INDICE
STORIA DELLA DECADENZA E ROVINA DELL'IMPERO ROMANO
CAPITOLO XVI.
Condotta del Governo romano verso i Cristiani, dal Regno di Nerone fino a quello di Costantino.
Se prendiamo a considerar seriamente la purità della Religione Cristiana, la santità de' suoi morali precetti, e l'innocente non meno che austera vita della maggior parte di quelli, che ne' primi tempi abbracciarono la fede dell'Evangelio, saremo naturalmente indotti a supporre, che anche dal Mondo infedele risguardata si fosse con la dovuta riverenza una dottrina così benefica; che le persone sapienti e culte, quantunque deridendo i miracoli, stimato avessero le virtù della nuova setta, e che i Magistrati avesser protetto, invece di perseguitare, un ordine di uomini, che prestava la più sommessa obbedienza alle leggi, sebbene sfuggisse le attive cure della guerra e del governo. Dall'altra parte se noi riflettiamo che la tolleranza del Politeismo era universale ed invariabilmente sostenuta dalla fede del Popolo, dall'incredulità de' filosofi, e dalla politica del Senato e degl'Imperatori di Roma, non sappiam vedere qual nuova colpa i Cristiani avesser commesso, e da che mai fosse stata provocata ed inasprita la blanda indifferenza dell'Antichità, e quali nuovi motivi potessero indurre i Principi Romani, che lasciavan sussistere in pace sotto il lor moderato dominio mille diverse forme di religioni senza prendervi alcun interesse, a punir severamente una parte de' loro sudditi, che si erano scelta una singolare, ma innocente maniera di fede e di culto.
Sembra che la religiosa politica degli antichi prendesse un più rigido ed intollerante carattere per opporsi al progresso del Cristianesimo. Circa ottant'anni dopo la morte di Cristo, soggiacquero all'estremo supplizio gl'innocenti seguaci di lui per sentenza di un Proconsole dell'indole più amabile e filosofica, e secondo le leggi di un Imperatore, riguardevole per la saviezza e giustizia del suo generale governo. Le apologie, che più volte indirizzate furono ai successori di Traiano, son piene de' più patetici lamenti, perchè fra tutti i sudditi del Romano Impero fossero esclusi dal partecipare i vantaggi di quel fausto governo i soli Cristiani, che obbedivano ai dettami della coscienza, e ne imploravan la libertà. Sono stati diligentemente raccolti i supplizi di alcuni pochi martiri eminenti; e da quel tempo, in cui s'ottenne il supremo potere dal Cristianesimo, i Direttori della Chiesa non hanno impiegata minor cura nel discuoprire la crudeltà, che nell'imitar la condotta de' Pagani loro avversari. Lo scopo del presente capitolo è di separare (s'è possibile) i pochi autentici ed interessanti fatti da una indigesta massa di finzioni e di errori, e di riferire in un modo ragionevole e chiaro le cagioni, l'estensione, la durata e le più importanti circostante delle persecuzioni, alle quali esposti furono i primi Cristiani.
I seguaci di una Religione perseguitata, oppressi dal timore, animati dal risentimento, e riscaldati forse dall'entusiasmo, rade volte si trovano in uno stato di mente, proprio ad investigar con tranquillità o a stimar con candore i motivi de' lor nemici, che spesso sfuggono anche all'imparziale ed acuta vista di quelli, che trovansi ad una sicura distanza dal fuoco della persecuzione. Alla condotta degl'Imperatori verso i primitivi Cristiani attribuita si è una ragione, la quale può sembrare molto speciosa e probabile, perchè si deduce appunto dal genio ben noto del Politeismo. È stato già osservato, che la religiosa concordia del mondo era principalmente sostenuta dall'assenso e dalla riverenza, che le nazioni dell'Antichità ciecamente professavano per le rispettive lor tradizioni e ceremonie. Si poteva dunque aspettare, che le medesime fossero per unirsi con isdegno contro una setta od un popolo, che si separasse dalla comunione dell'uman genere, e pretendesse di posseder esclusivamente la cognizione di Dio, sdegnando come empia ed idolatrica qualunque altra forma di culto, eccettuata la propria. Si mantenevano i diritti della tolleranza mediante una condiscendenza reciproca: giustamente dunque ne furono spogliati quelli, che ricusavano di pagare il consueto tributo. Siccome questo si ricusò inflessibilmente dai soli Giudei, l'esame del trattamento, che loro fecero i Magistrati Romani, servirà a spiegare fino a qual segno siano queste speculazioni giustificate da' fatti, e ci condurrà a scoprire le vere cagioni della persecuzione del Cristianesimo.
Senza ripeter quello ch'è stato già detto della riverenza che avevano i Principi e i Governatori Romani pel Tempio di Gerusalemme, osserveremo solamente che tutte le circostanze che accompagnarono e seguirono la distruzione del Tempio e della città, potevano inasprir gli animi de' conquistatori, ed autorizzare la persecuzion religiosa co' più speciosi argomenti di giustizia politica e di pubblica sicurezza. Dal regno di Nerone fino a quello di Antonino Pio, dimostrarono i Giudei tal fiera intolleranza del dominio di Roma, che più volte proruppero in sollevazioni ed in stragi le più furiose. L'umanità si scuote al racconto delle orribili crudeltà, che commisero nelle città dell'Egitto, di Cipro e di Cirene, dove abitavano, fingendo una proditoria amicizia co' Nazionali, che non avevano sospetto alcuno verso di loro[1]: e siam quasi tentati ad applaudire la rigida rappresaglia, che dalle armi delle Legioni si usò contro un genere di fanatici, la barbara e credula superstizione de' quali pareva, che li rendesse implacabili nemici non solo del governo Romano, ma anche dell'uman genere[2]. L'entusiasmo degli Ebrei sostenevasi dall'opinione, ch'essi non potevan legittimamente pagar tributi ad un Sovrano idolatra, e dalla seducente promessa tratta dai loro antichi oracoli, che in breve sarebbe nato un Messia conquistatore, destinato a rompere le loro catene, e a trasferire ai favoriti del Cielo l'impero della Terra. Il celebre Barcocheba, coll'annunziarsi che fece come loro, da lungo tempo aspettato, liberatore, e col convocar tutti i discendenti di Abramo per sostener la speranza d'Israele, raccolse un formidabile esercito, con cui resistè per due anni al potere dell'Imperatore Adriano[3].
Ad onta di queste ripetute provocazioni, finì l'ira de' Principi Romani con la vittoria; nè continuarono le loro apprensioni oltre il tempo del pericolo e della guerra. Mediante la general tolleranza del Politeismo e la mansueta indole di Antonino Pio, a' Giudei restituiti furono gli antichi lor privilegi, ed ottennero essi un'altra volta la facoltà di circoncidere i loro figli con la moderata limitazione, che non dovesser mai dare ad alcun proselito straniero quel contrassegno distintivo della stirpe Giudaica[4]. Quantunque i numerosi avanzi di quel popolo restassero sempre esclusi da' recinti di Gerusalemme, pure fu loro permesso di formare e di mantenere considerabili stabilimenti tanto nell'Italia che nelle Province, di acquistar la cittadinanza di Roma, di godere degli onori municipali, e di ottenere nel tempo stesso un'esenzione da' gravi e dispendiosi uffizi della società. La moderazione o il disprezzo de' Romani legalmente autorizzò la forma del governo ecclesiastico, instituito dalla vinta setta. Il Patriarca, che avea fissato la sua residenza in Tiberiade, ebbe la facoltà di eleggere i propri subalterni ministri ed apostoli, di esercitare una domestica giurisdizione, e di ricevere da' suoi dispersi fratelli una contribuzione annuale[5]. Nelle principali città dell'Impero frequentemente si edificarono nuove sinagoghe, e nella più solenne e pubblica forma si celebravano i sabbati, le feste e i digiuni, comandati o dalla legge Mosaica o dalle tradizioni Rabbiniche[6]. Questo gentil trattamento appoco appoco addolcì la feroce indole de' Giudei. Scossi dal loro sogno di profezia e di conquista, incominciarono a diportarsi da sudditi pacifici e industriosi. L'odio irreconciliabile, che avevano contro il genere umano, in luogo di prorompere in atti di violenza e di sangue, si dissipò in soddisfazioni meno pericolose. Prendevano essi tutte le occasioni per soverchiar gl'Idolatri nel commercio, e pronunziavano segrete ed ambigue imprecazioni contro il superbo regno di Edom[7].
Mentre i Giudei, che rigettavano con abborrimento i Numi adorati dal lor Sovrano e da' loro consudditi, godevano ciò non ostante con libertà l'esercizio della loro insocievole religione, vi doveva esser qualche altro motivo ch'esponeva i discepoli di Cristo a quella severità, da cui ritrovavasi esente la discendenza di Abramo. La differenza fra loro è semplice e naturale, ma secondo i sentimenti dell'antichità era della massima importanza. Gli Ebrei formavano una nazione, i Cristiani una setta; e se ogni società era naturalmente portata a rispettar le sacre istituzioni de' propri vicini, le premeva altresì di perseverare in quelle de' suoi maggiori. La voce degli oracoli, i precetti de' filosofi e l'autorità delle leggi davan concordemente vigore a questa nazionale obbligazione. Per l'altera pretensione, che avevano i Giudei di una santità superiore agli altri, provocar potevano i Politeisti a risguardarli come una razza di uomini odiosa ed impura. Sdegnando il commercio con le altre nazioni, potevan meritare il loro disprezzo. Le leggi di Mosè potevano esser per la massima parte frivole o assurde: non di meno essendo queste per più secoli state ricevute da una numerosa società, i lor seguaci venivan giustificati dall'esempio dell'uman genere; ed universalmente si conveniva, che essi avevan diritto di praticare ciò che sarebbe in loro stato un delitto di trascurare. Ma questo principio, che proteggeva la sinagoga Giudaica, non dava sicurezza o favore alcuno alla primitiva Chiesa. I Cristiani abbracciando la fede dell'Evangelio, supponevansi rei di una non naturale ed imperdonabile colpa. Scioglievano essi i sacri vincoli dell'usanza e dell'educazione; violavano le religiose instituzioni del lor paese, e presuntuosamente disprezzavano ciò che i padri loro creduto avevano come vero, o rispettato come sacro. Nè tal apostasia (se ci è permesso di usare questa espressione) era di una specie parziale o locale, poichè il devoto disertore, che si ritirava da' tempj dell'Egitto o della Siria, avrebbe ugualmente sdegnato di cercare un asilo in quelli di Atene o di Cartagine. Ogni Cristiano con disprezzo rigettava le superstizioni della sua famiglia, della sua città e della sua provincia. Tutto il corpo de' Cristiani di comune accordo ricusava di aver alcun commercio con gli Dei di Roma, dell'Impero e dell'uman genere. Invano l'oppresso credente reclamava i diritti non alienabili della coscienza e del giudizio privato. Quantunque la sua situazione potesse risvegliar la pietà, i suoi argomenti non potevano mai convincere l'intelletto nè della filosofica nè della credula parte del Mondo Pagano. Argomento era di stupore per essi che uno dovesse avere scrupolo di adattarsi alla maniera di culto già stabilita, non meno che sarebbe stato se uno concepito avesse subitaneo abborrimento ai costumi, al modo di vestire, od al linguaggio del proprio paese[8].
Alla sorpresa de' Pagani successe ben presto lo sdegno; e gli uomini più pii furono esposti all'ingiusta, ma pericolosa imputazione d'empietà. La malizia ed il pregiudizio si univano a rappresentare i Cristiani come una società di atei, che avendo audacissimamente attaccato le religiose costituzioni dell'Impero, meritato avevano i più severi castighi de' magistrati civili. Nella confessione, che facevano di loro fede, gloriavansi di essersi liberati da qualunque sorta di superstizione ricevuta in qualsivoglia parte del globo dal vario genio del Politeismo; non era però ugualmente chiaro qual divinità, o quale specie di culto sostituito avessero agli Dei ed a' tempj dell'antichità. La pura e sublime idea, ch'essi avevano dell'Ente supremo, sfuggiva dal grossolano concepimento del volgo Pagano, che non sapeva immaginare un Dio spirituale e solitario, il quale non si rappresentava sotto alcuna figura corporea o segno visibile, nè si adorava con la solita pompa di libazioni e di feste, di altari e di sacrifizi[9]. I Sapienti della Grecia e di Roma, che innalzato avevano le loro menti alla contemplazione dell'esistenza e degli attributi della prima Causa, per ragione o per vanità eran portati a riservare a se stessi o a' loro scelti discepoli il privilegio di questa filosofica devozione[10]. Essi erano ben lontani dall'ammettere i pregiudizi dell'uman genere, come il contrassegno della verità, ma gli consideravano come provenienti dall'original disposizione della natura umana: e supponevano che qualunque popolar forma di fede e di culto, in cui si fosse preteso di non far uso dell'aiuto de' sensi, a misura che allontanata si fosse dalla superstizione, sarebbesi trovata incapace di raffrenare i voli della fantasia, o le visioni del fanatismo. Il non curante sguardo, che gli uomini d'ingegno e di dottrina condiscendevano a gettare sopra la Rivelazione Cristiana, serviva solo a confermare la loro precipitata opinione, ed a persuaderli, che il principio dell'unità di Dio, che avrebbero potuto rispettare, veniva sfigurato dallo stravagante entusiasmo, ed annichilito dalle vane speculazioni de' nuovi settari. L'autore di un celebre dialogo, ch'è stato attribuito a Luciano, mentre affetta di trattare il misterioso soggetto della Trinità in uno stile ridicoloso e disprezzante, mostra di non conoscere la debolezza dell'umana ragione e l'imperscrutabile natura delle perfezioni Divine[11].
Poteva sembrar meno sorprendente, che il fondatore del Cristianesimo fosse rispettato da' suoi Discepoli non solamente come un sapiente ed un profeta, ma che fosse anche adorato come una divinità. I Politeisti eran disposti ad ammettere ogni articolo di fede, che paresse aver qualche rassomiglianza, per quanto distante ed imperfetta si fosse, colla mitologia popolare; e le leggende di Bacco, d'Ercole, o di Esculapio preparato avevano in qualche modo la loro immaginazione all'apparire del Figlio di Dio sotto una forma umana[12]. Ma stupivano, che i Cristiani abbandonassero i tempj di quegli antichi Eroi, che nell'infanzia del mondo avevano inventato le arti, instituite le leggi, e domati i tiranni, o i mostri che infestavano la terra, a fine di scegliere per oggetto esclusivo del religioso lor culto un oscuro maestro, che di fresco, ed appresso un popolo barbaro era stato sacrificato o alla malizia de' propri suoi nazionali, o alla gelosia del governo Romano. Il volgo Pagano, riservando la sua gratitudine solo per i benefizi temporali, rigettava l'inestimabile dono della vita e della immortalità, che all'uman genere si offeriva da Gesù Nazareno. La sua mansueta costanza in mezzo a crudeli e volontari tormenti, la sua general benevolenza, e la sublime semplicità delle sue azioni e del suo carattere non eran sufficienti, a giudizio di quegli uomini carnali, a compensar la mancanza di fama, di dominio e di fortuna; e mentre ricusavano di ammettere lo stupendo trionfo di lui sopra le potestà delle tenebre e della morte, malamente rappresentavano o insultavan la nascita equivoca, la vita vagabonda, e l'ignominiosa morte del divino Autore del Cristianesimo[13].
La reità personale, in cui ogni Cristiano era incorso nel preferire in tal modo il suo privato sentimento alla religion nazionale, veniva molto aggravata dal numero, e dall'unione de' colpevoli. Egli è ben noto, ed è già stato osservato, che la Romana politica riguardava con la massima gelosia e diffidenza qualunque associazione fra' propri sudditi, e che davansi con mano assai parca i privilegi de' corpi privati, sebbene instituiti per i più innocenti e benefici soggetti[14]. Le religiose assemblee dei Cristiani, che si eran separati dal culto pubblico, apparivano di una specie molto meno innocente: erano esse illegittime nel lor principio, e nelle lor conseguenze potean divenire pericolose; nè gl'Imperatori credevano di violar le leggi della giustizia, quando per la pace della società proibivano quelle segrete, ed alle volte notturne adunanze[15]. La pia disubbidienza de' Cristiani fece comparire la lor condotta, o forse i loro disegni in un aspetto molto più serio e colpevole: ed i Principi Romani, che avrebbero per avventura sofferto di lasciarsi piegare da una pronta sommissione, stimando interessato il lor onore nell'esecuzione de' lor comandi, qualche volta intrapresero, per mezzo di rigorosi gastighi, di domar questo spirito indipendente, che audacemente riconosceva un'autorità superiore a quella del Magistrato. Sembrava, che l'estensione e la durata di questa spirituale cospirazione la rendesse ogni giorno più meritevole del loro castigo. Abbiamo già veduto, che l'attivo e fortunato zelo de' Cristiani gli aveva insensibilmente diffusi per ogni Provincia, e quasi per ogni città dell'Impero. Pareva, che i nuovi convertiti rinunziassero alla propria famiglia e al proprio paese, e che si collegassero mediante un indissolubil nodo d'unione con una particolar società, che per ogni dove assumeva un carattere diverso dal resto del genere umano. Il tristo ed austero aspetto, che avevano, l'abborrimento per gli affari e piaceri comuni della vita, e le lor frequenti predizioni d'imminenti calamità[16] inspiravano a' Pagani l'apprensione di qualche pericolo, che provenir potesse dalla nuova setta, ch'era tanto più sospetta quanto era più oscura. «Qualunque esser possa (dice Plinio) il principio della loro condotta, pare, che l'inflessibile ostinazione loro sia meritevole di gastigo[17].»
Le cautele, con le quali i Discepoli di Cristo celebravano gli uffizi della religione, furono a principio dettate dal timore e dalla necessità, ma in appresso si continuarono per elezione. Con imitare la tremenda secretezza, che usavasi ne' misteri Eleusini, si eran lusingati i Cristiani, che rendute avrebbero più rispettabili agli occhi del Mondo Pagano le sacre loro instituzioni[18]. Ma l'evento, come spesso accade nelle operazioni della sottile politica, deluse le loro brame ed aspettazioni. Si concluse, ch'essi nascondevano solamente ciò, che avrebbero avuto rossore di manifestare. La loro mal accorta prudenza diede un'occasione alla malizia d'inventare, ed alla sospettosa credulità di prestar fede alle orribili favole, le quali rappresentavano i Cristiani come i più malvagi degli uomini, che praticavano nelle oscure lor conventicole ogni sorta d'abbominazione, cui potesse inventare una fantasia depravata, ed imploravano il favore dell'incognito loro Dio mediante il sacrifizio di ogni morale virtù. Vi erano molti che pretendevano di confessare o di riferire le ceremonie di tale abborrita società. Asserivasi che «veniva presentato al coltello del proselito, come un mistico simbolo per iniziarlo, un bambino nato di fresco, tutto coperto di farina, e che egli senza saperlo con vari colpi segretamente feriva a morte l'innocente vittima del proprio errore: che appena era seguita la crudel funzione, i settarj ne bevevano il sangue, avidamente ne squarciavan le membra ancor palpitanti, e s'impegnavano, per esser fra loro tutti complici del delitto, ad un eterno silenzio. Con uguale confidenza affermavasi, che a questo crudel sacrificio succedeva un ben degno convito, in cui l'intemperanza serviva a provocar le brutali passioni, finchè, nel momento assegnato, i lumi ad un tratto venivano estinti, bandito il pudore, e la natura dimenticata; e come il caso portava, l'oscurità della notte si contaminava dall'incestuoso commercio dei fratelli colle sorelle e delle madri coi figliuoli[19].»
Ma era sufficiente la lettura delle antiche apologie per rimuover dalla mente di un ingenuo avversario qualunque più leggiero sospetto. I Cristiani coll'intrepida sicurezza dell'innocenza, dal romor popolare si appellano all'equità de' Magistrati; convengono che se alcuna prova si può addur de' delitti, che la calunnia loro ha imputati, son degni del più severo gastigo. Affrontano la pena, e disfidan le prove. Nel tempo stesso dimostrano con ugual verità e naturalezza, che l'accusa manca di probabilità non meno che di prova, domandano essi, come alcuno può credere seriamente che i puri e santi precetti dell'Evangelo, i quali tanto spesso restringono l'uso de' piaceri più leciti, dovessero inculcar la pratica de' misfatti più abbominevoli; che una numerosa società si potesse risolvere a disonorarsi agli occhi de' suoi propri membri; e che un gran numero di persone di ogni sesso, di ogni età, d'ogni carattere, insensibile al timor della morte o dell'infamia, consentir dovesse a violar que' principj, che la natura e l'educazione avevan profondissimamente impressi ne' loro animi[20]? Sembrerebbe, che niente potesse indebolir la forza, o distruggere l'effetto di una così efficace giustificazione, se non fosse stata l'indiscreta condotta degli stessi Apologisti, che tradiron la causa comune della religione per soddisfare il devoto lor odio contro i nemici domestici della Chiesa. Ora si andò lentamente insinuando, ed or si asserì arditamente, che que' sanguinosi sacrifizj medesimi e quelle incestuose solennità, che sì falsamente imputavansi agli ortodossi credenti, erano realmente celebrate da' Marcioniti, da' Carpocraziani, e da varie altre Sette di Gnostici, che sebbene deviassero ne' sentieri dell'eresia, pure sentivano sempre la forza della natura umana, e si regolavan sempre secondo i precetti del Cristianesimo[21]. Simili accuse ritorcevansi contro la Chiesa dagli Scismatici, che abbandonato avevano la comunione della medesima[22], e confessavasi da ogni parte, che appresso molti di quelli che si attribuivano il nome di Cristiani, prevaleva la più scandalosa licenza di costumi. Un Magistrato Pagano, che non aveva nè tempo nè capacità per discernere la linea quasi impercettibile, che distingue la fede ortodossa dall'eretica pravità, poteva facilmente supporre, che l'animosità, che regnava fra loro, avesse tolta ad essi di bocca la confessione de' lor comuni delitti. Fu fortuna pel riposo, o almeno per la riputazione de' primi Cristiani, che i Magistrati alle volte procedessero con maggior freddezza, e moderazione di quella che per ordinario accompagna lo zelo religioso, e ch'essi riferissero, come resultato imparziale delle lor giudiciali ricerche, che i settarj, i quali abbandonato avevano il culto dominante, sembravan sinceri nelle lor professioni, ed irreprensibili ne' lor costumi, per quanto potessero incorrere la censura delle Leggi[23], attesa l'assurda ed eccessiva loro superstizione.
L'istoria, che intraprende a rammentare i fatti de' passati secoli per istruzione de' futuri, male meriterebbe tal onorevole uffizio, qualora condiscendesse a difender la causa de' tiranni, o a giustificar le massime della persecuzione. Bisogna però confessare, che la condotta degl'Imperatori, che parvero i meno favorevoli alla primitiva Chiesa, non è in verun modo tanto colpevole, quanto quella di alcuni moderni Sovrani, che hanno impiegato le armi della violenza e del terrore contro le religiose opinioni di una parte de' loro sudditi. Dalle lor riflessioni, o anche da' propri lor sentimenti poteva un Carlo V. o un Luigi XIV. aver acquistato una giusta cognizione de' diritti della coscienza, dell'obbligatione della fede, e dell'innocenza dell'errore. Ma per li Principi ed i Magistrati dell'antica Roma erano affatto ignoti que' principj, che inspiravano ed autorizzavano l'inflessibile ostinazione de' Cristiani nella causa della verità, nè potevano da se stessi scuoprire ne' loro petti alcun motivo, che gli avesse indotti a ricusare una legittima, e quasi natural sommissione alle sacre instituzioni della patria loro. La medesima ragione, che contribuisce ad alleggerire la reità delle lor persecuzioni, doveva tendere a diminuirne il rigore. Siccome operava sopra di essi non già il furioso zelo de' devoti, ma la moderata politica de' legislatori, spesse volte doveva il disprezzo far rallentare, e la compassione far sospendere l'esecuzione di quelle leggi, ch'esse avevan fatte contro gli umili ed oscuri seguaci di Cristo. Dalla general considerazione del lor carattere e de' motivi che avevano, possiam naturalmente concludere: I. che passò un tempo considerabile avanti ch'essi riguardassero i nuovi settari come un oggetto, che meritasse l'attenzion del Governo; II. che nell'esame di ognuno de' loro sudditi, che fosse accusato di un delitto sì singolare, procedevano con cautela e ripugnanza; III. ch'essi erano moderati nell'uso delle pene; e IV. che l'afflitta Chiesa godè molti intervalli di pace e di tranquillità. Nonostante la trascurata indifferenza, che han dimostrato i più abbondanti, ed i più minuti fra' Gentili scrittori per gli affari de' Cristiani[24], possiam tuttavia confermare ciascheduna di queste probabili supposizioni con la testimonianza di autentici fatti.
I. Fu per saggia disposizione della Providenza gettato un misterioso velo sopra l'infanzia della Chiesa, il quale, finattanto che non fu maturata la fede Cristiana, e moltiplicato il numero de' credenti, servì a proteggerli non solo dalla malizia, ma anche dalla cognizione del Mondo Pagano. L'abolizione lenta e per gradi delle ceremonie Mosaiche diede una sicura ed innocente coperta a' più antichi proseliti dell'Evangelio. Essendo la maggior parte di loro della stirpe d'Abramo, si distinguevano perciò col segno particolare della circoncisione, facevano le lor offerte nel tempio di Gerusalemme, finchè questo non fu totalmente distrutto, ed ammettevano la legge ed i profeti, come genuina inspirazione di Dio. I Gentili convertiti, che per una spirituale adozione erano stati associati alla speranza d'Israele, venivano in simil guisa confusi sotto l'abito e l'apparenza di Giudei[25]; e siccome i Politeisti facevano meno attenzione agli articoli di fede, che al culto esterno, la nuova setta, che nascondea con gran cura, o leggermente annunziava la sua futura grandezza ed ambizione, era lasciata rifuggire sotto la general tolleranza concessa nel Romano Impero ad un antico e celebre Popolo. Non passò forse gran tempo che i Giudei medesimi, animati dallo zelo più fiero e dalla più gelosa fede, si accorsero della separazione, che appoco appoco fecero i lor Nazareni fratelli dalla dottrina della Sinagoga, e volentieri avrebber voluto estinguere quella pericolosa eresia col sangue di quelli che vi aderivano. Ma i decreti del Cielo avevano già disarmato la lor malizia; e quantunque potessero qualche volta usare lo sfrenato privilegio della sedizione, essi da lungo tempo più non godevano l'amministrazione della giustizia criminale; nè riusciva loro facilmente d'inspirare nel tranquillo petto d'un Magistrato Romano il rancore del proprio loro zelo e pregiudizio. I Governatori delle Province si mostravano pronti ad ascoltare qualunque accusa, che risguardar potesse la pubblica sicurezza; ma tosto che venivano informati, ch'era questione non già di fatti, ma di parole, e che si disputava soltanto dell'interpretazione delle leggi, e profezie Giudaiche, stimavano indegno della maestà Romana il discuter seriamente le oscure differenze, che potevan nascere fra gente barbara e superstiziosa. L'innocenza de' primi Cristiani era protetta dall'ignoranza e dal disprezzo; e spesso trovava nel tribunale di un Magistrato Pagano il rifugio più sicuro contro il furor della Sinagoga[26]. Se noi fossimo in vero disposti ad ammetter le tradizioni di una troppo credula antichità, riferir potremmo i lontani pellegrinaggi, le imprese maravigliose, e le diverse morti de' dodici Apostoli; ma una più esatta ricerca ci porterà a dubitare, se fu permesso ad alcuna di quelle persone, che avevan veduto i miracoli di Cristo, di contestare col proprio sangue oltre i confini della Palestina la verità della loro testimonianza[27]. Atteso l'ordinario periodo della vita umana, può molto naturalmente presumersi che la maggior parte di essi fossero morti, avanti che il rancor degli Ebrei scoppiasse in quella furiosa guerra, la quale non finì che con la rovina di Gerusalemme. Per un lungo tratto di tempo, che passò dalla morte di Cristo fino a quella memorabile ribellione, non possiamo ravvisare alcun vestigio d'intolleranza Romana, eccettuata la subitanea, passeggiera, ma crudele persecuzione, che fu mossa da Nerone contro i Cristiani della Capitale, trentacinque anni dopo il primo, e solo due anni avanti il secondo, di que' grandi eventi. Il carattere dell'Istorico filosofo, al quale principalmente dobbiamo la cognizione di questo singolar fatto, sarebbe per se solo bastante ad impegnar la nostra più attenta considerazione.
Nel decimo anno del Regno di Nerone la Capitale dell'Impero fu afflitta da un fuoco, che infierì oltre la memoria o l'esempio de' secoli precedenti[28]. Restarono involti in una comune distruzione i monumenti dell'arte Greca e del Romano valore, i trofei delle guerre Punica e Gallica, i tempj più santi, ed i palazzi più splendidi. De' quattordici rioni, o quartieri, ne' quali era divisa Roma, quattro solamente rimasero interi, tre furono livellati al suolo, e gli altri sette, che sperimentato avevano il furor delle fiamme, presentavano un tristo prospetto di desolazione e rovina. Pare che la vigilanza del Governo non trascurasse alcuna precauzione, che alleggerir potesse il sentimento di sì terribile calamità. Furono aperti alla sconsolata moltitudine i giardini Imperiali, si costruirono per loro comodo temporanei edifizj, e venne distribuita un'abbondante copia di grano e di provvisioni ad un prezzo assai moderato[29]. Sembra che la più generosa politica dettasse gli editti, che regolarono la disposizione delle strade, e la costruzione delle case private, e come suole per ordinario accadere in un tempo di prosperità, l'incendio di Roma produsse nel corso di pochi anni una città novella, più regolare e più vaga dell'antica. Ma tutta la prudenza ed umanità di Nerone furono insufficienti a liberarlo dal sospetto del popolo. Qualunque delitto imputar potevasi all'assassino della propria moglie e della madre, nè poteva un Principe, che prostituiva la sua persona e dignità sul teatro, esser creduto incapace della più stravagante follia. La voce della fama accusava l'Imperatore come un incendiario della sua Capitale, e siccome le più incredibili narrazioni sono le più confacenti al genio di un popolo infuriato, così raccontavasi gravemente, e senz'alcun dubbio credevasi, che Nerone, godendo all'aspetto della calamità di cui era stato cagione, si dilettasse in cantare sulla sua lira la distruzione dell'antica Troia[30]. Per allontanare un sospetto, che il potere del dispotismo non era capace di sopprimere, l'Imperatore pensò di sostituire in suo luogo alcuni finti rei. «Con questo scopo (continua Tacito) sottopose a più atroci tormenti quegli uomini, che sotto la volgar denominazione di Cristiani erano già notati con la meritata infamia. Essi prendevano il nome e l'origine da Cristo, che nel regno di Tiberio avea sofferto la morte per sentenza del Procuratore Ponzio Pilato[31]. Questa empia superstizione fu per un tempo repressa; ma ella si sparse di nuovo, e non solamente si diffuse per la Giudea, prima sede di questa malvagia setta, ma fu introdotta anche in Roma, comune asilo, che riceve e protegge tutto ciò ch'è impuro ed atroce. Le confessioni di quelli, che furon presi, scuoprirono una gran moltitudine di complici, e furono tutti convinti, non tanto del delitto di aver posto fuoco alla città, quanto dell'odio, che portavano al genere umano[32]. Morivano fra tormenti, e questi erano amareggiati dall'insulto e dalla derisione. Alcuni di essi furono inchiodati sopra croci, altri cuciti dentro pelli di bestie feroci, ed esposti alla rabbia de' cani, altri, coperti di materie combustibili, servivano come di torce per illuminare l'oscurità della notte. Furon destinati i giardini di Nerone pel tristo spettacolo che venne accompagnato da una corsa di cavalli, ed onorato dalla presenza dell'Imperatore, che si mescolava col volgo, in abito ed in attitudine di cocchiere. La colpa de' Cristiani meritava in vero il più esemplare gastigo, ma il pubblico abborrimento si cangiò in compassione, supponendosi che quelle infelici vittime venisser sacrificate non tanto al rigore della giustizia, quanto alla credulità di un geloso tiranno[33].» Quelli che con occhio curioso rimirano le rivoluzioni dell'uman genere, posson osservare, che i giardini ed il circo di Nerone nel Vaticano, che macchiati furon dal sangue de' primi Cristiani, si son resi più famosi pel trionfo e per l'abuso della religione perseguitata. Nel medesimo luogo[34] si è, dopo, eretto un tempio, che di gran lunga sorpassa le antiche glorie del Campidoglio, da' Pontefici Cristiani, i quali traendo il loro diritto di universal dominio da un umile pescatore di Galilea, sono succeduti al trono de' Cesari, han date leggi ai Barbari conquistatori di Roma, ed hanno estesa la spirituale loro giurisdizione dalle coste del Baltico fino a' lidi del mar Pacifico.
Ma non sarebbe a proposito di lasciar questo racconto della persecuzion di Nerone, senza fare alcune riflessioni, che possono servire a rimuovere le difficoltà, onde si rende dubbiosa la susseguente storia della Chiesa, ed a rischiararla di qualche lume.
I. Non può la critica più scettica non rispettar la verità di tal fatto straordinario, e la genuina tempera di questo celebre passo di Tacito. La prima vien confermata dall'esatto e diligente Svetonio, che rammenta il gastigo da Nerone dato a' Cristiani: setta di uomini che abbracciato avevano una nuova e colpevol superstizione[35]. L'altra si può provare col consenso de' più antichi manoscritti; coll'inimitabil carattere dello stile di Tacito, con la sua riputazione, che ne ha reso immune il testo dalle interpolazioni della pia frode, e col tenore della sua narrazione, che accusa i Cristiani de' più atroci delitti, senza insinuare, ch'essi godessero alcun miracoloso o magico potere sopra il resto del genere umano[36]. II. Quantunque sia probabile, che Tacito nascesse qualche anno avanti l'incendio di Roma[37], potè ciò nonostante rilevare dalla lettura e dalla conversazione la notizia di un fatto, che seguì nel tempo della sua infanzia. Avanti di esporsi al Pubblico, tranquillamente egli aspettò, che il proprio ingegno fosse giunto alla sua piena maturità, ed aveva più di quarant'anni, allorchè un grato riguardo alla memoria del virtuoso Agricola trasse da lui la prima di quelle istoriche composizioni, che diletteranno ed istruiranno la più remota posterità. Dopo di aver fatto una prova della propria forza nella vita d'Agricola, e nella descrizione della Germania, concepì, e finalmente pose in esecuzione un'opera più difficile, vale a dire l'istoria di Roma in trenta libri, dalla caduta di Nerone sino all'avvenimento al trono di Nerva. L'amministrazione di quest'ultimo introdusse un tempo di prosperità e di giustizia, che Tacito avea destinato per occupazione della sua vecchiezza[38]; ma quando più da vicino esaminò quel soggetto, stimando per avventura, che fosse un uffizio più onorevole, o meno invidioso quello di rammentare i vizi de' passati tiranni, che di celebrar le virtù di un Sovrano regnante, si determinò piuttosto a narrare in forma d'annali le azioni de' quattro immediati successori di Augusto. L'impresa di raccogliere, disporre, e adornare una serie di ottant'anni in un'opera immortale, di cui ogni sentenza contiene le più profonde osservazioni, e le immagini più vive, fu bastante ad esercitare il genio di Tacito stesso per la maggior parte della sua vita. Negli ultimi anni del Regno di Traiano, mentre il vittorioso Monarca estendeva la potenza di Roma oltre gli antichi di lei confini, l'Istorico nel secondo e nel quarto libro de' suoi annali descriveva la tirannia di Tiberio[39], e dovè succedere al trono l'Imperatore Adriano avanti che Tacito, nel regolar proseguimento della sua opera, potesse riferir l'incendio della Capitale e la crudeltà di Nerone verso gl'infelici Cristiani. Alla distanza di sessant'anni era dovere dell'Annalista d'adottare le narrazioni de' contemporanei, ma era naturale pel Filosofo di spaziare nella descrizione dell'origine, del progresso e carattere della nuova setta non tanto secondo le cognizioni, o i pregiudizi dell'età di Nerone, quanto secondo quelli del tempo di Adriano. III. Tacito assai frequentemente confida, che la curiosità o la riflessione de' suoi lettori sia per supplire a quelle intermedie circostanze ed idee, che nell'estrema sua precisione ha creduto proprio di sopprimere. Noi possiamo dunque avventurarci ad immaginare qualche probabil motivo, che diriger potesse la crudeltà di Nerone contro i Cristiani di Roma, de' quali non meno l'oscurità che l'innocenza avrebbe dovuto porli al coperto dallo sdegno ed anche dalla cognizione di esso. Gli Ebrei, che si trovavano in gran numero nella Capitale, ed eran oppressi nel proprio paese, formavano un oggetto molto più confacente a' sospetti dell'Imperatore, e del Popolo; nè potea parere improbabile, che una vinta nazione, la quale già manifestava il proprio abborrimento pel giogo Romano, potesse ricorrere a' mezzi più atroci, per soddisfare il suo implacabile desiderio di vendicarsi. Ma gli Ebrei avevano molto potenti avvocati nel Palazzo, ed anche nel cuor del Tiranno, cioè la bella Poppea, di lui moglie e signora, ed un favorito commediante della razza d'Abramo, che avevano già impiegate le loro intercessioni a favore del colpevole Popolo[40]. Bisognava in loro vece offerire qualche altra vittima, e si potè suggerir facilmente, che sebbene i veri seguaci di Mosè fossero innocenti dell'incendio di Roma, fra loro era insorta una nuova perniciosa setta di Galilei, ch'era capace de' misfatti i più orribili. Sotto il nome di Galilei si confondevano due distinte specie di uomini le più opposte fra loro ne' costumi e ne' principj, vale a dire i Discepoli, che avevano abbracciata la fede di Gesù di Nazaret[41], e gli Zeloti, che aveano seguito la bandiera di Giuda Gaulonita[42]. I primi erano amici, i secondi nemici del genere umano; e l'unica somiglianza, che fosse tra loro, consisteva nell'istessa inflessibil costanza, che per difesa della lor causa li rendeva insensibili a' tormenti ed alla morte. I seguaci di Giuda, che inducevano i lor nazionali alla ribellione, restaron presto sepolti sotto le rovine di Gerusalemme; laddove quelli di Gesù, conosciuti sotto il più celebre nome di Cristiani, si diffusero per tutto l'Impero Romano. Quanto egli era naturale per Tacito, nel tempo d'Adriano, l'attribuire a' Cristiani la colpa ed i tormenti, che poteva con molto maggior verità e giustizia imputare ad una setta, della quale quasi era estinta l'odiosa memoria! IV. Qualunque sia l'opinione, che vogliamo avere di tal congettura (giacchè non è questa più che una congettura) egli è chiaro, che gli effetti non meno che la causa della persecuzione di Nerone furono ristretti alle mura di Roma[43]; che le religiose opinioni de' Galilei, o de' Cristiani, non furono mai un oggetto di pena, o anche di pura inquisizione; e che siccome l'idea de' lor patimenti fu per lungo tempo connessa con quella della crudeltà ed ingiustizia, così la moderazione de' seguenti Principi li dispose a risparmiare una setta oppressa da un Tiranno, il furore del quale ordinariamente s'era diretto contro la virtù e l'innocenza.
Egli è in qualche modo da notarsi, che le fiamme della guerra consumaron quasi nel medesimo istante il tempio di Gerusalemme ed il Campidoglio di Roma[44]; nè sembra meno singolare, che il tributo della devozione, destinato pel primo, convenir si dovesse dalla forza di un vincitore insultante in restaurare ed ornar lo splendore dell'altro[45]. L'Imperatore impose una tassa generale per via di capitazione sul popolo Ebreo, e quantunque la somma, che toccò a ciascheduno individuo, non fosse considerabile, pure l'uso pel quale era destinata, e la severità, con cui si esigeva, la facevano riguardare come un intollerabile peso[46]. Poichè i ministri di tal esazione estendevano le loro ingiuste ricerche a molti, che niente avevan che fare col sangue, o con la religion degli Ebrei, era impossibile che i Cristiani, i quali sì spesso eransi coperti sotto l'ombra della Sinagoga, evitassero allora quella rapace persecuzione. Ansiosi com'erano di sfuggire la più leggiera infezione d'idolatria, la lor coscienza vietava ad essi di contribuire all'onore di quel demonio, che aveva preso il carattere di Giove Capitolino. Siccome un assai numeroso benchè decadente partito fra' Cristiani, aderiva sempre alla legge di Mosè, gli sforzi, che facevano per nasconder la loro origine Giudaica, venivano scoperti dalla decisiva testimonianza della circoncisione[47], nè i Magistrati Romani avean comodo d'investigare la differenza de' religiosi sentimenti. Fra' Cristiani presenti al Tribunale dell'Imperatore, o come par più probabile, avanti a quello del Procurator della Giudea, si dice che ve ne comparissero due distinti per la loro estrazione, ch'era veramente più nobile di quella de' più gran Monarchi. Questi erano i nipoti di S. Giuda Apostolo, fratello di Gesù Cristo[48]. Le lor naturali pretensioni al trono di David potevan forse attirar loro il rispetto del Popolo, ed eccitar la gelosia del Governatore; ma la bassezza del loro vestire e la semplicità delle lor risposte lo convinsero ben presto, ch'essi non erano desiderosi, nè capaci di turbar la pace del Romano Impero. Essi confessarono francamente la propria stirpe reale e la stretta parentela che avevano col Messia, ma rinunziarono ad ogni temporale oggetto, e si protestarono, che il regno, da essi devotamente aspettato, era puramente di una specie spirituale ed angelica. Quando esaminati furono intorno a' loro beni ed impieghi, mostrarono le loro mani indurite dalla giornaliera fatica, e dichiararono, che traevan tutto il loro mantenimento dalla coltivazione di un fondo vicino al villaggio di Cocaba dell'estensione di circa 24 acri Inglesi[49] e del valore di 9000 dramme, o sia di trecento lire sterline. I nipoti di S. Giuda furon licenziati con compassione e disprezzo[50].
Ma quantunque l'oscurità della casa di David la potesse far sicura da' sospetti di un tiranno, tuttavia la presente grandezza della propria famiglia pose in agitazione la pusillanime indole di Domiziano, il quale non poteva quietarsi, se non se col sangue di que' Romani, che egli temeva, o detestava, o stimava. De' due figli di Flavio Sabino[51] suo zio, il maggiore fu tosto convinto di meditare tradimenti, ed il minore, che aveva il nome di Flavio Clemente, dovè la propria salvezza alla mancanza di coraggio e di abilità[52]. L'Imperatore distinse per lungo tempo un sì innocente congiunto col suo favore e con la sua protezione, gli diede in isposa la sua nipote Domitilla, adottò i figli di quel matrimonio, dando loro la speranza della successione, ed investinne il padre degli onori del Consolato. Appena però ebbe finita l'annuale sua magistratura, che per un leggiero pretesto fu condannato e posto a morte; Domitilla fu bandita in un'Isola abbandonata sulle coste della Campania[53]; e furon pronunziate sentenze di morte, o di confiscazioni contro un gran numero di persone, che si trovarono involte nell'accusa medesima. Il delitto imputato loro fu quello di Ateismo, e di costumi Giudaici[54]; singolare associazione d'idee, la quale non può con alcuna verosimiglianza applicarsi, che a' Cristiani presi in quell'aspetto, nel quale venivano oscuramente ed imperfettamente risguardati da' Magistrati e dagli scrittori di quella età. Sulla forza di una interpretazione così probabile, che ammette con troppa violenza i sospetti di un tiranno, come una prova del lor onorevol delitto, la Chiesa ha posto Clemente e Domitilla fra' suoi primi martiri, ed ha infamati gli atti di Domiziano chiamandoli seconda persecuzione. Ma questa (se pur merita questo nome) non fu di lunga durata. Pochi mesi dopo la morte di Clemente e l'esilio di Domitilla, Stefano, liberto del primo, che aveva goduto il favore, ma sicuramente non aveva abbracciata la fede della sua Padrona, assassinò l'Imperatore nel proprio di lui palazzo[55]. La memoria di Domiziano fu condannata dal Senato; furono annullati i suoi atti; gli esiliati da lui, richiamati; e sotto il dolce governo di Nerva, mentre si restituirono gl'innocenti ai gradi ed alle sostanze loro e fortune, anche i più colpevoli ottennero il perdono, o evitarono la punizione[56].
II. Circa dieci anni dopo, sotto il regno di Traiano, fu affidato a Plinio il Giovane dal suo amico e signore il governo della Bitinia e del Ponto. Egli si trovò tosto perplesso nel determinare a qual regola di giustizia o di legge dovesse appigliarsi nell'esecuzione di un uffizio il più ripugnante alla sua umanità. Plinio non si era mai trovato presente ad alcun processo giudiciale contro i Cristiani, de' quali sembra che non conoscesse che il nome, e gli era del tutto ignota la natura del lor delitto, il metodo di convincerli, e la misura delle pene, che si dovevano ad essi applicare. In questa dubbiezza ricorse, com'era solito, allo spediente di esporre alla saviezza di Traiano un imparziale, ed in alcuni capi favorevol ragguaglio della nuova superstizione, supplicando l'Imperatore a degnarsi di sciogliere i suoi dubbi, e d'illuminare la sua ignoranza[57]. Plinio avea impiegato la sua vita nell'acquisto della scienza e negli affari del mondo. Fin dall'età di diciannove anni avea perorato con distinzione ne' tribunali di Roma[58], occupato un posto nel Senato, goduto gli onori del Consolato, ed acquistate moltissime relazioni con ogni ceto di uomini così nell'Italia come nelle Province. Dalla perplessità di lui possiam quindi trarre qualche utile indizio; possiamo assicurarci, che quando egli prese il governo della Bitinia, non erano in vigore leggi universali, o decreti del Senato contro i Cristiani: che nè Traiano, nè alcuno de' suoi virtuosi predecessori, de' quali erano in uso gli editti nella giurisprudenza civile e criminale, avevan dichiarato pubblicamente le loro intenzioni rispetto alla nuova setta, e che per quante processure si fosser fatte contro i Cristiani, non ve n'era alcuna di peso ed autorità sufficiente per determinar la condotta di un Magistrato Romano.
La risposta di Traiano, alla quale hanno frequentemente appellato i Cristiani de' posteriori tempi, dimostra tanto riguardo per la giustizia e l'umanità, quanto si potea conciliare con le false idee della religiosa politica[59]. Invece di far vedere l'implacabile zelo d'un inquisitore, ansioso di scoprire le più minute particolarità dell'eresia, ed esultante nel numero delle sue vittime, l'Imperatore manifesta molto maggior premura per proteggere la sicurezza dell'innocente, che per impedire lo scampo del colpevole. Riconosce la difficoltà di stabilire alcun sistema generale; ma pone due regole salutari, che spesso diedero sollievo ed aiuto agli angustiati Cristiani. Quantunque ordini a' Magistrati di punir quelle persone che son legalmente convinte, proibisce però loro con una incoerenza molto umana di far veruna ricerca intorno a' supposti rei. Nè si permette al Magistrato di procedere in qualunque specie d'accusa. Rigetta l'Imperatore le accuse anonime come troppo ripugnanti all'equità del suo governo; ed affinchè si abbiano per convinti coloro, a' quali viene imputato il delitto di professare il Cristianesimo, rigorosamente richiede la positiva testimonianza di un onesto ed aperto accusatore. Egli è probabile ancora, che quelli che assumevano un uffizio sì odioso, fossero obbligati a dichiarare i fondamenti de' loro sospetti, a individuare, tanto rispetto al tempo quanto al luogo, le segrete assemblee, che avevan frequentato i Cristiani loro avversari, ed a scuoprire un gran numero di circostanze, che si nascondevano con la gelosia più vigilante agli occhi profani. Se riuscivano in tal impresa, si esponevano allo sdegno di un attivo e considerabil partito, alla censura della porzione più culta dell'uman genere, ed all'ignominia, che in ogni tempo e paese ha sempre accompagnato il carattere di un accusatore. Se mancavano per l'opposto nelle lor prove, incorrevano la severa, e forse capital pena, che secondo una legge dell'Imperatore Adriano, infliggevasi a quelli, che falsamente attribuivano a' loro concittadini il delitto di Cristianesimo. Potea qualche volta la violenza di una superstiziosa o personale animosità prevalere alle più naturali apprensioni della disgrazia e del pericolo; ma non si può senza dubbio supporre, che accuse di un'apparenza così infelice fossero leggermente o con frequenza intraprese da' sudditi pagani del Romano Impero[60].
Dall'espediente, che si usava per eludere la prudenza delle leggi, rilevasi una sufficiente prova di quanto efficacemente sconcertarono esse i malvagi disegni della privata malizia, o dello zelo superstizioso. In una grande e tumultuosa assemblea i freni del timore e della vergogna, così potenti nelle menti degl'individui, perdono la massima parte della loro influenza. Il devoto Cristiano, a misura che desiderava d'ottenere o d'evitar la gloria del martirio, aspettava, o con impazienza o con terrore, le occasioni de giuochi pubblici e delle solennità. In queste gli abitanti delle grandi città dell'Impero adunavansi nel Circo o nel Teatro, dove ogni circostanza, del luogo non meno che della ceremonia, contribuiva ad accenderne la devozione, e ad estinguerne l'umanità. Mentre i numerosi spettatori, coronati di ghirlande, profumati d'incenso, purificati col sangue delle vittime, e circondati d'altari e di statue delle lor tutelari Divinità, si davano al godimento de' piaceri, che risguardavan come un'essenzial parte del culto lor religioso; vedevano che i soli Cristiani abborrivano gli Dei delle Genti, e con l'assenza e tristezza loro in tali solenni feste pareva che insultassero, o deplorassero la pubblica felicità. Se l'Impero era afflitto da qualche nuova disgrazia, da peste, da fame, o dal cattivo esito di una guerra; se aveva il Tevere dato fuori o il Nilo non era uscito dalle sue sponde; se la terra s'era scossa, o se interrotto s'era il solito corso delle stagioni, i superstiziosi Pagani non dubitavano, che i delitti e l'empietà de' Cristiani, che risparmiavansi dall'eccessiva lenità del Governo, finalmente avessero provocato lo sdegno della divina giustizia. Non era da sperare, che in mezzo ad una licenziosa ed inasprita plebaglia si osservasse la forma di procedere legalmente; nè l'anfiteatro, asperso del sangue delle bestie feroci e de' gladiatori, era il luogo dove potesse farsi udire la voce della compassione. Le grida impazienti della moltitudine denunziavano i Cristiani come i nemici degli uomini e degli Dei, li condannavano a' più atroci tormenti, ed avanzandosi a nominare alcuni dei più ragguardevoli fra nuovi settari, con irresistibil veemenza chiedevano, che nell'istante medesimo fossero presi ed esposti a' leoni[61]. I Governatori delle Province, ed i Magistrati, che presedevano a' pubblici spettacoli, eran per ordinario disposti a soddisfare le inclinazioni, ed a quietare la rabbia del popolo col sacrifizio di poche vittime, soggette all'odio di esso. Ma la saviezza degl'Imperatori proteggeva la Chiesa dal pericolo di simili tumultuarj clamori ed illegittime accuse, ch'essi a ragione disapprovavano come ripugnanti sì alla fermezza che all'equità della loro amministrazione. Gli editti di Adriano e di Antonino Pio dichiararono espressamente, che la voce del popolo non dovesse mai risguardarsi come una prova legale per convincere, o per punire que' disgraziati, che abbracciato avevano l'entusiasmo del Cristianesimo[62].
III. Non era la pena una conseguenza inevitabile dell'essere alcuno stato convinto; e que' Cristiani dei quali si era con la maggior chiarezza provato il delitto, mediante il deposto di testimoni, o anche per la volontaria lor confessione, ritenevano sempre in lor mano la facoltà di scegliere o la vita o la morte. Non tanto la trasgressione passata, quanto la resistenza presente eccitava lo sdegno del Magistrato. Concedevasi un facil perdono al pentimento, e se acconsentivano di gettar pochi grani d'incenso sopra l'altare, venivan licenziati dal Tribunale salvi e con applauso. Un Giudice umano stimava suo dovere di procurare il ravvedimento piuttosto che la pena di que' delusi entusiasti. Prendendo diverso stile secondo l'età, il sesso, o la situazione de' prigionieri, spesso adattavasi a mettere loro davanti agli occhi ogni circostanza, che potesse rendere o più piacevol la vita, o più terribil la morte, ed a sollecitarli, anzi a pregarli a voler mostrare qualche compassione verso se stessi, le lor famiglie ed i loro amici[63]. Se le minacce e le persuasive non avevano effetto, si ricorreva spesse volte alla forza; supplivano i flagelli e le torture alla mancanza degli argomenti, e impiegavasi ogni sorta di crudeltà per domare quell'inflessibile, e come, sembrava a' Pagani, colpevole ostinazione. Gli antichi Apologisti hanno censurato con ugual verità che rigore l'irregolar condotta de' lor persecutori, i quali, contro qualunque principio di giudicial processura, servivansi de' tormenti per ottenere non già la confessione, ma la negazione del delitto, che formava l'oggetto di lor ricerche[64]. I Monaci de' secoli posteriori, che nelle tranquille lor solitudini si occuparono a variare le morti ed i patimenti de' primi Martiri, hanno spesso inventato tormenti di una specie molto più raffinata ed ingegnosa. È piaciuto lor di supporre in particolare, che lo zelo de' Magistrati Romani, sdegnando di avere qualunque riguardo per la virtù morale, o per la pubblica decenza, procurasse di sedurre quelli, che non eran capaci di vincere, e che per lor ordine si esercitasse la più brutale violenza contro coloro, de' quali trovavano impossibile la seduzione. Si racconta, che talvolta alcune pie donne le quali erano preparate a disprezzar la morte, furono condannate a sostenere un esperimento più duro, e forzate a deliberare, se dovessero valutar più la religione che la lor castità. I giovani, a' lascivi abbracciamenti de' quali venivano abbandonate, erano solennemente esortati dal Giudice a fare i loro più vigorosi sforzi per sostener l'onore di Venere contro quell'empie vergini, che ricusavano di bruciar l'incenso sopra i suoi altari. La lor violenza però comunemente restava delusa, e l'opportuna interposizione di qualche miracolo preservava le caste spose di Cristo anche dal disonore di una involontaria caduta. Non si dovrebbe in vero tralasciar di osservare, che le più antiche ed autentiche memorie della Chiesa sono rade volte macchiate con queste indecenti e stravaganti finzioni[65].
La totale non curanza della probabilità e del vero nella rappresentazione di questi primitivi martirj fu cagionata da un inganno molto naturale. Gli scrittori Ecclesiastici del quarto e del quinto secolo attribuirono a' Magistrati di Roma l'istessa dose d'implacabile inflessibilissimo zelo, che riempiva i loro petti contro gli Eretici e gl'Idolatri de' loro tempi. Non è improbabile che alcune di quelle persone, ch'erano elevate alle dignità dell'Impero, potessero essersi imbevute dei pregiudizi della plebe, e che la disposizione, che altre avevano alla crudeltà, potesse venire accidentalmente stimolata da motivi di avarizia, o di sdegno personale[66]. Ma egli è certo, e possiamo appellarcene alle confessioni di riconoscenza de' primi Cristiani, che que' Magistrati, i quali esercitavano l'autorità dell'Imperatore o del Senato nelle Province, ed alle cui mani era unicamente affidata la potestà della vita e della morte, per lo più erano uomini culti e d'ingenua educazione, che rispettavano le regole della giustizia, ed avevan famigliari i precetti della Filosofia. Spesso evitavano l'odioso uffizio di persecutori, trascuravano le accuse con disprezzo, e suggerivano agli accusati Cristiani qualche legal sotterfugio, per mezzo di cui potessero eludere la severità delle leggi[67]. Ogni volta ch'erano investiti di un potere non limitato[68], se ne servivano molto meno per l'oppressione, che pel sollievo e pel favore dell'afflitta Chiesa. Essi erano ben lontani dal condannar tutti i Cristiani, che venivano accusati a' lor tribunali, e dal punir colla morte tutti coloro, ch'eran convinti di un ostinato attaccamento alla nuova superstizione. Contendandosi per ordinario delle pene più miti della carcere, dell'esilio, della condanna a' lavori delle miniere[69], lasciavano alle infelici vittime di lor giustizia qualche ragione di sperare, che un prospero evento, l'avvenimento al trono, il matrimonio, o il trionfo d'un Imperatore, potesse in breve, mediante un generai perdono, restituirli al primiero lor grado. Sembra, che i Martiri, condannati all'immediata esecuzione da' Magistrati Romani, fossero scelti dagli estremi più opposti fra loro. Essi erano o Vescovi o Preti, vale a dire le persone più distinte fra' Cristiani per causa del lor grado e dell'influenza che avevano sopra degli altri, onde il loro esempio potesse incuter terrore in tutta la setta[70]; oppure gl'infimi e più abietti fra loro, particolarmente quelli di servil condizione, le vite de' quali stimavansi di piccol valore, ed i lor patimenti si risguardavano dagli antichi con troppa indifferenza e disprezzo[71]. Il dotto Origene, che per la sua esperienza ed erudizione era benissimo informato dell'istoria de' Cristiani, dichiara ne' più espressi termini, che il numero de' Martiri non era molto considerabile[72]. La sola testimonianza di lui dovrebbe servire ad annientare quel formidabile esercito di Martiri, le reliquie de' quali, tratte per la maggior parte dalle catacombe di Roma, hanno riempiuto tante Chiese[73], e che mediante le loro maravigliose azioni sono stati il soggetto di tanti volumi di Sacri romanzi[74]. Ma può spiegarsi e confermarsi l'asserzione generale d'Origene con le particolari testimonianze del suo amico Dionisio, il quale nell'immensa Città d'Alessandria, ed al tempo della rigorosa persecuzione di Decio non conta che dieci uomini e sette donne, che soffrirono per la professione del nome Cristiano[75].
Nel corso della medesima persecuzione governava la Chiesa non sol di Cartagine, ma eziandio dell'Affrica lo zelante, l'eloquente, ed ambizioso Cipriano. Aveva esso tutte le qualità, che impegnar potevano la riverenza del Fedele, o provocare i sospetti, e l'ira de' magistrati Pagani. Pareva, che il carattere parimente e la situazione di lui additassero quel santo Prelato come il più distinto oggetto del pericolo e dell'invidia[76]. L'esperienza però della vita di Cipriano è sufficiente a provare, che la nostra immaginazione ha esagerato le pericolose circostanze di un Vescovo Cristiano; e che i rischi, a' quali andava esposto, erano meno imminenti di quelli, che la temporale ambizione è sempre disposta a incontrare nella carriera degli onori. Furono uccisi quattro Imperatori Romani con le loro famiglie, i favoriti, gli aderenti nello spazio di dieci anni; durante il qual tempo guidò il Vescovo di Cartagine con la sua autorità ed eloquenza le deliberazioni della Chiesa Affricana. Solo nel terz'anno del suo Governo ebb'egli motivo per pochi mesi di temere i rigorosi editti di Decio, la vigilanza de' Magistrati ed i clamori del Popolo, che ad alta voce dimandava, che Cipriano, condottier de' Cristiani, fosse gettato a' leoni. La prudenza suggerì come necessaria per un tempo la ritirata, ed egli obbedì alla voce della prudenza. Si ritirò in un'oscura solitudine, dalla quale potè mantenere una costante corrispondenza col Clero e col Popolo di Cartagine; e nascondendosi finchè la tempesta fosse passata, si conservò in vita, senza interrompere la sua potenza o la sua riputazione. L'estrema di lui cautela però non isfuggì la censura de' più rigidi fra' Cristiani, che si lagnavano, nè i rimproveri de' suoi personali nemici, che insultavano una condotta, da essi risguardata come un pusillanime e colpevole abbandono del più sacro dovere[77]. La convenienza di riservarsi per li futuri bisogni della Chiesa, l'esempio di molti santi Vescovi[78] e le divine ammonizioni, ch'egli stesso dichiarava di ricever frequentemente nelle visioni e nell'estasi, erano le ragioni, ch'esso adduceva per giustificarsi[79]. Ma si vede la sua migliore apologia nella volontaria fermezza, con cui, circa otto anni dopo, soffrì la morte per causa della religione. È stata fatta l'istoria autentica del suo martirio con insolito candore ed imparzialità; onde un breve ragguaglio delle circostanze più importanti, che l'accompagnarono, ci darà la più chiara idea dello spirito e delle formalità delle persecuzioni Romane[80].
Nel tempo che Valeriano era Console per la terza volta, e Gallieno per la quarta, Paterno, Proconsole d'Affrica, citò Cipriano a comparire avanti al suo Consiglio privato. Ivi l'informò dell'ordine Imperiale che allora avea ricevuto[81], affinchè quelli, che avevano abbandonato la religione Romana, dovessero immediatamente tornare a praticar le ceremonie de' loro antenati. Cipriano replicò senza esitare, ch'egli era un Cristiano ed un Vescovo consacrato al culto dell'unico e vero Dio, al quale offeriva ogni giorno le proprie suppliche per la salvezza e prosperità de' due Imperatori, suoi legittimi Sovrani. Con modesta fiducia invocò il privilegio di cittadino, ricusando di dare alcuna risposta a varie odiose ed, a vero dire, illegali questioni, che il Proconsole avea proposte. Fu pronunziata una sentenza d'esilio per pena della disubbidienza di Cipriano, e fu esso condotto senza dilazione a Curabi, città libera e marittima, di Zeugitania, in una piacevol situazione, in un fertile territorio, ed alla distanza di circa quaranta miglia da Cartagine[82]. L'esule Vescovo godeva de' comodi della vita e della coscienza della propria virtù. Era sparsa la sua riputazione per l'Affrica e per l'Italia; fu pubblicato, per edificazione del mondo Cristiano, un racconto della sua condotta[83]; e la solitudine del medesimo era frequentemente interrotta dalle lettere, dalle visite, e dalle congratulazioni de' Fedeli. All'arrivo di un nuovo Proconsole nella Provincia, parve che la fortuna di Cipriano prendesse per qualche tempo un aspetto più favorevole. Fu esso richiamato dal bando, e quantunque non gli fosse per anche permesso di ritornare in Cartagine, gli furono assegnati per luogo di sua dimora i propri di lui giardini, situati ne' contorni della capitale[84].
Finalmente, appunto un anno dopo che Cipriano fu chiamato per la prima volta in giudizio, Galerio Massimo, Proconsole d'Affrica, ricevè l'imperial dispaccio pur l'esecuzione de' Dottori Cristiani[85]. Al Vescovo di Cartagine parve grave di esser egli destinato per una delle prime vittime, e la fragilità della natura lo tentò a sottrarsi per mezzo di una segreta fuga al pericolo ed all'orror del martirio; ma presto ricuperando quella fortezza ch'esigeva il proprio carattere, tornò a' suoi giardini, ed aspettò pazientemente i ministri della morte. Due uffiziali di qualità, a' quali affidata venne tal commissione, posero Cipriano in un cocchio fra loro, e poichè il Proconsole allora non era in comodo, lo condussero non già in una carcere, ma in una casa privata in Cartagine, appartenente ad uno di essi. Fu apparecchiata un'elegante cena pel Vescovo, e fu permesso a' suoi amici Cristiani di godere per l'ultima volta la sua compagnia, mentr'eran piene le contrade di una moltitudine di Fedeli, ansiosi ed agitati per l'imminente morte del loro padre spirituale[86]. Nella mattina comparve avanti il tribunal del Proconsole, il quale dopo essersi informato del nome e della situazione di Cipriano, gli comandò di sacrificare agli Dei, e lo eccitò a riflettere alle conseguenze della sua disubbidienza. Il rifiuto di Cipriano fu stabile e decisivo; ed il Magistrato, dopo ch'ebbe udita l'opinione del suo consiglio, con qualche ripugnanza pronunziò la sentenza di morte. Questa fu conceputa ne' termini seguenti. «Che immediatamente sia decapitato Tascio Cipriano, come nemico degli Dei di Roma, come capo e condottiero di una rea società, la quale da esso è stata sedotta ad empiamente resistere alle leggi de' santissimi Imperatori Valeriano e Gallieno[87].» La forma della sua esecuzione fu la più mite e la meno penosa, che dar si potesse ad una persona convinta di un delitto capitale; nè fu adoperato l'uso della tortura, per ottenere dal Vescovo di Cartagine o l'abbiurazione delle sue massime, o la scoperta de' complici.
Tosto che fu pubblicata la sentenza, «Noi moriremo con lui» gridò generalmente tutta insieme la moltitudine dei Cristiani, che stava ad ascoltare avanti le porte del Palazzo. Le generose loro dimostrazioni di zelo e di affetto non furono nè vantaggiose a Cipriano, nè per loro stessi pericolose. Fu egli condotto sotto la guardia de' Tribuni e de' Centurioni, senza resistenza, e senza insulto, al luogo dell'esecuzione, ch'era una spaziosa pianura vicina alla città, ed era già piena di un gran numero di spettatori. A' fedeli di lui Diaconi e Preti fu concesso di accompagnare il Santo lor Vescovo. Essi l'aiutarono a togliersi le vesti di sopra, stesero sul terreno de' panni per raccoglier le preziose reliquie del suo sangue, e da esso riceveron l'ordine di dare venticinque monete d'oro all'esecutore. Dopo di che il Martire si cuoprì con le proprie mani la faccia, e ad un solo colpo fu reciso il suo capo dal busto. Rimase per alcune ore il cadavere esposto alla curiosità de' Gentili; ma nella notte fu tolto di là, e con trionfal processione allo splendore di molti lumi fu trasportato al cimitero dei Cristiani. Furon celebrate pubblicamente a Cipriano l'esequie senza il minimo impedimento per parte dei Magistrati Romani; e que' Fedeli, che prestaron gli ultimi uffizj alla persona e memoria di lui, furono sicuri da ogni pericolo d'inquisizione o di pena. Egli è da osservarsi, che in una moltitudine sì grande di Vescovi, che si trovavano nella Provincia dell'Affrica, Cipriano fu il primo, che fosse reputato degno di ottener la corona del martirio[88].
Era veramente in poter di Cipriano o di morir martire, o di vivere apostata: ma dipendeva da questa scelta l'alternativa dell'onore, o dell'infamia. Se potesse anche supporsi che il Vescovo di Cartagine si fosse servito della professione della fede Cristiana solo come d'istrumento della propria ambizione o avarizia, doveva egli sempre sostenere il carattere che aveva assunto[89]; e se in lui era la minima dose di viril fortezza, doveva esporsi piuttosto a' più crudeli tormenti, che per un solo atto cambiare la riputazione di tutta la vita nell'abborrimento de' suoi Cristiani fratelli e nel disprezzo del mondo Gentile. Ma se lo zelo di Cipriano veniva sostenuto da una sincera persuasione della verità di quelle dottrine ch'egli predicava, la corona del martirio dovea sembrargli piuttosto un oggetto di desiderio che di terrore. Dalle vaghe, sebben eloquenti declamazioni de' Padri non è così facile di concepire un'idea distinta, o di determinare il grado di quell'immortal gloria e felicità, ch'essi con fiducia promettevano a quelli ch'erano sì fortunati da spargere il proprio sangue in difesa della religione[90]. Con la diligenza che si conveniva, essi inculcavano, che il fuoco del martirio suppliva ogni difetto, ed espiava ogni colpa; che mentre le anime degli altri Cristiani eran obbligate a passare per una lenta e penosa purificazione, i Martiri entravano trionfanti al godimento immediato dell'eterna felicità, dove in compagnia de' Patriarchi, degli Apostoli e de' Profeti regnavan con Cristo, ed erano come assessori di esso nell'universal giudizio dell'uman genere. La sicurezza di una durevole riputazione sopra la terra, motivo sì confacente alla vanità della natura umana, serviva spesse volte ad animare il coraggio de' Martiri. Gli onori, che Roma od Atene largivano a' que' cittadini, ch'erano morti per difesa della lor patria, non erano che fredde e deboli dimostrazioni di rispetto, ove si confrontino coll'ardente gratitudine e devozione, ch'esprimeva la primitiva Chiesa verso i vittoriosi campioni della fede. S'incominciò a celebrare come una ceremonia sacra l'annual commemorazione delle virtù e dei tormenti loro, e andò a terminar finalmente in un culto religioso. Fra' Cristiani poi, che avevan pubblicamente confessato i principj di lor religione, quelli che si liberavano (come spesso accadeva) dal tribunale o dalle carceri de' Magistrati Pagani, godevano quegli onori ch'erano giustamente dovuti all'imperfetto martirio, ed alla generosa fermezza che avevano dimostrato. Le più devote donne ambivano che fosse loro permesso d'imprimer baci su' ferri ch'essi avevan portato, e sulle ferite che avevano ricevuto. Le lor persone si stimavano sante; se ne ricevevan con rispetto le decisioni; ed essi troppo spesso abusavano, col loro spirituale orgoglio e colle licenziose maniere, della preminenza, che lo zelo e l'intrepidezza avevano loro acquistato[91]. Distinzioni di questa sorta, nel tempo che rappresentano la grand'esaltazione del merito, mostrano il picciol numero di quelli che soffrirono patimenti, o la morte per la professione del Cristianesimo.
La sobria discrezione de' nostri tempi sarebbe più portata a censurar che ad ammirare, e potrebbe anche più facilmente ammirar che imitare il favore de' primi Cristiani, i quali, secondo la viva espressione di Sulpicio Severo, desideravano il martirio con maggiore ansietà di quel che i suoi contemporanei sollecitassero un Vescovato[92]. L'epistole scritte da Ignazio, quando egli era condotto in catene per le città dell'Asia, spirano i sentimenti più ripugnanti alla comune inclinazione della natura dell'uomo. Vivamente egli prega i Romani, che quando sarà esposto nell'Anfiteatro, non vogliano con le lor tenere ma inopportune intercessioni privarlo della corona della gloria, e si dichiara risoluto di voler provocare ed irritar le bestie feroci, che verrebbero impiegate come istrumenti della sua morte[93]. Si raccontano alcune storie del coraggio di Martiri, che effettivamente fecero quel che Ignazio s'era proposto: che inasprirono il furor de' Leoni, sollecitaron l'esecutore ad affrettare il suo uffizio, allegramente saltaron nel fuoco preparato per consumarli, e dimostrarono un senso di gioia e di piacere nel mezzo de' più squisiti tormenti. Si son conservati molti esempi di uno zelo, che non poteva soffrire que' freni che gl'Imperatori avean posti per sicurezza della Chiesa. Supplivano alle volte i Cristiani medesimi con la propria volontaria dichiarazione alla mancanza di un accusatore, precipitosamente sturbavano le pubbliche funzioni del Paganesimo[94], e correndo in folla a' tribunali de' Magistrati, chiedevano loro che pronunziassero ed eseguissero la sentenza stabilita dalla legge. La condotta de' Cristiani era in vero troppo notabile per isfuggire alla vista degli antichi Filosofi; ma sembra che fosse per loro un oggetto molto meno d'ammirazione che di stupore. Incapaci d'immaginare i motivi, che alle volte trasportavano la fortezza de' credenti oltre i confini della prudenza o della ragione, trattavano tale ansietà di morire come uno stravagante risultato di ostinata disperazione, di stupida insensibilità, o di superstiziosa frenesia[95]. «Infelici! (esclamò il Proconsole Antonino, parlando a' Cristiani dell'Asia) infelici! se voi siete sì stanchi di vivere, vi sembra egli tanto difficil cosa il trovar delle funi e de' precipizj?[96].» Egli andò sommamente guardingo (come osserva un erudito e devoto Istorico) nel punire persone che non avevan trovati altri accusatori che se medesimi, non essendosi dalle leggi Imperiali fatto provvedimento veruno per un caso così inaspettato; laonde avendone condannati alcuni pochi per servir d'esempio a' loro fratelli, scacciò la moltitudine con indignazione e disprezzo[97]. Nonostante però questo reale o affettato sdegno, l'intrepida costanza de' Fedeli produceva gli effetti più salutari su quegli spiriti, che dalla natura e dalla grazia eran disposti a ricever facilmente le verità religiose. In tali funeste occasioni, fra' Gentili v'erano molti, che avevano compassione, che ammiravano, e che si convertivano. Da quelli che pativano, si comunicava il generoso entusiasmo agli spettatori, ed il sangue de' Martiri, secondo una ben nota osservazione, divenne il seme della Chiesa.
Ma sebbene la devozione sublimato avesse, e l'eloquenza continuasse ad infiammar questo ardor della mente, pure esso diede insensibilmente luogo alle speranze e ai timori più naturali del cuore umano, all'amor della vita, all'apprension della pena, ed all'orrore del proprio discioglimento. I più prudenti regolatori della Chiesa trovaronsi costretti a raffrenar l'indiscreto fervore de' lor seguaci, e a diffidare di una costanza, che troppo spesso gli abbandonava nell'ora dell'esperimento[98]. A misura che divenne meno mortificata ed austera la vita de' Fedeli, essi furono di giorno in giorno meno ambiziosi degli onori del martirio; ed i soldati di Cristo, in vece di distinguersi con volontarie azioni d'eroismo, disertavan frequentemente dal loro posto, e fuggivano in confusione l'aspetto di quel nemico, al quale erano in dover di resistere. Vi erano però tre maniere di evitare le fiamme della persecuzione, che non portavan seco il grado medesimo di reato: la prima in vero si risguardava generalmente come innocente; la seconda era di una specie dubbiosa, o almeno di una veniale mancanza; ma la terza induceva una diretta e colpevole apostasia dalla fede Cristiana.
I. Un moderno Inquisitore udirebbe veramente con sorpresa, che allorchè avanti ad un Magistrato Romano accusavasi alcuno sottoposto alla sua giurisdizione, per aver abbracciato la setta del Cristianesimo, fosse comunicata l'accusa alla parte accusata, e le fosse accordato un conveniente spazio di tempo per porre in ordine i propri affari domestici, e per preparare una difesa al delitto che le veniva imputato[99]. Se l'accusato avea qualche dubbio intorno alla propria costanza, tal dilazione gli somministrava l'opportunità di conservar la sua vita ed il suo onore mediante la fuga, di ritirarsi in qualche oscura solitudine, o in qualche distante Provincia per ivi aspettare pazientemente il ritorno della sicurezza e della pace. Un contegno sì conforme alla ragione veniva spesso autorizzato dall'avviso e dall'esempio de' più santi Prelati, e sembra, che fosse censurato da pochi, se si eccettuino i Montanisti, che dal loro stretto ed ostinato attaccamento pel rigore dell'antica disciplina furon condotti all'eresia[100]. II. I Governatori delle Province, ne' quali non prevaleva lo zelo all'avarizia, avevano introdotto il costume di vendere degli attestati (o come si dicevan libelli ) ne' quali facevan fede, che le persone ivi menzionate avean soddisfatto alle leggi, e sacrificato alle Romane divinità. Producendo queste false dichiarazioni, potevano gli opulenti e timorosi Cristiani ridurre al silenzio la malignità di un accusatore, e in qualche modo conciliare la religione con la loro salvezza. Una tenue penitenza poi serviva a purgare questa profana dissimulazione[101]. III. In ogni persecuzione si trovava un gran numero d'indegni Cristiani, che pubblicamente negavano, o rinunciavano la fede che professavano; e che confermavan la sincerità di loro abbiura con gli atti legali di ardere incenso, o di offerire sacrifizii. Alcuni di questi apostati cedevano alla prima esortazione o minaccia del Magistrato, mentre la pazienza d'altri era vinta dalla lunghezza e reiterazion de' tormenti. I volti spaventati di alcuni tradivano i loro interni contrasti, mentre altri s'avanzavano con fiducia ed ilarità verso gli altari degli Dei[102]. Ma la finzione, indotta dal timore, non durava più lungamente del presente pericolo. Appena diminuiva il rigore della persecuzione, le porte della Chiesa erano assediate dalla moltitudine de' penitenti, che detestavano la loro idolatrica sommissione, e che supplicavano con uguale ardore, ma con vario successo, di esser nuovamente ricevuti nella società de' Cristiani[103].
IV. Quantunque fossero stabilite varie regole generali per convincere e per punire i Cristiani, pure in un esteso ed arbitrario governo il destino di que' settarj doveva sempre in gran parte dipendere dal lor portamento, dalle circostanze de' tempi e dall'indole tanto del supremo, che de' subalterni lor Giudici. Alle volte lo zelo potea provocare, e la prudenza mitigare o rimuovere il superstizioso furor de' Pagani. Diversi motivi potevan disporre i Governatori delle Province a mantenere in vigore, o a rilassar l'esecuzione delle leggi, ed il più forte fra questi era il riguardo che avevano non solo pei pubblici editti, ma ancora per le segrete intenzioni dell'Imperatore, del quale uno sguardo era sufficiente ad accendere, o ad estinguere la persecuzione. Ogni volta che si esercitava qualche accidentale severità nelle diverse parti dell'Impero, i primitivi Cristiani si dolevano de' lor patimenti, e forse gli ampliavano; ma il celebre numero di dieci persecuzioni fu determinato dagli scrittori Ecclesiastici del quinto secolo, che avevano una cognizione più distinta de' casi prosperi ed avversi della Chiesa, dal tempo di Nerone fino a quello di Domiziano. Gl'ingegnosi paralelli delle dieci piaghe d'Egitto e delle dieci corna dell'Apocalisse furono i primi a suggerir questo numero alle lor menti, e nell'applicazione, che facevano della fede profetica alla verità istorica, ebber la cura di sceglier que' regni che furon veramente i più contrari alla causa de' Cristiani[104]. Ma queste passeggiere persecuzioni non servivano, che a ravvivare lo zelo, ed a restaurar la disciplina de' Fedeli, ed i momenti di un rigore straordinario venivan compensati da intervalli molto più lunghi di sicurezza e di pace. L'indifferenza di alcuni Principi, e l'indulgenza di altri fecer godere a' Cristiani una pubblica e di fatto, quantunque per avventura non giuridica, tolleranza di lor religione.
L'Apologia di Tertulliano contiene due molto antichi, molto singolari, e nel tempo stesso molto sospetti esempi d'Imperiale clemenza, cioè gli editti pubblicati sotto Tiberio e Marco Antonino, e diretti non solo a protegger l'innocenza de' Cristiani, ma anche a promulgare quegli stupendi miracoli che avevan contestato la verità di lor dottrina. Il primo di essi è accompagnato da alcune difficoltà, che potrebbero far dubitare uno spirito scettico[105]. Ci si vorrebbe far credere, che Ponzio Pilato informasse l'Imperatore dell'ingiusta sentenza di morte, ch'esso aveva pronunziata contro una persona innocente, e per quanto pareva, divina, e che, senza acquistarne il merito, si esponesse al pericolo del martirio; che Tiberio il quale non occultava il suo disprezzo per ogni religione, immediatamente concepisse il disegno di porre il Messia Giudeo fra' Numi Romani; che il servile Senato si avventurasse a disubbidire a' comandi del suo Signore; che Tiberio, invece di risentirsi di tal rifiuto, si contentasse di proteggere i Cristiani dalla severità delle leggi, molti anni prima che queste fossero fatte, o avanti che la Chiesa prendesse un nome, o avesse un'esistenza particolare; e finalmente che si conservasse la memoria di questo fatto straordinario ne' registri più pubblici ed autentici, i quali non vennero a notizia degl'Istorici Greci e Romani, e furon soltanto visibili agli occhi di un Cristiano d'Affrica, il quale compose la sua apologia cento sessant'anni dopo la morte di Tiberio. Si suppone, che l'Editto di Marco Antonino fosse l'effetto della sua devozione e gratitudine per essere stato miracolosamente liberato nella guerra contro i Marcomanni. L'angustia delle Legioni, l'opportuna tempesta di pioggia e di grandine, di tuoni e di fulmini, ed il terrore e la disfatta de' Barbari, si celebrarono dall'eloquenza di più scrittori Pagani. Se in quell'esercito si fosse trovato alcun Cristiano, egli era naturale ch'essi dovessero attribuir qualche merito alle fervide preci, che nel momento del pericolo avean fatte per la propria, e per la pubblica sicurezza. Ma tuttavia siamo assicurati da monumenti di marmo e di rame, dalle medaglie Imperiali e dalla colonna Antonina, che nè il Principe, nè il Popolo dimostrò alcun sentimento di questo segnalato favore, giacchè attribuirono di comune accordo la loro liberazione alla providenza di Giove ed all'interposizion di Mercurio. In tutto il corso del suo Regno, Marco disprezzò i Cristiani come filosofo, e li punì come Sovrano[106].
Per una fatalità singolare, i travagli che avevano sofferto i Cristiani sotto il governo di un Principe virtuoso, immediatamente cessarono al comparir di un Tiranno, e siccome nessuno, fuori di loro, aveva sperimentato l'ingiustizia di Marco, così furono essi soli protetti dalla piacevolezza di Commodo. La celebre Marcia, che fu la prima favorita fra le sue concubine, e che finalmente tramò l'uccisione dell'Imperiale suo amante, aveva un singolare affetto per l'oppressa Chiesa; e benchè fosse impossibile, ch'ella conciliar potesse la pratica del vizio co' precetti dell'Evangelio, pure poteva sperar di purgare le fragilità del suo sesso e della sua professione, dichiarandosi protettrice de' Cristiani[107]. Sotto la graziosa protezione di Marcia essi passarono in sicurezza i tredici anni di quella crudel tirannia, e quando si stabilì l'Impero nella casa di Severo, acquistarono una famigliare, ma più onorevole connessione con la nuova Corte. L'Imperatore era persuaso, che in una pericolosa malattia gli fosse stato di qualche vantaggio o spirituale o fisico l'olio santo, col quale un suo schiavo l'aveva unto. Ei trattò sempre con particolar distinzione molti di ambedue i sessi, che avevano abbracciato la nuova religione. La nutrice non meno che il precettore di Caracalla furono Cristiani; e se mai quel Principe mostrò un sentimento d'umanità, ne fu cagione un accidente, che sebbene di piccol peso, ha qualche relazione alla causa del Cristianesimo[108]. Nel regno di Severo fu tenuta in freno la furia del popolo; per qualche tempo sospeso il rigore delle antiche leggi; ed i Governatori delle Province restavano soddisfatti con ricevere un dono annuale dalle Chiese poste dentro i limiti di loro giurisdizione, come prezzo o guiderdone della loro moderatezza[109]. La controversia intorno al preciso tempo di celebrar la Pasqua armò i Vescovi dell'Asia e dell'Italia gli uni contro gli altri, e fu questo risguardato come l'affare più importante di quel tempo di pace e di tranquillità[110]. Nè fu interrotta la quiete della Chiesa, finchè sempre crescendo il numero de' proseliti, sembra che finalmente richiamasse l'attenzione, o alienasse l'animo di Severo. Col fine d'impedire il progresso del Cristianesimo, pubblicò un editto, che sebbene fosse diretto soltanto contro quelli che si convertivan di nuovo, pure non si potè rigorosamente mettere in esecuzione senza esporre al pericolo ed alla pena i più zelanti tra' loro Dottori e Missionari. In questa mite persecuzione possiam ravvisar sempre lo spirito indulgente di Roma e del Politeismo, che sì facilmente ammetteva ogni cosa in favore di quelli, che praticavano le religiose cerimonie de' loro Padri[111].
Ma presto spirarono, insieme con l'autorità di Severo, le leggi ch'egli avea fatte; ed i Cristiani, dopo questa accidentale tempesta, goderono una calma di trentotto anni[112]. Fino a quest'epoca essi avevano per ordinario tenuto le loro assemblee in case private ed in luoghi remoti. Fu loro permesso in questo tempo di erigere e di consacrare edifizi atti all'esercizio del culto religioso[113], di comprar terre anche nell'istessa Roma per uso della comunità; e di far l'elezioni de' lor ministri Ecclesiastici in una forma così pubblica, e nel tempo stesso così esemplare da meritar la rispettosa attenzione dei Gentili[114]. Questo lungo riposo della Chiesa fu congiunto con la dignità. I regni di que' Principi, che traevan l'origine dalle Province dell'Asia, furono i più favorevoli per li Cristiani: le persone eminenti di questa setta, invece d'essere ridotte ad implorare la protezione di uno schiavo, o d'una concubina, erano ammesse nel Palazzo coll'onorevol carattere di sacerdoti e di filosofi; e le lor misteriose dottrine, ch'erano già sparse fra il popolo, insensibilmente attirarono la curiosità del Sovrano. Quando l'Imperatrice Mammea passò da Antiochia, dimostrò desiderio di trattar col celebre Origene, che avea diffuso la fama della sua pietà e dottrina per l'Oriente. Obbedì Origene ad un invito così lusinghiero, e quantunque non potesse sperar di succedere nella conversione di una donna artificiosa ed ambiziosa, essa udì con piacere le eloquenti di lui esortazioni, ed onorevolmente lo rimandò al suo ritiro di Palestina[115]. Furono adottati i sentimenti di Mammea dal suo figliuolo Alessandro, e fu indicata la filosofica devozione di quell'Imperatore da un singolare ma indiscreto riguardo per la religione Cristiana. Collocò egli nella sua Cappella domestica le statue d'Abramo, di Orfeo, d'Apollonio e di Cristo, quasi volendo fare un onore giustamente dovuto a que' rispettabili savj, che in vari modi avevano instruito il genere umano a porger omaggio alla suprema ed universale divinità[116]. Fra' suoi domestici, si professava e si esercitava apertamente una fede ed un culto più puro. Furono forse per la prima volta veduti a Corte de' Vescovi, ed allorchè, dopo la morte di Alessandro, il crudel Massimino scaricò il suo furore sopra i favoriti ed i servi dell'infelice di lui benefattore, molti Cristiani di ogni grado e di ambedue i sessi furono involti nel promiscuo macello, che ha, per tal motivo, impropriamente ricevuto il nome di Persecuzione[117].
Nonostante la crudel disposizione di Massimino, gli effetti del suo sdegno contro i Cristiani furon limitati solo a certi luoghi e tempi, ed il pio Origene, ch'era stato proscritto come una sacra vittima, fu tuttavia riservato a portare la verità del Vangelo alle orecchie de' Monarchi[118]. Egli mandò varie lettere edificanti all'Imperator Filippo, alla sua moglie ed alla madre; ed appena quel Principe, ch'era nato nelle vicinanze della Palestina, ebbe usurpato lo scettro Imperiale, i Cristiani acquistarono un amico ed un protettore. Il pubblico ed anche parzial favore di Filippo verso i seguaci della nuova religione, ed il costante di lui rispetto per li Ministri della Chiesa diedero qualche colore al sospetto, che prevalse in que' tempi, che l'Imperatore medesimo si fosse convertito alla fede[119], e somministrò qualche fondamento ad una favola, che in seguito fu inventata, vale a dire ch'egli s'era purgato, mediante la confessione e la penitenza, dalla colpa contratta per l'uccisione del suo innocente predecessore[120]. La caduta di Filippo introdusse con la mutazione dei Principi un nuovo sistema di governo, così oppressivo per li Cristiani, che l'antecedente lor condizione fino dal tempo di Domiziano, si rappresentava come uno stato di perfetta libertà e sicurezza, paragonandolo col rigoroso trattamento, ch'essi soffrirono sotto il breve regno di Decio[121]. Le virtù di questo Principe difficilmente ci permetteranno di sospettare che un vile odio contro i favoriti del suo predecessore influisse sopra di lui, ed è più ragionevole di credere, che nell'esecuzione del suo disegno generale di restaurar la purità de' costumi Romani, desiderasse di liberar l'Impero da quella ch'esso condannava come una rea e nuova superstizione. I Vescovi delle città più considerabili furono condannati all'esilio o alla morte; la vigilanza de' Magistrati impedì per sedici mesi al Clero di Roma di procedere ad una nuova elezione; ed era opinion de' Cristiani, che l'Imperatore avrebbe sofferto con maggior pazienza un competitore alla porpora che un Vescovo nella Capitale[122]. Se fosse possibile di supporre, che la penetrazione di Decio scoperto avesse l'orgoglio sotto il manto dell'umiltà, o che avesse potuto prevedere, che dalle pretensioni di autorità spirituale sarebbe insensibilmente nato il dominio temporale, ci cagionerebbe minor sorpresa, ch'egli risguardasse i successori di S. Pietro come i rivali più formidabili di quelli d'Augusto.
Il Governo di Valeriano si distinse per una leggerezza ed incostanza, che mal conveniva alla gravità di un Censore di Roma. Nel principio del suo regno, egli sorpassò in clemenza que' Principi de' quali si era sospettato che avessero abbracciata la fede Cristiana. Negli ultimi tre anni e mezzo, prestando orecchio alle insinuazioni di un ministro addetto alle superstizioni dell'Egitto, adottò le massime, ed imitò la severità del suo predecessore Decio[123]. L'esaltamento di Gallieno, che accrebbe le calamità dell'Impero, restituì la pace alla Chiesa, ed i Cristiani ottennero il libero esercizio della loro religione, mercè di un editto diretto ai Vescovi, e concepito in tali termini, che sembrava riconoscere in essi un uffizio e carattere pubblico[124]. Si tollerava che le antiche leggi, senza venir formalmente rivocate, cadessero nell'obblivione; ed eccettuate alcune ostili intenzioni attribuite all'Imperatore Aureliano[125], i Discepoli di Cristo passarono più di quarant'anni in uno stato di prosperità molto più pericoloso per la loro virtù, che i più aspri patimenti della persecuzione.
L'istoria di Paolo Samosateno, che occupò la Sede Metropolitana d'Antiochia, allorchè l'Oriente trovavasi nelle mani di Odenato e di Zenobia, può servire ad illustrare la condizione ed il carattere di que' tempi. La ricchezza di quel Prelato era una prova sufficiente di sua reità, mentre non aveva avuto origine nè dall'eredità de' suoi padri, nè dalle arti di un'onesta industria. Ma Paolo risguardava il servigio della Chiesa come una professione molto lucrosa[126]. La sua Giurisdizione ecclesiastica era venale e rapace, estorceva frequenti contribuzioni da' più facoltosi Fedeli, e convertiva in uso proprio gran parte dell'entrata comune. La religione Cristiana, per causa dell'orgoglio e lusso del medesimo, si rendè odiosa agli occhi de' Gentili. Il luogo, dove teneva consiglio, ed il suo trono, lo splendore col quale compariva in pubblico, la folla de' supplicanti che implorava la sua attenzione, la quantità di lettere e di suppliche, alle quali dettava le sue risposte, e la perpetua confusione di affari, ne' quali era involto, erano circostanze molto più convenienti allo stato di un Magistrato civile[127], che all'umiltà di un Vescovo antico. Ogni volta ch'egli parlava dal pulpito al popolo, affettava lo stil figurato ed i gesti teatrali di un sofista Asiatico, mentre la Cattedrale risuonava delle più alte e stravaganti acclamazioni in lode della sua divina eloquenza. Contro coloro, che resistevano al suo potere o ricusavano di adular la sua vanità, il Prelato d'Antiochia era arrogante, rigido ed inesorabile, ma rilassava la disciplina, e distribuiva con prodiga mano i tesori della Chiesa ai Cherici da lui dipendenti, a' quali era permesso d'imitare il lor capo nella soddisfazione di ogni sensuale appetito; giacchè Paolo si deliziava molto liberamente ne' piaceri della tavola, ed avea ricevuto nel Palazzo Episcopale due giovani e belle donne, come compagne costanti de' suoi momenti di quiete[128].
Nonostanti questi scandalosi vizi, se Paolo di Samosata conservato avesse la purità della fede ortodossa, il suo regno sopra la capital della Siria non sarebbe terminato che con la sua vita: e se fosse nata un'opportuna persecuzione, uno sforzo di coraggio avrebbe forse potuto collocarlo nello schiera de' Santi e de' Martiri. Alcuni delicati e sottili errori, ch'egli adottò imprudentemente, ed ostinatamente sostenne intorno alla dottrina della Trinità, eccitarono lo zelo e lo sdegno delle Chiese orientali[129]. I Vescovi, dall'Egitto fino al Ponto Eusino, si posero in armi ed in movimento. Furon tenuti vari Concili, pubblicate confutazioni, pronunziate scomuniche, accettate e ricusate a vicenda dichiarazioni ambigue, conclusi e violati trattati, e finalmente Paolo di Samosata fu spogliato del suo carattere Episcopale per sentenza di settanta o ottanta Vescovi, che a tal fine si adunarono in Antiochia, e che, senza consultare i diritti del Clero e del Popolo, gli elessero di loro autorità un successore. La manifesta irregolarità di questo procedere accrebbe il numero de' malcontenti faziosi; e siccome Paolo, che non era nuovo negli artifizi delle Corti, s'era insinuato nel favor di Zenobia, per più di quattr'anni si mantenne in possesso della casa e dell'uffizio Episcopale. La vittoria d'Aureliano cangiò l'aspetto delle cose in Oriente, ed i due discordi partiti che attribuivansi l'un l'altro gli epiteti di scisma e d'eresia, ebbero l'ordine, o la permissione di agitar la causa avanti al tribunale del conquistatore. Questo pubblico e molto singolar giudizio serve a dare una convincente prova, che si riconosceva l'esistenza, la proprietà, i privilegi e l'intrinseco governo de' Cristiani, se non dalle leggi, almeno da' Magistrati dell'Impero. Poteva difficilmente aspettarsi, che Aureliano, come Gentile e soldato, entrasse a discutere, se le opinioni di Paolo o quelle de' suoi avversari fossero le più conformi alla verità della fede ortodossa. La sua determinazione però si fondò su' principj generali di equità e di ragione. Risguardò esso i Vescovi dell'Italia come i Giudici più imparziali e rispettabili fra' Cristiani, ed appena fu informato ch'essi avevano concordemente approvata la sentenza del Concilio, si acquietò alla lor decisione, ed immediatamente diede ordine, che Paolo fosse costretto ad abbandonare le possessioni temporali che appartenevano ad un uffizio, di cui, secondo il giudizio de' propri fratelli, egli era stato regolarmente privato. Ma nel tempo che si applaudisce alla giustizia di Aureliano, non si dovrebbe perder di vista la sua politica; imperocchè procurava egli di restituire e di collegare la dipendenza delle Province dalla capitale per qualunque mezzo che potesse vincolar l'interesse, o i pregiudizi di ogni parte de' propri sudditi[130].
In mezzo alle frequenti rivoluzioni dell'Impero i Cristiani sempre fiorivano in pace e prosperità; e quantunque la famosa Era de' Martiri siasi principiata dall'avvenimento al Trono di Diocleziano[131], tuttavia il nuovo sistema di politica, introdotto e mantenuto dalla saviezza di quel Principe, continuò per più di diciott'anni ad inspirare il più dolce e libero spirito di tolleranza intorno alla religione. La mente, in vero, di Diocleziano medesimo era meno idonea alle ricerche speculative che alle attive fatiche della guerra e del governo. La sua prudenza lo rendè alieno da ogni grande innovazione, e quantunque il suo temperamento non fosse suscettibile di zelo o di entusiasmo, egli conservò sempre un abituale riguardo per le antiche Divinità dell'Impero. Ma l'ozio delle due Imperatrici, Prisca di lui moglie e Valeria sua figlia, permise loro di ascoltare con maggiore attenzione e rispetto le verità del Cristianesimo, che in ogni tempo ha professato le sue più speciali obbligazioni alla devozion delle donne[132]. I principali Eunuchi Luciano[133] e Domoteo, Gorgonio ed Andrea, che trattavano la persona, godevano il favore, e governavano la casa di Diocleziano, proteggevano con la potente loro efficacia la fede, che avevano abbracciata. Fu imitato il loro esempio da molti de' più considerabili uffiziali del Palazzo, che ne' rispettivi lor posti avean la cura degli ornamenti Imperiali, delle vesti, delle masserizie, delle gioie, ed anche del tesoro privato; e sebbene alle volte potevano esser obbligati d'accompagnar l'Imperatore, quando andava al tempio per sacrificare[134], pure godevano, insieme con le loro mogli, i loro figli ed i loro schiavi, dell'esercizio libero della religione Cristiana. Diocleziano ed i suoi Colleghi frequentemente conferivano gli uffizi più importanti a quelle persone, che non celavano il loro abborrimento pel culto de' Numi, ma che avevan mostrato capacità pel buon servizio dello Stato. I Vescovi, nelle rispettive loro Province, tenevano un grado onorevole, ed eran trattati con distinzione e rispetto, non solamente dal Popolo, ma anche da' Magistrati medesimi. Quasi in ogni città si trovarono insufficienti le antiche Chiese per contenere la moltitudine, che sempre cresceva, de' proseliti; ed in luogo di quelle furono eretti pel culto de' Fedeli più stabili e capaci edifizj. La corruzione de' costumi e de' principj di religione, della quale con tanta forza lamentasi Eusebio[135], si può riguardare non solo come una conseguenza, ma come una prova della libertà, di cui godevano ed abusavano i Cristiani sotto il regno di Diocleziano. La prosperità rilassato aveva i nervi della disciplina; prevalevano in ogni Congregazione la frode, l'invidia, e la malizia; i Preti aspiravano all'uffizio Episcopale, che di giorno in giorno diveniva un oggetto più degno della loro ambizione; i Vescovi, che contendevan fra loro per l'Ecclesiastiche preeminenze, pareva che con la lor condotta si attribuissero un secolare e tirannico poter nella Chiesa; e la viva fede, che distingueva sempre i Cristiani da' Gentili, molto meno si manifestava nella lor vita che ne' loro scritti di controversia.
Nonostante quest'apparente sicurezza, potrebbe un attento osservatore discernere alcuni sintomi, che minacciavan la Chiesa d'una persecuzione più violenta di tutte quelle, che aveva fino allora sofferte. Lo zelo ed il rapido progresso de' Cristiani svegliò i Politeisti dalla supina loro indifferenza nella causa di quelle Divinità, che il costume e l'educazione avevano appreso loro a rispettare. Le vicendevoli provocazioni di una guerra religiosa, che aveva continuato più di dugent'anni, esacerbò l'animosità delle parti, che combattevano. I Pagani s'irritavano per l'ardire di una oscura e nuova setta, che pretendeva di accusare di errore i propri compatriotti, e di condannare i loro padri all'eterna miseria. L'abitudine di giustificare la mitologia popolare contro le invettive di un implacabil nemico, produceva ne' loro spiriti qualche sentimento di fede e di riverenza per un sistema, ch'essi erano assuefatti a risguardare con la leggerezza più trascurata. Le facoltà soprannaturali, che assumeva la Chiesa, inspiravan terrore nel tempo stesso ed emulazione. I seguaci della vecchia religione si trinceravano con simili fortificazioni di prodigi, inventavan nuove maniere di sacrificare, d'iniziare[136] o di espiare i delitti; procuravano di restituire il credito a' loro spiranti oracoli[137], e con ansiosa credulità porgevan orecchio a qualunque impostore, che lusingasse i lor pregiudizi con maravigliosi racconti[138]. Pare che ambe le parti accordassero la verità di que' miracoli, che si attribuivano gli avversari; e mentre si contentavan di ascriverli ad arte magica o al poter de' Demonj, concorrevano reciprocamente a restaurare e stabilire il regno della superstizione[139]. La filosofia, ch'è il più pericoloso nemico di questa, erasi allora mutata nel suo più vantaggioso alleato. I boschetti dell'Accademia, i giardini d'Epicuro, ed anche il Portico degli Stoici erano quasi abbandonati, come tante diverse scuole di scetticismo e di empietà[140], e molti fra' Romani bramavano, che fosser condannati e soppressi per autorità del Senato gli scritti di Cicerone[141]. La setta de' nuovi Platonici, che prevalse, credè prudente partito quello di unirsi co' Sacerdoti, che forse disprezzava, contro i Cristiani, che aveva ragione di temere. Questi filosofi alla moda sostennero il disegno di trarre un'allegorica sapienza dalle finzioni de' Greci poeti, instituirono riti misteriosi di divozione per uso de' lor discepoli eletti, raccomandarono il culto degli Dei antichi, considerati come gli emblemi, o i ministri della suprema Divinità, e composero molti elaborati trattati contro la fede dell'Evangelio[142], che dopo dalla prudenza degli Imperatori ortodossi furono dati alle fiamme[143].
Quantunque la politica di Diocleziano e l'umanità di Costanzo li disponessero a mantenere inviolate le massime di tolleranza, si venne ben presto in chiaro, che i due loro colleghi, Massimiano e Galerio, nudrivano il più implacabile odio pel nome e per la religione de' Cristiani. Le scienze non avevano mai illuminato le menti di que' Principi, nè l'educazione aveva addolcito il loro temperamento. Dovevano essi alle proprie spade la loro grandezza, e nella più sublime fortuna ritennero sempre i superstiziosi pregiudizi de' soldati e delle inculte persone. Nell'amministrazion generale delle Province obbedivano alle leggi stabilite dal lor benefattore; ma ne' loro campi e palazzi trovavano spesse occasioni di esercitare una persecuzione segreta[144], alla quale porgeva l'imprudente zelo de' Cristiani qualche volta i più speciosi pretesti. Fu eseguita una sentenza di morte contro Massimiliano, giovane d'Affrica, ch'era stato dal proprio padre condotto avanti del Magistrato, come capace d'esser legittimamente reclutato, ma che ostinatamente sosteneva, che la propria coscienza non gli avrebbe mai permesso di abbracciare la professione della milizia[145]. Difficilmente potrebbe sperarsi che alcun governo soffrisse, che l'atto del Centurione Marcello restasse impunito. Quest'uffiziale, in un giorno di pubblica solennità, gettò via la cintura, le armi e le insegne del proprio impiego, ed esclamò ad alta voce, ch'esso non voleva obbedire ad altri che all'eterno Re Gesù Cristo, e che rinunziava per sempre l'uso delle armi carnali ed il servizio di un Sovrano idolatra. I soldati, rimasti attoniti, appena ripreser l'uso de' propri sensi, che arrestaron Marcello. Fu egli esaminato nella città di Tingi dal Presidente di quella parte della Mauritania, e siccome era convinto dalla sua propria confessione, fu condannato, e decapitato come disertore[146]. Esempi di tal natura molto meno appartengono alla persecuzion religiosa, che alla disciplina militare o anche civile; ma servirono ad alienar la mente degl'Imperatori, a giustificar la severità di Galerio, che dimise un gran numero di uffiziali Cristiani da' loro impieghi, e ad autorizzar l'opinione, che una setta di entusiasti, che sostenevano principj sì ripugnanti alla pubblica sicurezza, o dovea rimanere inutile, o presto divenir pericolosa all'Impero.
Dopo che il buon successo della guerra Persiana ebbe innalzate le speranze, e la riputazione di Galerio, passò questi un inverno con Diocleziano nel palazzo di Nicomedia; ed il destino del Cristianesimo fu l'oggetto delle segrete loro deliberazioni[147]. L'esperto Imperatore era sempre inclinato a prender miti determinazioni; e sebbene facilmente consentisse, che i Cristiani fossero esclusi da tutti gl'impieghi del palazzo e dell'esercito, ne' termini più forti esprimeva il pericolo non meno che la crudeltà di spargere il sangue di que' delusi fanatici. Galerio finalmente ottenne da lui la permissione di adunare un consiglio, composto di poche persone le più distinte ne' dipartimenti sì civili che militari dello Stato. Fu in lor presenza discussa tal importante questione, e quegli ambiziosi Cortigiani facilmente conobbero, che a loro incumbeva di secondar con l'eloquenza l'importuna violenza di Cesare. Si può supporre che insistessero sopra ogni punto, che interessar potesse l'orgoglio, la pietà o i timori del lor Sovrano nella distruzione del Cristianesimo. Gli rappresentarono forse, che restava imperfetta l'opera gloriosa di render libero l'Impero, finchè permettevasi, che sussistesse e moltiplicasse un popolo indipendente nel cuore delle Province. I Cristiani (potevasi così colorire il discorso) abbandonando gli Dei e gl'istituti di Roma, stabilito avevano una Repubblica a parte, che avrebbe potuto in vero sopprimersi avanti che acquistato avesse alcuna forza militare: ma ch'era già governata dalle sue proprie leggi e magistrali, che possedeva un pubblico tesoro, che era intimamente connessa in tutte le sue parti, medianti le frequenti adunanze de' Vescovi, a decreti de' quali accordavasi una cieca obbedienza dalle numerose loro ed opulente congregazioni. Pare che argomenti di questa sorta potessero determinar lo spirito ripugnante di Diocleziano ad abbracciar un nuovo sistema di persecuzione; ma quantunque noi possiam sospettare, non è però in nostro potere di riferire i segreti maneggi della Corte, gli oggetti e gli odj privati, la gelosia delle donne e degli eunuchi, e tutte quelle piccole sì ma decisive cagioni, che tanto spesso influiscono sul fato degli Imperi e ne' consigli de' più saggi Monarchi[148].
