CAPITOLO XI.
Regno di Claudio. Disfatta dei Goti. Vittorie, trionfo e morte di Aureliano.
Sotto i deplorabili regni di Valeriano e di Gallieno, l'Impero fu oppresso e quasi distrutto dai Soldati, dai Tiranni e dai Barbari. Lo salvò una serie di gran Principi, che traevano un'oscura origine dalle marziali province dell'Illirico. Nel giro di quasi trenta anni Claudio, Aureliano, Probo, Diocleziano, ed i suoi colleghi trionfarono degli stranieri e de' domestici nemici dello Stato; ristabilirono la militar disciplina, la forza delle frontiere, e meritarono il glorioso titolo di Ristauratori del Mondo Romano.
La caduta di un effemminato tiranno aprì la strada ad una successione di Eroi. L'indignazione del popolo imputava a Gallieno tutte le sue calamità; e la maggior parte, invero, erano conseguenze de' suoi costumi e della indolente sua condotta nel governo. Era privo perfino del sentimento di onore, che supplisce sì spesso alla mancanza della pubblica virtù; e finchè potè godere il possesso dell'Italia, una vittoria riportata dai Barbari, la perdita di una provincia, o la ribellione di un Generale, raramente disturbò il tranquillo corso de' suoi piaceri. Finalmente un esercito considerabile, accampato sul Danubio superiore, rivestì della porpora Imperiale il suo condottiero Aureolo, che sdegnando un angusto ed infecondo regno sulle montagne della Rezia, passò le Alpi, occupò Milano, minacciò Roma, e sfidò Gallieno a disputare in campo la sovranità dell'Italia. Provocato dall'insulto l'Imperatore, ed intimorito dall'imminente pericolo, subitamente mostrò quell'ascoso vigore, che qualche volta si manifestava a traverso l'indolenza del suo carattere. Staccatosi con violenza dagli agi del palazzo, comparve armato in fronte alle sue legioni, e si avanzò ad incontrare di là dal Po il suo competitore. Il corrotto nome di Pontirolo[1] conserva ancora la memoria di un ponte sull'Adda, che, durante l'azione, debbe essere stato un oggetto della maggiore importanza per ambo gli eserciti. Il Retico usurpatore, dopo aver ricevuto una totale disfatta ed una pericolosa ferita, si ritirò in Milano. Ne fu immediatamente formato l'assedio; furon le mura battute con ogni macchina dagli antichi usata; ed Aureolo, incerto della interna sua forza, e senza speranza di straniero soccorso, si presagì fin d'allora le funeste conseguenze di una inutile ribellione.
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L'ultimo suo espediente fu un tentativo di sedurre la lealtà degli assediatori. Sparse pel loro campo de' libelli, ne' quali invitava le truppe ad abbandonare un indegno Sovrano, che sacrificava al suo lusso la pubblica felicità, e le vite dei suoi più stimabili sudditi ai più leggieri sospetti. Gli artifizj di Aureolo diffusero i timori, gli scontenti tra i principali Uffiziali del suo rivale. Una cospirazione fu tramata da Eracliano Prefetto del Pretorio, da Marciano Generale di alto grado e di riputazione, e da Cecrope, che comandava un numeroso corpo di guardie dalmatine. La morte di Gallieno fu risoluta, e non ostante il lor desiderio di prima terminare l'assedio di Milano, l'estremo pericolo, che accompagnava ogni momento d'indugio, gli obbligò ad affrettare l'esecuzione del loro ardito disegno. Sull'ultim'ora della notte, mentre l'Imperatore tuttavia prolungava i piaceri della tavola, gli fu portata improvvisamente la nuova, che Aureolo, alla testa di tutte le sue forze, avea fatta dalla città una disperata sortita; Gallieno, che non mancò mai di valor personale, balzò dal suo serico letto, e senza frappor dimora per armarsi o per adunar le sue guardie, montò a cavallo, e corse veloce al luogo del supposto assalto. Circondato dai suoi dichiarati o nascosti nemici, in mezzo al tumulto notturno ricevè ben presto un colpo mortale da incerta mano. Prima di spirare, un sentimento di patriottismo, risvegliatosi nell'animo di Gallieno, lo indusse a nominare un degno successore, e l'ultima sua domanda fu che si dessero gli ornamenti imperiali a Claudio, che allora comandava un corpo staccato d'armata nelle vicinanze di Pavia. Almeno questa voce fu diligentemente propagata, e l'ordine con piacere eseguito dai congiurati, i quali avevan di già convenuto di metter Claudio sul trono. Alla prima nuova della morte dell'Imperatore, mostrarono le truppe qualche sospetto e risentimento, finchè l'uno fu dissipato, e l'altro addolcito con un donativo di venti monete d'oro ad ogni soldato. Ratificarono essi allora l'elezione, e riconobbero il merito del loro nuovo Sovrano[2].
L'oscurità, che ricopriva l'origine di Claudio, benchè fosse di poi abbellita da alcune adulatrici finzioni[3], manifesta abbastanza la bassezza della sua nascita. Questo solamente si può sapere, ch'egli era nativo di una delle Province confinanti col Danubio; che la sua gioventù fu consumata tra l'armi, e che il suo modesto valore meritò il favore e la confidenza di Decio. Il Senato ed il Popolo già lo consideravano come un eccellente Uffiziale, degno dei più importanti impieghi; e censurarono la disattenzione di Valeriano, che lo teneva nel posto subordinato di Tribuno. Ma distinse non molto dopo quell'Imperatore il merito di Claudio, dichiarandolo primo Generale della frontiera Illirica col comando di tutte le truppe nella Tracia, nella Mesia, nella Dacia, nella Pannonia e nella Dalmazia, collo stipendio del Prefetto dell'Egitto, con gli onori del Proconsole dell'Affrica, e con la sicura speranza del Consolato. Per le sue vittorie sopra i Goti egli meritò dal Senato l'onore di una statua, ed eccitò i gelosi timori di Gallieno. Era impossibile che un soldato stimar potesse un Sovrano così dissoluto, ed un giusto disprezzo si può difficilmente celare. Alcune imprudenti espressioni proferite da Claudio, furono officiosamente riportate a Gallieno. La risposta dell'Imperatore ad un Uffiziale di confidenza, dipinge al vivo il carattere di lui e quello dei tempi. «Niente vi è che dar mi possa un più serio disgusto che la notizia contenuta nell'ultimo vostro dispaccio[4]; che alcune maligne suggestioni abbiano indisposto contro noi l'animo del nostro amico e Padre Claudio. Per quella fedeltà che ci dovete, usate ogni mezzo per quietare il suo risentimento, ma conducete l'affare con secretezza; non venga questo a notizia dei soldati della Dacia; sono essi già provocati, e ciò potrebbe infiammare il loro furore. Io stesso ho mandati a lui alcuni doni; sia vostra cura ch'egli con piacere li accetti. Sopra tutto fate ch'ei non sospetti ch'io sono informato della sua imprudenza. Il timor del mio sdegno potrebbe indurlo a disperate risoluzioni»[5]. I doni che accompagnavano questa umile lettera, colla quale il Monarca, procurava di riconciliare a sè il malcontento suo suddito, consistevano in una considerabil somma di danaro, in abiti magnifici ed in un ricco vasellame d'oro e d'argento. Con tali arti Gallieno addolcì lo sdegno, e dissipò i timori del suo illirico Generale; ed in tutto il rimanente di quel regno fu la formidabile spada di Claudio sempre sguainata per la causa di un Sovrano da lui disprezzato. Vero è, ch'egli ricevè finalmente dai congiurati l'insanguinata porpora di Gallieno; ma egli era stato lontano dal loro campo e dai loro consigli; e benchè forse lodasse il fatto, possiamo francamente presumere, ch'egli non fosse reo di alcuna antecedente notizia[6]. Quando Claudio salì sul trono, era quasi nell'età di cinquantaquattr'anni.
L'assedio di Milano fu tuttavia continuato, ed Aureolo presto si avvide, che i suoi artifizj non avevano avuto altro successo che di suscitargli un più risoluto avversario. Tentò egli di aprire con Claudio un trattato di alleanza e di divisione. «Ditegli» (replicò l'intrepido Imperatore) «che se tali proposizioni fossero state fatte a Gallieno, egli forse le avrebbe pazientemente ascoltate, ed avrebbe accettato un collega disprezzabile al pari di lui[7].» Questo duro rifiuto, ed un ultimo infelice sforzo obbligarono Aureole a rendersi con la città alla discrezione del vincitore. Il giudizio dell'esercito lo dichiarò degno di morte, e Claudio, dopo una debole resistenza, consentì che fosse la sentenza eseguita. Nè lo zelo dei Senatori fu meno ardente per la causa del loro nuovo Sovrano. Ratificarono forse con un sincero trasporto d'animo l'elezione di Claudio, e siccome il Predecessore si era mostrato personal nemico del loro ordine, così esercitarono sotto il velo della giustizia una severa vendetta contro gli amici o la famiglia di lui. Fu permesso al Senato di addossarsi l'odioso uffizio del castigo, e l'Imperatore si riservò il piacere ed il merito di ottener con la sua intercessione un atto di generale perdono[8].
Questa ostentata clemenza mostra meno il vero carattere di Claudio di quel che il faccia una frivola circostanza, nella qual sembra ch'egli abbia obbedito ai dettami del suo cuore. Le frequenti ribellioni delle province avevano involto quasi ogni persona nel reato di tradimento, quasi ogni patrimonio nel caso di confiscazione, e Gallieno spesso mostrava la sua liberalità distribuendo tra i suoi uffiziali i beni dei sudditi. All'avvenimento di Claudio, una vecchia donna si gettò a' suoi piedi, lagnandosi che ad un Generale dell'ultimo Imperatore era stato arbitrariamente donato il di lei patrimonio. Questo Generale era Claudio stesso, che non era rimasto interamente illeso dalla corruzione dei tempi. Arrossì l'Imperatore a questo rimprovero, ma si mostrò degno della confidenza che quella avea avuta nella sua giustizia. La confessione del suo fallo fu accompagnata da una subita ed ampia restituzione[9].
Nell'arduo impegno, che Claudio aveva preso di ristabilire l'Impero nel suo antico splendore, era prima necessario di ravvivare tra le sue truppe un sentimento d'ordine e di obbedienza. Con l'autorità di un veterano Comandante, rappresentò loro, che il rilassamento della disciplina avea introdotta una lunga serie di disordini, dei quali finalmente i soldati stessi provavan gli effetti; che un popolo rovinato dall'oppressione, e indolente per la disperazione, non potea più lungamente somministrare ad un numeroso esercito il mantenimento non che le spese di lusso; che il pericolo di ogni individuo era cresciuto col dispotismo dell'ordine militare, poichè i Sovrani, che tremavan sul trono, provvedevano alla loro salvezza col pronto sacrifizio di ogni suddito colpevole. L'Imperatore si estese su i mali di uno sregolato capriccio, che i soldati potean soddisfare soltanto a spese del proprio sangue; giacchè le sediziose loro elezioni eran così spesso state accompagnate dalle guerre civili, che consumavano il fiore delle legioni o sul campo di battaglia o nel crudele abuso della vittoria. Dipinse egli coi più vivi colori lo stato dell'esausto tesoro, la desolazione delle province, il disonore del nome Romano, e l'insolente trionfo dei rapaci Barbari. Contro questi Barbari adunque egli dichiarò di voler dirigere il primo sforzo delle loro armi. Regnasse pur Tetrico per qualche tempo in Occidente, e conservasse pure Zenobia il dominio dell'Oriente[10]; questi usurpatori erano suoi personali nemici: nè potea egli pensare a soddisfare alcun privato risentimento, finchè salvato non avesse un Impero, la cui imminente rovina avrebbe (non essendo a tempo prevenuta) oppresso e l'esercito e il popolo.
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Le varie nazioni della Germania e della Sarmazia, che combattevano sotto le gotiche insegne, avevan già raccolta un'armata più formidabile di qualunque altra che mai fosse uscita dall'Eusino. Sulle rive del Niester, uno dei gran fiumi che sboccano in quel mare, essi costruirono una flotta di duemila o veramente di seimila vascelli[11], numero, che per incredibil che possa sembrare, non sarebbe stato bastante a trasportare la loro pretesa armata di trecentoventimila Barbari. Qualunque esser potesse la forza reale dei Goti, il vigore ed il successo della spedizione non furono adeguati alla grandezza dei preparativi. Nel loro passaggio pel Bosforo gl'inesperti piloti furon vinti dalla violenza della corrente; e mentre la moltitudine dei loro vascelli era ristretta in un angusto canale, molti si ruppero urtando l'uno contro l'altro o contro la terra. Fecero i Barbari alcune discese sopra varie coste dell'Europa e dell'Asia, ma l'aperto paese era stato già devastato, ed essi furono con vergogna e perdita rispinti da molte fortificate città. Si sparse nella flotta lo sbigottimento e la divisione, e molti dei loro capi fecero vela verso l'isole di Creta e di Cipro; ma il grosso dell'armata, seguitando un corso più costante, si ancorò finalmente vicino alle falde del monte Atos, ed assalì la città di Tessalonica, opulenta capitale di tutte le province della Macedonia. I loro assalti, nei quali mostravano un feroce ma sregolato valore, furono presto interrotti dal rapido avvicinarsi di Claudio, che si affrettava ad una scena d'azione degna della presenza di un Principe bellicoso, alla testa di tutte le rimanenti forze dell'Impero. Non volendo sopportar la battaglia, i Goti levarono subito il campo, abbandonarono l'assedio di Tessalonica; e lasciando le loro navi al piede del monte Atos, traversarono le colline della Macedonia, e si spinsero avanti ad assalire l'ultima difesa dell'Italia.
Abbiamo ancora una lettera originale scritta da Claudio in questa memorabile occasione al Senato ed al Popolo. «Padri coscritti (scrive l'Imperatore) sappiate che trecentoventimila Goti hanno invaso il territorio romano. Se io vinco, la vostra gratitudine ricompenserà i miei servigi. Se cado, rammentatevi che sono successor di Gallieno. L'intera Repubblica è affaticata ed esausta di forze. Combatteremo dopo Valeriano, dopo Ingenuo, Regilliano, Lolliano, Postumo, Gelso, e mille altri che un giusto disprezzo per Gallieno spinse alla sedizione. Noi manchiamo di dardi, di lance e di scudi. La forza dell'Impero, la Gallia e la Spagna sono usurpate da Tetrico, e con rossore confessiamo che gli arcieri dell'Oriente servono sotto le insegne di Zenobia. Qualunque impresa facciamo, sarà questa grande abbastanza[12].» Lo stile malinconico e risoluto di questa lettera annunzia un Eroe che non cura il suo fato, conosce il pericolo, ma ricava però dai suoi propri talenti una ben fondata speranza.
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L'evento superò l'espettazione di lui e quella del Mondo. Colle più segnalate vittorie liberò l'Impero da quell'esercito di Barbari, e fu distinto dalla posterità colla gloriosa denominazione di Claudio Gotico. Le storie imperfette di una guerra irregolare[13] non ci forniscono materiali bastanti per descrivere l'ordine e le circostanze delle imprese di lui; ma se ci fosse permessa una somigliante espressione, distribuir potremmo in tre atti questa memorabil tragedia. I. La decisiva battaglia fu data vicino a Naisso, città della Dardania. A principio le legioni diedero in volta, oppresse dal numero, e disanimate dalle loro sventure. Inevitabile era la rovina loro, se non avesse l'abilità dell'Imperatore preparato un opportuno soccorso. Un grosso distaccamento di soldati, uscendo dai secreti e difficili passi delle montagne, che per ordine di lui avevan occupati, assalì improvvisamente la retroguardia dei vittoriosi Goti. L'attività di Claudio profittò del favorevol momento. Rianimò egli il coraggio delle sue truppe, riordinò le lor file, ed incalzò i Barbari da ogni parte. Narrasi che fossero cinquantamila uomini uccisi nella battaglia di Naisso. Vari numerosi corpi di Barbari, coprendo la loro ritirata con una mobile fortificazione di carriaggi, si ritirarono, o piuttosto fuggirono da quel campo di strage. II. Possiamo presumere che qualche insuperabile difficoltà, forse la stanchezza, forse la disubbidienza dei vincitori, non permettesse a Claudio di compire in un giorno la distruzione dei Goti. La guerra si sparse per le province della Mesia, della Tracia e della Macedonia, e le sue operazioni si ridussero a varie mosse, e sorprese, e tumultuari combattimenti sì per mare che per terra. Quando i Romani soffrirono qualche perdita, ordinariamente ciò avvenne o per la loro codardia o per la loro temerità; ma i superiori talenti dell'Imperatore, la sua perfetta pratica dei paesi, e la giudiziosa sua scelta de' provvedimenti e degli Uffiziali, assicurarono in moltissime occasioni il buon successo delle sue armi. L'immenso bottino, frutto di tante vittorie, consisteva la maggior parte in bestiami e schiavi. Uno scelto corpo della gotica gioventù venne ricevuto nelle truppe Imperiali; fu il rimanente venduto in ischiavitù; e fu il numero delle donne prigioniere tanto considerabile, che n'ebbe ogni soldato due o tre per sua parte: circostanza dalla quale si può concludere, che gl'invasori aveano qualche disegno di stabilirsi, non meno che di saccheggiare; giacchè in una navale spedizione ancora erano accompagnati dalle loro famiglie. III. La perdita della lor flotta, che fu o presa o sommersa, aveva impedita la ritirata dei Goti. I Romani avendo formato un vasto cerchio di posti, distribuiti con arte, sostenuti con coraggio, e che si ristringevano a poco a poco verso un centro comune, forzarono i Barbari a ritirarsi nelle più inaccessibili parti del monte Emo, dove trovarono un sicuro rifugio, ma una sussistenza assai scarsa. Nel corso di un rigoroso verno, nel quale furono assediati dalle truppe dell'Imperatore, la fame e la peste, la diserzione e la spada continuamente diminuirono quella imprigionata moltitudine. Al ritorno della primavera, non comparve in arme che una feroce e disperata truppa, residuo di quell'oste possente, che si era imbarcata alla foce del Niester.
La peste, che tanti Barbari uccise, divenne finalmente fatale al lor vincitore. Dopo un breve ma glorioso regno di due anni, Claudio morì in Sirmio, in mezzo alle lagrime ed alle acclamazioni de' sudditi. Nell'ultima sua malattia convocò i principali Ministri dello Stato e dell'esercito, e in lor presenza raccomandò Aureliano, uno dei suoi Generali, come il più degno del trono, ed il più atto ad eseguir il gran disegno, ch'egli stesso avea potuto soltanto intraprendere. Le virtù di Claudio, il suo valore, l'affabilità[14], la giustizia e la temperanza, il suo amor per la gloria e per la patria lo pongono nel piccol numero di quegl'Imperatori, che aggiunsero lustro alla Romana porpora. Queste virtù per altro furono celebrate con particolar zelo e compiacenza dai cortigiani Scrittori del secolo di Costantino, il quale era bisnipote di Crispo, fratello maggiore di Claudio. La voce dell'adulazione imparò presto a ripetere, che gli Dei, i quali avean così frettolosamente tolto Claudio alla terra, ricompensarono il suo merito e la sua pietà perpetuando l'Impero nella sua famiglia[15].
Non ostante questi oracoli, la grandezza dei Flavj (nome che a loro piacque di assumere) fu differita per più di vent'anni, e lo stesso innalzamento di Claudio cagionò l'immediata rovina del suo fratello Quintilio, il quale non ebbe moderazione o coraggio bastante per discendere nella privata condizione, a cui lo avea condannato il patriottismo dell'ultimo Imperatore. Senza indugio o riflessione egli prese la porpora in Aquileia, dove comandava forze considerabili; e benchè il suo regno durasse diciassette giorni soltanto, egli ebbe tempo di ottenere la sanzione del Senato, e di provare una sedizion delle truppe. Appena egli seppe che la grande armata del Danubio avea conferita l'autorità Imperiale al ben conosciuto valor di Aureliano, si sentì vinto dalla gloria e dal merito del suo rivale, e facendosi aprire le vene, prudentemente si ritirò dalla ineguale contesa[16].
Il general disegno di quest'opera non ci permette di minutamente riferire le azioni di ogni Imperatore dopo il suo avvenimento al trono, molto meno di rintracciare le varie fortune della sua vita privata. Osserveremo soltanto che il padre di Aureliano era un contadino del territorio di Sirmio, il quale occupava una piccola tenuta appartenente ad Aurelio, ricco Senatore. Il bellicoso suo figlio, arrolato nelle truppe come soldato comune, divenne successivamente centurione, tribuno, prefetto di una legione, ispettore del campo, generale, ovvero (come allor si chiamava) duce di una frontiera; e finalmente nella guerra Gotica esercitò l'importante uffizio di primo comandante della cavalleria. In ogni grado si distinse per l'impareggiabil valore[17], per la rigida disciplina, e per una fortunata condotta. Fu egli rivestito del Consolato dall'Imperator Valeriano, che lo chiama, nel pomposo linguaggio di quel secolo, il liberatore dell'Illirico, il ristauratore della Gallia, ed il rivale degli Scipioni. Per la raccomandazione di Valeriano, un Senatore del grado e del merito più cospicuo, Ulpio Crinito, il cui sangue derivava dalla stessa sorgente di quel di Traiano, adottò il contadino della Pannonia, diedegli in matrimonio la sua figlia, e sollevò con l'ampio suo patrimonio l'onorata povertà, che Aureliano avea mantenuta inviolata[18].
Il regno di Aureliano durò solamente quattr'anni e quasi nove mesi; ma ogni momento di quel corto periodo fu illustrato da qualche memorabil prodezza. Egli terminò la guerra Gotica, castigò i Germani che invadevano l'Italia, ricuperò la Gallia, la Spagna, la Britannia dalle mani di Tetrico, e distrusse la superba monarchia, che Zenobia avea nell'Oriente innalzata sulle rovine dell'afflitto Impero.
Dovè Aureliano la continua fortuna delle sue armi alla rigorosa attenzione posta agli articoli anche più minuti della disciplina. I suoi militari regolamenti sono contenuti in una lettera assai concisa ad un subalterno Uffiziale, al quale comanda di porli in vigore, se desidera di divenir tribuno, o se gli è cara la vita. Il giuoco, il bere, e le arti della divinazione erano severamente proibite. Aureliano pretendeva che i suoi soldati fossero modesti, frugali e laboriosi; che sempre si mantenesser lucenti le loro armi, aguzze le spade, pronti i vestiti e i cavalli all'immediato servizio; che vivessero nei loro quartieri con castità e sobrietà, senza danneggiare i campi di grano, senza rubare neppure una pecora, un volatile, un grappolo di uva, senza esigere dai loro ospiti nè sale, nè olio, nè legna. «La pubblica paga (continua l'Imperatore) è bastante al loro sostentamento; le ricchezze debbono ricavarsi dalle spoglie de' nemici e non dal pianto dei Provinciali[19].» Un solo esempio servirà a mostrare il rigore, anzi la crudeltà di Aureliano. Un soldato avea sedotta la moglie del proprio ospite. Fu il misero colpevole legato a due alberi, che piegati a forza l'uno con l'altro, e di poi violentemente separandosi, stracciarono le di lui membra. Pochi consimili esempi impressero una salutevol costernazione. I castighi di Aureliano eran terribili, ma raramente ebbe occasione di punire due volte uno stesso delitto. La sua propria condotta dava la sanzione alle sue leggi, e le sediziose legioni temevano un Capo, che aveva imparato ad ubbidire, ed era degno di comandare.
La morte di Claudio avea rianimato il languente spirito dei Goti. Le truppe, che difendevano i passi del monte Emo e le rive del Danubio, erano state richiamate pel timore di una guerra civile, e sembra probabile, che il rimanente corpo delle Tribù Gotiche e Vandaliche, abbracciando la favorevole occasione, abbandonasse i suoi stabilimenti dell'Ucrania, attraversasse i fiumi, ed accrescesse con nuova moltitudine la devastatrice armata de' suoi concittadini. Le loro truppe, riunite, furono alfine incontrate da Aureliano, ed il sanguinoso e dubbio conflitto finì solamente col venir della notte[20]. Spossati per tante calamità da loro vicendevolmente date e sofferte in una guerra di vent'anni, i Goti ed i Romani acconsentirono ad un durevole ed util trattato. Fu questo premurosamente richiesto dai Barbari, e con piacere ratificato dalle legioni, al voto delle quali il prudente Aureliano commise lo scioglimento di quella importante questione. Si obbligarono i Goti a fornire agli eserciti Romani un corpo di cavalleria di duemila ausiliari, e stipularono in contraccambio una sicura e tranquilla ritirata con un regolare mandato fino al Danubio, provveduto dalla cura dell'Imperatore, ma a lor proprie spese. Fu il trattato osservato con tanta religiosità, che quando una truppa di cinquecento uomini si staccò dal campo per far delle prede, il Re, ovvero il Generale dei Barbari, domandò che fosse il colpevole condottiero preso e saettato a morte, come vittima consacrata alla santità de' loro trattati. È per altro verosimile, che la precauzione di Aureliano, il quale aveva ritenuto come ostaggi i figli e le figlie dei Gotici condottieri, contribuisse in qualche parte a questa pacifica disposizione. Egli educò i giovani all'esercizio dell'armi, e vicino alla sua propria persona; alle donzelle diede una liberale e romana educazione, e concedendole in matrimonio ad alcuni dei suoi principali Uffiziali, strinse a poco a poco le due nazioni coi più tenaci e cari legami[21].
Ma la più importante condizione della pace fu piuttosto supposta che espressa nel trattato. Ritirò Aureliano le forze Romane dalla Dacia, e tacitamente abbandonò quella gran Provincia ai Goti ed ai Vandali[22]. Il suo maschio discernimento gli fe' conoscere i vantaggi reali, e gl'insegnò a disprezzare il disonore apparente del ristringere in tal guisa le frontiere della Monarchia. I sudditi Daci, rimossi da quelle terre lontane, ch'essi non sapean nè coltivar nè difendere, aggiunsero forza e popolazione alla parte meridionale del Danubio. Un fertile territorio, cangiato in deserto dalle replicate scorrerie dei Barbari, fu ceduto alla loro industria; ed una nuova provincia della Dacia conservò sempre la memoria delle conquiste di Traiano. Nella Dacia antica, per altro, rimase un considerabil numero di abitatori, ai quali più che un Goto Sovrano fece orrore l'esilio[23]. Questi degenerati Romani continuarono ad essere utili all'Impero, introducendo tra i lor vincitori le prime idee dell'agricoltura, le arti utili, ed i comodi della vita civile. Si stabilì a poco a poco una comunicazione di commercio e di lingua tra le opposte rive del Danubio; e la Dacia, divenuta indipendente, fu spesso l'argine più saldo dell'Impero contro le invasioni dei selvaggi del Settentrione. Un sentimento d'interesse legava all'alleanza di Roma questi Barbari inciviliti; ed un interesse costante si converte bene spesso in sincera ed utile amicizia. Questa mista colonia, che occupava l'antica provincia, e si era insensibilmente confusa in un popolo numeroso, riconosceva tuttavia il superior nome, o l'autorità della Gotica Tribù, e pretendeva l'immaginario onore di trarre dalla Scandinavia l'origine. Nel tempo stesso la fortunata, benchè casuale somiglianza del nome di Geti, infuse tra i creduli Goti una vana credenza, che nei tempi remoti i loro antenati, già stabiliti nelle province della Dacia, avessero ricevute le istruzioni di Zamolsi e represse le vittoriose armi di Sesostri e di Dario[24].
Mentre la vigorosa e moderata condotta di Aureliano ristabiliva la frontiera dell'Illirico, gli Alemanni[25] violarono le condizioni della pace o comprate da Gallieno o imposte da Claudio, ed animati dalla impaziente lor gioventù, corsero improvvisamente alle armi. Quarantamila cavalli[26] e un doppio numero di fanti[27] apparvero in campo. I primi oggetti della loro avarizia furono alcune poche città della Retica frontiera; ma presto crescendo col buon successo le loro speranze, sparsero gli Alemanni con rapida mossa la devastazione dalle rive del Danubio a quelle del Po[28].
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L'Imperatore seppe quasi nel tempo stesso l'irruzione e la ritirata dei Barbari. Radunato un attivo corpo di truppe, marciò con silenzio e prestezza lungo l'Ercinia Foresta; e gli Alemanni, carichi delle spoglie dell'Italia, arrivarono al Danubio, non sospettando, che sull'opposta riva ed in un posto vantaggioso stesse celato un esercito Romano, disposto ad impedire il loro ritorno. Aureliano favorì la fatal confidenza dei Barbari, e lasciò che quasi metà delle lor forze passasse il fiume senza precauzione veruna. La situazione e la sorpresa loro gli procuravano una facil vittoria; e la sua ferma condotta ne accrebbe il vantaggio. Disponendo le legioni in forma di semicerchio, avanzò i due corni verso il Danubio, e volgendoli a un tratto verso il centro, circondò la retroguardia dei Germani. I Barbari smarriti, dovunque gettasser lo sguardo, vedevano con disperazione un paese deserto, un fiume rapido e profondo, ed un vittorioso ed implacabil nemico.
Ridotti a questa infelice condizione, non isdegnarono gli Alemanni di presto implorare la pace. Aureliano ricevè i loro Ambasciatori alla testa del suo campo, e con tutta la pompa marziale, che potesse mostrare la grandezza e la disciplina romana. Erano le legioni sulle armi in bene ordinate schiere ed in profondo silenzio. I principali Comandanti, distinti colle insegne del loro grado, stavano a cavallo dall'uno e dall'altro lato del trono Imperiale. Dietro al trono s'innalzavano sopra lunghe picche, coperte d'argento, le sacre immagini dell'Imperatore e de' suoi Predecessori[29], le Aquile d'oro, ed i vari titoli delle legioni, a lettere d'oro scolpiti. Quando prese Aureliano il suo posto, il suo nobile portamento e la sua maestosa figura[30] insegnarono ai Barbari a venerare la persona non meno che la porpora del lor vincitore. Caddero in silenzio gli ambasciatori al suolo prostesi. Fu ad essi ordinato di alzarsi e permesso di favellare. Coll'assistenza degl'interpreti estenuarono eglino la loro perfidia, ma giustificarono le loro imprese, si estesero sulle vicende della fortuna e su i vantaggi della pace, e con inopportuna confidenza richiesero un abbondante sussidio, quasi prezzo dell'alleanza, ch'essi offrivano ai Romani.
Fu la risposta dell'Imperatore aspra ed imperiosa. Trattò la loro offerta con disprezzo, e con indignazione la loro richiesta; rimproverò ai Barbari la loro ignoranza nelle arti della guerra e nelle leggi della pace, e finalmente li licenziò colla sola scelta di rendersi a discrezione, o di aspettare la maggior severità dal suo risentimento[31]. Aveva Aureliano restituita ai Goti una remota provincia; ma era pericoloso il fidarsi o il perdonare a que' perfidi Barbari, la cui formidabil potenza teneva l'Italia stessa in continui timori.
Pare che immediatamente dopo questo congresso, qualche improvviso evento richiedesse la presenza dell'Imperatore nella Pannonia. Lasciò egli a' suoi Generali la cura di compiere la distruzione degli Alemanni o col ferro, o col più sicuro mezzo della fame. Ma l'attiva disperazione ha spesso trionfato dell'indolente confidenza nella fortuna. Vedendo i Barbari ch'era impossibile traversare il Danubio ed il campo Romano, ruppero i posti della retroguardia, ch'erano, o più debolmente, o meno diligentemente difesi, e con incredibil prestezza, ma per diverso cammino, ritornarono verso i monti dell'Italia[32]. Aureliano, che riguardava la guerra come affatto finita, ricevè la mortificante notizia della fuga degli Alemanni e della devastazione da essi fatta nel territorio di Milano. Fu alle legioni ordinato di seguitare con tutta la speditezza, di cui erano capaci quei gravi corpi, la rapida fuga di un nemico, l'infanteria e la cavalleria del quale si muovevano quasi con egual celerità. Pochi giorni dopo, l'Imperatore istesso mosse al soccorso dell'Italia conducendo uno scelto corpo di ausiliari (fra i quali vi erano gli ostaggi e la cavalleria dei Vandali) e tutte le guardie Pretoriane, che avevano servito nelle guerre fatte già sul Danubio[33].
Essendosi le truppe leggiere degli Alemanni sparse dalle Alpi agli Appennini, la continua vigilanza di Aureliano e dei suoi Uffiziali fu occupata in discoprire, assaltare e perseguitare i numerosi loro distaccamenti. Non ostante l'irregolarità di questa guerra, vengono menzionate tre considerabili battaglie, nelle quali le forze principali delle due armate si azzuffarono ostinatamente[34]. Fu vario il successo. Nel primo combattimento vicino a Piacenza, i Romani riceverono un colpo sì forte, che, secondo l'espressione di uno scrittore parzialissimo di Aureliano, si temè l'immediata ruina dell'Impero[35]. Gli accorti Barbari, che aveano circondati i boschi, assalirono improvvisamente le legioni nell'oscurità della sera, e (come è molto probabile) dopo la fatica e il disordine di una lunga marcia. Non poterono i Romani resistere alla furia del loro assalto, ma finalmente, dopo una terribile strage, la paziente costanza dell'Imperatore riordinò le suo truppe, e ristabilì in qualche modo l'onore delle armi sue. La seconda battaglia s'ingaggiò vicino a Fano nell'Umbria, sul terreno, che cinquecento anni avanti era stato fatale al fratello di Annibale[36]. Cotanto i fortunati Germani si erano avanzati lungo la via Emilia e Flaminia, con idea di saccheggiare la mal difesa padrona del Mondo! Ma Aureliano, che vigilando alla salvezza di Roma, era sempre loro alle spalle, trovò quivi il decisivo momento di dar loro una totale ed irreparabil disfatta[37]. Il fuggitivo residuo del loro esercito venne esterminato in una terza ed ultima battaglia vicino a Pavia; e fu l'Italia liberata dalle irruzioni degli Alemanni.
La paura è stata la prima madre della superstizione, ed ogni nuova calamità induce i tremanti mortali a scongiurar lo sdegno dei loro invisibili nemici. Benchè la migliore speranza della Repubblica fosse nel valore e nella condotta di Aureliano, pure fu tale la pubblica costernazione, quando i Barbari erano a momenti aspettati alle porte di Roma, che per decreto del Senato si consultarono i libri Sibillini. Lo stesso Imperatore, per religione o per politica, raccomandò questo salutevole provvedimento, biasimò la lentezza del Senato[38], e si esibì di supplire a qualunque spesa, e di dare qualunque animale e qualunque schiavo d'ogni nazione che gli Dei richiedessero. Non ostante questa liberale offerta, non sembra che alcuna vittima umana espiasse col suo sangue i peccati del popol Romano. I libri Sibillini imposero cerimonie più miti: processioni di Sacerdoti in bianche vesti, accompagnati da un coro di giovani e di vergini; lustrazioni della città e dell'adiacente campagna, e sacrifizi la cui potente influenza impedisse ai Barbari il passo nella mistica terra, sulla quale si erano celebrati. Queste superstizioni, benchè puerili in se stesse, servirono al buon esito della guerra; e se nella decisiva battaglia di Fano, gli Alemanni sognarono di vedere un'armata di spettri, combattenti in favor d'Aureliano, egli ricevè un vero ed effettivo aiuto da questo immaginario rinforzo[39].
Ma non ostante qualunque fidanza aver si potesse negl'ideali ripari, pure l'esperienza del passato e il timor del futuro, indussero i Romani a costruire fortificazioni di un genere più saldo e più sostanziale. I successori di Romolo aveano circondato i Sette Colli di Roma con un antico muro di più di tredici miglia[40]. Un recinto sì vasto può sembrare sproporzionato alla forza ed alla popolazione di quello Stato nascente. Ma era necessario di assicurare una vasta estensione di pascoli e di terreno dalle frequenti ed improvvise incursioni dei popoli del Lazio, perpetui nemici della Repubblica. Crescendo la Romana grandezza, si accrebbe a poco a poco la città, e la sua popolazione occupò tutto lo spazio voto, aprì le inutili mura, coprì il campo Marzio, e da ogni parte seguitò le pubbliche strade maestre con lunghi e bei sobborghi[41]. L'estensione delle nuove mura, erette da Aureliano e terminate sotto il regno di Probo, era magnificato dall'opinione popolare quasi a cinquanta miglia[42], ma le accurate misure la ridussero intorno a ventuno[43]. Era questo un grande, ma tristo lavoro, giacchè i ripari della Capitale svelavano la decadenza della Monarchia. I Romani dei secoli più felici, che affidarono alle armi delle legioni la sicurezza dei campi delle frontiere[44], erano ben lontani dal sospettare in alcun modo, che si dovesse mai per necessità fortificare la sede dell'Impero contro le irruzioni dei Barbari[45].
La vittoria di Claudio su i Goti, e il fortunato successo di Aureliano contro gli Alemanni aveano già restituito alle armi Romane l'antica lor superiorità sopra le Barbare nazioni del Settentrione. Il punire i domestici tiranni, e riunire le smembrate parti dell'Impero era un'impresa riservata all'ultimo di questi bellicosi Imperatori. Quantunque fosse stato riconosciuto dal Senato e dal Popolo, le frontiere dell'Italia, dell'Africa, dell'Illirico e della Tracia ristringevano i confini del suo dominio. La Gallia, la Spagna e la Britannia, l'Egitto, la Siria e l'Asia minore erano tuttavia possedute da due ribelli, che soli di una lista sì numerosa, erano sino allora andati esenti dai pericoli della lor condizione; e per render compita l'ignominia Romana, due donne erano le usurpatrici di quei troni rivali.
S'era veduta nella Gallia una rapida successione di Monarchi, innalzati e caduti. La rigida virtù di Postumo non servì che ad accelerare la sua rovina. Egli dopo d'aver oppresso un competitore, ch'aveva presa in Magonza la porpora ricusò di concedere alle sue truppe il sacco di quella ribelle città; e nel settimo anno del regno suo divenne la vittima della loro delusa avarizia[46]. La morte di Vittorino, amico e collega di Postumo, fu prodotta la più piccola causa. Le luminose qualità[47] di questo Principe erano oscurate da una licenziosa passione, ch'egli soddisfaceva con atti di violenza, senza aver quasi riguardo alle leggi della società, o a quelle ancor dell'amore[48]. Egli fu trucidato a Colonia da una congiura di gelosi mariti, la cui vendetta potrebbe sembrare più giustificabile, se risparmiato avessero l'innocente suo figlio. Dopo la strage di tanti Principi valorosi, è in certo modo mirabile, che una donna contenesse per lungo tempo le feroci legioni della Gallia, ed è cosa più singolare, che questa donna fosse la madre dell'infelice Vittorino. Coi suoi artifizi e colle sue ricchezze potè Vittoria collocar successivamente sul trono Mario e Tetrico, e regnare con maschio vigore sotto il nome di questi dipendenti Imperatori. La moneta di rame, di argento, e di oro si coniava in suo nome; essa prese i titoli di Augusta e di Madre degli eserciti: il suo potere finì solamente colla sua vita; ma fu questa forse accorciata dalla ingratitudine di Tetrico[49].
A. D. 271
Quando ad istigazione dell'ambiziosa sua protettrice assunse Tetrico le regie insegne, egli era Governatore della tranquilla provincia dell'Aquitania, impiego convenevole al suo carattere ed alla sua educazione. Egli regnò per quattro o cinque anni sulla Gallia, sulla Spagna e sulla Britannia, schiavo e Sovrano di un licenzioso esercito, ch'egli temeva, e dal quale era sprezzato. Il valore e la fortuna di Aureliano gli aprirono finalmente la strada alla libertà. Egli si arrischiò a svelare la trista sua situazione, e scongiurò l'Imperatore di affrettarsi a soccorrere il suo infelice rivale. Questa segreta corrispondenza, se fosse giunta all'orecchie dei soldati, molto probabilmente avrebbe costato a Tetrico la vita; nè poteva egli deporre lo scettro dell'Occidente senza commettere un atto di tradimento contro se stesso. Egli finse che vi fosse apparenza di una guerra civile, condusse in campo le sue forze contro Aureliano, le ordinò nella maniera più svantaggiosa, svelò i suoi propri consigli al nemico, e con pochi scelti amici disertò sul principio dell'azione. Le ribelli legioni, benchè disordinate e sconcertate dall'inaspettato tradimento del loro Capo, si difesero però con disperato valore, finchè furono quasi tutte tagliate a pezzi in quella sanguinosa e memorabil battaglia, che seguì vicino a Chalons nella Sciampagna[50]. La ritirata degli ausiliari irregolari Franchi e Batavi[51], che il vincitore presto costrinse o persuase a ripassare il Reno, ristabilì l'universale tranquillità, e l'autorità di Aureliano fu riconosciuta dalla muraglia d'Antonino alle colonne d'Ercole.
Fino dal regno di Claudio la Città di Autun, sola e senza soccorso, avea osato dichiararsi contro le legioni della Gallia. Dopo un assedio di setto mesi esse rovinarono e saccheggiarono quella sfortunata città già desolata dalla fame[52]. Lione, al contrario, avea resistito con ostinata avversione alle armi di Aureliano. Si legge il castigo di Lione[53], ma non si trovano mentovate le ricompense di Autun. Tale in verità è la politica della guerra civile, ricordarsi severamente delle ingiurie, ed obbliare i più importanti servigi. La vendetta è proficua, la gratitudine è dispendiosa.
A. D. 272
Appena Aureliano si fu assicurato della persona e delle province di Tetrico, rivolse le sue armi contro Zenobia, quella celebre Regina di Palmira e dell'Oriente. L'Europa moderna ha prodotte varie femmine illustri, che hanno sostenuto con gloria il peso del regno; nè il nostro secolo è privo di sì distinti caratteri. Ma, eccettuando le dubbie imprese di Semiramide, Zenobia è forse l'unica donna, il cui genio superiore si sia sollevato dalla servile indolenza, imposta al suo sesso dal clima e dai costumi dell'Asia[54]. Essa vantava la sua origine dai Re Macedoni dell'Egitto, uguagliava in bellezza la sua antenata Cleopatra, e superava d'assai questa Principessa nella castità[55] e nel valore. Era Zenobia stimata la più amabile e la più eroica del suo sesso. Era di carnagione bruna (giacchè parlando di una Signora queste piccole cose divengono importanti); i suoi denti erano di una bianchezza di perla, e ne' suoi grandi e neri occhi scintillava un insolito fuoco, temperato dalla più lusinghiera dolcezza. Forte ed armoniosa aveva la voce. Il suo maschio intelletto era rinvigorito ed adornato dallo studio. Non era ella ignara della lingua Latina, e possedeva con ugual perfezione il linguaggio Greco, l'Egiziano e il Siriaco. Avea disteso per suo proprio uso un Epitome della Storia Orientale, e familiarmente paragonava le bellezze di Omero e di Platone dietro la scorta del sublime Longino.
Questa perfetta donna sposò Odenato, che dalla condizione di privato s'innalzò alla Sovranità dell'Oriente. Divenne essa ben tosto amica e compagna di quest'Eroe. Negl'intervalli della guerra si dilettava Odenato estremamente della caccia; egli inseguiva con ardore le fiere dei deserti, leoni, pantere ed orsi; e l'ardor di Zenobia in quel pericoloso divertimento non era punto inferiore. Avea essa avvezzato il suo temperamento alla fatica, sdegnava l'uso di un cocchio coperto, compariva ordinariamente a cavallo in abito militare, e marciava talvolta per molte miglia a piedi alla testa delle sue truppe. I felici successi di Odenato furono attribuiti in gran parte all'incomparabile di lei prudenza e valore. Le illustri loro vittorie sopra il gran Re, che per due volte perseguitarono fino alle porte di Ctesifone, gettarono i fondamenti della comune lor fama e potenza. Le armate, ch'essi comandavano, e le Province ch'aveano salvate, non riconoscevano per Sovrani che i due lor Capi invincibili. Il Senato e il popolo Romano riverivano uno straniero, che vendicato avea il prigioniero loro Imperatore, e l'insensibil figlio di Valeriane riconobbe perfino Odenato come suo collega legittimo.
A. D. 267
Dopo una felice spedizione contro i Goti, devastatori dell'Asia, il Principe di Palmira ritornò alla Città di Emesa nella Siria. Invincibile nella guerra, fu ivi ucciso per domestico tradimento, ed il suo favorito divertimento della caccia fu la cagione, o l'occasione almeno della sua morte[56]. Il suo nipote Meonio pretese di lanciare il suo dardo prima di quel dello zio; e benchè avvertito del fallo, ripetè la medesima insolenza. Fu Odenato irritato come Monarca e come cacciatore: tolse egli al temerario giovane il cavallo, segno d'ignominia tra i Barbari, e lo castigò con un breve confine. Fu presto dimenticata l'offesa, ma non il castigo; e Meonio con pochi arditi congiurati in mezzo ad una gran festa assassinò il suo zio. Erode, figlio di Odenato, benchè non di Zenobia, giovane di carattere dolce ed effemminato[57] fu ucciso col padre. Ma Meonio altro non ottenne con questo sanguinoso misfatto, che il piacere di vendicarsi. Ebbe appena tempo di prendere il nome di Augusto, avanti che lo sacrificasse Zenobia alla memoria del suo consorte[58].
Con l'assistenza de' suoi più fidi amici essa occupò immediatamente il trono vacante, e governò per più di cinque anni coi suoi virili consigli Palmira, la Siria e l'Oriente. Colla morte di Odenato spirava quell'autorità, che il Senato avea ad esso conceduta soltanto come una personal distinzione; ma la guerriera sua Vedova, disprezzando il Senato e Gallieno, costrinse uno de' Generali Romani, mandato contro di lei, a ritirarsi nell'Europa con la perdita dell'esercito e della sua fama[59]. In vece di piccole passioni, che agitano così spesso un regno femminile, la salda amministrazione di Zenobia era regolata dalle più giudiziose massime di politica: se era espediente il perdonare, sapeva essa colmare il suo risentimento: se necessario era punire sapeva impor silenzio alle voci della pietà. L'esatta sua economia tacciata fu di avarizia; pure in ogni conveniente occasione si mostrava e magnifica e liberale. I vicini Stati dell'Arabia, dell'Armenia e della Persia temerono la sua inimicizia, e domandarono la sua alleanza. Ai dominj di Odenato, che si estendevano dall'Eufrate alle frontiere della Bitinia, la di lui Vedova aggiunse l'eredità de' suoi antenati, il popolato e fertil regno d'Egitto. L'Imperator Claudio riconobbe il merito di lei, e si contentò, che mentre egli continuava la guerra Gotica, ella sostenesse l'onor dell'Impero in Oriente[60]. La condotta però di Zenobia fu accompagnata da qualche ambiguità; e non è improbabile, che concepito avesse il disegno di erigere una Monarchia indipendente e nemica. Ella unì alle popolari maniere dei Principi Romani la splendida pompa delle Corti dell'Asia, e pretese da' suoi sudditi le medesime adorazioni, che si prestavano ai successori di Ciro. Dette essa ai suoi figli[61] un'educazione Latina, e spesso li presentò alle truppe ornati della Porpora Imperiale. Riservò per se stessa il diadema col magnifico, ma incerto, titolo di Regina dell'Oriente.
A. D. 272
Quando passò Aureliano nell'Asia contro un'avversaria, cui non altro che il sesso render poteva un oggetto di disprezzo, la sua presenza ridusse all'ubbidienza la provincia della Bitinia, già vacillante per le armi e per gl'intrighi di Zenobia[62]. Avanzandosi alla testa delle legioni egli ricevè la sommissione di Ancira, e pel tradimento di un perfido cittadino fu ammesso in Tiana dopo un assedio ostinato. Il generoso, benchè fiero carattere di Aureliano, abbandonò il traditore al furor dei soldati: una superstiziosa venerazione lo indusse a trattar con clemenza i concittadini del filosofo Apollonio[63]. Rimase Antiochia deserta al suo avvicinarsi, finchè l'Imperatore con salutevoli editti richiamò i fuggitivi, ed accordò un general perdono a tutti quelli, che per necessità piuttosto che per elezione si erano impegnati al servizio della Regina di Palmira. L'inaspettata moderazione di una tal condotta riconciliò gli animi dei Sirj, e fino alle porte di Emesa i voti dei popoli secondarono il terrore delle armi Imperiali[64].
Sarebbe stata Zenobia indegna della sua rinomanza, se avesse indolentemente permesso all'Imperator d'Occidente di avvicinarsi dentro le cento miglia verso la sua Capitale. Il destino dell'Oriente fu deciso in due gran battaglie, tanto simili in quasi tutte le circostanze, che possiamo appena distinguere l'una dall'altra, fuorchè osservando, che la prima seguì vicino ad Antiochia[65], e la seconda vicino ad Emesa[66]. In ambedue, la Regina di Palmira animò gli eserciti con la sua presenza, ed affidò l'esecuzione degli ordini suoi a Zabdas, che già segnalato avea i suoi talenti militari, con la conquista dell'Egitto. Le numerose forze di Zenobia consistevano per la maggior parte in arcieri leggieri ed in cavalleria grave, tutta armata di ferro. I cavalli Mori ed Illirici di Aureliano non poterono resistere all'urto gravissimo dei loro antagonisti. Fuggirono in un vero o simulato disordine; impegnarono i Palmireni in un faticoso inseguimento; gli stancarono con varie piccole scaramucce; e finalmente sconfissero quell'impenetrabile, ma poco agil corpo di cavalleria. L'infanteria leggiera frattanto, quando vote ebbe le faretre, restando senza difesa contro un più stretto assalto, espose i nudi fianchi alle spade delle legioni. Aureliano avea scelto queste truppe veterane ch'erano ordinariamente accampate sulle rive del Danubio superiore, ed il valor delle quali era stato severamente provato nella guerra Alemannica[67]. Fu impossibile a Zenobia, dopo la disfatta di Emesa, di radunare una terza armata. Fino alle frontiere dell'Egitto le nazioni soggette al suo Impero si erano poste sotto l'insegna del vincitore, che mandò Probo, il più valoroso dei suoi Generali, ad impadronirsi delle province egiziane. Palmira fu l'ultimo asilo della vedova di Odenato. Ritiratasi dentro le mura della sua Capitale, fece ogni preparativo per una vigorosa resistenza, e dichiarò con l'intrepidezza di una Eroina, che l'ultimo momento del suo regno lo sarebbe ancora della sua vita.
In mezzo agli sterili deserti dell'Arabia s'innalzano alcuni pochi pezzi di coltivati terreni, quasi isole di quell'Oceano arenoso. Il nome stesso di Tadmor, o Palmira, nella lingua siriaca e nella latina denotava una moltitudine di palme, che davano ombra e verdura a quella temperata regione. Pura era l'aria; ed il suolo, irrigato da alcuni piccoli ruscelli, era capace di produrre frutti e grano. Un luogo, fornito di vantaggi tanto singolari, e situato in giusta distanza[68] tra il golfo Persico ed il Mediterraneo, fu presto frequentato dalle carovane, che portavano alle nazioni Europee una considerabil porzione delle ricche merci dell'India. Palmira divenne insensibilmente una doviziosa ed indipendente città, ed unendo le Monarchie dei Romani e dei Parti cogli scambievoli vantaggi del commercio, potè conservare un'umile indipendenza, finchè alla fine dopo le vittorie di Traiano cadde quella piccola Repubblica in poter di Roma, e fiorì per più di centocinquanta anni nell'onorifico, ma subordinato grado di colonia. Durante questo pacifico periodo, se giudicar si può da poche iscrizioni rimasteci, gli opulenti Palmireni costruirono quei tempj, quei palazzi, quei portici di greca architettura, le cui rovine, sparse per l'estensione di varie miglia, hanno meritata la curiosità dei nostri viaggiatori. Parve che l'esaltazione di Odenato e di Zenobia aggiungesse nuovo splendore alla sua patria, e Palmira per un tempo stette rivale di Roma: ma fu la gara fatale, e molti secoli di prosperità furono sacrificati ad un momento di gloria[69].
Nella sua marcia sull'arenoso deserto tra Emesa e Palmira fu Aureliano continuamente infestato dagli Arabi, nè potè sempre difendere il suo esercito, e specialmente il suo bagaglio da quelle volanti truppe di ladri attivi ed arditi, i quali aspettavano il momento della sorpresa, e deludevano il lento perseguire delle legioni. L'assedio di Palmira fu un oggetto assai più pericoloso ed importante, e l'Imperatore istesso, che con continuo vigore animava in persona gli assalti, venne ferito da un dardo. «Il popolo Romano» (dice Aureliano in una lettera originale) «parla con disprezzo della guerra, che io sostengo contro una donna. Egli non conosce il carattere, nè la potenza di Zenobia. È impossibile di enumerare i suoi bellici preparativi di pietre, di dardi, e di ogni sorta di armi lanciabili. Ogni parte delle mura è munita di due o tre baliste, e dalle sue macchine militari escono fuochi artificiali. Il timor del castigo l'ha armata di un disperato coraggio. Pure io confido tuttavia nelle Deità protettrici di Roma, che sono finora state favorevoli ad ogni mia impresa[70] ». Incerto però della protezione degli Dei e dell'esito dell'assedio, Aureliano stimò più prudente consiglio di offerire articoli di una vantaggiosa capitolazione; alla Regina, un magnifico ritiro; ai Cittadini, i loro antichi privilegi. Furono rigettate ostinatamente le sue offerte, e dall'insulto fu accompagnato il rifiuto.
La costanza di Zenobia era sostenuta dalla speranza, che in breve la fame costringerebbe l'esercito Romano a ripassare il deserto; e dalla ragionevole aspettativa, che i Re dell'Oriente, e specialmente il Monarca Persiano, si armerebbero in difesa della loro più naturale alleata. Ma la fortuna e la perseveranza di Aureliano superarono ogni ostacolo. La morte di Sapore, che accadde verso quel tempo[71], divise i Consigli della Persia, ed i piccoli soccorsi, co' quali si tentò di sollevare Palmira, furono facilmente intercetti o dalle armi, o dalla liberalità dell'Imperatore. Da ogni parte della Siria, una regolar successione di convogli arrivava sicuramente al campo, che fu aumentato pel ritorno di Probo colle vittoriose sue truppe dalla conquista dell'Egitto. Allora fu che Zenobia risolvè di fuggire. Montò essa sul più veloce de' suoi dromedari[72], ed era ormai giunta alle rive dell'Eufrate, quasi sessanta miglia da Palmira, quando fu sopraggiunta dai cavalli leggieri di Aureliano, che l'inseguivano, e presa e ricondotta indietro cattiva ai piedi dell'Imperatore. Subito dopo si arrese la sua Capitale, e fu trattata con inaspettata dolcezza. Le armi, i cavalli e i cammelli, con un immenso tesoro di oro, di argento, di seta e di pietre preziose, tutto fu dato al vincitore, che lasciando solamente una guarnigione di seicento arcieri, ritornò ad Emesa, ed impiegò qualche tempo in distribuire e premj e castighi nel fine di una guerra sì memorabile, la quale restituiva all'ubbidienza di Roma quelle Province, che fino dalla prigionia di Valeriano se n'eran sottratte.
Quando la Regina della Siria fu condotta alla presenza di Aureliano, questi le domandò fieramente, come avesse preteso di armarsi contro gl'Imperatori di Roma? La risposta di Zenobia fu una prudente mescolanza di rispetto e di fermezza. «Perché io sdegnava di riguardare un Aureolo, ed un Gallieno come Imperatori Romani. Riconosco voi solo per mio vincitore e Sovrano[73] ». Ma siccome la fortezza nelle femmine è comunemente artificiale, così rare volte è stabile e consistente. Il coraggio di Zenobia la abbandonò nell'ora del cimento, ella tremò ai rabbiosi clamori de' soldati, che alto chiedevan l'immediata sua morte, obbliò la generosa disperazione di Cleopatra, che si era proposta per suo modello, ed ignominiosamente comprò la vita col sacrifizio della sua fama e dei suoi amici. Ai loro consigli, che governavano la debolezza del suo sesso, essa imputò la colpa dell'ostinata sua resistenza, e sopra le loro teste cader fece la vendetta del crudele Aureliano. La fama di Longino, che fu incluso tra le numerose, e forse innocenti vittime del di lei timore, sopravviverà a quella della Regina, che lo tradì, o del tiranno che lo condannò. La dottrina e l'ingegno erano incapaci di muovere un feroce ed ignorante soldato, ma aveano servito ad elevare ed armonizzare l'animo di Longino. Senza mandare un gemito, seguì egli tranquillamente il carnefice, compiangendo la sua infelice Sovrana, e consolando gli afflitti suoi amici[74].
Nel ritornare dalla conquista dell'Oriente, avea Aureliano già attraversato lo Stretto che divide l'Europa dall'Asia, quando fu irritato dalla notizia che i cittadini di Palmira aveano trucidato il Governatore e la guarnigione da esso ivi lasciata, ed inalberata di nuovo l'insegna della ribellione. Senza deliberare un momento egli volse un'altra volta la faccia verso la Siria. Antiochia fu spaventata dalla rapida di lui marcia, e la misera città di Palmira provò l'irresistibile peso del suo risentimento. Abbiamo una lettera di Aureliano medesimo, nella quale egli confessa[75], che i vecchi, le donne, i fanciulli e gli agricoltori furono involti in quella terribile esecuzione, la quale avrebbe dovuto ristringersi ai soli armati ribelli; e benchè il suo principale interesse sembri diretto al ristauramento di un tempio del Sole, egli mostra qualche compassione pel rimanente dei Palmireni, ai quali concede la permissione di rifabbricare ed abitare la loro città. Ma è più facile distruggere che ristaurare. La sede del commercio, delle arti, e di Zenobia, divenne a poco a poco un'oscura città, una Fortezza di niun conto, e finalmente un miserabil villaggio. Gli attuali cittadini di Palmira, consistenti in trenta o quaranta famiglie, hanno eretto le fangose loro capanne dentro lo spazioso recinto di un magnifico Tempio.
Un'altra ed ultima fatica si preparava all'instancabile Aureliano, di opprimer cioè un pericoloso, benchè oscuro ribelle, che, durante la sollevazion di Palmira, era insorto sulle rive del Nilo. Fermo, amico ed alleato, com'egli stesso superbamente s'intitolava, di Odenato e Zenobia, altro non era che un ricco mercante dell'Egitto. Nel corso del suo commercio nell'India, egli avea stretto amicizia coi Saraceni e coi Blemmi, la cui situazione sull'una e l'altra costa del mar Rosso porgeva loro una facile introduzione nell'Egitto superiore. Egli infiammò gli Egiziani con la speranza della libertà; ed alla testa di quella furiosa moltitudine entrò a forza nella città di Alessandria, dove prese la Porpora Imperiale, fece batter moneta, pubblicò editti, e levò un'armata, che com'egli vanamente vantavasi, potea mantenere col solo profitto del commercio della carta. Tali truppe furono una debol difesa contro Aureliano; e sembra quasi inutile di riferire che Fermo fu sconfitto, preso, tormentato e posto a morte. Poteva allora Aureliano rallegrarsi col Senato, col popolo e con sè stesso, che in poco più di tre anni avea restituito la pace e l'ordine universale al mondo Romano[76].
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Dalla fondazione di Roma in poi, niun Generale avea più degnamente di Aureliano meritato un trionfo; nè mai trionfo alcuno fu celebrato con maggior fasto e magnificenza[77]. Cominciava la pompa con venti elefanti, quattro tigri reali e più di dugento de' più curiosi animali di ogni clima del Settentrione, dell'Oriente e del Mezzogiorno. Erano questi seguitati da milleseicento gladiatori, destinati al crudel divertimento dell'anfiteatro. Le ricchezze dell'Asia, le armi e le insegne di tante vinte nazioni, e la magnifica argenteria e guardaroba della Regina della Siria eran disposte in esatta simmetria o con artificioso disordine. Gli Ambasciatori delle più lontane parti della terra, dell'Etiopia, dell'Arabia, della Persia, della Battriana, dell'India e della China, tutti riguardevoli per i loro ricchi o singolari vestimenti, mostravano la fama e la potenza del Romano Imperatore, che espose parimente alla pubblica vista i doni da lui ricevuti, e particolarmente un gran numero di corone d'oro, offerte dalle riconoscenti città. Le vittorie di Aureliano erano attestate dal lungo treno di schiavi Goti, Vandali, Sarmati, Alemanni, Franchi, Galli, Sirj ed Egizj, che lor malgrado ne seguitavano il trionfo. Ogni popolo era distinto colla sua particolare iscrizione, ed il titolo di Amazzoni fu dato a dieci marziali Eroine della nazione Gotica, che prese furon con le armi in mano[78]. Ma tutti gli occhi, senza curare la moltitudine dei prigionieri, erano fissi sull'Imperator Tetrico, e sulla Regina dell'Oriente. Il primo, insieme col suo figliuolo da lui creato Augusto, portava delle bracche all'uso dei Galli[79], una tunica gialla ed una veste di porpora. La bella Zenobia era avvinta da ceppi d'oro; una schiava sosteneva l'aurea catena, che circondava il di lei collo, ed ella quasi sveniva sotto l'intollerabil peso dei gioielli. Essa precedeva a piedi il magnifico cocchio, sul quale aveva sperato una volta di entrare nelle porte di Roma. Era questo seguito da due altri cocchi, ancor più magnifici, di Odenato e del Monarca Persiano. Il carro trionfale di Aureliano (avea questo per l'avanti servito ad un Re Goto) era tirato in quella memorabile occasione o da quattro cervi o da quattro elefanti[80]. I più illustri fra i Senatori, il popolo e l'esercito chiudevano la processione solenne. Una sincera gioia, la maraviglia e la gratitudine aumentavano le acclamazioni della moltitudine; ma la soddisfazione dei Senatori era amareggiata della comparsa di Tetrico; nè poterono impedire un mormorio, in vedere che il superbo Imperatore esponesse così alla pubblica ignominia la persona di un Romano e di un Magistrato[81].
Ma benchè, nel trattamento de' suoi infelici rivali, soddisfacesse Aureliano la propria superbia, mostrò per essi tuttavia una generosa clemenza, raramente esercitata dagli antichi vincitori. I Principi, che con infelice successo aveano difeso il lor trono, o la lor libertà, erano sovente strangolati in prigione, subito che la pompa trionfale saliva sul Campidoglio. A questi usurpatori, la cui disfatta gli avea convinti del delitto di tradimento, fu permesso di passare la vita nell'opulenza, ed in un onorevol riposo. L'Imperatore regalò a Zenobia una bellissima villa a Tibure ovvero Tivoli, lontana quasi venti miglia dalla Capitale; la Regina della Siria divenne a poco a poco una Matrona Romana; le figliuole di lei si maritarono con persone di famiglie nobili, e la sua discendenza non era ancora estinta nel quinto secolo[82]. Tetrico ed il suo figliuolo furono ristabiliti nel loro grado e nei loro beni. Eressero sul Monte Celio un magnifico palazzo, ed appena fu terminato, invitarono a cena Aureliano. Fu egli al suo ingresso dilettevolmente sorpreso da un quadro rappresentante la loro singolare istoria. Erano essi dipinti, prima in atto di offrire all'Imperatore una corona civica e lo scettro della Gallia, e di poi in atto di ricever dalle mani di lui gli ornamenti della Dignità Senatoria. Ebbe quindi il padre il governo della Lucania[83], ed Aureliano, che presto ammesse il deposto Monarca alla sua amicizia e conversazione, familiarmente gli domandò, se non era più desiderabile l'amministrare una Provincia dell'Italia, che il regnare di là dall'Alpi? Il figliuolo continuò lungamente ad essere un rispettabil membro del Senato; nè vi fu alcuno tra la Nobiltà Romana più stimato da Aureliano, e dai successori di lui[84].
La pompa del trionfo di Aureliano fu così lunga e sì varia, che quantunque cominciasse all'alba, pure la lenta maestà della processione non salì sul Campidoglio prima dell'ora nona; ed era ormai sera quando tornò l'Imperatore al palazzo. La festa fu allungata con teatrali rappresentanze, i giuochi del Circo, la caccia delle fiere, i combattimenti dei gladiatori, e le battaglie navali. Furono all'esercito ed al popolo distribuiti liberali donativi; e varie istituzioni, o grate o utili alla città, contribuirono a perpetuare la gloria di Aureliano. Una considerabil porzione delle sue spoglie Orientali fu consacrata agli Dei di Roma; il Campidoglio, ed ogni altro tempio rilucevano per le offerte della sua fastosa pietà; e il solo tempio del Sole ricevè quasi quindicimila libbre di oro[85]. Quest'ultimo era d'una magnifica struttura, eretto dall'Imperatore sulla falda del Monte Quirinale, e dedicato, subito dopo il trionfo, a quel Nume, che Aureliano adorava come padre della sua vita e delle sue fortune. La madre di lui era stata una sacerdotessa inferiore in una cappella del Sole: una particolar devozione al Dio della Luce era un sentimento imbevuto, fin dall'infanzia, dal fortunato Agricoltore; ed ogni passo della sua elevazione, ogni vittoria del suo regno avvalorava la superstizione con la gratitudine[86].
Le armi di Aureliano aveano vinto gli stranieri e i domestici nemici della Repubblica. Siamo assicurati, che con il suo salutevol rigore, i misfatti e le fazioni, le male arti e la perniciosa connivenza, fecondi germogli di un debole ed oppressivo governo, furono estirpati da tutto il mondo Romano[87]. Ma se riflettiamo attentamente quanto più pronto è il progresso della corruzione, che la guarigione di essa, e se rammentiamo che il numero degli anni, abbandonati ai pubblici disordini, superava quello dei mesi destinati al marzial regno di Aureliano, dobbiam confessare che non bastavano pochi corti intervalli di pace per l'arduo lavoro di una riforma. Il suo tentativo, perfino di ristabilire la bontà della moneta, fu traversato da una formidabile sollevazione. Si scopre l'angustia dell'Imperatore in una delle sue private lettere. «Certamente» (dic'egli) «gli Dei han decretato che la mia vita sia una guerra continua. Una sedizione dentro le mura ha fatto nascere appunto adesso una guerra civile molto seria. Gli artefici della zecca, ad istigazione di Felicissimo, schiavo a cui ho affidato un impiego nelle Finanze, si mossero a ribellione. Son finalmente sedati: ma caddero uccisi nei conflitto settemila dei miei soldati, di quelle truppe, che stanno ordinariamente a quartiere nella Dacia, ed accampate lungo il Danubio[88].» Altri Scrittori, i quali confermano il medesimo fatto, aggiungono altresì che questo accadde subito dopo il trionfo di Aureliano; che la decisiva zuffa seguì sul Monte Celio; che i lavoranti della zecca aveano adulterata la moneta; che l'Imperatore ristabilì la pubblica fede, col dare moneta buona in cambio della cattiva, cui il popolo fu obbligato di portar al tesoro[89].
Potremmo contentarci di riferire questo straordinario fatto, ma non possiamo dissimulare quanto nella presente sua forma ci sembra insussistente e incredibile; La deteriorazione della moneta è, per vero dire, convenientissima all'amministrazione di Gallieno, nè improbabile sembra che gli strumenti della corruzione paventassero l'inflessibil giustizia di Aureliano. Ma la colpa, come il profitto, dovea restringersi a pochi, nè facile è il concepire con quali arti potevano armare un popolo da loro offeso, contro un Monarca da loro tradito. Dovrebbe naturalmente aspettarsi che questi traditori incorressero la pubblica detestazione, come i delatori e gli altri ministri della oppressione; e che la riforma della moneta fosse un'azione ugualmente popolare che la distruzione di quegli antichi conti, che furono per ordine dell'Imperatore bruciati nel Foro di Traiano[90]. In un secolo, nel quale i principj del commercio erano così imperfettamente conosciuti, il fine più desiderabile potea forse ottenersi con mezzi rigorosi e imprudenti; ma un passeggiero gravame di tal natura può appena eccitare e mantenere una seria guerra civile. Il rinnovamento di tasse insopportabili, imposte o su i terreni o su i generi necessari alla vita, può finalmente concitare quelli che o non vogliono o non possono abbandonare la patria. Ma il caso è molto diverso in ogni operazione, che per qualsivoglia mezzo ristabilisce il giusto valore della moneta. Il male passeggiero è presto dimenticato per l'utile permanente, lo scapito va diviso fra molti; e se pochi opulenti individui soffrono una sensibil diminuzione di ricchezze, perdono insieme con queste quel grado di peso e d'importanza, che traevano dal possedimento delle medesime. In qualunque maniera volesse Aureliano nascondere la vera causa della ribellione, la sua riforma della moneta poteva fornire solamente un debol pretesto ad un già potente e malcontento partito. Roma, benchè priva della libertà, era lacerata dalle fazioni. Il popolo, per cui l'Imperatore, plebeo egli stesso, sempre professava una particolar tenerezza, viveva in continue dissensioni col Senato, coll'Ordine Equestre, e coi Pretoriani[91]. Niente meno che la ferma, benchè segreta congiura di questi ordini, dell'autorità del primo, dell'opulenza del secondo, e delle armi dei terzi, avrebbe potuto spiegare una forza bastante per contendere in battaglia con le veterane legioni del Danubio, che sotto la condotta di un Sovrano guerriero aveano compita la conquista dell'Oriente e dell'Occidente.
Qualunque fosse il motivo o l'oggetto di questa sollevazione, imputata con tanto poca probabilità ai lavoranti della zecca, Aureliano usò della sua vittoria con implacabil rigore[92]. Egli era naturalmente di temperamento severo. Le fibre di un contadino o d'un soldato non cedeano facilmente alle impressioni della pietà, ed egli potea senza commuoversi sostenere la vista dei tormenti e della morte. Allevato dalla prima sua gioventù nell'esercizio delle armi, egli valutava troppo poco la vita di un cittadino, castigava con militari esecuzioni le più leggiere offese, e portava la rigida disciplina del campo nella civile amministrazione delle leggi. Il suo amore della giustizia divenne sovente una cieca e furiosa passione; ed ogni volta ch'egli credè in pericolo la pubblica o la propria salvezza, non ebbe riguardo alle regole delle prove, ed alla proporzion delle pene. La non meritata ribellione, con la quale i Romani ricompensavano i di lui servigi, esacerbò l'altero suo animo. Le più nobili famiglie della Capitale furono involte nella colpa o nel sospetto di quella oscura cospirazione. Un precipitoso spirito di vendetta affrettò la sanguinosa persecuzione, e divenne fatale ad uno dei nipoti dell'Imperatore medesimo. Gli esecutori (per adoprare l'espressione di un contemporaneo Poeta) erano stanchi, i prigionieri affollati dentro le carceri, e l'infelice Senato deplorava la morte o l'assenza dei suoi membri più riguardevoli[93]. Nè la superbia di Aureliano fu meno dannosa della sua crudeltà per quella assemblea. Non conoscendo o non soffrendo il freno delle civili instituzioni, sdegnò di dovere la sua autorità ad alcun altro titolo che a quello della spada, e governò col diritto di conquista un Impero da lui salvato e soggiogato[94].
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Osservò uno dei più sagaci Principi di Roma, che i talenti del suo predecessore Aureliano erano più atti al comando di un esercito che al governo di un Impero[95]. Conoscendo il carattere nel quale la natura e l'esperienza lo avean renduto eccellente, escì in campo di nuovo, pochi mesi dopo il suo trionfo. Era espediente di occupare gli animi inquieti delle legioni in qualche guerra straniera, ed il persiano Monarca, esultando nella vergogna di Valeriano, insultava tuttavia impunemente l'offesa maestà di Roma. Alla testa di un esercito, meno formidabile pel suo numero che per la disciplina e pel valore, si avanzò Aureliano fino allo Stretto, che divide l'Europa dall'Asia. Egli colà provò che il più assoluto potere è una debol difesa contro gli effetti della disperazione. Avea minacciato uno dei suoi segretari, accusato di estorsione; e già si sapeva che di rado egli minacciava invano. L'ultima speranza, che rimase al colpevole, fu di avvolgere alcuni dei principali Uffiziali dell'esercito nel suo pericolo, o almeno ne' suoi timori. Artificiosamente contraffacendo lo scritto del suo Sovrano, mostrò loro in una lunga e sanguinosa lista i loro nomi consacrati alla morte. Senza sospettare o esaminare la frode, eglino risolverono di assicurar le loro vite con l'uccisione dell'Imperatore. Nella sua marcia, tra Bisanzio ed Eraclea, fu Aureliano improvvisamente assalito dai congiurati, l'impiego dei quali dava loro il diritto di circondare la persona di lui; e dopo una breve resistenza cadde per le mani di Mucapore, Generale ch'egli avea sempre amato e riputato fedele. Egli morì pianto dall'esercito, detestato dal Senato, ma universalmente riconosciuto come un Principe guerriero e fortunato, e come il salutevole, benchè severo, riformatore di un degenerato impero[96].
CAPITOLO XII.
Condotta dell'esercito e del Senato dopo la morte di Aureliano. Regni di Tacito, di Probo, di Caro e dei suoi figli. La condizione degl'Imperatori Romani era tanto infelice, che qualunque si fosse la loro condotta, incontravano ordinariamente il medesimo fato. La vita dissoluta o virtuosa, severa o indulgente, indolente o gloriosa, menava egualmente ad un intempestivo sepolcro; e quasi ogni regno finisce con la stessa disgustosa ripetizione di tradimenti e di stragi. La morte di Aureliano, per altro, è considerabile per le straordinarie sue conseguenze. Le legioni ammirarono, piansero, e vendicarono il vittorioso lor condottiere. L'artifizio del perfido di lui segretario fu discoperto e punito. I cospiratori delusi seguirono le funerali esequie del loro oltraggiato Sovrano con sincero, o ben simulato pentimento, e si sottomisero all'unanime risoluzione dell'ordine militare, la quale fu significata con la seguente lettera. «I valorosi e felici eserciti al Senato ed al Popolo di Roma. Il delitto di un solo e il fallo di molti ci hanno privato dell'ultimo Imperatore Aureliano. Compiacetevi, venerabili Signori e Padri, di collocarlo nel numero degli Dei, e d'indicarci quel successore, che voi giudicherete degno della Porpora Imperiale. Niuno di quelli, che, o per colpa o per caso, hanno contribuito alla nostra perdita, regnerà mai sopra di noi[97].» I Senatori Romani udirono senza sorpresa, che un altro Imperatore era stato assassinato nel suo campo; si rallegrarono internamente della caduta di Aureliano; ma la modesta e rispettosa lettera delle legioni, quando fu dal Console comunicata alla piena assemblea, riempì tutti della più grata sorpresa. Essi liberamente largirono alla memoria del loro estinto Sovrano quegli onori, che il timore e forse la stima avrebbero estorti. Renderono alle fedeli armate della Repubblica, che conservavano un sentimento sì giusto della legittima autorità del Senato nella scelta d'un Imperatore, quei ringraziamenti, che la gratitudine potea inspirare. Ma non ostante questo invito sì lusinghiero, i più savj dell'assemblea evitarono di esporre al capriccio di una moltitudine armata la lor salvezza e la lor dignità. La forza delle legioni era, per vero dire, un pegno della loro sincerità, perchè quelli che possono comandare, di rado sono ridotti alla necessità d'infingere; ma poteva egli naturalmente sperarsi, che un improvviso pentimento correggesse l'inveterato costume d'interi ottant'anni? Se fossero ricaduti i soldati nelle loro solite sedizioni, la loro insolenza poteva disonorare la maestà del Senato, e divenir fatale alla scelta di lui. Simili motivi dettarono un decreto, col quale l'elezione del nuovo Imperatore si rimetteva ai suffragi dell'ordine militare.
La contesa, che quindi nacque, è uno dei più attestati, ma meno verisimili, eventi della storia del Genere Umano[98]. Le truppe, quasi fossero stanche di esercitare la lor forza, fecero nuovamente le loro istanze al Senato, perchè rivestisse della Porpora Imperiale uno del suo proprio corpo. Il Senato persistè sempre nel suo rifiuto, e l'esercito nella sua richiesta. La proposizione fu almen per tre volte scambievolmente offerta e ricusata, e mentre l'ostinata modestia di ciascheduna delle due parti era risoluta di ricevere un Sovrano dalle mani dell'altra, passarono insensibilmente otto mesi: mirabil periodo di tranquilla anarchia, durante il quale il mondo Romano rimase senza un sovrano, senza un usurpatore, e senza pure una sedizione. I Generali ed i Magistrati eletti da Aureliano continuarono ad esercitare le ordinarie loro funzioni, e si osserva che un Proconsole dell'Asia fu la sola riguardevol persona, rimossa dalla sua carica in tutto il corso dell'interregno.
Un quasi simile, ma molto meno autentico, avvenimento si suppone accaduto dopo la morte di Romolo, nella vita e nel carattere del quale si ritrova qualche somiglianza con Aureliano. Il trono restò vacante per dodici mesi, sino all'elezione di un filosofo Sabino; e la pubblica tranquillità si mantenne nel modo istesso, per l'unione dei diversi ordini dello Stato. Ma nei tempi di Numa e di Romolo, l'autorità dei Patrizj teneva a freno le armi del popolo; e facilmente si conservava in una società virtuosa e ristretta la bilancia della libertà[99]. L'Impero Romano nella sua declinazione, molto diverso dalla sua infanzia, si trovava in tutte quelle circostanze, che potevano allontanare da un interregno la speranza dell'ubbidienza e dell'armonia; e queste circostanze erano una Capitale immensa e tumultuosa, una vasta estensione di dominio, la servile eguaglianza del dispotismo, un'armata di quattrocentomila mercenari, e l'esperienza delle frequenti rivoluzioni. Ma non ostanti tutti questi incentivi, la disciplina e la memoria di Aureliano contennero tuttavia la sediziosa indole delle truppe, non meno che la dannosa ambizione de' lor condottieri. Il fiore delle legioni rimase accampato sulle rive del Bosforo, e l'insegna Imperiale mettea rispetto ai meno potenti campi di Roma e delle Province. L'ordine militare parve animato da un generoso benchè passeggiero entusiasmo; ed è credibile che i pochi veri patriotti coltivassero la rinascente amicizia tra l'esercito ed il Senato, come l'unico espediente capace di ristabilir la Repubblica nella sua primiera bellezza e nell'antico vigore.
Ai venticinque di Settembre, quasi otto mesi dopo l'uccisione di Aureliano, il Console adunò il Senato, e riferì l'incerta e pericolosa situazione dell'Impero. Insinuò leggiermente, che la precaria fedeltà dei soldati dipendeva da un solo istante e dal minimo accidente; ma rappresentò con la più convincente eloquenza i vari pericoli che seguitar potevano ogni ulterior dilazione nella scelta di un Imperatore. Si erano, diceva egli, già ricevute notizie, che i Germani aveano passato il Reno, ed occupate alcune delle più forti e più opulente città della Gallia. L'ambizione del Monarca Persiano teneva l'Oriente in continui timori: l'Egitto, l'Affrica e l'Illirico erano esposti all'armi straniere e domestiche, e la Siria incostante avrebbe fin preferito lo scettro di una femmina alla santità delle leggi Romane. Rivoltosi quindi il Console a Tacito, il primo tra i Senatori[100], richiese il parere di lui sull'importante oggetto di un candidato degno del trono vacante.
Se il merito personale è da preferirsi ad una casuale grandezza, stimeremo l'origine di Tacito più nobile veramente di quella dei Re. Vantava egli la sua discendenza da quello Storico filosofico, i cui scritti istruiranno ancora le ultime generazioni degli uomini[101]. Il Senatore Tacito era nell'età di settantacinque anni[102]. Le ricchezze e gli onori adornavano il lungo corso della innocente sua vita. Avea due volte occupata la dignità consolare[103], e godeva con eleganza e sobrietà l'ampio suo patrimonio fra i quattro e i sei milioni di zecchini[104]. L'esempio di tanti Principi da lui o stimati o sofferti, dalle vane follie di Elagabalo fino all'utile rigore di Aureliano, lo aveano ammaestrato a valutar giustamente i doveri, i pericoli, e le tentazioni di quel sublime lor grado. All'assiduo studio del suo immortale antenato egli doveva la conoscenza della Romana costituzione e dell'umana natura. La voce del popolo avea già nominato Tacito come il cittadino più degno dell'Impero[105]. Giunto ai suoi orecchi questo ingrato rumore, lo indusse a ritirarsi in una delle sue ville nella Campania. Avea egli passato a Baia due mesi in una tranquillità deliziosa, quando con ripugnanza ubbidì ai comandi del Console di riprendere l'onorevol suo posto nel Senato, e di assistere co' suoi consigli la Repubblica in tale importante occasione.
