli intendeva di guarire.

I Pretoriani erano sinceramente affezionati al giovane Alessandro, lo amavano come un tenero pupillo, ch'essi avevano salvato dal furore di un tiranno, e collocato sul trono imperiale. Questo amabile Principe non aveva obbliato i loro servizj. Ma siccome la ragione e la giustizia mettevano limiti alla sua gratitudine, i Pretoriani furono presto più malcontenti delle virtù di Alessandro, di quello che lo fossero stati dei vizj di Elagabalo. Il savio Ulpiano, loro Prefetto, era amico delle leggi e del popolo, ma veniva considerato come nemico dei soldati, e s'imputava ai perniciosi di lui consigli ogni disegno di riforma. Un leggiero accidente cangiò in una fiera sedizione il loro disgusto; e mentre il popolo riconoscente difendeva la vita di quell'eccellente ministro, Roma fu per tre giorni esposta a tutti gli orrori della guerra civile. Atterrito finalmente il popolo dalla vista d'alcune case incendiate, e dalle minacce d'un incendio generale, cedè sospirando, e rilasciò il virtuoso Ulpiano al suo sfortunato destino. Fu egli inseguito sin dentro il palazzo imperiale, e trucidato ai piedi del suo Signore, che invano si sforzava di coprirlo col suo manto, e di ottenerne il perdono da quegl'inesorabili soldati. Tale era la deplorabile debolezza del Governo, che l'Imperatore non potè vendicare il suo trucidato amico o la sua insultata maestà, senza ricorrere alle arti della pazienza e della dissimulazione. Epagalo, il principale condottiero dei sollevati, fu mandato lungi da Roma nell'onorevole impiego di Prefetto dell'Egitto: da quell'alto posto a poco a poco fu degradato al governo di Creta; e quando il tempo e la lontananza lo fecero dimenticare ai soldati, Alessandro, preso animo, gl'inflisse il tardo, ma giusto castigo de' suoi delitti[477]. Sotto il regno di un Principe giusto e virtuoso, la tirannia dell'esercito minacciava di pronta morte i più fedeli di lui Ministri, quando si sospettava ch'essi volessero riformare i loro eccessivi disordini. Dione Cassio, lo Storico, aveva comandate lo legioni della Pannonia con i principi dell'antica disciplina: i loro compagni, che stavano a Roma, abbracciando la causa comune della licenza militare, domandarono la testa del riformatore. Alessandro, per altro, in cambio di cedere ai loro sediziosi clamori, mostrò quanto stimava i servizj ed il merito di Dione, facendolo suo collega nel Consolato, e pagando col suo proprio danaro la spesa di questa vana dignità; ma siccome giustamente si temeva, che se i soldati lo vedevano con le insegne della carica, non vendicassero nel suo sangue un tale insulto, il primo apparente magistrato della Repubblica, per consiglio dell'imperatore, si allontanò da Roma, e passò la maggior parte del suo consolato nelle proprie ville della Campania[478].

La dolcezza dell'Imperatore aumentò l'insolenza delle truppe: le legioni imitarono l'esempio delle guardie, e difesero la loro prerogativa della licenza con lo stesso ostinato furore. Il Governo di Alessandro fu un inefficace sforzo contro la corruttela del secolo. Nell'Illirico, nella Mauritania, nell'Armenia, nella Mesopotamia e nella Germania scoppiavano sempre nuove congiure; furono trucidati gli uffiziali, insultata la maestà, e finalmente sacrificata la vita di questo Principe al furore de malcontenti soldati[479].

In una sola occasione le truppe rientrarono nel loro dovere e nell'obbedienza: è questo un fatto particolare che merita di essere rammentato, e serve a ben conoscere l'indole di quei soldati. Mentre l'Imperatore stava in Antiochia nel tempo della guerra persiana, di cui parleremo tra poco più estesamente, il castigo di alcuni soldati, che erano stati sorpresi nel bagno delle donne, eccitò un tumulto nella loro legione. Alessandro montò sul suo tribunale, e con una modesta fermezza rappresentò a quella moltitudine armata l'assoluta necessità, e l'inflessibile sua risoluzione di correggere i vizj introdotti dal suo impuro predecessore, e di mantenere la disciplina, senza la quale il nome e l'Impero romano doveano necessariamente perire. Furono dai loro clamori interrotte queste moderate rappresentanze. «Tenete in serbo le vostre grida» disse il coraggioso Imperatore «finchè non siate in campo contro i Persiani, i Germani ed i Sarmati: tacete al cospetto del vostro Sovrano benefattore, che vi concede il grano, le vesti e il denaro delle province: tacete, o più non vi chiamerò soldati, ma cittadini[480], se pure quelli che calpestano le leggi di Roma meritano d'essere annoverati anche tra i più vili del popolo». Le sue minacce irritarono il furore della legione, e le loro armi impugnate già minacciavano la sua persona. «Il vostro coraggio» riprese l'intrepido Alessandro «si mostrerebbe più nobilmente in un campo di battaglia; potete togliermi la vita, ma non già intimorirmi, e la severa giustizia della Repubblica punirebbe il vostro delitto, e vendicherebbe la mia morte.» La legione continuava i suoi clamori, quando l'Imperatore pronunziò ad alta voce: « Cittadini, deponete le armi, e ritiratevi in pace alle vostre rispettive abitazioni.» Fu la tempesta immediatamente calmata: i soldati, pieni di dolore e di vergogna, confessarono tacitamente giustizia del loro castigo, ed il potere della disciplina: deposero le armi e le insegne militari, e senza tornare al campo, confusamente si ritirarono ne' diversi alberghi della città. Alessandro per trenta giorni godè l'edificante spettacolo del loro pentimento, nè li ristabilì nel loro grado primiero, finchè non ebbe puniti colla morte quei Tribuni, la connivenza dei quali avea cagionato il tumulto. La riconoscente legione si mantenne fedele all'Imperatore finchè egli visse; e morto lo vendicò[481].

Le risoluzioni della moltitudine generalmente dipendono da un momento; e il capriccio della passione poteva egualmente determinare la legione sediziosa a gettare le armi ai piedi dell'Imperatore, o ad immergergliele nel seno. Forse scopriremmo le cagioni secrete della intrepidezza del Principe, e dell'obbedienza delle truppe in quel fatto singolare, se questo fosse stato sottoposto all'esame da un filosofo; e forse anco, se lo avesse riferito uno storico giudizioso, quest'azione, degna di Cesare, perderebbe tutto il tuo merito, riducendosi al comun livello delle altre azioni convenienti al carattere di Alessandro Severo. Sembra che i talenti di questo Principe amabile non sieno stati proporzionati alla sua critica situazione; e che la fermezza della sua condotta non fosse eguale alla purità delle sue intenzioni. Le sue virtù aveano, come i vizj di Elagabalo, contratta una tintura di debolezza nell'effeminato clima della Siria, dov'egli era nato; arrossiva per altro d'essere d'origine straniera, e con una vana compiacenza ascoltava gli adulatori genealogisti, che lo facevano discendere dalla più antica nobiltà di Roma[482]. La superbia e l'avarizia della madre oscurarono alquanto la gloria del suo regno; e Mammea espose alla pubblica derisione il proprio carattere, e quello del figlio[483], con esigere da esso negli anni più maturi la medesima rispettosa obbedienza, ch'ella avea giustamente pretesa dall'inesperta di lui giovanezza. Le fatiche della guerra persiana irritarono i malcontenti soldati; e l'esito sfortunato avvilì la reputazione dell'Imperatore, come generale e come soldato. Ogni cagione preparava, ed ogni circostanza affrettava una rivoluzione, che lacerò poi l'Impero romano con una lunga serie d'intestine calamità.

La tirannica dissolutezza di Commodo, le guerre civili cagionate dalla morte di lui, e le nuove massime di politica, introdotte dalla famiglia di Severo, aveano insieme contribuito ad accrescere il pericoloso poter dei soldati, ed a cancellare dalla mente dei Romani la rimastavi languida immagine delle leggi e della libertà. Noi abbiamo già procurato di spiegare con ordine e chiarezza questo interno cambiamento, che indebolì i fondamenti dell'Impero. I caratteri personali degl'Imperatori, le loro vittorie, leggi, follìe e fortune non ci possono interessare, se non in quanto sono connesse colla storia generale della decadenza e rovina della Monarchia. La nostra costante attenzione a questo grande oggetto non ci permetterà di esaminare un editto molto importante di Antonino Caracalla, che comunicò a tutti i liberi abitanti dell'Impero il nome ed i privilegi di cittadini romani. Questa eccessiva liberalità non derivava per altro dai sentimenti di un animo generoso; era l'effetto di una sordida avarizia. Alcune osservazioni sulle finanze dei Romani, dai secoli vittoriosi della Repubblica fino al regno di Alessandro Severo, proveranno la verità di questa riflessione.

L'assedio di Veia in Toscana (prima considerabile impresa dei Romani) durò dieci anni, più per l'inabilità degli assedianti, che per la forza della città. Le insolite fatiche di tante campagne d'inverno, in distanza di quasi venti miglia da casa[484], esigevano incoraggiamenti più che comuni; ed il Senato saggiamente prevenne i clamori del popolo, instituendo pei soldati una paga regolare, alla quale si supplì con un generale tributo, imposto con giusta proporzione sopra i beni dei cittadini[485]. Per più di 200 anni dopo la conquista di quella città, le vittorie della Repubblica aumentarono più la potenza, che la ricchezza di Roma. Gli Stati dell'Italia pagavano il loro tributo col solo servizio militare, e le immense forze terrestri e marittime, impiegate nelle guerre Puniche, furono tutte mantenute a spese dei Romani medesimi. Questo popolo generoso (sì grande è talvolta il nobile entusiasmo della libertà) si sottometteva con piacere alle più eccessive e volontarie gravezze, nella giusta fiducia di presto godere la ricca ricompensa delle sue fatiche. Non andarono deluse le sue speranze. In pochi anni le ricchezze di Siracusa, di Cartagine, della Macedonia e dell'Asia furono portate a Roma in trionfo. I soli tesori di Perseo ascendevano a quattro milioni di zecchini, ed il popolo romano, sovrano di tante nazioni, fu per sempre liberato dal peso delle tasse[486]. La rendita delle province, che sempre andava aumentando, servì per supplire alle spese ordinarie della guerra e del Governo, e la superflua massa dell'oro e dell'argento fu depositata nel tempio di Saturno, e riserbata per qualunque improvvisa necessità dello Stato[487].

La storia non ha forse mai sofferta una perdita più grande, o più irreparabile, che nello smarrimento di quel curioso registro lasciato da Augusto al Senato, nel quale questo Principe sperimentato avea fatto un così esatto bilancio dell'entrate e delle spese dell'Impero romano[488]. Privi di questo chiaro ed esteso ragguaglio, siamo ridotti a raccogliere pochi imperfetti indizj da quegli antichi, che accidentalmente hanno interrotta la parte più splendida della loro narrazione per dar luogo a più utili considerazioni. Sappiamo che le conquiste di Pompeo fecero ascendere i tributi dell'Asia da 50 a 135 milioni di dramme, ossia 9 milioni di zecchini incirca[489]. Sotto l'ultimo ed il più indolente dei Tolomei, l'Egitto rendeva 12500 talenti, che equivalgono a più di 15 milioni di zecchini; ma fu questa rendita di poi considerabilmente aumentata dalla più esatta economia dei Romani, e dal cresciuto commercio dell'Etiopia e dell'India[490].

La Gallia sì arricchiva colle rapine, come l'Egitto con il commercio, ed i tributi di queste due grandi province pare che a un di presso fossero di egual valore[491]. I dieci mila talenti Euboici o Fenicj (quasi 8 milioni di zecchini[492] ) che la vinta Cartagine fu condannata a pagare nel termine di cinquant'anni, erano un leggiero tributo in segno della superiorità di Roma[493], il quale non può in modo alcuno paragonarsi colle tasse, che furono imposte di poi sulle terre e sulle persone di quegli abitanti, quando la fertile costa dell'Affrica fu ridotta in provincia[494].

La Spagna, per un destino singolare, era il Messico ed il Perù dell'antico Mondo. La scoperta del ricco occidental continente fatta dai Fenicj, e l'oppressione di quei popoli innocenti, forzati a faticare nelle loro proprie miniere pel vantaggio degli stranieri, formano un esatto quadro della più recente storia dell'America spagnuola[495]. I Fenicj non conoscevano, che la costa marittima della Spagna; ma l'avarizia insieme e l'ambizione portarono le armi di Roma e di Cartagine nel cuore di quella provincia, e vi furono quasi in ogni parte trovate miniere di rame, d'argento e d'oro. Vien fatta menzione di una miniera vicina a Cartagine, che rendea venticinque mila dramme d'argento al giorno, ovvero quasi seicentomila zecchini l'anno[496]. Le province dell'Asturia, della Galizia e della Lusitania rendevano annualmente ventimila libbre di peso d'oro[497].

Non abbiamo nè tempo nè materiali per continuare questa curiosa ricerca riguardo a tutti quei potenti Stati, che assorbiti rimasero nel romano Impero. Possiamo per altro formarci qualche idea della rendita di quelle province, nelle quali v'erano ricchezze considerabili, o depositatevi dalla natura, o ammassate dagli uomini, se osserviamo la severa attenzione, che si aveva alle sterili e solitarie contrade. Augusto ricevè una supplica dagli abitanti di Giera, i quali umilmente lo pregavano d'essere sollevati di un terzo delle loro eccessive imposizioni. L'intera loro tassa non era, per vero dire, maggiore di cento cinquanta dramme, intorno a dieci zecchini. Ma Giera era un'isoletta, o piuttosto uno scoglio del mare Egeo, mancante d'acqua dolce, e di ogni cosa necessaria alla vita, ed abitata da pochi miserabili pescatori[498].

Da questi deboli ed incerti lumi saremmo portati a credere, I. che (avuto ogni riguardo alla differenza dei tempi e delle circostanze) la rendita generale delle province romane raramente fosse minore di 30 ovvero 40 milioni di zecchini[499]; II. che una entrata così considerabile dovesse pienamente servire a tutte le spese del moderato Governo istituito da Augusto, la Corte del quale non eccedeva il treno modesto di un Senatore privato, ed il cui militare stabilimento era calcolato per la sola difesa delle frontiere, senza alcuna mira ambiziosa di far conquiste, od alcun serio timore d'una invasione straniera.

Non ostante l'apparente probabilità di queste due conclusioni, la seconda almeno è positivamente contraria al linguaggio ed alla condotta di Augusto. Non è facile di decidere, se allora egli operò da padre comune del Mondo romano, o da oppressore della libertà; se volle sollevar le province o impoverire il Senato e l'ordine equestre. Che che ne sia, non sì tosto ebbe egli prese le redini del Governo, che cominciò a fare spesse rappresentanze sulla scarsezza dei tributi, e sulla necessità di far sopportare a Roma ed all'Italia una giusta porzione delle pubbliche gravezze. Prese per altro caute e salde misure per l'esecuzione di questo impopolare disegno. L'introduzione delle gabelle fu seguitata dallo stabilimento di una tassa sulle vendite; ed il piano dell'imposizione generale con accortezza fu esteso su i beni e le persone dei cittadini romani, che per un secolo e mezzo erano andati esenti da qualunque contribuzione.

I. In un Impero vasto, come il romano, la naturale bilancia della moneta dovea stabilirsi a poco a poco da se medesima. È già stato osservato, che siccome le ricchezze delle province erano tirate alla Capitale dalla forza della conquista e della potenza, così le province industriose insensibilmente ne ricuperavano gran parte per la gentile influenza del commercio e delle arti. Sotto il regno di Augusto e de' suoi successori, furono imposti diritti sopra ogni specie di mercanzie, che per mille varj canali scorrevano verso il gran centro della ricchezza e del lusso; e in qualunque modo fosse espressa la legge, ora il compratore romano, non il mercante provinciale, che pagava la tassa[500]. La tariffa dei dazj variava dall'ottava alla quarantesima parte del valore delle merci; e possiamo con ragione supporre che la diversità fosse regolata dalle massime inalterabili della politica; che gli oggetti di lusso pagassero un dazio maggiore che quelli di necessità; e che per li prodotti e le manifatture dell'Impero si avesse una maggiore indulgenza, che non pel nocivo o almeno infruttuoso commercio dell'Arabia o dell'India[501]. Esiste ancora un lungo, ma imperfetto catalogo delle mercanzie orientali, che verso il tempo di Alessandro Severo soggiacevano alle imposizioni, ed erano la cannella, la mirra, il pepe, lo zenzero e tutti gli aromati; una gran varietà di pietre preziose, tra le quali il diamante era la più riguardevole pel suo valore, e lo smeraldo per la sua bellezza[502]; le pelli che venivano dalla Partia e da Babilonia, i cotoni, le sete gregge o lavorate, l'ebano, l'avorio e gli eunuchi[503]. È da notarsi che l'uso ed il prezzo di questi schiavi effeminati andò crescendo in proporzione della decadenza dell'Impero.

II. L'imposizione sulle vendite, introdotta da Augusto dopo le guerre civili, era tenue ma generale. Passò raramente l'uno per 100, ma comprendeva tutto ciò che si vendea nei mercati o all'asta pubblica, dagli acquisti più considerabili di terreni o di case, fino a quei minuti oggetti, il cui prodotto non può divenire importante che pel loro infinito numero, e giornaliero consumo. Una simile tassa, che aggrava tutta la nazione, ha sempre cagionato lagnanze e disgusti. Un Imperatore, che conosceva perfettamente i bisogni dello Stato e i mezzi per supplire ai medesimi, fu costretto a dichiarare con un pubblico editto, che il mantenimento dell'armata si ricavava in gran parte dall'imposizione sulle vendite[504].

III. Quando Augusto deliberò di stabilire una milizia permanente per difendere il suo Governo contro i nemici esterni e domestici, istituì un tesoro particolare per la paga dei soldati, per le ricompense de' veterani, e per le spese straordinarie della guerra. L'ampia rendita della imposizione sulle vendite, benchè tutta si applicasse a quegli usi, pure non fu sufficiente; e per supplire alla mancanza l'Imperatore suggerì una nuova tassa di cinque per cento sopra tutti i legati e tutte l'eredità. Ma i nobili romani si mostrarono più gelosi dei loro beni, che della loro libertà. Augusto ne udì le lagnanze con la sua solita moderazione. Rimise egli di buona fede l'affare al Senato, esortandolo a rintracciare qualche altro meno odioso espediente per provvedere alla pubblica utilità. Erano i Senatori divisi e perplessi, ma avendo egli detto, che la loro ostinazione l'obbligherebbe a proporre una tassa generale sopra i terreni e sopra le teste, consentirono, senza far più parole, al primo progetto[505]. La nuova imposizione sopra i legati e le eredità fu per altro mitigata da alcune restrizioni. Essa non avea luogo, se l'oggetto non aveva un determinato valore, probabilmente di cinquanta o cento pezzi d'oro[506]: nè si poteva esigere dal parente più prossimo per parte di padre[507]. Assicurati così i diritti della natura e della povertà, parve cosa assai ragionevole che uno straniero o un parente lontano, il quale acquistava un aumento inaspettato di beni, potesse con piacere consacrarne la ventesima parte al vantaggio dello Stato[508].

Una simile tassa, il cui prodotto deve essere immenso in ogni Stato opulento, era per buona sorte adattata alla situazione dei Romani, che poteano nei loro arbitrarj testamenti seguitare la ragione o il capriccio, non essendo vincolati dai moderni legami di sostituzioni e di convenzioni matrimoniali. Per varie cagioni la parzialità dell'affetto paterno spesso perdeva la sua influenza sopra i feroci repubblicani, e sopra i dissoluti nobili dell'Impero; e se il padre lasciava al figlio la quarta parte del suo patrimonio, non v'era luogo a legittime querele[509]. Ma un ricco vecchio senza figliuoli era un tiranno domestico, ed il suo potere cresceva con gli anni e con le malattie. Una folla servile, tra la quale sovente si trovavano e Pretori e Consoli, lo corteggiava per ottenerne il favore, lusingava la sua avarizia, applaudiva alle sue follìe, serviva le sue passioni, e con impazienza ne attendeva la morte. L'arte della compiacenza e dell'adulazione divenne una scienza lucrosa; quelli, che la professavano, furono conosciuti sotto un nome particolare; e tutta la città, secondo le vivaci descrizioni della satira, era divisa in due parti, i cacciatori[510], e la cacciagione. Mentre dunque ogni giorno tanti strani, ed ingiusti testamenti venivano dettati dall'accortezza, e sottoscritti dalla follìa, alcuni pochi erano suggeriti da una sensata stima o virtuosa gratitudine. Cicerone, che tanto spesso avea difeso le vite ed i beni dei suoi concittadini, fu ricompensato con legati, la cui somma ascese quasi a trecento quarantamila zecchini[511]; nè pare che gli amici di Plinio il Giovane fosser men generosi verso questo amabile oratore[512]. Qualunque fosse il motivo del testatore, il Tesoro reclamava, senza distinzione, la ventesima parte dell'eredità, e nel corso di due o tre generazioni l'intero patrimonio del suddito doveva a poco a poco passare nella cassa dello Stato.

Nei primi anni felici del regno di Nerone, questo Principe, per desiderio di rendersi popolare, o forse per un cieco impulso di benificenza, ebbe l'idea di abolire tutti i gravami delle gabelle e delle imposizioni sopra le vendite. Applaudirono i Senatori più prudenti alla sua magnanimità, ma lo distolsero dall'esecuzione di un disegno, che avrebbe distrutta la forza e le sorgenti delle ricchezze della Repubblica[513]. Se fosse stato possibile di condurre ad effetto questo sogno chimerico, Traiano e gli Antonini avrebbero certamente con ardore abbracciata la gloriosa occasione di rendere un servizio così segnalato al genere umano. Contenti pertanto di alleggerire le pubbliche gravezze, non tentarono di abolirle. La dolcezza e la precisione delle loro leggi determinò la regola e la misura delle imposizioni, e protesse il suddito d'ogni condizione contro le arbitrarie interpretazioni, le antiquate pretensioni, e le insolenti vessazioni degli appaltatori[514]. È per altro cosa singolare, che, in ogni secolo, i migliori e più savj Imperatori romani seguissero il pericoloso metodo di dare in appalto i rami, principali almeno, delle gabelle e delle imposizioni sopra le vendite[515].

La situazione ed i sentimenti di Caracalla erano, per vero dire, ben diversi da quelli degli Antonini. Disattento, anzi nemico del pubblico bene, si trovò nella necessità di soddisfare all'avarizia insaziabile, ch'egli medesimo destata avea nelle truppe. Di tutte le diverse imposizioni introdotte da Augusto, il ventesimo sulle eredità, e su i legati era la più fruttifera e la più estesa. Siccome non era ristretta ai soli abitanti di Roma o dell'Italia, se ne aumentava continuamente il prodotto, a proporzione che si dilatava la cittadinanza romana. I nuovi cittadini, benchè egualmente sottoposti alle nuove tasse[516], dalle quali erano stati esenti come sudditi, si credevano ampiamente compensati dal grado che ottenevano, dai privilegi che acquistavano e dal bello aspetto di onori e di ricchezze, che si presentava alla loro ambizione. Ma questi vantaggi svanirono quando Caracalla, togliendo ogni distinzione costrinse tutti i provinciali a prendere, lor malgrado, il vano titolo e le obbligazioni reali di cittadini romani. Nè il rapace figlio di Severo si contentò della tassa, della quale si erano contentati i moderati suoi predecessori. In vece del ventesimo egli esigè il decimo di tutte le eredità e di tutti i legati, e durante il suo regno (perocchè dopo la sua morte fu l'imposizione rimessa sull'antico metodo) tutte le parti dell'Impero furono egualmente oppresse dal peso del suo scettro di ferro[517].

Quando in tal guisa furono tutti i provinciali sottomessi alle imposizioni particolari dei cittadini romani, pareva che dovessero legittimamente essere esentati da quelle, ch'erano soliti di pagare nella prima condizione di sudditi. Ma queste non erano le massime di governo prese a seguire da Caracalla, e dal preteso suo figlio. Le province si ritrovarono aggravate, ad un tempo stesso, dai nuovi e dagli antichi tributi. Era riservato al virtuoso Alessandro di sollevarle in gran parte da questa intollerabile oppressione, riducendo i tributi alla trentesima parte di quello ch'erano al suo avvenimento[518]. È impossibile di congetturare per qual motivo egli lasciasse sussistere quel piccolo residuo della pubblica calamità. Questa pianta fatale, non affatto sradicata, tornò a germogliare sempre più vigorosa, e nei secoli successivi stese la sua ombra mortifera sopra tutto il Mondo romano. Nel corso di questa storia saremo bene spesso obbligati a far menzione della tassa sopra i terreni e sopra le teste, e delle gravose contribuzioni di grano, di vino, d'olio e di carni, che si esigevano dalle province per l'uso della Corte, dell'esercito e della capitale.

Finchè Roma e l'Italia furono considerate come il centro del Governo, gli antichi cittadini conservarono uno spirito nazionale, che i nuovi insensibilmente adottarono. Le principali cariche dell'esercito erano occupate da uomini di una educazione liberale, che ben conoscevano i vantaggi delle leggi e delle lettere, e si erano avanzati con passi eguali nella regolare carriera degli onori civili e militari[519]. Alla loro influenza, al loro esempio si può in qualche parte attribuire la modesta obbedienza delle legioni nei due primi secoli dell'istoria imperiale.

Ma quando Caracalla ebbe abbattuto l'ultimo riparo della costituzione romana, alla distinzione dei gradi tenne dietro a poco a poco la diversità delle professioni. I più culti cittadini delle interne province furono i soli che si trovassero capaci ad essere o magistrati o avvocati. La più dura professione delle armi fu abbandonata ai contadini ed ai barbari delle frontiere, i quali non conoscendo altra patria che il loro campo, altra scienza che quella della guerra, disprezzavano le leggi civili, ed appena osservavano quelle della militar disciplina. Con insanguinate mani, con selvaggi costumi, e con disperate risoluzioni, essi qualche volta difesero, ma più spesso rovesciarono il trono degl'Imperatori.

CAPITOLO VII.

Innalzamento al trono, e tirannia di Massimino. Ribellione nell'Affrica e nell'Italia autorizzata dal Senato. Guerre civili, e sedizioni. Morti violente di Massimino e del suo figlio, di Massimo, di Balbino, e dei tre Gordiani. Usurpazione, e giuochi secolari di Filippo. Tra le varie forme di Governo che hanno prevaluto nel Mondo, quella di una monarchia ereditaria pare che più di ogni altra presenti un bersaglio al ridicolo. Può egli dirsi senza un riso sdegnoso, che alla morte del padre la proprietà di una nazione, simile a quella di un vile armento, ricada all'infante suo figlio, ignoto al genere umano, ugualmente che a se medesimo, e che i più coraggiosi guerrieri, ed i più saggi ministri, rinunziando al loro naturale diritto all'Impero, si accostino alla culla reale colle ginocchia piegate, e con proteste di fedeltà inviolabile? La satira e la declamazione possono dipingere questi quadri frequenti con i colori più vivi; ma noi con mente più seria rispetteremo un utile pregiudizio, che stabilisce una regola di successione indipendente dalle passioni degli uomini, e con piacere accetteremo questo espediente (qualunque egli sia) che toglie alla moltitudine il pericoloso, e veramente ideale potere di eleggersi da sè stessa un padrone.

All'ombra e nel silenzio del ritiro si possono facilmente inventare diversi sistemi di governo, nei quali lo scettro debba costantemente essere conceduto al membro più degno dal libero ed incorrotto suffragio della intera nazione. L'esperienza rovina questi aerei edifizj, e mostra che in una grande società l'elezione di un Monarca non può mai dipendere dalla più saggia o dalla più numerosa parte del popolo. La milizia è il solo ordine d'uomini sufficientemente uniti per accordarsi in un medesimo sentimento, e potente assai per farlo adottare al resto dei loro concittadini. Ma il carattere dei soldati, avvezzi alla violenza insieme ed alla schiavitù, li rende affatto incapaci di essere i custodi d'una legale o anche civile costituzione. La giustizia, l'umanità, o la prudenza politica sono qualità troppo ignote ad essi, perchè le rispettino negli altri. Il coraggio soltanto acquisterà la stima loro, e la liberalità comprerà i loro voti; ma il primo di questi meriti spesso si trova nei petti più feroci, e il secondo non si può dimostrare, che a spese del Pubblico, e l'ambizione di un intraprendente rivale può rivoltarli ambidue contro il possessore del trono.

La superiore prerogativa della nascita, confermata dal tempo e dall'opinione popolare, è la più semplice e meno invidiata di tutte le distinzioni tra gli uomini. Un riconosciuto diritto estingue le speranze della fazione, e la coscienza della propria sicurezza disarma la crudeltà del Monarca. Noi dobbiamo al saldo stabilimento di questa idea la successione pacifica, e la mite amministrazione delle monarchie europee. Alla mancanza di questa medesima idea si debbono attribuire le frequenti guerre civili, colle quali un despota asiatico è obbligato di farsi strada al trono de' suoi antenati. Pure, anche in Oriente, la sfera della contesa è per lo più ristretta tra i Principi della famiglia regnante, ed appena il fortunato pretendente si è disfatto de' suoi fratelli col ferro e colla corda, non ha più gelosia de' sudditi inferiori. Ma l'Impero romano, quando l'autorità del Senato fu caduta in disprezzo, divenne un vasto teatro di confusione. Le famiglie reali, ed anche nobili delle province erano state gran tempo avanti condotte in trionfo dinanzi al carro dei superbi repubblicani. Le antiche famiglie romane si erano successivamente estinte sotto la tirannide dei Cesari, e fino a tanto che questi Principi furono vincolati dalla forma repubblicana, e sconcertati dalla replicata estinzione della loro posterità[520], fu impossibile, che alcuna idea di successione ereditaria potesse radicarsi nelle menti dei loro sudditi. Ciascuno ripetè dal proprio merito un diritto a quel trono, al quale niuno per nascita poteva aspirare. Le audaci speranze dell'ambizione rimasero sciolte dal salutevole freno delle leggi e dei pregiudizj. Allora il più vile tra gli uomini poteva, senza essere tacciato di follia, sperare di innalzarsi col valore e colla fortuna ad un certo grado militare, nel quale un solo delitto lo rendesse capace di acquistare lo scettro del Mondo, strappandolo di mano ad un padrone debole ed aborrito. Dopo l'assassinio di Alessandro Severo, e l'innalzamento di Massimino, niuno Imperatore potè credersi sicuro sul trono, ed ogni barbaro contadino delle frontiere potè aspirare a quel posto augusto e pericoloso.

Trentadue anni in circa, prima di quell'evento, l'Imperatore Severo ritornando da una spedizione orientale, si fermò nella Tracia per celebrare con giuochi militari il giorno natalizio di Geta, suo figlio minore. Quei popoli corsero in folla a vedere il loro Sovrano, ed un giovane barbaro, di gigantesca statura, istantemente domandò nel suo rozzo dialetto il favore di essere ammesso a concorrere al premio della lotta. Siccome la dignità della disciplina sarebbe stata avvilita, se un pastor della Tracia avesse atterrato un soldato romano, lo fecero combattere con i più robusti servi del campo, sedici dei quali furono da lui successivamente abbattuti. Fu ricompensato il suo valore con alcuni piccoli doni, e con la permissione di arrolarsi nelle truppe. Il giorno dopo, quel fortunato barbaro si fece distinguere tra le altre reclute, esultando e saltando alla maniera del suo paese. Appena si accorse di essersi attirata l'attenzione dell'Imperatore, si trasse immantinente dietro al di lui cavallo, e lo seguitò a piedi in un lungo e rapido corso senza apparenza di stanchezza veruna. «O Trace» disse Severo maravigliato «sei tu adesso disposto a lottare»? «Volentierissimo» rispose l'instancabil giovane, e quasi in un momento atterrò sette de' più forti soldati dell'esercito. Una collana d'oro fu il premio dell'impareggiabile sua forza ed attività, e venne immediatamente destinato a servire tra le guardie a cavallo, che sempre accompagnavano la persona del Sovrano[521].

Massimino, chè tale era il suo nome, benchè nato sulle terre dell'Impero, discendea da una mista razza di Barbari. Suo padre era Goto, e sua madre della nazione degli Alani. Mostrò in ogni occasione un valore eguale alla sua robustezza; e la pratica del Mondo moderò ben presto, o mascherò la sua nativa fierezza. Sotto il regno di Severo e del figlio ottenne il grado di centurione col favore o colla stima di ambidue questi Principi, il primo dei quali era eccellente conoscitore del merito. La gratitudine impedì Massimino di servire sotto l'assassino di Caracalla, e l'onore gl'insegnò ad evitare gli effeminati insulti di Elogabalo. All'avvenimento di Alessandro ritornò alla Corte, ed ottenne da questo Principe un posto utile al pubblico servizio, ed onorevole a se medesimo. La quarta legione, della quale era stato fatto tribuno, presto divenne, sotto la sua cura, la meglio disciplinata di tutto l'esercito. Con il generale applauso dei soldati, che davano al loro favorito eroe i nomi di Aiace e d'Ercole, egli fu successivamente promosso al primo militare comando[522], e se non avesse sempre ritenuto un po' troppo la rozzezza della sua barbara origine, forse l'Imperatore avrebbe data la sua propria sorella in consorte al figlio di Massimino[523].

Questi favori, invece di accrescere la fedeltà, servirono solamente ad accendere l'ambizione di quel pastor della Tracia, che riguardò la sua fortuna come ineguale al suo merito, fino a tanto che gli convenne riconoscere un superiore. Benchè privo di una vera prudenza, la sua naturale sagacità gli fece conoscere che l'Imperatore avea perduto l'affetto dei soldati, e gl'insegnò ad accrescere il loro disgusto a suo proprio vantaggio. È facile allo spirito di fazione ed alla calunnia di spargere il loro veleno sull'amministrazione dei migliori Principi, e di accusare le stesse loro virtù, artificiosamente confondendole con quei vizj, con i quali esse hanno una prossima affinità. I soldati ascoltarono con piacere gli emissarj di Massimino. Arrossirono essi della vergognosa pazienza, colla quale avevano per tredici anni sofferta la fastidiosa disciplina imposta loro da un effeminato Siro, il timido schiavo della madre e del Senato. Era tempo, gridavan eglino, di distruggere il vano fantasma della potenza civile, e di eleggere per loro Sovrano e Generale un vero soldato educato nel campo, esercitato alla guerra, che sostenesse la gloria dell'Impero, e ne dividesse i tesori co' suoi compagni. Un grand'esercito era allora accampato sulle rive del Reno sotto il comando dell'Imperatore medesimo, che quasi immediatamente dopo il suo ritorno dalla guerra persiana, era stato obbligato a marciare contro i Barbari della Germania. Era a Massimino affidata la cura importante di addestrare e rivedere le nuove reclute. Un giorno, entrato egli nella piazza degli esercizj, le truppe o per un moto improvviso, o per tramata congiura, lo salutarono Imperatore: colle loro alte acclamazioni posero silenzio a' suoi ostinati rifiuti, e si affrettarono a compire la ribellione coll'assassinio di Alessandro Severo.

Le circostanze di questa morte vengono riferite diversamente. Gl'Istorici, i quali suppongono, ch'egli morisse nell'ignoranza dell'ingratitudine ed ambizione di Massimino, affermano, che dopo avere preso un pasto frugale al cospetto dell'esercito, si ritirò a dormire, e che verso la settima ora del giorno, alcune delle sue proprie guardie entrarono impetuose nella tenda imperiale, e con molte ferite trucidarono il loro virtuoso e tranquillo Sovrano[524]. Se si presta fede ad un altro, e veramente probabil racconto, Massimino fu rivestito della porpora da un numeroso distaccamento a qualche miglio di distanza dal quartier generale; ed egli fidava più sopra i desiderj secreti, che sulle pubbliche dichiarazioni del grande esercito, Alessandro ebbe bastante tempo di risvegliare nelle truppe un debole sentimento di fedeltà; ma lo loro vacillanti proteste subitamente svanirono all'apparire di Massimino, che si dichiarò l'amico, ed il protettore dell'ordine militare, e fu unanimemente riconosciuto Imperatore dei Romani dalle applaudenti legioni. Il figlio di Mammea, tradito ed abbandonato, desideroso almeno d'involare gli ultimi suoi momenti agl'insulti della moltitudine, si ritirò nella sua tenda. Lo seguitarono subito un tribuno ed alcuni centurioni ministri di morte, ma in luogo di ricevere con risoluta costanza l'inevitabile colpo, con pianti e suppliche inutili disonorò gli estremi della sua vita, e cangiò in disprezzo qualche parte di quella giusta pietà, che la sua innocenza e le sue disgrazie doveano risvegliare. La di lui madre Mammea, all'ambizione ed all'avarizia della quale egli altamente imputava la sua rovina, perì con lui. I suoi più fidi amici caddero vittime del primo furore de' soldati; altri furono riservati alla più deliberata crudeltà dell'usurpatore, e quelli, che provarono un trattamento più dolce furono spogliati de' loro impieghi, ed ignominiosamente cacciati fuor della Corte e dell'esercito[525].

I primi tiranni Caligola e Nerone, Commodo e Caracalla, furono tutti giovani dissoluti ed inesperti[526], educati nella porpora e corrotti dall'orgoglio dell'Impero, dal lusso di Roma, e dalla perfida voce dell'adulazione. La crudeltà di Massimino aveva una diversa origine; il timor del disprezzo. Benchè egli si fidasse all'affetto dei soldati, che lo amavano per le virtù simili alle loro, sapea che la sua vile barbara origine, la sua rozza apparenza, e la sua totale ignoranza delle arti e dei precetti della vita civile[527] formavano un contrasto molto svantaggioso cogli amabili costumi dello sventurato Alessandro. Egli si ricordava, che nella sua bassa fortuna avea spesso aspettato avanti alla porta dei superbi nobili Romani, e che gli era stato spesso negato l'ingresso dall'insolenza dei loro schiavi. Rammentava ancora l'amicizia di pochi, che aveano sollevata la sua povertà, ed assistite le sue nascenti speranze. Ma e quelli che aveano sprezzato, e quelli che aveano protetto il Trace, erano colpevoli dello stesso delitto, il quale era la cognizione della oscura di lui origine. Assai furono per questa colpa messi a morte, e Massimino, colla strage di molti suoi benefattori, pubblicò a caratteri di sangue l'indelebile istoria della sua viltà, e della sua ingratitudine[528].

L'animo cupo e sanguinario del tiranno era aperto ad ogni sospetto contro i sudditi più illustri per nascita o per merito. Ogni volta ch'egli temea di qualche tradimento, l'implacabil sua crudeltà non avea alcun ritegno. Fu o scoperta o inventata una congiura contro la vita di lui; e Magno, Senator consolare, venne accusato di esserne il capo. Senza testimonj, senza processo, e senza aver luogo a difesa, Magno con 4000 dei suoi supposti complici fu messo a morte; e l'Italia, anzi tutto l'Impero, trovossi infestato da un numero incredibile di spie e di delatori. Per una leggerissima accusa, i primi tra i nobili romani, che aveano governate le province, comandati gli eserciti, e portate eziandio le insegne del consolato e del trionfo, erano incatenati su i pubblici carri, e sollecitamente trasferiti alla presenza dell'Imperatore. La confiscazione, l'esilio, o la semplice morte si consideravano come insoliti esempj della sua clemenza. Alcuni di quegli sventurati venivano per un ordine cuciti dentro lo pelli di bestie recentemente uccise, altri esposti alle fiere, ed altri condannati ad essere battuti con le verghe fino alla morte. Nei tre anni del suo regno, non si degnò di visitare nè Roma, nè l'Italia. Il suo campo, trasportato per alcune circostanze dalle rive del Reno a quelle del Danubio, era la sede del suo barbaro dispotismo, che calpestava ogni principio di legge e di giustizia, ed avea per sostegno l'arbitrario poter della spada. Egli non soffriva appresso di se alcun uomo di nobile nascita, di belle doti, o perito negli affari civili; e la Corte di un Imperatore romano risvegliava l'idea di quegli antichi capi di schiavi e di gladiatori, la cui selvaggia potenza avea lasciata una profonda impressione di terrore e di detestazione[529].

Finchè la crudeltà di Massimino fu ristretta agli illustri Senatori, o ai temerarj avventurieri, che nella Corte e nell'esercito si esponevano al capriccio della fortuna, il popolo in generale contemplò con indifferenza, e forse con piacere, i loro supplizj. Ma l'avarizia del tiranno, stimolata dall'insaziabile avidità dei soldati, invase finalmente i beni del Pubblico. Ogni città dell'Impero possedeva una rendita indipendente, destinata a provvedere il grano per la moltitudine, ed a supplire alle spese dei giuochi e dei divertimenti. Con un atto solo di autorità l'intera massa di queste ricchezze fu in una sola volta confiscata per uso del tesoro imperiale. I tempj furono spogliati delle più ricche offerte d'oro e di argento, e le statue degli Dei, degli Eroi, e degl'Imperatori furono liquefatte e convertite in moneta. Ordini così empj non si poterono eseguire senza tumulti e stragi, poichè in molti luoghi i popoli vollero piuttosto morire difendendo i loro altari, che vedere in mezzo alla pace le loro città esposte alla rapina, ed alla crudeltà della guerra. I soldati stessi, ai quali veniva distribuito quel sacrilego bottino, lo ricevevano con rossore; e benchè induriti negli atti della violenza, temevano i giusti rimproveri dei loro amici e parenti. Tutto il Mondo romano alzò un clamore generale d'indignazione, gridando vendetta contro il nemico comune del genere umano. Finalmente un atto di privata oppressione eccitò una provincia pacifica, e disarmata a ribellarsi contro di lui[530].

Il Procuratore dell'Affrica era un ministro degno di un tal Sovrano, che considerava le tasse e le confiscazioni dei ricchi come uno dei più fertili rami delle entrate imperiali. Era stata pronunziata un'iniqua sentenza contro alcuni ricchissimi giovani affricani, l'esecuzione della quale dovea privarli della maggior parte del loro patrimonio. In quell'estremità si risolvettero disperatamente di compire o di prevenire la loro rovina. Il respiro di tre giorni, ottenuto con difficoltà dal rapace Tesoriere, fu impiegato a raccogliere dalle loro terre un gran numero di schiavi, e di contadini ciecamente addetti ai comandi dei loro padroni, e rusticamente armati di bastoni e di scuri. I capi della congiura, ammessi all'udienza del Procuratore lo trucidarono con i pugnali, che aveano nascosti; ed assistiti dal loro tumultuoso seguito s'impadronirono della piccola città di Tisdro[531], inalberandovi l'insegna della ribellione contro il Sovrano del romano Impero. Appoggiavano le loro speranze sull'odio generale contro Massimino, e prudentemente si risolvettero di opporre a quel detestato tiranno un Imperatore, che colle sue dolci virtù avea già acquistato l'amore e la stima dei Romani, e la cui autorità su quella provincia potea dar peso e stabilità all'impresa. Gordiano, loro Proconsole, ed oggetto della loro scelta, ricusò con una sincera ripugnanza quel pericoloso onore, e piangendo li supplicò di lasciargli terminare in pace una vita lunga ed innocente, senza macchiare col sangue civile la sua debole età. Le loro minacce lo costrinsero ad accettare la porpora imperiale, per lui ormai unico refugio contro la gelosa crudeltà di Massimino; giacchè, secondo la massima dei tiranni, chiunque è stato riputato degno del trono, merita la morte, e colui che delibera, si è già ribellato[532].

La famiglia di Gordiano era una delle più illustri del Senato romano: per parte di padre discendeva dai Gracchi, per quella poi della madre dall'Imperatore Traiano. Un gran patrimonio gli dava campo di sostenere la dignità della sua nascita, ed ei lo godeva mostrando un gusto elegante, ed una benefica indole. Il palazzo in Roma, anticamente abitato dal gran Pompeo, era stato per varie generazioni posseduto dalla famiglia dei Gordiani[533]. Era esso adornato d'antichi trofei di vittorie navali, e decorato di pitture moderne. La di lui villa, sul cammin di Preneste, era celebre per i bagni di singolare bellezza ed estensione, per tre magnifiche sale di 100 piedi di lunghezza; e per un superbo portico sostenuto da 200 colonne delle quattro più rare e più stimate specie di marmo[534]. I pubblici spettacoli fatti a sue spese, e nei quali il popolo fu divertito da molte centinaia di fiere e di gladiatori[535], sembrano superiori alla condizione di un privato, e mentre la liberalità degli altri Magistrati si ristringeva a poche solenni feste in Roma, la magnificenza di Gordiano, quand'egli era Edile, fu rinnovata ogni mese nell'anno, ed estesa, nel suo Consolato, alle principali città dell'Italia. Fu due volte Console sotto Caracalla e sotto Alessandro, perchè egli possedeva il raro talento di acquistare la stima dei Principi virtuosi, senza eccitare la gelosia dei tiranni. Egli passò innocentemente la lunga sua vita negli studj delle lettere, e nelle parifiche dignità di Roma; e sembra che prudentemente evitasse il commando delle armate, ed il governo dello province, finchè la voce del Senato, e l'approvazione di Alessandro lo fecero Proconsole dell'Affrica[536]. Questa provincia, mentre visse quell'Imperatore, fu felice sotto l'amministrazione del suo degno Rappresentante. Dopo che il barbaro Massimino ebbe usurpato il trono, Gordiano alleggerì quelle calamità che non poteva impedire. Quando accettò contro sua voglia la porpora, avea più di 80 anni, ultimo e pregevole avanzo del felice secolo degli Antonini, le cui virtù ravvivò nella sua condotta, e celebrò in elegante poema di 30 libri. Il figlio che aveva accompagnato quel rispettabile Proconsole dell'Affrica, come suo Luogotenente, fu insieme col padre dichiarato Imperatore. I costumi di lui erano meno puri, ma avea un carattere amabile al pari di quello del padre. Ventidue concubine riconosciute, ed una libreria di sessantaduemila volumi attestavano la varietà delle sue inclinazioni. E dalle produzioni, che lasciò dopo di se, apparisce che le donne, ed i libri erano veramente per uso, e non per ostentazione[537]. Il popolo romano ritrovava nelle fattezze del giovane Gordiano una rassomiglianza con l'Affricano Scipione; rammentavasi con piacere che la di lui madre era nipote di Antonino Pio, ed appoggiava le pubbliche speranze su quelle nascoste virtù, che fin allora, come si lusingava, erano rimaste occulte nel lusso indolente di una vita privata.

Appena i Gordiani ebbero calmato il primo tumulto di una popolare elezione, trasferirono la loro Corte, a Cartagine; vi furono ricevuti colle acclamazioni degli Affricani, che rispettavano le loro virtù, e che da Adriano in poi non aveano mai veduto la maestà, di un Imperatore romano. Ma queste acclamazioni non avvaloravano, nè confermavano il titolo dei Gordiani. Essi per massima e per interesse vollero sollecitare l'approvazione del Senato, e fu immediatamente spedita a Roma una deputazione dei più nobili provinciali per riferire e giustificare la condotta dei loro concittadini, i quali avendo lungamente sofferto con pazienza, si erano finalmente risoluti ad operar con vigore. Le lettere dei nuovi Principi erano modeste e rispettose. Si scusavano sulla necessità, che gli aveva obbligati ad accettare il titolo imperiale, ma sottoponevano la loro elezione ed il loro destino al supremo giudizio del Senato[538].

Le inclinazioni del Senato non furono incerte, nè divise. I Gordiani, per la nascita e per le nobili alleanze, erano intimamente congiunti colle famiglie più illustri di Roma. Le ricchezze avean creato loro molti dipendenti in quel corpo, od il merito molti amici. La loro dolce amministrazione presentò il lusinghiero aspetto del ristabilimento non solo del governo civile, ma del repubblicano ancora. Il timore della violenza militare, che avea prima costretto il Senato a dimenticar la morte di Alessandro, ed a ratificare l'elezione di un barbaro pastore[539], produsse allora un effetto contrario, e l'animò a sostenere i violati diritti della libertà e dell'umanità. L'odio di Massimino verso il Senato era manifesto ed implacabile: le più umili sommissioni non ne aveano mitigato il furore, e la più cauta innocenza non potea dileguare i sospetti; in somma, la cura della propria salvezza obbligò i Senatori a prendere parte in un'impresa, nella quale, se non riusciva felice, erano sicuri di dover essere le prime vittime. Queste considerazioni, ed altre forse d'una più privata natura, furono esaminate in una previa conferenza dei Consoli e dei Magistrati. Appena fu la loro risoluzione decisa, convocarono tutti i Senatori nel Tempio di Castore, con un'antica formula di secretezza[540], istituita a risvegliare la loro attenzione, e celare i loro decreti. «Padri coscritti» disse il Console Sillano «i due Gordiani, ambi di consolar dignità, uno vostro Proconsole, e l'altro vostro Luogotenente, sono stati dichiarati Imperatori dal generale consentimento dell'Affrica. Rendiamo grazie» (seguitò coraggiosamente) «alla gioventù di Tisdro; rendiamo grazie al fedele popolo di Cartagine, che ci hanno generosamente liberati da un orrido mostro. — Perchè mi ascoltate con tal freddezza o timore? Perchè vi riguardate con tanta inquietezza? Perchè dubitate? Massimino è un pubblico nemico. Possa la sua inimicizia presto spirar con lui, e possiam noi lungamente godere della prudenza e della felicità di Gordiano il padre, e del valore e della costanza di Gordiano il figliuolo[541].» Il nobile ardore del Console ravvivò il languido spirito del Senato. Fu con decreto unanime ratificata l'elezione dei Gordiani: Massimino, il suo figlio, ed i suoi aderenti vennero dichiarati nemici della patria, e furono promesse generose ricompense a chiunque avesse il coraggio, o la fortuna di ucciderli.

Nell'assenza dell'Imperatore, un distaccamento delle guardie Pretoriane restava in Roma per proteggere la Capitalo, o piuttosto per mantenerla in dovere. Il Prefetto Vitaliano avea segnalata la sua fedeltà per Massimino colla prontezza nell'eseguire, ed anche prevenire i crudeli ordini del tiranno. La sua morte sola poteva liberare l'autorità del Senato, e le vite dei Senatori dal pericolo e dall'incertezza. Prima che traspirassero le loro risoluzioni, fu data commissione a un Questore ed a varj Tribuni di uccidere quell'esecrato Prefetto. Eseguirono questi l'ordine con pari ardire e successo, e tenendo in mano i sanguinosi pugnali, corsero per le strade, annunziando altamente al popolo ed ai soldati la nuova della fortunata rivoluzione. L'entusiasmo della libertà fu secondato dalla promessa di un generoso donativo in terre e danari: furono abbattute le statue di Massimino: la Capitale dell'Impero riconobbe con trasporto l'autorità dei due Gordiani, e del Senato[542]: ed il resto dell'Italia seguitò l'esempio di Roma.

Un nuovo spirito erasi risvegliato in quell'adunanza, la cui lunga pazienza era stata insultata dallo sfrenato dispotismo, e dalla licenza militare. Il Senato prese le redini del Governo, e con ferma intrepidità si preparò a sostenere colle armi la causa della libertà. Tra i Senatori consolari, per merito e per i loro servizj, favoriti dall'Imperatore Alessandro, fu cosa facile lo sceglierne venti capaci di comandare un esercito e di regolare una guerra. Fu a questi affidata la difesa dell'Italia: fu ciascuno destinato ad agire nel suo rispettivo dipartimento, autorizzato ad arrolare e disciplinare la gioventù Italiana, ed istruito a fortificare i porti e le strade maestre contro l'imminente invasione di Massimino. Diversi deputati, scelti tra i Senatori o cavalieri più illustri, furono spediti nel tempo stesso ai Governatori delle diverse province, per vivamente esortarli a correre al soccorso della patria, e per rammentare alle nazioni i loro antichi vincoli di amicizia col Senato e col popolo romano. Il rispetto generale, con il quale furono ricevuti quei Deputati, e lo zelo dell'Italia e delle province in favore del Senato provano bastantemente che, i sudditi di Massimino erano ridotti a quell'estreme angustie, nelle quali il popolo tutto ha più da temere dall'oppressione, che dalla resistenza. L'evidenza di questa trista verità inspira un grado di furore costante, che raramente si trova in quelle guerre civili, le quali si sostengono artificiosamente in servigio di pochi capi sediziosi ed intraprendenti[543].

Ma nel tempo che con ardore sì grande era la causa dei Gordiani abbracciata, più non vivevano i Gordiani. La debole Corte di Cartagine fu spaventata dal celere arrivo di Capeliano, Governatore della Mauritania, che con una piccola truppa di veterani, ed una armata di Barbari feroci assalì quella fedele ma imbelle provincia. Il giovane Gordiano usci per incontrare il nemico alla testa di poche guardie e di una indisciplinata moltitudine, allevata nel pacifico lusso di Cartagine. Il suo inutil valore servì soltanto a procurargli una morte onorevole sul campo di battaglia. Il vecchio suo padre, dopo avere regnato soli trentasei giorni, si tolse la vita alla prima nuova della disfatta. Cartagine, priva di difesa, aprì le porte al vincitore, e l'Affrica fu esposta alla rapace crudeltà di uno schiavo, obbligato a soddisfare il suo implacabile padrone con una immensa quantità di sangue e di tesori[544].

Il fato dei Gordiani riempì Roma di un giusto ma inaspettato terrore. Il Senato, convocato nel Tempio della Concordia, affettava di trattare gli affari ordinarj di quel giorno, e parea che tremante ed inquieto evitasse di considerare il proprio ed il pubblico pericolo. Una tacita costernazione avea sorpreso ognuno, finchè un Senatore, del nome e della famiglia di Traiano, riscosse i compagni dal lor funesto letargo. Rappresentò egli che la scelta di caute dilatorie misure non era da gran tempo più in lor potere; che Massimino, implacabile per natura, ed inasprito dalle offese, si avanzava verso l'Italia conducendo le forze dell'Impero; e che ad essi rimaneva la sola alternativa o d'incontrarlo coraggiosamente in campo, o di aspettar vilmente i tormenti e la morte ignominiosa, riservata ai ribelli infelici. «Abbiamo perduto» prosegui egli «due eccellenti Principi; ma se noi non abbandoniamo noi stessi, le speranze della Repubblica non sono perite con i Gordiani. Vi restano molti Senatori degni del trono per le loro virtù, e capaci di sostenere co' propri talenti la dignità imperiale. Eleggiamo due Imperatori, uno dei quali possa dirigere la guerra contro il pubblico nemico, mentre il suo collega rimarrà in Roma a regolare il governo civile. Io di buona voglia mi espongo al pericolo ed all'odiosità della scelta, e dò il mio voto in favore di Massimo e di Balbino. Ratificatelo, Padri coscritti, o proponete in loro vece altri più meritevoli dell'Impero.» Il timore generale fe' tacere le voci della gelosia; il merito dei candidati fu generalmente riconosciuto; ed il Tempio risuonò con sincere acclamazioni di «lunga vita e vittoria agl'Imperatori Massimo e Balbino. Voi siete felici per sentenza del Senato; e possa la Repubblica essere felice sotto il vostro governo[545] ».

Le virtù e la riputazione dei nuovi Imperatori giustificavano le più ardenti speranze dei Romani. Dalla varia natura dei loro talenti parea fatto ciascuno pel suo particolare dipartimento di pace o di guerra, senza dar luogo ad una gelosa emulazione. Balbino era un oratore stimato, un poeta illustre, ed un saggio magistrato, che aveva esercitata con integrità e con applauso la civile giurisdizione in quasi tutte le interne province dell'Impero. La sua nascita era nobile[546], ricco il suo patrimonio, liberali ed affabili le sue maniere. L'amor del piacere veniva in lui corretto da un sentimento di dignità; e gli agi non l'avean privato della capacità necessaria per gli affari. L'animo di Massimo era alquanto più rozzo. Dal più basso stato si era, con il valore ed il senno, innalzato alle prime cariche dello Stato e dell'esercito. Le sue vittorie contro i Sarmati ed i Germani, l'austerità della sua vita, e la rigida imparzialità della sua giustizia, quando fu Prefetto della città, gli acquistarono la stima di un popolo, il cui affetto era impegnato in favore delle più amabili qualità di Balbino. I due colleghi erano ambidue stati Consoli (ma Balbino due volte); ambidue erano stati nominati tra i venti Luogotenenti del Senato, ed avendo uno sessanta, l'altro settantaquattro anni[547], erano giunti ambidue alla piena maturità degli anni e dell'esperienza.

Dopo che il Senato ebbe conferito a Massimo ed a Balbino una egual porzione della potestà consolare e tribunizia, il titolo di Padri della patria, ed il congiunto uffizio di supremo Pontefice, salirono essi al Campidoglio per rendere grazie agli Dei protettori di Roma[548]. I riti solenni del sacrifizio furono disturbati da una sedizione del popolo. La sfrenata moltitudine non amava il rigido Massimo, e poco temeva il mite ed umano Balbino. Crescendo in numero, essa circondò il Tempio di Giove, sostenne con ostinati clamori il suo naturale diritto di consentire all'elezione del proprio Sovrano, e richiese con una moderazione apparente, che ai due Imperatori scelti dal Senato si aggiungesse un terzo della famiglia dei Gordiani, come giusta ricompensa di gratitudine per quei Principi, che aveano sacrificate le loro vite per la Repubblica. Massimo e Balbino, alla testa dei Pretoriani e dei giovani cavalieri, tentarono di farsi strada a traverso la sediziosa moltitudine. Ma questa, armata di bastoni e di pietre, li rispinse nel Campidoglio. È prudenza il cedere, quando la contesa (qualunque essere ne possa l'esito) dee tornar fatale ad ambe le parti. Un ragazzo di soli tredici anni, pronipote del vecchio Gordiano e nipote del giovane, fu presentato al popolo, vestito degli ornamenti e del titolo di Cesare. Questa facile condiscendenza acchetò il tumulto; e i due Imperatori, pacificamente riconosciuti in Roma, si apparecchiarono a difendere l'Italia contro il comune inimico.