Finalmente fu indicata la volontà degl'Imperatori a' Cristiani, che nel corso di quel tristo inverno avevano con ansietà aspettato l'esito di tante secrete consultazioni. Fu destinato il dì 23 di Febbraio che (o fosse per accidente, e con premeditazione) coincideva con la festa Romana de' Terminali[149], per porre un termine al progresso del Cristianesimo. Allo spuntar del giorno il Prefetto[150] del Pretorio, accompagnato da' vari Generali, Tribuni ed Uffiziali del Fisco, si portò alla Chiesa principale di Nicomedia, ch'era situata sopra un'eminenza nella più popolata e bella parte della città. Furono immediatamente spezzate le porte; entrarono essi nel Santuario; e siccome in vano cercarono qualche visibile oggetto di culto, furon costretti a contentarsi di dare alle fiamme i libri della Sacra Scrittura. I Ministri di Diocleziano eran seguiti da un numeroso corpo di guardie e di guastatori, che marciavano in ordino di battaglia, provvisti di tutti gl'istrumenti soliti ad usarsi nella distruzione delle fortificate città. Mediante l'assidua loro fatica fu in poche ore gettato a terra quel sacro Edifizio, che torreggiava sopra il Palazzo Imperiale, ed aveva per lungo tempo eccitato l'invidia e l'indignazione de' Gentili[151].
Il giorno seguente fu pubblicato un editto generale di persecuzione[152], e quantunque Diocleziano, sempre alieno dall'effusione del sangue, avesse moderato il furor di Galerio, che proponeva di fare immediatamente arder vivo chiunque ricusasse di offerir sacrifizi, le pene stabilite contro l'ostinazione de' Cristiani si possono giudicar sufficientemente rigorose ed efficaci. Fu comandato, che in tutte le Province dell'Impero le loro Chiese fossero demolite da' fondamenti; e fu denunziata la pena di morte contro tutti quelli che presumessero di tenere alcuna segreta assemblea per motivo di culto religioso. I filosofi, che in quel tempo assunsero l'indegno uffizio di dirigere il cieco zelo della persecuzione, avevano diligentemente studiato la natura ed il genio della religion Cristiana; e siccome sapevano che si supponeva che le dottrine speculative della Fede contenute fossero negli scritti de' Profeti, degli Evangelisti e degli Apostoli, essi probabilissimamente suggeriron l'ordine, che i Vescovi ed i Preti consegnar dovessero tutti i loro libri sacri nelle mani de' Magistrati, a' quali era stato ingiunto sotto le pene più rigorose di bruciarli in una forma pubblica e solenne. Per il medesimo editto furon tutti in una volta confiscati i beni della Chiesa; e distribuiti in varie parti, o furon venduti al migliore offerente, o uniti all'erario Imperiale, e donati alle città e collegi, o concessi alle sollecitazioni de' rapaci cortigiani. Dopo di aver preso tali efficaci misure per abolire il culto, e per isciogliere il governo de' Cristiani, fu creduto necessario di sottoporre a' travagli più intollerabili la condizione di que' perversi individui, che tuttavia rigettassero la religione della natura, di Roma, e de' loro antichi. Le persone ingenue furon dichiarate incapaci di tutti gli onori ed impieghi; gli schiavi, privati per sempre della speranza di libertà; e tutto il corpo del popolo spogliato della protezion delle leggi. I Giudici furono autorizzati ad udire e a determinare ogni azione intentata contro un Cristiano, ma non era permesso a' Cristiani di querelarsi per qualunque ingiuria, che avesser sofferto; e così quegl'infelici settarj furon esposti alla severità della pubblica giustizia, nel tempo ch'erano esclusi dal benefizio della medesima. Questa nuova specie di martirio sì lento e penoso, tanto ignominioso ed oscuro, fu, per avventura, più atta ad istancar la costanza de' Fedeli: nè si può dubitare, che le passioni e l'interesse dell'uman genere non fossero in quest'occasione disposti a secondare i disegni dell'Imperatore. Ma la politica di un ben regolato Governo dovè qualche volta interporsi in sollievo degli oppressi Cristiani: nè era possibile, che i Principi Romani togliessero affatto il timore delle pene, o secondassero qualunque atto di violenza e di frode, senz'esporre la propria loro autorità, ed il resto de' loro sudditi a' più forti pericoli[153].
Appena fu quest'editto esposto alla pubblica vista nel lungo più frequentato di Nicomedia, che fu lacerato dalle mani di un Cristiano, il quale nell'istesso tempo espresse le più amare invettive il suo disprezzo ed abborrimento per tali empi e tirannici Governatori. Il suo delitto, secondo le più miti leggi, riducevasi a ribellione, e meritava la morte; e se fosse vero ch'egli era una persona di grado e d'educazione, quello circostanze non potevan servire che ad aggravar la sua colpa. Fu egli bruciato, o piuttosto arrostito a fuoco lento, e gli esecutori, bramosi di vendicare l'insulto fatto personalmente agl'Imperatori, esaurivano ogni finezza di crudeltà senza esser capaci di vincer la sua pazienza, o di alterar quel continuo ed insultante sorriso, ch'egli conservò sempre nelle ultime sue agonie. I Cristiani, quantunque confessassero che tal condotta rigorosamente non era stata conforme alle leggi della prudenza, pure ammiravano il divino fervor del suo zelo; l'eccessive lodi, che prodigalmente diedero alla memoria del loro Martire ed Eroe, contribuirono a figgere nella mente di Diocleziano una profonda impressione di terrore e di odio[154].
Ben presto si misero in moto i suoi timori alla vista di un pericolo, al quale appena egli potè sottrarsi. Nello spazio di quindici giorni, il Palazzo di Nicomedia, ed eziandio la camera in cui dormiva Diocleziano, si trovarono due volte in mezzo alle fiamme; e sebbene ambedue le volte queste fossero estinte senz'alcun danno considerabile, pure la singolar reiterazione del fuoco fu non senza ragion risguardata come un'evidente prova, che quello non era stato l'effetto della negligenza o del caso. Il sospetto cadde naturalmente sopra i Cristiani, e fu suggerito, con qualche specie di probabilità, che que' disperati fanatici, provocati dagli attuali lor patimenti, e temendo le calamità che lor sovrastavano, aveano formato una cospirazione cogli eunuchi del palazzo, fedeli loro fratelli, contro le vite degl'Imperatori, ch'essi detestavano come irreconciliabili nemici della Chiesa di Dio. La gelosia e lo sdegno prevalse in ogni petto, ma specialmente in quello di Diocleziano. Furon poste in carcere molte persone distinte, o per gl'impieghi da lor sostenuti, o pel favore di cui erano state onorate. Si mise in opera ogni sorta di torture, e la Corte ugualmente che la città restò macchiata da molte sanguinose esecuzioni[155]. Ma siccome non si potè scuoprire alcuna prova di questo misterioso fatto, sembra che autorizzati siamo o a presumere l'innocenza, o ad ammirar la fermezza di quei che soffrirono. Pochi giorni dopo, Galerio si ritirò in fretta da Nicomedia, dichiarando che se differiva la sua partenza da quel condannato palazzo, egli sarebbe caduto vittima della rabbia de' Cristiani. Gli Storici Ecclesiastici, da' quali soltanto possiam trarre una imperfetta o parzial notizia di questa persecuzione, non sanno come render ragione de' timori e del pericolo degl'Imperatori. Due di questi scrittori, uno Principe ed uno Retore, furon testimoni di veduta dell'incendio di Nicomedia. L'uno l'attribuisce al fulmine ed all'ira divina; l'altro asserisce, che fu cagionato dalla malizia di Galerio medesimo[156].
Poichè l'editto contro i Cristiani destinavasi a formare una legge universale di tutto l'Impero, e poichè Diocleziano e Galerio, quantunque non aspettassero il consenso de' Principi occidentali, eran sicuri però che ancor essi vi avrebber concorso, parrebbe più conforme alle idee che abbiamo di politica, che i Governatori di tutte le Province avesser ricevuto istruzioni segrete per pubblicar nel medesimo giorno questa dichiarazione di guerra ne' rispettivi loro dipartimenti. Almeno era da aspettarsi che la facilità dello pubbliche strade e delle poste, già stabilite, avesse posto in grado gl'Imperatori di trasmettere con la massima celerità i loro ordini dal palazzo di Nicomedia all'estremità del Mondo Romano; e ch'essi non avrebber sofferto, che passassero cinquanta giorni avanti che fosse pubblicato l'editto nella Siria, e quasi quattro mesi prima che fosse notificato alle città dell'Affrica[157]. Questa dilazione deve attribuirsi per avventura alla cauta indole di Diocleziano, che aveva contro voglia dato l'assenso alla persecuzione, e che desiderava di vederne una prova sotto i propri occhi, avanti di dar luogo a' disordini ed al disgusto, che inevitabilmente dovea cagionare nelle distanti Province. A principio, in vero, fu proibito a' Magistrati lo spargimento del sangue; ma fu permesso, ed anche raccomandato allo zelo di essi l'uso di ogni altra sorta di severità; nè i Cristiani, quantunque di buona voglia cedessero gli ornamenti delle lor Chiese, potevano indursi ad interrompere le religiose loro adunanze o a dare i loro libri sacri alle fiamme. Pare che la devota ostinazione di Felice, Vescovo Affricano, imbarazzasse i Ministri subalterni del Governo. Il Curatore della sua città lo mandò in catene al Proconsole; questi lo trasmise al Prefetto del Pretorio d'Italia; e Felice, che sdegnò fino di dare una colorita risposta, finalmente fu decapitato a Venosa nella Lucania, luogo celebre pel nascimento d'Orazio[158]. Parve che quest'esempio, e forse qualche rescritto Imperiale fatto in conseguenza di esso, autorizzasse i Governatori delle Province a punir colla morte i Cristiani, che ricusavano di consegnare i lor libri sacri. Vi furono senza dubbio molte persone che presero quest'opportunità d'ottener la corona del martirio; ma ve ne furono anche troppo altre, che si comprarono una via ignominiosa, scuoprendo e dando nelle mani degl'Infedeli le Sacre Scritture. Un gran numero eziandio di Vescovi e di Preti per questa rea condiscendenza ebbero il nome di traditori; e il loro delitto fu causa di un grande scandalo presente, e di gran discordia in futuro nella Chiesa Affricana[159].
Tanto s'eran già moltiplicate nell'Impero le copie o le traduzioni della Scrittura, che la più rigorosa inquisizione non potè cagionare alcuna fatal conseguenza, ed anche pel sacrifizio di que' volumi, che in ogni congregazione eran destinati all'uso pubblico, si richiese il consenso di alcuni traditori ed indegni Cristiani. Ma l'autorità del Governo e l'impegno de' Pagani poterono facilmente eseguire la distruzione delle Chiese. In alcune Province però i Magistrati si contentarono di far chiudere i luoghi del culto religioso; in altre più alla lettera eseguirono i termini dell'editto, e dopo aver tirato fuori le porte, i banchi, ed il pulpito, che fecero bruciare come un rogo funereo, totalmente demolirono il resto degli edifizi[160]. Forse a quella trista occasione si deve applicare un'istoria molto considerabile che si racconta con tanto varie ed improbabili circostanze, che serve ad eccitare piuttosto che a soddisfar la nostra curiosità. Pare che in una piccola città della Frigia, di cui non ci è rimasto nè il nome nè la situazione, tanto i Magistrati quanto il corpo del popolo avessero abbracciato la fede Cristiana; e siccome poteva temersi qualche resistenza all'effettuazion dell'editto, così il Governatore della Provincia ebbe il rinforzo di un numeroso distaccamento di legionari. All'avvicinarsi di questi, i Cittadini si ritirarono dentro la Chiesa, risoluti o di difender con le armi il sacro edifizio o di perire sotto le sue rovine. Rigettarono con isdegno la notizia e la permissione data loro di ritirarsi, a segno che irritati i soldati dalla lor ostinazione posero fuoco da tutte le parti alla fabbrica, e con questa specie straordinaria di martirio consumarono un gran numero di Frigj con le lor mogli e figliuoli[161].
Alcune leggiere turbolenze insorte nella Siria e sulle frontiere dell'Armenia, quantunque soppresse quasi nel tempo medesimo in cui furono suscitate, diedero a' nemici della Chiesa un'occasione molto plausibile d'insinuare, che s'erano quelle segretamente fomentate dagl'intrighi de' Vescovi, i quali avevano già dimenticato le fastose lor professioni di passiva ed illimitata obbedienza[162]. L'ira o i timori di Diocleziano finalmente lo trasportarono oltre i limiti della moderazione, che fino allora avea conservato; ed in una serie di crudeli editti dichiarò l'intenzione che aveva di abolire il nome Cristiano. Col primo di questi editti s'ordinò a' Governatori delle Province di catturar tutti quelli del ceto Ecclesiastico, e le carceri, destinate pei delinquenti più vili, furon tosto piene di una moltitudine di Vescovi, di Preti, di Diaconi, di Lettori e di Esorcisti. Con un secondo editto, fu comandato a' Magistrati d'impiegar ogni sorta di severità, che potesse richiamarli dall'odiosa loro superstizione, ed obbligarli a tornare al Culto già stabilito degli Dei. Quest'ordine rigoroso fu esteso da un altro editto a tutto il corpo de' Cristiani, che furono esposti ad una violenta e generale persecuzione[163]. In vece di que' freni salutari, ch'esigevano la diretta e solenne testimonianza di un accusatore, il dovere non meno che l'interesse degli uffiziali Imperiali divenne quello di scuoprire, di perseguitare, e di tormentare i più distinti Fedeli. Furono stabilite gravi pene contro tutti coloro, che avesser preteso di salvare un proscritto settario dal giusto sdegno degli Dei e degl'Imperatori. Nonostante però la severità di tal legge, il virtuoso coraggio, ch'ebbero molti Pagani di celare i loro amici o congiunti, somministra una prova onorevole che il furore della superstizione non aveva estinto ne' loro animi i sentimenti della natura e della compassione[164].
Appena Diocleziano ebbe pubblicato i suoi editti contro i Cristiani, che desiderando egli di commettere ad altre mani l'opera della persecuzione, si spogliò della porpora Imperiale. Il carattere e la situazione de' suoi colleghi e successori li mossero talvolta a mantenere in vigore, e talvolta a sospendere l'esecuzione di queste rigorose leggi, nè acquistar possiamo una giusta e distinta idea di quest'importante periodo d'istoria Ecclesiastica, se non consideriamo separatamente lo stato del Cristianesimo nelle diverse parti dell'Impero per lo spazio di dieci anni, che passarono fra' primi editti di Diocleziano, e la pace finale della Chiesa.
La dolce ed umana indole di Costanzo era avversa all'oppressione di qualunque parte de' propri sudditi. Gli uffizi principali del suo palazzo si esercitavano dai Cristiani, egli amava le loro persone, stimava la lor fedeltà, e non gli dispiacevano punto i principj della lor religione. Ma finchè Costanzo restò nel grado subordinato di Cesare, non fu in sua facoltà di apertamente rigettar gli editti di Diocleziano, o di non obbedire a' comandi di Massimiano. Ciò nonostante la sua autorità contribuì ad alleggerir que' tormenti, ch'egli compassionava e abborriva. Acconsentì con ripugnanza alla distruzione delle Chiese, ma volle proteggere le persone de' Cristiani dalla furia del popolo e dal rigore delle leggi. Le Province della Gallia (sotto il qual nome possiamo probabilmente comprendere anche quelle della Britannia) dovettero la singolar tranquillità, che goderono, alla gentile interposizione del lor Sovrano[165]. Ma Daziano, Presidente o Governatore della Spagna, mosso o da zelo o da politica, volle piuttosto eseguire i pubblici editti degl'Imperatori, che intendere le segrete intenzioni di Costanzo; e difficilmente può dubitarsi, che la sua provinciale amministrazione non fosse macchiata dal sangue di alcuni pochi Martiri[166]. L'elevazione di Costanzo alla suprema indipendente dignità di Augusto aprì un libero corso all'esercizio delle sue virtù, e la brevità del suo regno non gl'impedì di fondare un sistema di tolleranza, di cui lasciò l'esempio e i precetti a Costantino suo figlio. Questo suo fortunato figlio, dal primo istante del suo innalzamento essendosi dichiarato protettore della Chiesa, finalmente meritò il nome di primo Imperatore, che professasse pubblicamente, e stabilisse la Religione Cristiana. I motivi della sua conversione, per quanto possan variamente dedursi dalla benevolenza, dalla politica, dalla convinzione o dal rimorso, ed il progresso di quella rivoluzione, che per la potente influenza di lui e de' suoi figli fece divenire il Cristianesimo la religion dominante del Romano Impero, formeranno un capitolo molto interessante nel terzo volume di quest'Istoria. Per ora servirà osservare, che ogni vittoria di Costantino produsse qualche sollievo o benefizio alla Chiesa.
Le Province d'Italia e d'Affrica sperimentarono una breve ma violenta persecuzione. I rigorosi editti di Diocleziano furono severamente e di buona voglia eseguiti dal suo collega Massimiano, che da gran tempo odiava i Cristiani, e si dilettava negli atti sanguinari e di violenza. Nell'autunno del primo anno della persecuzione i due Imperatori s'incontrarono a Roma per celebrare il loro trionfo; sembra che dalle segrete loro deliberazioni provenissero varie leggi oppressive, e la diligenza de' Magistrati fu animata dalla presenza de' loro Sovrani. Dopo che Diocleziano si fu dimesso dalla porpora, furono amministrate l'Italia e l'Affrica sotto nome di Severo, e restarono esposte senza difesa all'implacabile odio di Galerio, da cui egli dipendeva. Fra' Martiri di Roma, Adautto merita di esser fatto noto alla posterità. Egli era di una famiglia nobile dell'Italia, e per i gradi successivi della Corte si era innalzato fino all'importante uffizio di tesoriere del privato erario del Principe. Adautto è anche più osservabile per essere stata l'unica persona elevata in grado e cospicua, che sembri aver sofferto la morte in tutto il corso di questa generale persecuzione[167].
La ribellione di Massenzio immediatamente restituì la pace alle Chiese dell'Italia e dell'Affrica, e quell'istesso tiranno, che oppresse ogni altro ceto de' suoi soggetti, si dimostrò giusto, umano ed anche parziale verso gli afflitti Cristiani. Egli contava sulla lor gratitudine ed affezione, e supponeva molto naturalmente, che le ingiurie, ch'essi avevan sofferto, ed i pericoli, a' quali sempre temevano di essere esposti per parte del suo più inveterato nemico, gli assicurerebbero la fedeltà di un partito, già considerabile pel numero e per l'opulenza[168]. Anche la condotta di Massenzio verso i Vescovi di Roma e di Cartagine può risguardarsi come una prova della sua tolleranza, mentre i più ortodossi Principi terrebbero probabilmente lo stesso contegno, rispetto al già stabilito lor clero. Marcello, ch'era il primo di que' Prelati, aveva eccitato la confusione nella Capitale per causa della severa penitenza, che imponeva ad un gran numero di Cristiani, i quali nel corso dell'ultima persecuzione avevano rinunziato, o finto di rinunziare alla lor religione. Il furore di parte proruppe in frequenti e violente sedizioni; il sangue de' Fedeli spargevasi per mezzo delle proprie lor mani; e si vedeva che l'esilio di Marcello, in cui sembrava meno risplendere la prudenza che lo zelo, era l'unico mezzo capace di restituir la quiete all'angustiata Chiesa di Roma[169]. Pare che la condotta di Mensurio, Vescovo di Cartagine, fosse anche più riprensibile. Un Diacono di quella città aveva pubblicato un libello contro l'Imperatore. Il delinquente si rifuggì nel palazzo Episcopale, e quantunque fosse un poco troppo presto per far valere alcun diritto di Ecclesiastica immunità, pure il Vescovo ricusò di rilasciarlo a' Ministri della giustizia. Per questa sediziosa resistenza Mensurio fu chiamato alla Corte, ed in luogo di ricevere una giusta sentenza di morte o d'esilio, dopo un brev'esame gli fu permesso di tornare alla propria Diocesi[170]. La felice condizione de' Cristiani sottoposti a Massenzio era tale, che quando bramavan di avere per lor proprio uso qualche corpo di Martire, dovevan procacciarselo dalle più distanti Province d'Oriente. Raccontasi a questo proposito un'istoria d'Aglae, Dama Romana, discesa da una famiglia Consolare, che godeva un patrimonio sì vasto, ch'esigeva l'opera di settantatre amministratori. Bonifazio era fra questi il favorito della patrona, e siccome Aglae univa l'amore con la divozione, si dice ch'egli fosse ammesso a partecipar del suo letto. L'opulenza di cui ella godeva, la pose in istato di soddisfare il pio desiderio di acquistare qualche sacra reliquia d'Oriente. Consegnò dunque a Bonifazio una considerabile somma d'oro, ed una gran quantità d'aromati; ed il suo amante, accompagnato da dodici cavalli e da tre carri coperti, intraprese un lungo pellegrinaggio fino a Tarso nella Cilicia[171].
Il genio sanguinario di Galerio, primo e principale autore della persecuzione, riuscì formidabile per quei Cristiani, che per loro disgrazia trovaronsi dentro i limiti de' suoi Stati, e può ragionevolmente supporsi che molti di mediocre fortuna, i quali non erano impediti dalle catene o della ricchezza o della povertà, frequentemente abbandonassero il lor natio paese, e si cercassero un rifugio nel più dolce clima d'Occidente. Fintanto ch'esso comandò le sole armate e Province dell'Illirico, difficilmente potè trovare, o fare un numero considerabil di Martiri in un paese guerriero, che avea ricevuto i Missionari dell'Evangelio con maggior freddezza e ripugnanza, che qualunque altra parte dell'Impero[172]. Ma quando Galerio ebbe ottenuto il supremo potere e governo d'Oriente, egli appagò nella massima estensione il suo zelo e la sua crudeltà non solo nelle Province della Tracia e dell'Asia, che riconoscevano la immediata giurisdizione di lui; ma in quelle ancora della Siria, della Palestina, e dell'Egitto, dove Massimino soddisfaceva la propria inclinazione col prestare una rigorosa obbedienza a' fieri comandi del suo benefattore[173]. I frequenti inciampi nelle sue ambiziose mire, l'esperienza di sei anni di persecuzione, e le riflessioni salutari, che una lenta e penosa malattia suggerì alla mente di Galerio, finalmente lo persuasero, che i più violenti sforzi del dispotismo sono insufficienti ad estirpare un intero popolo, o a vincere i pregiudizi di religione. Bramoso di rimediare al male che avea cagionato, pubblicò in nome proprio e nel nome di Licinio e di Costantino un editto generale, che dopo una fastosa esposizione de' titoli Imperiali, proseguiva nella seguente maniera:
«Fra le importanti cure, che hanno occupato la nostra mente per l'utilità e conservazion dell'Impero, egli fu nostra intenzione di correggere, e ristabilir ogni cosa secondo le antiche leggi, e la pubblica disciplina dei Romani. Il nostro desiderio si rivolse particolarmente a richiamar nella via della ragione e della natura i delusi Cristiani, che avevan rinunziato la religione e le ceremonie instituite da' loro padri, e presontuosamente disprezzando la pratica dell'Antichità, avevano inventato stravaganti leggi ed opinioni secondo i dettami del lor capriccio, e nelle diverse Province del nostro Impero raccolti s'erano in moltiplice società. Gli editti, che abbiamo pubblicato per mantenere in vigore il culto degli Dei, avendo esposto molti Cristiani al pericolo ed alla miseria, molti avendo sofferto la morte, e moltissimi altri, che tuttora persistono nell'empia loro follia, essendo restati privi di ogni pubblico esercizio di religione, siamo disposti ad estendere a quegl'infelici gli effetti della solita nostra clemenza. Permettiamo dunque ad essi di professar liberamente le lor private opinioni, e di potersi unire nelle lor conventicole senza timore o molestia, purchè però sempre conservino il dovuto rispetto alle leggi ed al governo già stabilito. Per mezzo di un altro rescritto indicheremo le nostre intenzioni a' Giudici e Magistrati; e speriamo che la nostra indulgenza impegnerà i Cristiani ad offerire le lor preghiere alla Divinità, ch'essi adorano, per la salvezza e prosperità nostra, per la loro, e per quella della Repubblica[174].» Regolarmente non si dee cercar nello stile degli editti o de' manifesti il vero carattere o i secreti motivi de' Principi; ma siccome queste son parole di un Imperatore spirante, la sua situazione può forse risguardarsi come una prova della sua sincerità.
Quando Galerio sottoscrisse quest'editto di tolleranza, egli era ben sicuro, che Licinio avrebbe facilmente secondato le inclinazioni del proprio benefattore ed amico, e che tutte le determinazioni, prese in favor dei Cristiani, avrebbero ottenuto l'approvazione di Costantino. Ma l'Imperatore non volle arrischiarsi ad inserirvi nel preambolo il nome di Massimino, il consenso del quale era della massima importanza, e che pochi giorni dopo successe alle Province dell'Asia. Ne' primi sei mesi però del suo nuovo regno, Massimino affettò di adottare i prudenti consigli del suo predecessore; e quantunque non condiscendesse giammai ad assicurar la tranquillità della Chiesa con un pubblico editto, Sabino, suo Prefetto del Pretorio, mandò una circolare a tutti i Governatori e Magistrati delle Province, nella quale spaziava sopra la clemenza Imperiale, riconosceva l'invincibile ostinazion de' Cristiani, ed ordinava a' ministri di giustizia di tralasciare le loro inefficaci ricerche, e di chiuder gli occhi alle segrete assemblee di quegli entusiasti. In conseguenza di questi ordini, molti Cristiani rilasciati furono dalle prigioni, o liberati dalle miniere. I Confessori, cantando inni di trionfo, tornavano a' lor paesi, e quelli, che avevan ceduto alla violenza della tempesta, chiedevano con lacrime di pentimento di esser riammessi nel seno della Chiesa[175].
Ma questa finta calma fu di breve durata, nè poterono i Cristiani d'Oriente fondare alcuna speranza nel carattere del lor Sovrano. La crudeltà e la superstizione erano le passioni dominanti l'animo di Massimino: la prima gli suggeriva i mezzi, la seconda gli additava gli oggetti della persecuzione. L'Imperatore era tutto portato al culto degli Dei, allo studio della magia, ed a prestar fede agli oracoli. I Profeti o i Filosofi, ch'egli rispettava come favoriti del Cielo, venivano spesso innalzati al governo delle Province, ed ammessi a' suoi più segreti consigli. Questi facilmente lo persuasero, che i Cristiani andavano debitori delle loro vittorie alla regolar disciplina con cui vivevano, e che la debolezza del Politeismo era nata principalmente dalla mancanza d'unione e di obbedienza fra' Ministri della religione. Fu dunque instituito un sistema di governo, che era evidentemente copiato da quello della Chiesa. In tutte le maggiori città dell'Impero vennero i tempj risarciti ed adornati per ordine di Massimino, ed i Sacerdoti destinati al culto delle varie Divinità furono sottoposti all'autorità di un Pontefice superiore, che si volle opporre al Vescovo, affinchè promuovesse la causa del Paganesimo. Questi Pontefici poi riconoscevano ancor essi la suprema giurisdizione de' Metropolitani, o sommi Sacerdoti delle Province, che agivano come immediati Vicarj dell'Imperatore medesimo. Una veste bianca era l'insegna della lor dignità, e questi nuovi Prelati furono diligentemente presi dalle più nobili ed opulente famiglie. Per le insinuazioni de' Magistrati e dell'Ordine sacerdotale si fece un gran numero di ossequiose rappresentanze, particolarmente dalle città di Nicomedia, di Antiochia e di Tiro, che artificiosamente esponevano le ben note intenzioni della Corte, come i sentimenti generali del popolo; eccitavano l'Imperatore a consultar le leggi della giustizia piuttosto che i dettami della sua clemenza; esprimevano l'abborrimento che avevano a' Cristiani, ed umilmente supplicavano, che quegli empi settarj fossero finalmente esclusi da' limiti de' lor territorj. Sussiste ancora la risposta di Massimino alla rappresentanza, ch'ei ricevè da' cittadini di Tiro. Loda esso lo zelo e la devozion loro in termini della più alta soddisfazione; si diffonde sull'ostinata empietà de' Cristiani; e mostra, mediante la facilità con cui consente alla lor espulsione, ch'egli credeva di ricevere piuttosto che di conferire una grazia. A' Sacerdoti non meno che a' Magistrati fu data l'autorità di procurare l'esecuzione de' suoi editti, i quali sopra tavole di rame vennero incisi, e quantunque fosse ad essi raccomandato ch'evitassero di spargere il sangue, si fecero tuttavia soffrire ai non ubbidienti Cristiani i più crudeli ed ignominiosi gastighi[176].
I Cristiani Asiatici tutto aveano a temere dalla severità di un superstizioso Monarca, il quale prendeva le sue misure di violenza con sì deliberata politica. Ma appena erano scorsi pochi mesi, che gli editti pubblicati, da' due Imperatori d'Occidente obbligarono Massimino a sospendere il proseguimento de' suoi disegni: la guerra civile, ch'egli sì temerariamente intraprese contro Licinio, occupò tutta la sua attenzione; e la disfatta e la morte di Massimino presto liberaron la Chiesa dall'ultimo e dal più implacabile de' suoi nemici[177].
In questo general prospetto della persecuzione, che fu autorizzata per la prima volta dagli editti di Diocleziano, io mi sono a bella posta astenuto dal descrivere i tormenti e le morti particolari dei Martiri. Sarebbe stato assai facile di raccogliere dall'istoria di Eusebio, dalle declamazioni di Lattanzio e dagli atti più antichi una lunga serie di orride e disgustose pitture, e di riempiere molte pagine di flagelli e di verghe, di uncini di ferro e di letti infuocati, e di ogni genere di torture, che il fuoco ed il ferro, le bestie feroci ed i più barbari esecutori potessero infliggere al corpo umano. Ravvivar si potrebbero queste scene funeste con una folla di visioni e di miracoli, destinati o a differire la morte, o a celebrare il trionfo, o a scuoprir le reliquie di que' Santi canonizzati, che soffriron pel nome di Cristo. Ma io non posso determinar ciò che debbo scrivere, finchè non mi trovo soddisfatto intorno alla misura di quello che debbo credere. I più gravi Istorici Ecclesiastici, ed Eusebio stesso, molto francamente confessano, di aver riferito tutto ciò che potea ridondare in gloria, e di aver soppresso tutto quel che poteva tendere al disonore della religione[178]. Tal protesta dovrà eccitare naturalmente il sospetto, che uno scrittore, il quale ha sì apertamente violato una delle leggi fondamentali dell'Istoria, non abbia avuto molto riguardo all'osservanza delle altre; ed il sospetto prenderà sempre maggior vigore dal carattere d'Eusebio, che era meno portato alla credulità, e più esercitato negli artifizi delle Corti, che quasi tutti gli altri di lui contemporanei. In alcune occasioni particolari, quando i Magistrati erano inaspriti da qualche personal motivo d'interesse o di sdegno, quando lo zelo de' Martiri li muoveva a dimenticar le regole della prudenza, e forse anche della decenza, a rovesciare gli altari, a scagliare imprecazioni contro gl'Imperatori, ad offendere il Giudice sedente nel suo Tribunale, allora si può supporre, che qualunque genere di tormenti, cui la crudeltà potesse inventare o la costanza soffrire, esaurito venisse su quelle vittime, destinate al supplizio[179]. Si è fatta però costante menzione di due circostanze, le quali fan credere che il trattamento generale de' Cristiani, presi da' ministri di giustizia, fosse meno intollerabile di quel che ordinariamente suppongasi. I. A' Confessori, condannati ai lavori delle miniere, permettevasi dall'equità o dalla negligenza de' lor custodi di fabbricare cappelle, e di liberamente professare la lor religione in mezzo a quelle orribili abitazioni[180]; II. I Vescovi eran costretti a raffrenare ed a censurare il precipitato zelo de' Cristiani, che volontariamente si davano nelle mani de' Magistrati. Alcuni di questi erano persone oppresse dalla povertà e da' debiti, che ciecamente cercarono di terminare una miserabile vita per mezzo d'una gloriosa morte; altri erano allettati dalla speranza, che una breve sofferenza purgato avrebbe le colpe di tutta la vita; ed altri finalmente venivan mossi dal motivo meno onorevole di rilevare abbondanti alimenti, e forse un considerabil guadagno dall'elemosine, che la carità de' Fedeli donava a' carcerati[181]. Dopo che la Chiesa ebbe trionfato sopra tutti i suoi nemici, l'interesse non meno che la vanità de' prigionieri li dispose ad ampliare il merito de' respettivi lor patimenti. Una giusta distanza di tempo o di luogo diede campo al progresso della finzione, ed i frequenti esempi, che si allegavano, di santi Martiri, de' quali si erano instantaneamente risanate le piaghe, rinnovata la forza, e miracolosamente restituite le membra perdute, erano sommamente adatti allo scopo di rimuovere ogni difficoltà, e di rispondere a qualunque obbiezione. Siccome le più stravaganti leggende contribuivano all'onor della Chiesa, venivano esse applaudite dalla credula moltitudine, sostenute dal potere del Clero, e confermate dalla sospetta testimonianza dell'Istoria Ecclesiastica.
Le descrizioni degli esilj, delle carcerazioni, delle pene e de' tormenti son così facilmente esagerate o abbellite dal pennello di un artificioso Oratore, che siamo naturalmente indotti ad investigare un fatto di una più distinta ed incredibil natura, vale a dire il numero delle persone, che soffriron la morte in conseguenza degli editti pubblicati da Diocleziano e da' suoi colleghi e successori. I leggendari moderni fanno menzione di armate e di città intere, che furono ad un tratto disperse dalla cieca rabbia della persecuzione. I più antichi scrittori si contentano di spargere una quantità di libere e tragiche invettive, senza discendere a determinare il numero preciso di quelli, a' quali fu concesso di sigillare col loro sangue la fede dell'evangelio. Dall'istoria d'Eusebio però possiam ricavare, che nove soli Vescovi furon puniti con la pena di morte; e dalla particolar enumerazione, ch'ei fa, de' Martiri della Palestina, siamo assicurati che non più di novanta due Cristiani ebber diritto a quell'onorevol titolo[182]. Siccome non sappiamo fino a qual segno ascendesse in quel tempo lo zelo ed il coraggio Episcopale, dal primo di questi fatti non possiamo tirare alcuna utile conseguenza: ma il secondo può servire a giustificare una importantissima ed assai probabile conclusione. Secondo la distribuzione delle Province Romane, la Palestina può valutarsi la decimasesta parte dell'Impero Orientale[183]; e poichè vi furono alcuni governatori, che per una reale o affettata clemenza avean conservato le loro mani pure dal sangue de' Fedeli[184], egli è ragionevol di credere, che il paese, dov'era nato il Cristianesimo, producesse almeno la decimasesta parte de' Martiri, che soffriron la morte negli stati di Galerio e di Massimino; per conseguenza tutti insieme potrebbero ascendere a circa mille cinquecento; numero, che se dividasi ugualmente ne' dieci anni della persecuzione, darà un annual resultato di centocinquanta Martiri. Usando la medesima proporzione rispetto alle Province dell'Italia, dell'Affrica, e forse della Spagna dove al termine di poco più di tre anni fu sospeso o abolito il rigore delle leggi penali, si ridurrà la quantità de' Cristiani, che soffrirono per giudicial sentenza la pena capitale in tutto l'Impero a meno di duemila persone. E poichè non può dubitarsi, che i Cristiani eran più numerosi, ed i lor nemici più esacerbati nel tempo di Diocleziano, di quel che fossero stati mai in alcuna precedente persecuzione, questo probabile e moderato calcolo può darci regola per valutare il numero de' Santi e de' Martiri primitivi, che sacrificaron la vita per l'importante fine d'introdurre nel mondo la religione Cristiana.
Noi finiremo questo capitolo con una trista verità, che contro voglia s'insinua nella mente; cioè che ammettendo, anche senz'esitazione o esame veruno, tutto quel che ha narrato l'istoria, o finto la devozione intorno a' martirj, bisogna sempre confessare, che i Cristiani hanno usato, nel corso delle intestine lor dissensioni, gli uni contro degli altri severità molto maggiori di quelle, ch'essi abbiano giammai provate dallo zelo degl'Infedeli. Ne' secoli d'ignoranza, che vennero dopo la sovversione dell'Impero d'Occidente, i Vescovi della città Imperiale estesero il loro dominio sopra i Laici ugualmente che sopra i Cherici della Chiesa Latina. La fabbrica della superstizione da essi eretta, che potè per lungo tempo affrontare i deboli sforzi della religione, fu assaltata finalmente da una folla di arditi fanatici, che dal secolo duodecimo fino al decimosesto assunsero il popolar carattere di Riformatori. La Chiesa Romana difese con la violenza il dominio, che acquistato avea con la frode: ed un sistema di benevolenza e di pace fu ben presto disonorato con le proscrizioni, con le guerre, con le stragi e coll'instituzione del Sant'Uffizio. E siccome i Riformatori erano animati dall'amore della libertà civile non meno che religiosa, i Principi Cattolici unirono il loro interesse con quello del Clero, e sostennero con la spada e col fuoco i terrori delle spirituali censure. Si dice, che ne' soli Paesi Bassi soffrissero per mano del carnefice più di centomila sudditi di Carlo V. e questo numero straordinario viene attestato da Grozio,[185] uomo d'ingegno e di dottrina, che mantenne la sua moderazione in mezzo al furor delle Sette che contendevano, e compose gli annali del secolo e del paese, in cui visse, in un tempo nel quale la invenzione della stampa avea facilitato i mezzi di sapere i fatti, ed accresciuto il pericolo di scuoprire la falsità. Se dobbiamo prestar fede all'autorità di Grozio, bisogna confessare, che il numero de' Protestanti posti a morte in una sola Provincia, e durante il corso di un solo regno, sorpassò di gran lunga quello degli antichi Martiri nello spazio di tre secoli, ed in tutto il Romano Impero. Ma se l'improbabilità del fatto medesimo dee prevalere al peso della testimonianza, se dee credersi, che Grozio abbia esagerato il merito ed i patimenti de' Riformatori[186], saremo naturalmente portati a richiedere, qual fiducia dunque aver possiamo ne' dubbiosi ed imperfetti monumenti dell'antica credulità; o qual credito si voglia accordare ad un Vescovo cortigiano o ad un appassionato declamatore, che sotto la protezione di Costantino godeva il privilegio esclusivo di rappresentare le persecuzioni mosse contro i Cristiani da' vinti rivali, o da' negletti predecessori del grazioso loro Sovrano.
SAGGIO DI CONFUTAZIONE
DE' DUE CAPI XV. E XVI.
DELL'ISTORIA DI
EDOARDO GIBBON
SPETTANTI ALL'ESAME DEL CRISTIANESIMO
COMPENDIO DI UN'OPERA DI NICOLA SPEDALIERI.
Mala et impia consuetudo est contra Deos disputare,
sive animo id fiat, sive simulate.
Cic. de Nat. Deor. lib. II.
SAGGIO DI CONFUTAZIONE DEL CAP. XV.
Si protesta a bel principio il Sig. Gibbon di voler fare una ricerca intorno al progresso e stabilimento del Cristianesimo, guidato unicamente dal candore e dalla ragione, e lo fa con un'arte e con una prevenzione, che comincia dalle prime mosse a svelarsi. Egli si lagna essere i monumenti de' primi tempi della Chiesa sospetti ed imperfetti; e li rende tali la mala fede, colla quale egli, dove li tronca, dove gli altera, dove vi aggiunge capricciosi comenti per far nascere le difficoltà, dalle quali si finge imbarazzato. Incontra un'altra gran difficoltà, ch'egli ascrive alla legge dell'Imparzialità, ed è quella di calunniare i Cristiani, anche dove la critica più severa li terrebbe al coperto della maldicenza. Sarà nostro dovere di andarne di mano in mano somministrando le prove, per quanto ci sarà permesso dagli angusti limiti, che ci siamo prefissi.
Nel proporre l'argomento del capo, ad onta della ambiguità, colla quale si spiega per parer Cristiano, e delle proteste che fa di rispettare la cagione primaria de' rapidi progressi della Chiesa Cristiana, determina abbastanza il lettore ad accorgersi, ch'egli intende provare, nulla in tale avvenimento osservarsi di sovrannaturale, ma esser tutto a naturali cagioni dovuto. Se ciò fosse vero, la Religione verrebbe a spogliarsi della luminosissima prova, che in favore della sua divina origine si raccoglie dal modo col quale si stabilì, e dalla rapidità con cui si propagò. Egli muove ogni pietra per far crollare questa prova; ma noi per sostenerla dureremo assai lieve fatica.
Il nostro esame però non è importante solamente per questo. La nausea del sovrannaturale ha trasportato ancora l'Autore a negare i miracoli de' primi secoli, quelli degli Apostoli, quelli di Gesù Cristo, ogni miracolo in generale; e ad esercitar pure la sua mordacità contro i misteri o contro la morale della Religion Rivelata: onde disputando con lui, si disputa con un Incredulo, che si sforza di comparire Cristiano. In vero questo ritratto non è luminoso: ma gli argomenti, che ne recheremo, convinceranno chiunque, che nell'esporre i suoi sentimenti noi certamente non ci siamo specchiati sull'esempio di lui.
Le cagioni naturali, ch'egli ha felicemente rinvenute, sono: 1. Lo zelo inflessibile e intollerante de' Cristiani: 2. La dottrina di una vita futura accompagnata da ciò che poteva aggiungerle peso: 3. Il dono de' miracoli attribuito alla Chiesa primitiva: 4. La morale pura, ed austera degli antichi Fedeli: 5. L'unione e la disciplina della Cristiana Repubblica: 6. La debolezza del Politeismo: 7. Lo Scetticismo del Mondo Pagano: 8. La pace e l'unione del Romano Impero.
Prima Conclusione che dee provare l'Autore. Lo zelo e inflessibile e intollerante de' Cristiani fu una delle cagioni naturali dello stabilimento e de' progressi del Cristianesimo.
Ristretto. Il popolo Ebreo, che giacque gran tempo nella condizione de' più vili schiavi, si distinse coll'insociabilità de' costumi, coll'odio che professava del genere umano, e colla ostinazione invincibile, colla quale ricusò sempre di accoppiare l'elegante mitologia dei Greci alle istituzioni Mosaiche. I primi Giudei non credettero i miracoli operati da Dio alla lor presenza: quelli però del secondo tempo prestarono cieca fede alla tradizione de' loro maggiori. La legge Mosaica sembra essere stata istituita per un paese particolare e per una sola nazione. Il Cristianesimo prescrisse uno zelo egualmente esclusivo per la verità della Religione, ed ammise l'autorità di Mosè e de' Profeti, da' quali però il Messia era stato promesso come Re e Conquistatore, non come Martire e Figliuolo di Dio. La Chiesa dimorò gran tempo confusa fra le Sette della Sinagoga, ed i Giudei convertiti univano all'Evangelio il culto Mosaico. I loro argomenti sembrano plausibili; ma la sagacità degl'interpreti ha rimossa ogni difficoltà. La Chiesa di Gerusalemme, che osservava i riti Mosaici, tornò da Pella nella nuova città di Adriano, avendovi prima rinunciato; e quelli, che rimasero costanti, furon trattati da Eretici. Circa questa controversia S. Giustino Martire spiegò a Trifone il suo sentimento con gran diffidenza, e confessò ch'era contrario a quello della Chiesa, che finalmente trionfò sul più mite. Se gli Ebioniti pretendevano non doversi abolire l'antico Testamento per la sua perfezione, gli Gnostici al contrario vi trovavano tanti difetti, che ricusarono di crederlo dettato da Dio. Sino ad Adriano la Chiesa tollerò ogni setta; in progresso l'escluse tutte. Persuasi i primi Cristiani, essere i demonj gli autori, i patrocinatori e gli oggetti dell'Idolatria, riguardavano con orrore ogni piccolo segno di culto nazionale: il loro più essenziale e più penoso dovere era di conservarsi puri nella corruzione dell'Idolatria, che infettava tutte le azioni pubbliche e private, prendendo sempre l'apparenza del piacere, e spesso quella della virtù. I Cristiani pretendevano da ciò l'opportunità di dichiarare e di confermare la zelante loro opposizione. Per mezzo di tali proteste di continuo si fortificava il loro attacco alla fede, ed a misura che cresceva lo zelo, essi combattevano con più ardore e con più felice successo nella santa guerra intrapresa contro l'impero de' demonj.
Risposta. Tutti gli oggetti, che si presentano uniti in questo quadro, sono estranei all'argomento prefisso per titolo: della promessa conclusione in nessuna parte si parla, fuorchè nelle ultime righe, che noi abbiamo giudicato importante di trascrivere interamente, affinchè il lettore gli domandi ragione, come ha impiegate tante carte e tante citazioni di Autori in materie che non influiscono per modo alcuno nella conclusione, che avea tolta a stabilire, ed a questa non consacri se non gli ultimi quattro o cinque versi.
Ma formano essi poi una prova? Vediamolo. Conclusione. Una delle cagioni naturali dello stabilimento e de' progressi del Cristianesimo fu lo zelo degli stessi Cristiani. Supposta prova. I Cristiani si opponevano con forza alle pratiche dell'Idolatria, e dichiaravano con zelo i loro sentimenti. Per mezzo di tali proteste di continuo si fortificava il loro attacco alla fede; ed a misura che cresceva lo zelo, essi combattevano con più ardore e con più felice successo nella santa guerra intrapresa contro l'impero dei demonj. Qui, se noi non siamo ciechi, non iscorgiamo, se non la descrizione del fatto, di cui dovevasi render ragione. Lo zelo de' Cristiani combatteva con felici successi contro i demonj; cioè stabiliva e dilatava la fede dell'Evangelio tra le genti, che servivano al demonio. Come esso produceva quest'effetto? Da quali principj ripeteva la sua forza? Da questa spiegazione dipenderebbe il decidere, se in esso dobbiamo riconoscere una cagione del tutto naturale. Ma l'Autore di tutto ha parlato fuorchè di questo; e quindi ognuno comincerà a scuoprire, quanto ci vaglia nell'arte di ragionare, e quanta pena dia agli Apologisti del Cristianesimo per difenderlo da' colpi di lui.
Lo zelo de' Cristiani ridusse rapidamente alla fede molte nazioni del mondo. Questo è il fatto, di che dobbiamo rintracciar la cagione, e per condurci da filosofi, uopo è considerare le persone dal Cristiano zelo investite, quelle che ne seguiron l'impulso, e l'oggetto, intorno al quale si aggirava lo zelo. Nè dobbiamo permettere all'Autore, che dopo di averci fatta visitare la Palestina per informarci degli affari Giudaici senza vedervi nascere il Cristianesimo, ci trasporti di salto in mezzo agl'Idolatri, e ci additi i Campioni dell'Evangelio già cresciuti e formati in atto di guerreggiare contro l'impero del demonio. Ragion vuole, che se ne osservi il primo cominciamento, ed insieme i primi progressi.
I fondatori della Religion Cristiana furono Gesù Nazareno, ch'era tenuto per figliuolo di un falegname, e dodici pescatori, che abbandonate le reti, si diedero a seguirlo. La loro apparenza non poteva risvegliare, se non il più alto disprezzo. Poveri, rozzi, ignoranti, odiati dalla loro nazione, impresero a riformare il Mondo, ed il loro zelo fu coronato dai più felici successi.
I primi, ai quali eglino si rivolgessero, furono i Giudei, a cui erano pienamente noti. I Giudei si distinguevano all'ostinazione invincibile di non voler accoppiare altra istituzione a quelle di Mosè; ed alle istituzioni Mosaiche era congiunta la fortuna dello Stato. Questi i primi piegarono la fronte alla croce. Indi si aggregarono all'ovile di Cristo gl'Idolatri sudditi dell'Impero Romano, i quali da una parte guardavano con dispregio e con orrore i Giudei, e dall'altra erano tenacemente attaccati alla Religione della patria e per l'antichità ch'ella vantava, e per la gloria, alla quale aveva fatto salire l'Impero, e soprattutto perchè l'idolatria sotto l'apparenza del piacere e della virtù si presentava con sì seducenti maniere, che pe' Cristiani medesimi era un dovere penoso il resistervi.
In quel tempo i progressi, che i Romani avevano fatto nelle scienze, erano pervenuti al colmo della perfezione. Allora fu che pubblicossi il sistema Cristiano; sistema che co' suoi misteri pareva che distruggesse le più semplici e le più chiare idee della ragione, e che chiamando gli uomini colle massime morali ad una meta troppo alta riguardo alla sfera, dentro la quale si erano confinati i Gentili, sgomentava la natura ed irritava le passioni.
Questa dottrina e questa morale sostenuta dall'ardore di persone in apparenza cotanto deboli, in brevissimo tempo si stabilì, e fu avidamente abbracciata dagl'inflessibili Giudei e da' voluttuosi Gentili. Ora bisogna provare, che una sì stupenda rivoluzione accadde secondo il corso ordinario dell'umana natura, o confessare che i felici successi, che incontrò lo zelo de' Missionari Evangelici, si debbono ascrivere a cagione sovrannaturale. Quando l'Autore vorrà trattar l'argomento, che ha lasciato intatto, saprà a qual partito appigliarsi.
Presentiamogli frattanto un'altra considerazione. Non solamente ci fa stupire la conversione del Mondo operata con istrumenti tanto in apparenza deboli, ma inoltre non sappiamo comprendere, come ed i predicatori ed i convertiti avessero potuto star saldi fra tanti pericoli. I Cristiani, esclama l'Autore, si opponevano con forza agli errori, dichiaravano i loro sentimenti, e tali proteste gli attaccavano vie più alla fede. Anche qui veggiamo il nudo fatto, al quale bisogna aggiungere tutte le circostanze per darne idea adeguata.
Le tentazioni della Idolatria sono minutamente descritte dalla stessa penna dell'Autore, il quale ha ben riflettuto, che tutte le azioni, sì pubbliche che private vi facevano allusione, e ch'era un dovere penoso quello di resistere alle dolci attrattive del piacere, ch'ella menava in trionfo. A terminare il quadro noi aggiungeremo, che la professione Cristiana era universalmente tacciata con nota d'infamia; che le leggi l'avevano proscritta; che chi l'abbracciava, perdeva i suoi beni, e stava di continuo esposto al pericolo dell'esilio, dei tormenti, della morte. Avviene naturalmente, che tante e tali difficoltà inspirino maggior coraggio a combattere? L'Autore lo ha istoricamente supposto: aspettiamo ora, che lo provi filosoficamente; e diamo intanto una rapida scorsa agli oggetti estranei, co' quali egli ha dissipata la sua e la nostra attenzione.
Comincia dal rappresentare come una gioconda armonia di scambievole tolleranza il profondo letargo, nel quale giacevano immerse tutte le nazioni Idolatre circa il più grande, anzi l'unico affare, che abbia l'uomo in questa vita mortale; e procura di mettere in odio l' intolleranza de' Giudei, per ferir di riverbero il Cristianesimo, che prescrisse lo stesso zelo esclusivo. L'intolleranza religiosa non è altro che una incompatibilità di dottrina che nasce dalla natura, anzichè dall'arbitrio degli uomini. Siccome non può stare, che il triangolo abbia e non abbia tre lati, così non può conciliarsi, che sia stata rivelata da Dio una dottrina ed un'altra ad essa contraria: e s'egli ha annessa la salvazione a quella, non può essere, che si salvi chi a questa si attiene.
È ben altro l'insociabilità de' costumi, l'inumanità, la crudeltà, onde negli ultimi tempi furono rimproverati i Giudei per una depravazione personale contraria alle leggi di Mosè, il quale se vietò loro di trattare cogli Idolatri per non contaminarsi coll'esecrande lordure, che vengono rammemorate ne' libri sacri, ordinò loro nel medesimo tempo, che rendessero a' forestieri tutti gli uffizi della carità; e di trattarli come se stessi, a motivo che anch'eglino erano stati forestieri nella terra di Egitto.
La legge Mosaica fu istituita per un paese particolare e per una sola nazione quanto alla parte cerimoniale ed all'amministrazione politica, ma quanto ai precetti del Decalogo, che appartengono alla natura e cui Iddio si degnò di confermare colla rivelazione, obbliga tutti gli uomini.
Che i primi Giudei testimonj de' miracoli, co' quali Iddio gli scortava, non li credessero, e che vi prestassero cieca credenza i posteri per semplice tradizione, l'Autore lo raccoglie da quel passo: usquequo detrahet mihi populus iste? Usquequo non credent mihi in signis, quae feci coram eis? Gli dobbiamo rimproverare l'ignoranza del Latino, o la mala fede? Per non esserci permesso nè l'uno nè l'altro, farebbe d'uopo, che nel testo si leggesse usquequo non credant signa quae feci coram eis. Ma l'espressione usquequo detrahent mihi: usquequo non credent mihi in signis suona in volgare: Fino a quando mormoreranno della mia condotta? Fino a quando non presteranno fede alle mie minacce ed alle mie promesse, giacchè ho fatti innanzi a loro tanti miracoli? Questo è il vero rimprovero fatto a' primi Giudei, e che si vede non meno frequentemente ripetuto a' Giudei del secondo tempio. Per la qual cosa nulla da questo luogo può riferirsi contro la certezza degli enunciati miracoli.
I Profeti riunirono nel Messia co' caratteri di Re, e di Conquistatore quelli di Martire e di Figliuolo di Dio, e questi si trovano raccolti in ogni libro di Teologia. Ma ripiglia Orobio: Gesù non essendo stato Re e Conquistatore temporale, perchè i suoi seguaci ricorrono al senso spirituale? Perchè risponde il Limborchio, tal è l'interpretazione datane dagli Scrittori del nuovo Testamento, inspirati da quel Dio che dettò l'antico: e le prove dell'inspirazione di quelli è tale, che i Giudei non possono contrastarle senza ferire ancor questo.
La Chiesa non restò pure un momento confusa colla Sinagoga, nè quanto alla dottrina, nè quanto alla comunione. Gli Ebrei insegnavano, che la salute dipendeva unicamente dalla legge Mosaica; che Gesù era stato un impostore, e che la sua dottrina doveva passare per un'empia e detestabile profanazione. Secondo i Cristiani, Gesù era figliuolo di Dio, da cui solo sperar si doveva la vita eterna, e le cerimonie Mosaiche erano divenute per lo meno inutili. Circa la comunione, i Cristiani si congregavano in case private, e la Sinagoga lungi dal tollerarli li perseguitò fieramente e dentro e fuori della Palestina.
Lo sbaglio dell'Autore sarà per avventura derivato dal vedere, che nel primo secolo alcuni de' Giudei convertiti univano amendue i culti. Nel qual punto di storia sembra, che le sue idee fossero molto superficiali e confuse.
Tre classi di Giudei sostenevano l'osservanza dei riti Mosaici: alcuni li congiungevano all'Evangelio, ma senza crederli necessari alla salute; e questi erano riconosciuti per Ortodossi; altri ne insegnavano la necessità, e furono rigettati come Eretici sin dalla nascita della Chiesa, allor quando gli Apostoli nel Concilio di Gerusalemme dichiararono, che non erano più necessari. Nella terza classe mettiamo i Giudei non convertiti, i quali esaltavano tanto le istituzioni Mosaiche, che condannavano assolutamente la legge ed il culto di Cristo.
Ora scrive l'Autore, che gli argomenti impiegati da' Giudei convertiti a provare, che le ceremonie Mosaiche non potevano abrogarsi, e che tutti i Proseliti li dovevano riconoscere come indispensabili, non plausibili: gli espone in compendio, e cita la conferenza d'Orobio con Limborchio, dove si trovano estesamente spiegati (p. 103). Chi non dirà ad un tal parlare, che Orobio difenda la causa de' Cristiani giudaizzanti? Frattanto questa è una metamorfosi operata dall'immaginazione dell'Autore, che lo ha convertito tanti anni dopo che è morto; impresa, che non potè riuscire al Limborchio, col quale il Giudeo Orobio disputò per ben tre volte contro il Cristianesimo, e rimase Giudeo. Sì fatti errori, commessi per troppo abbondare in erudizione, ci vagliano di ammaestramento; quando ci rammentiamo della sicurezza, colla quale egli dichiarò nella piccola prefazione di aver letti tutti gli originali, coi quali aveva illustrate la sue ricerche.
Ma quali sono gli argomenti, a cui egli dà tanto peso? Iddio è immutabile. Che ne segue? Si muta egli forse per aver limitata l'esistenza dell'uomo? No. Perchè adunque non ha potuto ab eterno volere, che la legge Mosaica durasse sino a certo tempo, e poi desse luogo a quella, che ne' suoi immutabili decreti doveva seguire? Gesù Cristo e gli Apostoli osservarono le ceremonie di Mosè: perchè, dice S. Paolo, non era stato ancora squarciato l'antico chirografo; dappoichè Gesù ebbe consumate sulla croce tutte le profezie, cominciò un nuovo ordine di cose, e gli Apostoli coll'intervento del divino Spirito dichiararono, che il peso de' riti Mosaici non era più necessario.
Vi vuol dunque una gran dose di stupidezza o di malignità a dire, che la sagacità de' santi Interpreti qui ha dato di piglio all'allegoria, ovvero ai sofismi, come se in una cosa tanto facile e piana sorgessero difficoltà da non potersi altrimenti superare.
Nel raccontar le vicende della Chiesa di Gerusalemme l'Autore confonde i Nazarei Eretici co' primi Cristiani, ch'ebbero per qualche tempo la denominazione medesima: tolto il quale equivoco, si scorgerà chiaramente nella Storia che la Chiesa Gerosolimitana fu sempre ortodossa, e quando andò, e quando ritornò da Pella; mentre se professava coll'Evangelio i riti Mosaici, non ne insegnava la necessità; sebbene per essere que' Fedeli ammessi nella nuova città edificata da Adriano sul monte Sion avessero dovuto rinunziare ad ogni costume Giudaico. I Nazarei Eretici, che ne difendevano la necessità, e nutrivano altri errori capitali contro la fede, cacciati da Gerusalemme non ebbero più permesso di farvi ritorno per la loro ostinazione, e rimasero separati dalla comunicazione dei Fedeli nella stessa guisa di prima. Secondo alcuni eglino stessi sono gli Ebioniti; ma secondo altri l'una setta è diversa dall'altra.
San Giustino Martire fu d'avviso, che non fosse peccaminosa l'osservanza de' riti Mosaici, purchè non si credesse necessaria. Ma invece di spiegarsi colla più riservata diffidenza, nel passo si legge ripetuto tre volte salvatum talem iri aio. Nella traduzione dell'Autore Trifone l'interroga del sentimento della Chiesa; e nel testo si dice; an sunt, qui dicant, hujusmodi salvatum non iri? Sunt, ego respondi. Non esprime quanti erano, molto meno che fosse opinione di tutta la Chiesa. Cum talibus, prosegue il Santo, neque consuetudinis, neque hospitii communionem habere audent; parole compendiate così dal Mosemio: minus clementer decernunt. L'Autore prese da questo la citazione, e vi fece un ampio comento: asserendo che quando Giustino fu pressato a dichiarar il sentimento della Chiesa, confessò che vi erano molti fra gli Ortodossi Cristiani, che non solo escludevano i loro giudaizzanti fratelli dalla speranza di salvazione, ma che evitavano ancora ogni commercio con loro ne' comuni offizj di amicizia, d'ospitalità e di vita sociale. In un quadro d'intolleranza si doveva por mano a tinte assai forti.
Gli Gnostici non rigettarono l'antico Testamento per averlo trovato pieno di difetti, ma perchè fu inspirato dal Creatore, che nel loro sistema de' due principj era l'Autore del male. Per lo stesso sistema neppur poterono accomodarsi agli Evangeli, ne' quali s'insegna, avere il Verbo assunta umana carne, la quale era per loro opera del Creatore.
Le difficoltà, ch'egli cita contro l'antico Testamento, abusando del nome degli Gnostici, sono state ripetute sino alla nausea dai predecessori del Signor Gibbon, e gli Apologisti vi hanno tanta luce arrecata, che non possono più rimettersi in campo senza stancare la pazienza del Pubblico. Simili dettagli al nostro istituto non si convengono.
Dite voi, che sino ad Adriano la Chiesa tollerò tutte le Sette? Gesù Cristo aveva ordinato: si ecclesiam non audiverit, sit tibi, tanquam ethnicus et pubblicanus; e l'Apostolo aveva detto haereticum hominem devita. Nell'epistole di S. Paolo, di S. Giovanni e di S. Ignazio, discepolo degli Apostoli, ad ogni passo s'incontrano vive esortazioni a fuggire gli Eretici.
Passando da Gerusalemme a Roma, l'Autore si maraviglia, come i Cristiani avessero in tanto orrore ogni segno di culto nazionale. Ma o Iddio non esige un culto neppur naturale; o un culto contrario all'unità della sua natura ed alla perfezione de' suoi attributi dee veramente inspirare l'orrore, col quale i Cristiani guardavano l'universale depravazione delle leggi di natura, consecrata agli Dei nel culto idolatrico. L'Autore motteggia sul demonio, come se senza l'intervento di lui l'idolatria non fosse il più enorme di tutti i peccati. I demonj erano autori, patrocinatori ed oggetti dell'Idolatria, in quanto tentavano gli uomini contro il precetto di onorare Dio, come giornalmente li tentano intorno agli altri doveri.
Nella storia delle stravaganze dello spirito umano mancava chi facesse il panegirico dell'Idolatria. L'Autore ha occupato il posto voto: ma il suo elogio non può piacere se non a coloro, le cui idee e le cui brame terminano ne' sensi. La superstizione compariva sempre sotto l'apparenza del piacere e spesso della virtù, e sappiamo qual piacere ella menasse in trionfo. Virtù e voluttà formano un'idea complessa di nuova invenzione.
Era un dovere penoso pei Cristiani il conservarsi puri in mezzo a tanta corruzione. Come stettero saldi? E come fecero uscire i Gentili dal lezzo, in cui si giacevano? Secondo il corso della natura i Gentili dovevano sovvertire i Cristiani, anzichè i Cristiani convertire i Gentili. Ma noi siamo tornati insensibilmente al titolo dell'Articolo, e l'Autore non vuole che se ne parli.
Seconda Conclusione che dee provare l'Autore. La dottrina d'una vita futura, accompagnata dall'opinione dell'imminente fine del mondo, e del beato regno de' mille anni fu una delle cagioni naturali dello stabilimento o de' progressi del Cristianesimo.
Ristretto. Gli antichi filosofi inculcavano questa semplice verità, che nulla attender si dee dopo la morte: ma pochi saggi della Grecia e di Roma seguendo la guida dell'immaginazione e della vanità insegnavano essere l'anima immortale. Una dottrina tanto superiore ai sensi, se occupava piacevolmente l'ozio de' solitari, perdeva ogni efficacia nel commercio e nei negozi della vita civile; giacchè la filosofia non potè co' più alti sforzi che indicar debolmente il desiderio, la speranza, o al più la probabilità d'una vita futura, il darne la certezza apparteneva alla Rivelazione. La mitologia Pagana non poteva giovare, perchè già se n'era cominciato a scuotere il giogo. Questa dottrina dell'immortalità però si stabilì più prosperamente nell'Indie, nella Siria, nell'Egitto, nella Gallia per l'ambizione de' Sacerdoti. Nella legge Mosaica, dove si dovrebbe trovare, non se ne fa menzione: i Giudei fino ad Esdra si limitarono al presente. Indi a non molto i Sadducei la rigettarono attaccati al senso letterale della Scrittura, e l'ammisero i Farisei con altri dommi tratti dalla filosofia Orientale, il cui partito finalmente prevalse. Ma non divenendo essa per ciò più probabile, era necessario che ricevesse da Gesù Cristo la sanzione di verità divina. Allorchè fu offerta agli uomini la promessa d'una felicità eterna, non è maraviglia che venisse accettata da gran numero di persone d'ogni religione, d'ogni condizione, d'ogni Provincia.
L'opinione della prossima fine del mondo, fondata sulle parole di Gesù Cristo e degli Apostoli, che dopo il corso di 17 secoli non si è avverata, produceva i più salutari effetti sopra i Cristiani, e contro gl'Increduli si annunciavano le più orribili calamità.
Si credeva inoltre, che Gesù Cristo avrebbe regnato in terra mille anni innanzi la risurrezione generale. Questo sistema adattato ai desiderj ed alle apprensioni degli uomini dovè molto contribuire a' progressi del Cristianesimo. Quando poi non se n'ebbe più bisogno, fu condannato come invenzione dell'eresia.
La condanna de' più saggi e de' più virtuosi Pagani offende l'umanità e la ragione del presente secolo: ma nella primitiva Chiesa si condannava al supplicio eterno la massima parte della specie umana. Sentimenti così rigidi sparsero di amarezza un sistema di amore: i Fedeli insultavano i Politeisti, e questi subitamente atterriti senza poter essere sovvenuti da' Sacerdoti o da' Filosofi loro, restavano soggiogati; e se una volta inducevansi a sospettare, che potesse la religion Cristiana esser vera, diveniva facile il convincerli, che il partito più prudente era quello di abbracciarla (p. 139).
Risposta. Prosegue l'Autore colla stessa copia d'idee estranee, e colla stessa scarsezza di ragionamenti adattati al bisogno. Noi dobbiamo investigare, come naturalmente giovasse all'avanzamento della Religione la dottrina dell'immortalità, l'aspettazione dell'imminente fine del mondo, l'opinione del beato regno di mille anni.
Circa la prima parte egli dopo di averci esposti i sentimenti delle antiche nazioni e gli sforzi della filosofia, termina con queste parole. Allorchè fu offerta agli uomini la promessa d'una felicità eterna, non è maraviglia che venisse accettata da un gran numero di persone d'ogni religione ec. Eccoci adunque nello stesso caso di prima: questo è un replicare con giro diverso di termini, che la dottrina dell'immortalità fu una delle cagioni naturali dello stabilimento e de' progressi del Cristianesimo; che era quello che si dovea provare.
Non è maraviglia, che venisse accettata da gran numero di persone. Cesserà la maraviglia o pel vantaggio derivante dalla stessa dottrina, o per la qualità di coloro, che predicarono, o per la disposizione, nella quale trovavansi quelli a cui fu predicata.
Non può l'Autore attenersi alla prima parte, avendo supposto, che la dottrina dell'immortalità, se allettava l'ozio dei solitari, perdeva ogni efficacia nel commercio e ne' negozj della vita civile. Ma ponendo da parte i pensamenti di lui, la incoerenza de' quali non reca alcun giovamento alla causa della verità, la dottrina della vita avvenire, quale si stabilisce nel Cristianesimo, ha un aspetto seducente ed un altro ributtante. Non possono non allettare gl'ineffabili beni di una beata eternità promessi a chi soffre coraggiosamente i travagli d'una brevissima vita. Ma non possono non ributtare gl'inesplicabili tormenti aggravati dall'immenso peso dell'eternità sopra un miserabile, che abbia avuta la disgrazia di atterrare il cumulo di tutti i suoi meriti con un solo peccato di desiderio. Ed il dogma della Predestinazione, che si riferisce a questo gran termine, eccita, più che speranza, terrore ed abbattimento di spirito. Se non che questo stesso terrore, questo abbattimento di spirito può servir di motivo a seriamente pensare ad un negozio di tanta importanza. Ma egli è indubitato, che una dottrina, sia per l'amor proprio interessante quanto si voglia, non acquisterà mai alcun grado di efficacia, se non quando si presenterà alla mente dotata della necessaria certezza. Le promesse e le minacce senza prova son nulla.
I Predicatori Evangelici, attesi i loro caratteri esterni, non avevano l'autorità de' filosofi. Oltre ciò i nostri non prendevano a convincere con ragioni filosofiche. Eglino proponevano l'immortalità come un articolo che si doveva credere, non come il prodotto d'una dimostrazione. Su qual fondamento potevasi prestar fede alle loro dichiarazioni? O dovevano essere dispregiati, o gli animi dovevano restar penetrati dall'evidenza delle prove generali della Rivelazione. Ma in tal guisa la verità del Cristianesimo, già riconosciuta, faceva ricevere unitamente agli altri dommi quello dell'immortalità, quando ci doveva provare, che la dottrina dell'immortalità era la cagione, che faceva abbracciare il Cristianesimo.
Qual era la disposizione degli Ebrei? A tempo di Gesù Cristo la dottrina della vita avvenire costituiva un articolo essenziale della loro credenza; onde il Cristianesimo non offeriva loro alcun nuovo vantaggio, e ritrovava un ostacolo naturalmente impossibile a superarsi. Nel Cristianesimo la vita eterna era promessa soltanto a chi credeva in Gesù Nazareno; nel Giudaismo a chi osservava senza mescolanza di altri culti le istituzioni Mosaiche.
Circa la credenza de' Pagani l'Autore non sa determinarsi; nè noi ci gioveremo della sua perplessità. O essi profetavano questa dottrina, o non la professavano. Nella prima supposizione non vi è ragione sufficiente, per cui il Pagano dovesse abbandonare la Religione della patria, che insegnava lo stesso sistema. Nella seconda bisogna rinunciare al senso comune per non vedere, che una novità di tal natura, in luogo di agevolare le conversioni, ne accresceva la difficoltà. Voi Cristiani, doveva dire il Politeista, mi promettete un paradiso, se io abbraccierò l'Evangelio; e mi minacciate un inferno, so resterò nella Religione, nella quale son nato. I grand'uomini della Grecia e di Roma hanno altamente derisa questa dottrina; lo stesso popolo di presente la considera come una chimera; nel Senato e nei Teatri di Roma si annuncia pubblicamente e senza velo, che tutto finisce colla morte: sopra quali prove voi vi fondate? Non è questa la disposizione naturale, in cui le istanze de' Cristiani metter dovevano i Gentili?
Lo opinioni del prossimo fine del mondo e del terreno regno di Cristo sono soggette alle stesse difficoltà. Esse non potevano prendere neppure aspetto di probabilità, se prima gl'Infedeli non rimanevano convinti dalle verità della Rivelazione Cristiana. E la prima era inoltre in se tant'odiosa, tanto sensibilmente feriva la sensibilità de' Romani per la gloria e per la perpetuità dell'Impero, che fu una delle cagioni che nel fuoco delle persecuzioni gli stimolava ad incrudelire contro persone, le quali lor pareva, che bramassero l'estinzione di tutto il genero umano. Ma è tempo di passare alle digressioni.
Chiunque abbia una leggiera tintura della storia della filosofia, sa che tra' Greci l'immortalità dell'anima dal solo Epicuro fu rigettata.
I Romani sino a Catone universalmente la credettero. Dappoichè penetrò in Roma la filosofia di Epicuro, lo spirito di Scetticismo infettò alcuni di que' letterati; ma il popolo rimase costante nell'antica credenza, ch'era conforme a quella degl'Indiani, degli Assirj, degli Egizj, de' Galli, i Sacerdoti de' quali non avevano alcuna preeminenza sopra quelli de' Romani. Anzi allora fu, che all'Epicureismo sottentrò il nuovo Platonismo confederato colla filosofia Orientale, quando il Cristianesimo cominciava a predicare la vita avvenire; allora i filosofi, alzarono altare contro altare; e tutto fu inutile.
Se l'Autore ha lette le dimostrazioni addotte da' moderni filosofi in favore dell'immortalità, doveva accennare i difetti per convincersi, che la filosofia co' più alti suoi sforzi non può indicarne se non che debolmente il desiderio e la speranza o al più la probabilità. Vero è che queste dimostrazioni, che non si assomigliano punto alle sue, non possono solleticare il suo gusto.
Ne' libri di Mosè si fa molte volte non oscura menzione di questa dottrina: confessiamo però, ch'ella non è contenuta nell'economia dell'antica legge, ristretta dentro la sfera del temporale, sicchè se non vi si trova, non vi si dee trovare. L'Autore Inglese della divina legislazione di Mosè, che il Sig. Gibbon poteva consultare, parla molto acconciamente di questo argomento.
I Sadducei la negarono, perchè quantunque ella si trovi ne' libri di Mosè, e più chiaramente ne' seguenti Scrittori, quelli si compiacquero di profanar la Scrittura colla Filosofia di Epicuro. Per la stessa ragione l'ammisero i Farisei, non per l'autorità della filosofia Orientale; se l'Autore non voglia distruggere quanto ha sostenuto sull'inflessibile ostinazione de' Giudei nel ricusar di unire alcuna istituzione con quelle di Mosè.
Del resto egli riconosce questo dogma dettato dalla natura, benchè prima l'avesse creduto inspirato a pochi filosofi dalla vanità: lo confessa approvato dalla ragione a dispetto della filosofia, che co' più alti suoi sforzi non potè dimostrarlo: gli piace, che l'avesse adottato la superstizione, dopo d'aver dichiarato la Mitologia insufficiente a farlo ricevere; che i più savj Politeisti ne avevano scossa l'autorità; e che i voti del popolo Pagano diretti a Giove e ad Apollo risguardavano il solo presente. Finalmente gli Ebrei lo credevano come rivelato; ma perchè ciò nulla vi aggiungeva di probabilità, fu necessario, che lo rivelasse Gesù Cristo. Il Sig. Gibbon ha bisogno della sagacità d'un interprete più che santo.
La distruzione prossima del mondo, la comparsa dell'Anticristo, e la venuta di Cristo giudice è una predizione contenuta formalmente nell'Evangelio e nell'Epistole di S. Paolo, di S. Pietro, di S. Giovanni: ella pel corso di 17 secoli non si è avverata: dunque questi libri non furono divinamente inspirati. Ecco l'obbiezione, ed ecco la risposta, che si raccoglie dalla bell'Opera del Sig. Hammond Scrittore Inglese più antico del nostro. Convien distinguere due venute di Gesù Cristo, l'una a punire i Giudei, e l'altra a giudicare tutto il genere umano. Quella nella Scrittura si predice imminente, ma questa si dà per incerta. Applicate i passi in quistione alla comparsa dei primi Eresiarchi denominati Anticristi da S. Giovanni, ed alla distruzione di Gerusalemme sotto Vespasiano, e troverete adempita la predizione nel tempo da' sacri Autori designato.
Se il Sig. Gibbon avesse rammentato, che Origene fiorì molto prima di Lattanzio, ed ebbe gran numero di seguaci, non avrebbe detto, che da S. Giustino Martire fino a Lattanzio tutti i Padri riguardavano la dottrina del Millennio come una verità creduta da tutta la Chiesa. Origene sostenuto dal maggior numero distrusse sì fattamente l'errore, che avendo il Vescovo Nipote (molto prima di Lattanzio) tentato di ristabilirlo, non trovò, dice il Mosemio, se non pochi fanatici nelle campagne e ne' borghi dell'Egitto, che gli prestassero orecchio. Per altro diversamente ideavano questo regno i pochi Ortodossi, che avevano adottata tale chimera, e diversamente gli Eretici: finchè scopertasi l'origine nelle favole Giudaiche ed in Corinto, la Chiesa giustamente lo proscrisse. E siccome abbiamo dimostrato, che la riferita opinione nulla per se poteva influire ne' progressi del Cristianesimo, riesce insipido il sentirci dire, che quando l'edifizio della Chiesa fu quasi al termine, si tolse di mezzo il sostegno, che aveva servito un tempo per comodo della fabbrica.
La riprovazione de' pretesi saggi e virtuosi Pagani ben intesa non offende nè l' umanità, nè la ragione del nostro secolo, ma come si debba intendere secondo la fede cattolica, nè noi possiamo brevemente spiegarlo, nè ai semplici nuoce il non saperlo. Giova l'udire, che questi sentimenti spargevano di amarezza un sistema d'amore; poichè tanto più ci maravigliamo, come l'Autore abbia riposta in questa dottrina la sua seconda cagion de' progressi del Cristianesimo, quanto più candidamente egli ne accenna gli effetti contrari.
Terza Conclusione che dee provare l'Autore. Il dono de' miracoli falsamente attribuito alla Chiesa primitiva fu una delle cagioni naturali dello stabilimento e dei progressi del Cristianesimo.
Ristretto. I doni soprannaturali, che dicesi avere ricevuti i primi Cristiani, dovevano contribuire a convincere gl'Infedeli. Oltre i prodigi accidentali, la Chiesa si è arrogata sin dagli Apostoli una successione non interrotta di facoltà miracolose, come il dono delle lingue, le visioni e le profezie, il potere di scacciare i demonj, di sanar gli ammalati e di resuscitare i morti. Ireneo, che attribuisce il dono delle lingue ai suoi contemporanei, dice di se stesso, che predicando l'Evangelio nelle Gallie, doveva contrastare colle difficoltà di un dialetto barbaro. E se i Cristiani d'allora richiamavano a vita gli estinti, come ne fa testimonianza Ireneo, lo Scetticismo di que' tempi non si potrebbe spiegare. Teofilo ricusò di dar questa prova ad un Pagano che si sarebbe convertito. Del resto in ogni secolo si osserva una succession di miracoli; e verremmo a contraddirci, se negassimo nell'ottavo e nel decimo secolo al venerabile Beda e a S. Bernardo quella fede, che abbiamo con tanta generosità accordata nel secondo a Giustino e ad Ireneo. L'utilità poi de' miracoli è sempre la stessa: ogni secolo ha avuto degl'increduli da combattere, degli Eretici da convincere, degl'Infedeli da convertire. Frattanto confessando ogni uomo ragionevole esser già tal potere cassato, dovè togliersi alla Chiesa in un'epoca che noi non sappiamo terminare. Di presente regna un segreto Scetticismo: assuefatti da gran tempo ad osservare ed a rispettare l'ordine invariabile della natura, non siamo sufficientemente preparati a sostenere l'azione visibile della Divinità. Diversa era la situazion degli uomini al nascere del Cristianesimo. I più curiosi ed i più creduli fra' Pagani s'inducevano spesse volte ad entrare in una società, che si attribuiva un attual diritto alla potestà di far miracoli. I primitivi Cristiani battevan continuamente una strada mistica: i prodigi, ch'eglino si figuravano di operare, li disponevano a ricevere colla stessa facilità le maraviglie dell'Evangelio ed i misteri, che per loro confessione sorpassavano le forze del loro intelletto. Quest'intimo convincimento fu celebrato sotto nome di fede, e raccomandato come il principale e forse l'unico merito del Cristiano, poichè secondo i più rigidi Dottori le virtù morali, che possono praticarsi egualmente dagl'Infedeli, son prive d'ogni valore o efficacia per operare la nostra giustificazione (p. 147).
Risposta. Che il dono de' miracoli dalla primitiva Chiesa vantato ne agevolasse naturalmente i progressi, l'Autore neppure ha tentato di provarlo: ci avverte a principio, che ciò doveva contribuire a convincere gl'Infedeli: in tutto il restante perde di vista la conclusione; e finalmente termina con asserire, che i Gentili entravano per curiosità o per credulità nella Chiesa che vantava il poter de' miracoli.
Tanta parsimonia qui non è fuor di ragione. Imperciocchè impegnatosi egli a provare, ch'erano illusioni o imposture i miracoli, che all'antica Chiesa si attribuiscono, il mettersi poscia a seriamente provare, che l'imposture e l'illusioni contribuivano a convincere gl'Infedeli, sarebbe stato lo stesso che contraddirsi.
Quindi dobbiamo prendere in ischerzo, che i Gentili rinunciassero alla propria Religione, ed entrassero nella Chiesa perseguitata dal Principe per pura curiosità. Questo sarebbe un nuovo principio morale di mutar il cuore, e dal libertinaggio farlo passare all'estremo di una vita pura ed austera.
Vi potevano entrare per credulità. In quel tempo i Romani erano troppo illuminati, e a udire l'Autore avevano già scossa l'autorità della Mitologia, che spacciava tante maraviglie. Or poi entrati per soverchia semplicità nella Chiesa, come potevano rimanervi, trovando la loro aspettazione delusa? Se miracoli non se ne operavano, i Proseliti non potevano trovarvene. Chi gl'incantava? Come concepivano un tenacissimo attaccamento a questa madre? Per quale speranza si lasciavano barbaramente tormentare e toglier la vita? Subodorata appena l'impostura o l'illusione, non dovevano abbandonare con isdegno una società infame? Non dovevano alzar la voce, ed avvertire i parenti, gli amici, i magistrati, il pubblico, che si guardassero dalle frodi Cristiane?
Sarebbe puerilità il voler più insistere sopra un assurdo così palpabile: rivolgiamoci piuttosto all'oggetto, al quale tendono veramente gli sforzi dell'avversario. Egli non vuol miracoli di veruna sorta, nè in verun tempo: egli investe quelli de' primi secoli, quelli degli Apostoli e di Gesù Cristo, ed in generale ogni evento che non sia nell'ordine della natura. Questa è la vera meta delle sue ricerche, ed a questo noi ora volgeremo le nostre difese.
Avanti però d'innoltrarsi, convien premettere due osservazioni. Ecco la prima. Non si dee contendere, se la primitiva Chiesa vantasse un potere di far miracoli permanente, e da esercitarlo a sua disposizione. Mai non si è così creduto nel Cristianesimo: mai non si è avuta l'arroganza di pretendere, che Iddio assoggettata avesse la sua onnipotenza all'arbitrio degli uomini. Quante difficoltà non farebbe nascere un tale sistema? A chi Iddio confidò questo potere? Ad ogni Fedele in particolare? O all'unione di tutti? O pure a' Vescovi presi ad uno ad uno, ovvero al Sacerdozio in corpo? E qual condotta conveniva tenere nelle occorrenti emergenze? Quelli d'una Provincia erano padroni di fare il miracolo, o dovevano implorare il consenso ed il soccorso di tutte le Chiese? Essendo somigliante disegno impossibile ad eseguirsi, si è sempre insegnato, che Iddio secondo il suo puro beneplacito accordava i doni miracolosi ad alcuni d'eminente virtù e nelle circostanze che gli rendevano necessari, nella stessa guisa, che furono conceduti a Mosè e ad altri illustri personaggi dell'antico Testamento.
La seconda riflessione riguarda l'origine istorica della presente controversia. Fu ella posta in campo dal Dottor Middleton colle stesse difficoltà critiche, che il nostro Autore ha tolte di peso da lui. La novità dell'impresa sollevò contro il Middleton tutto il Mondo Cristiano, ed i suoi Avversari lo ridussero alla disperazione di cambiar lo stato della questione, per ritirarsi con onore. Dichiarò egli di non aver tolti a combattere i miracoli passeggieri ne' primi secoli accaduti, ma solo il poter permanente, di che si credeva rivestita la Chiesa: cosa, ripiglia il Mosemio, da niuno sostenuta, e che per conseguenza non meritava la pena di confutarsi con un grosso volume. Il Sig. Gibbon cita questo grosso volume, cita l'opposizioni che incontrò, cita l'Apologia ch'egli preparò; ma non dichiara il fine ch'ebbe la disputa, e par che ignori, che la di lui piuttosto ritrattazione che apologia fu data alla luce un anno dopo la morte del medesimo.
Fu rimproverato al Middleton che le difficoltà da lui fatte contro i miracoli dei primi secoli si stendevano naturalmente a quelli degli Apostoli e di Gesù Cristo. In fatti egli oppose ai primi il Pirronismo dei letterati contemporanei, la credulità del popolo ed alcune leggerissime riflessioni di critica sopra i monumenti degli antichi Scrittori, e gli fu fatto vedere, che le stesse leggerissime riflessioni di critica possono applicarsi agli Evangeli, e che si rinviene la stessa credulità del popolo Ebreo, e lo stesso Pirronismo negli Scribi e ne' Farisei. Il Middleton, persuaso della verità de' miracoli depositati ne' libri canonici, non volendo riconoscere la fatale conseguenza de' suoi principj, amò meglio di mutar la questione. Col nostro Autore è superfluo l'affannarsi a mettergli in vista la stessa conseguenza, come quegli, che lungi dall'averla in orrore, se la fa propria, e temendo che il suo lettore non sia capace di scuoprirla da se, ve lo conduce per mano, e si leva del tutto la maschera verso il fine del capo.
Ora noi qui non prenderemo direttamente a difendere i miracoli di Gesù Cristo, giacchè egli non gli ha direttamente assaliti; faremo l'apologia de' prodigi de' primi secoli nella già divisata maniera ch'ei gli ha attaccati, e la certezza di questi terrà al coperto la certezza di quelli.
E prima di sciogliere le sue difficoltà, ci sia permesso di ragionare alquanto sul fatto e diciamo, che se i Gentili venivano in folla alla fede, questa è una prova evidente della verità de' miracoli, che si dicevano accaduti. E vaglia il vero o bisogna supporli tutti stupidi e privi di ogni amore per la Religione della patria, o confessare, che la conversione loro era il risultato di veri miracoli. Imperciocchè i Cristiani lungi dal cercare la solitudine e le tenebre operavano in pubblico; e ciò apparisce da quella specie di disfide, che s'incontrano ad ogni passo aprendo i libri degli Scrittori dei primi secoli. Dall'altra parte i vantati prodigi erano di tal natura, che anche i più rozzi contadini potevano formarne giudizio. Il parlare diverse lingue, il liberare gli ossessi, il richiamare a vita gli estinti, ricercano recondite cognizioni di fisica o sublimi sforzi d'ingegno a deciderne? Dunque supponendo i Gentili forniti del senso comune, e freddamente interessati per la propria Religione, se nelle operazioni Cristiane non vi era un fondo di verità, se ne dovevano accorgere; onde se si convertirono contro l'interesse delle proprie passioni, il fatto stesso fa una invittissima prova in favore di essi miracoli.
Inoltre abbiamo detto, che se nella Chiesa non si facevano veri miracoli, i Proseliti, che vi erano entrati per credulità, dovevano o presto o tardi disingannarsi, ed uscirne. A che dobbiamo attribuire la loro perseveranza per fino in faccia de' tormenti e della morte? Non si trattava d'una famiglia, di una città, di una Provincia. Dovunque erano sparsi i Cristiani, vantavano le stesse maraviglie. Apostati ve n'ebbe in ogni tempo, in ogni tempo gli Eretici esclusi dal seno della Chiesa erano pronti a calunniarla; e la perpetua cura de' filosofi era di porre in discredito i seguaci dell'Evangelio. Credibile che per niuna di queste vie siasi potuta mai giuridicamente provare una frode, una collusione? Noi avremmo voluto che l'Autore, in vece di esercitarsi nella gramatica, avesse trattato da filosofo questo argomento. Ma ascoltiamo quanto gli è piaciuto di ripetere dietro la scorta di un Dottore sconfitto.
Come si può spiegare lo Scetticismo de' letterati Pagani intorno all'immortalità dell'anima ed intorno la rivelazione in generale? Si spiega ottimamente con accordarvi di buon grado, che questi guardavano gli affari Cristiani con quell'indifferenza, e con quel dispregio, con cui credete di mortificarci in tanti passi dell'Opera vostra. Persone, che non credono, perchè non si sono informate, perchè non hanno fatto esame veruno, qual peso di autorità possono avere? Oltre che è legge forse di Psicologia, che la volontà si determini invincibilmente secondo la verità che scuopre l'intendimento? Perchè peccano tanti Cristiani persuasi fermamente dell'esistenza dell'inferno? Non si debbono avere in conto alcuno i pregiudizi, la superbia, i legami civili che stringono più che ogni altro le persone di merito distinte? E di questi stessi personaggi non ne vantò in gran copia la primitiva Chiesa?
Della credulità del popolo si è abbastanza parlato per non dover qui ripetere il già detto. Restano le riflessioni critiche sopra Ireneo e sopra Teofilo.
Ireneo, dice il Middleton, attribuisce altrui il dono delle lingue, dov'egli predicando l'Evangelio nelle Gallie confessa di aver dovuto contrastare colle difficoltà d'un dialetto barbaro. Nel testo si legge, che il Santo si scusa di non iscrivere con Greca eleganza la storia dell'Eresie a motivo di questo barbaro dialetto: frattanto ci si suppone, che ciò accadesse nell' atto di predicar l'Evangelio. La parola Greca poi, alla quale si fa significare contrastare colle difficoltà di un dialetto barbaro realmente significa esercitare, usare, parlare un dialetto barbaro.
Teofilo rigettò la proposizione di rendere ad un morto la vita, per quanto bramoso fosse dalla conversion dell'amico. Il fatto è verissimo, e ne istruisce chiaramente, che gli antichi Vescovi non si avvisavano di poter fare i miracoli a lor piacimento. Ma che se ne vuole inferire? Dunque Ireneo, il quale dice, che questo prodigio non era raro a suo tempo, e ch'egli aveva conversato con persone, alle quali era stata fatta questa grazia, mentisce. Dobbiamo perdere il tempo a confutar questa maniera di argomentare? Dipendente da questo è l'altro esame che siamo ora per fare. Suppone l'Autore, che ogni uomo ragionevole confessi, non farsi più nella Chiesa veri miracoli. La sua perplessità è soltanto nel fissar l'epoca della pretesa sospensione. Fu immediatamente dopo la morte degli Apostoli? Alla conversione di Costantino? All'estinzione dell'Arriana eresia? Tacciamo che la perplessità non può aver luogo in chi ha impugnati i miracoli de' tempi d'Ireneo, e facciamo osservare, che i Cattolici esclusi dal numero degli uomini ragionevoli, perchè insegnano operarsi tuttora, benchè meno frequentemente, e doversi operare veri miracoli sino alla consumazione de' secoli nella Chiesa, lo dimostrano all'Autore co' suoi stessi principj.
Perchè ricuseremo noi la testimonianza di Beda o di Bernardo nell'ottavo o nel decimo secolo, ammettendo quella d'Ireneo nel secondo? Ecco il primo argomento.
Al presente la Chiesa ha degl'Increduli da combattere, degli Eretici da convincere, degli Infedeli da convertire, come ne' secoli andati, di sorte che l'utilità o sia la necessità de' miracoli è sempre la stessa. E questo è il secondo argomento.
La successione della dottrina, de' Santi, de' Martiri e de' miracoli in ogni secolo è così seguita, che non si scorge in quale anello siasi rotta la catena. Dunque essa non si è mai rotta; poichè confrontando l'un secolo coll'altro, la differenza, se vi fosse, dovrebbe essere sensibile. Ecco il terzo argomento.
Verisimilmente l'Autore avrà avuta in mira un'altra conclusione. Ogni uomo ragionevole confessa, che attualmente non accadono veri miracoli: ma quelli degli altri secoli giungendo di mano in mano sino agli Apostoli ed a Gesù Cristo, sono muniti delle stesse prove, e sembrano ugualmente utili; dunque tutti i miracoli sono mere imposture.
Ora ecco il vantaggio che hanno i Cattolici sopra i Protestanti. I primi ammettendo i miracoli presenti difendono senza fatica quelli della primitiva Chiesa, quelli degli Apostoli, quelli di Gesù Cristo, co' quali fanno una catena. I secondi non possono negare i miracoli de' tempi moderni, senza rovesciare gli altri, co' quali sono connessi. Ed il Middleton nella prima Opera dichiarò veramente, che non si poteva contrastare all'odierna Chiesa il vanto de' miracoli, se non prendendo a distruggere quelli de' primi secoli: ma egli non si accorse, che bisognava salire agli Apostoli ed a Gesù Cristo. Noi non ci tratterremo più sopra questo argomento, avendo rispinti i tentativi del nostro Autore; aspetteremo che alcuno de' Protestanti sciolga i nodi, che fa nascere il loro sistema, giacchè i due Apologisti Inglesi non hanno soddisfatto all'aspettazione del Pubblico.
Toccando alla sfuggita i miracoli di Gesù Cristo, l'Autore pretende, che i prodigi, che figuravansi di fare i primi Cristiani, li disponevano ad ammettere colla stessa facilità le maraviglie dell'Evangelio, ch'ei chiama autentiche per nascondere in qualche maniera il veleno. Nella qual satira però non sappiamo, se la stolidezza non superi la malignità; perocchè supponendo i Cristiani illusi riguardo a se stessi, l'inganno non potea provenire se non dall'essere persuasi del divino potere di Gesù Cristo e dell'efficacia delle sue promesse, senza la qual persuasione non si sa comprendere come potevano vantarsi di far miracoli a nome di Cristo. La fede adunque de' propri miracoli si risolveva ne' miracoli di Cristo; non credevano ai miracoli di Cristo per un somigliante potere che attribuivano a se stessi.
I Cristiani confessavano e confessano sorpassare i misteri le forze del loro intelletto; e li credevano e li credono sulla forza de' miracoli, i quali provano averli Iddio rivelati. E questa è necessità di conseguenza, non facilità di credere.
Assuefatti, prosegue l'Autore, ad osservare ed a rispettare l'ordine invariabile della natura, la nostra ragione o almeno la nostra fantasia non è preparata sufficientemente a sostenere l'azione visibile della Divinità, cioè a credere, che Iddio possa o voglia mutare l'ordine naturale: e siccome in ogni tempo l'ordine della natura si è osservato invariabile, in ogni tempo, gli uomini avrebbero dovuto rigettare i miracoli. Ma si è dimostrato contro lo Spinosa non tanto da' Teologi, quanto da' filosofi di tutte le Sette, che l'ordine naturale, invariabile rispetto alle creature, è soggetto al volere del Creatore, il quale per puro suo beneplacito prescrisse alla materia piuttosto queste leggi che altre, come chiaramente si osserva da' Fisici nel moto degli astri, il quale, comunque si concepisca, in niun modo ripugna alla materia. Se Iddio poi abbia o non abbia voluto alcune volte sospendere le leggi della natura, ella è una questione di fatto, circa la quale il Signor David Hume pubblicò qualche sofisma, che non potè oscurare la luce di questa semplicissima verità, che i fatti si provano per via di testimonianze.
La fede dei Cristiani vien qui derisa come credulità: e si riflette che questo era il principale e forse l'unico merito, che si richiedeva dal Cristiano. S. Paolo al contrario diceva ai Fedeli: sia ragionevole l'ossequio della vostra fede; ed altrove s'inculca, che si provi rigorosamente lo spirito. La fede, che tanto si esaltava, era l'operazione della Grazia sull'intelletto: questa è una delle virtù teologali, e non la principale; giacchè la Scrittura dà la preminenza alla carità: major harum charitas; ed insegna, che la fede senza l'opere è morta.
Nè solamente secondo i Dottori rigorosi, ma ancora secondo il dogma della Chiesa universale, le opere degl'Infedeli, le quali possono esser buone quanto alla pura sostanza, non conducono alla giustificazione. E quando si ponga mente, che il fine della beatitudine è sovrannaturale, si cesserà di maravigliarsi, come opere fatte colle pure forze della natura non vi abbiano rapporto.
Abbiamo fatta un'ampia e diretta apologia della verità de' miracoli, quando ci aspettavamo di sentire, come i falsi miracoli giovavano naturalmente a convertire gl'Infedeli.
Quarta Conclusione che dee provare l'Autore. Le virtù dei primi Cristiani furono una delle cagioni naturali dello stabilimento e de' progressi del Cristianesimo. Ristretto. I primi Apologisti rappresentano co' più vivi colori la riforma de' costumi, che s'introdusse nel mondo mediante la predicazione del Vangelo. Perchè mio disegno è di notar solamente quelle cagioni umane che furono scelte per secondar l'efficacia della Rivelazione, ne esporrò due, che naturalmente rendettero la vita dei primitivi Cristiani più pura ed austera di quella de' Pagani loro contemporanei: una era il pentimento delle lor colpe passate; l'altra il desiderio di sostener la riputazione della società. Furono i Cristiani accusati di attirare al loro partito i delinquenti più scellerati, che si persuadevano di lavare nell'acque del battesimo le colpe passate, per le quali dai tempj degli Dei ricusavasi loro qualunque espiazione. Quelli, che nel mondo avevan seguitato, sebbene imperfettamente, i dettami della benevolenza e del decoro, traevano dall'opinione della propria rettitudine una sì tranquilla soddisfazione, che li rendeva molto men suscettibili di que' subiti movimenti di vergogna, di cordoglio e di terrore, che avevan fatto nascere tante maravigliose conversioni. La brama della perfezione diveniva la passion dominante di quelli a dispetto della ragione, che si contiene dentro i limiti d'una fredda mediocrità. Ogni società particolare, che si è staccata dal corpo d'una nazione, divien subito oggetto d'universale ed invidiosa attenzione, e però ogni membro si trovava impegnato ad invigilare colla maggior premura sulla propria condotta e su quella de' suoi fratelli. Comecchè per la massima parte si esercitavano in qualche negozio o professione, vi attendevano colla massima integrità e col più onesto contegno. Il disprezzo del mondo e la persecuzione gli abituavano negli esercizi di umiltà, di mansuetudine e di pazienza. I Vescovi ed i Dottori d'allora spesso prendevano nel senso il più letterale que' rigidi precetti di Cristo e degli Apostoli, che i moderni comentatori hanno spiegato con libera e figurata maniera come consigli. Una dottrina così sublime doveva rendersi venerabile al popolo: ma era mal adattata per ottener l'approvazione di que' mondani filosofi, che nella condotta di questa vita passeggiera consultano i sentimenti della natura, e l'interesse della società. I principj della natura sono l'amor del piacere e quello d'agire, che rivolti in buon uso formano la privata e la pubblica felicità. Ma i primitivi Cristiani non bramavano di rendersi o piacevoli o utili in questo mondo. Eglino credevano illecito ogni piacere, i comodi, gli ornamenti, il lusso. Credevano che se Adamo si fosse conservato innocente, avrebbe propagata la specie umana in altro modo; che il matrimonio dee riguardarsi come uno stato d'imperfezione e di perfezione il celibato. Le vergini d'Affrica però permettevano a' Preti ed a' Diaconi d'aver luogo nei loro letti, e la natura insultata vendicava i propri diritti. Non erano i Cristiani meno alieni dagli affari che dai piaceri. Non sapevano come conciliar la difesa delle proprie persone e sostanze colla dottrina dell'illimitata tolleranza: offendevansi dall'uso de' giuramenti, e credevano illecita, la guerra.
Risposta. La maggior parte del presente articolo è impiegata a combattere la morale Cristiana co' vecchi sofismi, vestiti di brillanti espressioni, e nelle due prime ricerche si cambia la questione; poichè si prendono ad indagare le cagioni umane, per cui i primi Cristiani menavano vita più pura ed austera de' Pagani loro contemporanei: onde questa è la quarta volta, che l'Autore perde di vista il tema del suo ragionare. Come la morale Cristiana potè naturalmente operare tante conversioni, dal nostro Autore mai nol sapremo.
Anzi perchè è una specie di fatalità la sua, che distrugga con una mano quello, che si sforza di edificare coll'altra, s'impegna a provare, essere la morale Cristiana contraria alla natura ed all'interesse della società. Con tale asserzione come può conciliarsi, che questa stessa morale muovesse naturalmente i Gentili ad abbracciarla?
Ella non è contraria alla natura: noi lo vedremo, ma ella è contraria alle prave inclinazioni della natura corrotta: ella esige dalle passioni una perpetua ubbidienza alla ragione: ella prescrive che tutte le azioni si riferiscano a Dio: ella reputa beati quelli che piangono, quelli che sono perseguitati, gli umili, i poveri di spirito, ella ordina non pure il perdono, ma la dilezione ancora de' nemici. Questo sistema doveva sgomentar gl'Idolatri, la morale de' quali, consecrata dalla Religione, non vietava se non i delitti, che riguardano la sicurezza del pubblico; e quanto al piacere dei sensi accordava una libertà illimitata. Come poteva in così breve spazio di tempo farsi una grande rivoluzione ne' pregiudizi della mente e della disposizione abituale della volontà? Si stenta tanto a convertire un peccatore invecchiato nel Cristianesimo stesso, dove il culto, le prediche, l'esempio altrui operano incessantemente sul cuore: e dobbiamo figurarsi tanta facilità ne' Gentili, che in premio di tal cambiamento avevano innanzi i tormenti e la morte intimata dalle leggi, che avevano proscritta questa morale? È ciò conforme all'ordine della natura? I nostri Apologisti additando con istupore le numerose conversioni operate dalla predicazione dell'Evangelio, esclamano, questo essere un effetto sensibile della Grazia divina, che sola può superare i grandi ostacoli, che nella mente e nel cuore doveva incontrare; ed il nostro Autore vuole, che crediamo sulla sua parola, che la qualità stessa di questa morale produceva naturalmente quegli effetti, che ci fanno stupire; ma noi non cangeremo sentimento, fino a quando egli non avrà messa mano alle prove.
La prima questione, ch'egli tratta, è di spiegare, perchè i Cristiani, cioè gl'Idolatri già per altre vie convertiti, menavano vita più pura ed austera di quelli che restavano nell'Idolatria? Dichiara di spiegarlo con due cagioni umane, e poi ne assegna cinque. Il pentimento de' falli passati: il desiderio di sostenere la riputazione della società: l'interesse temporale: il disprezzo del mondo: la persecuzione.
Il pentimento de' falli passati. Erano nel sistema dell'Idolatria peccati inespiabili? Per appoggiare novità così singolare l'Autore non cita monumenti. Ma supposto, che i più grandi scellerati volessero purificarsi coll'acque battesimali, potevano riconoscere una virtù in questo sacramento senza riconoscere insieme la verità del Cristianesimo? Ed in questo caso non pure i gran peccatori, ma anche coloro, che vivevano con qualche onestà, dovevano farsi un dovere d'entrar nella via della salute; poichè una rettitudine naturale non può tener tranquillo chi crede alle minacce della Rivelazione: qui non crediderit, condemnabitur.
La conversione de' maggiori scellerati, che poi divennero i Santi più grandi, certamente fa onore alla Chiesa. Ma l'Autore, che vuol tutto avvelenare, soggiunge che a questi soli, e specialmente alle femmine di malvagio costume, i Missionari Evangelici si rivolgessero. Non possiamo meglio ribattere la calunnia, che invitandolo a scorrere gli Atti degli Apostoli, dove troverà, ed in gran numero venuti alla fede, Sacerdoti, Scribi, Farisei, Capi di Sinagoga tra Giudei, e tra Gentili, ministri di Regine, Governatori di Province, Centurioni, donne nobili e persone di lettere.
Il desiderio di sostenere la riputazione della società sarebbe stato di qualche stimolo, se i Pagani non si fossero trovati universalmente prevenuti, che nella società Cristiana si commettevano i più detestabili eccessi. Chi vi si ascriveva, dovea piuttosto resistere all'infamia, di che si copriva. Solo si può concedere, che dovevano impegnarsi a distruggere tali calunnie coll'esemplarità del vivere.
L' interesse fa custodire la buona fede e l' integrità in coloro, che fanno la professione di negozianti, o esercitano qualche mestiere. Ma qui l'Autore ci dipinge i Cristiani come morti a tutti gli affari del mondo; e prima ci aveva detto, che si astenevano da' mestieri, che quasi tutti alludevano ai riti Idolatrici.
Il disprezzo del mondo segue appunto per distruggere l' interesse. Quest'era una delle virtù ch'esercitavano, non una delle cagioni, per cui esercitavano la virtù.
La persecuzione fu posta in opera dagl'Imperadori come mezzo efficace a sgomentar l'animo: come partorisse naturalmente l'effetto contrario, l'Autore doveva spiegarlo. Ma della prima questione si è detto abbastanza; passiamo alla seconda.