Si alzò Tacito per parlare, quando da ogni lato dell'assemblea fu salutato coi nomi di Augusto e d'Imperatore. «Tacito Augusto, gli Dei ti conservino: noi ti eleggiamo per nostro Sovrano, affidando alla tua cura la Repubblica, e il Mondo. Accetta l'Impero dall'autorità del Senato. Esso è dovuto al tuo grado, alla tua condotta, ai tuoi costumi.» Calmato appena il tumulto delle acclamazioni, Tacito tentò di evitare il pericoloso onore, e di esprimere la sua sorpresa, che si eleggesse un uomo vecchio ed infermo per succedere al marzial vigore di Aureliano. «Sono elleno membra queste, Padri coscritti, atte a sostener il peso dell'armi, o ad eseguire gli esercizi del campo? La varietà dei climi, e le asprezze della vita militare presto opprimerebbero un debol temperamento, che si mantien solamente col più delicato riguardo. Bastano appena l'esauste mie forze a soddisfare ai doveri di Senatore: quanto insufficienti sarebbero per le ardue fatiche della guerra e del governo! Potete voi sperare che le legioni rispettino un debol vecchio, che ha passati i suoi giorni all'ombra della pace e del ritiro? Vorreste voi ch'io dovessi una volta piangere la favorevole opinion del Senato?[106] »
La ripugnanza di Tacito, che forse era ingenua, fu combattuta dalla affettuosa ostinazione del Senato. Cinquecento voci ripeterono unite con eloquente confusione, che i Principi più grandi di Roma, Numa, Traiano, Adriano, e gli Antonini, erano ascesi al trono in età molto avanzata, che l'oggetto della loro scelta era lo spirito, non il corpo, il Sovrano, non il soldato, e solamente esigevano da lui, che con la sua prudenza regolasse il valore delle legioni. Queste pressanti e tumultuose istanze furono secondate da un più regolar discorso di Mezio Falconio, che accanto a Tacito sedeva tra i Consolari. Egli rammentò all'assemblea i mali, che Roma avea sofferti dai vizi degl'indocili e capricciosi giovani Principi, si congratulò col Senato per l'elezione di un virtuoso e sperimentato Senatore, e con maschia, ma forse interessata, libertà esortò Tacito a rammentarsi i motivi del suo innalzamento, ed a scegliersi un successore non nella sua propria famiglia, ma nella Repubblica. Fu il discorso di Falconio avvalorato da una generale acclamazione. L'eletto Imperatore si sottomise all'autorità della sua patria, e ricevè il volontario omaggio de' suoi compagni. La condotta del Senato fu confermata dal consenso del Popolo Romano e dei Pretoriani[107].
Il governo di Tacito non fu diverso dalla passata sua vita e da' suoi principj. Creatura riconoscente del Senato, egli considerò quel Concilio della Nazione come autore delle leggi, e sè medesimo come soggetto all'autorità di quelle[108]. Procurò di saldare le molte ferite, che l'orgoglio Imperiale, la discordia civile e la violenza militare aveano portate alla costituzione, e di ristabilire almeno l'immagine dell'antica Repubblica, com'era stata conservata dalla politica di Augusto, e dalle virtù di Traiano e degli Antonini. Non sarà inutile di enumerare alcune delle più importanti prerogative, che parve aver ricuperate il Senato per l'elezione di Tacito[109]. I. Di affidare ad uno dei suoi membri, sotto il titolo d'Imperatore, il general comando degli eserciti, ed il governo delle Province di frontiera. II. Di fissare la lista o, come allor si chiamava, il Collegio dei Consoli. Questi erano dodici, che, succedentisi a due a due per ogni bimestre, rappresentavano per tutto l'anno la dignità di quell'antica magistratura. Esercitava il Senato nella scelta dei Consoli la sua autorità con una libertà così indipendente, che non ebbe alcun riguardo ad una irregolar istanza dell'Imperatore pel suo fratello Floriano. «Il Senato» (esclamò Tacito con un nobil trasporto da cittadino) «conosce il carattere di quel Principe, ch'egli ha scelto.» III. Di destinare i Proconsoli ed i Presidenti delle Province, e di conferire a tutti i Magistrati la loro civile giurisdizione. IV. Di ricever gli appelli per l'uffizio intermedio del Prefetto della Città da tutti i tribunali dell'Impero. V. Di dar forza e validità coi suoi decreti agli editti Imperiali ch'esso approvava. VI. A questi diversi rami di autorità si può aggiungere qualche sopraintendenza alle finanze, giacchè anche sotto la severa dominazion di Aureliano aveva il Senato la facoltà d'impiegare in altr'uso una parte dell'entrate, destinate al servizio pubblico[110].
Furono immediatamente spedite lettere circolari a tutte le principali città dell'Impero, Treveri, Milano, Aquileia, Tessalonica, Corinto, Atene, Antiochia, Alessandria, e Cartagine, per esigere la loro ubbidienza, ed informarle della felice rivoluzione, che avea restituita al Senato Romano l'antica sua dignità. Due di queste lettere si conservano ancora. Abbiamo altresì due ben singolari frammenti della privata corrispondenza dei Senatori in questa occasione. Mostrano la più eccessiva gioia, e le più illimitate speranze. «Ponete giù la vostra indolenza» (così scrive uno dei Senatori al suo amico) «ed uscite dal vostro ritiro di Baia e di Pozzuolo. Restituitevi alla Città ed al Senato. Roma fiorisce, e tutta insieme fiorisce la Repubblica. Grazie al romano esercito, veramente Romano, abbiam finalmente ricuperata la nostra giusta autorità, lo scopo di tutti i nostri desiderj. Noi riceviamo gli appelli, destiniamo i Proconsoli, facciamo gl'Imperatori; forse ancora noi li potremo tenere in freno: all'uomo saggio una parola è bastante.[111] » Restarono per altro sconcertate ben presto queste alte speranze, nè di fatto era possibile, che le armate, e le province lungamente ubbidissero all'imbelle ed effeminata nobiltà romana. Al più leggiero urto rimase atterrato il mal sostenuto edifizio della loro ambizione e del loro potere. La spirante autorità del Senato mandò una subita luce, balenò per un momento, e si estinse per sempre.
Ma tutto ciò ch'era accaduto in Roma, non sarebbe stato che una rappresentazione teatrale, se non veniva ratificato dalla forza più reale delle legioni. Lasciando godere ai Senatori il loro fantasma di libertà e di ambizione, andò Tacito al campo di Tracia, ed ivi fu dal Prefetto del Pretorio presentato alle truppe adunate, come il Principe da loro richiesto, e dal Senato concesso. Appena tacque il Prefetto, che l'Imperatore parlò ai soldati con eloquenza e con dignità. Soddisfece alla loro avarizia con una liberale distribuzion di danaro, sotto nome di paga e di donativo. Egli acquistò la stima loro con un'animosa dichiarazione che sebbene la sua età lo rendesse inabile alle imprese militari, pure i suoi consigli non sarebbero indegni di un Generale Romano, del successore del valoroso Aureliano[112].
Nel tempo che quest'Imperatore faceva preparativi per una seconda spedizione in Oriente, egli aveva trattato con gli Alani, popoli della Scizia, i quali avevano piantate le loro tende nelle vicinanze della Palude Meotide. Quei Barbari, allettati con promesse di doni e di sussidj, si erano obbligati d'invadere la Persia con un numeroso corpo di cavalleria leggiera. Furono essi fedeli al loro impegno; ma quando giunsero alla frontiera Romana, era già morto Aureliano, il progetto della guerra Persiana era almeno sospeso, ed i Generali, che, durante l'interregno, esercitavano un incerto potere, non erano preparati nè a riceverli, nè ad arrestarli. Provocati da un tal contegno, ch'essi riguardavano come perfido e vile, ricorsero gli Alani al loro proprio valore per avere e paga e vendetta; e marciando con la solita celerità dei Tartari, presto si sparsero per le Province del Ponto, della Cappadocia, della Cilicia, e della Galazia. Le legioni, che dalle opposta rive del Bosforo potevan quasi discernere le fiamme delle città e dei villaggi, stimolavan con impazienza il lor Generale a condurle contro quegli invasori. Tacito si diportò convenientemente alla sua età ed alla sua posizione. Mostrò chiaramente ai Barbari la fedeltà e la potenza dell'Impero. Gran parte degli Alani, pacificati dalla puntuale soddisfazione degl'impegni, che avea con essi contratti Aureliano, renderono il loro bottino ed i prigionieri, e quietamente si ritirarono nei loro deserti di là dal Fasi. Agli altri, che ricusarono la pace, fece il Romano Imperatore in persona con buon successo la guerra. Secondato da un esercito di valorosi ed esperti veterani, ei liberò in poche settimane le Province dell'Asia dal terrore della invasion degli Sciti[113].
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Ma la gloria e la vita di Tacito furono di poca durata. Trasportato nel colmo del verno dalla dolce solitudine della Campania ai piedi del monte Caucaso, fu egli oppresso dagl'insoliti travagli di una vita militare. Le cure dell'animo aggravarono le fatiche del corpo. L'entusiasmo della pubblica virtù avea per un tempo sedate le feroci ed interessate passioni dei soldati. Scoppiarono queste ben presto con raddoppiata violenza, ed infuriarono nel campo e nella tenda perfino del vecchio Imperatore. Il suo dolce e moderato carattere non serviva che ad inspirare disprezzo, ed egli era continuamente tormentato dalle fazioni, che sedar non poteva, e da richieste impossibili a soddisfarsi. Non ostanti le lusinghiere speranze che Tacito avea concepite di rimediare ai pubblici disordini, egli fu presto convinto, che la sfrenatezza dell'esercito deprezzava il debol ritegno delle leggi; e il dolore di veder volti in male i suoi disegni, unito all'altre angustie, affrettò gli ultimi suoi momenti. Si dubita se i soldati imbrattassero le loro mani nel sangue di questo innocente Principe[114]; ma è certo però, che la loro insolenza cagionò la morte di lui. Egli spirò a Tiana nella Cappadocia, dopo un regno di soli sei mesi e quasi venti giorni[115].
Tacito avea chiusi appena gli occhi, che il suo fratello Floriano si mostrò indegno del trono colla frettolosa usurpazione della Porpora, senza aspettare l'approvazion del Senato. Il rispetto per la Romana costituzione, che tuttavia influiva nelle armate o nelle Province, era abbastanza forte per disporle a biasimare la precipitosa ambizione di Floriano, ma non per incitarle ad opporvisi. Sarebbe il disgusto svanito in vani susurri, se il General dell'Oriente, l'eroico Probo, non si fosse arditamente dichiarato vendicator del Senato. Era per altro sempre la contesa ineguale, nè potea il più abile Generale alla testa delle effemminate truppe dell'Egitto e della Siria, combattere con alcuna speranza di vittoria, contro le legioni dell'Europa, che con irresistibil valore sembravano sostenere il fratello di Tacito. Ma la fortuna e l'attività di Probo superarono ogni ostacolo. I robusti veterani del suo rivale, avvezzi ai climi più freddi, illanguidivano e venivano meno agli eccessivi calori della Cilicia, dove l'aria nella state era molto malsana. Le frequenti diserzioni diminuivano il loro numero: i passi delle montagne erano debolmente difesi. Tarso aprì le sue porte, ed i soldati di Floriano, dopo avergli lasciato godere per tre mesi il titolo Imperiale, liberarono l'Impero da una guerra civile col facile sacrifizio di un Principe da loro sprezzato[116].
Le continue rivoluzioni del trono aveano sì bene sbandita ogni idea di ereditario diritto, che la famiglia di un Imperatore sfortunato era incapace di eccitare la gelosia dei suoi successori. Fu ai figli di Tacito e di Floriano permesso di scendere allo stato privato, e di restar confusi nella generale massa del popolo. La loro povertà veramente servì d'un'altra difesa alla loro innocenza. Quando fu Tacito eletto dal Senato, egli consacrò al pubblico servizio l'ampio suo patrimonio[117], atto di speciosa generosità in apparenza, ma che evidentemente svelava la sua intenzione di trasmettere l'Impero ai suoi discendenti. L'unica consolazione del loro caduto stato fu la memoria di una passeggiera grandezza, e la lontana speranza, figlia di una profezia lusinghiera, che sorgerebbe dopo mille anni dalla stirpe di Tacito un Monarca protettor del Senato, ristauratore di Roma, e conquistatore di tutta la terra[118].
I contadini dell'Illirico, che già dato aveano al cadente Impero e Claudio e Aureliano, poterono con egual diritto gloriarsi dell'innalzamento di Probo[119]. Quasi venti anni avanti, l'Imperator Valeriano, con la solita sua penetrazione, avea conosciuto il nascente merito di quel giovane soldato, al quale conferì il posto di Tribuno molto innanzi all'età prescritta dalle regole militari. Il Tribuno giustificò ben presto la di lui scelta con una vittoria sopra un gran corpo di Sarmati, nella quale salvò la vita ad uno stretto parente di Valeriano, e meritò di ricevere dalle mani dell'Imperatore le collane, i monili, le lance e le insegne, la corona murale e la civica, e tutte le onorevoli ricompense destinate dall'antica Roma ad un fortunato valore. La terza legione, e quindi la decima furono affidate al comando di Probo, che ad ogni passo della sua promozione si mostrò superiore al posto ch'egli occupava. L'Affrica ed il Ponto, il Reno, il Danubio, l'Eufrate ed il Nilo gli porsero a vicenda le più luminose occasioni di mostrare il suo valor personale e la sua scienza nell'arte della guerra. A lui fu debitore Aureliano della conquista dell'Egitto, e molto più per l'onesto coraggio, col quale si oppose sovente alla crudeltà del suo Sovrano. Tacito, che desiderava di supplire alla sua propria mancanza di militari talenti con l'abilità de' suoi Generali, lo nominò primo Comandante di tutte le Orientali Province col quintuplo della solita paga, colla promessa del Consolato, e colla speranza del trionfo. Quando Probo salì sul Trono Imperiale era nell'età di quasi[120] quarantaquattr'anni, nel pieno possesso della sua gloria, dell'amor dell'esercito, e di un maturo vigore di corpo e di spirito.
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Il riconosciuto suo merito ed il buon successo delle sue armi contro Floriano, lo lasciarono senza un nemico, o senza un competitore. Pure, se creder si debbono le sue proprie proteste, ben lungi dal desiderare l'Impero, egli lo aveva accettato con sincerissima ripugnanza. «Ma non è più in mio potere (dice Probo in una sua privata lettera) di deporre un titolo così invidiato e pericoloso. Mi è forza di continuare a rappresentare il carattere, di cui mi hanno rivestito i soldati[121].» La rispettosa sua lettera al Senato mostrava i sentimenti, o almeno il linguaggio di un cittadino Romano. «Quando voi eleggeste, o Padri coscritti, uno del vostro Ordine per succedere all'Imperatore Aureliano, operaste secondo la vostra giustizia e la vostra prudenza. Imperocchè voi siete i Sovrani legittimi del mondo, ed il potere, trasmessovi dai vostri antenati, passerà nella vostra posterità. Felice Floriano! Se invece di usurpar la porpora del suo fratello, come una privata eredità, egli avesse aspettato che la vostra maestà si fosse determinata in favore o di lui, o di alcun'altra persona. I prudenti soldati hanno punita la temerità di lui, ed a me hanno offerto il titolo di Augusto. Ma io sottopongo alla vostra clemenza i miei diritti ed i meriti miei[122].» Quando fu letta dal Console questa rispettosa lettera, non poterono i Senatori nascondere il loro contento, che Probo condescendesse a domandare così umilmente uno scettro che già possedeva. Celebrarono essi con la più viva gratitudine le virtù, le imprese, e soprattutto la moderazione di lui. Fu immediatamente fatto un decreto, senza pure un voto contrario, per ratificare l'elezione degli eserciti d'Oriente e per conferire al lor capo tutti i diversi rami della Imperial Dignità, i nomi di Cesare e di Augusto, il titolo di Padre della Patria, il diritto di fare al Senato in un giorno tre diverse proposizioni[123], l'uffizio di Pontefice Massimo, la potestà tribunizia e l'autorità proconsolare; formula d'investitura, che benchè sembrasse moltiplicare l'autorità dell'Imperatore, non faceva ch'esprimere la costituzione dell'antica Repubblica. Corrispose tutto il Regno di Probo alla sua bella aurora. Fu rilasciata al Senato la civile amministrazione dell'Impero. Il fido suo Generale sostenne l'onore dell'armi Romane, e spesso pose ai piedi di quell'assemblea corone d'oro e barbarici trofei, frutti delle sue numerose vittorie[124]. Pure, mentr'egli contentava la vanità dei Senatori, ne deve in secreto aver disprezzata l'indolenza e la debolezza. Benchè potessero ad ogni momento abolire il disonorevole editto di Gallieno, i superbi successori degli Scipioni pazientemente soffrirono di essere esclusi da tutti gl'impieghi militari. Conobbero ben presto, che chi ricusa la spada, deve ancora rinunziare allo scettro.
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La forza di Aureliano avea per ogni parte oppressi i nemici di Roma. Parve che dopo la morte di lui risuscitassero più fieri e più numerosi. Furono essi vinti di nuovo dalla vigorosa attività di Probo, che nel corto regno di quasi sei anni[125] agguagliò la fama degli antichi Eroi, e ristabilì la pace e l'ordine in ogni Provincia del Mondo Romano. Così saldamente assicurò la pericolosa frontiera della Rezia, che la lasciò senza il sospetto neppur di un nemico. Egli abbattè l'erranti forze delle Tribù de' Sarmati, e col terror delle armi sue costrinse que' Barbari a desistere dalle rapine. Chiesero ardentemente i Goti l'alleanza di un Imperatore così bellicoso[126]. Egli assalì gl'Isaurici nelle loro montagne, assediò e prese vari de' loro più forti castelli[127], e si lusingò di aver soggiogato per sempre un domestico nemico, la cui indipendenza portava così profonde ferite alla maestà dell'Impero. I torbidi, eccitati nel superiore Egitto dell'usurpator Fermo, non eran mai stati perfettamente sedati, e le città di Tolemaide e di Copto, sostenute dall'alleanza dei Blemmi, mantenevano tuttavia una ribellione oscura. Il castigo di queste e de' loro ausiliari selvaggi del Mezzogiorno si dice che spaventasse la Corte di Persia[128], ed il Gran Re supplicò invano per ottenere l'amicizia di Probo. La maggior parte delle imprese, che ne illustrarono il regno, debbonsi al valor personale, ed alla condotta dell'Imperatore, talchè lo Scrittore della vita di lui manifesta qualche maraviglia, come in sì breve tempo potesse un sol uomo esser presente a tante guerre lontane. Egli affidò le altre imprese alla cura de' suoi Generali, la giudiziosa scelta de' quali forma una parte considerabile della sua gloria. Caro, Diocleziano, Massimiano, Costanzo, Galerio, Asclepiodoto, Annibaliano, ed un numero di altri Capi, i quali di poi occuparono o sostennero il trono, furono educati nell'armi, e nella severa scuola di Aureliano e di Probo[129].
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Ma il più importante servigio, che Probo rendesse alla Repubblica, fu di aver liberata la Gallia, e ricuperate settanta floride città oppresse dai Barbari della Germania, i quali dopo la morte di Aureliano aveano impunemente desolata quella vasta Provincia[130]. Tra la varia moltitudine di quei feroci invasori si possono con qualche chiarezza distinguere tre grandi armate, o piuttosto nazioni successivamente vinte dal valore di Probo. Egli rispinse i Franchi nelle loro paludi; circostanza dimostrativa, dalla quale possiamo inferire, che la confederazione, conosciuta sotto il generoso nome di liberi, già occupava il basso paese marittimo diviso e quasi coperto dalle stagnanti acque del Reno; e che diverse Tribù dei Frisi e dei Batavi si erano unite alla loro alleanza. Egli vinse i Borgognoni, considerabil nazione della razza dei Vandali. Erano essi andati vagando in traccia di bottino dalle rive dell'Oder a quelle della Senna. Si stimarono assai felici di comprare con la restituzione di tutte le loro prede la permissione di un sicuro ritorno. Tentarono essi di eludere quell'articolo del trattato. Il loro castigo fu immediato e terribile[131]. Ma di tutti gl'invasori della Gallia, i più formidabili erano i Ligj, nazione lontana, che possedeva un vasto dominio sulle frontiere della Polonia e della Slesia[132]. Tra questi gli Arj tenevano il primo posto pel loro numero e per la loro fierezza. «Gli Arj» (così sono essi descritti dall'energia di Tacito) procurano di accrescere con l'arte e colle circostanze del tempo il natural terrore della loro fierezza. Neri sono gli scudi loro, e tinti di nero i lor corpi. Scelgono per combattere l'ora più oscura della notte. Il lor esercito si avanza coperto quasi da un'ombra funerea[133]; e trova di rado un nemico capace di sostenere un sì strano aspetto ed infernale. Gli occhi sono i primi di tutti i sensi ad esser vinti in battaglia[134].» Pure le armi e la disciplina dei Romani facilmente sconfissero quegli orridi spettri. I Ligj furon disfatti in un generale combattimento, e Sennone, il più rinomato dei loro capi, cadde vivo nelle mani di Probo. Questo prudente Imperatore non volendo ridurre un popolo coraggioso alla disperazione, gli accordò una capitolazione onorevole, e gli permise di ritornar sicuramente al suo nativo paese. Ma le perdite, che i Ligj soffersero nella marcia, nella battaglia e nella ritirata abbatterono il potere della nazione; nè il nome loro si trova più ripetuto nella storia della Germania o dell'Impero. Si racconta che la liberazione della Gallia costasse la vita a quattrocentomila degl'invasori; impresa faticosa per li Romani, e dispendiosa per l'Imperatore, che donò una moneta d'oro per ogni Barbaro ucciso[135]. Ma siccome la fama de' guerrieri si fabbrica sopra la distruzione dell'uman genere, si può naturalmente sospettare che quel sì sanguinoso calcolo fosse moltiplicato dall'avarizia dei soldati, ed accettato senza alcun severo esame dalla liberale vanità di Probo.
Dopo la spedizione di Massimino, i Generali Romani aveano limitata la loro ambizione ad una guerra difensiva contro le nazioni della Germania, che perpetuamente tribolavano le frontiere dell'Impero. Il più ardito Probo proseguì le sue vittorie, passò il Reno, e portò le sue invincibili aquile sulle rive dell'Elba e del Necker. Era egli pienamente convinto, che niente poteva indurre l'animo dei Barbari alla pace, se non provavano nel proprio lor paese le calamità della guerra. La Germania spossata dal cattivo successo dell'ultima emigrazione, rimase sbigottita alla presenza di Probo. Nove de' più considerabili Principi si portarono al di lui campo, e se gli gettarono ai piedi. Accettarono umilmente i Germani le condizioni che piacque di dettare al vincitore. Volle egli una esatta restituzione delle spoglie e dei prigionieri levati alle Province; ed obbligò i loro magistrati a punire i predatori più ostinati, che pretendevano di ritenere qualche parte del bottino. Un considerabil tributo di grano, di armenti e di cavalli, sole ricchezze dei Barbari, fu riservato per l'uso delle guarnigioni, che Probo stabilì sulle frontiere del lor territorio. Avea egli altresì qualche pensiero di costringere i Germani ad abbandonare l'esercizio delle armi, ed a rimettere le loro contese e la loro sicurezza alla giustizia ed alla potenza di Roma. Per eseguire questi salutevoli progetti era indispensabilmente necessaria la residenza perpetua di un Governatore Imperiale, sostenuto da numerosa armata. Probo pertanto credè più espediente di differire l'esecuzione di un disegno sì grande, ch'era per vero dire di utilità più apparente che solida[136]. Riducendo la Germania alla condizione di Provincia, avrebbero i Romani con fatiche e spese immense acquistato soltanto un circondario più esteso da potersi difendere contro i più feroci o più attivi Barbari della Scizia.
In vece di ridurre i bellicosi Germani allo stato di sudditi, Probo si contentò dell'umile espediente d'innalzare un baluardo contro le loro incursioni. Il paese, che forma adesso il circolo della Svevia, era stato lasciato deserto nel secolo di Augusto per l'emigrazione degli antichi suoi abitatori[137]. La fertilità del suolo presto vi trasse una nuova colonia dalle adiacenti province della Gallia. Varie trame di venturieri di un rapace carattere e di disperate fortune, occuparono quella incerta possessione, e riconobbero col pagamento della decima la maestà dell'Impero[138]. Per proteggere questi nuovi sudditi, fu a poco a poco tirata una linea di guarnigioni, che dovea servir di frontiera dal Reno al Danubio. Verso il regno di Adriano, quando cominciò a praticarsi quella maniera di difese, furono queste guarnigioni tra loro connesse, e coperte da una forte trinciera di alberi e di palizzate. In vece di quel rozzo baluardo, vi costruì l'Imperator Probo un muro di pietra di considerabile altezza, e fortificato con torri a convenienti distanze. Dalle vicinanze di Newstadt e di Ratisbona sul Danubio si stendeva a traverso i monti, le valli, i fiumi e le paludi fino a Wimpfen sul Necker, e terminava finalmente sulle rive del Reno, dopo un tortuoso corso di quasi dugento miglia[139]. Questa importante barriera, congiungendo i due gran fiumi, che difendevano le province dell'Europa, pareva occupare lo spazio voto, pel quale poteano i Barbari, e specialmente gli Alemanni, penetrare con la maggior facilità nel cuor dell'Impero. Ma l'esperienza del mondo, dalla China alla Britannia, ha mostrato inutile il tentativo di fortificare un esteso tratto di paese[140]. Un attivo nemico che può scegliere e variare i punti di attacco, dee finalmente scoprire un luogo debole, e profittare d'un momento d'innavvertenza. La forza non meno che l'attenzione dei difensori è divisa; e tali son gli effetti di un cieco terrore sulle truppe più salde, che una linea rotta in un sol posto è quasi in un istante tutta abbandonata. Il destino del muro eretto da Probo può confermare l'osservazion generale. Pochi anni dopo la morte di lui, esso fu rovesciato dagli Alemanni. Le sparse rovine, universalmente attribuite alla potenza del Demonio, servono adesso soltanto ad eccitare la maraviglia del contadino della Svevia.
Tra le utili condizioni di pace, imposte da Probo alle vinte nazioni della Germania, vi era l'obbligazione di somministrare all'esercito Romano sedicimila uomini, scelti dalla gioventù più valorosa e robusta. L'Imperatore li disperse per tutte le Province, e distribuì questo pericoloso rinforzo in piccole bande, ciascuna di cinquanta o sessanta uomini fra le truppe nazionali; procurando giudiziosamente che fosse sensibile, ma non visibile l'aiuto, che la Repubblica traeva dai Barbari[141]. Era questo divenuto ormai necessario. I molli abitatori dell'Italia e delle Province interne non potevano più sostenere il peso delle armi. Le robuste nazioni situate sulle frontiere del Reno e del Danubio davano ancora animi e corpi adattati alle fatiche del campo; ma una continua serie di guerre avea a poco a poco diminuito il lor numero. La rarità dei matrimonj, o la rovina dell'agricoltura, s'opponevano ai principj della popolazione, e distruggevano non solo la forza delle generazioni presenti, ma toglievano la speranza ancora delle future. La sapienza di Probo abbracciò il vasto ed utile disegno di ripopolare l'esauste frontiere con nuove colonie di Barbari schiavi o fuggitivi, ai quali egli diede e terreno e bestiami, ed istrumenti di agricoltura, ed ogni incoraggiamento che potesse impegnarli ad allevare una razza di soldati pel servizio della Repubblica. Egli trasferì un considerabil corpo di Vandali nella Britannia, e probabilmente nella Provincia di Cambridge[142]. L'impossibilità della fuga fece che si adattassero alla loro situazione, e nelle susseguenti turbolenze di quell'isola si mostrarono fedelissimi sudditi dello Stato[143]. Un gran numero di Franchi e di Gepidi fu stabilito sulle rive del Danubio e del Reno. Centomila Bastarni, cacciati dalla lor patria, accettarono allegramente uno stabilimento nella Tracia, e presto contrassero i costumi ed i sentimenti di sudditi romani[144]. Ma troppo spesso furono deluse le speranze di Probo. L'impazienza e la pigrizia dei Barbari mal poteano sopportare le lente fatiche dell'agricoltura. Il loro indomabile spirito di libertà sollevandosi contro il dispotismo, li eccitò a precipitose ribellioni, ugualmente fatali ad essi, che alle Province[145]; nè poterono questi artificiali rinforzi, benchè replicati dai successivi Imperatori, rendere all'importante frontiera della Gallia e dell'Illirico l'antico suo nativo vigore.
Di tutti i Barbari, che abbandonarono i nuovi loro stabilimenti, e disturbarono la pubblica tranquillità, un piccolissimo numero ritornò al suo nativo paese. Poterono per breve tempo vagare armati per l'Impero; ma furono al fine sicuramente distrutti dalla potenza di un Imperator bellicoso. La fortunata temerità di una truppa di Franchi fu accompagnata da conseguenze sì memorabili da non doversi passare in silenzio. Probo gli avea stabiliti sulle coste del Ponto, colla mira di rinforzare quella frontiera contro lo irruzioni degli Alani. Una flotta, che fissa stava nei porti dell'Eusino, cadde nelle mani dei Franchi; ed essi risolverono di cercare una strada per mari incogniti dalla foce del Fasi a quella del Reno. Fuggirono essi facilmente a traverso il Bosforo e l'Ellesponto, ed incrociando lungo il Mediterraneo, la loro sete di vendetta e di rapina con frequenti sbarchi su i lidi dell'Asia, della Grecia o dell'Affrica, che non sospettavano una incursione. La ricca città di Siracusa, nel cui porto erano state una volta calate a fondo le flotte di Atene e Cartagine, fu saccheggiata da un pugno di Barbari, che trucidarono la maggior parte de' tremanti abitatori. Dalle isole della Sicilia si avanzarono i Franchi alle Colonne di Ercole, e fidandosi all'Oceano costeggiarono la Spagna e la Gallia, e dirigendo trionfanti il loro corso pel canale Britannico, terminarono finalmente il sorprendente loro viaggio, approdando sicuri ai lidi della Batavia o della Frisia[146]. L'esempio del loro felice successo, insegnando ai loro concittadini a concepire i vantaggi, e a disprezzare i pericoli del mare, additò al loro spirito intraprendente una nuova strada alla ricchezza e alla gloria.
Non ostante la vigilanza e l'attività di Probo, era quasi impossibile ch'egli potesse nel tempo stesso contenere nell'ubbidienza ogni parte del suo tanto esteso dominio. I Barbari, che ruppero le loro catene, presa aveano la favorevole occasione di una guerra domestica. Quando mosse l'Imperatore al soccorso della Gallia, affidò a Saturnino il comando dell'Oriente. Questo Generale, uomo di merito e di esperienza, fu indotto a ribellarsi dalla lontananza del suo Sovrano, dalla leggierezza degli Alessandrini, dalle premurose istanze degli amici, e dai suoi propri timori; ma dal primo momento della sua elevazione non mantenne mai alcuna speranza di conservarsi l'Impero, oppure la vita. «Ah!» diss'egli, «la Repubblica ha perduto un util suddito, e la temerità di un momento ha distrutto i servigi di molt'anni. Voi non conoscete (egli continuò) le angustie del sovrano potere; sta sempre sospesa sul nostro capo una spada; paventiamo le stesse nostre guardie, e diffidiamo dei nostri compagni. Non è più in nostro arbitrio l'operare o stare in riposo, nè vi è età, carattere, o condotta veruna, che ci metta al coperto della censura dell'invidia. Innalzandomi in tal guisa al trono, condannato mi avete a una vita angustiosa, e ad un fine immaturo. L'unica consolazione che mi resta, è la sicurezza che non caderò solo[147].» Ma come la prima parte della sua predizione fu verificata dalla vittoria, così fu la seconda smentita dalla clemenza di Probo. Questo buon Principe tentò persino di salvare l'infelice Saturnino dal furor dei soldati. Avea egli più di una volta pregato l'usurpatore istesso a riporre qualche fiducia nella clemenza di un Sovrano, il quale tanto stimava il carattere di lui, che avea punito, qual maligno delatore, il primo che riferì l'improbabil nuova della sua ribellione[148]. Avrebbe forse Saturnino accettata la generosa offerta, se non fosse stato ritenuto dall'ostinata diffidenza dei suoi aderenti. Il loro delitto era più grave, e le loro speranze più ardenti di quelle dello sperimentato lor condottiere.
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Era appena nell'Oriente estinta la ribellione di Saturnino, che si suscitarono nuove turbolenze nell'Occidente, per la sollevazione di Bonoso e di Proculo nella Gallia. Il maggior merito di questi due Uffiziali era la prodezza dell'uno nelle battaglie di Bacco, dell'altro in quelle di Venere[149]; non mancava però nè l'uno nè l'altro di coraggio e di capacità, ed ambi sostennero con onore l'augusto carattere che il timor del castigo gli aveva impegnati ad assumere, finchè cederono in ultimo al genio superiore di Probo. Egli usò della vittoria con la solita sua moderazione, e risparmiò i beni non men che le vite delle innocenti loro famiglie[150].
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Aveano ormai le armi di Probo oppressi tutti gli stranieri e domestici nemici dello Stato. Il suo dolce, ma fermo governo assicurava il ristabilimento della pubblica tranquillità; nè vi era rimasto nelle province un barbaro nemico, un tiranno o un masnadiere pur anco, che risvegliasse la memoria dei passati disordini. Tempo era che l'Imperatore rivedesse Roma, e celebrasse la propria sua gloria e l'universale felicità. Il trionfo, dovuto al valore di Probo, fu regolato con una magnificenza conveniente alla sua fortuna, ed il popolo, che avea sì di recente ammirati i trofei di Aureliano, rimase con eguale piacere attonito alla vista di quelli dell'Eroe successore[151]. Non possiamo in questa occasione tralasciare di riferire il coraggio di circa ottanta gladiatori, riservati con quasi seicento altri per l'inumano spettacolo dell'anfiteatro. Sdegnando essi di spargere il sangue per dilettare la moltitudine, uccisero i loro custodi, ruppero la loro prigione, ed empirono le contrade di Roma di sangue e di confusione. Dopo una ostinata resistenza furono superati, e tagliati a pezzi dalle truppe regolari; ma ottennero almeno una morte onorevole, e la soddisfazione di una giusta vendetta[152].
La militar disciplina, che regnava nei campi di Probo, era meno crudele di quella di Aureliano, ma non men rigida ed esatta. Il secondo puniva le irregolarità dei soldati con inflessibile severità; il primo le preveniva, occupando le legioni in continue ed utili fatiche. Quando Probo comandava nell'Egitto, fece molte opere considerabili per lo splendore e per l'utile di quel ricco paese. La navigazione del Nilo, così importante a Roma medesima, fu migliorata; e tempj, ponti, portici e palazzi furono costruiti dalle mani de' soldati, che servivano a vicenda come architetti, come ingegneri e come operai[153]. Vien riferito di Annibale, che per preservare le sue truppe dalle pericolose tentazioni dell'ozio, le avea obbligate a fare vaste piantazioni di ulivi lungo la costa dell'Affrica[154]. Per un simil principio, Probo esercitò le sue legioni a coprire di ricche vigne le colline della Gallia e della Pannonia, e ci vengono descritti due considerabili terreni, che furono interamente lavorati o piantati dalle braccia dei soldati[155]. Uno di questi, conosciuto sotto il nome di Monte Almo, era situato vicino a Sirmio, paese nativo di Probo, per cui egli sempre conservò un affetto parziale, e la cui gratitudine procurò d'assicurarsi, convertendo in terreno lavorabile un vasto ed insalubre tratto di suol paludoso. Un esercito così impiegato componeva forse la più utile e la più coraggiosa porzione dei sudditi Romani.
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Ma nel proseguimento di un disegno favorito i migliori degli uomini, soddisfatti della rettitudine delle loro intenzioni, sono soggetti ad obbliare i limiti della moderazione; e Probo istesso non consultò abbastanza la pazienza e la disposizione dei feroci suoi legionari[156]. Sembra che solamente una vita piacevole ed oziosa possa compensare i pericoli della professione militare; ma se i doveri del soldato sono continuamente aggravati dalle fatiche dell'agricoltore, egli caderà finalmente sotto l'intollerabil peso, o lo scuoterà con isdegno. Si pretende che l'imprudenza di Probo provocasse lo scontento delle sue truppe. Più attento agl'interessi del Genere Umano che a quelli dell'esercito, egli manifestò la vana speranza di presto abolire, collo stabilimento della pace universale, la necessità delle truppe permanenti e mercenarie[157]. Questa poco misurata espressione gli divenne fatale. In uno dei più caldi giorni di estate, mentre egli severamente affrettava l'insalubre lavoro di seccare le paludi di Sirmio, i soldati, impazienti della fatica, gettaron via subitamente i loro strumenti, afferraron l'armi, e proruppero in una furiosa sollevazione. L'Imperatore, conoscendo il suo pericolo, si rifuggì in un'alta torre, eretta a fine di osservare il progresso di quel lavoro[158]. Fu la torre in un momento forzata, e mille spade in un punto immerse furono in seno all'infelice Probo. Appena saziato, cessò il furor delle truppe. Deplorarono allora la funesta loro temerità, obbliarono la severità dell'Imperatore che avean trucidato, e si affrettarono a perpetuare con un onorifico monumento la memoria delle virtù e delle vittorie di lui[159].
Quando ebbero le legioni soddisfatto al loro dolore e pentimento per la morte di Probo, con unanime consenso dichiararono Caro Prefetto del Pretorio, come il più degno del trono imperiale. Ogni circostanza relativa a questo Principe comparisce d'una varia ed incerta natura. Ei si gloriava del titolo di cittadino Romano, ed affettava di paragonare la purità del suo sangue colla straniera e perfino barbara origine dei precedenti Imperatori, ma i più curiosi indagatori fra i suoi contemporanei, ben lungi dall'ammettere questa pretensione, hanno variamente dedotta l'origine di lui, o quella dei suoi genitori, dall'Illirico, dalla Gallia o dall'Affrica[160]. Benchè soldato, egli ebbe una culta educazione; e benchè Senatore, gli fu conferita la prima dignità dell'esercito; ed in un secolo, in cui le professioni civile e militare cominciarono ad essere stabilmente separate l'una dall'altra, esse furono unite nella persona di Caro. Non ostante la severa giustizia da lui esercitata contro gli assassini di Probo, al favore e alla stima del quale egli era altamente obbligato, non potè evitare il sospetto di esser complice di un misfatto, da cui ricavò il principale vantaggio. Egli godeva (almeno avanti il suo innalzamento) la riputazione d'uomo abile e virtuoso[161]; ma l'austero suo naturale si cangiò insensibilmente in fastidioso e crudele, e gl'imperfetti Scrittori della sua vita non sanno se devono porlo nel numero dei Tiranni di Roma[162]. Quando Caro prese la porpora, era nell'età di circa sessant'anni, ed i due suoi figli Carino e Numeriano erano ormai giunti alla virilità[163].
L'autorità del Senato morì con Probo, nè i soldati dimostrarono il loro pentimento con quel rispettoso riguardo per la potenza civile, che aveano palesato dopo l'infelice morte di Aureliano. Fu l'elezione di Caro decisa senza aspettare l'approvazione del Senato; ed il nuovo Imperatore si contentò di notificare con una fredda ed altiera lettera, ch'era salito sul trono vacante[164]. Una condotta tanto opposta a quella dell'amabile suo predecessore, non recò alcun favorevol presagio del nuovo Regno, ed i Romani, privi di potere e di libertà, usarono del privilegio rimasto loro di mormorare[165]. Non si mancò per altro di congratularsi con lui e di adularlo; e possiam tuttavia leggere con piacere e disprezzo un'egloga, che fu composta per l'avvenimento dell'Imperator Caro. Due pastori per evitare il calore del mezzogiorno si ritirano nella grotta di Fauno. Sulla scorza d'un ombroso faggio vedono alcuni freschi caratteri. La rustica Deità avea descritta in versi profetici la felicità promessa all'Impero sotto il Regno di sì gran Principe. Fauno saluta l'Eroe, che ricevendo sulle sue spalle il cadente peso del mondo Romano, estinguerà le guerre e le fazioni, e farà risorgere l'innocenza e la tranquillità del secol d'oro[166].
È più che probabile che queste eleganti inezie non giungessero mai alle orecchie di un Generale veterano, che con il consenso delle legioni si preparava ad eseguire il lungamente sospeso disegno della guerra Persiana. Avanti la sua partenza per questa remota spedizione, Caro conferì ai due suoi figli, Carino, e Numeriano, il titolo di Cesare, e rivestendo il primo di una quasi ugual porzione d'imperial potere, ordinò al giovane Principe di prima sedare alcune perturbazioni insorte nella Gallia, e di poi stabilire la sua residenza in Roma, ed assumere il governo delle Province Occidentali[167]. Fu la salvezza dell'Illirico assicurata con una memorabil disfatta dei Sarmati. Sedicimila di quei Barbari restarono sul campo di battaglia, e montò a ventimila il numero dei prigionieri. Il vecchio Imperatore, animato dalla fama e dall'aspetto della vittoria, continuò la sua marcia di mezzo verno per le campagne della Tracia e dell'Asia Minore, ed arrivò finalmente col suo più giovane figliuolo Numeriano ai confini della Monarchia Persiana. Là accampato sulla cima di un'alta montagna, mostrò alle truppe l'opulenza ed il lusso dei nemici che andavano ad assalire.
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Il successore di Artaserse, Varane o Bahram, benchè avesse soggiogati i Segesti, una delle più bellicose nazioni dell'Asia superiore[168], fu atterrito dalla venuta dei Romani, e procurò di arrestarli con un trattato di pace. I suoi ambasciatori entrarono nel campo verso il cader del Sole, mentre le truppe si ristoravano con un pasto frugale. I Persiani manifestarono il loro desiderio di essere introdotti alla presenza dell'Imperator Romano. Furono essi finalmente condotti dinanzi ad un soldato assiso sull'erba. Un pezzo di lardo vieto, e pochi secchi piselli componean la cena di quello. Un rozzo manto di porpora era l'unico indizio della sua dignità. Si fece l'abboccamento collo stesso disprezzo della cortigiana eleganza. Caro levandosi un berretto, che portava per nascondere la sua calvezza, assicurò gli Ambasciatori, che se il loro Sovrano non avesse riconosciuta la superiorità di Roma, egli avrebbe subitamente ridotta la Persia così nuda di alberi, come era la testa sua di capelli[169]. Malgrado le tracce di una studiata ostentazione possiamo da questa scena conoscere i costumi di Caro, e la severa semplicità, che i marziali successori di Gallieno aveano già ristabilita nei campi Romani. I ministri del gran Re tremarono e si ritirarono.
Non furono senza effetto le minacce di Caro. Egli devastò la Mesopotamia, tagliò a pezzi tutto quello, che si oppose al suo passaggio, s'impadronì delle grandi Città di Seleucia e di Tesifonte (che sembra essersi rese senza resistenza) e portò le armi sue vittoriose di là dal Tigri[170]. Egli avea preso il favorevol momento per una invasione. I Consigli Persiani erano divisi dalle fazioni domestiche, e la maggior parte delle lor forze era ritenuta sulle frontiere dell'India. Roma e l'Oriente ricevean con trasporto le nuove di vantaggi così rilevanti. L'adulazione e la speranza dipingevano coi più vivi colori la caduta della Persia,[171] la conquista dell'Arabia, la soggezione dell'Egitto, ed una durevole sicurezza dalle incursioni degli Sciti. Ma il Regno di Caro era destinato a dimostrare la vanità delle predizioni. Queste appena pubblicate, furono deluse dalla morte di lui; avvenimento accompagnato da tali ambigue circostanze, che non può riferirsi meglio che con una lettera del Segretario di esso al Prefetto della Città. «Caro (dic'egli), nostro dilettissimo Imperatore, era dalla malattia confinato nel letto, quando scoppiò sul campo una furiosa tempesta. Le tenebre, che coprivano il cielo, erano così dense, che ne impedivano il vederci l'un l'altro, ed i continui lampi dei fulmini ci toglievano la cognizione di tutto ciò che seguiva nella general confusione. Immediatamente dopo un violentissimo scoppio di tuono, udimmo un grido improvviso ch'era morto l'Imperatore; e subito videsi che i suoi Cortigiani aveano in un trasporto di dolore messo fuoco alla tenda Reale; circostanza per cui si disse che Caro fu ucciso dal fulmine. Ma per quanto possiamo investigar la verità, la sua morte fu il naturale effetto della sua malattia[172].»
La vacanza del trono non produsse sconcerto veruno. L'ambizione dei Generali fu repressa dai loro vicendevoli timori, ed il giovane Numeriano, ed il suo fratello assente, Carino, furono di comun consenso riconosciuti Imperatori di Roma. Il Pubblico sperava che il successore di Caro seguitasse le vestigia del padre, e senza lasciar che i Persiani si riavessero dalla loro costernazione, entrasse colla spada alla mano nei palazzi di Susa e di Ecbatana[173]. Ma le legioni, benchè numerose e disciplinate, furono atterrite dalla più vile superstizione. Non ostanti tutti gli artifizi posti in uso per nascondere qual fosse stata la morte dell'ultimo Imperatore, fu impossibile di distruggere l'opinione della moltitudine, ed è insuperabile la forza della opinione. I luoghi o le persone colpite dal fulmine erano riguardate dagli antichi con religioso orrore, come singolarmente consacrate all'ira del cielo[174]. Fu allora rammentato un oracolo, che indicava il fiume Tigri, come il confine fatale delle armi Romane. Le truppe, atterrite dal destino di Caro e dal lor proprio pericolo, altamente gridarono al giovane Numeriano, che ubbidisse al voler degli Dei, e le conducesse fuori di quell'infausto teatro di guerra. Non seppe il debole Imperatore vincere l'ostinato lor pregiudizio, ed i Persiani videro con stupore l'improvvisa ritirata di un vittorioso nemico[175].
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La nuova della misteriosa morte dell'ultimo Imperatore fu presto portata dalle frontiere della Persia a Roma; ed il Senato non meno che le Province si congratularono co' figliuoli di Caro del loro avvenimento al trono. Mancava per altro a questi giovani fortunati quella nota superiorità o di nascita o di merito, che sola può render facile il possesso di un trono, come se fosse naturale. Nati ed educati in condizione privata, furono per l'elezione del padre innalzati in un momento alla dignità di Principi; e la morte di lui, seguita quasi sedici mesi dopo, lasciò ad essi l'inaspettata eredità di un vasto Impero. Si richiedeva una virtù e prudenza non ordinaria per sostener con moderazione questo rapido innalzamento; e Carino, il maggiore de' fratelli, era più che all'ordinario privo di queste due qualità. Aveva egli nella guerra della Gallia mostrato qualche grado di valor personale[176], ma dal momento del suo arrivo in Roma si abbandonò al lusso della Capitale, ed all'abuso della sua fortuna. Egli era effemminato e ad un tempo crudele; dedito al piacere, ma privo di buon gusto; e benchè vano all'estremo, non curante della pubblica stima. Nel corso di pochi mesi successivamente sposò o ripudiò nove mogli, molto delle quali lasciò gravide; e nonostante questa incostanza, autorizzata dalle leggi, trovò tempo di soddisfare tanti irregolari appetiti, che disonorò se stesso e le più nobili famiglie di Roma. Egli riguardava con odio implacabile tutti coloro, che potean rammentarsi l'antica sua oscurità, o censurare la sua presente condotta. Condannò all'esilio o alla morte gli amici ed i consiglieri, che il padre gli avea posti attorno per guidare l'inesperta sua giovinezza; e perseguitò colla più vile vendetta i suoi condiscepoli e compagni, che non aveano abbastanza rispettata la nascosta maestà dell'Imperatore. Coi Senatori, Carino affettava un superbo e regio contegno, frequentemente dichiarando che aveva idea di distribuire i loro beni alla plebaglia di Roma. Dalla feccia della medesima scelse i suoi favoriti, e fino i suoi ministri. Il palazzo e la tavola stessa Imperiale era piena di musici, di ballerini, di donne prostituite, e di tutto il vario corteggio del vizio e della follìa. Ad uno dei suoi Portieri[177] affidò il governo della Città. Al Prefetto del Pretorio, da lui messo a morte, Carino sostituì uno de' ministri de' suoi più vili piaceri. Un altro, che possedeva l'istesso, o ancora un più infame diritto al favore di lui, fu rivestito del Consolato. Un Segretario di confidenza, che avea acquistata la rara abilità di contraffare lo scritto, liberò l'indolente Imperatore, col consenso di lui, dal molesto dovere di segnare il suo nome.
Quando l'Imperator Caro cominciò la guerra di Persia, fu indotto da motivi di affetto, non meno che di politica, ad assicurare la sorte della sua famiglia, lasciando nelle mani del suo maggior figliuolo le armate e le Province dell'Occidente. La notizia, ch'egli ricevè ben tosto della condotta di Carino, lo ricolmò di vergogna e di dolore; nè avea egli celata la sua risoluzione di soddisfare la Repubblica con un severo atto di giustizia, o di adottare in luogo di un indegno figliuolo, il valoroso e virtuoso Costanzo, ch'era allora Governatore della Dalmazia. Ma l'innalzamento di questo fu per un tempo differito, ed appena che la morte di un Padre ebbe liberato Carino dal freno del timore o del rispetto, egli mostrò ai Romani le stravaganze di Elagabalo, accompagnate dalla crudeltà di Domiziano[178].
Il solo merito del Regno di Carino, che la storia possa ricordare, e la poesia celebrare, fu l'insolito splendore, col quale in nome suo e del fratello egli festeggiò i giuochi Romani del teatro, del circo e dell'anfiteatro. Più di venti anni dopo, quando i cortigiani di Diocleziano rappresentavano al loro frugal Sovrano lo splendore e la popolarità del magnifico suo predecessore, egli confessò, che il regno di Carino era veramente stato un regno di piacere[179]. Ma il Popolo Romano godeva con sorpresa e con trasporto di questa vana prodigalità, che la prudenza di Diocleziano poteva giustamente disprezzare. I più vecchi cittadini, rammentandosi gli spettacoli dei tempi andati, la pompa trionfale di Probo o di Aureliano, ed i giuochi secolari dell'Imperatore Filippo, confessavano che tutti erano oscurati dalla superiore magnificenza di Carino[180].
Gli spettacoli pertanto di Carino non possono esser meglio illustrati che coll'osservazione di alcune particolarità, che la storia si è degnata di riferire, concernenti quelli dei suoi predecessori. Se ci limitiamo solamente alla caccia delle fiere, benchè criticar si possa la vanità dell'idea o la crudeltà dell'esecuzione, siamo costretti a confessare, che nè avanti nè dopo il tempo dei Romani tant'arte o spesa non è mai stata profusa pe' divertimenti del popolo[181]. D'ordine di Probo fu trapiantata nel mezzo del circo una considerabil quantità di grand'alberi, svelti dalle radici. Fu questa spaziosa e ombrosa foresta immediatamente ripiena di mille struzzi, di mille cervi, di mille daini e di mille cignali; e tutta questa varietà di selvaggiume fu abbandonata allo sfrenato impeto della moltitudine. La tragedia del giorno susseguente consistè nella strage di cento leoni, di cento leonesse, di dugento leopardi e di trecento orsi[182]. Gli animali raccolti e preparati dal più giovane Gordiano pel suo trionfo, e che il suo successore fece vedere nei giuochi secolari, erano meno ragguardevoli pel loro numero, che per la loro singolarità. Venti zebre mostrarono le loro eleganti forme e le belle liste del lor mantello agli occhi del Popolo Romano[183]. Dieci alci ed altrettante giraffe, i più alti e i più mansueti animali, ch'errino per le pianure della Sarmazia e dell'Etiopia, fecero un bel contrasto con trenta jene affricane, e dieci tigri dell'India, le più implacabili belve della Zona torrida. Nel rinoceronte, nell'ippopotamo del Nilo[184] ed in una maestosa truppa di trentadue elefanti[185] si ammirò l'innocente forza, di cui la natura ha dotato i più grandi tra i quadrupedi. Mentre la plebe guardava con attonita maraviglia quella splendida mostra, il naturalista potea invero osservare la figura e la proprietà di tante specie diverse, trasportate da ogni parte dell'antico mondo nell'anfiteatro di Roma. Ma questo accidental benefizio, che la scienza ricavar potea dalla follìa, non è certamente bastante a giustificare un così smoderato abuso delle pubbliche ricchezze. Si trova per altro un solo esempio nella prima guerra Punica, in cui il Senato combinò saggiamente questo divertimento della moltitudine coll'interesse dello Stato. Un numero considerabile di elefanti fu preso nella disfatta dell'armata Cartaginese, e condotto per uso del circo da pochi schiavi armati soltanto di dardi spuntati[186]. Servì quest'utile spettacolo ad imprimere nell'animo del soldato Romano un giusto disprezzo per quegli enormi animali, ed egli più non ne paventò l'incontro nelle battaglie.
La caccia o la mostra delle fiere era regolata con una magnificenza conveniente ad un popolo, che s'intitolava padrone del mondo; ed era l'edifizio, destinato a questo divertimento, una prova non meno evidente della romana grandezza. La posterità ammira e lungamente ammirerà i magnifici avanzi dell'anfiteatro di Tito, che tanto bene meritò il titolo di Colossale[187]. Era questo un edifizio di figura ellittica, lungo cinquecentosessantaquattro piedi, e largo quattrocentosessantasette, fabbricato sopra ottanta archi, e che si ergeva con quattro successivi ordini di architettura all'altezza di centoquaranta piedi[188]. Questo edificio era al di fuori incrostato di marmo, e adorno di statue. Il recinto di quella vasta concavità era ripieno e circondato da sessanta o ottanta ordini di sedili parimente di marmo coperti di cuscini, e capaci di contenere comodamente più di ottantamila spettatori[189]. Da sessantaquattro vomitatorj (giacchè con questo adattato vocabolo erano distinte le porte) usciva l'immensa moltitudine; e gli ingressi, i corridori, e le scale erano con tal disegno disposte, che qualunque persona dell'ordine o Senatorio o Equestre o Plebeo, giungeva al suo destinato luogo senza disturbo o confusione[190]. Niente era stato omesso di ciò che in qualche modo potesse servire al comodo, ed al piacere degli spettatori. Li difendea dal Sole e dall'acqua un'ampia tenda, che si tirava, richiedendolo il bisogno, sopra i loro capi. Veniva continuamente rinfrescata l'aria dai getti delle fontane, e profusamente impregnata del grato odore di aromati. Nel centro dell'edifizio, l'arena, o il teatro, era coperto della più fina sabbia, e prendea successivamente le più diverse forme. Ora poteva sorgere dalla terra come il giardino dell'Esperidi, e dopo era rotto in rupi e caverne simili a quelle della Tracia. I sotterranei canali conducevano una quantità inesauribile di acqua; e quel che un momento avanti sembrava un piano ben livellato, poteva improvvisamente cangiarsi in un vasto lago coperto di armate navi, e ripieno dei mostri dell'Oceano[191]. Nella decorazione di queste scene gl'Imperatori Romani facevano pompa delle loro ricchezze e della lor liberalità, e noi leggiamo che in diverse occasioni tutti gli ornamenti dell'anfiteatro erano o di argento o di oro o di ambra[192]. Il poeta, che descrive i giuochi di Carino, sotto il carattere di un pastore tratto alla Capitale dalla fama della loro magnificenza, afferma che le reti destinate, come per difesa, contro le fiere, erano di filo d'oro; che i portici erano dorati; e che il balteo o cerchio, che divideva i diversi ordini degli spettatori gli uni dagli altri, era adornato con un prezioso mosaico di bellissime pietre[193].
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In mezzo a questa splendida pompa l'Imperatore Carino, sicuro della sua fortuna, godeva delle acclamazioni del popolo, dell'adulazione dei cortigiani e dei canti dei poeti, che in mancanza di un merito più essenziale, eran ridotti a celebrare le grazie divine della persona di lui[194]. Nell'ora stessa, ma in distanza di novecento miglia da Roma, il suo fratello rendeva lo spirito; ed una subita rivoluzione facea passare nelle mani di uno straniero lo scettro della famiglia di Caro[195].
I Figli di Caro non si videro mai fra loro dopo la morte del padre. Le disposizioni, ch'esigeva la loro nuova posizione, erano probabilmente differite fino al ritorno del minor fratello a Roma, dov'era destinato un trionfo ai giovani Imperatori pel glorioso esito della guerra Persiana[196]. È incerto se avessero idea di divider tra loro il governo, o le province dell'Impero; ma è molto inverisimile che la loro unione dovesse lungamente durare. La gelosia della sovranità sarebbe stata infiammata dalla diversità dei caratteri. Carino era indegno di vivere anche nei tempi più corrotti; Numeriano meritava di regnare in un secolo più felice. Le affabili sue maniere e le sue mansuete virtù gli procacciarono, appena furono conosciute, il rispetto e gli affetti del Pubblico. Egli possedeva le belle doti di poeta e di oratore, che illustrano e adornano la più umile o la più elevata condizione. La sua eloquenza, benchè applaudita dal Senato, era formata più sul modello dei moderni declamatori, che su quello di Cicerone; ma in un secolo molto lontano dall'esser privo del merito poetico, egli ne disputò la palma coi più celebri suoi contemporanei, e rimase tuttavia amico dei suoi rivali; circostanza che dimostra o la bontà del suo cuore, o la superiorità del suo ingegno.[197] Ma erano i talenti di Numeriano di un genere più contemplativo che attivo, quando l'innalzamento del padre lo estrasse a forza dall'ombra del suo ritiro; nè il suo carattere, nè i suoi studi lo avean renduto atto a comandare gli eserciti. La sua complessione fu rovinata dalle fatiche della guerra Persiana; ed egli avea contratto pel calore del clima[198] una debolezza tale negli occhi, che fu costretto, nel corso di una lunga ritirata, a confinarsi nella solitudine; e nell'oscurità di una tenda o di una lettiga. L'amministrazione di tutti gli affari e militari e civili fu conferita ad Arrio Apro, Prefetto del Pretorio, che alla potenza dell'importante sua carica univa l'onore di esser suocero di Numeriano. Era strettamente guardato il padiglione Imperiale dai suoi più fedeli aderenti, e per molti giorni Apro diede all'armata i supposti ordini dell'invisibile Sovrano[199].
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Non erano scorsi ancora otto mesi dalla morte di Caro, quando l'esercito Romano, ritornando a lunghe giornate dalle rive del Tigri, arrivò a quelle del Bosforo Tracio. Le legioni fecero alto a Calcedonia nell'Asia, mentre la Corte passava sopra Eraclea sulla costa Europea della Propontide[200]. Ma si sparse improvvisamente nel campo, prima con segreti bisbigli e finalmente con alti clamori, la voce della morte dell'Imperatore, e della presunzione del suo ambizioso ministro, ch'esercitava tuttavia il potere sovrano in nome di un principe estinto. Non potè l'impazienza dei soldati sopportare più lungamente uno stato d'incertezza. Con insolente curiosità entrarono a forza nella Tenda Imperiale, e vi ritrovarono soltanto il cadavere di Numeriano[201]. La continua decadenza della salute di lui avrebbe potuto indurli a crederne naturale la morte; ma l'averla celata fu riguardato come una prova di delitto, e le provvisioni, prese da Apro per assicurare la propria elezione, divennero la cagione immediata della sua rovina. Pure, nel trasporto ancora della lor rabbia e del loro dolore, tennero le truppe una regolare condotta, che prova quanto sodamente era stata ristabilita la disciplina dei guerrieri successori di Gallieno. Fu intimata una generale assemblea dell'esercito da tenersi in Calcedonia, dove Apro fu condotto tra i ceppi come prigioniero e delinquente. Fu eretto in mezzo al campo un vuoto tribunale, ed i Generali ed i Tribuni tennero un gran consiglio di guerra. Essi annunziarono ben presto alla moltitudine, che la scelta loro era caduta sopra Diocleziano, comandante delle guardie domestiche, o sia del corpo, come il soggetto più capace di vendicare il loro amato Imperatore, e di succedergli. Dipendeva la futura sorte del Candidato dal caso, o dalla condotta di quel momento. Conoscendo Diocleziano che il grado, ch'egli avea occupato, lo esponeva a qualche sospetto, montò sul tribunale, ed alzando gli occhi al Sole, fece una solenne protesta sulla propria innocenza dinanzi a quel Nume, che tutto vede[202]. Prendendo di poi i modi di Sovrano o di Giudice, comandò che Apro, incatenato, fosse condotto a piè del tribunale. «Costui (diss'egli) è l'assassino di Numeriano»; e senza dargli tempo di entrare in una pericolosa giustificazione, snudò il ferro, e l'immerse in seno all'infelice Prefetto. Un'accusa sostenuta da una prova così decisiva, fu ammessa senza contraddizione, e le legioni riconobbero con ripetute acclamazioni la giustizia e l'autorità dell'Imperator Diocleziano[203].
Prima di entrare nel memorabil regno di questo Principe, sarà conveniente cosa il punire e tor di mezzo l'indegno fratello di Numeriano. Carino aveva armi e ricchezze bastanti a sostenere il suo legittimo diritto all'Impero. Ma i suoi vizi personali preponderavano tutti i vantaggi della nascita e dell'attual situazione. I più fedeli ministri del padre disprezzavano l'incapacità, e paventavano la crudele arroganza del figliuolo. Eran gli affetti del popolo impegnati in favore del rivale, ed il Senato istesso inclinava a preferire un usurpatore a un tiranno. Gli artifizi di Diocleziano infiammarono la generale scontentezza, e fu il verno consumato in segreti intrighi, ed in aperti preparativi per una guerra civile. S'incontrarono a primavera le forze dell'Oriente e dell'Occidente nelle pianure di Margo, piccola città della Mesia, nelle vicinanze del Danubio[204]. Le truppe tornate così recentemente dalla guerra Persiana, aveano acquistata la loro gloria a spese della loro salute e del lor numero, nè erano esse in istato di contrastare con l'inesausto vigore delle legioni Europee. Furono rotte le loro file, e per un momento Diocleziano disperò della porpora e della vita. Ma perdè Carino in un punto, per l'infedeltà de' suoi uffiziali, il vantaggio riportato dal valore de' suoi soldati. Un Tribuno, di cui egli avea sedotta la moglie, prese l'opportunità di vendicarsi, e con un colpo solo spense la discordia civile col sangue dell'adultero[205].
CAPITOLO XIII.
Regno di Diocleziano e dei suoi tre colleghi, Massimiano, Galerio e Costanzo. Ristabilimento generale dell'ordine e della tranquillità. Guerra Persiana; vittoria e trionfo. Nuova forma di governo. Rinunzia e ritiro di Diocleziano e di Massimiano.
Come fu il regno di Diocleziano più illustre di quello di qualunque suo predecessore, così fu la sua nascita più vile e più oscura. L'efficace ragione del merito e della forza avea spesso superate le immaginarie prerogative della nobiltà; ma si era tuttavia mantenuta una distinta linea di separazione tra i liberi e tra gli schiavi. I genitori di Diocleziano erano stati schiavi nella casa di Anulino Senatore Romano; e Diocleziano medesimo non aveva altro nome che quello derivatogli da una piccola città della Dalmazia, donde sua madre traeva l'origine[206]. È per altro probabile che il padre di lui ottenesse la libertà della famiglia, e che egli presto acquistasse l'uffizio di scrivano, esercitato comunemente da quelli della sua condizione[207]. I favorevoli oracoli, o piuttosto la consapevolezza di un eminente merito, spinsero l'ambizioso suo figliuolo a seguitare la professione delle armi e le speranze della fortuna; e sarebbe cosa estremamente curiosa l'osservare la serie degli artifizi e degli accidenti, che lo condussero finalmente all'adempimento di quegli oracoli, ed a mostrare al mondo il suo merito. Fu Diocleziano successivamente promosso al governo della Mesia; alla dignità di Console, ed all'importante comando delle guardie del palazzo. Egli fece conoscere i suoi talenti nella guerra Persiana; e dopo la morte di Numeriano, lo schiavo fu, per confessione e giudizio de' suoi rivali, dichiarato il più degno del trono Imperiale. La malizia di un religioso zelo, mentre taccia la selvaggia ferocia del suo collega Massimiano, ha affettato di gettare sospetti sul personal coraggio dell'Imperator Diocleziano[208]. Non è però facile il persuaderci della codardia di un soldato di fortuna, che si conciliò e conservò la stima delle legioni, ed il favore di tanti Principi bellicosi. Contuttociò la calunnia è sagace abbastanza per iscoprire, ed attaccare la parte più debole. Il valore di Diocleziano si trovò sempre proporzionato al suo dovere o alle circostanze; ma non sembra che egli avesse il prode, e generoso spirito di un Eroe, che avido di pericoli e di gloria sdegna l'artifizio, e arditamente pretende di assoggettarsi gli uguali. Erano i suoi talenti più utili che illustri; una mente vigorosa e perfezionata dall'esperienza e dallo studio degli uomini; destrezza ed applicazione negli affari; una giudiziosa mescolanza di liberalità e di economia, di dolcezza e di rigore; una profonda dissimulazione sotto la maschera di militar franchezza; costanza nel seguitare i suoi disegni; flessibilità nel variarne i mezzi; e sopra tutto la grand'arte di sottomettere le sue passioni, e quelle ancora degli altri, all'interesse della propria ambizione, e di colorire l'ambizione istessa coi più speciosi pretesti della giustizia e del pubblico bene. Può Diocleziano, al pari di Augusto, considerarsi come il fondatore di un nuovo Impero. Simile al figliuolo adottivo di Cesare, egli si distinse, più come politico che come guerriero; nè mai questi due Principi impiegarono la forza, dovunque poterono ottenere l'intento colla politica.
La vittoria di Diocleziano fu riguardevole per la sua singolare dolcezza. Un popolo avvezzo ad applaudire alla clemenza del vincitore, quando i soliti castighi di morte, di esilio, e di confiscazione venivano inflitti con qualche grado di moderatezza e di equità, vide col più gradito stupore una guerra civile, le cui fiamme rimasero estinte nel campo della battaglia. Diocleziano ammise alla sua confidenza Aristobolo, principal ministro della famiglia di Caro, rispettò le vite, i beni, e le dignità dei suoi nemici, e conservò pur anche nei loro respettivi posti la maggior parte delle creature di Carino[209]. Non è improbabile che motivi di prudenza avvalorassero l'umanità dell'artificioso Dalmatino; molte di quelle creature aveano comprato il favore di lui con segreti tradimenti, e nell'altre egli pregiò la grata lor fedeltà per un infelice Sovrano. Il giudizioso discernimento di Aureliano, di Probo, e di Caro avea collocati nei vari dipartimenti dello Stato e dell'esercito Uffiziali di un merito riconosciuto, l'allontanamento dei quali avrebbe nociuto al pubblico servigio, senza giovare all'interesse del successore. Tal condotta, per altro, presentava al Mondo Romano la più bella apparenza del nuovo Regno e l'Imperatore affettò di confermare questa favorevole prevenzione, dichiarandosi che tra tutte le virtù dei suoi predecessori, l'umana filosofia di Marco Antonino era quella che egli più ambiva d'imitare[210].
La prima azione considerabile del suo Regno sembrò una prova evidente della sua sincerità e moderazione. Ad esempio di Marco si scelse un Collega nella persona di Massimiano, a cui conferì prima il titolo di Cesare, e di poi quello di Augusto[211]. Ma i motivi della sua condotta, egualmente che quelli della sua scelta, erano ben diversi da quelli del suo ammirato predecessore. Accordando ad un giovane dissoluto gli onori della porpora, avea Marco Antonino soddisfatto a un debito di privata gratitudine, a spese veramente della pubblica felicità. Diocleziano, associando in un tempo di pubblico pericolo alle fatiche del governo un amico ed un compagno nell'armi, provvide alla difesa dell'Oriente e dell'Occidente. Massimiano era nato agricoltore, e come Aureliano, nel territorio di Sirmio. Incolto era nelle lettere[212], e sprezzatore delle leggi; e la rozzezza del suo aspetto o dei suoi modi scopriva nel più alto stato di fortuna la bassezza della sua estrazione. Era la guerra la sola arte da lui professata. In un lungo corso di servigio militare egli si era segnalato sopra ogni frontiera dell'Impero; e benchè fossero i suoi talenti guerrieri più propri per l'ubbidienza che pel comando; e benchè forse mai non acquistasse l'abilità di un Generale sperimentato, fu però capace col valore, colla costanza, e coll'esperienza di eseguire le più difficili imprese. Nè meno utili furono i vizi di Massimiano al suo benefattore. Insensibile alla pietà, e senza timore delle conseguenze, egli era il pronto strumento di ogni atto di crudeltà, che la politica di quel Principe artificioso poteva suggerire e discolparsene insieme. Appena che si era offerto alla prudenza o alla vendetta un sanguinoso sacrifizio, Diocleziano coll'opportuna sua intercessione salvava il piccolo resto, che non avea mai disegnato di punire, riprendeva dolcemente la severità del suo austero collega, e godeva del paragone di un secolo d'oro con un secol di ferro, che veniva generalmente applicato alle loro opposte massime di governo. Non ostante la differenza dei loro caratteri, conservarono i due Imperatori sul trono quell'amicizia da loro già contratta in una condizione privata. Il superbo e turbolento spirito di Massimiano, tanto fatale dipoi a lui stesso ed alla pubblica pace, era avvezzo a rispettare il genio di Diocleziano, e riconosceva la superiorità della ragione sulla brutale violenza[213]. Per un motivo o di orgoglio o di superstizione, i due Imperatori presero i titoli, uno di Giovio e l'altro di Erculio. Mentre il moto del Mondo (tale era il linguaggio de' lor venali oratori) era regolato dalla sapienza di Giove che tutto vede, l'invincibil braccio di Ercole purgava la terra dai tiranni e dai mostri[214].
Ma l'onnipotenza di Giovio e di Erculio era incapace di sostenere il peso del pubblico governo. La prudenza di Diocleziano conobbe, che l'Impero, assalito per ogni parte dai Barbari, richiedeva in ogni parte la presenza di un grande esercito e di un Imperatore. Con questa mira si risolvè di dividere un'altra volta il suo pesante potere, e di conferire a due Generali di merito riconosciuto una egual parte della Sovrana autorità, col titolo inferiore di Cesari[215]. Galerio, soprannominato Armentario dall'originaria sua professione di pastore, e Costanzo, che dalla pallidezza del suo colore ebbe il soprannome di Cloro[216], furono i due soggetti rivestiti degli onori secondi della porpora Imperiale. Descrivendo la patria, l'estrazione ed i costumi di Erculio, abbiam già descritti quelli di Galerio, che spesso fu non impropriamente chiamato il giovane Massimiano, benchè da molti tratti e di virtù e di abilità sembri, che egli avesse una manifesta superiorità sul meno giovane. Era la nascita di Costanzo meno oscura di quella dei suoi Colleghi. Eutropio suo padre era uno dei più considerabili nobili della Dardania, e la sua madre era nipote dell'Imperator Claudio[217]. Benchè avesse Costanzo passata la sua gioventù nelle armi, era di carattere dolce ed amabile, e la voce popolare lo avea da lungo tempo riconosciuto degno del posto, a cui venne finalmente innalzato. Per rinforzare i legami della politica unione con quelli della domestica, ciascuno degli Imperatori prese il carattere di Padre per uno dei Cesari, Diocleziano per Galerio, e Massimiano per Costanzo, e ciascuno, obbligandoli a repudiare le prime lor mogli, fece sposar la propria figliuola al suo figliuolo adottivo[218]. Questi quattro Principi si diviser tra loro la vasta estensione dell'Impero Romano. La difesa della Gallia, della Spagna[219] e della Britannia fu affidata a Costanzo; e Galerio fu posto sulle rive del Danubio, a difesa delle Province Illiriche. L'Italia e l'Affrica si considerarono come dipartimento di Massimiano: e Diocleziano si riserbò per sua particolar porzione la Tracia, l'Egitto e le ricche contrade dell'Asia. Era sovrano ognuno nella sua giurisdizione; ma la loro autorità riunita si estendeva sopra tutta la Monarchia; ed era ciascun di essi pronto ad assistere i suoi Colleghi coi consigli o colla presenza. I Cesari nel sublime lor posto, rispettavano la Maestà degl'Imperatori, ed i tre più giovani Principi invariabilmente riconobbero colla loro gratitudine ed ubbidienza il comun padre delle loro fortune. La sospettosa gelosia della potenza non trovò luogo fra loro, e la singolar felicità della loro unione è stata paragonata ad un coro di musici, la cui armonia era regolata e conservata dall'abil mano del primo Artista[220].
Questo importante progetto non fu posto in esecuzione se non sei anni in circa dopo l'associazione di Massimiano, e non era stato quell'intervallo di tempo mancante di memorabili avvenimenti. Ma noi abbiamo preferito, in grazia della chiarezza, di prima descrivere la perfetta forma del governo di Diocleziano, e dopo di riferire le azioni del suo Regno, seguitando piuttosto il naturale ordine degli eventi, che le date di una incertissima cronologia.
La prima impresa di Massimiano, benchè sia brevemente riferita dai nostri imperfetti Scrittori, merita per la sua singolarità di esser rammentata in una storia dei costumi degli uomini. Egli soggiogò i contadini della Gallia, i quali sotto la denominazione di Bagaudi[221], eransi sollevati in una general sedizione, molto simile a quelle, che nel quartodecimo secolo afflissero successivamente la Francia e l'Inghilterra[222]. Sembra, che molte di quelle istituzioni, che facilmente si riferiscono al sistema feudale, sieno derivate dai barbari Celti. Quando Cesare soggiogò i Galli, era già quella numerosa nazione divisa in tre ordini di persone, clero, nobiltà e plebe. Il primo governava colla superstizione, il secondo colle armi, ma il terzo ed ultimo non aveva influenza o parte veruna nei pubblici loro consigli. Era naturalissimo che i plebei, oppressi dai debiti, o paventando le ingiurie, implorassero la protezione di qualche potente Capo, il quale acquistasse sopra le loro persone ed il lor patrimonio quei medesimi assoluti diritti, che tra i Greci e i Romani un padrone esercitava su i propri schiavi[223]. Fu a poco a poco la maggior parte della nazione ridotta allo stato di servitù, astretta alla perpetua coltivazione dei terreni appartenenti ai nobili Galli, e addetta al suolo o col peso reale delle catene, o col non meno crudele e possente vincolo delle leggi. Durante la lunga serie delle turbolenze, che agitarono la Gallia, dal Regno di Gallieno a quello di Diocleziano, la condizione di questi servili contadini fu in ispecial modo meschina, e soffrirono ad un tempo stesso la complicata tirannia dei loro padroni, dei Barbari, dei soldati, e dei ministri dell'entrate[224].
Cangiossi finalmente la sofferenza loro in disperazione. Si sollevarono essi a turme per ogni parte, armati di rustici strumenti con irresistibil furore. Divenne l'agricoltore soldato a piedi, montò a cavallo il pastore, i deserti villaggi, e le aperte indifese città furono abbandonate alle fiamme, e le devastazioni dei contadini eguagliarono quelle dei Barbari più feroci[225]. Sostenevano essi i naturali diritti degli uomini, ma li sostenevan per altro colla più selvaggia crudeltà. I nobili Galli, giustamente paventando la loro vendetta, si ricovrarono nelle città fortificate, o fuggirono dalla feroce scena dell'anarchia. Regnarono i contadini senza alcun freno; e due dei lor più arditi condottieri ebber la folle temerità di assumer gli ornamenti Imperiali[226]. Svanì ben presto la loro potenza all'arrivo delle legioni. La forza dell'unione e della disciplina riportò una facil vittoria contro una sfrenata e disunita moltitudine[227]. Furono severamente puniti i contadini presi colle armi in mano; ritornarono gli altri spaventati alle respettive loro abitazioni, e l'inutile loro sforzo per la libertà servì solamente a confermare la loro schiavitù. Così forte ed uniforme è la corrente delle popolari passioni, che possiam quasi arrischiarci con scarsissimi materiali a riferire le particolarità di questa guerra. Non siamo però disposti a credere che i principali Capi, Eliano ed Amando, fosser cristiani[228], o a supporre che la ribellione, come accadde al tempo di Lutero, fosse suscitata dall'abuso di quegli umani principj della Religione Cristiana, che inculcano la natural libertà degli uomini.
Appena ebbe Massimiano ricuperato la Gallia dalle mani dei contadini, ch'egli perdè la Britannia per l'usurpazione di Carausio. Dopo l'ardita ma fortunata impresa dei Franchi sotto il Regno di Probo, aveano i loro arditi concittadini costruite armate di leggieri brigantini, su i quali andavano continuamente a devastare le Province adiacenti all'Oceano[229]. Fu necessario creare una forza navale per reprimere le irregolari loro incursioni; e se ne proseguì il giudizioso progetto con prudenza e vigore. Gessoriaco, o sia Bologna, negli Stretti del canale Britannico, fu dall'Imperatore scelto per essere stazione della flotta Romana; e ne fu il comando affidato a Carausio, di vilissima origine, cittadino di Menapia[230]; ma che lungamente segnalata avea la sua abilità nella marina, ed il suo valore nell'armi. Non corrispose l'integrità di questo nuovo ammiraglio ai suoi talenti. Quando i Pirati della Germania fecero vela dai loro porti, lasciò loro libero il passaggio, ma ne impedì con gran diligenza il ritorno, e si appropriò un'ampia porzione del bottino da essi acquistato. La ricchezza di Carausio fu in quella congiuntura molto giustamente considerata come una prova del suo delitto, e Massimiano già ne avea ordinata la morte. Ma l'accorto Menapio previde, e prevenne la severità dell'Imperatore. Colla sua liberalità egli si era affezionata la flotta che comandava, e tirati i Barbari nei suoi interessi. Fece egli vela dal porto di Bologna verso la Britannia, indusse la legione e gli ausiliari, che difendevano quell'Isola ad abbracciare il suo partito, e arditamente assumendo, insieme colla porpora, il titolo di Augusto, disfidò la giustizia e le armi del suo offeso Sovrano[231].
Quando la Britannia fu così smembrata dall'Impero, ne fu sensibilmente riconosciuta l'importanza, e sinceramente deplorata la perdita. I Romani celebrarono, e forse magnificarono l'estensione di quell'Isola illustre, provveduta per ogni parte di comodi porti; la temperie del clima, e la fertilità del suolo, egualmente atte alla produzione di grano e del vino; i ricchi minerali, ond'ella abbondava; gli ubertosi prati coperti d'innumerabili greggi; ed i suoi boschi privi di bestie feroci o di velenosi serpenti. Deploravano essi specialmente la perdita delle considerabili entrate della Britannia, confessando nel tempo stesso che meritava quella Provincia d'esser la sede d'una monarchia indipendente[232]. La possedè Carausio per lo spazio di sette anni, e la fortuna si mantenne propizia ad una ribellione sostenuta dal coraggio e dall'abilità. Difese l'Imperatore Britannico le frontiere de' suoi dominj contro i Caledonj del Settentrione; invitò dal continente un gran numero di abili artefici; ed in una varia quantità di medaglie, tutt'ora esistenti, fece pompa del suo buon gusto e della sua opulenza[233]. Nato su i confini dei Franchi, egli si procacciò l'amicizia di quella formidabil nazione coll'adulatrice imitazione delle lor vesti e de' lor costumi. Arrolò la più valorosa lor gioventù nelle sue truppe di terra o di mare, ed in contraccambio dell'utile lor alleanza, comunicò a quei Barbari la pericolosa scienza dell'arte militare e navale. Possedeva Carausio tuttavia Bologna ed il paese adiacente. Le trionfanti sue flotte veleggiavano nel canale, comandavano alle foci della Senna e del Reno, devastavano le coste dell'Oceano, e spandevano oltre le Colonne d'Ercole il terrore del nome di lui. Sotto il suo governo la Britannia, destinata nei secoli futuri all'impero del mare, avea già preso il suo naturale e rispettabil grado di potenza marittima.
Avea Carausio, coll'impadronirsi della flotta di Bologna, tolti al suo Sovrano i mezzi di perseguitarlo e di vendicarsi. E quando, dopo una gran perdita di tempo e di fatica, fu lanciato in mare un nuovo armamento[234], le truppe imperiali, non avvezze a quell'elemento furono facilmente aggirate e disfatte dai vecchi marinari dell'Usurpatore. Questo inutile sforzo produsse ben presto un trattato di pace. Diocleziano ed il suo collega, giustamente paventando lo spirito intraprendente di Carausio, cederono ad esso la sovranità della Britannia, e con ripugnanza ammisero il loro perfido suddito a parte degli onori imperiali[235]. Ma l'adozione dei due Cesari diede un nuovo vigore alle armi Romane; e mentre che il Reno era difeso dalla presenza di Massimiano, il valoroso suo collega Costanzo assunse la direzione della guerra Britannica. La sua prima impresa fu contro l'importante piazza di Bologna. Un superbo molo, innalzato a traverso l'ingresso del porto, tolse ogni speranza di soccorso. La città si rendè dopo un'ostinata difesa; ed una parte considerabile delle forze navali di Carausio cadde in potere degli assedianti. Nel corso de' tre anni, che Costanzo impiegò a preparare una flotta adeguata alla conquista della Britannia, egli assicurò la costa della Gallia, fece irruzione nel paese dei Franchi, e privò l'Usurpatore dell'aiuto di quei possenti alleati.