Mentre in Roma e nell'Affrica le rivoluzioni si succedevano con sì maravigliosa rapidità, l'animo di Massimino era agitato dalle più furiose passioni. Dicono che ricevè la nuova della ribellione dei Gordiani e del decreto del Senato contro di lui, non collo sdegno proprio di un uomo, ma con la rabbia di una bestia feroce; e non potendo sfogarla contro il Senato lontano, minacciò la vita del proprio figlio, degli amici, e di chiunque osava accostarsegli. La grata notizia della morte dei Gordiani fu presto seguitata dalla certezza che il Senato, disperando affatto del perdono o di accomodamento, avea creati in lor vece due Imperatori, il cui merito non gli era ignoto. La vendetta era l'unica consolazione rimasta a Massimino, e la vendetta potea solo ottenersi con le armi. Alessandro avea raccolta da tutte le parti dell'Impero la forza delle legioni. Tre campagne felici contro i Sarmati ed i Germani, aveano aumentata la loro riputazione, invigorita la disciplina, ed accresciuto ancora il lor numero, che si era compito col fiore della barbara gioventù. Massimino avea passata la vita alla guerra, e la severa sincerità della storia non può negargli il valor di un soldato, ed anche l'abilità di un esperto Generale[549]. È naturale il credere che un Principe di questo carattere, in cambio di lasciar coll'indugio prender vigore alla ribellione, marciasse immediatamente dalle rive del Danubio a quelle del Tevere, e che le sue vittoriose truppe, animate dal disprezzo verso il Senato, e desiderose di saccheggiar l'Italia, ardessero d'impazienza di terminare questa facile e ricca conquista. Ma per quanto ci possiamo fidare all'oscura cronologia di quel secolo[550], pare che le operazioni di qualche guerra straniera facessero differire la spedizione in Italia sino alla primavera seguente. Dalla prudente condotta di Massimino possiamo comprendere che i rozzi tratti del suo carattere sono stati esagerati dal pennello del partito; che le sue passioni, benchè impetuose, erano frenate dalla ragione; e che quel barbaro avea qualche parte del generoso spirito di Silla, il quale soggiogò i nemici di Roma, prima di pensare a vendicarsi delle sue private offese[551].

Quando le truppe di Massimino, avanzando in buon ordine, furono giunte ai piedi delle Alpi Giulie, rimasero atterrite dal silenzio e dalla desolazione che regnavano nelle frontiere dell'Italia. Al loro arrivo i villaggi e le aperte città erano state abbandonate dagli abitanti, gli armenti condotti via, le provvisioni trasportate o distrutte, rotti i ponti, nulla fu insomma lasciato, che dar potesse asilo o sussistenza ad un invasore. Questi erano stati gli ordini prudenti dei Generali del Senato, il cui disegno era di mandare in lungo la guerra per rovinare l'esercito di Massimino con i lenti progressi della fame, e consumar la di lui forza negli assedj delle città principali dell'Italia, ch'essi aveano pienamente munite d'uomini e di provvisioni, disertandone le campagne. Aquileia ricevè ed arrestò il primo impeto dell'invasione. I fiumi, che sgorgano dalla cima del golfo Adriatico, gonfj dalle disciolte nevi del verno[552] opposero un ostacolo inaspettato alle armi di Massimino. Finalmente sopra un ponte di larghe botti, singolarmente costruito con arte e difficoltà, trasportò la sua armata all'altra riva, svelse tutte le belle vigne delle vicinanze di Aquileia, demolì i sobborghi, e si servì di quei materiali per le macchine e per le torri, con le quali assalì la città da ogni parte. Le mura, quasi rovinate nella sicurezza di una lunga pace, erano state in fretta ristaurate in quel subito frangente; ma la più salda difesa di Aquileia stava nella costanza de' suoi cittadini, i quali tutti erano animati, anzichè atterriti, dall'estremo pericolo e dalla cognizione dell'inesorabile indole del tiranno. Il loro coraggio era sostenuto e regolato da Crispino e da Menofilo, due dei venti Luogotenenti del Senato, i quali con un piccolo corpo di truppe regolari si erano gettati nella piazza assediata. L'esercito di Massimino fu rispinto in diversi attacchi, le sue macchine distrutte dai fuochi di artifizio, ed il generoso entusiasmo degli abitanti si cambiò in confidenza di buon successo per l'opinione che Beleno, loro nume tutelare, combattesse personalmente in difesa de' suoi miseri adoratori angustiati[553].

L'Imperatore Massimo, che si era avanzato fino a Ravenna per fortificare quella piazza importante, ed affrettare i preparativi militari, vide l'esito della guerra nel fedelissimo specchio della ragione e della politica. Sapea troppo bene, che una sola città non poteva resistere ai continui sforzi di una numerosa armata, e temea che il nemico, stanco per l'ostinata resistenza di Aquileia, lasciando ad un tratto quell'inutile assedio, non marciasse direttamente verso Roma. Conveniva allora commmettere al caso di una battaglia il destino dell'Impero e la causa della libertà: e quali armi poteva egli mai opporre alle veterane legioni del Danubio e del Reno? Poche truppe recentemente levate tra la nobile, ma snervata gioventù dell'Italia, ed un corpo di Germani ausiliarj, sulla fermezza dei quali era pericoloso fidarsi nell'ora del conflitto. In mezzo a questi giusti terrori, il colpo di una congiura domestica punì i delitti di Massimino, e liberò Roma ed il Senato dalle calamità, che avrebbero sicuramente accompagnata la vittoria di un Barbaro furibondo.

Il popolo di Aquileia aveva appena provate alcune delle ordinarie calamità di un assedio; i magazzini erano abbondantemente provvisti, e diverse fontane dentro le mura l'assicuravano d'una inesauribile sorgente di acqua. I soldati di Massimino erano al contrario esposti all'inclemenza della stagione, alle malattie epidemiche, ed agli orrori della fame. Il paese aperto era rovinato; i fiumi pieni di cadaveri e tinti di sangue. Cominciò a diffondersi tra le truppe lo spirito di disperazione e di malevolenza; siccome era loro impedita ogni corrispondenza al di fuori, facilmente credettero che tutto l'Impero avesse abbracciata la causa del Senato, e ch'esse fossero abbandonate, come vittime destinate a perire sotto le inespugnabili mura di Aquileia. Il fiero carattere del tiranno era inasprito da quegli sconcerti, ch'egli attribuiva alla codardia dell'esercito; e la sua sfrenata ed intempestiva crudeltà, invece d'inspirare terrore, destava odio ed un giusto desiderio di vendetta. Un distaccamento di Pretoriani, i quali tremavano per le loro mogli e figliuoli nel campo di Alba vicino a Roma, eseguì la sentenza del Senato. Massimino, abbandonato dalle proprie guardie, fu trucidato nella sua tenda col figlio (ch'egli aveva associato agli onori della porpora), col prefetto Anulino, e con i principali ministri della sua tirannide[554]. La vista delle loro teste, portate sopra le lance, persuase i cittadini di Aquileia, che l'assedio era finito: aperte quindi le porte della città, furono largamente dispensate le provvisioni alle affamate truppe di Massimino, e tutto l'esercito si unì con solenni proteste di fedeltà al Senato ed al Popolo romano, ed a' suoi legittimi Imperatori, Massimo e Balbino. Questo fu il giusto fato di un selvaggio brutale, privo, come è stato generalmente dipinto, di ogni sentimento, che distingue da un Barbaro un uomo incivilito, e perfino un uomo da un bruto. Il suo corpo era conforme all'animo. La statura di Massimino passava la misura di otto piedi, e si raccontano esempj quasi incredibili della sua impareggiabile forza e voracità[555]. Se fosse vissuto in un secolo meno illuminato, la tradizione e la poesia l'avrebbero potuto rappresentare come uno di quei mostruosi giganti, che fecero sempre uso della forza loro soprannaturale per distruggere il genere umano.

È più facile concepire che descrivere la gioia universale del romano Impero alla caduta del tiranno, le nuove della quale si dice essere state portate in quattro giorni da Aquileia a Roma. Il ritorno di Massimo fu una processione trionfale. Il suo collega ed il giovane Gordiano uscirono ad incontrarlo, ed i tre Principi fecero il loro ingresso nella Capitale, accompagnati dagli Ambasciatori di quasi tutte le città dell'Italia, onorati con isplendide offerte di gratitudine e di superstizione, e ricevuti con sincere acclamazioni dal Senato e dal Popolo, che ad un secolo di ferro si persuadevano di vedere succedere un secolo d'oro[556]. La condotta dei due Imperatori corrispose a queste aspettative. Rendevan essi la giustizia in persona; ed il rigore dell'uno veniva temperato dalla clemenza dell'altro. Le tasse eccessive, con le quali avea Massimino aggravato i diritti delle eredità e delle successioni, furono abolite o almen moderate. Si ristabilì la disciplina, e col consiglio del Senato furono promulgate molte leggi da' suoi imperiali Ministri, i quali procuravano di ristabilire la civile costituzione sulle rovine della tirannide militare. «Qual ricompensa possiamo aspettarci per avere liberata Roma da un mostro?» dimandò Massimo in un momento di libertà e di confidenza. Balbino immediatamente rispose: «L'amor del Senato, del Popolo, e di tutto il genere umano». — «Ahimè» riprese il suo più penetrante Collega «ahimè! io pavento l'odio dei soldati, ed i funesti effetti del loro risentimento»[557]. L'evento giustificò pur troppo i suoi timori.

Nel tempo che Massimo si preparava a difendere l'Italia contro il comune nemico, Balbino, rimasto in Roma, si era trovato impegnato in qualche scena di sangue e d'intestina discordia. La diffidenza e la gelosia regnavano nel Senato; e nei templi stessi dove si adunava, ciaschedun Senatore portava armi palesi o nascoste. In mezzo alle loro deliberazioni, due veterani delle guardie, mossi dalla curiosità o da qualche reo disegno, entrarono audacemente nel tempio, e si avanzarono verso l'altare della Vittoria. Gallicano, Senator consolare, e Mecenate, Senator pretoriano, videro con isdegno la loro insolente intrusione, onde snudati i loro pugnali uccisero quegli spioni (che tali li riputavano) a piedi dell'altare; ed avanzandosi poi alla porta del Senato esortarono imprudentemente la moltitudine a trucidare i Pretoriani, come secreti aderenti del tiranno. Quelli, che sfuggirono al primo furor del tumulto, si ricovrarono nel campo, e lo difesero con un vantaggio superiore contro i reiterati assalti del popolo, assistito dalle numerose turme dei gladiatori appartenenti ai ricchi nobili. La guerra civile durò molti giorni, con perdita o confusione infinita d'ambe le parti. Ma rotti i canali, che portavano l'acqua al campo, i Pretoriani furono ridotti ad intollerabili angustie; dal canto loro per altro avventurarono disperatamente varie sortite nella città, incendiarono un gran numero di case, e fecero per le strade correre il sangue degli abitanti. L'Imperatore Balbino tentò con vani editti e tregue precarie di reconciliare le fazioni in Roma. Ma la loro animosità, benchè mitigata per un poco, arse poi con raddoppiata violenza. I soldati, detestando il Senato ed il popolo, disprezzavano la debolezza di un Principe, che non avea nè coraggio, nè forza da farsi ubbidir dai suoi sudditi[558].

Dopo la morte del tiranno il suo formidabile esercito avea più per necessità che per elezione riconosciuta l'autorità di Massimo, che si trasportò senza indugio al campo di Aquileia. Appena ebbe egli ricevuto il giuramento di fedeltà, parlò con termini pieni di dolcezza e moderazione; deplorò, anzichè rimproverare, i fieri presenti disordini; ed assicurò i soldati che il Senato obbliava tutta la loro passata condotta, non ricordandosi di altro che della loro generosa diserzione dal tiranno, e del loro volontario ritorno al proprio dovere. Massimo avvalorò queste esortazioni con un generoso donativo, e purificò il campo con solenne sacrifizio espiatorio, rimandando poi nelle loro diverse province lo legioni, penetrate, com'ei sperava, da un vivo sentimento di gratitudine u di ubbidienza[559]. Ma niente potè rappacificare gli animi orgogliosi dei Pretoriani. Essi accompagnarono gl'Imperatori in quel giorno memorabile del loro pubblico ingresso in Roma; ma in mezzo alle universali acclamazioni, il truce e cupo contegno dei medesimi Pretoriani mostrava bastantemente che si consideravano piuttosto come gli oggetti, che come i compagni del trionfo. Quando l'intero corpo di quelli che avean seguitato Massimino, e di quelli ch'erano rimasti in Roma, fu riunito nel loro campo, si comunicarono insensibilmente i loro lamenti e timori. Gl'Imperatori, scelti dall'armata, erano ignominiosamente periti; e quegli eletti dal Senato sedevano in trono[560]. La lunga discordia tra la potenza civile e la militare era stata decisa con una guerra, nella quale la prima aveva ottenuta una piena vittoria. I soldati dovean dunque adottare nuove massime di ubbidienza al Senato; e qualunque clemenza affettasse quella politica assemblea, essi temevano una lenta vendetta, colorita col nome di disciplina, e giustificata col bel pretesto del pubblico bene. Ma stava sempre nelle lor mani la sorte loro, e se avevano il coraggio di sprezzare i vani terrori di una impotente Repubblica, potean facilmente convincere il Mondo, che i padroni delle armi eran padroni del Governo ancora e dello Stato.

Quando il Senato elesse due Principi, è probabile che, oltre l'esposta ragione di provvedere alle diverse emergenze della pace e della guerra, avesse pure il secreto desiderio d'indebolire con la divisione il dispotismo della suprema Magistratura. Fu efficace la loro politica, ma divenne fatale agli Imperatori e a loro medesimi. La gelosia dell'autorità fu presto inasprita dalla diversità dei caratteri. Massimo disprezzava Balbino come un nobile dissoluto, ed era a vicenda sprezzato dal suo collega come un oscuro soldato. Benchè non si vedesse la loro tacita discordia, pure ognun l'intendea[561]; ma la consapevolezza de' loro scambievoli sentimenti li distolse dall'unirsi per prendere vigorose providenze di difesa contro i Pretoriani, loro comuni nemici. Tutta la città era occupata nei giuochi Capitolini, e gl'Imperatori erano rimasti soli nel loro palazzo. Furono ad un tratto atterriti all'arrivo di una truppa di disperati assassini. Ignari dei disegni e delle situazioni scambievoli (giacchè sempre occupavano appartamenti lontani), temendo di dare o di ricevere aiuto, perdettero quei momenti importanti in vane dispute ed in rimproveri inutili. L'arrivo delle guardie terminò la vana contesa. Esse presero gl' Imperatori del Senato (che così li chiamavano con maligno disprezzo), li spogliarono dei loro ornamenti, e li strascinarono insolentemente in trionfo per le contrade di Roma, risoluti di far soffrire a questi Principi sventurati una morte lenta e crudele. Il timore che i fedeli Germani della guardia imperiale non corressero a liberarli, ne abbreviò i tormenti; ed i loro corpi, lacerati da mille ferite, furono abbandonati agl'insulti o alla compassione della plebe[562].

Nello spazio di pochi mesi, sei Principi erano stati assassinati. Gordiano, che avea già ricevuto il titolo di Cesare, fu il solo che i soldati credessero degno di occupare il trono vacante[563]. Lo condussero al campo ed unanimemente lo salutarono Imperatore ed Augusto. Il suo nome era caro al Senato ed al Popolo; la sua tenera età prometteva una lunga impunità alla militare licenza; e la sommissione di Roma e delle province alla scelta fatta dai Pretoriani, salvò la Repubblica (con danno per altro della sua libertà e della sua autorità) dagli orrori di una nuova guerra civile nel cuore della Capitale[564].

Siccome il terzo Gordiano morì in età di diciannove anni, la storia della sua vita, quand'anche ci fosse stata descritta con maggiore esattezza, conterrebbe poco più che il ragguaglio della sua educazione e della condotta dei ministri, che a vicenda regolarono la semplice ed inesperta di lui gioventù, o che ne abusarono. Subito dopo il suo avvenimento, cadde nelle mani degli eunuchi di sua madre, perniciosa peste orientale, che dal regno di Elagabalo in poi aveva sempre infestata la Corte romana. Questi scellerati, con artificiosa congiura, avean tirato un impenetrabile velo tra l'innocente Principe e gli oppressi suoi sudditi. Fu tradita la virtuosa disposizione di Gordiano, e senza di lui saputa, benchè pubblicamente, si venderono le cariche dell'Impero ai più indegni tra gli uomini. Non ci è noto per qual fortunato accidente l'Imperatore si liberasse da quella vergognosa schiavitù, e desse poi la sua confidenza ad un Ministro i cui prudenti consigli non avevano altro oggetto che la gloria del Sovrano e la felicità del popolo. È probabile che l'amore ed il sapere procurassero a Misiteo il favor di Gordiano.

Il giovanetto Principe sposò la figlia del suo maestro di rettorica, e promosse il suocero alle prime cariche dell'Impero. Esistono ancora due ammirabili lettere che tra loro si scrissero. Il Ministro con quel nobile coraggio che viene inspirato dalla coscienza della propria virtù, si congratula con Gordiano, perchè si è liberato dalla tirannia degli eunuchi[565], ed ancor più perchè sente e conosce la propria sua libertà. L'Imperatore confessa, con un'amabile confusione, gli errori della sua passata condotta; e con eloquenti espressioni deplora la sventura di un Monarca, a cui vien sempre nascosta la verità dalla venal turba dei cortigiani[566].

Misiteo avea passata la vita nella profession delle lettere, e non delle armi; ma sì pieghevole era l'ingegno di quel grand'uomo, che quando fu creato Prefetto del Pretorio, soddisfece ai suoi doveri militari con pari vigore ed abilità. Aveano i Persiani invasa la Mesopotamia, e minacciavano Antiochia. Alle persuasive del suocero, il giovane Imperatore lasciò le delizie di Roma, aprì (per l'ultima volta di cui faccia menzione la storia) il Tempio di Giano, e marciò in persona verso l'Oriente. Al suo arrivo con numeroso esercito, levarono i Persiani le loro guarnigioni dalle città che aveano già prese, e si ritirarono dall'Eufrate fino al Tigri. Ebbe Gordiano il piacere di annunziare al Senato il primo successo delle sue armi, che egli con dovuta modestia e gratitudine attribuiva alla prudenza del suo padre e Prefetto. Vegliò Misiteo, durante quell'impresa, alla salvezza e disciplina dei soldati, e prevenne le loro pericolose lagnanze, conservando una continua abbondanza nel campo, e mantenendo in ogni città della frontiera ampj magazzini provveduti di aceto, di carni salate, di paglia, di orzo e di grano[567]. Ma la prosperità di Gordiano spirò con Misiteo, che morì di una dissenteria non senza grave sospetto di veleno. Filippo, suo successore nella Prefettura, era Arabo di nascita, ed era stato per conseguenza ne' suoi primi anni ladro di professione. Il suo innalzamento da uno stato sì oscuro alle prime cariche dell'Impero prova quanto quegli fosse ardito ed abile condottiero. Ma l'ardir suo lo fece aspirare al trono, e la sua abilità fu impiegata a rovinare, non a servire il suo indulgente Signore. Irritò gli animi dei soldati introducendo artificiosamente nel campo la carestia; e l'angustia delle truppe fu attribuita all'incapacità del giovane Principe. Non è possibile di rintracciare i successivi passi della secreta Congiura, e dell'aperta sedizione, che divenne finalmente funesta a Gordiano. Fu innalzato un monumento sepolcrale alla memoria di lui, sul luogo[568] ov'egli rimase ucciso, vicino al confluente dell'Eufrate, e del piccolo fiume Abora[569]. Il fortunato Filippo, innalzato all'Impero dai voti dei soldati, fu prontamente riconosciuto dal Senato e dalle province[570].

Non posso trattenermi di trascrivere l'ingegnosa, benchè alquanto immaginaria descrizione, che un celebre Autore moderno ha fatta del militar governo dell'Impero romano. «Quella potenza (egli dice) a cui si dava in quel secolo il nome di Romano Impero, non era che una Repubblica irregolare, quasi simile alla aristocrazia[571] di Algeri,[572] dove le milizie hanno la sovranità, creano e depongono un magistrato, che ha il nome di Deì. Si può forse con verità stabilire per massima generale, che un governo militare, è per alcuni riguardi più repubblicano che monarchico. Nè si può dire che i soldati abbiano parte al governo solamente per la loro disubbidienza e per le ribellioni loro. Le parlate che ad essi faceano gl'Imperatori non eran elle finalmente della stessa natura che quelle fatte una volta al popolo dai Consoli, e dai Tribuni? E benchè le armate non avessero nè luogo certo, nè forma regolare per adunarsi, benchè brevi fossero le loro dispute, improvvisi i lor moti, e le loro risoluzioni raramente dettate da una placida riflessione, non disponevano esse con arbitrio assoluto della pubblica sorte? E che altro era l'Imperatore, se non il ministro di un Governo violento, eletto per la privata utilità de' soldati?

«Quando l'esercito ebbe eletto Filippo ch'era Prefetto del Pretorio del terzo Gordiano, questi richiese di esser egli il solo Imperatore, nè lo potè ottenere. Richiese che fosse il potere ugualmente fra loro diviso; l'armata non diede orecchio alle sue parole: si contentò di essere abbassato al grado di Cesare; gli fu ricusato questo favore: pregò di essere almeno fatto Prefetto del Pretorio; furono rigettate le sue preghiere. Dimandò finalmente la vita. L'esercito in questi diversi giudizj esercitava la suprema Magistratura.» Secondo lo Storico, il cui dubbio racconto è adottato dal Presidente di Montesquieu, Filippo che in tutto quel negoziato avea tenuto un ostinato silenzio, inclinò a risparmiare l'innocente vita del suo benefattore; finchè ricordandosi, che la di lui innocenza poteva risvegliare una pericolosa compassione nel Mondo romano, comandò, senza riguardo a' di lui supplichevoli gridi, che fosse preso, spogliato, e condotto immantinente alla morte. Dopo un momento di pausa fu eseguita l'inumana sentenza[573].

Ritornato dall'Oriente in Roma, Filippo, desideroso di cancellare la memoria de' suoi delitti, ed acquistarsi l'amore del popolo, celebrò i giuochi secolari con infinita pompa e magnificenza. Da che gli aveva Augusto o istituiti o ristabiliti[574], erano stati celebrati da Claudio, da Domiziano, e da Severo, e furono allora rinovati por la quinta volta, terminando l'intero periodo di mille anni dalla fondazione di Roma. Ogni particolarità dei giuochi secolari era mirabilmente acconcia a destare una venerazione solenne e profonda negli animi superstiziosi. Il lungo loro intervallo[575] eccedeva il termine della vita umana; e come niuno degli spettatori gli avea veduti, così niuno si potea lusingare di rivederli di nuovo. Si celebravano per tre notti i mistici sacrifizj sulle rive del Tevere; ed il campo Marzio, in fra le danze risuonava di concenti, illuminato da una quantità innumerabile di torce e di lampadi. Gli schiavi e gli stranieri non poteano in verun modo essere a parte di quelle nazionali cerimonie. Un coro di ventisette nobili giovanetti, e di altrettante nobili vergini, che non avessero perduto il padre o la madre, imploravano dai Numi propizj il loro favore per la presente e per la futura generazione, supplicandoli con inni devoti a conservare (secondo la fede degli antichi oracoli) la virtù, la felicità, e l'Impero del Popolo romano[576]. La magnificenza degli spettacoli di Filippo abbagliò gli occhi della moltitudine. I devoti erano interamente occupati nelle religiose cerimonie, mentre i pochi pensatori rivolgevano nelle loro ansiose menti la storia passata ed il futuro destino dell'Impero.

Erano già scorsi mille anni da che Romolo, con una picciola truppa di pastori e di banditi, venne a stabilirsi sulle colline vicino al Tevere[577]. Nei quattro primi secoli, i Romani avevano acquistate le virtù militari e civili nella laboriosa scuola della povertà. Vigorosamente usando di quelle virtù, ed assistiti dalla fortuna, ottennero nel corso dei tre susseguenti secoli l'impero assoluto sopra molte regioni dell'Europa, dell'Asia e dell'Affrica. Gli ultimi trecento anni erano passati in un'apparente prosperità ed in una decadenza interna. Questa nazione di soldati, di magistrati, e di legislatori, che componeva le trentacinque tribù del Popolo romano, si disciolse nella massa generale degli uomini, e rimase confusa tra tanti milioni di vili provinciali, che avean ricevuto il nome di Romani, senza adottarne lo spirito. Un esercito mercenario, levato tra i sudditi e tra i Barbari delle frontiere, fu l'unica classe d'uomini, che conservasse la sua indipendenza, e ne abusasse ad un tempo. Con tumultuarie elezioni furono da loro innalzati al trono di Roma un Siro, un Goto, ed un Arabo, e rivestiti di un potere dispotico sopra le conquiste e la patria degli Scipioni.

L'Impero romano si stendeva tuttavia dall'Oceano occidentale fino al Tigri, e dal monte Atlante fino al Reno e al Danubio. Filippo sembrava all'occhio poco penetrante del volgo un Monarca non meno potente di Adriano e di Augusto. La forma era tuttora la stessa, ma la robustezza e la forza animatrice mancavano. L'industria del popolo era scoraggiata ed infiacchita da una lunga serie di oppressioni. La disciplina delle legioni, che sola, dopo l'estinzione di ogni altra virtù, avea sostenuta la grandezza dello Stato, era corrotta dall'ambizione, o rilassata dalla debolezza degl'Imperatori. La forza delle frontiere, che prima consisteva nelle armi, più che nelle fortificazioni, si era indebolita insensibilmente; e le più belle province giacevano esposte alla rapacità o all'ambizione dei Barbari, che presto si accorsero della decadenza dell'Impero di Roma.

CAPITOLO VIII.

Stato della Persia dopo il ristabilimento della Monarchia per opera di Artaserse. Qualunque volta Tacito si compiace in quei belli episodj, nei quali rapporta qualche domestico interesse dei Germani o dei Parti, il suo oggetto principale è di sollevare l'attenzione del lettore da una scena uniforme di vizj e di sciagure. Dal regno di Augusto al tempo di Alessandro Severo, i nemici di Roma erano nel suo seno, i tiranni cioè ed i soldati, e la prosperità della medesima aveva un interesse ben debole e remoto in rivoluzioni, che accadessero al di là dell'Eufrate e del Reno. Ma quando le milizie ebbero ridotto in una strana anarchia il potere del Principe, le leggi del Senato, e la disciplina istessa del campo, i Barbari del Settentrione e dell'Oriente, che fin allora avevano fatte scorrerie su i confini, assalirono arditamente le province di un Impero cadente. Le loro inquiete incursioni divennero irruzioni formidabili, e dopo una lunga vicenda di scambievoli calamità, molte tribù di quei vittoriosi invasori si stabilirono nelle province dell'Imperio romano. Per avere una più chiara notizia di questi grandi avvenimenti, procureremo di dar prima una idea del carattere, delle forze, e dei disegni di quelle nazioni, che vendicarono il fato di Annibale e di Mitridate.

Nei più antichi secoli del mondo, quando le selve che copriano l'Europa servivano di ritiro a pochi vagabondi selvaggi, gli abitatori dell'Asia erano già raccolti in città popolate, e ridotti sotto vasti Imperi, sedi delle arti, del lusso, e del dispotismo. Gli Assiri regnarono sull'Oriente[578], finchè lo scettro di Nino e di Semiramide cadde dalle mani degl'infiacchiti loro successori. I Medi ed i Babilonesi si divisero il loro Impero, poi furono essi stessi assorbiti nella monarchia dei Persiani, le cui armi non poterono contenersi negli angusti confini dell'Asia. Serse, il discendente di Ciro, seguitato, come si dice, da due milioni d'uomini, invase la Grecia. Trentamila soldati, comandati da Alessandro, figliuolo di Filippo, a cui i Greci avean affidata la loro gloria e vendetta, bastarono per soggiogare la Persia. I Principi della famiglia di Seleuco usurparono e perderono l'Impero macedone dell'Oriente. Quasi nel tempo stesso che con un vergognoso trattato cedevano ai Romani il paese, che giace di qua dal monte Tauro, i Parti, oscura tribù d'origine scitica, li discacciarono da tutte le province dell'Asia superiore. La formidabile potenza dei Parti, che si stendeva dall'India alle frontiere della Siria, fu distrutta a sua volta da Ardshir o Artaserse, fondatore di una nuova dinastia, la quale sotto il nome di Sassanidi governò la Persia fino all'invasione degli Arabi. Questa grande rivoluzione, di cui presto sentirono i Romani la fatale influenza, seguì nel quarto anno di Alessandro Severo, dugento ventisei anni dopo[579] l'Era Cristiana.

Artaserse avea servito con molta riputazione nelle armate di Artabano, ultimo Re dei Parti, e si vede che l'ingratitudine regia (solita ricompensa del merito sopreminente) lo rendette esule e ribelle. Oscura era la costui nascita, e questa oscurità diede egualmente luogo alle satire dei nemici, ed all'adulazione degli aderenti. Se porgiamo fede alle accuse dei primi, Artaserse nasceva dall'adulterio della moglie di un conciatore di pelli[580] con un soldato comune. Gli ultimi poi lo rappresentano come discendente da un ramo degli antichi Re di Persia, benchè il tempo e le disgrazie avessero a poco a poco ridotti i suoi antenati all'umile condizione di cittadini privati[581]. Come erede per discendenza della monarchia, sostenne i suoi diritti al trono, e prese il nobile impegno di liberare i Persiani dall'oppressione, sotto la quale gemevano per più di cinque secoli dopo la morte di Dario. I Parti furon disfatti in tre grandi battaglie. Nell'ultima di queste perì il loro Re Artabano, e con esso fu abbattuto per sempre lo spirito della nazione[582]. L'autorità di Artaserse venne riconosciuta solennemente in una grande adunanza tenuta a Balch nel Korasan. Due più giovani rampolli della reale famiglia di Arsace furon confusi tra i Satrapi umiliati. Un terzo, più ricordevole dell'antica grandezza che della presente necessità, tentò di ritirarsi con un seguito numeroso di vassalli verso il Re di Armenia, suo congiunto; ma questa piccola armata di disertori fu sorpresa e distrutta dalla vigilanza del conquistatore[583], il quale prese arditamente il doppio diadema, e il titolo di Re dei Re, goduto dal suo predecessore. Ma questi pomposi titoli in vece di gratificare la vanità del Persiano, servirono solamente a rammentargli il suo dovere, e a destargli in seno l'ambizione di render alla religione e all'Impero di Ciro tutto il suo primiero splendore.

I. Durante la lunga servitù della Persia sotto il giogo dei Macedoni e dei Parti, le nazioni dell'Europa e dell'Asia avevano scambievolmente adottate e corrotte le superstizioni l'una dell'altra. Gli Arsacidi osservavano, è vero, il culto dei Magi; ma lo disonoravano macchiandolo con vario mescuglio di straniera idolatria. La memoria di Zoroastro, antico profeta e filosofo dei Persiani[584], era sempre venerata nell'Oriente; ma il linguaggio antiquato e misterioso nel quale era composto lo Zendavesta[585], apriva un campo di controversie a settanta differenti Sette, che variamente spiegavano le dottrine fondamentali della loro religione, ed erano tutte egualmente derise da una moltitudine di infedeli, i quali rigettavano la divina missione ed i miracoli del Profeta. Il pio Artaserse chiamò i Magi da tutte le parti del suo Impero per sopprimere gl'idolatri, unire gli scismatici, e confutare gl'increduli con l'infallibile decisione di un concilio generale. Questi preti che sì lungamente avean gemuto nel disprezzo e nell'oscurità, obbedirono al grato invito; ed in numero di quasi ottantamila comparvero tutti nel giorno prefisso. Ma siccome le discussioni di una assemblea così tumultuosa non avrebbero potuto essere regolate dalla autorità della ragione o dirette dall'arte della politica, il Sinodo persiano fu con successive operazioni ridotto a quarantamila, a quattromila, a quattrocento, a quaranta, e finalmente a sette magi i più rispettabili per la loro scienza e pietà. Erdavirabo, uno di essi, prelato giovane, e tenuto per santo, ricevè dalle mani dei suoi fratelli tre tazze di vino soporifero, e bevutolo, subito cadde in un sonno lungo e profondo. Svegliato appena, raccontò al Re ed alla credula moltitudine il suo viaggio al Cielo, e le sue intime conferenze con la divinità. Ogni dubbio fu quietato con questa soprannaturale testimonianza, e gli articoli della fede di Zoroastro vennero determinati con eguale autorità e precisione[586]. Un breve quadro di quel famoso sistema sarà utile non solo per conoscere il carattere dei Persiani, ma ancora per ischiarire molte delle loro azioni le più importanti in pace ed in guerra con l'Impero romano[587].

Il grande e fondamentale articolo del sistema era la celebre dottrina dei due principj; ardito e irragionevole sforzo della filosofia Orientale per conciliare l'esistenza del male fisico e morale, con gli attributi di un benefico Creatore e Rettore dell'Universo. L'Ente primo e originale, nel quale, o per il quale l'Universo esiste, è nominato negli scritti di Zoroastro Tempo senza limiti; ma conviene confessare, che questa sostanza infinita sembra piuttosto un'astrazione metafisica della mente, che un oggetto reale dotato della cognizione di se stesso, o ricolmo di perfezioni morali. Dalla cieca dunque o intelligente operazione di questo Tempo Infinito, che ha una grande affinità con il Caos dei Greci, furon ab eterno prodotti i due secondarj ed attivi principj dell'universo, Ormusd, e Ahriman, avente ciascuno la potenza creatrice, ma ciascuno disposto, per la sua invariabile natura, ad esercitarla con mire diverse. Il principio del bene è eternamente assorto nella luce; quello del male è eternamente sepolto nelle tenebre. La saggia beneficenza di Ormusd formò l'uomo capace di virtù, e provvide abbondantemente la sua bella abitazione di materiali per la felicità. Dalla sua vigilante provvidenza si mantengono e il moto dei pianeti, e l'ordine delle stagioni, e la mescolata temperanza degli elementi. Ma la malizia di Ahriman ha da gran tempo rotto l'uovo di Ormusd; o in altri termini, ha violata l'armonia delle sue opere. Da quella fatale rottura in poi, le più minute particelle del bene e del male sono intimamente frammischiate e agitate fra loro; tra le piante più salutifere germogliano l'erbe più velenose; i diluvj, i terremoti, gl'incendj indicano il conflitto della natura, e il piccol mondo dell'uomo è perpetuamente perturbato dal vizio e dalle sciagure. Mentre il resto del genere umano è tratto prigione nelle catene dal suo infernale nemico, il fedel Persiano soltanto riserva la sua religiosa adorazione per il suo amico e protettore Ormusd, e combatte sotto la sua bandiera di luce, con la piena confidenza che nel giorno finale sarà a parte del suo glorioso trionfo. In quel giorno decisivo, l'illuminata sapienza della bontà renderà la potenza di Ormusd superiore alla furiosa malizia del suo rivale. Ahriman ed i suoi seguaci, disarmati ed oppressi, piomberanno nella nativa loro oscurità; e la virtù conserverà eternamente la pace e l'armonia dell'Universo[588].

Gli stranieri e la maggior parte ancora de' suoi discepoli intendevano confusamente la teologia di Zoroastro; ma gli osservatori anche meno attenti ammiravano la filosofica semplicità del culto persiano. «Questa nazione», dice Erodoto[589], rigetta l'uso de' templi, delle are, dei simulacri, e deride la follia di quei popoli, i quali s'immaginano che gli Dei derivino dalla natura umana o abbiano con essa qualche affinità. Le cime delle più alte montagne sono i luoghi destinati a sacrifizj. Gl'inni e le preci sono il culto principale. Il supremo Nume, che riempie il vasto cerchio del cielo, è l'oggetto a cui s'indirizzano». Nel tempo stesso però, da vero politeista li accusa di adorare la Terra, l'Acqua, il Fuoco, i Venti, il Sole e la Luna. Ma i Persiani hanno in ogni secolo smentita una tale accusa, spiegando la condotta equivoca, che sembrava accreditarla. Gli elementi, e più specialmente il Fuoco, la Luce ed il Sole, da essi chiamato Mithra, erano gli oggetti della loro religiosa venerazione, perchè li consideravano come i simboli più puri, le produzioni più nobili, e gli agenti più grandi della Potenza e Natura Divina[590].

Ogni religione, per fare una impressione profonda e durevole nello spirito umano, deve esercitare la nostra obbedienza, imponendo pratiche di devozione, delle quali non possiamo assegnare ragione veruna; e deve acquistare la nostra stima inculcando massime morali analoghe ai dettami del nostro cuore. La religione di Zoroastro abbondava moltissimo delle prime, e sufficientemente dell'altre. Il fedel Persiano, giunto alla pubertà, era adornato di una misteriosa cintura, pegno della protezione divina; e da quel momento in poi tutte le azioni della sua vita, anche le più indifferenti o le più necessarie, erano santificate da particolari preghiere, da giaculatorie o genuflessioni, l'omissione delle quali in qualunque circostanza era un grave peccato, non inferiore alla violazione dei doveri morali. I morali doveri però di giustizia, di misericordia, di liberalità ec., erano ancor essi necessarj ai discepoli di Zoroastro, i quali desideravano di fuggire dalla persecuzione di Ahriman e vivere con Ormusd in una beata eternità, dove il grado di felicità sarà esattamente proporzionato al grado di virtù e di pietà[591].

Ma vi sono alcuni passi notevoli, nei quali Zoroastro, non più profeta, ma legislatore, mostra per la pubblica e privata felicità un generoso interesse, che raramente si trova nei meschini o visionarj sistemi della superstizione. Il digiuno ed il celibato, ordinarj mezzi per acquistarsi il favore divino, sono da lui con orror condannati, come un colpevol rifiuto dei migliori doni della provvidenza. Il santo, nella religione dei Magi, è obbligato a procreare figliuoli, a piantare alberi utili, a distruggere gli animali nocivi, a condur l'acqua nei terreni aridi della Persia, ed a lavorare per la propria salvezza, non omettendo alcuna delle fatiche dell'agricoltura. Si può ricavare dallo Zendavesta una massima saggia e benefica che compensa molte assurdità. «Quegli che semina il terreno con attenzione e diligenza, acquista un capitale più grande di merito religioso, che se ripetesse diecimila orazioni[592] ». Ogni anno di primavera si celebrava una festa destinata a rappresentare la primitiva uguaglianza, e l'attuale connessione degli uomini. I superbi Re di Persia, cambiando la vana lor pompa con una più sincera grandezza, si frammischiavano liberamente con i più umili ed i più utili insieme dei loro sudditi. In quel giorno gli agricoltori erano ammessi senza distinzione alla tavola del Re e dei Satrapi. Il monarca riceveva le loro suppliche, esaminava le loro querele, e conversava con essi con la maggiore famigliarità. «Dalle vostre fatiche» soleva egli dire (e dirlo con verità se non con sincerità), «noi riceviamo la nostra sussistenza; voi dovete la vostra quiete alla vigilanza nostra; giacchè adunque noi siamo scambievolmente necessarj l'uno all'altro, viviamo insieme come fratelli in concordia ed amore[593] ». Una tal festa in un opulento e dispotico Impero dovea, per vero dire, degenerare in una rappresentanza teatrale; ma era almeno una commedia ben degna della presenza sovrana, e che potea talvolta imprimere nella mente di un Principe giovane una lezione salutevole.

Se avesse Zoroastro in tutte le sue istituzioni sostenuto invariabilmente questo sublime carattere, il suo nome ben si starebbe accanto a quelli di Numa e di Confucio, ed il suo sistema meriterebbe giustamente tutti gli applausi, che alcuni tra i nostri teologi, e tra i filosofi ancora si sono compiaciuti di dargli. Ma in quella mista composizione, dettata dalla ragione e dalla passione, dall'entusiasmo e dai motivi personali, alcune verità utili e sublimi sono degradate da un mescuglio della più vile e pericolosa superstizione. I Magi, o sia l'ordine sacerdotale, erano numerosissimi, giacchè (come abbiam di sopra osservato) ottantamila se ne adunarono in un concilio generale. Le loro forze si accrebbero con la disciplina. Fu stabilita in tutte le province della Persia una regolare gerarchia; e l'Arcimago dio risedeva a Balch, era rispettato come il capo visibile della chiesa, ed il legittimo successore di Zoroastro[594]. Era considerabile il patrimonio dei Magi. Oltre al meno invidiabil possesso di un largo tratto delle terre più fertili della Media[595], levavano una tassa generale su i beni e sull'industria dei Persiani[596]. «Sebbene le vostre buone opere,» dice l'interessato profeta, «superassero in numero le foglie degli alberi, le gocciole della pioggia, le stelle del cielo, le arene del lido, saranno tutte inutili per voi, se accettate non sono dal Destor o sacerdote. Per ottenere l'accettazione di questa guida alla salvezza, dovete fedelmente pagargli le decime di tutto ciò che possedete, dei vostri beni, dei vostri terreni e del vostro denaro. Se il Destor sarà soddisfatto, l'anima vostra scamperà dai tormenti infernali; e vi assicurerete gloria in questo mondo, e felicità nell'altro. Perchè i Destori sono maestri della religione; essi sanno tutto, e liberano tutti gli uomini[597] ».

Queste comode massime di venerazione e di fede implicita erano con gran cura impresse come certissime nelle tenere menti della gioventù; giacchè i Magi erano i direttori dell'educazione in Persia, e i figli medesimi della famiglia reale erano affidati alle loro mani[598]. I Sacerdoti persiani che aveano un talento speculativo, conservavano ed investigavano i segreti dell'orientale filosofia; ed acquistavano o per superiore dottrina o per superior arte la riputazione di essere molto versati in alcune scienze occulte, che devono ai Magi il lor nome[599]. Quelli di più attiva disposizione si mescolavano col mondo nelle Corti e nelle città; e si osserva che l'amministrazione di Artaserse era in gran parte regolata dai consigli dell'ordine sacerdotale, alla cui dignità avea quel Principe o per politica, o per divozione restituito l'antico splendore[600].

Il primo consiglio dei Magi fu conveniente all'indole insociabile della lor religione[601], all'uso degli antichi Re[602], ed anche all'esempio del loro legislatore, che era caduto vittima di una guerra di religione, suscitata dall'intollerante suo zelo[603]. Artaserse con un editto proibì severamente l'esercizio di ogni altro culto, fuor quello di Zoroastro. I tempj dei Parti, ed i simulacri dei loro divinizzati monarchi, furono ignominiosamente abbattuti[604]. La spada di Aristotile (tale era il nome dato dagli Orientali al politeismo ed alla filosofia dei Greci) fu facilmente spezzata[605]; le fiamme della persecuzione distrussero ben presto i più ostinati Ebrei e Cristiani[606], nè fu perdonato agli eretici della propria nazione e religione. La maestà di Ormusd, ch'era gelosa di un rivale, fu secondata dal dispotismo di Artaserse, che non potea soffrire un ribelle; e gli scismatici di tutto quel vasto impero furono in breve ridotti allo spregevole numero di ottantamila[607]. Questo spirito di persecuzione copre di disonore la religione di Zoroastro; ma siccome non produsse veruna turbolenza civile, servì a fortificare la nuova monarchia, unendo tutti i diversi abitatori della Persia col il legame dello zelo di religione.

II. Artaserse, con il suo valore e la sua condotta, avea tolto lo scettro dell'Oriente all'antica reale famiglia dei Parti. Restava ancora la più difficile impresa di stabilire per tutta la vasta estensione della Persia un'amministrazione vigorosa ed uniforme. Gli Arsacidi, per una debole compiacenza, avean accordate ai loro figli e ai fratelli le principali province e le cariche le più importanti del Regno come beni ereditarj. I Vitassi, ovvero i diciotto Satrapi più potenti, aveano il privilegio di portare il titolo di Re; ed il vano orgoglio del Monarca era ben lusingato dal dominio di puro nome sopra tanti Re suoi vassalli. I Barbari stessi nelle loro montagne, e le greche città dell'Asia superiore[608], dentro le loro mura, riconoscevano appena un superiore, o gli ubbidivano raramente; e l'Impero dei Parti presentava sotto altro nome una viva immagine del sistema feudale[609], che poi si stabilì nella Europa. Ma l'attivo vincitore visitò in persona, alla testa di un esercito numeroso e disciplinato, tutte le province della Persia. La disfatta de' più audaci ribelli, e la riduzione delle piazze più forti[610] diffusero il terrore delle sue armi, e aprirono la strada al pacifico riconoscimento della sua autorità. Una resistenza ostinata era fatale ai capi, ma i loro seguaci erano clementemente trattati[611]. Una volontaria sommissione era ricompensata con ricchezze ed onori; ma il prudente Artaserse non soffrendo che altri fuori di lui prendesse il titolo di Re, abolì ogni intermedia potenza fra il trono ed il popolo. Il suo regno, quasi uguale in estensione alla Persia moderna, era per ogni parte circondato dal mare o da fiumi considerabili; dall'Eufrate, dal Tigri, dall'Arasse, dall'Oxo e dall'Indo; dal mar Caspio e dal golfo Persico. Nell'ultimo secolo quel paese si pretendeva che contenesse cinquecento cinquantaquattro città, sessantamila villaggi, e quasi quaranta milioni di sudditi[612]. Se paragoniamo il governo dei Sassanidi con quello della famiglia di Sefi, e la politica influenza della religione dei Magi con quella della maomettana, ne dedurremo con molta probabilità, che il regno di Artaserse conteneva almeno un numero eguale di città, di villaggi e di abitatori. Ma conviene confessare altresì, che in ogni secolo la mancanza di porti di mare, e la scarsezza di acqua dolce nelle province interne, hanno molto impedito il commercio e l'agricoltura dei Persiani; e sembra che nel calcolo del loro numero, essi abbiano usato uno de' più meschini, benchè comuni artifizi della vanità nazionale.

Appena che l'ambizioso Artaserse ebbe trionfato della resistenza de' suoi vassalli, cominciò a minacciare gli Stati vicini, che durante il lungo letargo de' suoi predecessori avevano impunemente insultata la Persia. Ottenne diverse facili vittorie contro i barbari Sciti e gli effeminati Indiani; ma i Romani erano nemici, che per le offese passate e per la potenza presente esigevano tutto lo sforzo delle sue armi. Alle vittorie di Traiano erano succeduti quarant'anni di tranquillità, frutto del valore e della moderazione di esso. Nell'intervallo che passò dal principio del regno di Marco Aurelio al regno di Alessandro, vi fu due volte la guerra tra i Parti ed i Romani; e benchè gli Arsacidi impiegassero tutte le loro forze contro una parte delle milizie di Roma, questa fu per lo più vittoriosa. Macrino, mosso dalla sua precaria situazione e dalla sua pusillanimità, comprò la pace pel prezzo di quasi quattro milioni di zecchini[613]; ma i Generali di Marco Aurelio, l'imperatore Severo ed il suo figlio eressero molti trofei nella Armenia, nella Mesopotamia, e nella Siria. Di tutte le loro imprese (l'imperfetta relazione delle quali avrebbe intempestivamente interrotta la serie più importante delle domestiche risoluzioni) noi riferiremo soltanto le replicate calamità delle due grandi città Seleucia e Ctesifonte.

A.D. 165-198

Seleucia, situata sulla riva occidentale del Tigri, quasi quarantacinque miglia a settentrione dell'antica Babilonia, era la Capitale delle conquiste fatte dai Macedoni nell'Asia superiore[614]. Molti secoli dopo la rovina del loro Impero, Seleucia conservava i genuini caratteri di una greca colonia, le belle arti, il valor militare, e l'amore della libertà. Questa indipendente Repubblica era governata da un Senato di trecento nobili; i cittadini erano in numero di seicentomila. Forti erano le sue mura, e finchè tra i diversi ordini dello Stato regnò la concordia, essi riguardarono con disprezzo la potenza dei Parti. Ma il furore di una fazione fu diverse volte incitato ad implorare il pericoloso aiuto del comune inimico, che stava quasi alle porte della colonia[615]. I Monarchi parti, come i Sovrani mogol dell'Indostan, facevano la vita pastorale degli Sciti loro antenati; ed il campo imperiale era spesso attendato nella pianura di Ctesifonte, sulla riva orientale del Tigri, a tre sole miglia di lontananza da Seleucia[616]. Gli innumerabili seguaci del lusso e del dispotismo concorrevano alla Corte, ed il piccolo villaggio di Ctesifonte diventò insensibilmente una gran città[617]. Sotto il regno di Marco Aurelio, i Generali romani penetrarono sino a Ctesifonte e Seleucia. Furono essi ricevuti come amici da quella greca colonia, ma attaccarono come nemici la sede dei Parti; l'una e l'altra città ricevè il medesimo trattamento. Il saccheggio e l'incendio di Seleucia, con la strage di trecentomila abitanti, oscurarono la gloria del trionfo romano[618]. Seleucia, già indebolita per la vicinanza di un rivale troppo potente dovè succumbere senza riparo al colpo fatale; ma Ctesifonte, quasi dopo trentatre anni, avea ricuperate forze bastanti per sostenere un ostinato assedio contro l'Imperatore Severo. La città per altro fu presa d'assalto; il Re che la difendeva in persona si diede precipitosamente alla fuga; e centomila prigioni con un ricco bottino ricompensarono le fatiche dei soldati romani[619]. Nonostante questi disastri Ctesifonte succede a Babilonia ed a Seleucia, come una delle grandi Capitali dell'Oriente. Nell'estate il Monarca persiano godeva a Ecbatana il fresco vento dei monti della Media; e passava l'inverno nel più dolce clima di Ctesifonte.

Da queste felici incursioni per altro non ricavarono i Romani alcun reale o durevole vantaggio; nè tentarono di conservare quelle remote conquiste, che un immenso deserto separava dalle province dell'Impero. La riduzione del regno di Osroene fu una conquista meno gloriosa, è vero, ma di più solido vantaggio. Quel piccolo Stato comprendeva la parte settentrionale e più fertile della Mesopotamia, tra l'Eufrate ed il Tigri, Edessa, sua capitale, era in distanza di quasi venti miglia di là dall'Eufrate; ed il suo popolo, fino dal tempo di Alessandro, era un mescuglio di Greci, di Arabi, di Siri, e di Armeni[620]. I deboli Sovrani di Osroene posti fra i pericolosi confini dei due Imperi rivali, erano per inclinazione parziali dei Parti; ma la potenza superiore di Roma esigeva da loro un forzato omaggio, che viene tuttora attestato dalle loro medaglie. Finita sotto Marco Aurelio la guerra dei Parti, fu giudicato prudente cosa l'assicurarsi della lor dubbia fede con mezzi più certi. Furono perciò costruiti in varie parti del loro paese diversi Forti, ed una guarnigione romana fu posta nella fortissima piazza di Nisibe. Nella confusione che accompagnò la morte di Commodo, i Principi di Osroene procurarono di scuotere il giogo; ma l'austera politica di Severo assicurò la loro dipendenza[621], e la perfidia di Caracalla compì la facil conquista. Abgaro, ultimo Re di Edessa, fu mandato a Roma in catene, il suo regno fu ridotto in provincia, e la Capitale onorata col titolo di colonia. Così i Romani, quasi dieci anni avanti la rovina dell'Impero dei Parti, acquistarono di là dall'Eufrate un fermo e permanente stabilimento[622].

A.D. 230

La prudenza insieme e la sete di gloria avrebbero potuto giustificare la guerra per parte di Artaserse, se le sue mire si fossero limitate alla difesa, o all'acquisto di una vantaggiosa frontiera. Ma l'ambizioso Persiano apertamente manifestò un disegno molto più vasto di conquistare, e si credè di poter sostenere l'alte sue pretensioni con le armi della ragione insieme e della forza. Ciro, egli diceva, avea il primo soggiogata ed i successori avean posseduta per lungo tempo tutta l'estensione dell'Asia fino alla Propontide ed al mare Egeo. Sotto il loro Impero, le province della Caria e della Jonia erano state governate dai Satrapi persiani, e tutto l'Egitto fino ai confini dell'Etiopia avea riconosciuta la loro sovranità[623]. Una lunga usurpazione aveva sospesi, ma non distrutti questi diritti; e non appena egli ebbe ricevuto il diadema persiano, che la nascita ed il fortunato valore messo gli aveano sopra la fronte, il principal dovere del suo posto lo richiamò a ristabilire gli antichi limiti e l'antico splendore della monarchia. Il gran Re pertanto (tale era il superbo stile delle sue imbasciate all'Imperatore Alessandro) comandò ai Romani di ritirarsi immediatamente dalle province dei loro antenati, e cedendo ai Persiani l'Impero dell'Asia, contentarsi della tranquilla possessione dell'Europa. Questo altiero comando fu fatto da quattrocento dei più alti e più belli Persiani, i quali con i loro superbi cavalli, colle armi lucenti, e col magnifico treno ostentavano l'orgoglio e la grandezza del loro Signore[624]. Una tale imbasciata era piuttosto una dichiarazione di guerra, che un principio di trattato. Alessandro Severo ed Artaserse, radunando ambidue le forze militari dei loro Imperi, risolverono di comandare in persona le loro armate in quella importante contesa.

Se diamo fede a quella che sembrerebbe la più autentica di tutte le memorie, che è a dire, un'orazione ancora esistente, inviata dall'Imperatore medesimo al Senato, dobbiamo confessare che la vittoria di Alessandro Severo non fu inferiore ad alcuna di quelle riportate una volta sopra i Persiani dal figliuol di Filippo. L'armata del gran Re era di centoventimila uomini a cavallo vestiti con l'intera armatura di acciaio: di settecento elefanti, che portavano sul dorso torri piene di arcieri, e di mille ottocento carri armati di falci. Un cotanto formidabile esercito, simile al quale mai non si trova nella storia degli Orientali, ed è appena stato immaginato nei loro romanzi[625], fu sconfitto in una gran battaglia, nella quale il romano Alessandro si mostrò intrepido soldato ed abilissimo generale. Il gran Re fu messo in fuga dal di lui valore; e un immenso bottino e la conquista della Mesopotamia furono gl'immediati frutti di una segnalata vittoria. Tali sono le circostanze di così fastosa ed improbabile relazione, dettata, come troppo chiaramente apparisce, dalla vanità del Monarca, adornata dalla sfacciata adulazione dei cortigiani, e ricevuta senza contraddizione dal lontano, ed ossequioso Senato[626]. Lungi dal credere che le armi di Alessandro riportassero alcun memorabile vantaggio sopra i Persiani, siamo indotti a dubitare che tutta questa luce di gloria immaginaria fosse diretta a nascondere qualche vero disastro.

Sono confermati i nostri sospetti dall'autorità di uno storico contemporaneo, il quale parla con rispetto delle virtù di Alessandro, e con sincerità de' suoi difetti. Egli descrive il giudizioso disegno, ch'era stato formato per la condotta di quella guerra. Tre eserciti romani doveano invadere nel tempo stesso, e da tre diverse parti, la Persia: ma le operazioni della campagna, benchè saggiamente concertate, non vennero eseguite con abilità, o con buon successo. La prima di queste armate appena si fu innoltrata nelle paludose pianure di Babilonia, verso l'artificiale confluente dell'Eufrate e del Tigri[627], fu circondata dal numero superiore dei nemici, e distrutta dalle loro saette. L'alleanza di Cosroe re dell'Armenia[628], e il lungo tratto di montuoso paese, nel quale poco agiva la cavalleria persiana, aprì un libero ingresso nel cuore della Media alla seconda armata romana. Queste valorose truppe devastarono le province adiacenti, e con diversi felici combattimenti contro Artaserse diedero un debole colore alla vanità del Monarca romano. Ma la ritirata di questo esercito vittorioso fu imprudente, o almeno infelice. Ripassando i monti, un gran numero di soldati perì per la difficoltà delle strade, e pel rigore del verno. Era stato risoluto, che mentre questi due numerosi distaccamenti penetravano negli opposti confini dell'Impero persiano, il grosso dell'esercito, sotto il comando di Alessandro medesimo, sostenesse i loro assalti facendo un'invasione nel centro del Regno. Ma l'inesperto giovane, sedotto dai consigli della madre, e forse dai suoi timori, abbandonò quei coraggiosi soldati, e il bel prospetto della vittoria; e dopo aver consumato nella Mesopotamia un'estate in un ozio inglorioso, ricondusse ad Antiochia un'armata diminuita dalle malattie, ed irritata dal cattivo successo. La condotta di Artaserse era stata ben differente. Correndo rapidamente dai monti della Media alle paludi dell'Eufrate, si era da per tutto opposto in persona agl'invasori; e nell'una e nell'altra fortuna aveva unito alla più saggia condotta a la più intrepida risolutezza. Ma in diversi ostinati conflitti contro le legioni veterane di Roma, il Monarca persiano avea perduto il fiore delle sue truppe. Le sue vittorie medesime ne avevano indebolite le forze. In vano si presentarono alla sua ambizione le favorevoli occasioni dell'assenza di Alessandro, e della confusione, che succedè alla morte di quell'Imperatore. In vece di scacciare i Romani (com'ei pretendeva) dal continente dell'Asia, non gli fu possibile di togliere dalle loro mani la piccola provincia della Mesopotamia[629].

A.D. 240

Il Regno di Artaserse, che durò solamente 14 anni dopo l'ultima disfatta dei Parti, è un'epoca memorabile nella Storia orientale, e ancora nella romana. Sembra che il carattere di lui abbia avuto quell'espressione ardita ed imperiosa, che distingue generalmente i conquistatori degli eredi di un Impero. Fino all'ultimo periodo della Monarchia persiana, il codice delle sue leggi fu rispettato come la base del loro reggimento civile e religioso[630]. Molte delle sue sentenze si sono conservate. Una di queste particolarmente mostra una profonda cognizione della costituzione del Governo. «L'autorità del Principe» (diceva Artaserse) «deve essere difesa dalla forza militare; questa forza non può mantenersi che colle tasse; tutte le tasse devono, in ultimo, cadere sull'agricoltura; e l'agricoltura non può mai fiorire se non è protetta dalla giustizia e dalla moderazione[631].» Artaserse lasciò a Sapore, figlio degno di un sì gran padre, il suo nuovo Impero ed i suoi ambiziosi disegni contro i Romani; ma questi disegni erano troppo vasti per le forze della Persia, e servirono soltanto ad involgere ambedue le nazioni in una lunga serie di sanguinose guerre, e di scambievoli calamità.

I Persiani già da gran tempo dirozzati e corrotti, erano già lungi dal possedere quella marziale indipendenza, e quell'intrepido ardire di animo e di corpo, che hanno renduto i Barbari del settentrione padroni del Mondo. La scienza della guerra ch'era la più ragionata forza della Grecia e di Roma, come presentemente è dell'Europa, non fece mai progressi considerabili nell'Oriente. Quelle disciplinate evoluzioni che fanno agir di concerto ed animano una confusa moltitudine, erano sconosciute ai Persiani. Ignoravano parimente l'arte di costruire, assediare, e difendere le regolari fortificazioni. Si fidavano più nel numero che nel coraggio, e più nel coraggio che nella disciplina. L'infanteria era una truppa di contadini, codardi ed armati a metà, reclutati in fretta, ed adescati dalla speranza delle prede, e che egualmente si disperdevano per una vittoria o per una disfatta. Il Monarca ed i nobili portavano al campo la vanità ed il lusso del serraglio. Le militari operazioni erano impedite da un treno inutile di donne, di eunuchi, di cavalli e di cammelli; ed in mezzo ai successi di una fortunata campagna l'esercito persiano era spesso disperso, o distrutto da una fame improvvisa[632].