La morale Cristiana è tacciata come eccessiva, fanatica, contraria ai principj della natura ed all'interesse dello Stato, riprovata da' filosofi, condannata dalla ragione, che ama la fredda mediocrità. E per questo noi abbiamo soggiunto, che era fuori dell'ordine naturale, che fosse così prontamente abbracciata. Ma non si parli più di questo. Diteci, quali sono i veri principj della natura, che formano la privata e la pubblica felicità. L' amor del piacere è il primo, l'amor dell'azione il secondo. L'uno e l'altro restano per sentimento dell'Autore degradati dalla morale Evangelica. A rettamente giudicarne, convien prima sviluppar i principj, e determinarne la generalità, colla quale a lui piace sempre di parlare al lettore.
L' amor del piacere. Vi ha un piacere intellettuale, ed un altro di senso, perchè l'uomo è composto di corpo e di spirito. Questo naturalmente è più nobile di quello; e seguendo le facili tracce della ragione, l'ultimo fine, per cui fu l'uomo creato, è un bene spirituale, non corporeo. Quindi altro non essendo i precetti morali che tanti mezzi naturalmente proporzionati all'indole del fine, segue per legittima illazione, che l'amor del piacere sensibile dee stare immutabilmente subordinato all'amore del piacere intellettuale, e che prende la forma di mal morale ogni qual volta viola questa subordinazione; poichè allora non riferendosi più l'azione al suo fine, esce dall'ordine.
Ciò premesso il solo riguardo della salute e della temperanza, e non so quale depuramento d'arte nei piaceri di senso formano il ben fisico, al quale attendono pure i bruti; il bene morale risulta da' principj dell'animo, non da' vantaggi del corpo: ed appena questo linguaggio sarebbe perdonabile ad un Materialista.
Nel confrontar poi con questo principio la morale Evangelica, l'Autore vuol dare ad intendere, che tutti i detti di Gesù Cristo abbiano forza di precetto, e che l'idea de' consigli fosse impiegata tardi per dare soddisfazione alla filosofia. Quante volte è stato prodotto contro gli oppositori il passo decisivo dell'Evangelio: se vuoi salvarti, osserva i precetti: se vuoi esser perfetto, vendi quanto possiedi, e segui me.
Ha egli in seguito raccolte alcune forti espressioni de' Santi Padri, i quali secondo lo stile concionatorio dimandano il più, affine di ottenere il meno, ed ha detto con intrepidezza: ecco, o Cristiani, la vostra morale: frattanto i Cristiani non trovano il peccato nelle cose appartenenti a' comodi ed a' piaceri de' sensi; se non quando esse turbano l'esercizio delle facoltà spirituali, e distolgono l'animo dalla sua naturale tendenza all'ultimo fine.
Che Adamo avrebbe generato senza concupiscenza, se si fosse conservato innocente è opinione privata; più comunemente s'insegna, che la via della generazione sarebbe stata sempre la stessa; ma che la concupiscenza non si sarebbe mai ribellata dalla ragione.
Le parole crescite et multiplicamini, e quelle di Gesù Cristo, che alludono all'istituzione del Sacramento del matrimonio, non palesano la perplessità d'un legislatore che permette ciò che non vorrebbe. Nè noi dobbiamo inquietarci colle questioni che fanno i Casisti a questo proposito, bastando alla condotta il sapere, che il matrimonio è lecito, e che fu inoltre elevato alla dignità di Sacramento.
Non possiamo negare, che secondo la Scrittura e la Tradizione il celibato sia più perfetto del matrimonio; ed a considerarne soltanto i vantaggi esterni, avremmo pure il suffragio della filosofia. L'Autore però non può ignorare, che questo non è un precetto se non ecclesiastico, e semplicemente per coloro, che vogliono portare il giogo, e che quanto all'interesse dello Stato nel Cristianesimo si prende per regola il bisogno del Pubblico più che la perfezione de' particolari.
L'uso delle Vergini Affricane di dividere il letto coi Diaconi e co' Preti, che S. Cipriano tentò di estirpare, ripeteva l'origine dalla dottrina del matrimonio, per la cui validità s'insegnava, che bastasse la congiunzione degli animi senza il commercio de' corpi. Con il Mosemio; il quale conviene cogli antichi Storici che sottoposte le Vergini alle prove più rigorose ritrovarono intatte; sicchè non sappiamo, perchè il nostro Autore copiando l'erudizione dal Mosemio abbia aggiunto contro di lui, che la natura insultata vendicò i suoi dritti. Questo non è uno de' difetti che egli scopre con pena, costretto dalla legge dell'imparzialità. E Dio volesse, che fosse il solo! Ma facciamo parola del secondo principio della natura.
L' amor dell'azione. A parlar con rigore l' azione non si ama per se stessa, ma come mezzo che conduce ad un fine. Noi riconosciamo volentieri, che l'operare in pace per far fiorire il buon ordine, e per procurare il ben essere de' nostri simili, come anche l'operare in guerra giusta per proteggere la pace, è conforme all'intenzione del Creatore, purchè si depuri dalla corruzione, che vi sogliono spargere l'ambizione, la cupidigia e l'ira; passioni che sempre campeggiano nella Storia Greca e Romana, ed oscurano quella scarsa porzione di bene, che l'attività di quelle genti produsse. Intorno alla qual cosa non temiamo di asserire, che il Cristianesimo non solo non distrugge questo amore d'azione necessario alla sicurezza ed alla prosperità dello Stato, ma inoltre lo fortifica e lo perfeziona.
Non lo distrugge, perchè non vieta la giusta difesa di se stesso, avendone lasciato un illustre esempio S. Paolo, il quale non si fece illecito di sostener la sua causa innanzi a' legittimi tribunali, e di appellarsi in ultimo grado a quello di Cesare. Si vieta l'odio, il rancore, lo spirito della vendetta, e lo vieta ancora la legge di natura.
Non lo distrugge, perchè nella dottrina della Chiesa non si è mai reputata illecita la guerra, come evidentemente lo provano i passi verbali del nuovo Testamento raccolti a bella posta dal Grozio; e come lo conferma il fatto medesimo, che ne addita le armate Romane non mai scarse di soldati e di ufficiali Cristiani. Origene, ed alcuni altri pochi Dottori seguirono l'opinione contraria.
Non lo distrugge, perchè lo spirito del Cristianesimo non si offende dall'uso de' giuramenti, ma dal giurare per le false Divinità e per la Fortuna dell'Imperatore, ch'era una di quelle.
Non lo distrugge finalmente, perchè i Cristiani, anzichè abborrire del tutto gli affari civili, s'impegnavano con prontezza negli uffizj loro destinati dagli Imperadori; e si sa, che non pure l'esercito, ma eziandio il palazzo di Diocleziano abbondava più di ministri Cristiani che di uffiziali Gentili.
Anzi lo fortifica; primo, perchè tanto nel Principe quanto ne' sudditi ci fa rispettare l'immagine di Dio; secondo perchè all'obbligazione esterna aggiunge l'interna; e terzo perchè propone un premio ed una pena nella vita avvenire, a cui niuna cosa del tempo può paragonarsi; e sostituendo il principio purissimo della carità a quello dell'amor proprio perfeziona il sistema della natura.
Gli antichi Cristiani non andavano a conquistare, portando la strage e la desolazione nelle città e nelle campagne; non celebravano la letizia de' trionfi con trarre incatenati al cocchio Sovrani, che non avevano altro delitto, fuorchè quello di aver difesa la propria libertà; non eccitavano popolari sedizioni per mettere in ischiavitù la Repubblica. Ma i Cristiani facevano immensi viaggi, e combattevano colle tempeste del mare, coi disastri della terra, colla fame, colla sete, per far fiorire in ogni angolo della terra l'amor di Dio e del prossimo. I Cristiani si affannavano a raccoglier limosine per distribuirle a' poveri; a visitare i pupilli; a consolare le vedove; ad estirpare gli odj e l'emulazioni; a bandire gli omicidj e gli adulterj. I Cristiani finalmente davano ricovero ai servi cacciati da' proprj padroni, e liberavano da una morte penosa i bambini esposti secondo il permesso delle leggi dalla crudeltà de' genitori, e li nutrivano, e li educavano per restituirli allo Stato. No, i Cristiani in tutto ciò non bramavano di piacere al mondo; ma vi voleva tutta l'intrepidezza del nostro Autore a soggiungere, che non erano utili al mondo. Egli ha provato questa accusa, come ha dimostrato, che la morale Cristiana fu la quarta cagione naturale dello stabilimento e de' progressi del Cristianesimo.
Quinta Conclusione che dee provare l'Autore. L'unione e la disciplina della Cristiana Repubblica fu una delle cagioni dello stabilimento e de' progressi del Cristianesimo.
Ristretto. I primitivi Cristiani morti agli affari ed a' piaceri del mondo trovarono un'occupazione nel governo della Chiesa. Una società, che attaccava la religion dominante dell'Impero dovè adottare una forma di governo particolare. Gli Apostoli non ne istituirono alcuna: le prime Chiese furono libere ed indipendenti; e sino a certo tempo il governo fu in mano de Profeti; per l'abuso de' quali furono in seguito le pubbliche funzioni della religione affidate ai Vescovi ed ai Preti; nomi che nella loro origine, sembra che indicassero lo stesso ministero ed ordine di persone. Eglino a principio governarono collegialmente: poscia fu stabilito un Presidente in ogni Collegio, come Ministro di tutto il Corpo. Questi in progresso divenne superiore per usurpazione. Verso la fine del secondo secolo le Chiese della Grecia e dell'Asia introdussero i Concilj ad imitazione delle città Greche, i quali comunicandosi gli atti con una corrispondenza reciproca venne così la Chiesa Cattolica a prender la forma, e ad acquistare la forza d'una repubblica federativa. Il Clero molte volte si oppose all'usurpazioni de' Vescovi, e fu accusato di fazione e di scisma; e la causa Episcopale dovette i suoi rapidi progressi agli ambiziosi artifizi di Cipriano e di pochi altri Prelati a lui simili. Le cagioni, che distrussero l'eguaglianza de' Sacerdoti, fecero nascere tra' Vescovi una preminenza di grado, ed indi una superiorità di giurisdizione. Quest'è l'origine de' Metropolitani ed il fondamento dell'autorità de' Papi. Ogni società ha diritto di escludere dalla sua comunione quelli che la ledono: la Chiesa Cristiana esercitava questo diritto contro gli ostinati, ed ammetteva i ravveduti alla penitenza pubblica. S. Cipriano riguardava la dottrina della scomunica e della penitenza come la più essenziale parte della Religione.
Risposta. Il governo, di cui tratta l'Autore sotto il titolo di disciplina, risguarda il regolamento interno della società Cristiana; onde se ne può spiegare la conservazione, non ha veruna relazione alle conversioni de' Gentili: nè egli ha pur tentato di dargli questo aspetto; e così lasciando intatto l'argomento, per la quinta volta si perde a fare un trattato di diritto canonico.
Ma neppure spiega così la conservazione della Chiesa. Dalla forma del governo egli deduce l' unione di tutti i Fedeli, e pretende che i Concilj dessero alla Chiesa la forza di una Repubblica federativa. Ora la sua stessa esposizione contiene gli argomenti che la distruggono.
Primo, egli è di avviso, che il governo fu sempre vario, finchè si stabilì l'autorità Episcopale, e che i Concilj furono introdotti ad esempio delle città Greche, verso la fine del secondo secolo: per la qual cosa se la Chiesa acquistò la forza d'una grande Repubblica federativa per l'istituzione de' Concilj, non se ne spiega la conservazione per tutto il tempo anteriore, in cui l'incostanza del governo, che prendeva, ora una, ora un'altra forma, non poteva darne alcuna stabilita.
Secondo, nella sua supposizione cominciarono i Cherici ad usurparsi la giurisdizione del popolo, e ad opprimerne la libertà e l'indipendenza; in seguito i Vescovi sottomisero i Sacerdoti: poscia s'introdusse una subordinazione tra' Vescovi, e finalmente il Romano Pontefice tirò a se tutta l'autorità. Il popolo fu in dissensione co' Cherici, i Cherici co' Vescovi, ed i Vescovi contrastaron fra loro e col Romano Pontefice. Questa tela di governo è ordita secondo la sua fantasia, non secondo la verità della storia: le dissensioni bensì son troppo vere; anzi egli non ne ha toccata che una parte sola; ed a noi non piace di scuoprire le piaghe dell'umanità, che lascia per tutto le funeste tracce della sua debolezza. Ci basta il sin qui detto a conchiudere, che se realmente invece della decantata unione, regnò nell'ovile di Cristo la dissensione, mal se ne prende a spiegare la conservazione dalla forma di governo, che ne fornì l'occasione.
Ragioniamo adesso sul diritto Canonico che l'Autore ci propone, e riflettiamo essere suo avviso, che qualunque forma di governo, che prendesse successivamente la Chiesa, fu d'istituzione puramente umana; o d'istituzione umana ancora i Concilj e le Censure. Noi lo neghiamo e speriamo di convincerlo ad evidenza, che il governo ecclesiastico fu istituito da Gesù Cristo, come pure i Concilj ed il diritto della scomunica; e che l'istituzione divina, anzichè soffrire alcun cangiamento, si osservò e si osserva tuttora inalterabilmente la stessa.
La società Cristiana, dic'egli, nemica della religion dell'Impero, dovè pensare ad una forma di governo particolare. Che i Cristiani fossero nemici dell'Idolatria, senz'esserlo dell'Impero, a cui ciecamente sempre si sottomisero, è cosa per loro gloriosa. Ma non si tratta ora di questo; si tratta di consultare i libri autentici della vita di Gesù Cristo, per vedere se vi lasciò istituito un governo, e di mostrar così quanto deviino dalla verità le congetture del nostro Autore.
Ivi si scorge, che Gesù Cristo ai soli Apostoli diede la facoltà di legare e di sciogliere; che a loro soli assegnò dodici troni per giudicare le dodici tribù; che a loro soli confidò il diritto di pascere le sue pecorelle. Infatti ebbe egli inoltre settantadue discepoli, ai quali non conferì se non una missione a certo tempo limitata, e ben si vede che non gli fece partecipi dei privilegi compartiti agli Apostoli. E perchè alla Chiesa aveva promessa la perpetuità, nè si può concepire una società permanente senza una forma di governo, chiara cosa è, che l'autorità conferita agli Apostoli doveva secondo l'intenzione divina trasfondersi ne' successori. Ma diremo che ogni Fedele succede agli Apostoli? In tal guisa tutti sarebbero Giudici, tutti Dottori, tutti Pastori, cioè nessuno Giudice, nessuno Dottore, nessuno Pastore, essendo questi termini relativi, che portano seco l'idea d'una subordinazione. Per non attribuire a Cristo un assurdo sì strano, uopo è dire che alle facoltà degli Apostoli succedono alcuni dei Fedeli, non tutti i Fedeli: e così il più leggiero ragionamento, che si faccia sopra i passi della Scrittura, purchè non si abbia impegno di difendere il sistema del partito, atterra irreparabilmente la democrazia, e stabilisce l'aristocrazia nella forma del governo delineata dal Legislatore Divino.
Resta ad investigare, se l'aristocrazia consista nel corpo del Clero, oppure in quello de' Vescovi; ch'è lo stesso che cercare se i Vescovi sono superiori del Clero, per istituzione Divina, o semplici amministratori di un'autorità che risegga propriamente nel collegio Sacerdotale. Nella Scrittura vi ha un passo decisivo, nel quale si dice a' Vescovi, che gli ha posti sopra le Chiese lo Spirito Santo.
Qui però nasce una difficoltà dalla confusione dei nomi. Il titolo di Vescovo e di Prete si dava alla stessa persona; quello a dinotarne l'uffizio, questo a ragionare dell'anzianità. Dunque come faremo risaltare la superiorità de' Vescovi, prendendo questa denominazione nel senso comune?
Nell'Apocalisse i Capi della Chiesa vengono distinti col nome di Angeli, cioè d'inviati, e si attribuisce loro il diritto di governare con formole ch'escludono ogni altro. Nell'epistole di S. Ignazio, Discepolo degli Apostoli, nulla s'inculca più frequentemente ed ai Laici ed ai Cherici, quanto la perfetta subordinazione al proprio Vescovo. Ci è noto che i Presbiteriani rigettano l'uno e l'altro libro, per non poterli conciliare col proprio sistema: ma in questo stesso mostrano apertamente il lor torto; giacchè per sostenere un assurdo, si gettano in un assurdo più grande. A principio non vi furono che gli Apostoli ed i Preti, cioè i Vescovi: se non che crescendo di giorno in giorno le spirituali conquiste della Chiesa, furono chiamati i semplici Sacerdoti ed i Diaconi in sussidio de' Vescovi, ma come sudditi, non come eguali.
Il piano instituito da Cristo, e posto in esecuzione dagli Apostoli mai non soffrì nella sua essenza alterazione veruna. Imperciocchè i Profeti, che illustrarono la Chiesa nascente co' loro doni sovrannaturali, se venivano consultati nelle occorrenze, non esercitarono mai alcun atto di giurisdizione, come asserisce l'Autore, il quale è caduto nell'inganno degli altri, che vedendo ne' libri del nuovo Testamento qualche Profeta far le funzioni Episcopali, perchè oltre di esser Profeta era Vescovo, hanno attribuito al primo carattere ciò che non conviene se non al secondo.
Il Vescovo ed il Clero non di rado erano fra loro in contesa: ma non si dee dire perciò, che il nome di fazione e di scisma fu dato al patriottismo de' Preti ad oggetto di far prevalere la causa Episcopale. Questo giudizio dee risultare dalla natura de' fatti particolari. Se i Preti pretendevano di agguagliarsi al Vescovo e di considerarlo come un loro deputato, erano veramente Scismatici. Se il Vescovo spogliava il Clero de' suoi diritti legittimi, il torto era di lui, non de' Preti.
Molto meno l'Autore dee farsi lecito di tacciar di ambizione e di artifizio il Santo Martire Cipriano difensore de' diritti incontrastabili dell'Episcopato e della disciplina della Chiesa, per sottrarre un Prete bacchettone, ed un Diacono discolo alla condanna pronunziata da un Concilio di Preti, ed approvata dal consenso di tutti i secoli. Gli rincresce di non poter entrare nella discussione de' fatti spettanti al famoso scisma di Novato e di Novaziano, per far trionfare l'innocenza e la virtù sopra l'ostinazione di volere offuscare la gloria de' Santi più eminenti della Chiesa contro le leggi della Critica. L'avversario per altro non ha fatto che semplicemente citare.
La subordinazione de' Vescovi ai Metropolitani è di istituzione umana, ma non porta seco alcuna distinzione quanto alla sostanza della dignità, del carattere e de' diritti annessivi da Cristo. Il primato poi del Romano Pontefice si fonda chiaramente ne' testi verbali della Scrittura. Tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam.
Divina parimente è l' istituzione de' Concilj, circa la quale la Scrittura non solo somministra testimonianze incontrastabili, ma anche fatti decisivi; atteso che il congresso tenuto dagli Apostoli e da' Seniori, o sia dai Vescovi in Gerusalemme sulla disputa de' riti Mosaici fu vero Concilio e modello di tutti gli altri; checchè ne dica il Mosemio coll'ingegnosa, ma insufficiente congettura dell'esempio delle città Greche appoggiata a Tertulliano. I Giudei celebravano de' Concilj; ed il Cristianesimo uscì dalla Palestina. Può però ben essere, che fosse tolto da' Greci l'uso di celebrarli due volte l'anno, nella primavera e nell'autunno.
Finalmente egli è vero, che ogni società ha diritto naturalmente di escludere dalla sua comunione chi ne viola le leggi, ma è ugualmente vero che il diritto della Chiesa è d'origine divina, contenuto in quelle parole: si Ecclesiam non audiverit, sit tibi tanquam ethnicus et publicanus, ed in quell'altre: quodcumque ligaveritis erit et ligatum in coelis.
S. Cipriano fu rigido sostenitore della disciplina; considerò la penitenza e la scomunica come i ripari esterni della Religione, non come l'essenziale della Religione. L'Autore lo calunnia, abusando delle di lui epistole, alle quali rimandiamo per brevità il nostro lettore per disingannarsi.
Sesta Conclusione che dee provare l'Autore. La debolezza del Politeismo favorì i progressi del Cristianesimo.
Ristretto. Il Politeismo non era sostenuto da' Sacerdoti, i quali avessero un particolar interesse nel culto degl'idoli, e non avevano fra loro legame alcuno di governo.
Risposta. Avendo l'Autore parlato delle cagioni contenute nel Cristianesimo, ora ne reca in mezzo altre tre consistenti nella disposizione del Gentilesimo; e qui non possiamo rimproverargli, che ponga in dimenticanza ciò che doveva provare; diremo bensì, che queste tre cagioni non hanno forza di provare, se non che il Cristianesimo in esse incontrò tre validissimi ostacoli.
I Sacerdoti dell'Autore sono quali a lui piace di fingerli: ma i Sacerdoti della storia traevano dal culto degl'idoli grandi emolumenti, grandi onori, gran potenza. Essi avevano un collegio, ch'esercitava una giudicatura. Cicerone perorò per la sua casa dinanzi ai Pontefici, e ne parla col più gran rispetto. Gli Autori, gli Aruspici intervenivano in tutti i negozi pubblici sì di pace come di guerra con autorità quasi assoluta; e riferendosi tutte le azioni private all'idolatria, i Ministri della medesima avevano un'influenza generale nelle private famiglie, tanto che gl'Imperatori non credettero di regnare, se non quando al poter del Monarca aggiunsero i diritti del Sommo Pontefice.
Come può rendersi credibile, che i Sacerdoti guardassero con indifferenza le sconfitte del Politeismo, sul quale si fondava tutta la loro fortuna, e la perdonassero a' Cristiani, i quali rendevano palesi alla plebe le loro imposture? Il fatto è, che furono eglino i principali autori della persecuzione, e ch'eglino la tennero perpetuamente accesa, anche quando i Principi si mostravano avversi allo spargimento del sangue: eglino irritavano la superstizione del popolo, eglino infiammavano l'ira de' Ministri; eglino facevano scrivere da' filosofi atrocissime satire. L'Autore che fa la storia delle persecuzioni, poteva ignorar questo fatto?
Settima Conclusione che dee provare l'Autore. Lo Scetticismo del Mondo Pagano favorì i progressi del Cristianesimo.
Ristretto. Allorchè apparve il Cristianesimo nel mondo, lo Scetticismo di Cicerone e di Luciano si era dilatato in tutti gli ordini delle persone: in tale stato il popolo era disposto a ricevere un altro sistema di mitologia più conforme al gusto del secolo; ed il Cristianesimo si mostrò ornato di tutto ciò, che poteva attrarre la curiosità, lo stupore e la riverenza del popolo.
Risposta. L'Autore fa astrazioni; e la storia ne insegna, che per tre secoli il popolo perseguitò con tanto furore i Cristiani, che li chiedeva a morte nella solennità delle feste con sediziosi clamori: ne insegna, che i Principi furono costretti a dichiarare colle leggi loro, che i clamori della plebe non sarebbero più ricevuti come prova legittima; ne insegna, che la sfrenatezza ed il gran numero degli accusatori non poterono reprimersi se non rivolgendo contro di essi le pene intimate ai Cristiani, supposto che non ne avessero provata la reità: e tutto ciò si legge nel capo seguente del sig. Gibbon.
Lo Scetticismo, che è uno sforzo di spirito ed uno stato di violenta sospensione, non prende radice nel popolo minuto, di cui la credulità è il difetto ordinario.
Del resto il nostro Autore ha dichiarato in che consiste lo Scetticismo da lui trovato nel mondo Pagano. Si parlava della vita avvenire, come una favola, e si era scosso il giogo della mitologia, che spacciava tante maraviglie. Frattanto ecco, ci si dice, una disposizion favorevole a credere ed a ricevere le maraviglie dell'Evangelio, cioè una mitologia più conforme al gusto del secolo: ecco il Cristianesimo ornato di tutto ciò che potava attrarre la curiosità, lo stupore, e la riverenza dagli Scettici.
Ottava Conclusione che dee provare l'Autore. La pace e l'unione dell'Impero Romano favorì i progressi del Cristianesimo.
Ristretto. Gli Ebrei della Palestina riceveron sì freddamente i miracoli di Cristo, che stimarono superfluo di pubblicare o almeno di conservare alcun Evangelio Ebraico. Le storie autentiche della vita di lui furono composte ad una distanza considerabile da Gerusalemme, a dopo che il numero de' Cristiani convertiti si era estremamente moltiplicato. Tradotte in Latino divennero perfettamente intelligibili a tutti i sudditi di Roma. L'essere tutte le nazioni sotto un solo Monarca, e le grandi strade costruite per le legioni aprivano ai Missionari dell'Evangelio un facile passaggio per tutto; e non incontrarono essi alcuno degli ostacoli che sogliono impedire l'introduzione di una Religione straniera in lontani paesi.
Risposta. È leggiadrissima l'immagine de' Missionari Evangelici, che marciano comodamente a bandiere spiegate ed a tamburro battente per le grandi strade costruite per le legioni Romane. Noi grossolani stupiamo su i progressi del Cristianesimo: vi ha chi c'illumina: essi sono dovuti alle grandi strade delle legioni. Ben è vero, che gli Apostoli viaggiando a due a due, e non portando seco neque sacculum, neque peram, non avevano bisogno delle grandi strade; ed è perciò che S. Paolo dipinge pateticamente i disastri ed i pericoli de' suoi viaggi. Ma che importa? Colpa loro, che non ne profittassero; le strade consolari aprivano per tutto adito facile all'Evangelio. Ci resta un sol dubbio: le leggi ed i Ministri Imperiali, che perseguitavano i Missionari Evangelici, non potevano con eguale facilità penetrar da per tutto per le grandi strade costruite per le legioni.
L' università del linguaggio, se fosse stata vera, avrebbe potuto nuocere alla dilatazione dell'Evangelio, quanto gli avrebbe potuto giovare.
Similmente l' unione delle Province sotto un solo Monarca, se da una parte contribuiva ai progressi della Religione, dall'altra rendeva più facile e spedita l'esecuzione degli ordini imperiali contro la medesima. Abbiamo tuttora presente la viva pittura fatta altrove dal pennello dell'Autore per esprimere l'orribile situazione di chi aveva incontrato la disgrazia del Principe: tutto l'Impero per quello sventurato era una carcere.
Conchiude l'Autore, che il Cristianesimo in mezzo a tanti comodi non incontrò alcuno degli ostacoli che sogliono impedire l'introduzione di una Religione straniera. Passiamo sotto silenzio i pregiudizi di ciascun popolo, la gelosia de' Sacerdoti, l'invidia de' Filosofi, la corruzione universale, e domandiamo se le leggi proibitive degl'Imperadori non formavano un ostacolo degno di considerazione.
Giacchè le digressioni ci perseguitano sino alla fine, invitiamo l'Autore ad aprire il Talmud, nel qual libro i Giudei, che si suppongono indifferenti ai luminosi prodigi di Cristo, ne depositarono la memoria in due articoli, l'uno de' quali è ben lungo. Il Talmud fu in vero composto assai tardi; ma gli Autori avrebbero prestato così gran vantaggio ai Cristiani, se avessero potuto sopprimere la tradizione della nazione?
I Giudei, che vennero alla fede, oltre l'Evangelio di S. Matteo, che tutte le ragioni provano essere stato scritto in Ebraico, ne avevano un altro intitolato secondo gli Ebrei, e che nei primi secoli della Chiesa fu avuto universalmente in venerazione.
Per quanto lontana da Gerusalemme e dal tempo di Gesù Cristo si finga la data de' quattro Evangelj, sono certe due cose: primo, che queste opere furono scritte dagli stessi testimoni de' fatti: secondo, che furono trovate conformi a quanto a viva voce avevano pubblicato gli Apostoli; poichè in caso diverso o non sarebbero state ricevute, o si sarebbe mutata la stabilita credenza: questa ragione prova, che saremmo sicuri della veracità degli Evangelj, quando pure volessimo accordare contro la certezza istorica, che furono composti in tempi assai bassi da persone, che li divolgarono per opere de' Discepoli di Cristo.
Veduta istorica de' progressi del Cristianesimo.
Essendosi immaginato l'Autore di aver provato, che il Cristianesimo fu debitore del suo stabilimento e dei suoi progressi a cagioni puramente naturali, ne fa ora un quadro, com'egli dice, istorico, ma realmente favoloso, e col disegno di confermare il suo intento. Imperciocchè falsificando la testimonianza del Grisostomo, ed abusando di un passo di Origene e d'un altro di Eusebio fa un calcolo ideale del numero dei Cristiani di un sol luogo, e poi come pur suole, ne deduce illazioni generali. Scende appresso a criticare gli antichi Scrittori sì Gentili che Cristiani, i quali con voce concorde, benchè con mira diversa, si mostrano stupiti della dilatazione dell'Evangelio; e si affanna particolarmente sopra il passo di Plinio con isforzi cotanto vani, che altro non ottiene, se non il palesare lo spirito deciso di parzialità, che pur vorrebbe celare.
A noi non è dato di trattenerci in queste minute ricerche; tanto più che la fatica sarebbe superflua; mentre basta alla causa, che si richiami l'Autore agli Atti di S. Luca, dove sono sommariamente descritte le conquiste fatte dalla Chiesa nel breve periodo della predicazione di alcuni degli Apostoli. Egli non ha favellato mai di un libro che solo contiene i monumenti autentici della fondazione e dell'infanzia della Religione. Il lettore però potrà giudicar dall'infanzia della Chiesa, quale ella dovesse essere adulta.
Impugnazione e difesa de' miracoli di Gesù Cristo.
Abbiamo avvertito, che l'Autore stendeva le sue vedute sino ai miracoli di Cristo, che formano la prova più decisiva della divinità della sua religione, perchè dotati d'una certezza agli altri superiore. Egli ce gli ha presentati sotto gli occhi, ora sotto uno, ora sotto un altro aspetto, ma sempre di volo. Or che ha disposto l'animo del lettore, si toglie la maschera, e si ferma. Ci fermeremo noi pure; ma nè da lui, nè da noi chi leggerà, dovrà aspettarsi cose nuove; poichè egli è ripetitore per elezione, e noi lo siamo per dovere.
Primo argomento. La nuova setta era quasi tutta composta di contadini ed artisti, di fanciulli e di donne, di mendichi e di schiavi, i quali sfuggendo il pericoloso incontro de' filosofi dogmatizzavano in occulto presso la moltitudine rozza ed ignorante capace sempre di essere sorpresa. A misura che l'umile fede di Cristo diffondevasi pel mondo, fu abbracciata da varie persone che meritavano qualche riguardo pei doni della natura e della fortuna, ma queste eccezioni o son troppo poche, o troppo recenti ad oggetto di togliere interamente di mezzo le imputazioni d'ignoranza e di oscurità, che si rimprovera a' primi Fedeli. Appoggiandosi i miracoli di Cristo a sì fatta testimonianza, qual fede possono meritare?
Risposta. Prima di noi si è fatto vedere co' monumenti alla mano la falsità della supposizione, i quali monumenti tolti dagli Atti degli Apostoli ne istruiscono, che le persone nobili, le persone facoltose, le persone di talento si trovano non in iscarso numero nel primo nascere della Religione, tra gli Scribi, tra' Farisei, tra' Sacerdoti contemporanei di Cristo e degli Apostoli, che si convertirono in folla: multa turba Sacerdotum.
Prima di noi si è fatto riflettere, che la certezza de' miracoli operati dal fondatore del Cristianesimo non si appoggia alla fede soltanto de' primi seguaci dell'Evangelio, ma ancora, e principalmente, alla pubblicità de' fatti, all'esame giuridico istituitone dal corpo della nazione, alla deposizione de' testimoni confermata col sacrificio volontario della vita, alla grande rivoluzione prodotta nel mondo, che non si può concepire, se non si suppongano gli accennati miracoli dotati di un'evidenza superiore a qualunque eccezione.
Argomento secondo. Gli uomini di spirito, come Seneca, i due Plinj, Tacito, Plutarco, ed altri perderono di vista, e rigettaron la perfezione del sistema Cristiano, riguardando i seguaci di esso come ostinati e perversi Entusiasti, che esigevano una tacita sommissione alle lor misteriose dottrine senza produrre un solo argomento.
Risposta. Primo, se vale la non credenza di alcune persone di spirito, dee similmente valere la credenza di alcune persone di spirito: e noi a quelli dell'Autore potremmo opporne un numero anche maggiore.
Secondo, cotesti uomini di spirito trascurarono d'informarsi delle cose de' Cristiani, e prevenuti ch'eglino fossero fanatici, non gli degnarono dei loro pensieri. Ora chi non si applica, chi non esamina, non fonda presunzione contro fatti esaminati, da chi vi prendeva interesse.
Terzo, Celso si vantò di aver letti e meditati gli Evangeli; ed in questi libri si rinvengono le circostanze de' fatti, i nomi de' testimonj, i luoghi ne' quali furono operati, le occasioni nelle quali avvennero, le persone che ne furono onorate, le critiche de' nemici, ch'è quanto a dire tutto quello che si ricerca per farne un esame sufficiente. Giacchè questi scritti erano noti ai Gentili; giacchè questi miracoli si pubblicavano a voce, e quasi sempre colle vive opposizioni de' Giudei, come si è potuto dire, che i Cristiani esigevano una tacita sommissione?
Argomento terzo. Gli Apologisti Cristiani che presero la difesa di loro medesimi, della lor religione e de' loro angustiati fratelli, quando vogliono mostrare la divina origine del Cristianesimo insistono sulle profezie atte a convincere un Giudeo, non un Gentile. Se avessero avuto buoni argomenti a far valere i miracoli di Cristo, gli avrebbero impiegati.
Risposta. Primo, gli Evangeli erano pubblici; molti de' testimonj tuttora vivevano: si sottoponevano a' giudizi legali, e sostenevano la lor confessione in mezzo ai tormenti; ed i Giudei, nel paese de' quali erano accaduti i prodigi, accrescevano ad ora ad ora il numero de' credenti. Oltre a ciò si operavano quotidianamente nuovi miracoli; e questi comprovavano quelli di Cristo. Con tante prove vive e parlanti qual bisogno vi era di Apologie?
Secondo, si possono produrre mille passi di Autori Pagani per dimostrare, che i Gentili comunemente non mettevano in dubbio i miracoli attribuiti a Cristo: ne scansavano la forza col supporre negli Eroi del Politeismo lo stesso potere. Dimandiamo di nuovo, qual bisogno vi era, che gli Apologisti prendessero a provare ciò che non si contrastava? Quando i Pagani cominciarono ad attaccarli colle loro difficoltà, cominciarono pure gli Apologisti a difenderli. Origene fu un di costoro, ma non il primo, trovandosene altri prima di lui citati dal Mosemio.
Terzo. Se non vi soddisfano gli antichi Apologisti, consultate i moderni. L'esame de' fatti è limitato, come i fatti medesimi: quanto si può dir contro, e quanto si può rispondere in favore, si trova raccolto ne' libri loro: questi stessi argomenti, che trattiamo noi, vi sono ampiamente spiegati.
Argomento quarto. Seneca e Plinio non parlano delle tenebre non naturali, in cui per tre ore fu involta la terra nella passione di Cristo.
Risposta. Tertulliano afferma, che il prodigio fu da' Gentili notato ne' pubblici registri: il suo passo è sostenuto, per tacer di tanti altri, dal famoso Huezio; nè ha fondamento alcuno la diversa lettura, che ne vorrebbe fare l'Autore. Flegonte, Scrittor Pagano, è pur vendicato dall'Huezio, il quale giustamente conchiude, che contro la positiva testimonianza di costoro niuna forza ha il silenzio degli altri.
Che Plinio avesse destinato un capitolo apposta per gli ecclissi di natura straordinaria e d'insolita durata, e che questo della passione non vi si trovi, non è cosa da far meraviglia. Al lib. II. c. 30. Hist. Nat. si leggono le seguenti parole: Fiunt prodigiosi et languiores defectus; quali occiso Cesare et Antoniano bello, totius fere anni pallore perpetuo. Ecco una proposizione generica illustrata con un esempio, invece di un capitolo fatto a bello studio per menarvi tutti gli ecclissi straordinari.
RIASSUNTO.
Qui termina il Cap. XV. del Sig. Gibbon: egli ci ha obbligati a fare un viaggio ben lungo e curto: ma la moltiplicità e la sconnessione degli oggetti che abbiamo esaminati, e molto più di quelli, che siamo stati costretti a passare sotto silenzio, costituiscono il pregio singolare di questo libro. Una mano meno imperita e più paziente gli avrebbe uniti e distribuiti con ordine: il metodo da lui tenuto non è buono che a rintuzzare il senso comune. Al che aggiungendosi la superficialità delle cognizioni, che apparisce, all'indeterminata e confusa generalità dell'idee, la perpetua mala fede, colla quale corrompe i movimenti della storia e l'avidità di malignare sopra ogni cosa, ne risulterà un doppio carattere, che non è certo quello del pensatore e quello dell'uomo onesto. Egli ha fatto il quadro istorico de' progressi del Cristianesimo; il colorito orrido, ed i contorni forzati palesano abbastanza la passione del pittore. Noi che vogliamo fare il quadro istorico della sua logica, non dobbiamo se non riunire in un sol punto di veduta, e mostrar come delineate in carta le parti principali del suo edifizio.
Prima Conclusione. Lo stabilimento ed i progressi del Cristianesimo furono effetti naturali dello zelo intollerante de' Cristiani. L'Autore di tutto ha trattato fuorchè di questo; e quanto ha detto, non vale che a stabilire la conclusione opposta.
Seconda Conclusione. Fu dovuto al domma dell'immortalità, all'opinione dell'imminente fine del mondo e del millenio. L'Autore di tutto ha trattato fuorchè di questo, e quanto ha detto, non vale che a provare il contrario.
Terza Conclusione. Fu dovuto al poter de' miracoli che i primi Cristiani falsamente si attribuirono. L'Autore non ne ha trattato, e la conclusione in se stessa è contraddittoria.
Quarta Conclusione. Fu dovuto alla morale Cristiana. L'Autore non ne ha trattato ed ha provato il contrario, provando, ch'essa compariva ai Gentili contraria alla natura ed all'interesse dello Stato.
Quinta Conclusione. Fu dovuto alla forma dal governo Ecclesiastico. L'Autore non ne ha trattato, nè apparisce quale rapporto abbia il governo interno colle conversioni degl'Infedeli.
Sesta Conclusione. Fu dovuto all'indifferenza de' Sacerdoti Pagani. La supposizione è contraddetta dalla storia.
Settima Conclusione. Fu dovuto allo Scetticismo del popolo Pagano. La supposizione è contraria al fatto, e lo Scetticismo, di che parla l'Autore, non conduce se non all'incredulità.
Ottava Conclusione. Fu dovuto alle grandi strade delle legioni, all'uniformità della lingua, ed all'unione delle Province sotto un solo Monarca; nel rimanente il Cristianesimo non incontrò alcuno degli ostacoli, che sogliono impedire l'introduzione di una Religione straniera in lontani paesi. Qui l'Autore ha superato se stesso; e noi non vogliamo togliere ad alcuno il piacere d'ammirarlo.
SAGGIO DI CONFUTAZIONE DEL CAP. XVI.
Qui l'Autore si fa a parlare delle persecuzioni sofferte dal Cristianesimo, e prende ad investigarne le cagioni, l'estensione, la durata e le più importanti circostanze, e tutti i suoi sforzi tendono a due oggetti: primo, a mostrar sempre più, che nulla avvi di maraviglioso nello stabilimento di una Religione, ch' ebbe tutto il tempo di crescere e di fortificarsi, prima che si esponesse all'impeto delle persecuzioni, che fu perseguitata lentamente, e che godè molti intervalli considerabili di pace: secondo, è suo impegno di far servire queste stesse cose a giustificare la condotta dei persecutori, e a rovesciare sopra i Cristiani l'odiosità tutta. Nel che egli è stato in parte preceduto dal Signor di Voltaire nella Storia universale, da cui egli ha cavati alcuni suoi materiali. Facciamoci pertanto a considerar le cagioni della persecuzione, che sono l' aver i Cristiani abbandonato il culto nazionale: l'essere stati accusati di ateismo: il segreto delle loro adunanze: i loro costumi calunniati.
L'abbandono del culto nazionale; primo motivo della persecuzione.
Ristretto. Si è osservata la tolleranza religiosa di tutto il genere umano: vediamo ora, come furono trattati gl'intolleranti Giudei per giudicare delle vere cagioni, per le quali fu perseguitato il Cristianesimo, che adottò la stessa intolleranza. I Giudei, dopo la distruzione di Gerusalemme, da Nerone sino ad Antonino Pio, spesso si rivoltarono contro i Romani; ma mediante la general tolleranza del politeismo e il dolce carattere dell'ultimo Imperatore si restituirono loro gli antichi privilegi. Giacchè questi, benchè rigettassero con abborrimento la Divinità de' loro Sovrani, godevano il libero esercizio della loro Religione insocievole, perchè non furono tollerati i Cristiani? La differenza è chiara: i Giudei formavano una nazione, i Cristiani una setta. Essendo stata ricevuta la legge Mosaica per molti secoli da una numerosa società, quelli che l'osservavano, si giustificavano coll'esempio del genere umano; laddove i Cristiani violavano le istituzioni religiose del proprio paese: ed i filosofi non concepivano che si dovesse esitare a conformarsi al culto stabilito, come ai costumi, all'abbigliamento ed al linguaggio della patria.
Risposta. L'Autore per voler essere singolare nelle sue idee si contraddice. Secondo la massima della tolleranza universale, tutte le Religioni dovevano rivolgersi contro la Giudea e la Cristiana, entrambe intolleranti: frattanto la prima fu tollerata, e la seconda no; e n'era la ragione, che i Giudei formavano nazione, ed i Cristiani setta. Or la Nazione Giudaica lasciava per questo di essere insocievole ed intollerante? Dunque o è falso, che l' intolleranza era il motivo della persecuzione de' Cristiani; o è falso, che i Giudei furono tollerati, perchè costituivano nazione.
Anzi la verità, che trionfa nella storia, si è, che gl' intolleranti Giudei furono perseguitati, sinchè costituirono nazione, e che allora si lasciarono in pace, e ricuperarono i lor privilegi, quando, distrutta la città e perita un'infinita quantità di abitanti, quelli che rimasero, si sciolsero, e si sparsero per le Province dell'Impero. Fecero eglino di tratto in tratto alcuni deboli sforzi per sottrarsi dal giogo de' Romani, e prendevano i più efficaci motivi di ribellarsi dalle loro opinioni religiose, come l'Autore lo avverte. Finchè i Romani li temettero, gl'infestarono col ferro e col fuoco: disarmati e sottomessi che gli ebbero, permisero ch'esercitassero pacificamente il proprio culto. Quando facevano ancor figura di Nazione, ed i Romani vollero profanare il lor tempio, perchè non valse questo stesso carattere, l'antichità della stirpe, e l'esempio di tutto il mondo?
Ma se noi discordiamo dall'Autore intorno a' Giudei, intorno ai Cristiani convenghiamo con lui. L' aver essi abbandonato il culto nazionale, ed il farlo abbandonare da altri, era la vera cagione della persecuzione. Forse i Romani erano disposti a soffrire ogni culto, purchè non ve ne fosse uno che pretendesse di escludere gli altri, e di distruggere quello dell'Impero. Il Cristianesimo voleva essere solo, riprovava com'empi tutti i culti della terra, e faceva ogni sforzo per far entrar tutto il mondo nella sua comunione; e perciò tutto il mondo si voltò contro di esso.
Come lo zelo esclusivo ed intollerante de' Cristiani, ch'era la cagione naturale della persecuzione, poteva essere cagione naturale de' loro progressi, si è nel precedente capo veduto: qui dobbiamo cercare, se questa prima cagione di persecuzione rimuova da' persecutori la taccia d'ingiustizia, come s'ingegna di fare l'Autore.
Egli mette in contrasto queste due massime: ogni uomo ha diritto di disporre della sua coscienza e del suo giudizio particolare: e non si deve esitare a conformarsi al culto nazionale, come ai costumi, agli abbigliamenti, ed alla lingua della patria. Riferisce che i Cristiani riclamavano i diritti inalienabili della coscienza; ma soggiunge, che i loro argomenti erano dispregiati da' filosofi, cui pareva un delitto enorme ed irremissibile l'abbandonare il culto della nazione.
Obblighiamolo a scegliere. S'egli riconosce per giusta la prima massima, uopo è, che si unisca con tutti i Cristiani a detestare l'ingiustizia dei loro antichi persecutori. S'egli vuol fare l'apologia di questi, bisogna che mostri con buone ragioni che sia equa la massima, che fa recitar da filosofi, come da interlocutori di scena. Non si deve esitare? Perchè? Ma ecco il carattere del Sig. Gibbon: asserisce e poi tace; giacchè non pare a noi, che una similitudine insensata possa stare invece di prova: i costumi, l'abbigliamento, la lingua sono cose indifferenti: che ogni culto religioso debba guardarsi colla stessa indifferenza, ha bisogno di prova, e prove l'Autore non ne suol dare.
L'uomo per la verità e per la salute non può essere indifferente, come circa il modo di parlare e di vestirsi: noi non crediamo, che alcun uomo ragionevole possa mettere in dubbio la verità di questa massima contraria a quella de' pretesi filosofi.
Quando uno ha scoperta la verità e la strada della salute, ha diritto di fare tutto ciò ch'è necessario a conseguirla, e di astenersi da tutto ciò che nuoce al suo fine. Questa seconda massima è dotata della stessa evidenza.
Il diritto, ch'è in uno di fare o di non fare una cosa, induce agli altri obbligazione di non molestarlo. Questo è un assioma di gius naturale.
Ora supponiamo, che il sistema vero, il sistema che unicamente conduca alla salute, sia il Cristianesimo. La contraddizione, che vi ha tra' dogmi, la morale ed il culto dell'Idolatria, e tra il culto, la morale ed i dogmi del Cristianesimo, e così sensibile, che ci dispensa dall'ulteriormente spiegarlo. In una parola, il Cristianesimo, che supponiamo vero, condanna ogni altro culto, come dannoso alla salute.
In qualunque paese uno si trovi s'egli si persuade della verità del Cristianesimo, non può guardarlo con indifferenza; chi ha diritto di fare quanto esso gli prescrive, e di astenersi da tutto ciò, ch'esso gli proibisce; e gli altri hanno l'obbligazione di non molestarlo; poichè queste tre massime hanno una necessaria connessione fra di loro.
Resta un sol punto a decidersi. A chi propriamente appartiene il giudicare della verità o della falsità di una Religione? O alla nazione o ai privati. Non alla nazione; poichè essendo il fine della società civile il ben essere temporale di quelli, che si unirono in corpo sotto una certa forma di governo, l'autorità pubblica non si stende sulle azioni interne che non hanno rapporto alla società; si stende certamente sulla professione esterna della Religione, non già per esaminare se sia vera o falsa; poichè ciò non conduce al fine della società; ma per vedere se la tale professione esterna giovi o nuoca alla sicurezza ed alla prosperità dello Stato. Il giudizio della verità o della falsità della Religione appartiene ad ogni privato; poichè ognuno in privato è interessato nel fine ch'ella propone. Ed in effetto o si consideri la Religione naturale, e Iddio parlava a ciascuno in privato, per l'organo della Religione; o si tratti della rivelata, e Iddio non la propose al Sinedrio di Gerusalemme ed al Senato di Roma, perchè essi obbligassero i sudditi a riceverla, ma la promulgò pubblicamente e promiscuamente a tutti.
Diamo pertanto il suo a ciascuno. Ogni suddito dell'Impero Romano aveva diritto di giudicare, se la rivelazione Cristiana era la vera; e quando si persuadeva di doverla abbracciare, nè alcuno in particolare, nè la nazione in corpo aveva diritto di molestarlo, unicamente per questo, di sorte che le leggi proibitive degl'Imperatori per questo riguardo erano ingiuste, contrarie manifestamente ai principj del gius naturale.
Ma apparteneva alla potestà pubblica l'esaminare, se la Religione Cristiana era utile o nociva allo Stato nella sua esterna professione. E questo esame poteva farsi a priori, come suol dirsi ed a posteriori. L'esame a posteriori sarebbe stato il più breve. È certo, che il Cristianesimo è rivelato da Dio? Dunque non può nuocere alla società civile, perchè Iddio non vuole il detrimento della società civile. L'esame a priori esigeva, che si facesse un confronto de' dogmi e della morale Cristiana co' principj, su i quali è fondato il ben pubblico. Se i Pagani lo avessero fatto, avrebbero veduto, che il Cristianesimo lungi dal distruggere i fondamenti del ben essere civile, li fortifica e li perfeziona, come noi lo abbiamo brevemente accennato nel capo precedente; e così invece di perseguitarlo dovevano fare sul principio quello che fece Costantino dopo l'esperienza di tre secoli.
Ma quello, che rende più detestabile la loro condotta, si è che non esaminarono, ma sparsero il sangue di tanti sudditi innocenti per puri sospetti, per semplice gelosia di Stato, per l'orribile costume che ha il dispotismo d'incrudelire senza poter neppure rendere ragione a se stesso, perchè incrudelisca.
La falsa accusa di ateismo; secondo motivo della persecuzione.
Ristretto. I Cristiani erano rappresentati come una società di Atei; nè si vedeva, quale Divinità, e quale specie di culto avessero sostituito agli Dei ed ai tempj dell'antichità. I Filosofi, che ammettevano l'unità di Dio, erano persuasi, che i pregiudizi popolari dipendono dall'originale disposizione della natura umana, e che un culto fatto pel popolo, se crede di non aver bisogno de' sensi, dà nel fanatismo. Si avvisavano che i Cristiani degradassero l'unità di Dio colle loro chimeriche speculazioni. Sarebbe sembrato meno sorprendente, che avessero rispettato G. C. come un sapiente, come un savio, che adoratolo come un Dio. I Politeisti erano disposti dalle leggende di Bacco, d'Ercole e di Esculapio a veder comparire il Figliuolo di Dio sotto forma umana; ma si maravigliavano, che i Cristiani abbandonati gl'inventori delle arti e delle leggi e i domatori de' mostri e de' tiranni, scegliessero per oggetto esclusivo del loro culto un oscuro maestro che di fresco, e presso un popolo barbaro era stato vittima della malizia o della gelosia; rigettavano l'immortalità offerta da Cristo e la sua risurrezione, e desideravano la sua nascita equivoca, la sua vita e la sua morte ignominiosa.
Risposta. L'accusa, che nel titolo si annuncia d' ateismo, realmente era di fanatismo, di superstizione. I Gentili rimproverati da' Cristiani di adorare Dei di pietra e di legno, invece di rivolgersi al Creatore dell'universo, come potevano attaccarli di ateismo? Sapevano bene, che agli Dei della favolosa antichità avevano sostituito G. C. Figliuolo di Dio; e che al culto di Roma avevano surrogato un altro culto secretamente celebrato: sicchè realmente gli accusavano di superstizione, non d'ateismo.
L'una e l'altro possono avere riguardo al ben essere dello Stato; e vi ha chi ha trattato problematicamente, se nuoca più alla società la superstizione, che l'ateismo.
Secondo i principj poc'anzi stabiliti, i Romani per non incorrere la taccia d'ingiusti, dovevano, sprezzando le voci ed i numeri volgari, far un serio esame della dottrina Cristiana, per decidere se intesa nel suo giusto senso, si opponesse o no al bene dello Stato.
Noi ci lagniamo d'aver essi negletto un dovere tanto essenziale: ci lagniamo anzi, che imperversando nell'odio chiusero l'orecchie alle vive proteste de' Cristiani, e si risero delle ardenti Apologie, nelle quali questi esponevano chiaramente la loro credenza sulla natura della Divinità e sull'innocenza del loro culto religioso.
Ma l'Autore per lo più deviante dal vero segno, non introduce i Gentili a dimostrare, che il culto era di nocumento allo Stato; ciò che sarebbe stato a proposito per la loro giustificazione; ma si vale della loro maschera semplicemente a risvegliare un filosofico disprezzo degli augusti misteri, che formano l'oggetto della nostra credenza, trattandoli di speculazioni chimeriche inventate a degradare l'unità di Dio. Il qual esame esce da' limiti della presente questione; e fuori dalle ingiurie, nulla altro si trova da confutare.
Abbiamo veduto che i Cristiani stessi confessano essere i misteri superiori alla religione, e ch'eglino li credono obbligati dalle prove generali, che dimostrano la verità della Rivelazione. Laonde per conchiudere logicamente contro i misteri fa d'uopo esaminare le prove della Rivelazione. E gli antichi Politeisti più di noi prossimi ai fatti, e circondati da una luce pressochè perenne, proveniente da' frequenti miracoli che si operavano; dall'eminenza delle virtù, che facevano campeggiare i Cristiani di ogni sesso, di ogni condizione e di ogni paese; e dal coraggio, col quale incontravano la morte, potevano più facilmente convincersi dell'origine divina del Cristianesimo.
I filosofi, che ammettevano l'unità di Dio, si persuadevano assai male che i pregiudizi popolari dipendessero dalla disposizione originale dell'umana natura, per concludere insensatamente, che non si dee far conto della differenza dell'opinioni e de' culti. La disposizione costante ed essenziale dell' umana natura è di avere una ragione, per iscuoprire la verità ed amarla, e per iscuoprire tutti i falsi pregiudizi, e detestarli e correggerli.
Ma i filosofi dell'Autore insegnano ottimamente, che un culto fatto pel popolo, se crede di non aver bisogno dei sensi, dà nel fanatismo. Questa lezione non dee farsi ai Cristiani, che hanno avuto sempre un culto sensibile, e che nella sua parte essenziale fu istituito da Dio medesimo; ma ai moderni Deisti, i quali escludono ogni pratica esterna. Non possiamo però approvare, che questi filosofi ristringano la necessità del culto esterno alla sola contemplazione del popolo, poichè non si trova sistema di gius naturale, in cui parlandosi degli uffizi a Dio dovuti, non si stabilisca in termini generali l'obbligazione del culto esterno.
Ai filosofi sarebbe sembrato meno sorprendente che avessero rispettato G. C. come un sapiente, che adoratolo come un Dio. Ma le profezie ed i miracoli ci obbligano a riconoscerlo come Dio; e colla loro evidenza rendono ragionevole quest'ossequio.
Le leggende di Ercole, di Bacco, di Esculapio avevano assuefatti i Politeisti a veder comparire gli Dei sotto umana forma: ma nessuno era disposto a riconoscere tre persone in una sola natura, e la natura umana unita colla divina in una sola di esse tre persone. Questo mistero fu rivelato dal Cristianesimo, e fu creduto per le prove della Rivelazione, non perchè i Politeisti fossero disposti a idee così remote dalle loro.
L'essere inventori delle arti e delle scienze e domatori de' mostri e de' tiranni è un carattere che rende gli uomini degni della stima de' loro simili; ma d'un uomo, per quanto sia grande, non può farsene un Dio; e questa fu la stupida superstizione dei Politeisti: furono convinti co' loro stessi Autori di dar gli onori Divini a soggetti, ch'erano stati puri uomini, ed uomini, i cui vizi e le cui stravaganti vicende oscuravano la luce delle poche opere giovevoli, che attribuì loro la Mitologia. In Gesù Cristo noi non adoriamo un uomo Deificato, ma un Dio unito all'umana natura; e nelle cui azioni traluceva così chiaramente la Divinità, che ne restò pure atterrito chi condannollo alla morte.
La nascita di Gesù da una vergine e la sua risurrezione si mettevano dagl'Infedeli in derisione; e frattanto gl'Infedeli si convertivano in folla: quanto dovevano essere chiare le prove, che facevano ricevere idee così lontane dal naturale.
E queste prove, alle quali l'Autore non ha potuto togliere un grado di forza, dimostrano contro di lui, e dimostravano ai filosofi ed agl'Idolatri dell'antichità, che il Cristianesimo è il sistema della verità, non un'invenzione della superstizione.
Le assemblee Cristiane; terzo motivo di persecuzione.
Ristretto. La politica Romana risguardava con gelosia e diffidenza qualunque società particolare, che si formava nello Stato: e le Cristiane assemblee parevano meno innocenti e più pericolose di ogni altra. Gl'Imperatori volevano in esse punire lo spirito d'indipendenza, e temevano, che le predizioni d'imminente calamità inspirassero l'apprensione di qualche pericolo, che provenir potesse dalla nuova setta, che era tanto più sospetta, quanto più oscura.
Risposta. Questo è il ritratto del dispotismo, che invece di giustificare fa fremere di sdegno chiunque conosce i diritti originali dell'umanità. Una politica che prende gelosia di qualunque società particolare, che si formi nello Stato, senza informarsi dell'istituto che professa, dell'oggetto a cui tende, degli esercizi in che si occupa, sarà sempre, come sempre è stata, la politica de' Tiranni.
Le Cristiane assemblee parevano meno innocenti, e più pericolose d'ogni altra? Dunque se ne doveva prendere esatta cognizione. Potevasi negar fede agli Apologisti, come parte interessata. Ma Plinio fece sapere a Traiano, com'egli aveva impiegata una diligenza particolare per venire in chiaro di che si trattasse nelle adunanze de' Cristiani; che per sino aveva impiegati i tormenti ad istrappar dalla bocca di due donne, che in esse servivano da ministre, la verità, che il risultato delle sue ricerche era stato d'averle trovate innocenti e superstiziose. Qual fu la risoluzione del virtuoso Traiano? Stabilì un piano regolare di persecuzione, per abolire un istituto che si era trovato non pure innocente, ma virtuoso, perchè obbligava secondo Plinio col giuramento all'astinenza d'ogni reità.
Plinio non vi trovò l' indipendenza, che sarebbe stata degna di esser punita dall'Imperadore; e Tertulliano sfidò i Gentili ad additare un solo Cristiano, che fosse caduto in sospetto d'essere entrato a parte di qualche cospirazione. Non si sono mai dolsuti i Magistrati di aver trovati i Cristiani refrattari alle leggi ed alla sommissione dovuta al loro grado. Tutta l' indipendenza era ristretta alla libertà della coscienza, che niuna potenza umana ha diritto di costringere.
Le calamità erano predette imprudentemente da' Montanisti; ma i Pagani, che si credevano insultati, si vendicavano sopra tutti i Cristiani per isdegno, non perchè temessero, che i perseguitati potessero giungere ad acquistar la forza di avverare le loro predizioni. Questo maligno pensamento dell'Autore non si trova rinfacciato da alcuno agli antichi Cristiani.
I Costumi de' Cristiani calunniati; quarto motivo di persecuzione.
Ristretto. Le cautele, colle quali i Cristiani celebravano gli uffizi di Religione, davano occasione ai Gentili di credere ch'eglino uccidessero bambini nati di fresco tutti coperti di farina, e che se ne cibassero, e che poi stinti i lumi avessero incestuosi commerci fra loro.
Risposta. L'accusa di cibarsi delle carni d'un bambino coperto di farina aveva un fondamento vero: i Cristiani celebrando il mistero dell'Eucaristia, ch'era la parte essenziale del loro culto, sotto le specie di pane mangiavano il vero corpo di G. C., e terminata la funzione si congedavano con darsi il bacio di pace, ch'era il fondamento de' pretesi incesti.
Quanto più atroci erano queste calunnie, tanto più cautamente doveva procedere il Governo; e la più superficiale ricerca gli avrebbe fatto scuoprire il vero. Non sarà un'eterna infamia per gl'Imperatori Romani aver uccisi tant'innocenti sopra un equivoco così grossolano?
L'attaccamento all'Idolatria; ultimo motivo di persecuzione taciuto dall'Autore.
Egli è strano che l'Autore abbia passato sotto silenzio la principal cagione delle persecuzioni, posta la quale, tutte le altre si spiegano, e tolta la quale nessuna dell'altre facilmente si concepisce. Imperciocchè sia riguardo ai delitti imputati, sia circa i sospetti, che prendevano dalle adunanze Cristiane, non è credibile che i Romani, i quali nell'amministrazione delle leggi non passano per la più ingiusta, o la più feroce nazione, avesser voluto spargere tanto sangue, e privarsi di tanti sudditi, senza un forte interesse che gli stimolasse a violare così visibilmente i principj dell'equità naturale.
L' attaccamento alla propria Religione, il quale doveva essere grande per ogni riguardo di antichità, di educazione, di libertinaggio, di gloria, faceva sì, che chiudessero volontariamente gli occhi alla luce, e che perseguitassero nella Religione Cristiana, non una setta rea e pericolosa allo Stato, ma una rivale, che minacciava all'idolatria la totale distruzione del suo regno.
Questa cagione trova nella storia di que' tempi gli argomenti più chiari a convincerne chiunque. Imperciocchè non solo vi si veggono i Sacerdoti porre in opera ogni artifizio per opprimere i Cristiani; non solo i Filosofi inventare nuovi sistemi a rettificar l'idolatria per non lasciarla cadere; ma altresì vi si vede il popolo tutto acceso del più alto fanatismo, oltrepassare i limiti prescritti dagl'imperadori allo spirito di accusa, e rinunciando talora all'ubbidienza del proprio Sovrano, usurparne la maestà per dissetarsi del sangue nemico. Cercheremo le tracce della giustizia ne' tumulti popolari?
Non creda alcuno aver l'Autore tralasciato questo articolo per pura inavvertenza: egli lo ha taciuto a disegno, poichè tanto furore religioso come poteva conciliarsi colla tolleranza del mondo Pagano, che forma l'oggetto delle sue delizie? Come avrebbe potuto dire, che i persecutori dal Cristianesimo non furono animati dal furioso zelo de' divoti, ma dalla moderata politica de' legislatori.
Dall'esame delle cagioni della persecuzione, come i persecutori possano restare assoluti, lo abbiamo sufficientemente veduto. Seguendo ora i passi dell'Autore, vedremo, s'egli riesca meglio nell'apologia de' Tiranni, cogli articoli, che pretende stabilire sulla storia delle persecuzioni. Essi sono quattro: che passò molto tempo prima che la Chiesa fosse perseguitata: che gl' Imperadori nel punire i Cristiani si condussero con precauzione e con ripugnanza: che furono moderati nell'uso delle pene: e che la Chiesa gustò molti intervalli di pace.
Articolo primo. Se veramente il Cristianesimo stette molto ad essere perseguitato.
Ristretto. I Giudei erano tollerati, e la Chiesa dimorò molto tempo coperta sotto il velo del Giudaismo. Forse gli Ebrei non tardarono ad accorgersi, che i loro fratelli Nazarei si staccavano di più in più dalla Sinagoga: ma era stata ad essi tolta l'amministrazione della giustizia criminale, nè era facile d'inspirare al Magistrato Romano il rancore del loro zelo.
Risposta. Suo intendimento è di provare, che il primo de' persecutori fu Traiano nel secondo secolo, che per conseguenza la lunga pace, che godè la Chiesa in tutto questo tempo, quanto fa risplendere l' indulgenza del Politeismo, tanto poco ci fa maravigliare de' progressi che fece la Religione.
Perchè egli taccia nell'uno e nell'altro capo con tanta ostinazione la prima fondazione del Cristianesimo nella Palestina, ognuno lo può più di leggieri comprendere. Che la Chiesa fu fondata nel vivo fuoco della persecuzione; che il fondatore ed alcuni de' suoi primi discepoli furono fatti morire da' Capi della nazione; che essa fece leggi proibitive e rigorose contro coloro che si fossero dichiarati per Gesù Nazareno; che in vigore di tali leggi si venne alla carcerazione di molti Fedeli; che questi furono costretti a sottrarsi colla fuga all'insidie de' nemici, o ad andare raminghi qua e là; che finalmente i Giudei non rivocarono mai questi ordini, sono fatti troppo noti, per non doversi che semplicemente citare.
Quanto ai Gentili convien distinguere due persecuzioni, l'una indiretta e tacita, l'altra diretta ed espressa. La seconda cominciò dall'anno decimo di Nerone, non da Traiano: e la prima fece soffrir la morte ai Cristiani avanti ancora che fossero conosciuti sotto questo nome. Proveremo l'uno e l'altro.
La Chiesa stette molto tempo coperta sotto il velo del Giudaismo. Ci siamo altrove spiegati abbastanza su di questo proposito; ma convenghiamo coll'Autore, che in que' primi tempi i Gentili non facevano differenza tra Giudei venuti alla fede, e Giudei non convertiti. I Giudei, prosiegue l'Autore, erano tollerati: la tolleranza fu loro accordata da Antonino Pio; lo ha detto pur egli. Prima di questo tempo furono perseguitati per le loro continue ribellioni; e l'Autore trova sotto Domiziano alcuni, fatti morire per costumi Giudaici. Quindi appunto perchè i Cristiani passavano per i Giudei, erano compresi nelle loro disgrazie.
Inoltre vi erano due antichissime leggi, l'una delle quali è rammentata da Livio, e l'altra da Cicerone; esse vietavano ogni culto straniero, e davano la pena di morte ai malefici. Ora Svetonio, parlando de' primi Cristiani, dice, ch'erano accusati di maleficio.
Terzo, Plinio a tempo di Traiano condannava a morte i Cristiani prima che questo Imperadore stabilisse contro di essi una pratica criminale: onde s'inferisce che gli altri Governatori seguivano pure lo stesso costume. E siccome Plinio dichiarò di non aver trovata una regola fissa per sua direzione, così è da dirsi, che si procedesse contro i Cristiani non in forza di qualche legge vigente fatta a bella posta contro di loro, ma per leggi generali, che facessero nascere perplessità nell'animo di un Ministro, che voleva guidarsi con sicurezza. Altronde si sa che, essendo state annullate le leggi di Nerone dal Senato e quelle di Domiziano dal suo successore, Plinio non può alludere a queste.
Quarto, sotto Traiano si condannarono i Cristiani pe' clamori del popolo, e non apparisce, che fosse nato allora questo abuso.
Quinto, finalmente sappiamo, che Tiberio, sotto cui fu crocifisso il Redentore del mondo, difese i Cristiani dal rigor delle leggi: niuno avendo ancora potuto far leggi espresse contro i Cristiani, uopo è dire, che si facessero valere contro di essi le leggi generali dianzi rammentate.
Ecco adunque solidamente stabilito, che il Cristianesimo appena nato, appena conosciuto, fu costretto a soggiacere sotto il flagello d'una persecuzione tacita ed indiretta, onde l'Autore non possa tanto lodare l' indulgenza del Politeismo, e non ci rappresenti la Chiesa giunta a sufficiente robustezza, prima che la persecuzione la prendesse a combattere.
La persecuzione espressa e diretta cominciò da Nerone; sue furono le prime leggi, quelle di Domiziano le seconde. Ma l'Autore facendosi bello di alcune riflessioni, che si trovano nella Storia universale del Signor di Voltaire, vuol che si tolgano questi due Imperadori dal numero de' persecutori. Ecco come parla del primo.
Ristretto. Abbiamo da Tacito, che Nerone imputando ai Cristiani l'incendio di Roma, attribuito generalmente a lui, ne fece morire una moltitudine con crudeli tormenti. Ma 1. non si può mettere in dubbio la verità del fatto, e la genuità del testo di Tacito: 2. egli non potè essere informato di questo fatto se non dalla conversazione o dalla lettura: 3. non potè parlarne se non sessant'anni dopo, quando cioè era forzato ad adottare le relazioni de' contemporanei riguardo ai Cristiani, e parlarne non tanto secondo le cognizioni o i pregiudizi dell'età di Nerone, quanto secondo quelli d'Adriano: 4. Tacito lascia spesso le circostanze intermedie che dee supplirvi il lettore. Può dirsi pertanto che Nerone fosse disposto ad imputar l'incendio di Roma piuttosto ai Giudei che agli oscuri Cristiani; e che quelli profittando della protezione di Poppea e di un Giudeo Commediante sostituissero per vittima i Galilei, setta di recente nata fra loro, e che avendo avuto lo stesso nome i seguaci di Cristo denominati Cristiani all'età d'Adriano, si credesse per equivoco accaduta ai Cristiani la disgrazia de' Galilei, e che Tacito avesse commesso lo sbaglio medesimo. Ma comunque ciò sia, questa crudeltà riguardò l'accusa dell'incendio, non de' dogmi de' Cristiani, e non uscì dal recinto di Roma; ed i Principi seguenti risparmiavano una setta oppressa da un Tiranno.
Risposta. Le quattro osservazioni sopra Tacito sono ammirabili. La prima, ch'è sulla genuità del passo, non è a proposito. Nella quarta, pretendendosi che Tacito fosse caduto in un equivoco di nomi, si vorrebbe che il lettore lo rischiarasse, con supplire le circostanze intermedie ch'egli suol tralasciare. Nella seconda Tacito, per informarsi di un avvenimento accaduto nella sua fanciullezza, doveva ricorrere alla relazione, o agli scritti. Se non che viene la terza ad annunciarci, che parlando egli di questo fatto sessanta anni dopo, cioè sotto Adriano, dovè adottare l'idee di questo tempo, non del tempo di Nerone. Il Signor di Voltaire non cumulò tanti spropositi.
O Tacito consultò memorie scritte, o le relazioni de' viventi. In un periodo di sessant'anni le memorie scritte non potevano essere, che o prossime al fatto o contemporanee; e ne' pubblici registri dovevano trovarsi i nomi, la condizione e l'istituto de' giustiziati; di sorte che a questi caratteri Tacito, il quale si mostra informato dell'origine de' Cristiani, non poteva equivocare in forza del nome: anzi avrebbe potuto correggere l'opinione del suo tempo se l'avesse trovata erronea. Se consultò le relazioni de' viventi, naturalmente dovè ricorrere a' più vecchi come a' più vicini al fatto; e benchè la di lui storia si supponga scritta sessant'anni dopo, pure non potè egli raccoglier la materia, e stenderla in breve spazio di tempo: di maniera che ci avvicineremo tanto ai contemporanei, che non si comprenderà più la possibilità dell'equivoco. Tacito era fanciullo allorchè Nerone commise quell'eccesso; nell'età avanzata non dovè informarsi da persone, che allora erano molto maggiori di lui?
Che Nerone potè essere disposto ad imputare il suo delitto ai Giudei, è un semplice può essere. Che i Giudei potessero sottrarsi a questa procella per la protezione di Poppea, è un altro può essere. Che sostituissero in loro vece i Galilei o sia i seguaci di Giuda Gaulonia, è un può essere inverisimile: poichè odiando eglino molto più che questi i Cristiani, avrebbero fatto piombar il fulmine piuttosto sopra i Cristiani, che sopra una loro setta.
Consultiamo congetture più plausibili. È certo, che i Cristiani hanno sempre creduto che Nerone incrudelisse contro di loro; e che nella loro tradizione non vi poteva essere equivoco; mentre dovevano dagli amici, da' parenti, da' Sacerdoti essere pienamente informati di tutte le circostanze. Se le vittime sventurate della crudeltà del Tiranno non fossero state del loro istituto, trattandosi di comparire rei o almeno capaci di un delitto così odioso, non dovevano opporsi all'opinione, che si finge invalsa a tempo di Adriano, per lavarsi dall'infamia, e per non autorizzare gli altri Principi coll'esempio di Nerone?
Nell'affar dall'incendio non fu perseguitata direttamente la fede de' dogmi; ma i Cristiani non soffrirono quel barbaro trattamento se non perchè professavano una Religione, accusata dall'odio del genere umano, e capace d'incendiare la capitale dell'Impero.
Ma riguardo alla Religione stessa, Tertulliano dice, che Traiano annullò leggi contrarie a' Cristiani: e prima di questo Principe le rammentate leggi non possono ascriversi che a Domiziano ed a Nerone. Lattanzio pure scrive, che Nerone si accinse a rovinare il tempio celeste. Da ultimo S. Pietro e S. Paolo conseguirono la palma del martirio sotto questo Principe, ma non nell'occasione dell'incendio di Roma. Se ciò è vero, la persecuzione dovè essere generale.
Tolto questo mostro dal mondo, il Senato ne annullò gli atti, e i Principi, che vennero appresso sino a Domiziano, non consta, che avessero pubblicate leggi contro i Cristiani. Ma non perciò si lasciava di procedere contro di loro, in virtù delle leggi generali che venivano a ferirne l'istituto. Ma veniamo a Domiziano.
Ristretto. Avendo il fuoco incendiato il tempio del Campidoglio, gl'Imperadori imposero una tassa ai Giudei; il che diede motivo di vessarli: i Cristiani, che passavano per Giudei, furono involti nella persecuzione. Dei due figliuoli di Flavio Sabino zio di Domiziano, il maggiore fu convinto di cospirazione; il minore detto Flavio Clemente dovè la sua sicurezza alla mancanza di coraggio e di abilità, ma finalmente fu fatto morire: e Domitilla sua moglie fu rilegata. Il delitto imputato loro fu d'ateismo e di costumi Giudaici: onde qui non vi è idea nè di martiri nè di persecuzione.
Risposta. L'incendio del tempio del Campidoglio avvenne durante la guerra civile tra Vitellio e Vespasiano: il nuovo tempio fu dedicato da Domiziano, ma la tassa imposta ai Giudei fu a lui anteriore. Nè i Cristiani confondono le vessazioni sofferte da' Giudei, e forse da alcuni del loro partito, colle leggi proibitive del Cristianesimo: onde l'Autore confonde le sue idee, e quelle del lettore per voler troppo discorrere.
La legge riguarda la condanna di Flavio Clemente, ch'egli fa morire per pura gelosia di governo, citando il principio d'un passo di Dione, e sopprimendo il rimanente, dove soggiunge lo Storico, che sopra la stessa accusa di ateismo e di costumi Giudaici altri furono condannati alla morte, ad altri furono confiscati i beni. Queste esecuzioni suppongono una legge fatta per proibire l' ateismo e i costumi Giudaici, caratteri, che convengono ai soli Cristiani; onde a Clemente di poco talento, cioè modesto rimane nel numero de' Martiri, e Domiziano nella classe de' Persecutori. E notiamo di volo, che sotto Domiziano il Cristianesimo si era insinuato nella sua famiglia.
Articolo secondo. Se gl'Imperatori si condussero con precauzione e con ripugnanza nel perseguitare i Cristiani.
Nuova e singolar maniera di ragionar sulla storia! Turbar l'ordine cronologico senza bisogno; parlar del martirio di San Cipriano prima che avvenisse; unir Tiberio con Marco Aurelio, e farli venire in iscena dopo Traiano; e dopo Decio rompere la serie degli Imperadori per trattenerci sull'ardore, col quale i Cristiani correvano al martirio, sopra i motivi che ve li spignevano, e sul rilassamento tra loro introdottosi, e finalmente dividere le parti della Commedia ed assegnare ad un Imperadore la precauzione, ad un altro la ripugnanza, ad un terzo la moderazione: e quindi conchiudere in tuono d'autorità, che i Persecutori del Cristianesimo si regolarono con precauzione, con ripugnanza, con moderazione; ecco i rari pregi di questo libro.
Non ha fatto così l'Autore del Discorso sulla Storia universale; non così l'Autore de' Ragionamenti sulla storia Ecclesiastica; non così l'Autore dell'Osservazioni sulla grandezza, e sulla decadenza de' Romani. Questi, che scrivevano per istruire, si guardarono da tutto ciò, che potesse partorir confusione; in vece di generalizzare le idee, limitarono le loro riflessioni alla natura di ogni fatto particolare; e così sotto il loro pennello il bianco è rimasto bianco, ed il nero è rimasto nero. Premendo noi le stesse vestigia, e rinunciando in fatto di storia all'universalità dell'idee, vorremmo porre sotto l'occhio del lettore le leggi fatte da ogni Imperadore, e la maniera colle quali furono eseguite; onde più dalla storia stessa che dalle nostre riflessioni risultasse il carattere proprio di ciascuno, se il nostro disegno ci permettesse di dilungarci: tuttavia non lasceremo che si desideri il bisognevole.
E primieramente la precauzione, la ripugnanza, la moderazione, che tanto si estolle, non si manifesta nella persecuzione indiretta e permanente; poichè l'aver appunto trascurato sino a Plinio di procedere nella causa de' Cristiani con una regola fissa; e l'avere permesso, che i Sacerdoti colle loro suggestioni, ed il popolo con tumultuosi clamori si arrogassero il diritto della sovranità, dà idea e ne' Principi e ne' sudditi di quei tempi di tutto altro che di precauzione, di ripugnanza, e di moderazione.
Secondariamente, i primi due autori delle persecuzioni dirette ed espresse, Nerone e Domiziano, sembrano piuttosto mostri che uomini, come ognuno facilmente concederà, senza che si ripetano da noi i decreti e le azioni loro. Ma siccome l'Autore ha tolti questi due Tiranni dal numero de' persecutori, e pretende, che Traiano fosse il primo a far leggi particolari sopra i Cristiani, così da questo cominciano ad additarsi nella storia i tre caratteri dianzi rammentati. Osserviamo intanto, com'egli faccia il ritratto di Traiano e de' suoi successori.
Articolo terzo, se Traiano, Adriano ed Antonino si condussero con precauzione, con ripugnanza, e con moderazione contro i Cristiani.
Ristretto. Sotto Traiano, Plinio il giovane, Governatore della Bitinia trovossi perplesso nel determinare qual legge seguir dovesse co' Cristiani, dal che si arguisce che fino allora non esisteva contro di essi alcuna legge generale. Egli ricorse a Traiano, nella risposta del quale si stabilirono due utili regolamenti. Perchè egli ordina ai Magistrati di punire i convinti, proibisce di farne inquisizione; rigetta l'accuse anonime, e similmente il denunciante doveva provare tutte le circostanze dell'accusa. Se vi riusciva si rendeva odioso ed a' Cristiani ed a' Gentili; se non vi riusciva, incontrava la pena severa, e forse capitale imposta da una legge di Adriano: onde non si crederà sicuramente che i sudditi idolatri dell'Impero Romano avessero formate leggermente o frequentemente accuse, dalle quali avevano sì poco a sperare.
Risposta. Primo, questo tratto di storia è distinto dall'Autore a dimostrare la precauzione, e la ripugnanza: la moderazione nell'uso delle pene è argomento d'un altro quadro.
Secondo, nel titolo dell'articolo egli annunzia in generale, che gl'Imperadori si condussero con precauzione e con ripugnanza, quando si trattò di punire i sudditi accusati di Cristianesimo; e qui parla del solo Traiano, e tocca di volo Adriano, e sino all'ultimo de' persecutori più non parla di questo.
Terzo, riferisce imperfettamente la legge di Traiano, dalla quale essenzialmente dipende il giudizio, che far ne dobbiamo; e regala grandi vantaggi a' Cristiani a forza d'immaginarli.
Plinio espose a Traiano, che avendo fatto diligente esame intorno all'istituto ed alle adunanze de' Cristiani, non vi aveva trovato se non che cantavano lodi al loro Cristo; che facevano pranzi sobri ed ordinari, e che si astringevano con giuramento ad astenersi da ogni reità; che avevano cessato pure di adunarsi per ubbidire agli ordini suoi; e che poste per maggior cautela due donne Cristiane a' tormenti, non potè altro scuoprire se non un gran fondo di superstizione. Risponde l'Imperadore, che in quest'affare non si può stabilire una regola sicura; ma si compiace di ordinare, che non si faccia più inquisizione contro i Cristiani, se però essi verranno accusati e convinti, i Magistrati usino ogni mezzo di ridurli, e trovandoli ostinati, li puniscano colla morte.
Confessa lo stesso Autore, che la legge è contraddittoria: in fatti se il Cristianesimo gli pareva delitto di morte, doveva permettere, che si seguisse a procedere per inquisizione come in tutti gli altri delitti capitali; se non gli sembrava che vi dovesse aver luogo l'inquisizione non doveva punir di morte gli accusati.
Questa legge recò due gravissimi danni ai Cristiani. Traiano lasciò libero ai Magistrati l'impiegare i mezzi eziandio di rigore, affin di ridurre i Cristiani al volere del Principe; e così aprì la via ai tormenti ed alla crudeltà: ed essendo questo il primo piano criminale fatto contro il Cristianesimo, si stabilì sì fattamente, che gl'Imperadori seguenti non poterono del tutto abolirlo, quando vollero favorire gli oppressi. Quindi la ripugnanza vi è nella legge, ma non vi è nè precauzione, nè moderazione; anzi evvi o una negligenza così supina o una politica così artifiziosa, che i Cristiani sono costretti ad imputare a Traiano tutti i mali, che fecero loro soffrire i suoi successori.
È curioso l'Autore, quando dice, che gli accusatori dovevano vergognarsi o temere. Sapete chi erano gli accusatori? I Sacerdoti, i Filosofi, i quali stimavano di prestar ossequio agli Dei, perdendo i loro nemici. E la legge di Traiano recò loro tanto poco spavento, che Adriano suo successore, ed indi Antonino Pio non poterono frenarne altrimenti l'ardore, che coll'imporre al calunniatore la stessa pena del calunniato. Eglino pure dichiararono, che i clamori del popolo non sarebbero stati più ammessi come prova legale.
In questi due Principi la verità ci obbliga a riconoscere qualche grado di ripugnanza, di precauzione, di moderazione; ed i nostri Storici hanno loro renduta la meritata giustizia. Iddio volesse ch'eglino avessero avuto il coraggio di condannare all'obblio la funesta legge di Traiano. Avendo eglino conosciuta la ragione, dovevano trarla da' ceppi dell'oppressione invece di consolarla. Ma la spada nelle loro mani non fu digiuna di sangue: e molti Martiri sotto di loro illustrarono la Chiesa. Forse temettero la superstizione del popolo e la possanza dell'irritabile genere de' Sacerdoti Pagani: non avendo essi avute idee molto pure della giustizia, noi, piuttosto che malignare sulla loro condotta, siamo disposti a compatirli. Lo stesso Traiano per avventura era stato costretto a rispettare la congiura universale del Paganesimo contro i Cristiani, ma non sappiamo perdonargli l'aver permesso ai Magistrati di tentar la costanza de' denunciati, sempre che la giustizia suole impiegare i tormenti ad ottenere la confessione, non la negazione del delitto.
Articolo quarto. Se gl'Imperadori furono moderati nell'uso delle pene.
Ristretto. Non era la pena una conseguenza inevitabile dell'essere alcuno stato convinto: chi tornava all'Idolatria era assoluto, applaudito, premiato; ed i giudici prendevano piuttosto a disingannarli che a punirli. Gli Scrittori del quarto e del quinto secolo hanno attribuito ai Magistrati Romani le più grandi crudeltà, e le più indecenti tentazioni. La loro educazione, il rispetto per le regole della giustizia, l'amore pe' precetti della filosofia non rendono credibili tali racconti.
Risposta. Di che tempo si parla? Di quali Ministri? Sotto quali Imperadori? Dovrebbero determinarsi tutte queste circostanze, per ragionare con fondamento sulla pretesa moderazione. Fu moderato Nerone, che fece servir i Cristiani per funesti fanali a' suoi infami divertimenti? Fu moderato Domiziano, che incrudelì contro il proprio sangue? Fu moderato Traiano, che aprì il primo la via de' tormenti? Fu moderato Decio che ordinò ai Magistrati d'inventarne de' nuovi? Fu moderato Marco Aurelio, che molto prima di Decio fece crudelissime stragi? Fu moderato Galerio, che opinò che i Cristiani si dovessero bruciar tutti vivi? Quali i Principi, tali esser ne dovevano i Ministri. Se si fosse trattato di un delitto, in cui i Giudici alcuno interesse non avessero avuto, si potrebbero per ventura supporre, quali sono dal loro Apologista dipinti. Ma eglino professavano la Religion combattuta da' Cristiani; ed avevano continuamente all'orecchio i Sacerdoti degl'Idoli. Come supporli indifferenti, e piuttosto disposti a disingannare, che a punire i nemici de' loro Numi? Qualche esempio di moderazione e di umanità pur nella storia si trova; ed i nostri Scrittori stessi ne hanno conservata la memoria; ma è un abusare del pubblico il citar qualche esempio in prova di un'asserzione generale.
E giacchè l'Autore ci obbliga a fare il vero carattere de' Magistrati Romani, invece dell' eccellente educazione, del rispetto per la giustizia, dell'amore per la filosofia, noi troviamo due fatti incontrastabili. Primo, che gl'Imperadori dovettero varie volte reprimere la licenza de' loro ministri. Secondo, sotto Decio questi edificanti Ministri vendevano pubblicamente falsi attestati ai Cristiani, che non avevano coraggio di combattere; e per costringerli a comprarli, facevano soffrire i più barbari tormenti a que' miserabili, che non potevano pascere la loro avarizia? La bella educazione! l'incorrotta giustizia! il purissimo amore della filosofia! farsi spergiuri e tradire il proprio Principe e la propria Religione.
Il Mosemio ha trovate le tracce di sì reo costume, anche ne' tempi anteriori a Decio e sappiamo dagli Atti Apostolici che S. Paolo fu fatto marcire due anni in prigione dal Ministro Romano, che si era lusingato di poterne trarre danaro. E se il danaro veniva loro offerto da' sacerdoti de gl'Idoli, come non è incredibile, con qual ferocia dovevano avventarsi contro gli oggetti dell'odio loro?
Riferiscono gli Storici del quarto e del quinto secolo che i Pagani alle volte impiegavano contro i Cristiani le più indecenti tentazioni; e ciò era conforme alla loro Religione. Non si sa, che Venere avea dei postriboli dedicati al suo nome, e che le meretrici credevano di onorarla? E questo si pretendeva dalle Vergini Cristiane?
Ma eccoci costretti a rompere il filo della Cronologia, per trattenerci in varie digressioni su i motivi, che portavano i Cristiani a cercare il martirio, sull'ardore de' primi Cristiani, sul rilassamento, che vi s'introdusse per gradi; sopra i diversi mezzi di evitare il martirio, e sopra gli editti di Tiberio e di Marco Aurelio.
Digressione prima sopra i motivi, che portavano i Cristiani a cercare il martirio.
Ristretto. Le vaghe declamazioni de' Padri non spiegano il grado di gloria, ch'essi promettevano a chi spargeva il sangue in difesa della Religione. Insegnavano, che il fuoco del martirio suppliva ogni difetto ed espiava ogni colpa, che mentre le anime degli altri Cristiani erano obbligate a passare per una lenta e penosa purificazione, i martiri entravano trionfanti al godimento immediato dell'eterne beneficenze. Oltre questo motivo servivano d'incitamento gli onori co' quali la Chiesa celebrava i gloriosi Campioni dell'Evangelio. I Confessori, che non erano condannati a morte, erano pure onorati; ed essi troppo spesso abusavano col loro spirituale orgoglio e colle licenziose maniere della preeminenza, che lo zelo e l'intrepidità avevano loro acquistata.
Risposta. La dottrina de' Padri circa il valore del martirio è chiara, ed è quella, che ha esposta l'Autore. Quanto al grado di gloria assegnato ai Martiri, il saperlo non era di gran giovamento.
Se l'Autore riconosce, che i Martiri correvano alla morte a motivo della gloria celeste, non può loro attribuire quello della gloria temporale: un Martire sapeva, che l' orgoglio spirituale lo avrebbe privato della mercede, alla quale aspirava; onde o rinunciava al martirio o alla superbia.
I Confessori erano onorati: si rispettavan in essi la presenza della grazia, che gl'infiammava al martirio: ma le decisioni si aspettavano dalle mani de' Vescovi non de' Confessori.
Non possiamo mettere in dubbio la testimonianza di S. Cipriano, il quale si duole del rilassamento, che cominciava ad introdursi tra' Confessori, passata già la tempesta: questi sventurati non avevano forza di resistere ad un secondo combattimento: e perciò il Santo Vescovo insisteva tanto sulla disciplina che riguardava gli onori de' Confessori.
Seconda digressione sull'ardore de' primi Cristiani.
Ristretto. Noi saremmo disposti più a criticare che ad ammirare l'ardore de' primi Cristiani, che spiravano sentimenti opposti alla comune inclinazione della natura dell'uomo. Molti irritavano il furor de' leoni, affrettavano i carnefici, si lanciavano con gioia tralle fiamme; e non avendo accusatori si dichiaravano da se stessi, e correvano in folla attorno ai tribunali. I filosofi ne stupivano, e trattavano tale maniera di morire come uno strano risultato di ostinata disperazione e di stupida insensibilità, o di superstiziosa frenesia.
Risposta. Lattanzio rispondeva a questi filosofi, che la stupidità o la stoltezza si trova sempre in pochi; che non si concepisce come divengano folli ad un tratto persone in gran numero, di ogni età, di ogni sesso, di ogni condizione, sparse in tante diverse regioni. Vuolsi ancora notare che la pretesa frenesia derivava da un sistema di dottrina ragionato, ed era la conchiusione di un sistema di vivere similmente ragionato. Da ultimo è certo che la vista de' Martiri talora convertiva improvvisamente gli astanti, che si dichiaravano Cristiani per morire egualmente Martiri. Ciò non è frequente nell'ordine della natura.
Prima che il Martire Ignazio prorompesse in sentimenti opposti alla comune inclinazione della natura dell'uomo, S. Paolo aveva detto: cupio dissolvi et esse cum Christo. Perciò noi siamo portati ad ammirarli invece di criticarli. Ma chi ha perduto il tatto spirituale, ed ha riposto ogni suo bene negli oggetti grossolani de' sensi, certamente nulla più dee temer che la morte.
Terza digressione sul rilassamento, che s'introdusse per gradi.
Ristretto. Quest'ardor della mente diè luogo insensibilmente alle speranze e timori più naturali del cuore umano, all'amor della vita, all'apprension della pena, ed all'orrore del proprio discioglimento. I regolatori più prudenti della Chiesa trovaronsi costretti a raffrenar l'indiscreto fervore de' lor seguaci, e a diffidare d'una costanza che troppo spesso gli abbandonava nel momento del pericolo. A misura che divenne meno mortificata ed austera la vita de' Fedeli, essi furono meno ambiziosi degli onori del martirio.
Risposta. Questo avvenne sotto Decio, la cui persecuzione fu violentissima. Ne' tempi seguenti, sino a Costantino, non si osservarono le stesse cadute. Ecco adunque una febbre di spirito, che sta tre secoli a dar luogo a poco a poco all'amor della vita ed all'apprension del dolore.
Quarta digressione sopra i mezzi di evitare il martirio.
Ristretto. Eranvi tre mezzi di sottrarsi alla fiamma della persecuzione, 1. L'accusato aveva tutto il tempo di difendersi: s'egli diffidava della sua costanza, la dilazione gli serviva per fuggire, il che fu autorizzato dall'avviso e dall'esempio dei più santi Prelati. 2. I Governatori vendevano per avarizia attestati, ne' quali si dichiarava, che le persone nominate si erano sottomesse alle leggi, ed avevano sacrificato alle divinità di Roma; e così i Cristiani potevano quietar la malignità d'un accusatore. 3. Molti veramente apostatavano; ma cessato il pericolo erano ammessi tra' penitenti.
Risposta. Quando il popolo era da subito furore assalito non si dava nè libertà, nè tempo di difesa al Cristiano. Quando i Magistrati volevano vendicarsi dell'affronto che ricevevano dalla costanza de' martiri, quando erano pagati da' Sacerdoti, quando non erano pagati da' Cristiani; e quando la mente dell'Imperatore propendeva al rigore, gli accusati non avevano altro mezzo di schivare i tormenti e la morte, fuorchè l'apostasia. Quando il Principe inclinava all'indulgenza i ministri la secondavano, e riusciva a qualche Cristiano di rimanersi occulto.
Ma la fuga non si concedeva a chi era caduto una volta nelle mani della giustizia; questi venivano ristretti e custoditi in prigione, ed erano riserbati alla prova de' tormenti. Fuggivano quelli che non erano stati ancora denunziati o arrestati.
Libertà di difese non ve n'era, nè ve ne poteva essere. Non si trattava di verificare un delitto: e l'accusato confessava e persisteva nel suo proponimento, e non era capace di difese; o tornava alla Religione degl'Idoli, ed era assoluto, applaudito, premiato.
I Libellatici, così detti, perchè si munivano de' falsi attestati che compravano dall'avarizia de' ben educati, de' giusti, de' filosofi Ministri, furono dalla Chiesa creduti rei di grave peccato, e questo consisteva nello spergiuro e nello scandalo. S. Cipriano si esprime così: nefandos idolatriae libellos. Ma il N. A. dice, che era riguardata come una venial mancanza che si espiava con una leggera penitenza, ingannato per avventura dalle parole del Mosemio: modica molestia veniam delicti sui ab Ecclesiis impetrabant, quasi impetrare veniam, significasse che il peccato era veniale. E le parole modica molestia esprimono, che le Chiese gli ricevevano alla comunione senza molto stento, giacchè essi realmente non avevano negata la fede.
Digressione quinta sopra gli editti di Tiberio e di Marco Aurelio.
Ristretto. L'Apologetico di Tertulliano contiene due esempi della clemenza degl'Imperatori, ma molto sospetti; e sono gli editti di Tiberio e di Marco Aurelio. Quanto al primo, non è verisimile, che Pilato informasse l'Imperatore della sentenza di morte da se ingiustamente pronunciata: nè che Tiberio conosciuto al dispregio di ogni Religione, volesse collocar G. C. tra gli Dei di Roma; nè che il servile Senato gli si opponesse; nè che questo Principe proteggesse i Cristiani dalla severità di leggi, che ancora non erano state fatte. Quanto al secondo, la colonna Antonina prova, che Marco Aurelio ed il popolo Romano attribuirono la pioggia maravigliosa a Giove ed a Mercurio, non al Dio de' Cristiani. In tutto il corso del suo regno Marco Aurelio dispregiò i Cristiani come filosofo, li punì come Sovrano.
Risposta. Non è il solo Tertulliano, che riferisca il fatto di Tiberio: ne fa pure menzione Melitone nell'Apologia, che presentò ad Antonino, oltre Eusebio, Orosio ed altri citati dal Fabricio. Nè le difficoltà, che si fanno in contrario, sono di gran momento. I Governatori erano tenuti a mandare all'Imperadore ogni famosa sentenza, che usciva dal loro tribunale; sicchè se Pilato non ne lo informava, doveva temere il gastigo dovuto alla mancanza del suo uffizio. E non era meglio prevenire e giustificarsi di proprio pugno, facendo cadere tutta la colpa sopra i sediziosi Giudei? Tiberio, ch'era irreligioso, dette molti esempi di animo superstiziosissimo: e potè costringere il Senato a ricevere tra gli Dei un savio della Giudea per mortificare quella servile adunanza. Il Senato potè opporglisi, sicuro del suffragio del popolo, ed appoggiato all'antica legge, che proibiva l'introduzione di ogni culto straniero: e Tiberio che progettò, non comandò, potè desistere da un impegno difficile, e farne occulta vendetta. Potè pure proteggere i Cristiani contro l'accennata legge, e contro l'altra spettante ai maleficj, benchè niuno ancora avesse fatte leggi particolari contro il Cristianesimo. Il Mosemio che agita questa controversia di critica, dice che le adotte ragioni non possono facilmente distruggersi.
Il miracolo della legione fulminante è sostenuto validamente da gran numero di Scrittori, che non possono tacciarsi di mancanza di critica. Insegnano essi, che se quello fu vero miracolo, dee necessariamente attribuirsi al vero Dio; e quale viene descritto dagli stessi Pagani, non può richiamarsi alla forza delle cagioni naturali. Insegnano, che la colonna Antonina, nella quale la grazia si ascrive a Giove ed a Mercurio fu eretta da' Pagani, i quali certamente dovevano contrastare ai Cristiani la liberazione dell'esercito. L'unica difficoltà che meriti considerazione si è il vedere, che quest'Imperadore perseguitò i Cristiani dopo il riferito miracolo. Ma Houtteville crede d'aver chiaramente dimostrato, che nel testo di Eusebio debbasi leggere l'anno 7 in vece di 17 per collocare la persecuzione prima dell'avvenimento: e soggiunge, che supponendo autentica la data d'Eusebio, la persecuzione deve ascriversi ai Sacerdoti, ai Magistrati, al popolo, così altamente infuriati contro i Cristiani a dismisura cresciuti, che neppure rispettavano la volontà del Principe.
Articolo quinto. Intervalli di pace goduti dalla Chiesa.
Non è nostro intendimento di seguire l'Autore, che come abbiamo osservato ha orribilmente sconvolto l'ordine de' tempi, e facendo calcoli poco esatti, e poco veridici, trova or qua or là lunghi intervalli di pace. Confuteremo alla rinfusa i suoi errori, con mettere sotto l'occhio del lettore le semplici date de' tempi, seguendo le tracce del Mosemio, che non può essere a lui sospetto, come quegli, che gli ha fornita lo maggior parte della materia, onde ha empito questo capo.
La Chiesa nacque nella Giudea, e nacque nella persecuzione, che spesso da S. Luca vien detta magna. Passata appena nel regno dell'Idolatria sotto lo stesso Tiberio, i Cristiani, oscuramente conosciuti, venivano puniti in virtù di due leggi stabilite da molto tempo nell'Impero contro i culti stranieri, e contro i maleficj. Abbiamo fondamento di credere, che Tiberio accordasse la sua protezione ai seguaci dell'Evangelio, ma eglino non si lodano di Caligola e di Claudio, come di quello. Le predette leggi sotto costoro servivano di pretesto ai sacerdoti, ai filosofi, al popolo di perseguitare i Cristiani.
Nerone nel decimo anno del suo regno fu indubitatamente il primo a dichiarare la persecuzione che durò 4 anni quanti egli ne sopravvisse. Galba regnò 7 mesi, poco meno Ottone, e 15 Vitellio, che fu sempre in guerra con Vespasiano, il quale governò 10 anni, e 2 Tito. I nominati Principi non fecero editti di persecuzione; ma ella si esercitava tacitamente e diveniva più violenta a misura che i progressi del Cristianesimo recavano maggior gelosia e timore ai cultori degl'Idoli.
Domiziano che resse l'Impero 15 anni solamente, negli ultimi pubblicò il suo editto contro i Cristiani, che fu rivocato o da lui stesso o da Nerva, il quale diede alla Chiesa due anni di respiro. La persecuzione di Traiano durò 19 anni, prima più ampia in vigore delle antiche leggi, e poi più ristretta, ma renduta regolare e stabile dal di lui rescritto. Sulle di lui orme camminò Adriano nel principio del suo governo: in seguito mitigò, ma non abolì il sistema del suo predecessore; sicchè ne' 21 anni della sua amministrazione la Chiesa fu da non pochi Martiri illustrata. Antonino Pio lasciò per qualche tempo vessare i Cristiani a discrezione de' lor nemici: ma poi commosso dalle rappresentanze di un Ministro fece il famoso editto ad commune Asiae, per reprimere però solamente la temerità ed il gran numero degli accusatori: egli tenne 23 anni il comando. Marco Aurelio senza far nuove leggi, continuò la persecuzione, che in alcune province fu atrocissima, e cessò di vivere dopo 19 anni di principato. Anche ne' 13 anni di Commodo, che non fu persecutore, si trovavano de' Martiri. Severo piuttosto protesse i Cristiani a principio: ma al 5 anno si rivoltò e fece editti espressi contro di loro: sedè egli sul trono 18 anni. Anche i principj di Caracalla furono macchiati del sangue de' Martiri: in appresso si rallentò la tempesta; e tutto il suo governo fu di 6 anni.
A Caracalla successe Macrino, il cui regno fu di 1 anno, e passò ad Elagabalo, che lo tenne 3 anni. Egli protesse i Cristiani più per la follia de' suoi pensamenti che per inclinazione verso loro. Alessandro Severo, che visse 13 anni, amò i Cristiani: se non che il famoso Giureconsulto Ulpiano loro nemico per intimorire l'Imperadore raccolse tutte le leggi pubblicate sino allora contro la Chiesa; ciò che fece nascere molte vessazioni. Massimiano in tre anni che visse, fu sempre persecutore. Gordiano che non afflisse i Cristiani, morì dopo 6 anni di governo. Quello di Filippo durò 5 anni e fu loro favorevole. Ma Decio, il quale dichiarò di nuovo la persecuzione, la rese tanto funesta che il tempo delle passate procelle poteva sembrar tempo di calma. Egli regnò 4 anni, e 3 Gallo, che proseguì con minor rigore la persecuzione. Valeriano, che da prima si prestò favorevole ai Cristiani in progresso gli perseguitò per 4 anni. Gallieno restituì loro la pace, sebbene imperfettamente: egli visse 8 anni, e 2 Claudio, sotto cui pure le cose Cristiane furono abbastanza tranquille. Aureliano nel quinto anno del suo governo rinnovò la persecuzione, e morì appena che l'ebbe incominciata.
Siamo giunti a Diocleziano, e possiamo dire senza timore di esagerare, che la Chiesa sino a lui non fu un momento libera dalla persecuzione. Dieci Principi le fecero aperta guerra: alcuni la guardarono con indifferenza, ed alcuni altri la protessero. Ma la persecuzione indiretta era un fuoco perpetuo, mantenuto dall'interesse de' Sacerdoti e dalla superstizione del popolo; niuno de' Principi meno nemici del nome Cristiano osò di estinguere questo foco. Basta questa sola riflessione a convincersi, che la persecuzione, la ripugnanza, la moderazione, i lunghi intervalli di pace sono parti dell'accesa fantasia del Panegirista de' persecutori.
Del resto, quando vogliano chiamarsi tempi di pace gl'intervalli che passarono tra una ed un'altra delle persecuzioni dirette ed espresse con nuove leggi, ognuno sa, che un anno di guerra distrugge la popolazione di un secolo. Come la Chiesa invece di andarsi debilitando prendesse maggior lena e vigore a segno che sotto l'ultimo persecutore dovè impegnare l'Idolatria ed opporsi con tutte le forze (ed ogni sforzo fu vano) al suo totale esterminio, attendiamo, che lo spieghi l'Autore col suo sistema delle cagioni naturali de' progressi del Cristianesimo.
Egli si trattiene molto sulla persecuzione di Diocleziano; e questa è un'epoca ch'esige anche da noi una particolare attenzione.
Della persecuzione di Diocleziano.
Ristretto. Il sistema di Diocleziano fu per più di 18 anni favorevole ai Cristiani, che si erano prodigiosamente moltiplicati, e godevano gl'impieghi i più importanti. I Pagani allora fecero gli ultimi sforzi, ed i Sacerdoti inventarono nuovi prodigi e chiamarono in soccorso i nuovi Platonici. Diocleziano e Costanzo non amavano di allontanarsi dalle massime della tolleranza, ma Massimiano e Galerio si dichiararono contro i Cristiani, prendendone motivo dall'imprudente zelo dei medesimi, come apparisce dagli esempi di Massimiliano di Affrica e del Centurione Marcello. Dopo la guerra di Persia riuscì a Galerio d'indurre Diocleziano a cominciare la persecuzione, che crebbe per gradi. In forza del primo editto le prigioni furono riempite di Ecclesiastici; cogli altri la persecuzione fu estesa a tutti i Cristiani, e furono intimate pene terribili a chi avesse sottratto un proscritto all'ira degl'Imperadori. L'incendio apparso due volte nel palazzo di Nicomedia intimorì altamente Galerio, che ne credè autori i Cristiani. Poichè Diocleziano ebbe rinunciato l'Impero, i suoi Colleghi ora sospesero, ora incalzarono la persecuzione secondo le circostanze, nelle quali si trovavano. In Occidente Costanzo protesse i Cristiani dal furore del popolo e dal rigor delle leggi. L'Italia e l'Affrica provarono una persecuzione breve e violenta sotto Massimiano; mentre la ribellione di Massenzio vi ricondusse improvvisamente la pace. Galerio poichè ebbe l'Impero di tutto l'Oriente, ebbe campo di soddisfare la sua crudeltà nella Tracia, nell'Asia, nella Siria, nella Palestina e nell'Egitto.