Prima che fossero finiti i preparativi, Costanzo ricevè la notizia della morte del Tiranno, che fu considerata come un sicuro presagio della vicina vittoria. I ministri di Carausio imitarono l'esempio di tradimento dato da lui. Fu egli ucciso dal suo primo ministro Aletto, e l'assassino gli succedè nella potenza e nel pericolo. Ma non aveva egli abilità conveniente per esercitare la prima, od allontanare il secondo. Egli vedeva con angustioso terrore le opposte rive del continente già piene d'armi, di truppe e di navi, perchè Costanzo avea molto prudentemente diviso le sue forze, per dividere parimente l'attenzione e la resistenza del nemico. L'assalto fu finalmente dato dal principale squadrone, ch'era stato adunato alla foce della Senna, sotto il comando del Prefetto Asclepidoto, Uffiziale di merito singolare. Tanto imperfetta era in quei tempi l'arte della navigazione, che gli oratori hanno celebrato l'ardito coraggio dei Romani, i quali si arrischiarono a far vela con un vento di fianco, ed in un giorno burrascoso. Divenne il tempo favorevole alla loro impresa. Coperti da una densa nebbia, scamparono dalla flotta, che Aletto avea posta all'isola di Wight per riceverli, scesero con sicurezza sulla costa occidentale, e dimostrarono ai Britanni, che la superiorità delle forze navali non sempre avrebbe difesa la patria loro contro una straniera invasione. Appena ebbe Asclepiodoto sbarcate le truppe Imperiali, che incendiò le proprie navi; e siccome felice fu la spedizione, così fu universalmente ammirata la sua eroica condotta. L'Usurpatore si era posto vicino a Londra per ivi ricevere il formidabile assalto di Costanzo, che comandava in persona la flotta di Bologna; ma la discesa di un nuovo nemico richiedeva immediatamente la sua presenza nell'Occidente. Fece egli quella lunga marcia tanto precipitosamente, che incontrò tutte le forze del Prefetto con un piccol numero di stracche e scoraggiate truppe. Presto terminò il combattimento colla total disfatta e morte di Aletto: una sola battaglia, come spesso è seguito, decise il fato di quella grand'Isola; e quando Costanzo sbarcò su i lidi di Kent, li ritrovò coperti di sudditi ubbidienti. Alte ed unanimi furono le loro acclamazioni; e le virtù del vincitore possono indurci a credere, ch'ei si rallegrassero sinceramente di una rivoluzione, la quale, dopo una separazione di dieci anni, riuniva la Britannia al corpo dell'Impero di Roma[236].
Non avea la Britannia da temere altri nemici che gl'interni; e finchè i suoi Governatori conservarono la loro fedeltà, e le truppe la lor disciplina, le incursioni dei nudi selvaggi della Scozia o dell'Irlanda non poterono mai grandemente nuocere alla sicurezza della Provincia. La pace del continente, e la difesa dei gran fiumi, che servivano di confini all'Impero, erano molto più importanti e difficili oggetti. La politica di Diocleziano, la quale presedeva ai consigli dei suoi Colleghi, provvide alla pubblica tranquillità, fomentando lo spirito di dissensione fra i Barbari, ed accrescendo le fortificazioni dei Romani confini. Egli stabilì nell'Oriente una linea di campi militari dall'Egitto ai dominj Persiani, ed acquartierò in ogni campo un adeguato numero di truppe, comandate dai rispettivi loro Uffiziali, e fornite di ogni sorta di armi tratte dai nuovi arsenali, che avea eretti in Antiochia, in Emesa, ed in Damasco[237]. Nè fu l'Imperatore meno vigilante a cautelarsi contro il ben noto valore dei Barbari dell'Europa. Dalla foce del Reno a quella del Danubio furono diligentemente ristabiliti gli antichi accampamenti, le città, e le fortezze, e ne furono molto abilmente costruite altre nuove nei luoghi più esposti: fu introdotta la più esatta vigilanza tra le guarnigioni della frontiera, e fu posto in uso ogni espediente che render potesse salda ed impenetrabile la lunga catena delle fortificazioni[238]. Fu raramente violata una così rispettabil barriera, e spesso i Barbari tra loro gli uni contro gli altri rivolsero il lor deluso furore. I Goti, i Vandali, i Gepidi, i Borgognoni, gli Alemanni dissiparono scambievolmente le proprie forze con distruggitrici ostilità, e chiunque vincesse, vinceva i nemici di Roma. I sudditi di Diocleziano, godendo di quel sanguinoso spettacolo, si rallegravan tra loro che solamente i Barbari provassero allora le miserie della guerra civile[239].
Malgrado la politica di Diocleziano fu impossibile di conservare un'uguale e non interrotta tranquillità, durante un regno di vent'anni, e lungo una frontiera di più centinaia di miglia. Sospesero talora i Barbari le domestiche loro animosità, e la rilassata vigilanza delle guarnigioni lasciò talvolta un adito alla loro forza o alla loro destrezza. Ogni qualvolta furono le Province invase, Diocleziano si comportò con quella calma e dignità da lui sempre affettata o posseduta, riservò la sua presenza per quelle occasioni che meritassero d'interporvela, nè mai espose senza necessità la sua persona o la sua riputazione a pericolo alcuno. Si assicurò il buon successo con tutti quei mezzi, che la prudenza potea suggerire, e manifestò con ostentazione le conseguenze della sua vittoria. Nelle guerre di più difficil natura, e di più incerto evento, egli impiegò il feroce valore di Massimiano; e questo fido soldato si contentò di attribuire le proprie vittorie ai saggi consigli ed alla fausta influenza del suo benefattore. Ma dopo l'adozione dei due Cesari, gl'Imperatori stessi ritirandosi in un teatro di meno faticose azioni, affidarono ai loro figli adottivi la difesa del Danubio e del Reno. Non fu mai il vigilante Galerio ridotto alla necessità di vincere un'armata di Barbari sul territorio Romano[240]. Il valoroso ed attivo Costanzo liberò la Gallia da una furiosissima irruzione degli Alemanni; e le sue vittorie di Langres e di Vindonissa sembrano essere state azioni di notabil pericolo e di merito non volgare. Mentre egli traversava l'aperta campagna con poca gente, fu all'improvviso circondato da una superior moltitudine di nemici. Egli si ritirò con difficoltà verso Langres, ma nella costernazion generale ricusarono i cittadini di aprir le porte: ed il ferito Principe fu con una corda tirato su dalle mura. Ma alla nuova del suo pericolo corsero le truppe Romane da ogni parte a soccorrerlo, e prima della sera egli aveva soddisfatto al suo onore, ed alla sua vendetta colla strage di seimila Alemanni[241]. Si potrebbero forse raccogliere dai monumenti di quei tempi le oscure tracce di molte altre vittorie riportate su i Barbari della Sarmazia e della Germania; ma non sarebbe questa tediosa ricerca ricompensata da diletto o da istruzione veruna.
La regola che avea l'Imperator Probo adotta nel disporre dei vinti, fu imitata da Diocleziano e dai suoi colleghi. I Barbari prigionieri, cambiando la morte in ischiavitù, furono distribuiti tra i Provinciali, ed assegnati a quei distretti (nella Gallia sono specialmente indicati i territorj di Amiens, di Beauvais, di Cambrai, di Treveri, di Langres, e di Troyes[242] ), i quali erano stati spopolati dalle calamità della guerra. Furono essi utilmente impiegali come pastori ed agricoltori; ma non fu ad essi permesso l'esercizio dell'armi, se non quando fu creduto espediente di arrolarli nelle milizie. Nè ricusarono gli Imperatori di dare, con un titolo meno servile, delle terre in proprietà a quelli tra i Barbari, che domandarono la protezione di Roma. Essi accordarono uno stabilimento a diverse colonie dei Carpi, dei Bastarni e dei Sarmati; e con pericolosa compiacenza permisero loro in qualche modo di conservare i nazionali costumi e l'indipendenza[243]. Fu per li Provinciali un soggetto di lusinghiera letizia, che i Barbari, recentissimi oggetti di terrore, coltivassero allora i loro terreni, conducessero il lor bestiame alla vicina fiera, e contribuissero colle loro fatiche alla pubblica abbondanza. Si rallegrarono essi coi loro Sovrani del possente accrescimento di sudditi e dei soldati, ma si scordarono di osservare, che si introduceva nel cuor dell'Impero[244] una moltitudine di secreti nemici, cui rendeva il favore insolenti, o l'oppressione disperati.
Mentre i Cesari esercitavano il loro valore sulle rive del Reno o del Danubio, la presenza degl'Imperatori era necessaria ai meridionali confini del mondo Romano. Dal Nilo fino al monte Atlante era l'Affrica in armi. Cinque nazioni Maure confederate escirono da' loro deserti per invadere le tranquille Province[245]. Giuliano avea presa la porpora in Cartagine[246], Achilleo in Alessandria, e perfino i Blemmi rinnovavano, o piuttosto continuavano le loro incursioni nell'Egitto superiore. Sono appena state a noi trasmesse alcune circostanze delle imprese di Massimiano nelle parti occidentali dell'Affrica, ma dall'evento si vede che rapido e decisivo fu il progresso delle armi sue, che egli vinse i Barbari più feroci della Mauritania; e che gli allontanò da quei monti, l'inaccessibil riparo dei quali avea inspirato ai loro abitatori una ingiusta confidenza, e gli avea accostumati a vivere di violenze e di rapine[247]. Diocleziano, dal canto suo, aprì la campagna nell'Egitto coll'assedio di Alessandria, tagliò gli acquedotti, che portavano le acque del Nilo in ogni quartiere di quella immensa città[248], e assicurato il suo campo dalle sortite dell'assediata moltitudine, continuò i suoi reiterati assalti con prudenza e con vigore. Dopo un assedio di otto mesi, Alessandria, devastata dal ferro e dal fuoco, implorò la clemenza del vincitore; ma ne provò tutta la severità. Molte migliaia di cittadini perirono in una confusa strage, e pochi colpevoli vi furono nell'Egitto, che evitassero la sentenza di morte o almeno di esilio[249]. Fu il fato di Busiri e di Copto più lacrimevole ancora di quel d'Alessandria. Quelle superbe città, la prima illustre per la sua antichità, la seconda arricchita dal passaggio del commercio dell'India, furono affatto distrutte dalle armi e dai severi ordini di Diocleziano[250]. Il solo carattere della nazione Egiziana, insensibile alla dolcezza, ma suscettivo di timore oltremodo, potea giustificare questo rigore eccessivo. Aveano sovente le sedizioni di Alessandria messa in pericolo la tranquillità e la sussistenza di Roma medesima. Dalla usurpazione di Fermo in poi, la Provincia dell'Egitto superiore, ricadendo sempre in nuove ribellioni, avea abbracciata l'alleanza dei selvaggi dell'Etiopia. Era poco considerabile il numero dei Blemmi, sparsi tra l'Isola di Meroe od il Mar Rosso: non guerriere erano le loro inclinazioni; e rozze, e non offensive le armi[251]. Pure nelle pubbliche turbolenze quei Barbari, che l'antichità per la deforme loro figura avea esclusi dalla specie umana, presunsero di entrare nel numero dei nemici di Roma[252]. Tali erano stati gl'indegni alleati degli Egiziani; e mentre era l'attenzione dello Stato rivolta a guerre più serie, avrebbero le inquiete loro incursioni potuto di nuovo turbare il riposo della Provincia. Colla mira di opporre ai Blemmi un avversario degno di loro, Diocleziano indusse i Nubati, o sia gli abitanti della Nubia, ad abbandonare le antiche loro abitazioni nei deserti della Libia, o cedè ad essi un vasto ma infruttifero territorio al di là di Siene e delle cateratte del Nilo, col patto che essi avrebber sempre rispettata e difesa la frontiera dell'Impero. Sussistè lungamente il trattato; e finchè lo stabilimento del Cristianesimo non introdusse più giuste idee di culto religioso, fu annualmente ratificato con un solenne sacrifizio nell'Isola di Elefantina, nella quale i Romani, non meno che i Barbari, adoravano le stesse visibili o invisibili potenze dell'Universo[253].
Mentre Diocleziano puniva i passati delitti degli Egiziani, egli provvedeva alla futura loro sicurezza e felicità con molti savj regolamenti, che furono confermati ed invigoriti sotto i Regni successivi[254]. Un molto osservabile editto da lui pubblicato, in vece di condannarsi come parto di una gelosa tirannia, merita di essere applaudito come un atto di prudenza e di umanità. Egli volle che si facesse una diligente ricerca «di tutti gli antichi libri, i quali trattavano della mirabil arte di far l'oro e l'argento, e li condannò senza pietà alle fiamme; temendo (come ci assicurano) che l'opulenza degli Egiziani non inspirasse loro l'ardire di ribellarsi contro l'Impero[255].» Ma se Diocleziano fosse stato convinto della realtà di quest'arte importante, ben lungi dallo spegnerne la memoria, ne avrebbe rivolta l'operazione in benefizio delle pubbliche entrate. È più verisimile che il suo buon senso gli discoprisse la follia di così magnifiche pretensioni, e che desiderasse preservare la ragione ed i beni dei sudditi da questa pregiudiciale ricerca. È da osservarsi, che quegli antichi libri, così liberalmente attribuiti a Pitagora, a Salomone, o ad Ermete, erano pie fraudi di più moderni alchimisti. I Greci trascurarono l'uso o l'abuso della chimica. In quell'immenso registro, dove Plinio ha depositato le scoperte, le arti, o gli errori dello spirito umano, non si fa la minima menzione della transmutazione dei metalli; e la persecuzione di Diocleziano è il primo autentico fatto della storia dell'alchimia. La conquista dell'Egitto, fatta dagli Arabi, diffuse quella vana scienza sul globo. Favorevole all'avarizia del cuore umano, fu essa studiata nella China, come nell'Europa, con pari ardore e successo. L'oscurità dei secoli di mezzo assicurava di un favorevole ricevimento ogni maravigliosa novella, ed il rinascimento delle scienze aggiunse nuovo vigore alla speranza, e suggerì più fini artifizi alla frode. La filosofia, assecondata dall'esperienza, ha finalmente bandito lo studio dell'alchimia, ed il secolo presente, benchè avido di ricchezze, si contenta di cercarle per le più umili vie del commercio e dell'industria[256].
Alla soggezione dell'Egitto immediatamente successe la guerra contro i Persiani. Era al Regno di Diocleziano riservato il vincere quella possente nazione, ed astringere i successori di Artaserse a riconoscere la superiore maestà dell'Impero di Roma.
Abbiamo osservato, che sotto il Regno di Valeriano, fu l'Armenia soggiogata dalla perfidia e dalle armi dei Persiani, e che dopo l'assassinio di Cosroe, il suo figliuolo Tiridate, ancor fanciullo, erede della monarchia, fu salvato dalla fedeltà dei suoi amici, ed educato sotto la protezione degl'Imperatori. Tiridate ricavò dal suo esilio vantaggi tali, che non gli avrebbe mai conseguiti sul trono dell'Armenia; cioè la sollecita cognizione delle avversità, degli uomini, o della Romana disciplina. Egli segnalò la sua gioventù con valorose azioni, e mostrò incomparabil forza e destrezza in ogni esercizio marziale, ed ancora nelle meno gloriose contese dei giuochi Olimpici[257]. Queste qualità furono più nobilmente impiegate nella difesa del suo benefattore Licinio[258]. Questo Uffiziale, nella sedizione che cagionò la morte di Probo, fu esposto al più imminente pericolo; e gl'inferociti soldati si aprivano a forza la strada nella sua tenda, quando furono repressi dal solo braccio del Principe Armeno. La gratitudine di Tiridate contribuì subito dopo al ristabilimento di lui. Fu Licinio in ogni posto l'amico ed il compagno di Galerio, ed il merito di Galerio, molto prima che fosse innalzato alla dignità di Cesare, era stato conosciuto e stimato da Diocleziano. Nel terz'anno del regno di questo Imperatore, fu a Tiridate conferito il reame dell'Armenia. Erano la giustizia e l'opportunità di tal progetto ugualmente evidenti. Era ormai tempo di liberare dalla usurpazione del Monarca Persiano un territorio importante, che dal Regno di Nerone in poi era sempre stato concesso sotto la protezione dell'Impero al più giovane ramo degli Arsaci[259].
Quando comparve Tiridate sulle frontiere dell'Armenia, fu ricevuto con sincero trasporto di allegrezza e di fedeltà. Soffriva quel paese da trentasei anni le reali e le immaginarie angustie di un giogo straniero. I Monarchi Persiani aveano adornata la loro nuova conquista con magnifici edifizi; ma questi monumenti erano eretti a spese della nazione, ed abborriti come segni di schiavitù. Avea il timore di una ribellione suggerite le più rigorose precauzioni: era stata l'oppressione aggravata dagl'insulti, e la certezza dell'odio pubblico avea fatto prender tutte quelle provvisioni che render lo poteano ancor più implacabile. Abbiam già notato l'intollerante spirito della religione dei Magi.
Le statue dei divinizzati Re dell'Armenia, e le sacre immagini del Sole e della Luna furono ridotte in pezzi dallo zelo del vincitore; ed il fuoco perpetuo di Ormuz fu acceso e conservato sopra un'ara eretta sulla sommità del monte Bagavo[260]. Era ben naturale che un popolo, da tante offese inasprito, si armasse di zelo per la causa della sua indipendenza, della sua religione, e del suo legittimo Sovrano; il torrente abbattè ogni ostacolo, e pose in fuga la guarnigione Persiana. Corsero i nobili Armeni sotto lo stendardo di Tiridate, tutti allegando i loro passati meriti, offrendo i loro futuri servigi, e domandando al nuovo Re quelle cariche e quelle ricompense, dalle quali erano stati con dispregio esclusi sotto lo straniero governo[261]. Il comando dell'armata fu conferito ad Artavasde, il cui padre avea salvato Tiridate nella sua infanzia, e la cui famiglia era stata trucidata per quell'azion generosa. Ottenne il fratello di Artavasde il governo di una Provincia. Una delle prime cariche militari fu conferita al Satrapo Otas, uomo di singolar temperanza e fortezza, che presentò al Re la sorella di lui[262], ed un considerabil tesoro, che aveva ambedue conservati inviolati in una rimota fortezza. Comparve tra i nobili Armeni un alleato, le cui vicende sono troppo considerabili per non farne menzione. Egli avea nome Mamgo; era Scita d'origine; e la Tribù, che da lui dipendeva, si era pochi anni avanti accampata su i confini dell'Impero Chinese[263], che si estendeva allora fino alle vicinanze della Sogdiana[264]. Essendo Mamgo incorso nello sdegno del suo Sovrano, si ritirò coi suoi seguaci verso le rive dell'Oxo, ed implorò la protezione di Sapore. L'Imperatore della China richiese il fuggitivo, allegando i diritti della Sovranità. Il Monarca Persiano oppose le leggi dell'ospitalità; e non senza difficoltà evitò una guerra, colla promessa di confinar Mamgo nelle più lontane parti dell'Occidente; pena, com'egli la descriveva, non meno terribile della morte. L'Armenia fu scelta pel luogo dell'esilio, e fu alla Scitica Tribù assegnato un vasto distretto, sul quale potesse pascolare i suoi greggi ed armenti, e trasportare le sue tende da un luogo all'altro, secondo le diverse stagioni dell'anno. Furono quelle genti impiegate a respingere l'invasione di Tiridate: ma il lor condottiero, dopo aver bilanciato i benefizi e le offese, che avea ricevuto dal Monarca Persiano, risolvè di abbandonare il partito. Il Principe Armeno, cui bene era noto il merito e la potenza di Mamgo, lo trattò con rispettosa distinzione; ed ammettendolo alla sua confidenza, acquistò un suddito coraggioso e fedele, che molto efficacemente contribuì a ristabilirlo sul trono[265].
Si mostrò per un tempo propizia la fortuna dell'intraprendente valore di Tiridate. Egli non solo discacciò i nemici della sua famiglia o della sua patria da tutta l'estensione dell'Armenia, ma continuando la sua vendetta, portò le armi, o almeno le scorrerie, fino nel cuor dell'Assiria. Lo storico, che ha tolto il nome di Tiridate all'obblìo, celebra con un grado di nazionale entusiasmo il personal valore di lui; e col vero spirito di un oriental romanzista descrive i giganti e gli elefanti che caddero sotto l'invincibil suo braccio. Da altre informazioni rileviamo le divisioni della monarchia Persiana, alle quali il Re dell'Armenia fu in parte debitore dei suoi vantaggi. Era il trono disputato dall'ambizione di due rivali fratelli; ed Ormuz, dopo aver inutilmente impiegate le forze del suo partito, ricorse alla pericolosa assistenza dei Barbari, che abitavano lungo la spiaggia del Caspio[266]. Fu però la guerra civile presto terminata o con una vittoria o con una riconciliazione; e Narsete, universalmente riconosciuto Re della Persia, rivolse tutte le sue forze contro il nemico straniero. La contesa si fece allora troppo ineguale, nè il valor dell'Eroe poteva resistere alla possanza del Monarca. Tiridate, scacciato per la seconda volta dal trono dell'Armenia, si rifuggì di nuovo nella Corte degl'Imperatori. Narsete ristabilì ben tosto la sua autorità nella ribellata Provincia, ed altamente lagnandosi della protezione largita dai Romani ai ribelli ed ai fuggitivi, aspirò alla conquista dell'Oriente[267].
Nè la prudenza nè l'onore permettevano agli Imperatori di abbandonare la causa del Re dell'Armenia e fu risoluto di mostrare la forza dell'Impero nella guerra Persiana. Diocleziano con quella ferma dignità, che egli costantemente assumeva, piantò la sua sede in Antiochia, donde preparava o dirigeva le militari operazioni[268]. Fu il comando delle legioni affidato all'intrepido valore di Galerio, il quale per quell'importante disegno fu richiamato dalle rive del Danubio a quelle dell'Eufrate. S'incontrarono ben tosto gli eserciti nelle pianure della Mesopotamia, e due battaglie seguirono con vario e dubbio successo, ma più decisivo fu il terzo combattimento; e l'esercito Romano ebbe un'intera disfatta, attribuita alla temerità di Galerio, che con un piccolo corpo di truppe assalì l'innumerabile esercito dei Persiani[269]. Ma la considerazione del paese, che fu il teatro di questa azione, può suggerirci un'altra ragione della sconfitta di lui. Il terreno stesso, nel quale fu vinto Galerio, era divenuto fumoso per la morte di Crasso e per la strage di dieci legioni. Era questo una pianura di più di sessanta miglia, che si stendeva dai monti di Carre all'Eufrate; un raso, sterile ed arenoso deserto, senza una collina, senza un albero, o senza una sorgente di acqua dolce[270]. La grave infanteria dei Romani, oppressa dal caldo e dalla sete, non potea sperar la vittoria mantenendosi in ordinanza, nè disunirsi senza esporsi al più imminente pericolo. In questa situazione fu a poco a poco circondata dal numero superiore, affaticata dalle rapide evoluzioni, e distrutta dagli strali della nemica cavalleria. Avea il Re d'Armenia segnalato il suo valore nella battaglia e ricavata una gloria personale dalla pubblica calamità. Egli venne perseguitato fino all'Eufrate; era il suo cavallo ferito, e sembrava impossibile che fuggir potesse al vittorioso nemico. In questa estremità, Tiridate abbracciò l'unico scampo che si vide d'avanti, smontò e si lanciò nel fiume. La sua armatura era grave, molto profondo il fiume, e in quelle parti largo almeno mezzo miglio[271]: pure fu tal la forza e la destrezza di lui, che arrivò salvo all'opposta riva[272]. Riguardo al Generale Romano, noi non sappiamo le circostanze della sua fuga; ma quando egli ritornò in Antiochia, Diocleziano lo ricevè non colla tenerezza di un amico e di un collega, ma collo sdegno di un offeso Sovrano. Il più altero degli uomini, vestito di porpora, ma umiliato dal sentimento del suo fallo e della sua sventura, fu obbligato a seguitare a piedi per più di un miglio il cocchio dell'Imperatore, e dare a tutta la Corte lo spettacolo del suo disonore[273].
Appena ebbe Diocleziano soddisfatto il suo privato risentimento, e sostenuta la maestà dei sovrano potere, cedè alle umili preci del Cesare, e gli permise di ricuperare il suo onore e quello delle armi Romane. In vece delle imbelli truppe dell'Asia, le quali molto probabilmente avean servito nella prima spedizione, fu composto un nuovo esercito di veterani e di nuove reclute della frontiera Illirica; ed un corpo considerabile di Goti ausiliari fu preso al soldo imperiale[274]. Galerio passò di nuovo l'Eufrate alla testa di una scelta armata di venticinquemila uomini, ma in vece di esporre le sue legioni nelle aperte pianure della Mesopotamia, si avanzò per le montagne dell'Armenia, ove trovò gli abitatori zelanti per la sua causa, ed il territorio favorevole alle operazioni dell'infanteria, ed altrettanto disadatto ai movimenti della cavalleria[275]. Avea l'avversità assodata la disciplina dei Romani, mentre che i Barbari, insuperbiti del buon successo, erano divenuti così trascurati e negligenti, che nel momento in cui meno se l'aspettavano, furono sorpresi dall'attiva condotta di Galerio, il quale accompagnato solamente da due uomini a cavallo, avea co' suoi propri occhi segretamente esaminata la situazione e lo stato del loro campo. Una sorpresa, specialmente di notte, era il più delle volte fatale all'armata Persiana. «I loro cavalli erano legati, e generalmente impastoiati per prevenirne la fuga; e ad un assalto improvviso dovea ogni Persiano legar la gualdrappa, imbrigliare il cavallo, e vestir la corazza avanti che salir potesse a cavallo[276].» In quella occasione l'impetuoso assalto di Galerio sparse il disordine ed il terrore nel campo dei Barbari. Ad una piccola resistenza successe una spaventevole strage, e nella general confusione il ferito Monarca (perchè Narsete comandava l'armata in persona) fuggì verso i deserti della Media. Le sue magnifiche tende, e quelle dei suoi Satrapi diedero un immenso bottino al vincitore, e vien riferito un incidente, che prova la rozza, ma marziale ignoranza delle legioni riguardo alle eleganti superfluità della vita. Cadde nelle mani di un privato soldato una borsa di cuoio lucente, ripiena di perle. Egli conservò diligentemente la borsa, ma gettò via il contenuto, giudicando, che tutto ciò, che non serviva ad alcun uso, aver non potesse valore alcuno[277]. La perdita principale di Narsete fu di un genere ben più interessante. Diverse delle sue mogli, e le sue sorelle ed i piccioli suoi figliuoli, che aveano seguitato il campo, furono fatti prigionieri nella sconfitta. Ma benchè il carattere di Galerio in generale avesse pochissima affinità con quello di Alessandro, egli imitò dopo la sua vittoria la benigna condotta del Macedone verso la famiglia di Dario. Le mogli ed i figli di Narsete furono protetti contro la violenza, e la rapina, condotti in luogo di sicurezza e trattati con ogni segno di rispetto e di tenerezza dovuta da un generoso nemico alla loro età, al lor sesso, ed alla reale lor condizione[278].
Mentre l'Oriente attendeva con ansietà la decisione di questa gran contesa, l'Imperator Diocleziano avendo raccolto nella Siria un forte esercito di osservazione spiegava in mostra da lungi i ripieghi della Romana potenza, e si riserbava per ogni futuro emergente della guerra. Alla nuova della vittoria condiscese ad avanzarsi verso la frontiera, coll'idea di moderare colla presenza e coi consigli l'ambizione di Galerio. L'abboccamento dei Principi Romani a Nisibi fu accompagnato da ogni espressione di rispetto da una parte, e di stima dall'altra. In quella città essi dettero subito dopo udienza all'Ambasciatore del gran Re[279]. Questa ultima disfatta avea atterrato la potenza o almeno il coraggio di Narsete; ed egli riguardava una pace immediata, come l'unico mezzo di arrestare il progresso delle armi Romane. Egli spedì Afarbane, suddito suo favorito e confidente, colla commissione di negoziare un trattato, o piuttosto di accettare quelle condizioni che impor volesse il vincitore. Afarbane aprì la conferenza, testimoniando la gratitudine del suo Sovrano pel generoso trattamento fatto alla sua famiglia, e domandando la libertà di quegli illustri prigionieri. Egli celebrò il valore di Galerio senza diminuire la riputazione di Narsete, e non credè disonore il riconoscere la superiorità del vittorioso Cesare sopra un Monarca che avea superata la gloria di tutti i principi della sua stirpe. Non ostante la giustizia della causa Persiana, egli era autorizzato a sottoporre le attuali pendenze alla decisione degli Imperatori medesimi; persuaso, che in mezzo alle prosperità non si scorderebbero delle vicende della fortuna. Concluse Afarbane il suo discorso collo stile delle orientali allegorie, osservando che le Monarchie Romana e Persiana erano i due occhi del mondo, il quale rimarrebbe imperfetto e mutilato, se l'uno o l'altro gli fosse tolto.
«Ben conviene ai Persiani» replicò Galerio con un trasporto di furore, che parve mettere in convulsione tutta la sua macchina «ben conviene ai Persiani l'estendersi sulle vicende della fortuna, e farci tranquillamente delle lezioni sulla virtù della moderazione. Si rammentino essi la propria loro moderazione verso l'infelice Valeriano. Essi lo vinsero con frode, lo trattarono con indegnità. Lo ritennero fino all'ultimo momento della sua vita in vergognosa prigionia, e dopo la sua morte ne esposero il corpo ad una perpetua ignominia.» Raddolcito però il suo stile, Galerio fece intendere all'Ambasciatore, che non erano mai stati usati i Romani a calpestare un nemico umiliato, e che in quell'occasione avrebbero consultato la propria loro dignità anzi che il merito dei Persiani. Licenziò Afarbane colla speranza, che presto sarebbe Narsete informato a qual condizione ottener poteva dalla clemenza degli Imperatori una pace durevole, e la restituzione delle sue mogli e de' suoi figliuoli. Da questo abboccamento possiamo rilevare le feroci passioni di Galerio, non meno che la sua deferenza al superior consiglio ed all'autorità di Diocleziano. L'ambizione del primo abbracciava la conquista dell'Oriente, ed avea proposta di ridurre la Persia in provincia. La prudenza del secondo, che aderiva alla moderata politica di Augusto o degli Antonini, profittò della favorevole occasione di terminare una guerra fortunata con una pace onorevole e vantaggiosa[280].
In conseguenza delle loro promesse gl'Imperatori subito dopo destinarono Sicorio Probo, uno de' loro segretari, a notificare alla Corte Persiana l'ultima loro risoluzione. Come ministro di pace fu egli ricevuto con ogni contrassegno di cortesia e di amicizia; ma sotto il pretesto di accordargli il necessario riposo dopo un viaggio sì lungo, fu l'udienza di Probo differita di giorno in giorno; ed egli attese i lenti movimenti del Re, sino a che in fine fu ammesso alla presenza di lui vicino al fiume Asprudo nella Media. Il secreto motivo di Narsete in questo indugio era stato di adunare tali forze militari, che potessero metterlo in istato, benchè sinceramente bramoso della pace, di trattarla con maggior peso e colla maggiore dignità. Tre sole persone assisterono a questa conferenza importante, il ministro Afarbane, il Prefetto delle guardie, ed un Uffiziale, che avea comandato sulla frontiera dell'Armenia[281]. Poco intelligibile per noi è al presente la prima condizione proposta dall'Ambasciatore: che si destinerebbe, cioè, la città di Nisibi ad essere il luogo dello scambievol traffico, ovvero (come noi avremmo detto una volta) la piazza di commercio, tra i due Imperi. Non vi è difficoltà in concepire l'intenzione che aveano i Principi Romani di aumentare le loro entrate con alcune imposizioni sopra il commercio; ma siccome Nisibi era situata nei loro propri dominj, ed essi eran padroni delle importazioni e delle esportazioni, parrebbe che tali restrizioni fossero gli oggetti di una legge interna anzichè di un estraneo trattato. Per renderle più efficaci, si pretese probabilmente che il Re di Persia convenisse in alcune stipulazioni, le quali sembrarono così ripugnanti o all'interesse o alla dignità del medesimo, che egli non si potè indurre a sottoscriverle. Essendo questo l'unico articolo, al quale ei negò il suo consenso, non vi fu più lungamente insistito; e gl'Imperatori soffrirono che il commercio passasse pe' suoi naturali canali, o si contentarono di alcune restrizioni, il cui stabilimento dipendea dalla loro autorità.
Rimossa appena questa difficoltà, fu solennemente conclusa e ratificata la pace tra le due nazioni. Le condizioni di un trattato, tanto glorioso all'Impero e necessario alla Persia, possono meritare una più particolare attenzione, giacchè la storia di Roma presenta molto pochi trattati di simil natura; essendo state la maggior parte delle sue guerre o terminate coll'intera conquista, o fatte contro i Barbari ignoranti dell'uso delle lettere. I. L'Abora, o come vien detto da Senofonte, l'Arasse fu stabilito per confine delle due Monarchie[282]. Questo fiume, che nasceva vicino al Tigri, veniva accresciuto poche miglia sotto Nisibi dal piccolo torrente di Migdonio, scorreva lungo le mura di Singara, e aboccava nell'Eufrate a Circessio, città di frontiera, che fu dalla cura di Diocleziano molto validamente fortificata[283]. La Mesopotamia, oggetto di tante guerre, fu ceduta all'Impero; ed i Persiani rinunziarono con questo trattato a tutte le pretensioni su quella vasta Provincia. II. Essi abbandonarono ai Romani cinque Province di là dal Tigri[284]. La situazione di queste formava una molto vantaggiosa barriera, e fu la loro forza naturale ben presto accresciuta dall'arte e dalla scienza militare. Quattro di esse, al Settentrione del fiume, erano distretti di oscura fama e di poca estensione, Intiline, Zadicene, Arzanene, e Moxoene: ma all'Oriente del Tigri l'Impero acquistò il vasto e montagnoso territorio di Carduene, antica sede dei Carduchj, i quali conservarono per molti secoli la generosa lor libertà nel centro delle dispotiche monarchie dell'Asia. I diecimila Greci traversarono il loro paese, dopo una penosa marcia, o piuttosto battaglia, di sette giorni; e confessa il lor condottiero nella sua incomparabile relazione della ritirata, che essi soffrirono più danno dai dardi dei Carduchj, che dalle forze del gran Re[285]. I Curdi, loro posteri, con piccolissima alterazione e di nome e di costumi, riconoscono di puro nome la sovranità del gran Signore. III. È quasi inutile osservare, che Tiridate, il fido alleato di Roma, fu ristabilito sul trono dei suoi antenati, e che furono pienamente sostenuti ed assicurati i diritti dell'Imperiale preeminenza. Furono i confini dell'Armenia estesi fino alla fortezza di Sinta nella Media, e questo accrescimento di dominio fu un atto più di giustizia che di liberalità. Delle già nominate Province di là dal Tigri, le quattro prime aveano i Parti smembrate dalla corona dell'Armenia[286], e quando i Romani ne acquistarono il possesso, essi stipularono, a spese degli Usurpatori, un'ampia compensazione, per cui ebbe il loro alleato il vasto e fertile paese di Atropatene. La sua principal città, situata forse dov'è la moderna Tauris, fu spesso onorata dalla residenza di Tiridate; e siccome ebbe talvolta il nome di Ecbatana, egli imitò negli edifizi e nelle fortificazioni la magnifica capitale dei Medi[287]. IV. Il paese dell'Iberia era sterile; rozzi e selvaggi n'erano gli abitanti. Ma essi erano avvezzi all'uso delle armi, e separavano dall'Impero altri Barbari, più di loro feroci e più formidabili. Padroni delle anguste foci del monte Caucaso, poteano essi introdurre o escludere le erranti turme dei Sarmati, ogni qual volta lo spirito di rapina le portava ad inoltrarsi nelle più opulenti contrade del mezzogiorno[288]. La nominazione dei Re dell'Iberia, che fu agl'Imperatori ceduta dal Monarca Persiano, contribuì al vigore ed alla stabilità della Romana potenza nell'Asia[289]. Godè l'Oriente per quarant'anni una profonda tranquillità: e fu il trattato tra le due Monarchie strettamente osservato fino alla morte di Tiridate; quando una nuova generazione, animata da mire e da passioni diverse, successe al governo del mondo; ed il nipote di Narsete intraprese una lunga e memorabil guerra contro i Principi della famiglia di Costantino.
A. D. 303
L'ardua impresa di liberare l'angustiato Impero dai Tiranni e dai Barbari era stata interamente compita da una successione d'Illirici agricoltori. Subito che Diocleziano entrò nel ventesimo anno del suo regno, celebrò quell'epoca memorabile, e la fortuna insieme delle sue armi colla pompa di un Romano trionfo[290]. Massimiano, compagno a lui eguale nel potere, fu l'unico suo compagno nella gloria di quel giorno. Aveano i due Cesari combattuto e vinto; ma il merito delle loro geste veniva attribuito, secondo il rigore delle massime antiche, alla fausta influenza dei loro Padri ed Imperatori[291]. Il trionfo di Diocleziano e di Massimiano fu forse meno magnifico di quelli di Aureliano e di Probo, ma fu decorato da varie circostanze di maggior gloria e felicità. L'Affrica e la Britannia, il Reno, il Danubio ed il Nilo, gli somministrarono i loro rispettivi trofei; ma l'ornamento più illustre era di una specie più singolare, cioè una vittoria Persiana, accompagnata da una conquista importante. Furono pertanto dinanzi al carro Imperiale portate le rappresentazioni dei fiumi, dei monti, e delle Province. Le immagini delle mogli, delle sorelle e dei figliuoli del Gran Re, presentavano un nuovo e gradito spettacolo alla vanità del popolo[292]. È questo trionfo ragguardevole agli occhi della posterità, per una distinzione di un genere meno onorevole. Fu l'ultimo trionfo che mai più Roma vedesse. Tosto dopo quest'epoca gl'Imperatori cessarono di vincere, e Roma cessò di essere la Capitale dell'Impero.
Il suolo, sul quale fu Roma fabbricata, era stato consacrato con antiche cerimonie e con immaginari miracoli. Ogni parte della città sembrava animata dalla presenza di qualche nume, o dalla memoria di qualche Eroe, e l'Impero del mondo era stato promesso al Campidoglio[293]. I nativi Romani sentivano e riconoscevano la forza di questa dolce illusione. Procedeva essa dai loro antenati, era cresciuta coll'educazione, ed in parte avvalorata dall'opinione della pubblica utilità. La forma e la sede del Governo eran tra loro intimamente connesse, e si credeva impossibile il trasferir l'una senza distruggere l'altra[294]. Ma la sovranità della Capitale rimase a poco a poco annullata nell'estensione delle conquiste; s'innalzarono le Province allo stesso livello, e le vinte nazioni acquistarono il nome ed i privilegi dei Romani, senza adottarne i parziali interessi. Per un lungo tempo però gli avanzi della antica costituzione, e l'influenza del costume conservarono la dignità di Roma. Gl'Imperatori, benchè forse di Affricana o Illirica estrazione, rispettarono la patria da loro adottata, come sede della loro potenza e centro dei loro estesi dominj. L'emergenze della guerra rendevano sovente necessaria la loro presenza sulle frontiere; ma Diocleziano e Massimiano furono i primi Principi Romani i quali stabilissero, in tempo di pace, l'ordinaria loro residenza nelle Province, e la loro condotta, benchè derivar potesse da privati motivi, fu giustificata da mire di politica molto speciose.
La Corte dell'Impero di Occidente risedeva per lo più in Milano, la cui situazione al piè dell'Alpi sembrava assai più di quella di Roma favorevole all'importante oggetto di vegliare su i movimenti dei Barbari della Germania. Acquistò ben tosto Milano lo splendore di una città Imperiale. Gli Storici ne descrivon le case come numerose, e ben fabbricate, e come culti e liberali i costumi del popolo. Un circo, un teatro, una zecca, un palazzo, i bagni che portavano il nome del loro fondator Massimiano; i portici adorni di statue, e un doppio recinto di mura contribuivano alla bellezza della nuova Capitale, che non sembrava abbattuta dalla vicinanza di Roma[295]. Fu pure ambizione di Diocleziano l'emulare la maestà di Roma; ed egli impiegò il suo ozio e le ricchezze dell'Oriente nell'abbellimento di Nicomedia, città posta sul confine dell'Europa e dell'Asia, quasi ad ugual distanza fra il Danubio e l'Eufrate. Il buon gusto del Monarca e la spesa del popolo diedero in pochi anni a Nicomedia un grado di magnificenza, che sembrava frutto della fatica di molti secoli, e la renderono inferiore solamente a Roma, ad Alessandria e ad Antiochia nell'ampiezza e nella popolazione[296]. Fu la vita di Diocleziano e di Massimiano una vita attiva, e ne consumarono essi gran parte nei campi o nelle loro lunghe e frequenti marce; ma sembra che ogniqualvolta aveano qualche riposo dai pubblici affari, si ritirassero con piacere nelle loro favorite residenze di Nicomedia e di Milano. È cosa molto dubbiosa se Diocleziano visitasse l'antica Capitale dell'Impero, prima del ventesimo anno del suo Regno, in cui celebrò il suo trionfo Romano. In quella memorabile occasione ancora, la sua permanenza non oltrepassò i due mesi. Disgustato dalla licenziosa famigliarità del popolo, egli si partì precipitosamente da Roma, tredici giorni prima del tempo che si aspettava di vederlo comparire in Senato, rivestito colle insegne della dignità Consolare[297].
L'avversione mostrata da Diocleziano per Roma e per la Romana libertà, non era l'effetto di un momentaneo capriccio, ma conseguenza della più artificiosa politica. Avea quell'accorto Principe abbozzato un nuovo sistema d'Imperial governo, che fu di poi perfezionato dalla famiglia di Costantino; e siccome nel Senato si conservava religiosamente l'immagine dell'antica costituzione, egli risolvè di spogliare quell'ordine de' suoi piccoli avanzi di potenza e di considerazione. Possiamo rammentarci quali fossero, quasi otto anni avanti l'innalzamento di Diocleziano, la passeggiera grandezza e le ambiziose speranze del Senato Romano. Finchè prevalse l'entusiasmo, molti dei Nobili fecero imprudente mostra del loro zelo per la causa della libertà; e quando ebbero i successori di Probo cessato di proteggere il partito Repubblicano, non seppero i Senatori nascondere l'impotente loro risentimento. Fu affidata a Massimiano, come Sovrano dell'Italia, la cura di estinguere questo più incomodo che pericoloso spirito d'indipendenza, e tale incarico conveniva perfettamente al crudele carattere di lui. I più illustri membri del Senato, pe' quali sempre mostrò Diocleziano un'affettata stima, furono dal Collega di lui involti nella accusa di immaginarie congiure, e la possessione di una magnifica villa o di un ben coltivato territorio era interpretata come una convincente prova di colpa[298]. Il campo dei Pretoriani, che avea sì lungamente oppressa la Maestà di Roma, cominciò a proteggerla, e siccome quelle altere truppe conoscevano la decadenza del loro potere, eran naturalmente disposte a congiunger la loro forza coll'autorità del Senato, Fu per le savie misure di Diocleziano insensibilmente diminuito il numero dei Pretoriani, furono i loro privilegi aboliti[299], e nel posto loro subentrarono due fedeli legioni dell'Illirico, che sotto i nuovi nomi di Gioviani e di Erculiani furono destinate a fare il servizio delle guardie Imperiali[300]. Ma la più fatale, benchè segreta ferita, che ricevesse il Senato dalle mani di Diocleziano e di Massimiano, fu l'inevitabil fatto della lunga lor lontananza. Finchè gli Imperatori risederono in Roma, poteva il Senato essere oppresso, ma difficilmente poteva esser negletto. I successori di Augusto usavano del potere di dettare tutte quelle leggi, che loro suggerir poteva la prudenza o il capriccio; ma queste leggi venivano ratificate dalla sanzione del Senato. Si conservava nelle sue deliberazioni e ne' suoi decreti l'immagine dell'antica libertà; ed i savi principi, che rispettavano i pregiudizi del popolo Romano, erano in qualche modo obbligati a tenere il linguaggio e la condotta conveniente al Generale ed al primo Magistrato della Repubblica. Ne' campi e nelle Province spiegavano la dignità di Monarchi, e quando essi posero ferma residenza lungi dalla Capitale, abbandonarono per sempre la dissimulazione, da Augusto raccomandata ai suoi successori. Nell'esercizio della potenza legislativa e dell'esecutiva, il Sovrano deliberava coi suoi Ministri, in vece di consultare il gran Consiglio della nazione. Il nome del Senato si rammentò con onore fino all'ultimo periodo dell'Impero. La vanità de' suoi membri[301] era sempre lusingata con onorifiche distinzioni, ma l'assemblea, che per tanto tempo era stata e la sorgente, e l'istrumento della potenza, fu rispettosamente lasciata cadere in obblìo. Il Senato di Roma, perdendo ogni connessione colla Corte Imperiale e coll'attual costituzione, fu lasciato come un venerabile ma inutile monumento di antichità sul colle Capitolino.
Quando i Principi Romani ebber perduto di vista il Senato e l'antica lor Capitale, facilmente obbliarono l'origine e la natura del loro legittimo potere. Le cariche civili di Console, di Proconsole, di Censore e di Tribuno, dall'unione delle quali quel potere era stato formato, ne mostravano al popolo la repubblicana origine. Questi modesti titoli[302] furono tralasciati, e se quei Principi tuttavia distinguevano l'alta lor dignità col nome d'Imperatore, si prendeva quella voce in un senso nuovo e più nobile, nè più denotava il Generale de' Romani eserciti, ma il Sovrano del mondo Romano. Il nome d'Imperatore, che a principio era d'instituzione militare, fu unito ad un altro di genere più servile. L'epiteto di Dominus, o di Signore, nella significazione sua primitiva, esprimeva non l'autorità di un Principe sopra i sudditi o di un comandante sopra i soldati, ma il dispotico potere di un Padrone sopra i domestici schiavi[303]. Riguardandolo in questo odioso aspetto, lo aveano rigettato con orrore i primi Cesari. Divenne insensibilmente più debole la loro resistenza, e meno odioso il nome, finchè in ultimo il titolo di nostro Signore e Imperatore fu non solamente accordato dalla adulazione, ma regolarmente inserito nella legge e nei pubblici monumenti. Questi cotanto superbi epiteti erano sufficienti ad innalzare o contentare la vanità più esorbitante, e se i successori di Diocleziano ricusavano tuttavia il nome di Re, ciò sembra essere stato l'effetto non tanto della loro moderazione, quanto della loro delicatezza. Dovunque era in uso la lingua latina, ed essa era il linguaggio del governo per tutto l'Impero, il titolo Imperiale, come particolare ad essi, spiegava un'idea più rispettabile del nome di Re, che avrebbero avuto comune con cento Barbari capitani, o che al più poteano derivar solamente da Romolo o da Tarquinio. Ma i sentimenti dell'Oriente erano assai diversi da quelli dell'Occidente. Fino dai più rimoti tempi della Storia, i Sovrani dell'Asia erano stati celebrati nel greco linguaggio col titolo di Basileus o di Re; e poichè questo si riguardava come la prima distinzione fra gli uomini, fu ben tosto usato dai servili Provinciali dell'Oriente nelle loro umili suppliche al trono Romano[304]. Anche gli attributi o almeno i titoli della Divinità furono usurpati da Diocleziano e da Massimiano, che li trasmisero ad una successione d'Imperatori cristiani[305]. Queste stravaganti formole di rispetto perdono però ben presto la loro empietà, perdendo il loro significato; e quando l'orecchio è una volta avvezzo a quel suono, si ascoltano con indifferenza come vaghe, benchè eccessive espressioni di ossequio.
Dal tempo di Augusto a quello di Diocleziano i Principi Romani, conversando famigliarmente tra i loro concittadini, erano salutati solamente con quello stesso rispetto che era solito usarsi coi Senatori e coi Magistrati. Il loro principal distintivo era la Imperiale, o militare veste di porpora; mentre l'abito Senatorio era distinto con una larga, o l'equestre con una stretta fascia o lista del medesimo onorifico colore. La superbia, o piuttosto la politica di Diocleziano, indusse quel Principe artifizioso a introdurre la splendida magnificenza della Corte di Persia[306]. Egli si arrischiò ad assumere il Diadema, ornamento detestato dai Romani come odiosa insegna della dignità Reale, ed il cui uso era stato considerato come l'atto più disperato della follìa di Caligola. Altro non era il diadema che una larga e bianca fascia, adorna di perle, che cingeva la testa dell'Imperatore. Le sontuose vesti di Diocleziano e de' suoi successori erano di seta e di oro; e vien con indignazione osservato che fino le loro scarpe erano guarnite delle gemme più preziose. L'accesso alla lor sacra persona si rendeva ogni dì più difficile per l'istituzione di nuove formalità e cerimonie. Gli aditi del palazzo erano diligentemente custoditi dalle diverse scuole, come cominciarono allora a chiamarsi, di Uffiziali domestici. Gli appartamenti interiori furono affidati alla gelosa vigilanza degli Eunuchi, la moltiplicazione ed influenza dei quali era il più infallibile indizio del progresso del dispotismo. Quando un suddito veniva finalmente ammesso all'Imperial presenza, era obbligato, qualunque fosse la sua condizione, al prostrarsi al suol, e di adorare, secondo il costume orientale, la divinità del suo Signore e Padrone[307]. Diocleziano era un uomo sensato, che nel corso di una vita e privata e pubblica avea concepito il giusto valore e di se stesso e del genere umano: e non è facile l'immaginare, che nel sostituire i costumi della Persia a quelli di Roma egli fosse seriamente animato da così basso principio, quale è quello della vanità. Egli si lusingò, che una ostentazione di splendore e di lusso soggiogherebbe l'immaginazione della moltitudine; che il Monarca sarebbe meno esposto alla rozza licenza dei popolo e dei soldati, a misura che la sua persona fosse meno esposta alla pubblica vista; e che le abitudini di sommissione insensibilmente produrrebbero sentimenti di venerazione. L'alterigia usata da Diocleziano era, egualmente che l'affettata modestia di Augusto, una teatrale rappresentazione; ma si dee confessare, che delle due commedie, la seconda era di un carattere molto più nobile e generoso della prima. La mira dell'uno era di nascondere l'infinito potere che aveano gl'Imperatori sul mondo Romano: l'oggetto dell'altro era di farne pompa.
L'ostentazione era il primo principio del nuovo sistema istituito da Diocleziano; e la divisione, il secondo. Egli divise l'Impero, le Province, ed ogni ramo della civile, e della militar amministrazione. Egli moltiplicò le ruote della macchina del Governo e ne rendè meno rapide ma più sicure le operazioni. Tutti quei vantaggi e quei difetti, che poterono accompagnare queste innovazioni, doverono in gran parte attribuirsi al primo inventore; ma siccome il nuovo edifizio di politica fu a poco a poco perfezionato e compito dai Principi successori, sarà ben fatto differire a considerarlo al tempo della sua piena maturità e perfezione[308]. Riserbando pertanto al regno di Costantino un più esatto quadro del nuovo Impero, ci contenteremo di descriverne il principale e decisivo contorno, come fu disegnato dalla mano di Diocleziano. Egli aveva associato tre colleghi all'esercizio del sapremo potere; e giudicando che i talenti di un solo erano inadeguati alla pubblica difesa, considerò la congiunta amministrazione di quattro Principi non come temporario espediente, ma come legge fondamentale della costituzione. Volle che il distintivo dei due più vecchi Principi fossero il diadema e il titolo di Augusto; che questi (secondo che l'affetto o la stima dirigesse la loro scelta) regolarmente chiamassero in loro aiuto due subordinati colleghi; e che i Cesari, innalzati a vicenda al primo posto, dessero una successione non interrotta d'Imperatori. L'Impero fu diviso in quattro parti. L'Oriente e l'Italia erano le più onorevoli; il Danubio ed il Reno, le più faticose. Le prime esigevano la presenza degli Augusti; le seconde erano affidate al Governo dei Cesari. La forza delle legioni era nelle mani dei quattro Soci della sovranità, e la disperazione di vincer successivamente quattro formidabili rivali, poteva intimorire l'ambizione di un intraprendente Generale. Nel governo civile gl'Imperatori supponevansi esercitare l'indiviso potere della Monarchia, ed i loro editti, autenticati coi loro nomi uniti, erano ricevuti in tutte le Province come promulgati dai loro scambievoli consigli e dalle loro autorità. Nonostante queste precauzioni, la politica unione del Mondo Romano fu a poco a poco disciolta, e si introdusse un principio di divisione, che nel corso di pochi anni cagionò la perpetua separazione degl'Imperi Orientale ed Occidentale.
Il sistema di Diocleziano fu accompagnato da un altro molto sostanziale svantaggio, che merita ancora adesso la nostra attenzione, ed è uno stabilimento più dispendioso e conseguentemente un aumento di tasse, e l'oppressione del popolo. Invece di una modesta famiglia di schiavi e di liberti, quale era bastata alla semplice grandezza di Augusto e di Traiano, furono stabilite tre o quattro magnifiche Corti nelle varie parti dell'Impero, ed altrettanti Re Romani gareggiarono l'uno coll'altro e col Monarca Persiano per la vana superiorità della pompa e del lusso. Il numero dei Ministri, dei Magistrati, degli Uffiziali, e dei servitori, che occupavano i diversi dipartimenti dello Stato, si moltiplicò oltre l'esempio dei primi tempi; e (se noi possiamo usare la robusta, espressione di un contemporaneo) «quando la proporzione di quelli che ricevevano, eccedè la proporzione di quelli che contribuivano, le Province furono oppresse dal peso dei tributi[309].» Da questa epoca fino all'estinzione dell'Impero, sarebbe facile il dedurre una continua serie di clamori e di lagnanze. Ogni scrittore, secondo la sua religione e la sua situazione, prende o Diocleziano, o Costantino, o Valente o Teodosio per l'oggetto delle sue invettive: ma si accordano tutti unanimemente a rappresentare il peso delle pubbliche imposizioni e particolarmente la tassa prediale e l'imposizion sulle teste, come l'intollerabile e sempre crescente gravame dei loro tempi. Da tale uniformità di lagnanze uno Storico imparziale, ch'è obbligato di ricavare la verità dalla satira non meno che dal panegirico, sarà disposto a dividere il biasimo tra i Principi, che ne sono accusati, ed attribuire le loro esazioni assai meno ai loro vizi personali, che all'uniforme sistema del loro governo. L'Imperator Diocleziano fu veramente l'autore di questo sistema, ma durante il suo regno il male crescente fu ristretto entro i confini della modestia e della discrezione; ed egli piuttosto che il rimprovero di avere esercitata l'oppressione, merita quello di averne stabiliti i perniciosi principj. Si può aggiungere che erano le sue entrate amministrate con prudente economia; e che dopo esser tutte le spese correnti pagate, vi rimaneva tuttavia nel tesoro Imperiale un'ampia provvisione o per la giudiziosa liberalità o per qualche emergenza dello Stato.
Nell'anno ventunesimo del suo regno, Diocleziano effettuò la sua memorabile risoluzione di rinunziare all'Impero; azione che più naturalmente poteva aspettarsi dal più vecchio, o dal più giovane degli Antonini, che da un Principe, il quale non avea mai praticate le lezioni della filosofia o nell'acquisto o nell'esercizio del supremo potere. Diocleziano ebbe la gloria di dare al mondo il primo esempio di una rinuncia[310], che non è stata molto frequentemente imitata dai posteriori Monarchi. Il paralello di Carlo Quinto per altro si presenterà naturalmente da se stesso alla nostra mente non solo perchè l'eloquenza di uno Storico moderno ha renduto quel nome tanto famigliare ad un Inglese lettore, ma per la molto viva rassomiglianza fra i caratteri de' due Imperatori, i cui talenti politici furono superiori al loro genio militare, e le cui speziose virtù furono effetto molto più dell'arte, che della natura. Sembra che la rinunzia di Carlo fosse affrettata dalle vicende della fortuna; e che lo sconcerto dei suoi favoriti disegni lo sforzasse ad abbandonare un potere, ch'egli non ritrovava proporzionato alla propria ambizione. Ma il Regno di Diocleziano era stato agitato da flutti di continue vicende, e non sembra che egli cominciasse a nutrire alcuna seria idea di rinunziare l'Impero, se non dopo aver vinti tutti i suoi nemici, e compiti tutti i suoi disegni. Nè Carlo, nè Diocleziano erano giunti ad un periodo di vita molto avanzato; giacchè l'uno avea soltanto cinquantacinque anni, e l'altro non più di cinquantanove; ma la vita attiva di questi Principi, le loro guerre ed i loro viaggi, le cure del trono, e la loro applicazione agli affari, aveano di già alterato il loro temperamento e prodotte le infermità di una anticipata vecchiezza[311].
A. D. 304
Malgrado la crudezza d'un freddissimo e piovoso inverno, Diocleziano lasciò l'Italia subito dopo la cerimonia del suo trionfo, e cominciò il suo viaggio verso l'Oriente per le Province Illiriche. Egli contrasse ben tosto dall'inclemenza dei tempi e dalla fatica del viaggio una lenta malattia, e benchè facesse comode marce, e fosse ordinariamente portato in una chiusa lettiga, era il suo male divenuto molto serio e pericoloso, avanti che egli arrivasse a Nicomedia, verso il fin della state. Rimase per tutto l'inverno confinato nel suo palazzo: il suo pericolo eccitava un generale e sincero cordoglio; ma il popolo poteva giudicare del vario stato della salute di lui solamente dalla gioia o dalla costernazione che egli vedea nell'aspetto e nel portamento dei Ministri. Fu per qualche tempo generalmente creduto al rumore della sua morte, e fu supposto che si tenesse celata onde prevenire le commozioni che potevano insorgere nell'assenza del Cesare Galerio. Finalmente però, il primo di marzo, Diocleziano comparve un'altra volta in pubblico, ma così pallido ed emaciato, che poteva esser appena riconosciuto da quelli, ai quali era più famigliare la sua persona. Era ormai tempo di por fine al penoso contrasto che egli avea sostenuto per più di un anno fra le cure della sua salute e della sua dignità. La prima esigeva gran riguardi e quiete, e l'ultima lo astringeva a dirigere dal letto, ove giacea infermo, il Governo di un vasto impero. Egli si risolvè a passare il resto de' suoi giorni in un onorevol riposo, di porre la sua gloria al coperto dei colpi di fortuna, e di abbandonare il teatro del mondo ai suoi più giovani e più operosi Colleghi[312].
Fu la cerimonia della sua rinuncia celebrata in una spaziosa pianura, distante tre miglia in circa da Nicomedia. Montò l'Imperatore sopra un elevato trono, ed in un discorso, pieno di buon senso e di maestà, dichiarò la sua intenzione al popolo insieme ed ai soldati, adunatisi in quella straordinaria occasione.
A. D. 305
Appena si fu egli spogliato della porpora, che si allontanò dall'attonita moltitudine; e traversando la città, in un cocchio coperto se n'andò senza indugio al favorito ritiro che scelto si era nel suo nativo paese della Dalmazia. Nello stesso giorno, che era il primo di maggio[313], Massimiano (secondo che avea antecedentemente concertato) fece in Milano la sua rinunzia della Imperiale dignità. In mezzo ancora allo splendore del trionfo Romano, Diocleziano avea meditato il mio disegno di rinunziare il Governo. Siccome egli desiderava di accertarsi dell'ubbidienza di Massimiano, esigè da esso o una general sicurezza di sottoporre le sue azioni all'autorità del suo benefattore, o una promessa particolare di discendere dal Trono ogni volta che ne ricevesse l'avviso e l'esempio. Questa obbligazione, benchè confermata colla solennità di un giuramento dinanzi all'altare di Giove Capitolino[314], sarebbe stata un debole freno al feroce carattere di Massimiano, la cui passione era l'amor del potere, e che nulla curava o la presente tranquillità, o la riputazione futura. Ma egli cede, benchè con ripugnanza, all'autorità che sopra di lui aveva acquistata il suo più saggio collega, e si ritirò, immediatamente dopo la sua rinunzia, in una villa nella Lucania, dove era quasi impossibile che un animo tanto impaziente trovar potesse alcuna durevole tranquillità.
Diocleziano che si era da una servile origine innalzato al Trono, passò in una privata condizione gli ultimi nove anni della sua vita. La ragione avea a lui suggerito il ritiro, e sembra che ve lo accompagnasse la contentezza. In esso egli godè per lungo tempo il rispetto di quei Principi, ai quali ceduto aveva il dominio del Mondo[315].
È raro che gli animi, lungamente esercitati negli affari, abbiano mai formato alcun abito di conversar con se stessi; e nella perdita della potenza deplorano principalmente la mancanza di occupazione. I trattenimenti delle lettere e della devozione, che sono di tanto compenso nella solitudine, erano incapaci di fissare l'attenzione di Diocleziano; ma egli avea conservato, o almeno presto ricuperò il gusto per li più innocenti e più naturali piaceri, e le sue ore di ozio erano sufficientemente impiegate in fabbricare, in piantare, e in coltivare un giardino. Vien meritamente celebrata la sua risposta a Massimiano. Veniva egli sollecitato da quell'inquieto Vecchio a riassumere le redini del Governo e la porpora Imperiale. Rigettò esso la tentazione con un sorriso di compassione, tranquillamente osservando che se egli potesse mostrare a Massimiano i cavoli da se piantati colle sue proprie mani in Salona, non sarebbe più stimolato ad abbandonare il godimento della felicità per andare in traccia della potenza[316]. Ne' suoi discorsi cogli amici confessava sovente che di tutte le arti la più difficile era quella di regnare, e si esprimeva su questo favorito argomento con tal calore, che potea essere solamente l'effetto dell'esperienza. «Quante volte (soleva egli dire) è interesse di quattro, o cinque ministri di accordarsi insieme ad ingannare il loro Sovrano. Separato dal Genere Umano per la sublime sua dignità, la verità gli è sempre nascosta; egli non può vedere che per gli occhi di quelli, ed altro non ode che le loro false rappresentanze. Conferisce le cariche più importanti al vizio ed alla debolezza, e trascura i più virtuosi e più meritevoli tra i suoi sudditi. Con questi infami artifizi (soggiungea Diocleziano) i migliori e più savi Principi sono venduti alla venal corruzione dei loro Cortigiani[317].» Una giusta stima della grandezza, o la sicurezza di una immortale riputazione accrescono il nostro gusto per li piaceri della solitudine, ma il Romano Imperatore avea occupato un posto troppo importante nel mondo, per godere senza mescolanza di dispiacere i contenti e la sicurezza di una condizione privata. Era impossibile che egli ignorasse le turbolenze, dalle quali fu dopo la sua rinunzia travagliato l'Impero. Era impossibile che ne fossero per lui indifferenti le conseguenze. Il timore, il cordoglio e il disgusto lo perseguitarono talora nella solitudine di Salona. La sua tenerezza, o almeno il suo orgoglio fu sensibilmente ferito dalle sventure della consorte e della figlia, e gli ultimi momenti di Diocleziano furono amareggiati da alcuni affronti, che Licinio e Costantino avrebber potuto risparmiare al Padre di tanti Imperatori, ed al primo autore della loro fortuna. Una fama, benchè molto dubbia, è arrivata a' nostri tempi, che egli prudentemente si sottraesse dal loro potere con una volontaria morte[318].
A. D. 313
Prima di tralasciare l'esame della vita e del carattere di Diocleziano, possiamo per un momento rivolgere lo sguardo al luogo del suo ritiro. Salona, città principale della sua nativa Provincia della Dalmazia, era lontana (secondo la misura delle pubbliche strade) quasi dugento miglia Romane da Aquileia, e dai confini dell'Italia; e quasi dugentosettanta da Sirmio, solita residenza degli Imperatori, ogni qualvolta visitavano l'Illirica frontiera[319]. Un miserabil villaggio conserva tuttora il nome di Salona, ma fino nel sedicesimo secolo gli avanzi di un teatro, ed il confuso prospetto di archi rotti, e di colonne di marmo attestavano tuttavia il suo antico splendore[320]. In distanza di sei o sette miglia in circa dalla città, Diocleziano costruì un magnifico palazzo; e si può dalla grandezza di quella fabbrica inferire da quanto tempo egli avea meditato il suo disegno di rinunziare l'Impero. La scelta di un sito, che riunisse tutto ciò che potesse contribuire o alla salute o al lusso, non richiedeva la parzialità di un natio del paese. «Era asciutto e fertile il suolo, l'aria pura e salubre, e benchè eccessivamente calda nei mesi estivi, quel paese prova di rado quei venti caldi e nocivi, ai quali sono esposte le coste dell'Istria ed alcune parti dell'Italia. Le vedute dal palazzo non eran men belle, di quello che fosse allettante il suolo ed il clima. Giace all'occidente il fertil lido, che si stende lungo l'Adriatico, nel quale sono sparse molte isolette in tal guisa, che danno a questa parte del mare l'apparenza di un vasto lago. Vi è dalla parte di settentrione la baia che conduceva all'antica città di Salona; il prospetto e la campagna, che si vede al di là della stessa, forma un bel contrapposto a quella più estesa veduta di acqua, che l'Adriatico presenta al mezzogiorno ed all'oriente. Verso il Settentrione è chiusa la scena da alte e irregolari montagne, situate in giusta distanza, e coperte in molti luoghi di villaggi, di boschi, e di vigne[321].»
Benchè Costantino, per un pregiudizio assai ovvio, parli del palazzo di Diocleziano con un affettato disprezzo[322], pure uno dei suoi successori, che potè solamente vederlo in uno stato mutilato e negletto, ne celebra la magnificenza con termini della più alta ammirazione[323]. Occupava questo un'estensione di terreno tra i nove o dieci jugeri inglesi. Era di forma quadrangolare, fiancheggiato da sedici torri. Due dei lati erano lunghi quasi seicento piedi, e gli altri due, quasi settecento. Era tutto costruito di bella pietra viva, tratta dalle vicine cave di Trau o Traguzio, molto poco inferiore al marmo stesso. Quattro strade, intersecate ad angoli retti, dividevano le diverse parti di questo grand'edifizio, e introduceva al principale appartamento un magnifico ingresso, che tuttavia si nomina la Porta d'oro. L'accesso era terminato da un peristilio di colonne di granito, da un lato del quale si scopriva il Tempio quadrato di Esculapio, e dall'altro il Tempio ottangolare di Giove. Diocleziano venerava il secondo di questi numi come protettore della sua fortuna, e il primo come custode della sua salute. Combinando i presenti avanzi colle regole di Vitruvio, le diverse parti di quell'edifizio, i bagni, la camera da letto, l'atrio, la Basilica, e le sale Cizicena, Corintia ed Egizia sono state descritte con qualche grado di precisione o almeno di probabilità. Le loro forme erano varie, giuste le loro proporzioni, ma erano tutte accompagnate da due difetti molto contrari alle nostre moderne idee di gusto, e di comodo. Queste magnifiche stanze non avevano nè finestre nè cammini. Ricevevano la luce dall'alto (giacchè non pare che l'edifizio avesse più di un solo piano) ed erano riscaldate per mezzo di tubi condotti lungo le mura. La fila dei principali appartamenti era difesa verso libeccio da un portico lungo 517 piedi che deve aver formato un assai nobile e dilettoso passeggio, quando alle bellezze della vista erano aggiunte quelle della pittura o della scoltura.
Se fosse questo magnifico edifizio rimasto in una solitaria contrada, sarebbe stato esposto all'ingiurie del tempo; ma avrebbe potuto forse sfuggire alla rapace industria degli uomini. Il villaggio di Aspalato,[324] e molto dopo la città provinciale di Spalatro, s'innalzarono sulle rovine di quello. La porta d'oro introduce adesso al mercato. S. Gio. Battista ha usurpato gli occhi di Esculapio: ed il Tempio di Giove è divenuto la Chiesa Cattedrale, sotto la protezione della Vergine. Siamo particolarmente debitori di questa descrizione del palazzo di Diocleziano ad un ingegnoso artefice dei nostri tempi e del nostro paese, che una molto nobil curiosità condusse nel cuore della Dalmazia[325]. Ma vi è luogo di sospettare che l'eleganza dei suoi disegni e dell'incisione abbia alquanto adornati gli oggetti che copiar si dovevano. Sappiamo da un più recente e molto giudizioso viaggiatore, che le maestose rovine di Spalatro mostrano non meno la decadenza delle arti, che la grandezza dell'Impero Romano al tempo di Diocleziano[326]. Se tale era veramente lo stato dell'architettura, dobbiamo naturalmente credere che la pittura, e la scoltura avessero sofferto un deterioramento ancor più sensibile. La pratica dell'architettura è diretta da poche generali, anzi meccaniche regole. Ma la scoltura, e la pittura specialmente si propongono l'imitazione non solo delle forme del corpo, ma ancora dei caratteri e delle passioni dell'animo. Poco vale in queste arti sublimi la destrezza della mano, se non viene animata dall'immaginazione, e guidata dal più corretto gusto e dall'osservazione.
È quasi inutile di osservare che le civili discordie dell'Impero, la licenza de' soldati, le irruzioni dei Barbari, ed il progresso del dispotismo divennero fatali al genio, ed anche al sapere. La successione dei Principi Illirici ristabilì l'Impero, senza ristabilire le scienze. La militare loro educazione non era diretta ad inspirare ad essi l'amor delle lettere; e lo spirito stesso di Diocleziano benchè attivo, e abile negli affari non era niente instruito dello studio, o dalla speculazione. Le professioni della legge, e della medicina sono di un uso così comune, o di un profitto così certo che sempre avranno un sufficiente numero di artisti, forniti di ragionevole abilità e sapere. Ma non sembra che gli studenti di quelle due facoltà citino alcun celebre maestro che fiorisse in quel secolo. Non si udiva lo voce della poesia. La Storia era ridotta a sterili o confusi compendi, privi egualmente di allettamento è d'istruzione. Una languida ed affettata eloquenza era tuttavia pensionata ed al servizio degl'Imperatori, i quali non incoraggiavano altre arti che quelle che contribuivano a soddisfare la loro superbia, o a difendere il loro potere[327].
Il secolo della decadenza del sapere e del Genere Umano è nondimeno famoso per l'origine od il progresso dei nuovi Platonici. La scuola di Alessandria impose silenzio a quella d'Atene; e le antiche Sette si arrolarono sotto le insegne dei Maestri i più alla moda, che raccomandavano il loro sistema colla novità del lor metodo e coll'austerità dei loro costumi. Diversi di questi Maestri, Ammonio, Plotino, Amelio, e Porfirio[328], erano uomini di un pensar profondo e di una intensa applicazione: ma errando nel vero oggetto della filosofia, le loro fatiche contribuivano molto meno a migliorare che a corrompere l'umano intendimento. I nuovi Platonici trascuravano le cognizioni convenienti alla nostra situazione, ed alle nostre facoltà, l'intero circolo delle scienze morali, naturali, e matematiche, mentre spendevano tutto il loro vigore in dispute verbali di metafisica, tentavano di esplorare i secreti del Mondo invisibile, e procuravano di conciliare Aristotile con Platone sopra soggetti ignoti a quei due filosofi, ugualmente che al resto del Genere Umano. Consumando la loro ragione in queste profonde ma vane meditazioni, esponevano le loro menti alle illusioni dell'immaginazione. Si lusingavano di possedere il segreto di liberare lo spirito dalla sua corporea prigione; vantavano un famigliar commercio coi demoni e cogli spiriti, e convenivano (con singolarissima rivoluzione) lo studio della filosofia in quello dell'arte magica. Gli antichi Savi avevano derisa la popolar superstizione: i discepoli di Plotino e di Porfirio, dopo averne coperta la stravaganza col sottile pretesto dell'allegoria, ne divennero i più zelanti difensori. Convenendo coi Cristiani in alcuni pochi misteriosi punti di fede, combattevano il resto del loro teologico sistema con tutto il furore di una guerra civile. I nuovi Platonici appena meriterebbero un posto nella Storia delle scienze, ma in quella della Chiesa accaderà spesso far menzione di loro.
CAPITOLO XIV.
Turbolenze dopo la rinunzia di Diocleziano: morte di Costanzo. Innalzamento di Costantino e di Massenzio. Sei Imperatori ad un tempo. Morte di Massimiano e di Galerio. Vittoria di Costantino contro Massenzio e Licinio. Riunione dell'Impero sotto l'autorità di Costantino.
A. D. 305-323
La bilancia della potenza, da Diocleziano stabilita, si mantenne finchè fu sostenuta dalla ferma ed esperta mano del suo fondatore. Esigeva quella una tal fortunata combinazione di caratteri e di talenti diversi, che si poteva difficilmente trovare od anche sperare una seconda volta, due Imperatori senza gelosia, due Cesari senza ambizione, ed il medesimo generale interesse invariabilmente seguitato da quattro Principi indipendenti. Alla rinunzia di Diocleziano e di Massimiano succedettero diciotto anni di discordia e di confusione. Fu l'Impero afflitto da cinque guerre civili; ed il rimanente del tempo, anzi che uno stato di tranquillità, fu una sospensione di armi tra diversi nemici monarchi, che riguardandosi l'un l'altro con occhio di timore e di avversione, procacciavano di aumentare le loro rispettive forze a spese dei loro sudditi.
Appena che Diocleziano e Massimiano ebber rinunziato alla porpora, fu il lor posto (secondo le regole della nuova costituzione) occupato dai due Cesari Costanzo e Galerio, i quali presero immediatamente il titolo di Augusto[329]. Furono gli onori dell'anzianità e della precedenza accordati al primo di questi Principi, ed egli sotto un nuovo titolo continuò ad amministrare il suo antico dipartimento della Gallia, della Spagna e della Britannia. Il governo di quelle ampie Province era sufficiente ad occupare i talenti, ed a soddisfare l'ambizione di lui. La clemenza, la temperanza e la moderazione distinguevano il dolce carattere di Costanzo, ed i felici suoi sudditi ebber sovente occasione di paragonare le virtù del loro Sovrano coi trasporti di Massimiano, e fino cogli artifizi di Diocleziano[330]. In luogo d'imitare il lor fasto e la loro magnificenza orientale, conservò Costanzo la modestia di un Principe Romano. Egli dichiarava con non affettata sincerità, che il suo più stimato tesoro era nei cuori del suo popolo, e che qualunque volta la dignità del trono o il pericolo dello Stato esigesse qualche straordinario sussidio, egli poteva sicuramente contare sulla loro gratitudine e liberalità[331]. I provinciali della Gallia, e della Spagna e della Britannia, conoscendo il merito di lui e la propria loro felicità, riflettevano con inquietudine alla decadente salute dell'Imperatore Costanzo, ed alla tenera età della numerosa famiglia, che nata era dal secondo matrimonio di lui colla figlia di Massimiano.
Il crudo carattere di Galerio era di una tempra affatto diversa; e mentre costringeva i suoi sudditi a stimarlo, rare volte ebbe la compiacenza di procurarsene l'affetto. La sua fama nelle armi, e soprattutto il buon successo della guerra Persiana, aveano fatto insuperbire il suo animo altiero, incapace naturalmente di soffrire un superiore e per fino un uguale. Se dar potessimo fede alla parziale testimonianza di uno scrittore non giudizioso, potremmo attribuire la rinuncia di Diocleziano alle minacce di Galerio, e riferire le particolarità di un privato colloquio tra questi due Principi, nel quale il primo mostrò tanta pusillanimità, quanta ingratitudine ed arroganza dimostrò l'altro[332]. Ma questi oscuri aneddoti vengono bastantemente confutati da un imparziale esame del carattere e della condotta di Diocleziano. Per diverse che esser potessero le sue intenzioni, se egli temuto avesse qualche pericolo dalla violenza di Galerio, il suo discernimento lo avrebbe indotto a prevenire il vergognoso contrasto, ed avendo tenuto lo scettro con gloria, lo avrebbe ceduto senza disonore.
Dopo l'innalzamento di Costanzo e di Galerio al posto di Augusti, erano necessari due Cesari per occupare il lor luogo, e compire il sistema del governo Imperiale. Diocleziano desiderava sinceramente di ritirarsi dal Mondo; egli considerava Galerio, che avea sposata la sua figliuola, come il più saldo sostegno della sua famiglia e dell'Impero; ed egli consentì senza ripugnanza che il suo successore si assumesse il merito e l'odiosità di quella nomina importante. Stabilita fu questa senza consultar l'interesse o l'inclinazione dei Principi d'Occidente. Ciaschedun di loro avea un figliuolo già pervenuto all'età virile, e ognun di questi poteva sembrare il più legittimo candidato per la vacante dignità. Ma più non era da paventarsi l'impotente risentimento di Massimiano; ed il moderato Costanzo, benchè disprezzasse i pericoli di una guerra civile, ne temeva giustamente le calamità. I due soggetti, da Galerio innalzati al posto di Cesare, erano molto più convenienti a servire alle ambiziose mire di lui; e sembra che la mancanza di merito o di personale importanza fosse la principal loro raccomandazione. Il primo di essi fu Daza, o come fu di poi chiamato, Massimino, la cui madre era sorella di Galerio. L'inesperto giovane manifestava tuttavia coi modi e col linguaggio la rustica sua educazione, quando con suo ed universale stupore, fu da Diocleziano rivestito della porpora, innalzato alla dignità di Cesare ed incaricato del supremo comando dell'Egitto e della Siria[333]. Nel tempo istesso Severo, ministro fedele, addetto ai piaceri, ma non incapace degli affari, fu mandato a Milano, per ricevere dalle ripugnanti mani di Massimiano gli ornamenti Cesarei, ed il possesso dell'Italia e dell'Affrica[334]. Secondo la forma della costituzione, Severo riconosceva il primato dell'occidentale Imperatore; ma era assolutamente addetto ai comandi del suo benefattore Galerio, che riservandosi i paesi intermedj tra i confini dell'Italia e quelli della Siria, stabilì saldamente la sua potenza sopra tre quarti della Monarchia. Nella piena fiducia, che la vicina morte di Costanzo lo lascerebbe solo padrone del Mondo Romano, siamo assicurati ch'egli si era formata nella sua mente una lunga serie di futuri Principi, e che meditava di ritirarsi dalla pubblica vita, dopo di aver compito un glorioso regno di quasi vent'anni[335].
Ma in meno di diciotto mesi due inaspettate rivoluzioni rovesciarono gli ambiziosi disegni di Galerio. Le speranze di unire al suo impero le occidentali Province rimasero deluse per l'innalzamento di Costantino, mentre l'Italia e l'Affrica si eran perdute per la fortunata ribellione di Massenzio.
A. D. 274
I. La fama di Costantino ha richiamato l'attenzione della posterità alle più minute circostanze della vita, e dell'azioni di lui. Il luogo della sua nascita, e la condizione della sua madre Elena, furono il soggetto non solo di letterarie, ma ancora di nazionali dispute. Malgrado la recente tradizione che le assegna per genitore un Re Britanno, siamo obbligati a confessare che Elena era figlia di un locandiere[336]. Ma possiamo nel tempo stesso difendere la legittimità del suo matrimonio, contro coloro che l'hanno rappresentata come concubina di Costanzo[337]. È molto probabile che Costantino il Grande nascesse in Naisso città della Dacia;[338] e non è da maravigliarsi, che in una famiglia, e in una Provincia illustre soltanto per la professione dell'armi, il giovane mostrasse così poca inclinazione a coltivare il suo spirito coll'acquisto delle scienze[339]. Egli avea quasi 18 anni quando il padre di lui fu promosso al posto di Cesare: ma questo fortunato evento fu seguitato dal divorzio della madre: e lo splendore di una imperiale parentela ridusse il figliuolo di Elena ad uno stato di disonore o di umiliazione. Invece di seguitare Costanzo in Occidente, egli rimase al servizio di Diocleziano; si segnalò col valore nelle guerre dell'Egitto e della Persia, e s'innalzò a poco a poco all'onorevol grado di tribuno del prim'ordine. Era Costantino di alta e maestosa statura, destro in tutti i suoi esercizi, intrepido in guerra, ed affabile in pace. In tutta la sua condotta l'ardente spirito della gioventù veniva moderato da un'abitual prudenza, ed avendo l'animo gonfio d'ambizione, sembrava freddo ed insensibile agli allettamenti del piacere. Il favore del popolo e dei soldati, che lo avevano nominato come un meritevole candidato per la dignità di Cesare, servì soltanto ad inasprire la gelosia di Galerio; e benchè la prudenza lo trattenesse dall'usare alcuna violenza aperta, tuttavia ad un assoluto Monarca rade volta mancano i mezzi di eseguire una sicura e segreta vendetta[340]. Crescevano ad ogni momento il pericolo di Costantino, ed il timor di suo padre, che con replicate lettere esprimeva il più ardente desiderio d'abbracciare il figliuolo. La politica di Galerio lo tenne a bada per qualche tempo con dilazioni o con iscuse, ma era impossibile il resister per lungo tempo ad una natural dimanda del suo collega senza sostenere coll'armi il rifiuto. Fu con ripugnanza accordata la permissione del viaggio, e tutte quelle precauzioni che prender potè l'Imperatore per impedire un ritorno, di cui egli temeva con tanta ragione le conseguenze, vennero felicemente deluse dall'incredibile diligenza di Costantino[341]. Lasciando di notte il palazzo di Nicomedia, egli corse la posta per la Bitinia, per la Tracia, per la Dacia, per la Pannonia, per l'Italia, e per la Gallia, e in mezzo alle giulive acclamazioni del popolo arrivò al porto di Bologna nel momento stesso che il padre si preparava l'imbarco per la Britannia[342].