Ma i nobili Persiani, nel seno del lusso e del dispotismo, conservavano un forte sentimento di personale bravura, e d'onor nazionale. Dall'età di sette anni erano avvezzati a dir sempre la verità, a maneggiare l'arco, ed a cavalcare; e per confessione universale aveano in queste due ultime arti fatto progressi incredibili[633]. La gioventù più illustre veniva educata sotto l'occhio del Monarca. Faceva gli esercizj dinanzi alla porta del palazzo di lui, ed era severamente avvezzata alla temperanza, ed all'obbedienza nelle lunghe e faticose cacce. In ogni provincia, il Satrapo manteneva una simile scuola di virtù militare. I nobili persiani (tanto naturale è l'idea dei beni feudali) ricevevano dalla generosità del Re case e terreni, coll'obbligo di prestargli servizio in guerra. Alla prima chiamata montavano prontamente a cavallo, e con un guerriero e magnifico treno si univano ai numerosi corpi di guardie, ch'erano diligentemente scelte tra gli schiavi più robusti, e tra i più coraggiosi venturieri dell'Asia. Questi eserciti di cavalleria, e grave e leggiera, formidabile per l'impeto del primo assalto non meno che per la rapidità delle sue evoluzioni, minacciavano una vicina tempesta alle province orientali del decadente Impero romano[634].

CAPITOLO IX.

Stato della Germania fino all'invasione dei Barbari al tempo dell'Imperatore Decio. Il governo e la religione della Persia hanno meritato qualche riguardo per la loro connessione colla decadenza e rovina dell'Impero romano. Noi faremo accidentalmente menzione delle tribù degli Sciti, e dei Sarmati, che colle loro armi, e co' loro cavalli, con i greggi e gli armenti, colle mogli e famiglie andavano errando per le immense pianure, che si stendono dal mar Caspio alla Vistola, dai confini della Persia a quelli della Germania. Ma i guerrieri Germani, che dopo avere resistito all'occidental monarchia dei Romani, ne divennero gl'invasori, e poi i distruttori, occuperanno un luogo più importante in questa Storia, ed hanno un diritto maggiore, e (se dir si può) più domestico per richiamare la nostra attenzione. Le più civili nazioni della moderna Europa uscirono dalle foreste della Germania, e nelle rozze istituzioni di quei Barbari si possono rintracciar tuttavia gli originali principj delle nostre leggi, e dei nostri costumi presenti. Tacito, il primo tra gli storici che applicasse la filosofia allo studio dei fatti, ha con occhio perspicace considerato i Germani nel loro primo stato di semplicità e d'indipendenza, e gli ha delineati coi soliti tratti del suo eccellente pennello. L'espressiva concisione delle sue descrizioni ha meritato di esercitare la diligenza d'innumerabili antiquarj, e di eccitare l'ingegno e l'acume degli storici filosofici de' nostri giorni. Questo soggetto, benchè vario e importante, è già stato discusso così spesso, così dottamente, e con tanto successo, che è divenuto ormai famigliare al lettore e difficile per lo scrittore. Ci contenteremo pertanto di osservare, o (per meglio dire) di ripetere alcune delle più importanti circostanze del clima, dei costumi, e delle istituzioni, per le quali i rozzi Barbari della Germania divennero nemici tanto formidabili alla potenza romana.

L'antica Germania, escludendo da' suoi indipendenti confini l'occidentale provincia del Reno, che già era soggetta al giogo romano, comprendeva una terza parte dell'Europa. Quasi tutta la moderna Germania, la Danimarca, la Norvegia, la Svezia, la Finlandia, la Livonia, la Prussia, e la maggior parte della Polonia erano popolate dalle diverse tribù di una numerosa nazione, le quali nel colore, nei costumi, e nel linguaggio indicavano una comune origine, e conservavano una forte rassomiglianza. All'occidente il Reno separava l'antica Germania dalle galliche province dell'Impero, e al mezzogiorno il Danubio la dividea dalle illiriche. La catena dei monti Carpazj, che cominciavano dal Danubio, copriva la Germania dalla parte della Dacia, o dell'Ungheria. La frontiera orientale era debolmente segnata dai timori scambievoli dei Germani e dei Sarmati, e spesso confusa per lo mescuglio delle due confinanti nazioni, ora nemiche ed ora confederate. Nella remota oscurità del Settentrione gli antichi descrivevano imperfettamente un gelato Oceano che giace di là del Baltico, e dalla penisola, ovvero dall'isole[635] della Scandinavia.

Alcuni ingegnosi Scrittori[636] hanno sospettato che l'Europa fosse prima molto più fredda di quel che sia di presente, e le più antiche descrizioni del clima della Germania tendono moltissimo a confermare la loro teoria. Poco forse meritano di essere considerate le generali lagnanze d'intenso gelo, e di perpetuo inverno, giacchè non abbiamo un metodo di ridurre all'esatta misura del termometro i sensi o le espressioni di un oratore nato nelle più fortunate regioni della Grecia o dell'Asia. Ma io sceglierò due notevoli e meno equivoche prove. I. I due grandi fiumi, che coprivano le province romane, il Reno ed il Danubio, erano spesso gelati, e capaci di sostenere i pesi più enormi. I Barbari, scegliendo sovente quella rigida stagione per le loro incursioni, passavano senza timore o pericolo, con le loro numerose armate, con la cavalleria e con i pesanti carri sopra un vasto e stabile ponte di ghiaccio[637]. I secoli moderni non ci hanno dato alcun esempio di somigliante fenomeno. II. I Rangiferi, quegli animali sì utili, da cui ricava il Selvaggio del Settentrione i migliori sollievi della sua orrida vita, sono di un temperamento che soffre, anzi richiede il freddo più intenso. Si trovano sugli scogli di Spitzberg, dentro dieci gradi dal polo; sembrano dilettarsi delle nevi della Lapponia e della Siberia; ma adesso non possono vivere, e molto meno moltiplicare, in alcun paese al mezzogiorno del Baltico[638]. Ai tempi di Cesare i Rangiferi, come pure la Gran Bestia ed il toro salvatico, erano naturali della selva Ercinia, che allora occupava una gran parte della Germania e della Polonia[639]. I moderni miglioramenti spiegano abbastanza le cagioni della diminuzione del freddo. A poco a poco si sono abbattuti quei boschi immensi, che toglievano al suolo i raggi solari[640]. Si sono seccate le paludi, ed a proporzione che il terreno è stato coltivato, l'aria è divenuta più temperata. Il Canadà ai giorni nostri è l'esatto quadro dell'antica Germania. Benchè situato sotto il medesimo parallelo colle più belle province della Francia e dell'Inghilterra, soffre quel paese il freddo più rigoroso. Vi sono in gran numero i Rangiferi; la terra è coperta di neve alta e durevole; ed il gran fiume di S. Lorenzo è regolarmente gelato in una stagione, nella quale le acque della Senna e del Tamigi sono ordinariamente sciolte dal ghiaccio[641].

È difficile il determinare, e facile l'ingrandire l'influenza del clima dell'antica Germania sopra gli animi e sopra i corpi dei nazionali. Molti Scrittori hanno supposto, e moltissimi hanno affermato (benchè, per quanto sembra, senza alcuna adeguata prova) che il freddo rigoroso del settentrione fosse favorevole alla lunga vita, ed alla forza generatrice; che le donne vi fossero più feconde, e la specie umana più prolifica, che nei climi più caldi o più temperati[642]. Noi possiamo asserire con maggior confidanza che l'aria pungente della Germania formasse le grandi e maschie membra dei nazionali, i quali erano in generale di una più alla statura, che i popoli del mezzogiorno[643]; e desse loro una specie di forza meglio adatta ai violenti esercizj che alla paziente fatica; ed inspirasse un valor macchinale, che è l'effetto dei nervi e degli spiriti. L'asprezza di una campagna d'inverno, che agghiacciava il coraggio dello truppe romane, veniva appena sentita da quei robusti figli del Settentrione[644], i quali erano a lor volta incapaci di resistere ai calori estivi, e cadevano in languidezza ed infermità sotto i raggi d'un sole d'Italia[645].

Non v'è in tutto il globo un largo tratto di paese, che sia stato scoperto privo d'abitatori, o la cui prima popolazione possa fissarsi con qualche grado di storica certezza. E ciò non ostante, siccome le menti le più filosofiche possono raramente trattenersi dall'investigare l'infanzia delle grandi nazioni, la nostra curiosità si consuma in faticosi ed inutili sforzi. Quando Tacito considerò la purità del sangue germano, e il ributtante aspetto del paese, si determinò a dichiarare Indigeni, ovvero nativi del suolo quei barbari. Possiamo asserire con sicurezza e forse con verità, che l'antica Germania non fu originariamente popolata da alcuna colonia straniera, già unita in società politica[646], ma che il nome e la nazione riceverono l'esistenza dalla lenta unione dei vagabondi selvaggi delle Ercinie foreste. Il sostenere che quei Selvaggi erano una naturale produzione della terra da loro abitata, sarebbe una temeraria dottrina, condannata dalla religione, e non sostenuta dalla ragione.

Un dubbio così ragionevole mal si combina collo spirito della vanità popolare. Le nazioni, che adottarono la storia Mosaica del Mondo, han fatto dell'Arca di Noè quell'uso medesimo che fecero una volta i Greci e i Romani dell'assedio di Troia. Sulla angusta base di quella riconosciuta verità, è stato innalzato un vasto ma uniforme edifizio di favole; ed il rozzo Irlandese[647] non meno che il Tartaro selvaggio[648] potrebbero indicare qual fu tra i figli di Jafet quegli, da' cui lombi direttamente discesero i lor maggiori. L'ultimo secolo fu fertile in dottissimi e creduli antiquarj, i quali colla dubbia scorta delle leggende e delle tradizioni, delle congetture e delle etimologie, condussero i discendenti di Noè dalla torre di Babel fino alle estremità del Globo. Tra que' critici giudiziosi, Olao Rudbeck, professore dell'Università di Upsal[649], è il più dilettevole. Questo zelante cittadino riferisce alla sua patria tutto ciò, che vi ha di celebre nella favola o nella storia. Dalla Svezia (ch'era una parte considerabile della Germania) riceverono i Greci il loro alfabeto, la religione e l'astronomia. Quella amena regione, (che tal pareva agli occhi di un nazionale), avea dato luogo alle deboli ed imperfette copie dell'Atlantide di Platone, del paese degli Iperborei, degli orti Esperidi, delle Isole Fortunate, e dei campi Elisi. Un clima, sì prodigamente favorito dalla natura, non potea rimanere lungo tempo disabitato dopo il diluvio. Il dotto Rudbeck concede alla famiglia di Noè pochi anni per moltiplicare da otto sole persone a ventimila. Li disperde quindi in diverse piccole colonie per popolar la terra e propagare la specie umana. Il distaccamento germano o svezzese (che, se non m'inganno, marciò sotto il comando di Askenaz, figlio di Gomer, figlio di Jafet) si distinse con una straordinaria diligenza nel proseguimento di questa grand'opera. Il settentrionale alveare mandò i suoi sciami nella maggior parte della Europa, dell'Affrica e dell'Asia, e (per servirsi della metafora dell'autore) il sangue tornò indietro dalle estremità al cuore.

Ma tutto questo ingegnoso sistema delle germane antichità è distrutto da un semplice fatto, troppo bene attestato per metterlo in dubbio, e troppo decisivo per dar luogo ad alcuna replica. I Germani ai tempi di Tacito non conoscevano l'uso delle lettere[650]; e l'uso delle lettere è la principale circostanza che distingue una culta nazione da un gregge di Selvaggi, incapaci di scienza o riflessione. Senza questo aiuto artificiale, l'umana memoria perde presto o corrompe le idee affidatele; e le facoltà più nobili della mente, non più aiutate dagli esempj o dai materiali, perdono a poco a poco la loro attività: l'intendimento divien debole ed assopito, l'immaginazione languida o irregolare. Per meglio comprendere una verità sì importante, procuriamo di calcolare, in una società incivilita, l'immensa distanza, che passa tra l'uomo scienziato, ed il contadino ignorante. Il primo, con la lettura e con la riflessione, moltiplica la sua propria esperienza, e vive in secoli ed in paesi remoti; mentre il secondo, attaccato ad un sol pezzo di terra, è confinato a pochi anni di esistenza, e supera, ma molto poco, nell'esercizio delle facoltà della mente, il bove compagno di sue fatiche. Si troverà la medesima differenza, e forse ancora più grande, fra le nazioni che fra gl'individui; e si può con sicurezza asserire, che senza qualche genere di scrittura niun popolo ha mai conservato i fedeli annali della sua storia, nè fatti progressi considerabili nelle scienze astratte, nè mai posseduto in un grado tollerabile di perfezione le arti utili, o dilettevoli per la vita.

Di queste arti erano miseramente privi gli antichi Germani. Passavano la vita nello stato d'ignoranza e di povertà, che alcuni declamatori si sono compiaciuti di decorare col nome di virtuosa semplicità. La moderna Germania si dice contenere quasi duemila trecento città cinte di mura[651]. In una più vasta estensione di paese, il geografo Tolomeo non potè discoprire più di novanta luoghi, ch'ei decorò col nome di città[652]; quantunque (secondo le nostre idee) mal meritassero quello splendido titolo. Si può soltanto supporre che fossero informi fortezze, costruite nel centro dei boschi, e destinate a porre in sicuro le donne, i ragazzi, ed il bestiame, nel tempo che i guerrieri delle tribù uscivano fuori a respingere un'improvvisa invasione[653]. Ma Tacito asserisce, come fatto ben noto, che i Germani dell'età sua non aveano città[654]; ed affettavano di sprezzare le opere dell'industria romana, come luoghi piuttosto di prigionia che di sicurezza[655]. Le loro case non erano nè contigue, nè distribuite in regolari villaggi[656]; ogni Barbaro fissava la sua indipendente abitazione nel sito, al quale una pianura, un bosco, o una sorgente di acqua dolce lo aveva indotto a dare la preferenza. In quei deboli abituri non s'impiegavano pietre, nè mattoni, nè tegole[657]. Non erano di fatto più che basse capanne di circolare figura, fabbricate di rozzo legno, coperte di strame, e aperte in cima per lasciare un passo libero al fumo. Nel più rigido inverno il duro Germano si contentava d'uno scarso vestito, fatto della pelle di qualche animale. Le nazioni che abitavano verso il Settentrione si coprivano di pellicce; e le donne si facevano per loro uso le vesti di un lino assai rozzo[658]. La cacciagione di varie sorte, di cui eran piene le foreste della Germania, serviva a nutrire ed esercitare i suoi abitatori[659]. I loro numerosi bestiami, più utili in vero che belli[660], formavano la loro ricchezza principale. Una piccola quantità di grano era il solo prodotto di quelle contrade. L'uso dei prati e degli orti era sconosciuto ai Germani; nè si poteva sperare alcun progresso nell'agricoltura da un popolo, le cui possessioni soffrivano ogni anno una generale mutazione per la nuova divisione delle terre arative; e che in quella strana operazione evitava le dispute, lasciando una gran parte de' terreni nuda ed inculta[661].

L'oro, l'argento, ed il ferro erano rarissimi nella Germania. I suoi barbari abitatori non avevano nè abilità, nè pazienza per investigare quelle ricche vene di argento, che hanno ricompensata sì generosamente l'attenzione dei Principi di Brunswich e della Sassonia. La Svezia, che ora dispensa il ferro all'Europa, non conosceva neppur essa le proprie ricchezze; e l'aspetto dell'armi dei Germani era una prova bastante della piccola quantità di ferro, ch'essi poteano impiegare nell'uso da loro creduto il più nobile di questo metallo. I varj trattati di pace e di guerra aveano introdotto alcune monete romane (specialmente d'argento) tra gli abitanti delle rive del Danubio e del Reno; ma le tribù più remote ignoravano affatto l'uso della moneta, faceano il lor piccolo traffico con il cambio delle merci, e tanto stimavano i rozzi lor vasi di terra, quanto quelli di argento, che i loro Principi, ed Ambasciatori riceveano in dono da Roma[662]. Uno spirito riflessivo ricaverà maggiore istruzione da quegli fatti principali, che da una tediosa serie di minuti racconti. Il valore della moneta è stato istituito dal generale consenso per rappresentare i nostri bisogni ed i nostri beni, come le lettere furono inventate per esprimere le nostre idee; ed ambedue queste istruzioni dando alle potenze e alle passioni degli uomini una più attiva energia, hanno contribuito a moltiplicare gli oggetti cui furono destinate a rappresentare. L'uso dell'oro e dell'argento è in gran parte fattizio; ma sarebbe impossibile di enumerare i diversi ed importanti vantaggi che l'agricoltura e tutte le arti hanno ricevuti dal ferro temperato e manipolato dal fuoco e dalla industriosa mano dell'uomo. La moneta, in una parola, è l'incitamento più universale; ed il ferro è il più potente strumento dell'industria umana; ed è molto difficile di concepire come un popolo non animato dal primo, nè secondato dall'altro, sorger potesse fuori dalla più rozza barbarie[663].

Se contempliamo una nazione selvaggia in qualunque parte del Globo, vedremo che il suo carattere generale è una supina indolenza e non curanza dell'avvenire. In uno Stato civile l'uomo esercita ed estende ogni sua facoltà; e la gran catena dei bisogni scambievoli lega ed unisce i diversi membri della società. La maggior parte di essa è impiegata in lavori perseveranti ed utili. Quei pochi che la fortuna ha messi al di sopra della necessità, possono per altro occuparsi nel cercar l'interesse o la gloria, nel migliorare il loro patrimonio o il loro intelletto, nei doveri, nei piaceri, e nelle follìe ancora della vita sociale. Non aveano i Germani tanti compensi. I vecchi e i malati, le donne e gli schiavi tenevano il governo della casa e della famiglia, e la cura delle terre e degli armenti. Gli oziosi guerrieri, privi d'ogn'arte che potesse impiegare le ore loro disoccupate, passavano i giorni e le notti negli animaleschi piaceri del sonno e del cibo. E ciò nonostante, per una maravigliosa contrarietà di natura (secondo l'osservazione di uno Scrittore che è penetrato ne' più oscuri di lei recessi) i Barbari stessi sono a vicenda i più indolenti, e più attivi degli uomini. Amano la pigrizia, detestano la tranquillità[664]. L'anima illanguidita ed oppressa dal suo proprio peso, ansiosamente ricercava qualche nuova e forte sensazione; e la guerra e pericoli erano i soli trattenimenti adeguati al loro fiero temperamento. La tromba che invitava il Germano alle armi, era grata alle orecchie di lui. Lo scuoteva dal suo tristo letargo, gli dava un attivo vigore, e col forte esercizio del corpo, e colle scosse violente dell'animo, ravvivava in esso il sentimento della propria esistenza. Negli oziosi intervalli di pace, quei Barbari s'abbandonavano con eccesso al giuoco ed al bere: e queste due occupazioni, la prima infiammando le loro passioni, l'altra estinguendo la loro ragione, egualmente li liberavano dalla pena di pensare. Si vantavano di passare gl'interi giorni e le notti alla mensa; ed il sangue degli amici e dei parenti spesso macchiava le numerose loro e intemperanti assemblee[665]. Pagavano i loro debiti di onore (giacchè in questo aspetto ci hanno trasmesso l'uso di soddisfare quelli del giuoco) con la più romanzesca esattezza[666]. Il disperato giuocatore, che aveva arrischiato la sua vita e la sua libertà ad un ultimo tiro di dado, ubbidiva con pazienza alla decisione della fortuna, e soffriva di essere legato, castigato, e venduto schiavo in luoghi remoti dal suo più debole, ma più fortunato avversario.

La birra gagliarda, liquore estratto con pochissimo artifizio dal grano, o dall'orzo, e corrotto (secondo la forte espressione di Tacito) ad una certa somiglianza col vino, bastava alle grossolane dissolutezze dei Germani. Ma quelli che avevano gustati i preziosi vini dell'Italia, e poi delle Gallie, sospiravano per quella più deliziosa sorgente di ubbriachezza. Non tentarono per altro (come dopo è stato eseguito con tanto successo) di far germogliare le viti sulle rive del Danubio e del Reno; nè procurarono di acquistare con l'industria i materiali di un vantaggioso commercio. Il procacciarsi con la fatica ciò che rapir si poteva con le armi, si riputava cosa indegna di uno spirito Germano[667]. L'inestinguibile sete di liquori forti spesso costrinse quei Barbari ad invadere quelle province, alle quali la natura o l'arte aveva accordati quei tanto invidiati doni. Il Toscano, che abbandonò la sua patria alle celtiche nazioni, le attrasse in Italia col bell'aspetto dei preziosi frutti, o dei deliziosi vini, produzioni di un clima più fortunato[668]. E nella stessa maniera i Germani ausiliarj, chiamati in Francia nelle guerre civili del sedicesimo secolo, furono allettati dalla promessa di avere abbondanti quartieri nelle province della Sciampagna e della Borgogna[669]. L'ubbriachezza, il più vile, ma non il più pericoloso dei nostri vizj, fu qualche volta capace di eccitare una battaglia, una guerra, o una rivoluzione tra gli uomini in uno Stato inferiore di civiltà.

Il lavoro di dieci secoli, dal tempo di Carlo Magno in poi, ha raddolcito il clima dell'antica Germania, e fertilizzato il terreno. La medesima estensione di paese che adesso mantiene nell'agio e nell'abbondanza un milione di agricoltori e di artefici, non era prima capace di fornire a centomila oziosi guerrieri le sole cose necessario alla vita[670]. I Germani lasciavano le loro immense foreste per l'esercizio della caccia, impiegavano nei pascoli la maggior parte de' loro terreni, davano una rozza e indolente cultura al piccolo resto, ed accusavano poi la scarsezza e la sterilità di un paese, che non bastava a mantenere la moltitudine dei suoi abitatori. Quando il ritorno della carestia severamente gli avvertiva della necessità delle arti, la nazionale miseria s'alleggeriva talvolta con l'emigrazione di una terza, e forse di una quarta parte della sua gioventù[671]. Il possesso ed il godimento di un patrimonio sono i vincoli che ritengono un popolo incivilito in un paese culto. Ma i Germani, che seco loro portavano ciò che più stimavano, le armi, il bestiame, e le donne, abbandonarono con piacere il vasto silenzio dei loro boschi per le illimitate speranze di preda e di conquista. Gl'innumerabili sciami, che uscirono, o parvero uscire dal grande alveare delle nazioni, furono moltiplicati dal timore dei vinti, e dalla credulità dei secoli successivi. E sopra fatti così esagerati, a poco a poco si stabilì l'opinione sostenuta da varj scrittori di riputazione distinta, che nel secolo di Cesare e Tacito gli abitanti del Settentrione erano molto più numerosi che non lo sono a' dì nostri[672]. Un più serio esame sulle cause della popolazione pare che abbia convinto i moderni filosofi della falsità, anzi dell'impossibilità di questa supposizione. Ai nomi di Mariana e di Macchiavello[673], possiamo opporre i non meno illustri nomi di Robertson e di Hume[674].

Una nazione bellicosa come i Germani, senza città, lettere, arti, o moneta, trovava qualche compenso a questo stato selvaggio nel godimento della libertà. La loro povertà ne assicurava la indipendenza, giacchè i nostri desiderj e i nostri possessi sono le più forti catene del dispotismo. «Tra i Suioni,» dice Tacito, «i ricchi vengono onorati: Sono però soggetti ad un assoluto monarca, che invece di permettere al suo popolo il libero uso delle armi, come si pratica nel resto della Germania, le confida alla sicura custodia non di un cittadino, o di un liberto, ma di uno schiavo. I Sitoni, vicini dei Suioni, oppressi dalla servitù, obbediscono ad una donna[675] ». Nel riferire queste eccezioni, quel grande Storico riconosce bastantemente la generale teoria del Governo. Quello che non possiamo concepire, è come le ricchezze e il dispotismo penetrassero in una remota contrada del Settentrione, ed estinguessero la generosa fiamma che ardeva con tanto vigore sulla frontiera delle province romane; o come gli antenati di quei Danesi e Norvegi, così illustri nei secoli successivi pel loro indomabile spirito, potessero abbandonare così tranquillamente il gran carattere della germana libertà[676]. Alcune tribù per altro, sulle coste del Baltico, riconoscevano l'autorità dei Re, ma senza rinunziare ai diritti degli uomini[677]; nella maggior parte della Germania però il Governo era una democrazia moderata, e frenata non tanto dalle leggi generali e positive, quanto dall'accidentale ascendente della nascita o del valore, dell'eloquenza o della superstizione[678].

I Governi civili nella loro prima istituzione sono volontarie confederazioni per difesa scambievole. Per ottenere il fine desiderato, è assolutamente necessario che ogni individuo si creda obbligato a sottoporre la sua opinione e le sue azioni private al giudizio del maggior numero de' suoi compagni. Le Tribù germane eran contente di un rozzo, ma non servile abbozzo di politica società. Appena che un giovane, nato da genitori liberi, era giunto all'età virile, veniva introdotto nel Consiglio generale de' suoi concittadini, solennemente armato di uno scudo e di una lancia, e adottato come uguale e degno membro di quella militare repubblica. L'assemblea dei guerrieri della tribù si convocava in certi tempi stabiliti, o nelle subite emergenze: si decideva dal suo voto inappellabile il processo delle pubbliche offese, l'elezione dei magistrati, e il grande affare della pace e della guerra. Talora però queste importanti questioni erano previamente esaminate, e preparate in un più scelto consiglio dei principali capitani[679]. I Magistrati potevano deliberare e persuadere; il popolo solo potea risolvere od eseguire; e le risoluzioni dei Germani erano quasi sempre pronte e violente. Quei Barbari, avvezzi a far consistere la libertà nel soddisfare la presente passione, ed il coraggio nel disprezzare tutte le conseguenze future, rigettavano con isdegnoso disprezzo le rappresentanze della giustizia e della politica, e solevano dimostrare con un cupo bisbiglio la loro avversione pe' timorosi consigli. Ma qualora un più gradito oratore proponeva di vendicare l'infimo cittadino di una offesa straniera o domestica, qualora esortava i suoi concittadini a sostenere l'onore della nazione, o ad abbracciare un'impresa piena di pericolo e di gloria, un alto strepito di scudi e di lance esprimeva l'ardente applauso dell'assemblea. I Germani, di fatto, si radunavano armati; ed era sempre da temersi, che una sfrenata moltitudine, infiammata dalla fazione e dai forti liquori, non si servisse di quelle armi per dichiarare o per avvalorare le sue furiose risoluzioni. Ricordiamoci quanto spesso le Diete della Polonia sono stato macchiate di sangue, ed il partito più numeroso è stato costretto a cedere al più violento e sedizioso[680].

Si eleggeva un Generale della tribù all'occasione d'un pericolo; e se questo era pressante ed esteso, diverse tribù concorrevano nella scolta del medesimo Generale. Il guerriero più prode era nominato a guidare nel campo i suoi concittadini più coll'esempio, che col comando. Ma questo potere, benchè ristretto, era sempre invidiato. Finiva con la guerra; e in tempo di pace le germane tribù non riconoscevano alcun Capo supremo[681]. Si creavano però nella generale assemblea alcuni Principi, per amministrar la giustizia, o piuttosto per comporre le liti[682] nei loro rispettivi distretti. Nella scelta di questi magistrati si aveva riguardo alla nascita come al merito[683]. Il Pubblico dava a ciascuno di essi una guardia e un Consiglio di cento persone; e sembra che il primo di questi Principi godesse una preeminenza di grado e di onore, per la quale furono talora tentati i Romani di salutarlo col titolo regio[684].

Il solo paragone della diversa autorità dei magistrati, in due importanti articoli, basta per esporre tutto il sistema dei costumi della Germania. Da loro assolutamente dipendeva la distribuzione dei terreni situati ne' rispettivi distretti, distribuzione ch'essi facevano ogni anno secondo una nuova divisione[685]. Ma nel tempo stesso, non potevano essi nè punir con la morte, nè imprigionare, nè tampoco percuotere un cittadino privato[686]. Popoli tanto gelosi delle loro persone, e sì poco dei loro beni, devono essere stati affatto privi dell'industria e delle arti, ma animati da un sentimento profondo di onore e d'indipendenza.

I Germani rispettavano quei doveri soltanto, che s'imponevano da se stessi. Il più oscuro soldato resisteva con disprezzo all'autorità dei magistrati. «I più nobili giovani non arrossivano di essere contati tra i fedeli compagni di qualche illustre Capo, al quale consacravano le loro armi ed i loro servigi. Regnava tra questi compagni una nobile emulazione di ottenere il primo posto nella stima del loro Capo, e tra i Capi, di acquistare il numero maggiore di valorosi compagni. L'ambizione e la forza dei Capi consisteva nell'essere sempre accompagnati da una truppa di scelti giovani, loro ornamento in pace, e loro difesa in guerra. La gloria di eroi così illustri si diffondeva oltre gli angusti confini della loro propria tribù. Con regali e con ambasciate si ricercava la loro amicizia; e la fama delle loro armi assicurava sovente la vittoria a quel partito ch'essi abbracciavano. Nell'ora del pericolo era vergogna pel Capo l'essere superato in valore da' suoi compagni; e per questi era vergogna il non eguagliare il valore del loro Capo. Il sopravvivere alla caduta di lui nella battaglia, era una eterna infamia. Il più sacro de' loro doveri stava nel proteggere la persona e adornare la gloria di lui con i trofei delle proprie geste. I Capi combattevano per la vittoria, i compagni pel Capo. I più nobili guerrieri, quando il loro paese nativo era immerso nell'ozio della pace, mantenevano le numerose lor truppe in qualche remota scena d'azione, per esercitarne l'instancabil coraggio, ed acquistar fama in quei volontarj pericoli. Il feroce destriero, la sanguinosa ed invitta lancia, doni ben degni di un soldato, erano le ricompense, che i compagni esigevano dalla liberalità del loro Capo. La rustica abbondanza della sua mensa ospitale era l'unica paga ch'egli potesse accordare, e ch'essi volessero ricevere. La guerra, la rapina, e le volontarie offerte de' suoi amici fornivano i materiali di tale munificenza[687].» Questa istituzione, per quanto potesse accidentalmente indebolire le diverse repubbliche dei Germani, invigoriva però il generale carattere della nazione, e conduceva ancora a maturità tutte le virtù, delle quali i Barbari sono capaci, la fede, l'ospitalità e la cortesia, virtù tanto cospicue, gran tempo dopo, nei secoli della cavalleria. Un ingegnoso scrittore ha supposto, che gli onorevoli doni largiti dal Cupo ai suoi valorosi compagni, contengano i primi rudimenti dei feudi, distribuiti dopo la conquista delle province romane dai barbari Signori ai loro vassalli, con un obbligo somigliante di militar servigio ed omaggio[688]. Queste condizioni sono però ripugnanti alle massime degli antichi Germani, che si facevano con piacere doni scambievoli, ma senza imporre o ricevere il peso delle obbligazioni[689].

«Al tempo della cavalleria, o per meglio dire dei romanzi, tutti gli uomini erano valorosi, tutte le donne eran caste»; e benchè quest'ultima virtù si conservi con maggiore difficoltà della prima, viene per altro attribuita, quasi senza eccezione, alle mogli degli antichi Germani. Non era in uso la poligamia che tra i Principi, e questa soltanto per moltiplicare le loro parentele. I costumi più che le leggi proibivano i divorzi. Gli adulteri venivano puniti come delitti rari ed inespiabili; nè l'esempio o la moda[690] giustificava la seduzione. Facilmente si vede che Tacito si lancia trasportare dall'onesto piacere di mostrare il contrasto della barbarica virtù con la dissoluta condotta delle dame romane, ma pure vi sono alcune circostanze molto notevoli, che danno un'aria di verità, o almeno di probabilità, alla fede e castità coniugale dei Germani.

Benchè il progresso della cultura abbia indubitatamente contribuito a raddolcire le più fiere passioni della natura umana, sembra però che sia stato men favorevole alla virtù della castità, il cui più pericoloso nemico è la mollezza dell'animo. I raffinamenti della vita corrompono, mentre rendono più gentile la corrispondenza dei due sessi. Il grossolano appetito dell'amore diviene più pericoloso, quando è sublimato, o piuttosto in verità mascherato dal sentimento. L'eleganza del vestire, dei modi, e dei costumi da un risalto alla bellezza, ed infiamma i sensi per via della immaginazione. Liberi discorsi, balli notturni, e licenziosi spettacoli presentano la tentazione e lo occasioni alla fragilità femminile[691]. La povertà, la solitudine, e le penose cure della vita domestica assicuravano da tali pericoli le rozze mogli de' Barbari. Le capanne germane, da per tutto aperte all'occhio della indiscretezza o della gelosia, custodivano meglio la fedeltà coniugale, che non le mura, i chiavistelli, e gli eunuchi di un serraglio persiano. A questa ragione un'altra se ne può aggiugnere di più onorevol natura. I Germani trattavano le loro mogli con istima e confidenza; le consultavano in ogni importante occasione, e ciecamente credevano che risedesse nei loro petti una santità e prudenza sovrumana. Alcune di queste, interpreti del fato, come Velleda nella guerra dei Batavi, governavano a nomo della Divinità le più feroci nazioni della Germania[692]. Le altre, senza essere adorate come Dee, erano rispettate come libere ed uguali compagne dei soldati; associate ancora dalla cerimonia del matrimonio ad una vita piena di fatica, di pericolo, e di gloria[693]. Nelle loro grandi invasioni, il campo dei Barbari era ripieno di una moltitudine di donne che stavansi ferme ed intrepide in mezzo al suono delle armi, ai diversi aspetti della distruzione, ed alle gloriose ferite dei loro figli e mariti[694]. Più di una volta i fuggitivi Germani sono stati ricondotti contro il nemico dalla generosa disperazione delle donne, più atterrite dalla schiavitù che dalla morte. Se la battaglia era irreparabilmente perduta, sapevan bene con le proprie mani liberare se stesse ed i figli dagl' insulti del vincitore[695]. Eroine di questa tempra meritano, è vero, la nostra ammirazione, ma sicuramente non erano nè amabili, nè molto capaci di amore. Affettando di emulare le fiere virtù degli uomini, doveano avere rinunziato a quella seducente dolcezza, nella quale principalmente consiste l'incanto e la debolezza della donna. Il proprio orgoglio aveva avvezzate le donne germane a sopprimere ogni tenera commozione contraria al loro onore, ed il primo onore del sesso è sempre stata la castità. I sentimenti, e la condotta di quelle coraggiose matrone possono essere considerati nel tempo medesimo come una causa, un effetto, e una prova del carattere generale della nazione. Il coraggio femminile, per quanto sia animato dal fanatismo, o confermato dall'abito, non può essere che una debole ed imperfetta imitazione del valore degli uomini, che illustrano il secolo, od il paese, nel quale essi vivono.

Il sistema religioso dei Germani (se pur le rozze opinioni dei selvaggi meritano questo nome) era dettato dai loro bisogni, dai loro timori, e dalla loro ignoranza[696]. Adoravano i grandi oggetti visibili ed agenti della natura, il Sole e la Luna, il Fuoco e la Terra, insieme con quelle immaginarie divinità, le quali si supponevano presedere alle più importanti occupazioni dell'umana vita. Erano persuasi di potere, colle ridicole arti della divinazione, indagare la volontà degli enti superiori, e credevano che i sacrifizj umani fossero le più preziose o gradite offerte ai loro altari. È stato con troppa fretta fatto applauso alla sublime idea, che quei popoli avevano della divinità, non confinata da loro dentro le mura di un tempio, nè rappresentata sotto alcuna figura umana; ma quando si riflette che i Germani erano imperiti nell'architettura, ignoranti affatto nella scultura, presto trovasi la vera ragione di uno scrupolo, derivante non tanto da superiorità d'intelletto, quanto da mancanza d'ingegno. I soli tempj della Germania erano gli oscuri ed antichi boschi, consacrati dalla venerazione di varie generazioni. Il loro tenebroso silenzio, l'immaginaria residenza di un invisibil potere, non presentando alcun distinto oggetto di terrore o di adorazione, imprimea nella mente un profondo sentimento di orrore religioso[697]; ed i sacerdoti, rozzi ed ignoranti com'erano, avevano appreso dall'esperienza l'uso di tutti quegli artifizj, che potessero conservare e fortificare impressioni sì convenienti al loro proprio interesse.

La stessa ignoranza, che rende i Barbari incapaci di comprendere il bene, o di accettare l'utile freno delle leggi, gli espone nudi e disarmati ai ciechi terrori della superstizione. I sacerdoti germani, aumentando questa favorevole disposizione dei loro concittadini, avevano usurpata, anche negli affari temporali, una giurisdizione, che i Magistrati non avrebbero ardito di esercitare, ed il superbo guerriero pazientemente si sottoponeva alla sferza della correzione, quando veniva non da alcuna potenza umana, ma dall'ordine immediato del Dio della guerra[698]. Ai difetti della politica civile suppliva talora l'interposizione della sacerdotale autorità. L'ultima era costantemente impiegata a mantenere il silenzio e la decenza nelle assemblee popolari; e si estendeva talvolta ad interessi più importanti per la pubblica prosperità. Fu per qualche casuale circostanza fatta una solenne processione nei paesi or conosciuti sotto i nomi di Meclenburgo e di Pomerania. L'ignoto simbolo della Terra, coperto con un denso velo, fu posto sopra un carro tirato dalle vacche; e in questa guisa la Dea, che risedeva ordinariamente nell'isola di Rugen, visitò le diverse circonvicine Tribù de' suoi adoratori. Durante il suo viaggio fu acchetato ogni rumore di guerra, le discordie rimasero sospese, le armi deposte: e gl'inquieti Germani ebbero l'occasione di godere i beni della pace e della concordia[699]. La tregua di Dio, così spesso e così inutilmente proclamata dal clero dell'undecimo secolo, era un'ovvia imitazione di quell'antica usanza[700].

Ma l'influenza della religione era molto più capace d'infiammare, che di moderare le feroci passioni dei Germani. L'interesse ed il fanatismo spesso mossero i suoi ministri a santificare le più temerarie ed ingiuste imprese coll'approvazione del Cielo, e colle promesse di un felice successo. Le sacre insegne lungamente venerate ne' boschi della superstizione, erano messe alla fronte della battaglia[701]; e l'esercito nemico veniva consacrato con orribili imprecazioni agli Dei della guerra e del fulmine[702]. Nella credenza dei soldati (e tali erano i Germani) la codardia è il più imperdonabile di tutti i peccati. Un uomo coraggioso era il degno favorito delle loro marziali divinità; lo sciagurato, che aveva perduto il suo scudo, era bandito dalle religiose e dalle civili assemblee dei suoi concittadini. Sembra che alcune Tribù settentrionali avessero abbracciata la dottrina della trasmigrazione[703], ed altre immaginato un materiale paradiso di perpetua ubbriachezza[704]. Tutte però convenivano che la vita spesa nell'armi, ed una gloriosa morte in battaglia erano i migliori preparativi per un felice avvenire in questo, ed in un altro Mondo.

L'immortalità così vanamente promessa dai sacerdoti, era in qualche modo conferita dai Bardi. Questo ordine singolare d'uomini ha meritamente occupata l'attenzione di tutti coloro, che hanno tentato d'investigare le antichità dei Celti, degli Scandinavi, e dei Germani. Il loro genio ed il loro carattere, come ancora la venerazione portata al loro importante uffizio, sono state bastantemente illustrate. Ma non si può con eguale facilità esprimere, e neppur concepire l'entusiasmo di armi e di gloria, ch'essi accendevano nel petto dei loro uditori. Tra un popolo culto, il gusto per la poesia è piuttosto un trattenimento della fantasia, che una passione dell'animo. Pure, quando in un tranquillo ritiro si rileggono le battaglie descritte da Omero e dal Tasso, siamo insensibilmente sedotti dalla finzione, e proviamo un momentaneo trasporto di ardor militare. Ma quanto mai debole, e quanto fredda è mai la sensazione, che da uno studio solitario può ricevere un animo quieto! Nel momento della battaglia, o nella allegrezza della vittoria, celebravano i Bardi la gloria degli antichi Eroi, antenati di quei bellicosi capitani, che ascoltavano con trasporto le loro semplici, ma animate canzoni. La vista delle armi o del pericolo ingrandiva gli effetti del canto militare; e le passioni, che si volevano con quello eccitare, la sete di gloria, e il disprezzo della morte, erano gli abituali sentimenti di un animo germano[705].

Tale la condizione, e tali erano i costumi degli antichi Germani. Il loro clima, la loro ignoranza delle scienze, delle arti e delle leggi, le loro idee di onore, di valore e di religione, il sentimento di libertà, l'avversione alla pace, e la sete di nuove imprese, tutto in somma contribuì a formare un popolo di Eroi militari. Ma nonostante si vede che per più di dugento cinquanta anni, che passarono dalla disfatta di Varo al regno di Decio, questi Barbari formidabili fecero pochi considerabili tentativi, e niuna riguardevole impresa contro le dissolute o schiave province dell'Impero. Il loro progresso fu impedito dalla mancanza d'armi e di disciplina, ed il loro furore divertito dalle intestine discordie dell'antica Germania.

I. È stato ingegnosamente osservato e non senza verità, che una nazione padrona del ferro, diventa ben presto padrona dell'oro. Ma le selvagge Tribù della Germania, prive ugualmente d'ambidue questi stimabili metalli, erano ridotte a lentamente acquistare colla non secondata lor forza il possesso dell'uno o dell'altro. L'aspetto di un esercito di Germani mostrava la penuria che avevano di ferro. Di rado poterono far uso delle spade e delle lance più lunghe. Le loro framee (come essi nella lor lingua le nominavano) erano lunghe aste, che in cima aveano un'acuta e stretta punta di ferro, e ch'essi, secondo l'occasione, o lanciavano da lontano, o maneggiavano combattendo a corpo a corpo. La loro cavalleria non aveva altre armi, che quest'asta e uno scudo. Una moltitudine di dardi scagliati con incredibile forza[706] era quel di più che avesse l'infanteria. L'abito militare, quando pure l'avevano, altro non era che uno sciolto mantello. Una varietà di colori era l'unico ornamento dei loro scudi, fatti di legno o di giunco. Pochi tra i Capi erano distinti dalla corazza, e niuno quasi dall'elmo. Benchè i cavalli della Germania non fossero nè belli, nè veloci, nè avvezzi alle artificiose evoluzioni della cavalleria romana, contuttociò parecchie di quelle nazioni furono rinomate per la loro cavalleria; ma generalmente la principale forza dei Germani consisteva nell'infanteria[707] che si ordinava in profonde colonne, secondo la distinzione delle tribù e delle famiglie. Impazienti della fatica o dell'indugio questi guerrieri mezzo armati correvano alla battaglia con dissonanti strida e in disordinate file; e talvolta collo sforzo del valor naturale superavano la forzata e più artificiale bravura dei mercenarj romani. Ma siccome i Barbari perdevano tutto il loro vigore nel primo assalto, non sapevano nè come riordinarsi, nè come ritirarsi. Una resistenza improvvisa cagionava la loro disfatta; e la disfatta era quasi sempre una total distruzione. Quando noi riflettiamo all'intera armatura dei soldati romani, alla loro disciplina, agli esercizj, all'evoluzioni, ai campi fortificati, e alle macchine militari, restiamo giustamente sorpresi, che il nudo e non assistito valore dei Barbari osasse incontrare in campo la forza delle legioni, e delle diverse truppe ausiliarie, che secondavano le loro operazioni. Troppo fu ineguale il conflitto, finchè il lusso non ebbe snervato il vigore degli eserciti romani, e lo spirito di disubbidienza e di sedizione non n'ebbe corrotta la disciplina. L'introduzione dei Barbari ausiliarj in quelle armate fu un passo accompagnato da molti ovvj pericoli, giacchè così poterono i Germani a poco a poco istruirsi nelle arti della guerra e della politica. Benchè vi fossero ammessi in piccol numero e con le maggiori precauzioni, l'esempio di Civile fu proprio a convincere i Romani che il pericolo non era immaginario, e che le loro precauzioni non erano sempre bastanti[708]. Nelle guerre civili, che seguitarono la morte di Nerone, quell'artificioso ed intrepido Batavo, che i suoi nemici medesimi paragonarono ad Annibale ed a Sertorio[709], formò un gran disegno di libertà e di ambizione. Otto coorti batave, rinomate nelle guerre della Britannia e dell'Italia, corsero sotto il di lui stendardo. Egli condusse un'armata di Germani nella Gallia, fece abbracciare il suo partito alle potenti città di Treveri e di Langres, disfece le legioni, distrusse i loro campi fortificati, ed impiegò contro i Romani quella scienza militare, ch'egli aveva acquistata nel loro servizio. Quando finalmente, dopo una ostinata resistenza, cedè al potere dell'Impero, Civile assicurò sè stesso e la patria con un trattato onorevole. I Batavi continuarono sempre ad occupare le isole del Reno[710], come alleati, non come schiavi della Monarchia romana.

II. La forza dell'antica Germania par formidabile, quando consideriamo gli effetti che gli uniti sforzi della medesima avrebbero potuto produrre. Quella vasta estensione di paese potea contenere un milione di guerrieri, giacchè chiunque v'era in età di portar le armi, era ancora disposto ad usarle. Ma questa feroce moltitudine, incapace di concertare, o di eseguire alcun piano di grandezza nazionale, veniva agitata da diverse e spesso nemiche fazioni. La Germania era divisa in più di quaranta Stati indipendenti; ed in ciascuno di questi Stati ancora l'unione delle diverse tribù era assai debole o precaria. Questi Barbari facilmente si sdegnavano; non sapevano dimenticare un'ingiuria, e molto meno un insulto; i loro risentimenti erano sanguinosi ed implacabili. Le casuali contese, che sì spesso insorgevano nelle loro tumultuose compagnie, o cacciando o bevendo, erano bastanti ad accendere gli animi d'intere nazioni; la privata nimicizia di due considerabili capitani si diffondeva tra i loro seguaci ed i loro alleati. Il castigare gl'insolenti, il saccheggiar gl'indifesi erano eguali motivi di far la guerra. Gli Stati più formidabili della Germania si studiavano di circondare i loro territorj con una larga frontiera di solitudine e di devastazione. Così quella spaventosa distanza gli assicurava dai loro vicini, attestava il terrore delle loro armi, e in qualche modo li difendeva dal pericolo d'inaspettate incursioni[711].

«I Bruteri (è Tacito che parla) furono totalmente esterminati dalle vicine tribù[712], provocate dalla loro insolenza, lusingate dalla speranza del bottino, e forse inspirate dai Numi tutelari dell'Impero. Quasi sessantamila Barbari furon distrutti non dall'armi romane, ma sotto i nostri occhi, e per darci un grato spettacolo. Così le nazioni nemiche di Roma conservino sempre fra loro questa scambievole inimicizia. Noi siamo giunti al colmo della prosperità[713], ed altro non ci resta ad implorare dalla fortuna, che le discordie dei Barbari[714].» Questi sentimenti men degni dell'umanità, che del patriottismo di Tacito, mostrano le invariabili massime di politica de' suoi concittadini. Consideravan eglino più sicuro espediente il dividere, che il combattere quei Barbari, dalla disfatta dei quali non potean ritrarre nè onor nè vantaggio. Il danaro e gli artifizj di Roma penetravano nel cuore della Germania; e col giusto decoro si metteva in opera ogni seduzione per conciliarsi quei popoli, che la lor vicinanza al Danubio ed al Reno potea rendere utilissimi amici, o nemici pericolosissimi. I Capi rinomati e potenti erano adulati co' più frivoli doni, ch'essi ricevevano o come segni di distinzione, o come strumenti di lusso. Nelle civili dissensioni la fazione più debole procurava di avvalorare la sua causa unendosi secretamente coi governatori delle confinanti province. Ogni discordia fra i Germani era fomentata dagl'intrighi di Roma; ed ogni disegno di unione e di pubblico bene veniva sconcertato dalla forza maggiore della gelosia e dell'interesse privato[715].

La generale congiura, che atterrì i Romani sotto il regno di Marco Antonino, comprendeva quasi tutte le nazioni della Germania e fino della Sarmazia, dalla foce del Reno a quella del Danubio[716]. E impossibile di stabilire se questa precipitosa confederazione fu formata dalla necessità, dalla ragione, o dalla passione, ma siamo sicuri che i Barbari non furono allettati dall'indolenza, nè provocati dall'ambizione del Monarca romano. Questa pericolosa invasione richiese tutta l'intrepidezza e vigilanza di Marc'Aurelio. Egli pose Generali molto esperti nei diversi posti d'attacco, e prese in persona il comando dell'armi nella più importante provincia del Danubio superiore. Dopo un lungo e dubbioso conflitto il coraggio di quei Barbari fu domato, I Quadi ed i Marcomanni[717], che si erano fatti i capi della guerra, furono in quella catastrofe più degli altri severamente puniti. Vennero costretti a ritirarsi cinque miglia[718] dalle rive del Danubio, ch'essi abitavano, e a dare in ostaggio il fiore de' loro giovani, i quali furono immediatamente mandati nella Britannia, isola remota, dove potessero essere sicuri come ostaggi, ed utili come soldati[719]. Irritato l'Imperatore per le frequenti ribellioni dei Quadi e dei Marcomanni, si risolvè di ridurre il lor paese in Provincia. La morte sconcertò i suoi disegni. Questa lega formidabile, la sola che comparisca nei due primi secoli della Storia Augusta, fu interamente dissipata, senza lasciare di se traccia veruna nella Germania.

Nel corso di questo capitolo, che servir dee d'introduzione, ci siamo ristretti ai generali lineamenti dei costumi della Germania, senza tentar di descrivere o distinguere le varie tribù, che riempivano quel vasto paese ai tempi di Cesare, di Tacito, o di Tolomeo. A misura che le antiche o le nuove tribù si presenteranno nel corso di questa Storia, noi faremo breve menzione delle loro origini, e situazioni, e dei loro particolari caratteri. Le nazioni moderne sono società fisse e permanenti, unite tra loro dalle leggi e dal Governo, attaccate al suolo nativo per le arti e per l'agricoltura. Le tribù della Germania erano volontarie e fluttuanti associazioni di soldati, quasi direi di selvaggi. Un medesimo territorio cangiava spesso di abitatori nelle varie vicende di conquiste e di emigrazioni. Le stesse comunità, unendosi per formare un piano di difesa o d'invasione, davano un nuovo nome alla nuova loro confederazione. Lo scioglimento di una antica lega rendeva alle indipendenti tribù i loro particolari nomi, da lungo tempo obbliati. Un popolo vittorioso spesso comunicava il suo proprio nome al vinto. Turme di volontarj correvano talora da tutte le parti sotto le insegne di un condottier favorito; il suo campo diveniva la loro patria, e qualche circostanza di quella impresa dava ben presto un nome comune a quella mista moltitudine. Le distinzioni dei feroci invasori erano continuamente mutate da loro medesimi, o confuse dagli attoniti sudditi dell'Impero romano[720].

Le guerre e l'amministrazione dei pubblici affari sono i soggetti principali della Storia; ma il numero delle persone interessate in quelle scene di affari è molto diverso secondo che diversa è la condizione degli uomini. Nelle grandi Monarchie, milioni di sudditi ubbidienti attendono alle loro utili occupazioni in seno alla pace ed all'oscurità. L'attenzione dello scrittore e del lettore allora è solamente ristretta ad una Corte, ad una capitale, ad un esercito regolare, ed a distretti che accidentalmente divengono teatri di militari operazioni. Ma uno Stato d'indipendenza e barbarie, il tempo delle turbolenze civili, o la situazione delle piccole Repubbliche[721], mette quasi ogni membro della società in azione e per conseguenza in veduta. Le divisioni irregolari, e le inquiete turbolenze della Germania abbagliano la nostra immaginazione, e par che moltiplichino il loro numero. La prolissa enumerazione di tanti Re e di tanti guerrieri, di eserciti e di nazioni, ci fa quasi dimenticare, che i medesimi oggetti vengono continuamente ripetuti sotto nomi diversi e che spesso i nomi più illustri sono stati largamente conceduti agli oggetti meno degni di considerazione.

CAPITOLO X.

Gl'Imperatori Decio, Gallo, Emiliano, Valeriano e Gallieno. Irruzione generale dai Barbari. I trenta tiranni. A.D. 248-268

I vent'anni, che scorsero dai grandiosi giuochi secolari di Filippo alla morte di Gallieno, furono una serie di obbrobrj e di calamità. In ogni momento di quel calamitoso periodo, si videro barbarici invasori, e militari tiranni opprimere ogni provincia del romano Impero, il quale pareva ormai giunto all'ultimo funesto termine del suo disfacimento. La confusione dei tempi, e la scarsezza di memorie autentiche, oppongono uguali difficoltà allo Storico, che procura di conservar chiaro e non interrotto il filo della sua narrazione. Circondato da imperfetti frammenti sempre concisi, spesso oscuri, e talvolta contradditorj, egli è ridotto a raccogliere, paragonare, e far congetture; e sebbene non dovrebbe mai fondarle sulla schiera dei fatti, pure la cognizione della natura umana, e della sicura operazione delle vive e sfrenate passioni della medesima, potrebbe in qualche occasione supplire alla mancanza di molti materiali storici.

Non v'è, per esempio, alcuna difficoltà nel concepire, che le successive uccisioni di tanti Imperatori avessero sciolti tutti i vincoli di fedeltà tra il Principe ed il Popolo; che tutti i Generali di Filippo fossero pronti ad imitare l'esempio del loro Sovrano, e che il capriccio degli eserciti, da gran tempo avvezzi alle spesse e violente rivoluzioni, potesse ogni giorno innalzare al trono il più vile dei soldati. La Storia può solamente aggiungere, che, la ribellione contro l'Imperatore Filippo scoppiò nella state dell'anno dugentoquarantanove tra le legioni della Mesia; e che Marino, uffiziale subalterno[722], fu l'oggetto della loro sediziosa scelta. Filippo si spaventò. Temeva che il tradimento di quell'esercito non divenisse la prima favilla di un generale incendio. Agitato dalla coscienza della sua reità, e dal suo pericolo, comunicò la nuova al senato. Restarono tutti in un profondo silenzio, effetto del timore, e forse della malevolenza: ma Decio finalmente, uno dell'assemblea, con animo degno della nobil sua nascita[723] osò mostrarsi più intrepido del medesimo Imperatore. Trattò tutto quell'affare con disprezzo, come un precipitoso o sconsiderato tumulto, ed il rivale di Filippo, come un fantasma di sovranità, che sarebbe in pochi giorni distrutto dalla stessa incostanza che creato l'avea. Il pronto adempimento della profezia inspirò a Filippo una giusta stima verso un consigliere sì abile; e Decio gli parve il solo capace di ristabilire la quiete e la disciplina in un esercito, il cui spirito tumultuoso non era interamente calmato dopo l'assassinio di Marino. Sembra che Decio, resistendo lungamente alla scelta fatta di se, volesse mostrare il pericolo che vi era nel presentare un condottiero di merito agl'inaspriti e paventanti soldati; e la sua predizione fu di nuovo confermata dall'evento. Le legioni della Mesia costrinsero il loro giudice a divenire lor complice, presentandogli l'alternativa della morte o della porpora. La sua susseguente condotta, dopo un passo così decisivo, era già inevitabile. Condusse egli, o piuttosto seguì la sua armata ai confini dell'Italia, dove Filippo, adunando tutte le sue forze per respingere il formidabile competitore da lui stesso innalzato, si avanzò ad incontrarlo. Le truppe imperiali erano più numerose[724]; ma l'esercito dei ribelli era tutto composto di veterani, e comandato da un Capo abile e sperimentato. Filippo o fu ucciso nella battaglia, o messo a morte pochi giorni dopo in Verona. Il suo figlio e collega nell'Impero fu trucidato in Roma dai Pretoriani; e Decio vittorioso con le più favorevoli circostanze, che potessero in quel secolo servir di pretesto all'ambizione, fu universalmente riconosciuto dal Senato e dalle province. Vien riferito che immediatamente dopo d'avere contro sua voglia accettato il titolo di Augusto, avea con un secreto messaggio informato Filippo della sua innocenza e della sua fedeltà, solennemente protestando che al suo arrivo nell'Italia deporrebbe gli ornamenti imperiali, e rientrerebbe nella condizione di suddito obbediente. Poteano essere sincere le sue proteste. Ma nella situazione, in cui l'avea posto la sorte, era quasi impossibile ch'egli potesse o perdonare, od ottenere il perdono.

A.D. 250

L'Imperatore Decio aveva impiegati pochi mesi nella opera della pace, e nell'amministrazione della giustizia, quando l'invasione dei Goti lo chiamò sul Danubio. È questa la prima importante occasione, nella quale la Storia faccia menzione di quel gran popolo, che atterrò di poi la romana potenza, saccheggiò il Campidoglio, e regnò nella Gallia, nella Spagna, e nell'Italia. Essi contribuirono cotanto alla sovversione dell'Impero occidentale, che il nome de' Goti viene spesso, ma impropriamente, usato come una generale denominazione di Barbari bellicosi e feroci.

Sul principio del sesto secolo, e dopo la conquista dell'Italia, i Goti, in possesso di una grandezza presente, contemplarono con natural piacere il prospetto della passata e della futura lor gloria. Essi desiderarono di conservare la memoria dei loro antenati, e di trasmettere alla posterità quella delle loro proprie imprese. Il principale ministro della Corte di Ravenna, il dotto Cassiodoro, secondò l'inclinazione dei conquistatori in una Storia gotica di dodici libri, ridotta adesso all'imperfetto compendio di Giornandes[725]. Questi Scrittori, passando sulle sventure della nazione con una brevità artificiosa, ne celebrarono il fortunato valore, e adornarono il di lei trionfo con molti asiatici trofei, i quali più giustamente appartenevano ai popoli della Scizia. Sulla fede di antiche canzoni (incerti, ma soli annali dei Barbari) essi derivarono la prima origine dei Goti dalla vasta isola o penisola della Scandinavia[726]. Non era quell'ultima contrada del Settentrione sconosciuta ai conquistatori dell'Italia; i vincoli dell'antica consanguinità furono rinvigoriti da recenti ufficj di amicizia; ed un Re della Scandinavia rinunziò volonterosamente alla sua selvaggia grandezza, per poter passare il resto de' suoi giorni nella tranquilla e cultissima Corte di Ravenna[727]. Molti vestigi, da non potersi ascrivere all'artifizio di una popolar vanità, attestano l'antica residenza dei Goti nelle contrade di là dal Baltico. Dal tempo del geografo Tolomeo in poi, la parte meridionale della Svezia sembra essere rimasta sempre sotto il dominio del meno intraprendente residuo della nazione; e vi è tuttavia un vasto territorio, che si divide in Gotlandia orientale ed occidentale. Nei secoli di mezzo (cioè dal nono al dodicesimo secolo) mentre il Cristianesimo faceva lenti progressi nel Settentrione, i Goti e gli Svezzesi erano due distinte, e talvolta nemiche nazioni di una medesima Monarchia[728]. L'ultimo di questi due nomi ha prevalso, senza però estinguere il primo. Gli Svezzesi, che avrebbero potuto contentarsi della propria lor fama nell'armi, hanno in ogni secolo preteso di partecipare dell'antica gloria dei Goti. In un momento di disgusto contro la Corte di Roma, Carlo XII. disse apertamente, che le vittoriose sue truppe non erano degenerate dai lor valorosi antenati, che avean già una volta soggiogata la padrona del Mondo[729].