Risposta. Quest'ultima persecuzione, che durò un intero decennio e fu denominato l'Era de' Martiri, per la copia che ne morirono, si può chiamare persecuzione ragionata, a differenza dell'altre, ch'erano state accese piuttosto da un subitaneo furore, o dalla natia fierezza de' Principi, che da fredda e riflettuta politica. Insinua non oscuramente l'Autore che i Cristiani stessi, che per gran pezzo erano stati protetti e beneficati da Diocleziano, l'obbligassero ad armar la destra in loro danno con fatti scandalosi e superbi, che distruggevano i principj della disciplina militare, e cita in prova di ciò i due esempi di Massimiliano e di Marcello. Ma questo tratto di storia, che immediatamente precedè l'esaltazione del Cristianesimo, è così luminoso, che non si dee durar fatica a dissipare le torbide nebbie con cui si sforza egli di oscurarlo.
I veri motivi della persecuzione furono due, l'uno fu l'ultimo sforzo della superstizione e dell'interesse de' Sacerdoti, l'altro fu la smisurata ambizione di Galerio: il primo è toccato dall'Autore, che passa totalmente sotto silenzio il secondo.
Vedendo i Sacerdoti, che malgrado una guerra ch'era durata tre secoli, il Cristianesimo era divenuto presso che da per tutto la Religione dominante; che gli eserciti erano pieni di soldati Cristiani; che i Cristiani occupavano le principali cariche della Corte Imperiale; che i Cristiani avevano pubblici tempj e godevano il favore dei Principi, facilmente congetturarono, che se uno de' quattro padroni del mondo si fosse dichiarato Cristiano, l'idolatria sarebbe irreparabilmente andata in rovina, e temendo in Diocleziano più che in altri, tal mutazione, il pericolo parve loro sì grande, che non potesse rimoversi, se non con isforzi straordinarj.
Diocleziano era ignorante e superstizioso: dunque i Sacerdoti fecero parlar un oracolo contro i Cristiani, ed apparir segni infausti nelle vittime a cagion dei Cristiani. Questi due artifizj commossero l'animo del Principe che minacciò i Cristiani della sua Corte, e diede qualche ordine per costringerli a sacrificare agli Dei: ma dominato dall'amor della quiete, il suo sdegno appena acceso si estingueva; sicchè, disperando i Sacerdoti di guadagnarlo, si rivolsero a Galerio, in cui vedevano disposizioni più favorevoli.
Era Galerio rozzo, brutale, superstizioso all'eccesso; e dopo la guerra di Persia era venuto in tanta superbia, che formò l'ambizioso progetto di far perire i suoi Colleghi, e di godersi solo l'Impero. Costanzo Cloro, minacciato di prossima morte dalle abituali sue infermità, non gli dava gran pena, e la fortuna di Massimiano era appoggiata a quella di Diocleziano; sicchè contro costui doveva egli tutte le sue macchine indirizzare. Diocleziano, amando i Cristiani, n'era egualmente riamato, ed il loro numero, e la loro potenza lo tenevano in sicuro di qualunque attentato; onde Galerio non poteva perderlo, senza perder prima i Cristiani: e perchè Diocleziano faceva nel comando la figura di capo, come quegli, che aveva inventato il nuovo sistema, ed aveva chiamato a parte dell'Impero gli altri tre Principi, bisognava ch'egli stesso fosse lo strumento della persecuzione de' Cristiani.
Dunque il traditore, cautamente celando il suo vero disegno, assediava continuamente le orecchie di Diocleziano, e tentava ogni mezzo d'infiammare il di lui animo contro i Cristiani. Felici noi, e felice lui, se penetrando le mire del nemico avesse seco temporeggiato per politica, come aveva già fatto co' Sacerdoti per naturale freddezza! Egli resistè buona pezza agli assalti; ma finalmente la istanza di Galerio gli parve sì giusta, che non potesse con onore rigettarla. Domandò Galerio, che si mettesse l'affare in deliberazione secretamente con alcuni scelti Consiglieri; l'ottenne, e vinse. I Consiglieri furono nominati da lui, e vedendolo correre a gran passi alla fortuna, ne secondarono la intenzione.
Niuno degli antichi ha lasciato scritto ciò, che nel Consiglio si disse: ciò non ostante il nostro Autore crede d'indovinarlo; egli suppone, che i Ministri persuasero Diocleziano colle seguenti riflessioni: Che non doveva permettersi che sussistesse, e si moltiplicasse un popolo indipendente, e numeroso nel cuore delle Province. Ma Diocleziano si lodava della ubbidienza, e del servizio de' Cristiani, che erano sparsi per tutto, e vivevano subordinati alle leggi, contenti della libertà di coscienza. Che i Cristiani avevano formata una repubblica a parte, che si poteva sopprimere, prima che acquistasse una forza militare. Ma Diocleziano avrebbe risposto, che questa era una fredda ripetizione. Che questa Repubblica già si governava colle proprie leggi, e co' propri magistrati: e ciò nello spirituale; nel temporale co' magistrati, e colle leggi del Principe. Che già possedeva un tesoro pubblico. Tesoro in sogno; le Chiese raccoglievano quotidianamente le oblazioni e quotidianamente le distribuivano, secondo i canoni della disciplina. Che tutte le parti erano intimamente legate fra loro per mezzo delle adunanze dei Vescovi; cioè professavano la stessa credenza. Che i loro decreti erano ricevuti dalle numerose congregazioni con cieca credenza: nelle materie spettanti alla loro fede, Iddio volesse, che i nostri nemici fossero entrati in queste considerazioni!
Ma lo spirito calunniatore del nostro Autore è contrario ai monumenti più autentici della Storia. Imperciocchè le addotte accuse giustificherebbero così bene la persecuzione, che i Principi per rimuoverne tutta la odiosità, e far in se stessi risplendere l'amor del ben pubblico, le avrebbero pomposamente spiegate nei loro editti, se si fossero potuti lusingare, che alcuno vi avrebbe prestata credenza. Che vuol dire, che non se ne fa neppur motto? Galerio in fine pubblicò l'editto di rivocazione: in esso prese a giustificarsi, e dichiarò che il suo disegno era stato di guarire la superstizione de' Cristiani, e di ricondurli alla Religione degl'Idoli. Un Principe può purgarsi con ragioni di Stato, e trascura un vantaggio così essenziale? Inoltre, è noto, che Geroele Presidente della Bitinia fu uno de' Consiglieri, e lo strumento principale della persecuzione: costui pubblicò due libretti contro i Cristiani; Lattanzio, che ne dà l'estratto, non porge il minimo indizio di sospettare ciò, che l'Autore gli ha fatto dire.
Cade qui in acconcio di spiegare i due esempi che egli suppone anteriori alla persecuzione, e cagione ancora della medesima. Quando i Sacerdoti fecero credere a Diocleziano, che nella vittima, ch'egli consultava, non si trovavano i soliti segni, per la presenza de' Cristiani, il Principe milites ad nefanda sacrificia cogi praecepit, come scrive Lattanzio. Ma i soldati, piuttosto che sacrificare agl'Idoli, rinunciavano alla milizia; ciò, ch'era permesso.
Ora negli atti del Ruinart citati dall'Autore il Centurione Marcello così dice: Se tale è la condizione di quelli che militano, che debbano essere costretti a sacrificare agli Dei, ed agl'Imperadori, io getto a terra il cingolo e l'armi. Il Signor di Voltaire sopprimendo tutte le circostanze ha narrato, che Marcello in giorno di pubblica festa avendo gettato a terra le insegne militari, dichiarò che al solo Cristo ubbidiva: e così potè soggiungere che fu punito, come disertore, non come Martire, e che si trattava di una legge militare, non di una guerra di Religione. Il nostro Autore lo ha copiato fedelmente con tutta la citazione, benchè nelle altre sue ricerche consulti sempre gli originali. Questo, e simili fatti, sieno accaduti prima, sieno accaduti dopo la dichiarazione della persecuzione, altro non dimostrano, se non che i Cristiani dediti alla milizia non volevano rinunciare alla propria Religione.
Massimiliano di Affrica non può nella stessa guisa scusarsi: egli dichiarò, che la sua coscienza non gli permetteva di appigliarsi al mestiere delle armi. Ma quali sospetti poteva risvegliare nell'animo de' Principi un fatto singolare, quando gran moltitudine di Cristiani serviva attualmente negli eserciti?
Galerio si sforzò di far cadere sopra i Cristiani il sospetto del fuoco, che si attaccò al palazzo: ma Diocleziano fece dare i tormenti a tutti i suoi; e la sua Corte era composta di Cristiani, e di Gentili. Costantino, che allora era nel palazzo di Nicomedia lo attribuisce ad un fulmine; Lattanzio ne fa autore lo stesso Galerio. Siccome gl'incendj furono due, così non è facile di mettere in chiaro le difficoltà, che ne nascono; ma se noi non possiamo convincerne Galerio, così egli non potè convincerne i Cristiani.
Si è detto, che la intera durata della persecuzione fu di 10 anni; ma non sempre, nè da per tutto dello stesso tenore. Opinò Galerio da prima, che i Cristiani si dovessero bruciar tutti vivi, e il suo avviso fu rigettato con orrore. Diocleziano sempre abborrì il sangue, e non fu strascinato sino all'eccesso, che a grado a grado. Ordinò col primo editto la consegna de' libri sacri; così la tempesta si scaricò sopra i soli Ecclesiastici, ma succedendosi di mano in mano gli editti, la persecuzione divenne generale.
E ne' primi due anni fu violenta: la rinuncia di Diocleziano fu cagione di qualche cambiamento: Costanzo, che ubbidiva con ripugnanza, rendè la pace ai Cristiani suoi sudditi: Massenzio rivoltatosi contro Massimiano, trasse nel suo partito i Cristiani di quella porzione d'Impero: ma Galerio fece orribili stragi in tutto l'Oriente.
Editto di Galerio per dare la pace alla Chiesa.
Ristretto. Galerio afflitto da lunga e penosa malattia pubblicò un editto, nel quale dichiarò ch'era intenzion sua di correggere e ristabilir tutto secondo le antiche leggi e la disciplina pubblica de' Romani; e di ricondurre nella via della ragione e della natura i delusi Cristiani, che avevano abbandonata la Religione, e le ceremonie de' loro maggiori; e che disprezzando presuntuosamente le pratiche dell'antichità, avevano inventate leggi ed opinioni stravaganti secondo i dettami del lor capriccio, ed avevano formate diverse società nelle Province dell'Impero: ma che trovandoli tuttora ostinati nell'empia loro follia permetteva loro di nuovo il libero esercizio della propria Religione, purchè conservassero sempre il rispetto dovuto alle leggi, ed al governo, e gli esortava a pregare il lor Dio per la sua salute, e per la prosperità dell'Impero.
Risposta. O l'Autore ha falsificato l'editto, o lo ha malamente tradotto dal latino. Nell'originale non si nominano mai le leggi, sulle quali tanto s'insiste nella traduzione. La disciplina Romana che Galerio voleva rimettere, significa, come lo avverte il Mosemio, la Religione. Così Galerio suppone, che i Cristiani andavano contro la Religione Romana, non contro le antiche leggi, e contro la disciplina civile. Nel testo si legge, ut Christiani, qui parentum suorum reliquerunt sectam, ad bonas mentes redirent; ed in fatti, i moderni platonici li accusavano di essersi allontanati dal primo loro istituto. Le parole sectam parentum suorum, chiarissime in se stesse, nella traduzione esprimono, che i Cristiani avevano abbandonata la Religione de' loro maggiori Idolatri, poichè soggiugne disprezzando presuntuosamente le pratiche dell'antichità, avevano inventate leggi, ed opinioni stravaganti, secondo i dettami del loro capriccio, e che però i delusi Cristiani si dovevano ricondurre nella via della ragione, e della natura. In verità bisogna avere una fronte molto intrepida, per portar la impostura ad un segno tanto alto.
Conchiudiamo sopra Galerio, e sopra Diocleziano. Questo Principe fu piuttosto sciocco, che crudele: e nella persecuzione servì di puro strumento. Il vero Autore ne fu il primo, che per le stragi, e le carneficine giunse al suo intento di ristabilire la monarchia universale; ma anzichè poterne godere egli il frutto, morì dal dolore di aver messo in libertà il giovane Costantino, a cui il cielo aveva destinato il trono del Mondo. Ed i Sacerdoti Pagani, ch'eccitarono una sì grave e sì lunga tempesta, per impedire, che alcuno de' Principi non si dichiarasse cristiano, ottennero in premio delle loro fatiche, che la temuta dichiarazione seguisse in Costantino, e che questi collocasse nella sedia imperiale la croce di Gesù Cristo. Così la Providenza sa impiegare le passioni degli uomini, per giungere a fini diametralmente contrari a quelli, che essi si propongono.
Relazione probabile de' patimenti de' Martiri, e de' Confessori.
Ristretto. Eusebio, e Lattanzio declamano, ed esagerano i patimenti sofferti da' Cristiani in questa persecuzione. Il primo si rende sospetto, col dichiarare di scrivere tutto ciò che poteva ridondare in gloria, e di aver soppresso tutto quello che poteva tendere al disonore della Religione. Quando i Cristiani irritavano i Magistrati, egli è da credere, che fossero trattati con rigore. Ma ordinariamente avveniva il contrario; e ciò apparisce, 1. da' Confessori condannati alle miniere, dove avevano la libertà di formar cappelle per professarvi la loro Religione: 2. da' Vescovi, ch'erano obbligati a reprimere lo zelo precipitato di coloro, che gettavansi volontariamente nelle mani de' Magistrati, o per debiti, o per saziare la fame, o per espiare i lor falli con una lunga carcerazione. Trionfato ch'ebbe la Chiesa sopra tutti i suoi nemici, la vanità esagerò i patimenti de' Martiri, e 'l potere del Clero accreditò le leggende piene di miracoli.
Risposta. Dal prefiggersi Eusebio di non voler parlare delle contese precedenti alla persecuzione, e delle cadute, che si videro nella persecuzione, e di voler narrare soltanto ciò, che poteva giustificare i giudizj divini, e ciò, ch'era utile (così si legge nel testo) non segue, che si fosse impegnato a mentire, ed esagerare. Ma l'Autore gli fa dire, che voleva scrivere tutto ciò che poteva ridondare in gloria della Religione.
I Confessori condannati alle miniere, si servivano delle caverne, ch'egli chiama cappelle, per celebrarvi il culto divino. Dunque per questa libertà il travaglio delle miniere era una pena leggiera. Il ragionamento non è molto convincente.
I Vescovi erano costretti a frenare lo zelo precipitato di coloro, che gettavansi volontariamente nelle mani de' Magistrali. Dunque i Magistrati non li facevano molto patire. Questo secondo sillogismo conchiude nella stessa guisa, che il primo.
I debitori, che si fanno carcerare da' Magistrati per la fede, col pericolo di perdere la vita, per non farsi carcerare da' creditori, o per non implorarne la clemenza; ed i poveri, ch'erano alimentati dalla Chiesa senza bisogno di costituirsi in prigione, e che ciò non ostante per saziare la fame si abbandonavano alla discrezione de' loro nemici, che li bastonavano, e li costringevano a fare lunghi digiuni, sono personaggi, che nel romanzo del Sig. Gibbon fanno una comparsa del tutto singolare.
Quando voglia rigettarsi Eusebio senza motivo, un argomento certo, che non probabile, degli orribili tormenti sofferti da' Martiri in tutte le persecuzioni, e massimamente nell'ultima, può cavarsi dagli editti medesimi degl'Imperadori. Traiano stabilì l'uso di dare i tormenti per espugnare la costanza dell'animo, e siccome non prescrisse alcuna misura, dovevano crescere quelli, quanto era questa più salda. Decio ordinò ai Ministri, che inventassero nuovi generi di supplicj: e Traiano fulminò gravissime pene contro que' Gentili, che avessero sottratto un Cristiano al suo sdegno. Oltre ciò, l'odio ragionato de' Sacerdoti, e l'occulto disegno di Galerio, che non poteva condursi a fine senza distruggere i Cristiani, ci fanno abbastanza giudicare, se Lattanzio debba passare per un declamatore, e per un falsario Eusebio.
Del numero de' Martiri.
Ristretto. Origene dichiara, che a suo tempo esisteva un piccolissimo numero di Martiri. San Dionisio suo amico non numera, che 10 uomini, e 7 donne uccise nella persecuzione di Decio nell'immensa Città di Alessandria. Nella persecuzione di Diocleziano Eusebio riferisce, che 9 Vescovi furono puniti di morte, e nella sua numerazione de' Martiri della Palestina se ne trovano 92. Ora la Palestina faceva la sedicesima parte dell'Impero di Oriente: e supponendo ch'ella desse la sedicesima parte di Martiri, eglino in tutto l'Oriente ascenderanno a mille cinquecento, il qual numero diviso pe' dieci anni della persecuzione darà 150 Martiri per anno. Applicando la stessa proporzione all'Occidente, dove dopo il terzo anno fu sospeso e abolito il rigor delle leggi, i Cristiani fatti morire in tutto l'Impero saranno poco meno di duemila. E siccome questa fu la più lunga e la più atroce delle persecuzioni, il nostro calcolo moderato e probabile ci darà la giusta idea de' Martiri degli altri tempi.
Risposta. Nel passo di Origene, sul quale insiste il Dodwello, si dice, che i Martiri erano pochi, perchè Iddio non aveva voluto, che si distruggesse la stirpe de' Cristiani, e ciò indica, ch'egli considerò il numero de' Martiri riguardo alla gran moltitudine de' Cristiani, non in se stesso; ed in questo senso disse bene, esser piccolo.
San Dionisio numera 17 Martiri, non determinatamente, non escludendo gli altri, ma trascegliendo i più illustri.
Così pure va inteso Eusebio; e basta dare una scorsa alla sua Storia della persecuzione, e far attenzione all'espressioni che adopra in descriverla, per rimanerne convinto.
Il calcolo formato sopra i Martiri della Palestina si fonda sopra due supposizioni, l'una falsa, e l'altra non provata. Che i Martiri ivi costituissero la sedicesima parte de' Cristiani, non è provato neppure per congettura. E che Eusebio nominandone 92 intenda parlare esclusivamente, si è veduto, ch'è falso; e vuolsi aggiungere, che nel luogo stesso, dice, che in ogni provincia la moltitudine de' Martiri fu innumerabile; e parlando della Tebaide riflette, che in un sol giorno ne furono tanti decapitati, che il ferro perdè il taglio, e gli esecutori si succedevano per la stanchezza l'uno all'altro.
Del resto, abbiamo gli editti de' persecutori; ed abbiamo gli Atti sinceri de' Martiri, da' quali, ancorchè se ne detragga un terzo, sempre ne resterà un numero prodigioso.
Terminiamo col Mosemio, Autore a lui famigliare: Essere non pochi, ma molti quelli, che, per tre secoli e più, sostennero la morte per Cristo, è noto per gravissime testimonianze, e di parole, e di cose. Ma è anco fuori di dubbio, doversi detrarre un piccolo numero dall'immenso esercito di Martiri, che predicano egualmente i Greci ed i Latini. Non è da dispregiarsi l'opinione del Dodwello, se si determini così. I Martiri sono molto più pochi di quello, che crede il volgo. Nè al contrario è da dispregiarsi l'opinione degli avversari, se si prenda in questo senso. I Martiri sono in molto maggior numero di quello, che stima il Dodwello.
RIASSUNTO
In questo capo si è lungamente ragionato sulle cagioni della persecuzione colla mira di vedere, se ne restino giustificati gli Autori. La prima cagione fu la natura intollerante della Religione Cristiana, che obbligava i seguaci a rinunziare al culto nazionale. La seconda fu la falsa accusa di ateismo, o per dir meglio, di superstizione, e chimeriche speculazioni. La terza le assemblee Cristiane che, celebrandosi in secreto, risvegliavano ne' Gentili sinistri sospetti. La quarta i costumi de' Cristiani di atroci calunnie macchiati. E la quinta obbliata dall'Autore, l'attaccamento de' Pagani alla Idolatria.
Noi le abbiamo tutte ad una ad una richiamate ad esame; ed abbiamo trovato, non essersi l'Autore ingannato nell'attribuire alla loro forza la persecuzione. Bensì, lungi dal poter esse formare difesa alcuna dei Gentili, ne manifestano anzi a chiare note la ingiustizia. Imperciocchè quello, che si supponeva, era onninamente falso: e per diritto naturale non può alcun suddito condannarsi, senza esaminare, se meriti supplicio. Ora i persecutori trascurarono per tre secoli di adempire a questo dovere essenziale della legge di natura.
Siamo indi passati a considerare, se dalla storia delle persecuzioni risultino i quattro articoli dall'Autore proposti: cioè se veramente la Chiesa istette molto ad essere perseguitata: se i persecutori usarono precauzione, e ripugnanza nel far le leggi di proscrizione, e nell'eseguirle; se nell'uso delle pene furono moderati, e se la Religione provò vari considerabili intervalli di pace.
La Storia in vece di questi quattro articoli ci ha dimostrati chiaramente avverati gli opposti; perocchè la Chiesa nacque nella persecuzione, ed andò sempre crescendo nella persecuzione: prima fu assalita da' Giudei nella Palestina, poi in Roma da' Politeisti, in forza di due antiche leggi: in seguito, senza mai cessare questa persecuzione indiretta, dieci Imperadori fino a Costantino fecero contro il Cristianesimo editti espressi di tormenti e di morte.
In vece della precauzione e della ripugnanza la Storia ci ha dimostrato, che non si conobbe dalla maggior parte nè misura, nè ritegno, e che in vece della moderazione regnò per tutto la rabbia e la barbarie.
Intervalli di pace tra una, ed un'altra persecuzione se ne rinvengono; poichè tra tanti Imperadori, che riempirono la serie di tre secoli, dieci soltanto fecero leggi contro di noi. Se non che, la persecuzione indiretta tenuta sempre accesa da' Sacerdoti, da' Filosofi, dal popolo, non ci permise mai di respirare; e troviamo ancora de' Martiri sotto que' Principi stessi, che ci accordarono la loro protezione.
Abbiamo finalmente posta in chiaro la persecuzione di Diocleziano, che fu l'ultima, e durò un decennio, dove abbiamo veduto, con quanto vani sofismi l'Autore si è sforzato di oscurare i patimenti de' Cristiani, e di annichilare il numero de' Martiri. Quale giustificazione risulti da tutto ciò, per rendere meno orribile la condotta de' Pagani contro di noi, lo giudichi il lettore.
Confronto tra l'un Capo, e l'altro.
L'edificio della verità debbe essere tale, che le parti, ond'è composto, sieno insieme, e si corrispondano con perfetta armonia. Quando manca questa; quando le parti hanno ripugnanza tra loro sicchè la presenza dell'una escluda la presenza delle altre, a questo segno manifestamente si riconosce la macchina della menzogna. Avendo in tanto sottoposto ad esame tutto quello, ch'è piaciuto all'Autore di comunicare al pubblico sopra la Religione Cristiana, facciamo l'ultimo passo, ch'è quello di confrontare l'un capo coll'altro.
E primieramente, confrontando disegno con disegno, ne salta agli occhi la contraddizione. Nel primo caso si vogliono spezzare i progressi del Cristianesimo per cagioni naturali, e ciò in diversi termini vuol dire, che i Gentili erano naturalmente portati ad abbracciarlo, sia per la propria disposizione, sia per l'indole della Religione Evangelica. Nel secondo si prende a dimostrare che dalle cagioni provenienti dall'indole (almeno apparente) della Religione, e dalle disposizioni de' Politeisti, erano costoro naturalmente spinti a perseguitarla, e tanto naturalmente, che l'Autore, il quale li giustifica, è persuaso, che avessero avuto ragione. Or noi lo preghiamo a collegare insieme queste due idee. Ma diamo una rapida scorsa alle parti costituenti le due macchine.
Il Cristianesimo, si dice nel primo capo, fu naturalmente abbracciato per lo zelo esclusivo, o sia intollerante de' Cristiani medesimi. Ma nell'altro capo si sostiene, che l'intolleranza de' Cristiani, per la quale essi abbandonavano il culto nazionale, pareva ai Politeisti un peccato nuovo, straordinario, irremissibile; e che questa fu la prima cagione, che li determinò naturalmente alla persecuzione. L'Autore avrà la bontà di combinare.
Ivi la seconda cagione de' progressi del Cristianesimo si suppose essere la dottrina dell'immortalità con tutto il suo apparato. Ma qui si riferisce, che i Pagani rigettavano il prezioso dono dell'immortalità offerta da Gesù Cristo, e ne desideravano la risurrezione; e quanto all'opinione dell'imminente fine del mondo, che si chiamò ivi in soccorso dell'immortalità, qui si dice; che sì fatte predizioni movevano a sdegno i Gentili, e facevano loro temere, che non si sollevasse qualche pericolo all'Impero, tanto più grave, quanto più oscura era la setta de' Cristiani. Noi non possiamo conciliare queste cose.
Intorno all'attività de' miracoli, avendo trovata una patente contraddizione nel medesimo luogo, dove si suppongono falsi, ed insieme operanti vere e numerose conversioni, non abbiamo bisogno di confrontar capo con capo. Nè il secondo ne tratta, e dovrebbe trattarne, giacchè sarebbe stata giusta cagione di persecuzione, se i Politeisti fossero stati convinti, o avessero potuto provare che i Cristiani erano tanti impostori.
Quanto all'altra pretesa cagione di progressi, riposta nella morale Cristiana, abbiamo veduto, dove se n'è parlato, come è una gran ripugnanza il dire, che la morale Cristiana agli occhi de' Gentili pareva contraria alla natura, ed al bene dello Stato, e che nel medesimo tempo eglino erano da essa naturalmente determinati ad abbracciarla. Ma nell'altro capo vi ha di più: vi ha, che la morale de' Cristiani era tacciata di ateismo, d'infanticidj, di pranzi di carne umana, d'incesti, e che queste false accuse formavano uno dei motivi della persecuzione. Senza dubbio qui a rischiarare le tenebre abbisognano molte idee intermedie, tralasciate, per supplirsi dalla sagacità degl'interpreti.
In quel capo si pretese, che la unione, e la disciplina Ecclesiastica contribuì alla dilatazione della Chiesa. In questo la unione de' Cristiani, che aveva la forma, e la forza di una grande Repubblica confederata risveglia la gelosia del governo; le adunanze Cristiane sembrano sospette, i seguaci di Gesù Cristo erano accusati di spirito d'indipendenza, e per questo venivano perseguitati. Come concilieremo queste idee?
Finalmente in un capo si rappresentano i Sacerdoti degl'Idoli, come persone indolenti, che lasciano fare ai Cristiani, quanto lor piace: nell'altro i Sacerdoti infiammano il popolo, i Sacerdoti chiamano in soccorso i Filosofi, i Sacerdoti inventano nuovi oracoli, e nuovi prodigi, affin di perdere i Cristiani. Ed il popolo, che si supponeva caduto nello scetticismo, e che aveva già scossa l'autorità delle maraviglie della Mitologia, e che per certa conseguenza che fa l'Autore, così disposto a ricevere le maraviglie autentiche dell'Evangelio, per tre secoli infierisce contro i Cristiani, con sediziosi clamori li chiede alla morte contro le leggi del Principe, e si mostra tanto dominato dallo spirito di accusa, che parecchi sono costretti a reprimerlo colle più forti minacce.
Un uomo dell'Antichità fu tacciato d'incostanza, e fu posto in derisione con un bel verso a tutti noto.
Destruit, aedificat, mutat quadrata rotundis.
Il Signor Gibbon fa di più; pretende, che stiano insieme le rovine e gli edifizi, i quadrati ed i circoli.
Ecco il libro contro il quale nessun Apologista, a parere di alcuni, doveva osare di scrivere. Noi non abbiamo fatto, che compendiare o per dir meglio sfiorare una Opera, nella quale tutto è pacatamente, e secondo la sua naturale estensione esaminato. Dal poco, che ci è stato lecito di presentare al pubblico, ci ripromettiamo, che i due capi del Signor Gibbon, che riguardavano la Religione, saranno per l'avvenire meglio letti da chi vorrà parlarne con fondamento: ma lasciando all'autore della Opera gli applausi, che merita, noi siamo contenti di aver in parte contribuito alla utilità de' lettori.
Fine.
CAPITOLO XVII.
Fondazione di Costantinopoli. Sistema politico di Costantino e de' suoi successori. Disciplina militare. Corte e Finanze.
Il disgraziato Licinio fu l'ultimo rivale, che si oppose alla grandezza di Costantino, e l'ultimo prigioniero, che ne adornò il trionfo. Dopo un prospero e tranquillo regno, il conquistatore lasciò erede la sua famiglia del Romano Impero, di una nuova capitale, d'un nuovo governo, e di una nuova religione; e le innovazioni, che egli fece, furono adottate e riguardate con venerazione da quelli che gli succedettero. Il secolo di Costantino Magno e de' suoi figli è pieno d'importanti avvenimenti; ma l'Istorico resterebbe oppresso dal numero e dalla varietà de' medesimi, se diligentemente non separasse l'uno dall'altro i successi, che non hanno altra connessione fra loro che quella dell'ordine de' tempi. Dovrà egli dunque descrivere quei politici stabilimenti, che dieder forza e consistenza all'Impero, avanti di procedere a riferir le guerre e le rivoluzioni, che ne accelerarono la decadenza. Dovrà far uso della divisione fra gli affari civili e gli ecclesiastici, non conosciuta dagli antichi: la vittoria poi e l'interna discordia de' Cristiani somministreranno copiosi e distinti materiali, tanto d'edificazione quanto di scandalo.
A. D. 324
Dopo la disfatta e la deposizione di Licinio, il vittorioso di lui rivale s'applicò a gettare i fondamenti di una città destinata ad essere in futuro la dominante dell'Oriente, ed a sopravvivere all'Impero ed alla religione di Costantino. I motivi o d'orgoglio o di politica, che a principio indussero Diocleziano a ritirarsi dall'antica sede del governo, avevano acquistato maggior peso per l'esempio de' suoi successori, e per la consuetudine di quarant'anni. Roma si era insensibilmente confusa co' regni dipendenti, che ne avevano una volta riconosciuto il dominio; e la patria de' Cesari si riguardava con fredda indifferenza da un Principe marziale nato nelle vicinanza del Danubio, educato nelle Corti ed armate dell'Asia, ed investito della porpora dalle legioni della Britannia. Gl'Italiani, che ricevuto avevano Costantino come loro liberatore, umilmente obbedivano agli editti, ch'esso qualche volta si compiaceva d'indirizzare al Senato ed al Popolo Romano; ma di rado venivan onorati dalla presenza del nuovo loro Sovrano. Nel vigore della sua età, Costantino, secondo le varie occorrenze di guerra o di pace, muovevasi ora con lenta dignità, ora con attiva diligenza lungo le frontiere de' suoi vasti dominj; ed era sempre apparecchiato ad entrare in battaglia tanto contro gli esterni, che contro gl'interni nemici. Ma come egli giunse, di grado in grado, al sommo della prosperità e ad un'età più matura, incominciò a pensare di stabilire la forza e la maestà del Trono in una più durevole sede. Volendo scegliere una situazione vantaggiosa, preferì a qualunque altra quella, che serve di confine fra l'Asia e l'Europa, tanto per domare con potenti armi i Barbari, che abitavano tra il Danubio ed il Tanai, quanto per osservare con occhio geloso la condotta del Re di Persia, che di mal animo soffriva il giogo d'un ignominioso trattato. Con tali mire avea Diocleziano scelta per sua residenza, ed abbellita Nicomedia; ma la memoria di Diocleziano era con ragione abborrita dal protettor della Chiesa, e Costantino non era insensibile all'ambizione di fondare una città, che potesse perpetuar la gloria del proprio suo nome. Nel tempo delle ultime operazioni militari contro Licinio, ebbe bastante opportunità di esaminare, come soldato non meno che come politico, l'incomparabile posizione di Bizanzio, e di osservare quanto era fortemente guardato quel luogo dalla natura contro gli attacchi de' nemici, mentr'era da ogni parte accessibile a' vantaggi del commercio. Molti secoli prima di Costantino, uno de' più giudiziosi Storici dell'antichità[187] avea descritto i vantaggi di una situazione, dalla quale ad una debole colonia di Greci era provenuto il comando del mare e l'onore di una florida ed indipendente Repubblica[188].
Se consideriamo Bizanzio nell'estensione che acquistò coll'augusto nome di Costantinopoli, può rappresentarsene la figura come di un triangolo di lati disuguali. L'angolo ottuso, che s'avanza verso l'oriente ne' lidi dell'Asia, affronta e rispinge i flutti del Bosforo Tracio. Il lato settentrionale della città è circondato dal porto, ed il meridionale è bagnato dalla Propontide o dal mar di Marmora. La base del triangolo è all'occidente, e serve di confine al continente d'Europa. Ma senza una più ampia spiegazione non può con sufficiente chiarezza intendersi l'ammirabile forma e divisione delle terre e delle acque, che sono all'intorno della città.
Quel tortuoso canale, per cui con rapido e continuo corso le acque dell'Eussino scorrono verso il Mediterraneo, fu chiamato Bosforo, nome non meno celebre nell'istoria che nelle favole dell'Antichità[189]. Una gran quantità di tempj e di altari votivi, sparsi lungo quegli scoscesi e selvosi lidi non fa che dimostrar l'imperizia, i terrori e la devozione de' Greci naviganti, che seguitando l'esempio degli Argonauti andarono esplorando i pericoli dell'inospito Eussino. Su quelle spiagge la tradizione conservò lungo tempo la memoria del palazzo di Fineo, infestato dalle oscene arpie[190], e del silvestre regno di Amico, che sfidò il figlio di Leda alla pugna del cesto[191]. Lo stretto del Bosforo ha per termini gli scogli Cianei, che una volta, secondo la descrizione de' Poeti, galleggiavano sulla superficie dell'acque; ed erano dagli Dei destinati a difendere l'ingresso dell'Eussino dalla profana curiosità[192]. Dagli scogli Cianei fino al capo ed al porto di Bizanzio la girevole lunghezza del Bosforo si estende circa a sedici miglia[193], e la più comune di lui larghezza può computarsi circa un miglio e mezzo. Le nuove fortezze d'Europa e d'Asia furon fabbricate nell'uno e nell'altro continente su' fondamenti de' due celebri tempj di Serapide e di Giove Urio. Le antiche, le quali son opera degl'Imperatori Greci, dominano la parte più stretta del canale, in un luogo dove gli opposti lidi si accostan fra loro fino alla distanza di cinquecento passi. Queste fortezze furono restaurate e fortificate da Maometto II. quando meditava l'assedio di Costantinopoli[194]; ma il conquistatore Turco probabilmente ignorava che Serse, quasi duemila anni prima di lui, aveva scelto il medesimo luogo per unire, mediante un ponte di barche, i due continenti[195]. Ad una piccola distanza dalle antiche fortezze si scuopre la piccola città di Crisopoli, o Scutari, che può quasi risguardarsi come il subborgo Asiatico di Costantinopoli. Quando il Bosforo incomincia a farsi strada verso la Propontide, passa fra le due città di Bizanzio e di Calcedone. Quest'ultima fu fabbricata dai Greci, pochi anni avanti la prima; e la società de' fondatori di essa, i quali non videro la più vantaggiosa situazione dell'opposto lido, ha dato luogo ad una proverbiale espressione di disprezzo verso di loro[196].
Il porto di Costantinopoli, che si può considerare come un braccio del Bosforo, nella più remota antichità ebbe il nome di corno d'oro. La curva, ch'esso descrive, si può assomigliare al corno d'un cervo, o verisimilmente con più proprietà a quello d'un bove[197]. L'epiteto d' aureo esprimeva le ricchezze, che qualunque vento portava dalle più distanti regioni nel sicuro ed ampio porto di Costantinopoli. Il fiume Lico, formato dall'unione di due piccioli torrenti, versa perpetuamente nel porto una quantità d'acqua nuova, che serve a purgarne il fondo, e ad invitare delle periodiche turme di pesci a ritirarsi in quel conveniente recinto. Siccome in que' mari appena si sentono le vicende delle maree, la costante profondità del porto fa che le mercanzie possano scaricarsi ne' magazzini senza aiuto di battelli; ed è stato osservato, che in molti luoghi possono i più grossi vascelli appoggiare le prore alle case, mentre le loro poppe si stan movendo nell'acqua[198]. Questo braccio del Bosforo, dall'imboccatura del Lico fino a quella del porto, è lungo più di sette miglia. L'entratura è larga circa cinquecento braccia, e nelle occasioni vi si può tirare attraverso una forte catena per guardare il porto e la città dagli attacchi d'una flotta nemica[199].
Tra il Bosforo e l'Ellesponto, recedendo l'una dall'altra per ambe le parti le spiagge dell'Europa e dell'Asia, contengono fra loro il mar di Marmora, che dagli antichi si chiamava Propontide. La navigazione, dalla fine del Bosforo fino al principio dell'Ellesponto, è di circa cento venti miglia. Quelli, che fan vela verso ponente nel mezzo della Propontide, possono scorgere nel tempo stesso le alture della Tracia e della Bitinia, e non perdere mai di vista l'alta cima del monte Olimpo, coperta d'eterna neve[200]. A sinistra lasciano un profondo golfo, nel mezzo del quale era situata Nicomedia, Imperial residenza di Diocleziano; e prima di gettar l'ancora a Gallipoli, passano le piccole isole di Cizico e di Proconneso, dove il mare, che separa l'Europa dall'Asia, di nuovo si stringe in un angusto canale.
I Geografi, che hanno esaminato con la più esatta intelligenza la forma e l'estensione dell'Ellesponto, assegnano a quel celebre Stretto la lunghezza di circa sessanta miglia di tortuoso corso, ed intorno a tre miglia d'ordinaria larghezza[201]. Ma la parte più stretta del canale si trova al settentrione delle antiche fortezze Turche, fra le città di Sesto e d'Abido. In questo luogo l'ardito Leandro s'espose al passaggio del mare per posseder la sua bella[202]. Qui fu parimente che in un luogo, dove la distanza fra gli opposti lidi non può eccedere i 500 passi, Serse costruì uno stupendo ponte di barche per trasportare in Europa un milione e settecentomila Barbari[203]. Un mare, contenuto dentro sì stretti limiti, male sembra, che meritar possa il singolar epiteto di largo, che Omero ugualmente che Orfeo hanno frequentemente dato all'Ellesponto. Ma le nostre idee di grandezza son relative: un viaggiatore, e specialmente un poeta, che naviga lungo l'Ellesponto, che va seguitando i giri del canale, e contempla quel teatro di campagne, che da ogni parte par che ne terminino il prospetto, insensibilmente perde la memoria del mare, e la sua fantasia gli dipinge quel celebre stretto con tutte le qualità d'un gran fiume, che scorre dolcemente in mezzo alle piante di una mediterranea campagna, e che finalmente per una larga bocca si scarica entro il mar Egeo, od Arcipelago[204]. L'antica Troia[205], situata sopra un'eminenza a piè del monte Ida, dominava la bocca dell'Ellesponto, il quale appena dimostrava di ricevere un aumento d'acque dal tributo di quegl'immortali ruscelli del Simoenta e dello Scamandro. Il campo de' Greci occupava dodici miglia lungo la spiaggia del promontorio Sigeo sino al Reteo; ed i fianchi dell'esercito eran guardati da' più bravi capitani, che combattevano sotto gli stendardi d'Agamennone. Nel primo di que' promontorj trovavasi Achille con gl'invincibili suoi Mirmidoni, e l'intrepido Aiace aveva piantate le sue tende sull'altro. Dopo che Aiace si fu sacrificato al suo orgoglio mal corrisposto ed all'ingratitudine de' Greci, gli fu eretto il sepolcro in quel luogo, dove aveva difesa la flotta dal furore di Giove e d'Ettore; ed i cittadini della nuova città di Reteo celebravano la sua memoria con onori divini[206]. Costantino, prima che si risolvesse a dar giustamente la preferenza alla situazione di Bizanzio, avea concepito il disegno d'eriger la sede dell'Impero in quel celebre luogo, dal quale i Romani traevano la favolosa origine loro. A principio fu scelta per la nuova capitale quell'estesa pianura, che giace sotto l'antica Troia verso il promontorio Reteo ed il sepolcro d'Aiace, e quantunque tal impresa fosse tosto abbandonata, i grandiosi avanzi che vi restarono delle mura e delle torri non terminate, chiamarono la curiosità di tutti coloro che navigarono per lo Stretto dell'Ellesponto[207].
Adesso noi siamo in grado di conoscere la vantaggiosa positura di Costantinopoli, che sembra essere stata dalla natura formata apposta per riuscire la capitale ed il centro d'una gran monarchia. L'Imperial città, situata nel grado 41 di latitudine, dominava dai suoi sette colli[208] i lidi opposti dell'Europa e dell'Asia; il clima era salubre e temperato; il terreno fertile; il porto sicuro e capace; e l'accesso dalla parte di terra di piccola estensione e di facil difesa. Il Bosforo e l'Ellesponto si possono risguardare come le due porte di Costantinopoli, ed il Principe, ch'era padrone di que' passi tanto importanti, poteva sempre tenerli chiusi ai vascelli nemici ed aperti al commercio. Può in qualche modo attribuirsi la conservazione delle Province orientali alla politica di Costantino, in quanto che i Barbari dell'Eussino, che avanti di lui avevano sparse le loro armate navali nel cuore del Mediterraneo, ben presto desisterono dall'esercitar la pirateria, disperando di poter forzare quell'insormontabile ostacolo. Quando eran chiuse le porte dell'Ellesponto e del Bosforo, la capitale in tale spazioso recinto poteva sempre godere di tutti i prodotti, atti a supplire a' bisogni, od a soddisfare il lusso dei numerosi suoi abitatori. Le coste marittime della Tracia e della Bitinia, che languiscono sotto il peso dell'oppressione de' Turchi, presentano tuttavia un ricco prospetto di giardini, di vigne, e di abbondanti raccolte; e la Propontide è stata in ogni tempo famosa per l'inesauribile quantità del pesce più squisito, che si prende in certe determinate stagioni senza che vi sia bisogno d'arte veruna e quasi senza fatica[209]. Ma quando si aprivano al commercio i due passi dello Stretto, questi a vicenda accoglievano le naturali ed artificiali ricchezze del settentrione e del mezzodì, dell'Eussino e del Mediterraneo. Tutte le naturali produzioni, che si raccoglievano nelle foreste della Germania e della Scizia, fino alle sorgenti del Tanai e del Boristene; tutto ciò che si lavorava dalle arti dell'Europa e dell'Asia; il grano d'Egitto, le gemme e le spezierie dell'India la più remota, si trasportavano da' diversi venti nel porto di Costantinopoli, che per molti secoli attrasse il commercio dell'antico mondo[210].
Il prospetto della vaghezza, della salubrità e della dovizia, raccolte in un sol luogo, era sufficiente a giustificar la scelta di Costantino. Ma siccome gli uomini hanno in ogni età supposto che una decente mescolanza di prodigio e di favola rifletta un maestoso decoro sopra l'origine delle grandi città[211], così l'Imperatore desiderava d'ascrivere la sua risoluzione non tanto agl'incerti consigli dell'umana politica, quanto agl'infallibili ed eterni decreti della Divina Sapienza. Egli ha avuta la cura di far sapere alla posterità in una delle sue leggi, ch'esso gettò i sempre durevoli fondamenti di Costantinopoli per ubbidire a' comandi di Dio[212]; e sebbene non abbia voluto riferire in qual maniera gli fosse comunicata l'inspirazione celeste, tuttavia è stato ampiamente supplito al difetto del suo modesto silenzio dall'ingenuità de' posteriori scrittori, i quali descrivono la notturna visione, che presentossi alla fantasia di Costantino nel tempo che dormiva dentro le mura di Bizanzio. Il genio tutelare della città, vale a dire una venerabil matrona, cadente sotto il peso degli anni e delle infermità, venne trasformata ad un tratto, in una florida fanciulla, che fu dalle sue proprie mani adornata con tutti i simboli dell'Imperiale grandezza[213]. Destossi il Monarca, interpretò il fausto augurio, ed obbedì, senza esitare, al volere celeste. Da' Romani si celebrava il giorno dell'origine d'una città o Colonia con tali ceremonie, quali si erano stabilite da una generosa superstizione[214]; e quantunque Costantino potesse ometter que' riti, che troppo sapevano d'origine Pagana, pure vivamente desiderava di lasciare una profonda impressione di speranza e di rispetto negli animi degli spettatori. L'Imperatore stesso, a piedi, con una lancia in mano, conduceva la solenne processione, e dirigeva la linea che si tirava per limite della nuova capitale, fintanto che s'incominciò ad osservare con istupore dagli astanti la gran circonferenza di essa, ed essendosi alcuni di loro finalmente avventurati ad avvertirlo, che aveva già oltrepassato il più vasto circuito di una gran città, «Io proseguirò sempre avanti (replicò Costantino ) fintanto che Egli, l'invisibil guida, che cammina avanti di me, non crederà a proposito di fermarsi»[215]. Senza presumere d'investigar la natura o i motivi di questo condottiero straordinario, ci contenteremo della più umil cura di descrivere l'estensione ed i limiti di Costantinopoli[216].
Nello stato in cui presentemente si trova la città, il palazzo ed i giardini del Serraglio occupano il promontorio di levante, ch'è il primo de' sette colli; e contengono circa cento cinquanta acri della nostra misura[217]. Si è costruita su' fondamenti d'una Repubblica Greca la sede della gelosia e del dispotismo Turco, ma è da supporsi che i Bizantini fosser tentati, dalla comodità del porto, ad estendere le loro abitazioni da quella parte oltre i moderni confini del Serraglio. Le nuove mura di Costantino s'estesero dal porto fino alla Propontide, attraverso la maggior larghezza del triangolo, alla distanza di quindici stadi dalle antiche fortificazioni; ed inclusero nel loro recinto, insieme con la città di Bizanzio, cinque de' sette colli, che agli occhi di quelli che s'avvicinano a Costantinopoli, par che in bell'ordine s'innalzino l'uno sopra dell'altro[218]. Circa un secolo dopo la morte del fondatore, le nuove fabbriche, slargandosi da un lato sul porto e dall'altro lungo la Propontide, già occupavano l'angusta cima del sesto e l'ampia sommità del settimo colle. La necessità di proteggere que' sobborghi dalle continue incursioni de' Barbari, impegnò Teodosio il Giovane a circondare la sua capitale con un conveniente e durevol recinto di mura[219]. La maggior larghezza di Costantinopoli, dal promontorio orientale alla porta d'oro, era di circa tre miglia Romane[220]. La circonferenza comprendeva fra le dieci e le undici miglia; e può considerarsene l'area come uguale a circa duemila acri Inglesi. Egli è impossibile di giustificare le credule e vane esagerazioni de' viaggiatori moderni, che alle volte hanno esteso i confini di Costantinopoli ai circonvicini villaggi della costa d'Europa ed anche dell'Asia[221]. Ma i sobborghi di Pera e di Galata, quantunque situati fuori del porto, possono meritar di considerarsi come una parte della città[222]; e tal aggiunta può forse autorizzar la misura d'un Istorico Bizantino, che assegna per circonferenza della sua patria sedici miglia Greche (corrispondenti a circa quattordici delle Romane)[223]. Sembra che tal estensione non fosse indegna d'una sede Imperiale. Pure Costantinopoli dovè cedere in grandezza a Babilonia ed a Tebe[224], all'antica Roma, a Londra, ed anche a Parigi[225].
Il dominatore del mondo Romano, che aspirava ad erigere un eterno monumento delle glorie del proprio regno, poteva impiegare, nell'eseguir quella grand'opera, le ricchezze, il travaglio, e tutto il gusto, che in quel tempo restava, di tanti milioni di sudditi. Si può formar qualche idea della spesa, che impiegò nella fabbrica di Costantinopoli la liberalità Imperiale, dell'essersi accordati circa due milioni e cinquecentomila lire per la costruzione delle mura, de' portici e degli acquedotti[226]. Le selve, che adombravano i lidi del Ponto Eussino e le famose cave di marmo bianco della piccola isola di Proconneso, somministrarono una inesauribile quantità di materiali, facili ad esser trasportati per la comodità di un breve tragitto al porto di Bizanzio[227]. Da un gran numero di lavoranti e di artefici con travaglio continuo si faceva ogni sforzo per condurre a termine l'opera; ma l'impaziente Costantino ben presto conobbe, che nella decadenza delle arti la perizia ed il numero degli architetti, che aveva, eran troppo sproporzionati alla grandezza dei suoi disegni. Fu dunque ordinato a' Magistrati delle più distanti province di erigere scuole, di stabilire professori, e d'impegnare, colla speranza de' premj e de' privilegi, allo studio ed alla pratica dell'architettura un numero sufficiente di giovani d'ingegno, educati liberalmente[228]. Le fabbriche della nuova città furono eseguite da quegli artefici, che potea dare il regno di Costantino; ma furono però decorate dalle opere dei più celebri maestri del tempo di Pericle e di Alessandro. Il poter far rivivere il genio di Fidia e di Lisippo sorpassava in vero la forza d'un Imperator Romano; ma le immortali produzioni, ch'essi lasciate avevano alla posterità, furono senza difesa esposte alla rapace vanità di un despota. Per ordine di esso le città della Grecia e dell'Asia spogliate vennero de' più pregevoli loro ornamenti[229]. I trofei di memorabili guerre, gli oggetti di religiosa venerazione, le statue più perfette degli Dei e degli Eroi, dei Sapienti e dei Poeti dell'Antichità contribuirono allo splendido trionfo di Costantinopoli, e dieder luogo a quella riflessione dell'Istorico Cedreno[230], il quale osserva con qualche entusiasmo, che niente altro pareva mancare, salvo gli animi degli uomini illustri, che da quegli ammirabili monumenti venivano rappresentati. Ma non è già nella città di Costantino, e nel decadente periodo d'un Impero, allorchè la mente umana trovavasi oppressa dalla schiavitù così civile, come religiosa, che cercarsi dovevano le anime d'un Omero e d'un Demostene.
Nel tempo dell'assedio di Bizanzio aveva il conquistatore piantato la propria tenda sulla dominante eminenza del secondo colle. Per eternare pertanto la memoria del suo buon successo, destinò per il Foro principale[231] quel medesimo vantaggioso luogo, che sembra essere stato di figura circolare o piuttosto elittica. Due archi trionfali ne formavano gli opposti due ingressi; i portici, che lo circondavano da ogni parte, erano pieni di statue; e nel centro del Foro s'alzava una sublime colonna, un mutilato frammento del quale indica ora la sua degradazione col nome di Colonna bruciata. Questa colonna posava sopra un piedistallo di marmo bianco, alto venti piedi, ed era composta di dieci pezzi di porfido, ciascuno de' quali aveva l'altezza di circa dieci piedi, e la circonferenza di circa trenta tre[232]. Nella sommità della colonna, alla distanza di sopra 120 piedi da terra, fu collocata una statua colossale d'Apollo. Essa era di bronzo, ed era stata trasportata o da Atene o da qualche città della Frigia, supponendosi che fosse opera di Fidia. L'Artefice avea rappresentato il Dio del giorno, o come fu interpretato dipoi, l'Imperator Costantino medesimo con uno scettro nella destra, col globo del mondo nella sinistra, e con una corona di raggi lucenti sul capo[233]. Il Circo, o l'Ippodromo era una magnifica fabbrica, lunga circa quattrocento passi, e larga cento[234]. Lo spazio fra le due mete o guglie era pieno di statue e di obelischi; e possiamo ancora osservare un frammento molto singolare d'antichità, vale a dire i corpi di tre serpenti avviticchiati ad una colonna di rame. I loro tre capi una volta servivano a sostenere il tripode d'oro, che i Greci vittoriosi dopo la disfatta di Serse consacrarono nel tempio di Delfo[235]. La bellezza dell'Ippodromo è stata dopo lungo tempo sfigurata dalle rozze mani de' conquistatori Turchi; ma tuttavia ritenendo il nome d' Atmeidan, che indica presso a poco l'istesso, serve di luogo d'esercizio pei loro cavalli. Dal trono, donde l'Imperatore godeva i giuochi circensi, per una scala a chiocciola[236] scendeva esso nel palazzo, ch'era un edificio magnifico, il quale appena cedeva alla residenza dell'istessa Roma, ed insieme con i cortili, giardini o portici adiacenti occupava una considerabil estension di terreno su' lidi della Propontide fra l'Ippodromo e la Chiesa di S. Sofia[237]. Dovremmo in simil guisa far menzione dei bagni, che seguitarono a ritenere il nome di Zeusippo, dopo che dalla munificenza di Costantino arricchiti furono d'alte colonne di varj marmi, e di sopra sessanta statue di bronzo[238]. Ma devieremmo dal proposito di quest'istoria, se volessimo descriver minutamente le diverse fabbriche e quartieri della città. Servirà in generale avvertire, che nelle mura di Costantinopoli fu compreso tutto ciò che adornar poteva la dignità di una gran capitale, o contribuire all'utile o al piacere de' numerosi di lei abitanti. In una particolar descrizione di essa, composta circa cent'anni dopo la sua fondazione, si trovano un campidoglio o scuola di studi, un circo, due teatri, otto bagni pubblici e cento cinquanta tre privati, cinquanta due portici, cinque granai, otto acquedotti o conserve d'acqua, quattro spaziose sale per le adunanze del Senato, o de' Tribunali di giustizia, quattordici chiese, quattordici palazzi, e quattromila trecento ottantotto case, che per la loro struttura e bellezza meritavano d'esser distinte dalla moltitudine delle abitazioni plebee[239].
Il secondo, e più serio oggetto dell'attenzione del fondatore fu la popolazione della sua favorita città. Ne' secoli tenebrosi, che successero alla traslazion dell'Impero, furono stranamente confuse fra loro le remote colle immediate conseguenze di quel memorabile avvenimento dalla vanità de' Greci e dalla credulità de' Latini[240]. Fu asserito e creduto, che tutte le famiglie nobili di Roma, il Senato, l'Ordine equestre con tutti i loro innumerabili dipendenti avean seguitato l'Imperatore alle spiagge della Propontide; che fu lasciata una razza spuria di stranieri e di plebei a posseder la solitudine della vecchia capitale; e che le terre d'Italia, che da gran tempo eran divenute giardini, restaron tutto ad un tratto spogliate di coltivatori e di abitanti[241]. Nel corso di quest'istoria tali esagerazioni si ridurranno al giusto loro valore; pure, siccome l'accrescimento di Costantinopoli non può attribuirsi al generale aumento dell'uman genere o della industria, conviene ammettere, che questa colonia artificiale s'innalzò a spese delle antiche città dell'Impero. Furono probabilmente invitati da Costantino molti opulenti Senatori di Roma e delle Province Orientali ad abbracciare per patria quella fortunata regione, che egli avea scelta per sua residenza. Gl'inviti d'un Principe difficilmente si posson distinguere da' comandi; e la liberalità dell'Imperatore facilmente e di buona voglia fu secondata. Egli donò a' suoi favoriti i palazzi, che avea fabbricati ne' diversi quartieri della città, assegnò loro, per sostenere il proprio decoro, varie terre e pensioni[242], ed alienò i fondi pubblici del Ponto e dell'Asia per concedere in vece stati ereditari, colla facile condizione di mantenere una casa nella capitale[243]. Ma ben presto tali obbligazioni ed incoraggiamenti divenner superflui, e furono a grado a grado aboliti. Dovunque si stabilisce la sede del Governo, ivi si spende una parte considerabile delle pubbliche rendite dal Principe stesso, da' suoi Ministri, dagli Offiziali di giustizia e da' Cortigiani. Vi sono attratti i provinciali più ricchi dai potenti motivi dell'interesse e del dovere, del divertimento e della curiosità. Si forma insensibilmente una terza classe anche più numerosa di abitatori da' servi, dagli artefici, e da' mercanti, che ritraggono la sussistenza dal proprio lavoro, e da' bisogni o dal lusso delle classi più elevate. In meno d'un secolo Costantinopoli contendeva coll'istessa Roma intorno alla superiorità delle ricchezze e della popolazione. Nuovi edifizi, ammucchiati insieme con poco riguardo alla salute o alla decenza, lasciavano appena lo spazio di anguste strade per la perpetua folla di uomini, di cavalli e di carriaggi. Il terreno, in principio destinato per la città, non era più sufficiente a contenere il popolo che sempre cresceva, e le sole fabbriche aggiuntevi, che si avanzavano dall'una e dall'altra parte nel mare, potevan formare una città molto considerabile[244].
Le frequenti e regolari distribuzioni di vino e di olio, di grano o di pane, di danaro o di provvisioni avevano quasi liberato i cittadini più poveri di Roma dalla necessità di lavorare. Il fondator di Costantinopoli volle in qualche maniera imitar la magnificenza de' primi Cesari[245]; ma per quanto la sua liberalità eccitasse l'applauso del popolo, essa è incorsa nella censura de' posteri. Un popolo di legislatori e di conquistatori avea ben diritto alle raccolte dell'Affrica, la quale si era conquistata col di lui sangue; ed Augusto immaginò con grand'arte, che i Romani, godendo dell'abbondanza, perduta avrebbero la memoria della libertà. Ma non può scusarsi la prodigalità di Costantino per alcuna considerazione nè di pubblico, nè di privato vantaggio; e l'annuale tributo di grano, imposto sopra l'Egitto in pro della nuova sua capitale, impiegavasi a nutrire una pigra ed insolente plebaglia a spese degli agricoltori d'un'industriosa Provincia[246]. Vi sono alcuni altri regolamenti di quest'Imperatore meno biasimevoli, ma che non meritano che se ne faccia menzione. Esso divise Costantinopoli in quattordici rioni, o quartieri[247], decorò col nome di Senato il Consiglio pubblico[248], comunicò i privilegi d'Italia a' cittadini[249], e diede alla nascente città il titolo di Colonia, e di prima e più favorita figlia dell'antica Roma. La venerabile madre mantenne sempre la legittima e riconosciuta superiorità, che dovevasi all'età, alla dignità ed alla memoria della sua prima grandezza[250].
Costantino faceva proseguir l'opera con l'impazienza di un amante; onde in pochi anni, o come altri racconta, in pochi mesi[251] fur terminate le mura, i portici ed i principali edifizi; ma tale straordinaria diligenza ecciterà meno la maraviglia, se rifletteremo che molte fabbriche furono finite così precipitosamente e con tali mancanze, che al tempo del successore si dovettero con difficoltà preservare dall'imminente ruina[252]. Si possono facilmente supporre i giuochi e le largità, che decorarono la pompa di questa memorabile festa; ma v'è una circostanza più singolare e permanente, che non deve interamente omettersi. Ogni anno, nel giorno natalizio della città, si collocava sopra un carro trionfale la statua di Costantino formata per suo ordine di legno dorato, che teneva nella destra una piccola immagine del Genio del luogo. Le guardie, vestite de' loro più ricchi abiti e portando in mano dei bianchi ceri, accompagnavano la solenne processione, che girava per l'Ippodromo. Quando era giunta dirimpetto al trono dell'Imperatore regnante, questi si alzava, e con grata riverenza adorava la memoria del suo predecessore[253]. Nella solennità della dedicazione per mezzo d'un editto inciso in una colonna di marmo, si diede alla città di Costantino il titolo di Seconda o di Nuova Roma[254]. Ma il nome di Costantinopoli[255] prevalse a quell'onorevole epiteto: e dopo il corso di quattordici secoli tuttavia continua la fama dell'autore di essa[256].
La fondazione di una nuova capitale è naturalmente connessa con lo stabilimento di una nuova forma di amministrazione sì civile che militare. Un distinto esame del complicato sistema di politica introdotto da Diocleziano, migliorato da Costantino, e perfezionato dagl'immediati di lui successori, può non solo dilettare la fantasia con la singolar pittura d'un grande Impero, ma servirà eziandio ad illustrare le segrete ed interne cause della rapida sua decadenza. Nella considerazione di altri rilevanti stabilimenti, possiamo essere spesso condotti a' più antichi o a' più moderni tempi della storia Romana; ma i limiti propri della presente ricerca saran compresi dentro il periodo di circa centotrent'anni, cioè dall'avvenimento al trono di Costantino, sino alla pubblicazione del Codice Teodosiano[257]; dal quale, ugualmente che dalla Notizia dell'Oriente e dell'Occidente[258], trarremo le più copiose ed autentiche istruzioni dello stato dell'Impero. Questa varietà d'oggetti sospenderà per qualche tempo il corso della narrazione: ma tal interrompimento sarà criticato soltanto da que' lettori, che non sentono la importanza delle leggi e de' costumi, quando con avida curiosità leggono gl'intrighi passeggieri d'una Corte o l'accidental evento d'una battaglia.
Il virile orgoglio de' Romani, contento della potenza effettiva, aveva lasciato alla vanità dell'Oriente la formalità e le ceremonie d'una fastosa grandezza[259]. Ma, quando essi perdettero anche l'ombra di quelle virtù, che nascevano dall'antica lor libertà, la semplicità dei costumi Romani restò insensibilmente corrotta dalla tumida affettazione delle Corti dell'Asia. Dal dispotismo degl'Imperatori abolite furono le distinzioni del merito e del carattere personale, che son tanto cospicue in una Repubblica, e così deboli ed oscure in una Monarchia; in luogo loro fu sostituita una severa subordinazione di gradi, e di uffizi, dagli schiavi titolati, che sedevano sugli scalini del trono, sino a' più vili strumenti dell'arbitrario potere. Questa moltitudine di sudditi abbietti aveva interesse di assicurare l'attual governo dal timore d'una rivoluzione, che ad un tratto avrebbe potuto confonder le loro speranze, ed impedire il premio de' lor servigi. In questa Divina Gerarchia (giacchè in tal modo essa è frequentemente chiamata) veniva indicato con la più scrupolosa esattezza ogni grado, e se ne spiegava la dignità con una quantità di frivole e solenni ceremonie, la cognizione delle quali richiedeva uno studio, ed era un sacrilegio l'ometterle[260]. Fu corrotta la purità della lingua Latina, ammettendosi nell'uso continuo della vanità e dell'adulazione un'abbondanza d'epiteti, che Tullio avrebbe appena intesi, e che Augusto avrebbe rigettati con isdegno. I primi uffiziali dell'Impero venivano salutati, anche dal Sovrano medesimo, co' bugiardi titoli di vostra Sincerità, vostra Gravità, vostra Eccellenza, vostra Eminenza, vostra sublime ed ammirabil Grandezza, vostra illustre e magnifica Altezza[261]. Le lettere o sia Patenti del loro uffizio erano curiosamente ripiene di quegli emblemi, ch'eran più adattati a spiegarne la natura e la dignità; come sarebbero l'immagine, o il ritratto del regnante Imperatore, un carro trionfale, il libro delle costituzioni posto sopra una tavola, coperto d'un ricco tappeto, ed illuminato da quattro ceri, le allegoriche figure delle Province da governarsi, o i nomi e le insegne delle truppe, che si dovevan comandare. Alcuni di questi simboli d'uffizio erano realmente collocati nel luogo dove davasi udienza: altri precedevano il loro pomposo treno, allorchè comparivano in pubblico, ed ogni circostanza del lor portamento, dell'abito, degli ornati, e del corteggio era diretta ad ispirare una profonda venerazione per quelli, che rappresentavano la Maestà Suprema. Il sistema del governo Romano da un filosofico osservatore potrebbe prendersi per uno splendido teatro, pieno di attori di ogni grado e carattere, che ripetevano il linguaggio, ed imitavano le passioni del loro originale[262].
Furono accuratamente distinti in tre classi tutti quei magistrati, ch'erano di sufficiente importanza da meritar d'aver luogo nello stato generale dell'Impero. Questi erano gli Illustri, gli Spettabili o Rispettabili, ed i Clarissimi, che si possono esprimer dagl'Inglesi colla parola onorevoli. Ne' tempi della Romana semplicità, quest'ultimo epiteto serviva solo per indicare una indeterminata espressione di deferenza, fin tanto che in progresso divenne il titolo particolare e proprio di tutti quelli, ch'erano membri del Senato[263], ed in appresso di coloro, che da quel venerabil corpo venivano eletti per governar le Province. Molto tempo dopo si condiscese alla vanità di quelli, che in forza del loro grado ed uffizio potevan pretendere una maggior distinzione sopra il resto dell'ordine Senatorio col nuovo titolo di Rispettabili: ma quello d' Illustri fu sempre riservato ad alcuni personaggi eminenti, che dalle altre due classi si riverivano ed obbedivano come superiori. Esso fu comunicato soltanto 1. a' Consoli ed a' Patrizj; 2. a' Prefetti del Pretorio, ed a quelli di Roma e di Costantinopoli; 3. a' Generali di cavalleria e d'infanteria; e 4. a' sette ufficiali del palazzo, ch'esercitavano le lor sacre funzioni intorno alla persona dell'Imperatore[264]. Fra quegl'illustri Magistrati, che si stimavano del medesimo grado, l'anzianità nel posto cedeva il luogo alla riunione di più dignità[265]. Gl'Imperatori, che desideravano di moltiplicare i loro favori, potevano alle volte coll'uso de' codicilli onorarj soddisfare la vanità, ma non l'ambizione de' cortigiani impazienti[266].
I. Fintanto che i Consoli Romani furono i primi magistrati d'uno Stato libero, dall'elezione del popolo nasceva il diritto ch'essi avevano d'esercitare la lor potestà; e fintanto che gl'Imperatori condiscesero a mascherare la servitù, che imponevano a Roma, i Consoli continuarono ad esser eletti da' voti o reali o apparenti del Senato. Ma sino dal regno di Diocleziano furono aboliti anche questi vestigi di libertà, ed i felici candidati, che venivano insigniti degli annuali onori del Consolato, affettavan di deplorare l'umiliante condizione de' loro predecessori. Gli Scipioni ed i Catoni eran ridotti a sollecitare i voti de' plebei, a sostenere le gravi e dispendiose formalità d'una elezione popolare, e ad esporre la lor dignità alla vergogna di un pubblico rifiuto; laddove il loro più fortunato destino gli avea serbati ad un secolo e ad un governo, in cui si dispensavano i premj della virtù dall'infallibil sapienza di un grazioso Sovrano[267]. Dichiaravasi nelle lettere, cui l'Imperatore spediva a' due Consoli eletti, ch'essi erano stati creati per la sola di lui autorità[268]. I loro nomi e ritratti, incisi sopra tavolette d'avorio dorate, si spargevano per l'Impero come presenti, che facevansi alle Province, alle Città, a' Magistrati, al Senato ed al Popolo[269]. Si faceva la solenne loro inaugurazione dov'era la residenza Imperiale, e per lo spazio di centovent'anni Roma fu continuamente priva della presenza degli antichi suoi magistrati[270]. La mattina del primo di Gennaio, i Consoli assumevano le insegne della lor dignità. Si vestivano in tal occasione d'un abito di porpora con ricami di seta e d'oro, ed alle volte con ornati di sontuose gemme[271]. In questa solennità erano corteggiati da' più eminenti uffiziali dello Stato e della milizia, in abito di Senatori; ed i littori portavano avanti di loro gli inutili fasci, armati colle, una volta, formidabili scuri[272]. La processione dal palazzo[273] andava al Foro o piazza principale della città, dove i Consoli salivano sul lor Tribunale, e si assidevano sulle sedie curuli, fatte all'usanza degli antichi tempi. Essi esercitavano subito un atto di giurisdizione, manumettendo uno schiavo, ch'era loro presentato per quest'effetto; e tal ceremonia era diretta a rappresentare la celebre azione dell'antico Bruto, autore della libertà e del Consolato, allorchè diede la cittadinanza al fedel Vindice, che avea scoperta la cospirazione de' Tarquinii[274]. La pubblica festa durava più giorni in tutte le città principali, in Roma per costume, in Costantinopoli per imitazione; in Cartagine, in Antiochia ed in Alessandria per amor del piacere, e per la sovrabbondanza delle ricchezze[275]. Nelle due capitali dell'Impero gli annuali giuochi del teatro, del circo e dell'anfiteatro[276] costavano quattromila libbre d'oro, cioè intorno a trecento e ventimila zecchini; e se una sì grave spesa oltrepassava le forze e la volontà de' magistrati medesimi, si suppliva dal tesoro Imperiale[277]. Tosto che i Consoli avevano adempiuto questi doveri di consuetudine, potevano ritirarsi all'ombra della vita privata, e godere nel rimanente dell'anno la tranquilla contemplazione della propria grandezza. Essi non presedevano più alle adunanze della nazione, nè più eseguivano le pubbliche determinazioni di pace o di guerra. Le loro facoltà (qualora non fossero impiegati in altri uffizi di maggior efficacia) erano di poco momento; ed i loro nomi non servivano che di legittima data per l'anno, in cui avevano essi occupato il seggio di Mario e di Cicerone. Contuttociò per altro si sentiva, e si confessava negli ultimi tempi della schiavitù Romana, che questo vuoto nome poteva paragonarsi, ed anche preferirsi al possesso della sostanzial potenza. Il titolo di Console fu sempre l'oggetto più splendido dell'ambizione, ed il premio più nobile della virtù e della fedeltà. Gli stessi Imperatori, che disprezzavano la debole ombra della Repubblica, conoscevano di acquistare maggior maestà e splendore ogni volta che assumevano gli annuali onori della dignità consolare[278].
La più superba e perfetta divisione, che possa trovarsi in ogni tempo o paese fra i nobili e la volgar gente, è forse quella de' patrizi e de' plebei, quale fu stabilita ne' primi tempi della Repubblica Romana. I primi possedevano quasi esclusivamente le ricchezze e gli onori, le cariche dello Stato e le ceremonie della religione: e con la più insultante gelosia[279] conservando essi la purità del lor sangue, tenevano i loro clienti in una specie di coperto vassallaggio. Ma queste distinzioni, tanto incompatibili con lo spirito d'un popolo libero, furono dopo lungo dibattimento abolite, mediante i continui sforzi de' Tribuni. I più attivi e fortunati fra' plebei accumulavano ricchezze, aspiravano agli onori, meritavano Trionfi, contraevano parentele, e dopo alcune generazioni assumevano l'orgoglio dell'antica nobiltà.[280] Le famiglie patrizie, per lo contrario, il primitivo numero delle quali non era stato accresciuto fino al termine della Repubblica, o mancarono secondo l'ordinario corso di natura, o furono estinte in tante guerre di fuori e domestiche, o per mancanza di merito o di fortuna insensibilmente si frammischiarono con la massa del popolo[281]. Ben poche ne rimanevano, che potesser dimostrare pura e genuina l'origine loro fin dal principio della città o anche da quello della Repubblica, quando Cesare ed Augusto, Claudio e Vespasiano dal corpo del Senato prescelsero un numero competente di nuove famiglie patrizie, colla speranza di perpetuare un ordine, che si considerava sempre come onorevole e sacro[282]. Ma questi artificiali supplementi (ne' quali era sempre inclusa la casa regnante) furono rapidamente tolti di mezzo dal furore de' tiranni, dalle frequenti rivoluzioni, dal cangiamento de' costumi e dalla mescolanza delle nazioni[283]. Quando Costantino salì sul trono, poco più vi restava che una indeterminata ed imperfetta tradizione, che i Patrizi erano stati una volta i primi fra' Romani. Formare un corpo di nobili, l'influenza de' quali può restringere l'autorità del Monarca nel tempo che l'assicura, sarebbe stato molto incoerente al carattere ed alla politica di Costantino; ma quand'anche si fosse da lui nutrito seriamente questo pensiero, avrebbe oltrepassato i limiti del suo potere il ratificare con un editto arbitrario una instituzione che aspettar dee la conferma dal tempo e dall'opinione. Egli richiamò, è vero, a nuova vita il titolo di Patrizi; ma lo richiamò come una distinzione personale non ereditaria. Essi non cedevano che alla passeggiera superiorità de' Consoli annuali; ma godevano la preeminenza sopra tutti i grandi uffiziali dello Stato col più famigliare accesso alla persona del Principe. Fu dato loro quest'onorevole dignità a vita; e siccome per ordinario essi erano favoriti e ministri, che avevano invecchiato nella Corte Imperiale, così dalla ignoranza e dall'adulazione fu pervertita la vera etimologia di quel nome, ed i Patrizi di Costantino furono venerati come i padri adottivi dell'Imperatore e della Repubblica[284].
II. Le vicende de' Prefetti del Pretorio furono totalmente diverse da quelle de' Consoli e de' Patrizi; questi videro la loro antica grandezza ridursi ad un vano titolo, quelli a grado a grado innalzandosi dalla condizione più bassa, furono investiti dell'amministrazione sì civile che militare del mondo Romano. Dal regno di Severo fino a quello di Diocleziano si confidavano alla loro soprantendenza le guardie del palazzo, le leggi e le finanze, le armate e le province; e come i Visir dell'Oriente, con una mano essi tenevano il sigillo, e coll'altra la bandiera dell'Impero. L'ambizione de' Prefetti sempre formidabile, e qualche volta fatale a' signori medesimi a' quali servivano, era sostenuta dalla forza delle truppe Pretoriane; ma dopo che quel superbo corpo fu indebolito da Diocleziano, e finalmente soppresso da Costantino, i Prefetti che sopravvissero alla caduta di quello, senza difficoltà si ridussero alla condizione di utili ed obbedienti ministri. Quando essi non furono più responsabili della sicurezza della persona Imperiale, dimisero la giurisdizione, che avevano fino a quell'ora preteso d'avere, e s'esercitarono in tutti i dipartimenti del palazzo. Tosto che cessarono di condurre alla guerra sotto i loro ordini il fiore delle truppe Romane, furono spogliati da Costantino d'ogni militar comando; ed in ultimo i capitani delle guardie, per una singolare rivoluzione, trasformati furono in civili magistrati delle province. Secondo il sistema di governo stabilito da Diocleziano, ciascheduno de' quattro Principi aveva il suo Prefetto del Pretorio, e dopo che la Monarchia si fu di nuovo riunita nella persona di Costantino, egli continuò a creare l'istesso numero di quattro Prefetti, ed alla lor cura affidò le stesse province, ch'essi già amministravano, 1. Il Prefetto dell'Oriente stendeva l'ampia sua giurisdizione alle tre parti del globo, che eran sottoposte a' Romani, dalle cateratte del Nilo ai lidi del Fasi, e dalle montagne della Tracia fino alle frontiere della Persia; 2. Le importanti province della Pannonia, della Dacia, della Macedonia e della Grecia riconoscevano una volta l'autorità del Prefetto dell'Illirico; 3. La potestà del Prefetto dell'Italia non si ristringeva soltanto al paese da cui prendeva il titolo, ma s'estendeva di più al territorio della Rezia fino alle sponde del Danubio, alle dipendenti isole del Mediterraneo ed a tutta quella parte del continente dell'Affrica, che trovasi fra' confini di Cirene e quelli della Tingitania: 4. Il Prefetto delle Gallie, sotto questa plurale denominazione, comprendeva le contigue province della Britannia e della Spagna, ed era obbedito, dalla muraglia d'Antonino fino al forte del monte Atlante[285].
Dopo che i Prefetti del Pretorio furono dimessi da ogni militar comando, le civili funzioni, che fu ordinato loro d'esercitare sopra tante soggette nazioni, erano adequate all'ambizione ed all'abilità de' più consumati ministri. Alla lor saviezza fu commessa l'amministrazione suprema della giustizia e delle finanze; oggetti che in tempo di pace comprendono quasi tutti i respettivi doveri del Sovrano e del popolo; del primo per difendere i cittadini, che sono ubbidienti alle leggi; del secondo per contribuire quella porzione di lor sostanze, che si richiede per le spese dello Stato. Dall'autorità de' Prefetti del Pretorio si regolavano il conio delle monete, le pubbliche strade, le poste, i granai, le manifatture e tutto ciò, che interessar potea la pubblica prosperità. Come immediati rappresentanti della maestà Imperiale avevan la facoltà di spiegare, di ampliare, o qualche volta di modificare gli editti generali per mezzo delle prudenziali loro dichiarazioni. Invigilavano essi sulla condotta de' Governatori delle province, deponevano i trascurati, e punivano i delinquenti. In ogni affar d'importanza o civile o criminale si poteva appellare da qualunque inferior tribunale a quello del Prefetto; ma le sentenze di esso eran finali ed assolute, e gl'Imperatori medesimi ricusavano d'ammettere alcuna querela contro il giudizio, o l'integrità di un magistrato, ch'essi onoravano di tanto illimitato potere[286]. Il suo stipendio era conveniente alla sua dignità[287]; e se era dominato dalla passione dell'avarizia, gli si presentavano frequenti occasioni di fare una doviziosa raccolta di gratificazioni, di presenti e di profitti d'ogni genere. Quantunque gl'Imperatori non avessero più timore dell'ambizione de' loro Prefetti, avevano però l'avvertenza di contrabbilanciare il potere di questa gran carica con l'incertezza e la brevità della sua durata[288].
Le sole città di Roma e di Costantinopoli, per causa della somma loro dignità ed importanza, erano eccettuate dalla giurisdizione de' Prefetti del Pretorio. L'immensa grandezza della città, e l'esperienza della tarda ed inefficace azione delle leggi aveva somministrato alla politica d'Augusto uno specioso pretesto d'introdurre in Roma un nuovo Magistrato, che solo potesse tenere in freno una servile e turbolenta plebaglia col forte braccio del potere arbitrario[289]. Per primo Prefetto di Roma fu destinato Valerio Messala, affinchè la sua riputazione favorisse un atto sì odioso; ma in capo a pochi giorni quel buon cittadino[290] dimise il suo uffizio, dichiarando con un animo degno dell'amico di Bruto, ch'egli si riconosceva incapace d'esercitare un potere incompatibile colla pubblica libertà[291]. Quando incominciò a divenir più debole il sentimento di libertà, si videro con più chiarezza i vantaggi del buon ordine; ed al Prefetto, che sembrava esser destinato solo per terrore degli schiavi e de' vagabondi, fu permesso d'estendere la sua civile e criminale giurisdizione sulle famiglie nobili ed equestri di Roma. I Pretori, che ogni anno creavansi come giudici della legge e dell'equità, non poterono contrariar lungo tempo il possesso del Foro ad un Magistrato vigoroso e permanente, che ordinariamente ammettevasi alla confidenza del Principe. I lor tribunali erano abbandonati, il loro numero, che altre volte era stato variamente fra i dodici e i diciotto[292], fu appoco appoco ridotto a due o tre, e le loro importanti funzioni si ristrinsero alla dispendiosa obbligazione[293] di dare i giuochi per divertimento del Popolo. Dopo che l'uffizio de' Consoli Romani si cangiò in una vana pompa, che rare volte si sfoggiava nella capitale, i Prefetti presero il vacante lor posto in Senato, e furono ben presto riconosciuti come i Presidenti ordinari di quella augusta assemblea. Ricevevano essi gli appelli fino alla distanza di cento miglia, e risguardavasi come un principio di giurisprudenza, che da loro soli dipendeva tutta l'autorità municipale[294]. Nell'esecuzione del suo laborioso impiego, era il Governatore di Roma assistito da quindici uffiziali, alcuni de' quali in origine erano stati uguali o anche superiori di esso. Le principali sue incumbenze si riferivano al comando di una copiosa guardia, stabilita per difender la città dagli incendi, da' rubamenti e da' notturni disordini; alla custodia e distribuzione del grano e delle provvisioni pubbliche; alla cura del porto, degli acquedotti, delle comuni cloache, della navigazione e del letto del Tevere; ed all'inspezione sopra i mercati; i teatri e le opere sì private che pubbliche. La lor vigilanza risguardava i tre principali oggetti di una regolar polizia, vale a dire la sicurezza, l'abbondanza e la mondezza della città; ed era destinato un particolare inspettore per le statue in prova dell'attenzione del governo a conservar lo splendore e gli ornamenti della Capitale: questi era come un custode di quell'inanimato popolo, che secondo lo stravagante computo d'un antico Scrittore, appena era inferiore di numero a' viventi abitatori di Roma. Circa trent'anni dopo la fondazione di Costantinopoli, fu creato anche in quella Capitale nascente un magistrato simile al Prefetto di Roma per i medesimi usi, e colle medesime facoltà; e fu stabilita una perfetta uguaglianza fra la dignità de' due Prefetti municipali, e de' quattro del Pretorio[295].
Quelli, che nell'Imperial gerarchia distinguevansi col titolo di Rispettabili, formavano una classe intermedia fra gl' Illustri Prefetti e gli Onorevoli Magistrati delle Province. In questa classe i Proconsoli dell'Asia, dell'Acaia, e dell'Affrica pretendevano la preeminenza, che accordavasi alla memoria dell'antica lor dignità; e l'appello dal lor tribunale a quello de' Prefetti era quasi l'unico segno di lor dipendenza[296]. Ma il governo civile dell'Impero era distribuito in tredici ampie Diocesi, ognuna delle quali uguagliava la giusta estensione di un potente Regno. La prima di queste diocesi era sottoposta alla giurisdizione del Conte d'Oriente; e si può formare un'idea dell'importanza, e del numero delle sue funzioni col solo riflettere che per l'immediato di lui uso erano impiegati seicento apparitori, che ora si direbbero segretari, giovani assistenti o messi[297]. Non era più occupato da un Cavalier Romano il posto di Prefetto Augustale d'Egitto: ma ne fu ritenuto il nome, e furon continuate nel Governatore di quella diocesi le straordinarie facoltà, che una volta la situazione del paese ed il temperamento degli abitanti rendettero indispensabili. Le altre undici diocesi dell'Asia, del Ponto e della Tracia; della Macedonia, della Dacia, e della Pannonia o sia dell'Illirico occidentale; dell'Italia e dell'Affrica; della Gallia, della Spagna, e della Gran-Brettagna erano governate da dodici Vicari o Viceprefetti[298], il nome de' quali spiega abbastanza la natura e la dipendenza del loro uffizio. Può aggiungersi ancora, che i luogotenenti generali degli eserciti Romani, ed i Conti e Duchi militari, de' quali dovremo da qui avanti parlare, goderono la dignità ed il titolo di Rispettabili.
A misura che prevaleva ne' consigli degl'Imperatori lo spirito di gelosia e d'ostentazione, attendevano essi a dividere con diffidente sollecitudine la sostanza, ed a moltiplicare i titoli del potere. I vasti paesi, che i conquistatori Romani avevan uniti sotto la medesima semplice forma di governo, furon senz'avvedersene sminuzzati in piccioli frammenti; finchè in ultimo tutto l'Impero fu diviso in cento sedici Province, ognuna delle quali aveva un dispendioso e splendido stabilimento. Tre di queste eran governate da Proconsoli, trentasette da Consolari, cinque da Correttori, e settantuna da Presidenti. Diversi erano i nomi di questi magistrati, disposti in successivo ordine i loro gradi, ingegnosamente variate le insegne della lor dignità, e la lor situazione secondo le accidentali circostanze diveniva più o meno piacevole o vantaggiosa. Ma tutti (eccettuati solo i Proconsoli) erano ugualmente compresi nella classe degli onorevoli, ed era ugualmente affidata loro in ogni rispettivo distretto l'amministrazione della giustizia e delle finanze, finattanto che piacesse al Principe, sotto l'autorità però de' Prefetti o de' lor deputati. I ponderosi volumi de' Codici e delle Pandette[299] darebbero gran materia per una minuta ricerca di quanto fosse migliorato il sistema del governo provinciale dalla saviezza de' Romani Politici e Giurisconsulti nello spazio di sei secoli. Sarà però sufficiente per un Istorico lo scegliere due singolari e salutevoli provvedimenti, diretti a restringer l'abuso dell'autorità. 1. Per mantener la pace ed il buon ordine i Governatori delle Province erano armati colla spada della Giustizia. Essi infliggevano pene corporali, e trattandosi di delitti capitali avevano il potere di vita e di morte. Ma non avevan la facoltà di concedere al condannato la scelta del supplizio, nè di condannare a veruna delle più miti ed onorevoli specie d'esilio. Queste prerogative si riservavano ai Prefetti, i quali soli potevano imporre la grave ammenda di cinquanta libbre d'oro, mentre i loro Vicari non potevan passare la piccola quantità di poche once[300]. Tal distinzione, la quale par che accordi un maggior grado d'autorità nel tempo stesso che ne toglie un minore, si appoggiava sopra un motivo assai ragionevole. Il grado più piccolo di potenza era infinitamente più soggetto all'abuso. Le passioni d'un Magistrato Provinciale potevano spesso indurlo ad atti di oppressione, che non attaccassero che la libertà o le sostanze dei sottoposti; ma per un principio di prudenza, e forse anche d'umanità, sempre avrebbe avuto orrore a versare un sangue innocente. Può in simil guisa riflettersi che l'esilio, le considerabili pene pecuniarie, o la scelta d'una morte più mite, si riferiscono particolarmente a' ricchi ed a' nobili; e perciò le persone più esposte all'avarizia, o alla collera di un provincial Magistrato si toglievano all'oscura di lui persecuzione per soggettarle al più augusto ed imparzial tribunale del Pretorio. 2. Poichè a ragione temevasi che si potesse corrompere l'integrità del giudice, se vi poteva entrare il proprio di lui interesse, o impegnarvisi le sue affezioni, si fecero i più rigorosi regolamenti per escludere, senza una special dispensa dell'Imperatore, ogni persona dal governo di quella Provincia, dov'era nata[301], e per impedire al Governatore o a' suoi figli di contrar matrimonio con alcuna nazionale o abitante[302], o di comprare schiavi, terre, o case dentro i limiti della propria giurisdizione[303]. Nonostanti queste rigorose precauzioni, l'Imperator Costantino, dopo venticinque anni di regno, deplora la venalità e l'oppressione, che s'usava nell'amministrar la giustizia, ed esprime col più ardente sdegno, che l'udienza del Giudice, la spedizione o la dilazion degli affari e la diffinitiva sentenza eran pubblicamente vendute o dal giudice medesimo, o da' ministri del suo tribunale. La ripetizione di leggi impotenti e di minacce inefficaci dimostra la continuazione, e forse anche l'impunità di questi delitti[304].
Tutti i Magistrati civili erano tratti dal ceto de' Professori di legge. Le famose Istituzioni di Giustiniano son dirette alla gioventù de' suoi dominj, che s'era data allo studio della giurisprudenza Romana; ed il Sovrano si compiace di animare la loro diligenza con assicurarli, che la loro perizia ed abilità sarebbe a suo tempo premiata con aver parte, in proporzion del loro merito, nel governo della Repubblica[305]. S'insegnavano gli elementi di questa lucrosa scienza in tutte le città considerabili dell'Oriente e dell'Occidente; ma la più celebre scuola era quella di Berito[306] sulle coste della Fenicia, che fioriva da più di tre secoli fin dal tempo d'Alessandro Severo, autor forse di uno stabilimento sì vantaggioso al suo paese nativo. Dopo un regolare corso d'educazione, che durava cinque anni, gli studenti si spargevano per le province, andando in cerca di ricchezze e di onori: nè poteva loro mancare un'infinita quantità di affari in un grand'Impero già corrotto dalla moltiplicità delle leggi, delle arti e de' vizi. Il solo tribunale del Prefetto del Pretorio d'Oriente poteva somministrar impiego a centocinquanta Avvocati, sessantaquattro de' quali erano distinti con particolari privilegi, ed ogni anno due se ne sceglievano con l'onorario di sessanta libbre d'oro per difendere le cause del fisco. Si faceva il primo esperimento dei loro talenti rispetto alle materie giudiciali con destinarli ad agire, secondo le occasioni, come assessori dei magistrati; quindi erano spesso innalzati a presedere in quei tribunali, avanti ai quali avean patrocinate le cause; ottenevano il governo d'una Provincia, e coll'aiuto del merito, della riputazione, o del favore successivamente a grado a grado salivano alle illustri dignità dello Stato[307]. Nella pratica del Foro questi uomini avevan considerata la ragione come un istrumento di disputa; interpretavano essi le leggi secondo i dettami del privato interesse; e le medesime perniciose abitudini restavano sempre inerenti al loro carattere nella pubblica amministrazione dello Stato. L'onore in vero d'una profession liberale si è sostenuto da molti antichi e moderni avvocati, che hanno occupato i più importanti posti con grand'integrità e costumata saviezza; ma nel declino della giurisprudenza Romana l'ordinaria promozione de' Giureconsulti era piena d'inganno e d'infamia. Quella nobile arte, che s'era una volta mantenuta come la sacra eredità dei Patrizi, era caduta nelle mani de' liberti e de' plebei[308], che piuttosto colle astuzie che col sapere ne facevano un sordido e pernicioso commercio. Alcuni di loro s'insinuavano nelle famiglie ad oggetto di fomentare le differenze, di promuover le liti, e di preparare una messe di guadagno per loro medesimi, o pe' lor confratelli. Altri, chiusi ne' lor gabinetti, si davano l'aria di gran Professori di legge, somministrando ad un ricco cliente delle sottigliezze per confondere la più patente verità, o degli argomenti per colorire le pretensioni più ingiuste. La classe più copiosa e popolare si componeva dagli avvocati, ch'empivano il Foro col suono della lor turgida e loquace rettorica. Non curanti della riputazione e della giustizia, per la maggior parte ci vengono rappresentati come guide ignoranti e rapaci, che conducevano per un labirinto di spese, di dilazioni, e di ostacoli i loro clienti, dai quali, dopo un tedioso corso di anni, finalmente venivano abbandonati, quando eran quasi esaurite la pazienza e le sostanze di essi[309].
III. Nel sistema politico introdotto da Augusto, i Governatori, almeno quelli delle Province Imperiali, erano investiti del pieno potere, che aveva il Sovrano medesimo. Da loro soli dipendevano i ministri sì di pace che di guerra, essi distribuivano i premj e le pene, e comparivano su' lor tribunali con gli abiti della civile magistratura, dopo che tutti armati si eran trovati alla testa delle Romane legioni[310]. L'influenza del danaro, l'autorità della legge ed il comando della milizia concorrevano a rendere il lor potere supremo ed assoluto; o quando essi eran tentati di violare la loro fedeltà verso il Principe, la provincia fedele, che restava avvolta nella lor ribellione, appena sentiva nel suo stato politico alcun cangiamento. Dal tempo di Commodo fino al regno di Costantino, potrebbero contarsi cento Governatori, che con vario successo innalzarono la bandiera della ribellione; e quantunque troppo spesso venisser sacrificati degl'innocenti, si potevano alle volte anche prevenire de' colpevoli dalla sospettosa crudeltà del lor Signore[311]. Costantino, per assicurare il suo trono e la pubblica tranquillità da questi formidabili servitori, risolvè di dividere l'amministrazione civile dalla militare, e di stabilire, come una distinzione permanente e di professione, una pratica che non era stata adottata che come un accidentale espediente. La suprema giurisdizione ch'esercitava il Prefetto del Pretorio sugli eserciti dell'Impero, fu trasferita in due Maestri Generali, ch'egli creò, uno per la cavalleria, l'altro per l'infanteria; e sebbene ciascheduno di quest' Illustri ufficiali fosse più specialmente mallevadore della disciplina di quelle truppe, ch'erano sotto l'immediata di lui direzione, pure ambidue promiscuamente comandavano in campo i diversi corpi di cavalli o di fanti, che trovavansi uniti nella medesima armata[312]. Il loro numero tosto fu raddoppiato, attesa la divisione dell'Oriente dall'Occidente, e furon distribuiti come Generali separati, del medesimo titolo e grado fra loro, nelle quattro importanti frontiere del Reno, dell'alto e del basso Danubio, e dell'Eufrate: e finalmente fu commessa la difesa del Romano Impero ad otto Maestri generali di cavalleria e d'infanteria. Sotto i lor ordini eran disposti nelle varie province trentacinque comandanti militari: tre nella Britannia, sei nella Gallia, uno nella Spagna, uno nell'Italia, cinque sull'alto Danubio, e quattro sul basso, otto nell'Asia, tre nell'Egitto, e quattro nell'Affrica. I titoli di Conti e di Duchi[313], per mezzo de' quali venivano essi propriamente distinti, hanno un significato così diverso negl'idiomi moderni, che l'uso di essi può recar qualche maraviglia. Ma converrebbe rammentarsi che il secondo di questi nomi non è che la corruzione d'una parola Latina, che distintamente applicavasi a qualunque capo di milizia. Tutti questi Generali dunque delle Province eran Duchi; ma non ve n'eran che dieci fra loro, i quali fossero decorati del grado di Conti o compagni; titolo d'onore, o piuttosto di favore, che s'era di fresco inventato nella Corte di Costantino. L'insegna, che distingueva l'uffizio dei Conti e dei Duchi, era un cingolo d'oro; ed oltre la paga si donava loro tanto da poter mantenere cento novanta servi e cento cinquant'otto cavalli. Era loro vietato rigorosamente d'ingerirsi in alcuna cosa, che appartenesse all'amministrazione della giustizia o delle pubbliche rendite; ma il comando altresì ch'esercitavan sopra le truppe del lor dipartimento era indipendente dall'autorità de' magistrati. Verso l'istesso tempo, in cui Costantino stabiliva le leggi per l'ordine Ecclesiastico, egli instituì nel Romano Impero il geloso equilibrio fra la potestà civile e militare. L'emulazione, ed alle volte anche la discordia che regnava fra due professioni d'interessi opposti e di costumi non compatibili fra loro, produceva conseguenze ora utili ed ora perniciose. Si poteva rare volte aspettare, che il Generale ed il Governator civile di una provincia cospirassero insieme per disturbar la quiete di essa, o si unissero per procurarne il vantaggio. Mentre l'uno differiva di prestar quell'aiuto, che l'altro sdegnava di sollecitare, le truppe rimanevano bene spesso senza ordini o senza paghe; tradivasi la pubblica sicurezza, ed i sudditi senza difesa erano esposti al furore dei Barbari. L'amministrazione così divisa, qual fu stabilita da Costantino, indebolì il vigor dello Stato, mentre assicurò la tranquillità del Monarca.
Si è meritamente censurata la memoria di Costantino per un'altra innovazione, che corruppe la disciplina militare, e preparò la rovina dell'Impero. I diciannove anni, che precederono l'ultima sua vittoria sopra Licinio, erano stati un periodo di licenza, e d'interna discordia. I rivali, che contendevano per il possesso del Mondo Romano, avean ritirata la maggior parte delle lor forze dalla guardia delle loro frontiere generali; e le principali città, che formavano i confini de' rispettivi loro dominj, eran piene di soldati che ne risguardavano i nazionali come i più implacabili loro nemici. Dopo che fu cessato il bisogno di queste interne guarnigioni col fine della guerra civile, il conquistatore mancò di prudenza o di fermezza per restituire la severa disciplina di Diocleziano, e per sopprimere una fatale indulgenza, che l'abito avea renduta cara, e quasi avea confermata all'ordine militare. Nel regno di Costantino, fu ammessa una popolare ed anche legal distinzione fra' Palatini[314] ed i Confinanti, fra le truppe, che impropriamente dicevansi del palazzo, e quelle delle frontiere. I primi si distinsero per la superiorità della paga e de' privilegi, ed era loro permesso, eccettuate le straordinarie occorrenze di guerra, di tenere tranquillamente i loro quartieri nel cuore delle Province. L'intollerabile peso di questi opprimeva le città più floride. I soldati appoco appoco dimenticavano le virtù della lor professione, e si davano solo a' vizi della vita civile, o s'avvilivano esercitandosi nelle arti meccaniche, o erano snervati dalla mollezza de' bagni e de' teatri. Essi divenner ben presto non curanti de' marziali esercizi, delicati nel vitto e nel trattamento; e nel tempo che inspiravan terrore a' sudditi dell'Impero, tremavano all'avvicinarsi che facevano con ostile anime i Barbari[315]. Non era più mantenuta coll'istessa cura, nè difesa con ugual vigilanza quella catena di fortificazioni, che Diocleziano ed i suoi colleghi avean tirata lungo le sponde de' fiumi reali. I soldati, che tuttavia rimanevamo sotto il nome di truppe di frontiera, potevan servire per la difesa ordinaria. Ma il loro animo era avvilito dall'umiliante riflessione, che essi, i quali eran esposti ai travagli ed ai pericoli d'una perpetua guerra, venivan premiati solo con circa due terzi della paga e degli emolumenti, che prodigamente si davano alla truppe del palazzo. Anche le bande o legioni, ch'erano innalzate quasi al livello di quegl'indegni favoriti, si sentivano in certo modo disonorate dal titolo d'onore, che loro si permetteva d'assumere. Invano si ripeterono da Costantino le più spaventose minacce di ferro e di fuoco contro i soldati di frontiera, che avessero ardito di disertare, di secondar le incursioni de' Barbari o di partecipar delle spoglie[316]. Di rado si possono allontanare per mezzo di parziali rigori que' danni che provengono da imprudenti consigli; e quantunque i Principi, che succederono, si studiassero di restaurare la forza ed il numero delle guarnigioni di frontiera, tuttavia l'Impero, fino all'ultimo istante del suo scioglimento, continuò a languire per quella mortal ferita, che gli fece con tanta inavvertenza e debolezza la mano di Costantino.
Sembra che l'istessa timida politica di divider tutto ciò che è unito, d'abbassare ciò che è eminente, di temere ogni attiva potenza, e di sperar che i più deboli siano per riuscire i più obbedienti, prevalesse nelle instituzioni di molti Principi, e specialmente in quelle di Costantino. Il marziale orgoglio delle legioni, i campi vittoriosi delle quali erano stati sì spesso il teatro della ribellione, era nutrito dalla memoria delle passate loro imprese, e dalla cognizione dell'attuale loro forza. Finchè si mantennero nell'antico lor numero di seimila uomini, ciascheduna di esse da se formava, sotto il regno di Diocleziano, un oggetto visibile ed importante nella storia militare del Romano Impero. Pochi anni dopo, questi corpi giganteschi ridotti furono ad una molto minor grandezza; e quando la città d'Amida era difesa contro i Persiani da sette legioni con alcuni ausiliari, l'intera guarnigione, insieme con gli abitanti d'ambedue i sessi, e quelli dell'abbandonata campagna, non passavano il numero di ventimila persone[317]. Da questo, e da simili altri fatti vi è motivo di credere, che la costituzione delle truppe legionarie, alla quale in parte dovevasi il valore e la disciplina loro, fu sciolta da Costantino, e che que' corpi d'infanteria Romana, che seguitavano ad arrogarsi gl'istessi nomi od onori, non contenevano che mille, o mille cinquecento uomini[318]. Facilmente si potea domar la cospirazione di tanti separati distaccamenti, ciascheduno de' quali era intimorito dal sentimento della propria debolezza; ed i successori di Costantino potevano secondar l'amore, che avevano per l'ostentazione, con ispedir gli ordini loro a cento trentadue legioni, descritte ne' ruoli de' numerosi loro eserciti. Il resto delle truppe era diviso in centinaia di coorti d'infanteria e di squadroni di cavalleria. Si credeva che le armi, i titoli, e le insegne loro inspirasser terrore, e sfoggiassero la varietà delle nazioni, che militavano sotto le bandiere Imperiali. Non v'era neppure un'ombra di quella severa semplicità, che ne' tempi della libertà e della vittoria, soleva distinguere la linea di battaglia d'un esercito Romano dalla confusa oste d'un Monarca dell'Asia[319]. Un computo più particolarizzato, tratto dalla Notizia, potrebbe esercitare la diligenza d'un antiquario; ma l'istorico dovrà contentarsi d'osservare, che il numero delle stazioni, o guarnigioni, stabilite sulle frontiere dell'Impero, ascendeva a cinquecento ottantatremila soldati, e che, al tempo dei successori di Costantino, l'intera forza della milizia si considerava di seicento quarantacinquemila[320]. Uno sforzo così prodigioso eccedeva il bisogno de' più antichi tempi e le forze de' più recenti.
Secondo i varj stati della società si reclutano gli eserciti per motivi molto diversi. I Barbari sono stimolati dall'amor della guerra; i cittadini d'una Repubblica libera sogliono essere indotti da un principio di dovere; i sudditi, o almeno i nobili d'una Monarchia sono animati da un sentimento d'onore; ma i timidi e lussuriosi abitatori d'un decadente Impero non possono essere allettati a militare che dalla speranza del guadagno, o costretti dal timor della pena. Gli scrigni del Romano erario erano esausti per l'accrescimento dello stipendio, pei ripetuti donativi, e per l'invenzione di nuovi emolumenti e concessioni, che nell'opinione della gioventù provinciale potevan compensare i travagli ed i pericoli della milizia. Ciò nonostante quantunque la statura de' soldati si fosse abbassata[321], quantunque vi fossero ammessi, almeno per una tacita condiscendenza, indistintamente gli schiavi, pure la difficoltà insormontabile di trovar regolari e adequate leve di volontari, obbligò gl'Imperatori ad usare de' metodi più efficaci e violenti. Le terre, che solevan darsi a' veterani come premj liberi del loro valore, furono d'allora in poi accordate con una condizione, che contiene i primi tratti delle concessioni feudali, vale a dire, che i figli, che lor succedevano nell'eredità, si dessero alla professione delle armi, tosto che giungevano all'età virile; e se vilmente ricusavan di farlo, si punivano colla perdita dell'onore, de' beni ed eziandio della vita[322]. Ma siccome l'annual prodotto de' figli de' veterani non dava che un picciol sussidio a' bisogni della milizia, si facevano spesso delle reclute nelle Province, ed ogni proprietario si obbligava o a prender le armi, o a somministrare un sostituto, o a procurarsi l'esenzione con pagare una grave tassa. La somma di quarantadue monete d'oro, a cui fu ridotta, dimostra l'esorbitante prezzo de' volontari, e la difficoltà con cui dal governo ammettevasi quest'alternativa[323]. Era tale l'orrore che aveva invaso gli animi degli avviliti Romani per la profession di soldato, che molti giovani dell'Italia e delle Province, si tagliavan le dita della man destra per sottrarsi alla necessità di militare, ed era sì comunemente in uso tale strano espediente, che meritò la severa punizion delle leggi[324] ed un nome particolare nella lingua Latina[325].
L'introduzione de' Barbari negli eserciti Romani divenne ogni giorno più universale, più necessaria e più fatale. I più animosi fra gli Sciti, fra' Goti, ed i Germani, che si dilettavano della guerra, e trovavano più vantaggioso per loro il difendere che il devastare le Province, s'arrolavano non solo fra gli ausiliari delle respettive loro nazioni, ma anche nelle legioni medesime, e nelle truppe Palatine le più distinte. Siccome conversavano essi liberamente co' sudditi dell'Impero, appoco appoco impararono a disprezzarne i costumi e ad imitarne le arti. Essi abbandonarono quella tacita riverenza, che l'orgoglio di Roma soleva esigere dalla loro ignoranza, nel tempo che acquistavan la cognizione e il possesso di que' vantaggi, per mezzo dei quali soltanto ella sosteneva la sua decadente grandezza. I soldati barbari, che facevano prova di qualche militare talento, erano avanzati senz'eccezione ai posti più importanti; ed i nomi de' Tribuni, de' Conti, de' Duchi e de' Generali medesimi scuoprono un'origine straniera, ch'essi non volevan più simulare. Spesse volte s'affidava loro la condotta d'una guerra contro i lor nazionali; e sebbene la maggior parte di essi preferisse i vincoli della fedeltà a quelli del sangue, non eran però sempre liberi dalla taccia o almen dal sospetto di tenere una corrispondenza proditoria col nemico, d'invitarne le invasioni, o di risparmiarne la ritirata. Gli eserciti e la Corte del figlio di Costantino eran governati dalla potente fazione de' Franchi, i quali mantenevano la più stretta unione fra loro e col lor paese nativo, e risentivano qualunque personale affronto, come un torto fatto all'intera nazione[326]. Quando si sospettò che il tiranno Caligola avesse intenzione di vestire un candidato molto straordinario dell'abito consolare, avrebbe forse eccitato meno stupore la sacrilega profanazione, se l'oggetto della sua scelta fosse stato, invece d'un cavallo, il più nobil Capitano de' Germani o de' Brettoni. Il corso di tre secoli avea prodotto un cangiamento così notabile ne' pregiudizi del popolo, che Costantino, colla pubblica approvazione, mostrò a' suoi successori l'esempio di accordar gli onori del Consolato a que' Barbari, che per i loro meriti e servigi avevan ottenuto di esser posti fra' principali Romani[327]. Ma siccome questi coraggiosi veterani, ch'erano stati educati nell'ignoranza o disprezzo delle leggi, erano incapaci d'esercitare alcuna carica civile; così le facoltà della mente umana venivan ristrette dall'irreconciliabil separazione de' talenti, e delle professioni. I culti cittadini delle Repubbliche Greche e della Romana, il carattere de' quali potevasi adattare al Foro, al Senato, alla guerra, o alle scuole, avevano appreso a scrivere, a parlare, e ad agire col medesimo spirito, e con uguale abilità.