A. D. 306
La Britannica spedizione, ed una facil vittoria sopra i Barbari della Caledonia furono l'ultime imprese del Regno di Costanzo. Egli cessò di vivere nell'Imperial palazzo di Jorck 15 mesi dopo aver assunto il titolo di Augusto, e quasi quattordici anni e mezzo dopo essere stato promosso al posto di Cesare. La morte di lui fu seguitata immediatamente dall'innalzamento di Costantino. Le idee di eredità e di successione sono sì famigliari, che la maggior parte del genere umano le considera come fondate non solamente sulla ragione, ma fino sulla stessa natura. La nostra immaginazione trasferisce con facilità i medesimi principi dal privato patrimonio al pubblico dominio; e qualunque volta un virtuoso padre lascia dopo di se un figliuolo, il cui merito sembra giustificare la stima, anzi le speranze del popolo, la doppia influenza del pregiudizio e dell'affetto opera con una forza invincibile. Il fiore degli eserciti occidentali avea seguito Costanzo nella Britannia, e le truppe nazionali erano rinforzate da un numeroso corpo di Alemanni, i quali obbedivano agli ordini di Croco, uno de' loro ereditarj condottieri[343]. Gli aderenti di Costantino con gran diligenza inculcavano alle legioni l'idea della loro importanza, e la sicurezza che la Britannia, la Gallia e la Spagna acconsentirebbero alla loro elevazione. Fu domandato ai soldati, se potevano esitare un momento tra l'onore di mettere alla lor testa il degno figliuolo del loro diletto Imperatore, e l'ignominia di vilmente aspettare l'arrivo di qualche oscuro straniero, al quale si fosse il Sovrano dell'Asia compiaciuto di donare le armate e le province dell'Occidente. Fu ad essi insinuato che la gratitudine e la liberalità erano le distinte virtù di Costantino: e questo Principe artificioso non si presentò alle truppe finchè non furono disposte a salutarlo coi nomi di Augusto e d'Imperatore. Il trono era l'oggetto delle sue brame: e quando ancora fosse stato meno animato dall'ambizione, era il trono per lui l'unico mezzo di salvezza. Egli ben conosceva il carattere ed i sentimenti di Galerio, e sapeva bastantemente che se desiderava di vivere, doveva determinarsi a regnare. La decente, anzi ostinata resistenza che egli volle affettare[344], era destinata a giustificare la sua usurpazione; nè egli cedè alle acclamazioni dell'esercito finchè preparati non ebbe i materiali propri per una lettera, che immediatamente spedì all'Imperatore d'Oriente. Costantino gli faceva noto il tristo evento della morte del padre; modestamente sosteneva il suo natural diritto alla successione, e rispettosamente si lagnava che l'affettuosa violenza delle sue truppe non gli avesse permesso di procurarsi l'Imperial porpora coi metodi regolari e legali. I primi moti di Galerio furono di sorpresa, di sconcerto, e di rabbia; e siccome egli poteva rare volte frenare le sue passioni, altamente minacciò di dare alle fiamme e la lettera ed il messaggero. Ma il suo risentimento si calmò a poco a poco; e quando egli riflettè ai dubbi eventi della guerra, quando ebbe bilanciato il carattere e la forza del suo avversario, consentì ad abbracciare l'onorevole accomodamento, che la prudenza di Costantino gli avea lasciato aperto. Senza condannare o ratificare la scelta dell'esercito Britannico, Galerio riconobbe il figliuolo del suo defunto collega, come sovrano delle Transalpine Province; ma solamente gli dette il titolo di Cesare, ed il quarto posto tra i Principi Romani, mentre conferiva il posto vacante di Augusto al suo favorito Severo. Fu conservata l'apparente armonia dell'Impero, e Costantino, che già possedeva la sostanza del supremo potere, aspettò senza impazienza l'opportunità di conseguirne gli onori[345].
Ebbe Costanzo dal secondo suo matrimonio sei figliuoli, tre maschi, e tre femmine; e la loro Imperial discendenza avrebbe potuto procurar ai medesimi la preferenza sopra la più bassa estrazione del figliuolo di Elena. Ma Costantino era in età di trentadue anni, nel pieno vigore di spirito e di corpo, quando il maggiore dei suoi fratelli non potea oltrepassar tredici anni. Il diritto del superiore suo merito era stato riconosciuto e ratificato dal moribondo Imperatore[346]. Negli ultimi suoi momenti, Costanzo raccomandò alla cura del suo maggior figliuolo la salvezza e la grandezza della famiglia, scongiurandolo a prendere l'autorità ed i sentimenti di padre verso i figliuoli di Teodora. La liberale loro educazione, i vantaggiosi matrimonj, la sicurezza e lo splendore della lor vita, e le prime cariche dello Stato, delle quali furono rivestiti, attestano il fraterno amore di Costantino; ed essendo quei Principi di animo dolce e grato, cederono senza ripugnanza alla superiorità del genio, e della fortuna[347].
II. L'ambizioso animo di Galerio si era appena acquietato per le deluse sue mire sulle Galliche Province, che l'inaspettata perdita dell'Italia ne ferì l'orgoglio e l'autorità in una parte ancor più sensibile. Avea la lunga assenza degl'Imperatori ripiena Roma di disgusto e di rancore; ed il popolo a poco a poco s'avvide, che la preferenza data a Nicomedia ed a Milano non dovea attribuirsi alla inclinazione di Diocleziano, ma al permanente sistema del Governo da lui stabilito. In vano, pochi mesi dopo la rinunzia di lui, i successori fecero (in nome del medesimo) la dedica di quei magnifici bagni, le cui rovine forniscono tutt'ora e suolo e materiali per tante Chiese, e Conventi[348]. La tranquillità di quegli eleganti recessi di comodo e di lusso fu disturbata dalle impazienti mormorazioni dei Romani; e a poco a poco si sparse un rumore, che le somme spese in erigere quegli edifizi si trarrebbero ben tosto dalle lor mani. Verso quel tempo l'avarizia di Galerio, o forse i bisogni dello Stato lo avevano indotto a fare un esatto, e rigoroso esame delle possessioni dei sudditi per l'oggetto di una tassa generale su i terreni, e sulle persone. Sembra che si prendesse un minutissimo registro dei loro beni effettivi; e dovunque era il minimo sospetto di nascondiglio, si adoperava francamente la tortura per ottenere una sincera dichiarazione delle loro personali ricchezze[349]. Più non si aveva riguardo a quei privilegi, che avevano innalzata l'Italia sopra la condizione delle Province; e già i ministri delle pubbliche entrate cominciavano a numerare il popolo Romano, ed a determinare la proporzione delle nuove tasse. Anche dopo la totale estinzione dello spirito di libertà, hanno talvolta i sudditi più avviliti osato di resistere ad una inaspettata invasione del lor patrimonio; ma in questa occasione fu l'ingiuria aggravata dall'insulto, ed il sentimento del privato interesse fu ravvivato da quello dell'onor nazionale. La conquista della Macedonia (come già abbiamo osservato) aveva liberato i Romani dal peso delle tasse personali. Benchè avessero provato ogni forma di dispotismo, avevano ornai goduto di quella esenzione per quasi 500 anni; nè potevano essi pazientemente soffrire l'insolenza di un Illirico contadino che dalla sua lontana residenza nell'Asia, pretendeva di annoverar Roma tra le tributarie città del suo Impero. Il nascente furor del popolo fu incoraggiato dall'autorità, o almeno dalla connivenza del Senato, e i deboli avanzi dei Pretoriani, che aveano ragione di temere la propria abolizione, abbracciarono un sì onorevole pretesto, e si dichiararono pronti a trar fuori le spade in servizio dell'oppressa lor patria. Era desiderio, e presto divenne speranza d'ogni cittadino, che dopo avere scacciato dall'Italia i loro stranieri tiranni, si eleggesse un principe, il quale, e pel luogo della sua residenza e per le sue massime di governo, meritasse un'altra volta il titolo d'Imperatore di Roma. Il nome non meno che la situazione di Massenzio determinarono in suo favore il popolare entusiasmo.
A. D. 306
Massenzio era figliuolo dell'Imperatore Massimiano, ad avea sposata la figliuola di Galerio. La sua nascita, ed il suo matrimonio sembravano offrirgli la più bella speranza di succedergli nell'Impero. Ma i suoi vizi e la sua incapacità lo esclusero dalla dignità di Cesare, che Costantino aveva meritato per una pericolosa superiorità di merito. La politica di Galerio preferiva quei colleghi, che non potessero nè disonorare la scelta, nè disubbidire ai comandi del loro benefattore. Fu perciò un oscuro straniero innalzato al trono d'Italia, ed al figliuolo dell'ultimo Imperatore d'Occidente fu lasciato godere il lusso di una privata fortuna in una villa poche miglia lontana dalla capitale. Le nere passioni dell'anima di Massenzio, la sua vergogna, l'agitazione, e la rabbia vennero infiammate dall'invidia alle nuove della fortuna di Costantino, ma le speranze di lui furono ravvivate dal pubblico disgusto, ed egli facilmente fu persuaso ad unire le sue personali ingiurie e pretensioni alla causa del popolo Romano. Due Tribuni Pretoriani, ed un Commissario delle provvisioni si addossarono il regolamento della congiura, ed essendo ogni ordine dei cittadini animato dal medesimo spirito, l'immediato successo non era nè dubbioso, nè difficile. Il Prefetto della città, e pochi magistrati, che si mantennero fedeli a Severo, furono trucidati dalle guardie; e Massenzio, rivestito degl'Imperiali ornamenti, fu con applausi riconosciuto dal Senato, e dal Popolo come protettore della libertà e dell'onore di Roma. È incerto se fosse Massimiano precedentemente informato della cospirazione; ma tosto che lo stendardo della ribellione fu alzato in Roma, il vecchio Imperatore uscì dal ritiro, dove l'autorità di Diocleziano lo aveva condannato a passare la vita in una malinconica solitudine, e coprì la sua nuova ambizione col velo di tenerezza paterna. A richiesta del figliuolo e del Senato egli condiscese a riprender la porpora. Il suo antico splendore, la sua esperienza ed il suo nome nelle armi aggiunsero forza e riputazione al partito di Massenzio[350].
Secondo l'avviso, o piuttosto gli ordini del suo collega, l'Imperator Severo si affrettò immediatamente verso Roma, nella piena lusinga di sopprimer facilmente coll'inaspettata sua celerità il tumulto di una imbelle plebaglia, comandata da un giovane licenzioso. Ma trovò al suo arrivo chiuse le porte della città, ripiene le mura di armi e di armati, un Generale sperimentato alla testa dei ribelli, e scoraggiate e malcontente le sue proprie truppe. Un numeroso corpo di Mori disertò, passando al nemico, allettati dalla promessa d'un largo donativo, e (se vero è che fossero stati arrolati da Massimiano per la sua guerra affricana) anteponendo i naturali sentimenti della gratitudine agli artificiali legami della fedeltà. Anulino, Prefetto dei Pretoriani, si dichiarò in favore di Massenzio, seco traendo la più considerabil parte delle truppe, avvezze ad obbedire al suo comando. Roma, secondo l'espressione di un oratore, richiamò le sue armate, e l'infelice Severo, privo di forza e di consiglio, si ritirò, anzi fuggì precipitosamente a Ravenna. Ivi egli avrebbe potuto esser sicuro per qualche tempo. Le fortificazioni di Ravenna eran capaci di resistere agli sforzi dell'esercito Italiano, e le paludi, che circondavano la città, erano sufficienti ad impedirne l'accesso. Il mare, che Severo dominava con una possente flotta, lo assicurava di un incessato soccorso di provvisioni, e dava un libero ingresso alle legioni, che al ritorno della primavera s'avanzassero dall'Illirico e dall'Oriente in suo soccorso, Massimiano, che dirigeva in persona l'assedio, fu ben tosto convinto, che potrebbe perdere inutilmente il tempo e l'esercito in quella infruttuosa impresa, e che niente sperar poteva dalla forza o dalla fame. Con arte più conveniente al carattere di Diocleziano, che al suo proprio, egli diresse l'attacco più contro lo spirito di Severo, che contro le mura di Ravenna. I tradimenti, già provati, avean disposto quel Principe sventurato a diffidare degli amici, e degli aderenti più sinceri. Gli emissari di Massimiano facilmente persuasero alla sua credulità, che si era formata una congiura per tradir la città; e profittando dei suoi timori, lo indussero a non esporsi alla discrezione di un vincitore irritato, ma ad accettare la sicurezza d'una onorevole capitolazione. Egli fu da prima ricevuto con umanità e trattato con rispetto. Massimiano condusse a Roma il prigioniero Imperatore, e lo accertò colle più solenni proteste, che egli cedendo la porpora si sarebbe assicurata la vita. Ma Severo altro non potè ottenere che una piacevol morte e le esequie Imperiali.
A. D. 307
Fu ad esso significata la sua sentenza, e lasciato alla sua scelta il modo di eseguirla. Egli preferì il metodo favorito degli antichi, quello cioè di aprirsi le vene; ed appena spirato, fu il suo corpo riposto nel sepolcro, già costruito per la famiglia di Gallieno[351].
Benchè il carattere di Costantino pochissima somiglianza avesse con quello di Massenzio, uguali erano la loro situazione ed il loro interesse; e sembrava che la prudenza esigesse l'unione delle loro forze contro il comune nemico. Nonostante la superiorità dell'età e del grado, l'infaticabil Massimiano passò le Alpi, e sollecitando una personal conferenza col Sovrano della Gallia, seco condusse la sua figliuola Fausta come pegno della nuova alleanza. Fu il matrimonio celebrato in Arles con ogni magnifico apparato, e l'antico collega di Diocleziano, che sosteneva di nuovo la sua pretensione all'Impero Occidentale, conferì al suo genero ed alleato il titolo d'Augusto. Piegandosi Costantino a ricevere quella dignità dalle mani di Massimiano, sembrava che abbracciasse la causa di Roma e del Senato; ma ambigue furono le sue proteste, lenta ed infruttuosa la sua assistenza. Egli considerava con attenzione l'imminente contesa tra i Sovrani dell'Italia e l'Imperatore dell'Oriente, ed era preparato a consultare o la propria sicurezza o la propria ambizione, secondo l'evento della guerra[352].
L'importanza della occasione richiedeva la presenza ed i talenti di Galerio. Alla testa di un possente esercito, raccolto dall'Illirico e dall'Oriente, egli entrò nell'Italia, risoluto di vendicare la morte di Severo, e di punire i ribelli Romani, o secondo che egli esprimeva le sue intenzioni nel furioso linguaggio di un Barbaro, di estirpare col ferro il Senato, e distruggere il popolo. Ma la perizia di Massimiano avea concertato un prudente sistema di difesa. L'invasore trovò i nemici fortificati, ed inaccessibili tutti i posti, e benchè si avanzasse sino a Narni, a sessanta miglia da Roma, il suo dominio nell'Italia era ristretto negli angusti confini del suo campo. Avvedutosi che si rendeva la sua impresa ognor più difficile, il superbo Galerio fece i suoi primi passi per una riconciliazione, e spedì due dei suoi più ragguardevoli Uffiziali a tentare i Principi Romani coll'offerta di una conferenza, e colla dichiarazione del suo paterno riguardo per Massenzio, il quale potrebbe ottenere assai più dalla sua generosità, che sperar potesse dal dubbio evento della guerra[353]. Furono costantemente rigettate le offerte di Galerio, ricusata con disprezzo la sua perfida amicizia; ed egli poco dopo scoprì che se, opportunamente ritirandosi, non provvedeva alla sua salvezza, avea qualche ragion di temere la sorte di Severo. I Romani liberamente contribuirono alla distruzione di lui con quelle ricchezze, che difendevano dalla rapace tirannia del medesimo. Il nome di Massimiano, le popolari maniere del figliuolo di lui, la segreta distribuzione di larghe somme, e la promessa di ricompense ancor più liberali arrestarono l'ardore, e corruppero la fedeltà delle Illiriche legioni; e quando Galerio dette finalmente il segno della ritirata, non potè senza qualche difficoltà indurre i suoi veterani a non abbandonare quell'insegna che gli avea al sovente guidati alla vittoria ed all'onore. Uno scrittore contemporaneo assegna due altre cagioni al cattivo successo della spedizione; ma sono ambedue di tal natura, che difficilmente un cauto Storico s'indurrebbe ad adottarle. Ci vien detto che Galerio, il quale si era formato una idea molto imperfetta della grandezza di Roma dalle città dell'Oriente a lui note, trovò le proprie forze inadeguate all'assedio di quella immensa capitale. Ma l'estensione di una città serve solamente a renderla più accessibile al nemico. Roma era da lungo tempo avvezza a sottomettersi all'avvicinarsi d'un conquistatore, nè avrebbe potuto il passeggiero entusiasmo del popolo lungamente contendere contro la disciplina ed il valore delle legioni. Siamo parimente informati, che le legioni medesime furono colpite dall'orrore e dal rimorso, e che quei pietosi figliuoli della Repubblica ricusarono di violare la santità della lor venerabile madre[354]. Ma rammentandoci quanto facilmente nelle più antiche guerre civili, lo zelo di partito, e l'uso della militare ubbidienza avea trasformati i nativi cittadini di Roma nei più implacabili suoi nemici, saremo disposti a diffidarci di questa estrema delicatezza dei Barbari e stranieri, i quali non aveano mai veduta l'Italia finchè non vi entrarono in una ostile maniera. Se non fossero stati ritenuti da motivi d'interessante natura, avrebbero forse risposto a Galerio colle stesse parole dei veterani di Cesare: «Se desidera il nostro Generale di condurci alle rive del Tevere, siamo disposti a seguitare il suo campo. Qualunque muro egli sia risoluto di atterrare, sono le nostre mani pronte a mettere in opra le macchine; nè punto esiteremo, ancorchè la città destinata alla strage fosse Roma medesima.» Sono queste per vero dire le espressioni di un poeta, ma di un poeta che è stato distinto ed ancor censurato pel suo rigoroso aderimento alla verità della Storia[355].
Le legioni di Galerio mostrarono una funestissima prova della loro disposizione, colle devastazioni che commisero nella loro ritirata. Uccisero, rapirono, saccheggiarono, menarono via gli armenti e le gregge degli Italiani, incendiarono i villaggi pe' quali passarono, e procurarono di distruggere quel paese, che non aveano potuto soggiogare. Per tutta la marcia Massenzio inquietò la loro retroguardia, ma molto saggiamente evitò una general battaglia con quei valorosi e disperati veterani. Il padre di lui avea intrapreso un secondo viaggio nella Gallia colla speranza d'indurre Costantino, che adunato aveva un esercito sulla frontiera, ad unirsi a perseguitare Galerio, e a compir la vittoria. Ma le azioni di Costantino erano guidate dalla ragione e non dal risentimento. Egli persistè nella saggia risoluzione di mantenere la bilancia della potenza nel diviso Impero, e più non odiava Galerio, quando quest'ambizioso Principe più non era un oggetto di terrore[356].
A. D. 307
L'animo di Galerio era al tutto suscettivo delle più feroci passioni, ma non era però incapace di una sincera e durevole amicizia. Licinio, non dissimile da lui per carattere e per costumi, sembra che ne ottenesse l'affetto e la stima. La lor familiarità era cominciata nel periodo forse più felice della loro gioventù ed oscurità; ed assodata l'aveano la libertà ed i pericoli di una vita militare. Si erano essi avanzati quasi con passi uguali per le successive cariche della guerra, e sembra che Galerio, appena rivestito della porpora, concepisse il disegno d'innalzare il compagno ad un posto uguale al suo proprio. Nel breve corso della sua prosperità egli considerò il grado di Cesare come inferiore all'età ed al merito di Licinio, e volle piuttosto riserbargli il posto di Costanzo e l'Impero dell'Occidente. Mentre era l'Imperatore occupato nella guerra dell'Italia, affidò al suo amico la difesa del Danubio; ed immediatamente dopo il suo ritorno da quella infelice spedizione, rivestì Licinio della vacante porpora di Severo, cedendo all'immediato comando di lui le Province dell'Illirico[357]. Portata che fu nell'Oriente la nuova della sua promozione, Massimino governatore, anzi oppressore dell'Egitto e della Siria, svelando la sua invidia ed il suo disgusto, sdegnò l'inferiore nome di Cesare, e malgrado i preghi non meno che gli argomenti di Galerio, esigè quasi a forza il titolo uguale di Augusto[358]. Per la prima ed anche ultima volta fu il mondo Romano governato da sei Imperatori. Nell'Occidente Costantino e Massenzio affettavano di venerare il loro padre Massimiano. Nell'Oriente Licinio e Massimino onoravano con più reale considerazione il loro benefattore Galerio. La diversità di interessi e la memoria di una guerra recente divideva l'Impero in due grandi e nemiche potenze; ma i loro timori scambievoli produssero un'apparente tranquillità, anzi una finta riconciliazione, finchè la morte dei principi più vecchi di Massimiano, e particolarmente di Galerio, diede una nuova direzione alle mire ed alle passioni dei loro sopravviventi colleghi.
Quando Massimiano ebbe con ripugnanza ceduto l'Impero, i venali contemporanei oratori applaudirono alla filosofica sua moderazione. Quando la sua ambizione eccitò o almeno animò una guerra civile, essi rendettero grazie al generoso suo patriottismo, e delicatamente criticarono quell'amore dell'ozio o della solitudine, che lo avea allontanato dal pubblico servizio[359]. Ma era impossibile che animi simili a quelli di Massimiano e del suo figliuolo, possedessero lungamente d'accordo una indivisa potenza. Massenzio si considerava come il legittimo Sovrano dell'Italia eletto dal Senato e dal popolo Romano; nè soffrir voleva il freno del suo genitore, il quale arrogantemente si dichiarava, che pel suo nome e pe' suoi talenti era stato quel temerario giovine stabilito sul trono. Fu la causa solennemente agitata dinanzi ai Pretoriani e quelle truppe che temevano la severità del vecchio Imperatore, sposarono il partito di Massenzio[360]. Fu però rispettata la vita e la libertà di Massimiano, ed egli si ritirò dall'Italia nell'Illirico, affettando di pentirsi della sua passata condotta, e secretamente macchinando nuovi mali. Ma Galerio, che ben conosceva il carattere di lui, l'obbligò bentosto ad allontanarsi dai suoi dominj, e l'ultimo refugio del deluso Massimiano fu la Corte del suo genero Costantino[361] Egli fu ricevuto con rispetto da quel Principe artificioso, e coll'apparenza di figlial tenerezza dalla Imperatrice Fausta. Esso, per allontanare ogni sospetto, depose una seconda volta la porpora Imperiale[362], dichiarandosi finalmente convinto della vanità delle grandezze e dell'ambizione. Se perseverato egli avesse in questa risoluzione, avrebbe potuto terminare la sua vita con quiete e riputazione, benchè meno decorosamente che nel suo primo ritiro. Ma il vicino aspetto di un trono gli rammemorò il grado dal quale egli era caduto, e deliberò di fare un disperato sforzo per regnare o perire. Una incursione dei Franchi avea richiamato Costantino con una parte del suo esercito alle rive del Reno. Il resto delle truppe era accampato nelle meridionali province della Gallia, che giacevano esposte alle imprese dell'Imperatore Italiano, ed era depositato nella città di Arles un considerabil tesoro. Massimiano o artificiosamente inventò, o frettolosamente accreditò un vano rumore della morte di Costantino. Senza esitazione egli montò sul trono, s'impadronì del tesoro, e spargendolo coll'usata sua profusione tra i sudditi, procurò di risvegliare nelle loro menti la memoria del suo antico splendore e delle antiche sue imprese. Prima ch'egli potesse assodar la sua autorità, o terminare il trattato, cui sembra ch'egli avesse cominciato col suo figliuolo Massenzio, la celerità di Costantino abbattè tutte le sue speranze. Al primo avviso della perfidia e dell'ingratitudine di lui, ritornò quel Principe con rapida marcia dal Reno alle rive della Saona, s'imbarcò su questo ultimo fiume a Chalons; ed a Lione affidandosi alla rapidità del Rodano, arrivò alle porte di Arles con una forza militare, a cui era impossibile per Massimiano il resistere, e che appena gli permise di ripararsi nella vicina città di Marsiglia. L'angusta lingua di terra, che univa quella piazza al continente, era fortificata contro gli assedianti, mentre il mare era aperto o alla fuga di Massimiano, o ai soccorsi di Massenzio, se voleva quest'ultimo coprire una sua invasione nella Gallia col decoroso pretesto di difendere un angustiato, o come avrebbe potuto allegare, un offeso genitore. Temendo le funeste conseguenze di un indugio, Costantino dette ordini per un immediato assalto, ma si trovarono le scale troppo corte per l'altezza delle mura, e Marsiglia avrebbe potuto sostenere un lungo assedio, come anticamente fece contro le armi di Cesare, se la guarnigione, conoscendo il suo fallo o il suo pericolo, non avesse comprato il perdono colla consegna della città e della persona di Massimiano. Fu contro l'usurpatore pronunziata una secreta ma irrevocabil sentenza di morte; egli ottenne solamente lo stesso favore, che fu accordato a Severo, e fu sparsa la voce, che oppresso dal rimorso dei suoi replicati delitti, si era strangolato colle proprie sue mani. Dopo ch'egli ebbe perduta l'assistenza, e disprezzati i moderati consigli di Diocleziano, il secondo periodo dell'attiva sua vita fu una serie di pubbliche calamità e di personali mortificazioni, che terminarono quasi in tre anni con una morte ignominiosa. Egli meritò il suo fato; ma si sarebbe con più ragione applaudita l'umanità di Costantino, se egli avesse avuto riguardo per un vecchio uomo, benefattore di suo padre, e padre della sua moglie. In tutto questo funesto affare, sembra che Fausta sacrificasse i sentimenti della natura ai suoi conjugali doveri[363].
A. D. 311
Gli ultimi anni di Galerio furono meno vergognosi e meno infelici; e benchè avesse occupato il subordinato grado di Cesare più gloriosamente che la superior dignità di Augusto, egli conservò fino al punto della sua morte il primo posto tra i Principi del Mondo Romano. Egli sopravvisse alla sua ritirata dall'Italia quasi quattr'anni, e saggiamente abbandonando le sue mire di monarchia universale, consacrò il resto della sua vita al godimento dei piaceri, ed alla esecuzione di alcune opere di pubblica utilità, tra le quali è da distinguersi quella di avere scaricate nel Danubio le acque superflue del lago Pelso, e di aver tagliate le immense foreste che lo circondavano; operazione degna di un Monarca, giacchè donò un esteso paese all'agricoltura de' suoi sudditi della Pannonia[364]. Fu la sua morte cagionata da un lungo e penosissimo male. Il suo corpo, per un intemperato sistema di vita, crebbe ad un estremo grado di gonfiezza, fu coperto di ulceri, e divorato da innumerabili sciami di quegli insetti, che han dato il nome ad una schifosissima malattia[365]: ma siccome avea Galerio oltraggiato un zelantissimo e possente partito tra i suoi sudditi, i patimenti di lui, in vece di eccitare la lor compassione, sono stati celebrati come visibili effetti della divina giustizia[366]. Appena che egli fu spirato nel suo palazzo di Nicomedia, i due Imperatori che al suo favore dovevan la porpora, cominciarono a radunar le loro forze, con intenzione o di disputare, o di dividere fra loro i dominj da lui lasciati senza padrone. S'indussero per altro a desistere dal primo disegno, e ad accordarsi nel secondo. Massimino ebbe in sorte le province dell'Asia; e quelle dell'Europa aumentarono la parte di Licinio. L'Ellesponto ed il Bosforo Tracio formarono i loro scambievoli confini; ed i lidi di quegli angusti mari, che scorrevano nel mezzo del Mondo Romano, furono coperti di soldati, d'armi e di fortificazioni. Le morti di Massimiano e di Galerio ridussero a quattro il numero degl'Imperatori. Il sentimento del vero loro interesse unì ben tosto Licinio e Costantino; fu tra Massimino e Massenzio conclusa una secreta alleanza, ed i loro infelici sudditi attesero con terrore le sanguinose conseguenze delle inevitabili loro dissensioni, le quali più non eran frenate dal timore o dal rispetto, che essi avevano conservato per Galerio[367].
Fra tanti delitti ed infortunj, cagionati dalle passioni dei principi Romani, si scopre con qualche piacere una sola azione, che può attribuirsi alla loro virtù. Nel sesto anno del suo regno, Costantino visitò la città di Autun, e generosamente condonò i tributi arretrati, riducendo nel tempo stesso la proporzione della tassa, da venticinque a diciottomila teste, soggette alla reale e personale capitazione[368]. Pure questa clemenza istessa è una indubitata prova della pubblica miseria. Questa tassa era tanto gravosa, o per se stessa o per la maniera di esigerla, che mentre l'estorsione aumentava l'entrata, la disperazione la diminuiva: una parte considerabile del territorio di Autun fu lasciata inculta; ed un gran numero di provinciali scelsero di viver come esuli e proscritti, piuttosto che sostenere il peso della civil società. È ancora molto probabile che il clemente Imperatore sollevasse con un atto particolare di generosità uno di quei tanti mali, che egli avea cagionati con le sue generali massime di governo. Ma quelle massime ancora erano piuttosto effetti della necessità che della scelta. Ed ove si eccettui la morte di Massimiano, sembra che il regno di Costantino nella Gallia fosse l'epoca più innocente e più virtuosa ancora della sua vita. Furono le province dalla sua presenza difese contro le irruzioni dei Barbari, i quali o ne temerono o ne provarono l'attivo valore. Dopo una segnalata vittoria riportata contro i Franchi e gli Alemanni, furono molti dei loro Principi per suo ordine esposti alle fiere nell'anfiteatro di Treveri; e pare che il popolo godesse dello spettacolo, senza trovare in quel trattamento dei prigionieri reali cosa alcuna che ripugnasse alle leggi delle nazioni o dell'umanità[369].
I vizi di Massenzio rendevano più illustri le virtù di Costantino. Mentre le Galliche Province godevano tutta quella felicità che permettevano le circostanze di quei tempi, l'Italia e l'Affrica gemevano sotto il dominio di un dispregevole non men che odioso Tiranno. L'amor dell'adulazione e del partito ha per dir vero troppo sovente sacrificata la riputazione dei vinti alla gloria dei loro fortunati rivali; ma quegli scrittori ancora, i quali hanno svelato colla maggior libertà e col maggior piacere i difetti di Costantino, unanimemente confessano, che Massenzio era crudele, rapace, e scellerato[370]. Egli ebbe la buona sorte di sedare una leggiera ribellione nell'Affrica. Il Governatore e pochi suoi aderenti erano stati i colpevoli; la Provincia fu punita del loro delitto. Le floride città di Cirta e di Cartagine, e tutta l'estensione di quella fertil campagna furon devastate dal ferro e dal fuoco. All'abuso della vittoria succedè l'abuso delle leggi e della giustizia. Una formidabile armata di Sicofanti, e di delatori invase l'Affrica: i ricchi ed i nobili furono facilmente convinti d'intelligenza co' ribelli; e quelli tra loro, che provarono la clemenza dell'Imperatore, furono solamente puniti colla confiscazione dei loro beni[371]. Una così segnalata vittoria venne celebrata con trionfo magnifico, e Massenzio espose agli occhi del popolo le spoglie ed i prigionieri di una Provincia Romana. Lo stato della Capitale non era meno compassionevole di quello dell'Affrica. L'opulenza di Roma forniva un impensato fondo per le vane e prodighe spese di Massenzio, ed i ministri delle sue entrate erano eccellenti nell'arte della rapina. Sotto il regno di lui fu per la prima volta inventato il metodo di esigere dai Senatori un libero donativo; e siccome ne fu insensibilmente aumentata la somma, così i pretesti di esigerlo, vale a dire una vittoria, una nascita, un matrimonio, un consolato imperiale, furono a proporzione moltiplicati[372]. Era Massenzio imbevuto di quella stessa implacabile avversione verso il Senato, che avea contraddistinto la maggior parte dei primi tiranni di Roma: nè era possibile, che il suo ingrato carattere perdonasse alla generosa fedeltà, che lo aveva innalzato al trono, e sostenuto contro tutti i suoi nemici. Erano le vite dei Senatori esposte ai suoi gelosi sospetti, e il disonore delle loro consorti e delle figlie loro aumentava la soddisfazione dei suoi sensuali piaceri. È presumibile che un amante imperiale rare volte fosse ridotto a sospirare invano; ma qualunque volta era inutile la persuasione, egli ricorreva alla violenza; ed è rimasto un memorabile esempio di una nobil Matrona, che conservò la sua castità con una volontaria morte[373]. I soldati erano il solo ordine di persone, per cui sembrasse avere qualche rispetto, od a cui cercasse di piacere. Riempì Roma e l'Italia di truppe armate; dissimulò i loro tumulti: lasciò che impunemente saccheggiassero e trucidassero ancora l'inerme popolo[374]; e permettendo ad esse la stessa licenza, della quale godeva il loro Imperatore, Massenzio concesse sovente a' suoi militari favoriti la superba villa o la bella moglie di un Senatore. Un Principe di tal indole, ugualmente incapace di governare o in pace o in guerra, potea ben comprare l'appoggio dell'esercito, ma non mai ottenerne la stima. Pure era la sua superbia uguale agli altri suoi vizi. Mentre egli passava l'indolente sua vita o dentro le mura del suo palazzo, o nei vicini giardini di Sallustio, si udiva ripetutamente vantarsi, che egli solo era Imperatore, e che gli altri Principi non erano che suoi luogotenenti, ai quali affidata avea la difesa delle province di frontiera, per poter godere senza interrompimento l'elegante lusso della Capitale. Roma, che sì lungamente avea pianta l'assenza del suo Sovrano, ne deplorò la presenza ne' sei anni del regno di lui[375].
A. D. 312
Benchè Costantino vedesse con abborrimento la condotta di Massenzio, e con pietà la situazione dei Romani, non vi è ragion di presumere che volesse prender l'armi per punir l'uno e per sollevar gli altri. Ma il tiranno dell'Italia osò temerariamente di provocare un formidabil nemico, la cui ambizione era fino allora stata raffrenata da considerazioni di prudenza, piuttosto che da massime di giustizia[376]. Dopo la morte di Massimiano ne furono con ignominia, secondo lo stabilito costume, cancellati i titoli, ed atterrate le statue. Il figliuolo di lui, che lo aveva perseguitato e abbandonato in vita, fece affettata mostra del più religioso rispetto per la sua memoria, ed ordinò che un simil trattamento fosse fatto a tutte le statue, che si erano erette nell'Italia e nell'Affrica in onore di Costantino. Questo savio Principe, il quale desiderava sinceramente di evitare una guerra, della quale egli bastantemente vedeva la difficoltà e l'importanza, dissimulò a principio l'insulto, e cercò i rimedi per la via più mite dei trattati, finchè non fu convinto, che gli ostili ed ambiziosi disegni dell'Imperatore italiano lo ponevano nella necessità di armarsi per la propria difesa. Massenzio, che apertamente dichiarava le sue pretensioni a tutta la monarchia dell'Occidente, aveva di già preparate forze considerabili per invader le Galliche province dalla parte della Rezia, e benchè non potesse promettersi alcun aiuto da Licinio, si lusingò colla speranza, che le legioni Illiriche, allettate dai suoi doni e dalle sue promesse, abbandonerebbero l'insegna di quel Principe, e si dichiarerebbero unanimemente suoi soldati e suoi sudditi[377]. Costantino non esitò più lungamente. Avea deliberato con cautela, ed operò con vigore. Diede privata udienza agli Ambasciatori, che a nome del Senato e del Popolo lo supplicavano a liberar Roma da un detestato tiranno; e senza curare le timide rimostranze del suo Consiglio, risolvette di prevenire il nemico, e portar la guerra nel cuor dell'Italia[378].
Piena ugualmente di pericolo e di gloria era l'impresa; e l'infelice successo delle due antecedenti invasioni bastavano ad inspirare i più serj timori. Le truppe dei veterani, che veneravano tuttavia il nome di Massimiano, avevano in ambidue quelle guerre abbracciato il partito del suo figliuolo, ed erano allora ritenute per un sentimento di onore non meno che d'interesse dal nutrire un'idea di una seconda diserzione. Massenzio, che riguardava i Pretoriani siccome il più saldo sostegno del suo trono, gli aveva accresciuti fino all'antico lor numero: ed essi componevano, col resto degl'Italiani arrolati al servizio di lui, un formidabil corpo di ottantamila uomini. Quarantamila Mori e Cartaginesi erano stati reclutati dopo la riduzione dell'Affrica. La Sicilia ancora diede la sua porzione di truppe e l'esercito di Massenzio non ascendeva a meno di centosettantamila pedoni e diciottomila cavalli. Le ricchezze dell'Italia servirono alle spese della guerra; e le adiacenti province vennero esauste, per formare immensi magazzini di grano e di ogni altra sorta di provvisioni. Tutte le forze di Costantino consistevano in novantamila pedoni ed ottomila cavalli[379]; e siccome la difesa del Reno esigeva una straordinaria attenzione nell'assenza dell'Imperatore, non poteva impiegare più della metà delle sue truppe per la guerra d'Italia, senza sacrificare la pubblica salvezza alla sua privata contesa[380]. Egli marciò alla testa di quarantamila uomini, ad incontrar un nemico, le cui truppe erano per lo meno quattro volte più numerose delle sue. Ma gli eserciti Italiani, posti a una sicura distanza dal pericolo, erano snervati dalla licenza e dal lusso. Avvezzi ai bagni ed ai teatri di Roma, vennero in campo con ripugnanza, ed erano composti principalmente di veterani, quasi dimentichi dell'armi e della guerra, o di nuove ed inesperte reclute. Le robuste legioni della Gallia aveano lungamente difese le frontiere dell'Impero contro i Barbari del Settentrione; e nell'adempimento di quel faticoso servizio si era esercitato il loro valore, ed assodata la lor disciplina. Erano i condottieri ugualmente diversi che gli eserciti. Il capriccio o l'adulazione aveano tentato Massenzio colle speranze della vittoria; ma queste ambiziose speranze cederono presto agli abiti del piacere ed alla cognizione della propria inesperienza. L'intrepido spirito di Costantino era stato dalla prima sua gioventù educato per la guerra, per l'azione, e pel militare comando.
Quando Annibale passò dalla Gallia nell'Italia, fu obbligato prima a scoprire, e dopo ad aprirsi una strada sopra monti, e tra selvagge nazioni che non avean mai dato il passo ad un esercito regolare[381]. Erano allora le Alpi difese dalla natura, e sono adesso fortificate dall'arte. Varie cittadelle costruite con uguale abilità, fatica e spesa, dominano ogni ingresso nella pianura, e rendono da quella parte l'Italia quasi inaccessibile ai nemici del Re di Sardegna[382]. Ma nel corso dell'età di mezzo i Generali, che hanno tentato il passo, han raramente trovata alcuna difficoltà o resistenza. Nel secolo di Costantino, gli abitatori di quei monti erano sudditi inciviliti ed ubbidienti; il paese era abbondantemente fornito di provvisioni, e le superbe strade, che i Romani avevano condotte sopra le Alpi, aprivano diverse comunicazioni tra la Gallia e l'Italia[383]. Costantino preferì quella delle Alpi Cozie, o come si dice presentemente, del monte Cenisio, e condusse le sue truppe con tal diligenza, che discese nella pianura del Piemonte avanti che la Corte di Massenzio avesse ricevuto alcun certo avviso della partenza di lui dalle rive del Reno. La città di Susa però, che giace a piè del monte Cenisio, era circondata di mura, e provveduta di una guarnigione sufficiente ad arrestare i progressi di un invasore; ma l'impazienza delle truppe di Costantino sdegnava le noiose operazioni di un assedio regolare. Il giorno stesso, in cui si presentarono avanti a Susa, applicarono il fuoco alle porte, e le scale alle mura della città; quindi salendo, in mezzo ad una pioggia di pietre e di dardi, all'assalto, colla spada in mano entrarono nella piazza, e tagliarono a pezzi la maggior parte della guarnigione. Costantino ebbe cura di far estinguere le fiamme, e di preservare dalla total distruzione gli avanzi di Susa. Alla distanza per altro di circa quaranta miglia da questo luogo lo aspettava un incontro più arduo. I Generali di Massenzio avevano adunato nello pianure di Torino un numeroso campo d'Italiani, di cui la principal forza consisteva in una specie di grave cavalleria, che i Romani, dopo la decadenza della lor disciplina, avevan preso dalle nazioni dell'Oriente. I cavalli, non meno che gli uomini, erano interamente coperti di un'armatura fatta di vari pezzi, con tal arte congiunti fra loro, che corrispondevano a' moti de' loro corpi. N'era formidabil l'aspetto, e poco meno che irresistibil la forza; e siccome in quest'occasione i condottieri l'avevan disposta in forma di stretta colonna con aguzza punta e con larghi fianchi, si lusingavano, che avrebbero facilmente rotto ed oppresso l'esercito di Costantino. Avrebbero forse potuto riuscire in questo disegno, se il loro sperimentato nemico non avesse fatt'uso dell'istesso metodo di difesa, che Aureliano avea praticato in simili circostanze. Le giudizioso evoluzioni di Costantino divisero e rendettero inutile questa solida colonna di cavalleria. Le truppe di Massenzio disordinate fuggirono verso Torino; e siccome furono loro chiuse in faccia le porte della città, così ben pochi poterono evitare la spada de' vittoriosi, che gl'inseguivano. Torino, per quest'importante servigio, meritò di sperimentar la clemenza, ed anche il favore del vincitore. Egli fece il suo ingresso nell'Imperial palazzo di Milano, e quasi tutte le città d'Italia, fra le Alpi ed il Po, non solamente riconobbero la potenza, ma con fervore ancora abbracciarono il partito di Costantino[384].
Le vie, Flaminia ed Emilia, presentavano un facil cammino di circa quattrocento miglia per passar da Milano a Roma; ma sebbene Costantino fosse impaziente di andare incontro al tiranno, pure volle piuttosto diriger prudentemente le sue operazioni contro un altro esercito d'Italiani, che mediante la forza e situazione che aveva, o poteva opporsi a' progressi di lui, o in caso di una disgrazia poteva impedirgli la ritirata. Ruricio Pompeiano, Generale distinto pel suo valore e per la sua abilità, aveva il comando della città di Verona e di tutte le truppe, che si trovavano nella Provincia di Venezia. Appena fu egli informato, che si avanzava Costantino verso di lui, distaccò un grosso corpo di cavalleria, che fu disfatto in un incontro vicino a Brescia, ed inseguito dalle legioni della Gallia fino alle porte di Verona. Si presentaron subito alla sagace mente di Costantino la necessità, l'importanza, e le difficoltà dell'assedio di questa piazza[385]. La città era solamente accessibile per mezzo di una stretta penisola verso ponente; gli altri tre lati eran circondati dall'Adige, fiume rapido, che copriva la Provincia di Venezia, da cui potevan gli assediati ricevere una copia inesauribile d'uomini e di provvisioni. Non senza gran difficoltà, e dopo molti inutili tentativi, Costantino trovò la maniera di passare il fiume a qualche distanza dalla città, in un luogo dove la corrente era meno violenta. Circondò allora Verona con forti trinciere, continuò con prudente vigore i suoi attacchi, e rispinse una disperata sortita di Pompeiano. Quest'intrepido Generale dopo di avere usato ogni mezzo di difesa, che potea somministrargli la forza della piazza e della guarnigione, segretamente fuggì da Verona, desideroso non già della propria, ma della pubblica sicurezza. Con instancabile diligenza esso prestamente raccolse un esercito sufficiente o ad incontrare in campo aperto Costantino, o ad attaccarlo, qualora si fosse ostinato a restare dentro le sue trinciere. L'Imperatore, attento a' movimenti, ed informato dell'avvicinarsi di sì formidabil nemico, lasciò una parte delle sue legioni per continuare le operazioni dell'assedio, nel tempo che alla testa di quelle truppe, nel valore e nella fedeltà delle quali più specialmente confidava, si avanzò a combattere in persona il General di Massenzio. L'esercito della Gallia era disposto in due linee secondo l'uso ordinario di guerra; ma lo sperimentato condottiero, vedendo che il numero degl'Italiani era molto maggiore del suo, in un istante cangiò tal disposizione, e diminuendo la seconda, estese la fronte della sua prima linea, finchè fosse in una giusta proporzione con quella dell'avversario. Tali evoluzioni, che in un momento di pericolo si possono eseguir senza confusione, solamente da truppe veterane, comunemente riescono decisive: ma poichè questa battaglia incominciò verso il finire del giorno, e si combattè con grande ostinazione per tutta la notte, meno vi ebbe luogo la condotta de' Generali, che il coraggio dei soldati. Il nuovo giorno scoprì la vittoria di Costantino, e si vide il campo della strage coperto di molte migliaia di vinti Italiani. Fra gli uccisi fu trovato anche il lor General Pompeiano; e Verona immediatamente rendettesi a discrezione, essendo la guarnigione restata prigioniera di guerra[386]. Gli Uffiziali dell'esercito vittorioso, nell'atto di congratularsi col lor Principe a motivo di quest'importante successo, si avventurarono a fargli qualche rispettoso lamento, di tal natura però da non dispiacere anche ai più gelosi Monarchi. Rappresentarono essi a Costantino, che non contento di eseguir tutti i doveri di un Comandante, egli aveva esposta la propria persona con un eccesso di valore, che quasi degenerava in temerità; e lo scongiurarono ad aver più riguardo in avvenire alla conservazione di una vita, da cui dipendeva la salute di Roma e dell'Impero[387].
Mentre Costantino segnalava la sua condotta e il suo valore nel campo, il Sovrano d'Italia pareva insensibile alle calamità ed ai pericoli di una guerra civile, che infuriava nel cuore de' suoi dominj. L'unica occupazione di Massenzio era sempre il piacere. Celando, e tentando almeno di celare alla cognizione del pubblico le disgrazie delle sue armi[388], si lusingava con una vana fiducia, la quale differiva i rimedi del male che si avvicinava, senza differire il male medesimo[389]. Appena i rapidi progressi di Costantino giugnevano a risvegliarlo da questa fatal sicurezza[390]; egli si dava a credere, che la sua ben nota liberalità, e la maestà del nome Romano, che l'aveva già liberato da due altre invasioni, coll'istessa facilità dissiperebbe anche la ribelle armata della Gallia. Gli Uffiziali di esperienza e di abilità, che avevan servito sotto il comando di Massimiano, furon finalmente costretti di far sapere all'effeminato figliuolo di lui l'imminente pericolo, a cui si era egli ridotto, e di mostrargli con una libertà, che lo sorprese nel tempo stesso e lo convinse, la necessità di prevenire la sua rovina, usando con vigoroso sforzo il potere che gli restava. Massenzio avea tuttora molti considerabili compensi tanto in uomini che in danaro. Le guardie Pretoriane sentivan bene quanto era fortemente connessa la causa di lui col loro interesse e colla lor sicurezza; e fu presto raccolto un terzo esercito più numeroso di quelli, ch'erano stati vinti nelle battaglie di Torino e di Verona. L'Imperatore era ben lontano dal pensar di condurre in persona le proprie truppe: non esercitato nell'arte della guerra, tremava per l'apprensione di un azzuffamento tanto pericoloso; e come il timore trae comunemente alla superstizione, con malinconica attenzione prestava orecchio ai rumori degli augurj e dei presagi, che sembravano minacciare la sua vita e il suo Impero. La vergogna supplì finalmente al coraggio, e lo forzò a scendere in campo, non potendo soffrire il disprezzo del popolo Romano. Faceva questo nel Circo risuonare con isdegno i suoi clamori, e tumultuariamente assediava le porte del palazzo, rimproverando la pusillanimità del suo indolente Sovrano, e celebrando lo spirito eroico di Costantino[391]. Prima di partir di Roma, consultò Massenzio i libri Sibillini. I custodi di questi antichi oracoli, quanto erano ignoranti de' segreti del fato, altrettanto eran bene informati negli artifizi del mondo; e gli diedero una risposta molto prudente, che poteva acconciarsi a qualunque evento, ed assicurar la loro riputazione, comunque avesse deciso la sorte delle armi[392].
A. D. 312
Sì è paragonata la celerità della marcia di Costantino a quella della conquista, che fece dell'Italia il primo de' Cesari; nè per quanto sia lusinghevole tal paralello, ripugna alla verità dell'Istoria, mentre non passarono più di cinquant'otto giorni dalla resa di Verona alla final decisione della guerra. Costantino avea sempre sospettato, che il tiranno avrebbe eseguito ciò che gl'inspirava il timore, e forse anche la prudenza, e che invece di arrischiar le ultime sue speranze in un general combattimento si sarebbe piuttosto rinchiuso dentro le mura di Roma. I gran magazzini lo assicuravano dal pericolo della fame; e siccome la situazione di Costantino non soffriva dilazione alcuna, egli avrebbe potuto esser ridotto alla dura necessità di distruggere col ferro e col fuoco la città Imperiale, che doveva essere il premio più nobile della sua vittoria, e la cui liberazione era stato il motivo, o piuttosto realmente il pretesto della guerra civile[393]. Con sorpresa pertanto non meno che con piacere, arrivato che fu ad un luogo detto Saxa Rubra circa nove miglia distante da Roma[394], scoprì l'armata di Massenzio pronta a dargli la battaglia[395]. La lunga fronte della medesima occupava una pianura molto spaziosa, e la profondità arrivava fino alle rive del Tevere, che ne copriva la retroguardia, ed impediva la ritirata. Si narra, e vi è tutto il motivo di crederlo, che Costantino disponesse le sue truppe con somma perizia, e scegliesse per se il posto più pericoloso ed onorevole. Distinto per lo splendore delle sue armi, attaccò in persona la cavalleria del suo rivale: e l'urto irresistibile, ch'ei le diede, determinò la fortuna della giornata. La cavalleria di Massenzio era principalmente composta di corazze di grave armatura, o di leggieri Mori e Numidi. Essi cederono al vigore della cavalleria Gallicana, che aveva maggiore attività de' primi, e più fermezza degli altri. La disfatta delle due ali lasciò scoperti i fianchi dell'infanteria, e gl'indisciplinati Italiani fuggirono senza ritegno dalle bandiere di un tiranno, ch'essi avevano sempre odiato, e che più non temevano. I Pretoriani, sapendo che per le loro mancanze non potevano sperar perdono, erano animati dalla vendetta e dalla disperazione. Non ostanti i replicati loro sforzi non furon capaci que' bravi veterani di acquistar la vittoria: ottennero per altro una morte onorevole; e fu osservato, che i loro corpi coprivano il terreno medesimo, ch'era già stato occupato dalle lor file[396]. Divenne allora generale la confusione, e le truppe di Massenzio, disordinate ed inseguite da un implacabil nemico, traboccarono a migliaia ne' profondi e rapidi gorghi del Tevere. L'Imperatore stesso tentò di rientrare fuggendo nella città per mezzo del ponte Milvio; ma la folla che si trovò insieme a quello stretto passo, lo fece balzare nel fiume, dov'egli fu immediatamente sommerso dal peso delle sue armi[397]. Il corpo di lui, essendosi affondato molto nel fango, fu ritrovato con qualche difficoltà il giorno seguente. Restò il popolo convinto della propria liberazione quando vide il capo di lui esposto avanti a' propri occhi; e allora fu, che non dubitò di ricevere con acclamazioni di fedeltà e di gratitudine il fortunato Costantino, che in tal modo condusse a termine col suo valore e colla sua abilità la più splendida impresa della sua vita[398]. Nel far uso della vittoria non meritò Costantino la lode di clemente, nè incorse le censura di smoderato rigore[399]. Tenne verso il tiranno quel medesimo contegno, che poteva aspettarsi nella propria persona e famiglia, se fosse stato ei medesimo disfatto: fece morire i due figli di Massenzio, ed ebbe tutta la cura d'intieramente estirparne la razza. I più riguardevoli aderenti di Massenzio era da presumersi, che avrebbero avuto parte nella disgrazia di lui, come l'avevano avuta nella prosperità e ne' delitti, ma nel tempo che il popolo Romano ad alta voce chiedeva un maggior numero di vittime, il vincitore con fermezza ed umanità resistè a que' servili clamori, dettati dall'adulazione egualmente che dallo sdegno. Furon puniti ed avviliti i delatori; e gl'innocenti, che a torto avevan sofferto nella passata tirannia, richiamati furono dall'esilio, e rimessi al possesso dei loro beni. Un atto di generale obblivione del passato servì a quietare gli spiriti, ed a stabilire la proprietà di ciascheduno tanto nell'Italia quanto nell'Affrica[400]. La prima volta che Costantino colla sua presenza onorò il Senato, egli ricapitolò in un modesto discorso i servigi, che gli aveva prestati, e le proprie imprese; assicurò quell'illustre Ordine della sincera sua stima; e promise di ristabilirne l'antica dignità, e gli antichi privilegi. Il Senato, per gratitudine a queste non sincere proteste, corrispose co' vani titoli d'onore, ch'era tuttavia in suo potere di conferire; e senza presumere di ratificare l'autorità di Costantino, decretò di assegnare ad esso il primo posto fra i tre Augusti, che governavano in quel tempo il mondo Romano[401]. S'instituirono feste e giuochi per conservar la fama della sua vittoria, e vari edifizi, eretti a spese di Massenzio, furon dedicati all'onore del fortunato rivale. Rimane tuttavia in piedi l'arco trionfale di Costantino, come una trista prova dalla decadenza delle arti, ed un singolar testimonio della più vil vanità. Siccome non potea trovarsi uno scultore nella Capitale dell'Impero, che fosse capace di adornar quel pubblico monumento, venne spogliato delle sue più eleganti figure l'arco di Traiano, senz'alcun riguardo nè per la memoria di lui, nè per le regole della decenza. Fu totalmente posta in dimenticanza la diversità de' tempi, e delle persone, ugualmente che quella delle azioni, e de' caratteri. Si vedono i Parti come schiavi prostrati a' piedi di un Principe, che non portò mai le sue armi di là dall'Eufrate; ed i curiosi antiquari possono ravvisare fra i trofei di Costantino il capo ancor di Traiano. Son eseguiti poi nella maniera più rozza e grossolana i nuovi ornamenti, che bisognò frapporre ne' vuoti, che restavano fra le antiche sculture[402].
L'abolimento totale delle guardie Pretoriane fu un atto di prudenza non meno che di vendetta. Quelle truppe superbe, delle quali aveva Massenzio restituito, ed anche aumentato il numero ed i privilegi, furon soppresse per sempre da Costantino. Il loro fortificato campo restò distrutto, ed i pochi Pretoriani, avanzati alla furia della strage, vennero dispersi fra le legioni, e confinati alle frontiere dell'Impero, dove potevano esser utili senza divenir nuovamente pericolosi[403]. Col sopprimer le truppe, che ordinariamente stavano alla difesa di Roma, Costantino diede il colpo fatale alla dignità del Senato e del Popolo; e la Capitale disarmata restò senza difesa, esposta agl'insulti e al disprezzo del suo lontano padrone. Noi possiamo osservare che i Romani in quest'ultimo sforzo che fecero, per conservare la spirante lor libertà, avevano innalzato al Trono Massenzio pel timore di un tributo. Egli però non lasciò di esigerlo dal Senato sotto nome di libero donativo. Implorarono quindi l'aiuto di Costantino, che vinse il tiranno, e converti il libero donativo in una tassa perpetua. I Senatori furon distribuiti, secondo la dichiarazione, che doveron fare di lor sostanze, in varie classi. I più ricchi pagavano otto libbre d'oro l'anno; quattro quelli della seconda classe, quelli della terza due; e quelli che per la lor povertà potevano aver diritto ad un'esenzione, furon ciò nonostante tassati a sette monete d'oro per ciascheduno. Oltre i membri regolari del Senato, godevano ancora i vani privilegi dell'Ordine senatorio e ne sostenevano i gravi pesi, i loro figliuoli, i discendenti, e fin anche i congiunti; nè ci sorprenderà più da ora in poi, che Costantino fosse tanto premuroso di accrescere il numero delle persone comprese in una sì utile descrizione[404]. Dopo la disfatta di Massenzio l'Imperator vittorioso non passò più di due o tre mesi in Roma, che due altre volte fu da lui visitata in tutto il resto della sua vita per celebrare la solennità del decimo e del ventesimo anno del suo regno. Costantino era quasi sempre in moto per esercitar le legioni, o per esaminar lo stato delle province. I luoghi occidentali di sua residenza furono Treveri, Milano, Aquileia, Sirmio, Naisso e Tessalonica, finchè fondò nei confini dell'Europa o dell'Asia una nuova Roma[405].
A. D. 313
Costantino, avanti di passare in Italia, s'era assicurato dell'amicizia, o almeno della neutralità di Licinio, Imperatore dell'Illirico. Aveva egli promesso in matrimonio a quel Principe la sua sorella Costanza; ma era stata differita la celebrazione delle nozze, finchè fosse finita la guerra; e l'incontro, de' due Imperatori a Milano, stabilito a tal uopo, parve che stringesse l'unione delle lor famiglie e de' loro interessi[406]. In mezzo alle pubbliche feste furono ad un tratto costretti a separarsi; perchè l'invasione dei Franchi richiamò Costantino verso il Reno, e l'avvicinarsi che faceva in aria di nemico il Sovrano dell'Asia, richiedeva l'immediata presenza di Licinio. Massimino era stato in segreta confederazione con Massenzio, e senza scoraggiarsi per la disgrazia di lui, risolvè di tentar la fortuna di una guerra civile. Nel colmo dell'inverno si mosse dalla Siria verso le frontiere della Bitinia. La stagione era rigida e tempestosa; perì gran numero d'uomini e di cavalli nella neve, e siccome dalle piogge continue si eran rotte le strade, fu costretto a lasciarsi dietro una parte considerabile del pesante bagaglio, che non poteva seguire la rapidità delle sue marcie forzate. Mediante questo sforzo straordinario di diligenza, egli arrivò con una stanca ma formidabil armata alle rive del Bosforo Tracio, avanti che i capitani di Licinio fossero neppure informati della sua ostile intenzione. Bisanzio, dopo un assedio di undici giorni, si rendè alla forza di Massimino; esso fu trattenuto qualche giorno sotto le mura di Eraclea, ma ebbe appena preso possesso di quella città, che fu sorpreso dalla notizia, che Licinio erasi accampato alla distanza di sole diciotto miglia. Dopo inutili pratiche, nelle quali i due Principi tentarono di sedurre scambievolmente la fedeltà de' loro aderenti, ricorsero alla decisione delle armi. L'Imperatore d'Oriente comandava una truppa disciplinata e veterana di sopra settantamila uomini, e Licinio, che aveva raccolto circa trentamila Illirici, a principio fu oppresso dalla superiorità del numero; ma la sua militar perizia e la fermezza de' suoi soldati rinnovarono la battaglia, ed ottennero una decisiva vittoria. L'incredibil prestezza che usò Massimino in fuggire, è molto più celebre della sua bravura in combattere. Fu egli veduto, ventiquattr'ore dopo, tremante, pallido, e senza gli ornamenti Imperiali a Nicomedia, distante centosessanta miglia dal luogo della sua rotta. Non erano ancora esauste le ricchezze dell'Asia; e sebbene avesse perduto il fiore de' suoi veterani nell'ultim'azione, pure, se avesse avuto tempo, poteva trarre un gran numero di soldati dalla Siria e dall'Egitto. Ma egli sopravvisse solamente tre o quattro mesi alla sua disgrazia. La morte di lui, che seguì a Tarso, fu da varie persone attribuita alla disperazione, al veleno, ed alla Divina Giustizia. Siccome però Massimino era egualmente privo di abilità e di virtù, esso non fu compianto nè dal popolo nè da' soldati, e le Province orientali, libere dal terrore di una guerra civile, riconobbero ben volentieri l'autorità di Licinio[407].
Restaron due figli del vinto Imperatore; un maschio di circa otto anni, ed una femmina di circa sette. Avrebbe l'innocente loro età potuto eccitar compassione; ma la compassione di Licinio era un molto debole appoggio, nè lo ritenne dall'estinguere il nome e la memoria del suo avversario. Meno ancora può scusarsi la morte di Severiano, che non fu dettata nè dalla vendetta, nè dalla politica. Il vincitore non avea mai ricevuto alcuna ingiuria dal padre di quel disgraziato giovane, ed era già dimenticato il breve ed oscuro regno, che Severo ebbe in una parte lontana dell'Impero. Ma l'esecuzione di Candidiano fu un atto della più nera crudeltà ed ingratitudine; egli era figlio naturale di Galerio, amico e benefattor di Licinio. Il padre prudentemente l'avea creduto troppo giovane per sostenere il peso di una corona; ma sperava, che sotto la protezione di Principi, che al favore di lui dovevan la porpora, Candidiano avrebbe potuto passare una vita sicura ed onorevole. Esso era giunto all'età di circa venti anni, e la regale sua nascita, quantunque non sostenuta nè dal merito nè dall'ambizione, era sufficiente ad inasprire lo spirito geloso di Licinio[408]. A queste innocenti ed illustri vittime della sua tirannia conviene aggiunger la moglie e la figlia dell'Imperator Diocleziano. Allorchè questo Principe conferì a Galerio il titolo di Cesare, gli diede per moglie la propria figlia Valeria, le cui triste avventure potrebber somministrare un soggetto molto singolare di tragedia. Aveva essa adempito, ed anche superato i doveri di una moglie; e poichè non avea figli, si contentò di adottare il figlio illegittimo del suo marito, ed ebbe costantemente per l'infelice Candidiano la tenerezza e la cura di vera madre. Dopo la morte di Galerio le vaste possessioni di lei eccitarono l'avarizia, e le personali attrattive i desiderj del successor Massimino[409]. Egli aveva una moglie vivente, ma dalle leggi Romane si permetteva il divorzio; e la fiera passion del Tiranno lo spingeva ad una immediata soddisfazione. La risposta di Valeria fu quale si conveniva ad una figlia e vedova d'Imperatori: ma fu temperata dalla prudenza, di cui la sua situazione senza difesa l'obbligava a far uso. Rappresentò alle persone, da Massimino impiegate in tal affare, che «quando ancora l'onore potesse permettere ad una donna del suo carattere e della sua dignità di pensare alle seconde nozze, la decenza almeno doveva impedirle di prestar orecchio alle proposte di lui in un tempo, in cui erano tuttor calde le ceneri del marito di lei e benefattore di Massimino, ed in cui gli abiti di lutto esprimevano ancora la mestizia del proprio animo. Si avventurò a dichiarare in oltre ch'essa poteva dare ben poco peso alle proteste di un uomo, la crudele incostanza del quale era capace di repudiare una fedele ed affezionata consorte». A questo rifiuto l'amore di Massimino si mutò in furore, e come poteva disporre a suo piacimento di testimoni e di giudici, gli riuscì facilmente di coprir la sua rabbia con un apparenza di processura legale, e di perseguitare nel tempo stesso la riputazione e la felicità di Valeria. Furono confiscati i beni di lei; i suoi eunuchi e domestici sottoposti ai più crudeli tormenti; e diverse innocenti rispettabili matrone, onorate dell'amicizia di lei, falsamente accusate d'adulterio, soffriron la morte. L'Imperatrice medesima, insieme con Prisca sua madre, fu condannata all'esilio: e poichè avanti di esser confinate in un remoto villaggio ne' deserti della Siria, furono ignominiosamente balzate di luogo in luogo, si mostrò manifesta la loro vergogna e miseria alle province dell'Oriente, che per trent'anni aveano rispettato l'augusta lor dignità. Diocleziano fece molti inutili sforzi per sollevar le disgrazie della sua figliuola, e chiedeva per ultima ricompensa della porpora imperiale, ch'egli avea dato a Massimino, che fosse permesso a Valeria di seco ritirarsi a Salona per chiuder gli occhi all'afflitto suo padre[410]. Egli non cessava di chiedere, ma siccome non poteva più minacciare, le sue preghiere furono ricevute con freddezza e disprezzo, ed era una soddisfazione per l'orgoglio di Massimino il trattar Diocleziano da supplicante, e la figliuola di lui da delinquente. Sembrava, che la morte di Massimino assicurasse una favorevole mutazione alla fortuna delle Imperatrici. Il pubblico disordine assopì la vigilanza delle lor guardie, ed esse trovaron facilmente la maniera di fuggire dal luogo del loro esilio, e di condursi, quantunque con cautela e travestite, alla Corte di Licinio. La condotta di lui ne' primi giorni del suo regno, e l'onorevole accoglienza che fece al giovane Candidiano, posero in cuore a Valeria una segreta speranza, tanto relativamente a se stessa, che al suo figliuolo adottivo. Ma succederon ben presto lo spavento e l'orrore a queste grate apparenze, e le sanguinose esecuzioni, che macchiarono il palazzo di Nicomedia, la convinsero a sufficienza, che il trono di Massimino era occupato da un tiranno più inumano di lui. Valeria provvide alla propria sicurezza, mediante una precipitosa fuga, e sempre accompagnata da Prisca sua madre, andò vagando più di quindici mesi[411] per varie province, sconosciuta, sotto povere vesti. Furono finalmente scoperte a Tessalonica, e siccome era già stata pronunziata contro di loro la sentenza di morte, vennero immediatamente decapitate, ed i loro corpi gettati nel mare. Il popolo stupì a questo funesto spettacolo; ma ne fu soppresso il cordoglio e lo sdegno dal timor de' soldati. Tal fu l'indegno destino della moglie e della figliuola di Diocleziano. Noi deploriamo le loro disgrazie, noi non possiamo scoprirne i delitti, e per quanto possiam giustamente credere che grande fosse la crudeltà di Licinio, fa sempre maraviglia, che egli non si contentasse di una più segreta e decente maniera di vendicarsi[412].
Il Mondo Romano restava diviso fra Costantino e Licinio, il primo de' quali dominava nell'Occidente, e l'altro nell'Oriente. Si avrebbe avuto forse motivo di presumere, che i vincitori, stanchi di tante guerre civili, e legati fra loro con vincoli sì pubblici che privati, dovessero abbandonare o almeno sospendere ogni ulteriore disegno di ambizione; eppure non fu appena passato un anno dopo la morte di Massimino, che i vittoriosi Imperatori voltarono le armi l'uno contro dell'altro. Il genio, la fortuna, e l'indole ambiziosa di Costantino potrebbero farlo risguardare come aggressore; ma il perfido carattere di Licinio giustifica qualunque strano sospetto contro di lui, e colla debole luce, che somministra l'istoria su questo fatto[413] possiamo scoprire ch'egli fomentò co' proprj artifizi una conspirazione contro l'autorità del suo collega. Costantino aveva ultimamente unito in matrimonio la sua sorella Anastasia con Bassiano, persona di famiglia e di fortuna considerabile, innalzando il suo nuovo congiunto al grado di Cesare. Secondo il sistema di governo istituito da Diocleziano, ad esso toccavano per sua parte nell'Impero l'Italia, e forse l'Affrica. Ma l'esecuzione della promessa fu, o differita tant'oltre, o accompagnata da condizioni così svantaggiose, che l'onorevole distinzione, ottenuta da Bassiano, servì ad alienare piuttosto che ad assicurar la sua fedeltà a Costantino. L'elezione di lui era stata ratificata dal consenso di Licinio; e quest'artifizioso Principe per mezzo de' suoi emissarj ben presto procurò di entrare in una segreta e pericolosa corrispondenza col nuovo Cesare, per irritarne il disgusto, e stimolarlo alla temeraria impresa di estorcere per forza quello, che non poteva ottenere dalla giustizia di Costantino. Ma il vigilante Imperatore scoprì la cospirazione avanti che fosse giunta alla sua maturità, e dopo di aver solennemente rinunziata l'alleanza di Bassiano, lo spogliò della porpora, e gli diede la pena che meritava il tradimento e l'ingratitudine di un tal uomo. Il superbo rifiuto di Licinio, allorchè fu ricercato di rendere i delinquenti, che si eran rifuggiti ne' suoi dominj, confermò il sospetto che già si aveva della sua perfidia; e gl'indegni trattamenti fatti in Emona, sulle frontiere dell'Italia, alle statue di Costantino, furono il segno della discordia fra questi due Principi[414].
A. D. 314
Seguì la prima battaglia presso Cibali, città della Pannonia sul fiume Savo intorno a cinquanta miglia sopra Sirmio[415]. Dalle piccole forze che in tale importante incontro due sì potenti Monarchi posero in campo, si può dedurre, che l'uno fu irritato subitaneamente, e l'altro sorpreso all'improvviso. L'Imperator d'Occidente aveva solo ventimila, e quello d Oriente non più di trentacinquemila uomini; era però il minor numero compensato dal vantaggio del luogo. Costantino avea preso posto in un passo largo circa mezzo miglio, fra una scoscesa rupe ed una profonda palude; in tal situazione aspettò con fermezza, e rispinse il primo attacco dell'avversario. Quindi seguitò la sua fortuna, e si avanzò nel piano; ma le legioni veterane dell'Illirico si riunirono sotto il comando di un Capitano, che aveva imparata la milizia nella scuola di Probo e di Diocleziano. I dardi finirono presto da ambe le parti; i due eserciti attaccarono con ugual valore una pugna più stretta di lance e spade, ed il contrasto era durato dubbioso dal far del giorno fino all'ultim'ora della sera, quando l'ala destra, che Costantino comandava in persona, diede un assalto vigoroso e decisivo. La giudiziosa ritirata di Licinio salvò il resto delle sue truppe da una totale disfatta; ma quando egli vide la sua perdita, che ascendeva a più di ventimila uomini, non credè sicuro di passar la notte a fronte di un attivo e vittorioso nemico. Abbandonato il campo ed i magazzini, marciò con diligenza e segretamente alla testa della maggior parte della sua cavalleria, e fu presto liberato dal pericolo di essere inseguito. La sua diligenza salvò la sua moglie, il suo figliuolo, ed i tesori che aveva depositati A Sirmio. Licinio passò per quella città, e, rotto il ponto sul Savo, si affrettò a raccogliere un nuovo esercito nella Dacia e nella Tracia. Nell'atto della sua fuga, diede il titolo precario di Cesare a Valente, suo Generale nella frontiera dell'Illirico[416].
Il piano di Mardia nella Tracia fu il teatro di una seconda battaglia, non meno ostinata e sanguinosa della prima. Le truppe mostrarono da ambe le parti l'istesso valore e la stessa disciplina; ed anche questa volta fu decisa la vittoria dalla superiore abilità di Costantino, che diresse un corpo di cinquemila uomini ad occupare un'altezza vantaggiosa, da cui mentre più ardeva l'azione attaccarono la retroguardia del nemico, e ne fecero considerabile strage. Ciò nonostante le truppe di Licinio, presentando la fronte in due luoghi, mantennero sempre il lor posto, finchè l'approssimarsi della notte pose fine al combattimento, ed assicurò la lor ritirata verso i monti della Macedonia[417]. La perdita di due battaglie e de' suoi più valorosi veterani ridusse il fiero spirito di Licinio a domandar la pace. Fu ammesso all'udienza di Costantino l'Ambasciatore Mistriano, che spaziò ne' comuni argomenti di moderazione e di umanità, sì famigliari all'eloquenza de' vinti; rappresentò nella maniera la più insinuante, ch'era sempre dubbioso l'esito della guerra, mentre le inevitabili calamità della medesima erano dannose del pari ad ambe le parti che contendevano; e dichiarò di essere autorizzato a proporre in nome de' due Imperatori suoi Signori una stabile ed onorevole pace. Il nome di Valente non incontrò appresso Costantino che sdegno e disprezzo. «Non per questo fine (replicò egli burberamente) ci siamo avanzati dai lidi dell'Oceano occidentale con un corso non interrotto di battaglie e di vittorie, ad oggetto cioè di accettar per nostro collega un miserabile schiavo dopo d'aver rigettato un ingrato congiunto. Il primo articolo del trattato dev'essere l'abdicazione di Valente[418].» Bisognò adattarsi a questa condizione umiliante, e l'infelice Valente, dopo un regno di pochi giorni, fu spogliato della porpora e della vita. Tosto che quest'ostacolo fu tolto di mezzo, si restituì facilmente la tranquillità al Mondo Romano. Le successive disfatte di Licinio avevan rovinate le forze di lui, ma nel tempo stesso ne avevan dimostrato il coraggio ed i talenti. La sua situazione era quasi senza speranza, ma qualche volta gli sforzi della disperazione riescono formidabili; ed il buon senso di Costantino preferì un vantaggio grande e sicuro ad un terzo esperimento della sorte dell'armi. Consentì egli di lasciar al suo rivale, o com'esso chiamava nuovamente Licinio, al suo amico e fratello, il possesso della Tracia, dell'Asia minore, della Siria, e dell'Egitto; ma le Province della Pannonia, della Dalmazia, della Dacia, della Macedonia, e della Grecia furon cedute all'Impero d'Occidente, ed il dominio di Costantino si estese in quest'occasione da' confini della Caledonia fino all'estremità del Peloponneso. Nel medesimo trattato si convenne che i tre giovani reali, figli degl'Imperatori, fosser chiamati alla speranza della successione. Crispo e Costantino il Giovane furono poco dopo dichiarati Cesari nell'Occidente, mentre nell'Oriente Licinio il Giovane fu decorato della medesima dignità. In questa doppia proporzione di onori dimostrò il vincitore la superiorità delle sue armi e della sua potenza[419].
Quantunque la riconciliazione fra Costantino e Licinio amareggiata fosse dal risentimento e dalla gelosia, dalla rimembranza delle recenti ingiurie e dal timore de' futuri pericoli, pure si mantenne per più di ott'anni la pace del Mondo Romano. Siccome incomincia intorno a questo tempo una serie molto regolare di leggi Imperiali, non sarà difficile di enunciare i regolamenti civili, che occuparono la vita tranquilla di Costantino. Ma le più importanti fra le sue costituzioni sono intimamente connesse col nuovo sistema di politica e di religione, che non fu stabilito perfettamente che negli ultimi pacifici anni del regno di lui. Vi sono molte delle sue leggi, che interessando i diritti ed i beni degl'individui non meno che la pratica del foro, posson riferirsi più propriamente alla privata che alla pubblica Giurisprudenza dell'impero; ed egli pubblicò molti editti così locali e temporarj, che non meritano che se ne faccia parola in un Istoria generale. Due però ne vogliamo scegliere fra gli altri; l'uno per l'importanza, l'altro per la singolarità. La prima legge dimostra la notabile umanità di Costantino, la seconda poi l'eccessiva severità del medesimo. I. L'orribil costume, sì frequente fra gli antichi, di esporre o di uccidere i figli nati di fresco, si era sempre più esteso nelle Province, e specialmente nell'Italia. Questo era l'effetto della miseria, la quale principalmente proveniva dal peso intollerabile de' tributi, e dalle moleste e crudeli persecuzioni degli Uffiziali del Fisco contro i debitori insolventi. La parte più povera o meno industriosa dell'uman genere invece di gradire l'aumento della famiglia, giudicava un atto di tenerezza paterna quello di liberare i propri figli dalle imminenti miserie di una vita, che non potevano sostenere. L'umanità di Costantino, forse mossa da alcuni recenti e straordinari esempi di disperazione, lo indusse a pubblicare un editto in tutte le città dell'Italia, e dopo dell'Affrica, diretto a somministrare immediati, e sufficienti soccorsi a que' padri, che avesser presentato ai Magistrati i figliuoli, che la povertà non permetteva lor di educare. Ma la promessa era troppo liberale, e la provvisione troppo incerta per produrre un benefizio generale e durevole[420]. Sebbene la legge meriti lode, pure servì piuttosto a scoprire che a sollevar la pubblica calamità. Questo è un autentico documento, che sempre sussiste, per contraddire e confonder quegli oratori venali, che troppo eran soddisfatti della lor situazione per manifestare il vizio e la miseria sotto il governo d'un generoso Sovrano[421].
II. Le leggi di Costantino contro i ratti dimostrano ben poca indulgenza per le più lusinghevoli debolezze della natura umana; giacchè si applicò la denominazione di quel delitto non solamente alla violenza brutale che sforza, ma anche all'insinuante seduzione, che può persuadere una donna non maritata, minore di venticinque anni, a lasciar la casa dei suoi genitori. «Chi aveva eseguito il ratto era punito colla morte; e come se la semplice morte non fosse corrispondente all'enormità del misfatto, egli doveva o esser bruciato vivo, o fatto in pezzi dalle fiere nell'anfiteatro. La dichiarazione che potea far la rapita, che ciò era seguito col consenso di lei, invece di salvare l'amante, esponeva lei medesima ad esser partecipe della pena. Ai genitori della colpevole, o disgraziata fanciulla era ingiunto il dovere di pubblicamente accusarla; e se mai prevaleva in essi il sentimento naturale in maniera da far loro dissimulare l'ingiuria, e riparare, mediante il successivo matrimonio, l'onore della famiglia, eran puniti colla confiscazione e coll'esilio. Gli schiavi dell'uno e dell'altro sesso, convinti di aver dato mano al ratto o alla seduzione, erano bruciati vivi, o posti a morte coll'ingegnoso tormento di versare loro in gola una quantità di piombo liquefatto. Poichè il delitto era pubblico, n'era permessa l'accusa eziandio agli stranieri. La facoltà di agire non si limitava ad alcun termine di anni e si estendevano le conseguenze della sentenza anche alla prole innocente che nasceva da tale irregolar congiunzione[422].» Ma quando il castigo eccita più orrore, che il delitto, il rigor della legge penale dee cedere ai comuni sentimenti dell'umanità. Furono dunque mitigate ne' regni seguenti, o revocate le parti più odiose di tal editto[423]; e Costantino medesimo con atti speciali di clemenza bene spesso ammollì la durezza delle sue generali costituzioni. Così era infatti singolarmente disposto quell'Imperatore, che tanto si dimostrava indulgente, ed anche trascurato nell'esecuzione delle sue leggi, quanto era severo anzi crudele nel farle. Difficilmente però può vedersi un segno di debolezza più decisivo di questo o nel carattere del Principe, o nella costituzione del Governo[424].
L'amministrazione civile fu qualche volta interrotta dalla militar difesa dell'Impero. Crispo, giovane di amabilissima indole, che insieme col titolo di Cesare avea ricevuto il comando del Reno, segnalò la sua condotta ed il suo valore in diverse vittorie riportate sopra i Franchi e gli Alemanni: ed insegnò a' Barbari di quella frontiera a temere il primogenito di Costantino ed il nipote di Costanzo[425]. L'Imperatore avea preso per se la provincia più difficile ed importante del Danubio. I Goti, che al tempo di Claudio o di Aurelio, avevan sentito il peso delle armi Romane, rispettarono il poter dell'Impero anche in mezzo alle interne divisioni del medesimo. Ma in una pace di quasi cinquant'anni erasi ristabilita la forza di quella guerriera nazione; si era formata una nuova generazione, che non rammentava più le passate disgrazie: i Sarmati della palude Meotide seguitarono le bandiere dei Goti, o come sudditi o come alleati, o le lor forze unite invasero le regioni dell'Illirico. Sembra che Campona, Margo e Bologna fossero le scene di vari memorabili assedj e combattimenti[426]; e quantunque Costantino incontrasse una resistenza molto ostinata, finalmente prevalse nella guerra, ed i Goti furono costretti a procurarsi una vergognosa ritirata con restituire la preda ed i prigionieri che avevan fatto. Nè tal vantaggio servì a soddisfare lo sdegno dell'Imperatore. Egli risolvè di castigare non men che rispingere l'insolenza dei Barbari, che avevano ardito d'invadere il paese Romano. Alla testa delle sue legioni passò il Danubio sopra un ponte, ch'era stato costrutto da Traiano, e ch'egli fè ristorare, penetrò ne' più forti nascondigli della Dacia[427], e quando gli ebbe severamente puniti, condiscese a conceder la pace ai Goti supplichevoli, a condizione, che ogni volta che fosser richiesti, gli somministrassero un corpo di quarantamila soldati[428]. Imprese di questa sorta facevano senza dubbio grand'onore a Costantino, e vantaggio allo Stato, ma si ha giusto motivo di dubitare, se provar si possa l'esagerata asserzione di Eusebio, che tutta la Scizia fino all'estremità del Settentrione, divisa com'era in tanti Popoli di costumi i più selvaggi ed i più differenti fra loro, per mezzo delle vittoriose sue armi erasi aggiunta all'Imperio Romano[429].