Verso la fine dell'undecimo secolo, sussisteva un Tempio famoso in Upsal, la più considerabile fra le Città degli Svezzesi o dei Goti. Era questo ricchissimo per l'oro che gli Scandinavi aveano acquistato nelle loro piraterie, e santificato co' rozzi simulacri delle tre principali divinità, il Dio della guerra, la Dea della generazione, e il Dio del tuono. Nella generale festività che ogni nove anni solennizzavasi, si sacrificavano nove animali di ogni specie (senza eccettuarne l'umana) e i loro sanguinosi corpi venivano appesi agli alberi del sacro bosco adiacente al Tempio[730]. Le sole tracce che adesso sussistano di questa barbara superstizione, son contenute nell' Edda: sistema di mitologia compilato nella Islanda verso il tredicesimo secolo, e studiato dai dotti della Danimarca e della Svezia, come il più stimabile avanzo delle antiche loro tradizioni.

Nonostante la misteriosa oscurità dell'Edda, si possono facilmente distinguere due persone confuse sotto il nome di Odino, il Dio della guerra ed il gran legislatore della Scandinavia. L'ultimo, il Maometto del Settentrione, instituì una religione adattata al clima ed al popolo. Molte numerose Tribù su l'una e l'altra riva del Baltico furono soggiogate dall'invincibil valore di Odino, dalla sua persuasiva eloquenza, e dalla riputazione, ch'ei si era acquistata, di abilissimo mago. Con una volontaria morte egli confermò quella credenza, che avea propagata nel corso d'una lunga e prospera vita. Temendo l'umiliante assalto dell'infermità, si risolse di morir da guerriero. In una solenne assemblea di Svezzesi e di Goti si dette egli stesso nove mortali ferite, affrettandosi, come affermò con la moribonda sua voce, a preparare la festa degli Eroi nel palazzo del Dio dello guerra[731].

La nativa e propria abitazione di Odino è distinta col nome di As-gard. La fortunata somiglianza di questo nome con quello di As-burg, o As-of[732], parole di simil significato, ha fatto nascere un sistema storico così piacevolmente tessuto, che noi quasi brameremmo di persuaderci che fosse vero. Si suppone che Odino fosse Capo di una tribù di Barbari, che abitarono sulle rive della palude Meotide, finchè la caduta di Mitridate, e le armi di Pompeo minacciarono al Settentrione la schiavitù. Questo Odino, cedendo con furibondo sdegno a quella potenza, cui non poteva resistere, condusse la sua tribù dalle frontiere della Sarmazia asiatica nella Svezia, colla grande idea di formare in quell'inaccessibile asilo della libertà, una religione ed un popolo, che in qualche remoto secolo potesse servire alla sua immortale vendetta, quando i suoi invincibili Goti, armati da un militar fanatismo, uscirebbero a turme dalle vicinanze del cerchio Polare, per punir gli oppressori del genere umano[733].

Se tante successive generazioni di Goti non poterono conservare che una debole tradizione della loro origine dalla Scandinavia, non dobbiamo aspettarci da Barbari così inculti alcuna distinta relazione del tempo, e delle circostanze della loro emigrazione. Il passaggio del Baltico era impresa facile e naturale. Gli abitanti della Svezia avevano un numero sufficiente di vascelli grandi con remi[734], e non vi sono che poco più di cento miglia da Carlscrona ai più vicini porti della Pomerania e della Prussia. Qui finalmente si cammina colla scorta dell'istoria sopra uno stabil terreno. Sul principio almeno dell'Era Cristiana[735] e non più tardi del secolo degli Antonini[736], i Goti erano stabiliti verso la foce della Vistola, ed in quella fertile provincia, dove furono poi gran tempo dopo fondate le commercianti città di Thorn, Elbing, Konigsberg, e Danzica[737]. All'occidente dei Goti, le numerose Tribù dei Vandali erano sparse lungo le rive dell'Oder, e lungo il littorale della Pomerania e di Meelenburgo. Una viva somiglianza di costumi, di colore, di religione e di lingua pareva indicare, che i Vandali e i Goti fossero originariamente un solo gran popolo[738]. Sembra che i secondi fossero suddivisi in Ostrogoti, Visigoti, e Gepidi[739]. I Vandali erano più distintamente divisi in varie e indipendenti nazioni, gli Eruli, i Borgognoni, i Lombardi, e in diversi altri piccoli Stati, molti dei quali divennero in seguito Monarchie formidabili.

Nel secolo degli Antonini, i Goti abitavano tuttavia nella Prussia. Verso il regno di Alessandro Severo, la romana provincia della Dacia si era già risentita della lor vicinanza per le frequenti e rovinose loro irruzioni[740]. In questo intervallo pertanto, di quasi settant'anni, si deve porre la seconda emigrazione dei Goti dal Baltico al mare Eusino; ma la cagione che la produsse, giace nascosta nella varietà delle molle che pongono in moto i Barbari vagabondi. Una pestilenza od una fame, una vittoria od una disfatta, un oracolo degli Dei o l'eloquenza di un ardito condottiero erano bastanti per rivolgere le armi dei Goti verso i più dolci climi del mezzogiorno. Oltre l'influenza di una religione marziale, il numero ed il coraggio dei Goti erano proporzionati alle più rischiose avventure. L'uso degli scudi rotondi o delle corte spade li rendea formidabili nel combattere da vicino; la non servile ubbidienza, che aveano pe' loro Re ereditarj, dava ai loro consigli un'unione ed una stabilità non comune[741], ed il famoso Amala, eroe di quel secolo, e decimo antenato di Teodorico Re d'Italia, illustrò coll'ascendente del suo merito personale, la prerogativa della sua origine, ch'egli deduceva dagli Ansi o semidei della nazione Gotica[742].

La fama di una grande impresa eccitò i più coraggiosi guerrieri di tutti gli Stati dei Vandali nella Germania, molti dei quali si vedono combattere, pochi anni dopo, sotto la comune insegna[743] dei Goti. I primi passi degli emigranti li condussero sulle rive del Prypec, fiume che veniva generalmente dagli antichi creduto il ramo meridionale del Boristene[744]. Le tortuosità di quel gran fiume per le pianure della Polonia e della Russia diressero la loro marcia, somministrando costantemente acqua dolce, e pasture ai loro numerosissimi armenti. Seguitavano essi l'ignoto corso del fiume, confidando nel loro valore, e disprezzando qualunque forza potesse opporsi ai loro progressi.

I primi a presentarsi furono i Bastarni ed i Venedi, ed il fiore della loro gioventù, o per elezione o per forza, si unì all'armata dei Goti. I Bastarni abitavano sulle falde settentrionali dei monti Carpazj; e l'immenso tratto di terra, che li divideva dai selvaggi della Finlandia, era occupato, o devastato, per meglio dire, dai Venedi[745]. Vi sono buone ragioni per credere, che i Bastarni, i quali si distinsero nella guerra Macedonica[746], e si divisero poi nelle formidabili tribù dei Peucini, dei Borani, dei Carpi ec, discendessero dai Germani. Con ragioni più autentiche poi si possono credere di origine sarmatica i Venedi, che nei secoli di mezzo si rendettero tanto famosi[747]. Ma la confusione del sangue e dei costumi su quella incerta frontiera tiene spesso dubbiosi gli osservatori più esatti[748]. A misura che i Goti s'innoltrarono verso l'Eusino, incontrarono una più pura stirpe di Sarmati, gli Iazigi, gli Alani, ed i Rossolani; ed essi furono probabilmente i primi Germani che vedessero le foci del Boristene e del Tanai. Se noi esaminiamo le distintive caratteristiche dei Germani e dei Sarmati, vedremo che queste due numerose porzioni del genere umano si distinguevano principalmente per le fisse capanne o le tende movibili, per l'abito stretto o sciolto, per l'unità o la moltiplicità delle mogli, per la forza militare, consistente per la maggior parte o nell'infanteria o nella cavalleria; e sopra tutto per l'uso della lingua teutonica o della schiavona; l'ultima delle quali si è, per le conquiste, estesa dai confini dell'Italia alle vicinanze del Giappone.

I Goti erano allora padroni dell'Ucrania, paese di una estensione considerabile e fertilissimo, traversato da varj fiumi navigabili, che dall'una e dall'altra parte si scaricano nel Boristene, e sparso di vasti ed alti boschi di querce. L'abbondanza della cacciagione e del pesce, gl'innumerabili alveari di pecchie depositati nei vuoti degli alberi annosi, o nelle cavità delle rupi, i quali erano, anco in quei barbari secoli, un ramo considerabile di commercio, la grossezza del bestiame, il clima temperato, l'attività del suolo per ogni sorta di semenza, o l'ubertosa vegetazione, tutto mostrava in somma la liberalità della natura, ed invitava l'industria dell'uomo[749]. Ma resisterono i Goti a codesti inviti, menando sempre una oziosa, rapace, e misera vita.

I paesi degli Sciti, che verso l'Oriente confinavano coi nuovi stabilimenti dei Goti, non presentavano alle loro armi se non se l'incerto evento di una inutile vittoria. Ma allettante assai più era l'aspetto dei territorj romani; e le campagne della Dacia erano coperte di messi ubertose, seminate dalle mani di un popolo industrioso, ed esposte ad essere raccolte da quelle di una nazione guerriera. È probabile che le conquiste di Traiano, conservate dai suoi successori più per un decoro ideale, che per alcun reale vantaggio, avessero contribuito a indebolire l'Impero da quella parte. La nuova e non bene ancora stabilita provincia della Dacia non era nè forte abbastanza per resistere alla rapacità dei Barbari, nè ricca assai per saziarla. Finchè le remote rive del Niester si considerarono come gli argini della potenza romana, le fortificazioni del Danubio inferiore furono più trascuratamente custodite, e gli abitanti della Mesia vissero in una indolente sicurezza, scioccamente credendosi ad una inaccessibil distanza da qualunque Barbaro invasore. L'irruzione dei Goti sotto il regno di Filippo, fu per loro un disinganno funesto. Il Re o sia condottiero di quella feroce nazione traversò con disprezzo la Dacia, e passò il Niester ed il Danubio senza incontrare ostacolo, che ritardar potesse i suoi progressi. Il rilassamento della disciplina fece perdere alle guarnigioni romane i posti più importanti, ed il timore del meritato castigo indusse gran parte di loro ad arrolarsi sotto le insegne dei Goti. Comparve finalmente quella moltitudine di tanti diversi Barbari sotto le mura di Marcianopoli, città fabbricata da Traiano in onore della sorella, e Capitale allora della seconda Mesia[750]. Gli abitanti furono contenti di riscattare le loro vite ed i loro beni con una somma considerabile, e gl'invasori si ritirarono di nuovo nei loro deserti, animati, anzichè soddisfatti dai primi successi dell'armi loro contro un ricco, ma debol paese. Venne ben presto a Decio la nuova che Gniva, Re dei Goti, avea di nuovo passato il Danubio con forze più considerabili; che i suoi numerosi distaccamenti devastavano la Mesia; mentre il grosso dell'esercito, consistente in 70000 Germani e Sarmati, forza sufficiente per le più ardite imprese, esigeva la presenza del Monarca romano, e lo sforzo del suo poter militare.

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Decio trovò i Goti che assediavano Nicopoli sull'Iatro, uno dei molti monumenti delle vittorie di Traiano[751]. Levarono essi al suo arrivo l'assedio, ma con idea soltanto di marciare ad una più importante conquista, all'assedio di Filippopoli, città della Tracia, fondata dal Padre di Alessandro, presso alle falde dell'Emo[752]. Decio li seguitò per cammini scabrosi, e con marcie forzate; ma quando egli credea di essere ben lontano dalla retroguardia dei Goti, Gniva si rivolse con impeto furioso contro i suoi persecutori. Fu il campo dei Romani sorpreso e saccheggiato, e per la prima volta il loro Imperatore fu messo in disordinata fuga da una truppa di Barbari mezzo armati. Dopo una lunga resistenza Filippopoli, priva di ogni soccorso, fu presa d'assalto; e si riferisce che furono centomila persone trucidate nel saccheggio di quella vasta città[753]. Molti riguardevoli prigionieri accrebbero il valor del bottino, e Prisco, fratello dell'ultimo Imperatore Filippo, non arrossì di prendere la porpora sotto la protezione dei Barbari nemici di Roma[754]. Il tempo, per altro, da loro impiegato in quel lungo assedio, diè campo a Decio di reclutar le sue truppe, di rianimarne il coraggio, e di ristabilirne la disciplina. Tagliò diverse partite di Carpi ed altri Germani, che si affrettavano per partecipare nella vittoria dei loro concittadini[755], affidò i passi dei monti ad uffiziali di una fedeltà e di un valore sperimentato[756], riparò ed accrebbe le fortificazioni del Danubio, ed impiegò tutta la sua vigilanza per opporsi o all'avanzamento dei Goti, o alla loro ritirata. Incoraggiato dalla nuova fortuna, ansiosamente egli aspettava l'occasione di ristabilire con un colpo grande e decisivo la sua propria gloria, e quella delle armi romane[757].

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Nel tempo stesso che Decio lottava con quella furiosa tempesta, il suo spirito riflessivo e tranquillo in mezzo al tumulto della guerra, investigava le cagioni più generali, che dal secolo degli Antonini avean tanto affrettata la decadenza della Romana grandezza. Si avvide ben presto ch'era impossibile di ristabilire questa grandezza sopra una ferma base, se prima non si facevano risorgere la pubblica virtù, i costumi, e le massime antiche, e l'oppressa maestà delle leggi. Per eseguire questo nobile ed arduo disegno, volle prima ristabilire l'antiquato uffizio di Censore; ufficio il quale, finchè sussistè nella primiera sua integrità, avea tanto contribuito alla conservazione dello Stato[758]; ma fu poi usurpato dai Cesari, e a poco a poco negletto[759]. Sapendo che può il favor del Sovrano conferire il potere, ma che la sola stima del popolo può accordare l'autorità, egli rimise la scelta del Censore alla incorrotta voce del Senato. Con voti, anzi con acclamazioni unanimi, Valeriano, allora illustre ufficiale nell'esercito di Decio, e poi Imperatore, fu dichiarato il più degno di quell'eccelsa dignità. Appena ebbe l'Imperatore ricevuto dal Senato il decreto, convocò nel suo campo un numeroso consiglio, e prima della investitura rappresentò all'eletto Censore, la difficoltà e l'importanza del grande impiego. «Fortunato Valeriano» (disse il Principe a quel suddito illustre) «fortunato per la generale approvazione del Senato e della romana Repubblica: ricevi la Censura del Genere Umano, e giudica i nostri costumi. Tu eleggerai quelli che meritano di conservare il nome di Senatori; tu renderai all'ordine equestre il suo primo splendore; tu aumenterai le pubbliche entrate, ma prima modererai i pubblici pesi. Tu dividerai in classi regolari la varia ed infinita moltitudine dei cittadini, ed esaminerai diligentemente tutto quel che appartiene alla forza militare, alle ricchezze, alle virtù, ed alla potenza di Roma. L'esercito, la Corte, i ministri della giustizia, e le cariche più grandi dell'Impero sono tutte soggette al tuo Tribunale, da cui saranno esenti soltanto i Consoli ordinarj[760], il Prefetto della Città, il Re dei sacrifizj, e la maggiore delle Vestali, finchè illibata conserva la sua castità: e questi pochi, benchè non possano temere la severità del romano Censore, ne cercheranno ansiosamente la stima[761]

Un Magistrato, rivestito di un poter così esteso, sarebbe paruto più collega che ministro del suo Sovrano[762]. Valeriano temè giustamente un'elevazione così esposta all'invidia ed ai sospetti. Egli modestamente esagerò la spaventosa grandezza di un tanto peso, la sua propria insufficienza, e l'incurabile corruttela dei tempi. Insinuò accortamente che la carica di Censore era inseparabile dalla dignità imperiale, e che la destra di un suddito era troppo debole per sostenere un così immenso peso di cure e di potere[763]. L'imminente esito della guerra pose fine al proseguimento di un sì specioso, ma impraticabil progetto; e preservando Valeriano dal pericolo, salvò l'Imperator Decio dagli sconcerti, che probabilmente ne sarebbero derivati. Può un Censore conservare, ma non mai ristabilire i costumi di uno Stato. È impossibile che un tal Magistrato eserciti utilmente, o con efficacia almeno, la sua autorità, se non è sostenuto da un vivo sentimento di onore e di virtù negli animi del popolo, da un decente rispetto per la pubblica opinione, e da una serie di utili pregiudizj, i quali combattano in favore dei nazionali costumi. In un secolo, in cui sieno questi principj annullati, la giurisdizione del Censore deve o degenerare in una vana pompa, o convertirsi in un parziale istrumento di molesta oppressione[764]. Era più facile vincere i Goti, che sradicare i pubblici vizj; e nella prima ancora di queste imprese, Decio perdè l'esercito e la vita.

Erano i Goti allora circondati per tutto e inseguiti dall'armi romane. Il fiore delle loro truppe era perito nel lungo assedio di Filippopoli, e l'esausta regione non poteva più lungamente somministrare la sussistenza alla rimanente moltitudine di quei Barbari licenziosi. Ridotti a tale estremità, avrebbero i Goti di buon grado comprata, con la restituzione di tutto il loro bottino e dei prigionieri, la permissione di ritirarsi senza essere molestati. Ma l'Imperatore, stimando la vittoria sicura, e risoluto di spargere un salutare spavento tra i Popoli settentrionali col castigo di questi invasori, non volle ascoltare alcuna proposizione di accordo. I magnanimi Barbari preferirono la morte alla schiavitù. Una oscura città della Mesia, nominata Forum Terebronii[765], fu il teatro della battaglia. Era l'armata gotica schierata in tre linee, e fosse per elezione o per caso, la fronte della terza era coperta da una palude. Sul principio dell'azione il figliuolo di Decio, giovine di bellissime speranze, e già associato agli onori della porpora, fu da una freccia ucciso innanzi agli occhi dell'infelice padre, il quale richiamando tutta la sua virtù, disse alle truppe atterrite, che la perdita di un solo soldato era di piccola importanza per la Repubblica[766]. Fu terribile il conflitto; combatteva la disperazione contro il cordoglio e la rabbia. Fuggì finalmente disordinata la prima linea dei Goti; e la seconda, avanzatasi per sostenerla, ebbe la stessa sorte. La terza solamente rimase intera, e preparata a disputare il tragitto della palude, che fu imprudentemente tentato dal presuntuoso nemico. «Qui si cangiò la fortuna di quella giornata, e tutto divenne ai Romani contrario: il suolo era profondamente fangoso, cedente sotto i piedi di quelli che stavan fermi, e sdrucciolevole per gli altri che s'avanzavano: grave era la loro armatura, profonde le acque, nè poteano essi maneggiare i pesanti lor dardi in quell'incomoda situazione. I Barbari, al contrario, erano avvezzi a combattere nel fango; alti erano di statura, ed avean lunghe lance per ferir da lontano»[767]. In questa palude, dopo un inutil contrasto fu l'esercito romano irreparabilmente perduto; nè potè mai ritrovarsi il corpo dell'Imperatore[768]. Tal fu il destino di Decio nell'anno cinquantesimo, Principe perfetto, attivo in guerra, ed affabile in pace[769], e che insieme col suo figliuolo ha meritato di essere paragonato, nella sua vita e nella sua morte, ai più luminosi esemplari dell'antica virtù[770].

A.D. 251-252

Questo colpo fatale umiliò, ma per poco, l'insolenza delle legioni. Sembra che pazientemente attendessero, o ricevessero con sommissione il decreto del Senato, che regolava la successione al trono. Per un giusto riguardo alla memoria di Decio, fu il titolo imperiale conferito ad Ostiliano, unico suo figlio superstite: ma si diede un grado uguale, ed un più effettivo potere a Gallo, la cui esperienza ed abilità parevano proporzionate al grande impegno di Custode del giovinetto e dell'Impero angustiato[771]. La prima cura del nuovo Imperatore fu di liberare le province illiriche dal peso intollerabile dei vittoriosi Goti. Consentì a lasciare nelle lor mani i ricchi frutti della loro invasione, un immenso bottino, e ciò ch'era più vergognoso, un gran numero di prigionieri d'un ordine e d'un merito il più distinto. Fornì abbondantemente al loro campo tutti i comodi, che potessero addolcire la costoro ferocia, o facilitarne la tanto sospirata partenza; e promise perfino di pagar loro annualmente una gran somma d'oro, a condizione che non mai più ritornassero ad infestare colle loro incursioni i territori romani.[772].

Nel secolo degli Scipioni, i più opulenti Re della Terra, che richiedevano la protezione della vittoriosa Repubblica, si contentavano di doni così frivoli, che non potevano trar valore se non dalla mano, che ad essi largivali; una sedia d'avorio, una rozza veste di porpora, un piccol pezzo di argento, o una quantità di rame coniato[773]. Dopo che le ricchezze delle nazioni si concentrarono in Roma, gl'Imperatori mostrarono la loro grandezza, ed anco la politica loro, col regolare esercizio di una costante e moderata liberalità verso gli alleati dello Stato. Sollevavano la povertà dei Barbari, onoravano il loro merito, e ne ricompensavano la fedeltà. Questi volontari segni di benevolenza non s'intendeva che derivassero dalla paura, ma dalla generosità o dalla gratitudine dei Romani; e mentre generosamente si distribuivano doni e sussidj agli amici ed ai supplicanti, venivano fieramente negati a chiunque li pretendea come un debito[774]. Ma questa stipulazione di un'annuale paga ad un nemico vittorioso si mostrò senza velo nell'aspetto di un vergognoso tributo; gli animi dei Romani non erano avvezzi ancora a ricevere leggi così ineguali da una tribù di Barbari; ed il Principe che con una necessaria concessione avea forse salvata la patria, divenne l'oggetto del disprezzo e dell'avversion generale. La morte di Ostiliano, benchè accadesse nel colmo della più fiera pestilenza, fu interpretata come un personale delitto di Gallo[775]; e la disfatta persino dell'ultimo Imperatore fu dalla voce del sospetto attribuita ai perfidi consigli dell'abborrito suo successore[776]. La tranquillità di cui godè l'Impero nell'anno primo del suo governo[777], servì piuttosto ad inasprire, che a calmare il pubblico disgusto; ed appena che allontanati furono i timori di guerra, l'infamia della pace più grave divenne e più sensibile.

A.D. 253

Ma furono assai più irritati i Romani, allorchè si avvidero che neppure il sacrificio del loro onore assicurato aveva il loro riposo. Il fatal secreto dell'opulenza e della debolezza dell'Impero era stato svelato al Mondo. Nuovi sciami di Barbari incoraggiati dal buon successo, e che non credevansi vincolati dall'obbligazione dei loro fratelli, sparsero la devastazione per le province illiriche, ed il terrore fino alle porte di Roma. Prese Emiliano Governatore della Pannonia e della Mesia la difesa della Monarchia, che abbandonata sembrava dal pusillanime Imperatore; e radunando le forze disperse, rianimò il languente coraggio delle truppe. Furono inaspettatamente i Barbari assaliti, sconfitti, cacciati e perseguitati di là dai Danubio. Il vittorioso condottiere distribuì per donativo il denaro raccolto pel tributo; e le acclamazioni dei soldati lo acclamarono Imperatore sul campo di battaglia[778]. Gallo, che trascurando la generale prosperità, s'ingolfava nei piaceri dell'Italia, fu quasi nel tempo medesimo informato del successo della ribellione, e del rapido avvicinarsi dell'ambizioso suo Luogotenente. Si avanzò ad incontrarlo fino nelle pianure di Spoleto. Quando gli eserciti furono in vista un dell'altro, i soldati di Gallo paragonarono l'ignominiosa condotta del loro Sovrano colla gloria del suo rivale. Ammirarono il valore di Emiliano, e furono attratti dalla sua liberalità, che offeriva a tutti i disertori un considerabile aumento di paga[779]. L'uccisione di Gallo e del suo figliuolo Volusiano, terminò la guerra civile; ed il Senato diede una legittima sanzione ai diritti della conquista. Le lettere di Emiliano a quell'assemblea erano un misto di moderazione, e di vanità. Egli assicurava i Senatori che avrebbe rimesso alla loro prudenza il governo civile; e che contentandosi della qualità di lor Generale, avrebbe in poco tempo assicurata la gloria di Roma, e liberato l'Impero da tutti i Barbari del Settentrione, e dell'Oriente[780]. Fu la costui superbia adulata dagli applausi del Senato; ed esistono tuttora medaglie che lo rappresentano col nome e cogli attributi di Ercole Vittorioso, e di Marte Vendicatore[781].

A.D. 253

Se il nuovo Monarca avea le qualità necessarie per soddisfare a queste illustri promesse, gli mancò però il tempo a farlo. Non passarono quattro mesi dalla vittoria alla caduta[782]. Egli aveva vinto Gallo, ma cedè sotto il peso di un più formidabile competitore. Quell'infelice Principe avea mandato Valeriano, già distinto coll'onorevol titolo di Censore, per condurre in suo aiuto le legioni della Gallia, e della Germania[783]. Eseguì Valeriano la commissione con zelo e fedeltà; ed essendo giunto troppo tardi per salvare il suo Sovrano, deliberò vendicarlo. Le truppe di Emiliano, che stavano ancora accampate nelle pianure di Spoleto, furono intimorite dalla santità del suo carattere, ma molto più dalla forza superiore dell'esercito; e divenute ormai incapaci di una personale affezione, come sempre lo erano state di una massima costituzionale, s'imbrattarono subitamente le mani nel sangue di un Principe, che poc'anzi era stato oggetto della loro parziale elezione. Essi commisero il delitto, ma Valeriano solo ne colse il frutto. Egli ottenne il possesso del trono, col mezzo, è vero, della guerra civile, ma con un grado d'innocenza, rara in quel secolo di rivoluzioni; perocchè egli non doveva nè gratitudine nè fedeltà al suo predecessore, che balzato aveva dal soglio.

A.D. 253-268

Era Valeriano nell'età di quasi sessant'anni[784] quando gli fu conferita la porpora, non dal capriccio del popolo, o dai clamori dell'esercito, ma dall'unanime voce del Mondo romano. Nella sua elevazione per gradi agli onori dello Stato egli aveva meritato il favore dei Principi virtuosi, e si era dichiarato nemico dei tiranni[785]. La nobile sua nascita, i suoi dolci ed irreprensibili costumi, il suo sapere, la prudenza e l'esperienza sua erano venerate dal Senato e dal Popolo; e se il Genere Umano (secondo l'osservazione di un antico Scrittore) avuto avesse la libertà di scegliersi un padrone, sarebbe sicuramente in Valeriano caduta la scelta[786]. Forse non era il merito di questo Imperatore adeguato alla sua riputazione; forse i suoi talenti erano indeboliti e raffreddati dalla vecchiezza, o almeno tal era il suo spirito. La conoscenza del suo declinare lo trasse a dividere il trono con un più giovine e più attivo collega[787]: le necessità del tempo chiedevano un Generale non meno che un principe; e la sperienza del romano Censore avrebbe dovuto guidarlo nel conferire la porpora imperiale a chi la meritasse, qual ricompensa di guerriera virtù. Ma in cambio di fare una giudiziosa scelta, che avrebbe assodato il suo regno e fatto amare la sua memoria, Valeriano, non consultando che i dettami dell'affetto o della vanità, immediatamente investì de' supremi onori il suo figliuolo Gallieno, giovane i cui effeminati vizj erano fino allora rimasti ascosi dall'oscurità di una condizione privata. Il governo congiunto del padre e del figlio durò circa sette anni, e l'amministrazione sola di Gallieno ne continuò circa otto altri. Ma tutto quel periodo di tempo fu una serie non interrotta di confusione, e di calamità. Siccome l'Impero romano, nel tempo stesso e per ogni parte, venne assalito dal cieco furor di stranieri invasori, e dalla feroce ambizione di usurpatori domestici, così noi serviremo all'ordine e alla chiarezza, seguitando non tanto l'incerta serie delle date, quanto la più naturale distribuzione delle materie. I più pericolosi nemici di Roma durante il Regno di Valeriano e Gallieno furono 1. i Franchi 2. gli Alemanni 3. i Goti 4. i Persiani. Sotto queste generali denominazioni si possono comprendere le avventure delle meno considerabili tribù, i cui oscuri e barbari nomi servirebbero solamente ad opprimere la memoria, e a confondere l'attenzione del leggitore.

I. La posterità dei Franchi compone una delle più grandi ed illuminate nazioni dell'Europa; laonde le forze dell'erudizione e dell'ingegno si sono esaurite nella ricerca dei loro inculti antenati. Alle novelle della credulità, sono successi i sistemi della fantasia. È stato esaminato ogni passo, e veduto ogni luogo, che rivelar potesse alcune deboli tracce dell'origine loro. È stato supposto che la Pannonia[788], che la Gallia, che le parti settentrionali della Germania[789] abbiano dato i natali a quella celebre colonia di guerrieri. Finalmente i critici più ragionevoli, rigettando le fittizie emigrazioni d'ideali conquistatori, sono convenuti in un sentimento, la cui semplicità ne persuade la verità[790]. Suppongono essi che verso l'anno dugentoquaranta[791] si formasse sotto il nome di Franchi una nuova confederazione degli antichi abitatoti del Reno inferiore e del Weser. Il presente circolo di Vestfalia, il Langraviato di Assia, ed i Ducati di Brunsvich e Luneburgo furono l'antica sede dei Chauci, che nelle inaccessibili loro paludi sfidarono le armi romane[792]; dei Cherusci, superbi della fama di Arminio; dei Catti, formidabili per la ferma ed intrepida loro infanteria; e di diverse altre tribù d'inferiore potenza e riputazione[793]. L'amore della libertà era la dominante passione di questi Germani, il godimento di quella il loro miglior tesoro, e la voce, ch'esprimeva un tal godimento, era la più dolce alle loro orecchie. Meritarono essi, e presero, e conservarono il glorioso epiteto di Franchi o uomini liberi, che nascondeva, ma non distruggeva i particolari nomi dei varj popoli confederati[794]. Il tacito consenso, ed il vantaggio scambievole dettarono le prime le prime leggi di quella unione; l'uso e l'esperienza l'assodarono a poco a poco. La lega dei Franchi può in qualche modo paragonarsi al Corpo Elvetico, nel quale ogni Cantone ritenendo la sua indipendente sovranità, consulta insieme co' suoi fratelli nella causa comune, senza riconoscere l'autorità di verun Capo supremo o di una rappresentante assemblea[795]. Ma il principio delle due confederazioni era estremamente diverso. Uno spirito incostante, la sete della rapina, ed il violamento de più solenni trattati disonorarono il carattere dei Franchi.

Avevano i Romani per lungo tempo sperimentato l'ardimentoso valore dei popoli della Germania inferiore; l'unione delle loro forze minacciò alla Gallia una più formidabile invasione, e richiese la presenza di Gallieno, erede e collega della imperiale dignità[796]. Mentre questo Principe, col suo figliuolo Salonino ancora fanciullo, spiegava nella Corte di Treveri la maestà dell'Impero, erano le sue armate abilmente condotte da Postumo loro Generale, il quale, benchè tradisse di poi la famiglia di Valeriano, fu però sempre fedele al grande interesse della Monarchia. L'ingannevole linguaggio dei panegirici e delle medaglie oscuramente annunzia una lunga serie di vittorie. I trofei ed i titoli attestano (se può questa prova attestare) la fama di Postumo, ch'è ripetutamente chiamato il conquistator dei Germani ed il liberator della Gallia[797].

Ma un semplice fatto (il solo veramente, di cui abbiamo una esatta notizia) distrugge in gran parte questi monumenti della vanità e dell'adulazione. Il Reno, benchè onorato col titolo di baluardo delle province, fu un debol riparo contro l'ardito ed intraprendente spirito, ond'erano i Franchi animati. Le rapide loro devastazioni si estesero dal fiume alle falde dei Pirenei; nè furono da questi monti arrestate. La Spagna, che non mai avea temute le irruzioni dei Germani, non potè loro resistere. Per dodici anni (la maggior parte del regno di Gallieno) quella opulente contrada fu il teatro d'ineguali e devastatrici ostilità. Tarragona, florida capitale di una pacifica provincia, fu saccheggiata e quasi distrutta[798]; e fino ai giorni di Orosio, che scriveva nel quinto secolo, poche miserabili capanne sparse tra le rovine delle magnifiche città, rammentavano ancora il furore dei Barbari[799]. Quando nel desolato paese non più trovarono i Franchi da saccheggiare, presero alcuni vascelli nei porti della Spagna[800], e si trasportarono nella Mauritania. Rimase quella remota provincia atterrita dal furore di questi Barbari, che parevano all'improvviso caduti da un nuovo Mondo; giacchè il loro nome, i loro costumi, ed il loro aspetto erano ugualmente sconosciuti sulle coste dell'Affrica[801].

II. In quella parte della Sassonia superiore di là dall'Elba, detta adesso il Marchesato di Lusazia, sorgeva negli antichi tempi un sacro bosco, tremenda sede della superstizion degli Svevi. Non era ad alcuno permesso di entrare nel sacro recinto, senza confessare con servili legami e con supplichevole positura, l'immediata presenza del Nume supremo[802]. Il patriottismo insieme e la devozione contribuirono a rendere sacro il Sonnenwald, o sia bosco dei Sennoni[803]. Si credeva universalmente che avesse la nazione ricevuta la sua prima esistenza in quel sacro luogo. In certi determinati tempi le numerose Tribù che vantavano il sangue svevico, vi concorrevano per mezzo dei loro ambasciatori; e vi si perpetuava con barbari riti e con umani sacrifizi la memoria della comune loro origine. Il molto esteso nome degli Svevi empieva le interne contrade della Germania dalle rive dell'Oder a quello del Danubio. Si distinguevano essi dagli altri Germani per la maniera particolare di acconciare i lunghi loro capelli che rozzamente annodavano in cima alla testa; e si dilettavano di un ornamento, che facea comparire più alte e più terribili le loro schiere agli occhi dei nemici[804]. Gelosi, come lo erano i Germani della gloria militare, riconoscevano tutti il superior valore degli Svevi, e le Tribù digli Usipeti, e dei Tencteri, che con numeroso esercito si fecero incontro a Cesare il Dittatore, si dichiaravano di non recarsi a vergogna l'essere fuggiti dinanzi ad un popolo, alle armi del quale neppure gli stessi Dei immortali potrebber resistere[805].

Nel regno dell'Imperator Caracalla uno sciame innumerabile di Svevi comparve sulle rive del Meno, ed in vicinanza delle province romane, in cerca o di vettovaglie, o di bottino, o di gloria[806]. Questa precipitosa armata di volontarj divenne a poco a poco una grande e stabil nazione, e composta essendo di tante diverse Tribù, prese il nome di Alemanni, ovvero All-men, tutti-uomini, per denotare insieme la loro diversa discendenza, ed il comune valore[807]. Fu questo ultimo ben tosto dai Romani provato in molte ostili irruzioni. Combattevano gli Alemanni specialmente a cavallo; ma la cavalleria loro era ancora più formidabile per un miscuglio d'infanteria leggiera, scelta tra i giovani più coraggiosi ed attivi, assuefatti dal frequente esercizio ad accompagnare i cavalieri nella più lunga marcia, nel più furioso assalto, o nella più precipitosa ritirata[808].

Erano quei bellicosi Germani rimasti attoniti dagli immensi preparativi di Alessandro Severo, e furono atterriti dalle armi del suo successore, barbaro eguale ad essi in valore ed in fierezza. Ma sempre scorrendo per le frontiere dell'Impero, accrebbero il generale disordine, che seguitò la morte di Decio. Crudeli ferite essi impressero nelle ricche province della Gallia, e furono i primi a squarciare il velo, che copriva la debole maestà dell'Italia. Un numeroso corpo di Alemanni passò il Danubio, e per le alpi Rezie penetrò nelle pianure della Lombardia, si avanzò fino a Ravenna, e spiegò le vittoriose insegne dei Barbari, quasi al cospetto di Roma[809]. L'insulto e il pericolo riaccesero nel Senato qualche scintilla della sua antica virtù. Erano ambi gl'Imperatori impegnati in guerre molto lontano, Valeriano nell'Oriente, e Gallieno sul Reno. Non aveano i Romani altro scampo ed altre speranze che in se stessi. In tale urgenza presero i Senatori la difesa della Repubblica, condussero fuori i Pretoriani, ch'erano stati lasciati per guarnigione nella Capitale, e ne compirono il numero, arrolando al pubblico servizio i più robusti e volonterosi plebei. Sbigottiti gli Alemanni dall'improvvisa comparsa di un esercito assai più numeroso del loro, si ritirarono nella Germania carichi di prede; e fu la ritirata loro dagl'imbelli Romani[810] considerata come una vittoria.

Quando Gallieno ricevè la notizia ch'era la sua Capitale liberata dai Barbari, rimase molto men soddisfatto che intimorito del coraggio dei Senatori, giacchè poteva questo un giorno animarli a liberare la Repubblica dalla domestica tirannide, come da una straniera invasione. Fu la sua timida ingratitudine disvelata ai suoi sudditi in un editto, che proibiva ai Senatori l'esercizio d'ogni militare impiego, e sino l'accostarsi ai campi delle legioni. Ma erano mal fondati i suoi timori. I ricchi e delicati nobili, ricadendo nel loro naturale carattere, accettarono come un favore questa disonorante esenzione dal militare servizio; e finchè poterono godere i loro teatri, i bagni e le ville loro, rimisero con piacere nelle rozze mani dei contadini e dei soldati[811] le più pericolose cure dell'Impero.

Un'altra invasione degli Alemanni, di più glorioso successo, vien riferita da uno Scrittore del basso Impero. Dicesi che trecentomila di quella bellicosa nazione furono vinti in una battaglia vicino a Milano da Gallieno in persona, alla testa di soli diecimila Romani[812]. Possiam per altro con gran probabilità attribuire questa incredibil vittoria o alla credulità dello Storico, o ad alcune esagerate imprese di qualche Generale di Gallieno. Procurò quest'ultimo, con armi molto diverse, di assicurare l'Italia contro il furor dei Germani. Egli sposò Pipa figlia di un Re dei Marcomanni, Tribù sveva, che fu spesso confusa cogli Alemanni nelle loro guerre e conquiste[813]. Al Padre, come in prezzo della sua alleanza, egli accordò un vasto stabilimento nella Pannonia. Sembra che i naturali vezzi di una rozza beltà fissassero in quella Principessa gli affetti dell'incostante Imperatore, ed i legami della politica furono più saldamente connessi da quei dell'amore. Ma il superbo pregiudizio di Roma negò sempre il nome di matrimonio alla profana unione di un cittadino con una Barbara; e infamò la Principessa germana coll'obbrobrioso titolo di concubina di Gallieno[814].

III. Noi abbiamo di già tracciato i Goti nelle loro emigrazioni dalla Scandinavia, o almen dalla Prussia alla foce del Boristene, e seguitate le vittoriose loro armi dal Boristene al Danubio. Sotto i regni di Valeriano e di Gallieno la frontiera dell'ultimo di questi fiumi fu perpetuamente infestata dalle irruzioni dei Germani, o dei Sarmati; ma fu dai Romani difesa con insolita fermezza e fortuna. Lo province, ch'erano il teatro della guerra, fornivano agli eserciti romani un inesauribil rinforzo di coraggiosi soldati; e più d'uno di quegl'illirici contadini arrivò al grado di Generale, e ne spiegò la perizia. Benchè alcune turme volanti di Barbari, che scorrevano continuamente sulle rive del Danubio, penetrassero talvolta sino ai confini dell'Italia e della Macedonia, era però ordinariamente dai Generali imperiali o arrestato il loro progresso, o intercetto il loro ritorno[815]. Ma il gran torrente delle gotiche ostilità fu divertito in un canale molto differente. I Goti, nel nuovo loro stabilimento nell'Ucrania, divennero presto padroni della costa settentrionale dell'Eusino. Al mezzogiorno di quel mare interno erano situate le molli ed opulenti province dell'Asia Minore, le quali avevano tutto ciò che poteva allettare un Barbaro conquistatore, e nulla che potesse resistergli.

Le rive del Boristene sono sessanta miglia solamente lontane dall'angusto ingresso[816] della penisola della Crimea, nota agli antichi sotto il nome di Chersoneso Taurico[817]. Su quelle inospite spiagge Euripide (adornando con arte eccellente le favole dell'antichità) ha situata la scena di una delle sue più commoventi tragedie[818]. I sanguinosi sacrifizj di Diana, l'arrivo di Oreste e di Pilade, ed il trionfo della virtù e della religione contro una selvaggia ferocia, servono per rappresentare una storica verità, che i Tauri, originarj abitatori della penisola, furono in qualche grado riformati nei loro brutali costumi dal commercio a poco a poco introdotto colle greche colonie, stabilitesi lungo la costa marittima. Il piccol regno del Bosforo, la cui Capitale era situata su gli stretti, pe' quali la palude Meotide comunica coll'Eusino, era composto di degenerati Greci, e di Barbari per metà ridotti al viver civile. Sussisteva questo come Stato indipendente, sin dal tempo della guerra del Peloponeso[819]: fu finalmente assorbito dall'ambizione di Mitridate[820], e col resto de' suoi dominj cadde poi sotto il peso dell'armi romane. Al tempo di Augusto[821] erano i Re del Bosforo umili, ma non inutili alleati dell'Impero. Coi doni, colle armi, e con una debole fortificazione fatta a traverso dell'Istmo, essi effettivamente difendeano contro gli erranti devastatori della Sarmazia l'accesso di un paese, che per la sua particolar situazione, e per gli adattati suoi porti comandava al mare Eusino ed all'Asia minore[822]. Finchè ne resse lo scettro una continuata linea di Regi, essi sostennero con vigilanza e buon successo l'importante lor peso. Le domestiche fazioni ed i timori, o il privato interesse di oscuri usurpatori, che s'impadronirono del trono vacante, ammisero i Goti nel centro del Bosforo. Coll'acquisto di una superflua estensione di fertile terreno, ottennero i vincitori il comando di una forza navale, bastante a trasportare i loro eserciti sulla costa dell'Asia[823]. I vascelli che usavansi nella navigazione dell'Eusino, erano di una costruzione molto singolare. Erano leggiere barche col fondo piano, fatte solamente di legno senza alcuna mescolanza di ferro, e ad ogni apparenza di tempesta coprivansi con un tetto inclinato[824]. In queste galleggianti case, i Goti sconsideratamente si affidarono alla discrezione di un mare sconosciuto, sotto la scorta di marinari forzati al servizio, la cui perizia e fedeltà erano egualmente sospette. Ma la speranza di saccheggiare aveva bandita ogni idea di pericolo, ed una naturale intrepidezza di carattere equivaleva nel loro animo a quella ragionevol confidanza, che è il giusto frutto del sapere e della esperienza. Guerrieri di animo così audace debbono ben e spesso aver mormorato contro la codardia delle loro guide, che richiedevano le più forti sicurezze di una stabile calma, prima di arrischiarsi all'imbarco, e che si sarebbero con pena lasciate indurre a perder di vista la terra. Tale almeno è l'uso dei Turchi moderni[825], niente inferiori probabilmente nell'arte della navigazione agli antichi abitatori del Bosforo.

La flotta dei Goti, lasciando a sinistra la costa della Circassia, si fece per la prima volta vedere davanti Pizio[826], ultimo confine delle province romane; città provveduta di un buon porto, e fortificata con salde mura. Quivi essi trovarono una resistenza più ostinata di quella che potessero aspettarsi dalla debole guarnigione di una remota fortezza. Furono essi respinti; e parve che il lor disastro diminuisse il terrore del gotico nome. Finchè Successiano, uffiziale di un grado e di un merito eminente, difese quella frontiera, inutili riuscirono tutti i loro sforzi: ma appena fu egli trasferito da Valeriano in un più onorevole, ma meno importante posto, ricominciarono essi l'assedio di Pizio, e colla distruzione di quella città cancellarono la memoria della loro prima disgrazia[827].

Girando intorno all'orientale estremità del mare Eusino, la navigazione da Pizio a Trebisonda è di quasi trecento miglia[828]. Il corso dei Goti li portò in vista del paese di Colchide, famoso tanto per la spedizione degli Argonauti; e tentarono persino (benchè senza successo) di saccheggiare un ricco tempio sulla foce del fiume Fasi. Trebisonda, celebrata nella ritirata dei diecimila come una antica colonia di Greci[829], dovea la sua opulenza ed il suo splendore alla munificenza dell'Imperatore Adriano, che aveva costruito un porto artificiale sopra una costa, lasciata dalla natura priva di sicuri ricoveri[830]. Era la città vasta e popolata; un doppio recinto di mura parea sfidare il furore dei Goti, e la solita guarnigione era stata rinforzata con l'aumento di diecimila uomini. Ma non vi è alcun vantaggio capace di supplire alla mancanza della disciplina e della vigilanza. La numerosa guarnigione di Trebisonda, corrotta dagli stravizzi e dal lusso, non si curò di difendere le inespugnabili sue fortificazioni. Presto conobbero i Goti l'estrema negligenza degli assediati, eressero un'alta catasta di fascino, montarono sulle mura nel silenzio della notte, ed entrarono in quella indifesa città colla spada sguainata. Fu trucidato il popolo tutto, mentre gli spaventati soldati fuggivano per le opposte porte. Furono nella general distruzione involti i tempj più sacri, ed i più illustri edifizj. Il bottino che cadde nelle mani del Goti fu immenso. Le ricchezze degli adiacenti paesi erano state depositate in Trebisonda, come in luogo sicuro. Incredibile fu il numero degli schiavi fatti dai Barbari vittoriosi, i quali scorsero senza opposizione per l'estesa provincia del Ponto[831]. Le ricche spoglie di Trebisonda riempirono una moltitudine di vascelli trovati nel porto. La robusta gioventù della costa marittima fu incatenata al remo; ed i Goti, soddisfatti del successo della lor prima navale spedizione, ritornarono trionfanti ai loro nuovi stabilimenti nel regno del Bosforo[832].

La seconda spedizione dei Goti fu intrapresa con forze maggiori di uomini e di vascelli; ma tennero essi un corso diverso, e disprezzando le devastate province del Ponto, costeggiarono il lido occidentale dell'Eusino, passarono dinanzi alle larghe foci del Boristene, del Niester, e del Danubio, ed aumentando la lor flotta colla presa di molte barche di pescatori, si accostarono all'angusto canale, per cui l'Eusino versa le sue acque nel Mediterraneo, e divide i continenti dell'Europa e dell'Asia. Era la guarnigione di Calcedonia accampata vicino al tempio di Giove Urio sopra un promontorio, che dominava l'ingresso dello stretto, e questo corpo di truppe superava l'armata Gotica, tanto piccolo era il numero di quei barbarici e sì temuti invasori, ma nel numero solamente la superava. Abbandonarono queste truppe precipitosamente il vantaggioso lor posto, lasciando alla discrezione dei conquistatori la città di Calcedonia, di armi e di ricchezze la più copiosamente provvista. Mentre dubitavano i Goti se preferir dovessero, il mare alla terra, l'Europa all'Asia, per teatro delle loro ostilità, un perfido fuggitivo indicò Nicomedia, già capitale dei Re della Bitinia, come ricca e facil conquista. Guidò egli la marcia, che fu di sole sessanta miglia dal campo di Calcedonia, diresse l'irresistibile assalto[833], e a parte fu del bottino; giacchè aveano i Goti acquistata bastante politica per ricompensare un traditore, che detestavano. Nice, Prusa, Apamea, Cio, città emule un tempo, o imitatrici dello splendore di Nicomedia, furono involte nella stessa calamità, che in poche settimane infierì senza contrasto alcuno in tutta la provincia della Bitinia. Trecento anni di pace, goduti dai molli abitatori dell'Asia, avevano abolito l'esercizio delle armi, ed allontanato il timor del pericolo. Si lasciavano cadere le antiche mura, e tutta l'entrata delle più opulenti città si riservava per la costruzione dei Bagni, dei Tempi, e dei Teatri[834].

Quando la città di Cizico resistè a' più grandi sforzi di Mitridate[835], si distingueva per le savie sue leggi, per una forza navale di dugento galere, e per tre arsenali d'armi, di macchine militari, e di grano[836]. Era essa tuttavia la sede dell'opulenza e del lusso; ma niente più le restava dell'antica sua forza che la situazione in una piccola isola della Propontide, unita con due ponti solamente al continente dell'Asia. Dopo il sacco di Prusa, si avanzarono i Goti a diciotto miglia da quella città[837], già da loro destinata alla distruzione; ma un fortunato accidente differì la rovina di Cizico. Era la stagione piovosa, ed il lago Apolloniate, ricetto di tutte le acque del monte Olimpo, crebbe ad un'insolita altezza. Il piccolo Rindaco, che scaturisce dal lago, divenne, gonfiando, un ampio e rapido fiume, ed arrestò il progresso dei Goti. La loro ritirata nella marittima città di Eraclea, dov'era probabilmente la flotta, fu accompagnata da un lungo treno di carri carichi delle spoglie della Bitinia, e segnata dalle fiamme di Nice e di Nicomedia da loro per diletto incendiate[838]. Si riportano alcuni oscuri argomenti di una incerta battaglia, che assicurò la loro ritirata[839]. Ma una piena vittoria ancora stata sarebbe di poco vantaggio, giacchè l'avvicinamento dell'equinozio autunnale intimava ad essi di affrettare il ritorno. Il navigare nell'Eusino avanti il mese di Maggio, o dopo quel di settembre, è stimato dai Turchi moderni come il più certo esempio di temerità o di pazzia[840].

Quando siamo informati che la terza flotta, equipaggiata dai Goti nei porti del Bosforo, consisteva in cinquecento vele[841], la nostra pronta immaginazione calcola in un istante e moltiplica il formidabile armamento; ma assicurati dal giudizioso Strabone[842] che le navi piratiche usate dai Barbari del Ponto e della Scizia Minore, non erano capaci di contenere più di venticinque o trenta uomini, possiamo con certezza affermare, che quindicimila guerrieri al più s'imbarcarono in quella grande spedizione. Non soffrendo di star confinati nell'Eusino, diressero il distruttivo lor corso dal Bosforo Cimmerio al Bosforo Tracio. Erano giunti quasi alla metà degli stretti, quando ne furono improvvisamente respinti indietro all'ingresso; finchè levatosi nel giorno seguente favorevole il vento, li portò in poche ore nel placido mare, o piuttosto lago della Propontide.

Prendendo terra nella piccola isola di Cizico, ne rovinarono l'antica ed illustre città. Di là uscendo di nuovo per l'angusto passo dell'Ellesponto, proseguirono la tortuosa loro navigazione tra le numerose isole sparse sull'Arcipelago ossia Mare Egeo. L'assistenza dei prigionieri e dei disertori debb'essere stata ben necessaria per condurre i loro vascelli, e dirigere le varie loro incursioni, tanto sulle coste della Grecia, quanto su quelle dell'Asia. Finalmente la gotica flotta si ancorò nel Pireo, cinque miglia distante da Atene[843], che aveva tentato di fare alcuni preparativi per una vigorosa difesa. Cleodamo, uno degl'ingegneri impiegati per ordine dell'Imperatore a fortificare le città marittime contro i Goti, aveva già principiato a riparare le antiche mura, cominciate a cadere fino dal tempo di Silla. Inutili furono gli sforzi della sua abilità, e quei Barbari divennero padroni della sede natia delle Muse e delle Arti. Ma mentre i conquistatori si abbandonavano alla licenza del saccheggio ed alla intemperanza, la flotta loro, che stava con poca guardia nel porto, fu inaspettatamente assalita dal valoroso Dexippo, che fuggendo coll'ingegnere Cleodamo dal sacco di Atene, adunò in fretta una banda di volontarj contadini e soldati, e vendicò in qualche modo la calamità della sua patria[844].

Ma questa impresa, per quanto lustro gettar potesse sul decadente secolo di Atene, servì piuttosto ad irritare, che a sottomettere l'intrepido coraggio de' settentrionali invasori. Un generale incendio si accese nel tempo stesso in ogni distretto della Grecia. Tebe ed Argo, Corinto e Sparta, che avean fatte altre volte sì memorabili guerre fra loro, non poterono allora mettere in campo un esercito, o difendere neppure le rovinate loro fortificazioni. Il furor della guerra, e per terra e per mare, si stese dalla punta orientale di Sunio fino alla costa occidentale dell'Epiro. Si erano già i Goti innoltrati alla vista dell'Italia, quando l'avvicinamento di un così imminente pericolo risvegliò l'indolente Gallieno dal voluttuoso suo sonno. Comparve armato l'Imperatore; e sembra che la sua presenza reprimesse l'ardore, e dividesse la forza dei nemici. Naulobato, un capo degli Eruli, accettò un'onorevole capitolazione, entrò con un numeroso corpo de' suoi concittadini al servizio di Roma, e fu rivestito cogli ornamenti della Consolar dignità, non mai per l'avanti profanati dalle mani di un Barbaro[845]. Un gran numero di Goti, disgustati dai pericoli e dai travagli di un tedioso viaggio, fecero irruzione nella Mesia con disegno di aprirsi a forza il passo sul Danubio a' loro stabilimenti nell'Ucrania. L'ardito tentativo sarebbe stato seguito da una inevitabile distruzione, se la dissensione dei Generali romani non avesse risparmiato i Barbari a spese della causa comune[846]. Il picciol resto di quell'esercito distruggitore ritornò a bordo de' suoi vascelli; e rifacendo la strada per l'Ellesponto e pel Bosforo, devastò in passando i lidi di Troia, la cui fama resa immortale da Omero sopravviverà probabilmente alla memoria delle conquiste dei Goti. Appena ch'e' si trovarono sicuri in seno all'Eusino, presero terra ad Anchiale nella Tracia, vicino alle falde del monte Emo; e dopo tutte le loro fatiche, si sollevarono coll'uso di quelle salubri e piacevoli terme. Nè rimaneva del loro viaggio che una corta e facile navigazione[847]. Tali furono le varie vicende di questa terza, e loro maggior impresa navale. Sembra difficile a concepire, come un corpo, in principio di quindicimila guerrieri, potesse sostenere le perdite e le divisioni di una impresa sì ardita. Ma a misura che il loro numero veniva a poco a poco diminuito dalla spada, dai naufragi, e dall'influenza di un clima caldo, era continuamente rinnovato dalle truppe di banditi e di disertori, che concorrevano sotto l'insegna del saccheggio, e da una turma di schiavi fuggitivi, spesso di estrazione germana o sarmatica, che ansiosamente prendevano la gloriosa opportunità di rompere i loro ferri e di vendicarsi. In queste spedizioni, la gotica nazione pretese d'avere avuta una maggior parte nell'onore e nel pericolo: ma le tribù, che combatterono sotto le gotiche insegne, sono talvolta distinte e talvolta confuse nelle imperfette Storie di quel secolo; e siccome le barbare flotte uscir parvero dalla foce del Tanai, così fu spesso data a quella mista moltitudine[848] la vaga e familiare denominazione di Sciti.

Nelle generali calamità del Genere Umano la morte di un individuo, quantosivoglia illustre, o la rovina di un edifizio, quantosivoglia famoso, si trapassano con una indolente non curanza. Non possiamo per altro obbliare che il Tempio di Diana in Efeso, dopo essere risorto con maggiore splendidezza da sette successivi infortunj[849], fu in fine bruciato dai Goti nella terza loro navale invasione. Le arti della Grecia, e l'opulenza dell'Asia si erano unite ad erigere quella sacra e magnifica fabbrica. Centoventisette colonne di marmo d'ordine ionico la sostenevano. Erano tutte doni dei devoti Monarchi, ed aveano ciascuna sessanta piedi di altezza. L'altare era adorno delle maestrevoli sculture di Prassitele, che forse dalle favorite leggende del luogo aveva scelto a rappresentarvi i divini figliuoli di Latona, il nascondimento di Apollo dopo la strage dei Ciclopi, e la clemenza di Bacco verso le vinte Amazzoni[850]. La lunghezza per altro del Tempio di Efeso era solamente di quattrocentoventicinque piedi; quasi due terzi di quella, che ha la Chiesa di S. Pietro in Roma[851]. Nelle altre dimensioni era ancor più inferiore a questa sublime produzione della moderna architettura. Le distese braccia di una Croce Cristiana richiedono un'ampiezza assai maggiore dei bislunghi Tempj dei Pagani; e i più arditi artisti dell'antichità stati sarieno atterriti dalla proposizione d'innalzare in aria una cupola della grandezza e delle proporzioni del Panteon. Era per altro il Tempio di Diana riguardato come una delle maraviglie del Mondo. Ne aveano i successivi Imperj dei Persiani, dei Macedoni e dei Romani venerata la santità, ed arricchito lo splendore[852]. Ma i barbari selvaggi del Baltico, privi di gusto per le belle arti, disprezzavano gl'ideali terrori di una straniera superstizione[853].

Si riferisce un'altra circostanza di queste invasioni, che potrebbe meritare la nostra attenzione, se non si potesse giustamente supporre che sia bizzarro pensiero di un recente sofista. Dicesi che nel sacco di Atene i Goti aveano ammassate tutte le librerie, ed erano sul punto d'incendiare questa funerea mole della greca letteratura, se uno dei loro Capi, più raffinato politico, non gli avesse dissuasi da quel disegno, per la sottil riflessione, che fin che i Greci fossero addetti allo studio dei libri, non mai si applicherebbero all'esercizio delle armi[854]. Il sagace consigliere (se pur vero è il fatto) ragionava qual Barbaro ignorante. Tra le più culte e potenti nazioni il genio in ogni genere si è sviluppato intorno la stessa epoca; ed il secolo della scienza è generalmente stato il secolo del valore e della militare fortuna.

IV. I nuovi Sovrani della Persia, Artaserse ed il suo figliuolo Sapore, aveano trionfato, come abbiamo già detto, della famiglia di Arsace. Dei tanti Principi di quell'antica stirpe, il solo Cosroe, Re di Armenia, avea conservato e la vita e l'indipendenza. Ei si difese con la natural forza del suo paese, col perpetuo concorso dei fuggitivi e dei malcontenti, con l'alleanza dei Romani, e sopra tutto col suo proprio coraggio. Invincibile nelle armi, in una guerra di trent'anni, egli fu in ultimo assassinato dagli emissarj di Sapore Re di Persia. I patriotici Satrapi dell'Armenia, che sostenevano la libertà e lo splendore del trono, implorarono la protezione di Roma in favore di Tiridate legittimo erede. Ma il figliuolo di Cosroe era un ragazzo; erano gli alleati lontani, ed il Monarca Persiano si avanzava verso la frontiera conducendo insuperabili forze. Il giovane Tiridate, futura speranza della sua patria, fu salvato dalla fedeltà di un servo, e l'Armenia rimase per quasi ventisette anni una ricalcitrante provincia della gran Monarchia persiana[855]. Insuperbito da questa facile conquista, ed affidato alla depravazione dei Romani, Sapore obbligò le forti guarnigioni di Carre e di Nisibi ad arrendersi, e sparse la devastazione e il terrore dall'una e dall'altra parte dell'Eufrate.