IV. Oltre i Magistrati ed i Generali che, lontani dalla Corte esercitavano la delegata loro autorità sopra le province e le armate, l'Imperatore conferiva eziandio il grado d' Illustri a sette de' più immediati suoi servitori, alla fedeltà de' quali affidava la custodia della propria salute, o de' suoi consigli o tesori. In primo luogo gli appartamenti privati del Palazzo eran governati da un eunuco favorito, che nell'idioma di quel tempo si chiamava Praepositus, o Prefetto del sacro cubicolo, o sia della camera Imperiale. Era suo uffizio di seguire l'Imperatore nelle ore di pubblici affari, ed in quelle di passatempo, e di fare intorno alla persona di lui tutti quei bassi servizi, che non traggono splendore che dall'influenza del trono. Sotto un Principe che meritasse di regnare, il gran Ciamberlano (giacchè possiam dargli tal nome) era un utile ed umil domestico; ma un artificioso domestico, che profitta di tutte le occasioni, cui somministra una libera confidenza, insensibilmente acquisterà sopra uno spirito debole quell'ascendente, che l'austera saviezza, e la virtù non lusinghiera può rare volte ottenere. I degenerati nipoti di Teodosio, invisibili a' loro sudditi, disprezzabili ai lor nemici, esaltarono il Prefetto della lor camera sopra i capi di tutti i ministri del Palazzo[328]; ed anche il suo deputato, cioè il primo dello splendido treno di schiavi, che attualmente servivano, era stimato degno di precedere a' rispettabili Proconsoli della Grecia o dell'Asia. Eran sottoposti alla giurisdizione del Ciamberlano i Conti, o Soprantendenti, che regolavano i due importanti dipartimenti, della magnificenza della guardaroba, e del lusso della tavola Imperiale[329]. 2. La principale amministrazione de' pubblici affari era commessa alla diligenza ed abilità del Maestro degli Uffizj[330]. Egli era il supremo Magistrato del palazzo, invigilava sulla disciplina delle scuole civili e militari, e riceveva gli appelli da tutte le parti dell'Impero, nelle cause che appartenevano a quel numeroso esercito di persone privilegiate, che come servitori di Corte avean ottenuto per se, e per le sue famiglie il diritto d'esser esenti dall'autorità dei giudici ordinari. La corrispondenza fra il Principe ed i sudditi passava per li quattro Scrinia, o uffizi di questo ministro di Stato. Il primo era destinato ai memoriali, il secondo alle lettere, il terzo alle domande, ed il quarto a' fogli ed ordini di cose miscellanee. Ognuno di questi era diretto da un Maestro inferiore di rispettabile dignità, ed erano spediti tutti gli affari da cento quarantotto segretari, presi la maggior parte dal ceto de' legali, per causa della copia di estratti e di relazioni che frequentemente occorreva di fare nell'esercizio delle varie loro funzioni. Per una condiscendenza, che ne' primi secoli si sarebbe creduta indegna della maestà Romana, era destinato un particolar segretario per la lingua Greca, e v'erano interpreti per ricever gli Ambasciatori de' Barbari; ma il dipartimento degli affari esteri, che forma una parte così essenziale della moderna politica, rare volte occupava l'attenzione del Maestro degli Uffizi. Egli era più seriamente occupato dalla general direzione delle poste e degli arsenali dell'Impero. V'erano trentaquattro città, quindici in Oriente, e diciannove in Occidente, nelle quali regolari compagnie di artefici erano perpetuamente impiegate per fabbricare armi difensive ed offensive d'ogni sorta, e macchine militari, che si depositavan ne' magazzini, e secondo le occasioni si prendevano per servigio delle truppe. 3. Nel corso di nove secoli, l'uffizio del Questore avea sopportato una rivoluzione molto singolare. Nell'infanzia di Roma, ogni anno s'eleggevan dal popolo due magistrati inferiori, per sollevare i Consoli dall'odioso maneggio del pubblico erario[331]. Fu accordato un assistente simile ad ogni Proconsole e ad ogni Pretore, che avesse un governo civile o militare. Estendendosi le conquiste, i due Questori furono appoco appoco moltiplicati fino al numero di quattro, di otto, di venti, o per breve tempo forse anche di quaranta[332]; ed i cittadini più nobili ambivano molto un uffizio, che dava loro posto in Senato, ed una giusta speranza d'ottener gli onori della Repubblica. Mentre Augusto affettava di conservar libera l'elezione, si contentava di accettare ogni anno il privilegio di raccomandare, o piuttosto in sostanza di nominare un certo numero di candidati; ed aveva per costume di scegliere uno di questi giovani distinti per leggere le sue orazioni o epistole nelle assemblee del Senato[333]. La pratica d'Augusto fu imitata da' Principi, che gli succederono; fu stabilita quella accidental commissione come un uffizio permanente, ed il solo Questor favorito, assumendo un nuovo e più illustre carattere, sopravvisse alla soppressione degli antichi ed inutili di lui colleghi[334]. Poichè le orazioni, ch'ei componeva in nome dell'Imperatore[335], acquistaron la forza, ed in ultimo anche la forma di assoluti editti, egli fu considerato come un rappresentante della potestà legislativa, come l'oracolo del Consiglio, e come l'original sorgente della civile giurisprudenza. Egli era qualche volta invitato a prender posto nella suprema giudicatura del concistoro Imperiale, co' Prefetti del Pretorio e col Maestro degli Uffizi, e gli era spesso richiesta la soluzione de' dubbi de' Giudici inferiori; ma siccome non era aggravato da una gran quantità di affari subordinati alla sua carica, egli impiegava i suoi talenti ed il suo ozio a coltivare quel maestoso stile d'eloquenza, che nella corruzione della lingua e del gusto conserva sempre la dignità delle leggi Romane[336]. Potrebbe in qualche maniera paragonarsi l'ufficio del Questore Imperiale con quello del Cancelliere moderno, ma l'uso del gran sigillo, che sembra essere stato introdotto da' Barbari ignoranti, non fu mai usato per convalidare i pubblici atti dell'Imperatore. 4. Al Tesorier generale delle entrate pubbliche fu dato il titolo straordinario di Conte delle sacre largizioni, forse per indicare che ogni pagamento nasceva dalla volontaria bontà del Monarca. Il pretender di concepire le particolarità quasi infinite delle spese annuali e quotidiane, risguardanti l'amministrazione sì civile che militare d'un grande Impero, eccederebbe la forza della più vigorosa immaginazione. Tal azienda occupava continuamente più centinaia di persone, distribuite in undici diversi uffizi, artificiosamente inventati per esaminare, e sindacare le rispettive loro operazioni. La moltitudine di questi agenti naturalmente tendeva ad accrescersi; e fu più d'una volta creduto espediente di rimandare ai loro naturali uffizi quegl'inutili ministri soprannumerari, che abbandonando i lor onesti lavori, si eran con troppo calore insinuati nella lucrosa professione delle Finanze[337]. Corrispondevano al Tesoriere ventinove ricevitori Provinciali, diciotto de' quali eran onorati col titolo di Conti; e la giurisdizione di lui s'estendeva sopra le miniere, dalle quali estraevansi i metalli preziosi, sopra le zecche, ove si convertivano questi in moneta corrente, e sopra i pubblici erari delle città più importanti, in cui si depositava il denaro per servizio dello Stato. Questo ministro regolava ancora il commercio straniero dell'Impero, e dirigeva ugualmente tutte le manifatture di lino e di lana, nelle quali eseguivansi le successive operazioni di filare, di tessere, e di tingere, specialmente dalle donne di servil condizione per uso del Palazzo e dell'esercito. Nell'Occidente, dove le arti s'erano introdotte di fresco, si contavano ventisei di questi stabilimenti; ed un numero anche più grande può supporsi che ven fosse nelle industriose Province dell'Oriente[338]. 5. Oltre le pubbliche rendite, che un assoluto Monarca poteva esigere e spendere a suo piacere, gl'Imperatori, in qualità di opulenti cittadini, avevano un patrimonio molto esteso, ch'era amministrato dal Conte, o Tesoriere del dominio privato. Una parte di questo formavasi forse dagli antichi beni patrimoniali dei Re e delle Repubbliche; un'altra da quelli delle famiglie, che furon successivamente innalzate alla porpora; ma la parte più considerabile d'esso proveniva dall'impura sorgente delle confiscazioni. Il patrimonio Imperiale era sparso per le Province, dalla Mauritania fino alla Britannia; il ricco però e fertil terreno della Cappadocia indusse il Monarca a stabilire le sue più belle tenute in quella regione[339], e Costantino, oppure i suoi successori, presero l'opportunità di giustificar la loro avarizia collo zelo di religione. Soppressero eglino il ricco tempio di Comana, dove il sommo Sacerdote della Dea della guerra sosteneva la dignità di sovrano; ed applicarono al privato lor uso le terre sacre, abitate da seimila sudditi o schiavi della Dea e suoi ministri[340]. Ma non eran questi gli abitanti da valutarsi: le pianure, che s'estendono dal piè del monte Argeo fino alle sponde del Saro, nutrivano una generosa razza di cavalli famosi nell'antico mondo sopra tutti gli altri per la maestosa loro figura ed incomparabil velocità. Le leggi difendevano questi sacri animali, destinati per servizio della Corte e de' giuochi Imperiali, dalla profanazione d'un padrone volgare[341]. Le possessioni della Cappadocia erano di sufficiente importanza per esigere l'inspezione d'un Conte[342]; nelle altre parti dell'Impero si ponevano ufficiali di minor grado; e i deputati del Tesoriere privato, non meno che quelli del pubblico, eran sostenuti nell'esercizio delle indipendenti loro funzioni, ed incoraggiati a contrabbilanciare l'autorità de' magistrati Provinciali[343]. 6. 7. I corpi scelti di cavalleria e d'infanteria, che guardavan la persona dell'Imperatore, eran sotto l'immediato comando de' due Conti de' Domestici. Tutto il loro numero consisteva in tremila cinquecento uomini, divisi in sette scuole o truppe, ognuna delle quali ne conteneva cinquecento; ed in Oriente quest'onorevole servizio era quasi totalmente proprio degli Armeni. Ogni volta che nelle pubbliche ceremonie schieravansi questi ne' cortili e ne' portici del Palazzo, la loro alta statura, il tacito ordine e le splendide armi d'argento e d'oro spiegavano una pompa marziale non indegna della Romana maestà[344]. Dalle sette scuole si presceglievano due compagnie di cavalli e di fanti, dette de' Protettori, il posto vantaggioso de' quali formava la speranza ed il premio de' soldati più meritevoli. Essi montavan la guardia negli appartamenti interni, e secondo le occasioni erano spediti nelle Province ad eseguire con celerità e vigore gli ordini del loro Signore[345]. I Conti de' Domestici eran succeduti all'Uffizio de' Prefetti del Pretorio, e come i Prefetti medesimi, aspiravano a passare dal servizio del Palazzo al comando degli eserciti.
Veniva facilitato il continuo commercio tra la Corte e le Province dalla costruzione delle strade e dalla instituzione delle poste. Ma questi utili stabilimenti erano accidentalmente connessi con un pernicioso ed intollerabile abuso. S'impiegavano sotto la giurisdizione del Maestro degli Uffizi due o trecento agenti o messaggi, per annunziare i nomi de' Consoli annuali e gli editti, o le vittorie degl'Imperatori. Questi si arrogarono insensibilmente l'incumbenza di riferir tutto ciò che potevan osservare intorno alla condotta o dei Magistrati, o de' privati cittadini; e furon ben tosto risguardati come gli occhi del Monarca[346], ed il flagello del popolo. Sotto la gran protezione, che loro dava un debole Regno, si moltiplicarono fino all'incredibil numero di diecimila, sdegnavan le dolci, ancorchè frequenti ammonizioni delle leggi, ed esercitavano nel lucroso maneggio delle poste una rapace ed insolente oppressione. Questi delatori, che avevano una regolar corrispondenza colla Corte, venivano incoraggiati dal favore e dal premio a scuoprir diligentemente i progressi di qualunque ribelle disegno, dai deboli ed oscuri sintomi di mal contentezza fino agli effettivi apparecchi di un'aperta ribellione. La loro trascuratezza o reità nel violar la verità e la giustizia, era coperta dalla sacra maschera dello zelo; e potevan sicuramente diriger gli avvelenati lor dardi tanto contro gl'innocenti quanto contro i colpevoli, che provocato avessero il loro sdegno, o ricusato di comprar da loro il silenzio. Un suddito fedele della Siria, per esempio, o della Britannia, era esposto al pericolo o almeno al timore d'esser tratto in catene alla Corte di Milano, o di Costantinopoli per difender la vita ed i beni dalla maliziosa accusa di questi privilegiati informanti. Si regolava l'amministrazione ordinaria con que' metodi, che la sola estrema necessità può scusare; ed alle mancanze di prove diligentemente supplivasi coll'uso della tortura[347].
L'ingannevole e pericolosa prova, ch'enfaticamente si dice della questione criminale, fu ammessa piuttosto che approvata dalla giurisprudenza de' Romani. Essi applicavano questa sanguinaria maniera d'esame soltanto a' corpi de' servi, i patimenti de' quali rare volte da quei superbi Repubblicani si pesavano sulla bilancia della giustizia o dell'umanità, ma non avrebber consentito a violare la sacra persona d'un cittadino, finchè non avessero avuto la prova più chiara del suo delitto[348]. Gli annali della tirannide, dal regno di Tiberio a quello di Domiziano, circostanziatamente riportano l'esecuzioni di molte vittime innocenti; ma finchè si tenne viva la più debole rimembranza della libertà e dell'onor nazionale, le ultime ore d'ogni Romano furon sicure dal pericolo dell'ignominiosa tortura[349]. La condotta però de' Magistrati Provinciali non si regolava secondo la pratica della città, o le rigorose massime de' Giureconsulti. Essi trovaron l'uso della tortura stabilito, non solo fra gli schiavi dell'oriental dispotismo, ma eziandio fra' Macedoni, che obbedivano ad un Monarca moderato, fra' Rodj, che fiorivano per la libertà del commercio, ed anche fra' savj Ateniesi, che avevano sostenuta la dignità della specie umana[350]. La acquiescenza de' Provinciali incoraggiva i loro Governatori ad acquistare, o anche ad usurpar l'arbitrario potere d'impiegare i tormenti per estorcere da' rei vagabondi o plebei la confessione de' loro delitti, finattanto che appoco appoco giunsero a confonder le distinzioni de' gradi, ed a non curare i privilegi de' cittadini Romani. Le apprensioni de' sudditi gli stimolavano a chiedere, e l'interesse del Sovrano lo impegnava a concedere una copia di speciali esenzioni, che tacitamente accordavano, anzi autorizzavan l'uso generale della tortura. Esse proteggevan tutte le persone di grado illustre oppure onorevoli, i Vescovi ed i loro Preti, i Professori delle arti liberali, i Soldati e le loro famiglie, gli Uffiziali municipali e i loro posteri fino alla terza generazione, e tutti gl'impuberi[351]. Ma fu introdotta nella nuova giurisprudenza dell'Impero la fatal massima, che in caso di ribellione, che includeva qualunque offesa, cui la sottigliezza de' legali potesse far nascere da un'ostile intenzione verso il Principe o la Repubblica[352], sospendevansi tutti i privilegi, e tutte le condizioni si riducevano al medesimo ignominioso livello. Siccome la salute dell'Imperatore manifestamente si preferiva ad ogni considerazione di giustizia o di umanità, tanto la venerabile vecchiezza quanto la tenera gioventù erano ugualmente esposte ai più crudeli tormenti; e continuamente soprastavano al capo de' principali cittadini del Mondo Romano i terrori di un'accusa maliziosa, che poteva rappresentarli o come complici, o come testimonj d'un forse immaginario delitto[353].
Per quanto possan questi mali sembrar terribili, si ristringevan per altro a quel piccolo numero di sudditi Romani, la pericolosa situazione de' quali era in qualche modo compensata dal godimento di que' vantaggi o di natura o di fortuna, che gli esponevano alla gelosia del Monarca. Gli oscuri milioni di sudditi di un grand'Impero hanno molto men da temere la crudeltà che l'avarizia de' lor Signori; e la loro umile felicità è principalmente aggravata dal peso delle tasse eccessive, che dolcemente premendo i ricchi, discendono con gravità accelerata sulle inferiori e più indigenti classi della società. Un ingegnoso Filosofo[354] ha calcolato la misura universale delle pubbliche imposizioni secondo i gradi di libertà e di servitù; ed asserisce, che a tenor d'una legge invariabile di natura deve sempre crescere colla prima, e diminuire in giusta proporzione colla seconda. Ma questa riflessione, che tenderebbe ad alleggiare le miserie del dispotismo, è in contraddizione almeno coll'istoria del Romano Impero, che accusa i medesimi Principi di avere spogliato ed il Senato della sua autorità, e le Province de' loro beni. Senz'abolire tutte le varie costumanze e i pesi sulle merci, che senz'accorgersene sono pagati dall'apparente scolta del compratore, la politica di Costantino e de' suoi successori preferì una semplice diretta maniera di tassazione, più coerente allo spirito d'un governo arbitrario[355].
Il nome e l'uso dello Indizioni[356], che serve ad assicurar la cronologia de' secoli di mezzo, nacque dalla pratica regolare de' Romani tributi[357]. L'Imperatore sottoscriveva di propria mano con inchiostro purpureo l'editto o l'indizione solenne, che tenevasi affissa nella città principale di ciascheduna Diocesi, per lo spazio di due mesi precedenti il primo di Settembre. E per una molto facile connessione d'idee si trasferì la parola Indizione a significar la misura del tributo che prescriveva, e l'annuale termine che accordava per il pagamento. Questa generale stima de' sussidi era proporzionata a' reali o immaginari bisogni dello Stato; ma ogni volta che la spesa eccedeva la rendita, o questa era minore del computo che se n'era fatto, s'imponeva sul popolo una nuova tassa col nome di superindizione, e si comunicava il più pregevole attributo della sovranità a' Prefetti del Pretorio, che in alcuni casi potevano provvedere alle non prevedute e straordinarie occorrenze del pubblico servizio. L'esecuzione di queste leggi (l'entrare nel minuto ed intricato ragguaglio delle quali sarebbe troppo noioso) consisteva in due diverse operazioni; vale a dire nel dividere l'imposizione generale nelle proporzionate sue parti, nelle quali si tassavano le province, le città, e gl'individui del Mondo Romano; e nell'esigere le varie contribuzioni degl'individui, delle città e delle province, finattanto che le raccolte somme fossero poste negl'Imperiali tesori. Ma siccome il conto fra il Monarca ed il suddito era sempre aperto, e la nuova richiesta precedeva l'intero pagamento dell'antecedente obbligazione, così dalle stesse mani muovevasi la grave macchina delle Finanze per tutto il giro dell'annua sua rivoluzione. Tutto ciò, che v'era d'onorevole o d'importante nell'amministrazione delle pubbliche rendite, commettevasi alla saviezza dei Prefetti e dei loro Provinciali rappresentanti; alle funzioni lucrose avea diritto una folla di uffiziali subordinati, alcuni de' quali dipendevano dal Tesoriere, altri dal Governatore della Provincia; e nelle inevitabili dispute d'un ambigua giurisdizione avevano frequenti occasioni di contendersi fra loro le spoglie del popolo. Gli uffizi laboriosi, che non potevan produrre che invidia e rimproveri, pericoli e spese, appoggiavansi ai Decurioni, che formavano i corpi delle città, e che dalla severità delle leggi Imperiali erano stati condannati a sostenere i pesi della società civile[358]. Tutti i terreni dell'Impero (senza eccettuare i beni patrimoniali del Monarca) formavan l'oggetto dell'ordinaria tassazione, ed ogni nuovo acquirente contraeva le obbligazioni dell'antecedente possessore. Un esatto Censo[359], o misurazione era la sola giusta maniera di determinare la porzione che ogni cittadino dovea contribuire per servizio pubblico: e dal noto periodo delle Indizioni v'è motivo di credere che si ripetesse questa difficile e dispendiosa operazione regolarmente ogni quindici anni. Si misuravan le terre dagl'intendenti che mandavansi nelle Province; si esprimeva distintamente la loro natura, se erano arabili o da pastura, vignate o boschive; e si prendeva una stima del loro comun valore dal rispettivo prodotto di cinque anni. Il numero degli schiavi e del bestiame costituiva una parte essenziale della relazione; davasi a' proprietari un giuramento che gli obbligava a scuoprire il vero stato de' loro negozi; ed i tentativi, ch'essi facevano di prevaricare, o d'eludere l'intenzione del legislatore, venivano severamente investigati e puniti, come delitti capitali che includevano il doppio reato di lesa maestà e di sacrilegio[360]. Si pagava una gran parte del tributo in danaro; e della moneta corrente dell'Impero non si poteva legalmente ricevere, che oro[361]. Il rimanente delle tasse veniva pagato, secondo la proporzione determinata dall'annuale indizione, in un modo vie più diretto ed oppressivo. Coerentemente alla diversa natura delle terre, si trasportava da' Provinciali, o a loro spese, il real prodotto di esso in varie specie di vino o d'olio, di grano o d'orzo, di legno o di ferro nei magazzini Imperiali, da' quali secondo le occasioni eran distribuite per l'uso della Corte, dell'esercito, e delle due capitali, Roma e Costantinopoli. I Commissari delle rendite si trovavano così spesso nel caso di fare delle considerabili compre, ch'era loro vietato rigorosamente d'accordare compensazione veruna, o di ricevere in danaro la valuta di ciò, che si doveva esigere in ispecie. Nella semplicità primitiva di piccole Comunità, questo metodo può esser bene adatto a raccoglier le offerte quasi volontarie del Popolo; ma esso è suscettibile nel tempo stesso dell'ultima estensione e dell'ultima strettezza, che in una corrotta ed assoluta Monarchia si devono introdurre da una perpetua contesa fra il potere dell'oppressione e le arti della frode[362]. Si rovinò appoco appoco l'agricoltura delle Province Romane, e progredendo il dispotismo, che tende a fare svanire i suoi propri disegni, gl'Imperatori furon costretti a trar qualche merito dalla condonazione de' debiti o dalla remissione de' tributi, che i loro sudditi non erano più capaci di pagare. Secondo la nuova divisione dell'Italia, la fertile e fortunata Provincia della Campania, il teatro delle antiche vittorie e de' ritiri deliziosi de' cittadini Romani, s'estendeva fra il mare e l'Appennino, dal Tevere fino al Silaro. Dentro lo spazio di sessant'anni dopo la morte di Costantino, sulla prova d'un attual misura, fu concessa un'esenzione in favore di trecento trentamila acri inglesi di terra deserta e non coltivata, che ascendeva ad un'ottava parte dell'intera Provincia. Poichè nella Italia non s'erano ancora veduti vestigi alcuni di Barbari, non può attribuirsi la causa di questa sorprendente desolazione, rammentata dalle leggi, che all'amministrazione degl'Imperatori Romani[363].
Il modo di tassare, o sia per accidente o per consiglio premeditato, sembra che unisse la sostanza di un'imposizione sulle terre colle forme d'una capitazione[364]. Le spedizioni, che si facevano d'ogni Provincia o distretto, esprimevano il numero de' sudditi tributari, e la somma delle pubbliche imposizioni. Questa era divisa per quello, e la stima, che una tal Provincia contenesse tanti capita o capi di tributo, e che ogni capo fosse tassato per un tal prezzo, era universalmente ammessa non solo ne' calcoli popolari, ma anche ne' legali. La valuta d'un capo tributario doveva esser varia secondo le molte accidentali, o almeno varianti circostanze; ma ci si è conservata qualche notizia di un fatto molto curioso e della massima importanza, perchè appartiene ad una delle più ricche Province del Romano Impero, e che adesso fiorisce come il più splendido regno d'Europa. I rapaci Ministri di Costanzo avevano dato fondo alla ricchezza della Gallia, esigendo per annuo tributo di ciaschedun capo venticinque monete d'oro; l'umana politica del suo successore ridusse la capitazione a sette[365]. Fatta dunque una moderata proporzione fra questi contrari estremi di straordinaria oppressione e di passeggiera indulgenza, può forse determinarsi la comun misura delle imposizioni della Gallia a sedici monete d'oro o circa nove lire sterline[366]. Ma questo calcolo, o piuttosto i fatti, da' quali è dedotto, non posson mancare di suggerir due difficoltà ad una mente che pensa, la quale resterà sorpresa nel tempo stesso e dall' uguaglianza e dalla grandezza della capitazione. L'intraprendere di schiarirle può per avventura spargere qualche lume sull'interessante materia delle finanze nel decadente Impero.
I. Egli è chiaro, che finattanto che l'immutabil costituzione della natura umana produce e mantiene una divisione sì disuguale di beni, la parte più numerosa della società resterebbe priva della sua sussistenza se volesse imporsi a tutti un'ugual tassa, dalla quale rileverebbe il Sovrano una ben piccola entrata. Tale invero sarebbe anche la teoria della capitazione Romana; ma in pratica non si sentiva più quest'ingiusta uguaglianza subito che il tributo si fondava sul principio di un'imposizione reale non già personale. Si univano più indigenti cittadini a comporre un sol capo, o una parte della tassazione; mentre un ricco Provinciale in proporzione delle sue sostanze, rappresentava egli solo varj di questi enti immaginari. In una poetica supplica, diretta ad uno degli ultimi e più meritevoli fra i Principi Romani, che regnava nella Gallia, Sidonio Apollinare rappresenta il suo tributo sotto la figura d'un triplice mostro, del Gerione delle Greche favole, e prega il nuovo Ercole a graziosamente degnarsi di salvargli la vita con tagliare i tre capi di quello[367]. La fortuna di Sidonio era molto superiore alla ricchezza ordinaria d'un poeta, ma se egli avesse proseguito l'allusione, avrebbe dovuto rappresentare molti de' nobili Galli con i cento capi della formidabile Idra, che si estendevano sulla superficie del paese, e divoravano la sussistenza di cento famiglie.
II. La difficoltà di pagare un'annua somma di circa nove lire sterline per la tassa di capitazione della Gallia può apparire ancor più evidente, se facciasene il confronto col presente stato della medesima, in un tempo ch'è governata dall'assoluto Monarca d'un popolo industrioso, ricco ed affezionato. Le tasse di Francia nè per timore nè per lusinghe si posson fare oltrepassare l'annuale somma di diciotto milioni di lire sterline, che dovrebber forse dividersi fra ventiquattro milioni d'abitatori[368]. Fra questi, sette milioni, considerati come padri, fratelli, o mariti, possono soddisfare agli obblighi della rimanente moltitudine di donne e di fanciulli; pure l'ugual porzione d'ogni suddito tributario appena monterà sopra i cinquanta scellini di nostra moneta, in luogo di un peso quasi quadruplo, che s'imponeva a' Gallici lor antenati. Può trovarsi la ragione in tal differenza, non tanto nella respettiva scarsità o abbondanza d'oro e d'argento, quanto nello stato diverso di società nell'antica Gallia e nella Francia moderna. In un paese dove ogni suddito ha il privilegio della libertà personale, tutta la somma delle tasse, che si levano o sui beni stabili o sul consumo, si può comodamente dividere in tutto l'intero corpo della nazione. Ma la massima parte delle terre dell'antica Gallia, non meno che delle altre Province del Mondo Romano, eran coltivate da schiavi, o da contadini, la dipendente condizione de' quali non era che una meno rigida servitù[369]. In tale stato i poveri eran mantenuti a spese de' padroni, che godevano i frutti de' loro lavori; ma siccome ne' cataloghi de' tributi non avevano luogo che i nomi di que' Cittadini, che avevano i mezzi d'un'onorevole o almeno d'una decente sussistenza, così la respettiva piccolezza del loro numero spiega e giustifica la maggior rata della loro capitazione. La verità di tal proposizione può illustrarsi col seguente esempio. Gli Edui, una delle più potenti e culte tribù o città della Gallia, occupavano l'estensione d'un territorio, che adesso contiene sopra cinquecentomila abitanti, nelle due Diocesi Ecclesiastiche di Autun e di Nevers[370]; e con la probabile aggiunta di quelle di Scialon e di Macon[371], la popolazione ascenderebbe a ottocentomila anime. Nel tempo di Costantino, il territorio degli Edui non dava che venticinquemila capi di capitazione, settemila de' quali furono liberati da quel Principe dal peso intollerabile del tributo[372]. Una giusta analogia par che confermi l'opinione d'un ingegnoso istorico[373], che i cittadini liberi e tributari non oltrepassassero il numero di mezzo milione; e se nella comune amministrazione del Governo si possono considerare i loro annuali pagamenti circa quattro milioni e mezzo, moneta inglese, se ne ricaverebbe, che sebbene la porzione d'ogni individuo fosse quattro volte maggiore, pure non s'esigeva nella Provincia Imperiale della Gallia, che la quarta parte delle moderne tasse di Francia. Le esazioni di Costanzo possono calcolarsi sette milioni di lire sterline, che furono ridotte a due dall'umanità, o dalla saviezza di Giuliano.
Ma questa tassa o capitazione su' proprietari di terre, avrebbe lasciata esente una ricca e numerosa classe di liberi cittadini. Colla mira di far contribuire anche quella specie di ricchezza, che proviene dall'arte o dal lavoro, e consiste in danaro o in mercanzie, s'impose dagl'Imperatori un distinto e personal tributo sulla parte commerciante de' loro sudditi[374]. Furono accordate alcune esenzioni, molto strettamente limitate sì rispetto il tempo che il luogo, a' proprietari, che disponevano del prodotto delle lor possessioni; si usò qualche indulgenza verso chi professava le arti liberali; ma ogni altro ramo d'industria, spettante al commercio, fu sottoposto al rigor della legge. Il riguardevole mercante d'Alessandria, che introduceva le gemme e le spezierie dell'India per l'uso del Mondo Occidentale; l'usuraio che traeva dall'interesse della moneta un tacito ed ignominioso profitto; l'ingegnoso artefice; il diligente meccanico; ed anche il rivenditore più oscuro di ogni rimoto villaggio dovevano ammetter gli ufficiali del Fisco a parte del loro guadagno; ed il Sovrano del Romano Impero, che tollerava la professione delle pubbliche prostitute, partecipava dell'infame lucro. Siccome questa generale imposizione sopra l'industria si ritirava ogni quattro anni, essa era chiamata la contribuzione lustrale: e l'istorico Zosimo[375] si lagna, che veniva annunciata l'approssimazione del fatal periodo dalle lacrime e da' terrori de' cittadini, ch'erano spesso dall'imminente sferza costretti a prendere i partiti più abbominevoli ed inumani per procacciar la somma, in cui la loro povertà era stata tassata. Non può in vero giustificarsi la testimonianza di Zosimo dalla taccia di passione e di pregiudizio; ma dalla natura di tal tributo sembra ragionevole il dedurre, ch'esso era arbitrario nella distribuzione, ed estremamente rigoroso nella maniera d'esigersi. La segreta ricchezza del commercio ed i guadagni precari dell'arte o del lavoro non son suscettibili, che d'una arbitraria valutazione, che di rado è svantaggiosa per l'interesse del Fisco; e siccome la persona del trafficante supplisce alla mancanza d'una visibile e permanente sicurezza, così il pagamento dell'imposizione, che nel caso de' tributi sopra le terre si può ottenere mediante il possesso de' beni, rare volte può estorcersi per altri mezzi che per quelli delle pene corporali. Viene attestato, e forse mitigato il crudel trattamento degl'insolventi debitori del Fisco da un editto molto umano di Costantino, che disapprovando l'uso de' tormenti e delle verghe, assegna un'ampia ed ariosa prigione per luogo della loro custodia[376].
Queste tasse generali erano imposte ed esatte per assoluta autorità del Monarca; ma le offerte, che secondo le occasioni facevansi dell' oro coronario, conservarono sempre il nome e l'apparenza del consenso del Popolo. V'era un uso antico, che i confederati della Repubblica, i quali ascrivevano la lor salvezza, o liberazione al buon successo delle armi Romane; ed anche le città dell'Italia, che ammiravano il valore del vittorioso lor Generale, adornavan la pompa del suo trionfo con doni volontari di corone d'oro, le quali dopo la cerimonia eran consacrate nel tempio di Giove per rimanere come un durevol monumento della sua gloria ne' futuri secoli. Il progresso dello zelo e della adulazione moltiplicò ben presto il numero, ed accrebbe la grandezza di questi popolari donativi; ed il trionfo di Cesare fu adornato di duemila ottocento ventidue massicce corone, il peso delle quali ascendeva a ventimila quattrocento quattordici libbre d'oro. Fu immediatamente fatto fondere questo tesoro dal prudente Dittatore, che conosceva sarebbe stato più utile a' suoi soldati che agli Dei: l'esempio di lui fu imitato da' suoi successori, e fu introdotto il costume di mutar questi splendidi ornamenti nel più grato dono di corrente moneta d'oro dell'Impero[377]. A lungo andare, i donativi spontanei furono esatti come dovuti per obbligo; ed invece di ristringersi all'occasione d'un trionfo, si supponeva, che si largissero dalle varie città delle province della Monarchia, ogni volta che l'Imperatore si compiaceva d'annunziare il suo avvenimento al trono, il suo Consolato, la nascita d'un figlio, la creazione d'un Cesare, una vittoria contro i Barbari, o qualunque altro reale o immaginario successo che felicitava gli annali del suo regno. Il libero donativo particolare del Senato di Roma era fissato dall'uso a mille seicento libbre d'oro, o intorno a cento vent'ottomila zecchini. I sudditi oppressi vantavano la loro felicità, perchè il Sovrano graziosamente si compiaceva d'accettar questo debole, ma volontario attestato della lor fedeltà e gratitudine[378].
Un popolo, insuperbito dall'orgoglio, od esacerbato dalla scontentezza, si trova rare volte in grado di formare una giusta idea dell'attuale sua situazione. I sudditi di Costantino erano incapaci di discernere la decadenza del genio e della maschia virtù, che tanto li rendeva inferiori alla dignità de' loro antenati: ma potevano ben sentire e dolersi del furor della tirannia, del rilassamento della disciplina e della moltiplicazione delle tasse. L'istorico imparziale, che riconosce la giustizia de' loro lamenti, non lascerà d'osservare alcune favorevoli circostanze, che tendevano ad alleggerir la miseria della loro condizione. La minacciosa tempesta de' Barbari, che sì presto rovesciò i fondamenti della grandezza Romana, era sempre rispinta o sospesa sulle Frontiere. Si coltivavano le arti del lusso e le lettere, e dagli abitanti di una gran parte del globo godevansi gli eleganti piaceri della società. Le formalità, la pompa, e le spese del Governo civile contribuivano a tenere in freno l'irregolar licenza de' soldati; e quantunque le leggi fossero violate dalla forza, o pervertite dalla sottigliezza, i savj principj della Romana giurisprudenza conservavano tuttavia un sentimento d'ordine e d'equità, incognito al dispotico governo dell'Oriente. I diritti dell'uman genere potevan trarre qualche patrocinio dalla Religione e dalla Filosofia; ed il nome di libertà che non doveva più destar timore veruno, poteva qualche volta avvertire i successori d'Augusto, ch'essi non regnavano sopra una nazione di Schiavi o di Barbari[379].
CAPITOLO XVIII.
Carattere di Costantino. Guerra Gotica. Morte di Costantino. Divisione dell'Impero fra' tre suoi figli. Guerra di Persia. Tragiche morti di Costantino il Giovane, e di Costante. Usurpazione di Magnenzio. Guerra civile. Vittoria di Costanzo. Il carattere d'un Principe, che mutò la sede dell'Impero, ed introdusse cangiamenti così importanti nella civile e religiosa costituzione del suo dominio, ha fissato l'attenzione, e diviso i sentimenti degli uomini. Il liberator della Chiesa dal grato zelo de' Cristiani è stato decorato di tutte le qualità d'un Eroe ed eziandio d'un Santo; mentre il dissapore del partito, che restò vinto, ha paragonato Costantino al più abbominevole di que' Tiranni, che per il vizio e per la debolezza loro disonorarono la porpora Imperiale. Si sono in qualche modo perpetuate le passioni stesse nelle successive generazioni; ed il carattere di Costantino anche nel presente secolo si risguardava come un oggetto o di satira o di panegirico. Dall'imparziale unione di que' difetti, che si confessano da' più ardenti di lui ammiratori, e di quelle virtù, che gli si concedono da' più implacabili suoi nemici, noi potremmo sperar di formare un giusto ritratto di quell'uomo straordinario, che adottar si potesse dalla verità o dal candor d'un istorico senza rossore[380]. Ma tosto si vedrebbe, che la vana impresa di unire colori così discordi, e di conciliare qualità sì incoerenti, produrrebbe una figura mostruosa piuttosto che umana, qualora non si guardasse nel suo proprio e distinto lume, per mezzo d'un'esatta separazione de' differenti periodi del regno di Costantino.
La natura aveva arricchito delle più scelte doti la persona ugualmente che l'animo di Costantino. Egli era alto di statura, d'aspetto maestoso, e grazioso nel portamento; in ogni esercizio cavalleresco mostrava la propria forza ed attività; e dalla sua più tenera gioventù fino ad un'età molto avanzata, conservò il vigore della sua costituzione per un esatto attaccamento alle domestiche virtù della castità e della temperanza. Si dilettava del socievol commercio, della conversazione famigliare; e quantunque alle volte secondasse la sua disposizione a mettere in burla con minor riserva di quella che richiedeva la severa dignità del suo posto, la cortesia però e la liberalità delle sue maniere guadagnavano i cuori di tutti coloro che lo trattavano. Si è avuta per sospetta la sincerità della sua amicizia; ma dimostrò in varie occasioni, ch'esso non era incapace d'un vivo e durevole affetto. L'inconveniente di un'educazione senza letteratura non aveva impedito ch'egli si formasse una giusta idea dell'importanza del sapere; e le arti e le scienze riconobbero qualche incoraggiamento dalla generosa protezione di Costantino. Nella spedizione degli affari, la sua diligenza era instancabile; e le attive facoltà del suo spirito erano quasi di continuo esercitate in leggere, scrivere, o meditare, in dare udienza agli ambasciatori, ed in esaminar le querele de' propri sudditi. Anche quelli, che censurarono la giustezza delle sue misure, furon costretti a confessare, che esso aveva della magnanimità nel concepire, e della pazienza nel mettere in esecuzione i disegni più ardui, senz'essere impedito nè dai pregiudizi dell'educazione, nè dai clamori della moltitudine. In battaglia, comunicava la sua intrepidezza alle truppe, che comandava coll'abilità d'un consumato Generale; ed al suo sapere piuttosto che alla fortuna si possono attribuire le segnalate vittorie, che riportò contro gli estranei ed i domestici nemici della Repubblica. Amava la gloria, come il premio, e forse come il motivo delle sue fatiche. Può giustificarsi quella ambizione senza limiti, che dal momento, in cui accettò la porpora a York, comparisce come la sua passion dominante, da' pericoli della sua situazione, dal carattere de' suoi rivali, dalla cognizione d'un merito superiore e dall'apparenza, che il buon successo l'avrebbe posto in grado di restituir la pace e il buon ordine all'Impero diviso. Nelle sue guerre civili contro Massenzio e Licinio, aveva guadagnato in suo favore le inclinazioni del popolo, che confrontava gli aperti vizi di que' tiranni collo spirito di prudenza e di giustizia, che sembrava dirigere la general condotta di Costantino[381].
Questo è il carattere che Costantino avrebbe, con poche eccezioni, trasmesso alla posterità, se fosse morto sulle rive del Tevere, o anche nelle pianure d'Adrianopoli. Ma il fine del suo regno (secondo la moderata e veramente mite sentenza d'un autore del medesimo secolo) lo degradò da quel posto, che s'era acquistato fra' più degni Principi Romani[382]. Nella vita d'Augusto s'osserva il tiranno della Repubblica convertito quasi per insensibili gradi nel padre della sua patria e del genere umano. In quella di Costantino si può considerare un Eroe, che aveva per tanto tempo inspirato l'amore di se ne' suoi sudditi, ed il terrore ne' suoi nemici, che degenera in un crudele e dissoluto Monarca, corrotto dalla propria fortuna, o dalla conquista elevato al di là della necessità di simulare. La pace generale, ch'egli mantenne gli ultimi quattordici anni del suo regno, fu un periodo di splendore apparente, piuttosto che di reale prosperità; e la vecchiezza di Costantino restò infamata dai due opposti ma conciliabili vizi della rapacità e della prodigalità. I tesori che si trovarono accumulati ne' palazzi di Massenzio e di Licinio, furono profusamente scialacquati; le diverse innovazioni fatte dal conquistatore portarono aumento di spese; l'importare delle sue fabbriche, la sua Corte, e le sue feste richiedevano immediati e grossi sussidj; e l'unico fondo, che sostener potesse la magnificenza del Sovrano, era l'oppressione del popolo[383]. Gl'indegni suoi favoriti, arricchiti dall'infinita liberalità del loro Signore, usurpavano impunemente il privilegio della rapina e della corruzione[384]. Si sentiva in ogni parte della pubblica amministrazione una segreta ma universal decadenza, e l'Imperatore medesimo, quantunque sempre conservasse l'ubbidienza, perdè però appoco appoco la stima dei propri sudditi. L'abito ed i costumi, che affettò nel declinare degli anni, non servirono che ad avvilirlo agli occhi del Mondo. La pompa Asiatica, ch'erasi adottata dalla vanità di Diocleziano, prese un'aria di mollezza e d'effeminatezza nella persona di Costantino. Egli è rappresentato con una finta chioma di varj colori, artificiosamente disposta da' periti acconciatori di quel tempo; con un diadema di nuova e più dispendiosa invenzione; con una profusione di gemme e di perle, di collane e di smanigli; e con una mobile veste di seta a' diversi colori molto vagamente ricamata con fiori d'oro. In tale arnese, che appena potrebbe scusarsi dalla gioventù e dalla follia di Elagabalo, non ci è permesso di ravvisar la saviezza d'un attempato Monarca e la semplicità d'un veterano di Roma[385]. Un animo così corrotto dalla prosperità e dalla compiacenza, era incapace d'innalzarsi a quella magnanimità che sdegna i sospetti, e che s'arrischia a perdonare. La morte di Massimiano e di Licinio può giustificarsi per avventura da quelle massime di politica, che s'apprendono nelle scuole de' tiranni; ma un racconto imparziale dell'esecuzioni o piuttosto degli assassinamenti, che macchiarono gli ultimi anni di Costantino, suggeriranno alla più candida nostra mente l'idea d'un Principe, che poteva sagrificar senza ribrezzo le leggi della giustizia ed i sentimenti della natura, a' dettami o delle sue passioni o dell'interesse.
Sembrava che la medesima fortuna, che aveva tanto costantemente seguito le bandiere di Costantino, assicurasse le speranze e i conforti della sua vita domestica. Quelli fra' suoi Predecessori, che avevan goduti più prosperi e lunghi regni, come Augusto, Traiano e Diocleziano, erano stati mancanti di posterità; e le frequenti rivoluzioni non avevan mai dato tempo abbastanza ad alcuna famiglia Imperiale di crescere e moltiplicare all'ombra della porpora. Ma la dignità reale della famiglia Flavia, che per la prima volta fu nobilitata dal Gotico Claudio, discese per varie generazioni; e Costantino medesimo ricevè dal proprio padre gli ereditari onori reali, che tramandò a' suoi figli. L'Imperatore aveva avuto due mogli. Minervina, oscuro ma legittimo oggetto del suo giovanile amore[386], non gli aveva lasciato se non che un figlio chiamato Crispo. Da Fausta, figlia di Massimiano ebbe tre figlie e tre figli, noti sotto i nomi fra loro simili di Costantino, di Costanzo e di Costante. A' fratelli non ambiziosi di Costantino Magno, Giulio Costanzo, Dalmazio ed Annibaliano[387] fu permesso di godere il grado più onorevole e la più abbondante fortuna, che potesse combinarsi con uno stato privato. Il più giovane di essi visse oscuramente e senza posterità. I due maggiori ebbero in matrimonio le figlie di ricchi Senatori, e propagarono nuovi rami della stirpe Imperiale. Fra i figli di Giulio Costanzo Patrizio, Gallo e Giuliano divennero in seguito i più illustri. I due figli di Dalmazio, ch'erano stati decorati col vano titolo di Censori, si chiamarono Dalmazio ed Annibaliano. Due sorelle di Costantino Magno, Anastasia ed Eutropia, furon date per mogli ad Ottato e Nepoziano, Senatori di nascita nobile e di consolar dignità. Costanza, terza di lui sorella, si distinse per l'eminente sua grandezza e miseria. Essa rimase vedova del soggiogato Licinio; e fu per sua intercessione che un innocente fanciullo, frutto del suo matrimonio, conservò per qualche tempo la vita, il titolo di Cesare ed una precaria speranza di successione. Oltre le femmine e gli affini della casa Flavia, pareva che dieci o dodici maschi, a' quali secondo il linguaggio delle Corti moderne si darebbe il titolo di Principi del sangue, fossero destinati o a ereditare per ordine, o a sostenere il trono di Costantino. Ma in meno di trent'anni questa numerosa e crescente famiglia fu ridotta alle persone di Costanzo e di Giuliano, che soli sopravvissero ad una serie di delitti e di calamità, simili a quelle che i Tragici han deplorato nelle male augurate stirpi di Cadmo e di Pelope.
Crispo, figlio maggiore di Costantino ed erede presuntivo dell'Impero, vien rappresentato dagl'istorici imparziali come un amabile e compito giovane. Fu affidata la cura della sua educazione o almen de' suoi studi a Lattanzio, il più eloquente fra' Cristiani, e precettore mirabilmente adatto a formare il gusto, e ad eccitar le virtù del suo illustre discepolo[388]. All'età di diciassette anni Crispo fu insignito del titolo di Cesare e dell'amministrazione delle Province Galliche, dove le scorrerie de' Germani gli diedero pronta occasione di segnalare il militar suo valore. Nella guerra civile, che insorse poco dopo, il padre ed il figlio divisero le loro forze; ed in quest'istoria è stato già celebrato il valore e la condotta di quest'ultimo nel forzare lo stretto dell'Ellesponto, sì ostinatamente difeso dalla flotta superiore di Licinio. Quella vittoria navale contribuì a determinar l'evento della guerra, e si riunirono i nomi di Costantino e di Crispo nelle liete acclamazioni degli Orientali lor sudditi, che ad alta voce gridavano, che s'era soggiogato, ed attualmente si governava il mondo da un Imperatore dotato d'ogni virtù, e dall'illustre di lui figliuolo, Principe amato dal Cielo e viva immagine delle perfezioni del padre. Il pubblico favore, che rare volte accompagna la vecchiezza, spargeva il suo lustro sulla gioventù di Crispo. Egli meritava la stima, e s'attirava l'affezione della Corte, dell'esercito e del popolo. Il merito già sperimentato d'un Monarca regnante si confessa da' sudditi con ripugnanza, e frequentemente si nega con parziali e mal contenti susurri; laddove dalle nascenti virtù del successore si concepiscono le più ardenti ed illimitate speranze di una pubblica e privata felicità[389].
A. D. 324-325
Questa pericolosa popolarità eccitò ben presto l'attenzione di Costantino, che tanto come padre che come Re non sofferiva un uguale. In vece di procurare di assicurarsi la fedeltà del suo figlio co' generosi vincoli della confidenza e della gratitudine, risolse di prevenire i mali, che si potean temere dalla non soddisfatta ambizione. Crispo ebbe tosto motivo di dolersi, che mentre il suo minor fratello Costanzo si mandava col titolo di Cesare a regnare sul suo particolar dipartimento delle Province Galliche[390], egli, Principe d'età matura, che avea prestati sì recenti e segnalati servigi, in luogo d'esser elevato alla dignità superiore d' Augusto, era confinato come prigioniero alla Corte del padre, ed esposto senza forza o difesa ad ogni calunnia, cui suggerir potea la malizia de' suoi nemici. In tali difficili circostanze, il Giovane reale non fu sempre capace di contenere la sua condotta o di sopprimere la sua scontentezza; e possiamo assicurarci ch'egli era circondato da una quantità di perfidi o indiscreti compagni, che di continuo procuravan di accendere, ed eran forse indotti a tradire la veemenza non riservata del suo risentimento. Un editto di Costantino, pubblicato verso questo tempo, indica manifestamente i reali o affettati sospetti di lui, che si fosse fatta una segreta cospirazione contro la sua persona ed il suo governo. Con tutti gli allettativi di onori e di premj, esso invita i delatori d'ogni specie ad accusare senz'eccezione i suoi magistrati o ministri, i suoi amici, o i suoi più intimi favoriti, protestando con una solenne asserzione, ch'egli stesso avrebbe ascoltata l'accusa, ed avrebbe da se stesso vendicate le proprie ingiurie; e terminando con una preghiera, la quale scuopre qualche apprensione di pericolo, onde la Previdenza dell'Ente supremo continui sempre a proteggere la salute dell'Imperatore e dell'Impero[391].
A. D. 326
I delatori, che secondarono un invito sì liberale, eran versati abbastanza nelle arti delle Corti per indicar come rei gli amici e gli aderenti di Crispo; nè v'è alcun motivo di non credere alla veracità dell'Imperatore, che aveva promesso un'ampia dose di vendetta e di gastigo. La politica di Costantino, per altro, mantenne le stesse speranze di riguardo e di confidenza verso d'un figlio, che incominciava a risguardare come il suo più irreconciliabil nemico. Furon battute medaglie co' soliti voti pel lungo e felice regno del giovine Cesare[392]; ed in quella guisa che il popolo, il quale non era ammesso a' segreti della Corte, amava sempre le sue virtù, o ne rispettava la dignità, così un poeta, che sollecita il suo richiamo dall'esilio, adora con ugual riverenza la maestà del padre e quella del figliuolo[393]. Era giunto il tempo di celebrar l'augusta ceremonia del ventesimo anno del regno di Costantino; e l'Imperatore a tal effetto trasferì la Corte da Nicomedia a Roma, dove s'eran fatti pel suo ricevimento i più splendidi preparativi. Ogni occhio ed ogni lingua affettava d'esprimere un sentimento di generale felicità, e per un tempo il velo della solennità e della dissimulazione servì a cuoprire i più cupi disegni di vendetta e di morte[394]. Nel più bel della festa l'infelice Crispo fu arrestato per ordine dell'Imperatore, che si spogliò della tenerezza di un padre senza prendere l'equità di un giudice. L'esame fu breve e privato[395]; e poichè fu stimato conveniente di togliere agli occhi del popolo Romano la morte del Principe, sotto forte custodia fu mandato a Pola nell'Istria, dove poco dopo fu privato di vita, o per mano del carnefice o per la più mite operazione del veleno[396]. Nella ruina di Crispo restò involto Licinio Cesare[397], giovane di amabili costumi, e non potè muoversi la violenta gelosia di Costantino dalle preghiere, nè dalle lacrime della sorella sua favorita, che dimandava la vita d'un figlio, l'unico delitto del quale era il proprio grado, ed alla perdita di cui ella non potè lungamente sopravvivere. La storia di questi disgraziati Principi, la natura e la prova del loro delitto, la forma del processo e le circostanze della lor morte furono sepolte in una misteriosa oscurità; ed il Vescovo Cortigiano, che ha in un'elaborata opera celebrato le virtù e la pietà del suo Eroe, conserva un prudente silenzio intorno a questi tragici avvenimenti[398]. Un tale superbo disprezzo per l'opinione del genere umano, mentre imprime un'indelebile macchia sulla memoria di Costantino, ci dee far sovvenire della molto diversa condotta d'uno de' più gran Monarchi del nostro secolo. Il Czar Pietro, nel pieno possesso d'una potenza dispotica, sottopose al giudizio della Russia, dell'Europa e della posterità le ragioni, che lo costrinsero a sottoscrivere la condanna d'un colpevole, o almeno degenerante figliuolo[399].
Era sì generalmente riconosciuta l'innocenza di Crispo, che i Greci moderni, i quali adorano la memoria del lor fondatore, son ridotti a palliare il delitto d'un parricidio, che i sentimenti comuni della natura umana non permettevano di giustificare. Pretendono essi, che quando l'afflitto padre scuoprì la falsità dell'accusa, da cui la sua credulità era stata sì fatalmente sedotta, pubblicò al mondo il suo pentimento e rimorso, prese il lutto per quaranta giorni, nello spazio de' quali s'astenne dall'uso de' bagni e da ogni ordinario conforto della vita, e per durevole instruzione della posterità eresse a Crispo una statua d'oro con questa memoranda inscrizione: «Al mio Figlio che ho ingiustamente condannato»[400]. Un racconto così morale ed interessante meriterebbe d'esser sostenuto da autorità meno soggette a eccezioni; ma se consultiamo gli scrittori più antichi ed autentici, essi c'informeranno, che il pentimento di Costantino non si manifestò, che con atti di vendetta e di sangue, e che purgò l'uccisione d'un figlio innocente coll'esecuzione d'una forse rea moglie. Ascrivono la disgrazia di Crispo alle arti della matrigna Fausta, di cui l'implacabile odio, o l'amore mal corrisposto rinnuovò nel palazzo di Costantino l'antica tragedia d'Ippolito e di Fedra[401]. Come la figlia di Minosse, anche la figlia di Massimiano accusò il suo figliastro d'un incestuoso attentato contro la castità della moglie del proprio padre; e facilmente ottenne dalla gelosia dell'Imperatore una sentenza di morte contro d'un Principe, che essa con ragione risguardava come il più formidabile rivale de' propri figli. Ma Elena, la vecchia madre di Costantino, compianse e vendicò l'acerbo fato di Crispo di lui nipote; nè passò gran tempo, che si fece una reale o supposta scoperta, che Fausta medesima aveva un reo commercio con uno schiavo appartenente alle stalle Imperiali[402]. La condanna e la pena di essa furono le conseguenze immediate dell'accusa; e l'adultera fu soffocata dal fumo d'un bagno, che a tal fine era stato eccessivamente riscaldato[403]. Alcuni crederanno forse che la rimembranza d'una coniugale unione di vent'anni, e l'onore dello comune lor prole, destinata erede del Trono, avrebbe dovuto ammollire il duro cuore di Costantino, e persuaderlo a contentarsi che la sua moglie, per quanto potesse comparir delinquente, purgasse le proprie colpe in una solitaria prigione. Ma sembra fatica superflua il ponderare la convenienza di questo singolare avvenimento, se non se ne può accertare la verità, ch'è veramente accompagnata da alcune circostanze di perplessità e di dubbio. Tanto quelli, che hanno attaccato, quanto quelli, che han difeso il carattere di Costantino, hanno trascurato i considerabili passi di due orazioni pronunziate nel Regno seguente. La prima celebra le virtù, la bellezza e la fortuna dell'Imperatrice Fausta, figlia, moglie, sorella e madre di tanti Principi[404]. La seconda in espressi termini afferma, che la madre del giovane Costantino, il quale fu ucciso tre anni dopo la morte di suo padre, sopravvisse per piangere il destino del figlio[405]. Nonostante la positiva testimonianza di varj scrittori sì Cristiani che Pagani, vi resteran sempre ragioni di credere o almeno di sospettare, che Fausta evitasse la cieca e sospettosa crudeltà del marito. Le morti però d'un figlio e d'un nipote insieme coll'esecuzione d'un gran numero di rispettabili e forse innocenti amici[406], che furono involti nella lor caduta, possono esser bastanti a giustificare il disgusto del popolo Romano, ed a spiegare i satirici versi affissi alla porta del Palazzo, che paragonavan fra loro gli splendidi e sanguinosi regni di Costantino e di Nerone[407].
Per la morte di Crispo parve che l'Impero fosse devoluto a' tre figli di Fausta, de' quali già è stata fatta menzione sotto i nomi di Costantino, di Costanzo e di Costante. Questi Principi furono, l'uno dopo l'altro, investiti del titolo di Cesari; e le date della lor promozione si posson riferire al decimo, al ventesimo ed al trentesimo anno del regno del loro padre[408]. Questa condotta, sebbene tendesse a moltiplicare i futuri padroni del Mondo Romano, sarebbe scusabile per la parzialità dell'affetto paterno; ma non son così facili a intendersi le ragioni dell'Imperatore, allorchè pose a rischio la sicurezza sì della sua famiglia che del suo popolo, con elevar senza necessità i due suoi nipoti Dalmazio ed Annibaliano. Il primo fu innalzato, mediante il titolo di Cesare, ad essere uguale a' cugini; in favor dell'altro Costantino inventò il nuovo o singolar titolo di Nobilissimo[409], al quale unì la lusinghiera distinzione d'una veste di porpora e d'oro. Ma in tutta la serie de' Principi Romani di qualunque tempo dell'Impero, il solo Annibaliano fu distinto col titolo di Re; nome, che i sudditi di Tiberio avrebbero detestato come un profano e crudele insulto di capricciosa tirannide. L'uso di tal titolo, anche nel regno di Costantino, sembra un fatto strano e senza connessione con altri, che appena può ammettersi sull'autorità delle Imperiali medaglie, unita a quella degli scrittori contemporanei[410].
Era tutto l'Impero altamente interessato nell'educazione di questi cinque giovani, riconosciuti per successori di Costantino. Gli esercizi del corpo li preparavano alle fatiche della guerra e a' doveri della vita operativa. Quelli, che hanno occasione di rammentare l'educazione o i talenti di Costanzo, confessano, che egli era eccellente nelle arti ginnastiche di saltare e di correre; ch'egli era un destro arciero, un abile cavaliere e capacissimo nell'uso di tutte le diverse armi, che adoperavansi nell'esercizio o della cavalleria o della infanteria[411]. La medesima assidua cultura fu impiegata, quantunque forse con disegual successo, a fecondar lo spirito degli altri figli e nipoti di Costantino[412]. Furono invitati i più celebri Professori della Cristiana religione, della Greca filosofia e della Romana giurisprudenza dalla liberalità dell'Imperatore, che riservava a se stesso l'importante incombenza di istruire i reali giovani nella scienza del governo e nella cognizione degli uomini. Ma il genio di Costantino stesso erasi formato per mezzo dell'avversità e della esperienza. Nel libero commercio d'una vita privata e fra' pericoli della Corte di Galerio, aveva imparato a dominar le proprie passioni, a maneggiar quelle dei suoi uguali, ed a provvedere alla propria salvezza presente e alla futura sua grandezza con una prudente e coraggiosa condotta. I destinati suoi successori ebbero la disgrazia di nascere, e d'esser educati nella porpora Imperiale. Continuamente attorniati da una copia d'adulatori, passarono la lor gioventù fra le delizie del lusso e coll'espettazione d'un trono; nè la dignità del lor grado avrebbe permesso loro di scendere da quel sublimo posto, d'onde sembra che i diversi caratteri della natura umana prendano un aspetto liscio ed uniforme. L'indulgenza di Costantino gli ammise in una ben tenera età a partecipare dell'amministrazion dell'Impero; ed essi studiavan l'arte di regnare a spese del popolo affidato alla lor cura. Costantino il Giovane fu destinato a tener la sua Corte nella Gallia: ed il suo fratello Costanzo mutò quel dipartimento, ch'era stato l'antico patrimonio del loro padre, nelle più opulenti e meno marziali regioni d'Oriente. L'Italia, l'Illirico occidentale e l'Affrica erano assuefatte a riverir Costante, terzo suo figlio, come rappresentante il gran Costantino. Egli stabilì Dalmazio sulla frontiera Gotica, alla quale congiunse il governo della Tracia, della Macedonia e della Grecia. Fu scelta la città di Cesarea per residenza d'Annibaliano, e furon destinate le Province del Ponto, della Cappadocia e dell'Armenia Minore per formare l'estensione del suo nuovo regno. Si provvide un conveniente stabilimento per ciascheduno di questi Principi. Fu accordata una giusta porzione di guardie, di legioni e di ausiliari per la respettiva lor dignità e difesa. I Ministri ed i Generali, che posti furono intorno alle loro persone, eran tali quali Costantino potè credere che avrebbero assistito ed anche censurato questi giovani Sovrani nell'esercizio del lor delegato potere. A misura che avanzavano in età ed in esperienza, insensibilmente si dilatavano i limiti della loro autorità; ma l'Imperatore riservò sempre a se stesso il titolo d'Augusto; e nel tempo che mostrava i Cesari alle armate ed alle province, manteneva ogni parte dell'Impero in un'eguale obbedienza al supremo suo Capo[413]. La tranquillità degli ultimi quattordici anni del suo regno fu appena interrotta dalla spregevol ribellione di un condottier di cammelli nell'isola di Cipro[414], o dalla parte attiva, che la politica di Costantino lo impegnò a prendere nelle guerre de' Goti e de' Sarmati.
Fra' diversi rami della razza umana, i Sarmati ne formano uno molto considerabile; poichè sembra che riuniscano i costumi de' Barbari Asiatici colla figura e col temperamento degli antichi abitanti d'Europa. Secondo i varj accidenti di pace o di guerra, d'alleanza o di conquista, furono essi alle volte confinati alle rive del Tanai, ed alle volte si sparsero nelle immense pianure, che sono fra la Vistola e il Volga[415]. La custodia de' lor numerosi greggi ed armenti, la ricerca di cacciagione e l'esercizio della guerra, o piuttosto della rapina, dirigevano i vagabondi movimenti de' Sarmati. I mobili campi o città, ch'era l'ordinario soggiorno delle loro mogli e figliuoli, non consistevano che in gran carri tirati da bovi e coperti in forma di tende. La forza militare della nazione era composta di cavalleria; ed il costume, che avevano i loro guerrieri di tenere a mano uno o due cavalli, li poneva in grado d'avanzare o di ritirarsi con una rapida diligenza, la quale sorprendeva la sicurezza, ed eludeva l'incalzamento d'un distante nemico[416]. La scarsità, che avevano del ferro, trasse la lor rozza industria ad inventare una specie di corazza capace di resistere alla spada o al pugnale, quantunque non fosse formata che di ugne di cavallo tagliate in picciole e nette strisce, poste diligentemente l'una sopra dell'altra in forma di scaglie o di penne, e fortemente cucite sopra un giustacuore di lino[417]. Le armi offensive de' Sarmati erano corte daghe, lunghe lance e pesanti archi con un turcasso di frecce. Eran ridotti alla necessità di servirsi di ossa di pesci per le punte de' loro dardi; ma l'uso d'immergerle in un velenoso liquore che attossicava le ferite che facevano, è sufficiente per se solo a provare in essi i più selvaggi costumi; giacchè un popolo, che avesse avuto qualche sentimento d'umanità, avrebbe abborrito una pratica sì crudele, ed una nazione perita nelle arti di guerra avrebbe sdegnato un sì impotente ripiego[418]. Ogni volta che questi Barbari uscivano dalle loro foreste in cerca di preda, le irsute lor barbe, gli scarmigliati capelli, le pelli, delle quali eran coperti da capo a piedi, ed i lor fieri aspetti, che pareano esprimere l'innata crudeltà de' loro animi, inspiravano a' più inciviliti Provinciali di Roma sbigottimento ed orrore.
Il tenero Ovidio, dopo d'aver consumato la gioventù fra' piaceri della fama e del lusso, fu condannato ad un esilio senza speranza sulle gelide rive del Danubio, dov'era esposto quasi senza difesa al furore di questi mostri selvaggi, con gli spiriti grossolani dei quali temeva che potesse un giorno confondersi la delicata sua ombra. Ne' suoi patetici ma alle volte femminili lamenti[419], egli descrive co' più vivi colori l'abito ed i costumi, le armi e le incursioni de' Goti e de' Sarmati, che s'erano uniti con disegni di distruzione; e dalle notizie che ci dà l'istoria, v'è qualche motivo di credere, che questi Sarmati fossero i Jazigi, una delle più numerose e guerriere tribù della nazione. Gli allettativi dell'abbondanza gl'invitarono a cercarsi un permanente stabilimento sulle frontiere dell'Impero. Poco dopo il regno d'Augusto, essi costrinsero i Daci, che sussistevano mediante la pesca sulle rive del fiume Teyss o Tibisco, a ritirarsi nelle montagne, abbandonando a' Sarmati vittoriosi i fertili piani dell'Ungheria superiore, che han per confini il corso del Danubio ed il semicircolare recinto de' monti Carpazi[420]. In tal vantaggiosa posizione potevano avanzare o sospendere il momento dell'attacco, secondo che venivan provocati dalle ingiurie o addolciti dai presenti; appoco appoco appresero l'arte di usare armi più pericolose; e quantunque i Sarmati non abbian renduto celebre il loro nome per alcuna memorabile impresa, nelle occasioni però assistevano gli Orientali ed Occidentali loro vicini, i Goti e i Germani, con formidabili corpi di cavalleria. Essi vivevano sotto l'aristocrazia irregolare de' lor capitani[421]; ma dopo ch'ebbero ammesso fra loro i Vandali fuggitivi, che cederono alla forza de' Goti, par che prendessero da quella nazione un Re dell'illustre stirpe degli Astingi, che avevano anticamente abitate le spiagge dell'Oceano Settentrionale[422].
A. D. 361
Questo motivo di nimicizia dovè accrescere le occasioni di contese, che nascono continuamente a' confini di guerriere ed indipendenti nazioni. I Principi Vandali erano stimolati dal timore e dalla vendetta: i Re Goti aspiravano ad ampliare il loro dominio dall'Eussino alle frontiere della Germania; e le acque del Maros, picciolo fiume, che cade nel Tibisco, eran macchiate dal sangue de' guerreggianti Barbari. Dopo d'avere sperimentata la superiorità della forza o del numero de' loro avversari, implorarono i Sarmati la protezione del Monarca Romano, il quale vedeva con piacere la discordia delle nazioni, ma avea ragione di temere il progresso delle armi Gotiche. Tosto che Costantino si fu dichiarato in favore della parte più debole, il superbo Ararico Re de' Goti, in cambio di aspettare l'attacco delle legioni, passò audacemente il Danubio, e sparse la devastazione ed il terrore nella Provincia di Mesia. Per opporsi al corso di questo rovinoso nemico, il vecchio Imperatore intraprese in persona la pugna; ma in tal occasione o la sua fortuna o la sua condotta non corrispose alla gloria, che s'era acquistata in tante straniere e domestiche guerre. Esso ebbe la mortificazione di veder fuggire le sue truppe avanti ad un tenue distaccamento di Barbari, che le inseguirono fino all'ingresso del trincierato loro campo, e l'obbligarono a provvedere alla propria salvezza con una precipitosa ed obbrobriosa ritirata. L'evento d'una seconda più fortunata battaglia restituì l'onore al nome Romano; e dopo un ostinato dibattimento, il potere dell'arte e della disciplina prevalse agli sforzi del non regolato valore. L'esercito sconfitto de' Goti sgombrò il campo e la devastata Provincia, e lasciò libero il passo del Danubio; e quantunque al maggiore de' figli di Costantino fosse permesso di tenere il posto del padre, tuttavia il merito della vittoria, che sparse una gioia universale, fu ascritto ai providi consigli dell'Imperatore medesimo.
A. D. 332
Esso contribuì almeno ad accrescer questo vantaggio per mezzo de' suoi maneggi col libero e guerriero popolo del Chersoneso[423], la cui Capitale, situata nella costa occidentale della penisola Taurica o Crimea, riteneva sempre qualche vestigio di Greca colonia, e si governava da un magistrato perpetuo, assistito da un consiglio di Senatori, chiamati enfaticamente i Padri della città. Gli abitatori del Chersoneso eran animati contro i Goti dalla memoria delle guerre, che nel precedente secolo con forze disuguali avean sostenuto contro gl'invasori del lor paese. Essi erano uniti co' Romani per causa de' reciproci vantaggi del commercio, poichè dalle Province dell'Asia ricevevano grano e manifatture, ch'essi cambiavano co' soli prodotti che avevano di sale, di cera e di cuoi. Obbedienti alle domande di Costantino, prepararono, sotto la condotta di Diogene lor magistrato, un considerabile esercito, la principal forza del quale consisteva in balestre ed in carri militari. La veloce marcia e l'intrepido attacco di essi, nel tempo che divertiva l'attenzione de' Goti, secondava le operazioni de' generali Imperiali. I Goti, vinti da tutte le parti, si ritirarono nelle montagne, dove nel corso d'una infelice campagna si conta che ne perissero sopra centomila di freddo e di fame. Finalmente fu accordata la pace alle umili loro preghiere; fu ricevuto il figlio maggiore d'Ararico come il più stimabile ostaggio; e Costantino cercò di convincere i loro capi, mediante una liberal distribuzione di onori e di premj, quanto alla inimicizia de' Romani fosse preferibile la loro amicizia. L'Imperatore fu anche più magnifico nel dimostrare la sua gratitudine verso il fedel popolo del Chersoneso. Fu soddisfatta la vanità della nazione per mezzo di splendide e quasi reali decorazioni, accordate al lor magistrato ed a' suoi successori. Si stipulò un'esenzione perpetua da ogni tributo per li vascelli, che commerciavano ne' porti del mar Nero. Fu promesso un sussidio regolare di ferro, di grano, d'olio e di qualunque altro genere, che potesse loro essere utile in pace od in guerra. Ma fu creduto, che per li Sarmati fosse un premio bastante la liberazione dalla loro imminente ruina; e l'Imperatore, con un'economia forse troppo diretta, dedusse una parte delle spese della guerra dalle gratificazioni ordinarie, che solevan darsi a quella turbolenta nazione.
A. D. 334
I Sarmati, esacerbati da tale apparente disprezzo, colla solita leggerezza de' Barbari presto si dimenticarono de' benefizi, che avevano sì poco tempo avanti ricevuti e de' pericoli, che tuttavia minacciavano la loro sicurezza. Le scorrerie, ch'essi fecero sulle terre dell'Impero, provocarono lo sdegno di Costantino ad abbandonarli al loro fato; nè più volle opporsi all'ambizione di Geberico, famoso guerriero, che di fresco era salito sul Trono de' Goti. Wisumar, Re Vandalo, mentre solo e senz'assistenza, con indomito coraggio difendeva i suoi Stati, fu vinto ed ucciso in una decisiva battaglia, che abbattè il fiore della gioventù Sarmata. Il resto della nazione prese il disperato espediente di armare i propri schiavi, ch'erano una razza di cacciatori e pastori induriti nella fatica, col tumultuario soccorso de' quali vendicarono la loro disfatta, e scacciarono l'invasore da' loro confini. Ma tosto si accorsero d'aver cambiato un estraneo con un interno più pericoloso e più implacabil nemico. Gli schiavi, furibondi per l'antica lor servitù, ed insuperbiti per la presente lor gloria, sotto il nome di Limiganti pretesero e s'usurparono il possesso del paese che avevan salvato. I padroni, incapaci d'opporsi alla sregolata furia della moltitudine, preferirono i travagli dell'esilio alla tirannia de' loro servi. Alcuni de' Sarmati fuggitivi si procurarono una dipendenza meno ignominiosa sotto le ostili bandiere de' Goti. Una più copiosa parte si ritirò al di là dei monti Carpazi fra i Quadi, Germani loro confederati, e furono facilmente ammessi alla partecipazione d'una superflua quantità d'incolto terreno. Ma la massima parte dell'angustiata nazione si voltò verso le fruttuose Province di Roma. Implorando essi la protezione e il perdono dell'Imperatore, solennemente promisero, sì come sudditi in pace, che come soldati in guerra, la fedeltà più inviolabile all'Impero, che gli avesse graziosamente ricevuti nel proprio seno. Secondo le massime adottate da Probo e da' suoi successori, furono con amore accettate le offerte di questa colonia di Barbari; e venne immediatamente assegnata per l'abitazione e sussistenza di trecentomila Sarmati una sufficiente porzione di terre nelle Province della Pannonia, della Tracia, della Macedonia e dell'Italia[424].
A. D. 335-337
Col reprimer che fece l'orgoglio de' Goti e coll'accettare l'omaggio d'una supplichevol nazione, Costantino sostenne la maestà dell'Impero Romano; e vennero Ambasciatori dall'Etiopia, dalla Persia e dalle più lontane regioni dell'India a congratularsi della pace e della prosperità del suo governo[425]. S'egli contava fra' favori della fortuna la morte del suo primogenito, del nipote, e forse ancor della moglie, godè una continuazione non interrotta di privata e di pubblica felicità fino al trentesim'anno del suo regno; periodo che a nessuno de' suoi predecessori, dopo Augusto, fu permesso di celebrare. Costantino sopravvisse circa dieci mesi a quella solenne ceremonia; e nella matura età di sessantaquattro anni, dopo una breve malattia, finì la memorabil sua vita nel palazzo d'Aquirion ne' sobborghi di Nicomedia, ov'erasi ritirato per godere il vantaggio dell'aria, colla speranza di ricuperare l'esauste sue forze mediante l'uso dei bagni caldi. L'eccessive dimostrazioni di dispiacere o almeno di lutto sorpassarono tutto ciò ch'erasi mai praticato in altre simili precedenti occasioni. Nonostante la pretensione del Senato e del Popolo dell'antica Roma, il cadavere del morto Imperatore, secondo l'ultima sua richiesta, fu trasportato nella città, ch'era destinata a conservare il nome e la memoria del suo fondatore. Il corpo di Costantino, adornato della porpora e del diadema, vani simboli di grandezza, fu collocato sopra un talamo d'oro in un appartamento del palazzo, che a tal effetto s'era splendidamente apparato e ripieno di lumi. Furono esattamente osservate le formalità della Corte; ogni giorno alle ore stabilite i principali uffiziali dello Stato, dell'armata e del palazzo, accostandosi con ginocchia piegate e con portamento composto alla persona del loro Sovrano, gli offerivano il loro rispettoso omaggio colla medesima serietà, che se fosse stato in vita. Questa teatrale rappresentazione fu continuata per motivi di politica qualche tempo; nè l'adulazione poteva ometter l'opportunità d'osservare, che il solo Costantino per uno special favore del cielo avea regnato anche dopo la morte[426].
Ma questo regno non potea consistere che in vane apparenze; e ben presto si conobbe, che rare volte si obbedisce alla volontà del più assoluto Monarca, quando i sudditi non han più niente da sperare dal suo favore, o da temer dal suo sdegno. Gli stessi Ministri e Generali, che si piegavano con tanta riverenza avanti al disanimato corpo del defunto loro Sovrano, erano impegnati in segreti consigli per escludere i suoi due nipoti, Dalmazio ed Annibaliano, dalla parte ch'egli aveva loro assegnata nella succession dell'Impero. Noi abbiamo una cognizione troppo imperfetta della Corte di Costantino per formare alcun giudizio dei veri motivi, che mossero i capi della cospirazione; qualora non si volesse supporre, che fossero animati da uno spirito di gelosia e di vendetta contro il Prefetto Ablavio, superbo favorito, che lungamente avea regolato i consigli del defunto Imperatore, ed abusato della confidenza di lui. Gli argomenti, per mezzo dei quali sollecitarono il concorso de' soldati e del popolo, erano chiari ad ognuno: essi potevano con ugual decenza che verità insistere nel superior grado de' figli di Costantino, nel pericolo di moltiplicare il numero dei Sovrani e negli imminenti mali, che alla Repubblica minacciava la discordia di tanti Principi rivali, che non si trovavan congiunti col tenero vincolo dell'affezione fraterna. Fu condotto con zelo e segretezza l'intrigo fino al segno, che si ottenne un'alta ed uniforme dichiarazione dalle truppe, che non avrebbero sofferto nell'Impero di Roma regnassero altri che i figli del loro compianto Monarca[427]. Si conviene da tutti che il giovane Dalmazio, ch'era unito co' suoi collaterali parenti per li vincoli anche dell'amicizia e dell'interesse, aveva ereditato una gran parte delle doti del gran Costantino. Ma in quest'occasione non pare che prendesse alcuna misura per sostenere colle armi i giusti diritti, ch'esso ed il suo fratello traevano dalla generosità del loro zio. Attoniti e sopraffatti dall'impeto del furor popolare, sembra che inabili a fuggire o a resistere, s'abbandonassero nelle mani degl'implacabili loro nemici. Fu sospeso il loro destino fino alla venuta di Costanzo, ch'era il secondo[428], e forse il più favorito tra' figli di Costantino.
La voce dell'Imperatore spirante avea raccomandata la cura de' suoi funerali alla pietà di Costanzo; e questo Principe, attesa la vicinanza della sua residenza in Oriente, poteva con facilità prevenire la diligenza de' suoi fratelli, che risedevano ne' lontani loro governi dell'Italia e della Gallia. Appena ebbe preso possesso del Palazzo di Costantinopoli, che il suo primo pensiero fu quello di togliere di timore i congiunti mediante un solenne giuramento, con cui si fece mallevadore della loro sicurezza; e la seconda sua occupazione fu di trovare qualche specioso pretesto, che potesse liberare la sua coscienza dall'obbligo d'una imprudente promessa. Furon fatte servire le arti della frode a' disegni della crudeltà, e si attestò una manifesta falsità da una persona del più sacro carattere. Costanzo ricevè dalle mani del Vescovo di Nicomedia una fatal pergamena, che fu asserito essere il vero testamento di suo padre, nel quale dall'Imperatore si esprimevano i suoi sospetti d'essere stato avvelenato da' propri fratelli, e scongiurava i suoi figli a vendicar la sua morte ed a provvedere alla propria loro salvezza colla punizione de' rei[429]. Per quante ragioni potessero addurre quegl'infelici Principi per difendere la vita e l'onore da una tanto incredibile accusa, furon costretti a tacere da' furiosi clamori de' soldati, che si dichiararono loro nemici nel tempo stesso, e giudici ed esecutori. Lo spirito, ed anche la forma del legittimo processo, restò più volte violata in un tumultuario macello, in cui restarono involti i due zii di Costanzo, sette de' suoi cugini, i più illustri dei quali furon Dalmazio ed Annibaliano, il Patrizio Ottato, che aveva per moglie una sorella del morto Imperatore, ed il Prefetto Ablavio, a cui la potenza e le ricchezze avevano inspirato qualche speranza d'ottenere la porpora. Se vi fosse bisogno d'aggravare anche gli orrori di questa sanguinosa scena, si potrebbe aggiungere, che Costanzo medesimo aveva sposata la figlia di Giulio suo zio, e che aveva data la sua sorella in matrimonio al suo cugino Annibaliano. Queste parentele, che la politica di Costantino, senza riguardo al pubblico danno[430], avea fatte tra' diversi rami della casa Imperiale, non servirono che a convincere il mondo, che questi Principi erano ugualmente freddi alle lusinghe del coniugale affetto, che insensibili a' vincoli del sangue ed alle tenere suppliche della gioventù e dell'innocenza. D'una sì numerosa famiglia i soli Gallo e Giuliano, figli minori di Giulio Costanzo, furono salvati dalle mani degli assassini, finattanto che il loro furore, saziato per la strage, si fosse in qualche modo quietato. L'Imperator Costanzo, che in assenza dei suoi fratelli era il più sottoposto alla taccia e a' rimproveri, dimostrò in alcune posteriori occasioni un debole e passeggiero rimorso di quelle crudeltà, che i perfidi consigli de' suoi ministri, e l'irresistibile violenza delle truppe avevano estorto dall'inesperta sua giovinezza[431].
A. D. 337
Alla strage della famiglia Flavia successe una nuova divisione delle province, che fu confermata in un personale congresso de' tre fratelli. Costantino ch'era il maggiore dei Cesari, ottenne insieme con una certa preminenza di grado il possesso della nuova capitale, che portava il nome di lui e di suo padre. La Tracia e le regioni dell'Oriente furono il patrimonio accordato a Costanzo, e Costante fu riconosciuto per legittimo Sovrano dell'Italia, dell'Affrica e dell'Illirico Occidentale. Gli eserciti si sottoposero al loro ereditario diritto; ed essi dopo qualche dilazione condiscesero a ricevere dal Senato Romano il titolo d' Augusto. Allorchè assunsero le redini del governo, il maggiore di questi Principi aveva ventun anno, il secondo venti, ed il terzo non più di diciassette[432].
A. D. 310
Mentre le guerriere nazioni dell'Europa seguivano le bandiere de' suoi fratelli, Costantino fu lasciato alla testa dell'effemminate truppe dell'Asia a sostenere il peso della guerra Persiana. Ne' giorni in che morì Costantino, il trono dell'Oriente s'occupava da Sapore figlio d'Ormouz, ovvero Ormisda, e nipote di Narsete, che dopo la vittoria di Galerio aveva umilmente confessata la superiorità del Romano potere. Quantunque Sapore fosse nel trentesimo anno del lungo suo regno, era però sempre nel vigore della gioventù, giacchè per una strana combinazione la data del suo innalzamento al trono avea preceduto quella della sua nascita. La moglie d'Ormouz rimase gravida al tempo della morte del suo marito; e l'incertezza del sesso, eccitò le ambiziose speranze de' Principi della casa Sassan. I timori della guerra civile restarono alla fine dissipati dalla positiva assicurazione de' Magi, che la vedova d'Ormouz avea concepito ed avrebbe felicemente dato alla luce un figlio. I Persiani, obbedienti alla voce della superstizione, prepararono senza dimora la ceremonia della coronazione di esso. Fu posto nel mezzo del Palazzo un letto reale, sopra di cui stava la regina; il diadema fu collocato nel luogo che si potea supporre contenesse l'erede d'Artaserse; ed i Satrapi adoraron prostrati la maestà del loro invisibile ed insensibil Sovrano[433]. Se dee prestarsi fede a questo maraviglioso racconto, che sembra per altro esser conforme ai costumi del popolo, ed alla durata straordinaria del suo regno, dobbiamo ammirar non solamente la fortuna ma anche il genio di Sapore. Nella molle e segreta educazione di un Harem Persiano il real giovane seppe conoscere l'importanza d'esercitare il vigore del corpo e dello spirito, e si rendè degno, pel proprio merito personale, d'un trono, sul quale era stato posto mentre non sapeva per anche i doveri e le tentazioni d'un potere assoluto. La sua minorità fu esposta alle calamità quasi inevitabili della discordia domestica; fu sorpresa e saccheggiata la sua capitale da Thair, potente Monarca di Yemen o dell'Arabia; e restò disonorata la maestà della famiglia reale per la schiavitù d'una Principessa, sorella del morto Re. Ma tosto che Sapore giunse all'età virile, il vanaglorioso Thair, la sua nazione ed il suo paese cederono a' primi sforzi del giovane guerriero, che fece uso della vittoria con sì giudiziosa unione di rigore e di clemenza, che da' timori e dalla gratitudine degli Arabi ottenne il titolo di Dhoulacnaf, o protettore della nazione[434].
A. D. 342
L'ambizione del Monarca Persiano, al quale i suoi nemici attribuiscono le virtù di soldato e di politico, era animata dal desiderio di vendicar le disgrazie dei suoi maggiori, e di strappar di mano a' Romani le cinque province di là dal Tigri. La fama militare di Costantino e la forza reale o apparente del suo governo ritardarono l'attacco, e mentre l'ostile condotta di Sapore provocava lo sdegno della Corte Imperiale, le artificiose di lui negoziazioni ne trattenevano la pazienza. La morte di Costantino fu il segnale di guerra[435], e lo stato in cui erano le frontiere della Siria e dell'Armenia pareva che eccitasse i Persiani col prospetto di una ricca spoglia e d'una facil conquista. L'esempio delle stragi del palazzo diffuse uno spirito di licenza e di sedizioni fra le truppe dell'Oriente, che non erano più tenute a freno dall'abitudine d'obbedire ad un veterano comandante. La prudenza di Costanzo, che dopo il congresso co' suoi fratelli nella Pannonia s'era immediatamente affrettato di accorrere alle rive dell'Eufrate, fece a grado a grado tornar le legioni al dovere ed alla disciplina; ma il tempo dell'anarchia aveva permesso a Sapore di porre l'assedio a Nisibi, e di occupar molte delle più importanti fortezze di Mesopotamia[436]. Nell'Armenia il celebre Tiridate avea lungo tempo goduto la pace e la gloria, che meritava pel suo valore e per la fedeltà verso Roma. La stabile alleanza, ch'esso mantenne con Costantino gli produsse de' benefizi non solo temporali, ma anche spirituali: mediante la conversione di Tiridate si unì al carattere d'Eroe quello di Santo, la fede Cristiana si predicò, e si stabilì dall'Eufrate fino ai lidi del mar Caspio, e l'Armenia s'attaccò all'Impero col doppio legame della politica e della religione. Ma siccome molti nobili Armeni tuttavia ricusavano di abbandonare la pluralità degli Dei e delle mogli, la pubblica tranquillità era turbata da una malcontenta fazione, che insultava la cadente età del proprio Sovrano, ed impazientemente aspettava l'ora della sua morte. Morì egli finalmente dopo un regno di cinquantasei anni, e con Tiridate spirò la fortuna della Monarchia Armena. Il suo legittimo erede fu mandato in esilio; i sacerdoti Cristiani o furon uccisi o espulsi dalle loro Chiese, furono sollecitate le barbare Tribù d'Albania a discendere da' loro monti, e due de' più potenti Governatori, usurpando le insegne o la forza della dignità reale, implorarono l'assistenza di Sapore, ed aprirono le porte della loro città alle guarnigioni Persiane. Il partito Cristiano sotto la scorta dell'Arcivescovo d'Artassata, immediato successore di S. Gregorio l' Illuminatore, ricorse alla pietà di Costanzo. Continuaron le turbolenze per circa tre anni, dopo i quali Antioco, uno degli ufficiali del Palazzo, eseguì felicemente l'Imperial commissione di restituire a Cosroe, figlio di Tiridate, il trono de' suoi Padri, di conferire onori e premj a' fedeli seguaci della casa d'Arsace, e di promulgare un general perdono, che fu accettato dalla maggior parte de' Satrapi ribelli. Ma i Romani ritrassero da questa rivoluzione più onor che vantaggio. Era Cosroe un Principe di piccola statura e di spirito pusillanime. Non atto alle fatiche della guerra ed alieno dalla società, si ritirò dalla sua capitale in un remoto palazzo, che fabbricò sulle rive del fiume Eleutero nel mezzo d'un ombroso bosco, dove consumava l'ozioso suo tempo ne' campestri divertimenti della caccia. Per assicurarsi questa disonorevole quiete si sottopose alle condizioni di pace, che Sapore si compiacque d'imporgli; quali furono il pagamento d'un annuale tributo, e la restituzione della fertil provincia d'Atropatena, che il coraggio di Tiridate e le armi vittoriose di Galerio avevano aggiunta al regno dell'Armenia[437].
A. D. 337-360
Nel lungo periodo del regno di Costanzo, le province d'Oriente furono afflitte dalle calamità della guerra Persiana. Le irregolari scorrerie delle truppe leggiere spargevano alternativamente il terrore e la devastazione al di là del Tigri e dell'Eufrate, dalle porte di Ctesifonte a quelle d'Antiochia, e quest'attiva milizia era formata dagli Arabi del Deserto, i quali vivevan divisi d'interessi e di affezioni; mentre alcuni degl'indipendenti lor capi erano arrolati nel partito di Sapore, ed altri avevano impegnata la dubbiosa lor fede all'Imperatore[438]. Le più gravi ed importanti operazioni della guerra si conducevano con ugual vigore; gli eserciti di Roma e di Persia s'incontrarono l'uno coll'altro in nove sanguinose battaglie, in due delle quali comandava lo stesso Costanzo in persona[439]. L'evento di esse fu per lo più contrario a' Romani, ma nella battaglia di Singara l'imprudente loro valore aveva quasi acquistato una segnalata e decisiva vittoria. Le truppe stazionarie di Singara si ritirarono all'avvicinarsi di Sapore, che passò il Tigri sopra tre ponti, ed occupò vicino al villaggio d'Hilleh un vantaggioso posto, ch'esso per mezzo de' numerosi suoi guastatori circondò in un giorno con un profondo fosso ed un alto riparo. La sua formidabile armata, messa in ordine di battaglia, copriva le rive del fiume, le adiacenti alture, e tutta l'estensione d'una pianura di sopra dodici miglia, che separava i due eserciti. Erano ambedue ugualmente impazienti di venire alle mani; ma i Barbari, dopo una tenue resistenza caddero in disordine, o incapaci di sostenere, o desiderosi di straccare la forza delle due gravi legioni, che anelanti per il caldo e la sete gl'inseguirono attraverso la pianura, e tagliarono a pezzi una squadra di cavalleria di grave armatura, ch'era stata avanti all'ingresso del campo per proteggere la lor ritirata. Costanzo, che s'era molto impegnato nella caccia de' fuggitivi, procurò, senza effetto, di raffrenare l'ardore delle sue truppe, rappresentando loro i pericoli della prossima notte e la certezza di compire i loro disegni al nuovo giorno. Confidarono però esse molto più nel proprio valore, che nell'esperienza o abilità del lor Capitano, quietarono co' loro clamori le timide sue rimostranze; e correndo con furia all'impresa riempirono il fosso, gettarono a terra il riparo, e si dispersero per le tende ad oggetto di ricuperare l'esauste lor forze e godere la ricca messe delle loro fatiche. Ma il prudente Sapore aveva aspettato il momento opportuno per la vittoria. Il suo esercito, la maggior parte del quale, posto in sicuro sulle altezze, era stato spettator dell'azione, s'avanzò in silenzio e sotto l'ombra della notte; e gli arcieri Persiani, guidati da' lumi del campo, scagliarono una pioggia di dardi sopra quella disarmata e licenziosa moltitudine. La sincerità dell'istoria dichiara[440], che i Romani furono vinti con una terribile strage, e che le fuggitive reliquie delle legioni restarono esposte ai più intollerabili travagli. Quantunque la dissimulazione del panegirico, confessando che fu macchiata la gloria dell'Imperatore dalla disubbidienza de' soldati, procuri di tirare un velo sulle circostante di questa infelice ritirata, uno per altro di que' venali oratori, così gelosi della fama di Costanzo, riporta con sorprendente freddezza un atto di tanta incredibile crudeltà, che nell'opinione de' posteri deve imprimere la più brutta macchia all'onore del nome Imperiale. Era stato preso nel campo Persiano il figlio di Sapore, erede della corona. Questo sventurato giovane, che avrebbe risvegliato la compassione del più selvaggio nemico, fu battuto, torturato e pubblicamente messo a morte da' crudeli Romani[441].
A. D. 338-346-350
Per quanti vantaggi potessero incontrare le armi di Sapore in campo, e quantunque nuove ripetute vittorie spargessero fra le nazioni la fama del suo valore e della sua condotta, pure non poteva egli sperar di riuscire nell'esecuzione de' suoi disegni, finchè le fortificate piazze della Mesopotamia, e sopra tutto la forte ed antica città di Nisibi restavano in possesso de' Romani. Nello spazio di dodici anni, Nisibi, che fin dal tempo di Lucullo era meritamente stimata il baloardo dell'Oriente, sostenne tre memorabili assedj contro la potenza di Sapore, e non avendo il Monarca ottenuto l'intento, dopo d'avere insistito negli attacchi sopra sessanta, ottanta e cento giorni, fu per tre volte rispinto con perdita ed ignominia[442]. Questa grande e popolata città era situata circa due giornate distante dal Tigri nel mezzo d'una piacevole e fertil pianura a piè del monte Masio. Difendevasi da un profondo fosso[443] un triplice recinto di mura; e l'intrepida resistenza del Conte Luciliano e della sua guarnigione, veniva secondata dal disperato coraggio del popolo. I cittadini di Nisibi erano animati dall'esortazioni del loro Vescovo[444], assuefatti alle armi per la presenza del pericolo, e convinti dell'intenzione che avea Sapore, di porre in luogo loro una colonia Persiana, e condurre essi in una lontana e barbara schiavitù. Il successo de' due primi assedj accrebbe la lor fiducia, ed inasprì l'animo superbo del gran Re, che s'avanzò per la terza volta verso Nisibi alla testa delle forze unite della Persia e dell'India. Le macchine ordinarie, inventate per battere o minare le mura, si resero inefficaci dalla superior perizia de' Romani; ed eran passati molti giorni inutilmente, quando Sapore prese una risoluzione degna d'un Monarca Orientale, che credeva gli stessi elementi soggetti fossero al suo potere. Nella stagione, in cui sogliono struggersi le nevi dell'Armenia, il fiume Migdonio, che passa per la pianura e per le città di Nisibi, forma, come il Nilo[445], un'inondazione nell'adiacente paese. Per opera de' Persiani fu ritenuto sotto la città il corso del fiume, e le acque furono per ogni parte ristrette da sodi argini di terra. Su questo lago artificiale s'avanzò in ordine di battaglia una flotta di vascelli armati, pieni di soldati, e con macchine, che scagliavano pietre del peso di cinquecento libbre; ed attaccarono quasi al medesimo livello le truppe, che difendevan le mura. L'irresistibile forza dell'acqua era fatale alternativamente all'una ed all'altra delle parti combattenti, finchè in ultimo cedè ad un tratto una parte di mura, incapace di sostenere l'accumulata pressione, e s'aprì un'ampia breccia di centocinquanta piedi. I Persiani furono immediatamente spinti all'assalto, e dall'evento di quella giornata dipendeva il fato di Nisibi. La cavalleria di grave armatura, che conduceva la vanguardia d'una profonda colonna, restò imbarazzata nel fango, ed in gran parte annegossi nelle profondità, che per esser occupate dall'acqua, non si vedevano. Gli elefanti, renduti furiosi dalle ferite, accrebbero il disordine, e gettarono a terra migliaia d'arcieri Persiani. Il gran Re, che da un sublime trono vedeva le disgrazie del proprio esercito, suonò, sdegnato e di mala voglia, il segno della ritirata, e per qualche ora sospese di proseguire l'attacco. Ma i vigilanti cittadini profittarono dell'opportunità della notte, ed al far del giorno si vide un nuovo muro alto sei piedi, che s'andava di mano in mano elevando per riempire la breccia. Sebbene fossero andate a voto le sue speranze, e perduto avesse più di ventimila uomini, Sapore pressava sempre con un'ostinata fermezza la resa di Nisibi, nè potè cedere che alla necessità di difendere le province Orientali della Persia contro una formidabil invasione de' Massageti[446]. Commosso da questa nuova, abbandonò in fretta l'assedio, e con rapida diligenza marciò dalle sponde del Tigri a quelle dell'Oxo. Il pericolo e le difficoltà della guerra con gli Sciti l'impegnarono poco dopo a concludere o almeno ad osservare una tregua coll'Imperator Romano, che fu grata ugualmente ad ambidue i Principi; mentre Costanzo medesimo, dopo la morte de' suoi due fratelli, si trovò involto per le rivoluzioni dell'Occidente in una guerra civile, che richiedeva, anzi pareva ch'eccedesse il più vigoroso sforzo del suo diviso potere.
A. D. 304
Erano appena passati tre anni dopo la division dell'Impero, che i figli di Costantino parvero impazienti di persuadere il Mondo, ch'essi non eran capaci di contentarsi di que' dominj, ch'erano inabili a governare. Il maggiore di questi Principi tosto si dolse d'esser defraudato della sua giusta posizione delle spoglie de' trucidati cugini; quantunque cedesse alla maggior colpa e al merito di Costanzo, volle esigere da Costante la cessione delle province Affricane, come un equivalente delle ricche regioni della Macedonia e della Grecia, che aveva acquistate il fratello per la morte di Dalmazio. La mancanza di sincerità, ch'egli sperimentò in una tediosa ed inutil negoziazione, inasprì la fierezza del suo temperamento, e con piacere egli diede orecchio a que' favoriti, che gli suggerirono, che proseguendo a querelarsi, ne andava del suo onore non meno che dell'interesse. Alla testa pertanto d'una tumultuaria truppa, atta piuttosto alla rapina che alla conquista, invase all'improvviso gli Stati di Costante per la strada delle alpi Giulie, e primi a risentire gli effetti del suo sdegno furono i contorni d'Aquileia. Le disposizioni di Costante, che in quel tempo risedeva nella Dacia, furono prese con più prudenza ed abilità. Alla nuova dell'invasione del fratello egli distaccò un corpo scelto e disciplinato delle sue truppe Illiriche, proponendosi di seguitarlo in persona col rimanente delle sue forze. Ma la condotta de' suoi Generali finì tosto quella non naturale contesa. Costantino, dalle ingannevoli apparenze di fuga, fu condotto in un agguato che gli era stato preparato in un bosco, dove il temerario giovane fu con pochi seguaci sorpreso, circondato ed ucciso. Ritrovato che fu il suo corpo nell'oscuro torrente dell'Alsa, ottenne gli onori di una tomba Imperiale; ma le province di lui si assoggettarono al conquistatore, che ricusando d'ammetter Costanzo suo maggior fratello ad alcuna porzione di tali nuovi acquisti, si mantenne in quieto possesso di più di due terzi dell'Impero Romano[447].
A. D. 350
Fu differita la morte di Costante medesimo in circa dieci anni, e fu riservata la vendetta della morte del fratello alla mano più vile d'un domestico traditore. Le perniciose conseguenze del sistema, introdotto da Costantino, si manifestarono nella debole amministrazion de' suoi figli, che per causa de' vizi, e della debolezza loro perderon tosto la stima e l'affezione del lor popolo. L'orgoglio, che prese Costante pel felice successo, non meritato però, delle sue armi, si rendè più sprezzabile per la mancanza di capacità ed applicazione. La sua tenera parzialità per alcuni schiavi Germani, non distinti che per gli allettativi della gioventù, fu un oggetto di scandalo al popolo[448]; e dal pubblico disgusto fu incoraggiato Magnenzio, ambizioso soldato di barbara estrazione, a sostener l'onore del nome Romano[449]. Gli scelti corpi de' Gioviani e degli Erculei, che riconoscevan per loro capo Magnenzio, tenevano il posto più rispettabile ed importante nel campo Imperiale. L'amicizia di Marcellino, Conte delle sacre largizioni, somministrò con mano liberale i mezzi della seduzione. I soldati restarono convinti coi più speciosi argomenti, che la Repubblica intimava loro di rompere i legami dell'ereditaria servitù, e di premiare, mediante la scelta d'un Principe attivo e vigilante, le stesse virtù, che avevano innalzato i maggiori del degenerato Costante da una condizione privata al trono del mondo. Poscia che la cospirazione fu matura per eseguirsi, Marcellino, sotto pretesto di celebrare il giorno natalizio del figlio, diede uno splendido trattenimento alle persone illustri ed onorevoli della Corte della Gallia, che risedeva allora nella città d'Autun. Fu ad arte prolungata l'intemperanza della festa fino ad un'ora della notte molto tarda, e si tentarono i convitati, che nulla di ciò sospettavano, a condescendere ad una pericolosa e rea libertà di conversazione. Si aprirono ad un tratto le porte, e Magnenzio, che per pochi momenti erasi ritirato, tornò nell'appartamento, adornato del diadema e della porpora. I congiurati lo salutarono subito co' titoli d'Imperatore e d'Augusto. La sorpresa, il terrore, lo sbalordimento, le ambiziose speranze, e la mutua ignoranza del resto dell'assemblea, la impegnarono ad unire le proprie voci alla generale acclamazione. Le guardie affrettaronsi a prendere il giuramento di fedeltà, si chiuser le porte della città, ed avanti lo spuntar del giorno, Magnenzio divenne padrone delle truppe e del tesoro del palazzo d'Autun. Mediante la sua segretezza e diligenza, ebbe qualche speranza di sorprendere la persona di Costante, che stava nella vicina foresta occupato nel favorito suo divertimento della caccia, o forse in altri piaceri di più segreta e colpevol natura. Il rapido progresso però della fama gli concesse un momento di tempo a fuggire, quantunque la diserzione de' soldati e de' sudditi gli togliesse la facoltà di resistere. Avanti di poter giungere ad un porto della Spagna, dove avea intenzione d'imbarcarsi, fu sopraggiunto vicino ad Elena[450] a piè de' Pirenei, da un corpo di cavalleria leggiera, il cui capo, senza riguardo alla santità d'un tempio, eseguì la sua commissione uccidendo il figlio di Costantino[451].
A. D. 350
Subito che la morte di Costante ebbe decisa questa facile ma importante rivoluzione, fu imitato dalle altre province dell'Occidente l'esempio della Corte d'Autun. Venne riconosciuta l'autorità di Magnenzio per tutta l'estensione delle due gran Prefetture della Gallia e dell'Italia; e l'usurpatore con ogni sorta d'oppressione si preparò a raccogliere un tesoro, con cui soddisfar potesse l'obbligazione d'un immenso donativo, e supplire le spese d'una guerra civile. Le marziali regioni dell'Illirico, dal Danubio all'estremità della Grecia, avevan da lungo tempo obbedito al governo di Vetranione, vecchio Generale, amato per la semplicità de' suoi costumi, e che acquistato aveva qualche riputazione per la sua esperienza e servizi militari[452]. Attaccato per abito, per dovere e per gratitudine alla famiglia di Costantino, immediatamente assicurò colle più forti espressioni l'unico figlio sopravvivente del suo defunto Signore, che avrebb'esposto con inviolabile fedeltà la sua persona e le sue truppe ad oggetto di prendere una giusta vendetta dei traditori della Gallia. Ma le legioni di Vetranione furono sedotte piuttosto che provocate dall'esempio di ribellione; il loro Capo dimostrò ben presto mancanza di fermezza o di sincerità; e la sua ambizione trasse uno specioso pretesto dall'approvazione della Principessa Costantina. Questa crudele ed ambiziosa donna, che da Costantino Magno suo padre, avea ottenuto il grado di Augusta, pose il diadema colle proprie mani sul capo del Generale dell'Illirico; e parea, che aspettasse dalla vittoria di lui il compimento di quelle illimitate speranze, delle quali restata era priva per la morte d'Annibaliano di lei marito. Forse fu senza consenso di Costantina, che il nuovo Imperatore fece una necessaria, benchè disonorevole alleanza coll'usurpatore dell'Occidente, la cui porpora era stata così recentemente macchiata col sangue del fratello di essa[453].