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Era impossibile che in questo sublime stato di gloria Costantino potesse più lungamente soffrire un collega nell'Impero. Confidando nella superiorità del suo genio, e della sua forza militare, si determinò, senza alcuna precedente ingiuria, di farne uso per la distruzion di Licinio, di cui l'età ormai avanzata, od i vizi odiosi al popolo pareva che gli presentassero una ben facil conquista[430]. Ma il vecchio Imperatore, eccitato dall'imminente pericolo, deluse l'aspettazione sia degli amici, che de' nemici. Richiamando quello spirito, e que' talenti, per mezzo di cui s'era meritata l'amicizia di Galerio, e la porpora Imperiale, preparossi alla guerra, unì le forze dell'Oriente, e in poco tempo coprì le pianure di Adrianopoli colle sue truppe, e lo stretto dell'Ellesponto colla sua flotta. L'esercito era composto di centocinquantamila fanti, e di quindicimila cavalli; e siccome la cavalleria per la maggior parte era presa dalla Frigia e dalla Cappadocia, possiamo formare un'idea più favorevole della bellezza de' cavalli, che del coraggio e della destrezza de' cavalieri. La flotta consisteva in trecentocinquanta galere di tre ordini di remi. Centotrenta di queste furon somministrate dall'Egitto, e dalle adiacenti coste dell'Affrica; centodieci da' porti della Fenicia e dell'Isola di Cipro, e le altre centodieci dalle parti marittime della Bitinia, della Jonia e della Caria. Le truppe di Costantino si dovevan riunire a Tessalonica; ed ascendevano a sopra centoventimila fra cavalli e fanti[431]. Esso fu soddisfatto del lor marziale aspetto, ed il suo esercito realmente conteneva più soldati, quantunque minore nel numero degli uomini, che quello del suo competitore orientale. Le legioni di Costantino eran formate nelle più guerriere Province dell'Europa; l'esercizio ne aveva invigorita la disciplina, la vittoria innalzate le speranze, e trovavasi fra loro un gran numero di veterani, che dopo diciassette gloriose campagne sotto il medesimo condottiero, si preparavano a meritare un'onorevol dimissione coll'ultimo sforzo del lor valore[432]. Ma i preparativi navali di Costantino erano per ogni capo molto inferiori a quelli di Licinio. Le città marittime della Grecia mandarono le rispettive lor quote d'uomini e di navi al porto famoso di Pireo, e tutte le lor forze, prese insieme, non sorpassarono il numero di dugento piccoli vascelli: assai debole armamento, se voglia paragonarsi con quelle formidabili flotte messe in mare, e mantenute dalla Repubblica d'Atene al tempo della guerra del Peloponneso[433]. Non essendo l'Italia più da gran tempo la sede del Governo, gli stabilimenti navali di Miseno e di Ravenna si erano o poco a poco trascurati; e siccome la navigazione e la marineria dell'Impero venivano sostenute dal commercio anzi che dalla guerra, era naturale che dovessero abbondare più nelle industriose province dell'Egitto e dell'Asia. Solamente fa meraviglia che l'Imperatore dell'Oriente, che aveva in mare una superiorità così grande, trascurasse l'occasione di portare una guerra offensiva nel contro de' dominj del suo rivale.
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Invece di prendere tale attiva risoluzione, che avrebbe potuto far mutar faccia a tutta la guerra, il prudente Licinio aspettò l'avvicinamento del suo rivale presso Adrianopoli in un campo da esso fortificato con sì premurosa diligenza, che ben dimostrava il timor ch'egli aveva dell'evento. Costantino diresse la sua marcia da Tessalonica verso quella parte della Tracia, sinchè si trovò arrestato dall'ampio rapido corso dell'Ebro, e scoprì il numeroso esercito di Licinio, che occupava il ripido declive del monte, dal fiume alla città di Adrianopoli. Passarono vari giorni in dubbiose e lontane scaramucce; ma furon tolti finalmente gli ostacoli del passaggio e dell'attacco dall'intrepida condotta di Costantino. Qui non possiamo a meno di riferire un fatto maraviglioso di esso, a cui sebbene possa difficilmente trovarsi l'uguale nella poesia o ne' romanzi, pure si trova celebrato non già da un venale oratore addetto alla fortuna di lui, ma da un Istorico, special nemico della famiglia del medesimo. Si assicura che il valoroso Imperatore gettossi nell'Ebro accompagnato solo da dodici cavalieri, e che per lo sforzo delle sue invincibili armi, ruppe, disordinò, e pose in fuga un esercito di cinquantamila uomini. La credulità di Zosimo prevalse in tal modo alla sua passione, che sembra che fra gli eventi della memorabil battaglia di Adrianopoli scegliesse e adornasse non già il più importante, ma il più maraviglioso. Conferma il valore ed il pericolo di Costantino una leggiera ferita, ch'esso ricevè nella coscia, ma può rilevarsi anche da un'imperfetta narrazione, e forse da un testo corrotto, che fu cagione della vittoria non meno la condotta del Generale, che il coraggio dell'Eroe: che un corpo di cinquemila arcieri girò ad occupare un folto bosco nella retroguardia del nemico, la cui attenzione era impegnata nella costruzione di un ponte; e che Licinio, confuso per tante artificiose evoluzioni, fu contro sua voglia tirato dal suo vantaggioso posto a combattere nella pianura. Il combattimento allora non fu più uguale; la confusa moltitudine delle nuove reclute di lui restò facilmente vinta dagli sperimentati veterani dell'Occidente. Si dice che trentaquattromila uomini vi fossero uccisi. Il campo fortificato di Licinio fu preso per assalto la sera della battaglia; la maggior parte de' fuggitivi, che si erano ritirati alle montagne, si renderono il giorno dopo alla discrezione del vincitore; ed il suo rivale, che non potè più tenersi in campagna aperta, si chiuse dentro le mura di Bisanzio[434].
L'assedio di questa città, che fu immediatamente intrapreso da Costantino, era molto laborioso ed incerto. Le fortificazioni di quella piazza, che si risguardava con tanta ragione, come la chiave dell'Europa e dell'Asia, erano state riparate ed accresciute nelle ultime guerre civili; e finchè Licinio fu padrone del mare, la guarnigione era molto meno esposta al pericolo della fame, che l'armata degli assedianti. Furon chiamati al campo da Costantino i comandanti di mare, ed ebbero positivi ordini di forzare il passo dell'Ellesponto nel tempo che la flotta di Licinio, invece di cercare, e di distruggere il debole nemico, restava inoperosa in quell'angusto stretto, dove la superiorità nel numero era di poco uso, o vantaggio. A Crispo, figliuol maggiore di Costantino, fu affidata l'esecuzione di quest'ardita impresa, ch'egli condusse con tal coraggio e buon successo, che meritò la stima, ed eccitò probabilissimamente la gelosia di suo padre. L'attacco durò due giorni, e nella sera del primo le flotte, dopo una considerabil perdita da ambe le parti, si ritirarono ne' lor rispettivi porti dell'Europa e dell'Asia. Il secondo giorno, verso il mezzodì, levossi un forte vento meridionale, che trasportò i vascelli di Crispo incontro al nemico[435], ed avendo egli con avveduta intrepidezza profittato di questo casual vantaggio, ben presto conseguì una piena vittoria. Cento trenta vascelli restaron distrutti, cinquemila uomini uccisi, ed Amando, Ammiraglio della flotta asiatica, colla maggior difficoltà si rifuggì ai lidi di Calcedonia. Tosto che fu aperto l'Ellesponto, entrò nel campo di Costantino, che aveva già avanzate le operazioni dell'assedio, un abbondante convoglio di provvisioni. Egli formò dei mucchi artificiali di terra ugualmente elevati che le mura di Bisanzio. Le alte torri, che furono alzate su que' fondamenti, infestavano gli assediati con grosse pietre e con dardi scagliati dalle macchine militari; e gli arieti, che percuotevan le mura, le avevano rotte in vari luoghi. Se Licinio persisteva più lungamente nella difesa, si esponeva ad esser involto egli stesso nella rovina della piazza; avanti però che gli fosse chiusa l'uscita, esso prudentemente trasferì a Calcedonia nell'Asia la sua persona, ed i suoi tesori; e siccome bramò sempre di associar compagni alle speranze ed ai rischi della sua fortuna, diede in quell'occasione il titolo di Cesare a Martiniano, ch'esercitava uno degli Uffizj più importanti dell'Impero[436].
Tali erano i ripieghi e tale l'abilità di Licinio, che dopo tante successive disfatte raccolse di nuovo nella Bitinia un esercito di cinquanta o sessantamila uomini, mentre l'attività di Costantino era impiegata nell'assedio di Bisanzio. Il vigilante Imperatore nondimeno non trascurò gli ultimi sforzi del suo antagonista. Fu trasportata in piccoli legni una parte considerabile del suo vittorioso esercito sul Bosforo, e subito ch'ebbe posto i piedi a terra sulle altezze di Crisopoli, o come si dice adesso, di Scutari, fu attaccata la decisiva battaglia. Le truppe di Licinio, quantunque levate di fresco, male armate, e peggio disciplinate, resisterono ai vincitori con infruttuoso ma disperato valore, finchè una total disfatta, e la strage di venticinquemila uomini determinò irrevocabilmente il destino del loro Capo[437]. Ritirossi egli a Nicomedia col fine di guadagnar tempo, e colla mira piuttosto di entrare in trattato, che colla speranza di un'efficace difesa. Costanza, moglie di lui e sorella di Costantino, intercedè appresso il fratello in favor del marito, ed ottenne dalla politica piuttosto che dalla compassione di questo una solenne promessa, confermata con giuramento, che dopo il sacrificio di Martiniano, e la rinunzia della porpora, sarebbe stato permesso a Licinio di passare il rimanente della sua vita in pace, e nell'abbondanza. La condotta di Costanza, e la parentela, che aveva colle parti che combattevano, richiama naturalmente allo spirito la memoria di quella virtuosa matrona, ch'era sorella di Augusto, e moglie di Antonio. Ma la maniera di pensare degli uomini era mutata, e non si stimava più un'infamia per un Romano il sopravvivere al proprio onore ed alla propria indipendenza. Licinio chiese, ed accettò il perdono delle sue mancanze; si prostrò colla porpora ai piedi del suo Signore e Padrone; con insultante pietà fu sollevato da terra; nel medesimo giorno ammesso alla mensa Imperiale, e poco dopo mandato a Tessalonica, ch'era stata scelta per luogo del suo confino[438]. Questo per altro fu terminato in breve dalla morte; ed è posto in dubbio se un tumulto de' soldati o un decreto del Senato servì di pretesto all'esecuzione. Secondo le regole della tirannia fu accusato di tentare una cospirazione, e di mantenere una perfida corrispondenza co' Barbari; ma poichè non ne fa mai convinto nè dalla sua condotta, nè da alcuna legittima prova, è permesso per avventura di presumerne l'innocenza dalla sua debolezza[439]. Fu disonorata la memoria di Licinio coll'infamia; ne furono gettate a terra le statue, ed abolite tutte in un tratto le leggi ed i processi giudiziali del regno di lui con un editto fatto con tale precipitazione, e di conseguenze tanto cattive, che fu quasi subito dopo corretto[440].
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Con questa vittoria di Costantino, il Mondo Romano trovossi di nuovo unito sotto l'autorità di un solo Imperatore, trentasette anni dopo che Diocleziano ne avea diviso la potenza e le province con Massimiano suo collega.
I gradi successivi dell'innalzamento di Costantino, dal tempo in cui prese la porpora a York fino alla rinunzia di Licinio a Nicomedia, si son riferiti minutamente e con precisione, non solo perchè i fatti per se stessi interessano, ma molto più anche perchè i medesimi contribuirono alla decadenza dell'Impero per cagione della gran perdita di sangue e di danaro, e pel continuo accrescimento de' tributi non meno che del corpo militare. Le immediate memorabili conseguenze di questa rivoluzione furono la fondazione di Costantinopoli, e lo stabilimento della Religione Cristiana.
CAPITOLO XV.
Progresso della Religione Cristiana, e sentimenti, costumi, numero e condizione de' primitivi Fedeli. Una ricerca intorno al progresso e stabilimento del Cristianesimo, che abbia semplicemente per guida la ragione e il candore, può considerarsi come una parte molto essenziale dell'Istoria dell'Impero Romano. Mentre quel gran corpo veniva attaccato dalla forza aperta, o con occulte mine condotto appoco appoco alla distruzione, una Religione umile e pura s'andò insensibilmente insinuando nelle menti degli uomini; s'accrebbe nell'oscurità e nel silenzio, acquistò nuova forza dalle opposizioni medesime, che le furon fatte, ed innalzò finalmente lo stendardo vittorioso della Croce sulle rovine del Campidoglio. Nè l'influenza del Cristianesimo si limitò solamente alla durata, o ai confini del Romano Impero: questa Religione dopo un corso di tredici, o quattordici secoli si professa tuttora dalle nazioni dell'Europa, che nell'arti e nelle scienze, non men che nelle armi, formano la parte più distinta dell'uman genere. Mediante l'industria a lo zelo degli Europei, essa largamente si è diffusa fino a' lidi più lontani dell'Asia, e dell'Affrica; e per mezzo delle loro colonie si è stabilito solidamente dal Canadà fino al Chili; in un mondo dagli antichi non conosciuto.
Ma per quanto sia vantaggioso o piacevole tal esame, contiene due principali difficoltà. Gli scarsi e dubbiosi materiali della Storia Ecclesiastica rade volte ci pongono in istato di sgombrare la folta nebbia, che oscura i primi secoli della Chiesa. E la gran legge dell'imparzialità ci costringe troppo spesso a scoprire le imperfezioni dei non inspirati dottori, e credenti dell'Evangelio; onde può sembrare a chi non usa molta attenzione, che le lor mancanze gettino qualche ombra sulla fede che professarono. Ma dovrebbe cessare lo scandalo de' pii credenti, ugualmente che il falso trionfo degl'infedeli, se riflettessero non alla qualità solamente di chi fu l'autore della divina rivelazione, ma di quelli eziandio, ai quali fu questa comunicata. Il teologo può gustare il dolce piacere di rappresentare la religione, quale ci venne dal cielo, ammantata della nativa sua purità; ma un più dispiacevol dovere s'impone all'Istorico, il quale non può non iscoprire l'inevitabil miscuglio di corruzione e d'errore, ch'ella contrasse nel dimorar che fece lungamente sopra la Terra, in mezzo ad enti di una debole e degenerata natura.
La nostra curiosità ci porta naturalmente a cercare per quali mezzi la fede Cristiana ottenne sì riguardevol vittoria sulle religioni già stabilite sopra la terra. Potrebbe darsi a tal domanda una facile, ma soddisfacente risposta, dicendo che attribuir ciò si deve alla convincente evidenza della dottrina, ed alla regolatrice Provvidenza del grand'Autore della medesima. Ma siccome la verità, e la ragione di rado sono così favorevolmente accolte nel mondo, e siccome si compiace bene spesso la saggia Provvidenza di far uso delle passioni del cuore umano, e delle generali circostanze, nelle quali ritrovansi gli uomini, come d'istrumenti per eseguire i propri disegni; così ci si permetterà d'investigare, quantunque colla sommissione dovuta, non già qual fu la prima, ma bensì quali furon le secondarie cagioni del rapido progresso della Chiesa di Cristo. Si farà chiaro per avventura da tal esame, ch'essa fu con la massima efficacia favorita e sostenuta dalle cinque cagioni che seguono: I. Dall'inflessibile, e s'è lecito così dire, intollerante zelo de' Cristiani, proveniente in vero dalla religione Giudaica, ma spogliato di quello spirito ritroso ed insociabile, che in luogo d'invitare avea allontanato i Gentili dall'abbracciar la legge di Mosè. II. Dalla dottrina di una vita futura, avvalorata da ogni special circostanza, che potesse dar peso ed efficacia a quell'importante verità. III. Dal poter de' miracoli, attribuito alla Chiesa primitiva. IV. Dalla pura, ed austera morale de' Cristiani. V. Dalla disciplina, ed unione della Cristiana repubblica, che appoco appoco formò uno stato indipendente, il quale sempre più andò crescendo nel cuore del Romano Impero.
I. Noi abbiamo già descritto l'armonia dell'antico mondo in materia di religione, e con quanta facilità le più differenti ed anche nemiche nazioni abbracciavano, o almen rispettavano le superstizioni l'una dell'altra. Un solo popolo ricusava di unirsi a questo comune commercio dell'uman genere. I Giudei, che sotto le monarchie degli Assirj e de' Persiani avevan languito per molti secoli come la parte più disprezzata de' loro schiavi[441], si sollevarono dall'oscurità sotto successori di Alessandro; ed essendo sorprendentemente moltiplicati prima in Oriente poi in Occidente, ben presto eccitarono la curiosità e la maraviglia delle altre nazioni[442]. La burbera ostinazione, con cui mantenevano le loro speciali cerimonie ed insocievoli usanze, pareva indicare in essi una specie d'uomini distinta dagli altri, che audacemente professavano, o che mal celavano l'odio implacabile, che portavano al resto del genere umano[443]. Nè la violenza d'Antioco, nè le arti di Erode, nè l'esempio delle nazioni circonvicine poterono mai persuadere i Giudei ad unire con le instituzioni di Mosè l'elegante mitologia de' Greci[444]. Seguendo le massime di una general tolleranza, i Romani proteggevano anche quelle superstizioni, che disprezzavano[445]. Augusto, pieno d'indulgenza, condiscese fino a dar ordini, che si offerissero sacrifizi per la sua prosperità nel tempio di Gerusalemme[446], laddove se l'infimo della stirpe d'Abramo avesse prestato simile omaggio al Giove del Campidoglio, sarebbe divenuto un oggetto di esecrazione a se stesso, ed a' propri fratelli. Ma la moderazione de' Conquistatori non fu sufficiente a quietare i gelosi pregiudizi de' loro sudditi, che si misero in agitazione e si scandalizzarono, allorchè introdur si dovettero le insegne del Paganesimo nel lor paese, divenuto Provincia Romana[447]. Il folle attentato di Caligola di porre la propria statua nel tempio di Gerusalemme, andò a voto per l'unanime risoluzione di un popolo, che temeva molto meno la morte, che tale idolatrica profanazione[448]. Il loro attacco alla legge di Mosè uguagliava l'abborrimento, che avevano per le religioni straniere. Poichè il corso della devozione e dello zelo si trovava riunito in un angusto canale, esso acquistava la forza, ed alle volte ancora il furor di un torrente.
Quest'inflessibile perseveranza, che agli antichi sembrava così odiosa o così ridicola, prende un assai terribil carattere, dacchè si è degnata la Provvidenza di rivelarci la misteriosa istoria del Popolo eletto. Ma diviene sempre più sorprendente il devoto ed anche scrupoloso attaccamento alla religione Mosaica, tanto singolare ne' Giudei, che vissero dopo l'edificazione del secondo tempio, se paragonar si voglia colla pertinace incredulità de' loro maggiori. Quando la legge fu dettata tra i folgori dal monte Sinai; quando furon sospesi i flutti del mare e il corso de' pianeti pel comodo degl'Israeliti; o quando i premj e le pene temporali erano le conseguenze immediate della lor osservanza o disubbidienza, essi continuamente si ribellavano contro la visibile maestà del divino loro Sovrano, collocavano gl'idoli delle genti nel Santuario di Jeovà, ed imitavano qualunque capricciosa ceremonia, che si praticasse nelle tende degli Arabi, o nelle città della Fenicia[449]. A misura che quella stirpe ingrata restò meritamente priva della protezione del Cielo, andò la lor fede acquistando un corrispondente grado di purità e di vigore. I contemporanei di Mosè e di Giosuè con non curante indifferenza erano stati spettatori de' più sorprendenti miracoli. Sotto il peso poi d'ogni genere di calamità, la fede di tanti miracoli ha preservato gli Ebrei de' tempi posteriori dall'universal contagio della idolatria, e contro tutti i comuni principj dello spirito umano, sembra che questo popolo singolare abbia accordato un più forte e più facile assenso alla tradizione de' suoi remoti antenati, che all'evidenza de' propri sensi.
La religione Giudaica era mirabilmente atta per la difesa, ma per nulla accomodata alle conquiste, e par verisimile che il numero de' proseliti non fosse mai molto maggiore di quel degli apostati. In principio, furon fatte le divine promesse, ed ingiunto il rito della circoncisione, a distinzione degli altri, ad una sola famiglia. Allorchè fu moltiplicata la posterità d'Abramo come le arene del mare, la divinità, che colla propria bocca le aveva dato un sistema di leggi o di cerimonie, si dichiarò il proprio o quasi nazionale Dio d'Israele, e separò colla più gelosa cura il suo popolo favorito dal resto del genere umano. La conquista della terra di Canaan fu accompagnata da tante mirabili, e sanguinose circostanze, che i vittoriosi Giudei restarono in uno stato d'irreconciliabile ostilità con tutti i loro vicini. Era stato comandato loro di estirpare alcune delle più idolatre tribù, e l'esecuzione della volontà divina rare volte fu ritardata dalla debolezza della umana compassione. Ad essi era proibito di contrarre matrimonio o affinità veruna colle altre nazioni, e la proibizione di ammetterle nel loro ceto, che in alcuni casi era perpetuo, si estendeva quasi sempre alla terza, alla settima, ed anche alla decima generazione. Non s'inculcò mai come un precetto della legge l'obbligo di predicare a' Gentili la fede di Mosè; nè gli Ebrei si trovavano disposti ad incaricarsene come d'un volontario dovere. Quest'insocievole popolo nell'ammissione di nuovi cittadini seguitava piuttosto la vanità propria de' Greci, che la politica generosa di Roma. I discendenti d'Abramo eran lusingati dall'opinione di essere i soli eredi dell'alleanza, e temevano di scemare il valore della loro eredità, se la dividevano troppo facilmente con gli stranieri della terra. Una comunicazione più estesa coll'uman genere dilatò le loro cognizioni senza correggere i loro pregiudizi, e se il Dio d'Israele acquistava qualche nuovo devoto, ciò era dovuto al genio incostante del politeismo, piuttosto che allo zelo attivo de' suoi missionari[450]. Sembra, che la religione Mosaica sia stata instituita per un paese particolare, e per una sola nazione; e se rigorosamente si fosse osservato il precetto, che ogni maschio tre volte l'anno si presentasse avanti il Signore Dio, sarebbe stato impossibile che i Giudei si fossero estesi oltre gli angusti limiti della Terra Promessa[451]. Si tolse in vero di mezzo simil ostacolo mediante la distruzione del tempio di Gerusalemme; ma in tal distruzione restò involta la parte più riguardevole della religione Giudaica; ed i Pagani, che avevano sempre udito con maraviglia la straordinaria descrizione di un santuario voto di numi[452], non sapevano immaginare qual esser potesse l'oggetto, e quali gl'istrumenti di un culto privo di tempj e di altari, di sacerdoti e di sacrifizi. Pure anche nel loro stato d'abbassamento, i Giudei, vantando sempre i sublimi ed esclusivi lor privilegi, evitavano, invece di apprezzare, la società degli stranieri. Sempre insistevano con inflessibil rigore su quelle parti della legge, ch'era in lor facoltà di osservare. Le particolari lor distinzioni di giorni, di cibi, ed una varietà di triviali, quantunque incomode cerimonie, formavano altrettanti oggetti di avversione e di disgusto per le altre nazioni, alle abitudini, ed ai pregiudizi delle quali erano quelle diametralmente contrarie. Il solo penoso, ed anche pericoloso rito della circoncisione serviva a rimuovere un volenteroso proselito dalle porte della Sinagoga[453].
In queste circostanze comparve nel mondo il Cristianesimo, armato colla forza della legge Mosaica, e libero dal peso dei ceppi della medesima. Fu con ugual premura inculcato nel nuovo non men che nel vecchio sistema uno zelo esclusivo per la verità della religione e per l'unità di Dio; e tutto ciò, che di nuovo intorno alla natura ed ai disegni dell'Ente supremo fu rivelato al genere umano, era adattato a far crescere la riverenza per quella misteriosa dottrina. Fu ammessa la divina autorità di Mosè e de' Profeti, ed anche stabilita come la base più stabile del Cristianesimo. Fin dal principio del mondo erasi annunziata e preparata, con una serie non interrotta di predizioni, la venuta per lungo tempo attesa del Messia, il quale, per condiscendere alla grossolana immaginazione de' Giudei, era stato più frequentemente rappresentato sotto la figura di Re e di Conquistatore, che sotto quella di Profeta, di Martire, e di Figlio di Dio. Mediante l'espiatorio sacrifizio di lui, furono tutti in una volta consumati ed aboliti gl'imperfetti sacrifizi del Tempio. Alle leggi ceremoniali, che consistevano solamente in segni e figure, successe un culto spirituale e puro, adattato a tutti i climi ugualmente che ad ogni condizione di persone; ed al sangue, collo spargimento del quale s'iniziavano gli uomini, fu sostituita la più innocente iniziazione dell'acqua. La promessa del favor divino, invece di essere parzialmente ristretta alla discendenza d'Abramo, fu proposta universalmente a' liberi ed a' servi, a' Greci ed a' Barbari, agli Ebrei, ed a' Gentili. Fu sempre riservato per i soli membri della Chiesa Cristiana qualunque privilegio che dalla Terra sollevar potesse il proselito al cielo, rinvigorirne la devozione, assicurarne la felicità, o anche soddisfar quel segreto orgoglio, che sotto l'apparenza di devozione s'insinua nel cuore umano; ma nel tempo stesso permettevasi, anzi cercavasi di persuadere ad ognuno di accettare il glorioso distintivo, che non solamente si offeriva come un favore, ma imponevasi eziandio come un obbligo. Per un nuovo convertito era un dovere il più sacro quello di spargere fra' propri amici e parenti l'inestimabil benefizio, ch'esso avea ricevuto, e di ammonirli che il rifiuto, che ne avesser fatto, sarebbe stato severamente punito, come una peccaminosa disubbidienza al volere di una benigna, ma onnipotente Divinità.
La liberazione però della Chiesa da' vincoli della Sinagoga fu un'opera alquanto lunga e difficile. I Giudei convertiti, che ravvisavano in Gesù il carattere del Messia predetto da' loro antichi oracoli, lo rispettavano come un Profeta, che insegnava la virtù e la religione; ma stavan ostinatamente attaccali alle cerimonie dei loro maggiori, e desideravano di soggettarvi anche i Gentili, che continuamente accrescevano il numero dei credenti. Sembra che questi giudaizzanti Cristiani traessero con qualche plausibilità i loro argomenti dalla origine divina della legge di Mosè, e dalle immutabili perfezioni del grande Autore di essa. Sostenevano questi che se l'Ente, il quale è sempre il medesimo per tutta l'eternità, avesse disegnalo di abolire que' sacri riti, ch'eran serviti per distinguere il suo Popolo eletto, sarebbe stata la rivocazione di quelli non meno chiara e solenne, che la prima loro promulgazione: che invece di quelle frequenti dichiarazioni, che o suppongono, o assicurano la perpetuità della religione Mosaica, si sarebbe questa rappresentata, come un piano provvisionale, che doveva durar solamente fino alla venuta del Messia, il quale avrebbe dimostrato agli uomini una forma più perfetta di culto e di fede[454]: che il Messia medesimo, ed i suoi discepoli, i quali conversarono con lui sulla terra, piuttosto che autorizzare col loro esempio la più minuta osservanza della Mosaica legge[455], avrebbero pubblicato al mondo l'abolizione di quelle inutili ed antiquate ceremonie, senza permettere che il Cristianesimo per tanti anni restasse oscuramente confuso tra le Sette della Chiesa Giudaica. Simili argomenti pare, che sieno stati usati in difesa della causa della legge Mosaica spirante; ma l'industria de' nostri dotti Teologi ha largamente spiegato l'ambiguo linguaggio del Testamento vecchio, e la dubbiosa condotta dei predicatori apostolici. Egli era conveniente di sviluppare a grado a grado il sistema dell'Evangelio, e di pronunziare, colla massima cautela e riservatezza, una sentenza di condanna, ch'era tanto ripugnante alle inclinazioni, ed ai pregiudizi degli Ebrei convertiti.
L'Istoria della Chiesa Gerosolimitana somministra una forte prova della necessità di tali cautele, e della profonda impressione che avea fatto la Religion Giudaica nelle menti de' suoi seguaci. I primi quindici Vescovi di Gerusalemme furon tutti Giudei circoncisi; e la congregazione, a cui presedevano, univa la legge di Mosè colla dottrina di Cristo[456]. Era naturale, che la primitiva tradizione di una Chiesa, ch'era stata fondata solo quaranta giorni dopo la morte di Cristo, e governata quasi altrettanti anni sotto l'immediata inspezione degli Apostoli, si ricevesse come il modello della retta fede[457]. Le Chiese lontane si rimettevano assai spesso all'autorità della venerabile loro madre, e sollevavano con una generosa contribuzione di elemosine le angustie di essa. Ma quando si stabilirono società numerose ed opulente nella gran città dell'Impero, come in Antiochia, in Alessandria, in Efeso, in Corinto, ed in Roma, appoco appoco diminuì la riverenza, che Gerusalemme aveva inspirato a tutte le colonie Cristiani. I Giudei convertiti o i Nazareni, come furon chiamati dopo, che avevan gettati i fondamenti della Chiesa, in breve si trovaron sopraffatti dalla moltitudine, che sempre cresceva, e che da tutte le diverse religioni del politeismo arrolavasi alla milizia di Cristo; ed i Gentili, che avevano, coll'approvazione del loro particolare Apostolo, scosso l'intollerabil peso delle cerimonie Mosaiche, ricusarono finalmente ai loro più scrupolosi fratelli quella medesima tolleranza, ch'essi a principio avevano umilmente implorata per le lor proprie usanze. La rovina del tempio, della città, della pubblica religione degli Ebrei fu gravemente sensibile ai Nazareni, come a quelli, che nelle costumanze, se non nella fede, conservavano un'intima connessione cogli empj lor nazionali, le disgrazie de' quali, si attribuivano da' Gentili al disprezzo e da' Cristiani con più ragione allo sdegno del sommo Dio. I Nazareni si ritirarono dalle rovine di Gerusalemme alla piccola città di Pella di là dal Giordano, dove languì nella solitudine e nell'oscurità quell'antica Chiesa più di sessant'anni[458]. Essi avevan sempre la consolazione di fare frequenti e devote visite alla Città santa, e la speranza di essere un giorno ristabiliti in que' luoghi, che per natura e per religione eran portati ad amare, non meno che a rispettare. Ma finalmente, sotto il regno di Adriano, il disperato fanatismo degli Ebrei pose il colmo alle loro calamità, ed i Romani, esacerbati dalle ripetute lor ribellioni, esercitarono con insolito rigore i diritti della vittoria. L'Imperatore fondò una nuova città col nome d'Elia Capitolina sul monte Sion[459], alla quale concesse i privilegi delle colonie; ed avendo stabilite le più severe pene contro qualunque Giudeo, che avesse ardito di accostarsi a' recinti di quella, vi pose la guardia di una coorte Romana per invigilare all'esecuzione de' suoi comandi. A' Nazareni restava un solo mezzo di evitare la comun proscrizione, e fu in quest'occasione assistita la forza della verità dall'influenza di temporali vantaggi: i medesimi dessero per loro Vescovo Marco, ch'era Gentile d'origine, e molto probabilmente nativo o dell'Italia o di qualche provincia Latina. Alle persuasive di lui la maggior parte della congregazione rinunziò alla legge Mosaica, nella pratica di cui avevano essi perseverato sopra cent'anni; e mediante questo sacrificio de' loro usi e pregiudizi furono liberamente ammessi nella colonia d'Adriano, e si strinse più fortemente la loro unione nella Chiesa Cattolica[460].
Quando gli onori, ed il nome della Chiesa di Gerusalemme si restituirono al monte Sion, furono imputati agli oscuri avanzi de' Nazareni, che ricusarono di accompagnare il loro Vescovo Latino, i delitti di eresia e di scisma. Essi conservaron sempre l'antica loro abitazione di Pella; si sparsero per i villaggi vicini a Damasco; e formarono una piccola chiesa nella Città di Berea, o come si dice adesso, d'Aleppo nella Siria[461]. Fu creduto il nome di Nazareno troppo onorevole per que' Cristiani giudaizzanti, ed in breve, a cagione della supposta povertà del loro intelletto, non meno che della lor condizione, riceverono il dispregevole titolo di Ebioniti[462]. Pochi anni dopo il ritorno della Chiesa di Gerusalemme, s'incominciò a dubitare, se un uomo, che sinceramente riconoscesse Gesù per Messia, ma continuasse ad osservare la legge Mosaica, potesse sperar di salvarsi. La dolce indole di Giustino martire lo faceva inclinare a scioglier tal questione affermativamente; e quantunque si esprimesse colla più riservata diffidenza, osò tuttavia di determinarsi a favore di tale imperfetto Cristiano, qualora fosse contento di praticare in privato le cerimonie Mosaiche senza pretendere di sostenerne generalmente l'uso, o la necessità. Ma quando Giustino fu pressato a dichiarare il sentimento della Chiesa, confessò che vi erano molti fra gli ortodossi Cristiani, che non solo escludevano i lor giudaizzanti fratelli dalla speranza di salvazione, ma evitavano ancora ogni commercio con loro ne' comuni officj di amicizia, di ospitalità, e di vita sociale[463]. La opinione più rigorosa prevalse, com'era natural di supporre, alla più dolce, e si alzò una muraglia di separazione per sempre fra i discepoli di Mosè e quelli di Cristo. Gl'infelici Ebioniti, rigettati da una delle due religioni come apostati, dall'altra come eretici, si trovaron costretti ad assumere un carattere più determinato; e sebbene si scoprano fino al quarto secolo alcune tracce di quella vecchia setta, pure insensibilmente andarono ad incorporarsi o nella Chiesa o nella Sinagoga[464].
Mentre la Chiesa ortodossa teneva un giusto mezzo fra l'eccessiva reverenza, e l'inconveniente disprezzo per la legge di Mosè, diversi cretini deviarono ugualmente agli opposti estremi della stravaganza, e dell'errore. Gli Ebioniti avevan concluso dalla riconosciuta verità della religione Giudaica, ch'essa non poteva esser abolita giammai; ed i Gnostici dalle supposte imperfezioni della medesima con ugual precipitazione inferirono che quella non era stata mai instituita dalla sapienza divina. Vi sono alcune obbiezioni contro l'autorità di Mosè e de' Profeti, che si presentano troppo facilmente ad uno scettico, quantunque possan derivare solamente dall'ignoranza, in cui siamo della remota antichità, e dalla nostra incapacità di formare un adeguato giudizio della divina economia. Queste obbiezioni furono con impegno abbracciate, e con ugual protervia sostenute dalla vana scienza dei Gnostici[465]. Poichè questi eretici erano per la maggior parte alieni dai piaceri del senso, bruscamente attaccavano la poligamia de' Patriarchi, le galanterie di David, ed il serraglio di Salomone. Non sapevano come poter conciliar la conquista della terra di Canaan, e l'inesorata estirpazione de' nativi abitanti di quella, colle nozioni comuni di umanità e di giustizia. Ma quando poi esaminavano la sanguinosa lista dell'uccisioni, dell'esecuzioni e delle stragi, che macchiano quasi ogni pagina degli annali Giudaici, venivano in cognizione, che i Barbari della Palestina dimostrato avevano anche verso i loro nazionali ed amici tanta compassione, quanta ne avevano esercitata verso i loro idolatri nemici[466]. Da' settarj della legge passando alla legge medesima, asserivano esser impossibile, che una religione consistente solo in sanguinosi sacrifizi ed in vane cerimonie, della quale i premj ed i gastighi eran tutti di una natura carnale e temporale, inspirasse l'amore della virtù, o raffrenasse l'impeto delle passioni. Il racconto, che fa Mosè della creazione e della caduta dell'uomo, trattavasi con profana derisione dai Gnostici, che non volevano sentir con pazienza parlare del riposo della Divinità dopo l'opera di sei giorni, nè della costa d'Adamo, del giardino d'Eden, degli alberi della vita e della scienza, del serpente che parla, del frutto vietato, e della condanna eterna, pronunziata contro la specie umana per la venial colpa de' primi progenitori[467]. I Gnostici empiamente rappresentavano il Dio d'Israele come un ente sottoposto alla passione ed all'errore, capriccioso ne' suoi favori, implacabile nello sdegno, e bassamente geloso del superstizioso suo culto, e che limitava la sua parzial providenza ad un solo popolo, ed alla transitoria vita presente. In tal carattere non potevano essi ravvisare alcun distintivo del saggio ed onnipotente Padre dell'Universo[468]. Accordavano che la religion de' Giudei era alquanto meno empia che l'idolatria de' Gentili; ma la dottrina loro fondamentale era, che Cristo da essi adorato, come la prima e più luminosa emanazione della Divinità, comparve sopra la terra per liberare il genere umano da' vari errori e per rivelare un nuovo sistema di verità o di perfezione. I più dotti fra' Padri, per una ben singolare condiscendenza, hanno imprudentemente ammesso le sofistiche sottigliezze dei Gnostici. Riconoscendo che il senso letterale ripugna ad ogni principio di ragione e di fede, si son creduti sicuri ed invulnerabili dietro all'ampio velo dell'allegoria, ch'essi hanno avuta la cura di stendere sopra qualunque minima parte della narrazione Mosaica[469].
Con maggior ingegno che verità è stato notato, che la virginal purità della Chiesa non fu mai violata da scisma o da eresia veruna, prima del regno di Traiano o d'Adriano, che fioriron circa cent'anni dopo la morte di Cristo[470]. Noi possiamo assai più propriamente osservare, che in quel tratto di tempo a' seguaci del Messia fu accordato un campo più libero sì nella fede che nella pratica, di quel che fosse loro permesso in alcuno de' seguenti secoli. Siccome s'andarono appoco appoco ristringendo i limiti della comunione, e si esercitava con sempre maggior rigore la spirituale autorità del partito che prevaleva, molti de' principali membri della Chiesa, a' quali fu intimato di rinunziare alle private loro opinioni, s'impegnarono a sostenerle, a tirar delle conseguenze da' falsi loro principj, e ad alzare apertamente bandiera di ribellione contro l'unità della Chiesa. I Gnostici si distinguevano come la parte più culta, più dotta, e più facoltosa del Cristianesimo, e tal generale denominazione, che indica una superiorità di cognizioni, o ebbe origine dal lor proprio orgoglio, o ad essi fu ironicamente applicata dall'invidia de' loro avversari. Essi erano quasi tutti Gentili di nascita, e sembra, che i primi lor fondatori fosser nativi della Siria o dell'Egitto, dove il calore del clima disponeva tanto la mente che il corpo all'indolente contemplativa devozione. I Gnostici mescolavano alla fede di Cristo molte sublimi ma oscure opinioni, che avevano tratte dalla filosofia orientale, ed eziandio dalla religione di Zoroastro, intorno all'eternità della materia, all'esistenza de' due principj, ed alla misteriosa gerarchia del mondo invisibile[471]. Ingolfati che furono in quel vasto abisso, lasciaronsi trasportare da una immaginazione disordinata; e come vari ed infiniti sono i sentieri dell'errore, i Gnostici si trovarono insensibilmente divisi in più di cinquanta Sette particolari[472], fra le quali par che le più celebri siano state quelle de' Basilidiani, de' Valentiniani, de' Marcioniti, e qualche tempo dopo de' Manichei. Ciascheduna di queste Sette vantava i propri Vescovi, le proprie Assemblee, i suoi Dottori, e Martiri particolari[473], ed in luogo de' quattro Evangeli ammessi dalla Chiesa, gli Eretici allegavano una moltitudine d'istorie, nelle quali si adattavano le azioni, ed i discorsi di Cristo e degli Apostoli, alle rispettive loro opinioni[474]. Il progresso dei Gnostici fu rapido ed esteso[475]: occuparono essi l'Asia e l'Egitto, si stabilirono in Roma, e penetrarono fin qualche volta nelle province dell'Occidente. Per la maggior parte insorsero nel secondo secolo; fiorirono durante il terzo; e furon soppressi nel quarto, o quinto per cagione delle controversie più moderne, che prevalsero, e del superiore ascendente della potestà Imperiale. Quantunque però disturbassero continuamente la pace della Chiesa, e spesso degradassero l'onor della religione, contribuirono ciò nonostante a promuovere piuttosto che a ritardare il progresso del Cristianesimo. I convertiti Gentili, i più forti pregiudizi ed obbiezioni de' quali dirigevansi contro la legge di Mosè, potevano essere ammessi in molte società Cristiane, che non esigevano dalle loro non istruite menti alcuna credenza di antecedenti rivelazioni. La loro fede appoco appoco si fortificava e si estendeva, e la Chiesa in ultimo veniva a far la conquista de' suoi più inveterati nemici[476].
Ma per quanto diverse fossero le opinioni tra gli Ortodossi, gli Ebioniti ed i Gnostici rispetto alla divinità, o all'obbligazione della legge Mosaica, essi erano però tutti ugualmente animati dall'istesso zelo esclusivo, e dall'istesso abborrimento per l'idolatria, che aveano distinto i Giudei dalle altre nazioni dell'antichità. Un filosofo, che risguardava il sistema del politeismo come una mera composizione dell'umana frode e dell'errore, poteva coprire un sorriso di sprezzo sotto la maschera della devozione, senza temere che la condiscendenza, o lo scherno esporre lo potesse allo sdegno di alcun invisibile, o com'egli supponeva, immaginario potere. Ma da' primitivi Cristiani si riguardavano le già stabilite religioni del Paganesimo in un aspetto molto più odioso e formidabile. Era sentimento universale sì della Chiesa che degli Eretici, che i demonj fosser gli autori, i patrocinatori, e gli oggetti dell'idolatria[477]. Era sempre permesso a quegli spiriti ribelli, ch'erano stati deposti dallo stato d'angeli, e precipitati nel baratro infernale, di vagare sopra la terra per tormentare i corpi, e sedurre le menti de' malvagi. I demonj conobbero tosto la natural propensione del cuore umano verso la devozione, e ne abusarono, artificiosamente alienando gli uomini dall'adorazione del loro Creatore, ed usurpando il luogo e gli onori dovuti al sommo Dio. Mediante l'effetto delle maliziose loro arti, soddisfecero la propria lor vanità e vendetta, ed ottennero nel tempo stesso il solo conforto, di cui essi erano ancor suscettivi, cioè la speranza di render partecipe la specie umana della lor colpa e miseria. Si asseriva, o almeno si supponeva, che si fossero distribuiti fra loro i più importanti caratteri del politeismo, avendo l'uno assunto il nome e gli attributi di Giove; un altro di Esculapio, un terzo di Venere, ed un quarto forse d'Apollo[478]; e che mediante la lunga loro esperienza ed aerea natura, fosser capaci di eseguire con sufficiente perizia e dignità le parti, che avevan preso a rappresentare. Si celavano essi ne' tempj; instituivano feste e sacrifizi; inventavano favole; pronunziavan oracoli; e spesso credevasi, che facessero de' miracoli. I Cristiani, che per mezzo degli spiriti maligni potevano così facilmente spiegare ogni sovrannaturale apparenza, eran disposti, ed anche desideravan d'ammettere le più stravaganti finzioni della pagana mitologia. Ma la professione di Cristiano le facea risguardar con orrore; si ravvisava il più tenue segno di rispetto pel culto nazionale come un omaggio direttamente prestato al demonio, e come un atto di ribellione contro la maestà di Dio.
In conseguenza di tal opinione il primo e più difficil dovere per un Cristiano era quello di mantenersi puro ed intatto da ogni pratica d'idolatria. La religione delle nazioni non era solamente una dottrina speculativa, che si professasse nelle scuole, o si predicasse ne' tempj: le innumerabili divinità e cerimonie del politeismo erano strettamente frammischiate con ogni genere di affari o di piaceri, sì della vita privata che della pubblica; e sembrava impossibile d'evitarne l'osservanza, senza rinunciare nel tempo stesso al commercio dell'uman genere, ed a tutti gli uffizi e divertimenti della società[479]. Gl'importanti trattati di pace e di guerra eran preparati o conclusi con solenni sacrifizi, a' quali il Magistrato, il Senatore, e il soldato dovevan presedere, o aver parte[480]. I pubblici spettacoli formavano una parte essenziale della gioconda devozione de' Pagani, e supponevasi che gli Dei accettassero col maggior gradimento i giuochi, che dal Principe e dal Popolo si celebravano in onore delle particolari lor feste[481]. I Cristiani, che con pio orrore sfuggivano l'abominazione del circo o del teatro, trovavansi circondati da lacci infernali, ogni volta che in un geniale trattenimento i loro nemici, nell'atto di invocare gli Dei ospitali, facevano libazioni alla salute l'uno dell'altro[482]. Quando nella pompa dell'imeneo, la sposa, resistendo con affettata ripugnanza, veniva forzata ad entrar nella soglia della sua nuova abitazione[483], o quando lentamente muovevasi la trista processione di un cadavere verso il funereo rogo[484]; in queste interessanti occasioni era costretto il Cristiano ad abbandonar le persone più care che avesse, piuttosto che rendersi reo della colpa, inerente a quegli empi riti. Qualunque arte e commercio, che avesse il minimo legame colla formazione, o coll'adornamento degl'Idoli, contaminavasi dalla macchia dell'idolatria[485]; sentenza ben rigida, mentre condannava la massima parte del popolo, che s'impiega nell'esercizio delle arti liberali e meccaniche, ad un'eterna miseria. Se gettiamo gli occhi sopra i copiosi avanzi dell'antichità, osserveremo, che oltre le immediate rappresentazioni degli Dei, e gl'istrumenti sacri del loro culto, s'introdussero l'eleganti figure, e le piacevoli finzioni, consacrate dall'immaginazione de' Greci, come i più ricchi ornamenti delle case, degli abiti, e delle masserizie de' Pagani[486]. Fino le arti della musica, della pittura, dell'eloquenza e della poesia riconoscevano la medesima origine impura. Secondo il linguaggio de' Padri, Apollo e le Muse erano gli organi dello spirito infernale; Omero e Virgilio i primi fra i servi di lui; e la bella mitologia, che penetra ed anima le composizioni de' loro ingegni, è destinata a celebrar la gloria dei demonj. Il comune idioma stesso della Grecia e di Roma abbondava di empie famigliari espressioni, le quali era facile che dall'inavvertito Cristiano o fosser con troppa negligenza adoperate, o udite troppo parzialmente[487].
Le pericolose tentazioni, che da ogni parte stavano in agguato per sorprender l'incauto credente, l'assalivano con doppia violenza ne' giorni di solenni festività. Questi erano immaginati e disposti nel corso dell'anno con tale artifizio, che la superstizione portava sempre seco l'apparenza del piacere; e spesso quella della virtù[488]. Varie fra le più sacre solennità del Rituale Romano eran destinate a salutare con voti di pubblica e di privata felicità le nuove calende di Gennaio, a risvegliare la pia rimembranza dei morti e dei vivi, e sempre più stringere i vincoli inviolabili della proprietà, ed applaudire nel ritorno della primavera alla genial potenza della fecondità, a perpetuare le due più memorabili epoche di Roma, la fondazione della città, e quella della repubblica, ed a restituire nel tempo della piacevole licenza de' Saturnali la primitiva uguaglianza dell'uman genere. Può concepirsi una idea dell'abborrimento de' Cristiani per tali empie cerimonie da quella scrupolosa delicatezza, ch'essi dimostravano in ogni anche più leggiera occasione. Era costume degli antichi, ne' giorni di generale festività, di adornare le loro porte con lampadi e rami di lauro, e di coronarsi il capo con ghirlande di fiori. Si poteva forse tollerare quest'elegante ed innocente usanza, come una pura instituzione civile. Ma disgraziatamente accadde, che le porte delle case trovavansi protette dagli Dei domestici, che il lauro era consacrato all'amante di Dafne, e che le ghirlande di fiori, quantunque spesso adoperate come un segno di letizia o di duolo, nella lor prima origine si eran destinate all'uso della superstizione. I timorosi Cristiani, che si lasciavan persuadere in tali casi a condiscendere al costume del lor paese, ed a' comandi de' Magistrati, soggiacevano alle più tetre apprensioni, che provenivano da' rimproveri della lor propria coscienza, dalle censure della Chiesa e dall'annunzio della divina vendetta[489].
Tal era la premurosa diligenza, che richiedevasi per guardare la purità del Vangelo dall'infetto alito dell'idolatria. I seguaci della religion dominante eran trascurati, per educazione e per abito, nel praticar le superstiziose osservanze de' pubblici e privati riti; ma ogni volta, che questi si facevano, somministravano a' Cristiani l'opportunità di dichiarare e di confermare la zelante loro opposizione. Per mezzo di tali frequenti proteste, di continuo si fortificava il loro attaccamento alla fede, ed a misura che cresceva lo zelo, essi combattevano con più ardore e successo nella santa guerra, che avevano intrapreso a fare contro l'impero de' demonj.
II. Le opere di Cicerone[490] rappresentano co' colori più vivi l'ignoranza, gli errori e l'incertezza degli antichi filosofi rispetto all'immortalità dell'anima. Quando essi vogliono armare i lor discepoli contro il timor della morte, inculcano loro come un'ovvia e malinconica tesi, che il fatal colpo del nostro discioglimento ci libera dalle calamità della vita, e che più non soffre chi più non esiste. Contuttocciò v'erano alcuni pochi Saggi della Grecia e di Roma, che avevan concepito un'idea più nobile, ed in qualche modo più giusta della natura dell'uomo; quantunque bisogna confessare, che in tal sublime ricerca il lor raziocinio era spesso guidato dall'immaginazione, e questa eccitata dalla lor vanità. Allorchè si compiacevano in osservar l'estensione delle proprie intellettuali potenze, allorchè esercitavano le diverse facoltà della memoria, della fantasia, del giudizio nelle speculazioni le più profonde, o ne' lavori di maggior importanza, e quando riflettevano al desiderio della fama, che li trasportava ne' futuri secoli molto al di là de' confini della morte e del sepolcro, non eran inclinati a confonder se stessi colle bestie del campo, o a supporre che un ente, per la dignità del quale nutrivano la più sincera ammirazione, dovesse limitarsi ad un punto della superficie terrestre o ad una durata di pochi anni. Con questa favorevole prevenzione chiamavano anche in lor soccorso la scienza, o piuttosto il linguaggio de' metafisici. Essi ben presto scoprirono, che, siccome niuna delle proprietà della materia può applicarsi alle operazioni della mente, l'anima umana per conseguenza debb'essere una sostanza distinta dal corpo, pura, semplice e spirituale, incapace di scioglimento e suscettibile del più alto grado di virtù e di felicità, subito che si trovi libera dalla corporea prigione. Da questi nobili e speciosi principj, i filosofi, che seguitavano le tracce di Platone, dedussero una conseguenza non giusta nel sostenere che fecero l'immortalità non solo in futuro, ma anche l'antecedente eternità dello spirito umano, ch'essi erano troppo propensi a risguardare come una parte dell'ente infinito ed esistente per se medesimo, il quale penetra e sostien l'Universo[491]. Una dottrina tanto superiore ai sensi ed all'esperienza dell'uman genere, poteva servire ad occupare piacevolmente l'ozio di una mente filosofica, o a dare nel silenzio della solitudine un raggio di conforto alla scoraggiata virtù; ma la debole impressione, ricevuta nelle scuole, veniva in breve cancellata dal commercio e da negozi della vita civile. Noi abbiam sufficiente notizia delle persone più eminenti, che fiorirono al tempo di Cicerone e de' primi Cesari, delle loro azioni, de' loro caratteri o de' loro motivi d'operare, per assicurarci che la lor condotta in questa vita non fu mai regolata da una seria persuasione dei premj o delle pene di uno stato futuro. Nel Foro e nel Senato di Roma gli oratori più abili non temevano di offendere i loro uditori con rappresentare quella dottrina come un'oziosa e stravagante opinione, che rigettavasi con disprezzo da qualunque persona di culta educazione e d'ingegno[492].
Poichè dunque i più alti sforzi della filosofia non possono estendersi ad altro, che ad indicar debolmente il desiderio, la speranza, o al più la probabilità di una vita futura, non v'è che una rivelazione divina che assicurar possa l'esistenza, e descriver la natura di quell'invisibil paese, ch'è destinato a ricever gli spiriti umani dopo la lor separazione da' corpi. Ma facilmente si ravvisano molti difetti inerenti alle comuni religioni della Grecia e di Roma, che le rendevano molto inadeguate ad una sì difficile impresa. I. Il general sistema della lor mitologia non era sostenuto da alcuna solida prova, ed i più saggi fra' Pagani avevano già rinunziato alla mal usurpata autorità di essa. II. Erasi abbandonata la descrizione delle infernali regioni alla fantasia de' pittori e de' poeti, che le avevano popolate di tanti mostri e fantasmi, i quali distribuivano con sì poca equità i premj e le pene, che tal solenne verità, la più coerente al cuore umano, restava oppressa e posta in cattivo aspetto dall'assurdo miscuglio delle più strane finzioni[493]. III. La dottrina di uno stato avvenire appena risguardavasi, fra' devoti politeisti della Grecia e di Roma, come un articolo fondamentale di fede. Siccome la previdenza degli Dei riferivasi alle pubbliche società, piuttosto che agli individui privati, essa principalmente si spiegava sul visibil teatro del mondo presente. Le preghiere, che si facevano agli altari di Giove e di Apollo, esprimevano l'ansietà de' loro adoratori per la felicità temporale, e la loro ignoranza, o indifferenza per la vita futura[494]. Inculcavasi l'importante verità dell'immortalità dell'anima con maggior premura, e successo nell'India, nell'Assiria, nell'Egitto e nella Gallia; e poichè non possiamo attribuire tal differenza alle superiori cognizioni de' Barbari, la dobbiamo ascrivere all'influenza dello stabilimento di un sacerdozio, che impiegava i motivi della virtù, come istrumenti dell'ambizione[495].
Potrebbe naturalmente aspettarsi, che un principio, così essenziale alla religione, stato fosse ne' più chiari termini rivelato al popolo eletto della Palestina, e sicuramente affidato all'ereditario sacerdozio di Aronne. Noi dobbiamo adorare le misteriose disposizioni della Providenza[496], osservando, che la dottrina dell'immortalità dell'anima si omette nella legge di Mosè, viene oscuramente indicata da' Profeti, e pel lungo tratto di tempo, che passò fra la schiavitù dell'Egitto, e quella di Babilonia, sembra, che i timori e le speranze de' Giudei limitate fossero agli angusti confini della vita presente[497]. Dopo che Ciro ebbe permesso all'esiliata nazione di ritornar nella Terra Promessa, e che Esdra ebbe ristaurato le antiche memorie della sua religione, appoco appoco si formarono in Gerusalemme due celebri Sette, quella cioè de' Farisei, e quella de' Sadducei[498]. Questi, che facevano la parte più ricca e distinta della società, erano strettamente attaccati al letteral senso della legge Mosaica, e scrupolosamente rigettavano l'immortalità dell'anima, come un'opinione non autorizzata dal libro divino, ch'essi veneravano, come l'unica regola della lor fede. I Farisei poi combinavano l'autorità della tradizione con quella della scrittura, e sotto nome di tradizione ammettevano molte massime speculative, tratte dalla filosofia o dalla religione delle nazioni orientali. Le dottrine del fato o della predestinazione, degli angeli o spiriti, o di uno stato futuro di premj e di pene entraron nel numero di questi nuovi articoli di fede; e siccome i Farisei per l'austerità de' loro costumi avevan tirato al lor partito il corpo del popolo Ebraico, il sentimento dell'immortalità dell'anima prevalse nella Sinagoga sotto il regno de' Principi e Pontefici Asmonei. L'indole de' Giudei non era capace di contentarsi di quel freddo e languido assenso, che avrebbe potuto soddisfar la mente d'un politeista; e subito che ammisero l'idea d'uno stato futuro, l'abbracciarono con quello zelo, che ha sempre formato il carattere della nazione. Questo però niente aggiungeva all'evidenza, o anche alla probabilità della vita immortale, ed era tuttavia necessario, che tal dottrina, dettata dalla natura, approvata dalla ragione, e dalla superstizione ricevuta, ottenesse la sanzione di verità divina dall'autorità e dall'esempio di Cristo.
Quando si propose agli uomini la promessa di una eterna felicità a condizione di adottar la fede e di osservare i precetti dell'Evangelio, non è maraviglia che venisse accettata un'offerta sì vantaggiosa da un gran numero di persone di ogni religione, di ogni condizione, e di ogni provincia nell'Impero Romano. I primi Cristiani erano animati da tal disprezzo per la loro esistenza attuale, e da tal giusta fiducia dell'immortalità, che la dubbiosa ed imperfetta fede de' moderni tempi non ce ne può dare alcun adeguata nozione. L'influsso della verità nella primitiva Chiesa veniva molto efficacemente avvalorato da un'opinione, che per quanto possa meritar rispetto a motivo della sua antichità e utilità, non si è trovata conforme all'esperienza. Si credeva universalmente che fosse vicina la fine del mondo ed il regno del Cielo. L'approssimazione di questo mirabil evento era stata predetta dagli Apostoli; se n'era conservata la tradizione da' loro più antichi discepoli; e quelli, che intendevano i discorsi di Cristo medesimo nel puro senso letterale, eran costretti ad aspettar la seconda gloriosa venuta del Figliuol dell'uomo nelle nuvole, prima che fosse totalmente estinta quella generazione, che aveva veduto l'umile condizione di lui sopra la terra, e che potè anche veder la calamità de' Giudei sotto Vespasiano o Adriano. Il giro di diciassette secoli ci ha insegnato a non prender troppo strettamente il misterioso linguaggio della profezia e della rivelazione. Ma fintantochè per saggi fini quest'errore si lasciò sussistere nella Chiesa, esso produsse gli effetti più salutari nella fede e nella pratica de' Cristiani, che vivevano nella terribile aspettazione di quel momento, nel quale il globo medesimo, e tutte le varie nazioni avrebber tremato all'apparire del Divino lor Giudice[499].
Colla seconda venuta di Cristo era intimamente connessa l'antica e popolar dottrina de' Millenarj. Siccome si eran terminate in sei giorni le opere della creazione, così la lor durata nello stato presente, secondo una tradizione attribuita al profeta Elia, fissavasi al corso di seimila anni[500]. S'inferiva dall'analogia medesima, che a questo lungo tratto di travaglio e di contenzione, ch'allora trovavasi quasi al termine[501], sarebbe succeduto un lieto sabbato di mille anni; e che Cristo, colla schiera trionfante de' santi e degli eletti che avevano evitato la morte o erano miracolosamente risuscitati, regnerebbe sopra la terra fino al tempo determinato per l'ultima e generale risurrezione. Tale speranza riusciva così lusinghiera pe' credenti, che la Nuova Gerusalemme, che doveva esser la sede di questo beato regno, era vivamente adornata co' più brillanti colori dell'immaginazione. Una felicità, consistente solamente in puri e spirituali piaceri, sarebbe paruta troppo raffinata per gli abitatori di quella, i quali si supponevano tuttavia forniti della natura e de' sensi umani. Un giardino d'Eden, co' diletti della vita pastorale, non era più conforme ai progressi che si eran fatti nello stato di società sotto il Romano Impero. Fu dunque immaginata una città tutta d'oro e di pietre preziose con una soprannaturale abbondanza di uva e di grano nel territorio adiacente; i quali spontanei prodotti si sarebber liberamente goduti da quel felice e buon popolo senz'esser giammai molestato da veruna gelosa legge di esclusivo dominio[502]. Si ebbe tutta la premura di assicurar l'esistenza di questo millenario periodo da una serie di Padri, incominciando da Giustino martire[503] e da Ireneo, che conversarono cogl'immediati discepoli degli Apostoli, fino a Lattanzio, che fu maestro del figliuolo di Costantino[504]. Sostengono tutti, e descrivono tal sistema come ricevuto dal consenso generale de' Cristiani de' loro tempi; e sembra così bene adattato a' desiderj ed alle apprensioni degli uomini, che deve in grandissima parte aver contribuito ai progressi della fede Cristiana. Ma quando l'edifizio della Chiesa fu quasi al termine, si tolse di mezzo il sostegno ch'era servito un tempo per comodo della fabbrica. La dottrina dal regno di Cristo sopra la terra s'incominciò a risguardare come una profonda allegoria, quindi a grado a grado come una dubbiosa ed inutile opinione, e finalmente fu rigettata come un'assurda invenzione dell'eresia e del fanatismo[505]. Una profezia misteriosa, che tuttavia forma una parte del canone sacro, ma che si credea favorevole alla condannata opinione, potè appena scansare la proscrizione della Chiesa[506].
Nel tempo che promettevasi a' discepoli di Cristo la felicità, e la gloria d'un Regno temporale, si annunziavano contro il mondo infedele le più terribili calamità. L'edificazione della nuova Gerusalemme dovevasi avanzare con ugual passo, che la distruzione della mistica Babilonia; e finchè gl'Imperatori, che regnarono avanti Costantino, continuarono a professare l'idolatria, s'applicava il nome di Babilonia alla città ed all'impero di Roma. Era già preparata una regolar serie di tutte le fisiche e morali sciagure, che possono affliggere una florida nazione, vale a dire l'interna discordia, e l'invasione delle più fiere barbare genti dalle incognite regioni del Norte, la peste e la fame, le comete e l'ecclissi, le inondazioni ed i terremoti[507]. Tutti questi non erano che tanti preparatorj e spaventevoli segni della gran catastrofe di Roma, allorchè la patria degli Scipioni, e de' Cesari doveva esser consumata da una fiamma celeste, e la città de' Sette Colli co' suoi palazzi, tempj, ed archi trionfali restar sommersa in un ampio lago di fuoco e di zolfo. Poteva però servire di qualche consolazione alla vanità Romana il riflettere, che il termine del proprio Impero sarebbe stato anche quello del mondo stesso, il quale come una volta era perito per mezzo dell'elemento dell'acqua, così era destinato a soffrire una seconda subitanea distruzione mediante quello del fuoco. In tale opinione di un generale incendio la fede Cristiana molto felicemente si conciliava colla tradizione orientale, colla filosofia degli Stoici, e coll'analogia della natura; ed il paese medesimo, che per motivi religiosi era stato scelto per esser l'origine e la principale scena dell'incendio, era il più a proposito per tal disegno, attese le cagioni fisiche e naturali di profonde caverne, che vi si trovano, di strati di zolfo e di numerosi vulcani, de' quali non sono che una molto imperfetta immagine quelli dell'Etna, del Vesuvio e di Lipari. Il più tranquillo ed intrepido scettico non poteva esimersi dall'accordare, che la distruzione del presente sistema del mondo per mezzo del fuoco era in se stessa probabilissima. Il Cristiano, che fondava la propria fede molto meno su' fallaci argomenti della ragione, che sull'autorità della tradizione, e sulla interpretazione della Scrittura, l'aspettava con terrore e fiducia come un evento certo e vicino; ed avendo la mente continuamente occupata da tal solenne idea, considerava ogni disastro, a cui soggiaceva l'Impero, come un infallibil sintomo del mondo spirante[508].
Sembra che la condanna de' più saggi e virtuosi Pagani per cagione della loro ignoranza o miscredenza della verità divina, offenda l'umanità e la ragione del presente secolo[509]. Ma la primitiva Chiesa, la cui fede era di una molto stabile tempra, condannò senza esitare ai tormenti eterni la massima parte della specie umana. Poteva per avventura concedersi una caritatevole speranza in favore di Socrate, o di alcuni altri Savi dell'Antichità, che avevan consultato il lume della ragione, avanti che sorgesse quello dell'Evangelio[510]. Ma di comun consenso asserivasi, che quelli, i quali dopo la nascita o la morte di Cristo avevan ostinatamente perseverato nel culto de' demonj, non meritavano, e non potevano aspettare il perdono dell'irata giustizia di Dio. Questi rigidi sentimenti, ch'erano incogniti agli antichi, par che abbiano sparso un certo spirito di amarezza in un sistema di amore e di armonia. Spesse volte si rompevano i vincoli del sangue e dell'amicizia dalla differenza di religione, ed i Cristiani, che in questo mondo trovavansi oppressi dal poter de' Pagani, erano qualche volta dal risentimento, e dallo spirituale orgoglio portati a dilettarsi nel prospetto del futuro loro trionfo. «Voi che siete appassionati per gli spettacoli (esclama con forza Tertulliano) attendete lo spettacolo più grande di tutti, l'ultimo ed eterno giudizio dell'universo. Come sarò sorpreso, come riderò, esulterò, e sarò lieto allor che vedrò tanti orgogliosi Monarchi ed immaginati Dei gementi nel più profondo abisso dell'oscurità! tanti Magistrati, che perseguitarono il nome del Signore, penetrati da fuochi molto più veementi di quelli, ch'essi mai adoperaron contro i Cristiani! tanti saggi filosofi arroventarsi nelle vive fiamme insieme co' delusi loro scolari! tanti celebri poeti tremare avanti al tribunale non giù di Minosse, ma di Cristo! tanti tragici, più risuonanti nell'espressione de' lor tormenti! tanti danzatori....» Ma l'umanità del lettore mi permetterà di tirare un velo sul rimanente di questa infernal descrizione, che lo zelante Affricano prosegue con una lunga serie di affettati e spiritosi concetti[511].
V'erano senza dubbio molti fra' primi Cristiani di un carattere più conforme alla dolcezza e carità della lor professione. V'erano molti, che sentivano una sincera compassione pel pericolo de' lor amici e nazionali, e che usavano il più amorevole zelo per salvarli dall'imminente rovina. Il trascurato politeista, assalito da nuovi ed inaspettati terrori, contro i quali nè i suoi Sacerdoti, nè i suoi Filosofi potevan dargli alcuna protezione sicura, era bene spesso spaventato e vinto dalla minaccia degli eterni tormenti. I timori di lui servivan facilmente di aiuto ai progressi della fede e della ragione; e se una volta inducevasi a sospettare, che potesse la religion Cristiana esser vera, diveniva facile il convincerlo, che la professione di questa era il più sicuro e prudente consiglio a cui si potesse appigliare.
III. I doni soprannaturali, che anche in questa vita si attribuivano a' Cristiani sopra il resto del genere umano, debbono aver molto contribuito alla propria loro consolazione, ed assai frequentemente alla persuasione degl'Infedeli. Oltre i prodigi accidentali, che potevano qualche volta effettuarsi dall'immediata operazione di Dio, allorchè sospendeva le leggi della natura per servigio della religione, la Chiesa Cristiana fin dal tempo degli Apostoli e de' primi loro discepoli[512] si è arrogata una successione non interrotta di facoltà miracolose, come il dono delle lingue, delle visioni, e della profezia, il potere di scacciare i demonj, di sanare gli ammalati, e di risuscitare i morti. Si comunicava frequentemente a' contemporanei d'Ireneo la cognizione delle lingue straniere, quantunque Ireneo medesimo dovesse contrastare colle difficoltà di un dialetto barbaro, quando predicava il Vangelo ai popoli della Gallia[513]. Si rappresenta l'inspirazion divina, o fosse questa comunicata per via di visione, in sogno o in vigilia, come un favore assai liberamente concesso ad ogni classe di fedeli, alle donne ugualmente che a' vecchi, a' fanciulli non meno che a' Vescovi. Quando le devote lor menti eran preparate abbastanza da una quantità di preghiere, di digiuni, e di vigilie a ricever l'impulso straordinario, venivan trasportati fuor de' lor sensi, ed, assorti in estasi, esponevano ciò ch'era loro inspirato, essendo puri organi dello Spirito Santo, appunto come lo è una canna o un flauto, rispetto a quello che vi soffia dentro[514]. Si può aggiungere che lo scopo di queste visioni era quello per la massima parte o di svelare i futuri eventi, o di regolare l'attuale amministrazion della Chiesa. L'espulsione de' demonj da' corpi di quegl'infelici, ch'essi avevano avuto la permissione di tormentare, si risguardava come un segnalato, quantunque ordinario, trionfo della religione, ed è più volte allegato dagli antichi Apologisti come la prova più convincente della verità del Cristianesimo. Per ordinario questa terribile cerimonia si faceva in pubblico ed in presenza di un gran numero di spettatori; veniva liberato il paziente dal potere e dall'arte dell'esorcista, ed il demonio, superato, si udiva confessare, ch'esso era uno de' favolosi Dei dell'antichità, che aveva empiamente usurpato le adorazioni dell'uman genere[515]. Ma la cura miracolosa delle più inveterate ed anche non naturali malattie non può cagionarci sorpresa veruna, se riflettiamo che al tempo d'Ireneo, cioè verso il fine del secondo secolo, il risuscitare un morto era ben lontano dal risguardarsi come un evento straordinario, che tal miracolo frequentemente facevasi nelle necessarie occasioni per mezzo di gran digiuni, e delle preghiere insieme unite della Chiesa del luogo, dove occorreva di farsi; e che le persone, in tal modo restituite in vita per le loro preci, vivevano dopo quel tempo fra loro molt'anni[516]. In un tempo, in cui la fede poteva vantare tante maravigliose vittorie sopra la morte, sembra difficile a render ragione dello scetticismo di que' filosofi, che tuttavia rigettavano e deridevano la dottrina della risurrezione. Un nobile Greco aveva ridotto a questo punto importante tutta la controversia, ed avea promesso a Teofilo, Vescovo d'Antiochia, che se poteva esser soddisfatto colla vista di una sola persona, che si fosse attualmente fatta risorgere da morte a vita, immediatamente avrebbe abbracciato la religione di Cristo. Egli è un poco straordinario, che un Prelato della prima Chiesa Orientale, per quanto bramoso fosse della conversione del suo amico, stimasse proprio di evitare una sì bella, e ragionevol disfida[517].
I miracoli della primitiva Chiesa, dopo d'aver ottenuta l'approvazione di più secoli, sono stati ultimamente attaccati da una molto libera ed ingegnosa opera[518], la quale, sebbene abbia incontralo la più favorevole accoglienza dal pubblico, par che abbia eccitato un generale scandalo fra i Teologi della nostra, non meno che delle altre Chiese protestanti d'Europa[519]. Sulle diverse nostre opinioni rispetto a quest'articolo potrà molto meno influire alcun particolare argomento, che l'abitudine de' nostri studi e delle nostre riflessioni, e sopra tutto quel grado d'evidenza che noi medesimi siamo soliti di esigere per provare un fatto miracoloso. Il dovere d'uno storico non è d'interporre il suo privato giudizio in questa delicata ed importante controversia; ma egli non deve dissimular la difficoltà di adottare una teoria, che possa conciliar l'interesse della religione con quello della ragione, di farne un'applicazione giusta, e di definire con precisione i limiti di quel fortunato periodo, libero dall'errore e dall'inganno, fino al quale possiamo estendere il dono delle facoltà soprannaturali. Dal primo de' Padri fino all'ultimo de' Papi, si trova continuata senza interrompimento una successione di Vescovi, di Santi, di Martiri, e di miracoli; ed il progresso della superstizione arrivò di grado in grado quasi insensibilmente a tal segno, che non sappiamo a quale particolar anello si debba rompere la catena della tradizione. Ogni secolo attesta fatti maravigliosi, co' quali si distinse, e tal testimonianza non sembra meno grave e rispettabile di quella della generazion precedente, in maniera che senz'accorgercene veniamo ad accusar noi medesimi d'incoerenza, se neghiamo nell'ottavo o nel decimo secolo al venerabile Beda o a S. Bernardo quella fede, che abbiamo con tanta generosità accordata nel secondo a Giustino e ad Ireneo[520]. Se apprezzata venga la verità di alcuno di quei miracoli dall'apparente loro vantaggio ed opportunità, ogni secolo ha alcuni miscredenti da convincere, alcuni eretici da confutare, alcune idolatriche nazioni da convertire; e possono sempre allegarsi motivi sufficienti per giustificare l'interposizione del cielo. Eppure, poichè ogni amico della rivelazione è persuaso della realtà, ed ogni uomo ragionevole è convinto della cessazione de' miracoli, egli è chiaro, che debb'esservi stata un'epoca, nella quale o tutto ad un tratto, o gradatamente siasi tolto questo potere alla Chiesa Cristiana. Qualunque sia quella, che scelgasi per tal evento, vale a dire, o la morte degli Apostoli, o la conversione del Romano Impero, o l'estinzione dell'eresia d'Arrio[521], l'insensibilità de' Cristiani, che viveano in quel tempo, somministrerà ugualmente un giusto motivo di maraviglia. Sostenevano essi tuttavia le loro pretensioni dopo di aver perduta la loro potenza. Teneva luogo di fede la credulità; permettevasi al fanatismo di usare il linguaggio dell'inspirazione, ed attribuivasi a cagioni soprannaturali gli effetti del caso o dell'astuzia. La moderna esperienza de' veri miracoli dovrebbe aver istruito il mondo Cristiano rispetto alle operazioni della Providenza, ed abituata la vista d'ognuno (s'è lecito di servirci di questa molto inadeguata espressione) alla maniera del divino artefice. Se il più abile moderno pittore dell'Italia pretendesse di decorar le sue deboli imitazioni col nome di Raffaello o del Correggio, l'insolente sua frode sarebbe presto scoperta e rigettata con isdegno.
Qualunque opinione si abbia de' miracoli della primitiva Chiesa dopo il tempo degli Apostoli, quell'irresistibil docilità di carattere, tanto notabile fra' credenti del secondo e del terzo secolo, riuscì di qualche accidental vantaggio alla causa della verità e della Religione. Ne' moderni tempi si trova un segreto e quasi involontario scetticismo anche nelle più divote menti. L'ammetter ch'esse fanno le verità soprannaturali, è molto meno l'effetto di un consenso attivo, che di una fredda e passiva condiscendenza. Da gran tempo essendo assuefatti ad osservare, ed a rispettare l'ordine invariabile della natura, la nostra ragione, o almeno la nostra fantasia, non è preparata sufficientemente a sostenere l'azione visibile della divinità. Ma ne' primi secoli del Cristianesimo era differentissima la situazione del genere umano. I più curiosi ed i più creduli fra' Pagani s'inducevano spesse volte ad entrare in una società, che si attribuiva un attual diritto alla potestà di far miracoli. I primitivi Cristiani battevan continuamente una strada mistica, ed i loro spiriti erano esercitati nell'abitudine di credere i fatti più straordinari; sentivano o immaginavano di sentire, che da ogni parte venivano di continuo assaliti da' demonj, confortati dalle visioni, instruiti dalle profezie, e mirabilmente liberati dalle malattie, da' pericoli, e dalla morte medesima per le preghiere della Chiesa. I reali o immaginari prodigi, de' quali credevano di esser così spesso gli oggetti, gl'istrumenti, o gli spettatori, molto felicemente li disponevano ad ammettere colla medesima facilità, ma con molto maggior ragione, le autentiche maraviglie dell'istoria evangelica; ed in tal modo i miracoli, che non eccedevano i limiti della lor propria esperienza, inspiravano loro la più viva sicurezza de' misteri, ch'essi riconoscevano sorpassar le forze del loro intelletto. Questa profonda impressione delle verità soprannaturali è quel che tanto si è celebrato sotto il nome di fede: disposizione d'animo rappresentata come il più sicuro pegno del favor divino, e della futura felicità, e raccomandata come il principale e forse l'unico merito d'un Cristiano, giacchè secondo i Dottori più rigorosi, le virtù morali, che si posson praticare ugualmente dagl'infedeli, son prive di ogni valore o efficacia per operar la nostra giustificazione.
IV. Ma i primitivi Cristiani dimostravano la lor fede per mezzo delle loro virtù; e supponevasi molto giustamente, che la divina persuasione, la quale illuminava, o convinceva l'intelletto, dovesse nel tempo stesso purificare il cuore, e diriger le azioni del fedele. I primi apologisti del Cristianesimo, che giustificano l'innocenza de' loro fratelli, ed i successivi scrittori, che celebrano la santità de' loro padri, rappresentano coi più vivi colori la riforma de' costumi, che s'introdusse nel mondo, mediante la predicazione del Vangelo. Poichè mio disegno è di notare solamente quelle cagioni umane, che furono scelte per secondar l'efficacia della rivelazione, io esporrò in breve due motivi, che naturalmente rendettero la vita de' primitivi Cristiani più pura ed austera di quella de' Pagani loro contemporanei, o de' loro degenerati successori, vale a dire il pentimento delle lor colpe passate, ed il lodevole desiderio di sostener la riputazione della società, nella quale s'erano impegnati.
È un'accusa molto antica, suggerita dall'ignoranza, e dalla malizia degl'Infedeli, che i Cristiani attirassero al loro partito i delinquenti più scellerati, che appena mossi da un sentimento di rimorso facilmente si persuadevano di lavare nell'acqua del Battesimo le colpe della passata lor vita, per le quali da' tempj degli Dei ricusavasi loro qualunque espiazione. Ma questo rimprovero, purgato che sia da tutto ciò che v'è di falso, contribuisce all'onor della Chiesa, non meno di quel che favorisse l'accrescimento della medesima[522]. Gli amici del Cristianesimo posson confessare senza rossore, che molti de' più eminenti santi erano stati prima del lor battesimo i peccatori più disperati. Quelli, che nel mondo avean seguitato, sebbene imperfettamente, i dettami della benevolenza e del decoro, traevano dalla opinione della propria rettitudine una sì tranquilla soddisfazione, che li rendeva molto men suscettibili di que' subiti movimenti di vergogna, di cordoglio, e di terrore, che avevano fatto nascere tante maravigliose conversioni. Seguitando l'esempio del divino lor Maestro, i missionari dell'Evangelio s'indirizzavano agli uomini, e specialmente alle donne oppresse dalla coscienza, e bene spesso dagli effetti de' loro vizi. Siccome poi questi da' peccati e dalla superstizione innalzavansi alla gloriosa speranza dell'immortalità, risolvevano di darsi ad una vita, non solo virtuosa ma eziandio penitente. La brama della perfezione diveniva la passion dominante dell'animo loro; ed è ben noto, che mentre la ragione si contiene dentro i limiti d'una fredda mediocrità, le nostre passioni con una rapida violenza ci spingono oltre lo spazio, che trovasi fra estremità le più opposte fra loro.
Quando i novelli convertiti s'erano arrolati al numero de' Fedeli, ammessi a' Sacramenti della Chiesa, li riteneva dal cader nuovamente ne' lor passati disordini un'altra considerazione di una specie meno spirituale, ma molto innocente e lodevole. Ogni particolar società, che si è staccata dal corpo di una nazione, o dalla religione alla quale apparteneva, diviene immediatamente l'oggetto dell'universale ed invidiosa osservazione. A misura che n'è piccolo il numero, possono influire sul carattere della società le virtù od i vizi delle persone, che la compongono; ed ogni membro si trova impegnato ad invigilare colla più premurosa attenzione sulla propria condotta, e su quella de' suoi fratelli, mentre siccome deve aspettarsi di esser partecipe delle comuni disgrazie, così può sperar di godere una parte della comune riputazione. Quando furono condotti i Cristiani della Bitinia avanti al tribunale di Plinio il Giovane, assicurarono il Proconsole, che lungi dall'intignere in alcuna cospirazione illegittima, essi con una solenne obbligazione astringevansi ad astenersi da qualunque delitto che potesse disturbar la privata o pubblica pace della società, da' furti, dalle ruberie, dagli adulterj, dagli spergiuri e dalle frodi[523]. Quasi un secolo dopo, Tertulliano con onesto orgoglio poteva vantare, che ben pochi Cristiani erano stati giustiziati per mano del carnefice, eccettuati quelli, che avean sofferto a motivo della lor religione[524]. La vita seria e ritirata, che facevano, contraria alle tumultuarie costumanze di quel tempo, gli assuefaceva alla castità, alla temperanza, all'economia, ed a tutte le sobrie e domestiche virtù. Comechè per la maggior parte si esercitavano in qualche negozio, o professione, vi attendevano usando la massima integrità, ed il più onesto contegno, per togliere ogni sospetto, che i profani son troppo disposti a concepire contro le apparente di santità. Il disprezzo del mondo gli abituava negli esercizi di umiltà, di mansuetudine e di pazienza. Quanto più erano perseguitati, tanto più strettamente si univano fra loro. La mutua lor carità, e non sospetta confidenza aveva dato nell'occhio agl'infedeli, e bene spesso ne abusarono i loro perfidi amici[525].
Una circostanza, che fa molto onore alla morale de' primi Cristiani, è che le stesse mancanze loro, anzi gli errori, nascevano da un eccesso di virtù. I Vescovi e Dottori della Chiesa, che fanno testimonianza delle professioni, de' principj, ed anche della pratica de' loro contemporanei, sopra i quali esercitava grand'influenza la loro autorità, avevano studiate lo scritture con meno perizia, che devozione, e spesso prendevano nel senso il più letterale que' rigidi precetti di Cristo e degli Apostoli, a' quali ha la prudenza de' più moderni commentatori applicato una più libera o figurata maniera d'interpretamento. Ambizioni d'esaltare la perfezione dell'Evangelio sopra la saviezza della filosofia, gli zelanti Padri hanno spinto i doveri della mortificazione di se stesso, della purità e della pazienza fino ad un grado, al quale appena è possibile di giungere, e molto meno di perseverarvi nel presente stato di debolezza e di corruzione in cui siamo. Una dottrina così straordinaria e sublime si dee render senza dubbio venerabile al popolo; ma era mal acconcia ad ottener l'approvazione di que' mondani filosofi, che nella condotta di questa vita passeggera consultano i sentimenti della natura e l'interesse della società[526].