A.D. 260

La perdita di una frontiera importante, la rovina di un fido e naturale alleato, ed il rapido successo dell'ambizione di Sapore, fecero profondamente sentire a Roma l'insulto, ed il pericolo. Valeriano confidò che la vigilanza dei suoi Generali provvederebbe bastantemente alla sicurezza del Danubio o del Reno; ma si risolse, non ostante l'avanzata sua età, di marciare in persona a difender l'Eufrate. Nel suo passaggio per l'Asia minore, furono sospese le navali imprese dei Goti, e la desolata provincia godè una calma passeggiera e fallace. Passò egli l'Eufrate, incontrò il Monarca persiano vicino alle mura di Edessa, fu vinto e fatto prigioniero da Sapore. Le particolarità di questo grande avvenimento sono oscuramente e imperfettamente riferite; ma dal barlume, che ne abbiamo, si può scoprire per parte del romano Imperatore una lunga serie d'imprudenze, d'errori, e di meritate sventure. Pose egli l'intera sua fiducia in Macriano suo Prefetto del Pretorio[856]. Questo indegno Ministro rendè il suo Sovrano formidabile solamente agli oppressi sudditi, e disprezzabile ai nemici di Roma[857]. Pe' deboli o scellerati consigli di lui fu l'esercito imperiale ridotto in una situazione, nella quale inutili erano ugualmente il valore e il saper militare[858]. I Romani, vigorosamente tentando di aprirsi la strada a traverso l'oste persiana, furono respinti con grande strage[859]; e Sapore, che circondava il campo con truppe superiori, pazientemente aspettò che il crescente furor della fame e della peste gli avesse assicurata la vittoria. Il licenzioso mormorar delle legioni accusò ben tosto Valeriano come cagione delle loro calamità; i loro sediziosi clamori dimandarono una pronta capitolazione. Venne offerta immensa somma d'oro per comprare la permissione di una vergognosa ritirata. Ma conoscendo il Persiano la propria superiorità, ricusò con disprezzo il danaro; e ritenendo i Deputati, si avanzò in ordine di battaglia ai piedi delle trinciere romane, o chiese una personale conferenza con l'Imperatore medesimo. Fu Valeriano ridotto alla necessità di affidare alla parola di un nemico la sua dignità e la sua vita. Finì la conferenza come si dovea naturalmente aspettare. L'Imperatore venne fatto prigioniero, e le truppe atterrite deposero le armi[860]. In un tal momento di trionfo, l'ambizione e la politica di Sapore lo mossero a porre sul trono vacante un successore affatto dipendente dal suo volere. Ciriade, oscuro fuggitivo di Antiochia, imbrattato di tutti i vizj, fu scelto per disonorare la romana porpora; e dovè, benchè di mala voglia, il prigioniero esercito ratificare con le acclamazioni la volontà del vincitore persiano[861].

Lo schiavo imperiale fu premuroso d'assicurarsi il favore del suo padrone con un atto di tradimento verso la patria. Passò con Sapore l'Eufrate, e lo condusse per la via di Calcide alla Metropoli dell'Oriente. Così rapidi furono i movimenti della persiana cavalleria, che se creder si deve ad un assai giudizioso Istorico[862], la città di Antiochia fu sorpresa in tempo che l'oziosa moltitudine era tutta intenta ai divertimenti del teatro. I magnifici edifizj di Antiochia, sì privati che pubblici, furono o saccheggiati o distrutti, ed i numerosi abitatori o caddero trucidati o vennero condotti in ischiavitù[863]. La risolutezza del gran Sacerdote di Emesa fece argine per un momento al torrente di quella devastazione. Adorno delle vesti sacerdotali, comparve alla testa di un numeroso corpo di fanatici contadini, armati solamente di fionde, e difese il suo Dio e il suo dominio contro le sacrileghe mani dei seguaci di Zoroastro[864]. Ma la rovina di Tarso, e di molte altre città è una trista prova, che (tranne questo sol caso) la conquista della Siria e della Cilicia appena interruppe il progresso dell'armi persiane. Erano abbandonati i vantaggiosi angusti passi del monte Tauro, nei quali un invasore, la cui principale forza consisteva nella cavalleria, si sarebbe trovato impegnato in un combattimento assai diseguale, e si lasciò che Sapore assediasse Cesarea, capitale della Cappadocia; città la quale, benchè di secondo ordine, si supponeva che contenesse quattrocentomila abitanti. Era Demostene comandante della piazza, non tanto per commissione dell'Imperatore, quanto per la volontaria difesa della sua patria. Egli allontanò per molto tempo il fato della medesima, e quando finalmente Cesarea fu tradita dalla perfidia di un medico, egli si aprì col ferro la strada a traverso i Persiani, che aveano ordine di usare le maggiori diligenze per prenderlo vivo. Questo eroico comandante fuggì il potere di un nemico, che avrebbe onorato o punito il suo ostinato valore; ma molte migliaia de' suoi concittadini perirono involte in una generale strage, e Sapore viene accusato di avere trattati i suoi prigionieri con una capricciosa ed insaziabile crudeltà[865]. Molto dovrebbe certamente accordarsi all'animosità nazionale, molto alla superbia umiliata, ed alla impotente vendetta; ma è certo soprattutto che lo stesso Principe, che aveva nell'Armenia spiegato il dolce carattere di legislatore, si mostrò ai Romani sotto il feroce aspetto di conquistatore. Disperando egli di fare alcuno stabilimento permanente nell'Impero, procurò solamente di lasciar dietro a se una devastata solitudine, mentre trasportava nella Persia il popolo e le ricchezze delle province[866].

Nel tempo che l'Oriente tremava al nome di Sapore, questi ricevè un dono non indegno dei Re più grandi, un lungo seguito di cammelli, carichi delle più rare e preziose mercanzie. La ricca offerta era accompagnata da una rispettosa, ma non servil lettera di Odenato, uno dei più nobili ed opulenti Senatori di Palmira. «Chi è questo Odenato» (disse il superbo vincitore, e comandò che fossero i doni gettati nell'Eufrate) «che così insolentemente ardisce di scrivere al suo Signore? S'egli spera addolcire il suo castigo, cada con le mani legate dietro le spalle prostrato a' piedi del nostro trono. S'egli indugia un momento, la distruzione si spargerà prontamente sulla sua testa, sull'intera sua stirpe e sulla sua patria»[867]. La disperata estremità, alla quale fu il Palmireno ridotto, mise in azione tutte le ascose potenze del suo spirito. Andò egli incontro a Sapore, ma con le armi, in mano. Comunicando il suo coraggio ad un piccolo esercito, raccolto dai villaggi della Siria[868], e dalle tende del deserto[869], si aggirò intorno all'oste persiana, l'affaticò nella ritirata, portò via parte del tesoro, e ciò ch'era più caro di ogni tesoro, molte donne del gran Re, il quale alla fine fu obbligato di ripassare l'Eufrate con qualche segno di fretta e di confusione[870]. Con questa impresa Odenato gettò i fondamenti della sua futura gloria e grandezza. La maestà di Roma, oppressa da un Persiano, fu sostenuta da un Soriano od Arabo di Palmira.

La voce della Storia, che spesso altro non è che l'organo dell'odio o dell'adulazione, rimprovera a Sapore un altiero abuso dei diritti della vittoria. Dicesi che Valeriano, incatenato ma rivestito della porpora imperiale, venne esposto alla moltitudine per un costante spettacolo di caduta grandezza, e che qualora il persiano Monarca montava a cavallo, posava il piede sul collo dell'Imperatore romano. Malgrado tutte le rimostranze de' suoi alleati, che reiteratamente l'avvertivano di rammentarsi le vicende della fortuna, di temere la risorgente potenza di Roma, o di servirsi dell'illustre suo prigioniero per pegno della pace e non per oggetto d'insulto, Sapore sempre rimase inflessibile. Dopo che Valeriano succumbè sotto il peso della vergogna e del dolore, la sua pelle impagliata a somiglianza di corpo umano fu conservata per varj secoli nel più illustre tempio della Persia; monumento più reale di trionfo, che gl'immaginarj trofei di bronzo e di marmo sì spesso eretti dalla vanità dei Romani[871]. Il racconto è morale e patetico, ma ne può essere facilmente messa in dubbio la verità. Le lettere, tuttora esistenti, dei Principi dell'Oriente a Sapore, sono manifeste imposture[872]; e non è naturale il supporre, che un geloso Monarca volesse (anche nella persona di un rivale) avvilire così pubblicamente la Maestà Reale. Qualunque trattamento però si fosse provato dall'infelice Valeriano nella Persia, è certo almeno che l'unico romano Imperatore, che mai cadesse nelle mani dei nemici, languì per tutta la sua vita in una prigionia senza speranza.

L'Imperatore Gallieno, che aveva lungamente sopportata con impazienza la censoria severità del suo padre e collega, ricevè la nuova delle sciagure di lui con segreto piacere e manifesta indifferenza. «Io ben sapeva,» egli disse «che mio padre era mortale, e giacchè si è mostrato uomo coraggioso, io son soddisfatto.» Mentre Roma deplorava il fato del suo Sovrano, la barbara freddezza del figliuolo di lui fu dai servili cortigiani celebrata come perfetta costanza di un eroe e di uno stoico[873]. È difficile il dipingere il leggiero, vario, ed incostante carattere di Gallieno, ch'esso spiegò senza ritegno, appena divenuto unico possessore dell'Impero. In ogni arte da lui tentata, il vivace suo ingegno lo assicurava del felice successo; e privo essendo di giudizio il suo ingegno, egli ogni arte tentò, fuorchè le sole importanti, della guerra e del governo. Era eccellente in molte curiose, ma inutili scienze, pronto oratore, elegante poeta[874], abile giardiniere, cuoco eccellente, e sprezzabilissimo Principe. Nel tempo che le grandi emergenze dello Stato richiedevano la sua presenza e la sua attenzione, egli s'occupava in discorsi col filosofo Plotino[875], consumava il suo tempo in frivoli o licenziosi piaceri, s'iniziava nei greci misterj, o faceva premure per ottenere un posto nell'Areopago di Atene. La sua profusa magnificenza insultava l'universal povertà; la ridicola solennità de' suoi trionfi faceva più profondamente sentire il pubblico disonore[876]. Egli riceveva con un sorriso indolente le ripetute notizie delle invasioni, delle disfatte, e delle ribellioni; e nominando con affettato disprezzo qualche particolar prodotto della perduta provincia, indolentemente dimandava se Roma sarebbe rovinata perchè più l'Egitto non le fornisse le tele di lino, e la Gallia le stoffe di Arras? Vi furono per altro pochi brevi momenti nella vita di Gallieno, nei quali inasprito da qualche ingiuria recente, comparve subitamente intrepido soldato e tiranno crudele; finchè saziato di sangue o stanco dalla resistenza, ricadeva insensibilmente nella natural placidezza e indolenza del suo carattere[877].

Mentre da tal mano erano sì lentamente tenute le redini del Governo, non è maraviglia, che in ogni provincia si suscitassero in folla gli usurpatori contro il figlio di Valeriano. Fu probabilmente ingegnosa fantasia di paragonare i trenta tiranni di Roma, coi trenta tiranni di Atene, che indusse gli Scrittori della Storia Augusta a scegliere quel famoso numero, che a poco a poco è degenerato in popolare denominazione[878]. Ma è per ogni verso vano e falso il paragone. Qual mai somiglianza può ritrovarsi tra un concilio di trenta persone, che unite opprimevano una sola città, e tra una incerta lista d'indipendenti rivali, che si innalzarono e caddero con irregolar successione, per tutta l'ampiezza di un vasto Impero? Nè può essere il numero dei trenta compito, se non vi s'includono ancora le donne e i fanciulli, che furono onorati col titolo imperiale. Il regno di Gallieno, disordinato come era, produsse soltanto diciannove pretendenti al trono; Ciriade, Macriano, Balista, Odenato, e Zenobia in Oriente; nella Gallia e nelle province occidentali, Postumo, Lolliano, Vittorino e sua madre Vittoria, Mario, e Tetrico; nell'Illirico e nei confini del Danubio, Ingenuo, Regilliano, ed Aureolo; nel Ponto[879], Saturnino; nell'Isauria, Trebelliano; Pisone nella Tessaglia; Valente nell'Acaia; Emiliano nell'Egitto; e Celso nell'Affrica. Chi volesse illustrare gli oscuri monumenti della vita e della morte di ognuno di essi, imprenderebbe un laborioso assunto, nè istruttivo, nè dilettevole. Possiamo contentarci d'investigare alcuni caratteri generali, che più vivamente distinguono le circostanze de' tempi, ed i costumi degli uomini, le loro pretensioni, i loro motivi, il lor fato, e le ruinose conseguenze della loro usurpazione[880].

È noto bastantemente, che l'odioso nome di tiranno fu spesso usato dagli antichi per esprimere l'illegittima occupazione del supremo potere, senza alcun rapporto all'abuso di quello. Diversi tra i pretendenti, che spiegarono lo stendardo della ribellione contro l'Imperatore Gallieno, erano illustri modelli di virtù e quasi tutti avevano una riguardevole dose di vigore e di abilità. Il merito avea procurato ad essi il favore di Valeriano, e gli avea gradatamente promossi ai più importanti Governi dell'Impero. I Generali, che presero il titolo di Augusto, erano o rispettati dalle loro truppe per l'esperta loro condotta e severa disciplina, o ammirati pel valore e per la fortuna in guerra, o amati per la loro franchezza e generosità. Il campo della vittoria fu spesso il teatro della loro elezione, e fino l'armaiuolo Mario, il più disprezzabile di tutti i pretendenti alla porpora, fu distinto pel suo intrepido coraggio, per l'incomparabil sua forza, e per la sua rozza onestà[881]. Il suo vile e recente mestiero dava, è vero, un'aria di ridicolezza alla sua elevazione; ma la sua nascita non poteva esser più oscura di quella della maggior parte de' suoi rivali, ch'erano nati da contadini, ed arrolati nell'armata come soldati privati. Nei tempi di confusione ogni genio attivo trova il posto assegnatogli dalla natura: in un generale stato di guerra il merito militare è la via della gloria e della grandezza. De' diciannove tiranni, Tetrico soltanto era Senatore: Pisone solo era nobile. Il sangue di Numa, per ventotto successive generazioni, scorreva nelle vene di Calfurnio Pisone[882], il quale per alleanze di donne pretendeva il diritto di esporre nella sua casa le immagini di Crasso e del gran Pompeo[883]. I suoi antenati erano stati replicatamente decorati di tutti gli onori che largir potea la Repubblica; e fra tutte le antiche famiglie di Roma, la Calfurnia soltanto era sopravvissuta alla tirannia dei Cesari. Le qualità personali di Pisone aggiungevano un nuovo lustro alla sua stirpe. L'usurpatore Valente, per ordine del quale fu ucciso, confessò con profondo rimorso, che un nemico pur anco avrebbe dovuto rispettare la santità di Pisone; e benchè morisse con le armi in mano contro Gallieno, il Senato, con generosa permissione dell'Imperatore, decretò i trionfali ornamenti alla memoria di un così virtuoso ribelle[884].

I Generali di Valeriano erano grati al padre ch'essi stimavano. Disdegnavano però di servire alla lussuriosa indolenza dell'indegno suo figlio. Il trono del Mondo romano non era sostenuto da alcun principio di lealtà; e un tradimento contro un tal Principe, poteva facilmente considerarsi come un atto di patriottismo. Se esaminiamo però con candore la condotta di questi usurpatori, vedremo che furono più spesso indotti alla ribellione dai loro timori, che spinti dall'ambizione. Essi temevano i crudeli sospetti di Gallieno; e paventavano ugualmente la capricciosa violenza delle loro truppe. Se il pericoloso favore dell'esercito gli aveva imprudentemente dichiarati degni della porpora, erano destinati ad una sicura distruzione; e la prudenza stessa li consigliava ad assicurarsi un breve godimento dell'Impero, e piuttosto a tentar la sorte dell'armi, che ad aspettar la mano di un carnefice. Quando il favor de' soldati rivestiva le ripugnanti vittime con le insegne della sovrana autorità, esse talvolta si lagnavano in segreto del vicino lor fato. «Voi avete perduto,» diceva Saturnino nel giorno della sua elevazione, «voi avete perduto un utile Comandante, ed avete fatto un miserabilissimo Imperatore»[885].

I timori di Saturnino furono giustificati dalla replicata esperienza delle rivoluzioni. De' diciannove Tiranni, che insorsero sotto il Regno di Gallieno, non ve ne fu alcuno, che godesse una vita pacifica, o morisse di una morte naturale. Appena erano rivestiti della sanguigna porpora, destavano ne' loro aderenti gli stessi terrori e la stessa ambizione, che avea data occasione alla propria lor ribellione. Circondati da domestiche cospirazioni, da militari sedizioni, e dalla guerra civile, tremavano sull'orlo del precipizio, nel quale, dopo un più lungo o più breve giro di angustie, inevitabilmente cadevano. Questi precarj Monarchi ricevevano però quegli onori, che l'adulazione delle respettive armate e province poteva ad essi concedere; ma la loro pretensione, sul ribellamento fondata non potè mai ottenere la sanzione della legge o della Storia. L'Italia, Roma e il Senato costantemente aderirono alla causa di Gallieno, ed egli solo fu considerato come Serrano dell'Impero. Questo Principe condiscese, per verità, a riconoscere le vittoriose armi di Odenato, che meritò questa onorifica distinzione per la rispettosa condotta da lui sempre tenuta verso il figliuolo di Valeriano. Con generale applauso dei Romani e col consenso di Gallieno, il Senato conferì titolo di Augusto al valoroso Palmireno; e parve affidargli il governo dell'Oriente, da lui già posseduto così indipendentemente, che come successione privata Io lasciò alla illustre sua vedova Zenobia[886].

I rapidi e continui passaggi dalla capanna al trono, e dal trono alla tomba avrebbero potuto divertire un indifferente filosofo; se possibil fosse ad un filosofo di rimanere indifferente in mezzo alle universali calamità del Genere Umano. L'elezione di questi effimeri Imperatori, la potenza, e la morto loro erano ugualmente ruinose pe' loro sudditi e pe' loro aderenti. Il prezzo della fatale loro elevazione era subito pagato alle truppe, con un immenso donativo, tratto dalle viscere di un popolo già spossato. Per virtuoso che fosse il loro carattere, e pure le loro intenzioni, si trovavano essi ridotti alla dura necessità di sostenere la loro usurpazione con frequenti atti di rapina e di crudeltà. Quando essi cadevano, involgevano gli eserciti e le province nella loro caduta. Esiste tuttora un barbaro mandato di Gallieno ad uno de' suoi ministri, dopo la soppressione d'Ingenuo, che presa aveva la porpora nell'Illirico. «Non basta» (dice questo debole, ma inumano Principe) «che voi esterminiate quelli che sono comparsi armati; la sorte di una battaglia avrebbe ugualmente potuto servirmi. I maschi di ogni età devono estirparsi, purchè nell'esecuzione de' ragazzi e de' vecchi voi possiate trovar mezzi per salvare la nostra riputazione. Muoia chiunque ha lasciata cadere una parola, ed ha formato un pensiero cattivo contro di me, contro di me, figlio di Valeriano, padre e fratello di tanti Principi[887]. Ricordatevi che Ingenuo fu fatto Imperatore: lacerate, uccidete, mettete in pezzi. Io vi scrivo di propria mano, e vorrei ispirarvi i miei propri sentimenti»[888]. Mentre le pubbliche forze dello Stato si dissipavano in private contese, le inermi province giacevano esposte ad ogni invasore. I più coraggiosi usurpatori furono sforzati dalla incertezza della lor situazione a concludere ignominiosi trattati col comune inimico, a comprare con gravosi tributi la neutralità o il soccorso dei Barbari, e ad introdurre ostili ed indipendenti nazioni nel centro della romana Monarchia[889].

Tali furono i Barbari e tali i Tiranni, i quali, sotto i regni di Valeriano e di Gallieno, smembrarono le province e ridussero l'Impero all'ultimo grado di disonore e di rovina, dal quale impossibil parea che fosse mai per risorgere. Per quanto poteva la scarsezza de' materiali permettere, abbiamo tentato di esporre con ordine e chiarezza i generali avvenimenti di questo calamitoso periodo. Rimangono ancora alcuni fatti particolari; I. i disordini dalla Sicilia; II. i tumulti di Alessandria; III. la ribellione degli Isaurici, che può servire a mettere in maggior lume l'orrida pittura.

I. Ogni qualvolta numerose truppe di banditi, moltiplicati per la fortuna e per l'impunità, pubblicamente sfidano, in vece di eluderla, la giustizia della lor patria, si può sicuramente inferire, che gli ordini più bassi della società sentono l'eccessiva debolezza del Governo, e ne abusano. La situazione della Sicilia la preservava dai Barbari; nè avrebbe quella inerme provincia potuto sostenere un usurpatore. Fu quella, una volta florida e tuttora fertile isola, angustiata da mani più vili. Una licenziosa turma di schiavi e contadini regnò per un tempo sul devastato paese, e rinnovò la memoria delle antiche guerre servili[890]. Le devastazioni, delle quali l'agricoltore era o vittima o complice, debbono aver rovinata l'agricoltura della Sicilia; e siccome i principali beni appartenevano agli opulenti Senatori di Roma, che spesso racchiudevano in una sola tenuta il territorio di una antica Repubblica, non è improbabile che questa privata ingiuria fosse alla Capitale più sensibile di tutte le conquiste de' Goti o de' Persiani.

II. La fondazione di Alessandria fu una nobile idea, concepita insieme ed eseguita dal figliuol di Filippo. La bella e regolare forma di quella grande città, inferiore soltanto a Roma, comprendeva una circonferenza di quindici miglia[891]; era popolata da trecentomila abitanti liberi, ed in oltre da un numero almeno uguale di schiavi[892]. Il lucroso commercio della Arabia e dell'India passava pel porto di Alessandria alla Capitale ed alle province dell'Impero. L'ozio vi era ignoto. Erano alcuni impiegati nelle manifatture de' vetri, altri in tessere tele di lino, ed altri in lavorare il papiro. Ogni sesso ed ogni età era occupata ne' lavori d'industria; nè mancavano ai ciechi o agli storpiati occupazioni convenienti alla lor condizione[893]. Ma il popolo di Alessandria, mescuglio di varie nazioni, univa la vanità e l'incostanza de' Greci alla superstizione ed ostinazione degli Egiziani. La più frivola occasione, una passeggiera scarsità di carni o di lenti, l'ommissione di un ordinario saluto, uno sbaglio di precedenza ne' bagni pubblici, od anche una disputa di religione[894] furono sempre bastanti ad accendere una sedizione tra quella numerosa moltitudine, i cui risentimenti erano furiosi ed implacabili[895]. Poscia che, per la prigionia di Valeriano e l'indolenza del suo figliuolo, fu indebolita l'autorità delle leggi, gli Alessandrini si abbandonarono allo sfrenato furore delle proprie passioni, e l'infelice loro patria fu il teatro di una guerra civile, che durò (con poche, corte e sospette tregue) quasi dodici anni[896]. Fu ogni commercio interrotto tra i diversi quartieri dell'afflitta città, ogni contrada macchiata di sangue, ogni forte edifizio convertito in cittadella; nè cessò il tumulto finchè una considerabile porzione di Alessandria non giacque irreparabilmente rovinata. Lo spazioso e magnifico distretto del Bruchion co' suoi palazzi, ed il Museo, residenza de' Re e de' filosofi dell'Egitto, viene, quasi un secolo dopo, descritto, come già ridotto al suo presente stato di spaventevole solitudine[897].

III. L'oscura ribellione di Trebelliano, che prese la porpora nella Isauria, piccola provincia dell'Asia minore, ebbe le più strane e memorabili conseguenze. Quel simulacro di sovranità fu presto distrutto da un uffiziale di Gallieno; ma i suoi seguaci disperando del perdono, deliberarono di sciogliersi dalla fedeltà giurata non solo all'Imperatore, ma ancora all'Impero, e improvvisamente ritornarono a' loro selvaggi costumi, de' quali non si erano mai perfettamente spogliati. Le scoscese lor rupi, che parte facevano dell'immenso Tauro, proteggevano l'innacessibil loro ritiro. Dalla coltivazione di alcune fertili valli[898] ricavavano essi il necessario della vita, e gli agi dall'uso della rapina. Nel centro della romana Monarchia, gli Isaurici lungamente continuarono ad essere una nazione di barbari selvaggi. I Principi successivi, inabili a sottometterli con l'armi o con la politica, dovettero confessare la propria debolezza, circondando l'ostile e indipendente cantone con una salda catena di fortificazioni[899], che furono spesso insufficienti a impedire le incursioni di quei domestici nemici. Gl'Isaurici estesero a poco a poco il lor territorio fino alla costa marittima, soggiogarono l'occidentale e montuosa parte della Cilicia, nido un tempo di quegli audaci pirati, contro i quali la Repubblica era stata una volta costretta ad impiegare la sua maggior forza sotto la condotta del gran Pompeo[900].

Il nostro modo di pensare connette sì volentieri l'ordine dell'Universo col destino dell'uomo, che questo tenebroso periodo di storia è stato illustrato con inondazioni, terremoti, straordinarie meteore, soprannaturali caligini, e con una folla di falsi esagerati prodigi[901]. Ma una lunga e generale carestia fu ben più grave calamità. Fu questa l'inevitabile conseguenza della rapina e dell'oppressione, ch'estirpava il prodotto delle raccolte presenti, e la speranza delle future. La carestia vien quasi sempre seguita da mali epidemici, effetto del cibo scarso ed insalubre. Altre cagioni però possono avere contribuito alla furiosa peste, che dall'anno dugentocinquanta all'anno dugentosessantacinque, infierì senza interrompimento in ogni provincia, in ogni città e quasi in ogni famiglia dell'Impero romano. Per qualche tempo morirono giornalmente in Roma cinquemila persone; e rimasero interamente spopolate[902] molte città, ch'erano scampate dalle mani dei Barbari.

Abbiamo notizia di un'assai curiosa circostanza, forse non inutile nel malinconico computo delle umane calamità. Si teneva in Alessandria un esatto registro di tutti i cittadini, autorizzati a ricevere la distribuzione del grano. Si trovò che l'antico numero di quelli compresi tra l'età de' quaranta e de' sessant'anni, era stato uguale all'intera somma de' postulanti dai quindici anni fino agli ottanta, che restarono vivi dopo il regno di Gallieno[903]. Applicando questo fatto autentico alle più corrette tavole della mortalità, esso prova evidentemente, ch'era quasi perita la metà del popolo di Alessandria; e se ci potessimo arrischiare ad estendere l'analogia alle altre province, potremmo sospettare che la guerra, la peste e la fame avessero, in pochi anni, consumata la metà del Genere Umano[904].

FINE DEL VOLUME PRIMO.

INDICE

DEI CAPITOLI E DELLE MATERIE CHE SI CONTENGONO NEL PRIMO VOLUME

CAPITOLO I. Estensione e forza militare dell'Impero, nel secolo degli Antonini.

A. D.

Introduzione pag. 1

Moderazione di Augusto 2

Imitato da' suoi successori 4

La conquista della Britannia fu la prima eccezione 4

Seconda eccezione. Conquista della Dacia 7

Conquiste di Traiano nell'Oriente 9

Restituite da Adriano suo successore 10

Parallelo di Adriano ed Antonino Pio 11

Sistema pacifico di Adriano e dei due Antonini 12

Stabilimenti militari degl'Imperatori Romani 13

Disciplina 15

Esercizj 16

Le legioni sotto gl'Imperatori 18

Armi 19

Cavalleria 21

Truppe ausiliarie 22

Artiglieria 23

Accampamenti 24

Marce 25

Numero e disposizione delle legioni 25

Marineria 27

Quadro delle Province dell'Impero Romano 29

Spagna 29

Gallia 30

Britannia 31

Italia 32

Il Danubio e la frontiera Illirica 33

La Rezia 33

Il Norico e la Pannonia 34

La Dalmazia 34

La Mesia e la Dacia 35

La Tracia, la Macedonia e la Grecia 35

Asia Minore 36

Siria, Fenicia e Palestina 37

Affrica 38

Mediterraneo e sue Isole 40

Idea generale dell'Impero Romano 40

CAPITOLO II. Unione ed interna prosperità del Romano Impero nel secolo degli Antonini.

Principj del Governo 42

Spirito universale di tolleranza 43

Del Popolo 43

Dei Filosofi 45

Dei Magistrati 47

Nelle Province 48

In Roma 48

Dell'Italia 51

Le Province 53

Colonie e città municipali 54

Divisione delle Province Greche e Latine 56

Uso generale delle due lingue 59

Schiavi 60

Lor trattamento 60

Liberti 61

Numero degli schiavi 63

Popolazione dell'Impero Romano 64

Obbedienza ed unione 65

Monumenti Romani 66

Molti di quelli, innalzati a spese de' privati 66

Esempio di Erode Attico 68

Quasi tutti i monumenti dei Romani consacrati all'uso pubblico, templi, teatri, acquidotti ec. 71

Numero e grandezza dell'Impero 73

Nell'Italia 73

Nella Gallia e nella Spagna 73

Nell'Affrica 74

Nell'Asia 74

Vie Romane 76

Poste 77

Navigazione 78

Progresso dell'agricoltura nelle Province Occidentali dell'Impero 79

Introduzione de' fiori e frutti 79

Vino 80

Olivi 80

Lino 81

Prati artificiali 81

Fertilità generale 81

Arti di lusso 81

Commercio straniero 82

Oro ed argento 84

Felicità generale 85

S'indebolisce il coraggio 85

Il talento 86

Degenerazione 88

CAPITOLO III. Costituzione del Romano Impero nel secolo degli Antonini.

Idea d'una Monarchia 89

Situazione di Augusto 89

Riforma del Senato 90

Augusto depone l'usurpato potere 91

È forzato a riassumerlo con il titolo d'Imperatore o sia Generale 92

Potere dei Generali Romani 93

Luogotenenti dell'Imperatore 95

Divisione delle Province tra l'Imperatore, ed il Senato 96

Il primo conserva il comando militare e le sue guardie in Roma medesima 96

Potenza consolare e tribunizia 97

Prerogative imperiali 99

Magistrati 99

Il Senato 101

Idea generale del sistema imperiale 102

Corte degl'Imperatori 102

Apoteosi 103

I titoli di Augusto e di Cesare 105

Carattere e politica di Augusto 106

Immagine della libertà popolare 107

Tentativi del Senato dopo la morte di Caligola 108

Immagine del governo riguardo agli eserciti 108

Loro obbedienza 109

Destinazione di un successore 110

Di Tito 111

Stirpe dei Cesari e della famiglia Flavia 111

96-98 Adozione e carattere di Traiano 112

117 Di Adriano 113

Adozione dei due Veri 114

Adozione dei due Antonini 115

Carattere e regno di Antonino Pio 116

Di Marc'Aurelio 116

Felicità dei Romani 118

Natura precaria della medesima 118

Memoria di Tiberio, di Caligola, di Nerone, di Domiziano 119

Miseria particolare dei Romani sotto i loro tiranni 120

Insensibilità degli Orientali 120

Spirito illuminato dei Romani, e memorie della lor libertà 121

L'estensione del loro Impero impediva ogni asilo 123

CAPITOLO IV. Crudeltà, pazzie ed uccisioni di Commodo. Elezione di Pertinace. Suoi tentativi per riformare lo Stato. È trucidato dai Pretoriani.

Indulgenza di Marc'Aurelio 125

Verso la sua moglie Faustina 125

Verso il suo figlio Commodo 127

Avvenimento dell'Imperator Commodo 127

Carattere di Commodo 128

Ritorna a Roma 129

183 È ferito da un assassino 130

Odio e crudeltà di Commodo verso il Senato 131

I fratelli Quintilj 132

186 Il ministro Perenne 132

Ribellione di Materno 133

Il ministro Cleandro 135

Sua avarizia e crudeltà 135

189 Sedizione, e morte di Cleandro 137

Piaceri dissoluti di Commodo 138

Commodo fa mostra della sua abilità nell'anfiteatro 141

Combatte da gladiatore 142

Sua infamia e stravaganza 143

Cospirazione dei domestici 144

192 Morte di Commodo 145

Pertinace eletto Imperatore 145

È riconosciuto da' Pretoriani 147

193 E dal Senato 147

Virtù di Pertinace 149

Procura di riformare lo Stato 150

Suoi regolamenti 150

Sua popolarità 152

Scontentezza de' Pretoriani 152

Congiura prevenuta 153

193 Pertinace ucciso da' Pretoriani 153

CAPITOLO V. I Pretoriani vendono pubblicamente l'Impero a Didio Giuliano. Clodio Albino nella Britannia, Pescennio Negro nella Siria, e Settimio Severo nella Pannonia si dichiarano contro gli assassini di Pertinace. Guerre civili e vittorie di Severo sopra i suoi tre rivali. Rilassamento della disciplina. Nuove massime di governo.

Proporzione della forza militare col numero del Popolo 155

I Pretoriani 156

Loro istituzione 156

Il loro campo 157

Loro forza e loro ardire 157

Loro speciosi diritti 158

Mettono l'Impero all'incanto 159

193 Giuliano lo compra 160

Giuliano è riconosciuto dal Senato 160

Prende possesso del palazzo 161

Il Pubblico malcontento 162

Gli eserciti della Britannia, della Siria, e della Pannonia si dichiarano contro Giuliano 162

Clodio Albino nella Britannia 163

Pescennio Negro nella Siria 165

La Pannonia e la Dalmazia 166

Settimio Severo 167

193 Dichiarato Imperatore dalle legioni Pannoniche 168

Si avanza verso Roma 169

Angustie di Giuliano 169

Sua incertezza 170

È abbandonato da' Pretoriani 171

193 Condannato e decapitato per ordine del Senato 172

Disgrazia de' Pretoriani 172

Funerali e apoteosi di Pertinace 173

Successi di Severo contro Negro ed Albino 174

Contro Negro 175

Verso Albino 176

Esito delle guerre civili 177

Deciso da una o due battaglie 178

Morti di Negro e di Albino. Conseguenze crudeli delle guerre civili 180

Animosità di Severo contro il Senato 181

Saviezza e giustizia del suo governo 182

Pace e prosperità generale 183

Rilassamento della militar disciplina 183

Nuovo stabilimento de' Pretoriani 185

Uffizio del Prefetto dei Pretoriani 186

Nuove massime della prerogativa imperiale 187

CAPITOLO VI. Morte di Severo. Tirannia di Caligola. Usurpazione di Macrino. Pazzia dì Elagabalo. Virtù di Alessandro Severo. Sfrenata licenza dell'esercito. Stato generale delle finanze romane.

Grandezza e dispiaceri di Severo 189

L'Imperatrice Giulia sua consorte 189

I due loro figli Caracalla e Geta 191

Loro scambievole avversione 191

Tre Imperatori 192

208 Guerra de' Caledonj 192

Fingal, ed i suoi eroi 193

Parallelo de' Caledonj, e de' Romani 194

Ambizione di Caracalla 194

211 Morte di Severo, ed avvenimento de' suoi due figli 195

Gelosia, ed odio dei due Imperatori 196

217 Uccisione di Geta 198

Rimorso e crudeltà di Caracalla 200

Morte di Papiniano 201

213 La tirannia di Caracalla si estende per tutto l'Impero 203

Rilassamento della disciplina 204

217 Assassinio di Caracalla 205

Imitazione di Alessandro il Macedone 206

217 Elezione e carattere di Macrino 207

Il Senato malcontento 208

L'esercito malcontento anch'esso 209

Macrino procura di riformare l'esercito 210

218 Morte dell'Imperatrice Giulia. Educazione, pretensioni, e ribellioni di Elagabalo, chiamato prima Bassiano e Antonino 211

218 Disfatta e morte di Macrino 213

Elagabalo scrive al Senato 214

219 Ritratto di Elagabalo 216

Sua superstizione 216

Sue sfrenate dissolutezze 218

Disprezzo che i tiranni di Roma aveano per le leggi della decenza 220

I soldati malcontenti 220

222 Sedizione dei Pretoriani, ed uccisione di Elagabalo 222

Avvenimento di Alessandro Severo 222

Potere della sua madre Mammea 223

Saviezza e moderazione del suo governo 225

Educazione e virtuoso carattere di Alessandro 226

Giornale della sua vita ordinaria 226

222 Felicità generale dei Romani 228

Alessandro ricusa il nome di Antonino 228

Sedizione dei Pretoriani e uccisione di Ulpiano 230

Pericolo che corse Dione Cassio 231

Tumulti delle legioni 232

Fermezza dell'Imperatore 232

Difetti del suo regno e del suo carattere 234

Digressione sulle finanze dell'Impero 235

Imposizione del tributo sopra i cittadini romani 236

Il tributo abolito 237

Tributi delle Province 237

Dell'Asia 238

Dell'Egitto 238

Della Gallia 238

Dell'Affrica 238

La Spagna 239

Dell'isola di Giera 239

Somma dell'entrate 240

Tasse imposte da Augusto sui cittadini romani 240

Gabelle 241

Imposizione sulle vendite 242

Tassa sui legati e sulle eredità 243

Conforme alle leggi ed ai costumi 244

Regolamenti degl'Imperatori 245

Editto di Caracalla 246

La cittadinanza data a tutti i Provinciali, per sottometterli alle tasse 247

Diminuzione passeggera del tributo 247

Conseguenze dell'universale cittadinanza romana 248

CAPITOLO VII. Innalzamento al trono, e tirannia di Massimino. Ribellione nell'Affrica e nell'Italia, autorizzata dal Senato. Guerre civili, e sedizioni. Morti violente di Massimino e del suo figlio, di Massimo, e di Balbino, e dei tre Gordiani. Usurpazione, e giuochi secolari di Filippo.

Ridicolo apparente e solidi vantaggi della successione ereditaria 249-250

La sua mancanza nell'Impero produce le maggiori calamità 250

Nascita e fortuna di Massimino 252

Suoi impieghi ed onori militari 253

235 Congiura di Massimino 253

Morte di Alessandro Severo 255

Tirannia di Massimino 256

Oppressione delle Province 258

237 Ribellione in Affrica 259

Carattere ed innalzamento dei due Gordiani 260

Sollecitano la conferma della loro autorità 263

Il Senato ratifica l'elezione dei Gordiani 263

Dichiara Massimino pubblico nemico 265

Prende il comando di Roma e dell'Italia 265

E si prepara ad una guerra civile 266

237 Disfatta e morte dei due Gordiani 267

Il Senato elegge Massimo e Balbino 267

Loro caratteri 269

Tumulto in Roma. Il più giovane Gordiano è dichiarato Cesare 270

Massimino si prepara a far la guerra al Senato, ed ai nuovi Imperatori 271

238 Marcia verso l'Italia 272

Assedio di Aquileia 273

Condotta di Massimo 275

Uccisione di Massimino e del suo figliuolo 275

Suo ritratto 276

Allegrezza dell'Impero Romano 277

Sedizione in Roma 278

I Pretoriani malcontenti 279

238 Uccisione di Massimo e di Balbino 280

Il terzo Gordiano resta solo Imperatore 281

Innocenza e virtù di Gordiano 282

240 Amministrazione di Misiteo 283

242 Guerra persiana 283

244 Assassinamento di Gordiano 285

Sistema di una Repubblica militare 285

Regno di Filippo 287

248 Giuochi secolari 287

Decadenza dell'Impero Romano 288

CAPITOLO VIII. Stato della Persia dopo il ristabilimento della Monarchia per opera di Artaserse.

I Barbari dell'Oriente e del Settentrione 290

Rivoluzioni dell'Asia 291

La Monarchia Persiana ristabilita da Artaserse 292

Riforma della religione dei Magi 293

Teologia Persiana; due principj 295

Culto religioso 297

Cerimonie e precetti morali 298

Incoraggiamento dell'agricoltura 298

Potere dei Magistrati 300

Spirito di persecuzione 302

Stabilimento dell'autorità reale nelle Province 303

Estensione e popolazione della Persia 304

Ricapitolazione della guerra tra i Parti ed i Romani 305

165-198 Le città di Seleucia e di Ctesifonte 306

Conquista di Osroene fatta dai Romani 308

230 Artaserse pretende le Province dell'Asia, e dichiara la guerra, ai Romani 309

Supposta vittoria di Alessandro Severo 310

Relazione più probabile della guerra 312

240 Carattere e massime di Artaserse 313

Forza militare dei Persiani 314

Debolezza della loro infanteria 315

Cavalleria eccellente 315

CAPITOLO IX. Stato della Germania fino all'invasione dei Barbari al tempo dell'Imperator Decio.

Estensione della Germania 317

Clima 318

Suoi effetti sopra i naturali del paese 320

Origine dei Germani 321

Favole e congetture 322

I Germani non conoscevano l'uso delle lettere 324

Ignoranti nelle arti e nell'agricoltura 325

Non conoscevano l'uso dei metalli 327

Loro indolenza 328

Loro amore per le bevande spiritose 330

Stato della popolazione 331

Libertà dei Germani 332

Assemblee del Popolo 334

Autorità dei Principi e dei Magistrati 335

Più assoluti sui beni che sulle persone dei Germani 336

Obbligazioni volontarie 336

Castità dei Germani 338

Sue probabili cagioni 339

Religione 341

Suoi effetti nella pace 342

Nella guerra 343

I Bardi 344

Cagioni, che impedirono i progressi de' Germani 345

Mancanza d'armi 345

Mancanza di disciplina 346

Dissensioni civili della Germania 348

Fomentate dalla politica romana 349

Unione passeggera contro Marco Antonino 350

Divisione delle Tribù dei Germani 351

Loro numero 352

CAPITOLO X. Gl'Imperatori Decio, Gallo, Emiliano, Valeriano, e Gallieno. Irruzione generale dei Barbari. I trenta tiranni.

248-268 Natura del soggetto 353

L'Imperatore Filippo 354

249 Servigi, ribellione e vittoria dell'Imperatore Decio 354

250 Marcia contro i Goti 356

Origine dei Goti dalla Scandinavia 356

Religione dei Goti 358

Istituzioni e morte di Odino 359

Bella, ma incerta, ipotesi riguardo ad Odino 360

Emigrazione dei Goti dalla Scandinavia nella Prussia 360

Dalla Prussia nell'Ucrania 362

La nazione dei Goti si aumenta nel marciare 363

Descrizione dell'Ucrania 365

I Goti invadono le Province Romane 365

250 Eventi diversi della Guerra Gotica 367

251 Decio ristabilisce la carica di Censore nella persona di Valeriano 368

Disegno impraticabile e senza effetto 370

Disfatta e morte di Decio e di suo figlio 371

251-252 Elezione di Gallo 373

I Goti si ritirano 374

Gallo compra la pace pagando un annuo tributo 374

Disgusto popolare 375

253 Vittoria e ribellione di Emiliano 375

253 Gallo abbandonato ed ucciso 376

253 Valeriano vendica la morte di Gallo, ed è riconosciuto Imperatore 377

Carattere di Valeriano 378

253 Sventure generali dei regni di Valeriano e Gallieno 379

Irruzioni dei Barbari 379

Origine e confederazione dei Franchi 379

Invadono la Gallia 381

Devastano la Spagna 382

Un corpo misto di Svevi prende il nome di Alemanni 384

Invadono la Gallia, e l'Italia 385

Il Senato ed il Popolo li rispingono da Roma 385

Gallieno esclude i Senatori dal servizio militare 385

Gallieno fa alleanza cogli Alemanni 386

Invasione dei Goti 387

I Goti conquistano il Bosforo 388

Prima spedizione navale dei Goti 390

I Goti assediano e prendono Trebisonda 391

Seconda spedizione dei Goti 392

Ritirata dei Goti 393

Terza spedizione navale dei Goti 394

Passano il Bosforo e l'Ellesponto 395

Devastano la Grecia, e minacciano l'Italia 396

Loro divisioni e loro ritirata 396

Rovina del Tempio di Efeso 398

Condotta dei Goti in Atene 399

I Persiani conquistano l'Armenia 400

Valeriano marcia in Oriente 401

260 È sconfitto e fatto prigioniero da Sapore Re di Persia 401

Sapore scorre la Siria, la Cilicia e la Cappadocia 403

Ardire e successi di Odenato contro Sapore 405

Trattamento fatto a Valeriano 406

Carattere ed amministrazione di Gallieno 407

Il reale lor numero non era più di diciannove 410

Carattere e merito de' tiranni 410

Oscurità della loro nascita 411

Causa della loro ribellione 412

Loro morti violente 413

Fatali conseguenze di queste usurpazioni 414

Disordini della Sicilia 416

Tumulti di Alessandria 417

Ribellione degl'Isaurici 418

Fame e peste 419

Diminuzione della specie umana 420

FINE DELL'INDICE

NOTE:

1. Il Fabbroni, a quanto ne viene scritto da Pisa, non v'ebbe altra parte che nella spesa. Il primo tomo fu volgarizzato dal Gonnella. Gli altri tomi, dal 2 al 10, ebbero il professore Foggi per traduttore. La versione Pisana conduce l'Istoria del Gibbon sino alla disgrazia di Belisario.

2. Il traduttore Pisano ha seguito la prima edizione di Londra, che fu poscia riveduta ed accresciuta dall'Autore come egli stesso ne avverte:

The History of the Decline and Fall of the Roman Empire is now delivered to the Public in a more convenient form. Some alterations and improvements had presented themselves to my mind ecc. April 20, 1783. Pag. VIII dell'edizione inglese sopra citata.

3.

Esempj d'imperfezioni.

Tomo I.º pag. 3 ediz. ingl.

The experience of Augustus added weight to these salutary reflections, and effectually convinced him, that, by the prudent vigour of his counsels, it would be easy to secure every concession, which the safety or the dignity of Rome might require from the most formidable Barbarians.

Nella traduzione Pisana manca tutto il segnato in corsivo.

Tomo I.º pag. 400 ediz. ingl.

Montesquieu, Grandeur et Decadence des Romains. C. VII. He illustrates the nature and use of the censorship with his usual ingenuity and with uncommon precision.

Manca tutto il passo.

Tomo I.º pag. 444, cap. X ediz. ingl.

This singular character has, I believe, been fairly transmitted to us. The reign of his immediate successor was short and busy; and the historians who wrote before the elevation of the family of Constantine, could not have the most remote interest to misrepresent the character of Gallienus.

Manca tutto il passo.

Tomo II.º pag. 42 ediz. ingl.

Though the camel is a heavy beast of burden, the dromedary, who is either of the same or of a kindred species, is used by the natives of Asia and Affrica on all occasions which require celerity. The Arabs affirm, that he will run over as much ground in one day, as their fleetest horses can perform in eight or ten. See Buffon hist. naturelle, t. XI p. 222 and Shaw's Travels, p. 167.

Manca tutto il passo.

Tomo II.º pag. 303 ediz. ingl.

The testimony of Justin, of his own faith and that of his orthodox brethren, in the doctrine of a Millenium, is delivered in the clearest and most solemn manner (Dialog cum Tryphonte Jud. p. 177, 178, edit. Benedictin.). If in the beginning of this important passage there is any thing like an inconsistency, we may impute it, as we think proper, either to the author or to his transcribers.

Manca tutto il passo.

Esempj di mutazioni e riforme.

Tomo I.º pag. 78 ediz. ingl.

The spirit of improvement had passed the Alps, and been felt even in the woods of Britain, which were gradually cleared away to open a free space, for convenient and elegant habitations. York was the seat of governement; London was already enriched by commerce; and Bath was celebrated for the salutary effects of his medicinal waters.

Traduzione Pisana.

Lo spirito di miglioramento avea passato le alpi, e si sentiva ancora nei boschi della Britannia. York era la sede del Governo, e già Londra si arricchiva col commercio.

Detta Traduzione emendata.

Tomo I.º pag. 86.

Lo spirito di miglioramento avea passato le alpi, e si sentiva perfino nei boschi della Britannia, che a poco a poco venivano scomparendo per dar luogo a comode ed eleganti abitazioni. York era la sede del Governo, Londra già si arricchiva col commercio, e Bath era celebre pel salutare effetto delle medicinali sue acque.

Tomo I.º pag. 411 ediz. ingl.

The consciousness of his decline engaged him to share the throne with a younger and more active associate: the emergency of the times demanded a general no less than a prince; and the experience of the Roman censor might have directed him where to bestow the Imperial purple, as the reward of military merit. But instead of making a judicious choice, which would have confirmed his reign and endeared his memory, Valerian, consulting only the dictates of affection or vanity, immediately invested with the supreme honours his son Gallienus, a youth whose effeminate vices had been hitherto concealed by the oscurity of a private station. The joint governement of the father and the son subsisted about seven, and the sole administration of Gallienus continued about eight years. But the whole period was one uninterrupted series of confusion and calamity.

Traduzione Pisana.

Forse le circostanze dei tempi richiedevano i talenti di un soldato, non meno che la virtù di un Censore: ma l'intero regno di Valeriano, che insieme con quel di Gallieno suo figliuolo, collega e successore, durò quindici anni, fu una continua serie di confusione e di calamità.

Detta Traduzione emendata.

La conoscenza del suo declinare lo trasse a dividere il trono con un più giovine e più attivo collega: le necessità de' tempi chiedevano un Generale non meno che un Principe; e la sperienza del romano Censore avrebbe dovuto guidarlo nel conferire la porpora imperiale a chi la maritasse, qual ricompensa di guerriere virtù. Ma in cambio di fare una giudiziosa scelta, che avrebbe assodato il suo regno e fatto amare la sua memoria, Valeriano, non consultando che i dettami dell'affetto o della vanità, immediatamente investì de' supremi onori il suo figliuolo Gallieno, giovane i cui effeminati vizj erano fino allora rimasti ascosi dall'oscurità di una condizione privata. Il governo congiunto del padre e del figlio durò circa sette anni, e l'amministrazione sola di Gallieno continuò circa ott'anni. Ma tutto quel periodo di tempo fu una serie non interrotta di confusione e di calamità.

Tomo I.º pag. 443 ed. ingl.

But as the use of irony may seem unworthy of the gravity of the Roman mint, M. de Vallemont has deduced from a passage of Trebellius Pollio (Hist. Aug. p. 198) an ingenious and natural solution. Galliena was first cousin to the emperor. By delivering Africa from the usurper Celsus, she deserved the title of Auguste. On a medal in the French King's collection, we read a similar inscription of Faustina Augusta round the head of Marcus Aurelius. With regard to the Ubique Pax, it is easily explained by the vanity of Gallienus, who seized, perhaps, the occasion of some momentary calm. See Nouvelles de la République des Lettres, Janvier 1700, p. 21-34.

Traduzione Pisana.

Ma siccome l'ironia sembra indegna della gravità della moneta romana, perciò il sig. di Vallemont da un passo di Trebellio Pollione, (Stor. Aug.) deduce il contrario.

Detta Traduzione emendata.

Ma siccome l'uso dell'ironia sembra indegno della gravità della moneta romana, il sig. di Vallemont da un passo di Trebellio Pollione (Stor. Aug.) ha dedotto una spiegazione ingegnosa e naturale. Galliena era cugina prima dell'Imperatore. Avendo liberato l'Affrica dall'usurpatore Celso, ella meritossi il titolo di Augusta. Sopra una medaglia esistente nella raccolta del gabinetto del Re (di Francia), si legge una iscrizione simile di Faustina Augusta intorno alla testa di Marco Aurelio. Quanto all' Ubique Pax, si spiega facilmente colla vanità di Gallieno, il quale forse avrà colto l'occasione di qualche momentanea calma. Vedi Nouvelles de la République des Lettres. Gennaio 1700, pag. 21-34.

Esempj di errori.

Tomo I.º pag. 299 ed. ingl.

And his wanton and ill-timed ( INTEMPESTIVA ) cruelty.

Trad. Pisana.

E la sua sfrenata e mal temuta crudeltà.

Tomo I.º pag. 329 ed. ingl.

The aera of Seleucus appears as late as ( COMPARISCE FINO A ) the year 508, of Christ 196, on the medals of the Greek cities.

Trad. Pisana.

L'era di Seleuco par che combini con l'anno 508 di Cristo 196 sulle medaglie delle città greche, ec.

Tomo I.º pag. 403 ed. ingl.

The high-spirited ( MAGNANIMI ) barbarians preferred death to slavery.

Trad. Pisana.

Gli altri Barbari preferirono la morte alla schiavitù.

Tomo I.º pag. 442 ed. ingl.

A useful ( UTILE ) commander.

Trad. Pisana.

un inutile comandante.

Tomo II.º pag. 40 ed. ingl.

robbers, who watched the moment of surprise, and eluded ( DELUDEVANO ) the slow pursuit of the legions.

Trad. Pisana.

ladri, i quali aspettavan il momento della sorpresa, e determinavano la direzione delle legioni che lentamente li seguitavano.

Tomo II.º pag. 75 ed. ingl.

He must secretely ( SECRETAMENTE ) have despised.

Trad. Pisana.

Nè deve in seguito avere disprezzata.

Tomo II.º pag. 164 ed. ingl.

This strange contradiction ( CONTRADDIZIONE ) puzzles the commentators, who think ( PENSANO ); and the translators who can write.

Trad. Pisana.

Questa strana espressione imbroglia i commentatori che spiegano, ed i traduttori che possono scrivere.

Tomo II.º pag. 196 ed. ingl.

Expected, without ( SENZA ) impatience.

Trad. Pisana.

Attendeva con impazienza.

Non si allegano che questi pochissimi esempj di mancanze, di mutazioni e di errori, esempj tratti unicamente dal tomo 1.º e dal 2.º Si può tuttavia per essi argomentare l'importanza delle nuove correzioni che ascendono a più centinaia. Vi hanno pure nella Traduzione Pisana alcuni passi in cui si fa tenere all'Autore un linguaggio affatto diverso dal suo.

Esempio.

Tomo I.º pag. 76.

The second must strike every modern traveller ( Il secondo dee colpire ogni viaggiatore moderno. ).

Trad. Pisana.

Il secondo deve perdonarsi ad uno scrittore inglese.

Aggiungasi a tutto ciò le riguardevoli mutilazioni che disfigurano quella traduzione, come può vedersi nel Capitolo XVI.

4.

Esempio di rifacimento.

Tomo I.º principio del capitolo III.

The obvious definition of a monarchy seems to be that of a state, in which a single person, by whatsoever name he may be distinguished, is entrusted with the execution of the law, the management of the revenue, and the command of the army. But, unless public liberty is protected by intrepid and vigilant guardians, the authority of so formidable a magistrate will soon degenerate into despotism. The influence of the clergy, in an age of superstition might be usefully employed to assert the rights of mankind; but so intimate is the connexion between the throne and the altar, that the banner of the church has very seldom been seen on the side of the people. A martial nobility and stubborn commons, possessed of arms, tenacious of property, and collected into costitutional assemblies, forms the only balance capable of preserving a free constitution against enterprises of an aspiring prince.

Traduzione Pisana.

Una Monarchia secondo la generale definizione è uno Stato, in cui ad una sola persona, venga questa con qualsisia nome distinta, si affida l'esecuzione delle leggi, la direzione dell'entrate, ed il comando dell'armi. Ma se la pubblica libertà non è protetta da intrepidi e vigilanti custodi, l'autorità di un magistrato così formidabile presto degenera in dispotismo. In un secolo di superstizione, il genere umano per assicurare i suoi diritti avrebbe potuto servirsi dell'influenza del clero: ma il trono e l'altare son tanto connessi, che raramente lo stendardo della Chiesa si è visto alla testa del Popolo. Una nobiltà guerriera e un popolo inflessibile padrone delle armi, tenace del diritto di proprietà, e raccolto in regolari adunanze formano la sola barriera, che possa continuamente resistere agli attacchi perpetui di un Principe ambizioso.

Detta Traduzione emendata.

Una Monarchia, secondo la definizione che più facile presentasi, è uno Stato, in cui ad una sola persona, venga questa con qualsisia nome distinta, si affida l'esecuzione delle leggi, il governo dell'entrate, ed il comando dell'armi. Ma se la pubblica libertà non è protetta da intrepidi e vigilanti custodi, l'autorità di un magistrato così formidabile tralignerà in dispotismo fra breve. In un secolo di superstizione l'influenza del clero potrebbe utilmente servire a sicurare i diritti del genere umano: ma il trono e l'altare sono sì strettamente connessi, che di rado lo stendardo della Chiesa si è veduto a sventolare dal lato del Popolo. Una nobiltà guerriera ed un popolo inflessibile, padrone dell'armi, tenace del diritto di proprietà, e raccolto in adunanze secondo la legge, formano il solo contrappeso atto a sostenere una costituzione libera contro le usurpazioni di un Principe ambizioso.

5. Car je rechercherai toujours la verité, quoique je n'aye guères trouvé jusqu'ici que la vraisemblance. Memorie di Gibbon scritte da esso.

NB. Sono costretto a citare la traduzione francese di queste Memorie, non avendo potuto procurarmene l'edizione inglese.

6. Car je n'ai ni gloire ni honte à recueillir de mes ancêtres. Ivi.

7. Les traductions anglaises de Bossuet évêque de Meaux, l'exposition de la doctrine catholique, et l'histoire des variations des Protestants, achevèrent ma conversion: et certes, je fus renversé par un noble adversaire. Ivi.

8. Je n'ai point à rougir que mon esprit si tendre encore se soit embarassé dans les pièges sophistiques dont n'ont pu se defendre les entendemens subtils et vigoureux d'un Chillingworth et d'un Bayle, qui de la superstition se sont élevés ensuite au scepticisme. Ivi.

9. Gibbon dice altrove che non permuterebbe l'invincibil suo amore per la lettura, con tutti i tesori dell'India.

10. Je la vis et j'amai. Je la trouvai sans pédanterie, animée dans la conversation, pure dans ses sentimens, et élégante dans les manières. La première et soudaine émotion se fortifia par l'habitude et le rapprochement d'une connaissance plus familière. Elle me permit de lui faire deux ou trois visites chez son père. J'ai passé quelques jours heureux dans les montagnes de Franche-Comté. Ses parens encouragèrent honorablement ma recherche. Dans le calme de la retraite, les légères vanités de la jeunesse n'agitant plus son coeur distrait, elle prêta l'oreille à la voix de la vérité et de la passion; et je puis me flatter de l'espérance d'avoir fait quelque impression sur un coeur vertueux. A Crassi, a Lausanne, je me livrai à l'illusion du bonheur: mais, à mon retour en Angleterre, je découvris bientôt que mon pêre ne voudrait jamais consentir à cette alliance, et que, sans son consentement, je serais abandonné et sans espérance. Après un combat pénible, je cédai à ma destinée. Je soupirai comme amant, j'obéis comme fils. Insensiblement, le tems, l'absence et l'habitude d'une nouvelle vie guérirent ma blessure. Ma guérison fut accélêrée par un rapport fidèle de la tranquillité et de la gaieté de la demoiselle elle même; et mon amour se convertit peu-à-peu en amitié et en estime. Ivi.