A. D. 350
La notizia di quest'importanti avvenimenti, che sì altamente intaccavano l'onore e la salvezza della casa Imperiale, richiamarono le armi di Costanzo dal non glorioso proseguimento della guerra Persiana. Egli raccomandò la cura dell'Oriente a' suoi Generali, ed in seguito a Gallo suo cugino, che fece passare dalla prigione al trono: e marciò verso Europa con una mente agitata dal contrasto fra la speranza ed il timore, fra il dispiacere e lo sdegno. Arrivato che fu ad Eraclea nella Tracia, l'Imperatore diede udienza agli Ambasciatori di Magnenzio e di Vetranione. Marcellino, primo autore della cospirazione, che aveva in certo modo data la porpora al suo nuovo Signore, accettò arditamente questa pericolosa commissione, e gli furono scelti tre colleghi fra gl'illustri personaggi dello Stato e dell'esercito. A questi deputati fu data istruzione d'ammollire lo sdegno, e d'eccitare il timore di Costanzo. Fu data loro facoltà d'offerire al medesimo l'amicizia e l'alleanza de' Principi Occidentali; di assodare la loro unione col doppio matrimonio di Costanzo colla figlia di Magnenzio, e di questo con l'ambiziosa Costantina; e di riconoscere nel trattato la superiorità del grado, che avrebbe potuto giustamente pretendersi dall'Imperator dell'Oriente. Se poi l'orgoglio ed una erronea pietà l'avessero indotto a ricusare tali eque condizioni, fu ordinato agli Ambasciatori, che gli esponessero l'inevitabil ruina, che accompagnato avrebbe la sua inconsideratezza, qualora si fosse avventurato di provocare i Sovrani dell'Occidente ad esercitar la superiore lor forza e ad impiegare contro di lui quel valore, quell'abilità e quelle legioni, alle quali la famiglia di Costantino doveva tanti trionfi. Pareva, che tali proposizioni ed argomenti meritassero la più seria attenzione; fu differita la risposta di Costanzo al giorno seguente; e poichè aveva pensato all'importanza di giustificare nell'opinione del popolo una guerra civile, in tali termini parlò al suo Consiglio, che lo ascoltava con reale o con affettata credulità. «La passata notte, diss'egli, poi che mi fui ritirato al riposo, m'apparve l'ombra del gran Costantino, che abbracciava il cadavere del mio defunto fratello: la voce ben nota di esso mi eccitò alla vendetta, mi vietò di disperare della Repubblica, e mi assicurò del successo e della gloria immortale, che avrebbe coronato la giustizia delle mie armi.» L'autorità di questa visione o piuttosto l'autorità del Principe che la riferiva, servì ad acchetare ogni dubbio, e ad escludere ogni negoziazione. Furono rigettati con isdegno i termini ignominiosi di pace. Uno degli Ambasciatori del Tiranno fu rimandato colla superba risposta di Costanzo; i suoi colleghi, come indegni de' privilegi del gius delle genti, furon posti in catene; ed i contendenti si prepararono a fare un'implacabile guerra[454].
A. D. 350
Tale fu la condotta, e tal era forse il dovere del fratello di Costante verso il perfido usurpator della Gallia. La situazione ed il carattere di Vetranione ammettevano provvisioni più dolci; e la politica dell'Imperatore Orientale tendeva a disunire i suoi antagonisti, ed a separar le forze dell'Illirico dal partito della ribellione. Fu facile ingannar la schiettezza e la semplicità di Vetranione, che talvolta ondeggiando fra le opposte mire dell'onore e dell'interesse, dimostrò al mondo l'instabilità della sua indole e restò insensibilmente impegnato ne' lacci d'un'artificiosa negoziazione. Costanzo lo riconobbe per legittimo ed ugual collega nell'Impero, a condizione però ch'egli rinunziasse l'odiosa alleanza con Magnenzio, e si assegnasse un luogo di congresso sulle frontiere delle rispettive loro province, dove potessero vincolar la loro amicizia colle mutue promesse di fedeltà, e regolar di comune consenso le future operazioni della guerra civile. In conseguenza di tale accordo, Vetranione s'avanzò fino alla città di Sardica[455], alla testa di ventimila cavalli, e d'un più numeroso corpo d'infanteria; forze tanto superiori a quelle di Costanzo, che sembra che l'Imperatore dell'Illirico dominasse sopra la vita ed i beni del suo rivale, il quale dipendendo dal successo delle sue private negoziazioni, aveva sedotte le truppe, e minato il trono di Vetranione. I Capitani, che avevano segretamente abbracciato il partito di Costanzo, prepararono in suo favore un pubblico spettacolo, immaginato per iscuoprire ed infiammar le passioni della moltitudine[456]. Fu comandato che s'unissero insieme i due eserciti in una larga pianura vicino alla città. Nel mezzo di esse, a forma delle regole dell'antica disciplina, si eresse un militar tribunale o palco, dal quale solevan gl'Imperatori nelle solenni ed importanti occasioni arringare le truppe. Intorno al Tribunale formavano un cerchio immenso i ben disposti ordini di Romani e di Barbari, con spade sguainate o con erette lance, gli squadroni di cavalleria e le coorti d'infanteria, distinte dalle varietà delle loro armi ed insegne; e l'attento silenzio, che osservavano, era qualche volta interrotto da alte espressioni di clamore e d'applauso. Alla presenza di questa formidabile assemblea furono chiamati i due Imperatori ad esporre la situazione dei pubblici affari; la precedenza del grado fu ceduta alla real nascita di Costanzo; e quantunque egli fosse poco perito nelle arti della rettorica, pure si portò in queste difficili circostanze con fermezza, destrezza ed eloquenza. La prima parte di quest'orazione parve solamente diretta contro il Tiranno della Gallia; ma nel tempo che tragicamente compiangeva la crudele uccision di Costanzo, andava insinuando, che niun altro che un fratello aver poteva diritto alla succession del fratello. Si confuse con qualche compiacenza nelle glorie della stirpe Imperiale, e richiamò alla mente delle truppe il valore, i trionfi, e la liberalità del gran Costantino, a' figli del quale dicea, che avevano essi obbligata la lor ubbidienza, mediante un giuramento di fedeltà, che l'ingratitudine de' suoi servitori più favoriti aveva tentato di fare ad essi violare. Gli ufficiali, che circondavano il Tribunale, e dovevano in tale straordinaria scena far le lor parti, confessarono l'irresistibil forza della ragione e dell'eloquenza con salutare l'Imperator Costanzo come legittimo loro Sovrano. I sentimenti di fedeltà e di pentimento comunicaronsi di ordine in ordine, finattanto che la pianura di Sardica risuonò tutta coll'universale acclamazione: «via quest'intrusi usurpatori: lunga vita e vittoria, al figlio di Costantino; sotto le sole di lui bandiere combatteremo e vinceremo.» I gridi delle migliaia di soldati, i loro minaccevoli gesti, il fiero rimbombo delle armi sorpresero e vinsero il coraggio di Vetranione, che stava in mezzo alla ribellione de' suoi seguaci in dubbiosa e tacita sospensione. In vece di darsi all'ultimo rifugio d'una generosa disperazione, si sottopose vilmente al suo fato, e toltosi il diadema di capo, in presenza de' due eserciti cadde prostrato a' piedi del suo vincitore. Costanzo usò con prudenza e moderazione della vittoria; ed alzando da terra il vecchio supplicante, ch'esso affettò di chiamare col caro nome di padre, gli porse la mano per discendere dal trono. Fu destinata la città di Prusa per esilio o ritiro del deposto Monarca, il quale visse altri sei anni in seno alla pace ed all'abbondanza. Egli spesso esprimeva i suoi sentimenti di gratitudine per la bontà di Costanzo, e con una semplicità molto amabile avvisava il suo benefattore a rinunziare lo scettro del Mondo, e cercare il contento nella tranquilla oscurità d'una condizione privata, dove può solamente trovarsi[457].
A. D. 351
La condotta di Costanzo in tal memorabile occasione veniva celebrata con qualche sorta di giustizia; ed i suoi Cortigiani paragonavano le studiate orazioni, che faceva un Pericle o un Demostene al popol d'Atene, colla vittoriosa eloquenza, che avea persuaso una moltitudine armata ad abbandonare o deporre l'oggetto della parziale sua scelta[458]. L'imminente contesa con Magnenzio era d'una specie più seria e sanguinosa. Il Tiranno con rapide marce s'avanzò incontro a Costanzo, conducendo un grand'esercito, composto di Galli, di Spagnuoli, di Franchi e di Sassoni, di quei Provinciali, che somministravan la forza delle legioni, e di quei Barbari, che si tenevan come i nemici più formidabili della Repubblica. I fertili piani[459] della bassa Pannonia, fra il Dravo, il Savo ed il Danubio, presentarono uno spazioso teatro; e le operazioni della guerra civile furon mandate in lungo ne' mesi di estate per l'arte o per la timidità de' combattenti[460]. Costanzo avea dichiarato d'avere intenzione di decidere la contesa ne' campi di Cibali; nome ch'egli credeva dover animar le sue truppe per la rimembranza della vittoria, che nel medesimo avventuroso luogo erasi ottenuta, dalle armi di Costantino suo padre. Pure atteso le inespugnabili fortificazioni, colle quali l'Imperatore circondava il suo campo, pareva che volesse piuttosto sfuggir che incontrare un generale combattimento. Lo scopo di Magnenzio era quello di tentare o di costringere l'avversario ad abbandonare quel vantaggioso posto; ed impiegò a tal oggetto le diverse marce, evoluzioni e stratagemmi, che la cognizione dell'arte della guerra potea suggerire ad un esperto ufficiale. Egli prese d'assalto l'importante città di Siscia; fece un attacco contro quella di Sirmio, ch'era dietro al campo Imperiale; tentò di forzare un passaggio pel Savo nelle province Orientali dell'Illirico; e tagliò a pezzi un numeroso distaccamento, che aveva tirato negli stretti passi d'Adarno. Per quasi tutta la estate il Tiranno della Gallia si tenne padrone del campo. Le truppe di Costanzo erano stanche e scoraggiate; diminuiva la sua riputazione agli occhi del mondo; ed il suo orgoglio condescendeva a sollecitare un trattato di pace, che avrebbe rilasciato all'assassino di Costante la sovranità delle province oltre le alpi. Tali offerte acquistaron forza per l'eloquenza di Filippo, ambasciatore Imperiale, ed il Consiglio non meno che l'esercito di Magnenzio si disponevano ad accettarle. Ma l'altiero usurpatore, non curando le rimostranze de' suoi amici, diede ordine, che si ritenesse Filippo come prigioniero, o almeno come ostaggio, mentre spediva un uffiziale a rimproverare a Costanzo la debolezza del suo regno, e ad insultarlo colla promessa del perdono, se avesse immediatamente deposta la porpora. L'unica risposta, che l'onor permetteva all'Imperatore di dare, fu «ch'esso confidava nella giustizia della sua causa e nella protezione d'un Dio vendicatore.» Ma egli era tanto persuaso dell'infelicità di sua situazione, che non osò di contraccambiar l'indegnità, ch'era stata commessa verso il suo rappresentante. La negoziazione però di Filippo non fu senz'effetto; poichè indusse Silvano Franco, Generale di merito e di riputazione, a disertare con un corpo considerabile di cavalleria, pochi giorni avanti la battaglia di Mursa.
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La città di Mursa o Essek, celebre ne' moderni tempi per un ponte di barche lungo cinque miglia sul fiume Dravo e per le adiacenti paludi[461], è stata sempre considerata come una piazza importante nelle guerre dell'Ungheria. Magnenzio, dirigendo la sua marcia verso Mursa, mise fuoco alle porte della città, ed in un improvviso assalto ne aveva quasi scalate le mura. La vigilanza della guarnigione estinse le fiamme; l'avvicinarsi, che fece Costanzo, non gli diede tempo di continuar le operazioni dell'assedio; e l'Imperatore in breve tolse l'unico ostacolo che impedir poteva i suoi movimenti, forzando un corpo di truppe che s'erano situate in un vicino anfiteatro. Il campo di battaglia intorno a Mursa era una pianura nuda ed uguale; su questa Costanzo pose in ordinanza il suo esercito col Dravo alla destra, mentre la sinistra o per la natura della disposizione del luogo, o per la superiorità della sua cavalleria estendevasi molto avanti oltre al destro fianco di Magnenzio[462]. Le truppe rimasero in armi da ambe le parti con ansiosa espettazione per la maggior parte della mattina, ed il figlio di Costantino dopo d'aver animato con un eloquente discorso i soldati, si ritirò in una Chiesa a qualche distanza dal campo di battaglia, e commise a' suoi Generali la condotta di questa decisiva giornata[463]. Essi meritavan la sua fiducia pel valore e per l'arte militare, che dimostrarono. Diedero saviamente principio all'azione sulla sinistra; ed avanzando tutta l'ala della cavalleria in linea obbliqua, ad un tratto girarono sul fianco destro del nemico, il quale non era preparato a resistere all'impeto del loro attacco. I Romani dell'Occidente presto si riunirono, mediante l'abitudine della disciplina; ed i Barbari della Germania sostennero la fama della loro nazionale bravura. Il combattimento divenne tosto generale; si mantenne con varj e singolari giri di fortuna, ed appena finì colle tenebre della notte. La segnalata vittoria, che ottenne Costanzo, si attribuisce alle armi della sua cavalleria. Vengon descritti i suoi corazzieri, come tante massicce statue di acciaio, lucenti per la loro squamosa armatura, che rompevano con le pesanti lor lance la stabile ordinanza delle Galliche legioni. Tosto che le legioni cederono, gli squadroni più leggieri e più attivi della seconda linea s'introdussero con la spada alla mano negli intervalli di mezzo, e compirono il disordine. Intanto i grossi corpi de' Germani restarono esposti quasi nudi alla destrezza degli arcieri Orientali, e tutte le truppe di que' Barbari furon costrette dalle angustie e dalla disperazione a precipitarsi nel largo e rapido corso del Dravo[464]. Il numero degli uccisi fu calcolato esser cinquantaquattromila uomini, e la strage de' vincitori fu maggiore di quella de' vinti[465]; circostanza, che prova l'ostinazione del combattimento, e giustifica l'osservazione d'un antico scrittore, che furon consumate le forze dell'Impero nella fatal battaglia di Mursa, per la perdita d'un'armata veterana, sufficiente a difendere, o ad aggiunger nuovi trionfi alla gloria di Roma[466]. Nonostanti le invettive d'un servile oratore, non v'è la minima ragione di credere, che il Tiranno abbandonasse nel principio della battaglia la sua propria bandiera. Sembra ch'egli esercitasse le virtù di generale e di soldato, finattanto che la giornata non fu assolutamente perduta, ed il suo campo in man dei nemici. Magnenzio allora provvide alla propria salvezza, e deposti gli ornamenti Imperiali, fuggì con qualche difficoltà le ricerche de' cavalleggieri, che senza posa inseguirono la sua rapida fuga dalle sponde del Dravo fino a piè delle alpi Giulie[467].
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La vicinanza dell'inverno somministrò all'indolenza di Costanzo molte speciose ragioni per differire il proseguimento della guerra fino alla seguente primavera. Magnenzio avea fermata la sua residenza nella città d'Aquileia, ed apparentemente si mostrava risoluto di disputare il passo de' monti o delle lagune, che fortificavano i confini della Provincia Veneta. La sorpresa, fatta di un castello nelle alpi per una segreta marcia degl'Imperiali, non avrebbe bastato a determinarlo di lasciare il possesso dell'Italia, se le inclinazioni del popolo avessero sostenuto la causa del loro Tiranno[468]. Ma la memoria delle crudeltà, esercitate da' suoi ministri dopo l'infelice ribellione di Nepoziano, aveva lasciato una profonda impressione d'orrore e di sdegno negli animi de' Romani. L'ardito giovine, figlio della Principessa Eutropia e nipote di Costantino, avea veduto con isdegno usurparsi lo scettro d'Occidente da un perfido Barbaro. Armando quindi una truppa disperata di schiavi e di gladiatori, sorprese la debole guardia della domestica tranquillità di Roma, ricevè l'omaggio del Senato, ed assumendo il titolo d'Augusto, precariamente regnò nel tumultuoso periodo di ventotto giorni. La marcia di alcune forze regolari pose fine alle sue ambiziose speranze: la ribellione fu estinta nel sangue di Nepoziano, di Eutropia sua madre, e de' suoi aderenti; e fu estesa la proscrizione a tutti coloro, che avean contratto una fatale alleanza col nome e colla famiglia di Costantino[469]. Ma appena Costanzo, dopo la battaglia di Mursa, divenne padrone delle coste marittime della Dalmazia, un corpo di nobili esuli, che s'erano arrischiati ad equipaggiare una flotta in qualche porto dell'Adriatico, venne a cercar protezione e vendetta nel vittorioso suo campo. Per la segreta loro intelligenza co' propri nazionali, Roma e le città dell'Italia indotte furono a spiegare le bandiere di Costanzo sulle lor mura. I grati veterani, arricchiti dalla generosità del padre, segnalarono la lor gratitudine e fedeltà verso il figlio. La cavalleria, le legioni e gli ausiliari dell'Italia rinovarono il loro giuramento d'ubbidienza a Costanzo; e l'usurpatore, spaventato per la general diserzione, fu costretto co' residui delle sue truppe fedeli a ritirarsi oltre le alpi nelle Province della Gallia. I distaccamenti però, che spediti furono o per tribolare o per impedire la fuga di Magnenzio, si condussero colla solita imprudenza di coloro che si trovano in buona fortuna; e gli diedero nelle pianure di Pavia l'opportunità di voltarsi contro quelli che l'inseguivano, e di soddisfare alla sua disperazione colla strage d'una inutil vittoria[470].
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L'orgoglio di Magnenzio fu ridotto dalle ripetute disgrazie a supplicare, ma invano, per la pace. Spedì egli primieramente un Senatore, nell'abilità di cui confidava, ed in seguito varj Vescovi, il sacro carattere de' quali ottener poteva una più favorevol udienza, coll'offerta di rinunziare la porpora, e colla promessa di consacrare il rimanente della sua vita in servizio dell'Imperatore. Ma Costanzo, quantunque accordasse graziosi termini di perdono e di riconciliazione a chiunque lasciasse lo stendardo della ribellione[471], si dichiarava però inflessibilmente determinato a dare la giusta pena a' delitti d'un assassino, ch'egli si preparava ad opprimere da ogni parte collo sforzo delle vittoriose sue armi. Una flotta Imperiale s'impossessò facilmente dell'Affrica e della Spagna, confermò la fede vacillante de' popoli Mori, e sbarcò considerabili truppe, le quali passarono i Pirenei, e s'avanzarono verso Lione, ultima e fatal dimora di Magnenzio[472]. L'indole del Tiranno, che non fu mai inclinato alla clemenza, veniva stimolata dalle angustie ad esercitare qualunque atto d'oppressione, che estorcer potesse un pronto sussidio dalle città della Gallia[473]. Finalmente stancossi la loro pazienza, e Treveri, sede del governo Pretoriano, diede il segno della ribellione, chiudendo in faccia le porte a Decenzio, che dal fratello era stato elevato al grado di Cesare o d'Augusto[474]. Da Treveri, Decenzio fu costretto di ritirarsi a Sens, dove tosto fu circondato da un'armata di Germani, che dalle perniciose arti di Costanzo erano stati introdotti nelle civili dissensioni di Roma[475]. Intanto le truppe Imperiali forzarono i passi delle alpi Cozie, e nel sanguinoso combattimento di monte Seleuco il partito di Magnenzio fu irrevocabilmente notato col titolo di ribelle[476]. Non fu Magnenzio in grado di condurre un altro esercito in campo; venne corrotta la fedeltà delle sue guardie; e quando comparve in pubblico per animarle colle sue esortazioni, fu salutato con un concorde applauso di «lunga vita all'Imperatore Costanzo». Il Tiranno, accorgendosi che si preparavano a meritare perdono e premj con sagrificare il più malvagio delinquente, ne prevenne il disegno trafiggendosi col proprio ferro[477]; morte più mite ed onorata di quella, che potea sperar d'ottenere dalle mani d'un nemico, di cui la vendetta sarebbe stata colorita dallo specioso pretesto della giustizia e della fraterna pietà. L'esempio del suicidio fu imitato da Decenzio, che strangolossi alla nuova della morte di suo fratello. Marcellino, autore della cospirazione, era già da gran tempo disparuto nella battaglia di Mursa[478]; e fu ristabilita la pubblica tranquillità, mediante l'esecuzione de' sopravviventi capi d'una rea e disgraziata fazione. Fu estesa una severa inquisizione a tutti coloro, che o per elezione o per forza si ritrovarono involti nella causa de' ribelli. Fu mandato Paolo, soprannominato Catena per la sua grande abilità nel giudicial esercizio della tirannide, ad esplorare i nascosti residui della cospirazione nella remota Provincia della Gran-Brettagna. L'onesta indignazione, dimostrata da Martino Vice-Prefetto dell'Isola, fu interpretata come una prova della sua colpa; ed il Governatore trovossi nella necessità di rivolger contro il proprio petto la spada, con cui tentato avea di ferire il Ministro Imperiale. I più innocenti sudditi dell'Occidente furono esposti agli esilj e alle confiscazioni, alla morte ed a' tormenti; e siccome i timidi son sempre crudeli, l'animo di Costanzo si mostrò inaccessibile alla clemenza[479].
CAPITOLO XIX.
Costanzo solo Imperatore. Elevazione e morte di Gallo. Pericolo ed innalzamento di Giuliano. Guerre coi Sarmati e co' Persi. Vittorie di Giuliano nella Gallia.
Le divise Province dell'Impero nuovamente s'unirono per la vittoria di Costanzo; ma poichè quel Principe debole mancava di merito personale in pace o in guerra; poichè temeva de' suoi Generali, e diffidava de' Ministri, il trionfo delle sue armi non servì che a stabilire il regno degli Eunuchi sul Mondo Romano. Questi miserabili enti, antica produzione della gelosia e del dispotismo Orientale[480], furono introdotti nella Grecia ed in Roma pel contagio del lusso Asiatico[481]. Rapido fu il loro progresso; e gli Eunuchi, i quali al tempo d'Augusto si erano abborriti, come il mostruoso corteggio d'una Regina d'Egitto[482], furono appoco appoco ammessi nelle famiglie delle Matrone, de' Senatori e degli Imperatori medesimi[483]. Ristretti da' severi editti di Domiziano e di Nerva[484], accarezzati dalla vanità di Diocleziano, ridotti ad un umile stato dalla prudenza di Costantino[485], moltiplicarono ne' palazzi de' suoi degenerati figliuoli, ed insensibilmente acquistarono la cognizione, ed in ultimo la direzione de' segreti consigli di Costanzo. L'avversione e il disprezzo, che il Mondo ha sempre con tale uniformità mantenuto per questa imperfetta specie di uomini, sembra che abbia degradato il loro carattere, e gli abbia quasi renduti incapaci, come si suppongono essere, di concepire alcun sentimento generoso, o di fare alcun'azione degna di gloria[486]. Ma gli Eunuchi erano esperti nelle arti dell'adulazione e dell'intrigo, e governavan l'animo di Costanzo, alternativamente servendosi de' timori, dell'indolenza e della vanità del medesimo[487]. Mentr'egli mirava in un ingannevole specchio la bella apparenza della pubblica prosperità, con supina indolenza permetteva loro, che gli celassero le querele delle maltrattate Province; che accumulassero immense ricchezze con vendere la giustizia e gli onori; che infamassero le dignità più importanti colla promozione di quelli, che dalle lor mani aveano comprata la facoltà dell'oppressione[488]; e che soddisfacessero il proprio sdegno contro que' pochi spiriti indipendenti, che arditamente ricusavano di sollecitare la protezione di schiavi. Il più distinto fra questi schiavi era il Ciamberlano Eusebio, il quale regolava il Monarca ed il Palazzo con tale assoluto dominio, che Costanzo, secondo il sarcasmo d'un imparziale Istorico, godeva qualche credito appresso il superbo suo favorito[489]. Per le artificiose di lui suggestioni, l'Imperatore s'indusse a sottoscriver la condanna dell'infelice Gallo, e ad aggiungere un nuovo delitto alla lunga lista delle uccisioni, che macchiano l'onore della casa di Costantino.
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Quando i due nipoti di Costantino, Gallo e Giuliano, furon sottratti al furor de' soldati, il primo aveva circa l'età di dodici anni, ed il secondo di sei; e siccome il maggiore credevasi d'una debole costituzione di corpo, così con minor difficoltà ottennero una vita precaria e dipendente dall'affettata pietà di Costanzo, il quale conosceva che l'esecuzione di tali orfani abbandonati si sarebbe stimata dal Mondo come un atto della più deliberata crudeltà[490]. Furono destinate varie città della Jonia e della Bitinia per luoghi di loro educazione ed esilio; ma tosto che l'età loro crescente eccitò la gelosia dell'Imperatore, giudicò più prudente consiglio di soprattenere quegl'infelici giovani nella forte rocca di Macello, vicino a Cesarea. Il trattamento, ch'essi provarono in sei anni di confino, fu quale potevano in parte sperare da un attento custode, e in parte temere da un sospettoso Tiranno[491]. La lor prigione era un antico palazzo, residenza dei Re della Cappadocia; la situazione era piacevole, la fabbrica grandiosa, e spazioso il recinto. Essi proseguivano i loro studi, e facevano i loro esercizi sotto la guardia de' più periti maestri; ed il numeroso corteggio, destinato ad accompagnare, o piuttosto a guardare i nipoti di Costantino, era degno della dignità di lor nascita. Ma non potevano essi dissimulare a se medesimi, ch'eran privi di sostanze, di libertà e di sicurezza, separati dalla società di quelli, a' quali avrebber potuto accordare la confidenza e la stima, e condannati a passare le triste ore loro in compagnia di schiavi addetti a' comandi d'un Tiranno, che già gli aveva offesi fuor di qualunque speranza di riconciliazione. A lungo andare però le necessità dello Stato costrinsero l'Imperatore o piuttosto i suoi Eunuchi ad investir Gallo, nel ventesimo quinto anno della sua età, del titolo di Cesare, ed a confermare tal politica unione, mediante il matrimonio di lui colla Principessa Costantina. Dopo un formale incontro, nel quale i due Principi reciprocamente impegnaron la propria fede di non intraprender giammai cosa alcuna in pregiudizio l'uno dell'altro, si portarono senz'indugio alle rispettive loro stazioni. Costanzo continuò la sua marcia vers'Occidente, e Gallo fissò la sua residenza in Antiochia, di dove, con delegata autorità, amministrava le cinque gran Diocesi della Prefettura Orientale[492]. In questo fortunato cambiamento il nuovo Cesare non dimenticò il fratello Giuliano, che ottenne gli onori del suo grado, le apparenze della libertà e la restituzione d'un ampio patrimonio[493].
Gli scrittori più indulgenti verso la memoria di Gallo, e Giuliano egli stesso, quantunque desiderasse di tirare un velo sopra le fragilità del fratello, sono obbligati a confessare, che Cesare non era capace di regnare. Trasportato da una prigione ad un trono, non aveva nè ingegno, nè applicazione, nè docilità per compensare la mancanza delle cognizioni e dell'esperienza. Un temperamento per natura fastidioso e violento, invece di esser corretto, fu inasprito dalla solitudine e dall'avversità; la memoria di ciò, che avea sofferto, lo dispose a render l'istesso agli altri, piuttosto che a compatire; e gl'impeti sregolati del suo furore riuscirono spesso fatali a quelli, che gli stavano attorno, o eran sottoposti al suo potere[494]. Costantina sua moglie vien descritta non come una donna, ma come una furia infernale, tormentata da una insaziabil sete di sangue umano[495]. Invece d'impiegar la sua preponderanza ad insinuargli miti consigli di prudenza e di umanità, ella esacerbava le fiere passioni del marito; e siccome riteneva la vanità del suo sesso, quantunque deposta ne avesse la gentilezza, un vezzo di perle fu stimato da essa equivalente prezzo per la morte di un nobile innocente e virtuoso[496]. La crudeltà di Gallo alle volte si manifestava nell'aperta violenza di popolari o militari esecuzioni, ed alle volte si mascherava sotto l'abuso della legge e della formalità de' processi giudiciali. Le case private d'Antiochia ed i luoghi pubblici eran pieni di delatori e di spie; e Cesare stesso, celato sotto un abito plebeo, molto spesso si compiaceva di prendere quell'odioso carattere. Ogni appartamento del Palazzo era ornato con istrumenti di morte e di tortura, ed era sparsa una generale costernazione nella capitale della Siria. Il Principe dell'Oriente, come se fosse stato consapevol di quanto avea da temere, e quanto poco meritava di regnare, prese per oggetti dell'ira sua i Provinciali accusati di qualche immaginario tradimento, ed i propri Cortigiani, ch'esso con più ragione sospettava, che accendessero colla segreta loro corrispondenza il timido e sospettoso animo di Costanzo. Ma non pensava, che privavasi dell'affezione del popolo, unico suo sostegno, nel tempo che somministrava alla malizia dei suoi nemici le armi della verità, ed all'Imperatore il più bel pretesto di togliergli la porpora ad un tempo e la vita[497].
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Finattanto che la guerra civile tenne sospeso il fato del Mondo Romano, Costanzo dissimulò di conoscere la debole e crudele amministrazione, a cui la sua scelta sottoposto aveva l'Oriente; e la scoperta di alcuni assassini, mandati segretamente in Antiochia dal Tiranno della Gallia, servì a convincere il pubblico, che l'Imperatore ed il Cesare erano uniti negl'istessi interessi, e perseguitati da' medesimi nemici[498]. Ma quando fu decisa la vittoria in favor di Costanzo, il dipendente di lui collega divenne meno utile e men formidabile. Rigorosamente e con sospetto si esaminava ogni circostanza della sua condotta, e fu segretamente risoluto o di privar Gallo della porpora, o almeno di farlo passare dall'indolente lusso dell'Asia a' travagli e pericoli d'una guerra in Germania. La morte di Teofilo, Consolare della Provincia della Siria, che in un tempo di carestia era stato trucidato dal popolo d'Antiochia colla connivenza e quasi ad insinuazione di Gallo, fu giustamente sentita non solo come un atto di sfacciata crudeltà, ma come un pericoloso insulto contro la maestà suprema di Costanzo. Due ministri d'illustre grado, cioè Domiziano, Prefetto Orientale, e Monzio, Questore del Palazzo, ebbero per una special commissione la facoltà di visitare e riformare lo Stato dell'Oriente. Fu data loro istruzione di portarsi verso Gallo con moderazione e rispetto, ed impegnarlo colle più blande arti della persuasione a condiscendere all'invito del suo fratello e collega. L'inconsideratezza del Prefetto rendè vane queste prudenti misure, ed accelerò la di lui rovina ugualmente che quella del suo nemico. Al suo arrivo in Antiochia, Domiziano passò altieramente avanti alle porte del Palazzo, e adducendo un leggiero pretesto d'indisposizione, si tenne più giorni in un ostinato ritiro per preparare un memoriale, che trasmise alla Corte Imperiale. Cedendo finalmente alle pressanti sollecitazioni di Gallo, il Prefetto condiscese a prender posto in Consiglio; ma il primo passo, che fece, fu di significare un breve e superbo mandato, in cui si diceva, che Cesare immediatamente andasse in Italia, minacciando, ch'egli stesso avrebbe punito la sua dilazione o ambiguità, con sospendere la solita prestazione pel suo trattamento. Il nipote e la figlia di Costantino, che mal potevan soffrire l'insolenza d'un suddito, espressero il loro sdegno con fare immediatamente arrestar Domiziano da una guardia. La querela però sempre ammetteva qualche termine d'accomodamento. Ma questo fu reso impraticabile dall'imprudente condotta di Monzio politico, l'arte ed esperienza del quale furono spesso tradite dalla leggerezza della sua natura[499]. Il Questore con altiere parole rimproverò a Gallo, che un Principe, il quale appena era autorizzato a tor di carica un magistrato municipale, non dovea presumere d'imprigionare un Prefetto del Pretorio; convocò un'assemblea di uffiziali civili e militari; e richiese in nome del lor Sovrano, che difendessero la persona e la dignità de' rappresentanti di esso. Da questa temeraria dichiarazione di guerra l'impaziente indole di Gallo fu provocata ad abbracciare i più disperati consigli. Ordinò egli che le sue guardie stessero sulle armi, adunò la plebaglia d'Antiochia, ed al loro zelo raccomandò la cura della sua salute e vendetta. I suoi comandi furono troppo fatalmente obbediti. Presero insolentemente il Prefetto ed il Questore, e legate loro insieme con funi le gambe, gli strascinarono per le contrade della città, fecero mille insulti e mille ferite a quelle infelici vittime, e finalmente gettarono dentro l'Oronte i loro corpi straziati e privi di vita[500].
Dopo tal fatto, qualunque fosse stato il disegno di Gallo, solo in un campo di battaglia egli potea sostenere la sua innocenza con qualche speranza di buon successo. Ma l'animo di quel Principe era formato d'un'ugual mistura di violenza e di debolezza. Invece d'assumere il titolo d'Augusto, e d'impiegare in sua difesa le truppe ed i tesori dell'Oriente, si lasciò ingannare dall'affettata tranquillità di Costanzo, che lasciandogli la vana pompa d'una Corte, appoco appoco richiamò le veterane legioni dalle Province dell'Asia. Ma siccome tuttavia sembrava pericoloso arrestar Gallo nella sua Capitale, si praticarono con felice successo le lente e più sicure arti della dissimulazione. Le frequenti e pressanti lettere di Costanzo eran piene di protestazioni di confidenza e d'amicizia, esortando egli Cesare a soddisfare a' doveri del suo alto posto, a sollevare il suo collega da una parte delle pubbliche cure, e ad assistere l'Occidente colla sua presenza, coi consigli e colle armi. Dopo tante reciproche ingiurie Gallo avea ragione di temere e di diffidare. Ma egli avea trascurate le opportunità di fuggire e di resistere; fu sedotto dalle assicurazioni adulatrici del Tribuno Scudilone, che sotto le sembianze di ruvido soldato copriva la più artificiosa insinuazione; ed affidossi al credito di Costantina sua moglie, finchè la intempestiva morte di questa Principessa diede compimento alla rovina, in cui egli era rimasto involto per le impetuose di lei passioni[501].
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Dopo un lungo indugio, Cesare con repugnanza intraprese il suo viaggio verso la Corte Imperiale. Traversò egli la vasta estensione de' suoi dominj da Antiochia ad Adrianopoli con un numeroso ed imponente corteggio; e siccome procurava di celare al mondo e forse a se stesso le sue apprensioni, diede al popolo di Costantinopoli il trattenimento de' giuochi nel Circo. Poteva però nel progresso del viaggio essersi accorto dell'imminente pericolo. In tutte le principali città era incontrato da ministri di confidenza, che avevan commissione d'occupar le cariche del Governo, d'osservare i suoi movimenti, e di prevenire la precipitosa furia della sua disperazione. Le persone, spedite per assicurar le Province che lasciavasi addietro, passavan oltre con freddi saluti o con affettato disprezzo; ed all'avvicinarsi ch'egli faceva, allontanavano a bella posta le truppe, che avevano i quartieri lungo la pubblica strada, per timore che potessero esser tentate ad offerire le loro spade per fare una guerra civile[502]. Dopo di essersi permesso a Gallo il riposo di pochi giorni in Adrianopoli, egli ricevè un ordine espresso nello stile più assoluto ed altiero; che lo splendido di lui treno dovesse fermarsi in quella città, e Cesare stesso con soli dieci carri di posta si affrettasse di giungere alla residenza Imperiale di Milano. In questo rapido viaggio, il profondo rispetto, ch'era dovuto al fratello e collega di Costanzo, venne insensibilmente cangiato in una ruvida famigliarità; e Gallo che conobbe dal contegno de' suoi domestici, ch'essi risguardavansi già come sue guardie, ed avrebber tosto potuto servire di esecutori, incominciò ad accusare la sua fatale inavvertenza, ed a riflettere con terrore e rimorso alla condotta, con cui egli aveva provocata la sua rovina. A Petovio nella Pannonia si abbandonò la dissimulazione, che fino allora s'era conservata. Fu egli condotto in un palazzo ne' sobborghi, dove il General Barbazio con uno scelto corpo di soldati, che non potevano essere mossi dalla pietà, nè corrotti dai premj, aspettava l'arrivo dell'illustre sua vittima. Sul far della sera fu arrestato, spogliato ignominiosamente delle insegne di Cesare, e condotto in fretta a Pola nell'Istria, appartata prigione, che era stata sì recentemente macchiata di sangue reale. L'orrore, ch'egli sentiva, fu tosto accresciuto dal comparir che fece l'Eunuco Eusebio, suo implacabil nemico, il quale coll'assistenza d'un Notaro e d'un Tribuno procedè ad interrogarlo intorno all'amministrazione dell'Oriente. Cesare cadde sotto il peso della vergogna e del delitto, confessò tutte le ree azioni e tutti i ribelli disegni, de' quali era accusato, ed attribuendoli al consiglio della sua moglie, esacerbò lo sdegno di Costanzo, che rivedeva con parzial prevenzione le minute dell'esame. Restò l'Imperatore facilmente convinto, che la propria salvezza non era compatibile colla vita del suo cugino; fu segnata, spedita ed eseguita la sentenza di morte; ed il nipote di Costantino, colle mani legate sul dorso, fu decapitato in prigione, come il più vil malfattore[503]. Quelli che sono inclinati a coprire la crudeltà di Costanzo, asseriscono ch'ei tosto pentissi, e procurò di revocare il sanguinoso mandato; ma che il secondo messo, incaricato di portare la sospensione, fu ritenuto dagli Eunuchi, i quali temevano l'inesorabile indole di Gallo, e desideravano di unire al loro Impero le ricche Province dell'Oriente[504].
A. D. 355
Oltre il regnante Imperatore, di tutta la numerosa posterità di Costanzo Cloro, non sopravviveva che il solo Giuliano. L'infelicità della sua nascita reale lo involse nella disgrazia di Gallo. Dal suo ritiro nel felice paese della Jonia, fu trasportato sotto forte guardia alla Corte di Milano, dove languì più di sette mesi in continuo timore di soffrir l'istessa ignominiosa morte, che quasi avanti a' suoi occhi quotidianamente davasi agli amici e aderenti della sua perseguitata famiglia. Se ne scrutinavano con maligna curiosità i gesti, gli sguardi, il silenzio, ed era perpetuamente attaccato da nemici, che non avea mai offesi, e con artifizi, ai quali non era mai stato assuefatto[505]. Ma nella scuola dell'avversità, Giuliano acquistò insensibilmente le virtù della fermezza e della discrezione. Egli difese il proprio onore non men che la vita dalle insidiose sottigliezze degli Eunuchi, che tentavano d'estorcere qualche dichiarazione de' suoi sentimenti; e mentre cautamente chiudeva in se il dispiacere e la collera, nobilmente sdegnava di adulare il Tiranno con alcuna apparente approvazione della morte di suo fratello. Giuliano ascrive molto devotamente la sua miracolosa liberazione alla protezione degli Dei, che liberarono la sua innocenza dalla sentenza di distruzione, cui la lor giustizia avea pronunziata contro l'empia casa di Costantino[506]. Con gratitudine risguarda come il più efficace strumento della lor Providenza la costante e generosa amicizia dell'Imperatrice Eusebia[507], donna di gran bellezza e di merito, la quale per l'ascendente, che aveva preso sull'animo del marito, contrabbilanciava in qualche modo la potente cospirazione degli Eunuchi. Per intercessione della sua protettrice, Giuliano fu ammesso alla presenza dell'Imperatore; difese con decente libertà la sua causa; fu ascoltato favorevolmente; e nonostanti gli sforzi de' suoi nemici, che insistevano sul pericolo di risparmiare il vendicatore del sangue di Gallo, prevalse nel consiglio il sentimento più dolce d'Eusebio. Ma gli Eunuchi temerono gli effetti di un secondo congresso; e Giuliano fu avvisato di ritirarsi per un tempo nelle vicinanze di Milano, finattanto che l'Imperatore stimò opportuno di assegnare la città d'Atene per luogo del suo onorevole esilio. Egli che fin da' più teneri anni avea dimostrato un'inclinazione o piuttosto una passione per l'idioma, pei costumi, per la dottrina e per la religione de' Greci, obbedì con piacere ad un ordine sì confacente ai suoi desiderii. Lungi dal tumulto delle armi e dalla perfidia delle Corti, passò sei mesi fra' boschetti dell'Accademia, in un libero commercio co' Filosofi di quel tempo, che studiavano di coltivare l'ingegno, d'incoraggiare la vanità, e d'infiammare la devozione del loro Reale Allievo. Le loro fatiche non restarono senza effetto, e Giuliano conservò per Atene inviolabilmente quel tenero riguardo, cui rare volte manca d'eccitare in un animo generoso la memoria del luogo, dove ha scoperte ed esercitate le crescenti sue facoltà. La piacevolezza ed affabilità de' costumi, che suggerite gli erano dal temperamento, ed imposte dal presente suo stato, appoco appoco gli cattivarono l'affezione degli stranieri, non meno che de' cittadini co' quali trattava. Alcuni de' suoi compagni di studio poterono per avventura esaminare la sua condotta con occhio di pregiudizio e d'avversione; ma Giuliano stabilì nelle scuole d'Atene una prevenzione in favore delle sue virtù e de' suoi talenti, la quale tosto si sparse per tutto il Mondo Romano[508].
Mentre Giuliano passava il suo tempo in quello studioso ritiro, l'Imperatrice, risoluta di condurre a fine il disegno che aveva formato, non si dimenticò di aver cura della sua fortuna. La morte dell'ultimo Cesare avea lasciato solo Costanzo investito del comando, ed oppresso dal moltiplice peso di un vasto Impero. Avanti che saldate fossero le ferite di una discordia civile, vennero inondate le Province della Gallia da un diluvio di Barbari. I Sarmati più non avevano in rispetto la barriera del Danubio. L'impunità della rapina aveva accresciuto l'ardire ed il numero de' selvaggi Isauri: questi ladroni scendevano dalle scoscese lor rupi a devastare il circonvicino paese, ed avevano già tentato, quantunque senza buon successo, d'assediare l'importante città di Seleucia, che era difesa da una guarnigione di tre legioni Romane. Soprattutto il Monarca Persiano, insuperbito per la vittoria, minacciava di nuovo la pace dell'Asia, e richiedevasi indispensabilmente la presenza dell'Imperatore, tanto nell'Oriente che nell'Occidente. Fu questa la prima volta che Costanzo sinceramente confessò che la sola sua forza non era capace di sostenere cure e dominj sì vasti[509]. Insensibile alla voce dell'adulazione, la quale l'assicurava che l'onnipotente di lui virtù e celeste fortuna avrebbe continuato a trionfare sopra ogni ostacolo, diede con piacere orecchio al consiglio d'Eusebia, che soddisfaceva la sua indolenza, senza offendere la sospettosa sua vanità. Quando ella s'accorse che la rimembranza di Gallo stava fortemente impressa nell'animo dell'Imperatore, voltò artificiosamente l'attenzione di lui agli opposti caratteri de' due fratelli, che fin dall'infanzia erano stati paragonati a quelli di Domiziano e di Tito[510]. Essa avvezzò il marito a risguardar Giuliano come un giovane di una dolce non ambiziosa disposizione, la fedeltà e gratitudine del quale potevano assicurarsi col dono della porpora, e capace di occupare onoratamente un posto subordinato, senz'aspirare a disputare il comando, o adombrar le glorie del suo Benefattore e Sovrano. Dopo un ostinato, quantunque segreto dibattimento, la opposizione degli Eunuchi favoriti soggiacque all'ascendente dell'Imperatrice; e fu risoluto che Giuliano, dopo d'aver celebrato le sue nozze con Elena, sorella di Costanzo, sarebbe destinato a regnare col titolo di Cesare sulle regioni di là dalle alpi[511].
Quantunque l'ordine, che lo richiamò alla Corte, fosse probabilmente accompagnato da qualche indicazione della prossima sua grandezza, egli chiama il popolo d'Atene in testimonio delle lacrime di sincero dispiacere che sparse, quando con sua ripugnanza fu tolto dall'amato ritiro[512]. Egli tremava per la sua vita, per la fama, ed anche per la sua virtù; e l'unica sua fiducia era fondata nella persuasione che Minerva gli inspirasse tutte le azioni, e ch'egli fosse protetto da una guardia invisibile di Angeli, ch'essa per questo fine avea preso dal sole e dalla luna. Si avvicinò con orrore al palazzo di Milano; nè potè l'ingenuo giovane celare il suo sdegno, quando si trovò accolto con falso e servile rispetto dagli assassini di sua famiglia. Eusebia, godendo del buon esito dei suoi benigni disegni, l'abbracciò colla tenerezza d'una sorella, e procurò, colle più dolci carezze, di dissipare i suoi terrori, e riconciliarlo colla sua fortuna. Ma la cerimonia di radersi la barba, ed il suo goffo portamento, quando la prima volta mutò il mantello di Greco filosofo nell'abito militare di Principe Romano, . divertì per qualche giorno la leggerezza della Corte Imperiale[513].
A. D. 355
Gl'Imperatori del secolo di Costantino non si degnavano più di consultare il Senato nella scelta d'un collega, ma erano ansiosi, che fosse ratificata la loro elezione dal consenso dell'esercito. In questa solenne occasione si posero in armi le guardie, colle altre truppe i quartieri delle quali erano nelle vicinanze di Milano; e Costanzo salì sull'alto suo Tribunale, tenendo per mano il suo cugino Giuliano, che in quel giorno appunto entrava nel ventesimo quinto anno della sua età[514]. In uno studiato discorso, concepito e recitato con dignità, l'Imperatore espose i varj pericoli, che minacciavano la prosperità della Repubblica, la necessità di nominare un Cesare per l'amministrazione dell'Occidente, e l'intenzione che aveva, se era conforme a' lor desiderii, di premiare coll'onor della porpora le virtù, che molto promettevano, del nipote di Costantino. Si manifestò l'approvazione de' soldati con un rispettoso bisbiglio; essi guardavano fissamente il viril contegno di Giuliano, ed osservavano con piacere, come il fuoco, che scintillava ne' suoi occhi, era temperato da un modesto rossore, in vedersi così esposto per la prima volta alla pubblica vista del Mondo. Appena fu terminata la cerimonia della sua investitura, Costanzo voltossi a lui con un tuono d'autorità, che la maggiore di lui età e condizione gli permetteva di prendere, ed esortando il nuovo Cesare a meritare con eroici fatti quel sacro ed immortal nome, l'Imperatore diede al suo collega i più forti contrassegni di un'amicizia che non sarebbe mai stata diminuita dal tempo, nè interrotta dalla lor separazione o dimora ne' climi più distanti fra loro. Finito che fu il discorso, le truppe batterono gli scudi contro le ginocchia in segno di applauso[515], mentre gli uffiziali, che circondavano il Tribunale, esprimettero con decente riserva, l'idea che avevan de' meriti del rappresentante di Costanzo.
I due Principi tornarono al Palazzo nel medesimo cocchio, e nel tempo della lenta processione Giuliano ripetea fra se stesso un verso del suo favorito Omero, che poteva ugualmente applicare alla sua fortuna ed a' suoi timori[516]. I ventiquattro giorni, che Cesare passò a Milano dopo la sua investitura, ed i primi mesi del suo Gallico regno furono soggetti ad una splendida ma severa schiavitù, nè l'acquisto degli onori poteva compensare la perdita della sua libertà[517]. Eran osservati i suoi passi, le sue lettere intercettate: e fu costretto dalla prudenza ad evitare le visite dei suoi più intimi amici. A quattro soli de' suoi più antichi domestici fu permesso di seguitarlo, a due paggi, al suo medico ed al suo bibliotecario; l'ultimo dei quali era impiegato nella custodia d'una pregevol collezione di libri, dono dell'Imperatrice, che studiava le inclinazioni ugualmente che l'interesse del suo amico. In luogo di que' fedeli servitori, gli fu dato un corteggio, quale in vero conveniva alla dignità d'un Cesare, ma composto da una folla di schiavi, privi e forse incapaci di qualunque attaccamento pel nuovo loro Signore, a cui per la maggior parte essi erano incogniti o sospetti. La sua mancanza d'esperienza poteva esiger l'aiuto d'un savio consiglio; ma le minute istruzioni, che regolavano il trattamento della sua tavola e la distribuzione delle ore, erano adattate ad un giovane che fosse tuttavia sotto la disciplina dei suoi precettori, piuttosto che alla situazione d'un Principe, a cui fosse affidata la condotta d'una importante guerra. S'egli aspirava a meritar la stima de' sudditi, veniva ritenuto dal timore di far dispiacere al suo Sovrano; e per fino furon fatti svanire i frutti del suo matrimonio da' gelosi artifizi d'Eusebia medesima[518], che in questa sola occasione sembra essersi dimenticata della tenerezza del suo sesso e della generosità del proprio carattere. La memoria del padre e dei fratelli rammentò a Giuliano il proprio pericolo, e furono accresciuti i suoi timori dal fresco indegno fato di Silvano. Nella state, che precedè la sua elevazione, quel Generale era stato scelto per liberare la Gallia dalla tirannia de' Barbari; ma Silvano tosto conobbe che avea lasciato nella Corte Imperiale i suoi più pericolosi nemici. Uno scaltro delatore, sostenuto da varj de' principali ministri, procurò di ottenere da esso alcune lettere commendatizie; e cancellatone tutto il contenuto fuor che la firma, riempì il voto della pergamena di espressioni che indicavano affari di gran rilievo e di tradimento. L'inganno però, attesa l'industria e il coraggio de' suoi amici, fu scoperto, ed in un gran consiglio di uffiziali civili e militari, tenuto in presenza dell'Imperatore medesimo, fu pubblicamente riconosciuta l'innocenza di Silvano. Ma troppo tardi si fece tale scoperta; la nuova della calunnia e la precipitosa confiscazione del suo patrimonio aveva già indotto lo sdegnato Capitano alla ribellione di cui era stato sì ingiustamente accusato. Egli assunse la porpora nel suo principal quartiere di Colonia, e pareva, che le sue attive forze minacciasser l'Italia d'un'invasione, a Milano di un assedio. In quest'occorrenza Ursicino, Generale d'ugual grado, riguadagnò con un tradimento il favore che aveva perduto per gli eminenti suoi servigi in Oriente. Esacerbato, com'egli poteva speciosamente asserire, da ingiurie di tal natura, si affrettò con pochi seguaci ad unirsi alle bandiere, ed a tradir la fiducia del suo troppo credulo amico. Dopo un regno di soli ventotto giorni, Silvano fu assassinato, i soldati, che senz'alcuna colpevole intenzione avean ciecamente seguìto l'esempio del Capitano, tornarono immediatamente al loro dovere; e gli adulatori di Costanzo celebrarono la saviezza e felicità del Monarca, il quale aveva estinto una guerra civile senza il rischio di veruna battaglia[519].
La difesa della frontiera della Rezia e la persecuzione della Chiesa Cattolica, trattennero Costanzo in Italia più di diciotto mesi dopo la partenza di Giuliano; e prima di tornar in Oriente volle l'Imperatore compiacere la propria curiosità ed alterigia con una visita che fece alla vecchia capitale[520]. Egli s'incamminò da Milano verso Roma per le vie Emilia e Flaminia; e quando fu quaranta miglia vicino alla città, la marcia d'un Principe, che non aveva mai vinto alcuno straniero nemico, prese le apparenze d'una processione trionfale. Il suo splendido treno era composto di tutti i ministri di lusso, ma in un tempo di profonda pace era circondato dalle armi lucenti dei numerosi squadroni delle sue guardie e de' corazzieri. Le spiegate loro bandiere di seta, ricamate d'oro e disegnate in forma di dragoni, sventolavano intorno alla persona dell'Imperatore. Costanza sedeva solo in un alto carro, splendente d'oro e di preziose gemme; ed eccetto che piegò il capo nel passare sotto le porte della città, affettò un imponente contegno d'inflessibile, e come sembrar poteva, insensibile gravità. Si era introdotta nel Palazzo Imperiale dagli Eunuchi l'austera disciplina della gioventù Persiana; e tal'era l'abitudine alla pazienza in essi inculcata, che durante una lenta e noiosa marcia egli non fu mai veduto muover la mano verso la faccia, o voltar gli occhi a destra o a sinistra. Fu ricevuto da' Magistrati e dal Senato di Roma; ed osservò con attenzione gli onori civili della Repubblica e le immagini consolari delle famiglie nobili. Eran piene le contrade d'una innumerabile moltitudine. Le ripetute acclamazioni esprimevano la loro gioia, nel vedere dopo un'assenza di trentadue anni la sacra persona del loro Sovrano; e Costanzo medesimo con qualche piacevolezza indicava l'affettata sua meraviglia, che l'uman genere si fosse così ad un tratto riunito nel medesimo luogo. Fu alloggiato il figlio di Costantino nell'antico palazzo di Augusto; presedè al Senato, arringò al popolo da quel Tribunale su cui Cicerone sì spesso era salito, assistè con insolita affabilità a' giuochi del Circo, ed accettò le corone d'oro, ed i panegirici, che avevano preparato per tal ceremonia i Deputati delle principali città. La breve sua visita di trenta giorni fu impiegata in vedere i monumenti dell'arte o della forza che erano sparsi ne' sette colli e nelle adiacenti valli. Ammirò la tremenda maestà del Campidoglio, la vasta estensione de' bagni di Caracalla e di Diocleziano, la severa semplicità del Panteon, la soda grandezza dell'anfiteatro di Tito, l'elegante architettura del teatro di Pompeo, e del Tempio della Pace, e soprattutto la maestosa struttura del Foro, e la colonna di Traiano, confessando, che la voce della fama, così facile ad inventare ed ampliare, avea dato un ragguaglio non adeguato della Metropoli del mondo. Il viaggiatore che ha contemplato le ruine dell'antica Roma, può concepir qualche idea imperfetta de' sentimenti che doveano inspirare, quando innalzavano le fronti nello splendore d'una incorrotta bellezza.
La soddisfazione, che Costanzo provò nel suo viaggio, eccitò in esso la generosa emulazione di lasciare a' Romani qualche memoria della sua gratitudine e munificenza. La sua prima idea fu d'imitare l'equestre statua colossale, che avea veduto nel Foro di Traiano; ma quando seriamente ponderò le difficoltà d'eseguirla[521], si determinò piuttosto ad abbellire la capitale col dono d'un obelisco Egiziano. In tempi assai remoti ma culti, che sembra abbiano preceduto l'invenzione della scrittura alfabetica, s'erano eretti questi obelischi in gran numero nella città di Tebe e d'Eliopoli dagli antichi Sovrani dell'Egitto, colla giusta speranza che la semplicità della lor figura e la durezza della materia avrebbero resistito alle ingiurie del tempo e della violenza[522]. S'erano fatte trasportare a Roma da Augusto e da' suoi successori molte di queste colonne straordinarie, come monumenti i più durevoli della loro potenza e vittoria[523]; ma vi rimaneva tuttavia un obelisco, che per la sua grandezza o santità restò lungo tempo immune dalla rapace vanità dei conquistatori. Costantino l'aveva destinato per adornar la sua nuova città[524], e poscia che per ordine di lui fu rimosso dalla base su cui posava avanti al tempio del Sole in Eliopoli, fu trasportato per mezzo del Nilo ad Alessandria. La morte di Costantino sospese l'esecuzione del suo disegno, e questo fu l'obelisco dal suo figlio destinato per l'antica capitale dell'Impero. Fu preparato un vascello di straordinaria forza e grandezza per trasferir questo enorme pezzo di granito, lungo almeno cento quindici piedi, dalle rive del Nilo a quelle del Tevere. L'obelisco di Costanzo si pose a terra in distanza di circa tre miglia dalla città, e s'innalzò con grande sforzo d'arte e di lavoro nel gran Circo di Roma[525].
A. D. 357-358-359
S'affrettò la partenza di Costanzo da Roma per la non indifferente notizia delle angustie e del pericolo delle Province Illiriche. Le distrazioni della guerra civile e le irreparabili perdite, che le Romane legioni avean fatte nella battaglia di Mursa, esposero quelle regioni quasi senza difesa alla cavalleria leggiera dei Barbari e specialmente alle incursioni de' Quadi; feroce e potente nazione, che sembra avere cangiato le istituzioni Germaniche colle armi e con gli artifizi militari de' Sarmati loro alleati[526]. Le guarnigioni della frontiera non eran sufficienti a reprimere i loro progressi; e l'indolente Monarca fu alla fine costretto di adunare dall'estremità de' suoi dominj il fiore delle truppe Palatine, di mettersi in campo in persona, e d'impiegare un'intera campagna, col precedente autunno e colla primavera seguente, a proseguir seriamente la guerra. L'Imperatore passò il Danubio sopra un ponte di barche, tagliò a pezzi tutti quelli che incontrava in cammino, penetrò nel cuor del paese de' Quadi, e vendicò con rigore le calamità, ch'essi avevano cagionato alle Province Romane. Gli sbigottiti Barbari furon tosto ridotti a chieder la pace; offerirono di restituire i di lui sudditi prigionieri in emenda del passato, ed i più nobili ostaggi per pegno della futura loro condotta. La generosa cortesia, dimostrata al primo de' lor capitani che implorò la clemenza di Costanzo, incoraggiò i più timidi ed ostinati ad imitarne l'esempio; ed il campo Imperiale si trovò pieno di Principi e d'Ambasciatori delle più lontane Tribù, che occupavano le pianure della bassa Polonia, e che si potevan creder sicure dentro l'alta cima de' monti Carpazi. Mentre Costanzo dava la legge ai Barbari di là dal Danubio, egli distinse con speciosa compassione gli esuli Sarmati, ch'erano stati espulsi dal paese nativo per la ribellione de' loro schiavi, e che facevano un aumento molto considerabile alla potenza de' Quadi. L'Imperatore, adottando un generoso, ma insieme artificiale sistema di politica, liberò i Sarmati da' vincoli di tal umiliante dipendenza, e mediante un trattato a parte restituì loro la dignità d'una nazione, unita sotto il governo d'un Re amico ed alleato della Repubblica. Dichiarossi egli risoluto di sostenere la giustizia della lor causa e di assicurar la pace delle Province coll'estirpazione, o almeno coll'espulsione de' Limiganti, i costumi de' quali eran tuttora infettati da' vizi della servile lor nascita. L'esecuzione di questo disegno fu accompagnata più da difficoltà che da gloria. Il territorio de' Limiganti era difeso contro i Romani dal Danubio, contro i nemici Barbari dal Tibisco. Le terre paludose, ch'eran fra questi due fiumi, spesso coperte dalle inondazioni di essi, formavano un intricato deserto, praticabile solo dagli abitanti, che ne sapevano i segreti sentieri e le inaccessibili rocche. All'avvicinarsi di Costanzo, i Limiganti tentarono l'efficacia delle preghiere, della frode e delle armi; ma egli rigettò con vigore le loro suppliche, fece svanire i rozzi loro stratagemmi, e rispinse con arte e fermezza gli sforzi del loro sregolato valore. Una delle lor più guerriere Tribù, stabilita in una piccola isola verso l'unione del Tibisco col Danubio, s'avventurò di passare il fiume con intenzione di sorprendere l'Imperatore, durante la sicurezza di un amichevole conferenza. Ma presto divenne la vittima della perfidia che meditava. Circondati da ogni lato, calpestati dalla cavalleria, e tagliati a pezzi dalle spade delle legioni, sdegnarono di chieder mercede, e con indomita ostinazione anche fra le agonie della morte afferravano le armi. Dopo questa vittoria un corpo considerabile di Romani sbarcò sulle sponde opposte del Danubio; i Taifali, Tribù di Goti impegnata al servizio dell'Impero, invasero i Limiganti dalla parte del Tibisco; ed i Sarmati liberi, loro antichi padroni, animati dalla speranza e dalla vendetta, penetrarono pel montuoso paese nel cuore de' loro antichi stati. Un incendio generale scoprì le capanne de' Barbari, ch'erano situate nel profondo della foresta; ed il soldato combatteva con fiducia sopra un pantanoso terreno, in cui non si camminava che con pericolo. In tal estremità i più bravi fra' Limiganti eran determinati a morire colle armi in mano piuttosto che cedere; ma finalmente prevalse il sentimento più mite, invigorito dall'autorità de' lor vecchi; ed una supplice folla di essi, seguita dalle mogli e da' figli, portossi al campo Imperiale per sapere il loro destino dalla bocca del conquistatore. Dopo d'aver celebrato la viva clemenza, che era sempre inclinata a perdonare i replicati loro delitti, ed a risparmiare il restante d'una colpevol nazione, Costanzo assegnò loro per luogo di esilio un lontano paese, dove potevan godere una sicura ed onorevole quiete. I Limitanti obbediron con ripugnanza, ma avanti di giungere, o almeno avanti d'occupare le abitazioni ad essi destinate, tornarono alle rive del Danubio, esagerando i travagli della loro situazione, e chiedendo con fervide proteste di fedeltà, che l'Imperatore si degnasse di conceder loro un tranquillo stabilimento dentro i confini delle Province Romane. In vece di consultar l'esperienza, ch'egli stesso avea fatto della loro incorreggibile perfidia, Costanzo prestò orecchio a' suoi adulatori, che furon pronti a mettergli in vista l'onore ed il vantaggio di ricevere una colonia di soldati in un tempo, in cui era più facile d'ottener da' sudditi dell'Impero delle contribuzioni pecuniarie, che il militar servizio. Fu permesso a' Limiganti di passare il Danubio; e l'Imperatore diede udienza alla moltitudine in una larga pianura vicina alla moderna città di Buda. Essi circondarono il Tribunale, e pareva, che ascoltassero con rispetto una orazione piena di dignità e di dolcezza, quando uno de' Barbari, gettando per aria la sua scarpa, gridò ad alta voce Marha! Marha! parola di diffidenza, che fu ricevuta come segnale del tumulto. Corsero così con furia ad impadronirsi della persona dell'Imperatore; dalle rozze lor mani fu saccheggiato il suo trono reale e l'aureo suo letto; ma la difesa fedele delle sue guardie, che gli morirono a' piedi, gli procurò un momento di tempo per salire sopra un veloce cavallo, e sottrarsi alla confusione. La disgrazia incorsa per una sorpresa di traditori, fu presto vendicata dal numero e dalla disciplina de' Romani; nè si finì il combattimento che coll'estinzione del nome e della nazione de' Limiganti. I Sarmati, liberi, furon di nuovo posti in possesso delle antiche loro sedi, e sebbene Costanzo diffidasse della leggerezza del loro carattere, pure aveva qualche speranza che un sentimento di gratitudine influir potesse nella futura loro condotta. Aveva egli osservato l'alta statura e l'ossequioso contegno di Zizais uno de' più nobili fra' lor Capitani. Gli conferì dunque il titolo di Re; e Zizais dimostrò di non essere indegno di regnare con un sincero e durevole attaccamento agl'interessi del suo benefattore, che dopo tale splendido fatto ricevè il nome di Sarmatico dalle acclamazioni del vittorioso suo esercito[527].
A. D. 358
Mentre il Romano Imperatore ed il Monarca di Persia difendevano alla distanza di tremila miglia i loro estremi confini contro i Barbari del Danubio e dell'Oxo, la frontiera, che si trovava interposta fra loro, pativa le vicende d'una languida guerra e di una precaria tregua. Due ministri Orientali di Costanzo, cioè Musoniano Prefetto del Pretorio, l'abilità del quale non ebbe effetto per mancanza di verità e d'integrità, e Cassiano Duca di Mesopotamia, coraggioso e veterano soldato, aprirono una segreta negoziazione col Satrapa Tamsapore[528]. Queste aperture di pace, trasportate nel servile e adulante linguaggio Asiatico, furono mandate al campo del gran Re, il quale risolse di significare per mezzo d'un Ambasciatore i termini ch'era inclinato ad accordare ai supplicanti Romani. Narsete, ch'egli aveva decorato di tal carattere, fu ricevuto onorevolmente nel passare che fece per Antiochia e Costantinopoli; giunse dopo un lungo cammino a Sirmio, e nella sua prima udienza rispettosamente spiegò il velo di seta che copriva la superba lettera del suo Sovrano. Sapore, Re dei Re e fratello del Sole e della Luna (tali erano gli altieri titoli affettati dall'Orientai vanità) esprimeva la sua compiacenza, che il suo fratello Costanzo Cesare fosse stato istruito dall'avversità. Sosteneva egli, come legittimo successore di Dario Istaspe, che il fiume Strimone in Macedonia era il vero ed antico limite del suo Impero; dichiarando, però, che in prova della sua moderazione si sarebbe contentato delle Province dell'Armenia e della Mesopotamia, che fraudolentemente s'erano estorte da' suoi Antenati. Egli assicurava, che senza la restituzione di queste contrastate regioni era impossibile stabilire alcun trattato sopra una forte e durevole base; e minacciava con arroganza, che se tornava il suo Ambasciatore senza effetto, egli era preparato ad entrare in campo nella primavera, ed a sostener la giustizia della sua causa colla forza delle sue invincibili armi. Narsete, ch'era dotato delle più culte ed amabili qualità, procurò di addolcire, per quanto il suo dovere lo permetteva, la durezza dell'ambasciata[529]. Maturamente fu ponderato sì lo stile che la sostanza della lettera nel consiglio Imperiale, e fu rimandato l'Ambasciatore colla risposta; «che Costanzo aveva diritto di non approvare l'officiosità de' suoi ministri, che avevano operato senz'avere alcun ordine speciale del Trono; egli ciò nonostante non era alieno da un uguale ed onorevole trattato; ma era molto indecente ed assurdo il proporre all'unico e vittorioso Imperatore del Mondo Romano quelle medesime condizioni di pace, ch'esso aveva rigettato con isdegno, quando era limitato il suo potere dentro gli angusti limiti dell'Oriente; e dovrebbe Sapore rammentarsi, che se qualche volta i Romani erano stati vinti in battaglia, essi erano quasi sempre stati felici nell'esito della guerra». Pochi giorni dopo la partenza di Narsete furon mandati tre Ambasciatori alla Corte di Sapore, il quale dalla spedizione della Scizia era già tornato all'ordinaria sua residenza di Ctesifonte. Furono scelti un Conte, un Notaro ed un Sofista per quest'importante commissione; e Costanzo, ch'era segretamente ansioso di concluder la pace, aveva qualche speranza, che la dignità del primo di questi ministri, la destrezza del secondo e la rettorica del terzo[530] avrebbero persuaso il Monarca Persiano a diminuire il rigore delle sue domande. Ma i progressi del loro trattato furon combattuti e fatti svanire dagli ostili artifizi d'Antonino[531], suddito Romano della Siria, ch'era fuggito dall'oppressione, ed ammesso a' consigli di Sapore e fino alla mensa reale, dove secondo l'uso de' Persiani si discutevano frequentemente gli affari più rilevanti[532]. Lo scaltro fuggitivo, colla medesima condotta con cui soddisfaceva alla sua vendetta, promuoveva il proprio interesse. Egli continuamente stimolava l'ambizione del nuovo suo Signore ad abbracciar la favorevole occasione che le più valorose truppe Palatine eran occupate coll'Imperatore in una distante guerra sul Danubio. Istigava Sapore ad invader l'esauste e non difese Province dell'Oriente colle numerose armate della Persia, ora fortificate mediante l'alleanza ed aggiunta de' Barbari più feroci. Tornarono dunque senza buon successo gli Ambasciatori di Roma, ed una seconda Ambasceria, di grado ancor più onorevole, fu detenuta in istretto confino, e minacciata o di morte o d'esilio.
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L'Istorico militare stesso[533], che fu spedito ad osservar l'esercito de' Persiani, allorchè preparavansi a costruire un ponte di barche sul Tigri, vide da una eminenza la pianura d'Assiria, per quanto stendevasi l'orizzonte, coperta di uomini, d'armi, e di cavalli. Alla testa di essi compariva Sapore, cospicuo per lo splendore della sua porpora. Alla sinistra di lui, che fra gli Orientali è il posto più onorato, Grumbate Re de' Chioniti dimostrava il vigoroso portamento d'un provetto e famoso guerriero. Il corrispondente posto dall'altra parte s'era dal Monarca riserbato pel Re degli Albanesi, che conduceva le sue Tribù indipendenti da' lidi del mar Caspio. I Satrapi ed i Generali eran distribuiti secondo i diversi loro gradi, e tutta l'armata, oltre il numeroso treno del lusso Orientale, consisteva in più di centomila combattenti, indurati alla fatica e scelti fra le più valorose nazioni dell'Asia. Il disertore di Roma, che in certo modo dirigeva i consigli di Sapore, l'aveva prudentemente avvisato, che in luogo di consumar la state in tediosi e difficili assedi, marciasse direttamente verso l'Eufrate, e senza indugio cercasse d'impadronirsi della debole e ricca Metropoli della Siria. Ma i Persiani, appena si furono un poco avanzati nelle pianure della Mesopotamia, che videro essersi usata qualunque precauzione che ritardar potesse i loro progressi, e sconcertarne i disegni. Gli abitanti co' loro bestiami s'erano assicurati ne' luoghi forti, s'erano incendiate per tutto il paese le biade non anche mature, e fortificati con acuti pali i guadi del fiume; sugli opposti lidi eransi piantate delle macchine militari, ed una opportuna piena dell'Eufrate spaventò i Barbari dal tentare il solito passo del ponte di Tapsaco. Allora la perita loro guida, mutato il disegno delle operazioni, condusse l'esercito per un lungo circuito, ma per un fertile territorio verso la sorgente dell'Eufrate, dove il nascente fiume riducesi ad un basso ed accessibil torrente. Sapore non curò con prudente disprezzo la forza di Nisibi, ma passando sotto le mura d'Amida, risolvè di sperimentare, se la maestà della sua presenza avesse indotto la guarnigione a immediatamente sottomettersi. Il sacrilego insulto d'un dardo, che a caso strisciò sulla reale sua tiara, lo convinse dell'errore in cui era; e lo sdegnato Monarca diede con impazienza orecchio all'avviso de' suoi ministri, che lo scongiuravano a non sagrificare il successo della sua ambizione alla soddisfazione della sua collera. Il giorno seguente, Grumbate s'avanzò verso le porte con un corpo scelto di truppe, e chiese la resa immediata della città, come l'unica espiazione che si potesse accettare per tal atto di temerità e d'insolenza. Fu risposto alle sue proposizioni con una generale scarica, e l'unico di lui figlio, bello e valente giovane, fu trafitto nel cuore da un dardo scagliato da una balestra. Si celebrò, secondo i riti del suo paese, il funerale del Principe de' Chioniti; ed il dispiacere del vecchio suo padre fu alleggerito dalla solenne promessa di Sapore, che la rea città d'Amida sarebbe servita di rogo funebre per espiare la morte ed eternar la memoria del figlio.
L'antica città d'Amid o Amida[534], che alle volte prende anche il nome provinciale di Diarbekir[535], è vantaggiosamente situata in una fertil pianura, bagnata da' naturali e dagli artefatti canali del Tigri, di cui il maggior ramo circonda in forma circolare l'oriental parte della città. L'Imperator Costanzo poco avanti avea conferito ad Amida l'onor del suo nome, e vi aveva aggiunto le fortificazioni di stabili mura e di alte torri. Essa era provvista d'un arsenale di macchine militari, e la guarnigione ordinaria era stata accresciuta fino a sette legioni quando fu attaccata dalle armi di Sapore[536]. Le sue prime e più ardenti speranze dipendevan dall'esito d'un assalto generale. Furono assegnati i lor posti alle varie nazioni, che seguitavano le sue bandiere; il Mezzodì a' Verti, il Settentrione agli Albanesi, l'Oriente a' Chioniti, accesi d'ira e di cordoglio, l'Occidente a' Segestani, i più prodi fra' suoi guerrieri, che si coprivano la fronte con una formidabile linea d'Indiani elefanti[537]. I Persiani da ogni parte sostenevano i loro sforzi, ed animavano il loro coraggio; ed il Monarca, non curando la propria dignità e salvezza, dimostrava in proseguire l'assedio l'ardore d'un giovane soltanto. Dopo un ostinato combattimento, i Barbari furon rispinti, ed immediatamente tornati all'assalto, furono di nuovo mandati indietro con una terribile strage. Due legioni ribelli di Galli, ch'erano state bandite dall'Oriente, segnalarono il loro non disciplinato coraggio con una sortita fatta di notte nel centro del campo Persiano. Nell'ardore di uno de' più fieri di questi replicati assalti, Amida fu tradita dalla perfidia d'un disertore, che indicò a' Barbari una segreta e negletta scaletta, tagliata nella rupe che pende sopra il corso del Tigri. Tacitamente salirono settanta arcieri scelti della guardia reale al terzo piano d'un'alta torre, che dominava il precipizio; essi alzarono la bandiera Persiana, che fu segnale di partenza per gli assalitori, e di turbamento per gli assediati; e se questi già perduti soldati avesser potuto mantenere il loro posto pochi minuti di più, col sacrifizio delle loro vite si sarebbe potuto comprare l'espugnazione della piazza. Poscia che Sapore ebbe sperimentato senz'effetto il poter della forza e degli stratagemmi, ricorse alle più lente ma più sicure operazioni di un regolare assedio, nella condotta del quale fu istruito dalla perizia de' disertori Romani. Ad una giusta distanza s'aprirono le trinciere, e le truppe destinate a tal uso, avanzarono sotto il tetto portatile di forti graticci per riempire il fosso, e minare i fondamenti delle mura. Nel tempo stesso costruite furono torri di legno, e spinte innanzi sopra le ruote, affinchè o i soldati, che erano provvisti di armi da scagliare d'ogni specie, potessero combattere quasi a livello colle truppe che difendevano le mura. S'impiegò in difesa d'Amida ogni sorta di resistenza che l'arte potea suggerire, o il coraggio porre in esecuzione, e più d'una volta le macchine di Sapore furon distrutte dal fuoco de' Romani. Ma si possono esaurire le forze d'una città assediata. I Persiani riparavan le loro perdite, ed avanzavano le opere; l'ariete, che continuamente batteva, avea fatta una larga breccia, e la forza della guarnigione, diminuita dal ferro e dalle malattie, cedè al furor dell'assalto. I soldati, i cittadini, le loro mogli e figliuoli, tutti quelli, che non ebber tempo di fuggire per la porta opposta, furono da' conquistatori involti in un indistinto macello.
A. D. 360
Ma la rovina d'Amida fu la salute delle Province Romane. Tosto che furono quietati i primi trasporti della vittoria, Sapore fu in grado di riflettere, che per castigare una disubbidiente città, egli aveva perduto il fiore delle sue truppe e la stagione più favorevole per la conquista[538]. Eran caduti trentamila de' suoi veterani sotto le mura d'Amida, nella continuazione d'un assedio, che durò settantatre giorni, ed il deluso Monarca tornò alla sua Capitale con affettato trionfo e con segreta mortificazione. Egli è più che probabile, che l'incostanza de' Barbari suoi alleati fosse tentata d'abbandonare una guerra, in cui avevan incontrato sì inaspettate difficoltà, e che il vecchio Re de' Chioniti, saziato di vendetta, con orrore s'allontanasse da una scena d'azione, dov'era restato privo della speranza di sua famiglia e nazione. La forza non meno che lo spirito dell'esercito, con cui Sapore venne in campo nella seguente primavera, non era più uguale alle illimitate mire di sua ambizione. Invece d'aspirare alla conquista dell'Oriente, fu costretto a contentarsi di prendere due fortificate città della Mesopotamia, Singara e Bezabde[539]; l'una situata in mezzo ad un arenoso deserto, e l'altra in una picciola penisola circondata quasi da ogni parte dal profondo e rapido corso del Tigri. Furono fatte prigioniere cinque legioni Romane di quella diminuita grandezza, a cui s'eran ridotte nel secolo di Costantino, e mandate schiave negli estremi confini della Persia. Smantellate le mura di Singara, il conquistatore abbandonò quel luogo solitario e segregato. Ma con diligenza restaurò le fortificazioni di Bezabde, ed in quel posto importante stabilì una guarnigione o colonia di veterani, ampiamente fornita di ogni sorta di difesa, ed animata da alti sentimenti d'onore e di fedeltà. Verso il fine della campagna le armi di Sapore ebbero qualche sinistro per un'infelice impresa contro Virta, o Tecrit, bene munita, o come fu generalmente creduto fino al tempo di Tamerlano, inespugnabil fortezza degli Arabi indipendenti[540].
La difesa dell'Oriente contro lo armi di Sapore esigeva, ed esercitato avrebbe l'abilità del più consumato Generale; e parve una fortuna per lo Stato, che quella fosse la Provincia del valoroso Ursicino, che solo meritava la fiducia de' soldati e del popolo. Ma nel tempo del pericolo, Ursicino[541] fu rimosso dal suo posto pei maneggi degli Eunuchi; ed il comando militare dell'Oriente per gl'istessi mezzi fu dato a Sabiniano, ricco e sottil veterano, ch'era giunto alle infermità della vecchiaia senz'acquistarne l'esperienza. Per un secondo ordine, ch'ebbe origine dagli stessi gelosi ed incostanti consigli, Ursicino fu nuovamente spedito alle frontiere della Mesopotamia, e condannato a sostener le fatiche d'una guerra, gli onori della quale s'erano trasferiti all'indegno rivale di lui. Sabiniano stabilì il suo indolente quartiere sotto le mura d'Edessa, e mentr'egli si dilettava dell'oziosa parata dell'esercizio militare, ed al suono de' flauti si muoveva in Pirrica danza, la pubblica difesa era abbandonata all'ardire e alla diligenza del primiero Generale dell'Oriente. Ma ogni volta che Ursicino raccomandava qualche vigoroso piano d'operazioni; quando proponeva di girare alla testa di una leggiera ed attiva armata intorno alle falde de' monti per intercettare i convogli del nemico, inquietare la vasta estensione delle linee Persiane, e sollevare le angustie d'Amida, il timido ed invidioso Comandante allegava, che da positivi ordini gli era impedito di mettere a rischio la salute delle truppe. Amida finalmente fu presa; i più prodi suoi difensori, che s'eran salvati dal ferro de' Barbari, moriron per mano del carnefice nel campo Romano; ed Ursicino medesimo dopo d'aver sofferto la disgrazia d'un esame parziale fu punito per la cattiva condotta di Sabiniano colla perdita del militare suo grado. Ma Costanzo ben presto sperimentò la verità della predizione, che un onesto sdegno aveva tratto di bocca all'ingiuriato suo Duce, vale a dire, che sintanto che si fosse tollerato, che prevalessero tali massime di governo, l'Imperatore stesso avrebbe veduto, non essere facile impresa il difendere gli Orientali suoi Stati dalla invasione d'uno straniero nemico. Quando ebbe soggiogati o quietati i Barbari del Danubio, Costanzo a lente giornate s'incamminò verso l'Oriente, e dopo aver pianto sulle ancor fumanti ruine d'Amida, pose con un potente esercito l'assedio a Bezabde. Venivano scosse le mura da' replicati sforzi de' più grossi arieti; la città era ridotta all'ultima estremità, ma fu sempre difesa dal paziente ed intrepido valor della guarnigione, finchè l'avvicinarsi della stagione piovosa obbligò l'Imperatore a toglier l'assedio, ed a ritirarsi con ignominia ne' suoi quartieri d'inverno ad Antiochia[542]. L'orgoglio di Costanzo, e l'ingegno de' suoi cortigiani non sapevano come trovar materia di panegirici negli avvenimenti della guerra Persiana; mentre la gloria del suo cugino Giuliano, al comando militare del quale avea esso affidate le Province della Gallia, era sparsa pel Mondo con una semplice e breve narrazione delle sue imprese.
Nel cieco furore della guerra civile, Costanzo avea abbandonato a' Barbari della Germania il paese della Gallia, che sempre riconosceva l'autorità del suo rivale. Un numeroso sciame di Franchi e di Alemanni fu invitato a passare il Reno con presenti e promesse, colla speranza delle spoglie, e con una perpetua concessione di tutti i territori, ch'essi avrebber potuto sottomettere[543]. Ma l'Imperatore, che per un passeggiero servigio avea con tanta imprudenza provocato lo spirito rapace de' Barbari, presto conobbe e sentì con rammarico le difficoltà di sloggiare que' formidabili alleati, dopo ch'essi gustate avean le ricchezze del suolo Romano. Senza riguardo veruno alla sottile distinzione di fedeltà e di ribellione, quest'indisciplinati ladroni trattavano come lor naturali nemici tutti i sudditi dell'Impero, che possedevano qualche cosa, ch'essi desideravano d'acquistare. Furon saccheggiate, e per la maggior parte ridotte in cenere quarantacinque floride città, Tongres, Colonia, Treveri, Vormazia, Spira, Strasburgo ec. oltre il numero molto maggiore di castelli e villaggi. I Barbari della Germania, sempre fedeli alle massime de' loro antichi, abborrivano i recinti di mura, a' quali davan gli odiosi nomi di prigioni e sepolcri; e piantando le indipendenti loro abitazioni sopra le rive de' fiumi, come del Reno, della Mosella, della Mosa, si assicuravano dal pericolo d'una sorpresa, mediante una rozza e precipitosa fortificazione di grossi alberi ch'essi abbattevano, e ponevano attraverso alle strade. Gli Alemanni si stabilirono nei moderni paesi dell'Alsazia e della Lorena; i Franchi occuparono l'Isola de' Batavi insieme con un'ampia estensione del Brabante, che allora si conosceva sotto il nome di Toxandria[544], e merita d'esser considerata come la sede originale della Gallica loro Monarchia[545]. Dalla sorgente fino all'imboccatura del Reno le conquiste de' Germani s'estesero sopra quaranta miglia a ponente di quel fiume in un paese popolato di colonie del proprio lor nome e nazione; ed il teatro delle loro devastazioni era tre volte più esteso di quello delle loro conquiste. Ad una distanza anche maggiore restarono abbandonati i luoghi aperti della Gallia, e gli abitanti delle città fortificate, che confidavano nella propria forza e vigilanza, furono costretti a contentarsi di que' sussidj di grano, che poteva nascere nel terreno compreso dentro il recinto delle lor mura. Le diminuite legioni, mancanti di paga e di provvisioni, di armi e di disciplina, tremavano all'avvicinarsi, e fino al nome stesso de' Barbari.
In tali triste circostanze fu destinato un inesperto giovane a salvare e governar le Province della Gallia, o piuttosto, come si esprime egli stesso, a rappresentare una vana immagine della grandezza Imperiale. La ritirata e studiosa educazione di Giuliano, durante la quale s'era più addomesticato co' libri che colle armi, co' morti che co' viventi, lo lasciò in una profonda ignoranza delle arti pratiche della guerra e del governo; e quando egli sgarbatamente ripetea qualche esercizio militare, ch'era per lui necessario d'apprendere, esclamava sospirando, «o Platone, Platone, qual occupazione per un filosofo!» Pure anche questa speculativa filosofia, che gli uomini d'affari son troppo inclinati a disprezzare, aveva infuso nello spirito di Giuliano i precetti più nobili, ed i più splendidi esempj; l'aveva animato coll'amor della virtù, col desiderio della fama, e col disprezzo della morte. L'abito di temperanza, che si commenda nelle scuole, diviene anche più essenziale nella severa disciplina d'un campo. I puri bisogni della natura regolavano la misura del suo cibo e del suo sonno. Rigettando con isdegno le delicatezze preparate per la sua tavola, egli saziava il suo appetito colle semplici e comuni vivande assegnate a' più bassi soldati. Nel rigor d'un inverno della Gallia non volle mai soffrire il fuoco nella sua camera, e dopo un breve ed interrotto riposo, spesse volle s'alzava nel più bel della notte da un tappeto steso sul suolo, per ispedire qualche urgente affare, per visitar le sue ronde, e per rubar pochi momenti, ad oggetto di proseguire i favoriti suoi studi[546]. I precetti d'eloquenza, ch'egli aveva fin qui praticato in immaginari soggetti di declamazione, furono più vantaggiosamente applicati ad eccitare o a quietare le passioni d'una moltitudine armata; e quantunque Giuliano, per l'antica sua abitudine di conversazione e di letteratura, fosse più familiarmente istruito delle bellezze della lingua Greca, pure aveva ancora una sufficiente cognizione della Latina[547]. Come Giuliano a principio non era stato destinato a sostenere il carattere di Legislatore o di Giudice, egli è probabile che la Giurisprudenza civile de' Romani non avesse richiamato alcuna parte considerabile della sua attenzione: ma ritrasse però da' suoi filosofici studj un inflessibil riguardo per la giustizia, temperato da una disposizione alla clemenza, la cognizione de' generali principj d'equità e d'evidenza, e la facoltà d'investigare pazientemente le più intrigate e tediose questioni, che potesser proporsi alla sua discussione. Le misure di politica e le operazioni di guerra debbono soggiacere ai diversi accidenti delle circostanze e dei caratteri, e l'inesperto studente debb'essere spesso dubbioso nell'applicazione della più perfetta teoria. Ma nell'acquisto di tale importante scienza, Giuliano fu assistito non meno dall'attiro vigore del suo proprio ingegno che dalla saviezza ed esperienza di Sallustio, uffiziale elevato in grado, che tosto concepì un sincero amore verso un Principe sì degno della sua amicizia: l'incorruttibile integrità di lui era ornata dal talento di sapere insinuare le più ardue verità, senza, offendere la delicatezza d'un orecchio reale[548].
A. D. 356
Giuliano, subito dopo ch'ebbe ricevuta la porpora a Milano, fu mandato nella Gallia con una debole comitiva di 360 soldati. A Vienna, dove passò un inverno penoso e pieno di cure nelle mani di que' ministri, a' quali Costanzo avea confidata la direzione di sua condotta, Cesare fu informato dell'assedio e della liberazione d'Autun. Quella vasta ed antica città, non difesa che da rovinate mura e da una pusillanime guarnigione, fu salvata per la generosa risoluzione di pochi veterani, che a difesa della patria loro ripresero le armi. Nel passar ch'ei fece da Autun nell'interno delle Province Galliche, Giuliano abbracciò con ardore la prima opportunità di segnalare il proprio coraggio. Alla testa d'un piccolo corpo di arcieri e di grave cavalleria, egli preferì la più breve, ma più pericolosa delle due strade che potea fare; ed ora eludendo gli attacchi de' Barbari, ch'eran padroni della campagna, ora facendo lor fronte, arrivò con onore e salvezza al campo vicino a Reims, dove le truppe Romane avevano avut'ordine di adunarsi. La vista del lor giovane Principe rinvigorì lo spirito languente de' soldati, e partirono da Reims per cercare il nemico con tal fiducia, che poco mancò non tornasse loro fatale. Gli Alemanni, pratici del paese, raccolsero segretamente le sparse lor forze, e presa l'opportunità d'una oscura e piovosa giornata, gettaronsi con inaspettato impeto sulla retroguardia de' Romani. Prima che rimediar si potesse all'inevitabile disordine, due legioni rimaser disfatte; e Giuliano apprese per esperienza, che la cautela e la vigilanza sono le più importanti lezioni dell'arte della guerra. In una seconda e più felice azione, ricuperò e stabilì la sua fama militare; ma siccome l'agilità de' Barbari non gli permise d'inseguirli, la sua vittoria non fu sanguinosa nè decisiva. Si avanzò, nonostante, fino alle rive del Reno, osservò le rovine di Colonia, si convinse delle difficoltà della guerra, e si ritirò all'avvicinarsi dell'inverno, mal contento della Corte, del suo esercito e della sua fortuna[549]. La forza del nemico era tuttavia nel suo vigore, e non sì tosto ebbe Cesare divise le proprie truppe; e stabiliti a Sens nel centro della Gallia i quartieri, che fu circondato ed assediato da una numerosa oste di Germani. Ridotto in tal estremità ai ripieghi del proprio ingegno, dimostrò una prudente intrepidezza, che compensò tutte le mancanze del luogo e della guarnigione; ed i Barbari, in capo a trenta giorni, furon costretti a ritirarsi senz'effetto, pieni di rabbia.
A. D. 357
L'interna compiacenza di Giuliano, il quale non era debitore che alla propria spada di questa insigne liberazione, fu amareggiata dal riflettere, ch'egli era stato abbandonato, tradito e forse sagrificato alla distruzione da quelli, ch'eran obbligati ad assisterlo per ogni vincolo d'onore e di fedeltà. Marcello, Comandante generale della cavalleria nella Gallia, interpretando troppo rigorosamente gli ordini gelosi della Corte, mirava con fredda indifferenza le angustie di Giuliano, ed aveva impedito alle truppe, ch'erano sotto i suoi ordini, di marciare in soccorso di Sens. Se Cesare avesse tacitamente dissimulato un insulto tanto pericoloso, la persona e l'autorità sua divenivano esposte al disprezzo del Mondo; e se si fosse lasciata passare impunemente un'azione sì rea, l'Imperatore avrebbe confermato i sospetti, a' quali si dava un colore molto specioso dalla sua precedente condotta verso i Principi della famiglia Flavia. Marcello fu richiamato, e blandamente dimesso dalla sua carica[550]. In luogo di lui fu destinato generale della cavalleria Severo, esperto soldato, di conosciuto coraggio e fedeltà, che era capace d'avvertir con rispetto ed eseguire con zelo, e che senza ripugnanza si sottopose al supremo comando, che Giuliano finalmente ottenne per le premure della sua protettrice Eusebia, sopra gli eserciti della Gallia[551]. Per la prossima campagna fu adottato un sistema d'operazioni molto giudizioso. Giuliano medesimo, alla testa del rimanente delle veterane sue truppe e di alcune nuove leve, che gli era stato permesso di fare, arditamente penetrò nel centro de' ripostigli de' Germani, e con diligenza ristabilì le fortificazioni di Saverna in un posto vantaggioso, che avrebbe o represse le scorrerie, o impedita la ritirata del nemico. Nell'istesso tempo Barbazio, Generale d'infanteria, si mosse da Milano con un'armata di trentamila uomini, e passando le montagne, si apparecchiava a gettare un ponte sul Reno, nelle vicinanze di Basilea. Era ragionevole d'aspettarsi, che gli Alemanni, stretti per ogni parte dalle armi Romane, si sarebbero tosto trovati nella necessità d'abbandonar le Province della Gallia, e sarebbero corsi a difendere il nativo loro paese. Ma svanirono le speranze di quella campagna per l'incapacità o per la invidia o per le segrete istruzioni di Barbazio, il quale si diportò come se fosse stato nemico di Cesare, e segreto alleato de' Barbari. La negligenza, con cui lasciò liberamente passare e tornare indietro una truppa di saccheggiatori, quasi avanti alle porte del suo campo, gli si può attribuire a mancanza d'abilità; ma il perfido atto di bruciare una quantità di barche e di provvisioni superflue, che sarebbero state del più rilevante vantaggio all'esercito della Gallia, fu una prova delle sue ree ed ostili intenzioni. I Germani disprezzarono un nemico, che pareva mancante di forze o d'inclinazione ad offenderli; e l'ignominiosa ritirata di Barbazio privò Giuliano dell'aspettato soccorso, e gli lasciò il pensiero di liberarsi da una pericolosa situazione, in cui non poteva egli nè rimanere con salvezza, nè ritirarsi con onore[552].
A. D. 357
Gli Alemanni, appena furon liberati da' timori di un'invasione, si prepararono a castigare il giovane Romano, che pretendeva disputar loro il possesso di quel paese, ch'essi credevano appartenere a se medesimi per diritto di conquista e per li trattati. Consumarono tre giorni e tre notti nel trasferire sul Reno le militari lor forze. Il fiero Cnodomar, scuotendo il pesante suo dardo, che vittoriosamente avea maneggiato contro il fratello di Magnenzio, conduceva la vanguardia de' Barbari, e moderava colla sua esperienza il marziale ardore che il suo esempio inspirava[553]. Egli era seguitato da sei altri Re, da dieci Principi di nascita reale, da una lunga serie di coraggiosi nobili, e da trentacinquemila de' più prodi guerrieri delle Tribù della Germania. L'ardire che nasceva dalla cognizione della propria lor forza, fu accresciuto dalla notizia che loro portò un disertore, che Cesare con un debole esercito di tredicimila uomini occupava un posto circa ventun miglia distante dal loro campo di Strasburgo. Con tali disuguali forze, Giuliano risolvè di cercare e d'incontrare l'esercito Barbaro, e fu preferito il periglio d'un'azione generale alle tediose ed incerte operazioni d'attaccare separatamente i corpi dispersi degli Alemanni. I Romani marciavano raccolti fra loro in due colonne, la cavalleria alla destra, e l'infanteria alla sinistra; ed il giorno era così avanzato, quando giunsero a vista del nemico, che Giuliano desiderava di differir la battaglia fino alla mattina seguente, e dar tempo alle sue truppe di ristabilir l'esauste lor forze co' necessari aiuti del riposo e del cibo. Non pertanto, cedendo con qualche ripugnanza alle grida de' soldati, ed anche all'opinione del suo Consiglio, gli esortò a giustificar col valore quell'ardente impazienza, che in caso di una rotta si sarebbe universalmente tacciata co' nomi di temerità e di presunzione. Suonarono le trombe, s'udì pel campo il clamor militare, e le due Armate corsero con ugual furore all'attacco. Cesare, che in persona comandava l'ala destra, contava sulla destrezza de' suoi arcieri e sul peso dello loro corazze. Ma furono immediatamente rotte le sue linee da un irregolar mescuglio di cavalleria e di fanteria leggiera, ed ebbe la mortificazione di vedere la fuga di seicento de' più rinomati suoi corazzieri[554]. I fuggitivi furono trattenuti e riuniti dalla presenza ed autorità di Giuliano, che non curando la propria salute, si gettò avanti di loro, e mettendo in contro ogni stimolo di vergogna e d'onore, li ricondusse contro il vittorioso nemico. Il combattimento fra le due linee d'infanteria fu ostinato e sanguinoso. I Germani erano superiori in forza e statura, i Romani in disciplina e disposizione; e siccome i Barbari, che militavano sotto lo stendardo dell'Impero, univano in se i respettivi vantaggi d'ambe le parti, i loro vigorosi sforzi, guidati da un perito condottiero, finalmente determinarono l'evento della giornata. I Romani perderono quattro tribuni, e dugentoquarantatre soldati in questa memorabil battaglia di Strasburgo, tanto gloriosa per Cesare[555], e salutare per le afflitte Province della Gallia. Seimila Alemanni rimaser morti sul campo, senz'includervi quelli, che s'annegaron nel Reno, o furono trafitti dai dardi, mentre tentavano di passare a nuoto all'altra riva del fiume[556]. Cnodomar istesso fu circondato e fatto prigioniero insieme con tre dei suoi valorosi compagni, che avean giurato di seguire in vita o in morte il destino del loro capo. Giuliano lo ricevè con pompa militare nel Consiglio de' suoi ufficiali; ed esprimendo una generosa compassione dell'abbattuto suo stato, dissimulò l'interno disprezzo, che aveva per la vile umiliazione del suo prigioniero. In vece di far mostra del vinto Re degli Alemanni, come un grato spettacolo alle città della Gallia, trasse rispettosamente ai piè dell'Imperatore questo splendido trofeo della sua vittoria. Cnodomar ebbe un onorevole trattamento; ma l'impaziente Barbaro non potè sopravvivere lungo tempo alla sua disfatta, al suo confino ed esilio[557].
A. D. 358
Poscia che Giuliano ebbe scacciato gli Alemanni dalle Province dell'alto Reno, voltò le armi contro dei Franchi, i quali eran situati più vicini all'Oceano sui confini della Gallia e della Germania, e che pel numero e più ancora per l'intrepido loro valore s'erano sempre stimati fra' Barbari i più formidabili[558]. Quantunque fossero questi fortemente attratti dagli allettativi della rapina, professavan però un disinteressato amor della guerra, ch'essi riguardavano come la suprema felicità ed il massimo onore della vita umana; e gli spiriti non meno che i corpi loro erano sì perfettamente indurati pel continuo esercizio, che secondo la viva espressione d'un oratore, le nevi dell'inverno erano per essi così piacevoli, come i fiori della primavera. Nel mese di dicembre, dopo la battaglia di Strasburgo, Giuliano attaccò un corpo di seicento Franchi, che si eran gettati in due castelli sopra la Mosa[559]. Nel mezzo di quella rigida stagione sostennero essi con inflessibil costanza un assedio di quarantaquattro giorni; sintanto che in ultimo esausti dalla fame, ed accortisi che la vigilanza del nemico in rompere il ghiaccio del fiume non lasciava più loro alcuna speranza di fuga, i Franchi acconsentirono per la prima volta a recedere dall'antica legge, che imponeva loro di vincere o di morire. Cesare immediatamente mandò questi prigionieri alla Corte di Costanzo, che accettandoli come un pregevole dono[560], prese con piacere l'occasione di aggiungere tanti eroi alle più scelte truppe delle sue guardie domestiche. L'ostinata resistenza di questo pugno di Franchi fece apprendere a Giuliano le difficoltà della spedizione, che meditava di fare nella seguente primavera contro tutto il corpo della nazione. La sua rapida diligenza però sorprese e spaventò gli attivi Barbari. Ordinando a' suoi soldati di provvedersi di biscotto per venti giorni, improvvisamente piantò il suo campo vicino a Tongres, mentre il nemico lo supponeva sempre ne' quartieri d'inverno a Parigi, e che aspettasse il lento arrivo de' suoi convogli d'Aquitania. Senza lasciar tempo a' Franchi d'unirsi o di deliberare, dispose con arte le sue legioni, da Colonia fino all'Oceano; e pel terrore, non meno che pel felice successo delle sue armi, tosto riduce le supplicanti Tribù ad implorar la clemenza, e ad obbedire a' comandi del loro Conquistatore. I Camavj si ritiraron sommessamente alle antiche loro abitazioni di là dal Reno; ma fu accordato a' Salj di possedere il nuovo stabilimento di Toxandria, come soggetti ed ausiliari dell'Impero Romano[561]. Si ratificò con solenni giuramenti il trattato, e furon destinati varj inspettori perpetui per risedere tra' Franchi, coll'autorità di esigere la rigorosa osservanza de' patti. Si riporta un accidente abbastanza interessante per se medesimo, ed in nessun modo ripugnante al carattere di Giuliano, che ingegnosamente immaginò l'intreccio e la catastrofe della tragedia. Quando i Camavj chieser la pace, egli dimandò il figlio del loro Re come l'unico ostaggio, su cui potesse fidarsi. Un tristo silenzio, interrotto da lacrime e da lamenti, dimostrò la mesta perplessità dei Barbari; ed il vecchio lor Capo in patetico linguaggio dolevasi, che la privata sua perdita veniva ora amareggiata dal sentimento della pubblica calamità. Mentre i Camavj stavan prostrati a piè del suo trono, il real prigioniero, ch'essi credevan già morto, d'improvviso comparve a' lor occhi; e tosto che il tumulto di gioia si convertì in attenzione, Cesare parlò all'assemblea in questi termini. «Ecco il figlio, il Principe, che da voi si piangeva. Voi l'avevate perduto per vostra colpa; Dio ed i Romani ve l'hanno restituito. Io conserverò ed educherò il giovane, piuttosto come un monumento della mia propria virtù, che come un pegno della vostra sincerità. Se voi tenterete di violare la fede, che avete giurata, le armi della Repubblica vendicheranno la perfidia non già sull'innocente, ma su' colpevoli.» I Barbari si ritirarono dalla sua presenza, penetrati de' più profondi sentimenti di gratitudine e d'ammirazione[562].
A. D. 357-358-359
Non era sufficiente per Giuliano l'aver liberato le Province della Gallia da' Barbari della Germania. Egli aspirava ad emulare la gloria del primo e più illustre fra gl'Imperatori, ad esempio del quale compose i suoi Comentari della guerra Gallica[563]. Cesare ha riferito con interna compiacenza la maniera con cui passò il Reno due volte. Giuliano potè vantarsi, che prima di prendere il titolo d'Augusto, aveva in tre felici spedizioni portato le Aquile Romane oltre quel gran fiume[564]. La costernazione de' Germani dopo la battaglia di Strasburgo lo animò a fare il primo tentativo; e la ripugnanza delle truppe tosto cedè alla persuasiva eloquenza d'un Capitano, il quale era a parte delle fatiche e de' pericoli, che imponeva all'infimo de' suoi soldati. I villaggi da ambe le parti del Reno, ch'erano abbondantemente provvisti di grano e di bestiame, provarono le devastazioni d'un'armata che invade. Le case principali, fabbricate con qualche imitazione della Romana eleganza, furon consumate dalle fiamme; e Cesare s'avanzò arditamente circa dieci miglia, finchè arrestati furono i suoi progressi da un'oscura ed impenetrabil foresta, minata da scavi sotterranei, che con segrete insidie ed imboscate minacciava ogni passo dell'assalitore. La terra era già coperta di neve; e Giuliano dopo d'avere risarcito una antica fortezza ch'era stata eretta da Traiano, concesse una tregua di dieci mesi ai sottomessi Barbari. Allo spirar della tregua, Giuliano intraprese una seconda spedizione di là dal Reno, per umiliare l'orgoglio di Surmar, e di Ortairo, due Re degli Alemanni, che s'eran trovati presenti alla battaglia di Strasburgo. Essi promisero di restituire tutti gli schiavi Romani, che tuttavia restavano in vita; e siccome Cesare s'era procurata un'esatta notizia dalle città e da' villaggi della Gallia degli abitanti che avevan perduti, potè scuoprire qualunque tentativo, ch'essi fecero per ingannarlo, con tal felicità ed esattezza, che servì quasi a stabilir l'opinione della soprannaturale sua intelligenza. La terza spedizione di lui fu anche più splendida ed importante delle due precedenti. I Germani avevan raccolte le lor forze militari, e si muovevano lungo le opposte rive del fiume col disegno di abbattere il ponte, e d'impedire il passo ai Romani. Ma questo giudizioso piano di difesa restò sconcertato da un'opportuna diversione. Furon distaccati trecento attivi soldati, ed armati leggermente in quaranta piccole barche ad oggetto d'andare in silenzio lungo la corrente, e prender terra in qualche distanza da' posti del nemico. Essi eseguirono i loro ordini con tale ardire e celerità, che avevan quasi sorpreso i Capi de' Barbari, i quali senz'alcun timore tornavano ebbri da una delle lor feste notturne. Senza stare a ripetere l'uniforme e disgustoso racconto delle stragi e delle devastazioni, servirà l'avvertire che Giuliano dettò da se stesso le condizioni di pace a sei de' più superbi Re degli Alemanni, a tre de' quali fu permesso di vedere la severa disciplina e la pompa marziale d'un campo Romano. Cesare, seguìto da ventimila prigionieri liberati dalle catene de' Barbari, ripassò il Reno, dopo d'aver terminato una guerra, il successo della quale era stato paragonato alle antiche glorie delle vittorie Punica e Cimbrica.
Tosto che il valore e la condotta di Giuliano ebbe assicurato un intervallo di pace, egli applicossi ad un'opera più conforme alla sua umana e filosofica indole. Restaurò diligentemente le città della Gallia, che avevan sofferte le incursioni de' Barbari, ed in specie si fa menzione di sette posti importanti fra Magonza, e la bocca del Reno, che furon rifabbricati e fortificati per ordine di Giuliano[565]. I soggiogati Germani s'eran sottomessi alle giuste, ma umilianti condizioni di preparare, e di trasportare i necessari materiali. L'attivo zelo di Giuliano incalzava il proseguimento dell'opera; e tal era l'ardore ch'egli aveva sparso fra le truppe, che gli ausiliarj medesimi rinunziando le loro esenzioni da ogni dover di fatica, facevano a gara ne' più servili lavori colla diligenza de' soldati Romani. Incumbeva a Cesare di provvedere alla sussistenza, non meno che alla sicurezza degli abitanti e delle guarnigioni. La deserzione degli uni e l'ammutinamento delle altre dovevano essere le fatali ed inevitabili conseguenze della carestia. La cultura delle Province della Gallia era stata interrotta dalle calamità della guerra; ma fu supplito, mediante la paterna sua cura, alle scarse raccolte del Continente dall'abbondanza delle Isole addiacenti. Seicento gran barche, costruite nella foresta d'Ardenna, fecer più viaggi alla costa della Britannia, e di là tornando cariche di grano, rimontavano su pel Reno, e distribuivano i loro carichi alle varie città e fortezze lungo le sponde del fiume[566]. Le armi di Giuliano avevano renduta libera e sicura una navigazione, che Costanzo aveva offerto di comprare a spese della sua dignità, e d'un tributario donativo di duemila libbre d'argento. L'Imperatore con parsimonia ricusava a' propri soldati le somme, che con prodiga e tremante mano accordava a' Barbari, e si pose ad una forte prova la destrezza ugualmente che la costanza di Giuliano, quando si mise in campagna con un esercito malcontento che avea già militato per due campagne senza ricevere alcuna regolar paga, o alcuno straordinario donativo[567].