Vi sono due propensioni naturali, che noi possiam ravvisare nelle più virtuose ed ingenue indoli, l'amor del piacere e quello di agire. Se il primo sia coltivato dalle arti e dalle scienze, promosso da' vincoli del commercio sociale, e corretto da un giusto riguardo all'economia, alla salute, ed alla riputazione, produce la maggior parte della felicità di una vita privata. L'amore poi dell'azione è un principio di un carattere più forte o più dubbioso: conduce spesse volte alla collera, all'ambizione, ed alla vendetta; ma qualora sia guidato da un sentimento di decenza e di bontà, divien la sorgente di ogni virtù; e se queste virtù sono accompagnate da egual capacità, può anche una famiglia, uno Stato, o un Impero riconoscer la sua prosperità e sicurezza dal coraggio intrepido di un solo uomo. All'amor del piacere dunque imputar si possono le più dilettevoli, ed a quel dell'azione le più utili e stabili qualità umane. Quell'individuo, nel quale si trovasse unito con bell'armonia l'uno all'altro, ci darebbe per avventura la più perfetta idea della natura dell'uomo. Un'indole inattiva, ed insensibile, che si supponesse del tutto priva di ambidue gli amori, si rigetterebbe d'unanime accordo dagli uomini come affatto incapace di procurare all'individuo veruna felicità, o alcun pubblico vantaggio al genere umano. Ma non era questo mondo il luogo, dove i primitivi Cristiani bramavano di rendersi o piacevoli, o vantaggiosi.
L'acquisto di cognizioni, l'esercizio della nostra ragione ed immaginativa, ed il lieto corso di una libera conversazione occupar possono il tempo di un animo culto. Queste ricreazioni però si rigettavano con orrore, o ammettevansi con estrema cautela dalla severità de' Padri, che disprezzavano qualunque cognizione, che non fosse utile alla salute spirituale, e riguardavan ogni leggerezza di discorso, come un colpevole abuso del dono della parola. Nello stato in cui siamo presentemente, il corpo è tanto inseparabilmente connesso coll'anima, che sembra nostro interesse di gustare innocentemente, e con moderazione i piaceri, de' quali è suscettibile quel fedele compagno. Assai diverso era il ragionamento de' nostri devoti predecessori, che vanamente aspirando ad imitare la perfezione degli Angeli, sdegnavano, o affettavano di sdegnare ogni terreno e corporale diletto[527]. Alcuni de' nostri sensi veramente son necessari per la conservazione, altri per la sussistenza, ed altri finalmente per l'instruzione dell'uomo, e così era impossibile affatto di non ammetterne l'uso. Ma la prima sensazion di piacere notavasi come il primo momento del loro abuso. L'insensibile candidato del Cielo era preparato non solo a resistere a' più grossolani allettamenti dell'odorato o del gusto, ma anche a chiuder gli orecchi all'armonia profana de' suoni, ed a rimirar con indifferenza le più finite produzioni dell'arte umana. Supponevasi, che l'uso di abbigliamenti galanti, di case magnifiche e di eleganti suppellettili riunisse il doppio vizio d'orgoglio e di sensualità: una semplice e mortificata apparenza era più conforme al Cristiano, il quale era certo delle proprie colpe, ed incerto della sua salvezza. I Padri nel censurare la voluttà son minuti e circostanziati all'estremo[528]; e fra vari articoli, ch'eccitano la pietosa loro indignazione, possiam contare la chioma finta, gli ornamenti di ogni colore, eccettuato il bianco, gl'istrumenti di Musica, i vasi d'oro e d'argento, i guanciali molli (poichè Giacobbe avea posato il suo capo sopra una pietra,) il pane bianco, i vini forestieri, le pubbliche salutazioni, l'uso de' bagni caldi, e quello di radersi la barba, che secondo l'espressione di Tertulliano è una bugia contro i nostri propri volti, ed un empio tentativo di migliorar le opere del Creatore[529]. Quando il Cristianesimo si diffuse fra la gente ricca e pulita, l'osservanza di queste leggi singolari fu abbandonata, come si farebbe presentemente, a que' pochi che aspiravano ad una santità superiore. Ma egli è sempre facile non meno che soddisfacente per i ceti più bassi degli uomini di farsi un merito col disprezzo di quelle pompe e di quei piaceri, che la fortuna pose al di là della loro portata. La virtù dei primitivi Cristiani era molto spesso difesa, come quella de' Romani antichi, dalla povertà, e dall'ignoranza.
La casta severità de' Padri in tutto ciò, che risguardava il commercio de' due sessi, nasceva dall'istesso principio, cioè dall'abborrimento che avevano per ogni diletto, che soddisfar potesse la natura sensuale dell'uomo, e degradarne la spirituale. Era opinione lor favorita, che se Adamo conservato si fosse obbediente al Creatore, avrebbe vissuto per sempre in uno stato di virginal purità, ed in qualche innocente maniera di vegetazione sarebbesi popolato il Paradiso di una razza di esseri puri, ed immortali[530]. Solo permettevasi l'uso del matrimonio alla decaduta posterità come un espediente necessario per continuare la specie umana, e come un freno, quantunque imperfetto, alla natural licenza dei desiderj. La dubbiezza de' casisti ortodossi rispetto a quest'interessante soggetto, scuopre l'imbarazzo di quelli che non vogliono approvare un instituto, che son costretti a tollerare[531]. L'enumerazione delle più capricciose leggi, ch'essi con la massima minutezza imposero al letto maritale, farebbe sorridere i giovani, ed arrossire le belle. Era concorde lor sentimento, che il primo unico matrimonio fosse conforme a tutti i fini della natura e della società. La sensual congiunzione innalzavasi a rappresentar la mistica unione di Cristo colla sua Chiesa, e si pronunziava indissolubile tanto pel divorzio, che per la morte. L'uso delle seconde nozze era diffamato col nome di legale adulterio; e le persone, colpevoli di tale scandalosa mancanza contro la purità Cristiana, venivano spesso escluse dagli onori, e fino dallo limosine della Chiesa[532]. Poichè si risguardava il desiderio come un delitto, ed il matrimonio si tollerava come un difetto, era ben coerente a questi principj di considerar lo stato del celibato, come il più prossimo alla perfezione Divina. Con la massima difficoltà potea soffrire l'antica Roma l'instituzione di sei Vestali[533], ma la primitiva Chiesa era piena di un gran numero di persone dell'uno e dell'altro sesso, che si eran obbligate a professare una perpetua castità[534]. Alcune poche di queste, fra le quali numerar possiamo il dotto Origene, crederono prudentissimo consiglio quello di disarmare il tentatore[535]. Alcuni erano insensibili, altri invincibili agli assalti della carne. Sdegnando un'ignominiosa fuga, le vergini del caldo clima dell'Affrica affrontavano il nemico nella più stretta battaglia; esse permettevano a' Preti ed a' Diaconi di aver luogo ne' loro letti, e gloriavansi fra le fiamme dell'intatta lor purità. La natura insultata vendicava qualche volta i propri diritti, e questa nuova specie di martirio serviva soltanto ad introdurre un nuovo scandalo nella Chiesa[536]. Molti però fra gli Ascetici (nome che presto acquistarono a motivo de' lor penosi esercizj) essendo meno presuntuosi, ebbero probabilmente miglior successo. La mancanza de' sensuali piaceri si compensava, e si suppliva dall'orgoglio spirituale. Anche la moltitudine de' Pagani era disposta a stimare il merito del sacrifizio per la sua apparente difficoltà; ed in lode di queste caste spose di Cristo i Padri hanno versato il torbido fiume della loro eloquenza[537]. Tali sono le antiche tracce de' principj, e degli instituti monastici, che ne' posteriori tempi hanno bilanciato tutti i vantaggi temporali del Cristianesimo[538].
Non erano i Cristiani meno alieni dagli affari, che da' piaceri di questo mondo. Essi non sapevano come conciliar la difesa delle proprie persone e sostanze con la tollerante dottrina, che ordinava loro un'illimitata dimenticanza delle passate ingiurie, e il domandarne delle nuove. Offendevasi la loro semplicità dall'uso de' giuramenti, dalla pompa delle magistrature e dall'attiva contenzione della vita pubblica, nè la loro mite ignoranza potea convincersi, che in qualche occasione si potesse legittimamente spargere il sangue de' nostri prossimi con la spada o della giustizia, o della guerra; quantunque anche i lor ostili, o criminali attentati minacciasser la pace, e la sicurezza dell'intera Repubblica[539]. Si confessava, che sotto una legge meno perfetta si esercitava la potestà nel Governo Giudaico da inspirati Profeti, e da Re unti coll'approvazione del Cielo. I Cristiani sentivano, ed accordavano, ch'eran necessari pel presente sistema del mondo tali instituti, e sottoponevansi di buona voglia all'autorità de' loro Pagani Governatori. Ma nel tempo che inculcavano le massime d'un'ubbidienza passiva, ricusavano di prender attivamente alcuna parte nella civile amministrazione, o militar difesa dell'Impero. Poteva per avventura concedersi qualche dispensa per quelle persone, che avanti di convenirsi erano già impegnate in tali violente, e sanguinarie occupazioni[540]; ma era impossibile, che i Cristiani, senza rinunciare a' più sacri doveri, potessero assumere il carattere di soldati, di magistrati, o di Principi[541]. Questa indolente, o anche colpevole noncuranza della pubblica salute gli esponeva al disprezzo, ed a' rimproveri de' Pagani, che bene spesso dimandavano quale mai sarebbe stato il destino dell'Impero attaccato per ogni parte da' Barbari, se tutti adottato avessero i pusillanimi sentimenti della nuova setta?[542] A tale insultante questione gli Apologisti Cristiani rendevan oscure ed ambigue risposte, non volendo manifestar la secreta opinione della lor sicurezza, vale a dire l'opinione in cui erano, che avanti l'intera conversione dell'uman genere, la guerra, il Governo, il Romano Impero, ed il Mondo stesso non sarebbero più. È da notarsi, che anche in questo caso la situazione de' primi Cristiani molto felicemente coinciderà co' loro scrupoli religiosi, e che la loro avversione ad una vita attiva contribuiva piuttosto a scusarli dal servizio, che ad escluderli dagli onori dello Stato, e dell'esercito.
V. Ma per quanto il carattere degli uomini possa venir innalzato, o depresso da un passeggiero entusiasmo, tornerà poi a grado a grado al suo proprio, e naturale livello, e riprenderà quelle passioni, che sembrano le più adattate alla sua presente condizione. I primitivi Cristiani eran morti agli affari, ed a' piaceri del Mondo; ma l'amor dell'azione, che non può mai estinguersi totalmente, presto risorse in loro, e trovarono un'occupazione novella nel governo della Chiesa. Una società a parte, che attaccava la religione dominante dell'Impero, doveva prescriversi qualche forma di regolamento interno, e deputare un sufficiente numero di ministri, a' quali affidasse non solo le funzioni spirituali, ma ancora la temporale direzione della Cristiana Repubblica. La sicurezza di tal società, l'onore, e l'ingrandimento della medesima producevano eziandio negli animi più devoti uno spirito di patriottismo, simile a quello, che i primi Romani avevan sentito per la Repubblica, ed alle volte anche una simile indifferenza rispetto all'uso di qualunque sorta di mezzi, che potessero probabilmente condurre a sì desiderabile fine. L'ambizione d'innalzar se stessi, o i loro amici agli onori ed agli uffizi della Chiesa, coprivasi con la lodevole intenzione di sacrificare al pubblico vantaggio il potere e la stima, che solo per tal oggetto erano essi in dovere di procacciarsi. Nell'esercizio delle lor funzioni molto frequentemente occorreva di scoprire gli errori dell'eresia, o gli artifizi della fazione, di opporsi a' disegni de' malvagi fratelli, di mostrarne le persone colla meritata infamia, e di escluderli dal seno di una società, la cui pace e felicità tentato avevano di turbare. Gli Ecclesiastici direttori de' Cristiani dovevano unire la prudenza del serpente coll'innocenza della colomba; ma come la prima si andò raffinando, così la seconda insensibilmente corruppesi per l'abitudine del Governo. Nella Chiesa ugualmente che nel Mondo, le persone, costituite in qualche pubblico impiego, si rendevan considerabili per la loro eloquenza e fermezza, per la cognizione degli uomini, e per la destrezza negli affari, e mentre nascondevano agli altri, e forse a se medesimi i segreti motivi della lor condotta, ricadevano troppo frequentemente in tutte le tumultuarie passioni della vita attiva, le quali avevano acquistata la tintura di un maggior grado di amarezza, e di ostinazione per l'infusione dello spirituale.
Il Governo della Chiesa spesso è stato il soggetto non meno che il guiderdone di religiose contese. Gli ostinati disputanti di Roma, di Parigi, di Oxford, e di Ginevra si sono sforzati ugualmente per ridurre ciascuno la prima ed apostolica forma di governo[543] alla propria costituzione. Que' pochi, i quali hanno discusso tale articolo con più candore ed imparzialità, son d'opinione[544], che gli Apostoli evitassero l'uffizio di legislatori, e piuttosto volessero soffrire alcuni scandali, e divisioni particolari, che togliere ai futuri Cristiani la libertà di variar le forme del loro ecclesiastico regolamento, secondo le variazioni de' tempi, e delle circostanze. Può vedersi qual sistema di governo fosse colla loro approvazione adottato per l'uso del primo secolo nella pratica delle Chiese di Gerusalemme, d'Efeso, e di Corinto. Le società, erette nelle città dell'Impero, erano soltanto unite fra loro co' vincoli della carità e della fede. L'indipendenza, e l'uguaglianza formavano la base dell'interna loro costituzione. Supplivasi alla mancanza di cultura e di sapere umano, secondo le occasioni, mediante l'aiuto de' Profeti[545], ch'eran chiamati a tale uffizio, senza distinzione alcuna d'età, di sesso, o di naturali talenti, e che ogni qual volta sentivano il divino impulso, mandavano fuori le effusioni dello spirito nell'assemblea de' fedeli. Ma i Profetici Dottori spesso abusarono o fecero cattive applicazioni di questi doni straordinari. Essi ne facevan pompa fuor di tempo, presumevano d'interrompere le sacre funzioni dell'assemblea, e col loro orgoglio o falso zelo indussero specialmente nella Chiesa Apostolica di Corinto una lunga e trista serie di disordini[546]. Siccome l'instituto de' Profeti divenne inutile, ed anche dannoso, ne fu tolta di mezzo la potestà, ed abolito l'uffizio. Le pubbliche funzioni della Religione furono solamente affidate a ministri già stabiliti nella Chiesa, vale a dire a Vescovi, ed a Preti: nomi, che nella lor prima origine sembra, che indicassero lo stesso ministero, ed ordine di persone. Quello di Prete esprimeva la loro età, o piuttosto la lor gravità e saviezza; quello poi di Vescovo denotava l'ispezione che avevano sopra la fede, ed i costumi de' Cristiani, commessi alla pastorale lor cura. Proporzionatamente al numero de' fedeli, una maggiore o minor quantità di questi Preti Episcopali governava ogni nascente congregazione con uguale autorità, e con union di consigli[547].
Ma la più perfetta uguaglianza di libertà esige la direzione di un Magistrato superiore; e l'ordine delle pubbliche deliberazioni, ben presto introduce l'uffizio d'un Presidente, che almeno abbia l'autorità di raccogliere le opinioni, e di eseguire i decreti dell'assemblea. Un riguardo alla pubblica tranquillità, che sarebbe stata frequentemente interrotta dalle annuali, o accidentali elezioni, mosse i primitivi Cristiani a stabilire una perpetua, ed onorevole magistratura, ed a scegliere uno de' più prudenti e santi fra' loro Preti per eseguire, finchè viveva, i doveri di loro ecclesiastico direttore. In quest'occasione fu che il sublime titolo di Vescovo s'incominciò ad innalzare sopra l'umile denominazione di Prete; e mentre quest'ultima continuò ad indicare la più natural distinzione fra' membri di ogni Senato Cristiano, quello fu appropriato alla dignità del nuovo Presidente di esso[548]. I vantaggi di questa forma di Governo Episcopale, che sembra essere stato introdotto avanti il fine del primo secolo[549], erano tant'ovvj, ed importanti per la futura grandezza, ugualmente che per la pace attuale del Cristianesimo, che fu adottato senza dilazione da tutte le società, ch'erano già sparse per l'Impero. Aveva esso molto per tempo acquistato l'approvazione dell'antichità[550], ed è stato sempre rispettato dalle Chiese più potenti, sì Orientali che Occidentali, come un primitivo, ed anche Divino stabilimento[551]. È superfluo di osservare, che i devoti ed umili Preti, che a principio insigniti furono del titolo Episcopale, non potevan avere, e probabilmente ricusato avrebbero la potenza e la pompa, che adesso circonda la tiara del Romano Pontefice, o la mitria di un Prelato Alemanno; ma possiam definire in poche parole gli stretti limiti della primiera loro giurisdizione, ch'era principalmente spirituale, sebbene in qualche caso riguardasse anche le cose temporali[552]. Riducevasi questa all'amministrazione de' sacramenti, alla disciplina Ecclesiastica, alla sopraintendenza de' riti sacri, che insensibilmente crescevano in numero e in verità, alla consacrazione dei ministri ecclesiastici, a' quali si assegnavan dal Vescovo le rispettive funzioni, al maneggio del pubblico tesoro, ed alla decisione di tutte quelle controversie, che i Fedeli non volevano esporre avanti al tribunale di un Giudice idolatra. Queste facoltà per breve tempo si esercitarono secondo il consiglio del collegio presbiterale, e col consenso e coll'approvazione dell'assemblea de' Cristiani. Gli antichi Vescovi si risguardavan soltanto come i primi fra' loro uguali, e gli onorevoli servi di un popolo libero. Quando vacava per la morte del Vescovo la cattedra Episcopale, si eleggeva fra i Preti un nuovo Presidente per mezzo de' voti di tutta la congregazione, ogni cui membro si stimava investito di un carattere sacro e sacerdotale[553].
Questo fu il dolce, ed uguale regolamento, con cui si governavano i Cristiani più di cento anni dopo la morte degli Apostoli. Ogni società formava da se una separata e indipendente Repubblica; e quantunque i più distanti fra questi piccoli Stati mantenessero un reciproco, ed amichevol commercio di deputazioni e di lettere, pure non era il Mondo Cristiano ancora congiunto mercè di alcuna suprema autorità, o legislativa assemblea. Siccome il numero de' Fedeli appoco appoco s'era moltiplicato, si videro i vantaggi, che provenir potevano da una più stretta unione d'interessi, e di disegni. Verso il finire del secondo secolo le Chiese della Grecia e dell'Asia adottarono le vantaggiose instituzioni de' sinodi provinciali, e può giustamente supporsi, che prendessero il modello de' Concilj rappresentativi da celebri esempi del lor Paese, quali sono quello degli Anfizioni, la lega Achea, o le assemblee delle Città della Jonia. Tosto fu stabilito come un costume, ed una legge, che i Vescovi delle Chiese indipendenti si trovassero, ne' tempi determinati della primavera e dell'autunno, insieme nella capitale della Provincia. Le loro deliberazioni erano assistite dal consiglio di pochi Preti distinti, e moderate dalla presenza di una moltitudine di uditori[554]. I loro decreti, che si chiamavano Canoni, regolavano qualunque importante questione di fede, e di disciplina: ed era naturale di credere, che nella riunione de' delegati del popolo Cristiano si sarebbe sparsa un'abbondante effusione dello Spirito Santo. L'instituzione de' sinodi era così confacente all'ambizione privata, ed all'interesse pubblico, che nello spazio di pochi anni fu ricevuta per tutto l'Impero. Si stabilì una regolare corrispondenza fra' Concilj provinciali, che reciprocamente si comunicavano, ed approvavano i rispettivi loro atti; e la Chiesa cattolica prese in breve la forma, ed acquistò la forza di una gran Repubblica federativa[555].
Siccome restò insensibilmente sospesa per l'uso dei concilj l'autorità legislativa delle Chiese particolari, così ottennero i Vescovi, mediante la loro confederazione, una porzione molto maggiore di potestà esecutiva ed arbitraria; e tosto che si trovarono uniti da un sentimento di comune interesse, furono in istato di attaccare con unito vigore gli originarj diritti del Clero e del popolo. I Prelati del terzo secolo mutarono appoco appoco il linguaggio d'esortazione in quel di comando; sparsero i semi delle future usurpazioni; e supplirono con allegorie scritturali, e con declamazioni rettoriche alla mancanza di forza e di ragione. Essi esaltavano l'unità ed il poter della Chiesa, quale rappresentavasi nell' Uffizio Episcopale, di cui godeva ogni Vescovo un'uguale ed indivisa porzione[556]. Si andava spesso ripetendo, che i Principi, ed i Magistrati vantar potevano un terreno diritto, ed un passaggiero dominio, ma l'Episcopale autorità era la sola che derivasse da Dio, e si estendesse a questo, ed all'altro mondo. I Vescovi erano i vicari di Cristo, i successori degli Apostoli, e quelli che furono misticamente sostituiti al sommo Sacerdozio della legge Mosaica. Il privilegio esclusivo che avevano di conferire il carattere sacerdotale, invase la libertà dell'elezioni del Clero e del Popolo, e se nell'amministrazione della Chiesa qualche volta consultavano il giudizio de' Preti, o l'inclinazione popolare, avevan grandissima cura d'inculcare il merito di tal volontaria condiscendenza. I Vescovi riconoscevano l'autorità suprema, che risedeva nell'assemblea de' loro fratelli; ma nel governo delle particolari lor Diocesi, ciascheduno di essi dal proprio Gregge esigeva l'istessa implicita obbedienza, come se quella favorita metafora fosse stata letteralmente giusta, ed il Pastore fosse stato di una più sublime natura che le sue pecore[557]. Questa obbedienza però non fu imposta senza qualche sforzo per una parte, e senza qualche resistenza per l'altra. La parte democratica della costituzione fu in molti luoghi con gran calore sostenuta dalla zelante, od interessata opposizione del Clero inferiore. Ma si diedero al loro patriottismo gl'ignominiosi nomi di fazione, e di scisma; e la causa Episcopale dovè il suo rapido progresso alle fatiche di molti attivi Prelati, che riunivano in se stessi, come Cipriano di Cartagine, le arti del più ambizioso uomo di Stato colle virtù Cristiane, che sembrano attagliarsi al carattere di un santo, e di un martire[558].
Le medesime cagioni, che avevan distrutto a principio l'uguaglianza de' Preti, introdussero una preeminenza di grado fra' Vescovi, e quindi una superiorità di giurisdizione. Ogni volta che nella primavera, e nell'autunno adunavansi nel Concilio provinciale, sentivasi molto notabilmente la differenza del merito e della riputazion personale fra i membri dell'assemblea, ed era governata la moltitudine dalla dottrina, e dall'eloquenza dei pochi. Ma l'ordine degli atti pubblici richiedeva una distinzione più regolare e meno invidiosa; fu conferito l'uffizio di presedere in perpetuo ai Concilj di ogni Provincia a' Vescovi della città principale, e questi ambiziosi Prelati, che tosto acquistarono i titoli eminenti di Metropolitani e di Primati, si preparavan segretamente ad usurpare sopra i loro episcopali fratelli quell'autorità istessa, che i Vescovi avevano ultimamente assunta sopra il collegio de' Prelati[559]. Nè passò molto tempo, che s'introdusse una emulazione di preeminenza, e di potere fra' Metropolitani medesimi, affettando ciascheduno di essi di mostrare ne' termini più fastosi gli onori e i vantaggi temporali della Città, a cui presedeva, il numero e l'opulenza de' Cristiani sottoposti alla pastorale sua cura, i Santi ed i Martiri, ch'erano sorti fra loro, e la purità con cui mantenevasi la tradizione della fede, qual era stata trasmessa per una serie di Vescovi ortodossi dagli Apostoli, o da' lor Discepoli, a' quali attribuivasi la fondazione di quella Chiesa[560]. Per ogni motivo, sì Ecclesiastico che civile, era facile a prevedersi che Roma avrebbe goduto il rispetto, ed in breve pretesa l'obbedienza delle Province. Ivi la società dei Fedeli era in una giusta proporzione colla Capitale dell'Impero; la Chiesa Romana era il più grande, il più numeroso, e nell'Occidente il più antico di tutti gli stabilimenti Cristiani, molti de' quali avevano ricevuta la religione dalle pie fatiche de' Missionari della medesima. Supponevasi, che avesse onorato le rive del Tevere non già un solo fondatore Apostolico, al che si riduceva il più alto vanto di Antiochia, d'Efeso, o di Corinto, ma la predicazione, ed il martirio de' due più eminenti fra gli Apostoli[561]; e molto prudentemente i Vescovi di Roma pretendevano d'essere eredi di qualsivoglia prerogativa, che attribuita fosse alla persona, o all'uffizio di S. Pietro[562]. I Vescovi della Italia, e delle Province eran disposti ad accordar loro un primato d'ordine, e d'associazione (come molto accuratamente si esprimevano) nella Cristiana aristocrazia[563]. Ma la potestà di Monarca rigettavasi con orrore, e l'ambizioso genio di Roma trovò nelle nazioni dell'Asia, e dell'Affrica una resistenza contro lo spirituale di lei dominio, più vigorosa di quella che anticamente aveva sperimentato contro il temporale. Il patriottico Cipriano, che regolava, col più assoluto potere la Chiesa di Cartagine, ed i sinodi Provinciali, si oppose risolutamente, e con successo, all'ambizione del Romano Pontefice; artificiosamente unì la propria causa con quella de' Vescovi Orientali, e, come Annibale, cercò nuovi alleati nel cuore dell'Asia[564]. Se questa guerra Punica si fece senz'alcuna effusione di sangue, ciò debbe molto meno attribuirsi alla moderazione, che alla debolezza de' combattenti Prelati. Le sole armi, che usarono, furono invettive e scomuniche: e queste, nel corso di tutta la disputa, eglino si scagliarono un contro l'altro con ugual furia e devozione. I moderni cattolici si trovano angustiati dalla dura necessità di censurare la condotta, o di un Papa, o di un Santo e d'un Martire, quando son costretti a riferire le particolarità di una disputa, nella quale i Campioni della Religione secondarono quelle passioni, che sembravano meglio adattate al Senato, od al Campo[565].
L'avanzamento dell'autorità Ecclesiastica fece nascere la memorabile distinzione fra lo stato laicale e clericale, che non era stato in uso nè fra' Greci, nè fra' Romani[566]. Il primo comprendeva il corpo del popolo Cristiano; l'altro, secondo il significato di quella voce, la parte scelta, ch'era stata destinata pel servizio della Religione; celebre ordine di persone, che ha somministrato i più importanti, quantunque non sempre i più edificanti soggetti all'Istoria moderna. Le lor vicendevoli ostilità qualche volta disturbarono la pace della Chiesa nascente, ma si univan lo zelo e l'attività loro nella causa comune, e l'amor della potenza, che (sotto i più artificiosi colori) s'insinuava nei petti de' Vescovi e de' Martiri, gli animava ad accrescere il numero de' loro sudditi, e ad estendere i limiti dell'Impero Cristiano. Essi eran privi di ogni forza temporale, e per lungo tempo furono scoraggiati ed oppressi, anzichè assistiti, dal Magistrato civile: avevano però in mano, ed esercitavano nell'interno regolamento delle lor società i due più efficaci strumenti del governo, i premj e le pene; traevano i primi dalla pia liberalità, e le seconde dalla devota apprensione de' Fedeli.
I. La comunione de' beni, che aveva tanto piacevolmente occupato l'immaginativa di Platone[567], e che sussisteva in qualche modo nell'austera setta degli Essenj[568], fu per breve tempo adottata nella primitiva Chiesa. Il fervore de' primi proseliti gl'indusse a vendere quelle mondane possessioni, che disprezzavano, a portarne il prezzo a' piedi degli Apostoli, ed a contentarsi di riceverne una parte uguale agli altri nella generale distribuzione[569]. L'accrescimento de' Cristiani fece che si rilassasse, ed a grado a grado restasse abolito questo generoso instituto, che in mani meno pure di quelle degli Apostoli si sarebbe troppo presto corrotto, e convertito in abuso dal proprio interesse, a cui la natura umana è sempre condotta; e fu permesso a' convertiti, che abbracciavan la nuova religione, di ritenere il possesso del lor patrimonio, di ricever legati ed eredità, e di accrescere ciascheduno i propri averi per tutti i mezzi legittimi del commercio e dell'industria. Invece di un intero sagrifizio de' beni di ognuno, da' ministri dell'Evangelio ne fu accettata una moderata porzione, e nelle loro eddomadali, o mensuali adunanze ogni fedele, secondo che esigeva l'occasione, ed a misura della propria ricchezza e pietà, presentava la sua volontaria offerta per uso della società comune[570]. Nessuna cosa, quantunque tenue si ricusava; ma premurosamente inculcavasi che rispetto alle decime la legge Mosaica era sempre di obbligazione divina; che essendo stato comandato agli Ebrei, sotto una disciplina meno perfetta, di pagare la decima parte di tutto ciò che possedevano, era ben conveniente che i discepoli di Cristo si distinguessero con una maggior liberalità[571], ed acquistassero qualche merito col privarsi di un bene superfluo, che sì presto dovevasi annichilare insieme col mondo[572]. Egli è quasi superfluo l'osservare, ch'essendo l'entrata d ogni Chiesa particolare così fluttuante ed incerta, debb'essere stata varia secondo la povertà, o l'opulenza de fedeli, e secondo che si trovavano dispersi in oscuri villaggi, od uniti nelle grandi Città dell'Impero. Nel tempo dell'Imperator Decio era opinione de' Magistrati, che i Cristiani di Roma, possedessero grandi ricchezze, che si usassero nel loro culto religioso vasi d'oro o d'argento, e che molti fra' proseliti avessero vendute le proprie terre e case per accrescere le pubbliche sostanze della comunità, a spese in vero degl'infelici lor figli, che si trovavan mendichi, perchè i loro padri erano stati santi[573]. Dovremmo con diffidenza prestare orecchio ai sospetti degli stranieri e nemici: in quest'occasione però acquistano un colore molto specioso o probabile dalle seguenti due circostanze, le sole giunte a nostra notizia, che diffiniscano una somma precisa, o dieno una idea distinta. Quasi nel medesimo tempo il Vescovo di Cartagine da una società men opulenta di quella di Roma raccolse centomila sesterzi (sopra mille settecento zecchini) in una subitanea questua por redimere i fratelli della Numidia, ch'erano stati fatti schiavi dai Barbari del deserto[574]. Circa cent'anni avanti al regno di Decio, la Chiesa Romana in una sola donazione avea ricevuto la somma di dugentomila sesterzi da uno straniero del Ponto, che avea determinato di stabilirsi nella Capitale[575]. Si facevan queste oblazioni per la massima parte in moneta; nè la società de' Cristiani era bramosa, o capace di acquistare l'imbarazzo de' beni stabili in grande estensione. Era stato provvisto da varie leggi, promulgate col medesimo spirito dei nostri statuti delle mani morte, che non si donassero, nè si lasciassero fondi reali ad alcun corpo collegiato, senza un privilegio speciale, o una particolar dispensa dell'Imperatore, o del Senato[576], i quali rare volte eran disposti a concederla in favor d'una setta, che fu a principio l'oggetto del lor disprezzo, e finalmente de' lor timori, e della lor gelosia. Si riferisce però un atto sotto il regno d'Alessandro Severo, il quale dimostra, che tal proibizione qualche volta restava elusa o sospesa, e che si permetteva a' Cristiani di reclamare, e di posseder terre dentro i confini dell'istessa Roma[577]. Il progresso del Cristianesimo, e le civili turbolenze dell'Impero contribuirono a rilassare la severità delle leggi, ed avanti la fine del terzo secolo molti fondi considerabili si acquistarono dalle opulente Chiese di Roma, di Milano, di Cartagine, di Antiochia, di Alessandria, e delle altre grandi Città dell'Italia e delle Province.
Il natural Tesoriere della Chiesa era il Vescovo; il comun fondo affidavasi alla cura di lui senza che fosse soggetto a rendimento di conti o a revisione; i Preti si limitavano alle funzioni loro spirituali, e soltanto impiegavasi l'inferiore nome de' Diaconi pel maneggio, e per la distribuzione dell'Ecclesiastiche rendite[578]. Se può darsi fede alle veementi declamazioni di Cipriano, v'erano moltissimi fra' suoi Affricani fratelli, che nell'esercizio del loro impiego violavano ogni precetto, non solo di evangelica perfezione, ma anche di virtù morale. Alcuni di quest'infedeli dispensatori scialacquavano i beni della Chiesa in sensuali piaceri, altri gl'impiegavano in negozi di privato guadagno, di fraudolenti acquisti, e di rapace usura[579]. Ma finchè le contribuzioni del Popolo Cristiano furono libere e volontarie, l'abuso della fiducia di lui non poteva essere molto frequente, e gli usi a' quali tal liberalità in generale applicavasi, facevan onore alla società religiosa. Se ne riservava una conveniente porzione pel mantenimento del Vescovo, e del suo Clero; un'altra sufficiente somma era destinata per le spese del Culto pubblico, di cui formavan la parte più essenziale e piacevole i banchetti di carità, o come allora dicevansi, le agape; e tutto il resto era patrimonio sacro de' poveri. Secondo la discrezione del Vescovo si impiegava in alimentare le vedove e gli orfani, gli storpiati, gl'infermi, ed i vecchi della società, in aiutar gli stranieri e pellegrini, ed in sollevare le angustie dei carcerati e degli schiavi, specialmente se i lor patimenti erano cagionati da un forte amore alla causa della religione[580]. Un generoso commercio di carità univa le più distanti Province, e le più povere congregazioni venivano di buona voglia assistite dalle elemosine de' loro più opulenti fratelli[581]. Tale instituto, che risguardava meno il merito, che la miseria delle persone, molto materialmente favoriva l'accrescimento del Cristianesimo. I Gentili i quali erano animati da un sentimento d'umanità, nel tempo che deridevano le dottrine, confessavano la beneficenza della nuova setta[582]. La vista dell'immediato sollievo, e della protezione futura, invitava al seno ospitale di lei molte di quelle infelici persone, che la trascuratezza del mondo avrebbe abbandonate alle miserie dell'indigenza, della malattia e dell'età. Vi è qualche ragione ancora di credere, che un gran numero di fanciulli, secondo la crudel pratica di que' tempi, esposti da' loro genitori, fossero frequentemente preservati dalla morte, battezzati, educati e mantenuti dalla pietà de' Cristiani, ed a spese del pubblico Tesoro[583].
II. Ogni società senza dubbio ha diritto di escludere dalla sua comunione e dai suoi benefizi que' membri, che rigettano o trasgrediscono le regole stabilite di comune condenso. Nell'esercizio di tal potestà le censure della Chiesa Cristiana eran principalmente dirette contro i peccatori scandalosi, ed in ispecie contro i rei d'omicidio, di frode o d'incontinenza, contro gli autori o seguaci di qualunque eretica opinione, che fosse stata condannata dal giudizio de' Vescovi, e contro quelle infelici persone, che, o liberamente o per forza, si eran macchiate, dopo il battesimo, con qualche atto di culto idolatrico. Le conseguenze della scomunica risguardavano il temporale non meno che lo spirituale. Il Cristiano, contro di cui pronunciavasi, era privato di qualunque parte nelle oblazioni de' fedeli. Si scioglievano i legami di ogni religiosa e privata amicizia. Diveniva egli un oggetto profano d'abborrimento per le persone, ch'ei più stimava, o dalle quali amavasi prima con la maggior tenerezza; e per quanto l'espulsione da una società rispettabile potea imprimere nel carattere di lui un contrassegno d'ignominia, era generalmente sfuggito, o tenevasi per sospetto da tutti. La situazione di questi esuli disgraziati era molto penosa e trista in se stessa, ma i lor timori, come suole avvenire, sopravanzavano anche molto i loro tormenti. I beni della comunion Cristiana eran quelli dell'eterna vita, nè potevano essi cancellare da' loro spiriti la terribile opinione, che Dio aveva date le chiavi dell'Inferno e del Paradiso a quegli Ecclesiastici direttori, da' quali ricevuto avevano la condanna. Gli Eretici, in vero, che potevano sostenersi colla coscienza delle loro intenzioni, e colla lusinghiera speranza di aver essi soli scoperta la vera strada della salute, procuravano di riacquistare nelle separate loro assemblee quelle temporali e spirituali consolazioni, che non potevano più ritrarre dalla gran società de' Cristiani. Ma quasi tutti coloro, che avevano con ripugnanza ceduto alla forza del vizio o dell'idolatria, sentivano l'umiliazione del loro stato, ed ansiosamente desideravano di essere ristabiliti ne' diritti della comunione Cristiana.
Quanto al trattamento di questi penitenti, la primitiva Chiesa era divisa fra due opinioni, l'una di giustizia, l'altra di misericordia. I più rigorosi ed inflessibili casisti negavan per sempre e senz'eccezione il più basso luogo nella santa comunione a coloro, che essi avevano condannati o abbandonati, e lasciandoli in preda a' rimorsi di una colpevol coscienza, accordavan loro soltanto un debole raggio di speranza, che la compunzione loro, in vita ed in morte, potrebbe forse esser gradita all'Ente supremo[584]. Ma un sentimento più mite fu abbracciato in pratica ed in teorica dalle più rispettabili, e pure Chiese Cristiane[585]. Rare volte si chiusero al convertito penitente le porte della riconciliazione e del Cielo; ma fu instituita una severa e solenne forma di disciplina, la quale nell'atto medesimo, che serviva ad espiarne il delitto, con efficacia potesse allontanare gli spettatori dall'imitarne l'esempio. Umiliato da una pubblica confessione, emaciato dal digiuno, e vestito di sacco, stava il penitente prostrato alla porta dell'assemblea, chiedendo con lacrime il perdono delle sue colpe, ed implorando in suo favore le preghiere de' fedeli[586]. Se il peccato era molto grave, interi anni di penitenza non si credevano sufficienti a soddisfare adequatamente la divina giustizia; e sempre per mezzo di lenti e penosi gradi il peccatore, l'eretico o l'apostata restituivasi al seno della Chiesa. La sentenza però di scomunica perpetua si riservava per alcuni delitti di straordinaria enormità, e specialmente per le inescusabili ricadute di que' penitenti, che avevano già fatta prova, ed abusato della clemenza degli Ecclesiastici lor superiori. L'esercizio della disciplina Cristiana era vario secondo le circostanze o il numero delle colpe, a giudizio de' Vescovi. Furon celebrati verso il medesimo tempo i Concilj d'Ancira e d'Elvira, l'uno nella Galazia, l'altro nella Spagna, ma sembra che i rispettivi lor canoni, che tuttora esistono, abbiano uno spirito assai diverso. Il Galata, che dopo il Battesimo avea più volte sacrificato agl'idoli, poteva ottenere il perdono mediante una penitenza di sette anni, e se aveva sedotto altri ad imitare il suo esempio, tre soli anni di più erano aggiunti al termine del suo esilio. Ma l'infelice Spagnuolo, che avea commosso la medesima colpa, rimaneva privo della speranza di riconciliazione, anche in punto di morte: la sua idolatria stava alla testa di altri diciassette delitti, contro i quali fu pronunziata una non meno terribil sentenza; fra' quali si può distinguere l'inespiabil reato di calunniare un Vescovo, un Prete, od anche un Diacono[587].
La ben temperata unione di liberalità e di rigore, la distribuzion giudiziosa de' premj e delle pene secondo le massime della politica e della giustizia, formarono la forza umana della Chiesa. I Vescovi, la cui paterna cura estendevasi al governo del mondo spirituale e corporeo, sentivan bene l'importanza di queste prerogative, e coprendo la loro ambizione col bel pretesto dell'amore dell'ordine, eran gelosi di ogni rivale nell'esercizio di una disciplina tanto necessaria per prevenire la diserzione di quelle truppe, che si erano arrolate sotto lo stendardo della Croce, ed il numero delle quali ogni giorno diveniva maggiore. Dalle imperiose declamazioni di Cipriano dovremmo naturalmente concludere, che le dottrine della scomunica, e della penitenza, formavan la parte più essenziale della religione; ed era molto meno pericoloso ai discepoli di Cristo il trascurar l'osservanza de' morali doveri, che il disprezzar le censure e l'autorità de' lor Vescovi. Alle volte c'immagineremmo d'udire la voce di Mosè, quando comandò alla terra di aprirsi per inghiottir nelle fiamme consumatrici que' ribelli, che ricusavano ubbidienza al Sacerdozio d'Aronne; ed alle volte ci parrebbe di ascoltare un Console Romano, che sostenendo la maestà della Repubblica, dichiarasse la sua risoluzione inflessibile di mantenere il rigore delle leggi.
«Se impunemente si soffrono irregolarità di tal sorta» (così riprende il Vescovo di Cartagine la dolcezza del suo collega) «finisce il vigor Episcopale[588], finisce la divina sublime potestà di governare la Chiesa; finisce il Cristianesimo stesso.» Cipriano avea rinunziato quegli onori temporali, che probabilmente non avrebbe ottenuti giammai; l'acquisto però di tale assoluto comando sulle coscienze e sull'intelletto di una congregazione, sia quanto si voglia oscura o disprezzabile dal mondo, è veramente più grato all'orgoglio del cuore umano, che il possesso della più dispotica potenza, acquistata, per mezzo delle armi e della conquista, sopra un popolo ricalcitrante.
Nel corso di questa importante, quantunque forse tediosa ricerca, ho tentato di esporre le secondarie cagioni, che tanto efficacemente assisterono la verità della religione Cristiana. Se fra quelle cagioni ho scoperto qualche artificiale ornamento, qualche accidental circostanza, o qualche mistura d'errore e di passione, non deve parer sorprendente che sugli uomini abbiano sensibilmente influito que' motivi, ch'eran conformi all'imperfetta loro natura. Coll'aiuto di tali cagioni, vale a dire dello zelo esclusivo, dell'aspettazione immediata di un altro mondo, della pretension de' miracoli, della pratica di rigorosa virtù, e della costituzione della primitiva Chiesa, il Cristianesimo si sparse con tanto successo nell'Impero Romano. Alla prima di queste dovevano i Cristiani quell'invincibil valore, per cui sdegnavano di capitolar col nemico, ch'essi eran risoluti di vincere. Le tre seguenti porgevano al lor valore le armi più formidabili. L'ultima ne riuniva il coraggio, ne dirigeva le armi, ed a' loro sforzi dava quell'irresistibil peso, che sì frequentemente ha renduto anche una piccola truppa di ben agguerriti ed intrepidi volontarj superiore ad una moltitudine indisciplinata, ignorante del soggetto, e non curante l'esito della guerra. Fra le diverse religioni del Politeismo, alcuni vagabondi fanatici dell'Egitto, e della Siria, che dirigevansi alla credula superstizione del volgo, formavano forse l'unico ordine di Sacerdoti[589], che traessero tutto il proprio mantenimento e credito dalla professione sacerdotale, e che fossero molto efficacemente impegnati da un personale interesse per la sicurezza o prosperità de' tutelari lor Numi. Tanto in Roma, quanto nelle principali Province i ministri del politeismo erano per la maggior parte uomini di nobil estrazione e di abbondante ricchezza, che ricevevan come una distinzione onorevole la cura di un celebre tempio, o di un pubblico sacrifizio; molto spesso rappresentavano a loro spese i giuochi sacri[590], e con fredda indifferenza eseguivano gli antichi riti secondo le leggi, e l'usanze del lor paese. Siccome occupavansi negli affari comuni della vita, rare volte, il loro zelo e la lor divozione erano animati da un sentimento d'interesse o dalle abitudini di un carattere sacerdotale. Limitati a' rispettivi lor tempj ed alle loro rispettive città, restavano senza connessione alcuna di governo o di disciplina; e riconoscendo essi la suprema giurisdizione del Senato, del Collegio de' Pontefici e dell'Imperatore, que' magistrati civili si contentavano della facile cura di mantenere in pace, e con dignità, il culto già stabilito fra gli uomini. Abbiam veduto poi quanto varie, quanto libere, ed incerte fossero le religiose opinioni de' Politeisti. Si abbandonavan quasi senza ritegno alle naturali operazioni di una superstiziosa fantasia. Le accidentali circostanze della vita, e della situazione loro determinavan l'oggetto, ed il grado della lor divozione, e poichè la loro adorazione successivamente prostituivasi a mille Divinità, egli era appena possibile, che i loro cuori potessero essere capaci di una molto sincera, e viva passione per alcuna di quelle.
Quando comparve nel mondo il Cristianesimo, anche queste deboli, ed imperfette impressioni eransi appoco appoco ridotte a nulla. La ragione umana, che mediante la propria forza, non aiutata dalla rivelazione, non è capace d'intendere i misteri della fede, aveva già ottenuto un facil trionfo sopra la follìa del Paganesimo; e quando Tertulliano o Lattanzio si affaticano in esporne la stravaganza e la falsità, son costretti a far uso dell'eloquenza di Cicerone, o dell'ingegno di Luciano. Si era diffuso il contagio di questi scettici scritti molto al di là del numero de' lor lettori. Era passata la moda dell'incredulità, dal Filosofo all'uomo di piacere o di affari, dal nobile al plebeo, e dal padrone al domestico schiavo, che serviva alla tavola di lui, e che attentamente ne ascoltava la libertà de' discorsi. Nelle pubbliche occasioni la parte filosofica del genere umano affettava di trattar con decenza e con rispetto le religiose instituzioni della loro patria; ma traspariva il lor segreto disprezzo a traverso la debole mal coperta finzione, ed anche la plebe, scuoprendo che i propri Numi venivan rigettati e derisi da quelli, de' quali era solita di rispettare il posto o la scienza, si trovava piena di dubbj e di apprensioni circa la verità di quelle dottrine, alle quali accordato aveva la più implicita fede. La rovina degli antichi pregiudizi lasciava moltissimi in una penosa situazione, priva d'ogni conforto. Uno stato di scetticismo, e di sospensione può piacere a ben pochi spiriti investigatori; ma la pratica della superstizione è sì naturale alla moltitudine degli uomini, che qualora vengano per forza illuminati, compiangon sempre la perdita del lor piacevole inganno. Il loro amore del maraviglioso, e del soprannaturale, la lor curiosità intorno al futuro, e la forte inclinazione ad estendere le speranze e i timori oltre i limiti del monito visibile, furon le principali cagioni che favorirono lo stabilimento del Politeismo. È così urgente nel volgo la necessità di credere, che alla caduta d'un sistema di mitologia è probabilissimo abbia da succedere sempre qualche altro genere di superstizione di nuovo introdotta. Alcune deità, di forma più nuova e alla moda, presto avrebbero occupato gli abbandonati tempj di Giove e d'Apollo, se in quel decisivo istante la saggia Providenza non avesse interposta una genuina rivelazione, atta ad inspirare la stima e la persuasione più ragionevole, nel tempo stesso che godeva di tutti gli adornamenti, che attrar potevano la curiosità, lo stupore, e la reverenza del popolo. Nell'attual disposizione, in cui trovavansi gli uomini, siccome quasi erano affatto staccati dagli artificiosi lor pregiudizi, ma suscettibili, e bramosi ugualmente di qualche religioso attaccamento, anche un oggetto di merito molto minore sarebbe stato capace di riempiere il posto vacante ne' loro cuori, e soddisfar l'incerto fervore delle loro passioni. Quelli che sono disposti ad analizzare tali riflessioni, lungi dall'osservare con meraviglia il rapido avanzamento del Cristianesimo, saranno forse sorpresi che non fosse anche più rapido, e più generale.
È stato con non minor verità che naturalezza osservato, che le conquiste di Roma prepararono, e facilitaron quelle del Cristianesimo. Nel secondo capitolo di quest'opera si è procurato di spiegare in qual modo le più culte province dell'Europa, dell'Asia, e dell'Affrica si riunirono sotto il dominio di un sol Sovrano, ed appoco appoco si collegarono co' più forti vincoli delle leggi, de' costumi, e del linguaggio. Gli Ebrei della Palestina, che avevano ansiosamente aspettato un liberator temporale, riceverono sì freddamente i miracoli del divino Profeta, che si stimò superfluo di pubblicare, o almeno di conservare alcun Evangelio Ebraico[591]. Le storie autentiche delle azioni di Cristo si scrissero in Greco ad una considerabil distanza da Gerusalemme, e dopo che fu sommamente cresciuto il numero de' Gentili convertiti alla fede[592]. Appena tali storie furono tradotto in Latino, divennero perfettamente intelligibili a tutti i sudditi di Roma, eccettuati solamente i contadini della Siria e dell'Egitto, per comodità de' quali si fecero dopo particolari versioni. Le pubbliche strade ch'erano state fatte per uso delle legioni, aprivano un facil passaggio a' missionari Cristiani da Damaso a Corinto, e dall'Italia fino all'estremità della Spagna o della Britannia; nè incontravano quegli spirituali conquistatori alcuno degli ostacoli, che, ordinariamente ritardano, o impediscon l'introduzione di una religione straniera in lontani paesi. Vi sono le più forti ragioni di credere, che avanti l'Impero di Diocleziano e di Costantino, si fosse predicata la fede di Cristo in ogni Provincia, ed in tutte le principali Città dell'Impero; ma lo stabilimento delle diverse congregazioni, il numero de' fedeli che le componevano, e la proporzione, in cui erano cogl'infedeli, sono cose presentemente sepolte nell'oscurità, o colorite dalle favole e dalla declamazione. Noi ciò nonostante proseguiremo adesso ad esporre quelle imperfette notizie, che giunte son fino a noi rispetto all'accrescimento del nome Cristiano nell'Asia e nella Grecia, nell'Egitto, nell'Italia, e nell'Occidente, senza trascurare i veri o immaginarj acquisti fatti oltre le frontiere dei Romano Impero.
Le ricche Province, che si estendono dall'Eufrate al mare Jonio, furono il principal teatro, in cui l'Apostolo delle Genti spiegò la sua pietà ed il suo zelo. I semi dell'Evangelio, che aveva egli sparso in un fertil terreno, furon coltivati con diligenza da' suoi discepoli; e parrebbe che pei primi due secoli si contenesse il più considerabil corpo di Cristiani dentro que' limiti. Fra le società che si eressero nella Siria non ve ne fu alcuna più antica, o più illustre di quelle di Damasco, di Berea o d'Aleppo, e d'Antiochia. La profetica introduzione dell'Apocalisse ha descritte ed immortalale le sette Chiese dell'Asia, Efeso, Smirne, Pergamo, Tiatira[593], Sardi, Laodicea, e Filadelfia; e tosto si sparsero le lor colonie per quel popolato paese. Le isole di Cipro e di Creta, e le Province della Tracia e della Macedonia, fecer molto per tempo una grata accoglienza alla nuova religione; e presto si formaron Cristiane Repubbliche nelle città di Corinto, di Sparta, e d'Atene[594]. L'antichità delle chiese Greca, ed Asiatica somministra un sufficiente spazio di tempo per l'accrescimento, o per la moltiplicazione loro, e gli sciami stessi dei Gnostici, e di altri eretici, servono a dimostrare il florido stato della Chiesa ortodossa, mentre si è sempre applicato il nome di eretici al partito men numeroso. A queste domestiche testimonianze possiamo aggiunger la confessione, i lamenti, e le apprensioni de' Gentili medesimi. Dagli scritti di Luciano, filosofo che aveva studiato gli uomini, e che descrive i loro costumi co' più vivaci colori, possiam rilevare, che sotto il regno di Commodo, il suo paese nativo del Ponto era pieno d'Epicurei, e di Cristiani[595]. Dentro il corso di ottant'anni dopo la morte di Cristo[596] l'umano Plinio si lamenta della grandezza del male, ch'egli procurava invano di sradicare. Nella sua molto curiosa epistola all'Imperatore Traiano asserisce, che i tempj erano quasi deserti, che le sacre vittime appena trovavano compratori, e che la superstizione aveva non solo infettate le città, ma erasi anche sparsa per i villaggi, e nell'aperta campagna del Ponto, e della Bitinia[597].
Senza discendere ad un minuto esame dell'espressioni, o de' motivi di quegli scrittori, che o celebrano o deplorano il progresso del Cristianesimo nell'Oriente, può in generale osservarsi, che nessun di loro ci ha lasciato alcun fondamento, su cui formar si possa una giusta stima del vero numero de' fedeli in quelle Province. Si è conservata però fortunatamente una circostanza, che sembra spargere una luce più chiara su quest'oscuro, ma interessante soggetto. Nel regno di Teodosio, dopo che il Cristianesimo avea goduto per più di sessant'anni l'influsso del favore Imperiale, l'antica ed illustre Chiesa d'Antiochia consisteva in centomila persone, tremila delle quali erano alimentate con le pubbliche oblazioni[598]. Lo splendore, e la dignità della Regina dell'Oriente, la nota popolazione di Cesarea, di Seleucia, e d'Alessandria, e la distruzione di dugento cinquantamila anime nel terremoto, che afflisse Antiochia sotto Giustino il Vecchio[599], sono altrettante convincenti prove, che tutto il numero degli abitanti non era meno di mezzo milione, e che i Cristiani, per quanto moltiplicati fossero dallo zelo, e dalla potenza, non eccedevano la quinta parte di quella grande Città. Quanto diversa dovrà essere la proporzione, se paragoniamo la Chiesa perseguitata colla medesima trionfante, l'Occidente coll'Oriente, remoti villaggi con popolate città, e paesi di fresco convertiti alla fede con luoghi dove i credenti riceverono la prima volta la denominazione di Cristiani? Non bisogna per altro dissimulare, che in un altro luogo Grisostomo, al quale noi dobbiamo quest'util notizia, conta la moltitudine de' fedeli, come anche superiore a quella de' Giudei o de' Pagani[600]. Ma facile e naturale è la soluzione di quest'apparente difficoltà. L'eloquente predicatore fa un paralello fra la civile, ed ecclesiastica costituzione d'Antiochia, fra il catalogo de' Cristiani che avevano acquistato il Paradiso mediante il Battesimo e quello de' Cittadini, che avevano un diritto di partecipare della pubblica libertà. Nel primo si comprendevano schiavi, forestieri, e fanciulli, ch'erano esclusi dal secondo.
L'esteso commercio d'Alessandria, e la sua vicinanza alla Palestina diede un facile ingresso alla nuova Religione. Fu primieramente abbracciata da un gran numero di Terapeuti, o di Essenj della palude Mareotide, setta Ebraica, la quale avea perduto una gran parte della sua venerazione per le cerimonie di Mosè. L'austera vita degli Essenj, i loro digiuni, e le scomuniche, la comunione de' beni, l'amor del celibato, il loro zelo pel martirio, ed il fervore, benchè non la purità della loro fede, presentava già una vivissima immagine della primitiva disciplina[601]. Sembra che nella scuola di Alessandria la teologia Cristiana prendesse una forma regolare, e scientifica: e quando Adriano visitò l'Egitto, vi trovò una Chiesa composta di Greci e di Ebrei, abbastanza riguardevole per meritar la notizia di quel Principe investigatore[602]. Ma il progresso del Cristianesimo fu per lungo tempo ristretto dentro i limiti di una sola Città, ch'era ella stessa una colonia straniera, e fino al termine del secondo secolo i predecessori di Demetrio furono i soli Prelati della Chiesa d'Egitto. Si consacrarono tre Vescovi per le mani di Demetrio medesimo, e ne fu accresciuto il numero fino a venti da Eracla successore di lui[603]. Il corpo de' nazionali, popolo distinto per un'ostinata inflessibilità di carattere[604] riceveva la nuova dottrina con ripugnanza e freddezza; ed anche al tempo d'Origene, gli era ben raro d'incontrare un Egiziano, che avesse vinto gli antichi suoi pregiudizi a favore degli animali sacri del suo Paese[605]. Ma tosto che la religione Cristiana occupò il trono, lo zelo di que' Barbari obbedì alla forza che prevalse; le città dell'Egitto si riempirono di Vescovi e i deserti della Tebaide si popolarono d'Eremiti.
Un fiume perpetuo di stranieri e di provinciali scorreva nell'ampio seno di Roma. Tutto ciò ch'era odioso o stravagante, chiunque fosse colpevole o sospetto, nell'oscurità di quell'immensa Capitale sperar poteva d'eludere la vigilanza delle leggi. In un miscuglio di sì diverse nazioni ogni predicatore o di verità, o di falsità, ogni fondatore di qualunque o virtuosa o viziosa assemblea, poteva facilmente moltiplicare i propri discepoli o complici. I Cristiani di Roma, nel tempo dell'accidentale persecuzion di Nerone, si rappresentano da Tacito come ascendenti già ad una moltitudine assai numerosa[606], ed il linguaggio di quel grande Istorico è quasi simile allo stile che adopera Livio, quando riferisce l'introduzione e la soppressione de' riti di Bacco. Dopo che i Baccanali ebbero eccitata la severità del Senato, temevasi ancora che una grandissima moltitudine, quasi fosse un altro Popolo, si fosse iniziata in quegli abborriti misteri. Mediante una più diligente ricerca, tosto si venne in chiaro che i colpevoli non passavano il numero di settemila; numero in vero che dà sufficiente apprensione, quando riguardasi come l'oggetto della pubblica giustizia[607]. Dovremmo candidamente far l'istessa diminuzione interpretando le incerte espressioni di Tacito, ed in un caso più antico, di Plinio, nell'esagerar ch'essi fanno la moltitudine de' fanatici delusi, che abbandonato avevano il culto stabilito de' Numi. La Chiesa di Roma era senza dubbio la prima e la più numerosa dell'Impero; ed abbiamo ancora un autentico monumento, che dimostra lo stato della Religione in quella città verso la metà del terzo secolo, e dopo una pace di trent'otto anni. Il Clero, in quel tempo, era composto di un Vescovo, di quarantasei Preti, di sette Diaconi, di altrettanti Suddiaconi, di quarantadue Accoliti, e di cinquanta Lettori, Esorcisti, ed Ostiarj. Il numero delle vedove, degl'infermi, e de' poveri, che si mantenevano con le oblazioni de' Fedeli, ascendeva a mille cinquecento[608]. Fondati sulla ragione, ugualmente che sull'analogia d'Antiochia, possiam valutare per avventura il numero de' Cristiani di Roma a circa cinquantamila. Non si può forse determinare con esattezza la popolazione di questa gran Capitale; ma il più moderato calcolo non la ridurrà certo a meno di un milione d'abitanti, de' quali i Cristiani potevan formare al più la ventesima parte[609].
Sembra che i Provinciali d'Occidente ricevesser la cognizione del Cristianesimo per la medesima via, per cui si erano sparsi fra loro la lingua, i sentimenti, ed i costumi di Roma. In questa più importante occasione, l'Affrica e la Gallia si conformarono a grado a grado al gusto della Capitale. Pure nonostanti le molte favorevoli congiunture, che invitar potevano i Missionari di Roma a visitare le lor Province Latine, essi non passaron che tardi le alpi ed il mare[610]; nè possiam ravvisare in que' vasti paesi alcun certo vestigio di fede o di persecuzione che sia anteriore al Regno degli Antonini[611]. Il lento progresso dell'Evangelio nel freddo clima della Gallia fu sommamente diverso dal fervore, con cui par che fosse ricevuto nelle ardenti arene dell'Affrica. I fedeli Affricani presto formarono una delle principali parti della primitiva Chiesa. Il costume, introdotto in quella Provincia, di assegnar Vescovi alle più piccole città, e bene spesso a' più oscuri villaggi, contribuì ad estendere lo splendore, o l'importanza delle lor società religiose, che nel corso del terzo secolo animate furono dallo zelo di Tertulliano, dirette dai talenti di Cipriano, e adornate dall'eloquenza di Lattanzio. Laddove, se noi volgiamo gli occhi verso la Gallia, non si potranno scuoprire, al tempo di Marco Antonino, che le deboli ed unite congregazioni di Lione e di Vienna; e fino anche al Regno di Decio, sappiam di certo che solo in poche città, come Arles, Narbona, Tolosa, Limoges, Clermont, Tours, e Parigi, si sostenevano alcune sparse Chiese dalla devozione di un piccol numero di Cristiani[612]. Il silenzio in vero è molto coerente alla devozione, ma siccome rare volte è compatibile collo zelo, noi possiam rilevare e compiangere il languido stato del Cristianesimo in quelle Province, che avevan mutato la lingua Celtica nella Latina; mentre ne' primi tre secoli non han prodotto neppure un solo scrittore ecclesiastico. Dalla Gallia, che giustamente pretendeva d'avere una preeminenza di autorità e di dottrina sopra tutti gli altri paesi da questa parte delle alpi, la luce dell'Evangelio fu più debolmente riflessa nelle rimote Province della Spagna e della Britannia; e se può darsi fede alle veementi asserzioni di Tertulliano, esse avevan già ricevuti i primi raggi della Fede, quando egli mandò la sua apologia a' magistrati dell'Imperator Severo[613]. Ma si è fatta sì negligentemente menzione dell'oscura ed imperfetta origine delle Chiese occidentali dell'Europa, che volendo riferire il tempo ed il modo della lor fondazione, bisognerebbe supplire al silenzio dell'Antichità con quelle leggende, che lungo tempo dopo, l'avarizia o la superstizione dettò a' Monaci fra le neghittose tenebre de' lor Conventi[614]. Fra questi santi romanzi, quello solo dell'Apostolo S. Giacomo per la singolar di lui stravaganza può meritare che se ne prenda notizia. Di un pacifico pescatore del lago di Gennesaret egli fu trasformato in un valoroso guerriero, che combatteva alla testa della cavalleria Spagnuola nelle battaglie contro de' Mori. I più gravi Storici ne han celebrate le imprese; il miracoloso reliquiario di Compostella ne dimostrava il potere; e la spada d'un ordine militare, assistita da' terrori dell'Inquisizione, fu sufficiente a toglier di mezzo qualunque obbiezione della profana critica[615].
Il progresso del Cristianesimo non si limitò all'Impero di Roma, e secondo gli antichi Padri, che interpretano i fatti con le profezie, la nuova religione aveva già visitato qualunque parte del globo dentro un secolo dalla morte del suo divino Autore. «Non v'è popolo (dice Giustino martire) o Greco, o Barbaro, o di qualunque altra nazione, distinto con nomi o costumi di qualunque sorta, ignorante quanto si vuole dell'agricoltura e delle arti, o abiti sotto le tende, o vada vagando in carri coperti, appresso di cui non s'offrano in nome di Gesù Cristo Crocifisso delle preghiere al Padre e Creatore di tutte le cose»[616]. Ma questa splendida esagerazione, che anche presentemente sarebbe assai difficile di conciliare con lo stato reale dell'uman genere, può solo considerarsi come lo smoderato trasporto di un devoto, ma negligente scrittore, la misura della cui Fede si regolava da quella de' suoi desiderj. Ma nè la Fede, nè le brame de' Padri possono alterar la verità dell'istoria. Sarà sempre un fatto indubitato, che i Barbari della Scizia e della Germania, i quali rovesciaron la Romana Monarchia, erano involti nelle tenebre del Paganesimo; e che anche la conversione dell'Iberia, dell'Armenia, o dell'Etiopia non fu tentata con qualche successo, finchè lo scettro non fu nelle mani d'un Imperatore Ortodosso[617]. Avanti quel tempo i varj accidenti della guerra e del commercio non poterono spargere che un'imperfetta cognizione del Vangelo fra le tribù della Caledonia[618] e fra gli abitanti delle rive del Reno, del Danubio, e dell'Eufrate[619]. Al di là di quest'ultimo fiume, Edessa si distingueva mediante un fermo ed antico attaccamento alla Fede[620]. Da Edessa furono facilmente introdotti i principj del Cristianesimo nelle città Greche e Siriache, le quali obbedivano a' successori di Artaserse; ma non par che facessero alcuna profonda impressione sulle menti de' Persiani; il cui religioso sistema, per opera di un ordine ben disciplinato di sacerdoti, era stato costruito con arte e solidità molto maggiore, che l'incerta mitologia della Grecia e di Roma[621].
Da questa imparziale, quantunque imperfetta veduta del progresso del Cristianesimo può rendersi per avventura probabile, che il numero de' suoi proseliti sia stato magnificato all'eccesso, da una parte per timore, e per devozione dall'altra. Secondo l'irrefragabil testimonianza d'Origene[622], era molto piccolo il numero de' credenti, paragonati alla moltitudine del mondo infedele. Ma siccome non abbiamo su questo alcuna distinta notizia, è impossibile lo stabilire, ed anche difficile il congetturare il vero numero de' primitivi Cristiani. Il calcolo, per altro, più favorevole che dedurre si possa dagli esempi d'Antiochia e di Roma, non ci permette di supporre che più della ventesima parte de' sudditi dell'Impero si fosse arrolata sotto l'insegna della Croce, prima dell'importante conversione di Costantino. Ma i loro abiti di fede, di unione e di zelo, parevano moltiplicare il lor numero, e le medesime cagioni, che contribuirono al futuro loro accrescimento, servirono anche a render più apparente e più formidabile la lor forza attuale.
La costituzione della civil società è tale, che mentre pochi son distinti per ricchezze, onori, e cognizioni, il grosso del popolo è condannato all'oscurità, alla povertà e all'ignoranza. La Religion cristiana, che dirigevasi a tutta la specie umana, dovè per conseguenza raccogliere un molto maggior numero di proseliti da' ceti più bassi degli uomini che da' superiori. Si è convertita questa innocente e natural circostanza in una imputazione ben odiosa, che sembra esser meno vigorosamente negata dagli apologisti, di quel che sia sostenuta da' nemici della Fede, cioè che la nuova setta de' Cristiani era quasi del tutto composta della feccia del popolo, di contadini ed artisti, di fanciulli e di donne, di mendichi e di schiavi, gli ultimi de' quali potevan qualche volta introdurre i Missionari nelle nobili e ricche famiglie, alle quali appartenevano. Questi oscuri maestri (tal era l'accusa della malizia e dell'infedeltà) sono altrettanto muti in pubblico, quanto loquaci e dommatici in privato. Mentr'essi cautamente sfuggono il pericoloso incontro de' filosofi, si mescolano con la rozza ed ignorante turba, e vanno insinuandosi in quegli spiriti, che l'età, il sesso e l'educazione ha meglio disposti a ricevere la impressione de' superstiziosi terrori[623].
Questa svantaggiosa pittura, quantunque non affatto priva di una debole somiglianza, fa conoscere coll'oscuro suo colorito e con le contraffatte figure un pennello nemico. A misura che l'umile fede di Cristo diffondevasi pel mondo, fu abbracciata da varie persone, che si conciliavano qualche riguardo pei vantaggi della natura e della fortuna. Aristide, che presentò un'eloquente apologia all'Imperatore Adriano, era un filosofo d'Atene[624]. Giustino martire avea cercato la cognizione di Dio nelle scuole di Zenone, di Aristotile, di Pitagora e di Platone, avanti che fortunatamente gli si accostasse un vecchio, o piuttosto un Angelo, che rivolse l'attenzione di lui allo studio de' Profeti Giudei[625]. Clemente Alessandrino aveva fatto acquisto di una molto estesa letteratura nella Greca lingua, e Tertulliano nella Latina. Giulio Affricano ed Origene, possedevano una parte assai considerabile del sapere de' loro tempi, e quantunque lo stile di Cipriano sia molto diverso da quello di Lattanzio, se ne può quasi dedurre che ambidue quegli scrittori fossero maestri pubblici di rettorica. Finalmente anche lo studio della filosofia s'introdusse fra' Cristiani, ma non produceva sempre i più salutevoli effetti; la scienza dava spesse volte origine all'eresia, come alla devozione, e può con ugual proprietà applicarsi alle varie Sette, che resisterono a' successori degli Apostoli, la descrizione, con cui si rappresentarono i seguaci d Artemone. «Presumono d'alterar le sante Scritture, di abbandonare l'antica regola di fede, e di formare le loro opinioni secondo i sottili precetti della logica. Trascurano la scienza della Chiesa per lo studio della geometria e perdono di vista il cielo, mentre s'impiegano a misurare la terra. Hanno continuamente in mano Euclide. Aristotele e Teofrasto sono gli oggetti della lor ammirazione; e dimostrano una straordinaria venerazione per le opere di Galeno. I loro errori son derivati dall'abuso delle arti e delle scienze degl'Infedeli, ed essi corrompono la semplicità del Vangelo co' raffinamenti della umana ragione[626].»
Neppure si può asserire con verità, che sempre i vantaggi della nascita e della fortuna separati fossero dalla professione del Cristianesimo. Molti cittadini Romani furon condotti avanti al tribunale di Plinio, ed egli presto scuoprì che un gran numero di persone di ogni ordine avevano abbandonato nella Bitinia la religione de' lor maggiori[627]. Alla non sospetta testimonianza di lui può in questo caso prestarsi più fede, che all'audace disfida di Tertulliano, allorchè si rivolge al timore non meno che all'umanità del Proconsole dell'Affrica, assicurandolo, che se persiste nelle sue crudeli intenzioni, dovrà decimar Cartagine, e che troverà fra' colpevoli molti del suo proprio grado, Senatori e Matrone dell'estrazione più nobile, e gli amici o i parenti de' suoi più intimi amici[628]. Sembra però che circa quarant'anni dopo, l'Imperator Valeriano fosse persuaso della verità di quest'asserzione, mentre in uno de' suoi rescritti evidentemente suppone, che Senatori, Cavalieri Romani e Dame di qualità fossero impegnate nella setta Cristiana[629]. La Chiesa continuava sempre ad accrescere il proprio esterno splendore, a misura che andava perdendo l'interna sua purità, e nel Regno di Diocleziano, il Palazzo, le Corti di Giustizia, ed anche l'esercito ricettavano una moltitudine di Cristiani, che procuravan di conciliar gl'interessi della vita presente con quelli della futura.
Contuttocciò tali eccezioni o son troppo poche in numero o troppo recenti in tempo per togliere intieramente di mezzo l'imputazione d'ignoranza e d'oscurità, che tanto arrogantemente fa attribuita a' primi proseliti del Cristianesimo. Invece di servirci per nostra difesa delle finzioni de' passati secoli, sarà più prudente partito quello di convenire in soggetto d'edificazione ciò che diede motivo di scandalo. Le serie nostre considerazioni ci suggeriranno, che dalla Previdenza si scelsero gli stessi Apostoli fra' pescatori della Galilea, e che quanto più abbassiamo la temporal condizione de' primi Cristiani, tanto più avrem ragione di ammirarne il merito ed il buon successo. A noi tocca di rammentarci accuratamente, che il Regno de' Cieli fu promesso al povero di spirito, e che gli animi afflitti dalla calamità e dal disprezzo degli uomini, lietamente ascoltano la divina promessa della futura felicità, mentre i fortunati vivono soddisfatti col possesso de' beni di questo mondo, ed i sapienti malamente impiegano in dubbi e dispute la vana superiorità della loro ragione e della loro dottrina.
Abbiam bisogno di tali riflessioni per consolarci della perdita di vari illustri soggetti, che a' nostri occhi parrebbe, che fossero stati degnissimi del dono celeste. I nomi di Seneca, de' due Plinj, il Vecchio ed il Giovane, di Tacito, di Plutarco, di Galeno, dello schiavo Epiteto, e dell'Imperatore Marc'Antonino adornano il secolo, in cui fiorirono, ed esaltano la dignità della natura umana. Ciascheduno di loro riempì di gloria la respettiva sua condizione, sì nella vita contemplativa che nell'operativa; migliorarono essi collo studio il lor sublime intelletto, purgarono colla filosofia le loro menti da' pregiudizi della superstizion popolare; e passarono i loro giorni nella ricerca della verità e nella pratica della virtù. Eppure tutti questi saggi (è questo un oggetto di sorpresa non meno che di dolore) perderono di vista, o rigettarono la perfezione del sistema Cristiano. Il loro linguaggio od il loro silenzio discuopre ugualmente il disprezzo che avevano per la crescente setta, che ne' loro tempi erasi diffusa per l'Impero Romano. Quelli fra loro, che hanno la condiscendenza di rammentare i Cristiani, li consideran solo come ostinati e perversi entusiasti, ch'esigevano una tacita sommissione alle lor misteriose dottrine, senza esser capaci di produrre un solo argomento, che potesse trarre a se l'attenzione degli uomini dotti e sensati[630].
Può dubitarsi almeno, se alcuno di questi filosofi leggesse le apologie, che i primitivi Cristiani pubblicaron più volte in difesa di se medesimi, e della lor religione; ma v'è molto da dolersi che simil causa non fosse difesa da più abili avvocati. Espongono essi con superfluo spirito ed eloquenza la stravaganza del Politeismo; muovono la nostra compassione con esporre l'innocenza ed i patimenti de' loro ingiuriati fratelli; ma quando voglion dimostrare l'origine divina del Cristianesimo, insistono molto più fortemente sulle predizioni che l'annunciarono, che su' miracoli che accompagnarono la venuta del Messia. Il favorito loro argomento potea servire a edificare un Cristiano, o a convertire un Giudeo, mentre ambidue riconoscono l'autorità di quelle profezie, e son obbligati ad investigarne con devota riverenza il senso ed il compimento. Ma questa maniera di persuadere perde molto del suo peso e della sua forza, quando si dirige a quelli, che nè intendono nè rispettano la legge Mosaica ed il profetico stile[631]. Nelle imperite mani di Giustino e de' successivi Apologisti, la sublime intelligenza degli oracoli Ebrei svanisce in lontane figure, in affettati concetti, ed in fredde allegorie; e la loro autenticità rendevasi anche sospetta ad un Gentile non illuminato per la mescolanza di pie falsità, che sotto i nomi di Orfeo, di Ermete e delle Sibille[632] gli si volevan far credere di ugual valore, che le genuine inspirazioni del Cielo. I sofismi, e le frodi, che si usano in difesa della Rivelazione, ci rammentano bene spesso la poco giudiziosa condotta di que' poeti, che caricano i loro invulnerabili Eroi con un peso inutile d'incomode o fragili armi.
Ma come potrem noi scusare la supina disattenzione de' Pagani e Filosofi a quelle prove, che si presentavano dalla mano dell'Onnipotenza, non alla loro ragione, ma a' loro sensi? Durante la vita di Cristo, degli Apostoli e de' primi loro Discepoli, la dottrina, che predicavano, veniva confermata da innumerabili prodigi. Camminavano gli storpiati, vedevano i ciechi, eran sanati gl'infermi, risorgevan i morti, eran cacciati i demonj, e continuamente si sospendevan le leggi della natura in favor della Chiesa. Ma i Savj della Grecia e di Roma volgevano altrove gli occhi dal tremendo spettacolo, e pare che attenti alle occupazioni ordinarie della vita e dello studio, ignorassero qualunque alterazione accadesse nel governo del mondo sì morale che fisico. Sotto il regno di Tiberio tutta la Terra[633], o almeno una celebre Provincia del Romano Impero[634], si trovò involta in una naturale oscurità di tre ore. Anche questo fatto miracoloso, che avrebbe dovuto eccitar la maraviglia, la curiosità e la devozione dell'uman genere, passò senza che se ne facesse menzione in un secolo della scienza e della Istoria[635]. Esso accadde nel tempo che vivevan Seneca e Plinio il Vecchio, i quali debbono aver sentiti gl'immediati effetti, o ricevuta prestissimo notizia di quel prodigio. Ciascheduno di questi filosofi ha rammentato in una laboriosa opera tutti i grandi fenomeni della natura, terremoti, meteore, comete ed ecclissi, che l'instancabile curiosità loro potè raccogliere[636]. Ma tanto l'uno che l'altro han trascurato di far parola del più gran fenomeno, di cui l'occhio mortale sia stato mai testimonio dalla creazione del mondo. Plinio destinò un capitolo apposta per gli ecclissi di straordinaria natura e d'insolita durata[637]; ma si contenta solo di descrivere la singolar mancanza di luce, che seguì dopo la morte di Cesare, allorchè per la massima parte di un anno il disco solare comparve pallido e senza splendore. Questo tempo d'oscurità, che non può sicuramente paragonarsi con la non naturale oscurità della Passione, fu celebrato dalla maggior parte dei poeti[638] o degli Istorici di quel secolo memorabile[639].
FINE DEL VOLUME SECONDO.
INDICE
DEI CAPITOLI E DELLE MATERIE CHE SI CONTENGONO NEL SECONDO VOLUME
CAPITOLO XI. Regno di Claudio. Disfatta dei Goti. Vittorie, trionfo e morte di Aureliano.
A. D.
Aureolo invade l'Italia; è disfatto ed assediato in Milano pag. 6
268 Morte di Gallieno 7
Carattere, elevazione dell'imperatore Claudio 8
Morte di Aureolo 10
Clemenza e giustizia di Claudio 11
Esso intraprende la riforma dell'esercito 12
269 I Goti invadono l'impero 13
Angustie e costanza di Claudio 14
Vittoria riportata dal medesimo contro i Goti 14
270 Morte dell'imperatore Claudio, che raccomanda Aureliano per suo successore 16
Tentativo e caduta di Quintilio 17
Origine di Aureliano. Servigi da lui prestati 18
Regno fortunato di Aureliano 19
Severità di disciplina da esso mantenuta 19
Trattato conchiuso coi Goti 21
La Dacia abbandonata ai medesimi 22
Guerra Alemannica 23
Gli Alemanni invadono l'Italia 24
Vinti finalmente da Aureliano 24
271 Cerimonie superstiziose 27
Fortificazioni di Roma 28
Aureliano acquista all'Impero la Gallia, la Spagna, la Britannia, l'Egitto, la Siria e l'Asia Minore 30
Successione degli usurpatori nella Gallia 30
Regno e sconfitta di Tetrico 32
272 Carattere di Zenobia 33
Sua beltà e dottrina 34
Vendetta ch'ella fa del marito ucciso da Meonio 35
Aggiunge ai suoi regni l'Oriente e l'Egitto 36
Spedizione di Aureliano 37
Rotta data ai Palmireni nelle giornate di Antiochia e d'Emesa 38
Stato di Palmira 39
Assedio di questa città, operato da Aureliano 41
Resa della medesima e cattività di Zenobia 42
Condotta tenuta dipoi da questa regina 43
Ribellione mossa in Egitto da Fermo, e compressa da Aureliano 44
274 Trionfo di Aureliano 45
Clemenza di esso imperatore per riguardo a Tetrico ed a Zenobia 47
Fastosa pietà dello stesso principe 49
Ribellione sedata in Roma 50
Corretta l'alterazione delle monete e osservazioni a tale proposito 51
Atti crudeli esercitati dallo stesso Aureliano 53
Spedizione da esso impresa nell'Oriente 54
275 Sua morte dovuta ad un tradimento 54
CAPITOLO XII. Condotta dell'esercito e del senato dopo la morte di Aureliano. Regni di Tacito, di Probo, di Caro e dei suoi figli.
275 Contesa straordinaria fra l'esercito ed il senato intorno la scelta d'un imperatore 57
Pacifico interregno di otto mesi 58
Il console aduna il senato 58
Carattere del novello imperatore Tacito 59
Autorità del senato rilevata dal predetto imperatore 62
Gioia e confidenza nata ne' senatori 64
276 Tacito viene riconosciuto dall'esercito 64
Alani che invadono l'Asia, rispinti da Tacito 65
Morte di esso 66
Trono usurpato da Floriano, fratello del defunto 67
Morte dell'usurpatore dopo tre mesi 68
I discendenti di Tacito e di Floriano rimangono nell'oscurità 68
Carattere, innalzamento dell'imperatore Probo 69
Condotta rispettosa da esso tenuta verso il senato 70
277 Vittorie riportate da Probo contro i Barbari 72
La Gallia liberata dall'invasione dei Germani 73
Probo porta le armi nella Germania 75
Muraglia fabbricata dal Reno al Danubio 76
Probo incorpora i Barbari fra le milizie Romane 78
Ardita impresa de' Franchi 80
Ribellione di Saturnino nell'Oriente 81
Sollevazione di Bonoso e Proculo nella Gallia 82
281 Ingresso trionfale di Probo in Roma 83
Paralello tra la severa disciplina voluta da Aureliano e la più mite abbracciata da Probo 84
282 Morte di Probo 85
Elezione di Caro e carattere di questo imperatore 86
Autorità del senato perita con Probo 87
Caro batte i Sarmati e marcia in Oriente 88
283 Dà udienza agli ambasciatori Persiani 89
Vittorie e morte straordinaria di Caro 90
Carino e Numeriano figli di lui gli succedono 91
284 Vizi e sregolatezze di Carino 93
Splendore dei giochi Romani ordinati da Carino 95
Spettacoli di Roma 95
Anfiteatro 97
Numeriano ritorna col suo esercito dalla Persia 101
Morte di Numeriano 102
Elezione di Diocleziano 102
Sconfitta e morte di Carino 104
CAPITOLO XIII. Regno di Diocleziano e de' suoi tre colleghi, Massimiano, Galerio e Costanzo. Ristabilimento generale dell'ordine e della tranquillità. Guerra Persiana; vittoria e trionfo. Nuova forma di governo. Rinunzia e ritiro di Diocleziano e di Massimiano.