11. Tout considéré, je puis appliquer au premier fruit de ma plume, les paroles d'un artiste bien supérieur, passant en revue les premières productions de son pinceau. Après avoir examiné quelques portraits qu'il avait peint dans sa jeunesse, mon ami, Sir Josué Raynolds, convint avec moi, qu'il était plus humilié que flatté de la comparaison avec ses ouvrages actuels; et qu'après tant de tems et d'application, il s'était imaginé que ses progrès étaient beaucoup au-dessus de ce qu'il reconnaissait qu'ils etaient en effet. Ivi.

12. C'est à Rome, un 15 octobre 1764, que rêvant, assis au milieu des ruines du capitôle, pendant que nus-pieds les moines chantaient vêpres dans le temple de Jupiter, l'idée de tracer le déclin, et la chûte de cette ville, vint pour la première fois se saisir de mon esprit. Mais mon plan était borné d'abord à la decadence de la capitale plutôt qu'à celle de l'Empire; et quoique mes lectures et mes réflexions commençassent à se diriger vers cet objet, quelques années s'ecoulèrent, et bien des diversions survinrent, avant de m'engager sérieusement dans l'exécution de ce laborieux ouvrage.

13. Edimbourg, le 18 mars 1776.

Mon cher Monsieur, pendant que je suis encore à dévorer avec autant d'avidité que d'impatience votre volume historique, je ne puis résister au besoin de laisser percer quelque chose de cette impatience, en vous remerciant de votre agréable présent, et vous exprimant la satisfaction que votre ouvrage m'a fait éprouver. Soit que je considère la dignité de votre style, la profondeur de votre sujet, on l'étendue de votre savoir, votre livre me parait également digne d'estime; et j'avoue que si je n'avais pas déjà joui du bonheur de votre connaissance personelle, un tel ouvrage dans notre siècle, de la part d'un Anglais, m'aurait donné quelque surprise. Vous pouvez en rire; mais comme il me parait que vos compatriotes se sont livrés à-peu-près pour une génération entière, à une faction barbare et absurde, et ont totalement négligé tous les beaux arts, je ne m'attendais plus de leur part à aucune production estimable. Je suis sûr que vous aurez du plaisir comme j'en ai moi même à apprendre que tous les hommes de lettres de cette ville, se reunissent à admirer votre ouvrage et à désirer sa continuation avec sollicitude.

Quand j'entendis parler de votre entreprise, il y a déjà quelque tems, j'avoue que je fus un peu curieux de voir comment vous vous tireriez du sujet de vos deux derniers chapitres (XV e XVI). Je trouve que vous avez observé un tempérament très prudent, mais il était impossible de traiter ce sujet de manière à ne pas donner prise à des soupçons contre vous, et vous devez vous attendre que des clameurs s'élèveront. Si quelque chose peut retarder votre succès auprès du public, c'est cela; car à tout autre égard, votre ouvrage est fait pour réussir généralement. Mais parmi beaucoup d'autres signes de décadence, la superstition, qui prevaut en Angleterre, annonce la chûte de la philosophie et la perte du goût, et quoique personne ne soit plus capable de les faire revivre que vous, vous aurez probablement à votre début des combats à livrer.

Je vois, ecc. ecc.

David Hume. Ivi.

14. Gibbonus adversarios cum in, tum extra patriam nactus est, quia propagationem religionis christianae, non, ut vulgo fieri solet, aut more theologorum, sed ut historicum et philosophum decet, exposuerat.

15. L'ouvrage de Burke est le remède le plus admirable contre la contagion française qui a fait trop de progrès, même dans cet heureux pays. J'admire son éloquence, j'approuve sa politique, j'adore sa chevalerie, et il n'y a pas jusqu'à sa superstition que je lui passe. L'église primitive, que j'ai traitée avec un peu de liberté, fût elle-même à sa naissance une innovation, et je tenais à la vieille machine du paganisme.

Lettere di Gibbon, Traduzione francese.

16. Vedasi Dione Cassio l. LIV p. 736 con le note di Reymar. Dal marmo di Ancira, sul quale Augusto aveva fatto scolpire le sue vittorie, si ricava che questo imperatore costrinse i Parti a render le insegne di Crasso.

17. Strabone l. XVI pag. 780; Plinio Stor. Nat. l. VI c. 32, 35, e Dione Cassio l. LIII p. 723, e l. LIV p. 734 ci hanno lasciato molte curiose particolarità intorno a queste guerre. I Romani s'impadronirono di Mariaba o Merab, città dell'Arabia Felice, ben conosciuta dagli Orientali (v. Abulfeda, e la Geografia della Nubia p. 52). Essi penetrarono, dopo una marcia di tre giorni, sino al paese che produce gli aromati, principale oggetto della loro invasione.

18. Per la strage di Varo e delle sue tre legioni (v. il primo libro degli Annali di Tacito, Svetonio vita d'Augusto c. 23, e Vell. Paterc. l. II c. 117 ec.). Augusto non ricevè la nuova di questa disfatta con tutta la moderazione e costanza, che si dovea naturalmente aspettare dal suo carattere.

19. Tacit. Annal. l. II Dione Cassio l. LVI p. 833 e il discorso di Augusto stesso nella Satira dei Cesari. Quest'ultima opera è molto illustrata dalle dotte note del suo traduttor francese Spanheim.

20. Germanico, Svetonio, Paolino ed Agricola furon traversati e richiamati nel corso delle loro vittorie. Corbulone fu messo a morte. Il merito militare, dice mirabilmente Tacito, era, nel più stretto senso del vocabolo, imperatoria virtus.

21. Cesare non allega quest'ignobil motivo, ma Svetonio ne fa menzione, c. 47. Del resto le perle della Britannia ebbero poco valore pel colorito livido e cupo. Osserva Tacito che n'era questo un difetto inerente. Vita d'Agric. c. 12. Ego facilius crediderim naturam margaritis deesse, quam nobis avaritiam.

22. Sotto i regni di Claudio, di Nerone e di Domiziano. Pomponio Mela, che scriveva sotto il primo di questi Principi, spera, lib. III c. 6, che col prospero successo delle armi romane, l'isola ed i suoi selvaggi abitanti saranno ben presto meglio conosciuti. È cosa molto divertente il legger ora simili passi in mezzo di Londra.

23. Vedasi il mirabile compendio che Tacito ne ha dato nella vita di Agricola. Questo soggetto è ben lungi dall'essere esaurito, non ostante le ricerche dei nostri dotti antiquarj Camden ed Horsley.

24. Gli Scrittori irlandesi, gelosi della gloria della lor patria, sono sommamente irritati su questo articolo contro Tacito ed Agricola.

25. Ved. Britannia Romana di Horsley l. 1 c. 10.

26. Il poeta Bucanano celebra con molto spirito ed eleganza (ved. le sue Selve V.) la libertà di cui han sempre goduto gli antichi Scozzesi. Ma se la sola asserzione di Riccardo di Cirencester basta per creare una provincia romana ( Vespasiana ) a settentrione di quella muraglia, questa indipendenza si trova ristretta da confini molto angusti.

27. Ved. Appiano in proem. e le uniformi descrizioni dei poemi di Ossian, i quali, in qualunque ipotesi, furon composti da un natio della Caledonia.

28. Ved. il Panegirico di Plinio, che sembra appoggiato a fatti.

29. Dione Cassio l. LXVII.

30. Erodoto l. IV c. 94. Giuliano nei Cesari, con le osservazioni di Spanheim.

31. Plinio epist. VIII 9.

32. Dione Cassio l. LXVIII p. 1123, 1131, Giuliano in Caesaribus; Eutropio VIII 2 6. Aurelio Vittore in Epitom.

33. Ved. una memoria di M. d'Anville sopra la provincia della Dacia nella Raccolta dell'Accademia delle iscrizioni Tom. XXVIII p. 444, 458.

34. I sentimenti di Traiano sono rappresentati al vivo e graziosamente nei Cesari dell'Imperator Giuliano.

35. Eutropio e Sesto Rufo han voluto perpetuare questa illusione. Vedasi una dissertazione molto ingegnosa di M. Freret nelle memorie dell'Accademia delle iscrizioni Tom. XXI p. 55.

36. Dione Cassio, l. LXVIII e i Compendiatori.

37. Ovid. Fast. l. II vers. 667. Ved. Tito Liv. e Dionigi d'Alicarnasso nel regno di Tarquinio.

38. S. Agostino si compiace molto nel riportare questa prova della debolezza del Dio Termine e della vanità degli augurj. Ved. de Civitate Dei IV 29.

39. Ved. la Storia August. p. 5, la Cronica di S. Girolamo e tutte le epitomi. È ben singolare che questo memorabile avvenimento sia stato omesso da Dione, o per dir meglio da Sifilino.

40. Dione l. LXIX p. 1158 Stor. August. p. 5. 8. Se tutte le opere degli storici fosser perdute, le medaglie, le iscrizioni e gli altri monumenti di questo secolo basterebbero per farci conoscere i viaggi di Adriano.

41. Ved. la Stor. August. e le epitomi.

42. Non bisogna per altro scordarsi, che sotto il regno di Adriano il fanatismo armò gli Ebrei, e suscitò una violenta ribellione in una provincia dell'Impero. Pausania l. VIII c. 43 parla di due guerre necessarie terminate felicemente dai Generali di Antonino Pio; una con i Mori erranti, i quali furon cacciati nei deserti del monte Atlante; l'altra contro i Briganti della Britannia, che avevano invasa la provincia romana. La storia Aug. fa menzione, p. 19 di queste due guerre, e di molte altre ostilità.

43. Appiano di Alessandria nella prefazione della sua Storia delle Guerre Romane.

44. Dione l. LXXI Stor. Aug. in Marco. Le vittorie riportate sui Parti han fatto nascere una folla di relazioni, e Luciano ha salvati dall'obblio i loro dispregevoli autori in una satira molto ingegnosa.

45. Il più povero soldato possedeva più di 1800 pavoli, (ved. Dionigi d'Alicarn. IV 71) somma considerabile in un tempo, in cui sì rara era la specie, che un'oncia d'argento valeva 70 libbre di rame. La plebaglia, stata per l'antica costituzione esclusa dal servizio militare, fu senza riguardo ammessa da Mario. Vedi Sallustio, Guerra di Giugurta c. 91.

46. Cesare compose una legione detta Alauda, Lodola, di Galli e di stranieri; ma fece questo nei tempi licenziosi delle guerre civili; e dopo le sue vittorie diè loro per ricompensa il diritto di cittadini romani.

47. Ved. Vegezio, de re militari, l. I c. 2, 7.

48. Il giuramento di fedeltà che l'Imperatore esigeva dalle truppe, era rinnovato ogni anno il primo di gennaio.

49. Tacito chiama le Aquile romane Bellorum Deos. Riposte in una cappella in mezzo al campo, erano esse adorate dai soldati al pari delle altre divinità.

50. Vedi Gronovio de pecunia vetere, l. III p. 120 ec. L'Imperator Domiziano accrebbe l'annua paga dei legionarj sino a dodici pezze d'oro, circa venti zecchini nostrali. Questa paga si aumentò in appresso insensibilmente, secondo il progresso del governo militare e della ricchezza dello Stato. Dopo venti anni di servizio i Veterani ricevevano tremila danari, dugento zecchini in circa, o una porzione di terra equivalente a questa somma. La paga delle Guardie era doppia di quella de' legionarj, ed in generale le Guardie godevano privilegi molto più considerabili.

51. Exercitus ab exercitando, Varrone de lingua latina, l. IV; Cicerone Tuscul. l. II 37. Sarebbe un'opera molto interessante l'esame dell'affinità che vi è tra la lingua ed i costumi di una nazione.

52. Vegezio, l. II e il resto del suo primo libro.

53. M. le Beau ha illustrato assai bene la danza Pirrica nella Raccolta dell'Accademia delle iscrizioni, tom. 35, p. 262 ec. Questo dotto Accademico ha unito in una serie di memorie eccellenti tutti i passi degli autori antichi concernenti la legione romana.

54. Giuseppe de bello Judaico l. III c. 5. Noi siamo debitori a questo scrittore ebreo di alcune particolarità molto curiose sulla disciplina Romana.

55. Panegirico di Plinio c. 13 vita di Adriano nella Storia Augusta.

56. Vedasi nel sesto libro della sua storia una digressione ammirabile sulla disciplina de' Romani.

57. Vegezio, de re militari, l. II 4 ec. Una parte considerabile del suo compendio è presa da regolamenti di Traiano, e di Adriano. La legione, quale ei la descrive, non può convenire ad alcun altro secolo dell'Impero Romano.

58. Vegezio, l. I. c. 1. Al tempo di Cicerone e di Cesare la voce miles non era che per l'infanteria. Nel basso impero e nei secoli della cavalleria significò particolarmente le persone d'armi che combattevano a cavallo.

59. Al tempo di Polibio, di Dionigi d'Alicarnasso l. V cap. 45 la punta di acciaro del Pilo par che sia stata molto più lunga. Nel secolo in cui scriveva Vegezio, fu ridotta ad un piede, o ancora a 9 pollici. Io ho presa la media.

60. Sulle armi dei legionari ved. Giusto Lipsio, de militia romana, lib. III c. 2 e 7.

61. Vedasi il bel paragone di Virgilio, Georg. l. II v. 279.

62. M. Guichard, Memorie militari tom. I c. 4 e nuove Memorie tom. I p. 293, 311, ha trattato questo soggetto da uomo dotto e da uffiziale esperto.

63. Ved. la tattica di Arriano. Questo autore greco, appassionato per le istituzioni patrie, ha voluto piuttosto descrivere la falange a lui nota solo per gli scritti degli antichi, che le legioni da esso comandate.

64. Polib. l. XVII.

65. Vegezio, de re militari, l. II c. 6. La sua positiva testimonianza, che potrebbe ancora essere avvalorata da circostanze evidenti, dovrebbe impor silenzio a quei critici che ricusano alla Legione Imperiale il suo corpo di cavalleria.

66. Ved. Tito Livio quasi in ogni pagina, e segnatamente l. XLII 6.

67. Plinio Stor. nat. XXXIII 2. Il vero senso di questo passo molto curioso è stato trovato e schiarito da M. di Beaufort. Rep. Romaine, l. II 2.

68. Orazio ed Agricola ce ne danno un esempio. Sembra che questo costume fosse un vizio nella disciplina romana. Adriano procurò di rimediarvi, fissando l'età necessaria per esser Tribuno.

69. Vedasi la tattica di Arriano.

70. Tale era in particolare lo stato dei Batavi. Vedi Tacito, Costumi de' Germani, c. 29.

71. Marco Aurelio, dopo aver vinto i Quadi ed i Marcomanni, li obbligò a fornirgli un considerabil corpo di truppe, che subito spedì nella Britannia. Dion. l. LXXI.

72. Tacito, Annal. IV, 5. Coloro i quali parlano di un certo numero di pedoni, e del doppio di cavalli, confondono gli ausiliari degl'Imperatori con gl'Italiani alleati della Repubblica.

73. Vegezio, II 2. Arriano, nella sua descrizione della marcia, e della battaglia contro gli Alani.

74. Il Cav. Folard (nel suo Commentario sopra Polibio, tom. II p. 233, 290) ha trattato delle macchine antiche con molta erudizione e sagacità; le preferisce perfino in molti conti ai cannoni ed ai mortari che noi usiamo. Conviene osservare che appresso i Romani l'uso delle macchine divenne più comune a misura che il valor personale e l'abilità militare sparvero nell'Impero. Quando non fu più possibile trovar uomini, convenne supplire a questa mancanza con macchine di specie diversa. Ved. Vegezio, II 25 ed Arriano.

75. «Universa quae in quoque belli genere necessaria esse creduntur, secum legio debet ubique portare, ut in quovis loco fixerit castra, armatam faciat civitatem». Con queste enfatiche parole termina Vegezio il suo secondo libro, e la descrizione della legione.

76. Per la Castrametazione dei Romani ved. Polibio l. VI con Giusto Lipsio, De militia romana; Giuseppe De bello Judaico l. III c. 5 Vegezio 1, 21, 25, III 9 e le Memorie di Guichard tom. I c. 1.

77. Cicerone Tuscul. II 17 Giuseppe De bello Judaico l. III 5, Frontino IV 1.

78. Vegezio I 9. Ved. le Memorie dell'Accademia delle iscrizioni, tom. XX p. 187.

79. Queste evoluzioni sono mirabilmente spiegate da M. Guichard nelle sue Nuove memorie, tom. I p. 141, 234.

80. Tacito Annal. IV. 5 ci ha dato uno stato delle legioni sotto Tiberio, e Dione lib. LV p. 794 sotto Alessandro Severo. Io ho procurato di prendere un giusto mezzo tra questi due periodi. Vedasi ancora Giusto Lipsio, De magnitudine romana l. I c. 4 5.

81. I Romani procurarono di nasconder la loro ignoranza, ed il terrore sotto il velo di un religioso rispetto. V. Tacito, costumi dei Germani, c. 34.

82. Plutarco, vita di M. Antonio; e ciò non ostante, se diamo fede ad Orosio, queste enormi cittadelle non si alzavano più di dieci piedi sull'acqua VI 19.

83. Vedi Giusto Lipsio De magn. rom. l. I c. 5. Gli ultimi sedici capitoli di Vegezio hanno rapporto alla marina.

84. Voltaire, Secolo di Luigi XIV c. 19. Non bisogna dimenticarsi per altro che la Francia si risente ancora di quello sforzo straordinario.

85. Ved. Strabone l. II. È molto naturale di supporre che Aragona vien da Tarraconensis. Molti autori moderni, che hanno scritto in latino, si servono di queste due parole come sinonime. È certo per altro che l'Aragone, picciol fiume, che dai Pirenei cade nell'Ebro, dette da principio il suo nome a una provincia, e dipoi a un Regno. Ved. d'Anville, Geografia del medio evo, pag. 181.

86. Si trovano 115 città nella Notizia della Gallia. Si sa che questo nome era dato non solamente alla Capitale, ma ancora al territorio intero di ciascheduno Stato. Plutarco ed Appiano fanno ascendere il numero delle tribù fino a tre o quattrocento.

87. D'Anville, Notizia della Gallia antica.

88. Storia di Manchester scritta di Whitaker vol. 1 c. 3.

89. I Veneti d'Italia, benchè spesso confusi con i Galli, eran probabilmente Illirici di origine. Ved. M. Freret Memorie dell'Accademia delle Iscrizioni Tom. XVIII.

90. Maffei Verona illustrata lib. I.

91. Il primo contrapposto fu osservato anche dagli antichi (ved. Floro l. II.) il secondo salta agli occhi d'ogni viaggiatore moderno.

92. Plinio Stor. Nat. lib. III. Segue la division dell'Italia fatta da Augusto.

93. Tournefort, viaggio della Grecia, e dell'Asia minore, lettera XVIII.

94. Il nome d'Illiria originariamente apparteneva alle coste del mare Adriatico. I Romani lo estesero a poco a poco dalle Alpi fino al Ponto Eusino. Ved. Severini Pannonia, L. I. c. 3.

95. Un viaggiator veneziano, l'Abate Fortis, ha data recentemente una descrizione di queste oscure contrade. Ma la geografia e le antichità dell'Illiria occidentale non si possono sperare se non dalla munificenza dell'Imperatore che n'è il Sovrano.

96. La Sava nasce vicino al confini dell'Istria. I Greci dei primi secoli la riguardavano come il ramo principale del Danubio.

97. Ved. Il Periplo d'Arriano. Questo autore avea esaminate le coste del Ponto Eusino quando era governatore della Cappadocia.

98. Il progresso della religione è ben noto. L'uso delle lettere s'introdusse tra i Selvaggi dell'Europa quindici secoli circa avanti Gesù Cristo, e gli Europei le portarono in America quindici secoli dopo la sua nascita. L'alfabeto fenicio fu considerabilmente alterato in un periodo di tremila anni, passando per le mani dei Greci e dei Romani.

99. Dion. LXVIII. p. 1131.

100. Secondo Tolomeo, Strabone e i geografi moderni, l'Istmo di Suez è il confine dell'Asia e dell'Affrica. Dionigi, Mela, Plinio, Sallustio, Irzio e Solino, stendendo i limiti dell'Asia sino al ramo occidentale del Nilo, o anche sino al gran Catabathmus, rinchiudono in questa parte del mondo non solo l'Egitto, ma ancora parte della Libia.

101. La lunga estensione, l'altezza moderata, e il dolce declive del monte Atlante (ved. i viaggi di Shaw pag. 5) non si accordano con l'idea d'una montagna isolata, che nasconde la sua testa nelle nuvole, e par che sostenga il cielo. Il Picco di Teneriffa, al contrario, s'innalza più di 2200 tese sopra il livello del mare; e siccome era molto conosciuto dai Fenicj, ha forse dato luogo alle finzioni dei poeti greci. Ved. Buffon Stor. Nat. tom: I p. 312: Stor. dei viaggi, tom. II.

102. M. de Voltaire Tom. XIV p. 297 dà troppo generosamente le isole Canarie ai Romani. Non pare che mai ne sieno stati i padroni.

103. Quanto alla divisione degli stati moderni sono molto cangiate le cose dal tempo in che il Gibbon scriveva; ma siffatte differenze si possono agevolmente riconoscere da ogni lettore dotato di qualche coltura.

104. Bergier Stor. delle strade pubbliche l. III c. 1, 2, 3, 4, opera ripiena di ricerche utilissime.

105. Ved. la Descrizione del Globo di Templeman. Ma io non mi fido nè dell'erudizione nè delle carte di questo scrittore.

106. Furono elevati tra Lahor e Deli, quasi in mezzo a queste due città. Le conquiste di Alessandro nell'Indostan non passarono il Puniab, paese irrigato dai cinque gran rami dell'Indo.

107. Ved. M. de Guignes Stor. degli Unni, l. XV. XVI. XVII.

108. Erodoto è tra gli antichi quegli, che abbia meglio descritta la vera indole del politeismo. Il miglior commento di ciò ch'egli ci ha lasciato sopra questo soggetto, si trova nella Storia Naturale della Religione di Hume; e Bossuet nella sua Storia Universale, ce ne presenta il contrasto più vivo. Si scorge nella condotta degli Egiziani alcune deboli tracce d'intolleranza (Ved. Giovenale Sat. XV.) Gli Ebrei ed i Cristiani che vissero sotto gl'Imperatori, formano una eccezione molto importante, anzi tanto importante, che a discuterla si richiederà un capitolo a parte in quest'opera.

109. I diritti, la potenza, e le pretensioni del Sovrano dell'Olimpo sono chiarissimamente descritte nel XV libro dell'Iliade. Pope, senza accorgersene, ha perfezionata la Teologia di Omero.

110. Ved. per esempio Cesare de bello Gallico VI 17. Nel corso di uno o due secoli i Galli medesimi dettero alle loro divinità i nomi di Marte, di Mercurio, d'Apollo ec.

111. L'ammirabile trattato di Cicerone sulla Natura degli Dei, è la miglior guida che seguir si possa in mezzo a quelle tenebre, ed in un abisso così profondo. Questo scrittore espone candidamente, e confuta sottilmente le opinioni dei filosofi.

112. Non pretendo assicurare che in quel secolo irreligioso, la superstizione avesse perduto il suo impero, e che i sogni, i presagi, le apparizioni ec. non più inspirasser terrore.

113. Socrate, Epicuro, Cicerone, e Plutarco hanno sempre inculcato il più gran rispetto per la religione della lor patria e di tutto il genere umano. Epicuro ne dette egli stesso l'esempio e la sua devozione fu costante. Diog. Laerzio X 10.

114. Polibio l. VI c. 53 54. Giovenale si lamenta Sat. XIII, che ai suoi tempi questo timore non faceva quasi più effetto.

115. Ved. la sorte di Siracusa, di Taranto, di Ambrachia, di Corinto ec. la condotta di Verre nell'Azione 2 or. 4 di Cic., e la pratica ordinaria dei governatori nella VIII Satira di Giovenale.

116. Svetonio vita di Claudio; Plinio Stor. Nat. XXX I.

117. Pelloutier Stor. dei Celti, tomo VI, p. 230 252.

118. Seneca De consolat. ad Helviam, pag. 74 edizione di Giusto Lipsio.

119. Dionigi d'Alicarnasso, Antich. Rom. l. II.

120. Nell'anno di Roma 701 il tempio d'Iside, e di Serapide fu demolito per ordine del Senato. (Dione l. XL p. 252), e dalle mani stesse del Console, Val. Mass. I. 3. Dopo la morte di Cesare fu riedificato a spese del pubblico, Dione, l. XLVII. pag. 501. Augusto nella sua dimora in Egitto rispettò la maestà di Serapide, Dione l. LI. p. 647, ma proibì il culto dei Numi egiziani nel Pomerio di Roma, e un miglio all'intorno, Dione l. LIII p. 679 e l. LIV pag. 735. Queste Divinità rimasero per altro in moda sotto il suo regno. Ovid. Do art. am. l. I, e sotto il suo successore, finchè la giustizia di Tiberio fu tratta ad usare qualche severità (ved. Tacito, Annal. II 85; Giuseppe Antichità l. XVIII c. 3.)

121. Tertulliano Apolog. c. 6 p. 74 ediz. Averc. Credo che questo stabilimento possa attribuirsi alla pietà della famiglia Flavia.

122. Ved. Tito Livio l. XI e XXIX.

123. Macrob. Saturn. l. III c. 9. Questo autore ci dà una formola di evocazione.

124. Minuzio Felice in Octavio p. 54. Arnobio l. VI p. 115.

125. Tacito annal. XI 24. Il Mondo Romano del dotto Spanheim è una storia completa della progressiva ammissione del Lazio, dell'Italia e delle province alla cittadinanza romana.

126. Erodoto V 97. Questo numero sembra considerabile e par credibile che l'Autore se ne sia rapportato al rumor popolare.

127. Ateneo Deipnosophist. l. VI p. 172 ediz. di Casaubono; Meursio De fortuna Attica c. 4.

128. Ved. in Beaufort Rep. Rom. l. IV c. 4 il numero esatto dei cittadini che ogni censo comprendeva.

129. Appiano De bello civili l. I. Vallejo Patercolo, l. II c. 15 16 e 17.

130. Mecenate lo consigliò di dare con un editto il titolo di cittadino a tutti i suoi sudditi; ma vien giustamente sospettato che Dione Cassio sia l'autore d'un consiglio così bene adattato alla pratica del suo secolo, e così poco alla politica di Augusto.

131. I Senatori erano obbligati di avere il terzo dei loro beni in Italia. Ved. Plinio l. VI epist. 19. Marco Aurelio permise loro di non avervi che il quarto. Dopo il regno di Traiano, l'Italia cominciò a non essere più distinta dalle altre province.

132. La prima parte della Verona Illustrata del marchese Maffei, dà la più chiara ed estesa descrizione dello stato della Italia al tempo dei Cesari.

133. Ved. Pausania l. II. Quando queste assemblee non furono più pericolose, i Romani consentirono che se ne stabilissero i nomi.

134. Cesare ne fa spesso menzione. L'Ab. Dubos non ha potuto provare che i Galli abbian continuato sotto gl'Imperatori a tenere queste assemblee. Stor. dello stabilimento della Monarch. Francese, l. I, c. 4.

135. Seneca De Consol. ad Helviam, c. 6.

136. Mennone presso Fozio c. 33. Valerio Mass. IX 2, Plutarco e Dione Cassio fanno ascender la strage a 150000 cittadini; ma credo che un numero minore sia più che bastante.

137. Venticinque colonie furono stabilite nella Spagna. Ved. Plinio Stor. Nat. II 3, 4; IV 35, e nove nella Britannia, tra le quali Londra, Colchester, Lincoln, Chester, Glocester, e Bath sono ancora città considerabili. Ved. Riccardo di Cirencester p. 364 e la Stor. di Manchester di Whitaker l. I c. 3.

138. Aulo Gellio Noctes Atticae, XVI. 13. L'imperatore Adriano era sorpreso che le città di Utica, di Cadice e d'Italica, che godevano de' privilegi annessi alle città municipali, sollecitassero il titolo di Colonie: fu presto però seguito il loro esempio, e l'Impero si trovò ripieno di colonie onorarie. Ved. Spanheim De usu numismat. dissert. XIII.

139. Spanheim Orb. Rom. c. 8 p. 62.

140. Aristide, in Romae encomio, tom. I. p. 218 edit. Jebb.

141. Tacito Annal. XI 2 24 Stor. IV 74.

142. Plinio Stor. Nat. III 5, S. Agostino De Civitate Dei XIX 7, Giusto Lipsio De pronunciatione linguae latinae c. 3.

143. Apuleio e S. Agostino saranno garanti per l'Affrica; Strabone per la Spagna e la Gallia; Tacito nella vita d'Agricola per la Britannia, e Velleio Patercolo per la Pannonia. A tutte queste testimonianze noi possiamo aggiugnere il linguaggio delle Iscrizioni.

144. La lingua celtica si conservò nei monti del paese di Galles, di Cornovaglia, e dell'Armorica. Apuleio rimprovera l'uso della lingua punica a un giovane affricano, che viveva tra gli ultimi del popolo, mentre avea quasi dimenticata la greca, e che non sapeva o non voleva parlar latino. Apolog. p. 596. S. Agostino non parlò che rarissimamente in lingua punica ne' suoi Concilj.

145. La sola Spagna fu madre di Columella, dei due Seneca, di Lucano, di Marziale e di Quintiliano.

146. Da Dionigi fino a Libanio, nessun critico greco, che io sappia, fa menzione di Virgilio, o di Orazio. Sembra che nessuno conoscesse i buoni Scrittori romani.

147. Il lettore curioso può vedere nella Biblioteca Ecclesiastica di Dupin tom. XIX p. I cap. 8 qual cura si aveva per conservare le lingue siriaca ed egiziana.

148. Ved. Gioven. Sat. III e XV, Ammiano Marcellino XXII 16.

149. Dione Cassio l. LXXVII p. 1275. Sotto il regno di Settimio Severo fu per la prima volta un Egiziano ammesso nel Senato.

150. Valerio Massimo, l. II c. 2 n. 1. L'Imperatore Claudio degradò un ragguardevol Greco, perchè non sapeva la lingua latina. Questi avea forse qualche pubblico impiego. Svet. Vita di Claudio c. 16.

151. Nel campo di Lucullo un bove fu venduto una dramma, ed uno schiavo quattro dramme. Plutarco; Vita di Lucullo, p. 580.

152. Diodoro di Sicilia, in Eclog. Hist. l. XXXIV e XXXVI Floro III 19 20.

153. Ved. un esempio notabile di severità in Cicerone, in Verrem. V. 3.

154. Grutero, e gli altri compilatori riportano un gran numero d'iscrizioni indirizzate dagli schiavi alle lor mogli, ai figli, ai compagni, ai padroni ec. e che, secondo tutte le apparenze, sono del secolo degl'Imperatori.

155. Ved. la Storia Augusta, ed una Dissert. di M. de Burigny intorno agli schiavi dei Romani nel XXXV volume dell'Accademia delle Belle Lettere.

156. Ved. un'altra Dissert. del suddetto M. de Burigny intorno ai liberti dei Romani nel XXXVII tomo della stessa Accad.

157. Spanheim Orb. Rom. l. I. c. 16 p. 124 ec.

158. Seneca, De Clementia l. I. C. 24. L'Originale è molto più forte. Quantum periculi immineret, si servi nostri numerare nos coepissent.

159. Ved. Plinio Stor. Nat. l. XXXIII e Ateneo Deipnos, l. VI p. 272. Questi asserisce arditamente che ha conosciuto molti Παμπολλοι Romani che possedevano non per uso, ma per ostentazione dieci ed ancora ventimila schiavi.

160. In Parigi si contano più di 43700 servitori di ogni sorta, che non fanno la dodicesima parte de' suoi abitanti. Messanges Ricerche sulla popolazione p. 186.

161. Uno schiavo colto si vendeva molte centinaia di zecchini. Attico ne avea sempre alcuni da educare, ai quali dava lezione egli stesso. Cornel. Nep. Vit. Attici cap. 13.

162. La maggior parte dei medici romani erano schiavi. Ved. La Dissert. e la Difesa del Dott. Middleton.

163. Pignorio De servis fa una lunghissima enumerazione dei loro ordini e dei loro impieghi.

164. Tacito Ann. XIV 43. Furono giustiziati per non aver previsto o impedito l'assassinio del loro padrone.

165. Apuleio in Apolog. p. 548. Edit. Delph.

166. Plinio Stor. Nat. l. XXXIII 47.

167. Se si contano 20 milioni di anime in Francia, 22 in Germania, 4 in Ungheria, 10 in Italia e nell'isole adiacenti, 8 nella Gran-Bretagna e in Irlanda, 8 in Spagna e in Portogallo, 10 o 12 nella Russia europea, 6 in Polonia, 6 in Grecia ed in Turchia, 4 in Svezia, 3 in Danimarca e Norvegia, e 4 nei Paesi Bassi; il totale monterà a 105, o 107 milioni. Ved. la Stor. Gen. di Voltaire. ( I computi della popolazione europea sono ora diversi d'assai. La sola Italia contiene al presente 12 milioni d'abitatori. )

168. Giuseppe de bello Judaico l. II c. 16. Il discorso di Agrippa, o a dir meglio, quello dello Storico, è una bella descrizione dell'Impero romano.

169. Svetonio, vita di Augusto c. 28. Augusto fabbricò in Roma il tempio e la piazza di Marte Vendicatore; il tempio di Giove Fulminante nel Campidoglio; quello di Apollo Palatino con pubbliche librerie; il portico, e la basilica di Caio e Lucio; i portici di Livia e di Ottavia; ed il teatro di Marcello. L'esempio del Sovrano fu imitato dai Ministri e dai Generali, ed il suo amico Agrippa fece innalzare il Panteon, monumento immortale.

170. Ved. Maffei Ver. Illustr. l. IV pag. 68.

171. Ved. il l. X delle Lettere di Plinio. Tra le fabbriche intraprese a spese dei cittadini, quest'Autore parla di quelle che seguono: a Nicomedia una nuova piazza, un acquedotto e un canale, che uno degli antichi Re avea lasciato imperfetto; a Nicea un Ginnasio e un Teatro che era già costato quasi cento ottantamila zecchini; alcuni bagni a Claudiopoli e Prusa; e un acquedotto lungo cinque leghe ad uso di Sinope.

172. Adriano fece in seguito un giustissimo regolamento, che divideva ogni tesoro tra il proprietario del luogo e l'inventore. Stor. Aug. p. 9.

173. Filostrato in vita Sophist. l. II p. 543.

174. Aulo Gellio Noct. Attic. l. 2 IX, 2 XVIII, 10 XIX 12. Filost, p. 564.

175. Ved. Filost. l. II pag. 548 566. Pausania l. I, VII 10. La vita di Erode nel XXX tom. dell'Accademia dell'Iscrizioni.

176. Questa osservazione è principalmente applicata alla Repubblica ateniese da Dicearco De statu Graeciae, p. 8. Inter geograph. minores edit. Hudson.

177. Donato de Roma vetere l. III c. 4 5 6. Nardini Roma antica lib. III II 12 13 e un manuscritto che contiene una descrizione di Roma antica fatta da Bernardo Oricellario, o Rucellai, della quale ho ottenuto una copia dalla libreria del canonico Riccardi a Firenze. Plinio parla di due celebri quadri di Timante e di Protesene posti, per quel che sembra, nel tempio della Pace. Il Laocoonte fu trovato nelle Terme di Tito.

178. Montfaucon Antiq. expliq. tom. IV p. 2 l. I c. 9. Il Fabretti ha composto un trattato molto erudito sopra gli acquedotti di Roma.

179. Eliano Hist. var. l. IX c. 16. Quest'autore viveva sotto Alessandro Severo. Ved. il Fabrizio Biblioth. Graeca l. IV. c. 21.

180. Giuseppe de bello Judaico II 16. Questo numero vi è riferito; forse non deve esser preso con rigore.

181. Plin. Stor. Nat. III 5.

182. Plin. Stor. Nat. III 3, 4 IV 35. La nota pare autentica ed esatta; la divisione delle province, e la diversa condizione delle città vi sono minutamente riferite.

183. Strabon. Geograph. l. XVII p. 1189.

184. Giuseppe De bello Jud. II 16 Filostr. in vit. Sophist. l. II p. 548. Edit. Olear.

185. Tacit. Annal. IV 66. Ho impiegato qualche studio in consultare e paragonare tra loro i moderni viaggiatori, riguardo al fatto di quelle undici città dell'Asia; sette o otto sono affatto distrutte; Ipea, Tralli, Laodicea, Ilione, Alicarnasso, Mileto, Efeso, e possiamo aggiungere Sardi. Delle tre altre Pergamo è un misero villaggio di due o tremila abitanti. Magnesia, sotto il nome di Guzel-hissar, è città di qualche riguardo; e Smirne è una città grande, popolata di centomila anime. Ma mentre che in Smirne i Franchi hanno conservato il commercio, i Turchi hanno rovinate le arti.

186. Ved. una esattissima e curiosa descrizione delle rovine di Laodicea nei viaggi di Chandler per l'Asia Minore p. 225 ec.

187. Strabone l. XII. 866. Egli avea studiato in Tralli.

188. Ved. una Dissertazione di M. de Boze, Mem. dell'Accad. tom. XVIII. Aristide recitò un'orazione, che ancora esiste, per raccomandare la concordia alle città rivali.

189. Gli abitanti dell'Egitto, eccettuata Alessandria, si facevano ascendere a sette milioni e mezzo. Giuseppe De bello Jud. II. Sotto il governo militare dei Mammalucchi, la Siria si credeva che contenesse settantamila villaggi. Storia di Timur. Bec. l. V. c. 20.

190. Il seguente itinerario può servire a dar qualche idea della direzione del cammino, e della distanza tra le principali città. I. Dalla muraglia di Antonino fino a York 222 miglia romane. II. A Londra 227. III. A Rhutupia ovvero Sandwich 67. IV. Tragitto fino a Bologna 45. V. A Rheims 174. VI. A Lione 330. VII. A Milano 324 VIII. A Roma 426. IX. A Brindisi 360. X. Tragitto fino a Durazzo 40. XI. A Bisanzio 711. XII. Ad Ancira 283. XIII. A Tarso 301. XIV. Ad Antiochia 141 XV. A Tiro 252 XVI. A Gerusalemme 168 in tutto miglia Romane 4080. Ved. gl'Itinerarj pubblicati da Wesselling colle sue note; vedasi ancora Gale e Stukeley per la Britannia, e d'Anville per la Gallia e l'Italia.

191. Montfaucon. Antiq. expliq. tom. IV p. 2 l. I c. 5 ha descritti i ponti di Narni, di Alcantara, di Nimes ec.

192. Bergier Storia delle strade maestre dell'Impero rom. l. II c. 128.

193. Procopio in Hist. Arcana c. 30. Bergier Stor. delle strade maestre l. IV. Codic. Theodos. l. VIII tit. V vol. II p. 506-563 con il dotto commentario del Gotofredo.

194. Al tempo di Teodosio, Cesario, magistrato di alto affare, venne per la posta da Antiochia a Costantinopoli. Cominciò il suo viaggio di notte; fu la sera dipoi nella Cappadocia a 165 miglia da Antiochia, ed arrivò a Costantinopoli il sesto giorno verso mezzodì. L'intera distanza era di miglia 725 romane. Ved. Libanio Orat. XXI e gl'Itinerarj p. 572 581.

195. Plinio, benchè ministro favorito, dovè giustificarsi per aver fatto dare cavalli di posta alla sua moglie per un affare di gran premura. Epist. X l. X 121 122.

196. Bergier luog. cit. l. IV c. 49.

197. Plinio Stor. Nat. XIX 1.

198. È probabile che i Greci ed i Fenicj introducessero nuove arti e nuove produzioni nelle vicinanze di Cadice, e di Marsiglia.

199. Ved. Omero Odiss. l. IX v. 358.

200. Plinio Stor. Nat. l. XLV.

201. Strab. Geog. l. IV p. 223. Il freddo eccessivo di un inverno Gallo era un proverbio tra gli antichi.

202. Nel principio del quarto secolo l'Oratore Eumene Panegir. veter. VIII 6 edit. Delph. parla dei vini di Autun, che avevano perduto la qualità loro per l'antichità; ed allora s'ignorava affatto il tempo, nel quale le vigne erano per la prima volta state piantate nel territorio di quella città. M. d'Anville pone il Pagus Arebrignus nel distretto di Beaune, celebre ancora adesso per la bontà de' suoi vini.

203. Plinio Stor. Nat. l. XV.

204. Plinio Stor. Nat. l. XIX.

205. Il bel saggio di Harte sull'agricoltura; egli ha unito in quest'opera tutto ciò che gli antichi e i moderni han detto del trifoglio.

206. Tacito German. c. 45. Plinio Stor. Nat. XXXVII 11. Osserva egli graziosamente che la moda stessa non avea ancor potuto insegnare l'utilità dell'ambra. Nerone mandò un cavaliere romano ne' luoghi ove la raccoglievano (che sono le coste della Prussia moderna) a comprarne una gran quantità.

207. Chiamata Taprobane dai Romani, e Serendib dagli Arabi. Quest'Isola fu scoperta sotto il regno di Claudio, e divenne insensibilmente la sede principale del commercio dell'Oriente.

208. Plinio Stor. Nat. l. VII. Strab. l, XVII.

209. Stor. Augusta p. 224. Una veste di seta era considerata come un ornamento femminile ed indegna di un uomo.

210. Le due gran pesche di perle erano le medesime dei nostri tempi, Ormuz, e il Capo Comorino. Per quanto noi possiamo paragonare la Geografia antica colla moderna, Roma ricavava i suoi diamanti dalla miniera di Jumelpur nel Regno di Bengala; se ne trova una descrizione nel tom. II. Viaggi di Tavernier pag. 281.

211. Tacito Annali III 5 in un discorso di Tiberio.

212. Plin. Stor. Nat. XII 18. In un altro luogo calcola la metà di questa somma; quingenties H. S. per l'India, senza comprender l'Arabia.

213. La proporzione che era da uno a dieci, e dodici e mezzo salì a quattordici e due quinti per una legge di Costantino. Ved. le tavole di Arbuthnot sopra le monete antiche c. V.

214. Oltre diversi altri passi ved. Plinio Stor. Nat. III 5 Aristide De urbe Roma, e Tertulliano De anima c. 30.

215. Erode Attico dette al Sofista Polemone quasi sedicimila zecchini per tre declamazioni. V. Filostr. l. I p. 558. Gli Antonini fondarono una scuola in Atene, nella quale si mantenevano a pubbliche spese professori di grammatica, di rettorica, di politica, e delle quattro Sette principali della filosofia per istruzione della gioventù. Il salario di un filosofo era diecimila dramme l'anno Furono fatti stabilimenti simili nelle altre città dell'Impero. Ved. Luciano nell'Eunuc. tom. II p. 353 ediz. Reitz Filostrat, l. II p, 566. Storia Augusta p. 2. Dione Cassio l. LXXI p. 1195.

Lo stesso Giovenale, in una satira piena di mal talento, la quale ad ogni linea tradisce la sua invidia e il suo scontento, è però obbligato a soggiugnere

— — O Juvenes circumspicit, at agitat vos,

Materiamque sibi Ducis indulgentia quaerit.

Sat. VII 20.

216. Longin. Del sublime c. 43 p. 229 ediz. Toll. Qui possiamo dire di questo grande Scrittore ch'egli unisce l'esempio al precetto. In vece di proporre arditamente i suoi sentimenti, esso gli insinua colla più gran riserva, li pone in bocca di un amico, e per quanto se ne può giudicare da un testo corrotto, mostra di volerli confutare egli stesso.

217. Orosio VI 18.

218. Giulio Cesare introdusse i soldati, gli stranieri, ed i semibarbari nel Senato (Sveton. in Cesar. c. 77 80.) L'abuso divenne ancor più scandaloso dopo la sua morte.

219. Dione Cassio l. LII p. 693, Svetonio in August. c. 55.

220. Dione Cassio l. LIII p. 698 ci dà una prolissa e gonfia parlata fatta in questa grande occasione. Io ho preso da Svetonio e da Tacito la espressioni naturali ad Augusto.

221. Imperator (di cui noi abbiam fatto Imperatore) al tempo della Repubblica non significava altro che Generale, ed era un titolo sul campo di battaglia solennemente dai soldati accordato al vittorioso lor Capo. Quando i romani Imperatori lo assumevano in quel senso, lo ponevano dopo il lor nome, e notavano quante volte lo avevano preso.

222. Dione l. LIII p. 103 ec.

223. Livio, Epitom. l. XIV. Valer. Mass. VI 3.

224. Ved. nel lib. VIII di Livio la condotta di Manlio Torquato e di Papirio Cursore. Violavano essi le leggi della natura e dell'umanità, ma sostenevano quelle della militar disciplina, ed il popolo, che abborriva l'azione, era forzato a rispettare il principio.

225. Pompeo ottenne dagli sconsiderati, ma liberi suffragi del popolo un comando militare poco inferiore a quello di Augusto. Tra gli atti straordinarj di autorità esercitati dal primo, si può notare la fondazione di ventinove città, e la distribuzione di sei o sette milioni di zecchini alle sue truppe. La ratifica di tali atti trovò qualche opposizione e dilazione nel Senato. Ved. Plut. Appian. Dione Cassio, ed il primo libro delle lettere ad Attico.

226. Sotto la Repubblica il trionfo potea pretendersi da quel Generale soltanto, ch'era autorizzato a prender gli auspicj in nome del popolo. Per una esatta conseguenza derivante da questo principio di politica e di religione, il trionfo era riservato all'Imperatore, ed i suoi più fortunati Generali si contentavano di alcuni segni di distinzione inventati in lor favore sotto nome di onori trionfali.

227. Cicerone, De Legib. III 3, alla Dignità Consolare dà il nome di Regia Potestas, e Polibio l. IV c. 3 osserva tre poteri nella Costituzione romana. Il potere monarchico era rappresentato, ed esercitato dai Consoli.

228. Siccome la Potestà Tribunizia (diversa dall'uffizio annuale del Tribuno) fu inventata a riguardo del Dittatore Cesare (Dione l. XLIV p. 364) essa gli fu data probabilmente come una ricompensa per avere così generosamente sostenuti colle armi i sacri diritti dei Tribuni e del popolo. Vedi i suoi Comment. De bell. civil. l. I.

229. Augusto esercitò il Consolato per nove anni senza interruzione. Dipoi ricusò artificiosamente quella dignità, non meno che la Dittatura: si allontanò da Roma, e si trattenne fuori finchè gli effetti funesti del tumulto, e della fazione forzarono il Senato a rivestirlo del Consolato perpetuo. Augusto per altro ed i suoi successori affettarono di nascondere un titolo così invidioso.

230. Vedi un frammento di un decreto del Senato, che conferiva all'Imperator Vespasiano tutte le potestà concedute ai suoi predecessori, Augusto, Tiberio, e Claudio. Questo monumento curioso ed importante si trova nelle iscrizioni di Grutero, num. CCXLII.

231. Venivano creati due Consoli alle calende di gennaio; ma nel corso dell'anno se ne sostituivano degli altri, finchè l'annuo numero ascendesse almeno a dodici. I Pretori erano ordinariamente sedici o diciotto: Lipsio in Excurs. D. ad Tacito Annal. l. I. Io non ho parlato degli Edili, nè dei Questori. Quei semplici magistrati che sono incaricati del buon regolamento di una città o delle pubbliche entrate, si adattano facilmente a qualunque forma di governo. Al tempo di Nerone i Tribuni possedevano legalmente il diritto d'intercessione, benchè sarebbe stato pericoloso il farne uso; Tacito ann. XVI 26. Al tempo di Traiano era cosa dubbiosa se fosse il Tribunato un uffizio, od un nome. Plin. let. l. I 23.

232. I tiranni stessi furono ambiziosi del Consolato. I Principi virtuosi lo dimandarono con moderazione, e l'esercitarono con esattezza. Traiano rinnovò l'antico giuramento, dinanzi il tribunale del Console, di osservare le leggi; Plin. Panegir. c. 64.

233. «Quoties magistratuum comitiis interesset, Tribus cum candidatis suis circuibat, supplicabatque more solemni. Ferebat et ipse suffragium in Tribubus, ut unus e populo.» Svet. Vita d'Aug. c. 56.

234. «Tum primum comitia e campo ad Patres translata sunt», Tacito ann. I 15. La parola primum par che alluda ad alcuni deboli e vari sforzi fatti per rendere al popolo quel diritto.

235. Dione, l. LIII p. 703, 704, ha dato un debole, e parziale prospetto del sistema Imperiale. Per illustrarlo ho meditato Tacito, esaminato Svetonio, e consultato i seguenti moderni: L'Ab. de la Bleterie Mem. dell'Accad. Tom. XIX, XXI, XXIV, XXV, XXVII; Beaufort, Repub. Rom. I p. 255. 275; due Dissert. di Noodt, e di Gronov. De lege Regia stampate a Leida nel 1731; Gravina De Imp. Rom. p. 479 544 de' suoi Opuscoli; Maffei Verona illustr. p. 1 p. 245 cc.

236. Un Principe debole sarà sempre governato dai suoi domestici. La potenza degli schiavi aggravò la vergogna dei Romani, ed i Senatori fecer la corte a un Pallante, e ad un Narciso. Può accadere che un favorito moderno sia un gentiluomo.

237. Vedi un Tratt. di Van-Dale De consacrat. Principum. Sarebbe più facile per me il copiare, di quel che sia il verificare le citazioni di questo dotto Olandese.

238. Ved. una Dissert. dell'Ab. di Mongault nel I vol. della Accad. dell'Iscrizioni.

239. « Jurandasque tuum per nomen ponimus aras » dice Orazio all'Imperatore istesso, e Orazio conosceva bene la Corte di Augusto.

240. Vedi Cicerone Philipp. I 16; Giuliano in Caesaribus.

Inque Deum templis jurabit Roma per umbras

esclama Lucano sdegnato. Ma questa indignazione è originata più dal patriottismo, che dalla devozione.

241. Dione lib. LIII. p. 710 colle note curiose di Reimar.

242. Mentre Ottaviano si avanzava verso il banchetto dei Cesari, il suo colore cambiava come quello del Camaleonte, pallido prima, di poi rosso, indi nero; prese finalmente il delicato colore di Venere, e delle Grazie: Caesares, p. 309. Questa immagine, impiegata da Giuliano nella sua ingegnosa finzione, è giusta e graziosa. Ma quando ei considera questo cambiamento di carattere come reale, e che lo attribuisce al potere della filosofia, egli fa troppo onore alla filosofia, e ad Ottaviano.

243. Dugent'anni dopo lo stabilimento della Monarchia, l'Imperatore Marco Aurelio vanta il carattere di Bruto come un perfetto modello della virtù romana.

244. È gran perdita per noi quella parte di Tacito, che trattava di questo avvenimento. Siamo forzati di contentarci dei rumori popolari riferiti da Giuseppe, e delle imperfette narrazioni di Dione e di Svetonio.

245. Augusto restituì l'antica severità alla disciplina. Dopo le guerre civili non chiamò più i soldati Militones, ma solamente Milites; Sveton. in Aug. c. 25. Vedi la maniera colla quale Tiberio calmò la sedizione delle legioni della Pannonia. Tacito Annal. I.

246. Queste parole par che fossero la formola determinata Ved. Tacito Annal. XIII 4.

247. Il primo fu Camillo Scriboniano che prese l'armi nella Dalmazia contro Claudio, e fu abbandonato dalle sue proprie truppe in cinque giorni. Il secondo Lucio Antonio nella Germania che si ribellò contro Domiziano; e il terzo Ovidio Cassio nel Regno di Marco Antonino. I due ultimi non regnarono che pochi mesi, e furono trucidati dai loro proprj aderenti. È da osservarsi che Camillo e Cassio colorirono la loro ambizione col divisamento di ristabilire la Repubblica; impresa, diceva Cassio, specialmente riservata al suo nome, ed alla sua famiglia.

248. Velleio Patercolo l. II cap. 121. Svetonio in Tiberio cap. 20.

249. Svetonio in Tit. cap 6. Plin. nella prefazione alla Stor. Nat.

250. Questa idea è spesso e fortemente inculcata da Tacito Ved. Stor. I 5 16 II 76.

251. L'Imp. Vespasiano col suo solito buon senso si ride dei genealogisti, che deducevano la sua famiglia da Flavio fondatore di Riete sua patria, ed uno dei compagni d'Ercole. Svet. Vita di Vesp. cap. 12.

252. Dione lib. LXVIII p. 1121. Plinio, Paneg.

253. Felicior Augusto, melior Traiano: Eutrop. VIII, 5.

254. Dione lib. LXIX, p, 1249 considera il tutto come una finzione sopra l'autorità di suo padre, ch'essendo governatore della provincia, nella quale morì Traiano, potea facilmente sviluppare questo mistero. Dodwell Praelect. Cambden XVII. ha sostenuto che Adriano, essendo Traiano vivente, fu designato suo successore.

255. Dione, l. LXX p. 1171 Aurel. Victor.

256. La deificazione, le medaglie, le statue, i templi, le città, gli oracoli, e la costellazione di Antinoo sono ben cogniti, e disonorano agli occhi della posterità la memoria dell'Imperatore Adriano. È da osservarsi per altro, che tra i quindici primi Cesari Claudio fu il solo, i cui amori non abbiano fatto arrossir la natura. Intorno agli onori renduti ad Antinoo, vedi Spanheim nei Commentarj ai Cesari di Giuliano p. 80.

257. Stor. Aug. p. 13. Aurelio Vittore in Epitom.

258. Senza il soccorso delle medaglie e delle iscrizioni noi ignoreremmo quest'azione di Antonino Pio, che fa tant'onore alla sua memoria.

259. In tutti i 23 anni del regno di Antonino, Marco Aurelio non fu che due notti assente dal Palazzo, ed ancora in due volte diverse. Storia Angusta p. 25.

260. Questo Principe amava gli spettacoli, e non era insensibile ai vezzi del bel sesso: Marco Aurelio I 16. Storia Augusta p. 20 e 21. Giuliano nei Cesari.

261. Marco Aurelio è stato accusato d'ipocrisia, e i suoi nemici gli hanno rimproverato di non aver avuto quella semplicità, che contrassegnava Antonino Pio, e Vero pur anco: Storia Augusta 6. 34. Questo ingiusto sospetto ci fa vedere quanto le qualità personali sieno più applaudite delle virtù sociali. Marco Aurelio egli istesso è tacciato d'ipocrisia, ma lo scettico più grande che dar si possa, non dirà mai che Cesare fosse un poltrone, o Cicerone un imbecille. Lo spirito ed il valore seducono assai più dell'umanità e dell'amore per la giustizia.

262. Tacito ha in poche parole esposti i principj della scuola del Portico. «Doctores sapientiae secutus est, qui sola bona quae honesta, mala tantum quae turpia, potentiam nobilitatem, caeteraque extra animum, neque bonis, neque malis adnumerant.» Tacito Stor. IV 5.

263. Avanti la seconda sua spedizione contro i Germani, fece alcune pubbliche lezioni di filosofia al popolo romano. Egli avea già fatto lo stesso nelle città della Grecia e dell'Asia. Stor. Aug. in Cassio c. 3.

264. Dion. l. LXXI p. 1190 Stor. Aug. in Avidio Cassio.

265. Stor. August. in Marco Antonin. c. 18.

266. Vitellio spese per la sua tavola circa dodici milioni di zecchini quasi in sei mesi. È difficile l'esprimere i vizj di questo Principe con dignità od anche con decenza. Tacito lo chiama un porco, ma sostituendo a quella parola grossolana una bellissima immagine «At. Vitellius, umbraculis hortorum abditus, ut ignava animalia, quibus si cibum suggeras, jacent torpentque, praeterita, instantia, futura pari oblivione dimiserat. Atque illum nemore Aricino desidem, et marcentem etc.» Tacit. Stor. III 36. Sveton. in Vitell. c. 13. Dione Cassio l. LXV p. 1062.

267. La morte di Elvidio Prisco e della virtuosa Eponina disonorò il regno di Vespasiano.

268. Viaggio di Chardin nella Persia vol. III p. 293.

269. L'uso d'innalzare gli schiavi alle cariche importanti dello Stato è più comune tra i Turchi che tra i Persiani. Nelle miserabili contrade della Georgia o della Circassia nascono i padroni della maggior parte dell'Oriente.

270. Chardin dice che i viaggiatori europei hanno diffusa tra i Persiani una certa idea della libertà e moderazione de' nostri Governi; essi hanno fatto loro un pessimo uffizio.

271. Citavano essi l'esempio di Scipione e di Catone. (Tacito Annali III 66.) Marcello Eprio e Crispo Vibio aveano acquistato quasi cinque milioni di zecchini sotto Nerone. La loro ricchezza, benchè aggravante i loro delitti, li protesse sotto Vespasiano; ved. Tac. Stor. IV 43. Dialog. de Orat. cap. 8. Per una accusa, Regolo, oggetto degno della satira di Plinio, ricevè dal Senato gli ornamenti consolari, e un donativo di centoventimila zecchini.

272. Il delitto di lesa Maestà era da prima una offesa di alto tradimento contro il Popolo romano. Augusto e Tiberio, come Tribuni del popolo, lo applicarono alla lor propria persona, dandogli una estensione infinita.

273. Poi che la virtuosa e sventurata vedova di Germanico fu messa a morte, Tiberio ricevè i ringraziamenti del Senato per la sua clemenza. Non era stata pubblicamente strangolata, nè il cadavere fu strascinato alle Gemonie dove si esponevano quelli dei malfattori ordinarj. Ved. Tac. Ann. 25 Sveton. in Tiberio c. 53.

274. Serifo, isola del mare Egeo, era un piccolo scoglio, i cui abitanti erano disprezzati per la loro ignoranza, ed oscurità. I versi di Ovidio ci hanno fatto ben conoscere il luogo del suo esilio con i suoi giusti, ma vili lamenti. Pare che egli ricevesse solamente l'ordine di lasciar Roma in tanti giorni, e trasportarsi a Tomi. Ubbidì senza essere accompagnato nè da guardie nè da carcerieri.

275. Sotto Tiberio, un cavaliere romano tentò di fuggire tra i Parti, ma fu arrestato nello stretto della Sicilia. Quest'esempio però parve tanto poco pericoloso, che il più geloso dei tiranni sdegnò di punirlo. Tacit. Ann. VI 14.

276. Cic. ad familiares IV 7.

277. Ved. i rimproveri di Avidio Cassio Stor. Aug. p. 45. È vero che questi sono i discorsi di un ribelle, ma la fazione esagera più di quello che inventi.

278. «Faustinam satis constat apud Cayetam conditiones sibi, et nauticas et gladiatorias elegisse». Stor. Aug. p. 30. Lampridio spiega qual sorta di merito piacesse a Faustina e le condizioni ch'essa esigeva; Stor. Aug. p. 102.

279. Stor. Aug. p. 34.

280. Meditazioni lib. I. Il Mondo si è riso della credulità di Marco, ma la sig. Dacier ci assicura (e ad una donna in ciò deve credersi) che il marito sempre sarà ingannato se la moglie sa dissimulare.