La regola principale, che dirigeva, o sembrava che dirigesse l'amministrazione di Giuliano, era un tenero riguardo per la pace e felicità de' suoi sudditi[568]. Egli consacrò l'ozio de' suoi quartieri d'inverno agli uffizi del governo civile, ed affettò di assumere con maggior piacere il carattere di Magistrato che quello di Generale. Avanti d'andare alla guerra, delegò ai Governatori Provinciali molte cause pubbliche e private che s'eran portate al suo Tribunale; ma tornato che fu, diligentemente rivide i loro processi, mitigò il rigore delle leggi e pronunziò un secondo giudizio sopra gli stessi Giudici. Superiore a quell'indiscreto ed intemperante zelo per la giustizia, ch'è l'ultima tentazione degli animi virtuosi, raffrenò tranquillamente e con dignità l'ardore d'un Avvocato, che accusava l'estorsione del Presidente della Provincia Narbonese. «Chi si potrà mai trovar reo» esclamò il veemente Delfidio «se serve il negare?» E chi, replicò Giuliano, «sarà mai trovato innocente, se serve l'affermare?» Nella generale amministrazione, tanto di pace quanto di guerra, l'interesse del Sovrano è ordinariamente l'istesso che quello del popolo: ma Costanzo si sarebbe stimato altamente offeso, se le virtù di Giuliano l'avessero defraudato di una parte del tributo, ch'egli estorceva da un oppresso ed esausto paese. Il Principe, ch'era investito delle insegne della dignità reale, poteva qualche volta pretendere di correggere la rapace insolenza degli agenti inferiori, di porre in chiaro i corrotti loro artifizi, e d'introdurre una specie d'esazione più uguale e più facile. Ma il maneggio delle finanze fu con maggior sicurezza affidato a Florenzio, Prefetto del Pretorio della Gallia, effeminato tiranno, incapace di pietà o di rimorsi; ed il superbo ministro dolevasi della più decente e gentile opposizione, mentre Giuliano stesso era piuttosto inclinato a censurare la debolezza della sua propria condotta. Cesare avea rigettato con orrore un mandato per la leva d'una tassa straordinaria, che il Prefetto gli aveva presentato per la sua sottoscrizione; e la pittura fedele della pubblica miseria, con cui era egli stato obbligato a giustificare il suo rifiuto, offese la Corte di Costanzo. Possiamo avere il piacere di leggere i sentimenti di Giuliano, quali esso gli esprime con calore e libertà in una lettera ad uno de' suoi più intimi amici. Dopo d'aver esposta la sua condotta, prosegue in questi termini. «Era egli possibile per un discepolo di Platone e d'Aristotile il procedere diversamente da quel che ho fatto? Poteva io abbandonare gl'infelici sudditi, affidati alla mia cura? Non era io chiamato a difenderli dalle replicate ingiurie di questi insensibili ladroni? Un Tribuno, che abbandona il suo posto, è punito di morte, e privato degli onori della sepoltura. Con qual giustizia pronunziar potrei la sentenza contro di esso, se nel tempo del pericolo io medesimo trascurassi un dovere molto più sacro ed importante! Dio mi ha collocato in questo sublime posto; la sua Providenza mi guarderà e sosterrà. Quand'anche fossi condannato a patire, mi conforterò col testimonio d'una pura e retta coscienza. Piacesse al Cielo, che io avessi tuttavia un consigliere come Sallustio! Se stiman proprio di mandarmi un successore, mi sottometterò senza ripugnanza; e vorrei piuttosto profittare della breve opportunità di far bene, che godere una lunga durevole impunità nel male»[569]. La precaria e dipendente situazione di Giuliano ne spiegava le virtù, e ne celava i difetti. Non era permesso al giovane Eroe, che sosteneva nella Gallia il trono di Costanzo, di riformare i vizi del governo; ma aveva il coraggio di sollevare o di compassionare le angustie del popolo. A meno che non fosse stato capace di nuovamente eccitare il marziale spirito dei Romani, o d'introdurre le arti dell'industria e del raffinamento fra' selvaggi loro nemici, non poteva nutrire alcuna ragionevole speranza di assicurar la pubblica tranquillità o con la pace o con la conquista della Germania. Pure le vittorie di Giuliano sospesero per breve tempo le scorrerie de' Barbari, e differirono la rovina dell'Impero Orientale.
La sua salutare influenza fece risorger le città della Gallia, ch'erano state sì lungo tempo esposte a' danni della discordia civile, della guerra co' Barbari e della domestica tirannia; e s'eccitò lo spirito d'industria colla speranza del premio. L'agricoltura, le manifatture ed il commercio di nuovo fiorivano sotto la protezion delle leggi; e le Curie, o corpi civili eran nuovamente piene di utili e rispettabili membri: la gioventù non temeva più il matrimonio, nè i coniugi temevan più la posterità; si celebravano le pubbliche e private feste colla solita pompa; ed il frequente e sicuro commercio delle Province spiegava l'immagine della nazionale prosperità[570]. Uno spirito, come quel di Giuliano, dovea sentire la general felicità, della quale era l'autore; ma egli vedeva con particolar soddisfazione e compiacenza la città di Parigi, sede del suo invernal soggiorno, ed oggetto anche della sua parziale affezione[571]. Quella splendida capitale, che adesso contiene un vasto territorio da ambe le parti della Senna, era in principio ristretta alla piccola isola, che è nel mezzo del fiume, da cui gli abitanti eran forniti d'acqua pura e salubre. Il fiume bagnava il piè delle mura, e la città non era accessibile, che per mezzo di due ponti di legno. Dalla parte settentrionale della Senna stendevasi una foresta; ma al mezzodì il suolo, che adesso ha il nome dell'Università, fu insensibilmente coperto di case, e adornato d'un palazzo, d'un anfiteatro, di bagni, d'un acquedotto e d'un campo Marzio per esercizio delle truppe Romane. Il rigore del clima era temperato dalla vicinanza dell'Oceano; e con qualche precauzione, insegnata dall'esperienza, si coltivavan con frutto le viti ed i fichi. Ma negl'inverni crudi la Senna si ghiacciava profondamente; ed i grossi pezzi di ghiaccio, che scorrevan giù pel fiume, potevano da un Asiatico paragonarsi a' massi di bianco marmo, che s'estraevano dalle cave della Frigia. La licenza e corruzione d'Antiochia richiamavano alla memoria di Giuliano i semplici e severi costumi della sua cara Lutezia[572], dove i divertimenti del teatro erano incogniti, o disprezzati. Egli confrontava acceso di sdegno gli effeminati Sirj colla brava ed onesta semplicità de' Galli, e ne obbliò quasi l'intemperanza, ch'era l'unica macchia del carattere Celtico[573]. Se Giuliano potesse adesso visitar di nuovo la capitale della Francia, potrebbe conversar con uomini di scienza e di grande ingegno, capaci d'intendere e d'istruire uno scolare de' Greci; potrebbe scusar le vivaci e graziose follie d'una nazione, il cui spirito marziale non si è mai snervato dalla propensione al lusso; e dovrebbe applaudire la perfezione di quell'inestimabil arte, che ammollisce, raffina, ed abbellisce il commercio della vita sociale.
FINE DEL VOLUME TERZO.
INDICE
DEI CAPITOLI E DELLE MATERIE CHE SI CONTENGONO NEL TERZO VOLUME
CAPITOLO XVI. Condotta del Governo Romano verso i Cristiani, dal Regno di Nerone fino a quello di Costantino.
A. D.
Il Cristianesimo perseguitato da gl'Imperatori di Roma pag. 6
Cagioni da cui questi potevano essere mossi 7
Indole ribelle de' Giudei 8
Religione de' Giudei tollerata 9
Gli Ebrei riguardati come nazione , i Cristiani come setta 11
Il Cristianesimo accusato d'Ateismo e mal conosciuto dal popolo e dai filosofi 12
Le assemblee che si tenean dai Cristiani riguardate come adunanze di cospiratori 16
I costumi de' Cristiani calunniati 18
Imprudenza loro nel modo di difendersi 19
I Cristiani confusi dai Gentili coi Gnostici, e conseguenze che da ciò derivarono 20
Incendio di Roma sotto il regno di Nerone 25
I Cristiani accusati di esso e terribilmente puniti 27
Passo di Tacito a tale proposito 27
Osservazioni sovra questo passo 29
I Cristiani ed i Giudei egualmente oppressi sotto il regno di Domiziano 34
Condanna e morte di Flavio Clemente 37
Ignoranza di Plinio su di quanto si aspettò ai Cristiani 39
Legali procedure contr'essi instituite sotto il regno di Traiano e de' suoi successori 40
Clamori popolari contro i Cristiani 41
Ordine di giudicatura che si teneva rispetto i Cristiani 43
Equità de' Magistrati Romani 46
Numero de' Martiri meno considerabile di quanto è stato esagerato 48
Osservazioni intorno al martirio di Cipriano vescovo di Cartagine 49
Primi rischi corsi dal medesimo e sua fuga 50
257 Esilio 51
Condanna 53
Morte 54
Motivi della condotta tenuta da Cipriano 55
Ardore con cui i primitivi Cristiani agognavano il martirio 57
A mano a mano illanguidito 60
Tre vie per evitarlo 61
Avvicendarsi di severità e tolleranza 63
Le dieci persecuzioni 63
Editti in favor de' Cristiani che si attribuiscono a Tiberio ed a Marco Antonino 64
180 Stato de' Cristiani nel durare de' regni di Commodo e di Severo 66
211-249 Deteriorato sotto i successori del secondo di questi due imperatori 68
244-249 Regni di Massimino, Filippo e Decio 70
253-260 Di Valeriano, Gallieno e loro successori 72
260 Paolo Samosateno e suoi costumi 73
270 Rimosso dalla sede d'Antiochia 75
274 Come Aureliano si prendesse cura di far eseguire tale sentenza 76
280-303 Pace e prosperità della Chiesa sotto Diocleziano 77
Progresso dello zelo fra i Cristiani e della superstizione fra i Pagani 79
Alcuni soldati cristiani puniti da Massimiano e Galerio 82
Diocleziano indotto da Galerio ad incominciare una persecuzione generale contro i Cristiani 84
303 Distruzione della chiesa di Nicomedia 86
303 Primo bando contro i Cristiani 86
Zelo manifestato a tale proposito da un Cristiano e punizione ch'ei n'ebbe 88
Esecuzione che sortì il primo bando 91
Distruzione delle chiese 92
Successivi bandi 94
Idea generale della persecuzione 95
Stato dei Cristiani nelle Province occidentali, sotto Costanzo e nel primo periodo del regno di Costantino 96
Nell'Italia e nell'Affrica, sotto Massimiano e Severo 97
Sotto Massenzio 98
Nell'Illirico e nell'Oriente sotto Galerio e Massimino 100
Editto di tolleranza pubblicato da Galerio 102
Pace della Chiesa 103
Massimino si prepara a rinnovare la persecuzione 104
Fine delle persecuzioni 106
Su quanto possa credersi intorno ai patimenti de' Martiri e de' Confessori 106
Numero de' Martiri 109
Conclusione 111
SAGGIO DI CONFUTAZIONE De' due Capi XV e XVI dell'Istoria di Odoardo Gibbon spettanti all'esame del Cristianesimo; Compendio di un'opera di Nicola Spedalieri 115
CAPITOLO XVII. Fondazione di Costantinopoli. Sistema politico di Costantino e de' suoi successori. Disciplina militare, Corte e finanze.
324 Disegno d'una nuova Capitale 234
Situazione di Bisanzio 236
Descrizione di Costantinopoli 236
Bosforo 237
Porto 239
Propontide 240
Ellesponto 241
Fondazione della città 243
Estensione 248
Progressi di questa grand'opera 250
Edifizi 250
Popolazione 256
Privilegi 259
330-334 Dedicazione di Costantinopoli 262
Forma di governo 264
Gerarchie dello Stato 266
Tre gradi d'onore 266
Consoli 267
Patrizi 271
Prefetti del Pretorio 274
Prefetti di Roma e di Costantinopoli 277
Proconsoli e viceprefetti 280
Governatori delle province 281
Professione della legge 285
Ufficiali militari 288
Distinzione delle truppe 291
Riduzione delle legioni 293
Difficoltà delle leve 295
Aumento de' Barbari ausiliari 297
Sette ministri del Palazzo 299
Ciamberlano 299
Maestro degli uffizi 301
Questore 304
Tesoriere pubblico 305
Tesoriere privato 306
Conti de' domestici 308
Agenti o ministri delatori 308
Uso della tortura 310
Finanze 312
Tributo generale o Indizione 313
Tasse in forma di capitazione 317
Capitazione sul commercio e l'industria 323
Liberi donativi 325
Conclusione 327
CAPITOLO XVIII. Carattere di Costantino. Guerra Gotica. Morte di Costantino. Divisione dell'Impero fra tre suoi figli. Guerra di Persia. Tragiche morti di Costantino il Giovane e di Costante. Usurpazione di Magnenzio. Guerra civile. Vittoria di Costanzo.
Carattere di Costantino 328
Sue virtù 329
Suoi vizi 331
Sua famiglia 333
Virtù di Crispo 335
324-325 Gelosia di Costantino 337
326 Disgrazia e morte di Crispo 340
Figli e nipoti di Costantino 344
Loro educazione 345
Costumi de' Sarmati 347
Loro stabilimento vicino al Danubio 349
331 Guerra Gotica 351
332 Sconfitta sofferta dai Goti 352
334 Espulsione de' Sarmati 354
335 Ambascerie venute a Costantino dall'Etiopia, dalla Persia e dall'India 356
337 Morte e funerali di Costantino 356
Fazioni della Corte 357
Uccisione de' principi 359
Divisione dell'Impero 361
310 Sapore re di Persia 362
Stato della Mesopotamia e dell'Armenia 364
342 Cristianesimo propagatosi nell'Armenia 365
337-360 Guerra Persiana 366
338-350 Assedio di Nisibi 369
Guerra tra i figli di Costantino 372
Morte di Costante 374
Magnenzio e Vetranione assumono la porpora 376
Costanzo nega d'entrare in negoziati con Magnenzio e Vetranione 378
Vetranione spogliato della porpora si ritira in Prusa 379
Guerra di Costanze contro Magnenzio 382
341 Battaglia di Mursa 385
351 Conquista dell'Italia 388
CAPITOLO XIX. Costanzo solo Imperatore. Elevazione e morte di Gallo. Pericolo ed innalzamento di Giuliano. Guerre coi Sarmati e co' Persi. Vittorie di Giuliano nella Gallia.
Potenza degli eunuchi 394
Educazione di Gallo e di Giuliano 397
351 Gallo dichiarato Cesare 398
Credulità ed imprudenza di Gallo 399
354 Uccisione de' ministri imperiali 402
Pericolosa situazione di Gallo 404
Sua disgrazia e morte 405
Pericolo e liberazione di Giuliano 407
Suo esilio in Atene 409
Viene richiamato a Milano 412
355 Dichiarato Cesare 413
Fine infelice di Silvano 416
Nuovo obelisco 419
357-359 Guerra contro i Quadi ed i Sarmati 421
358 Negoziazione di Persia 425
359 Sapore invade la Mesopotamia 428
Assedio d'Amida 430
360 Di Singara 433
Condotta de' Romani 435
Invasione della Gallia fatta dai Germani 437
Condotta di Giuliano 439
356 Prima campagna da lui fatta nella Gallia 441
357 Seconda 443
Battaglia di Strasburgo 445
358 Vittoria di Giuliano 447
357-359 Tre spedizioni di Giuliano al di là del Reno 452
Città della Gallia restaurate 454
Amministrazione civile di Giuliano 456
Descrizione di Parigi 458
FINE DELL'INDICE.
NOTE:
1. In Cirene trucidarono 220,000 Greci, in Cipro 240,000, ed in Egitto una grandissima quantità di persone. Molte di queste infelici vittime furon segate in due parti, secondo un precedente esempio datone da David. I vittoriosi Giudei divoravan la carne, leccavano il sangue, si avvolgevan come nastri le budella di que' meschini attorno a' lor corpi. Vedi Dione Cassio l. LXVIII. p. 1145.
2. Senza ripetere le ben note descrizioni di Gioseffo, possiamo apprendere da Dione ( l. LXIX, p. 1262 ) che nella guerra di Adriano furon passati a fil di spada 580,000 Giudei, oltre un numero infinito di essi, che morirono di fame, di disagio e di fuoco.
3. Per la setta degli Zeloti vedi Basnag. Hist. des Juifs l. I. c. 17; pe' caratteri del Messia, secondo i Rabbini l. V. c. 11, 12, 13; per le azioni di Barcocheba l. VII. c. 12.
4. Noi dobbiamo a Modestino Giurisconsulto Romano ( l. VI. Regular. ) una distinta notizia dell'Editto di Antonino. Vedi Casaubon. ad Hist. Aug. p. 27.
5. Vedi Basnag. Hist. des Juifs l. III. c. 2, 3. La carica di Patriarca, fu soppressa da Teodosio il Giovine.
6. Basti solo rammentare il Purim, o la liberazione degli Ebrei dal furore d'Aman, che fino al Regno di Teodosio fu celebrata con insolente trionfo e sfrenata intemperanza. Basnage Hist. des Juifs l. VI. c. 17. l. VIII. c. 6.
7. Secondo il falso Gioseffo, Tsefo nipote di Esaù condusse in Italia l'armata d'Enea Re di Cartagine. Un'altra Colonia d'Idumei, fuggendo la spada di David, si rifuggì negli stati di Romolo. Per queste o per altre ragioni di ugual peso gli Ebrei applicarono il nome d'Edom all'Impero Romano.
8. Dagli argomenti di Celso, quali son rappresentati e confutati da Origene ( l. V. p. 247, 259. ) possiamo chiaramente scuoprire la distinzione, che si faceva fra il popolo Ebraico, e la setta Cristiana. Si veda nel Dialogo di Minuzio Felice una bella ed elegante descrizione de' sentimenti popolari intorno all'abbandonamento del culto stabilito.
9. Cur nullas aras habent? templa nulla? nulla nota simulacra?.. unde autem vel quis ille, aut ubi, Deus unicus, solitarius, destitutus? Minuc. Felix c. 10. L'interlocutore Pagano fa una distinzione in favor de' Giudei, che una volta ebbero un tempio, altari, vittime, ec.
10. Egli è difficile (dice Platone) di acquistare, e pericoloso il pubblicare la cognizione del vero Dio. Vedasi la Teologia de' Filosofi nella traduzione, che ha fatto in Francese l'Abate d'Olivet dell'opera di Tullio De natura Deorum Tom. 1. pag. 275.
11. L'autore del Filopatride tratta continuamente i Cristiani come una compagnia di sognatori entusiasti δαιμόνιοι, αἰθέριοι, αἰθεροβατοῦντες, ἀεροβατοῦντες ec. ed in un luogo manifestamente allude alla visione, in cui S. Paolo fu trasportato al terzo Cielo. In un altro luogo Triefonte, che rappresenta un Cristiano, dopo aver deriso gli Dei del Paganesimo propone un misterioso giuramento.
ὙΨιμέδοντα θέον, μέγαν, ἄμβροτον, οὐρανίωνα,
Ὑιον πατρὸς. πνεῦμα ἐη πατρὸς ἐππορευόμενον,
Ἑν ἐκ τριῶν, καὶ ἑνὸς τρία ταῦτα νόμιζε.
Ἀριθμέειν με διδάσκεις (questa è la profana risposta di Critia) Καὶ ὅρκος ἡ ἀριθμητική, οῦκ οἶδα γὰρ τί λέγεις, ἐν τρία, τρία ἐν.
12. Secondo Giustino Martire ( Apolog. major. c. 70. 85), il demonio, che aveva qualche imperfetta cognizione delle profezie, aveva finto a bella posta questa somiglianza, che potesse rimuovere, quantunque con diversi mezzi, tanto il Popolo che i Filosofi dall'abbracciar la fede di Cristo.
13. Nel primo e secondo libro d'Origene, Celso tratta la nascita e il carattere del nostro Salvatore col più empio disprezzo. L'oratore Libanio loda Porfirio e Giuliano per aver confutato la follia di una setta, che ad un uomo di Palestina morto dava il nome di Dio, e di figlio di Dio. Socrat. Hist. Eccl. III. 23.
14. L'Imperator Traiano ricusò la permissione di lasciar formare una compagnia di 150 spegnitori d'incendj per uso della città di Nicomedia. Egli non gradiva qualunque associazione. Vedi Plin. Epist. X. 42, 43.
15. Il Proconsole Plinio avea pubblicato un editto generale contro le adunanze illegittime. La prudenza de' Cristiani fece sospender le loro Agapi, ma era impossibile ch'essi omettessero l'esercizio del culto pubblico.
16. Siccome le profezie dell'Anticristo, del prossimo abbruciamento del mondo ec. irritavano que' Pagani, che non convertivano, se ne faceva menzione con cautela e riserva, e furono censurati i Montanisti per aver troppo liberamente svelato il pericoloso segreto. Vedi Mosem. p. 413.
17. Neque enim dubitabam, quodcumque esset quod faterentur (queste sono le parole di Plinio), pervicaciam certe et inflexibilem obstinationem debere puniri.
18. Vedasi l'istoria Eccles. Mosem. Vol. I. pag. 101 e Spanem. Remarques sur les Césars, de Julien pag. 468. etc.
19. Vedi Giustino Mart. Apolog. I, 35, II, 14. Atenagora in Legation. c. 27, Tertulliano Apolog. c. 7, 8, 9. Minucio Felice c. 9, 10, 30, 31. L'ultimo di questi Scrittori riferisce l'accusa nella più elegante e circostanziata maniera; la risposta di Tertulliano è più ardita e più vigorosa.
20. Nella persecuzione di Lione alcuni schiavi Gentili furon costretti dal timor de' tormenti ad accusare i lor padroni Cristiani. La Chiesa di Lione, scrivendo a' propri fratelli dell'Asia, tratta l'orrida accusa con l'indignazione e il disprezzo che merita. Euseb. Hist. Ecl. V. I.
21. Vedi Giustino Mart. Apolog. I, 35. Iren. adv. haeres. I. 24. Clem. Alessand. Stromat. l. III. p. 438. Euseb. IV. 8. Sarebbe grave e disgustoso il riferir tutto ciò, che hanno immaginato i successivi Scrittori, tutto quel ch'Epifanio ha ricevuto come vero, e che ha copiato il Tillemont. Il Beausobre ( Hist. du Manicheisme l. IX. c. 8, 9 ) ha esposto con grande spirito l'arte non ingenua di Agostino e del Pontefice Leone.
22. Quando Tertulliano divenne Montanista, diffamò la Morale della Chiesa, ch'egli aveva sì fortemente difesa. Sed majoris est agape, quia per hanc adolescentes tui cum sororibus dormiunt, appendices scilicet gulae lascivia et luxuria: de Jejun. c. 17. Il canone 35 del Concilio d'Elvira provvede agli scandali, che troppo spesso macchiavan quelli, che facevan le vigilie nelle Chiese, e screditavano il nome Cristiano agli occhi degl'Infedeli.
23. Tertulliano ( Apolog. c. 2. ) si diffonde a gran ragione, e con un poco di stile declamatorio sulla bella ed onorevol testimonianza di Plinio.
24. Nella vasta compilazione dell'Istoria Augusta (una parte di cui fu composta nel Regno di Costantino) non si trovano sei linee relative a' Cristiani; nè la diligenza di Sifino ha potuto scoprire il lor nome nella vasta istoria di Dione Cassio.
25. Un oscuro passo di Svetonio può somministrare per avventura una prova di quanto stranamente si confondesser fra loro gli Ebrei ed i Cristiani di Roma.
26. Vedasi nel 18 e 25 capitolo degli Atti Apostolici la condotta di Gallione, Proconsole dell'Acaia, e di Festo, Procurator della Giudea.
27. Nel tempo di Tertulliano e di Clemente Alessandrino la gloria del martirio si ristringeva a S. Pietro, a S. Paolo, ed a S. Giacomo. I Greci più moderni bel bello l'attribuirono al resto degli Apostoli, e prudentemente scelsero per teatro della lor predicazione e de' lor tormenti qualche remoto paese di là da' confini del Romano Impero, Vedi Mosemio p. 81, e Tillemont Mémoires Eccles. Tom I. p. III.
28. Tacit. Annal. XV. 38, 44. Sueton. in Neron. c. 38. Dion. Cass. l. LXII. p. 1014. Oros. VII. 7.
29. Il prezzo del grano (probabilmente del Modio ) fu ridotto a tre Nummi, che può equivalere a circa quindeci Scellini per sacco Inglese.
30. Noi possiam osservare, che Tacito fa menzione di tal fama con diffidenza molto conveniente e dubbiezza, mentre essa viene avidamente descritta da Svetonio, e solennemente confermata da Dione.
31. Questa sola testimonianza è sufficiente a dimostrar l'anacronismo degli Ebrei, che pongon la nascita di Cristo quasi cent'anni più presto ( Basnage Hist. des Juifs l. V. c. 14, 15. ). Possiamo apprendere da Gioseffo ( Antiq. XVIII. 3 ) che il tempo, in cui fu Procuratore Pilato, corrisponde agli ultimi dieci anni di Tiberio dall'anno di Cristo 27 al 37. Quanto all'epoca particolare della morte di Cristo, una tradizione molto antica la fissa ai 25 di Marzo dell'anno 29 sotto il Consolato de' due Gemini ( Tertullian. adv. Judaeos c. 8. ). Questa data che si adotta dal Pagi, dal Cardinal Noris e dal Le Clerc, sembra per lo meno tanto probabile, quanto l'Era volgare, che (non so per quali congetture) li pone quattro anni più tardi.
32. Odio humani generis convicti. Queste parole possono significare l'odio del genere umano contro i Cristiani, o l'odio, de' Cristiani contro il genero umano. Ho preferito quest'ultimo senso, come il più conforme allo stile di Tacito ed all'error popolare, di cui un precetto del Vangelo ( Vedi Luca XIV. 26 ) era forse stato l'innocente occasione. Giustificato viene il mio interpretamento dall'autorità di Lipsio; da quelle de' traduttori di Tacito, Italiani, Francesi e Inglesi, dall'autorità di Mosemio (p. 102), di Le Clerc ( Hist. Eccles. p. 427 ), del Dottore Lardner ( Testimon. vol. I. p. 345 ) e del vescovo di Glocester ( Legat. Div. vol. III. p. 38). Ma poichè il vocabolo convicti non si unisce molto felicemente col rimanente della sentenza, Giacomo Gronovio ha anteposto di leggere conjuncti, seguendo l'autorità del prezioso Codice di Firenze.
33. Tacit. Annal. XV. 44.
34. Nardini Roma antica p. 387. Donatus de Roma antiqua l. III. p. 449.
35. Sueton. in Neron. c. 16. L'epiteto di malefica, il quale alcuni sagaci Comentatori traducono magica, più ragionevolmente risguardasi da Mosemio come sinonimo dell' exitiabilis di Tacito.
36. Il passo risguardante Gesù Cristo, che fu inserito nel testo di Gioseffo tra il tempo d'Origene o quello d'Eusebio, può somministrare un esempio di non volgar falsità. Si riferiscono distintamente l'esecuzione delle profezie, le virtù, i miracoli, e la risurrezione di Gesù. Gioseffo riconosce, ch'egli era il Messia, e dubita se debba chiamarlo un uomo. Se potesse rimaner qualche dubbio intorno quel celebre passo, il lettore può esaminare le argute obbiezioni di le Fevre ( Havercamp. Joseph. tom. II. p. 267-273 ), l'elaborata risposta di Daubuz (p. 187-232) e la maestrevol replica ( Biblioth. Ant. L. Mod. t. VII. p. 237-288 ) di un critico anonimo ch'io credo essere il dotto Ab. di Longuerue.
37. Vedi le vite di Tacito fatte da Lipsio, e dall'Abate de la Bleterie, il Dizionario di Bayle all'art. Tacite e Fabricio Biblioth. Latin. Tom. II. p. 386. Edit. Ernest.
38. Principatum Divi Nervae, et imperium Traiani uberiorem securioremque materiam senectuti seposui. Tacit. Hist. I.
39. Vedi Tacito, Annal. II, 61 IV. 4.
40. Il nome del commediante era Alituro. Per il medesimo canale Gioseffo ( de vita sua c. 3. ) aveva ottenuto, circa due anni prima, il perdono e la libertà di alcuni Sacerdoti Ebrei ch'erano prigionieri in Roma.
41. L'erudito Dottore Lardner (Testimonianze giudaiche, e Gentili Vol. II. p. 101-103 ) ha provato, che il nome di Galilei fu molto antico, e forse la prima denominazione dei Cristiani.
42. Gioseff. Antiq. XVIII. 1, 2. Tillemont. Ruine des Juifs ( p. 742. ). I figli di Giuda furono crocifissi al tempo di Claudio. Il suo nipote Eleazaro, dopo la presa di Gerusalemme, difese una forte rocca con 960 de' suoi più disperati seguaci. Quando l'ariete ebbe fatto una breccia, essi rivoltaron le loro spade contro le loro mogli ed i figli, e finalmente contro i lor propri petti; e tutti morirono, fino all'ultimo.
43. Vedi Dodwell. Paucitat. Martir. l. XIII. La inscrizione Spagnuola appresso Grutero, p. 238. n. 9, è una manifesta e conosciuta menzogna, inventata da quel famoso impostore Ciriaco di Ancona, per lusingare l'orgoglio ed i pregiudizi degli Spagnuoli. Vedi Ferreras ( Hist. d'Espagne Tom. I p. 192. )
44. Il Campidoglio fu bruciato nel tempo della guerra civile fra Vespasiano e Vitellio il dì 19 Decembre dell'anno 69. Il tempio di Gerusalemme restò distrutto ne' 10 Agosto del 70 per le mani de' Giudei stessi, piuttosto che per quelle de' Romani.
45. Il nuovo Campidoglio fu dedicato da Domiziano ( Sveton. in Domitian. c. 5. Plutarco in Poplicol. Tom. I. p. 230, Edit. Bryan. ) Il solo indoramento costò 12000 talenti (più di cinque milioni di zecchini). Fu opinione di Marziale ( l. IX. Epig. 3, ) che se l'Imperatore avesse voluto esigere il suo denaro, Giove medesimo, neppure col porre generalmente all'incanto l'Olimpo, avrebbe potuto pagare due scellini per lira.
46. Rispetto al Tributo vedasi Dione Cassio ( l. LXVI. p. 1082 con le note di Reimaro ), Spanemio ( de usu numism. Tom. II. p. 571 ) e Basnag. ( Hist. des Juifs l. VII. c. 2. )
47. Svetonio ( in Domitian. c. 12 ) avea veduto un vecchio di novant'anni pubblicamente esaminato avanti al Tribunale del Procuratore. Questo è quel che Marziale chiama Mentula tributis damnata.
48. Questa denominazione a principio s'intese nel senso più comune, e fu supposto che i fratelli di Gesù fossero la legittima prole di Maria e di Giuseppe. Un divoto rispetto per la virginità della Madre di Dio suggerì agli Gnostici, ed in seguito a' Greci ortodossi l'espediente di dare una seconda moglie a Giuseppe. I Latini, fino dal tempo di Girolamo, vi accrebbero qualche cosa, attribuirono a Giuseppe un celibato perpetuo, e con molti esempi simili giustificarono la nuova interpretazione, che Giuda ugualmente che Giacomo e Simone, i quali sono chiamati fratelli di Gesù Cristo, non fossero che suoi primi cugini. Vedi Tillemont, Memoir. Eccles. ( Tom. I. part. III. ) e Beausobre, Hist. critiq. du Manich. ( l. II c. 2. )
49. Trenta nove πλεθρα, quadrati di cento piedi l'uno, il qual terreno, rigorosamente computato, appena formerebbe la somma di nove acri. Ma la probabilità delle circostanze, la pratica degli altri scrittori Greci e l'autorità del Valois mi fanno inclinare a credere, che si usi il πλεθρον per esprimere il Romano jugero.
50. Euseb. III. 20. La storia o presa da Egesippo.
51. Vedasi la morte, ed il carattere di Sabino appresso Tacito ( Hist. III. 74-75 ). Sabino era il fratel maggiore di Vespasiano, e fino all'avvenimento al trono di lui, si era considerato come il principal sostegno della famiglia Flavia.
52. Flavium Clementem patruelem suum contemtissimae inertiae.... ex tenuissima suspicione interemit. Sueton. in Domit. c. 15.
53. L'Isola Pandataria secondo Dione. Bruzio Presente ( ap. Eusebio III 18 ) la bandisce in quella di Ponzia, che non era molto distante dalla prima. Tal differenza, ed un errore o d'Eusebio, o de' suoi copisti han data occasione di supporre due Domitille, una moglie, e l'altra nipote di Clemente. Vedi Tillemont, Mem. Eccles. ( Tom. II. p. 224. )
54. Dione l. LXVII. p. 1112. Se Bruzio Presente, dal quale probabilmente prese questo racconto, era il corrispondente di Plinio ( Epist. VII. 3 ) possiam risguardarlo come uno scrittore contemporaneo.
55. Sueton. in Domit. c. 17. Filostr. in vit. Apollon. l. VII.
56. Dion. l. LXVIII. p. 1118. Plin. Epist. IV. 22.
57. Plin. Epist. X. 97. L'erudito Mosemio si esprime con le più alte lodi intorno al moderato ed ingenuo carattere di Plinio. A malgrado di tutti i sospetti del Dottore Lardner (Vedi le testimonianze Giudaiche e Pagane Vol. II. p. 46 ), io non posso ravvisare alcuna ipocrisia nel suo linguaggio o nella sua maniera di procedere.
58. Plin. Epist. V. 8. Egli difese la sua prima causa nell'anno 81, cioè un anno dopo la famosa eruzione del Vesuvio, nella quale il suo zio perdè la vita.
59. Plin. Epist. X. 98. Tertulliano ( Apolog. c. 5 ) risguarda questo Rescritto, come un rilassamento delle antiche leggi penali quas Traianus ex parte frustratus est. Eppure Tertulliano in un altro luogo delle sue Apologie nota l'incoerenza di proibire le inquisizioni, e di ordinare i gastighi.
60. Eusebio ( Hist. Eccles. l. IV. c. 9 ) ci ha conservato l'editto di Adriano. Egli ce ne dà parimente uno ( c. 13 ) ancora più favorevole sotto nome di Antonino, del quale però non s'ammette così universalmente l'autenticità. La seconda Apologia di Giustino contiene alcune curiose circostanze relative alle accuse de' Cristiani.
61. Vedi Tertulliano ( Apolog. c. 40 ). Gli atti del martirio di Policarpo somministrano una viva pittura di tali tumulti, che per ordinario si fomentavano dalla malizia dei Giudei.
62. Questi regolamenti sono inseriti ne' soprammentovati Editti di Adriano e di Pio. Vedi l'Apologia di Melitone ( ap. Euseb. l. IV. c. 26 ).
63. Vedasi il rescritto di Traiano, e la condotta di Plinio. Gli atti più autentici de' Martiri abbondano di simili esortazioni.
64. In specie vedasi Tertulliano ( Apolog. c. 2 ) e Lattanzio ( Instit. Divin. V. 9. ) I raziocinj loro son quasi gl'istessi; ma si ravvisa bene, che il primo di questi Apologisti era stato un legale, ed il secondo un rettorico.
65. Vedansi due esempi di questa specie di tortura negli Atti Sinceri de' Martiri pubblicati dal Ruinart (p. 160-399.). Girolamo, nella sua Leggenda di Paolo Eremita, riporta una strana istoria d'un giovane, che fu legato nudo in un letto di fiori ed assalito da una bella e lasciva meretrice. Egli represse la tentazione lacerandosi co' denti la lingua.
66. La conversione della propria moglie provocò Claudio Erminiano, Governatore della Cappadocia, a trattare i Cristiani con straordinario rigore. Tertulliano ad Scapulam cap. 3.
67. Tertulliano, nella sua lettera al Governatore dell'Affrica, fa menzione di molti notabili esempi di lenità e di tolleranza, de' quali esso ebbe notizia.
68. Neque enim in universum aliquid, quod quasi certam formam habeat, constitui potest; espressione di Traiano che diede un largo campo alle operazioni de' Governatori delle Province.
69. In metalla damnamur, in insulas relegamur. Tertullian. Apolog. c. 12. Le miniere della Numidia contenevano nove Vescovi, con un numero de' loro Cherici e Popolo a proporzione, ai quali Cipriano mandò una pietosa lettera di consolazione o di lodi. Vedi Cipriano ( Epist. 76, 77. )
70. Quantunque non possiam prestare intera fede all'epistole, o agli atti d'Ignazio, che si trovano nel II tomo dei Padri Apostolici; pure possiam citare quel Vescovo d'Antiochia come uno di questi martiri condannati per esempio degli altri. Fu egli mandato in catene a Roma come ad un pubblico spettacolo; e quando arrivò a Troade, ricevè la piacevol notizia, che la persecuzione d'Antiochia era già terminata.
71. Fra' Martiri di Lione ( Euseb. l. V. c. 1 ) la schiava Blandina fu distinta co' più squisiti tormenti. De' cinque Martiri, sì celebri negli Atti di Felicita e Perpetua, due erano servi, e due altri di molto vil condizione.
72. Origen. adv. Celsum. ( l. III. p. 116. ). Le sue parole meritano d'essere trascritte. Ολιγοι κατα καιρους, καὶ σφοδρα ευαριθμητοι περι τῶν Χρισιανῶν θεοσεβειας τεθνηκασι.
73. Se noi riflettiamo, che tutti i plebei di Roma non eran Cristiani, e che tutti i Cristiani non eran santi nè martiri, possiam giudicare, con quanta certezza possano attribuirsi gli onori sacri a quelle ossa ed urne, che si prendono senza distinzione alcuna da' pubblici cimiteri. Dopo un libero ed aperto commercio, che se n'è fatto per dieci secoli, si è risvegliato qualche sospetto fra' più eruditi Cattolici. Al presente si richiedono, come una prova di santità e di martirio le Lettere R. M., una caraffa piena di liquor rosso, che si crede sangue o la figura di una palma. I due primi segni però son di piccolo peso, e quanto all'ultimo si osserva da' Critici 1. che quella che si dice figura d'una palma, è forse un cipresso o anche puramente un punto, o un intrecciamento di punteggiatura usato nelle iscrizioni sepolcrali; 2. che la palma era il simbolo della vittoria fra' Pagani; 3. che fra' Cristiani serviva come d'emblema non solo del martirio, ma anche di una gloriosa risurrezione in genere. Vedi la lettera del P. Mabillon sul culto de' Santi ignoti, ed il Muratori sopra le Antichità Italiane ( Dissert. LVIII. ).
74. Per dare un saggio di queste leggende, ci contenteremo de' diecimila soldati Cristiani fatti crocifiggere in un giorno da Traiano o da Adriano sul monte Ararat. Vedi Baronio ad Martyrol. Rom. Tillemont ( Mem. Eccles. Tom. II. P. II. p. 438. ) e le Miscellanee di Geddes vol. II. p. 203. L'abbreviatura MIL., che può significare tanto soldati che migliaia, dicesi, che abbia prodotto vari sbagli straordinari.
75. Vedi Dionisio ap. Euseb. l. VI. c. 41. Uno de' diciassette fu accusato ancora di furto.
76. Le lettere di Cipriano somministrano una molto curiosa ed original pittura sì di esso che de' suoi tempi. Vedansi parimente le due vite di Cipriano, scritte con ugual esattezza quantunque con mire assai differenti, l'una da Le Clerc ( Biblioth. univers. Tom. XII. p. 208-378. ) l'altra dal Tillemont (Memoir. Eccles. Tom, IV. part. I. p. 76-459 ).
77. Vedasi la civile ma severa lettera del Clero di Roma al Vescovo di Cartagine ( Cyprian. Epist. 8, 9. ) Ponzio pone la massima cura e diligenza in giustificare il suo maestro contro la general censura, che se gli faceva.
78. Specialmente quello di Dionisio di Alessandria, e di Gregorio Taumaturgo di Neocesarea. Vedi Euseb. ( H. E. lib. VI. c. 40 ) e le Memorie di Tillemont ( Tom. IV. Part. II. p. 685. ).
79. Vedi Cipriano, Epist. 16, e la vita che ne fece Ponzio.
80. Abbiamo una vita originale di Cipriano fatta dal Diacono Ponzio, compagno del suo esilio e spettatore della sua morte; e possediamo ancora gli antichi Atti Proconsolari del suo martirio. Questi due documenti son coerenti fra loro e probabili; e quel ch'è più osservabile, sono spogliati di qualunque circostanza maravigliosa.
81. Potrebbe parere, che questi fosser ordini circolari mandati a tutti i Governatori nel medesimo tempo. Dionisio ( ap. Euseb. l. VII. c. 11. ) racconta l'Istoria del proprio esilio da Alessandria, quasi nell'istessa maniera. Ma siccome egli evitò la morte, o sopravvisse alla persecuzione, si dee reputare o più o men fortunato di Cipriano.
82. Vedi Plinio, Hist. Nat. V. 3. Cellario Geogr. ant. ( Part. III. p. 96. ) i Viaggi di Shaw p. 90, e per l'adiacente paese (ch'è terminato dal Capo Bona, o dal promontorio di Mercurio) l'Affrica di Marmol ( Tom. II. p. 474. ). Si trovano ivi i residui di una acquedotto vicino a Curubis, o Curbis presentemente mutato in Gurbes; ed il D. Shaw lesse un'iscrizione, che chiama quella città Colonia Fulvia. Il Diacono Ponzio ( in vit. Cypriani c. 12 ) l'appella apricum et competentem locum, hospitium pro voluntate secretum, et quidquid apponi eis ante promissum est, qui regnum et justitiam Dei quaerunt.
83. Vedi Cipriano ( Epist. 77. Edit. Fell. )
84. Nell'atto della sua conversione aveva egli venduto quei giardini per benefizio de' poveri. La bontà di Dio (probabilissimamente la liberalità di alcuni amici Cristiani) li restituì a Cipriano. Vedi Ponzio c. 15.
85. Quando Cipriano un anno avanti era stato mandato in esilio, sognò che sarebbe stato posto a morte nel seguente giorno. L'evento fece spiegare quella parola come indicante un anno. Vedi Ponzio. c. 12.
86. Ponzio (c. 15) confessa che Cipriano, col quale cenò egli stesso, passò la notte custodia delicata. Il Vescovo esercitò l'ultimo atto di giurisdizione molto a proposito, disponendo, che le giovani donne, che vegliavano nella strada, fossero allontanate dal pericolo, e dalle tentazioni di una folla notturna. Act. Proconsolar. c. 2.
87. Vedasi negli Atti c. 4, ed appresso Ponzio c. 17, la sentenza originale. Quest'ultimo l'esprima in un modo oratorio.
88. Vedi Ponzio c. 19. Al Tillemont ( Memoir. Tom. IV. Part. I p. 450 nat. 50 ) non piace una così positiva esclusione di ogni Martire di grado Episcopale più antico.
89. Qualunque sia l'opinione che possiamo avere del carattere o de' principj di Tommaso Becket, bisogna confessare ch'egli soffrì la morte con una costanza non indegna de' primitivi Martiri. Vedi Lord Lyttelton Istor. di Enrico II. ( Tom. II. p. 592 ec. ).
90. Vedasi particolarmente il trattato di Cipriano de Lapsis p. 87-98. Ediz. Fell. L'erudizione di Dodwell ( Dissert. Cyprian. XII. XIII. ) e l'ingenuità di Middleton ( Ricerca libera p. 162 ec. ) non hanno lasciato cosa da aggiungere intorno al merito, agli onori, ed ai motivi de' Martiri.
91. Vedi Cipriano Epist. 5, 6, 7, 22, 24 e de unit. Eccles. Il numero de' pretesi Martiri si è moltiplicato assaissimo per l'uso, che fu introdotto, di dare quest'onorevole nome a' Confessori.
92. Certatim gloriosa in certamina ruebatur; multoque avidius tum martiria gloriosis motibus quaerebantur, quam nunc Episcopatus pravis ambitionibus appetuntur. Sulpic. Sever. l. II. Egli poteva omettere la parola nunc.
93. Vedi Epist. ad Rom. c. 4, 5 ap. Patres Apostol. ( Tom. II. p. 27. ). Era confacente al proposito del Vescovo Pearson ( Vindic. Ignatian. part. II. c. 9 ) di giustificare con profusione di esempi e di autorità i sentimenti d'Ignazio.
94. L'Istoria di Polieuto, sulla quale Cornelio ha formato una bellissima tragedia, è uno de' più celebri, quantunque non de' più autentici esempi di questo eccessivo zelo. Noi dobbiam osservare, che il canone 60 del Concilio d'Elvira nega il titolo di martiri a quelli che si esponevano alla morte col pubblicamente distruggere gl'Idoli.
95. Vedi Epitteto l. IV. c. 7, e (sebbene vi sia qualche dubbio, s'egli alluda a' Cristiani) Marco Antonino de rebus suis ( l. XI. c. 3. ) Lucian. in Peregrin.
96. Tertullian. ad Scapul, c. 5. Gli eruditi son divisi fra tre dell'istesso nome, che furon Proconsoli d'Asia. Io sono inclinato ad attribuire questo fatto ad Antonino Pio, che poi fu Imperatore, e che può aver governato l'Asia sotto Traiano.
97. Mosem. de rebus Christ. ante Constant. p. 235.
98. Vedi l'epistola della Chiesa di Smirne ap. Euseb. Hist. Eccl. ( l. IV. c. 15).
99. Nella seconda Apologia di Giustino si trova un esempio speciale e molto curioso di questa legal dilazione. Il medesimo fu concesso a' Cristiani accusati nella persecuzione di Decio; e Cipriano ( de Lapsis ) fa espressa menzione del dies negantibus praestitutus.
100. Tertulliano risguarda la fuga dalla persecuzione come un'imperfetta, sebbene assai colpevole, apostasia, come un empio tentativo di eludere la volontà di Dio ec. Egli ha scritto un trattato su tal proposito (Vedi p. 536-544. Edit. Rigalt. ). che è pieno del più fiero fanatismo e della più incoerente declamazione. Merita però qualche attenzione il vedere che Tertulliano medesimo non sofferse il martirio.
101. I Libellatici, che sono specialmente noti per le opere di Cipriano, vengono descritti con la massima precisione nel copioso commentario di Mosemio p. 48, 489.
102. Vedi Plinio ( Epist. X. 97.) Dionisio Alessandrino. ap. Euseb.(l. VI. c. 41.) Ad prima statim verba minantis inimici maximus fratrum numerus fidem suam prodidit: nec prostratus est persecutionis impetu, sed voluntario lapsu seipsum prostravit. Cyprian. oper. p. 89. Fra questi disertori trovaronsi molti Preti ed anche Vescovi.
103. Fu in quest'occasione, che Cipriano scrisse il suo trattato de Lapsis, e molt'epistole. Fra' Cristiani del secolo antecedente non si trova la controversia intorno al trattamento degli apostati penitenti. Dobbiamo noi attribuirlo alla superiorità della fede e coraggio di essi, od alla più scarsa cognizione, che abbiamo della loro Istoria?
104. Vedi Mosemio p. 97. Sulpicio Severo fu il primo autore di questo computo, quantunque sembri, che desideri di riservar la decima e maggiore persecuzione per la venuta dell'Anticristo.
105. Della testimonianza, che fece Ponzio Pilato si fa menzione per la prima volta da Giustino. I successivi accrescimenti fatti a quell'Istoria (nel passare ch'ella fece per le mani di Tertulliano, di Eusebio, di Epifanio, di Grisostomo, di Orosio, di Gregorio Turonense, e degli autori di molte edizioni degli Atti di Pilato) sono esattamente fissati dal Calmet; Dissertazioni sulla Scrittura ( Tom. III. p. 651. ec. ).
106. Rispetto a questo miracolo, come si dice comunemente della Legione fulminea, vedasi l'ammirabil critica di Moyle Vol. II. p. 81-390 delle sue opere.
107. Dione Cassio, o piuttosto l'abbreviatore di lui Sifilino, l. LXXII. p. 1206. Moyle ha esposto lo stato della Chiesa nel Regno di Commodo.
108. Si confronti la vita di Caracalla nell'Istoria Augusta con la lettera di Tertulliano a Scapula. Il Dottore Jortin ( Osservaz. sull'Istor. Ecclas. Vol. II. p. 5. ) risguarda la cura di Severo per mezzo dell'olio santo con gran desiderio di convertirla in un miracolo.
109. Tertulliano De Fuga, c. 13. Il dono si faceva in occasione delle feste de' Saturnali; ed è un soggetto di grand'importanza per Tertulliano, che il Fedele dovesse restar confuso con quelli, ch'esercitando le professioni più infami, accattavano la connivenza del Governo.
110. Euseb. l. V. c. 23. 24. Mosem. p. 435, 447.
111. Judaeos fieri sub gravi poena vetuit. Idem etiam de Christianis sanxit. Hist. Aug. p. 70.
112. Sulpic. Sever. l. II. p. 384. Questo computo (fattavi una sola eccezione) vien confermato dall'istoria d'Eusebio e dalle opere di Cipriano.
113. Si discute l'antichità delle Chiese Cristiane dal Tillemont ( Memoir. Eccles. Tom. III. part. II. p. 68-72 ) e dal Moyle ( Vol. I. p. 378-398 ). Quegli riferisce la prima costruzione di esse alla pace di Alessandro Severo; questi alla pace di Gallieno.
114. Vedi l'Istoria Augusta p. 130. L'Imperator Alessandro adottò il loro metodo di proporre pubblicamente i nomi di quelle persone, che dovevan promuoversi agli Ordini. È vero però che l'onore di tal costume si attribuisce ancora agli Ebrei.
115. Vedi Eusebio Hist. Eccl. l. VI. c. 21 e Girolamo de script. Eccl. c. 54. Mammea fu chiamata una santa e pia donna sì da' Cristiani che da' Pagani. Da' primi però era impossibile, che essa potesse meritar quell'onorevol epiteto.
116. Vedi L'Istoria Augusta p. 123. Sembra, che Mosemio ( p. 465 ) troppo nobiliti la domestica religione d'Alessandro. Il suo disegno di fabbricare un pubblico tempio a Cristo ( Hist. Aug. p. 129 ) e le obbiezioni, che furon suggerite o ad esso, o in simili circostanze ad Adriano, par che non abbiano avuto altro fondamento, che un improbabil racconto inventato da' Cristiani, ed adottato con troppa credulità da un Istorico del tempo di Costantino.
117. Euseb. l. VI. c. 28. Si può presumere che i buoni successi de' Cristiani avessero commosso ad ira l'ipocrita devozione de' Pagani che sempre andava crescendo. Dione Cassio, il quale compose la sua Storia sotto il regno anteriore, destinava molto probabilmente ad uso del suo Sovrano que' consigli ch'egli attribuiva ad una migliore età ed al favorito di Augusto. Intorno a quest'orazione di Mecenate, o per dir meglio, di Dione, posso riferire il lettore all'imparziale opinione che ne ho portato io medesimo (Vol. I N. 25), ed all'abbate De la Bleterie ( Mem. de l'Acad. t. XXIX. p. 303. t. XXV. p. 432 ).
118. Orosio ( l. 7. c. 19 ) rappresenta Origene come l'oggetto dell'odio di Massimino; e Firmiliano, Vescovo di Cappadocia in quel tempo, dà una giusta e ristretta idea di questa persecuzione. Vedi Cipriano ( Epist. 75. ).
119. La menzione che si fa di que' Principi, che pubblicamente si supponevan Cristiani, quale si trova in una lettera di Dionisio Alessandrino ( ap. Euseb. l. VII. c. 10 ) evidentemente allude a Filippo ed alla sua famiglia, ed è una testimonianza contemporanea, che tal opinione aveva preso vigore; ma il Vescovo Egiziano, che viveva in una umile distanza dalla corte di Roma, si esprime con una giusta diffidenza rispetto alla verità del fatto. Le lettere d'Origene che sussistevano al tempo d'Eusebio ( Vedi l. VI. c. 36 ) probabilmente deciderebbero questa più curiosa che importante questione.
120. Euseb. l. VI. c. 34. L'istoria è stata abbellita, secondo il solito, da' successivi scrittori, ed è confutata con sovrabbondante erudizione da Federigo Spanemio ( Oper. var. Tom. II. p. 440 ec. ).
121. Lactant. de Mortib. Persec. c. 3, 4. Dopo aver celebrato la felicità e l'avanzamento della Chiesa, durante una lunga successione di buoni Principi, soggiunge: Extitit post annos plurimos execrabile animal, Decius, qui vexaret Ecclesiam.
122. Euseb. l. VI. c. 39. Cyprian. Epist. 55. Rimase vacante la Sede Romana dal martirio di Fabiano, che seguì nei 20 di Gennaio dell'anno 250, fino all'elezion di Cornelio fatta ne' 4 Giugno del 251. Decio era probabilmente partito da Roma, giacchè fu ucciso avanti la metà di quell'anno.
123. Vedi Eusebio l. VII. c. 10. Mosemio (p. 548) ha dimostrato molto chiaramente, che il Prefetto Macriano ed il Mago Egizio sono un'istessa persona.
124. Eusebio ( l. VII. c. 13 ) ci dà una versione Greca di quest'editto Latino, che sembra essere stato molto conciso. Per mezzo di un altro Editto Gallieno comandò, che si restituissero a' Cristiani i Cimiteri.
125. Vedi Eusebio l. VII. c. 30. Lattanzio de Mort. Persecut. c. 6. S. Girolamo in Chron. p. 177. Oros. l. VII. c. 23. Il lor linguaggio è generalmente sì ambiguo e scorretto, che non sappiamo determinare fino a qual segno Aureliano estendesse le sue intenzioni avanti che fosse assassinato. Moltissimi fra i moderni eccettuato Dodwell ( Dissert. Cyprian. XI. 64.) hanno preso di qui l'occasione di guadagnare alcuni pochi Martiri straordinari.
126. Paolo si compiaceva più del titolo di Ducenario che di quello di Vescovo. Il Ducenario era un procuratore Imperiale, così chiamato dal suo salario di dugento sesterzi, o di tremila dugento zecchini l'anno. (Vedi Salmasio ad Hist. Aug. p. 124 ) Alcuni Critici suppongono, che il Vescovo d'Antiochia realmente avesse ottenuto quell'uffizio da Zenobia, mentre altri non lo considerano che come un'espressione figurata del suo fasto ed insolenza.
127. La simonia non era incognita in que' tempi ed il Clero alle volte comprava quel che avea intenzione di vendere. Ciò si chiarisce dal Vescovato di Cartagine, che fu comprato da una ricca Matrona chiamata Lucilla, per il suo servo Maiorino. Il prezzo, fu di 400 Folli ( Monum. antiq. ad calcem Optati p. 263. ) Ogni Folle conteneva 125 monete d'argento, e può valutarsi tutta la somma circa 4800 zecchini.
128. Se volessimo diminuire i vizi di Paolo, saremmo costretti a sospettare, che i Vescovi dell'Oriente, adunati insieme, avessero pubblicato le più maliziose calunnie in una lettera circolare mandata a tutte le Chiese dell'Impero ( ap. Euseb. l. VII. c. 30 ).
129. La sua eresia (come quelle di Noeto e di Sabellio, che insorsero nel medesimo secolo) tendeva a confondere la misteriosa distinzione delle persone Divine. Vedi Mosemio p. 720. ec.
130. Vedi Eusebio ( Hist. Eccl. l. VII. c. 30 ). Ad esso è interamente dovuta la curiosa istoria di Paolo Samosateno.
131. L'Era de' Martiri, ch'è sempre in uso fra' Copti e gli Abissinj, dee computarsi dal 29 Agosto dell'anno 284, perchè il principio dell'anno Egiziano cadeva diciannove giorni prima del reale avvenimento al trono di Diocleziano. Vedasi la Dissertazione preliminare all'Arte di verificar le date.
132. L'espressione di Lattanzio ( de M. P. c. 15 ) sacrificio pollui coegit suppone l'antecedente lor conversione alla fede, ma non par che giustifichi l'asserzione di Mosemio ( p. 192 ), ch'esse privatamente si fossero battezzate.
133. Il Tillemont ( Memoir. Eccles. Tom. V. Part. I. p. 11, 12 ) ha tratto dallo Spicilegio di Don Luca d'Acheri un'istruzione molto curiosa, che fece il Vescovo Teona per uso di Luciano.
134. Vedi Lattanzio de M. P. c. 10.
135. Euseb. Hist. Eccl. l. VIII c. 1. Il lettore, che voglia consultare l'originale non mi accuserà di avere ingrandito la pittura. Eusebio aveva circa sedici anni, quando Diocleziano fu fatto Imperatore.
136. Noi potremmo addurre fra' moltissimi esempi il misterioso culto di Mitra, ed il Taurobolia, essendo quest'ultimo divenuto alla moda nel tempo degli Antonini. Vedi una Dissertazione di Deboze nelle memorie dell'Accademia delle Iscrizioni ( Tom. II. p. 443 ). Il romanzo d'Apuleio è pieno sì di devozione che di satira.
137. L'impostore Alessandro con molta forza raccomandò l'oracolo di Trofonio in Mallos, e quelli di Apollo in Claro e in Mileto ( Lucian. Tom. II. p. 236. Edit. Reitz. ). Quest'ultimo, l'istoria singolare del quale potrebbe somministrare un episodio molto curioso, fu consultato da Diocleziano, avanti ch'ei pubblicasse i suoi editti della persecuzione ( Lactant. de M. P. c. 11 ).
138. Oltre le antiche istorie di Pitagora e d'Aristeo, frequentemente si opponevano a' miracoli di Cristo le cure fatte al Santuario d'Esculapio, e le favole attribuite ad Apollonio di Tiane; quantunque io convenga col D. Lardner. (Vedi Testim. Vol. III. p. 252, 352 ), che quando Filostrato scrisse la vita d'Apollonio, non ebbe tal intenzione.
139. Egli è molto da dolersi, che i Padri Cristiani, ammettendo la parte soprannaturale, o com'essi credono, infernale del Paganesimo, con le proprie lor mani distruggano il gran vantaggio, che altrimenti noi potremmo trarre dalle generose concessioni de' nostri avversari.
140. Giuliano ( p. 301 Edit. Spanhem. ) dimostra una devota gioia, perchè la providenza degli Dei avesse estinte l'empie Sette, e per la maggior parte distrutti i libri de' Pirronei e degli Epicurei; ch'erano assai numerosi, mentre il solo Epicuro non compose meno di 300 volumi. Vedi Diogene Laerzio l. X. c. 26.
141. Cumque alios audiam mussitare indignanter, et dicere oportere statui per Senatum, aboleantur ut haec scripta, quibus Christiana religio comprobetur, et vetustatis opprimatur auctoritas. Arnob. adv. Gentes l. III p. 103, 104. Egli aggiunge molto assennatamente: Erroris convincite Ciceronem.... nam intercipere scripta, et publicatam velle submergere lectionem, non est Deum defendere, sed testificationem timere.
142. Lattanzio ( Div. Inst. l. V. c. 2, 3 ) fa una molto chiara ed ingegnosa istoria di due di questi filosofi, nemici della Fede. Il vasto trattato di Porfirio contro i Cristiani era composto di trenta libri, e fu scritto in Sicilia circa l'anno 270.
143. Vedi Hist. Eccl. l. I. c. 9. ed il Cod. Teodos. l. I. Tit. I. l. 3.
144. Eusebio ( l. VIII. c. 4. c. 17 ) determina il numero de' martiri militari con la seguente notevole espressione σπανιως τουτων εις που καὶ δευτερος, di cui non hanno renduta la forza nè il Traduttore Latino, nè il Francese. Nonostante l'autorità d'Eusebio, ed il silenzio di Lattanzio, di Ambrogio, di Sulpicio, d'Orosio ec. si è per lungo tempo creduto, che la legione Tebea, composta di 6000 Cristiani, soffrisse il martirio per ordine di Massimiano nella valle delle alpi Pennine. Ne fu per la prima volta pubblicata l'istoria, verso la metà del quinto secolo, da Eucherio Vescovo di Lione, che l'ebbe da certe persone, alle quali era stata comunicata da Isacco Vescovo di Ginevra, che si dice averla ricevuta da Teodoro Vescovo d'Ottoduro. Tuttavia sussiste l'Abbazia di S. Maurizio, ricco monumento della credulità di Sigismondo Re di Borgogna. Vedasi un'eccellente dissertazione nel Tomo XXXIV. della Bibliothèque raisonnée p. 427-454.
145. Vedi Acta Sincera p. 299. Le istorie del martirio di lui e di Marcello portano qualche carattere di verità e di autenticità.
146. Act. Sincer. p. 302.
147. De M. P. c. II. Lattanzio (o chiunque siasi l'autore di questo piccol trattato) aiutava a quel tempo in Nicomedia; ma sembra difficile immaginare com'egli potesse acquistare una cognizione così esatta di ciò che seguiva nel gabinetto Imperiale.
148. L'unica circostanza, che possiam ravvisare, è la devozione e la gelosia della madre di Galerio. Essa ci viene descritta da Lattanzio come Deorum montium cultrix, mulier admodum superstitiosa. Aveva essa una grande autorità sopra il figlio, ed era offesa dalla poca stima di alcune delle sue serve Cristiane.
149. Il culto e la festa del Dio Termine elegantemente si illustrano dal De Boze ( Mem. de l'Accademie des Inscriptions Tom. I. p. 50.).
150. Nell'unico manoscritto, che abbiamo di Lattanzio, si legge profectus; ma la ragione, e l'autorità di tutti i Critici permettono di sostituir praefectus, in luogo di quella parola che distrugge il senso del passo.
151. Lattanzio ( de M. P. c. 12 ) fa una pittura molto viva della distruzion della Chiesa.
152. Mosemio ( p. 922-926 ) da molti luoghi sparsi di Lattanzio e d'Eusebio ha rilevato una molto giusta ed esatta notizia di quest'editto, sebbene qualche volta egli dia in congetture e sottigliezze.
153. Molti secoli dopo, Eduardo I. praticò con gran successo l'istessa forma di persecuzione contro il Clero d'Inghilterra. Vedi Hume, Ist. d'Ingh. Vol. I. p. 300 dell'ultima edizione in 4.
154. Lattanzio solamente lo chiama quidquam etsi non recte, magno tamen animo ec. c. 12. Eusebio ( l. VIII. c. 5 ) l'adorna degli onori secolari. Nessuno si è avvisato di far menzione del suo nome; i Greci però celebrano la memoria di lui sotto il nome di Giovanni. Vedi Tillemont, Mem. Eccles. Tom. V. p. II. p. 320.
155. ( Lactant. de M. P. c. 13, 14. ) Potentissimi quondam eunuchi necati, per quos Palatium et ipse constabat. Eusebio ( l. VIII. c. 6. ) racconta le crudeli esecuzioni degli eunuchi Gorgonio, e Doroteo, e di Antimio Vescovo di Nicomedia; ed ambidue questi Autori descrivono in un'equivoca ma tragica forma le orride scene, che furono rappresentate anche alla presenza Imperiale.
156. Vedi Lattanzio, Eusebio, e Costantino ad Coetum sanctorum c. 25. Eusebio confessa la sua ignoranza intorno alla ragione del fuoco.
157. Tillemont Memoir. Eccl. Tom. V. Part. 1. p. 43.
158. Vedi Act. Sincer. Ruinart. p. 353. Quelli di Felice di Tibara, o di Tibur sembrano assai meno corrotti, che nelle altre edizioni, le quali somministrano un vivo saggio della licenza propria delle leggende.
159. Vedi il primo libro di Ottato Mellevitano contro i Donatisti dell'ediz. del Dupin; Parigi 1700. Egli fiorì nel regno di Valente.
160. Le memorie antiche, pubblicate al fine delle Opere di Ottato, ( p. 261 ) descrivono in una maniera molto circostanziata come procedevano i Governatori nella distruzion delle Chiese. Facevano essi un minuto inventario de' vasi che vi trovavano. Sussiste ancora quello della Chiesa di Cirra nella Numidia: consisteva in due calici d'oro e sei d'argento, in sei urne, una caldaia, sette lampade, il tutto parimente d'argento, oltre una gran quantità di utensili di rame e di vestimentî sacri.
161. Lattanzio ( Instit. Div. V. II ) restringe tal calamità al conventiculum con la sua congregazione. Eusebio ( VIII. 11 ) l'estende a tutta la città, e rappresenta qualche cosa di simile ad un assedio regolare. Ruffino, antico di lui traduttore Latino, aggiunge alcune importanti circostanze intorno alla permissione accordata agli abitanti di ritirarsi. Siccome la Frigia s'estendeva sino a' confini dell'Isauria, può essere, che l'indole inquieta di que' Barbari indipendenti contribuisse alla lor disgrazia.
162. Eusebio l. VIII. c. 6. Il Valese (con qualche probabilità) pensa d'avere scoperta in un'orazion di Libanio la ribellione della Siria; e ch'essa fu un temerario attentato del Tribuno Eugenio, il quale con soli cinquecento uomini occupò Antiochia, e potè forse lusingare i Cristiani con la promessa di tollerare la religione. Da Eusebio ( l. IX. c. 8 ) e da Mosè di Corene ( Hist. Armen. l. II. c. 77 ) può rilevarsi ch'era già stato introdotto nell'Armenia il Cristianesimo.
163. Vedi Mosem. ( p. 938. ) Il testo d'Eusebio chiaramente dimostra, che i Governatori, de' quali fu esteso, non già ristretto il potere, in forza delle nuove leggi potevan condannare alla morte i più ostinati Cristiani per servir d'esempio a' lor confratelli.
164. Atanasio p. 833. ap. Tillemont. Mem. Eccles. Tom. V. part. I. p. 90.
165. Vedi Euseb. ( l. VIII. c. 13. ) e Lattanz. de M. P. c. 15. Dodwel ( Dissert. Cyprian. XI. 75 ) rappresenta quegli Scrittori come non coerenti fra loro. Ma il primo evidentemente parla di Costanzo, quando era Cesare, e l'altro del medesimo Principe innalzato al grado d'Augusto.
166. Dalle Inscrizioni di Grutero apparisce, che Daziano determinò i confini fra' territorj di Pax Julia e di Evora, città situate nella parte meridionale della Lusitania. Se riflettiamo alla vicinanza, in cui sono questi luoghi col Capo S. Vincenzo, possiam sospettare, che il celebre Diacono e Martire di questo nome, per negligenza da Prudenzio si ponga in Saragozza, o in Valenza. Vedasi la pomposa istoria de' suoi patimenti nelle memorie di Tillemont Tom. V. Part. II. p. 58-85. Alcuni Critici son d'opinione, che il dipartimento di Costanzo, come Cesare, non includesse la Spagna, la quale continuasse ad essere sotto l'immediata giurisdizione di Massimiano.
167. Euseb. l. VIII. c. 2. Gruter. Inscr. p. 1171. n. 18. Ruffino ha sbagliato intorno all'uffizio di Adautto, ugualmente che intorno al luogo del suo martirio.
168. Euseb. l. VIII, c. 14. Ma siccome Massenzio fu vinto da Costantino, faceva a proposito per Lattanzio di por la sua morte fra quelle de' persecutori.
169. Può vedersi l'epitaffio di Marcello appresso il Grutero Inscr. p. 1172. n. 3. Esso contiene tutto ciò, che noi sappiamo della sua storia. Molti Critici suppongono che Marcellino o Marcello, i nomi de' quali si trovano nella lista dei Papi, sian persone diverse, ma il dotto Abate De Longuerre si convinse ch'essi non erano che una sola persona.
Veridicus rector lapsis quia crimina flere
Praedixit miseris, fuit omnibus hostis amarus.
Hinc furor, hinc odium; sequitur discordia, lites,
Seditio, caedes: solvuntur foedera pacis.
Crimen ob alterius, Christum qui in pace negavit
Finibus expulsus patriae est feritate Tyranni.
Haec breviter Damasus voluit comperta referre.
Marcelli popolus meritum cognoscere posset.
Possiam osservare che Damaso fu fatto Vescovo di Roma l'anno 366.
170. Optat. contr. Donatist. l. I. c. 17, 18.
171. Gli Atti della passione di S. Bonifazio, che abbondano di miracoli e di declamazioni, furon pubblicati dal Ruinart p. 283, 291 in Greco e in Latino, sull'autorità di un manoscritto molto antico.
172. Ne' primi quattro secoli si trovano poche tracce di Vescovi o di Vescovati nell'Illirico Occidentale. Si è creduto probabile, che il Primate di Milano estendesse la sua giurisdizione fino a Sirmio, capitale di quella gran Provincia. Vedasi la Geografia sacra di S. Paolo p. 68-76 con le Osservazioni di Luca Holstenio.
173. L'ottavo libro d'Eusebio, ed il supplemento intorno ai Martiri di Palestina, si riferiscono principalmente alla persecuzione di Galerio e di Massimino. I lamenti generali, coi quali dà principio Lattanzio al quinto libro delle sue Instituzioni Divine, alludono alla lor crudeltà.
174. Eusebio ( l. VIII. c. 17 ) ci ha dato una versione Greca, e Lattanzio ( De M. P. c. 34 ) l'originale Latino di questo memorabil editto. Sembra, che nessuno di questi scrittori abbia pensato quanto ciò direttamente s'opponga a quel ch'essi hanno poco avanti affermato de' rimorsi e del pentimento di Galerio.
175. Eusebio ( l. IX. c. 1 ) riporta l'epistola del Prefetto.
176. Vedi Eusebio l. VIII. c. 14. l. IX. c. 2-8. e Lattanzio de M. P. c. 36. Questi scrittori convengono in descrivere gli artifizi di Massimino; ma il primo riferisce l'esecuzione di varj Martiri, mentre l'altro afferma espressamente che occidi servos Dei vetuit.
177. Pochi giorni avanti la sua morte pubblicò un amplissimo editto di tolleranza, nel quale attribuì tutti i rigori, che avevan sofferto i Cristiani, ai Giudici e Governatori, che avevano male inteso le sue intenzioni. Vedasi l'editto ap. Euseb. l. IX. c. 10.
178. Tale è la bella deduzione che si trae da due passi notabili appresso Eusebio l. VIII. c. 2, e de Martyr. Palest. c. 12. La prudenza dell'Istorico ha esposto il suo carattere alla censura ed al sospetto. Era ben noto, ch'egli stesso era stato posto in carcere, e si supponeva che se ne fosse liberato per mezzo di qualche disonorevole compiacenza. Tal accusa gli fu mossa contro nel tempo ch'esso viveva, ed anche alla sua presenza nel Concilio di Tiro. Vedi Tillemont Mem. Eccles. Tom. VIII. Part. 1. p. 67.
179. L'antica, e forse autentica narrazione de' patimenti di Taraco, e de' suoi compagni ( Act. Sincer. Ruinart. p. 419-448 ) è piena di forti espressioni di disprezzo e di sdegno, che non potevano non irritare il Magistrato. La condotta di Edesio verso Jerocle, Prefetto dell'Egitto, fu anche più straordinaria. λογοις τε καὶ εργοις τον θικαστην... περιβαλων. Euseb. de Martyr. Palest. c. 5.
180. Euseb. de Mart. Palest. c. 13.
181. August. Collat. Cartag. Dei III. c. 13. ap. Tillemont Mem. Eccles. Tom. V. part. I. p. 46. La controversia co' Donatisti ha sparso qualche luce, quantunque forse parziale, sull'istoria della Chiesa Affricana.
182. Eusebio ( de Martyr. Palest. c. 13 ) chiude la sua narrazione assicurandoci, che questi sono i Martirj, che avvennero nella Palestina in tutto il corso della persecuzione. Può sembrare, che il quinto capitolo del suo libro VIII, che si riferisce alla Provincia della Tebaide in Egitto, contraddica la nostra moderata calcolazione; ma questo non servirà che a farci ammirare l'artifizioso maneggio dell'Istorico. Scegliendo per teatro della più squisita crudeltà il più distante e separato paese del Romano Impero, dice che nella Tebaide spesso avevan sofferto il Martirio da dieci fino a cento persone in un giorno. Ma quando egli viene a raccontar il suo proprio viaggio in Egitto, il suo stile insensibilmente diventa più cauto e moderato. Invece di usare un grande ma determinato numero, parla di molti Cristiani (πλειους) e col massimo artifizio sceglie due parole ambigue (ισ ορτσαηιεν e ὑπμειναστας) che possono indicare tanto quel che aveva veduto, quanto ciò che aveva udito; sì l'aspettazione che l'esecuzion della pena. Essendosi così assicurato un sotterfugio, lascia l'interpretazione dell'equivoco passo a' suoi lettori e traduttori; immaginando a ragione che la lor pietà gl'indurrebbe a preferir il senso più favorevole. Fu per avventura un poco maliziosa l'osservazione di Teodoro Metochita, che tutti quelli che avevan conversato, come Eusebio, con gli Egiziani, si dilettavano di uno stile oscuro ed ingrato (Vedi Valesio nel luogo cit.).
183. Quando la Palestina era divisa in tre parti, la Prefettura d'Oriente conteneva 48 Province. Siccome però le antiche distinzioni delle nazioni erano da gran tempo abolite, i Romani distribuirono le Province, avuto riguardo ad una general proporzione di loro estensione ed opulenza.
184. Ut gloriari possint, nullum se innocentium peremisse, nam et ipse audivi aliquos gloriantes, quia administratio sua in hac parte fuerit incruenta. Lactant. Inst. Div. V. 12.
185. Grot. Annal de Reb. Belgic. l. I. p. 12. Edit. fol.
186. Fra Paolo ( Istor. del Concil. Trident. l. III. ) riduce il numero de' Martiri Belgici a 50000. Non era Fra Paolo inferiore a Grozio in dottrina e moderazione. L'anteriorità del tempo conferisce alla testimonianza del primo qualche vantaggio, che per altra parte egli perde per la distanza, che passa da Venezia a' Paesi Bassi.
187. Polibio ( l. IV. p. 423 ) dell'edizione del Casaubono. Egli osserva che la pace de' Bizantini spesso era disturbata, e ristretta l'estensione del lor territorio dalle scorrerie dei Barbari della Tracia.
188. La città fu fondata 656 anni avanti l'Era Cristiana da Biza, uomo di mare, che si diceva figlio di Nettuno. I suoi seguaci eran venuti da Argo e da Megara. Fu in seguito rifabbricato e fortificato Bizanzio da Pausania, generale Spartano. Vedi Scaligero animad. ad Euseb. p. 81. Ducange Constantinopolis l. 1. part. 1. c. 15, 16. Quanto alle guerre dei Bisantini contro Filippo, i Galli ed i Re della Bitinia non si dee prestar fede, che agli antichi scrittori i quali vissero prima che la grandezza della città Imperiale suscitasse lo spirito di adulazione e di falsità.
189. Il Bosforo è stato molto minutamente descritto da Dionisio di Bisanzio, che visse a' tempi di Diocleziano (Hudson Georg. Minor. Tom. III. ), e da Gilles o Gillio viaggiatore Francese del XVI. Secolo. Sembra, che Turnefort ( Lett. XV. ) siasi servito de' suoi propri occhi e dell'erudizione di Gillio.
190. Ben poche congetture sono così felici, come quella del Le Clerc, il quale suppone ( Biblioth. univ. Tom. I. p. 248 ) che le arpie non fossero che locuste. Il nome Siriaco o Fenicio di quest'insetti, il ronzio che fanno nel volare, il fetore e la devastazione che producono, ed il vento settentrionale, che li trasporta verso il mare, tutto contribuisce a stabilire questa probabilissima somiglianza.
191. Amico risedeva in Asia fra le antiche e le nuove rocche, in un luogo chiamato Laurus insana; e Fineo in Europa vicino al villaggio di Mauramolo ed al Mar Nero. Vedi Gyll. de Bosphor. l. III. c. 23. Tournefort Lett. XV.
192. L'inganno proveniva da varie punte di scogli alternativamente coperte ed abbandonate dalle onde. Al presente non sono che due piccole isole situate in vicinanza de' due contrari lidi; quella d'Europa è distinta per la colonna di Pompeo.
193. Gli antichi la facevano di 120 stadi, o di quindici miglia Romane. Essi cominciavano a misurar lo stretto dalle nuove fortezze, ma lo continuavano fino alla città di Calcedone.
194. Ducas Hist. c. 34. Leunclav. Hist. Turc. Musulmanic. l. XV. p. 577. Sotto l'Impero Greco, queste fortezze servivano per li prigionieri di Stato col tremendo nome di Lete e di torri dell'obblivione.
195. Serse fece imprimere sopra due colonne di marmo in lettere Greche ed Assirie i nomi delle nazioni a lui sottoposte ed il sorprendente numero delle sue fortezze terresti e marittime. I Bizantini dipoi trasportarono queste colonne dentro la città, e se ne servirono per altari delle tutelari loro Divinità. Herodot. l. IV. c. 37.
196. Namque arctissimo inter Europam Asiamque divortio Bysantium in extrema Europa posuere Graeci, quibus Pythium Apollinem consulentibus, ubi conderent urbem, redditum oraculum est, quaererent sedem coecorum terris adversam. Ea ambage Chalcedonis monstrabantur, quod priores illuc advecti, praevisa locorum utilitate pecora legissent. Tacit. Annal. XII. 62.
197. Strab. l. X. p. 492. Presentemente se ne son tagliati molti rami, o per parlare meno figuratamente, molti seni del porto si son ripieni. Vedi Gyll. de Bosph. Thrac. l. I. c. 3.
198. Procop. de adific. l. I. c. 5. La sua descrizione vien confermata da' viaggiatori moderni. Vedi Thevenot. P. I. l. I. c. 15. Tournefort lett. XII. Niebuhr viagg. d'Arab. p. 22.
199. Vedi Ducange C. l. I. P. I. c. 16. e le sue osservazioni sopra Villehardouin p. 289. Fu tirata una catena da Acropoli vicino al moderno Kiosco fino alla torre di Galata ed era sostenuta a convenienti distanze da grossi pali di legno.
200. Thevenot ( viagg. in Levante P. I. l. I. c. 14) ne riduce la misura a 125 piccole miglia Greche. Belon ( Observat. l. I. c. 1) dà una buona descrizione della Propontide, ma si contenta dell'indeterminata espressione di una giornata e mezzo di cammino. Dove Sandys ( viag. p. 21) parla di 150 stadi tanto in lungo che in largo, non può supporsi che un error di stampa nel testo di questo giudizioso viaggiatore.
201. Vedasi un'ammirabile dissertazione del Dauville sopra l'Ellesponto e i Dardanelli, nelle Memorie dell'Accademia delle Iscrizioni Tom. XXVIII. p. 318-346. Pure anche quell'ingegnoso Geografo è troppo inclinato a supporre delle nuove e forse immaginarie misure, ad oggetto di render gli antichi scrittori tanto esatti, quanto egli stesso. Gli stadi, de' quali si serve Erodoto nella descrizione dell'Eussino, del Bosforo ec. ( l. IV. c. 85) senza dubbio devono esser tutti della medesima specie; ma sembra impossibile di conciliarli o con la verità, o fra di loro.
202. La distanza obbliqua fra Sesto ed Abido era di trenta stadi. S'espone dal Mahudol l'improbabilità del racconto di Ero e Leandro, ma coll'autorità de' poeti e delle medaglie si difende dal La Nauze. Vedi Accad. delle Inscriz. Tom. VII. Hist. p. 74. Mem. p. 140.
203. Vedi lib. VII. d'Erodoto, che ha innalzato un elegante trofeo alla sua propria fama, ed a quella del suo paese. Sembra che ne sia stata fatta l'enumerazione con tollerabile accuratezza; ma era interessata la vanità, prima de' Persiani e poi de' Greci, ad amplificar l'armamento e la vittoria. Io dubiterei molto se gl' invasori abbiano mai sorpassato il numero degli uomini di qualunque paese, che abbiano attaccato.
204. Vedi le Osservazioni di Wood sopra Omero p. 320. Io ho preso con piacere quest'osservazione da un Autore, che in generale non par che abbia corrisposto all'espettazione del Pubblico e come critico e meno ancora come viaggiatore. Aveva egli veduti i lidi dell'Ellesponto; avea letto Strabone; dovrebbe aver consultati gl'itinerari Romani: come fu dunque possibile che confondesse Ilium con Alexandria Troas ( Observ. p. 340, 341) città, che sono 6 miglia distanti l'una dall'altra?
205. Demetrio di Scepside scrisse sessanta libri sopra trenta versi del catalogo d'Omero. Per soddisfare la nostra curiosità è sufficiente il lib. XIII di Strabone.
206. Strab. l. XIII. p. 595. Omero descrive con gran chiarezza la disposizione delle navi, che furono tratte in terra ed i posti d'Aiace e d'Achille.
207. Zosimo l. II. p. 10. Sozomen. l. II. c. 3. Teofan. p. 18. Nicefor. Callisto l. VII. p. 48. Zonara Tom. II. l. XIII. p. 6. Zosimo pone la nuova città fra Ilio ed Alessandria; ma questa apparente differenza può conciliarsi con ciò, che dicono gli altri, mediante la grand'estensione della sua circonferenza. Avanti la fondazione di Costantinopoli, Cedreno dice che venne progettata per capitale Tessalonica, e Zonara, Sardica. Tutti e due suppongono con ben poca probabilità che l'Imperatore, se non fosse stato impedito da un prodigio, avrebbe rinnovato l'errore de' ciechi Calcedonesi.
208. Descriz. dell'Oriente di Pocock Vol. II, part. II. p. 127. La descrizione, ch'ei fa de' sette colli, è chiara ed esatta. Questo viaggiatore di rado è tanto soddisfacente come in quest'occasione.
209. Vedi Belon. Osserv. c. 72, 76. Fra le varie specie di pesci i Pelamidi, che sono una specie di Tonni, erano i più celebri. Si può rilevar da Polibio, da Strabone e da Tacito che il guadagno della pesca formava la rendita principale di Bizanzio.
210. Vedi l'eloquente descrizione del Busbequio Epist. I. p. 64. Est in Europa; habet in conspectu Asiam, Aegyptum, Africamque a dextra: quae tametsi contiguae non sunt, maris tamen, navigandique commoditate veluti junguntur. A sinistra vero Pontus est Euxinus etc.
211. Datur haec venia antiquitati, ut miscendo humana divinis, primordia Urbium augustiora faciat. Tit. Liv. in Proëm.
212. In una delle sue leggi così s'esprime. Pro comoditate Urbis, quam materno nomine, jubente Deo, donavimus. Cod. Theodos. l. XIII. Tit. V. leg. 7.
213. I Greci, come Teofane, Cedreno e l'Autore della Cronica Alessandrina si contengono dentro i limiti di espressioni vaghe o generali. Volendo un ragguaglio più circostanziato della visione, bisogna ricorrere a tali scrittori Latini, quale è Guglielmo di Malmesbury. Vedi Ducange C. P. l. I. p. 24, 25.
214. Vedi Plutarc. in Romul. Tom. I. p. 49. Edit. Bryan. Fra le altre cerimonie facevasi una gran buca, la quale si riempiva con pugni di terra, che ciascheduno de' nuovi abitanti portava dal luogo della sua nascita, ed in tal modo adottava la sua nuova patria.
215. Filostorg. l. II. c. 9. Questo accidente, quantunque preso da un autore sospetto, è caratteristico e probabile.
216. Vedi nelle Memor. dell'Accad. delle Iscriz. T. XXXV. pag. 747, 758 una dissertazione del Danville sopra l'estensione di Costantinopoli. Egli prende la pianta inserita nell' Impero Orientale del Banduri per la più esatta; ma con una serie di minutissime osservazioni corregge la stravagante proporzione della scala, e determina che la circonferenza della città è di circa 7800 tese Francesi invece di 9500.
217. Appresso gl'Inglesi un acro contiene un'estensione di terra, lunga 40 pertiche e larga 4.
218. Codin. Antiquit. Const. p. 12. Egli assegna per limite dalla parte del porto la chiesa di S. Antonio. Se ne fa menzione dal Du Cange l. IV. c. VI. ma non mi è riuscito di scuoprire il luogo, dov'essa era situata.
219. Fu costruita la nuova muraglia di Teodosio nell'anno 413. Nel 447 fu gettata a terra da un terremoto, ed in tre mesi rifabbricata dalla diligenza del Prefetto Ciro. Il sobborgo della Blacherne fu per la prima volta compreso nella città al tempo d'Eraclio. Du Cange Const. l. I. c. 10, 11.
220. Nella Notizia ec. se n'esprime la misura con piedi 14075. Si può ragionevolmente supporre, che questi fossero piedi Greci, la proporzione de' quali fu ingegnosamente determinata dal Danville. Secondo esso 180 piedi equivalgono ai 78 cubiti Asemiti, che diversi scrittori dicono esser l'altezza di S. Sofia. Ciascheduno di questi cubiti era uguale a 27 pollici francesi.
221. L'esatto Thevenot ( l. I. c. 15 ) in un'ora e tre quarti girò intorno a' due lati del triangolo, dal Chiosco del Serraglio fino alle sette Torri. Danville accuratamente pondera, e molto s'affida a questa decisiva testimonianza che somministra una circonferenza di dieci o dodici miglia. Molto s'allontana dall'ordinario suo carattere Tournefort, allorchè ( Lett. XI ) s'estende alla stravagante misura di trenta o di trentaquattro miglia, senz'includervi Scutari.
222. Il luogo chiamato Sycae (o sia i Fichi) formava la decima terza regione, e fu molto abbellito da Giustiniano. Esso ebbe in seguito i nomi di Pera, e di Galata. È ovvia l'etimologia del primo, incognita quella del secondo nome. Vedi Du Cange Const. l. I. c. 22. Gyll. de Byzant. l. IV. c. 10.
223. Cento undici stadi, che possono computarsi in miglia Greche moderne di 7 stadi l'uno, o sia di 660 ed alle volte di sole 600 tese Francesi. Vedi Danville Misur. Itinerar. p. 53.
224. Corretti gli antichi Testi, che descrivono la grandezza di Babilonia e di Tebe; ridotte a' giusti termini l'esagerazioni, e certificate le misure, troviamo, che quelle famose città avevano la grande, ma non incredibil circonferenza di circa venticinque o trenta miglia. Si confronti Danville nelle Memor. dell'Accad. Tom. XXVIII. p. 235 colla sua Descrizione dell'Egitto pag. 201, 202.
225. Se Costantinopoli e Parigi si dividano in tanti quadrati di 50 tese Francesi l'uno, il primo contiene 850 di queste parti, ed il secondo 1160.
226. Seicento centinaia, o sessantamila libbre d'oro. Tal somma è presa da Codino Antiq. Const. p. 11. Ma questo disprezzabile Autore, a meno che non abbia tratta la sua relazione da qualche sorgente più pura, non sarebbe probabilmente stato capace di contare in una maniera così disusata.
227. Quanto alle foreste del Mar Nero vedasi Tournefort Lett. XVI. Quanto alle cave di marmo di Proconneso, vedi Strabone l. XIII. p. 588. Queste ultime avevan già somministrato i materiali alle grandiose fabbriche di Cizico.
228. Vedi Cod. Theod. lib. XIII. Tit. IV. leg. 1. La data di questa legge è dell'anno 334 e fu indirizzata al Prefetto dell'Italia, la giurisdizione del quale s'estendeva sull'Affrica. Merita d'esser consultato il Comentario del Gotofredo sopra tutto il Titolo.
229. Constantinopolis dedicatur pene omnium Urbium nuditate: Hieronym. Chron. p. 181. Vedi Codin. p. 8, 9. L'autore delle Antichità Cost. l. III (appresso Banduri Imp. Orient. Tom. I. p. 41 ) enumera Roma, Sicilia, Antiochia, Atene ed una lunga lista di altre città. Può supporsi che le Provincie della Grecia e dell'Asia minore avranno somministrato il più ricco bottino.
230. Hist. Comp. p. 369. Esso descrive la statua, o piuttosto il busto d'Omero con sì fino gusto, che chiaramente indica, che Cedreno copiò lo stile d'un secolo più fortunato.
231. Zosimo l. II. p. 106. Cronic. Alessand. o Pasqual. p. 284. Du Cange Const. l. I. c. 24. Anche quest'ultimo scrittore pare, che confonda il Foro di Costantino coll'Augusteo, o corte del Palazzo. Io non sono ben sicuro, se abbia precisamente distinto quel che appartiene all'uno ed all'altro.
232. Pocock porge la descrizione più tollerabile di tal colonna, Descriz. d'Orient. vol. II. Part. II. p. 131, ma essa in molti luoghi è tuttavia oscura, e non soddisfa pienamente.
233. Du Cange Const. l. I. c. 24. p. 76, e le sue not. ad Alexiad. p. 382. La statua di Costantino o d'Apollo fu abbattuta nel tempo di Alessio Comneno.
234. Tournefort ( Lett. XII. ) considera l'Atmeidan 400 passi. Se intende passi geometrici di sette piedi l'uno, sarebbe stato lungo 300 tese, intorno a quaranta più lungo del gran Circo di Roma. Vedi Danville Misur. Itiner. p. 72.
235. Se i custodi delle reliquie più sante potessero addurre una serie di prove, quali si possono allegare in quest'occasione, ne sarebbero ben essi contenti. Vedi Banduri ad antiquit. Const. p. 668. Gyll. de Bizant. l. II. c. 13. 1. Può in primo luogo provarsi l'originale consacrazione del tripode, e della colonna nel tempio di Delfo coll'autorità d'Erodoto e di Pausania; 2. Zosimo Pagano si trova d'accordo co' tre Storici Ecclesiastici, Eusebio, Socrate e Sozomeno in asserire, che per ordine di Costantino furon trasportati a Costantinopoli gli ornamenti sacri del tempio di Delfo; e fra gli altri espressamente si nomina la colonna serpentina dell'Ippodromo. 3. Tutti i viaggiatori Europei, che sono stati a Costantinopoli da Buondelmonti fino a Pocock, la descrivono nel medesimo luogo, e quasi nell'istessa maniera; e le differenze, che si trovan fra loro, non nascono che dalle ingiurie che ha sofferto da' Turchi. Maometto II. con un colpo di scure spezzò la mascella di sotto ad uno de' serpenti. Thevenot l. I. c. 17.
236. Da' Greci fu adottato il nome Latino di cochlea, e frequentemente s'incontra nell'istoria Bizantina. Du Cange Const. l. II. c. 1. p. 104.
237. Vi sono tre punti topografici, che indicano la situazione del Palazzo; 1. La scala che lo faceva comunicare coll'Ippodromo o Atmeidan, 2. Un piccolo porto artificiale sulla Propontide, da cui salivasi facilmente per una serie di scalini di marmo a' giardini del Palazzo, 3. L'Augusteo, ch'era una spaziosa corte, un lato della quale veniva occupato dalla facciata del palazzo, e l'altro dalla chiesa di Santa Sofia.
238. Zeusippo era un epiteto di Giove, ed i bagni facevano una parte dell'antico Bizanzio. Du Cange non ha sentito la difficoltà di determinarne la vera situazione. L'Istoria par che gli unisca con S. Sofia, e col palazzo; ma la pianta originale, inserita nel Banduri, li pone dall'altra parte della città, vicino al porto. Quanto alle loro bellezze, vedi Chron. Paschal. p. 285 e Gyll. de Byzan. l. II. c. 7. Cristodoro ( Antiquit. Const. l. VII ) compose delle iscrizioni in versi per ogni statua. Egli era un poeta Tebano di nascita non men che d'ingegno Boeotum in crasso jurares aere natum.
239. Vedi la notizia ec. Roma una volta contava 1780 grandi case domus; ma bisogna che tal parola avesse un significato più ampio. In Costantinopoli non si fa menzione d' Insulae. La Capitale antica conteneva 424 strade, la nuova 322.
240. Luitprand. Legat. ad Imperat. Niceph. p. 153. I Greci moderni hanno stranamente sfigurate le antichità di Costantinopoli. Sarebbero scusabili gli sbagli degli scrittori Turchi o Arabi, ma fa stupore, che i Greci, che avevano tra le mani autentici materiali, conservati nella lor propria lingua, preferissero la finzione alla verità, e le favolose tradizioni alla storia genuina. In una sola pagina di Codino posson contarsi dodici imperdonabili errori, quali sono la riconciliazione di Severo e di Negro, il matrimonio tra il figlio dell'uno e la figlia dell'altro, l'assedio di Bizanzio fatto da' Macedoni, l'invasione de' Galli, che richiamò Severo a Roma, i sessant'anni che scorsero dalla morte di lui alla fondazione di Costantinopoli ec.
241. Montesquieu, Grand. et decad. des Rom. c. 17.
242. Temist. Orat. III. p. 48. Edit. Hardouin. Sozomeno l. II. c. 3. Zosimo l. II. p. 107. Anon. Vales. p. 715. Se dovessimo prestar fede a Codino ( p. 10 ) Costantino fabbricò le case pei Senatori sul medesimo esatto disegno de' loro palazzi di Roma, e diede ad essi ugualmente che a se medesimo il piacere d'una gradita sorpresa; ma tutta quell'istoria è piena di finzioni e di insussistenti racconti.
243. Fra le Novelle dell'Imperator Teodosio il Giovane al fine del Codice Teodosiano ( Tom. VI Nov. 12. ) si trova la legge con cui quell'Imperatore, nell'anno 438, abolì tali concessioni. Il Tillemont ( Hist. des Emper. Tom. IV. p. 37 ) ha evidentemente sbagliato intorno alla natura di questi beni. La medesima condizione, che si sarebbe con ragione stimata un peso, qualora fosse stata imposta su' beni de' privati, si riceveva come un favore quand'era accompagnata dalla concessione di fondi Imperiali.
244. Gillio ( de Byzant l. I. c. 3. ) raccoglie, e connette fra loro i passi di Zosimo, di Sozomeno e di Agatia, che riferiscono l'accrescimento, e le fabbriche di Costantinopoli. Sidonio Apollinare ( in Panegyr. Anthem. 56. p. 291. Edit. Sirmond ) descrive le moli, che furono gettate molto avanti nel mare: formavansi queste dalla famosa pozzolana che indura nell'acqua.
245. Sozomeno l. II. c. 3. Filostorg. l. II. c. 9. Codino Antiquit. Const. p. 8. Si rileva da Socrate ( l. II. c. 13. ) che la quotidiana distribuzione della città consisterà in ottanta migliaia di σιτου, che o si può tradur con Valesio per modj di grano, o supporre ch'esprima il numero de' pani, che si dispensavano.
246. Vedi Cod. Theodos. lib. XIII e XIV e Cod. Justin. Ed. XII. Tom. II. p. 648. edit. Genev. Si veda il bel lamento di Roma nel Poema di Claudiano de bello Gildon. v. 46-64.
Cum subiit par Roma mihi, divisaque sumpsit
Aequales Aurora togas; Aegyptia rura
In partem cessere novam.
247. Si fa menzione de' rioni di Costantinopoli nel codice di Giustiniano, e sono particolarmente descritti nella Notizia di Teodosio il Giovane; ma siccome gli ultimi quattro di essi non son compresi nelle mura di Costantino, si può dubitare se tal divisione della città riferir debbasi al fondatore.
248. Senatum constituit secundi ordinis; claros vocavit. Anonym. Valesian. p. 715. I Senatori della vecchia Roma avevano il titolo di Clarissimi. Vedasi una curiosa nota di Valesio ad Ammian. Marcellin. XXII. 9. Dall'epistola undecima di Giuliano apparisce, che si risguardava il posto di Senatore piuttosto come un peso, che come un onore; ma l'Abbate della Bletterie ( Vit. di Giovian. Tom. II. p. 371 ) ha dimostrato che questa lettera non può riferirsi a Costantinopoli. Non potremmo noi leggere invece del celebre nome di Βυζαντιοις l'oscuro ma più probabile vocabolo Βισανθηνοις? Bisanto, o Redesto (adesso Rodosto) era una piccola città marittima della Tracia. Vedi Steph. Byzant. de Urbibus p. 225 e Cellar. Geograph. Tom. I. p. 849.
249. Cod. Theodos. l. XIV. 13. Il Comentario di Gotofredo ( Tom. V. p. 220 ) è lungo ma oscuro; ed in verità non è facile il determinare in che consistesse il Gius Italico, dopo che fu comunicata a tutto l'Impero la libera cittadinanza Romana.
250. Giuliano ( Orat. I. p. 8 ) celebra Costantinopoli come non meno superiore ad ogni altra città, di quel che fosse inferiore all'istessa Roma. Il dotto di lui Comentatore ( Spanem. p. 75. ec.) giustifica questa maniera di parlare con varj esempi simili di Autori contemporanei, Zosimo non meno che Socrate e Sozomeno fiorirono dopo la divisione dell'impero, fatta fra due figli di Teodosio, la quale stabilì una perfetta uguaglianza fra la Capitale antica e moderna.
251. Codino ( Antiquit. p. 8 ) asserisce, che furon gettati i fondamenti di Costantinopoli nell'anno del mondo 5837 (dell'Era volg. 329) il dì 26 settembre, e che fu fatta la dedicazione della città negli 11 Maggio 5838 (330 di Cristo). Egli pretende di connettere queste date con altr'epoche caratteristiche, ma si contraddicono l'una coll'altra: l'autorità di Codino è di piccolo peso, e lo spazio, ch'egli assegna, dee sembrare insufficiente. Giuliano ( Orat. I. p. 8 ) fissa il termine di dieci anni, e Spanemio (p. 69-759) procura di stabilirne la verità coll'aiuto di due passi presi da Temistio ( Orat. IV p. 58 ), e da Filostorgio ( l. II c. 9 ) e tal tempo si conta dall'anno 324 al 334. Intorno a questo punto di cronologia son tra loro divisi i moderni critici, ed i varj lor sentimenti vengono con molt'accuratezza discussi dal Tillemont ( Hist. des Emper. Tom. IV. p. 619-625 ).
252. Temist. Orat. III. p. 47. Zosimo l. II. p. 108. Costantino medesimo in una delle sue leggi ( Cod. Theod. l. XV. Tit. 1. ) manifesta la sua impazienza.
253. Può vedersi il più antico e pieno racconto di tale straordinaria ceremonia nella Cronica Alessandrina p. 285. Tillemont, e gli altri amici di Costantino, offesi dall'aria di Paganesimo, che sembra indegna di un Principe Cristiano, avevan ragione di risguardarla come dubbiosa, ma non avevano perciò diritto di ometterla affatto.
254. Sozomeno l. II. c. 2. Du Cange C. P. l. I. c. 6. Velut ipsius Romae filiam dice S. Agostino de civit. Dei l. V. c. 25.
255. Eutrop. l. X. c. 8. Giuliano Orat. 1. p. 8. Du Cange C. P. I. c. 5. Si trova il nome Costantinopoli nelle medaglie di Costantino.
256. Il vivace Fontenelle ( Dial. de' Morti XII. ) affetta di derider la vanità dell'ambizione umana, e par che trionfi per essere andato a voto il disegno di Costantino, l'immortale cui nome, dice, che adesso s'è perduto nella volgar denominazione d' Istambol, che è una corruzione che fanno i Turchi delle parole εις την πογιν (alla città). Ma sempre si conserva il nome originale di Costantinopoli: in primo luogo, appresso le nazioni dell'Europa, 2. appresso i Greci moderni, 3. appresso gli Arabi, gli scritti de' quali sono sparsi per l'ampio tratto delle loro conquiste nell'Asia e nell'Affrica. Vedi d' Herbelot. Bibliot. Orient. p. 275. Finalmente appresso i Turchi più culti, e l'Imperatore medesimo ne' pubblici suoi decreti. Cantemir Istor. Ottom. p. 51.
257. Il Codice Teodosiano fu promulgato nell'anno di Cristo 438. Vedi i Prolegomeni del Gotofredo c. 1. p. 385.
258. Il Pancirolo, nell'elaborato suo Comentario, assegna alla Notizia una data quasi simile a quella del Codice Teodosiano; ma le sue prove o piuttosto congetture sono sommamente deboli. Io sarei anzi inclinato a porre quest'utile opera nel tempo, che passò fra l'ultima divisione dell'Impero (an. 395), e l'invasione fatta con buon successo da' Barbari nelle Gallie (an. 407.) Vedi Hist. des anc. Peupl. de l'Europe Tom. VII. p. 40.
259. Scilicet externae superbiae sueto, non inerat notitia nostri (forse nostrae ); apud quos vis imperii valet, inania transmittuntur. Tacit. Annal. XV. 31. Può vedersi la degradazione dallo stile di libertà e di semplicità a quello di formalità e di servitù nelle lettere di Cicerone, di Plinio e di Simmaco.
260. L'Imperator Graziano dopo d'aver confermato una legge di precedenza, pubblicata da Valentiniano, padre di sua Divinità, così prosegue: Si quis igitur, indebitum sibi locum usurpaverit, nulla se ignoratione defendat; sitque plane sacrilegii reus, qui divina praecepta neglexerit, Cod. Theodos. lib. VI. Tit. V. leg. 2.
261. Vedasi la Notit. Dignitat. al fine del Codice Teodos. Tom. VI. p. 316.
262. Pancirolo ad Notitiam utriusq. Imper. p. 39. Ma le sue spiegazioni son oscure, ed egli non distingue abbastanza gli emblemi puramente dipinti, dall'effettive insegne d'uffizio.
263. Nelle Pandette, che possono riferirsi a' regni degli Antonini, l'ordinario e legittimo titolo d'un Senatore è Clarissimus.
264. Pancirol. p. 12-17. Io non ho creduto di dover fare menzione alcuna de' due gradi minori Perfectissimus ed Egregius, che si davano anche a molti non innalzati alla dignità Senatoria.
265. Cod. Theod. lib. VI. Tit. VI. Con la più minuta esattezza si determinano le regole di precedenza dagl'Imperatori; e con ugual prolissità vengono illustrate dal dotto interprete di esse.
266. Cod. Theodos. lib. VI. Tit. XXII.
267. Ausonio ( in Gratiar. Action. ) s'estende vilmente su questa indegna specie di luogo oratorio, che vien maneggiato con un poco più di libertà e d'ingenuità da Mamertino. Paneg. Vet. XI. 16, 19.
268. Cum de Consulibus in annum creandis solus mecum volutarem... te Consulem et designavi et declaravi, et priorem nuncupavi: queste sono alcune dell'espressioni usate dall'Imperat. Graziano verso il poeta Ausonio suo precettore.
269.
Immanesque... dentes,
Qui secti ferro in tabulas auroque micantes,
Inscripti rutilum coelato Consule nomen
Per proceres et vulgus eant.
Claud. in II. Consul. Stilic. 456.
Montfaucon ha pubblicato alcune di queste tavolette, o dittici. Vedi il Supplem. all'Antich. spieg. Tom. III. p. 220.
270.
Consule laetatur post plurima saecula viso
Pallanteus apex: agnoscunt rostra curules
Auditas quondam proavis: desuetaque cingit
Regius auratis Fora fascibus Ulpia lictor.
Claudian. in VI. Cons. Honor. 643.
Dal regno di Caro fino al sesto Consolato d'Onorio si trova un intervallo di centovent'anni, nel qual tempo gl'Imperatori furono sempre il primo di Gennaio assenti da Roma. Vedi la Cronolog. di Tillemont Tom. III. IV. e V.
271. Vedi Claudiano in Cons. Prob. et Olybrii 178 etc. et in IV. Cons. Honor. 585 etc. quantunque, rispetto a quest'ultimo, non è facile il distinguer gli ornamenti dell'Imperatore da quelli del Console. Ausonio ricevè dalla liberalità di Graziano una veste palmata o abito di Ceremonia, in cui era ricamata la figura dell'Imperator Costanzo.
272.
Cernis et armorum proceres legumque potentes:
Patricios sumunt habitus, et more Gabino
Discolor incedit legio, positisque parumper
Bellorum signis sequitur vexilla Quirini.
Lictori cedunt aquilae, ridetque togatus
Miles, et in mediis effulget Curia Castris?
Claud. in IV. Cons. Honor. 5.
.... Strictasque procul radiare secures.
In. Cons. Prob. 229.
273. Vedi Vales. ad Ammian. Marcell. l. XXII. c. 7.
274.
Auspice mox latum sonuit clamora Tribunal,
Te fastos ineunt quater; solemnia ludit
Omnia libertas; deductum vindice morem
Lex celebrat, famulusque jugo laxatus herili
Ducitur, et grato remeat securior ictu,
Claud. in IV. Cons. Honor. 611.