284 Innalzamento e carattere di Diocleziano 106
Guerra civile da lui estinta sul campo della battaglia. Atti di clemenza esercitati 107
Associazione de' due Cesari, Galerio e Costanzo 110
Impero scompartito fra quattro principi. Loro concordia 111
Stato dei contadini della Gallia 113
Loro ribellione 114
Ribellione di Carausio nella Britannia 115
Importanza della Britannia 117
Carausio riconosciuto dagl'imperatori sovrano di quella contrada 118
Morte di Carausio 119
286 Costanzo ricupera la Britannia 120
In qual modo le frontiere Britanniche fossero difese 120
Dissensioni dei Barbari 122
Condotta tenuta verso di loro dagl'imperatori 122
Diocleziano imita Probo nel distribuire i Barbari vinti tra i Provinciali 123
Guerra d'Affrica e dell'Egitto 124
Condotta tenuta in Egitto da Diocleziano 125
Diocleziano sopprime tutti i libri d'Alchimia 127
Novità e progressi di quest'arte 128
Guerra Persiana 129
Tiridate Armeno, e geste di sua gioventù 129
Suoi vincoli con Licinio 129
Esso ritoglie l'Armenia ai Persiani 130
Stato in cui trovavasi questo paese 130
Sollevazione del popolo e de' nobili 131
Storia di Mamgo 132
L'Armenia nuovamente occupata dai Persi 133
296 Guerra fra i Persiani ed i Romani 134
Sconfitta sofferta da Galerio 135
Ricevimento che gli fa Diocleziano 136
Vittoria riportata dipoi dallo stesso Galerio 136
Condotta tenuta dal vincitore verso la famiglia del debellato Narsete 137
Negoziazioni di pace 138
Discorso tenuto dall'ambasciatore persiano 139
Risposta di Galerio 139
Moderazione di Diocleziano 140
Conclusione della pace 142
Condizioni della medesima 142
L'Arasse assegnato al confine ai due imperi 142
Cessione di cinque province di là dal Tigri 142
Tiridate tornato al trono d'Armenia 143
Stato dell'Iberia 144
303 Trionfo di Diocleziano e Massimiano 145
Lunga assenza degl'imperatori da Roma 146
Loro residenza in Milano 147
Indi in Nicomedia 148
Abbassamento di Roma e del Senato 149
Nuovi corpi di guardie nominati Gioviani ed Erculiani 150
Magistrature civili omesse 150
Dignità e titoli imperiali 151
Diocleziano cinge il diadema ed introduce il cerimoniale persiano 153
Nuovo sistema di Governo. Due Augusti e due Cesari 156
Aumento delle tasse 156
Rinunzia di Diocleziano 158
Paralello fra Diocleziano e Carlo V 158
304 Lunga malattia di Diocleziano 159
Rinunzia di Massimiano contemporanea a quella di Diocleziano 161
Prudenza di Diocleziano 161
305 Si ritira in Salona 161
Filosofia di cui diede prove 162
Descrizione di Salona e del paese circonvicino 164
Palazzo di Diocleziano 165
Decadenza dell'arti 167
Stato in cui vennero le Lettere 168
Nuovi Platonici 169
CAPITOLO XIV. Turbolenze dopo la rinunzia di Diocleziano. Morte di Costanzo. Innalzamento di Costantino e di Massenzio. Sei Imperatori ad un tempo. Morte di Massimiano e di Galerio. Vittorie di Costantino contro Massenzio e Licinio. Riunione dell'Impero sotto l'autorità di Costantino.
205-323 Periodo di guerre civili e disordini 171
Carattere di Costanzo e circostanze in cui si trova 172
Carattere di Galerio 173
I due Cesari, Severo e Massimino 174
Ambizione di Galerio sconcertata da due rivoluzioni 175
Nascita, educazione e fuga di Costantino 175
Viene riconosciuto de Galerio, che conferisce a lui il titolo di Cesare, e quello di Augusto a Severo 181
Veri motivi della trasportata sede dell'Impero 182
Timori di nuove tasse nati nei Romani 183
306 Massenzio dichiarato imperatore in Roma 184
Massimiano riveste la porpora 185
Sconfitta e morte di Severo 186
Galerio invade l'Italia 188
Sua ritirata 189
307 Licinio innalzato alla dignità di Augusto 191
Massimino si arroga titolo eguale 192
308 Sei imperatori 192
Sventure di Massimiano 193
310 Sua morte 195
311 Morte di Galerio 197
Massimino e Licinio si dividono i dominj di Galerio 198
306-312 Governo di Costantino nella Gallia 199
Tirannide di Massenzio nell'Affrica e nell'Italia 199
Guerra civile tra Costantino e Massenzio 202
Preparamenti di guerra da entrambe le parti 203
Costantino passa le Alpi 206
Battaglia di Torino 207
Assedio e battaglia di Verona 209
Indolenza e timori di Massenzio 211
Vittoria di Costantino dinanzi a Roma 213
Ricevimento avuto da Costantino e condotta da lui tenuta 215
313 Si collega con Licinio 219
Guerra fra Massimino e Licinio 221
Sconfitta sofferta da Massimino 221
Muore di lì a quattro mesi 221
Crudeltà di Licinio 222
Sventure dell'imperatrice Valeria e della madre di questa 222
Contesa fra Costantino e Licinio 226
314 Prima guerra civile fra i medesimi 227
Giornata di Cibali 227
Battaglia di Mardia 229
Trattato di pace 230
315-325 Pace generale e leggi di Costantino 231
322 Guerra Gotica 235
323 Seconda guerra civile fra Costantino e Licinio 236
Giornata d'Adrianopoli 239
Assedio di Bisanzio e vittoria navale di Crispo 240
Sommissione e morte di Licinio 243
324 Riunione dell'Impero 244
CAPITOLO XV. Progresso della Religione Cristiana e sentimenti, costumi, numero e condizione de' primitivi fedeli.
Importanza di tale ricerca 245
Cinque cagioni dell'accrescimento del Cristianesimo 247
I. Intolleranza dei primitivi Cristiani provenuta dalla religione Giudaica 247
Rapidità dei progressi della religione Ebraica 247
Più opportuna alla difesa che alla conquista 251
Zelo del Cristianesimo più liberale 253
Ostinazione degli Ebrei convertiti, e ragioni della medesima 254
Chiesa Nazarena di Gerusalemme 256
Ebioniti 259
Gnostici 261
Loro Sette, progressi, ed effetti che produssero nel Mondo 264
Demonj considerati dall'Antichità siccome Dei 266
Abborrimento in cui i Cristiani ebbero l'idolatria 268
Esteso anche agli uffizj e pratiche del civil vivere 268
Alle arti 270
Alle pubbliche feste 271
Zelo dei medesimi 272
II. La dottrina dell'immortalità dell'anima 272
Opinioni che ne portarono i filosofi 272
I Pagani della Grecia e di Roma 275
I Giudei 276
I Cristiani 278
Prossima fine del mondo 279
Dottrina de' Millenarj 279
Pronosticato incendio di Roma e del mondo 282
Tanti timori utili ai progressi del Cristianesimo 283
III. Forza de' miracoli ne' primi tempi della Chiesa 286
Dubbi mossi sulla loro veracità 289
Presente incertezza nel determinare l'epoca de' miracoli 291
Utilità de' primi miracoli 291
IV. Virtù de' primitivi Cristiani 293
Pentimento delle colpe 293
Cura che i primi Cristiani ebbero della propria fama 295
Morale de' Padri 296
Amor del dilettarsi, e dell'operare insiti nella umana natura 297
Gli antichi Cristiani avversi al piacere ed alla voluttà 298
Opinioni de' medesimi circa la castità ed il matrimonio 299
Loro avversione agli affari della guerra e del governo 302
V. Solerzia dei Cristiani, tutta intesa al governo della Chiesa 304
Primiera loro libertà ed uguaglianza 306
Istituzione de' Vescovi come presidenti del collegio della Chiesa 307
Concilj Provinciali 310
Unione della Chiesa 311
Progresso dell'autorità episcopale 312
Preminenza delle chiese metropolitane 313
Ambizione de' romani pontefici 315
Oblazioni e rendite della Chiesa 317
Distribuzione delle rendite 321
Scomuniche 323
Penitenza pubblica 324
Dignità del governo episcopale 326
Recapitolazione delle cinque cagioni 327
Debolezza del politeismo 329
Lo scetticismo del mondo Pagano riuscì favorevole alla nuova religione 329
Come pure la pace ed unione dell'impero Romano 331
Prospetto istorico de' progressi del Cristianesimo 332
Oriente 332
Chiesa d'Antiochia 334
Egitto 336
Roma 337
Affrica e province occidentali 339
Paesi posti oltre i limiti dell'imperio romano 341
Generale proporzione de' Cristiani ai Pagani 344
Se i primi Cristiani fossero ignoranti e di vil condizione 344
Alcune eccezioni rispetto alla dottrina 345
Rispetto alla condizione ed alle ricchezze 346
Sprezzo che ebbero pel Cristianesimo alcuni uomini, per altra parte celebri, del primo e secondo secolo 348
Profezie 349
Miracoli 351
Generale silenzio intorno le tenebre della Passione 352
FINE DELL'INDICE.
NOTE:
1. Pons Aureoli, tredici miglia distante da Bergamo, e trentadue da Milano. Vedi Cluver. Italia antic. tom. I. p. 245. Nel 1703 seguì vicino a questo luogo l'ostinata battaglia di Cassano tra i Francesi e gli Austriaci. L'eccellente relazione del Cavalier Folard, che vi era presente, dà una distintissima idea del terreno. Vedi il Polibio di Folard, tom. III, p. 223, 248.
2. Sulla morte di Gallieno vedi Trebellio Pollione nella Stor. Aug. p. 181. Zosimo, l. 1. p. 37. Zonara, l. XII, p. 634. Eutropio, IX. 11. Aurelio Vittore in Epitom. Vittore in Caesarib. Io gli ho confrontati, ed ho fatt'uso di tutti, ma ho principalmente seguitato Aurelio Vittore, il quale par che abbia avute le memorie migliori.
3. Alcuni molto capricciosamente lo supponevan bastardo del più giovane dei Gordiani. Altri profittavano della Provincia della Dardania per dedurre l'origine di lui da Dardano, e dagli antichi re di Troia.
4. Notoria, dispaccio periodico e ministeriale, che gl'Imperatori ricevevano dai Frumentarj o sieno Agenti sparsi per le Province. Parleremo di questi più sotto.
5. Stor. Aug. p. 208. Gallieno descrive l'argenteria, le vesti ec. come amatore e intendente di queste magnifiche bagatelle.
6. Giuliano (Orazione I. p. 6) afferma che Claudio acquistò l'Impero in una maniera legittima ed anzi sacra. Ma noi possiam diffidare della parzialità di un congiunto.
7. Stor. Aug. p. 203. Sonovi alcune piccole differenze riguardo alle circostanze dell'ultima disfatta e morte di Aureolo.
8. Aurelio Vittore in Gallieno. Il popolo altamente chiedeva la condanna di Gallieno. Il Senato decretò che i suoi parenti e domestici fossero precipitati dalle scale Gemonie. Ad un colpevol ministro delle pubbliche entrate furon cavati gli occhi, mentre era sotto l'esame.
9. Zonara l. XII. p. 137.
10. Zonara in questa occasione fa menzione di Postumo; ma i registri del Senato (Stor. Aug. p. 203) provano che Tetrico era già Imperatore delle Province occidentali.
11. La Storia Augusta fa menzione del minor numero e Zonara del maggiore; la vivace fantasia di Montesquieu l'indusse a preferire quest'ultimo.
12. Trebell. Pollione nella Stor. Aug. p. 204.
13. Stor. Aug, in Claud. Aurelian. e Prob. Zosimo, l. 1. p. 38, 42 Zonara, l. XII. p. 638. Aurel. Vittore in Epitom. Vittor. Junior. in Caesarib. Eutrop. IX 11. Euseb. in Chron.
14. Secondo Zonara (l. XII. p. 638.) Claudio avanti la sua morte lo rivestì della porpora; ma questo fatto singolare vien piuttosto contraddetto che confermato dagli Scrittori.
15. Vedi la vita di Claudio scritta da Pollione, e le orazion di Mamertino, Eumenio e Giuliano. Vedi parimente i Cesari di Giuliano p. 313. In Giuliano non era adulazione, ma superstizione e vanità.
16. Zosimo, l. I p. 42. Pollione (Stor. Aug. p. 207) gli accorda alcune virtù, e dice che fu, come Pertinace, ucciso dagli sfrenati soldati. Secondo Dexippo, egli morì di malattia.
17. Teoclio (come vien citato nella Stor. Aug. p. 211) afferma che in un giorno egli uccise con le sue proprie mani quarantotto Sarmati, ed in diverse susseguenti battaglie novecento cinquanta. Questo eroico valore fu ammirato dai soldati, e celebrato nelle rozze loro canzoni, l'intercalare delle quali era mille, mille, mille, occidit.
18. Acolio (appresso la Stor. Aug. p. 213) descrive la cerimonia della adozione come fu celebrata in Bisanzio alla presenza dell'Imperatore e de' suoi principali Ministri.
19. Stor. Aug. p. 211. Questa laconica lettera è veramente lavoro di un soldato; è piena di frasi e di voci militari, alcune delle quali non possono intendersi senza difficoltà. Ferramenta Samiata sono bene spiegati da Salmasio. La prima di queste voci significa ogni arme offensiva, ed è opposta ad Arma, arme difensiva. L'ultimo significa bene affilate e bene appuntate.
20. Zosimo l. I. p. 45.
21. Dexippo (nell' Excerpta Legat. p. 12) riferisce tutto il trattato sotto il nome dei Vandali. Aureliano maritò una delle Dame Gote al suo Generale Borioso, ch'era capace di bevere coi Goti e scoprire i loro segreti. Stor. Aug. p. 147.
22. Stor. Aug. p. 222. Eutrop. IX. 15. Sesto Rufo. c. 9 Lattanzio de mortibus Persecutorum, c. 9.
23. I Valacchi conservano ancora molte tracce della lingua Latina, e si sono sempre gloriati di discendere dai Romani. Sono circondati dai Barbari, ma non mescolati con essi. Vedi una Memoria del Sig. D'Anville sulla Dacia antica nell'Accademia delle iscrizioni, tom. XXX.
24. Vedi il primo Capitolo di Giornandes. I Vandali però (c. 22) conservarono una certa indipendenza tra i fiumi Marisia e Crissia (Maros e Keres) che sboccano nel Tibisco.
25. Dexippo, p. 7, 22. Zosimo l. I. p. 43. Vopisco in Aureliano nella Stor. Aug. Per quanto questi Storici differiscano nei nomi (Alemanni, Jutungi e Marcomanni) egli è evidente che indicano la stessa nazione e la stessa guerra, ma conviene usar molta cura nel conciliarli e spiegarli.
26. Cantoclaro, con la solita sua accuratezza, preferisce di tradurre trecentomila: la sua versione ripugna ugualmente al senso e alla grammatica.
27. Possiamo osservare come un esempio di cattivo gusto, che Dexippo applica all'infanteria leggera degli Alemanni i termini tecnici, propri solamente della Greca falange.
28. In Dexippo si legge adesso Rhodanus. Il Sig. di Valois molto giudiziosamente cambia la parola in Eridanus.
29. L'Imperatore Claudio era certamente in quel numero; ma non sappiamo fin dove si estendesse questo segno di rispetto: se fino a Cesare ed Augusto, deve aver prodotto un superbo formidabile spettacolo quella lunga serie di padroni del mondo.
30. Vopisco nella Stor. Aug. p. 210.
31. Dexippo mette in lor bocca una prolissa orazione, degna di un Greco sofista.
32. Stor. Aug. p. 215.
33. Dexippo p. 12.
34. Vittore Juniore in Aureliano.
35. Vopisco nelle Stor. Aug. p. 216.
36. Il piccol fiume o piuttosto torrente del Metauro, vicino a Fano, è divenuto immortale per uno Storico, quale è Livio, ed un poeta, quale è Orazio.
37. Se ne fa menzione in una iscrizione trovata in Pesaro. Vedi Gruter. CCLXXVI. 3.
38. Alcun penserebbe, dic'egli, che voi foste radunati in una Chiesa Cristiana, e non nel tempio di tutti gli Dei.
39. Vopisco nella Stor. Aug. p. 215, 216 fa una lunga descrizione di queste cerimonie, estratta dai Registri del Senato.
40. Plinio Stor. nat. III. 5. Per confermare la nostra idea, è da osservarsi, che per lungo tempo il monte Celio fu un bosco di quercie, ed il monte Viminale fu coperto di salci; che nel quarto secolo l'Aventino era un disabitato e solitario ritiro; che fino al tempo di Augusto l'Esquilino rimase un insalubre cimitero; e che le numerose ineguaglianze, osservate dagli antichi nel Quirinale, provano sufficientemente, che non era coperto di fabbriche. Dei Sette Colli, il Capitolino ed il Palatino solamente, con la valli adiacenti, furono la primiera abitazione del popolo Romano. Ma questo soggetto richiederebbe una dissertazione.
41. Exspatiantia tecta multas addidere urbes, è l'espressione di Plinio.
42. Stor. Aug. p. 222. Lipsio, ed Isacco Vossio hanno di buona voglia adottata questa misura.
43. Ved. Nardini Roma antica, l. I. c. 8.
44. Tacito Stor. IV. 23.
45. Intorno alla muraglia di Aureliano, vedi Vopisco nella Stor. Aug. p. 216, 222. Zosimo, l. I. p. 43. Eutrop. IX 15. Aurel. Vittore in Aureliano, Vittore Juniore in Aureliano, Euseb. Hieronym. e Idazio in Chronic.
46. Il suo competitore fu Lolliano o Eliano, se veramente questi due nomi indicano la stessa persona. Ved. Tillemont, tom. III. p. 1177.
47. Il carattere che fa di questo Principe Giulio Ateriano (appresso la Stor. Aug. p. 187) merita di esser trascritto, giacchè sembra bello ed imparziale: «Victorino qui post Junium Posthumium Gallias rexit, neminem existimo praeferendum; non in virtute Traianum; non Antoninum in clementia; non in gravitate Nervam; non in gubernando aerario Vespasianum, non in censura totius vitae ac severitate militari Pertinacum vel Severum. Sed omnia haec libido et cupiditas voluptatis mulierariae sic perdidit, ut nemo audeat virtute ejus in litteras mittere, quem constat omnium judicio meruisse puniri».
48. Egli rapì la moglie di Attiziano, attuario, o agente dell'esercito. Stor. Aug. p. 186. Aurel. Vittore in Aureliano.
49. Pollione assegna ad essa un articolo fra i trenta Tiranni. Stor. Aug. p. 206.
50. Pollione nella Stor. Aug. p. 196. Vopisco nella Stor. Aug. p. 220. I due Vittori nelle vite di Gallieno e di Aureliano; Eutropio, IX. 13. Euseb. in Chron. Di tutti questi Scrittori solamente i due ultimi (ma con gran probabilità) pongono la caduta di Tetrico innanzi a quella di Zenobia. Il Sig. di Boze (nell'Accademia delle Iscrizioni tom. XXX) non vorrebbe, e Tillemont (tom. III. p. 1189) non ardisce seguitarli. Io sono stato più sincero dell'uno, e più ardito dell'altro.
51. Vittore Juniore in Aurel. Eumenio nomina queste truppe Batavicae; alcuni critici senza alcuna ragione vorrebbero cambiar quella voce in Bagaudicae.
52. Eumen. in vel. Panegir. IV. 8.
53. Vopisco nella Stor. Aug. p. 246. Autun non fu ristaurata fino al regno di Diocleziano: Ved. Eumenio de restaurandis scholis.
54. Quasi tutto quel che si dice dei costumi di Odenato e di Zenobia, è preso dalle loro vite nella Stor. Aug. di Trebellio Pollione. Vedi p. 192, 198.
55. Essa non riceveva mai gli abbracciamenti del suo marito che per l'oggetto di aver prole. Se le sue speranze restavan deluse, reiterava il tentativo nel susseguente mese.
56. Stor. Aug. p. 192, 193. Zosimo l. I. p. 36. Zonara, l. XII. p. 633. L'ultimo è chiaro e probabile; sono gli altri confusi e inconsistenti. Il testo di Sincello, se non è coretto, è assolutamente inintelligibile.
57. Odenato e Zenobia spesso gli mandavano doni di gemme e gioielli, scelte tra le spoglie del nemico, ed esso li riceveva con infinito piacere.
58. Sono stati promossi alcuni ingiustissimi sospetti sopra Zenobia, come se stata fosse complice dell'uccisione del marito.
59. Stor. Aug. p. 180, 181.
60. Vedi nella Stor. Aug. p. 198 la testimonianza che rende Aureliano al di lei merito; e per la conquista dell'Egitto Zosimo l. I, p. 39, 40.
61. Timolao, Erenniano e Vaballato. Si suppone che i due primi fosser già morti avanti la guerra. Aureliano concesse all'ultimo di questi una piccola Provincia dell'Armenia col titolo di Re. Esistono tuttora diverse medaglie di lui. Vedi Tillemont, tom. III. p. 1190.
62. Zosimo l. I, p. 44.
63. Vopisco (nella Stor. Aug. p. 217) ci dà una lettera autentica, ed una dubbia visione di Aureliano. Apollonio di Tiana era nato quasi contemporaneamente a Gesù Cristo. La vita del primo vien riferita dai suoi discepoli in un modo tanto favoloso, che non si può conoscere se fosse un savio, un impostore, od un fanatico.
64. Zosimo, l. I. p. 46.
65. In un luogo chiamato Immoe, Eutropio, Sesto Ruffo e S. Girolamo fanno solamente menzione di questa prima battaglia.
66. Vopisco nella Stor. Aug. p. 217 fa solamente menzione della seconda.
67. Zosimo l. I. p. 44, 48. La sua descrizione delle due battaglie è chiara e circostanziata.
68. Era 537 miglia distante da Seleucia, e dugentotre dalla più vicina costa della Siria, secondo la relazione di Plinio, che in poche parole (Stor. nat. V. 21) ne porge una eccellente descrizione di Palmira.
69. Alcuni viaggiatori Inglesi che partirono da Aleppo, scoprirono le rovine di Palmira verso il fine dell'ultimo secolo. La nostra curiosità è stata poi soddisfatta più splendidamente dai Signori Wood e Dawkins. Per la Storia di Palmira possiam consultare la magistrale dissertazione del Dottor Halley nelle Transazioni Filosofiche, compendio di Lowthorp. vol. III. p. 528.
70. Vopisco nella Stor. Aug. p. 218.
71. Da una incertissima Cronologia ho procurato di estrarre la data più probabile.
72. Stor. Aug. p. 218. Zosimo, l. I. p. 50. Benchè il cammello sia una grave bestia da soma, pure il dromedario, che è della stessa specie o di una specie affine, vien usato dai natii dell'Asia e dell'Affrica in tutte le occasioni che richieggono celerità. Affermano gli Arabi che il dromedario può far tanto cammino in un giorno, quanto ne fanno in otto o dieci giorni i loro cavalli più corridori. Vedi Buffon. Storia nat. tom. XI. p. 122, ed i Viaggi di Shaw, p. 167.
73. Pollione nella Stor. Aug. p. 299.
74. Vopisco nella Stor. Aug. p. 219. Zosimo, l. I. p. 51.
75. Stor. Aug. p. 219.
76. Vedi Vopisco nella Stor. Aug. p. 220, 242. Viene osservato, come esempio di lusso, ch'egli avea le finestre di vetro. Era famoso per la forza e per l'appetito, pel coraggio e per la destrezza. Dalla lettera di Aureliano si può giustamente inferire, che Fermo fu l'ultimo dei ribelli, e conseguentemente che Tetrico era già sottomesso.
77. Vedi il trionfo di Aureliano descritto da Vopisco. Egli riferisce le particolarità colla sua solita esattezza, ed in questa occasione sono fortunatamente interessanti. Stor. Aug. p. 220.
78. Fra le barbare nazioni, le donne hanno spesso combattuto ai fianchi dei loro mariti. Ma è quasi impossibile, che una società di Amazzoni sia mai esistita o nel vecchio o nel nuovo mondo.
79. L'uno delle braccae o calzoni era tuttavia considerato in Italia come una gallica e barbara moda. I Romani per altro vi si erano molto avvicinati. Il cingersi le gambe e cosce con fasce o strisce, si prendeva ai tempi di Pompeo e di Orazio, come una prova di malattia, o di effemminatezza. Nel secolo di Traiano l'uso di queste era limitato alle persone ricche e di lusso. Fu a poco a poco adottato dai più vili del popolo. Vedi una curiosa nota del Casaubono, ad Sveton. in August. c. 82.
80. Erano i primi, assai probabilmente; i secondi nelle medaglie di Aureliano non indicano (come giudica il dotto Cardinal Noris) che una vittoria orientale.
81. L'espressione di Calfurnio (Eglog. l. 50.) «Nullos ducet captiva triumphos» come applicata a Roma, contiene una manifestissima allusione e censura.
82. Vopisco nella Stor. Aug. p. 199. Hieronym. in Chron. Prosper. in Chron. Baronio suppone che Zenobio, vescovo di Firenze ai tempi di S. Ambrogio, fosse della famiglia di lei.
83. Vopisco nella Stor. Aug. p. 222. Eutropio, IX. 13. Vittore Juniore. Ma Pollione nella Stor. Aug. p. 196 dice che Tetrico fu fatto Censore di tutta l'Italia.
84. Stor. Aug. p. 197.
85. Vopisco nella Stor. Aug. 222. Zosimo l. I. p. 156. Egli vi collocò le immagini di Belo e del Sole, che portate avea da Palmira. Fu questo dedicato nel quarto anno del suo regno ( Euseb. in Chron. ), ma fu sicurissimamente cominciato dopo il suo avvenimento al trono.
86. Vedi nella Stor. Aug, p. 210. i presagi della fortuna di lui. La sua devozione al Sole apparisce nelle sue lettere, nelle sue medaglie, ed è riferita nei Cesari di Giuliano. Vedi Comment. di Spanemio, p. 109.
87. Vopisco nella Stor. Aug. p. 221.
88. Stor. Aug. p. 222. Aureliano nomina quei soldati, Hiberi, Riparienses, Castriari, et Dacisci.
89. Zosimo, l. I. p. 56. Eutropio IX. 14. Aurel. Vittore.
90. Stor. Aug. p. 223. Aurel. Vittore.
91. Infierì già prima del ritorno di Aureliano dall'Egitto. Vedi Vopisco, che cita una lettera originale. Stor. Aug. p. 244.
92. Vopisco nella Stor. Aug. p. 222. I due Vittori. Eutropio 9, 14. Zosimo (l. I. p. 43) fa menzione di soli tre Senatori, e pone la lor morte avanti la guerra d'Oriente.
93.
«Nulla catenati feralis pompa Senatus
Carnificum lassabit opus: nec carcere pleno
Infelix ruros numerabit curia Patres.»
Calfurn, Eclog. I. 60.
94. Secondo Vittore Juniore egli portò qualche volta il Diadema. Si legge sulle di lui medaglie Deus e Dominus.
95. Era questa osservazione di Diocleziano. Vedi Vopisco nella Stor. Aug. p. 224.
96. Vopisco nella Stor. Aug. p. 221. Zosimo l. I, p. 57. Eutrop. IX. 15. I due Vittori.
97. Vopisco Stor. Aug. p. 222. Aurelio Vittore fa menzione, di una formal deputazione fatta dalla truppe al Senato.
98. Vopisco, nostra principale autorità, scriveva in Roma solamente sedici anni dopo la morte di Aureliano; ed oltre alla recente notizia dei fatti, trae costantemente i suoi materiali dai giornali del Senato, e dagli scritti originali della libreria Ulpiana. Zosimo e Zonara compariscono così ignoranti di questo trattato, come lo erano generalmente della costituzione Romana.
99. Livio l. 17. Dionisio Alicarnas. l. II. p. 115. Plutarco in Numa, p. 60. Il primo di questi Scrittori riferisce la storia come un oratore, il secondo come un legista ed il terzo come un moralista, e niuno probabilmente senza qualche mescuglio di favola.
100. Vopisco (nella Stor. Aug. p. 227) lo chiama primae sententiae consularis, e subito dopo, Princeps Senatus. È naturale il supporre, che i Monarchi di Roma sdegnando quell'umil titolo, lo cedessero al più antico fra i Senatori.
101. L'unica obbiezione a questa genealogia è che lo Storico si nominava Cornelio, l'Imperatore Claudio. Ma sotto il basso Impero, i soprannomi erano estremamente vari ed incerti.
102. Zonara, l. XII, p. 637. La Cronica Alessandrina, per un facile errore, trasferisce quell'età ad Aureliano.
103. Nell'anno 273 egli fu Console ordinario, ma debbe essere stato suffetto molti anni avanti, e probabilmente sotto Valeriano.
104. Bis millies octingenties. Vopisco nella Stor. Aug. p. 229. Questa somma, secondo l'antica misura, equivaleva ad ottocento quarantamila libbre Romane di argento, ciascuna della valuta di sei zecchini. Ma nel secolo di Tacito il conio avea perduto molto nel peso e nella purità.
105. Dopo il suo avvenimento, ordinò che si facessero annualmente dieci copie dello Storico, e si collocassero nelle pubbliche librerie. Le librerie Romane sono da gran tempo perite, e la più stimabil parte di Tacito fu conservata in un solo MS. e scoperta in un Monastero della Vestfalia. Vedi Bayle, Dizionario. Art. Tacito, e Lipsio ad Annal. II. 9.
106. Vopisco nella Stor. Aug. p. 227.
107. Stor. Aug. p. 228. Tacito indirizzandosi ai Pretoriani, li nominava sanctissimi milites, ed il popolo, sacratissimi Quirites.
108. Nelle sue manumissioni non eccedè mai il numero di cento, come limitato dalla legge Caninia promulgata sotto Augusto, e finalmente abolita da Giustiniano. Vedi Casaubono ad locum Vopisci.
109. Vedi le vita di Tacito, di Floriano, e di Probo nella Stor. Aug. Possiamo assicurarci che tutto ciò che diede il Soldato, lo avea già dato il Senatore.
110. Vopisco nella Stor. Aug. p. 236: il passo è chiarissimo, ma Casaubono e Salmasio vorrebbero correggerlo.
111. Vopisco nella Stor. Aug. p. 230, 232, 233. I Senatori celebrarono quel felice ristabilimento con ecatombi e con pubbliche allegrezze.
112. Stor. Aug. p. 228.
113. Vopisco nella Stor. Aug. p. 230. Zosimo l. I. p. 57. Zonara, l. XII. p. 637. Due passi della vita di Probo (p. 236 238.) mi persuadono che questi Sciti, invasori del Ponto, fossero Alani. Se dar possiam fede a Zosimo (l. I. 58.) Floriano li perseguitò fino al Bosforo Cimmerio. Ma egli ebbe appena tempo per una spedizione tanto lunga e difficile.
114. Eutropio ed Aurelio Vittore dicon solamente ch'egli morì. Vittore Giuniore aggiunge, ch'egli morì di febbre. Zosimo e Zonara affermano, ch'egli fu ucciso dai soldati. Vopisco riferisce le due relazioni, e sembra incerto. Sono per altro facilmente conciliabili queste diverse opinioni.
115. Secondo i due Vittori egli regnò precisamente dugento giorni.
116. Stor. Aug. 231. Zosimo, l. I. p. 58, 59. Zonara, l. XII. p. 637. Aurelio Vittore dice che Probo assunse l'Impero nell'Illirico; opinione la quale (benchè adottata da un uomo dottissimo) getterebbe una insuperabile confusione in quel periodo di storia.
117. Stor. Aug. p. 229.
118. Egli dovea inviare dei Giudici ai Parti, ai Persiani, ed ai Sarmati, un Presidente alla Taprobana, ed un Proconsole nell'Isola Romana, supposta dal Casaubono e da Salmasio essere la Britannia. Una storia quale è la mia (dice Vopisco con giusta modestia) non sussisterà mille anni per potere esporre o giustificare la predizione.
119. Per la vita privata di Probo, vedi Vopisco nella Stor. Aug. p. 234, 237.
120. Secondo la Cronaca Alessandrina egli era nell'età di cinquant'anni quando morì.
121. La lettera era indirizzata al Prefetto del Pretorio, il quale (supposta la di lui buona condotta) egli promise di mantenere nell'importante sua carica. Vedi Stor. Aug. p. 237.
122. Vopisco nella Stor. Aug. p. 237. La data della lettera è certamente erronea. In vece di Non. Februar. si può leggere Non. Augusti.
123. Stor. Aug. p. 238. È cosa strana che il Senato trattasse Probo men favorevolmente di Marco Antonino. Avea quel Principe ricevuto, anche prima della morte di Pio, il Jus quintae relationis. Vedi Capitolin. nella Stor. Aug. p. 24.
124. Vedi la rispettosa lettera di Probo al Senato dopo le sue vittorie Germaniche Stor. Aug. p. 239.
125. La data e la durata del Regno di Probo sono esattamente fissate dal Cardinal Noris nella sua dotta opera, De Epochis Siro-Macedonum, p. 96, 105. Un passo di Eusebio congiunge il secondo anno di Probo con le Ere di diverse città della Siria.
126. Vopisco nella Stor. Aug. p. 239.
127. Zosimo (l. I, p. 62-65) racconta una lunghissima e frivolissima istoria di Licio, masnadiere Isaurico.
128. Zosimo l. I, p. 65. Vopisco nella Stor. Aug. p. 239, 240. Ma sembra incredibile, che la disfatta dei selvaggi della Etiopia potesse interessare il Monarca Persiano.
129. Oltre a questi capi ben cogniti, fa Vopisco menzione di vari altri, le azioni dei quali non sono venute a nostra notizia.
130. Vedi i Cesari di Giuliano e la Stor. Aug. p. 238, 240, 241.
131. Zosimo, l. I. p. 62. Stor. Aug. p. 240. Ma l'ultima suppone che fosse dato ad essi il castigo col consenso dei loro Re: se ciò è vero, fu parziale come l'offesa.
132. Vedi Cluver. Germania antica l. III. Tolomeo pone nel loro paese la città di Calisia, che è forse Calish nella Slesia.
133. Feralis umbra, tale è l'espressione di Tacito: è veramente molto ardita.
134. Tacit. Germania (c. 43.).
135. Vopisco nella Stor. Aug. p. 238.
136. Stor. Aug. p. 238, 239. Vopisco cita una lettera dell'Imperatore al Senato, nella quale egli fa menzione del suo disegno di ridurre la Germania in Provincia.
137. Strabone l. VII. Secondo Velleio Patercolo (II. 108.) Maroboduo condusse i suoi Marcomanni nella Boemia. Cluverio (German. antic. III. 8.) prova che vennero dalla Svevia.
138. Questi Regolatori del pagamento delle Decime furono detti Decumates; Tacit. Germania, c. 29.
139. Vedi le note dell'Abate de la Bleterie alla Germania di Tacito, p. 183. La sua descrizione della muraglia è presa principalmente (come dic'egli stesso) dall'Alsazia illustrata di Schoeflin.
140. Vedi ricerche sopra i Chinesi e gli Egiziani, tom. II, p. 81, 202. L'anonimo Autore è bene istruito del globo in generale e della Germania in particolare: riguardo alla seconda, egli cita un'Opera del sig. Hanselman; ma pare ch'egli confonda la muraglia di Probo, destinata contro gli Alemanni, con la fortificazione dei Mattiaci, costruita nelle vicinanze di Francfort contro i Catti.
141. Egli distribuì quasi cinquanta o sessanta Barbari in circa per numero; come allor si chiamava un corpo, che non sappiamo precisamente da quanti individui fosse composto.
142. Cambden, in Britannia, introduzione, p. 136; ma egli parla sopra un'incertissima congettura.
143. Zosimo, l. 1, p. 62. Secondo Vopisco, un altro corpo di Vandali fu meno fedele.
144. Stor. Aug. p. 240. Furono probabilmente discacciati dai Goti. Zosimo l. I. p. 66.
145. Stor. Aug. p. 240.
146. Panegir. antic. V. 18. Zosimo, l. I. p. 66.
147. Vopisco nella Stor. Aug. p. 245, 246. L'infelice Oratore avea studiata la retorica a Cartagine, e perciò era probabilmente Mauro (Zosimo l. I, p. 60) anzichè Gallo, come lo dice Vopisco.
148. Zonara, l. XII. p. 638.
149. Si racconta un esempio assai sorprendente della prodezza di Proculo. Egli avea preso cento vergini Sarmate. Il resto della storia egli stesso lo riferisca nella sua propria lingua; «Ex his una nocte decem inivi: omnes tamen, quod in me erat, mulieres intra dies quindecim reddidi». Vopisco nella Stor. Aug. p. 247.
150. Proculo, ch'era nativo di Albenga nella riviera di Genova, armò duemila dei suoi schiavi. Grandi erano la sue ricchezze, ma acquistate per mezzo di ladronecci. Fu poi un detto della sua famiglia, nec latrones esse, nec principes sibi placere. Vopisco Stor. Aug. p. 247.
151. Stor. Aug. p. 240.
152. Zosimo l. I. p. 66.
153. Stor. Aug. p. 236.
154. Aurelio Vittore in Probo; ma la politica di Annibale, non ricordata da alcun altro più antico Scrittore, è inconciliabile con la storia della sua vita. Egli lasciò l'Affrica in età di nove anni, vi ritornò di quarantacinque ed immediatamente perdè la sua armata nella decisiva battaglia di Zama: Livio, XXX. 37.
155. Stor. Aug. p. 240. Eutrop. IX, 17. Aurelio Vittore in Probo. Vittore Juniore. Egli rivocò la proibizione di Domiziano, ed accordò ai Galli, ai Brettoni, ed ai Pannonj la general permissione di piantar viti.
156. Giuliano fa una severa, e veramente eccessiva censura del rigore di Probo, il quale, come egli pensa, meritò quasi il suo destino.
157. Vopisco nella Stor. Aug. p. 24. Egli profonde su questa vana speranza un lungo squarcio d'insulsa eloquenza.
158. Turris ferrata. Sembra che fosse una torre mobile e fasciata di ferro.
159. «Probus et vere Probus situs est: victor omnium gentium barbararum: Victor etiam Tyrannorum».
160. Tutto questo per altro può conciliarsi. Egli era nato a Narbona nell'Illirico, confusa da Eutropio colla più famosa città di quel nome nelle Gallie. Suo Padre potea essere un Affricano, e sua madre una Dama Romana. Caro fu educato egli stesso nella Capitale. Vedi Scaligero, animadv. ad Euseb. Chron. p. 241.
161. Probo aveva richiesto al Senato una statua equestre, ed un palazzo di marmo a pubbliche spese, come ricompense dovute al merito singolare di Caro. Vopisco nella Stor. Aug. p. 249.
162. Vopisco nella Stor. Aug. p. 242,249. Giuliano esclude l'Imperator Caro, ed ambi i figliuoli di lui dal convito dei Cesari.
163. Giovanni Malela, tom. I. p. 401. Ma l'autorità di quel Greco ignorante è molto leggiera. Egli ridicolosamente fa venire da Caro la città di Carre, la Provincia di Caria, l'ultima delle quali è menzionata da Omero.
164. Stor. Aug. p. 249. Caro si congratulò coi Senatori perchè uno del loro Ordine era stato fatto Imperatore.
165. Stor. Aug. p. 242.
166. Vedi la prima egloga di Calfurnio. Fontenelle ne preferisce il disegno a quello del Pollione di Virgilio. Vedi tom. III. pag. 148.
167. Stor. Aug. p. 353. Eutropio, IX. 18. Pagi annal.
168. Agatia l. IV. p. 135. Si trova una delle sue sentenze nella Bibliot. Orient. del Sig. d'Herbelot. «La definizione dell'umanità contiene tutte le virtù».
169. Sinesio attribuisce questo fatto a Carino, ed è molto più naturale di riferirlo a Caro, che a Probo, come vorrebbero il Petavio ed il Tillemont.
170. Vopisco nella Stor. Aug. p. 250. Eutropio IX. 18. I due Vittori.
171. Alla vittoria Persiana di Caro io riferisco il dialogo del Filopatride, ch'è stato per tanto tempo un soggetto di disputa tra i letterati. Ma sarebbe necessaria una dissertazione per ischiarire e giustificare la mia opinione.
172. Stor. Aug. p. 250. Ma Eutropio, Festo, Rufo, i duo Vittori, Girolamo, Sidonio Apollinare, Sincello e Zonara, tutti attribuiscono ad un fulmine la morte di Caro.
173. Vedi Nemesian. Cynegeticon. V. I. ec.
174. Vedi Festo ed i suoi comentatori sulla parola Scribonianum. I Luoghi percossi dal fulmine venivan circondati con un muro; le cose eran bruciate con misteriose cerimonie.
175. Vopisco nella Stor. Aug. p. 250. Aurelio Vittore sembra che presti fede alla predizione, ed approvi la ritirata.
176. Nemesian. Cynegiticon, V. 69. Egli era contemporaneo, ma poeta.
177. Cancellarius. Questa parola, così umile nella sua origine, è per una singolar fortuna divenuta il titolo della prima gran carica di Stato nelle monarchie dell'Europa. Vedi Casaubono e Salmasio, ad Histor. August. p. 253.
178. Vopisco nella Stor. Aug. p. 253, 254. Eutropio, IX. 19. Vittore Juniore. Il regno di Diocleziano, per vero dire, fu così lungo e prospero, che dovè esser molto favorevole alla reputazione di Carino.
179. Vopisco nella Stor. Aug. p. 254. Egli lo nomina Caro, ma il senso è naturale abbastanza, e le parole furono spesso confuse.
180. Vedi Calfurnio egloga VII. 43. È da osservarsi che gli spettacoli di Probo erano tuttavia recenti, e che il poeta vien secondato dallo Storico.
181. Il filosofo Montaigne (Saggi. L. III. 6.) fa un molto giusto e vivace quadro della magnificenza romana in questi spettacoli.
182. Vopisco nella Stor. Aug. p. 240.
183. Vengono nominati Onagri: ma il numero n'è troppo piccolo per semplici asini selvaggi. Cuper (de Elephant. exercitat. II. 7) ha provocato con le autorità di Oppiano, di Dione e di un Anonimo Greco, che si erano in Roma viste le zebre. Vi furono portate da qualche isola dell'Oceano, forse dal Madagascar.
184. Carino presentò un ippopotamo (Vedi Calf. Eglog. VII. 66.) Negli ultimi spettacoli io non ritrovo coccodrilli, dei quali una volta Augusto ne fece vedere trentasei. Dione Cassio, l. LV. p. 781.
185. Capitolin. nella Stor. Aug. p. 164, 165. Noi non conosciamo gli animali, ch'egli nomina archeleontes: alcuni leggono argoleontes, altri agrioleontes; ambedue queste correzioni sono molto puerili.
186. Plinio Stor. Nat. VIII. 6. Dagli annali di Pisone.
187. Vedi Maffei Verona illustr. P. IV. l. I. c. 2.
188. Maffei l. II. c. 7. L'altezza fu molto più esagerata dagli antichi. S'innalzava quasi al Cielo, secondo Calfurnio (Eglog. VII. 23), ed oltrepassava il termine della vista umana secondo Ammiano Marcellino (XVI. 10.) Contuttociò quanto era piccola cosa riguardo alla gran Piramide dell'Egitto, che ha cinquecento piedi di perpendicolo!
189. Secondo diverse copie di Vitruvio, si legge 77000, o 87000 spettatori; ma il Maffei (l. II. c. 12) su i sedili scoperti non trova luogo che per 34000. Il rimanente entrava nelle superiori gallerie coperte.
190. Vedi Maffei l. II. c. 5-11. Egli tratta questo difficilissimo soggetto con tutta la possibil chiarezza, e come architetto non meno che come antiquario.
191. Calfurnio Egloga VII. 64, 73. Curiosi sono questi versi; e tutta l'Egloga è stata di un uso infinito al Maffei. Calfurnio non men che Marziale, (vedi il suo I. libro) era poeta, ma quando essi ritrassero l'anfiteatro, scrissero ambidue secondo i propri lor sentimenti, e quei dei Romani.
192. Vedi Plin. Stor. nat. XXXIII. 16. XXXVII. 11.
193.
Balteus en gemmis, en inclita porticus auro
Certatim radiant ec.
Calfurn. VII.
194. Et Martis vultus et Apollinis esse putavi, dice Calfurnio; ma Giovanni Malela, che avea forse veduto qualche ritratto di Carino, lo rappresenta come grosso, piccolo e bianco, tomo I. p. 403.
195. Riguardo al tempo in cui questi giuochi romani furono celebrati, Scaligero, Salmasio e Cuper si sono dati gran pena per oscurare un soggetto chiarissimo.
196. Nemesiano, nei Cinegetici, sembra che anticipi colla sua immaginazione quel fausto giorno.
197. Vinse tutte le corone a Nemesiano, col quale contendeva nella poesia didattica. Il Senato eresse una statua al figliuolo di Caro, con una iscrizione molto ambigua. «Al più potente degli Oratori». Vedi Vopisco nella Stor. Aug. p. 251.
198. Cagione almeno più naturale di quella che assegna Vopisco (Stor. Aug. p. 251.) cioè il continuo piangere per la morte di suo padre.
199. Nella guerra Persiana, Apro fu sospettato di aver disegno di tradir Caro. Stor. Aug. p. 250.
200. Noi dobbiamo alla Cronica Alessandrina (p. 274) la notizia del tempo e del luogo, dove Diocleziano fu eletto Imperatore.
201. Stor. Aug. p. 251. Eutrop. IX. 18. Hieronym. in Chron. Secondo questi giudiziosi Scrittori, la morte di Numeriano si scoprì pel fetore del suo cadavere. Non si potevano forse trovare aromati nella Tenda Imperiale?
202. Aurelio Vittore. Eutropio, IX. 20. Hieronym. in Chron.
203. Vopisco nella Stor. Aug. p. 252. La ragione, por cui Diocleziano uccise Apro (cinghiale) era fondata sopra una predizione e sopra un giuoco di parole egualmente ridicoli che conosciuti.
204. Eutropio ne segna il sito molto accuratamente; questo fu tra il Monte Aureo ed il Viminiaco. Il Sig. Danville (Geograf. antica tom. I. p. 304) pone Margo a Kastolatz nella Servia, un poco sotto Belgrado e Semendria.
205. Stor. Aug. p. 254. Eutrop. IX. 20. Aurelio Vittore. Vittore in Epitom.
206. Eutropio IX. 19. Vittore in Epitom. Sembra che la città fosse propriamente detta Daclia da una piccola tribù d'Illirici. (Vedi Cellario, Geograf. antic. tom. I. p. 393). Probabilmente il primo nome del felice schiavo fu Docles, che allungò dopo per servire alla greca armonia in quel di Diocles, e che finalmente convertì in quello di Diocletianus, come più proprio della maestà Romana. Prese parimente il nome patrizio di Valerio, che gli viene ordinariamente dato da Aurelio Vittore.
207. Vedi Dacier sulla sesta satira del secondo libro di Orazio, Cornel. Nip. nella vita di Eumene. c. I.
208. Lattanzio (o chiunque fu l'autore del piccol trattato de mortibus persecutorum ) accusa in due luoghi Diocleziano di timidità c. 7, 8. Nel cap. 9, dice di lui «erat in omni tumultu meticulosus et animi disiectus».
209. In questo elogio sembra che Aurelio Vittore insinui una giusta, benchè indiretta censura, della crudeltà di Costanzo. Apparisce dai fasti, che Aristobolo rimase Prefetto della città, e che terminò con Diocleziano il Consolato ch'egli avea cominciato con Carino.
210. Aurel. Vittore nomina Diocleziano «Parentem potius quam Dominum». Vedi Stor. Aug. p. 30.
211. La questione del tempo, in cui Massimiano ricevesse la dignità di Cesare e di Augusto, avea divisi i critici moderni, e data occasione ad un gran numero di dotte dispute. Io ho seguitato il Tillemont, (Stor. degl'Imperat. t. IV. p. 500-505) che ha bilanciato le diverse difficoltà e ragioni colla solita sua scrupolosa esattezza.
212. In una orazione recitata dinanzi a lui (Panegir. vet. II. 8.) Mamertino dubita se il suo Eroe, imitando la condotta di Annibale e di Scipione, ne avesse mai udito i nomi. Possiamo quindi benissimo inferire, che Massimiano ambiva più di essere stimato come soldato che come uomo di lettere: ed in tal guisa si può spesso saper la verità dal linguaggio medesimo dell'adulazione.
213. Lattanzio de M. P. c. 8 Aurel. Vittore. Siccome tra i Panegirici si trovano orazioni recitate in lode di Massimiano, ed altre che adulano i di lui avversarj a sue spese, si ricava qualche verità da questo contrasto.
214. Vedi i Panegir. 2 e 3, e particolarmente III. 3, 10, 14, ma sarebbe cosa tediosa il copiare le prolisse ed affettate espressioni della falsa loro eloquenza. Riguardo ai titoli si consulti Aurel. Vittore, Lattanzio de M. P. c. 52. Spanhemio de usu Numism. etc. Dissert. XII. 8.
215. Aurel. Vittore, in Epitom. Eutrop. IX. 22. Lattanzio de M. P. c. 8. Hieronym. in Chron.
216. Il Tillemont non ha potuto rinvenire che tra i Greci moderni il soprannome di Chlore. Verun notabile grado di pallidezza non sembra potersi combinare col rubor menzionato nel Panegir. V. 19.
217. Giuliano, nipote di Costanzo, vanta la discendenza della sua famiglia dai bellicosi Mesj ( Misopogon, p. 348.) I Dardani abitavano all'estremità della Mesia.
218. Galerio sposò Valeria, figlia di Diocleziano. Se si parla con precisione, Teodora, moglie di Costanzo, era soltanto figlia della moglie di Massimiano. Spanhem. Dissertat. XI. 2.
219. Questa divisione combina con quella delle quattro Prefetture: vi è però qualche ragione di dubitare che fosse la Spagna Provincia di Massimiano. Vedi Tillemont, tom. IV. p. 517.
220. Giuliano in Caesarib. p. 315 note di Spanhem. alla traduzione Francese, p. 122.
221. Il nome generico di Bagaudae (nel significato di ribelli) continuò fino al quinto secolo nella Gallia. Alcuni critici lo fanno venire dalla parola Celtica Bagad, assemblea tumultuosa. Scaliger. ad Euseb. Du Cange Glossar.
222. Cronica di Froissart vol. I. p. 182. II. 73-79. La semplicità di questa Storia non è stata imitata dai nostri moderni scrittori.
223. Caesar. De Bell. Gallic. VI. 13. Orgetorige, di nazione Svizzero, potè armare in sua difesa un corpo di diecimila schiavi.
224. L'oppressione e miseria loro vien confermata da Eumenio, (Panegir. VI. 8.) Gallias efferatas iniuriis.
225. Panegyr. Vet. II. 4. Aurel. Vitt.
226. Eliano ed Amando. Noi abbiamo delle medaglie da loro coniate. Goltzio in Thes. R. A. p. 117-121.
227. Levibus proeliis domuit, Eutrop. IX. 20.
228. Questo fatto per vero dire si fonda sopra un'autorità ben leggiera, ch'è la vita di S. Babolino scritta probabilmente nel VII secolo. Vedi Duchesne Scriptores rerum Francicar. tom. I. p. 662.
229. Aurelio Vittore li nomina Germani, Eutropio (IX. 21) li nomina Sassoni. Ma Eutropio viveva nel secolo seguente, e sembra far uso del linguaggio del suo tempo.
230. Le tre espressioni di Eutropio, di Aurelio Vittore, e di Eumenio vilissime natus, Bataviae alumnus, et Menapiae civis ci danno una incerta notizia della nascita di Carausio. Il Dott. Stukely però (Stor. di Carausio, p. 62) lo fa nativo di S. David, e Principe del sangue Reale della Britannia. Egli ne trovò la prima idea in Riccardo di Cirencester, pag. 44.
231. Panegyr. V. 12. Era in quel tempo la Britannia sicura e poco difesa.
232. Panegyr, Vet. V. 11. VII. 9. L'oratore Eumenio desiderava esaltar la gloria del suo Eroe (Costanzo), vantando l'importanza di quella conquista. Nonostante la nostra lodevol parzialità per la patria, è difficile di concepire, che al principio del quarto secolo meritasse l'Inghilterra tutte queste lodi. Un secolo e mezzo avanti somministrava appena il necessario per pagar le truppe, che vi stavano di guarnigione. Vedi Appiano nel proemio.
233. Siccome si conserva tuttavia un gran numero di medaglie di Carausio, egli è divenuto un oggetto favorito della curiosità degli antiquarj; e sono state con sagace accuratezza investigate tutte le particolarità della sua vita e delle sue azioni. Il Dottore Stukely specialmente ha consacrato un grosso volume all'Imperatore Britannico. Io ho fatto uso dei suoi materiali, ed ho rigettate molte delle immaginarie sue congetture.
234. Quando Mamertino recitò il suo primo panegirico, erano terminati i preparativi navali di Massimiano, e l'oratore presagiva una sicura vittoria. Il solo suo silenzio nel secondo panegirico servirebbe a mostrarci che la spedizione non ebbe un felice successo.
235. Aurel. Vittore, Eutropio, e le medaglie (Pax Augg.) c'informano di questa temporanea riconciliazione: ma io non presumerò (come ha fatto il Dott. Stukely, Storia metallica di Carausio, p. 86. etc.) di riferire gli articoli medesimi del trattato.
236. Si trovano in Aurelio Vittore ed in Eutropio pochi squarci concernenti la conquista della Britannia.
237. Giovanni Malela, nella Cron. Antiochen. tom. I p. 408, 409.
238. Zosim. l. I. p. 3. Questo Storico parziale sembra che celebri la vigilanza di Diocleziano colla mira di far vedere la negligenza di Costantino. Sentiamo l'espressioni d'un oratore: «nam quid ego alarum et cohortium castra percenseam, toto Rheni et Istri et Euphratis limite restituta» Panegyr. vet. IV. 18.
239. Ruunt omnes in sanguinem suum populi, quibus non contigit esse Romanis, obstinataeque feritatis poenas nunc sponte persolvunt. Panegyr. Vet. III. 16. Mamertino illustra il fatto coll'esempio di quasi tutte le nazioni del mondo.
240. Egli si lamentava, benchè non con esatta verità. «Jam fluxisse annos quindecim, in quibus in Illyrico, ad ripam Danubii relegatus, cum gentibus barbaris luctaret». Lattanzio de M. P. c. 18.
241. Nel testo Greco di Eusebio, si legge seimila, numero che io ho preferito al sessantamila di Girolamo, di Orosio, di Eutropio, e del suo Greco traduttore Peanio.
242. Panegyr. vet. VII. 21.
243. Eravi uno stabilimento di Sarmati nelle vicinanze di Treveri, che sembra essere stato abbandonato da quei neghittosi Barbari. Auson. ne parla in Mosel.
Unde iter ingredieus nemorosa per avia solum,
Et nulla humani spectans vestigia, cultus
··············
Arvaque Sauromatum nuper metata colonis
Vi era una città dei Carpi nella Mesia inferiore.
244. Vedi le congratulazioni di Eumenio, scritte in istile di Retore. Panegyr. VII. 9.
245. Scaligero ( Animadvers. ad Euseb. p. 243.) decide al suo solito, che i Quinquegenziani, o sia le cinque nazioni Affricane, erano le cinque grandi città, la Pentapoli della pacifica Provincia di Cirene.
246. Dopo la sua disfatta, Giuliano si trapassò il petto con una spada, e si lanciò immediatamente nelle fiamme, Vittor. in Epitom.
247. «Tu ferocissimos Mauritaniae populos, inaccessis montium jugis et naturali munitione fidentes, expugnasti, recepisti, transtulisti.» Panegyr. Vet. VI. 8.
248. Vedi la descrizione di Alessandria in Hirtius de Bello Alexandria. c. 5.
249. Eutrop. IX. 24. Orosio, VII. 25. Giovanni Malela nella Cron. Antioch. p. 409, 410. Eumenio, però ci assicura, che fu l'Egitto pacificato dalla clemenza di Diocleziano.
250. Eusebio ( in Chron. ) fissa la loro distruzione alcuni anni avanti, ed in un tempo in cui l'Egitto istesso erasi ribellato dai Romani.
251. Strabone, l. XVII. p. 1. 172. Pomponio Mela l. I. c. 4: sono curiose le parole: «Intra si credere libet, vix homines magisque semiferi; Ægipanes, et Blemmyes et Satyri.»
252. «Ausus sese inserere fortunae et provocare arma Romana.»
253. Ved. Procopio De Bell. Persic. l. I. c. 19.
254. Egli fissò il pubblico mantenimento di grano pel popolo di Alessandria a due milioni di medimni, quattrocentomila sacca in circa, Chron. Paschal. p. 176. Procop. Hist. Arcan. c. 26.
255. Giovanni di Antiochia in Excerpt. Valerian. p. 834. Suida in Diocleziano.
256. Vedi una breve storia e confutazione dell'alchimia nelle opere di un filosofo compilatore, la Mothe le Vayer, tom. 1, p. 327-353.
257. Vedi l'educazione e la forza di Tiridate nella storia Armena di Mosè di Corene, l. II. c. 76. Egli potea prendere due tori selvaggi per le corna e romperle colle sue mani.
258. Se prestiamo fede al più giovine Vittore, il quale suppone che nell'anno 323 Licinio avesse solamente sessant'anni, egli appena potrebbe esser la stessa persona del protettor di Tiridate; ma noi sappiamo da molto miglior autorità (Eusebio Stor. Ecclesiast. l. X. cap. 8.) che Licinio era allora nell'ultimo periodo della vecchiezza: sedici anni avanti, vien rappresentato con capelli canuti, e come contemporaneo di Galerio. Vedi Lattanz. c. 31. Licinio era nato probabilmente verso l'anno 250.
259. Vedi i libri 62 e 63 di Dione Cassio.
260. Mosè di Corene, Stor. Armen. l. II. c. 74. Le statue erano state erette da Valarsace, che regnava nell'Armenia circa 130 anni avanti Cristo, e fu il primo Re della famiglia di Arsace (Vedi Mosè, Stor. Armen. l. II. 2, 3). La deificazione degli Arsaci vien menzionata da Giustino (XLI. 5.) e da Ammiano Marcellino. (XXIII. 6.)
261. La nobiltà Armena era numerosa e potente. Mosè fa menzione di molte famiglie, le quali erano illustri sotto il regno di Valarsace (l. II. 7.) e le quali sussistevano ancora al suo tempo verso la metà del quinto secolo. Vedi la Prefaz. dei suoi editori.
262. Si chiamava Chosroi-duchta, e non avea l' or patulum come le altre donne. (Stor. Armen. l. II. c. 79.) Io non intendo tal frase.
263. Nella Storia Armena (l. II. 78) come ancora nella Geografia, (p. 367) la China trovasi nominata Zenia, o Zenastan. Vien distinta dalla seta, dalla opulenza degli abitanti, e dal loro amore per la pace sopra tutte le altre nazioni del mondo.
264. Vou-ti, il primo Imperatore della settima Dinastia, che allora regnava nella China, ebbe dei trattati politici colla Fergana, provincia della Sogdiana, e si dice che ricevesse un'ambasceria Romana. (Stor. degli Unni, tom. I. pag. 38.) In quei secoli i Chinesi teneano una guarnigione in Kashgar, ed uno dei lor Generali, verso i tempi di Traiano, si avanzò fino al mar Caspio. Riguardo al commercio tra la China ed i paesi occidentali, si può consultare una interessante memoria del sig. de Guignes nell'Accademia delle Iscriz. tom. XXXII. pag. 355.
265. Vedi Stor. Armen. l. II. c. 81.
266. Ipsos Persas ipsumque Regem, ascitis Saccis et Ruffis et Gellis, petit frater Ormies. Panegyr. Vet. III. I Saci erano una nazione di Sciti erranti, accampati verso la sorgente dell'Oxo e del Jaxarte. I Gelli erano gli abitatori del Ghilan lungo il mar Caspio, che sotto nome di Dilemiti, infestarono per tanto tempo la Monarchia Persiana. Vedi D'Herbelot, Bibliot. Orient.
267. Mosè di Corene tralascia affatto questa seconda rivoluzione che io sono stato costretto a ricavare da un passo di Ammiano Marcellino (l. XXIII. 5). Lattanzio parla dell'ambizione di Narsete «Concitatus domesticis exemplis avi sui Saporis ad occupandum Orientem magnis copiis inhiabat». De Mort. Persecut. c. 9.
268. Possiamo fermamente credere, che Lattanzio ascrive a codardia la condotta di Diocleziano. Giuliano nella sua orazione dice, che egli rimase con tutte le forze dell'Impero; frase molto iperbolica.
269. I nostri cinque compendiatori, Eutropio, Festo, i due Vittori, ed Orosio, tutti riferiscono l'ultima e gran battaglia; ma Orosio è il solo che parla delle due prime.
270. La natura del paese è benissimo descritta da Plutarco nella vita di Crasso, e da Senofonte nel primo libro dell'Anabasi.
271. Vedi la Dissertazione di Foster nel secondo volume della traduzione dell'Anabasi di Spelman, che ardisco raccomandare come una delle migliori traduzioni che abbiamo.
272. Stor. Armen. l. II. c. 76. Io ho trasferito questa impresa di Tiridate da una disfatta immaginaria a quella reale di Galerio.
273. Ammian. Marcell. l. XIV. Il miglio, nelle mani di Eutropio (IX. 24.) di Festo (c. 2.) e di Orosio (VIII. 25.) facilmente si estendeva a diverse miglia.
274. Aurel. Vittore. Giornandes de rebus Geticis c. 21.
275. Aurelio Vittore dice «Per Armeniam in hostes contendit, quae ferme sola, seu facilior vincendi via est». Egli seguitò la condotta di Traiano, e l'idea di Giulio Cesare.
276. Senofonte, Anabasi, l. III. Per questa ragione la cavalleria Persiana si accampava a sessanta stadi dal nemico.
277. Il fatto vien riferito da Ammiano, l. XXII. Invece di Saccum, alcuni leggono Scutum.
278. I Persiani riconoscevano la superiorità dei Romani nel morale e nella milizia. Eutrop. IX. 24. Ma questo rispetto e gratitudine per i nemici raramente si trovava nelle proprie loro relazioni.
279. Il ragguaglio del trattato è preso dai frammenti di Patrizio nell' Excerpta Legationum pubblicato nella collezione Bizantina. Patrizio vivea sotto Giustiniano; ma è evidente dalla natura dei suoi materiali, ch'ei gli avea ricavati da Scrittori più autentici e rispettabili.
280. «Adeo Victor» (dice Aurelio) «ut ni Valerius, cujas nudi omnia gerebantur, abnuisset, Romani fasces in provinciam novam ferrentur. Verum pars terrarum tamen nobis utilior quaesita».
281. Egli era stato Governatore di Sumio. (Pietro Patrizio in Excerpt. Legat. p. 30.) Pare che Mosè di Corene ( Geograph. p. 360.) faccia menzione di questa Provincia che giace all'Oriente del monte Ararat.
282. Per un errore del geografo Tolomeo, la situazione di Singara è trasferita dall'Abora al Tigri, il che può aver cagionato l'abbaglio di Patrizio in fissar per limite l'ultimo fiume invece del primo. La linea della frontiera Romana traversava il corso del Tigri senza mai seguitarlo.
283. Procopio de Aedificiis. I. II. c. 6.
284. Si conviene da tutti di tre di quelle Province, Zadicene, Arzanene, e Carduene. Ma invece delle altre due, Patrizio ( in Excerpt. Leg. p. 30.) inserisce Rehimene e Sofene. Io ho preferito Ammiano, (l. XXV. 7.) perchè si potrebbe provare che la Sofene non fu mai nelle mani dei Persiani nè avanti il Regno di Diocleziano, nè dopo quel di Gioviano. Per mancanza di carte esatte, come quelle del Sig. Danville, quasi tutti i moderni, dietro la scorta di Tillemont e di Valesio, hanno immaginato che le cinque Province erano situate di là dal Tigri relativamente alla Persia e non a Roma.
285. Senofon. Anabasis l. IV. I loro archi erano lunghi tre cubiti, ed i loro dardi due; essi rotolavano pietre, ciascuna delle quali era il carico solito d'un carro. Trovarono i Greci moltissimi villaggi in quel rozzo paese.
286. Al dir di Eutropio (VI. 9 come il testo è rappresentato dai migliori Mss.) la città di Tigranocerta era nell'Arzanene. I nomi e la situazione delle altre tre non possono con certezza indicarsi.
287. Si confronti Erodoto, l. I. pag. 27 con Mosè di Corene. Stor. Arm. l. II. p. 84, e la carta dell'Armenia pubblicata dai suoi Editori.
288. Hiberi, locorum potentes, Caspia via Sarmatam in Armenios raptim effundunt. (Tacit. Annal. VI. 34). Vedi Strabone Geograf. l. XI. p. 764.
289. Pietro Patrizio ( in Excerpt. Legat. p. 30.) è il solo scrittore che faccia menzione dell'articolo dell'Iberia in quel trattato.
290. Eusebio in Chron. Pagi ad annum. Fino al ritrovamento del trattato de Mortibus Persecutorum, era incerto se il trionfo, ed i Vicennali erano stati celebrati nel tempo stesso.
291. Sembra che Galerio in tempo dei Vicennali rimanesse nel suo campo sul Danubio. Vedi Lattanzio de M. P. c. 38.
292. Eutropio (IX. 27.) ne fa menzione come di parte del trionfo, siccome le Persone erano state restituite a Narsete, non si potè far vedere che le loro Immagini.
293. Livio ci dà una parlata di Camillo su questo soggetto (V. 51-55.) piena di eloquenza e di affetto in opposizione al disegno di trasferire la sede del Governo da Roma alla vicina Città di Veji.
294. Fu a Giulio Cesare rimproverata l'intenzione di trasportare l'Impero in Ilio o in Alessandria. Vedi Svetonio nei Cesari, c. 79. Secondo l'ingegnosa congettura di Lefevre e di Dacier, la terza ode del terzo libro di Orazio fu destinata a distogliere Augusto dall'esecuzione di un simil disegno.
295. Vedi Aurelio Vittore, che fa parimente menzione degli edifizi da Massimiano eretti in Cartagine, probabilmente in tempo della guerra contro i Mori. Noi inseriremo alcuni versi di Ausonio de Clar. Urb. V.
«Et Mediolani mira omnia: copia rerum;
Innumerae cultaeque domus; facunda virorum
Ingenia, et mores laeti, tum duplice muro
Amplificata loci species; populique voluptas
Circus, et inclusi moles cuneata Theatri,
Templa, Palatinaque arces, opulensque Moneta,
Et regio Herculei Celebris sub honore lavacri.
Cunctaque marmoreis ornata Perystyla signis;
Maeniaque in valli formam circumdata labro,
Omnia, quae magnis operum velut aemula formis
Excellunt: nec juncta premit vicinia Romae.»
296. Lattanzio de M. P. c. 7. Libanio, Orazion. VIII. p. 203.
297. Lattanzio de M. P. c. 17. In una simile congiuntura Ammiano riferisce la dicacità della plebe, come non molto gradevole ad un orecchio Imperiale. Ved. I. XVI. p. 10.
298. Lattanzio accusa Massimiano di aver distrutto fictis criminationibus lumina Senatus ( de M. P. c. 8.) Aurelio Vittore parla molto dubbiosamente della fede di Diocleziano verso i suoi amici.
299. «Truncatae vires urbis, imminuto Praetoriarum cohortium atque in armis vulgi numero». Aurel. Vittore. Lattanzio attribuisce a Galerio la continuazione del medesimo disegno. (c. 26.)
300. Questi erano corpi veterani acquartierati nell'Illirico; e secondo l'antico stabilimento, ciascuno era di seimila uomini. Essi aveano acquistata molta riputazione per l'uso delle plumbatae o dardi carichi di piombo. Ogni soldato ne portava cinque, ch'egli lanciava a una distanza considerabile con gran forza e destrezza. Vedi Vegezio, l. 17.
301. Vedi il Codice Teodos. l. VI. Tit. II. col commentario del Gotofredo.
302. Vedi la XII. Dissertazione nell'eccellente opera dello Spanemio De usu Numismatum. Dalle medaglie, dalle iscrizioni e dagli Storici egli esamina ogni titolo separatamente, e lo rintraccia da Augusto fino alla sua soppressione.
303. Plinio (nel Panegir. c. 3-55. etc. ) parla del titolo di Dominus con esecrazione, come sinonimo di Tiranno, ed opposto al Principe. E lo stesso Plinio dà regolarmente quel titolo (nel decimo libro delle lettere) al suo amico più che padrone, al virtuoso Traiano. Questa strana contraddizione imbroglia i commentatori che pensano, ed i traduttori che possono scrivere.
304. Sinesio de Regno, Ediz. del Petav. p. 15. Io sono obbligato di questa citazione all'Abate de la Bleterie.
305. Vedi Vendale De consecratione, p. 354. etc. Era costume degl'Imperatori di far menzione (nel preambolo delle leggi) della loro Divinità, della Sacra Maestà, degli Oracoli Divini etc... Secondo Tillemont, Gregorio Nazianzeno si lamenta molto amaramente di una tale profanazione, specialmente quando era usata da un Imperatore Ariano.
306. Vedi Spanem. de usu Numismat. Dissert. XII.
307. Aurel. Vittore. Eutropio, IX. 26. Apparisce dai Panegiristi, che i Romani si riconciliarono ben tosto col nome e colla cerimonia dell'adorazione.
308. Le novità, introdotte Diocleziano, sono principalmente dedotte, I. da alcuni passi molto forti di Lattanzio, e II. dai nuovi e vari impieghi, che nel Codice Teodosiano compariscono già stabiliti nel principio del regno di Costantino.
309. Lattanzio de M. P. c. 7.
310. «Indicta lex nova quae sane illorum temporum modestia tolerabilis, in perniciem processit.» Aurelio Vittore, il quale ha delineato il carattere di Diocleziano con buon senso, ma in cattivo latino. «Solus omnium post conditum Romanum Imperium, qui ex tanto fastigio sponte ad privatae vitae statum civitatemque remearet.» Eutrop. IX. 28.
311. Le particolarità del viaggio, e della malattia sono prese da Lattanzio (c. 17.) che può talvolta fare autorità per i fatti pubblici, benchè raramente per gli aneddoti particolari.
312. Aurelio Vittore attribuisce la rinunzia, di cui si eran fatti tanti vari giudizi, primo al disprezzo che avea Diocleziano per l'ambizione; e secondariamente, al suo timore delle soprastanti turbolenze. Uno dei Panegiristi (VI. 9.) assegna l'età e le infermità di Diocleziano come naturale cagione del suo ritiro.
313. Le difficoltà non meno che gli sbagli che accompagnano le date dell'anno e del giorno della rinunzia di Diocleziano, sono perfettamente schiarite da Tillemont, Stor. degli Imperatori, tom. IV. Pag. 525. Nota 19. e dal Pagi ad annum.
314. Vedi Panegyr. Veter. VI. 9. L'orazione fu recitata dopo che Massimiano ebbe ripresa la porpora.
315. Eumenio gli fa un bellissimo elogio. «At enim divinum illum virum, qui primus Imperium et participavit et posuit, consilii et facti sui non paenitet; nec amisisse se putat quod sponte transcripsit. Felix beatusque vere quem vestra tantorum Principum colunt obsequia privatum!» Panegyr. Vet. VII, 15.
316. Siamo debitori al più giovine Vittore di questo celebre motto. Eutropio ne fa la relazione in un modo più generale.
317. Stor. Aug. p. 123-124. Vopisco avea sentito questo discorso da suo padre.
318. Il più giovane Vittore accenna questa voce. Ma siccome Diocleziano avea disgustato un potente e fortunato partito, la sua memoria è stata caricata di ogni delitto e di ogni infortunio. Fu affermato che egli morisse arrabbiato, che fosse condannato come reo dal Senato Romano, ec.
319. Vedi gli Itinerarj, p. 269-272. Ediz. Wesseling.
320. L'Abate Fortis nel suo Viaggio in Dalmazia, p. 43 (stampato a Venezia nell'anno 1774 in due volumetti in quarto) cita una descrizione MS. delle antichità di Salona, composta da Giambattista Giustiniani verso la metà del XVI secolo.
321. Adams, Antichità del palazzo di Diocleziano in Spalatro, p. 6. Possiamo aggiungervi una circostanza o due, tratte dall'Abate Fortis. Il piccolo fiume Hyader, menzionato da Lucano, produce le più eccellenti trote, il che un sagace Scrittore, forse un monaco, suppone essere stato uno dei principali motivi che determinarono Diocleziano nella scelta del suo ritiro. Fortis. p. 45. Lo stesso autore (p. 38) osserva, che rinasce in Spalatro il gusto per l'agricoltura; e che da una società di signori è stato assegnato un campo vicino alla città per farvi sperienze intorno alla medesima.
322. Costantin. Orat. ad caetum. Sanct. c. 25. In questa orazione, l'Imperatore, o il Vescovo che per lui la compose, affetta di riportare il miserabil fine di tutti i persecutori della Chiesa.
323. Constantin. Porphyr. de Statu Imper. p. 86.
324. Danville, Geograf. Ant. tom. I. p. 162.
325. I Sigg. Adams e Clerisseau, accompagnati da due Dragomanni, visitarono Spalatro nel mese di Luglio 1757. La magnifica opera, frutto del lor viaggio, fu pubblicata in Londra sette anni dopo.
326. Io citerò le parole dell'Abate Fortis. «È bastevolmente nota agli amatori dell'architettura, e dell'antichità l'opera del Sig. Adams, che ha donato molto a quei superbi vestigi coll'abituale eleganza del suo toccalapis, e del suo bulino. In generale la rozzezza dello scalpello, e il cattivo gusto del secolo vi gareggiano colla magnificenza del fabbricato.» Vedi Viaggio nella Dalmazia, p. 40.
327. L'oratore Eumenio fu segretario degli Imperatori, Massimiano e Costanzo, e Professore di Rettorica nel Collegio di Autun. Il suo salario era di seicentomila sesterzi che, secondo il più basso computo di quel secolo, doveano essere più di seimila zecchini. Egli chiese generosamente la permissione d'impiegarli in riedificare il Collegio. Vedi la sua orazione de restaurandis scholis; la quale, benchè non esente di vanità, può fargli perdonare i suoi Panegirici.
328. Porfirio morì verso il tempo della rinunzia di Diocleziano. La vita del suo maestro Plotino, da lui composta, ci dà la più compiuta idea del genio di quella Setta e dei costumi di quelli che la professavano. Questo molto curioso opuscolo è inserito in Fabricio, Bibliotheca Graeca, tom. IV. p. 88-148.
329. Il Sig. di Montesquien (Considerations sur la grandeur et la decadence des Romains, c. 17.) suppone sull'autorità di Orosio e di Eusebio, che in quella occasione l'Impero per la prima volta fu realmente diviso in due parti. È difficile però di rinvenire in qual parte il sistema di Galerio differisse da quello di Diocleziano.
330. Hic non modo amabilis, sed etiam venerabilis Gallis fuit, praecipue quod Diocletiani suspectam prudentiam, et Maximiani sanguinariam violentiam Imperio ejus evaserant: Eutrop. Breviar. X. I.
331. Divitiis Provincialium (vel Provinciarum) ac privatorum studens, fisci commoda non admodum affectans; ducensque melius publicas opes a privatis haberi, quam intra unum claustrum reservari. Id. ibid. Egli portò questa massima tanto innanzi, che ogni qualvolta facea trattamento, era obbligato a prendere in prestito un servito di argenteria.
332. Lattanzio de Mort. Persecutor. c. 16. Se fossero le particolarità di questa conferenza più conformi alla verità ed al decoro, si potrebbe sempre dimandare, come vennero a notizia di un oscuro Retore? Ma vi sono vari Storici che ci fanno ricordare l'ammirabile eletto del gran Condè al Cardinale di Retz. «Ces coquins nous font parler et agir, come ils auroient fait eux mêmes à notre place».
333. Sublatus nuper a pecoribus et silvis (dice Lattanzio, de M. P. c. 19.) statim scutarius, continuo Protector, mox Tribunus, postridie Caesar, accepit Orientem, Aurel. Vittore è troppo liberale in dargli tutta la porzione di Diocleziano.
334. La sua esattezza e la sua fedeltà sono riconosciute eziandio da Lattanzio. ( de M. P. c. 18.)
335. Questi divisamenti per altro si fondano sulla dubbiosa autorità di Lattanzio ( de M. P. c. 20.)
336. Questa tradizione, ignota ai contemporanei di Costantino, fu inventata tra l'oscurità dei monasteri; abbellita da Geoffrey di Monmouth e dagli Scrittori del XII secolo, è stata sostenuta dai nostri antiquari dell'ultimo secolo, e vien seriamente riferita nella pesante storia d'Inghilterra, compilata dal Sig. Carte. ( vol. I. p. 147 ) Egli trasporta però il regno di Coil, immaginario padre di Elena, da Essex alla muraglia di Antonino.
337. Eutropio (X. 2.) indica in poche parole la verità, e quello che ha dato luogo all'errore. Ex obscuriori matrimonio ejus filius. Zosimo (1. II. p. 78.) si è attenuto all'opinione la più sfavorevole, ed è stato in ciò seguitato da Orosio. (VII, 25.) Fa maraviglia che Tillemont, Autore instancabile, ma parziale, non abbia fatta attenzione all'autorità di lui. Insistendo sul divorzio di Costanzo, Diocleziano veniva a conoscere la legittimità del matrimonio di Elena.
338. Tre sono le opinioni sul luogo della nascita di Costantino. I. Gli antiquari Inglesi eran soliti di fermarsi con compiacenza sopra queste parole del Panegirista di lui: Britannias illic oriendo nobiles fecisti; ma questo celebre passo si applica egualmente bene all'avvenimento di Costantino, che alla nascita del medesimo. II. Alcuni moderni Greci fan nascere questo Principe in Drepano, città situata sul golfo di Nicomedia (Cellario T. II. p. 174), a cui Costantino dette l'onorevol nome di Elenopoli, e che Giustiniano abbellì di superbi edifizi. ( Procop. de aedific. V. 2. ) Per vero dire è molto probabile, che il padre di Elena avesse un albergo in Drepano, e che Costanzo vi alloggiasse, quando ritornò dalla sua ambasceria in Persia sotto il Regno di Aureliano. Ma nella vita errante d'un soldato, il luogo del suo matrimonio e quello della nascita de' suoi figliuoli hanno pochissimo rapporto l'un con l'altro. III. La pretensione di Naisso è fondata sull'autorità d'uno Scrittore anonimo, l'opera di cui è stata pubblicata alla fine della Storia di Ammiano p. 710, e che faceva generalmente uso di buonissimi materiali. Questa terza opinione è altresì confermata da Giulio Firmico ( de Astrologia 1. I. c. 4) che fioriva sotto Costantino. Si son mossi dubbi sulla sincerità, e sull'intelligenza del testo di Firmico, ma l'una di queste due cose è appoggiata ai migliori manoscritti; e l'altra è stata bravamente difesa da Giusto Lipsio de magnitudine Rom. l. IV. c. 11 e Supplimento.
339. Litteris minus instructus; l'Anonimo ad Ammian. p. 710.
340. Galerio, e forse il suo proprio coraggio, l'espose a gran pericolo. In una disfida si mise sotto i piedi un Sarmata (Anonimo 710) vinse un leone di smisurata grandezza. (Vedi Praxagor. presso Fozio p. 63.) Prassagora filosofo Ateniese avea scritta la vita di Costantino in due libri che ora si son perduti. Egli era contemporaneo di questo Principe.
341. Zosimo l. II. p. 78, 79. Lattanzio de Mort. Pers. c. 24. Rapporta il primo una ridicolosissima storia dicendo, che Costantino fece tagliare i piedi a tutti i cavalli di cui s'era servito. Da un procedere sì stravagante, inutile ad impedire che lo inseguissero, sarebbero certamente nati sospetti, che avrebbero potuto arrestarlo nel suo viaggio.
342. Anonimo p. 710. Panegir. Vet. VII. 4. Ma Zosimo (l. II. p. 79) Eusebio ( de vita Const. l. I. c. 21) e Lattanzio ( de mort. Persec. c. 24.) suppongono con minor fondamento, ch'ei trovasse suo padre nel letto della morte.
343. Cunctis, qui aderant, annitentibus, sed praecipue Croco (alii Eroco) Alamannorum Rege, auxilii gratia Constantium comitato, imperium capit. Vittore il Giovane, cap. 41. Questo forse è il primo esempio d'un Barbaro, che abbia servito ne' campi Romani con un corpo indipendente de' suoi propri sudditi. Tale uso divenne famigliare, e finì con esser funesto.
344. Eumene, il suo panegirista (VII. 8.) ardì di asserire in presenza di Costantino, che questi avea dato di sprone al suo cavallo e tentato, ma in vano, di fuggire dalle mani de' suoi soldati.