281. Dione Cassio lib. LXXI p. 1195. Stor. Aug. p. 33. Commentario di Spanheim sopra i Cesari di Giuliano p. 389. L'apoteosi di Faustina è il solo difetto, che il critico Giuliano possa scoprire nel perfettissimo carattere di Marco Aurelio.

282. Commodo fu il primo Porfirogeneta (nato dopo l'avvenimento del Padre al Trono). Per un nuovo tratto di adulazione le medaglie egiziane mettono la data degli anni della sua vita, come se non fossero diversi da quelli del suo regno. Tillem. Stor. degl'Imp. Tom. II p. 752.

283. Stor. Aug. p. 46.

284. Dione Cassio lib. LXXII p. 1203.

285. Secondo Tertulliano (Apolog. c. 25.) egli morì a Sirmio. Ma la situazione di Vindobona, o sia Vicuna, dove i due Vittori mettono la sua morte, è più acconcia alle operazioni della guerra contro i Marcomanni ed i Quadi.

286. Erodiano lib. I pag. 12.

287. Erodiano lib. I pag. 16.

288. Questa letizia universale è ben descritta dietro le medaglie e gli Storici dal Sig. Wotton. Stor. di Roma p. 192 e 193.

289. Manilio, il segretario confidente di Avidio Cassio, fu scoperto, dopo aver vissuto nascosto diversi anni. L'Imperatore dissipò nobilmente la pubblica inquietudine ricusando di vederlo, e bruciando tutti i suoi fogli. Dione l. LXXII p. 1209.

290. Ved. Maffei degli Anfiteatri p. 126.

291. Dione l. LXXII p. 1205. Erodiano lib. I p. 16. Stor. Aug. p. 46.

292. In una nota sulla Stor. Aug. Casaubono ha raccolto gran numero di particolarità concernenti questi illustri fratelli. Vedi p. 96 del suo dotto Comment.

293. Dione l. LXXII p. 1210, Erodiano lib I p. 22. Stor. Aug. p. 48. Dione dà a Perenne un carattere meno odioso degli altri Storici. La sua moderazione è quasi un segno della sua veracità.

294. Nella seconda guerra Punica, i Romani portarono dall'Asia il culto della madre degli Dei. La sua festa Megalesia cominciava al 4 di Aprile, e durava sei giorni. Le strade erano piene di pazze processioni, i teatri di spettatori, e le pubbliche mense di qualunque sorta di convitati. L'ordine e il buon governo rimanevan sospesi, e il piacere era l'unica seria occupazione della città. Ved. Ovid. de Fastis lib. IV 189 ec.

295. Erodiano l. I p. 23 28.

296. Cicerone pro Flacco cap. 27.

297. Una di queste sì dispendiose promozioni diede luogo al frizzo seguente: Giulio Solone è stato esiliato nel Senato.

298. Dione lib. LXXII p. 12 e 13 osserva, che nessun liberto era stato mai tanto ricco quanto Cleandro, e pure la fortuna di Pallante ascendeva circa a cinque milioni di zecchini, ter millies H. S.

299. Dione lib. LXXII pag. 1213, Erodiano l. I p. 29. Stor. Aug. pag. 52. Questi bagni erano vicini alla porta Capena. Vedi Nard. Roma Ant. p. 79.

300. Stor. Aug. p. 48.

301. Erodiano l. I p. 28. Dione lib. LXXII p. 1215. Questo ultimo dice che morirono a Roma duemila persone ogni giorno per un tempo considerabile.

302. «Tuncque primum tres Praefecti Praetorio fuere, inter quos libertinus.» Per un resto di modestia Cleandro non prese il titolo di Prefetto dal Pretorio, mentre ne esercitava il potere. Siccome gli altri liberti venivano dai loro diversi dipartimenti chiamati a rationibus, ab epistolis, Cleandro s'intitolò a pugione, come incaricato della difesa del padrone. Salmasio, e Casaubono pare che abbian fatto commentarj troppo vaghi su questo passo.

303. Οἱ της πὸγεως πὲζοι ϛρατῶτιαι Erodiano l. I p. II. È cosa dubbia se vuol significare l'infanteria Pretoriana, o le coorti Urbanae. Eran queste un corpo di seimila uomini, il grado e la disciplina dei quali non era corrispondente al loro numero. Il Sig. de Tillemont e Wotton non hanno voluto decidere questa quistione.

304. Dione Cassio l. LXXII p. 1215. Erodiano l. I p. 32. Stor. Aug. p. 48.

305. «Sororibus suis constupratis, ipsas concubinas suas sub oculis suis stuprari jubebat. Nec irruentium in se juvenum carebat infamia, omni parte corporis atque ore in sexum utrumque pollutus.» Stor. Aug. p. 47.

306. I leoni affricani, spinti dalla fame, infestavano impunemente gli aperti villaggi o la coltivata campagna. Questa fiera reale era riservata pei piaceri dell'Imperatore e della capitale; e lo sventurato agricoltore, che anche per difendersi ne uccidesse alcuna, era punito. La quale crudele Legge di caccia fu mitigata da Onorio, e finalmente abolita da Giustiniano, Codex Theodos. tom. V p. 92. Comment. Gothofred.

307. Spanheim de Numismat. Dissert. XIII tom. II pag. 593.

308. Dione l. LXXII p. 1216. Stor. Aug. p. 49.

309. Il collo dello struzzo è lungo tre piedi, e composto di diciassette vertebre. Vedi Buffon Stor. Nat.

310. Commodo uccise un Camelopardalis, o sia Giraffa (Dione l. LXXII p. 1211) il più alto, il più docile, ed il più inutile di tutti i quadrupedi. Questo singolare animale, che nasce soltanto nelle parti interne dell'Affrica, non è stato veduto in Europa dopo il risorgimento delle lettere, e benchè il Buffon Stor. Nat. tom. XIII abbia procurato di descriverlo, non si è arrischiato a darne il disegno.

311. Erodiano l. I p. 37. Stor. Aug. p. 30.

312. I Principi virtuosi o prudenti proibirono ai Senatori ed ai Cavalieri di abbracciare questa vergognosa professione sotto pena d'infamia, o ciò che per loro era ancor più terribile, sotto pena dell'esilio. I tiranni gl'invitarono a disonorarsi, con ricompense e con minacce. Nerone una volta fece venire sull' arena 40 Senatori, e 60 Cavalieri. Vedi Lipsio Saturnal. lib. II. Cap. 2. Egli ha felicemente corretto un passo di Svetonio in Nerone c. 12.

313. Lipsio lib. II c. 7 e 8. Giovenale nella Satira VIII, fa una pittoresca descrizione di questo combattimento.

314. Stor. Aug. p. 50. Dione l. LXXII p. 1220. Egli ricevè per una sola volta decies H. S. quasi sedicimila zecchini.

315. Vittore dice che Commodo dava ai suoi antagonisti una spada di piombo, temendo probabilmente lo conseguenze della loro disperazione.

316. Fu egli obbligato di ripetere 626 volte Paulo primo de' Secutori ec.

317. Dione lib. LXXII p. 1221 parla della sua viltà, e del pericolo, ch'ei corse.

318. Unì per altro la prudenza al coraggio, e passò la maggior parte del suo tempo in un ritiro di campagna a motivo, ci diceva, dell'età sua avanzata, e della debol sua vista. «Io non lo vidi mai in Senato, dice Dione, eccetto che nel corto regno di Pertinace.» Tutte le sue infermità in un momento guarirono, e subito gli ritornarono dopo l'assassinio di quel principe eccellente. Dione lib. LXVIII p. 1227.

319. I Prefetti si cambiavano quasi ogni giorno, ed ogni ora; ed il capriccio di Commodo tornò spesso fatale ai suoi più favoriti Ministri. Stor. Aug. p. 46 51.

320. Dione l. LXXII p. 1222. Erodiano l. 1 pag. 43. Stor. Aug. p. 52.

321. Pertinace era figlio di un legnaiuolo, e nacque in Alba Pompeia nel Piemonte. L'ordine dei suoi impieghi, che Capitolino ci ha conservato, merita di essere riferito, giacchè dà un'idea dei costumi, e del Governo di quel secolo. I. fu Centurione. II, Prefetto di una coorte nella Siria, durante la guerra dei Parti, e nella Britannia; III. ottenne un' Ala, o sia squadrone di cavalleria nella Mesia. IV. Fu Commissario delle provvisioni sulla via Emilia; V. comandò la flotta del Reno; VI. fu Procuratore della Dacia coll'annua paga di circa 3200 zecchini; VII. comandò i veterani di una legione; VII. ottenne il grado di Senatore; IX. di Pretore, X. ed il comando della prima legione nella Rezia, e nel Norico; XI. fu Console verso l'anno 175; XII. accompagnò Marco Aurelio in Oriente; XIII. comandò un'armata sulle rive del Danubio; XIV. fu Legato consolare della Mesia; XV. della Dacia; XVI. della Siria; XVII. della Britannia; XVIII. ebbe la cura delle pubbliche provvisioni a Roma; XIX. fu Proconsole in Affrica, XX. Prefetto della città. Erodiano lib. I p. 48 rende giustizia al suo spirito disinteressato; ma Capitolino che raccoglieva ogni rumor popolare, lo accusa di avere ammassato una gran ricchezza, lasciandosi corrompere.

322. Giuliano nei Cesari lo taccia d'essere stato complice della morte di Commodo.

323. Capitolino racconta le particolarità di questi tumultuarj decreti, che furono proposti da un Senatore, e ripetuti con raddoppiate acclamazioni da tutto il Corpo. Stor. Aug. p. 52.

324. Il Senato condannò Nerone ad esser messo a morte more majorum. Svetonio cap. 49.

325. Dione l. LXXIII p. 1223 parla di questi trattamenti, come un Senatore che aveva cenato col Principe: Capitolino Stor. Aug. p. 58 come uno schiavo che aveva ricevute le sue notizie da qualche guattero.

326. Decies H. S. La lodevole economia di Pio lasciò ai suoi successori un tesoro di quasi 44 milioni di zecchini. Dione l. LXXIII p. 1231.

327. Oltre il disegno di convertire in danaro quegli inutili ornamenti, Pertinace (secondo Dione l. LXXIII p. 1929) fu ancora guidato da due segreti motivi. Voleva esporre al pubblico i vizj di Commodo, e discoprire nei compratori quelli che più lo somigliavano.

328. Benchè Capitolino abbia ripiena di mille racconti puerili la vita privata di Pertinace, si accorda però con Dione ed Erodiano in ammirare la pubblica condotta di lui.

329. Leges, rem surdam, inexorabilem esse. Tit. Liv. II 3.

330. Se si può dar fede a Capitolino, Falco si condusse colla più indecente petulanza verso Pertinace il giorno del avvenimento di questo al trono. Il savio Imperatore lo avvertì solamente della sua gioventù, e della sua inesperienza. Stor. Aug. pag. 55.

331. Oggi il Vescovato di Liegi. Questo soldato probabilmente era uno delle guardie batave a cavallo, che per la maggior parte si reclutavano nel Ducato di Gueldria, e nei contorni, ed erano rinomate per il loro valore, e pel coraggio con che traversavano a cavallo nuotando i fiumi i più larghi e più ripidi, Tacit. Stor. IV 12; Dione lib. LV p. 797; Giusto Lipsio De magnitudine Romana lib. I cap. 4.

332. Dione lib. LXXIII p. 1232; Erodiano l. II p. 60. Stor. Aug. p. 58; Vittore in Epitom. et in Caesaribus, Eutropio VIII 16.

333. Il loro numero era originariamente di 9, o 10 mila uomini (giacchè Tacito, e Dione qui non concordano) divisi in altrettante coorti. Vitellio lo portò fino a 16 mila, e, per quanto si può ricavare dalle iscrizioni, questo numero in appresso non fu giammai molto minore. Ved. Giusto Lipsio De magnitudine romana I. 4.

334. Sveton. in August. cap. 49.

335. Tacito Ann. IV 2. Sveton. in Tib. cap. 37. Dione Cassio lib. LVII p. 867.

336. Nella guerra civile tra Vitellio e Vespasiano il campo dei Pretoriani fu assalito, e difeso con tutte le macchine solite a usarsi nell'assedio delle città meglio fortificate. Tacito Stor. III 4.

337. Vicino alle mura della città su i monti Quirinale e Viminale. Vedi Nardini, Roma antica p. 174. Donato De Roma antiqua p. 46.

338. Claudio, che i soldati aveano innalzato all'Impero, fu il primo, che lor facesse un donativo. Dette a ciascuno quina dena H. S. 240 zecchini, Svet. vita di Claudio cap. 10. Quando Marco Aurelio montò pacificamente sul trono col suo collega Lucio Vero dette ad ogni Pretoriano vicena H. S. 320 zecchini Stor. Aug. p. 25. Dione l. XXIII p. 1231. Possiamo formarci qualche idea del totale di queste somme dal lamento di Adriano, a cui la promozione di un Cesare era costata ter millies H. S. quasi cinque milioni di zecchini.

339. Cicerone De legibus 3. Il primo libro di Livio, ed il secondo di Dionigi d'Alicarnasso mostrano l'autorità del popolo anche nell'elezione dei Re.

340. Le leve si facevano originariamente nel Lazio, nell'Etruria, e nelle antiche Colonie. Tacito Annal. IV 5. L'Imperatore loro Ottone lusinga la vanità delle guardie chiamandole Italiae alumni, Romana vere juventus. Tacito Stor. I 84.

341. Nell'assedio di Roma fatto dai Galli. Vedi Tito Livio V 48. Plutarco vita di Cammillo p. 143.

342. Dione lib. LXXIII p. 1234. Erodiano lib. II p. 63. Stor. Aug. p. 60. Benchè tutti questi Storici Si accordino a dire che fu una vendita pubblica, Erodiano solo afferma che fu proclamata come tale dai soldati.

343. Sparziano addolcisce quel che v'era di più odioso nel carattere, e nell'elevazione di Giuliano.

344. Dione Cassio, allora Pretore, era stato nemico personale di Giuliano. Lib. I LXXIII p. 1235.

345. Stor. Aug. p. 61. Si raccoglie da questo luogo una circostanza curiosa: un Imperatore di qualsiasi nascita era immediatamente dopo la sua elezione ascritto al numero dei Patrizj.

346. Dione lib. LXXIII p. 1235. Stor. Aug, p. 61. Ho procurato di conciliare le apparenti contraddizioni di questi Storici.

347. Dione lib. LXXIII p. 1235

348. Postumiano, e Caioniano, il primo dei quali fu innalzato al Consolato cinque anni dopo la sua istituzione.

349. Sparziano, nelle sue confuse compilazioni, fa un mescuglio di tutte le virtù, e di tutti i vizj, che compongono la natura umana, e li attribuisce a un solo soggetto. In tal guisa sono disegnati la maggior parte dei caratteri della Storia Augusta.

350. Stor. Aug. p. 80, 84.

351. Pertinace, che governava la Britannia alcuni anni avanti, era stato lasciato per morto in un sollevamento dai soldati. Stor. Aug. p. 54. Essi per altro lo amarono, e lo piansero « Admirantibus eam virtutem cui irascebantur

352. Svet. vita di Galba c. 10.

353. Stor. Aug. p. 76.

354. Erodiano l. II p. 68. La cronaca di Giovanni Malala di Antiochia mostra il grande zelo dei suoi concittadini per queste feste, che contentavano nel tempo stesso la lor superstizione ed il loro amore per i piaceri.

355. Viene nominato nella Stor. Aug. un Re di Tebe in Egitto come alleato, anzi come personale amico di Negro. Se Sparziano non si è ingannato, (come fortemente ne dubito) egli ha prodotto una dinastia di principi tributarj affatto sconosciuta alla Storia.

356. Dione l. LXXIII p. 1238. Erodiano l. II p. 67. Un verso, che allora era comune, pare che esprima la generale opinione che si aveva di quei tre rivali:

Optimus est Niger, bonus Afer, pessimus Albus Stor. Aug. p. 75.

357. Erodiano lib. II p. 71.

358. Vedasi la relazione di questa memorabil guerra in Velleio Paterc. II 110 ec. il quale servì nell'armata di Tiberio.

359. Tale è la riflessione di Erodiano l. II p. 74.

360. Commodo, nella già menzionata lettera di Albino, accusa Severo, come uno di quegli ambiziosi Generali, che criticavano la sua condotta, e desideravano di usurpare il suo posto. Stor. Aug. p. 80.

361. La Pannonia era troppo povera per somministrare una tal somma. Fu questa probabilmente promessa nel campo, e pagata a Roma dopo la vittoria. Nel fissar questa somma ho adottata la congettura di Casaubono. Vedi Stor. August. p. 66.

362. Erodiano l. II p. 78. Severo fu dichiarato Imperatore sulle rive del Danubio, a Carnunto, secondo Sparziano, Stor. Aug. p. 65 ovvero a Sabaria, secondo Vittore. Il Sig. Hume supponendo che la nascita e la dignità di Severo fossero troppo inferiori alla corona imperiale, e ch'egli marciasse in Italia solamente come Generale, non ha considerato questo avvenimento con la sua solita accuratezza (Saggio sul patto originale).

363. Velleio Pater. l. II c. III. Partendo dalle più prossime frontiere della Pannonia, conveniva fare una marcia di 200 miglia per giungere a Roma.

364. Non è questa una puerile figura di rettorica, ma una allusione ad un fatto reale rammentato da Dione, l. LXXI p. 1181. È probabile che più di una volta accadesse.

365. Dione l. LXXIII p. 1203. Erodiano l. II p. 81. Non v'ha prova più sicura dell'abilità militare dei Romani, che l'aver essi prima superato il vano terrore, e dipoi sprezzato l'uso degli elefanti nella guerra.

366. Stor. Aug. p. 62, 63.

367. Vittore ed Eutropio VIII 17 fanno menzione di un combattimento vicino al ponte Milvio (il ponte Molle), combattimento sconosciuto ai migliori e più antichi scrittori.

368. Dione l. LXXIII p. 1240. Erodiano l. II p. 83. Stor. Aug. p. 63.

369. Da questi sessantasei giorni convien prima sottrarne sedici, poichè Pertinace fu ucciso il 28 Marzo, e Severo probabilmente fu eletto il di 13 Aprile (Vedi Stor. Aug. p. 65 Tillemont Stor. degl'Imperatori tom. III p. 393 nota 7). Non si può accordare meno di dieci giorni, dopo la sua elezione, per mettere un numeroso esercito in moto. Rimangono quaranta giorni per questa rapida mossa; e siccome possiam computare quasi 800 miglia da Roma alle vicinanza di Vienna, l'armata di Severo fece venti miglia il giorno senza mai fermarsi.

370. Dione l. LXXIV p. 1241; Erodiano l. II p. 84.

371. Dione l. LXXIV p. 1244 che assistè alla cerimonia come Senatore, ne fa una pomposa descrizione.

372. Erodiano l. III p. 112

373. Benchè Lucano non abbia certamente intenzione di esaltare il carattere di Cesare, pure l'idea ch'egli dà di quell'eroe, nel decimo libro della Farsaglia, equivale ad un magnifico panegirico. Tal lo dipinge, ch'ei faccia nel tempo stesso all'amore con Cleopatra, che sostenga un assedio contro le forze tutte dell'Egitto, e che conversi con i filosofi di quel paese.

374. Contando dalla sua elezione 13 Aprile 193 alla morte di Albino 19 Febbrajo 197. Vedi la Cronol. di Tillem.

375. Erodiano l. II p. 85.

376. Mentre Severo era pericolosamente infermo, fece correre il rumore, ch'era risoluto di designare Albino e Negro per suoi successori. Siccome egli non potea esser sincero verso alcuno di essi, così forse ebbe idea d'ingannarli ambidue; ma pure spinse tanto oltre la sua ipocrisia fino ad attestar questa sua intenzione nelle memorie della sua vita.

377. Ved. Stor. Aug. p. 65.

378. Quest'usanza, inventata da Commodo, divenne utilissima a Severo. Trovò a Roma i figli di quasi tutti gli aderenti dei suoi rivali, e se ne servì più d'una volta per intimorire e per sedurre i loro genitori.

379. Erodian. l. III p. 96. Stor. Aug. p. 67, 68.

380. Stor. Aug. pag. 84. Sparziano ha riferita tutta intera questa lettera.

381. Si consulti il III libro di Erodiano, ed il LXIV di Dione Cassio.

382. Dione, l. LXXV p. 1261.

383. Dione l. LXXV p. 1261. Erodiano l. III p. 110. Stor. Aug. p. 68. La battaglia seguì nella pianura di Trevoux a tre o quattro leghe da Lione. Vedi Tillemont tom. III p. 406. Nota 18.

384. Montesquieu. Consider. sulla grandezza e decadenza dei Romani cap. XII.

385. Molti di questi, come si può supporre, erano piccoli vascelli scoperti; alcuni per altro erano galere a due, e poche altre a tre ordini di remi.

386. L'ingegnere si chiamava Prisco. La sua abilità gli salvò la vita, e fu preso al servizio del vincitore. Per li fatti particolari dell'assedio V. Dione Cassio l. LXXV p. 1251 ed Erodiano l. III p. 95. Per la teoria poi vedi l'immaginante Cav. Folard e Polibio, tom. I p. 76.

387. Non ostante l'autorità di Sparziano e di alcuni Greci moderni, possiamo essere certi, per l'asserzione di Dione e di Erodiano, che Bisanzio giaceva in uno stato di rovina molti anni dopo la morte di Severo.

388. Dione l. LXXIV. p. 1250.

389. Dione l. LXXV p. 1265. Egli nomina 29 Senatori soltanto; ma nella Storia Augusta p. 64 ne sono ricordati 41, tra i quali sei portano il nome di Pescennio. Erodiano l. III. p. 115 parla in generale delle crudeltà di Severo.

390. Aurelio Vittore.

391. Dione l. LXXVI p. 1272. Stor. Aug. p. 67. Severo celebrò i giuochi secolari con magnificenza straordinaria, e lasciò nei pubblici granai una provvisione di grano per sette anni, a ragione di 75,000 moggi. Credo ancor io che i granai di Severo fosser provvisti per un gran tempo, ma credo altresì che la politica insieme e l'ammirazione abbiano molto accresciuto il vero.

392. Vedi il trattato di Spanemio sulle medaglie antiche, le iscrizioni, ed i dotti viaggiatori Spon, Wheleer, Shaw, Pocock ec. che hanno trovati più monumenti di Severo che di ogni altro Imperatore romano nell'Africa, nella Grecia e nell'Asia.

393. Portò le vittoriose sue armi fino a Seleucia, ed a Ctesifone, capitali della monarchia dei Parti. Avrò occasione di parlare di questa guerra nel proprio suo luogo.

394. Etiam in Britannis. Era questa la sua giusta ed enfatica espressione. Stor. Aug. 73.

395. Erodiano l. III. p. 115. Stor. Aug. p. 68.

396. Si può consultare sull'insolenza e sui privilegi de' soldati la Satira XVI falsamente attribuita a Giovenale. Lo stile, e le circostanze di essa m'inducono a credere, che fosse composta sotto il regno di Severo, o di suo figlio.

397. Stor. Aug. p. 73.

398. Erodiano l. III p. 131.

399. Dione l. LXXIV p. 1243.

400. Uno degli atti più crudeli ed arditi del suo dispotismo fu la castrazione di cento liberi Romani, alcuni di essi maritati, ed anche padri di famiglia; e questo solamente acciocchè la figlia, nel suo matrimonio con il giovane Imperatore, potesse essere corteggiata da un treno di eunuchi degno di una Regina orientale. Dione l. LXXVI p. 1271.

401. Dione l. LXXVI p. 1274 Erodiano l. III p. 188-190. Il Gramatico di Alessandria pare, secondo il solito, molto più istruito di questo misterioso affare, e più certo della colpa di Plauziano, di quel che se ne mostri il Senatore.

402. Appiano in Proem.

403. Dione Cassio par che abbia scritto con la sola mira di unire queste opinioni in un sistema storico. Le Pandette mostrano con quanta assiduità i giureconsulti lavoravano per sostenere la prerogativa imperiale.

404. Stor. Aug. p. 71 Omnia fui, et nihil expedit.

405. Dione Cassio l. LXXVI p. 1284.

406. Verso l'anno 186. Tillemont è miseramente imbarazzato per ispiegare un passo di Dione nel quale l'Imperatrice Faustina, morta l'anno 175, viene introdotta come una che ha contribuito al matrimonio di Severo e di Giulia l. LXXIV p. 1243. Questo dotto compilatore non si rammentò, che Dione non riferisce un fatto reale, ma un sogno di Severo; ed i sogni non sono circoscritti da' confini di tempo o di luogo. Tillemont s'immaginò egli che i matrimonj si consumassero nel tempio di Venere in Roma? Stor. degl'Imperatori, tom. III p. 389, Nota 6.

407. Stor. Aug. p. 65.

408. Stor. Aug. p. 85.

409. Dione Cassio l. LXXVII. p. 1304. 1314.

410. Vedi una Dissertazione di Menagio, al fine della sua edizione di Diogene Laerzio De foeminis philosophis.

411. Dione l. LXXVI p. 1285. Aurelio Vittore.

412. Bassiano era il suo primo nome, come lo era stato del suo avo materno. Durante il regno egli prese il nome di Antonino, che è usato dai giureconsulti e dagli storici. Dopo la sua morte, la pubblica indegnazione gli pose i soprannomi di Taranto, e di Caracalla. Il primo era quello di un celebre gladiatore, il secondo gli fu dato per una lunga veste alla foggia dei Galli ch'egli distribuì al popolo romano.

413. L'elevazione di Caracalla è fissata dall'esatto Tillemont all'anno 198; l'associazione di Geta all'anno 208.

414. Erodiano l. III p. 130. Vedi le vite di Caracalla e di Geta nella Stor. Aug.

415. Dione l. LXXVI. p. 1280 ec. Erodiano l. III p. 132 ec.

416. I poemi di Ossian vol. I p. 175.

417. Che il Caracul di Ossian sia il Caracalla della Storia romana, è forse il solo articolo di antichità britanniche, nel quale i Signori Macpherson e Whitaker sono della stessa opinione; e pure l'opinione non è senza difficoltà. Nella guerra dei Caledonj il figlio di Severo era conosciuto soltanto col nome di Antonino; e può parere strano, che un poeta scozzese lo abbia indicato con un soprannome, inventato quattro anni dipoi, appena usato dai Romani dopo la morte di quell'Imperatore, e raramente adoprato dai più antichi Storici. Vedi Dione l. LXXVII p. 1317 Stor Aug. 89 Aurelio Vittore. Euseb. nella Cronol. ad ann. 214.

418. Dione l. LXXVI p. 1282 Stor. Aug., p. 71. Aurel. Victor.

419. Dione l. LXXVI p. 1283 Stor. Aug. 89.

420. Dione l. LXXV. p. 1284 Erodiano l. III. p. 135.

421. Il Sig. Hume si stupisce con ragione di un passaggio di Erodiano (l. IV p. 139.) che in questa occasione rappresenta il palazzo degl'Imperatori come uguale in estensione al resto di Roma. Il monte Palatino, sul quale era fabbricato, aveva al più undici o dodici miglia di circonferenza (Vedi Vittore, Roma antica del Nardini). Ma convien rammentarsi, che i palazzi suburbani e gl'immensi giardini dei Senatori opulenti circondavano quasi tutta la città, e che gl'Imperatori ne avevano a poco a poco confiscata quasi la maggior parte. Se Geta dimorava sul Gianicolo nei giardini che portarono il suo nome, e se Caracalla abitava i giardini di Mecenate sul monte Esquilino, i fratelli rivali erano separati l'un dall'altro per il tratto di parecchie miglia. Lo spazio intermedio era occupato dai giardini imperiali di Sallustio, di Lucullo, d'Agrippa, di Domiziano, di Caio ec. Questi giardini formavano un circolo intorno alla capitale, e comunicavan fra loro e col palazzo ancora per mezzo di varj ponti gettati sul Tevere che traversavano le strade di Roma. Se questo passaggio di Erodiano meritasse di essere spiegato, esigerebbe una dissertazione particolare, illustrata da una carta dell'antica Roma.

422. Erodiano l. IV p. 139.

423. Erodiano l. IV p. 144.

424. Caracalla consacrò, nel tempio di Serapide, la spada, con la quale si vantava di avere ucciso il suo fratello Geta. Dione l. LXXVII p. 1307.

425. Erod. l. IV p. 147. In tutti i campi degli eserciti romani s'innalzava a canto al quartier generale una piccola cappella, nella quale si custodivano ed adoravano le divinità Tutelari. Le Aquile e le altre insegne militari tenevano tra queste il primo luogo. Questa eccellente istituzione avvalorava la disciplina con la sanzione della religione. Vedi Giusto Lipsio de militia Romana, IV 5. V 2.

426. Erodiano l. IV p. 148: Dione Cassio l. LXXVII. p. 1289.

427. Geta fu collocato tra gli Dei. Sit divus, disse il fratello, dum non sit vivus. Stor. Aug. p. 91. Si trovano tuttavia sulle medaglie alcuni indizj della consacrazione di Geta.

428. Dione l. LXXVII p. 1307.

429. Dione l. LXXVII p. 1290. Erodiano l. IV p. 150. Dione Cassio dice (p. 1298) che i poeti comici non ardirono più far uso del nome di Geta nelle lor commedie, e che si confiscavano i beni di coloro, che avevano fatto qualche legato a quel Principe infelice.

430. Caracalla aveva preso i nomi di molte vinte nazioni; ed avendo egli riportati alcuni vantaggi su i Goti o sia Geti, Pertinace osservò che il nome di Getico, conveniva benissimo all'Imperatore dopo quelli di Partico, Alemannico ec. Stor. Aug. p. 89.

431. Dione l. LXXVII p. 1291. Discendeva probabilmente da Elvidio Prisco e da Peto Trasea, cittadini illustri, dei quali Tacito ha fatta immortale la intrepida, ma inutile ed inopportuna virtù.

432. Si pretende che Papiniano fosse parente dell'Imperatrice Giulia.

433. Tacito an. XIV 11.

434. Stor. Aug. p. 88.

435. Sul proposito di Papiniano, vedi Hist. Juris Rom. dell'Einecc. l. 330 ec.

436. Tiberio e Domiziano non si allontanarono mai dai contorni di Roma. Nerone fece un piccolo viaggio nella Grecia. Et laudatorum Principum usus ex aequo quamvis procul agentibus. Saevi proximis ingruunt. Tacit. Stor. IV 75.

437. Dione l. LXXVII. p. 1294.

438. Dione l. LXXVII p. 1307; Erodiano l, IV p. 158. Il primo rappresenta questa strage come un atto di crudeltà; l'altro pretende che vi si usasse ancor la perfidia. Sembra che gli Alessandrini avessero irritato il tiranno con le loro Satire, e forse con i loro tumulti.

439. Dione l. LXXVII p. 1296.

440. Dione l. LXXVI p. 1284. Il Sig. Wotton (Stor. di Roma p. 330) crede che questa massima fosse inventata da Caracalla, ed attribuita a suo padre.

441. Secondo Dione (l. LXXVIII p. 1343) i donativi straordinarj, che Caracalla faceva alle sue truppe, ascendevano annualmente a settanta milioni di dramme, circa cinque milioni di zecchini. Vi ha, sul proposito delle paghe militari, un altro passo di Dione, che sarebbe assai curioso, se non fosse oscuro, imperfetto, e forse corrotto. Tutto quel vi si può ricavare, è che i soldati Pretoriani ricevevano ogni anno 1200 dramme, ottanta zecchini. (Dione l. 77). Sotto il regno di Augusto avevano per ogni giorno due dramme o sia due denari al giorno, (Tacito An. I 17.) Domiziano, che aumentò la paga delle truppe per un quarto, dovè far montare quella dei Pretoriani a 960 dramme l'anno (Gronovio de Pecun. veter. l. III c. 2.) Queste successive aumentazioni rovinarono l'Impero, perchè il numero dei soldati si accrebbe insieme con la paga. I soli Pretoriani, che non erano a principio che dieci mila, furono poi cinquanta mila.

442. Dione l. LXXVIII p. 1312. Erod. l. IV p. 168.

443. La passione di Caracalla per Alessandro comparisce tuttora sulle sue medaglie. Ved. Spanheim, De usu numismat. Dissert. XII. Erodiano (l. IV p. 154) aveva veduto certi ridicoli dipinti rappresentanti una figura che da una parte somigliava Alessandro, e dall'altra Caracalla.

444. Erod. l. IV p. 169. Stor. Aug. p. 94.

445. Elagabalo rimproverò il suo predecessore di avere ardito di sedere in trono, benchè come Prefetto del Pretorio non avesse la libertà di entrare in Senato, dopo che la voce del banditore avea fatta sgombrare la sala. Il favor personale di Plauziano e di Seiano gli aveva messi al di sopra di tutte le leggi. Erano questi, per vero dire, stati tratti dall'Ordine Equestre; ma conservarono la prefettura con il grado di Senatore, e con il Consolato ancora.

446. Egli nacque a Cesarea nella Numidia, e fu da prima impiegato nella casa di Plauziano, e poco mancò che involto non fosse nella sua rovina. I suoi nemici hanno preteso che nato schiavo, egli avesse esercitate diverse infami professioni, e fra le altre quella di gladiatore. L'uso di avvilire l'origine e la condizione di un avversario sembra avere durato dal tempo degli oratori greci fino ai dotti grammatici dell'ultimo tempo.

447. Dione ed Erodiano parlano delle virtù e dei vizj di Macrino con imparziale sincerità. Ma l'autore della sua vita nella Stor. Aug. sembra che abbia ciecamente copiato alcuni di quegli scrittori, la cui penna, venduta all'Imperatore Elagabalo, aggravò la memoria del suo predecessore.

448. Dione l. LXXXIII p. 1336. Il senso dell'autore è chiaro come l'intenzione del Principe; ma il Sig. Wotton non ha inteso nè l'uno nè l'altra, applicando la distinzione non ai veterani ed alle reclute, ma alle antiche e nuove legioni (Stor. di Roma p. 347).

449. Dione l. LXXVIII p. 1330. Il compendio di Xifilino, benchè men ripieno di particolarità, è qui più chiaro dell'originale.

450. Secondo Lampridio (Stor. Aug. p. 135) Alessandro Severo visse ventinove anni, tre mesi, e sette giorni. Siccome fu ucciso il 19 Marzo 235, conviene porre la sua nascita addì 12 dicembre 205. Egli aveva allora tredici anni, ed il tuo cugino quasi diciassette. Questo computo si confa meglio alla Storia di questi due Principi, che quello di Erodiano, il quale li fa più giovani di tre anni (l. V p. 181.). Dall'altro canto, questo autore untore prolunga di due anni il regno di Elagabalo. Si possono vedere le particolarità della congiura di Dione l. LXXVIII. p. 1339, ed in Erodian. l. V. p. 184.

451. In virtù di un fatale proclama del preteso Antonino, ogni soldato, che recava la testa del suo uffiziale, ne succedeva ai beni ed al grado.

452. Dione l. LXXXIII p. 1345; Erodiano l. V pag. 186. La battaglia fu data vicino al villaggio d'Imma a sette leghe incirca da Antiochia.

453. Dione l. LXXIX p. 1350.

454. Dione l. LXXIX p. 1363. Erod. l. V. p. 189.

455. Questo nome viene da due parole siriache, Ela, Dio, e gabal, formare il Dio formatore o sia plastico, nominazione giusta ed adattata al Sole. Wotton Stor. di Roma pag. 378.

456. Erodiano l. V p. 190.

457. Egli violò il Santuario di Vesta, e ne involò una statua da lui creduta il Palladio; ma le Vestali si vantavano di avere con pia frode ingannato il sacrilego, presentandogli un falso simulacro della Dea: Stor. Aug. p. 103.

458. Dione l. LXXIX. p. 1360 Erodiano l. V p. 193. I sudditi dell'Impero furono obbligati a fare ricchi regali ai nuovi sposi. Mammea dipoi esigè dai Romani tutto quel ch'essi avevan promesso, vivente Elagabalo.

459. La scoperta di un nuovo intingolo era magnificamente ricompensata; ma se questo non piaceva, l'inventore era condannato a non mangiare altro che di quel piatto, finchè non ne avesse immaginato un altro che più piacesse al palato dell'Imperatore. Stor. Aug. p. 111.

460. Non mangiava mai pesce, se non quando era lontanissimo dal mare; allora ne distribuiva ai paesani dell'interno una immensa quantità delle specie più rare, ed il trasporto costava spese enormi.

461. Dione l. LXXIX p. 1358; Erod. l. V p. 192.

462. Jerocle ebbe questo onore; ma sarebbe stato supplantato da un certo Zotico, se trovato non avesse il modo d'indebolire il suo rivale con una bevanda. Fu questi vergognosamente scacciato dal palazzo, quando si trovò che la sua forza non corrispondeva alla sua riputazione. (Dione l. LXXIX. 1363 1364.) Un ballerino fu fatto prefetto della città; un cocchiere, prefetto della guardia; un barbiere, prefetto delle provvisioni. Vedi la Stor. Aug. p. 105 ove parlasi delle qualità che rendevano stimabili questi tre ministri e molti altri inferiori, ( enormitate membrorum.)

463. Il credulo compilatore della sua vita è inclinato ancor esso a credere che i suoi vizj possano essere stati esagerati. Stor. Aug. p. 111.

464. Dione l. LXXIX. p, 105. Erodiano l. V p. 195, 201. Stor. Aug. p. 1365. L'ultimo di questi Storici pare che abbia seguito i migliori autori nel racconto della rivoluzione.

465. L'epoca della morte di Elagabalo, e dell'avvenimento di Alessandro, ha esercitata l'erudizione e la sagacità di Pagi, di Tillemont, di Valsecchi, di Vignoli, e di Torre Vescovo di Adria. Questo punto di Storia è per vero dire oscurissimo; ma io mi attengo all'autorità di Dione, il cui calcolo è evidente, ed il testo non può essere corrotto, giacchè Xifilino, Zonara, e Cedreno si accordano tutti con lui. Elagabalo regnò tre anni, nove mesi e quattro giorni dopo la sua vittoria contro Macrino, e fu ucciso il 10 Marzo 222. Ma che direm noi leggendo sopra autentiche medaglie il quinto anno della sua potestà tribunizia? Replicheremo con il dotto Valsecchi, che non si ebbe riguardo alcuno all'usurpazione di Macrino, e che il figlio di Caracalla datò il suo regno dalla morte del padre. Dopo avere risoluto questa grande difficoltà è facile sciogliere e recidere gli altri nodi della questione.

466. Stor. Aug. p. 114. Con una precipitazione tanto straordinaria il Senato aveva idea di distruggere le speranze dei pretendenti e di prevenire le fazioni degli eserciti.

467. «Se la natura fosse stata liberale fino a darci l'esistenza senza il soccorso delle donne, noi saremmo liberi da una compagnia molto importuna». Così si espresse Metello Numidico il censore dinanzi al popolo romano; ed aggiunse che il matrimonio dovea considerarsi come il sacrifizio di un piacere particolare ad un pubblico dovere. Aulo Gellio I 6.

468. Tacito Ann. XIII 5.

469. Stor. Aug. p. 102, 107.

470. Dione l. LXXX p. 1369; Erodiano l. VI p. 206 Stor. Aug. p. 131. Secondo Erodiano, il patrizio era innocente. La Stor. Aug., sull'autorità di Dexippo, lo condanna come colpevole di una congiura contro la vita di Alessandro. È impossibile di decidere. Ma Dione è un inrecusabile testimonio della gelosia e della crudeltà di Mammea verso la giovane Imperatrice, di cui Alessandro deplorò l'infelice sorte senza avere il coraggio di opporvisi.

471. Erodiano l. VI p. 203. Stor. Aug. p. 119. Secondo questo ultimo Storico, quando si trattava di fare una legge, si ammettevano nel consiglio alcuni abili giureconsulti, ed alcuni Senatori esperti, i quali davano separatamente il loro parere, ch'era poi messo in iscritto.

472. Vedi la sua Vita nella Stor. Aug. Il compilatore senza alcun discernimento ha sepolto questi interessanti aneddoti sotto un ammasso di circostanze frivole e triviali.

473. Ved. Gioven. Sat. XIII.

474. Stor. Aug. p. 119.

475. Il racconto della disputa che nacque su questo articolo tra il Senato ed Alessandro, è estratto dai registri di quella adunanza (Stor. Aug. p. 116 117). Cominciò il 6 Marzo, probabilmente l'anno 223, quando già i Romani avevano gustate per quasi dodici mesi le dolcezze di nuovo regno. Avanti che fosse offerto al Principe il nome di Antonino come un titolo d'onore, il Senato gli propose di prenderlo come un nome di famiglia.

476. L'Imperatore era solito dire: se milites magis servare quam se ipsum; quod salus publica in his esset. Stor. Aug. p. 130.

477. Benchè l'autore della vita di Alessandro (Stor. Aug. p. 132.) parli della sedizione dei soldati contro Ulpiano, passa però sotto silenzio la catastrofe, che poteva nel suo eroe essere un segno di debolezza nell'amministrazione. Da una simile omissione si può giudicare della fedeltà di questo Autore e della credenza che merita.

478. Si può vedere nel fine tronco della Storia di Dione (l. LXXX p. 1371.) qual fosse il fato di Ulpiano ed a quai pericoli fosse esposto Dione.

479. Reymat, Note a Dione. l. LXXX p. 1369.

480. Giulio Cesare avea sedata una ribellione con la stessa parola quirites che opposta a quella di milites era un termine di disprezzo, e riduceva i colpevoli alla meno onorifica condizione di cittadini. Tacito Ann. I 43.

481. Storia Aug. p. 132.

482. Dai Metelli, Stor. Aug. p. 119. La scelta era felice. In dodici anni i Metelli ebbero sette consolati e cinque trionfi. Ved. Velleio Patercolo II 11, ed i Fasti.

483. La vita di Alessandro nella Stor. Aug. presenta il modello di un Principe perfetto: è questa una debole copia della Ciropedia di Senofonte. La descrizione del suo regno, tal quale ce l'ha data Erodiano, è sensata, e combina con la Storia generale del secolo. Alcuni dei tratti più odiosi, ch'essa contiene, sono ugualmente riportati nei decisivi frammenti di Dione. Ma la maggior parte de' nostri scrittori moderni, acciecati dal pregiudizio, sfigurano Erodiano e copiano servilmente la Stor. Aug. Vedi Tillemont e Wotton. L'Imperator Giuliano al contrario ( in Caesaribus p. 31.) si compiace nel descriver la debolezza effemminata del Siro, e la ridicola avarizia di sua madre.

484. Secondo l'esatto Dionigi di Alicarnasso, la città stessa non era lontana da Roma che cento stadi (circa quattro leghe), benchè alcuni posti avanzati potessero estendersi più in là verso l'Etruria. Nardini ha confutato in un trattato particolare e, l'opinione ricevuta e l'autorità di due Papi, che ponevano Veia ove è ora Civita Castellana; questo erudito crede che quell'antica città fosse situata in un piccolo luogo chiamato Isola, a mezza strada da Roma al lago Bracciano.

485. Vedi Tito Livio l. IV e V. Nel censo dei Romani si proporzionavano esattamente i beni e la facoltà, e la tassa.

486. Plinio Stor. Nat. l. XXXIII c. 3. Cicerone De officiis II 22. Plutarco vita di Paolo Emilio p. 275.

487. Vedi una bella descrizione di questi tesori accumulati nella Farsaglia di Lucano l. III v. 155 ec.

488. Tacito Ann. I 2. Sembra che questo registro esistesse al tempo di Appiano.

489. Plutarco, vita di Pompeo p. 642.

490. Strabone l. XVII p. 798.

491. Velleio Patercolo l. II c. 39. Questo autore pare che dia la preferenza alla rendita della Gallia.

492. I talenti Euboici, Fenicj, ed Alessandrini pesavano il doppio dei talenti Attici. Vedi Hooper intorno i pesi e le misure degli antichi p. IV. c. 5. È probabile che il medesimo talento fosse portato da Tiro a Cartagine.

493. Polibio l. XV c. 2.

494. Appiano in Punicis p. 84.

495. Diodoro di Sicilia l. V. Cadice fu fabbricata dai Fenicj, un poco più di mille anni avanti la nascita di Gesù Cristo. Vedi Velleio Patercolo l. 2.

496. Strabone l. III p. 148.

497. Plinio Stor. Nat. l. XXXIII c. 4. Parla egli ancora di una miniera d'argento nella Dalmazia, che rendeva allo Stato cinquanta libbre il giorno.

498. Strabone l. X p. 485. Tacito. Ann. III 69. IV 30. Vedi in Tournefort (viaggio del Levante l. VIII) una eloquente descrizione dell'attuale miseria di Giera.

499. Giusto Lipsio ( De Magnitudine romana l. 2 c. 3) fa montare l'entrata a cento cinquanta milioni di scudi d'oro, ma tutta la sua opera, benchè ingegnosa e piena di erudizione, è il frutto di una fantasia riscaldata.

500. Tacito Ann. XIII 31.

501. Ved. Plinio (Stor. Nat. l. VI c. 23, l. XII, c. 18.) Osserva egli che le merci dell'Indie si vendevano a Roma cento volte più del loro primitivo valore: dal che si può formare una idea del prodotto delle dogane, poichè questo valore primitivo a detta del medesimo Plinio montava per lo meno a più di 1,600,000 zecchini.

502. Gli antichi ignoravano l'arte di faccettare il diamante.

503. Il Sig. Bouchaud nel suo trattato delle imposizioni dei Romani ha trascritta questa lista che si trova nel Digesto, ed ha voluto illustrarla con un prolisso commentario.

504. Tacito Ann. I. 78. Due anni dopo l'Imperatore Tiberio avendo soggiogato il povero regno di Cappadocia, ne trasse un pretesto per diminuire di metà l'imposizione sulle vendite; ma questa diminuzione fu di poca durata.

505. Dione l. LV 794 l. LVI p. 825.

506. Una tal somma si stabilisce per congettura.

507. Per molti secoli, nei quali sussistè il diritto romano, i cognati o parenti dal canto di madre non erano chiamati alla successione. Questa legge crudele fu insensibilmente affievolita dall'umanità, e finalmente abolita da Giustiniano.

508. Plinio, Paneg. c. 37.

509. Ved. Einecio. Antiq. juris Rom. l. II.

510. Orazio l. II Sat. V. Petronio c. 116 ec. Plinio l. II let. 20.

511. Cicerone Filipp. II c. 16.

512. Ved. le sue Lettere. Tutti questi testamenti gli davano occasione di mostrare il suo rispetto pei morti, e la sua giustizia pei vivi. E questo e quella egli conciliò insieme nella condotta ch'ei tenne con un figlio diseredato dalla madre (V. 1).

513. Tacito Ann. XIII 50 Esprit des loix l. XII c. 19.

514. Ved. Il Paneg. di Plinio; la Stor. Aug., e Burmanno De vectigalibus.

515. I tributi, propriamente detti, non erano dati in appalto, giacchè i buoni Principi condonarono spesso molti milioni di rate decorse.

516. La condizione dei nuovi cittadini viene esattissimamente descritta da Plinio (Panegir. c. 37 38 39). Traiano pubblicò una legge molto a loro favorevole.

517. Dione l. LXXVII p. 1295.

518. Chi era tassato a dieci aurei, ordinario tributo, non pagò più che il terzo di un aureo; ed Alessandro fece in conseguenza battere nuove monete d'oro. Stor. Aug. p. 128 con i commentarj di Salmasio.

519. Ved. la Stor. di Agricola, di Vespasiano, di Trajano, di Severo, de' suoi tre competitori, e generalmente di tutti gli uomini illustri dell'Impero.

520. Non vi era ancora stato esempio di tre generazioni successive sul trono: si erano soltanto veduti tre figli governare l'Impero dopo la morte dei loro padri. Non ostante la permissione e la frequente pratica del divorzio, i matrimonj dei Cesari generalmente furono infruttuosi.

521. Storia Aug. p. 138.

522. Stor. Aug. p. 140. Erod. l. VI p. 223, Aurel. Vittore. Paragonando questi autori, sembra che Massimino avesse il comando particolare della cavalleria Triballiana, e la commissione di disciplinare le reclute di tutto l'esercito. Il suo biografo avrebbe dovuto più accuratamente indicare le sue imprese, ed i diversi gradi, pei quali egli passò.

523. Vedi la lettera originale di Alessandro Severo. Storia Aug. p. 149.

524. Stor. Aug. p. 135. Ho moderate alcune delle più improbabili circostanze riferite nella sua vita, per quanto se ne può giudicare dalla narrazione di questo sciaurato biografo, secondo il quale parrebbe che il buffone di Alessandro entrasse a caso nella sua tenda, mentre ei dormiva, e lo svegliasse, e che il timor del castigo l'inducesse a persuadere ai malcontenti soldati di commettere quell'assassinio.

525. Erod. l. VI. p. 223. 227.

526. Caligola, il maggiore dei quattro, non aveva che 25 anni quando ascese al trono; Caracalla ne avea 23; Commodo 19, e Nerone 17 soltanto.

527. Sembra ch'egli ignorasse interamente il greco, linguaggio d'uso universale allora nello scrivere e nel conversare, lo studio che faceva parte essenziale d'ogni culta educazione.

528. Stor. Aug. p. 141. Erod. l. VII p. 237. Ingiustamente si accusa quest'ultimo Storico di aver nascosti i vizj di Massimino.

529. Veniva paragonato a Spartaco, e ad Atenione: Stor. Aug. p. 141. Alcune volte la moglie di Massimino sapeva con i suoi savj e dolci consigli rimettere il tiranno sulla via della verità e dell'umanità. Ved. Am. Marcellino l. XVII. c. 1, dove fa allusione a quella circostanza, ch'egli ha più estesamente riferita sotto il regno di Gallieno. Si può vedere dalle medaglie, che quella benefica Imperatrice si nominava Paulina: il titolo di Diva indica ch'essa morì avanti Massimino. (Valois, ad loc. cit. Amm.) Spanheim de U. Et P. N. tom. II. p. 300.

530. Erod. l. VII p. 238; Zosimo l. I p. 15.

531. Nel fertile territorio di Bizacena a cento cinquanta miglia da Cartagine verso mezzogiorno. Fu probabilmente Gordiano, che dette il nome di Colonia a quella città, e vi fece fabbricare un anfiteatro, che il tempo ha rispettato. Vedi Itineraria Wesseling p. 59, ed i viaggi di Shaw pag. 117.

532. Erod. l. VII p. 239, Stor. Aug. p. 153.

533. Stor. Aug. p. 152. Marco Antonio s'impadronì della bella casa di Pompeo, in carinis. Dopo la morte del Triumviro essa fece parte del dominio imperiale. Traiano permise ai Senatori opulenti di comprare questi magnifici palazzi già divenuti inutili al Principe (Plinio Panegir. c. 50.) Allora probabilmente il bisavolo di Gordiano acquistò la casa di Pompeo.

534. Queste quattro specie di marmo erano il claudiano, il numidico, il caristio, ed il sinnadio: non sono stati molto ben descritti i loro colori per poterli esattamente riconoscere. Sembra però che il caristio fosse un verdemare, e che il sinnadio fosse un bianco mischiato di macchie di porpora ovali. Vedi Salmasio, ad Hist. Aug. p. 164.

535. Stor. Aug. p. 151 152. Faceva talvolta comparir sull'arena cinquecento coppie di gladiatori, e non mai meno di centocinquanta: dette egli una volta per l'uso del Circo cento cavalli Siciliani ed altrettanti della Cappadocia. Gli animali per le cacce erano orsi, cignali, tori, corvi, alci, asini selvaggi ec. Pare che i leoni e gli elefanti fossero riservati per l'imperiale magnificenza.

536. Vedi nella Stor. Aug. p. 152 la lettera originale, che mostra il rispetto di Alessandro pel Senato, e la sua stima pel Proconsole designato da quell'Assemblea.

537. Il giovane Gordiano ebbe tre o quattro figli da ogni concubina; le sue produzioni letterarie, avvegnachè in minor numero, non sono da disprezzarsi.

538. Erod. l. VII p. 243; Stor. Aug. p. 144.

539. Quod tamen patres dum periculosum existimant, inermes armato resistere approbaverunt. Aurel. Vittor.

540. Gli Uffiziali e gli stessi famigli del Senato erano esclusi, ed i Senatori esercitavano essi medesimi le funzioni di Cancelliere ec. Siam debitori alla Stor. Aug. p. 159 di questo curioso esempio dell'antico uso osservato nel tempo della Repubblica.

541. Questo discorso, degno di un zelante cittadino, pare che sia stato estratto dai registri del Senato, e trovasi inserito nella Storia Aug. p. 156.

542. Erod. l. VII p. 244.

543. Erod. l. VII p. 147; l. VIII p. 277; Stor. Aug. p. 156 158.

544. Erod. l. VII. p. 254; Stor. Aug. p. 150 160. In vece di un anno e sei mesi pel regno di Gordiano, il che è assurdo, bisogna leggere nel Casaubono e nel Panvinio un mese e sei giorni. Ved. Comment. p. 193; Zosimo riferisce con una strana ignoranza della Storia, o per uno strano abuso della metafora (l. I p. 17.), che i due Gordiani perirono in una tempesta in mezzo alla loro navigazione.

545. Vedi Stor. Aug. p. 166 sull'autorità dei registri del Senato. La data è sicuramente falsa: ma è facile di correggere questo sbaglio, riflettendo che si celebravano allora i giuochi Apollinari.

546. Discendeva da Cornelio Balbo, nobile spagnuolo, e figlio adottivo di Teofane, Storico greco. Balbo ottenne il diritto di cittadinanza pel favor di Pompeo, e lo conservò per l'eloquenza di Cicerone (Vedi orat. pro Corn. Balbo ). L'amicizia di Cesare, al quale egli rendè in secreto importanti servigi nella guerra civile, gli procurò le dignità di Console e di Pontefice, onori dei quali niun forestiero era stato peranco rivestito. Il nipote di questo Balbo trionfò dei Garamanti. Vedi il Dizionario del Baile alla parola Balbo. Questo giudizioso scrittore distingue varj personaggi di tale nome, e rileva con la sua ordinaria esattezza, gli abbagli di coloro che hanno trattato lo stesso soggetto.

547. Zonara l. XII. p. 622; ma come possiamo fidarci della autorità di un Greco sì poco istrutto della Storia del terzo secolo, che crea diversi immaginarj Imperatori, e confonde i Principi che hanno realmente esistito?

548. Erod. l. VII p. 256, suppone che il Senato fosse prima convocato nel Campidoglio, e lo fa parlare con molta eloquenza. La Stor. Aug. p. 116 sembra molto più autentica.

549. In Erod. l. VII p. 249, e nella Storia Aug. abbiamo tre diverse arringhe di Massimino alla sua armata per la ribellione dell'Affrica e di Roma. Tillemont ha osservato che non sono coerenti tra loro, nè s'accordano con la verità. Stor. degl'Imperatori tom. III p. 799.

550. L'inesattezza degli Scrittori di quel secolo ci pone in un grande imbarazzo: I. Sappiamo che Massimo e Balbino furono uccisi nel tempo dei giuochi Capitolini (Erodiano l. VIII p. 285). L'autorità di Censoriano ( de die natali c. 18.) c'insegna che questi giuochi furono celebrati nell'anno 238, ma noi non sappiamo nè il mese nè il giorno. II. Non si può dubitare che Gordiano non sia stato eletto dal Senato il 27 di Maggio; ma è difficile di sapere se ciò fu nello stesso anno o nel precedente. Tillemont e Muratori, che sostengono le due opposte opinioni, si fondano sopra molte autorità, congetture, e probabilità. L'uno ristringe la serie dei fatti tra queste due epoche, l'altro l'estende al di là, e sembra che ambidue si allontanino ugualmente dalla ragione e dalla Storia. È per altro necessario seguire uno dei due.

551. Velleio Patercolo l. II c. 24. Il presidente di Montesquieu, nel suo dialogo tra Silla ed Eucrate, esprime il sentimento del Dittatore in una maniera sublime ed ingegnosa.

552. Il Muratori (Ann. d'Italia tom. II. p. 294) crede che lo scioglimento delle nevi indichi piuttosto il mese di Giugno o di Luglio, che quel di Febbraio. L'opinione di uno che passava la vita tra le Alpi e gli Appennini, è senza dubbio di gran peso: conviene per altro osservare; I. che il lungo inverno, sul quale si fonda il Muratori, non si trova che nella versione latina, e che il testo greco di Erodiano non ne fa menzione. II. che le piogge ed il sole, al quale furono i soldati di Massimino esposti successivamente (Erod. l. VIII p. 277), indicano piuttosto la primavera che la state. Sono queste le diverse correnti che insieme unite formano il Timavo, di cui Virgilio ci ha data una descrizione tanto poetica, prendendo questa parola in tutta la sua estensione. Le loro acque scorrono a dodici miglia in circa a levante di Aquileia. Vedi Cluverio Italia Antiq. tom. I p. 189.

553. Erodiano l. VIII p. 272. La divinità Celtica fu supposta essere Apollo, e sotto questo nome gli rendè grazie il Senato. Si fabbricò ancora un tempio a Venere Calva per eternare la gloria delle donne di Aquileia, le quali aveano in quell'assedio generosamente sacrificati i loro capelli, per farne corde ad uso delle macchine di guerra.

554. Erodiano l. VIII p. 279. Stor. Aug. p. 145. Eutropio fa regnare Massimino tre anni ed alcuni giorni (l. IX I.) Possiamo credere che il testo di questo autore non è corrotto, poichè l'originale latino confronta colla versione greca di Peanio.

555. Otto piedi romani e un terzo. Vedi il trattato di Graves sul piede romano. Massimino potea bere in un giorno un' anfora di vino, o mangiare trenta o quaranta libbre di carne. Poteva strascinare una carretta carica, rompere con un pugno la gamba ad un cavallo, stritolare con le mani le pietre, e svellere piccoli alberi. Vedi la sua vita nella Storia Augusta.

556. Vedi nella Stor. Aug. la lettera di congratulazione scritta dal Console Claudio Giuliano ai due Imperatori.

557. Stor Aug. p. 171.

558. Erod. l. VIII p. 258.

559. Erod. l. VIII p. 213.

560. Il Senato aveva imprudentemente fatta questa osservazione; e lo notarono i soldati come un insulto. Stor. Aug. p. 270.

561. Discordiae tacitae, et quae intelligerentur potius quam viderentur. Stor. Aug. p. 170. Questa felice espressione è probabilmente presa da qualche migliore Scrittore.

562. Erodiano l. VIII p. 287 288.

563. Quia non alius erat in praesenti. Stor. Aug.

564. Quinto Curzio (l. X c. 9) elegantemente si rallegra coll'Imperatore del giorno, perchè colla felice sua assunzione al trono ha spente tante fiamme, fatti rientrare tanti brandi nella guaina, e posto fine ai mali di un diviso Governo. Dopo avere attentamente pesate tutte le parole di questo passo, non vedo in tutta la Storia romana altr'epoca, alla quale possa meglio convenire che all'innalzamento di Gordiano. In questo caso si potrebbe determinare il tempo in cui ha scritto Quinto Curzio. Quei che lo pongono sotto i primi Cesari, si fondano sulla purità e sull'eleganza del suo stile; ma non possono spiegare il silenzio di Quintiliano, che ci ha data una lista esattissima degli Storici romani senza far menzione dell'autore della vita di Alessandro.