275. Celebrant quidem solemnes istos dies omnes ubique urbes, quae sub legibus agunt; et Roma de more et Constantinopolis de imitatione, et Antiochia pro luxu, et discincta Carthago, et domus flaminis Alexandria, sed Treviri Principis beneficio. Auson in gratiar. act.
276. Claudiano ( in Cons. Mall. Theodor. 279-331 ) descrive con vivace ed immaginosa maniera i diversi giuochi del circo, del teatro e dell'anfiteatro, dati da' nuovi Consoli. Ma eran già stati proibiti i sanguinosi combattimenti de' gladiatori.
277. Procop. in Histor. arcan. c. 26.
278. In consulatu honos sine labore suscipitur. Mamertino in Paneg. Vet. XI. 2. Questa esaltata idea del Consolato è presa da un'orazione ( II. p. 107 ) che recitò Giuliano nella servil Corte di Costanzo. Vedi l'Ab. della Bleterie ( Memoir. de l'Acad. Tom. XXIV. p. 289 ) che si studia di cercare i vestigi dell'antica costituzione, e che li trova qualche volta nella fertile sua fantasia.
279. Le leggi delle XII Tavole proibirono i matrimoni fra i Patrizi e i Plebei; e le uniformi operazioni della natura umana possono assicurare, che il costume sopravvisse alla legge. Vedasi appresso Livio (IV. 1-6) l'orgoglio di famiglia innalzato dal Console ed i diritti del genere umano sostenuti dal Tribuno Canuleio.
280. Vedansi le vivaci pitture, che fa Sallustio nella guerra Giugurtina dell'orgoglio de' nobili, e fino del virtuoso Metello che non poteva soffrire, che si dovesse dar l'onore del Consolato all'oscuro merito del suo Luogotenente Mario (c. 64.) Dugento anni prima, la stirpe de' Metelli stessi era confusa fra i plebei di Roma; e dall'etimologia del loro nome Caecilius, vi è motivo di credere, che quegli altieri nobili derivassero la lor origine da un venditore di viveri.
281. Nell'anno di Roma 800 vi rimanevan ben poche, non solo delle antiche famiglie patrizie, ma anche di quelle, ch'erano state creato da Cesare e da Augusto. (Tacit. Annal. XI. 25. ) La famiglia di Scauro (ch'era un ramo della patrizia degli Emilj) erasi ridotta in uno stato sì basso, che suo padre, il quale s'esercitava nel commercio del carbone, non gli lasciò che dieci schiavi, e qualche cosa meno di seicento zecchini. (Valer. Massim. l. IV. c. 4. n. 11. Aurel. Vitt. in Scaur. ) Il merito però del figlio salvò la famiglia dall'obblivione.
282. Tacito Annal. XI 25. Dione Cass. l. LII p. 693. Le virtù d'Agricola, che fu creato patrizio dall'Imperator Vespasiano, rifletterono l'onore sopra quell'antico Ordine: ma i suoi antenati non oltrepassavano la nobiltà equestre.
283. Sarebbe stata quasi impossibile questa mancanza, se fosse vero, come Casaubono costringe Aurelio Vittore ad affermare ( ad Sueton. in Caesar. c. 42. vedi Hist. Aug. p. 203 e Casaubono Comment. p. 220 ) che Vespasiano creò in una volta mille famiglie patrizie. Ma tale stravagante numero è troppo anche per tutto l'Ordine Senatorio, se non vi si voglian comprendere tutti i cavalieri Romani distinti colla permissione di portare il laticlavo.
284. Zosim. lib. II. p. 118 e Gotofred. ad Cod. Theod. l. VI. Tit. VI.
285. Zosim. l. II. p. 109-118. Se non avessimo per buona avventura questo soddisfacente ragguaglio della divisione del potere, e delle province de' Prefetti del Pretorio, saremmo spesse volte restati perplessi fra' copiosi particolari del Codice e la circostanziata minutezza della Notizia.
286. A Praefectis autem Praetorio provocare non sinimus dice Costantino medesimo in una legge del Cod. Giustin. lib. VII. Tit. LXII. leg. 19. Carisio, Giurisconsulto del tempo di Costantino (Heinec. Hist. Jur. Rom. pag. 349 ), che risguarda questa legge come un fondamental principio di Giurisprudenza, paragona i Prefetti del Pretorio a' Generali di cavalleria degli antichi Dittatori. Pandect. l. I. Tit. XI.
287. Allorchè nello Stato già esausto dell'Impero, Giustiniano volle instituire un Prefetto del Pretorio per l'Affrica, gli assegnò un salario di cento libbre d'oro Cod. Justinian. l. I. Tit. XXVII. leg. 1.
288. Tanto per questa che per le altre dignità dell'Impero potrem riportarci agli ampi Comentari del Pancirolo, e del Gotofredo, che hanno diligentemente raccolti, e posti con esattezza in ordine tutti i materiali sì legali, che istorici su tal articolo. Il Dott. Howell ( Istor. del Mond. Vol. II. p. 24-77 ) da questi Autori ha formato un compendio molto distinto dello Stato del Romano Impero.
289. Tacit. Annal. IV. 11. Euseb. in Chron. p. 155. Dione Cassio nell'oraz. di Mecenate ( t. VII. p. 675 ) descrive quali prerogative al suo tempo aveva il Prefetto di Roma.
290. La fama di Messala fu appena corrispondente al suo merito. Nella sua più fresca gioventù fu raccomandato da Cicerone all'amicizia di Bruto. Egli seguì le bandiere della Repubblica, finchè furon vinte ne' campi di Filippi; ed allora accollò e meritò il favore del più moderato de' conquistatori, nè lasciò di sostener la sua libertà e dignità nella Corte di Augusto. La conquista dell'Aquitania giustificò il trionfo di lui. Disputò, come oratore, a Cicerone medesimo la palma dell'eloquenza. Messala coltivò tutte le muse, ed era il protettore d'ogni bell'ingegno. Impiegava egli le sue serate in filosofiche conversazioni con Orazio; ponevasi a tavola in mezzo a Delia e Tibullo; e si prendeva piacere d'incoraggiare i talenti poetici del giovane Ovidio.
291. Incivilem esse potestatem contestans, dice il Traduttore d'Eusebio. Tacito esprime la medesima idem con altre parole; quasi nescius exercendi.
292. Vedi Lipsio Excurs. D. ad. I. Lib. Tacit. Annal.
293. Heinec. Elem. Jur. Civ. secund. ord. Pandect. Tom. I. p. 70. Vedi anche Spanemio De us. Numism. Tom. II. Diss. X. p. 119. Nell'anno 450 Marciano pubblicò una legge, con cui stabilì, che ogni anno tre cittadini fossero eletti dal Senato, ma col loro assenso, Pretori di Costantinopoli. Cod. Justin. l. I. Tom. XXXIX. leg. 2.
294. Quidquid igitur intra urbem admittitur ad P. U. videtur pertinere, sed et si quid intra centesimum milliarium. Ulpian. in Pandect. l. I. Tit. XIII. n. 1. Egli prosegue ad enumerare i diversi uffizi del Prefetto, che nel Cod. di Giustiniano ( lib. I. Tit. XXXIX. leg. 3 ) si dichiara dover precedere e comandare a tutte le magistrature civili sine injuria ne detrimento honoris alieni.
295. Oltre le nostre solite guide, possiam osservare, che felice Contelorio fece un trattato a parte De Praefecto Urbis e che nel decimoquarto libro del Codice Teodosiano si trovano molte curiose particolarità relativamente alla polizia di Roma e di Costantinopoli.
296. Eunapio asserisce, che il Proconsole dell'Asia era indipendente dal Prefetto, lo che per altro si deve intendere con qualche limitazione: egli è fuor di dubbio che non riconosceva giurisdizione del Vice-Prefetto. Pancirolo, p. 161.
297. Il Proconsole dell'Affrica aveva quattrocento apparatori; i quali tutti ricevevano stipendi o dal tesoro Imperiale o dalla Provincia. Vedi Pancirolo, p. 26 ed il Cod. Giustin. l. XII. Tit. LVI. LVII.
298. Trovavasi parimente in Italia il Vicario di Roma: e si è molto disputato, se la sua giurisdizione si contenesse nelle cento miglia dalla città, o s'estendesse sopra le dieci Province meridionali dell'Italia.
299. Fra le opere del celebre Ulpiano ve n'era una in dieci libri intorno all'uffizio del Proconsole, i doveri del quale, quanto alla sostanza, eran gli stessi che quelli d'un ordinario Governator di Provincia.
300. I Presidenti o Consolari potevano imporre soltanto la pena di due once; i Vice-prefetti di tre; i Proconsoli, il conte di Oriente, ed il Prefetto d'Egitto di sei. Vedi Heinec. Jur. Civ. Tom. I. p. 75. Pandect. L. LXVIII. Tit. XIX. n. 8. Cod. Justinian. L. I. Tit. LIV. leg. 4. 6.
301. Ut nulli Patriae tuae administratio sine speciali Principis permissu permittatur Cod. Justin. l. I. Tit. LXI. Fu pubblicata la prima volta questa legge dall'Imperator Marco dopo la ribellione di Cassio Dion. l. LXXI. Il medesimo si osserva nella China con ugual rigore ed effetto.
302. Pandect. l. XXXIII. Tit. II. n. 38, 57, 63.
303. In jure continetur, ne quis in administratione constitutus aliquid compararet Cod. Theodos. l. VIII. Tit. XV. l. 1. Questa massima di Gius comune fu confermata da una serie di editti da Costantino fino a Giustino (vedi il restante del Titolo). Si eccettuano da tale proibizione, che s'estende fino a' più bassi ministri del Governatore, solamente le vesti e le provvisioni per vivere. L'acquisto fatto dentro i cinque anni potea revocarsi; dopo di che, se scuoprivasi, era devoluto al tesoro pubblico.
304. Cessent rapaces jam nunc officialium manus; cessent, inquam; nam si moniti non cessaverint, gladiis praecidentur: Cod. Theodos. l. I Tit. VII. leg. 1. Zenone ordinò, che tutti i Governatori per cinquanta giorni dopo spirato il tempo del lor governo, restassero nella Provincia per rispondere a qualunque accusa: Cod. Justin. lib. II. Tit. XLIX leg. 1.
305. Summa igitur ope et alacri studio has leges nostras accipite, et vosmetipsos sic eruditos ostendite, ut spes vos pulcherrima foveat, toto legitimo opere perfecto, posse etiam nostram Rempublicam in partibus ejus vobis credendis gubernari. Justinian. Proem. Instit.
306. Lo splendore della scuola di Berito, che mantenne nell'Oriente l'idioma e la giurisprudenza de' Romani, si può considerare che durasse dal terzo secolo fino alla metà del sesto. Heinec. Jur. Rom. Hist. p. 351-356.
307. Siccome in un tempo anteriore esposi la civile e militare promozione di Pertinace, così inserirò qui gli onori civili di Mallio Teodoro. In primo luogo egli si distinse per la sua eloquenza, mentre perorava come avvocato nel Tribunale del Prefetto del Pretorio; secondariamente governò una Provincia dell'Affrica o come Presidente, o come Consolare, e nella sua amministrazione meritò l'onore di una statua di rame; 3. fu dichiarato Vicario o Viceprefetto di Macedonia; 4. Questore; 5. Conte delle sacre largizioni; 6. Prefetto del Pretorio delle Gallie, mentre poteva anche passare per giovane; 7. dopo una ritirata e forse una disgrazia di molti anni, che Mallio (confuso da alcuni critici col poeta Manilio, vedi Fabric. Biblio. Latin. Edit. Ernest. Tom. I. c. 18. p. 501 ) impiegò nello studio della filosofia Greca, fu eletto Prefetto del Pretorio dell'Italia nell'anno 397. 8. mentre tuttavia esercitava quella gran carica fu creato nell'anno 399 Console per l'Occidente; ed il suo nome per causa dell'infamia del suo collega, l'eunuco Eutropio, spesse volte si trova solo ne' Fasti; 9. nell'anno 408 Mallio fu fatto la seconda volta Prefetto del Pretorio dell'Italia. Anche nel venale panegirico di Claudiano si scuopre il merito di Mallio Teodoro, il quale per una rara avventura era intimo amico di Simmaco e di S. Agostino. Vedi Tillemont Hist. des Emp. Tom. V. p. 1110-1114.
308. Mamertin. in Panegyr. vol. XI. 20. Aster. ap. Phor. p. 1500.
309. Il curioso passo d'Ammiano ( l. XXX. c. 4 ), con cui dipinge i costumi de' legali suoi contemporanei, somministra uno strano mescuglio di buon senso, di falsa rettorica e di stravagante satira. Gotofredo ( Prolegom. ad. Cod. Theodos. c. 1. p. 185 ) conferma ciò che dice l'Istorico con querele somiglianti e con autentici fatti. Nel quarto secolo potevan caricarsi molti cammelli co' libri legali. Eunap. in vit. Edesii p. 72.
310. Se ne veda un esempio assai splendido nella vita d'Agricola, specialmente ne' cap. 20 e 21. Al Luogotenente della Gran-Brettagna s'affidava l'istesso potere, che Cicerone, Proconsole della Cilicia, aveva esercitato in nome del Senato e del Popolo.
311. L'Abbate Dubos, che ha esaminato con accuratezza (vedi Hist. de la Mon. Franc. Tom. I p. 41-100 edit. 1742 ) le instituzioni e di Augusto e di Costantino, avverte, che, se Ottone fosse stato ucciso il giorno avanti ch'eseguisse la sua cospirazione, egli comparirebbe adesso nell'Istoria ugualmente innocente che Corbulone.
312. Zosimo l. II. p. 110. Avanti che finisse il regno di Costanzo i Magistri militum erano già cresciuti fino a quattro. Ved. Vales. Ad Ammian. l. XVI. c. 7.
313. Quantunque si faccia spesso menzione de' Conti e dei Duchi militari sì nella storia che ne' codici, tuttavia per avere un'esatta cognizione del numero e delle stazioni di essi, convien ricorrere alla Notizia. Quanto all'instituzione, al grado, a' privilegi de' Conti in generale, vedi il Cod. Teodos. lib. VI. Tit. XII-XX col Comentario del Gotofredo.
314. Zosim. l. 2. p. 14. Con molta oscurità s'esprime la distinzione fra le due classi delle truppe Romane tanto appresso gli storici, quanto nelle leggi e nella Notizia. Si consulti ciò nonostante il copioso Paratitlon o estratto del Gotofredo al libro VII del Codice Teodosiano de re militari l. VII. Tit. I. leg. 18. lib. VIII. Tit. I. leg. 10.
315. Ferox erat in suos miles et rapax, ignavus vero in hostes et fractus, Ammiano l. XXII. c. 4. Egli osserva, che amavano i morbidi letti, e le case di marmo, e che più pesavano le loro coppe che le loro spade.
316. Cod. Theodos. l. VII, Tit. I. leg. 1. Tit. XII. leg. 1. Vedi Howell Istor. del Mond. Vol. II p. 19. Questo dotto istorico, che non è conosciuto abbastanza, si sforza di giustificare il carattere e la politica di Costantino.
317. Ammiano l. XIX. c. 2. Egli osserva, (c. 5.) che il disperato ardore di due legioni Galliche fu come un pugno d'acqua gettata in un grand'incendio.
318. Pancirol. ad Notit. Mem. de l'Acad. des Inscr. T. XXV. p. 491.
319. Romana acies unius prope formae erat et hominum, et armorum genere. Regia acies varia magis multis gentibus dissimilitudine armorum, auxiliorumque erat. Tit. Liv. l. XXXVII. c. 39, 40. Flaminio anche prima dell'evento avea paragonato l'esercito d'Antioco ad una cena, in cui si fosse cucinata la carne d'un vile animale in diverse maniere dall'arte de' cuochi. Vedi la vita di Flamin. in Plutarco.
320. Agat. l. V. p. 157. Edit. Louvre.
321. Valentiniano (Cod. Theod. l. VII. Tit. XIII. leg. 3 ) ne fissa la misura a cinque piedi e sette dita, che sono circa cinque piedi e quattro pollici e mezzo inglesi. Prima era stata di cinque piedi, e dieci dita, e ne' migliori corpi di sei piedi romani. Sed tunc erat amplior multitudo, et plures sequebantur militiam armatam. Veget. de re milit. l. I c. 5.
322. Vedi i due Titoli De Veteranis, De Filiis Veteran. nel settimo libro del Cod. Teodos. L'età, in cui s'esigeva il militar servizio, era varia, da' sedici a' venticinque anni. Se i figli de' veterani venivano con un cavallo, avean diritto di militare nella cavalleria; due cavalli poi davano loro altri stimabili privilegi.
323. Cod. Theodos. l. VII. Tit. XIII. leg. 7. Secondo l'Istorico Socrate (vedi Gotofr. ivi), l'istesso Imperator Valente alle volte esigeva ottanta monete d'oro per una recluta. Nella Legge seguente freddamente si esprime, che non siano ammessi gli schiavi inter optimas lectissimorum militum turmas.
324. Per ordine d'Augusto, si venderono al pubblico incanto la persona, ed i beni d'un cavalier Romano, che avea mutilato due suoi figliuoli (Sueton. in Aug. c. 27 ). La moderazione di quell'artificioso usurpatore dimostra, che quest'esempio di severità era giustificato dallo spirito de' tempi. Ammiano fa una distinzione fra gli effeminati Italiani ed i coraggiosi Galli ( l. XV. c. 12 ). Pure non più che quindici anni dopo, Valentiniano in una legge diretta al Prefetto della Gallia, è costretto a ordinare, che questi vili disertori siano bruciati vivi ( Cod. Theod. l. VII. Tit. XIII. leg. 5 ). Erano tanto moltiplicati nell'Illirico, che la Provincia si lagnava della scarsità di reclute, Ib. leg. 10.
325. Essi erano chiamati Murci. Si trova in Plauto ed in Festo la parola murcidus per indicare una persona, pigra e codarda, che secondo Arnobio ed Agostino era sotto l'immediata protezione della Don Murcia. Per causa di questa particolare specie di codardia gli scrittori della Latinità di mezzo prendon murcare per sinonimo di mutilare. Vedi Lindenborg e Vales. ed Ammian. Marcell. l. XV. c. 12.
326. Malarichus — adhibitis Francis, quorum ea tempestate in palatio multitudo florebat, erectius jam loquebatur, tumultuabaturque. Ammian. l. XV. c. 5.
327. Barbaros omnium primus ad usque fasces auxerat et trabeas consulares. Ammian. l. XX. c. 10. Sembra che Eusebio ( in vit. Const. l. IV. c. 7 ) ed Aurelio Vittore confermino la verità di tale asserzione; pure ne' trentadue Fasti consolari del regno di Costantino non ho potuto trovare il nome d'un solo Barbaro. Crederei dunque che la liberalità di quel Principe si riferisse agli ornamenti piuttosto che all'uffizio del Consolato.
328. Cod. Theod. lib. VI. Tit. VIII.
329. Per una metafora ben singolare, presa dal militar carattere de' primi Imperatori, il loro Maestro di Casa era chiamato Conte del loro campo ( Comes castrensis ). Cassiodoro rappresenta con molta serietà al Principe, che la riputazione di lui e dell'Impero dovea dipendere dall'opinione, che gli ambasciatori stranieri avrebber concepito dell'abbondanza e magnificenza della tavola reale ( Var. l. VI. epist. 9 ).
330. Guterio ( De offic. Domus Aug. l. II. c. 20. l. III. ) ha con molta esattezza spiegate le funzioni del Maestro degli Uffizj, e la costituzione degli Scrinia al medesimo subordinati. Ma invano egli tenta, sulla più dubbiosa autorità, di condurre al tempo degli Antonini, o anche di Nerone l'origine d'un Magistrato, che non si può trovar nell'Istoria prima del regno di Costantino.
331. Tacito ( Annal. XI. 22 ) dice, che i primi Questori furono eletti dal popolo, sessantaquattro anni dopo la fondazione della Repubblica; ma egli è d'opinione ch'essi lungo tempo avanti si creassero annualmente da' Consoli ed anche da' Re. Ma tale oscuro punto d'antichità è contrastato da altri scrittori.
332. Sembra, che Tacito ( Annal. XI. 22 ) consideri come il numero maggior de' Questori quello di venti; e Dione ( l. XLIII. p. 374 ) fa conoscere che se Cesare il Dittatore una volta ne creò quaranta, ciò fu solamente ad oggetto di facilitare il pagamento d'un immenso debito di gratitudine. Pure l'aumentazione, ch'egli fece de' Pretori, si mantenne anche ne' successivi regni.
333. Sueton. in Aug. c. 65. e Torrent. iv. Dion. Cass. p. 755.
334. La gioventù ed inesperienza de' Questori, ch'entravano in quell'importante carica nel loro ventesimoquinto anno ( Lips. Excurs. ad Tacit. l. III. D. ) obbligarono Augusto a rimuoverli dal maneggio del tesoro; e quantunque fosse loro da Claudio restituito, sembra che ne fossero finalmente privati da Nerone (Tacit. Annal. XXII. 29. Sueton. in Aug. c. 36. in Claud. c. 24. Dion. pag. 666. 961. ec. Plin. Epist. X. 20 et alib. ) Nelle Province della divisione Imperiale, in luogo de' Questori con miglior consiglio si ponevano i Procuratori ( Dion. Cass. p. 707. Tacit. in vit. Agricol. c. 15) o come si chiamarono in seguito, i Razionali ( Hist. Aug. p. 130). Ma nelle province del Senato si trova sempre una serie di Questori fino al Regno di Marco Antonino (Vedi le Iscrizioni di Grutero, l'epistole di Plinio, ed un fatto decisivo nella Storia Augusta p. 64). Si può rilevare da Ulpiano ( Pandect. l. I. Tit. 13.) che fu abolita la loro provinciale amministrazione sotto il governo della casa di Severo; e nelle successive turbolenze dovettero naturalmente cessare le annuali o triennali elezioni de' Questori.
335. Cum patris nomine et epistolas ipse dictaret, et edicta conscriberet, orationesque in senatu recitaret, etiam Quaestoris vice. Sueton. in Tit. c. 6. Quest'uffizio dovè acquistare anche maggior dignità per essere accidentalmente stato esercitato dal presuntivo erede dell'Impero. Traiano affidò la medesima cura ad Adriano suo Questore e Cugino. Vedi Dodwell Praelect. Cambden. X. XI. pag. 362, 394.
336.
... Terris edicta daturus
Supplicibus responsa... Oracula regis
Eloquio crevere tuo; nec dignius unquam
Majestas meminit sese Romana locutam.
Claudian. in Cons. Mall. Theod. 33. Vedi ancora Simmaco Epist. I 17, e Cassiodoro Var, VI. 5.
337. Cod. Theodos. l. VI. Tit. 30. Cod. Justin. lib. XII. Tit. 24.
338. Ne' dipartimenti de' due Conti del Tesoro, la parte Orientale della Notizia è molto mancante. Egli è da osservarsi, che si trovava una cassa pubblica in Londra, ed un Gineceo, o manifattura in Winchester. Ma la Britannia non era creduta degna nè d'una zecca, nè d'un arsenale. La sola Gallia ne aveva tre delle prime ed otto de' secondi.
339. Cod. Theodos. l. VI. Tit. XXX. leg. 2 e Gotofredo Ib.
340. Strab. Geogr. l. XII. p. 809. L'altro Tempio di Comana in Ponto era una colonia di quello della Cappadocia l. XII p. 825. Il Presidente di Brosses (Vedi il suo Salust. Tom. II. p. 21) congettura, che la Divinità adorata nelle due Comane fosse Beltis, la Venere d'Oriente o la Dea della generazione; ente ben diverso in vero dalla Dea della guerra.
341. Cod. Theodos. l. X. Tit. V. De Grege Dominico. Gotofredo ha raccolto tutti gli antichi passi relativi a' cavalli della Cappadocia. La Palmaziana, ch'era una delle più belle razze, fu confiscata ad un ribelle, il patrimonio del quale era sedici miglia distante da Tiana, vicino alla strada pubblica tra Costantinopoli ed Antiochia.
342. Giustiniano Novell. 30 sottopose il dipartimento del Conte della Cappadocia all'autorità immediata dell'Eunuco favorito, che presedeva al Sacro cubicolo.
343. Cod. Theod. l. VI. Tit. XXX. leg. 4. ec.
344. Pancirolo p. 102, 136. Si descrive l'apparato di questi Domestici militari nel poema latino di Corippo: De Laudibus Justin. l. III. p. 157-179, 420 dell' Append. dell'Istor. Bizant. Rom. 1777.
345. Ammiano Marcellino, che servì tanti anni, non potè ottenere, che il rango di Protettore. I primi dieci fra questi onorevoli soldati eran Clarissimi.
346. Senofont, Cyrop. l. VIII. Briston De regn. Persic. l. I. n. 190. p. 264. Gl'Imperatori adottarono con piacere questa metafora Persiana.
347. Quanto agli agentes in rebus vedi Ammiano l. XV. c. 3. l. XVI. c. 5. l. XXII. c. 7. colle curiose annotazioni del Valesio. Cod. Theod. l. VI. Tit. XXVII. XXVIII. XXIII. Fra i passi raccolti nel Comentario del Gotofredo, il più osservabile è quello preso da Libanio nel suo discorso intorno alla morte di Giuliano.
348. Le Pandette ( l. XLVIII. Tit. XVIII.) contengono i sentimenti de' più celebri Giureconsulti a proposito della tortura. Essi la restringono solo agli schiavi; Ulpiano stesso è pronto a confessare, che res est fragilis, et periculosa, et quae veritatem fallat.
349. Nella cospirazione di Pisone contro Nerone, Epicaride ( libertina mulier ) fu l'unica persona torturata; tutti gli altri furono intacti tormentis. Sarebbe superfluo l'aggiungere esempi di questo più deboli, e difficile il trovarne de' più forti. Tacito. Annal. XV. 57.
350. Dicendum,.. de institutis Atheniensium, Rhodiorum doctissimorum hominum, apud quos etiam (id quod acerbissimum est) liberi civesque torquentur etc. Cicer. Partit. Orat. 6. 34. Può rilevarsi dal processo di Filota la pratica de' Macedoni. Diodor. Sicul. l. XVII. p. 604. Q. Curt. l. VI. c. 11.
351. L'Eineccio ( Elem. Jur. Civ. P. VII. p. 81) ha riunite insieme tutte queste esenzioni.
352. Sembra che questa definizione del prudente Ulpiano ( Pandect. l. XLVIII. Tit. IV.) fosse adattata alla Corte di Caracalla, piuttosto che a quella di Alessandro Severo. Vedi i Codici di Teodosio e di Giustiniano ad leg. Juliam majestat.
353. Arcadio Carisio è il Giurisconsulto più vecchio citate dalle Pandette per giustificare l'universal uso della tortura in tutti i casi di ribellione; ma questa massima di tirannia, ch'è ammessa da Ammiano ( l. XIX. c. 12) col più rispettoso terrore, vien confermata da varie leggi de' successori di Costantino. Vedi Cod. Theod. l. IX. Tit. XXXV. In majestatis crimine omnibus aequa est conditio.
354. Montesquieu Espr. des Loix l. XII. c. 13.
355. David Hume ( Sagg. vol. I. p. 389) ha veduto quest'importante verità con qualche specie di dubbiezza.
356. Si usa tuttavia nella Corte del Papa il ciclo delle Indizioni, che può farsi rimontare sino al regno di Costanzo, e forse di Costantino suo padre; ma è stato molto ragionevolmente alterato il principio del loro anno, riducendolo ai primo di Gennaio. Vedi L'art de verif. les dat. p. XI, il diction. Raison de la Diplomat. Tom. II p. 25, e due diligenti trattati che abbiamo per opera de' Benedettini.
357. I primi 28 Titoli dell'undecimo libro del Codice Teodosiano sono pieni di circostanziati regolamenti sull'importante materia de' tributi; ma suppongono una cognizione dei principj fondamentali più chiara di quella che siamo presentemente in grado d'avere.
358. Il Titolo, che risguarda i Decurioni ( l. XII. Tit. I.) è il più ampio in tutto il Codice Teodosiano; mentre non contiene meno di cento novantadue leggi per determinare i doveri, ed i privilegi di quell'utile ceto di Cittadini.
359. Habemus enim et hominum numerum qui delati sunt et agrum modum. Eumen. in Paneg. vet. VIII. 6. Vedi Cod. Theod. l. XIII. Tit. X. XI. col Coment. di Gotofredo.
360. Si quis sacrilega vitem falce succiderit, aut feracium ramorum foetus hebetaverit, quo declinet fidem censuum, et mentiatur callide paupertatis ingenium, mox detectus capitale subibit exitium, et bona ejus in Fisci jura migrabunt. Cod. Theod. l. XIII. Tit. XI. leg. 1. Sebbene questa legge non sia esente da una studiata oscurità, essa è però sufficientemente chiara per provare quanto fosse minuta l'inquisizione, e sproporzionata la pena.
361. Sarebbe cessata la maraviglia di Plinio. Equidem miror P. R. victis gentibus argentum semper imperitasse non aurum. Hist. Nat. XXIII. 15.
362. Furono prese precauzioni (Vedi Cod. Theod. l. XI. Tit. II. e Cod. Justin. l. X. Tit. XXVII. leg. 1, 2, 3,) per restringer ne' Magistrati l'abuso dell'autorità sì nell'esazione che nella compra del grano; ma quelli che avevano tant'abilità da leggere le Orazioni di Cicerone contro Verre (III de frument. ) potevano istruirsi di tutte le diverse arti d'oppressione, rispetto al peso, al prezzo, alla qualità ed al trasporto delle specie. L'avarizia d'un Governatore senza lettere poteva supplire alla sua ignoranza.
363. Cod. Theod. lib. XI. Tit. XXVIII. leg. 1 pubblicata il dì 24. Marzo dell'anno 395 dall'Imperatore Onorio, solo due mesi dopo la morte di Teodosio suo padre. Egli parla di 528,042 jugeri Romani, che ho ridotto alla misura Inglese. Il jugero conteneva 28800. piedi quadrati Romani.
364. Gotofredo ( Cod. Theod. Tom. VI. p. 116) tratta con gravità e dottrina il soggetto della capitazione; ma volendo egli interpretar la parola caput per una parte o misura di beni, esclude troppo assolutamente l'idea d'una tassa personale.
365. Quid profuerit (Julianus) anhelantibus extrema penuria Gallis, hinc maxime claret, quod primitus partes eas ingressus pro capitibus singulis tributi nomina vicenos quinos aureos reperit flagitari; discedens vero septenos tantum munera universa complentes. Ammiano l. XVI. c. 5.
366. Nel computo della moneta sotto Costantino ed i suoi successori, noi non abbiamo che a riferirci all'eccellente discorso di Greaves sopra il Denarius per esser convinti delle seguenti proposizioni: 1. Che l'antica e moderna libbra Romana, che contiene 5256 grani di peso di dodici once la libbra, è più leggiera circa la duodecima parte della libbra Inglese, ch'è composta di 5760 di que' grani medesimi; 2. Che la libbra d'oro, la quale una volta era stata divisa in quarantotto aurei, era in quel tempo ridotta a settantadue monete più piccole che avevan l'istesso nome; 3. Che si davano legittimamente cinque di questi aurei per una libbra d'argento, e che per conseguenza la libbra d'oro si cambiava per quattordici libbre e ott'once d'argento secondo il peso Romano, o per circa tredici libbre secondo l'Inglese; 4. Che la libbra Inglese d'argento si conia in sessantadue scellini. Posti questi principj, si può computare la libbra Romana d'oro, ch'è la comune misura di grosse somme, per quaranta lire sterline, ed il corso dell' aureo per qualche cosa più d'undici scellini.
367.
Geryones nos esse puta, monstrumque tributum,
Hinc capita ut vivam tu mihi tolle tria.
Sidon. Apoll. Carm. XIII. La riputazione del P. Sirmondo mi faceva sperare maggior soddisfazione nella sua nota a questo notevol passo (p. 144) di quella che vi ho trovata. Le parole suo vel suorum nomine dimostrano l'ambiguità del Comentatore.
368. Per quanto possa quest'asserzione sembrar molto estesa, essa è fondata sugli originali registri delle nascite, delle morti, e de' matrimonj, tenuti con pubblica autorità e presentemente depositati nella Controlleria Generale di Parigi. Il prodotto annuale delle nascite per tutto il regno preso in cinque anni (dal 1770 al 1774 l'uno e l'altro inclusive) è di 479649 maschi e di 449269 femmine, in tutto di 928918 fanciulli. La sola Provincia dell'Hainault Francese dà 9906 nascite, e siamo assicurati da un'effettiva enumerazione del popolo, che si è ripetuta ogni anno dal 1773 al 1776, che fatto il calcolo, l'Hainault contiene 257097 abitanti. Secondo la regola d'una giusta analogia possiam dedurre, che la proporzione ordinaria delle nascite annuali a tutta la popolazione è di circa 1 a 26, e che il regno di Francia contiene 24,151,868 persone d'ambedue i sessi e d'ogni età. Se ci contentiamo poi della più moderata proporzione di 1 a 25, tutta la popolazione ascenderà a 23,222,950. Dalle diligenti ricerche del Governo Francese (le quali non sono indegne della nostra imitazione) possiamo aspettare un grado di certezza sempre maggiore su quest'importante soggetto.
369. Cod. Theod. l. V. Tit. IX. X. XI. Cod. Justin. l. XI. Tit. LXIII. Coloni appellantur, qui conditionem debent genitali solo, propter agriculturam sub dominio possessorum August. De Civ. Dei l. X. c. 1.
370. L'antica giurisdizione di ( Augustodunum ) Autun in Borgogna, capitale degli Edui, comprendeva l'adiacente territorio di ( Noviodunum ) Nevers. Vedi Danville, Not. de l'anc. Gaul. p. 491. Le due Diocesi d'Autun e di Nevers adesso sono composte la prima di 110 e l'altra di 160 Parrocchie. I registri delle nascite, tenuti per undici anni in 476 Parrocchie della medesima Provincia di Borgogna, e moltiplicati secondo la moderata proporzione per 25. (Vedi Messance, Ricerche sulla popolaz. p. 142 ) ci autorizzano ad assegnare il numero netto di 656 persone ad ogni parrocchia, il qual numero venendo moltiplicato per le 770 parrocchie della Diocesi di Nevers, e d'Autun, produrrà la somma di 505,120 persone per l'estensione del paese una volta occupato dagli Edui.
371. Si può fare un'aggiunta di 301,750 abitanti per le Diocesi di Scialon ( Cabillonum ) e di Macon ( Matisco ); poichè l'una contiene 200 Parrocchie e l'altra 260. Potrebbe giustificarsi quest'aumento di territorio con molte speciose ragioni. 1. Scialon e Macon erano senza dubbio comprese nella primitiva giurisdizione degli Edui (vedi Danville Not. p. 187, 443 ). 2. Nella Notizia di Gallia si trovan notate non come Civitates, ma solo come Castra. 3. Non sembra che sieno state sedi Episcopali prima del quinto e del sesto secolo. Contuttocciò v'è un passo d'Eumenio ( Paneg. vet. VIII. 7 ) che con gran forza m'impedisce d'estendere il territorio degli Edui, nel regno di Costantino, lungo le belle rive della navigabile Saona.
372. Eumen. in Paneg. Vet. VIII. 11.
373. L'Ab. Dubos Hist. Crit. de la M. F. Tom. I. p. 121.
374. Vedi Cod. Theod. lib. XIII. Tit. I. c. IV.
375. Zosimo l. II. p. 115. Probabilmente si trova negli attacchi di Zosimo tanta passione e pregiudizio, quanta nella elaborata difesa fatta della memoria di Costantino dallo zelante dottor Howel Ist. del Mond. Vol. II. p. 20.
376. Cod. Theod. l. XI. Tit. VII. leg. 3.
377. Vedi Lips. De Magnitud. Rom. l. II. c. 9. La Spagna Tarragonese presentò all'Imperator Claudio una corona d'oro di settecento libbre di peso, e la Gallia un'altra di novecento. Ho seguìto la ragionevole correzione di Lipsio.
378. Cod. Theod. l. XII. Tit. XIII. I Senatori si supponevano esenti dall' aurum coronarium; ma l' oblatio auri, che si esigeva dalle lor mani, era precisamente dell'istessa natura.
379. Teodosio il Grande, nel giudizioso avviso al suo figlio (Claudian. in IV. Consul. Honor. 214 ), distingue la Condizione d'un Principe Romano da quella di un Monarca Parto. Per l'uno era necessaria la virtù, per l'altro bastar poteva la nascita.
380. Non c'inganneremo rispetto a Costantino, se «crederemo tutto il male, che ne dice Eusebio, e tutto il bene, che ne dice Zosimo» Fleury Hist. Eccles. Tom. III. p. 233. In fatti Eusebio e Zosimo sono i due estremi dell'adulazione e dell'invettiva. Si esprimono le ombreggiature di mezzo da quegli scrittori, il carattere e la situazione de' quali temperò in varie maniere l'influenza del loro zelo di religione.
381. Le virtù di Costantino si son prese per la massima parte da Eutropio e da Vittore il giovane, due Pagani sinceri, che scrissero dopo l'estinzione della famiglia di esso. Anche Zosimo e l'Imperator Giuliano confessano il suo coraggio personale e le militari sue perfezioni.
382. Vedi Eutropio X. 6. In primo Imperii tempore optimis Principibus, ultimo mediis comparandus. Dall'antica versione Greca di Peanio ( Edit. Havercamp. p. 697. ) sono inclinato a sospettare ch'Eutropio avesse originalmente scritto vix mediis, e che quest'odioso monosillabo fosse tolto di mezzo dall'affettata inavvertenza de' copisti. Aurelio Vittore esprime l'opinion generale per mezzo d'un volgare, e veramente oscuro proverbio; Trachala decem annis praestantissimus: duodecim sequentibus latro; decem novissimis pupillus ob immodicas profusiones.
383. Giuliano ( Orat. I. p. 8) in un discorso adulante pronunziato in presenza del figlio di Costantino e ne' Cesari p. 335. Zosim. p. 114, 115. Posson citarsi le fabbriche tuttora esistenti di Costantinopoli ec. come una prova durevole e senza eccezione della profusione del loro autore.
384. L'imparziale Ammiano merita la nostra fede. Proximorum fauces aperuit primus omnium Constantinus lib. XVI. c. 8. Eusebio medesimo ne confessa l'abuso ( Vit. Const. l. IV. c. 29, 54), ed alcune leggi Imperiali ne indicano debolmente il rimedio; vedi sopra p. 60 n. 1.
385. Giuliano ne' Cesari tenta di mettere in ridicolo il suo zio. Il dotto Spanemio però conferma la sospetta di lui testimonianza coll'autorità di medaglie (Vedi Coment. p. 156-299. 397. 459.) Eusebio dice ( Orat. c. 5) che Costantino vestiva in tal guisa per causa del pubblico, non di se stesso. Se ciò s'ammettesse, il più stolto vanaglorioso non sarebbe mai privo di scusa.
386. Zosimo e Zonara sono d'accordo in rappresentar Minervina, come la concubina di Costantino, ma Du Cange ha molto bravamente dimostrato il carattere di essa, producendo un passo decisivo di uno de' panegirici: ab ipso fine pueritiae te matrimonii legibus dedisti.
387. Du Cange ( Famil. Byzantin. p. 44) sull'autorità di Zonara gli dà il nome di Costantino, ch'è alquanto inverisimile, essendo già stato occupato dal fratello maggiore. Si fa menzione di quello da Annibaliano nella Cronica Pasquale ed è approvato dal Tillemont. Hist. des Emper. T. IV. p. 527.
388. Girol. in Chron. La povertà di Lattanzio si può riferire o a lode del disinteressato filosofo, o a vergogna dell'insensibil padrone. Vedi Tillemont Mem. Eccl. Tom. VI. part. I. p. 345. Dupin Bibliot. Eccl. T. I. pag. 205. Lardner Credibil. dell'Ist. Evangel. P. II. Vol. VII. p. 66.
389. Euseb. Hist. Eccles. l. X. c. 9. Eutropio (X. 6.) lo chiama egregium virum; e Giuliano ( Orat. I) assai chiaramente allude alle imprese di Crispo nella guerra civile. Vedi Spanem. Coment. p. 92.
390. Si confronti Idacio e la Cronica Pasq. con Ammiano l. XIV. c. 5. Sembra che l'anno, in cui Costanzo fu creato Cesare, sia con più accuratezza fissato da due Cronologisti; ma l'istorico, il quale visse nella sua Corte, non poteva ignorare il giorno anniversario. Quanto alla deputazione del nuovo Cesare alle Province della Gallia vedi Giuliano Orat. I p. 12. Gotofredo Cronol. leg. p. 26. Blondello del Primat. della Chies. pag. 1183.
391. Cod. Theod. l. IX. Tit. IV. Gotofredo sospetta i segreti motivi di questa legge. Coment. Tom. III. pag. 9.
392. Du Cange Fam. Byzant. p. 58. Tillemont Tom. IV. p. 610.
393. Il suo nome era Porfirio Ottaviano. Si stabilisce la data del suo panegirico, scritto secondo il gusto di quel tempo in bassi acrostici, da Scaligero ad Euseb. p. 250. da Tillemont Tom. IV. p. 607 e dal Fabricio Bibl. Latin. l. IV. c. 1.
394. Zosim. l. II. 103. Gotofred. Chronolog. leg. pag. 28.
395. Ἀκριτως senza processo è la forte e più probabilmente giusta espressione di Svida. Vittore il Vecchio, che scrisse nel regno seguente, dice con conveniente cautela: natu grandior incertum qua, causa patris judicio occidisset. Se noi consultiamo gli scrittori posteriori, come Eutropio, Vittore il Giovane, Orosio, Girolamo, Zosimo, Filostorgio e Gregorio di Tours, sembra che la cognizione, che hanno di questo fatto, vada a grado a grado crescendo a misura che dovevan diminuire i mezzi d'esserne informati: circostanza, che frequentemente s'incontra nelle istoriche ricerche.
396. Ammiano ( l. XIV. c. II) adopera l'espression generale peremptum. Codino (p. 34) dice, che il Principe fu decapitato; ma Sidonio Apollinare ( Epist. V. 8), forse per fare un'antitesi al bagno caldo di Fausta, vuol piuttosto che gli fosse dato un sorso di freddo veleno.
397. Sororis filium commodae indolis juvenem. Eutrop. X. 6. Non sarebb'egli permesso di congetturare, che Crispo avesse sposato Elena, figlia dell'Imperator Licinio, e che in occasione del felice matrimonio della Principessa fatto nell'anno 322, Costantino avesse accordato un generale perdono? Vedi Du Cange ( Fam. Byzant. p. 47) e la legge ( l. IX. Tit. XXXVII) del Codice Teodosiano che ha tanto imbarazzato gl'Interpreti. Gotofred. Tom. III p. 297.
398. Vedi la vita di Costantino specialmente nel l. II. c. 19, 20. Evagrio dugento cinquant'anni dopo (l. III. c. 41.) dedusse dal silenzio d'Eusebio un vano argomento contro la verità del fatto.
399. Voltaire Hist. de Pierre le Grand, P. 2. c. 10.
400. Ad oggetto di provare, che da Costantino fu eretta la Statua, e dipoi nascosta dalla malizia degli Arriani, Codino con molta facilità inventa (p. 34) due testimonj, Ippolito ed Erodoto il Giovane, alle immaginarie storie de' quali con fiducia sfacciata si riferisce.
401. Zosimo ( l. II. p. 103) si può considerar come il nostro originale. L'accorgimento de' moderni, assistito da qualche cenno che ne han dato gli antichi, ha illustrato e migliorato l'oscura ed imperfetta di lui narrazione.
402. Filostorgio l. II. c. 4. Zosimo ( l. II. p. 104, 116) attribuisce a Costantino la morte di due mogli; cioè dell'innocente Fausta, e d'un'adultera, ch'era madre de' tre successori di lui. Secondo Girolamo passaron tre o quattro anni fra la morte di Crispo e quella di Fausta. Vittore il Vecchio osserva un prudente silenzio.
403. Se Fausta fu privata di vita, è ragionevol di credere, che il teatro della sua esecuzione fossero i privati appartamenti del palazzo. L'oratore Grisostomo compiacque la sua fantasia con esporre l'Imperatrice nuda in un deserto monte, ad essere divorata dalle fiere.
404. Giulian. Orat. I. Par ch'egli la chiami madre di Crispo. Ella potè forse prender quel titolo per adozione. Almeno non si risguardava come mortale di lui nemica. Giuliano paragona la fortuna di Fausta a quella di Parisatide Regina di Persia. Un Romano si sarebbe dovuto rammentare più naturalmente Agrippina seconda.
Et moi qui sur le trône ai suivi mes ancètres;
Moi fille, femme, soeur, et mère de vos maitres.
405. Monod. in Constant. Jun. c. 4 ad calc. Eutrop. Edit. Havercamp. L'oratore la chiama la più divina e pia delle Regine.
406. Interfecit numerosos amicos Eutrop. XX. 6.
407.
Saturni aurea, saecula quis requirat?
Sunt haec gemmea, sed Neroniana.
Sidon. Apollinar. V. 8.
Egli è un poco singolare, che questi satirici versi fossero attribuiti non ad un oscuro compositor di libelli, o ad un disgustato patriotta, ma ad Ablavio primo ministro e favorito dell'Imperatore. Noi possiamo adesso conoscere, che le imprecazioni del popolo Romano eran dettate dall'umanità non meno che dalla superstizione. Zosim. t. II. p. 105.
408. Euseb. Orat. in Constant. c. 3. Queste date son corrette abbastanza da giustificar l'Oratore.
409. Zosim. l. II. p. 117. Sotto i predecessori di Costantino Nobilissimus era un epiteto indeterminato piuttosto che un fisso e legittimo titolo.
410. Adstruunt nummi veteres ac singulares; Spanem. de us. num. Diss. XII. Vol. II. p. 357. Ammiano parla di questo Romano Re ( l. XIV. c. I. e Vales. Ib. ). Il Frammento Valesiano lo chiama Re de' Re, e la Cronica Pasquale p. 286. usando la Parola Ρηγα, aggiunge peso alla testimonianza Latina.
411. La sua destrezza negli esercizi marziali è celebrata da Giuliano Orat. I. p. 11. Orat. II. p. 53. e confessata da Ammiano l. XXI. c. 16.
412. Euseb. in vit. Const. l. IV. c. 51. Julian. Orat. I. p. 11. 16. coll'elaborato Comentario di Spanemio. Libanio Orat. III. p. 109. Costanzo studiò con lodevol diligenza; ma la lentezza della sua fantasia gl'impedì di far progressi nell'arte della poesia o anche della rettorica.
413. Eusebio ( l. IV. c. 51, 52 ) con animo d'esaltare l'autorità e la gloria di Costantino, afferma, ch'esso divise il Romano Impero, come avrebbe potuto un cittadino privato dividere il suo patrimonio. Può rilevarsi la divisione, ch'ei fece delle Province da Eutropio, da' due Vittori, e dal frammento Valesiano.
414. Per la vigilanza di Dalmazio fu preso Calosero, ch'era l'oscuro capo di questa ribellione o piuttosto tumulto, e bruciato vivo nella pubblica piazza di Tarso. Vedi Vittore il Vecchio, la Cronica di Girolamo, e le dubbiose tradizioni di Teofane e di Cedreno.
415. Il Cellario ha raccolto le opinioni degli antichi rispetto alla Sarmazia Europea ed Asiatica; e il Danville le ha applicate alla Geografia moderna, con l'avvedimento e coll'esattezza che sempre distinguono quell'eccellente scrittore.
416. Ammiano l. XVII. c. 12. I cavalli Sarmati eran castrati per prevenire i dannosi accidenti, che avrebber potuto produrre le forti e indomabili passioni de' maschi.
417. Pausania l. I. p. 50. Edit. Hulm. Quel diligente viaggiatore aveva esaminato con attenzione una corazza sarmatica, che si conservava nel tempio d'Esculapio in Atene.
418.
Aspicis et mitti sub adunco toxica ferro
Et telum caussas mortis habere duas.
Ovid. ex Pont. l. IV. ep. 7. v. 7.
Vedi nelle Ricerche sopra gli Americani ( Tom. II p. 236, 271 ) una dissertazione molto curiosa intorno a' dardi avvelenati. Il veleno traevasi ordinariamente dal regno vegetabile; ma quello, che usavan gli Sciti, par che fosse tratto dalla vipera con una mistura di sangue umano. L'uso delle armi avvelenate, che si è trovato diffuso in ambedue i mondi, non ha mai preservato una tribù di selvaggi dalle armi di un disciplinato nemico.
419. I nove libri delle poetiche epistole, che compose Ovidio ne' primi sette anni del suo tristo esilio, hanno, oltre il merito dell'eleganza, un doppio pregio. Presentano, cioè, una pittura dello spirito umano, posto in circostanze molto singolari, e contengono molte curiose osservazioni, che nessun Romano, fuori che Ovidio, avrebbe avuto l'occasione di fare. Si è raccolta ogni circostanza, che può contribuire ad illustrar l'istoria de' Barbari dell'accuratissimo Conte di Buat. Hist. Anc. des Peupl. de l'Europe Tom. IV. c. XVI. p. 286-317.
420. I Sarmati Jazigi eran già stabiliti sulle rive del Patisso o Tibisco, quando Plinio pubblicò nell'anno 79 la sua Storia Naturale. Vedi l. IV. c. 15. Al tempo di Strabone e di Ovidio, sessanta o settant'anni avanti, par che abitassero al di là de' Geti, lungo le coste dell'Eussino.
421. Principes Sarmatarum Jazygum, penes quos civitatis regimen... plebem quoque et vim equitum, qua sola valent, offerebant. Tacit. Hist. III. 5. Fu fatta quest'offerta nella guerra civile tra Vitellio e Vespasiano.
422. Sembra che quest'ipotesi d'un Re Vandalo sopra sudditi Sarmati sia necessaria per conciliare il Goto Giornaudes con gl'istorici Greci e Latini di Costantino. È da osservarsi, che Isidoro, il quale visse in Ispagna sotto il dominio dei Goti, dà loro per nemici non i Vandali, ma i Sarmati. Vedi la sua Cronica appresso Groz. p. 709.
423. Bisogna che io faccia qualche apologia per essermi servito senza scrupolo dell'autorità di Costantino Porfirogenito, in tutto ciò, che ha rapporto alle guerre e negoziazioni degli abitanti del Chersoneso. Io so, ch'egli era un Greco del decimo secolo, e che i suoi racconti d'Istoria antica son bene spesso confusi e favolosi. Ma in quest'occasione, ciò ch'esso narra è per la massima parte coerente e probabile; nè deve esservi molta difficoltà a concepire, che per un Imperatore potevano essere accessibili alcuni archivi segreti, ch'erano sfuggiti alla diligenza degl'Istorici minori. Quanto alla situazione ed istoria del Chersoneso vedi Peyssonel Des Peuples barbares qui ont habité les bords du Danube. c. XVI. p. 84, 90.
424. Le guerre Gotiche e Sarmatiche son riportate in un modo così imperfetto, che io sono stato costretto a confrontare fra loro i seguenti scrittori, che reciprocamente si suppliscono, correggono, ed illustrano l'uno coll'altro. Quelli che si prenderanno la medesima pena, possono avere un diritto di criticare la mia narrazione. Ammiano l. XXVII. c. 22. Annon. Vales. p. 715. Eutrop. X. 7. Sesto Rufo de Prov. c. 26. Julian. Orat. I. p. 9 col Coment. di Span. p. 94. Hieron. in Chron. Euseb. in vit. Const. l. IV. c. 6. Socrat. l. I. c. 18. Sozom. l. I c. 8. Zosim. l. II. c. 108. Jornand. de reb. Get. c. 22. Isidor. in Chron. p. 709. in Hist. Gothor. Grotii, Constant. Porphyrog. De administr. Imper. c. 53. p. 208. Edit. Meurs.
425. Eusebio ( in vit. Const. l. IV. c. 50 ) osserva tre circostanze relative a quest'Indiani. 1. Essi vennero dai lidi dell'Oceano Orientale; descrizione che può applicarsi alle coste della China o del Coromandel; 2. Presentarono scintillanti gemme ed incogniti animali; 3. Protestarono che i loro Monarchi avevano erette statue per rappresentare la maestà suprema di Costantino.
426. Funus relatum in urbem sui nominis; quod sane P. R. aegerrime tulit. Aurel. Vittore. Costantino s'era preparato un magnifico sepolcro nella Chiesa de' Santi Apostoli. Vedi Eusebio. l. IV. c. 60, che nel quarto libro della vita di esso dà il migliore, e quasi l'unico ragguaglio della malattia, della morte, e de' funerali di Costantino.
427. Eusebio ( l. IV. c. 6. ) termina il suo racconto con questa fedele dichiarazione delle truppe, e scansa tutte le odiose circostanze del macello, che seguì dopo.
428. Si descrive il carattere di Dalmazio con vantaggio, quantunque brevemente, da Eutropio X. 9. Dalmatius Caesar prosperrima indole, neque patruo absimilis, haud multo post oppressus est factione militari. Siccome tanto Girolamo quanto la Cronica Alessandrina fanno menzione del terzo anno di questo Cesare, che non principiava fino al 18. o 24. Settembre dell'anno 337, egli è chiaro che queste militari fazioni continuarono per più di quattro mesi.
429. Ho riferito questo singolare aneddoto sull'autorità di Filostorgio l. II. c. 16. Ma se mai da Costanzo, o dagli aderenti di lui si usò tal pretesto, dipoi fu disprezzato, appena ebbe servito all'immediato loro disegno. Atanasio ( Tom. I p. 856 ) fa menzione del giuramento, che Costanzo avea preso per la sicurezza de' suoi congiunti.
430. Coniugia sobrinarum diu ignorata tempore addito percrebuisse. Tacit. Annal. XII. 6. e Lips. Ib. La rivocazione dell'antica legge, e la pratica di cinquecent'anni non furono bastanti a sradicare i pregiudizi de' Romani, che sempre risguardarono i matrimonj de' cugini germani come una specie d'imperfetto incesto (Augustin. De civ. Dei XV. 6. ); e Giuliano, il cui spirito era stravolto dalla superstizione e dall'ira, diffama queste non naturali parentele fra' propri di lui cugini coll'obbrobrioso epiteto di γαμὼν τε ου γαμον nozze non nuziali ( Orat. VII p. 228 ). La giurisprudenza de' canoni ha di poi restituita, e rinvigorita questa proibizione, senza però averla potuta introdurre nelle civili, o comuni leggi di Europa. Vedi a proposito di questi matrimonj Taylor Leg. Civ. p. 331. Brorer. de Jur. Connub. l. II. c. 12. Hericourt Loix Eccles. P. III. c. 4. Fleury Inst. du Droit Can. Tom. I. p. 331. Paris 1767 e Fra Paolo Istor. del Conc. Trid. l. VIII.
431. Giuliano ( ad S. P. Q. Athen. p. 270 ) accusa il suo cugino Costanzo di tutta la colpa di un macello, in cui era stato sì vicino a soccombere ei pure. Vien confermata la sua asserzione da Atanasio, che per ragioni di altro genere non era meno nemico di Costanzo ( Tom. I. p. 856. ) Zosimo conviene nella medesima accusa; ma i tre abbreviatori Eutropio e i Vittori usano l'espressione molto temperata sinente potius quam jubente; — incertum quo suasore — vi militum.
432. Euseb. in vit. Const. l. IV. c. 69. Zosim. l. II. p. 1117. Idat. in Chron. Vedi due note di Tillemont Hist. des Emper. IV. p. 1086-1091. Si fa menzione del regno del fratello maggiore in Costantinopoli solo nella Cronica Alessandrina.
433. Agatia, che visse nel sesto secolo, è l'autore di questa istoria ( l. IV. p. 135. edit. Lovre ). Egli rilevò tali notizie da alcuni estratti delle Croniche persiane, che ottenne e tradusse l'interprete Sergio durante la sua ambasceria a quella Corte. La Coronazione della madre di Sapore, è similmente rammentata da Schikard ( Tarikk. p. 126 ) e D'Herbelot ( Bibl. Orient. p. 763 ).
434. D'Herbelot. Bibl. Or. p. 764.
435. Sesto Rufo c. 26 la di cui autorità in quest'occasione non è disprezzabile, afferma che i Persiani richiesero invano la pace, e che Costantino si preparava a marciar contro di loro; ma il peso maggiore della testimonianza d'Eusebio ci costringe ad ammettere, se non la ratifica, i preliminari almeno del trattato. Vedi Tillemont Hist. des Emper. T. IV. p. 420.
436. Julian. Orat. I. p. 20.
437. Julian. Orat. I. p. 20, 21. Mosè di Corene l. II. c. 8-9 l. III. c. 1-9. p 226-240. Il perfetto accordo fra gl'indeterminati cenni dell'Oratore contemporaneo e la circostanziata narrazione dell'Istorico nazionale dà lume all'uno e peso all'altro. Può anche osservarsi, rispetto all'autorità di Mosè, che si trova il nome d'Antioco pochi anni prima in un uffizio d'inferior dignità. Vedi Gotofred. Cod. Theodos. Tom. IV. p. 350.
438. Ammiano XIV 4. fa una viva descrizione della vita vagabonda e predatoria de' Saraceni, che s'estendevano da' confini dell'Assiria fino alle cateratte del Nilo. Dalle avventure di Malco, che Girolamo riferisce in sì piacevol maniera, si rileva, che la pubblica strada fra Berea ed Edessa era infestata da questi ladroni. Ved. Hieron. Tom. I. p. 256.
439. Noi prenderemo da Eutropio l'idea generale di questa guerra X. 10. A Persis enim multa et gravia perpessus, saepe captis oppidis, obsessis urbibus, coesis exercitibus, nullumque et contra Saporem prosperum praelium fuit, nisi quod apud Singaram etc. Quest'ingenua narrazione vien confermata da' cenni, che ne danno Ammiano, Rufo, e Girolamo. Le due primo Orazioni di Giuliano, e la terza di Libanio ce ne presentano una più lusinghiera pittura; ma la ritrattazione di ambedue quegli oratori dopo la morte di Costanzo, nel tempo che ci rimette in possesso della verità, infama il loro carattere e quello dell'Imperatore. Il Comentario di Spanemio sulla prima orazione di Giuliano contiene una profusa erudizione. Vedansi ancora le giudiziose osservazioni di Tillemont. Hist. des Emper. Tom. IV. p. 656.
440. Acerrima nocturna concertatione pugnatum est, nostrorum copiis ingenti strage confessis. Ammiano XVIII. 5. Vedi anche Eutropio X. 10. e Sesto Rufo c. 27.
441. Libanio Orat. III. p. 133 con Giuliano Orat. I. p. 24 ed il Coment. di Spanemio p. 179.
442. Vedi Giuliano Orat. I. p. 27, Orat. II. p. 62 col Comentario di Spanemio ( p. 188-202 ), che illustra le circostanze e determina l'epoca de' tre assedj di Nisibi. S'esaminano anche le date di essi dal Tillemont ( Hist. des Emper. Tom. IV. p. 668, 671, 674 ) e qualche cosa s'aggiunge da Zosimo ( l. III. p. 151 ) e dalla Cronica Alessandrina ( p. 290. )
443. Sallust. Fragm. LXXXIV. edit. Brosses. Plutar. in Lucul. ( Tom. III. p. 184. ) Nisibi è presentemente ridotta a centocinquanta case; le terre paludose producon riso, ed i fertili prati, fino a Mosul ed al Tigri, son coperti dalle rovine della città e de' villaggi. Vedi Niebuhr ( Viag. Tom. II. p. 300-309. )
444. I miracoli, che Teodoro ( l. II. c. 30 ) ascrive a S. Giacomo, Vescovo d'Edessa, furono almeno fatti per una causa che lo meritava, cioè per la difesa della patria. Egli comparve sulle mura in forma del Romano Imperatore, e mandò un'armata di zanzare a punger le trombe degli elefanti, e a sconfigger l'esercito del nuovo Sennacherib.
445. Giulian. Orat. I. p. 27. Quantunque Niebuhr, ( Tom. II. p. 307 ) assegni un gonfiamento molto considerabile al Migdonio, sopra del quale vide un ponte di dodici archi, nonostante è difficile di capire quanto paralello di un piccol ruscello con un gran fiume. Nella descrizione di queste stupende operazioni d'acqua si trovano molte circostanze oscure, e quasi non intelligibili.
446. Noi dobbiamo a Zonara (com. II l. XIII. p. 11 ) la notizia di tale invasione de' Massageti, ch'è perfettamente coerente alla serie generale degli avvenimenti a' quali siamo condotti oscuramente dall'interrotta storia d'Ammiano.
447. Si riferiscono le cause e gli avvenimenti di questa guerra civile con molta ambiguità e contraddizione. Io ho seguìto specialmente Zonara e Vittore il Giovane. Il monodio pronunziato in occasione della morte di Costantino ( ad calcem Eutropii edit. Havercamp. ) potrebbe averci date molte notizie; ma la prudenza ed il cattivo gusto impegnarono l'Oratore a diffondersi in una vaga declamazione.
448. Quarum ( Gentium ) obsides pretio quaesitos pueros venustiores, quod cultius habuerat, libidine hujusmodi arsisse pro certo habetur. Se non si fosse reso pubblico il gusto depravato di Costante, Vittore il Vecchio, che occupava un posto considerabile nel regno del fratello di lui, non l'avrebbe asserito in termini sì positivi.
449. Giuliano Orat. I. et II. Zosim. l. II. ( p. 134. ) Vittore nell'Epit. V'è ragione di credere, che Magnenzio fosse nato in una di quelle colonie barbare, che Costanzo Cloro avea stabilite nella Gallia. La sua condotta può farci sovvenire del famoso patriotta Simone di Montfort, Conte di Leicester, che potè persuadere il buon popolo d'Inghilterra, ch'esso, Francese di nascita, aveva preso le armi par liberarlo dagli estranei favoriti.
450. Quest'antica città era una volta fiorita col nome d' Illiberis (Pompon. Mela II. 5.) La munificenza di Costantino le diede nuovo splendore, ed il nome della propria madre. Elena (che ha tuttavia il nome di Elne) divenne Sede Episcopale, ed il Vescovo di essa dopo lungo tempo trasferì la sua residenza a Perpignano, capitale del moderno Rossiglione. Vedi D'Anville ( Not. de l'anc. Gaul. p. 380. ) Longuerue Descript. de la Franc. ( p. 223 ) e la Marca Ispanica.
451. Zosimo l. II. ( p. 119, 120 ) Zonara Tom. II. l. XIII. ( p. 13 ) e gli Abbreviatori.
452. Eutropio (X. 10) rappresenta Vetranione con più moderazione, e probabilmente con più verità de' due Vittori. Esso era nato di oscuri parenti nelle più selvagge parti della Mesia; e la sua educazione era stata tanto negletta, che dopo il suo innalzamento studiò l'alfabeto.
453. Giuliano descrive nella sua prima Orazione la dubbiosa e fluttuante condotta di Vetranione, ed accuratamente la spiega Spanemio, che discute la situazione ed il contegno di Costantina.
454. Vedi Pietro Patrizio nell' Excerpt. Legation. ( p. 27 ).
455. Zonara (T. II l. XIII. p. 16.) La situazione di Sardica, vicina alla moderna città di Sofia, sembra meglio adattata a questo congresso, che la situazione o di Naisso o di Sirmio, dove si pone da Girolamo, da Socrate, e da Sozomeno.
456. Vedi le due prime Orazioni di Giuliano, specialmente a p. 31 e Zosimo ( l. II p. 122. ) La distinta narrazione dell'Istorico serve ad illustrare le diffuse ma indeterminate descrizioni dell'Oratore.
457. Vittore il Giovane dà al suo esilio l'enfatico nome di voluptarium otium. Socrate ( l. II. c. 18 ) è garante della corrispondenza coll'Imperatore la quale parrebbe provare che Vetranione era in vero prope ad stultitiam simplicissimus.
458. Eum Constantius .... facundiae vi dejectum imperio in privatum otium removit. Quae gloriam post natum Imperium soli processit eloquio, clementiaque etc. Aurelio Vittore, Giuliano e Temistio adornano questo fatto co' più artificiosi e vivi colori della loro rettorica.
459. Busbechio ( p. 112. ) attraversò la bassa Ungheria e Schiavonia in un tempo, in cui erano esse ridotte quasi ad un deserto dalle reciproche ostilità de' Cristiani e de' Turchi. Pure con maraviglia rammenta l'insuperabile fertilità del terreno; ed osserva, che l'altezza dell'erba era sufficiente a nascondere un carro carico alla sua vista. Vedi anche Browne Viagg. nella Collezione di Harris. Vol. II. ( p. 762. ec.).
460. Zosimo fa un ampio racconto della guerra e della negoziazione ( l. II. p. 123-130 ). Ma siccome non si dimostra nè soldato nè politico, la sua storia dee ponderarsi con attenzione, ed ammettersi con cautela.
461. Questo riguardevole ponte, ch'è fiancheggiato con torri, e fondato su grossi pali di legno, fu costruito l'anno 1566 dal Sultano Solimano per facilitare la marcia de' suoi eserciti nell'Ungheria. Vedi Browne Viagg. e Busching Sistem. di Geogr. Vol. II. p. 90.
462. Questa positura e le successive evoluzioni son chiaramente, sebbene in breve, descritte da Giuliano ( Orat. I. p. 36 ).
463. Sulpic. Sever. l. II. 405. L'Imperatore passò la giornata in preghiere con Valente, Vescovo Arriano di Mursa, che guadagnò la sua confidenza con annunciargli l'evento della battaglia. Il Tillemont ( Hist. des Emper. Tom. IV. p. 1110 ) osserva molto a proposito il silenzio di Giuliano rispetto al personal valore di Costanzo nella battaglia di Mursa. Il silenzio dell'adulazione qualche volta equivale alla più positiva ed autentica prova.
464. Giuliano Orat. I. p. 36 ed Orat. II. p. 59, 60. Zonara Tom. II. l. XIII. p. 17. Zosim. l. II. p. 130, 133. Quest'ultimo celebra la destrezza dell'arcier Menelao, che poteva scagliare tre dardi nel medesimo tempo; vantaggio, che secondo la sua idea degli affari militari, materialmente contribuì alla vittoria di Costanzo.
465. Secondo Zonara, Costanzo di 80000 uomini che aveva, ne perdè 30000 e Magnenzio 24000 di 36000. Gli altri articoli di questo racconto sembran probabili ed autentici; ma nel numero dell'armata del Tiranno dev'essersi fatto sbaglio o dall'autore o da' copisti. Magnenzio aveva raccolto tutte le forze d'Occidente sì de' Romani che de' Barbari in un formidabile corpo, che non può giustamente stimarsi minore di 100,000 uomini. Giulian. Orat. I. p. 34, 35.
466. Ingentes R. I. vires ea dimicatione consumptae sunt ad quaelibet bella externa idonea, quae multum triumphorum possent, securitatisque conferre. Eutrop. X. 13. Vittore il Giovane s'esprime nell'istessa guisa.
467. In quest'occasione dobbiam preferire la non sospetta testimonianza di Zosimo e di Zonara alle lusinghiere asserzioni di Giuliano. Vittore il Giovane dipinge in un singolare aspetto il carattere di Magnenzio. Sermonis acer, animi tumidi, et immodice timidus; artifex tamen ad occultandam audaciae specie formidinem. È egli più verisimile, che nella battaglia di Mursa la sua condotta fosse governata dalla natura o dall'arte? Io inclinerei alla seconda.
468. Julian. Orat. I. p. 38 39. In quel luogo non meno che nell' Oraz. II. p. 97 egli esprime la general disposizione del senato, del popolo, e de' soldati dell'Italia in favore dell'Imperatore.
469. Vittore il Vecchio descrive in una maniera patetica la misera condizione di Roma. Cujus stolidum ingenium adeo P. R. patribusque exitio fuit, uti passim domus, fora, viae, templaque cruore, cadaveribusque opplerentur bustorum modo. Atanasio Tom. I. ( p. 677 ) deplora la morte di molte illustri vittime, e Giuliano ( Orat. II. p. 58 ) rammenta con esecrazione la crudeltà di Marcellino implacabil nemico della casa di Costantino.
470. Zosim. l. II. p. 133. Vittore in Epitom. I panegiristi di Costanzo, col solito loro candore, omettono di far menzione di quest'accidentale disfatta.
471. Zonara Tom. II. l. XIII. p. 17. Giuliano in diversi luoghi di due orazioni si diffonde sulla clemenza di Costantino verso i ribelli.
472. Zosimo l. II. p. 133. Giuliano Orat. I. p. 40, II. 74.
473. Ammiano XV. 6. Zosimo l. II. p. 133. Giuliano, che (nell' Oraz. I. p. 40 ) inveisce contro i crudeli effetti della disperazion del Tiranno, rammenta ( Orat. I. p. 34 ) gli opprimenti editti, che furon dettati dalla necessità, o dall'avarizia di esso. I suoi sudditi furon costretti a comprare i beni Imperiali; specie di proprietà dubbia e pericolosa, che in caso di rivoluzione avrebbe potuto loro imputarsi come una condannabile usurpazione.
474. Le medaglie di Magnenzio celebrano le vittorie di due Augusti e del Cesare. Quest'ultimo era un altro fratello chiamato Desiderio. Vedi Tillemont Hist. des Emp. Tom. IV. p. 757.
475. Giuliano Orat. I. p. 40, II. p. 74 con Spanem. p. 263. Il comentario di questo illustra i fatti di quella guerra civile. Mons Seleusi era un picciol luogo nelle alpi Cozie poche miglia distante da Vapincum, o Gap, città Episcopale del Delfinato. Vedi Danville Not. de la Gaule p. 464, e Longuerue Descript. de la France p. 327.
476. Zosimo l. II. p. 134. (Liban. Orat. X. p. 268, 269 ). Quest'ultimo con gran veemenza critica tal crudele ed appassionata politica di Costanzo.
477. Giuliano Orat. I. p. 46. Zosimo l. II. p. 134. Socrate l. II. c. 32. Sozomeno l. IV. c. 7. Vittore il Giovane descrive la sua morte con alcune orride circostanze: Transfosso latere, ut erat vasti corporis, vulnere, naribusque, et ore cruorem effundens exspiravit. Se può darsi fede a Zonara, il Tiranno, avanti di spirare, ebbe il piacere d'uccidere colle sue proprie mani sua madre e Desiderio di lui fratello.
478. Sembra che Giuliano ( Orat. p. 58, 59 ) sia incerto nel determinare, se egli da se stesso si desse la pena de' suoi delitti, o se annegossi nel Dravo, o se da' vendicatori Demonj fu trasportato dal campo di battaglia al luogo degli eterni tormenti a lui destinato.
479. Ammiano XIV 5 XXI. 16.
480. Ammiano ( l. XIV. c. 6 ) attribuisce la prima pratica di castrare al crudele ingegno di Semiramide, che si suppone regnasse più di mille novecento anni prima di Cristo. L'uso degli Eunuchi è molto antico sì nell'Asia che nell'Egitto. Se ne fa menzione nella Legge di Mosè Deuteron. l. XXIII. Vedi Goguet Orig. des Loix ec. P. I. l. I. c. 3.
481.
Eunuchum dixti velle te;
Quia solae utuntur his Reginae.
Terent. Eunuch. Act. I. Sc. 2. Questa commedia è tradotta da una di Menandro, e l'originale dev'esser comparso alla luce poco dopo le conquiste orientali d'Alessandro.
482.
Miles.... spadonibus
Servire rugosis potest.
Horat. Carm. V. 9, e Dacier Ib. Colla parola spado i Romani energicamente esprimevano il loro abborrimento a tale mutilazione. Il nome Greco d'Eunuchi, che insensibilmente prevalse, aveva un suono più dolce, ed un senso più ambiguo.
483. Noi non abbiamo che a rammentar Poside, Liberto ed Eunuco di Claudio, in favore di cui l'Imperatore prostituì varj de' più onorevoli premj del valor militare. Vedi Sveton. in Claud. c. 28. Poside impiegò una gran parte delle sue ricchezze in fabbricare.
Ut spado vincebat Capitolia nostra
Posides. Juvenal Sat. XIV.
484. Castrari mares vetuit. Sveton. in Domit. c. 7. Vedi Dion. Cass. l. LXVII p. 1107, l. LXVIII. p. 1119.
485. Si trova un passo nell'Istoria Augusta ( p. 137 ), in cui Lampridio nel tempo che loda Alessandro Severo e Costantino per aver limitata la tirannia degli Eunuchi, deplora i danni, che cagionavano essi negli altri regni: Huc accedit quod Eunuchos nec in consiliis, nec in ministeriis habuit; qui soli Principes perdunt, dum eos more Gentium aut Rogum Persarum volunt vivere; qui a Populo etiam amicissimum semovent; qui internuntii sunt, aliud quam respondetur referentes; claudentes Principem suum, et agentes ante omnia, ne quid sciat.
486. Senofonte ( Cyropaed. l. VIII. p. 540 ) ha esposte le speciose ragioni, che impegnaron Ciro ad affidare la propria persona alla custodia degli Eunuchi. Aveva egli osservato negli animali, che sebbene l'uso della castrazione potesse addolcire la loro non governabil fierezza, non ne diminuiva però la forza e lo spirito, e si persuadeva, che uomini separati dal resto della specie umana, sarebbero più fortemente attaccati alla persona del loro benefattore. Ma una lunga esperienza ha contraddetto al giudizio di Ciro. Può incontrarsi qualche particolar esempio di Eunuchi, distinti per la fedeltà, pel valore, e l'abilità loro; ma se esaminiamo l'istoria in genere della Persia, dell'India e della China, troveremo che la potenza degli Eunuchi ha uniformemente indicato la decadenza e la caduta di ogni dinastia.
487. Vedi Ammiano Marcellino l. XXI. c. 16, l. XXII. c. 4. Tutta la serie dell'imparziale sua storia serve a giustificar le invettive di Mammertino, di Libanio, e di Giuliano medesimo, che hanno insultato i vizi della Corte di Costanzo.
488. Aurelio Vittore censura la negligenza del suo Sovrano in eleggere i Governatori delle Province e i Generali dell'esercito; e termina la sua storia coll'ardita osservazione, ch'è assai più pericoloso in un regno debole d'attaccare i ministri, che non lo stesso Monarca: uti verum absolvam brevi, ut Imperatore ipso clarius ita apparitorum plerisque magis atrox nihil.
489. Apud quem ( si vere dici debeat ) multum Constantius potuit. Ammian. l. XVIII. c. 4.
490. Gregorio Nazianzeno (Orat. III. p. 90) rimprovera l'Apostata della sua ingratitudine verso Marco, Vescovo d'Aretusa, che aveva contribuito a salvargli la vita; ed apprendiamo, quantunque da un testimone meno rispettabile (Tillemont Hist. des Emper. Tomo IV. p. 916 ), che Giuliano fu nascosto nel santuario d'una Chiesa.
491. Si contiene il racconto più autentico dell'educazione e delle avventure di Giuliano nell'epistola, o manifesto, ch'egli stesso indirizzò al Senato ed al Popolo d'Atene. Libanio ( Orat. Parental. ) dal canto de' Pagani, e Socrate (l. II. c. 1) da quello de' Cristiani ce ne han conservate molte interessanti particolarità.
492. Quanto alla promozione di Gallo, vedi Idacio, Zosimo, ed i due Vittori. Secondo Filostorgio ( l. IV. c. 1. ). Teofilo, Vescovo Arriano, fu il testimone, e come il garante di questo solenne trattato. Egli sostenne tal carattere con generosa fermezza; ma il Tillemont ( Hist. des Emper. Tom. IV. p. 1120 ) crede molto improbabile che un Eretico possedesse una tale virtù.
493. Sul principio fu permesso a Giuliano di proseguire i suoi studi in Costantinopoli; ma la riputazione, ch'egli acquistava, presto eccitò la gelosia di Costanzo, e fu avvisato il giovane Principe di ritirarsi ne' meno cospicui teatri della Bitinia e della Jonia.
494. Vedi Giulian. ad S. P. Q. A. 271. Girol. in Chron. Aurel. Vitt. Eutrop. X. 14. Io copierò le parole d'Eutropio, che scrisse il suo compendio circa quindici anni dopo la morte di Gallo, quando non v'era più alcun motivo o di adulare, o di deprimere il suo carattere: Multis incivilibus gestis Gallos Caesar... vir natura ferox, et ad tyrannidem pronior, si suo jure imperare licuisset.
495. Megaera quidem mortalis, inflammatrix saevientis assidua, humani aruoris avida etc. Ammian. Marcellin. l. XIV. c. 1. La sincerità d'Ammiano non gli permetterebbe di alterare i fatti, o i caratteri; ma l'amore, che ha per gli ambiziosi ornamenti, spesso lo conduce ad una veemenza d'espressione non naturale.
496. Il nome di questo era Clemazio d'Alessandria, e l'unico suo delitto fu l'aver ricusato di soddisfare a' desiderj della sua suocera, che ne sollecitò la morte, perchè era restato deluso il suo amore. Ammiano l. XIV. c. 1.
497. Vedi in Ammiano ( l. XIV. c. 1, 7 ) un ampio ragguaglio delle crudeltà di Gallo. Giuliano suo fratello ( p. 272 ) ci fa conoscere, ch'erasi formata una segreta cospirazione contro di lui; e Zosimo nomina ( l. II. p. 135 ) le persone impegnate in quella, vale a dire un ministro di ragguardevol grado, ed alcuni oscuri agenti, che avevan risoluto di fare la loro fortuna.
498. Zonara ( l. XIII. T. II. p. 17, 18. ). Gli assassini avevano sedotto un gran numero di legionari; ma i loro disegni furono scoperti e rivelati da una vecchia, nella capanna della quale alloggiavano.
499. Nel testo attuale d'Ammiano si legge: asper quidem, sed ad lenitatem propensior, che forma un non senso contraddittorio. Valesio coll'aiuto d'un vecchio manoscritto ha corretta la prima di queste corruzioni, e si vede qualche raggio di lume, sostituendovi la parola vafer. Se ci arrischiamo a cangiare lenitatem in levitatem, quest'alterazione d'una sola lettera renderà tutto il passo chiaro e corrente.
500. In vece d'esser costretti a raccoglier da varj fonti sparse ed imperfette notizie, entriamo adesso nel pieno corso dell'istoria d'Ammiano, nè abbiam bisogno di riferire, che il settimo ed il nono capitolo del suo libro decimoquarto. Non dee però interamente ommettersi Filostorgio ( l. III. c. 28 ) sebbene parziale per Gallo.
501. Ella preceduto avea suo marito; ma morì di febbre per viaggio in un picciol luogo della Bitinia chiamato Coenum Gallicanum.
502. Le legioni Tebee, acquartierate in Adrianopoli, mandarono a Gallo una deputazione coll'offerta de' loro servigi. (Ammiano l. XIV. c. 11. ) La Notizia (S. 6, 20, 38. Edit. Labb. ) fa menzione di tre diverse legioni, ch'ebbero il nome di Tebee. Lo zelo del Voltaire, per distruggere una disprezzabile quantunque celebre leggenda, lo ha tentato a negare, su' più leggieri fondamenti, l'esistenza d'una legione Tebea negli eserciti Romani. Vedi Oeuvr. de Voltaire Tom. XI. p. 414 Edit. 4.
503. Vedi l'intera narrazione del viaggio e della morte di Gallo presso Ammiano l. XIV. c. 11. Giuliano si duole, che fosse condannato a morte il fratello senza processo: si studia di giustificare o almen di scusare la crudel vendetta, che questi avea fatto, de' suoi nemici; ma sembra alla fine confessare, che giustamente si potea privarlo della porpora.
504. Filostorg. l. IV, c. 1. Zonara l. XIII. T. II. p. 19. Ma il primo era parziale per un Monarca Arriano, ed il secondo trascrisse senza scelta o criterio tutto quel che trovò negli scritti degli antichi.
505. Vedi Ammiano Marcellino ( l. XV. c. 1, 3, 8. ) Giuliano medesimo, nella sua lettera agli Ateniesi, fa una molto viva e giusta pittura del suo pericolo e de' suoi sentimenti. Egli dimostra però qualche propensione ad esagerar le sue pene, insinuando, sebbene in termini oscuri, ch'esse durarono più d'un anno; periodo che non si può conciliare colla verità della cronologia.
506. Giuliano ha esposto i delitti e le sventure della famiglia di Costantino in una favola allegorica con felicità immaginata, e raccontata piacevolmente. Essa forma la conclusione dell'Orazione settima, da cui fu staccata e tradotta dall'Abate della Bleterie: Vit. di Giovian. ( Tom. II. p. 385-408 ).
507. Essa era nativa di Tessalonica in Macedonia, di nobil famiglia, figliuola e sorella di Consoli. Si può collocare il suo matrimonio coll'Imperatore nell'anno 352. In un tempo di divisione, gli storici di tutti i partiti sono fra loro d'accordo nelle sue lodi. Vedi le loro testimonianze raccolte dal Tillemont Hist. des Emper. ( Tom. IV. p. 750-754 ).
508. Libanio e Gregorio Nazianzeno hanno esaurito gli artifizi e le forze della loro eloquenza per rappresentar Giuliano come o il primo fra gli Eroi, o il peggior de' Tiranni. Gregorio fu di lui condiscepolo in Atene; ed i sintomi, ch'egli sì tragicamente descrive della futura empietà dell'Apostata, si riducono solo ad alcune imperfezioni di corpo, ed a certe singolarità del suo conversare, e delle sue maniere. Esso protesta, ciò nonostante, che fin d'allora previde e predisse le calamità della Chiesa e dello Stato. ( Gregor. Naz. Orat. IV. p. 121, 122. )
509. Succumbere tot necessitatibus tamque crebris unum se, quod numquam fecerat, aperte demonstrans; Ammiano l. XV. c. 8. Ivi esprime con i propri lor termini le adulatrici proteste de' Cortigiani.
510. Tantum a temperatis moribus Juliani differens fratris, quantum inter Vespasiani filios fuit Domitianus et Titum; Ammiano l. XIV. c. 21. Le circostanze e l'educazione de' due fratelli furono tanto simili, che somministrano un forte esempio dell'innate diversità de' caratteri.
511. Ammiano ( l. XV. c. 8. Zosimo l. III. p. 137, 138 )
512. Giuliano ad S. P. Q. A. ( p. 275, 276 ). Liban. Orat. X. p. 268. Giuliano non volle cedere finchè gli Dei non gli ebber significato la lor volontà per mezzo di ripetute visioni ed augurj. Allora la sua pietà gli vietò di resistere.
513. Giuliano medesimo riferisce ( p. 274 ) con qualche vivezza le circostanze della sua metamorfosi, i dimessi suoi sguardi e la sua perplessità in vedersi così ad un tratto trasportato in un nuovo Mondo, dove ogni oggetto gli appariva straniero ed ostile.
514. Vedi Ammiano Marcellin. ( l. XV c. 8. Zosim. l. III. p. 139.) Aurelio Vittore, Vittore il Giovane in Epitom. Eutrop. X. 14.
515. Militares omnes horrendo fragore scuta genibus illidentes, quod est prosperitatis indicium plenum, nam contra cum hastis clypei feriuntur irae documentum est et doloris. Ammiano aggiunge con una delicata distinzione; cumque, ut potiori reverentia servaretur, nec supra modum laudabant, nec infra quam decebat.
516. Ἐλλαβε πορφύρεος θανάτος, καὶ μοῖρα καραταιλ: l'occupò la purpurea morte, ed il fato violento. Iliad. E. v. 83. La parola porpora, che Omero aveva usato, come un indeterminato, ma comune epiteto della morte, da Giuliano s'applicava ad esprimer molto a proposito la natura e l'oggetto delle proprie apprensioni.
517. Egli rappresenta ne' termini più patetici ( p. 277 ) le angustie della sua nuova situazione. La provvisione della sua tavola era però sì elegante e sontuosa che il giovane filosofo la rigettò con isdegno « Quum legeret libellum assidue, quem Costantius ut privignum ad studia mitens manu sua conscripserat, praelicenter disponens quid in convivio Caesaris impendi deberet, phasianum, et vulvam, et sumen exigi vetuit et inferri. » Ammiano Marcellino ( l. XVI. c. 5. )
518. Se vogliam riflettere, che Costantino, padre d'Elena, era morto più di diciotto anni avanti in una matura vecchiezza, sembrerà probabile, che la figlia, quantunque vergine, non poteva essere al tempo del suo matrimonio molto giovane. Ella poco dopo partorì un figlio, che immediatamente morì; quod obstetrix, corrupta mercede, mox natum, praesecto plusquam convenerat umbilico, necavit. Accompagnò essa l'Imperatore e l'Imperatrice nel loro viaggio di Roma, e quest'ultima, quaesitum venenum bibere per fraudem illexit, ut quotiescumque concepisset immaturum abjiceret partum; Ammiano l. XVI. c. 10. I nostri Fisici determineranno, se realmente può esservi tale veleno: quanto a me sono inclinato a credere, che la pubblica malignità imputasse gli effetti del caso a colpa di Eusebia.
519. Ammiano (XV. 5.) era perfettamente informato della condotta e del fato di Silvano; egli stesso era uno de' pochi seguaci, che accompagnarono Ursicino in quella pericolosa impresa.
520. Quanto alle particolarità della gita di Costanzo a Roma, vedi Ammiano l. XVI. c. 10. Noi abbiam solamente da aggiungere, che da Costantinopoli fu scelto per Deputato Temistio, e ch'egli compose per questa ceremonia la sua quarta orazione.
521. Ormisda, Principe fuggitivo di Persia, fece osservare all'Imperatore, che se faceva un tal cavallo, dovea pensare a preparargli una simile stalla (qual'era il Foro di Traiano). Si riporta un altro detto d'Ormisda, cioè «che gli era solo dispiaciuta una cosa, vale a dire che a Roma gli uomini morivano come altrove». Se noi adottiamo questa lezione del testo di Ammiano ( displicuisse, invece di placuisse ) possiamo risguardarla come una prova della Romana vanità. Il senso contrario sarebbe stato quello d'un misantropo.
522. Allorchè Germanico visitò gli antichi monumenti di Tebe, il più vecchio fra' Sacerdoti gli spiegò il significato di que' geroglifici, Tacit. Annal. II c. 60. Ma sembra verisimile, che avanti l'utile invenzione dell'alfabeto, questi o naturali o arbitrarj segni fossero i comuni caratteri della nazione Egiziana. Vedi Warburton Divin. Legaz. di Mosè Vol. III. p. 69-243.
523. Vedi Plin. Hist. Nat. l. XXXVI. c. 14, 15.
524. Ammiano Marcell. l. XVII. c. 4. Egli ci dà una interpretazione Greca de' geroglifici; e Lindenbrogio suo Comentatore aggiunge un'iscrizione Latina del tempo di Costanzo in venti versi contenente una breve istoria dell'obelisco.
525. Vedi Donat. Rom. Antiq. l. III. c. 14. l. IV. c. 41 e l'erudita quantunque confusa Dissertazione del Bargeo sugli obelischi, inserita nel Tomo IV dello Antichità Romane di Grevio. p. 1897-1936. Questa dissertazione è dedicata al Pontefice Sisto V, ch'eresse l'obelisco di Costanzo nella piazza ch'è avanti alla Chiesa Patriarcale di S. Gio. Laterano.
526. Gli avvenimenti di questa guerra de' Quadi e de' Sarmati si riferiscono da Ammiano XVI, 10, XVII, 12, 13, XIX, 11.
527. Genti Sarmatarum magno decori considens apud eos regem dedit: Aurel. Vittore. In una fastosa Orazione, pronunziata da Costanzo medesimo, egli si diffonde con molta vanità e con qualche cosa di vero nelle proprie sue geste.
528. Ammian. XVI. 9.
529. Ammiano ( XVII. 5 ) trascrive l'orgogliosa lettera. Temistio ( Orat. IV p. 57. Edit. Petav. ) fa menzione dell'involto di seta. Idacio e Zonara descrivono il viaggio dell'Ambasciatore, e (in Excerpt. Legat. p. 28 ). Pietro Patrizio c'informa della sua conciliante condotta.
530. Ammiano XVII. 5 e Vales. ib. Il sofista o filosofo (questi nomi erano in quel tempo quasi sinonimi) era Eustazio di Cappadocia, discepolo di Jamblico ed amico di S. Basilio, Eunapio ( in vit. Edexii p. 44, 47 ), appassionato pel suo filosofico Ambasciatore, gli attribuisce la gloria d'avere incantato il barbaro Re colle persuasive lusinghe della ragione e dell'eloquenza. Vedi Tillemont ( Hist. des Emper. Tom. IV p. 828, 1132 ).
531. Ammiano XVIII 5, 6, 8. Il decente e rispettoso contegno d'Antonino verso il Generale Romano lo pone in un aspetto molto interessante ed Ammiano stesso parla con qualche compassione e stima del traditore.
532. Questa circostanza, quale ci vien notificata da Ammiano, serve a provare la veracità d'Erodoto ( l. I. c. 133 ) e la durevolezza de' costumi Persiani. Questi sono stati sempre dediti all'intemperanza; ed i vini di Shiraz hanno trionfato sopra la legge di Maometto. Brisson de Regn. Pers. l. II. p. 462-472 e Chardin. Viag. in Pers. Tom. III. p. 90.
533. Ammiano l. XVIII. 6, 7, 8, 10.
534. Per la descrizione d'Amida, vedi d'Herbelot Bibliot. Orient. p. 108. Hist. de Timur-Rec par Cherefeddin Alì l. III. c. 41. Ahmed Arabasides Tom. I. p. 331. c. 43. Viag. di Tavernier Tom. I. p. 301. Viag. d'Otter. Tom. II. p. 273 e Viag. di Niebuhr. Tom. II. p. 324,-328. L'ultimo di questi viaggiatori, dotto ed esatto Danese, ha dato una pianta d'Amida, che illustra le operazioni dell'assedio.
535. Diarbekir, ch'è chiamata Amid, o Kara-amid nelle pubbliche scritture de' Turchi, contiene sopra 16000 case, ed è la residenza d'un Bassà di tre code. L'epiteto di Kara nasce dall'oscurità della pietra, che compone le forti ed antiche mura d'Amida.
536. Le operazioni dell'assedio d'Amida sono minutamente descritte da Ammiano (XIX. 1-9) ch'ebbe un'onorevole parte nella difesa, e con fatica si salvò quando la città fu assaltata da' Persiani.
537. Di queste quattro nazioni gli Albanesi troppo bene sono conosciuti per aver bisogno d'alcuna descrizione. I Segestani abitavano un'ampia e piana regione, che sempre conserva il loro nome al Sud di Korasan, ed a Ponente dell'Indostan (vedi Georg. Nubiens. p. 133 e d'Herbelot Bibl. Orient. p. 797). Non ostante la vantata vittoria di Bahram (vol. I. p. 410) i Segestani più d'ottant'anni dopo compariscono alleati di Persia come un'indipendente nazione. Non ci è nota la situazione de' Verti e de' Chioniti; ma sono inclinato a collocare (almeno i secondi) verso i confini dell'India e della Scizia. Vedi Ammiano XVI. 9.
538. Ammiano ha indicato la cronologia di quest'anno con tre segni, che non sono perfettamente coerenti tra loro, o colla serie dell'istoria. 1. Il grano era maturo, quando Sapore invase la Mesopotamia; cum jam stipula flavente turgerent: circostanza, che nella latitudine d'Aleppo naturalmente porterebbe al mese d'Aprile o di Maggio. Vedi Harmer Osservaz. sulla Scrittur. Vol. I. p. 41. Shaw Viagg. p. 355 ediz. 4. Secondariamente s'impedirono i progressi di Sapore dall'inondazione dell'Eufrate che generalmente accade ne' mesi di Luglio e d'Agosto. Plin. His. Nat. V. 21. Viag. di Pietro della Valle Tom. I p. 696, 3. Quando Sapore dopo un assedio di settantatre giorni ebbe preso Amida, l'autunno era molto avanzato, autumno praecipiti, haedorumque improbo sidere exorto. Per conciliare queste apparenti contraddizioni, conviene ammettere qualche ritardo nel Re di Persia, qualche inesattezza nell'istorico, e qualche disordine nelle stagioni.
539. Ammiano dà notizia di questi assedj XX. 6, 7.
540. Quanto all'identità di Virta e di Tecrit, vedi Danville Geogr. anc. Tom. II. p. 201, e quanto all'assedio fatto di quel castello da Timur-Bec a Tamerlano, vedi Cherefeddin l. III. c. 33. Il biografo Persiano esagera il merito e la difficoltà di quest'impresa, che liberò le carovane di Bagdad da una formidabile banda di ladri.
541. Ammiano (XVIII. 5, 6. XIX. 3. XX. 2) rappresenta il merito e la disgrazia d'Ursicino con quella fedel diligenza, che un soldato deve al suo generale. Vi si può sospettare qualche parzialità, ma tutto il racconto è coerente e probabile.
542. Ammiano XX. 11. Omisso vano incepto hiematurus Antiochiae rediit in Syriam aerumnosam, perpessus et ulcerum, sed et atrocia diuque deflenda. In tal modo ha restaurato Giacomo Gronovio un oscuro passo: e crede che questa sola correzione meritasse una nuova edizione del suo Autore, il senso del quale si può adesso oscuramente capire. Io aspettava qualche maggior luce dalle recenti fatiche del dotto Ernesti ( Lips. 1773 ).
543. Da Giuliano medesimo posson rilevarsi le devastazioni de' Germani e le angustie della Gallia. Orat. ad S. P. Q. Athen; p. 277. Ammiano XV. 21. Liban. Orat. X. Zosimo l. III. p. 140. Sozomeno l. III. c. 1.
544. Ammiano XVI. 8. Sembra che tal nome derivi da' Toxandri di Plinio, e s'incontra molto frequentemente nelle istorie del medio evo. Toxandria era un paese di boschi e di paludi, che si estendeva dalle vicinanze di Tongres fino all'unione del Vahal col Reno. Vedi Vales, Notit. Galliar. p. 558.
545. Il paradosso del P. Daniel, che i Franchi ebbero alcuno stabilimento permanente da questa parte del Reno avanti a' tempi di Clodoveo, è confutato con molta erudizione e buon senso dal Biet, che ha dimostrato con una serie di prove il loro possesso non interrotto di Toxandria per cento trent'anni avanti l'avvenimento al trono di Clodoveo. La dissertazione del Biet fu coronata dall'accademia di Soissons l'anno 1736 e pare che giustamente si preferisse al discorso del suo più celebre competitore l'Abate Le Boeuf, antiquario, il cui nome era felicemente espressivo de' suoi talenti.
546. La vita privata di Giuliano nella Gallia e la severa disciplina, che si propose di seguitare, vengono esposte da Ammiano (XVI. 5) che si protesta di lodare, e da Giuliano medesimo, che affetta di mettere in ridicolo ( Misopog. p. 540 ) una condotta, che in un Principe della casa di Costantino doveva eccitar con ragione la sorpresa del mondo.
547. Aderat Latine quoque disserenti sufficiens serma. Ammiano XVI. 5. Ma Giuliano, educato nelle scuole della Grecia, risguardò sempre il linguaggio de' Romani, come un dialetto straniero e popolare, ch'egli usava solo nelle necessarie occasioni.
548. Non sappiamo qual fosse l'attuale uffizio di questo eccellente ministro, che poi Giuliano creò Prefetto della Gallia. Sallustio fu presto richiamato dalla gelosia dell'Imperatore; e si può tuttavia leggere un sensibile ma pedantesco discorso ( p. 218-352 ) in cui Giuliano deplora la perdita di sì pregevole amico, al quale si confessa debitore della sua riputazione. Vedi La Bleterie Pref. a la vie de Jovien. p. 20.
549. Ammiano (XVI. 2, 3) sembra molto più soddisfatto dell'esito di questa prima campagna che Giuliano medesimo, il quale molto ingenuamente confessa, ch'egli niente fece di conseguenza, e che fuggì avanti il nemico.
550. Ammiano XVI. 7. Libanio parla piuttosto con vantaggio de' militari talenti di Marcello ( Orat. p. 273 ) e Giuliano fa conoscere, che non si sarebbe così facilmente richiamato, qualora non avesse dato altri motivi di dispiacere alla Corte v. 278.
551. Severus, non discors, non arrogans, sed longa militiae frugalitate compertus, et eum recta, praeeuntem secuturus, ut ductorem morigerus miles. Ammiano XVI. 11. Zosimo l. III. p. 140.
552. Intorno al disegno e alla mancanza di cooperazione fra Giuliano e Barbazio, vedi Ammiano XVI. 11 e Libanio Orat. X. p. 273.
553. Ammiano XVI. 12 descrive colla sua gonfia eloquenza la figura ed il carattere di Cnodomar: Audax et fidens ingenti robore lacertorum, ubi ardor praelii sperabatur immanis, equo spumante, sublimior erectus in jaculum formidandae vastitatis, armorumque nitore conspicuus; antea strenuus et miles, et utilis praeter ceteros ductor... Decentium Caesarem superavit aequo marte congressus.
554. Dopo la battaglia, Giuliano tentò di restituire il vigore dell'antica disciplina con esporre questi fuggitivi, vestiti da donne, alla derisione di tutto il campo. Nella seguente campagna quelle truppe nobilmente rivendicarono il loro onore. Zosimo l. III. p. 142.
555. Giuliano stesso ( ad S. P. Q. Athen. p. 279 ) parla della battaglia di Strasburgo colla modestia d'uno che conosce il proprio merito, ἐμαχεσάμην ουκ ἀκλεως ἰσως καὶ εις υμας ἀφίκετο ἠ τοιαυτη μάχη: pugnammo non senza gloria: forse in voi ridondava il merito di tal pugna. Zosimo lo paragona colla vittoria d'Alessandro sopra Dario; noi però non sappiamo vedervi alcuno di que' colpi di genio militare, che chiamano l'attenzione de' secoli sulla condotta e sul successo d'una giornata.
556. Ammiano XVI. 12. Libanio ne aggiunge duemila al numero degli uccisi ( Orat. X. p. 274 ). Ma queste piccole differenze spariscono a fronte de' 60000 Barbari, che Zosimo ha sagrificato alla gloria del suo Eroe ( l. III. p. 131 ). Si potrebbe attribuir questo numero stravagante alla negligenza de' copisti, se il credulo o parziale istorico non avesse fatto crescere l'esercito di 35000 Alemanni in una innumerabil moltitudine di Barbari, πληθος αππρον βαρβαρώ. Non è nostra colpa se tale scoperta c'inspira in simili casi un'opportuna diffidenza.
557. Ammiano XVI. 12. Libanio Orat. X. p. 276.
558. Libanio ( Orat. III. p. 137 ) fa una pittura molto vivace de' costumi de' Franchi.
559. Ammiano XVII. 2. Libanio Orat. X. p. 278. L'oratore Greco, per aver mal inteso un passo di Giuliano, s'è indotto a rappresentare i Franchi in numero di mille, e poichè il suo capo era sempre pieno della guerra del Peloponeso, li paragona a' Lacedemoni, che furono assediati e presi nell'Isola di Sfacteria.
560. Giuliano ad S. P. Q. Athen. p. 280. Libanio Orat. X. p. 274. Secondo l'espressione di Libanio, l'Imperatore δωρα ωνομαζε, ( li chiamò doni ) che La Bleterie ( Vie de Julien. p. 118 ) interpreta come un'onesta confessione, e Valesio ( ad Ammiano XVII. 2 ) come una bassa evasione della verità. Dom. Bouquet ( Hist. de France Tom. I. p. 733 ) sostituendovi l'altra parola ενομισε ( stabilì ) vorrebbe togliere tutte due le difficoltà e lo spirito di questo passo.
561. Ammiano XVII. 8. Zosimo l. III. p. 146-150 la sua narrazione viene oscurata da un miscuglio di favole; e Giuliano ( ad S. P. Q. Athen. p. 280 ) così s'esprime, ἐμαχεσάμην ουκ ἀκλεῶς. ἰσως καὶ εις υμας ἀφίκετο ἠ τοιαυτη μάχη. Ricevemmo una parte della nazione de' Salj, e scacciammo i Camavj. Questa differenza di trattamento conferma l'opinione che a' Salj Franchi fosse permesso di ritenere i loro stabilimenti in Toxandria.
562. Quest'interessante storia, ch'è stata compendiata da Zosimo, si riferisce da Eunapio ( in Excerpt. Legat. p. 15, 16, 17 ) con tutte le amplificazioni della Rettorica Greca; ma il silenzio di Libanio, di Ammiano e di Giuliano medesimo ne rende molto sospetta la verità.
563. Libanio, amico di Giuliano, chiaramente ci fa sapere ( Orat. IV. p. 178 ) che il suo Eroe avea composta l'istoria delle sue campagne Galliche. Ma Zosimo ( l. III. p. 140 ) sembra, che derivasse la sua notizia solo dalle orazioni (logoi) e dalle Epistole di Giuliano. Il discorso, indirizzato agli Ateniesi, contiene un esatto, quantunque generale racconto della guerra contro i Germani.
564. Vedi Ammiano XVII. 1, 10. XVIII, 2 e Zosimo l. III. p. 144. Giuliano ad S. P. Q. Athen. p. 280.
565. Ammiano XVIII. 2. Libanio Orat. X. p. 279, 280. Di questi sette posti, quattro sono presentemente città di qualche conseguenza, cioè Bingen, Andernac, Bonn, e Nuyss: gli altri tre, vale a dire Tricesinae, Quadriburgium, e Castra Herculis, o Eraclea non sussistono più; ma v'è motivo di credere, che nel luogo, dov'era Quadriburgum, gli Olandesi abbian costruito il Forte di Schenk; nome che tanto offendeva la fastidiosa delicatezza di Boileau. Vedi D'Anville Not. de l'anc. Gaule p. 183. Boileau Ep. p. IV. e le Note.
566. Noi possiam credere a Giuliano medesimo ( Orat. ad S. P. Q. Athen. p. 280 ) che dà una particolar notizia del fatto. Zosimo v'aggiugne 200 vascelli di più, l. III. p. 145. Se vogliam computare le seicento navi di grano di Giuliano a sette sole tonnellate l'una, eran capaci di estrarne 120000 sacca (Vedi Arbuthnot Pes. e Misur. p. 237 ). Il paese, che poteva soffrire sì grand'estrazione, doveva esser già pervenuto ad un ottimo stato d'agricoltura.
567. Le truppe una volta proruppero in un ammutinamento, avanti al secondo passaggio del Reno. Ammiano XXII. 9.
568. Ammiano XVI. 5. XVIII. 1. Mammertino in Paneg. Vet. XI. 4.
569. Ammiano XVII. 3. Giulian. Epist. XV. edit. Spanhem. Tal condotta giustifica almeno l'encomio di Mammertino: Ita illi anni spatia divisa sunt, ut aut Barbaros domitet, aut civibus jura restituat; perpetuum professus aut contra hostem, aut contra vitia certamen.
570. Libanio Orat. Parent. in Imp. Julian. I. c. 38; in Fabr. Bibl. Graec. Tom. VII. p. 263, 264.
571. Vedi Giuliano in Misopogon. p. 340, 341. Lo stato antico di Parigi è illustrato da Enrico Valesio ( ad Ammiano XX. 40 ), dal suo fratello Adriano Valesio e dal Danville (nelle respettive loro Notizie dell'antica Gallia ), dall'Abbate di Longuerue ( Descript. de la Franc. T. I. p. 12, 13 ) e dal Bonamy ( Mem. dell'Accad. delle Inscriz. Tom. XV. p. 656, 691 ).
572. Την Φιλην Λευκετιαν (Giuliano in Misopog. p. 340 ). Leucetia, o Lutetia era l'antico nome della città, che secondo il costume del quarto secolo prese il nome territoriale di Parigi.
573. Giuliano in Misopogon. p. 359, 360.