345. Lattanzio de mort. Persec. c. 25. Eumene (VII. 8) descrive tutte queste circostanze collo stile d'un Retore.
346. Egli è naturale d'immaginare, e pare che Eusebio lo indichi, cioè che Costanzo morendo nominasse Costantino per suo successore. Questa scelta sembra confermata dall'autorità la più sicura, che è il consenso di Lattanzio ( de mort. Persecut. c. 24.) e di Libanio (Orat. 1.); di Eusebio ( Vit. Const. l. 1. c. 18, 14), e di Giuliano (Orat. I.).
347. Delle tre sorelle di Costantino, Costanza sposò l'Imperatore Lacinio; Anastasia il Cesare Bassiano, ed Eutropia, il Console Nepoziano. I suoi tre fratelli erano Dalmazio, Giulio Costanzo, e Anniballiano, de' quali avremo in appresso occasion di parlare.
348. Vedi Grutero ( inscript. p. 178.) I sei Principi sono tutti nominati: Diocleziano e Massimiano, come i più antichi Augusti, e come Padri degli Imperatori. Essi unitamente dedicano questo magnifico edifizio per l'uso dei loro cari Romani. Gli architetti han disegnato le rovine di queste Terme, e gli antiquari, particolarmente Donato e Nardini, hanno determinato lo spazio che esse occupavano. Una delle gran sale è ora la chiesa dei Certosini; ed è bastato un sol calidario per un'altra chiesa, che appartiene ai Bernardoni.
349. Lattanzio de M. P. c. 26, 31.
350. Il sesto Panegirico mette nel più favorevol aspetto la condotta di Massimiano; e l'espressione equivoca di Aurelio Vittore, retractante diu, può significare egualmente che ei tramò la congiura, o che vi si oppose. Si veda Zosimo l. II. p. 79, e Latt. de M. P. c. 26.
351. Le circostanze di questa guerra e la morte di Severo son raccontate diversissimamente, e con una maniera molto incerta ne' nostri antichi frammenti. Vedi Tillem. Hist. des Emp. T. IV. p. 555. Io ho procurato di cavarne un racconto conseguente e verisimile.
352. Il sesto Panegirico fu recitato per celebrare l'innalzamento di Costantino, ma il prudente Oratore evita di parlar di Galerio o di Massenzio. Non fa che una leggiera allusione alle attuali turbolenze ed alla Maestà di Roma.
353. Vedi al proposito di questo trattato i frammenti d'un istorico anonimo, che il Sig. di Valois ha pubblicato alla fine della sua edizione di Ammiano Marcellino, pag. 711. Questi frammenti ci hanno somministrato molti aneddoti curiosi, e per quanto apparisce, autentici.
354. Lattanzio de M. P. c. 20. La prima di queste ragioni è presa da Virgilio, quando fa dire ad uno de' suoi pastori:
Illam ego huic nostrae similem, Meliboee, putavi etc. Lattanzio ama queste poetiche allusioni.
355.
Castra super Tusci si ponere Tybridis undas; (Jubeus)
Hesperios audax veniam metator in agros
Tu quoscumque voles in planum effundere muros,
His aries actus disperget saxa lacertis,
Illu licet, penitus tolli quam jusseris urbem,
Roma sit.
Lucan. Phars. 381.
356. Lattanzio de M. P. c. 27. Zosimo l. II p. 82. Questi ci fa sapere, che Costantino, nel suo abboccamento con Massimiano, avea promesso di dichiarare la guerra a Galerio.
357. Tillemont ( Hist. des Emp. T. IV. P. I. p, 559.) ha provato che Licinio, senza passare pel grado intermedio di Cesare, fu dichiarato Augusto gli 11. Novembre dell'anno 307 dopo il ritorno di Galerio dall'Italia.
358. Lattanzio de M. P. c. 32. Quando Galerio innalzò Licinio alla medesima dignità della sua, e lo dichiarò Augusto, credè di poter contentare il suo giovane collega, immaginando per Costantino e Massimino (e non Massenzio, Vedi Baluzio p. 81.) il nuovo titolo di figli degli Augusti. Ma Massimino gli fece sapere, ch'egli era già stato salutato Augusto dall'esercito; o allora Galerio fu obbligato di riconoscere questo Principe non altrimenti che Costantino, come eguali associati alla dignità Imperiale.
359. Vedi Panegyr. Vet. VI. 9. Audi doloris nostri liberam vocem etc. Tutto questo passo è dettato dalla più fina e accorta adulazione, ed è espresso con un'eloquenza facile e piacevole.
360. Lattanzio de M. P. c. 28. Zosimo l. II. p. 82. Si fece correre il rumore, che Massenzio era figlio di qualche oscuro Siriano, e che la moglie di Massimiano l'avea sostituito al suo proprio figliuolo, V. Aurelio Vittore, Anonim. Val. Panegyr. Vet. IX. 3. 4.
361. Ab urbe pulsum, ab Italia fugatum, ab Illyrica repudiatum, tuis provinciis, tuis copiis, tuo palatio recepisti. Eumen. Panegyr. Vet. VII. 14.
362. Lattanzio de Mort. Persec. c. 39. Ciò nonostante quando Massimiano ebbe deposta la porpora, Costantino gli conservò sempre la pompa e gli onori della dignità Imperiale, e in tutte le pubbliche occasioni dava la dritta al suo suocero. Panegyr. Vet. VII. 15.
363. Zosimo L. II. p. 82. Eumen. Panegyr. Veter. VII 16-21. Quest'ultimo ha rappresentato, senza dubbio, tutto l'affare nell'aspetto più vantaggioso pel suo Sovrano; pure anche dalla parziale di lui narrazione possiam concludere, che la ripetuta clemenza di Costantino, ed i reiterati tradimenti di Massimiano, nella maniera in cui vengono descritti da Lattanzio ( de M. P. c. 29 30) e copiati da' moderni, non son sostenuti da alcun istorico fondamento.
364. Aurel. Vittor. c. 40. Ma quel lago era situato nella Pannonia superiore vicino alle frontiere del Norico; e la Provincia di Valeria (nome che ricevè dalla moglie di Galerio il territorio seccato) è senza dubbio fra il Dravo e il Danubio (Sest. Rufo c. 9.) Io sospetterei dunque che Vittore avesse confuso il lago Pelso con le paludi Volocee, che hanno adesso il nome di lago Sabaton o Balaton. Questo è nel cuore della Valeria, e l'estensione, che ha presentemente, non è minore di 12 miglia d'Ungheria (che sono circa 70 Inglesi) di lunghezza, e due di larghezza. Vedi Severio. Pannonia lib. 1. c. 9.
365. Lattanzio ( de M. P. c. 33.) ed Eusebio (l. VIII. c. 16.) descrivono gli accidenti ed il progresso di questa infermità con singolare accuratezza, e, per quanto sembra, con piacere.
366. Se alcuno tuttavia si dilettasse, come ultimamente fece il Dottor Jortin (Osservazioni sull'Istoria Ecclesiastica vol. II. p. 307-356) di far menzione delle morti maravigliose de' persecutori, io gli raccomanderei di leggere un ammirabil passo di Grozio (Istor. l. VII. p. 332) rispetto all'ultima malattia di Filippo II Re di Spagna.
367. Vedi Euseb. l. IX. 6. 10. Lattanz. de M. P. c. 36. Zosimo è meno esatto, ed evidentemente confonde Massimiano con Massimino.
368. Vedi il Panegirico VIII, nel quale Eumene alla presenza di Costantino espone la miseria, e la gratitudine della Città di Autun.
369. Eutrop. X. 3. Paneg. Vet. VII. 10, 11, 12. Furono in simil guisa esposti molti giovani Franchi alla stessa crudele ed ignominiosa morte.
370. Giuliano esclude Massenzio dal banchetto de' Cesari con abborrimento e disprezzo, e Zosimo (l. II. p. 85) l'accusa di ogni specie di crudeltà e di scelleratezza.
371. Zosimo l. II. p. 83-85. Aurelio Vittore.
372. Si dovrebbe leggere il passo di Aurelio Vittore nel seguente modo: «Primus instituto pessimo, munerum specie, Patres oratoresque pecuniam conferre prodigenti sibi cogeret.»
373. Paneg. Vet. IX. 3. Euseb. Hist. Ecl. VIII. 14. et in vit. Constant. l. 33. 34. Rufin. c. 17. La virtuosa Matrona, la quale si uccise per evitar la violenza di Massenzio, era Cristiana, e moglie del Prefetto di Roma, chiamata Sofronia. Resta sempre in dubbio fra' Casisti, se il suicidio in simili casi possa giustificarsi.
374. L'indeterminata espressione di Aurelio Vittore è questa: Praetorianis caedem vulgi quondam annueret. Vedasi un più circostanziato, sebbene alquanto diverso racconto di un tumulto ed uccisione, che avvenne a Roma, in Eusebio 1. VIII. c. 14, ed in Zosimo lib. II. p. 84.
375. Vedi ne' Panegirici (IX. 14) una viva descrizione della indolenza, e del vano orgoglio di Massenzio. Osserva l'oratore in un altro luogo, che le ricchezze accumulate in Roma nel corso di 1060 anni, furon concesse dal Tiranno alle mercenarie sue truppe; redemptis ad civile latrocinium manibus ingesserat.
376. Dopo la vittoria di Costantino si conveniva generalmente, che il motivo di liberar la Repubblica da un detestabil tiranno avrebbe in qualunque tempo giustificato la di lui spedizione in Italia. Euseb. in vit. Constant. l. I. c. 26. Paneg. Vet. IX. 2.
377. Zosim. lib. II. 84-85. Nazar. in Panegyr. X. 7-13.
378. Vedi Paneg. Vet. IX. Omnibus fere tuis Comitibus et Ducibus non solum tacite mussantibus, sed etiam aperte timentibus, contra consilia hominum, contra Haruspicem monita ipse per temet liberandae Urbis tempus venisse sentires. Si fa menzione dell'ambasciata de' Romani solo da Zonara (l. XIII) e da Cedrano ( Compend. Histor. p. 270); ma questi moderni Greci ebbero la comodità di consultare molte Opere, che dopo si son perdute, fra le quali si dee contare la Vita di Costantino scritta da Prassagora. Fozio (p. 63) fece un brev'estratto di quell'opera istorica.
379. Zosimo (l. II. p. 86) ci ha lasciato questo curioso ragguaglio delle forze, che si trovavano da ambe le parti. Egli non fa menzione di alcun armamento navale, quantunque sia sicuro ( Paneg. Vet. IX. 25 ) che fu attaccata la guerra per mare non meno, che per terra, e che la flotta di Costantino prese possesso della Sardegna, della Corsica, e de' porti dell'Italia.
380. Paneg. Vet. IX. 3. Non dee far maraviglia, che l'oratore diminuisse il numero dello truppe, con le quali il suo Sovrano condusse a fine la conquista dell'Italia; ma sembra un poco singolare, ch'egli non valutasse l'esercito del tiranno a più di 100000 uomini.
381. I tre passi principali delle Alpi fra la Gallia e l'Italia son quelli del monte di S. Bernardo, del monte Cenisio, e del monte Ginevro. La tradizione e certa somiglianza di nomi ( Alpes penninae ) han fatto sì, che il primo di questi si assegni alla marcia d'Annibale (Vedi Simler de Alpibus ). Il Cavalier di Folard (Polib. tom. IV.) e il Danville l'han condotto pel monte Ginevro. Ma nonostante l'autorità di un esperto Uffiziale, e di un erudito Geografo, le pretensioni del monte Cenisio vengono sostenute in una plausibile, per non dir convincente maniera dal Sig. Grosley, Observations sur l'Italie, Tom I. p. 40.
( Nelle Mescolanze di Gibbon si trova un passo in cui egli discute più a lungo questa spinosa quistione, e rimansi indeciso tra Tito Livio e Polibio, tra il monte Ginevro e il Gran-S. Bernardo. Ma dopo di lui il generale inglese Melville e Deluc, figlio, hanno scoperto e dimostrato che Annibale passò in Italia per l'Alpe greca, ossia del Piccolo San Bernardo, passaggio de' più frequentati abantiquo, ed il più comodo, secondo Ebel, che in tutta la giogaia delle Alpi vi sia. Vedi parimente una bella dissertazione del Rezzonico, Tom. I. delle sue Opere. )
382. La Brunetta vicino a Susa, Demont, Exiles, Fenestrelle, Coni, ec.
383. Vedi Ammian. Marcellin. XV. 10. La descrizione, che egli fa delle strade sulle Alpi, è chiara, vivace ed esatta.
384. Zosimo ugualmente ch'Eusebio trascorrono dal passaggio delle Alpi alla decisiva battaglia vicino a Roma. Dobbiamo riportarci a due Panegirici per le azioni che fece Costantino nel tempo di mezzo.
385. Il Marchese Maffei ha esaminato l'assedio e la battaglia di Verona con quella dose di attenzione e di accuratezza, che meritava un'azione memorabile successa nel di lui paese nativo. Le fortificazioni di quella città, costruite da Gallieno, erano meno estese delle moderne mura, nè l'anfiteatro si trovava dentro il recinto di quelle. Vedi Verona illustrata: Part. I. p. 142-150.
386. Mancavano le catene per tanta moltitudine di schiavi, nè sapevasi qual partito prendere nel consiglio; ma il sagace conquistatore felicemente immaginò l'espediente di convertire in ferri lo spade de' vinti. Paneg. Vet. XI. 11.
387. Paneg. Vet. IX. 10.
388. Literas calamitatum suarum indices supprimebat. Panegyr. Vet. IX. 15.
389. Remedia malorum potius quam mala differebat; così censura Tacito acutamente la supina indolenza di Vitellio.
390. Il Marchese Maffei ha ridotto all'ultima probabilità che Costantino fosse per anco a Verona il primo di settembre dell'anno 312 e che la memorabil Era delle indizioni avesse principio dalla conquista ch'ei fece della Gallia Cisalpina.
391. Vedi Paneg. Vet. IX. 16. Lattanz. de M. P. 6. 44.
392. Illo die hostem Romanorum esse periturum. Il Principe vinto divenne, secondo il solito, nemico di Roma.
393. Vedi Paneg. Vet. IX. 16. X. 27. Il primo di questi oratori magnifica la quantità del grano, che Massenzio avea raccolto dall'Affrica e dalle Isole: eppure se qualche fede si dee prestare alla scarsità di cui si fa menzione da Eusebio ( in vit. Constant. l. I. c. 36. ) gl'Imperiali granai non erano aperti che per li soldati.
394. Maxentius... tandem urbe in Saxa Rubra millia ferme novem aegerrime progressus. Aurel. Victor. Vedi Cellar. Geograph. Aut. Tom. I. p. 463. Questo luogo chiamato Saxa Rubra si trovava in vicinanza della Cremera, piccolo ruscello, illustrato dal valore, e dalla morte gloriosa de' 300. Fabj.
395. Il posto che avea preso Massenzio, avendo il Tevere alle spalle, vien con molta chiarezza descritto da due Panegiristi IX. 16. X. 28.
396. Exceptis latrocinii illius primis auctoribus, qui desperata venia locum, quem pugnae sumpserant, texere corporibus. Paneg. Vet. IX. 17.
397. Ben tosto promulgossi un rumore assai vano, che Massenzio, il quale non avea presa precauzione veruna per la sua ritirata, avesse teso un artificiosissimo laccio per distrugger l'armata di chi l'inseguiva; ma che il ponte di legno, che dovea sciogliersi all'arrivo di Costantino, disgraziatamente si ruppe sotto il peso de' fuggitivi Italiani. Tillemont ( Hist. des Empereurs T. IV. Part. I. 657) esamina molto seriamente, se la testimonianza di Eusebio, e di Zosimo contro il senso comune debba prevalere al silenzio di Lattanzio, di Nazario, e dell'Anonimo contemporaneo, che compose il nono Panegirico.
398. Zosimo (l. II, p. 86, 88), ed i due Panegirici, il primo de' quali fu recitato pochi mesi dopo, ci danno una chiarissima idea di questa gran battaglia: e se ne cava ancora qualche util notizia da Eusebio, da Lattanzio, e dall'Epitome.
399. Zosimo, il nemico di Costantino, confessa (l. II. p. 88) che solo pochi amici di Massenzio furon posti a morte; ma è da notarsi quel passo espressivo di Nazario ( Paneg. Vet. X. 6. ) Omnibus, qui labefactari statum ejus poterant, cum stirpe deletis. L'altro Oratore ( Paneg. Vet. IX. 20, 21 ) si contenta d'osservare, che Costantino, quando entrò in Roma, non imitò i crudeli macelli di Cinna, di Mario, o di Silla.
400. Vedi i due Panegirici, e nel Codice Teodosiano le leggi, fatte a tal proposito nell'anno seguente.
401. Paneg. Vet. IX. 20. Lattanz. de M. P. c. 44. Massimino, che senza dubbio era il più antico fra i Cesari, pretendeva con qualche apparenza di ragione il primo posto fra gli Augusti.
402. Adhuc cuncta opera, quae magnifice construxerat. Urbis fanum atque Basilicam Flavii meritis Patres sacravere. Aurel. Victor. Rispetto al furto dei trofei di Traiano vedasi Flaminio Vacca appresso il Montfaucon (Diar. Ital. p. 250) e l'Antiquité expliquée di quest'ultimo: (Tom. IV. p. 171.)
403. Praetoriae legiones, ac subsidia, factionibus aptiora quam Urbi Romae, sublata penitus, simul arma atque usus indumenti militaris. Aurel. Victor. Zosimo (lib. II. p. 89) rammenta questo fatto da Istorico, ed è molto solennemente celebrato nel Panegirico IX.
404. Ex omnibus provinciis optimates viros curiae tuae pigneraveris, ut Senatus dignitas... ex totius Orbis flore consisteret. Nazar. Paneg. Vet. IX. 35. Potrebbe quasi parere adoprata maliziosamente quella parola pigneraveris. Intorno alla tassa de' Senatori vedi Zosimo (l. II. p. 115), il Codice Teodosiano (lib. VI. Tit. 2.) col Cemento del Gottofredo, e le Memorie dell'Accademia delle Iscrizioni (Tom. XXVIII. p. 726.)
405. Possiamo adesso incominciare a descrivere le gite degli Imperatori mediante l'uso del Codice Teodosiano; ma le date sì del tempo, che de' luoghi sono state frequentemente alterate dalla negligenza de' Copisti.
406. Zosimo (l. II. p. 89.) osserva, che la sorella di Costantino era stata promessa in isposa a Licinio avanti la guerra. Secondo Vittore il Giovane, Diocleziano fu invitato alle nozze: ma avendo egli addotto in iscusa per non andarvi, la sua età e le sue malattie, ricevè una seconda lettera piena di rimproveri per la supposta di lui parzialità in favor di Massenzio e di Massimino.
407. Zosimo racconta come fatti ordinari la disfatta e la morte di Massimino; ma Lattanzio ( de M. P. c. 45-50) si diffonde su quelli, attribuendoli ad una miracolosa disposizione del Cielo. Licinio era in quel tempo uno de' protettori della Chiesa.
408. Lattanzio de M. P. c. 50. Aurelio Vittore indica la diversa condotta di Licinio e di Costantino in far uso della vittoria.
409. Si soddisfacevano le sensuali passioni di Massimino a spese de' propri sudditi. Gli Eunuchi di esso, che rapivano a forza le spose e le vergini, con scrupolosa curiosità ne esaminavano le nude bellezze, affinchè non si trovasse parte veruna del loro corpo indegna degli abbracciamenti reali. La ripugnanza e il rifiuto si riguardava come un tradimento, e qualunque bella, che si ostinasse ad esser ritrosa, condannavasi ad esser annegata. Fu appoco appoco introdotto l'uso, che nessuno potesse prender moglie senza la permissione dell'Imperatore « ut in omnibus nuptiis praegustator esset ». Lactant. de M. P. c. 38.
410. Diocleziano finalmente mandò cognatum suum quemdam militarem ac potentem virum per intercedere a favore della sua figlia (Lattanz. de M. P. c. 31). Noi non siamo abbastanza informati dell'istoria di questi tempi per determinar la persona, ch'ebbe tal incumbenza.
411. Valeria quoque per varias provincias quindecim mensibus plebeio cultu pervagata. Lactant. de M. P. c. 51. Vi è qualche dubbio, se i quindici mesi debban contarsi dal tempo dell'esilio, o della fuga di essa. L'espressione pervagata sembra indicare, che si contino dalla fuga; ma in tal caso bisogna supporre, che il trattato di Lattanzio fosse scritto dopo la prima guerra civile tra Licinio, e Costantino. Vedi Cuper p. 254.
412. Ita illis pudicitia et conditio fuit. Lactant. de M. P. c. 51. Questi riferisce le disgrazie delle innocenti moglie e figlia di Diocleziano con una molto natural mescolanza di compassione e di letizia.
413. Il curioso lettore, che voglia consultare il frammento Valesiano (p. 713) mi accuserà forse di darne un'ardita e licenziosa parafrasi; ma se lo considera con attenzione, conoscerà, che la mia interpretazione è probabile e coerente.
414. La situazione di Emona, o come si chiama presentemente, Laybach nella Carniola (Danville, Geog. Anc. T. I. p. 187) può suggerire una congettura. Essendo ella posta al nord-est delle alpi Giulie, quell'importante Territorio divenne un soggetto naturale di controversia fra' Sovrani dell'Italia e dell'Illirico.
415. Cibalis, o Cibalae (di cui conservasi ancora il nome nelle oscure rovine di Swilei) era intorno a cinquanta miglia lontana da Sirmio, capitale dell'Illirico; e circa cento da Taurunum o Belgrado, e dall'unione del Danubio col Savo. Le guarnigioni Romane, e le città poste su que' fiumi sono eccellentemente illustrate dal Danville in una memoria inserita nell'Accademia delle Iscrizioni Tom. 28.
416. Zosimo (l. II, p. 90, 91) descrive minutamente questa battaglia, ma più da retore, che da soldato.
417. Zosimo (l. II. p. 92-93) l'Anonimo Valesiano (p. 713) e l'Epitome ci fan note alcune circostanze; ma confondono spesso le due guerre fra Licinio e Costantino.
418. Petr. Patricius in Excerpt. Legat. p. 27. Se volesse credersi, che γαμβρος più propriamente significasse un genero, che un congiunto, si potrebbe congetturare, che Costantino, assumendo il nome insieme co' doveri di padre, avesse adottato i figli di Teodora suoi fratelli e sorelle minori.
419. Zosimo l. II p. 93. Anon. Valesiano p. 713. Eutrop. X. 5. Aurel. Vittore. Euseb. in Chron. Sozomen. l. I. c. 2. Quattro di questi scrittori affermano, che la promozione dei Cesari fu un articolo del Trattato. Egli è però certo che Costantino e Licinio i Giovani per anche non erano nati: ed è molto probabile, che tal promozione si facesse il primo di Marzo dell'anno 317. Si Era verisimilmente convenuto, che l'Imperator d'Occidente creasse due Cesari, ed uno quello di Oriente; ma ciascheduno di loro si riservò la scelta delle persone.
420. Cod. Theodos. lib. XI. Tit. 27. Tom. IV. p. 188 con le osservazioni del Gottofredo. Vedi anche lib. V. Tit. 7. 8.
421. Omnia foris placita, domi prospera, annonae ubertate, fructuum copia ( Paneg. Vet. X. 58 ). Quest'orazione di Nazario fu pronunziata il giorno de' Quinquennali de Cesari, cioè il primo di Marzo dell'anno 321.
422. Vedasi l'editto di Costantino indirizzato al popolo Romano nel Cod. Teodosiano lib. IX. Tit. 24. Tom. 3. p. 189.
423. Il figliuolo di Costantino assegna molto a proposito la vera causa di questa revocazione « ne sub specie atrocioris judicii aliqua in ulciscendo crimine dilatio nasceretur ». Cod. Theodos. Tom. III. p. 193.
424. Eusebio ( in vit. Const. l. III. c. 1.) osa affermare che durante il regno del suo Eroe la spada della giustizia restò oziosa nelle mani de' Magistrati. Eusebio stesso però (lib. IV. c. 29-54) ed il Codice Teodosiano ci fan conoscere, che quest'eccessiva dolcezza non era dovuta alla mancanza nè di atroci delinquenti, nè di leggi penali.
425. Nazario Paneg. Vet. IX. Si trova espressa in alcune medaglie la vittoria di Crispo sugli Alemanni.
426. Vedi Zosimo l. II. p. 93, 94, quantunque non sia la narrazione di quell'Istorico nè coerente, nè chiara. Il panegirico di Optaziuno (c. 13.) rammenta l'alleanza de' Sarmati co' Carpi e coi Goti, e indica i diversi campi di battaglia. Si suppone che i giuochi Sarmatici, che si celebravano nel mese di Novembre, avessero avuto origine dal buon successo di questa guerra.
427. Ne' Cesari di Giuliano (p. 329, Comment. di Spanemio p. 252.) Costantino si vanta d'aver ricuperato la provincia della Dacia, soggiogata già da Traiano; ma soggiunge Sileno, che le conquiste di Costantino erano come i giardini d'Adone, che languiscono e si seccano quasi nel momento stesso che nascono.
428. Giornand. de reb. Getic. c. 21. Io non so quanto possiam fidarci della sua autorità. Un'alleanza di questa sorta ha un'aria molto recente, e difficilmente si può applicare alle massime, elle si avevano al principio del quarto secolo.
429. Eusebio in vit. Constant. l. 1. c. 8. Questo passo però è preso da una generale declamazione sulla grandezza di Costantino, ma da alcun racconto speciale della guerra Gotica.
430. Constantinus tamen, vir ingens, et omnia efficera nitens, quae animo preparasset, simul Principatum totius orbis affectans, Licinio bellum intulit. Eutrop. X. 5, Zosimo l. II. p. 89. Le ragioni, ch'essi hanno addotto per la prima guerra civile, possono applicarsi piuttosto alla seconda.
431. Zosimo l. II. p. 94, 95
432. Costantino avea gran cura di concedere privilegi e sollievi a' suoi veterani compagni (conveterani) com'egli comincia in questo tempo a chiamarli (Vedi il Codi. Teodosian. lib. VII. Tit. 20. Tom. II. p. 419, 429.).
433. Quando gli Ateniesi avevan l'impero del mare, la loro flotta era composta di trecento, e dopo di quattrocento galere a tre ordini di remi, tutte ben allestite, e pronte all'immediato servizio. L'arsenale, fatto nel porto di Pireo, costò alla Repubblica mille talenti, che sono quattrocentoquarantamila zecchini. Vedi Tucidide de bell. Pelloponnes. lib. II. c. 13 e Meursio de fortificat. Attica, c. 19.
434. L. II. p. 95, 96. Nel frammento Valesiano descrivesi tal battaglia brevemente, ma con chiarezza: Licinius vero circa Hadrianopolim maximo exercitu latera ardui montis impleverat: illuc toto agmine Constantinus inflexit. Cum bellum terra marique traheretur, quamvis per arduum suis nitentibus, attamen disciplina militari et felicitate, Constantinus, Licinii confusum, et sine ordine agentem vicit exercitum, leviter femore sauciatus.
435. Zosimo l. II. p. 97-98. La corrente sempre viene dalla parte dell'Ellesponto, e quando è aiutata da un vento settentrionale, nessun vascello può arrischiarsi a passare, ma un vento meridionale rende la corrente quasi insensibile. Vedi il Viaggio di Tournefort in Levante. Let. XI.
436. Aurelio Vittore, Zosimo l. II p. 98. Secondo quest'ultimo, era Martiniano Magister officiorum, usando egli la frase latina in greco. Sembra che alcune medaglie indichino, che durante il suo breve regno ricevesse il titolo d'Augusto.
437. Eusebio ( in vit. Constant. l. II. c. 16. 17.) attribuisce tal decisiva vittoria alle devote preci dell'Imperatore. Il frammento Valesiano (p. 714.) fa menzione d'un corpo di Goti ausiliari sotto il loro Capo Aliquaca, ch'erano del partito di Licinio.
438. Zosimo l. II. p. 102. Vittore il Giovane nell'Epitome. Anon. Valesiano p. 714.
439. Contra religionem sacramenti Thessalonicae privatus occisus est. Eutropio (X); e la sua testimonianza vien confermata da S. Gerolamo (in Chronic. ) e da Zosimo (l. II p. 102.) Lo scrittore Valesiano è il solo, che faccia menzione de' soldati, e Zonara solamente chiama in aiuto il Senato. Eusebio salta prudentemente questo passo delicato; ma Sozomeno, cento anni dopo, incomincia ad asserire che Licinio tentava tradimenti.
440. Vedi il Codice Teodosiano lib. XV. Tit. 15. Tom. V. p. 404-405. Questi editti di Costantino dimostrano una dose di passione, ed una precipitazione che molto poco si convengono al carattere di Legislatore.
441. Dum Assyrios penes, Medosque, et Persas oriens fuit, despectissima pars servientium, Tacit. Hist. V. 8. Erodoto, che visitò l'Asia, quand'era soggetta all'ultimo di questi Imperj, fa superficial menzione de' Sirj della Palestina, che, secondo la propria lor confessione, avevan ricevuto il rito della circoncisione dall'Egitto. Vedi l. II. c. 104.
442. Diodoro Siculo, l. XI. Dion. Cassio l. XXXVII. p. 121. Tacit., Hist. V. 1-9 Giustin. XXXVI. 2, 3.
443.
Tradidit arcano quaecumque volumine Moses,
Non mostrare vias eadem nisi sacra colenti,
Quaesitos ad fontes solos deducere verpos.
Le parole di questa legge non si trovano presentemente ne' libri di Mosè. Ma il saggio, l' umano Maimonide apertamente insegna, che se un idolatra cade nell'acqua, non deve il Giudeo soccorrerlo per salvarlo dalla morte imminente. Vedi Basnag. Hist. des Juifs l. VI. c. 28.
444. Alcuni Giudei, chiamati Erodiani da Erode, per l'esempio ed autorità del quale erano stati sedotti, formarono una setta, la quale adattavasi ad una specie di conformità accidentale; ma il loro numero fu così piccolo, e così breve la loro durata, che Gioseffo non gli ha neppure creduti degni di farne menzione. Vedi Prideaux Vol. II. p. 285.
445. Cicer. pro Flacco c. 23.
446. Philo de legatione. Augusto lasciò un fondo per un sacrifizio perpetuo. Ciò nonostante approvò il disprezzo che verso il Tempio di Gerusalemme dimostrava Caio di lui nipote. Vedi Svetonio ( in Aug. c. 93) e le note del Casaubono a quel luogo.
447. Vedi specialmente Gioseffo ( Antiq. XVII. 6. XVIII. 3 de bell. Judaic. I 33. II. 9. Ediz. Havercamp.)
448. Jussi a Cajo Caesare effigiem ejus in Templo locare, arma potius sumpsere. Tacit. Hist. V. 9. Filone, e Gioseffo danno una ben circostanziata, ma molto retorica narrazione di questo fatto, che pone in un'estrema perplessità il Governatore della Siria. Alla prima proposta di tal atto idolatrico il Re Agrippa restò privo di sensi, nè potè ricuperarne l'uso che dopo tre giorni.
449. Quanto al numero delle Deità Siriache ed Arabiche è da osservarsi, che Milton in centotrenta bellissimi versi ha compreso le due vaste ed erudite raccolte, che ha fatte il Seldeno su tal astruso argomento.
450. Tutto ciò che appartiene ai proseliti degli Ebrei, è stato molto eruditamente trattato dal Basnagio ( Hist. des Juifs l. VI, c. 6, 7).
451. Vedi Exod. XXIV. 23. Deuter. XVI. 16, i Commentatori ed una nota molto considerabile nell'Istoria universale. Vol. I. p. 603 ediz. in fol.
452. Quando Pompeo, servendosi, o abusando piuttosto del diritto di conquistatore, entrò nel Sancta Sanctorum, fu osservato con istupore nulla intus Deum effigie vacuam sedem et inania arcana. Tacit. Histor. V. 9. Relativamente a' Giudei questo era un detto popolare, che
Nil praeter nubes, et coeli numen adorant.
453. I proseliti Samaritani, o Egizj erano sottoposti ad una seconda specie di circoncisione. Può vedersi un'ostinata indifferenza de' Talmudisti rispetto alla conversione degli stranieri appresso Basnagio ( Hist. des Juifs l. VI c. 6.)
454. Questi argomenti furono con grand'ingenuità sostenuti dall'Ebreo Orobio, e confutati con ugual candore dal Cristiano Limborchio. Vedi l' Amica Collatio (merita essa ben questo nome) ovvero il ragguaglio della disputa, che si fece tra loro.
455. Jesus... circumcisus erat; cibis utebatur Judaicis, vestitu simili; purgatos scabie mittebat ad sacerdotes: Paschata et alios dies festos religiose observabat: si quos sanavit sabatho, ostendit non tantum ex lege, sed et exceptis sententiis talia opera sabatho non interdicta. Grotius de verit. Relig. Christ. l. V. c. 7. Poco dopo (c. 12.) egli si diffonde sulla condiscendenza degli Apostoli.
456. Pene omnes Christum Deum sub legis observatione credebant Sulpic. Sever. II. 31. Vedi Euseb. Hist. Eccl. l. IV. c. 5.
457. Mosheim. de rebus Christ. ante Constantinum M. p. 153. In quest'opera magistrale, ch'io avrò occasione di citare frequentemente, egli parla con molta maggior estensione dello stato della primitiva Chiesa, di quel che abbia luogo di farlo nella sua Storia generale.
458. Euseb. (l. III. c. 5.) Le Clerc. ( Hist. Eccl. p. 605.) Nel tempo di quest'accidentale assenza la Chiesa di Pella col proprio Vescovo ritenne sempre il nome di Gerusalemme. Nella istessa guisa i Pontefici Romani risederono per settant'anni in Avignone, ed i Patriarchi d'Alessandria da gran tempo han trasferito al Cairo la sede loro Episcopale.
459. Dion. Cassio (l. LXIX). Attesta l'esilio della nazione Giudaica da Gerusalemme Aristone di Pella ( ap. Enseb. l. IV. c. 6) e ne fanno menzione molti scrittori ecclesiastici: sebbene alcuni di loro estendano troppo incautamente questa proibizione a tutta la Palestina.
460. Euseb. (l. IV. c. 6). Sulpic. Severo. II. 31. Mosemio confrontando insieme i loro imperfetti racconti (p. 327) ha formata una ben distinta istoria delle circostanze, e de' motivi di questa rivoluzione.
461. Sembra che le Clerc ( Hist. Eccl. p. 477, 535.) abbia raccolto da Eusebio, Girolamo, Epifanio, ed altri scrittori, tutte le principali circostanze relative a' Nazareni o Ebioniti. Per la natura stessa delle lor opinioni si divisero ben presto in due Sette, una più rigorosa, l'altra più dolce; e v'è qualche motivo di congetturare, che la famiglia di Gesù Cristo si trovasse fra' membri almeno del secondo più moderato partito.
462. Alcuni scrittori han voluto creare un Ebione, immaginario autore della Setta, e del nome di essi: ma con maggior sicurezza può credersi all'erudito Eusebio che al veemente Tertulliano, o al credulo Epifanio. Secondo le Clerc, la parola Ebraica Ebionim corrisponde alla Latina Paupares. Vedi ( Hist. Eccl. p. 477.)
463. Vedi il Dialogo molto curioso di Giustino martire con Trifone giudeo. Seguì conferenza fra loro in Efeso al tempo di Antonino Pio, a circa venti anni dopo il ritorno della Chiesa di Pella in Gerusalemme. Per questa data si consulti ciò che nota diligentemente il Tillemont ( Memoir. Eccles. Tom. II. p. 54).
464. Fra tutte le Sette Cristiane quella dell'Abissinia è la sola, che sempre osserva i riti Mosaici (Ist. Ecclesiast. di Etiopia di Geddes, e dissertazione di le Grand sulla relazione del P. Lobo). L'eunuco della Regina Candace potrebbe somministrare qualche sospetto; ma siccome siam certi (Socrat. I. 19; Sozomen. II. 24. Ludolph. p. 281) che gli Etiopi non furon convertiti prima del quarto secolo, è più ragionevol di credere ch'essi venerassero il sabbato, e distinguessero i cibi vietati ad imitazione de' Giudei, che molto per tempo si erano stabiliti sopra ambe le rive del Mar Rosso. Era stata praticata la circoncisione da' più antichi Etiopi per motivi di pulizia e di salute, come sembra esser dimostrato nelle Ricerche filosofiche su gli Americani. (Tom. II. p. 117).
465. Beausobre ( Hist. du Manicheisme l. I. c. 3) ha determinato le lor' obbiezioni, specialmente quelle di Fausto, avversario di Agostino, colla più dotta imparzialità.
466. Apud ipsos fides obstinata, misericordia in promptu: adversus omnes alios hostile odium. Tacit. ( Hist. V. 5). Sicuramente avea Tacito riguardato gli Ebrei con occhio troppo favorevole. La lettura di Gioseffo avrebbe potuto distrugger l'antitesi.
467. Il Dottore Burnet ( Archaeolog. l. II. c. 7) ha discusso i primi capitoli della Genesi con troppa libertà ed acutezza.
468. I Gnostici più moderati risguardavano Jeova, il Creatore, come un ente di una natura di mezzo fra quella di Dio, e del Demonio. Altri lo confondevano col principio cattivo. Si consulti il secondo secolo dell'Istoria generale di Mosemio, che fa una breve ma assai distinta narrazione degli strani lor pensamenti su tal soggetto.
469. Vedi Beausobre Histoire du Manicheisme ( liv. I. c. 4.) Origene e S. Agostino si contano fra gli allegoristi.
470. Hegesipp. presso Eusebio (l. III. 32. IV. 22.) Clement. Aless. Strom. VII. 17.
471. Relativamente ai Gnostici del secondo e del terzo secolo, Mosemio è ingegnoso ed ingenuo; le Clerc pesante, ma esatto; Beausobre quasi sempre apologista; e v'è gran motivo di temere, che i primitivi Padri siano bene spesso calunniatori.
472. Vedi i cataloghi d'Ireneo e d'Epifanio. Bisogna confessare però, che questi Scrittori erano inclinati a moltiplicare il numero delle Sette, che opponevansi all' unità della Chiesa.
473. Eusebio (l. IV. c. 15, ) Sozomeno (lib. II. c. 32). Vedasi appresso Bayle, nell'articolo Marcione, un curioso ragguaglio di una disputa su tal articolo. Parrebbe, che alcuni fra i Gnostici (vale a dire i Basilidiani) evitassero, ed anche ricusassero l'onor del martirio. Le lor ragioni erano singolari ed astruse. Vedi Mosem. p. 359.
474. Vedasi un passo molto considerabile di Origene ( Proem. ad Lucam. ). Quest'istancabile scrittore, che avea consumata la propria vita nello studio delle Scritture, per la loro autenticità si riferisce all'inspirata autorità della Chiesa. Egli era impossibile, che i Gnostici potessero ammettere i presenti nostri Evangeli, una gran parte dei quali (specialmente rispetto alla Risurrezione di Cristo) è direttamente, e come può sembrare, a bella posta formata contro le opinioni lor favorite. Ond'è alquanto singolare che Ignazio ( Epist. ad Smirn. Patr. Apost. Tom. II. p. 34) volesse far uso di una dubbiosa ed incerta tradizione, piuttosto che citare la sicura testimonianza degli Evangelisti.
475. Faciunt favos et vespae; faciunt ecclesias et Marcionitae. Questa è la forte espressione di Tertulliano, che io son costretto di citare a memoria. Al tempo di Epifanio ( adv. Haeres. p. 302) i Marcioniti eran molto numerosi nell'Italia, nella Siria, nell'Egitto, nell'Arabia, e nella Persia.
476. Agostino somministra un memorabil esempio di questo successivo progresso dalla ragione alla fede. Esso fu per molti anni impugnato nella setta de' Manichei.
477. L'unanime sentimento della primitiva Chiesa è molto chiaramente spiegato da Giustino martire ( Apolog. Major. ), da Atenagora ( Legat. c. 22. ec.), da Lattanzio ( Inst. Divin. II. 14-19).
478. Tertulliano ( Apol. c. 23) allega la confessione degli stessi Demonj, ogni volta che venivano tormentati dagli Esorcisti Cristiani.
479. Tertulliano ha composto un rigidissimo trattato contro l'idolatria per cautelare i suoi fratelli dal continuo pencolo di cadervi. Recogita sylvam, et quantae latitant spinae. De Corona Militis c. 10.
480. Il Senato Romano si adunava sempre in un Tempio o in altro luogo consacrato (Aul. Gellio XIV). Avanti di entrare in materia, ogni Senatore versava una porzione di vino e d'incenso sopra l'altare. Sueton. in August. c. 35.
481. Vedi Tertulliano De spectaculis. Questo rigoroso riformatore non si dimostra più indulgente per una tragedia d'Euripide, che per un combattimento di gladiatori. L'offende specialmente la maniera di vestir degli attori; questi coll'uso di alti coturni tentavano empiamente di accrescere un cubito alla loro statura (c. 23).
482. Si può trovare appresso tutti i Classici l'antica usanza di chiudere i conviti con libazioni. Socrate e Seneca diedero negli ultimi loro momenti un nobil esempio di tal costume. Postquam stagnum calidae aquae introiit, respergens proximos servorum, addicta voce, libare se liquorem illum Jovi liberatori. Tacit. Annal. XV. 64.
483. Vedi l'elegante ma idolatrico inno di Catullo sopra le nozze di Manlio, o di Giulia. O Hymen, Hymenaee Io! quis huic Deo comparariet ausit?
484. Virgilio descrive ne' funerali di Miseno e di Pallante le antiche usanze con esattezza non minore di quella, con cui sono illustrati dal di lui commentatore Servio. Il rogo medesimo era un altare; si nutrivano le fiamme col sangue delle vittime; e tutti gli assistenti erano aspersi d'acqua lustrale.
485. Tertullian. de Idol. c. 11.
486. Vedi le Antichità di Montfaucon in ogni parte. Fino i rovesci delle monete Greche e Romane spesso erano idolatrici, ma in quest'occasione gli scrupoli de' Cristiani eran sospesi da una passione più forte.
487. (Tertullian. de Idol. c. 20, 21, 22.) Se un amico Pagano (nello starnutar per esempio d'alcuno) usava la famigliar espressione, Giove ti salvi, era obbligato il Cristiano a protestar contro la divinità di Giove.
488. Si consulti l'opera la più elaborata ma la più imperfetta di Ovidio, vale a dire i Fausti. Egli non oltrepassò i primi sei mesi dell'anno. La compilazione di Macrobio, che porta il nome di Saturnali, non è che una piccola parte del primo libro, che ha qualche rapporto a quel titolo.
489. Tertulliano ha composto una difesa, o piuttosto un panegirico della troppo ardita azione di un soldato cristiano, che gettando via la sua corona di lauro, aveva esposto se medesimo ed i suoi fratelli al più imminente pericolo. Dalla menzione, ch'ei fa degl' Imperatori Severo e Caracalla, egli è chiaro, non ostante la brama del Tillemont, che Tertulliano compose il suo trattato de Corona molto tempo avanti che si impegnasse negli errori de' Montanisti. Vedi Memor. Eccl. (Tom. III. p. 384).
490. Il primo libro delle Quistioni Tusculane in ispecie, il trattato De Senectute ed il Sogno di Scipione contengono nel più bello stile tutto ciò, che la Greca Filosofia, o il buon senso Romano potea suggerire in quest'oscuro, ed importante soggetto.
491. La preesistenza delle anime umane, in quanto almeno tal dottrina è conciliabile con la religione, fu adottata da molti de' Padri Greci e Latini. Vedi Beausobre Hist. du Manicheisme (l. VI. c. 4).
492. Vedi Cicerone pro Cluentio c. 61. Cesare ap. Sallust. de bello Catil. c. 50. Giovenale Sat. II. 149, ove così si esprime.
Esse aliquos manes et subterranea regna,
··············
Nec pueri credunt, nisi qui nondum aere lavantur.
493. L'undecimo libro dell'Odissea dà la più terribile ed incoerente idea delle ombre infernali. Tal pittura è stata molto abbellita da Pindaro e da Virgilio; ma anche questi Poeti, quantunque siano più corretti del grande loro maestro, sono ciò nonostante caduti in molte stravaganti incoerenze. Vedi Bayle Reponse aux questions d'un Provincial P. III. c. 22.
494. Vedi l'Epistola 16 del primo libro d'Orazio, la Satira 13 di Giovenale, e la seconda Satira di Persio. Questi discorsi popolari esprimono il sentimento e il linguaggio della moltitudine.
495. Se vogliam limitarci ai popoli Galli, si può osservare ch'essi non solo affidavano le loro vite, ma anche la lor moneta alla sicurezza dell'altro mondo. Vetus ille mos Gallorum occurrit (dice Valerio Massimo lib. II. c. 6. p. 10) quod memoria proditum est, pecunias mutuas, quae his apud inferos redderentur, dare solitos. La medesima usanza è più oscuramente indicata da Mela (l. III. c. 2). Egli è quasi inutile d'aggiungere, che i profitti di tal commercio eran sempre in una proporzione corrispondente al credito del mercante, e che i Druidi eran quelli, che dalla santa lor professione traevano un carattere di credibilità, che difficilmente si potrebbe assumere da qualunque altra classe di uomini.
496. L'Autore della Divina Legazione di Mosè adduce un motivo assai curioso di tal omissione, o molto ingegnosamente la ritorce contro i miscredenti.
497. Vedi Le Clerc. Prolegom. ad hist. Ecle. c. I. Sect. 8. Sembra, che l'autorità di lui sia di grandissimo peso, avendo egli scritto un dotto e giudizioso Comentario su' libri del vecchio Testamento.
498. Josephus Antiq. l. XIII. c. 18. Secondo l'interpretazione più naturale delle sue parole, i Sadducei non ammettevano che il Pentateuco; ma è piaciuto ad alcuni moderni critici di aggiungere al loro Credo anche i Profeti, o di supporre che si contentassero solo di rigettar le tradizioni de' Farisei. Il Dottore Jortin ha discusso tal articolo nelle sue Osservazioni sopra l'Istoria Ecclesiastica, vol. II. p. 103.
499. Tale aspettativa era sostenuta dal capo 24. di S. Matteo, e dalla prima lettera di S. Paolo a' Tessalonicensi. Erasmo toglie la difficoltà coll'aiuto dell'allegoria e della metafora, e l'erudito Grozio cerca di persuadere che per providi fini fu permesso, che si stabilisse quella pia illusione.
500. Vedi la Teoria sacra di Burnet P. III. c. 5. Questa tradizione si trova già stabilita fino al tempo dell'Autore dell'Epistola di Barnaba, che scrisse nel primo secolo, e che sembra essere stato mezzo Giudeo.
501. La chiesa primitiva d'Antiochia contava quasi 6000 anni dalla creazion del mondo alla nascita di Cristo. Africano, Lattanzio, e la Chiesa Greca avean ridotto quel numero a 5500, ed Eusebio si è contentato di 5200 anni. Questi calcoli eran fondati sulla version de' Settanta, ch'era universalmente ricevuta ne' primi sei secoli. L'autorità della Volgata, e del testo Ebraico ha determinato i moderni, sì Cattolici che Protestanti a preferire un periodo di circa 4000 anni; quantunque nello studio dell'antichità profana, spesse volte si trovino essi angustiati da così stretti confini.
502. Furon prese moltissime di queste pitture dalla falsa interpretazione d'Isaia, di Daniele, e dell'Apocalisse. Può trovarsene una delle più grossolane immagini appresso Ireneo (l. V. p. 455) discepolo di Papia, che aveva veduto l'Apostolo S. Giovanni.
503. La testimonianza di Giustino, e la fede con cui egli ed i suoi fratelli ortodossi credevano alla dottrina del Millenio si chiariscono nel modo più lucido o solenne ( Dial. cum Tryph. Jud. p. 177, 178 ed. Benedit.). Se nel principio di quest'importante passaggio si scopre qualche cosa che sembra incoerente, noi possiamo accusarne, come più ci piacerà, o l'autore, o il suo traduttore.
504. Vedi il secondo Dialogo di Giustino con Trifone, ed il libro settimo di Lattanzio. Poichè il fatto è fuor di dubbio, non è necessario enumerare tutti i Padri di mezzo. Il lettore curioso può consultare Daille de Usu Patrum, (l. II, c. 4)
505. Dupin ( Biblioth. Eccles. Tom. I. p. 223. Tom. II. p. 366) e Mosemio (p. 720) quantunque l'ultimo di questi dotti Teologi non sia totalmente ingenuo in quest'occasione.
506. Nel Concilio di Laodicea, tenuto circa l'anno 360, l'Apocalisse fu tacitamente esclusa dal Canone de' libri sacri per decreto di quelle medesime Chiese Asiatiche, alle quali essa era indirizzata, e possiam rilevare da' lamenti di Sulpizio Severo, che la lor sentenza era stata confermata dalla maggior parte de' Cristiani del suo tempo. Per quali cagioni dunque l'Apocalisse al presente vien così generalmente ammessa dalle Chiese, Greca, Romana e Protestante? Possono assegnarsene le seguenti: I. I Greci restaron vinti dall'autorità di un impostore che nel sesto secolo usurpò il carattere di Dionisio Areopagita; II. Un giusto timore, che i Grammatici non divenissero più importanti de' Teologi, impegnò il Concilio di Trento ad apporre il sigillo della propria infallibilità a tutti i libri della Scrittura contenuti nella Volgata Latina, nel numero de' quali entrava per buona ventura l'Apocalisse (Fra Paolo Istor. del Concil. Triden. l. II.) III. Il vantaggio di rivolger quelle misteriose profezie contro la sede Romana, inspirò ai Protestanti una singolar venerazione per un alleato sì comodo. Vedi gl'ingegnosi ed eleganti discorsi del presente Vescovo di Litchfield su questo spinoso soggetto.
507. Lattanzio ( Instit. Div. VII. 15. ec.) riferisce l'orribile istoria di quel che dovea seguire con grand'eloquenza e vivezza.
508. Ogni lettore di buon gusto potrà consultare su questo articolo la terza parte della Teoria sacra di Burnet. Egli unisce insieme con un magnifico sistema la filosofia, la Scrittura e la tradizione; e nel descriverlo mostra una forza di fantasia non inferiore a quella di Milton medesimo.
509. Eppure, qualunque siasi l'espressione de' particolari, questa è sempre la pubblica dottrina di tutte le Chiese Cristiane; nè la stessa Chiesa Anglicana può rifiutare di ammettere le conchiusioni che si debbono trarre da' suoi articoli 8.º e 18.º I Giansenisti, che hanno sì diligentemente studiate le opere de' Padri, sostengono con distinto zelo questa sentenza, e l'erudito Tillemont non lascia mai di parlare di un virtuoso Imperatore senza pronunziarne la condanna. Zuinglio è forse il solo Capo di un partito, che ha sempre adottato l'opinione più dolce, e questi ha dato non minore scandalo ai Laterani che ai Cattolici. Vedi Bossuet. Hist. des variat. des Eglises Protest. (l. II. c. 19, 22.)
510. Giustino e Clemente d'Alessandria confessano, che alcuni filosofi furono istruiti dal Logos, confondendo il doppio significato, che ha questa parola, della ragione umana, e del Divin Verbo.
511. Tertullian. De Spectac. c. 30. Per mettere in mostra il grado di autorità che lo zelante Affricano aveva acquistato, basterà citare la testimonianza di Cipriano, dottore e guida di tutte le chiese occidentali. (Vedi Prud. Inno XIII. 100.) Ogni volta ch'egli applicavasi al giornaliero suo studio delle Opere di Tertulliano, soleva dire, « Da mihi magistrum » Datemi il mio maestro. ( Hyeronym. de Viris Illustribus, tomo I. p. 284).
512. I sotterfugi del Dottor Middleton non possono servire a far perdere di vista i chiari vestigi delle visioni, e dell'inspirazione che si vedono appresso i Padri Apostolici.
513. Il Dottor Middleton (Ricerca libera p. 96. ec.) osserva, ch'essendo tal pretensione più difficile di tutte le altre a sostenersi per mezzo dell'arte, fu la più pronta a cedere. L'osservazione s'accorda colla sua ipotesi.
514. Atenagora in Legation. Giustino Mart. Cohort. ad gentes, Tertull. adversus Marcion. l. IV. Queste descrizioni non son molto dissimili da quel furore profetico, pel quale Cicerone ( De Divinat. II. 54.) mostra così poco rispetto.
515. Tertulliano ( apolog. c. 23 ) arditamente sfida i Magistrati Pagani su questo punto. Fra' primitivi miracoli il potere di esorcizzare è l'unico che sia stato ammesso da' Protestanti.
516. Ireneo adv. Haeres. (l. II. 56, 57, l. V. c. 6.) Dodwell ( Dissert. ad Iraeneum II. 42.) stabilisce, che il secondo secolo fu anche più abbondante del primo in miracoli.
517. Theophil. ad Antolycum l. II. p. 77.
518. Il Dottore Middleton diede alla luce la sua Introduzione l'anno 1747; pubblicò la sua Libera Ricerca nel 1749 ed avanti la sua morte, che avvenne nel 1750, aveva preparato una difesa della medesima contro i suoi numerosi avversari.
519. L'università d'Oxford conferì i gradi agli oppositori di lui. Dall'amarezza di Mosemio (p. 221.) possiamo dedurre i sentimenti de' teologi Luterani.
520. Può sembrare alquanto notabile, che Bernardo di Chiaravalle, il quale racconta tanti miracoli del suo amico S. Malachia, non faccia mai veruna menzione de' propri, che però vengono diligentemente riferiti da' compagni e discepoli di lui. Nel lungo corso dell'Istoria Ecclesiastica si trova egli mai un solo esempio di un Santo, che affermi di aver egli posseduto il dono de' miracoli?
521. La conversione di Costantino è l'Era più comunemente fissata da' Protestanti. I Teologi più ragionevoli non son disposti ad ammettere i miracoli del quarto secolo, mentre i più creduli non vogliono rigettar quelli del quinto.
522. Si rappresentano molto chiaramente le imputazioni di Celso e di Giuliano insieme colla difesa de' Padri da Spaurmio ( Commentaire sur les Césars de Julien p. 468.)
523. Plinio Epist. X. 97.
524. Tertullian. Apolog. c. 44. Egli soggiunge però con qualche dubbiezza, « aut si aliud, jam non Christianus ».
525. Il filosofo Pellegrino (della vita, e morte del quale ci ha lasciato Luciano un piacevol racconto) imposturò per lungo tempo la credula semplicità de' Cristiani dell'Asia.
526. Vedi un molto giudizioso trattato di Barboyrac sur la Morale dei Pères.
527. Lactant. Divin. Institut. l. VI. c. 20, 21, 22.
528. Vedasi l'opera di Clemente Alessandrino intitolata Il Pedagogo, che contiene gli elementi d'Etica, quali insegnavansi nelle più celebri scuole Cristiane.
529. Tertulliano de Spectacul. c. 23. Clemente Alessandrino Pedagog. (lib. III. c. 8.)
530. Beausobre ( Hist. Critiq. du Manicheisme l. VII. c. 3.) Giustino, Gregorio, Nisseno, Agostino ec. erano fortemente inclinati a quest'opinione.
531. Alcuni fra gli eretici Gnostici erano più coerenti: essi rigettavano l'uso del matrimonio.
532. Vedasi una serie continuata di tradizioni, da Giustino Martire sino a Girolamo nella Morale de' Padri (c. IV. 6-26.)
533. Vedi una molto curiosa dissertazione sulle Vestali nelle Memorie dell'Accademia delle Iscrizioni (Tom. II. p. 161-227.) Nonostanti gli onori, ed i privilegi concessi a quelle vergini, era difficile di trovarne un numero sufficiente; nè il timore della morte più orribile potè sempre tenere in freno la loro incontinenza.
534. Cupiditatem procreandi aut unam scimus aut nullam. Minucius Felix c. 21, Justin. Apolog. Major. Athenagor. in Legat. c. 28, Tertull. de cult. foeminar. l. 2.
535. Euseb. l. VI 8. Avanti che la fama d'Origene avesse risvegliato l'invidia, e la persecuzione, quest'azione straordinaria era piuttosto ammirata, che censurata. Siccome aveva egli generalmente l'uso d'interpretare allegoricamente la Scrittura, sembra una disgrazia, che in questo sol caso dovesse adottare il senso letterale.
536. Cipriano, Ep. 4, e Dodwell, Dissert. Cyprian. III. Qualche cosa di simile a questo temerario tentativo, fu lungo tempo dopo, attribuite al fondatore dell'ordine di Fontevrault. Bayle ha divertito se, ed i suoi lettori intorno a questo assai delicato soggetto.
537. Dupin ( Bibl. Eccles. Tom. I. p. 195.) fa un particolar racconto del dialogo delle dieci vergini, quale fu composto da Metodio Vescovo di Tiro. Le lodi della verginità sono eccessive.
538. Gli Ascetici fin dal secondo secolo incominciarono a far pubblica professione di mortificare i lor corpi, e di astenersi dall'uso della carne e del vino. Mosemio p. 310.
539. Vedi la Morale de' Padri. Furono dopo la Riforma rinnovati gli stessi pazienti principj da' Sociniani, da' moderni Anabattisti, e da' Quaccheri. Barclai, ch'è l'apologista di questi ultimi, ha patrocinato i propri fratelli coll'autorità de' primitivi Cristiani p. 542-549.
540. Tertull. Apolog. c. 21. De Idol. c. 17. 18. Origene contra Celsum (l. V. p. 253. l. VII. p. 348. lib. VIII. p. 423-428.)
541. Tertulliano ( De corona Milit. c. 11.) suggerisce loro l'espediente di disertare: consiglio, che se fosse stato generalmente noto, non era molto a proposito per conciliare alla Religione Cristiana il favore degl'Imperatori.
542. Per quanto noi possiam giudicare dalla mutilata rappresentazione d'Origene (l. VIII. p. 423), Gelso, di lui avversario, avea sostenuto la sua obbiezione con gran forza, e candore.
543. Il partito aristocratico in Francia, ed in Inghilterra ha fortemente sostenuto l'origine divina de' Vescovi; ma i Preti calvinisti non han voluto soffrire un superiore, ed il Romano Pontefice ha ricusato di riconoscere un uguale. Vedi Fra Paolo.
544. Nell'istoria della Gerarchia Cristiana ho per lo più seguitato il dotto ed ingenuo Mosemio.
545. Quanto a' Profeti della primitiva Chiesa vedi Mosem. Dissert. ad Hist. Ecles. pertinentes Tom. II. p. 132-208
546. Vedi le Epistole di S. Paolo, e di Clemente a' Corintj.
547. Hooker Ecclesiast. Polizia. l. VII.
548. Vedi Girolamo ad Titum c. 1. ed Epist. 85. (nell'Ediz. Benedettin. 101.) e l'elaborata apologia di Blondello pro sententia Hieronymi. L'antico stato del Vescovo, e de' Preti d'Alessandria, qual è descritto da Girolamo riceve una considerabil conferma dal Patriarca Eutichio ( Annal. Tom. I. p. 330. vers. Pocock ), di cui non so come possa rigettarsi la testimonianza malgrado tutte le obbiezioni del dotto Pearson nelle sue Vindiciae Ignatianae Part. I. c. II.
549. Vedasi l'introduzione all'Apocalisse. I Vescovi sotto il nome di Angeli erano già instituiti in sette Città dell'Asia. Eppure l'Epistola di Clemente (ch'è probabilmente di uguale antichità) non ci conduce a scoprire alcuna traccia d'Episcopato nè a Corinto, nè a Roma.
550. Nulla Ecclesia sine Episcopo, è stato un fatto non meno che una massima, fin dal tempo di Tertulliano e d'Ireneo.
551. Superate le difficoltà del primo Secolo, troviamo il governo Episcopale universalmente stabilito, finchè restò interrotto dal genio repubblicano de' riformatori Svizzeri e della Germania.
552. Vedi Mosemio nel primo e secondo secolo. Ignazio ( ad Smyrnaeos c. 3. ec.) esalta con trasporto la dignità Episcopale. Le Clerc ( Hist. Eccles. p. 569) censura molto arditamente la di lui condotta. Mosemio con un giudizio più critico (p. 161) sospetta della genuinità eziandio delle più brevi Epistole.
553. Nonne et Laici sacerdotes sumus? Tertull. Exhor. ad castitat. c. 7. Siccome il cuore umano è sempre il medesimo, così molte osservazioni, che Hume ha fatto sull'entusiasmo (Saggi vol. l. p. 76 dell'Edizione in 4) possono applicarsi anche alla reale inspirazione.
554. Acta Concil. Carthag. apud Cyprian. Edit. Fell. p. 158. Questo Concilio era composto di ottantasette Vescovi delle Province di Mauritania, Numidia ed Affrica; ed alcuni Preti, e Diaconi assisterono all'assemblea, praesente plebis maxima parte.
555. Aguntur praeterea per Graecias illas certis in locis concilia ec. Tertullian. de Jejun c. 13. L'Affricano scrittore ne fa menzione come di un'istituzione recente e straniera. L'alleanza dello Chiese Cristiane spiegasi molto giudiziosamente da Mosemio p. 164-170.
556. Cipriano nel suo ammirato libro de unitate Ecclesiae p. 75-86.
557. Noi possiam in tutto e per tutto riferirci al contegno, alla dottrina ed alle lettere di Cipriano. Le Clerc in una breve vita, che ne ha fatto ( Biblioth. Univers. tom. XII. p 307-378.) l'ha rappresentato con gran libertà, ed esattezza.
558. Se Novato, Felicissimo, ec. che il Vescovo di Cartagine scacciò dalla sua Chiesa e dall'Affrica, non erano veramente i mostri più detestabili d'empietà, lo zelo di Cipriano in tali occasioni dovrà prevalere alla sua veracità. Bramando un giusto ragguaglio di tali oscure querele vedi Mosemio p. 497-512.
559. Mosemio pag. 269-274. Dupin Antiq. Eccles. Discipl. p. 19-20.
560. Tertulliano in un Trattato a parte ha difeso contro gli Eretici il diritto della prescrizione come proprio delle Chiese Apostoliche.
561. Si fa menzione del viaggio di S. Pietro a Roma dalla maggior parte degli antichi scrittori (Vedi Euseb. II. 25.). Il medesimo è sostenuto da tutti i Cattolici, ed accordato da alcuni Protestanti (Vedi Pearson e Dodwell de succ. Episc. Rom. ) ma è stato vigorosamente attaccato dallo Spanemio ( Miscell. Sacra III. 3.). Secondo il P. Arduino i Monaci del Secolo XII che composero l'Eneide, rappresentarono S. Pietro sotto l'allegorico carattere dell'Eroe Troiano.
562. Non è che in Francese che sia esatta quella famosa allusione al nome di S. Pietro: Tu es Pierre, et sur cette pierre ec. Essa è imperfetta in Greco, in Latino, in Italiano ec. e totalmente inintelligibile ne' nostri linguaggi Teutonici.
563. Irenaeus adv. Haeres. III. 3. Tertullian. de praescript. c. 36 e Ciprian. ep. 27, 55, 71, 75. Le Clerc ( Hist. Eccl. p. 764) e Mosemio (p. 258, 578) difficilmente interpretano questi passi. Ma il libero ed oratorio stile de' Padri spesso par favorevole alle pretensioni di Roma.
564. Vedasi la pungente lettera scritta da Firmiliano, Vescovo di Cesarea, a Stefano, Vescovo di Roma, appresso Cipriano Epist. 75.
565. Intorno a questa disputa di ribattezzare gli Eretici, vedi le lettere di Cipriano, ed il libro settimo di Eusebio.
566. Quanto all'origine di quelle parole vedi Mosemio p. 141, e Spanemio Hist. Eccl. p. 633. La distinzione fra i Cherici, ed i Laici era già stabilita prima del tempo di Tertulliano.
567. La comunione instituita da Platone è più perfetta di quella, che aveva immaginato per la sua Utopia il cav. Tommaso Moro. La comunione delle donne, e quella de' beni temporali, possono considerarsi come parti inseparabili dell'istesso sistema.
568. Joseph Antiquit. XVIII. 2. Philo de vit. contemplativ.
569. Vedi gli Atti degli Apostoli c. 2. 4. 5. co' comentari di Grozio. Mosemio, in una Dissertazione particolare, attacca la comune opinione con molto inconcludenti argomenti.
570. Giustino Mart. Apolog. Magg. c. 89. Tertull. Apol. c. 39.
571. Iren. adv. haereses l. IV. c. 27, 34, Origen. in Num. hom. II. Ciprian. de unitat. Ecles. Constitut. Apostol. (l. II. c. 34, 35) colle note del Cotelerio. Dalle Costituzioni s'introduce questo precetto divino, dichiarando, che i Preti son tanto superiori ai Re, quanto l'anima è più eccellente del corpo. Fra i generi sottoposti alla decima, esse contano il grano, il vino, l'olio, e la lana. Si consulti su questo interessante soggetto l'Istoria delle Decime di Prideaux, e Fra Paolo delle materie Beneficiarie, scrittori di carattere molto diverso fra loro.
572. La medesima opinione, la quale prevalse anche verso l'anno mille, produsse i medesimi effetti. Molte donazioni portano espresso questo loro motivo » appropinquante mundi fine ». Vedi Mosem. Istor. Generale della Chiesa vol. I. p. 457.
573.
Tam summa cura est fratribus
(Ut sermo testatur loquax)
Offerre, fundis venditis
Sestertiorum millia.
Addicta avorum praedia
Foedis sub auctionibus,
Successor exhaeres gemit
Sunctis egens parentibus.
Haec occulantur abditis
Ecclesiarum in angulis,
Et summa pietas creditur
Nudare dulces liberos.
Prudent πἐρι στεφανων Hymn. 2.
La susseguente condotta del Diacono Lorenzo prova solo qual uso propriamente si facesse della ricchezza nella Chiesa Romana: questa era senza dubbio molto considerabile; ma Fra Paolo (c. 3.) pare, ch'esageri quando suppone, che i successori di Commodo furono mossi a perseguitare i Cristiani per l'avarizia di loro medesimi, e de' lor Prefetti del Pretorio.
574. Ciprian. Epist., 62.
575. Tertullian. de praescript. c. 30.
576. Diocleziano fece un rescritto, che non è che una dichiarazione dell'antica legge. » Collegium, si nullo speciali privilegio subnixum sit, haereditatem capere non posse dubium non est. » Fra Paolo (c. 4.) crede che questi regolamenti dopo il regno di Valeriano fossero molto trascurati.
577. Hist. August. p. 131. Il fondo era stato pubblico, ed allora si disputava fra la società de' Cristiani e quella de' macellai.
578. Constit. Apostol. II 35.
579. Ciprian. de Laps. p. 89. Epist. 65. L'accusa vien confermata da' canoni 19 e 20 del Concilio Eliberino.
580. Vedi le Apologie di Giustino e di Tertulliano.
581. La dovizia e la liberalità dei Romani verso i lor più distanti fratelli si celebra con gratitudine da Dionisio di Corinto presso Eusebio (l. IV. c. 23.)
582. Vedi Luciano in Peregrin. Giuliano ( Epi. 49) sembra mortificato, perchè la carità de' Cristiani sostentava non solo i lor propri poveri, ma anche i Pagani.
583. Tale almeno fu la lodevole condotta di molti missionari moderni, posti nelle medesime circostanze. Si espongono annualmente più di tremila bambini di fresco nati nelle strade di Pechino. Vedi Le Comte Memoir. sur la Chine, e le Recherches sur les Chinois et les Egyptiens (Tom. I. p. 61.)
584. I Montanisti ed i Novaziani, che ostinatamente, e col massimo rigore sostenevano quest'opinione, si trovarono alfine essi medesimi posti nel numero degli Eretici scomunicati. Vedi il dotto, ed abbondante Mosemio sect. II e III.
585. Dionisio appresso Eusebio IV. 23. Ciprian. de Lapsis
586. Cristianesimo primitivo di Cavo Part. III. c. 5. Gli ammiratori dell'Antichità compiangono il disuso delle pubbliche penitenze.
587. Vedasi, appresso Dupin ( Biblioth. Ecclesiast., Tom. II. p. 304-313), una breve ma ragionata esposizione de' canoni di que' Concilj, che furon convocati ne' primi momenti di tranquillità dopo la persecuzione di Diocleziano. Questa si era sentita con severità molto minore in Ispagna, che in Galazia: differenza, per cui si può in qualche modo render ragione del contrasto fra i regolamenti di quelle Province.
588. Ciprian. Epist. 69.
589. Le arti, i costumi, ed i vizi de' Sacerdoti della Dea Siria sono molto capricciosamente descritti da Apuleio nell'ottavo libro delle sue Metamorfosi.
590. L'uffizio di Asiarca era di questa specie, e se ne trova frequente menzione in Aristide, nelle inscrizioni ec. Era esso annuale ed elettivo. Non potevan desiderar tale onore, che i più vani fra' Cittadini, nè sopportarne la spesa, che i più doviziosi. Vedi ap. Patres Apostol. Tom. II. p. 200, con quanta indifferenza l'Asiarca Filippo si condusse nel martirio di Policarpo. V'erano in simil guisa i Bitiniarchi, i Liciarchi ec.
591. I moderni critici non sono disposti a credere quel che i Padri quasi concordemente asseriscono, che S. Matteo componesse un Evangelio Ebraico, di cui ci sia restata solamente la traduzione Greca. Ma sembra pericoloso rigettare la loro testimonianza.
592. Sotto il regno di Nerone, e di Domiziano, e nelle Città d'Alessandria, d'Antiochia, di Roma e d'Efeso. Vedi Mill. Prolegom. ad nov. Testam. e la bella, ed estesa collezione del Dottor Lardner vol. XV.
593. Gli Alogi ( Epifan. de Haeres. 51.) contrastavano l'autenticità dell'Apocalisse, perchè la Chiesa di Tiatira non era per anche fondata. Epifanio, che accorda il fatto, si libera dalla difficoltà col supporre ingegnosamente, che S. Giovanni scrivesse con spirito di profezia. Vedi Abauzit Discours sur l'Apocalypse.
594. L'epistole d'Ignazio e di Dionisio ( ap. Euseb. IV. 23), indicano molte Chiese in Asia ed in Grecia. Quella d'Atene par che fosse una delle meno floride.
595. Luciano in Alexan. c. 25. Bisogna però, che il Cristianesimo fosse molto inegualmente sparso pel Ponto; mentre alla metà del terzo secolo non si trovavan più che 17 credenti nell'estesa diocesi di Neocesarea. Vedi Tillemont ( Memoir. Ecclesiast. Tom. IV. p. 675) che cita Basilio, e Gregorio Nisseno, i quali erano pure nativi di Cappadocia.
596. Secondo gli Antichi, Gesù Cristo patì sotto il Consolato de' due Gemini l'anno 29 dell'Era nostra presente. Plinio fu mandato in Bitinia (secondo il Pagi) nell'anno 110.
597. Plin. Epist. X. 97.
598. Chrysostom. Oper. Tom. VII. p. 658-810. Edit. Savil
599. Gio. Malela, Tom. II. p. 144. Egli tira la medesima conseguenza rispetto alla popolazione d'Antiochia.
600. Chrysostom. (Tom. I. p. 144.) Io son debitore di questi passi, ma non della mia illazione, all'erudito Dott. Lardner. Credibilità dell'istoria Evangelica vol. XII. p. 370.
601. Basnage ( Hist. des Juifs l. II. c. 20, 21, 22, 23) ha esaminato con la più critica esattezza il curioso trattato di Filone, che descrive i Terapeuti. Provando ch'esso fu composto fin dal tempo d'Augusto, Basnage ha dimostrato a dispetto d'Eusebio (1. II. c. 17) e di una folla di moderni Cattolici, che i Terapeuti non erano, nè Cristiani nè monaci. Riman sempre verisimile, che essi cangiassero il nome, conservassero le loro usanze adottando alcuni nuovi articoli di fede, ed appoco appoco divenissero i padri degli Ascetici Egizj.
602. Vedi una lettera d'Adriano nell'Istoria Augusta p. 245.
603. Quanto alla successione de' Vescovi d'Alessandria si consulti l'Istoria di Renaudot, p. 24 ec. Questo curioso fatto ci è stato conservato dal Patriarca Eutichio ( Annal. Tom. I. p. 334 vers. Pocock ) e la sua sola testimonianza risguardante la propria Chiesa sarebbe una risposta sufficiente a tutte le obbiezioni, che il Vescovo Pearson ha fatte nelle Vindicie Ignaziane.
604. Ammian. Marcellin. XXII. 16.
605. Origen. contr. Celsum l. I. p. 40.
606. Ingens multitudo è l'espressione di Tacito XV. 44.
607. T. Liv. XXXIX. 13, 15, 16, 17. Fu eccessivo l'orrore e la costernazion del Senato alla scoperta de Baccanalisti, la depravazione de' quali è descritta, e forse anche esagerata da Livio.
608. Euseb. l. VI. c. 43. Il Traduttore Latino (di Valois) ha stimato proprio di ridurre il numero de' Preti a quarantaquattro.
609. Questa proporzione de' Preti e de' poveri col resto del popolo, fu per la prima volta fissata dal Burnet (Viaggi in Ital. p. 168) e confermata da Moyle (vol. II. p. 151). Nessuno de' due avea cognizione del passo di Grisostomo, che riduce la lor congettura quasi ad un fatto.
610. Serius trans alpes, religione Dei suscepta. Sulpic. Sever. l. II. Questi furono i celebri martiri di Lione. Vedi Euseb. V. I. Tillemont Mem. Eccles. Tom. II. p. 316. Secondo i Donatisti, l'asserzione de' quali vien confermata dalla tacita confessione d'Agostino, l'Affrica fu l'ultima fra le Province, che ricevè l'Evangelio (Tillemont Mem. Eccles. Tom. I. p. 754.)
611. Tum primum intra Gallias Martyria visa. Sulp. Sever. l. II. Rispetto all'Affrica vedi Tertulliano. ad Scapulam. c. 3. Si suppone, che i primi fossero i martiri Scillitani ( Acta sincera Ruinart. p. 34.) Pare che uno degli avversari d'Apuleio fosse Cristiano. Apolog. p. 496, 497, Edit. Delphin.
612. Rarae in aliquibus civitatibus Ecclesiae paucorum Christianorum devotione resurgerent. Acta sincera p. 130. Gregor. di Tours l. I. c. 28. Mosem. p. 207. 449. V'è qualche ragione di credere, che al principio del quarto secolo le vaste Diocesi di Liegi, di Treveri, e di Colonia formassero un sol Vescovato, ch'era stato eretto molto recentemente. Vedi le Memorie di Tillemont Tom. VI. part. I. p. 43, 411.
613. In una dissertazione di Mosemio si fissa la data dell'apologia di Tertulliano all'anno 198.
614. Nel decimoquinto secolo si trovavan poche persone che avessero la disposizione o il coraggio di porre in dubbio, se Giuseppe d'Arimatea fondato avesse il monastero di Glastonbury, e se Dionisio Areopagita preferito avesse la residenza di Parigi a quella d'Atene.
615. Tale stupenda metamorfosi fu fatta nel nono secolo. Vedi Mariana ( Hist. Hispan. V. 10. 13) che in ogni senso imita Livio, e l'ingenuo scuoprimento fatto della leggenda di S. Giacomo dal Dott. Geddes ( Miscell. Vol. 4. p. 221.)
616. Giustin. mart. Dial. cum Tryphone p. 341. Iren. adv. haeres. l. I. c. 10. Tertullian. adv. Jud. c. 7. Vedi Mosemio p. 203.
617. Vedi il quarto secolo dell'Istoria Eccles. di Mosemio. Posson trovarsi molte, quantunque assai confuse circostanze relative alla conversion dell'Iberia e dell'Armenia appresso Mosè di Corene l. II. c. 78, 79.
618. Secondo Tertulliano, Cristo e la Fede avevano penetrato nelle parti della Gran-Brettagna, inaccessibili alle armi Romane. Circa un secolo dopo si dice, che Ossian figlio di Fingal, nella sua estrema vecchiezza disputasse con un Missionario straniero, e la disputa sussiste ancora in versi, ed in lingua Ersa. Vedasi la Dissertazione sull'antichità de' Poemi d'Ossian di Macpherson p. 10.
619. I Goti, che devastarono l'Asia nel regno di Gallieno, portaron via gran numero di schiavi, alcuni de' quali eran Cristiani, e divennero Missionari. Vedi Tillemont Memoir. Eccles. Tom. IV. p. 44.
620. La leggenda d'Abgaro, favolosa com'è, somministra una decisiva prova, che molti anni prima ch'Eusebio scrivesse la sua storia, la massima parte degli abitanti d'Edessa aveva abbracciato il Cristianesimo. I cittadini di Carre, al contrario, loro rivali, restarono attaccati alla causa del Paganesimo fino al sesto secolo.
621. Secondo Bardesane appresso Eusebio ( Praepar. Evang. ) nella Persia trovavansi alcuni Cristiani avanti la fine del secondo secolo. Al tempo di Costantino (Vedi la di lui Epistola a Sapore Vit. l. IV c. 13) formavano essi una florida Chiesa. Si consulti Beausobre Hist. critique du Manicheisme. Tom. I. p. 180. e la Biblioteca Orientale dell'Assemani.
622. Origen. contra Cels. l. VIII. p. 424.
623. Minuc. Felix c. 8 con le note di Wovvero. Cels. ap. Origen. l. III. p. 138, 142. Julian. ap. Cyril., l. VI. p. 206. Edit. Spanheim.
624. Euseb. Hist. Eccl. IV. 3. Hieron. Epist. 83.
625. Così prettamente si racconta l'istoria ne' Dialoghi di Giustino. Tillemont ( Mem. Eccles. Tom. II. p. 334) che la riferisce, assicura, che il vecchio era un Angelo sotto quella figura.
626. Euseb. V. 28. Si può sperare, che nessuno, eccettuati gli Eretici, desse giusto motivo alla querela di Celso ( ap. Origen. l. II. p. 77) che i Cristiani continuamente correggevano ed alteravano i loro Evangeli.
627. Plin. Epist. X. 97. Fuerunt alii similis amentiae cives Romani.... Multi enim omnis aetatis, omnis ordinis, utriusque sexus etiam vocantur in periculum et vocabuntur.
628. Tertullian. ad Scapulam. Eppure tutta la sua rettorica non s'estende a pretendere più che la decima parte di Cartagine.
629. Ciprian. Epist. 79.
630. Il Dottor Lardner, nel suo primo e secondo volume delle testimonianze Giudaiche e Cristiane, raccoglie ed illustra quelle di Plinio il Giovane, di Tacito, di Galeno, di Marco Antonio e forse d'Epiteto (essendo dubbioso se quel filosofo intende parlar de' Cristiani). Della nuova setta non si fa menzione veruna da Seneca, da Plinio il Vecchio, nè da Plutarco.
631. Se allegata si fosse la famosa Profezia delle settanta settimane ad un filosofo di Roma, non avrebb'egli risposto con le parole di Cicerone « Quae tandem ista auguratio est, annorum potius quam aut mensium aut dierum? » de Divinit. II 30. Si osservi con qual irreverenza Luciano ( in Alexandro c. 13,) ed il suo amico Gelso ( ap. Origen. l. VII. p. 327. ) si esprimono rispetto a' Profeti Ebrei.
632. I filosofi, che deridevano le più antiche predizioni delle Sibille, avrebbero facilmente scoperto le falsità degli Ebrei e de' Cristiani, che i Padri hanno citato con tanta pompa, da Giustino Martire fino a Lattanzio. Quando i versi Sibillini ebbero eseguilo l'uffizio loro assegnato, essi, come il sistema dei millenarj, furono quietamente posti in obblio. La Sibilla Cristiana disgraziatamente aveva fissata la rovina di Roma nell'anno 195. II. C. 948.
633. I Padri, che son disposti come in linea di battaglia dal Calmet (Dissertazione sulla Bibbia Tom. III. p. 295-308.) par che voglian cuoprire tutta la terra di oscurità, nel che vengon seguitati dai più fra' moderni.
634. Origen. ad Matth. c. 27. e pochi moderni critici, Beza, Le Clerc, Lardner ecc. desiderano di restringerla alla sola Terra della Giudea.
635. Il celebre passo di Flegone ora si è saviamente abbandonato. Quando Tertulliano assicura i Pagani, che si trova fatta menzione di tal prodigio, in Arcanis, non già in archivio vestris (vedi la sua apolog. c. 21), egli probabilmente intende di parlare de' versi Sibillini, che lo riferiscono esattamente con le stesse parole dell'Evangelio.
636. Seneca Quaest. nat. l. I. 15. VI. I. VII. 17. Plinio Hist. nat. l. II.
637. Plin. Hist. nat. II. 30.
638. Virgil. Georg. l. 1. 466. Tibull. l. II. Eleg. V. v. 75. Ovid. Metam. XV. 782. Lucan. I. 540. L'ultimo pone questo prodigio avanti la guerra civile.
639. Vedi una pubblica epistola di Marc'Anton. ap. Josepho Antiq. XII. 12. Plutarc. in. Caesar. p. 471. Appian. Bell. civ. l. IV. Dion. Cass. l. XLV. p. 431. Jul. Obseq. c. 128. Questo piccol trattato è un estratto de' prodigi di Livio.