565. Storia Aug. p. 161. Da alcune particolarità contenute in queste due lettere, io penso che gli eunuchi fossero scacciati dal palazzo con qualche violenza, e che il giovane Gordiano si contentò di approvare la loro disgrazia senza acconsentirvi.

566. Duxit uxorem filiam Misithei, quem causa eloquentiae dignum parentela sua putavit, et praefectum statim fecit; post quod, non puerile jam et contemptibile videbatur imperium.

567. Stor. Aug. 162, Aurel. Vittore, Porfirio in vita Plotini ap. Fabricium, Biblioth. graeca l. IV c. 36. Il filosofo Plotino accompagnò l'esercito, mosso dal desiderio d'istruirsi e di penetrare nell'India.

568. A diciotto miglia incirca dalla piccola città di Circesio su i confini dei due Imperi.

569. L'iscrizione, che conteneva un curioso equivoco, fu cancellata per ordine di Licinio, il quale vantava qualche grado di parentela con Filippo (Stor. Aug. pag. 165); ma il tumulus o monticello di terra, che formava il sepolcro, sussisteva nel tempo di Giuliano. Vedi Amm. Marcellino XXIII 5.

570. Aurelio Vittore, Eutrop, IX 2; Orosio VII 20 Ammian, Marcell. XXIII. Zosimo l. I p. 10. Filippo era nato a Bostra e non aveva allora che verso quarant'anni.

571. Il termine di aristocrazia può egli essere giustamente applicato al governo d'Algeri? Ogni governo militare ondeggia fra gli estremi di un'assoluta monarchia e di una feroce, rozza democrazia.

572. La Repubblica militare dei Mammalucchi nell'Egitto avrebbe somministrato al Signore di Montesquieu (v. Considerations sur la grandeur et la décadence des Romains cap. 16.) un parallelo più giusto e più nobile.

573. La Storia Augusta (p. 163 164.) non può in questo passo conciliarsi con se medesima, nè con la probabilità. Come potea Filippo condannare il suo predecessore, e ciò non ostante consacrarne la memoria? Come potea egli mai far pubblicamente morire il giovane Gordiano, e scrivendo poi al Senato discolparsi della taccia della di lui morte? Filippo, benchè usurpatore ambizioso, non era però un furioso tiranno. Gli acuti occhi di Tillemont e del Muratori hanno anch'essi scoperte alcune cronologiche difficoltà in questa pretesa associazione di Filippo all'Impero.

574. Sarebbe difficile determinar l'epoca nella quale furono celebrati per l'ultima volta que' giuochi. Allorquando Bonifacio VIII stabilì i giubbilei pontificj, che sono una copia dei giuochi secolari, l'avveduto Papa pretese di non aver fatto altro che richiamare a vita un'antica istituzione. Vedi Le Chais, Let. sur les Jubil.

575. Questo intervallo era di cento, o centodieci anni. Varrone e Livio adottarono la prima opinione, ma l'ultima fu consacrata dalla infallibile autorità delle Sibille (Censorino. De die Natali c. 17.) Gl'Imperatori Claudio e Filippo non si conformarono agli ordini dell'oracolo.

576. L'idea dei giuochi secolari si ricava meglio dall'ode di Orazio e dalla descrizione di Zosimo l. II p. 167 ec.

577. L'adottato calcolo di Varrone, assegna alla fondazione di Roma un'Era che corrisponde all'anno 754 avanti G. C. Ma così poco conto può farsi della cronologia romana nei primi secoli, che il Cav. Isacco Newton ha trasportata la medesima epoca all'anno 627.

578. Un antico cronologista citato da Velleio Patercolo (l. I. c. 6) osserva che gli Assiri, i Medi, i Persiani, ed i Macedoni regnarono nell'Asia per il corso di 1995 anni, dall'avvenimento di Nino alla disfatta di Antioco ad opera dei Romani. Siccome quest'ultimo memorabile successo seguì 289 anni avanti Gesù Cristo, il primo può riferirsi all'anno 2184 innanzi l'epoca suddetta. Le osservazioni astronomiche, trovate da Alessandro in Babilonia, cominciavano 50 anni prima.

579. L'anno 538 dell'Era di Seleuco. Vedi Agatia, l. II. p. 63. Questo grande avvenimento è riferito da Eutichio (tanta è la negligenza degli Orientali) all'anno decimo del regno di Commodo, e da Mosè di Corene al regno di Filippo. Ammiano Marcellino ha preso da buone sorgenti le cose appartenenti alla Storia dell'Asia; ma ha seguito sì servilmente gli antichi monumenti da lui veduti, che non ha dubitato di asserire, che la famiglia degli Arsacidi regnava ancora in Persia verso la metà del quarto secolo.

580. Il nome di questo conciatore di pelli era Babec; quello del soldato, Sassan; dal primo è stato preso il nome di Babegano dato ad Artaserse, e dal secondo, quello di Sassanidi dato a tutti i discendenti di quel Principe.

581. D'Erbelot. Biblioteca Orient. Ardshir.

582. Dione Cassio l. XXX; Erodiano l. VI p. 207; Abulfaragio Dinast. p. 80.

583. Ved. Mosè Corenen. l. II. c. 65, 71.

584. Hyde e Prideaux fabbricando una Storia molto curiosa sopra le leggende persiane e le loro proprie congetture, rappresentano Zoroastro come contemporaneo di Dario Istaspe. Ma basta osservare che gli Scrittori greci, i quali vivevano quasi nel secolo di Dario, si uniscono nel riferire l'Era di Zoroastro a più centinaia ed ancor migliaia di anni avanti. Il Sig. Moile, critico giudizioso, conobbe e sostenne contro Prideaux suo zio l'antichità del Profeta persiano. Vedi le sue opere, Vol. II.

585. Quell'antico idioma fu chiamato Zend. Il linguaggio dei commentarj, Pehlvi, benchè molto più moderno, non è però da molti secoli in poi una lingua viva. Questo fatto solo (se fosse autentico) basterebbe a provare l'antichità di quegli scritti, che il sig. d'Anquetil ha portati in Europa, e tradotti in francese.

586. Hyde. De Relig. vet. Persar. c. 21.

587. Io ho tratto questo ragguaglio principalmente dal Zendavesta del Sig. d'Anquetil, e dal Sadder annesso al trattato di Hyde. Conviene confessare per altro, che la studiata oscurità di un Profeta, lo stile figurato degli Orientali, e l'alterazione di una traduzione francese o latina, possono avermi indotto in qualche errore od in qualche eresia nel fare il compendio della teologia persiana.

588. I Persiani moderni (ed il Sadder in qualche parte) riconoscono Ormusd per prima ed onnipotente cagione, mentre degradano Ahriman come spirito inferiore e ribelle. Il desiderio di adulare i Maomettani può aver contribuito a raffinare il loro sistema teologico.

589. Erodoto l. I. 131. Ma il D. Prideaux crede, e con ragione, che l'uso dei tempj fosse poi permesso nella religione dei Magi.

590. Hyde de relig. Pers. Nonostante tutte le loro distinzioni e proteste, che sembrano abbastanza sincere, i Maomettani loro tiranni gli hanno costantemente accusati quali idolatri adoratori del fuoco.

591. Vedi il Sadder, la più piccola parte del quale consiste in precetti morali. Le cerimonie inseritevi sono frivole ed infinite. Quindici genuflessioni, quindici preghiere, ec., erano necessarie ogni volta che il divoto Persiano si tagliava le unghie o che orinava; ed ogni volta che si metteva il sacro cinto. Sadder art. 14 50 60.

592. Zendavesta tom. I. p. 224, ed il compendio del sistema di Zoroastro tom. III.

593. Hyde De Relig. Pers. c. 19.

594. Detto cap. 28. Hyde e Prideaux affettano di applicare alla gerarchia dei Magi i termini consacrati alla cristiana.

595. Ammiano Marcellino, XXIII 6 ci informa (per quanto se gli può prestar fede) di due curiose particolarità: I. che i Magi dovevano alcune delle più segrete loro dottrine a' Bracmani dell'India; II. ch'essi erano una tribù o sia famiglia, ugualmente che un ordine.

596. La divina istituzione delle decime presenta un singolare esempio di conformità tra la legge di Zoroastro e quella di Mosè. Quelli che non sanno diversamente spiegarla, possono, se così lor piace, supporre che i Magi degli ultimi tempi abbiano inserito una falsificazione così utile negli scritti del loro profeta.

597. Sadder art. 8.

598. Platon. in Alcibiad.

599. Plinio, Stor. Nat. l. XXX c. 1, osserva che la magia legava gli uomini con la triplice catena della religione, della medicina e dell'astronomia.

600. Agatia l. IV p. 134.

601. Il Sig. Hume, nella Stor. Nat. della religione, sagacemente osserva, che le più raffinate e più filosofiche Sette sono costantemente le più intolleranti.

602. Cicero de Legib. II 10. Serse, per consiglio dei Magi, distrusse i tempj della Grecia.

603. Hyde de Rel. Persar. c. 23 24. D'Herbelot Bibliot. Orient. Zerdusht. Vita di Zoroastro nel tom II. del Zendavesta.

604. Confrontisi Mosè di Corene l. II. c. 74 con Ammian. Marcell. XXIII 6. Da qui avanti io farò uso di questi passi.

605. Rabbi Abraham nel Tarick Schickard p. 108 109.

606. Basnage, Histoire des Juifs l. VIII c. 3. Sozomen l. II. c. 1. Manes, che soffrì una morte ignominiosa, si può riguardare come un eretico dei Magi non meno che dei Cristiani.

607. Hyde de Relig. Persar. c. 21.

608. Queste colonie erano numerosissime. Seleuco Nicatore fondò trentanove città, alle quali tutte egli o dette il suo proprio nome, o quello di alcuni parenti (Vedi Appian. in Syriac. p. 124). L'Era di Seleuco (tutt'ora usata dai Cristiani orientali) comparisce sino all'anno 508, di Cristo 196, sulle medaglie delle città greche racchiuse nell'Impero dei Parti. Vedi le opere di Moile vol. I p. 275 ec. e Freret Mém. de l'Académie tom. XIX.

609. I Persiani moderni chiamano quel periodo la Dinastia dei Re delle Nazioni. Ved. Plin. Stor. Nat. VI 25.

610. Eutichio (tom I. p. 367 371 375) riferisce l'assedio dell'isola di Mesene nel Tigri, con alcune circostanze non diverse dalla Storia di Niso e di Scilla.

611. Agatia II. 164. I Principi del Segestan difesero per molti anni la loro indipendenza. Siccome i romanzi generalmente trasportano ad un epoca antica gli avvenimenti dei loro tempi, non è impossibile che le favolose imprese di Ruslan Principe del Segestan sieno state, per così dire, innestate a questa vera Storia.

612. Chardin. tom. III c. 1, 2, 3.

613. Dione l. XXVIII p. 1355.

614. Per la precisa situazione di Babilonia, Seleucia, Ctesifonte, Modain e Bagdad, città spesso confuse l'una con l'altra. Vedi un eccellente Trattato geografico del Sig. d'Anville, nelle Memor. dell'Accadem tom. XXX.

615. Tacit. Annal. XI. 42 Plinio Stor. Nat. VI. 26.

616. Questo si può dedurre da Strabone l. XVI p. 743.

617. Bernier, quel curiosissimo viaggiatore (Vedi Stor. dei viaggi tom. X) che seguitò il campo di Aurengzebe da Dehli a Cashmir, descrive con grande esattezza l'immensa ambulante città. La guardia della cavalleria era di trentacinquemila uomini; quella dell'infanteria di centomila. Fu calcolato che il campo conteneva centocinquantamila tra cavalli, muli ed elefanti; cinquantamila buoi e da trecento a quattrocentomila persone. Quasi tutto Dehli seguitava la Corte, la cui magnificenza ne manteneva l'industria.

618. Dione l. LXXI p. 1178. Stor. Aug. p. 38. Eutrop. VIII 10 Euseb. in Chronic. Quadrato (citato nella Stor. Aug.) tentò di vendicare i Romani, allegando, che i cittadini di Seleucia avevano i primi violata la fede loro.

619. Dione l. LXXV. p. 1263. Erodian. l. III p. 120. Stor. Aug. P. 70.

620. I culti cittadini di Antiochia nominavano quelli di Edessa un mescuglio di Barbari. Era però un qualche pregio che il dialetto Arameo, il più puro ed il più elegante dei tre dialetti del Siriaco, si parlasse in Edessa. Il Sig. Bayer (Stor. Edess. p. 5.) ha ricavata questa osservazione da Giorgio di Malatia, scrittore siriaco.

621. Dione l. LXXV p. 1248, 1249, 1250. Il Sig. Bayer ha trascurato di far uso di un passo così importante.

622. Questo regno, da Osroe, che dette un nuovo nome al paese, fino all'ultimo Abgaro avea durato 353 anni. Vedi l'erudita opera del Sig. Bayer, Historia Osrhoena et Edessena.

623. Senofonte, nella prefazione alla Ciropedia, dà una chiara e magnifica idea dell'estensione dell'Impero di Ciro. Erodoto (l. III c. 79 ec.) entra in una curiosa e particolar descrizione delle venti grandi Satrapie, nelle quali l'Impero persiano fu diviso da Dario Istaspe.

624. Erodian. VI 209, 212.

625. Vi erano dugento carri armati di falci alla battaglia di Arbella nell'esercito di Dario. Nel numeroso esercito di Tigrane, che fu vinto da Lucullo, diciassettemila cavalli soltanto erano interamente armati. Antioco mise in campo contro i Romani cinquantaquattro elefanti: con le sue frequenti guerre e negoziazioni con i Sovrani dell'India, egli aveva una volta raccolti centocinquanta di quei grandi animali; ma si può mettere in dubbio se il più potente Monarca dell'Indostan formasse mai in battaglia una linea di settecento elefanti. In luogo dei tre o quattromila elefanti che il Gran Mogol si dicea possedere, Tavernier (Viaggi, parte II lib. I p. 198) scoprì con più diligenti ricerche, che quel Principe non ne aveva che cinquecento pe' suoi equipaggi, ed ottanta o novanta pel un servizio della guerra. I Greci hanno variato sul numero degli elefanti, tratti in campo da Poro. Ma Quinto Curzio (VIII. 13) che in questo passo mostrasi giudizioso e moderato, non parla che di ottantacinque elefanti riguardevoli per la loro mole e fortezza. Nel paese di Siam, dove questi animali sono più numerosi e stimati, diciotto elefanti si riguardano come una proporzione sufficiente per ciascuna delle nuove brigate in cui un compiuto esercito viene diviso. L'intero numero di cento e settantadue elefanti da guerra, può alcune volte essere raddoppiato. Vedi Storia de' viaggi tom. I. X pag. 260.

626. Stor. Aug. p. 135.

627. Il Sig. de Tillemont ha già osservato che la geografia di Erodiano è alquanto confusa.

628. Mosè di Corene (Stor. Armen. l. II c. 71) illustra questa invasione della Media sostenendo, che Cosroe Re dell'Armenia disfece Artaserse e lo inseguì fino ai confini dell'India. Le imprese di Cosroe sono state esagerale; ed agì come dipendente alleato dei Romani.

629. Per il ragguaglio di questa guerra, vedi Erodiano (l. VI p. 209, 212.) Gli antichi abbreviatori, ed i compilatori moderni hanno ciecamente seguitata la Storia Augusta.

630. Eutichio tom. II p. 180 vers. Pocock. Il gran Cosroe Noushirwan mandò il Codice di Artaserse a tutti i suoi Satrapi, per invariabile regola della loro condotta.

631. D'Herbelot Bibliot. Orient. alla parola Ardshir. Possiamo osservare, che dopo un antico periodo di favole, ed un lungo intervallo di oscurità, le storie moderne della Persia cominciano con la Dinastia dei Sassanidi a prendere un'aria di verità.

632. Erodian. lib. VI p. 214. Ammiano Marcell. lib. XXIII c. 6. Sono da osservarsi alcune differenze tra questi due storici, conseguenze naturali dei cambiamenti prodotti da un secolo e mezzo.

633. I Persiani sono tuttavia i più abili cavalcatori, ed i loro cavalli, i più belli d'Oriente.

634. Da Erodoto, Senofonte, Erodiano, Ammiano, Chardin, ec., ho estratto alcune probabili notizie sulla nobiltà persiana, le quali sembrano o comuni ad ogni secolo, o particolari a quelle dei Sassanidi.

635. I moderni filosofi della Svezia sembrano accordarsi a credere, che le acque del Baltico gradatamente scemino in una regolare proporzione, ch'e' si sono avventurati a valutare mezzo pollice ogni anno. Venti secoli addietro, il basso terreno della Scandinavia deve essere stato coperto dal mare; mentre le terre più alte sovrastavano alle acque, come altrettante isole di forme e dimensioni diverse. Tale difatto è l'idea che Mela, Plinio e Tacito ci danno delle vaste contrade intorno al Baltico. Vedi nella Bibliothèque raisonnée, tom. XL e XLV un lungo estratto della Storia di Svezia di Dalin, scritta in lingua Svezzese.

636. Particolarmente il Sig. Hume, l'Abate du Bos, ed il Sig. Pelloutier Stor. dei Celti tom. I.

637. Diod. Sic. l. V p. 340 ediz. Wessel. Erodiano l. VI p. 221. Jornandes c. 55. Sulle rive del Danubio il vino, quando era portato in tavola, veniva ghiacciato in grossi pezzi, frusta vini. Ovid. Epist. ex Ponto l. IV 7, 9, 10. Virgil. Georg. l. III 355. Il fatto è confermato da un soldato filosofo, che avea provato l'intenso freddo della Tracia. Vedi Senofonte, Anabasis l. VII p. 560, edizione Hutchinson.

638. Buffon Stor. Nat. tom. 12 p. 79, 116.

639. Caesar de bello Gallico VI 23 ec. I più curiosi esploratori tra i Germani ne ignoravano gli ultimi confini, benchè molti di essi vi avessero viaggiato per più di 60 giorni di cammino.

640. Cluverio ( Germania Antiqua l. III c. 47) rintraccia piccoli dispersi avanzi della foresta Ercinia.

641. Charlevoix Histoire du Canada.

642. Olao Rudbeck sostiene che le donne svezzesi generavano sovente dieci o dodici figli, e non è straordinario il numero di venti o di trenta; ma l'autorità di Rudbeck si deve avere per molto sospetta.

643. In hos artus, in haec corpora, quae miramur, excrescunt. Tacit. German. 3, 20. Cluver l. 1, c. 14.

644. Plutar. in Mario. I Cimbri per divertimento sdrucciolavano dalle montagne di neve sopra i loro grandi scudi.

645. Fecero i Romani la guerra in tutti i climi, e con l'eccellente lor disciplina si conservarono in gran parte la salute ed il vigore. È da osservarsi, che l'uomo è il solo animale, il quale possa vivere e moltiplicare in ogni paese, dall'Equatore ai Poli. Sembra che in questo privilegio il porco si avvicini più d'ogni altro animale alla nostra specie.

646. Tacit. German. c. 3. I Galli nella loro emigrazione seguitarono il corso del Danubio, e si sparsero nella Grecia e nell'Asia. Tacito non potè rinvenire che una sola piccola tribù, la quale conservasse alcune tracce di una gallica origine.

647. Secondo il Dott. Keating. (Stor. d'Irlanda p. 13, 14) il gigante Partolano, ch'era figlio di Seara, figlio di Esra, figlio di Sru, figlio di Framant, figlio di Fathaclan, figlio di Magog, figlio di Jafet, figlio di Noè, approdò alla costa di Munster, ai 14. Maggio, l'anno del Mondo 1978. Benchè egli avesse un felice successo nella sua grande impresa, la rilassata condotta della sua moglie gli rendè la vita domestica molto infelice, e lo irrito a un segno, che uccise.... di lei favorito veltro. Questo, come il dotto Storico osserva, fu il primo esempio di falsità e d'infedeltà femminile che mai si conoscesse nell'Irlanda.

648. Stor. Genealog. dei Tartari, di Abulghazi Bahadur Khan.

649. La sua opera intitolata Atlantica, è rarissima; Bayer ne ha fatto due curiosi estratti, République des Lettres, Janvier et Février 1685.

650. Tacit. Germ. II 19. Litterarum secreta viri pariter ac foeminae ignorant. Possiam contentarci di questa decisiva autorità, senza entrare nelle oscure dispute concernenti l'antichità dei caratteri Runici. Il dotto Celsio, svezzese, letterato e filosofo, era d'opinione che quei caratteri altro non fossero che lettere romane, con le curve cangiate in linee rette per la facilità dell'incisione. Ved. Pelloutier Stor. dei Celti l. II c. 11. Dictionnaire Diplomat. tom. I. p. 223. Possiamo aggiugnere che le più antiche iscrizioni runiche si credono essere del terzo secolo, ed il più antico Scrittore che le rammenti, è Venanzio Fortunato (Carmen. VII 18) il quale viveva verso la fine del sesto secolo.

Barbara fraxineis pingatur RUNA tabellis.

651. Recherches Philosoph. sur les Améric. tom. III. pag. 228. L'autore di questa bella opera è (se non sono male informato) tedesco di nascita.

652. Il geografo Alessandrino è spesso criticato dall'esatto Cluverio.

653. Vedi Cesare ed il dotto Sig. Whitaker nella sua Storia di Manchester vol. I.

654. Tacit. German. 15.

655. Quando i Germani ordinarono agli Ubii di Colonia di scuotere il giogo romano, e ripigliare con la nuova lor libertà gli antichi costumi, insisterono sull'immediata demolizione delle mura della Colonia. Postulamus a vobis, muros coloniae, munimenta servitii detrahatis; etiam fera animalia, si clausa teneas, virtutis obliscuntur. Tacit. Hist. IV. 64.

656. Gli sparsi villaggi della Slesia si estendono per diverse miglia di lunghezza. Vedi Cluver. l. I c. 13.

657. Centoquaranta anni dopo Tacito, furono erette alcune fabbriche più regolari vicino al Reno e al Danubio Erodiano, l. VII p. 234.

658. Tacit. Germ. 17.

659. Tacit. German. 5.

660. Caesar De bell. Gall. VI 21.

661. Tacit. Germ. 26 Caesar VI 22.

662. Tacit. Germ. 6.

663. Dicesi che i Messicani ed i Peruviani senza l'uso della moneta e del ferro, han fatto un grandissimo progresso nelle arti. Queste arti, ed i monumenti, da esse prodotti, sono stati moltissimo esagerati. Ved. Recherches sur les Américains tom. II p. 153 ec.

664. Tacit. Germ. 15.

665. Tacit. Germ. 22, 23.

666. Id. 24. Poteano i Germani avere apprese dai Romani le arti del giuoco, ma la passione di esso è mirabilmente inerente all'umana specie.

667. Tacit. Germ. 14.

668. Plutarc. in Camillo. Tit. Liv. V. 33.

669. Dubos. Stor. della Monarc. francese tom. I p. 93.

670. La nazione elvetica che uscì dal paese chiamato degli Svizzeri, conteneva trecentosessantottomila persone di ogni età e d'ogni sesso ( Caesar De bell. Gall. l. 29.) Adesso il numero degli abitatori nel pays de Vaux (picciol distretto sulle rive del lago Lemano, molto più illustre per la cultura che per l'industria) ascende a 112591. Vedi un eccellete trattato del Sig. Muret, nelle Mem. della Società di Berna.

671. Paolo Diacono c. 1. 2. 3, Machiavello, Davila, ed il restante dei seguaci di Paolo, rappresentano queste emigrazioni come disegni troppo regolari e concertati.

672. Guglielmo Temple e Montesquieu si sono, su questo soggetto, lasciati trasportare dalla solita vivacità della loro fantasia.

673. Machiavello Stor. di Firenze l. I. Mariana Stor. spagnuola l. V c. I.

674. Robertson, Vita di Carlo Quinto. Hume, Saggi politici.

675. Tacit. Germ. 44, 45. Frensemio (che dedicò il suo supplemento di Tito Livio a Cristina di Svezia), si crede in obbligo di far molto lo sdegnato con quel Romano che mostrò così poco rispetto per le Regine del Settentrione.

676. Non sarebbe egli da sospettarsi che la superstizione generasse il dispotismo? Dicesi che i discendenti di Odino (la cui stirpe non si estinse fino all'anno 1060) regnarono nella Svezia per più di mille anni. Il tempio di Upsal era l'antica sede della Religione e dell'Impero. Nell'anno 1153 ritrovo una legge singolare, la quale a tutti proibisce l'uso ed il possesso delle armi, eccettuate lo guardie del Re. Non è egli probabile che fosse questa legge colorita col pretesto di ristabilire una antica istituzioni? Ved. Dalin; Storia di Svezia nella Biblioteca Ragionata tom. XL. e XLV.

677. Tacit. Germ. c. 43.

678. Tacit. Germ. c. 11, 12, 13 ec.

679. Grozio muta una espressione di Tacito, pertractantur in praetractantur. La correzione è giusta non men che ingegnosa.

680. Nel nostro antico Parlamento ancora, i baroni sovente decidevano una questione non tanto col numero dei voti, quanto con quello dei loro seguaci.

681. Caesar de Bell. Gall. VI. 23.

682. Minuunt controversias, è una espressione di Cesare.

683. Reges ex nobilitate, duces ex virtute sumunt. Tacit. German. 7.

684. Cluver. Germ. Ant. l. I. c. 38.

685. Caesar VI 22. Tacit. Germ. 26.

686. Tacit. Germ. 7.

687. Tacit. Germ. 13, 14.

688. Esprit des loix l. XXX c. 3. La brillante immagine di Montesquieu è però corretta dal semplice e freddo ragionamento dell'Abate di Mably. Osservazioni sulla storia di Francia tomo. I p. 556.

689. Gaudent muneribus, sed nec data imputant, nec acceptis obligantur. Tacit. Germ. c. 21.

690. L'adultera veniva frustata pel villaggio. Nè la ricchezza o la beltà potevano inspirar compassione, o procurarle un secondo marito. Ivi, 18, 19.

691. Ovidio impiega dugento versi nella ricerca dei luoghi più propizi all'amore. Soprattutto egli considera il teatro come il più adatto a riunire le bellezze di Roma o indurle alla tenerezza ed alla sensualità.

692. Tacit. Stor. IV 61, 65.

693. I doni nuziali consistevano in bovi, cavalli ed armi. Vedi Germ. c. 18. Tacito è alquanto pomposo su questo soggetto.

694. La mutazione di exigere in exugere è una correzione eccellente.

695. Tacit. Germ. c. 7. Plutarco in Mario. Prima che le vedove dei Teutoni si distruggessero da se stesse con i loro figli, si erano offerte a rendersi, con il patto di esser ricevute come schiave delle Vestali.

696. Tacito ha impiegato poche righe, e Cluverio cento ventiquattro pagine su questo oscuro soggetto. Il primo ritrova nella Germania gli Dei della Grecia e di Roma. L'ultimo decide che, sotto gli emblemi del sole, della luna e del fuoco, i suoi devoti antenati adoravano la Trinità nell'Unità.

697. Il sacro bosco, descritto con sublime orrore da Lucano, era nella vicinanza di Marsiglia. Ma ve n'erano molti della stessa specie nella Germania.

698. Tacit. German. c. 7.

699. Tac. c. 4.

700. Vedi Robertson vita di Carlo V. Vol. I nota 10.

701. Tacit. Germ. c. 6. Questi stendardi altro non erano che teste di animali feroci.

702. Vedi un esempio di questo costume in Tacito, Annal. XIII. 57.

703. Cesare, Diodoro e Lucano sembrano attribuire questa dottrina ai Galli, ma il Sig. Pelloutier (Stor. dei Celti l. XIII c. 18) si sforza d'interpretare le loro espressioni in un senso più ortodosso.

704. Riguardo a questa grossolana, ma seducente dottrina dell'Edda, vedi la favola XX nella curiosa traduzione di quel libro, pubblicata dal sig. Mallet nella sua introduzione alla storia di Danimarca.

705. Vedi Tacito Germ. c. 3, Diod. Sicul. l. V, Strab. l. IV p. 197. Il dotto lettore può rammentarsi il grado di Demodoco nella Corte feacia, e l'ardore infuso da Tirteo negli avviliti Spartani. Vi è per altro poca probabilità, che i Greci ed i Germani fossero una stessa nazione. Quante erudite fole si risparmierebbero, se volessero i nostri antiquarj riflettere, che situazioni simili produrranno naturalmente simili costumi.

706. Missilia spargunt. Tacit. German. c. 6. O questo Storico si è servito di una indeterminata espressione, o ha voluto dire che erano gettati a caso.

707. Era questa la loro principale distinzione dai Sarmati, i quali generalmente combattevano a cavallo.

708. La relazione di questa impresa occupa una gran parte dei libri quarto e quinto della Storia di Tacito, ed è più pregevole per l'eloquenza, che per la chiarezza. Enrico Saville vi ha osservate molte negligenze.

709. Tacito Stor. IV 13. Avea come essi perduto un occhio.

710. Erano comprese tra i due rami dell'antico Reno, come sussistevano prima che l'arte e la natura cambiassero l'aspetto del paese. Vedi Cluver. German. Antiq. l. II c. 30, 57.

711. Caesar De Bell. Gall. l. VI 23.

712. Sono essi però rammentati nel IV e V secolo da Nazzario, Ammiano, Claudiano ec. come una Tribù di Franchi. Vedi Cluver. Germ. Antiq. l. III c. 13.

713. Urgentibus è la comun lezione; ma il buon senso, Lipsio ed alcuni Mss. si dichiararono per vergentibus.

714. Tacit. German. c. 33. Il devoto abate de la Bleterie è molto sdegnato con Tacito; parla del diavolo, che fu un assassino fin da principio ec. ec.

715. Possono rinvenirsi molte tracce di questa politica in Tacito ed in Dione; e molte più si possono dedurre dai principj della natura umana.

716. Stor. Aug. p. 31. Ammian. Marcell. lib. XXXI c. 5. Aurel. Vittor. L'Imperatore Marco Aurelio fu ridotto a vendere i ricchi addobbi del palazzo, ed arruolare gli schiavi ed i ladri.

717. I Marcomanni (colonia, che dalle rive del Reno occupò la Boemia e la Moravia) avevano una volta eretta una grande e formidabile Monarchia sotto il loro Re Marobodno. Vedi Strabone l. VII, Vell. Paterc, II. 105, Tacit. Annal. II 63.

718. Il Sig. Wotton (Stor. di Roma p. 166) estende la proibizione ad una distanza dieci volte maggiore. Il suo ragionamento è specioso, ma non concludente. Cinque miglia erano sufficienti per una fortificata barriera.

719. Dione l. LXXI e LXXII.

720. Vedi un'eccellente dissertazione su l'origine e l'emigrazione delle nazioni nelle Memorie dell'Accademia delle Iscrizioni tom. XVIII p. 48, 71. È raro, che l'antiquario e il filosofo si trovino sì felicemente uniti in una sola persona.

721. È egli da sospettarsi, che Atene contenesse soltanto ventunmila cittadini, e Sparta non più di trentanovemila? Vedi Hume e Wallace sul numero degli uomini nei tempi antichi e moderni.

722. L'espressione usata da Zosimo e da Zonara può significare, che Marino comandava una centuria, una coorte o una legione.

723. La sua nascita in Bubbalia piccolo villaggio della Pannonia ( Eutrop. IX Vittor. in Caesarib. et Epitom. ) sembra contraddire, se pure non fu puramente accidentale, la sua supposta discendenza dai Decj. Contavano essi seicento anni di nobiltà, ma al principio di quel periodo, erano soltanto plebei di merito, e dei primi che furono a parte del Consolato coi superbi Patrizj: Plebeiae Deciorum animae, ec. Giovenale, Sat. VIII 254. Vedi la coraggiosa parlata di Decio in Livio; X 9, 10.

724. Zosimo, l. 1, p. 10; Zonara l. XII, p. 924. Edit. Louvre.

725. Vedi le prefazioni di Cassiodoro e di Giornandes. È cosa sorprendente che quest'ultimo fosse omesso nell'eccellente edizione degli Scrittori goti pubblicata da Grozio.

726. Sull'autorità di Ablavio, Giornandes cita alcune antiche croniche dei Goti in versi. De Rebus Get. c. 4.

727. Giornandes c. 3.

728. Vedi nei prolegomeni di Grozio diversi lunghi estratti presi da Adamo di Brema, e da Sassone il Gramatico. Il primo scrisse nell'anno 1077, l'ultimo fiorì verso l'anno 1200.

729. Voltaire, Storia di Carlo XII l. III. Quando gli Austriaci desiderarono l'aiuto della Corte di Roma contro Gustavo Adolfo, essi rappresentarono sempre questo conquistatore come il successore diretto di Alarico. Harte Stor. di Gustavo. Vol. II. p. 123.

730. Vedi Adamo di Brema in Grotii Prolegomenis p. 104. Il tempio di Upsal fu distrutto da Ingo re di Svezia, che cominciò a regnare nell'anno 1075, e quasi 80 anni dopo fu sulle rovine di quello eretta una Cattedrale cristiana. Vedi Dalin Stor. di Svezia nella Biblioteca ragionata.

731. Mallet, Introduzione alla Storia di Danimarca.

732. Mallet, c. IV p. 65, ha raccolto da Strabone, da Plinio, da Tolomeo e da Stefano Bisantino i vestigi di questa città e del suo popolo.

733. Questa stupenda spedizione di Odino, che deducendo l'inimicizia dei Goti e dei Romani da una causa sì memorabile, potrebbe somministrare il nobile fondamento di un Poema epico, non può sicuramente riceversi come autentica Storia. Secondo il natural senso dell'Edda, e l'interpretazione dei più abili critici, As-gard invece d'indicare una vera città della Sarmazia asiatica, è il nome fittizio della mistica dimora degli Dei, l'Olimpo della Scandinavia, donde si supponeva disceso il Profeta, quando annunziò la sua nuova religione alle nazioni gotiche, già stabilite nelle parti meridionali della Svezia.

734. Tacit. German. c. 44.

735. Tacit. Annal. II, 62. Se si potesse dar ferma credenza alle navigazioni di Pitea di Marsiglia, dovremmo convenire che i Goti aveano passato il Baltico trecento anni almeno avanti Gesù Cristo.

736. Tolomeo l. II.

737. Dalle colonie germaniche, le quali seguivano le armi dei cavalieri Teutonici. La conquista e la conversione della Prussia fu compita da quei venturieri del tredicesimo secolo.

738. Plinio (Stor. Nat. IV 14) e Procopio in Bello Vandal. l. I. c. I. s'accordano in questa opinione. Eglino vissero in tempi diversi, ed ebbero diversi mezzi per investigare la verità.

739. Gli Ostrogoti e i Visigoti, che è a dire i Goti orientali ed occidentali, trassero questi nomi dalle originarie lor sedi nella Scandinavia. In tutte le mosse, in tutti gli stabilimenti loro, essi conservarono poi sempre, insieme coi loro nomi, la medesima relativa situazione. Quando si partirono per la prima volta dalla Svezia, tre vascelli contenevano la nascente loro colonia. Il terzo, essendo tardo alla vela, rimase indietro, e quella turma, divenuta poi una nazione, ricevè da questo circostanza il nome di Gepidi o sia infingardi. Giornandes, c. 17.

740. Vedi un frammento di Pietro Patrizio nell' Excerpta Legationum; e riguardo alla probabilità della data, vedi Tillemont. Stor. degli imperat. tom. III. p. 346.

741. Omnium harum gentium insigne, rotunda scuta, breves gladii et erga reges obsequium. Tacit. German. c. 43. I Goti probabilmente si procacciarono il loro ferro col commercio dell'ambra.

742. Giornandes, c. 13, 14.

743. Gli Eruli, e gli Uregundi, o Burgundi, sono specialmente menzionati. Ved. Mascovio, Storia dei Germani, l. V. Un passo della Stor. Aug. p. 28 sembra alludere a questa grande emigrazione. La guerra Marcomannica fu in parte cagionata dalla furia delle barbare tribù, che fuggivano dinanzi alle armi dei Barbari più settentrionali.

744. D'Anville, Geografia antica, alla terza parte della incomparabile sua carta dell'Europa.

745. Tacit. German. c. 46.

746. Cluver. Germania Anti. l. III c. 43.

747. I Venedi, gli Havi, e gli Antes, erano le tre gran tribù del medesimo popolo. Giornandes. c. 24.

748. Tacito merita sicuramente questo titolo, e perfino la cauta sua sospensione è una prova delle diligenti ricerche da esso fatte.

749. La Storia Genealogica dei Tartari, p. 593. M. Bell (Vol. II p. 379) traversò l'Ucrania nel suo viaggio da Pietroburgo a Costantinopoli. L'aspetto moderno del paese è una giusta rappresentazione dell'antico, giacchè nelle mani dei Cosacchi rimane tuttavia nello stato di natura.

750. Nel 16 Capit. di Giornandes, in vece di secundo Maesiam, possiamo azzardarci a sostituire secundam, la seconda Mesia, di cui Marcianopoli era certamente la Capitale. Vedi Ierocle de Provinciis, e Wesseling ad locum p. 636. Itinerar. È sorprendente come questo palpabile errore del copista sfuggisse alla giudiziosa correzione di Grozio.

751. Il luogo è tuttavia detto Nicopo. Il piccol fiume, sulle cui sponde era posto, sbocca nel Danubio. Geografia antica, tom. I. p. 307.

752. Stefan. D'Anville, Byzant. de Urbibus, p. 740. Wesseling Itinerar. p. 136. Zonara per un grossolano sbaglio, attribuisce la fondazione di Filippopoli all'immediato predecessore di Decio.

753. Ammian. XXX. 5.

754. Aurelio Vittore, c. 29.

755. Victoriae Carpicae, sopra varie medaglie di Decio, indicano questi successi.

756. Claudio (che regnò di poi con tanta gloria) si era posto al passo delle Termopili con 200 Dardani, 100 cavalli gravi e 160 leggieri, 60 arcieri cretensi, e 1000 bene armate reclute. Vedi una lettera dell'Imperatore al suo uffiziale nella Stor. Aug. p. 200.

757. Giornandes, c. 16-18. Zosimo, l. 1 p. 22. Nella relazione generale di questa guerra è facile scoprire gli opposti pregiudizj dello Scrittore gotico e del greco. Nella trascuratezza solamente sono simili.

758. Montesquieu: Grandezza e decadenza dei Romani. Egli illustra la natura e l'uso dell'ufficio di Censore col suo solito ingegno e con una precisione non ordinaria.

759. Vespasiano e Tito furono gli ultimi Censori (Plinio Stor. Nat. VII 49. Censorino de Die natali.) La modestia di Traiano ricusò un onore, ch'egli meritava, ed il suo esempio divenne una legge per gli Antonini. Vedi il Panegirico di Plinio, c. 45 e 60.

760. Pure, a dispetto di questa esenzione, Pompeo comparve dinanzi a quel tribunale, durante il suo consolato. L'occasione fu, per vero dire, e singolare ed onorifica. Plutarco in Pomp. p. 630.

761. Vedi la parlata originale nella Stor. Aug. p. 173, 174.

762. Ciò potè ingannare Zonara, il quale suppone che Valeriano fosse di presente dichiarato collega di Decio. l. XII p. 625.

763. Stor. Aug. p. 174. La risposta dell'Imperatore è omessa.

764. Simile ai tentativi di Augusto per la riforma dei costumi. Tacit. Annal. l. III. 24.

765. Tillemont Stor. degl'Imperatori, tom. III p. 598. Zosimo ed alcuni dei suoi seguaci confondono il Danubio col Tanai, e mettono il campo di battaglia nelle pianure della Scizia.

766. Aurelio Vittore riporta due diverse azioni per la morte dei due Decj; ma io ho preferito il racconto di Giornandes.

767. Ho ardito di copiare da Tacito (Ann. I 64) la descrizione di simile combattimento tra un esercito romano ed una tribù di Germani.

768. Giornandes c. 18. Zosimo l. I p. 22. Zonara I. XII p. 629 Aurelio Vittore.

769. I Decj furono uccisi prima dell'anno dugento cinquantuno, poichè i nuovi Principi presero il possesso del Consolato nelle seguenti calende di Gennaio.

770. La Storia Augusta (p. 223.) assegna ad essi un posto molto onorevole tra il piccolo numero dei buoni Imperatori i quali regnarono tra Augusto e Diocleziano.

771. Haec ubi Patres comperere.... decernunt. Victor in Caesarib.

772. Zonara l. XII, p. 628.

773. Una Sella, una Toga, una Patera di oro di cinque libbre di peso, furono accettate con piacere e con gratitudine dal ricco Re dell'Egitto (Liv. XXVII. 4.) Quina millia aeris, peso di rame del valore di circa 36 zecchini, era il solito presente fatto agli ambasciatori stranieri. Livio, XXI, 9.

774. Vedi la fermezza d'un Generale romano fino al tempo di Alessandro Severo nell' Excerpta legationum, p. 25. Ediz. del Louvre.

775. Per la peste Vedi Giornandes, c. 19, e Vittore in Caesaribus.

776. Queste improbabili accuse sono allegate da Zosimo l. I p. 23 24.

777. Giornandes, c. 19. Il Gotico Scrittore almeno osservò la pace, che i suoi compatriotti aveano giurata a Gallo.

778. Zosimo l. I. p. 25, 26.

779. Vittore in Caesaribus.

780. Zonara, l. XII. 628.

781. Banduri Numismata p. 94.

782. Eutropio, l. IX c. 6 dice tertio mense. Eusebio omette questo Imperatore.

783. Zosimo (l. I. 28) Eutropio e Vittore, pongono l'esercito di Valeriano nella Rezia.

784. Avea quasi sessant'anni quando salì sul trono, o, come è più probabile, quando morì. Stor. Aug. p. 173. Tillemont Stor. degl'Imperat. tom. III p. 893, not. 1.

785. Inimicus tyrannorum. Stor. Aug. p. 173. Nella gloriosa guerra del Senato contro Massimino Valeriano, si condusse con molto valore. Stor. Aug. p. 156.

786. Secondo la distinzione di Vittore, sembra ch'egli avesse ricevuto il titolo d' Imperator dall'armata e quello di Augustus dal Senato.

787. Da Vittore e dalle medaglie, Tillemont (tom. III p. 710) molto giustamente inferisce, che fosse Gallieno associato all'Impero verso il mese di Agosto dell'anno 253.

788. Diversi sistemi sono stati immaginati por ispiegare un passo difficile di Gregorio di Tours l. II, c. 9.

789. Il Geografo di Ravenna, L. II, facendo menzione della Mauringania su i confini della Danimarca, come dell'antica sede de' Franchi, dette origine ad un ingegnoso sistema di Leibnitz.

790. Vedi Cluver. Germania Antiqua l. III, c. 20 e Freret nelle Memorie dell'Accademia delle iscrizioni, Tom. XVIII.

791. Molto probabilmente sotto il regno di Gordiano, per una accidentale circostanza pienamente discussa da Tillemont, tom. III, p. 710, 1181.

792. Plinio Stor. Nat. XVII. I panegiristi frequentemente alludono alle paludi dei Franchi.

793. Tacit. German. c. 30, 7.

794. Nei tempi susseguenti vengono all'occasione ricordati molti di questi vecchi nomi. Vedine alcuni vestigj in Cluver. Germ. Antiq. L. III.

795. Simler de Republ. Helvet. cum notis Fuselin.

796. Zosimo l. I, p. 27.

797. M. de Brequigny (nelle memorie dell'Accademia, tom. XXX) ci ha dato una molto curiosa vita di Postumo. Una serie della Storia Augusta, per mezzo di medaglie ed iscrizioni, è stata più di una volta progettata, e ve n'è tuttavia gran bisogno.

798. Aurel. Vittore, c. 33. Invece di pene direpto il senso e l'espressione esigono deleto, benchè veramente, per diverse ragioni è ugualmente difficile correggere il testo dei migliori scrittori, che quel dei peggiori.

799. Al tempo di Ausonio, sul fine del quarto secolo, Ilerda o Lerida era in uno stato molto rovinoso, (Ausonio, Epist. XXV, 58) che probabilmente era la conseguenza di questa invasione.

800. Si è perciò Valesio ingannato supponendo che i Franchi invadessero la Spagna per mare.

801. Aurel. Vittore, Eutrop. XX, 6.

802. Tacit. German. 38.

803. Cluver. German. Antiq. III 15.

804. Sic Suevi a caeteris Germanis, sic Suevorum ingenui a servis separantur. Orgogliosa separazione.

805. Caesar in Bello Gallico. IV, 7.

806. Vittore in Caracal. Dione Cassio. LXVII p. 1350.

807. Questa etimologia, molto diversa da quelle che divertono l'immaginazione dei dotti, è conservata da Asinio Quadrato, Storico originale, citato da Agatia, I c. 5.

808. Gli Svevi impegnarono Cesare in questa maniera, e le loro operazioni meritarono l'approvazione del vincitore.

809. Stor. Aug. p. 215, 216. Dexippo nell' Excerpta Legationum, p. 8. Hieronym. Cron. Orosio VII 22.

810. Zosimo l. I, p. 34.

811. Aurel. Vittore in Gallieno e Probo. I suoi lamenti sperano un insolito ardore di libertà.

812. Zonara, l. XII p. 631.

813. Uno dei Vittori lo chiama Re dei Marcomanni, l'altro dei Germani.

814. Vedi Tillemont Stor. degl'Imperat. tom. 3 pag. 398, ec.

815. Vedi le vite di Claudio, Aureliano e Probo nella Storia Augusta.

816. È quasi una mezza lega in larghezza. Storia genealogica dei Tartari, p. 598.

817. Vedi M. de Peyssonel, ch'era stato Console francese a Caffa, nelle sue Osservazioni sui Popoli barbari, che hanno abitato sulle rive del Danubio.

818. Euripide nell'Ifigenia in Tauride.

819. Strabone l. VII p. 309. I primi Re del Bosforo furono alleati di Atene.

820. Appiano in Mitridate.

821. Fu soggiogato dalle armi di Agrippa. Orosio VI, 21. Eutropio VII, 9. I Romani una volta s'innoltrarono dentro, a tre giornate di marcia dal Tanai. Tacit. Annal. XII 17.

822. Vedi il Toxaris di Luciano, se diamo fede alla sincerità, ed alla virtù dello Scita, che riferisce una gran guerra della sua nazione contro i Re del Bosforo.

823. Zosimo, l. I. p. 28.

824. Strabone, l. XI. Tacito, Stor. III. 47. Si nominavano Camarae.

825. Vedi una descrizione molto naturale della navigazione dell'Eusino nella XVI lettera di Tournefort.

826. Arriano pone la guarnigione di frontiera a Dioscurias, o Sebastopoli, quarantaquattro miglia all'oriente di Pizio. La guarnigione di Fasi era al suo tempo composta di soli quattrocento pedoni. Vedi il Periplo dell'Eusino.

827. Zosimo, l. I p. 30.

828. Arriano ( in Periplo Maris Euxini p. 130) assegna la distanza di 2610 stadj.

829. Senofonte, Anabasis l. IV, p. 348. Ediz. Hutchinson.

830. Arriano, p. 129. L'osservazione generale è di Tournefort.

831. Vedi un'epistola di Gregorio Taumaturgo Vescovo di Neocesarea, citato da Mascovio. V, 37.

832. Zosimo l. I, p. 32 33.

833. Itiner. Hierosolym. 572. Vesseling.

834. Zosim. lib. I, p. 32, 33.

835. Egli assediò la città con 400 galere, 150000 pedoni, e con numerosa cavalleria. Vedi Plutarco in Lucul. Appian. in Mitrid. Cicerone pro lege Manilia c. 8.

836. Strabone l. XII p. 573.

837. Pocock, descrizione dell'Oriente, l. II c. 23 24.

838. Zosimo, l. I, p. 33.

839. Sincello riferisce una storia non intelligibile del principe Odenato il quale disfece i Goti, e fu ucciso dal principe Odenato.

840. Viaggi di Chardin, Tom. I p. 45. Egli fece vela coi Turchi da Costantinopoli a Caffa.

841. Sincello, p. 382, parla di questa spedizione, come intrapresa dagli Eruli.

842. Strabone, L. XV, p. 495.

843. Plinio, Stor. Nat. III.

844. Stor. Aug. p. 181. Vittore, cap. 33. Orosio, VII. 42. Zosimo, L. I, p. 35. Zonara, l. XII, 635. Sincello, p. 382. Non si possono senza qualche attenzione spiegare o conciliare i loro imperfetti racconti. Possiamo tuttavia rinvenire alcune tracce della parzialità di Dexippo nella relazione delle sue proprie imprese, e di quelle dei suoi concittadini.

845. Sincello p. 382. Questo funesto corpo di Eruli fu per gran tempo fedele e rinomato.

846. Claudio, che comandava sul Danubio, pensò giustamente ed operò con coraggio. Il suo collega fu geloso della di lui fama. Stor. Aug. p. 181.

847. Giornandes c. 20.

848. Zosimo ed i Greci, (come l'autore del Tilopatride ) danno il nome di Sciti a quelli che Giornandes e gli Scrittori latini costantemente rappresentano come Goti.

849. Stor. Aug. p. 178, Giornandes c. 20.

850. Strabone l. XIV, p, 640. Vitruvio l. I c. 36, prefazione, e L. VII. Tacito Annal. III, 61. Plinio Stor. Nat. XXXVI, 14.

851. La lunghezza di S. Pietro di Roma è di 840 palmi romani; questo palmo è di 8 pollici e 3 linee. Vedi le Miscellanee di Greave vol. I p. 233 sopra il piede romano.

852. La politica de' Romani gl'impegnava a restringere i limiti dell'asilo, che differenti privilegi avevano successivamente estesi sino a due stadj intorno al tempio. Strabone l. XIV, p. 641. Tacito Ann. III, 60 ec.

853. Non offerivano essi alcun sacrifizio agli Dei della Grecia. Vedi Lettere di San Gregorio Taumaturgo.

854. Zonara l. XII, p. 635. Un simile aneddoto conveniva perfettamente al gusto di Montaigne. Ne fa uso nel suo saggio sopra il pedantismo l. I c. 24.

855. Mosè di Corene, l. II, cap. 71 73 74. Zonara l. XII. p. 628. La relazione autentica dell'autore armeno rettifica il confuso racconto del greco Storico. Costui parla dei fanciulli di Tiridate, il quale allora era fanciullo egli stesso.

856. Stor. Aug. p. 191. Macriano era nemico dei Cristiani, quindi essi gli dieder l'accusa di magìa.

857. Zosimo l. I p. 33.

858. Stor. Aug. p. 174.

859. Vittore in Caesarib. Eutropio 9. 7.

860. Zosimo l. I p. 33. Zonara l. XII p. 630. Pietro Patricio Excerpta legationum. p. 29.

861. Stor. Aug. p. 185. Il regno dei Ciriadi è posto in questa collezione prima della morte di Valeriano; ma alla cronologia dubbiosa di uno Scrittore poco esatto, io ho preferito una probabile serie di avvenimenti.

862. La testimonianza decisiva di Ammiano Marcellino (23. 5) esclude sotto il governo di Gallieno il sacco di Antiochia, che qualche altro Autore pone alcun tempo avanti.

863. Zosimo l. I p. 35.

864. Giovanni Malala tom. 1 pag. 391. Egli trasfigura questo probabile accidente con qualche circostanza favolosa.

865. Zonara l. XII p. 630. I corpi di quelli, i quali erano stati trucidati, servirono a riempire profonde valli. Le truppe dei prigionieri erano condotte all'acqua come tante bestie, e un gran numero di questi sventurati moriva per mancanza di nutrimento.

866. Zosimo, l. I p. 25, assicura che Sapore sarebbe restato padrone dell'Asia, se non avesse preferito il bottino alle conquiste.

867. Pietro Patricio Excerpta legat. p. 29.

868. Syrorum agrestium manu. Sesto Rufo c. 23. Secondo Rufo, Vittore, Stor. Aug. p. 192 e più iscrizioni, Odenato era un cittadino di Palmira.

869. Egli era in tanta considerazione presso le Tribù erranti, che Procopio ( De bello Pers. l. II c. 5.) e Giovanni Malala (tom. 1 p. 391) lo chiamarono Principe dei Saraceni.

870. Pietro Patricio.

871. Gli autori Cristiani insultano alle miserie di Valeriano, i Pagani le compiangono. Il Sig. Tillemont ha raccolte con diligenza le loro diverse testimonianze tom. 3 p. 739 ec. La Storia orientale, prima di Maometto, è sì poco conosciuta, che i moderni Persiani ignorano interamente la vittoria di Sapore, avvenimento così glorioso per la loro nazione. Vedi la Biblioteca Orientale.

872. Una di queste lettere è di Artavasde Re di Armenia. Siccome l'Armenia era una provincia di Persia, quindi non hanno mai avuta esistenza il Re, il Regno, e la lettera.

873. Vedi la sua vita nella Storia Augusta.

874. Esiste ancora un bellissimo epitalamio composto da Gallieno pel matrimonio di sua nipote.

Ite ait, o Juvenes, pariter sudate medullis

Omnibus, inter vos: non murmura vestra columbae,

Brachia non hederae, non vincant oscula conchae.

875. Era sul punto di regalare a Plotino una città rovinata della Campania per tentare di realizzare colà la repubblica di Platone. Vedasi la vita di Plotino, scritta da Porfirio, nella Biblioteca Greca di Fabrizio l. IV.

876. Una medaglia, che ha l'impronta della testa di Gallieno, ha sommamente imbarazzati gli antiquarj colle parole della leggenda Gallienae Augustae, e con quelle che si vedono nel rovescio Ubique pax. Il sig. Spanhemio suppone che questa medaglia fosse coniata da qualche nemico di Gallieno, e ch'era un'amara satira della condotta effeminata di questo Principe. Ma siccome l'uso dell'ironìa sembra indegno della gravità della moneta romana, perciò il Sig. di Vallemont da un passo di Trebellio Pollione (Stor. Aug.) ha dedotto una spiegazione ingegnosa e naturale. Galliena era prima cugina dell'Imperatore. Avendo liberato l'Affrica dall'usurpatore Celso, ella meritossi il titolo di Augusta. Sopra una medaglia esistente nella raccolta del gabinetto del Re di Francia, si legge una simile iscrizione di Faustina Augusta intorno alla testa di Marc'Aurelio. Quanto all' Ubique Pax, si spiega facilmente colla vanità di Gallieno il quale forse avrà colto l'occasione di qualche momentanea calma. Vedi Nouvelles de la Republique des lettres Gennaio 1700 pag. 21-34.

877. Questo singolare carattere ci è stato, a quanto penso, trasmesso con fedele pittura. Breve e travaglioso fu il regno del suo successore immediato; e gli storici che scrissero avanti la elevazione della famiglia di Costantino non avevano il più lontano interesse a travisare il carattere di Gallieno.

878. Pollione mostra la più minuta premura di compirne il numero.

879. Il luogo del suo regno è alquanto dubbioso; ma vi era un tiranno nel Ponto, e ci è nota la sede di tutti gli altri.

880. Tillemont (tom. III, p. 1163) li riferisce alquanto diversamente.

881. Vedi la parlata di Mario nella Stor. Aug. p. 197. L'accidentale somiglianza de' nomi fu la sola circostanza, che potè tentare Pollione ad imitare Sallustio.

882. Vos o Pompilius sanguis! Tale è l'apostrofe di Orazio ai Pisoni. Vedi Art. Poet. v. 292 con le note di Dacier e di Sanadori.

883. Tacit. Annal. XV 48. Stor. I 15. Nel primo di questi passi ci possiamo arrischiare a mutare la voce paterna in materna. In ogni generazione da Augusto ad Alessandro Severo, uno o più Pisoni compariscono tra i Consoli. Un Pisone fu da Augusto creduto degno del trono (Tacit. Annal, I. 13.). Un altro fu il capo di una formidabile congiura contro Nerone; ed un terzo fu adottato, e dichiarato Cesare da Galba.

884. Stor. Aug. p. 195. Il Senato, in un momento di entusiasmo, sembra che si compromettesse dell'approvazione di Gallieno.

885. Storia Aug. p. 196.

886. L'associazione del coraggioso Palmireno fu l'atto il più popolare di tutto il regno di Gallieno. Stor. Aug. p. 180.

887. Gallieno aveva conferito i titoli di Cesare e di Augusto al suo figliuolo Salonino, trucidato in Colonia dall'usurpatore Postumo. Un secondo figliuolo di Gallieno successe nel nome e nel grado di suo fratello maggiore. Valeriano, fratello di Gallieno, fu ancor esso associato all'Impero. Diversi altri fratelli, sorelle e nipoti dell'Imperatore formavano una numerosissima Reale famiglia. Vedi Tillemont, tom. III, e il Sig. di Brequiguy nelle Memorie dell'Accademia tom. XXXII, p. 262.

888. Stor. Aug. p. 188.

889. Regiliano aveva alcune bande di Roxolani al suo servizio. Postumo aveva un corpo di Franchi. Gli ultimi l'introdussero nella Spagna, forse in qualità di ausiliarj.

890. La Storia Augusta; p. 177, la chiama servile bellum. Vedi Diod. Siculo l. XXXIV.

891. Plin. Stor. Nat. V 10.

892. Diod. Sicul. l. XVII. p. 590 edit. Wesseling.

893. Vedi una curiosissima lettera di Adriano nella Stor. Aug. p. 245.

894. Simile alla sacrilega uccisione di un gatto sacro. Vedi Diod. Sicul. l, I.

895. Stor. Aug. 195. «Una lunga e terribile sedizione ebbe il suo principio da una disputa tra un soldato ed un paesano per un pajo di scarpe.»

896. Dionisio presso Eusebio. Stor. Eccles. vol. VII p. 21. Ammiano XXII 16.

897. Scaligero animadver. ad Euseb. Chron. p. 258. Tre dissertazioni del Sig. Bonamy nello Mem. dell'Accadem. tom. IX.

898. Strabone l. XII. p. 569.

899. Stor. Aug. p. 197.

900. Vedi Cell. Geogr. Antica tom. II p. 137 intorno ai confini dell'Isauria.

901. Stor. Aug. p. 177.

902. Stor. Aug. p. 177. Zosimo l. I. p. 24. Zonara, l. XII p. 623. Euseb. Chronicon. Vittore in Epitom. Vittore in Caesarib. Eutropio IX 5. Orosio VII 21.

903. Euseb. Stor. Eccles. VII 21. Il fatto è preso dalle Lettere di Dionisio, che nel tempo di quelle turbolenze era Vescovo di Alessandria.

904. In un gran numero di Parrocchie si trovarono 11000 persone tra i quattordici e i diciott'anni; 5365, tra i quaranta e settanta. Vedi Buffon, Stor. Nat. tom. II pag. 590.